Cosa Celano I Tuoi Occhi

di Luxanne A Blackheart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Due ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


"Capitano a volte incontri con  persone a noi assolutamente estranee, per le quali proviamo interesse fin dal primo sguardo, all'improvviso, in maniera inaspettata, prima che una sola parola venga pronunciata." 






Salve a tutti e benvenuti in questa nuovissima avventura!
Devo dire che questo è un esperimento per me, poiché i romanzi rosa non sono proprio nel mio genere; di solito tratto temi amorosi ma in altre epoche storiche e non così moderne.
L'idea per questa storia mi è nata dopo aver fatto un brutto sogno e ho voluto crearlo in qualcosa.
Preparatevi quindi, perché Jacob e Ophelia ne combineranno delle belle!
Luxanne.










Prologo.




La sala d'attesa era angusta, lo stile spartano: poche sedie verde smeraldo, qualche vecchia rivista dell'Entertaiment Weekly, risalenti a qualche anno prima.


Mia madre, Stephany Adams, le sfogliava in modo annoiato, borbottando su qualche rivelazione sconveniente fatta da questo attore o quell'attrice, mentre io giocherellavo sul mio cellulare, osservando le varie stories su Instagram.


Persone che conoscevo immortalavano la loro vita divertente, fata di ubriacature e uscite, mentre io il massimo di divertimento che conoscevo era passare le serate, parcheggiata davanti la TV a guardarmi una serie malinconica, pesante o che trattava temi poco digeribili, mentre mi spaccavo di schifezze, quali cioccolata, bibite gassate che mi consentivano di ruttare rumorosamente per minuti interi e osservare la faccia schifata della mia coinquilina.


Mia madre era l'unico familiare con il quale avessi a che fare e quando aveva scoperto la mia fantasmagorica ossessione per la scrittura, mi aveva sequestrato il computer per una settimana, nella quale aveva passato a leggere tutte le schifezze che avevo scritto dall'età di dodici anni, partite come fanfiction su Justin Timberlake e successivamente su Kurt Cobain (perché tutte una volta nella vita hanno avuto una cotta/ossessione su questi due) e poi evolute in qualcosa di più serio.


Era diventata, nel giro di una settimana, la mia fan numero uno e così aveva deciso di mandare il mio lavoro migliore, quello a cui stavo lavorando da circa due anni, ad una casa editrice e incredibilmente mi avevano fissato un colloquio.


Adesso mi ritrovavo in quel palazzo, il Senza Nome, in uno degli innumerevoli piani, ad aspettare di essere ricevuta.


«Non è possibile far aspettare così a lungo, andrò sicuramente a lamentarmi con la direzione! Abbiamo anche altro da fare e non staremo al loro servizio tutto il giorno.»


Mia madre non era una cattiva persona; aveva avuto un passato difficile, una di quelle donne che, a causa di una gravidanza improvvisa, si sposò giovane per non abortire e mettere su famiglia velocemente. Subito dopo il liceo, ero arrivata io, Ophelia Adams, prima di tre figli e l'avevo incatenata ad una vita non sempre infelice, fatta di sacrifici e tanto duro lavoro.


Le ero riconoscente per il lavoro fatto su di me, per essere sempre stata presente, alle volte più del dovuto, perché nonostante tutto ero venuta su bene. L'amavo, dopotutto era mia madre, ma molto spesso non sapeva quando stare zitta, proprio come in questo caso.


La segretaria entrò all'improvviso nella sala d'attesa, che stava cominciando a darmi sui nervi. I colori troppo accesi mi davano fastidio, ero una creatura delle tenebre io.


«I signori Robertson e Cole sono pronti a ricevervi.», era una bella donna, giovane, dai lunghi capelli rossi tenuti in alto da una coda tirata e con poco trucco in viso. La osservai, provando un moto di gelosia. Certe persone nascevano fortunate; la natura sapeva dare più del dovuto.


«Dio sia lodato!»


Alzai gli occhi al cielo all'esclamazione di mia madre e la seguì in quello che doveva essere lo studio dei due miei, speravo, futuri editori.


Rimasi piacevolmente sorpresa nel notare il repentino cambio di ambiente. Se prima mi trovavo in una classe d'asilo per i colori sgargianti, adesso ero in un enorme studio professionale, nei quali predominavano il grigio, il nero e l'odore di carta.


Infatti la prima cosa che notai furono i grandi scaffali in mogano che contenevano centinaia di libri, dai grandi classici a quelli contemporanei, tutti in fila per colore e importanza. I muri bianchi, erano pieni di citazioni dei più grandi poeti e scrittori che abbiano mai messo piede sulla terra, come Oscar Wilde, Rimbaud, Baudelaire, Verlaine, Dante...


Mi sentii immediatamente a casa e all'improvviso quella giornata, ai miei occhi inutile e imbarazzante, era diventata interessante.


Le finestre erano enormi, gigantesche e davano sulla strada, dalla quale i passanti, in smoking e tailleur correvano per cercare di fermare un taxi, auricolari alle orecchie e occhiaie da stress.
Su una enorme scrivania, colma anch'essa di libri e malloppi di fogli, sedevano due uomini in giacca e cravatta nera.


«Buongiorno, signora e signorina Adams e benvenute.», a parlare fu quello seduto alla mia destra con voce cordiale.


«Io mi chiamo William Cole e spero di diventare il suo editor in futuro, signorina Adams.», aggiunse, guardandomi negli occhi. Era un uomo affascinante, dai capelli castani e il naso spruzzato di lentiggini chiare, due occhi verdi come il prato di primavera e labbra sottili.


«Piacere, ma può chiamarmi Ophelia se preferisce.», dissi con un sorriso forzato, stringendogli la mano. Aveva una presa forte, sintomo di sicurezza.


«Bene, se abbiamo finito con le presentazioni, possiamo procedere per parlare di lavoro, voi che dite?», a intervenire fu il suo socio, il signor Robertson, che aveva tenuto lo sguardo abbassato su una pila di fogli, che ricontrollava con la penna rossa. Erano più i segni che vi lasciava, che le parole scritte in nero.


«Io sono Jacob Robertson, da quello che ben sapete.», alzò lo sguardo per guardarci e per poco non sussultai. I suoi occhi, di un azzurro ghiaccio mai visti, mi guardavano con superiorità, come se io fossi una delle innumerevoli formiche che calpestava sul suolo.


Era di una bellezza disarmante: capelli neri, come la pece, come il cielo notturno senza stelle, tirati indietro ordinatamente dalla gelatina, occhi azzurri, freddi e calcolatori come il ghiaccio, che contrastavano con le sopracciglia e capelli scuri, labbra spesse e morbide, circondate da una leggera barbetta.


«Abbiamo letto il piccolo estratto e la trama dello scritto che ci ha mandato sua madre, signorina Adams.», proseguì, puntandomi quelle iridi addosso. Non mi intimoriva, poche cose ci riuscivano, ma non potevo rispondere a tono, poiché mia madre era presente e anche perché quello sarebbe diventato un ipotetico datore di lavoro. «Non è nulla di interessante, a mio avviso, ma al mio collega è piaciuto. Devo ammettere che lei abbia un modo particolare di scrittura, ecco che cosa mi ha convinto a perdere il mio tempo questa mattina.»


«Be', grazie?», domandai, non sapendo se fosse un insulto o un complimento. In realtà stava cominciando a darmi particolarmente sui nervi.


«Ciò che il mio collega dai modi bruschi stava cercando di dirvi era che saremmo interessati a lei, Ophelia, ma dovrebbe portarci qualcos'altro da lei scritto per valutare quale delle opzioni sia migliore per lanciarla in questo grande e grosso mare. Ha uno stile veramente particolare, come pochi, e la capacità di incatenare il lettore alle pagine del racconto, quindi penso – pensiamo – sia un peccato lasciare questo talento incolto. È giusto dare una possibilità a tutti.», s'intromise William Cole, sorridendomi dolcemente.


Annuii, ringraziandolo con un sorriso. Avevo una trentina di idee per nuovi scritti da sviluppare, me ne nascevano di continuo, quindi avrei solamente avuto l'imbarazzo della scelta.


Mia madre, stranamente, se ne stava in silenzio senza mai intervenire. Questa cosa l'apprezzai sinceramente.


«Quindi, dovrei portarvi altri miei scritti?»


«Sì, signorina Adams. La nostra segretaria le lascerà una data di incontro. Nel frattempo ci mandi per email quello che vuole, il mio collega si occuperà di lei. Arrivederci.»


Riabbassò lo sguardo e continuò a martoriare quei poveri fogli, imbrattandoli di rosso. Io strinsi i pugni, alzando un sopracciglio, pronta a rispondere, ma William Cole mi interruppe. «Prego, vi accompagno.»


Si alzò, abbottonandosi la giacca nera di ottima sartoria che indossava e ci fece strada; né io né mia madre salutammo il signor-palo-in-culo.


«Dobbiate scusarlo, è molto preso dal lavoro.», il signor Cole era veramente imbarazzato per il comportamento del suo collega.


«Non si preoccupi, signor Cole, grazie per la sua disponibilità. Al più presto le manderò il richiesto per posta elettronica. Arrivederci.»


«Arrivederci.»


Ci strinse la mano con un cordiale saluto e uscimmo da quel luogo, trovando già la segretaria ad aspettarci con la prossima data di incontro e la posta elettronica alla quale inviare il mio scritto.


«Nonostante l'antipatia del signor Robertson, sono felice che loro siano interessati nel tuo lavoro. Mi rendi immensamente felice, Ophelia, sappilo.», mia madre parve commuoversi. I suoi occhi color nocciola, proprio come i miei, si inumidirono e mi abbracciò per nascondere il tutto.


La strinsi a me, dopotutto era stato tutto merito suo.


«Grazie mamma, ma non è ancora detta l'ultima parola. E poi devo ancora trovarmi un lavoro, non si campa di arte purtroppo.»


Pensandoci, fu proprio quel colloquio che scatenò una delle più grandi catastrofi che mi siano mai capitate.
Un solo sguardo può travolgere la tua intera esistenza, se veramente lo desidera e per me così è stato.
Ma questo è solo l'inizio di tutto.

 

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Capitolo 2
*** Uno ***


Uno.


«Non andava bene l'assistenza agli anziani?», domandò la mia migliore amica avendo notato la mia faccia disperata. Aurora lavorava all'ufficio di collocamento ed era da due anni che cercava di trovarmi un lavoro degno delle mie capacità o che mi soddisfacesse.


«Tu dovresti essere la persona che mi conosce meglio in tutto l'universo! Sai che non riesco ad approcciarmi con la gente normale, figuriamoci con i vecchi! Mi sono licenziata dopo una giornata di lavoro, che spero mi retribuiranno.», mi buttai sulla sedia davanti la sua scrivania, sprofondandovi.


Avevo da poco finito l'università di Lettere Moderne, quindi avevo una laurea, ma appartenevo a quella poco sfigata élite di laureati che avrebbero sofferto per l'eternità, prima di un trovare un lavoro degno delle loro competenze.


«Che cosa hai detto, Ophelia? Spero tu non li abbia insultati come tuo solito...»


«No, non mi permetterei mai!», mentii, strofinandomi il viso.


Da quando il pub in cui lavoravo aveva chiuso due anni prima, mi ritrovavo a saltare da un lavoro all'altro. Avevo provato di tutto: assistenza a disabili e anziani, babysitter, dogsitter, ho addirittura lavorato in una macelleria. Ma in tutti mi ero rivelata un disastro, poiché le interazioni umane e animali non mi riuscivano particolarmente gradite... anche se lo scuoiare carne morta e tagliare con forza carne e ossa mi era piaciuto.


«Certo, faccio finta di crederci.»


«Ti prego, aiutami, il mio destino è nelle tue mani! Ho bisogno di un dannato lavoro, altrimenti non riusciremo a pagare l'affitto, non puoi provvedere sempre tu, soprattutto adesso che ti stai per sposare.»


Aurora sospirò. I suoi occhi azzurri si mossero sullo schermo del computer, mentre le dita pigiavano velocemente i tasti.
Era una bellissima ragazza dai lunghi capelli biondi, gli occhi azzurri spesso nascosti dietro un paio di occhiali retrò, che vestiva con abbinamenti spesso inguardabili, persino per la sottoscritta che non sapeva che cosa fosse la moda.


«Ho trovato qualcosa, ma credo che possano accettarti... secondo me saresti perfetta, perché hai tutte le competenze e anche una laurea.», si spostò gli occhiali sul naso sottile, avvicinando il viso allo schermo del computer. «Credo che si possa fare, forse potrebbe aiutarti Vanessa a farti assumere, mettendo una buona parola.»


«Di che cosa si tratta?», cercai di spostarmi per sbirciare incuriosita, considerato che Aurora stava parlando più a se stessa che alla sottoscritta.


«Segretaria in una casa editrice. Cercano qualcuna che abbia una buona memoria, che fortunatamente hai, considerato che ti ricordi anche in che giorno ho mangiato il sandwich tre anni fa... Poi, vediamo... Conosci benissimo la lingua e sai scriverla bene e hai anche un B2 di spagnolo e francese.»


«E di cosa se ne fanno di un B2 di spagnolo e francese in una casa editrice?»


«Potrebbe sempre servire, Ophelia.»


«Mh... quando è il colloquio e dove?»


«Nella stessa casa editrice dove sei stata ieri, nell'edificio Senza Nome e...», si interruppe, controllandosi l'orologio da polso. «Esattamente tra un'ora.»


«Che cosa?! E quando avevi intenzione di dirmelo? Si trova dall'altra parte della città, ci metterò anni a spostarmi in tutto questo traffico!»


«Allora ti conviene correre, tesoruccio.», Aurora mi salutò con un cenno della mano e io balzai in piedi, afferrai la mia borsa con la gigantografia della faccia di Kurt Cobain e cominciai a correre come mai nella vita.










Riuscii ad arrivare appena in tempo, sudata e con il trucco sbavato, ma ancora viva.
Il colloquio si trovava da l'altra parte del palazzo, ma per fortuna giravo sempre con una copia del curriculum nella borsa, proprio per queste evenienze improvvise.


La sala d'aspetto era più grande e non sembrava un asilo improvvisato, considerato che i colori delle pareti erano di un semplice bianco panna, ma era piena di donne sui vent'anni, vestite con abiti di alta sartoria, truccate e appena uscite dalla parrucchiera.


Alzai gli occhi al cielo, quando tutte le candidate mi squadrarono dalla testa ai piedi.


«Il mio parrucchiere è andato in vacanza, ho dovuto arrangiarmi, scusate.», sollevai le spalle, prendendo il cellulare dalla borsa. Aprii la fotocamera frontale, sussultando, quando notai il mio aspetto.


Avevo il trucco sbavato sotto gli occhi scuri, delle occhiaie bruttissime che mi davano un aspetto malsano, le sopracciglia sfatte e i capelli castani, che di solito erano lisci come spaghetti, arruffati sulla parte destra.


Cercai di allisciarli e mi ripulii dal trucco con una salviettina, ma nonostante ciò sembravo ancora scioccata.


La concorrenza era spietata e non avrei mai ottenuto quel lavoro. Le candidate si alzarono una ad una nel sentir pronunciare il loro nome; camminavano sui loro vertiginosi tacchi quindici, mentre le mie rovinate e scolorite converse sembravano vergognarsi sui miei piedi.


Le guardai, pensando che quello sarebbe stato uno dei colloqui più imbarazzanti di tutta la mia vita... Ma infondo, che cosa avevo da perdere?


«Signorina Adams, tocca a lei.», a farmi entrare fu la stessa segretaria che mi aveva ricevuta dai signori Robertson e Cole, quella bellissima dai capelli rossi.


Mi sorrise, quando le passai il mio curriculum spiegazzato e macchiato di caffè; su una pagina ci era addirittura finito un po' di tabacco.
Nei suoi occhi potevo leggere tutta la comprensione e l'imbarazzo che provava verso di me, essere penoso e inutile a confronto con la sua perfezione.
Mi fece accomodare in una piccola saletta dai muri dipinti di rosso carminio, dallo stile spartano, essenziale: una semplice scrivania in mogano e tre sedie nere. Su una di quelle c'era seduto un uomo che già conoscevo, William Cole, il mio futuro editore, che riconoscendomi mi sorrise.


Indossava un vestito nero, di alta sartoria, ma ci aveva abbinato una cravatta bianca a quadri.


Guardandolo, mi fece sorridere il fatto che ogni dipendente vestisse di nero o grigio in un luogo nel quale predominavano colori accesi; per me, creatura della notte, era un controsenso.


«Ophelia, la rivedo di nuovo. Vuole fare un colloquio, come mai?»


«Sa, appartengo a quella poca categoria di eletti, che fa colloqui per puro divertimento... L'euforia, l'adrenalina di sentirsi costantemente giudicati per le proprie abilità mentali e cercare di non combinare cagate, pardon defaillance, mentre si parla è una cosa che si dovrebbe fare spesso.», parlai prima che riuscissi a tenere a freno la mia linguaccia; era un mio grande difetto dar sfogo a qualsiasi pensiero sarcastico che mi scorrazzava per il conscio.


Il signor Cole, per fortuna, colse l'ironia e la mia agitazione e rise di gusto, come se avessi detto la cosa più divertente del mondo. «Lei mi piace, signorina Adams, ha davvero uno spirito divertente.»


E io ringrazio lei per non mettermi in imbarazzo, piccolo cuore di panna, nonostante sia una completa rincoglionita, pensai, avendo la decenza di non dirlo.


«Comunque ho perso il mio lavoro e me ne servirebbe disperatamente uno nuovo... ma con questo non sto assolutamente cercando di farle pena per farmi assumere.»


William annuì, quasi sovrappensiero, esaminando il mio curriculum e spostando il tabacco finitoci sopra con un gesto noncurante, come se fosse una cosa di tutti i giorni.


«Non pensavo lei facesse colloqui.», mi rendevo conto di sembrare una completa idiota, ma quel silenzio stava cominciando a diventare assordante.


«Infatti, oggi è semplicemente stata una eccezione, signorina.», questa volta non sorrise, quando sfogliò l'ultima pagina. «Bene, credo di non avere più nulla da esaminare.»


«Come? Non mi fa le solite stupide domande da colloquio?», quando mi resi conto dell'aggettivo utilizzato, avrei voluto defenestrarmi con violenza, ma William Cole sorrise, come se sapesse fare soltanto quello.


«Sono stupide, ecco perché non le faccio. E poi, lei è la candidata migliore. Il lavoro era già suo da quando è entrata.»


«Dice sul serio?»


«Certo!»


«Ma lei le ha viste tutte le precedenti candidate?»


«Sì, e allora?»


«Allora è forse omosessuale?»


Rise, scuotendo il capo. Era davvero un uomo affascinante.


«Non mi importa di quanto loro possano essere affascinanti, quello che conta sono le abilità e mi creda se le dico che lei sia perfetta per questo impiego.»


Mi aprii in un enorme sorriso, sincero per la prima volta in ventisei anni.


«Grazie, davvero, non la deluderò!»


«Allora ci vediamo domani mattina, signorina.»


«Ophelia.», lo corressi, anche se lui avrebbe potuto chiamarmi in qualsiasi modo per quanto gli ero riconoscente.


«Ophelia.», sorrise.


Ci salutammo e io cominciai letteralmente a correre per il corridoio, componendo il numero di Aurora e darle la lieta notizia. Era tutto merito suo!


Tuttavia, non appena girai l'angolo, andai a sbattere contro un maledetto energumeno e caddi per terra di sedere; vidi il mio povero Samsung del 300 A.C. rotolare via da me. Mi sentii esattamente come Rose nel veder affogare il suo Jack nelle acque gelate dell'Atlantico.


«Gesù Cristo Addolorato!», urlai, essendomi fatta un male cane.


«No, sono solo Jacob Robertson, dovrebbe ricordare il mio nome, essendoci incontrati poco fa.», era solo Signor-Palo-In-Culo, che mi sorrise falsamente. Nel sentire quella voce possente e incontrando quegli occhi glaciali, alzai gli occhi al cielo.


Come rovinarsi la giornata in semplici e pochi attimi.


«Ma che cosa è un armadio lei? Le sono venuta addosso e non si è spostato di un millimetro», borbottai, rialzandomi e andando a ripescare il cellulare. «No, ma stia tranquillo, non mi dia una mano. Sono apposto e no, non mi sono fatta male.»


«E lei invece va ancora all'asilo? Ha trent'anni e corre ancora per i corridoi.», borbottò irritato, togliendosi l'auricolare dall'orecchio.


«Per la cronaca, ne ho ventisei.»


«Sì certo e io sono Brad Pitt.»


«No, lei è signor-palo-in-culo.», risposi, irritata. Aveva anche il coraggio di fare lo spiritoso quell'essere fastidioso!


«Come ha detto, prego?», mi squadrò, alzando un sopracciglio.


«Ho detto arrivederci.», dissi e senza aspettare un'ulteriore risposta fuggii via, considerato che Aurora mi aveva risposto e stava urlando da una buona mezz'ora.




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Spazio autrice!
Eccomi qui, con il primo capitolo!
Ophelia sa essere una vera burlona e lo scoprirete leggendo la storia, tutto il contrario di Signor-Palo-In-Culo, o almeno lo è per ora!
Nel prossimo capitolo incontreremo ancora una volta Aurora e un nuovo personaggio: Vanessa!
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e se avete voglia lasciatemi un commento e una stellina!
Alla prossima!

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Capitolo 3
*** Due ***


DUE.






Condividevo un appartamento con le mie due migliori amiche: Vanessa e Aurora, coppia che avevo proclamato tra le più adorabili in assoluto. Le avevo fatte conoscere io, qualche anno prima ed era per merito mio se un bell'anello brillava sui loro anulari sinistri.


Si erano incontrate, innamorate e si sposavano. Io, invece, passavo da una sbandata all'altra. Non ero una ragazza da relazioni, non che io non le volessi, ma perché tutti si innamoravano della mia spalla, in questo caso di Vanessa o Aurora.


Avevo avuto solamente due ragazzi seri in tutta la mia vita, uno dei quali - Robert - si era sposato e l'altro – Alejandro - era diventato uno dei miei migliori amici. Pensandoci, era strano, ma non per noi.


«Vi presento la nuova segretaria dell'edificio Senza Nome! Ho avuto il posto, puttanelle!», urlai, entrando in casa e abbandonando in un angolo Kurt Cobain e le mie chiavi. Aurora e Vanessa mi vennero incontro, stringendomi forte e baciandomi entrambe le guance.


Erano simili di aspetto fisico: entrambe bionde, occhio celesti e fisico alto e asciutto. Ma Aurora era assolutamente pazza, nonostante sembrasse la più civile tra le tre e Vanessa, be', anche lei lo era, ma sapeva controllarsi. Quando Aurora perdeva il senno, di solito dopo due birre, nessuno poteva più farla ragionare, a meno che non le si rompesse qualcosa in testa per farla svenire.
Ci avevo provato una volta e aveva funzionato.


«Oh, la nostra bambina! Finalmente la finirai di rompermi il cazzo a lavoro ogni giorno. Sei stata il mio incubo, Ophelia.»


«Tu sì che sai come rendere una persona felice, Aurora, le tue parole sono sempre estremamente rincuoranti.», la rimproverò con lo sguardo Vanessa, abbracciandomi.


«E tu mi hai chiesto di sposarti per questo!», sorrise e tutte e tre ci sedemmo su l nostro striminzito divano a guardare l'ennesima replica di How I Met Your Mother.


Eravamo un trio ben assortito, un'unica sola cosa che adesso stava per sdoppiarsi. L'estate era vicina e le mie due migliori amiche si sarebbero sposate, avrebbero preso una casa tutta per loro, lasciandomi da sola in quell'odioso appartamento, che sopportavo solo grazie alle figure di Vanessa e Aurora.


Quelle due pazze bionde erano le uniche ragioni per cui riuscivo a tirare avanti.


«Ragazze, vi voglio bene, lo sapete?», sbottai all'improvviso, abbracciandole strette, mentre loro mi supplicavano di lasciarle andare.


«Sì, certo, tesoro, ma adesso mollaci, riesco a sentire la consistenza delle tue tette e non è una bella sensazione!», mi supplicò Aurora, cercando di staccarsi dalla mia morsa ferrea.


«Come se ti dispiace, Rora!»


«Sei come la nostra bambina spastica, Ophelia, non potremmo mai pensare a te in quel modo.»


«Concordo, ew!»


Le lasciai andare, mollando loro un'occhiata affranta. «Perché non siete come le altre lesbiche? Preferirei subire una molestia almeno una volta al mese da voi due, piuttosto che sentirmi rifiutata così, è veramente brutto!»


«Aaah, ma smettila! Le lesbiche a cui tu ti riferisci si chiamano maschi etero e ne puoi trovare a bizzeffe in metropolitana.», sentii la voce di Vanessa provenire dalla cucina.


«Maschi etero, ew.», Aurora fu attraversata da un brivido sincero di disgusto e io risi profondamente.






Mi era stato assegnato un ufficio con tanto di scrivania e computer al terzo piano, ovvero lì dove era situata la casa editrice.


Il mio compito era quello di seguire il mio capo, il signor Cole, prendere i suoi appuntamenti, passargli le telefonate... In pratica ciò che faceva la ragazza rossa, che avevo scoperto si chiamasse Stacey.


Per quel giorno avevo scelto di vestirmi in modo un po' più elegante, ma niente gonne, le odiavo, in compenso avevo indossato un paio di tacchi, di cui mi ero pentita circa mezz'ora dopo.


I piedi avevano cominciato a dolermi incredibilmente, tanto che quando camminavo sembravo una che aveva problemi alle articolazioni. Il primo giorno e avevo già fatto una figuraccia con tutto l'ufficio; quelli mi avrebbero mangiata come tacchino il giorno di Ringraziamento.


«Buongiorno, Ophelia.», il viso solare e sorridente dell'uomo mi misero subito di buon umore e mi alzai di getto, quando il signor Cole entrò nel mio ufficio.


Ero un disastro, mi volevo sotterrare.


«Vedo lei si sia ambientata bene nell'ufficio, ma sono passato per dirle che io non sarò il suo superiore, ma Jacob, il mio collega, non so se lo ricorda.»


Sussultai, ma cercai di assumere la mia migliore faccia indifferente, anche se dentro di me urlavo in aramaico antico.


«Sì, come dimenticarlo quel gran simpaticone.», mi sedetti, facendo finta di scrivere qualcosa sul computer.


«Be', devo dire che lei le poche volte che apre bocca è per insultarmi velatamente o semplicemente per saltarmi addosso nel bel mezzo del corridoio.», Jacob, alias signor-palo-in-culo, entrò nel mio piccolo ufficio, nel suo completo blu notte abbinato ad una cravatta dalla strana geometria azzurra. Gli occhi azzurro - ghiaccio mi osservavano con aria da superiore.


Lo odiavo.


William Cole ci guardò, alzando il sopracciglio. Aveva chiaramente frainteso qualcosa che non sarebbe mai accaduto.


«Non è come pensa, signor Cole.», cercai di giustificarmi, anche se non conoscevo bene la risposta. Probabilmente non volevo fare figuracce o passare addirittura per quella che ha cercato di farsi il capo al primo colloquio.


«Dovresti saperlo, William, che quelle così non sono il mio tipo.», aggiunse, con freddezza. Le sue parole non mi colpirono minimamente.


«Bene, credo che voi due troverete il modo di andare d'accordo. Signorina Adams, spero che la nostra struttura le sia di suo piacimento e che qui da noi si trovi bene.», William mi sorrise gentilmente e io ricambiai, mentre sotto al tavolo cercavo di togliermi le scarpe col tacco. I piedi mi pulsavano terribilmente e certamente non avrei potuto continuare a passare così il resto delle mie giornate.


«Grazie, signor Cole. Buona giornata a lei!», esclamai con fin troppa enfasi, quando i piedi nudi toccarono il freddo pavimento.


Rimanemmo solo noi tre: io, il signor Robertson e i suoi glaciali occhi calcolatori che mi fissavano. Lo guardai di rimando, arricciando le labbra come facevo ogni volta che non mi sentivo a mio agio.


«Che cosa fa lì impalata? Mi vada a prendere un dannato caffè! Nero e senza zucchero, si sbrighi!», sbraitò e il mio sopracciglio destro si alzò automaticamente, contrariato.


«Come vuole, visto che lo chiede tanto gentilmente.», borbottai, abbassandomi e rimettendomi le scarpe. Sentivo inconsciamente i miei piedi urlare come disperati e pregarmi di andare scalza al più vicino Starbucks – cosa che avrei anche fatto, se il mio capo non fosse stato un tale imbecille mestruato.


Mi alzai, aggiustandomi i pantaloni giallo canarino che indossavo e cominciai ad avviarmi, senza degnarlo di uno sguardo.


Avrei dovuto addirittura pagarglielo, sto spilorcio!


«Dove crede di andare?», mi fermò.


«A prenderle il suo dannato caffè nero e senza zucchero?», citai.


« Dobbiamo discutere di alcune cose prima.»


«Ovvero?»


«Ho delle regole molto ferree, che lei dovrà rispettare. In caso contrario, rischia il licenziamento.», mi guardò ancora una volta, abbassando leggermente il capo, come per assicurarsi che io avessi capito. Annuii, anche se dentro di me volevo prenderlo a pugni.


«Me le dica, allora. Dobbiamo lavorare tutti, mi sbaglio?», cercai di stare il più calma possibile. Dovevo essere migliore di lui e della sua odiosa aria da sbruffone. Dovevo mostrarmi superiore, professionale e sopportare tutte le possibili umiliazioni, poiché avevo un disperato bisogno di quel lavoro.


Quindi, per quanto il mio datore di lavoro fosse un coglione con tanto di attestato a provarlo, dovevo sforzarmi di tenere la bocca chiusa.


«Bene. Regola uno: il mio caffè nero dovrà essere sempre poggiato sul mio tavolo, assieme a tutte le pratiche di cui dovrò occuparmi.
Regola due: quando la chiamo, lei mi raggiunge. Odio aspettare e se io le dovessi chiedere di saltare, lei lo farà.
Regola tre: qui si lavora, si scordi il cellulare.
Regola quattro: è severamente vietato piangere o piagnucolare. Se mai dovessi vederla piangere, la licenzio.
Ha solamente quattro regole da rispettare, è in grado di farcela? È in prova fino alla fine del mese. Se sarò soddisfatto del suo operato, potrà rimanere, altrimenti la licenzierò. Ora scatti!», corsi letteralmente allo Starbucks più vicino per comprarli il suo dannato caffè.


Sapevo sarebbe stato un mese di puro inferno e avrebbe fatto di tutto pur di licenziarmi.

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