Jacob Frye - Le due metà di una mela [Syndicate/Jack lo squartatore]

di Stella Dark Star
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Non tutti i mali vengono per nuocere ***
Capitolo 3: *** Non puoi fuggire da ciò che sei ***
Capitolo 4: *** Il passo oltre l'amicizia ***
Capitolo 5: *** Caduta dal cielo per portare guai ***
Capitolo 6: *** La micetta ha le unghie affilate ***
Capitolo 7: *** Troppi nodi nella matassa ***
Capitolo 8: *** Il peggior tradimento ***
Capitolo 9: *** Casa ***
Capitolo 10: *** Il sole prima della tempesta ***
Capitolo 11: *** Le due metà di una mela ***
Capitolo 12: *** Nessuna pietà ***
Capitolo 13: *** La vita è troppo breve ***
Capitolo 14: *** Il tempo fugge via ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Jacob Frye
Le due metà di una mela
 
Prologo
 
Jacob si svegliò di soprassalto, il cuore che gli batteva dolorosamente nel petto. Gli parve incredibile di essersi addormentato, anche se evidentemente si era trattato solo di pochi minuti. Era ancora notte fonda, nella stanza silenziosa il buio era trafitto dalla luce della luna piena, il cui raggio argenteo rimbalzava contro il grande specchio all’angolo e finiva sul letto dove era disteso lui. Si sollevò dal materasso, puntellando un gomito, e si stropicciò il viso con la mano. Gli mancava il respiro, non sarebbe riuscito a restare a letto un minuto di più. Con uno slancio, saltò giù e atterrò coi piedi nudi sulla morbida moquette marrone. Nella stanza c’era ancora odore di legna bruciata, anche se di fatto il fuoco si era spento ore prima. Gettò uno sguardo al caminetto, all’interno ormai non brillavano nemmeno più i tizzoni, tutto ciò che vedeva era un cumulo nero di cenere e frammenti bruciati. Fece due passi accanto al letto, la sua attenzione venne catturata da un movimento sospetto. Voltò il capo di scatto e vide di cosa si trattava. Nient’altro era che la sua figura riflessa nello specchio, risaltata dalla camicia bianca che grazie alla luce della luna sembrava brillare in modo sinistro, come fosse un fantasma dell’immaginario collettivo, ovvero un lenzuolo bianco in movimento. Forse ciò che vedeva riflesso era la pura verità, uno spettro tormentato che non avrebbe mai trovato pace. Pur non vedendo i dettagli con chiarezza, sapeva di avere un aspetto orribile. Scosse il capo e andò verso la finestra, incorniciata da pesanti tende blu che lui non chiudeva mai. Sbirciò la strada, a quell’ora gli unici esseri umani che potevano trovarsi all’esterno, in pieno inverno, non potevano essere che degli ubriachi. I vagabondi, saggiamente, dovevano essersi rintanati per proteggersi dal freddo. Aprì la finestra e fu investito dal gelo della notte che gli pizzicò la pelle del viso e del petto scoperto come mille lame affilate. Fossero state veramente delle lame, sarebbe tutto finito, il suo tormento sarebbe cessato. Ancora una volta provò senso di soffocamento, non gli bastava stare di fronte alla finestra aperta, aveva bisogno di uscire. Saltò sopra il davanzale, i piedi nudi a contatto con la pietra gelida. Si sporse e roteò il busto per ricercare un appiglio a cui aggrapparsi, quindi si diede la spinta e, facendo forza sulle braccia, riuscì a raggiungere il bordo del tetto. Ancora uno sforzo e si issò sulle tegole rosso nerastre, dove qua e là giacevano foglie marce, escrementi d’uccello e piume. Risalì il tetto fino a raggiungere il picco, dove poi si sedette incurante del freddo. L’aria era umida e la leggera brezza notturna gli penetrò la camicia, facendolo rabbrividire. Non gliene importava niente. Era distrutto, il cuore gli doleva come se si fosse spezzato a metà e la sua mente vacillava tra dolore e follia. Una parte di lui sperava che il gelo gli risucchiasse la vita, un po' come aveva tentato di fare Crawford Starrick quando era entrato in possesso della Sindone. Erano passati mesi, eppure poteva ancora sentire la sua mano ferrea stringergli la gola e qualcosa assorbire le sue forze vitali senza lasciargli speranza di poter sopravvivere. Sarebbe morto con Onore, svolgendo il suo dovere di Assassino, invece adesso, se fosse morto assiderato sopra quel tetto, si sarebbe tramutato in marciume come meritava e presto tutti lo avrebbero dimenticato, compresa sua sorella. Eppure… La luna quella notte brillava d’incanto, la sua luce si posava su di lui come una benedizione. Per un istante gli parve di percepire un piccolo punto di calore dentro si sé, per quanto fosse impossibile. Chiuse gli occhi ed ecco che nella mente comparve un volto amato, parole nitide di un piacevole ricordo, un fatto avvenuto su un altro tetto di Whitechapel. In quel ricordo trovò l’illusione della pace che poi venne brutalmente infranta dal dolore acuto di quanto era accaduto solo il giorno prima. Riaprì gli occhi, lo sguardo vitreo e nervoso vagò nella notte, alla ricerca di un motivo per vivere oppure il coraggio di morire. No. La morte sarebbe stata una liberazione che non meritava. Incastrato in quel limbo senza trovare una via di fuga, Jacob si lasciò sopraffare dal pianto. Le lacrime presero a scendere calde e copiose dai suoi occhi, riversandosi sulle guance arrossate dal freddo. Chinò il capo, la fronte si posò sul braccio che teneva appoggiato al ginocchio. E finalmente arrivarono anche i singhiozzi che fino a quel momento aveva tenuto stretti nella gola. Era dalla morte di suo padre Ethan che non piangeva.

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Capitolo 2
*** Non tutti i mali vengono per nuocere ***


1
Non tutti i mali vengono per nuocere
 
Se c’era una cosa che si poteva dire su Jacob Frye, senza dubbio era che amava la popolarità. La sua camminata disinvolta, lo sguardo costantemente velato di malizia e il modo in cui sfiorava la tesa del cilindro ogni volta che qualcuno lo salutava, facevano di lui un perfetto sbruffone. Come lui amava sottolineare, l’importante era che quelle persone non sapessero nulla della sua vera identità, ossia che era un Assassino. Ad ogni modo, non c’era niente di male nel rispondere agli amichevoli saluti della gente del quartiere e accennare sorrisi alle fanciulle solo per il piacere di vederle arrossire. I buoni rapporti erano importanti, no? Alla luce del sole, lui era un giovane rispettabile e socievole. Alla luce del sole, per l’appunto. Il fatto che di notte si trasformasse in un bevitore incallito, giocatore di carte e attacca brighe, era un’altra storia. Quel mattino stava appunto tornando a casa dopo l’ennesima notte di baldoria con la solita combriccola di ubriachi e sfaticati che avevano più tempo che vita. Quella notte, Jacob aveva vinto una discreta sommetta giocando a carte, salvo poi spenderne buona parte in pinte di birra scura, qualche piatto di salsicce speziate che aveva condiviso con gli amici e…la stanza in cui si era risvegliato un’ora prima, in cui, a detta del proprietario del pub, era stato portato di peso dopo essere svenuto a causa delle sbronza. La cosa più imbarazzante, era che non era la prima volta che gli capitava. Comunque, dopo essersi fatto delle veloci abluzioni e aver ingerito un intruglio miracoloso per sistemare lo stomaco sconquassato dall’alcol, era uscito dal pub fresco come una rosa e, tenendo il suo fedele bastone in mano, aveva ripreso la via di casa. O meglio, la via di casa di Henry Green dove sia lui che Evie vivevano da quando…be’, da quando l’Assassino indiano aveva chiesto a sua sorella di sposarlo. Il fatto che l’invito a vivere sotto lo stesso tetto fosse stato esteso anche a lui, era un tasto dolente. Separarsi da Evie sarebbe stato insopportabile per lui, ma, a lungo andare, Jacob aveva scoperto che vivere con una coppia di piccioncini non era affatto salutare. Dormire nella camera da letto adiacente alla loro, con il terrore di sentire rumori particolari, consumare tre pasti al giorno di fronte a loro e ai loro sguardi innamorati, per non parlare delle volte in cui li sorprendeva a civettare e sbaciucchiarsi come ragazzini! Era difficile. Era dura. Era… Ma chi voleva prendere in giro? La pura e semplice verità era che non sopportava di vedere la sua gemella nelle grinfie di un uomo che non fosse lui. Lui e Evie erano sempre stati insieme, fin da prima che avesse ricordo. Avevano condiviso il grembo materno, la culla e poi la camera da letto. Non si erano mai separati. Certo negli anni avevano bisticciato in innumerevoli occasioni, ma erano sempre stati una cosa sola, due facce della stessa medaglia, due anime inseparabili. E poi avevano conosciuto Henry e, in un battito di ciglia, sua sorella si era allontanata da lui. Jacob non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura ma, da quando dormiva da solo nel letto, si sentiva tremendamente vulnerabile. Non gli piaceva come sensazione. E visto che sua sorella non gli ‘apparteneva’ più, aveva dovuto colmare quel vuoto con qualcos’altro. Il problema era che ancora non gli bastava. Nonostante agli occhi degli altri apparisse sempre allegro, in realtà dentro di sé si sentiva come un fiore che stava raggrinzendo giorno dopo giorno.
Giunse all’incrocio in cui si trovava la bottega di curiosità di Henry. Prese un profondo respiro e aprì la porta di vetro su cui faceva bella mostra il cartellino con scritto  un elegante “Open”, facendo così suonare il campanellino messo in posizione strategica.
Henry ed Evie erano entrambi dietro al banco, intenti ad esaminare delle carte. Nell’udire il rumore del campanello, i loro sguardi si sollevarono, solo che, vedendo che si trattava di lui, le loro espressioni si fecero accigliate, soprattutto quella di lei.
Evie, con addosso un semplice abito marrone dalle maniche a sbuffo e il grembiule bianco, si portò le mani ai fianchi con superiorità e lo riprese severamente: “Jacob Frye, quante volte devo dirti di smetterla di passare la notte fuori a gozzovigliare? Anche se non dovrei, perché è evidente che non te lo meriti, saperti chissà dove a fare chissà cosa mi fa preoccupare.”
Jacob sollevò le mani, di cui una tenente il bastone da passeggio, in segno di tregua: “Non è come credi, sorellina. E’ vero che ho passato una piacevole serata con gli amici, ma poi sono tornato al nostro rifugio segreto in un attacco di nostalgia e lì mi sono addormentato.”
Evie sbuffò spazientita: “Anche ammesso che sia vero, e so che non lo è, che senso ha averti invitato a vivere qui se non ci sei mai?”
“E che senso ha che tu sia venuta a vivere qui se dopo cinque mesi tu e Greenie non siete ancora sposati?”
La sua voleva essere una battuta, un piccolo scherzo per punzecchiare la sorella, ma il modo in cui lei reagì lo fece pentire di aver aperto bocca. Evie lo aveva fulminato con lo sguardo, come si aspettava, le sue gote si erano arrossate per la rabbia, come si aspettava, ma ciò che non si aspettava era di vedere un bagliore di tristezza nel profondo dei suoi occhi. A riprova che quanto aveva visto era vero, Evie scostò lo sguardo e abbassò il capo.
“Sei solo uno sciocco irresponsabile.” Sibilò, per poi voltarsi e sollevare un lembo della tenda che dava sul retro. Come se si fosse resa conto del proprio comportamento strano, si fermò giusto il tempo di giustificarsi con Henry: “Vado in cucina da Margie a vedere se ha bisogno di aiuto per organizzare il pranzo.”
Lui rispose uno sfuggente: “Va bene, tesoro.” Ed Evie si dileguò.
Normalmente Jacob avrebbe fatto dell’umorismo sul nomignolo con cui Henry chiamava Evie, ma in quel momento sarebbe stato fuori luogo. Qualunque cosa stesse accadendo, non era positiva. Prima che potesse azzardare una domanda diretta, Henry gli porse una lettera che era sul banco: “L’ha portata un messaggero per te poco dopo l’apertura del negozio.”
Jacob la prese, più che una lettera si trattava di un messaggio senza sigillo e piegato in tre parti.
Henry si schiarì la voce e chiese quasi timidamente: “Jacob, c’è una cosa di cui vorrei parlarti. Avresti un minuto?”
Lui rispose distrattamente: “Certo.” Ma evidentemente era più interessato a verificare il contenuto del messaggio, infatti, invece di ascoltare il suo futuro cognato, spiegò il foglio e si mise a leggere.
“Vedi… Si tratta di Evie. Ultimamente la sento distante, ma non so spiegarmi il perché. Magari tu sai qualcosa che…”
“Accidenti, lo avevo completamente dimenticato!” Lo interruppe Jacob, battendosi una mano sulla fronte.
“Cosa..?”
Batté un polpastrello sul foglio: “E’ di Lady Disraeli. Le avevo promesso che oggi l’avrei accompagnata all’Orfanotrofio.” Abbandonò il foglio aperto sul primo scaffale che si ritrovò sotto mano, quindi lasciò un sospiro: “Da quando ha scoperto che le piace la mia compagnia, non mi da un attimo di tregua. Credo che ormai non esca più di casa se non ci sono io a scortarla.” Fece per andarsene, ma poi fermò i piedi e si voltò verso Henry: “Scusa, avevi bisogno di qualcosa?”
In effetti sì. Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, con cui aprirsi, di qualcuno che potesse confortarlo e aiutarlo a risolvere un problema che lo faceva dormire male la notte. Ma era chiaro che quel qualcuno non poteva essere Jacob Frye. Scosse il capo e fece un gesto con la mano, come per scacciare un mosca: “Nulla. Vai, Lady Disraeli ti sta spettando.”
Jacob lo salutò toccandosi la tesa del cilindro e in due falcate fu fuori dal negozio, lasciandolo così solo con i documenti sul banco, una fidanzata schiva in cucina e un peso sullo stomaco.
*
Con le signore era sempre stato galante per natura ma, più che un fatto d’educazione la sua doveva essere una ricerca di ammirazione. Sua sorella spesso lo trattava con sufficienza e lui di conseguenza si comportava con lei in modo superficiale, perciò era logico che con altre creature di sesso femminile gli venisse spontaneo dare il meglio di sé e ricevere in cambio sguardi colmi di gratitudine. In principio era stato così anche con lady Disraeli, ma poi quella donna si era rivelata fastidiosa come una mosca. Gli recapitava messaggi ogni settimana e, quando si trovavano soli diretti in chissà quale destinazione londinese, talvolta diventava un po’ inopportuna. Non che avesse mai tentato di fargli avances, certo che no, però alcuni complimenti lo mettevano a disagio. Aveva il presentimento che la donna avesse un debole per lui.
Dopo una camminata non indifferente, svoltò nella via in cui era il palazzo dei coniugi Disraeli. Come immaginava, il calesse era appostato di fronte all’entrata e, scorgendo il cappellino, era chiaro che a bordo ci fosse già la cara signora. Non appena affiancò il calesse, Jacob tolse il cilindro e si esibì in un inchino: “Buongiorno a  voi, my lady.”
Il primo a rispondere al saluto, abbaiando due volte e poi mostrando la linguetta rosa, fu l’immancabile cagnolino che la signora portava sempre con sé all’interno di una borsa. Lady Disraeli inizialmente gli lanciò un’occhiata severa, forse indispettiva, ma poi le sue labbra s’incurvarono in un sorriso che andò ad accentuarle le rughe: “Oh, non posso tenervi il broncio. Anche se  siete in ritardo di un buon quarto d’ora, vi perdono, giovanotto mio!”
Ecco, quello era un appellativo che Jacob considerava inopportuno. Però non lo diede a vedere.
“Siete molto magnanima, my lady.” La ringraziò, piegandosi in un altro inchino, quindi rinfoderò il cilindro e salì a cassetta. Afferrò le briglie con presa salda e diede ordine al cavallo di partire.
“Oggi è una splendida giornata, non trovate? Anche se stamane la città era nascosta da una coltre di nebbia, poi il sole ha avuto la meglio, se mi passate l’espressione.” E ridacchiò in modo civettuolo.
Suo malgrado Jacob sorrise, anche se lei non poteva vederlo. Tutto sommato, non era una cattiva compagnia. Talvolta poi era lei a tenerlo aggiornato sugli incontri politici, permettendogli così di informare Henry prima che lo facessero i suoi uomini fidati e sfoggiare così quel sorriso compiaciuto che volva dire “visto che ci so fare?”. Anche se poi finiva sempre con Evie che lo rimbeccava, ma quello non importava. Dunque la destinazione di quel giorno era l’Orfanotrofio di Babylon Alley che anche Evie aveva a cuore. Jacob qualche volta si era lamentato, sostenendo che, se le due avevano lo stesso interesse per quel luogo, potevano recarsi là insieme invece di seccare lui. Invece, segretamente, anche  lui aveva a cuore quel luogo. Esattamente come per i bambini indigenti che spesso vedeva a mendicare per strada, oppure quelli che erano costretti a lavorare per aiutare la famiglia, anche gli orfani gli stavano a cuore. Tutte le volte che accompagnava lady Disraeli, si premurava lui stesso di scambiare qualche parola con i Responsabili della struttura e chiedere se poteva rendersi utile in qualche modo. In fondo quei bambini non erano molto diversi da lui. Sua madre era morta dandolo alla luce e aveva conosciuto suo padre quasi al termine dell’infanzia. Aveva avuto una balia e George, lo storico amico di famiglia, aveva rivestito un ruolo provvisorio di padre, ma senza mai sbilanciarsi troppo. Se si parlava di vero amore, lui ed Evie se lo erano donato a vicenda senza riserve, in attesa del ritorno del loro padre che, ironia del destino, a quei tempi si trovava altrove ad insegnare il combattimento ad Henry. Per questo motivo si mostrava sempre affettuoso e cordiale coi bambini e, se riusciva  a regalar loro un sorriso, il suo cuore si scaldava.
Giunsero in breve a destinazione, Jacob appostò il calesse di fronte all’edificio, lasciando però libero il passaggio della scalinata. Saltò giù  e andò ad aprire la portiera per far scendere la signora. Era davvero impeccabile nel suo ruolo, quando voleva! Poi le porse il braccio, galantemente, al quale lei si aggrappò ed insieme salirono i gradini che conducevano all’ingresso. Essendo ospiti di riguardo e abituali, non dovevano bussare alla porta e attendere che qualcuno venisse ad aprire, avevano libero accesso all’interno. All’ingresso trovarono comunque una donna che si offrì prontamente di accompagnare la signora nell’ufficio principale, perciò Jacob rimase indietro. Era come un rito per lui, attraversare il lungo corridoio. Anche nelle giornate più assolate era semibuio e le pareti di un tristo verde spento e sbiadito lo rendevano ancora più sinistro. Se solo avesse avuto i capitali per mettere a nuovo quel posto… Sapeva che le donne che vi lavoravano erano competenti e avevano cura dei bambini, però un ambiente più vivo non avrebbe guastato! Passò alcune porte che davano su piccoli uffici, poi quella doppia del refettorio. Infine, quando era quasi giunto a quella del salone principale, un rumore indefinito lo fece voltare. Sperò che non si trattasse di un topo. Nel vedere che tutto taceva ed era immobile, il suo istinto d’Assassino si quietò e Jacob fece per voltarsi con l’intenzione di aprire la porta del salone in cui, tecnicamente, avrebbero dovuto essere i bambini a quell’ora. Inaspettatamente, la porta si aprì senza che lui la toccasse e una figura gli piombò addosso, sbattendo sul suo petto e facendogli quasi perdere l’equilibrio.  
Dal basso arrivò una voce bassa e ringhiante: “Perché diavolo non guardate dove andate?”
Si trattava di un ragazzo vestito di un semplice completo marrone di vecchia data e scarpe logore e che indossava un berretto da ferroviere sulla chioma bionda. Nonostante la figura esile, gli diede una spallata che gli fece abbastanza male e se ne andò
“Hey, non ti hanno insegnato l’educazione?” Protestò Jacob, agitando le braccia. Che fosse un nuovo arrivato? Era alto per essere un bambino, ma l’altezza poteva trarre in inganno. Vedendo che il ragazzo se ne infischiava di lui, lo raggiunse in poche falcate, lo afferrò per il colletto della giacca e lo costrinse a voltarsi, torreggiando su di lui.  Gli bastò un’occhiata per dimenticare la rabbia. Ciò che si ritrovò di fronte fu un viso angelico, dai lineamenti delicati, la carnagione del colore del latte versato su una rosa, le labbra rosse e piene, gli occhi grandi e vigili di un azzurro chiaro come il cielo tappezzato di nuvole bianche, per non parlare dei capelli che gli incorniciavano il viso in onde del colore dell’oro. La sorpresa si rivelò piacevole. I loro visi distavano appena un palmo e Jacob era tentato di ricoprire quella distanza per posare le labbra su quelle dell’angelo che aveva letteralmente in pugno. Era una ragazza. La voce gli uscì in un sussurro: “Perché una così bella fanciulla indossa abiti simili?” Si aspettava di vedere le guance di lei imporporarsi e solo allora si sarebbe lasciato andare a quel bacio che tanto desiderava, invece vide le pupille ristringersi per la sorpresa, quindi lo sguardo si fece furente sotto un paio di sottili sopracciglia aggrottate.
“Ma come vi permettete di darmi della fanciulla, razza di villano?”
Ora che la voce era nitida, Jacob si rese conto di aver commesso un errore madornale. Per averne l’assoluta certezza, però, usò la mano libera per avventurarsi verso il basso ventre di lui o lei e, nel sentire il morbido peso di uno scroto, non ebbe più dubbi. Era un lui. Rimase pietrificato.
“Toglietemi le mani di dosso, porco!” Urlò il ragazzo, liberandosi della stretta al colletto della giacca e anche all’intrusione intima. Solo allora Jacob si mosse, seppure il suo viso esangue era ancora stravolto dalla scoperta.
“Io… Io… Non volevo dire…”
Indignato, il giovane rispose per le rime: “Anche se fossi stato una ragazza, il vostro comportamento resta davvero schifoso.” Era così arrabbiato che le guance gli erano diventate paonazze come due pomodori maturi.
“No, io volevo dire che… Insomma, vedendo gli abiti…” Non sapeva nemmeno lui cosa stesse farfugliando, in verità, era come bloccato.
“Gli abiti? Quindi solo perché solo un umile sguattero di un pub vi sentite in diritto di mettere le mani dove volete? Andate al diavolo, dannazione!” Per dare maggiore enfasi alle parole, agitò una mano disegnando un semicerchio.
In quel momento una delle porte degli uffici si aprì e ne uscì una donnina di mezza età munita di occhiali che si reggevano sopra un naso affilato con la punta rivolta all’insù. Volse lo sguardo prima a Jacob e poi al ragazzo, a cui si rivolse: “Arthur, cosa sta succedendo? Ti sembrano parole da dire, quelle?”
Il giovane, di nome Arthur, lanciò un’occhiataccia a Jacob e poi si rivolse alla donna con tono mite: “Perdonatemi, anche se la mia reazione era ben giustificata.” Si toccò il frontino del berretto in segno di saluto e tornò sui propri passi.
Non appena fu uscito dalla porta d’ingresso, la donnina si avvicinò a Jacob: “E’ tutto a posto, signore? Non so cosa sia avvenuto tra voi, ma vi prego di perdonarlo. E’ un giovane di gran cuore e viene spesso qui a giocare coi bambini.”
Jacob diede un colpo di tosse e finalmente riuscì  a riprendere possesso di sé: “In realtà ha ragione lui. Sono stato io a mancargli di rispetto. E ne sono molto dispiaciuto.” Non aggiunse altro, anche se fremeva dalla voglia di sommergere la donna di domande riguardo quel giovane dalla fulgida bellezza.

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Capitolo 3
*** Non puoi fuggire da ciò che sei ***


2
Non puoi fuggire da ciò che sei
 
Erano trascorsi alcuni giorni e Evie era ancora indispettita per ciò che aveva detto suo fratello. Ma perché doveva sempre aprire quella bocca a vanvera? Che si facesse gli affari suoi! Si passò la manica sulla fronte, in un gesto nervoso ma anche per spostare alcuni capelli fastidiosi che le ricadevano sugli occhi. Quindi immerse nuovamente le mani nel cumulo di farina  e uova che stava impastando sul ripiano della cucina, di fronte alla finestra da cui proveniva una luce grigia a causa della nebbia che ancora non si era dissolta del tutto.
Tornando a suo fratello, la situazione con Henry era già tesa senza che si mettesse anche lui di mezzo. Il matrimonio… Ricordava molto bene la proposta che le aveva fatto quella sera di quasi cinque mesi prima, nel laboratorio del negozio, dopo averle donato un mazzo di fiori. Lei aveva accettato senza pensarci, perché lo amava e trascorrere con lui il resto della vita era tutto ciò che voleva. Tra lei ed Henry era stato amore  a prima vista, fin dal momento in cui si erano incontrati su quel tetto nei pressi della stazione ferroviaria di Whitechapel, tra loro si era creato un legame, erano stati uniti da un invisibile filo che gli impediva di stare separati. Quando poi lei e Jacob si erano trasferiti nella sua casa, abbandonando così il rifugio Bertha, il treno che avevano “sequestrato” ai Templari, per un periodo aveva creduto che la sua vita sarebbe stata perfetta, poiché aveva accanto l’uomo che amava e il suo gemello a cui era legata per natura. Ma poi le cose erano cambiate. La convivenza si era rivelata disastrosa a causa del pessimo comportamento di Jacob, mentre con Henry…be’, in realtà lui era meraviglioso, premuroso e le dimostrava i propri sentimenti con gran trasporto. Il vero problema era lei, o meglio quella dannata paura che la teneva incatenata e che le impediva di concedersi totalmente. Da lì erano cominciati i nervosismi e sempre da lì era nata l’idea di rimandare il matrimonio il più possibile. Oltre a questo, lei ed Henry erano una coppia perfetta, sotto tutti i punti di vista. Lavoravano insieme nella bottega, fianco a fianco, si consultavano su ogni cosa, passeggiavano per le vie come una normale coppia di innamorati e lei aveva riposto nella cassapanca della camera  da letto la tunica da Assassina per indossare abiti più consoni. Durante l’orario di apertura optava per un abbigliamento modesto e professionale, la domenica e in occasioni di inviti a cene e serate musicali dava sfoggio di un gusto raffinato ed elegante. In poche parole, si sentiva già una buona moglie anche se ancora non lo era ufficialmente. Se solo avesse trovato il coraggio di esserlo anche riguardo l’aspetto più intimo… Il solo pensiero la raggelava dentro.
“Miss?”
La voce risuonò un misto tra l’allarmato e il divertito. Evie voltò il capo di scatto e incontrò lo sguardo di Margie, la giovane che si occupava della cucina, della pulizia della casa e che dava una mano col bucato. I suoi occhi si illuminarono e non riuscì a trattenere una risatina: “State picchiando a morte quella povera palla di pasta!”
Evie constatò che era vero, se l’avesse lavorata ancora qualche minuto l’avrebbe consumata. Divise la palla in due parti uguali e poi  prese il mattarello che attendeva lì accanto e si mise a stendere la pasta in un cerchio perfetto. Lo ripose con cautela dentro la teglia e, mentre Margie si occupava di versare il ripieno composto di pezzetti di carne e sugo, lei preparò il secondo cerchio con cui chiudere la meat pie. Le piaceva darsi da fare in cucina, soprattutto da quando aveva scoperto di essere portata per l’arte culinaria e, ancor più, perché Henry apprezzava sinceramente i suoi manicaretti. Sorrise pregustando la sua espressione soddisfatta.
*
E mentre Evie si rasserenava operando in cucina, Jacob si agitava sempre più aggirandosi tra i pub del quartiere. Dopo il terzo tentativo andato a vuoto, cominciava a disperare di dover vagare per tutta Londra per riuscire a trovare ciò che stava cercando. Aveva cominciato da quelli che frequentava di più, basandosi sull’abbigliamento di Arthur, ma forse, come era stato ingannato dal suo viso, poteva esserlo anche dai vestiti. Optò quindi per alcuni pub di Covent Garden dove la clientela era benestante, o per lo meno le persone erano più agiate delle combriccole che di solito frequentava a Whitechapel. Il quartiere, oltre che essere confinante con quello povero, confinava anche con la via in cui si trovava la bottega di Henry. In un certo senso il negozio e il modo in cui era strutturata la casa, appartenevano più al Covent Garden che non a Whitechapel. Forse quella via in passato si trovava all’interno dei confini del quartiere del commercio e solo in seguito era rientrata in quelli del quartiere più povero. Chissà!
Andò dritto fino al pub Crooked Picture, dopo alcune settimane che non si faceva vedere. Entrando, inalò il forte odore di fumo mescolato al profumo di alcolici costosi. Era un luogo piuttosto tranquillo, non troppo formale, caratterizzato da numerosi quadri -tutte imitazioni, ovviamente!- appesi volontariamente storti sulle pareti. Jacob si diresse al banco.
“Posso chiedere una semplice pinta o rischio di prendere  un calcio in culo?”
L’uomo al quale si era rivolto, si voltò con sguardo esterrefatto, probabilmente per il linguaggio volgare, tanto che anche i baffetti sopra il labbro gli si drizzarono. Ma poi, nel vedere il sorriso beffardo di Jacob, il suo volto si illuminò: “Jacob Frye! Ti vedo così di rado che a volte dimentico quanto tu sia rude!”
Scambiarono una risata complice, quindi Jacob appoggiò il gomito al banco e si sporse leggermente verso il proprietario: “Charlie, sono qui perché ho bisogno di un’informazione.”
“Se poi prometti di prendere un doppio whisky, si può fare.” Tentò di essere serio, ma poi esplose in una risata: “Scherzo, se posso aiutarti, dimmi pure!”
“Vorrei sapere se per caso conosci un ragazzo giovane e biondo che fa lo sguattero. Si chiama Arthur.”
Charlie sgranò gli occhi: “Sì, certo! E’ a mio servizio da due anni e vive anche qui al pub, se vuoi saperlo.”
La notizia improvvisa fece scattare Jacob, non sperava di trovarlo in giornata, ormai. Notando lo sguardo interrogativo dell’uomo, si schiarì la voce e cercò di darsi una regolata: “Vorrei vederlo, se non ti dispiace. Anzi, ti sarei grato se gli concedessi il pomeriggio libero.” Mise mano al portafogli e gli allungò una banconota, aggiungendo: “Per il disturbo.”
Charlie arricciò un angolo delle labbra, poco convinto: “Non è per il denaro, Jacob. E’ che il pomeriggio tutti i miei dipendenti, e io stesso, siamo indaffarati con i preparativi per la serata. Lo sai, ricevo anche clienti piuttosto importanti.”
Jacob chinò il capo di lato e parlò con tono persuasivo: “Non farti pregare! Prometto che in cambio verrò qui tre volte a  settimana per un mese, se mi fai contento!”
Charlie prese respiro e si arrese: “E va bene! Farò a meno di lui per qualche ora.”
“Così mi piaci!” Sottolineò Jacob, allungando un braccio per dargli una pacca sulla spalla.
“Vado nelle cucine a chiamarlo.” Il proprietario andò a passo spedito dove aveva detto e, in capo a due minuti, tornò seguito da Arthur. Appena vide chi lo cercava, il suo volto sbiancò e dalle mani gli cadde il canovaccio col quale, probabilmente, stava lucidando dei bicchieri.
“Piacere di rivederti, Arthur.” Gli disse lui, in tono cordiale, però il ragazzo non si rilassò, anzi il suo sguardo divenne ancora più turbato e le parole gli uscirono frammentate: “Voi, sign… Io... Vi prego non…”
Jacob sollevò le mani e le agitò in avanti in un gesto rassicurante: “Hey calma, volevo solo scusarmi per l’altro giorno! Sono stato io a sbagliare e tu sei stato fin troppo buono con me. Fosse capitato a me, avrei dato una testata sul naso al mio molestatore!”
Se da una parte Charlie lanciò uno sguardo stranito ad entrambi, dall’altra Arthur abbandonò ogni timore e il suo volto si rasserenò. I loro sguardi parvero fondersi e isolarsi in una realtà parallela.
Charlie interruppe quel momento raccomandandosi: “Ragazzo, ti rivoglio qui alle cinque precise. Non un minuto più tardi, chiaro?”
“Oh sì, certo, signore. Vi ringrazio per concedermi queste ore libere.” Rispose umilmente, chinando il capo. Recuperò il canovaccio da terra e, rialzandosi, vide che il suo capo gli porgeva le mani per ricevere sia il canovaccio che il grembiule. Arthur si affrettò a cederli. Senza indugi corse verso il piano superiore e ne ridiscese a breve con addosso giacca e berretto.
Jacob gli sorrise e abbozzò un saluto all’amico: “A più tardi, Charlie.”
“Sì sì, a più tardi.” Tagliò corto lui, intento a preparare un drink ad un cliente dai capelli impomatati e il fermacravatta in oro.
*
Il tempo passò velocemente, passeggiando. Usciti dal pub, i due avevano preso la direzione ovest e avevano camminato lungo l’argine del Tamigi fino ad arrivare al ponte di Westminster. Più che il luogo, la cosa importante era avere costantemente il sole davanti agli occhi per non rischiare di perdere la cognizione del tempo, anche se, a detta di Jacob, si fidava più del suo orologio da taschino che non del sole. Contrariamente a quanto si aspettava, la conversazione si era avviata quasi subito ed Arthur si era rivelato allo stesso tempo molto confidenziale e molto misterioso. Erano ormai prossimi a raggiungere il ponte quando Jacob si prodigò in un ironico riassunto su quanto aveva appreso di quel ragazzo. Volteggiando il bastone nella mano, cominciò: “Vediamo se ho capito bene. Il tuo nome è Arthur ma non vuoi dirmi il cognome. Vivi a Londra da due anni ma non vuoi dirmi da dove vieni, e la tua parlata priva di accento non mi è di alcun aiuto a capirlo. Vivi e lavori in un pub e vesti con abiti miseri ma sai recitare a memoria Shakespeare, Platone e Baudelaire.” Gli lanciò un’occhiata divertita: “Ho dimenticato qualcosa?”
Arthur abbassò il viso nel tentativo di frenare una risata che invece poi uscì libera dalle sue labbra come il fiume si getta nel mare. Scosse il capo e risollevò lo sguardo: “Potrei aggiungere che nel tempo libero frequento le più rinomate biblioteche della città e vado a giocare con i bambini dell’Orfanotrofio.”
Jacob gli puntò un dito contro, scherzando: “Ah, quest’ultima la sapevo!”
“Allora vi dirò un segreto che non oserei confessare a nessuno.”
La cosa si faceva interessante. Era il momento di interrompere la passeggiata.
Jacob gli si piazzò davanti: “E ti fidi di me a sufficienza per svelarmelo? Potrei essere un criminale. O un truffatore. O un pervertito che molesta regolarmente ragazzi di quattordici anni.”
“Ne ho quasi diciotto!” Sbottò Arthur, alzando il tono di voce più di quanto fosse necessario e lanciandogli un’occhiata truce.
Ancora una volta Jacob aveva fatto una figuraccia. Ma non era colpa sua! Chiunque avrebbe potuto scambiare Arthur per una ragazza, coi lineamenti che si ritrovava, e poi…quasi diciotto anni? A parte l’altezza non c’era niente che potesse confermarlo! O forse… Nella sua mente riapparve il ricordo di quando gli aveva toccato il basso ventre. Dannazione, non erano certo i testicoli di un bambino quelli che aveva sentito sul palmo della mano! Si vergognò di averlo pensato. Per fortuna l’addestramento da Assassino comprendeva anche la capacità di saper mascherare le emozioni, altrimenti sarebbe arrossito fino alla radice dei capelli. Prese respiro e disse umilmente: “Ti chiedo perdono. Anzi, hai la mia parola che non dirò più niente che possa farti alterare.” Già come promessa valeva poco, conoscendosi, in più dettò una condizione che lo rese ancor meno credibile: “A patto che tu ti sbrighi a dirmi questo segreto!”
Notò una luce particolare negli occhi di lui, gli parve di vedere un leggero tremolio delle labbra, ma fu solo per un attimo. Lo sguardo del ragazzo si fece serio nel proporgli: “Venite con me?”
Jacob fece un cenno affermativo col capo, quindi lui lo prese per mano e lo guidò. Imboccarono la via principale e proseguirono, svoltando un paio di volte in vicoli stretti e maleodoranti. Infine, dopo circa cinque minuti, si ritrovarono in una’aerea di pianta quadrata dove al centro era una quercia imponente. Quando il ragazzo gli lasciò andare la mano, Jacob si sentì strano, come se avesse appena perso qualcosa di importante.
“Perché siamo qui?” Chiese, più per distrarsi che per vero interesse.
Arthur camminò fino a raggiungere le radici sporgenti dell’albero, poi voltò il capo verso di lui: “Vedete questa quercia?”
“Sì.” Qualunque fosse il segreto, doveva essere qualcosa di grosso se ci metteva tanto a dirglielo. Che vi fosse un tesoro nascosto sotto le radici? Una pergamena dentro un buco nella corteccia? Era accaduto qualcosa in quel luogo di cui non era a conoscenza? Ora era impaziente di sapere. Lo sguardo puntato sugli occhi di quel ragazzo che ancora non riusciva a decifrare del tutto. E finalmente Arthur dischiuse le labbra.
“E’ uno scherzo, non devo dirvi alcun segreto! Volevo solo tenervi al guinzaglio per vedere la vostra reazione. Però…” Si voltò e prese ad armeggiare con la patta dei pantaloni: “Devo proprio farmela una pisciata.”
Jacob ridacchiò tra sé. Si era lasciato trascinare come uno sprovveduto, rischiando di finire in una trappola. A quanto ne sapeva, Arthur poteva essere un Templare o uno spietato omicida. Ma chi voleva prendere in giro? Quel ragazzo era sì misterioso, ma era evidente la sua natura buona e votata ad aiutare il prossimo. Non riusciva proprio ad arrabbiarsi per quello scherzo, anzi, in questo modo aveva scoperto che la sua mano a contatto con la propria gli aveva donato una piacevole sensazione. E la cosa non finiva lì. Non avrebbe dovuto, ma si ritrovò a guardarlo in modo inaccettabile. Anche se da quell’angolazione non poteva vedere tutto, il suo sguardo andò comunque a posarsi sui fianchi leggermente inarcati in avanti, sulla curva delle natiche piccole e tonde così simili a due pagnotte di pane, sulle gambe lunghe che quasi si perdevano nei pantaloni di una taglia più grande. E poi, dallo scorcio tra le gambe, poteva vedere il rivolo di urina scendere lungo il tronco, dapprima copiosamente e poi via via più lento. Non era ciò che stava vedendo a  imbarazzarlo, ma ciò che provava nel guardare. A risvegliarlo da quello stato di intorpidimento mentale, fu un movimento del braccio di Arthur. Lo spettacolo era finito, ma lui non riusciva a muoversi. Quando Arthur si voltò e lasciò la postazione, lui era ancora immobile come un manichino e aveva lo sguardo incollato su di lui. Gli venne il dubbio che Arthur lo avesse trascinato lì con il preciso scopo di farsi guardare. Era possibile? O era solo la sua immaginazione a portarlo ad una simile conclusione? Quando Arthur fece due passi verso di lui, il cuore gli mancò un battito. Giurò sulla vita di sua sorella che se si fosse avvicinato ancora lo avrebbe baciato e tanti saluti. Lo vide sollevare un piede. Era davvero destino. Jacob fece per muoversi con l’intenzione di avvinghiarlo in un abbraccio, ma ecco che Arthur sollevò lo sguardo verso il cielo e disse: “Direi che è ora di tornare.”
Evidentemente si era sbagliato. Non era destino. Jacob si schiarì la voce, così senza motivo, e confermò: “Sì, andiamo.”
Ripercorsero a ritroso l’ultimo pezzo di tragitto, velocemente, e una volta al ponte, ripresero a camminare all’argine del fiume con passo tranquillo. L’unica differenza rispetto all’andata, era che adesso Jacob non riusciva a spiccicare parola. Se all’esterno non lo dava a vedere, dentro si sentiva come un mare in tempesta. O meglio, come se lui fosse una piccola nave in balia delle onde e con poche speranze di salvezza. Nell’udire all’improvviso la voce di Arthur, sussultò, stupidamente.
“Sono libero tutte le mattine tranne il lunedì e il sabato. Se volete passare  a salutarmi…” Lasciò la frase in sospeso e al posto delle parole sollevò un sopracciglio in modo provocante.
“Se lo fa ancora giuro sulla vita di mia sorella che lo bacio qui davanti a tutti.” Pensò Jacob. Si rese subito conto che era una gran sciocchezza e si contrariò da solo: “NO!” Magari se avesse evitato di gridare sarebbe stato meglio! Vedendo lo sguardo sorpreso di Arthur, si corresse: “Voglio dire, sì. Anzi no. Perché invece di passare solo per un saluto non usciamo insieme? Voglio dire, potrei accompagnarti in biblioteca o all’Orfanotrofio.” Aggiunse educatamente: “Se ti fa piacere.” Era stato così impacciato che si faceva pena da solo. Ma che diavolo gli prendeva?
Per sua fortuna, il viso di Arthur si illuminò. Con il dito indice si scostò una ciocca ondulata che gli era caduta sopra l’occhio e rispose: “Allora domenica vi attendo nei pressi del pub alle otto.”
Dopodomani. Sarebbe stato un inferno aspettare così a lungo. Jacob fece un cenno affermativo col capo e disse: “Ci sarò.”
Non fecero che pochi passi quando nell’aria si levò un grido di donna.
“La mia collana! Mi ha rubato la collana!”
Jacob l’adocchiò subito. Era una donna non più molto giovane e dalle curve troppo abbondanti, ma ben vestita e  acconciata. Seguì il tragitto indicato dal dito indice puntato lungo la strada e vide un uomo che correva come se avesse il diavolo alle calcagna.
“Non muoverti di qui.” Ordinò ad Arthur, consegnandogli il cilindro e il bastone, per poi scattare e darsi all’inseguimento del ladro. L’uomo era veloce, ma non quanto lui, inoltre indossava delle scarpe logore che gli rendevano difficile la corsa, quando invece lui indossava stivali comodi. Man mano che si avvicinava, schivando le persone che mormoravano invece di rendersi utili, Jacob proiettò l’immagine di se stesso che ferma il ladro sul sottopassaggio al prossimo ponte. Se si trattava di un poveraccio affamato, non lo avrebbe consegnato alle autorità, si promise. Eppure, l’istinto gli diceva che qualcosa non andava. Aveva una voglia tremenda di calarsi il cappuccio sul viso, ma in mezzo alla gente non poteva farlo. Come aveva previsto, giunto nel sottopassaggio, balzò sopra l’uomo e lo bloccò a terra col proprio peso. Gli afferrò saldamente il polso la cui mano stringeva qualcosa e in breve questa si aprì per il dolore. Ne cadde un ciondolo d’oro con al centro uno zaffiro. Jacob lo prese e minimizzò: “Un gentiluomo non fa queste cose, bello mio.”
L’uomo, dalla barba incolta e un ghigno perfido sulle labbra, gli rise in faccia. La voce gli uscì roca per la fatica della corsa: “Per fortuna ci sono tipi come te, Assassino.”
Jacob sentì una scossa elettrica attraversagli il cranio. Non era solo un ladro. Quell’uomo era un Templare? Non aveva tempo per valutare i pro e i contro, qualcuno avrebbe potuto sorprenderli. Doveva decidere. E non gli fu difficile. Fece scattare il meccanismo della lama celata al braccio sinistro e fece un taglio netto alla gola dell’uomo. Il sangue schizzò fuori dalla ferita, mancò la giacca di Jacob di un soffio. Qualche gorgoglio e l’uomo spirò.
Jacob passò la lama sulla giacca del defunto e la fece rientrare, quindi trascinò il corpo fino ad un’apertura che dava sul fiume e ve lo fece scivolare dentro.
Tornò indietro, lo sguardo pensieroso mentre la sua mente elaborava quanto era appena successo. Giunto di fronte alla donna, che ancora ansimava e si lamentava per il furto subìto, le mise davanti agli occhi la mano e lasciò che il ciondolo gli scivolasse dal palmo, mentre la catena restava salda tra le sue dita.
La donna si portò una mano al cuore: “Oh giovanotto, vi ringrazio infinitamente!” Fu tutto ciò che gli disse prima di rimpossessarsi del gioiello con la velocità di un rapace. A Jacob non restò altro che allontanarsi, ormai ignorato da tutti, tranne che dal giovane che lo attendeva e lo fissava quasi incantato. Jacob si riprese il cilindro e il bastone e disse semplicemente: “Si sta facendo tardi.”
Percorsero il resto del cammino in totale silenzio.
Non si era mai illuso che un giorno potesse regnare la pace a Londra. Sì, i Templari erano stati sconfitti, la Corona ed il Parlamento erano salvi, alcune fabbriche che sfruttavano il lavoro minorile erano state distrutte, ma in città erano ancora annidati Templari in incognito e oggi ne aveva avuto la prova. L’unica cosa che poteva fare era riferire quell’episodio a Henry ed Evie. 

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Capitolo 4
*** Il passo oltre l'amicizia ***


3
Il passo oltre l’amicizia
 
Altro che tre volte a settimana! Da quel giorno Charlie aveva di fatto acquisito un cliente quotidiano! Jacob si faceva vedere tutti i giorni, pomeriggio o sera che fosse, conversava con gli altri clienti, si faceva cicchetti costosi, giocava a carte -ma con moderazione, sotto il suo occhio vigile- e sapeva che il merito di tutto questo era del giovane Arthur. Due anni fa, quando quel ragazzino impertinente gli aveva chiesto di assumerlo, anche se dal tono era risuonato più come un ordine, sulle prime era stato tentato di cacciarlo. Non voleva dire da dove veniva e cosa ci faceva lì e sembrava inadatto alle mansioni di un pub. Invece… Era bastata una settimana per convincersi che non avrebbe potuto fare acquisto migliore. Arthur si era inserito bene nell’ambiente, svolgeva qualsiasi mansione gli venisse richiesta, da lavare i piatti a lucidare l’argenteria, e non si lamentava mai dei turni sfiancanti. Con un lavoratore così, che inoltre si accontentava di una paga media, non poté rifiutare di cedere alla sua richiesta di poter vivere in una stanza lì al pub, anche se la richiesta esplicita era di avere una stanza tutta per sé. Perché non accontentarlo? Arthur era un tuttofare instancabile, meglio di altri dipendenti, quindi una piccola concessione poteva fargliela. E adesso, grazie alla sua inspiegabile amicizia con Jacob Frye, Charlie si poté dire soddisfatto della scelta fatta. Da quando quei due si erano conosciuti, in un modo che ancora ignorava totalmente, il suo pub si era animato e gli incassi erano aumentati. Per questo aveva chiuso un occhio più di una volta, in quel mese, quando Jacob gli chiedeva di dare ad Arthur qualche serata libera. Che cosa facessero e dove andassero, restava per lui un mistero. Quella era una delle sere in questione e il grande orologio appostato all’ingresso della sala, gli fece sapere che erano le dieci scoccate di una fresca sera autunnale.
I lampioni accesi che illuminavano parzialmente le strade lastricate, le foglie rosse e marroni che cadevano dalle chiome quasi spoglie degli alberi e venivano trasportate dal vento, la tranquillità  e il silenzio. E delle risate sguaiate che ruppero l’incanto. Camminando nel bel mezzo della strada, sicuri di loro come due galletti, Jacob ed Arthur stavano tornando da una serata speciale al Covent Garden. Precisamente, i due avevano trovato il modo di assistere ad uno spettacolo senza dover pagare il biglietto. Altrimenti detto, Jacob si era caricato sulla schiena l’amico ed era entrato di nascosto da una finestra aperta, per poi piazzarsi discretamente in un punto buio e isolato da cui vedere lo spettacolo. Il suo era stato un gesto di grande affetto in occasione dei diciotto anni di Arthur. Trascorrendo con lui quanto più tempo possibile, aveva appurato che il ragazzo aveva una grande passione per il teatro e, dato che nessuno dei due aveva i mezzi per permettersi un biglietto nel famigerato teatro di Covent Garden, aveva pensato bene di provvedere a modo suo. Tralasciando il fatto che l’opera era in italiano e quindi non aveva capito una sola parola, era stato entusiasta dell’espressione emozionata sul volto di Arthur. Talvolta, seduti dov’erano, gli si era avvicinato tanto da poterlo sfiorare solo per il piacere di sentire le vibrazioni della musica attraverso la sua pelle, tanto era eccitato quel ragazzo. E ora, dopo essere fuggiti allo stesso modo nel quale erano entrati furtivamente, stavano tornando al pub per concludere la serata con un brindisi.
“Jacob, avresti dovuto vedere la faccia di Charlie quando gli ho chiesto di poter prendere una bottiglia di Bordeaux dalle cantine!” Disse Arthur, scoppiando a ridere ancora una volta.
Jacob lo osservò attentamente. Con addosso il cappotto di lana, di un nero sbiadito e di due taglie più grande, il solito berretto marrone da ferroviere da cui fuoriuscivano le onde dei capelli, e le guance accese di un bel rosso vivo a causa delle risate, sembrava quasi un bambino. Era delizioso. Anzi, la vera delizia era sentirlo pronunciare il suo nome e dargli confidenza. Adorava il proprio nome da sempre, ma la voce dal timbro un po’ acuto di Arthur lo rendeva speciale. Se solo pensava a quanta fatica aveva fatto per convincerlo a dirlo! Sorrise a quel ricordo di circa tre settimane prima, quando lo aveva pregato di non essere formale.
“Porco mondo, abbiamo solo tre anni di differenza! Se mi chiami signore e mi dai del voi mi fai sentire un vecchio!” Gi aveva detto con passione, agitando le braccia. E finalmente il ragazzo si era convinto, gli aveva regalato un dolce sorriso: “Come vuoi, Jacob.” E da quel giorno, tra loro non c’erano più stati muri.
Giunti al pub, Jacob lo fermò mettendogli una mano inguantata sulla spalla. Ad una sua occhiata interrogativa, rispose sfoggiando un sorriso furbo: “Non voglio passare da qui. E non voglio rientrare.”
“E dove vorresti andare a quest’ora?”
Presto detto, Jacob lo fece salire sulla propria schiena e si diede all’arrampicata sulla parete del pub. Facendo uso dei davanzali delle finestre, scalò tre piani di camere da letto e in men che non si dica giunse al tetto. Si accertò di avere i piedi ben saldi sulle tegole prima di far scendere Arthur, quindi, tenendolo per un braccio giusto per sicurezza, lo portò nel punto dove era una delle canne fumarie del pub, dove presero posto. L’aria della sera ormai era diventata fredda e Arthur era così delicato…!
Con le ginocchia al petto per proteggersi ulteriormente dal freddo, Arthur alzò gli occhi al cielo stellato: “E’ una serata incantevole. Non ti ringrazierò mai abbastanza, Jacob.”
“Sono io che dovrei ringraziare te per essere entrato nella mia vita.” Gli disse sinceramente, cingendogli le spalle con un braccio. Lui non reagì in alcun modo, sul momento.
Per un po’ restarono in silenzio a guardare le stelle. Jacob conosceva a memoria ogni costellazione e i nomi delle stelle più importanti. Anche questo era frutto dell’addestramento da Assassino, nel caso nella sua vita si fosse ritrovato in un luogo sperduto e senza una bussola. Un pensiero orribile, a cui faceva mentalmente le corna da quando era bambino. Il suo sguardo tornò vigile nel sentire il corpo di Arthur tremare. Si voltò di scatto e parlò con voce divertita: “Non dirmi che hai freddo!”
Lui, con una punta di imbarazzo, minimizzò: “E’ stato solo un brivido, niente più.” Risposta che fece ridacchiare Jacob, il quale si premurò di avvolgerlo in un abbraccio attirandolo a sé. Arthur si ritrovò così a contatto col suo petto, a beneficiare del calore del suo corpo. Non c’era stato nulla di sconveniente tra loro in quel mese, nonostante si fossero inviati spesso segnali d’interesse reciproco. Ma quella sera, la sera del proprio compleanno, Arthur volle correre il rischio. Aveva capito quanto fosse difficile smascherare i veri sentimenti di Jacob. Anche in quel momento, nonostante fossero abbracciati sotto le stelle e lui sapesse che tra loro c’era più di una semplice amicizia, il cuore di Jacob batteva con regolarità, come se niente fosse. Ma il tempo degli indugi era finito. Per questo Arthur sollevò il viso sul suo, guardò nei suoi occhi castano chiaro e si sporse per dargli un bacio. Fu una cosa veloce, giusto il tempo di posare le labbra sulle sue e poi guardare gli effetti di quel gesto sul suo viso. Ora Jacob lo guardava con gran stupore, gli occhi spalancati, la bocca aperta. Non era la prima volta che vedeva quell’espressione, anzi era proprio tipica di Jacob, quando era perplesso o molto sorpreso. E ogni volta Arthur era scoppiato a ridere, paragonandolo ad un merluzzo! Non quella sera, poiché l’espressione mutò quasi subito in una più seria.
In effetti, per un istante Jacob era rimasto paralizzato, come gli era accaduto la prima volta in cui era stato baciato da un uomo. Maxwell Roth… Prima Templare, poi alleato degli Assassini e poi traditore di entrambe le fazioni. Jacob aveva dovuto ucciderlo, quell’uomo aveva perso la testa e per poco non aveva fatto saltare in aria dei bambini innocenti all’interno di una fabbrica. Quella parte del ricordo gli causava ancora un forte disprezzo, ma se invece ripensava a cosa era accaduto dopo… Morente, con la gola tagliata, Roth aveva fatto le sue ultime confessioni e poi l’aveva sorpreso rubandogli un bacio. Lui non aveva gradito, ma solo perché gli era stato dato da un uomo senza scrupoli e decisamente poco attraente. Eppure nella sua mente quel bacio era rimasto come marchiato a fuoco, seguito poi dalle parole dell’uomo: “Perché no?”
Già. Perché no? Ora era lui a chiederselo, in quel momento in cui il tempo sembrava essersi fermato, mentre gli occhi azzurri di Arthur gli stavano penetrando nell’anima e nelle orecchie poteva sentire un’immaginaria melodia di violini. Ma a conti fatti, fu davvero un attimo. E quando giunse quello seguente, Jacob seppe cosa fare. Fu lui a sorprendere Arthur incollandosi alle sue labbra, in un bacio vero, deciso, travolgente, assaporandole come la polpa di un frutto maturo. Arthur gli gettò le braccia al collo, con trasporto, e il bacio si tramutò in una serie di baci sempre più profondi, come se le loro labbra stessero eseguendo una danza un po’ frenetica.
Il primo ad interromperlo fu Arthur, le labbra pulsanti e il fiato caldo che usciva dalla bocca in una nuvola di vapore. Abbozzò uno scherzo, sorridendo: “Direi che non è il tuo primo bacio!”
Le labbra di Jacob si inarcarono in un sorriso, le sopracciglia aggrottate in contrasto: “Mi credevi un prete, forse? Ti assicuro che nelle taverne di Crawley più di una ragazza ha assaggiato i baci di Jacob Frye!”
Una risata complice suggellò una tacita promessa tra loro.
*
Fortunatamente, un collega gentile di Arthur gli aveva fatto il favore di accendere la piccola stufa nella sua stanza, così che, quando loro vi entrarono passando dalla finestra, furono accolti da un calduccio confortevole. Arthur per prima cosa accese la lampada ad olio e poi provvide ad aggiungere qualche pezzo di carbone nella stufa prima che le braci si spegnessero.
La stanza, di medie dimensioni e pulita, era semplice come Jacob l’aveva immaginata. Era composta di una piccola libreria dove spiccavano titoli di opere rinomate e pacchi di lettere, uno stretto armadio, un letto singolo ma dal materasso piuttosto ampio su cui erano lenzuola e coperte profumate di lavanda, un comodino con sopra una sveglia di ottone di vecchia data, e accanto alla finestra un piccolo scrittoio con rispettivo sgabello.
“Togliti il cappotto, così lo appendo nell’armadio.”
La voce di Arthur distolse la sua attenzione. In un gesto automatico, si tolse il cappotto e glielo porse, poi si tolse il cilindro e lo posò senza impegno su una mensola della libreria.
“Gli stivali puoi metterli accanto alla porta.” Aggiunse poi Arthur, mentre recuperava una gruccia dall’armadio.
Ancora una volta lui obbedì e, dato che il calore nella stanza stava aumentando grazie al carbone aggiunto, si tolse anche il panciotto. Incuriosito da ciò che aveva intravisto poco prima, andò verso lo scrittoio aperto. Sul ripiano c’era un libro di poesie di un poeta francese e un biglietto con scritto in elegante calligrafia femminile: “Al mio fratellino per il suo compleanno, augurandogli ogni bene.” Non era firmato. Prese il biglietto tra le dita e si voltò verso Arthur: “Fratellino?”
Lui gettò un’occhiata al biglietto: “Oh. Mia sorella maggiore mi scrive spesso e quando può mi manda libri interessanti. Al momento non si trova in Inghilterra.”
“Non mi hai detto di avere una sorella.” Sottolineò Jacob.
“Non ti ho neanche detto di non averla!” Lo guardò malizioso, per poi togliersi il panciotto  e restare così in maniche di camicia e pantaloni e calzettoni di lana.
Jacob si voltò di nuovo verso lo scrittoio, dove ripose il biglietto. Si sentiva offeso per quella mancanza di fiducia nei suoi confronti. Magari adesso che si erano baciati gli avrebbe raccontato di più sulla sua vita?
“Quando pensi che mi dirai chi sei davvero?”
Non fece in tempo a voltarsi che si ritrovò Arthur addosso, le sue labbra a rubargli un bacio. Pochi secondi e sentì qualcosa di freddo  e liscio nella mano. Interruppe il bacio per poter vedere di cosa si trattava e si ritrovò ad osservare un contenitore di terracotta grande come il palmo della sua mano, con dentro una sostanza bianca.
“E’ crema per le mani.” Lo informò Arthur: “Se avessi saputo come sarebbe finita la serata, sarei andato a comprare dell’olio, ma… Per questa volta dobbiamo accontentarci.” Fece spallucce.
Il viso di Jacob sfoggiò la tanto amata espressione da merluzzo, che poi venne accompagnata da un perplesso: “Prego?”
Fraintendendo la sua reazione, Arthur si fece sospettoso: “Non vorrai infilarmelo a secco, vero? Fa male!”
Anche tralasciando il fatto che aveva appena confessato di avere già avuto rapporti sessuali con un uomo, le sue parole furono doppiamente shockanti per Jacob, nel capire che lui aveva intenzione di…
Posò il contenitore sullo scrittoio con gesto frettoloso: “No no no, io non sono qui per… Non è che… Insomma io…” Quel dannato nervosismo lo avrebbe ucciso una volta o l’altra. Certo che anche Arthur lo aveva preso così alla sprovvista che per poco non gli era preso un colpo! Doveva recuperare il controllo di sé e spiegarsi a dovere prima che…
“Ah è così allora? Se provi disgusto per me puoi anche andartene!” Era incredibile come Arthur si trasformasse quando era arrabbiato. Gli unici momenti in cui spariva il ragazzino ed emergeva il giovane uomo. Jacob allungò una mano per toccarlo, ma lui lo schivò.
“Arthur, non è come credi. Io non l’ho mai fatto, è questo che mi…”
“Ma non mi dire! Senti, vattene e finiamola qui.” Lo liquidò lui, indicando la porta.
“Per favore ascoltami!” Doveva assolutamente rimediare prima che tra loro si frantumasse tutto ciò che c’era di buono. Jacob prese respiro e gli parlò guardandolo dritto negli occhi: “E’ la verità, Arthur. Non ho mai fatto sesso. Né con uomini né con donne. Non è che io non voglia farlo con te. Anzi, io voglio farlo. Ma non adesso. Non sono pronto.”
Sentiva lo sguardo di Arthur soppesarlo, come se stesse valutando se credergli o meno. Era una situazione imbarazzante, senza dubbio, ma aveva preferito dirgli la verità piuttosto che nascondersi dietro un’elegante bugia. Al contrario di grandi Maestri Assassini quali Ezio Auditore ed Edward Kenway, che avevano fama di essere anche grandi seduttori, lui, Jacob Frye, a pochi giorni dal suo ventunesimo compleanno era ancora vergine. Sì, se ne vergognava. No, non avrebbe rimediato quella sera a tale mancanza.
“Non sono pronto, Arthur.” Ripeté, ma questa volta con voce sussurrata, scuotendo leggermente il capo e guardandolo con occhi supplichevoli.
Arthur si lisciò i capelli all’indietro, come se improvvisamente gli desse fastidio averli a contatto col viso. Incredibile ma vero, la situazione si era ribaltata. Ora si sentiva come se fosse lui quello più ‘maturo’ tra di due. Lasciò ricadere il braccio a peso morto, emettendo un sospiro. Lo sguardo di Jacob lo faceva sentire in colpa. Arricciò un angolo della bocca: “E va bene. Ti credo.”
Jacob buttò fuori l’aria che aveva trattenuto, grazie a Dio il peggio era passato.
“Voglio rimanere qui con te, questa notte, se me lo permetti.” Propose, come offerta di pace.
Arthur strizzò l’occhio: “Mi piacciono le coccole!” Fece per andare verso il letto, ma si fermò all’improvviso: “A patto che quei calzini stiano fuori dalla finestra.” Disse seriamente, puntando l’indice incriminante contro i colpevoli calzini neri ai piedi di Jacob.
Lui scacciò l’argomento con una mano: “Nooo, non dirmi che sei anche tu come Evie! Cosa mai avranno i miei calzini che tutti li odiano?”
“Puzzano come formaggio ammuffito!” Rispose Arthur, scoppiando a ridere di gusto.
“Ma fuori dalla finestra fa freddo! Domattina li ritroverò congelati!” Scherzò Jacob, aumentando così le risate del suo amico e innamorato. E il brindisi che avevano in programma, fu totalmente dimenticato.
*
Era mattino presto, uno di quelli un po’ pigri in cui il sole autunnale sembrava non volesse decidersi a levarsi. La vetrata del negozio era ricoperta di brina. Guardando all’esterno ad Henry parve di essere in un altro mondo, uno irreale dai contorni indefiniti come all’interno di un sogno. Londra cominciava a calzargli stretta, lo aveva capito da un po’. I suoi pensieri erano rivolti alla sua terra d’origine, l’India, che ormai non vedeva da troppi anni. Ne aveva grande nostalgia. Talvolta gli piaceva immaginare di lasciare quella città e tornare alla sua vera casa, rivedere i suoi genitori e presentare loro Evie. Abbassò lo sguardo. Già, Evie… Cominciava a credere che tra loro sarebbe finita, che non si sarebbero mai sposati e che quindi avrebbe fatto ritorno a casa da solo, con la coda tra le gambe. La vita privata degli Assassini non era mai stata rose e fiori, davvero si era illuso che per lui sarebbe stato diverso? Lasciò la vetrina e si spostò sulla porta d’ingresso. Sollevò la mano con cui girò il cartello appeso per mostrare ai cittadini che il negozio era aperto. Sospirò tristemente. Tra poco Evie sarebbe scesa e insieme avrebbero cominciato un’altra giornata di lavoro fingendo che andasse tutto bene. Per quanto tempo ancora avrebbe sopportato in silenzio?
Si diresse verso il fondo del negozio, andò dietro al banco per controllare che l’incasso del giorno precedente fosse ancora dove lo aveva lasciato. Si sorprese nell’udire il tintinnio della campanella sopra la porta. Era raro avere clienti così mattinieri.
“Vi do il benvenuto nel mio negozio. Se posso esservi ut…” Nel sollevare lo sguardo si fermò. Forse la giornata non sarebbe stata monotona come credeva. Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso nel dire: “Sei tornata!”
Una voce amichevole e familiare gli rispose: “Ciao, Jay.”

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Capitolo 5
*** Caduta dal cielo per portare guai ***


4
Caduta dal cielo per portare guai
 
“Sei sicuro che vada tutto bene? Se Charlie si è lamentato, puoi dirmelo. Andrò a parlargli immediatamente.” Esordì Jacob dopo alcuni minuti, mentre infilava il cappotto. Il silenzio della stanza era rotto solo dal tintinnio delle stoviglie che Arthur stava ammucchiando per portarle giù alle cucine. Era stato premuroso a preparare la colazione personalmente, mentre Jacob dormiva, e fargliela trovare fumante e ben disposta su un vassoio per consumarla insieme sopra il letto. Tè caldo, biscotti allo zenzero e pane tostato spalmato di marmellata d’arancia. Avevano spazzolato tutto!
Arthur si rialzò, avendo terminato, e si portò all’indietro una ciocca di capelli che gli era caduta sugli occhi. Gli rispose con una nota divertita nella voce: “Ti dico di no, Jacob! Sapeva che era il mio compleanno e non ha sollevato nessuna questione. Però, se temi che io venga rimproverato, dovresti essere più cauto invece di chiedergli permessi per me ogni settimana!”
“E allora dov’è il divertimento?” Scherzò Jacob, strappandogli così una risata. Il suo sguardo si posò distrattamente sul quadrante della sveglia in ottone. Trasalì: “Sono quasi le undici! Devo andare prima che Evie venga a cercarmi per sgozzarmi personalmente.” La sua non era una battuta, sapeva che la sorella era perfettamente in grado di farlo se voleva. Andò alla finestra, l’aprì e balzò all’esterno, per poi aggrapparsi al davanzale, piegare le gambe e fare pressione coi piedi sul muro per tenersi su.
Arthur lo raggiunse, lo sguardo malizioso e quell’aria elegante che lo caratterizzava anche se era solo in pantaloni e camicia.
“Ci rivediamo domani sera?” Gli propose, speranzoso in una’altra nottata di baci e carezze come quella che avevano trascorso. Era stato bene tra le sue braccia e se ci pensava poteva ancora percepire il brivido di piacere provocato dalla sua barba morbida, quando lo aveva baciato sull’incavo del collo e poi lungo il torace. Non si era spinto oltre, ma almeno aveva concesso a lui di esplorarlo, di entrare con la mano dentro i pantaloni e fare così conoscenza con la sua parte più intima. Lo aveva fatto impazzire e di questo provava un certo vanto! Come leggendogli nel pensiero, anche Jacob rivisse quel ricordo. La mano di Arthur, le sue dita affusolate e laboriose…anche se il servizietto glielo aveva fatto sotto le coperte, e per ciò non aveva visto nulla, con la mente Jacob si era figurato bene l’immagine di quella mano che gli stringeva il membro e lo massaggiava ad un ritmo sempre più veloce. Aveva desiderato che non smettesse più. Il ricordo si faceva un po’ più imbarazzante superata l’estasi, con Arthur che recuperava un fazzoletto per asciugare il suo… Bene, era il momento di chiudere la porta ai ricordi. Jacob sbatté le palpebre, ritornando al presente, quindi rispose: “Verrò al pub domani, magari dopo cena, per farmi qualche bicchierino in attesa che tu finisca il turno.”
Arthur si sporse su di lui e gli diede un bacio a fior di labbra, in segno di saluto. Un ultimo sorriso e Jacob lasciò la finestra per rimbalzare con gli stivali sul davanzale di quella al piano di sotto e così fino ad arrivare a terra. Per fortuna la stanza di Arthur dava sul retro, un vicolo cieco dove in genere c’erano solo rifiuti e gli unici esseri viventi che s’inoltravano erano ratti, gatti e cani randagi. Messo piede sulla strada, Jacob sollevò il capo e lo salutò toccandosi la tesa del cilindro. Arthur ricambiò con un’occhiata divertita e poi chiuse la finestra. Un istante ed ecco che udì dei colpi alla porta. Interrogandosi su chi fosse, andò ad aprire.
“Ho detto che scendo tra poco, John.” Disse con tono esasperato, rivolgendosi al ragazzo sull’uscio, ovvero un suo collega e ormai caro amico di origine Irlandese, con tanto di capelli rossi e passione per la birra.
“Non si tratta di questo.” Dalla sua voce risuonò una forte nota di preoccupazione, che poi andò ad intaccare anche Arthur quando sollevò la mano e mise in mostra una lettera. Anche se non avesse riconosciuto la calligrafia, lo stemma stampato sulla busta era inequivocabile. Il serpente intrecciato ad un roveto, lo stemma di Lord War. Gli mancò un battito. Con gesto incerto, prese la busta dalla mano dell’amico.
John gli mise una mano sulla spalla: “Non sei obbligato a farlo, Arth.”
“E invece sì.”
“Non è giusto che tu debba sopportare tutto questo. Se lo dicessi a Charlie, sono certo che lui potrebbe aiutarti.”
Arthur scosse il capo: “No. Charlie è convinto che War richieda i miei servigi come aiuto cameriere e non voglio in alcun modo che scopra la verità. Non mi guarderebbe più con gli stessi occhi.” Abbandonò il discorso con un sospiro, quindi aggiunse: “Scenderò a breve. Ho promesso che avrei recuperato qualche ora di lavoro e non voglio rimangiarmi la parola.”
John cercò di fare un sorriso, ma non ci riuscì bene come avrebbe voluto. Per compensare, fece un cenno col capo e se ne andò.
Richiusa la porta, Arthur aprì la busta strappandola malamente. Odiava quelle maledette buste decorate in color oro, tanto quanto odiava l’uomo che gliele faceva recapitare. All’interno, vi era il solito cartoncino con scritte la data e l’ora in cui doveva presentarsi e la firma. Stracciò tutto nella mano, stringendo le labbra con disprezzo. Gettò la palla di carta a casaccio, facendola finire sotto il letto, poi si lasciò scivolare sul pavimento in legno lucido. Le lacrime premevano per uscire dagli occhi ma, se avesse pianto, non avrebbe più trovato la forza di andare avanti. Aveva fatto una scelta e, per raggiungere uno scopo, doveva continuare. Deglutì pesantemente un nodo alla gola, la voce gli uscì in un sussurro rivolta al vuoto: “Mi dispiace, Jacob.”
*
Aveva percorso quel tragitto innumerevoli volte, ma non si era mai sentito così bene come in quel tardo mattino. In un qualche modo si sentiva migliore, un uomo nuovo, un uomo più maturo e consapevole. Anche se non aveva fatto l’amore con Arthur, era diventato parte di lui e sapeva che condividevano un’unica anima. Era innamorato e presto glielo avrebbe fatto capire chiaramente, sia  con le parole che con i fatti. E chissà, forse un giorno avrebbe potuto dirlo anche ad Evie. Era la sua gemella, di certo sarebbe stata felice per lui e lo avrebbe sostenuto. Almeno lei, visto che la società lo avrebbe etichettato come impuro o addirittura malato mentale. Al diavolo la società, a lui bastava essere felice e rendere felice il suo innamorato. Punto. Sì, ma intanto doveva pensare a sopravvivere al rientro a casa. Era certo che si sarebbe beccato una bella strigliata da sua sorella, una volta tornato e, onestamente, dopo la bella notte trascorsa non ne aveva proprio voglia. Camminò lentamente, per darsi il tempo di prepararsi spiritualmente alla bufera. O almeno ci provò, ma senza ottenere risultati. Se aveva una possibilità di evitare o rimandare la sfuriata di Evie, era il caso di fare un tentativo. Quando giunse al negozio, pensò bene di sbirciare dal vetro della porta. Fatto curioso, all’interno non vide nessuno. Eppure il cartello sulla porta era girato sull’ ‘Open’ e, premendo leggermente, verificò che la porta non era chiusa a chiave. Che fossero in laboratorio? Be’, tanto meglio per lui! Per non tradire la propria presenza, aprì la porta di appena uno spiraglio, quanto gli bastava per far passare un dito e infilarlo all’interno della campanella, e solo dopo poté entrare e richiudere la porta senza fare rumore alcuno. Fiero della propria astuzia, fece per avviarsi verso la tenda che separava il negozio dal retro, tenendo comunque le orecchie ben tese nel caso avesse sentito la voce della sorella e pronto perfino a nascondersi se necessario! Ciò che non aveva previsto era che lì a breve avrebbe fatto una conoscenza interessante. Aveva appena oltrepassato la libreria posta accanto alla porta -aperta da entrambi i lati ma che dalla quantità di libri che conteneva rendeva quasi impossibile la visuale dell’area sinistra del negozio-, quando si accorse di non essere solo. Si fermò all’improvviso e volse il capo. A colpirlo, prima di tutto, fu un’approssimata torre composta da una cassapanca con sopra un vecchio tavolino da salotto di forma circolare ed infine una sedia recuperata dalla cucina. Ma la sua curiosità s’impennò nell’esaminare chi era sopra quella specie di torre. Dapprima vide le scarpette dal tacco quadrato e chiuse sul davanti come stivaletti, la linea elegante delle caviglie, i polpacci sottili avvolti da calze di cotone di un bianco candido e…per tutti i diavoli dell’inferno, poteva vedere quei dettagli perché la gonna dagli ampi drappeggi e di color rosa antico era raccolta sopra le ginocchia! E da quel punto non era certo difficile immaginare la linea delle cosce lunghe e provocanti. E poi i fianchi, il vitino sottile, e una magnifica cascata di boccoli di un biondo vivo che avrebbe fatto invidia all’oro. Un leggero movimento, ed ecco che la figura roteò leggermente il busto, permettendogli così di vedere il collo sottile e aggraziato come quello di un cigno, il viso dai tratti delicati come fossero stati dipinti con un pennello, le labbra rosee e sottili ed infine due grandi occhi di un verde chiaro brillante che avrebbe fatto sfigurare anche la pietra preziosa più pura. Quella non era una ragazza, era un’autentica visione!
Jacob ne rimase incantato, neanche si trovasse di fronte ad una divinità da adorare. Aveva desiderio di elevarsi sfidando la forza di gravità solo per poterla sfiorare. La sua mano si sollevò. Seppur in lontananza, le sue dita disegnarono i contorni di quel viso che richiamava ai baci. Gesto che l’angelo non gradì, evidentemente, perché nei suoi occhi comparve un’ombra di sospetto.
“Chi diavolo siete voi?” Gli chiese la fanciulla dalla cima della sua torre, in barba alle buone maniere.
Jacob aprì la bocca, ma non gli uscì alcun suono, inoltre fece l’errore di abbassare lo sguardo. O meglio, l’errore fu di abbassarlo nel punto sbagliato, infatti si rese conto troppo tardi di avere gli occhi puntati sulle gambe della ragazza. Lei invece, non solo se ne accorse, ma nel tentativo di coprirsi ai suoi occhi fece un movimento azzardato e perse l’equilibrio già precario sulla sedia. Emise un grido mentre precipitava, ma ecco che Jacob balzò in avanti con le braccia protese e l’afferrò in tempo. Era leggera come una piuma. Essendosi piegato sulle ginocchia per attutire l’impatto, si rimise in posizione eretta. Poteva dire che il cielo l’aveva accontentato facendo precipitare quell’angelo dritto tra le sue braccia! Ora che la vedeva meglio, Jacob poté ammirare ancora più dettagli del suo volto, come le ciglia scure, le sopracciglia dalla curva perfetta, il nasino sbarazzino dalla punta all’insù, oltre che odorare il dolce profumo di rose che giungeva dal suo collo e, pensò con malizia, dalla scollatura del suo abito. Era così vicino al suo viso che poteva sentire il respiro di lei contro il proprio, dalla sua bocca socchiusa usciva il profumo del cioccolato.  Qualunque cosa stesse accadendo, chiunque fosse quella ragazza, l’unica cosa che Jacob sapeva era di volerla baciare. Aveva bisogno fisico di baciarla. Senza nemmeno chiedersi cosa avrebbe pensato lei di un gesto così sfacciato, dischiuse le labbra e avvicinò il viso così tanto da percepire il calore della sua pelle. Stava per ottenere ciò che desiderava quando…il suono della campanella spezzò tragicamente l’atmosfera.
“Amanda, va tutto bene?” La voce di Henry giunse particolarmente ansiosa. Jacob di conseguenza roteò su se stesso, liberando così la visuale anche alla ragazza.
Henry ed Evie entrarono dalla porta rapidamente, entrambi con lo sguardo tra l’interrogativo ed il sorpreso. E a ben ragione!
“Che cosa succede?” Chiese ancora Henry, poi il suo sguardo si posò sulla pericolosa torre e capì. Scosse il capo, sorridendo: “Non dirmi che hai messo insieme quei mobili per raggiungere lo scaffale dei tarocchi! Se fossi andata nel laboratorio, avresti trovato una comoda, efficiente e sicura scala!”
Evidentemente ancora scossa dall’incidente, Amanda continuava a guardarlo con espressione persa, il cuore che le batteva così forte da ferirle i timpani. Nessuno si stupì di sentire la sua voce uscire debole e roca: “Io… Ho perso l’equilibrio e…” Il suo sguardo si posò su Jacob, il quale terminò la frase: “E io l’ho presa. E’ tutto.”
Evie si fece avanti, con gesto premuroso poggiò una mano sulla spalla di lei: “Oh povera cara! Immagino lo spavento.”
Ora un po’ più presente, Amanda rispose: “Se non ci fosse stato lui mi sarei spezzata l’osso del collo.” Ancora una volta guardò Jacob negli occhi, però ora il suo sguardo si era fatto più…caldo? Non era solo gratitudine, dentro quel verde lui poté scorgere anche qualcosa che poteva essere un profondo interesse amalgamato a desiderio. Accidenti, avrebbe voluto viverci dentro quegli occhi calamitanti.
“Ora puoi metterla giù, Jacob.” La voce di sua sorella gli entrò nella testa come un fulmine, riportandolo al presente. Con fare un po’ impacciato ma pur sempre attento, fece scivolare le gambe del suo angelo dal braccio e, una volta udito il rumore delle scarpe sul pavimento, lasciò anche la presa al suo busto. La gonna prima raccolta in una sorta di ‘fagotto’, scivolò sulle gambe di lei ridandole così il decoro.
Henry fece un passo avanti e prese a gesticolare con la mano: “Direi che è il momento delle presentazioni. Jacob, lei è Amanda Singer, la mia vicina di casa. Amanda, lui è Jacob Frye, fratello gemello di Evie.”
I due ancora si guardavano come se non riuscissero a staccare gli occhi l’uno dall’altro, ma almeno furono in grado di reagire. Amanda dischiuse le labbra e sussurrò: “Signor Frye.”
“Chiamami Jacob.” Le disse con voce seducente, per poi stupire sorella e futuro cognato praticando un elegante baciamano. Le dita affusolate fremettero al tocco delle sue labbra. Rialzando lo sguardo, Jacob vide le sue guance chiazzate di rosso, a contrasto con l’incarnato del colore di una rosa bianca.
Evie rimase letteralmente a bocca aperta nel rendersi conto di ciò che stava accadendo tra suo fratello e la nuova amica. L’idea le piaceva. Anche se l’aveva conosciuta quella mattina stessa, si poteva dire che avessero già legato. Henry le aveva già parlato di lei, ovviamente, descrivendola come una cara ragazza a volte un po’ ribelle che lui considerava una sorella. Certo quando l’aveva vista in negozio a conversare amichevolmente con lui, stando appoggiata al banco in un modo indecoroso e con la scollatura che lasciava poco spazio all’immaginazione, l’aveva fulminata con lo sguardo. Credeva stesse facendo la civetta col suo fidanzato. Invece poi lei l’aveva notata sull’uscio e le era andata incontro sfoggiando un gran sorriso. Le presentazioni erano state fatte e poi, sotto consiglio di Henry, lei e Amanda si erano ritirate in cucina a chiacchierare bevendo due tazze di cioccolato fumante. E lì Evie aveva scoperto che la ragazza era una buona compagnia, di quel genere di cui ti puoi fidare e con la quale puoi ragionare. Altrimenti detto, Amanda aveva la testa sulle spalle ed era frivola solo per divertimento. Accarezzò volentieri il pensiero che lei sarebbe stata perfetta per mettere in riga quello zuccone di suo fratello. Batté le mani per richiamare l’attenzione di tutti e propose: “Che ne dite di andare in cucina a pranzare?” Quindi allungò il collo e si rivolse al fidanzato: “Henry, ci pensi tu a chiudere il negozio?”
Lui fece un cenno col capo: “Sì, certo.” Un’operazione molto semplice che richiedeva solo di girare la chiave nella toppa ed esporre il cartello dalla parte della scritta ‘Closed’.
In capo a pochi minuti, erano tutti seduti ad una tavola imbandita con i bicchieri colmi di vino di buona annata e una minestra di verdure nei piatti. Essendo il tavolo di forma quadrata, la disposizione dei posti fu decisa in un batter d’occhio: Henry affiancato ai lati da Evie e Jacob e Amanda di fronte  a lui.
Jacob avviò la conversazione con una giusta domanda: “Credevo che la casa qui accanto fosse disabitata.”
“Sì, praticamente lo era!” Scherzò lei, per poi tornare seria: “Sono tornata ieri sera da Parigi dopo due anni di assenza.”
Jacob sollevò un sopracciglio: “Parigi?”
Henry intervenne con una spiegazione: “Amanda era partita per studiare arte nella capitale francese. Credevo che sarebbe rimasta là per sempre a coltivare la sua passione e magari diventare famosa coi suoi disegni. Ha molto talento.”
Lei ridacchiò: “Così mi lusinghi, Jay!”
Jay?” Chiese Jacob, pronunciando quel nome come se in bocca avesse della senape.
“E’ il diminutivo del mio nome.” Henry fece spallucce, come se la risposta fosse ovvia.
“Henry?”
“Ehm, no. Intendo il mio vero nome. Jayadeep.”
Jayadeep?” Questa volta Jacob trasalì.
Henry rivolse un’occhiata sospettosa ad Evie: “Non glielo hai detto?”
Lei strabuzzò gli occhi: “Io? Credevo che lo avessi fatto tu!”
“E io credevo lo stesso di te!”
Entrambi si voltarono verso Jacob. Involontariamente lo avevano lasciato all’oscuro sulla vera identità di Henry. Si sentivano così sciocchi per quella gaffe!
“Però anche tu, insomma… Sono Indiano, non trovavi strano che avessi un nome così inglese?” Non sapeva se ridere o  disperarsi per il poco acume di Jacob, quindi preferì chiudere il discorso: “Ti racconterò la mia storia un’altra volta. Ad ogni modo, sappi che Amanda è a conoscenza del nostro segreto. Sa che siamo tutti e tre Assassini, voglio dire. Puoi fidarti cecamente di lei, come faccio io da anni.”
Sbalordito per quella valanga di notizie incredibili che gli erano capitate tra capo e collo tutte in una volta, Jacob dovette fare appello alla propria pazienza per non dare in escandescenze. Non che gli dispiacesse il fatto di avere Amanda come alleata, certo, però… Jayadeep? Che nome era? Scosse il capo e riportò la propria attenzione su di lei: “Allora dovrò farti vedere la mia lama celata uno di questi giorni.” Da dove gli fosse uscita una frase così ambigua, non lo sapeva nemmeno lui, fatto sta che l’occhiata maliziosa di Amanda gli fece capire che aveva centrato il bersaglio. E mentre loro due comunicavano con gli sguardi, Evie e Henry si scambiarono un’occhiata decisamente esasperata.

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Capitolo 6
*** La micetta ha le unghie affilate ***


5
La micetta ha le unghie affilate
 
Quel mattino Amanda si era svegliata di buonora, aveva acceso il fuoco nella stufa della cucina e poi aveva messo il bollitore sulla piastra per farsi un buon tè. La nuova cameriera sarebbe arrivata più tardi con la spesa della giornata, come pattuito, e avrebbe pensato a preparare i pasti e fare qualche faccenda domestica. Non che lei fosse incapace di badare a queste cose, però un aiuto domestico poteva permetterselo, quindi perché non approfittarne? L’acqua era appena entrata in ebollizione quando udì tre colpi alla porta principale della casa. Per sicurezza tolse il bollitore dalla piastra e, mentre correva per raggiungere l’ingresso, si chiuse meglio la vestaglia per essere più presentabile. Non appena aprì la porta, si ritrovò di fronte un raggiante Jacob, vestito al massimo dell’eleganza, lo sguardo seducente e una confezione di plum-cake dall’aspetto delizioso nella mano protesa. Sgranò gli occhi per la sorpresa: “Jacob, non ti aspettavo!”
In tutta risposta, lui strizzò l’occhio e fece un cenno col capo verso l’interno dell’abitazione.
“Oh, certo, scusami.” Si scansò abbastanza da permettergli di entrare e, una volta richiusa la porta, lo condusse fino alla cucina dove, a quanto pare, avrebbero fatto colazione insieme.
“Devo dirtelo, ero convinto che questo posto fosse sommerso dalla polvere! E invece è in perfetto stato, vedo.” Disse Jacob, prendendo posto al tavolo dopo essersi tolto cappotto e cilindro. Accennò un ringraziamento quando lei gli posò davanti una fumante tazza di tè.
Amanda non si offese per un simile commento, avendo imparato in poche ore che Jacob aveva l’abitudine di dire tutto ciò che pensava. Sollevò un lembo della vestaglia per potersi accomodare sulla sedia con grazia, quindi gli rispose: “Avevo avvisato la mia vecchia governante del mio imminente arrivo e lei ha provveduto a mandare qualcuno a sistemare la casa.” Strinse le labbra in una buffa smorfia, per poi scoppiare  a ridere: “Ma se preferisci posso dirti di aver trovato un Frutto dell’Eden in grado di fare le pulizie!”
Jacob rispose allo scherzo: “Se mai dovessi trovarne uno in grado anche di rendere i miei calzini profumati, ti prego di avvisarmi!” Si portò la tazza alle labbra per bere un sorso di tè nero aromatizzato con olio di bergamotto. Earl Grey, il suo preferito.
“Non per mettere zizzania, ma tua sorella mi aveva già informata su questo tuo piccolo problema!” Disse lei ridacchiando, per poi addentare un plum-cake ai mirtilli che le diede la pace dei sensi.
“Parlando di confidenze, ieri Henry… O Jay qualcosa, come si chiama, mi ha detto che vi conoscete da quando eri poco più di una bambina, ma che allora non vivevi qui.”
Amanda fece un cenno col capo, mentre mandava giù il boccone, quindi rispose: “E’ vero. Questa casa apparteneva ad una lontana parente di mia madre, una cugina di non so quale grado, che noi venivamo a trovare tre volte all’anno. Poi alla sua morte mi ha lasciato questa casa ma…” Fece una pausa, un po’ troppo lunga a dir la verità, facendogli capire che nascondeva qualcosa: “Ma poi ho deciso di andare a Parigi a studiare e quindi la casa è rimasta chiusa per due anni!” Cercò di sorridere, ma nei suoi occhi traspariva un certo disagio. Forse era un argomento delicato di cui faticava a parlare, per questo Jacob prese per buona la spiegazione senza fare altre domande. In ogni caso, qualunque domanda gli sarebbe morta in gola nel sentirsi dire: “Se non ricordo male avevi promesso di mostrami la tua lama celata.”
Si rese conto da solo di avere la bocca aperta, più che altro perché gli si stava seccando la lingua, perciò pensò bene di correre ai ripari bevendo un lungo sorso di té, che mandò giù alquanto rumorosamente.
Amanda si sporse sul tavolo, il viso illuminato d’entusiasmo: “Allora?”
Emettendo un colpo di tosse giusto per darsi un contegno, Jacob sollevò il braccio sinistro su cui era il bracciale con l’elaborato meccanismo. Lo allungò sul tavolo e, facendo pressione con un muscolo dell’avambraccio, la lama scattò fuori con un suono metallico.
“Dio mio, devi aver ucciso parecchia gente con questa!” Il tono di voce le uscì estasiato, ma subito si ricompose per non apparire troppo macabra: “Cioè, gente cattiva, intendo.”
“Oh sì, tutti tipacci poco raccomandabili.” Confermò lui, lanciandole un’occhiata compiaciuta. Poi un’idea lo stuzzicò: “Che ne dici di andare in un luogo isolato a fare un po’ di allenamento? Potrei insegnarti a combattere e ad arrampicarti come un Assassino!”
Sulle prime lei rimase muta e immobile, ma poi sulle sue labbra si formò un gran sorriso: “Va bene, ci sto!” Si alzò di scatto dalla sedia, rischiando quasi di farla rovesciare all’indietro, ma prima che potesse fare un passo un dubbio la bloccò. Volse a Jacob uno sguardo velato di preoccupazione: “C’è un problema… Avrei bisogno di aiuto per vestirmi.”
Jacob lasciò una risata: “Basterà che tu indossi una camicia e un paio di pantaloni!”
Lei si morse un labbro con fare seducente: “E chi ti dice che io non sia una giovane donna viziata che non è nemmeno capace di indossare un paio di pantaloni da sola?”
Nel sentire il respiro farsi corto e un accesso di calore partire da sotto la camicia per poi insinuarsi in zone ben più nascoste, Jacob deglutì e si impose di mantenere il controllo. Rimase immobile quando lei gli passò accanto strusciandosi contro il suo braccio, e abbassò lo sguardo solo nel sentire qualcosa di morbido sul collo. Lo tolse con la mano, era il nastro della sua vestaglia. Si alzò in piedi per restituirglielo. Si ritrovò invece ad osservare lo spettacolo di Amanda che si sfilava la vestaglia, restando così con addosso solo una corta camicia da notte semitrasparente. Gli lanciò un’occhiata maliziosa, gli buttò addosso la vestaglia e fuggì via ridendo. Jacob si ritrovò l’indumento caldo tra le mani, ne tastò la morbidezza, ne valutò la qualità e i ricami elaborati. Aveva i sensi da Assassino in subbuglio, ma di una cosa era certo, non era così stupido da lasciarsi scappare una simile occasione. Come un lupo in calore, corse fuori dalla cucina per raggiungere lei, curioso di vedere come sarebbe continuato quel gioco tra loro.
*
Nonostante la bollente premessa, non accadde nulla. Jacob era entrato nella sua camera da letto pronto a ricevere tutto ciò che lei gli avrebbe offerto, salvo poi essere piantato sull’uscio mentre lei, ben nascosta dal paravento, si vestiva con abiti adeguati ad un allenamento. Quando lui poté vederla, apprezzò particolarmente lo stile della ragazza. A quanto pare era ben attrezzata se aveva in casa un’ampia camicia da uomo, un paio di pantaloni comodi cuciti su misura e degli stivali di pelle alti al ginocchio. I capelli era bastato legarli in una coda di cavallo e, una volta indossato un lungo cappotto, il gioco era fatto. Nel frattempo era anche arrivata la cameriera con un cesto pieno di vivande acquistate al mercato. Il tempo di preparare qualcosa che si potesse mangiare anche freddo e poterono uscire di casa. Il posto prescelto da Jacob fu il manicomio di Lambeth, chiuso poco dopo il suo intervento per eliminare i Templari che facevano disumani esperimenti sui malati. Ora quel luogo andava bene solo ai gatti randagi e forse ai senza tetto come riparo per la notte. Loro si recarono al giardino sul retro della struttura e diedero inizio alle lezioni.
Per Jacob fu una tortura. Sotto ogni aspetto! In primo luogo c’era la totale inesperienza di Amanda. Sperava che, essendo amica di Henry, lui le avesse insegnato qualcosa, invece era chiaro che non era così. Coi movimenti che faceva non avrebbe mai potuto fermare un aggressore. Si era illuso che le ragazze fossero tutte come Evie, cioè che avessero naturale predisposizione, se non al combattimento, almeno all’autodifesa. Una cocente delusione, ecco cos’era. Per questo motivo si rivelò un maestro severo e non le concesse né comprensione né gentilezza. Anche se in realtà aveva adottato questa tattica per obbligare se stesso a comportarsi in modo serio. Per quanto lei fosse incapace nella lotta e nella difesa, imparò velocemente ad arrampicarsi sulla facciata del palazzo, grazie agli arti lunghi e ad una certa flessibilità. Il problema era che, ogni volta che si arrampicava, Jacob non poteva fare a meno di divorare le sue curve con gli occhi e di indugiare anche troppo su punti in cui, dannazione, avrebbe voluto letteralmente infilarsi. Sarebbe stato più saggio farle tenere il cappotto addosso. Più di una volta si era ritrovato a doversi fare del male per interrompere l’afflusso di sangue al basso ventre. Se lei si fosse accorta di cosa stava accadendo dentro i suoi pantaloni, sarebbe morto di vergogna.
Si spinse un po’ troppo oltre durante l’ultima prova di combattimento corpo a corpo, nel quale, per placare il desiderio di afferrarle i seni e palpeggiarli spudoratamente, finse che lei fosse una nemica e le puntò la lama celata alla gola. Non che volesse farle male, certo, però quel gesto turbò sia lui che lei. Provando vergogna per se stesso, Jacob ritirò la lama e tentò di scusarsi: “Non… Non era mia intenzione, davvero.”
Lei gli lanciò un’occhiata fulminante, le sopracciglia aggrottate e i capelli arruffati la facevano somigliare tremendamente ad un gufo incazzato! Era pronto ad affrontare le conseguenze e magari anche a beccarsi un meritato schiaffo, invece Amanda parve calmarsi. Gli si avvicinò con una strana luce negli occhi, sollevò una mano per sfiorargli il petto che emergeva virile dalla camicia aperta fin quasi a metà.
“Non litighiamo, Jacob. Non voglio.” Nella sua voce vibrò una nota infantile che lo incuriosì. Riprese: “Hai ragione tu. Sono un completo disastro. Però…” Accennò un sorriso furbo e terminò la frase sussurrandogliela contro le labbra: “C’è una cosa che credo mi riesca bene.”
Nel cervello di Jacob presero a correre decine di fantasie erotiche, convinto che almeno una di queste stesse per divenire realtà. Che tra loro c’era attrazione era evidente da un miglio e, preso com’era da lei, non sarebbe riuscito a sottrarsi nemmeno se l’avesse voluto. Con questo pensiero, deglutì un nodo alla gola e chiese in un sussurro: “Che cosa?”
“Questo.”
Nell’arco di un attimo, Jacob fu travolto da un dolore lancinante ai testicoli. Emise un lamento, prima di portarsi le mani alla parte colpita e chinarsi sulle ginocchia. Il dolore era così forte che non riuscì a stare in piedi, dovette buttarsi ginocchia a terra e poi giù col busto fino a toccare il suolo erboso con la fronte. Non riusciva nemmeno a respirare. Men che meno pensare. Rimase in quella posizione poco dignitosa per quelle che a lui parvero ore. Diavolo, gli aveva dato una ginocchiata potente quella…quella… Non fu in grado di formulare un’offesa abbastanza grande per descrivere cosa pensava di lei in quel momento. Non appena il dolore si attenuò un poco, Jacob risollevò il capo da terra e finalmente riprese a respirare. Volse lo sguardo attorno ed ecco che vide la causa di tutti i suoi mali: Amanda si era sdraiata su un tavolo di pietra per assorbire gli ultimi raggi di sole pomeridiano, infischiandosene completamente di lui.
*
Amanda sbuffò infastidita e gli disse senza mezza termini: “Se speri che io ti porga le mie scuse, ti sbagli di grosso. Te lo sei meritato.”
Dopo quanto successo, come era prevedibile, tra loro era calato il silenzio assoluto. Amanda credeva che sarebbero tornati a casa o che lui se ne sarebbe andato infuriato lasciandola lì, invece rimase sorpresa nel vederlo aggirarsi per il giardino a raccogliere rami spezzati e poi farle cenno di seguirla all’interno. Erano passati per alcuni corridoi sudici, a riprova che dopo la chiusura era stato frequentato solo da animali di piccola taglia che avevano fatto il disastro. Seppur disgustata, lei aveva continuato a seguire Jacob fino a quando non erano giunti ad una sala ‘incontaminata’ dotata di caminetto e con piazzate davanti due poltrone e un tavolino. E lì si erano fermati. Jacob aveva provveduto ad accendere il fuoco, mentre lei si occupava di aprire la cesta con i viveri rimasti e disporli sul tavolino. Sembrava quasi profetico che a pranzo avessero sbocconcellato solo un paio di panini, a meno che lui non avesse già programmato di fermarsi lì anche la sera. Una volta preparato tutto, aveva fatto l’errore di lasciarsi cadere di peso sulla poltrona, sollevando così una nuvola di polvere. Quanto si sentiva sciocca! Avevano mangiato senza fare complimenti, affamati dopo le fatiche della giornata, e bevuto la bottiglia di vino che quella mattina avevano infilato nel cesto “giusto perché non si sa mai”, come aveva detto lui. Ripensandoci, forse aveva davvero già programmato quella serata. Eppure, Jacob le aveva tenuto il broncio come un bambino capriccioso, per questo lei alla fine aveva rotto il silenzio con quel rimprovero!
Lui la guardò accigliato prima di rispondere con voce ringhiante: “Allora dovrei essere io a chiederti scusa dopo che mi hai dato una ginocchiata che mi ha quasi massacrato le palle?”
“Ma se ti sei comportato da perfetto stronzo per tutto il giorno! Non sono una tua allieva, volevo solo passare un po’ di tempo con te.”
L’idea di Amanda non era quella di litigare, però…
Come se non avesse udito, Jacob riprese a lamentarsi: “Potresti avermi fatto dei danni permanenti. Forse non potrò mai avere figli. Non so nemmeno se mi funziona ancora!”
Amanda si sporse, appoggiandosi al bracciolo della poltrona: “Vogliamo provare?” L’aveva detto in modo così provocante che perfino lei dubitò delle proprie intenzioni. Era solo per stuzzicarlo o voleva farlo davvero? In ogni caso non ne poteva più di quella tensione che si era creata tra loro. Si alzò accennando un deluso: “Me ne vado.” E finalmente Jacob reagì, scattando subito in piedi e afferrandola per un polso.
Amanda lo guardò in modo interrogativo, la sua espressione era indecifrabile e non sapeva che intenzioni avesse. Fino a quando non vide il suo volto rasserenarsi.
“E va bene, ti chiedo perdono per essermi comportato in quel modo.” Le disse, accennando un sorriso, per poi afferrarla per i fianchi come per intrappolarla: “Però adesso sono costretto a vendicarmi per quel colpo a tradimento!”
Se il suo intento era quello di farla ridere, ci riuscì bene. Una simpatica vendetta quella di farle il solletico, se non fosse stato che di lì a poco si ritrovarono sul pavimento e con il fiato corto per le risate. Amanda approfittò di un momento in cui lui aveva abbassato la guardia per cercare di spingerlo via e scivolare sotto di lui per liberarsi, ma Jacob fu incredibilmente svelto e le afferrò entrambe le mani, mandando così a monte il suo piano. Una mossa che fece scemare le risate in fretta. Sdraiati su quel pavimento di legno impolverato, uno sopra l’altro, mani nelle mani e così vicini che i loro respiri si fusero in un tutt’uno, fu inevitabile per loro rivivere il momento del loro incontro nel negozio. Il momento che poi era stato rovinato dall’arrivo di Henry ed Evie.
“Non questa volta.” Pensò Jacob, prima di imprimere le labbra su quelle di lei in un intenso bacio. Sciolse le mani dalle sue solo per poterla esplorare. Sfiorò distrattamente la scollatura, quasi temesse di mancarle di rispetto, però quando andò a svoltare sulla curva del fianco e scese lungo la natica, non si fece alcun problema. Fece pressione affinché il corpo di lei fosse premuto contro il suo. Voleva sentirla, assorbire il suo calore e deliziarsi dei movimenti del suo basso ventre, mentre lei lo teneva legato a sé con le braccia attorno al busto. Quella ragazza stava diventando rovente, soprattutto in quella zona nascosta a cui lui si ritrovò a stretto contatto quando Amanda gli cinse il fianco con la gamba. Una parte di lui, quella più selvaggia, avrebbe voluto strapparle i vestiti di dosso e penetrarla fino allo spasmo. Il solo pensiero gli provocò un’erezione quasi fulminea e dolorosa. Il problema era che, in quella posizione, lei se ne accorse. Mentre le labbra continuavano ad assaporarsi sempre con più ardore, Amanda fece per insinuargli una mano nei pantaloni, ma lui glielo impedì.
“No.” Disse, la voce roca per il piacere. Si sollevò su di un gomito quanto bastava per non essere più a contatto con lei. Anche se la tentazione di lasciarsi andare era forte, soprattutto guardando i suoi seni sollevarsi a ritmo del respiro affannato e le turgide gemme spiccare dalla stoffa della camicia.
“Cosa…?” La voce le morì in gola, ma la domanda era comunque chiara.
“Ci siamo appena conosciuti.” Buttò fuori lui, risuonando falso al suo stesso udito. Scosse il capo e optò per qualcos’altro, il cuore che gli pulsava nelle orecchie: “Non posso.” Ora la voce gli uscì in un sussurro.
Seppur traboccante di domande e leggermente delusa, Amanda non obiettò e non cercò di estorcergli ulteriori spiegazioni. Lui ne fu lieto, anche se... C’era una cosa che voleva e poteva fare. Si sollevò mettendosi in ginocchio e prese a slacciarle i pantaloni. Con sua sorpresa, vide che Amanda non aveva indossato biancheria intima. Perfetto. Il suo intento non era di varcare le porte del paradiso entrando in lei, ma solo di sentire a contatto con le labbra la pelle liscia e delicata delle sue cosce. Il primo pensiero che aveva fatto ieri, quando l’aveva vista dal basso con la gonna raccolta sopra le ginocchia. Si chinò e lasciò che la fantasia prendesse vita. Le stampò sulla pelle decine di baci, talvolta scendendo quasi fino al ginocchio e talvolta concentrandosi sull’incavo dove la pelle era più calda e morbida, ma senza mai violare il suo giardino intimo. Andò a stampare un ultimo bacio sul suo ventre, dove poi posò il capo, lasciandosi cullare da dolci sensazioni.
In fondo, le aveva detto la verità. Non poteva possederla, per via di quella paura che lo aveva bloccato anche con Arthur, e poi per via dello stesso Arthur, appunto. Quella sera avrebbe dovuto incontrarlo, come erano d’accordo, ma come poteva anche solo pensare di guardarlo in faccia dopo ciò che aveva fatto? O forse la domanda che doveva porsi era, come poteva non provare il minimo senso di colpa per averlo tradito? Provava qualcosa per Amanda, era come se la conoscesse da molto più tempo invece che da soli due giorni. Ma questo non poteva giustificare il suo comportamento inaccettabile. Per quanto sbagliato, ora si ritrovava con due amanti, i quali non avevano il minimo sospetto della sua infedeltà. 

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Capitolo 7
*** Troppi nodi nella matassa ***


6
Troppi nodi nella matassa
 
Evie sbirciò all’interno della stanza del fratello e, constatando che tutto era in ordine e il letto non era stato toccato, il suo volto s’illuminò di contentezza. Tornò immediatamente nella propria camera da letto e disse raggiante: “Jacob non è rientrato!”
Henry, di fronte allo specchio a figura intera, intento a sistemarsi a dovere la tunica indiana, le lanciò uno sguardo di sospetto attraverso il riflesso: “Di solito lo odi a morte quando resta fuori la notte senza avvisare.”
Lei, deliziosa dentro la camicia da notte e coi capelli sciolti sulle spalle, gli andò incontro  a passo di danza: “Di solito passa le notti a bere e a combinare guai, invece, sapendo che ieri lui e Amanda sono usciti la mattina e non sono più tornati…” Gli portò le braccia al collo e lo baciò. Schioccò le labbra contro le sue due volte, prima di terminare la frase: “Direi che l’ovvia conclusione è che hanno trascorso la notte insieme.”
Henry accennò un sorriso: “Sono contento che Amanda ti piaccia. Confesso che ho temuto saresti stata gelosa, per via della nostra confidenza, invece hai saputo cogliere il meglio di lei.”
Lei sollevò un sopracciglio: “Io non sono gelosa!”
“Ah no? Allora sai cosa ti dico?”
Stavolta fu lui a baciarla, la strinse a sé con dolcezza e poi con le labbra cominciò a scendere seguendo un tragitto fino alla scollatura della camicia. Quindi sollevò un istante il viso per dire: “Questa mattina la bottega aprirà più tardi.” Immerse il viso fra i suoi seni, strappandole delle risatine divertite. Divertite, perché convinta che si sarebbe fermato per porre fine allo scherzo. Invece poi sentì la sua lingua stuzzicarle una mammella, contemporaneamente le sue mani le afferrarono le natiche con gesto possessivo. Adorava quei suoi slanci di lussuria. Le scaldavano il sangue nelle vene a tal punto che avrebbe potuto essere scambiato per lava incandescente. Lo lasciò fare, percepì il calore della sua lingua spostarsi verso il basso, attraverso il tessuto della camicia. Una volta in ginocchio, Henry le sollevò una gamba che poi si portò attorno alla spalla, ed ecco che con le labbra andò a stuzzicare il suo punto più delicato, fra le morbide pieghe rosa della sua intimità. Evie gettò il capo all’indietro, gemendo per il piacere. Era così eccitata che con la mano andò ad afferrargli una ciocca di capelli e tirarla solo per il gusto di farlo. Da quando vivevano insieme e da quando condividevano lo stesso letto, lei e Henry avevano imparato a darsi piacere giorno dopo giorno, scoprendo tutti i reciproci punti delicati e il modo in cui stimolarli. Anche se nessuno dei due aveva avuto un amante, erano comunque riusciti ad imparare tutto ciò che era necessario, esplorandosi tra le lenzuola. Tutto entro i limiti, s’intende. Per quanto Henry desiderasse renderla sua, lei lo aveva sempre fermato. Magari quel mattino, visto che Evie sembrava essere particolarmente bendisposta, poteva concedersi di fare un tentativo. Si rialzò in piedi, interrompendo repentinamente quello che stava facendo. Evie lo guardò con occhi languidi, la mente intorpidita dal piacere. Sì, forse era il momento buono. La sollevò per i fianchi e andò a posarla sul materasso, dove poi salì in ginocchio. Si tolse la fascia dalla vita e, velocemente, infilò una mano negli ampi pantaloni bianchi per estrarre il membro eretto. Era una vista interessante, nessuna obiezione, peccato che ad Evie fu fin troppo chiaro che cosa avesse intenzione di fare con quello. Spaventata, neanche si fosse trattato di un serpente velenoso, balzò e si spostò all’indietro per allontanarsi da lui.
“Henry, non è il momento. Dobbiamo andare ad aprire.” Era davvero una vigliacca.
Lui sfoggiò un’espressione contrariata: “Stai scherzando, vero? Stavamo per fare l’amore!”
Evie, giusto per sicurezza, si affrettò a portarsi le ginocchia al petto. Il suo sguardo sembrava dire “Oggi l’unica bottega chiusa sarà la mia”. Il che contribuì a fargli passare la voglia.
Arrabbiato, Henry scese dal letto e si risistemò gli abiti. Le lanciò un’occhiata di rimprovero, ma questo non bastò a placare il fuoco che aveva dentro: “Che cosa dovrei pensare? E’ così disgustosa l’idea di farlo con me?”
“No, Henry. Il problema non sei tu. E’ solo che…” Doveva dirglielo. Era il momento. Ora. Immediatamente. Prese respiro, lo guardò negli occhi e… Niente, non le uscì una sola parola dalle labbra. Non ce la faceva, era più forte di lei. Provava così tanta vergogna per la sua paura irrazionale che non riusciva a parlarne con lui. Nel vederlo sollevare le braccia, indicandola come un fenomeno da baraccone, si sentì mortificata.
“Io non ti riconosco più.” Lasciò cadere le braccia, scuotendo il capo tristemente: “Credevo che mi amassi e che volessi un futuro con me.”
“E’ quello che voglio infatti!” Evie era sincera in questo e quasi non poteva credere che lui dubitasse del suo amore. Dio del cielo, il loro rapporto era incrinato fino a questo punto?
“Quello che so, Evie, è che sei cambiata. Il giorno in cui hai riposto tunica e armi nella cassapanca, hai messo via anche la tua personalità. Non che io ti disprezzi, sia ben chiaro. Amo averti al mio fianco nel lavoro, amo il tuo vivace interesse per la cucina e amo vederti elegante la domenica. Però…” Fece una pausa, il suo sguardo si fece triste: “Però tu non sei solo questo. E temo che questa nuova versione di te sia anche la causa per cui hai tanta paura di concederti a me.” Fece per andarsene, ma poi si fermò sulla soglia: “Io ti amo Evie e voglio credere che anche tu provi ancora lo stesso sentimento per me. Però vorrei che pensassi a cosa vuoi davvero.” E solo allora uscì dalla stanza.
Evie ascoltò i suoi passi scendere le scale. Si sentiva così sola adesso. Chinò il capo e andò ad appoggiare la guancia contro le ginocchia che ancora teneva strette al petto.
“Non lo so più.” Bisbigliò a se stessa, mentre una lacrima le faceva capolino dalle ciglia.
*
Non c’era bisogno di forzare la serratura e controllare all’interno, Jacob sapeva che Arthur la chiudeva a chiave solo quando usciva. Ma se non era lì al pub significava che avrebbe dovuto cercarlo per tutte le biblioteche della città? Gli vennero le vertigini al solo pensiero, ma non avrebbe rinunciato proprio adesso che si era deciso a parlargli. Cioè, a scusarsi con lui per non essersi presentato all’appuntamento, non di spiegargli il motivo. Si portò una mano alla nuca per darsi una grattatina, inseguendo un ragionamento. Presumibilmente, Arthur era arrabbiato con lui, perciò...difficilmente avrebbe trovato la concentrazione per leggere un libro, quando invece era più probabile che fosse andato nell’unico luogo dove poteva ritrovare il sorriso sempre e comunque. L’Orfanotrofio di Babylon Alley.
Infatti lo trovò proprio lì, nella grande sala dei giochi dove i bambini trascorrevano buona parte della giornata, ad eccezione di quelli un po’ più grandi a cui veniva insegnato a leggere, scrivere e fare di conto per un totale di quattro ore giornaliere. Fermo sull’uscio, Jacob poté godersi la vista di Arthur che giocava coi soldatini di piombo assieme al piccolo Jack. Quel bambino si meritava davvero un amico speciale come Arthur, dopo tutto il dolore che aveva vissuto. Jacob ricordava ancora vividamente il giorno in cui lo aveva trovato a Lambeth. Per terra c’era una pozza di sangue che sembrava divorare il pavimento, e lì, il piccolo era chino sul cadavere della madre e le stava accarezzando i capelli. Un’immagine che gli aveva stretto il cuore in una morsa. A quanto aveva poi scoperto, la madre era l’unica sua parente in vita e per questo le era stato concesso di tenere con sé il figlioletto nel luogo in cui veniva curata. Curata in senso ironico, perché in realtà veniva usata anche lei come cavia per gli esperimenti degli uomini di Starrick. Dopo l’intrusione di Jacob, molti pazienti vennero crudelmente eliminati senza un apparente motivo e tra quelle povere persone c’era anche la madre di Jack. Fu lui stesso a prenderlo e portarlo via da lì, per poi affidarlo all’Orfanotrofio dove poteva avere una possibilità per crescere sano e magari trovare una nuova famiglia. Jacob era rimasto sbalordito dall’incredibile coincidenza che, fra tutti i bambini, Arthur avesse preso maggiormente a cuore proprio Jack. Voleva bene a tutti e giocava con tutti, però ritagliava sempre un pezzetto di tempo per stare con il piccolo Jack, il quale aveva cominciato a chiamarlo ‘fratello’ o ‘fratellone’. In realtà anche Jacob aveva tenuto gli occhi su di lui, nel corso dei mesi. Non era stata solo la pena a spingerlo ad aiutare il bambino, lo aveva fatto anche perché nei suoi occhi aveva visto qualcosa che gli ricordava se stesso. Una sfumatura particolare, di chi non si arrende nonostante tutto perché continua a credere che le cose miglioreranno. Il suo sesto senso gli diceva che forse Jack avrebbe potuto fare cose importanti, una volta cresciuto. Chissà… E mentre pensava questo, ad un tratto si rese conto che i grandi occhi castani si erano posati di lui. Un ampio sorriso si disegnò sulla faccia del bambino e poi la sua vocina squillante gridò: “Jacob!”
Nel sentire il nome, Arthur volse il capo di scatto. Non sembrava affatto contento di vederlo. Ahi ahi.
Jacob salutò il bambino e gli spettinò i capelli in quel modo che lo faceva tanto ridere. Qualche parola per chiedergli come stava e se era sempre un bravo ometto e poi arrivò la parte difficile.
Lui e Arthur lasciarono l’Orfanotrofio insieme, o meglio, Arthur s’incamminò  senza guardarsi indietro e Jacob dovette accelerare il passo per stargli dietro.
“Arthur, per favore! Ti ho detto che mi dispiace! Non possiamo parlarne da persone adulte?” Lo supplicò. Quell’ultima frase ebbe effetto, infatti Arthur si fermò di colpo e lo apostrofò severamente: “Persone adulte? E secondo te è da persone adulte disertare un impegno? Non ti sei fatto vedere, non mi hai fatto recapitare un biglietto o qualunque cosa per farmi sapere se stavi bene. Niente! E adesso vieni qui a blaterare?” I suoi occhi avevano il colore del cielo durante il temporale e a Jacob parve di intravedere anche il bagliore di un fulmine all’interno. Cosa ovviamente impossibile.
Impacciato, gesticolando per il nervosismo, cercò di districarsi da quelle accuse: “Non volevo farti preoccupare. Dico davvero. E’ che ho avuto da fare.”
“Da fare? E che cosa, di grazia?”
Divertirsi con Amanda, baciarla con passione, chinarsi fra le sue cosce. Dio quanto gli era piaciuto! Ma ora doveva pensare a qualcos’altro o non sarebbe finita bene con Arthur. Andò alla ricerca di qualcosa di credibile, ma sul momento non gli veniva in mente niente di sensato. O forse… Le spalle gli si abbassarono nel lasciare un lungo sospiro sconsolato: “Ho dovuto intrattenere un’amica del fidanzato di mia sorella, appena tornata in città. Lui ed Evie erano impegnati con la bottega e così hanno chiesto a me di tenerle compagnia. E’ stata una giornata pesantissima, in cui ho dovuto ascoltare inutili chiacchiere femminili senza sosta. Quando finalmente mi sono liberato, avevo un serio bisogno di riposare la mente e…mi sono addormentato.” Lo guardò con occhi colmi di tristezza e terminò: “Mi dispiace.”
Uno schifoso bugiardo, un doppiogiochista, uno sporco traditore. Ecco come definiva se stesso. Stava mentendo spudoratamente solo per rientrare nelle grazie di Arthur, e per di più offendendo Amanda che invece gli piaceva da impazzire. Ma che gli prendeva? In suo soccorso arrivò il Credo. Ricorda, nulla è reale, tutto è lecito. Quella regola era valida anche per le questioni sentimentali, no? Vide lo sguardo di Arthur farsi più dolce, forse aveva abboccato.
“D’accordo, ti perdono. Non riesco a restare arrabbiato con te.” Si guardò intorno per controllare che per la via non vi fosse nessuno e, tranquillizzato, stampò un bacio sulle labbra di Jacob. Il sorriso che gli regalò poi fu un dono ancora più prezioso. Si amavano, su questo non c’erano dubbi. E forse Amanda era solo un fuoco passeggero, a conti fatti. Ora che aveva fatto pace con Arthur gli sembrava tutto più chiaro.
“Arthur, tra due giorni è il mio compleanno e…stavo pensando, dopo aver festeggiato con mia sorella, mi piacerebbe raggiungerti e stare con te. Ovviamente ci penso io a chiedere a Charlie di darti un permesso di qualche ora. Che ne dici?”
Contrariamente alle sue aspettative, il volto di Arthur impallidì. Dovette schiarirsi la voce per riuscire a parlare: “Mi dispiace, Jacob, ma non posso proprio.”
Lui trasalì: “Cosa? Perché?”
“Vedi…quella sera ho un impegno. Devo fare l’aiuto cameriere per un uomo di una certa importanza e non posso assolutamente rifiutarmi.”
Questa era nuova. Jacob non aveva idea che i suoi servigi fossero richiesti al di fuori del pub. E addirittura da una persona importante.
“Di chi si tratta?” Chiese incuriosito.
Arthur si sentì stringere la gola, temporeggiò fino alla fine della via, per poi buttare fuori il nome come uno sputo: “Lord War.”
Lord War? Non gli era nuovo. Ma dove poteva averlo sentito? Concentrato nel tentativo di ricordare, si ritrovò quasi all’improvviso di fronte al pub. E, cosa strana, Arthur lo salutò con una certa fretta dicendo di avere delle cose importanti di cui occuparsi. Di fatto scaricato, Jacob prese a camminare senza meta per le vie, ripetendosi con la mente il nome di War. Era sicuro di averlo sulla punta della lingua ma… Un momento.
“Lord War, ma certo!” Il suo entusiasmo di spense subito nel ricordare il motivo per cui lo conosceva. Nel periodo della guerra contro i Templari di Londra, il nome di War era saltato fuori spesso. La sua squadra, i Rooks, glielo avevano nominato più volte. A quanto ricordava, quell’uomo era stato visto in compagnia di molti sostenitori di Starrick, ma nessuno era stato in grado di dirgli se fosse o no un Templare. Non erano state trovate prove, né sulla sua vera natura, né su eventuali secondi fini dei suoi affari. Era come una macchia pulita, per quanto la descrizione fosse assurda. Tutti sospettavano che fosse un tipo losco senza però riuscire a dire una sola cattiva azione che avesse commesso contro la città e i suoi abitanti. In ogni caso, ora che quel nome era ricomparso, Jacob si sentiva in dovere di andare più a fondo. Non era tranquillo all’idea che Arthur lavorasse per quell’uomo.
*
Dopo pranzo, Henry andò a casa di Amanda. Il suo intento era quello di sfogarsi e raccontare all’amica dei suoi problemi sentimentali. In fondo Amanda era una donna, una giovane donna di diciannove anni, e forse poteva consigliargli cosa fare. Peccato che quando la vide, si rese subito conto che lei era in uno stato peggiore del suo. Si accomodarono sul divano del salotto, dove nel camino scoppiettava un fuoco vivace.
“Dopo domani è il compleanno dei gemelli. Evie ha organizzato qualcosa per radunare gli amici più cari e si è raccomandata di dirti che tu fai parte di questa categoria.” Credeva che cominciare dall’invito avrebbe sciolto la tensione, invece a quanto pare si era sbagliato visto che Amanda aveva sorriso tristemente.
“Verrò. Per Evie che sembra tenerci molto. Se invece parliamo di suo fratello...dubito che gli importi qualcosa di me.”
Henry chiese di getto: “Perché dici questo? Che cosa è successo?”
Lei gli raccontò senza vergogna le vicende del giorno prima, per poi arrivare al nocciolo della questione: “Ormai ero convinta che avremmo passato la notte lì,  invece poi all’improvviso si è alzato e mi ha detto di rivestirmi. Sembrava turbato da non so che cosa. Siamo tornati a Whitechapel senza dire una parola e puoi immaginare il mio imbarazzo quando lui mi ha dato la buonanotte senza aggiungere altro, senza dirmi quando ci saremmo rivisti, senza sorridere. Solo un vuoto ‘buonanotte’ e poi è scappato via.” Per accentuare l’ultima frase, fece un gesto con la mano.
“Che Jacob è strano lo so da me, però mi da un bel pensare che anche lui come Evie si blocchi nel momento cruciale del rapporto fisico.” Disse pensieroso lui, quindi riportò lo sguardo su Amanda per anticipare la risposta alla domanda che lei stava per porgli: “Sì, hai capito bene. Te lo avevo accennato per lettera, se ricordi, e ora ti posso confermare che quei due hanno qualcosa che non va.”
Amanda invece sentenziò tristemente: “Nel mio caso, credo sia evidente che Jacob non abbia più interesse per me. Non so, forse sono stata troppo sfacciata o magari si aspettava una ragazza più mite. O forse ha solo visto nei miei occhi il mostro che sono.”
Henry le prese una mano e la strinse con affetto: “Amy tu non…” Lei lo interruppe, spalancando gli occhi sui suoi: “Io non cosa? Tu non sai che cosa ho fatto in questi due anni.”
“Stavi studiando a Parigi.”
Lei ridacchiò amaramente: “Sì. Studiando, certo!” Si alzò dal divano e andò di fronte al camino per darsi il tempo di elaborare il discorso: “Non mi conosci bene come credi, Jay. Tu conosci solo la ragazzina di tredici anni che aveva una cotta per te, quella che pendeva dalle tue labbra e che si divertiva a fare i tarocchi nel tuo negozio come se il futuro fosse davvero scritto su delle carte colorate! Ricordi l’ultima volta che ci siamo visti?”
Lui fece un cenno affermativo: “Sì. E’ stato dopo la morte di tua madre. Quel maledetto bastardo del tuo fratellastro Robert ha soggiogato vostro padre approfittando del dolore per la sua perdita e ha cacciato te e tuo fratello dalla tenuta. E voi siete venuti qui a Londra, in questa casa che ti era stata lasciata in eredità da una lontana parente.”
“Esatto.” Amanda si bagnò le labbra con la lingua, quindi riprese: “E’ stato due anni fa. Io e mio fratello ci siamo ritrovati soli e abbandonati. Lui, pur essendo il più piccolo, ha saputo reagire per primo. Ha trovato un lavoro, deciso a costruirsi un futuro. L’ho invidiato per questo.” Le ultime parole le uscirono roche, dovette schiarirsi la voce per proseguire: “Io non volevo essere da meno. Volevo anch’io una nuova vita. Ma non sapevo da dove cominciare. Mi sono svegliata un mattino con l’idea di andare a Parigi, di essere una piuma al vento nella città che più amo al mondo. Però sapevo che tu non me lo avresti permesso, così mi sono inventata la storia di voler partire per diventare studentessa d’arte. Ma non era vero.”
“Ovvio che non ti avrei lasciata partire! Non conoscevi nessuno in quella città, parlavi a stento la lingua! Ma come…?” Espirò spazientito: “Come hai fatto a vivere là per tutto questo tempo? Non avevi denaro.”
“Infatti. Avevo soldi solo per il viaggio e per pagarmi una stanza in una locanda per un paio di settimane. Un’altra cosa che tu non sai è che in quella locanda ho stretto amicizia con una prostituta.”
Henry si sentì raggelare. Non poteva essere vero. Non poteva credere che la sua amica fosse stata costretta ad arrivare a tanto pur di sopravvivere. Incapace di muoversi, come se qualcuno gli avesse messo dei pesi alle gambe, restò seduto sul divano a guardarla con occhi sbarrati.
“Ti prego, dimmi che tu non…”
Lei fece un segno netto col dito indice: “No. Non esattamente. Non sarei riuscita a fare quello che pensi. Però per vivere ho dovuto trovare un’alternativa. Immagino tu conosca il significato di ‘mantenuta’.” Lo conosceva, ovviamente, però non riuscì a rispondere. In ogni caso, lei proseguì nel racconto: “Mi sono trovata un amante, un uomo abbastanza ricco da potermi dare un appartamento tutto mio, vestiti, gioielli, il miglior cibo in tavola, oltre che portarmi con sé alle serate teatrali e ai concerti classici. Non dirò che per me è stato difficile, perché mentirei. Cercavo di adattarmi alla nuova vita, divertendomi il più possibile.” Lasciò una mezza risata: “Dio solo sa quanto! Mi trovavo nella città che amavo e potevo realizzare ogni mio desiderio. E’ stato come vivere un sogno ad occhi aperti.”
Henry ora cominciava a capire. Per quanto lei stesse cercando di rendere meravigliosa quella storia, sapeva che doveva esserci un finale tutt’altro che lieto. Deglutì e chiese: “Ma?”
Amanda sospirò: “Ma tutte le cose belle prima o poi finiscono. Un bel giorno il mio uomo si è trovato un’altra amante e mi ha buttato fuori di casa. Per lo meno si è degnato di lasciarmi gli abiti e alcuni dei gioielli di cui mi aveva fatto dono. Poi sono tornata alla locanda a farmi consolare dalla mia stravagante amica. E’ stato allora che ho capito cosa dovevo fare. Dovevo rimettermi in piedi e riacquistare la mia dignità prendendo marito. Ho venduto gli abiti e i gioielli ai migliori offerenti e sono tornata qui a Londra con l’idea di sposare un uomo giusto e rispettato. E di dare a mio fratello una nuova famiglia.” E di questo non si sarebbe mai vergognata.
Ora che aveva ascoltato tutta la storia, Henry si sentiva meglio. Almeno lui.
“E poi ho incontrato Jacob. Mi sono innamorata di lui nel momento in cui l’ho visto.” Un singhiozzo di pianto la interruppe, si scostò due lacrime dal viso: “Ho creduto nell’amore come una stupida! Sai, a conti fatti mi merito il suo disinteresse. Se sapesse la verità su di me, gli farei orrore.”
Finalmente Henry riuscì ad alzarsi da quel maledetto divano e raggiungere l’amica per confortarla: “Hai fatto delle scelte sbagliate, questo sì, ma sono certo che lui capirebbe come capisco io.”
“Non potremmo stare insieme comunque! Io non ho quasi niente e nemmeno lui dispone di capitali. Ci ritroveremmo a vivere nell’indigenza, o peggio, sulle spalle tue e di Evie. E questo non potrei accettarlo.” Stava dicendo la verità, eppure le sue parole risuonavano come un mucchio di sciocchezze. Ricercò l’abbraccio di Henry, affondò il viso sulla sua spalla per piangere a dirotto. Quella povera ragazza era disperata. Lui l’avvolse in un abbraccio, ai suoi occhi era ancora la ragazzina che aveva conosciuto tempo fa. La vita era stata dura con lei ma c’era ancora tempo per migliorare le cose. Le baciò i capelli con affetto e sussurrò: “Devi pensare solo al presente, Amy. Ho visto come vi guardavate tu e Jacob. Anche se lui ha la tendenza a comportarsi da idiota, sono certo che prova qualcosa di intenso per te. Devi solo avere pazienza.” Esattamente come faceva lui con Evie. Purtroppo, i due fratelli si somigliavano più di quanto loro stessi volessero ammettere.

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Capitolo 8
*** Il peggior tradimento ***


7
Il peggior tradimento
 
Il 9 novembre di quell’anno 1868, i gemelli Frye compirono ventuno anni. Per l’occasione, ma anche nella speranza di allentare un po’ la tensione tra lei e il suo fidanzato, Evie organizzò una festicciola nel tardo pomeriggio, dopo aver chiuso la bottega con un po’ di anticipo. Gli ospiti vennero accolti nella sala del primo piano, dove era stato preparato un tavolo ricolmo di stuzzichini, dolci e bevande. Quella sera Evie e Amanda avrebbero potuto contendersi il titolo della fanciulla più bella, per la raffinatezza del loro abbigliamento. L’una in un elaborato abito blu notte con ricami sul corpetto e sull’orlo della gonna e l’altra in un grazioso abito bianco che la faceva somigliare ad un delicato giglio. Nessuno si sorprese quando il bonaccione Alexander Graham Bell si prodigò in un corteggiamento, seppur vano, di entrambe le ragazze. Smaniava per Evie da quando l’aveva conosciuta e ora, a quanto sembrava, anche Amanda godeva delle sue attenzioni. In effetti quell’uomo si innamorava troppo facilmente e troppo spesso, a detta di Jacob. Invece, per quanto riguardava l’altro ospite, il loro amico poliziotto Frederick Abberline, l’unica cosa che si poteva dire era che i suoi modi buffi potevano ancora strappare un sorriso. Per intendere, modi che gli altri trovavano buffi quando lui invece credeva di essere serio! Entrambi gli uomini erano ottime persone e buoni alleati, sia i gemelli che Henry provavano gratitudine per averli avuti accanto durante la lotta contro il regno capitalista di Starrick.
Dopo la chiacchierata con Henry, Amanda sembrava più serena. Aveva deciso di seguire il suo consiglio di pazientare con Jacob, inoltre pensò bene di inoltrarsi un po’ di più nella vita, cominciando appunto dal conoscere alcuni dei suoi amici più cari. Questo però non significava necessariamente che non volesse trovare qualche minuto per parlargli in privato… Cosa che poté fare quando il resto della combriccola si riunì per un’amichevole partita a carte. Un’occasione perfetta.
Amanda gli si avvicinò, sorridente: “Jacob, verresti un momento di là con me?” Ad un suo cenno del capo, lo prese per mano e lo condusse fuori dalla sala. Il ballatoio era illuminato di una luce soffusa, il che contribuì a rendere più romantica l’atmosfera. Di fronte a lui, tenendogli la mano nella propria, Amanda gli disse dolcemente: “Jacob, volevo dirti che ti aspetterò. E’ giusto che tu voglia conoscermi prima di… Insomma… Forse dovremmo…” Dannazione. Era partita così bene! E invece doveva arrivare il nervosismo a farla balbettare come una bambina impacciata. E in aggiunta il calore che sentì alle guance non l’aiutò certo a calmarsi. “Non sto dicendo che tu e io dobbiamo essere una coppia. Non subito, cioè, sarai tu a  decidere se io e te… Non ti metto fretta. Hai tutto il tempo per decidere cos…” S’interruppe nel sentire la stretta della sua mano. Nei suoi occhi sembrava esservi una lotta tra la serietà e la dolcezza, come se volesse essere gentile ma qualcosa gli impedisse di esserlo fino in fondo. Amanda deglutì un nodo alla gola. Aveva peggiorato la situazione?
“Amanda, non è che io non voglia amarti. Tu mi piaci molto. E sì, voglio conoscerti e trascorrere del tempo con te.” Le accarezzò una guancia col dorso della mano, soffermandosi più  a lungo del necessario. La sua pelle sembrava seta, era un profondo dispiacere interrompere il contatto. Ma ugualmente lo fece. “La verità è che adesso non sono del tutto in me. Ci sono delle cose importanti che devo capire e sistemare, prima.” Ad esempio capire chi amava di più tra lei ed Arthur? Sarebbe stato un bell’inizio. Anche se la priorità ora era un’altra e decisamente più seria. War. A tal proposito, Jacob non era rimasto con le mani in mano. Dopo l’incontro con Arthur, aveva trascorso il resto della giornata a cercare informazioni, interrogando uno ad uno i suoi fedeli Rooks per avere un quadro più dettagliato della situazione. Non era stato un buco nell’acqua come temeva. Anche se, come ricordava, non c’era alcuna prova che War fosse un Templare e non c’era modo di accusarlo di alcun che, aveva tristemente scoperto che Arthur gli aveva mentito. Uno dei suoi uomini che si era occupato di entrare nelle grazie di una delle domestiche di War, aveva riferito che non era in programma nessuna cena e che il Lord avrebbe ricevuto una persona solamente in privato nelle sue stanze. Quella persona doveva essere per forza Arthur. Il fatto che gli avesse mentito lo aveva reso sospettoso. Qual era il vero motivo che lo portava nella dimora di quell’uomo? La parte più logica di lui gli suggeriva che si stava comportando come un amante geloso che fa i capricci solo perché il giocattolo gli è stato sottratto per una sera. Ma l’altra, quella che possedeva i sensi acuti dell’Assassino, gli diceva che dietro non c’era nulla di buono. Per questo era poi andato a casa di Freddy, per raccontargli tutto e mettere su un piano. Avevano deciso di non farne menzione con Evie e Henry, non essendo sicuri di cosa stavano cercando esattamente. E il divieto comprendeva anche Amanda. Jacob si accorse del suo sguardo ansioso, probabilmente si era perso in pensieri e lei era rimasta in attesa di ulteriori spiegazioni. O forse no.
“Quello che c’è stato tra noi l’altra sera, per me ha significato molto. Vorrei che lo sapessi.” Disse lei timidamente, tradendo l’incertezza di aver detto la cosa sbagliata. Cosa che portò Jacob ad odiarsi. Non era giusto che la facesse soffrire solo perché era un egocentrico irresponsabile. No, voleva essere migliore di questo. E voleva credere di poterlo diventare, un giorno. Spinto da una ritrovata energia, non esitò oltre. Le sollevò delicatamente il viso con la mano e posò le labbra sulle sue. Di questo ormai era certo, non era solo il desiderio ad attirarlo a lei, ma qualcosa di molto più forte. Prima però aveva delle cose da mettere in chiaro con Arthur.
Tornarono nella sala, dove all’apparenza nessuno si era accorto della loro momentanea assenza. All’apparenza, appunto, perché Evie li aveva visti uscire mano nella mano e non le era affatto sfuggito il dolce sorriso che dipingeva le labbra dell’amica al ritorno. In cuor suo sperava che di aver visto giusto, riguardo quei due. La partita a carte finì dopo una mezzora ed ebbero inizio i brindisi ai festeggiati. Tra le chiacchiere, nessuno fece caso all’occhiata significativa che Jacob rivolse a Freddy, il quale rispose con una lisciatina ai grossi baffi. Posò il calice di spumante sul tavolo e disse con tono divertito: “Mio caro Jacob, ora credo proprio che io e te dobbiamo andare!”
Gli sguardi di tutti si puntarono su di lui, ma fu solo Evie a dar voce all’interrogativo: “Andare? E dove?”
“Glielo dici tu o glielo dico io, eh volpone?” Recitò a regola d’arte, dando di gomito ad un Jacob imbarazzato.
“Di cosa parla, Jacob?” Incalzò Evie, sempre più contrariata.
Freddy riprese la parola: “Tuo fratello, qui, ha promesso di venire alla centrale per sistemare un problemuccio. Diciamo che ieri non ha preso bene la sconfitta ad una partita a carte e l’ha dimostrato con un certo…vigore, possiamo dire?”
Ad un’occhiataccia di Evie, Jacob ridacchiò e alzò le spalle: “Lo sai come sono fatto!”
“Però se ci date un paio di ore, prometto che la faccenda verrà risolta!” Aggiunse Freddy, scherzando, completando così la scenetta che avevano programmato.
Indispettita più che mai, Evie strinse le labbra in manifestazione di un profondo disprezzo. Suo fratello non cambiava proprio mai. Buttò fuori un sospiro e li liquidò entrambi con un: “Andate, allora. Anche se resto convinta che qualche notte in cella gli farebbe più che bene.”
Freddy diede una pacca sulla spalla a Jacob come invito ad andare, quindi, dopo aver salutato, lasciarono la sala ridacchiando neanche fossero stati ubriachi.
Una volta giù, bastò che si chiudessero la porta d’ingresso alle spalle perché le loro espressioni mutassero di colpo. L’aria era fredda e presto avrebbe portato nuvole di pioggia. I due, senza dire una parola, si avviarono in direzione di Westminster.
*
Lontani dai lampioni per non essere visti, Freddy e Jacob giunsero presto al palazzo di Lord War, una dimora all’esterno poco appariscente, ma dalle cui vetrate si poteva vedere la mobilia raffinata.
Jacob sussurrò: “Io vado. Tu rimani nei paraggi, nel caso avessi bisogno di te.”
Il poliziotto non fece in tempo a rispondere che lui corse via calandosi il cappuccio sul viso. Scavalcò la cancellata con agilità ed atterrò sul manto erboso senza alcun rumore, quindi sbirciò rapidamente attorno e si diede alla corsa verso il lato destro dell’abitazione. Ricordando le informazioni ricevute riguardo la planimetria del palazzo, sapeva che War aveva studio e camera da letto affiancate, e che entrambe, con sua gran fortuna, erano situate proprio sul lato destro al primo piano. Ancora un’occhiata e sollevò il braccio destro dal cui bracciale sparò il rampino. Tenendo stretta la corda in mano, puntò i piedi contro la parete e la scalò fino ad arrivare alla finestra da dove si intravedeva della luce. Al contrario delle altre, la tenda della camera da letto era stata chiusa, ma non abbastanza da non permettergli di sbirciare all’interno. La panoramica cominciò dal lato sinistro, dove era un letto a baldacchino alquanto sfarzoso dalle lenzuola rosso bordeaux abbinate alle cortine. Comunque, Jacob dovette trattenere l’impulso di fischiare nel notare che il pavimento era di marmo ben lucidato e le pareti erano affrescate con figure ritraenti vere e proprie orge di amanti nudi. Lord War aveva dei gusti singolari e costosi, dunque. Mentre Jacob seguiva con lo sguardo le pareti, quasi rischiò di confondere con le figure degli affreschi qualcuno che conosceva bene. Il suo sguardo tornò leggermente indietro e si fissò su…Arthur. Era in piedi di fronte ad un tavolo e, anche se da quell’angolazione non poteva vederlo per intero, gli sembrava che fosse nudo. Le pupille di Jacob si strinsero, il cuore gli mancò un battito. Che cosa significava tutto questo? Perché era nudo? Ma che…? Attraverso lo spessore del vetro, udì un rumore ovattato e in un attimo vide la porta in fondo alla stanza aprirsi. Comparve War, con addosso solo pantofole e una vestaglia anch’essa in tinta con le lenzuola. Aveva i capelli ben pettinati e un paio di baffi che si notavano appena rispetto alle folte e ampie basette.
“Spero che tu non ti sia raffreddato qui in piedi. Potevi aspettarmi di fronte al caminetto.” Poteva sembrare una premura, se non fosse stato per il tono derisorio. Arthur non rispose e non si voltò verso di lui. War gli si avvicinò, in mano aveva una boccetta con dentro un liquido giallino. Se ne versò un po’ in una mano e posò la boccetta sul bordo del tavolo. Pur avendo la visuale interrotta, Jacob seguì ugualmente il movimento di quella mano andare un po’ troppo in basso alla schiena di Arthur. La boccetta conteneva un olio da massaggio. Ottimo anche come lubrificante. Il respiro gli si spezzò. Rimase lì, immobile come una statua a fissare la scena fino a quando non vide War aprirsi la vestaglia per scoprire il proprio corpo. Gli bastò. Afferrò nuovamente la corda e si lasciò scivolare fino a terra, completamente privo di forze per lo shock. Nella mente solo una domanda che lo faceva impazzire. Perché? Perché?
Si obbligò a riacquistare il controllo, stare lì poteva essere pericoloso e in quel momento non era abbastanza presente a se stesso per pensare con lucidità in caso di una lotta. Non appena fu in grado, corse verso la cancellata e la saltò. Lì vicino Freddy lo stava aspettando. Lo chiamò senza alzare troppo la voce: “Jacob, hai scoperto qualcosa?” Non rispose. Semplicemente alzò lo sguardo su di lui -o almeno così gli parve anche se tra il buio e il cappuccio non poteva dirlo con certezza-, dopodiché fuggi via come il vento.
“Ja…” Inutile chiamarlo, sapeva che non sarebbe tornato indietro e di certo urlare a squarciagola col rischio di allertare i residenti lì attorno, di certo non era utile.
Jacob continuò la sua corsa frenetica guardando a malapena la strada e infischiandosene di eventuali passanti e carrozze. Ad ogni battito, gli sembrava che il cuore sarebbe esploso. Di tutti i segreti che il suo amico e innamorato poteva avere, quello era di certo il peggiore. Lo aveva tradito.
*
Arthur rientrò dopo un paio di ore. Anche se era stato accompagnato in carrozza, era tutto un brivido e sia il berretto che la giacca erano chiazzati di gocce di pioggia. Mettendo piede nella sua stanza, fu accolto dal piacevole calore della stufa accesa.
“John, sei un angelo.” Sussurrò tra sé.
“L’ho accesa io, in verità. So quanto temi il freddo.”
Quella voce lo fece sobbalzare. Vagò con lo sguardo per la stanza quasi buia ed ecco che dall’angolo oltre il letto si innalzò una figura.
“Chi siete?” Gridò, spaventato. La figura gli andò incontro, si fermò accanto all’unica fonte di luce della stanza, dove poi abbassò il cappuccio all’indietro.
“Jacob, sei tu. Accidenti, mi ha quasi fatto morire.” Scherzò Arthur, ora che lo spavento era passato. Posò il berretto sul mobile accanto alla porta: “Credevo fossi a festeggiare. Va tutto bene?”
Il suo tentativo di fare conversazione normalmente si frantumò quando Jacob gli chiese: “Che cosa hai fatto questa sera?”
Esitazione. “Lo sai, ho lavorato.” Voce leggermente incerta.
“Te lo chiedo di nuovo. Che cosa hai fatto questa sera?”
Ora le pulsazioni di Arthur aumentarono, sentendo il tono di Jacob particolarmente minaccioso. L’importante era non tradirsi, giusto? Abbozzò un sorriso: “Ero a lavoro! Ma che ti prende?”
“E se ti dicessi che io ero là?”
Ancora un momento di esitazione, seguito da una risatina nervosa: “No, non ci credo!”
Jacob fece un passo in avanti, il suo volto era una maschera di serietà in contrasto col tono sarcastico: “Lord War ha una stanza davvero interessante. Ho trovato le pareti alquanto pittoresche! Ma niente a confronto di quello che ho visto dietro al tavolo dove…”
Arthur chiuse gli occhi e gridò: “Va bene, smettila!”
“Come hai potuto farlo? Trovavi la tua vita così misera?” Attese che lui riaprisse gli occhi, quindi prese a gesticolare per dare più enfasi alle proprie parole: “Eppure Charlie ti ha dato un lavoro, una discreta paga, cibo a volontà.” Aprì le braccia: “L’uso di questa stanza.” Indicò la stufa: “Il carbone con cui ti scaldi.” Ed infine un catino: “L’acqua con cui ti lavi!” I suoi occhi tristi spiccavano nonostante la scarsa illuminazione del fuoco. La voce gli uscì incrinata: “Non credevo fossi così. Che cosa ti ha promesso quell’uomo? Una bella casa? Una posizione sociale? Che cos’è che ti spinge a venderti?”
“Lo sto facendo per il piccolo Jack.” Arthur rischiò quasi di strozzarsi nel dirlo.
Jacob ringhiò: “Non ti azzardare a usarlo come scudo per…” Ma lui lo interruppe con decisione: “E’ la verità, Jacob. Voglio adottarlo.” I pugni stretti e lo sguardo fisso su di lui: “Per farlo ho bisogno di denaro, di una casa mia e anche di qualcuno che garantisca per me.”
Jacob era incredulo. Non aveva senso ciò che stava dicendo. Adottare Jack? Lui? Un ragazzo così giovane e per di più interessato agli uomini? Fece per allungare una mano su Arthur e afferrarlo per il bavero della giacca, ma lui lo schivò e protese le braccia in avanti in segno di tregua: “Ti prego, permettimi di spiegare.” I suoi occhi erano supplichevoli. Nonostante tutto, Jacob gli concesse una possibilità.
“Volevi sapere di più su di me e il mio passato. Ebbene, ora ti accontenterò.” Arthur si schiarì la voce e cominciò: “Devo partire parlandoti di mia madre, per farti capire. Vedi, lei era nata e cresciuta qui a Londra, ma dovette lasciare la città quando si sposò, per andare a vivere nella tenuta di suo marito. Questo però non le impedì di tornare di tanto in tanto. Quando eravamo bambini, mia madre portava me e mia sorella a Babylon Alley per insegnarci l’amore per il prossimo. Noi avevamo una vita agiata e lei non voleva che perdessimo di vista certi valori a causa del denaro e della posizione sociale. Questi insegnamenti sono stati i miei pilastri, soprattutto due anni fa, quando mia madre morì e io e mia sorella ci ritrovammo soli a Londra, per una serie di motivi.” Scacciò quell’ultima parte della frase con un gesto della mano, poi riprese: “Io presi la decisione di cavarmela da solo e il cielo mi aiutò facendomi incontrare Charlie, che mi permise di mettermi alla prova e dimostrare il mio valore. E di questo sono e sarò sempre grato, Jacob.” Sottolineò.
Jacob cominciava a vacillare sulle proprie convinzioni, ora che sentiva dalle sue labbra quella storia. Ma questo non significava che poteva perdonarlo. Fece un cenno col capo: “Continua.”
“Cominciai a frequentare l’Orfanotrofio regolarmente, perché poter fare qualcosa di buono per quei poveri bambini mi faceva sentire bene. Poi un giorno arrivò Jack. Quando mi fu raccontata la sua tragica storia, rimasi impressionato. Quel bambino aveva vissuto un inferno, eppure fin dal primo giorno mostrò una voglia di vivere senza eguali, un enorme desiderio di stringere amicizia con gli altri bambini. E allora presi la mia decisione: promisi sull’anima di mia madre che un giorno lo avrei preso con me e gli avrei dato una vita colma di amore.” Lasciò una triste risatina, scuotendo il capo: “Solo che non avevo niente per realizzare questo progetto. O almeno così pensavo fino a quando non ho incontrato Lord War. E’ accaduto una sera qui al pub, lui mi ha visto, si è invaghito di me e… Be’, quando mi chiese di diventare il suo amante, sulle prime rifiutai. Ma poi lui mi disse che mi avrebbe dato tutto ciò che desideravo. Gli risi in faccia, facendogli notare che non sapeva nulla di me. Detto fatto, lui mi fece spiare e si presentò nuovamente.” Si morse le labbra, osservando lo sguardo contrariato di Jacob: “Non potevo rifiutare. Era l’unico modo per dare a Jack un futuro.”
Sì, lo capiva. Un gesto estremo, un enorme sacrifico per un bene più grande. Un po’ come facevano gli Assassini, quando eliminavano persone per... INVECE NO! Era una cosa disgustosa e immorale, sia da parte di War che teneva stretto a sé un ragazzo con soldi e promesse forse vane, sia da parte di Arthur che si era abbassato ad un simile squallore. Jacob si sentì ribollire di rabbia, non avrebbe mai accettato una cosa del genere.
“Nemmeno io sono entusiasta, credimi. A volte vorrei ribellarmi e dirgli in faccia quello che penso di lui. Ma poi penso a Jack…” Sospirò e aggiunse: “Ancora qualche anno e poi tutto finirà, te lo prometto.”
Qualche anno? Ma ti senti quando parli?” Gridò Jacob, sull’orlo di una crisi di nervi.
“In verità ci sarebbe un’altra soluzione, Jacob. Non sapevo se parlartene…” Arthur era nel dubbio, ma ormai la frittata era fatta, tanto valeva provare: “Potremmo fare questa cosa insieme, io e te. Se mettessimo insieme i nostri risparmi, di certo riusciremmo a comprare una piccola casa a Whitechapel e forse ottenere il permesso per l’adozione di Jack in tempi brevi.”
“Sì, certo! Per poi essere linciati dal popolo? Due uomini non possono adottare un bambino, Arthur. La morale è contro di noi, la legge stessa è contro di noi.”
Arthur gli prese entrambe le mani e lo guardò con occhi colmi di lacrime: “Io ti amo, Jacob. Desidero un futuro con te anche se a questo mondo non ci è concesso. Lo so come funziona, non sono uno stupido. Però insieme so che possiamo farcela. Sia per noi che per il piccolo Jack.”
Il cuore di Jacob sanguinava. Se solo avesse potuto creare un mondo per rendere felice Arthur, lo avrebbe fatto. Un mondo in cui due ragazzi potevano amarsi liberamente, e sì, anche adottare un bambino da crescere come se fosse il loro. Un desiderio impossibile che nemmeno un Frutto dell’Eden avrebbe potuto realizzare. Rispose alla stretta di Arthur, illudendolo. Infatti lui, credendo di averlo convinto, sorrise e gli rubò un bacio. Era sbagliato. Era tutto sbagliato. Al solo pensiero che le sue labbra probabilmente avevano baciato anche quelle di quel viscido di War…
“NO!” Jacob indietreggiò, la rabbia in lui esplose ancora una volta: “Avresti dovuto dirmelo, dannazione! Se lo avessi saputo avrei fatto di tutto per aiutarti. Di tutto! E invece hai preferito tenermi all’oscuro, fare le cose per conto tuo, mentirmi. E adesso avanzi delle pretese? Be’ sai cosa ti dico?” Si premette una mano sul petto: “Anch’io ti ho mentito. E lo sai perché? Perché mi sono innamorato di un’altra!” Alzare la voce lo faceva sentire potente e vedere il suo sguardo turbato ancora di più, perciò infierì: “E’ così. Ho conosciuto una ragazza meravigliosa e sensuale e ho perso la testa per lei. Per questo quella sera non sono venuto al nostro appuntamento. Ero a divertirmi con lei!” Scelse volutamente di usare quel termine. Voleva che Arthur s’interrogasse su cosa avevano fatto, fin dove si erano spinti. Aveva bisogno di restituirgli un po’ del dolore che lui gli aveva inferto. Anche se per questo provò disgusto per se stesso. Tagliò l’aria con la mano, concludendo: “Le nostre strade si dividono qui.” Quindi aprì la finestra con gesto sicuro, balzò sul davanzale e si gettò nella notte come un pipistrello in volo. Poteva definirlo un balzo della fede anche se in quel momento di fede non ne aveva più un briciolo? Ad ogni modo, atterrò senza incidenti e corse via dal vicolo, sotto la pioggia ormai scrosciante e gelida della notte.

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Capitolo 9
*** Casa ***


8
Casa
 
Non bastavano un buon libro e una vaporosa coperta di lana per sconfiggere i timori, soprattutto se questi erano causati da un vento ululante che penetrava nella canna fumaria arrivando perfino ad agitare le fiamme del fuoco e che, talvolta, deviava la pioggia scrosciante contro i vetri delle finestre. Certo, le tende riparavano alla vista e accanto al camino era stata preparata una scorta di legna per la notte, però lo stesso Amanda non faceva che sobbalzare ad ogni rumore e le mani le tremolavano impedendole di leggere bene. Alla fine rinunciò, sospirò spazientita e chiuse il libro facendo sbattere le due estremità. “Come se non avessi mai sentito un temporale in vita mia!” Tentò di convincersi, pur sapendo che non si trattava solo di quello. Jacob se n’era andato dalla sua stessa festa assieme ad Abberline e non era più tornato. Non che si fosse annoiata, in fondo per l’intera sera aveva avuto la simpatica compagnia di Alec, oltre che quella di Evie e Henry, però lo stesso aveva sentito la mancanza di Jacob. Sperò che fosse al riparo, ovunque si trovasse. Sobbalzò nel letto udendo un rumore provenire dal piano di sotto. Più forte della paura, fu la speranza che fosse… Strinse meglio lo scialle che aveva sulle spalle e scese dal letto. Ripose il libro sul comodino e si ‘armò’ di lampada per poter scendere senza rischiare di ruzzolare per le scale. La casa era buia e silenziosa, come era normale che fosse, quindi andò giù rapida fino all’ingresso.
“Jacob, sei tu?” Chiese al vuoto, un attimo prima di giungere alla porta. Non si azzardò ad aprirla, per timore che il vento gliela sbattesse dritta sulla faccia. Se sperava davvero che Jacob sarebbe andato da lei ad un’ora così tarda e con un tempo del genere, era una povera illusa! Con questo auto-rimprovero risalì per tornare al calduccio della sua stanza e…
“Jacob!”
Era lui. Jacob Frye era proprio lì nella sua stanza, di fronte al caminetto, il cappotto gocciolante e gli scarponi inzaccherati di fango. Non c’era tempo per essere sorpresi, doveva agire. Amanda abbandonò la lampada sulla cassettiera lì accanto e andò incontro a lui: “Togliti questa roba o ti prenderai una polmonite.” Era sia un rimprovero che una forma di premura, come anche togliergli il cappotto e buttarlo  a terra assieme al panciotto e alla camicia. Ai vestiti ci avrebbe pensato l’indomani, ora era più importante la salute di Jacob. Si fermò solo per lasciare a lui il compito di sfilare gli scarponi, i calzini, i pantaloni e…insomma, tutto ciò che gli era rimasto addosso. Cosa che non lasciò Amanda indifferente, comunque. Per la prima volta lo vedeva completamente nudo, sia nel corpo che nell’anima. Non si trattava solo di un corpo scolpito da anni di allenamenti, su cui in quel momento danzavano le luci delle fiamme rendendolo particolarmente seducente, né di un viso dai tratti decisi con una cicatrice che tagliava in verticale la guancia sinistra e un’altra che spezzava in diagonale il sopracciglio destro, né di capelli castano chiaro dalle punte bagnate che sembravano gli aculei di un porcospino. In quel momento, attraverso gli occhi di un castano sfumato di verde, lei poté vedere una profonda tristezza. Eppure, quando dischiuse le labbra per porgli la fatidica domanda, le uscì un banale: “Ma da dove sei entrato?” Avrebbe voluto sotterrarsi da sola per una simile figuraccia. Era un Assassino, per lui non esistevano porte o finestre chiuse! Anche se ancora doveva capire come fosse possibile. Scosse il capo contro quei pensieri superficiali e cercò di rimediare con qualcosa di più serio: “Ti prendo una coperta.”
“Aspetta.” La voce di Jacob la fermò, sentì la sua mano tiepida sfiorarla e avvolgerle il girovita. Il tempo di voltarsi verso di lui e si ritrovò nel suo abbraccio, le labbra unite alle sue. Avrebbe dovuto essere un cubetto di ghiaccio, bagnato fradicio com’era, invece il suo corpo era quasi caldo. Merito del fuoco nel camino o di qualcos’altro? Le loro labbra si separarono con un piccolo rumore di risucchio, Amanda aprì gli occhi per incontrare il suo sguardo. Un breve istante prima che le mani di Jacob cominciassero a spogliarla dello scialle e della camicia da notte. Ora erano alla pari, entrambi a nudo. Amanda gli portò le braccia al collo e si impossessò della sue labbra, mentre lui la strinse a sé con gesto possessivo. Qualunque cosa stesse succedendo, non c’era niente che potesse fermarli ormai. Jacob la sollevò tra le braccia, senza interrompere il bacio si sdraiarono sul verso orizzontale del letto, dove lui trovò subito il proprio posto fra le tanto desiderate e adorate cosce di Amanda. In un certo senso, era la prima volta che poteva vedere e toccare il corpo nudo di una donna. Non che fosse un totale sprovveduto, dato che nelle taverne di Crawley aveva già avuto modo di baciare e toccare delle belle ragazze disponibili, e poi per tutta l’infanzia aveva visto il corpo di Evie quando facevano il bagno assieme -e solo di rado era capitato che per errore sorprendesse la sorella senza vestiti durante l’adolescenza- ma adesso era tutto diverso, Amanda si stava unendo a lui permettendogli così di vivere nuove emozioni. Spostò l’attenzione sui suoi seni, così caldi a contatto con la pelle, così morbidi da sembrare batuffoli di lana e della grandezza giusta per riempirgli le mani. Ricercò una mammella e l’afferrò tra le labbra, in un gesto naturale come il neonato che ricerca nutrimento, solo che nel suo caso si trattava di desiderio di dare piacere. Lo stesso piacere che poi assorbiva da lei fino a sentirlo al basso ventre sotto forma di concentrazione sanguigna. Più i minuti passavano, più i loro corpi bramavano di unirsi in un’unica forma. Jacob sollevò leggermente i fianchi e con molta lentezza seguì la strada che lo condusse dentro di lei, prima scivolando fra le morbide pieghe e poi inoltrandosi nel suo rifugio, accolto da un calore umido particolarmente piacevole. E lì si lasciò guidare dall’istinto. I suoi gemiti di unirono a quelli di Amanda mentre i loro corpi si muovevano come in una danza, prima armoniosamente e poi con un pizzico di isteria, i movimenti sempre più decisi man mano che il piacere aumentava. Di che cosa avesse avuto paura, non lo sapeva nemmeno lui. Come si poteva essere intimoriti da una cosa così bella e così naturale? Forse la risposta più ovvia era che una parte di lui era in attesa di incontrare Amanda per lasciarsi andare. E a tal proposito, aveva davvero necessità di… Il grido estasiato di Amanda lo coinvolse completamente. I muscoli in tensione, sentì i testicoli contrarsi e in un attimo riversò in lei tutto ciò che aveva di prezioso e che non avrebbe mai concesso a nessun’altra. Si rilassò su di lei, invaso da una sensazione di pace che gli scorreva dalla testa ai piedi. Ancora perso dentro di lei, cullato dalle sue carezze e con il capo appoggiato ai suoi morbidi seni, per la prima volta in vita sua Jacob sentì di aver trovato un luogo sicuro al di fuori del mondo che lo circondava. Di aver trovato la propria casa.
*
Il suo primo pensiero quando si risvegliò al mattino fu interamente per Amanda. La notte trascorsa era stata bellissima e lui poteva ancora sentire scorrergli dentro quella sensazione di pace donatagli dal piacere del rapporto. Si sentiva incredibilmente bene. Gli giunse la dolcezza del suo profumo di rose, sotto le dita di una mano percepì il calore della sua pelle. Aprì gli occhi ed incontrò i suoi, di un verde brillante, che lo fissavano con un pizzico di curiosità. Chissà da quanto lo stava guardando dormire…
“Buongiorno.” La sua voce gli giunse all’orecchio come il fruscio del vento.
Rispose al saluto, ma la voce gli uscì un po’ roca. Non aveva importanza. Si sporse leggermente verso di lei e le sfiorò le labbra con un bacio, quindi l’attirò a sé per stringerla in un abbraccio, in un immediato bisogno di sentirla parte di sé. Fosse stato per lui l’avrebbe posseduta ancora, ancora e ancora fino al tramonto e poi di nuovo dal tramonto all’alba. Ora che sapeva quanto fosse appagante l’amore fisico, non voleva più fermarsi.
“Che cos’è accaduto ieri sera? Sembravi…disperato.”
Ecco, una domanda che lei avrebbe potuto evitare, una domanda che gi fece ricordare il litigio con Arthur, una domanda che spense il suo desiderio sessuale sul nascere. Va bene, allora niente sesso, per il momento. Jacob si schiarì la voce, giusto per temporeggiare: “Ho avuto un brutto litigio con un caro amico. Non credo che riuscirò a perdonarlo.”
“Per quale motivo?”
Niente, non c’era modo di evitare quella conversazione. Sarebbe bastato dire che non aveva voglia di parlarne, ma in questo modo avrebbe innalzato un muro con lei e il pensiero non gli piacque affatto. “Mi ha mentito. E mi ha tenuto nascosto un fatto molto grave. Non mi fido più di lui.”
Amanda sentì un brivido dentro. Si bagnò le labbra con la punta della lingua: “Forse temeva di ferirti. A volte le persone sbagliano credendo di agire per il meglio.”
Jacob scosse il capo: “No. Io credevo fosse una persona diversa. Anzi, lui me lo ha fatto credere. Come può esserci fiducia in un rapporto nel quale uno dei due vuole a tutti i costi tenere nascosto il proprio passato e le conseguenze che questo ha riportato sul presente?” Si rese conto di aver alzato il tono di voce, cercò di calmarsi. E poi…che razza di ipocrita era? Proprio lui parlava di fiducia, quando era il primo colpevole di non aver raccontato ad Arthur della sua natura di Assassino.
“Allora…credo sia meglio che io ti racconti tutto di me. Non voglio perderti.”  La voce di Amanda s’incrinò in quell’ultima frase, i battiti del suo cuore accelerarono. Era intimorita. Jacob la guardò dritto negli occhi e sollevò una mano per accarezzarle il viso. Dio, sembrava così indifesa…
“Io e te ci conosciamo da pochi giorni, è normale che ci siano ancora molte cose non dette tra noi. Abbiamo tutto il tempo per riempire le lacune.” La baciò, questa volta più intensamente, fino a quando si accertò di averla tranquillizzata. Qualunque cosa dovesse confessargli Amanda, non poteva metterla sullo stesso livello di Arthur che invece aveva volutamente tenuto i propri segreti per sé, estraniandolo dalla sua vita. Ebbene, d’ora in poi sarebbero stati davvero estranei.
“Non so tu, ma io credo di aver proprio bisogno di fare un bagno.” Esordì all’improvviso, per poi scostare le coperte e mettersi seduto sul materasso. Rimase sorpreso da ciò che vide. Non solo il fuoco era stato ravvivato di recente, ma addirittura vide i suoi vestiti stesi ad asciugare di fronte al camino, sostenuti da delle stampelle.
“Sei stata tu a…?”
Amanda si alzò a sua volta e rispose: “Sì. Tu stavi dormendo e ho pensato di fare qualcosa di utile. Tutto qui. Ah e ho anche detto alla mia cameriera di andare da tua sorella a chiederle dei vestiti puliti per te e di preparare la vasca per quando ti saresti svegliato.”
Jacob si voltò a guardarla, le sopracciglia sollevate in un enorme interrogativo: “Hai fatto tutto questo mentre dormivo?”
Lei strinse le labbra con fare buffo e mugolò in segno positivo. Era così carina quando assumeva quell’atteggiamento infantile, che chiunque l’avrebbe mangiata di baci. Anche se, coi seni scoperti e a portata della sua mano, Jacob fu quasi tentato di mangiarla anche in senso più letterale. A dir la verità, in teoria avrebbe dovuto preoccuparsi. Insomma, Amanda aveva lasciato il letto, aveva armeggiato coi ciocchi di legno e coi vestiti bagnati ammucchiati a terra e poi era perfino uscita dalla stanza per diversi minuti. E lui non aveva sentito nulla? Dormire gli faceva male. Nel sonno i suoi sensi da Assassino andavano in vacanza! Un po’ imbarazzato, le diede di spalle per scendere dal letto dalla propria parte. Il suo sguardo passò ancora sui vestiti stesi in perfetto ordine. Un momento…
“Dove sono i miei calzini?”
Amanda si immobilizzò all’istante, lasciando così una mano sospesa a mezz’aria prima di riuscire ad infilarsi la vestaglia. Un comportamento alquanto sospetto.
“Amanda?”
Finalmente lei si mosse, infilò le braccia nell’indumento e se lo strinse al corpo neanche fosse stata un’armatura con cui difendersi. Camminò attorno al letto fino ad essere di fronte a lui, lì in piedi e nudo come una statua antica. Non che la vista le dispiacesse, ovviamente. Jacob era un bel pezzo di ragazzo.
“E’…è stato un incidente.”
Lui la soppesò con lo sguardo: “Cioè?”
Amanda si stropicciò le mani, a disagio: “Diciamo che mi sono caduti nel fuoco, ecco.”
“Oppure diciamo che ce li hai buttati di proposito.” Suggerì lui, sperando di non tradire un certo divertimento.
“Oh come sei malfidente.”
Jacob a quel punto scoppiò a ridere, inevitabilmente. L’afferrò tra le braccia per farle il solletico: “Dillo! Avanti!”
Lei tentò di ribellarsi all’aguzzino, ma tra le risate e la sua forza, come poteva riuscirci? Resistette alcuni minuti prima di cedere: “Va bene, lo dico! Li ho bruciati di proposito! Oddio Jacob, puzzavano da morire! Evie aveva ragione!” Al contrario di quanto si aspettava, la tortura continuò anche dopo la confessione. Certo, era il momento del castigo! Quando lui si decise a lasciarla andare, Amanda era quasi senza fiato dal ridere e le sue guance di un bel rosso acceso la facevano somigliare ad una cassetta di pomodori…però almeno era viva!
“Senza offesa per l’anima di tua madre, ma sai essere davvero un gran bastardo, Jacob Frye!” Lo rimbeccò, dandogli una pacca sul petto.
“Lo so!” Si vantò lui, prendendolo come un complimento.
“E se ti dicessi che stamattina il tuo odore non è molto diverso da quello dei tuoi calzini?”
Provocazione assolutamente voluta. Prima ferma a fissare Jacob in attesa di una sua reazione, non appena lui fece il minimo movimento con la mano, Amanda emise un gridolino divertito e scappò via di corsa ridendo di gusto, seguita da lui. La corsa finì con un non voluto tuffo dentro la vasca da bagno colma di acqua calda e profumata di sali. E addio vestaglia.
*
Col passare delle settimane, Arthur aveva ormai ripreso la vita di sempre. Lavorava sodo, era cordiale con tutti e trascorreva il tempo libero dividendosi tra gli orfanelli e le biblioteche. Peccato che sotto l’apparente tranquillità si nascondesse una forte inquietudine e che i maledetti ricordi di quella sera di novembre continuassero a tormentarlo. La sua anima era come divisa in tre parti: la prima era disperata e rimpiangeva l’amore perduto; la seconda invece era nervosa, se non addirittura arrabbiata con Jacob che alla fine si era rivelato il classico uomo dalla mentalità ristretta ed un codardo incapace di affrontare una nuova realtà; poi c’era la terza parte, quella determinata a voler riconquistare la sua fiducia e il suo amore e, magari, a convincerlo ad aiutarlo con l’adozione.  Il problema era che ancora non se la sentiva di andare a cercarlo. Certo aveva sperato di incontrarlo per caso camminando per strada oppure all’Orfanotrofio, ma ciò non era avvenuto e lui sapeva che se Jacob avesse voluto vederlo lo avrebbe già fatto. Chissà, magari un giorno o l’altro l’avrebbe comunque rivisto lì al Crooked Picture nel caso Jacob fosse passato a salutare Charlie o a bersi un cicchetto.  E così avrebbe avuto la grande occasione di farsi avanti. Quello che non aveva preso in considerazione, però, era di ricevere sue notizie in modo indiretto attraverso le chiacchiere dei clienti. Spesso, quando era di turno al servizio ai tavoli, gli capitava di sentire frasi del tipo “Avete visto l’amichetta di Jacob? Quel bastardo fortunato!” o “Parola mia, presto Jacob si troverà con il guinzaglio al collo! Quei due sembrano fare sul serio, vedrete che convoleranno a nozze quanto prima!” o ancora “Ieri sera ho incontrato Jacob e la sua pollastrella nel pub vicino casa di mio cugino. Non ci credete mai! La signorina beve birra come fosse acqua! Una qualità interessante in una femmina!”, oltre ad altri commenti particolarmente volgari riguardo le attraenti curve della ragazza.  Più il tempo passava, più le speranze di Arthur si sgonfiavano come supplì mal riusciti. Eppure, una sera dopo la chiusura del pub, mentre tutti erano indaffarati con le pulizie generali e Charlie stava contando gli incassi della giornata…
“Se mi permettete l’osservazione, signore, è un peccato che il signor Frye non sia ancora venuto con la sua nuova amica.”
Charlie rispose distrattamente, continuando a contare: “Anche tu sei curioso divederla, eh? Ho sentito che è di una rara bellezza.” Parve inseguire un pensiero, forse riguardo i conti, ma poi si voltò verso di lui e ammiccò divertito: “Tu e Jacob avevate stretto una bella amicizia prima che lui perdesse la testa per quella ragazza. Sarai geloso marcio!”
Arthur sentì il sangue ritirarsi dal viso nell’udire quell’ultima frase. Il che era molto sciocco, dato che Charlie non era a conoscenza del suo orientamento sessuale. Scosse il capo e cercò di abbozzare un sorriso: “E’ normale che io sia un po’ dispiaciuto, suppongo. Però gli auguro ogni bene. A tal proposito, stavo accarezzando l’idea di fargli visita per congratularmi personalmente.” Deglutì e arrivò al punto, sperando di non suscitare sospetti: “Il problema è che non ricordo più il suo indirizzo, anche se sono sicuro che una volta me lo aveva confidato. Sarei indiscreto a chiederlo a voi?” In realtà era più che certo che Jacob non glielo avesse mai detto, ma questo non poteva certo dirlo.
Charlie chiuse la cassa, il suo umore era dei migliori quella sera, perciò non si fermò a riflettere sulla richiesta e rispose semplicemente: “Sì, così puoi dirgli da parte mia che sono ancora vivo, nel caso lo avesse dimenticato! L’indirizzo non lo conosco, ma so che vive a Whitechapel sopra la bottega di curiosità di un Indiano di nome…com’era?”
“Henry Green?”
“Esatto! Pare che sia il fidanzato della sua gemella e vivono tutti e tre assieme.” Fece una pausa e poi se ne uscì con uno scherzo: “Be’, ancora per poco a quanto si dice in giro!” Rise da sé alla propria battuta, mentre si avviava alle cucine per vedere a che punto fossero gli altri dipendenti con le faccende, lasciando Arthur da solo di fronte ad un vassoio ricolmo di boccali da mettere a posto.
Henry Green… Era passato del tempo dall’ultima volta che si erano visti. Di lui aveva solo bei ricordi, fin da quando lo aveva conosciuto da bambino. Poi fu lui a comportarsi male con Henry, a rifiutare il suo aiuto quando credeva di avere tutto il mondo contro. L’ultima volta in cui era stato nel suo negozio era per dirgli che stava bene, che il lavoro e la nuova sistemazione gli piacevano. Erano passati più di due anni e in tutto quel tempo non aveva nemmeno pensato di tornare a trovarlo. Prese un boccale e lo sollevò verso la luce per controllare che fosse stato lucidato a dovere. Sapeva che Henry era un brav’uomo dal carattere mite e benevolo, forse sarebbe stato lieto di rivederlo. E anche in caso contrario, doveva assolutamente farlo per Jacob. 

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Capitolo 10
*** Il sole prima della tempesta ***


9
Il sole prima della tempesta
 
Che il tempo guarisce tutte le ferite può essere vero, ma se oltre al tempo si può contare anche su una buona medicina, è meglio. Nel caso di Jacob, la medicina portava il nome di Amanda e non aveva limite di uso. Altrimenti detto, più tempo trascorreva con lei e più si sentiva risanato, se non addirittura più forte nello spirito. Non era solo la passione a legarli, anche se di fatto ogni angolo della casa di lei era stato ‘battezzato’, come anche ogni mobile della stanza di Jacob e il caro rifugio Bertha. Ciò che li legava era principalmente una forte fiducia reciproca e un bisogno di stare insieme all’interno dello stesso spazio per sentirsi completi. Col passare delle settimane si erano raccontati pressoché tutto delle loro vite, Amanda gli aveva confidato la sua esperienza immorale, come la definiva lei, a Parigi e anche qualcosa riguardo la sua famiglia, ma senza scendere troppo nei dettagli su quest’ultima poiché i ricordi le causavano gran sofferenza. Jacob poteva capire, non doveva essere facile avere un padre e un fratellastro che se ne infischiavano di lei. Invece era un po’ più perplesso riguardo al suo temporeggiamento di rivedere il fratello minore che viveva in città. Se sapeva dove abitava e che lavoro faceva, perché non fargli sapere che era tornata dalla Francia? Un punto abbastanza oscuro su cui lei preferiva non sbottonarsi, per il momento.  Ad ogni modo, Jacob sapeva di lei quanto bastava per poter dire di conoscerla davvero. Aveva anche avuto modo di ammirare un centinaio dei suoi disegni e apprezzare il suo talento, perfino facendogli da modello. Era stato piacevole posare per lei, aiutarla ad incorniciare i lavori più belli e appenderli alle pareti della casa per rendere quel luogo più intimo e personale. E poi aveva scoperto per puro caso che lei sapeva anche suonare il violino! Scorto all’interno di un mobile, lo aveva preso per giocare come un cretino, per poi vederselo togliere dalle mani con un certo sgarbo e ricevere una bella sgridata per aver quasi spezzato la corda del La. Da lì era stato facile farle confessare la sua passione per la musica e, dopo averla convinta a suonare per lui, aveva anche cercato di spingerla a riprendere le lezioni. Già immaginava di vederla esibirsi al Covent Garden, seduto in prima fila con tanto di posto d’onore, a spalleggiare i vicini di posto gongolando con frasi del tipo ‘quella è la mia ragazza’. Peccato che l’immagine non era piaciuta ad Amanda -chissà perché- e aveva affermato di voler suonare solo per diletto e per pochi intimi.  Pazienza.
Oltre ad una calda amante, un’eccellente artista e un’ottima amica, Jacob trovò in lei una vera e propria compagna di bevute! Forse non era una qualità da manuale della perfetta signorina, però accidenti se sapeva come divertirsi nei pub della città! Ovunque andassero era facile finire per unirsi a qualche gruppetto di Rooks e darsi alla pazza gioia fino a notte fonda. Ovviamente non mancavano anche i pranzi e le passeggiate con Evie e Henry e alcuni pomeriggi dedicati interamente agli orfani. Con gradita sorpresa, Jacob apprese che i bambini la conoscevano -eccetto gli arrivati degli ultimi due anni-, la chiamavano per nome e le volevano un gran bene. Viste le premesse, era stato quasi naturale che anche il piccolo Jack si affezionasse a lei. In poche parole, Amanda si era inserita perfettamente nella sua vita sotto ogni aspetto, come la tessera di un mosaico. L’unica cosa che era rimasta da fare era presentarla a lady Disraeli e l’occasione giunse in un’assolata giornata di metà dicembre, dopo aver passeggiato e pranzato sui prati di Saint James Park. La dimora dei Disraeli era praticamente di strada per fare ritorno, quindi… Jacob incrociò le dita, ripensando al fatto che la signora avrebbe potuto non gradire troppo una sua visita, dopo che lui aveva letteralmente disertato gli impegni presi con lei per oltre un mese. Ed infatti, ricevette una buona dose di freddezza dalla donna, però in compenso fu lieto della gentilezza e della simpatia con cui accolse Amanda. Perfino il cagnolino Desmond s’innamorò di lei e trascorse il pomeriggio sulle sue ginocchia per farsi accarezzare dietro le orecchie -il piccolo bastardo!-, mentre a lui concesse solo ringhiate intimidatorie ogni qualvolta tentava di avvicinare una mano a quella di lei. Poi ci fu un invito a cena e a tarda serata furono accompagnati a casa in carrozza per gentile offerta dei coniugi, con la promessa di tornare presto in visita, più un implicito ordine della signora a Jacob di accompagnare lei e Amanda all’Orfanotrofio regolarmente una volta alla settimana. Be’, almeno con la presenza di Amanda il compito sarebbe stato più piacevole! Qualche giorno dopo, durante una breve passeggiata con destinazione la cattedrale di Saint Paul nonostante il cielo coperto di nuvole ed il freddo pungente, i due piccioncini stavano appunto parlando della signora con una certa leggerezza.
“Suvvia, lady Disraeli non è una cattiva persona! E se ti ha tenuto il broncio per quasi tutto il tempo è stato solo per colpa tua!” Lo rimproverò divertita Amanda, aggrappata al suo braccio come sempre. Quel giorno era particolarmente bella con i capelli lavorati a boccoli, che scendevano come una cascata da sotto il cappellino da giorno, e il cappotto color crema coi bordi di pelliccia in tinta le donava incredibilmente. Anche Jacob quel giorno si era vestito a puntino, però. Aveva un cappotto nuovo molto elegante, un cilindro anch’esso nuovo ma uguale in tutto per tutto a quello che aveva prima, pantaloni dalle cuciture perfette, scarpe lucidate e il bastone da passeggio che non usava da un po’ di tempo. A guardarli apparivano come una felice coppia appartenente all’alta società.
“Ti dirò che non mi dispiace molto aver perso la sua stima. Così non mi farà più quelle imbarazzanti avances!” Ricevette una meritata pacca sulla spalla, seguita poi da una risata. Non si trattava di uno scherzo, ma era meglio che Amanda lo credesse.
“Io trovo che sia una donna di grande gentilezza  e umanità. Non solo per come mi ha accolta, mi riferisco a tutto ciò che fa per l’Orfanotrofio. Le numerose donazioni, i controlli sanitari frequenti per accertarsi che i bambini siano sani e vivano in un luogo sano, e poi sono così felice di sapere che grazie a lei molti bambini sono stati adottati da famiglie che possono dar loro un futuro. E amarli, ovviamente.” Volse lo sguardo a Jacob e sorrise dolcemente: “Una buona posizione sociale non è tutto. Ci sono coppie di umili lavoratori che desiderano un figlio con tutto il cuore e che grazie all’adozione hanno la possibilità di riempire quel vuoto e donarsi completamente ad un nuovo motivo per vivere. Perché un figlio è questo, una ragione di vita.”
Jacob ricambiò il sorriso e disse sinceramente: “Sarai una madre esemplare, un giorno.”
“Sono certa che saremo entrambi genitori esemplari per i nostri figli.” Nei suoi occhi brillava una luce che lui avrebbe definito ‘nuova’, una cosa che aveva notato negli ultimi giorni. Non sapeva cosa fosse, però era come se Amanda risplendesse, come se fosse diventata ancora più bella di quando l’aveva incontrata la prima volta. Era possibile? Si accorse di un leggero rossore sulle sue guance, che non era causato dal freddo. Un istante ancora e Amanda distolse lo sguardo. Un’altra cosa nuova, considerando che non era mai stata timida, tantomeno con lui. Jacob si deliziò nel pensare alla sua reazione non appena le avrebbe rivelato il vero motivo per cui si stavano recando a Saint Paul. Percorsero in silenzio l’ultimo tratto ed entrarono nei giardini che attorniavano la cattedrale passando dall’ingresso sul retro. Un posticino abbastanza riservato dove di tanto in tanto avevano il piacere si sostare, facendo uso di una delle poche panchine sparse qua e là tra gli alberi sempreverdi. Solo che quel giorno, nessuno dei due si sedette!
Amanda abbozzò uno scherzo: “Non più di cinque minuti o rischierò di congelarmi!” Si aspettava che lui rispondesse allo scherzo o almeno che ridesse, invece il viso di Jacob rimase serio. Be’, non troppo, ma comunque il suo atteggiamento era alquanto strano. Stava per porgli una domanda quando lui l’avvolse in un abbraccio caldo e confortevole. Che l’avesse presa sul serio riguardo il congelamento? No, non era questo. Jacob posò la fronte contro la sua tempia, il respiro caldo contro il suo viso, il tocco delle labbra sulla sua pelle.
“Ti amo, Amy.” Le sussurrò, prima di stamparle un altro tenero bacio sulla guancia. Era tutto così romantico che se il tempo si fosse fermato in quel preciso istante lei ne sarebbe stata felice. Che fosse il momento giusto per dirgli che…? “Anch’io ti amo, Jacob. E devo confessarti…” Un dito posato sulle labbra le impedì di continuare. Jacob spostò leggermente il capo per guardarla negli occhi, quindi fece scivolare il dito dalle sue labbra. Si abbassò fino a posare un ginocchio a terra -una posizione curiosa, senza dubbio-, poi le prese la mano ed ecco che Amanda capì. Si portò la mano libera alle labbra in segno di sorpresa, gli occhi le si riempirono di lacrime di gioia. Era chiaro cosa stava per accadere. Jacob infilò una mano nella giacca del cappotto e ne estrasse un piccolo contenitore di latta di forma quadrata, di cui aprì il coperchio facendolo scattare con la pressione del pollice. All’interno, vi era un anello di fidanzamento composto da un diamante incastrato su montatura d’argento. Non aveva l’aria di essere costoso, ma anche fosse stato di cartapesta non avrebbe fatto differenza.
“Amanda Singer, tutto questo potrebbe sembrare folle sapendo che ci conosciamo da così poco tempo, ma puoi credermi se ti dico che, dal momento in cui sei entrata a far parte della mia vita, me l’hai letteralmente incasinata!”
Una risatina da parte di Amanda fu d’obbligo, poi Jacob riprese il discorso: “Eppure, hai saputo tirare fuori il meglio di me e farmi capire che, nonostante tutti i miei difetti, c’è qualcuno in grado di amarmi. Tu, amore mio. Per questo oggi, in questo giardino che è stato testimone della nostra prima dichiarazione d’amore, vorrei chiederti: vuoi concedermi l’onore di diventare mia moglie?”
Amanda aveva praticamente smesso di respirare. Ecco perché si era messo in ghingheri! Ed ecco perché aveva insistito ad andare, proprio quel mattino nuvoloso e freddo, nel loro posto romantico dove appena due settimane fa si erano detti il primo ‘ti amo’. Era così felice, emozionata, incantata dal momento e dallo sguardo di Jacob nel quale avrebbe voluto morire e rinascere. Si scostò una lacrima che era sfuggita alle ciglia, la voce le uscì spezzata nel dire: “Sì, amore mio. Lo voglio.” Il sorriso di Jacob disse più di mille parole. Le infilò l’anello al dito, per poi rialzarsi velocemente, prenderla tra le braccia e baciarla con trasporto. Ricevettero qualche applauso dai passanti che avevano visto la scena, ma questo non bastò certo ad interrompere le loro effusioni. Non subito, almeno. Quando riuscirono a separarsi per riprendere fiato, i loro sguardi luccicanti di gioia s’incontrarono. Amanda aveva ancora sulle labbra la notizia che avrebbe dovuto dargli e che, a quanto pare, doveva rimandare ad un’altra occasione. Per quel giorno di felicità ne avevano gustata abbastanza, non era il caso di aggiungere altro zucchero e rischiare di rovinarne il sapore. C’era tempo per dirglielo, in fondo era troppo presto perché se ne accorgesse da solo.
*
Dopo giorni e notti a pensare a cosa avrebbe detto, alla fine Arthur si decise a portare a termine la propria missione. Come avrebbe reagito Henry ad una visita così improvvisa? E soprattutto, Jacob lo avrebbe ascoltato o cacciato? In nome dell’amore, doveva fare un tentativo. Ed ora si trovava lì, di fronte al negozio di curiosità ad osservare la vetrina. C’erano cose ancora più curiose dell’ultima volta in cui l’aveva vista. A quanto sembrava la presenza della fidanzata aveva giovato al negozio! All’esterno la vetrina era decorata da una ghirlanda natalizia, mentre all’interno erano stati aggiunti dei rametti di pungitopo che facevano capolino fra la merce esposta. Davvero grazioso. Comunque, timore o no, la giornata era talmente fredda che il cappotto, la sciarpa, i guanti e il berretto di lana non erano sufficienti a scaldarlo, perciò prese un bel respiro e afferrò la maniglia della porta. Fu accolto dalla campanella, un suono simpatico che gli era piaciuto fin da bambino. Arthur allungò lo sguardo verso il banco e vide Henry. Pur sapendo di essere già stato riconosciuto, abbassò la sciarpa dal viso e si tolse il berretto, liberando così i bei capelli biondi. Sorrise: “Buon Natale, Henry!”
“Non posso credere ai miei occhi…” Henry li strabuzzò come se temesse di avere le allucinazioni, ma poi parve convincersi della realtà e ricambiò il sorriso del vecchio amico. Gli andò incontro per abbracciarlo: “Arthur, quanto tempo! Non avrei mai immaginato di rivederti qui!”
Lui ricambiò l’abbraccio e, non appena si sciolsero, ne approfittò per togliersi i guanti e riporli in una tasca, dopo aver messo il berretto nell’altra. Era così piacevole il tepore di quel luogo che dimenticò immediatamente il freddo che c’era fuori.
Henry riprese la parola: “Ti chiedo perdono per non essere venuto a farti visita. Non sapevo se avresti gradito la mia presenza dopo…” Sollevò una mano e la lasciò ricadere: “Hai capito.”
Arthur abbozzò un mezzo sorriso, sapendo di essere colpevole: “Non scusarti. Sono stato io a chiederti di non cercarmi. Mi sono comportato da stupido e mi dispiace.”
“Non importa, davvero! Ora sei qui!” Con una mano indicò la tenda che dava sul retro e lo invitò: “Vorrei presentarti la mia fidanzata. Dovrebbe essere in cucina con Margie. Ti ricordi di Margie?”
Arthur ridacchiò: “Come dimenticarla! Era così carina con me! Anche troppo se ripenso a quando mi ha tolto la panna dalla faccia al mio quindicesimo compleanno!” Entrambi risero. Quel luogo era uno scrigno di tanti bei ricordi, però adesso c’era una cosa più importante da fare. Arthur si schiarì la voce e si fece più serio: “Ascolta, Henry, prima di qualunque cosa vorrei vedere Jacob Frye. Abita qui, giusto?”
Henry spalancò gli occhi: “Conosci Jacob?”
“Sì, be’… E’ una lunga storia. Il fatto è che ho combinato un guaio e vorrei riappacificarmi con lui. Per me è molto importante.” Gesticolò tradendo una certa agitazione.
“Capisco. Dovrebbe tornare a momenti, se hai tempo di aspettarlo. E’ uscito a passeggiare con…” Si bloccò, il suo sguardo si fece indagatore: “Hai più avuto notizie di tua sorella?”
“Mmh sì, qualche mese fa. Mi ha scritto per il mio compleanno e mi ha mandato dei libri. Perché?”
Henry si morse le labbra, era una questione delicata. Se lei non gli aveva detto niente doveva esserci un motivo. Oppure non era ancora pronta per affrontarlo o temeva, come lui, che Arthur non volesse rivederla. Quindi che fare? Glielo doveva dire o no? Il suono della campanella interruppe i suoi pensieri. Nel vedere chi era arrivato, capì che il destino gli aveva fatto il favore di liberarlo dalla responsabilità di prendere una decisione. Jacob sembrava il ritratto della felicità, il sorriso di Amanda era raggiante, aveva le guance arrossate e…continuava ad agitare in aria la mano su cui spiccava un diamante. Fece per salutarli ma si fermò nel vedere le loro espressioni mutare improvvisamente. Era una sua impressione o Jacob era impallidito?
Superato il primo momento di immobilità, Amanda si riprese e corse incontro al ragazzo per abbracciarlo: “Arthur! Sono così felice di rivederti! Mi sei mancato tanto!”
La mente di Jacob fu invasa da un vortice di interrogativi. Cosa stava succedendo? Perché Arthur era lì? E Perché Amanda lo abbracciava? E Perché Henry li guardava sorridendo? E…? Magari era il caso di far uscire una domanda dalle labbra e attendere una risposta. Sì, se solo la voce non avesse deciso di morirgli in gola proprio in quel momento. “Amanda, ma cos…?”
Per fortuna bastò ad attirare la sua attenzione, infatti si sciolse dall’abbraccio e si voltò per rispondergli: “Jacob, questo è mio fratello minore! Ti ho parlato di lui, ricordi?”
Jacob divenne di pietra. Ora che li vedeva vicini, in effetti i due si assomigliavano. Stesso colore di capelli e di pelle, stesso fisico sottile. Solo che Arthur era mezza spanna più alto e aveva gli occhi azzurri, mentre lei li aveva verdi. Oddio.
La voce di Amanda arrivò come uno scoppio improvviso: “Sono una gran maleducata! Non vi ho presentati! Arthur, ti presento il mio fidanzato Jacob.”
Il ragazzo sobbalzò come se gli avessero sparato e puntò lo sguardo sull’anello di fidanzamento, che lei gli sventolò davanti al naso, con orrore.
Henry non si perse nulla, anche se non capiva ancora cosa stava accadendo era certo che quell’incontro stesse prendendo una brutta piega. Una prima conferma l’ebbe nel sentire Arthur rivolgersi a Jacob: “Ma allora la ragazza di cui ti sei innamorato è lei.”
Udendo la familiarità con cui aveva parlato, Amanda squadrò prima il fratello e poi il fidanzato: “Vi conoscete già?”
Come se non avesse udito, Jacob saltò fuori con un: “Ma se Arthur è tuo fratello e conosce Henry, significa che anche lui è a conoscenza dell’Ordine degli Assassini.”
“Ordine di che???” L’acuto di Arthur bastò a fargli capire di essersi sbagliato, in ogni caso Amanda glielo confermò: “No, lui non sa nulla. Jay si è confidato solo con me.”
“E adesso chi è questo Jay?” Chiese esasperato Arthur. Sua sorella minimizzò: “Niente. Non importa.” Risposta che lo infastidì alquanto e che parve rammentargli che stavano uscendo dal discorso principale. Puntò lo sguardo su Jacob e disse con tono di rimprovero: “Non posso credere che tu mi abbia lasciato per mia sorella.”
“Che cosa???” Starnazzò lei, ma non ottenendo risposta tentò un approccio con Jacob: “Ma di cosa sta parlando? Jacob?”
Una domanda che lo lasciò paralizzato. Già rivedere Arthur dopo tutto quello che era accaduto non era facile, ma scoprire che il suo ex innamorato era il fratello della sua attuale fidanzata era anche peggio.
“Io e Jacob avevamo una relazione, fino a quando non sei arrivata tu.” Il tono accusatore di Arthur non piacque affatto ad Amanda, tanto quanto l’apprendere quella notizia scandalosa. “Relazione? Stai scherzando, vero? Jacob non è un…un… Non è come te!”
“A quanto pare no.” Rispose lui amaramente, fulminando con lo sguardo il diretto interessato.
Fu il momento di Henry di entrare in scena: “Aspettate un momento, ma che cosa sta succedendo?”
Fu Arthur a rispondere con convinzione: “Succede che sia io che mia sorella siamo stati traditi dall’uomo che amiamo.”
“Questo non è vero.” Jacob si spaventò da solo nel sentire il suono della propria voce. Ma almeno finalmente stava reagendo. Puntò il dito verso Arthur: “Tu mi hai tradito con quell’uomo.”
“Per tua stessa ammissione, sei stato tu il primo a tradire me. Con mia sorella per giunta! Aspetta, com’era? Ah sì, che non eri venuto al nostro appuntamento perché eri a divertirti con lei.”
“Jacob!” Amanda era indignata e a nulla servì il tentativo di Jacob di rimediare: “E’ vero che l’ho detto, ma non intendevo offenderti.”
Lei agitò i pugni: “Quindi con me ti stai solo divertendo? E allora perché mi hai chiesto di sposarti? Che cosa volevi dimostrare?”
“No no no. Non è come credi. Io…” Continuò a scuotere il capo, non sapeva più dove sbattere la testa. Era davvero nei guai.
Evie arrivò in quel momento, la sua figura comparve dalla tenda. La sua espressione grave non lasciò spazio a dubbi su quanto aveva sentito. Lanciò uno sguardo addolorato al fratello: “Jacob, ma che cosa hai combinato?”
Lui trasalì, era praticamente nel panico: “Evie ti giuro che non sapevo nulla della loro parentela.” Sapeva che non era solo quello il problema, in verità. Purtroppo le parole di Arthur erano vere. Aveva commesso degli errori e adesso, per uno strano scherzo del destino, si ritrovava ad affrontarli tutti insieme. Guardò Amanda, il suo sguardo ferito gli trapassò il cuore. Sospirò rassegnato: “Io non so cosa dire. Ho sbagliato con entrambi e mi dispiace. Però Amy, io ti amo davvero. Perdonami.” E detto questo se ne andò, volò fuori dal negozio come portato dal vento. Il silenzio calò fra i presenti.
Evie si avvicinò a Henry, ricercò il tocco della sua mano. Quella situazione era incredibile. Per Amanda l’anello di fidanzamento diventò improvvisamente pesante come un macigno. Che Jacob avesse avuto una relazione omosessuale non la turbava più di tanto, ciò che le faceva male era sapere che si era preso gioco di lei. E di suo fratello. Chi era veramente l’uomo del quale si era innamorata?
“Amanda.” La voce di Arthur la richiamò. “Sei mia sorella e io ti voglio bene. E credimi, sono felice di rivederti. Ma a quanto pare sei anche la mia rivale in amore e questo non posso ignorarlo. Io amo Jacob con tutto me stesso, se sarà necessario lotterò per riaverlo.” Era assolutamente serio. Peggio, sembrava convinto di riuscire nel suo intento. Possibile che Jacob lo avesse illuso fino a quel punto? Oppure il loro amore era stato davvero così forte? E in tal caso, lei che ruolo aveva in tutto questo? Non capiva più niente.
Arthur si rivolse gentilmente ad Evie: “Miss Frye -siete voi, giusto?-, mi dispiace avervi incontrato in tali circostanze. Spero che al nostro prossimo incontro avrò modo di fare meglio la vostra conoscenza.” Quindi chinò il capo e salutò: “Buona giornata a tutti.” Lanciò uno sguardo di scuse a Henry e poi inforcò il berretto di lana per prepararsi ad affrontare il freddo esterno. Il suono della campanella accompagnò la sua uscita, dopo di che rimase il silenzio.
Svuotata e senza più certezze, Amanda si aggrappò all’unica cosa che le restava. In un gesto di protezione e tenerezza, appoggiò una mano al ventre. Evie notò il gesto.

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Capitolo 11
*** Le due metà di una mela ***


10
Le due metà di una mela
 
Earl Grey era sempre stato il miglior rimedio per lei, meglio di un amico quand’era bambina e meglio di un amante in età più adulta. E allora perché adesso non le faceva più alcun effetto? Di fronte alla tazza di tè profumato e fumante, si sentiva ancora giù di morale. Dopo la tempesta portata da Arthur, Amanda era rimasta sotto invito di Henry ed Evie, il che le fece piacere dato che non sarebbe stata in grado di rimanere da sola in quello stato d’animo, anche se poi aveva di fatto ricercato l’isolamento. A pranzo non aveva toccato cibo, al pomeriggio era rimasta in cucina con l’unica compagnia delle voci e dei rumori provenienti dal negozio, la cena è come se non fosse esistita e poi finalmente era giunta la notte. Dormendo nel letto di Jacob, abbracciata al suo cuscino e cullata dal suo odore, si era rasserenata e aveva aspettato il suo ritorno nella speranza di chiarire subito i malintesi. Ma di lui non vide neanche l’ombra. E ora si trovava ancora lì in cucina, da sola con una tazza di tè, a chiedersi che cosa avrebbe portato il futuro.
La trovò così Evie, quel mattino, quando scese per preparare la colazione. Una mano sullo stipite della porta, la osservò per leggere le sue emozioni attraverso lo sguardo assente e il colorito spento della sua pelle. Con la mente lanciò un’imprecazione contro Jacob.
“Non è tornato, allora.” Disse, accompagnando la frase con un sospiro, mentre entrava in cucina. Prese posto accanto a lei e abbozzò un sorriso di conforto, quindi parlò con tono gentile: “Vedrai che si sistemerà tutto, Amy.” Lei la guardò di sfuggita, come se si fosse accorta a malapena della sua presenza. Evie notò che aveva una mano posata sul ventre, di nuovo. Le venne spontanea la domanda: “Jacob lo sa?”
Questa volta Amanda le prestò attenzione, seguì la traiettoria del suo sguardo e un accenno di rossore le colorò le guance. Scosse il capo: “No.”
“Dovresti dirglielo.” Incalzò Evie.
Gli occhi di lei tremarono, come anche la voce: “Non voglio che scelga me solo per il senso di responsabilità.”
Evie non riuscì a trattenere una risata, che però cercò di strozzare per non essere irrispettosa. Si schiarì la voce e disse: “Responsabilità non è un termine che si possa abbinare  a mio fratello! Lo sai anche tu che è un idiota impulsivo ed egoista!” Prese la mano che Amanda aveva abbandonato sopra il tavolo e gliela strinse affettuosamente: “Credevo che nessuno potesse cambiarlo, prima che arrivassi tu. Credimi, stavi per compiere il miracolo. E avrai modo di completare l’opera.”
“E se lui mi lasciasse per Arthur? Conosco mio fratello e so quanto è caparbio. Se ha detto che lotterà per Jacob significa che sa di poter vincere.”
“Innanzi tutto ti prego di non parlare di mio fratello come se fosse un premio, perché ti assicuro che non lo è! E poi…” Con un dito sfiorò l’anello che lei portava all’anulare da appena un giorno: “Questo significa molto. Jacob non ti avrebbe fatto la proposta se non fosse sicuro di voler passare la vita con te. A mio parere non hai nulla da temere. Non per mancare di rispetto a tuo fratello, ma non riuscirà a mettersi tra voi.”
“Lo ha già fatto, Evie.” Ora lo sguardo di Amanda era fermo e anche la sua voce. Che cosa poteva fare per farla stare meglio? Se quell’imbecille di Jacob fosse tornato la cosa si sarebbe già risolta. Evie fece per dire qualcosa ma si fermò. Inarcò leggermente le sopracciglia: “Credo che ci sia qualcuno all’ingresso del negozio. Strano, non è ora di apertura.” Lasciò la mano di Amanda: “Vado a vedere. Torno subito.” E uscì dalla cucina.
Amanda rimase nuovamente sola. No, non era vero. Era già da due settimane che sapeva di non esserlo e, stando a quanto aveva detto il Dottore, non lo era da un mese intero o forse addirittura da cinque settimane. Con la mano fece una leggera pressione sul ventre. Forse, durante la loro prima notte d’amore, avevano creato una vita e lei ancora non lo glielo aveva fatto sapere. Evie era nel giusto, doveva farlo al più presto e pensare solo al futuro roseo che l’aspettava. Era innamorata, fidanzata e presto sarebbe diventata madre. Jacob faceva parte di tutto questo, come innamorato, fidanzato e futuro padre. A conti fatti non aveva motivo di stare male, no? Ma ugualmente si dava il tormento e aveva una gran voglia di piangere. Sollevò il capo udendo dei passi avvicinarsi, ebbe un momento di immobilità nel vedere che si trattava di lady Disraeli. Fece per alzarsi dalla sedia per fare una riverenza, ma la signora la fermò con un gesto della mano.
“Ero passata per invitarti a presenziare con me ad un evento di beneficenza che si terrà domani sera, ma non trovandoti in casa ho pensato che fossi qui. E avevo ben ragione.” Il tono era stranamente severo, per questo Amanda rispose intimidita: “My lady, dovete perdonarmi ma temo di non poter accettare l’invito. Io…”
“Lo so. Miss Frye mi ha appena accennato che cosa ha fatto quel disgraziato Dongiovanni. Lo sapevo che presto o tardi avrebbe portato guai. Confesso che mi piaceva all’inizio, ma ora capisco perché il mio piccolo Desmond non poteva sopportarlo.”
Amanda lanciò un’occhiata accusatoria ad Evie. Perché accidenti le aveva raccontato dell’accaduto? Avrebbe preferito che quella storia restasse ‘in famiglia’. La irritò anche vedere il suo sguardo entusiasta, come se la presenza della signora fosse una cosa positiva.
Lady Disraeli la distolse dai suoi pensieri con un altro invito: “Sarai mia ospite fino a quando non ti sarai ripresa. Miss Frye e il signor Green saranno occupati con la gestione della bottega e io non ho alcun desiderio di lasciarti sola. Perciò, mia cara, ora tu vieni con me in carrozza e più tardi manderò qualcuno a prendere i tuoi abiti e il tuo violino. Sono certa che la musica sarà d’aiuto per il tuo stato d’animo.”
Ora Amanda capì il perché dell’espressione di Evie. Sapeva che lady Disraeli avrebbe fatto qualcosa per aiutarla e, in effetti, cambiare ambiente poteva giovarle invece di restare lì ad autocommiserarsi. Un dispetto poteva concederselo, dopo tutto quello zuccone di Jacob se lo meritava! Se lo meritava davvero! Una volta che si fosse degnato di rincasare non l’avrebbe trovata, ben gli stava! Fece dei cenni affermativi col capo per accettare la proposta, ma ecco che gli occhi le si riempirono di lacrime e si ritrovò a singhiozzare senza poterlo impedire. Lady Disraeli le si avvicinò, in un gesto materno l’attirò a sé e cominciò ad accarezzarle i capelli: “Va bene così, mia cara. Un bel pianto liberatorio è un ottimo inizio.” Volse il capo e scambiò uno sguardo d’intesa con Evie che le rispose con un cenno.
Bene, ora che Amanda era sistemata, non le restava che prepararsi per il secondo round. Ovvero, avrebbe approfittato della chiusura all’ora di pranzo per andare da Jacob.
*
Se Jacob non aveva fatto ritorno, c’era solo un posto dove poteva essere, ed è esattamente dove Evie si recò portando con sé un cesto con delle vivande. Bertha non era solo un treno a cui era stato dato un nome di donna, ma anche l’unico luogo di Londra in cui Jacob si potesse nascondere dalla vita, perciò non si sorprese affatto di trovarlo lì. Come non si sorprese di trovarlo stravaccato sul sedile prediletto, in uno stato pietoso e con cappotto e cappello buttati alla mala peggio sopra il tavolo. Lei era da bel po’ che non tornava su Bertha. Già alla prima occhiata stabilì che quel vagone aveva bisogno di una ripulita dalla sporcizia e di aria fresca per mandare via l’odore di calzini sporchi. Chiuse lo sportello -a malincuore!- con un gesto energico, il cui rumore destò Jacob facendolo sobbalzare. Aveva gli occhi rossi per la nottataccia trascorsa. Sollevò il capo e cercò di mettere a fuoco: “Ah sei tu.” E si lasciò ricadere sull’imbottitura. Era ridotto proprio uno straccio.
Evie posò il cestino sul tavolo e ne estrasse due panini, per poi porgerne uno a lui: “Tieni.”
Lui si agitò, lamentandosi: “E dai, Evie. Non lo vedi che sto uno schifo?”
“Hai già dato di stomaco o la birra ci sta ancora navigando?”
“Ho vomitato anche l’anima, se vuoi saperlo. E adesso ho la testa che scoppia.” E a riprova di quanto detto, si portò le mani alle tempie.
Evie lasciò un lungo sospiro, dopo di che andò a prendere posto sul sedile e aiutò il fratello a mettersi in posizione seduta. Puzzava di sudore e fumo e il suo alito era alcol puro.  Lo costrinse ad afferrare un panino e, se necessario, era anche pronta a farglielo mangiare con la forza. Per fortuna non servì, Jacob, seppur controvoglia, ne sbocconcellò un pezzo e prese a masticarlo con impegno.
“Era proprio necessario ridursi così?”
Lui ingoiò il boccone: “Non mi va di sentire la predica.” E addentò il panino con più convinzione. Questa volta ingoiò il pezzo velocemente, il suo sguardo parve accendersi all’improvviso.
“Amanda?”
Evie lo lasciò sulle spine alcuni secondi prima di rispondere: “E’ da lady Disraeli. Una fortuna che la signora l’abbia invitata, almeno così si distrarrà un po’.”
Jacob lasciò un sospiro scuotendo il capo: “Non volevo ferirla. Dio quanto sono idiota…”
“E’ quello che ho detto anch’io!” Rispose Evie con tono divertito, ma vedendo che lui non era davvero in vena di scherzare, tornò subito seria. Mangiò un pezzo del proprio panino e poi chiese: “Ciò che ha detto quel ragazzo…Arthur, è la verità? Avevate una relazione?”
“Sì. Non abbiamo fatto l’amore, anche se ci siamo andati molto vicino, però sì, eravamo una coppia nel vero senso del termine.”
Lei fece un cenno col capo: “Capisco. Quindi lo amavi?”
Jacob si stava portando il panino alla bocca, ma interruppe il gesto nel sentire quella domanda. Riabbassò le mani e guardò la sorella negli occhi: “Credo di amarlo ancora. Ma amo di più Amanda e voglio un futuro con lei.” Quest’ultima frase la disse con convinzione, il che era positivo.
Rimasero in silenzio mentre finivano di pasteggiare, poi Evie si premurò di prendere il contenitore con dentro il tè ancora caldo e di riempire due bicchieri che aveva portato da casa. Per quanto lui amasse la birra, sapeva che la sua bevanda preferita era il tè Earl Grey. Proprio come Amanda.
Ora che si era rifocillato e lo stomaco sembrava essersi stabilizzato, non restava che il mal di testa pungente. Ma per quello non c’era altro rimedio che il riposo, per questo Evie, una volta seduta sul sedile, invitò il fratello a sdraiarsi e a poggiare la testa sulle sue ginocchia. Già al primo tocco delle mani sulle sue tempie, lo fece gemere di sollievo. Come sempre. Le mani di Evie erano un toccasana, per lui. Be’ in verità era una cosa che aveva imparato anni fa dalla loro balia. Jacob soffriva di emicranie fin da bambino e solo con quel sistema gli passavano. Certo negli ultimi quattro anni erano causate principalmente dalle bronze, però prima la causa scatenante era la preoccupazione. Durante l’infanzia gli succedeva quando si colpevolizzava per la morte della loro madre, Cecily, che si era spenta dandoli alla luce. E al fatto che il loro padre, Ethan, per anni si era rifiutato di conoscerli proprio perché li riteneva responsabili della morte della sua amata. Erano cresciuti orfani, anche se il caro e vecchio George si era preso cura di loro. E poi, all’affacciarsi della loro adolescenza, ecco che Ethan aveva fatto ritorno per rimediare ai propri errori e finalmente loro avevano ricevuto l’amore caldo e incondizionato di un padre fino ad un anno prima, quando lui era morto di malattia. Anche in quell’occasione Jacob era stato torturato dalle emicranie e lei se n’era occupata amorevolmente. Ora, birra a parte, era certa che il malessere fosse da attribuirsi al senso di colpa per aver ferito Amanda. L’idea iniziale di Evie era quella di concedergli ancora un giorno per rimettere in ordine i pensieri, ma poi in mattinata, quando Amanda e lady Disraeli erano già andate via,  le era stato affidato un compito e aveva promesso di portarlo a termine. Come poteva mancare alla parola data? Prese respiro e, continuando il massaggio, vuotò il sacco: “Jacob, non voglio darti altri pensieri, ma c’è una cosa che devo dirti. Vedi, prima è venuto Arthur alla bottega. Voleva parlarti.”
Sentì il respiro di Jacob interrompersi per alcuni istanti, poi lo buttò fuori tutto assieme e rispose con voce stanca: “Vai avanti.”
“Io gli ho detto che non c’eri e allora mi ha pregato di riferirti un messaggio. Questa sera dirà personalmente a Lord War di andare al diavolo. Ti prega di incontrarlo alle sei e trenta al Westminster Bridge, alla vostra passeggiata, come ha sottolineato lui.” Si schiarì la voce e chiese: “Jacob, ma si tratta di quel Lord War che penso io? Quello su cui i tuoi Rooks hanno fatto ricerche infruttuose?”
Lui emise un mugolio affermativo.
“Ma cosa ha a che fare Arthur con lui? E cosa intende con ‘mandarlo al diavolo’?”
“E’ una lunga storia, ti prego di non farmela raccontare adesso.” Parlava a fatica e non aveva neanche la forza di aprire gli occhi, non era proprio il momento. Evie gli porse un’ultima domanda: “Cosa farai?”
La risposta arrivò dopo una decina di secondi: “Andrò. Voglio scusarmi con lui per il modo in cui l’ho trattato invece di aiutarlo ad uscire dai guai. E poi gli dirò che amo profondamente sua sorella e che la sposerò. E che lui, se lo vorrà, potrà essere parte della nostra famiglia.”
Sì, aveva decisamente le idee chiare. Evie moriva dalla voglia di dirgli del bambino, ma se lo avesse fatto sarebbe stato un torto enorme nei confronti di Amanda. Spettava solo a lei dargli la lieta notizia. Per ora, dunque, si sarebbe limitata a gioire silenziosamente del proprio ruolo di futura zia. Procedendo con il massaggio, si rilassò contro lo schienale ben imbottito del sedile. Henry poteva cavarsela da solo, un leggero ritardo non avrebbe causato danni.
“Sai, Evie…” La voce di Jacob si levò all’improvviso, ora sembrava più serena: “Era tutto più facile quando eravamo solo io e te. Anche prima di papà.”
Evie sorrise, anche se lui aveva ancora gli occhi chiusi: “Capisco cosa vuoi dire. Quando eravamo soli e il mondo sembrava esserci contro, la nostra forza era nell’unione. Due cuori che però battevano all’unisono come fossero un unico muscolo. Siamo sempre stati uniti, nel grembo di nostra madre e poi ogni giorno nella nostra vita. L’unica volta in cui ho creduto che il nostro legame si fosse spezzato è stato quando ho conosciuto Henry, ma poi ho capito che non c’è niente in grado di separarci. Anche quando lo saremo fisicamente, cuore e anima rimarranno uniti. Siamo come due metà di una mela, possiamo abbinarci ad altre metà, ma nessuna combinazione sarà perfetta come la nostra.” Non era un discorso contro Henry ed Amanda, anzi sapeva che non avrebbero potuto trovare due persone più meravigliose di loro come compagni di vita, ma questo non aveva a che vedere con il legame indissolubile che c’era tra lei e Jacob. Si rese conto che suo fratello si era addormentato. Finalmente era riuscito a rilassarsi e a spegnere la mente. Un bella dormita era tutto ciò che gli serviva.
*
Arthur si guardò allo specchio che era all’interno dell’anta dell’armadio. Quante volte aveva indossato quella giacca bianca dalle cuciture e i bottoni dorati, quante volte si era impomatato i capelli e aveva indossato i guanti per salvare le apparenze, per far credere a tutti che stesse andando a lavorare, quando invece era richiesto da Lord War solo per incontri a scopo sessuale. Anche quella sera sarebbe uscito dal pub con la stessa bugia, sarebbe salito sulla carrozza del lord e, una volta varcata la soglia del suo palazzo, sarebbe andato dritto in camera  da letto. La differenza era che in questo caso non si sarebbe spogliato, ma l’avrebbe atteso con tutti i vestiti addosso per farla finita. Ciò che aveva fatto in quei mesi era stato solo per il compenso, forte del suo progetto futuro. Ogni soldo veniva messo da parte per Jack e nient’altro. Era stata una sua scelta quella di fare...come dire? Il prostituto? L’amante a pagamento? Le prime volte si era impegnato in ciò che faceva e aveva cercato di trarne piacere anche per se stesso, però quell’uomo era avido e mai una volta si era occupato del piacere altrui. Il corpo di Arthur reagiva, certo, in fondo si trattava pur sempre di un rapporto sessuale completo, ma al termine l’unica sensazione che provava era quella di disgusto e non di appagamento. Niente amore e niente piacere. Era come un fantoccio con cui War giocava, dove s’infilava e dove liberava la bestia che era in lui. Fine. Niente a che vedere con il suo primo innamorato, un aiuto stalliere della tenuta di campagna di suo padre. Un tipetto simpatico, affettuoso e premuroso, con due grandi occhi neri nel quale lui amava perdersi. Mark era stato il suo primo amore e il suo primo amante, quando avevano entrambi solo quindici anni. Inevitabilmente, la loro storia era finita quando venne cacciato dalla proprietà assieme ad Amanda. Aveva sofferto incredibilmente, forse anche per questo i suoi sogni d’amore erano svaniti, fino a quando non aveva conosciuto Jacob e il fuoco in lui si era riacceso. Jacob… Riflesso allo specchio, vide il proprio sguardo tremare. Non voleva credere di averlo perso per sempre. Aveva una speranza di riconquistarlo e doveva usarla bene. Rompere i rapporti con War era il primo passo, poi in qualche modo avrebbe convinto Jacob che per loro poteva esserci un futuro. Gli dispiaceva per Amanda, però non poteva rinunciare all’amore senza aver tentato il tutto per tutto. Si voltò e allungò lo sguardo verso la sveglia di ottone. Le lancette segnavano le sei. Era ora. Doveva mettersi le scarpe e scendere, probabilmente la carrozza era già all’ingresso.
“Coraggio, Arthur. Gli dici senza mezzi termini che è un porco e te ne vai.” Si disse, cercando di usare un tono fermo per convincere se stesso di non avere paura. Sperò che bastasse.

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Capitolo 12
*** Nessuna pietà ***


11
Nessuna pietà
 
Libero. Finalmente era libero! E la sensazione di leggerezza che sentiva dopo tanto tempo gli sembrava quasi incredibile. Non credeva che sarebbe stato così facile, in effetti. Non c’era stato bisogno di usare parole pesanti, semplicemente gli aveva detto che era finita e che non aveva bisogno dei suoi soldi per realizzare i propri sogni, e Lord War aveva capito. Non ne era stato contento, però aveva rispettato la sua decisione senza tentare di forzarlo a cambiare idea. Forse Arthur lo aveva giudicato male, in fondo, anche se nell’intimità era un uomo spregevole, la sua personalità era migliore di quanto si sarebbe aspettato. Bene, d’ora in poi le cose sarebbero andate per il meglio. Si sentiva un ragazzo nuovo, pieno di speranze per il futuro, soprattutto speranze che riguardavano Jacob. Ecco, pensare a lui gli era d’aiuto anche contro il gelo, dato che, nella fretta di andare a risolvere la questione con War, aveva dimenticato sia sciarpa che berretto nella propria stanza al pub. Per fortuna nelle tasche del cappotto aveva i guanti! Sollevò lo guardo sul Big Ben, alto da dare le vertigini e bellissimo anche alla modesta luce dei lampioni. In quel momento le lancette segnavano le sei e venticinque, il che significava che aveva giusto il tempo di percorrere il ponte e poi avrebbe incontrato Jacob. Pregò di non doverlo attendere, in ogni caso gli avrebbe proposto immediatamente di andare a parlare da qualche parte, in qualsiasi posto che fosse al chiuso e ben riscaldato. Era così emozionato che per tutto il tempo allungò il collo per vedere se Jacob era già arrivato, cosa che l’assenza di nebbia gli consentì di fare. Quella sera c’era davvero poca gente per strada, notò. Quando infine giunse al luogo dell’appuntamento, e di Jacob non vi era nessuna traccia, si rassegnò ad attenderlo pazientemente. O almeno così credette. Fece appena in tempo a pensarlo che due uomini gli arrivarono alle spalle e lo afferrarono per le braccia con presa ferrea.
“Non un fiato o sei morto.” Disse uno dei due, chinando il capo per parlargli all’orecchio, mentre lo portavano via. E Arthur capì che la comprensione mostrata da War altro non era se non una menzogna. Aveva bisogno di Jacob. L’istinto gli suggerì di far cadere un guanto senza farsi notare, giusto un indizio per quando lui sarebbe arrivato. E lo stesso fece con il secondo guanto un attimo prima che i due uomini lo portassero all’interno di un vicolo.
*
Jacob si svegliò all’improvviso da un incubo. Non ricordava i dettagli, però gli erano rimaste dentro sensazioni negative quali angoscia, paura e dolore. Si stropicciò gli occhi, mentre si metteva seduto sul sedile. Lui ed Evie avevano dormito tutto il pomeriggio, poi lei si era svegliata, aveva trafficato per cercare una lampada ad olio ed accenderla e se n’era andata di fretta dicendo che erano le cinque passate e doveva tornare a casa da Henry. Lui aveva risposto con un mugolio, ancora mezzo addormentato, e dopo evidentemente aveva ripreso sonno. Gli ci vollero alcuni secondi per mettere a fuoco ciò che aveva attorno. La lampada era ancora accesa e dal ripiano del tavolo illuminava discretamente tutto il vagone. Puntò lo sguardo verso l’orologio a pendolo appeso alla parete e…
“Diamine, è tardi!”
Le lancette segnavano infatti le sei e trenta, l’orario in cui doveva incontrare Arthur. Si alzò di scatto dal sedile e si gettò verso il tavolo dove giacevano ancora il cappotto ed il cilindro, ma prima di afferrarli si fermò. Una strana sensazione gli diceva di non partire disarmato. Non sapeva spiegarselo, forse era solo una causa dell’incubo avuto, in ogni caso preferì seguire l’istinto e recarsi nel vagone accanto, quello che lui aveva ribattezzato ‘cabina armadio’ perché vi aveva riposto gran parte dei suoi indumenti e delle armi. Indossò in velocità il caro vecchio cappotto sgualcito, quindi infilò i bracciali su cui applicò le lame celate e in ultimo, giusto perché non si sa mai, infilò il tirapugni alla mano destra. Tornando al vagone dove era prima, prese al volo il cilindro e poi uscì nella notte. Essendo in ritardo, preferì prendere la via dei tetti per essere più rapido e questo infatti gli permise di arrivare al Westminster Bridge in soli venti minuti.
Giunto a destinazione, la prima cosa che fece fu quella di guardarsi attorno per cercare Arthur. A quell’ora, al buio e col freddo che faceva, le strade erano quasi vuote ad eccezione di alcune carrozze e giusto qualche passante. Di Arthur nessuna traccia. Se n’era andato? In fondo era in ritardo e, conoscendolo, con quel freddo poteva non essere stato capace di aspettarlo. Quindi era meglio andare al Crooked Picture direttamente? E se invece gli fosse successo qualcosa? Se War lo avesse trattenuto? Non era per niente tranquillo e la cosa non gli piaceva. Fece per avviarsi per attraversare il ponte, quando qualcosa a terra attirò la sua attenzione. Si avvicinò e lo raccolse per vederlo meglio. Era un guanto bianco di lana. Ne era certo, apparteneva ad Arthur. Ma perché era lì? Se fosse stato una sorta di messaggio o di addio, lo avrebbe messo altrove in bella vista, non certo sul selciato! No, c’era qualcosa che non andava. Jacob si rialzò e si mise a cercare qualche altro indizio. Percorse parte della via lungo il fiume, senza trovare nulla, quindi tornò indietro e si concentrò sull’area nei pressi del ponte. Ancora un po’ ed ecco che vide il secondo guanto. Era rimasto impigliato -o forse era stato gettato appositamente- fra i rami di una pianta accanto all’entrata di un vicolo stretto e parzialmente illuminato da qualche lanterna qua e là. Lo percorse con il cuore in gola, non sapendo cosa avrebbe trovato alla fine.
“Arthur?” Provò a chiamare, spezzando il silenzio. In risposta gli arrivò un suono, tipo un gemito o un debole lamento. Camminò più in fretta, scorgendo nel semibuio una figura distesa a terra.
“Arthur!” Questa volta lo disse più forte, correndo fino a raggiungerlo, per poi buttarsi in ginocchio accanto a lui. “Oh mio Dio.” Gli sollevò delicatamente il capo con una mano e pian piano gli fece appoggiare il busto contro la propria gamba. Era in fin di vita. Il suo bel viso delicato era tumefatto, una mascella era viola per i colpi subiti, un occhio nero e socchiuso dal gonfiore, per non parlare del labbro rotto da cui era uscito parecchio sangue che gli aveva inzuppato parte del cappotto.
“Ti porto all’ospedale.” Fece per sollevarlo tra le braccia, ma lui lanciò un grido di dolore. “La…la gamba.” Fece un cenno col capo verso il basso. Jacob tastò con prudenza l’arto, ne dedusse che doveva avere una frattura al femore. Sbirciò anche le sue mani, entrambe riportavano segni di tagli.
“Aiuto! Qualcuno avverta la polizia!” Gridò a pieni polmoni, sperando che qualcuno lo sentisse. Poi si rivolse ad Arthur: “Non temere, starai bene.” Ma dall’aspetto terribile che aveva, ne dubitava.
Arthur cercò di parlare, fu interrotto da dei colpi di tosse che gli fecero uscire sangue dalla bocca. Oh no. Jacob sollevò in fretta cappotto e camicia per guardargli l’addome e, come temeva, vide un’ampia bolla rossa che poteva significare solo emorragia interna. Quanti minuti gli restavano ancora da vivere? Per la prima volta in vita sua si sentì impotente, non c’era nulla che potesse fare e questo non poteva sopportarlo. “Dannazione, no! Non può finire così! Non…” Si bloccò, strinse forte le labbra, il corpo gli tremava tutto.
“Jacob…” La voce di Arthur per un istante placò quel tormento. A gran fatica, proseguì: “Sei qui, nonostante quello che ti ho fatto.”
Jacob scosse il capo: “Non dire così. E’ stata tutta colpa mia. Avrei dovuto aiutarti e sostenerti invece di…” Deglutì: “Mi dispiace tanto.”
“Forse…in un’altra vita…ci incontreremo ancora. In un futuro…in cui potremo amarci…ed essere liberi.” Un altro colpo di tosse, altro sangue dalla bocca. Il suo corpo era già un peso morto e freddo, ormai mancava davvero poco.
Se solo ripensava a quante persone aveva ucciso per il Credo, a quante gli erano morte fra le braccia… Tutte persone di cui non gli era importato niente, però. Ora invece si trattava di Arthur, il suo innamorato, il suo amico. Come poteva lasciarlo andare così? Come? “Ti prego, Arthur, non andartene. Ormai sei parte di me. Io ti amo ancora.” La voce quasi spezzata dalla disperazione.
Arthur riuscì ad accennare un sorriso e a dire le sue ultime parole: “Ti amo tanto, Jacob. Sono felice di averti conosciuto.” In un qualche modo, facendo appello alle ultime forze vitali, riuscì a sollevare leggermente il capo e a protendere le labbra per dargli un bacio. Jacob posò le labbra sulle sue, rispose a quel bacio con tutto l’amore che poté, ignorando il sapore del sangue.  E un attimo dopo, Arthur spirò. Lui rimase immobile con le labbra premute contro le sue, aveva bisogno di un momento per ritrovare la forza o sarebbe morto dal dolore. Perché il destino aveva fatto in modo che si incontrassero se era già scritto che si sarebbero separati così presto? Con grande forza di volontà riuscì a risollevare il capo, si obbligò a riaprire gli occhi e guardare il viso angelico che, a Dio piacendo, ora apparteneva davvero ad un angelo dei cieli. No, non era ancora il momento di piangere. Sapeva che cosa doveva fare. Tenendo ben saldo Arthur fra le braccia, si rialzò in piedi e attraversò il vicolo. Si rese conto delle voci che mormoravano e delle persone che lo stavano guardando, il che significava che qualcuno aveva udito il suo grido di aiuto poco fa, ma non gli diede alcuna importanza. Fino a quando…
“Jacob, Jacob! Ero passato alla bottega per sapere se avevi novità e tua sorella mi ha spedito qui dicendo che era preoccupata per t…” Freddy smise all’istante di parlare e fermò la corsa giusto di fronte all’amico. Vide il corpo senza vita del ragazzo, lanciò uno sguardo allarmato.
Senza espressione, Jacob gli porse il prezioso peso, sussurrando: “Prenditi cura di lui.” Non aggiunse altro, con uno scatto balzò via e si diede alla corsa nella notte. Freddy lo seguì con lo sguardo fino al momento in cui lui tolse il cilindro per calarsi sul capo il cappuccio da Assassino e poi fu inghiottito dall’oscurità.
*
Giunse al palazzo di War in un lampo e s’infiltrò all’interno scivolando nel buio come uno spettro, senza essere visto. Come ingresso usò una porticina sul retro usata dalla servitù, che dava su uno stretto corridoio e poi su due rampe di scale. A quell’ora dovevano essere tutti indaffarati con la cena del Lord, perciò al piano superiore, quello delle camere da letto, a rigor di logica non vi era anima viva. Dopo essersi accertato che nessun rumore gli indicasse eventuali presenze, Jacob aprì la porta e si ritrovò in un ambiente totalmente diverso. Rispetto al piccolo ingresso e alle scale della servitù, il corridoio di quel piano sembrava splendere grazie ai marmi lucidati, i mobili dai dettagli decorativi in oro, e le numerose candele accese. Quatto quatto, Jacob attraversò il corridoio fino a giungere alla porta dello studio privato, dove entrò. Anche lì trovò buona illuminazione, grazie al caminetto acceso e alle candele che bruciavano silenziose nel lampadario di cristalli che pendeva sfarzoso dal soffitto. Nell’attesa, perché non approfittarne per sbirciare gli affari del Lord? Andò a prendere posto sulla sedia e cominciò ad aprire i cassetti della scrivania e a passare uno ad uno tutti i fogli e documenti che questi contenevano.  C’era davvero di tutto, eppure l’uomo non aveva pensato di mettere i propri affari sotto chiave! Come lui già sapeva, molti documenti parlavano di manovre politiche, di accordi finanziari e quant’altro, mentre nell’agenda annuale erano segnati numerosi appuntamenti con le personalità più importanti di Londra. Tra i nomi nei primi mesi dell’anno, con sua profonda delusione, non trovò quello di Starrick. Peccato, se avesse trovato indizi riguardo un suo coinvolgimento coi Templari lo avrebbe ucciso ancora più volentieri. Stava appunto pensando a questo quando udì un rumore di passi diretti lì, seguiti poi da una voce autoritaria attraverso la porta: “Non voglio essere disturbato per nessun motivo. L’unica intromissione permessa sarà quella per il mio whisky alle otto e trenta, di cui ho già dato ordine.” Una seconda voce rispose “Sì, my lord” e un attimo dopo la maniglia della porta si mosse. Jacob si era già nascosto quando il Lord entrò. Lo osservò attraverso la fessura delle tende della porta vetrata che dava sul balcone, attese che prendesse posto alla scrivania e solo allora allungò un braccio e fece scattare la lama celata sinistra.
Gli occhi spalancati e il respiro trattenuto, Lord War sentì il freddo dell’acciaio contro il collo. E udì una voce dal timbro canzonatorio: “Sarebbe semplice, per voi, se io vi uccidessi in un sol colpo. Credetemi, lo preferireste!”
War deglutì, si sentiva tremare da capo a piedi ma cercò di parlare con voce ferma: “Chi siete? Che cosa volete da me?”
Jacob, alle sue spalle, si abbassò e gli parlò all’orecchio: “Vi dice niente il nome Arthur Singer?”
“E anche se fosse?” Aveva quasi ringhiato, ma la voce gli morì in gola nel ricevere un pugno allo stomaco. Per miracolo riuscì a non fare movimenti bruschi, altrimenti la lama gli avrebbe trafitto la gola. Una cosa che Jacob non voleva che accadesse, naturalmente.
“Lo avete fatto picchiare e abbandonare in un vicolo a morire. Pagherete caro per questo, ve lo assicuro.” Jacob approfittò della sua momentanea immobilità per afferrarlo alle spalle e farlo alzare, quindi, una volta voltato verso di sé, gli assestò un pugno con tanta forza che l’osso della mandibola schioccò sotto il ferro del tirapugni. L’uomo cadde all’indietro e finì sopra la scrivania, il respiro spezzato dal dolore. Giusto un momento di tregua prima di ricevere un secondo pugno che andò a rompergli lo zigomo. Fece per gridare dal dolore, ma si ritrovò ficcata in bocca una palla di tessuto, precisamente il proprio fazzoletto che Jacob gli aveva sfilato dalla tasca della giacca.
“Questo è solo l’inizio!” Lo canzonò, per poi afferrargli una alla volta le mani sulle quali inferse dei tagli con estrema lentezza, provocando degli spasmi di dolore al lord. Seguì poi un pugno diretto allo scroto, tanto doloroso che il fazzoletto non riuscì a coprire del tutto l’urlo emesso dall’uomo, perciò a Jacob non restò altra scelta se non quella di colpirlo di nuovo al viso per stordirlo e farlo stare zitto, ma questa volta colpendo la mascella sinistra, giusto per fare un lavoretto ordinato. Lo afferrò per i capelli e lo guardò dritto negli occhi: “Avete abusato di quel ragazzo approfittando della sua ingenuità. Siete solo uno schifoso bastardo.” E gli sbatté il capo sul ripiano della scrivania, facendolo quasi svenire. Quasi. Si concesse qualche istante per pensare a cosa fargli dopo, lo sguardo gli cadde sugli attrezzi del caminetto. Andò rapidamente a prendere un attizzatoio, mentre carezzava l’idea di usarlo in un modo interessante. Visto che il Lord vegetava stordito, riuscì senza problemi a prendergli una gamba e metterla in tensione sopra lo schienale della sedia. Perfetto. Sollevò l’attizzatoio, prese la mira e…con un colpo secco gli spezzò la gamba all’altezza del femore, la stessa frattura che era stata fatta ad Arthur, seppur in modo diverso. E con un colpo del genere, lo stordimento non servì ad alleviare il dolore, infatti War si sollevò di scatto per piegarsi sulla gamba ferita. Il suo volto in lacrime era una maschera di dolore, che però ancora non soddisfaceva Jacob. Voleva farlo soffrire tremendamente, ripagarlo con la stessa moneta che quel maledetto aveva usato con Arthur. Voleva vederlo a pezzi prima di graziarlo con la morte. Mentre il Lord era ancora piegato in avanti sulla gamba rotta, Jacob gli prese un braccio e lo torse con un movimento deciso, facendogli fare uno stock secco. Con gamba sinistra  e braccio sinistro spezzati, il Lord quasi non riuscì più a muoversi dal dolore. Era in totale agonia. Sì, poteva bastare. Jacob si sedette sul bordo della scrivania e ancora una volta prese per i capelli l’uomo. “Ora potete andare all’inferno.” Sibilò, prima di affondare la lama celata destra nel suo stomaco. Osservò i suoi occhi spiritati che quasi gli uscivano dalle orbite, poi gli tolse la palla di stoffa dalla bocca e si godette lo spettacolo dei fiotti di sangue che gli risalivano dalla gola e andavo a chiazzare gli abiti e la scrivania. Jacob pensò bene di mettersi ad una distanza di sicurezza per non sporcarsi, non voleva essere 'infettato' dal sangue di quell’uomo spregevole, quindi ritirò la lama celata dalle sue budella, la pulì sui pantaloni del moribondo e rimase lì fermo a guardarlo nei suoi ultimi istanti di vita. Lord War emise dei rantoli, continuando a rigettare sangue, e poco dopo si accasciò sulla scrivania, il capo ricadde oltre il bordo, gli occhi rivoltati all’insù. Era morto. La stanza cadde nel silenzio più cupo.  
Ora che quel bastardo giaceva morto, con la testa che ciondolava giù da un lato, Jacob si sentì meglio, per quanto gli fosse possibile. Era consapevole di aver infranto le regole del Credo uccidendo per vendetta e per di più dando sofferenza invece di una morte rapida, e questo in parte gli stringeva il cuore, gli faceva pensare a suo padre e a tutte le volte che aveva cercato di inculcargli nella mente dei princìpi. Più di una volta si erano trovati in contrasto a causa della sua impulsività, che Ethan gli rimproverava aspramente, e ora aveva capito che suo padre aveva sempre avuto ragione. Ma questo non significava che si fosse pentito di aver torturato a morte quel figlio di puttana di War! Lo aveva fatto per Arthur, una piccola e misera consolazione pur sapendo che la vendetta non lo avrebbe riportato in vita. No, mai niente avrebbe potuto colmare quel vuoto. Si allontanò dalla scrivania e andò verso lo specchio appeso sopra il caminetto. Guardò il proprio riflesso. Che cosa era diventato? Vide nei propri occhi una sfumatura di orrore contro se stesso. Per quanto cercasse di convincersi di aver fatto la cosa giusta, la verità era che aveva agito come un mostro. Scosse il capo e lo abbassò, le mani sul bordo del caminetto alla ricerca di un appoggio per non crollare sotto il peso dei sensi di colpa e del dolore della perdita. Però non era il momento di lasciarsi schiacciare dalle emozioni. C’era ancora una cosa che doveva fare e per il quale doveva ritrovare un briciolo di forza. Risollevò il capo e di nuovo puntò lo sguardo sullo specchio. I suoi occhi tristi tremarono.
“Amanda…” Pronunciò quel nome come una preghiera.

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Capitolo 13
*** La vita è troppo breve ***


12
La vita è troppo breve
 
Qualcuno avrebbe dovuto santificare lady Disraeli per la sua saggezza. E pensare che quel mattino, quando aveva varcato la soglia di quella casa, Amanda aveva il morale sotto i tacchi! Invece poi la giornata si era evoluta, a partire da un bagno caldo con tanto di massaggio alle spalle -primo appunto, chiedere alla signora se poteva cederle la cameriera una volta al mese per un massaggio risanatore-, una coccola nel farsi acconciare i capelli e un pranzo in compagnia dei coniugi e di Alec che, casualmente, era venuto in visita -secondo appunto, chiedere ad Evie se prima era passato alla bottega a chiedere di lei-. L’ultima volta che aveva visto Alec era stato alla festa dei gemelli, quindi fu lieta di rivederlo e di avere così l’occasione di dirgli del fresco fidanzamento tra lei e Jacob, senza citare i problemi al seguito, anche se lui mostrò un evidente disagio nel vedere l’anello. Forse Jacob aveva ragione, quell’uomo si innamorava davvero troppo facilmente ed era inevitabile che poi i suoi sogni si frantumassero! Ad ogni modo, chiacchierare di frivolezze con lui e la signora fu un balsamo per il suo umore. E il tè accompagnato da pasticcini e biscotti al cioccolato contribuì ulteriormente. L’ora di cena arrivò in un battito di ciglia, sorprendendo Amanda di nuovo sorridente e serena. Il dopocena, invece, lo riservò interamente a se stessa per dar sfogo all’ispirazione artistica. No, niente fogli e carboncino, il protagonista era niente meno che il suo prezioso violino. Da alcune settimane lavorava alla composizione di una melodia che ‘parlava’ di lei, di Jacob e del loro amore. Era accaduto un mattino in cui si era svegliata con Jacob al suo fianco dopo una notte d’amore e, così dal nulla, le note avevano cominciato a risuonarle nella mente. Dapprima era stato solo un pensiero su cui soffermarsi di tanto in tanto, ma poi era divenuta una cosa più profonda e così lei aveva recuperato dall’armadio alcuni fogli da spartito in bianco e li aveva dipinti di note. Non l’aveva terminata, era in una fase di correzione in cui si concentrava sui passaggi alla ricerca della perfezione. Una volta completata, l’avrebbe suonata per Jacob, magari per un’occasione speciale. Aveva già deciso di intitolarla My Love. Dunque, quella sera si trovava da sola in uno dei salotti dell’abitazione dei Disraeli a provare, di fronte al camino in stile rococò in cui ardeva un bel fuoco vivace, affiancata da un elegante tavolino con intagliate delle composizioni floreali e sullo sfondo un divano settecentesco in tessuto ocra. E lei, al centro di tutto, bella come un angelo con i capelli raccolti sul capo e alcune ciocche ondulate che ricadevano ai lati del viso e un abito da sera rosa dal taglio morbido, si dilettava a far danzare l’archetto e ad intrecciare le dita fra le corde. Era totalmente immersa nella melodia quando le arrivò una folata di aria gelida alle spalle. Smise immediatamente di suonare e si voltò per vedere cosa fosse successo alla finestra. Dalle pieghe delle tende azzurro cielo, comparve la figura di Jacob in tenuta da Assassino.
“E’ bellissima. L’hai composta tu, vero?” Se era un tentativo d’approccio, non funzionò, infatti Amanda sospirò spazientita: “Ma che cos’hai contro le porte tu?”
“Quell’arpia non mi ha lasciato entrare dalla porta d’ingresso.” Rispose a tono lui, puntando il dito nella direzione nominata.
“Non posso darle torto.” Non avrebbe voluto essere così scontrosa, però…ne aveva il diritto! Ripose violino e archetto sopra il tavolino e, non appena si voltò con l‘intenzione di andare da Jacob, se lo ritrovò di fianco. Incontrò il suo sguardo, era acquoso e sembrava sofferente. Il che la fece sentire in colpa. Si morse un labbro: “Scusami. Non voglio litigare.” E per avvalorare le proprie parole, gli portò le braccia al collo e lo baciò. Sembrava una vita che non sentiva il calore delle sue labbra. Gli era mancato, se ne rendeva conto solo ora. Non appena le labbra si separarono, Amanda sussurrò: “Ti amo, Jacob. Non lasciarmi.” Sperò che non risuonasse come una supplica, anche se in effetti lo era davvero.
Jacob scosse il capo e si affrettò a rispondere: “Mai. Ti amo troppo. Ma non sono qui per questo.”
Lei lo guardò in modo interrogativo, soprattutto quando le prese le mani fra le proprie, poiché sentì che erano percorse da un tremolio. “Che cosa succede?”
“Siediti, per favore.” E nel dirlo, la guidò al divano lì accanto dove poi presero posto entrambi. Le baciò le mani, soffermandosi un po’ troppo. Era una cosa così grave? Quando Jacob risollevò il capo, ciò che lesse nei suoi occhi la spaventò. La voce le s’incrinò nel chiedere: “Riguarda mio fratello?”
Jacob fece un cenno col capo, quindi prese un bel respiro e le raccontò ogni cosa partendo dal principio. Il modo in cui si erano conosciuti, come la loro amicizia era divenuta amore, i rispettivi tradimenti e, per quanto gli fu difficile, gli ultimi avvenimenti di quella sera. Alla fine del racconto, erano entrambi devastati e il viso di Amanda era rigato di lacrime. Ora era lei a tremare, in tutto il corpo. Singhiozzò: “Mio fratello… Il mio povero fratello…”
Jacob le lasciò le mani e l’avvolse in uno stretto abbraccio. Se non avessero ritrovato la forza l’uno nell’altro, sarebbero andati in frantumi.
“Do...dov’è ora?” Chiese lei, col viso premuto contro il suo petto.
“All’obitorio, credo. L’ho affidato a Fred.” Il moto di rabbia riaffiorò ripensando alle lesioni sul suo corpo. “L’ho vendicato, Amanda. Ti giuro che quel figlio di troia di War ha sofferto prima di esalare l’ultimo respiro. Gli ho fatto maledire il giorno in cui è nato. E ti assicuro che non avrà pace nemmeno nella tomba.” Si rese conto di stare per esplodere. Dovette calmarsi, tutto ciò che poteva fare lo aveva fatto. E allora perché si sentiva come se fosse morta una parte di sé?
Deglutì un nodo alla gola: “Torna a casa con me, amore.”
Amanda aveva quasi le convulsioni tanto forte era il pianto. Cercò di riprendere fiato per rispondere ma, prima di riuscirci, la porta del salotto si spalancò e fece irruzione una furiosa lady Disraeli armata di ombrellino da giorno. Un’immagine agghiacciante!
“Che cosa ci fai qui? Non sono stata abbastanza chiara?” Strillò. Vide il volto di Amanda segnato dalle lacrime e, fraintendendo la situazione, si scatenò: “Jacob Frye vattene subito!”
Lui si alzò dal divano, le mani in avanti in segno di tregua: “Non è come credete.”
Lei afferrò il manico dell’ombrello come fosse stata una mazza: “Non costringermi ad usarlo! Vattene o ti faccio arrestare!”
Jacob fece per chiedere aiuto ad Amanda, l’unica che poteva garantire per lui, ma nelle condizioni in cui si trovava non era in grado di parlare. Fece un ultimo tentativo: “My lady, è successa una disgrazia. Per questo io…”
“Giovanotto, non sottovalutarmi solo perché sono una signora non più nel fiore degli anni.” Era paonazza.
Cosa poteva fare lui contro una simile furia? Troppo instabile per tutto ciò che era accaduto, non gli restò altro che lanciare un’ultima occhiata ad Amanda, ancora in lacrime, e rassegnarsi. “Torno domani a prenderti, te lo prometto.” Le disse, prima di incamminarsi. Evitò di incrociare lo sguardo della signora, giusto per non essere troppo tentato di tirarle il collo, quindi uscì velocemente dalla sala e poi imboccò l’ingresso dell’abitazione.
*
“Niente, dice che vuole stare solo.” Disse Evie, rientrando nella propria stanza, dove Henry l’attendeva a letto per dormire. Si tolse lo scialle e lo poggiò su una sedia accanto alla porta, quindi sfilò anche le babbucce e si infilò sotto le coperte.
“E’ comprensibile. La morte violenta di Arthur, la vendetta, il modo in cui lady Disraeli lo ha cacciato… Tutto in una sera.” Sospirò: “E io ero di sotto a fare i conti di cassa.” Sapeva che se ci fosse stato lui al posto di Jacob, non sarebbe stato in grado di torturare ed uccidere War. Si sentiva così inutile. Un caro amico era morto di morte violenta, una cara amica era sicuramente disperata, il fratello della sua fidanzata era turbato e lui non stava facendo assolutamente nulla.
Evie gli prese una mano, attirando così la sua attenzione: “Ti sei preso carico dell’organizzazione del funerale di Arthur per onorare la sua memoria. E’ un gesto gentile e sono sicura che Amanda ti ringrazierà di cuore quando glielo dirai.”
“Quanto vorrei che bastasse.” Sciolse le mani dalle sue e fece per sistemare le coperte nel vano tentativo di mettersi a dormire, ma la voce di Evie lo fermò. “Tutto questo mi ha dato una grande lezione.”
La guardò incuriosito: “Quale?”
“Che la vita è troppo breve. E io la sto sprecando dietro ad una paura irrazionale che mi allontana da te giorno dopo giorno.”
Henry vide il suo sguardo triste ma, prima che potesse fare domande, lei riprese a parlare. “Avevi ragione, sai. Riporre la tunica è stato un errore, come anche interpretare la perfetta fidanzata mite e servizievole.”
Henry scosse il capo: “No, Evie, ho parlato in un momento di rabbia e…”
“Hai detto la verità e non ti biasimo per questo. Credimi. Voglio che tra noi non ci siano più segreti, perché ti amo.” La voce le s’incrinò, dovette deglutire prima di riprendere: “Vuoi sapere per quale motivo non riesco a fare l’amore con te?”
In effetti sì, voleva saperlo eccome. Per lungo tempo si era interrogato al riguardo per trovare un valido motivo. Dal più semplice, cioè che lei temesse il dolore della perdita della verginità, fino a quello più terribile, cioè che lei non lo amasse più come prima. Ora finalmente i suoi dubbi si sarebbero dissolti. Qualunque fosse stata la ragione, lui era pronto a sentirla. Prese respiro e disse solo: “Sì.”
Evie si bagnò le labbra con la punta della lingua, giusto una piccola esitazione prima di rivelare ciò che si era tenuta dentro per così tanto tempo. “Ricorderai di certo che mia madre è morta di parto. Ebbene, è proprio questo che mi blocca. Ogni volta che mi stringi fra le tue braccia con l’intenzione di rendermi tua, la mia mente mi lancia dei segnali. Mi vedo incinta, mi vedo partorire, sento le grida di dolore e…mi vedo morire.” Ora che lo raccontava a voce, quell’immagine sembrava ancora più vivida. Sentì un brivido correrle lungo la schiena, era terrorizzata. Sussultò nel sentire il tocco di Henry su una spalla. Si portò le mani al viso, aveva bisogno di un momento per riprendersi.
Era la prima volta che Henry la vedeva così fragile, così spaventata, così vulnerabile. Finalmente vedeva quella parte che lei gli aveva sempre celato, forse per orgoglio, e si sentì maledettamente in colpa per aver fatto pensieri negativi e aver tentato più volte di forzarla a fare qualcosa che non voleva. Era così che la rispettava?
“Sai qual è la cosa più ridicola?” Evie lasciò ricadere le mani, il suo viso era contratto in una smorfia mentre lasciava una risatina amara: “Io sono un’Assassina, dannazione! Quando devo portare a termine una missione, sono consapevole di rischiare la vita, ma non ho alcun timore perché so che morirei per il Credo. Eppure sono terrorizzata all’idea di morire di parto come mia madre. Non ha senso!” La risata divenne poi un singhiozzo e lei dovette lottare per non abbandonarsi al pianto.
Henry l’avvolse in un abbraccio di conforto: “Non ti forzerò mai più, te lo prometto. A me basta averti al mio fianco e sapere che mi ami. Il resto non ha importanza.” Inaspettatamente, Evie si ribellò al suo abbraccio per protestare: “No, non è giusto per nessuno dei due. Non voglio che tu debba rinunciare all’amore fisico, tanto quanto non voglio continuare a vivere nell’incubo di questa mia paura.” Il suo respiro divenne affannato, doveva assolutamente riprendere il controllo. Chiuse gli occhi e contò fino a dieci e, quando li riaprì, guardò il suo fidanzato con sguardo fermo. “C’è un modo per concedermi a te senza rischiare di concepire?”
Sul momento Henry si sentì avvampare per l’imbarazzo. Non era solito affrontare argomenti così intimi, però…se il problema era solo quello… Si schiarì la voce e disse: “Sì, sicuramente ce n’è più di uno. Anche se credo che, facendo attenzione…” Sperò che capisse a cosa si riferiva. Rimase immobile in attesa di una sua risposta, che però non arrivò. Aveva bisogno di altre rassicurazioni? Aveva già cambiato idea? Perché aveva cambiato posizione e si era seduta sui polpacci? E poi capì, il respiro gli si spezzò in gola nel vederla sfilarsi di dosso la camicia da notte. Pochi gesti rapidi e se la ritrovò di fronte completamente nuda, i capelli sciolti che le incorniciavano il viso e ricadevano leggiadri sui suoi seni abbondanti e rosei. Dio quant’era bella. Certo non era affatto la prima volta che la vedeva nuda, però adesso che era arrivato il momento tanto desiderato quasi non poteva crederci. Nel vederlo temporeggiare, Evie arrossì e scostò lo sguardo: “C’è…c’è qualche problema?”
Henry si riprese all’istante, scosse velocemente il capo e allungò le braccia per afferrarla e attirarla a sé. Fece correre le mani sul suo corpo come se lo stesse toccando per la prima volta, bramoso di impossessarsi di lei totalmente. Premette una mano sulla sua zona lombare per farla aderire meglio al proprio corpo e farle così sentire l’erezione che già premeva con prepotenza. Evie non si spaventò, come aveva detto, la vita era troppo breve e da quel momento non avrebbe più sprecato nemmeno un istante.
*
L’alba era ancora lontana, il freddo umido e pungente gli pizzicava la pelle e Jacob ancora non si decideva a rientrare. Si trovava sopra il tetto da almeno un’ora, vestito solo di pantaloni e camicia, e con le lacrime che gli si erano praticamente congelate sulla faccia dopo il pianto. Il dolore per la perdita di Arthur l’aveva distrutto. E come se non bastasse, non era stato in grado di portare via Amanda dalla casa di quella vecchia pazza della Disraeli. L’unica cosa positiva era che il suo istinto suicida si era placato, grazie al pianto liberatorio aveva capito che lasciarsi morire di freddo nella notte non sarebbe servito a nulla. Sì, aveva perso Arthur e niente lo avrebbe fatto tornare in vita, però c’era Amanda, la sua bellissima fidanzata che aveva bisogno di lui come non mai. Ebbe un’ultima esitazione, stare sulla cima del tetto gli rievocava la sera in cui lui e Arthur si erano scambiati il loro primo bacio, poco più di un mese prima. I ricordi gli facevano tremendamente male. Scosse il capo e, nonostante i muscoli gli si fossero indolenziti per il freddo, riuscì a scendere dal tetto e ad infilarsi dalla finestra della propria stanza. Doveva affrettarsi a riaccendere il fuoco nel camino o sarebbe morto congelato per davvero. Chiuse la finestra, da cui fortunatamente entrava la luce argentea della luna che illuminava discretamente la stanza, e si mise all’opera. Ciocchi di legno, qualche pezzo di carta ed un fiammifero, ed ecco che il fuoco prese vita, dapprima in una timida fiammella, divenne poi un fuoco di tutto rispetto che emanava un calore delizioso. Jacob si sentì rinascere. Pian piano anche le dita dei piedi ripresero sensibilità, facendogli apprezzare la morbidezza della moquette. Ma come gli era venuto in mente di salire sul tetto senza vestirsi? Ringraziando il cielo si era ripreso da quello stato di follia. Era appunto lì, in piedi di fronte al caminetto e con le mani protese in avanti per assorbire meglio il calore, quando due colpetti al vetro della finestra gli fecero mancare un battito. Voltò lentamente il capo e…riconobbe il viso di Amanda arrossato per il freddo e per lo sforzo. Dio santo, si era arrampicata fin lì! Jacob andò di corsa ad aprire la finestra e l’afferrò prima ad un braccio e poi al busto per farla entrare. La prima cosa che fece lei una volta messo piede sulla moquette, fu quella di lisciarsi la gonna, come se niente fosse. Nel rendersi conto che ai piedi indossava solo le calze, gli venne spontanea la domanda: “E le tue scarpe?”
Amanda sgranò gli occhi come se si fosse appena accorta della sua presenza, quindi puntò un dito verso il basso: “Le ho tolte giù. Era troppo rischioso arrampicarmi coi tacchi.” Sembrava così tranquilla. L’esatto contrario di come l’aveva lasciata quella sera dopo averle detto della morte di suo fratello. Cos’era cambiato nel frattempo? Con la mano le fece gesto di sedersi sul letto e, subito dopo, prese posto accanto a lei. Per alcuni minuti, l’unico rumore all’interno della stanza fu quello del fuoco che ardeva. Amanda prese un lungo respiro prima di parlare con voce spenta: “Quando farà giorno dovrò andare alla polizia. Immagino che, essendo sua sorella, dovrò identificare il corpo.” Non era stata in grado di pronunciare il nome. Deglutì: “E tu dovresti parlare con Abberline riguardo War e decidere che cosa…” Jacob la interruppe prendendole una mano. I loro sguardi s’incontrarono, sfumati di dolore e lacrime. “Non preoccuparti di questo. Nessuno potrebbe mai risalire a me per l’omicidio di War. Invece tutti sapranno che cosa ha fatto quel bastardo a tuo fratello, come è giusto che sia.”
Amanda distolse lo sguardo e si portò la mano libera alle labbra per fermare un singhiozzo, mentre alcune lacrime le solcavano le guance. Qualche istante e se le asciugò con le dita.
“Perché sei venuta qui, in piena notte e col freddo, e per di più arrampicandoti?” Chiese Jacob di punto in bianco, la voce roca.
“Ieri sera, dopo che te ne sei andato, ho pianto per ore fino a togliermi il respiro. Non potevo credere a tutto quello che era successo, quando solo due giorni prima toccavo il cielo con un dito per la gioia del nostro fidanzamento.” Fece una pausa, abbozzò un mezzo sorriso: “Lady Disraeli è dispiaciuta per averti cacciato in quel modo. Ha confessato di voler fare qualcosa per farsi perdonare da te. E’ una donna così cara!” Stava divagando, forse di proposito. Lo sguardo perso nel vuoto. Jacob le strinse la mano: “Amy?” Lei parve destarsi, si voltò verso di lui, la voce tremante: “Tu mi ami, Jacob? Perché se non è così non sei costretto a…”
Lui sollevò la mano per accarezzarle una guancia: “Quella di amarti è l’unica certezza che ho. Devi credermi.” Col pollice le sfiorò le labbra. Era così bella con quegli occhi grandi e verdi e il naso sbarazzino. Ed era tutta sua. Abbassò la mano e lasciò che lei la prendesse nella propria, con gesto affettuoso. Amanda sorrise dolcemente: “Aspetto un bambino, Jacob.” Finalmente era riuscita a dirglielo. Era come se, dopo quella sua confessione, il mondo avesse ripreso a girare per il verso giusto. Era dunque possibile superare il dolore e trovare la felicità? Guardò i suoi occhi che trasparivano forte sorpresa, per poi dipingersi con una sfumatura di gioia. Jacob la strinse in un abbraccio, stampò le labbra sui suoi capelli biondi. Dei singhiozzi gli salirono dalla gola, per la contentezza, ma cercò di non piangere. Una notizia così bella non se la sarebbe mai aspettata. Il pensiero di diventare padre non l’aveva mai sfiorato! Sarebbe stato all’altezza? Avrebbe saputo crescere un figlio con sani princìpi? Era abbastanza maturo per una così grande responsabilità? E…? Un momento.
“Sei incinta e ti sei arrampicata sulla parete della casa???” Tuonò, per poi scostarla da sé quel tanto che bastava per guardarla in faccia e mostrarle quanto fosse contrariato.
Spiazzata dall’improvviso cambio di atmosfera, Amanda si sentì rimpicciolire. In effetti non era stata una decisone saggia. Se fosse scivolata… Evidentemente era lo stesso pensiero che stava formulando lui, perché tuonò nuovamente: “Ti ha dato di volta al cervello? Avresti potuto scivolare e cadere di sotto!” Aveva le guance rosse dalla rabbia.
“Sssì, hai ragione.” Biascicò lei, non avendo il coraggio di giustificarsi. Anche perché se gli avesse detto che l’aveva fatto solo perche, se avesse bussato alla porta d’ingresso, aveva timore di svegliare Henry ed Evie, sicuramente lui le avrebbe tirato il collo!
“Ho ragione sì, dannazione! Ma non eri tu quella responsabile e coscienziosa? Possibile che…” Amanda pensò bene di interromperlo occupandogli le labbra con un bacio. E la cosa funzionò. Jacob sospirò dalle narici, ritrovando così la calma, quindi rispose al bacio e la strinse nuovamente a sé. Le loro labbra si separarono con un piccolo schiocco, i loro sguardi si incontrarono. Con un filo di voce, Jacob disse: “Il piccolo Jack avrà un fratellino con cui giocare, allora.”
Non ci fu bisogno di altre spiegazioni, Amanda sapeva cosa intendeva dire ed era pienamente d’accordo. Volevano entrambi bene a Jack ed inoltre, adottandolo, avrebbero realizzato il sogno di Arthur. Su questo lui aveva sempre avuto ragione, il piccolo meritava un futuro e tanto amore. Amanda fece un cenno affermativo col capo: “Sì, amore.”
Per quanto il dolore fosse ancora presente nei loro cuori, la speranza di un futuro felice era molto più forte. Non si trattava più di loro due soli, poiché presto sarebbero diventati una famiglia.

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Capitolo 14
*** Il tempo fugge via ***


13
Il tempo fugge via
 
Con gran sollievo di tutti, quell’anno burrascoso terminò, portando via con sé sofferenza, rimpianti e una buona dose di problemi. L’arrivo del 1869 fu testimone del matrimonio tra Jacob e Amanda, una cerimonia semplice svoltasi un mattino nebbioso nella cattedrale di Saint Paul. Anche se i famigliari della sposa spiccavano per la loro assenza, la partecipazione di Henry, Evie, George, Alec, Fred, i coniugi Disraeli, e un buon numero di Rooks, rese la giornata speciale. Forse sposarsi a gennaio non era l’ideale, però Amanda non aveva voluto sentire ragioni, per lei sarebbe stato impensabile salire all’altare con la pancia della gravidanza! Ad ogni modo, già prima del matrimonio, Jacob si trasferì definitivamente nella sua casa, promettendo di impegnarsi a diventare un buon marito e quindi a non trascorrere più le notti fuori a bere e smaltire la sbornia su Bertha. Il fatto che Evie gli avesse riso in faccia nel sentire tali promesse, era un dettaglio cui cercò di non dare troppo peso. Seguì poi la primavera, che vide Jacob rivestire il ruolo di Maestro Assassino di Londra con tanto di base segreta dove, oltre ad accogliere Assassini da tutta l’Inghilterra, venivano anche addestrati i piccoli Adepti che lui stesso trovava negli orfanotrofi o per la strada. Insomma, in poco tempo aveva raggiunto un livello di maturità incredibile, il che lo aiutò molto anche con la paternità giunta i primi giorni di agosto. Per quanto riguardava Evie e Henry, invece, da quando lei aveva ricominciato a partecipare alle attività del Credo, il suo ruolo di fidanzata era pressoché svanito, cosicché i progetti del loro matrimonio vennero messi da parte.
*
Con i capelli raccolti e la fedele tunica addosso, Evie bussò dei colpetti alla porta ed entrò senza aver ricevuto risposta. Non appena mise piede nella stanza, il suo sorriso si accese: “Vedo che abbiamo ancora gli occhietti aperti!”
Sul letto, con le gambe stese e coperte da un leggero lenzuolo e un cuscino ricolmo di piume su cui poggiare la schiena, Amanda rispose al sorriso e subito posò lo sguardo sul fagottino che aveva tra le braccia, un pupo biondo dai grandi occhi verdi. Con voce giocosa, rispose per lui: “Eh sì. Abbiamo fatto la nostra poppata, poi abbiamo fatto il ruttino e adesso che dovremmo fare la nanna non ne abbiamo voglia!”
Evie si avvicinò, ridacchiando, quindi prese posto sul bordo del letto ed allungò le braccia per farsi porgere il nipotino. “Danny, il mio piccolo amore!” Gli stampò un bacio sulla fronte ampia, ricevendo in risposta un colpetto di singhiozzo. Il bimbo era simpatia pura con quelle guanciotte rosee e gonfie e l’espressione stralunata di chi ancora non è in grado di intendere. Evie prese a cullarlo dolcemente, come faceva ogni giorno. “Tu come ti senti Amanda?” Chiese di punto in bianco, sollevando lo sguardo.
Lei alzò le spalle, come se la risposta fosse ovvia: “Sto bene!”
Evie inclinò il capo e la guardò di traverso: “Lo dici sempre! Lo hai detto perfino il giorno del parto, quando hai ripreso i sensi dopo essere svenuta.”
Sapendo di meritare il rimprovero, Amanda distolse lo sguardo e, con gesto nervoso, prese a lisciarsi i capelli che le ricadevano sulla spalla: “Sì, be'…” Si mordicchiò il labbro e disse con più convinzione: “Questa volta però è vero! Il Dottore è passato questa mattina presto a visitarmi e ha detto che domani potrò alzarmi dal letto tranquillamente.” Alzò gli occhi al cielo: “Non immagini che gioia dopo tre settimane bloccata qui!”
“Hai avuto un lungo travaglio ed un parto difficile. Hai perso tanto sangue da svenire, Amy. Ci hai fatto prendere uno spavento enorme.” Disse seriamente Evie.
“Lo so. Ma ora è passato. E…” Sospirò: “Potete star certi che non accadrà più, visto che probabilmente non potrò più avere figli.” Era così, purtroppo. Le paure di Evie, per uno strano scherzo del destino, si erano avverate su di lei dandole un parto estremamente doloroso che le era quasi costato la vita e, ciliegina sulla torta, la sopravvivenza le era costata la possibilità di procreare nuovamente. Ma almeno era viva e si stava riprendendo, grazie al cielo. Solo lei sembrava non capirlo.
“Non ha importanza, Amy. E poi ora c’è anche il piccolo Jack ad accrescere la famiglia, no? Jacob è felice così. Lo hai reso padre e tanto gli basta, credimi. Me lo ha detto lui stesso.” Parlò con tanto sentimento che lo sguardo di Amanda si fece subito più sereno. E la serenità era ciò di cui aveva bisogno per rimettersi in salute. Prima che le due cognate potessero dire altro, ecco che la porta si aprì, annunciando la presenza dell’appena nominato Jacob. Sulla sua spalla una pupa bionda vestita di rosa, che lui teneva con la mano a coppa sul sederino per non rischiare che lei scivolasse giù. “Sono riuscito a far addormentare Missy.” Sulle sue labbra si dipinse un sorriso di trionfo che fece ridere Evie. Camminò fino a giungere alla culla posta accanto al letto matrimoniale e lì vi ripose la neonata con estrema cura, tenendola bene con entrambe le mani. Non appena toccò il piccolo materasso, la bimba lasciò un sospiro contrariato, quasi volesse far sapere che preferiva dormire sulla calda spalla del padre, ma per fortuna non si svegliò. Gli occhi di Jacob brillavano, tanto era innamorato della sua figlioletta.
“Amore, stai uscendo?” La domanda gli fece sollevare lo sguardo su Amanda: “Sì, ho indetto una riunione con gli Assassini inglesi e dopo ho promesso a Jack di fargli fare un addestramento speciale assieme agli altri Adepti.”
“Oh, è vero, me lo avevi detto ieri.” Amanda si batté la mano sulla fronte, auto-rimproverandosi.
“Ma non temere, torneremo prima di cena.” Aggiunse lui, per poi sporgersi oltre la culla per arrivare a lei e baciarla. Un gesto d’amore che ripeteva continuamente, dopo la terribile paura provata a causa delle complicazioni del parto. Ad interromperli ci pensò Evie, schiarendosi la voce. I coniugi si separarono accennando una risatina ma, quando volsero lo sguardo  a lei, si resero conto dell’occhiata che stava lanciando verso l’ingresso della stanza. Amanda si voltò a guardare e, scorgendo una manina sullo stipite, pensò bene di farsi sentire: “Tesoro, puoi entrare se vuoi!”
Ancora un istante ed ecco che fece capolino una testa dai capelli scuri e gli occhi nocciola sgranati. Jack guardò uno ad uno i presenti nella stanza e poi, combattuta la timidezza, sfoggiò un gran sorriso e  balzò sul letto: “Mamma Amy, oggi papà Jacob mi insegnerà a correre sui tetti!” Disse tutto contento, anche se le sue parole fecero drizzare i capelli ad Amanda, la quale rivolse subito un’occhiata perplessa al marito.
“Non è come sembra! Ho preparato l’attrezzatura nella stanza dell’addestramento per simulare una corsa sui tetti. E poi farò indossare ai bambini l’imbragatura, ovviamente.” Spiegò velocemente Jacob, con le mani alzate, neanche fosse stato fermato dalla polizia ingiustamente! Amanda fece un cenno di assenso col capo, quindi tornò a rivolgersi al bambino che le stava accanto carponi e che quasi scodinzolava dalla contentezza: “Allora impara e divertiti, tesoro. E tieni d’occhio tuo padre.” Gli fece l’occhiolino. Lui rispose ridendo: “D’accordo, mamma Amy!”
“Va bene, ora però andiamo piccoletto, altrimenti Danny non si addormenterà mai se continuiamo a fare baccano.” Terminò Jacob, facendo il giro del letto per raggiungerlo, quindi gli porse la mano per farlo scendere. Prima di lasciare la stanza, si rivolse scherzosamente alle due ragazze: “E voi, se potete, cercate di non sparlare di me mentre non ci sono.”
“Certo che no! Ci piace farlo solo se sei presente, altrimenti dov’è il divertimento?” La battuta di Evie segnò la fine della conversazione, anche se, stranamente, suo fratello le sorrise invece di lanciarle un’occhiataccia. Una volta che la porta venne chiusa, calò una dolce quiete. Evie tornò a dedicarsi al piccolino che aveva in braccio, con sorrisi e parole affettuose sussurrate.
“Tu e Jay state per partire, vero?”
Il sorriso di Evie svanì, il suo sguardo incontrò gli occhi tristi di Amanda: “Te l’ha detto Jacob?”
Lei scosse il capo: “No. L’ho capito da sola. Quando siete vicini, ti guarda come se volesse memorizzare ogni cosa di te.”
“Perdonami se non te l’ho detto prima.”
“Ma perché volete andarvene?” Nella voce di Amanda vibrò una nota malinconica che spinse Evie a spiegarsi con quanta più premura le fu possibile: “Non vogliamo abbandonarvi, Amy, è solo che abbiamo entrambi bisogno di ritrovare noi stessi. Henry -o Jay se preferisci- ha grande nostalgia del suo Paese e desidera tornare con tutto il cuore, mentre io vorrei apprendere gli insegnamenti dei fratelli Indiani per perfezionare il mio stile di Assassina. E poi, chissà, forse finalmente mi lascerò portare all’altare!” Quell’ultima frase contribuì a far svanire la tensione, quindi concluse: “Ma non temere, partiremo solo dopo il battesimo di Daniel e Melissa. Non me lo perderei per nulla al mondo.”
Amanda rilassò la schiena contro il cuscino, lo sguardo rivolto alla finestra lasciata socchiusa per far passare un po’ di aria. Agosto era quasi giunto al termine, presto le temperature si sarebbero abbassate. “Mi preoccupo troppo, in effetti. Se conosco Jacob, scommetto che ci porterà tutti in India per rivederti ancora prima che i bambini imparino a camminare. E se userà la scusa dell’addestramento, porterà anche i piccoli Adepti!”
Evie non riuscì a trattenere una risata, con la conseguenza che Danny, prossimo ad addormentarsi, spalancò gli occhi per guardarla. “Amy, ti prego! Mio fratello non è più l’imbecille di prima! Sarebbe assurdo che facesse tutto questo solo per rivedermi!”
*
 12 settembre 1870
Cara Evie,
parlo a nome di tutti nel dire che il soggiorno in India è stato favoloso. Quei sei mesi sono stati importanti per ciascuno di noi e ci hanno donato ricordi che non dimenticheremo mai. Amanda è tornata a risplendere ed è entusiasta che i gemelli abbiano festeggiato il loro primo compleanno in un luogo così meraviglioso, inoltre Jack e gli altri Adepti hanno appreso volentieri le tecniche di combattimento dei fratelli Indiani. E io sono felice di averti rivisto, sorellina. Detto tra noi, il che significa che non dovrai dirlo a Greenie, mi fa piacere che tu abbia scelto di mantenere il nostro cognome anche dopo il matrimonio. Sei una Frye orgogliosa e io sono fiero di te. […]
*
…1873
[…] Ti annuncio che abbiamo una nuova vicina di casa. Prima che tu lo pensi, ti dico che non è nostra affittuaria, contrariamente a quanto avevamo deciso. Forse avrei dovuto chiedere prima il vostro permesso, o almeno quello di Henry visto che la casa era la sua, però credimi non ho avuto il cuore di chiedere denaro a quella povera donna. Mrs Smith è vedova e a stento riesce a guadagnare il pane vendendo centrini da tavola che lavora con le proprie mani. Sarei un uomo orribile se le chiedessi di pagare l’affitto sapendo quanto fatica a mantenere se stessa e sua figlia. Oh giusto, ha una figlia di nome Nellie. Una bambina adorabile dal viso dolce. Lei e Missy sono già diventate amiche inseparabili. E’ molto premurosa con la mia bambina e ha cura di lei come farebbe una brava sorella maggiore. […]
*
 5 agosto 1875
[…] Ti scrivo questa lettera sotto grande insistenza di Danny e Missy che chiedono a gran voce di ringraziarti per i bellissimi regali che hai mandato dall’India per festeggiare i loro sei anni. Visti i doni, ne deduco che dalle mie lettere anche tu abbia capito le loro preferenze. Mi riferisco al fatto che Danny ha le capacità e lo spirito per ricevere un addestramento, mentre Missy no.  Non so, forse per lei è ancora presto e non è pronta per questo. O forse, e pensarlo un po’ mi ferisce, non ha alcun interesse per il Credo. Non che sia grave, non pretendo che lei segua un cammino che non è il suo, però sono ugualmente dispiaciuto. Amanda mi ha già rimproverato severamente, dicendo che se nostra figlia è una bambina normale che ama i vestitini orlati di pizzo e le bambole, non devo in alcun modo forzarla a cambiare. E mi rendo conto che ha ragione. […]
*
…1878
[…] Non dovrei scriverlo in una lettera, ma sento il bisogno di confidarti una cosa che mi ha lasciato a bocca aperta. Jack frequenta un bordello qui a Whitechapel. Dico davvero. Mi ero accorto delle sue frequenti assenze immotivate e così oggi l’ho seguito. So che non è un gesto encomiabile, però capirai che dovevo sapere. E così ho scoperto la verità. Il problema è che adesso non so come comportarmi con lui. Trovo che non sia uno scandalo ricercare la compagnia di signorine esperte, però… Jack ha solo quindici anni. […]
*
…1881
[…] Termino questa lettera con un forte dubbio che mi rode come un tarlo. Ultimamente Amanda si comporta in modo strano. Anzi, dovrei dire che io ho una strana sensazione che non so spiegarmi. Lei è un angelo e non manca mai di dimostrarmi il suo amore, però da un po’ di tempo esce di casa senza dire dove va o dove è stata, oppure minimizza dicendo di aver fatto una semplice passeggiata. Non dubito della sua fedeltà, sia ben chiaro, però vorrei sapere cosa mi nasconde. […]
*
…1882
[…] Di certo ti avrà scritto lui personalmente, ma sono così emozionato che voglio scriverlo anch’io di mio pugno. Jack ora è un Assassino. Gli ho affidato una piccola missione affinché potesse dimostrare il proprio valore e fare così il battesimo di sangue. Sono orgoglioso di lui. L’ho sempre detto che era destinato a  fare grandi cose e adesso il momento è arrivato. Fuori tema, ma doveroso di essere detto, ti comunico che Mrs Smith è venuta a mancare. Siamo tutti vicini a Nellie, ma lei non vuole essere confortata. E’ una ragazza forte e indipendente e sono certo che si riprenderà presto dalla perdita subita. […]
*
…1884
[…]Dove ho sbagliato con Jack? Ero fiero di lui e invece adesso… Forse dovrei spiegarti che cosa è accaduto prima di esporti le mie conclusioni. Ti avevo già scritto in altre occasioni riguardo a certi episodi indisciplinati. Ebbene, ora non si tratta più solo del suo modo errato di servire il Credo, ma anche del suo modo di fare nella vita quotidiana. Ha mancato di rispetto a Missy dicendo che lei lo avrebbe sedotto per poi tirarsi indietro. Questo ha causato un litigio con Danny che, ovviamente, ha preso le difese di sua sorella. E’ stato terribile sentirli litigare con tanta ferocia. Ho perfino creduto che lui e Danny avrebbero lottato. Invece Jack se n’è andato sbattendo la porta e dicendo che non voleva più saperne di noi. Avrei dovuto fermarlo, ma ero troppo turbato, come anche Amanda. Missy era in lacrime e Danny era fuori di sé dalla rabbia. Appena ho potuto ho chiesto spiegazioni, ma lei dice di non aver fatto nulla di male. Ora, non voglio mettere in dubbio le parole di mia figlia, tanto più perché ha appena compiuto quindici anni e non è certo una seduttrice, però non posso negare che abbia la bellezza di sua madre, come anche un carattere espansivo e talvolta civettuolo. Potrebbe averlo illuso, seppur non intenzionalmente. Questo non giustifica la reazione di Jack, comunque, anzi posso dire che le sue particolari frequentazioni di certe signorine di cui ti avevo parlato hanno danneggiato il suo carattere. Non so dove sia ora, l’ho cercato per tutta la città senza riuscire a trovarlo. Non hai idea di quanto mi addolori vedere i miei figli in lite. Mi ritrovo a chiedermi se io sia stato un buon padre per Jack o se in qualche modo lo abbia ferito, magari senza rendermene conto potrei averlo trattato in un modo differente dai miei figli naturali. […]
*
…1885
[…] E’ una notizia terribile quella che sto per scriverti. Come ho potuto essere così cieco? Sono un pessimo marito, ora posso dirlo. Ero così preso dalla scomparsa di Jack e dall’addestramento di Danny da non rendermi conto di quanto stesse soffrendo mia moglie. Alcuni anni fa ti scrissi riguardo i miei sospetti sulle sue uscite. Ebbene, si trattava di incontri coi migliori Dottori di Londra. Perdona la mia calligrafia tremolante, è la disperazione ad impossessarsi della mia mano. Amanda è malata. Cancro. Ogni anno che passa il male di diffonde sempre più in lei e i Dottori dicono che non c’è cura. No, non posso accettarlo. Non voglio nemmeno provare ad immaginare la mia vita senza la donna che amo. Amanda è forte, sta lottando duramente contro la malattia e io le darò tutto il supporto possibile, le infonderò la mia forza. I ragazzi ancora non lo sanno, Amanda non vuole dar loro questo dolore, lo stesso motivo per cui per lungo tempo lo ha taciuto anche a me. Siamo entrambi speranzosi che riesca a sconfiggere il male che l’affligge e che possa così tornare alla vita di sempre. Come speriamo che Jack capisca quanto lo amiamo e torni a casa. […]
*
3 marzo 1887
Evie,
Amanda è 
*
3 marzo 1888
Cara Evie,
da troppo tempo non ti do mie notizie personalmente. Non è un caso che io ti stia scrivendo oggi, il terzo giorno di marzo. Un anno esatto dalla morte della mia amata Amanda. Un anno in cui non ho vissuto, un anno in cui sono stato come morto io stesso. Non guarirò mai da questo dolore. Mai. Niente e nessuno potrà ridarmi mia moglie e la gioia di vivere. Ma non è per esporti i miei tormenti che ti ho scritto. Anzi, mi ero promesso di guardare solo ai bei ricordi che ho di lei, innumerevoli bei ricordi della donna che mi ha dato tutto dal momento in cui l’ho conosciuta fino al nostro diciottesimo anno di matrimonio prima che lei si spegnesse. Ed io continuo ad amarla profondamente. Cambiando argomento, ora che mi viene in mente, dovrei rimproverarti, sorella. Mi hai taciuto una cosa importante. Non potevo credere alle mie orecchie quanto Melissa mi ha confessato di avere un innamorato e men che meno che lo avesse detto a te prima che a me. Ma ora voglio essere io a sorprenderti nel dire che lei e Jeremiah si sono fidanzati. Per il matrimonio vorrei che aspettassero, poiché Missy è ancora troppo piccola per rivestire il ruolo di moglie. Diciotto anni non sono tanti, contrariamente a quello che starai pensando, e vorrei che maturasse ancora un po’ prima di darla in moglie ad un impiegato bancario che per qualche ragione lei adora. Giuro che se la farà soffrire o le farà mancare qualcosa, non esiterò a fare uso del mio tirapugni. Quanto vorrei che questa rabbia che mi si accende dentro, servisse a coprire almeno un po’ le mie sofferenze. Ormai sono quattro anni che Jack se n’è andato. In lui vedo il mio fallimento come Maestro e come padre. Mi manca e sono preoccupato per lui. Non sapere dove sia e se stia bene, mi crea un ulteriore vuoto dentro. Come anche sapere che Nellie ha lasciato la sua dimora senza salutarmi. Non le porto rancore, in fondo mi sono barricato qui senza rivolgere la parola a nessuno ad eccezione dei miei figli. Mi rattrista sapere che non ha lasciato detto nemmeno a Missy dove sarebbe andata a vivere. Ovunque sia, le auguro ogni bene.
 
Ho lasciato aperta la lettera perché qualcosa mi diceva che avrei fatto un’aggiunta. E il mio istinto aveva ragione. Di ritorno dal cimitero, poco dopo il tramonto, ho incontrato Nellie. Non vi sono stati abbracci o parole gentili, poiché il nostro incontro è stato alquanto bizzarro. L’ho vista prendere le difese di una prostituta aggredita da un uomo ubriaco. Avresti dovuto vederla, Evie, la grinta con cui ha agito e i colpi che gli ha assestato mi hanno lasciato piacevolmente sorpreso. Devo assolutamente convincerla a divenire una mia allieva e fare di lei un’Assassina. Sento il bisogno e il dovere di fare qualcosa per lei, soprattutto ora che ho appreso della sua drastica decisione di mantenersi lavorando nel peggior bordello del quartiere. Povera ragazza, era così orgogliosa che non ha voluto chiedere il nostro aiuto ed ha preferito cavarsela da sola. Non è giusto che una ragazza dotata e dal cuore puro si rassegni ad un’esistenza così misera.
 
Ed eccoci alla terza aggiunta, prima di chiudere definitivamente questa lettera. Non sono riuscito a convincere Nellie a lasciare quel posto. E’ testarda, la ragazza.  Ma almeno ha accettato la mia protezione ed ora è ufficialmente un’Adepta. Se saprò far bene il mio lavoro, diverrà un’Assassina entro un anno e allora non avrà più scuse per non andarsene da lì. Inoltre ho preso una decisione. Chiamami pazzo, ma vorrei occuparmi anche delle altre ragazze di quel bordello. Potrei insegnare loro come difendersi e, conquistata la loro fiducia, metterle al servizio della Confraternita come spie. Pensa, Evie, ragazze che hanno numerosi contatti con uomini dei più diversi ceti sociali. Sono perfette per raccogliere informazioni nel caso in città vi fossero ancora minacce Templari. Lo sai che il nemico non è sconfitto del tutto e l’aiuto di quelle signorine potrebbe rivelarsi prezioso. Ti terrò informata, nella speranza che i miei progetti prendano vita. E se sarà così, ho intenzione di trasferirmi in un appartamento nei pressi del bordello. In questo modo Missy e il suo promesso avranno una casa tutta per loro, visto che Danny, quando non è alla base ad allenarsi, è fuori città per delle missioni.
Tuo fratello,
Jacob

 

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Capitolo 15
*** Epilogo ***


Epilogo
 
E così era tornato in città. Era una tipica sera settembrina, di quelle fresche e leggermente umide per via della foschia. Una sera identica a quella che l’aveva visto andarsene quattro anni prima. Camminare per le strade che aveva percorso durante l’infanzia e l’adolescenza gli dava come un brivido che partiva dalle ossa e che poi si espandeva sui tessuti di tutto il corpo. Non era una sensazione piacevole. In quegli anni di assenza si era preso cura di sé, aveva continuato ad allenarsi e a coltivare i princìpi del Credo, migliorandoli. Anche se la Confraternita non glielo avrebbe mai riconosciuto, lui era il miglior Assassino del Continente e avrebbe trovato il modo di dimostrarlo agendo direttamente su quella città sudicia e colma di menti perverse. Non che prima fosse stata migliore, però dopo che Jacob ne aveva preso il comando la situazione era peggiorata. La feccia era ovunque, ma senza dubbio era maggiormente concentrata a Whitechapel. Comunque, non era stato questo desiderio di ‘pulizia’ a farlo tornare, bensì la notizia che l’anno prima era stato riaperto il manicomio di Lambeth, il luogo in cui sua madre era stata torturata da Dottori pazzi e visionari e poi sgozzata come un maiale perché non potesse testimoniare. E dove lui stesso, costretto a stare in quel luogo per non finire sulla strada, era stato maltrattato e sbattuto come uno straccio da pavimenti. A ferirlo più di tutto, il sapere che all’interno erano tornati a lavorarvi molti membri dello stesso personale di allora. E Jacob non aveva preso alcun provvedimento. Conoscendolo, era certo che avrebbe detto “gli uomini che lavoravano per Starrick sono stati eliminati, non ho motivo di intervenire sul resto del personale.” Jack strinse il pugno. Al diavolo! Se solo ripensava al fatto che aveva chiamato quell’uomo papà per anni e che poi erano divenuti Fratelli nel Credo, gli veniva il voltastomaco. Jacob lo aveva adottato sì, però poi non aveva esitato a ricordargli che non avevano legami di sangue, prendendo le difese di quella piccola sgualdrina di Melissa, credendo a lei invece che a lui. Un finto padre e un pessimo Assassino, ecco cos’era. Daniel era migliore di suo padre, sotto quell’ultimo aspetto, e Jack aveva saputo che era molto attivo nelle missioni, però nella sfera famigliare anche lui si era rivelato un misero essere. L’unica meritevole di lodi, l’unica che l’aveva amato davvero, era stata Amanda. Nei suoi pensieri la chiamava ancora mamma Amy e aveva molto sofferto nell’apprendere della sua morte. Non aveva potuto partecipare al funerale, per non rischiare di essere visto e riconosciuto, però poi si era recato ogni mese a far visita alla sua tomba per comunicare con lei, per farle sapere che gli dispiaceva di averla abbandonata. Avrebbe reso quella città vivibile per lei, per onorare la sua memoria. Gli rincuorava sapere che sarebbe stata fiera di lui nel vedere l’uomo che era diventato. Aveva venticinque anni, però si sentiva più maturo e aveva grandi obiettivi da raggiungere. Si rese conto di avere la vista offuscata dalle lacrime. Sbatté gli occhi e si passò il dorso della mano per asciugarle. Non si vergognava di quei momenti di sentimentalismo, però ora aveva una cosa importante da fare. Si guardò attorno furtivamente, i suoi occhi nocciola che spiccavano da sotto la tesa dell’elegante cilindro. Aveva forse esagerato a mettersi in ghingheri? Non aveva desiderio di essere notato. Tra le informazioni che aveva raccolto, c’era anche quella della balzana idea di Jacob di accudire le prostitute di un bordello e forse non era un caso che si trattasse proprio del bordello che frequentava lui in passato. Ad ogni modo, voleva saperne di più ed era certo che avrebbe avuto risposte da Robin. Il nome non era veramente il suo, era un’identità che si era creata in quell’ambiente, scegliendolo probabilmente per via della folta chioma di capelli rossi. Gli veniva l’acquolina ripensando al suo petto prosperoso su cui aveva affondato il viso innumerevoli volte, deliziandosi delle pienezza dei seni e delle mammelle grandi e rosse. Non era stata la sua prima donna, ma di certo era stata la sua favorita. Si erano divertiti parecchio, a quel tempo! Dunque, dopo aver percorso strade sempre più infide e desolate, giunse infine al bordello, premurandosi di tenere il cilindro ben calato sul capo. Fu accolto da un ambiente caldo, impregnato dell’odore di alcolici e profumo a basso costo. Proprio come lo ricordava. La carta da parati rossa era ancora più rovinata e i tendaggi avevano raccolto una quantità di polvere non indifferente, quindi Jacob non aveva fatto un bel niente lì dentro. Andò al banco, dove si trovava l’anziana tenutaria che, in pochi anni, era diventata ancora più brutta e secca. Capo basso e voce appositamente roca, Jack disse: “Sono qui per la signorina Robin.”
La donna lo squadrò alcuni istanti, facendogli temere di essere stato riconosciuto, invece poi sollevò una mano e disse spiccia: “Di sopra, corridoio di sinistra, terza stanza. Il pagamento subito.”
Se lo ricordava bene, infatti aveva già preparato il denaro nella tasca, quindi lo estrasse e lo ripose nella mano scheletrica della vecchia. Bene, il prezzo non era cambiato. Si sfiorò la tesa del cilindro e salì le scale per arrivare al piano di sopra, dove poi si diresse con sicurezza nella stanza che conosceva bene. Bussò tre colpi e, ricevuta risposta, entrò.
“Buonasera, signore! Siete nel posto giusto se volete ritrovare la pace dei sensi!” Stesso tono zuccherino, stesso sorriso ammaliatore, stessa chioma rossa come l’inferno, per non parlare delle curve generose che avrebbero fatto sciogliere anche il più duro degli uomini. La donna, di non più di una trentina d’anni, gli andò incontro per sfilargli il cilindro dal capo. Il sangue le si ritirò dal viso nel vedere di chi si trattava. “Jack…”
Lui sorrise, compiaciuto: “Sapevo che non ti eri dimenticata di me.” La prese tra le braccia e le rubò un bacio forte che le fece male alle labbra. Lo ricordava eccome, quel ragazzo non era certo gentile quando si trattava di toccare una donna. Fu questo pensiero a spingerla a separarsi da lui. Lo guardò severamente: “Jacob sa che sei tornato?”
“No. E non deve saperlo. Sono qui per sapere cosa sta combinando quel buono a nulla”
Robin aggottò le sopracciglia: “Non è un buono a nulla, è un uomo buono e gentile. Ha insegnato a tutte noi come difenderci dai clienti troppo violenti e dagli aggressori per le strade. Gli dobbiamo molto.”
Jack non poteva credere alle proprie orecchie. Ridacchiò: “Scherzi, vero?”
“Niente affatto. Molte di noi devono la vita a tuo padre.”
Non è mio padre.” Sottolineò lui, stizzito, quindi prese respiro e cambiò discorso: “Di certo non è un caso che stia facendo tutto questo. Che cosa sai al riguardo?” Vide i suoi occhi tremare e un attimo dopo distolse lo sguardo. Non voleva dirglielo, dunque? Lei rispose con voce incerta: “Nulla.”
“Oh avanti, non fare la preziosa con me!” Incalzò lui, per poi allungare le mani sui suoi seni prosperosi. Gesto che gli costò uno schiaffo.  Rimasero entrambi immobili per alcuni istanti, poi, con gesto villano, Jack le afferrò una mano e se la portò all’altezza degli occhi. E vide l’anello con il simbolo.
“Lavorate per la Confraternita? E che cosa potete fare voi, un branco di frivole prostitute?”
Robin tirò con forza per rimpossessarsi della propria mano, quindi lo apostrofò: “Siamo donne che meritano rispetto come chiunque altro. E grazie a Dio Jacob ci sta aiutando a difenderci dai mostri come te.”
“Non osare.” L’avvertì Jack, ma lei non ascoltò il consiglio e continuò a ruota libera: “Tu, pur essendo un ragazzino, mi hai umiliata, mi hai trattata come un pezzo di carne da macello! Mi facevi orrore e sono stata felice di sapere che te n’eri andato.” Le gote arrossate dalla rabbia e lo sguardo tagliente, riprese: “Sei solo un porco e uno squilibrato. Dirò a Jacob che sei a Londra e ci penserà lui  a te.”
Era davvero troppo. Jack sentì il sangue ribollire e salirgli alla testa. Per tutto quel tempo aveva creduto che tra loro ci fosse un legame, che Robin lo amasse, magari. E invece anche lei era solo una falsa bugiarda. E ora l’avrebbe pagata cara. Prima che lei potesse afferrare la maniglia della porta, Jack la prese per un braccio e la tirò fino a scaraventarla contro la struttura del letto. Il colpo improvviso alla schiena le spezzò il fiato in gola, per cui non fu in grado di gridare. Purtroppo. Un attimo ancora ed ecco che Jack la prese per il collo con entrambe le mani e la sollevò da terra, il suo sguardo era puro odio e le labbra erano strette per il disprezzo. Robin rantolò in cerca di aria, ma la presa era troppo forte. Improvvisamente si ritrovò libera, ma fu una magra consolazione, perché venne scaraventata contro il muro dove batté pesantemente la testa. Il rosso del sangue andò a confondersi con il colore dei capelli, una massa fiammeggiante che poi Jack andò ad afferrare con prepotenza. Cercò di liberarsi, inutilmente. Il viso vicinissimo al suo, Jack le disse tra i denti: “Sei solo una puttana. Siete tutte stupide puttane. Non meritate di vivere.” Sollevò il braccio libero e fece scattare la lama celata. Robin ebbe giusto il tempo di vederla brillare alla luce del lampadario e poi la sentì nitidamente nel collo. Un dolore terribile e inferto lentamente con il preciso scopo di farla soffrire. Il sangue prese a schizzare fuori a fiotti, andando a sporcare sia il volto che la giacca di Jack. Il suo sguardo folle che la fissava, un sorriso sinistro che si espandeva man mano che la lama tagliava la pelle delicata. Ormai priva di forze, Robin lasciò ricadere le braccia, mentre il mondo intorno a  lei perdeva forma e colore. Prima che esalasse l’ultimo respiro, Jack lasciò la presa ai capelli, di modo che il corpo cadesse pesantemente sul pavimento. Ma non era ancora la fine. Le inferse un colpo di lama dritto nel ventre, all’altezza delle ovaie, seguito poi da uno alla coscia. Colpi ben assestati che la povera donna sentì fino in fondo e che la fecero tremare di riflesso.
“Ora, mia cara, puoi anche andare all’inferno.” La schernì Jack, ridacchiando, per poi alzarsi e andare ad aprire la finestra da dove si lanciò per fuggire.
Con un ultimo sforzo, nonostante il dolore lancinante e la morte che sopraggiungeva, Robin sfilò l’anello dal dito e, con un pizzico di fortuna, lo lanciò dentro il caminetto acceso a non più di due passi da lei. Gorgogliò, gli occhi spalancati nel vuoto. E morì. 

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