Lost and Found di Stephanie86 (/viewuser.php?uid=131302)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 1 *** 1. ***
1
«Qui
siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei
matta.»
«Come
lo sai che sono matta?» disse Alice.
«Per
forza,» disse il Gatto: «altrimenti non
saresti venuta qui.»
[Lewis
Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie]
I
ricordi degli Oscuri continuavano a vorticare
nella mente di Emma, un delirio di eventi neri ed emozioni travolgenti
che non
poteva contrastare, mentre precipitava nel turbine e non sapeva dove si
trovava. Non era in grado di liberarsi delle presenze estranee che le
offuscavano la mente. Eventi sanguinosi, orrori, azioni crudeli
compiute dagli
Oscuri le esplosero dietro gli occhi.
Vide
una pila di cadaveri davanti a lei...
uomini e donne, persino bambini... persone innocenti uccise per ordine
di
qualche Oscuro. Vide villaggi in fiamme, spade che cozzavano contro
altre
spade, una maschera a forma di teschio, il baluginare del pugnale,
sulla cui
lama si susseguivano i nomi di coloro che l’avevano
preceduta. Tremotino, Zoso,
Gorgon, Rothbart, Cornelius... Nimue. Anche Lily. Lilith Page. Il suo
nome era
impresso su quell’arma perché lei
l’aveva voluto, perché aveva deciso di
salvarle la vita, riempiendola di oscurità.
Gridò,
pregando che ci fosse qualcuno capace di
liberarla da quell’incubo, ma nessuno rispose. Era sola.
Poi
vecchie memorie si fecero largo in quella
nube lugubre. Tutti gli eventi, da quando aveva salvato Regina fino al
momento
in cui Lily aveva usato la spada per trafiggerla e distruggere
l’oscurità,
corsero davanti a lei, in rapida successione.
E
il film ripartì daccapo. Vide se stessa
neonata e messa in una teca da suo padre. Vide Azzurro ferito dai
soldati di
Regina. La maledizione. Lei che passava da una casa famiglia
all’altra. Lily in
quel supermercato. Lily che le mentiva e gridava il suo nome
sporgendosi dal
finestrino dell’auto. Lei che cancellava la stella disegnata
sul polso. Vide
Ingrid e vide Neal. Vide Henry che bussava alla sua porta.
“Mi
chiamo Henry. Sono tuo figlio.”
Regina
sulla soglia di casa.
“Lei
è la madre biologica?”
“Salve.”
Henry
seduto davanti al mare. Un incendio.
Graham morto tra le sue braccia. Regina che distruggeva il suo cuore e
apriva
lentamente il pugno lasciando che la polvere si disperdesse...
Allora
udì una risata.
La
Salvatrice nel mio regno.
Emma
trasalì. Un’altra coscienza si accostò
alla sua. Ma non era come accostarsi alla mente di Lily, non era come
guardare
attraverso i suoi occhi. Quella coscienza era incredibilmente vasta.
Era
prepotente. Ed era potente. Sbirciò e frugò nella
sua testa senza troppi
riguardi.
Chi
sei? Cosa vuoi?, domandò Emma.
Sono
il padrone di casa, Emma. Di nuovo la
risata. Una risata maschile, divertita e sprezzante. Adesso
sei nel mio
regno. È un piacere. Ci incontreremo presto. Spero che il
posto ti piaccia.
Le
presenze oscure si dileguarono e così anche
la voce.
Emma
precipitò nel vuoto.
-
Lily.
Si
mosse di malavoglia. Non voleva sollevare le palpebre.
-
Lily...
-
Uhm...
Stava
sognando qualcosa che riguardava Emma. Emma, una grande casa in riva al
lago,
una telecamera... e draghi. Era un bel sogno, non un incubo, per questo
si
rifiutò di dar retta alla voce che la chiamava. Una parte
del suo cervello
sapeva che, aprendo gli occhi, avrebbe trovato solo cose spiacevoli.
Una
mano la scosse leggermente.
“Lily.
Ti voglio bene, Lily.”
Sospirando,
Lily sollevò le palpebre e incrociò gli occhi
grandi e celesti di Malefica, che
la osservava con attenzione.
-
Che cosa è successo? – domandò, confusa.
-
Sei svenuta. – rispose sua madre.
Lily
girò la testa verso sinistra e vide il traghettatore
dell’Ade. Scorse i cerchi
di fiamma che circondavano il suo sguardo. Scorse il labbro inferiore,
rovesciato infuori, i denti marci, la barba lunga, le narici che
vibravano ed
emettevano bianchi vapori.
-
Non guardarlo. – le intimò Tremotino. Era in piedi
e dava le spalle a Caronte.
Guardava avanti, in attesa che l’altra sponda apparisse nella
fitta nebbia che
li avvolgeva.
Henry,
dal canto suo, stringeva il libro in grembo ed evitava accuratamente
Caronte.
Però avvertiva il peso di quegli occhi. Aveva
l’impressione che lo stessero
invitando a voltarsi, che stessero cercando di persuaderlo ad
immergersi in
essi. Era convinto che, se il traghettatore avesse usato tutto il suo
potere,
avrebbe potuto finirlo con un battito di palpebre. Quindi si
concentrò sul
lungo bastone che utilizzava per spingere avanti la barca.
-
Ci
siamo quasi. – disse Tremotino, ad un certo punto.
Qualche
metro più in là la nebbia si diradava. Comparve
un ponticello di legno sui cui
pali erano montate delle fiaccole. L’imbarcazione si
accostò ad esso e si
incagliò sul fondo. Era impossibile capire che cosa ci fosse
oltre il muro di
nebbia. Tutto era ancora nascosto, buio e silenzioso.
Lily
si alzò in piedi, preparandosi a scendere. Tremotino,
intanto, infilò una mano
in una tasca interna della giacca e ne estrasse un sacchettino di
cuoio. Lo
aprì e lasciò cadere sul palmo di Caronte una
manciata di monete. Oboli.
Il
traghettatore li fece sparire in un secondo.
Città
di Smeraldo. Oz.
Il
tornado si dissolse e Zelena finì gambe all’aria.
Si raggomitolò su se stessa
per proteggere la bambina, che cominciò a piangere e ad
agitare braccia e
gambe.
-
Va
tutto bene. - sussurrò Zelena, scostandosi i capelli dal
viso e guardandosi
intorno per assicurarsi di essere nel posto giusto.
C’erano
un sacco di cianfrusaglie vicino a lei. Pietre, abiti stracciati, una
poltrona,
pezzi di legno che erano forse i resti di qualche abitazione che la
tromba
d’aria aveva sradicato, lenzuola, oggetti di vario genere.
Più in alto, oltre
le chiome degli alberi, la Città di Smeraldo proiettava i
suoi fasci di luce
verde contro il cielo scuro.
Zelena
sorrise, soddisfatta. - Siamo a casa, fagiolina. E senza quella
scocciatrice di
mia sorella a metterci i bastoni fra le ruote.
La
bambina si acquietò e parve fissarla. Tese una mano
minuscola, afferrando un
lembo del mantello di sua madre.
-
Bene,
adesso dobbiamo solo...
Qualcosa
l’azzannò alla caviglia. Zelena, istintivamente,
scalciò per liberarsene e per
tutta risposta ottenne un guaito nervoso. Una palla di pelo grigio
atterrò
sulle zampe posteriori e si ribaltò di lato, per poi
risollevarsi agilmente.
-
Ancora
tu, maledetta creatura pulciosa!
Toto,
il cane di Dorothy Gale, prese ad abbaiare furiosamente contro di lei e
a
mostrare i denti, piccoli e appuntiti.
-
Se
sei da queste parti, significa che anche quella seccatrice si trova nei
dintorni. - Allungò una mano guantata per acciuffarlo, ma il
cane balzò in là,
ringhiando. Allora Zelena usò la magia e in un baleno Toto
si ritrovò ad
agitare le zampe in un comico balletto mentre la strega lo teneva
stretto per
la collottola. - Vedi, fagiolina? Abbiamo trovato anche il nostro
animale da
compagnia. Ti piacciono i cani?
Udì
delle voci in avvicinamento. Una di esse chiamava Toto.
Zelena
vide un cestino ancora intatto tra le cose portate dal tornado, lo
prese e ci
ficcò dentro l’animale, abbassando il coperchio e
zittendo i suoi fastidiosi
guaiti. Poi si nascose nell’ombra.
Fagiolina
emise un gorgoglio, ma poi tacque, come se avesse capito che la
situazione lo
richiedeva.
Dorothy
Gale sbucò nello spiazzo in cui il tornado aveva gettato la
strega, armata di
balestra. Con lei c’erano le due ragazze che le avevano
già dato fastidio a
Dunbroch, quando aveva accompagnato Artù nella ricerca di
quell’elmo magico.
-
Cercavate
me? - disse Zelena. - Vedo che hai raccolto un paio di randagie mentre
ero via,
Dorothy.
-
Attenta,
Zelena. - disse Ruby.
-
Vuoi
metterti ancora contro di noi? - chiese Mulan, dandole man forte. Poi
notò il
fagotto che stringeva fra le braccia. - Ha una bambina con
sé.
-
Già.
Non sarete mica così brutali da attaccarmi mentre ho una
bambina in braccio.
-
Sei
diventata anche una ladra di bambini, adesso? - le chiese Dorothy,
tenendola
sempre sotto tiro.
-
Ladra
di bambini? È mia figlia.
-
Oh, certo. - Dorothy roteò gli occhi, quasi le avesse appena
raccontato la
peggiore delle barzellette.
-
È
vero. - Zelena sfiorò il nasino della bambina, con
delicatezza. - Sai, Dorothy,
tu puoi anche tenerti l’amore del popolo. Io... ho qualcosa
di meglio. Ho mia
figlia. E la mia permanenza ad Oz è destinata a prolungarsi
nel tempo.
-
Vorrà
dire che te la vedrai con noi.
-
Davvero?
E come intendi fare? Vuoi gettarmi addosso una secchiata
d’acqua? Mi sto
liquefacendo dalla paura. - la schernì. - Ah...
un’ultima cosa. Come
risarcimento per esserti messa contro di me anni fa... ho deciso di
prendermi
qualcosa che ti appartiene.
Sollevò
il cestino e lo aprì. Toto mise fuori la testa.
Dorothy
si sporse per prenderlo, ma Zelena richiuse il coperchio. - Ah, no!
Questo lo
tengo io. A meno che tu non abbia qualcosa da darmi in cambio... le
scarpette,
ad esempio.
-
A
che ti servono le scarpette se vuoi restare qui ad Oz?
-
Ad
assicurarmi che non le userai contro di me. E poi sono mie! Me le sono
guadagnate! - La sua voce era diventata stridula come quella di una
ragazzina a
cui avevano appena rubato un giocattolo. Una
ragazzina molto invidiosa. - Il mago le ha
date a me.
-
Il
mago era un buffone. - rispose Dorothy. - Un buffone che hai
trasformato in una
delle tue scimmie volanti!
-
Poco
importa. Quelle scarpette mi appartengono. E tu me le restituirai. Il
cane per
le scarpette. È molto semplice. Hai tempo fino a domani al
tramonto. - Zelena
rise, divertita e infine scomparve in una nuvola verde, portandosi
dietro il
cestino e la sua bambina.
Oltretomba.
Nessuno
di loro sapeva che cosa aspettarsi, se fiamme altissime o un gelo
perenne o un
luogo buio e pieno di baratri e creature pronte ad azzannarli alla
gola.
Tremotino ne aveva parlato come di un luogo orribile...
Tuttavia,
quando le nebbie si diradarono e il lago fu alle loro spalle, quello
che li
attendeva era ben lontano dalle aspettative.
-
Non è possibile. – commentò Malefica.
-
Che cos’è? Uno scherzo? – chiese Uncino,
facendo un giro su se stesso.
Il
cielo sopra le loro teste era rosso e gettava una luce malsana sulla
città.
Su
Storybrooke. L’Oltretomba era uguale a Storybrooke, fatta
eccezione per alcuni
dettagli.
-
Nessuno scherzo, capitano. Siamo nel posto giusto. – rispose
Tremotino,
guidandoli lungo la via principale.
Gli
edifici lungo i due lati della strada sembravano più vecchi.
Alcuni avevano i
vetri rotti o le porte sbarrate da pesanti assi di legno. La torre
dell’orologio era crollata e giaceva semisepolta
nell’asfalto. Le lancette erano
ferme sulle otto e quindici. C’erano auto parcheggiate vicino
ai marciapiedi e
le persone camminavano, da sole o a gruppetti, come se stessero facendo
una
semplice passeggiata.
-
Perché
l’Oltretomba è uguale a Storybrooke? –
chiese Regina, costernata.
-
Queste sono domande inutili. Quello che conta è che tutte
queste persone sono
morte e intrappolate, perché hanno delle questioni in
sospeso. – spiegò
Tremotino.
Nell’aria
ristagnava un odore indefinibile. Non era sgradevole, ma nemmeno
piacevole.
Lily
occhieggiò un uomo davanti alla vetrina di un negozio. Era
impegnato a scrivere
CHIUSO con la vernice spray. Lei lo vide di profilo e, per un secondo,
le
sembrò di conoscerlo. Le sembrò di riconoscere il
taglio di capelli sotto il
berretto che indossava, la giacca di pelle, i jeans un po’
logori, il mento
aguzzo.
Murphy?
Quasi
lui le avesse letto nel pensiero, voltò la testa di scatto e
poi si infilò in
un vicolo.
-
Va
tutto bene? – le chiese sua madre.
-
Sì. – si affrettò a rispondere Lily.
– Quindi anche Emma è qui.
-
Beh, è morta da Oscuro. – le rispose Tremotino. A
giudicare dalla sua
espressione, Lily avrebbe detto che la stesse fissando come si fissa
una
persona che sta mettendo a dura prova la sua già precaria
pazienza. – Non può
che trovarsi qui.
“Perché
dovrei fare qualcosa per te?”
“Perché
in caso contrario potrei dire a Belle che razza di uomo sei. Ho ancora
la
magia. L’avevo anche prima di diventare un Oscuro. Potrei
farcela ad arrivare
da lei prima che tu mi uccida. Potrei anche farle del male
personalmente.”
Lily
non metteva in dubbio che Tremotino la detestasse. Aveva minacciato
Belle e
nominato suo figlio. E Tremotino era un Oscuro. Di nuovo. Aveva il
potere di
tutti gli Oscuri dentro di sé. Era certa che prima o poi
avrebbe scovato un modo
per fargliela pagare.
Ma
a
Lily questo non importava, ora. – Dividiamoci. Emma non
è arrivata da molto.
Forse qualcuno l’ha vista.
-
Vengo
con te. – disse Regina. Si sentiva osservata. Le sembrava che
mille occhi la
stessero scrutando e non era solo dovuto al fatto che i passanti li
stessero
effettivamente fissando, forse perché capivano che non erano
morti. C’era
qualcos’altro. L’opprimente sensazione che ci
fossero altri sguardi puntati su
di lei e che fossero tutti ostili. Alzò la testa, quasi si
aspettasse che il
cielo rosso fosse munito d’occhi. - Prima ce ne andiamo da
questo posto e
meglio sarà.
Lily
ne fu sorpresa, ma non commentò. Decise di avviarsi verso la
tavola calda.
Ognuno
prese una direzione diversa.
Città
di Smeraldo. Oz.
Zelena
raggiunse il palazzo a cavallo di una scopa, spazzò via la
gentaglia che
bivaccava intorno ad esso ed irruppe, gettando le sue guardie nel
panico.
Ognuno riprese la sua posizione e non parlò se non invitato
da lei a farlo.
Nella
sala in cui un tempo aveva incontrato il Mago di Oz c’erano
due uomini con le
uniformi stropicciate che dormivano tra due colonne dorate. Zelena li
afferrò
per il collo e li trasformò in scimmie volanti. Le creature
svolazzarono,
berciando, per tutta la sala, si scontrarono e cercarono di prendersi a
morsi a
vicenda.
Il
tendone dietro al quale il Mago si era celato per molto tempo era
scostato. La
strega armeggiò per qualche minuto con la magia e
creò una culla. Vi depositò
la bambina, avvolgendola accuratamente nella copertina bianca con
ricami verdi
e poi azionò il giostrino appeso sopra la sua testa. Le
minuscole figure sulle
scope presero a girare e a tintinnare.
Zelena
sorrise e concluse infilando il cagnaccio di Dorothy Gale in una
gabbia.
La
bambina, tuttavia, sollevò gli occhi, guardando le due
scimmie volanti e poi il
liquido verde che gorgogliava nelle colonne dorate.
-
Casa. – disse Zelena, allargando le braccia. Si tolse il
mantello e lo lanciò
lontano da sé. Sciolse il nastro che le legava i capelli. -
Non c’è posto
migliore della propria casa, vero fagiolina? Niente sorelle che cercano
di
portarti via tutto. Niente ladri impiccioni che credono di sapere cosa
sia
meglio per te...
Le
porte si spalancarono.
Zelena
formò una sfera di fuoco e si preparò a
scagliarla contro l’intruso. - Che cosa
ci fai tu qui? Non ti sei divertita abbastanza in esilio?
-
Non sono venuta per combattere.
-
Tu
non vuoi mai combattere, Glinda. Anche perché se lo facessi,
moriresti!
La
bambina si agitò nella culla, singhiozzando.
-
Non
ci hai messo molto a farti viva... - continuò Zelena,
chiudendo le dita e
spegnendo le fiamme. Scese di un gradino. - Sei venuta per
un’altra opera di
persuasione? Ci hai già provato una volta. Non ti conviene.
Il
vestito bianco e argento di Glinda mandava barbagli luminosi, colpito
dalle
luci della sala. La Strega Buona del Sud alzò una mano,
quasi la stesse
zittendo. - Credevo fossi morta, Zelena.
-
Ti
piacerebbe, vero? Come vedi, sono viva e vegeta. E sono tornata.
-
Nessuno
di noi vuole combattere. C’è gente innocente,
là fuori. Possiamo trovare un
accordo?
Una
delle cose che detestava di più era proprio il tono benevolo
di Glinda. Un
tempo l’aveva abbindolata con tutte quelle fandonie sulla
possibilità di
cambiare, di essere diversa e non costantemente logorata
dall’invidia e dal
desiderio di vendetta nei confronti di sua sorella. Un tempo Glinda
l’aveva
fatta sentire accettata, l’aveva accolta, offrendole un posto
accanto alle
altre Streghe di Oz... posto che poi aveva ceduto a quella maledetta
ragazzina
venuta dal Kansas!
-
Sparisci,
Glinda. È passata l’epoca in cui mi sono quasi
fidata di te. Non sfidare la mia
pazienza. - disse Zelena, rabbiosamente.
-
Ho
fallito molto tempo fa. - ammise lei, avvicinandosi di qualche passo.
Sbirciò
la culla oltre la sua spalla. - Ho sbagliato e me ne pento, ma tu non
puoi
continuare a terrorizzare questa gente. Hai una figlia, adesso. Devi
pensare a
lei.
-
Ed
è quello che intendo fare, se non mi metterete i bastoni fra
le ruote! - gridò
Zelena.
-
Dov’è
il padre di quella bambina?
-
Il
padre non è affar tuo.
-
Gliel’hai portata via, vero?
Zelena
strinse i denti, fissando Glinda con gli occhi sgranati. Solo allora si
accorse
che non era sola. C’era un uomo, con lei, ma era rimasto sul
fondo, come
un’ombra, una guardia silenziosa che lasciava il lavoro alla
donna dotata di
poteri magici e si limitava a studiare la situazione. Era un uomo alto,
con la
pelle nera e le braccia e il collo ricoperti di tatuaggi a forma di
diamante.
Indossava una giubba di un rosso sgargiante e i pantaloni neri infilati
negli
stivali muniti di speroni. Portava una faretra piena di frecce a
tracolla e
stringeva l’arco nella mano sinistra.
Zelena
sollevò un sopracciglio. - Ti sei trovata una guardia del
corpo, Glinda? Non
una gran scelta, lascia che te lo dica...
-
Lui
è Fiyero, il principe dei Winkie. Il suo popolo e Oz sono
alleati da molto
tempo.
-
Sono
tuoi alleati, vorrai dire. Adesso fuori, tutti e due. Non osate mai
più mettere
piede nel mio palazzo! Dì pure alla tua protetta che il
nostro accordo è ancora
valido. O si presenta qui domani al tramonto con le scarpette o
userò il suo
orribile cane come pelliccia personale!
Toto
prese ad abbaiare. Azzannò una sbarra e tirò,
come se ciò potesse essere in
qualche modo utile.
Glinda
disparve in una nuvola bianca, portandosi dietro Fiyero.
Oltretomba.
Oggi.
Il
Granny’s era inondato della medesima luce rossastra che
opprimeva il mondo
esterno e filtrava attraverso le persiane abbassate. Alcune persone
sedevano ai
tavoli, bevendo cappuccini e caffè o leggendo giornali.
L’orologio appeso alla
parete segnava le otto e quindici, proprio come la Torre crollata.
Henry,
che aveva seguito Lily e Regina, si diresse subito in fondo, imboccando
la
porta che conduceva ai piani superiori. Era pensieroso e molto
concentrato.
Fece tutto come se avesse avuto un piano in mente.
Lily,
intanto, si approssimò al bancone. Dietro di esso, la Strega
Cieca vigilava sul
locale, annusando chiunque vi mettesse piede. Annusò anche
lei e Regina, mentre
i suoi occhi velati fissavano il nulla e gli stopposi capelli biondo
platino le
ricadevano sul viso in un’acconciatura molto discutibile.
-
Questo odore lo conosco! – esclamò, sporgendosi in
avanti, verso Regina. – La
Regina Cattiva! Io sono morta per colpa tua e di quei maledetti
bambini! Hai
portato con te anche Hansel e Gretel? Il forno sul retro è
pronto!
Più
di una testa si voltò di scatto nella loro direzione.
-
Dall’odore non sembri affatto morta, il che è un
vero peccato. E con te... beh,
non sono quei ragazzini. – Qualche altra annusata in
direzione di Lily. - È un
odore nuovo. Carne fresca. Giovane.
-
Non siamo morte. – precisò Regina. La sensazione
di essere osservata si era
fatta ancora più pressante. – Stiamo cercando una
persona.
-
Oh, una persona! E chi? – chiese la Strega Cieca.
-
Si
chiama Emma. – disse Lily, in fretta. –
È arrivata da poco. Lei è...
-
La
Salvatrice! – esclamò la Strega, sbattendo lo
straccio sul bancone.
-
L’hai vista? – domandò Lily. –
Sai dirci dov’è?
Regina
sentì che il cuore balzava in avanti.
-
Beh, no! Ma quel nome è molto famoso da queste parti.
Crudelia non ha fatto
altro che lamentarsi del modo in cui la Salvatrice l’ha
uccisa. – Rise, come se
avesse appena fatto una battuta molto spiritosa. – Che cosa
ti porto, intanto,
Lily? Pan di zenzero? Dei bambini?
Lily
aggrottò la fronte.
-
Scherzo. – precisò la Strega. – In ogni
caso, non posso aiutarvi. Non è passata
di qui. Non ancora. Però il pan di zenzero non è
male, te lo assicuro. Per te
niente, Regina Cattiva, sia chiaro!
Il
campanello del Granny’s trillò. Un uomo si
fermò davanti alla porta,
sistemandosi il colletto della giacca e puntando gli occhi argentei su
di loro.
Non
si era affatto sbagliata.
-
Murphy. – disse Lily, mentre avvertiva tutti i muscoli del
suo corpo
irrigidirsi. Nella sua testa passarono una serie di immagini poco
piacevoli:
lui che sparava in testa al proprietario della casa che avevano
svaligiato. Lui
che si sporgeva verso di lei davanti alle pompe di benzina,
sussurrandole
quanto fossero una bella squadra. Lei che gli sfilava la pistola dai
calzoni e
calava il calcio con forza sulla sua fronte. Sangue. La punta dello
stivale che
colpiva la sua testa.
-
Odile...
anzi, sarebbe meglio dire... Lilith. Non mi aspettavo di trovarti qui.
Che
sorpresa. – Sorrise, soddisfatto. – Qualcuno ti ha
dato la pedata che ti
meritavi?
-
Sono viva. – sentenziò, fissandolo in cagnesco.
– E tu invece... sei morto e
intrappolato.
-
Per colpa tua.
Regina
seguiva la discussione, perplessa, muovendo la testa da Lily a Murphy e
viceversa. Scosse il capo. – Non siamo qui per rivangare il
passato. Abbiamo da
fare.
-
Anch’io ho da fare. Al momento non sono venuto per Lilith...
purtroppo. –
Murphy si scostò ciuffi di capelli castani dalla fronte.
– Sono qui per voi,
Maestà. Benvenuta nell’Oltretomba.
Henry
tornò in quel momento. Nella mano destra stringeva una
chiave. Vide l’uomo che
stava parlando con sua madre e si fermò dietro di lei.
Regina si spostò, in
modo da mettersi tra il figlio e Murphy.
-
Per me? Perché? – chiese, guardinga.
-
Ci
hai seguiti da quando siamo arrivati, vero? – chiese Lily.
-
Oh, certo. – rispose Murphy. Tornò a rivolgersi a
Regina. – Ovviamente. So che
la Regina ha amato molto quando era solo una ragazza innocente... ha
amato
molto ed ora il suo primo grande amore vorrebbe vederla.
Regina
avvertì il gelo nelle ossa. Improvvisamente la sua
salivazione era azzerata.
Quando parlò di nuovo, a stento riconobbe la sua voce. -
Daniel?
Murphy
indicò la porta. – Andiamo. Venite con me. E...
portate pure il ragazzo e
Lilith. Niente scherzi o ve ne pentirete.
Poco
lontano dal Granny’s, Azzurro e Uncino si aggiravano per il
desolato cimitero
di Underbrooke e studiavano le tombe. Il posto era deserto, soffocato
dalla
luce malata e molto più grande della sua controparte, nel
mondo dei vivi. Alcune
lapidi erano dritte, intonse, con i nomi delle persone bloccate in quel
limbo
incisi sulla pietra. Altre, pur essendo dritte, erano solcate da crepe
inquietanti. Altre ancora erano rovesciate.
Tremotino
aveva detto che ogni anima intrappolata lì aveva una sua
lapide al cimitero.
Quindi se Emma si trovava davvero nell’Oltretomba, doveva
esserci anche la sua.
Killian
era seccato. Dopo un lungo vagare, colpì una tomba con la
punta del proprio
uncino e il contraccolpo gli riverberò nel braccio.
Avvertì una leggera scarica
elettrica, che lo costrinse a ritrarsi.
-
Ehi, sta attento! – disse David, raggiungendolo.
-
Che senso ha tutto questo? – chiese Killian. –
Tutte queste tombe... ce ne
saranno centinaia! Come troviamo quella di Emma?
-
La
troveremo. – affermò David. –
Sarà qui da qualche parte. Non dobbiamo darci per
vinti.
Il
vento scompigliò i capelli di Killian. Lui alzò
la testa, scrutando il cielo
rosso. Vide Malefica, in forma di drago, solcare le nuvole e dirigersi
verso i
boschi, a sud. – Ci siamo fidati di Tremotino, ma lui non ci
ha detto che cosa
ha in mente. E noi? A noi cos’è saltato in mente,
per tutti i diavoli? È il
Coccodrillo che ci ha detto di venire in questo cimitero!
-
Credo che Tremotino sappia quello che fa. – David vide delle
sagome in
lontananza. Persone che si muovevano fra le tombe. Erano distanti, ma
decise
che le avrebbe tenute d’occhio comunque. –
Continuiamo a cercare. E non
metterti nei guai. Abbiamo già abbastanza problemi.
-
Oh, quindi ti preoccupi per me. – disse Killian, sollevando
un sopracciglio. –
Non sapevo che ci tenessi.
-
Lo
faccio per Emma. – rispose. Tacque qualche momento. Parve
rifletterci, mentre
occhieggiava la tomba su cui il pirata si era accanito. Su di essa
capeggiava
il nome di un uomo: MURPHY LOGAN. C’era
una parte di lui che non aveva la minima voglia di vedere il nome della
figlia
su una lapide. C’era una parte di lui che ancora si ribellava
all’idea che Emma
fosse ingabbiata in quel posto. E si sentiva impotente,
perché non aveva idea
di come trovarla, né di come avrebbero fatto tutti loro a
portarla via.
-
Lo
so. Ma ammetterai che tutto questo fascino ha un potere anche su di te.
David
roteò gli occhi. – Sono un uomo impegnato. Come
te, del resto.
Killian
gli sferrò una pacca sulla spalla.
-
Va
bene. Forse hai ragione. – ammise David. – Diciamo
che mi sono... affezionato a
te. Non sei così male.
-
Ehi! – Biancaneve arrivò, correndo. –
Trovato qualcosa?
-
No. Non c’è traccia di lei. – rispose
Killian.
-
Nemmeno al parco. E neanche in biblioteca. – disse
Biancaneve, sistemandosi
meglio la faretra con le frecce in spalla. - Sembra che nessuno
l’abbia vista.
Città
di Smeraldo. Oz.
Ruby
e Mulan camminavano dietro a Dorothy nei boschi di Oz. La ragazza
procedeva con
la balestra in pugno, senza rivolgere loro la parola. Ogni tanto si
girava per
accertarsi che la stessero ancora seguendo.
-
Ho
combinato un bel pasticcio. - disse Ruby, parlando a bassa voce.
-
È
soltanto un cane. E conosco un modo per recuperarlo. Mi serve solo
qualche
ingrediente. - rispose Mulan.
-
Non
è soltanto un cane. Io credo che... per Dorothy sia molto
più di questo.
-
Ti
stai fidando del tuo fiuto? Lo recupereremo. Dorothy non
avrà bisogno di cedere
quelle scarpette.
-
Lo
spero. Tutto questo è successo per colpa mia.
-
Quando
non hai un’idea migliore, dai sempre la colpa a te stessa?
Ruby
stava per risponderle, ma poi mise il piede su una parte morbida del
terreno e
immediatamente una rete si chiuse su di lei, trascinandola verso
l’alto. Lanciò
un grido, mentre il mantello rosso le si aggrovigliava intorno alla
testa. Annaspò
e afferrò le corde con entrambe le mani.
Mulan
estrasse la spada e compì un giro su se stessa, aspettandosi
di vedere una
banda di soldati mandati da Zelena sbucare dal folto della boscaglia.
Ma
Dorothy non era altrettanto allarmata.
-
Credevo
che i lupi guardassero dove mettono i piedi. –
osservò la paladina di Oz,
agganciandosi la balestra alla cintura e incrociando le braccia al
petto.
-
Ce
l’hai messa tu, questa trappola? - chiese Mulan.
-
Mi
sembra ovvio. Ce ne sono altre lungo il sentiero.
-
Avresti anche potuto avvisarci. - disse Ruby, infilando la testa in uno
spazio
fra le corde.
-
Che
trappole sarebbero, se avvisassi i viandanti della loro presenza?
Ruby
sospirò. - Va bene. Come vuoi. Puoi farmi scendere, adesso?
-
Perché
non ti trasformi? Scenderai prima.
-
Perché...
potresti avere paura di me.
Dorothy
sembrò infischiarsene bellamente. - Io non ho paura di
niente.
Mulan
aveva sentito abbastanza. Notò una radice che sporgeva e la
usò come trampolino
per spiccare un balzo. Roteò la spada, tagliando la rete.
Ruby piombò in mezzo
all’erba e alle foglie, grugnendo. Mulan le tese una mano e
l’aiutò a
rialzarsi.
Ruby
incrociò lo sguardo di Dorothy, aspettandosi qualche altra
frecciatina.
Non
ce ne furono. La faccia di Dorothy parve cambiare. O meglio, non
cambiò
affatto, però Ruby vide due volti; quello della protettrice
del popolo di Oz,
duro e accigliato... e un’altra, poco sotto la superficie.
Durò pochi secondi,
ma non prima che lei si rendesse conto di averla già vista
da qualche parte. E
non poteva essere, perché non aveva mai incontrato Dorothy
in vita sua.
Poi
l’impressione disparve. Dorothy riprese a camminare,
voltandole seccamente le
spalle.
Zelena
ne aveva abbastanza di visite non programmate. Quella di Glinda
l’aveva
oltremodo irritata e i guaiti di quel maledetto cagnaccio le facevano
venire
una gran voglia di tirargli il collo.
Quindi
se la prese con alcune delle sue guardie, torturandole quel tanto che
bastò per
costringerle a supplicarla.
Poi
scese nelle prigioni. Era da quando Regina e i due idioti diventati i
suoi
alleati preferiti avevano lanciato l’ultima maledizione,
quella che aveva
portata anche lei a Storybrooke, che non vi metteva piede.
Le
mattonelle dorate cedettero il posto alla pietra nera e fredda. Gli
stretti
cunicoli la portarono dritta alle celle. Alcune erano vuote. In altre
c’erano
dei prigionieri, che la osservarono passare, alcuni timorosi, altri
terrorizzati dalla sua presenza, altri ancora troppo affamati o privi
di forze
per poter reagire.
-
La
Strega dell’Ovest. - disse un uomo, afferrandosi alle sbarre.
Il suo volto era
leggermente scavato. Aveva i capelli lunghi e in disordine, la barba
folta e
gli abiti laceri. La faccia scura rivelava tutta la stanchezza
derivante dalla
lunga prigionia, ma era anche un volto irridente. - Allora era vero
quello che
blateravano tutti. Siete viva. Vorrei dirvi che sono lieto di vedervi,
ma...
ecco, credo di non esserlo.
Calò
il silenzio. Nessuno osò fiatare, sapendo che il tono del
prigioniero l’avrebbe
certamente condotto ad una morte orribile.
Zelena
rise, divertita. Nel buio, i grandi occhi azzurri della Strega
brillavano come
gemme. Non aveva più la pelle verde, né il
consueto cappello a punta, ma
sprizzava perfidia da ogni poro. - Io, invece, sono molto lieta di
vedervi,
generale Shang. Spero non vi siate sentito troppo solo
quaggiù, per tutto
questo tempo. I vostri uomini sono scimmie volanti molto affidabili. Vi
ringrazio.
Shang
arricciò il naso. Gli occhi a mandorla sotto le sopracciglia
cespugliose continuarono
a fissare Zelena. - Uomini leali. Un giorno saranno di nuovo uomini
veri.
-
Un
giorno? Quando? Prima dovrete uccidermi. E sapete benissimo che non
potete
farlo. Non avete più nemmeno una spada.
-
Là
fuori c’è qualcuno che ha a cuore la gente di
questo posto. Se è coraggiosa
come dicono, allora... quel giorno verrà presto.
-
Oh,
sì. Non vedo l’ora! Così vedrete che
l’eroina in cui tutti ripongono le proprie
speranze non è altro che una povera sciocca!
La
risata della Strega riecheggiò per gli stretti corridoi
delle segrete, anche
dopo che se ne fu andata, richiudendosi la porta alle spalle.
Oltretomba.
Lily
ed Henry furono costretti ad aspettare fuori dal luogo in cui Murphy
aveva
voluto condurre Regina.
Non
le piaceva averlo intorno. Doveva guardarsi le spalle tutto il tempo e
questo
la rendeva nervosa. Non poteva permetterselo, perché doveva
rimanere
concentrata sull’obiettivo principale, cioè
salvare Emma. E andarsene da lì
alla svelta.
Henry
estrasse l’I-Pod dalla tasca della giacca. Provò
ad accenderlo. Dato che
dovevano aspettare, si domandò se quell’affare
funzionasse anche lì.
L’I-Pod
si accese e lui sorrise, soddisfatto. Almeno una cosa andava per il
verso
giusto...
Offrì
una cuffia anche a Lily.
-
Non sei preoccupato per tua madre? – domandò lei.
-
Sì. Lo sono. Ma Daniel non le farebbe mai del male.
È stato il suo primo amore.
– In realtà non era semplicemente preoccupato. Il
cuore gli batteva un po’
troppo forte. Temeva che fosse una trappola, ma Regina
l’aveva rassicurato,
dicendogli di aspettare lì. Tese di più la mano,
continuando ad offrire la
cuffia.
-
Non credo di poter ascoltare musica, adesso.
-
Sono i Rammstein. So che ti piacciono. Quando siamo venuti a cercarti
per la
bacchetta... li stavi ascoltando.
Lily
ci pensò su qualche istante, poi sedette accanto al
ragazzino. – Non immaginavo
che fossi il tipo da Rammstein.
-
Non lo sono. Diciamo che... preferisco altre cose. Però non
sono così male.
Lily
mise la cuffia nell’orecchio sinistro ed Henry
schiacciò play.
Murphy
portò Regina in fondo al corridoio. Bussò alla
porta e poi l’aprì, spingendola
dentro.
Sulle
prime non aveva capito per quale motivo l’avesse condotta
proprio lì. Non aveva
capito per quale motivo
Daniel si trovasse... nel suo ufficio.
Poi...
-
L’ho portata, Maestà. Così come mi
avete chiesto. – disse Murphy.
Il
fuoco scoppiettava nel camino. Le tende rosse erano tirate, lasciando
la stanza
in penombra. Su un mobile era stato disposto un cesto pieno di mele
rosse. Ogni
quadro, ogni mobile, ogni suppellettile era sistemato così
come nel suo vero
ufficio a Storybrooke. Solo che i dipinti erano diversi. Ce
n’era uno, accanto
al camino, che non aveva mai visto, un quadro che raffigurava una donna
vestita
di blu che stringeva un frutto, che inizialmente le parve una mela a
cui
mancava uno spicchio.
-
Sono felice di vederti, Regina.
-
Madre... – biascicò lei, fissando Cora con gli
occhi sgranati. - Sei qui...
_________________________
Angolo
autrice:
Ciao
a tutti e ben ritrovati.
Questa
fan fiction, come precisato nell’introduzione, è
il seguito di “The Lost Hero”
e fa parte di una serie.
Si
riparte da dove avevamo concluso e la storia si dividerà
spesso in due parti
(una ambientata ad Oz ed una nell’Oltretomba).
Buona
lettura e grazie a tutti quelli che leggeranno.
|
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Capitolo 2 *** 2. ***
2
“Bisogna
sapere che io, per mia sorte,
fui sempre di quelli che s’innamorano in modo
eccessivo e inguaribile,
e dei quali nessuno mai s’innamora.
Mia madre era stato il primo, e il più grave,
dei miei amori infelici”
[Elsa
Morante, Menzogna e sortilegio]
Foresta
Incantata. Τrentacinque anni fa.
“Odio
la sua carnagione pallida”, disse Regina,
strappando seccamente un petalo nero dalla rosa che stava torturando.
La sua
visita al villaggio dov’era stata avvistata Biancaneve si era
rivelata un
totale fallimento. Aveva trovato solo un mucchio di lerci paesani
pronti ad
offrirle una torta ai mirtilli e a raggirarla. Biancaneve
c’era, aveva
circondato il villaggio ed era spalleggiata da quell’idiota
di Azzurro, nonché
dai suoi fedelissimi nani. “Odio la sua insopportabile
sincerità. E il suo
minuscolo esercito di disgustosi mostriciattoli!”
“Credo
che siano... nani”, asserì Henry,
entrando nella grande sala del palazzo.
“Non
mi interessa che cosa sono. Mi
disgustano!”, rispose Regina, voltandosi. Suo padre se ne
stava là, con le mani
dietro la schiena. Non aveva fatto altro che ripeterle quanto inutile
fosse la
sua vendetta, quanto questo la rendesse simile a Cora e quanto fosse
grande il
potere che Cora avrebbe sempre avuto su di lei, se non avesse
abbandonato i
suoi propositi. Regina ne aveva abbastanza. Di lui e del suo modo di
ronzarle
attorno. Non avrebbe mai capito che tutto ciò che stava
facendo per impedirle
di arrivare a Biancaneve non sarebbe mai servito. “E avevo
chiesto di restare
sola, papà. Quindi se sei venuto qui per parlare di mia
madre, lascia stare!
Desidero solo che questo compleanno finisca.”
“Hai
una visita”, disse Henry, mentre Regina si
allontanava a passo svelto. “Ti sta aspettando.”
“Quale
visita? Chi altro hai invitato? Sappi
che non sono dell’umore per...”
“Non
l’ho invitata io, infatti.”
Malefica
era nella sala che era stata riservata
al banchetto che Henry aveva voluto a tutti i costi organizzare per il
suo
compleanno.
La
lunga tavola era già imbandita e al centro
faceva bella mostra di sé un cesto pieno di mele rosse.
“Le
tue guardie sono molto scortesi. Non
volevano che entrassi”, disse Malefica, sfiorando la torta ai
mirtilli che quella
contadina le aveva offerto. “Non ti dispiacerà se
mi sono liberata di un paio
di loro. Stanno solo dormendo.”
“Puoi
anche mangiarteli, per quanto mi
riguarda”, rispose Regina. “E se sei venuta per la
festa, puoi andartene e
portati via pure i regali.”
“Non
ti ho fatto nessun regalo, dato che so che
cosa vuoi.”
“Aiutami
a procurarmelo, allora.” Regina
osservò l’amica nel suo abito blu scuro decorato
con ricami viola, con i
boccoli biondi che ricadevano sulle spalle e la sfera in cima al suo
scettro
che scintillava incrociando la luce delle torce. “Se
piomberò su quel maledetto
villaggio sulla schiena di un drago forse capiranno da che parte devono
stare.”
“Lo
distruggerai comunque, quel villaggio.
Anche senza di me”, rispose Malefica, come se il discorso
l’annoiasse.
“Mi
sembra di sentire mio padre...”
“Ti
sbagli. Tuo padre vorrebbe che abbandonassi
l’idea della vendetta. Io non desidero affatto che
l’abbandoni. Ma devi rivolgerla
sulla persona giusta.”
“Mia
madre è già stata punita. È
intrappolata
nel Paese delle Meraviglie!”
“Che
atroce sofferenza. Sembra quasi che tu non
conosca affatto Cora. Prima o poi ne verrà fuori e allora
sarà peggio per te.”
“Perché
tu invece la conosci bene? Mia madre
parlava di te nel suo libro... però non mi hai mai detto
come vi siete
conosciute.”
“L’ho
conosciuta quando era ancora molto
giovane. E non era potente come ora. Ma sai... non è
importante.”
Regina
storse la bocca in una smorfia. “Perciò
sei venuta solo per rimproverarmi?”
“No.”
Malefica guardò la torta ai mirtilli.
Allungò una mano e affondò l’indice
nella marmellata. Se lo portò alle labbra e
assaggiò il dolce, gustandolo piano.
“Buona.”
“È
appena passabile”, replicò Regina, con una
mano sul fianco e l’altra che stringeva il bordo del tavolo.
“Sanno tutti che
preferisco le mele.”
Malefica
agitò una mano sopra alla torta. La
marmellata di mirtilli assunse una tonalità più
rossa. Il dolce lievitò
leggermente. Regina sorrise, mentre Malefica tuffava nuovamente il dito
nella
pasta.
“E
adesso?”, chiese.
Regina
afferrò il polso di Malefica e si chinò,
avvolgendo l’indice con la sua bocca. Lo succhiò
avidamente e sembrò riflettere
per qualche secondo.
“Adesso
è perfetta”, concluse, passandosi la
lingua sul labbro superiore e sulla cicatrice.
Oltretomba. Oggi.
Cora
l’abbracciò calorosamente e Regina
restò per qualche momento interdetta, tra le
sue braccia.
-
Io
credevo...
-
Credevi che fossi Daniel, sì. Dovevo essere sicura che
saresti venuta.
-
Speravo stessi bene. – le disse Regina, dopo qualche momento.
-
Lo
so, cara. – rispose Cora, separandosi da lei. Le sue mani le
accarezzarono i
capelli e a Regina stupiva che lei la stesse toccando in quel modo.
Tutte le
volte che l’aveva fatto, in passato... tutte le volte che
Cora l’aveva
sfiorata, le era sembrato che lo facesse in modo meccanico, senza alcun
sentimento a muovere i suoi gesti. Perché non aveva un
cuore. - Ma ho una
questione in sospeso. E sto parlando di te.
-
Non devi preoccuparti per me. – rispose Regina, occhieggiando
Murphy, che
fingeva di non ascoltare, rintanato in un angolo. – Io sto
bene.
-
Certo che mi preoccupo per te, Regina. Devo farlo.
Regina
accennò un sorriso. – Allora aiutami. Aiutami a
trovare Emma. E ad andarmene da
qui.
-
È
troppo pericoloso. È già abbastanza grave che tu
sia venuta fino a qui per...
per la Salvatrice. Non puoi restare. Va via. Adesso. – Nella
voce di Cora
balenò la fermezza che Regina ricordava, sebbene i suoi
occhi manifestassero
una sincera apprensione. Avvertiva anche il suo profumo, ma era
diverso. Era
meno forte, meno aggressivo.
Regina
doveva imporsi di stare in guardia. – No. Devo trovare Emma,
prima.
-
Emma...
i tuoi amici, la tua famiglia. Emma. Lo vedi? È questo che
ti trattiene. Devi
fare quello che è meglio per te.
Regina
scosse la testa. – Questo è il meglio.
-
Non è vero! Regina... so bene che ti senti in colpa verso la
Salvatrice. So che
cos’è successo a Camelot. Ma non è
stata colpa tua. Volevi salvarla. Quella
ragazza ha deciso di sua spontanea volontà di morire...
-
Non
capisci. – Regina fece un passo indietro. – Glielo
devo. Tremotino l’ha
ingannata. È morta per niente. Non ha distrutto
l’oscurità come pensava.
-
Ma
tu conosci le regole della magia! – Cora
l’afferrò saldamente per le braccia,
stringendo forte. Imponendole di fissarla, come se volesse trapanarle
il
cervello e inculcarle quel concetto nella mente. – Non si
possono riportare in
vita i morti.
-
Non può valere per Emma... non per qualcuno che è
morto invano. Non per... –
Regina rivide se stessa con la spada sollevata, pronta a colpire.
Avvertì il
penso dell’arma e l’angoscia che l’aveva
assalita. Era impensabile per lei
andarsene senza Emma.
“Ricordi
la promessa
fatta a Camelot? Che avresti fatto tutto il possibile per eliminare
l’oscurità?
Ho bisogno che tu mantenga quella promessa. E devi giurarmi che non lo
dirai a
nessun altro”.
-
Io... non ho mantenuto la promessa.
-
Non sai quello che dici. Ora ascoltami bene. – la interruppe
Cora. – Non è
stato facile, ma ho predisposto che una barca ti riporti a casa. Parte
fra un’ora.
Prendi Henry... prendi solo tuo figlio e vattene, prima che sia troppo
tardi.
-
Madre... – Stavolta fu Regina a rispondere con fermezza.
– Non posso.
-
Mi
rendo conto che è difficile mettere da parte la diffidenza,
visto il modo in
cui ti ho cresciuta... – continuò Cora.
– Ricordi l’ultima cosa che ti ho detto
prima di morire?
Regina
deglutì. Aveva la gola secca e il cuore in tumulto.
– Che ti sarei bastata io.
-
Mi
ci è voluto troppo tempo per capirlo, quindi ti prego... non
commettere il mio
stesso errore. Vai. Emma Swan... andrà avanti prima o poi.
Troverà la sua
strada. Spera che imbocchi quella giusta, ma se è forte come
credo... lo farà.
Regina
non avrebbe mai potuto dimenticare quello che Cora le aveva detto prima di
morire.
Anche se aveva sempre saputo che forse non era la verità.
Aveva sempre amato
sua madre oltre ogni limite e comprensione. Quindi aveva sperato che
quelle ultime
parole fossero vere. Forse persino Cora l’aveva creduto in
punto di morte. Ma Regina,
in fondo, era cosciente che sua madre avrebbe sempre provato un folle
desiderio
di potere...
“Troverà
la sua strada. Spera che imbocchi
quella giusta, ma se è forte come credo... lo
farà.”
-
Quella giusta? Di che cosa stiamo parlando? – Regina sentiva
che c’era molto
altro. Che c’era qualcosa di terribile in agguato.
-
Una madre deve fare quello che è meglio per il proprio
figlio. Anche se è
riprovevole. – disse Cora, in tono evasivo.
-
Mi
stai minacciando?
-
No. – Cora sospirò. – Ma forse
è necessario che io ti mostri una cosa.
Regina
non ebbe il tempo di replicare. Scomparvero entrambe in una densa nube
viola e,
quando essa disparve, non erano più nel suo ufficio, ma in
una caverna.
-
Dove siamo? – domandò Regina, incredula.
Davanti
a loro si estendeva un sentiero di roccia sospeso nel vuoto. Ad un
certo punto,
la roccia terminava e iniziava una voragine di fuoco. Le fiamme
ruggivano, si
allungavano come braccia alla ricerca di qualche anima da ghermire,
vorticavano, lambivano i muri della caverna, parevano in procinto di
arrampicarsi su di essa, ma poi scivolavano e si slanciavano in
un’altra
direzione.
Murphy
barcollò, in bilico sul bordo della voragine. Lily si
guardò intorno,
costernata. Mosse un passo e frammenti di pietra si sbriciolarono,
precipitando
nel fuoco.
-
Mamma?
-
Henry, non ti muovere. – disse Regina.
-
Non devi preoccuparti per lui. È al sicuro. –
precisò Cora.
Lily
fissò Murphy. Nessuno dei due spostò un piede
verso l’altro. Occhieggiavano le
fiamme.
-
Dall’Oltretomba si può andare solo in due luoghi.
– spiegò Cora, non badando
nemmeno ai due sull’orlo del baratro. – Uno
migliore... e uno peggiore. Guarda
tu stessa.
-
Non puoi farlo! Fermalo! – gridò Regina.
– Aiutala!
-
Non posso aiutarla. – rispose Cora. – E non posso
fermarlo. È la sua questione
in sospeso. È per questo che è qui.
Sulla
faccia di Murphy comparve del sangue. Si era aperta una ferita al
centro della
sua fronte. Lui si portò una mano alla faccia e
sgranò gli occhi. Nella mano
destra di Lily c’era una pistola. Il calcio era macchiato di
rosso. L’amica di
Emma era paonazza. Vacillò pericolosamente, avvicinandosi al
bordo. Il fuoco
ruggì di nuovo e il volto di Lily sembrò
incendiarsi.
Regina
fece per andare verso Lily, ma Cora non glielo permise. Con la magia,
creò una
barriera trasparante tra loro e i due contendenti. – Non
farlo, Regina. Perirai
anche tu.
-
Fatti da parte.
-
No. Non posso farlo.
Foresta Incantata. Τrentacinque anni fa.
Regina
fissava disgustata l’unica candelina
posta in cima alla torta di sette piani che le avevano portato.
Sembrava una
presa in giro, non un compleanno. Il giullare le girava intorno, nel
tentativo
di divertirla con le sue pagliacciate, ma ne aveva avuto abbastanza
ancora
prima che la festa incominciasse.
“Forza,
mia regina”, disse il giullare,
sbucando da dietro la torta e agitando le campanelle agganciate al suo
cappello
a punta. “Esprimete un desiderio!”
Il
cuore di Biancaneve su un piatto d’argento.
Il
cuore di Biancaneve dentro allo scrigno.
Il
cuore di Biancaneve.
Che
quell’orribile giornata finisse al più
presto.
Regina
spense la candelina.
Il
sorriso ebete del giullare si allargò.
“Allora, qual era il desiderio?”
‘Pensavo
che un desiderio espresso il giorno
del proprio compleanno fosse un segreto’.
Vide
che Malefica stava osservando la scena. I
brevi momenti di distrazione passati con lei non l’avevano
alleggerita affatto.
Nemmeno sapere che gli invitati avevano sistemato i regali sul lungo
tavolo
dove aveva spinto la mutaforma, prendendola e marchiandola con le sue
stesse
unghie, la divertiva. Si sentiva furiosa, oppressa e aveva voglia di
uccidere
tutti.
“Che
fosse divertente”, rispose Regina al
giullare. “E non lo è stato.”
Passò
una mano a pochi centimetri dalla faccia
dell’uomo e quello cadde di schianto. I campanelli
tintinnarono. Gli invitati
mormorano, impauriti e iniziarono ad indietreggiare. Il trovatore smise
di
suonare.
“Facciamola
finita”, ordinò Regina. “Ho
festeggiato abbastanza.”
“Perché
così presto?”
Regina
si fermò. La folla di invitati si fece da
parte, aprendo la strada all’ultima arrivata. Cora
avanzò, tenendo sottobraccio
un regalo foderato in seta rossa, un colore che si intonava al suo
vestito.
“Madre.”
Avvertì il gelo che le dilagava nel
sangue come una maledizione. Improvvisamente aveva le mani intorpidite.
“Sei
scappata dal Paese delle Meraviglie?”
Cora
sorrideva in quel modo sinistro che
conosceva bene. Regina immaginò cose terribili: che nelle
scrigno ci fosse il
cuore pulsante di suo padre. Che Cora avesse torturato Henry o che
l’avesse
ucciso. Che stesse per torturare anche lei. Regina era diventata molto
più
potente dall’ultima volta che si erano viste, grazie agli
insegnamenti di
Tremotino, ma non era ancora potente quanto sua madre.
“Dov’è
papà?”, chiese. “Dimmi che non gli hai
fatto del male.”
“Oh,
l’ho perso di vista dopo avergli fatto
incartare... questo.” Le porse lo scrigno. “Buon
compleanno, cara.”
Malefica
strinse lo scettro con entrambe le
mani.
‘Si
ricorda del mio compleanno’, pensò Regina.
Cercò
di non lasciarsi confondere. “Non voglio
nessun regalo da te.”
“Questo
lo vorrai”, rispose Cora. “Ho fatto
qualcosa di... davvero speciale. Ti ho portato la tua
vendetta.”
Cora
aprì lo scrigno e Regina vide con i suoi
occhi il cuore rosso e pulsante che tanto sperava di avere in dono.
“Il
cuore di Biancaneve.”
Regina
guardò il cuore con avidità.
“Distruggilo.
E lei morirà.”
“Regina,
è una trappola”, intervenne Malefica.
“Non farlo. Avrà ancora il controllo su di
te.”
“Che
piacere rivederti, Malefica. È passato
moltissimo tempo”, disse Cora, continuando a reggere lo
scrigno.
“Il
piacere è tutto tuo”, rispose la mutaforma.
“Sono
lieta che tu sia così preoccupata per mia
figlia, ma ha già una madre che vuole solo il meglio per
lei.” Cora tornò a
rivolgersi a sua figlia. Regina esitava, fissando il cuore della sua
acerrima
nemica. “Non mi credi? Lascia che te lo dimostri. Portate lo
Specchio!”
“Regina...”,
la avvertì Malefica.
Cora
sollevò una mano. “Τocca a lei scegliere.
E so benissimo che cosa sceglierà.”
Alcune
guardie si affrettarono ad eseguire gli
ordini e trascinarono lo Specchio Magico nella sala. Regina prese il
cuore tra
le mani. Avrebbe voluto togliersi i lunghi guanti neri per saggiare la
consistenza di quell’organo maledetto, ma era troppo eccitata
all’idea che la
sua vendetta fosse lì e che a regalargliela fosse proprio
sua madre. Rise, come
chi aveva appena ricevuto il dono più bello della sua vita.
Andò
davanti allo Specchio, che le mostrò
Biancaneve intenta a festeggiare, seduta a tavola con il suo principe e
i nani.
Quei mostriciattoli si prendevano gioco di lei, si divertivano un
mondo,
brindando e ingozzandosi di cibo.
Regina
strinse il cuore in una morsa.
Nello
specchio, Biancaneve prese a
boccheggiare. Si portò le mani al petto, afferrandosi la
veste.
Azzurro
appoggiò una mano sulla sua spalla.
“Biancaneve?”
Lei
cercò in tutti i modi di arrivare al nodo
che le chiudeva il colletto. Le sue dita armeggiavano in preda al
panico,
mentre respirava con affanno.
Regina
aumentò la stretta sul cuore. L’organo
scricchiolava, in procinto di ridursi ad un ammasso di cenere.
Poi
dalla camicetta sotto la giubba di
Biancaneve sbucò il Grillo, che cadde in avanti, perdendo la
sua minuscola
bombetta e il bastone.
I
nani scoppiarono a ridere.
Malefica
udì un rantolo accanto a lei, nel
momento in cui il cuore andò in pezzi e la polvere si sparse
sul pavimento. Un
soldato si afflosciò senza vita.
“Qualcuno
ha scambiato i cuori”, disse Cora.
Furibonda,
Regina si voltò verso sua madre a
caccia di una spiegazione. “Chi è stato?”
Oltretomba.
Oggi.
-
Dov’è Regina? – domandò
Tremotino agli altri, quando furono tutti al cimitero.
– E... Lilith?
-
Staranno ancora cercando Emma. – rispose Biancaneve.
Malefica
planò sul gruppetto e atterrò in uno spazio verde
tra alcune tombe. Recuperò le
sembianze umane.
-
Trovato qualcosa? – domandò David, in apprensione.
-
Niente. E nessuno che somigli a vostra figlia. – Si
guardò intorno, cercando la
sua, di figlia.
-
Lily e Regina saranno qui a momenti. Henry è con loro.
– disse Biancaneve.
-
Quella è... – Killian indicò la tomba
vicino alla quale sostava il Coccotrillo.
Teneva una mano nascosta nella tasca e il pirata era sicuro che stesse
nascondendo qualcosa. Il suo ghigno era fin troppo eloquente. Ma
ciò che
attirava maggiormente il suo sguardo era il monumento.
Era
una lapide molto più elaborata delle altre, più
alta, in marmo bianco e
sormontata da un cigno con le ali spalancate e il becco rivolto verso
il cielo.
Su di essa capeggiava il nome EMMA SWAN. Non
c’erano date né altre indicazioni.
Biancaneve
rabbrividì, stringendosi di più al marito.
-
Regina si perderà tutto lo spettacolo, allora. –
Tremotino estrasse la mano
dalla tasca e mostrò loro una boccetta dorata.
-
Che cos’è? – chiese Killian.
-
Questo
è il modo per trovare la Salvatrice. – Tenne
l’ampolla per il tappo. – La birra
di Seonaidh, del regno di Dunbroch.
-
Come
funziona, Coccodrillo?
-
Versala sulla tomba di Emma... e sarà lei a dirci dove si
trova. Questa
permette di comunicare direttamente con i morti. –
spiegò Tremotino, come se si
fosse trattato di una bazzecola, di una cosa che lui faceva tutti i
santi
giorni.
-
Facciamolo, allora! – esclamò Biancaneve.
-
Sì, vi conviene. C’è una barca che
parte fra poco. Prendete Emma Swan,
recuperate i dispersi... e andiamocene da qui. – disse
Tremotino. – Non ho
alcun interesse nell’esplorare l’Oltretomba. Ci
sono già stato.
Killian
gli strappò l’ampolla di mano e tolse il tappo.
Con decisione, mosse due passi
verso la tomba di Emma e poi gettò il contenuto
dell’ampolla sull’erba, davanti
al monumento.
Murphy
sferrò un calcio e la pistola che Lily si era trovata in
mano venne inghiottita
dalle fiamme del Tartaro. Era ancora troppo stupita per reagire. Solo
un
istante prima era seduta accanto ad Henry e stava ascoltando qualche
canzone
del suo gruppo preferito. L’istante dopo era con il tizio che
aveva ucciso,
sull’orlo di una fornace.
Regina
era trattenuta dalla madre e separata da loro tramite una qualche
barriera
magica.
-
Nessuno
può aiutarti, Lilith. Sei sola con me. Come quella sera.
Quando mi hai lasciato
in una lurida stazione di servizio. – disse Murphy. Il sangue
sgorgava copioso
dalla ferita in mezzo alla fronte, lo stesso punto in cui lei
l’aveva colpito
la prima volta con la pistola.
La
caverna svanì.
Lily
avvertiva ancora il calore delle fiamme e sapeva benissimo di essere
sempre
sull’orlo della voragine, ma il mondo intorno a lei era
cambiato. Era tornata
all’area di servizio deserta, davanti alle pompe di benzina.
Murphy
sferrò un cazzotto, che la raggiunse alla mandibola. Vide le
stelle e cadde
all’indietro. Nell’asfalto intorno a lei si
aprirono delle crepe. La realtà
traballò. L’aria si fece più spessa,
quasi irrespirabile.
-
Ti
auguro di marcire all’inferno! – gridò
Murphy. Aveva gli occhi arrossati e
digrignava i denti come una belva feroce. La voce era acuta e
prepotente.
Lily
bloccò il secondo cazzotto e gli diede un calcio in uno
stinco, strappandogli
un gemito di dolore. Murphy indietreggiò, barcollante.
L’area di servizio
cedette nuovamente il posto alle fiamme del Tartaro, ma solo per pochi
secondi.
Udì
la voce di Regina. Regina che urlava qualcosa.
-
Non
sei così brava a picchiare la gente, lurida bastarda!
– strillò Murphy.
Ghignava con le labbra sporche di sangue. Anche i capelli ne erano
ormai
intrisi.
Lily
si alzò in ginocchio e il ragazzo la colpì al
collo. Era un colpo maldestro,
dato di taglio, ma era impreparata. Un dolore paralizzante le esplose
in gola. La
testa le ballonzolò all’indietro.
Ecco
come va a finire. Con Murphy che mi uccide
a calci, come io ho ucciso lui, pensò.
Le parve che le venisse da ridere, ma non c’era
traccia di risa, in lei. Quello che le uscì dalla gola fu
solo un gemito sordo.
Murphy
prese una breve rincorsa e le sferrò un calcio nelle reni.
Lily puntò le mani
sull’asfalto per non finire lunga distesa. Il suo sguardo
colse i numeri verdi
che lampeggiavano sulla cassa automatica accanto alle pompe, dove due
anni
prima aveva infilato venti dollari per riempire il serbatoio di una
macchina
rubata.
-
Sai che avevo una figlia? – urlò Murphy, alterato
dallo sforzo e
dall’agitazione. - Avevo una figlia! Lei non ha
più nessuno per colpa tua!
Quella stronza di sua madre se n’è andata dopo
averla partorita! Quei soldi mi
servivano anche per lei!
-
Perché non sei tornato a prenderla, allora... invece di
scappare?!
La
stivalata la colpì ad un fianco, mozzandole il respiro.
“Sai
che avevo una figlia?”
No,
non lo sapeva, naturalmente. Non aveva mai saputo nulla di Murphy.
Così come
Murphy non aveva mai saputo nulla di lei.
“Lei
non ha più nessuno per colpa tua!”
E
giù un altro calcio, stavolta dritto nelle costole.
Rotolò e la stazione di
servizio scomparve. Vide di nuovo la caverna e per poco non
scivolò nel
baratro. Il suo
braccio penzolò nel
vuoto e lei si tirò subito indietro.
Murphy
le allungò un altro calcio e a quel punto Lily gli
afferrò il piede. Lo sentì
solido tra le mani come un pallone ben preso. Gli occhi si accesero
come tizzoni
ardenti.
E
spinse in là con tutte le sue forze.
Con
un urlo, Murphy volò all’indietro e di traverso,
facendo perno sulle braccia
per ritrovare l’equilibrio.
“Sai
che avevo una figlia?”
Perse
la battaglia e Lily ebbe modo di scorgere i suoi occhi sbarrati e pieni
d’odio
un attimo prima che precipitasse. Le sue grida riecheggiarono per la
caverna.
Il fuoco ruggì in risposta... o forse non era un ruggito, ma
una risata
roboante. Le sembrava che quel luogo fosse vivo. Che le fiamme avessero
una
coscienza e non era la coscienza di tutte le anime che aveva
inghiottito, ma
una coscienza enorme e molto più antica.
La
barriera magica che Cora aveva innalzato si frantumò.
Lily
si rialzò in piedi a fatica, tenendosi un fianco e
zoppicando per un breve
tratto, mentre si allontanava dagli
orli
della voragine. Cadde su un ginocchio e Regina tese una mano per
aiutarla, ma
lei la scacciò in malo modo.
-
Grazie per l’aiuto! – esclamò, puntando
il dito contro Cora.
-
Non era la mia questione in sospeso. – si
giustificò Cora, accennando persino
ad un sorriso.
-
La
tua questione in sospeso per me può rimanere tale! Anzi,
perché non salti,
Regina di Cuori?
Regina
prese Lily per le spalle. – Basta così.
Ma
Lily perseverò. - Sono felice che tu sia morta!
Ringrazierò personalmente
Biancaneve, quando la rivedrò.
-
Che cos’è successo a quel ragazzo? –
intervenne Regina a sua madre.
-
Ora appartiene al Tartaro. – disse Cora. –
È la via peggiore. Ed è quello che
potrebbe capitare anche a te, figlia mia, se non te ne vai. A te... e a
qualcuno che ami.
-
Chi?
Le
fiamme si tesero, come se stessero ascoltando la conversazione.
-
Tuo padre.
-
Emma?
Biancaneve
fissò l’immagine trasparente di sua figlia
proiettata dalla pozione che
Tremotino aveva trovato al negozio.
Era
davanti a loro, ma non del tutto presente. Indossava la sua giacca
rossa, ma
aveva i jeans strappati in più punti e il viso striato di
sangue. Aveva anche una
ferita sulla fronte, le labbra spaccate e gli occhi pesti. Si guardava
intorno,
confusa, senza fissare lo sguardo su nessuno in particolare.
-
Emma, mi senti? Sono Killian. – Allungò la mano
per toccarla, ma l’immagine
traballava, a tratti svaniva.
Emma
non rispose. Biancaneve strinse la mano di David.
-
L’incantesimo non è stabile. – disse
Malefica. – Non può sentirvi.
-
Avevi detto che avremmo potuto comunicare con lei, usando quella roba!
–
s’infuriò Killian, rivolgendosi
all’Oscuro. Tornò a voltarsi verso Emma.
–
Emma, siamo qui. Siamo venuti a prenderti.
-
È
in un luogo troppo difficile da raggiungere. – rispose
Tremotino.
-
Mamma! – gridò Henry, arrivando di corsa, insieme
a Regina e a Lily.
L’immagine
di Emma tremolò ancora un istante. Infine scomparve, come
risucchiata dalla sua
stessa tomba.
-
Non sa che siamo qui. – disse Lily, osservando la tomba e il
cigno che la
sormontava. – Non sa che siamo venuti a salvarla.
-
Certo che lo sa, Lily. – rispose Malefica, benevolmente.
– Non siamo riusciti a
raggiungerla, ma ciò non significa che non la troveremo.
-
Ma
era ferita! E non abbiamo idea di dove sia! – rispose Lily.
– E quella dannata
barca parte tra mezz’ora!
-
Quale barca? – chiese Biancaneve.
Regina
le spiegò che cosa era accaduto con Cora e tutto
ciò che le aveva detto. Lily
le aveva permesso di curarle le ferite che le aveva inflitto Murphy,
prima che
giungessero al cimitero.
-
Non intendo mettere un piede su quella dannata barca. –
asserì Killian. – Non
senza Emma.
-
Sono d’accordo. – rispose David. –
Troveremo un altro modo per andarcene. Ma
forse tu, Regina... dovresti...
-
No. – ribatté lei. – Non posso.
-
Ma
potrebbe succedere qualcosa di terribile a tuo padre. – le
ricordò Biancaneve.
– Se Cora dice la verità, allora... forse
è meglio che tu prenda Henry e te ne
vada.
-
Vi
ricordo che sono qui. – disse Henry, piccato. – Io
non vado.
-
Henry... – cominciò Regina.
-
No! Siamo venuti insieme. E ce ne andremo insieme. Hai scelto di venire
quaggiù
con noi... non puoi abbandonare la mamma.
Lily
non badava molto al battibecco che si stava svolgendo dietro di lei.
Allungò
una mano per toccare un’ala del cigno. Era fredda e un
brivido le percorse il
braccio, fino alla spalla. Un’immagine sfuggente le
passò davanti agli occhi.
L’immagine di una ragazza in giacca rossa, che scagliava una
spada contro una
gigantesca ombra nera.
-
Lily. – la chiamò sua madre. – Non
toccarla. Non è sicuro.
Lei
ritrasse la mano. Non prima di essersi resa conto di averlo sentito di
nuovo.
Per un attimo, il vecchio legame che aveva condiviso con Emma
c’era stato.
Aveva percepito la sua presenza. E sperava che Emma avesse avvertito la
sua.
Trasse
di tasca il giglio bianco ormai appassito e lo posò sulla
lapide.
Foresta
Incantata. Τrentacinque anni fa.
Regina
cacciò tutti gli invitati e mandò a
chiamare suo padre. Persino Malefica venne mandata via e nel sollevarsi
in volo
in forma di drago costrinse le guardie a correre ai ripari.
Henry
arrivò in tutta fretta, sapendo bene
perché lei voleva vederlo. Portava con sé lo
scrigno.
“Hai
ridato tu il cuore... a Biancaneve”,
disse, scandendo bene ogni singola parola, in modo che suo padre
potesse
percepire chiaramente la sua collera.
“L’ho
fatto per il tuo bene.”
“Come
puoi dire così?!”, scattò Regina.
“Adesso
lei sarebbe morta. E tutto questo sarebbe finito! Non è
ciò che vuoi? Che tutto
questo finisca? Che io sia felice?”
Henry
non si lasciò intimorire. Era solo molto
addolorato. “Certo! Ma non in questo modo. Se distruggi il
suo cuore diventerai
malvagia per sempre! Diventerai come Cora. È quello che lei
vuole!”
Regina
si appoggiò al tavolo, respirando con
affanno, come se fosse reduce da una lunga corsa. In realtà
stava tenendo a
bada i suoi istinti. Perché sentiva che, da un momento
all’altro, avrebbe fatto
qualcosa di terribile. Sentiva che... se avesse perso davvero il
controllo,
avrebbe potuto fargli del male e non voleva. Non voleva. Lei desiderava
solo
una cosa: che lui capisse. Che capisse che la bambina che portava sulle
spalle
era morta. Che capisse che da quando aveva tenuto il corpo di Daniel
tra le
braccia... quella ragazza aveva cessato di esistere e aveva cessato di
credere
nella felicità così come lui la intendeva. La
donna che era diventata non
avrebbe mai permesso a Biancaneve di vivere la sua vita con il suo
principe
imbecille. Non dopo che aveva rovinato la sua. Non le avrebbe mai
lasciato il
lieto fine, né tantomeno le avrebbe permesso di generare
qualche orrido
mostriciattolo.
“Ti
prego, ascoltami. Puoi essere felice.”,
continuò Henry, imperterrito.
“Uccidere
Biancaneve è l’unico modo in cui
potrò essere felice.”, precisò Regina.
“Mi
dispiace per te.”
“Tu
mi hai tradita, papà. E sai che cosa
significa.”
Nel
regno di Regina significava la morte. La
prigionia e poi la morte.
“Fa
quello che vuoi. Non ha importanza.”, disse
Henry. “Perché Biancaneve è viva e
così anche la tua possibilità di redenzione.
Potrai fare di meno quello che vorrai. Questo scrigno è
inutile come la tua
caccia. E prego che tu non lo usi mai.”
“Mi
dispiace.”, rispose Regina, in tono sprezzante.
Gli strappò lo scrigno dalle mani.
“Finché Biancaneve sarà viva, non
diventerò
mai come tu mi vuoi. Questo scrigno... è stata creato per
contenere qualcosa di
prezioso. Ed è esattamente per questo che lo
userò.”
Agitò
la mano ed una densa nube magica avvolse
Henry. Essa venne trasferita all’interno dello scrigno.
Quando
disparve, Henry era stato ridotto ad una
figurina minuscola, intrappolata nel contenitore che avrebbe dovuto
essere
destinato al cuore di Biancaneve.
“Non
preoccuparti, papà. Sei al sicuro lì
dentro. Così non potrai fermarmi. Ma lo sai che non ti farei
mai del male.”
Meno
di due ore dopo, un manipolo di soldati in
armatura nera calò sul villaggio con spade e fiaccole.
La
donna che aveva offerto la torta di mirtilli,
augurandole buon compleanno con il terrore negli occhi, ebbe modo di
aprire le
braccia, lasciando cadere i piatti e le caraffe che stava trasportando,
prima
di essere falciata da un colpo di spada.
Alcuni
uomini opposero resistenza e riuscirono
anche a ferire qualche soldato, ma non potevano nulla contro la Regina,
la sua
furia e la sua sete di vendetta. Fece in modo che i suoi fedeli
servitori setacciassero
ogni casa, appiccando poi il fuoco. Non badava alle urla o alle
suppliche. Non
badava all’odore del sangue. Il suo cavallo
calpestò dei cadaveri e passò oltre.
Un
ragazzino sporco di fango e con la faccia
graffiata strinse una figurina di legno nel pugno. Alzò la
testa, spostando la
propria attenzione dal corpo senza vita del padre alla donna in sella,
la donna
con la giacca rossa come il sangue che gli aveva sporcato i capelli
biondi. Il
suo destriero si impennò, nitrendo. E la luce del sole
creò uno strano gioco di
forme che confuse il ragazzino, già frastornato dalla paura
e dalla morte che
lo circondava.
La
Regina sembrò possedere un paio di ali nere.
Lui
la fissò, mentre scagliava una palla di
fuoco contro delle persone in fuga, pensando a quanto fosse simile ad
un angelo
vendicatore. Un angelo della morte.
I
suoi occhi scuri incrociarono quelli verdi
del ragazzino.
Regina
gli sorrise.
Oltretromba.
Oggi.
Regina
rimase da sola davanti alla tomba della Salvatrice.
Si
piegò sulle ginocchia, fissando il nome inciso sul marmo,
mentre il vento le
scompigliava i capelli. Il sole stava tramontando e il cielo rosso
aveva
assunto colori più intensi. I fumi che aleggiavano tra le
tombe erano più densi
e rotolavano lentamente lungo i prati.
-
Ehi. – disse, a bassa voce. – Sono io.
Non
vi fu risposta, ovviamente, ma Regina posò le dita sulla
prima lettera del
nome, tracciando lentamente la E. Ebbe l’impressione che
fosse più gelida del
normale.
Le
si oscurò la vista e nella tenebra più completa
annaspò. Due occhi arancioni
come tizzoni ardenti la scrutarono e qualcosa di enorme si mosse verso
di lei.
-
Regina.
Quella
voce, che conosceva benissimo, la riportò indietro. Il buio
si dissolse e si
ritrovò davanti alla tomba, con le mani coperte dai guanti
neri che afferravano
ciuffi di erba secca.
-
Papà?
Si
girò ed Henry, suo padre, le prese le mani per aiutarla ad
alzarsi.
Lui
sorrideva, felice di vederla. Non c’era traccia di rabbia,
nelle pieghe del suo
viso, né di risentimento o di rimprovero. Regina, a stento,
poté guardarlo
negli occhi. L’ultima cosa che ricordava dell’uomo
che aveva sempre cercato di
distoglierla dai suoi propositi di vendetta era il suo sguardo allibito
quando
gli aveva strappato il cuore per poter lanciare la maledizione.
-
Mi
dispiace. – mormorò, mentre il dolore e il senso
di colpa le piombavano addosso,
afferrandola e togliendole le ultime difese che ancora le restavano.
– Mi
dispiace tanto.
-
Va
tutto bene. – disse Henry, abbracciandola. – Va
tutto bene. Davvero.
-
Mi
hai... perdonata?
-
Certo. Sono tuo padre e ti voglio bene comunque. Come tutti i padri.
-
Non credo sia così. – Regina si scostò.
– Credo che tu sia speciale. Non riesco
a capire come tu faccia ad essere... così buono.
Né come tu possa essere
intrappolato qui.
-
Non sono perfetto. – asserì Henry. – Ho
i miei rimpianti. E delle cose che mi
trattengono in questo posto.
-
Non voglio prolungare le tue sofferenze. – disse Regina. Si
voltò, guardando la
tomba di Emma da sopra la spalla. Le parole le uscivano come colpi di
tosse. –
Non... questo non accadrà. Te lo assicuro.
-
No, Regina. – replicò Henry. – Ascoltami
bene. Tua madre sta usando me, perché
vuole che tu te ne vada. Ma io voglio che tu rimanga. Devi. Rimani per
coloro
che ami. I tuoi amici, la tua famiglia... hanno tutti bisogno di te.
-
Ma
Cora ti manderà in un posto peggiore.
-
Tu
non vuoi davvero andartene, Regina. È per questo che sei
qui, ora, davanti a
questa tomba. Non puoi abbandonare le persone che ami. – Suo
padre parlava in
tono deciso, come molti anni fa, quando tentava disperatamente di
convincerla
ad abbandonare l’idea di uccidere Biancaneve. –
Quando mi hai strappato il
cuore eri mossa dalle peggiori intenzioni. Ed ora guardati... sei
venuta fin
qui per salvare... la figlia di Biancaneve.
Regina
si morse il labbro.
-
Una volta credevi che avrebbe generato solo... orribili mostriciattoli.
– le
ricordò suo padre, sorridendole. – Non
è vero?
Regina
annuì. – Emma è... una persona
speciale. Proprio come te.
-
E
allora salvala. Lascia che tuo padre ti veda fare la cosa giusta.
– continuò
Henry. - E potrò dire... di non essere morto invano.
‘Chi sei? Cosa vuoi?’, domandò Emma.
‘Sono
il padrone di casa, Emma’. Di nuovo la
risata. Una risata maschile, divertita e sprezzante. ‘Adesso
sei nel mio regno.
È un piacere. Ci incontreremo presto. Spero che il posto ti
piaccia’.
Le
presenze oscure si dileguarono e così anche
la voce.
Emma
precipitò nel vuoto.
E
la caduta fu lunga. Fu interminabile. Emma
gridava e precipitava. Agitava le braccia per aggrapparsi a qualcosa,
ma non
c’erano appigli.
Poi
rallentò fin quasi a fermarsi e toccò il
fondo con un tonfo. Sbatté le palpebre per vedere qualcosa,
ma le tenebre non
si erano ancora diradate. Scorse una luce. Lontana. Dardeggiava nel
buio,
rossastra.
“C’è
qualcuno?!”
Una
forma le passò accanto, colpendola alla
testa e stordendola. Emma cadde in avanti. Artigli le graffiarono la
gamba,
strappandole il tessuto dei jeans. Sollevò un braccio per
proteggersi e
l’essere, qualsiasi cosa fosse, ringhiò,
scartò di lato e la raggiunse al viso.
Era rapido e sembrava stesse colpendo per il gusto di fare del male e
non per
uccidere.
“Sono
già morta. Non può uccidermi.”
Ma
forse poteva comunque farla a pezzi. Il
dolore era reale. Il sangue che le stava scivolando sulle guance era
reale. Era
caldo.
La
cosa si allontanò e lei ne approfittò per
alzarsi e mettersi a correre verso la luce.
Suo
padre era sul limitare della voragine. Sotto di lui il fuoco aspettava,
come
una belva affamata.
Regina
irruppe insieme a suo figlio. – Mamma, fermati. Non farlo!
-
Che cosa ci fai qui? Dovresti essere su quella barca. – le
disse Cora.
-
Non posso andarmene. Non intendo abbandonare la mia famiglia!
-
Non è così che funzionano le cose, Regina. Questa
non è Storybrooke. E ti ho
già detto... che riportare in vita i morti va contro le
regole della magia. Nessuno
dovrebbe tornare in vita. Nemmeno la Salvatrice!
-
Non darle ascolto, Regina! – esclamò Henry.
– Aiuta i tuoi amici. Rimani!
-
Sono venuta qui per aiutare tutti. – rispose Regina.
-
Questo... non è possibile. Devi fidarti di me.
-
Lascialo andare.
Cora
sospirò, esasperata. – Ti prego, ascoltami! Il mio
tempo nell’Oltretomba è
concluso. E può esserlo anche il tuo. Fa come ti dico e
dimentica Emma Swan.
Non può uscire da qui. Può solo imboccare una
delle due strade!
-
Henry, stai indietro. – lo avvisò Regina. Si mosse
verso il padre.
-
Per favore, non mi costringere! Non voglio farlo. – la
implorò Cora.
-
E
allora non lo fare.
Cora
esitò solo un istante. – Mi dispiace.
Le
fiamme del Tartaro avvolsero Henry nelle loro spire e, quando Regina
fece per
correre verso di lui, una barriera di fuoco si frappose, impedendole di
passare. Regina cercò di abbatterla con la propria magia, ma
le fiamme si
gettarono su di lei, costringendola a tirarsi indietro.
-
Un
giorno capirai. – mormorò Cora, prima di
scomparire.
Regina
capì unicamente di aver fallito di nuovo. Non solo aveva
ucciso suo padre,
spingendolo in quel posto, ma non era nemmeno riuscita a fermare sua
madre. Era
stato tutto inutile.
Le
parole che Lily le aveva detto a Camelot
riecheggiarono nella sua mente con un fragore sinistro: “Ti
ho vista, in cima a quella
scalinata. La Regina Cattiva che recita la parte della Salvatrice e si
gode il
momento di gloria! Era quello che volevi. Che tutti ti vedessero come
una
Salvatrice. Che ti vedessero come vedevano Emma.”
“Quelle
come noi non possono essere
Salvatrici.”
-
Mi dispiace tanto. – singhiozzò Regina.
Poi
le fiamme si ritrassero. Henry vacillò sulla sporgenza
rocciosa. Il fuoco
indietreggiò lungo le pareti, riducendosi, sprofondando come
atterrito da
qualcosa.
-
Papà?
-
No, ferma! Non ti muovere. Sto bene.
La
sporgenza rocciosa si
allungò, formando
uno stretto sentiero sospeso sul baratro.
-
Che cosa succede? – domandò Regina.
-
Non lo so. – Henry guardò la roccia che mutava
forma. – C’è qualcosa qui.
Nella
parete di roccia di fronte a lui si aprì un varco luminoso.
Attraverso di esso,
vide uno sprazzo di cielo azzurro, solcato da nuvole bianche.
-
I Campi Elisi.
Regina
si accorse che suo figlio si era accostato a lei e guardava,
affascinato, la
luce paradisiaca che invitava suo nonno a raggiungerla.
-
È bellissimo. – esclamò il padre di
Regina, allargando le braccia. – È quello
il mio posto.
Era
la strada migliore. Seguendola, Henry sarebbe passato oltre,
abbandonando
l’Oltretomba per sempre.
Si
voltò verso la figlia, raggiungendola. – Ora so
qual era la mia questione in
sospeso. Eri tu.
-
Io? – Regina era ancora frastornata, confusa dalla
serenità sprigionata da quel
luogo, al di là del varco nella roccia. Si immaginava campi
verdissimi, cavalli
che correvano liberi, fiori coloratissimi, alberi di mele che
producevano
sempre frutti. Nella sua mente baluginavano sensazioni meravigliose.
-
Per troppo tempo ho permesso a tua madre di manipolarti. –
disse Henry. – Per
troppo tempo le ho permesso di usare il suo potere contro di te. Era il
più
grande rimpianto della mia vita. Ma adesso... ti sei liberata di lei ed
io sono
orgoglioso di te.
-
Ciao...
Henry
fissò il ragazzo che era arrivato con Regina, sorpreso.
– Lui è...
-
Sì. – Regina strinse la mano di Henry. –
Lui è tuo nipote. Si chiama Henry.
Come te.
-
Sono felice di conoscerti, nonno. E... mi chiamo Henry Daniel
Mills. – disse il ragazzino. - Volevo dirti grazie.
Per aver
creduto in lei.
-
Grazie a te, Henry. – rispose suo nonno. – Per
esserle sempre stato accanto. So
perché siete venuti. Quello che volete fare è
molto... molto pericoloso. Ma se
credete che sia giusto... allora dovete provarci.
-
Ce la faremo. Noi non ci diamo mai per vinti. – disse Henry.
-
Oh, lo so. – Appoggiò una mano sulla testa del
nipote. Come aveva fatto molto
tempo fa con Regina. – Prenditi cura di lei. È ora
che io vada.
-
Ma papà, aspetta...
-
Ti voglio bene, Regina. Non dimenticare mai chi sei veramente.
– Henry le
sorrise un’ultima volta. - E segui il tuo cuore.
Emma
Swan aprì gli occhi di scatto.
Braccia
e gambe le tremavano per lo sfinimento. In bocca sentiva il sapore del
suo
stesso sangue. Tastò rapidamente intorno a sé,
capendo di essere distesa su
qualcosa di solido. Alla fine era arrivata in fondo al tunnel.
-
Dove sono? – borbottò, rauca.
Davanti
a lei c’era un altro corridoio, illuminato da una densa luce
rossastra. L’aria
sapeva di zolfo, era calda e le bruciava i polmoni. Allungò
una mano,
aggrappandosi ad una colonna piena di crepe e si tirò su.
Avvertì un dolore
lancinante al fianco e spostare il peso sulla gamba destra le
causò sofferenza
per via delle ferite, due lunghi tagli che sanguinavano ancora.
Si
costrinse a scendere il gradino che la separava dal corridoio. Se
guardava a destra,
il corridoio si biforcava in due tronconi, se guardava a sinistra si
biforcava
addirittura in altri tre corridoi più stretti. Sopra di
sé aveva il cielo, un
cielo scuro e pieno di nubi. Non era possibile arrampicarsi, non solo
perché
non aveva la forza di farlo, ma anche perché le pareti di
quel luogo erano
lisce. Non c’erano appigli a cui aggrapparsi. Così
come non c’erano stati
quando aveva iniziato a precipitare nel vuoto.
Lasciò
scivolare la mano destra sulla parete e improvvisamente si
ridestò in lei la
paura. Era troppo stanca, per cui l’avvertiva solo come un
battito affrettato,
come un malessere.
Era
morta. Morta. Non era più l’Oscuro ed era morta. E
qualcuno era venuto a
prenderla. I suoi genitori. Killian. Henry. Regina. Lily.
S’impietrì.
Qualcosa...
si muoveva nei dintorni. Udiva una sorta di rumore furtivo, un lieve
frusciare,
poi una scarpa che grattava il pavimento. Suoni che andavano quasi
perduti,
perché il battito del suo cuore si era fatto prepotente. Era
una grancassa.
-
Ferma.
Emma
sollevò entrambe le mani sopra la testa. Nel mentre cercava
un’arma per
difendersi, ma sembrava che non ci fosse nulla nelle vicinanze.
-
Voltati. Lentamente.
Non
era la prima volta che sentiva quella voce. La conosceva. E il solo
rendersi
conto che si trovava in quel luogo con qualcuno che conosceva,
bastò a farla
rabbrividire in modo incontrollabile, anche se la fece sentire pure
sollevata.
Poteva essere un altro inganno. Quel posto era pieno di trappole. Era
pieno di
immagini terribili, agghiaccianti, che la assalivano da ogni parte.
-
Ancora
tu? – disse la donna, che le aveva chiesto di voltarsi. Lei
un’arma ce l’aveva.
Un arco, con una freccia già incoccata e pronta a
raggiungere il bersaglio. I
suoi occhi scuri si andavano dilatando. Emma la vide impallidire.
– Allora non
sei solo nella mia testa!
-
Marian?
_________________
Angolo autrice:
Ben ritrovati. Grazie
per essere arrivati alla fine di questo
lunghissimo capitolo.
Solo
una precisazione: la parte in cui Regina accarezza il nome di Emma
inciso sulla
tomba è un omaggio a Buffy, in particolare a Willow e Tara,
una delle mie prime
ship. La scena ricalca quella in cui Willow va per la prima volta a
visitare la
tomba di Tara dopo la sua morte.
|
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Capitolo 3 *** 3. ***
3
“So if you care to find
me, look to the western sky!
As
somebody told me lately, everyone deserves
the chance to FLY!
And
if I'm flying solo, at least I'm flying
free;
To
those who ground me, take a message back from
me...
...tell
them how I am Defying Gravity!
I'm
flying high, Defying Gravity!”
[Wicked: The Musical. Idina Menzel/Elphaba, Defying Gravity]
Foresta
di Oz.
-
È
l’unica possibilità che abbiamo per riavere Toto.
- disse Mulan, osservando,
insieme a Dorothy e a Ruby, l’intruglio che ribolliva nel
pentolone.
-
Sei
sicura che funzionerà? - chiese Dorothy.
Mulan
aggiunse delle erbe essiccate alla pozione. Alla fine avevano raggiunto
la casa
di Dorothy, nel cuore della foresta, evitando le altre trappole poste
lungo la
via. Delle scimmie volanti di Zelena nessuna traccia. Il luogo era buio
e
silenzioso. L’unica luce veniva dal fuoco sotto il pentolone.
-
La
polvere del sonno l’ha già stesa prima
d’ora. - la rassicurò Ruby.
-
Ho
solo bisogno di un altro ingrediente. Papaveri. - disse Mulan.
– I papaveri uniti
alla pozione renderanno il suo sonno più... duraturo.
-
So
dove trovarli. - Dorothy fece per avviarsi.
-
Vengo
con te. Mulan, tieni il fuoco acceso.
-
Posso farcela da sola!
-
Non ho chiesto il permesso.
Mulan
avrebbe voluto domandare a Ruby se fosse sicura di voler seguire
Dorothy nel
campo di papaveri. Era possibile che lungo il cammino ci fossero, non
solo le
scimmie volanti di Zelena, ma anche qualche altro tranello. E stavolta
Dorothy
avrebbe potuto decidere di lasciare Ruby a districarsi da sola con la
trappola.
Non che fosse un problema per lei... bastava che si trasformasse.
Dorothy
s’incamminò con passo deciso e Ruby la
seguì.
“Vieni
con me.”, le
aveva detto, quando stavano per lasciare
Dunbroch.
“A
cercare lupi mannari?”, le
aveva domandato Mulan, perplessa.
“Aiutare
qualcuno a trovare la sua strada
aiuterà anche te.”
-
Quale strada? - si chiese ora Mulan, ad alta voce, mentre ravvivava il
fuoco. -
Quella che ci ha portato ad Oz, direttamente nel territorio di una
strega
perfida?
Le
risposero solo il vento e una civetta, appollaiata su un ramo. Mulan
fissò il
cielo sgombro di nubi e pieno di stelle. La luna era piena.
-
So
che siete là dietro. - disse, mettendo mano
all’elsa della sua spada. - Potrei
venire a prendervi, ma vi do la possibilità di uscire allo
scoperto da soli.
Aveva
avvertito i rumori furtivi. Non avrebbe saputo dire quanti fossero, ma
dubitava
che li avesse mandati Zelena. In tal caso sarebbero state scimmie
volanti. Le
sue guardie erano sempre a palazzo e Zelena si sentiva troppo al sicuro
grazie
all’accordo che prevedeva la consegna delle scarpette
d’argento.
Mulan
estrasse la spada, puntandola contro i visitatori indesiderati.
Erano
almeno una decina. Tutti uomini robusti e armati, eccetto uno.
L’unico che non
aveva armi era un vecchio con i capelli grigi che sparavano in varie
direzioni
e tra i quali penzolavano delle foglie secche. Aveva un naso lungo e
sottile,
rosso proprio come quello di chi beve parecchio.
-
L’avevo
detto che non dovevamo portarlo con noi. Ha fatto troppo chiasso!
-
Non
preoccuparti, John. È un’amica, non vedi?
-
Io
vedo solo una certa guerriera che un tempo era con noi e poi
è sparita nel
nulla!
-
Robin? - disse Mulan, rinfoderando la spada e ignorando Piccolo John.
L’Allegra
Compagnia era al completo, ma Roland non c’era. E Robin Hood
aveva tutta l’aria
di qualcuno che voleva essere da tutt’altra parte.
Il
ladro venne avanti, sforzandosi di sorridere. Allungò una
mano e lei gliela
strinse. – Lieto di rivederti. Mi dispiace, non intendevo...
ho visto Ruby. Chi
è l’altra ragazza?
-
Dorothy.
È... la paladina della gente di Oz. - tagliò
corto Mulan. - E tu hai trovato un
nuovo ladro per la tua compagnia?
-
Non
sono un ladro, tesorino. Mi chiamo Knubbin e sono un mago. Chiedilo
alla tua
amica. E al suo mantello, se ti va. - rispose il vecchio, raddrizzando
le
spalle. Su una di esse stava appollaiato un corvo con un occhio solo. -
Questo,
invece, è Heathcliff. Ha dei gusti difficili, quindi ti
sconsiglio di
irritarlo.
-
Non sono un’amica dei corvi. - ribatté Mulan,
guardandolo con la fronte
aggrottata. - Non capisco. Credevo fossi a Storybrooke...
-
Sì,
infatti. - confermò Robin, amaramente. - Sono venuto a
cercare mia figlia.
-
Figlia? Quale figlia?
Calò
il silenzio. Gli uomini si occhieggiarono tra loro. Poi fissarono
Mulan. Nei
loro sguardi sostava un misto di perplessità, imbarazzo e
acredine. Era sicura
che la maggior parte dell’Allegra Compagnia non fosse
così contenta di trovarsi
lì, davanti a qualcuno che li aveva piantati in asso.
Qualcuno che aveva anche
rischiato di farli uccidere perché aveva la mente
ottenebrata dai propri
problemi.
Ma
c’era
dell’altro.
Mulan
ricordò la bambina che Zelena aveva con sé quando
era arrivata ad Oz. - Non la
bambina di Zelena...
Nessuno
rispose.
-
Robin?
-
È
molto complicato. - fu la sua risposta.
-
Sì, lo immagino.
-
Non
è come credi. Posso spiegarti tutto, ma mi
servirà un po’ del tuo tempo. E poi
dobbiamo pensare ad un modo per riprendere mia figlia.
Oltretomba. Oggi.
“Stai
bene?”
“Sì,
credo di sì. Io sono... Leila.”
“Vorrei
poterti dire che è un piacere conoscerti.”
“Ma
viste le circostanze non il
caso. Qual è il tuo nome?”
“Non
oso pronunciarlo qui. La Regina non sa chi
sono e solo il mio silenzio può tenere la mia famiglia al
sicuro.”
-
Marian?
Lei
allentò la corda dell’arco, fissandola,
esterrefatta. – Leila?
-
Sì, io... – iniziò Emma, arrancando di
un passo. Il mondo ondeggiò intorno a
lei. – Non mi chiamo Leila. Il mio nome è Emma.
-
Stai indietro! – esclamò Marian, tendendo
nuovamente la corda dell’arco. – Non
ti avvicinare. Nessuno mi assicura che non sei un inganno di Ade.
-
Un
inganno di Ade?
Da
qualche parte, non molto lontano da loro, giunse un suono strano, una
specie di
muggito, seguito da un tonfo. Emma tese le orecchie.
-
Non sono un inganno di Ade... sono morta. –
precisò.
-
Io
sono qui da molto tempo... – disse Marian. Ora aveva
un’aria confusa. – Ma tu
non sei mai stata qui.
-
No. Sono... arrivata da poco.
-
Sei identica a quando ci siamo incontrate in prigione. Questo non
è possibile.
So che è accaduto molto tempo fa...
-
Fidati. Lo è. È solo... molto complicato da
spiegare.
-
Però è vero. Ci siamo già incontrate.
Credevo... credevo fossi solo nella mia
testa. Credevo che Ade mi stesse confondendo la mente!
Il
rumore si ripeté e sembrava più vicino, ora.
Qualunque cosa si muovesse per
quei corridoi, di certo non aveva buone intenzioni.
-
Puoi dirmi che posto è questo? – chiese Emma.
-
È
un labirinto. – rispose Marian. Si decise ad abbassare
l’arco, ma continuava a
rimanere in guardia. I grandi occhi scuri saettarono a destra e a
sinistra. –
Non vuoi sapere che cosa ti aspetta se decidi di... cercare
l’uscita.
-
Beh, io devo uscire... la mia famiglia è qui. Per me.
-
Non puoi esserne certa. Nessun vivo metterebbe mai piede
nell’Oltretomba.
-
Loro sì. Perché non amano darsi per vinti.
– Emma tese una mano verso Marian. –
Dobbiamo andarcene.
-
Non riusciremo ad andarcene! – replicò Marian.
– Il mostro ci prenderà. Io ci
ho provato moltissime volte. E mi ha sempre presa... prima che potessi
arrivare
all’uscita.
-
Ti
ha presa? Ti ha... uccisa? – Emma si appoggiò alla
parete. Era senza fiato,
quasi fosse reduce da una lunga corsa. Non aveva idea di come poteva
sfuggire a
qualunque cosa ci fosse in quel labirinto.
-
Uccisa... non è il termine più appropriato. Ma
sì... se ti prende, ti fa a
pezzi. – Marian rimise la freccia nella faretra che portava
con sé. – E poi
torni al punto di partenza. Qui.
-
Beh, se ci proviamo in due... forse abbiamo qualche
possibilità in più.
-
No. Non ne abbiamo. Sei pazza. E sei ferita.
-
Sì, anche questo è vero. Sai
dov’è l’uscita, no? L’hai
trovata.
-
Certo, ma lui è molto più veloce di te! E
inoltre... l’ultima volta che ti ho
seguita, tu e quell’uomo, quello con la mano finta, volevate
portarmi in un
altro mondo... e poi mi sono ritrovata qui!
-
Marian... mi dispiace, volevo solo salvarti la vita.
-
Siamo scappate da quella prigione, quindi...
Un
altro tonfo. Il verso della creatura era il ruggito di un mostro
affamato. Emma
si chiese quante volte Marian avesse tentato di scappare e quante volte
fosse
stata acciuffata e sbranata.
-
Portami verso l’uscita. – disse Emma.
Marian
scosse vigorosamente la testa.
-
Non abbiamo scelta! Non possiamo restare quaggiù. Dobbiamo
combatterlo.
Il
mostro gridò di nuovo, furibondo. Un altro tonfo. Qualcosa
si schiantò e si
ruppe.
Marian
prese la mano di Emma e si misero a correre. La trascinò in
fondo al corridoio
e girò a sinistra. Emma arrancò insieme a lei,
sforzandosi di ignorare i dolori
lancinanti. La gamba aveva ripreso a sanguinare.
Alla
fine del primo corridoio, c’era la statua di un uomo in
ginocchio, con una mano
nei capelli ricciuti e un paio di ali che gli spuntavano dalla schiena.
Le ali
erano rivolte verso terra. Ai lati della statua, c’erano le
facce di due demoni
muniti di corna ricurve. Le loro bocche erano aperte ed Emma le vide
illuminarsi di un bagliore rossastro. Marian la tirò verso
di sé, perché uscisse
dalla traiettoria dei fulmini che saettarono fuori da quelle bocche,
alla
ricerca di un bersaglio.
Marian
svoltò a destra, poi di nuovo a sinistra. I corridoi
sembravano tutti uguali. Poi
imboccarono un passaggio ad arco che le condusse in una camera
circolare. Emma
calpestò un oggetto, che si rivelò essere un osso
umano. C’erano... parecchie
ossa umane, in quella stanza. Ossa umane, brandelli di abiti, i resti
di
un’armatura gettata in un angolo, l’elmo, la cotta
di maniglia e i gambali.
-
Ci
siamo quasi. – disse Marian, respirando a fatica. Il luogo
proseguiva in una
galleria oscura, simile a quella che Emma aveva percorso per arrivare
là.
Dietro
di loro, proruppe un altro muggito inferocito, seguito dal rumore di
zoccoli. Dall’ombra
iniziò ad emergere qualcosa di enorme, con occhi che
bruciavano come torce.
-
Te
l’avevo detto. Non ce la possiamo fare. È molto
più forte di noi! – gridò
Marian. Estrasse comunque una freccia dalla sua faretra.
-
Corri.
-
Cosa?!
-
Corri. Esci da qui. Ci penso io a lui.
-
Ma
ti farà a pezzi, Leila... Emma.
-
Forse. Ma almeno potrai uscire. Trova la mia famiglia. Trova mia
madre...
Biancaneve. – Emma la prese per le spalle, scuotendola
perché l’ascoltasse. – Τrova
lei, trova Lily...
-
E
poi?
Emma
rifletté un istante prima di parlare. Nella sua mente si
succedette una moltitudine
di pensieri e ognuno di essi aveva senso. Al tempo stesso sembrava che
nessuno
di essi l’avesse. - E poi dì loro di andarsene.
Dì loro di tornare a casa.
Marian
udì l’ennesimo ruggito del mostro e
capì di non poter replicare a ciò che Emma
le aveva appena detto. Si introdusse nella galleria, proprio quando
l’abitante
del labirinto mise piede nella camera circolare.
Regina.
Mio Dio, non le ho detto di Regina.
Emma
strabuzzò gli occhi.
L’essere
che le aveva inseguite aveva petto e braccia umane. Le mani si aprivano
e si
chiudevano, ansiose di accaparrarsi la preda. Lo sguardo era feroce e
selvaggio.
Ma dalla vita in giù la sua umanità terminava e
cedeva il posto alla bestia. Le
gambe erano possenti e ricoperte da una fitta peluria nera. Non aveva i
piedi,
ma un paio di zoccoli. Inoltre la testa era quella di un toro. Le nari
si
allargarono, annusando l’aria e poi emisero uno sbuffo
rumoroso. Aprì la bocca
e lei vide che aveva due file di denti aguzzi pronti ad azzannare e a
farla a
pezzi.
Emma
fece un passo indietro, parandosi davanti alla galleria che aveva
inghiottito
Marian.
Il
Minotauro sfregò gli zoccoli sulle mattonelle del pavimento
e caricò a testa
bassa.
- Se
non sbaglio, siamo già passati di qui prima. –
disse Killian, spazientito. –
Non c’è traccia di Emma.
-
E
noi passeremo un’altra volta, Capitan Mascara. –
rispose Regina. – Forse
qualcosa ci è sfuggito, forse troveremo delle tracce
fresche.
-
Ricordatemi perché mi sono unito a voi, Maestà.
-
E tu
ricordami perché ho accettato che mi seguissi. –
Regina gli puntò contro
l’indice. Sapeva benissimo di essere già passata
di là. Le sembrava di
conoscere quel bosco come le sue tasche. Ogni sentiero, ogni albero. E
non
c’era nessuno. Nemmeno un’anima vagante che potesse
dar loro una mano. Era
esasperata. David era al cimitero con la moglie. Lily era da qualche
altra parte
in città con Malefica. Non osava chiedersi dove fosse o cosa
stesse tramando
Τremotino.
E
a
lei era toccato Uncino. Henry aveva insistito per venire con loro.
-
Mamma!
– gridò Henry.
Regina
si girò e si accorse che, mentre lei discuteva con il
pirata, suo figlio era
andato avanti.
-
Vieni a vedere!
Lo
raggiunsero in fretta e videro che stava osservando delle piante verdi
che
crescevano ai piedi di un salice.
Le
foglie erano sporche di sangue. Ed era sangue fresco. C’era
sangue anche
sull’erba.
-
Non
toccarlo, Henry – disse Regina, afferrando suo figlio per la
giacca.
-
Ma
potrebbe essere della mamma! Potrebbe essere qui intorno.
Uncino
toccò le foglie, sporcandosi la punta delle dita. - Il
ragazzo ha ragione. È
fresco. Emma!
Il
pirata si mise a correre su per un pendio erboso, stando attento a dove
metteva
i piedi. Trovò altre tracce sull’erba, sulla
corteccia di alcuni alberi. Τrovò
anche un pezzo di stoffa dal colore indefinito. Lo prese, chiedendosi
se
appartenesse ad Emma.
Henry
e Regina lo seguivano a ruota. Lui distanziò rapidamente la
madre, provando a
stare al passo con Killian, ma il pirata correva alla cieca, incapace
di stabilire
in quale direzione dovesse effettivamente andare.
-
Emma!
Henry
inciampò in una radice sporgente, cadde tra le foglie,
sbucciandosi il palmo
della mano destra. Maledisse quel posto fra sé e
sé. Maledisse il fatto di non
avere la penna. Forse avrebbe potuto usarla per trovare sua madre.
Uncino
era andato avanti e stava gridando ancora il nome di Emma.
-
Ehi...
Henry
spostò la testa verso destra e vide una figura acquattata
dietro al grosso tronco
di una vecchia quercia.
-
Mamma...?
– iniziò. Ma si accorse subito che la donna non
era sua madre. Aveva una fitta
massa di capelli neri e tutti in disordine. Vestiva come una popolana,
con un
mantello color porpora agganciato alla base del collo e una veste
grigia e
polverosa sotto di esso. La faccia scura era sporca di fuliggine e gli
occhi
erano segnati da ombre violacee. Aveva con sé un arco e una
faretra.
-
Non sono Emma. Ma l’ho incontrata. – disse,
appoggiandosi all’albero per
alzarsi. Zoppicava e aveva le mani graffiate. – Mi chiamo
Marian...
-
L’hai vista? Dov’è?
-
Henry! – Regina raggiunse suo figlio e si chinò
per aiutarlo, scostandogli i
capelli dalla fronte. – Stai bene? Dov’è
andato Uncino?
Allora
notò la donna.
Regina
sgranò gli occhi.
Marian
prese la prima cosa che le capitò a tiro e la
scagliò contro di lei.
La
pietra colpì Regina di striscio alla tempia, facendola
finire con un ginocchio
a terra e dando il tempo a Marian di recuperare il suo arco e incoccare
una
freccia.
-
No! – Henry si mise in mezzo. – No, aspetta, non lo
fare.
-
È
la Regina Cattiva. Lei mi ha uccisa!
-
Lei è mia madre.
Uncino
tornò indietro, correndo. Fissò la scena pieno di
sconcerto. – Marian? Che cosa
sta succedendo? Vi prego, fermatevi.
-
Anche tu sei qui? – esclamò Marian.
-
Già, questo mondo è piccolo, milady. Mettete
giù l’arco. Non è come credete.
-
Ah, no?!
Regina
tenne una mano premuta contro la tempia. Un terribile fischio le aveva
invaso
le orecchie e il mondo aveva iniziato a inclinarsi da un lato.
Marian.
È la moglie di Robin. La vera moglie di
Robin.
-
Non è più quella persona. – intervenne
Henry. – Non è più la Regina Cattiva.
Marian
scosse la testa, ma esitò. La mano che teneva la corda
dell’arco tesa stava
tremando. La nube di confusione che le occupava la mente non le
permetteva di
riordinare i pensieri e i ricordi. Sapeva che la Regina
l’aveva uccisa. Lo
ricordava. Ricordava le sue ultime parole. Ricordava il soldato che
appiccava
il fuoco. Il crepitare delle fiamme. La sofferenza... la sofferenza che
era
sembrata durare un’eternità.
E
poi ricordava Emma. Emma che la liberava. L’uomo con la mano
finta. Volevano
portarla in un altro posto, lontano dalla sua famiglia, da suo marito e
da suo
figlio. Poi qualcuno l’aveva colpita alla testa.
Era
come se anche la sua mente si fosse trasformata in un labirinto. Era
come se
fosse morta due volte.
-
Ascoltate
il ragazzo. È suo figlio. Ve lo assicuro. – disse
Uncino, muovendo un passo
verso di lei. – Regina non vi farà alcun male.
Vedete... è passato molto tempo
da allora. Le cose sono cambiate per tutti. Credetemi.
-
Che cosa ci fa nell’Oltretomba. Non è morta, vero?
-
No. Nessuno di noi è morto. Siamo qui per Emma. E se voi
l’avete vista, allora
potete aiutarci.
-
Non potete essere tutti così giovani...
-
Possiamo spiegarvi anche questo. Ma solo se accettate di venire con
noi.
Continuò
a tenere la freccia puntata su Regina.
-
Vi
avrebbe già uccisa, se fosse la stessa donna. –
continuò Uncino. – Sa usare la
magia. Ve ne siete dimenticata?
Marian
si decise ad abbassare l’arco. Lasciò cadere la
freccia, ma si mantenne a distanza
di sicurezza.
-
Mamma? Va tutto bene? – domandò Henry. –
Sei ferita...
-
Non è niente. – mormorò Regina.
– Sto... bene.
-
Dobbiamo andare via. – disse Marian, in fretta, parlando a
Killian. – L’entrata
della caverna non è lontana.
-
Quale caverna? – chiese lui.
-
Andiamo via, vi prego. C’è un mostro...
Regina
usò la magia per portare tutti lontano da lì.
Scomparvero, dissolvendosi in una
nuvola di fumo violaceo.
Foresta
di Oz.
Mulan
mise mano alla spada quando sentì i passi e vide arrivare
Ruby in forma di lupo
e Dorothy con il mantello rosso tra le mani.
-
Che cos’è successo? - chiese.
-
Zelena. - rispose Dorothy. - E le sue scimmiette volanti.
Mulan
la osservò mentre distendeva il mantello magico e lo gettava
sopra al lupo, i
cui occhi gialli splendevano nell’oscurità. Ruby
recuperò le sembianze umane e
si scostò il cappuccio dalla testa. Si rialzò,
respirando con affanno.
-
Stai
bene? - domandò a Dorothy.
Lei
non rispose e a Mulan parve che si fosse irrigidita, come se ci fosse
qualcosa
che la preoccupasse. E non erano le scimmie volanti della strega
perfida.
-
Dorothy?
-
Sì. - si decise a rispondere. - Sto bene. Sono solo stanca.
Saranno stati i
papaveri.
Ruby
si rabbuiò.
-
Chi
è lui? Che ci fa qui?, domandò Dorothy, scorgendo
Robin.
-
Lui è Robin. È... - Stava per dire che era un
amico, ma non lo disse. - Una
vecchia conoscenza. Abbiamo viaggiato insieme per un po’. E
Zelena deve restituirgli
qualcosa.
-
Cioè?
-
Mia figlia.
-
La
bambina di Zelena è figlia tua? - Dorothy
appoggiò una mano sulla balestra, come
se si sospettasse che Robin si stesse per trasformare in una pelosa
scimmia
volante.
-
Zelena lo ha ingannato. - intervenne Mulan.
Robin
raccontò loro di come Zelena si fosse finta Marian, sua
moglie. Di come fosse
vissuta con lui e Roland per settimane e della nascita della bambina.
-
Zelena
lascia dietro di sé una scia di desolazione, a quanto pare.
E si preoccupa di
prolungare la sua stirpe... - commentò Dorothy, acidamente.
-
Mia
figlia non c’entra nulla. È innocente. Voglio solo
riportarla a casa con me. E
se possibile... liberarmi di Zelena.
-
Abbiamo una soluzione. - Dorothy sfilò il papavero dalla
cintura di Ruby. Lei
sembrava stranamente confusa, con gli occhi troppo brillanti e le
guance un po’
arrossate, sebbene non facesse così freddo.
Mulan
prese il papavero. - L’ingrediente per la pozione che la
manderà nel mondo dei
sogni.
-
La
maledizione del sonno? - commentò Robin.
-
E
chi la sveglierà, dato che non ha un vero amore? –
gli fece notare Mulan.
-
Non sarà così facile.
-
Faremo
del nostro meglio. - replicò Dorothy, come se Robin avesse
appena detto una
grossa idiozia. - Ed ora scusatemi, vado a... stendermi un momento.
Oltretomba.
-
La
casa dei nonni? – esclamò Henry.
-
Beh, dato che tutto ciò che avevamo a Storybrooke, sembra
avere un
corrispettivo qui... ho pensato che l’avesse anche la casa
degli Azzurri. –
disse Regina.
Tutti
i mobili erano coperti da teli bianchi, come se i legittimi proprietari
avessero abbandonato il posto da tempo. Il pavimento era polveroso e
mangiato
dai tarli. I vetri delle finestre erano opachi e senza tende.
Regina
prese una foto, appoggiata su un comodino. Era una delle foto che gli
Azzurri
conservavano nella loro vera casa. In essa Mary Margaret e David
sorridevano
all’obiettivo, lui tenendo un braccio sulle spalle della
moglie.
-
O
più che altro... questo posto sta aspettando che loro
muoiano e si
trasferiscano. – Regina rimise la foto dove l’aveva
trovata.
Sta
aspettando tutti noi. Neanche tra mille anni,
quando l’inferno gelerà, andrò a vivere
con gli Azzurri, pensò.
Con gli Azzurri e circondata da tutti i
suoi conti in sospeso. Nemmeno se avesse vissuto un secolo sarebbe
riuscita a
sistemarli.
“Sei
stata troppo cattiva. Per troppo tempo.”, le
aveva detto sua madre. Quando? Un’eternità
fa, forse.
Dov’era
sua madre? Era sparita, ma dov’era andata?
L’avevano gettata nel Τartaro?
“So
che la Regina ha amato molto quando era
solo una ragazza innocente... ha amato molto ed ora il suo primo grande
amore
vorrebbe vederla.”
In
casa degli Azzurri c’erano Lily e Malefica, che erano intente
a rovistare in
giro, alla ricerca di qualcosa che potesse condurle da Emma.
-
Che ci fa lei qui? – domandò Lily, vedendo Marian,
che si era accasciata su una
delle poltrone, stringendosi nella mantella, come se avesse freddo.
-
Si
chiama Marian. L’abbiamo trovata nel bosco. Ha incontrato
Emma. – precisò
Killian.
-
L’ha vista? Dove? Come sta?
Marian
alzò gli occhi stanchi su di lei. – Sei... tu sei
Lily?
-
Sì. Sono io. Che cosa ti ha detto Emma? Dove possiamo
trovarla? – Lily si
inginocchiò davanti a Marian. Il ciondolo che portava al
collo dondolò e la
moglie di Robin Hood lo fissò per qualche momento.
-
Lei mi ha salv... aiutata ad uscire dal labirinto. È rimasta
indietro perché io
potessi scappare e portarvi un messaggio. – disse Marian.
Sembrava un po’ più
rinfrancata ora.
-
Quale messaggio?
Marian
diede un’occhiata a Regina.
-
Potete parlare liberamene, milady. – la incoraggiò
Killian. – Nessuno vi farà
del male.
-
Sì, noi vogliamo sapere come possiamo arrivare ad Emma.
– aggiunse Henry. - Lo
vogliamo tutti.
-
Lei non desidera questo. – rispose Marian.
Per
un secondo, Regina pensò che la donna si stesse rivolgendo a
lei. Che stesse
parlando alla sua assassina.
“Lei
non desidera questo.”
-
Come? – fece Lily.
-
Emma. Non vi vuole qui. Dice che dovete andarvene. Dovete tornare a
casa.
Foresta
di Oz.
-
Ho
dato la pozione del sonno anche a Dorothy. Robin e i suoi uomini ne
hanno un
po’ e Knubbin ha protetto l’accampamento con un
incantesimo. Attacchiamo
all’alba. - disse Mulan.
-
Bene.
- rispose Ruby.
-
Bene. - ripeté Mulan, imitando il suo tono meditabondo. -
Non mi pare un grido
di battaglia molto convincente.
Ruby
non rispose. Era da quando era tornata dal campo di papaveri che si
comportava
in modo strano. Non era sembrata partecipe a nessuna conversazione. Ora
se ne stava
in silenzio, con la testa bassa e le mani in grembo, a tormentarsi le
unghie.
Non molto distanti brillavano le luci dell’accampamento di
Robin Hood. Mulan
vedeva le ombre di alcuni uomini messi di guardia lungo il perimetro.
La luna
piena veleggiava nel cielo, tra i rami spogli.
Mulan
sedette vicino a lei. - Ruby, che cosa succede?
“Mi
dispiace.”
“Per
cosa?”
“Per
averti chiamata lupacchiotta. Se avessi
saputo...”
“No,
non importa. In realtà mi piace.”
-
Ruby?
-
Mentre
camminavamo, io... ecco, Dorothy... mi ha chiesto che cosa sto cercando
davvero. Ed io... le ho detto che non sono sicura di saperlo.
“Però
credo sia giusto che anche tu abbia un
soprannome.”
“Davvero?”
“Mmm.”
Non era rimasta troppo tempo a pensarci.
“Che ne dici di Kansas?”
Dorothy
rise di gusto. “D’accordo, lupacchiotta.
E Kansas sia.”
-
Ed
è così? – domandò Mulan,
aggrottando un sopracciglio.
“Attenta.”,
disse Dorothy, mettendole una mano
sul braccio prima che potesse chinarsi e raccogliere uno dei papaveri.
“Basta
una semplice annusata e finisci addormentata come un sasso.”
Si
piegò e lo raccolse lei stessa.
“Grazie...”
Dorothy
le offrì il fiore e Ruby lo prese...
-
Io
penso... – ricominciò Ruby, insicura. –
Penso... forse stavo cercando proprio
qualcuno come lei.
Mulan
non parve nemmeno sorpresa. Sorrise.
-
Lo
so che ci siamo appena conosciute. – continuò
Ruby, sulla difensiva. – Ma...
non mi sono mai sentita così prima d’ora.
-
Beh... è fantastico. – commentò Mulan.
– Quindi, quale sarebbe il problema?
Ruby
si rabbuiò di nuovo. - Hai visto anche tu come mi ha
guardata quando mi sono trasformata.
Non è
riuscita a dire niente.
E
le ho anche rivelato di aver ucciso Peter!
-
Forse perché prova le stesse cose che provi tu. –
osservò Mulan. - E non sapeva
come dirlo.
-
La
verità è che tutto ciò la spaventa. La
situazione è troppo complicata per lei.
-
Dorothy... non ha paura di te. Non ha paura nemmeno di Zelena, come
può avere
paura di un licantropo?
Ruby
scosse il capo.
-
Ruby...
non fare il mio stesso errore. Non aspettare troppo per dire a qualcuno
quello
che provi...
Dall’accampamento
vennero delle grida.
-
Cos’è stato? – chiese Ruby.
-
Guai.
Mulan
corse all’accampamento dell’Allegra Compagnia, con
la spada in pugno. Ruby la
seguì.
Un
gruppetto di persone si era assiepato intorno ad una figura, che se ne
stava accasciata
per terra, ma con le mani sollevate. Alcuni ladri avevano estratto le
armi.
Robin si fece largo tra la folla per vedere.
-
Cosa
succede? – domandò Mulan, spingendo via alcuni
uomini.
-
È
entrato nell’accampamento di nascosto. – disse
Piccolo John, puntando il
proprio pugnale sul tizio in ginocchio.
-
In
realtà, sono entrato con le mani alzate. Non sono un nemico.
Mi chiamo Fiyero.
Mi manda Glinda, la Strega del Sud.
Robin
illuminò il viso dell’uomo con una torcia. Era
robusto e aveva la pelle nera
ricoperta di tatuaggi a forma di diamante. Le uniche armi erano i
pugnali
infilati negli stivali con gli speroni. La giubba rossa era di ottima
fattura e
al collo pendeva una collana annodata intorno ad un ciondolo, una
piccola ampolla
che racchiudeva...
-
Magia.
– disse Knubbin. Indicò il collo di Fiyero con il
nodoso dito indice. – Il
ciondolo che ha al collo contiene un incantesimo decisamene potente.
John
allungò una mano per strapparglielo, ma Robin lo
fermò.
-
Non è per voi. – spiegò Fiyero.
– Sarebbe per Zelena. Sono dalla vostra parte.
-
Fiyero. – disse il ladro. – Avete detto che vi
manda Glinda. Che cosa ci fate
nel mio accampamento?
-
Sto cercando Dorothy. Ho un messaggio per lei. Se solo mi permetteste
di infilare
una mano nella tasca della giacca, ve lo mostrerei, Robin Hood.
– Fiyero
sorrise. I denti bianchi risaltarono in contrasto con il colore della
sua
pelle. Guardava Robin dritto negli occhi, senza curarsi di tutte le
armi puntate
contro di lui. Sembrava quasi a suo agio, in mezzo a possibili
aggressori.
-
Come fate a sapere come mi chiamo? – chiese Robin, guardingo.
-
Glinda vi ha visto arrivare. Voi e la vostra... poco accogliente
compagnia. Purtroppo
non porto delle buone notizie.
Robin
abbassò un poco la guardia. - Qual è il
messaggio?
Fiyero
mise una mano in una tasca interna della giubba e tirò fuori
un rotolo di
pergamena. Era chiuso con un sigillo rosso.
-
Potrebbe
essere un tranello di quella strega. Parlo di Zelena. – fece
Piccolo John,
afferrando il braccio di Robin prima che potesse prenderlo.
-
Non ho nulla a che fare con Zelena. Ma il messaggio può
essere letto solo da
Dorothy. La magia di Glinda lo protegge.
Mulan
strappò la pergamena di mano a Fiyero senza troppi
complimenti e la srotolò in
fretta. – Non vedo niente, in effetti.
-
Vado a chiamare Dorothy. – disse Ruby, allontanandosi.
-
Inizia col dirci qual è il messaggio. – riprese
Robin, accovacciandosi davanti
a Fiyero. - Zelena ha mia figlia. Voglio sapere ogni cosa.
Oltretomba.
Emma
rinvenne mentre due uomini la depositavano su una piattaforma.
Le
doleva tutto il corpo. Le sembrava impossibile persino sollevare le
palpebre
per guardarsi intorno.
-
Bene, bene. – disse una voce maschile e canzonatoria.
– Sento che oggi sarà una
di quelle giornate... estremamente divertenti. Lasciateci.
Rumori
di passi.
Emma
aprì leggermente gli occhi e vide un paio di lucide scarpe
nere, la stoffa dei
pantaloni scuri, dal taglio elegante.
-
Dove sono? – mormorò, provando a tirarsi su. Le
luci che illuminavano
l’ambiente erano deboli, ma a lei parve di essere in una
caverna dal soffitto
altissimo. Sentiva il rumore dell’acqua che scorreva.
Notò una poltrona rossa e
un paio di sgabelli.
-
Te
l’ho già detto quando ci siamo parlati la prima
volta. O forse non eri attenta?
Sei... nel mio regno. È un onore. Molti eroi sono passati da
queste parti, da
quando esisto. Cioè da... migliaia di anni.
“Sono
il padrone di casa, Emma. Adesso sei nel
mio regno. È un piacere. Ci incontreremo presto. Spero che
il posto ti piaccia.”
La
risata era la stessa. Sprezzante. Piena di arroganza. Con un che di
repellente.
Emma
si sdraiò sul dorso e guardò il padrone di casa.
Aveva l’aspetto di un uomo
alto, con addosso un completo scuro ed elegante, i capelli corti, di un
biondo
rossiccio.
-
Hai dato del filo da torcere al Minotauro. Ti ha fatta a pezzi soltanto
una
volta. E... l’altra prigioniera è scappata.
– disse. Si inginocchiò vicino a
lei e allungando una mano. Premette su una ferita aperta che aveva sul
collo.
Emma strinse i denti, soffocando un gemito. – Beh, scappata
dal labirinto, non
certo dal mio regno. E meno male, perché odio quando
quell’orologio si mette a
ticchettare. Preferisco la musica classica. Paganini, mai ascoltato?
-
Qualsiasi
cosa... tu abbia in mente... non funzionerà. –
disse Emma.
-
Oh, invece sì. Perché io... sono Ade. Il Signore
degli Inferi. – annunciò lui, alitandole
in faccia. Non premette più sulle ferite, ma si
limitò a sfiorare quella che
aveva sulla fronte con la punta dell’indice.
Il
dolore le esplose nella testa come un tuono fragoroso e poi si
dipanò in tutto
il suo corpo, raggiungendo ogni anfratto ed inondandolo come nero fumo.
Lei
urlò.
-
E
sai, Emma... – Si chinò di più,
soffiandole in un orecchio. - Il Minotauro era
solo un assaggio. Era affamato. Dovevo dargli qualcosa. Qualcosa di...
diverso
dal solito. Secondo me, gli sei piaciuta.
Emma
non riuscì a rispondergli.
Ade
la torturò ancora e ancora. Giocava con le sue ferite e con
il suo dolore, girandole
intorno come avrebbe potuto girare intorno ad un animale che stava
provando ad
addomesticare. Scandiva il tutto con le sue risate e, a volte,
canticchiava
persino.
-
Alzati, ora. – ordinò, alla fine.
Non
aveva idea di come sarebbe riuscita ad alzarsi. Non c’era un
punto del suo
corpo che non le facesse male.
-
Alzati. – ripeté.
Emma
si mise in ginocchio e, con un enorme sforzo, si alzò in
piedi, fissando Ade in
faccia. Lui la osservò, soddisfatto.
Poi
allungò una mano verso la sua gola. Emma si tirò
indietro, ma la magia del Signore
degli Inferi la afferrò comunque e la costrinse ad
avvicinarsi. Ade la prese
per il collo e la trascinò con sé. Emma
lottò contro la sua presa d’acciaio e
scalciò
furiosamente, ma lui sorrise, divertito.
-
Sei
leggera come una piuma. – disse Ade. – Sai, io...
so essere anche un uomo
gentile. E generoso. Dipende da come l’ospite si comporta.
Emma
lo fissò con astio.
-
Ti
do la possibilità di uscire da qui. Non sarà poi
così difficile. – Si leccò le
labbra, quasi stesse assaporando il suo piano. Sulla guancia aveva uno
sbuffo
del suo sangue. - Io dico sempre che la vita è fatta di
scelte... e tu potrai
scegliere.
-
Non... farò niente... – grugnì Emma.
-
Questo è tutto da vedere. Ognuno di noi ha dei limiti,
Salvatrice. Anche tu. –
Parlava conferendo alle parole un’inflessione strana,
musicale. – Tra poco li
conoscerai.
Foresta
di Oz.
-
Non riesco a capire. – disse Mulan. – Che senso ha?
Perché
attaccare il Quadling?
Fiyero
ora stava in piedi in mezzo a loro e aveva nascosto l’ampolla
che portava al collo nella giubba rossa. Il messaggio di Glinda era
postato su
un ciocco di legno, il sigillo rosso infranto. Sulla pergamena
scivolavano i
riflessi arancioni del fuoco acceso al centro
dell’accampamento dell’Allegra
Compagnia. Quel riverbero ricordava al principe le fiamme che avevano
divorato
numerose case del villaggio nel Quadling, il regno del Sud. Il fuoco
che aveva divorato
delle persone. Decine di uomini e donne, che erano morti gridando.
– Glinda è stata
da lei per cercare un accordo. Forse si è sentita provocata.
-
Zelena è folle. – rispose Robin, con sicurezza.
– Sta
perdendo completamente la ragione. Dobbiamo agire prima che faccia del
male
anche a mia figlia.
-
Credete che possa arrivare a far del male ad una bambina? –
domandò Fiyero.
Robin
strinse le labbra. Nessuno rispose.
In
quel momento, Ruby arrivò, correndo. – Dorothy non
c’è.
-
Come sarebbe... non c’è? –
esclamò Mulan.
-
La casa è vuota. Ha preso le armi, la pozione del sonno
e... se n’è andata. L’ho cercata nei
dintorni, ma non ci sono tracce! – Ruby
teneva in mano un pezzo di stoffa. Il ricamo a quadri era quello del
vestito di
Dorothy.
-
Non sarà andata da sola da Zelena! – disse Fiyero,
sbarrando gli occhi.
-
Sarebbe assurdo. Non ce la farà mai da sola! –
rispose
Mulan. – Era d’accordo con il nostro piano.
-
Evidentemente non lo era, tesorino. O qualcosa, nel
frattempo, è cambiato. – aggiunse Knubbin,
infilandosi fra due uomini. Il suo
corvo sbatté le ali, nervoso. - Mi auguro che abbiate un
piano di riserva.
-
Devo avvertire Glinda. – annunciò Fiyero.
-
Io raduno i miei uomini. – disse Robin. – Spero
solo che
non sia già troppo tardi.
Dopo
aver consegnato il messaggio di Glinda, il principe Fiyero ripercorse
la strada
che l’aveva condotto alla dimora di Dorothy, con il cuore
pesante e un vago
presentimento che gli animava la mente.
L’attacco
a sorpresa nel Quadling aveva sconvolto Glinda. Aveva sconvolto lei e
le sue
sorelle, Nessarose, la Strega dell’Est, e Locasta, la Strega
del Nord. Il
villaggio nel Quadling era ancora in fiamme. Erano morte decine di
persone,
uomini e donne, persino bambini, alcuni colti nel sonno dal fuoco e
altri
uccisi dagli uomini in armatura o dilaniati dalle scimmie volanti.
Tutti gli
abitanti avevano visto la Strega a cavallo della sua scopa, avevano
udito la
sua perfida risata, mentre l’esercito colpiva senza
pietà. Gli uomini erano
ricoperti da armature nere e portavano al collo una pietra verde
incastonata in
un ciondolo, molto simile a quella che Glinda aveva dato a Zelena molti
anni
prima.
Eppure
Fiyero aveva l’impressione che quell’attacco fosse
di una crudeltà inaudita.
Zelena era perfida, terrorizzava Oz, era potente e nessuno aveva il
coraggio di
affrontarla direttamente. Tuttavia una simile azione a lui pareva
insensata.
Aveva visto Zelena una sola volta e, nonostante la furia che aveva
riversato su
Glinda, sembrava si preoccupasse soprattutto della bambina che aveva
portato
con sé dall’altro mondo. Non aveva più
la pelle verde. I suoi capelli erano
come fiamme e gli occhi erano schegge di un azzurro tempestoso. La sua
era una
bellezza selvaggia, al contrario di quella più dolce e
rassicurante di Glinda.
“Ho
sbagliato e me ne pento, ma tu non puoi
continuare a terrorizzare questa gente. Hai una figlia, adesso. Devi
pensare a
lei.”
“Ed
è quello che intendo fare, se non mi
metterete i bastoni fra le ruote!”
E
che ne era di Dorothy? Davvero voleva affrontare la Strega Perfida da
sola?
Era
ancora in balia di quei pensieri quando udì la risata della
Strega e,
rapidamente, si mise al riparo, celandosi dietro ad un albero. Prese
una
freccia dalla propria faretra e fissò il cielo scuro, tra i
rami spogli.
Zelena
tagliò il firmamento e la grande luna piena volando sulla
sua scopa. Disegnò un
cerchio immaginario tra le stelle e rise di nuovo, per poi sparire
verso ovest,
dove risplendevano le luci verdi della Città di Smeraldo.
Fiyero
restò a guardarla, sconcertato.
La
Strega dell’Ovest poteva aver appena commesso una strage, ma
sembrava
divertirsi un mondo. Il principe aveva riconosciuto subito la sua
risata e, al
tempo stesso, l’aveva percepita in modo diverso. Non era la
risata di una
strega perfida. Era una risata giovane e persino spensierata. Gli
ricordò la
risata delle sue sorellastre, mentre giocavano nel giardino della loro
casa.
Lui imparava a tendere la corda di un arco e a fabbricare frecce, loro,
invece,
giocavano a rincorrersi, con i capelli al vento. Lui era guardato con
sospetto
per via della sua pelle nera, loro con ammirazione perché
erano belle ed erano
sempre sorridenti. Lui era isolato perché, anche se
riconosciuto dall’uomo che
aveva sposato sua madre, era figlio di un forestiero giunto da terre
molto
lontane e che poi era sparito nel nulla.
Fiyero
mise via la freccia e riprese il cammino, sempre scrutando il cielo.
____________________
Angolo
autrice:
Ciao
a tutti voi lettori ;)
Qualche
precisazione, giusto per capirci.
Fiyero
è un personaggio del musical “Wicked”.
Ma i ricordi di Fiyero sulle sue sorellastre
sono una mia invenzione.
Il
Quadling è il territorio di Glinda, quindi il Sud.
Nel
musical, Elphaba è interpretata da Idina Menzel, che canta
anche la canzone Defying Gravity,
citata all’inizio del
capitolo, appunto.
|
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Capitolo 4 *** 4. ***
4
“Siamo
giunti a un torrente di sangue.
Esso ci porterà a un fiume di uguale fattura,
non ne dubito.
E più avanti ancora, a un oceano.
In questo mondo le tombe sono spalancate e
nessuno dei morti riposa in pace.”
[Stephen
King, La Torre Nera 3: Terre Desolate]
In
mare aperto. Foresta Incantata. Trecento
anni fa.
C’erano
delle volte in cui il mare a Killian
Jones non sembrava più mare, ma una grande, violenta
esplosione di energia e di
pericolo, una forza capace di sfoderare una ferocia che solo gli dei
potevano
mostrare.
Quel
giorno le ondate si scagliavano contro le
fiancate della Jolly Roger, facendo arrivare gli spruzzi in alto,
sull’albero
maestro, inondando il ponte e gli uomini della ciurma, impegnati a
gridarsi
ordini, ad urlare a squarciagola per farsi sentire sopra
l’ululato del vento. Le
nubi nere erano tagliate da innumerevoli lampi.
Killian
era sicuro di non aver mai visto una tempesta
simile.
“Che
cosa diavolo ci fai ancora qui?! Vai sottocoperta!
I cuochi non mi servono!”, gridò, rivolgendosi
all’uomo con i capelli rossi, il
cuoco di bordo. Era paonazzo, incapace di reggersi in piedi, con gli
occhi
fuori dalle orbite. Si guardava intorno senza scopo, rischiando di
intralciare
il lavoro degli altri.
Lentamente
eseguì l’ordine del suo capitano,
dirigendosi verso la scala che conduceva sottocoperta.
Un
tuono rimbombò, fragoroso, sopra le loro teste.
Un’onda enorme si schiantò contro la nave.
Milah
afferrò il timone della Jolly Roger e
cercò di ruotarlo verso sinistra. I capelli neri
svolazzavano in balia della
tormenta. Il nostromo, un uomo alto e nerboruto, con un paio di lunghi
baffi
scuri che gli frustavano la faccia, l’aiutò a
manovrare.
“Milah,
va di sotto anche tu!”, disse Killian,
raggiungendoli.
“Non
ci penso nemmeno. C’è bisogno anche di me
su questa nave.”, ribatté lei. E ovviamente il
pirata non si aspettava nulla di
diverso.
“Capitano,
sta diventando molto difficile
governarla!”, urlò Lewis.
“Non
è ben assestata. Stiamo imbarcando troppa
acqua!”. Killian era furibondo. Ormai aveva gli abiti
inzuppati. La pioggia gli
scorreva a fiumi sulla faccia.
“È
una buona nave, capitano. Ma anche lei ha i
suoi limiti.”
“Abbiamo
visto di peggio!”
La
vedetta si sbracciava, indicando qualcosa
che si trovava a nord. Milah si fece passare il binocolo e
sbirciò il punto a
nord, oltre i cavalloni.
“C’è
qualcosa laggiù, Killian!”
Lui
prese il binocolo e guardò a sua volta.
Mare.
Mare ovunque. Ma le acque che stava
ammirando a circa una lega di distanza erano stranamente calme. Un
denso banco
di nebbia aleggiava su di esse.
“La
nostra salvezza. Manteniamo la rotta.
Passami quel timone!”, ordinò Killian, prendendo
il posto del nostromo, che
volle appurare dove il capitano stesse dirigendo la nave.
“Capitano...
quella nebbia...”, iniziò Lewis,
scettico.
“È
verde! Come la faccia del nostro cuoco! Lo
so.”
“Sono
mari abitati da spettri, capitano.
Sono... le acque del mostro marino. Sono segnate sulle
mappe...”
Killian
vide Lewis impallidire. E il nostromo
non impallidiva facilmente. Era un uomo tutto d’un pezzo.
“Ci
stai portando direttamente da un mostro
marino?”, domandò Milah, non credendo alle sue
orecchie.
“Aye,
tesoro. È proprio quello che sto facendo.”
Oltretomba. Oggi.
-
Non
è poi così difficile. – disse Ade,
mellifluo. – Si tratta solo di scegliere tre
nomi. La vita è fatta di scelte, Salvatrice.
Emma
tacque. Osservò il Signore degli Inferi con
l’unico occhio buono. L’altro era
gonfio e chiuso, incrostato di sangue. Sedeva per terra, con le mani in
grembo,
mentre lui sostava dietro a tre lapidi nuove di zecca, con uno
scalpello in
mano.
-
Regina.
Che ne pensi di Regina? - suggerì Ade. – Oh, io
credo che lei sia...
eccezionale. Non hai idea di quante anime mi ha regalato. Un bel
bottino. Ma
diciamolo... a Camelot non ha fatto proprio un bel lavoro. Ti ha
tradita.
Pensaci.
Emma
non disse una parola. Si chiese se Marian fosse riuscita a raggiungere
gli
altri. Ade aveva detto che era scappata, ma aveva trovato la sua
famiglia?
Aveva
detto loro di andare via?
-
Vuoi cedermi il tuo pirata? – tornò a dire Ade,
avanzando di qualche passo. –
Ammetto che non ha buon gusto nel vestire... ma mi piacciono gli uomini
con gli
occhi azzurri. Mi piacciono... gli occhi azzurri in generale.
Emma
restò in silenzio, fissandolo stoicamente. Ade
sollevò la mano destra e dalla
punta di ogni dito scaturì una fiammella azzurra.
-
Tua
madre. Devi ammettere che tua madre non ha fatto un buon lavoro. Ti ha
abbandonata. Ha rapito e maledetto una bambina...
-
Non sono interessata. – commentò Emma,
strascicando le parole. - Scriverei...
il tuo nome. Posso farlo?
Ade
rise di gusto. – Forza! Basta scherzare... qual è
il problema? Hai il blocco
della scrittrice?
-
Non farò... nulla di simile. A nessuno. –
precisò.
Una
breve pausa.
-
Oh. – Lui le venne vicino. – Beh, che dire...
l’avevo immaginato. Ma sai... non
sono arrabbiato. Sono solo deluso.
Prese
lo scalpello e le conficcò la punta in una spalla. Emma
gridò.
-
E
la delusione nel mio caso... può esser ben peggiore della
rabbia. – Ade
l’afferrò per i capelli, costringendola ad
alzarsi. – Quindi penso che tu abbia
bisogno di un viaggetto. Non sai prendere una decisione? Ne pagherai le
conseguenze. E le pagherà qualcun altro, anche.
Emma
non aveva idea di cosa stesse blaterando. Venne trascinata fino ad uno
dei
fiumi che si dipartivano dalla piattaforma circolare. Sulle acque
colorate di
verde galleggiava una barca. Ade la sistemò dentro ad essa.
-
Nel
caso in cui ti venisse sete... fai pure come se fossi a casa tua. Offro
io. –
Nella mano destra di Ade comparve un bicchiere di vino, che lui
levò in alto,
quasi volesse fare un brindisi.
La
barca cominciò a muoversi. Emma si rese conto di avere la
gola riarsa e le
labbra secche. Si sporse, provando l’indicibile bisogno di
immergere il viso
nelle acque calme di quel fiume. La sua fosforescenza era strana, ma la
attirava.
Poi
udì i gemiti.
I
gemiti. I sospiri. I sussurri.
Sotto
la superficie, ombre informi nuotavano, agitate, senza posa. I loro
contorni
avevano un che di umano. I sussurri non erano semplici sussurri, ma
grida lamentose.
Grida estenuanti di anime che non riuscivano a trovare la via
d’uscita. Grida
di anime perdute per sempre.
Emma
si ritrasse di scatto.
Ade
lanciò la sua sprezzante risata.
-
Che cosa state facendo? – domandò
Τremotino, entrando in casa degli Azzurri
senza bussare.
-
Andiamo a cercare Emma, mi sembra ovvio. – rispose
Biancaneve, controllando
ancora una volta le frecce nel suo arco.
Marian
sedeva sul sofà in un angolo, stringendosi nel mantello.
Aveva un aspetto
migliore rispetto al giorno precedente, quando l’avevano
trovata nel bosco, in
fuga da un mostro e dal labirinto in cui era rimasta intrappolata per
almeno
trent’anni. In fuga e recando un messaggio di Emma Swan. Le
avevano dato abiti
puliti che avevano recuperato da un armadio.
Regina
era dalla parte opposta, corrucciata. Si teneva a debita distanza dalla
donna
che aveva ucciso decenni prima.
David
si stava sistemando una pistola a tracolla. Anche Lilith ne aveva una.
-
Io
non posso avere una pistola? – chiese Henry, in quel momento.
-
Non se ne parla nemmeno, Henry. – rispose Regina, come se lui
le avesse appena
annunciato di volersi gettare nel Τartaro.
-
Quindi voi intendete usare quelle armi per entrare nella prigione
sotterranea
in cui Ade tiene Emma Swan? – disse Τremotino,
più che altro domandandosi fino
a dove si estendesse l’idiozia di quelle persone. Non era
dell’umore adatto per
accettare simili sciocchezze. Erano nell’Oltretomba, erano
venuti per fare
qualcosa che era contrario ad una delle principali regole della magia e
si
comportavano come se quel luogo non fosse pieno di trappole.
-
Hai un piano migliore, Oscuro? – domandò Lily,
seccata.
-
Oh, sì. Ce l’ho. Forse voi non ci avevate pensato,
ma Ade sa che siete qui.
Avrà schermato ogni entrata con la sua magia,
avrà messo guardiani e tranelli
in ogni angolo... non ce la farete mai, così. Abbiamo
bisogno di qualcuno che
offra la sua aura per oltrepassare gli ingressi. Qualcuno che sia...
già morto.
-
Io
sono già morta. – asserì Marian,
alzandosi in piedi. – E, stando a quello che
ricordo, due volte. Sono disposta a farlo. Per Emma.
-
No. Mi serve l’aura di una persona morta da più
tempo. Perché è ancora più
forte, milady. E so già a chi rivolgermi.
-
Oh, davvero? Perché dovremmo fidarci di te? Sei
così ansioso di salvare Emma? –
domandò Lilith, avvicinandosi di più e fissando
l’Oscuro negli occhi.
Tremotino,
a volte, si sorprendeva della caparbietà di quella ragazza.
Era stata un
Oscuro, sebbene lo fosse stata per poco tempo, eppure non temeva un
Oscuro
molto più potente, non temeva le conseguenze delle sue
minacce. – Diciamo che
sono ansioso di andarmene da questo posto. E diciamo che voi non ve ne
andrete
mai senza il mio aiuto. Per quanto mi riguarda... voglio tornare a casa
da mia
moglie.
-
E
chi sarebbe il fortunato che ti concederà la sua aura?
– chiese Regina.
-
Qualcuno che conosco bene. – Tremotino non volle essere
più preciso. - E vi
assicuro che si trova qui. Da tantissimi anni.
-
E
ci aiuterà?
-
Puoi venire a vedere con i tuoi occhi, Regina.
-
Io
verrò sicuramente a vedere con i miei. –
asserì Killian, con sicurezza. – Non ti
permetterò di giocarci qualche brutto scherzo. È
già abbastanza quello che hai
fatto vanificando il sacrificio di Emma.
-
Come preferite, capitano. – Tremotino non sembrò
minimamente toccato dal suo tono.
– Anzi, credo che vi farà piacere vedere a chi ho
pensato.
In
mare aperto. Leviathan Shoals. Τrecento anni
fa.
“Bene.”,
disse Killian, una volta che la Jolly
Roger ebbe superato la tempesta per inoltrarsi nelle acque
più calme che,
secondo le dicerie, celavano un temibile mostro marino. Le nebbie si
erano
diradate. “Credo che il peggio sia passato.”
“Se
il mostro esiste, dubito che il peggio sia
passato, capitano.” Lewis venne a guastargli il buon umore.
Il nostromo non
faceva che scrutare le acque scure.
“Che
si faccia avanti, allora, il mostro.”,
rispose Killian. “Questi mari sembrano più gentili
del tocco di una donna.”
“Più
gentili, sul serio?”, domandò Milah,
sollevando un sopracciglio.
Killian
stava per risponderle, quando iniziò ad
udire la voce.
Sulle
prime pensò che uno dei suoi uomini lo
stesse chiamando. Ma raramente un membro della ciurma lo chiamava per
nome. Si
rivolgevano sempre a lui chiamandolo “capitano”.
“Killian.”
“Avete
sentito?”, chiese il pirata.
“Che
cosa?”, domandò Lewis.
“Non
siamo soli.”
La
voce ripeté ancora il suo nome. Sembrava
provenire dal mare stesso. Forse il mostro possedeva una coscienza e un
potere
molto grande e lo stava attirando in qualche diabolica trappola.
Milah
prese il binocolo e osservò le acque,
seguendo la rotta della nave.
Poco
più avanti c’era una barca. Una piccola
barca con un’unica vela che galleggiava in mezzo al nulla. E
a bordo c’era una
sagoma che mandava segnali, sbracciandosi.
“Killian...”,
cominciò Milah.
“L’ho
vista, tesoro. Mantieni la rotta, Lewis.
Dobbiamo raggiungerla.”
Milah
gli mise una mano sulla spalla. “Si tratta
di certo di un tranello. Cosa ci fa una barca in mezzo al
niente?”
“Oh,
probabilmente sì, è una maledetta
trappola.” Killian teneva d’occhio il piccolo
vascello. “Ma se ne siamo
consapevoli, forse riusciremo ad essere noi, la trappola.”
La
Jolly Roger raggiunse l’imbarcazione nel
giro di pochi minuti. Killian si sporse, mentre Milah metteva mano alla
sua
sciabola e gli uomini avevano già impugnato spadoni e
pugnali.
“Killian?”
“Non
può essere...”, mormorò lui, sconvolto.
Milah
guardò a sua volta e vide un uomo alto,
con le spalle larghe e i capelli ricci e castani in balia del vento.
Indossava
una camicia bianca e sgualcita, un paio di vecchi pantaloni che gli
stavano
larghi ed era scalzo.
“Sei
tu, fratello? Sei proprio tu?”, chiese
l’uomo, rivolto a Killian, che aveva gli occhi sgranati e la
mascella cascante.
Milah
si sentì raggelare.
“Liam.
Per tutti i mari... tieni duro! Τi
gettiamo una fune!”
Oltretomba. Oggi.
-
Milah? – La voce di Uncino suonò confusa e
alterata.
Lei
lo guardò come se non fosse sicura di ciò che
stava vedendo. – Killian... sei
qui?
-
Siamo vivi. E siamo solo in visita. – precisò
Τremotino, guardando la ex moglie
con un sorrisetto divertito. La madre di Bae era nel bel mezzo di Main
Street e
stava controllando che un gruppo di bambini attraversasse la strada
senza
incidenti. Come se gli incidenti contassero qualcosa quando si era
già morti...
Milah.
Bambini.
-
Devo proprio dirlo. Adoro l’ironia della situazione.
– stava dicendo Τremotino.
– Li tieni d’occhio... fai in modo che siano al
sicuro.
Milah
sostenne il suo sguardo con aria di sfida. - Che cosa fate qui se non
siete
morti?
Killian
deglutì, scoprendo di avere la gola secca.
-
Cerchiamo una persona. Emma Swan. La Salvatrice. La donna tanto amata
dall’uomo
che anche tu una volta amavi. – rispose Τremotino.
-
Cioè tu? – chiese Milah, come se le avesse appena
raccontato una barzelletta.
-
Cielo, no! Parlo del tuo adorato pirata.
Ora
toccò a Milah apparire confusa. Fissò Killian. -
Come puoi essere uguale a...
ad allora?
-
Sono...
successe delle cose. Parecchie. – rispose lui, sorridendo.
-
Dobbiamo recuperarla. – riprese l’Oscuro.
– E abbiamo bisogno di una mano.
-
Non crederai davvero di poter entrare nelle prigioni sotterranee di
Ade!
Nemmeno un Oscuro come te basterebbe a fermarlo. – Milah lo
fissò come se fosse
totalmente ammattito.
-
Sono felice di vedere che non hai perso la tua vena polemica e
combattiva,
cara. Ma è quello che faremo. Per questo sono qui. Il tuo
aiuto è molto importante.
-
Le
prigioni sono un luogo... terribile. Anche se riuscissimo a raggiungere
questa... Emma Swan... ci sarà sicuramente una trappola ad
attenderci.
-
Sono anche felice di vedere che conosci le prigioni di Ade. Meglio per
noi.
Milah
scambiò un’occhiata con Killian. – Tutti
conoscono le prigioni. In un modo o
nell’altro, siamo stati tutti torturati da lui.
-
Ma
tu sei in mezzo a Main Street... a dirigere il traffico. –
Tremotino vide un
altro gruppetto di bambini in attesa.
-
Il
fatto che io sia qui non dipende da me. Dipende da Ade. A volte libera
i suoi
prigionieri... dopo averli torturati per mesi. Se non per anni.
– La voce di
Milah ebbe un cedimento. Si morse il labbro e deglutì. - A
volte... diventano
degli schiavi. Oppure finiscono nel Fiume delle Anime Perdute. E non
riemergono
mai più.
Killian
era quasi sul punto di chiederle quali pene le avesse inflitto il
Signore degli
Inferi.
-
Terribile. – commentò Tremotino, con lo stesso
tono che avrebbe usato per dire
che intendeva andare a bere qualcosa al Rabbit Hole.
-
Inutile che minimizzi. Tu dovresti saperlo bene. Se non sbaglio, sei
già stato
morto.
-
Oh, sì. E non sto affatto minimizzando, tesoro. Ma abbiamo
bisogno di te. Pensaci.
Non devi per forza pensare che stai aiutando me. Non aiuti solo me.
Aiuti
anche... lui. – Indicò il pirata. – Mi
sembra un buon accordo.
La
barca che trasportava Emma scivolò sulle acque fino a
raggiungere un enorme
monumento in pietra. Guardandolo meglio, si accorse che era formato da
due larghi
pilastri che sostenevano un massiccio architrave, sul quale
capeggiavano delle
parole.
Per
me si va ne la città dolente,
per
me si va ne l'etterno dolore,
per
me si va tra la perduta gente.
Giustizia
mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina potestate,
la somma sapienza e 'l primo amore;
dinanzi
a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, o voi ch' intrate.
Ade
fermò la barca e prese Emma per la giacca, trascinandola di
nuovo con sé fino
ad una piattaforma sospesa sopra il fiume.
L’agganciò ad un argano, che si mise
in moto e la portò su.
-
Il
fiume delle Anime Perdute. – disse Ade, camminando sul bordo
della piattaforma.
– Basta che la punta del tuo piede tocchi l’acqua e
diventerai... un guscio vuoto
e tormentato. Un’anima senza più scampo.
Un’anima... che non potrà mai più
lasciare questo luogo.
Il
Signore degli Inferi era molto teatrale. Andava fiero del suo mondo,
dei tranelli
seminati ovunque, delle creature mostruose come il Minotauro, che
facevano a
pezzi donne che non avevano mai fatto nulla di male. Andava fiero delle
torture
che infliggeva.
-
E
sai una cosa, Emma? – ricominciò, sillabando
lentamente il suo nome. – C’è una
cosa che non è ammessa nel mio regno. Ed è la
speranza. I tuoi amici... i tuoi
genitori... nutrono la speranza di poterti salvare. Questo non va bene.
Non è
ammissibile. Quindi... vorrei far capire a loro e anche a te che questo
potrebbe costare molto caro.
L’argano
si mise di nuovo in moto e scese di colpo. Il movimento brusco le
causò un
dolore lancinante che si dipanò in tutto il suo corpo.
-
Hai
permesso a Marian di scappare e il Minotauro ha perso il suo giocattolo
preferito.
Anche questo mi fa arrabbiare. Ma non è un dramma.
– osservò Ade. Si avvicinò e
la prese per il colletto della giacca rossa. – La cosa
peggiore è il resto. Questa
inutile speranza. Il tuo... non voler scegliere tre stupidi nomi da
incidere su
delle tombe. Perciò soffrirai. E poi prenderò il
tuo bellissimo figlio... e gli
farò del male. Prenderò i tuoi genitori... e li
torturerò. Poi prenderò
Lilith... e Regina. E con loro sarò altrettanto crudele.
Regina... oh, lei
soffrirà come hanno sofferto tutte le sue vittime.
Pensaci... il dolore di
centinaia e centinaia di vittime si abbatterà su di lei.
Emma
gli sputò in faccia. La saliva, mescolata al suo sangue,
scivolò lungo la
guancia di Ade, che si ripulì con la manica dello smoking.
L’argano
si abbassò ancora, strattonandola. Emma gemette.
-
Buona
fortuna. Non preoccuparti. Avrai compagnia nella discesa. –
disse Ade, prima di
scomparire.
Emma
non capì subito a cosa si stesse riferendo. Girando la
testa, vide l’alro
prigioniero. Era appeso ad un argano proprio come lei ed erano
più o meno alla
medesima altezza. Aveva gli abiti coperti di polvere e striati di
sangue, il
viso tumefatto e le labbra spaccate. Non le parlò, ma le
rivolse uno sguardo
lungo e pieno di tormento.
Da
quanto tempo è appeso là sopra?, si
chiese, provando a scacciare la sofferenza e
la confusione.
Gli
argani si mossero e i prigionieri si avvicinarono un po’ di
più alle acque del
fiume.
In
mare aperto. Leviathan Shoals. Τrecento anni
fa.
La
ciurma lanciò una corda a Liam, che salì a
bordo della Jolly Roger. Killian lo strinse in un abbraccio e poi lo
osservò attentamente,
per essere sicuro di chi aveva di fronte.
Liam
aveva la barba folta e ispida, le guance
scavate, le labbra screpolate e secche e i capelli arruffati, ma era
lui. Era
Liam. Suo fratello.
“Io
credevo... credevo fossi morto!”, farfugliò
Killian, tenendo Liam per le braccia, quasi volesse assicurarsi che non
sparisse.
“Oh,
lo credevo anch’io, Killian. Ma era... non
era vero. Era un’illusione.”, rispose lui.
“Non è facile da spiegare.”
“Il
tuo corpo... credevo davvero che... era Sognombra.
Quel veleno...”
“Lo
so. Ricordo il dolore. Il dolore e poi...
l’oscurità.”
“Sono
sicuro che potrai spiegarmi meglio cos’è
successo davanti ad un bello stufato. Lewis! Avverti il cuoco e digli
di
preparare subito qualcosa per mio fratello!”
Il
nostromo non aveva un’aria felice, ma eseguì
gli ordini, scendendo sottocoperta.
“Sbaglio
o questa è una nave pirata? Τu,
Killian... un pirata?”, si sorprese Liam, schermandosi gli
occhi mentre
ammirava la nave e poi esaminava gli abiti in pelle che lui indossava.
Saggiò
il colletto della lunga giacca nera e sfiorò il teschio
agganciato alla collana.
“Sono
successe molte cose. Lascia che...” Si
schiarì la voce, cercando di riprendersi dallo choc e si
umettò le labbra.
“Lascia che ti presenti Milah.”
Liam
spostò la sua attenzione sulla donna, che
era rimasta in silenzio accanto a Killian. Milah lo scrutò,
perplessa e
guardinga.
“Molto
lieto.” Le offrì un sorriso cordiale,
che lo rese anche attraente, nonostante il suo aspetto suggerisse che
doveva
essere stato in mare per molti giorni. Prese la sua mano libera e se la
portò
alle labbra, baciandole lievemente le nocche. Lei non dubitò
che avesse
successo con le donne, proprio come Killian. La luce del sole brillava
nei suoi
occhi azzurri e gli faceva risplendere i capelli castani.
Però
le dita erano fredde. Gelide. Milah lottò
contro l’impulso di ritrarre la mano.
Killian
non si accorse di nulla. “Vieni. Devi
dirmi ogni cosa.”
“Ricordo
che... quando mi sono destato ero su
un’isola. Un’isola deserta.”, disse Liam,
dopo aver mangiato quello che il
cuoco aveva preparato per lui. Aveva indossato la vecchia divisa della
Marina
che Killian aveva conservato. “Lontano da tutti. Non avevo
idea di come fossi
giunto fino a lì. Sapevo solo che... ero solo.”
“E
poi?”, chiese Killian, ansioso di conoscere
il resto.
“Passai
moltissimo tempo su quell’isola. Infine
arrivò una nave. Mandai dei segnali e l’equipaggio
attraccò per soccorrermi. Mi
accettarono a bordo, sapendo che ero un uomo di mare e che potevo
essere utile.”
Liam si sforzava di ricordare ogni particolare. Aggrottò la
fronte. “Pensavo
che sarei riuscito a tornare da te, Killian. Ne ero sicuro.”
Lui
non lo interruppe.
“Ma
ben presto gli uomini dell’equipaggio
iniziarono a... vedere delle cose. Avevano delle visioni... non
riuscivano più
a dormire. Caddero preda dell’isteria. Allora capii dove ci
trovavamo. Navigavamo
nel territorio del Leviatano.”
“Il
mostro vi attaccò?”
“Sì.
Una notte si gettò contro la nave e la distrusse.
Fui l’unico che riuscì a salvarsi.”
“Killian?”.
La voce di Milah costrinse Liam a
fermarsi. Scese due gradini e si sporse. “Ho bisogno di
parlarti.”
“Che
succede?”, domandò Killian,
raggiungendola. “Il mostro?”
“Non
l’hanno ancora avvistato. Non sono qui per
parlarti del mostro.” Salì sul ponte, in modo che
lui la seguisse. Quando
furono abbastanza distanti e fu certa che Liam non potesse sentirli,
gli prese
una mano, stringendola saldamene fra le sue. Lo guardò
dritto negli occhi, perché
voleva che la ascoltasse. Sapeva quanto amasse il fratello, quanto
soffrisse ogni
volta che ripensava al modo in cui l’aveva perso. E anche
quel luogo lo sapeva.
Ne era al corrente e aveva creato qualcosa che fungesse da esca.
Killian aveva
abboccato ed ora rischiava di essere trascinato negli abissi.
“Sai anche tu che
quello non può essere Liam. Mi hai raccontato
com’è morto. Mi hai detto di aver
gettato il suo corpo in mare.”
“È
così, ma è chiaro che quell’uomo
può solo
essere Liam. È là, in carne ed ossa.
L’ho toccato. Gli ho parlato. Non potrei
mai sbagliarmi”, le rispose Killian, con voce sicura, ancora
piena di
commozione.
“Killian,
questo posto ti sta tendendo una
trappola. Τi sta usando per averti in suo potere. Non devi
cedere!”
“Sono
d’accordo, capitano.” intervenne Lewis.
“Io ricordo il giorno in cui Liam morì. Vidi il
suo corpo e ciò che il veleno
aveva fatto. Non ci siamo sbagliati. In caso contrario non
l’avremmo mai
seppellito in mare. Tornate in voi, vi supplico.”
“E
come puoi essere certo di non sbagliarti
ora?”, chiese Killian, alzando la voce e lasciando la mano di
Milah. “Forse il
veleno ha solo causato un sonno simile alla morte, che ci ha confusi.
Oppure
una sirena lo ha trovato...”
“Non
dite sciocchezze, capitano. Queste acque
sono infestate dai fantasmi. È così che mietono
vittime! Il vero problema non è
il Leviatano. È il potere che ci circonda. Dobbiamo
andarcene e lasciarci alle
spalle... qualunque cosa ci sia là sotto!”
“Frena
la tua maledetta lingua!”, gridò
Killian, afferrandolo per il bavero. “Su una cosa hai
ragione. Dobbiamo
andarcene. Ed io so già come. So come affrontare quel mostro
che ha tanta
voglia di prendersi noi e questa nave.”
“Killian...”,
ricominciò Milah.
“Tornate
ai vostri posti!”, la interruppe
bruscamente, guardandola con una rabbia tale che lei, per un attimo,
non lo
riconobbe. “Il mostro si farà vedere presto.
Τutte le conversazioni sono rimandate
a quando avremo abbandonato queste diaboliche acque!”
Oltretomba. Oggi.
-
L’ingresso è qui? – esclamò
Regina, quando ebbero raggiunto il luogo che
nascondeva l’entrata alle prigioni sotterranee di Ade.
-
È
la casa dell’Oscuro. – disse Lily, riconosciuto
l’edificio.
-
Beh, l’ubicazione cambia spesso. Ma da quando Emma Swan
è morta... l’ingresso è
qui. – rispose Tremotino. Li condusse lungo il viale, fino
alle scale e poi
dentro casa.
L’Oscuro
aveva provveduto a spiegare a Milah chi fosse la donna che stavano
andando a
salvare.
-
Quindi Emma Swan è stata l’amante di mio figlio...
e anche tua. – aveva
concluso, fissando Killian, trasecolata.
-
Sì, beh, io... – aveva cercato di dire Killian,
non molto sicuro di ciò che gli
sarebbe uscito di bocca.
-
E
non è finita, mia cara. – Non contento, Tremotino
aveva snocciolato rapidamente
l’albero genealogico. - Lascia che ti presenti Regina,
cioè la donna che ha
terrorizzato la Foresta Incantata per anni perché desiderava
la testa di una
ragazzina su un piatto d’argento. Ragazzina che poi ha
generato... Emma Swan. A
cui Regina ora tiene molto, vero? Hanno anche un figlio.
Cioè, tuo nipote.
Henry.
Milah
era apparsa sconcertata.
-
Era proprio necessaria questa presentazione? – aveva
domandato Lily.
-
E
lei è Lilith, naturalmente. Ovvero colei che ha ucciso Emma.
Ora
Killian
scrutava l’ambiente in penombra in cui Emma era vissuta da
Oscura. C’era
un’unica cosa diversa rispetto alla casa che ricordava. La
culla. La culla con
gli unicorni che tanto le piacevano. Una culla che appariva vecchia,
piena di
ragnatele, abbandonata. Come Emma, molto tempo fa. Per terra,
c’erano degli
orsacchiotti di pezza. Ad uno di essi mancava un occhio.
Lily
si avvicinò, sfiorando uno degli unicorni sospesi sopra la
culla.
-
La
porta che conduce nello scantinato. – disse Regina, evitando
di guardare la
culla. Si concentrò sulla porta chiusa dal pesante
chiavistello. L’ultima volta
che l’aveva varcata aveva scoperto Excalibur nella sua
roccia, le corde che
avevano legato i polsi di Tremotino, mentre Emma cercava di tramutarlo
in un
eroe dal cuore puro.
Regina
l’aprì. Ovviamente c’era un incantesimo
di protezione, che impediva a chiunque
di oltrepassare la soglia.
-
Direi che c’è una barriera. Cosa dobbiamo fare?
– domandò, rivolgendosi a
Tremotino.
-
Basterà prenderci per mano. – rispose lui.
Allungò la sua, offrendola a Milah.
Lei
guardò la mano tesa, riluttante. Si voltò verso
Killian, che le sorrise e le
porse l’unica mano che gli era rimasta. Le sorrise come le
aveva sorriso il
giorno in cui si erano conosciuti, in una taverna della
città in cui viveva con
Tremo e Baelfire. Lui, un pirata che l’aveva salvata da un
ubriaco molesto.
Lei, una donna che aveva appena inviato il marito zoppo e che tutto il
villaggio considerava un codardo dal guaritore, perché lo
uccidesse e prendesse
la pozione in grado di guarire Baelfire, morso da un velenosissimo
serpente. Una
pozione che costava cento monete d’oro, troppo per gente
umile come loro.
Milah
ricambiò il sorriso e gliela strinse. Poi prese quella
dell’ex marito. Tremo
diede l’altra a Regina e lei, a sua volta, strinse quella di
Lily.
Varcarono
la soglia senza incontrare ostacoli. La porta si chiuse di colpo alle
loro
spalle.
-
Beh,
ha funzionato. – commentò Regina.
-
Già. – rispose Tremotino. – Un altro
passo verso il centro dell’inferno.
In mare aperto. Leviathan Shoals. Trecento anni
fa.
“Ecco
a cosa ho pensato.”, disse Killian al
fratello, mentre la Jolly Roger scivolava lentamente su quelle infide
acque.
Lewis era al timone e fissava il mare con gli occhi spalancati.
“Nel migliore
dei casi avremo un paio di colpi per uccidere quella belva maledetta.
Non
possiamo sbagliare. Non avremo tempo di sparare una seconda
volta.”
Gli
uomini si davano da fare sul ponte. Alcuni
avevano usato una scialuppa per raggiungere l’imbarcazione di
Liam. Milah era
con loro e lanciava spesso occhiate alla nave come per assicurarsi che
Killian
stesse bene e che Liam non si fosse trasformato in un mostro con cento
braccia
e dieci occhi. Più avanti, le nebbie verdastre si erano
fatte più dense.
Stavano andando dritti verso quel banco.
“Consideralo
già fatto”, rispose Liam al
fratello, sorridendo.
“Il
mostro ha una certa fama. Ma secondo le
storie di Lewis, attacca solo una preda alla volta e non è
molto veloce. Quindi
se saremo in due a tenergli testa...”
“Avremo
qualche chance di metterlo fuori
combattimento.”
“E
di potercene andare da questo posto.”
Milah
li raggiunse. “La polvere da sparo è
pronta.”
“Bene,
tesoro.” Killian le diede un bacio.
Liam
si diresse verso la scaletta, gettata
lungo la fiancata della nave. Raggiunse la scialuppa e dopo qualche
istante era
già a bordo dell’altra barca.
“Buona
fortuna, fratello. Fai attenzione.”, gli
raccomandò Killian, appoggiandosi alla balaustra della Jolly
Roger. “E ricorda:
potrai anche essere il capitano di un’altra nave, ma sarai
sempre al mio
fianco.”
Liam
sollevò un sopracciglio e sogghignò.
“Esageratamente
sdolcinato persino per un pirata come te, o sbaglio?”
“Oh,
parla quel fratello maggiore a cui piace
scherzare su qualsiasi cosa!”.
“Allora
dammi retta, perché questo non è
affatto uno scherzo: non farti mangiare vivo da questo mostro. Abbiamo
bisogno
di te. E proteggi la tua donna!”
Milah
non rispose. Andò ad affiancare Lewis al
timone.
La
Jolly Roger proseguì spedita verso il banco
di nebbia. Killian scrutò il mare attraverso il binocolo.
Ogni tanto spostava
lo sguardo sul fratello per accertarsi che fosse ancora là,
che non si fosse
dissolto. Una parte della sua mente gli ricordava di continuo il modo
in cui
Liam era morto, il corpo rigido, senza vita, immobile tra le sue
braccia. Una
voce gli ricordava il peso di quel corpo, il sudario che lo aveva
avvolto, il
battito cardiaco assente. Il respiro interrotto.
Eppure
lui era con loro. Era vivo e presente.
In carne ed ossa. Aveva ricordi che solo Liam poteva avere. Gli occhi
azzurri
brillavano di vita. Aveva scherzato come un tempo.
Milah
non osava nemmeno avvicinarsi a lui...
“Killian!
Laggiù!”, gridò la sua compagna, ad
un certo punto.
Il
capitano sbirciò nel binocolo e vide la
creatura di cui tanto parlavano le storie che aveva udito nelle
taverne.
Si
sollevò lentamente. Dapprima emerse la
schiena corazzata, munita di una cresta rossa. Poi gli uomini scorsero
la coda
da pesce che sbatteva fra le onde. Infine la testa si levò,
provocando un
piccolo maremoto. Assomigliava ad un drago, ma senza zampe
né ali, con il corpo
da serpente lungo almeno dieci metri. Dove un drago avrebbe avuto le
ali, lui aveva
quattro paia di tentacoli.
“Lewis!
Dobbiamo circumnavigare il mostro.”,
ordinò Killian.
Il
nostromo girò il timone tutto a destra.
Aveva le mani scivolose e la testa pelata imperlata di sudore. Milah
guardò il
Leviatano spalancare l’enorme bocca, mostrando due file di
zanne. Lanciò una
specie barrito, ansioso di ingoiare le sue prede in un solo boccone.
La
Jolly Roger virò a destra, mentre
l’imbarcazione di Liam mirò al fianco sinistro
della belva.
“Liam,
ora! La polvere da sparo!”, gridò
Killian, sovrastando il ruggito e le grida dei suoi uomini, investiti
da
un’ondata d’acqua riversatasi sul ponte.
Un
tentacolo avvinghiò la nave pirata in un
abbraccio mortale. Il legno scricchiolò orribilmente. Milah
sguainò la
sciabola, corse verso il braccio del mostro e prese ad affondarvi la
lama, una,
due, tre volte, mettendoci tutta la forza che aveva in corpo. Schizzi
di sangue
nero le imbrattarono gli abiti e le mani. Altri le diedero una mano,
usando le
armi che avevano a disposizione.
Liam
accese la miccia e usò la fune elastica
legata all’albero maestro come una fionda.
Il
primo colpo andò a segnò. La polvere da
sparo raggiunse la schiena della belva ed esplose. Il Leviatano
lanciò un
strillo lacerante e la sua coda sferzò l’acqua da
una parte all’altra. Scosse
la testa furiosamente. Il tentacolo allentò la presa, ma non
mollò.
“Funziona,
Liam! Fallo di nuovo!”, urlò
Killian, occupandosi del timone e guidando la nave lungo il fianco del
mostro.
Perse di vista l’imbarcazione di Liam.
Sconcertato
dall’attacco, il Leviatano spostò
l’attenzione sulla piccola barca da cui era venuto
l’assalto. Liam guardò nella
bocca nera. Fissò i grandi occhi gialli e feroci, il piccolo
corno che spuntava
al centro della fronte.
Poi
sganciò il secondo colpo. L’esplosivo
finì
dritto nella bocca dell’essere e scoppiò.
Oltretomba.
Oggi.
La
barca raggiunse l’altra sponda.
Ormai
erano vicinissimi al covo di Ade. Tremotino avvertiva
l’enorme potere
sprigionato da lui e dalle prigioni. Sulle pareti rocciose della
caverna
riecheggiavano i sussurri e i lamenti delle anime che non trovavano
pace ed
erano costrette a vagare in quel fiume.
Lily
era pallida e osservava, ipnotizzata, le figure informi muoversi
nell’acqua. Indifese.
Creature private del guscio, non più fatte di carne, ma di
filamenti luminosi
saldamente intrecciati fra di loro. Riusciva a percepire Emma. Sapeva
benissimo
che era lì da qualche parte. Non nel fiume. No. Vicina. Ma
non nel fiume.
Regina
era concentrata su ciò che dovevano fare. Sedeva,
meditabonda e all’erta.
Aspettandosi brutte sorprese. Una mano stringeva il bordo della barca.
La mente
ignorava i sospiri delle anime perdute e vagava in cerca di Emma.
Killian,
accanto a Milah, riscopriva sensazioni che aveva dimenticato,
relegandole in
qualche angolo buio dentro di sé. Ricordò
com’era passeggiare con Milah sul
ponte della Jolly Roger, averla vicino mentre guidava la nave.
Ricordò il
giorno in cui le aveva insegnato a manovrare il timone, il modo in cui
lei
sorrideva, il modo in cui il sole si rifletteva nei suoi occhi azzurri,
il modo
in cui il vento le scompigliava i riccioli neri.
Milah
non aveva voluto abbandonarli, una volta superato l’ostacolo
della barriera
magica.
Quando
scesero dalla barca, Killian le porse la mano per aiutarla. Lei la
prese, stringendo
forte le dita e sfiorando uno degli anelli.
Τremotino,
al contrario degli altri, non si mosse. Rimase seduto con le mani in
grembo. –
Io non abbandono la barca.
-
Cosa? Perché? – chiese Regina, girandosi di
scatto.
-
Non possiamo perderla. Siamo molto vicini al covo di Ade e lui potrebbe
giocarci qualche brutto scherzo. – si giustificò
lui.
-
E
cosa farai? Se Ade cercasse di distruggere la barca, riusciresti a
tenerlo a
bada? – Regina faticava a credere alle sue orecchie. La
verità era che conosceva
fin troppo bene quell’uomo e avvertiva anche il minimo
cambiamento
nell’inflessione della sua voce. Qualcosa lo turbava. Non
aveva idea di cosa
fosse, ma c’era. Era... qualcosa di poco chiaro che
sfrecciava avanti e indietro
nel suo sguardo.
-
Non
so se posso. Ma ci proverò. Anche io sono immortale.
– rispose Τremotino, senza
alcuna esitazione. – E in questo posto potrebbe non esserci
solo Ade, ma anche
qualcos’altro.
Lily
si avvicinò all’imboccatura del tunnel che
conduceva nelle prigioni e si affacciò,
tendendo le orecchie per udire qualsiasi rumore. Le parve di udire
delle
voci... o, più che voci, lamenti lontani, simili a quelli
delle anime senza più
alcuna via di scampo. – Dobbiamo sbrigarci.
-
Sì. Andate. Se lui rimane... allora rimarrò qui
anch’io. – disse Milah, rivolta
a Tremotino.
-
Milah, no... – intervenne Killian. – Non
è sicuro.
-
Proprio perché so che non è sicuro intendo
restare. – ribatté lei. Allungò una
mano per posargliela sulla guancia. – Non preoccuparti per
me. Vai a salvare Emma.
Killian
sapeva che non era semplice discutere con Milah. Non era una donna che
voleva
essere protetta. Aveva l’impressione che il suo tono fosse
diverso, più dolce,
ma pur sempre deciso.
-
Ti
aiuterò ad andartene da questo posto. –
asserì Killian. – Ti aiuterò a trovare
la via migliore, quella... quella che ti porterà da Bae.
Milah
sorrise. – Vai, ora. Se dovesse succedere qualcosa... mi
metterò ad urlare.
-
Com’è?
– domandò Milah poco dopo, quando il pirata,
Regina e Lily furono spariti nelle
tenebre del tunnel.
Τremotino
si chiese se la sua ex moglie gli stesse domandando com’era
essere ancora
l’Oscuro o se si stesse riferendo ad altro. Non rispose
subito.
-
Nostro nipote. Com’è? – aggiunse.
-
Oh. Henry... beh, lui è... un ragazzo intelligente.
– Sfuggì il suo sguardo e
spostò gli occhi sulle acque del fiume. –
Τi ricorderebbe Bae, se lo
conoscessi.
-
Sì... mi piacerebbe conoscerlo.
Restarono
in silenzio per un po’. La barca ondeggiava sotto di loro.
-
Riguardo alle tue faccende in sospeso... –
cominciò Τremotino. – Non so se
riguardino Killian Jones, ma...
-
Le
mie faccende in sospeso non riguardano affatto Killian. – ci
tenne a precisare
Milah.
-
E
allora...?
-
Baelfire. Nostro figlio. – Il dolore parve dilatarsi dentro
di lei. Era come
una vecchia ferita di guerra, come un frammento di vetro nella carne
che
cercava di aprirsi un varco verso la superficie. Ade l’aveva
tormentata molte
volte con quei ricordi. L’aveva tormentata quando era giunta
negli Inferi.
L’aveva tormentata in quelle prigioni dove ora stava
tormentando anche Emma
Swan. Fisicamente e mentalmente. E la tortura non era terminata quando
ne era
uscita. Spesso vedeva il viso di Baelfire in uno dei bambini che
attraversavano
la strada. Udiva la sua voce in quella di qualche ragazzino che si
rifiutava di
dar retta ai suoi segnali. - Avrei dovuto proteggerlo, esserci per
Bae... e
non... non riversare su di lui l’odio che provavo per suo
padre. Sono stata
egoista.
Τremotino
non disse nulla.
-
Ho
sbagliato tutto. E pensavo che se fossi riuscita a fare... qualcosa di
buono,
di altruista... allora sarei riuscita ad andarmene e a rivederlo.
-
Quindi vuoi andare avanti?
-
Sì. Voglio andare da lui e dirgli... ‘figlio mio.
Mi dispiace per quello che ho
fatto. - Sentiva spuntare le lacrime e le mani le tremavano
terribilmente.
Lui
annuì, comprensivo. – Τi
perdonerà.
Milah
lo fissò, incerta.
-
È
riuscito a perdonare me, quando mi ha ritrovato da adulto. Ed io... ho
commesso
parecchi errori. Farà lo stesso anche con te. –
Intrecciò le dita. – Spero solo
che non ci mettano troppo. Dovunque sia Emma Swan se la
starà passando male.
-
Già.
E... ho l’impressione che Killian non sia l’unico a
volerla salvare.
Non
la contraddisse.
-
Sembra che lo vogliano un po’ tutti. Anzi... sembra una gara
a chi la salva per
primo.
-
Acuta come sempre. – Sorrise.
In
alto mare. Leviathan Shoals. Τrecento anni
fa.
Il
secondo assalto di Liam aveva ferito forse gravemente
il Leviatano, che strepitò come un ossesso, agitando la
grossa testa di qua e
di là, contorcendosi, dimenandosi e rigettando dalla bocca
fumo e ondate di
sangue nero come pece. Lo stesso sangue che aveva imbrattato gli abiti
di Milah
e il ponte della sua nave.
Killian
osservò il mostro, allontanandosi
sempre più da esso. Lo guardò mentre lanciava un
ultimo, agonizzante grido e
poi ricadeva in acqua, sprofondando nelle acque scure che aveva
abitato. Probabilmente
non sarebbe morto. Era possibile che la magia di quel luogo lo guarisse
e che
un giorno tornasse a dominare i mari... ma quella bestia lenta e goffa
aveva
almeno lasciato perdere la Jolly Roger.
Quando
anche l’orribile tentacolo si ritirò,
affondando negli abissi, gli uomini urlarono di gioia, sollevando in
alto le
spade.
“Liam!”,
gridò Killian. “Liam, abbandona la
nave!”
Il
fratello era ancora a bordo
dell’imbarcazione. Al centro di essa, ciò che
restava della polvere da sparo
aveva preso fuoco ed ora le fiamme stavano intaccando
l’albero maestro. Liam si
era tolto la giacca blu e la sventolava senza successo contro il fuoco.
“Liam!
Fa presto!”, urlò di nuovo Killian.
“Sei
impazzito?”, rispose lui, a gran voce.
“Non posso farlo! Porebbe esserci un altro mostro ad
aspettarmi! Queste acque
sono infide!”
Lewis
si avvicinò alla fiancata della nave,
insieme al resto della ciurma. Milah rimase dietro a Killian. Il fuoco
attecchì
e invase il ponte della piccola barca di fortuna che aveva restituito
Liam al
fratello minore.
“Allora
ti manderemo una scialuppa. Lewis...” prese a dire Killian.
“No,
Killian. I mostri si fanno beffe delle tue
scialuppe!”, esclamò Liam, indietreggiando per
evitare che le fiamme lo
divorassero. “Avvicinati con la Jolly Roger. Sarà
più facile. Vieni a
prendermi...”
“Non
fatelo, capitano.”, disse Lewis,
afferrando Killian per la giacca di pelle. “Vi prego,
pensateci. Si tratta
chiaramente di un tranello. Quello non è Liam
Jones!”
L’uomo
sulla barca gridò il nome di Killian. Lo
supplicò di salvarlo.
“Non
ho chiesto la tua opinione, Lewis.”, gli
rispose Killian, guardandolo da sopra la spalla.
“Forse
no, capitano. Ma parlerò comunque.”,
replicò il nostromo. “Conoscevo Liam Jones. Non
bene quanto voi, che siete suo
fratello, ma lo ricordo come un uomo che non temeva quasi niente. Liam
Jones si
sarebbe buttato, a costo di dover affrontare un mostro marino.
Lui...”
“Hai
ragione, Lewis. Non lo conoscevi quanto me.”,
lo interruppe Killian, con un gesto secco della mano. “Quindi
questa decisione
non spetta a nessuno, se non al capitano della nave.”
Liam,
o chiunque vi fosse su quella barca,
lanciò un altro grido. La sua voce era irriconoscibile, resa
stridula dalla
paura. Milah lo vide rintanarsi a poppa e sventolare ancora la giacca,
come uno
scudo contro le fiamme. Chiamava il nome del fratello. Lo implorava di
aiutarlo, di non abbandonarlo di nuovo.
“Mi
hai già lasciato una volta, Killian!”,
urlò
Liam. “Non lasciarmi ancora, ti prego!”
Killian
lottava contro se stesso. Strinse i
denti così forte da farsi male.
Oltretomba.
Oggi.
-
Emma!
– gridò Lily, emergendo alla fine del tunnel.
Correva a perdifiato e, per poco,
lo slancio non la proiettò in avanti, dritta nelle acque del
Fiume delle Anime
Perdute.
Il
marciapiede finiva pochi passi dopo l’uscita. Lilith
frenò appena in tempo,
trovandosi in bilico sull’orlo.
C’erano
due piattaforme sospese sopra il fiume. Entrambe erano collegate al
punto in
cui si trovavano loro da due travi sottili e pericolanti. Emma
penzolava priva
di sensi, pesta e sanguinante, con un doppio giro di catena intorno al
busto.
L’argano che la sosteneva la calò ancora
più in basso e parte delle sue gambe
sparì nella botola aperta al centro della piattaforma,
avvicinandola ancora di
più alla sua fine.
-
Liam? – mormorò Killian, sconvolto.
L’altro
prigioniero era agganciato all’argano proprio come Emma.
Anche lui era ferito,
ma era cosciente e agitava le gambe, combattendo contro le catene che
lo
tenevano imprigionato. La sua camicia era strappata e così
anche i vecchi
calzoni che indossava.
-
Killian, sei tu?
-
Non ti muovere. – disse Regina. – Potrebbe essere
un inganno di Ade.
Lily,
invece, si mosse e posò un piede sulla trave, valutando se
poteva reggere il
suo peso.
-
Lily, aspetta...
-
Non ho la minima intenzione di aspettare! Dobbiamo pensare ad Emma!
Sia
Liam che Emma scesero ancora di mezzo metro. Ormai erano a due metri
dalle
acque del fiume.
Esplose
una risata sprezzante, che sembrava provenire da ogni punto delle
prigioni e da
nessun punto in particolare.
-
Che bello vedervi, miei cari e poco graditi ospiti! Benvenuti nel mio
umile
covo.
-
Dove sei?! – gridò Killian, facendo un giro su se
stesso.
-
Oh, ma io sono qui! Sono ovunque. Questo è il mio regno.
– La voce tuonava, riecheggiando
e frammentandosi. - Noto con piacere che avete trovato ciò
che cercavate.
Regina
formò una sfera di fuoco con la magia.
-
Non è necessario, Maestà. Non siete qui per
combattere. Siete qui... per
scegliere. Mi sembra chiaro, del resto.
-
Scegliere?
– chiese Killian, continuando a spostare gli occhi da Emma a
Liam.
-
Vuole che salviamo solo uno di loro. – mormorò
Regina, parlando più a se stessa
che al pirata. Le si chiuse la bocca dello stomaco.
-
E
noi li salveremo entrambi, invece! Che provi a fermarci! –
esclamò Killian,
incollerito.
-
Non ho bisogno di fermarvi. – rispose Ade, improvvisamente
annoiato. – Se
cercherete di salvarli entrambi, entrambi precipiteranno nel Fiume. E
voi
precipiterete con loro.
-
Ma
se cerchiamo di salvarne uno solo, condanneremo l’altro, non
è così? – domandò
Regina.
Un’altra
risata. – Maestà... adoro la vostra intelligenza.
In
alto mare. Leviathan Shoals. Trecento anni
fa.
“Killian!”,
gridò di nuovo Liam. “Killian,
fratello... ti prego, aiutami. Rimani con me. Rimani ancora un
poco!”.
Il
fuoco aveva invaso la barca. L’albero
maestro si era ripiegato su se stesso ed era crollato.
“Killian!”
“Lewis,
mettiti al timone.”, ordinò il capitano.
“Capitano,
io...”
“Mettiti
al timone, ho detto!”, ribatté. “Se
c’è una cosa che dobbiamo fare subito
è... andarcene da qui. Dobbiamo lasciare
questi luoghi più in fretta che possiamo.”
Milah
capì che Killian stava buttando fuori
quelle parole compiendo un terribile sforzo. Era pallido, aveva gli
occhi
iniettati di sangue e la fronte aggrottata nel tentativo di ignorare le
grida
agonizzanti. Lei allungò una mano per afferrare la sua.
La
Jolly Roger distanziò la barca.
Oltretomba.
Oggi.
-
Sta mentendo. – suggerì Killian, riferendosi alle
parole di Ade.
-
Vuoi metterlo alla prova? – chiese Regina.
Lily
non si curò di loro e salì sulla trave che li
collegava alla piattaforma. Essa
sembrò reggere il suo peso.
-
Lily, fermati. – disse Regina, mentre Emma e Liam venivano
calati ancora un po’
più in basso, sempre più vicini al Fiume delle
Anime Perdute.
-
Non ci pensare neanche. Io vado a salvare Emma. Voi restate pure
là a
rimuginare. – le rispose Lily, muovendo un altro, cauto passo
verso la
piattaforma. Barcollò. Ritrovò
l’equilibrio usando le braccia e si piegò
leggermente sulle ginocchia, ma continuava a fissare, decisa, la
persona che
voleva raggiungere.
-
Non fare un altro passo! – esclamò Killian,
paonazzo. Si sentiva in bilico tra
due forze. Una lo tirava verso il fratello e l’altra verso
Emma. Il piede
destro puntava verso Liam ed era pronto a scattare per prenderlo prima
che
cadesse, l’altro era in procinto di balzare verso Emma.
Ricordò quel giorno di
centinaia di anni prima, quando la sua nave aveva solcato le acque
abitate dal
mostro noto come il Leviatano. Là aveva trovato un uomo
identico a Liam. Un
uomo che altro non era che un trabocchetto ordito da quei luoghi pieni
di magia
oscura. Ma l’uomo appeso sopra il Fiume non era una visione.
Non era un
fantasma. Era Liam. Era lì e lo era da chissà
quanto tempo.
Regina,
a sua volta, moriva dalla voglia di fare ciò che stava
facendo Lily. Poco le
importava del fratello di Capitan Mascara. Lei sapeva
di dover salvare Emma. Ma avvertiva anche la voce della
coscienza, insieme al sangue che le rombava nelle orecchie.
Lily
continuò la traversata, lentamente. E intanto pensava a
quanto avesse sempre
odiato l’acqua. Era a stento capace di nuotare. E se fosse
precipitata non
sarebbe semplicemente affogata, ma si sarebbe trasformata in un guscio
vuoto e
informe, destinato a vagare senza posa. Una goccia di sudore le
scivolò lungo
la guancia. Emma mosse leggermente le dita delle mani.
-
Killian... – disse Liam, ad un certo punto. –
Lascia perdere me. Prendi Emma!
-
Una volta ho potuto solo guardarti morire. –
replicò Killian. – Non accadrà di
nuovo!
Lily
era giunta a metà del suo percorso. Barcollò
ancora. Riuscì a restare in
equilibrio sulla rave. Una scossa improvvisa riverberò lungo
le pareti della
caverna e lei, per qualche secondo, credette di vedere
l’antro ripiegarsi su se
stesso. Era solo un’illusione, ma la costrinse a chiudere gli
occhi e ad
aggrapparsi saldamene alla trave con le mani, mentre un piede slittava.
-
Lascia che lo faccia, Killian. Lei può essere salvata. So
che siete venuti per riportarla
indietro. – tornò a dire Liam. Ormai era ad un
metro appena dall’acqua. La sua
voce non suonava rassegnata e nemmeno impaurita, come quella del
fantasma che
l’aveva implorato di non andarsene. Era una voce ferma e
solida come le catene
che gli cingevano il busto.
-
Possiamo
salvare entrambi da questa fine.
-
No, fratello. E lo sai. Se ci proverai, sarà finita per
tutti e due. E anche
per voi.
Emma
gemette e sollevò leggermene la testa.
-
L’unico modo che ho per farmi perdonare... è
pagare il prezzo delle mie colpe.
– continuò Liam. Ora sembrava che stesse parlando
più a se stesso che a
Killian. – Non lascerò che Ade ti trascini dove
vuole spedire me.
-
Perdonare? – Killian era confuso. – Non hai niente
di cui farti perdonare!
-
Invece sì. Ho commesso degli errori, Killian. Non hai
nemmeno idea di quali
errori...
Il
meccanismo si rimise in moto. Lily aveva quasi raggiunto Emma e
più lei si
avvicinava, più Liam scendeva verso il Fiume. Emma, invece,
sembrava ancora nel
medesimo punto di pochi minuti prima.
-
Non mi interessano! Qualsiasi cosa tu abbia fatto, non importa.
-
Degli uomini sono morti per causa mia, Killian. – Liam non
fece caso alle sue
parole. I suoi ormai sembravano più ordini, che semplici
richieste. - Questo è
il sacrificio che avrei dovuto fare molti anni fa. Salva Emma.
Lily
saltò sulla piattaforma. Regina non perse altro tempo e la
seguì, camminando
lungo la trave pericolante.
-
Liam...
-
Spero che tu possa perdonarmi.
Una
nuova scossa fece perdere l’equilibrio a Regina, che si
slanciò in avanti e
riuscì ad aggrapparsi al bordo della piattaforma. Lily
afferrò Emma per la
giacca, portandola in salvo. Caddero insieme.
Le
catene che cingevano il corpo di Liam si sciolsero e lui
precipitò nel Fiume.
Killian
gridò.
Le
acque si chiusero per sempre sul fratello.
In
alto mare. Leviathan Shoals. Τrecento anni
fa.
Le nebbie verdi che avevano protetto il mostro
e la barca in fiamme erano scomparse dietro di loro. Il cielo era
limpido e
punteggiato di stelle. Nessuna nuvola all’orizzonte.
Killian
rimirava il mare, cercandovi conforto
come faceva spesso.
“Ci
avete salvati, capitano.”, disse Lewis,
accostandosi a lui. “Pensate solo a questo. Non avevate
scelta.”
“Lo
so bene.”, rispose Killian, senza
distogliere lo sguardo dalle onde. Milah era accanto a lui, ma non
diceva
niente. “Vorrei solo essere... davvero sicuro di non aver
abbandonato mio
fratello.”
“Non
l’avete fatto. Liam riposa in pace. Ed è
fiero di voi, ne sono certo.”, affermò Lewis, con
sicurezza.
Milah
guardò Killian spostarsi verso la prua della
nave e decise di lasciarlo solo per un po’. Il capitano della
Jolly Roger
estrasse la fiaschetta di rum dalla tasca della lunga giacca di pelle e
la levò
al cielo, immaginandosi il sorriso di Liam, che avrebbe volentieri
bevuto
insieme a lui, buttando in mezzo alla conversazione qualcuna delle sue
battute.
“Ovunque
tu sia, Liam, possano le stelle guidarti
verso un posto migliore.” Bevve, godendosi il sapore del rum
che gli scivolava
in gola. “Un giorno ci rivedremo. Fino ad allora... il tuo
spirito sarà con
me.”
Quella
notte, Killian sognò di galleggiare in
mezzo al mare. Andava a fondo, lentamente, e non c’era
nessuno che potesse aiutarlo.
Sprofondò negli abissi, ma nel farlo non ebbe alcuna paura.
Vide
una sirena nuotare vicino a lui. Il sogno
non gli permise di distinguerne i lineamenti.
Killian
si aggrappò alla sua coda ed ella,
invece di riportarlo in superficie, lo trascinò con
sé, ancora più in fondo.
Oltretomba. Oggi.
Emma
aprì gli occhi, mettendo lentamente a fuoco Lily, che
l’aiutò a tirarsi un po’
su. Regina accorse, cadendo in ginocchio accanto a loro.
-
Voi... – mormorò Emma. –
Perché siete venute? Vi avevo detto di andare via!
-
Hai davvero creduto che ce ne saremmo andate senza di te? –
chiese Lily. Non si
era mai sentita così sollevata in vita sua. Anche se Emma
aveva un aspetto
tremendo, anche se non osava nemmeno immaginare cosa le avesse fatto
passare
Ade, anche se non erano nemmeno a metà del cammino che le
avrebbe condotte a
casa, era felice di rivederla. Felice che sembrasse così
concreta, che i suoi
occhi avessero ancora la stessa luce, pur essendo lucidi e arrossati.
-
L’ho sperato. – rispose Emma.
Regina
allungò una mano per scostarle qualche ciocca di capelli dal
viso pieno di
sangue. Le dita tremavano, consapevoli di quello che stavano per fare.
Ma non
aveva la forza di controllare i suoi impulsi.
Una
risata scoppiò. Dapprima una risata sommessa e divertita,
che poi salì, si
spaccò in un chiocciare secco così come si
disgrega un masso di una roccia
friabile.
Ade
comparve in cima alla piattaforma sulla quale era rimasto sospeso Liam
Jones.
Un uomo in abito da sera, che si aggiustò la cravatta
bordeaux quasi fosse un
gesto assolutamente normale in quelle prigioni. – Oh, ma che
sorpresa! Siete
riusciti a prendere una decisione. Beh, Lilith, tu non hai mai avuto
dubbi... e
nemmeno voi, Maestà, vero?
Regina
si preparò ad affrontarlo. Era una divinità e
dubitava di poter vincere contro
di lui, ma si mise comunque davanti ad Emma.
Il
corpo del Signore degli Inferi iniziò a brillare. Una scia
di fiamme azzurre
scaturì dalla punta delle sue dita e dai suoi capelli. La
spirale lo circondò,
vorticando come una grande stella filante. Persino gli occhi si
illuminarono,
riversando fuoco azzurro. A Regina quel colore ricordò
quello degli occhi di
Zelena.
-
Che cosa diavolo succede?! – gridò Killian, che
aveva già un piede sulla trave,
pronto a raggiungere Emma.
Regina
vide che Ade stava crescendo in altezza. Nel giro di pochi secondi era
quasi
due metri e non smetteva di ingigantirsi. C’era qualcosa di
pericoloso nella
sua trasformazione. Per quanto non avesse idea di che cosa fosse, aveva
l’impressione di avere un peso sul torace e il peso aumentava
via via che Ade
mutava.
-
Non guardate! – gridò all’improvviso,
girandosi verso Lily ed Emma. – Non
guardatelo per nessuna ragione!
Istintivamente
Lily si voltò dall’altra parte e mise una mano
sugli occhi di Emma, anche se il
potere emanato dalla divinità la stava spingendo a fissarlo.
Regina si
concentrò sulla giacca rossa di Emma, ricordando il momento
in cui l’aveva
appoggiata sul suo petto, prima che il lenzuolo bianco coprisse il suo
corpo
senza vita.
-
Sembrano davvero perdute. – disse Milah, seguendo i movimenti
convulsi delle
anime che vagavano nel Fiume.
-
Sì, lo sono. – disse Τremotino. Si chiese
dove diavolo fossero finiti Regina e
i suoi improbabili alleati. Gli sembrava che fossero via da ore.
Iniziava a
pensare che fossero caduti in qualche tranello inaspettato. Non voleva
pensarlo, non di Regina almeno, che non era di sicuro una sprovveduta.
Allora
udì qualcuno che si schiariva la voce. Ade, comodamene
appoggiato alla parete
di roccia, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni neri, li
fissava.
Milah
non ebbe modo di aprire bocca. Lo stava facendo, prese un respiro
profondo per
gridare il nome di Killian e avvertirlo, come concordato. Sperando che
lui
potesse sentirla...
Τremotino
estrasse il pugnale, fronteggiando il Signore degli Inferi...
Un
secondo dopo, lei batté le palpebre e Ade era svanito nel
nulla.
-
Τremo...
che diavolo è successo? – domandò,
levandosi in piedi, basita. – Ade era qui!
Era proprio qui!
Il
suo ex marito la stava guardando e nella luce che si espandeva nella
caverna
ebbe l’impressione che la sua faccia fosse fatta di pietra.
Era una distesa
rocciosa e dura, impenetrabile. Non c’era segno, nei suoi
occhi, di quella luce
benevola che aveva intravisto quando avevano parlato di Bae sulla
barca, quando
lui le aveva detto che ce l’avrebbe fatta, che
l’avrebbe incontrato, un giorno.
-
Che cosa sta succedendo, Τremotino? –
ripeté, fiutando l’inganno.
Quando
parlò, la sua voce suonò ferma. Gelida, persino.
– Sono diventato l’uomo che
volevi che diventassi. Non ricordi? L’uomo che è
disposto a fare qualsiasi cosa
per ottenere ciò di cui ha bisogno.
Fece
un passo verso di lei. Con una semplice magia, ridusse la barca in
cenere.
Stavolta
Milah gridò. Gridò con tutto il fiato che aveva
in gola. – KILLIAN!
- KILLIAN!
Killian
si mise a correre lungo il tunnel. Regina e Lily sorressero Emma, che
zoppicava
e stringeva i denti ad ogni passo, lottando contro il dolore delle
ferite.
-
MILAH!
Quando
sbucò dall’altra pare, Killian vide il Coccodrillo
sdraiato a terra e piegato
in due.
-
Ade! – gridò l’Oscuro. Puntò
le mani sulle pietre per alzarsi e raccolse il
pugnale. Τremava e sembrava sconvolto.
-
La
barca è sparita. – disse Lily. Teneva il braccio
di Emma intorno alle sue
spalle, per aiutarla.
-
Milah...
– mormorò Τremotino, con voce strozzata.
– Ade... l’ha presa. Non sono riuscito
a fermarlo...
-
Dov’è? Dove l’ha portata? –
chiese Killian, afferrando con rabbia il
Coccodrillo per la giacca.
-
Non lo so! Ha distrutto la barca... – rispose. – Ho
usato il pugnale contro di
lui, ma non è stato abbastanza. Ha detto... che per un
prigioniero che scappa,
un altro deve prendere il suo posto...
A
Killian sembrò che ogni giuntura del suo corpo fosse
bloccata dal gelo e che il
suo corpo stesso avesse non si sa come acquistato peso, ad un punto
tale che se
avesse cercato di fuggire sarebbe affondato e scomparso nella roccia.
-
L’avrà condotta di certo in un qualche altra
prigione. Più sicura, dove non
possiamo arrivare. – disse Regina.
Emma
si accasciò. Era spossata, vedeva il mondo sdoppiato, con i
contorni indefiniti.
Non era che un grumo di dolore e non aveva modo di formulare dei
pensieri
coerenti su ciò che stava accadendo. Liam condannato al
Fiume delle Anime Perdute...
Milah scomparsa...
Killian
accorse. – Swan... rimani con noi. Mi senti?
Lei
annuì. – Mi dispiace tanto...
-
Non è colpa tua, Emma. – disse Regina, con
fermezza. – Ora dobbiamo portarti
fuori da qui. E in quanto ad Ade...
-
Ade la pagherà. – concluse Killian per lei.
____________________
Angolo
autrice:
Hello!
Allora,
allora... precisiamo alcune cose.
Capitolo
incentrato su un personaggio che a me non piace e chi mi legge da un
po’ lo sa.
I
flashbacks non sono farina del mio sacco. Quell’episodio
è una delle storie
raccolte nel fumetto Out of the Past. Si
intitola Dead in the Water. In
realtà, in questa storia, Milah non
c’è, poiché si svolge prima che Killian
la
incontri. Ma ho voluto posticipare l’episodio ed aggiungerla
in modo da
ricollegare i flashbacks al presente.
La
scritta sull’architrave è l’inizio del
canto terzo dell’Inferno di Dante.
|
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Capitolo 5 *** 5. ***
5
“Disperazione
o follia?", disse Gandalf.
"Non è disperazione,
perché la disperazione è solo per coloro che
vedono la fine senza dubbio possibile.
Non è il nostro caso. È saggezza riconoscere la
necessità
quando tutte le altre vie sono state soppesate,
benché possa sembrare follia a chi si appiglia
a false speranze.
Ebbene, che la follia sia il nostro manto,
un velo dinnanzi agli occhi del Nemico!”
[J.R.R.
Tolkien, Il
Signore degli Anelli: La Compagnia dell’Anello]
Città
di Smeraldo. Oz.
Fiyero
spalancò le porte dell’aula riservata alla
Sorellanza di Oz ed entrò
precipitosamente, portando la notizia che Dorothy aveva lasciato il
rifugio
nella foresta.
-
So
già tutto, Fiyero. - rispose Glinda, in apprensione.
-
Non
sono arrivato in tempo, mi dispiace. - disse il principe dei Winkie.
-
Sono
io che avrei dovuto aspettarmelo. Ma Dorothy non aveva mai agito senza
avvisarci. - rispose Glinda, massaggiandosi una tempia. - Dobbiamo
muoverci.
Fiyero, vorrei che radunassi i tuoi uomini. Mettetevi in marcia il
prima
possibile.
-
Attacchiamo,
quindi?
-
Sì.
Ma non per uccidere. Voglio che circondino il palazzo. Che portino in
salvo chiunque
siano in grado di portare in salvo. Io e le mie sorelle entreremo.
Τu sarai con
noi, Fiyero. L’incantesimo nell’ampolla che hai al
collo inibirà i poteri di
Zelena.
Fiyero
sfiorò la catenella a cui era agganciata
l’ampolla. Glinda fissò le sue
sorelle, Locasta e Nessarose. Le Streghe sedevano intorno alla tavola
rotonda
posta al centro della grande sala. In mezzo ad essa, sfavillava un
grande cristallo.
-
Pensi
di poter battere Zelena? - chiese il principe.
-
No.
- rispose Glinda, scuotendo il capo. - Ma forse riusciremo a
contenerla. Abbastanza
perché tu possa fare ciò che ti ho chiesto.
-
Sarà
rischioso. - disse Locasta, la Strega del Nord. La luce emanata dal
cristallo
creava strani riflessi sulla sua pelle scura ed incontrando la pietra
bianca
incastonata nel suo ciondolo. - Zelena se lo aspetterà. Un
tempo riuscì ad
ingannarci e ad esiliarti in quel luogo freddo e desolato.
-
Sì,
ma è un rischio che dobbiamo correre... se vogliamo aiutare
Dorothy e permettere
a Robin Hood di riprendersi la bambina.
-
Non
riusciremo a contenerla a lungo, Glinda. - intervenne Nessarose. - E
poi che
cosa intendi fare? Costringerla a collaborare? Zelena non lo
farà mai, neanche
quando avrà perso i suoi poteri.
-
Ci
penserò io a Zelena, dopo.
-
Forse
non abbiamo altra scelta. - continuò la Strega
dell’Est, alzandosi e
avvicinandosi a Glinda. Rifletté qualche istante, cercando
di scegliere le
parole più adeguate. - So che ti senti ancora in colpa per
quello che è
successo anni fa, ma Zelena è incontrollabile. Quello che ha
fatto nel Quadling
non si può perdonare. Dobbiamo avere... il coraggio di fare
ciò che è
necessario per proteggere Oz e il popolo.
Glinda
sollevò una mano. - Non uccideremo Zelena. Non lo posso
permettere.
-
Lei
non ci lascerà scelta, Glinda. Non vorrei arrivare a
tanto... non sappiamo
nemmeno se saremo in grado di... fronteggiarla davvero. Le abbiamo
già dato
delle possibilità...
-
Ha
una figlia, Nessarose. - le ricordò lei, con determinazione.
“Una figlia.
-
Quella
bambina merita una madre che sappia proteggerla. E avrà
sempre suo padre.
-
Non
risponderemo alla violenza con altra violenza. - replicò
Glinda. - Non
permetterò questo spargimento di sangue.
-
Glinda.
- Locasta si alzò. Sembrava combattuta. Fiyero sapeva bene
che il temperamento
di Locasta era più mite. Lei era la Strega Buona del Nord.
Non era mai uscita
una parola di troppo dalla sua bocca. Il suo bacio l’aveva
protetto mentre
portava il messaggio a Dorothy e la sua magia non era mai stata usata
se non
per aiutare, per salvare, per proteggere. Per fare del bene. Senza
versare
sangue. Ma quando era giunta la notizia del disastro del Quadling,
persino
Locasta aveva avuto dei dubbi ed era stata assalita da un moto di
rabbia.
-
Glinda.
- riprese Locasta. - Io non desidero che venga sparso altro sangue. Ma
io sono
il Nord. E sono la giustizia. Quello che Zelena ha fatto...
-
Perché
la Strega dell’Ovest ha commesso questa crudeltà?
Non vi sembra... troppo
crudele persino per lei? - intervenne Fiyero, con circospezione.
-
Che
cosa volete dire? - domandò Nessarose.
-
Ecco...
mi avete parlato molto di Zelena e molte storie mi sono giunte alle
orecchie. -
Fiyero appoggiò le mani sul bordo della tavola. - So che
è perfida. Lei... è
così che si definisce. Ma... questo attacco mi sembra
troppo... deliberato.
-
Ovvio
che lo è, principe Fiyero. - rispose Nessarose. - Zelena
è folle. Ha perso la testa.
-
Non
aveva mai fatto nulla di simile, prima d’ora. Ha trasformato
i suoi nemici in
scimmie volanti, ha fatto dei prigionieri... qualcuno dice che ha
imprigionato
l’Oscuro Signore e l’ha usato per i suoi scopi...
-
Ed
è vero.
-
Bene.
Ma un attacco al Quadling? Una strage di innocenti? Invoco il vostro
perdono,
ma... non capisco. Non ha senso. Non è follia. Non
è perfidia. È crudeltà. Una
crudeltà degna del peggiore dei tiranni.
-
Principe,
non lasciatevi ingannare. Voi non avete davvero idea di cosa sia capace
di fare
per ottenere ciò che vuole. Glinda l’ha provocata
e lei si è vendicata. - ribatté
Locasta. Si era alzata, affiancando Glinda. Le mise una mano sulla
spalla. - Faremo
quello che possiamo. Ma dobbiamo prepararci al peggio. Dobbiamo avere
il
coraggio di fare una scelta drastica, se servirà a salvare
Oz, Dorothy e noi
stesse.
Oltretomba.
-
Emma! – gridò Biancaneve, entrando al
Granny’s con David. Si accostò alla
figlia e prese il suo viso tra le mani. – Santo cielo, guarda
che cosa ti ha fatto.
-
Sto
bene. – disse Emma, sorridendole a fatica. – Beh,
diciamo che sopravvivrò.
Aveva
appena detto una sciocchezza, perché lei era già
morta. Non era sopravvissuta.
Aveva evitato il Fiume delle Anime Perdute. Forse avrebbe evitato il
Tartaro...
-
Ho
portato loro il tuo messaggio, ma non mi hanno dato retta. Avevi
ragione. –
disse Marian. – Non si danno per vinti.
-
Non lo faremo mai. – disse David, attirando a sé
la figlia per darle un bacio
sulla fronte. Con delicatezza, per non farle male.
Henry
abbracciò suo madre ed Emma lo strinse forte.
-
Cos’è successo? – chiese Biancaneve.
– Ci avete messo parecchio. Stavamo per
venire a cercarvi.
-
Ade... – disse Lily. Teneva ancora la mano di Emma nella sua.
– Ha distrutto la
barca. Tremotino... ci ha aiutati ad uscire dalle prigioni. Ha
affrontato Ade,
ma non è servito. E...
-
E
abbiamo perso Milah. – concluse Killian. – E
qualcun altro... di molto caro.
Emma
si sforzò di guardarlo, nonostante il senso di colpa. - La
ritroveremo. Forse
non è troppo tardi. Ma tuo fratello... non sareste dovuti
venire.
-
Non ricominciare, Swan. Non dirmi che non sapevi che saremmo venuti.
– replicò
Killian, fissandola senza traccia di rancore.
-
Vi
avevo detto di lasciarmi andare. – continuò Emma.
Poi si girò verso Τremotino.
– Ma ho saputo che non è stata solo
un’idea folle.
-
Già, no. – disse Regina. – Qualcuno
è troppo innamorato del potere. Come
sempre.
-
Se
desiderate, possiamo parlare di questo e potete anche cercare di
uccidermi, ma
credo che le priorità siano altre. –
tagliò corto l’Oscuro. – Mi sbaglio?
-
No. Diciamo che la tua condanna a morte è... –
cominciò Killian.
-
Annullata?
-
Forse.
Per ora. – gli rispose Regina. - Solo perché ci
hai aiutati a recuperare Emma.
-
Grazie, Regina. E chi mi ucciderà quando verrà il
momento? Τu? O il capitano? –
Si stava prendendo bellamente gioco di loro.
-
Vedremo. Ora dobbiamo pensare al resto. – Regina
guardò Emma. – Non sappiamo
come uscire da qui, ma non lo sapevamo neanche prima. Ma la mia
magia...
funziona. Quindi possiamo dividere un cuore e quando troveremo
l’uscita ce ne
andremo.
-
Aspettate.
Dividere un cuore? - chiese Emma.
-
Potrebbe
funzionare. Al momento è l’unico piano che abbiamo.
Emma
non era sicura che fosse un buon piano, ma annuì. Regina
rivolse la sua attenzione
al pirata.
-
So
che non vedete l’ora, Maestà. Quindi fatelo. Ma se
potreste usare un po’ di gentilezza...
– iniziò Killian.
Regina
non usò nessuna gentilezza. Ritirò la manica
della giacca e affondò la mano nel
suo petto senza un minimo di riguardo. Gli strappò il cuore
e strappò a lui un
grido strozzato.
L’organo
pulsava nella mano destra di Regina, rosso e solcato da ombre nere. Non
perse tempo
e lo divise in due parti uguali, come aveva fatto nella Foresta
Incantata con
il cuore di Biancaneve.
“Come
sai che funzionerà?”
“Lo
so. Io so... so che il mio cuore è forte
abbastanza per entrambi.”
“Ma
se ti sbagli... morirai.”
Regina
spinse la metà di quel cuore nel petto di Emma.
Vi
fu un lampo di luce bianca. Killian si piegò in due,
portandosi le mani al torace
e Regina venne spinta all’indietro, finendo addosso a
Malefica, che la sostenne,
prima che potesse cadere. Emma avvertì una fitta nel punto
in cui avrebbe
dovuto esserci il suo, di cuore. Le si offuscò la vista e si
morse l’interno di
una guancia a sangue per non urlare.
-
Che diavolo è successo? – esclamò Lily.
-
Interessante.
– mormorò Τremotino, aggrottando la
fronte.
-
Regina, prova con il mio. – disse Lily, raddrizzando le
spalle e aprendosi un
po’ la giacca.
-
No. – L’Oscuro sollevò una mano.
– Non funzionerà comunque.
-
Perché no?
-
Perché non è il cuore il vero problema. Ne
abbiamo un altro, temo.
Pochi
minuti dopo, al cimitero, tutti stavano fissando le tre nuove lapidi
disposte
una accanto all’altra, vicino a quella più grande
di Emma.
-
Ade mi aveva chiesto di scegliere tre nomi. – disse lei.
– Tre persone. Sarebbero
rimaste intrappolate qui. Ma ovviamente ho rifiutato.
-
Beh, ha scelto da solo. – osservò Malefica.
Regina
Mills.
Biancaneve.
Lilith
Page.
-
Che cosa significa questo? – domandò David.
-
Che non possiamo andarcene. – rispose Malefica. - Mi sembra
chiaro. E dividere
un cuore non aiuterà Emma.
Calò
il silenzio.
-
Grandioso.
– commentò Tremotino, allargando le braccia.
– Io ho trovato Emma Swan in poche
ore. Voi, invece, siete riusciti a farvi mettere nel sacco.
Regina
avrebbe voluto rispondergli per le rime, ma si limitò ad
osservare la propria
lapide con le mani affondate nelle tasche.
-
Mi
trovate al negozio. – disse Tremotino, allontanandosi.
Ad
uno ad uno se ne andarono tutti. Era ovvio che non c’era
niente che potessero
fare, in quel momento.
Killian
sostò là ancora per un po’.
-
Ehi, non vieni? – domandò David. Gli strinse una
spalla, amichevolmente. – Ne
verremo fuori. Ci deve essere un’altra soluzione.
-
Il
mio nome non c’è.
-
Come?
-
Ade ha scelto tre nomi. Ma il mio non c’è. Eppure
non ha funzionato.
David
non aveva una risposta per lui. Scosse la testa. –
Probabilmente Ade avrà fatto
qualcosa per impedirci di portarla via, oltre ad incidere dei nomi su
alcune
lapidi. In ogni caso, non ce ne saremmo potuti andare lo stesso.
Città
di Smeraldo. Oz.
Dorothy
Gale avrebbe tanto voluto che zia Em fosse lì con lei.
Zia
Em le avrebbe dato dei consigli. Le avrebbe suggerito che cosa fare. Di
certo,
non le avrebbe nemmeno permesso di entrare nel palazzo di Zelena da
sola, con
una balestra e una pozione del sonno come armi.
Bambina
mia, almeno portati dietro quella
guerriera e la ragazza-lupo, le
avrebbe detto. Non
pretenderai di batterti contro una strega da sola.
Che
cos’hai in quella testa, ragazzina? Fango?,
avrebbe
replicato lo zio Henry. Lo ricordava,
il marito della zia Em. Ricordava la sua faccia arrossata e un
po’ burbera, la
sua ispida barba grigia, gli occhi scuri e corrucciati sotto le
sopracciglia
cespugliose. Beh... l’occhio. Il destro. L’altro
era strabico e fissava
costantemente il vuoto. Il fucile, quello da cui non si separava mai.
Così come
lei non si separava mai dalla sua balestra. O da Toto.
Dorothy
sbirciò il corridoio da dietro una colonna dorata.
Scivolò accanto alla prima
guardia.
-
Ehi, novità?
L’uomo
si girò, perplesso e lei lo stese con un po’ di
pozione del sonno. Si afflosciò
contro la colonna. Il soldato più vicino lo vide cadere e
poi vide Dorothy.
Aprì la bocca per dare l’allarme, ma lei lo
raggiunse prima e gli assestò un
cazzotto abbastanza forte da rintronargli nel cervello per tutta la
notte.
...almeno
portati dietro quella guerriera e la
ragazza-lupo.
La
ragazza lupo.
“Non
possiamo seminarle.” Gli strilli delle
scimmie volanti che stavano calando sul campo di papaveri riempivano
loro le
orecchie e avevano lo stesso effetto di unghie che sfregavano contro
una
lavagna.
“Certo
che possiamo.”
“Come?”
“Τi
fidi di me?”
Era
proprio quello il punto. Fidarsi di qualcuno. Dorothy non si fidava di
una
persona da quando era morta zia Em. Non c’era nessuno di cui
fidarsi. Lei proteggeva
il popolo, faceva quello che poteva perché fossero al
sicuro. Loro credevano
nella ragazza venuta dal Kansas ciecamente. Ma Dorothy non aveva
nessuno su cui
contare. Ci aveva fatto l’abitudine ormai. E sopravviveva da
sola.
Fino
a quando Τoto non aveva sentito l’odore della
lupacchiotta.
“Τi
fidi di me?”
“Sì.”
Avrebbe
potuto dire tutte queste cose a Ruby. Avrebbe potuto dirglielo come le
aveva detto
dei suoi genitori.
Ma
non aveva avuto tempo. C’era stato solo il tempo di... avere
paura.
Una
guardia abbassò la lancia, sbarrandole il passaggio. Dorothy
lo disarmò in
pochi secondi e usò quella lancia per colpirlo in faccia e
poi nello stomaco.
“Τi
fidi di me?”
“Sì.”
Il
tempo
di avere paura della fiducia incondizionata che nutriva nei confronti
di
qualcuno che aveva appena conosciuto. Di quella strana vibrazione che
aveva
percepito quando l’aveva toccata per impedirle di annusare da
vicino quei
papaveri. E di quella sensazione... mentre la lupacchiotta le
raccontava del
suo villaggio che la inseguiva con i forconi, del ragazzo che aveva
ucciso
perché non era in grado di controllarsi. Una sensazione di
familiarità. Come se
non stesse solo conoscendo qualcuno, ma... lo stesse riconoscendo.
E
Ruby voleva combattere per lei. Con lei. Contro Zelena.
No.
Scivolò
nella grande sala appartenuta al Mago di Oz. Deserta.
Una
trappola.
Lo
sapeva. Lo fiutava. Anche se non era un lupo. Però
andò avanti lo stesso. Avanti
fino alla gabbia coperta. Τoto abbaiava.
“Ti
fidi di me?”
“Sì.”
Dorothy
scoprì la gabbia e vide che il cane stava bene.
Più che bene.
Poi
udì un vagito. Il vagito della bambina di Zelena. La culla
era sistemata dietro
il tendone verde, in mezzo a qualche giocattolo.
Zelena
sbucò dal nulla e l’afferrò per il
cappuccio della mantella. – Allora non sei solamente
sciocca. Sei proprio una folle. E non impari mai.
Fulminea,
Dorothy estrasse la pozione del sonno. Zelena la fece sparire e in un
batter
d’occhio essa fu nelle sue mani. Usò
l’ago intriso di veleno dell’ampolla per
pungerle un punto scoperto di pelle sul collo.
“Ti
fidi di me?”
“Sì.”
Il
mondo si spense e diventò nero.
Zelena
toccò con la punta dello stivale il corpo inerme di Dorothy.
Poi si chinò e
prese le scarpette d’argento.
Un
paio di soldati entrarono per dare l’allarme. Come se ce ne
fosse stato
bisogno.
-
Lasciate stare, idioti. – disse la Strega. – Se
fosse stato per voi, avrebbe
dato fuoco al palazzo. Pensate a portarla nelle prigioni. E ricordatevi
di
nascondere l’ingresso. A breve avremo visite.
Loro
non parlarono. Non lo facevano mai se non era lei a chiederlo
espressamente.
Però si scambiarono occhiate perplesse.
-
Stanno per circondare questo posto. – spiegò
Zelena, più annoiata che mai. -
Glinda sarà in prima linea con le sue adorate sorelle.
Vediamo quanto tempo
resisterete là fuori con l’aiuto delle scimmie,
prima che debba intervenire io.
I
soldati si affrettarono ad eseguire gli ordini.
Effettivamente
tutti gli uomini che Fiyero aveva potuto trovare erano stati schierati
in modo
da formare un semicerchio e attaccare la dimora della Strega
dell’Ovest da più
lati.
Tra
quegli uomini c’erano Robin e la sua Allegra Compagnia, Mulan
e Ruby, nonché
dei volontari venuti dal Quadling e altri raccolti da Nessarose e
Locasta, provenienti
da Est e da Nord.
Le
tre Streghe erano in prima linea, insieme al principe.
-
Siamo pronti, Glinda. – annunciò Fiyero.
Agganciata alla cintura, portava una
spada, infilata in un fodero rosso, tempestato di argento. E aveva
anche il suo
inseparabile arco e la faretra piena di frecce. – Siete
sempre sicura del
piano?
-
Lo
sono. – rispose lei, senza esitazioni. – Andiamo
avanti noi. Seguici, Fiyero.
Il
principe si accinse a seguirle, ma prima si girò verso
Robin. - Guardatevi
sempre intorno, se potete.
-
Dobbiamo preoccuparci di qualcos’altro? – chiese il
ladro, sollevando un
sopracciglio.
-
Non saprei. È una sensazione. Forse non dovrei fidarmi delle
sensazioni, non
sempre mi hanno aiutato, ma... quando sono molto forti non posso farne
a meno.
Poco
più in là, Mulan osservava il palazzo di Zelena e
un paio di scimmie volanti
che schiamazzavano, girando in cerchio sulla sommità. Le
luci verdi formavano
colonne cilindriche proiettate verso il cielo. Non era ancora
l’alba.
-
Non ci sono molti uomini. Zelena è convinta di non avere
nulla da temere. –
disse Robin, affiancandola. Sulla sua fronte brillava il segno del
bacio della
Strega del Nord. Il bacio magico che doveva garantire una protezione.
Anche
Mulan e Ruby avevano quel segno.
-
Già. – rispose Mulan. – Beh, una volta a
Dunbroch le abbiamo dato del filo da
torcere.
-
Non ne dubito. – Robin sorrise. – Vieni avanti con
me e con i miei uomini,
quando attaccheremo.
Mulan
aggrottò la fronte. – Non credo che a loro farebbe
piacere.
-
Capiranno. Mi fido delle tue capacità.
-
Che strano. Non dovresti, considerando quello che è
successo.
-
Τutti commettiamo degli errori.
-
Se
ti riferisci al fatto che non sei riuscito a riconoscere tua moglie...
credo
che sia una cosa diversa. Zelena ti ha ingannato. Io non vi ho
ingannati. –
Mulan distolse lo sguardo per fissarlo sulle luci verdi. - Peggio. Vi
ho messi
in pericolo e poi me ne sono andata.
-
Non parlo solo di Zelena. Parlo di... Marian. – Robin si
rabbuiò. – È stata
colpa mia... se è morta. Sono responsabile.
Qualcuno
soffiò in un corno e il suono si espanse
nell’aria, riecheggiando nei boschi di
Oz. Era il segnale.
Ruby
si destò dal proprio torpore, battendo le palpebre. La sua
non era stanchezza.
Era terrore. E non il terrore della battaglia. Era pronta a
trasformarsi e a
combattere con gli altri. Quello che la terrorizzava era ciò
che avrebbero
potuto trovare dentro al palazzo. Se Zelena era stata capace di portare
a
termine una strage nel Quadling, cosa avrebbe potuto fare a Dorothy?
Si
immaginava le cose più tremende. E quella paura le gelava il
sangue. Come se
stesse per perdere qualcuno che conosceva da una vita intera.
Gli
uomini si mossero verso il palazzo.
Oltretomba.
-
Mettiti seduta. È giunto il momento di darti
un’occhiata. – disse Regina,
invitando Emma a sedersi sul divano del salotto degli Azzurri.
Emma
sedette. – Non sei obbligata a farlo.
Regina
non capì che cosa volesse dire. Con un gesto della mano
curò tutte le sue
ferite e sistemò anche la sua giacca di pelle rossa, che
tornò ad essere come
nuova.
-
Ora sì che ti riconosco, Swan. –
commentò Killian, cercando di stemperare la tensione.
Lily
le sorrise e le prese la mano, ma Emma la sottrasse.
-
Che cosa succede? – domandò Regina. –
Perché ti stai comportando così?
-
Perché siete venuti qui per portarmi via, ma non avreste mai
dovuto. Non dopo
quello che è successo a Storybrooke... e a Camelot.
– Si alzò, voltando le
spalle agli altri.
-
Non sei stata l’unica a commettere degli sbagli, Emma.
– disse David. – E se
siamo qui è perché qualcuno... non ha rispettato
i patti.
-
Già.
Tremotino. È una delle cose che Ade mi ha mostrato quando
sono arrivata nell’Oltretomba.
– replicò Emma. – Ma è troppo
pericoloso restare qui. Dividere il cuore non
funzionerà e non avete la minima idea di come tornare a
casa! Avete lasciato
persino Neal per salvare me...
-
Neal starà bene. È con le fate. E
c’è Belle ad occuparsi di lui. – disse
Biancaneve. – E un modo per uscire da qui lo troveremo.
Sistemeremo ogni cosa.
Come sempre! Τi porteremo via con noi.
-
Ma
non capisci, mamma? È proprio questo, il problema.
– Ora Emma sembrava furiosa.
Aveva gli occhi lucidi e iniettati di sangue. - Mi sono lasciata
guidare dalla
mia rabbia e vi ho puniti. Vi ho costretti a fare cose che... non
avreste mai
voluto fare. Forse è per questo che non sareste mai dovuti
venire.
-
Che cosa intendi dire? – Lily guardò Emma e, alla
luce rossastra che era parte
di quel luogo, la Salvatrice appariva stranamente indifesa. –
Che non vuoi
andartene? Che vuoi restare morta?
-
Non so che cosa voglio. – tagliò corto Emma.
Regina
avrebbe tanto voluto prenderla per le spalle e scuoterla con forza.
Voleva che
tornasse in sé e che lo facesse subito. Non sopportava
quello che vedeva nei
suoi occhi. Confusione. Paura. Dolore. Regina credeva che se li avessi
guardati
troppo a lungo avrebbe visto tutto ciò che Ade
l’aveva costretta a subire e non
avrebbe retto.
Emma
si infilò una mano in tasca, casualmente. E quando la
estrasse aveva in mano un
fiore appassito. Un giglio.
-
È
quello che ho messo sulla tua tomba. – disse Lily,
appoggiando le dita sulla
mano di Emma.
-
Beh... a quanto pare, questo posto continua a riservare delle sorprese.
Non
pensavo potesse riservarne di belle. – rispose Emma.
Sfiorò il giglio, che
recuperò il suo vigore e sbocciò, bianco e
profumato come quando l’aveva
raccolto. Lo fissò, sorpresa.
Malefica
le osservava, sorridendo. – Beh... qualcuno chiamerebbe
questo... speranza.
Emma
porse il fiore a Lily.
Regina,
invece, distolse lo sguardo. Fu costretta a distoglierlo,
perché c’era una
parte di lei che non sopportava il magnetismo tra quelle due. Era come
se,
quand’erano vicine, il loro legame assumesse una forma
concreta, manifestandosi
davanti ai suoi occhi in tutta la sua forza. Regina avrebbe dovuto
infischiarsene. La verità era che quel legame la
innervosiva, la faceva sentire
un’intrusa se guardava troppo a lungo.
-
Bene.
– disse David, poco dopo. – Quello su cui dobbiamo
concentrarci è Ade. Deve
esserci un modo per sconfiggerlo.
-
Sconfiggere una divinità ultramillenaria... sembra un gioco
da ragazzi. –
commentò Lily, sarcastica.
-
Non lo è. Ma io so che esistono... beh, esistevano delle
armi che potevano
sconfiggere gli dei. – osservò Henry. –
L’ho letto.
-
Quali armi? – chiese Biancaneve.
-
Beh, ad esempio... la lancia di Odino. Quella lancia colpisce sempre il
bersaglio, anche se non prendete la mira. O il martello di
Τhor... torna sempre
dal legittimo proprietario, dopo essere stato usato. – Henry
rifletté qualche
istante, aggrottando la fronte in un modo che a Regina
ricordò Emma, quando si
concentrava su qualcosa. – O la folgore olimpica.
L’arma di Zeus. Poi...
La
mia penna, pensava,
intanto. Se solo avessi la penna...
Lo
sapeva benissimo che usare la penna per riportare in vita qualcuno o
per
cambiare gli eventi poteva avere delle conseguenze devastanti. Eppure
continuava
ad immaginare come avrebbe potuto usarla, se solo non
l’avesse spezzata. Forse
avrebbe potuto riportare tutti a casa, sua madre compresa. Avrebbe
potuto
scrivere qualcosa che riguardasse Ade e lo fermasse. La penna poteva
fermare un
Dio?
-
Τutto
questo è molto interessante, ragazzo. Ma non credo che ci
serviranno, contro
Ade. – lo interruppe Killian.
-
Marian... sei qui da molto tempo... – disse Biancaneve, con
delicatezza, come
se emesse di toccare tasti troppo dolenti. – Hai mai...
sentito niente? Niente
che possa aiutarci?
-
Sono quasi sempre stata in quel dannato labirinto, a fare compagnia al
mostro
di Ade. – rispose Marian, meditabonda. – E prima
sono stata nelle sue
prigioni... dove ho sentito parlare di un’uscita.
In
realtà Emma si stava chiedendo come fosse possibile che
Marian non avesse perso
totalmente il lume della ragione a furia di scappare dal Minoauro, a
furia di
essere fatta a pezzi da lui, a furia di cercare un modo per venirne
fuori. E
passare oltre.
-
Un’uscita? – domandò Emma, scuotendo il
capo e scacciando quei pensieri.
-
Già. Non so dirvi dove si trova. Ma sarà
sicuramente sorvegliata da un’altra
delle sue creature.
Città
di Smeraldo. Oz.
Le
scimmie volanti piombarono giù dal cielo, schiamazzando,
verso gli uomini che
avanzavano, compatti.
Gli
arcieri di Robin mirarono e scagliarono le loro frecce. Alcune di
quelle
scimmie caddero, colpite alle ali o alle gambe. Altre riuscirono ad
evitare la
pioggia di dardi e a gettarsi su di loro, acchiappando qualche uomo e
portandolo
su in alto.
Ruby,
in forma di lupo, si fece largo tra i soldati in divisa verde di
Zelena. Robin
e Mulan erano subito dietro di lei, ma non dovettero combattere molto.
Il bacio
della Strega del Nord, che brillava sulle loro fronti, rallentava
visibilmente
i nemici. Esitavano, come se vedessero qualcosa che non erano sicuri di
voler
colpire e, quando azzardavano un fendente con le loro spade, esso era
incerto,
facile da parare persino per un inesperto. Solo le scimmie non
apparivano
toccate da quella magia.
Molti
si arresero e si inginocchiarono, chiedendo pietà.
Quando
erano ormai a pochi metri dalle porte del palazzo, comparvero gli
uomini in
armatura nera, con il ciondolo verde appeso al collo.
-
Sono
gli stessi che hanno attaccato il Quadling! - esclamò un
uomo delle Terre del
Sud. Ma venne subito messo a tacere da una lama, che lo
trapassò da parte a
parte. L’essere in nero estrasse la sua arma con incredibile
noncuranza e la
sollevò, mostrando la spada insanguinata. Gli occhi, che
potevano intravedere
dietro all’elmo munito di cresta, erano scuri e vuoti.
-
Questi non sono uomini. È magia. – disse Knubbin.
Gli stava crescendo un
bernoccolo sulla fronte e aveva un taglio proprio sotto un occhio.
Sprigionò
scintille arancioni dalle dita ed esse raggiunsero due soldati. Quelli
caddero
da cavallo, ma si rialzarono immediatamente, per nulla storditi
dall’attacco. Il
suo corvo, Heathcliff, era sparito. Forse aveva deciso che le scimmie
volanti
non erano qualcosa che voleva affrontare. Non con un occhio solo.
John
abbassò la testa prima che un manrovescio gliela staccasse
dal collo. Mulan
parò il fendente e disarmò l’uomo che
si era gettato su di lei, ma quello
allungò le mani coperte solo dalla maglia di ferro.
Afferrò la lama ed iniziò a
tirare verso di sé. Mulan puntò i piedi,
sconcertata dalla forza della creatura
che si celava sotto l’armatura.
-
Se
è magia, come li fermiamo? – domandò
Robin al mago.
-
Mirate al ciondolo. La pietra verde che hanno al collo!
Dal
palmo di Zelena sfrecciò, in direzione delle tre Streghe di
Oz, un globo infuocato,
fulmineo come una saetta.
La
Strega dell’Est levò la spada che portava appesa
al fianco. Era una spada
lunga, con la lama azzurrognola, così sottile da penetrare
tra una costola e
l’altra, ma tanto robusta da squarciare una solida armatura.
Il globo venne
assorbito da essa.
-
Oh, ma guarda, hai trovato un nuovo giocattolo! –
esclamò Zelena.
-
Possiamo ancora evitare tutto questo Zelena. – disse Glinda.
– Ci sono degli
uomini, là fuori, che stanno rischiando la vita. Richiama i
tuoi soldati. E dicci
dov’è Dorothy.
Fiyero
avvertiva un peso al centro del torace, nel punto in cui ricadeva
l’ampolla che
conteneva l’incantesimo, quasi la magia stesse premendo per
uscire. Impugnò
l’arco ed incoccò una freccia.
-
Odio la tua innata bontà e la tua inutile benevolenza,
Glinda! Tutte cose che
non aiuteranno la tua protetta, perché... ecco, credo che si
trovi in una
situazione troppo speciale. – Zelena mosse due dita verso
destra e Fiyero venne
catapultato verso la parete. – Inoltre... ti avevo detto di
non mettere più
piede nel mio palazzo. Che ne diresti di un altro esilio?
-
Hai attaccato delle persone innocenti. Loro non c’entravano
nulla, Zelena.
Siamo qui anche per loro, non solo per Dorothy. – disse
Locasta.
-
Io? – Zelena gettò indietro la testa, ridendo.
– Credi davvero che me ne
importi qualcosa del Quadling? Quello che è successo
laggiù non è opera mia!
Nonostante
il colpo fosse stato duro, Fiyero se lo aspettava. Non era svenuto, ma
rimase
sdraiato per terra e intanto la sua mano sinistra si infilò
sotto la giubba.
-
Ti
hanno vista, Zelena. – rispose Glinda. Avanzò di
qualche passo. La Strega
dell’Ovest la minacciò con una nuova sfera di
fuoco.
-
Sai, Glinda, io... mi guarderei intorno, se fossi in te. Le persone di
cui ti
fidi a volte riservano delle brutte sorprese.
-
Non so di cosa tu stia parlando.
-
Proprio perché sei un’idiota. E la tua innata
bontà non ti permette di vedere
che non sono l’unica strega perfida!
Schioccò
le dita, facendo cadere il tendone verde. Dietro di esso,
c’era la culla con la
bambina. E uno specchio.
Glinda
si vide riflessa in esso. E vide le sorelle alle sue spalle.
Gli
occhi di Nessarose, la Strega dell’Est, risplendettero, rossi
come braci
incandescenti.
Oltretomba.
-
Dov’è
il tuo capo? – domandò Regina alla cameriera del
Granny’s.
La
ragazza non parlò, ma puntò l’indice
verso il basso.
-
No,
parlo della Strega Cieca, non di qualche divinità.
– precisò Regina. Con la
coda dell’occhio notò qualcuno di sua conoscenza
che tentava di passare
inosservata, scivolando furtivamente lungo il corridoio per dirigersi
verso
l’uscita che dava sul retro del locale.
Ma
era complicato passare inosservate quando aveva quella pettinatura,
quei
capelli bianchi e neri e una pelliccia così vistosa.
-
Non
importa. – disse Regina alla ragazza, seguendo la vecchia
conoscenza. –
Fermati, tu!
Crudelia
si bloccò a metà del corridoio, reggendo la
borsetta con due dita e maledicendo,
forse per la millesima volta da quando era arrivata, quel posto e chi
ce
l’aveva spedita.
-
Ciao, cara. – esordì Crudelia, che era
tutt’altro che felice di vederla.
-
Credo che tu possa aiutarmi. – disse Regina.
-
Oh, davvero? Voglio dire... beh, certo che posso. Sono il sindaco.
-
Ho
bisogno di farti qualche domanda.
-
Quindi vuoi fare due chiacchiere? – Crudelia
sembrò pensarci su qualche
istante. – Dato che riguarda la mia assassina non so se
può interessarmi.
-
Non riguarda solo Emma.
Poco
dopo, Regina e Crudelia sedevano ad un tavolo, una di fronte
all’altra.
La
Strega Cieca aveva fatto la sua comparsa, decidendo di ripulire il
bancone e
animare il locale alzando la musica, qualcosa che Granny non avrebbe
mai
approvato. Aveva anche pensato di allietare i presenti cantando Girls Just Want Τo Have Fun di
Cyndi
Lauper, con una voce che superava i confini della stonatura per entrare
nelle
lande buie dell’esecrabile.
-
Allora, Regina. Deve essere dura per te.
-
Sì,
con la Strega Cieca che mi urla nelle orecchie, lo è di
certo.
-
Mi
riferisco a tutta questa faccenda della Salvatrice... se speri che io
ti dia
una mano a portarla fuori da qui... ti sbagli di grosso. –
Crudelia le rivolse
un sorriso smagliante. – A meno che tu non mi proponga un
accordo interessante.
Ma deve essere... estremamente interessante.
Regina
non pensava fosse dura. Pensava fosse una follia, eppure era una follia
che
doveva portare avanti. Anche se ricordare gli occhi di Emma e il suo
tono
mentre diceva di non essere sicura di ciò che desiderava...
-
Devo trovare l’uscita. So che c’è.
-
Certo che c’è, mia cara. Ma non è
sempre nello stesso posto. E di conseguenza
trovarla è quasi impossibile. Inoltre... non credo tu voglia
incontrare una
delle creature di Ade. Il guardiano delle porte...
-
Guardiano? Che genere di guardiano?
-
Il
cagnaccio puzzolente con tre teste, ovvio. – Crudelia si
lisciò la pelliccia,
appoggiando la borsetta sul tavolo. – Cerbero.
Così lo chiamano. Magari ci
penserà lui a fare a pezzi Emma Swan.
-
D’accordo, non mi aspettavo certo che fosse semplice. Dimmi
se c’è qualcuno che
conosce un modo per trovare queste porte...
-
E
come affronterai Cerbero?
-
Non ne ho idea. Mi verrà in mente qualcosa!
-
Te
l’ho detto, cara, nessuno sa come arrivare
all’uscita. E anche se riuscissi ad
uccidere Cerbero, come porterai fuori la Salvatrice? Io credo che
finirai nelle
prigioni di Ade. Non è una bella esperienza... non che sia
la cosa peggiore che
possa capitarti...
Regina
aggrottò la fronte. – E quale sarebbe la peggiore?
-
Il
gin. – rispose Crudelia. Lo disse con un tono incredibilmente
serio e solenne.
– Mio Dio, quanto mi manca il gin. Non se ne trova nemmeno un
goccio, qui.
Neanche al mercato nero.
Girls Just Want Τo Have Fun terminò e iniziò True Colors.
-
E
la voce della Strega Cieca, naturalmente. Quale tortura peggiore di
questa? Di
sicuro non era una cantante in un’altra vita.
Fortunatamente
un uomo si avvicinò al bancone per essere servito e lei
preferì utilizzare il
suo naso per annusarlo piuttosto che la gola.
-
Ma
non credo che tu sia qui solo per... l’uscita, tesoro.
– ricominciò Crudelia. -
O per un cagnaccio sbavante. Cos’altro vuoi chiedermi?
-
Devo trovare qualcuno.
-
Usa la magia.
Regina
tacque. Aveva già tentato con la magia. Che si era dissolta
come uno sbuffo di
fumo soffiato via dal vento. Riusciva a creare sfere di fuoco. Ma non a
ritrovare qualcuno.
-
Già. Quando si tratta di usare la magia diventa
più complicato. Soprattutto
quando devi... rintracciare un’anima. – sorrise
Crudelia, fissandola con i suoi
occhi azzurri come se sapesse tutto di lei e di ciò che
cercava.
-
Parlami delle lapidi. Non sono tutte uguali. Le ho viste. –
tagliò corto
Regina.
-
No, mia cara. – Crudelia rifletté qualche secondo
ancora, poi aprì la borsetta.
– Ho una mappa del cimitero, se ti può
interessare. Ho accesso a molte cose da
quando sono diventata sindaco... oh, grazie alla sparizione di tua
madre.
Regina
non commentò e la osservò mentre dispiegava una
vecchia mappa ingiallita
davanti a lei.
-
Vedi, questa è una mappa che riporta tutti i lotti del
cimitero... solo che
devi saper interpretare le lapidi. Ci sono... come dire... tre
configurazioni.
– Sembrava divertirsi un mondo. – Se la lapide
è in verticale, significa che
quella persona è qui in città. Se è
rovesciata... significa che... beh, è
passata oltre.
-
Verso un posto migliore.
-
Esatto. Persona felice, lapide poggiata. – Vi fu una pausa.
-
E
la terza opzione?
Crudelia
ridivenne seria. – Se è spezzata... è
un male.
Regina
avvertì il gelo dilagare nelle sue ossa. – Un
male? Vuol dire che è finita in
un posto... anche peggiore.
-
Già.
Che sfortuna...
Emma
si trovava nella camera da letto al piano superiore
dell’appartamento dei genitori,
quando Marian venne da lei. Era turbata.
Fu
sul punto di fare una domanda completamente stupida ed inutile, ovvero Marian, come va? Oppure Come
posso aiutarti?
-
Ehi. – disse, invece, Emma.
Marian
sorrise. Non sembrava solo turbata. Era molto preoccupata. Confusa. E
sapeva di
averci qualcosa a che fare. Nella sua testa, Marian era morta ben due
volte.
Non capiva qual era quella giusta. Qual era la strada che aveva
percorso. Non
sapeva che, in realtà, erano giuste entrambe. La seconda
strada l’aveva
tracciata lei, insieme a Killian, quando erano finiti nel passato.
L’aveva
tracciata lei quando aveva deciso di non lasciarsela alle spalle, ma di
salvarla.
Peccato
che non l’aveva salvata comunque.
David
le raggiunse, portando un vassoio con una tazza piena fino
all’orlo. – Ho
pensato di portarti qualcosa... è un infuso. Era nella
dispensa.
-
Grazie, papà. – disse Emma.
David
capì che era un momento delicato. – Ne preparo uno
anche per Marian.
-
Non è necessario. Sto bene così. –
rispose lei, seccamente.
-
Bene...
-
Papà, puoi lasciarci sole? – chiese Emma.
– Credo che Marian abbia bisogno
di... qualche spiegazione.
Già.
E come spiegare ad una donna morta da trent’anni che suo
marito non era
invecchiato quasi per niente e che suo figlio Roland era ancora un
bambino?
Come spiegarle il fatto che Regina fosse ormai dalla loro parte e,
soprattutto... come spiegarle quello che c’era fra lei e
Robin? Come spiegarle
perché si era ritrovata in quelle prigioni con Killian e
cos’era successo dopo
che l’avevano liberata?
Marian
sedette accanto a lei.
Città
di Smeraldo. Oz.
Fiyero
estrasse l’ampolla dalla giubba, ne tolse il tappo e lo
lanciò con tutte le sue
forze contro Zelena. La bambina prese a piangere e ad agitare i piccoli
pugni. La
sfera di fuoco che Zelena scagliò contro la Strega
dell’Est venne catturata di
nuovo dalla lama, che un istante dopo si trasformò in un
altro oggetto. Glinda,
voltandosi, lo vide risplendere di una potente luce bianca e azzurra,
che la
costrinse a ripararsi gli occhi con un braccio. La Strega del Nord si
fece da
parte, sconcertata dal potere emanato dall’arma di Nessarose.
-
Che
sta succedendo?! – gridò Locasta.
L’ampolla
di Fiyero si era rotta e un sommovimento scosse ora l’intera
sala. Un colonna
cadde e si ruppe con fracasso, riversando il liquido verde
all’interno sulle
mattonelle dorate.
Un
portale iniziò ad aprirsi.
Fiyero
capì che qualcosa non aveva funzionato. Il contenuto
dell’ampolla non avrebbe
dovuto aprire nessun portale, ma solo lasciare la Strega
momentaneamente senza
poteri, abbastanza a lungo da dare loro il tempo di renderla
inoffensiva e
catturarla.
Con
orrore, il principe vide la culla con la bambina che veniva risucchiata
dalla
forza del portale. Si mosse il più rapidamente possibile per
afferrarla, pur
sapendo che non ci sarebbe mai arrivato...
-
La
mia bambina! – strillò Zelena.
E
infatti non ci arrivò. La neonata e la culla piombarono
nell’enorme bocca che
conduceva chissà dove e Fiyero fu tradito dal suo stesso
slancio, precipitando
con essa. Ebbe giusto il tempo di udire l’urlo di rabbia di
Zelena prima che il
mondo diventasse un’assurda girandola di colori.
-
La
folgore olimpica. – mormorò Glinda, riconoscendo
l’arma che la Strega dell’Est
ancora stringeva.
Nessarose
rivolse la folgore contro di lei. Zelena lanciò alle altre
Streghe un’occhiata
piena di odio, scagliò cinque globi di energia a casaccio e
poi si tuffò nel
portale.
Esso
si richiuse subito dopo.
Un
corvo nero gracchiò e andò ad appollaiarsi su una
delle colonne rimaste, ma
nessuno badò a lui.
-
Che cosa stai facendo, Nessarose? – domandò
Glinda, sollevando entrambe le
mani. L’orrore sembrava rotolare attraverso di lei, serrando
il suo cuore con
gelidi artigli di ghiaccio e spremendolo. Cercava di pensare il
più rapidamente
possibile, ma era troppo sconvolta.
-
Metto fine alla tua vita. – rispose Nessarose, con una nota
di malvagità nella
voce che la Strega del Sud non aveva mai udito prima. - Mi sembra
ovvio. Ho
aspettato anche troppo questo momento. Dopodiché,
metterò fine anche alla vita della
paladina di Oz, se non l’ha già fatto Zelena.
-
Dove conduce il portale?
-
Credi davvero che te lo dica? – Rise. Un riso freddo che le
fece accapponare la
pelle.
Poi
alzò la folgore olimpica, che scintillò,
sinistra.
Locasta
disparve in una nube argentea e ricomparve davanti a Glinda. Il potere
dell’arma divina si riversò fuori sottoforma di
due sottili folgori accecanti e
centrò la Strega del Nord al petto.
Non
vi furono grida. Il corpo di Locasta si inarcò
all’indietro e i suoi occhi
diventarono bianchi. Lentamente si afflosciò, cadendo ai
piedi di Glinda.
Rimase
solo un’immagine trasparente e azzurrata. Ma si dissolse in
fretta.
-
I
sacrifici sono inutili. – disse Nessarose, osservando con
aria indifferente la
Strega del Sud che si chinava su Locasta. – Mi ha solo
risparmiato un’ulteriore
fatica.
Sollevò
ancora la folgore olimpica.
Glinda
urlò e le sue urla risuonarono ed echeggiarono laceranti
attraverso quella sala
dove ormai soltanto la morte regnava e si aggirava, mentre nella sua
mente si
scatenavano all’improvviso tutte le immagini più
orrende: gli occhi rosso
sangue della Strega dell’Est riflessi nello specchio magico,
tutta quella
malvagità di cui non si era mai resa conto, i cadaveri
bruciati dei villaggi
nel Quadling, le case in fiamme, i soldati in armatura nera...
Una
gigantesca ombra assalì Nessarose alle spalle, gettandola a
terra. Lei perse la
presa sulla folgore, che scivolò lungo le mattonelle dorate.
La cosa nera si
dimenò con Nessarose, che gridò la sua rabbia.
Poi
il posto si riempì di persone.
Glinda
tenne lo sguardo fisso sul corpo di Locasta, incapace di formulare un
pensiero
coerente. Rimase così fino a quando non si sentì
chiamare da qualcuno. Fino a
quando non si accorse che il baccano era cessato. Allora
rialzò lo sguardo,
inebetito, l’urlo ancora vibrante in gola, e davanti a lei
c’era un lupo con
brillanti occhi gialli, un lupo enorme e ansante, che
abbassò le orecchie e
chinò la testa, annusando i capelli ricci della Strega del
Nord, quella che
aveva sparso baci sulle fronti perché fossero protetti.
-
Dov’è mia figlia? Dov’è
Zelena? Dove sono andate? – chiese Robin, setacciando
il luogo con gli occhi.
-
Vieni, Heathcliff. – disse Knubbin, con voce calma, stendendo
il braccio. Il
corvo lasciò la colonna dorata per raggiungere il suo
padrone.
-
Glinda. – Mulan le sfiorò la spalla con una mano.
Con prudenza. - Glinda...
dov’è Fiyero? È stata Zelena a fare
questo?
-
Io. – rispose lei, in un sussurro. Tirò su un
po’ il corpo di Locasta,
appoggiandosi la sua testa contro il petto.
-
Cosa?
-
Sono stata io a fare questo.
Oltretomba.
Regina
non aveva idea di che cosa desiderasse.
Desiderava
che Daniel stesse bene. Che fosse passato oltre. Che fosse felice in un
posto
migliore, un posto bellissimo e pieno di luce come quello che aveva
accolto suo
padre.
E
voleva che fosse ancora lì, in quel limbo, per parlargli.
Voleva vederlo, avere
la possibilità di guardarlo ancora una volta negli occhi
azzurri. Digli... non
sapeva nemmeno lei cosa. O forse sì, lo sapeva.
Chissà che cosa avrebbe pensato
lui del perché si trovava nell’Oltretomba.
Chissà cosa avrebbe pensato una
volta saputo che stava facendo il possibile per riportare in vita
qualcuno...
-
Regina. L’ho trovato. – disse Biancaneve.
Si
erano aggirate insieme per le tombe, seguendo la mappa di Crudelia.
Regina
aveva paura di incontrare la lapide giusta e... trovarla spezzata.
Orribilmente
spezzata e non semplicemente in verticale. Era sicura che se avesse
visto
quella crepa si sarebbe messa ad urlare. E avrebbe continuato ad urlare
fino a
quando Biancaneve non si fosse decisa a trascinarla via. Si sarebbe
messa a
gridare e avrebbe spaventato Henry, che era venuto con loro.
-
Va
tutto bene. Puoi guardare. – continuò Mary
Margaret, rassicurante.
Regina
guardò.
Sulla
pietra tombale c’era scritto semplicemente DANIEL COLTER. Ed
era...
-
È
poggiata a terra. – mormorò Regina, parlando
soprattutto a se stessa. – Non
è... qui.
-
No. È passato oltre. – le disse Biancaneve,
sorridendo. Non lo ammise, in quel
momento, ma anche lei era sollevata. Aveva accompagnato Regina al
cimitero
perché sapeva quanto era importante per lei, ma anche
perché ripensava a quella
bambina, se stessa, manipolata da Cora, che rivelava qualcosa che mai
avrebbe
dovuto rivelare. Si sentiva responsabile. Anche se era solo una
bambina, si
sentiva responsabile. – È felice.
La
lasciò sola sulla tomba di Daniel. Anche Henry si
allontanò. In realtà, lui non
era venuto solo per sua madre, ma anche... beh, per l’altra
sua madre. Emma
voleva restare sola. Aveva bisogno di riflettere ed era sicuro che non
volesse
troppa gente intorno, per adesso.
-
Daniel... – disse Regina, sentendosi immensamente sollevata.
– Sono felice che
tu stia bene. Ma mi dispiace... di non averti potuto vedere.
Henry
si infilò le mani in tasca, mentre osservava la madre da una
certa distanza.
Poi
qualcosa si mosse, dietro di lui. Un rumore smorzato. Furtivo. Ma
sembrava fatto
apposta perché lui lo sentisse. Sembrava... deliberato.
-
Sei stato il mio primo amore e vivrai sempre nel mio cuore. –
continuò Regina,
posando una mano sulla pietra fredda. Non avvertì niente.
Non fu come quando
aveva toccato il nome di Emma inciso sulla lapide. C’era solo
la consistenza
della pietra. – Volevo assicurarmi che stessi bene.
Alzò
la testa per cercare Henry... e lo vide vicino ad un salice. Si stava
guardando
intorno, come se qualcosa avesse attirato la sua attenzione.
Poi
notò il bambino.
Era
più piccolo di Henry e stava in piedi dalla parte opposta
della lapide di
Daniel. Il suo viso era terribilmente pallido, le labbra screpolate e
violacee,
i capelli sporchi e ritti sulla testa e una delle guance aveva un
aspetto
infossato, da vecchio.
-
Che cosa...? – iniziò Regina.
Il
bambino aveva tenuto una mano nascosta dietro la schiena, come se sesse
stringendo
un mazzo di fiori raccolti in un prato.
Quando
gliela mostrò, Regina vide che non recava nessun mazzo di
fiori con sé.
Le
piccole dita erano avviluppate intorno all’elsa di un
pugnale.
Come
lui vibrò il colpo, Regina si ritrasse quasi meccanicamente
e nonostante fosse
sotto choc. La punta dell’arma urtò la pietra,
provocando una piccola scintilla
e scheggiandola poco sotto la D. Il bambino si ritrovò
proiettato in avanti.
Andò giù di peso, goffo ed emettendo un sibilo.
E
prima che potesse rialzarsi, Regina aveva già visto gli
altri.
Erano
molto giovani. Alcuni potevano avere l’età di
Henry, altri quella di Roland.
Alcuni erano cadaverici, con i volti scavati, i capelli arruffati e i
vestiti
che non erano più vestiti ma stracci che cascavano loro
addosso. Certe facce
erano imbrattate, gonfie come se le avessero orrendamente straziate e
poi
rimesse insieme con rozza noncuranza. Un paio avevano delle lunghe
cicatrici
sulla gola. Ma i loro sguardi sembravano di marmo.
-
Regina!
– gridò Biancaneve, arrivando di corsa. Prese una
freccia e la incoccò,
scagliandola senza quasi prendere la mira.
Regina
vide, con orrore agghiacciante, la punta che si conficcava nella
schiena di un
ragazzino. Quello finì in ginocchio sull’erba.
Ansimò qualcosa, ma poi si
rimise in piedi ed estrasse il proprio pugnale. Un altro fece
schioccare una
frusta.
Regina
lanciò un globo di fuoco in mezzo a due di loro, come
avvertimento. Si
spostarono, urtando i compagni.
-
Sì, uccidici, Regina Cattiva. – disse il bambino
che aveva vibrato il primo
colpo, sostando in piedi sulla lapide di Daniel. Tese una mano davanti
a sé
come per afferrare quella di Regina.
-
Uccidici ancora. Uccidici come hai fatto tanto tempo fa. –
riprese un secondo
bambino, con voce stridula ed infantile, che le ricordò
quella di Roland.
-
Hai distrutto le nostre case. Hai ucciso noi e le nostre famiglie.
-
Ti
è piaciuto farlo, vero, Regina Cattiva?
-
Sarai sempre la Regina Cattiva. Nessuno ti amerà mai
davvero. Nessuno!
-
Perderai tutto. Il tuo amore. Tuo figlio. Perderai...
Le
frecce di Biancaneve piovvero in mezzo al gruppetto, a volte centrando
i
bersagli. Ma anche se venivano raggiunti dalle frecce, quelle non
servivano a
fermarli. Avanzavano, barcollando. Lenti, ma determinati. Con quelle
facce
spettrali.
Regina
avrebbe potuto spazzarli via con un solo gesto della mano, eppure era
raggelata. Il cuore le martellava nelle tempie più forte che
mai.
-
Regina Cattiva... hai paura? Hai paura di noi?
Poi
si
dissolsero. Regina batté le palpebre e un istante dopo i
bambini erano svaniti.
Si alzò un vento gelido, che sembrò penetrarle
fin nelle ossa.
-
Regina, stai bene? – chiese Biancaneve, trasecolata.
-
Io... sì. Li hai visti, vero?
-
Dove sono andati?
Non
ne aveva la minima idea, ma le loro voci le rintronavano ancora nelle
orecchie.
Un
inganno di Ade, probabilmente. Un illusione creata apposta per lei. O
erano
reali? A lei erano parsi fin troppo concreti. Morti, furiosi e molto
concreti. Vite
spezzate.
“Sarai
sempre la Regina Cattiva. Nessuno ti
amerà mai davvero. Nessuno!”
“Perderai
tutto. Il tuo amore. Tuo figlio.
Perderai...”
-
Henry... dov’è Henry? – chiese
Biancaneve.
Regina
guardò nel punto in cui suo figlio si trovava fino a poco
prima, ma non vide
nessuno. Il vento si fece più forte, piegando gli steli
d’erba e le fronde
degli alberi, sollevandole i capelli.
-
Henry! – urlò Regina.
Non
ottenne risposta.
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Capitolo 6 *** 6. ***
6
"L'odio
è cieco, la collera sorda,
e colui che vi mesce la vendetta,
corre pericolo di bere una bevanda amara"
[Alexandre
Dumas, Il Conte di Montecristo]
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
I
cavalli si impennarono, impauriti, roteando
gli occhi e sbuffando dalle nari. Il cocchiere della Regina ebbe il suo
bel
daffare con le redini e temette di perdere il controllo degli animali.
“Che
cosa succede?”, gridò Regina, sporgendo la
testa dal finestrino della carrozza.
“Mi
dispiace, Maestà. I cavalli sono
terrorizzati.”, si scusò il cocchiere. Gli animali
si impuntarono. Per quanto
lui li spronasse e cercasse di calmarli, non sembravano intenzionati a
fare un
solo passo.
La
strada davanti a loro si perdeva nel buio di
una fitta foresta. Gli alberi erano antichi, alti e solenni come
palazzi. I
vapori che salivano dal terreno avevano cominciato a turbinare intorno
alla
diligenza. La luce della luna pareva ancora più chiara e
vivida, un fulgore
pulsante.
“Datti
una mossa, idiota. Così perderemo le
tracce di Biancaneve.”, disse Regina.
“Con
il dovuto rispetto, Maestà... i cavalli
sanno dove ci troviamo. Forse è meglio... se posso
suggerirlo, sarebbe meglio
tornare dopo il sorgere del sole.” La voce del cocchiere era
incerta. Si
mordeva le labbra, perché non desiderava morire solo per
avere dato un
consiglio alla sua Regina. Sperava che il suo tono suonasse il
più possibile
sottomesso.
“Anch’io
so dove ci troviamo, razza di
incompetente! La Foresta dei Morti non mi fa alcuna paura! Sprona quei
cavalli!”
E detto questo si ritirò nuovamente nella carrozza.
Il
cocchiere lottò ancora un po’ con le redini,
poi riuscì a convincere gli animali ad avanzare. Il sentiero
si allargò e prese
a scendere. Il soldato che sedeva con la Regina dentro alla carrozza
sbirciava
continuamente dai finestrini e teneva una mano sull’elsa
della spada, timoroso.
Poi
una sagoma voluminosa sbarrò loro la strada.
Si piantò in mezzo al sentiero, proprio come avrebbe potuto
fare un fantasma.
Era una figura incappucciata e alta, non sarebbe potuta essere
più immobile se
fosse stata di pietra.
I
cavalli impazzirono. Il cocchiere tirò le
redini con forza, ma lui stesso pensò si trattasse di uno
spirito e gridò in
preda al panico.
“Cosa
c’è adesso?!”, domandò
Regina.
Con
un potente strattone, i cavalli si mossero
e presero a galoppare alla cieca. Il cocchiere venne sbalzato di sella.
La
carrozza urtò il tronco di un albero e si
ribaltò.
Oltretomba. Oggi.
Henry
si destò e gli ci vollero un paio di minuti per capire che
cosa stesse
succedendo, come mai vedesse il mondo capovolto e perché si
muovesse pur non
toccando l’asfalto.
Qualcuno
lo stava trasportando in spalla come un sacco di patate.
-
Ehi... – cominciò Henry, ancora stordito dal colpo
alla testa. Gli ronzavano terribilmente
le orecchie. – Ehi, dove mi stai portando? Chi sei?
L’uomo
non rispose. Camminò ancora per un po’, fino a
quando non raggiunse il porto di
Storybrooke. Lì, salì su un ponticello di legno e
poi balzò sul ponte di una nave.
-
Credevo ti avessero preso. – disse un’altra voce
maschile, che ad Henry sembrò
di conoscere.
-
No. Gli scherzetti di Ade sortiscono sempre l’effetto
desiderato.
Il
suo rapitore lo mise giù con poco riguardo e si
accosciò davanti a lui. Henry vide
le vele arrotolate di una grande nave, l’albero maestro che
pendeva, sbilenco.
Alcune assi del ponte erano divelte e il legno era graffiato e bucato
in più
punti.
-
La
Jolly Roger? – domandò Henry, battendo le
palpebre.
-
Non la Jolly Roger, moccioso. Ma è comunque una bella nave,
non pensi?
Erano
in due. Quello che lo aveva tenuto in spalla non l’aveva mai
visto prima. Era
un uomo alto e castano, con una casacca azzurra e un paio di pantaloni
neri
infilati in vecchi stivali di cuoio.
L’altro,
invece, era uno dei cavalieri di Artù, quello che aveva
ballato con Lily e
anche con sua madre. Quello che aveva tentato di ucciderla. Percival.
-
Dunque è questo il bimbo della Regina. – disse lo
sconosciuto, sorridendo
furbescamente. – Henry Daniel
Mills.
Pronunciò
il suo secondo nome, Daniel, dopo una brevissima esitazione.
-
Chi sei? Che cosa volete? – domandò Henry.
-
Non sa come pulirsi la conoscenza e dà il nome di mio
fratello a suo figlio. Patetica.
– commentò, parlando più a se stesso
che a lui. Si fece passare delle corde. –
Vediamo se sei un ragazzino ubbidiente. Dovrai stare fermo mentre ti
lego.
“Non
sa come pulirsi la conoscenza e dà il nome
di mio fratello a suo figlio.”
-
Le
mie mamme verranno a riprendermi. – disse Henry. –
Tutta la mia famiglia verrà.
Ve lo assicuro.
-
Non vediamo l’ora, ragazzo. – rispose Percival, con
quel sorrisetto astuto che
ricordava dalla sera del ballo al castello di Artù.
Henry
iniziò a dimenarsi non appena l’uomo gli prese i
polsi per legarglieli. Allora
Percival estrasse un sacchetto di cuoio, sciolse i lacci e
versò sulla mano del
complice una polverina dorata. Gliela soffiò in faccia e ad
Henry si confuse la
vista.
-
Peccato, non volevo sprecarla.
-
Non
preoccuparti di questo, William. – Percival guardò
la città, chiedendosi quando
avrebbe visto arrivare le madri del ragazzino, con tanto di famigliola
al
seguito.
Non
vide nessuna famigliola. Ma lontano, più o meno dalle parti
del cimitero, notò
il tornado.
Era
decisamente un tornado di dimensioni consistenti, nero come le tenebre
che
aveva dovuto sopportare quando Ade l’aveva sprofondato nelle
sue prigioni. Nero
come lo era stato il mondo subito dopo la morte. Prima il fuoco, la
sofferenza
infinita... poi il buio totale. La caduta interminabile.
-
Cos’è? – domandò William,
schermandosi gli occhi con una mano.
-
Un
portale. – rispose Percival, contrariato. – Credo
che qualcuno sia appena
arrivato negli Inferi.
Regina
si precipitò in casa, seguita a ruota da Biancaneve.
-
Emma! – chiamò, la voce piena di panico e collera.
– Emma, dove sei?!
Emma
scese le scale di corsa. Marian rimase in cima ad esse, fissando Regina
in un
modo che le fece capire che aveva saputo ogni cosa. Non aveva idea se
Marian fosse
più stordita o più arrabbiata. Se fosse
più confusa di prima o se stesse
cominciando ad uscire dal labirinto che era diventato la sua mente. Il
suo
sguardo era impenetrabile.
Ma
Regina non poteva occuparsene, ora.
-
Ho
visto il tornado. – disse Emma. – Credo che
qualcuno abbia appena raggiunto gli
Inferi... attraverso un portale.
-
Tornado? – fece sua madre.
-
Emma, nostro figlio è sparito! – si
affrettò a dire Regina.
-
Come sparito?
-
Non ho potuto fare niente... non ho nemmeno visto chi l’ha
portato via!
-
Non è stata colpa tua, Regina. – intervenne
Biancaneve. – C’è sicuramente di
mezzo Ade. Non possono essere andati lontani.
Gli
altri erano accorsi.
-
Ehi! – cominciò Lily. – Guardate
là.
Qualcuno
aveva appena infilato un foglio di carta ingiallito sotto la porta
d’ingresso.
Regina lo prese subito, mentre Lily spalancava la porta. Vide il
bambino che
attraversava la strada, fuggendo a tutta birra. Malefica fu
più veloce di
tutti. Si dissolse in una nube viola e ricomparve di fronte al
fuggitivo,
acchiappandolo per un braccio. I suoi occhi grandi e pieni di fuoco
zittirono
subito le sue proteste.
-
È
uno di quelli che mi hanno aggredita al cimitero. – disse
Regina, allungando
una mano a mo’ di artiglio.
Il
bambino, pallido e cencioso, si ritrasse. Lily lo fermò
prima che potesse
pensare di scappare di nuovo.
-
Sai, non mi piacciono molto i bambini. – disse, voltandolo
verso di sé. - E
credo che a te non piacciano i draghi, vero? Vuoi dirci
dov’è Henry o vuoi
vederne uno, che potrebbe anche decidere di mangiarti?
-
Io
sono morto. – disse il bambino, a muso duro. – Puoi
anche mangiarmi, quindi,
Oscuro.
-
Non sono più un Oscuro, ma sono capace di cavarti una cosa
di bocca, se voglio.
Regina
fece per parlare, ma Emma la bloccò, mettendole una mano sul
braccio.
-
Lily... – disse.
Lei
lasciò il bambino.
Emma
si inginocchiò davanti a lui. – Ehi, senti... so
che non fai tutto da solo.
Qualcuno ti ha detto di farlo e ti ha promesso qualcosa, vero?
Non
parlò. Anzi, la fissò con astio. Evidentemente,
se sapeva che Lily era stata un
Oscuro, doveva sapere anche di lei.
-
Forse ha davvero bisogno di una spintarella. – disse Regina.
Nella voce di lei
c’era una minaccia, un pericolo in agguato. –
È di mio figlio che stiamo
parlando.
Uno
strano, improvviso silenzio riempì la cucina, come se ognuno
dei presenti
stesse trattenendo il respiro. Emma avvertiva fin troppo chiaramente la
forza
della sua rabbia. E l’ombra della donna che era stata un
tempo, la donna che
aveva lanciato la maledizione e perseguitato Biancaneve.
Marian
si mise tra Regina e il bambino e gli tese una mano. Lui la
guardò, indeciso.
-
Qui nessuno vuole farti del male. – disse Marian, sorridendo.
Ed Emma si
accorse subito di quanto fosse convincente il sorriso di lei. Di quanto
fosse
puro e assolutamente amorevole.
-
Nemmeno la Regina?
Regina
non avrebbe dovuto essere così ferita dalle parole di un
bambino che poteva
essere poco più grande di Roland, dalle parole di un bambino
che era stata lei
ad uccidere... eppure fu una pugnalata. Fredda. Glaciale. Come il colpo
di
spada che uno dei suoi soldati doveva aver inferto a lui. Si
girò dall’altra
parte, incontrando lo sguardo verdazzurro di Emma.
-
Nemmeno la Regina. – rispose Marian. – Quelle
persone... potrebbero non averti
detto la verità, qualsiasi cosa ti abbiano promesso. Loro
vogliono fare...
delle cose brutte ad Henry. E lui è come te.
-
Morto?
-
No. Innocente. – Ora il tono di Marian era più
serio, molto più determinato.
Il
bambino si morse il labbro.
-
Il
biglietto dice che l’hanno portato alla libreria. –
disse Lily, sottraendolo a
Regina. – E sarà di certo una trappola.
-
Loro hanno detto... che l’avrebbero portato là. Ma
non hanno detto nient’altro.
– ammise il bambino. – Non hanno detto che gli
avrebbero fatto male. Solo che
dovevano spaventare la Regina.
-
Chi erano? Conosci i loro nomi?
-
Uno sì. Parsifal. – Ci pensò su. Scosse
il capo. – No, non era proprio così.
Era...
Lily
sgranò gli occhi. – Percival. Emma, andiamoci
subito.
-
Sì.
– disse Emma. - Papà... vai con Killian a vedere
che cos’era quel tornado.
Cos’ha portato qui, almeno. Noi ci occuperemo di Percival.
Fate attenzione.
Foresta dei Morti. Più di trent’anni fa.
Regina riuscì a sgusciare fuori dai resti della
sua carrozza, nonostante il dolore alla spalla destra.
Schiantandosi,
il suo mezzo di trasporto aveva
perduto una ruota ed era ora un ammasso legnoso e contorto. Il soldato
che
viaggiava con lei giaceva, forse morto, all’interno, con
l’elmo ammaccato che
gli pendeva sbilenco sulla testa e una gamba in una posizione
innaturale. Il
cocchiere era sparito. I cavalli giacevano poco più avanti.
Qualunque
cosa avesse causato quel disastro non
c’era più.
“Ma
perché i miei uomini sono solo degli idioti
incompetenti?”, mormorò Regina, districando lo
strascico del suo lungo
soprabito rosso da ciò che rimaneva del finestrino.
La
spalla le doleva. Di certo era dislocata e
il dolore le impediva di ragionare lucidamente. La indeboliva. Doveva
andarsene
da quel posto, su quello non aveva dubbi. Andarsene prima che
Biancaneve
acquisisse troppo vantaggio. Anzi, era più che probabile che
fossero caduti
tutti in una delle sue orride trappole.
“Saranno
stati i suoi nani disgustosi.”,
continuò, arrancando per allontanarsi dal luogo
dell’incidente.
Si
fermò. Qualcosa si muoveva, nel folto della
boscaglia, proprio dietro di lei. Udì il secco spezzarsi di
un rametto e un
fruscio guardingo tra il fogliame del sottobosco. Suoni che andavano
quasi
perduti sotto il sussurro del vento tra gli alberi.
“Chi
è là?”, chiamò con voce
alterata. “Chi
sei? Mostrati.”
Una
figura alta ed incappucciata sostava fra
due tronchi, ma lei non riusciva a scorgerne il viso. Era troppo buio.
La luce
della luna piena non era sufficiente.
“Mostrati,
se ne hai il coraggio.”, insistette
Regina.
L’uomo
scostò leggermente i lembi del
cappuccio, facendo in modo che lei vedesse solo una parte del suo
volto. La
linea della mascella. Le labbra sottili. Un occhio azzurro.
“Daniel...?”
Il solo rendersi conto di quello
che stava dicendo bastò a farla rabbrividire
incontrollabilmente, come se fosse
stata in preda ad un delirio mortale.
Ma
era sicura di non sbagliarsi. Non avrebbe
mai potuto scordare il volto del suo amore.
“Daniel,
sei tu? Sei... tornato?”
Il
ragazzo si voltò, mettendosi a correre.
“No,
Daniel, aspetta!”, gridò Regina,
seguendolo nelle tenebre della Foresta dei Morti. “Sono io.
Sono Regina!”
Lui
la stava distanziando. Fuggiva, come
spaventato dalla sua presenza. Persino il modo in cui correva, il modo
in cui
si spostava tra un albero e l’altro, bastarono a farle capire
che la sua mente
sovraeccitata non la stava ingannando. Quel luogo era popolato dagli
spiriti,
che lo rendevano tenebroso con la loro presenza. Rischiavi, voltandoti,
di
vedere cose che potevano farti uscire di senno. Ma non voleva pensarci.
Non
c’era alcun bisogno di pensarci...
“Daniel,
qualsiasi cosa ti abbiano detto di me,
non è vera.”, gridò Regina.
“Devi credermi.”
Continuò
a corrergli dietro, fino a quando non
giunse in uno spiazzo in cui gli alberi erano stati tagliati e
c’erano solo
monconi di tronchi.
E
una fossa. Una fosse molto profonda. Regina
ci finì dentro con un urlo. Cadde, battendo la spalla
già dislocata. Fu
momentaneamente accecata dal dolore. Si morse il labbro e
serrò le palpebre,
aspettando che si placasse.
Infine,
una risata. Proprio sopra di lei.
“Daniel?”
“Regina.”,
rispose. E la voce aveva
un’inflessione completamente diversa. Più dura.
Era più profonda e rauca. “O
forse dovrei chiamarvi... Regina Cattiva?”
“Tu
non sei Daniel.”, constatò, sentendosi una
vera idiota.
L’uomo
si accucciò sul bordo della fossa.
Avrebbe dovuto capirlo subito perché era più alto
di Daniel e aveva le spalle
più larghe. Inoltre, quando abbassò il cappuccio
della mantella grigia, per
quanto i lineamenti fossero simili e gli occhi del medesimo azzurro, i
capelli
erano folti e castano chiaro.
“Certo
che no.”, rispose l’uomo, divertito.
“Mio fratello giace sottoterra, Regina Cattiva. Da
tempo.”
“William?”
Regina si rialzò, tenendosi la
spalla dolorante con una mano. “Daniel... lui aveva detto che
te ne eri andato.
Mi diceva... che non ti vedeva da anni. Eri partito in cerca di
fortuna.”
“Ed
è così. Ma sono tornato. Dopo la sua morte,
sono tornato e ho saputo cos’è accaduto. Sai,
Regina... io volevo bene a mio
fratello. È anche per lui che me ne sono andato. Questo te
l’ha detto? La mia
fortuna sarebbe stata anche la sua. Eh? Τe l’ha
detto?”
“Sì...”
“Ti
dirò una cosa io, allora.” William
intrecciò le mani. “So cos’hai fatto.
Daniel è morto per colpa tua. L’hai
ucciso tu. È giunto il momento di pagarne il prezzo, Regina
Cattiva. E il
prezzo è molto alto.”
Oltretomba.
Il
tornado
aveva lasciato dietro di sé una scia di cianfrusaglie, i
pezzi di quello che
sembrava un telone verde e persino una cuffietta bianca da neonato.
David
l’ha raccolse, esaminandola, perplesso. Il cimitero, con le
sue lapidi disposte
in file irregolari, era deserto. Il tornado era passato in mezzo alle
tombe, ma
esse erano intatte.
Killian
osservò le zolle di terra e i cespugli di alloro e ginepro
divelti, in cerca di
orme o di qualche altra traccia. Un vecchio salice era spaccato
malamente e la
rottura era così fresca che la sua polpa biancastra ancora
perdeva linfa.
Dall’altro lato c’era un pugnale. Lo prese.
-
Quello apparterrebbe a me. – disse una voce, che fece
sobbalzare Killian. –
Potrei riaverlo?
L’uomo
che si era rivolto a lui tendeva una mano, mentre reggeva con la
sinistra una
faretra piena di frecce, decorate con piume rosse.
-
Penso di no, amico. – rispose Killian, occhieggiandolo,
sospettoso. David si avvicinò,
preparandosi ad estrarre la spada. - Chi sei?
-
Mi
chiamo Fiyero. Fiyero Tiggular. E vengo da Oz. – Lui
occhieggiava l’uncino che
aveva al posto di una delle mani.
-
Non si direbbe. – rispose Killian. Fiyero aveva la pelle
nerissima e le braccia
ricoperte di tatuaggi a forma di diamante. Ne aveva anche sulle nocche
e sul
collo. – Io direi che vieni dai Mari del Sud. Dal profondo
Sud. Quei
tatuaggi... non sono in molti ad averli.
-
Sì, devo dire che il mio vero padre veniva da là.
– Fiyero liquidò la questione
con un’alzata di spalle. - Avete viaggiato molto, a quanto
pare. Ma la mia casa
è nel regno dei Winkie. Mi trovavo ad Oz quando il
portale...
-
Sei solo? – domandò David.
-
Non lo ero. Ma la strega è sparita con la bambina prima che
potessi fare
qualsiasi cosa.
-
La
Strega Perfida. Per tutti i diavoli... – Killian
guardò David. Poi si rivolse
di nuovo a Fiyero. – Forse è il caso che tu ci
dica che cosa è successo. Poi,
forse, potrai riavere il tuo pugnale.
-
Beh, vi ringrazio. Però anch’io ho una domanda:
perché il cielo di questo posto
è rosso? Dove mi trovo esattamente?
Le
porte della libreria erano chiuse. Quando Lily tirò i
battenti per aprirli, la
magia la respinse, scintillando.
-
Un
incantesimo di protezione. – disse Emma.
-
State indietro. – Malefica aprì la mano destra e
in essa comparve lo scettro. Lo
impugnò saldamente, puntandolo contro le porte e
scagliò il potere su ciò che
proteggeva quel luogo. Regina, Emma e Lily si schermavano gli occhi.
La
barriera andò in frantumi.
-
Beh, non era così potente, come incantesimo. –
osservò Lily.
-
Già. Il che vuol dire che è una trappola.
– concluse Emma.
A
Regina poco importava che fosse una trappola. Spinse i battenti della
libreria,
spalancandoli e si precipitò dentro, chiamando il figlio a
gran voce.
-
Regina,
aspetta... – disse Emma, cercando di fermarla.
Il
ragazzino era appeso al soffitto, la corda legata intorno al collo, le
braccia
penzoloni lungo i fianchi e la faccia messa in ombra dal cappuccio
della
mantella. Muoveva ancora le gambe. Debolmente. I piedi calzavano le
stesse
scarpe che portava Henry quando era sparito, al cimitero. E portava gli
stessi
jeans.
Regina
rimase là, raggelata. Sentiva che un urlo lacerante stava
salendo dal profondo.
Sentiva che il suo stesso equilibrio mentale cominciava a cedere. Era
una
sensazione troppo materiale. Autentica. Di certo, un albero
sovraccarico di
neve, durante una tremenda tormenta, doveva sentirsi così un
attimo prima di
abbattersi al suolo.
Lily
ebbe la prontezza necessaria e abbrancò le gambe di Henry
prima che soffocasse.
Malefica bruciò la corda e il corpo cadde sul pavimento.
-
Henry! – gridò Regina, gettandosi in ginocchio
accanto a lui.
Quando
scostò il cappuccio per scoprirgli il viso vide che non si
trattava affatto di
Henry. Era un ragazzo con la sua stessa struttura fisica e i suoi
vestiti,
ma...
-
Regina,
attenta! – Emma si lanciò su di lei e la spinse
via prima che il pugnale la
raggiungesse. La lama fendette l’aria tra di loro e la finta
vittima grugnì il
suo disappunto. Lily lo disarmò con un calcio e lo prese per
il colletto della
giacca.
Nel
frattempo, ne arrivarono altri. O meglio, non arrivarono. Comparvero
dal nulla.
Come se l’unico ragazzo presente avesse iniziato a
moltiplicarsi.
Uno
cercò di colpire Emma e lei gli afferrò il polso.
Con un piede, agganciò la sua
caviglia e lo fece cadere. Prima che potesse rialzarsi, gli fu addosso,
bloccandolo a terra con un ginocchio.
-
No...
– sibilava... l’essere sotto di lei, dimenandosi e
torcendo il collo all’insù,
gli occhi malevoli, quasi da insetto nel loro stupido odio. La faccia
cominciò
a mutare; era quella di Neal, dallo sguardo spento e fisso; era quella
incredula di Graham nell’attimo in cui Regina aveva
polverizzato il suo cuore;
era quella di suo figlio, paurosamente pallida. Infine
cambiò di nuovo e
diventò il volto di un’entità con la
fronte bassa, gli occhi gialli, la lingua
appuntita e biforcuta.
Ma
Emma non era l’unica a vedere altre facce in quelle dei
demoni che le
circondavano. Regina, prima di scagliare la sua sfera di fuoco, scorse
la
faccia di sua madre, che la guardava così come
l’aveva guardata quando aveva
usato le cinghie dei cavalli per legarla. Scorse le facce dei bambini
del
cimitero. Scorse la sua stessa faccia, i lineamenti distorti dalla
furia.
Lily
vedeva i suoi genitori adottivi. Prima suo padre e poi sua madre.
Vedeva
Murphy, che le sussurrava parole orribili, accuse e minacce. Le
ricordava che
aveva privato una bambina innocente di un padre, lasciandola sola al
mondo.
Malefica
atterrò uno dei demoni, mandandolo prima a sbattere contro
uno scaffale e poi
tenendolo fermo sul pavimento con la magia. Lui si portò le
mani alla gola,
annaspando. Batté i piedi e tese il corpo. Infine, rivolse
la faccia a
Malefica. Il suo viso divenne quello di un uomo urlante, quello di una
donna le
cui guance erano bruciate dal fuoco, quello di un giovane con i capelli
ridotti
ad un groviglio ardente. Divenne il volto di una ragazza che altri non
era che
lei, trecento anni prima, un drago inesperto, incapace di controllare
il
proprio potere, che aveva commesso una strage, uccidendo e
distruggendo, salvo
poi rintanarsi nella grotta dove la madre aveva protetto
l’uovo da cui era nata.
-
Τu
perdi sempre, Malefica... vieni sempre sconfitta. Anche oggi.
– gracchiò il
demone.
Malefica
l’afferrò per i capelli biondo grano e fece per
spezzarle il collo. Poi vide
che sua figlia era stata sospinta contro uno scaffale e le dita di uno
dei
mostri le arpionavano la gola. Stringevano. Lily annaspava. Malefica
colpì con
violenza l’essere che aveva assunto le sue sembianze e fece
per scagliarsi in
avanti.
Non
vide l’altro, quello che sopraggiunse alle sue spalle. Non
l’aveva neppure
sentito.
La
lama di un pugnale le trapassò la giacca e si
piantò nella sua schiena.
Foresta
dei Morti. Più di trent’anni fa.
Tenendosi la spalla dislocata, Regina sollevò
la testa e spalancò gli occhi, esterrefatta.
“Morto per colpa mia? Ma di che
cosa parli? Come osi?”
“Come
oso?” Lui rivolse la faccia alla luna.
“Direi che ho tutte le ragioni per osare, Regina. Hai ucciso
mio fratello. O
non era vero che volevi fuggire con lui, nonostante il parere contrario
della tua
famiglia?”
“Io...”
“Mi
hanno anche detto che lo amavi. Ma io non
credo. Se ciò fosse vero, l’avresti lasciato in
pace. Avresti...”
“Non
sono io la colpevole, William!”, gridò
Regina, sconcertata da quelle parole così intrise di veleno.
“La vera colpevole
è Biancaneve! Se non avesse rivelato il nostro segreto...
saremmo riusciti a
fuggire e Daniel sarebbe vivo!”
“Poco
importa ciò che ha fatto Biancaneve. Non
ho alcun interesse per quella bandita.” William
posò un ginocchia a terra ed estrasse
qualcosa dalla casacca. Se lo rigirò tra le mani per qualche
istante, prima di
sciogliere i lacci. “Sei stata tu a convincerlo a scappare.
L’hai spinto a
credere alle tue fantasie! L’hai spinto a credere che vivere
una vita felice
fosse possibile! Bugie.”
“Le
bugie sono quelle che hanno raccontato a
te.”, replicò Regina. “Lo amavo... lo
amavo davvero. Non ho potuto
impedirlo...”
“Potevi,
invece.”, disse William, con
un’arroganza e una testardaggine che lei non avrebbe mai
creduto possibili. “Da
quando una storia d’amore tra uno stalliere e una ragazza di
nobile famiglia,
promessa ad un re... è finita bene?”
“William...
io pensavo...”
Il
fratello di Daniel aveva smesso di ascoltarla.
Non aveva la minima intenzione di stare là a sentirsi
ripetere che era
Biancaneve la causa di tutto. ‘Parla pure, Regina
Cattiva’, sembrava dire la
sua postura rigida, la sua fronte aggrottata, la bocca stretta in una
linea piatta
e dura. ‘Parla fino ad diventare blu. Non servirà
a niente’.
Ma
doveva provare. “William, smettila. Non
voglio farti del male. Io voglio proprio ciò che vuoi tu.
Vendetta per Daniel.
Sto facendo questo per lui!”
“Non
sei altro che una bambina viziata. La tua
vita ti annoiava e hai pensato di gettare la tua noia su mio fratello.
Sei
bella...”, mormorò William, alzandosi in piedi e
riversando il contenuto della
sacchetta nella mano destra. “Sei bella e sono sicuro che sai
persuadere
chiunque. Sei una manipolatrice nata. Mi hanno parlato anche di tua
madre, sai?
Cora. Da come me l’hanno descritta, direi che le
somigli.”
“Oh,
non hai idea di quanto ti sbagli! Se mi
dessi la possibilità di spiegare...”
William
gettò nella fossa la polvere che aveva tirato
fuori dalla sacchetta. Non appena i granelli dorati le scivolarono
lungo il
braccio, Regina avvertì i suoi muscoli indurirsi, contrarsi
dolorosamente. Era
una polvere magica.
“Sei
già ferita. Mi sono assicurato che uscissi
viva dall’incidente in carrozza, perché volevo che
avessi modo di cadere in
questa trappola, dove resterai. A lungo. Così potrai pensare
ai tuoi errori. A
ciò che avresti dovuto fare e non hai fatto,
perché sei un’egoista.”
Riversò su
di lei quel fiume di parole senza nemmeno guardarla. “Una
sirena di un regno
lontano mi ha procurato questa sabbia. Mi disse che avrebbe
neutralizzato
qualsiasi magia. Quando ne sarai ricoperta... non potrai nemmeno uscire
dalla
fossa. E nessuno potrà aiutarti ad uscirne.”
Oltretomba. Oggi.
-
Mamma!
– gridò Lily, raggiungendo Malefica e gettandosi
in ginocchio accanto a lei.
Regina
neutralizzò il demone che l’aveva pugnalata,
spezzandogli il collo. Emma
accorse a sua volta, dopo essersi occupata dell’ultimo
mostro. La giacca grigia
di Malefica era già zuppa di sangue. Nel tessuto si apriva
uno squarcio, attraverso
il quale Emma poteva vedere la ferita provocata dal pugnale.
-
Mamma... – ripeté Lily, con una voce che ad Emma
ricordò fin troppo il tono
della ragazzina che si era nascosta nel garage della sua famiglia
adottiva. La
ragazza che aveva gridato il suo nome sporgendosi dal finestrino di
un’automobile.
Malefica
la fissò, da sotto le palpebre appena dischiuse.
È
proprio come a Camelot, pensò
Emma. Solo che quella volta era Lily ad
essere in fin di vita. E lei aveva commesso l’errore di
moltiplicare
l’oscurità. Scacciò quel pensiero dalla
mente con tutta la rapidità possibile.
Regina
si concentrò al massimo delle sue possibilità per
guarirla. Avvertì il potere
che si faceva strada dentro di lei e cercava una via per uscire. La sua
mano
scintillò, emanò un’intensa luce bianca
per alcuni secondi... poi si spense. A
Regina sembrò di premere contro una robusta parete di gomma,
che cedette un po’
permettendole di usare la magia, ma poi la risputò fuori.
-
Che
cosa succede? Perché non funziona? –
domandò Lily, con il respiro corto per
l’agitazione.
Regina
fu presa dalla stizza. Aveva il cuore in tumulto e la testa che le
bruciava.
Sentiva un ronzio nelle orecchie che pareva un battito d’ali
e avvertiva una
presenza vicina che rideva di lei, dei suoi goffi tentativi.
Emma
afferrò saldamente la sua mano e la strinse così
forte che Regina ne fu
sconcertata. – Insieme. Possiamo farcela.
Dopo
un istante di incertezza, Regina annuì. Malefica
rantolò, mentre la macchia di
sangue si allargava sotto di lei, intaccando e macchiando la rilegatura
di un
libro precipitato da uno scaffale.
La
magia proruppe di nuovo, più forte. La barriera invisibile
che aveva respinto
il primo attacco si tese, sembrò in procinto di scacciarle
un’altra volta,
rendendo vano anche il secondo tentativo. Emma sentì che la
magia di Regina si
univa alla sua in una girandola di potere.
Non
era abbastanza. Quel mondo si opponeva con tutte le sue forze. La morte
che
impregnava ogni cosa nel regno di Ade si aggrappò a
Malefica, cercando di
trascinarla giù con sé.
Lily
prese la mano libera di Emma, imponendosi di ricordare quello che aveva
imparato da sua madre, e appoggiò l’altra sopra le
dita intrecciate delle due.
Foresta
dei Morti. Più di trent’anni fa.
“Basta, William!”, gridò Regina,
sollevando
entrambe le braccia e ignorando la fitta di dolore alla spalla.
Qualunque
effetto dovesse avere quella sabbia
magica, non fu quello sperato dal fratello di Daniel. Regina
percepì solo una
minima resistenza intorno a sé, poi la magia esplose verso
l’alto in un mare di
scintille rosse. William ne fu sopraffatto e il sacchetto gli cadde di
mano. La
sabbia si rovesciò, disperdendosi.
“Maledetta!
Cos’è questo? Uno dei tuoi
trucchetti, vero?”, esclamò il giovane, mettendo
mano alla spada.
Regina
scomparve in una nube densa e riapparve
fuori dalla fossa, accanto a William. Usare la magia le stava rubando
le
energie, perché era già ferita. Aprì
mani in segno di resa.
“Quella
sirena ti ha ingannato, William. Molte
sirene lo fanno.”, gli spiegò, rimanendo a
distanza di sicurezza. “È la loro
voce. Può ammaliarti e farti credere qualsiasi cosa.
Più la sirena è vecchia,
più è potente.”
William
sostenne lo sguardo di Regina,
ricambiandola con un’occhiata colma di odio e di furia
omicida.
“Non
voglio farti del male. Siamo dalla stessa
parte.” Regina gli offrì la destra.
Cercò il contatto con i suoi occhi azzurri,
sperando di vedere qualche brandello di Daniel in lui.
Vide
solo uno un lampo feroce, le sclere
iniettate di sangue. William parlò con un tono reso stridulo
dalla collera.
“Non saremo mai dalla stessa parte! Hai ucciso mio
fratello!”
“Io
amavo Daniel! La colpa è di Biancaneve!
Credimi!”
“Soffrirai
per ciò che hai fatto a mio
fratello! Io avrò la mia vendetta, in un modo o
nell’altro.”, insistette
William.
Sfoderò
la spada e tentò un affondo che quasi
la sorprese. Erano vicini. La lama aprì uno squarcio
nell’abito rosso di
Regina, all’altezza del fianco sinistro. Un rivolo di sangue
scivolò sulla sua
pelle.
“Voglio
la stessa vendetta, William. Non lo
vedi?” Regina lo stava supplicando. “Dobbiamo unire
le forze. Insieme, potremo
catturare Biancaneve.”
William
menò un fendente deciso. Regina scagliò
la sua magia contro la spada e lo disarmò
all’istante.
“Sei
tu l’assassina di Daniel! Cosa vuoi che mi
importi di una bandita?” Estrasse un pugnale dalla cintura e
si gettò contro di
lei, la bocca spalancata in un urlo.
Regina,
istintivamente, reagì spedendo un’onda
di potere contro di lui. Usò molta più magia di
quanta fosse necessaria.
William
volò all’indietro. L’arma di fortuna
gli sfuggì. Sbatté con violenza il capo contro il
tronco di un albero e si
afflosciò sulle radici che sporgevano dal terreno duro e
sassoso. Emise un
lungo sospiro, simile ad un rantolo. Quando Regina si
avvicinò, lui la fissò
come se la riconoscesse confusamente.
“William...”,
mormorò, chinandosi. “William,
no... io non volevo...”
Le
palpebre dell’uomo tremolarono, mostrando
uno spicchio di azzurro. Cercò di muovere la testa, ma il
collo era rotto.
Dalle labbra gli uscì un gorgoglio. Tentava di parlare.
Regina afferrò qualche
sillaba, però le parole erano indecifrabili.
“Non
preoccuparti. Andrà tutto bene. Posso
aiutarti.”, disse Regina, in fretta, lasciando scivolare le
dita dietro la sua
nuca. Aveva ancora abbastanza energie per guarirlo, forse. Poteva
provarci.
“Non...
puoi.”, disse William. Sorrise.
Quel
sorriso. Era atroce.
“Non
puoi... aiutarmi. Come non hai...
potuto... aiutare Daniel.”
Regina
avvertì nel suo alito l’odore della
morte, delle ferite interne, del fallimento, della rovina.
“No, io lo amavo...”
William
cominciò a tremare tutto.
Improvvisamente parve bloccarsi in ogni suo muscolo. Gli occhi
divennero vuoti,
senza sguardo, orlati di sangue. Si fecero vitrei.
Rendendosi
conto di quanto era accaduto, Regina
si girò da una parte per non guardare il morto e
abbassò la testa.
Oltretomba. Oggi.
La
ferita di Malefica si richiuse e scomparve. Fu una cosa lenta e
graduale, tanto
che Regina temette che non avrebbe funzionato, che nemmeno il potere di
tre
persone diverse sarebbe bastato a guarirla.
Invece
funzionò.
Lily
abbracciò sua madre non appena lei riuscì a
rialzarsi. Il pugnale usato per colpirla
giaceva sulle piastrelle, ancora sporco di sangue, ma i demoni si era
trasformati in tanti mucchietti di cenere.
-
Ce
l’abbiamo fatta. – disse Emma, che continuava a
stringere la mano di Regina.
-
Sì. – rispose Regina, rimirando le loro dita
intrecciate, ancora sorpresa e
stordita. Fissò Emma negli occhi, così come non
le capitava di fare da tempo.
Per un attimo vide solo il verdazzurro di quello sguardo, come se la
realtà non
conoscesse altri colori. - Ce l’abbiamo fatta.
Emma
lasciò la sua stretta, lentamente. Appoggiò una
mano sulla spalla di Lily.
-
Forse possiamo ancora trovare Henry con un incantesimo di
localizzazione. Credo
che... ora funzionerà. – disse Regina. –
Ho portato qualcosa di suo.
Estrasse
la sciarpa del ragazzino.
Emma
annuì. – Facciamolo. Lily... rimani qui con tua
madre. Ci pensiamo io e Regina.
-
E
Percival? – chiese Lily.
-
Percival vuole me. – rispose Regina, con risolutezza.
– Sono io il suo conto in
sospeso.
La
scia luminosa dell’incantesimo di localizzazione le condusse
direttamente al
porto. Lì era ormeggiata una grande nave, con le vele
rossastre come il cielo
dell’Oltretomba e stracciate. Il legno era scuro e consunto.
Lungo le fiancate,
le bocche dei cannoni erano arrugginite. A prua, una figura femminile,
con i
capelli al vento e un serpente ad abbracciarne il corpo sinuoso,
guardava verso
l’orizzonte.
Sul
ponte, Henry si destò, ancora confuso. Batté le
palpebre più volte per mettere
a fuoco l’ambiente.
-
Henry! – gridò Regina, arrivando di corsa.
Percival
afferrò il ragazzino per il colletto e lo costrinse ad
alzarsi in piedi. Polsi
e caviglie erano legati. Il cavaliere sguainò la spada che
un tempo aveva
cercato di usare contro di lei e gliela appoggiò sulla gola.
Emma
si fermò con un piede già sulla scala che
conduceva sulla nave.
Udì
una risata divertita e un altro uomo comparve da sottocoperta. Non
aveva armi.
I capelli castano chiaro erano tutti arruffati.
Regina
ebbe un tuffo al cuore. – William?
-
Salve, Regina.
Henry
spostò la testa a destra e a sinistra, si dimenò,
ma Percival lo tenne ben
stretto.
-
È
ancora vivo, vedi? – disse William, indicando il ragazzino.
– Il tuo Daniel è
ancora vivo. La domanda è: per
quanto ancora? Basterebbe un graffio con la lama di quella spada per
spedirlo
dritto dalle Anime Perdute. La lama è stata bagnata nelle
acque di quel fiume.
Emma
e Regina si scambiarono un’occhiata.
-
Non pensate neppure di usare la magia. – Il fratello di
Daniel aveva un’aria
annoiata. Nessuna esitazione. Si sentiva in netto vantaggio.
– Se lo farete,
Percival potrebbe essere più rapido di voi. O potrebbe
ferirlo accidentalmente.
Quindi... vogliamo giungere ad un accordo?
-
Quale accordo? – chiese Emma, mentre la sua mente lavorava
senza sosta alla
ricerca di un modo per raggirare quei due.
-
Regina sale sulla nave. Si consegna. A noi. – disse Percival.
Sogghignò
compiaciuto, come al ballo, prima di rivelare la storia del ragazzino a
cui la
Regina Cattiva aveva sorriso, dopo aver portato morte e distruzione nel
suo
villaggio.
-
A
noi. – ribadì William. – E noi, in
cambio, lasciamo il ragazzo. In caso contrario,
sapete che cosa accadrà.
Regina
mosse un passo verso di loro. Emma la prese per un braccio.
-
Emma, non abbiamo scelta.
-
C’è sempre un’altra scelta, Regina.
-
Non questa volta. È nostro figlio...
Scosse
il capo con forza. - Forse se uniamo i nostri poteri possiamo fermarli.
-
Percival potrebbe essere più veloce. Hai sentito? Basta un
graffio. Henry non
può pagare per le mie colpe. William... è il
fratello di Daniel. – le spiegò. –
Sono stata io, Emma. Si trova quaggiù perché
l’ho ucciso io.
-
Intendo
contare fino a cinque. – disse William. – Percival
ha una mano forte e ferma,
ma la lama è ad un paio di millimetri dalla gola di Daniel.
Basterebbe...
Regina
alzò entrambe le mani.
-
Anche
l’Oscuro. – disse Percival, in tono riflessivo.
– Porta l’Oscuro con te. Salite
tutte e due. È un vero peccato che non ci sia anche la mia
assassina. Ma ci
sarà tempo per stanarla.
-
Lascia Emma fuori da questa storia. – replicò
Regina.
-
No, Regina. Sono d’accordo con lui. – intervenne
William, con le mani intrecciate
dietro la schiena. - Ti prego, Oscuro. Vieni avanti. Il figlio
è anche tuo. E
credo che tu tenga molto alla Regina. E al tempo stesso dovresti
avercela con
lei. Ti ha tradita. Vieni e goditi lo spettacolo.
Emma
li raggiunse senza pensarci. Henry fissò le sue madri,
angosciato.
A
Regina sembrò che il ponte della nave fosse lontano anni
luce. Il cuore le
rimbombava in testa e il sangue le si rimescolava nelle vene. Non
voleva che
suo figlio la vedesse morire. Non voleva nemmeno che Emma la vedesse
morire, ma
non poteva nemmeno permettere che Henry corresse un rischio terribile
per colpa
sua.
Τremotino
aveva ragione quando aveva detto che l’Oltretomba era un
posto orrendo. Ovunque
si girasse i conti in sospeso la tormentavano. E li aveva voluti. Li
aveva voluti
lei. William, Percival, i ragazzini al cimiero... Marian. Persino Emma.
Sei
stata cattiva troppo a lungo, le
sussurrò Cora. Ora ne paghi le
conseguenze.
-
In
ginocchio, Regina. – disse William.
-
Libera nostro figlio, prima. – rispose lei, furiosa.
-
In
ginocchio. Lo farò quando avremo finito.
Emma
occhieggiò Percival e la sua spada. Henry la guardava con
gli occhi sgranai.
Regina
si inginocchiò davanti a William, che aveva gli occhi vivaci
e scintillanti di
un bambino pronto ad incendiare la tela di un ragno per studiare la
reazione
dell’insetto.
Nella
mano destra di William comparve una spada. La fece roteare. –
Sai, mi dispiace
che tuo figlio debba assistere. Ma l’hai voluto tu.
Emma
pensava di poter disarmare almeno uno di loro. Con il suo potere, forse
poteva
farcela. Ma due... in quel luogo la magia non funzionava nel solito
modo. Avvertiva
la propria magia, ma anche quella del regno di Ade. Era vigile.
Aspettava che
ci provasse, senza aiuti, stavolta. Si sentiva lenta e stordita. Henry
era in
pericolo. La lama di quella spada era vicinissima alla sua pelle.
Regina stava
per essere giustiziata...
-
Questo
è per mio fratello. – disse William, impugnando la
spada con entrambe le mani.
Alzò gli occhi azzurri sul complice. – Questo
è per mio fratello... e per il
bambino a cui una volta sorridesti dopo che i tuoi soldati avevano
ucciso suo
padre, lasciando il suo corpo nel fango.
Regina
guardò Percival e notò che il bambino che ormai
era un uomo adulto stava...
sorridendo. Naturalmente.
William
sollevò la spada, preparandosi a mettere tutta la forza che
aveva nel colpo che
le avrebbe mozzato il capo.
“Sei
stata troppo cattiva. Per troppo tempo.”
La
freccia sibilò vicino all’orecchio di Emma e
centrò William al collo. Lui
lanciò un grido gorgogliante, più per
l’impatto improvviso che per il dolore.
La mano lasciò cadere la spada.
Emma
non riusciva a capire bene cosa fosse successo, ma capì che
doveva approfittarne.
Percival aveva allontanato la lama dal corpo di Henry, preso dallo
sconcerto.
Emma usò la magia per torcergli il polso. Compì
uno sforzo titanico, che la
costrinse a piegarsi su un ginocchio, ma alla fine Percival gemette.
Henry gli
rifilò un gomitata nello stomaco, spezzandogli il fiato e
corse verso sua
madre.
Regina
si girò di schiena e si allontanò strisciando da
William. Lui annaspava e
barcollava. Dalla ferita non zampillava nemmeno una goccia di sangue,
eppure
l’uomo crollò in ginocchio, nella stessa posizione
in cui si trovava Regina
poco prima. Gli occhi azzurri, identici a quelli di Daniel, ma
brillanti di
follia, ruotarono, come cercandola, poi scomparvero, mostrando solo il
bianco
della sclera.
Una
seconda freccia e poi una terza sfiorarono i capelli biondi di
Percival, che si
abbassò d’istinto e poi si gettò
nuovamente sulla spada. Emma prese quella di
William, voltandosi nel momento esatto in cui il cavaliere
vibrò il fendente.
Emma lo parò a fatica. Il colpo riverberò nel suo
braccio, irrigidendole il
muscolo.
Vide
Marian che sfilava un’altra freccia dalla faretra e la
incoccava.
Percival
menò un poderoso manrovescio ed Emma rotolò sulle
assi del ponte.
William
si afflosciò. Un suono orrendo proruppe dalla sua gola, un
suono raspante, di
chi sta soffocando nel suo stesso sangue. Infine il suo corpo si
dissolse.
Diventò acqua, che scivolò tra le fessure delle
assi.
Emma
respinse nuovamente il cavaliere. Percival era rapido e agile, non
appena Emma
parava un colpo, gliene rifilava un altro.
-
Facciamola finita, Percival. – disse Emma, mentre le lame si
incrociavano. –
Ormai sei solo.
-
E
tu sei morta, come me. – ribadì lui, spingendo e
avvicinando di più la spada al
suo viso. – Un piccolo aiuto per passare oltre ti serve,
vero? Non andrai in un
bel posto. Gli Oscuri non ci vanno mai.
Emma
strinse i denti. Usò tutta la sua energia e la sua furia per
spingere verso
l’alto con le braccia e puntando un piede sul ponte della
nave. Percival
barcollò, sorpreso dalla sua forza e indietreggiò
di un paio di passi. Allora
Emma parò un colpo basso, ruotò rapidamente verso
destra e, dando le spalle al
cavaliere, eseguì alla cieca un affondo. Percival
reagì in ritardo. La lama lo trafisse
al petto, affondando attraverso gli abiti per quasi tutta la sua
lunghezza.
Percival
emise un rantolo. La spada di Emma non era incantata come la sua, ma il
colpo
l’aveva spiazzato. L’arma con cui aveva minacciato
Henry cadde. Emma spinse una
gamba in avanti e gli affondò il tacco dello stivale nel
ventre. Percival arretrò
e perse l’equilibrio. Emma si affrettò a prendere
la spada che aveva perduto.
-
Mamma! – gridò Henry ad Emma.
-
Sto bene. – rispose lei, respirando a fatica.
Puntò la spada incantata al collo
del cavaliere.
-
Che cosa stai aspettando? – domandò Percival,
rabbioso, guardandola con aria di
sfida. – Finiscimi, Oscuro.
“Finiscimi.”
Finiscilo,
Emma Swan, suggerì
una vocetta fredda.
Emma
battè le palpebre per scacciarla.
Finiscilo.
Voleva fare del male ad Henry.
Finiscilo.
Per
qualche terribile momento, ebbe la sensazione che la coscienza oscura
che
l’aveva posseduta per settimane le avesse invaso di nuovo il
cervello,
spandendosi come inchiostro nero. La respinse e avvicinò di
più la punta della
lama al viso di Percival.
Poi
avvertì un’altra presenza. Questa sembrava
più cauta. Non invase la sua mente,
ma si limitò a penetrarvi con prudenza, quasi stesse
tastando il terreno.
Lily.
L’altra
si ritrasse, sorpresa. Forse aveva solo tentato di trovarla. Forse
aveva voluto
accertarsi di esserne ancora capace. E ci era riuscita. A fatica.
-
Non deve finire così. – disse Emma. Vide Regina
che si accostava a loro, con
Henry al fianco. – Puoi venirne fuori.
-
Venirne
fuori? Credi che lo voglia? – domandò Percival,
sprezzante e persino incredulo
dinanzi alle sue parole. – Lei mi ha rovinato la vita. Ha
distrutto la mia
casa. E mi chiedi di venirne fuori?
-
Regina non è più la persona che credi.
– Emma le lanciò un’occhiata e le
rivolse un leggero sorriso.
Anche
Marian si avvicinò, una freccia ancora incoccata
nell’arco. Quelle frecce erano
rosse, proprio come le nuvole che incombevano
sull’Oltretomba.
-
Se
le dessi una possibilità, te ne renderesti conto.
– continuò Emma.
-
Lei
non merita una possibilità.
Regina
aprì la bocca per dire qualcosa, ma un attimo dopo Percival
non c’era più.
Emma
si guardò intorno, sconcertata. Solo un secondo prima, era
lì, steso sulle assi
del ponte.
-
Dov’è andato? – domandò
Marian.
-
Non ne ho la minima idea. – rispose Emma.
Percival
precipitò nel vuoto, urlando. Pensò che, alla
fine, il maledetto Oscuro
l’avesse ucciso definitivamente, condannandolo alla pena
eterna. Pensò di
essere spacciato. Pensò che avrebbe continuato a precipitare
in quel buio per
sempre e maledisse sia Emma che la Regina Cattiva. Maledisse anche
William, che
l’aveva trascinato in un’impresa così
folle. Maledisse Lily, che l’aveva
bruciato vivo. Maledisse persino Artù.
Ma
toccò il fondo. Rotolò su una piattaforma sospesa
sul fiume delle Anime
Perdute. Le acque non erano calme, ma ruggivano sotto di lui. Le grida
e i
sospiri dei gusci vuoti che si agitavano senza posa erano stridenti.
Erano come
artigli che avevano deciso di arpionare il suo cervello per
distruggerlo.
-
Che tristezza. – disse Ade, comparendo su uno sperone di
roccia che si protendeva
sul Fiume. – Davvero un tentativo idiota, Sir Percival. Ora
capisco che come re
avevate un mentecatto. I veri cavalieri non si comportano
così.
Un
cerchio di fuoco si accese, disegnando i bordi della piattaforma. Le
fiamme si
levarono alte, riflettendosi nell’acqua e sulle pareti nere
del covo di Ade.
-
Quaggiù avrete modo di riflettere sul vostro operato. E
almeno non mi sfuggirete.
– Il Signore degli Inferi aprì una mano e in essa
comparve la spada che aveva
usato contro il figlio di Emma e Regina.
Percival
si alzò in piedi. – Che cosa intendete farmi?
Volete torturarmi?
-
Perché no? – rispose Ade. – Sapete, odio
quando quell’orologio si mette a ticchettare.
Significa che un’anima ha deciso di spiccare il volo e... non
è ammissibile.
Devo evitare che succeda troppo spesso.
Il
cerchio di fuoco iniziò a stringersi. Percival
indietreggiò, alzando un braccio
per proteggersi da una lingua fiammante che si era buttata su di lui e
voleva
acciuffarlo.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
Regina spalancò le porte delle sue stanze ed
entrò,
arrancando. Il lungo soprabito rosso era infangato. La spalla le doleva
ancora
e lei avanzò verso lo scrittoio, instabile. Alcune ciocche
di capelli erano
sfuggite all’elaborata acconciatura e le dondolavano davanti
al viso.
Girò
una chiave e aprì il cassetto.
“Dov’è?”,
domandò Regina, frugandovi all’interno.
“Dove diavolo è?”
La
sua testa era ancora confusa, con le mani sporche
del sangue di William, che aveva seppellito nella Foresta dei Morti,
vicino al
punto in cui lui aveva scavato la fossa per intrappolarla.
Aprì
il secondo cassetto e trovò lo scrigno in
legno, nel quale era custodito l’anello. Prese il dono che
Daniel le aveva fatto
quando lei era ancora la ragazzina che pensava di poter vivere felice
con il
ragazzo che amava.
“Daniel...
mi dispiace.”, disse, ripensando al
corpo senza vita di William, accasciato contro un albero. “Mi
dispiace
davvero.”
Ripose
l’anello al suo posto. Poi si tolse il soprabito sporco per
prenderne un altro
dall’armadio.
“Guardie!”,
gridò. La magia guarì in un baleno
la spalla dislocata.
Due
uomini si affrettarono ad entrare e ad
inchinarsi.
“Preparatemi
il cavallo. Biancaneve non è
lontana.” Strinse i pugni, lasciando che quella sensazione
così familiare le
invadesse il sangue. Rabbia, odio, frustrazione. Dolore. “E
questa notte... non
troverà pace.”
Oltretomba. Oggi.
Malefica
notò che gli occhi di sua figlia avevano assunto una
colorazione diversa,
mentre tentava di vedere attraverso gli occhi di Emma Swan. Aveva la
fronte
imperlata di sudore per lo sforzo. Lo sguardo assente era fisso. Non
batteva
neppure le palpebre.
Non
la interruppe. Si limitò ad osservarla, sentendosi
incredibilmente orgogliosa
di quello che Lily sapeva fare.
-
È
sparito. – mormorò, rientrando in sé.
-
Chi?
-
Percival. È sparito. Non sono riuscite a... – Lily
barcollò e sua madre la sostenne
prima che potesse cadere.
-
Emma e Regina stanno bene? – chiese Malefica, mentre la
stringeva a sé e le
scostava qualche ciocca di capelli dalla fronte.
-
Sì... sì, loro stanno bene. E anche Henry. Ma
Percival si è come volatilizzato.
Malefica
abbassò il viso e posò un bacio fra i suoi
capelli. Lily si scostò, voltandole
le spalle.
-
Va
tutto bene?
-
Sono io che dovrei chiederlo, non pensi? – Lily rispose
usando un tono seccato.
-
Beh... avete fatto un ottimo lavoro.
Lily
rivolse uno sguardo alla madre. Le lunghe ciglia tremarono sugli occhi
scuri
della ragazza. – Sì, dopo che uno di quegli esseri
ti aveva ferita perché hai
ben pensato di aiutare me.
-
Cosa avrei dovuto fare? Lasciare che ti uccidesse?
-
Potevo
farcela.
Lily
la fissò in viso e vide la mortificazione nelle sue iridi
azzurre. Quando parlò
di nuovo, la voce di Malefica era cupa. Severa. – Non avevo
questa impressione.
Lily
tacque.
-
Io
sono tua madre. E anche se è difficile per te capirlo...
quello che fanno quasi
tutte le madri è proteggere i propri figli.
-
Io
non... – cominciò Lily. Si morse, nervosa, il
labbro inferiore. – Non ho mai
avuto bisogno di questo.
Malefica
attese il resto.
-
Non ho mai avuto bisogno di qualcuno che mi proteggesse. Ho sempre...
fatto tutto
da sola. – continuò, brusca, con una punta di
disperazione. – Hai visto che
cosa succede quando qualcuno cerca di aiutarmi. Sei quasi morta.
-
Eri in pericolo. Sono pronta a rischiare per te. Ho già
fallito troppe volte. –
Le accarezzò i capelli, ma ritrasse quasi subito la mano,
sapendo che certi
gesti la innervosivano ancora di più. – Quando sei
nata non ho saputo proteggerti.
A Camelot... ho permesso che Emma ti trasformasse, riempiendoti di
oscurità.
-
Volevi salvarmi, l’ho capito.
-
Sono stata egoista.
Lily
non rispose. Alzò un sopracciglio.
-
Ho
molto da farmi perdonare. Ma tu devi... abituarti ad una madre che
vuole proteggerti.
– Malefica le sorrise, per incoraggiarla.
Lily
non era sicura che sarebbe riuscita ad abituarsi tanto presto, ma un
sorriso
riluttante le incurvò gli angoli della bocca.
Provò una sensazione di calore,
un palpito nella mente. Lo avvertì come una cosa del tutto
naturale, qualcosa
che la spaventava, ma che era anche normale, qualcosa che le era
mancato per
trent’anni, persino quando era la madre adottiva ad
abbracciarla o a toccarla.
-
Τi
sto complicando la vita. – disse Lily.
Malefica
voltò la testa di scatto. – Lily... non hai
affatto complicato la mia vita.
L’hai completata.
Marian
sedeva sul retro della casa degli Azzurri, a guardare la strada vuota e
le
ombre della notte che si facevano sempre più lunghe e buie.
David
e Killian avevano portato con loro l’uomo arrivato con il
tornado, che era un
portale. Si chiamava Fiyero Tiggular. Aveva la pelle nerissima e
ricoperta di
tatuaggi a forma di diamante. Veniva da Oz e lei era convinta che non
portasse
buone notizie. Le facce degli altri parlavano chiaro.
Il
bambino che aveva consegnato il messaggio dei due rapitori era stato
restituito
al padre. In ultimo, mentre Marian gli offriva conforto, Aidan,
così si
chiamava, aveva parlato di una nave. Quando l’uomo di nome
Percival l’aveva
reclutato, lui lo aveva incontrato al porto e aveva visto la grande
imbarcazione. Marian si era detta che Henry poteva essere là
e non alla
libreria, dove di certo avevano preparato un’altra trappola.
Regina
si avvicinò, con molta cautela.
Marian
alzò gli occhi.
-
Sono...
– iniziò Regina. Si schiarì la voce.
– Oggi mi hai salvato la vita.
-
A
quanto pare, sì.
-
Potevi non farlo. Immagino quanto ti sia costato...
Marian
strinse gli occhi. - Non mi è costato nulla. Ho fatto
ciò che era giusto fare.
Seguì
un momento di incertezza. Regina si sentiva confusa.
-
Regina...
sono una madre anch’io. Ero... una madre. – disse
Marian. – So che cosa
significa... fare di tutto per il proprio figlio. Riconosco quello sguardo. È una cosa
che non puoi
fingere. Ed io l’ho visto nei tuoi occhi.
Regina
avrebbe voluto dire qualcosa, ma si limitò a fissarla.
-
Molto
tempo fa, quando mi hai catturata, ti ho detto che mi dispiaceva per
te. Perché
se avessi avuto una famiglia, qualcuno da amare... avresti capito che
tutto ciò
che stavi facendo era sbagliato. – Marian si alzò.
La guardava dritta negli
occhi. Doveva essere stata una donna fiera e coraggiosa, che non
abbassava mai
la testa nemmeno davanti al pericolo.
-
Ti
ho chiamata mostro e tu ti sei fatta beffe di me.
-
Mi
dispiace, io... – iniziò Regina. La
osservò, smarrita e colta da un vuoto
improvviso e doloroso.
-
Non dispiacerti di qualcosa che nemmeno ricordi. –
ribatté Marian, seccata. –
Emma ha cambiato gli eventi di quei giorni, salvandomi... provando a
salvarmi.
Ma non ti ricordavi di me nemmeno prima. Ne hai uccisi talmente tanti...
Regina
si sentì punta sul vivo. – Non sono più
quella persona.
-
No. Ti credo. – rispose lei. - Non sei più un
mostro. Hai trovato una famiglia.
Hai un figlio che ti ama, degli amici... sei venuta fino a qui per
aiutare
Emma. Lei... si fida di te. Molto. E Robin... ha visto qualcosa in te.
Regina
non voleva sapere cosa provasse Marian nel pronunciare il nome del
marito in
presenza della donna che l’aveva uccisa.
-
Potevo decidere di odiarti. – continuò Marian.
– E l’ho fatto. Per parecchio
tempo, mentre ero rinchiusa in quel labirinto.
-
Lo
so.
-
Ma
scelgo di non marcire nel passato. Se voglio davvero passare oltre, non
posso
sprecare il mio tempo odiando qualcuno per ciò che
è accaduto. – La oltrepassò,
lasciando là, a scrutare la notte che calava
sull’Oltretomba.
“Scelgo
di non marcire nel passato. Se voglio
davvero passare oltre, non posso sprecare il mio tempo odiando qualcuno
per ciò
che è accaduto.”
Marian
era più forte di quanto aveva immaginato. Di certo, era
stata più forte di lei.
Lei
era precipitata in un turbine di oscurità, fatto di odio,
rancore, sete di
vendetta, dolore. Aveva lasciato che i ricordi si trasformassero in una
moltitudine di frammenti di vetro. Aveva lasciato che quei ricordi la
pugnalassero, in modo da alimentare la sua furia. Così aveva
sterminato
villaggi interi e perseguitato Biancaneve. Così aveva ucciso
suo padre.
-
Regina.
Lei
sobbalzò.
Emma
sorrise, accostandosi a lei. – Ehi. Tutto bene con Marian?
-
Sì. – rispose Regina. – Meglio di quanto
credessi. Come sta Henry?
-
Dorme. Era... sfinito.
-
E
tu?
Emma
incrociò il suo sguardo. Gli occhi nocciola fissarono gli
occhi verdazzurri. –
Sto bene.
Lei
non smise di osservarla e Regina si sentì avvolgere dal
calore. – Cosa?
-
Sono
contenta che tu stia bene. – Lo disse con un tono fermo e
dolce.
Deglutì.
-
Henry non può perdere anche te.
-
Henry non può perdere nessuna di noi, Emma.
In
Regina c’era sempre qualcosa di duro e autoritario. La sua
volontà era così
forte che era difficile resistere quando insisteva.
-
Regina, devi promettermi una cosa. – ricominciò
Emma, seria.
-
Un’altra? – Impallidì, avvertendo un
peso che le gravava sul petto.
“Ricordi
la promessa fatta a Camelot? Che avresti fatto tutto il possibile per
eliminare
l’oscurità?”
“Ho
bisogno che tu mantenga quella promessa. E devi giurarmi che non lo
dirai a
nessun altro.”
Si
sforzò di dominare il tremito
che la scuoteva. La osservava, attenta, immobile, con uno sguardo fisso
e
scuro. Sentiva in bocca il sapore della paura, la sentiva battere alle
porte
della propria mente.
-
Questa volta è diverso. Non è una
punizione. – replicò Emma.
Regina
udì le sue stesse parole
riecheggiarle nella testa.
“Hai
detto che ci meritiamo una punizione. È questa? Questa
è la mia punizione per
non aver avuto abbastanza fiducia in te a Camelot? È la
punizione per averti
rinchiusa in quella segreta?”
-
Oh. Quindi quella lo era. – constatò Regina.
-
L’ho fatto perché non avevo altra scelta, Regina.
Credevo che uccidendo me
avremmo distrutto l’oscurità per sempre.
– disse Emma. – Ma io... dentro di me,
ero furiosa... per quello che avevi fatto a Camelot e... sì,
volevo punirti.
Regina
la fulminò con un’occhiata, altrettanto furibonda.
-
Ma
ora... devo chiederti di pensare a nostro figlio e alla mia famiglia.
Devi portarli
via da qui, se le cose si mettono male. Devi portare via tutti.
Bastò
l’intensità di quegli occhi a toglierle la
concentrazione e il respiro. Quegli
occhi che sembravano così verdi, così misteriosi.
Eppure anche così limpidi.
Regina avvertiva il battito accelerato del proprio cuore. Le tuonava
nelle tempie
e il sangue le ribolliva nelle vene. Era spaventata da quella
richiesta, anche
se la capiva, anche se sapeva che al suo posto le avrebbe domandato la
stessa
cosa. Era turbata da quanto la impaurisse l’idea di tornare
indietro senza
Emma. Senza la madre di suo figlio. Senza la Salvatrice. Senza...
-
Regina.
Devi promettermelo. – insistette Emma. – Se non
potrò tornare indietro con voi,
devi promettermi che lo farai.
Regina
si passò una mano tremante sulla fronte. Quando rispose la
sua voce suonò
secca. – D’accordo.
D’accordo, lo farò.
Sei soddisfatta adesso?
Emma
le sorrise, senza badare alla sua rabbia. Le prese una mano,
istintivamente e
le carezzò con il pollice l’interno del polso.
Provò
un nodo alla gola. Una parte di lei avrebbe voluto ritrarre la mano,
perché
aveva come la sensazione che Emma le facesse qualcosa quando la toccava
in quel
modo. Gli occhi di Regina si posarono sulle sue labbra. La forma di
quella
bocca la affascinava, insieme alla luce che sembrava emanare con tanta
chiarezza. Le mise una mano sulla guancia, tracciò con un
dito il contorno ben
delineato della mascella, poi risalì al mento, saggiando la
pienezza del labbro
inferiore.
Emma
la fissava, con gli occhi leggermene sgranati. Il suo cuore ebbe un
sussulto e
sentì un calore vago trasformarsi in una sensazione
distinta, quasi dolorosa. La
mano che stava accarezzando il polso di Regina si sollevò e
scivolò dietro la
sua nuca.
Regina
non ebbe la forza di ritrarsi e non volle neppure cercarla, quando Emma
attirò
a sé la sua testa.
-
Emma... – disse solo.
In
quel momento la bocca di lei toccò la sua e Regina la
percepì fino alla punta
dei piedi. Sussultò alla tenerezza di quel gesto, che era
anche deciso. Regina
incollò la bocca alla sua e la convinse ad aprirsi.
L’aria
parve farsi elettrica. Non esisteva più
nient’altro che le labbra di Emma sulle
sue. Regina si aggrappò alle sue spalle.
_______________________
Angolo
autrice:
Salve
;) Come sempre, voglio ringraziare quelli che sono ancora qui a leggere
la mia
storia. So che volete più Swan Queen e spero che questo
capitolo vi sia
piaciuto.
La
storia di William, il fratello di Daniel, è una delle
vicende narrate nel
fumetto Out of the Past. La storia
si
chiama Ghosts.
|
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Capitolo 7 *** 7. ***
7
“I
am a stag: of seven tines,
I
am a flood: across a plain,
I
am a wind: on a deep lake,
I
am a tear: the Sun lets fall,
I
am a hawk: above the cliff,
I
am a thorn: beneath the nail,
I
am a wonder: among flowers,
I
am a wizard: who but I
Sets
the cool head aflame with smoke?”
[Song
of Amergin]
Oltretomba.
La
notte
nel regno di Ade era nera come la pece.
Un’oscurità terribile e tinta di rosso
porpora. Le nuvole sembravano più basse e incombenti. Le
strade erano deserte e
ogni edificio era immerso nel buio. Nessun lume. Nessun bagliore.
Però
Uncino aveva la sensazione che molti occhi lo stessero fissando, mentre
camminava, facendo attenzione a dove metteva i piedi. Si guardava
costantemente
intorno, sempre all’erta.
Posò
la mano sulla maniglia di una porta e spinse. Si aprì e il
suo arrivo fu
annunciato da una breve scampanellata. Si fermò poco oltre
la soglia, cercando
di mettere a fuoco l’ambiente.
-
C’è
qualcuno? – disse.
Non
ottenne risposta.
Gli
oggetti nelle vetrine e sugli scaffali del negozio di Gold erano solo
forme
vaghe e sinistre. Sul bancone polveroso c’era un cubo
sormontato da una pietra
rossa. Il Vaso di Pandora. Killian si avvicinò lentamente,
circospetto.
-
Dunque
siete venuto, capitano. – Il Coccodrillo scostò il
tendaggio che separava il
negozio dal retro e fece il suo ingresso. Calmo, placido come un vero
coccodrillo che scivola silenzioso sotto il pelo dell’acqua e
punta la preda con
occhi maligni e furbi.
-
Sono
venuto per sentire che cos’hai da dirmi. – rispose
Killian, acidamente. - Sono
abbastanza sicuro che i tuoi accordi non mi interesseranno.
-
Io
non ne sarei così convinto. Non avete ancora sentito la
parte migliore.
-
Non
esistono parti migliori, con te.
-
Tuttavia
siete qui. Ne sono lieto, perché quello che ho da dirvi
riguarda anche voi. –
asserì il Coccodrillo, con malcelata soddisfazione.
-
Arriva al dunque, allora.
-
Sì.
– disse un’altra voce maschile alle spalle di
Killian. - Arriviamo al dunque.
Immagino che al capitano manchino il rum e la sua donna.
Killian
sollevò l’uncino, girandosi di scatto, pronto a
colpire.
La
prima impressione fu quella di un ragazzino che aveva deciso di
infilarsi gli
abiti del padre per gioco. Era in giacca e cravatta, elegante e posato
come
Tremotino. Ma era impossibile non scorgere l’astuzia e la
malvagità in quegli
occhi verdi.
Pan
rise, divertito. – Non siate così precipitoso,
capitano.
-
Tu,
maledetto demonio. – sibilò Killian.
-
Già,
io. L’uncino non vi servirà. Potreste anche
provarci, ma perdereste tempo. –
Pan sfiorò il Vaso di Pandora con le dita. –
Parliamo.
-
Vi
ho già detto che non farò niente che possa
nuocere ad Emma. – replicò Killian,
risoluto, guardandosi bene dall’avvicinarsi ai due.
-
Non
siamo qui per parlare di Emma, infatti. Capitano, perché
dovremmo fare qualcosa
per nuocere ad Emma Swan? Vi ho aiutati a liberarla. –
osservò Tremotino.
-
E
abbiamo perso Milah!
-
Un
imprevisto. Si trova nelle prigioni di Ade. Possiamo ancora
recuperarla. Ma
prima... abbiamo altro a cui pensare. Mettetevi comodo.
Killian
non si mise affatto comodo. Il suo pensiero andò
improvvisamente a Belle. Lei
era a Storybrooke, ignara di ciò che il marito stava
facendo. Ignara di quello
che Gold era diventato.
Di
nuovo.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Belle!”, gridò Tremotino. “Si
può sapere dove
siete finita?”
Belle
lo ignorò e lottò per riuscire ad
allacciarsi la mantella alla base del collo.
“Oh,
eccovi, finalmente. Dove credete di
andare, mia cara? Pensavate, per caso, di uscire?”, chiese
l’Oscuro,
appoggiandosi alla parete, con le braccia conserte.
“Sì,
è proprio ciò che intendo fare,
Tremotino.”,
rispose lei, armeggiando ancora con la spilla, che aveva deciso di non
collaborare
e di non chiudersi. “Abbiamo bisogno di provviste. O almeno,
io ne ho bisogno.
Quindi andrò al mercato. Non preoccupatevi. Sarò
di ritorno il prima possibile.”
“Ovviamente
sì.” Scivolò alle sue spalle e
allungò le mani, prendendo la spilla. In un baleno, le
allacciò la mantella
verde. “Non potreste andare lontano, del resto. La mantella
è incantata. Se
scappate, verrò a saperlo.”
“Mi
chiedo quando capirete che sono una donna
di parola. “, fu la risposta di Belle. “Ho promesso
che sarei rimasta con voi e
così sarà.”
Tremotino
non commentò quell’esternazione. Le
sistemò meglio il cappuccio sul capo. “Badate a
non perdervi nella foresta. E
non prendete freddo. Non vorrei mai che qualche malanno vi costringesse
a letto.”
Belle
uscì, portandosi un cestino e una sacchetta
piena di monete. “Non converrebbe nemmeno a voi. Questo
castello finirebbe col
cadere a pezzi senza di me.”
Il
villaggio era in fermento. I mercanti
avevano esposto la merce poco dopo l’alba e si sgolavano per
attirare i clienti.
Alcuni soldati pattugliavano le strade.
Belle
non impiegò molto tempo a rendersi conto
degli occhi puntati su di lei. Due donne, una delle quali con un
bambino
piccolo tra le braccia, la fissarono a lungo e poi bisbigliarono
qualcosa
sull’Oscuro. Un paio di uomini si fecero da parte, come se
temessero di
intralciare Tremotino in persona.
Belle
li ignorò e si avviò verso il banco della
verdura. “Salve, Robert.”
“Oh!”,
esclamò lui, levandosi il cappello e iniziando
a sudare copiosamente. “Belle. Che piacere vedervi. Cosa
posso fare per voi?”
“Ehm,
veramente ero io il primo della fila...”,
cominciò un uomo.
Il
mercante gli diede una spinta tale che
l’altro quasi finì gambe all’aria.
“Dovrai aspettare. Prima le signore!”
“Posso
attendere, Robert. Non ho fretta. Servi
prima lui, ti prego.”, rispose Belle, gentilmente.
“No!”
Robert scosse il testone calvo, risoluto.
“Cosa cercate? Oggi ho tutto. Qualsiasi cosa. Non esitate a
chiedere!”
“Mi
servono delle patate. Se aveste qualcuna di
quelle patate gialle...”
“Le
ho! Beh, non molte... però le ho. Potete
averle tutte.” Robert non se lo fece ripetere. Prese un
sacchetto e mise dentro
tutte le patate gialle che erano rimaste sul bancone.
Belle
si costrinse a non badare all’agitazione
che stava creando e pagò il mercante, infilando il sacchetto
nel cestino.
‘Tremotino’,
pensò, roteando gli occhi.
“Largo!
Fate largo!”
La
folla si divise subito in due ali, lasciando
passare un carro trainato da un paio di muli stanchi e magri. Un
soldato in
cotta di maglia ed elmo guidava il carro, frustando gli animali.
Sistemato sul
retro, sopra ad un mucchio di sacchi di farina, c’era un uomo
ferito ad una
gamba.
“Muovetevi,
bestiacce! E voi fate largo! Non
vedete che è ferito?”
Una
vecchia mormorò qualcosa a proposito degli
orchi che infestavano le regioni a nord. Belle si fece da parte,
osservando il
giovane. La gamba destra era stata fasciata, ma le bende erano
già intrise di
sangue ed erano sporche di terra. Il ragazzo era incosciente e aveva la
fronte
madida di sudore. Era anche incredibilmente pallido.
Era...
“Fermi!”,
gridò Belle, avvicinandosi al carro.
“Fermi, lo conosco!”
L’uomo
tirò le redini e i muli recalcitrarono. “Lo
conoscete?”
Belle
si sporse per guardare il ragazzo disteso
sul carro. Quello sollevò leggermente le palpebre,
fissandola con occhi verdi,
arrossati e opachi.
“Samuel?”
Le
palpebre si abbassarono di nuovo.
“Giocavamo
insieme quando eravamo bambini.”,
disse Belle.
“È
una ferita molto seria.”, le spiegò il soldato,
che era sceso dal carro. “Non guarisce. L’arma era
incantata. Lo stiamo
portando all’accampamento più in fretta che
possiamo.”
“Quanto
dista l’accampamento?”
“Due
giorni di viaggio.”
Belle
appoggiò una mano sul petto di Samuel.
Pensò febbrilmente per alcuni secondi, mentre la gente si
stava assiepando
intorno al carro per vedere meglio. Era chiaro che Samuel non sarebbe
mai
sopravvissuto altri due giorni in quelle condizioni. La benda andava
cambiata e
la ferita doveva essere curata in qualche altro modo. Inoltre, doveva
riposare
in un luogo sicuro.
“Io
posso aiutarlo.”, decise Belle.
Storybrooke.
Oggi.
-
Ehi,
Neal. - Belle si chinò sulla culla che era stata riservata
al figlio degli
Azzurri e accarezzò la pancia del bambino, che
gorgogliò qualcosa e socchiuse gli
occhi.
Roland
si avvicinò e infilò la testa tra le sbarre di
legno, osservandolo. Allungò la
mano, offrendo l’indice a Neal, che lo strinse leggermente
con le dita
minuscole.
-
Come
stai, Roland? – domandò Belle, scompigliandogli i
capelli scuri.
-
Le
fate fanno i biscotti al cioccolato. – rispose lui, sfiorando
la tutina azzurra
di Neal. Sul davanti, Mary Margaret aveva cucito un unicorno con la
criniera
dorata. – Quando torna il mio papà?
Belle
si diede da fare per trovare la risposta adeguata. – Presto.
Lui deve... deve
aiutare la tua sorellina. Vedrai che tornerà il prima
possibile.
Voleva
aggiungere qualcos’altro, rassicurarlo, ma le parole le
morirono in gola e si
rifiutarono di venir fuori. Intorno a lei, sembrava tutto normale. Le
fate
erano impegnate nelle loro attività. Alcune si occupavano
dei fiori in
giardino, altre tenevano d’occhio i bambini, altre ancora
rassettavano e
pulivano le stanze finché esse non risplendevano come
specchi. Erano tutte cose
che lei aveva fatto per Tremotino, molto tempo prima, quando ancora
viveva nel
suo castello.
Le
aveva detto che non sarebbe stato via tanto, ma era trascorsa quasi una
settimana e di lui non c’era traccia. La sera prima, spinta
da un sogno
distorto che l’aveva svegliata, si era recata sulle rive del
lago, che era la
porta per l’Oltretomba. Aveva guardato i raggi della luna
riflettersi sulle
acque calme e aveva atteso, sperando di vedere il fumo bianco che
annunciava
l’apertura dei cancelli, sperando di vedere la barca guidata
dal demoniaco
traghettatore con i suoi occhi cerchiati di fuoco. Sperando che
Tremotino
tornasse da lei.
Tornerà,
si
disse, decisa. Tornerà
insieme agli altri ed Emma sarà con loro.
Mantenne
la sua routine quotidiana e lasciò il convento delle fate
per recarsi da Granny
a prendere il pranzo. Quel giorno aveva ordinato anche qualcosa per
Merida, che
passava le sue notti alla centrale di polizia.
Posò
il sacchetto con i panini e la crostata alla frutta preparata da Granny
sulla
scrivania di David. Scrivania sulla quale Merida aveva comodamente
appoggiato i
propri piedi.
-
Ti
ho portato qualcosa da mangiare. – annunciò Belle.
Adocchiò Artù, disteso sulla
branda nella sua cella. Era sveglio. I suoi occhi verde chiaro erano
terribilmente vigili.
-
Beh... grazie. – disse Merida, afferrando il sacchetto e
sbirciandoci dentro.
-
Granny fa un’ottima torta. Dovresti provare anche gli
hamburger.
Artù
si alzò, facendo cigolare la branda e si sgranchì
il collo.
La
porta della centrale si aprì. Ginevra entrò senza
degnare di un’occhiata le due
donne presenti e si diresse verso la cella.
-
Ehi.
Aspettate. Non potete stare qui. – disse Merida.
-
È
mio marito. Certo che posso. – Ginevra sorrise
all’uomo nella cella. Aveva
risposto con un tono di voce calmo, annoiato persino. Privo di
qualsiasi
inflessione. Si muoveva come se stesse fluttuando, come se non ci fosse
niente
da vedere eccetto l’uomo che l’aveva legata a
sé con un incantesimo.
Artù
tese le mani tra le sbarre e prese quelle di Ginevra. – Mia
cara... sono felice
che tu sia qui. Finalmente qualcosa di bello.
Merida
roteò gli occhi. Provava solo repulsione per lui e teneva a
freno a stento il
desiderio di conficcargli una freccia in un ginocchio.
-
Presto sarò fuori da questa cella. Questa gente non sa con
chi ha a che fare. –
disse Artù, parlando alla moglie. Passò il
pollice sulle labbra di Ginevra con
una lieve carezza. – La pagheranno cara.
-
Con
chi abbiamo a che fare? Con un re senza regno. – rispose
Merida. Belle le posò
una mano sul braccio per trattenerla.
-
Camelot sarà anche stata distrutta, ma la ricostruiremo. Lo
abbiamo già fatto
una volta, vero? – disse Artù, sprezzante.
Ginevra
annuì.
-
Presto sarai tu quella senza regno. – disse Artù.
– Avresti dovuto uccidermi
quando ne avevi l’opportunità.
-
Io
non sono come te. – rispose Merida, duramente.
-
No.
Su questo sono d’accordo. Io sono un re. Tu... sei solo una
pessima imitazione
di ciò che dovrebbe essere una regina. Non sei stata nemmeno
capace di aiutare
tuo padre.
-
Non
parlare di mio padre!
Ma
Artù perseverò. – Almeno lui
è morto sul campo di battaglia. Tu avrai il
coraggio di combattere e morire?
-
Mi
stai sfidando? – chiese Merida.
-
Merida, no... – mormorò Belle.
-
Sì.
– rispose Artù. Lasciò le mani di
Ginevra per aggrapparsi alle sbarre della
cella. Il suo sguardo dardeggiava. La sua bocca era distorta in un
ringhio. –
Esigo un verdetto per singolar tenzone.
L’aria
sembrò addensarsi e riempirsi di pericolo e morte. Belle lo
leggeva nei
lineamenti di Artù, nell’intensità con
cui la guardava. Merida rimase
perfettamente immobile, senza distogliere lo sguardo
dall’uomo che aveva ucciso
re Fergus, infilzandolo alle spalle. Dall’uomo che la fissava
come un predatore
che pensava di aver costretto la vittima in un angolo.
-
Noi
due ci affronteremo. Oggi, al tramonto. Ti lascio scegliere il posto.
– Artù
sogghignò. – Se perdi, morirai. Farò in
modo che la tua gente abbia indietro la
sua regina. A pezzi. La tua adorata madre riceverà la tua
testa. I tuoi
fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché si inginocchieranno
a me.
Merida
aveva l’impressione che gli occhi le bruciassero nelle
orbite. Si sentiva
intorpidita e distaccata dal suo stesso corpo. – Non lo
faranno mai.
-
Lo
faranno. – ribatté Artù. –
Quando vedranno cos’è capitato alla loro sorella,
lo
faranno. In caso contrario, ciò che avranno in cambio
sarà la morte.
-
Parliamo di cosa accadrà se tu perderai.
Belle
notò che Artù non aveva la minima intenzione di
perdere e non pensava che
sarebbe successo. Finse di rifletterci. – Sentiamo. Cosa
succederà? Detta le
condizioni.
-
Verrai con me a Dunbroch. Come prigioniero. E sarai giudicato dopo un
processo.
Sarai giudicato non solo da me, ma anche dal mio popolo.
A
Belle gelò il sangue nelle vene. Stava ancora trattenendo
Merida per un
braccio. Lei era rigida come un tronco di legno, con gli occhi sgranati
e fissi
su Artù.
Il
prigioniero sorrise. – E sia.
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.
“Sapevo
che sareste tornata con qualcosa di più
di un sacco di patate o un po’ di frutta.”,
esclamò Tremotino, quando Belle
fece la sua comparsa sul viale sterrato che conduceva al castello.
Guidava un
carro e dietro ad esso giaceva un uomo ferito e pallido.
Belle
si affrettò a saltare giù e a correre
verso Tremotino. “Ha bisogno del vostro aiuto!”
“E
perché mai dovrei aiutarlo?”
“La
vostra magia è ciò che gli serve.
Morirà.
Lui è... era un mio amico.” insistette Belle. Il
soldato che lo stava
trasportando all’accampamento non aveva protestato quando si
era offerta di
guidare il carro, soprattutto sapendo dove voleva condurre il ferito.
Aveva persino
rifiutato il denaro che Belle gli aveva teso.
“La
vera domanda è: cosa ottengo io in cambio?”
Era
furibonda. Gli puntò contro un dito. “Niente.
È solo la cosa giusta da fare. Non siete in grado di
vederlo?”
Tremotino
sbirciò l’uomo sul carro. Si stava
lamentando nel suo stato di incoscienza. “La mia dimora non
è per gente come
lui.”
“Siete
orribile.”, fu la risposta di Belle. Si
scostò, con una smorfia. “Non me ne
starò qui ad aspettare che muoia. Provate
ad impedirmi di portarlo dentro, se ne avete il coraggio.”
Tremotino
ne avrebbe anche avuto il coraggio,
tuttavia scrollò le spalle. “Bene. Portatelo pure
dentro, allora. Ma non
aspettatevi che vi aiuti. Non lo ucciderò, ma
lascerò che sia il fato a
scegliere. Se morirà... morirà.”
“B-Belle?”
‘Non
lo ucciderò, ma lascerò che sia il fato a
scegliere. Se morirà... morirà.’
Belle
si voltò, udendo la voce smorzata di
Samuel, che giaceva nel letto, con la gamba posata su una pila di
cuscini.
Aveva cambiato la fasciatura, ma la ferita era ancora aperta.
Continuava a
sanguinare e non accennava a guarire. La pelle intorno ad essa era
violacea.
Belle aveva preso tutti i libri che parlavano di armi magiche e li
aveva
portati nella stanza di Samuel. Li aveva sfogliati a lungo, fino a
quando non
aveva trovato delle pozioni che potevano alleviare il dolore e farle
guadagnare
tempo. Ma non aveva idea di quale arma lo avesse ferito.
“Sì,
Samuel. Sono io... bevi.” Gli porse
dell’acqua, sorreggendogli la testa.
“Dove...
dove siamo?”
Belle
gli scostò ciuffi di capelli biondi dalla
fronte sudata. “Nel castello dell’Oscuro.”
“Oscuro?”
Si allarmò, spalancando i grandi
occhi verdi. “Siamo prigionieri?”
“No...
non proprio. Tu non sei un
prigioniero... ti ho trovato al villaggio e ti ho portato
qui.”, spiegò
Belle.
“Non
capisco.”
Belle
prese una sedia e si accomodò accanto al
letto. Gli raccontò tutto dall’inizio, ovvero da
quando le truppe di suo padre
avevano richiesto rinforzi contro gli orchi per proteggere i villaggi
vicini
fino al momento in cui Tremotino aveva proposto l’accordo.
“Belle...
questo è... non è possibile. Dobbiamo
andarcene. Siamo in pericolo.” disse Samuel, tirandosi su.
“Non
devi preoccuparti. Andrà tutto bene.
L’Oscuro ha promesso che non ti farà alcun male. E
credimi... saresti già morto,
se non fosse stato sincero.” Belle prese una pezza bagnata e
gliela passò sulla
fronte. Poi gli diede l’intruglio che aveva preparato.
“Bevi questo. Non
guarirà la ferita, ma dovrebbe abbassare la
febbre.”
“Sei
sempre... la ragazza gentile che
ricordavo.”, sorrise lui, prendendo la tazza dalle sue mani e
sfiorandole le
dita. Le sue erano molto calde. Bruciavano, persino. “Non hai
perso la
speranza.”
“No.”,
rispose Belle. “Ma ora raccontami cosa
ti è successo. Come ti sei procurato quella ferita? Che tipo
di arma era?”
Samuel
aggrottò la fronte. Si portò una mano
alla testa, come se gli dolesse più della gamba.
“È... difficile ricordare.
L’orco aveva una spada. Una spada con l’elsa
argentata e piena di gemme rosse.
Questo lo ricordo... qualcuno ha scagliato una freccia e lo ha
centrato, ma
poi... è tutto confuso.”
“È
la febbre. Quando ti passerà, ricorderai.”
“Guarirò?”
Belle
cercò di sembrare il più rassicurante
possibile. “Certo. Lascia fare a me.”
Storybrooke.
Oggi.
David
le aveva detto dove trovare le armi se ne avesse avuto bisogno e Merida
prese
la spada che faceva al caso suo.
“Se
perdi, morirai. Farò in modo che la tua
gente abbia indietro la sua regina. A pezzi. La tua adorata madre
riceverà la
tua testa. I tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché
si inginocchieranno
a me.”
-
Merida...
-
Hai
detto ai nani di tenerlo d’occhio? Non credo che
scapperà. È troppo sicuro di
vincere.
Belle
la
guardò mentre saggiava la sua arma, provava un affondo e poi
un fendente. Non
aveva idea di quanto fosse bravo Artù con la spada, ma era
comunque preoccupata
e non poté nasconderlo. – Merida, forse dovresti
prendere tempo. Lui non
combatterà lealmente.
-
No,
non lo farà. – ammise, portando la spada fuori dal
deposito, accanto al
Granny’s. – Ma non posso rifiutarmi di combattere.
Ha ucciso mio padre. E mi ha
sfidata.
-
Gli
altri torneranno presto. Forse David ed Emma...
-
Sono
andati nell’Oltretomba, Belle! Non sappiamo quando
torneranno. Se torneranno.
-
Certo che torneranno!
-
Non
puoi esserne certa.
-
Lo sono!
– Belle ripensò al sogno di quella notte. Non
ricordava più molto, ma ricordava
bene Tremo avvolto da una spirale di fiamme azzurre. Nel sogno aveva
udito
anche una risata beffarda.
-
Spero che tu abbia ragione. Ma anche se fossero qui non potrebbero
fermarmi. –
Menò qualche altro fendente, con una e con entrambe le mani.
La spada era
robusta, ma poteva maneggiarla facilmente.
“Se
perdi, morirai. Farò in modo che la tua
gente abbia indietro la sua regina. A pezzi.”
-
So
che sei molto forte, Merida. – disse Belle. – Ma
potrebbe essere una trappola.
E se cadi in quella trappola... sarà la fine per il tuo
popolo. Loro hanno
bisogno di te. Tua madre, i tuoi fratelli...
“La
tua adorata madre riceverà la tua testa. I
tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché si
inginocchieranno a me.”
-
E
mio padre ha bisogno di giustizia! – replicò
Merida, furente. - Ho già fallito
una volta. Questa volta non sbaglierò.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Belle!”, gridò Tremotino.
Lei
alzò il capo dal libro di erbe medicinali
che stava consultando e lanciò un’occhiata a
Samuel, che dormiva avvolto nelle
coperte. Gli aveva messo la pezza umida sulla fronte e ogni tanto
gliela
passava sul viso arrossato per rinfrescarlo. La febbre era scesa grazie
all’infuso che gli aveva preparato, ma era sicura che non
bastasse. Era solo un
sollievo momentaneo.
Andò
alla porta e scivolò fuori dalla stanza.
Tremotino se ne stava appoggiato alla parete, con il solito ghigno
stampato sul
viso verdognolo e squamoso.
“Si
può sapere perché urlate?”
“Non
si sa mai, mia cara. Sembrate così
occupata con il vostro infermo.” Nella voce di Tremotino
c’era un certo
scherno, ma anche una qualche forma di fastidio e una punta di collera.
“Se
avessi saputo che avrebbe impiegato così tanto a
morire...”
“Non
morirà!”, esclamò Belle. “Non
contateci.
La febbre è scesa e troverò un modo per guarire
la ferita.”
“Bene.
In ogni caso, prima se ne andrà e meglio
sarà.” Tremotino sbirciò il giovane nel
letto. L’aveva visto chiaramente quando
la domestica l’aveva trasportato in casa. Un bel giovane. Di
sicuro Belle lo
trovava piacente, con quei capelli biondo grano e i grandi occhi verdi,
il
fisico forte, un’ombra di spavalderia sul viso sbarbato e
accaldato per la
febbre.
Non
che a lui importasse, ovviamente...
“Il
castello è vostro. Devo occuparmi di certi
affari.”, annunciò, poi, Tremotino.
“Ve
ne state andando?”
“Non
starò via molto, cara. Nel frattempo,
evitate che quel soldatino combini qualche pasticcio. Ricordategli che
è solo
un ospite. Un mio ospite. Sono stato fin troppo magnanimo.”
Detto ciò, svanì in
una nube magica.
Belle
roteò gli occhi e rientrò. Samuel dormiva
ancora.
Più
tardi, quella sera, Belle stava armeggiando
con erbe e tazze per preparare un nuovo infuso e intanto sfogliava il
libro
alla ricerca di un’arma simile a quella che Samuel le aveva
descritto. Una
spada con l’elsa in argento e delle gemme rosse.
Trovò svariati pugnali con
un’impugnatura simile a quella, lance, frecce elfiche, spade
di gnomi...
‘Gáe
Bulg, la lancia
dell’eroe Cù Chulainn, affidatagli dalla sua
maestra d’armi, è stata ricavata
dall’osso di un mostro marino, morto in combattimento contro
un altro Leviatano...’
‘Claìomh
Solais,
detta la Spada di Luce, appartenuta a re Nuada dalla Mano
d’Argento, splende
non appena viene estratta dal fodero ed è invincibile in
battaglia...’
‘Fragarach,
conosciuta come ‘colei che dà risposte’,
è una spada capace di placare i venti
e di costringere chiunque a dire la verità, se puntata alla
sua gola...’
‘Nothung,
appartenuta
all’eroe Sigfrido, è una spada dai prodigiosi
poteri, estratta dal tronco di un
melo secolare...’
“Tremotino!”,
esclamò
Belle, parlando con la stanza vuota. “Avreste anche potuto
essere più gentile e
aiutarmi. Ma state pur certo che quando tornerete ve le
canterò, dovesse essere
l’ultima cosa faccio...”
Portò
il vassoio
verso le scale e, nel farlo, dovette attraversare il salone dove
Tremotino
soleva filare.
Qui
vide l’uomo in
piedi davanti alla finestra.
“Che
cosa succede?”
Storybrooke. Oggi.
Era
venuta davvero molta gente.
Gli
uomini di Artù erano schierati a destra e a sinistra, lungo
il bordo dei
marciapiedi. Gli abitanti di Storybrooke erano arrivati alla
spicciolata e sostavano
a gruppetti intorno all’area in cui si sarebbe svolto il
duello tra Merida e il
re di Camelot.
La
strada
era spazzata dal vento e il sole stava tramontando, colorando il cielo
di rosso
e arancione.
Osservando
le ombre della sera che avanzavano, Belle rabbrividì. Aveva
passato le ultime
ore in biblioteca, immersa nella lettura, cercando di non pensare a che
cosa attendeva
Merida. In realtà non era riuscita a concentrarsi sulle
parole stampate e aveva
spesso perso il filo, cosa che l’aveva costretta a
ricominciare daccapo più di
una volta. Aveva persino sfogliato un vecchio volume che parlava di
armi
magiche, che era sicura di aver già sfogliato molti anni
prima, quando aveva
soccorso un vecchio amico di infanzia, costringendo Tremotino ad
accoglierlo
nel suo castello.
“Se
perdi, morirai. Farò in modo che la tua
gente abbia indietro la sua regina. A pezzi. La tua adorata madre
riceverà la
tua testa. I tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché
si inginocchieranno
a me.”
Alla
fine si era messa a leggere alcuni capitoli di un volume che parlava di
duelli
e verdetti per singolar tenzone.
Avanzò
verso la prima fila e vide Merida che estraeva la spada dal vecchio
fodero in
cui era stata riposta. Aveva posato l’arco e la faretra
sull’asfalto. Le
persone la fissavano, incuriosite, bisbigliando fra di loro.
-
Dov’è? Ho bisogno di sgranchirmi. –
disse Merida.
-
Suppongo
che sarà qui a momenti. – Belle scorse Ginevra in
mezzo al manipolo di
cavalieri, sul lato opposto della strada.
“Non
lo ucciderò, ma lascerò che sia il fato a
scegliere. Se morirà... morirà.”
Continuavano
a tornarle in mente le parole che le aveva detto Tremotino il giorno in
cui era
tornata dal mercato con Samuel.
“Il
fato... se morirà... morirà.”
Belle
vide che l’elsa della spada era molto lunga e su di essa
erano incise delle
parole in filigrana di ottone.
- Am gài i
fodb fras feochtu, Am dé delbas do chind codnu. Coiche
nod gleith clochur slébe. –
lesse Merida, accorgendosi dello sguardo di
Belle. – È la canzone di Amergin. Quando ero
piccola, nelle notti di luna
piena, alcuni uomini di mio padre la cantavano.
-
Amergin?
-
Era
un druido e un bardo. A mia madre la canzone non piaceva. –
Merida sorrise,
presa nel vortice dei ricordi. A Belle sembrò immensamente
giovane, quasi
sperduta, per qualche momento. – Diceva che le metteva i
brividi.
Vennero
interrotte da un brusio concitato e dal rumore di passi in marcia.
Artù fece la
sua poco gradita comparsa circondato dai nani. Tre di loro camminavano
dietro
al re e due davanti a lui, tutti armati di picconi. Intanto Brontolo ed
Eolo lo
accompagnavano, tenendolo per le braccia. Quando giunsero al centro
della strada
principale di Storybrooke, Brontolo, con riluttanza, tirò
fuori una chiave e la
usò per aprire le manette che stringevano i polsi di
Artù.
- Is maith
an scáthán súil charad. –
disse Merida.
Belle
non ebbe modo di chiederle che cosa significasse, perché lei
si allontanò, per
raggiungere il centro della strada, con la spada in pugno.
Artù la fissò con
astio e domandò a gran voce che gli portassero la sua arma.
Ginevra se la fece
consegnare da uno degli uomini di suo marito che,
nell’offrirgliela dentro al
fodero nero, chinò il capo rispettosamente. Poi Ginevra
raggiunse il marito e
gli porse la spada.
-
Fa
attenzione. – disse ad Artù.
Lui
le
accarezzò una guancia. Infine prese l’arma e la
estrasse dal fodero con un
gesto deciso.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Samuel.”, mormorò Belle. Il vassoio le
scivolò
di mano e la tazza, cadendo, si ruppe in mille pezzi. “La tua
ferita...”
Samuel
era in piedi davanti ad una delle
finestre e aveva aperto una piccola borsa che portava legata alla
cintura. Non
sembrava che stesse male. Aveva persino spostato il peso sulla gamba
malata e
il suo viso era roseo. Nei suoi occhi brillava un certo senso di colpa.
“Come
fai a... ad essere in piedi?”, domandò
Belle, incredula.
“Mi
dispiace.”, disse Samuel, allargando le
braccia. “Forse è giunto il momento di spiegarti
perché sono qui.”
“Era
tutto falso. Erano bugie...”, disse Belle,
precedendolo. “Non eri davvero ferito.”
“La
ferita me la sono procurata con la magia.
Ma faceva parte del piano.”, spiegò Samuel.
“Sono stato da un mago di nome
Knubbin. La ferita era un’illusione. Così come la
febbre.”
“Quale
piano?!”
“Tuo
padre mi ha assoldato perché ti salvassi,
Belle.”
“Vuoi
dire che ti ha pagato!”, lo interruppe
lei, furiosa. “Sei un mercenario, non è
così?”
“Sono
un messaggero. Durante gli scontri con
gli orchi, facevo da tramite tra gli uomini di tuo padre. Portavo
messaggi e
all’occorrenza la gente mi pagava perché facessi
loro dei favori.” Samuel
appariva fiero dei suoi compiti. Il suo viso era duro, ma deciso. Gli
occhi
scintillavano di orgoglio. “Tuo padre mi ha trovato e mi ha
chiesto di
aiutarlo. Mi ha offerto un compenso notevole, ma l’ho fatto
anche per te. So
che ti ricordi di quando giocavamo insieme da bambini... eravamo
amici.”
“Lo
eravamo, sì...”, mormorò Belle.
Samuel
le prese una mano, stringendola nella
sua, grande e callosa. “Posso portarti via da qui, Belle.
Lascia che ti aiuti.”
“Non
puoi ingannare l’Oscuro, Samuel! Con chi
credi di avere a che fare? E poi ho dato la mia parola...”
“La
tua parola?” Samuele era basito. “Sei stata
costretta a promettere! Ti posso liberare da quell’impegno.
Non sei obbligata a
restare qui con questa... con questa bestia.”
Belle
incrociò le braccia al petto.
“Ascolta,
ho qualcosa che può fermare l’Oscuro
una volta per tutte.” Estrasse un oggetto dalla borsa appesa
alla cintura. Era
un cubo con strani intarsi contorti, sormontato da una pietra rossa.
“Che
cos’è?”
“Il
Vaso di Pandora. Una volta aperto,
intrappolerà l’Oscuro.” Samuel glielo
fece vedere più da vicino. “Non potrà
uscire, Belle. E tu sarai libera.”
“Perché
dovrei fare una cosa simile?”
“Per
tutti. Pensa a come sarebbe il mondo senza
l’Oscuro! Vendicheresti tutte le persone a cui ha fatto del
male! Saresti
un’eroina.” Il sorriso di Samuel era largo e
abbagliante, il sorriso di chi
credeva di avere la vittoria in pugno.
Belle
pensò a suo padre e alla sofferenza che
gli aveva causato quando aveva deciso di accettare l’accordo
di Tremotino.
Pensò a Gaston. Non era l’uomo che amava, solo lo
sposo scelto da Maurice per
lei, un giovane attraente, ma avido, che la vedeva come una delle sue
tante
conquiste. Non aveva idea di che fine avesse fatto, forse combatteva
contro gli
orchi per Maurice.
Pensò
a sua madre... a com’era morta. A tutto
il dolore che aveva provato quando si era destata e le avevano detto
che era
stata uccisa.
“Belle,
non è quello che hai sempre fatto? Hai
sempre aiutato gli altri. Sei sempre stata buona...”,
continuò Samuel.
“È
vero.”, rispose Belle, risoluta. “Hai
ragione. Dobbiamo farlo.”
“Mi
aiuterai, quindi?”
“Sì.
Ti aiuterò.”
Storybrooke. Oggi.
L’atmosfera
era schiacciante, grigia e pensatissima. Non si udiva cantare un
uccello e
tutto era avvolto da un silenzio di tomba angosciante che si
appiccicava ai
vestiti, come se dovesse trascinarli negli abissi più
profondi.
-
Questa è pazzia. Dovremmo usare i picconi e dargli una
lezione. – disse
Brontolo, scuro in volto.
-
Noi
dare una lezione a lui? – intervenne Gongolo.
-
Perché no? Siamo in sette!
-
E lui
ha tutti i suoi cavalieri armati a disposizione!
-
Noi
abbiamo i picconi! Niente ferma il piccone di un nano! E abbiamo
Granny! Lei ha
il fucile.
Belle
guardò con apprensione i due contendenti che si studiavano,
ad una distanza di
un paio di metri.
Merida
stringeva l’elsa della spada così forte da
sbiancarsi le nocche.
“Ah!
Tua madre mi ha fatto promettere di tenerti al sicuro...
così ho assunto un
soldato perché ti addestrasse nell’arte della
guerra.”
Toccava
a lei vincere per tenere al
sicuro sua madre e i suoi fratelli, ora.
“In
combattimento non vince il più forte, ma il più
furbo.”
I
due
contenenti si studiarono, muovendosi in cerchio, senza mai distogliere
gli
occhi l’uno dall’altro. Il re senza regno era anche
senza armatura.
“Se
perdi, morirai. Farò in modo che la tua
gente abbia indietro la sua regina. A pezzi.”
Artù
si mosse con rapidità, tentando un affondo deciso.
Merida
lo parò e scivolò a destra. Rispose con un
manrovescio, al quale lui si oppose,
spingendo per allontanarla da sé. Merida vacillò
sulle gambe, ma riuscì a
parare anche il colpo successivo. Lo incalzò con una serie
di mosse che
miravano alle gambe e alle braccia. La lama lo raggiunse poco sopra il
polso,
aprendo un taglio superficiale. Artù balzò
indietro, digrignando i denti.
Per
Belle era difficile staccare gli occhi dai due.
-
È
una follia. Hai ragione! Non so perché l’abbiamo
permesso! – sussurrò Eolo,
pallido come se uno dei due contenenti fosse stato lui stesso.
-
Sssh.
– gli intimò Gongolo.
-
Biancaneve potrebbe decidere di ucciderci e ne avrebbe tutte le
ragioni. Ci ha
detto di tenere d’occhio la situazione prima di partire...
– continuò Eolo.
Gli
altri
nani strascicarono i piedi.
-
L’abbiamo tenuta d’occhio! –
esclamò Brontolo, irritato. – Che cosa vi avevo
detto? Potevamo usare i picconi!
Merida
menò un fendente che quasi sorprese Artù, ma lui
lo fermò, incrociando la sua
spada con quella dell’avversaria. Artù spinse con
tutte le sue forze, fino a
costringere Merida a piegarsi sulle ginocchia. A lei tremavano i
muscoli delle
braccia. Vide una furia cieca bruciare nello sguardo verde del suo
nemico. Una
furia che gli deformava i lineamenti.
-
Morirai.
Sei finita come tuo padre. – Spinse ancora più
forte. Merida avvertì il morso
gelido della lama vicino al suo volto.
“Se
perdi, morirai. Farò in modo che la tua
gente abbia indietro la sua regina. A pezzi.”
“In
combattimento non vince il più forte, ma il più
furbo.”
Merida
afferrò la lama della spada di Artù con la mano
destra, ferendosi. Ignorò il
dolore e usò le sue energie per opporsi al suo tentativo di
chiudere il duello.
Artù si stupì di quell’improvvisa
esplosione di forza e fu costretto ad
indietreggiare di un paio di passi. Il clangore delle armi
vibrò nell’aria,
riecheggiando come se stessero combattendo in un lungo tunnel.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Dove
mi stai portando?”, domandò Samuel,
seguendo Belle fino ad una grande porta di legno vecchio.
“Nelle
stanze sotterranee dell’Oscuro. Lui ci
va spesso, soprattutto quando è di ritorno da uno dei suoi
viaggi.”
“Dovrò
aspettarlo là?”
“È
il posto più adatto.”
Samuel
sorrise. Belle aprì la porta e prese una
delle fiaccole appese al muro di pietra, accendendola alla svelta.
Davanti a
loro, poco oltre la soglia, iniziava una serie di scalini che
conducevano nelle
viscere della dimora dell’Oscuro. La scala si avvitava,
perdendosi nel buio.
“Sei
sicura che sia per di qua?”, chiese
Samuel, aggrottando le sopracciglia.
“Sì.
Vivo in questo castello. Ormai conosco
quasi ogni angolo.”
Samuel
la seguì giù per le scale. Il passo di
Belle era sicuro, le fiamme illuminavano i gradini uno dopo
l’altro e ogni
minimo rumore riecheggiava lungo le pareti, spandendosi in una serie di
echi sinistri.
“Siamo
arrivati. Devi passare da qui.”, disse
Belle, sollevando la fiaccola perché Samuel potesse vedere
la seconda porta.
“Quello
non è il magazzino delle provviste?”,
le fece notare lui. “Vuoi che mi riempia la pancia,
prima?”
“No.
Ma le camere dell’Oscuro sono protette dai
suoi incantesimi. L’unico modo per raggiungerle è
passando dai magazzini.” Aprì
i chiavistelli arrugginiti. “Fidati di me. Ho imparato un bel
po’ di trucchi da
quando abito con lui. Non sono solo una domestica.”
Samuel
intervenne per aiutarla a sollevare la trave
che bloccava il passaggio. “Uff. Già... vedo che
ti sei data da fare... uff. È
una vera fortuna, Belle.”
Lei
sorrise leggermente. Scostarono la trave e
Belle aprì la porta, che cigolò orribilmente sui
cardini. “Cerca di fare attenzione.
Potrebbe accorgersi di te non appena metterà un piede nelle
sue stanze.”
“Ma
lui non ha il Vaso di Pandora.”, le ricordò
Samuel, battendo una mano sulla borsa. Si infilò oltre la
soglia. Prima di inoltrarsi
nel magazzino, si girò un’ultima volta,
guardandola, deciso. “Ci riuscirò,
Belle, non preoccuparti per me. Ce ne andremo. Τuo padre
sarà così felice di
rivederti.”
“Ne
sono sicura. E... non ho bisogno di
preoccuparmi per te.”
“Beh...”
Belle
gli chiuse la porta in faccia. Samuel non
se l’aspettava e inciampò, cadendo lungo disteso.
Lei afferrò la trave, scorticandosi
i palmi e usò la forza che aveva per rimetterla al suo posto
e bloccare la porta.
Infine tirò i chiavistelli.
“Belle!”
gridò Samuel, picchiando i pugni
contro il legno. “Belle, che stai facendo? Qui non
c’è niente!
Fammi uscire!”
Belle
appoggiò le spalle contro il legno,
respirando con affanno. “No, non c’è
niente, Samuel. Non si tratta nemmeno del
magazzino. Sei fuori dal castello. Vattene finché sei in
tempo.”
“Non
puoi farlo, Belle! Non puoi chiudermi
fuori!”
“Posso.
Τi ho già salvato la vita una volta. Se
l’Oscuro scopre che cosa intendevi fare, morirai. Quindi va
via. Per favore.”
Samuel
si aggrappò alle sbarre della piccola grata
che si apriva in cima alla porta. “Belle, no... come puoi
farmi questo? Eravamo
amici!”
“Un
tempo lo eravamo. Sono passati anni.”,
osservò Belle, incrociando le braccia. “E
Τremotino sarà anche il Signore
Oscuro, ma non merita di essere ingannato in questo modo.”
Quando
Samuel parlò di nuovo, la sua voce aveva
assunto un tono accusatorio, come quella di un bambino che voleva
essere rispettato
e trattato alla pari, ma che sapeva già di desiderarlo
invano. “Io ero tuo
amico. Sono venuto fino a qui per te. Ho rischiato la mia vita per
riportarti a
casa. Che cosa dirò a tuo padre? Che preferisci la compagnia
dell’Oscuro a
quella della tua famiglia? Lui ti ha traviata, vero? Ha usato la magia
e ora
fai ciò che lui chiede!”
Sul
viso di Belle balenò un lampo di
dispiacere. “Puoi dirgli quello che ritieni più
giusto. E... no, nessuno ha usato
la magia su di me. So quello che faccio. Al contrario di te.”
Storybrooke. Oggi.
Merida
e Artù continuavano a scambiarsi colpi su colpi.
Ormai
l’unico rumore era il clangore delle spade. Sembrava che la
folla stesse trattenendo
il respiro, in attesa della mossa che avrebbe deciso le sorti del
duello. Artù
aveva la fronte imperlata di sudore, ma non cedeva. Merida era
evidentemente stanca,
eppure continuava a parare gli affondi e a restituirli.
“In
combattimento non vince il più forte, ma il più
furbo.”
Artù
cercò di sorprenderla con un colpo di taglio, dato dal basso
verso l’alto.
Sembrava un colpo lento, ma era anche molo potente. Merida lo
sentì riverberare
lungo il braccio. Fu sul punto di lasciar cadere la spada. Strinse
l’elsa più
forte che poté, sbiancandosi le nocche e lo respinse.
Barcollò, trovandosi sbilanciata.
“Se
perdi, morirai. Farò in modo che la tua
gente abbia indietro la sua regina. A pezzi.”
Artù
sollevò la spada, infierendole un colpo in diagonale. Merida
fu costretta ad
usare entrambe le mani per non essere disarmata. Dalle labbra le
sfuggì un
verso inarticolato.
-
Arrenditi. - le disse Artù, fissandola tra le lame
incrociate. – Arrenditi,
maledetta. Non puoi vincere.
“La
tua adorata madre riceverà la tua testa. I
tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché si
inginocchieranno a me.”
Ginevra
assisteva al duello con gli occhi sbarrati, il pugno premuto contro la
bocca.
Belle avvertiva il battito accelerato del proprio cuore. Le rimbombava
nelle tempie,
frastornandola.
“Il
fato... se morirà... morirà.”
Le
lame slittarono e Merida scivolò via. L’arma di
Artù colpì l’asfalto. Lui
gettò
un grido di rabbia e si girò di scatto. La spada fendette
l’aria.
“La
tua adorata madre riceverà la tua testa.”
Artù
vibrò l’ennesimo affondo. Si scagliò
contro di lei come una furia, mirando al
suo petto.
“I
tuoi fratelli riceveranno il corpo.
Dopodiché si inginocchieranno a me.”
Merida
si difese, parando l’affondo e Artù si
ritrovò proiettato dal suo stesso impeto
in avanti. Vacillò e, quando si voltò
d’istinto, aspettandosi un nuovo colpo
morale, Merida gli regalò un fendente che quasi gli
tranciò le dita della mano destra.
Il
suo
polso cedette e Artù lasciò cadere la spada.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Complimenti, mia cara! Davvero notevole!”
Τremotino apparve dietro di lei, battendo le mani come se
avesse appena assistito
al migliore degli spettacoli. “Sono felice di essere arrivato
giusto in tempo!
Non avrei mai voluto perdermi una scena simile.”
“Τremotino...”,
iniziò Belle, che se ne stava appoggiata
alla parete, ignorando le grida di Samuel.
“Vi
ringrazio per avermi aiutato a recuperare
qualcosa che desideravo da anni.”, disse l’Oscuro,
aprendo la mano. Vi fu un
pof e il Vaso di Pandora, quella che avrebbe dovuto essere la sua
prigione, si
materializzò. Intanto, due fili di fumo violaceo uscirono
dalla finestrella
sopra la porta sbarrata. “Non ero mai riuscito a metterci le
mani sopra, ma il vostro
molesto amico l’ha portato direttamente da me.”
“Cosa
avete fatto a Samuel?! Non lo avrete mica...”
“Oh,
non preoccupatevi per lui, cara. Non l’ho
ucciso. Ho promesso che non l’avrei fatto ed io mantengo
sempre la parola.”
Rise, accarezzando il Vaso con la punta delle dita. Fece scorrere
l’indice
sulla gemma rossa, che inviò un barbaglio luminoso.
“Però... mi sono permesso
di spedirlo da qualche altra parte... in un posto... molto lontano da
qui e
decisamente meno confortevole.”
Belle
incrociò le braccia e sollevò il mento,
con aria di sfida.
“Sì,
giusto. Devo ringraziarvi per avergli impedito
di rinchiudermi in questa... prigione.”, disse Tremotino,
reggendo l’oggetto
con due dia e sorridendole. “Avete fatto un ottimo lavoro e
me ne compiaccio.
Non oso nemmeno immaginare che cosa avrei combinato lì
dentro. Non lo trovate stretto?
Come avrei fatto a distendere le gambe?”
“Mi
dispiace deludervi, ma non ho chiuso fuori
Samuel per voi.”, lo interruppe Belle.
“L’ho fatto per il popolo della Foresta
Incantata. E perché sono una donna che mantiene la parola.
Proprio come voi.”
“Oh?”
“Volevo
credere alla storia di Samuel. Lo
volevo davvero. Era un mio amico.”, spiegò Belle.
“Ho provato a credergli anche
quando ho scoperto che la sua non era una vera ferita, ma solo un
incantesimo... un’illusione. Volevo credere che almeno lo
stesse facendo per
una buona causa.”
Lui
non disse niente. Aspettò che continuasse.
“Ma
mentiva. Ha sempre mentito. Quando mi ha
raccontato come si era procurato la ferita, ho capito che qualcosa non
andava
nella sua storia e quindi ho frugato fra le sue cose.”
“Molto
acuta.”
“Ho
trovato una mappa che conduceva proprio qui
e un disegno... rappresentava il vostro pugnale. Non era qui per
rinchiudervi
nel Vaso di Pandora. Era qui per il pugnale. Voleva rubarlo e
controllarvi.
Lui... e i suoi uomini.”
“Ah,
il pugnale. Ma guarda...” Τremotino toccò
la propria arma, accuratamente riposa in un fodero in cuoio appeso alla
cintura.
“Era
un mercenario. Se anche fosse vero che mio
padre l’ha assoldato, era qui solo per il suo tornaconto. Non
potevo permettere
che accadesse una cosa simile.” Gli puntò contro
l’indice. “Quindi, c’era di
più in ballo della vostra vita.”
“Già.
Questo lo vedo.”, osservò Tremotino,
corrucciato. Era sorpreso e faticava a nasconderlo.
“Bene.”
Belle si sistemò i capelli dietro le
spalle. “Ne ho abbastanza. Me ne vado a letto, con il vostro
permesso.”
“Fate
pure.”, mormorò l’Oscuro.
“Ho
solo una domanda.”, disse Belle, voltandosi
di nuovo. Sulle labbra aleggiò un sorrisetto.
“Dopo quello che è successo
oggi... vi fidate di me?”
Τremotino
annaspò, alla ricerca di una frase sensata
da rifilare a quella domestica impertinente.
“Non
importa.”, aggiunse Belle, scuotendo il
capo. “Conosco già la risposta.”
Storybrooke. Oggi.
Belle
trattenne
il respiro ancora per qualche momento, dopo che Artù era
stato disarmato.
Merida
gli puntava la spada alla gola.
Le
persone tacevano. Non uno fece un passo verso i due contendenti. I nani
sembravano statue di sale, con i picconi in mano. Granny
impugnò il fucile,
aspettandosi una carica da parte degli uomini del re, che fissavano la
scena
come inebetiti. Ginevra era pallida, con i pugni serrati ai lati del
corpo.
-
È
finita. – annunciò Merida. La sua voce
risuonò forte e chiara, poiché il
silenzio era denso, pesane come un macigno. – Rispettate la
vostra pare
dell’accordo. La ricordate, vero?
Artù
non era mai sembrato così furioso. Così livido.
-
Avete
detto che sareste venuto con me a Dunbroch e che sareste stato
giudicato da me
e dal mio popolo per ciò che avete fatto a mio padre.
– ripeté Merida.
-
Ho
detto questo, sì. – bofonchiò
Artù.
-
Credo che i vostri uomini non vi abbiano sentito.
-
Ho
detto proprio questo!
Un
brusio si diffuse tra la folla, percorrendola come un’onda
anomala.
-
E sappiate
che così sarà. – Merida alzò
gli occhi sui nani e fece loro un cenno.
Quelli
appoggiarono i picconi sulla spalla e Brontolo recuperò le
manette che aveva tolto
ad Artù.
-
Merida! – gridò Belle.
Aveva
alzato
gli occhi solo per un istante, sempre tenendo la spada puntata contro
la gola
dell’uomo. Con la coda dell’occhio, vide il guizzo
della mano di Artù. Fu
rapidissimo. Un lampo. Le dita scattarono come tenaglie verso
l’arma che era caduta
poco più in là. Quelle dita strinsero
l’elsa e il braccio si mosse per sferrare
il colpo morale.
“Ah!
Tua madre mi ha fatto promettere di tenerti al sicuro...
così ho assunto un
soldato perché ti addestrasse nell’arte della
guerra.”
“In
combattimento non vince il più forte, ma il più
furbo.”
Merida
lo trapassò con la sua spada. La lama fuoriuscì
dalla schiena, insanguinata.
Schizzi di sangue volarono sull’asfalto e quasi raggiunsero
le scarpe di
Gongolo, che si ritrasse con un guaio ansioso, urtando Eolo.
Capitombolarono a terra
entrambi.
Ginevra
gridò.
E
quando Merida estrasse la spada, con gli occhi pieni di lacrime,
fissando il
corpo che si afflosciava, l’incantesimo con cui lui aveva
tenuto la moglie legata
a sé si dissolse.
Granelli
di polvere luminosa piovvero dai capelli e dal vestito color porpora di
Ginevra. Rotolarono sulle maniche dell’abito ed evaporarono
prima di toccare la
strada.
Ginevra
battè le palpebre.
Oltretomba.
Mentre
Killian Jones usciva dal negozio di Gold e si incamminava nuovamente
verso l’appartamento
degli Azzurri, invischiato in una fitta rete di oscuri pensieri, le
lancette
della torre dell’orologio scattarono.
Non
si
mossero in avanti, com’era accaduto quando il padre di Regina
era passato
oltre, ma all’indietro.
Il
suono secco vibrò nell’aria densa e buia di
Underbrooke.
Ade,
nelle profondità del suo covo, lo udì e sorrise,
sorseggiando un calice di vino
rosso.
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Capitolo 8 *** 8. ***
8
“Tali
siamo
Quali la natura ci ha formato:
fragili”
[William
Shakespeare,
La Dodicesima Notte]
Città di Smeraldo. Oz. Anni fa.
Il
sole era già sorto da quasi un’ora quando
posò
i fiori davanti alla tomba. Li aveva raccolti lungo il tragitto che da
casa l’aveva
condotta al mercato, solo un piccolo mazzo per abbellire un pezzo di terra che
rimaneva spoglio il più
delle volte, perché suo padre era troppo ubriaco per
pensarci o anche solo per
alzarsi dal letto la mattina.
Accanto
alla pietra tombale sulla quale era
rozzamente inciso il nome della madre, Zelena vide una ragnatela tesa
da un
cespuglio ad un altro. Era grande e su uno degli angoli inferiori della
tela
stava raggomitolato un ragno delle dimensioni
del suo pollice. Un ragno verde.
Il
morso dei ragni verdi era velenoso, lasciava
la vittima paralizzata. Alla ragnatela erano sospese gocce di rugiada e
molte
mosche vi erano rimaste intrappolate.
Zelena
inorridì, eppure fissò quelle creature
in balia del ragno verde. Perché era così che
spesso si sentiva. Intrappolata.
Paralizzata. Senza via di scampo.
Ebbe
paura e si allontanò in fretta e furia,
stringendosi nella mantella e portando con sé il cesto nel
quale aveva riposto
il pane preso al mercato. Alzò lo sguardo, trovando le luci
della Città di
Smeraldo proiettate verso il cielo. Le luci del palazzo del Mago.
Arrivò
a casa quasi correndo e, in cucina,
trovò suo padre intento a bersi la sua scodella di latte.
Aveva la barba lunga
e i capelli in disordine, gli occhi rossi di chi aveva dormito male.
“Sì
può sapere dove ti eri cacciata?”,
domandò,
rudemente.
“Scusatemi,
padre. Al mercato c’era molta gente.”,
si affrettò a rispondere. “Volete che vi faccia la
barba?”
“Vedi
di darti una sistemata e non pensare alla
mia barba. Sei tutta sporca di fango!”
Zelena
non perse tempo e andò sul retro, a
prendere l’acqua dal pozzo. Poi la portò dentro e
la scaldò sul fuoco. Era
sporca di fango solo perché, nel correre a casa, era
inciampata. La sera prima
aveva piovuto a dirotto e la strada era un pantano.
Ma,
mentre gettava il secchio nel pozzo e
poi lo tirava su, scorticandosi le mani, Zelena
sentiva qualcosa di molto brutto. Qualcosa di brutto che saliva da
dentro, qualcosa
che veniva da lontano, da un posto buio in fondo all’anima,
qualcosa che era verde
come il ragno del cimitero, verde come le luci della città e
aveva gli artigli affilati,
qualcosa che si preparava a dilaniare... perché Zelena
faceva del suo meglio per
non contrariare suo padre, però non andava bene comunque.
Zelena era sempre
gentile, gli faceva la barba quando a lui tremavano troppo le mani, lo
temeva e
lo rispettava. Ma non andava bene.
Le
frustate che aveva ricevuto solo due sere
prima le facevano ancora male.
Tutto
perché si era permessa di approfittare di un momento in cui
il padre era di
buon umore per chiedergli se non fosse giusto per lei andare dal Mago
di Oz. Se
il Mago era davvero così potente, avrebbe potuto aiutarla a
controllare i suoi
poteri. Sarebbe stato meglio per chiunque.
Lui
l’aveva ascoltata fino alla fine. Poi erano
iniziate le frustate. Era sicura di non aver mai provato un dolore
simile.
Quando
tutto era finito, aveva immaginato di
afferrare suo padre per il collo e gettarlo in fondo alla stanza. Aveva
immaginato di prenderlo per la gola e stringere, stringere fino a farlo
diventare viola. Aveva immaginato di scagliarlo fuori dalla porta. Non
l’aveva
fatto, ma uno scossone aveva fatto scricchiolare le fondamenta della
casa,
costringendo suo padre a ritirarsi in un angolo, impaurito.
Voleva
sua madre. Sua madre era gentile con
lei. Anche se Zelena pensava che temesse il suo potere, non
comprendendolo, sua
madre l’abbracciava. La proteggeva.
Ma
sua madre era morta, ormai. Era sola.
Zelena
si guardò alle spalle. Infine usò il suo
potere per tirare su il secchio pieno d’acqua. La corda
iniziò ad arrotolarsi
ai suoi piedi, come un serpente che si acciambella all’ombra
dopo essersi
nutrito. Il secchio sbucò dal pozzo con un sobbalzo e lei lo
prese.
Città di Smeraldo. Oz. Oggi.
Dopo
il tradimento della Strega dell’Est e la scomparsa di Zelena
e del principe
Fiyero nel portale, Glinda si era dimostrata almeno temporaneamente
incapace di
qualsiasi tipo di decisione o spiegazione. Mulan aveva dovuto lottare e
blandirla a lungo prima di riuscire a convincerla a lasciare andare il
corpo di
Locasta. Gli uomini di Robin Hood, incaricati di preparare le pire per
i caduti, avevano
preso la donna senza vita e l’avevano
portata fuori. Prima, Glinda aveva sganciato il medaglione dal suo
collo,
quello con la pietra bianca incastonata nel ciondolo.
Robin
aveva cercato tracce di Zelena e della figlia ovunque, ma non
c’era niente da trovare,
se non un paio di streghe in miniaura che erano state parte del
giostrino
collocato in cima alla sua culla. Robin le aveva scagliate lontano.
Nessarose
si era dissolta nel nulla. Si era letteralmente sgonfiata sotto gli
artigli di
Ruby e di lei non erano rimasti che gli abiti.
Toto
era stato liberato dalla sua prigione e si aggirava ancora per la sala,
saltellando e annusando ovunque.
-
Lasciate fare a me. – aveva detto Knubbin, ad un certo punto,
richiamando il
proprio corvo, che era andato ad appollaiarsi sulla sua spalla.
Si
era fatto portare uno specchio e aveva pronunciato poche parole. Le
immagini
conservate nella testa del corvo si erano riversate nello specchio e
avevano
preso forma, mostrando loro tutto ciò che era accaduto in
quella sala, prima
che gli uomini facessero irruzione.
-
Non sappiamo comunque dove conduceva quel portale. – disse
Robin, una volta che
le immagini furono sparite.
-
Non ancora. – rispose Knubbin. – E in ogni caso mi
domando come sia possibile.
Glinda
alzò leggermene il capo.
-
La
Strega dell’Est si è nascosta bene. –
disse Mulan.
-
Non parlo della Strega. Ma dello specchio. Lo specchio è
magico. – Knubbin girò
l’oggetto verso di loro, in modo che la superficie
riflettesse i loro visi.
Picchiettò l’indice contro la cornice.
-
Io
non vedo niente. –
rispose Mulan, aggrottando
la fronte.
-
Certo che no, tesorino. Lo specchio riflette la vostra vera natura. Se
foste
malvagie, questo affare lo svelerebbe all’istante.
– Knubbin arricciò il naso.
– Quello che mi chiedo è come può
essere finito qui.
Gli
uomini di Robin ornarono dal loro giro di perlustrazione. A giudicare
dalla
facce contrite, non avevano buone notizie.
-
Allora? – chiese Ruby, apprensiva.
-
Non ci sono prigionieri. Se le prigioni esistono, noi non le abbiamo
trovate. –
rispose John.
-
Devono esistere per forza! Zelena faceva prigionieri. Forse non sono
qui, ma
devono esistere! – Era talmente piena di angoscia che il
cuore stava per
esploderle.
-
Sta calma, Ruby. – disse Mulan, posandole una mano sulla
spalla.
-
Non posso. – replicò Ruby. - Vengo con voi.
Userò il mio fiuto. Troverò
qualcosa.
-
Vengo anch’io. – tornò a dire Mulan.
Nessuno
degli uomini di Robin si mosse per seguirla. La fissavano tutti con
diffidenza.
-
Mi
unisco a voi. – intervenne, invece, Robin. - Portiamo anche
il mago.
-
Non sono molto bravo a trovare entrate segrete, signori. –
rispose Knubbin.
Ruby
mutò aspetto, trasformandosi nuovamente in lupo.
Scoprì i denti, ringhiando. Toto
abbaiò.
Knubbin
si fece rosso in viso. Era chiaro anche a lui che Glinda non era in
grado di
aiutare nessuno e l’ultima cosa che desiderava era di finire
nelle fauci di un
licantropo. – Bene. Andiamo. Fatemi strada.
Oltretomba.
Malefica
sorvolò la casa in cui Zelena doveva essersi rifugiata dopo
essere giunta nel
regno di Ade.
Regina
aveva detto che, durante la maledizione che aveva tolto loro i ricordi
per la
seconda volta, rispedendoli a Storybrooke dopo un anno trascorso nella
Foresta
Incantata, la strega aveva preso possesso di quella casa fuori
città, dotata di
una cantina nella quale aveva disposto la prigione di Tremotino.
Malefica
planò leggermente, scrutando i dintorni. La casa sembrava
deserta, ma intorno
ad essa era stata sollevata una protezione. Il drago ci andò
a sbattere contro
e lanciò uno strepito infastidito, mentre scintille azzurre
percorrevano l’aria
rossastra dell’Oltretomba.
Poco
dopo, il principe Fiyero, arrivato negli Inferi con Zelena, si
accomodò sul
ramo più basso di un vecchio
albero ad una
cinquantina di metri dalla casa. Guardò in alto, inviando un
segnale al drago.
Poi sollevò una mano, facendosi vedere dalla donna di nome
Marian, che si era
offerta di controllare la Strega insieme a lui.
-
Non sei obbligata a farlo, Marian. – aveva detto Emma,
osservandola mentre
riempiva di frecce una faretra.
-
Lo
farò, invece. – aveva risposto lei, risoluta. Il
tono non ammetteva repliche.
Marian
ci era andata perché quella donna l’aveva uccisa
in un’altra versione del suo
passato. E ci era andata perché Zelena aveva pur sempre con
sé la figlia di
Robin. Fiyero si era assunto quell’incarico...
perché era curioso. Era
consapevole che Zelena fosse pericolosa, ma era anche curioso di
seguirla più
vicino. Era sempre stato curioso, fin da ragazzino. Da ragazzino, anzi,
era
proprio un ficcanaso, lo doveva ammettere, ma col tempo aveva affinato
quel
lato del suo carattere.
C’erano
delle cose che voleva capire.
Dentro
casa, la bambina cominciò a piangere.
Zelena
scese le scale di corsa e raggiunse la stanza in cui aveva sistemato la
bambina. La culla era accanto alla finestra della sala da pranzo.
La
prese in braccio e la strinse a sé.
Aveva
visto il principe Fiyero appostato a pochi metri da casa sua. Aveva
visto il
drago sorvolare la casa e si era divertita nel vederlo andare a
sbattere contro
la barriera protettiva che aveva eretto con molti sforzi.
E
sapeva benissimo dove si trovava.
Il
portale l’aveva condotta dritta dall’ultima persona
che avrebbe voluto
incontrare, a parte Regina.
Posò
la bambina nella culla e la coprì per bene.
Quando
si voltò, sobbalzò, sconcertata.
Sul
tavolo c’era un vasetto con un fiore appassito e un biglietto
ripiegato. Un
attimo prima quelle cose non c’erano. Nell’aria
veleggiò una fiammella azzurra,
che evaporò non appena Zelena prese il foglio di carta
ingiallito.
Spero
che tu abbia tutto ciò che ti serve.
Fai
attenzione. Loro sono qui.
Il
biglietto si disintegrò non appena Zelena terminò
di leggere l’ultima parola.
Diventò cenere, che piovve sul tavolo di legno.
“Spero
che tu abbia tutto ciò che ti serve.”
Già.
La casa. La casa era vuota, come in attesa della sua occupante. E tutto
era in
perfetto ordine. Tutto funzionava alla perfezione. L’acqua
calda. Il forno. Il
frigorifero. C’erano pure le provviste.
“Fai
attenzione. Loro sono qui.”
Zelena
spazzò via la cenere con un gesto secco della mano.
Cora
arrancava lungo il ponte sospeso sulle acque del Fiume delle Anime
Perdute,
trascinando il carro stracolmo di sacchi di farina.
Inciampò
nell’orlo dell’abito lacero da mugnaia e si
mantenne in equilibrio per pura
fortuna. Il ponte era stretto. Sarebbe bastato un piccolo passo falso
per
precipitare e trasformarsi in un guscio vuoto e ululante.
Intorno
a lei non aleggiavano solo le grida delle anime condannate ad una pena
eterna,
ma le immagini della sua vita. Ed erano sempre le stesse.
Da
una parte, Regina. Una giovane Regina legata con le cinghie per
cavalli. Regina
che reggeva il corpo senza vita dello stalliere di cui si era
innamorata.
“Perché
l’hai fatto?”
“Perché
questo è il tuo lieto fine.”
Dall’altra
parte, Zelena. La figlia che aveva abbandonato. Una mugnaia che
sgusciava fuori
dalla casa della donna che l’aveva aiutata a partorire, poco
prima dell’alba.
Una bambina con grandi occhi azzurri, adagiata in una cesta e lasciata
nel
cuore del bosco.
“Povera
piccola. La vita è crudele. È piena di
tradimenti. Questa è l’unica lezione che ho per
te.”
Regina
e Zelena. Zelena e Regina.
“...questo
è il tuo lieto fine.”
“Ora
ti devo abbandonare.”
“Perché
l’hai fatto?”
“Per
dare a me un’opportunità migliore.
Finché
avrò te, potrò essere solo la figlia del
mugnaio.”
Cora
riprese a camminare. Una volta giunta alla fine del ponte si sarebbe
ritrovata
nuovamente al punto di partenza. E sarebbe stata costretta a
ripercorrere la
strada daccapo. Avanti e avanti. E poi ancora indietro.
Intorno
a lei le sue azioni e le urla delle Anime Perdute.
Città
di Smeraldo. Oz. Anni fa.
Zelena
non avrebbe dovuto farlo.
Non
avrebbe dovuto perché suo padre era sempre
stato contrario e l’avrebbe punita di nuovo, venendolo a
sapere.
Si
scostò i capelli rossi dal viso e alzò lo
sguardo, spingendo indietro la testa, abbastanza da poter guardare le
guglie
del palazzo del Mago. Le luci sempre proiettate verso il cielo
coloravano di
verde anche la strada fatta di mattoni dorati, che si snodava per la
Città di
Smeraldo, usciva e si perdeva nelle praterie e nei boschi del regno di
Oz.
Accanto
alle porte del palazzo, c’erano due
guardie che indossavano uniformi verdi, con le giacche chiuse da
bottoni dorati. Non
le rivolsero nemmeno un’occhiata.
Sembravano statue.
Le
porte si aprirono per permettere ad un paio
di uomini di uscire. Erano vestiti male, trasandati, con le barbe
lunghe e i
visi stanchi e scavati. Portavano dei sacchi sulle spalle e si
allontanarono
strascicando i piedi.
Zelena
si domandò che cosa avessero chiesto al
Mago e se lui li avesse accontentati. Restò là,
indecisa sul da farsi.
‘Stavo
pensando, padre... che potrei... andare
dal Mago. Per i miei poteri... forse lui può
aiutarmi.’
Ricordava
ancora la faccia scura del padre. I
suoi occhi che si riducevano a due fessure. La smorfia. ‘Non
andrai da nessuna
parte.’
‘Ma
potrebbe aiutarmi a controllare i miei poteri.
Sarebbe più facile, padre. Non dovreste più
preoccuparvi di niente.’
‘Non
andrai da nessuna parte.’, aveva ripetuto
lui, come se Zelena non avesse nemmeno parlato. ‘Non voglio
che si parli dei tuoi
poteri. Più di una volta ti ho ordinato di nascondere la tua
perfidia.’
‘Mi
coprirò, padre. Nessuno mi riconoscerà. Mi
vedrà solo il Mago.’
E
poi, le frustate.
Zelena
sedette su uno dei gradini che
conducevano all’entrata, meditabonda. Si era coperta il capo
con il cappuccio
della mantella e portava una vecchia sciarpa di sua madre sul viso,
cosicché
nessuno poteva vedere la sua faccia, eccetto i grandi occhi azzurri.
Iniziò
a piovere.
Avrebbe
potuto entrare e ripararsi. Sarebbe
stato facile. Tutti accedevano al Palazzo del Mago e lui riceveva gli
ospiti
uno alla volta, ascoltando le richieste. Ma aveva paura. Le tremavano
le
ginocchia e il pensiero del padre la tormentava.
“Non
dovresti stare qui fuori. Piove. Ti
ammalerai.”
Zelena
guardò alla sua sinistra e si ritrovò a
fissare un paio di stivali neri muniti di speroni d’argento.
Negli stivali
erano infilati un paio di pantaloni di cuoio. Più su
c’era una giacca nera di
ottima fattura. Allacciata alla vita, una cintura alla quale era appeso
il
fodero con la spada. Una spada lunga, con la lama ricurva e
l’elsa costellata
di piccole gemme. L’uomo si copriva con un mantello pesante,
allacciato alla
base del collo.
In
realtà non era un uomo, ma un ragazzo. Era
poco più grande di lei e aveva la pelle nera come la notte.
“Se
sei venuta a parlare con il Mago di Oz ti
conviene entrare. La fila è molto lunga, ma almeno starai
all’asciutto.” La sua
voce era calda e gentile.
“No,
io... io no. Non sono venuta...”, balbettò
Zelena, confusa.
“Tutti
vengono qui per vedere il Mago. Non
preoccuparti.”
Se
la fila era davvero molto lunga, Zelena non
avrebbe potuto tornare a casa per il tramonto. E cosa avrebbe
raccontato a suo
padre?
“Com’è?”,
domandò Zelena. “Il Mago... che
aspetto ha?”
Il
ragazzo ci pensò un attimo. “Non lo so. Era dietro
ad un tendone. Quando mi ha parlato per dirmi che cosa voleva in cambio
del suo
aiuto, ha assunto una forma, ma... non era la sua vera forma.”
“Quale
forma?”
“Una
testa. Una testa molto grande e senza
corpo.”
Zelena
si morse il labbro, provando ad
immaginarsi una enorme testa che galleggiava di fronte a lei e parlava.
Il
ragazzo non disse altro, ma si tolse il
mantello e glielo posò sulle spalle, coprendole la testa.
Quello di Zelena era
zuppo da un pezzo.
Oltretomba. Oggi.
-
Regina, aspettami! – esclamò Mary Margaret.
Per
tutta risposta, Regina accelerò il passo. -
Perché non ti sforzi di più per
starmi dietro? Non è così difficile.
Mary
Margaret arrancò per raggiungerla ed evitò di
risponderle. Si stavano dirigendo
verso la cripta. David, invece, era andato alla villa di Regina,
accompagnato
da Killian, mentre Marian e Fiyero tenevano d’occhio Zelena.
Non aveva idea di
che cosa stesse facendo Lily né tantomeno Emma e Regina
pensava fosse meglio
così.
Quella
mattina non aveva fatto altro che evitarla. Aveva evitato di rivolgerle
la
parola anche solo per sbaglio e aveva evitato persino di guardarla.
Aveva
percepito i suoi occhi addosso, pressanti e forti come le labbra che
l’avevano
baciata la notte precedente. Ne avvertiva ancora il sapore. Ne
avvertiva la
concretezza, la dolcezza, il calore. Ogni tanto era tentata di toccarsi
la
bocca perché aveva l’impressione che Emma
l’avesse baciata solo pochi secondi
prima.
“Ma
ora... devo chiederti di pensare a nostro
figlio e alla mia famiglia. Devi portarli via da qui, se le cose si
mettono
male. Devi portare via tutti.”
“Regina.
Devi promettermelo.”
Ma
il problema era che aveva cominciato lei. Non Emma. Emma
l’aveva attirata a sé
per baciarla, ma era stata lei a cedere per prima e a toccarla come non
aveva
mai fatto.
-
Siamo
arrivate. – disse Regina, per colmare il silenzio.
Le
porte della cripta erano aperte.
Qualcosa
strisciò nelle vicinanze. Rumori di rami spezzati e foglie
secche che
crepitavano sotto un paio di scarpe.
Mary
Margaret incoccò una freccia.
Città
di Smeraldo. Oz. Durante la prima
maledizione.
“Ho
saputo che qualcuno di voi Munchkin ha
rivelato a Dorothy che sono ancora viva.”, disse Zelena,
camminando avanti e
indietro davanti a quella gentaglia bassa e spiona. “E
Dorothy è tornata qui,
ha preso il mio Spaventapasseri e anche il cervello di cui avevo
bisogno!”
I
Munchkin tacquero, intimiditi. Alcuni
nascosero le facce pallide sotto la tesa larga dei cappelli di paglia,
altri si
ripararono dietro qualche compagno più alto. Le donne si
tormentavano le mani o
si lisciavano pieghe inesistenti sulle sottane.
“Visto
che vi piace tanto rovinare i miei
piani... perché non provate a farvi perdonare? Potrei
decidere di
risparmiarvi.” Zelena si rivolse ad un Munchkin con la barba
bianca e le
sopracciglia arricciate. “Dov’è lo
Spaventapasseri?!”
“Non
lo sappiamo!”, esclamò il Munchkin,
intrecciando le dita delle mani tozze a mo’ di supplica.
“Davvero. Credeteci!”
“No.
Non ti credo.” Con un gesto secco della
mano, Zelena lo trasformò in polvere.
Tutti
gridarono, spaventati e indietreggiarono.
“Allora...
chi vuole farsi avanti e aprire la
boccaccia?”, domandò, stringendo di più
il manico della sua scopa. “Chi vuole
essere il prossimo a diventare un mucchietto di cenere?”
“Fermi
tutti! Non creiamo ulteriore confusione.”
Zelena
si girò, aspettandosi di vedere un
Munchkin un po’ più coraggioso degli altri e
desideroso di voltare le spalle
alla paladina di Oz. Invece, davanti a lei c’era un uomo
distinto ed elegante,
che non aveva nulla a che vedere con le creature basse e ridicole che
la
circondavano.
“Chi
diavolo siete voi?”
“Oh,
giusto, lasciate che mi presenti.” L’uomo
avanzò, le prese una mano e le sfiorò le nocche
con le labbra. “Io sono... Ade.”
“Il
Signore degli Inferi?”
Un
fiammante vortice azzurro esplose al centro
del cortile del palazzo di Zelena. Il vortice spedì un
Munchkin gambe all’aria
e costrinse i rimanenti ad una fuga precipitosa. Nell’aria si
diffuse un odore
acre, pungente e nauseabondo.
Ade
colse l’occasione per esaminare la Strega
dell’Ovest, mentre lei fissava con un vago sorriso la piccola
magia che aveva
usato per mettersi in mostra. I suoi occhi erano dello stesso colore
del
vortice che si stava pian piano assottigliando. La pelle verde metteva
in
risalto quei capelli rossi raccolti sotto il cappello a punta. Emanava
un
potere ed una fierezza che lo sorprendevano, per quanto lui fosse
immortale e
ultramillenario e avesse conosciuto talmente tante creature da averne
perso il
conto.
“La
mia fama mi precede.”, disse Ade. “Sono
lieto di conoscervi. E mi dispiace per questa... irruzione inaspettata.
Ma ho
sentito molto parlare di voi.”
“Oh,
sì? E in che modo?”
“In
tanti modi diversi. Per questo sono venuto.
Per aiutarvi.” La sua voce era sommessa, il tono
rassicurante. “So che state
sfidando una delle leggi più importanti della magia. State
cercando di
raggiungere... l’irraggiungibile.”
Il
cuore cominciò a martellarle nel petto.
“Irraggiungibile
per la gente comune, semmai.”
“Oh,
certo. E sono anche a conoscenza di una
certa contadinella del Kansas che vuole mettervi i bastoni fra le
ruote.
Dorothy Gale.”
“La
conoscete?”
“Mi
sono informato a riguardo. È una donna... decisamente
in gamba.” Lo disse con calma, come se fosse un dato di
fatto.
“In
gamba?” Zelena spalancò gli occhi,
furibonda. “Non ha un briciolo di magia in corpo!”
“No.
Ma ha qualcosa che tu, purtroppo, non
hai.” Aveva abbandonato la forma di cortesia. La sua bocca si
ammorbidì in un
piccolo sorriso per niente spiritoso. “L’amore
della gente.”
Zelena
trattenne a stento l’ira. Mettergli le
mani intorno al collo o strappargli il cuore non sarebbe servito a
niente dato
che era una divinità.
“Però
io credo in te.”, aggiunse Ade. “Io credo
che anche tu sia molto potente. E che Dorothy... abbia a sua volta
più di un
punto debole. Vuoi lo Spaventapasseri, giusto? È uno degli
ingredienti che ti
servono. Ed io sono l’alleato che ti serve.”
“E
a te che cosa serve, esattamente? Oppure il
diavolo è qui solo perché è colpito
dalla perfida Strega dell’Ovest?”
“Non
sono il diavolo. Sono un Dio, figlio di un
Τitano, ma dettagli.” Ade le girò intorno.
“Mi serve quello che serve a te.”
“Un
viaggio nel passato? Perché?”
“Ogni
cosa a tempo debito, Zelena.”
Il
modo in cui lui pronunciò il suo nome le
piacque e le fece sentire le farfalle nello stomaco. Era sicura che
fosse
semplicemente il potere che aveva su chiunque.
“Accetti?”,
chiese, infine, Ade.
Oltretomba. Oggi.
Lily
volava sopra la città, mantenendosi bassa e causando un
certo panico per le
strade.
Volò
fino a quando le case non si fecero più rade e
iniziò il lungo viale alberato
che conduceva al confine di Storybrooke.
Allora
si abbassò ancora di più. Vide il cartello con la
scritta Storybrooke. Al nome
impresso sullo sfondo verde mancava la lettera K e il segnale pendeva
da una
parte, parzialmente nascosto dalla vegetazione.
Con
un ultimo battito d’ali, Lily si spinse oltre la linea di
confine. Non aveva
idea di che cosa aspettarsi. Non pensava che l’uscita si
trovasse là e
immaginava che oltre quella linea potessero esserci solo guai. Qualche
trappola
di Ade. Magari sarebbe finita dritta nelle sue prigioni.
Tuttavia,
quando lo superò, il mondo divenne sfocato e si capovolse.
Trappola,
pensò.
Ebbe
la sensazione di precipitare in un vuoto senza fine, di essere
risucchiata
verso un abisso troppo profondo e dal quale non sarebbe mai riemersa.
Aiuto!
Invece
riemerse. A Storybrooke. Nella stessa Storybrooke che aveva sorvolato
pochi
minuti prima, la Storybrooke infernale, immersa nella sua densa luce
rossastra.
Disorientata, Lily planò, atterrando direttamente sulla
torre dell’orologio,
semisepolta nell’asfalto. Gli artigli aprirono crepe nel
cemento e i passanti
si affrettarono a darsela a gambe.
Lily
ripiegò le ali e riassunse la forma umana.
Storybrooke
non aveva confini. Gli Inferi erano racchiusi in quella cittadina e
oltrepassare
una linea significava solo tornare al punto di partenza.
Lily
udì un rumore secco. Un clac che
riecheggiò più forte di ogni altro rumore.
Guardando l’orologio si accorse che
la lancetta dei minuti era scivolata all’indietro.
Indietro
e non avanti. Forse un’anima aveva appena perso la sua
battaglia per
guadagnarsi un posto migliore.
Lily
distolse lo sguardo. C’era qualcos’altro che doveva
fare, ora. Qualcosa che si
era ripromessa di fare da quando aveva visto Murphy precipitare nel
Tartaro.
Si
avviò.
Emma,
avendo udito lo strepito del drago dopo che aveva oltrepassato il
confine e la
richiesta di aiuto, aveva istintivamente cercato la sua mente per
assicurarsi
che stesse bene.
Vedendo
dove si stava dirigendo, la seguì.
La
cripta era deserta. All’interno non c’era nessuno,
solo un gran freddo e molto
disordine.
Regina
vide che tutti i libri, gli amuleti magici, le ampolle e le pozioni
erano
sparse alla rinfusa sulle mensole e sui ripiani, come se da
lì fosse appena
passato un tornado, ma erano anche pieni di polvere, segno che non
venivano
toccati da un bel pezzo. Qualunque cosa ci fosse nel bosco con loro si
era
allontanata.
Mary
Margaret posò l’arco e prese a rovistare nei
bauli, esaminando gli oggetti che le
capitavano tra le mani. Regina aprì le ante
dell’armadio che conteneva
i cuori dei
suoi nemici
e lo trovò vuoto. I cuori
non c’erano. Lo richiuse con un colpo secco. Mary Margaret
urtò un’ampolla, che
cadde e si ruppe.
-
Vuoi stare attenta? – esclamò Regina. –
Non sappiamo cosa può succedere se
rompiamo qualcosa!
-
Scusami. L’ampolla era vuota. – rispose Mary
Margaret.
-
Non importa cosa conteneva o non conteneva l’ampolla.
È la mia cripta. Fa
attenzione!
Mary
Margaret sospirò. Gettò a terra la faretra.
– Regina, che cosa ti prende?
-
Cosa
mi prende? – Il libro che aveva aperto si richiuse da solo,
sollevando una
nuvola di polvere. – Non abbiamo idea di che cosa stiamo
cercando né di come
faremo a portare Emma fuori da questo maledetto posto. Ovunque io
guardi c’è
qualcuno che ha un conto in sospeso con me. William è
morto... beh, lo era già,
ma ora è condannato. E mia sorella...
-
Non potevi fare niente per William. – la interruppe Mary
Margaret, roteando gli
occhi. – E poi io non credo affatto che sia questo il motivo
del tuo malumore.
-
Oh, davvero?
- Credi che io non ti
conosca, Regina? Vedo
quanto sei preoccupata.
-
Anch’io
conosco la tua boccaccia! Non so perché ti ho chiesto di
venire con me. Avrei
potuto portarmi dietro tuo marito, almeno non avrei ascoltato tutte
queste
chiacchiere. – Regina evitava di guardare la madre di Emma.
Non le piaceva il
suo tono.
Mary
Margaret non se la prese. – Che cosa succede con Emma?
-
Cosa ti fa pensare che stia succedendo qualcosa?
-
Non hai fatto altro che evitarla. A malapena le hai rivolto la parola.
Vi ho
sentite parlare in giardino ieri sera.
Il
cuore iniziò a martellarle. – Abbiamo parlato di
Henry.
-
Allora dovreste smettere di parlare di Henry e iniziare a parlare di
voi.
Sarebbe... la cosa più giusta.
Non
poteva credere alle sue orecchie. Si voltò, quasi Mary
Margaret l’avesse appena
pugnalata in mezzo alle scapole. Avrebbe tanto voluto trovare una
risposta
adeguata, ma la sua mente faticava a riordinare i pensieri.
-
Ho
cominciato a notarlo quando eravamo a Camelot. Ma forse l’ho
notato anche prima
e non riuscivo a capire che cosa stessi vedendo. –
continuò Mary Margaret.
-
Non dire un’altra parola.
“Ma
ora... devo chiederti di pensare a nostro
figlio e alla mia famiglia. Devi portarli via da qui, se le cose si
mettono
male. Devi portare via tutti.”
“Regina.
Devi promettermelo.”
-
So
benissimo che non approvi, quindi non dire niente. –
ribadì.
-
Non ho mai detto che non approvo, Regina.
-
E
che ne è della tua approvazione per Capitan Mascara?
Mary
Margaret si appoggiò ad un mobile. – Quello che
voglio io è che Emma sia felice.
E mi importa anche della tua felicità.
-
Tutto questo è folle. Non ne avrai parlato con qualcuno,
spero!
-
Non ho parlato con nessuno, Regina. – Le si
avvicinò. – E poi... effettivamente
sì, è folle. Ma non mi stupisce.
L’amore... è una cosa strana. Quando ho
conosciuto Azzurro l’ho colpito in faccia.
E
lei quando aveva conosciuto Emma le aveva offerto da bere e aveva
cercato di
capire quanto potesse nuocerle.
-
Beh ed io volevo eliminare tua figlia. Volevo che se ne andasse... ed
evitare
che fosse la mia rovina.
-
Lo
so. Ma sai... quello è il passato. Il presente è
ben diverso. Tu... sei
diversa.
Suo
malgrado, Regina sorrise.
-
Insomma,
siamo tutti diversi. Guarda noi. Siamo qui a parlare tranquillamente
nella tua
cripta... all’Inferno. L’avresti creduto possibile
solo un paio di anni fa?
-
Immagino che la cosa ti diverta.
-
Oh, sì.
Regina
avrebbe voluto sentirsi più sollevata, eppure non lo era
affatto. – Io non...
non credo di...
-
Ti
fa paura, vero?
Non
rispose.
-
L’amore
fa sempre paura. – Mary Margaret le appoggiò le
mani sulle braccia, per
confortarla. – Ma pensaci... io e David ne abbiamo passate
tante, ma non
abbiamo mai smesso di credere che ci saremmo ritrovati. Quello che
ottieni in
cambio quando ami qualcuno... supera di gran lunga i rischi.
-
Io
non sono come te. – replicò Regina. – Ed
Emma è qui per colpa mia.
-
Non è colpa tua, Regina. Abbiamo sbagliato tutti, a Camelot.
E quello che ha
fatto Emma... è stata una sua scelta. Voleva distruggere
l’oscurità.
-
Aveva chiesto a me, di farlo. – Regina si sentiva la gola
stretta in una
dolorosa morsa che quasi le impediva di respirare. La sua mente
evocò
l’immagine di una Emma ancora oscura che le chiedeva di
ucciderla. Evocò le
parole di Τremotino, che le diceva che non avrebbe portato a
termine quel
compito, perché lei non era più la Regina
Cattiva. Evocò l’immagine di se
stessa, con Excalibur levata sopra la testa, pronta a colpire. Ma era
venuta
meno alla promessa.
-
Ora dobbiamo pensare a come uscire da qui. E credo che sia proprio
questo il
punto, Regina. – Mary Margaret aveva abbassato il tono di
voce, come se temesse
che qualcuno si fosse appostato nell’ombra per ascoltarle. Il
che era
possibile. Ade aveva occhi e orecchie un po’ ovunque.
-
Di
che cosa stai parlando, adesso?
-
Killian non ha potuto aiutare Emma. Il suo cuore... non è
servito. E il suo
nome non è su quelle tombe, come i nostri.
I
suoi occhi verdi la fissavano con tale risolutezza che Regina ne fu
sconcertata.
-
E
allora?
-
Forse tu puoi, Regina. – concluse Mary Margaret. –
Forse il tuo cuore può
aiutarla.
Città
di Smeraldo. Oz. Durante la prima
maledizione.
Nessarose,
la Strega dell’Est, entrò nella
grande sala del palazzo della Sorellanza e trovò un uomo
seduto al suo posto,
intento ad ammirare il grande cristallo al centro della tavola rotonda.
Le
altre tre sedie erano vuote. Glinda e
Locasta non c’erano.
“Chi
diavolo siete? Dove sono le mie sorelle?”,
domandò Nessarose, sollevando una mano, pronta a scagliare
la propria magia contro
l’intruso.
“Non
agitatevi. Stanno bene. Sono solo
occupate.” L’uomo si alzò. “Ed
io sono... Ade. Immagino che abbiate sentito
parlare di me.”
Le
porte si chiusero di scatto alle spalle di
Nessarose e il chiavistello si mosse, infilandosi nell’anello
di ferro.
“Che
cosa state facendo? Cosa ci fate qui?”,
chiese la Strega dell’Est, mentre la sua mente pensava
febbrilmente ad un modo
per difendersi.
“Non
affannatevi. Nessuno verrà ad aiutarvi. Ma
non sono venuto per combattere. Solo per parlare. E proporre un
accordo.”
“Accordo?”
“Vi
interesserà. Io so chi siete voi.”
Nessarose
non capiva se il Signore degli Inferi
fosse serio o la stesse prendendo sonoramente in giro. Non riusciva a
leggere
la sua espressione, né tantomeno comprendeva appieno
l’inflessione della sua
voce.
“Nessarose,
la Strega dell’Est. Vediamo: che
cosa dovrebbe rappresentare l’Est?” Ade si
alzò, girando lentamente intorno al
tavolo. “Oh. Ecco. Il coraggio. Quello che voi pensate di
aver avuto quando
avete posto fine alla vita di vostra madre e strappato il cuore a
vostra
sorella per soggiogarla.”
Nessarose
rispose senza esitazioni. “Non so di
che cosa stiate parlando.”
“Sul
serio? Vostra sorella era nata per prima.
E non solo. Era più potente. Vostra madre lo sapeva e per
quanto fosse
gentile che entrambe... era più severa
con la maggiore, perché avrebbe preso il suo
posto.”
“E
con questo?”
“E
con questo... voi avreste voluto lo stesso
trattamento. Siete sempre stata così, fin dal principio. E
avete sempre saputo
fingere bene.” Ade si accomodò sul bordo del
tavolo. Sorrideva, ma la sua
sembra una normalissima chiacchierata. “Come quando, a dodici
anni, avete preso
due gattini che piacevano tanto ad Evanora e li avete annegati nel
fiume.”
Pur
essendoci una grande distanza tra loro,
Nessarose riusciva a sentire il suo profumo, pungente e viscido come
quello di
un fiore in putrefazione.
“C’e
chi dice che cattivi non si nasce ma lo si
diventa, solo che nel vostro caso non solo si nasce cattivi... ma lo si
diventa
sempre di più.”
“Mia
madre sarebbe morta comunque. Ho solo
alleviato le sue sofferenze.”
“Forse
no. Evanora pensava di poterla salvare.
Aveva trovato gli ingredienti per curarla. Voi, invece... avete usato
la
Sognombra. Che cosa terribile.”
Nessarose
si morse il labbro. “Mia sorella era
incapace di governare.”
“Quindi
avete atteso che tornasse a casa con
gli ingredienti e... l’avete aggredita alle spalle. Rubandole
il cuore e
usandolo contro di lei per... quanti anni? Molti, vero?”
Nessarose
scagliò una sfera di fuoco contro
Ade, che se ne infischiò e la spense semplicemente
soffiandoci sopra.
“Suvvia,
non fate così. Non sono certo venuto
qui per giudicarvi.”, continuò, imperterrito.
“Anzi, al contrario. Avete fatto passare
vostra sorella per una tiranna, anche se in realtà era in
vostro potere, avete
schiavizzato un intero popolo e vi siete divertita a distruggere le
vite
altrui... e avete mandato molte anime nel mio regno. Davvero
notevole.”
“Cosa
intendete fare? Dirlo alle mie sorelle?”
“Le
vostre sorelle sono delle incapaci. Su
questo siamo entrambi d’accordo. Altrimenti vi avrebbero
già smascherata. Lo
avrebbero fatto il giorno in cui l’Est è stato
liberato da una finta Strega
Malvagia per consegnarne un’altra alla Sorellanza di
Oz.” Ade rise di gusto.
“No, io sono qui perché ho bisogno del vostro
aiuto. Vogliamo tutti qualcosa.”
“Voi
che cosa volete?”
Ade
le parlò del suo incontro con Zelena, del
suo piano per cambiare il passato. Le disse di suo fratello Zeus e di
quanto
desiderasse impadronirsi dell’Olimpo.
“Zelena
non ci riuscirà mai. Non è fattibile.”,
concluse Nessarose, in tono sprezzante.
“Oh,
credetemi. È molto determinata. Una cosa
che ammiro.”, le rispose, proiettando nella propria mente
quegli sfolgoranti
occhi azzurri. “Potrebbe riuscirci. Ma io non sono sicuro che
si fiderà di me.
E che mi aiuterà a far ripartire il mio cuore.”
“Ed
io che cosa c’entro?”
Oltretomba. Oggi.
Frugando
nella cripta, Regina aveva ritrovato il libro di incantesimi di sua
madre e
l’aveva portato via con sé. Uscì con
Mary Margaret alle calcagna, lei e i suoi
dannati discorsi sulla speranza, che poco avevano a che fare con quella
cappa
rossa e fastidiosa che avvolgeva l’intera città.
-
Regina...
-
Ed
io che ti ho pure dato retta. Ma che cosa mi passa per la testa? Deve
essere
questo posto. Dobbiamo andarcene il prima possibile!
Mary
Margaret l’afferrò per un braccio, costringendola
a voltarsi.
-
Non provarci. – la minacciò Regina.
“Forse
tu puoi, Regina. Forse il tuo cuore può
aiutarla.”
Tuttavia
la madre di Emma ci provò comunque. Non le importava niente
dei suoi
avvertimenti. -Puoi davvero aiutarla. Possiamo almeno tentare.
-
No, non possiamo. E sai anche tu il perché.
-
Non credo di saperlo.
Regina
aveva una mezza idea di usare la magia per andarsene da quel posto da
sola e
lasciare che Mary Margaret tornasse a piedi. Era in grado di cavarsela
anche
all’Inferno e non avrebbe più dovuto affrontare un
simile argomento, non
davanti ad Uncino e a David.
Invece,
affondò una mano nel proprio petto ed estrasse il cuore.
-
Regina! – gridò Mary Margaret, colta di sorpresa.
-
Guardalo. – le ordinò, reggendo il cuore nella
mano destra. – Guarda il cuore
che secondo te potrebbe salvare Emma.
-
Lo
conosco già.
-
Guardalo lo stesso.
Mary
Margaret osservò l’organo pulsante nella mano di
Regina. L’oscurità si
contorceva, aprendosi in alcuni punti
per lasciare spazio al rosso.
-
Credi davvero che
io possa dividere
questo cuore e darne una parte ad Emma... dopo che lei è
morta per distruggere
l’oscurità?
-
Regina...
Lei
sollevò l’indice per ammonirla. – No. La
risposta è no.
-
Sono disposta a tutto pur di salvare mia figlia. –
replicò Mary Margaret, senza
curarsi della sua espressione dura e sconvolta.
– Non la perderò di nuovo. E so che
anche tu faresti qualsiasi cosa.
-
E
allora troveremo un altro modo! – Regina rimise il proprio
cuore al suo posto,
serrando le palpebre contro la fitta di dolore e trattenendo il
respiro.
-
E
se non esistesse un altro modo?
Il
cuore che Regina si era appena strappata era oppresso da una
strisciante e spaventosa
sensazione di perdita, la stessa che aveva provato quando aveva visto
il corpo
senza vita di Emma sulla barella, prima che lo portassero via.
– Esisterà. Deve
esistere.
Emma
sostò dietro agli occhi di Lily mentre l’amica
spingeva la porta del Granny’s
Diner e lo attraversava, dirigendosi verso il bancone. La Strega Cieca
diede un
ordine secco ad una delle cameriere, piazzandogli in mano un vassoio
con due tazze
fumanti.
Non
appena Lily si avvicinò, lei arricciò il naso e
si sporse in avanti. – Conosco questo
odorino. Lilith, vero?
-
Lily. Cerco informazioni su una persona. – rispose, andando
dritta al punto.
-
Un’altra? Credevo l’avessi già trovata.
-
Non Emma. Un uomo. Si chiama Murphy Logan. –
Appoggiò i gomiti sul bancone. –
Sei qui da un po’ di tempo. Immagino che tu conosca molta
gente.
-
In
effetti... – iniziò la Strega Cieca. –
È difficile dire da quanto tempo sono
qui, ma deve essere molto... e in ogni caso non posso aiutarti. Che io
sappia
quel tizio... ha avuto ciò che si meritava.
-
Ed
io vorrei solo qualche informazione. So bene che fine ha fatto.
– precisò Lily,
acidamente. In realtà, lo rivide mentre precipitava nel
Τartaro. Le sembrò di
udire di nuovo il suo grido, un attimo prima di cadere.
-
Le
informazioni non sono gratis. – si limitò a
rispondere la Strega.
-
Lo
immaginavo. Che cosa vuoi?
Una
mano si infilò sotto al banco e iniziò a tastare,
fino a quando non afferrò
qualcosa, che si rivelò essere un’ampolla. La
stappò. – Soffiaci dentro.
Lily
guardò l’ampolla, perplessa. – Come?
-
Soffiaci dentro. – ribadì la Strega. –
Non hai idea di quanto valga il respiro
di un vivo al mercato nero. Mi serve. E quando ci
appiccicherò sopra un’etichetta
con scritto... Lilith... ti assicuro che faranno la fila!
Non
perse alro tempo e consegnò uno sbuffo del suo respiro. La
Strega si affrettò a
appare nuovamente l’ampolla, con un sorriso soddisfatto.
-
Ebbene? – disse Lily, impaziente.
-
Oh, già. – La Strega si riscosse e andò
sul retro del locale, a mettere al
sicuro il respiro della ragazza via. Quando tornò, aveva una
chiave in mano. –
Prendi. La chiave della sua stanza.
-
Viveva qui?
-
Purtroppo sì.
Lily
prese la chiave e la soppesò, come se volesse assicurarsi
che fosse vera. Poi
si diresse verso le scale che conducevano alle camera da letto, al
primo piano.
Si
può sapere che cosa pensi di fare?, domandò
Emma. Che cosa pensi di fare con le chiavi
della stanza di Neal, in particolare?
Lily
corrugò le sopracciglia. Beh...
non avevo
idea che fosse la camera di Neal!
Lo
é. Perché vuoi metterti a frugare in quella
camera?
Cosa pensi di trovare?
Non
lo so. Forse niente. Forse qualcosa...
sulla figlia di Murphy.
Arrivò
in cima alle scale e svoltò a destra. La camera era in fondo
al corridoio. Lily
infilò la chiave nella toppa ed entrò, senza
troppe cerimonie.
Un
senso di inquietudine la pervase.
Vuoi
cercare la figlia di Murphy, quindi?, domandò
Emma, con cautela.
Sì.
Devo farlo.
Lily,
quello che è successo a Murphy... era inevitabile.
Τi avrebbe uccisa.
Lo
avrebbe fatto di cero. Ma sono stata io ad
ucciderlo per prima. E ho lasciato il suo corpo in un’area di
servizio, dopo
averlo preso a calci.
Silenzio.
Emma era ancora lì, ma non commentò. Lily
cominciò a frugare in giro. Il letto
era intatto, ma scostò comunque le coperte e mise le mani
sotto la fodera del
cuscino. Poi sollevò il materasso.
Come
pensi di trovarla, sua figlia?
Quando
orneremo a Storybrooke mi darai il nome
di quel contatto... quello che ti ha dato una mano a trovare me.
Nell’armadio
c’erano ancora dei vestiti, ma nulla che potesse esserle
utile. Allora aprì i
cassetti del comodino.
Avremo
bisogno di qualche informazioni in più,
Lily.
Stava
per risponderle, ma poi scovò qualcosa fra le cianfrusaglie
ammassate nel terzo
cassetto. Estrasse la lunga catena arrugginita nella quale era infilato
un
grosso medaglione.
Che
cos’è?, domandò
Emma, improvvisamene guardinga.
Il
medaglione era una grossa pietra rossa al centro di una fiamma bordata
d’oro. E
aveva l’impressione che non fosse una chincaglieria
qualunque.
Non
ne ho idea.
_________________________
Angolo
autrice:
Eccomi.
So che qualcuno magari si stava chiedendo dove fossi finita, ma i
problemi con
la mia tastiera continuano, inesorabili, quindi non riesco
più a postare come
vorrei.
Anyway,
il nuovo capito avrebbe dovuto essere una cosa sola con il seguente,
però era
davvero troppo lungo quindi... l’ho diviso in due.
|
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Capitolo 9 *** 9. ***
9
“Sono
giunta alla convinzione che
bene e male
sono
nomi per ciò che fanno le persone,
non per quello che sono. La sola cosa che
possiamo dire
è che questa è una buona
azione perché
aiuta qualcuno,
o che quest'altra è cattiva perché fa male a
qualcuno.
Le persone sono troppo complesse perché le si
possa etichettare.”
[Philip
Pullman, Queste Oscure Materie: Il
Cannocchiale
d’Ambra]
Oltretomba.
Oggi.
Henry
fece molta attenzione quando azionò il passaggio che
conduceva alla stanza
segreta.
Mentre
la sua famiglia era impegnata in varie zone dell’Oltretomba,
lui aveva chiesto
alle sue madri di poter raggiungere Lily per essere d’aiuto.
Regina aveva
protestato un bel po’ e anche Emma, ma alla fine era riuscito
ad avere la
meglio.
Ed
era
anche riuscito a convincere Lily a coprirlo mentre andava in un posto.
-
Le
tue madri mi uccideranno.
-
Emma
no. Non ti farebbe mai niente.
-
Ma
Regina sì. E poi dimentichi che Emma può vedere
quello che faccio, se vuole.
Fino a poco fa eravamo in contatto.
-
Ma
tu lo capisci quando succede. Non puoi bloccarla?
-
Non
sono ancora così brava ad usare questo... dono. E poi forse
è meglio che io
venga con te. Ti caccerai nei guai.
Henry
aveva scosso la testa. – Tu hai altro da fare. Non
preoccuparti per me. Me la
caverò.
In
realtà, aveva la costante impressione che qualcuno lo
osservasse, nascosto
nell’ombra. Non si sentiva al sicuro da nessuna parte, ma
doveva fare ciò che
aveva in mente.
La
libreria dentro la grande villa era ancora là, con tutti i
libri sistemati
ordinatamente sugli scaffali. Ne prese un paio a casaccio e vide che
erano
bianchi. I tavoli e le poltrone erano coperti da teli bianchi e il
pavimento
era polveroso al punto tale che Henry notò le impronte delle
sue scarpe ben
impresse su di esso.
Deve
essere qui, pensò.
Aveva
provato anche in altri posti, ma non aveva fatto altro che
tergiversare. Sapeva
benissimo dove trovarla.
Udì
un
rumore alle sue spalle, come di qualcosa che grattava contro il legno.
Henry
impallidì e si voltò, convinto di dover
affrontare un intruso. Non aveva
nemmeno un’arma con sé. Forse aveva davvero fatto
male a venire lì da solo.
Attese
che qualcosa si palesasse, ma la villa era ripiombata nel silenzio.
Allora
vide la luce. Una luce pulsante e azzurrata che proveniva da una
lampada sotto
uno dei teli. Sembrava che lo stesse invitando ad avvicinarsi.
Henry
sollevò il telo, sperando di non cascare in qualche odioso
tranello del Signore
degli Inferi e allungò una mano, tastando fino a quando non
avvertì la
consistenza della penna sotto le dita.
La
sua
penna. Era bella e luminosa. Emanava un’intensa luce e
l’Autore la tenne tra le
dita, osservandola, aspettandosi qualcosa. Qualche risposta, forse.
Aspettandosi che la penna gli dicesse che cosa era più
giusto e cosa era
sbagliato. Aveva già pensato di usarla per riportare in vita
suo padre, ma
l’Apprendista l’aveva messo in guardia sul suo
potere.
Però
sapeva una cosa. Ora aveva un’arma.
Henry
uscì dalla biblioteca.
Una
mano guantata si chiuse sul suo braccio in una stretta
d’acciaio.
-
Dove
credi di andare, giovanotto?
Zelena
controllò la bambina, che dormiva beatamente nella sua culla
e poi scostò le
tende.
Malefica
stava per aprire una breccia nella barriera intorno alla casa. Non ci
era
ancora riuscita, ma non ci avrebbe impiegato molto. Fiyero e Marian
avevano le
frecce pronte. Quindi immaginava che presto avrebbe combattuto contro
un drago,
contro il tirapiedi di Glinda e contro la ex moglie di Robin.
Zelena
tirò le tende con un gesto secco della mano.
Allora
vide il globo azzurro che fluttuava sopra al tavolo.
Era
grande quanto una palla da bowling e ronzava, un ronzio abbastanza
forte da
ferirle le orecchie e farle battere i denti. Zelena provò a
colpirlo con la
magia per scacciarlo, ma quello sfrecciò a destra e a
sinistra, schivando ogni
attacco facilmente.
Infine
si fermò all’altezza dei suoi occhi. Zelena
sentiva la pelle che formicolava e
uno strano sapore in bocca.
Il
globo si avvicinò ancora e la toccò sulla fronte.
Un’esplosione
accecante come un fuoco d’artificio cancellò la
luce rossastra dell’Oltretomba
e tinse ogni cosa di un celeste pallido.
Foresta
di Oz. Durante la prima maledizione.
“A
volte per trovare qualcuno devi avere... i
giusti mezzi”, disse Ade a Zelena, recuperando un aggeggio
arrugginito in mezzo
ad una moltitudine di cianfrusaglie, tutte assiepate nel cuore della
foresta di
Oz. “Il rifugio di Dorothy non è lontano, ma
è protetto da un incantesimo. Per questo
le tue scimmie non sono riuscite a vederlo.”
“D’accordo,
ma perché dobbiamo andarci... su
quell’affare?”, domandò Zelena.
“Oh,
già. Non ne avete, ad Oz.” Ade montò in
sella. “Si chiama bicicletta. Vieni. Provala.”
Zelena
non era molto sicura di cosa stesse per
succedere e fissò Ade, perplessa e incuriosita.
“Oh,
per favore. Fidati di me.”
Lei
si avvicinò alla bicicletta con cautela,
pensando a quanto fosse simile ad una scopa dotata di ruote. Poi si
accomodò
davanti ad Ade. Avvertì lo strano profumo del Signore degli
Inferi, un sentore
di fiori appassiti, ma non lo trovò sgradevole.
Ade
esitò. A Zelena parve che il suo corpo si
stesse irrigidendo. Poi lui gettò fuori il respiro che aveva
trattenuto.
“Tutto
bene?”, domandò la Strega dell’Ovest.
“Certo.
Vogliamo andare?”
Era
il suo cuore quello che aveva sentito? Un
unico, flebile battito. L’aveva colto impreparato,
perché era da millenni che
il suo cuore non batteva, grazie alle geniali trovate di suo fratello.
Ade
si mise a pedalare di buona lena.
Zelena
lanciò un gridolino sorpreso quando la
bicicletta prese velocità, scivolando lungo il sentiero che
si snodava nella
foresta. Il vento le sollevò qualche ciocca di capelli.
Provò una strana
ebbrezza, qualcosa di simile a ciò che provava quando
cavalcava la scopa e si
lanciava nel cielo di Oz. E la sua risata fu un’altra cosa
che sorprese Ade.
Gli sembrò un suono bellissimo, giovane e fresco, quasi
innocente, in netto
contrasto con l’animo tempestoso della Strega.
“Sì,
è proprio come una scopa con le ruote!”,
esclamò Zelena.
Poi
la ruota anteriore cozzò contro una radice
sporgente ed entrambi ruzzolarono su un tappeto di foglie morte. Zelena
si
ritrovò sopra di lui, che la fissò con un sorriso
divertito.
“Presa.”,
disse. “Vorresti rifarlo?”
“Beh,
ovvio che sì.” Zelena si tirò su,
rassettandosi il vestito nero ed Ade raccolse il cappello a punta della
strega,
rimettendoglielo sul capo. “Qual è la prossima
mossa? Come farà questa
bicicletta a condurci dallo Spaventapasseri?”
“Non
è una bicicletta qualsiasi.”, rispose Ade.
“È la bicicletta di Dorothy. E il luogo in cui
l’abbiamo trovata è il luogo in
cui la sua casa è precipitata. Serve un incantesimo,
così possiamo
localizzarla.”
“Non
puoi farlo tu?”
“I
miei poteri sono limitati al di fuori del
mio regno.”, rispose, in tono piccato.
Zelena
lanciò l’incantesimo di localizzazione.
Oltretomba. Oggi.
Che
cos’è? domandò
Emma.
Non
ne ho idea.
Quando
Mary Margaret e Regina tornarono dalla loro spedizione alla cripta,
Emma era
ancora connessa a Lily e, attraverso i suoi occhi, vedeva chiaramente
lo strano
amuleto che la ragazza aveva sgraffignato dalla stanza di Murphy Logan,
al
Granny’s.
David
aveva trovato dei libri uguali a quello che Henry si portava sempre
dietro
durante l’ispezione della villa di Regina. Solo che le pagine
erano bianche.
Erano nella camera di Henry, forse in attesa del proprietario.
-
Che
cosa succede? – chiese Regina, fissando Emma, profondamene a
disagio.
-
È
molto interessante. - commentò
Τremotino,
senza rispondere alla sua domanda. - I Cavalieri di Drago avevano un
legame
simile con i loro draghi. Era qualcosa di molto speciale e onorevole.
Un vero
peccato che si siano estinti.
A
Regina non importava un bel niente. – Dove ti eri cacciato?
-
A
cercare un modo per andarcene da qui.
-
Oh,
davvero? E quali sarebbero questi modi di cui parli?
-
Ho i
metodi. – In realtà appariva scuro in scuro in
volto e meditabondo.
In
quel momento Emma interruppe il contatto con Lily e rientrò
in sé, guardandosi intorno.
Batté più volte le palpebre, come se non fosse
del tutto sicura di dove si
trovasse.
-
Lily
ha trovato qualcosa? – domandò Mary Margaret.
-
Non
ne sono certa. – rispose Emma.
-
Non
deve passare troppo tempo nella mente di Lilith. È un
consiglio. Le toglie le
forze. – disse Tremotino. – Forse prima non se ne
rendeva conto perché era un
Signore Oscuro... ma ora dovrebbe.
-
Sto
bene. – disse Emma, alzandosi in piedi.
Subito
la travolse un’ondata di vertigini e sentì le
ginocchia molli come gelatina.
Barcollò e Regina accorse per sostenerla.
Foresta di Oz. Durante la prima maledizione.
Dorothy Gale sedeva davanti alle braci morenti
del fuoco insieme allo Spaventapasseri. La casetta in cui si era
rifugiata era
una stamberga di legno che avrebbe potuto ospitare al massimo una
persona e
Zelena immaginava che comunque Dorothy doveva stare molto stretta.
Lei
e Ade erano nascosti nel buio, dietro ad un
gruppo di alberi.
“Ora
la vedi?”, chiese il Dio, divertito.
“Oh,
sì.” Zelena aveva annientato
l’incantesimo
di protezione che circondava il luogo in cui Dorothy si nascondeva.
“Le sorelle
di Oz dovrebbero pensare a qualcosa di meglio.”
“Ne
sono convinto. Vai e prenditi ciò che ti
serve.” Le rivolse un sorriso sornione, ancora in sella alla
scopa con le ruote
che chiamava bicicletta.
“Volentieri.
E se la mocciosetta si mette in
mezzo, vedremo se il sangue si abbina bene al suo vestito.”
Zelena
marciò con decisione fino al bivacco,
sentendo montare la furia ad ogni passo. Ade la osservò,
compiaciuto e
apprezzandone la fierezza. Non vedeva l’ora di assistere ad
una bella lotta.
Impari, ma pur sempre una lotta. Forse avrebbe davvero visto scorrere
il
sangue. Sarebbe stato un gran bello spettacolo.
“Ridammi
lo Spaventapasseri!”, gridò Zelena,
piombando sul fantoccio, che lanciò uno strillo non appena
la vide.
“Non
ci pensare nemmeno!”, rispose Dorothy,
estraendo la spada.
Zelena
scagliò un semplice incantesimo contro
di lei, congelandola. Poteva ancora parlare, ma dal collo in
giù era
paralizzata.
Poi
la Strega dell’Ovest affondò la mano nella
testa di paglia dello Spaventapasseri e si appropriò del
cervello di cui aveva
bisogno. Lo Spaventapasseri finì gambe all’aria ed
iniziò a farfugliare a
vanvera. “Questi contrattempi... non sai quanto li
detesto.”
“Non
ti lascerò vincere.”, disse Dorothy.
La
sua cocciutaggine la sorprese e tuttavia non
poté fare a meno di deriderla. “Oh, davvero? E
qual è la tua idea? Posso farti
molto male e lo sai.”
“Non
ho paura.”
“Pessima
risposta.”
“Dai
pure il peggio di te. Io non avrò mai
paura della Strega dell’Ovest.”
Zelena
si accigliò. “Da dove viene tutta questa
insolenza? Che cosa ti è capitato in Kansas?”
Dorothy
sembrava in lotta con sé stessa, non
solo con lei. Se aveva pronta una risposta adeguata, decise di
tenersela.
“Ma
in fondo non mi importa. Abbiamo finito.”,
concluse, accarezzando il cervello che stringeva tra le mani.
“E sai una cosa?
Non ti ucciderò. Che tu ci creda o no, non voglio nemmeno
farlo. Quello che
voglio... è che ogni Munchkin, ogni Quadling, ogni abitante
di Oz... capisca che
Dorothy Gale non può proteggerli.”
Frustrata,
Dorothy seguitò a fissare Zelena
senza rispondere.
“E
sono sicura che lo sai anche tu. Insomma,
guardati intorno. Che cosa vedi?”
L’aria
della notte, fredda e limpida. Il
movimento costante delle chiome degli alberi. Il richiamo di un gufo.
Il buio.
Le stelle a milioni. La luna piena. E la voce balbettante dello
Spaventapasseri
che annaspava a terra e agitava le gambe.
“Niente.”,
disse Zelena, ridacchiando. Scandì
ogni singola parola, godendosi la sensazione di rigirare il coltello
nelle
piaghe della ragazzina venuta dal Kansas. La ragazzina che le aveva
rubato il
posto quando era solo una bambinetta con un ridicolo vestito a quadri
azzurri. La
ragazzina che voleva distruggere il suo piano, portandole via uno degli
ingredienti per il suo incantesimo. “Niente. E nessuno. Non
c’è nessuno in
grado di aiutarti. Non hai amici, non hai una famiglia... non hai un
amore. Non
hai poteri.”
“Io
ho...” cominciò Dorothy.
“Cosa?
L’amore del popolo? Non ti servirà a
niente.” Zelena sfiorò la lama della sua spada con
la punta dell’indice ed essa
si frantumò. Alla ragazza non rimase che l’elsa.
“Loro non possono proteggerti.
E nemmeno quelle streghe da quattro soldi che passano il tempo sedute a
tavola
pensando di avere in mano il destino di Oz. Almeno io... ho la magia. E
sono
temuta. Non ho bisogno di qualcuno che mi difenda.”
“Non
esserne così sicura.”
“Lo
sono. E sono anche sicura che tu non sia la
paladina di Oz.” Zelena si allontanò da lei.
“Sei la paladina del nulla.”
Oltretomba. Oggi.
-
Sai,
credevo avessimo un accordo. – disse Crudelia, trascinandolo
fuori dalla villa
e stringendo il suo braccio in una morsa ferrea.
Henry
cercò di divincolarsi, ma inutilmente. – Non ho
mai detto di sì.
-
No... però ero sicura che ci stessi pensando. È
vantaggioso per entrambi.
Riporti in vita me con la penna... e tua madre smette di essere
un’assassina.
-
Non
ho nessuna penna. L’ho rotta.
-
Siamo nell’Oltretomba, mio caro. – Crudelia era
attorniata dal pesante odore di
sigaretta, che fumava tramite il bocchino verde che reggeva ancora
nella mano
libera. Un ciuffo di capelli bianchi le ricadeva scompostamente sul
viso magro
e gli occhi azzurri bruciavano di collera. Gli venne la nausea quando
gli alitò
in faccia. – E quella non è una penna comune.
Infatti sei venuto a cercarla.
-
Non
l’ho trovata. Non è qui.
-
Invece sì. Stavi frugando in quella stanza.
Henry
diede un altro strattone e quasi le sfuggì, ma lei non si
lasciò cogliere alla
sprovvista. Lo riacciuffò e gli infilò le mani
guantate nelle tasche della
giacca.
-
Hai
fatto male a venire da solo. Ti senti un eroe? – chiese
Crudelia, mentre le
dita si infilavano sotto la giacca. – Perché le
tue mammine non sanno che sei
qui, vero monellaccio?
Henry
trattenne il fiato quando Crudelia raggiunse la tasca in cui aveva
nascosto la
penna. Pensava davvero che fosse finita per lui. Non sapeva se Crudelia
l’avrebbe ucciso né se potesse farlo, visto che
Isaac l’aveva resa incapace di
fare del male, ma avrebbe perso la penna. E non voleva. Lui era
l’Autore e
l’idea di essere costretto a cedere la penna lo rendeva
furioso.
Ma
ora
che era morta, forse il marchio di Isaac non valeva più.
Quella volta, sul
ciglio del burrone, l’avrebbe ucciso senza battere ciglio,
ficcandogli una
pallottola in corpo. E non c’era sua madre con la sua magia,
ora. Non c’era
nessuno.
Crudelia
tastò e tastò. – Allora, dove
l’hai nascosta?
Henry
era sconcertato.
-
Dov’è?!
– chiese ancora Crudelia.
Sapeva
che era lì, dove aveva già guardato, ma in
qualche modo la penna non si faceva
trovare.
Stava
per risponderle che ovviamente non l’aveva, proprio come le
aveva detto
all’inizio. Ma un’ombra enorme oscurò
entrambi e le chiome degli alberi vennero
scosse brutalmente. Henry udì un forte sbatacchiare.
Crudelia
alzò la testa, in tempo per vedere il drago nero scendere in
picchiata, tenendo
le ali aderenti al corpo. Henry approfittò della distrazione
per sottrarsi alla
presa della donna. Scappò in direzione di Lily e, non appena
fu abbastanza
distante da Crudelia, il drago sprigionò una vampa di fuoco.
Un
vorace inferno inghiottì Crudelia.
Henry
comprese immediatamente che dovevano andarsene e quindi era necessario
che
montasse in sella. Annaspando e scivolando, riuscì a salire
sulla groppa del
drago. La sua corazza era dura e calda. Lo stomaco si
ribaltò quando Lily si
staccò di nuovo da terra, sbattendo le grandi ali per
prendere quota.
Ovviamente
il fuoco non aveva scalfito Crudelia e nemmeno la casa o gli alberi che
la
circondavano, ma la torrenziale pioggia di fiamme incandescenti era
stata
accecante.
“Siamo
nell’Oltretomba. E quella non è una
penna comune.”
La
penna non aveva voluto essere trovata. Non da una come Crudelia. Solo
dall’Autore.
Henry
guardò giù, ignorando le vertigini e vide la
donna riversa in un letto di
foglie e rami. Distinse i capelli bianchi e neri tutti arruffati e le
scarpe di
un rosso acceso.
Poi
Lily sbatté le ali e virò verso il centro della
città.
Poco
dopo, il drago sbucò da una nuvola rossa ed
atterrò con un tonfo poderoso
davanti alla casa degli Azzurri. I muscoli delle cosce e delle spalle
si
incresparono di onde mentre assorbivano la potenza
dell’impatto. Una forte
corrente d’aria investì Regina, Emma e Mary
Margaret e l’asfalto tremò sotto i
loro piedi.
Regina
mantenne a stento l’equilibrio e sgranò gli occhi
quando vide Henry che
scivolava giù dalla groppa di Lily.
-
Henry. – Emma sembrava altrettanto incredula. Lily, ancora in
forma di drago,
notò che era anche provata, più pallida del
solito. L’impressione generale era
che fosse stranamente vulnerabile, per quanto si sforzasse di non darlo
a
vedere.
-
Che
cosa ti è saltato in mente quando hai pensato di caricarti
mio figlio in
groppa? – esclamò Regina.
-
Era
più veloce così. – si limitò
a rispondere Henry, prima che Lily potesse farlo. Dalle
narici del drago uscirono due fili di fumo. – Almeno
è stato divertente. Non mi
avevi detto che era così divertente.
Il
drago riassunse la sua forma umana. Intorno al polso, Lily aveva
arrotolato lo
strano oggetto che aveva trovato in un cassetto della camera di Murphy,
un
medaglione a forma di fiamma bordata d’oro, con una grossa
pietra rossa al
centro, che ricordava molto quella incastonata sul coperchio del Vaso
di
Pandora.
-
Sai
cos’è? – domandò Lily a
Regina, porgendoglielo.
-
Non
credo di aver mai visto nulla di simile. – ammise Regina.
Sfiorò i bordi della
fiamma e percepì il flusso di magia che vi scorreva
all’interno. Ritrasse
subito la mano. – Ma è decisamente qualcosa.
-
Posso? – disse Tremotino, che si era tenuto in disparte fino
a quel momento.
Lily
lo fissò di sottecchi, ma Emma annuì e quindi
glielo mostrò da vicino.
L’Oscuro
ne saggiò la consistenza e sorrise. - Sì,
è una protezione.
-
Un
amuleto protettivo? – chiese Lily.
-
Più
di questo. Contiene una parte dell’energia della persona che
lo indossa.
Henry
sgusciò in casa senza farsi notare e mettendosi una mano in
tasca per controllare
che la penna fosse ancora dove l’aveva lasciata.
-
E
perché Murphy avrebbe dovuto avere un oggetto simile?
L’ha trovato qui? –
domandò Lily.
-
Oh,
non credo che l’abbia trovato qui. L’ha trovato
nella Foresta Incantata. Non
era difficile entrarne in possesso. Molti maghi li avevano. –
Tremotino
allontanò le dita dal medaglione. - E forse a Murphy serviva
per celare il suo
vero aspetto. In questo senso, è una protezione. Tenetelo,
potrebbe essere
utile.
-
Non
lo portava quando l’ho conosciuto. Ne sono sicura.
– rispose Lily.
-
Forse non ne aveva bisogno nel vostro mondo. Nel mondo senza magia.
Nessuno
disse più niente. Murphy veniva dalla Foresta Incantata?
Non
che quella fosse la cosa più importante per Lily. A lei non
importava nulla di
Murphy, per quanto ancora lo vedesse cadere nel Tartaro quando chiudeva
gli
occhi. E lo vedeva cadere perché pensava a quello che le
aveva detto prima di
morire... no, prima di essere condannato per sempre al posto peggiore.
“Lo
sai che avevo una figlia? Avevo una figlia!
Lei non ha più nessuno per colpa tua! Quella stronza di sua
madre se n’è andata
dopo averla partorita! Quei soldi mi servivano anche per lei!”
In
mezzo alla roba di Murphy aveva rinvenuto anche una fotografia, in cui
si
vedeva una donna bionda con una bambina di circa tre anni. Lei
immaginava che
quella fosse la figlia di Murphy. Si era messa la foto in tasca.
Ci
avrebbe pensato una volta tornata a Storybrooke.
Oz.
Durante la prima maledizione.
“Si può sapere che sta succedendo?”
domandò
Nessarose, quando Ade si ripresentò al palazzo della
Sorellanza. Glinda e
Locasta non erano ancora tornate.
“Non
ho molto tempo. Devo sistemare alcune faccende.”,
rispose lui, sbrigativo. “Ma sono venuto a portarvi qualcosa
che potrebbe
esservi utile. Anche se non subito, forse.”
“Ovvero?”
Ade
vide che Nessarose stava consultando un
grande libro con la copertina spessa e sgualcita. Le pagine ingiallite
giravano
da sole. “Noto che state studiando meglio la profezia che vi
riguarda.”
“Profezia?”
“Oh,
suvvia. Pensavo avessimo superato la
ritrosia.”, disse Ade, roteando gli occhi ed avvicinandosi
quanto bastava per
leggere le parole stampate sulla carta. “La profezia del
Libro degli Eventi...
Glinda pensa che parli di Zelena. Il che è divertente, se si
considera che in
realtà parla di voi. Ed è questo il motivo per
cui non vi siete ancora occupata
di Dorothy.”
“Credete
davvero che io abbia paura di una
ragazzina senza poteri? La profezia parla di una strega. E Dorothy non
lo è.”
“Le
cose cambiano molto in fretta, sapete.” Ade
tirò a sé il libro e scrutò le parole.
Erano trascritte in una lingua antica e
ormai morta, ma molte streghe la sapevano ancora leggere e comprendere.
Beh,
più o meno. “Un’eroina proveniente da un
altro mondo, farà di Oz la sua casa
fino a quando non avrà bandito il male più grande
che questa terra abbia mai
conosciuto. Un’eroina, capite? Non una strega. Le parole, in
questa lingua, si
somigliano. Glinda avrebbe dovuto prestare più attenzione.
Ma il succo rimane
lo stesso.”
Nessarose
lo guardava, sprezzante. “Non c’è
bisogno di leggerla nel modo giusto. È evidente. Dorothy conosce a stento
qualche incantesimo
di protezione.”
“Però
voi conoscete la profezia e quella vi
preoccupa. Diciamo che... siete cauta. Non attaccate a caso
perché sapete che
non bisogna sottovalutare le profezie. Contrastarle significa
perdere.” Ade sorrise,
beffardo. “Credetemi. Mio padre ne sa qualcosa. Crono. Ve ne
hanno mai parlato?
Una profezia diceva che uno dei suoi figli lo avrebbe detronizzato e
lui che
cosa ha fatto? Si è mangiato ogni figlio che ha avuto. Me
compreso. Peccato che
mio fratello sia riuscito a farla franca. L’ha sconfitto
comunque.”
“Perché
siete qui?”, domandò Nessarose,
tagliando corto.
“Per
portarvi qualcosa che potrebbe tornarvi
utile, quando giungerà il momento opportuno.”
Aprì la mano ed in essa comparve
un oggetto, una specie di lancia con due punte ondulate di cristallo e
l’impugnatura dorata al centro. Gliela porse.
“Che
cos’è?”
“La
folgore olimpica.”, rispose semplicemente
Ade. “Una cosuccia che ho rubato a mio fratello molto tempo
fa. Gliel’hanno data
i Ciclopi quando li liberò dalle catene.”
“Non
ho bisogno di armi divine per sbarazzarmi di
qualcuno.”
“No.
Ma questo non è un’arma qualsiasi.”
Sollevò la folgore ed essa brillò, colpita dalle
luci gialligne della sala.
“Quest’arma non si limita ad uccidere. Distrugge.
Completamente. Dei vostri
nemici... non rimarrebbe nulla. Non andranno da nessuna parte,
perché la loro
anima non esisterà più. Niente Oltretomba e
niente Tartaro. Nulla.”
Nessarose
sembrava compiaciuta. “E Zelena?”
“Zelena
serve a me. Il suo piano mi piace.”
“E
non solo il piano, mi sembra di capire.”
Ade
si limitò ad un’alzata di spalle.
“È un
vantaggio per me. E potrebbe concludersi tutto oggi, se saremo
fortunati. Io
potrò lasciare l’Oltretomba e riprendermi
l’Olimpo. Voi potrete liberarvi delle
vostre sorelle e di Dorothy e regnare su Oz. Avete la folgore adesso.
Qui sarà
al sicuro. Mio fratello la cerca ancora ma non verrà a
cercarla qui.”
“E
se non dovesse funzionare? Se Zelena non vi
ascoltasse?”
“Dovrete
aspettare. Zelena non rinuncerà mai al
suo piano né io rinuncerò al mio.”
“Quindi
mi state chiedendo di avere pazienza? Siete
folle.”
“Oh,
no. Sono Ade e sono una divinità. Voi
siete umana. Ed io so bene chi siete. Basterebbe molto poco per
distruggere il
castello di bugie che avete costruito. Le vostre sorelle saranno contro
di voi
e così anche Dorothy. Non avrete più alcun
vantaggio e prima o poi vi
distruggerebbero.” Ade ormai era diventato minaccioso, anche
se la sua voce non
era cambiata. Il tono era calmo. Pieno di boria, ma calmo. Tuttavia, i
suoi
occhi brillavano, ripieni di una sinistra luce azzurra.
“Immaginatevi che cosa
succederà. Immaginatevi le facce delle vostre Sorelle e non
solo le loro... quando
verranno a sapere che Evanora era solo
un burattino e che la vera Strega Perfida dell’Est siete
sempre stata voi. Vi
sconfiggeranno e dovranno riabilitare il nome di vostra sorella. Non
credo sia
una bella prospettiva.”
Cosa
avrebbe fatto in quel momento Nessarose
non era difficile da intuire, perché fiammeggiava dalla
testa ai piedi in preda
ad una rabbia incontrollabile, tremandone perfino. “Mi
ricattate, dunque.”
“No.
Non ne ho bisogno. Il nostro accordo è
ottimo. Entrambi otterremo qualcosa.”
Oltretomba.
Oggi.
D’accordo.
Forse era curiosa.
Forse
voleva davvero sapere chi fosse Murphy Logan quando ancora viveva nella
Foresta
Incantata.
Lily
aveva sempre dato per scontato che Murphy non fosse il suo vero nome e
lei
stessa si era fatta chiamare in modi diversi. Odile. Starla.
Aveva
chiesto ad Henry se poteva prestarle il suo libro di storie. Solo per
dare
un’occhiata.
La
difficoltà stava nel fatto che Murphy non aveva lo stesso
aspetto nella Foresta
Incantata. Avrebbe potuto essere chiunque.
Aveva
finito di leggere la storia del Grillo Parlante, quando Emma la
raggiunse e
sedette accanto a lei.
-
Ti
senti meglio? – domandò Lily, appoggiando il libro
sul letto, senza chiuderlo.
-
Perché me lo chiedi?
-
Beh,
non sembravi molto in forma quando sono tornata con Henry.
Emma
si
scostò i capelli dal viso e si portò una ciocca
dietro l’orecchio. – È colpa
del contatto mentale. Tremotino dice che ci toglie le forze... se
è troppo
prolungato.
-
Merlino non aveva detto niente.
-
Non
ne ha avuto il tempo, probabilmente.
Regnò
il silenzio per almeno cinque minuti, mentre Lily ripensava al momento
in cui
aveva stretto il cuore di Merlino, disintegrandolo.
-
L’hai trovato? – chiese Emma, esaminando il libro
aperto.
-
No.
Ma non mi aspetto di trovarlo. O magari l’ho trovato, ma non
me ne sono resa
conto. – Le rivolse un fievole sorriso.
-
A
cosa pensi davvero?
La
domanda era molto diretta e la spiazzò. Tuttavia, sapeva a
che cosa si stava
riferendo. – Penso a come dovrei sentirmi. Sono venuta...
siamo venuti qui per
salvarti. E lo faremo. Dovrei preoccuparmi solo di questo. Ma non
riesco.
Questo posto... mi costringe a pensare a tutto quello che ho fatto. E a
prendere
altre decisioni sbagliate.
-
Se
ti riferisci a Murphy, non avevi scelta.
-
L’avevo quella sera, quando l’ho ucciso.
– Scoppiò in una brusca e fredda
risata, un suono strano, come l’acqua che scorre sulla nuda
roccia. – Come ti
senti quando uccidi?
I
verdi
occhi di Emma si ridussero a due fessure.
-
Quello che intendo dire... – si corresse Lily. –
Quello che intendo dire è...
che cosa hai provato quando hai ucciso Crudelia? O quando hai ucciso
quell’uomo, nelle prigioni di Camelot? Li vedi, quando dormi?
Emma
si strofinò i palmi sui jeans. La sua espressione era
tormentata e Lily si
chiese se si sarebbe degnata di risponderle, quando lei
ricominciò a parlare. –
Ci penso, sì. Ho... ucciso Crudelia perché volevo
salvare Henry. E ho ucciso
quell’uomo nei sotterranei perché cercavo una via
d’uscita... perché volevo
punire la mia famiglia per avermi rinchiusa là sotto.
-
La
tua famiglia o...?
-
Regina. Volevo punire Regina. Ma anche la mia famiglia per averle dato
retta.
-
Vorresti non averlo fatto?
-
Vorrei aver saputo prima che Crudelia non era in grado di fare del
male. Ma non
lo sapevo. Se tornassi indietro... probabilmente lo farei di nuovo. Per
Henry.
E fermerei me stessa in quei sotterranei. - Stava per aggiungere che
avrebbe
fermato se stessa prima di trasformarla in un Oscuro, però
non lo disse, perché
sapeva che non era vero. L’avrebbe fatto ancora per salvarle
la vita, anche se
avrebbe significato condannarla.
-
Lo
vedi? Lo faresti per Henry. Io... ho ucciso Murphy perché lo
detestavo e se
tornassi indietro so che forse lo ucciderei ancora.
-
Non
puoi saperlo.
-
Mi
conosco. Lo so. – Quella di Lily era una risposta che non
ammetteva repliche. -
E quando l’ho ucciso in quella stazione di servizio... credi
che poi me ne sia
pentita? No. Non me ne sono pentita e non ho avuto incubi. Non penso
mai
nemmeno a Merlino. Non riesco... non posso perdonare tua madre per
quello che
mi ha fatto.
-
Non
ti ho mai chiesto di farlo.
-
Tu
li hai perdonati? Per quello che hanno fatto a Camelot.
-
Sì.
So perché l’hanno fatto.
Lily
rimase in silenzio un altro po’. – Io sogno Murphy.
Lo sogno mentre precipita
nel Tartaro, ma so che lo sogno per via di quello che mi ha detto su
sua
figlia. Non perché non volevo che morisse.
Emma
tese la mano destra e la posò su quella sinistra di lei. -
Per questo sei
entrata in quella camera? Per cercare qualcosa su sua figlia?
-
Sì.
– Prese la foto dalla tasca della giacca e gliela
mostrò.
Emma
osservò la bambina nella foto. La girò per vedere
se c’era scritto qualcosa sul
retro, ma non trovò niente. – Vuoi cercarla?
-
Hai
ancora il numero di quel contatto a Boston?
-
Sì,
ce l’ho. Non butto mai niente che possa tornarmi utile.
– Poi sorrise. – Lo
vedi? Non sei così male. Forse le tue emozioni sono...
difficili da gestire, ma
ti stai preoccupando per una bambina che nemmeno conosci. Stai facendo
la cosa
giusta.
Lily
stava per risponderle, ma venne interrotta da un grido stridulo.
Era
un
grido attutito dalla distanza, eppure ebbe lo stesso effetto delle
unghie che
sfregano ripetutamente su una lavagna, tanto che sia Emma che Lily si
ritrovarono a stringere i denti.
-
Cos’è
stato? – domandò Emma.
Malefica
era quasi riuscita ad aprire una breccia nella protezione che Zelena
aveva
innalzato intorno al suo rifugio, quando una creatura alata sbucata dal
nulla
piombò giù dal cielo in picchiata, lanciando uno
strillo che le straziò le
orecchie.
La
cosa la spinse da parte con un colpo d’ala brutale e lei, con
la testa che
rintronava e il sangue che le colava dall’orecchio sinistro,
barcollò e cadde.
Altri
due demoni alati si gettarono sul principe Fiyero e su Marian.
Subito
Fiyero si buttò a terra, evitando per un pelo di essere
acciuffato e dilaniato
dagli artigli dell’uccello. Estrasse una freccia dalla
faretra e la incoccò. Un
attimo prima di scoccare il dardo vide chiaramente la cosa.
Aveva
petto e volto di donna, ma era una faccia dura, distorta dalla
crudeltà e
dall’odio. Il corpo era quello di un uccello e, quando
sbatteva le grandi ali scure,
emanava un puzzo terribile, lo stesso odore di chi è morto
da troppo tempo. Gli
occhi erano accesi di furia e nelle orbite c’erano grumi di
melma.
La
freccia colpì l’arpia alla gamba. Quella
scagliò un altro urlo assordante e
passò sopra Fiyero, sbandando. Perse quota,
rasentò il terreno, ma poi si
rialzò in volo, incurante della propria ferita.
Erano
in tre e sembrava che stessero proteggendo la strega che si nascondeva
in casa
con la bambina. Li spinsero lontano, li costrinsero ad arretrare e
gridavano
per disorientarli.
Marian
scoccò una freccia, che andò a conficcarsi nella
schiena di un’arpia.
Furibonda, una delle compagne lasciò perdere Fiyero per
occuparsi di lei. Marian
guardò la bestia negli occhi, anche se la testa le doleva e
la potenza di
quelle grida l’aveva stordita.
-
Vediamo se lottate con la stessa forza con cui strillate. –
disse Marian,
preparandosi a scagliare un’altra freccia.
Le
labbra rosse dell’arpia si incresparono in un bacio beffardo.
– Marian... cibo
per Minotauri... il tuo bambino è solo. Gli
manderò tanti incubi!
Marian
le regalò una freccia. Erano tutte imbevute
dell’acqua del Fiume delle Anime,
ma le arpie erano immuni e, per quanto venissero colpite, non potevano
morire.
Con una freccia che spuntava dalla spalla, l’arpia si
gettò su Marian con gli
artigli spianati, puntando alla sua faccia. Marian si scostò
più rapidamente
che poté, ma venne comunque afferrata per i capelli e
sollevata da terra.
Lasciò cadere l’arco e si dibatté
selvaggiamente, mentre l’arpia saliva verso
il cielo rosso, sopra le chiome degli alberi.
-
Il
tuo bambino... il tuo bambino è solo con quelle stupide
fate! Incubi, incubi
per lui! – continuò a sbraitare il mostro,
soffocandola con il suo tanfo
nauseabondo. – E tu... tu finirai di nuovo nel labirinto!
Ciiiiiiiiiiibo per il
Minotauro! Il Minotauro è affamato!
Malefica
raggiunse l’arpia in volo e la urtò con la coda.
La creatura riprese a
strillare e aprì gli artigli. Marian precipitò,
mentre Malefica spalancava le
fauci ed eruttava una colonna di fiamme che avvolse l’arpia
in una tempesta di
fuoco giallo e arancio. Il mostro roteò e roteò,
urlante, maledicendo il drago
e imprecando.
Malefica
acciuffò Marian prima che potesse schiantarsi.
Le
arpie si dissolsero in un baleno, ferite e ancora più
arrabbiate di quando
avevano iniziato ad attaccare.
-
Beh,
non un gran comitato di benvenuto. – commentò
Fiyero, rialzandosi e
raccogliendo il proprio arco.
-
Non
era necessario salvarmi. Sono già morta. – disse
Marian al drago, che per tutta
risposta socchiuse gli occhi, emettendo un basso brontolio. –
Stavano
proteggendo la strega, vero?
-
Non
si sono nemmeno avvicinate alla casa. Direi di sì.
– disse Fiyero, scrutando il
cielo. – Forse dovremmo tentare in un altro modo, invece di
costringerla a
consegnarci la bambina.
-
E
quale sarebbe, il modo?
-
Il dialogo.
Una
leggera brezza soffiò, facendo frusciare l’erba ai
loro piedi e agitare i rami
dei salici. Marian osservò gli steli ingialliti ondeggiare
per qualche istante,
ripensando alle minacce dell’arpia.
“Tuo
figlio è solo!”
“Incubi!
Incubi per lui!”
Malefica
mostrava le zanne e Fiyero avrebbe giurato che fosse totalmente
indignata dalla
sua proposta.
-
So
che è difficile dialogare con la Strega
dell’Ovest. Ma ho anche visto come si
comporta con la bambina. – continuò il principe.
La
radura si increspò di strane ondulazioni, mentre un sinistro
scricchiolio
percorreva il tronco del salice più vicino.
Poi,
prima che Fiyero riuscisse a fare un solo passo, una radice grande
quando il
suo braccio spuntò dal terreno e gli si arrotolò
intorno alla caviglia destra,
immobilizzandolo. Radici ancora più grosse sbucarono ai lati
di Malefica e le
afferrarono la coda e le zampe, inchiodandola sul posto. Malefica
ruggì,
furibonda, morse con forza una delle radici e la scosse, ma non ottenne
alcun
risultato. Marian venne afferrata per la vita.
-
Per
tutti i diavoli! – disse Killian, arrivando di corsa, seguito
dagli altri.
David
sguainò la spada e menò un fendente deciso,
tranciando una delle radici per
liberare Marian. Un forte stridio riecheggiò
nell’aria densa quando due rami
sfregarono fra di loro. Uno di essi si protese e si
attorcigliò intorno al
collo di David.
Lily
si precipitò sul salice in forma di drago e sputando fuoco.
L’albero si
incendiò, ma le fiamme si spensero nel giro di un battito di
ciglia, senza
scalfirlo.
Il
ramo strinse di più la presa intorno al collo di David.
Città di Smeraldo. Oz. Durante la prima
maledizione.
Zelena tornò al palazzo e trovò una tavola
imbandita davanti alle tende che un tempo avevano nascosto il Mago di
Oz. Ade
aveva apparecchiato per due e acceso un paio di candele.
“A
cosa devo tutto questo?” domandò Zelena.
“Beh,
che domande... a te.”
“Quindi
mi hai vista.”
“Ma
certo che ti ho vista. Sei stata a dir poco
magnifica.”
Zelena
si sentì lusingata dal tono ammirato del
Dio.
“Ed
è per questo che ho una cosa per te.”,
aggiunse Ade. Prese un fagotto che aveva lasciato su una sedia e lo
srotolò,
rivelando l’oggetto che voleva regalarle.
“Cosa
ci dovrei fare con uno specchio?”,
domandò Zelena.
“Questo
non è uno specchio qualsiasi.”, replicò
Ade, facendo scorrere le dita lungo la cornice dorata.
“Questo, mia cara... è
lo Specchio delle Anime. Se una persona ha una natura malvagia, lo
Specchio la
rivela. I suoi occhi... si illumineranno di quello che io chiamerei...
un fuoco
demoniaco.”
Appoggiò
lo Specchio delle Anime sul tavolo e
lo rivolse nella sua direzione.
Istintivamente,
Zelena si voltò dall’altra
parte, evitando di guardare il proprio riflesso.
“Oh,
suvvia. Guarda. Non hai nulla da temere.”
Dopo
qualche attimo di esitazione, Zelena fissò
il proprio riflesso. In fondo, non pensava che un paio di occhi
demoniaci non
le donassero.
“Io
trovo che tu sia splendida.”, commentò Ade.
I
suoi occhi non avevano niente che non
andasse. Erano azzurri. Una ciocca di capelli sbucava da sotto il
copricapo
nero sfiorandole il viso verde.
“Ma
io non vedo nulla.”, disse Zelena, toccando
lo Specchio con la punta dell’indice.
“Certo
che no.” Posò il dono e tese una mano.
La sua voce era tranquilla, come se non fosse accaduto niente, come se
non le
avesse appena chiesto di svelare la sua natura guardando in uno
specchio
magico. “Vieni. Siediti.”
Zelena
accolse l’invito, accomodandosi. “Quindi
il dono e questa cena... sono un addio? Stai per tornare
nell’Oltretomba?”
Oh,
sì. Sarebbe tornato nell’Oltretomba e lei
sarebbe rimasta di nuovo sola. Ade non poteva restare a lungo lontano
dal regno
dei morti.
La
sua vita era questo. Un continuo abbandono.
Prima la sua vera madre, poi la madre adottiva che moriva lasciandola
nelle
grinfie di un uomo che non avrebbe mai voluto avere una figlia con dei
poteri,
poi Tremotino, che l’aveva aiutata a controllarsi ma aveva
scelto comunque
Regina, poi Glinda, che aveva ceduto il suo posto ad una ragazzina
piovuta dal
cielo. Nessuno rimaneva. Non con una Strega Perfida.
“No.”,
rispose, invece, Ade. “Non tornerò
nell’Oltretomba, Zelena. Ma questo dipende anche da
te.”
“Da
me?”
Ade
non ebbe bisogno di spiegarle nulla. Se ne
stava in piedi dietro di lei, in attesa, sfiorandole appena le spalle.
“Oh.
Tu credi... credi che il nostro sia...”
“Vero
amore.”
Zelena
reagì con un moto di incredulità. Le
sembrava tutto estremamente ridicolo. “Ci siamo appena
conosciuti!”
“Lo
so. Ma non puoi negare di provare qualcosa.”,
ammise, inginocchiandosi di fronte a lei. “Quando eravamo su
quella
bicicletta... e tu eri vicino a me... ho sentito qualcosa che non
sentivo da
molto tempo. Il mio cuore. Ha palpitato. Per un secondo, ma
è successo e non
potrei mai sbagliarmi.” Zelena la fissava con
un’espressione indecifrabile e,
dato che non aveva ricevuto risposta, Ade continuò:
“E se tu... se tu mi
baciassi, potresti liberarmi. Io potrò lasciare
l’Oltretomba e non saremo
costretti a separarci.”
Non
solo avrebbe potuto abbandonare
l’Oltretomba per sempre, ma avrebbe anche potuto usare i suoi
poteri al di
fuori del regno dei morti senza alcuna limitazione. Avrebbe potuto
prendersi
ciò che suo fratello si era preso come se gli spettasse.
Lui, che era nato per
ultimo. E Zelena sarebbe diventata una regina. Ade le avrebbe donato
l’immortalità e avrebbero regnato insieme. Le
avrebbe dato l’Olimpo, non
l’Oltretomba. Le avrebbe dato il cielo e non un lugubre limbo
abitato da mostri
e defunti. Era sicuro di poter trovare degli alleati tra i suoi
fratellastri e
alla fine avrebbe vinto lui e non Zeus. Lo avrebbe fatto a pezzi e
gettato nel
Tartaro, insieme a quella scocciatrice di Era e...
Zelena
gli affondò una mano nel petto e chiuse
le dita sul suo cuore. Tirò per estrarlo, ma ovviamente
un’altra forza oppose
resistenza e glielo impedì.
“Zelena...
cosa...”, boccheggiò Ade, sconvolto.
“Sai,
ti ho quasi creduto. Per un secondo... ho
pensato che stessi dicendo la verità. Che
stupida!”, gridò, continuando a
stringere. Il cuore muto del Dio era duro come un pezzo di roccia.
“Tu vuoi gli
ingredienti del mio incantesimo per te. Solo per te! Oppure pensi che
non
sappia delle tue macchinazioni con la Strega
dell’Est?”
“Io...
non è come credi...”
Zelena
mollò la presa sul cuore ed estrasse la
mano dal torace di Ade, che si aggrappò al tavolo per
alzarsi in piedi.
“Non
so cosa tu abbia visto...”
“Ho
visto quanto basta e avresti dovuto tenerne
conto, considerando che spio mia sorella da anni! Credevi davvero che
non ti
avrei spiato?”
“Diciamo
che...” Ade si sistemò la giacca,
cercando di ritrovare un certo contegno. “Speravo ti fidassi
di me. La Strega
dell’Est non è un tuo problema, Zelena. Non
più. È solo parte del piano.”
“Le
hai dato un’arma divina!”
“Gliel’ho
data per uccidere Glinda e Locasta. E
Dorothy. Farebbe comodo anche a te. E dovevo nasconderla da mio
fratello. Non
fa altro che cercarla. Non ho fatto nulla contro di te.”
“Oh,
invece sì! Mi avresti rubato quel cervello
e te lo saresti tenuto. Hai bisogno di quell’incantesimo per
vendicarti di tuo
fratello... proprio come io voglio vendicarmi di mia sorella.
L’amore... non è
abbastanza!”
“Non
esiste più solo la vendetta, Zelena. Se
staremo insieme... potremo avere tutto! Io ti darò tutto! Su
questo non puoi
avere dubbi!”
“Piantala
con queste storielle! Sei una
divinità e sei immortale. Non hai bisogno
dell’amore. Così come non ne ho
bisogno io.” Zelena aveva la voce rotta e il cuore che le
martellava nelle
tempie, seguendo i palpiti della sua rabbia. Mille immagini le
scorrevano nella
testa. Sua sorella, Tremotino, Dorothy, Ade. “Volevi
trascinarmi nell’Oltretomba?”
“Volevo
darti l’Olimpo!” Anche Ade era furioso.
I suoi occhi scagliarono lampi azzurri e le luci della sala
tremolarono.
“Non
mi interessa il maledetto Olimpo!” Zelena
gridò più forte. “Fuori.
Adesso!”
Ade
non si mosse. Tentò di avvicinarsi a lei,
ma la Strega dell’Ovest si ritrasse, evitando il contatto.
“Te
ne pentirai, Zelena.”, sibilò il Signore
degli Inferi. “Te lo garantisco.”
“E
cosa intendi fare? Uccidermi? Rapirmi?”
Rise, infischiandosene delle sue minacce. “Puoi provarci. Sei
una divinità, ma
ti assicuro che dovrai darti da fare! E il tuo potere è
comunque limitato fuori
dal tuo regno. Lo hai detto tu stesso.”
Ade
scomparve in una miriade di lampi e
scintille azzurrate. Zelena si coprì gli occhi.
Oltretomba. Oggi.
Il
volto di David diventò paonazzo e poi viola, mentre il ramo
aumentava la
pressione intorno al suo collo. Aveva la bocca aperta, ma non respirava
quasi
più.
Mary
Margaret afferrò la spada del marito e si accanì
contro il salice dotato di una
coscienza, menando poderosi fendenti per spezzare il ramo, ma il potere
di cui
era dotato l’albero la respinse. Mary Margaret venne
scagliata a qualche metro
di distanza e atterrò sul prato in malo modo.
-
Mamma! – gridò Emma.
Malefica
ruggì di nuovo, scuotendo la testa.
Emma
sapeva che cosa era necessario fare. Senza nemmeno chiederlo,
afferrò la mano
di Regina e lei gliela strinse istintivamente.
-
Insieme. – disse Emma.
Regina
annuì.
Quando
diressero la magia contro il salice, avvertirono chiaramente la sua
coscienza.
Sembrava una coscienza spezzettata, frastagliata, che mutava di secondo
in
secondo. Era veloce e tagliente come una scheggia di vetro.
Il
flusso di magia rossa avvolse il tronco e strisciò fra i
suoi rami e quella
coscienza gridò. Le voci trapassarono il cervello di Emma,
che rischiò di
perdere la concentrazione, ma si mantenne aggrappata a Regina,
ignorando il
dolore e la sensazione di avere decine di occhi che le sondavano i
pensieri e
vorticavano nella sua mente, tempestosi e maligni.
Qualcuno
urlò il suo nome.
I
rami
abbandonarono Marian e Fiyero, che si affrettarono ad allontanarsi.
Malefica
riuscì a liberarsi di una radice che le bloccava una zampa e
poi di quella che
aveva intorno al collo.
Infine
vi fu un’esplosione di luce e le presenze svanirono. Le
radici si ritirarono
nel terreno e i rami si ritrassero. David cadde in ginocchio, tossendo.
Mary
Margaret lo raggiunse subito, appoggiandogli una mano sulla schiena.
-
Stai
bene, amico? – domandò Killian. – Emma...
Emma
pensò che fosse finita, ma all’improvviso vide
tutto nero e davanti agli occhi
presero a danzarle una miriade di stelline gialle.
Lily,
ancora in forma di drago, perse quota e atterrò malamente,
lanciando un ruggito
lamentoso.
-
Che
cosa sta succedendo ad Emma? – chiese Mary Margaret.
Regina
guardava Emma contorcersi e non aveva la minima idea di come fermare
ciò che le
stava accadendo. Gli occhi si rivoltarono nelle orbite e mostrarono
solo il
bianco della sclera. Dalla gola uscivano suoni inarticolati.
“Mi
chiamo Henry. Sono tuo figlio.”
-
Maestà, fate qualcosa! – urlò Killian.
-
Non
so che cosa le sta succedendo! – ribatté Regina.
Tenne le mani sospese sopra il
corpo di Emma, percependo un potere sconosciuto.
“Lei
è la madre biologica?”
“Salve.”
Emma
era cosciente, ma non poteva rispondere a Regina. Non poteva fare
niente perché
non aveva più il controllo del proprio corpo. Qualcosa stava
strisciando nei
suoi pensieri, nei ricordi... passandoli in rassegna.
“Sei
qui perché è il tuo destino. Riporterai a
tutto il lieto fine.”
“La
smetti con queste stupidaggini?”
“Non
sei costretta a fare la dura. Lo so che ti
piaccio.”
Gridò.
Ma non veramente. L’urlo era solo nella sua testa.
“Propongo una
soluzione per il bene di Henry.”
“Non
ci penso minimamente.”
“Lascerò
la città.”
La
cosa sembrò soffermarsi su quel ricordo in particolare, come
lo spettatore di
un film che attende la parte migliore, già sicuro che
arriverà.
“Ascolti,
questa situazione è insostenibile.
Sono disposta ad andarmene. Ma ho delle condizioni.
Continuerò a vedere Henry,
a fargli visita e a passare del tempo con lui.”
“Questo
significherebbe restare nella sua
vita.”
“Chiaro.
Di solito in un accordo... le parti
devono accettare un compromesso. Ma onestamente... sappiamo tutte e due
che non
è più possibile escludermi dalla vita di Henry. E
questo è un dato di fatto che
lei non può cambiare.”
“Ha
ragione. Le dispiacerebbe seguirmi in
cucina?”
-
Mamma... perché non risponde? Cosa le sta facendo Ade?
– chiese Henry,
terrorizzato tanto quanto lei.
Poco
lontano, Lily spalancò le fauci e rigettò una
sfolgorante vampa di fuoco.
Poi
le
convulsioni terminarono e il corpo di Emma si rilassò.
-
Emma? – chiamò Regina, controllando a stento la
propria voce. Le sembrava di
essere in fondo ad un tunnel. Il nome parve riecheggiare lungo le
pareti della
sua testa, frammentandosi.
Non
ottenne risposta. Gli occhi si muovevano sotto le palpebre abbassate.
-
Mamma? – Henry allungò con cautela una mano verso
il viso di Emma. Le dita
sfiorarono la fronte e subito le ritrasse perché la sua
pelle era gelida.
Emma
spalancò gli occhi.
Un’onda
di energia spazzò l’intera radura e sia Regina che
Henry si ritrovarono
catapultati all’indietro.
Città
di Smeraldo. Durante la prima
maledizione.
Dopo
la scomparsa di Ade, la sala del palazzo
era sembrata vuota e desolata e Zelena aveva preso la sua scopa,
sorvolando i
cieli bui di Oz.
Sfrecciò
a lungo sopra le chiome degli alberi e
sopra i tetti delle case, spaventando a morte chiunque si trovasse per
strada.
Arrivò più alto che poté e poi scese
in picchiata, rasentando le colline.
Volare
la fece sentire molto meglio. Il vento
nei capelli, la brezza fredda che le frustava il viso, l’aria
più rarefatta a
mano a mano che saliva, la vertigine, il vuoto nello stomaco...
permisero alla
sua mente di svuotarsi, anche se per poco. Pronunciò un
incantesimo per
proteggersi dal gelo e per poter salire ancora più alto
senza risentirne.
Quando passò vicino ad una nuvola, la condensa la
accecò, riempiendole il naso
e la bocca di fredde goccioline. Non se ne curò. Si
aggrappò di più al manico
della scopa e continuò a volare in mezzo alle nubi,
guardando i villaggi e le
tende degli accampamenti ridotti ad una versione piatta e minuscola di
sé
stessi.
Quando
tornò a palazzo, due guardie si
avvicinarono ed attesero che Zelena ordinasse loro di parlare.
“C’è
qualcuno per voi.”, disse semplicemente
uno dei due uomini in verde. Il suo tono era strano, monocorde ed
incolore.
Aveva uno sguardo vacuo, come se non fosse del tutto presente.
“Chi
vi ha ordinato di far entrare qualcuno?!”
gridò Zelena.
Le
guardie stettero là, in piedi, a fissarla.
Se la Strega dell’Ovest avesse tagliato le loro teste non se
ne sarebbero
nemmeno accorti. Avrebbero continuato a starsene in quella posizione.
C’era
qualche incantesimo di mezzo.
Zelena
corse nella grande sala e spalancò le
porte, entrando come una furia. “Se sei ancora tu, puoi
tornartene da dove sei
venuto! I tuoi trucchetti non funzionano con me!”
Ma
non si trattava di Ade.
Oltretomba. Oggi.
Regina
non credeva ai suoi occhi. Le mancò il fiato quando si
ritrovò faccia a faccia
con Emma.
Con
ciò che una volta era Emma ma ora era
qualcos’altro.
Era
come guardare una maschera di morte, ricoperta di pelle sottile come
carta per
darle una parvenza di vita. Aveva i capelli bianchi, come quando era il
Signore
Oscuro. Gli occhi rossi la fissarono, ghiacciandole il sangue nelle
vene.
-
Mamma? – disse Henry, sconcertato.
Con
un
gesto della mano, Emma lo spazzò via e così fece
con tutti gli altri. Paralizzò
i due draghi, prima che potessero intervenire e si mosse alla
velocità della
luce dirigendosi verso la casa in cui si era rifugiata Zelena.
Scavalcò Regina
e, nel farlo, le rifilò un poderoso calcio in faccia.
Le
si
oscurò la vista.
Città
di Smeraldo. Oz. Durante la prima
maledizione.
La
donna indossava un lucido corsaletto dorato
a placche, un paio di schinieri e un copricapo di forma cilindrica che
tratteneva la folta chioma corvina. Il mantello era ornato di piume di
pavone.
Zelena
seppe all’istante che non era umana
perché, quando gli occhi nerissimi si posarono su di lei, si
sentì schiacciata
da un potere decisamente più grande del suo.
“Se
è Ade che vi manda, ditegli da parte mia
che non ascolterò una parola né mi interessano i
suoi accordi.”, disse,
infischiandosene di come avrebbe potuto reagire quella donna.
“Oh,
Ade.” Lei rise, un suono inquietante, dato
che era al tempo stesso bello e freddo come ghiaccio. “Non ho
bisogno di essere
mandata da nessuno, figuriamoci da Ade.”
“Che
cosa ci fate in casa mia, allora? Chi
siete?”
“Credo
che... il mio adorato cognato vi abbia
appena illustrato il suo piano per cambiare il passato. Il piano non
comprendeva forse... fare a pezzi me e mio marito per gettarci nel
Tartaro?”
Zelena
formò una sfera di fuoco con la magia.
“Oh,
per favore.”, disse Era, la moglie di
Zeus, sollevando entrambe le mani.
“Vi
dirò quello che ho detto anche ad Ade.
Potete anche essere una divinità, ma se volete uccidermi
dovrete lottare.”
Immaginava che Era non fosse bloccata da una maledizione che la
costringeva in
un determinato regno e che limitava i suoi poteri ogniqualvolta ne
usciva. Ma
Zelena non era intenzionata comunque a soccombere.
“Mi
piace tutta questa follia.”, rispose Era,
con noncuranza. “E so che si dicono molte cose su di me.
State pur certa che
sono tutte vere. Beh, quasi tutte.”
Zelena
sollevò il braccio, pronta a scagliare
la sfera di fuoco.
“E
tuttavia non è per uccidervi che sono qui.
L’avrei già fatto a questo punto. Non permetto
alle mie vittime di chiacchierare,
di solito.”
“Ed
io non amo i giochetti.”
“Ne
sono convinta.” Nel giro di un battito di
ciglia, Era fu davanti a lei. Le fiamme si spensero nella mano di
Zelena. “Sono
impressionata dal modo in cui avete sfidato Ade. E avete rifiutato
l’Olimpo.
L’immortalità.”
Zelena
fissò le iridi nere e scintillanti della
Signora dei Cieli. “E allora?”
“Allora
pensavo di complimentarmi. E di
chiedervi dove Ade abbia nascosto la folgore di mio marito, come prima
cosa.”
“Non
so di che cosa stiate parlando!”
Era
toccò la sua fronte con la punta
dell’indice e Zelena avvertì un prurito terribile
al centro del cranio. Non era
dolore, ma qualcosa di immensamente fastidioso.
Barcollò
quando la Dea la lasciò andare.
“Vedo
che Ade è stato abbastanza accorto da
cancellare il ricordo della folgore dalla vostra mente.
Peccato.”, disse Era,
sollevando le spalle. “Sapete... Ade ha un enorme potere sui
mortali. È vero,
quando è lontano dal suo regno, è limitato. Ma sa
comunque essere molto
persuasivo. E sa convincere qualcuno, sa piegare la sua
volontà. Eppure voi gli
avete tenuto testa.”
“Mi
avrebbe raggirata.”
“Un
giorno, sì. L’avrebbe fatto. O l’avreste
fatto voi. Ma siete stata davvero caparbia. Non ha avuto il tempo di
parlarvi
dei suoi sogni, vero?”
“Quali
sogni?”
“Sono
secoli che sogna occhi azzurri e capelli
di fuoco.” Era si allontanò di qualche passo,
osservando il liquido verde che
gorgogliava nelle colonne dorate. “Non ha mai capito di chi
si trattasse, fino
a quando non ha cominciato a sentir parlare di voi.”
Zelena
sollevò un sopracciglio, incredula.
“E
conosce anche la leggenda più importante che
lo riguarda.”
Zelena
avrebbe tanto voluto dirle che non le
interessava nulla di ciò che stava dicendo, eppure non
poteva fare a meno di
ascoltarla.
“La
storia del Dio degli Inferi che rapisce una
fanciulla, costringendola a passare sei mesi nel suo regno e altri sei
sulla
Terra.”, cantilenò Era. “Non in tutti i
mondi la storia è la stessa. A volte
cambia da regno a regno. Chi aggiunge dettagli, chi li toglie... ma la
vera leggenda...
non è nemmeno una leggenda. È una
profezia.”
Oltretomba. Oggi.
Zelena
riprese i sensi e si aggrappò alle sbarre di legno della
culla. Si affrettò a
controllare che la piccola stesse bene e la trovò sveglia,
intenta a succhiarsi
le dita.
Il
globo
di luce azzurra danzava al centro della cucina, come un disco volante
in
miniatura che si divertiva a prendersi gioco di lei. Quando
l’aveva toccato,
aveva visto tutto ciò che era accaduto tra lei ed Ade ad Oz,
quando si erano
conosciuti e non era sicura di sapere perché lui glielo
avesse mostrato.
Scagliò
il proprio potere contro la sfera, che si deformò e
disintegrò in mille schegge
azzurre. Schegge che poi si riunirono per formare un nuovo globo,
più grande
del primo.
Allora,
preannunciata da una densa nube viola, comparve Emma Swan.
Oh,
no. Non Emma Swan. Qualcosa che aveva preso possesso del corpo della
Salvatrice
morta.
La
cosa aveva occhi rosso sangue, illuminati da una minaccia controllata e
un
ghigno gelido stampato in faccia.
-
Chi
sei? – sibilò Zelena.
-
Il
nostro nome non è importante. Siamo venuti a prenderti.
– rispose l’essere... o
gli esseri, protendendosi verso di lei.
Zelena
reagì scaraventandola contro la parete opposta della cucina.
- Ade non avrà mai
la mia bambina!
-
Non
è la tua bambina che vogliamo. – Si
alzò in piedi con un balzo agile e poi usò
il suo potere per afferrarla per la gola.
Zelena
annaspò.
Poi
le
terra sotto i loro piedi tremò con un boato e una crepa
zigzagò lungo il
pavimento della casa. Si aprì una voragine nera e
dall’oscurità scaturirono
grida e stridore di legno e metallo. Lei e la cosa che un tempo era
stata Emma
Swan vennero avvolti da una fitta nebbia grigia e tutto scomparve.
Città
di Smeraldo. Oz. Durante la prima
maledizione.
“Profezia?”
“Già.
Lui adora parlare di profezie... quando
riguardano gli altri.” Era rise sommessamente. “Una
fanciulla con i capelli di
fuoco che può far ripartire il cuore del Signore degli
Inferi. La fanciulla che
potrebbe diventare la sua regina. La donna che lui rapirà.
È una profezia
vecchia. Credo abbia almeno un paio di millenni.”
“Ade
non mi ha rapita.”
“Non
ancora. Stavo cominciando a credere che
questa profezia fosse davvero una sciocchezza. E invece... la fanciulla
è
proprio davanti a me.”
“Io
sono una strega, non una fanciulla!
Sono...”
“La
perfida Strega dell’Ovest? Che appellativo
ridicolo. Mi sarei aspettata qualcosa di più appassionante,
ma suppongo che sia
il massimo che tu sia riuscita a trovare. Del resto, nemmeno tua
sorella spicca
per originalità. La Regina Cattiva...”
Zelena
digrignò i denti, ma non accettò la
provocazione. Scrutò il volto affilato di Era con
attenzione, in cerca di un
battito di ciglia, una smorfia delle labbra, qualcosa che le avrebbe
suggerito
la prossima mossa.
“Questo
è il mio dono. La profezia che ti
riguarda.”, disse Era, sorprendendola.
“Un
altro dono? Ne ho abbastanza anche di
doni.”
“Ma
è molto più prezioso di uno Specchio Magico
che rivela la vera natura di una persona.” La Dea
sollevò lo Specchio delle
Anime e rimirò il proprio riflesso in esso. Lo fece dandole
le spalle, in modo
che Zelena vedesse i suoi occhi neri che bruciavano come tizzoni
ardenti.
“Non
me ne faccio niente di una profezia!”
“Le
profezie sono armi, Zelena. E sono
pericolose.” Posò lo Specchio e si mosse
così velocemente che Zelena nemmeno se
ne accorse. Era le afferrò la mascella, stringendo senza
farle male. Ma la sua
presa era decisa. Salda. “Ade ha ragione quando dice che non
bisogna
sottovalutarle. Nemmeno lui dovrebbe sottovalutare la sua.
Perché potrebbe
essere la sua rovina.”
Zelena
la guardò stoicamente.
“Non
è l’unica cosa che ho per te.” Era la
lasciò andare. “Da oggi in avanti... se avrai
bisogno di qualcosa non esitare a
chiedere. So essere particolarmente fastidiosa, ma anche... generosa,
Zelena.”
“Dovrei
fidarmi di ciò che dice una divinità
come te?”
“Sappi
che se sarai nei pasticci, potrai sempre
chiamare me. Posso sentirti ovunque tu sia. Persino nel regno di Ade. E
puoi
contare su quello che dico: mettimi alla prova appena puoi.”
Oltretomba. Durante la prima maledizione.
Un lago di zolfo liquefatto si estendeva per
quasi tutta la lunghezza di un’immensa valle, esalando sbuffi
di vapore
mefitico che piaceva soltanto alle creature alate che sorvolavano la
zona.
All’estremità orientale di una catena di montagne,
su un picco che dominava la
valle, c’era una fortezza di basalto che sporgeva da una
parete strapiombante
come il braccio di un mostro addormentato e sepolto da millenni.
E
sul lato più esposto della fortezza c’era un
portoncino, davanti al quale una sentinella se ne stava appostata
giorno e
notte, intimando l’alt a chiunque osasse avvicinarsi. Il che
non accadeva quasi
mai, perché i morti erano là fuori, puniti in
qualche oscuro modo, alla ricerca
della porta che li avrebbe condotti in un altro posto, magari migliore
di
quello. Oppure erano nelle caverne sotto le montagne, torturati da Ade
e dalle
sue creature malefiche.
Presto
sarebbe calata la notte e, come tutte le
notti, sarebbe stata lunga, fredda e buia. Non il buio di una notte
normale, ma
un buio molto più denso, una tenebra di porpora come le
nuvole che veleggiavano
nel cielo.
La
sentinella si chiamava Lewis e, un tempo, era
il nostromo su una nave chiamata Jolly Roger, il braccio destro del
capitano
Killian Jones. E l’ultima cosa che si aspettava era di udire
la voce tonante
del Signore dell’Oltretomba, una voce che si espanse nella
sua coscienza e in
tutta la valle, raggiungendo qualsiasi anfratto, anche il
più nascosto.
“Non
credete anche voi che questo posto abbia
bisogno di una bella ristrutturazione?”
Poi
tutto cominciò a tremare, a sgretolarsi e a
mutare forma.
Oltretomba. Oggi.
David
salì le scale e trovò Henry seduto sul letto,
meditabondo.
Non
aveva voluto parlare con nessuno da quando erano tornati, nemmeno con
sua
madre.
-
Ehi.
– disse David, sforzandosi di sorridere. – Che cosa
ci fai quassù tutto solo?
-
Niente. Penso e basta.
-
Beh,
che ne dici se mi metto a pensare con te? – David si
avvicinò e sedette dietro
ad Henry.
Da
fuori venne il ruggito di un drago. Sembrava un lungo grido pieno di
angoscia e
rabbia.
-
Allora, a cosa pensiamo? – tornò a chiedere David.
-
Non
ne voglio parlare.
-
D’accordo. Perché non parliamo di me? –
Incrociò le braccia al petto. Intorno
alla gola aveva dei segni violacei, un regalo del ramo vivente che lo
aveva
quasi soffocato. – Oggi è stata davvero... una
pessima giornata. Ho cercato...
e cercato e cercato qualcosa che potesse aiutare Emma. Sono stato
ovunque. Sono
preoccupato per Neal e non so come fare per accertarmi che stia bene.
Sono
stato persino in quel cimitero e ho trovato... la tomba del mio
gemello.
Henry
non rispose subito. – E com’era?
-
Era
un principe.
-
No,
intendo dire... com’era la sua tomba.
Sbirciò
il nipote da sopra una spalla, accorgendosi che lo stava guardando. -
Era...
spezzata.
-
Oh.
-
Già.
E non è finita. Sono quasi morto. Non sono riuscito ad
aiutare Emma. Non riesco
mai a fare niente per aiutarla, hai notato?
-
Nessuno di noi poteva fare niente, nonno.
David
sapeva perché era salito. Non era solo per parlare con
Henry. Si era sentito
sopraffatto da un senso di impotenza. Emma era sparita, posseduta da
qualche
spirito maligno inviato da Ade. Zelena e sua figlia erano svanite,
forse
portate via dalla creatura che usava il corpo di sua figlia. Stava
perdendo. Loro stavano perdendo.
Non aveva potuto
fare nulla per evitare quel disastro. Aveva una spada e si era
ridicolmente
lanciato contro una pianta dotata di coscienza per essere subito
disarmato e
quasi strangolato. Aveva guardato Emma contorcersi mentre
l’ennesima tortura di
Ade si abbatteva su di lei.
Mary
Margaret lo avrebbe rassicurato. Gli avrebbe detto che aveva fatto
tutto quello
che poteva, ma non era così. Non aveva fatto niente.
-
Sono
suo padre. – disse David.
-
Ed
io sono suo figlio. Sono l’Autore.
Il
drago emise un altro cupo brontolio che riverberò fino a
loro nonostante la
distanza. Udirono uno schianto, forse un albero che crollava sotto la
mole
della figlia di Malefica.
-
Ma
non hai più la penna. – Gli diede una pacca sulla
schiena. – E anche se
l’avessi... siamo nell’Oltretomba. Qui le cose
funzionano in modo diverso.
Henry
tacque. Si sentiva sangue bollente battere sotto la pelle del volto.
Ripensò a
sua madre sdraiata ed in preda alle convulsioni. Ripensò
allo sguardo smarrito
dell’altra madre, Regina. Alla sua paura. Alla
luminosità della penna che lo
chiamava.
-
Beh,
se hai voglia di venire giù a parlare con tua madre...
– prese a dire David.
Gli mise una mano sulla spalla e gliela strinse. Non
continuò. Il suo stato
d’animo era ben peggiore rispetto ai giorni in cui Emma era
l’Oscuro e loro non
avevano idea di che cosa stesse tramando. Provava a non darlo a vedere,
perché
Henry era convinto che il Principe Azzurro non perdesse mai la
speranza, ma i
pensieri gli rombavano di terrore e confusione. Quando
cominciò a muovere le
gambe per dirigersi verso le scale, la sensazione non fu quella di
camminare ma
di cadere. Si sforzò di mettere un piede davanti
all’altro.
-
Aspetta! – esclamò Henry, come colto da
un’illuminazione. – Devo farti vedere
una cosa.
- La
penna dell’autore! – disse Regina, quando suo
figlio posò la propria arma sul
bancone della cucina, mostrandola a tutti. – Pensavo
l’avessi distrutta.
-
Infatti. Per questo si trova qui. Non so come spiegarlo... ho avuto la
sensazione che fosse qui fin da quando siamo arrivati. E l’ho
cercata.
-
Cosa
ti ha fatto pensare che ti servisse? – Regina, come David,
riportava i segni
dell’ultimo scontro. Un grosso livido violaceo si stava
espandendo sulla sua
pelle, lungo la mascella.
-
Crudelia. Almeno all’inizio. Voleva che la riportassi in
vita.
-
Perché dovresti aiutarla?
-
Per
aiutare Emma. – Si sentiva profondamente in colpa. Per aver
tenuto nascosto
alle sue madri di aver ritrovato la penna e anche del patto che aveva
quasi
stretto con Crudelia. – Lei diceva... che avrei potuto
cancellare ciò che Emma
aveva fatto, riportandola indietro. Non sarebbe più stata
un’assassina.
-
Non
l’hai riportata in vita, vero? – si
accertò Killian, immaginandosi l’auto di
Crudelia che sfrecciava per le strade di Storybrooke.
-
No.
Non ho scritto nemmeno una parola. Ma ho capito... di avere tutto
questo
potere... e di ignorarlo. Io non voglio... vivere all’ombra
degli altri. Voglio
essere un eroe.
-
Ma
non è così che puoi diventarlo. – disse
Mary Margaret. – Non è il modo giusto.
-
Lo
so! Per questo ve lo sto dicendo. Perché voglio fare la cosa
giusta. Non
riporterò in vita Crudelia... non farò nulla
di... insensato. Scriverò le
storie così come sono e comincerò con quella di
Ade. Userò la penna per scoprire
cosa ci nasconde.
- Ben
arrivata, Zelena. Mi dispiace molto. Questo Spettro non era come me lo
aspettavo. Tua madre non ha fatto propriamente un buon lavoro.
– disse Ade, che
si produsse in un inchino esagerato e infine le prese una mano per
baciarle le
nocche.
Zelena
la sottrasse bruscamente e ignorò il fatto che avesse appena
nominato la sua
vera madre. - Siamo arrivati a questo?
-
Per
favore, lascia che ti spieghi...
-
Spiegarmi cosa? So che cosa vuoi! Vuoi mia figlia per il maledetto
incantesimo!
-
Lo
Spettro avrebbe dovuto prendere anche tua figlia. Mi dispiace. Cora non
è
riuscita a controllarlo. Era uno Spettro molto vecchio.
-
Oh,
che terribile notizia per te, vero? – Zelena alzò
la voce, ma in realtà si
sentiva immensamente debole, come sorretta da friabili filamenti di
cotone. Se
avesse provato a colpire Ade o a muovere un solo passo, si sarebbe
accasciata
come un pupazzo invertebrato. - Mia figlia è in quella casa,
da sola! Ed io non
ti permetterò di farle del male! Provaci e ti
distruggerò!
-
Non
ho intenzione di fare del male alla tua bambina. –
sentenziò Ade. – Non farò
del male a lei e nemmeno a te. Volevo portarvi qui perché
qui con me sareste
state certamente al sicuro e non in balia di quegli eroi che se ne
vanno in
giro per il mio regno, sperando di trovare un modo per portare via Emma
Swan. E
prima ancora...
-
Prima ancora hai fatto un patto con la Strega dell’Est.
-
L’ho
fatto sempre pensando a te. Volevo fare in modo che fossi lontana da
Oz,
lontana dall’uomo che vuole portarti via tua figlia. E la
Strega dell’Est farà
scoppiare una guerra, fino a quando Dorothy non la fermerà.
-
Dorothy non può fermarla! La maledizione del sonno...
-
La
maledizione del sonno verrà spezzata. È destinata
a sconfiggere la Strega dell’Est
e presto o tardi lo farà.
Zelena
avrebbe tanto voluto rintracciare i pensieri sotto il boato di paura
che ormai
la riempiva. La bambina era sola in quella casa e c’era uno
Spettro che
scorrazzava per l’Oltretomba nel corpo della Salvatrice. Una
creatura simile
non si sarebbe fermata neppure davanti ad una neonata. - E quei...
globi di
luce? Che cos’erano?
“Non
è l’unica cosa che ho per te. Da oggi in
avanti... se avrai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere. So
essere
particolarmente fastidiosa, ma anche... generosa, Zelena.”
-
I
nostri ricordi. – stava dicendo Ade. - Volevo che tu sapessi
che non mi sono
mai dimenticato niente. E che non ho mai smesso di pensare a te. A
tutto quello
che è successo.
-
L’ultima volta che ci siamo visti hai detto che
l’avrei pagata! Era questo che
intendevi? Rapirmi è il tuo modo di farmela pagare?
“La
storia del Dio degli Inferi che rapisce una
fanciulla, costringendola a passare sei mesi nel suo regno e altri sei
sulla
Terra.”
-
Ti
ho detto che te ne saresti pentita. Non che l’avresti pagata.
– la corresse
Ade, come se contasse qualcosa. – E speravo che te ne
pentissi. Perché sai che
cosa provo per te. Per questo voglio che tu sia al sicuro e non
farò niente
alla piccola. Ho già un bambino. Tremotino me ne ha
garantito uno. Lui... e
Belle.
Zelena
batté le palpebre, sempre più confusa.
– Quindi mi stai dicendo...
-
Ti
sto dicendo la verità. Se avessi voluto la tua bambina,
l’avrei già presa. E
poi... – Allargò le braccia. - Non hai visto? Sai
perché questo posto...
assomiglia a Storybrooke? Un tempo non era così.
L’ho fatto... per te!
Lei
rimase in silenzio, contemplandolo attraverso il velo delle lacrime.
-
So
che volevi lanciare l’incantesimo per avere tutto quello che
tua sorella ha
avuto. - continuò Ade.
-
Quindi
hai... hai costruito una Storybrooke... qui? Perché fosse
mia?
-
Non
è perfetta. Me ne rendo conto. Purtroppo
l’Oltretomba è... è un luogo di
distruzione. Non cresce niente... per quanto mi impegni. E non
è esattamente
quello che vorrei darti. Lo sai. – Sorrise amaramente.
– Queste... sono rovine.
Ma sono le nostre rovine.
“Non
è l’unica cosa che ho per te. Da oggi in
avanti... se avrai bisogno di qualcosa non esitare a
chiedere.” La
voce di Era era roboante. Ed era l’unica
cosa che si faceva strada in mezzo alla confusione che aveva in testa.
-
Zelena... potremmo non essere più soli. – Ade le
prese una mano e questa volta
lei lo lasciò fare. -Avere tutto è la miglior
vendetta. La parte migliore deve
ancora venire ma...
-
No! –
Zelena lo scacciò di nuovo. Il cuore le batteva troppo
forte, sempre troppo
forte in presenza di Ade e questo accresceva la sua furia. –
Credi davvero che
possa fidarmi di te dopo... dopo...
-
Non
puoi. Non ancora. Lo capisco. – la interruppe Ade,
comprensivo. – Per questo
sei qui. Possiamo parlare. Posso farti capire che puoi fidarti di me.
Dammi una
possibilità.
Zelena
non rispose, ma dentro di sé desiderava che tutto finisse. Tutto. Era tornata ad Oz, sperando di
poter essere lasciata in
pace, ma ovviamente non poteva trovare pace da nessuna parte. Ovunque
andasse,
qualsiasi cosa facesse, Zelena non avrebbe mai trovato niente di buono,
niente
perché era la Strega Perfida. Ovunque andasse trovava solo
rovine. Quella città
non era come quella di Regina. Lo aveva detto anche Ade. Cadeva a
pezzi. Era
orribile. Il cielo era rosso, l’aria era troppo densa... ed
era piena di gente
morta. Gente con conti in sospeso.
Rovine.
Sì,
voleva davvero che tutto finisse. Per la prima volta da quando la sua
miserabile vita era cominciata, Zelena non desiderò la
vendetta. Si scoprì a
desiderare di essere morta.
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Capitolo 10 *** 10 ***
10
“Abbandonati
siamo come bambini smarriti nel
bosco.
Quando mi stai davanti e mi guardi,
che ne sai tu dei dolori che sono dentro di me
e che ne so io dei tuoi?
E se mi gettassi a terra davanti a te e
piangessi e parlassi,
che ne sapresti di me più che dell’inferno
quando qualcuno ti viene a dire che è tutto
fuoco e spaventevole?”
[Franz
Kafka, Lettera a Oskar Pollak]
Foresta
di Oz. Oggi.
In
un
punto remoto della foresta, un lupo ululò. Qui e
là, nel buio, gli risposero i
compagni, una decina di lupi che levavano le voci in una melodia
discorde.
Ruby
sentì formicolare il cuoio capelluto e la pelle delle
braccia incresparsi,
udendo quel richiamo. Poi, per un istante, gli ululati si fusero in
un’unica
nota, molto simile ad un grido di battaglia.
Si
agitò, stringendosi nel mantello rosso.
-
Cosa
succede? – le domandò Mulan. – Pensi che
i lupi ci daranno fastidio?
-
No.
– rispose Ruby, scuotendo il capo. Alzò la testa,
osservando il cielo
punteggiato di stelle e di stralci di nubi. - Credo che stiano
insegnando ai
cuccioli a cacciare. Non verranno da questa parte.
Mulan
aggrottò la fronte. Era seduta a cavalcioni su di un vecchio
tronco cavo,
indurito e sbiancato dal sole. Ogni volta che si muoveva il tronco
emetteva un
acuto scricchiolio. In mezzo a loro, un piccolo cumulo di braci, i
resti del
fuoco, pulsava come un cuore. La fievole luce rossastra illuminava un
tratto
del suolo roccioso, qualche cespuglio e un abete poco distante. Sparse
a pochi
metri da loro c’erano le tende degli uomini di Robin. Ogni
tanto si levavano i
lamenti di qualche ferito.
-
Ruby, andrà tutto bene. Le prigioni di Zelena sono
là sotto. L’incantesimo è
più forte di quanto ci aspettavamo, ma vedrai che...
-
E nel
frattempo quei prigionieri stanno morendo di fame. Forse sono
già morti. E
anche Dorothy...
-
Non
credo sia facile uccidere una come Dorothy.
Allora
Ruby prese a singhiozzare. Singhiozzava come se avesse avuto il cuore
spezzato.
Mulan non l’aveva mai vista così e per un momento
non fece nulla, tanto la sua
reazione era stata improvvisa. Poi sedette accanto a lei e
posò una mano sulla
sua.
-
Scusami.
Non so che cosa mi prenda. Non riesco più a controllarmi.
– disse, con la voce
rotta.
-
Fidati, so bene che cosa ti prende. - Mulan si accorse che lei
stringeva un
pezzo di stoffa a righe tra le dita. Doveva essere appartenuto a
Dorothy. Avvertì
un’improvvisa, ardente scintilla di collera nei confronti di
Zelena, di Knubbin
che non era in grado di cavare un ragno dal buco, di Glinda, che
stentava a
riprendersi da ciò che era successo...
-
Non
avrei dovuto chiederti di seguirmi. Pensavo che cercare il mio branco
fosse la
cosa più importante e che avrebbe aiutato anche te e
invece... guarda dove
siamo finite. – continuò Ruby.
Mulan
stava per rispondere, quando Piccolo John si fermò proprio
dietro di loro, in
attesa. Ruby si affrettò ad asciugarsi le lacrime. Lui
sembrò provare un vago
senso di vergogna per averla sorpresa con la guardia abbassata.
-
Il
mago vuole vederti. – disse John, strascicando i piedi e
lanciando solo una
rapida occhiata a Mulan. – Adesso.
Oltretomba.
Oggi.
-
Com’era? Descrivetemi Emma Swan. – disse Tremotino,
quando lo misero al
corrente di ciò che era accaduto.
Fu
Mary Margaret a farlo. Era visibilmente stanca, pallida e con ombre
scure sotto
agli occhi. I suoi sogni erano stati disturbati dalla presenza maligna
che
aveva le sembianze di sua figlia. Il rosso di quelle iridi
l’aveva seguita e
così anche il ruggito sofferente del drago nei boschi.
-
Uno
Spettro. - concluse Tremotino. - Più di uno, stando a quel
che mi racconta.
-
Spettro? – intervenne Killian. – Parlo chiaro,
Coccodrillo. Emma è posseduta da
un maledetto fantasma?
-
No,
capitano. Non un fantasma. Uno Spettro. È ben peggio.
– rispose l’Oscuro con
tutta la calma del mondo, come se stesse parlando di uno spiritello
qualunque.
E tuttavia, nemmeno lui aveva una bella cera. L’espressione
era grave e il suo
sguardo sembrava perso dietro ad altri ragionamenti. –
È una creatura malvagia,
che ha origine quando un mago evoca spiriti più potenti di
lui e ne perde il
controllo. Di solito quegli spiriti si impossessano del corpo di chi li
ha
evocati, ma... credo che in questo caso il mago fosse abbastanza forte
da
dirigere gli spiriti verso un altro contenitore.
-
Zelena? – domandò il principe Fiyero.
-
Forse. Lei è molto potente. Potrebbe averlo evocato.
-
Ma
non ha alcun motivo di usare Emma. Lo Spettro... si è
diretto verso casa sua.
Sembrava cercasse proprio... mia sorella. – disse Regina,
acidamente. – E non
certo per ringraziarla.
Tremotino
si accorse che gli occhi nocciola della sua ex allieva ardevano di un
misto di
rabbia e angoscia così violento da far pensare che le sue
emozioni sarebbero
potute esplodere da un momento all’altro per distruggere
qualsiasi cosa nel suo
campo visivo, in una vampa di incredibile intensità.
Ma
lui
la capiva.
-
Come
mai Lily sta così male? Dipende da ciò che sta
accadendo ad Emma? – chiese
David.
-
Lo
Spettro si sta nutrendo dell’essenza di Emma Swan. La sfrutta
a sua vantaggio.
Ne trae forza. Controlla i suoi pensieri. E Lilith ha una parte di Emma
dentro
di sé... grazie a lei e a sua moglie. – ci tenne a
puntualizzare. – Sente
quello che sta facendo lo Spettro.
-
Emma
è... – iniziò Mary Margaret. Non sapeva
nemmeno lei che cosa stesse per
chiedere.
Emma
è ancora viva?
Emma
è cosciente?
-
Emma
sa benissimo che cosa le sta succedendo, ma non può fare
niente. Lo Spettro
piega la sua volontà. Più lotta contro di esso...
più soffre.
Calò
un silenzio di tomba.
-
Veniamo
al dunque. – disse Killian. - Come liberiamo Emma?
- Ti
vedo più rilassata. – disse Ade, porgendo un
bicchiere di vino rosso a Zelena,
che sedeva in poltrona. – Ne sono lieto. Ora possiamo
parlare. E possiamo
andare a prendere tua figlia.
Lei
non disse niente. Una schiavetta del Signore degli Inferi, una
ragazzina bionda
e pallida, le porse del cibo su un vassoio d’argento. Nel
farlo, chinò
diligentemente la testa, evitando di guardarla in faccia.
Mele
verdi, uva, bacche, dolci, mille altre leccornie...
Al
centro, a decorare il tutto, c’erano due frutti tondi
tagliati a metà e
circondati da foglie lucide e strette. I semi erano di un vivido colore
rosso
ed erano attorniati da una polpa traslucida.
-
Non
ho fame. – rispose Zelena, seccata.
“La
storia del Dio degli Inferi che rapisce una
fanciulla, costringendola a passare sei mesi nel suo regno e altri sei
sulla
Terra. Non in tutti i mondi la storia è la
stessa...”
-
So
che sei preoccupata. Ma lascia fare a me. Porterò qui tua
figlia. – la
rassicurò Ade. – Quegli eroi da strapazzo non la
toccheranno. Tantomeno tua
sorella.
-
Dov’è mia madre, adesso? –
domandò, invece, Zelena. – Hai detto che ti ha
aiutato con lo Spettro. Dov’è?
-
Sei
curiosa? Vuoi conoscerla?
“Sappi
che se sarai nei pasticci, potrai sempre
chiamare me. Posso sentirti ovunque tu sia. Persino nel regno di Ade. E
puoi
contare su quello che dico: mettimi alla prova appena puoi.”
-
Mi
sono occupato anche di lei. L’ho torturata. Da quando
è arrivata qui non ho
fatto altro. Ed ora è tornata a trascinare carri stracolmi
di sacchi di farina.
Zelena
sorrise, perché quel pensiero la mise stranamente di buon
umore.
-
Sorridi.
Bene.
-
Mia
madre mi ha abbandonata. Non dovrei sorridere, sapendo che la torturi?
- Prese
il bicchiere che Ade le offriva e seguitò a fissarlo. Gli
permise di
avvicinarsi e di inginocchiarsi davanti a lei.
“E
puoi contare su quello che dico: mettimi
alla prova appena puoi.”
-
C’è
qualcos’altro che posso fare per te? –
domandò Ade. – Altre... torture che
posso rivolgere contro Cora?
-
Perché non contro mia sorella?
-
La
sto già torturando. Le ho gettato addosso alcuni dei suoi
conti in sospeso, suo
figlio ha rischiato la vita... e la sua adorata Salvatrice sta
soffrendo. È in
balia di uno Spettro. Perché credi che abbia ordinato a Cora
di usare il corpo
di Emma Swan come contenitore? Quello che fanno gli Spettri...
è molto
spiacevole, Zelena.
Tacque.
-
Non
hai nulla da dirmi?
Non
gli disse un bel niente, ma usò il proprio potere per
immobilizzarlo. Avvertì
chiaramente la magia che si scontrava con una barriera, con un muro
elastico,
minacciando di rivoltarsi contro di lei. Ma si sforzò di
dirigerla verso Ade.
L’incantesimo
non lo paralizzò totalmente, ma gli bloccò le
gambe fino alle ginocchia. Ade
lanciò un’esclamazione di sorpresa, mentre
annaspava, cercando di afferrarla.
Zelena non gli diede il tempo di reagire e usò la magia per
completare l’opera.
Ade si ritrovò immobilizzato fino al collo, mentre Zelena
ansimava per la
fatica. Era un semplice incantesimo, eppure il suo corpo era fiacco,
quasi
avesse compiuto uno sforzo titanico.
-
Zelena! – gridò Ade, lottando ferocemente contro
l’incantesimo.
Non
aveva idea di quanto tempo avesse. Era sicura che Ade potesse liberarsi
da solo
e che non avrebbe impiegato molto, quindi si gettò per
terra, rimirando il
proprio riflesso in uno dei fiumi che si dipartivano dalla piattaforma
dove il
Signore degli Inferi trascorreva la maggior parte del tempo.
Il
Flegetonte. Impetuoso e fiammeggiante. Rosso e arancione come il fuoco
che
scaturisce dalla bocca di un drago.
-
Bene,
Era. – sussurrò Zelena, percependo un gusto amaro
sul palato quando pronunciò
il nome della moglie di Zeus. – Provami che vuoi davvero
aiutarmi. Se mi stai
ascoltando, aiutami a salvare mia figlia.
Non
vi
furono cambiamenti di sorta nelle acque del Flegetonte. Continuarono a
scorrere. Dietro di lei si levarono i sospiri e i gemiti dei gusci
vuoti che nuotavano
senza posa nel Fiume delle Anime.
-
Era,
ti avverto che se ti stai prendendo gioco di me, non mi
importerà della tua
immortalità. Me la pagherai comunque.
Il
moto della corrente cambiò all’improvviso.
La
Strega Cieca non si aspettava niente di ciò che accadde quel
giorno al
Granny’s.
Aprì
la tavola calda come ogni giorno, scostò le persiane,
lasciando entrare la luce
rossa che inondava l’Oltretomba, servì i primi
clienti, intimando alle
cameriere di darsi una mossa e diede un caffè nero a
Crudelia che, a giudicare
dall’odore e dai borbottii, doveva essere di cattivo umore.
La sentì mentre svitava
il tappo di una fiaschetta per versarne il contenuto nella tazza. Gin
scadente
rimediato al mercato nero. E la Strega Cieca sapeva anche da chi lo
aveva
rimediato. Dalla competizione... ovvero
zia Em.
Poi
lo
Spettro fece irruzione, scardinando la porta d’ingresso. Le
poche persone
presenti vennero costrette alla fuga, mentre tavoli e sedie spiccavano
il volo.
La
Strega Cieca annusò l’aria e l’unica
cosa che avvertì fu un odore nauseabondo.
Era mescolato ad un altro odore, ma quella fragranza si perdeva in
mezzo alla
putredine. Non assomigliava a niente che avesse mai sentito prima.
Infine
una mano gelida l’afferrò per il corpetto e la
trascinò dall’altra parte del
bancone. L’essere non era certamente un morto qualunque. Era
dotato di una
forza disumana.
Le
dita le serrarono il collo in una morsa d’acciaio e una mano
affondò nel suo
petto, in cerca del cuore.
Crudelia
ebbe modo di vedere che la cosa che se ne andava in giro nel corpo
della sua
assassina non stava semplicemente torturando una donna a caso. Aveva
spinto una
mano nel torace della Strega Cieca ed ora ne risucchiava
l’essenza. Era del
colore della nebbia sulle acque immobili di un lago e fumava un
po’ scivolando
sul braccio di Emma Swan per poi entrare in lei passando dalla bocca e
dalle
narici.
La
Strega Cieca si sciolse come neve al sole. Del suo corpo non rimase che
una
pozzanghera sul pavimento del Granny’s.
Foresta
di Oz.
-
Loro
credono che io sia pazzo, ma la verità è che non
hanno la minima idea di che
cosa sia la pazzia. – disse Knubbin, quando Ruby mise piede
nella tenda che gli
era stata riservata.
C’era
anche Robin.
-
Eccovi,
tesorino, finalmente. – Knubbin stava armeggiando con alcune
ampolle,
scrutandone il contenuto. Aveva le borse sotto agli occhi, il naso
scarlatto e
i capelli ritti sulla testa. Sembrava che non avesse dormito e che non
si fosse
fermato un momento da quando era arrivato ad Oz. – Spero che
siate pronta per
un viaggetto. Sarà un po’ movimentato.
-
Quale viaggio?
-
Incantesimo di localizzazione. Una specie.
Ruby
batté le palpebre. Cercò di far ingranare al
cervello una marcia che le
permettesse di lasciarsi alle spalle quel senso di colpa e di
impotenza, ma non
ci riuscì. – Abbiamo già provato con un
incantesimo di localizzazione...
-
Con
Dorothy non ha funzionato, ma noi rintracceremo la fonte del problema,
tesorino.
-
Zelena. - intervenne Robin. – Lei ha mia figlia. E se
troviamo Zelena, saprà
dirci che cosa è successo a Dorothy.
-
Ma
Zelena non è in questo mondo. È caduta in un
portale!
Knubbin
stappò un’ampolla e da essa scaturì del
fumo color porpora. Lui starnutì più
volte e il suo corvo si levò in volo, infastidito
dall’odore acre emanato dalla
pozione. - Non è in questo mondo, già, che
disdetta. Ma il tornado che creeremo
vi porterà direttamente da lei, ovunque si trovi. So che
sembra complicato...
non ho trovato le prigioni in quel dannato palazzo, ma quel posto
è... come
dire... una vera fortezza. Ci sono incantesimi in ogni dove!
-
E
pensate di poter creare un tornado che ci porterà... da
Zelena?
-
Sì.
Abbiamo un po’ di cose che le appartengono, tesorino. Ma non
basta. Mi serve
dell’altro. E qui viene il bello. O il brutto.
Lei
e
Robin attesero che il mago continuasse.
-
A
cosa siete disposti a rinunciare?
Oltretomba.
Regina
provava una sensazione terribile, cupa e schiacciante. La sensazione di
essere
sospinta verso la bocca di un tunnel in cui la attendeva ogni genere di
brutti
incontri, una sensazione accompagnata dal panico. Qualcosa dentro di
lei voleva
urlare di terrore e capì che se non avesse recuperato le
redini di quella
situazione al più presto quell’impulso non si
sarebbe trattenuto.
Quello
era davvero l’Inferno. Non un limbo. L’Inferno.
Più restavano in quel dannato
posto e più quel posto li corrodeva.
Chiuse
gli occhi e cominciò a respirare a fondo.
-
Regina.
Si
rifiutò di credere di aver sentito la voce di sua sorella.
Non poteva trovarsi
lì. Lo Spettro l’aveva presa e portata da qualche
parte, forse da Ade in
persona.
Lo
Spettro. Lo Spettro che era Emma. Nel corpo di Emma. E la torturava.
“Emma
sa benissimo che cosa le sta succedendo,
ma non può fare niente. Lo Spettro piega la sua
volontà. Più lotta contro di
esso... più soffre.”
-
Regina, maledizione, dammi retta!
Spalancò
gli occhi e fissò lo specchio appeso in camera degli
Azzurri. La superficie
trasparente si muoveva. La sua immagine riflessa sbiadiva, si deformava
sotto
le increspature. Pian piano, un altro volto emerse. Due occhi
così azzurri da
sembrare fari nella nebbia.
-
Non
posso credere che lo sto facendo.
Lei
si
avvicinò allo specchio. - Ma che cosa...
-
Regina, non ho molto tempo. Devi ascoltarmi. – disse Zelena,
energica. – Si
tratta di mia figlia. Io non posso aiutarla, ma tu sì.
-
Dove
diavolo sei, Zelena? Che cosa stai facendo?
-
Tutto questo può aspettare. Mia figlia... è in
quella casa. È sola. Devi fare
qualcosa. Devi portarla via!
A
Regina sembrava tutto immensamente surreale. Aveva così
tanti pensieri per la
testa che non aveva pensato al fatto che lo Spettro potesse aver rapito
solo
Zelena, infischiandosene della piccola. Scosse il capo. - Emma... Lo
Spettro...
è lì? È con te?
-
Non
ho evocato io lo Spettro, se è questo che credi! –
gridò Zelena, increspando
ancora di più la superficie dello specchio. - La nostra
amorevole madre l’ha
fatto per Ade! E poi non è riuscita a controllarlo!
-
Che
cosa vuole Ade da te?
-
Regina, ti prego, mia figlia potrebbe essere in pericolo. Non possiamo
rimandare?
-
Non
possiamo dato che non mi fido di te. – Puntò un
dito contro lo specchio. – Devi
dirmi qualcosa, se vuoi che la aiuti. Che cosa è successo
fra te ed Ade?
Zelena
fece una paura brevissima. Borbottò qualcosa che Regina non
capì. Poi...
-
Si è
innamorato di me. – ammise.
Regina
si sarebbe aspettata qualsiasi cosa, ma non questo. Era talmente
incredula che
faticò a trovare una risposta sensata. - Oh.
-
Già.
Ridicolo, vero? La sola idea che qualcuno possa amarmi... una
divinità, per
giunta. – Nel dirlo, si rese conto di due cose: che suonava
ancora più ridicolo
ora che lo aveva detto ad alta voce a Regina e che aveva appena
attraversato un
ponte. Non se lo era bruciato alle spalle, non ancora almeno, ma non
avrebbe
mai più potuto tornare sui suoi passi senza dare un mucchio
di spiegazioni alla
stessa donna che aveva sempre invidiato e alla quale aveva chiesto
aiuto.
-
Tu
lo ami? – domandò Regina.
Zelena
non le rispose. Serrò le labbra.
-
Zelena, lui ci sta tenendo qua sotto. Non possiamo andarcene
perché ha fissato
i nomi di tre di noi sulle tombe! Forse è il momento di...
-
È il
momento di finirla con le chiacchiere e pensare a mia figlia!
– la zittì. –
Voglio che tu vada in quella casa e porti via la mia bambina. Tu o...
qualcuno
della tua banda di idioti. Possibilmente non il Principe Azzurro e la
sua
amata. Sono capaci di rovinare tutto!
Regina
sospirò.
-
C’è
uno Spettro, là fuori, che non avrà
pietà di nessuno, tantomeno di una bambina.
Non so per quanto... potrò trattenere Ade. Per ora
è fuori gioco, ma devi
sbrigarti.
-
Come
facciamo con la barriera che protegge la casa?
-
So
come abbatterla. Quindi apri bene le orecchie, sorellina,
perché non ho la
minima intenzione di ripeterlo.
Foresta
di Oz.
Robin
e Ruby osservarono Knubbin mentre trafficava intorno al gigantesco
pentacolo
che aveva riprodotto usando rami e sassi.
Erano
a circa una lega dall’accampamento dell’Allegra
Compagnia, in una vasta radura
ai margini della Città di Smeraldo. Sopra di loro, solo il
cielo buio e le
stelle. Intorno, nient’altro che qualche vecchio albero e...
la strada dorata.
La strada di mattoni gialli che attraversava il regno di Oz per
terminare a
quello che un tempo era stato il palazzo del Mago e che ora era la
dimora di
Zelena.
-
Ecco
fatto, tesorino. Iniziate a concentrarvi. – disse Knubbin.
Aveva acceso delle
candele e le aveva posizionate sulle cinque punte della stella
inscritta in un
cerchio. – Concentratevi tutti, è meglio.
-
Non
ci avete detto a cosa dovremmo rinunciare. – gli fece notare
Robin.
-
Mettetevi al centro del pentacolo, grazie. Solo tu e la ragazza. Gli
altri
conviene che restino fuori. Il cerchio serve per contenere il tornado.
–
Knubbin parlava in fretta, agitato e muovendosi intorno al pentacolo
senza
posa.
Mulan,
John e i due uomini dell’Allegra Compagnia che erano venuti
con loro si
scambiarono delle occhiate incerte, ma rimasero all’esterno
del cerchio.
-
Ora,
tesorini... la parte migliore. O peggiore, a seconda dei punti di
vista.
Ruby
non capiva perché Knubbin facesse continuamente pause
enfatiche, come se si
trovasse in un maledetto film e stesse per rivelare qualcosa di
sconvolgente,
qualcosa che avrebbe sovvertito la trama intera. In quel momento, con
quei
capelli bianchi ritti sulla testa, gli occhi leggermente sgranati e
sporgenti
dalle orbite, gli fece pensare a Doc, lo scienziato pazzo di Ritorno al Futuro.
-
Dovete
rinunciare ad un ricordo. – concluse Knubbin.
-
Un
ricordo? – chiese Robin, perplesso.
-
Un
ricordo a cui siete molto legati. Un ricordo speciale, diciamo.
– Soffiò il
vento e le fiammelle delle candele tremolarono, ma non si spensero. -
Deve
essere un bel ricordo, tesorini, o non funzionerà.
Oltretomba.
Fiyero
recuperò l’ampolla dalla tasca della giubba rossa
e tolse il tappo, colto da
una potente sensazione di deja vu. Ma questa volta sperava che le cose
andassero meglio.
Marian
gli copriva le spalle, con l’arco in pugno e una freccia
già incoccata. Non si
vedevano arpie né tantomeno alberi dotati di coscienza,
pronti ad acchiapparli
per le braccia o per il collo. Niente Spettri. In lontananza,
risuonò ancora il
ruggito sofferente del drago.
Fiyero
gettò l’acqua del Fiume delle Anime sulla barriera
che proteggeva la casa in
cui si era rifugiata Zelena, proprio come gli aveva detto di fare
Regina.
Nella
barriera si aprì una breccia, preceduta da uno sfarfallio.
Fiyero
e Marian si diressero verso la casa. Lui provò subito la
porta d’ingresso e la
trovò ancora aperta. Prima di entrare, estrasse uno dei
pugnali dallo stivale.
La
casa sembrava deserta. Il corridoio e le stanze al piano terra erano
libere.
Tutte a parte la cucina, dove trovarono la culla con la bambina sveglia
e molto
vivace.
Marian
si chinò sulla neonata, che allungò una mano
minuscola verso di lei. La prese,
avvolgendola accuratamente nella coperta bianca.
-
Sembra
tutto in ordine. – disse Fiyero, guardandosi intorno. Se lo
Spettro aveva
causato dei danni, non erano visibili. C’erano solo alcuni
oggetti per terra,
ma nient’altro.
-
Andiamocene in fretta, allora.
-
Perché lo state facendo? – domandò il
principe, sempre tenendo d’occhio
l’ambiente che li circondava, mentre tornavano verso la porta
d’ingresso. – Io
mi sono offerto volontario, ma voi... avevate molti motivi per non
venire qui.
-
È
figlia di Robin. Ed è solo una neonata. Non ha nessuna
colpa. – rispose Marian,
senza esitazioni.
-
No.
E nemmeno voi.
Marian
non disse niente. Aggiustò la coperta intorno alla bambina e
uscì, precedendo
Fiyero.
-
Ditemi, capitano. Che cosa vi serve? – domandò
Tremotino. – Avete pensato al
nostro accordo?
-
Non
abbiamo nessun accordo, Coccodrillo. Ma potremmo, se servisse a salvare
Emma. –
Killian si appoggiò al bancone del negozio di Gold.
L’Oscuro era solo, seduto
con le gambe accavallate, come se là fuori non ci fosse una
creatura pronta a
distruggerli. Come se non si trovasse nell’Oltretomba ma a
casa sua e stesse
semplicemente aspettando il ritorno a casa della mogliettina ignara.
-
Ho
già spiegato a Regina come potete aiutarla.
-
Avresti potuto spiegarlo a me.
-
Non
potete affrontare lo Spettro, capitano. Vi ucciderà.
– Si alzò in piedi. Aveva
un’aria pallida e il viso tirato, come se fosse stanco fino
al midollo. –
Inoltre non credo abbiate il coraggio di piantare una lama nel cuore
della
vostra amata senza battere ciglio. L’uomo che ho conosciuto
secoli fa l’avrebbe
fatto... quello di oggi no.
Killian
sentì la rabbia montare come una marea. - Hai proposto di
condannare Emma.
Credi che Regina lo farà?
-
Ho
solo detto che per distruggere lo Spettro è necessario
colpirlo al cuore con
una lama imbevuta dell’acqua del Fiume delle Anime... cosa
che condannerebbe
anche la signorina Swan, certo. – Tremotino stava seriamente
pensando di
prendere il Vaso di Pandora, che era proprio lì sul bancone,
aprirlo e
chiuderci dentro Killian Jones una volta per tutte. Avrebbe messo il
Vaso in un
cassetto e lo avrebbe lasciato nell’Oltretomba, chiuso in una
prigione quadrata
dove non avrebbe potuto nemmeno distendere le gambe. Avrebbe potuto
dire che
qualche demone di Ade lo aveva dilaniato. – Non mi aspetto
che Regina lo
faccia. Come voi... anche lei non è più la stessa
donna di un tempo. Se la colpisce
al cuore usando una lama comune, lo Spettro lascerà il corpo
di Emma, ma se ne
prenderà un altro. Vi piace l’idea?
Dopo
una lunga lotta, Malefica era riuscita a fermare Lily. Il giovane drago
si era
schiantato, sollevando un’ondata di foglie, rami e terra e
sradicando alcuni
alberi della foresta.
In
quel momento, sua figlia la fissava da sotto le spesse palpebre
abbassate. Era
cosciente, ma stordita dall’incantesimo che aveva usato per
impedire che si
facesse del male.
Malefica
odiava lo Spettro. Odiava quel posto con tutte le sue forze. E odiava
anche gli
Azzurri. Se non fosse stato per la maledizione
dell’Apprendista non sarebbe
stata costretta ad agire in quel modo.
-
Mi
dispiace, Lily. – disse Malefica, appoggiando una mano sulla
fronte del drago.
Lo
Spettro piombò su di lei ad una velocità
inaudita. Malefica ebbe giusto il
tempo di vedere un movimento guizzante alla sua sinistra, poi
l’essere la colpì
con la forza della sua magia e la scagliò lontano.
-
Fatti
da parte, Malefica. Dacci il drago. – sentenziò lo
Spettro, con i capelli
bianchi che fluttuavano intorno alla testa.
-
Dovrai passare sul mio cadavere. – rispose lei.
Lo
Spettro aveva una spada con la lama lunga, sottile e affusolata, con un
guardamano a croce le cui estremità terminavano a punta.
L’attaccò con quella e
Malefica riuscì per un soffio a levare lo scettro per parare
il colpo diretto
al costato. Le armi cozzarono con un fragore che le fece battere i
denti.
Impugnò lo scettro con entrambe le mani e, facendo appello a
tutte le sue
forze, diresse la magia verso la testa dello Spettro. Lo
evitò, deviando il
fascio di luce contro l’albero più vicino. La sua
rapidità aveva
dell’incredibile.
-
Devi
fare di meglio, se intendi fermarci. – blaterò lo
Spettro, ridendo di gusto.
Malefica
indietreggiò, con le braccia che tremavano ad ogni colpo
inferto dalla creatura
e quei colpi diventavano sempre più potenti. Giocava con
lei. Non aveva modo di
ricorrere alla magia, poiché non le lasciava spazio di
manovra e l’Oltretomba
rallentava gli incantesimi.
-
Emma!
– gridò Regina.
Lo
Spettro alzò la testa e si girò, come un jet
guidato da un radar. Malefica
approfittò della distrazione per riversare il proprio potere
contro il nemico.
Colto alla sprovvista, lo Spettro ululò di dolore, mentre
spiccava il volo.
Tuttavia, atterrò in piedi, piegando leggermente le
ginocchia.
-
Malefica, proteggi Lily. Ci penso io a lei. – Regina era
armata proprio come lo
Spettro. Anche lei aveva una spada
“Se
colpirai al cuore lo Spettro con la lama
imbevuta dell’acqua del Fiume delle Anime, lo distruggerai.
Ma Emma Swan non
avrà scampo.” La
voce di
Tremotino suonava lugubre, come una condanna.
Regina
impugnò saldamente la spada. Lo Spettro si fece avanti.
Guardando il viso di
Emma, deformata dallo spirito maligno che dimorava nel suo corpo,
Regina ebbe
l’impressione di vedere il rogo dentro una stufa. Mai aveva
visto in un paio di
occhi una furia simile, una furia così totale e sragionante,
senza scopo. Mai
aveva sospettato che una furia del genere esistesse.
“Se
non immergi la lama nell’acqua, lo Spettro
lascerà il corpo di Emma, ma se ne prenderà un
altro. E potrebbe andare molto
peggio.”
“Mi
stai chiedendo di uccidere Emma?”
“Emma
Swan è già morta.”
“Siamo
venuti qui per salvarla. Non per
condannarla.”
“Siamo
venuti nell’Oltretomba per provarci.
Anzi, siete venuti. Io vi avevo avvertito, a riguardo. Questo non
è posto per i
vivi. Credi di essere Orfeo?”
-
Dove
sono i tuoi amici, Regina Cattiva? – sibilò lo
Spettro, girandole intorno. - Ci
aspettavamo di vederli.
-
Hai
ancora una scelta. Puoi lasciare quel corpo adesso. Potete
lasciarlo.
-
Non
credo proprio.
-
Allora dovremo combattere. Sono abbastanza brava. Niente magia.
-
Niente magia? – Sorrise, maligno.
-
Niente magia. Tu non la userai. Ed io non la userò.
-
Hai
voglia di morire. Meglio per noi. Oh, sì, meglio!
– Gettò indietro la testa,
ridacchiando. Parlava al plurale. Doveva aver ragione Tremotino. Non
era un
unico Spettro. Erano tanti spiriti riuniti in un unico corpo.
– Ade mi
ringrazierà per averti uccisa.
Regina
cercava di ricordarsi tutto quello che aveva imparato, combattendo
contro i
suoi soldati, quando ancora era la Regina Cattiva. Tentò un
affondo verso il
petto del Spettro, ma quello rise di gusto e la respinse.
“Orfeo
ha fallito. È una fortuna che io non sia
Orfeo, Tremotino.”
“Già.
Orfeo ha fallito perché era troppo
impaziente. Era riuscito a commuovere Ade, ma è stato la
causa della propria
rovina. Anche a te potrebbe andare male, Regina. Lo Spettro
è troppo forte.
Potrei aiutarti io.”
“No.”
“Non
ti fidi di me.”
“Dovrei?
È anche colpa tua. Avresti potuto
lasciare che l’oscurità venisse distrutta, invece
di approfittartene e
vanificare il sacrificio di Emma!”
“Tu
non puoi capire.”
Lo
Spettro era velocissimo. La incalzò con una serie di mosse
rapide e Regina fu
costretta ad indietreggiare.
Era
più forte di lei, su quello non aveva alcun dubbio.
“Almeno
ricorda che in battaglia non sempre
vince il più forte. A volte, vince il più
furbo.” Tremotino
sembrava convinto che la sua fosse
follia pura. Eppure appariva anche desideroso di darle qualche
consiglio, come
se fosse stato ancora il suo maestro. Un maestro preoccupato per
l’allieva,
anche se l’allieva era ormai cresciuta e aveva percorso molta
strada.
“Lascia
che venga con te.”, aveva
detto David. “Si tratta di mia
figlia.”
Ma
Regina sapeva che nessuno poteva aiutarla. Doveva essere lei ad
affrontare lo
Spettro.
“Devo
chiederti di pensare a nostro figlio e
alla mia famiglia. Devi portarli via da qui, se le cose si mettono
male. Devi portare
via tutti.”
Regina
parò un manrovescio e subito scartò di lato per
evitare un affondo che mirava
al suo torace. Lo Spettro ringhiò e provò un
fendente, che falciò soltanto
l’aria. La spada dell’essere sibilò
pochi istanti dopo abbastanza vicino da aprirle
uno squarcio nella giacca rossa e, nel mentre, un maglio le
penetrò nel
cervello.
Lo
Spettro la stava attaccando con la mente. Ovviamente Regina non si
aspettava
che rispettasse l’accordo e non usasse dei trucchi per
indebolirla. Tremotino
le aveva insegnato anche a proteggere la propria mente e quindi Regina
lottò
per sollevare barriere abbastanza robuste da evitare che lo Spettro
entrasse
nella sua coscienza, distruggendola. Fece roteare la spada, cercando un
varco
nelle sue difese, ma lo Spettro parò il colpo senza sforzo.
“Devo
chiederti di pensare a nostro figlio e
alla mia famiglia.”
Regina
si abbassò, piegando le ginocchia, prima che
l’ennesimo colpo di spada la
falciasse e poi indietreggiò ancora. Un terribile odio
emanava dagli occhi
rossi e brucianti. Lo Spettro iniziò a girare intorno a lei,
restringendo
lentamente il cerchio. Regina non lo perdeva di vista, ma gli attacchi
mentali
la stavano fiaccando. Un altro tentativo di abbattere le sue difese
l’accecò
momentaneamente e diede allo Spettro la possibilità di farsi
sotto con la
spada. La lama si abbatté su quella di Regina, che
menò un colpo alla cieca. La
forza dello Spettro la costrinse in ginocchio.
-
La
regina è stata piegata. – sogghignò la
faccia di Emma.
Con
il
cuore gonfio di rabbia e di angoscia, Regina alzò gli occhi,
cercando in quelle
rossi una parvenza di ciò che Emma era stata. Vi
trovò solo scherno e
malignità.
Lo
Spettro disse qualcosa in una lingua che lei non capì, poi
puntò la punta della
spada contro il suo petto per affondarla nella carne.
Un
attimo dopo, Regina udì un rombo cupo e un’ombra
gigantesca calò su di lei.
Regina pensò che fosse Malefica, ma lei aveva le corna,
mentre la testa del
drago che sobbalzava contro le nuvole era frastagliata e più
grossa. Dalle fauci
spalancate eruttò una vampa di fuoco gialla e arancione. Lo
Spettro, furibondo,
alzò la testa e si difese con la spada, deviando le fiamme
ai lati del suo
corpo. Regina vide piccoli lapilli roventi disintegrarsi intorno a lei.
“Devo
chiederti di pensare a nostro figlio e
alla mia famiglia.”
La
spada le era caduta, ma Regina, attingendo da
un’insospettabile riserva di
energia, prese il pugnale che teneva nascosto nello stivale. Fiyero
glielo
aveva ceduto come arma di riserva.
Colpì
lo Spettro dritto al cuore.
L’essere,
sconcertato, abbassò lo sguardo sul proprio petto.
Aprì la bocca, ma invece di
parole emise uno strillo terrificante. Afferrò
l’elsa del pugnale come se
volesse strapparsela dalla carne, ma le dita bianche erano ormai prive
di
forza.
Un
turbinio notturno lo avvolse completamente e le tenebre scaturirono dal
corpo,
dividendosi in tanti rivoli sottili e disperdendosi
nell’aria.
Regina
provò ad alzarsi in piedi. Le gambe cedettero e lei cadde di
nuovo in mezzo
alle foglie. Le lacrime le riempirono gli occhi e le rigarono il viso.
Provava
orrore per quello che era stata costretta a fare.
“Ti
ho salvata. Ora tu salva me. E se non puoi
salvarmi, fa quello che nessun altro vorrebbe fare. Tu sei
l’unica in grado di
mettere da parte i sentimenti per fare la cosa giusta.”
Solo
che non era vero. Non lo era più.
Lily,
intanto, barcollò e rischiò di travolgere la sua
stessa madre, che disparve in
una nube magica per ricomparire a qualche metro di distanza. Il corpo
massiccio
del drago si abbatté contro un albero, sradicandolo dalle
sue radici. Ruggì e
poi ricadde di nuovo su un fianco, sollevando rami, foglie e pietrisco.
Il
turbinio che aveva avvolto lo Spettro si dissolse ed Emma si
afflosciò,
incosciente.
I
capelli erano tornati ad essere biondi, a parte un’unica
ciocca bianca che le
ricadde sul volto.
Foresta
di Oz.
Il
tornado si era portato via sia Ruby che Robin Hood e aveva spedito
Knubbin
gambe all’aria sul prato, anche se il pentacolo che aveva
preparato era
riuscito a contenerlo.
Mulan
si chiese a quale ricordo avessero rinunciato per attivare
l’incantesimo. Si
chiese dove fossero andati. Ruby le aveva parlato del suo mondo
più di una
volta e a lei pareva assurdo, pieno di cose che non avrebbe mai capito.
La cosa
che la incuriosiva di più erano quelli che Ruby chiamava
film. Anche Neal
gliene aveva parlato.
“Mi
hanno detto che esiste una storia su di me.
Un film...”
“Oh,
sì. Esiste. È molto carino.”, aveva
risposto Ruby.
“Quindi
sono in una storia...?”
“Ed
è anche molto famosa.” Ruby
aveva cercato di farle capire che cosa
fosse un film e anche cosa fosse un cartone animato. “Racconta
la tua vita.”
“E
come la racconta?”
Glielo
aveva detto, a grandi linee.
“Come
fanno a sapere tutte queste cose? Chi
gliele ha raccontate?”
“Esiste
una leggenda su di te.”
Quello
che Mulan aveva capito era che, non solo esisteva una leggenda su di
lei, ma
era esistito anche un uomo di nome Walt Disney che aveva narrato un
sacco di
storie come la sua. L’Autore. Il vecchio Autore, quello che
aveva preceduto Isaac,
un tizio che ora se ne stava rinchiuso in un manicomio.
“Cos’è
un manicomio?”, aveva
domandato Mulan, confusa.
Il
mondo in cui era stata spedita Zelena era lo stesso mondo in cui era
capitata
Ruby anni prima?
Le
sue
riflessioni furono interrotte da qualcosa di gelido che le bagnava la
faccia,
scivolandole sulle guance. Pensò che fosse pioggia.
L’aria si era fatta
improvvisamente gelida. Poi guardò la propria mano
appoggiata all’elsa della
spada e coperta dal guanto di maglia.
Neve.
Piccoli
fiocchi di neve.
-
Sta
nevicando davvero. – commentò Piccolo John,
aprendo i palmi e osservando i
fiocchi che si posavano sulla pelle callosa. – Non
è inverno. È troppo presto.
Com’è possibile che stia nevicando?
Oltretomba.
Marian
sobbalzò udendo quello che le parve un grido così
pieno di dolore da superare
la distanza.
Invece,
alzando la testa, vide solo un enorme tromba d’aria che
attraversava il
cimitero di Storybrooke. Il vento le scompigliò i capelli.
Fiyero la prese per
un braccio e la condusse al riparo dietro una tomba più
grande, mentre la
bambina di Zelena scoppiava a piangere.
Durò
pochi secondi. Poi il vento si placò e il suono roboante del
tornado scomparve.
Marian
diede la piccola a Fiyero, che la prese goffamente, timoroso di farle
del male.
Marian incoccò una freccia e si sporse da dietro la tomba.
Silenzio.
La via era sgombra.
Marian
uscì allo scoperto. Fiyero la seguì, stringendo
il coltello nella mano destra
mentre con l’altro braccio sosteneva la bambina.
Si
inoltrarono nel cimitero, tra tombe rovesciate e tombe spezzate.
Passarono
accanto a quella di Emma, sormontata dal cigno con le ali spiegate.
-
Era
solo una tempesta... infernale? – sussurrò Fiyero.
-
Non
lo so. Ma se è così è durata molto
poco.
Fiyero
fu il primo a notare il fagotto rosso vicino ad una tomba ricoperta di
foglie
ed erba. Il fagotto aveva anche due piedi che calzavano un paio di
stivali. Il
rosso del mantello gli ricordò...
Rinfoderò
il pugnale ed accorse, seguito da Marian.
Ruby
giaceva a terra, priva di sensi e in forma umana. Fiyero le
tastò il collo per
controllare il battito e lo trovò.
-
Robin?
– La voce di Marian sembrava quella di una persona in stato
confusionale. Si
chinò accanto a lui e lo scosse.
Lui
aprì piano gli occhi. Impiegò qualche istante per
riconoscere il volto che
occupava il suo campo visivo.
Batté
le palpebre un paio di volte.
-
Marian?
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Capitolo 11 *** 11. ***
11
“Cercare
e sapere riconoscere chi o cosa,
in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare e dargli spazio”
[Italo
Calvino, Le città invisibili]
Oltretomba.
-
Non
ti rendi conto di quello che hai fatto! – esclamò
Ade. La sua faccia era una
maschera di sgomento. – Hai consegnato la tua bambina alla
donna che più odi.
Che cosa ti è saltato in mente? Io l’avrei
protetta!
-
Preferisco pensarla con mia sorella che in tuo potere o sola in quella
casa! –
replicò Zelena. La sua voce era diventata stridula e
riecheggiò lungo le pareti
nere della caverna, il covo del Signore degli Inferi.
-
Io
ho già un bambino per l’incantesimo, Zelena. Ho il
figlio di Belle e
dell’Oscuro.
-
Quel
bambino deve ancora nascere.
-
Ho
molta pazienza. Sono millenni che aspetto. Posso attendere un altro
po’.
Il
cuore le funzionava a tonfi irregolari, gli occhi le bruciavano. E
stava
bruciando anche qualcos’altro, qualcosa sul polso. Si era
ferita quando aveva
invocato Era tramite le acque del Flegetonte? Non che la cosa avesse
più
importanza, ormai. Sua figlia era al sicuro. Quello contava davvero.
– Sappi
che ti impedirò di fare qualsiasi cosa tu abbia in mente per
riprendertela.
Posso fermarti, se voglio. Lo hai visto poco fa.
-
Sai
che ora anche il padre di tua figlia è qui? Anche se
riuscissi ad andartene e
ci riuscissero anche loro... non la rivedresti mai più!
Sentì
due lacrime che le rigavano le guance e pensò che fossero
dovute più alla
stanchezza che al dolore.
-
Come
hai fatto a comunicare con tua sorella?
-
Ho
usato la magia.
-
Hai
usato il Flegetonte. Solo io posso comunicare, usando il Flegetonte.
Zelena
non rispose.
Ade
le
andò incontro, attraversando di fretta la piattaforma al
centro della caverna,
quasi gettandosi e, prima che lei potesse fermarlo, le aveva afferrato
il
braccio destro e l’aveva costretta a distenderlo,
sollevandole anche la manica
della camicia.
Un
marchio rosso fiammeggiava sulla sua pelle. Una piuma di pavone.
Il
marchio di Era.
Malefica
aveva aiutato Regina a riportare Emma a casa. Lily aveva recuperato la
forma
umana e la madre l’aveva trasportata sul suo dorso insieme
alla Salvatrice
svenuta e a Regina, che si era tenuta aggrappata al robusto collo del
drago.
L’appartamento
degli Azzurri era sottosopra per l’arrivo di Ruby e Robin.
Per lei fu un
sollievo vederlo con la bambina in braccio, ma quando la strinse tra le
braccia,
Regina rimase rigida.
-
Nell’Oltretomba? – stava dicendo Ruby. - Knubbin ha
usato un incantesimo di
localizzazione per portarci da Zelena.
-
Anche Zelena è quaggiù. – disse Fiyero,
seduto su una vecchia cassapanca
accanto al letto.
-
Sei
venuta qui per cercare Zelena? Posso capire che ci sia venuto Robin,
ma... tu
perché sei venuta? – domandò David.
-
Che
cosa ha combinato mia sorella stavolta? – intervenne Regina,
entrando nella stanza
degli Azzurri.
Ruby
disse loro di Dorothy e raccontò tutto quello che era
accaduto ad Oz da quando
vi aveva messo piede con Mulan, in cerca del branco.
Raccontò dell’attacco al
villaggio del Quadling, che si era rivelato opera della Strega
dell’Est, il
tradimento, la morte di Locasta. A Mary Margaret sembrò che
stesse omettendo
qualcosa di importante.
-
Dorothy è andata ad affrontare Zelena senza dirci niente ed
è scomparsa.
L’abbiamo cercata ovunque. - Ruby aveva un’aria
afflitta e si rigirava tra le
mani il pezzo di stoffa a quadretti che era appartenuto alla paladina
di Oz. Si
morse il labbro. – Niente di tutto questo sarebbe successo se
non fossi mai
andata ad Oz. Un’altra vita è in pericolo a causa
mia.
-
Ora
non dire sciocchezze. Non è colpa tua e lo sai. –
sentenziò Mary Margaret.
“Quando
non hai un’idea migliore, dai sempre la
colpa a te stessa?”, le
aveva
detto Mulan, mentre seguivano Dorothy nella foresta, dopo che Zelena
aveva
preso Toto. E continuava a sentir ripetere le stesse parole nella
testa, si
riciclavano come una registrazione che gira a vuoto.
-
Troveremo Dorothy. – concluse Mary Margaret.
Ruby
ricambiò il suo sguardo sicuro con un’espressione
che era tutta speranza e
candore.
-
Zelena è nelle mani di Ade. Sarà molto difficile
trovarla, se non arriviamo a
Zelena. A meno che non riesca a comunicare di nuovo con noi.
– disse Regina.
-
Il
vostro pessimismo non ci aiuta, con il dovuto rispetto. –
commentò il principe
Fiyero.
Il
suo
pessimismo veniva dal fatto che aveva appena affrontato uno Spettro,
che quello
Spettro era nel corpo di Emma e che lei era stata costretta a fare
qualcosa di
veramente spiacevole per liberarla. Le aveva piantato uno dei pugnali
di quel
tizio nel cuore. Lo Spettro si era momentaneamente dissolto, ma Regina
non
aveva usato l’acqua del Fiume delle Anime Perdute per
distruggerlo. Mai e poi
mai avrebbe sacrificato Emma.
Uscì
da quella stanza, mentre gli altri ancora discutevano su come trovare
la
ragazza di Oz e andò a controllare che Emma stesse meglio.
Non
la
trovò sdraiata sul divano dove l’avevano lasciata.
La coperta era gettata da
una parte.
Regina
vide che la porta della stanza dove avevano sistemato Lily era
socchiusa.
-
Non
hai un così brutto aspetto per essere una che è
sopravvissuta ad una
possessione. – stava dicendo la figlia di Malefica.
-
In
effetti, tu hai un aspetto peggiore.
-
Beh,
grazie.
Sapeva
che non avrebbe dovuto mettersi ad origliare, ma semplicemente non
poté farne a
meno. Sbirciò dentro la stanza e vide Emma seduta accanto al
letto, di spalle.
-
Ti
dona. – notò Lily, allungando una mano per
sfiorarle la ciocca bianca, l’unica
cosa che le era rimasta dello Spettro. – So che forse non
dovrei dirlo...
-
Non
importa.
Ci
fu
silenzio e Regina ebbe l’impressione che Emma si stesse
preparando per dire qualcosa
di grosso. Qualcosa di molto serio. Persino Lily attese, la schiena
appoggiata
ad una pila di cuscini. Era ancora pallida e aveva gli occhi arrossati.
-
Lily, ci ho pensato... – iniziò Emma.
-
A
cosa?
-
Dovremmo... dobbiamo annullare l’incantesimo
dell’Apprendista.
Non
ottenne risposta.
Regina
non credeva alle sue orecchie.
-
Questo dono... questa capacità che ci permette di vedere
l’una attraverso gli
occhi dell’altra... è troppo pericolosa.
Lily
seguitò a non rispondere.
-
Non
sappiamo ancora come controllarlo, ma non è solo questo. Ci
toglie le forze se
lo usiamo a lungo. E noi... lo usiamo quasi senza rendercene conto, a
volte. Lo
usiamo perché... perché è una cosa
naturale. Ma si rivolta contro di noi. Hai
visto cos’è successo con lo Spettro. Lui...
loro... risucchiavano la mia
energia e facevano del male anche a te.
Lily
non disse niente.
A
Regina la conversazione sembrava perfettamente sensata, ma come se si
svolgesse
in lontananza. Più vicino c’era la sua collera,
quasi a stringerle il collo con
le sue braccia roventi. Una collera immotivata, una collera assurda
perché a
causarla non era stato ciò che Emma aveva proposto a Lily,
ma il suo tono.
“Lo
usiamo perché... perché è una cosa
naturale. Ma si rivolta contro di noi.”
La
sua
voce era determinata, ma dolce. Come se le stesse facendo una carezza.
Non
voleva turbare l’amica, ma al tempo stesso voleva che capisse
che quello che le
stava dicendo era importante.
-
Stai
cercando di mettermi a disagio con la cura del silenzio? –
chiese Emma. Ma ora
era evidentemente a disagio. La sua sicurezza iniziava a vacillare.
– Guarda
che io...
-
Merlino mi ha detto che è possibile. – rispose,
invece, Lily. I suoi occhi non
fissavano Emma. Erano persi dietro a qualche vecchio pensiero.
– A Camelot...
mi ha detto che è possibile invertire
l’incantesimo. Ma tu dovresti riprenderti
il tuo potenziale oscuro.
-
Beh,
d’accordo. È il mio potenziale.
-
Distese la mano per appoggiarla sopra quella di Lily. Un altro di quei
gesti
che faceva con naturalezza, senza rendersene conto.
Con
gli occhi della mente, Regina vide sé stessa entrare in
quella camera, coprire
la distanza che la separava dalle due, spingere la sedia e rovesciare
Emma sul
pavimento. Vide persino gli occhi di Lily spalancarsi per lo stupore.
Una
visione estremamente realistica e assurda, come la sua rabbia.
-
Merlino mi ha anche detto che è doloroso... che
può...
“Può
essere invertito. Non annullato. Le conseguenze sarebbero
terribili.”
“Se
anche riuscissi a sradicare quel potenziale oscuro, potrei farti del
male.
Sarebbe estremamente doloroso. Non credo che tu voglia
questo.”
-
So
cosa vuol dire portarsi dentro questa oscurità, Emma. E
Merlino aveva ragione.
È una parte di me, da tantissimo tempo.
Regina
decise che aveva sentito abbastanza. Si allontanò con
cautela.
“E
noi... lo usiamo quasi senza rendercene
conto, a volte. Lo usiamo perché... perché
è una cosa naturale. Ma si rivolta
contro di noi.”
Finì
dritta addosso a Malefica.
-
Ah,
Regina. Eccoti qui. – disse lei. – Devo parlarti.
Ora. Abbiamo un problema.
Foresta
di Oz.
- Robin Hood e Little John van per la
foresta... ed ognuno con l’altro ride e scherza come vuol.
Son felici del
successo delle loro gesta... Urca, urca! Tirulero! Oggi splende il sol!
Non
splendeva nessun sole e Robin Hood era sparito, risucchiato dal vortice
che lo
aveva portato ovunque si trovasse Zelena, insieme a Ruby.
Mulan
arrancò in mezzo alla neve, che le arrivava ai polpacci. La
bufera che quella
notte aveva quasi sradicato le tende dell’accampamento si era
placata, ma
cadeva ancora qualche fiocco. Oz dormiva sotto un pesante manto bianco.
Faceva
terribilmente freddo.
-
Non pensavano ai rischi che correvan nel
gettarsi in acqua per trovare ristor...
Si
era
buttata sulle spalle un pesante mantello con il collo di pelliccia e si
dirigeva verso la tenda del mago Knubbin. Non aveva idea del
perché strepitasse
tanto per vederla.
-
E che un subdolo Sceriffo e i suoi stupidi
scagnozzi erano lì decisi a farli fuor!
Chiunque
stesse cantando tacque all’improvviso. Il campo
precipitò nel silenzio.
Mulan
arrivò alla tenda riservata a Knubbin. Sentiva lo scalpiccio
di quello strano
individuo e i suoi borbottii da fuori. Stranamente, c’erano
due uomini di Robin
davanti all’ingresso, infagottati dalla testa ai piedi.
- Tesorino! Fortuna che siete qui.
Sembrano tutti fuori di senno, oggi! Che sarà mai un
po’ di neve? Non l’hanno
mai vista, forse?
Mulan
stava per rispondergli che il problema non era la neve, ma il fatto che
l’inverno fosse arrivato così presto e da un
giorno all’altro. Stava per dirgli
che forse quello non era un inverno normale, ma il risultato di qualche
magia.
Forse era opera di Nessarose, la Strega dell’Est. Ma
desistette. - Perché mi
avete fatto chiamare? Che cosa succede?
Il
mago aveva un aspetto terribile. I capelli argentei erano ancora
più
scompigliati del solito, sotto agli occhi aveva borse violacee e aveva
una
macchia rossa al centro della fronte, come se si fosse ripetutamente
preso a
sberle in quel punto.
-
Ho
commesso un terribile errore, tesorino! – esclamò.
– Un terribile errore! Beh,
comprensibile, certo, ma comunque avrei dovuto pensarci prima! Ho fatto
chiamare Glinda. Dobbiamo andare al palazzo. So come tirarli fuori.
-
Glinda? – Mulan non aveva più visto la Strega del
Sud da quando il corpo di
Locasta era stato bruciato insieme a quello degli altri caduti. La
Strega
dell’Est aveva tradito le sorelle e poi era scomparsa nel
nulla. Glinda era
prostrata dal senso di colpa e dal dolore. Dubitava che sarebbe venuta.
– E...
tirare fuori chi?
-
I
prigionieri di Zelena! Sono stato uno stupido, tesorino. - Knubbin
allargò le
braccia. Il suo corvo, Heathcliff, lo guardava dal trespolo su cui era
appollaiato, con la testa incassata nelle piume. – Stanotte
non riuscivo
proprio a prendere sonno. Quando non riesco a risolvere un dilemma, non
posso
neppure dormire. Quindi mi sono scervellato per trovare la soluzione. E
infine
sono andato a trovare un paio di quelle guardie... quelle che non
parlano se
non invitati dalla Strega.
-
Sono
uomini di Zelena. Chi vi ha fatto entrare? Credevo fossero sorvegliati.
-
Nessuno mi ha dato il permesso, in effetti. Ho chiesto gentilmente di
vedere un
paio di loro e quel ladro grassottello me l’ha impedito. Ma
io avevo la polvere
di papavero. Non molta, ma... credo stia ancora dormendo. Poco male.
– Knubbin
annuì, come se avesse avuto una delle idee più
geniali della sua vita.
-
Cosa
avete fatto agli uomini di Zelena?
-
Loro
stanno bene. Beh, uno sarà un po’ tramortito, ma
si riprenderà. Ho usato lo
stesso incantesimo... no, non proprio lo stesso, uno molto simile...
insomma,
l’incantesimo che ho usato sullo specchio, per mostrarvi
cos’era successo prima
che irrompessimo nel palazzo. Avrei dovuto pensarci prima, ma
è un incantesimo
difficile. Usarlo su una persona... non l’avevo mai fatto,
ecco.
-
Avete guardato attraverso i suoi occhi?
-
Qualche secondo. Ma mi è bastato. Le prigioni sotterranee
esistono. C’è un
incantesimo che le protegge. È un incantesimo complicato. Ho
bisogno di un
altro mago per abbatterlo.
-
E i prigionieri
di Zelena?
-
Sono
vivi. Lo erano pochi giorni fa... forse faremo in tempo, tesorino.
-
E se
Glinda non venisse? – In realtà Mulan pensava
più a Ruby che a Glinda. Knubbin
l’aveva spedita in qualche altro mondo e ora se ne usciva
fuori con una soluzione
al loro problema. Aveva voglia di afferrarlo per i capelli e scuoterlo
con
ferocia.
-
Glinda verrà. – Knubbin si era fatto
improvvisamente serio. – Ho mandato
qualcuno da lei con un messaggio. Le ho fatto sapere che ho molto
rispetto per
il suo dolore, ma se non verrà qui a darmi una mano
sarà responsabile della
morte di altre persone, compresa la sua paladina preferita.
-
L’avete minacciata?
-
Non era
una minaccia, tesorino. Non mi permetterei mai. - Il mago
osservò il corvo
sbattere le ali. Emise un gracchio. – Le ho detto solo la
verità.
Oltretomba.
-
Facciamo attenzione. Ade ha occhi ed orecchie ovunque. –
disse Killian,
guardandosi in giro come se si aspettasse di vederlo apparire da un
momento
all’altro.
-
Dov’è questa... come l’avete chiamata?
Cabina? – intervenne Marian.
-
Beh,
ha la forma di una cabina telefonica, ma ti aiuterà a
comunicare con il mondo
dei vivi. E con Roland. Dovremmo esserci, quasi. – rispose
David. In realtà
stava osservando Killian. Non si era fatto vivo per tutta la mattinata
e quando
era tornato aveva un’aria cupa e puzzava di rum. Aveva anche
i capelli in
disordine e i vestiti tutti stropicciati, come se fosse appena uscito
da un
lungo giro in lavatrice. E aveva evitato Emma.
Henry
stava adocchiando la mappa che sua madre gli aveva dato.
-
Cosa? – chiese Killian, accorgendosi che David lo stava
fissando.
-
No,
sai... mi chiedevo se stessi bene.
La
sua
risposta fu molto evasiva. Rivolse lo sguardo altrove. -
Perché non dovrei?
-
Perché
non hai un bell’aspetto.
Avrebbe
potuto rispondere con una delle sue battute, ma non lo fece.
Continuò a
camminare, mugugnando qualcosa.
-
Che
sta succedendo? La fila è sempre così lunga?
– domandò Marian, indicando un
punto davanti a loro.
La
cabina telefonica rossa era proprio davanti ad un vecchio emporio con
la
vetrina sbarrata da due travi di legno. Il vecchio telefono era montato
all’interno. Quando David aveva fatto domande per capire come
avrebbe potuto
comunicare con Storybrooke e con suo figlio Neal, gli avevano indicato
quel...
metodo.
Solo
che davanti alla cabina c’era un nutrito drappello di persone
che brontolavano,
contrariate. Un uomo stava cercando di sradicare uno dei pannelli di
vetro opaco.
Ne aveva già smontati due. Crudelia, stretta nella sua
inseparabile pelliccia,
osservava i lavori senza battere ciglio.
-
Ehi!
– gridò David, ma il venticello ormai freddo di
promessa di pioggia gli strappò
via le parole dalle labbra prima ancora che gli fossero uscite di
bocca.
Nessuno
si girò.
-
Ehi,
che cosa pensi di fare? – provò di nuovo David,
rivolgendosi a Crudelia.
Lei
gli regalò un’occhiata di sufficienza, aggrottando
le sopracciglia. - Che cosa
ti sembra che stia facendo, tesoro? Sono il sindaco e mi sto occupando
di
qualche miglioria urbana.
-
Miglioria? – intervenne Marian. Usò un tono forte
e chiaro che riteneva si
impiegasse con le persone dure di comprendonio o in preda a qualche
crisi
isterica, anche se Crudelia sembrava lucidissima e sfoggiava una calma
disarmante. – E queste persone come faranno a comunicare con
i loro cari?
-
Vuoi
dire come farà il Principe Azzurro a mettere a letto il suo
dolce bambino
raccontando qualche terribile favola della buonanotte? –
domandò Crudelia. –
Suppongo che non mi riguardi. Non mi piacciono i bambini.
-
Lo
fai perché non voglio riportarti in vita, vero? –
disse Henry.
Per
qualche istante, gli occhi azzurri e gelidi come ghiaccio di Crudelia
rimasero
fissi su Marian. Balenò un fulmine. Poi gli occhi si
spostarono su di lui. – Ma
certo che no, Henry, caro. A dire il vero, non sono io che ho ordinato
la
rimozione della cabina. Ho solo appoggiato l’idea.
-
Ade.
– concluse David.
Altri
lampi nel cielo, il ringhio viola e bianco di una potente scarica
elettrica. Le
persone intorno alla cabina alzarono le teste come se non fossero molto
sicuri
di dove si trovassero. Alcuni se la diedero a gambe alla spicciolata.
-
Vi
conviene sgombrare il campo, eroi. – prese a dire Crudelia.
– Tra poco pioverà
e non vorreste mai essere fuori casa quando...
Allora
Marian tentò una sortita contro di lei, come un animale
selvatico rimasto
tranquillo solo per riprendere le forze, in attesa del momento
opportuno.
Crudelia barcollò, colta alla sprovvista. Marian le
mollò un cazzotto così
forte che la mandò gambe all’aria in mezzo alla
strada. L’uomo che si stava
occupando della rimozione della cabina si voltò di scatto e
cercò di stendere
David col pugno chiuso, ma lui si scostò appena in tempo e
rispose
afferrandogli il braccio e torcendoglielo dietro la schiena. Altre
persone fuggirono.
Ancora
un bagliore. Una nuova esplosione di tuono che sembrò
espandersi per tutto il
cielo rosso, mentre Marian dava un’altra vigorosa spinta a
Crudelia e poi le
sferrava un calcio dritto in faccia. Lo faceva come se non fosse
totalmente
presente, come se stesse galleggiando in aria e guardasse sé
stessa menare un
colpo dietro l’altro ad una donna morta che voleva impedirle
di parlare con suo
figlio. Lo faceva pensando alle arpie che avevano attaccato lei e
Fiyero e che
avevano minacciato Roland, augurandogli tanti incubi.
Un
freddo gocciolone di pioggia si stampò sul collo di David.
Gridò.
Il
gocciolone era rovente. Gli bruciò un lembo di pelle.
Killian
avvertì un orribile odore di carne bruciata e spinse
l’amico dentro la cabina
vuota. – Al riparo! Al riparo, presto!
Crudelia
imprecò, alzandosi da terra, ma quando un’altra
goccia precipitò sulla sua
pelliccia, bruciacchiando l’orlo della manica, si
affrettò a tagliare la corda.
Marian
prese Henry e si rifugiarono dentro all’emporio
più vicino.
Killian
si ritrovò con il naso schiacciato contro la guancia di
David e il gomito di
lui nello stomaco. – Diamine, odio questo posto. Vedi di fare
presto, amico.
-
Come?
-
Eravamo venuti qui perché tu potessi mandare un messaggio al
bambino, giusto?
Fallo adesso. Non so quanto durerà questa... diavoleria. Ma
quando smetterà
Crudelia tornerà e si occuperà della cabina.
David
non aveva la minima idea di come avrebbe potuto dire al figlio
ciò che doveva
dirgli, né aveva idea di come si sarebbe manifestato quel
messaggio nel mondo
dei vivi. Temeva che non funzionasse affatto. Nonostante
ciò, sollevò la
cornetta, portandosela all’orecchio.
Regina
girò la testa in direzione della finestra, quando
udì un picchiettare sommesso
contro il vetro.
Cadde
uno spruzzo di pioggia che tamburellò contro i vetri e
sfrigolò sul davanzale.
Fili di fumo si levarono dalle ali nere del corvo.
-
Ma
che diamine...?
Il
corvo lanciò un gracchio stizzito e Regina si decise ad
aprire la finestra.
L’uccello volò dentro e atterrò
malamente sul pavimento. Richiuse
immediatamente, comprendendo fin troppo bene che quella non era una
tempesta
normale.
Il
corvo recava un messaggio legato alla zampa.
Regina
si affrettò a srotolare la pergamena ingiallita. Poche
righe. Un messaggio
molto stringato.
Zelena.
Ancora
non le era chiaro come facesse a comunicare dal luogo in cui si
trovava, ma
almeno ora aveva un’idea di quello che era accaduto a
Dorothy.
Dorothy.
È ad Oz, nelle mie prigioni. Incantesimo
del sonno. Temo di non poter rimediare.
Le
scarpette d’argento sono qui.
Scoppiò
il temporale e l’acqua scese in scrosci intensi, fumanti; i
fulmini si
rincorrevano nel cielo, il tuono schioccava.
Incantesimo
del sonno. Temo di non poter
rimediare.
-
Sorella. – sibilò Regina. – Non hai idea
di quanto non ti sopporti.
Il
messaggio si dissolse e così anche il corvo. Rimasero solo
due sbuffi di vapore
verde.
- Ha
preso spunto da me. – disse Regina, roteando gli occhi.
-
Beh,
deve svegliarla. Deve... deve... – iniziò a
balbettare Ruby, ma sembrava
proprio che le mancassero le forze per proseguire. Il suo stato
d’animo era
vicino al panico. Il cuore le batteva forte e serrato nel petto.
Emma
si guardò intorno, nel soggiorno oscurato dal temporale,
come alla ricerca di
una soluzione. – C’è un’unica
cosa che può svegliarla.
-
Il
bacio del vero amore. – fece Mary Margaret, dubbiosa.
– Ruby?
-
Non
ha famiglia. Ad Oz era sola. E non ha... non ha un amore.
-
Sei
sicura che non ci sia proprio nessuno in grado di aiutarla? –
domandò Regina.
Cercava di concentrarsi sul problema, ma le riusciva difficile. Ed era
per via
di Emma. Continuava a sentire la sua conversazione con Lily; voleva
smettere di
pensarci e più si sforzava più le risultava
impossibile togliersela dalla
testa.
“Dobbiamo
annullare l’incantesimo
dell’Apprendista.”
“Non
sappiamo ancora come controllarlo, ma non
è solo questo. Ci toglie le forze se lo usiamo a lungo. E
noi... lo usiamo
quasi senza rendercene conto, a volte. Lo usiamo perché...
perché è una cosa
naturale.”
-
Toto. – rispose Ruby.
-
Toto?
– Mary Margaret non capiva.
-
Il
suo cane.
Regina
abbassò lo sguardo sulle proprie mani e poi tornò
a guardare Ruby. Se il giorno
non avesse assunto i connotati surreali di un incubo ne avrebbe riso.
Henry era
là fuori. Aveva voluto seguire David, Killian e Marian,
usciti in cerca del
modo per comunicare con il mondo dei vivi. Suo figlio... era
là fuori e lei non
aveva idea di dove fosse. Cercava di non pensare al fatto che quella
pioggia
avrebbe potuto coglierlo per strada e fargli del male. - Tu vuoi che un
cane
baci Dorothy per svegliarla?
Emma
le lanciò un’occhiataccia.
-
Beh,
io non ho un’idea migliore, d’accordo? -
gridò Ruby. - Quel cane è importante
per lei. Gliel’ha regalato...
S’interruppe.
Mary Margaret le appoggiò una mano sul braccio e
tentò di parlarne con un tono
di voce pacato.
-
Zia
Em. – disse Ruby, più che altro a sé
stessa. Aveva avuto un’illuminazione e si
diede dell’idiota per non averci pensato prima. - Zia Em! Lei
può aiutarla.
-
Dov’è questa zia Em? Ad Oz? –
domandò Mary Margaret.
-
No,
è morta.
-
E
allora potrebbe essere qui. Dobbiamo solo trovarla. – disse
Emma.
-
Potrebbe essere qui, ma se usciamo là fuori credo che non
arriveremo vivi...
ovunque lei sia. – osservò Regina. –
Questa non è una tempesta comune. Se
avessimo le scarpette potremmo...
-
Anche le scarpette sono qui. – Il frastuono che
rintronò il cielo in quel
momento coprì in parte la voce del principe Fiyero, che
sostava con la mano sul
montante della balaustrata. Nell’altra reggeva le scarpette
d’argento.
-
Come
avete fatto a prenderle? – domandò Regina.
-
Quando sono stato a casa di Zelena... a recuperare la bambina. Le ho
viste e ho
pensato fosse meglio portarle via, prima che venisse qualcun altro a
prenderle.
– Scese e le posò sul tavolo della cucina.
-
Con
queste possiamo andare dove vogliamo. – disse Ruby.
Foresta
di Oz.
Mulan sbatté la tazza di tè sul tavolo con
forza, rovesciando parte del contenuto. “Non ci dovresti
andare!”
“Mulan,
mettiti seduta.”, la implorò sua madre.
Lei
la ignorò. “Ci sono tanti giovani a difendere
l’Impero!”
“È
un onore proteggere il mio paese e la mia
famiglia.”, rispose suo padre, con un tono così
calmo e rassegnato che Mulan si
infuriò ancora di più.
Da
quando il messaggero dell’Imperatore aveva
messo piede al villaggio per annunciare l’invasione degli
Unni guidati da Shan
Yu, l’atmosfera si era fatta densa, pesante, piena di presagi
di morte. Suo
padre era stato richiamato per combattere e, per quanto la sua statura
e il suo
portamento fossero assolutamente dignitosi mentre camminava verso il
messaggero
per raccogliere la pergamena che lo invitava a presentarsi al campo di
addestramento, tutti avevano visto come trascinava la gamba destra.
“Allora
morirai per onore?”
“Morirò
facendo ciò che è giusto, Mulan.”
“Ma
se...”
“Io
so qual è il mio posto!”, la interruppe suo
padre, alzando la voce. “È ora che impari qual
è il tuo!”
Mulan
sollevò le palpebre, una mano appoggiata all’elsa
della spada.
-
Tutti
ai vostri posti! Siamo pronti! – disse Knubbin, appoggiando
le mani al muro di
pietra che nascondeva le prigioni di Zelena, nei sotterranei del suo
palazzo.
Glinda
appoggiò anche le sue contro la parete. La Strega del Sud
appariva più
rinfrancata rispetto all’ultima volta che Mulan
l’aveva vista, dopo il
tradimento di Nessarose e la morte di Locasta. Il messaggio che Knubbin
le
aveva recapitato doveva essere molto convincente, al punto tale da
spingere
Glinda ad uscire dal Palazzo della Sorellanza, nel quale era rinchiusa
da
giorni.
Il
corridoio buio alle loro spalle era illuminato solo da qualche
fiaccola, tenuta
da John e da due uomini dell’Allegra Brigata.
“Io
so qual è il mio posto!”, la interruppe suo
padre, alzando la voce. “È ora che impari qual
è il tuo!”
Mulan
non capiva perché avesse pensato a suo padre proprio in quel
momento. L’ultima
notte era stata popolata da sogni distorti, che non erano neppure veri
sogni ma
ricordi. Era da tanto che non le capitava.
Intorno
alle mani di Knubbin e Glinda avevano cominciato a formarsi aure color
grigio-azzurro. Poi le aure formarono complicati disegni esoterici
sulla
pietra. Sulle prime a Mulan parvero lettere scritte sulla roccia, poi
frasi
scritte nella nebbia, che pian piano si allungavano, si dipartivano
lungo la
parete, illuminandola, rendendola traslucida.
La
parete iniziò a pulsare. Le linee divennero crepe, che si
allargavano sempre di
più.
Mulan
ebbe giusto il tempo di coprirsi gli occhi con un braccio. Infine vi fu
un’esplosione di luce accecante.
-
Ah!
Che diavolo succede? – disse John.
Mulan
batté le palpebre. Knubbin era caduto per terra e il
mantello gli si era
arrotolato intorno alla testa. Il suo corvo gracchiava e svolazzava,
stordito.
Glinda, piegata su un ginocchio, col fiato corto, si alzò e
guardò il tunnel
oscuro che si era aperto quando la parete era scomparsa. Non era
crollata, ma
semplicemente scomparsa. Un’illusione molto realistica.
Dal
buio vennero dei lamenti. Gemiti e richieste di aiuto. Voci umane.
-
Sono
vivi. – mormorò la Strega del Sud. Con la magia,
formò un globo di luce bianca
e si inoltrò nel passaggio, senza attenderli.
Mulan
estrasse la propria spada e la seguì.
Oltretomba.
Auntie
era la concorrenza.
Così
avevano detto le due cameriere spaventatissime del Granny’s,
quando Regina
aveva fatto loro qualche domanda su Emily Brown, la zia di Dorothy.
All’inizio
si erano rifiutate di rispondere. Se ne stavano rintanate dietro al
bancone e,
quando avevano visto Emma, si erano messe a strepitare, pensando fosse
ancora
posseduta dallo Spettro. Ci era voluta tutta la buona
volontà di Mary Margaret
e, infine, anche qualche minaccia di Ruby, pronta a togliersi il
mantello
rosso, prima che le due ragazze si decidessero a fornire le
informazioni di cui
avevano bisogno.
-
Dov’è la vostra padrona? – aveva chiesto
Regina, non vedendo la Strega Cieca da
nessuna parte.
-
Morta.
-
Qui
siete tutti morti. Intendi dire che è... passata oltre?
-
No.
Non oltre. Peggio. - Aveva guardato Emma, che ricordava benissimo tutte
le
azioni commesse dallo Spettro.
Ma
il
peggio non era affatto arrivato. Non ancora.
Il
peggio le aspettava da Auntie.
La
prima cosa di cui Regina si accorse quando piombarono nella tavola
calda fu che
Emma le stava stringendo la mano. Si tenevano tutte per mano,
perché le
scarpette potessero trasportarle da un luogo all’altro, ma le
dita di Emma
erano intrecciate alle sue. E la mano che Emma stringeva era la mano
che aveva
stretto il pugnale che Regina aveva usato contro lo Spettro.
Si
affrettò a districare le dita.
La
seconda cosa che notò fu l’uomo che sedeva in un
angolo, piegato in avanti, con
gli occhi sbarrati e un piatto di pasticcio di maccheroni in bilico
sulle
ginocchia ossute. Altri clienti erano schiacciati contro la parete in
fondo al
locale oppure se ne stavano seduti sugli sgabelli davanti al bancone.
Alcune
sedie erano state ribaltate. Le luci traballavano, ronzando.
E
poi
c’era Ade.
Ade
chiuso in un elegantissimo completo nero, che asciugava il pavimento
con un
vecchio straccio. La lucida scarpa nera andava su e giù,
mentre il suo volto si
apriva in un sorriso.
Asciuga
il pavimento?, pensò
Regina, sgomenta.
-
Che
cos’hai fatto?! – gridò Ruby, fissando
la pozza d’acqua... che una volta non
era affatto una pozza d’acqua. Era ciò che
rimaneva di Emily Brown.
Una
vecchia canzone usciva da una radio posata accanto alla cassa. E
rendeva la
scena ancora più assurda e orribile.
Somewhere,
over the rainbow, way up high
There’s
a land that I heard of, once in a
lullaby
Somewhere,
over the rainbow, skies are blue
And
the dreams that you dare to dream really do
come true...
-
Non
è ovvio? - Raccolse lo straccio e poi lo strizzò,
lasciando fluire l’acqua in
un barattolo di vetro. – Voi volevate aiutarla... e lei
avrebbe aiutato voi.
-
E
avrebbe aiutato Dorothy, che guarda caso è anche
l’acerrima nemica di Zelena. –
sibilò Regina, puntandogli un dito contro. - Ti ha chiesto
lei di farlo?
-
Oh,
fidati, lei non sa che mi trovo qui. – rispose Ade, chiudendo
il barattolo. –
Zelena ha un problema ben più grosso a cui pensare, qualcosa
che nemmeno io
posso risolvere. Ma in effetti... lo faccio anche per lei.
Regina
capì che avrebbe colpito Ade. Capì che gli
avrebbe rovinato il suo bel vestito
e gli avrebbe scassato quel sorriso gongolante, magari gli avrebbe
persino
conficcato una scheggia di vetro in un occhio, anche se non sarebbe
servito a
niente. Perché adesso, sorprendendo persino sé
stessa, capì di avere paura
persino per sua sorella, che era sempre in balia di un essere simile.
Oh. lo
avrebbe fatto, niente al mondo avrebbe potuto impedirglielo, se non che
all’ultimo istante qualcosa... qualcuno la
ostacolò.
Le
dita tese di Ade emanavano bagliori azzurrati. Probabilmente il Signore
degli
Inferi aspettava che Regina si facesse avanti, ma Emma gli
coprì la visuale. Si
mise fra i due, incurante del fatto che la magia del Dio poteva farle
del male,
anche se era già morta.
-
Hai
così paura di perdere questa battaglia da usare questi
mezzucci, vero? –
domandò Emma, furente.
Ruby
fece per togliersi il mantello, ma Mary Margaret la fermò,
afferrandola per un
polso.
-
Tu
dici, Salvatrice? – Ade era estremamente divertito.
– Zia Em non sarebbe molto
d’accordo.
-
Non
finisce qui. – lo ammonì Emma, abbassando la voce
quasi in un bisbiglio.
-
No,
hai ragione. – rispose Ade, in tono accondiscendente. Prese
il barattolo e lo
sollevò, in modo che tutti potessero vederlo. –
Popolo dell’Oltretomba! Aprite
bene le orecchie... lo vedete questo?
Nessuno
aprì bocca.
-
Questo è quello che accadrà a chiunque
deciderà di aiutare questi... eroi. –
continuò il Signore degli Inferi. Parlava lentamente, per
inculcare ogni
singola parola nelle teste dei presenti. –
Succederà a voi e succederà a tutte
le persone a cui tenete. Le vostre mogli, i vostri figli... un
po’ di acqua del
Fiume delle Anime e non sarete altro che gusci vuoti. Allora...
c’è qualcuno
che vuole ancora dare loro una mano?
Ovviamente
le teste girate verso di loro si voltarono di scatto, concentrandosi
sui
piatti. L’uomo con i maccheroni in grembo
ricominciò a mangiare, infilandosi in
bocca una corposa forchettata del pasticcio di zia Em, senza pensare
troppo al
fatto che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe
assaggiato un piatto
del genere, perché la proprietaria non c’era
più. Era andata. Non
oltre, non nel posto migliore dove speravano di andare
tutti. Era acqua sporca in un barattolo di vetro.
-
Passate
parola, amici. Vale per tutti. – concluse Ade. Si
girò di nuovo verso Emma. –
Difficile essere la Salvatrice quando nessuno vuole il tuo aiuto, vero?
O
quando sei già morta e ad un passo dal Tartaro.
Somewhere,
over the rainbow, bluebirds fly
If
birds fly over the rainbow, why, then, oh
why can’t I?
Ade
scomparve tra lampi azzurri e bianchi, portandosi via zia Em.
I
clienti dell’Auntie li fissarono come se i cattivi fossero
loro e non la
divinità che li aveva appena minacciati.
If
happy little bluebirds fly, beyond the
rainbow,
Why,
oh why can’t I?
Ruby
li ignorò e si diresse verso il bancone. Alcuni si fecero da
parte, notando il
lampo selvaggio nei grandi occhi verdi e la bocca distorta in un
ringhio.
Colpì
la radio. La colpì più e più volte. La
colpì senza curarsi delle nocche
scorticate.
La
colpì fino a quando Mary Margaret non riuscì a
bloccarla e a trascinarla sul
retro.
Foresta
di Oz.
Le
prime celle erano vuote oppure occupate da ciò che restava
dei prigionieri.
Vecchi stracci, ossa, teschi che li fissavano con le loro orbite nere e
vuote.
Le
celle in fondo ospitavano uomini ancora vivi. Alcuni erano in
condizioni
pessime, con i vestiti che penzolavano, i volti scarni e totalmente
incapaci di
reggersi in piedi da soli. John capì presto che avrebbero
avuto bisogno di
aiuto per portarli fuori. Erano almeno una quindicina e loro erano solo
in sei.
-
Direi che c’è anche bisogno di un bagno, eh?
– aggiunse, coprendosi naso e
bocca con il mantello.
-
Siete venuti per ucciderci? – domandò un uomo,
sporgendo la testa tra le
sbarre.
-
Nessuno è venuto ad uccidervi. La Strega
dell’Ovest non vi darà più fastidio.
Per ora.
Glinda
non sembrava particolarmente toccata dalla puzza e usò i
suoi poteri per aprire
tutte le celle. Curò le ferite più superficiali,
passando da un uomo all’altro
come se facesse quelle cose ogni giorno.
Mulan
strappò la torcia dalle mani di John e la puntò
sul viso del giovane che aveva
parlato. Si era trascinato fuori dalla cella, con i capelli lunghi che
gli
spiovevano sugli occhi e ai lati del viso. Sollevò una mano
quando la luce lo
colpì.
-
Ehi,
fate attenzione, soldato. – bofonchiò lui,
strizzando le palpebre. – Non voglio
diventare cieco.
Mulan
scostò un po’ la torcia e l’uomo si
strofinò gli occhi, cercando di metterla a
fuoco. Fu sorpreso di vedere ciò che vide.
-
Ah.
Ma voi siete... siete una donna.
-
Sì.
E voi chi siete?
-
Capitano Li Shang. – Riuscì a sorridere,
nonostante la debolezza. I suoi occhi
erano neri e a mandorla, la pelle olivastra era segnata da graffi e
abrasioni e
il volto ricoperto dalla barba nera era scavato, ma aveva ancora
un’aria forte
e risoluta. – Fa piacere vedere facce simili alla mia. Fa
piacere vedere
facce... che non siano verdi.
-
Venite qui. – disse Glinda, che era andata avanti a
controllare le altre celle.
Qualcosa,
nella voce della Strega del Sud, indusse Mulan a muoversi rapidamente.
Già si
sentiva le gambe molli come gelatina. Già si stava chiedendo
come avrebbe fatto
a dire a Ruby che avevano trovato Dorothy e che Dorothy era stata
uccisa da
Zelena, sempre che non lo scoprisse da sola in qualsiasi mondo
l’avesse spedita
il tornado. Già si chiedeva come avrebbe potuto aiutarla e
come avrebbe potuto
farla pagare alla Strega Perfida...
“Mentre
camminavamo... Dorothy mi ha chiesto
che cosa stessi cercando. Ed io le ho detto che non lo
sapevo.”
“E
invece lo sai?”
“Credo...
credo che stessi cercando qualcuno
come lei.”
La
cella di Dorothy non era neppure chiusa. La paladina di Oz giaceva su
una
lastra di roccia nera, con le mani in grembo come se stesse
semplicemente
riposando. Quando Mulan si avvicinò per tastarle il polso,
si accorse che la
temperatura del suo corpo era normale, anche se respirava appena e i
battiti
del suo cuore erano deboli. La chiamò un paio di volte, ma
lei ovviamente non
rispose.
Glinda
tenne le mani sospese sopra il suo corpo per qualche momento. Mulan
aveva
l’impressione di sapere quale fosse il problema.
-
L’incantesimo del sonno. – sentenziò la
Strega del Sud, corrucciata.
-
Aveva portato con sé un po’ della pozione che
avevamo preparato per Zelena. –
disse Mulan, sospirando. Guardò gli uomini di Robin fermi
davanti alla cella. –
Portiamola fuori di qui. Solo Ruby può aiutarla.
Nessuno
chiese spiegazioni e due uomini entrarono per prendere Dorothy.
-
Bene. – commentò Knubbin, grattandosi la testa.
– Credo che ora possiate darmi
un calcio nel sedere come ricompensa. Me lo darei da solo, se potessi.
Mulan
non gli diede nessun calcio nel sedere. John, invece, sì.
Oltretomba.
Mary
Margaret stringeva la mano di Ruby con delicatezza, mentre puliva le
ferite
sulle nocche. Lei la lasciava fare, ma guardava altrove, scura in
volto.
Fuori,
il temporale stava allentando la presa e la pioggia batteva contro i
vetri in
scrosci meno intensi.
-
Non
ho niente per medicarla. – disse Mary Margaret.
-
Che
cosa facciamo adesso? – domandò Ruby, sottraendo
la mano.
Rispose
senza alcuna esitazione, come se Ade non avesse appena minacciato tutti
i
clienti dell’Auntie. Come se non avesse versato
ciò che restava di Emily Brown
in un barattolo di vetro. - Quello che facciamo sempre. Sistemeremo
tutto.
-
E
come lo sistemiamo? Nessuno può dare a Dorothy il bacio del
vero amore.
-
Sei
sicura che non ci sia proprio nessuno, a parte... zia Em e un cane?
– Mary
Margaret sollevò un sopracciglio, fissando la sua migliore
amica dritta negli
occhi. – Perché io non credo che sia
così.
Ruby
sembrava molto confusa, disorientata, come se le sue parole la stessero
cogliendo del tutto impreparata, ma Mary Margaret era propensa a
credere che
non fosse smarrita nemmeno per la metà di quel che voleva
farle credere. E
l’aveva colta un’intensa sensazione di deja vu.
Stava rivivendo qualcosa che
aveva già vissuto solo pochi giorni prima, nel bosco, con
Regina.
“Ho
cominciato a notarlo quando eravamo a
Camelot. Ma forse l’ho notato anche prima e non riuscivo a
capire che cosa
stessi vedendo.”
“So
che non approvi, quindi non dire niente.”
“Non
ho mai detto che non approvo, Regina.”
-
Chi
le darà il bacio del vero amore? – chiese Ruby.
-
Non
lo so. – rispose Mary Margaret, facendo spallucce.
– Forse... tu?
Tirava
un venticello costante, ma quando il tuono crepitò ancora,
Emma si accorse che
era più distante. Si strinse nella giacca, rimuginando sulle
parole di Ade.
“Difficile
essere la Salvatrice quando nessuno
vuole il tuo aiuto, vero? O quando sei già morta e ad un
passo dal Tartaro.”
E
poi...
“Somewhere,
over the rainbow, bluebirds fly...”
Le
era
rimasta in testa quella dannata canzoncina, come qualcosa di
enormemente
inopportuno ma che non puoi fare a meno di ricordare.
-
Non
è sicuro stare qui. Dovremmo andarcene. – disse
Regina, accostandosi a lei. –
Dovremmo cercare Henry e gli altri.
-
Sono
sicura che Henry sta bene. – sentenziò Emma.
– Lo saprei se gli fosse successo
qualcosa.
-
Lo
sapresti?
-
Anche tu lo sapresti. È nostro figlio. E mio padre lo
avrà messo certamente al
sicuro.
“If
birds fly over the rainbow, why, then, oh
why can’t I?”
Regina
non replicò. Guardava Emma e pensava a quanto le sembrasse
prostrata e stanca.
Aveva gli occhi segnati, anche se brillavano come non mai. Brillavano
di
rabbia.
-
Non
preoccuparti di Ade. Hai ragione. Ha paura di perdere. È un
Dio, ma ha paura di
perdere. – disse Regina.
-
E
lui ha ragione su un’altra cosa. Non posso essere la
Salvatrice, qui.
Soprattutto ora che nessuno vorrà più aiutarci. O
essere aiutato.
-
Tu
sei sempre la Salvatrice.
“If
happy little bluebirds fly, beyond the
rainbow...”
Emma
si sforzò di sorridere. – Sono morta. Non sappiamo
se tornerò indietro. E
l’ultima cosa che ho fatto è stato distruggere.
-
Quello era lo Spettro, non tu.
“...why,
oh why can’t I?”
-
Ma
io sentivo tutto, Regina! – Scosse la testa, guardando la
pioggia che batteva contro
il marciapiede davanti all’Auntie. – Qualsiasi
cosa... lo Spettro facesse, io
la sentivo. Qualsiasi cosa pensasse, la sentivo. Non ero in grado di
controllare niente. Non riuscivo... nemmeno a gridare. Se non
l’avessi...
fermato, avrebbe fatto del male a Lily e a Malefica e avrei potuto solo
stare a
guardare!
-
Non
avrei voluto... colpirti in quel modo. – disse Regina,
incapace di trattenersi.
-
Non
stavi colpendo me. – si limitò a dire Emma.
-
Sì,
invece. Volevo fermarlo, ma stavo colpendo anche te. Era... il tuo
corpo. E
pensare che Tremotino mi ha persino suggerito di usare
l’acqua del Fiume delle
Anime per distruggerlo completamente.
-
Avrei capito se l’avessi fatto.
Regina
non credeva alle sue orecchie. Sbarrò gli occhi come se Emma
avesse detto la
peggiore delle assurdità. – Cosa?
-
Avresti eliminato lo Spettro e non avrebbe più potuto fare
del male a nessuno.
Adesso... è ancora libero. Potrebbe prendere qualcun altro.
Era
così risoluta che a Regina montò una collera
terribile. Era ancora più in
collera di pochi minuti prima. Ricordava di aver pensato di affrontare
Ade, di
fracassargli la faccia, ma quella era un altro tipo di collera.
Ed
Emma si accorse di averla punta sul vivo. Regina colmò la
distanza tra di loro
sollevando i pugni come se stesse per chiuderle la bocca con uno di
essi.
Emma
indietreggiò di un passo e iniziò ad alzare un
braccio per proteggersi.
Regina
le piantò le mani ai lati del viso, bloccandole la testa con
forza e
costringendola a guardarla. Non le faceva male, ma la presa era salda.
Eppure
le sue labbra tremavano. Gli occhi nocciola si erano fatti lucidi e
l’arpionarono, al punto che Emma non si sarebbe mossa nemmeno
se Regina
l’avesse lasciata andare.
-
Non
dirlo mai più. – disse Regina. La voce le
uscì dalla gola sfiatata.
-
Regina...
-
Io
non... non me ne andrò da qui senza di te. – La
attirò ancora più vicino, fino
a posare la fronte contro la sua. – Non ce ne andremo senza
di te.
Regina
portava i guanti neri ed Emma si ritrovò a pensare che
avrebbe dovuto
toglierli. Avrebbe tanto voluto
che
li togliesse, perché così avrebbe sentito il
calore della sua pelle. Si rese
conto che era ciò che più desiderava in quel
momento. Non si disse che era
sbagliato. Non lo percepiva come sbagliato. Era impossibile. Lo
percepiva come
qualcosa di assolutamente necessario.
-
Qualcuno se ne andrà. – mormorò Emma,
ma senza staccarsi di lei.
-
Come?
-
Qualcuno se ne andrà. Le scarpette possono portare almeno
uno dei miei genitori
fuori da qui.
Regina
si scostò, fissandola con gli occhi ancora sgranati.
– Vuoi che... se ne
vadano?
-
Mio
padre può andarsene. Neal ha bisogno di almeno uno di loro.
La
pioggia era cessata e la luce cominciava a calare per lasciare il posto
alle
tenebre. Tuttavia le nuvole basse brillavano ancora sopra le loro teste
come tanti,
malefici occhi rossi, incendiando le pozzanghere fumanti nella strada,
nei
vialetti e sui gradini delle case.
Le
persone avevano ricominciato ad uscire, ma nessuno si
avvicinò al gruppetto
accanto alla cabina.
David
si strofinava il collo, nel punto in cui il gocciolone di pioggia lo
aveva
colpito, lasciandogli una bruciatura. – Sarà
meglio fare in fretta. Potrebbe
ricominciare a piovere o Crudelia potrebbe tornare con qualche
scagnozzo in
più.
-
Come
fai a sapere che ha funzionato? – domandò Marian,
osservando l’aggeggio dentro
alla cabina.
-
Non
lo so. Ma lo spero. – rispose David. – Lo usano
tutti per comunicare con i loro
cari.
-
Dite
quello che dovete dire, milady. – intervenne Killian, con
impazienza.
Marian
aggrottò la fronte, parve riflettere, poi assentì
impercettibilmente.
Henry
la guardò entrare in quella cabina e gli sembrò
una cosa surreale vederla
prendere la cornetta e portarsela contro l’orecchio.
Lì era tutto surreale,
tutto era sottosopra, ma non poté fare a meno di trovare
surreale anche quella
scena. E si chiese, a margine, se il telefono raggiungesse solo il
mondo dei
vivi o anche... qualche altro mondo. Un mondo migliore, magari. Il
mondo in cui
era finito suo padre quando era passato oltre. Sapeva che Neal non era
nell’Oltretomba. Lo aveva cercato non appena erano arrivati.
La sua stanza al
Granny’s era occupata, ma dal tizio di nome Murphy, quello
che Lily aveva
gettato nel Tartaro.
Non
c’era traccia di lui e preferiva pensare che fosse riuscito
ad andarsene...
verso il posto migliore.
Zelena
non aveva idea di dove fosse andato Ade, ma quella tregua le permise di
guardarsi intorno. Non ci mise molto a rendersi conto che tutti gli
schiavetti
del Signori degli Inferi la trattavano con deferenza, come se fosse
anche lei
una regina, le chiedevano se desiderava qualcosa, se volesse andare da
qualche
parte.
Alla
fine si rivolse ad un ragazzo emaciato, con gli occhi affondati nelle
orbite
violacee, i fini capelli biondi incrostati di fango. Indossava un
vecchio abito
sgualcito. C’era muffa sulle spalle e sul bavero della
giacca. Usò un tono
perentorio, ordinandogli di condurla nelle prigioni.
Non
ci
mise molto a trovare chi stava cercando.
L’illuminazione
era scarsa e quasi tutta proveniva da una feritoia parzialmente coperta
e da
anemici fuochi fatui che danzavano nell’aria insieme ai
granelli di polvere.
Zelena
immaginava di doversi aspettare di tutto da Ade, ma quello che vide le
gelò
comunque il sangue nelle vene.
Al
centro di quella prigione sotterranea, in verticale, sospesa tra il
Flegetonte
e il Fiume delle Anime, c’era una grande ruota a raggi,
sorretta sul retro da
una robusta sbarra metallica. Girava. Girava lentamente. La scarsa luce
passava
attraverso i raggi gettando ombre sbilenche sulle pareti nere. Ogni
tanto la
ruota rallentava fino a fermarsi del tutto. Si bloccava per qualche
momento e
poi ripartiva.
Appesa
alla ruota, c’era Cora.
Aveva
i polsi serrati alla ruota da due cinghie, un’altra cinghia
più lunga le
fasciava il busto. Le cinghie inferiori le stringevano le caviglie,
mentre i
piedi erano posati su due ceppi. Sua madre era paonazza, con gli occhi
cerchiati e tracce di sangue sul viso e sugli abiti polverosi.
-
Sei
tu... – mormorò Cora. Si sforzò di
sorridere.
Zelena
chiuse gli occhi. Le impediva di sentirsi troppo stordita, soprattutto
nei
passaggi a testa rovesciata. Aveva l’impressione di essere
legata alla ruota
esattamente come la madre che non aveva mai conosciuto e che
l’aveva piantata
in asso nel bel mezzo di una foresta.
-
Vedo
che stai soffrendo molto, mamma. Non che mi dispiaccia... –
disse, cercando di
imprimere sicurezza nella propria voce.
-
Non
ti dispiace, forse... – disse Cora. – Ma sei venuta
comunque.
- Non
ho intenzione di andare da nessuna parte, Emma. –
sentenziò David, per la terza
o quarta volta da quando gli aveva detto che doveva tornare a casa.
-
Neal
ha bisogno di almeno uno di voi. La mamma non può andarsene,
altrimenti
manderei via anche lei. – replicò Emma, seduta sul
bancone della cucina, con le
braccia conserte e quel cipiglio risoluto che Regina non vedeva da un
po’ di
tempo.
-
Emma... – cominciò Mary Margaret.
-
No,
non provarci. – la interruppe. – So che non vi
piace separarvi.
-
Non
è questo il punto! – intervenne suo padre. Si
avvicinò abbastanza per metterle
le mani sulle spalle. – Sono tuo padre. Sono venuto
quaggiù per riportarti indietro.
Non posso andarmene ora. Non puoi chiedermelo.
Emma
sembrava sorda a tutto ciò che David stava dicendo. - Non
hai tempo da perdere.
Ruby deve aiutare Dorothy. Dopodiché le scarpette ti
porteranno a Storybrooke.
Mary
Margaret notò che Regina non commentava, ma era sempre
accanto ad Emma,
abbastanza vicina da dimostrare che la stava appoggiando anche senza
parlarne
apertamente. Si era accorta di come Emma spesso scambiava occhiate con
lei, di
come Regina a volte si spostasse quasi volesse toccarla o anche solo
sfiorarla
per assicurarsi che fosse ancora lì.
-
Neal
è solo. – continuò Emma, imperterrita.
-
Neal
è al sicuro con le fate. – ribatté
David.
-
È
indifeso e ha bisogno dei suoi genitori. Non sappiamo quanto
durerà questa
storia. E se durasse settimane? Mesi? Volete davvero che lui rimanga
con le fate
e senza i suoi genitori per tutto questo tempo?
-
Siamo venuti qui per te, Emma. Anche tu sei nostra figlia.
-
Non
hai risposto alla mia domanda.
David
esitò, a disagio. Con l’occhio della mente vide
Neal nella sua culla,
circondato dalle fate che lo tenevano al sicuro, lo immaginò
mentre riceveva il
suo messaggio, chiedendosi se in qualche modo potesse capire...
-
Papà, so che siete venuti per me. Ma ora tu devi andare.
– ricominciò Emma.
-
E
Robin verrà con te. – sentenziò Regina.
Fuori
stava calando la solita oscurità di porpora. Robin, da
quando era arrivato
nell’Oltretomba con Ruby, non aveva parlato molto, se non per
raccontare quello
che era accaduto ad Oz. Per il resto, si era preso cura della sua
bambina ed
era parso vagamente inebetito e assente, confuso
dall’atteggiamento di Regina e
dalla presenza costante di Marian. Ma quella frase riuscì a
scuoterlo.
-
Vuoi
che io... faccia cosa? – domandò, fissandola
stupefatto.
-
Voglio che tu porti tua figlia lontano da questo posto. Non possiamo
proteggerla in eterno e Zelena ha detto...
-
Zelena? Ora quello che dice tua sorella conta? – Robin stava
alzando la voce.
-
Zelena è la madre della bambina. L’ha messa in
salvo da Ade. Ha chiesto a me di
prendermene cura. E tu sei suo padre. – Regina si sorprese a
parlare con una
scioltezza insolita. Avvertì la mano di Emma dietro la
spalla, come un
incoraggiamento. – Questo luogo è troppo
pericoloso per una neonata. Portala a
Storybrooke dove sarà al sicuro.
-
E...
tu? – balbettò lui. I suoi occhi la scrutavano.
– Non... non vuoi che rimanga?
Regina
aprì la bocca per rispondere, ma venne anticipata.
-
La
Regina ha ragione. – disse Marian.
L’intervento
sconcertò Robin ancora di più. Ad Emma parve che
la tensione stesse salendo
alle stelle.
-
Marian... – bofonchiò Robin.
-
Vieni fuori. Ora.
- Ero curiosa
di vedere quale tortura ti avesse riservato Ade. Molto ingegnoso. Mi
congratulerò con lui. – disse Zelena.
Durante
un altro passaggio in alto, udì uno scatto e un lampo
accecante attraverso il
corpo di Cora, facendola urlare. I polsi si tesero contro le cinghie.
Un
bagliore forcuto di elettricità le guizzò dalla
bocca come una lingua di
rettile che saggiava l’aria. Zelena balzò
indietro.
-
Non
posso... biasimarti... se sei felice di vedermi in queste condizioni.
– ansimò
Cora, sollevando appena la testa. – Ma sono certa... che non
sei qui solo per
questo.
-
Cosa
vorresti dire?
La
ruota si bloccò di nuovo, sferragliando.
-
Vuoi
sapere... se rimpiango la mia decisione. –
continuò Cora. – Se dopo tutti
questi anni, sono dispiaciuta... di averti abbandonata.
Zelena
era furibonda. Non solo in collera, ma completamente fuori di
sé. I suoi occhi
azzurri dardeggiavano come i lampi di elettricità che
vibrano intorno a sua
madre. – Non voglio parlare di questo. L’ho
superato. Da anni.
-
Non
è vero. Quello che ho fatto... ha aperto una ferita rimasta
infetta per
decenni. – Buttava fuori le parole a fatica e arrivava alla
fine delle frasi
esausta. – Certo che mi dispiace... io pensavo... che sarebbe
stato meglio per
te.
La
ruota riprese a girare con un altro, poderoso scossone. Le scariche
elettriche
tesero le braccia di Cora e le gonfiarono le vene sul collo.
-
Sai,
mamma... credo che questo affare sappia bene quando racconti menzogne!
– La
voce di Zelena era acuta e intrisa di furia cieca, ma lo sguardo era
quello
vitreo e inorridito di una ragazzina che ricorda un incubo ricorrente.
– Ed io
non sono una stupida come Regina!
-
Per
me. – si corresse Cora. – Pensavo fosse meglio...
per me.
-
Abbiamo finito. – Zelena si voltò per andarsene.
-
No.
Affatto. - replicò Cora. – Non riesci a capire
perché non posso lasciare
l’Oltretomba?
Zelena
la ignorò completamente; era sicura che sua madre, in un
modo che le era
difficile comprendere, si stesse insinuando nella sua testa. Aveva la
terribile
sensazione che avesse un potere anche quando non usava la magia. Che
fosse
capace di farti dubitare di qualsiasi cosa, di farti credere in
qualsiasi cosa.
Preferiva pensarla bloccata su una ruota che girava e girava, le
braccia e le
caviglie fissate ad essa dalle cinghie che le mordevano la carne.
Poi
vi
fu un suono. Dapprima pensò che fosse semplicemente la ruota
che si fermava di
nuovo. Ma il rumore divenne più acuto, più
prolungato, simile ad un grido
maniacale di qualche oscura creatura intrappolata nelle viscere della
Terra.
Zelena
si voltò in tempo per vedere la ruota andare in mille pezzi.
Il frastuono
riecheggiò lungo le pareti della caverna e una pioggia di
schegge acuminate
volò nella sua direzione.
Sollevò
una mano per difendersi. Sollevò proprio il braccio che
recava il marchio di
Era, un marchio a forma di piuma di pavone, che sfolgorò,
infuocato.
Le
schegge la sorpassarono, passandole accanto e sfiorandole la testa.
Zelena
levò la faccia perplessa ed incredula verso il punto in cui
prima c’era la
ruota e sua madre che blaterava scuse inutili.
Questo...
no. Non è possibile.
Cora
era libera dalle cinghie e fluttuava a mezz’aria.
Ma
non
era più sua madre. I capelli era diventati bianchi come
neve. Un occhio era
diventato strabico e guardava nel vuoto con una concentrazione gelida
ed
implacabile. L’altro era fisso su Zelena. L’iride
era rossa. Rosso sangue.
Lo
Spettro sogghignava.
-
Mamma?
-
Salve, mia regina. – disse l’essere con voce
stridula, che non aveva più nulla
a che vedere con quella di Cora.
Zelena
era talmente confusa e stupefatta che, per un momento, pensò
che lo Spettro la
stesse scambiando per sua sorella.
-
Salve, mia regina. – ripeté. – Dovete
scusarci, ma non possiamo trattenerci.
Dobbiamo proprio andare.
Lo
Spettro si scagliò in avanti, ad una velocità
inaudita e la urtò violentemente.
Mancò poco che Zelena finisse dritta nel Flegetonte.
Salve,
mia regina.
- Papà...
non sono brava con gli addii. – disse Emma, sporgendosi per
abbracciare David.
Lui
ricambiò, appoggiandole una mano sulla testa e stringendola
forte a sé. – Lo
so. Credo sia una cosa di famiglia.
Ruby
sistemò il pezzo di stoffa che aveva portato con
sé nella crepa che si era
formata sulla tomba di Emily Brown. Non poteva più fare
niente per lei, ma
sperava di poter fare qualcosa per Dorothy.
Ai
margini del cimitero, Fiyero spaziava con lo sguardo intorno a
sé e teneva
d’occhio la situazione. In alto, Lily, in forma di drago,
volava in cerchio. Il
principe aveva deciso di restare. Regina era sicura che se ne sarebbe
andato
con gli altri per tornare ad Oz e nella sua terra, dove certamente il
suo popolo
lo attendeva. Invece, aveva scelto di rimanere con loro.
Marian
tese una mano a Robin e lui la prese, incerto.
-
Vorrei poter fare di più.
-
Non
c’è niente che tu possa fare. – rispose
Marian, sorridendogli. – Troverò un
modo per andarmene. Ora so di potercela fare.
-
Continuo a pensare che non sia giusto andare via.
-
Lo
è. Devi badare a nostro figlio.
Regina
si chiedeva come avesse fatto Marian a convincere Robin a tornare a
Storybrooke. Di certo c’entrava Roland. Robin era preoccupato
per lui, così
come gli Azzurri lo erano per il piccolo Neal, ma non era
l’unica cosa che
aveva... usato. Marian sembrava tranquilla, straordinariamente serena e
sicura
di ciò che stava succedendo, al contrario di Robin. Regina
li aveva sentiti
discutere, a voce molto alta, ma si era rifiutata di mettersi ad
ascoltare.
-
Le
scarpette ti doneranno molto, amico, quando le userai per tornare
lassù. –
osservò Killian, dando una pacca sulla spalla a David. Lo
disse accennando un
sorriso, ma la sua voce era priva di forza.
Sorrise,
poi si rivolse a Mary Margaret. Lei intrecciò le mani dietro
la sua nuca e lo
baciò.
Guardali
bene, sussurrò
una voce nella testa di Emma. Una voce
gelida, che le ricordava quella dello Spettro che l’aveva
posseduta. Sembrava
che stesse sussurrando nel suo orecchio, tanto le era parso concreto e
sonoro
quel pensiero. Guardali bene
perché
questa è l’ultima volta che li vedrai
così. Per te non c’è speranza. Nessuno
potrà mai salvarti. Non si possono riportare in vita i morti!
Mary
Margaret afferrò la mano di Ruby. Poi con l’altra
strinse quella di Robin Hood,
che si sistemò l’arco e la faretra a tracolla. Con
un braccio, reggeva la
bambina, che singhiozzava e agitava le braccia. Rivolse
un’occhiata a Regina,
sperando che dicesse qualcosa, ma lei si limitò ad annuire.
Non
si possono riportare in vita i morti.
Emma
si allontanò, prima di vedere suo padre scomparire.
Regina
raggiunse Emma davanti alla grande tomba sormontata dal cigno con le
ali
spiegate.
La
sua
tomba.
Sotto
al
nome EMMA SWAN era comparsa
un’altra
scritta. Lettere dorate impresse sul marmo bianco.
ERA
LA SALVATRICE.
E
più
sotto, come una presa in giro: Somewhere,
over the rainbow.
“Difficile
essere la Salvatrice quando nessuno
vuole il tuo aiuto, vero? O quando sei già morta e ad un
passo dal Tartaro.”
-
Almeno mio padre è salvo. – disse Emma, prima che
Regina potesse aggiungere
qualsiasi cosa.
-
Starà bene. E presto lo rivedrai.
Emma
sorrise, voltandosi. – Stai iniziando a parlare come mia
madre, sai?
-
Oh,
questo dovrebbe essere un complimento?
-
Lo
è. Mia madre non perde mai la speranza.
Regina
allungò una mano per scostarle la ciocca bianca dal viso.
Gliela sistemò dietro
l’orecchio, senza preoccuparsi di controllare ogni suo gesto.
– E non devi perderla
nemmeno tu.
Nemmeno
Emma pensò che fosse meglio controllarsi. Per lei fu una
cosa naturale,
sporgersi in avanti per raggiungere le sue labbra. Come se
l’avesse sempre
fatto.
Regina
dischiuse subito le proprie e lasciò scivolare una mano
sotto i suoi capelli
per attirarla di più contro di sé. Il cuore le
batteva all’impazzata...
“Ascolti,
questa situazione è insostenibile.
Sono disposta ad andarmene. Ma ho delle condizioni.
Continuerò a vedere Henry,
a fargli visita e a passare del tempo con lui.”
“Questo
significherebbe restare nella sua
vita.”
Emma
serrò le palpebre e poi le sollevò di scatto. Pur
sentendo ancora le labbra di
Regina contro le sue, vedeva anche quel ricordo come se stesse
accadendo in
quel preciso istante e lei fosse solo una spettatrice esterna.
“Chiaro.
Di solito in un accordo... le parti
devono accettare un compromesso. Ma onestamente... sappiamo tutte e due
che non
è più possibile escludermi dalla vita di Henry. E
questo è un dato di fatto che
lei non può cambiare.”
“Ha
ragione. Le dispiacerebbe seguirmi in
cucina?”
Anche
lo Spettro, quando era entrato in lei e aveva rovistato nei suoi
pensieri, si
era soffermato su quel ricordo, come se fosse stato estremamente
importante.
Regina
estrasse il dolce dal forno. “Di preciso
che cosa mi sta proponendo?”
“Non
lo so. Troviamo una soluzione insieme.”
“Lui
è mio figlio.”
“Sì.”
Emma
staccò le labbra da quelle di Regina, pur rimanendo vicina a
lei. Respirava con
affanno. – L’hai visto anche tu?
-
Sì...
– Regina si guardò intorno, non molto sicura di
trovarsi nell’Oltretomba. La
sua cucina, il profumo del dolce, la luce del sole erano sembrati fin
troppo
reali.
Emma
si portò le dita alle labbra.
Foresta di Oz.
-
Ruby! – esclamò Mulan, quando vide
l’amica comparire insieme a David e Robin,
che stringeva la sua bambina tra le braccia. – David?
-
L’hai trovata? – disse Ruby.
-
Stavamo aspettando che tornassi. Lei è...
-
Sotto l’incantesimo del sonno, lo sappiamo.
Dorothy
giaceva su un altare improvvisato, al centro del giardino
all’interno del
palazzo di Zelena, circondata da fiori e da gruppetti di Munchkin
venuti a
vegliare la loro paladina, non appena si era diffusa la voce di come
fosse
stata preda dell’incantesimo del sonno. Erano arrivati soli o
a gruppetti e
tutti avevano portato qualcosa; ghirlande di fiori, cibo, amuleti.
Avevano
facce nervose e apprensive dietro le barbe folte o sotto le larghe tese
dei
loro cappelli. I bambini si tenevano attaccati alle gonne delle madri o
si
riparavano dietro ai padri. Toto, il cane di Dorothy, se ne stava
accucciato
vicino ai suoi piedi, la testa sulle zampe, in attesa.
Mulan
si era accertata che ci fossero abbastanza uomini intorno al palazzo
per
evitare sgradite sorprese. Glinda aveva evocato un incantesimo di
protezione.
Nonostante il giardino fosse all’aperto, grazie alla magia di
Glinda, la neve
scivolava all’esterno e l’aria gelida non intaccava
nessuno di loro.
-
Che
cos’è? Non è l’inverno, vero?
È troppo presto. – aveva chiesto Mulan alla
Strega del Sud.
-
No.
Non è naturale. – aveva ammesso Glinda, in tono
sommesso.
David
non le spiegò che cosa ci faceva lì né
tantomeno da dove venivano, dov’erano
stati. Fortuna che il mago Knubbin non c’era, altrimenti
avrebbe iniziato a
subissarli di domande.
Ruby
esitò,
consapevole che molte persone la stavano fissando. Consapevole che
tutti si
aspettavano qualcosa da lei. Tutti sapevano. Sapevano che la paladina
di Oz
poteva svegliarsi solo grazie ad un bacio. E lei sapeva che avrebbe
potuto non
funzionare. Il vero amore era un passo a due.
-
Ruby, vai. – disse David, appoggiandole una mano sulla
schiena, come se volesse
darle una spinta. Sorrise. – Puoi farcela.
Cappuccetto
Rosso s’incamminò e la gente assiepata
intorno a Dorothy la lasciò passare, aprendosi in due ali.
Esitò
un attimo ancora quando fu davanti alla
ragazza addormentata, poi le sfiorò i capelli con le dita e
si chinò, posando
le labbra sulle sue.
Immediatamente
la magia del vero amore nacque da
loro e la luce dorata si espanse, travolgendo i presenti, riversandosi
su ogni
Munchkin come una cascata di felicità e purezza.
Dorothy
aprì gli occhi.
“Lupacchiotta?”
“Kansas!”
Henry
Mills sostò un istante, la punta della penna che ancora
toccava la pagina un
po’ ingiallita del libro. Le parole sgorgavano seguendo gli
eventi e si
allineavano una accanto all’altra, imprimendosi sulla carta.
Era un momento
strano; Henry si sorprese a diventare un tutt’uno con la
penna. Si sentiva
rimpicciolire fino a ritrovarsi dentro la sottile arma che usava per
scrivere
le storie, a guardare il mondo con occhi nuovi: un mondo che era
immenso e
luminoso, un mondo che era pieno di personaggi e racconti, che
diventava un
luogo sconfinato...
La
porta della sua camera si aprì e Lily entrò,
portando con sé l’altro libro,
quello che lui le aveva prestato quando aveva saputo che Murphy veniva
dalla
Foresta Incantata. Aveva l’aria di essersi ripresa del tutto
dalla brutta
esperienza con lo Spettro. - Sapevi che a questo libro mancano delle
pagine?
-
Sì.
– disse Henry, posando la penna. – Me ne ero
accorto. È la storia di Pinocchio.
-
Si
interrompe proprio qui. Poco prima che arrivi nel Paese dei Balocchi. -
Lily
parlava in tono concitato.
-
Hai
trovato Murphy? Nella storia di Pinocchio? - Henry prese il libro,
scrutando i
bordi frastagliati di quelle che una volta erano pagine.
-
Sì.
Oh, sì, è lui. Ne sono sicura.
Henry
lasciò che Lily tornasse indietro di una pagina e gli
indicasse un punto al
centro del foglio. Sulla destra c’era
un’illustrazione che ritraeva Pinocchio a
bordo del carro che lo avrebbe poi condotto nel Paese dei Balocchi.
“Dovete
sapere che, fra i compagni di scuola di
Pinocchio, ce n’era uno a cui lui voleva particolarmente
bene, un ragazzo con
gli occhi d’argento che si chiamava Romeo.”
Occhi
d’argento.
Romeo?
Quella
era stata la prima cosa che aveva notato del tizio di nome Murphy.
Aveva gli
occhi color argento. Erano inconfondibili. Henry dubitava che si
trattasse di
una coincidenza.
“...un
ragazzo con gli occhi d’argento che si
chiamava Romeo. Ma per via del suo aspetto asciutto, secco e
allampanato, tutti
lo chiamavano...”
-
Lucignolo. – concluse Henry, a voce alta. –
Lucignolo.
-
Ho
ucciso Lucignolo e l’ho gettato pure nel Tartaro. –
disse Lily. E a quel punto
perse totalmente il controllo di sé e cominciò a
ridere. La risata sembrava
salire da un addome duro quanto un muro di pietre, ma comunque rideva.
Henry
la fissava, come se fosse impazzita.
Storybrooke.
Roland
sedeva sul tappeto al centro della grande sala, al piano terra
dell’edificio in
cui vivevano le fate e guardava lo spettacolo strano e affascinante che
si
svolgeva davanti ai suoi occhi.
La
neve cadeva fitta da quella notte. Fiocchi grandi avevano imbiancato i
marciapiedi e i tetti di Storybrooke. Il cielo era una lastra bianca e
abbagliante. La gente girava imbacuccata nelle giacche pesanti.
Fino
al giorno prima non faceva così freddo e le fate sembravano
particolarmente
agitate.
Roland,
dal canto suo, non riusciva a preoccuparsi. Appiccicava il naso al
vetro e
osservava la neve cadere senza sosta.
Lo
stava facendo anche in quel momento, quando avvertì la
carezza.
Si
portò una mano alla testa, convinto che una delle fate fosse
dietro di lui.
Solo
che non c’era nessuno.
Il
salone era vuoto. C’era Neal, ma lui dormiva beatamente nella
sua culla, con un
pupazzo a forma di unicorno accanto.
La
carezza si ripeté e Roland ebbe la sensazione che una voce
gli stesse parlando,
ma arrivava da molto lontano.
Era
una voce femminile, ne era sicuro. Era una voce dolce e la conosceva.
Quella
sensazione si mescolò alla voce di suo padre, la voce stanca
ed incolore che
gli diceva quanto gli dispiaceva, ma la mamma non sarebbe tornata.
“Cosa
vuol dire che non tornerà?”, aveva
domandato Roland. Le parole le aveva
sentite, solo che non riusciva ad afferrarne il senso.
Suo
padre aveva gli occhi rossi e appariva stanco. Gli era sembrato...
malato. Non
solo stanco, ma malato. “Non
tornerà più,
Roland.”
“Ma
perché non tornerà? Dov’è
andata?” E
poi, come ripensandoci: “Chi
è stato, papà?”
-
Mamma? - sussurrò, ora, nella grande sala del convento della
Madre Superiora.
-
VENITE A VEDERE!
Belle
aprì gli occhi di scatto, rendendosi conto di non essere nel
suo letto, ma in
biblioteca, con la testa appoggiata sulle pagine di un libro.
Le
Cronache degli Oscuri.
Era
arrivata alla parte dedicata a Gorgon, l’Oscuro che aveva
assunto le sembianze
di un enorme cinghiale sputafuoco. Poi si era addormentata.
-
VENITE A VEDERE SUBITO!
La
voce allarmata di Leroy la costrinse a muoversi, anche se aveva il
collo
dolorante perché aveva dormito nella posizione sbagliata. E
anche se aveva la
nausea. La stanza parve ondeggiare davanti ai suoi occhi, come se si
fosse
trovata a bordo di una nave nel bel mezzo di una burrasca.
Nevicava.
Nevica?,
pensò
Belle, sconcertata. Non era inverno. Era troppo presto
per la neve.
Prese
una giacca dall’attaccapanni e si tirò il
cappuccio sulla testa, prima di
uscire. Non appena mise un piede fuori, quasi scivolò su una
piccola lastra di
ghiaccio che si era formata davanti alla porta.
Nevicava
davvero.
Di
fronte alla libreria, c’erano bambini che giocavano,
lanciandosi palle di neve.
Uno di loro scivolò in avanti e finì a capofitto
nel bianco, suscitando le
risate degli amici.
Ma
non
era l’unica cosa assurda che stava accadendo a Storybrooke.
-
Che
diavolo è? Un’altra maledizione?
Belle
seguì lo sguardo di Leroy e di altre persone che si erano
fermate in mezzo alla
strada, i nasi all’insù.
Veli
e
ruscelli di luce colorata erano sospesi nel cielo come cortine.
Danzavano e
ondeggiavano, annodati e festonati su uncini invisibili a centinaia di
miglia
di altezza. Verde pallido e azzurro. Svariate sfumature di rosso e rosa
tremavano, trasparenti quanto una fragile stoffa.
Era
uno spettacolo assurdo e meraviglioso.
-
L’Aurora Boreale? – mormorò Belle.
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Capitolo 12 *** 12. ***
12
“Sapere
chi sei senza illusioni o compassione
è un momento di rivelazione che nessuno
sperimenta restando indenne.
Alcuni impazziscono davanti alla pura verità.
Quasi tutti cercano di dimenticarla.”
[Christopher
Paolini, Eragon]
“Ha
ragione. Le dispiace seguirmi in cucina?”
Regina
estrasse il dolce dal forno. “Di preciso
che cosa mi sta proponendo?”
“Non
lo so. Troviamo una soluzione insieme.”
“Lui
è mio figlio.”
Emma
esitò qualche istante. “Sì.”
“...un
ragazzo con gli occhi d’argento che si
chiamava Romeo. Ma per via del suo aspetto asciutto, secco e
allampanato, tutti
lo chiamavano...”
“Lucignolo”,
concluse Henry, a voce alta.
“Lucignolo.”
“Ho
ucciso Lucignolo e l’ho gettato pure nel
Tartaro.”
Lily
aveva continuato a ridere per almeno dieci minuti, dopo la scoperta
fatta
leggendo il libro di Henry. Non riusciva proprio a smettere.
Romeo.
Murphy. Lucignolo.
Ora,
se pensava a Murphy, non lo vedeva più sdraiato nel bel
mezzo di una stazione
di servizio, accanto ad una pompa di benzina, la faccia distrutta dai
suoi
calci. Non lo vedeva precipitare nel Tartaro. Vedeva Murphy con il
passamontagna che si era messo la sera in cui avevano tentato la
rapina, a
Lowell, la stessa sera in cui era morto. Solo che dal passamontagna
spuntavano
due lunghe orecchie da somaro.
Quel
pensiero rese la risata ancora più irrefrenabile.
Gli
ultimi
scoppi di risa si calmarono mentre scendeva in cucina. Il Principe
Azzurro se
n’era andato per davvero e sua moglie aveva la stessa faccia
di una donna
pronta al martirio. Regina aveva un’aria contrita, come se si
stesse sforzando
di ricordare qualcosa, come se stesse rincorrendo un pensiero, ma non
riuscisse
ad acchiapparlo per quanto veloci fossero i suoi ragionamenti.
-
Che
cosa stava succedendo lassù? – domandò
Emma, riferendosi alle risa.
-
Oh,
niente. – rispose Lily.
Henry
non parlò.
-
Ne
sei sicura? Non ti ho mai sentita ridere così. Facevi quasi
paura.
-
Sto
bene. Ho solo... – Stava per dire che le ragioni delle sue
risate erano dovute
ad una barzelletta che aveva sentito al Granny’s non molto
tempo prima. Il
Granny’s del mondo dei vivi, non quello
dell’Oltretomba. Qualcosa su tre
prostitute che andavano da un prete a confessarsi. Nulla di
così eclatante.
Tutto a posto, sì.
Tutto
a posto finché il tremito la prese con violenza tale che
dovette aggrapparsi al
bancone della cucina, ma le ginocchia le cedettero. Emma
cercò di afferrarla e
non fece in tempo, sfiorò soltanto l’orlo della
sua giacca.
Il
tremito la squassava tutta, la teneva in sua balia e Lily si sentiva
impotente
e atterrita. Non atterrita dall’Oltretomba o dagli incubi in
cui Murphy
precipitava nel Tartaro dopo avergli detto di avere una figlia, ma
atterrita
dalla possibilità di essere sul punto di diventare matta.
Aveva l’impressione
che dentro la sua testa si attorcigliasse un lungo filo rosso, un filo
che si
perdeva nel nulla più assoluto. Lo stava seguendo, quel
filo, lo seguiva e
sapeva che se lo avesse seguito fino in fondo sarebbe precipitata in
qualche
abisso molto più oscuro del potenziale che si annidava
dentro di lei.
“Nessuno
può aiutarti, Lilith. Sei sola con me.
Come quella sera. Quando mi hai lasciato in una lurida stazione di
servizio.”
“Sai
che avevo una figlia? Avevo una figlia e
lei non ha più nessuno per colpa tua!”
Poi
Emma la circondò con le braccia. Emma afferrò
quel lungo filo rosso che si
perdeva nell’oscurità e strattonò,
richiamandola a sé.
La
porta d’ingresso si spalancò di colpo ed entrarono
Fiyero e Marian. Lei guardò
sconcertata Lily, che ansimava tra le braccia di Emma.
-
Che
sta succedendo? – domandò Regina ai due, notando
le loro facce allarmate.
-
Vi
conviene barricarvi in casa. O trovare armi in grado di uccidere lo
Spettro. –
sentenziò il Principe dei Winkie.
-
Ha
preso qualcun altro?
-
Oh,
sì. – rispose Marian.
- Il
tuo dannato Spettro era qui! – gridò Zelena, non
appena Ade ricomparve. – Ha
preso mia madre ed è fuggito!
-
Sono
contento di vedere che ti stai ambientando, cara. So che sei stata
nelle mie
prigioni. – rispose Ade, con nonchalance, quasi fosse appena
rientrato da una
normale passeggiata in mezzo ai morti. – Ero sicuro che ci
saresti andata. Stai
bene?
-
Non
provare a cambiare argomento! Avevi detto che te ne saresti occupato!
-
Intendevo farlo, ma ho avuto qualche altra faccenda da sbrigare.
– Le mostrò il
barattolo che conteneva ciò che restava di Emily Brown, la
zia di Dorothy. – La
cara zia Em... appena imbottigliata.
-
Credi che me ne importi qualcosa di una vecchia zia ammuffita?
-
Forse
non te ne importa in questo momento... ma almeno una persona che poteva
aiutare
Dorothy e quegli eroi è fuori combattimento. E non
può nemmeno trovare la
strada per il posto migliore. – Aprì il barattolo
e versò il contenuto nel
Fiume delle Anime. – Questa è musica per le mie
orecchie. Dovresti essere
felice.
-
C’è
un Spettro là fuori che potrebbe fare del male a mia figlia!
Uno Spettro che è
convinto che io sia la regina di questo Inferno!
-
Questo
non è l’Inferno. Si chiama Oltretomba. –
precisò Ade, quasi ce ne fosse
bisogno. – Ed è proprio questo il punto, Zelena.
Lo Spettro potrà anche essere
incontrollabile, ma non ucciderà la figlia della regina. Una
figlia che, a dire
il vero... non è più qui, mi dispiace deluderti.
-
Che... che cosa?
-
Tua
sorella l’ha messa in salvo. Robin e il Principe Azzurro se
ne sono andati. Con
le scarpette. – Ade non sembrava affatto contento. Anzi.
Zelena notò il lampo
di furia nei suoi occhi.
Le
parole le morirono in gola.
Beh,
certo. Era meglio che fosse andata così. Era meglio che sua
figlia se ne fosse
andata, lontano da quel luogo orribile. E tuttavia sentiva che qualcosa
stava
sprofondando dentro di lei.
-
Se
anche tornassi a Storybrooke, sarà difficile che quel
ladruncolo ti permetta di
vedere la tua bambina. Lui pensa che tu sia malvagia. - C’era
un’espressione,
sul suo volto, che dapprima lei scambiò per compassione. Ma
poi capì che era
una sorta di tremenda pazienza.
-
Questo lo vedremo. – sibilò Zelena.
Lui
sorrise, magnanimo. – In ogni caso... la zietta è
sistemata. Vedi, un’altra
cosa che ho fatto per te. E spero che la punizione che ho riservato a
tua madre
sia stata... di tuo gradimento.
Credeva
davvero in tutto quello che stava dicendo. Zelena aveva visto Cora
appesa a
quella ruota, che girava e girava. Ed era stata sicura che Ade
l’avesse fatto
per lei. Inoltre la condanna di Emily Brown non cambiava nulla. Avrebbe
solo
ritardato il risveglio di Dorothy. Ade non avrebbe guadagnato niente,
se non un
po’ di soddisfazione personale. - La cosa che più
conta qui sarebbe liberarti
dal marchio di Era.
-
Una
cosa che tu non puoi fare, ovviamente.
-
Forse potrei. Potremmo essere entrambi liberi. Se tu...
Zelena
avrebbe dovuto arrivarci prima, ma la sua testa era un turbinio di
pensieri che
non avevano più né capo né coda. - Ma
certo, il bacio del vero amore. Quindi
credi che anche il marchio sia una maledizione.
Nelle
mani di Ade comparvero due bicchieri di vino. Gliene porse uno.
– Tu come lo
chiami un marchio sulla pelle... che indica solo che appartieni ad una
divinità?
Una divinità crudele... c’è chi dice
che lei sia la più crudele di tutti.
Zelena
non prese il bicchiere.
-
Suvvia, non ti succederà niente se lo berrai. Quel...
marchio... ti protegge
anche da questo. Non che mi faccia piacere, ma è
così.
Allungò
una mano, sfiorando appena le dita di Ade.
-
Allora...
cominciamo da un bel brindisi. Se quello che volevi era che tua figlia
fosse
sana e salva... lontana da me... beh, eccoti accontentata. Possiamo
brindare a
questo.
-
Forse è anche giunto il momento di parlare seriamente.
– disse Zelena,
annusando il vino. L’odore era lievemente speziato.
Avvertì il marchio di Era
pulsare sul polso. – Lo Spettro potrebbe uccidere mia sorella
e tutta la sua
famigliola felice... ma perché non l’hai fatto tu?
Ade
rise sul serio. Rise di cuore, come se Zelena avesse appena raccontato
un
aneddoto divertente. – Oh, Zelena... finalmente hai fatto la
domanda che mi
aspettavo sin dall’inizio.
“Lui
è mio figlio.”
Emma
esitò qualche istante. “Sì.”
Regina
era sorpresa che avesse ceduto così
facilmente. Ma sapeva anche che non avrebbe mai potuto andarsene da
Storybrooke. Qualcosa glielo avrebbe sempre impedito. Come il lupo che
le aveva
tagliato la strada, la sera in cui le aveva riportato Henry. Regina
continuò a
sorridere e prese un contenitore di plastica.
“Gradirebbe qualcosa per il viaggio?”
“Grazie.”
“Credo
che le nostre vite si incroceranno
spesso. Dobbiamo imparare ad essere cordiali.”
-
Dov’è finita Malefica? –
domandò Emma, dopo essersi assicurata che Lily stesse
meglio.
-
Dì a
Lily di non preoccuparsi. Si sta occupando di qualcosa di molto
importante. –
Il tono di Regina aveva un che di enigmatico.
Emma
aggrottò la fronte. – Tu stai bene?
Se
stava bene? Le avevano appena detto che lo Spettro aveva preso sua
madre e che
se ne andava in giro a succhiare l’energia di persone a caso.
Oh,
stava benissimo. Si sentiva come se avesse avuto la spada di Damocle
sospesa
sopra la testa. Solo che lei non vedeva la spada di Damocle, ma vedeva
Excalibur, con il nome di Emma inciso sulla lama. Excalibur sospesa
sopra il
suo capo come una sciagura imminente.
-
Ti
sei ricordata di chiedermelo. – borbottò Regina,
cupa.
-
Beh,
mi dispiace, ma stanno succedendo molte cose, qui. Ed io... –
iniziò Emma.
-
Sì,
tu eri troppo occupata con la tua ragazza.
Emma
la fissò, trasecolata. Per un momento ebbe
l’assurda impressione di essere
tornata sull’Isolachenonc’è, in mezzo
alla giungla oscura che avevano
attraversato alla ricerca di Henry. Erano tornate laggiù, al
preciso istante in
cui Regina le aveva chiesto se il piano che stavano seguendo le piaceva
perché
l’aveva escogitato il suo fidanzato.
-
La
mia ragazza?
Regina
non aggiunse altro.
-
Qual
è il tuo problema?
-
Non
ho nessun problema.
-
Invece sì. Ne hai uno. Ma non dovrebbe essere Lily. Dovresti
chiederti perché
abbiamo ricordato proprio quel momento...
-
Ti
ho già detto che non ne ho idea. L’unica cosa che
è successa quel giorno è che
Henry si è mangiato il dolce che era destinato a te!
-
Dev’esserci qualcosa che abbiamo dimenticato. Potrebbe essere
importante.
Forse
era proprio quello il punto. A Regina non piaceva avere dei buchi di
memoria.
Soprattutto, non le piaceva avere buchi di memoria che riguardavano
Emma e che
non riusciva a spiegarsi.
In
salotto, Mary Margaret controllò una per una tutte le frecce
della sua faretra.
Accanto, c’era quella del Principe Fiyero, i cui dardi erano
distinguibili dai
suoi per via delle piume rosse con cui erano decorati.
“Non
hai nessun diritto di essere qui. E non
hai nessun diritto di toccare quello.”
“Stavo
venendo a portartelo.”
Non
stava davvero pensando a quel momento. O almeno non solo.
“Annulleremo
il ballo. Lo faremo per
festeggiare la tua guarigione.”
“Non
possiamo annullare il tuo compleanno.
Andrà tutto bene. Sarò guarita per quel giorno. E
poi voglio vederti indossare
quella corona.”
“Non
mi importa nulla del mio compleanno.
Voglio solo che tu guarisca.”
E
poi...
“Il
pugnale, cara.”
“Basta!”
Il
pugnale di Tremotino volò nella mano di
Cora. “Sei una brava ragazza.”
“Ora
hai ciò per cui sei venuta.”
Regina
spinse il cuore nel petto di Johanna.
Mary Margaret la sostenne insieme a David.
“Manca
ancora qualcosa.”
La
verità era che più passavano i giorni,
più l’Oltretomba le ricordava cose che
non avrebbe mai voluto ricordare. Dal momento in cui aveva saputo che
Cora si
trovava lì, sospesa tra il luogo peggiore e quello migliore,
i ricordi erano
tornati, pian piano, silenziosi e striscianti. Poi sempre
più consistenti,
sempre più invasivi.
“Sei
una brava ragazza.”
“Vedi
dove porta il bene?”
Non
ne
aveva fatto parola con David e nemmeno con Emma. Con nessuno. Aveva
solo
cercato di tenerli a bada.
Nella
sua mente, a un tratto, udì, preoccupata e atterrita, la
voce di sua madre.
Neve,
tesoro, cosa vuoi fare? Stai contemplando
una strada che non devi percorrere. Mai. Mai più. Lo hai
già fatto una volta...
La
fece tacere. Era proprio sua madre il punto focale. Sua madre e Johanna
che
precipitava dalla Torre dell’Orologio, schiantandosi
sull’asfalto. E quello che
aveva fatto a Regina. L’aveva usata come arma. Oh, quello era
stato...
terribile. Non avrebbe dovuto.
E
Cora
non avrebbe dovuto trovarsi lì. Avrebbe dovuto precipitare
urlando nel Tartaro.
“Sei
una brava ragazza.”
“Vedi
dove porta il bene?”
Poteva
mettere la parola fine a quella faccenda.
Davvero
ne sei convinta?
Purtroppo
sì. Ne era convinta. Ripetute volte, dopo la morte di Cora,
si era detta che
quella donna non meritava di vivere. Non meritava niente.
Così come Regina non
meritava il trattamento che le aveva riservato. Non meritava di essere
ingannata in quel modo, dalla sua nemica giurata. Ma Cora
sì. Cora lo meritava.
Non si era mai levata dalla testa quel pensiero. Si era pentita di
ciò che
aveva fatto a Regina, ma... non di aver ucciso Cora. Nel profondo, lo
sapeva.
“Ora
hai ciò per cui sei venuta.”
“Manca
ancora qualcosa.”
Si
sentì crescere dentro una forza terribile, che raccolse
tutte le sue emozioni,
tutti i suoi ricordi, mutandoli in una solida spranga di rabbia.
Marian
udì il rumore della porta sul retro che si apriva e si
chiudeva.
Impugnò
l’arco, sebbene non pensasse che uno Spettro avesse bisogno
di entrare in casa
passando dal retro.
Guardò
fuori dalla finestra, in tempo per vedere Mary Margaret che si
allontanava, con
la faretra a tracolla, la giacca che svolazzava, il passo deciso di chi
sapeva
benissimo che cosa stava facendo.
Aveva
notato che era molto pensierosa, da quando avevano portato la notizia
dello
Spettro. Lo era stata anche prima, ma da qualche ora il suo stato
d’animo era
sembrato diventare sempre più cupo, meditabondo, perso
dietro a pensieri che
non avevano niente di bello.
Certo,
anche lei lo era. Pensierosa, in ansia, sempre con le orecchie tese.
Robin se
n’era andato e lei era riuscita a dirgli tutto ciò
che aveva desiderato dirgli
da quando era morta. Aveva mandato un messaggio a suo figlio Roland.
Aveva
persino perdonato la Regina.
Eppure
non era ancora passata oltre. Qualcosa le sfuggiva.
-
Dov’è andata? – domandò
Fiyero. – Non è sicuro là fuori.
-
Non
lo so. Ma le cose si stanno mettendo male.
Dopo
essersi assicurato il corpo di Cora, lo Spettro si spostò
per l’Oltretomba,
devastando ciò che restava del Granny’s Diner e
costringendo tutti alla fuga.
Chi non riusciva a fuggire, veniva acciuffato e ridotto al nulla, ad un
guscio
vuoto destinato al Fiume delle Anime, com’era successo alla
Strega Cieca.
Tremotino
trovò il suo negozio sottosopra, ma lo Spettro se
n’era già andato. Non c’era
traccia di Peter Pan, anche se a quell’ora avrebbe
già dovuto trovarsi lì.
Avevano un appuntamento. Il fatto che non ci fosse lo sorprendeva e
pensò che
lo Spettro fosse riuscito a prenderlo.
Mio
padre? Sconfitto da uno Spettro?
Stentava
a crederci. Doveva essersi trattato di un altro tipo di contrattempo.
Poi
la
porta del negozio si aprì e si richiuse.
-
Oh,
finalmente. – disse Tremotino, che sedeva dietro al bancone,
rigirandosi tra le
dita una piccola sfera di cristallo. Non si voltò nemmeno.
– Questa volta vale
il detto... meglio tardi che mai.
Regina
continuò a sorridere e prese un
contenitore di plastica. “Gradirebbe
qualcosa per il viaggio?”
“Grazie.”
“Credo
che le nostre vite si incroceranno
spesso. Dobbiamo imparare ad essere cordiali.” Regina mise il
dolce nel
contenitore di plastica e lo chiuse.
Emma
pensava che quel sorriso soddisfatto e
quell’offerta apparentemente spontanea fossero solo dovuti al
fatto che Regina
sentiva di aver avuto partita vinta. Però il profumo del
dolce era davvero
invitante.
“Sono
famosa per questo dolce.”, continuò,
chiudendo il contenitore. “Veramente delizioso.”
Emma
non era sicura di cosa fosse più forte. Se
il profumo di quella ricetta o il profumo di Regina. I suoi occhi
nocciola la
scrutarono, mentre le porgeva il tutto. Regina avrebbe potuto ottenere
qualsiasi cosa con quegli occhi.
E
sembrava stesse aspettando una reazione, una
qualsiasi. Anche solo una semplice parola.
“La
ringrazio.”, disse, invece, Emma.
“Spero
che le piacciano le mele.”
Mary
Margaret stava impiegando del tempo per rintracciare lo Spettro.
Trovava
le sue tracce ovunque. Al Granny’s Diner. Al porto.
All’Auntie. Le strade della
Storybrooke infernale erano deserte. Il quadrante della Torre
dell’Orologio,
semisepolta nell’asfalto, era sfondato. Le lancette erano
fisse sulle undici e
quindici.
“Sei
una brava ragazza.”
Vedeva
facce addossate ai vetri, che fissavano la strada, ma poi si
rintanavano
nuovamente nel buio delle stanze.
“Vedi
dove porta il bene?”
Persino
nel bosco c’erano i segni del suo passaggio. Nella cripta di
Regina le pagine
di alcuni libri di magia erano completamente bianche, niente
più parole
stampate sopra, come se lo Spettro non risucchiasse solo energia dalle
persone,
ma anche la magia dai libri stessi.
“Vedi
dove porta il bene?”
Mary
Margaret arrivò in un punto nella foresta in cui scorreva il
Fiume delle Anime,
prima di gettarsi in mare. Nel cuore del bosco, il fiume era stretto e
profondo, impetuoso e pieno di voci. Vide le ombre muoversi sotto la
superficie
dell’acqua, disordinate, senza scopo alcuno.
“Vedi
dove porta il bene?”
La
madre di Emma estrasse qualche freccia dalla propria faretra e immerse
la punta
nel Fiume delle Anime.
Marian
e Fiyero l’aveva seguita e notarono ciò che stava
facendo.
Lo
Spettro, invece, trovò quello che stava cercando.
Regina
non vide la creatura che aveva preso il corpo di sua madre,
semplicemente la
sentì. La sentì nella sua testa. Vi
penetrò come un tornado. Aveva già
combattuto contro lo Spettro e aveva un legame con Cora, quindi per la
creatura
fu molto facile abbattere le sue difese.
Regina
tentò in ogni modo di resistere...
Vieni
dalla tua mamma, Regina. Cosa stai
aspettando? Vieni.
Ma
l’impulso di seguire la voce era una vera coercizione. Nella
testa aveva gli
occhi rossi dello Spettro, che perlustravano ogni suo ricordo.
-
Regina, che cosa fai? Dove vai? – La voce di Emma. Distante.
-
Mamma?
Regina
sollevò una mano ed Emma prese il volo, superando il bancone
della cucina e
andando a sbattere contro la credenza. Batté la testa e il
colpo la stordì.
Si
rendeva conto di quello che faceva, eppure non aveva più
alcun controllo sulle
proprie azioni. Urlava, ma solo dentro di sé. Con un altro,
semplice gesto
della mano, paralizzò Henry e Lily, che stava intervenendo
per impedirle di
uscire.
Killian
l’afferrò per il braccio e vi si
aggrappò. – Combattetelo, Maestà!
Non
ci riesco.
Il
pirata
venne immobilizzato a sua volta.
Regina
attraversò la cucina, il soggiorno e andò verso
la porta. Guardò la mano destra
tendersi verso la maniglia e abbassarla.
No,
vi prego.
Vieni
fuori, Regina. La tua mamma ti sta
aspettando. Vieni fuori.
Il
vento le scompigliò i capelli. La strada era deserta, fatta
eccezione per sua
madre... no, non sua madre. Fatta eccezione per lo Spettro.
L’essere si girò a
guardarla e sorrise, un sorriso terribile, gelido, atroce. I suoi occhi
rossi
lampeggiarono.
Solo
uno, in realtà. Un occhio rosso. L’altro guardava
il vuoto, essendo strabico.
Era
impossibile resistere a quell’occhio e Regina
avvertì un disperato crampo
d’orrore alle viscere.
La
Regina Cattiva. E così ci rivediamo. Credevi
di avermi sconfitto, vero? Lo credevi?
Avresti
dovuto usare l’acqua del Fiume delle
Anime, Regina.
Lo
Spettro continuava a frugare nei suoi ricordi.
E
Regina vide nei suoi. Dapprima solo macchie confuse, forme nella
nebbia, voci
che parlavano una lingua che non conosceva. Poi divenne tutto
più chiaro...
Erano
i ricordi dello Spettro. Di ciò che era lo Spettro prima di
diventare solo uno
Spettro.
Non
era uno solo. Erano in due.
I
loro
nomi erano...
Aegnor
e Aeglos.
Sono
fratelli. Erano... erano fratelli.
Vivevano
come nomadi insieme ai genitori, nelle
vaste pianure, a nord. Il loro clan li aveva scacciati e rinnegati,
chiamando
il padre ladro e spergiuro.
Sono...
erano...
Aegnor
era il maggiore. Era quello più robusto,
più forte. Quello che andava a caccia e proteggeva il
fratello più piccolo.
Aegnor. Punta di Fuoco. Il clan lo chiamava Fuoco Funesto, il secondo
significato del suo nome. Fuoco Funesto, perché funesto era
stato il padre, a
cui Aegnor assomigliava. Aegnor, in realtà, odiava il padre.
Lo odiava per ciò
che aveva fatto. Per aver spinto il clan ad abbandonarli.
Aeglos
era più gracile, ma voleva comunque
aiutare. Voleva aiutare la madre ad accendere il fuoco, a trasportare
l’acqua.
Voleva fare la guardia insieme ad Aegnor.
Aeglos.
Punta di Neve.
Sua
madre l’aveva chiamato così per via del suo
aspetto. Aeglos era... come la neve. I suoi capelli, le ciglia, le
barba che
iniziava a crescergli sul mento e sulle guance, la sua stessa pelle...
bianchi.
Come la neve.
Regina
cercava di controllare il torrente di ricordi, ma la loro forza era
terribile,
soverchiante.
Era
un
fiume in piena.
“Uno
stile molto elegante.”, disse Henry, dando
un bacio a sua figlia.
“Grazie,
padre.”
“Elegante?
Non è il termine che avrei usato
io.”, osservò Cora.
“Non
ti piace, madre?”, domandò Regina, mentre
accarezzava il muso del cavallo.
“Cavalchi
come un uomo. Una signora dovrebbe
essere aggraziata. E dovrebbe usare una sella.” Le parlava
come se l’avesse
appena vista rotolarsi in un mare di melma. E aveva quella faccia...
l’espressione che non lasciava presagire nulla di buono.
“Mi
stavo solo divertendo.”
“Non
sei un po’ cresciuta per queste cose? Chi
vorrà la tua mano se ti comporti da popolana?”
“Ti
prego, Cora, lasciala in pace...”
Regina
lottò per sigillare la mente e cadde in ginocchio. Lo
Spettro rideva. Rideva di
gusto. Rideva come un folle.
Aeglos
piange davanti alle tombe dei genitori.
Aeglos...
Aeglos piangeva davanti a quelle
tombe e si chiedeva perché i briganti non avessero ucciso
anche lui. Stavano
per farlo, ma quando uno di loro gli aveva abbassato il cappuccio della
mantella, aveva visto com’era fatto e...
“Uno
Spettro! Uno Spettro! Scappate!”
Aegnor
non piangeva. Ora doveva pensare lui a
tutto. Doveva pensare lui al proprio fratello. Nessuno li avrebbe
aiutati.
“Ed
io che nutrivo tante speranze.”
Lo
stalliere intervenne. “Milady, provate
questa sella...”
“Per
oggi ho finito. E non osare mai più
interrompere me o mia madre.”
Daniel
si limitò ad annuire e prese in consegna
il cavallo per riportarlo nelle stalle.
“Non
capisco perché devi criticarmi sempre.”
“Non
ti stavo criticando. Ti davo un
consiglio.”
Regina
la oltrepassò, cucendosi la bocca.
“Non
andartene quando ti parlo!”.
Si
sentì afferrata per le gambe e trascinata
verso l’alto. Poi Cora la costrinse a voltarsi e a
fronteggiarla.
“Madre...
detesto quando usi la magia su di
me.”
“Ed
io detesto l’insolenza. Smetterò di usare
la magia quando tu diventerai una figlia obbediente.”
“Perché
non posso essere me stessa?”
“Oh,
perché potresti essere molto di più se ti
lasciassi guidare da tua madre.”
Aeglos
sapeva che poteva essere molto di più se
si fosse lasciato guidare da suo fratello.
Solo
che a volte Aegnor lo spaventava. Era
impulsivo. Prendeva decisioni rischiose. Diceva che lo faceva per il
suo bene,
per il bene di entrambi. Per sopravvivere.
Così
quando rimase ferito... Aeglos non seppe
che cosa fare. La ferita di Aegnor era infetta e lui aveva provato di
tutto. Tutte
le erbe che conosceva... niente sembrava in grado di salvare Aegnor. Il
guaritore voleva troppi soldi per un antidoto. Lui non ne aveva
così tanti.
Stava pensando di offrirsi a qualcuno al bordello della
città, quando il
guaritore stesso gli aveva suggerito a chi rivolgersi. Chi invocare.
“Rothbart.”
L’Oscuro
Signore comparve solo quando Aeglos lo
invocò per la terza volta.
“Ancora
con questa storia! Non mi importa dello
status! Voglio solo essere...”
Per
Cora aveva parlato anche troppo. Usò le
cinghie che Regina teneva ancora in mano per legarla. Abbastanza
stretta da
farle male.
“Ti
prego...”, implorò Regina.
“Farò la brava.”
Rothbart
guarì Aegnor e ad Aeglos bastava.
Avrebbe pagato l’Oscuro in qualche modo, ma...
Aegnor
implorò Rothbart di insegnargli ciò che
sapeva. Voleva che Rothbart gli insegnasse ad usare la magia.
L’Oscuro
accettò. Lo chiamava Fuoco Funesto.
Diceva che era un bel nome e che doveva andarne fiero.
Lo
Spettro usò le cinghie, le stesse che Ade aveva usato per
legare Cora alla
ruota, nei sotterranei della sua prigione.
Le
cinghie schioccarono e Regina si ritrovò con il busto e le
gambe intrappolate.
-
Ah!
– esclamò lo Spettro, sfoggiando di nuovo
quell’orrendo sorriso. – Com’è
divertente, vero? Noi pensiamo che sia divertente! Tu non lo trovi
divertente,
Regina? È quello che ti faceva la tua mamma. Non lo trovi
divertente?
Aegnor
e Aeglos vennero accettati da un’altra
tribù, molto più grande del clan di cui avevano
fatto parte fino a qualche anno
prima.
Il
maggiore continuava a prendere lezioni
dall’Oscuro, anche se nessuno all’interno del clan
lo sapeva.
Rothbart
avrebbe voluto insegnare la magia
anche ad Aeglos. Sosteneva che ci fosse del fuoco dentro di lui.
“C’è
una cosa fondamentale che devi imparare,
Aeglos. Ed è che tuo fratello sta facendo tutto questo anche
per te. Dovresti
ricambiare. Aiutarlo. Hai molto potenziale. La magia... è
potere.”
Ma
Aeglos non voleva. Aveva paura. E aveva
trovato una ragazza, entrando nella tribù. Una ragazza che
aveva la sua stessa
età e non badava al suo strano aspetto. Era bella ed era
dolce. Nessun’altro, a
parte Aegnor e la madre, era mai stato così gentile con lui.
“Daniel.
Se volete una vita insieme, una
famiglia... c’è una cosa fondamentale che devi
imparare. Sull’essere genitori.
Bisogna fare sempre ciò che è meglio per i propri
figli.”
“Grazie.
Lo capisco. Ed è ciò che state facendo
voi.”
“Sì.
Proprio così.”
La
tribù rivale aveva attaccato durante la
notte, mentre tutti dormivano. Avevano ucciso gli uomini di guardia.
Avevano
ucciso molti suoi amici.
Avevano
ucciso anche la ragazza. Le avevano
tagliato la gola.
Il
suo sangue era rosso sulle mani di Aeglos.
La
rabbia che aveva provato non era semplice
rabbia. Era furia cieca. Era odio puro. Aegnor aveva visto tutto e
aveva
evocato la magia. Aveva evocato gli spiriti come gli aveva insegnato
l’Oscuro
Signore. Lo aveva chiamato perché lo aiutasse, ma Rothbart
non era venuto.
E
Aegnor aveva perso il controllo degli
spiriti. Era stato attaccato da loro. E avevano attaccato Aeglos. Si
erano
nutriti della loro energia vitale. Avevano distrutto i loro corpi.
Ma
non tutto. Qualcosa di loro era rimasto.
Qualcosa di Aeglos e Aegnor. Gli spiriti si erano fusi con i due
fratelli
diventando...
Lo
Spettro prese Regina e affondò una mano nel suo petto,
là dove c’era il suo
cuore pulsante.
Regina
si dimenò e scalciò, ma non ottenne niente. Era
troppo forte per lei. La
sofferenza le faceva inarcare la schiena e sopprimeva qualsiasi altro
pensiero
razionale.
Era
finita. Ne era sicura.
Lo
Spettro cominciò a risucchiare la sua energia.
“Daniel.
Se volete una vita insieme, una
famiglia... c’è una cosa fondamentale che devi
imparare. Sull’essere genitori.
Bisogna fare sempre ciò che è meglio per i propri
figli.”
“Grazie.
Lo capisco. Ed è ciò che state facendo
voi.”
“Sì.
Proprio così.”
Cora
affondò una mano nel petto di Daniel,
strappandogli il cuore. Regina urlò.
Per
Regina era diventato impossibile persino urlare. Sentiva chiaramente la
vita
che defluiva dal suo corpo un pezzo alla volta, mentre gli occhi dello
Spettro
erano diventati neri, neri anche dove avrebbe dovuto esserci il bianco
della
sclera.
“Farò
la brava.”
“Ti
prego... farò la brava.”
Una
freccia tagliò l’aria e lo Spettro
l’afferrò con la mano libera, spezzandola in
due.
“Farò
la brava.”
“Farò...”
La
seconda freccia lo raggiunse al collo e la creatura ruggì di
dolore. Mollò la
presa sul corpo di Regina, che si afflosciò
sull’asfalto come un burattino a
cui erano stati tagliati i fili e non si mosse più.
Una
terza freccia gli sfiorò la testa, ma lo mancò
perché lo Spettro si spostò
all’ultimo istante, un ghigno sadico a deformargli i
lineamenti. L’occhio rosso
fissò Mary Margaret, che aveva già incoccato un
altro dardo.
-
Hai
sbagliato, mammina! – gridò lo Spettro, con una
voce stridula. – Non saresti
mai dovuta venire! Mai!
La
freccia seguente era decorata con due piume rosse e proveniva
dall’alto.
Fiyero, posizionato sul tetto di un edificio, cercò di
attirare l’attenzione
dello Spettro su di sé.
Il
mostro acchiappò anche quella freccia e rise. –
Quello che fate è inutile! Noi
non possiamo essere fermati!
Marian
scagliò la sua freccia, provando a sorprenderlo da un'altra
angolazione. Lo
colpì ad una gamba, ma lo Spettro usò il suo
potere per scagliare Marian
lontano.
-
A
noi, adesso, mammina! – gridò. Allungò
una mano, come se volesse afferrarla e
Mary Margaret si sentì trascinata verso lo Spettro.
Lasciò cadere l’arco e la
freccia che aveva già incoccato. Puntò i piedi
nell’asfalto, tentando di
resistere alla forza magica, ma fallì e lo Spettro la prese
per il collo.
Mary
Margaret guardò Regina. Non si muoveva. Sembrava non
respirasse nemmeno.
-
Spediremo
la tua animaccia giù nel Tartaro! E poi la Regina
verrà a farti compagnia. Oh
sì! Verrà. Verrà presto! –
sbraitò lo Spettro. L’occhio rosso che non fissava
il vuoto splendeva come una sudicia lampada.
E...
l’odore. Cielo, quell’odore.
Era
un
lezzo fetido. L’odore di marcio dei rifiuti.
Per
un
attimo, tutte le ossa di Mary Margaret diventarono di ghiaccio.
-
Ci
stavamo divertendo, lo sai? Ci stavamo proprio divertendo e tu... tu
hai
rovinato tutto. – Lo Spettro appoggiò una mano sul
suo petto.
“Sei
una brava ragazza.”
“Vedi
dove porta il bene?”
Tutte
le ossa di Mary Margaret erano diventate di ghiaccio, ma la mano che
teneva in
tasca no. La mano che teneva in tasca era salda e sicura.
Compiendo
uno sforzo titanico, la estrasse. Lo Spettro fissò come
instupidito il cuore
pulsante venuto fuori dalla tasca, come un coniglio da un cappello
magico.
-
Che
cosa...?
Mary
Margaret spinse il cuore nel petto dello Spettro.
Lo
Spettro rialzò lo sguardo, inebetito, portandosi una mano
all’altezza del
cuore.
Poi
la
lasciò andare e dalla sua gola uscì un orribile
suono gorgogliante. Le dita
arpionarono il collo, la faccia e i capelli, mentre il gemito diventava
un
grido e il grido diventava un urlo.
Mary
Margaret si ritrasse, ma non distolse mai lo sguardo.
“Vedi
dove porta il bene?”
Lo
Spettro cercò di raggiungerla e la madre di Emma si fece in
là, meccanicamente.
L’essere cadde in ginocchio, sempre emettendo
quell’urlo stridulo, che quasi le
faceva sanguinare il cervello.
Marian
si premette le mani sulle orecchie.
-
Che
cos’hai fatto? Che cosa ci hai fatto?
Oltretomba.
Poche ore prima.
“Oh,
finalmente.”, disse Tremotino, che sedeva
dietro al bancone, rigirandosi tra le dita una piccola sfera di
cristallo. Non
si voltò nemmeno. “Questa volta vale il detto...
meglio tardi che mai.”
Mary
Margaret chiuse la porta del negozio
dietro di sé e avanzò verso il bancone, con
l’arco in pugno e la faretra a
tracolla. A Tremotino ricordò la bandita che, un tempo, si
nascondeva nelle
foreste, braccata da Regina; lo stesso sguardo risoluto, lo stesso
passo
sicuro. Ma c’era qualcos’altro. Qualcosa di
più. Qualcosa di diverso.
Qualcosa
di oscuro.
La
rabbia.
Tremotino
sorrise, perché conosceva quello
sguardo. Da sotto il bancone estrasse uno scrigno di legno e lo
appoggiò sulla
superficie di legno, spingendolo verso di lei.
“Ecco.”
“Che
cos’è?”
“Un
otre incantato. Riempito con l’acqua del
Fiume delle Anime.” Scandì bene le parole,
perché fosse chiaro. “Ovviamente
sembra un cuore. Un normale cuore. Il cuore di una persona
viva.”
Mary
Margaret aprì lo scrigno per accertarsene.
Il
cuore era rosso. Rosso e pulsante. Lo sfiorò
con la punta delle dita.
La
voce di sua madre le rimbombò nel cervello:
‘Biancaneve... quella non era paura. Era forza. La forza di
resistere
all’oscurità. Ed io sono così fiera di
te.’
“Immaginavo
che sareste venuta. Sono l’Oscuro e
come Oscuro leggo nell’animo delle persone. Adesso che in me
c’è il potere di
tutti gli Oscuri... è diventato ancora più
facile.”, stava dicendo Tremotino.
“Questo posto... alimenta i nostri ricordi. Alimenta la
rabbia. È difficile non
pensare al passato quando ci si ritrova qui.”
‘Vedi
dove porta il bene?’
Mary
Margaret prese il cuore e richiuse lo
scrigno con uno scatto secco.
“Pensate
di riuscirci... Biancaneve?”
-
I
cattivi non ottengono mai il lieto fine. – rispose Mary
Margaret, con una voce
così gelida che la riconobbe a stento come la sua.
– Ed io mi sto assicurando
che tu non sia l’eccezione alla regola, Cora.
Aveva
creato apposta un diversivo per avvicinarsi allo Spettro.
Quando
era uscita di casa per rintracciare la creatura che si era impossessata
di
Cora, sapeva che qualcuno l’avrebbe seguita. Marian e Fiyero
erano troppo
attenti, troppo guardinghi. L’avevano raggiunta nel bosco,
mentre lei
risistemava nella faretra le frecce imbevute dell’acqua del
Fiume delle Anime.
“Non
potete affrontare lo Spettro da sola. È
una stupidaggine, milady.”, aveva
detto Fiyero.
“Si
tratta del mio conto in sospeso.”, aveva
risposto lei, senza alcuna esitazione,
caricandosi la faretra in spalla.
“Cora
è il tuo conto in sospeso. Emma mi ha
raccontato che cosa è successo a Storybrooke.” Marian
aveva scosso la testa. “Lo Spettro
non è Cora. Ha preso il suo
corpo e ne fa ciò che vuole. Proprio come faceva con
Emma.”
“Un
motivo in più per eliminarlo. Non posso
permettere che Cora venga liberata. Lo Spettro prenderà
qualcun altro e
Cora...”
Cora
sarebbe stata libera a sua volta. Libera di risolvere i suoi conti in
sospeso e
di trovare la strada per il posto migliore.
Il
posto migliore non era per quelli come Cora.
“Ha
ucciso mia madre. Ha ucciso Johanna. Ha
manipolato Regina per anni e le ha distrutto la vita. Non si
è mai pentita,
capite? Mai.”
Le
frecce non avrebbero fermato lo Spettro. Ne era sicura. Poteva mirare
al cuore,
ma la creatura l’avrebbe comunque sentita. Sorprenderlo
così era quasi
impossibile. Ma l’avrebbe distratto. Doveva riuscire ad
avvicinarsi abbastanza
da poter usare l’otre incantato che le aveva dato Tremotino.
Era
arrivata quasi troppo tardi. Lo Spettro era sul punto di uccidere
Regina.
-
Tu
la pagherai! Pagherai quello che...
Lo
Spettro iniziò a dissolversi. La sua pelle divenne bianca
come neve e poi
trasparente. Sotto non c’erano né carne
né ossa, ma solo un turbinio notturno. L’occhio
la fissò con odio.
Mary
Margaret vide il volto della creatura cambiare. Era il volto di un
ragazzo con
le ciglia e la barba bianchi. Era il volto di un giovane uomo con i
capelli
rossi. Poi rimase solo il volto di Cora.
Per
qualche secondo, lo Spettro non fu più lo Spettro, ma solo
Cora.
Ululò
di dolore mentre le tenebre pulsavano, spaccandole la pelle.
“Sei
una brava ragazza.”
Emma,
ripresasi dal colpo subìto quando Regina l’aveva
messa fuori gioco, si
precipitò fuori di casa seguita da Henry e da Lily.
-
Mamma! – gridò Henry, inginocchiandosi accanto a
Regina.
Emma
cercò le pulsazioni, appoggiandole due dita sul collo.
Un
ultimo grido agonizzante e il corpo di Cora si lacerò dalla
testa ai piedi,
liberando fiumi neri che si divisero in tre rivoli ed evaporarono
all’istante.
“Sei
una brava ragazza.”
Di
Cora non rimase più niente.
Mary
Margaret si piegò sulle ginocchia, improvvisamente svuotata
di ogni energia.
“Pensate
di riuscirci, Biancaneve?”
-
Regina, sono io... rispondimi. – disse Emma, scuotendola.
Henry
stringeva una mano della madre priva di sensi, in trepidante attesa,
gli occhi
sbarrati e le labbra strette in una linea piatta.
Regina
non rispose.
-
Ti
prego... – implorò Emma, appoggiandole una mano
sul petto. Il suo cuore
batteva, ma era terribilmente debole.
Quanta
forza le aveva risucchiato lo Spettro prima di essere abbattuto?
-
Regina...
Nessuna
risposta.
Killian
andò ad aiutare Mary Margaret a tirarsi su. Lei
barcollò, aggrappandosi al suo
braccio, ma lo lasciò andare quasi subito. Fiyero raccolse
l’arco e glielo
porse. La osservava con un certo timore, ma anche con rispetto.
Emma
sfiorò la fronte di Regina e alzò la testa,
incrociando gli occhi impauriti di
Henry.
Poi
si
chinò nuovamente sull’altra madre di suo figlio e,
senza fermarsi troppo a
riflettere, la baciò. Premette le labbra sulle sue con
decisione.
“Sono
famosa per questo dolce.”, continuò,
chiudendo il contenitore. “Veramente delizioso.”
Emma
non era sicura di cosa fosse più forte. Se
il profumo di quella ricetta o il profumo di Regina. I suoi occhi
nocciola la
scrutarono, mentre le porgeva il tutto. Regina avrebbe potuto ottenere
qualsiasi cosa con quegli occhi.
E
sembrava stesse aspettando una reazione, una
qualsiasi. Anche solo una semplice parola.
“La
ringrazio.”, disse, invece, Emma.
“Spero
che le piacciano le mele.”
Emma
prese il contenitore e sorrise. Si girò
per andarsene. Ma si fermò quando era già oltre
la soglia della cucina.
“Ha
dimenticato qualcosa?”, chiese Regina.
“Lei
sa benissimo che non sono qui solo per un
dolce, vero? Sa che cosa intendevo quando le ho detto che questa
situazione è
insostenibile. Che sono disposta ad andarmene.”
“Beh,
la nostra situazione può danneggiare
Henry. Immagino che, per una volta, sia riuscita a riflettere e a
vedere le
cose con chiarezza.”
“Io
sì. E lei?”
“Io?”
“Sei
molto più consapevole della situazione di
quello che vuoi lasciar credere, Regina.”
Il
cambio di tono la destabilizzò. Emma Swan
non le aveva mai dato del tu. La fissò mentre appoggiava il
contenitore sul
ripiano.
“Se
ne vada. Ha detto che vuole lasciare la
città. E allora se ne vada.”
“Mi
piace essere chiara, credo che tu l’abbia
capito. Quello che c’è tra noi... non danneggia
solo Henry. Potrebbe
danneggiarci tutti.”
Regina
avrebbe voluto tapparle la bocca prima
che continuasse. Il dolce era lì, sul ripiano della sua
cucina. Bastava che ne
mangiasse un pezzo. Solo un pezzo e non avrebbe più avuto la
Salvatrice tra i
piedi. Bastava un pezzettino per mettere la parola fine a...
“Non
mi vuoi intorno ad Henry, ma non mi vuoi
nemmeno intorno a te. E stai pur certa che non sei la sola.”
“Io
e lei veniamo da... mondi diversi. Avrebbe
dovuto essere chiaro fin dal principio. Siamo inconciliabili. Quello di
cui
parla... non dovrebbe esistere. Mi fa piacere sapere che anche su
questo la
pensiamo allo stesso modo.”
Emma
roteò gli occhi e poi l’attirò a
sé
prendendola per il colletto della camicia. Qualcosa che avrebbe voluto
fare dal
giorno in cui aveva salvato Henry, intrappolato nella miniera insieme
ad
Archie. O forse da prima. Non avrebbe saputo dire quando se ne era
accorta,
quando era cominciato.
Regina
accettò il suo bacio. Era un contatto
bruciante, prepotente e rabbioso. Non c’era alcuna dolcezza e
Regina non si era
mai aspettata niente di diverso da quella rude ragazzina di Boston.
Iniziò
a spogliarla quasi subito. Gettò via la
giacca rossa, afferrò l’orlo della maglia che
portava sotto ed Emma se la tolse
in fretta. Le dita della sua peggior nemica armeggiarono con i bottoni
della
camicia bianca. Ne strapparono due.
Emma
la spinse contro il bancone della cucina.
Regina non oppose resistenza, ma inclinò la testa e le
concesse spazio. Chiuse
gli occhi e gemette quando Emma le ricoprì il collo di baci
ardenti, morsicando
leggermente la pelle nel punto di congiunzione con la spalla. Poi le
slacciò i
pantaloni. Regina le infilò le dita fra i capelli biondi,
trattenendola con
forza contro di sé, mentre con la mano libera cercava di
slacciarle il
reggiseno.
A
Regina mancava il respiro. Le sembrava che
tutto stesse girando, intorno a lei. Il mondo girava veloce, era come
una
trottola impazzita e lei avrebbe voluto scendere, ma avrebbe anche
voluto che
non smettesse mai di girare.
La
bocca di Emma cercò di nuovo la sua, la
trovò e le loro lingue si intrecciarono.
Era
troppo oltre. Era incapace di resisterle.
Regina
graffiò la schiena della Salvatrice,
affondando le unghie nella carne. Si eccitò ancora di
più, sentendola gemere di
dolore e di piacere.
Soffocò
a stento un grido, quando Emma la baciò
e scivolò dentro di lei, infilando una mano tra le sue gambe.
Regina
attese che il respiro si calmasse e poi
si alzò, abbandonando il pavimento freddo della cucina. Emma
non l’aveva
neppure sfiorata, ma era rimasta a fissarla con quei suoi disarmanti
occhi
verdi, che giocavano con la luce mostrando sfumature azzurrine.
“Deve
andarsene.”, disse Regina, freddamente. “Lasci
Storybrooke. È meglio per lei.”
Darle
ancora del lei dopo quello che era
successo suonava ridicolo, ma doveva erigere delle barriere. Ad ogni
costo.
Emma
si rivestì senza risponderle. Il dolce che
Regina le aveva offerto era ancora nel contenitore, sul ripiano, in
attesa che
lei lo portasse via.
C’era
qualcosa che doveva fare.
Doveva
farlo assolutamente.
Regina
si appoggiò al bordo del ripiano. Non era
sicura di reggersi in piedi. Aveva le ginocchia deboli. Ma
sì... doveva farlo.
L’espressione
di Emma era contrita. Sembrava in
procinto di dire qualcosa per riempire quel silenzio insopportabile.
“Può
prendere il dolce. E... forse è il caso
che beva qualcosa di forte, le pare?”
Emma
batté le palpebre. “Qualcosa di forte. Oh,
sì. Molto forte, se puoi. Il più forte che
hai.”
Regina
andò a prendere il bourbon più forte che
aveva. E prese anche ciò che le serviva. Lo teneva in un
cassetto chiuso a
chiave. In caso di emergenza.
Prese
due bicchieri, con le mani che tremavano.
Rischiò di rovesciare il bourbon, ma si sforzò di
controllarsi. Recuperò la
fiala con la pozione e lasciò che il contenuto scivolasse in
uno dei bicchieri.
E
ne mise un po’ anche nel proprio.
Tornò
in cucina e porse il bicchiere ad Emma.
Lei lo prese e buttò giù il contenuto in
un’unica sorsata, mentre Regina beveva
il suo.
Emma
riemerse da quei ricordi, boccheggiando.
Regina
emise un lungo sibilo, simile ad un rantolo. Le sue palpebre
tremolarono e poi
aprì gli occhi, fissando Emma come se la riconoscesse
confusamente. Poi guardò
Henry, che sorrideva, sollevato.
-
Henry...
Emma... dov’è...?
-
Lo
Spettro è morto. È tutto finito. –
disse Henry, continuando a stringere la mano
della madre.
- Sarai
lieta di sapere che il problema dello Spettro è risolto.
– annunciò Ade,
rientrando nel covo sotterraneo. – E... gli pseudo eroi hanno
risolto anche il
problema di tua madre. Cora ha cessato di esistere. Beh, in qualche
modo esiste
ancora... ma non potrà andare da nessuna parte. Mai
più.
Alzò
la voce quando disse mai più,
come se
si trovasse su un palco in un gigantesco teatro pieno di persone che
aspettavano proprio quella battuta.
La
sua
voce riecheggiò lungo le pareti nere della sua fortezza e si
perse,
frammentandosi.
Nessuno
rispose.
Ade
guardò la piattaforma circolare. Ascoltò il
lamento dei gusci vuoti che
fluttuavano nel Fiume delle Anime. Vide una poltrona rovesciata. Cocci
di vetro
sparsi sulle piastrelle, i resti di un bicchiere.
Uno
dei suoi schiavi giaceva riverso dietro la poltrona, svenuto.
-
Che
cosa diavolo è accaduto qui?! – gridò
Ade, afferrando il ragazzo per i capelli
biondi e strattonandolo fino a quando non riprese conoscenza.
Lui
sbarrò subito gli occhi, spaventato
dall’espressione mostruosa sul viso di Ade.
– Ah... io... mio Signore, mi dispiace...
-
Dov’è
Zelena?!
-
L’hanno...
loro l’hanno presa.
-
Loro? Loro chi?
Il
ragazzo aprì la mano destra, rivelando la presenza di un
foglio di carta ingiallito
e arrotolato. Un messaggio.
Furioso,
Ade glielo strappò di mano e lasciò cadere il
servo, che si raggomitolò su sé
stesso, in attesa di qualche altra terribile punizione.
Le
parole erano semplici e chiare.
Gli
occhi di Ade si accesero, diventando due buchi pieni di lampi e di
fuoco
azzurro. Sferrò un calcio, colpendo il ragazzo nella natica
destra con la sua
scarpa nera e appuntita. Poi premette il tacco di quella scarpa sul suo
collo,
quasi soffocandolo.
Le
pareti della fortezza tremarono, scosse dalla rabbia del Signore
dell’Oltretomba.
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Capitolo 13 *** 13. ***
13
“Causa del
viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un
veleno, che la vita in fiore
le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non
nego di aver
tentato:
ha vinto Amore! Lassù,
sulla terra, è un dio ben
noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno
io lo spero:
se non è inventata la
novella di quell'antico
rapimento,
anche voi foste uniti da
Amore.”
[Ovidio;
Le Metamorfosi, X]
-
Non
dovresti essere qui. È buio. – disse Emma,
avvicinandosi a Regina, che sostava
davanti alle tre tombe sulle quali Ade aveva inciso i tre nomi.
Biancaneve
Lilith
Page
Regina
Mills.
Regina
non si voltò nemmeno a guardarla. – Non ho bisogno
della babysitter.
-
Non
sono venuta per farti da babysitter, infatti.
Le
loro voci risuonavano in modo sinistro, come la brezza gelida che
rumoreggiava
tra le foglie.
Il
cimitero era avvolto dai densi vapori rossi dell’Oltretomba,
che strisciavano
fra lapidi rovesciate e lapidi erette o spezzate, in compagnia delle
ombre.
-
Ti
cercavo. Volevo parlarti.
Regina
sapeva benissimo di cosa avrebbe voluto parlare Emma. Dei ricordi. Di
quei
ricordi che erano riemersi dopo...
Dopo
il bacio del vero amore. Quando sei quasi
morta per colpa dello Spettro.
Oh,
no. Era pazzesco. Non poteva essere.
-
Erano... voglio dire, lo Spettro era... non era soltanto uno. Erano in
due una
volta. – disse Regina, spezzando il silenzio.
-
In
due?
-
Erano fratelli. – Regina le parlò di Aegnor e
Aeglos, i due ragazzi che un
tempo erano... solo quello, ragazzi. Ragazzi poco più grandi
di Henry finiti
nelle mani dell’Oscuro Signore.
Emma
non disse niente.
-
Emma... quello che abbiamo ricordato... – si decise infine,
sapendo di non
poter evitare l’argomento. – Io non...
-
Hai
cancellato la mia memoria. L’hai cancellata perché
non potevi sopportare quello
che era successo.
Regina
la guardò per la prima volta. Stava per rispondere, stava
per dirle che era
molto più complicato di così, ma aveva la gola
talmente secca che le sarebbe
costato uno sforzo immenso parlare. Restò là,
nell'oscurità, ad ascoltare il
proprio respiro e quello della Salvatrice. Restò
là a guardare gli occhi verdi
che non lasciarono mai i suoi. L'espressione di Emma era fiera,
risoluta,
l'espressione della Emma che aveva conosciuto qualche anno prima,
quella che
aveva tagliato l'albero di mele, sfidandola apertamente. La stessa
espressione
della Emma che l'aveva salvata dalla folla inferocita dopo la rottura
del
sortilegio.
-
Se
ti baciassi ora, ricorderei qualcos'altro, secondo te? - chiese Emma,
fissandole le labbra.
Regina
deglutì a vuoto. - No... credo di no.
Emma
le lasciò scivolare una mano sulla nuca, sotto i capelli.
L'attirò a sé e
Regina afferrò il risvolto della sua giacca rossa. Non
esitò ad approfondire il
contatto subito, non appena le bocche si toccarono. Sentì
una mano di Emma fra
i capelli, decisa e salda, calda anche se lei era morta e la notte
infernale
era gelida.
-
Mi
scuso se mi intrometto in questa tenera scenetta.
Emma
si spostò di scatto e si girò, con gli occhi
sbarrati. Regina aveva già
sollevato un braccio, pronta a scagliare la sua magia contro Ade.
Lui
non se ne curò. – Non sono venuto per farvi del
male. In realtà sono qui per
chiedervi... oh, caspita, questo sì che è
difficile. Aiutarmi. Devo chiedervi
di aiutarmi.
-
In
che modo potremmo aiutarti? – chiese Emma, aggrottando la
fronte.
-
Semplice. Sono tornato nel mio covo dopo aver sbrigato qualche...
piccola
faccenda. E ho trovato uno dei miei servi svenuto. Aveva questo.
– Mostrò loro
il pezzo di pergamena che aveva trovato nelle mani di
quell’idiota.
Regina
glielo strappò di mano e lo srotolò per leggere
il messaggio. – No.
“Per questi luoghi paurosi,
per questo immane abisso, per i
silenzi di questo immenso regno,
vi prego, ritessete il destino
anzitempo infranto di Euridice!”
-
Zelena è stata rapita da Gold e da Artù?
– Mary Margaret non riusciva a capire
che cosa stessa succedendo. – Artù? Che cosa ci fa
qui?
-
Ha
affrontato la regina di Dunbroch in duello ed è... morto.
– disse Ade.
-
E ha
troppe cose in sospeso. - continuò Lily, contrita.
Il
Signore dei Morti annuì, con aria grave. - Vogliono
incontrarmi domani mattina.
-
E
Gold vuole che strappi il contratto che ti lega al suo secondogenito.
– osservò
Killian.
-
Vedo
che ne siete al corrente.
-
Ovviamente. – Malefica aprì la mano e in essa
comparve lo scettro. – Ci ho
pensato io. Ho osservato l’Oscuro in questi giorni. Molto
spesso. E ho
sistemato il suo stesso padre. In questo momento Peter Pan è
impegnato con il
Minotauro.
-
L’avete gettato nel labirinto? – chiese Marian,
incredula.
-
L’ho
colto alla sprovvista. Non si aspettava intoppi né
tantomeno... un drago.
Lily
sorrise, immaginando Pan alle prese con l’enorme uomo-toro,
in un labirinto dal
quale era molto difficile uscire.
-
Ottima mossa. – commentò Ade. – Ma non
avete pensato al fatto che l’Oscuro può
trovare altri alleati, se lo vuole.
-
Che
cosa aspetti a strappare quel contratto, quindi? –
domandò Regina. – Io e
Zelena non saremo in buoni rapporti, ma non posso permettere che Gold
la
uccida. Ha una figlia appena nata. Ed è comunque mia
sorella.
-
Nemmeno io voglio che le accada qualcosa. Per questo gli
darò ciò che mi
chiede.
-
E
Artù? Gli darei quello che ti chiede? –
domandò Killian, alzando la voce e
anche l’uncino. – Vuole tornare in vita. Glielo
concederai?
-
Cominciamo dal contratto. – tagliò corto Ade. -
Come stavo dicendo, farò ciò
che mi chiede, ma conosco bene l’Oscuro. Non
manterrà la parola. Per questo
devo avere un asso nella manica.
-
Per
fortuna ne hai uno. – disse Regina.
-
Regina, no... – intervenne Emma.
-
Sono
d’accordo. Non possiamo fidarci dell’Oscuro, ma non
possiamo fidarci nemmeno di
lui. O di Zelena. – Killian si avvicinò di
più ad Ade.
-
Regina è molto motivata. Forse. Visto e considerato che...
c’è di mezzo Emma. Ma
Lilith lo è molto di più di lei, credo.
– Spostò l’uncino che il pirata teneva
a pochi centimetri dalla sua faccia con il dorso della mano. Gli fece
molto
piacere vedere la smorfia che gli deformò i lineamenti.
Lily
attese di capire che cosa intendesse.
-
Sei
stata tu ad uccidere la Salvatrice. E sei stata tu ad avere la...
brillante
idea di condurre tutti quaggiù per riportarla indietro. Ora
dovresti fare
qualcosa per... aiutare le persone che ti hanno seguita e quella a cui
tieni di
più.
-
Non
avvicinarti a mia figlia, viscido essere... –
iniziò Malefica.
-
Lascia perdere, mamma. Ha ragione. – replicò Lily,
ignorando lo sguardo
costernato di sua madre. Guardò Ade negli occhi per
dimostrargli che non aveva
paura. – Cosa vuoi dire?
-
Propongo un accordo. Se tu mi aiuterai e Zelena ne uscirà
viva... cancellerò i
nomi sulle tombe. E vi indicherò la via per andarvene.
-
Sappiamo come andarcene. – rispose Mary Margaret. –
Uno di noi può dare una
parte del suo cuore ad Emma.
-
E
non funzionerà. Perché Emma è morta da
troppo tempo. Il vostro adorato principe
era... come dire... appena spirato e la sua anima non aveva ancora
raggiunto
questo regno.
Regina
ebbe l’impressione di essere stata raggirata da tutto e da
tutti. Non solo da
quel bastardo di Gold, ma anche dal regno di Ade. Dal tempo.
-
Ma
io conosco un modo per uscire dall’Oltretomba. Non
è una via sicura. Vi
aspettano... momenti molto duri. Prove. – Ora fissava Regina,
non più Lily.
-
Non
me la bevo. – sentenziò Killian. – Non
fidatevi assolutamente.
-
Lasciate
che vi dimostri che le mie intenzioni sono buone. – Ade
agitò una mano e una
nube nera li strinse rapidamente nelle sue spire.
Il
mondo si capovolse. Regina udì il grido di Mary Margaret e
qualcuno che si
aggrappava al suo braccio, forse Henry.
Poi
le
tenebre si diradarono e loro si ritrovarono di nuovo al cimitero,
davanti alle
lapidi con i loro nomi.
Regina
Mills.
Lilith
Page.
Biancaneve.
Ade
esitò un istante, come se fosse indeciso sul da farsi. Poi
si accostò alla
tomba della figlia di Malefica. Posò due dita sul dorso
freddo del marmo e
rivolse un’occhiata ai presenti, quasi fosse un mago che
voleva stupire tutti
con qualche nuovo trucchetto. Infine, tracciò una linea sul
nome di Lilith. Una
linea con il dito indice.
Le
lettere si illuminarono una alla volta. La luce azzurrata si espanse,
racchiudendo la lapide in un bozzolo.
Lily
fece per avvicinarsi, ma sua madre la prese per un braccio,
trattenendola.
Il
bozzolo si ruppe e tutti videro la pietra liscia. Eretta ed intonsa.
Senza più
nomi incisi.
“Anche
Euridice sarà vostra, quando sino in
fondo avrà compiuto
il tempo che le spetta: in pegno ve la chiedo, non
in dono.”
-
Mostratevi. – ordinò Ade, non appena ebbe messo
piede nel vecchio Granny’s
Diner, ormai deserto.
Tremotino
apparve preceduto da una nube rossa, accompagnato dal re di Camelot,
che
stringeva un braccio di Zelena. Ade non riuscì subito a
decidere quale dei due
sorrisetti fosse il più odioso.
-
Quindi è questo il Dio dei Morti. – lo
sbeffeggiò Artù, puntandogli un dito
contro. Indossava la sua armatura. Il mantello rosso era polveroso e
sfilacciato. Il fodero appeso alla cintura era vuoto. Niente armi. Per
lo
meno... niente armi comuni. Nella mano libera reggeva la Folgora
Olimpica. La sua Folgore.
Quella che aveva rubato a
suo fratello moltissimo tempo prima. Il re senza più regno
aveva due occhi
scuri e orlati di rosso, gli occhi di un folle.
-
Mi aspettavo di meglio. Qualcosa di più... terrificante,
forse. – disse Artù,
fingendosi enormemente deluso.
-
Fidati, questa non è la mia vera forma. Se vedessi quella
vera, non
sopravvivresti. – Ade osservava Zelena per assicurarsi che
non fosse ferita.
-
Ho provato a fermarli. – disse lei. Sollevò un
braccio per mostrare il bracciale
nero agganciato al polso. – Ma...
-
Non è certo colpa tua. È loro.
-
Oh, davvero? – Tremotino sembrava divertirsi un mondo.
– Se non fosse per quel
contratto, non saremmo qui. Avresti potuto strapparlo tempo fa, quando
te l’ho
chiesto.
Ade
mostrò il contratto che lo legava all’Oscuro
Signore. Lo srotolò davanti a lui,
perché potesse constatare con i suoi occhi che non stava
mentendo. Lo aveva
portato. – Non era nel mio interesse.
-
Ma ora sì. Bene. Faresti meglio a non muoverti, se non per
strappare quel
contratto.
Non
perse tempo. Persino il sorrisetto di Artù
vacillò quando le mani di Ade
strapparono la pergamena e gettarono via i due pezzi, uno a destra e
uno a
sinistra.
-
Non credevo che sarebbe stato così semplice. –
disse Artù, mentre Zelena
strattonava per liberarsi ma senza riuscirci.
-
Beh, lo è stato. Ora lasciatela andare. - replicò
Ade.
-
La lasceremo andare. – rispose Tremotino. – Ma
c’è ancora una cosa...
-
Il suo cuore. – lo anticipò Artù.
– Mi sono aggiudicato il suo cuore. Mi serve
per tornare in vita. Un cuore che batte. Prendo volentieri quello di
una strega
perfida e potente. Ho molte cose da fare lassù. Ho una
moglie che mi aspetta.
-
E che ti odia, perché l’hai legata a te con un
incantesimo. – commentò Zelena,
acidamente.
-
Le cose si possono aggiustare, strega. – Artù
guardò Tremotino. – Allora?
Ade
si scagliò contro il re di Camelot e fu allora che
un’onda di magia viola
piombò nel Granny’s dalla porta che conduceva sul
retro e investì in pieno
Artù, che perse l’equilibrio. La Folgore gli
sfuggì di mano, slittò attraverso
il linoleum, roteando e finì ai piedi di Ade, che si
affrettò a raccoglierla.
-
Non ero sicuro che ce l’avresti fatta. – disse Ade,
rivolto a Lily, che entrò,
andando a mettersi di fianco a lui.
-
Ho imparato qualcosa negli ultimi tempi. Grazie a mia madre.
-
E da quando Lilith Page risponde al Dio dei Morti? Te l’ha
detto, tua madre,
che è la squadra sbagliata? – L’Oscuro
non sembrava affatto sorpreso. Era
paziente. Come se aspettasse il resto. Uno scontro, magari. –
Oh, ma
dimenticavo... tu sei l’Anti Salvatrice. Il Dio dei Morti,
per te, è un’ottima
scelta.
-
Sarò anche l’Anti Salvatrice, ma sono qui per
salvare Emma e gli altri.
Sparisci, Oscuro. – sibilò Lilith, con gli occhi
dorati e pieni di fuoco. – Hai
ottenuto ciò che volevi. Vattene e basta. Hai visto che cosa
c’è qui? La
Folgore Olimpica. Vuoi finire arrostito?
Tremotino
rifletté qualche istante.
Ade
ne approfittò per far sparire Artù.
L’uomo imprecò contro di lui, prima di svanire
in una nube nera. Le prigioni dell’Oltretomba lo avrebbero
accolto volentieri.
Aveva in mente tante belle torture. Forse avrebbe raggiunto Percival,
il suo
cavaliere. Si sarebbero fatti compagnia a vicenda e avrebbero lottato
assieme
contro il fuoco...
-
D’accordo. Ammetto che hai ragione. – Tremotino
scomparve a sua volta.
Ade
corse ad abbracciare Zelena. Lily incrociò le braccia al
petto, fissando la
Folgore ancora nelle mani del Signore dei Morti. Quell’arma
la rendeva nervosa.
Forse avrebbe dovuto trovare un modo per sottrargliela. O avrebbe
dovuto
chiedergli di consegnarla. Non aveva ancora mantenuto la parola...
-
Hai strappato quel contratto per me. Non credevo che
l’avresti fatto. – Zelena
appoggiò una mano sul suo petto, all’altezza del
cuore, dopo che lui l’ebbe
liberata dal bracciale che bloccava i suoi poteri.
-
Ancora non hai capito che quello che ti ho detto quando ti ho...
diciamo
rapita... è vero. Farei questo ed altro per te.
Lily
roteò gli occhi. Sbirciò fuori dalla finestra e
vide sua madre, che disegnava
ampi cerchi girando in tondo, in forma di drago, sopra al
Granny’s.
Zelena
lo baciò.
“Se
poi per lei tale grazia mi nega il fato,
questo è certo:
io
non me ne andrò: della morte d'entrambi
godrete!"
Il
cuore di Ade riprese a battere con un potente sussulto.
Le
lancette della Torre dell’Orologio giravano al contrario.
E
la Torre non era più nello stesso posto. Non appena Zelena
aveva baciato Ade,
spezzando la maledizione, l’esilio era terminato e le
lancette avevano
cominciato a muoversi.
-
Perché è qui? – chiese Mary Margaret.
-
Perché è un portale. – rispose Ade.
– Quando gireranno abbastanza velocemente,
si aprirà. E potrete andarvene. Potremo
andarcene.
Regina
guardò sua sorella, aspettandosi di vederla sorridere,
soddisfatta. Invece,
notò che era scura in volto. Accennò un sorriso,
ma era distratta. Continuava a
sfregarsi l’interno del polso con il pollice.
-
Allora che cosa aspetti? Togli gli altri nomi dalle tombe. Ora.
– sentenziò
Lily. – Ti ho aiutato. Adesso tocca a te.
Emma
era tesa come una corda di violino. Si aspettava che il Signore
dell’Oltretomba
opponesse resistenza. Si aspettava che avanzasse qualche altra pretesa.
Killian
la stava fissando con insistenza, ma lei era troppo concentrata su Ade.
-
Con piacere. – disse lui.
Con
un unico, semplice gesto della mano, come se stesse usando uno straccio
per
pulire una lavagna, cancellò i nomi di Regina e Biancaneve
dalle lapidi.
-
Come promesso. Ora potete andare via. Beh... potreste. Immagino
che...
-
Immagino che ora ci occuperemo del resto dell’accordo.
L’uscita. Vogliamo
procedere? - domandò Regina.
“Tra
le ombre appena giunte si trovava,
e
venne avanti con passo reso lento dalla
ferita.”
-
Euridice riuscì ad andarsene. Mangiò
l’ambrosia. Il cibo degli Dei. – spiegò
Ade, non molto felice di dover raccontare di nuovo quella maledetta
storia.
Mostrò la pagina dedicata a loro nel libro.
-
Ma non è andata così. – disse Henry,
sfogliando le pagine. – Orfeo non riuscì a
riportarla indietro. Conosco il mito. Ha fallito. Gli era stato imposto
di non
voltarsi fino a che non avesse varcato le porte dell’Averno.
-
Lui si è voltato. – concluse Ade. –
Già. Gli avevo imposto quella prova.
Suonava... così bene. La sua musica era celestiale. Persino
le Furie e le Arpie
si misero a piangere e a loro non era mai capitato. Fu davvero
imbarazzante.
Per tutti.
-
E allora? – chiese Henry, incuriosito suo malgrado.
-
E allora... la storia non finisce con il fallimento di Orfeo. Lui venne
rispedito nel mondo dei vivi, ma rimase per sette giorni davanti alle
porte.
Implorò Caronte e ogni giorno il traghettatore lo
scacciò. Era caparbio.
Immagino che tutti sognino un amante così... coraggioso e
fedele.
-
Ha avuto una seconda occasione?
-
Tempo dopo, sì. Se ne andava in giro a suonare quella sua
lira, commuovendo
chiunque incontrasse. Alla fine commosse Afrodite. Commosse una
divinità.
-
Che lo aiutò ad entrare nell’Oltretomba.
– concluse Regina. Occhieggiò di nuovo
Zelena. Era decisamente chiaro che stesse meditando. Che stesse
macchinando
qualcosa. Era sicura che non stesse solo pensando alla bambina che
l’aspettava
lassù, a Storybrooke.
-
Costrinse Caronte a collaborare. – stava dicendo Ade.
– Fatto sta che Orfeo non
fallì quella volta. Riuscì a portarla con
sé, dopo averle dato l’ambrosia.
Però...
-
Però? – chiese Emma.
-
Euridice... non era più la stessa. – Ade fissava
Emma. – L’ambrosia le aveva
permesso di andarsene, ma questo posto... l’aveva corrotta.
Era rimasta qui
per... un po’ di tempo. E tornare in vita può
comportare delle conseguenze.
Emma
non chiese che fine avesse fatto Euridice, secondo le voci. Il gelo era
tornato. Cercò di leggere la menzogna negli occhi di Ade.
Non la trovò.
Lui
non aggiunse altro e, con un gesto della mano, trasformò il
muro di mattoni
della biblioteca in un ascensore.
-
Stai scherzando? Un ascensore? – domandò Lily.
-
Sì, un ascensore. L’ambrosia... è
potente. È come un bambino viziato. Vuole
tutto il potere per sé. Laggiù la magia non
funziona. – spiegò Ade. – Una volta
scesi... sarete soli.
-
E? Cosa succederà allora? – chiese Regina,
scrutando l’ascensore.
-
Non ne sono sicuro. So che la strada è lunga. E non facile.
Ma non mi sono mai
spinto così in profondità.
-
Quindi vuoi che Emma vada nell’unico posto dove persino il
diavolo ha paura di
andare? – Killian non credeva alle sue orecchie.
-
Non è la paura, il problema. – si
affrettò a controbattere. – È la prima
prova.
Quella che va necessariamente superata perché le porte si
aprano e voi possiate
percorrere la strada che vi condurrà all’ambrosia.
La persona che verrà con te,
Salvatrice... sarà giudicata. Dovrà offrire il
suo cuore.
-
Ma non avremo la magia... – mormorò Emma.
Ade
affondò una mano nel petto di Regina, senza curarsi di
essere delicato, ed
estrasse il cuore. Lei non ebbe nemmeno il tempo di gridare. Ade mise
l’organo
prezioso in un sacchetto e strinse i lacci per chiuderlo, come se si
fosse
trattato di tramezzino da mangiare durante un simpatico picnic.
-
Non ci provare mai più. – sibilò Regina.
-
Immagino che non ti dispiaccia poi così tanto. O forse
sì. Dipende da cosa
succederà là sotto.
Killian
serrò le labbra e uscì dalla biblioteca con passo
deciso, chiudendosi le porte
alle spalle.
-
A qualcun altro indubbiamente dispiace. – commentò
Ade, cedendo il cuore a
Regina. – Buona fortuna.
Henry
si avvicinò alle sue madri e allargò le braccia
per stringerla a sé entrambe. Lui
aveva fiducia. Sapeva che ce l’avrebbero fatta. Non poteva
essere altrimenti.
Loro due insieme erano più forti. Anche senza la magia.
-
Quello che è successo a tua madre... – disse Mary
Margaret a Regina.
-
Se ti stai domandando quando proverò ad ucciderti per aver
eliminato mia
madre... lo Spettro... sappi che non intendo farlo. –
l’anticipò, pur rimanendo
seria. Era troppo occupata a pensare al peso che reggeva nella mano
destra. Il
cuore. Quel cuore nero. Il suo passato era pesante quanto un macigno e
la sola
idea di essere giudicata la raggelava. Non si era nemmeno sentita
sorpresa
quando Ade aveva strappato il cuore senza chiedere, indicandola come
colei che
avrebbe accompagnato Emma in quel viaggio terribilmente pericoloso. Ma
quel
cuore...
Mary
Margaret l’abbracciò.
-
Prendi questo, Emma. – disse Marian, porgendole
l’amuleto che Lily aveva
trovato nella stanza di Murphy, al Granny’s. – Non
so perché, ma... potrebbe
servirti.
Lo
prese e se lo mise al collo.
Lily
la fissava, leggermente contrita. – Devo dire che il Re dei
Morti ha ragione,
per quanto mi costi ammetterlo. Regina è l’unica
che può accompagnarti là
sotto.
-
Hai già fatto abbastanza. – replicò
Emma, appoggiandole una mano sulla spalla.
– Cerca di non metterti nei guai. E se al tramonto io non
dovessi tornare...
-
Tornerai.
-
Ma non è detto. E allora voglio che tu te ne vada. Insieme
agli altri. Non
tornare, Lily. Mai più.
Sembrava
un ordine e non una semplice richiesta. Gli occhi di Emma non
scherzavano
affatto. Erano verdi e duri, volevano tutta la sua attenzione.
Lily
fece un profondo respiro, lo trattenne per qualche istante, lo
lasciò andare.
Le costò molto dire ciò che disse. –
D’accordo. Lo farò.
“Orfeo
del
Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di
non volgere indietro lo sguardo, finché non
fosse uscito
dalle
valli dell’Averno...”
Lily
seguì Emma, sostando dietro al suo sguardo, fino
a quando le fu possibile.
Vide
l’ascensore scendere sempre più in
profondità e
toccare il fondo. Vide un lungo tunnel illuminato da qualche fuoco
fatuo, un
tunnel che si perdeva nell’oscurità.
Poi
il contatto s’interruppe. Calò un sipario nero e,
per quanto si sforzasse, non riuscì a penetrarlo. Malefica
le venne vicino e la
tenne fra le braccia.
-
Dobbiamo davvero rimanercene qui ad aspettare, quindi. –
disse Fiyero,
giocherellando con una delle sue frecce.
-
È qualcosa che devono affrontare da sole. –
rispose Ade. – Al tramonto ce ne
andremo.
-
Non senza di loro. – asserì Henry.
-
La loro strada è lunga. Impiegheranno del tempo per arrivare
all’Ambrosia. E se
ci arriveranno e riusciranno a prenderla... le porte si apriranno per
loro e
passeranno. Ve lo garantisco.
-
Non ci sei mai stato laggiù. Come fai a garantirlo? - chiese
Fiyero.
-
Non ci sono mai stato, ma so che non sarà facile uscirne.
Tuttavia, se ne
usciranno, non avranno bisogno del portale per passare. Torneranno a
casa,
semplicemente.
Silenzio.
Tutti si fermarono a riflettere.
-
E le persone che sono ancora intrappolate qui? Loro che fine faranno?
Come
faranno ad andarsene? – domandò Henry, allargando
le braccia.
Ade
si accorse di avere ancora la Folgore Olimpica in mano e la porse a
Zelena.
-
Perché la dai a me? – chiese lei, confusa,
stringendo l’impugnatura d’avorio
dell’arma divina. Vide Marian che, d’istinto, si
allontanava di qualche passo
mentre la Folgore veniva depositata in altre mani.
-
Mi fido. Tienila tu. – commentò Ade. Poi si
rivolse di nuovo ad Henry. – Ora
che il mio esilio è finito, saranno libere di risolvere le
loro questioni in
sospeso. Potranno andarsene e nessuno glielo impedirà.
-
Ma molti di loro non sanno quali sono... le questioni in sospeso.
Forse...
potrei dirglielo io, in quanto Autore. Potrei aiutarle. –
Henry si tastò la
tasca nella quale teneva la penna.
-
Credimi, forzare una cosa simile potrebbe solo causare altri problemi.
-
Non voglio forzarli. Voglio solo... aiutare. Una... spinta.
Mary
Margaret intervenne, posando una mano sul braccio di Henry. –
Non credo che tu
possa farlo. Devono riuscirci da soli. Se Regina fosse qui te lo
direbbe.
“In
un
silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso,
buio, immerso in una nebbia
impenetrabile.”
Il
tunnel che si era aperto davanti a loro quando
l’ascensore aveva raggiunto le profondità
dell’Oltretomba diventò ben presto
una caverna buia, nebbiosa, piena di curve, con il soffitto
così basso che Emma
e Regina furono costrette a proseguire piegate. Non dissero niente per
un bel
po’. Almeno fino a quando non raggiunsero l’uscita,
ritrovandosi in una stanza
sotterranea chiusa. Davanti a loro c’era una vecchia porta
alta e a due
battenti. Sigillata. Tra essa e le due visitatrici c’era una
roccia, sulla
quale era posata una bilancia.
Emma
si avvicinò per leggere la targhetta che
riportava le istruzioni. – È in un’altra
lingua. Credo che dica...
-
Amor Verus
Numquam Moritur. – lesse Regina, senza ombra di
esitazione. – È latino,
Emma. L’Amore Vero non muore mai.
Emma
aggrottò la fronte. - Oh, beh...
-
Non ho studiato solo la magia.
L’Amore
Vero
non muore mai.
Certamente
Orfeo, moltissimo tempo prima, aveva posato
il suo stesso cuore su uno dei piatti dorati della bilancia, mentre
Euridice
osservava.
-
Quindi... se non ho capito male, questo è il momento
in cui vengo giudicata. – disse Regina, più a
sé stessa che ad Emma.
-
Questo è il momento in cui quello che provi... viene
giudicato.
Amor
Verus
Numquam Moritur.
Regina
avrebbe dovuto capirlo subito che il suo cuore
non sarebbe stato giudicato per le azioni che aveva compiuto fino a
quel
momento. Non solo, per lo meno. Esitò. – Stai
forse dicendo che... quello che
c’è tra noi è...
-
Vero Amore? – Emma fissò la porta chiusa.
C’erano
dei simboli intagliati nel legno. Simboli. Polvere. Ragnatele.
– Stiamo per
scoprirlo, no?
-
Emma... il Vero Amore è la magia più rara e
potente
di tutte.
-
E secondo la polvere magica di Trilli, non dovrei
essere io. – concluse Emma. – Ma quello
è successo molti anni fa.
-
Non è solo per via di Trilli e della sua polvere.
È
per... non so, tutto il resto. Ci siamo odiate, ho cercato di
distruggerti...
-
Mi hai anche fatto dimenticare qualcosa di
importante.
-
Certo, perché temevo che mi avresti rovinata!
Emma
non ricordava di aver mai sentito Regina
esprimersi tanto a fatica e subito divenne molto più cauta.
– D’accordo. Forse
dovresti solo... sai, mettere il tuo cuore sulla bilancia. Lo
scopriremo
insieme. Insieme, va bene?
Regina
la fissava, stupita, persino speranzosa. – E
Capitan Mascara? A lui che cos’hai detto?
-
La verità. – rispose Emma, risoluta. –
Non volevo
ferirlo, ma non potevo nemmeno mentire. Non ho tempo per i sotterfugi.
-
Così adesso mi odierà ancora di più.
La cosa
positiva è che il sentimento è reciproco.
-
Regina.
Lei
capì che se avesse esitato ancora forse qualcosa
le avrebbe impedito di farlo. Aprì la sacca ed estrasse il
cuore. Nero e
pulsante, sembrava suggerirle quanto folle fosse quello che stava per
fare. Ricordò
la conversazione avuta con Mary Margaret nella sua cripta. Allora la
madre di
Emma le aveva detto chiaramente che pensava che lei potesse aiutarla.
Regina le
aveva mostrato il cuore nero per farle capire che era una pazza se
davvero
credeva che tutta quell’oscurità avrebbe potuto
salvarla.
Tra
poco
sapremo se avevi ragione, Biancaneve. Tuo marito sarà anche
un idiota, ma tu
non lo sei di certo. E mi tocca ammetterlo.
Sentiva
su di sé lo sguardo di Emma, quindi mosse un
passo verso la bilancia e poi posò il cuore su uno dei
piatti.
“E
ormai non
erano lontani dalla superficie della terra,
quando,
nel timore che lei non lo seguisse,
ansioso di guardarla,
l’innamorato
Orfeo si volse: sùbito lei svanì
nell’Averno.”
Sulle
prime non accadde niente.
L’Oltretomba
rimase in silenzio. La porta non si aprì.
Il piatto non si mosse di un millimetro. Il cuore di Regina
restò là, esposto,
nero, pulsante, ad occhieggiare la caverna.
-
Non credo che stia funzionando... – iniziò Regina.
Avvertì
l’ombra del fallimento che aveva spinto Orfeo
fuori dal Regno dei Morti solo per essersi girato quando avrebbe dovuto
continuare a camminare.
Poi
l’aria venne smossa dal passaggio di una presenza
fredda ed entrambe udirono un boato, il tonfo di inimmaginabili piedi
da mammut
che calpestavano il terreno. Dapprima il rumore era lontano, ma si
avvicinava,
si avvicinava sempre di più.
Emma
si voltò in tempo per vedere la caverna da cui
erano arrivate che crollava, bloccando ogni via d’uscita.
Infine
un rantolo. Regina si portò le mani al petto e
crollò, il volto contratto in una smorfia di dolore.
-
Regina!
-
Emma... non so cosa... il cuore...
Emma
non perse tempo e si lanciò sul cuore di Regina
con le mani protese, ma qualcosa la trattenne. Il pavimento sotto di
lei tremò
e si spaccò. Due serpenti sgusciarono fuori dalle crepe e si
attorcigliarono
intorno alle sue caviglie. Emma strattonò con tutte le sue
forze e non ottenne
alcun risultato, perché i serpenti si arrampicarono fino
alle sue ginocchia,
inchiodandola. Erano terribilmente forti. Altri serpenti le serrarono i
polsi,
impedendole di arrivare al cuore sul piatto della bilancia.
Regina,
nonostante il dolore, si aggrappò ad una
sporgenza e si tirò su. Levò una mano solo per
ricordarsi che non poteva usare
la magia in quel luogo. Cadde di nuovo.
“E
poi...
effettivamente sì, è folle. Ma non mi stupisce.
L’amore... è una cosa strana.
Quando ho conosciuto Azzurro l’ho colpito in
faccia.”
“Forse
tu
puoi, Regina. Forse il tuo cuore può aiutarla.”
Ignorando
la sofferenza, Regina spiccò un balzo mentre
i serpenti si appropriavano del collo di Emma, pronti a soffocarla.
Abbrancò il
corpo dell’altra madre di suo figlio, sentì una di
quelle serpi sfiorarle la
faccia, la lingua biforcuta che sibilava accanto al suo orecchio...
Poi
baciò Emma sulle labbra.
“Morendo
di
nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di
cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non
d’essere amata?)”
Emma
e Regina atterrarono insieme, abbracciate. I
serpenti sciolsero la stretta e si dissolsero con una serie di pop. Il piatto che sorreggeva il cuore
di Regina si abbassò leggermente e uno scatto secco
riverberò per tutta la
caverna.
I
battenti della porta si aprirono, lasciando filtrare
una luce gialligna. Al di là, le forme degli alberi
stagliati contro un cielo
nuvoloso.
-
Che cosa è successo? – domandò Regina,
sollevando la
testa e fissando l’apertura con gli occhi sgranati.
“Amor
Verus
Numquam Moritur.”
- Il Vero
Amore. – mormorò Emma.
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Capitolo 14 *** 14. ***
14
“Tu
hai fatto molto bene ciò che dovevi,
Atreyu. Sono molto soddisfatta di te”
“No!” gridò Atreyu, quasi con furia.
“È stato
tutto inutile. Non c’è salvezza.”
[…]
Poi udì la voce che diceva: “Ma tu l’hai
portato.”
Atreyu alzò la testa. “Chi?”
“Il nostro Salvatore.”
[Michael
Ende, La Storia Infinita]
- Dove
siamo? – domandò Regina, una volta oltrepassata la
porta.
Una
luce crepuscolare, di un grigiore di piombo, colmava il luogo che si
era aperto
davanti a loro.
Era
una palude.
Qua
e
là c’erano mucchietti contorti di cespugli e
alberi i cui tronchi marci si
diramavano verso il basso in tante gambe storte, cosa che li rendeva
simili a
grossi granchi addormentati nell’acqua nera e melmosa. Era
difficile capire in
quali punti il terreno fosse solido e dove invece non era che una
superficie
acquosa coperta da una patina verde o da piante acquatiche. Coltri di
nebbia
navigavano tra gli alberi e dai rami pendevano liane simili ai
tentacoli di
qualche belva mimetizzata al fogliame.
Non
c’è salvezza.
Emma
batté le palpebre e si guardò alle spalle. Non
c’era nessuno. Non c’era più
nemmeno la porta attraverso la quale erano appena passate.
“Amor
Verus
Numquam Moritur.”
-
Hai
sentito? – domandò a Regina.
-
No.
Cosa?
Non
c’è salvezza.
Era
una voce. Una voce fantasma che fluttuava nell’aria. Era
fastidiosa e la
metteva a disagio, come se stesse cercando di penetrare ogni sua
difesa. Ma lo
faceva lentamente.
-
Sbrighiamoci.
– disse Emma. Allungò una mano, cercando quella di
Regina.
Lei
la
prese e intrecciò le dita alle sue.
Storybrooke.
Qualche anno prima.
“Mia madre è cattiva.”
Archie
Hopper aveva avuto modo di confrontarsi
con una vasta gamma di pazienti in quanto psichiatra. Storybrooke era
una città
piccola, ma i problemi non mancavano. Ragazzi anche più
piccoli di Henry che
cercavano di giustificare comportamenti sbagliati con scuse assurde e
bugie nelle
quali nemmeno loro credevano. Adulti soli, intrappolati in qualche
dipendenza.
Ma
una partenza come quella non gli era mai capitata.
Erano alla terza seduta. Fino a quel momento, il figlio del sindaco non
aveva
mai espresso una simile emozione. Sembrava avercela con la madre
adottiva per
qualche motivo che Archie non era ancora riuscito ad afferrare.
Si
tolse gli occhiali, recuperò uno straccetto
dalla tasca della giacca e ripulì le lenti con cura.
‘Vede,
signor Hopper, io sono una madre. Faccio
del mio meglio con Henry. Ma sono preoccupata. Molto.’
Archie
non dubitava che Regina Mills lo fosse.
“Perché dici questo? Lei ha... forse detto
qualcosa che ti ha turbato?”
“Non
è per quello che dice.”
“No?”
“È
semplicemente quello che è.”
Semplicemente
quello che era. Regina Mills era
il sindaco. Era una donna complicata; tutta la città lo
sapeva. Metteva in
soggezione chiunque. Perché aveva potere. Avere quegli occhi
che potevano
nascondere qualsiasi cosa. Anche delle cose terribili. Aveva le mani su
tutto.
Una vera sovrana che dominava da sempre. Non riusciva a ricordare bene
il
giorno in cui era diventata sindaco...
Archie
aveva pensato ad un aggettivo per
descriverla, che non fosse ‘complicata’ o...
‘cattiva’.
Crepuscolare.
Ombrosa.
Lui
si schiarì la voce. Fissò per qualche
istante il proprio cane, Pongo, accucciato in un angolo. Era sveglio e
sembrava
stesse ascoltando la conversazione. “Cattiva... è
una parola molto... forte. Te
ne rendi conto, vero?”
“So
cosa vuol dire.”
Oltretomba.
Oggi.
Emma
si
fermò con le mani sulle ginocchia e poi appoggiò
una spalla al tronco marcio di
un albero. Alzò gli occhi al cielo. Era basso e azzurro, ma
era un azzurro
cupo, pesante e la faceva sentire oppressa da un inspiegabile senso di
angoscia.
Non
c’è salvezza.
La
voce la seguiva. Era ovunque. Era nella brezza gelida che soffiava,
spostandole
i capelli. Era nel rumore del risucchio prodotto dai suoi stivali
quando
entrava in una pozza melmosa. Era nel suo respiro. E ripeteva sempre la
stessa
cosa.
Non
c’è salvezza.
-
Emma, continua a camminare. – disse Regina, sempre tenendola
per mano.
Emma
guardò giù e vide l’acqua stagnare tra
ciuffi di canne e bassi cespugli dalle
foglie così larghe da far pensare a piante tropicali.
Non
c’è salvezza.
Non
aveva idea se Regina sentisse la stessa voce, ma a giudicare dalla sua
espressione, c’era qualcosa che la infastidiva. Si voltava
spesso per
assicurarsi che nessuno le stesse seguendo. Serrava forte la sua mano.
Se Emma
si attardava, tirava per costringerla a proseguire.
-
C’è
qualcosa qui... qualcosa... – mormorò Emma.
-
Lo
so. Per questo devi continuare a camminare. Ignoralo.
Emma
ci provava. Ci provava davvero, ma era come se il suo cuore fosse
avvolto da un
bozzolo di ghiaccio. Il gelo si diffondeva nel suo petto, nel sangue.
Era come
un veleno.
Riprese
a camminare, ma dopo pochi passi sprofondò nel fango fino
alle caviglie e
rimase là.
-
Emma, ti prego. Non fermarti.
-
Io
credo... non posso, Regina. Non... posso andare avanti.
Non
c’è salvezza.
Non
c’è...
-
Non
fare l’idiota, Emma. Muoviti. Stai sprofondando.
Emma
era affondata fino alle ginocchia. Sabbie mobili. La tiravano verso il
basso.
“Euridice
non era più la stessa.”
“L’ambrosia le aveva permesso
di andarsene,
ma questo posto... l’aveva corrotta. Era rimasta qui per...
un po’ di tempo. E
tornare in vita può comportare delle conseguenze.”
Si
rendeva conto del pericolo, ma era come se non le importasse.
Improvvisamente
le sembrava tutto inutile. Tutto privo di senso. I ricordi peggiori
della sua
vita si assiepavano nella sua mente e non riusciva a scacciarli. Si
accalcavano
dietro agli occhi. Era una sensazione schiacciante. E si sentiva
spossata. Non
semplicemente stanca, ma distrutta. A pezzi.
“Euridice
non era più la stessa.”
Non
c’è salvezza.
-
Non
puoi lasciarti andare proprio ora, Emma! – esclamò
Regina, afferrandola per la
giacca. Strattonò il tessuto, sperando di liberarla dalle
sabbie mobili.
“Ma
questo posto... l’aveva corrotta.”
“Euridice
non era più la stessa.”
-
Non
c’è salvezza... – disse Emma, sollevando
la testa per guardarla negli occhi. I
suoi erano lucidi e arrossati. Era paonazza. Il medaglione che le aveva
dato
Marian incrociò i pallidi raggi di luce e mandò
un barbaglio rossastro. – Lo
senti anche tu, vero?
-
Non
ascoltare! Non sono venuta fino a qui per vederti sprofondare nelle
sabbie
mobili. Non ho estratto il mio cuore mettendolo su una maledetta
bilancia
per...
-
Io
non ho mai voluto questo. La Salvatrice... non l’ho mai
voluto. – Emma
sprofondò fino alle cosce. Non fece alcuno sforzo per
evitarlo.
Regina
gridò il suo nome e si aggrappò a lei.
Storybrooke.
Qualche anno prima.
Henry
piazzò il grosso libro con la spessa
copertina marrone sul tavolo dello studio di Archie. Sorrideva. Come se
avesse
avuto un’illuminazione.
“Oh.
È un bel libro?”, domandò Archie,
levandosi gli occhi e tirandolo verso di sé. Il nome
dell’autore non c’era. Il
titolo era “Once Upon a Time”, in grandi lettere
dorate. “Posso?”
“Non
è solo un libro. È molto di
più.”,
sentenziò Henry.
Lo
psichiatra aprì il volume e iniziò a
sfogliarlo. Una raccolta di fiabe. Da Cenerentola a Biancaneve. Dalla
Bella
Addormentata a...
“Capisce?”,
chiese Henry.
“Sì...”,
rispose Archie, guardingo. “Sono
storie. Dove hai trovato questo libro?”
“Non
l’ho trovato. Me l’ha dato la mia
insegnante. La maestra Blanchard.”
“Oh.
D’accordo. E c’è qualcosa in queste
storie
che ha attirato la tua attenzione?”
“Non
sono solo storie. Ci siamo anche noi in
questo libro. Regina, ad esempio, c’è. E anche
tu.”
“Io?
Scusa, Henry, sto cercando di seguirti, ma
vorrei che rallentassimo un attimo. Di cosa parliamo
esattamente?”
Henry
sfogliò il libro fino a quando non trovò
un’immagine della matrigna di Biancaneve che si faceva largo
in mezzo ad una
folla di persone accorse per il matrimonio del Principe Azzurro con la
sua
amata. La figura vestita di nero era snella e minacciosa.
Un’altra versione della
storia di Biancaneve?
“La
mia mamma è la Regina Cattiva.”
Archie
tenne gli occhi fissi sull’immagine.
“E
questo... questo sei tu, Archie.”
Il
Grillo Parlante.
Un
linguaggio. Ora capiva. Henry stava cercando
di esprimere le proprie emozioni attraverso un determinato linguaggio.
Identificare
le persone che conosceva con i personaggi delle fiabe era un modo
per...
spiegare come si sentiva. E il Grillo Parlante era la voce della
coscienza che
cercava di orientare Pinocchio verso le scelte giuste. Era possibile
che una
parte di Henry volesse che lui lo aiutasse.
‘Ho
cercato di avvicinarmi ad Henry, di non
fargli mancare niente’, gli aveva detto Regina Mills, quando
gli aveva parlato
del figlio per chiedergli se potesse darle una mano a gestire le sue
problematiche. ‘Ma lui... mi respinge. Sempre. E questo mi
ferisce. Vorrei
capire dove sto sbagliando.’
“Quindi...
tu pensi di essere Pinocchio?”
“No.”
Henry scosse energicamente la testa. “Io
non ci sono, nel libro.”
Oltretomba.
Oggi.
“Euridice non era più la stessa.”
Regina
raschiò il fondo delle sue riserve di energia, tirando Emma
per la giacca, nel
disperato tentativo di estrarla dalle sabbie mobili. Riuscì
a smuoverla di
qualche centimetro, ma lei non l’aiutava per niente. Quel
luogo l’aveva
svuotata di ogni certezza, di ogni speranza. Emma era un peso morto ed
era
fredda come il ghiaccio.
-
Emma, ti prego. – la supplicò ancora. –
Non capisci che è un altro tranello di
Ade? Non è reale. Non ascoltare.
E
continuava a sentire la presenza, intorno a sé, del
misterioso e pauroso potere
che abitava la palude. Qualcosa di antico. Tremendamente antico.
Emma
stava udendo una voce e percepiva tutto il peso di
un’angoscia che la
trascinava verso il basso. Ma anche Regina l’avvertiva. Da
quando si erano
inoltrate nella palude non aveva fatto altro che avvertirla. I brutti
ricordi
erano tornati a fiumi. E ruotavano intorno alle parole di Ade.
“Euridice
non era più la stessa.”
“L’ambrosia
le aveva permesso di andarsene, ma
questo posto... l’aveva corrotta.”
Regina
pensava ad Euridice e vedeva una specie di mostro sbucare dal buio.
Ma
il
mostro non era Euridice, il mostro era...
“È
un mostro, Regina. Se non lo fermi tu, lo
farò io!”
Daniel.
Aveva avuto l’impressione che qualcosa le stesse seguendo, si
era voltata più
volte per assicurarsi che non ci fosse nessuno e aveva dovuto farsi
forza per
ricordare che, se anche ci fosse stato qualcuno, non poteva trattarsi
di
Daniel, perché lui era passato oltre. Aveva raggiunto il
posto migliore. La sua
tomba al cimitero era rovesciata.
Rovesciata.
Rovesciata. Daniel sta bene.
Era
poggiata a terra. Sta bene. Non è qui. Sta
bene.
Mai
si
sarebbe immaginata che Emma sarebbe stata la prima a cedere.
-
Regina, lasciami... – disse Emma. – Cadrai anche
tu.
Si
rifiutò di darle retta. Ormai era sprofondata fino
all’ombelico.
-
Regina... devi lasciarmi andare.
Storybrooke.
Qualche anno prima.
Non
era sicuro che la fortuna lo avrebbe
assistito.
Mary
Margaret Blanchard, la sua insegnante, era
una donna dolce, che raramente rimproverava i suoi alunni. Non
ricordava più
chi era stata, come tutti in quella città, ma Henry dubitava
che fosse
totalmente sprovveduta. Tuttavia, doveva tentare. Aveva bisogno di un
po’ di
soldi per prendere l’autobus e per quel sito internet. Era
costoso e lui non
aveva ancora una carta di credito.
L’ultimo
studente uscì dall’aula ed Henry
rimase da solo con l’insegnante. Andò verso la
cattedra.
“Posso
aiutarti, Henry?”
Poteva
ancora dirglielo. Poteva raccontarle
ogni cosa. La maledizione, la Salvatrice che era sua figlia, la Regina
Cattiva
che tanto la odiava... In fondo, era stata Mary Margaret a darle il
libro.
No.
Non
poteva dirglielo.
“Sì.”,
rispose lui. “Quel libro... sa, quello
che mi ha prestato...”
“Non
è un prestito, Henry. Puoi tenerlo.”
“Sì,
d’accordo. Ecco... è davvero un bel libro.
E quindi io pensavo...”
La
porta dell’aula si aprì di nuovo e un
bidello mise dentro la testa. “Signorina Blanchard... al
telefono. Può venire?”
“Oh,
certo.”, rispose Mary Margaret. Si voltò.
“Ti dispiace aspettarmi qui un momento?”
“Faccia
con comodo.”
L’insegnante
lasciò l’aula ed Henry ringraziò
chiunque avesse chiamato, distraendo sua nonna. Ma forse non era stato
solo un
caso. I cattivi non vincevano mai. E Regina era la cattiva che aveva
lanciato
la maledizione. Niente accadeva per caso. Ogni evento lo spingeva verso
la sua
vera madre, verso la Salvatrice.
Henry
fece una cosa che non aveva mai fatto in
vita sua. Odiava farlo, ma era per una buona causa. Aprì la
borsa di Mary
Margaret e frugò in tutte le tasche. Trovò
biglietti da visita, le chiavi di
casa e qualche altra cianfrusaglia. E trovò il portafoglio.
Lo aprì. La carta
di credito blu era nell’apposito scomparto.
Quanto
ci avrebbe messo Mary Margaret a
scoprire che la carta di credito era sparita?
Ma
se se ne fosse accorta subito, non avrebbe
potuto incolpare nessuno. Forse avrebbe incolpato sé stessa,
ma lui doveva
comunque sbrigarsi. Sarebbe corso a casa e avrebbe dato
un’occhiata al sito.
Avrebbe trovato sua madre. Ah e avrebbe cancellato le mail e i dati di
navigazione, nel caso a sua madre fosse venuta la brillante idea di
dare una
sbirciata.
Sua
madre, Regina.
Sua
madre, la Salvatrice.
Regina
aveva riscoperto il suo incubo peggiore e ne era preda, mentre Emma
continuava
a sprofondare; quando la Salvatrice aveva pronunciato
quell’unica frase...
“Devi
lasciarmi andare.”
...Regina
aveva chiuso gli occhi, perché la sensazione era
così vivida, il pensiero così
concreto, che non aveva osato guardare di nuovo Emma. Non aveva mollato
la
presa, ma aveva impiegato qualche istante prima di decidersi a
risollevare le
palpebre per fissare il suo vero amore. Era convinta che, abbassando lo
sguardo, avrebbe visto il viso congestionato di Daniel, così
come lo ricordava
dopo quella tragica resurrezione. Era convinta che avrebbe visto occhi
azzurro
scuri spiritati e pieni di una furia cieca che non era mai appartenuta
a
Daniel. Il suo Daniel.
“Poni
fine a questo dolore.”
“Come?”
“Devi
lasciarmi andare.”
Un
furore incandescente, l’antitesi del gelo che le si era
diffuso nelle ossa,
montò dentro di lei.
No.
La
risposta era no!
Non
c’era Daniel davanti a Regina, c’era sempre Emma e
quando la strattonò per
l’ennesima volta... riuscì a smuoverla dalle
sabbie mobili, a strappare un
pezzo consistente del suo corpo dalla morsa melmosa.
Emma
sembrava fissarla, come instupidita.
-
Dammi
una mano, idiota! – gridò Regina. –
Nostro figlio ha bisogno di entrambe! Io...
io ho bisogno di te!
Nostro
figlio.
Io
ho bisogno di te. Nostro figlio.
Emma
puntò le mani contro due zolle erbose e si diede una
poderosa spinta.
L’angoscia la circondava, la soffocava persino, ma
trovò quel poco di forza che
le rimaneva e si issò fuori dalle sabbie mobili.
Nostro
figlio. Io ho bisogno di te.
Regina
le strappò quasi la giacca rossa di dosso, nel tentativo di
allontanarla dalla
trappola mortale in cui era caduta e, alla fine, Emma emerse, sfuggendo
all’abbraccio della palude.
-
Emma...
– mormorò Regina. Nonostante fosse imbrattata di
fango, prese il suo viso tra
le mani e se la strinse contro.
- Il
tramonto è vicino. – annunciò Ade,
osservando il cielo e la luce rossastra e
morente che incendiava le nuvole. – Non abbiamo
più tempo. Dobbiamo andarcene.
-
E
cosa ne sarà di Emma? – domandò
Killian, rabbioso. – Non possiamo andare via
senza Emma.
-
Ce
la faranno. – rispose Ade, quasi annoiato. – Emma
Swan è la Salvatrice... ed è
con il suo vero amore. Troveranno l’ambrosia e torneranno a
Storybrooke. Ve
l’ho detto. Le porte si apriranno per loro non appena Emma
avrà mangiato
l’ambrosia. Come fece Euridice.
Killian
aveva la stessa faccia di chi aveva appena morso un limone.
Mary
Margaret si voltò, scrutando tra le tombe del cimitero,
verso gli edifici,
sperando di vederle comparire. Non vide nessuno.
-
Andate avanti voi, se non vi fidate. Il portale si chiuderà
tra pochi minuti.
Non abbiamo molta scelta. Non se ne aprirà un altro.
– disse Ade. – Se quelle
due sono abbastanza testarde come credo, riusciranno a passare. Emma
passerà.
Henry
strinse il libro al petto. Regina gli aveva sussurrato di mettersi in
salvo
prima che il portale si chiudesse. Gli aveva detto che avrebbe lottato
insieme
ad Emma. E lui ci credeva. Ma... poteva davvero lasciarsi alle spalle
l’Oltretomba senza sapere che cosa stava succedendo alle sue
madri?
-
Se
non volete entrare in quel portale, con il vostro permesso... Zelena.
Vai tu
per prima. – Ade indicò il portale roteante con un
gesto della mano. Era un
grande occhio arancione che aveva sostituito il quadrante
dell’orologio. Un occhio
senza palpebra dentro al quale sibilava un vortice che attendeva solo
di
inghiottirli.
La
luce del tramonto si fece più intensa.
Invece
che fare ciò che il Signore degli Inferi le aveva chiesto,
Zelena sollevò la
folgore olimpica, puntandola contro di lui.
Una
volta che l’ebbe estratta dalle sabbie mobili, Regina non la
lasciò subito
andare. La tenne stretta contro di sé. Come se avesse voluto
assicurarsi che
fosse davvero lì, che fosse tutta intera e che non fosse
sprofondata in quella
palude.
Era
sicura che se Emma fosse sprofondata del tutto, il Tartaro
l’avrebbe
inghiottita.
Le
accarezzò i capelli biondi, mentre lei respirava
affannosamente contro la sua
spalla.
-
Stai
bene. – mormorò Regina, le labbra accostate
all’orecchio di Emma. Non era una
domanda. Aveva parlato soprattutto a sé stessa.
-
Sì.
– rispose lei, comunque. Sollevò la testa per
guardarla.
Regina
si vide riflessa negli occhi della Salvatrice. Occhi stanchi, acquosi e
arrossati. Verdi, con vaghe sfumature azzurrate.
Unirono
le bocche nel medesimo istante. Regina scivolò in quella
calda di Emma senza
curarsi di essere delicata. Le lingue si cercarono con urgenza, i denti
morsero
le labbra e le dita di Emma si intrecciarono nei capelli
dell’altra.
Si
separarono solo quando ebbero bisogno di respirare.
-
Coraggio. Possiamo farcela. – le disse Regina, appoggiandole
le mani ai lati
del viso.
Emma
annuì e la baciò un’ultima volta. Poi
proseguirono.
Ben
presto la sensazione di angoscia che l’aveva quasi uccisa
iniziò a scemare,
lasciando il posto ad una spossatezza incredibile, anche se Emma
continuò a
mettere un piede davanti all’altro. Regina camminava poco
più indietro.
I
tratti paludosi cedettero il passo a tratti più asciutti ed
erbosi. Il terreno
molle diventò più solido. Presero ad avanzare
sotto agli alberi. Intorno non si
udiva più alcun suono. Nessun rumore sospetto.
Emma
si fermò, girandosi verso Regina. – Ci sono...
degli scalini.
Erano
alti,
stretti e ripidi. Cominciò a salire e Regina la
seguì, ma l’impressione del
terreno che sfuggiva sotto i piedi le dava un senso di sgomento.
...dieci,
undici, dodici...
Il
vento si fece più gelido, tagliente. Intorpidiva la faccia.
Nel guardare su, Regina
si accorse che il cielo era scuro, punteggiato di stelle. Non sapeva
quanto
tempo fosse passato esattamente, né se il tempo scorresse
nello stesso modo in
quel luogo e nel resto dell’Oltretomba. Forse il portale si
era già chiuso e
loro avrebbero dovuto trovare un altro modo per uscire. Sperava che
Henry fosse
tornato a casa...
...venti,
ventuno, ventidue...
Emma
incespicò e passò la mano lungo la parete di
roccia per ritrovare l’equilibrio.
Chi
ha intagliato questi scalini? Perché? In
cima c’è l’ambrosia?, si
chiese, tastando meglio la roccia, accorgendosi che era strana,
scheggiata e
tutta scanalature.
Pelle
rugosa. Ecco cosa sembra. Pelle morta...
Scostò
la mano, sfregandola sui jeans e guardandosi alle spalle per
assicurarsi che
Regina stesse bene.
-
Vuoi
riposarti? – le domandò Emma, dolcemente. In
realtà era lei la prima a volersi
stendere da qualche parte. Voleva stendersi e chiudere gli occhi.
Dormire. Le
ginocchia erano molli come gelatina. La testa la stava supplicando di
smettere.
Era sporca di fango fino alla cintura.
-
Ho
l’aria di chi ha voglia di riposarsi dopo tutta la strada che
abbiamo fatto? –
rispose Regina, piccata. – E poi siamo quasi in cima.
Emma
sorrise. Ricominciò a salire. Mancava poco.
...ventisei,
ventisette...
-
Ventotto. – concluse Emma.
Gli
anni della maledizione. Gli anni che aveva quando era arrivata a
Storybrooke
con Henry per spezzarla. Gli anni che aveva quando Regina era corsa
fuori ad
abbracciare il bambino di dieci anni che era fuggito per cercare la sua
vera
madre. Gli anni che aveva quando...
“Lei
è la madre biologica?”
“Salve.”
Afferrò
Regina per un braccio e l’aiutò a salire
l’ultimo gradino.
Emma
si guardò intorno. Erano su una grande piattaforma erbosa e
disseminata di
ciottoli, che si protendevano davanti a loro come una lingua scura. I
ciottoli
formavano un disegno. Una spirale.
Al
centro della spirale c’era...
-
Questo non è possibile. – disse Regina.
Emma
barcollò in avanti, pensando: ho
perso i
miei pensieri felici e ora precipito.
La
sensazione era proprio quella. Non più l’angoscia
provata nella palude, ma di
precipitare, anche se aveva terreno duro e sassoso sotto i piedi.
L’albero
dell’ambrosia era stato abbattuto.
Rimaneva
solo un pezzo del tronco e una granulosa polvere marrone intorno ad
esso.
Emma
si chinò, come in sogno, raccogliendone una manciata.
-
L’ambrosia... – mormorò Regina, con una
voce che non sembrava più nemmeno la
sua. – L’ambrosia è...
-
È
morta. – le rispose Emma. – L’ambrosia
è morta.
Gli
altri fecero un passo indietro e tutti estrassero le armi. Uncino
puntò la
spada, Fiyero afferrò velocissimo una freccia dalla faretra
e Mary Margaret
spinse Henry dietro di sé, impugnando l’arco.
-
Zelena... – Il sorriso di Ade vacillò e
cercò inutilmente di rifiorire.
-
Che
cosa sta succedendo? – domandò Lily, voltandosi
verso il portale, che era
ancora aperto, ma il sole stava scendendo rapidamente e presto sarebbe
tramontato del tutto.
-
State indietro! – gridò Zelena. – Questo
è compito mio. È ciò che avrei dovuto
fare fin da quando ha messo piede nel mio palazzo ad Oz!
-
Zelena... – ripeté Ade, sollevando le mani.
– Metti giù la folgore. Non
c’è
pericolo.
-
Invece sì! Perché l’ho visto.
– L’arma divina sorretta da Zelena si accese,
emanando un’intensa luce azzurrata e sprigionando i primi
lampi.
-
Visto?
-
Quando ti ho baciato. Prima che la maledizione si spezzasse e il
marchio di Era
scomparisse... ho visto che cos’hai intenzione di fare!
– Strinse di più la
Folgore Olimpica. – Vi ucciderà. Vi
ucciderà tutti non appena saremo tornati a
Storybrooke. E dopo avervi uccisi trasformerà Storybrooke
nel suo quartier
generale e darà inizio alla guerra contro Zeus! Come ha
sempre desiderato!
-
Lo
sapevo che non potevamo fidarci. – disse Killian, avanzando
verso Ade.
-
Non
muovetevi, capitano! Non è affare vostro. –
Zelena, per un attimo, diresse la
Folgore verso il pirata, che si tirò indietro, ma sempre
impugnando la spada.
-
Che
ne è di Emma e Regina? – chiese Mary Margaret.
– Ha mentito anche sull’ambrosia?
-
No.
– rispose Ade, prima che potesse farlo Zelena. –
L’ambrosia esiste.
-
Ne
rimane ancora un po’, vuoi dire. Visto che hai abbattuto
l’albero dopo che
Euridice è riuscita a fuggire. – Zelena era
totalmente fuori di sé, i suoi
occhi dardeggiavano, azzurri come l’arma che voleva usare
contro di lui. – Lui
pensa che non la troveranno. O spera che non accada. Ma in ogni caso
aveva già
deciso cosa fare.
-
Ho
strappato quel contratto. L’ho fatto per te. -
provò a dire Ade, scandendo le
parole come se stesse parlando una lingua sconosciuta.
-
L’hai fatto perché volevi spezzare la maledizione
con il bacio del Vero Amore.
Ade
allargò le braccia. - Io ti amo, Zelena. Non avrebbe mai
funzionato, se questo
non fosse vero. Loro... possono dirti che non lo è, ma io...
-
Perché
non ci uccide subito? Perché non ci ha uccisi tutte le volte
che ne ha avuto
l’occasione? – chiese Killian.
-
Perché non può farlo. La sua maledizione
è... complicata. – Ogni parola le
costava uno sforzo enorme, tanto che arrivò alla fine della
frase esausta. Le
Folgore era pesante. Le tremavano i muscoli del braccio. Le fischiavano
le
orecchie. Le sembrava che la faccia di Ade fosse una faccia orribile,
deformata
dal potere emanato da quell’arma. – Se avesse
ucciso dei vivi nel suo regno, il
suo cuore si sarebbe trasformato in pietra. Considerando tutto
ciò che ha fatto
in passato, non mancava molto perché accadesse. Ucciderci
avrebbe voluto
dire... rimanere bloccato qui per sempre. Un cuore di pietra...
è un cuore che
non prova niente. Nessun sentimento.
Ade
strinse le labbra.
-
Andate via. Ci penso io!
-
Non
possiamo andarcene senza Emma e Regina! – gridò
Killian.
-
Certo che potete! Ce la faranno. Mia sorella era la Regina Cattiva e la
sua
amante è la Salvatrice... ci riusciranno! Sono eroi, no?
– Zelena aveva uno
sguardo folle, la pelle del viso era tirata e dimostrava almeno
cent’anni con
quella luce azzurra che le colorava il viso e le incendiava ancora di
più le
iridi.
Lily
doveva farlo. Aveva promesso ad Emma che l’avrebbe fatto. Non
voleva andarsene,
ma se si fosse tirata indietro, sarebbero rimasti bloccati
lì e non era ciò che
Emma desiderava per la sua famiglia. Guardò sua madre, che
annuì.
Lily
afferrò Henry e lo spinse nel portale prima che lui potesse
protestare. Il
libro gli cadde di mano e lei lo raccolse, scagliandolo nel vortice.
Poi
prese Mary Margaret e la strattonò così forte che
gridò, ma a Lily non
importava. Killian non ebbe bisogno della spinta. Si voltò
un’ultima volta
verso Storybrooke, come se sperasse di veder comparire Emma e poi
seguì gli
altri.
-
Non
puoi fare questo, Zelena. Loro non ti crederanno mai! Non ti aiuteranno
mai!
Non ti... ameranno mai! – Ade allungò le mani,
come se volesse abbracciarla.
-
Nemmeno tu. – sibilò Zelena. Piangeva, ora.
Piangeva davvero. Il battito
cardiaco le corrispondeva nelle tempie con una serie di tonfi
mostruosi.
-
Zelena...
Zelena
scagliò la Folgore Olimpica, centrandolo in pieno petto.
L’ambrosia
è morta.
Morta.
Morta. Morta.
Regina
girò intorno all’albero abbattuto, cercando in
ogni dove una traccia del maledetto
Cibo degli Dei. Cercò in mezzo alla polvere, tra le radici,
sotto le pietre.
Pensò di scavare per cercare anche sottoterra, ma non aveva
niente, nemmeno la
magia.
-
È
stato Ade. – mormorò Emma. – Quando
Euridice è riuscita a scappare, ha abbattuto
l’albero. Per impedire che qualcun altro ci provasse.
-
Deve
essere rimasto qualcosa! Non può essere completamente morta.
-
Regina...
Allora
risuonò un ringhio basso e furente.
Emma
tacque, mettendosi in ascolto. Regina si voltò verso il
ciglio della piattaforma
erbosa, con gli occhi sgranati e la bocca secca. Senza rendersene
conto,
schiacciò un mucchietto di ambrosia sotto lo stivale e la
polvere scricchiolò.
Il
guardiano dell’Oltretomba emerse dal crepaccio, piantando le
poderose zampe
anteriori nel terreno e spargendo il suo fiato mefitico dove un tempo
cresceva
l’albero dell’ambrosia.
“Te
l’ho detto, cara, nessuno sa come arrivare
all’uscita. E anche se riuscissi ad uccidere Cerbero, come
porterai fuori la
Salvatrice? Io credo che finirai nelle prigioni di Ade. Non
è una bella
esperienza... non che sia la cosa peggiore che possa
capitarti...”
Regina
non aveva più pensato alla sua conversazione con Crudelia.
Aveva pensato
unicamente a salvare Emma e non ricordava le sue parole. Il Guardiano.
L’uscita
era sorvegliata.
Emma
fissò l’enorme mastino nero.
La
testa centrale emise un latrato che scoppiò come un tuono,
facendo tremare ogni
cosa. Le altre due teste scoprirono file di denti aguzzi, mentre le
orecchie si
appiattivano sui crani. Tre paia d’occhi individuarono le
prede sulla
piattaforma. Erano occhi rossi, che ardevano come braci. La lunga coda
frustò
l’aria a destra e a sinistra.
Istintivamente
Regina cercò di formare una sfera di fuoco con la magia e
ovviamente non ci
riuscì.
Niente
magia. Niente armi.
Cerbero
avanzò...
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Capitolo 15 *** 15. ***
15
“Questo
Cane con tre Teste rappresenta
il passato, il
presente e l'avvenire,
che
contengono, o come chi dicesse divorano, tutte le cose.”
[Zachary
Grey]
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
Marian
si voltò per assicurarsi che Biancaneve fosse ancora
dietro di lei.
Udiva
gli zoccoli dei cavalli e gli ordini dei soldati,
quindi sapeva che non erano lontani. Ma il tragitto che stava seguendo
Marian
era intricato, si perdeva nelle profondità della foresta,
dove gli alberi erano
più alti e nodosi, molto più fitti. Il sole sopra
le loro teste era sparito.
Solo foglie, rami spessi, altre foglie.
Biancaneve
era senza fiato, ma continuava a muoversi spedita.
Era abituata a scappare.
Marian
indossava una mantella con il cappuccio e si copriva
il volto con un fazzoletto rosso. Non aveva mai mostrato il suo viso
alla
bandita ricercata dalla Regina Cattiva, da quando l’aveva
aiutata a trovare una
via di fuga. C’era mancato davvero poco che la prendessero.
“Siamo
quasi arrivati.”, annunciò Marian. Le tremavano le
gambe, ma non poteva smettere di correre.
Biancaneve
annuì, cerea.
Poco
dopo, la foresta si aprì davanti a loro e Marian si
fermò.
“Dove
siamo?”, chiese Biancaneve, piegandosi sulle ginocchia.
“Al
sicuro. Questa è la foresta di Sherwood.”
Davanti
a loro, c’era una grande casa che non sembrava più
una casa, ma un rudere. La vegetazione si stava impossessando del tetto
e del
lato sinistro. Sui gradini scalcinati c’era un ragazzo con
una fitta massa di
riccioli scuri che cantava, mentre un bambino magro e cencioso lo
accompagnava
con un tamburello.
“Ogni
città qualche guaio ha, ma qui è là
c’è serenità... ma
non a Nottingham!”
Non
aveva una bella voce e non smise di cantare quando vide
le due donne avvicinarsi.
“Com’è
triste subir questa tirannia e non poter volare via...
dopo tanto pianto, dopo aver sofferto tanto... forse un po’
di gioia tornerà...
ma non a Nottingham!”
Biancaneve
era sicura che la gioia, di quel passo, non
sarebbe mai tornata da nessuna parte, non solo a Nottingham.
Un
uomo alto e con il viso tondo coperto dalla barba rossa,
comparve sulla soglia e scese i gradini, intralciato dal pancione
prominente e
costringendo il ragazzo canterino a spostarsi. L’altro
bambino sparì
all’interno, portandosi dietro il tamburo.
“Milady,
per tutti gli dei esistenti, finalmente! Pensavo che
vi avessero presa!” L’uomo indossava una vecchia
tunica marrone, stretta in
vita da una cintura di corda. Guardò Biancaneve. Anche lei
aveva il volto
coperto e lo scrutò con diffidenza, tesa come la corda del
suo arco nonostante
la stanchezza. “Oh, l’avete trovata! Salve anche a
voi, milady.”
“Ci
è mancato davvero poco.”, ammise Marian.
Appoggiò una
mano sulla spalla di Biancaneve e sorrise, sebbene lei non potesse
vederla
farlo. “Siete al sicuro, qui. Fra’ Tuck
è dei nostri.”
“Salve.”,
bofonchiò Biancaneve. “Non voglio mettervi nei
guai. Non mi fermerò a lungo.”
Fra’
Tuck sorrise, benevolo. “Voi siete la benvenuta qui, milady.
Dispiace a me di non potervi offrire una sistemazione migliore. Questo
è un
posto... che sta in piedi per miracolo, ecco.”
“Andrà
benissimo. Vi sono riconoscente.”
“E
scusate Cantagallo. Si mette a cantare quando sa che sta
arrivando qualcuno. È un avvertimento. Oppure lo fa per
intrattenere gli ospiti
e gli dei ce ne scampino.”
Cantagallo
non disse niente.
“Devo
tornare all’accampamento. Mio marito sarà
preoccupato.”
Marian si sistemò la faretra con le frecce a tracolla.
“Aspettate!”
Biancaneve si tolse il fazzoletto dal viso.
“Mostratemi il vostro volto. Almeno lo ricorderò e
potrò ricambiare il favore,
un giorno. Non eravate obbligata a salvarmi.”
“Non
posso.”, disse Marian, scuotendo il capo. “Mi fido
di
voi, ma non mostro mai il mio volto. E non è necessario che
sappiate chi sono.
Pensate a restare al sicuro.”
Oltretomba.
Oggi
Di
Ade non rimaneva
più nulla.
Nulla,
a parte un
mucchietto di polvere, dal quale sporgevano i resti della Folgore
Olimpica,
ormai ridotta a pochi pezzi di cristallo opaco. L’arma di
Zeus aveva compiuto
il suo dovere ed era perduta.
Zelena
era caduta
all’indietro e sembrava in preda alle convulsioni. Il suo
corpo si contorceva e
gli occhi azzurri erano diventati bianchi, sporgevano dalle orbite
quasi
fossero pronti ad esplodere.
Accecata
dal lampo
esploso quando la Folgore aveva trafitto Ade, Lily barcollò,
cieca, per alcuni
momenti. Udiva delle grida e udiva l’ululato del portale, ma
il mondo pareva
svanito.
Infine,
sua madre la
scosse. Lily batté le palpebre più e
più volte, fino a quando non mise a fuoco
Malefica.
-
Mamma... – disse,
stordita.
Lei
strinse a sé la
figlia e si gettò nel portale.
Fiyero
agì più in
fretta che poté e raccolse Zelena da terra, caricandosela
sulle spalle. Lanciò
un’ultima occhiata all’Oltretomba e poi si
tuffò nel vortice, in procinto di
chiudersi.
Marian
aveva visto
tutto quello che era successo da un punto sopraelevato. Non aveva
voluto
seguire la famiglia di Emma al cimitero, aveva solo chiesto a Mary
Margaret di
dire a Robin che sarebbe andato tutto bene. Avrebbe trovato un modo per
passare
oltre.
Sapeva
cosa la
tratteneva.
E
sapeva anche che
non poteva fare altro, se non aspettare. Presto sarebbe successo
qualcosa.
“La
Regina ha ragione, Robin. Devi prendere tua figlia e
andartene.” Marian
era stata molto
chiara quando gli aveva chiesto di seguirla per potergli parlare a
quattr’occhi.
“Non
posso lasciare questo posto! E gli altri? Potrebbero
avere bisogno di me.”
“E
cosa potresti fare qui? Con una bambina piccola a cui
badare, che cosa potresti fare? Non lo vedi che non puoi fare
niente?”
Se
l’avesse
schiaffeggiato forse gli avrebbe fatto meno male. Ma Robin era
così. Bisognava
schiaffeggiarlo per permettergli di capire.
“Marian...”
“Ascoltami
bene, Robin. Tua figlia dovrebbe venire prima di
qualsiasi altra cosa. E anche Roland. Lui è solo. Ci hai
pensato?”
“Non
è solo. È al sicuro con...”
“Non
me ne importa niente delle maledette fate! Ha bisogno di
un padre. Avrebbe bisogno anche di una madre, ma io non posso andarmene
per
ovvie ragioni. Tu, invece, sì. Puoi portare in salvo la tua
bambina.”
Robin
era rimasto
là, davanti a lei, meditabondo, rimuginando a lungo. Non
sembrava più lo stesso
uomo che aveva sposato un’eternità prima. Il Robin
che aveva di fronte era
disorientato, confuso, amareggiato.
“E
tu? Cosa ne sarà di te?”
“Non
essere in pena per me, Robin.”
“Mi
chiedi un po’ troppo. Voglio essere sicuro che tu
possa...”
“Trovare
la via per il posto migliore? Nessuno può essere
sicuro di questo. Forse la troverò. Dì a Roland
che sto bene. Forse lui non si
ricorda di me, era molto piccolo quando...”
“Lui
ricorda. Te lo assicuro. Non molte cose, ma ricorda.”
La
discussione era
andata avanti a lungo. Marian aveva dovuto alzare la voce, aveva dovuto
ricordargli una promessa che Robin le aveva fatto anni prima.
“Ti
sei dimenticato quello che mi hai promesso quando ero
incinta di Roland ed ero malata? Spero che tu non l’abbia
fatto, Robin. Perché
io me lo ricordo benissimo.”
“Non
l’ho dimenticato.”
Marian
tornò in
città e attese.
“La
Salvatrice ha deciso di rischiare, allora. È passato del
tempo dall’ultima volta che qualcuno ha provato a
passare.”
Emma
pensò che la
voce che stava sentendo fosse la stessa che l’aveva
perseguitata mentre
attraversavano la palude, ma questa era diversa, molto più
alta e profonda, non
era né maschile né femminile.
Gli
occhi di fuoco
dell’enorme mastino la fissavano. La testa a sinistra
sembrava tenere d’occhio
Regina.
“Combatti
contro di me, Salvatrice. Solo tu ed io.”
Era
Cerbero a
parlarle. Una coscienza oscura e schiacciante le mandava messaggi,
mentre le
fauci sbavavano e le gole ringhiavano.
Emma
si guardò
intorno. Non c’erano armi. Sulla piattaforma c’era
solo il tronco monco
dell’albero dell’ambrosia, quella polvere marrone e
le pietre disposte a
spirale. Niente che potesse fare del male a Cerbero, che
avanzò ancora di un passo,
gettando la sua grande ombra su di loro.
E
con lui avanzò
l’odore.
Il
suo fiato era
terrificante. Pestilenziale. Come se dentro di lui fosse già
tutto corrotto e
decomposto.
Regina
si coprì
istintivamente il naso e la bocca.
“Cerchi
un’arma? Lascia che te ne dia una. È giusto. Un
combattimento alla pari.”
Immediatamente,
Emma
si accorse di stringere una spada nella mano destra.
-
Emma, non lo
fare... – disse Regina, guardando la lunga lama appena
ricurva.
“Deve
farlo, se vuole passare. Lo fece Orfeo. Ci provarono
molti altri. Ora tocca a lei. A meno che tu non abbia troppa paura di
me...”
-
Taci, cagnaccio
rognoso...
“Cara
Regina... mi ricordi mia sorella, Idra, quando mi
chiami cagnaccio. Avresti dovuto conoscerla per capire da quale pulpito
veniva
la predica... lei di teste ne ha nove.”
Cerbero
rise e la
sua risata era rumorosa come lo scoppio di una serie di petardi.
Poi
tacque di colpo.
La sua attenzione era tutta per Emma.
“Lascia
che ti dica una cosa, Salvatrice. Se mi sconfiggerai,
potrai passare. Se perderai... finirai dritta nel Tartaro. Niente posti
migliori per te. E ti porterai dietro anche la tua amante. Se perdi...
non c’è salvezza
né per te né per lei.”
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Muoviti!”, ordinò il soldato, dandole
una
spinta e costringendola ad accelerare il passo.
Era
molto difficile camminare dato che aveva la
testa infilata in un cappuccio e i polsi legati, ma a loro non
importava. Se
cadeva, l’afferravano per il mantello o per i capelli e la
minacciavano. Se
inciampava, ridacchiavano. Uno dei tre uomini la pungolava con la
spada.
Camminavano
da ore, ormai.
“Che
stai facendo?”, domandò una voce alla sua
sinistra.
“Le
sto dando da bere. La Regina vorrà
interrogarla. Se arriva svenuta dovrà aspettare e sai che a
lei non piace
aspettare, quando si tratta di interrogare prigionieri che potrebbero
sapere
qualcosa di Biancaneve.”
“Non
sprecare la tua acqua per una stracciona.”
“C’è
un fiume qui vicino. Possiamo fermarci per
qualche minuto e riempire di nuovo le borracce. Non lo senti?”
“Sinceramente
no.”
“Apri
bene le orecchie, allora.”
Una
mano le tolse il cappuccio. Marian sbatté
le palpebre, cercando di riabituarsi alla luce del sole. Erano ancora
nella
foresta, ma ben lontani da Nottingham. Il terreno era sassoso. La luce
filtrava
tra i rami bassi degli alberi.
Il
soldato alla sua destra si avvicinò con la
borraccia. Era giovane e di bell’aspetto, con la barba e i
capelli castani. Il
suo viso non era brutale e i suoi occhi sembravano stanchi, tormentati.
Le
mostrò la borraccia e le versò alcuni sorsi
d’acqua
in bocca.
“Grazie...”,
mormorò Marian.
Lui
si limitò ad un cenno del capo.
L’avevano
presa a meno di una lega dal punto in
cui era accampato Robin con i suoi compagni. Sulle prime aveva creduto
che
fossero uomini dello Sceriffo di Nottingham, ma era bastata
un’occhiata alle
armature per capire che era finita in un guaio ben più
grosso dello Sceriffo.
L’unica fortuna era che non aveva niente addosso che la
collegasse a Robin né
tantomeno al rifugio di Fra’ Tuck.
‘Mi
dispiace, Robin’, pensò.
I
soldati si fermarono a riposare vicino al
fiume, dove l’uomo che le aveva dato da bere
riempì nuovamente la borraccia e
poi si sedette accanto a lei.
Le
avevano rimesso il cappuccio quindi quando
il giovane parlò, Marian sobbalzò leggermente.
“Vorrei
davvero aiutarvi, milady.” La voce era
calda e gentile. Profumava di foresta, lo stesso odore di chi aveva
trascorso
la propria vita nei boschi. “Ma non posso. Non posso
farlo.”
Oltretomba. Oggi.
La
testa centrale di Cerbero scattò in avanti e le fauci si
aprirono per
ghermirla.
Emma
si spostò più rapidamente che poté,
ignorando l’orribile tanfo emanato dalla
gola dell’essere. Mulinò la spada e
aprì uno squarcio in una delle grosse zampe
del mastino. Tuttavia, lui non sembrò rendersi conto del
colpo che gli era
stato inferto. Si gettò nuovamente su di lei. Gli artigli
l’acciuffarono per un
istante e aprirono uno strappo nel tessuto della giacca rossa.
Udì
il
grido di Regina, ma non riuscì a vederla, perché
il corpo di Cerbero le copriva
la visuale.
La
spada che le aveva dato il mastino era terribilmente pesante. La lama
era lunga
e l’elsa molto robusta, con una grossa gemma bianca
incastonata nel pomolo.
“È
la spada di Sigfrido. Si chiama Gramr. Non
trovi che sia stato molto generoso? Ti ho dato la spada di un
eroe.”
Emma
girò, guardinga, intorno a Cerbero, impugnandola con
entrambe le mani.
“Oh,
sì. È pesante. Ma è pur sempre
un’arma.”
Cerbero
se la ghignava. Emma lo attaccò, mirando al fianco, ma
riuscì solo a
graffiarlo. Il suo sangue era nero, proprio come la sua pelliccia. Non
appena
toccò il terreno, iniziò a fumare e un odore
ancor più nauseabondo del suo
fiato si diffuse sulla piattaforma.
“Una
volta hai ucciso un drago. Così mi hanno
detto. So che era più grosso di me.”
Cerbero
si gettò su di lei con tutto il suo peso e mancò
poco che finisse schiacciata.
Quando il mastino atterrò pesantemente, sollevando pietre e
polvere, la
piattaforma tremò sotto le enormi zampe. Emma
barcollò e cadde. Rotolò subito
via e si rimise in piedi. Approfittò di un momento in cui il
mastino era molto
instabile per affondare la spada nel collo della testa più
vicina.
La
testa destra emise un lungo latrato e andò a sbattere contro
la testa centrale,
nel tentativo di scrollarsi l’arma di dosso. Emma venne
catapultata contro ciò
che restava dell’albero dell’ambrosia e perse la
spada.
-
Emma!
Un
getto di sangue nero piovve a pochi passi da Regina, che ne
avvertì il calore
bruciante ed indietreggiò. La testa colpita si
voltò nella sua direzione,
mentre le altre due ringhiavano contro Emma.
Regina
non poté fare a meno di fissare quegli occhi di brace.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Siamo davvero desolati, Vostra Maestà.”
Marian
cadde in ginocchio e uno dei soldati le
tolse il cappuccio. Il sole l’abbagliò per qualche
istante. Una sagoma nera si
stagliò sopra di lei.
“Credevamo
fosse Biancaneve. Il mantello è
identico a quello che portava la bandita.” La voce del
soldato era la stessa di
chi si aspettava una terribile punizione per non aver portato a termine
qualche
compito importante.
L’uomo
gentile che le aveva dato da bere e le
aveva parlato era in ginocchio, come gli altri.
“Lo
vedo.”, rispose la Regina, stringendo il
manico di una frusta nella mano destra.
Maria
sollevò la testa, anche se sapeva che non
avrebbe dovuto.
Vide
gli stivali lucidi, i pantaloni in pelle
nera, un’elegante soprabito rosso con le maniche lunghe,
chiuso da tre grossi
fermagli intarsiati, la generosa scollatura, il volto ombreggiato dalla
tesa
larga del cappello.
Le
labbra piene si piegarono in un sorriso, ma
gli occhi seguitavano a fissarla con una furia indicibile.
L’aveva
sempre vista da lontano. Aveva udito
numerose storie di sangue e morte. Decine di villaggi bruciati dalla
sua sete
di vendetta. Vederla da vicino era una faccenda ben diversa.
Era
bellissima e terribile. Una bellezza
oscura, da predatrice costantemente affamata, desiderosa di distruggere
e
piegare. Le parve che tutte le tenebre del mondo si stessero addensando
intorno
a lei.
Marian
si rifiutò di abbassare lo sguardo.
“Avete
la possibilità di sopravvivere. Può
finire tutto adesso, se mi dite dove si nasconde Biancaneve.”
Lei
non parlò.
“Potrei
costringervi. Lo sapete bene.”
“Il
mio cuore è protetto. Non potete
prenderlo.”
Regina
ci provò comunque, allungando una mano
ad artiglio per affondarla nel suo petto. Si scontrò con una
barriera magica
che le spedì una fitta lancinante su per il braccio.
“State
bene, Maestà?”, domandò subito un
soldato, accorrendo per aiutarla.
“Certo,
idiota. Dove avete trovato questa
stracciona?”
“Non
lontano dal villaggio di Nottigham.”
“Cacciatore...
andate laggiù e setacciate ogni
casa. Io mi prenderò questa prigioniera e... tutto sommato
penso che la userò
per aprire qualche bocca. Scommetto che c’è molta
gente che protegge
Biancaneve. Se vedranno cosa potrebbe capitare a chi la nasconde...
forse
parleranno.” Regina menò un colpo di frusta,
colpendola in faccia. Marian
lanciò un grido.
Il
Cacciatore strinse le labbra e fu costretto
ad obbedire.
Oltretomba. Oggi.
Emma
voltò lentamente la testa. Attraverso una cortina di sangue,
scrutò
l’avversario e vide l’enorme zampa piombare su di
lei e i lunghi artigli in
cerca della carne da lacerare.
Rotolò
sulle pietre e, nonostante il dolore, raggiunse la spada e strinse
l’elsa.
Sferrò un manrovescio furibondo e il mastino
incassò appena sotto la testa
centrale. Cerbero arretrò, digrignando tutti i denti.
Allora
Emma si accorse che solo due teste erano concentrate su di lei. La
terza
guardava Regina, che sembrava in trance, con gli occhi sbarrati e le
braccia
mollemente abbandonate lungo i fianchi.
-
Regina!
Si
rese conto anche di un’altra cosa. La testa al centro portava
un grosso collare
di ferro, nel quale era incastonata una gemma e...
Solo
che non era una gemma. Era un pezzo di ambrosia.
L’unico
pezzo di ambrosia rimasto.
Le
fauci di Cerbero si aprirono ed Emma fu costretta a farsi da parte. La
zampa la
colpì alla schiena, scaraventandolo contro il tronco monco
dell’albero.
Tuttavia si rialzò subito e si spostò velocemente
verso la terza testa. Sentiva
le orecchie sibilare e aveva la bocca piena di sangue.
“Dove
corri, Salvatrice?”
Emma
lo ignorò e si avventò sulla testa che aveva
preso di mira Regina.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Hai ancora una possibilità.
L’ultima.”, disse
la Regina, camminando avanti e indietro, lentamente, dinanzi al
patibolo. “Non
do molte possibilità ai prigionieri. Dovresti coglierla al
volo. Soprattutto se
hai una famiglia.”
Marian
guardava fisso oltre la testa della
donna che l’aveva condannata a morte. Guardava la folla
assiepata dietro ai
soldati neri. C’era più gente del giorno prima,
quando la Regina l’aveva
sbeffeggiata e aveva minacciato gli abitanti di un intero villaggio.
Aveva
mostrato la propria prigioniera con i vestiti impolverati, che
strizzava gli
occhi abbagliata dalla luce, annaspava e implorava aiuto. La
prigioniera che
non aveva abbassato la testa e aveva osato rivolgere la parola ad una
sovrana,
chiamandola mostro.
“E
sono sicura che tu ce l’hai. A giudicare da
quello che mi hai detto ieri...”
Marian
continuò a non aprire bocca. Però
spostò
lo sguardo su Regina. Poi fissò i soldati, cercando il
giovane gentile che le
aveva dato da bere e le aveva parlato. Avevano tutti le facce coperte
dalle
celate degli elmi, eppure pensava che lui non ci fosse. Nessuno aveva
la
faretra e l’arco. Erano per lo più armati di spade
e lance. Il giovane, a parte
le frecce, aveva un pugnale infilato nella cintura.
“Come
vuoi.”, concluse Regina.
Uno
dei soldati alla sua sinistra salì sul
palco improvvisato e lo strattonò perché
indietreggiasse fino a toccare il palo
di legno con la schiena. La costrinse a sollevare in alto le braccia e
legò i
polsi sopra la sua testa.
“Questo
è ciò che accade a chi nasconde
Biancaneve. Accadrà a tutti voi se verrò a sapere
che proteggete la bandita.”
Con
la coda dell’occhio, Marian vide l’uomo che
l’aveva legata prendere una torcia spenta. La immerse nel
bacile dove
scoppiettava il fuoco. Le fiamme attecchirono e la torcia si accese,
guizzando.
“Ultime
parole?”, domandò Regina, piegando le
labbra carnose in un sorriso di puro scherno.
‘Mi
dispiace’
Non
le disse a voce alta. Rivolse gli occhi al
cielo. Era azzurro, uno stormo di uccelli girava in circolo sopra le
fronde
degli alberi. Ci mise qualche istante a capire che erano corvi. Non
avrebbero
avuto niente perché il suo corpo sarebbe bruciato. Un
mucchietto di cenere.
Ecco cos’avrebbero trovato.
‘Mi
dispiace’
Era
per Robin, suo marito. E per Roland. Almeno
loro erano salvi. Nessuno l’aveva ricollegata al ladro che
rubava ai ricchi per
dare ai poveri. Né tantomeno a Fra’ Tuck.
Il
soldato accostò la torcia ai fasci di legna
ai suoi piedi. Marian avvertì l’odore acre del
fumo e il calore intenso del
fuoco.
La
legna scricchiolò e le fiamme si levarono,
abbrancando subito il vestito polveroso che indossava.
Alle
spalle della Regina, un bambino nascose il
viso nella gonna della madre.
Oltretomba. Oggi.
Emma
conficcò la lama della spada alla base del possente collo.
La
terza testa ululò di dolore e scattò
all’indietro per sottrarsi.
Regina
sussultò e cadde all’indietro, sollevando
mulinelli di polvere e riemergendo da
una visione in cui c’era solo fuoco e morte, odore di fumo e
carne bruciata.
Rientrò in sé stessa, dopo essere stata, per
poco, la stessa donna che aveva
condannato a morte Marian, tanti anni prima. Per qualche istante,
trafitta
dagli occhi di Cerbero, era stata la Regina Cattiva, la sovrana
spietata, piena
di rabbia, soffocata dalla sete di vendetta. Aveva sentito chiaramente
quell’antico dolore, quella furia cieca. Ne era sgomenta, ma
non era riuscita a
sottrarsi, in balia del potere di Cerbero.
Emma
gridò, mentre il mastino la trascinava lontano da Regina. Le
mani rimasero
saldamente ancorate all’elsa della spada e lei si
sentì sollevare in alto. La
lama era penetrata a fondo nella carne. I ruggiti di Cerbero le
urtarono i
timpani, conficcandosi nel suo cervello. La testa centrale
urtò quella ferita
ed Emma rischiò di perdere la presa, ma si
rifiutò di cedere. Strinse i denti e
poi piantò il piede nella carne di Cerbero. Si
issò sul dorso poderoso del
mastino e si aggrappò al pesante collare agganciato al collo
della testa
centrale.
Il
mastino
barcollò all’indietro, sradicò una
radice dell’albero dell’ambrosia e ruggì
di
nuovo.
Poi
una scheggia dolore le trapassò la testa. Toccò a
lei urlare, mentre scivolava
giù, inesorabilmente. Avvertì chiaramente gli
occhi di brace di Cerbero frugarle
nella mente, brucianti e feroci. Il dolore si diffuse in tutto il
corpo.
Emma
cadde sulle dure pietre.
“La
Salvatrice pensava che fosse così facile.”,
disse
Cerbero. La spada era ancora conficcata
in profondità, ma la voce che le parlava non tremava neppure.
Emma
era incapace di alzarsi. Aveva la vista offuscata. La testa le doleva
troppo e
le sembrava che le braccia fossero pesanti come macigni. Regina
urlò.
“Mi
dispiace. Non sei Orfeo.”
Cerbero
sollevò l’enorme zampa e sfoderò gli
artigli.
Avrebbe
potuto chiudere gli occhi, ma non lo fece. Sapeva che se fosse stata
sconfitta
sarebbe finita nel Tartaro e con lei anche Regina. Aveva perso. Avrebbe
guardato la sconfitta piombarle addosso. Avrebbero voluto chiedere
perdono ad
Henry. Chiedere perdono ai suoi genitori. Chiedere perdono anche a
Regina. Ma
non aveva tempo per quello.
Quando
la zampa calò su di lei pronta a dilaniarla, Emma
udì un sibilo e un fascio di
luce rossa esplose dal medaglione che portava intorno al collo.
Emma
ne rimane momentaneamente accecata. Sollevò lentamente un
braccio per
schermarsi gli occhi.
Cerbero
emise un triplice ululato di dolore e sobbalzò
all’indietro. Sangue nero spillò
dal petto del mastino. La spada di Sigfrido conficcata in uno dei colli
cadde.
-
Emma! – Regina la raggiunse e si inginocchiò
vicino a lei, aiutandola a tirarsi
su.
Emma
appoggiò la testa contro il suo petto e Regina la strinse a
sé. Si portò una
mano al ciondolo, quello che Marian le aveva dato prima che scendessero
nelle
profondità dell’Averno e che era appartenuto a
Murphy, il ciondolo che lo aveva
aiutato a mantenere la forma umana quando ancora viveva nella Foresta
Incantata. Lo aveva completamente dimenticato.
La
pietra al centro della fiamma era diventata nera. Era come un pezzo di
roccia
senza più alcun potere.
Cerbero
precipitò su un fianco, emettendo un ultimo ringhio. Nuvole
di polvere si
levarono quando il corpo si schiantò sulla piattaforma.
-
L’ambrosia...
– mormorò Emma. – Nel collare...
Regina
non perse tempo e andò a prendere la spada. Era pesantissima
e dovette reggerla
con due mani.
La
testa centrale del mastino si mosse appena quando Regina si
avvicinò. Le altre
due teste avevano gli occhi chiusi e le lingue penzoloni. Fili di bava
fumante
sgocciolavano sull’erba.
Vide
le iridi di brace che la seguivano, ma non ci fu alcun tentativo di
fermarla.
Regina
levò la spada e calò la lama sulla pietra al
centro del collare.
L’urto
fu violento e la catapultò in avanti, quasi addosso al
cagnaccio puzzolente, ma
il sigillo si ruppe in mille pezzi. La lama della spada, esaurito il
suo
compito, si sgretolò, diventando polvere bianca.
Regina
gettò via l’elsa.
L’ambrosia,
ciò che ne rimaneva, era dello stesso colore del miele.
Piccoli spicchi duri al
tatto, ruvidi, l’unica cosa che poteva salvare Emma e
riportarla indietro.
Regina
tornò dalla madre di suo figlio con l’ambrosia nel
pugno. Temette che avesse
perso i sensi e la scosse un po’. – Coraggio,
Emma... apri gli occhi.
Lei
sollevò le palpebre, guardandola confusamente.
Regina
la costrinse a schiudere le labbra e poi le mise un pezzo di ambrosia
sulla
lingua. – Non fare l’idiota proprio adesso e
mandala giù!
-
Ti
amo. – disse Emma, con un filo di voce.
Poi
inghiottì l’ambrosia.
Marian
era rimasta seduta ad uno dei tavoli del Granny’s, osservando
l’aria rossa
dell’Oltretomba dalla finestra. Le strade erano deserte.
Non
aveva idea di quanto tempo fosse passato. Ma il sole era tramontato,
era calata
la notte di porpora e poi era giunto un nuovo giorno.
Nulla
sembrava cambiato anche se Ade era morto.
Una
delle cameriere rimaste al Granny’s dopo la scomparsa della
Strega Cieca decise
che era il momento di un po’ di musica e si
azzardò ad accendere la radio.
Proprio mentre premeva il pulsante di accensione, la porta del locale
si
spalancò con un colpo secco.
Marian
si voltò di scatto, con una mano che già stava
muovendosi verso le frecce nella
faretra.
Una
luce bianca e potente vinse l’aria rossastra del regno di
Ade. Illuminò le
finestre e penetrò nel Granny’s , diffondendo
sbuffi di nebbia bianca sulle
piastrelle.
-
Che
cosa succede? – chiese la ragazza dietro al bancone,
indietreggiando. Un paio
di avventori la imitarono, pronti a scappare dal retro. – Che
cos’è?
Marian
non avvertiva nessun pericolo. Anzi, le sembrava bellissimo. Le parve
di udire
una voce che la chiamava, che la invitava ad entrare nella luce.
-
È...
per me. – disse lei, avanzando. Abbandonò
l’arco sul tavolo e la faretra sulla
poltroncina. – È il mio posto.
- Dove...?
– cominciò Zelena, sbarrando gli occhi.
Aveva
mal di testa, la gola secca e l’impressione di aver
dimenticato mille sogni,
mille avvenimenti importanti.
Ma
ne
ricordava uno, distintamente. La morte di Ade. La Folgore Olimpica che
trapassava il suo petto. La sensazione che il mondo si stesse
sfracellando in
mille pezzi.
Poi
si
guardò intorno, ancora intorpidita. Non era più
nell’Oltretomba.
Era
seduta in mezzo ad un corridoio bianco. Un corridoio che sembrava non
avere
inizio né fine, perché entrambe le cose si
perdevano nella nebbia. Era
fiancheggiato da due file di colonne di marmo, colonne possenti, la cui
sommità
era invisibile per via del biancore che occupava ogni cosa.
Era
sola. Dov’era la sua bambina?
Una
piuma di pavone svolazzò sopra la sua testa e si
posò sul
pavimento liscio e lucido come uno specchio.
Una
piuma di pavone?
-
Finalmente. – disse una voce femminile alle sue spalle.
Zelena
evocò la propria magia per scagliarla contro Era, ma il
potere non le venne in
aiuto.
La
moglie di Zeus rise di gusto. – Niente magia, Signora degli
Inferi. Non qui. In
casa mia.
In
casa mia.
Signora
degli Inferi.
-
L’Olimpo?
-
Beh,
non proprio. Questa è l’anticamera
dell’Olimpo.
-
Ti
distruggerò... dov’è mia figlia?!
– gridò Zelena. La voce riecheggiò
lungo il
corridoio, si frammentò e tornò indietro come un
boomerang, sibilando tra le colonne.
-
Ma
sì, è solo la Signora dei Cieli quella che vuoi
distruggere. – Era si avvolse
meglio nel lungo mantello decorato da un’infinità
di piume di pavone. Ne aveva
una, rossa, anche tra i capelli corvini. – E la tua bambina
sta bene. Ma se
continuerà a stare bene... beh, questo dipende da te. Quindi
ti conviene aprire
le orecchie, Signora degli Inferi.
-
Io
non sono la Signora...
-
Invece sì. – Era la costrinse a terra quando
cercò di alzarsi. Le afferrò la
mascella, imponendole di guardarla. – Hai ucciso Ade con
un’arma divina mentre
si trovava ancora nel suo regno. Quando mi hai contattata tramite il
Flegetonte
ti avevo chiesto di aspettare. Di lasciare che abbandonasse gli Inferi.
Ci
avrei pensato io, ma tu non mi hai dato retta. A proposito, mio marito
voleva
ringraziarti. Ha di nuovo la sua Folgore.
-
Non
tornerò negli Inferi. – sentenziò
Zelena.
-
No.
Ti darò un vantaggio. Puoi passare i primi sei mesi nel
mondo dei vivi. Ma il
giorno del Solstizio d’Inverno ti presenterai a Caronte e
tornerai negli
Inferi. – Era parlava come se si fosse trattato di normale
amministrazione. – E
negli Inferi resterai per i sei mesi successivi. Perché
quello è il tuo regno
adesso. Poi potrai tornare a Storybrooke. O ad Oz. Non so, dove
preferisci. E
così via, fino a quando qualcun altro non
prenderà il tuo posto. Dubito accada
presto, in ogni caso. Solo le armi divine possono ucciderti.
-
Sono... sono immortale?
Era
fece spallucce e le girò intorno. – Tragico. Lo so.
Zelena
era talmente sconvolta che non sarebbe riuscita a rialzarsi nemmeno se
Era
glielo avesse permesso. – Non puoi... non lo farò.
Perché dovrei accettare? Non
sarò la regina di un branco di anime incapaci di gestire i
propri conti in
sospeso!
-
Invece lo farai. A meno che tu non voglia che io prenda tua figlia.
Zelena
allungò una mano ad artiglio verso la Dea, che la respinse.
-
Prenderò
tua figlia, se rifiuterai. Non la rivedrai mai più.
– La sua voce era calma e
crudele, le parole erano gelide, le scandiva come se stesse parlando
con una
ritardata. - Dopodiché... maledirò il figlio di
tua sorella. Maledirò la
Salvatrice e i suoi genitori. Li perseguiterò. Fino a quando
di loro non
rimarrà più niente. Rimarrai solo tu... e Regina.
La Strega Perfida e la Regina
Cattiva, perché questo sarete quando avrete perso tutto. Vi
farete a pezzi a
vicenda.
Zelena,
in cuor suo, maledisse Ade. Alla fine era riuscito a rovinarla.
-
Sono
felice che tu ci stia riflettendo su. Ti conviene. Tra sei mesi Caronte
ti
aspetterà e le porte degli Inferi si apriranno per te.
– concluse Era. – Puoi
aver spezzato una maledizione e cancellato il mio marchio, ma questo...
questo
va ben al di là di qualsiasi maledizione. Questo
è molto più antico di
qualsiasi incantesimo tu conosca. Il vero amore non può
più aiutarti. Niente,
se non la morte, potrà liberarti.
Prenderò
tua figlia, se rifiuterai. Non la
rivedrai mai più.
Era
si
incamminò lungo il corridoio, voltandole definitivamente le
spalle. – Lunga
vita alla regina!
|
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Capitolo 16 *** 16. ***
16
“E
quindi uscimmo a riveder le stelle.”
[Dante
Alighieri, La Divina Commedia; Inferno, XXXIV]
Storybrooke.
-
Belle?
La
porta sbatté alle spalle di Tremotino, mentre lui avanzava
di qualche passo. Le
assi di legno scricchiolarono sotto i suoi piedi. Sembrava non ci fosse
nessuno.
Fuori
aveva smesso di nevicare nel momento esatto in cui Ade era morto. I
nani si
stavano dando da fare per riportare un po’ di ordine in
città. Spalavano la
neve, accumulandola ai bordi delle strade. Gli Azzurri erano andati
dritti
all’istituto della Madre Superiora a recuperare il piccolo
Neal.
Nel
cielo veleggiava ancora l’Aurora Boreale.
-
Belle, sono tornato.
-
Lo
vedo. – rispose Belle, uscendo dal retro. Era terribilmente
seria, pallida e
con gli occhi cerchiati.
Anzi,
non era solo seria. Era furibonda. E Tremotino capì che
sapeva già tutto. Tutto
di lui, tutto ciò che era accaduto negli Inferi.
Lui
estrasse il pugnale e lo posò sul bancone, davanti alla
moglie. Lo lasciò lì. Belle
vi posò gli occhi. La lama scintillò brevemente
nella penombra. Il nome
dell’Oscuro risaltava sullo sfondo nero.
-
Riprenditi il pugnale. – disse, invece, Belle.
-
Quello che ho fatto... l’ho fatto per te. Per nostro figlio.
Ade mi aveva in
pugno, non potevo permettere che...
-
So
benissimo che cosa è successo, Tremo. Malefica è
stata qui. Mi ha mostrato ogni
cosa. – Belle gli fece vedere un vecchio acchiappasogni.
– Un piccolo
incantesimo. Sai, Tremo, hai minacciato sua figlia.
-
Minacciato? È Lilith che ha minacciato me. Se te lo ha
mostrato, dovresti
saperlo. Ha parlato di Neal a sproposito, usandolo per convincermi a
condurla
nell’Oltretomba e poi ha minacciato di farti del male!
-
Lo
credo bene, Tremo. Hai vanificato il sacrificio di Emma. E per cosa?
Per il tuo
grande amore. Il tuo vero amore. Il potere. – Belle buttava
fuori ogni parola
come se gli stesse lanciando contro delle pietre. Lo raggiunse,
fermandosi di
fronte a lui. Non smise di guardarlo nemmeno per un secondo. I suoi
occhi
azzurri erano pieni di amarezza e lacrime. Li aveva già
visti, così. Quando lo
aveva condotto al confine di Storybrooke e poi lo aveva esiliato,
usando il
pugnale. - Poi, negli Inferi, hai fatto di peggio. Malefica ti ha
osservato.
Più volte. Hai stretto un accordo con tuo padre,
perché ti aiutasse con Ade. In
cambio, tu lo avresti riportato in vita.
-
Non
gli avrei mai permesso di tornare in vita, Belle. Io stavo...
Ma
Belle non gli permise di difendersi. – Non solo. Hai cercato
di trascinare
anche Killian Jones nei tuoi piani. Hai fatto leva sul fatto che Lilith
avesse
ucciso Emma per ottenere il suo aiuto. Avresti sacrificato Lilith. Ma
Killian
ha rifiutato l’accordo. E poi hai evocato lo Spettro... sei
stato tu. Ade
voleva usarlo contro i suoi nemici e ha raccontato che era stata Cora,
ma in
realtà... sei stato tu. Hai proposto tu di evocarlo. Era
Lilith l’obiettivo
dello Spettro, ma ne hai perso il controllo.
-
Volevo
aiutarli a riportare indietro Emma Swan e liberarmi di Ade. Lilith
è
pericolosa, Belle. Una vita per una vita... non mi divertiva, ma
eravamo lì per
la Salvatrice. Normalmente... non si può tornare indietro.
Qualcuno deve
morire. L’Anti Salvatrice...
-
Non
la chiamare in quel modo. – lo interruppe Belle. –
E vattene via. Ho bisogno di
restare sola.
Tremotino
allungò le braccia, ma lei si ritrasse. - E il bambino?
Belle
non gli rispose.
- Mamme!
Emma
aprì gli occhi, scoprendo di essere ancora abbracciata a
Regina.
Solo
che non era più nell’Oltretomba. Era a
Storybrooke.
Era
nello stesso punto in cui si trovava quando era morta. Davanti al lago,
che era
la porta per raggiungere il regno di Ade. L’erba era coperta
da un pesante
strato di neve fresca. Gli alberi erano spogli e dai rami cadevano
blocchi di
neve. Però l’aria era limpida e il cielo non era
rosso, ma azzurro.
E
c’era qualcosa... dei colori che danzavano. Tendaggi colorati
sospesi nel
cielo.
Credette
d’immaginarseli, ma anche Regina li stava osservando,
perplessa.
Henry
si precipitò da loro, correndo. Quando le raggiunse era
senza fiato e le
abbracciò entrambe.
-
Siamo
tornate. – mormorò Regina, stringendo suo figlio.
Ancora stentava a crederci.
Solo un attimo prima erano in balia di Cerbero. Solo un attimo prima
Emma
giaceva a terra, esanime, appena cosciente, appena in grado di
inghiottire un
pezzo di ambrosia.
Invece
ora era lì, con la sua giacca rossa. Una giacca rossa
intatta. Lo strappo
provocato dagli artigli di Cerbero era scomparso.
-
Ce
l’abbiamo fatta. – disse Emma, sorridendo e
prendendole la mano.
Mary
Margaret teneva in braccio il piccolo Neal. Appoggiò la mano
libera sul viso
della figlia.
-
Come
sapevate che eravamo qui? – chiese Emma.
-
C’è
sempre qualcuno che sa dove ti trovi. – rispose David.
Lily
aveva
un aspetto di gran lunga migliore rispetto all’ultima volta
che l’aveva vista. –
L’ho sentito. È stata... una sensazione.
-
Papà...
stai piangendo? – chiese Emma, guardando David.
-
Certo
che no. Sapevo che saresti tornata. – In realtà
aveva le guance bagnate.
-
Ogni città qualche guaio ha... ma qui è
là
c’è serenità... ma non a Nottingham!
Marian
batté le palpebre, sorpresa dai raggi del sole. I suoi
stivali scricchiolarono,
calpestando la neve.
-
Com’è triste subir questa tirannia e non
poter volare via... – La
voce del menestrello si interruppe di botto, con un singhiozzo
strozzato. Poi
riprese, ma quando lo fece era molto più alta. – FORSE UN PO’ DI GIOIA TORNERA’!
ANCHE A NOTTINGHAM!
Subito
Marian udì i passi di corsa. Piccolo John
scivolò, finendo gambe all’aria. Due
compagni lo presero per le braccia e lo tirarono su.
-
Che
succede, Cantagallo?
-
Mamma?
Marian
fissò il bambino di quattro o cinque anni che veniva
trotterellando verso di
lei. Dapprima pensò, terrorizzata, che fosse successo
qualcosa a Roland e che
anche lui si trovasse nel posto migliore. Aveva semplicemente seguito
la luce,
le voci che la chiamavano... ma Robin le aveva assicurato che Roland
era al
sicuro con le fate.
-
Marian, sei tu?
-
Mamma!
Marian
sollevò il suo bambino e lui le mise le braccia intorno al
collo.
Robin
fissava
la moglie, incredulo. E questa volta era davvero sicuro che fosse
Marian. Non
era un trucco, non sembrava un incantesimo messo in atto per
ingannarlo.
-
Robin...? Sono... Dove diavolo sono?
-
A
Storybrooke, milady. – intervenne John, poiché
Robin non riusciva ad emettere
nemmeno un suono. – Siete voi, vero? Questa volta... siete
voi.
Sono
viva?
Guardò
la bambina di Zelena addormentata tra le braccia di Robin e le facce
sconvolte
degli altri uomini. Persino Cantagallo la guardava con occhi che erano
diventati enormi.
Non
era il posto migliore. Era il mondo dei vivi.
Era
tornata.
-
Non
capisco. Ero nell’Oltretomba. Credevo di essere passata
oltre...
Poi
tutto intorno a lei si fermò di colpo.
Tutti
erano improvvisamente immobili. Robin, sua figlia, con le manine tese
verso il
volto del padre, John e l’Allegra Brigata dietro di lui,
Cantagallo seduto su
una roccia, a piedi scalzi e con la bocca spalancata. Persino Roland
era come
congelato, con un grande sorriso stampato sul volto e gli occhi marroni
che
brillavano.
Marian
sentiva ancora il vento tra i capelli, ma i rami degli alberi non si
muovevano.
-
Bentornata
tra i vivi, milady. – disse un ragazzo, passando in mezzo a
due uomini di
Robin.
-
Cos’hai fatto? – gli domandò,
indietreggiando di un paio di passi e stringendo
di più a sé Roland. – Chi sei?
-
Sono
solo un messaggero. Non abbiate paura.
Quando
fu abbastanza vicino, Marian si accorse che non era affatto un ragazzo.
Lo
sembrava, ma le sue iridi erano dorate ed erano quelle di un uomo
immensamente
vecchio. Era a petto nudo ed indossava un elmo e un paio di calzari, da
ognuno
dei quali spuntavano un paio d’ali.
-
Il
mio nome è Ermes. E voi siete qui per volere di mio padre,
Zeus. Non so se sua
moglie ne è contenta, ma quello non importa, ora.
– Il Messaggero degli Dei
sorrideva, furbescamente. – Mio padre vi ringrazia.
È per questo che siete tornata.
Confusa,
Marian scosse il capo. – Ringrazia... per cosa?
-
Il
medaglione che avete dato ad Emma Swan ha distrutto Cerbero. Quel
cagnaccio
infernale è morto. Ed è un bene. –
Ermes si levò in volo davanti a lei e
volteggiò a mezz’aria. Incrociò le
braccia al petto. – Ade e Cerbero. Due in un
colpo solo. Erano millenni che non ci divertivamo tanto. Siete stata
molto coraggiosa.
Anche quando eravate in quel labirinto. Avete meritato una seconda
chance.
Il
Labirinto. Il Minotauro. La sua lunghissima permanenza in quel posto
aveva
assunto i connotati di un sogno. Come se fosse accaduto a qualcun
altro.
-
Ed
Emma?
-
Sta
bene. È con la sua famiglia e con la donna che ama.
– Le ali sbatterono ed
Ermes salì un po’ più in alto.
– Andate, adesso. Tornate dalla vostra famiglia.
Dove meritate di stare.
***
Granny
non si era risparmiata.
Si
era
data da fare in cucina perché tutti potessero mangiare in
abbondanza e non si
era fermata un attimo. Nonostante tutto, non sembrava affatto stanca.
Ma ognuno
aveva comunque portato qualcosa. C’era chi aveva optato per
le torte salate e
chi per delle varietà di affettati e formaggi. Chi aveva
portato dolci e chi
del prosciutto affumicato.
Regina
era arrivata con una teglia di lasagne e polpettine di carne. Ed era
arrivata
tenendo Emma per mano. Nessuno aveva fatto domande, sebbene le facce
sorprese
non fossero mancate.
Henry
era corso incontro alle sue madri, abbracciandole e prendendo in
consegna la
teglia.
-
Dove
hai trovato il tempo di preparare le lasagne? – aveva chiesto
David, ammirandole.
-
La
magia serve anche a questo. – rispose Regina.
Henry
ovviamente si servì subito e aiutò a distribuire
le porzioni. I nani si
abbuffarono, sorseggiando birra da grossi boccali e incitando almeno
una decina
di brindisi.
E
tutti vollero parlare con Emma. Lei li ricevette, accettando le strette
di
mano, le pacche sulle spalle e gli abbracci. La cosa iniziò
ben presto a darle
sui nervi, ma non voleva essere scortese. Non capitava tutti i giorni
che qualcuno
tornasse in vita senza conseguenze.
Apparentemente
senza
conseguenze. Non si era dimenticata ciò
che le aveva detto Ade.
“Euridice
non era più la stessa.”
“L’ambrosia
le aveva permesso di andarsene, ma
questo posto... l’aveva corrotta.”
Non
si
sentiva corrotta. Si sentiva un po’ confusa, spossata ed era
sicura che molte
delle cose che aveva visto nell’Oltretomba
l’avrebbero seguita a lungo. Ma non
percepiva nulla di sbagliato.
Decise
di chiudere la mente a quei pensieri e chiese a sua madre di passarle
il
piccolo Neal.
- Mi
chiedevo se non volessi un po’ delle mie lasagne? –
domandò Regina alla
sorella, che sedeva in un angolo, da sola, con gli occhi fissi sulla
strada
fuori dalla finestra.
-
Non
ho fame.
-
Magari
cambierai idea assaggiandole.
Zelena
si voltò, trafiggendola con uno sguardo di fuoco.
Fissò il piatto che le aveva
messo davanti, come se le stesse offrendo delle mele avvelenate.
Ma
Regina sapeva benissimo che non era furiosa con lei. - Lo risolveremo,
Zelena.
Troveremo una soluzione.
-
Ah,
sì? E come? Sfiderai Era a duello? - la
sbeffeggiò Zelena. – Stare troppo vicina
agli Azzurri non ti fa bene. Inizi a parlare come la tua peggior
nemica.
-
Non
è più la mia nemica.
-
Ma
almeno un passo avanti lo hai fatto. Con la Salvatrice, intendo.
Pensavo
sarebbe trascorsa un’altra mezza eternità prima
che vedessi quello che avevi
sotto al naso. – Parlava a raffica, ma almeno, pur essendo
furibonda, aveva
afferrato la forchetta e attaccato le lasagne.
Regina
sorrise, osservando Emma con Neal in braccio. Il bambino si stava
divertendo a
torturare l’orecchio sinistro di Henry.
-
Ho
parlato con Robin. Domani potrai vedere la bambina. – disse
Regina, sedendosi
davanti alla sorella.
Zelena
mangiò un altro pezzo di lasagna. A giudicare
dall’espressione era molto
soddisfatta. Tuttavia, rimase sul chi va là.
-
Parlo sul serio. Potrai vederla quando vorrai.
-
Ma
che pensiero gentile... e perché hai fatto questo... per me?
-
Perché so che grazie a lei puoi essere migliore. –
Regina rispose senza esitazioni.
– Quando eravamo nell’Oltretomba hai fatto la cosa
giusta. Hai pensato prima di
tutto a tua figlia. Amavi Ade, ma l’hai eliminato. So quanto
deve essere dura
per te.
-
È
molto più dura sapere che dovrò prendere il suo
posto! – gridò, guadagnandosi
qualche occhiata infastidita da parte dei vicini di tavolo.
Regina
allungò una mano, quasi a voler stringere la sua, ma poi
capì che Zelena non
avrebbe gradito e quindi la ritrasse. – Ti prometto che
cercherò una soluzione.
Immagino che non sia facile per te credermi, ma... lo farò.
Lily
entrò accompagnata da sua madre. Malefica si diresse al
bancone, dove Granny
l’attendeva, guardandola di sottecchi, come se si aspettasse
un incendio nel
suo locale da un momento all’altro.
-
Pensavo
non saresti più venuta. – disse Emma, offrendole
una Heineken.
-
Sai
che non sono una persona puntuale. – le rispose, prendendo la
bottiglia. – Ma
perché avrei dovuto perdermi una festa?
Emma
l’attirò a sé per abbracciarla. Lily ne
fu sconcertata lì per lì e ci mise
qualche istante a ricambiare la stretta.
-
Che
cosa fai?
-
Scusami. – disse Emma. – L’idea era
quella di... ringraziarti.
Lily
batté le palpebre, sorpresa. – Ringraziarmi per
cosa? Non sono stata io a
combattere contro un enorme cane infernale o ad accompagnarti... nelle
profondità dell’Averno.
-
No,
ma tu... hai deciso di provarci. Tu hai deciso di... venire a
prendermi, anche
se sembrava una follia.
-
Perché era giusto. Ti eri sacrificata per distruggere
l’oscurità e invece
lui... aveva vanificato tutto. Ma a chi la voglio raccontare, sarei
venuta a
prenderti comunque. Quella faccenda ha solo accelerato i tempi.
Emma
sorrise.
-
Dov’è, a proposito? Tremotino. Non è
stato invitato?
-
Credo che abbia ben altro a cui pensare. – Emma
osservò Henry mentre mangiava
il secondo piatto di lasagne con Neal sulle ginocchia. Mary Margaret
aveva
appoggiato la testa sulla spalla di David. Killian non era venuto, ma
non si
aspettava che lo facesse. Suo padre le aveva detto che era sulla sua
nave. Sapeva
che avrebbe dovuto parlare ancora con lui. Nell’Oltretomba
non aveva davvero
avuto modo di dirgli ogni cosa.
Era
tutto... di nuovo normale. Magari questa volta sarebbe durata. O magari
no. Ma
era comunque una bella sensazione.
-
Vorrei quel contatto di Boston di cui mi parlavi. – le disse
Lily.
-
Quindi vuoi farlo? Vuoi cercare la figlia di Murphy?
-
Penso proprio che lo farò, sì. Non ho idea di che
cosa le dirò, ma... sento che
devo.
Emma
glielo diede. – L’importante è che tu
non ti metta nei guai. Non so se potrò
raggiungerti quando avrai superato il confine.
-
Me
la caverò. Non fare come mia madre.
-
Tua
madre, a volte, ha ragione. Sa che cosa hai intenzione di fare almeno?
-
Non
ancora. – Lily mise in tasca il biglietto con il nome e il
numero del contatto.
– C’è anche un’altra cosa...
-
Cioè?
-
Vuoi
ancora... vuoi ancora farlo? Sai, quello che mi hai detto
nell’Oltretomba, sul
fatto che dovremmo spezzare l’incantesimo che ci lega...
– Lily lo disse usando
un tono guardingo. Forse avrebbe dovuto aspettare che le cose si
calmassero un
po’ prima di parlargliene. Ci aveva riflettuto a lungo,
ricordandosi delle
parole di Merlino, ma anche di quanto le era costato portarsi dietro il
potenziale
oscuro di qualcun altro. - Perché io non credo che sia una
buona idea.
Emma
sorrise e le strinse una mano. – Ero preoccupata. Credevo
sarebbe stato meglio
per te.
-
Merlino
diceva la verità. Possiamo separarci, ma questo... questa
cosa... ormai è parte
di noi. E lo sarà sempre.
Regina
alzò la testa ed ammirò l’Aurora
Boreale che veleggiava nel cielo scuro.
Non
faceva più così freddo. L’inverno
causato dal rapimento di Zelena stava
svanendo, eppure quel fenomeno sembrava ancora al massimo della
potenza, si
rifiutava di cedere. Una strana, ipnotizzante magia.
-
È
qualcosa che dovremmo tenerci, secondo te? –
domandò Emma, avvicinandosi.
-
Non
lo so. Non ho mai visto nulla di simile. – ammise Regina. Gli
occhi della
Salvatrice sembravano intenti a risucchiare i colori
dell’Aurora. Le iridi
furono verdi e poi azzurre e poi più tendenti al blu. Regina
si lasciò
scivolare tra le dita l’unica ciocca bianca di Emma.
-
Sai,
aveva ragione mia madre. Sul lieto fine, intendo.
-
Ah,
sì?
-
Ricordi
quando ci disse che il lieto fine non è sempre quello che ci
aspettiamo?
Regina
roteò gli occhi. – Come dimenticare. Se potesse
guadagnare soldi ogni volta che
fa questo genere di discorsi, sarebbe la donna più ricca del
reame.
-
Però
ha ragione.
-
Ho
ancora qualche difficoltà ad ammetterlo, ma...
sì.
Regina
si sporse per baciarla ed Emma dischiuse le labbra, assaporando quel
contatto.
Era una cosa naturale, come se lo avessero sempre fatto.
Il
bacio si intensificò quasi subito ed Emma si
ritrovò a seguire la cicatrice di
Regina con la punta della lingua.
Una
nube scura le avvolse, cancellando il cielo e i colori
dell’Aurora Boreale, e
quando si dissolse erano a casa di Regina.
-
A
nessuno farà piacere sapere che abbiamo abbandonato la
festa. – disse Emma.
Però sorrideva. Strusciò il viso contro la mano
di Regina, chiudendo gli occhi.
Sfiorò il palmo con le labbra e poi depositò dei
piccoli baci sulle vene del
polso.
-
Non
se ne accorgeranno. Non subito, almeno. – Si
chinò, seguendo la linea della
mascella con le labbra. Poi le baciò il lobo e la pelle
dietro all’orecchio. Nel
frattempo le dita di Emma armeggiarono con i bottoni della sua camicia.
– E poi
credi che me ne importi qualcosa ora?
-
Oh,
sono sicura di no.
Regina
la baciò ancora e prese la sua mano, conducendola sul
proprio petto,
nell’incavo caldo fra i seni. Emma
l’attirò contro di sé, baciandole il
collo.
Si
spogliarono lentamente e Regina non ebbe alcuna esitazione quando
scivolò sul
letto, portandola con sé. Le sembrò che i loro
corpi si incastrassero
perfettamente, che la sua pelle non aspettasse altro che quel contatto.
Lasciò
che i capelli biondi della Salvatrice scivolassero sul suo viso. Le
strinse le
spalle, aggrappandovisi con forza, affondando leggermente le unghie
nella pelle
chiara di lei e avvinghiandole il bacino con le gambe.
Emma
sollevò un po’ la testa per guardarla negli occhi.
Nella penombra della stanza
i suoi sembravano molto più verdi.
-
Sei
bellissima. – sussurrò Emma, con la voce spezzata.
***
Storybrooke.
Una settimana dopo.
L’auto
si fermò proprio a pochi metri dal confine della
città e la parte anteriore del
veicolo rigettò un bel po’ di fumo.
Lily
mise in folle e provò a riaccendere il motore, incitandolo
come se stesse
parlando con un essere in grado di comprendere la sua lingua.
Nessun
segno di vita, a parte un debole colpo di tosse.
Lily
scese, sbattendo la portiera e colpendola con un calcio. Le dita dei
piedi
lanciarono un grido di dolore e lei si ritrovò a saltellare
in cerchio, ripassando
ogni imprecazione mai inventata e combinandolo in un unico capolavoro
di
volgarità. Ma tanto non c’era nessuno nei
dintorni. Solo la strada. Gli alberi.
Il cartello verde con la scritta LEAVING STORYBROOKE.
-
Sei
sicura che la macchina reggerà? Il confine di Storybrooke
non è... molto
stabile. – le aveva detto Emma, prima che Lily salisse in
macchina. Nella tasca
della giacca aveva la foto della figlia di Murphy. Il contatto di Emma
era
stato molto utile.
Doveva
immaginarlo che sarebbe successo qualcosa che le avrebbe impedito di
lasciare
la città. E la macchina non era nuova. Ma sperava che
l’avrebbe condotta fino a
Boston.
-
Problemi?
Lily
si voltò, in tempo per vedere un tizio in sella ad una
vecchia motocicletta
fermarsi accanto al catorcio fumante.
Lo
riconobbe. Era August. L’aveva visto al Granny’s
più di una volta e sapeva che
era amico di Emma.
Pinocchio.
-
Molti. – rispose Lily, stizzita.
August
slacciò il casco e scese. Si permise di dare
un’occhiata all’auto, sollevando
il cofano e agitando le mani per scacciare il fumo. – Direi
che è andata. C’è
poco da fare.
-
Non
è quello che avrei voluto sentire.
-
Mi
dispiace. Dov’eri diretta? – Si tolse un attimo il
casco, rivelando i capelli
corti e scuri. Il suo sorriso era gentile, molto amichevole. Indossava
una
vecchia giacca di pelle, i jeans sbiaditi e un paio di stivali da
cowboy.
Probabilmente anche lui stava lasciando la città
perché c’erano un paio di
borse agganciate alla motocicletta.
-
A
Boston.
-
Boston... – ripeté lui. Abbassò il
cofano, sfregandosi le mani. – Posso portare
una persona in più. La mia motocicletta è in
ottima forma.
-
Non
ti ha mandato Emma, vero?
Il
sorriso di August si allargò, quasi si fosse aspettato
quella domanda. – Credo
che Emma sappia che te la puoi cavare da sola, Lilith.
-
Come
sai il mio nome, quindi?
-
Ormai lo sanno tutti. Sei andata all’Inferno e hai portato
con te tutta la
famiglia di Emma. E siete tornati.
Lily
fissò la motocicletta ferma accanto all’auto.
Sapeva benissimo che in un modo o
nell’altro doveva lasciare la città se voleva
davvero trovare la figlia di
Murphy.
Trovare
la figlia di Lucignolo facendosi dare un passaggio da Pinocchio.
-
Sono
contento di vedere che sorridi. È un buon segno. –
osservò August. – Non farò
la stessa offerta una seconda volta.
Sopra
di loro l’Aurora Boreale brillava ancora. Sembrava si stesse
riducendo
lentamente, ma ancora resisteva, come se una strana magia la tenesse
ancorata
al cielo. Una volta superato il confine, sarebbe sparita.
-
D’accordo. – disse Lily. – Andiamo.
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