L'Ultima Mela di Iðunn

di Calia_Venustas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Adam, Eve and the Apple ***
Capitolo 2: *** Naglfar ***
Capitolo 3: *** Seiðr ***
Capitolo 4: *** Sigyn ***
Capitolo 5: *** Skellig ***
Capitolo 6: *** Narfi ***



Capitolo 1
*** Adam, Eve and the Apple ***


NOTA DELL'AUTRICE: Questa storia è il risultato della mia attuale ossessione per la figura mitologica del Dio Norreno Loki, ironicamente scaturita non dal suo ruolo nell’universo Marvel ma in seguito al mio recente playthrough del nuovo God of War. Il Loki rappresentato qui però trae ispirazione da varie fonti, prima fra tutte la mitologia, e non si rifà in modo diretto al personaggio del videogioco. Non aspettatevi un Loki bello e giovane, il mio Dio degli Inganni è un sopravvissuto del Ragnarǫk, ormai vecchio e un pò burbero, ma non per questo meno brillante e screanzato di quanto fosse in gioventù. In fin dei conti, tra tutti gli Aesir e Vanir è stato lui a ridere per ultimo!
Da God of War, ho preso in prestito l’idea di esplorare il tema della famiglia in quanto il nostro caro Trickster God ne ha una alquanto peculiare ed allargata.
Non so ancora di quanti capitoli si comporrà questa storia, ma in ogni caso spero che vi piaccia e, se vi va, lasciate pure una recensione!

- Calia
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La pioggia batteva incessante sull’asfalto quando suo marito l’aveva caricata in macchina. Non era la peggior tempesta che avessero mai affrontato chiusi nella loro utilitaria ma quella sera Leandra e Steven sentivano che qualcosa sarebbe andato storto, soprattutto lei che accasciata sul sedile posteriore a stento riusciva a trattenersi dallo scoppiare in preda ai singhiozzi.

Steven schiacciò l’acceleratore e i fari gialli fendettero la pioggia, illuminando il viale alberato che separava la loro vecchia casa dalla statale. “Andrà tutto bene, Lea. Vedrai.” la rassicurò con quella sua voce calda, una voce che Leandra non avrebbe mai dimenticato né smesso di amare nonostante tutto quello che il futuro aveva in serbo per lei in quella notte così fausta.

Il tergicristalli schizzava freneticamente avanti e indietro, spalando via quelli che sembravano litri e litri di acqua.

Leandra gemette, le mani insanguinate premute contro il ventre gonfio. Credeva che sarebbe morta lì, in quel preciso istante. Non sentiva altro che dolore, tutt’intorno lo scrosciare della pioggia contro la carrozzeria era assordante e il cuore le batteva così forte nel petto da sembrare sul punto di scoppiare.

Steven distolse l’attenzione dalla strada per rivolgere uno sguardo angosciato in direzione della donna, continuando a ripetere parole di conforto. L’ospedale non era lontano e le doglie erano appena iniziate, ma la gravità della situazione era chiara ad entrambi: Leandra era solamente al settimo mese di gravidanza anche se non lo sembrava affatto.

“Gemelli!”, aveva annunciato vivacemente il dottore mostrando alla coppia una sbiadita radiografia dove a malapena si potevano distinguere due embrioni ancora tutt’altro che formati. Paura e gioia avevano assalito la giovane donna, perchè sapeva che il parto non sarebbe stato semplice, nella sua famiglia i gemelli erano cosa comune in quanto si riproponevano almeno una volta per generazione. Leandra ricordava con affetto i giorni passati a sfogliare le vecchie foto della nonna che, allora giovane, bellissima e con i capelli cotonati posava a fianco della sorella identica a lei in tutto e per tutto. Poi, ovviamente c’erano i suoi nipotini di dieci anni, figli di suo fratello Desmond, due pestiferi diavoletti fulvi e lentigginosi come solo gli irlandesi purosangue potevano essere. E i cugini di Boston, maschio e femmina, omozigoti.

Ma Leandra non si aspettava di essere la prossima Halloran a mantenere viva quella curiosa tradizione di parti gemellari. Bastava guardare una qualsiasi foto di famiglia per capire che, sebbene condividesse legalmente il loro cognome, quella donna dai capelli neri e la carnagione olivastra non fosse originaria dell’Irlanda.

Eppure, quasi a voler cementare la sua appartenenza agli Halloran, il destino le aveva inviato due bambini, notizia che ovviamente aveva deliziato l’intera famiglia e suo marito prima di ogni altro.

Anche se adesso quei gemelli prematuri la stavano uccidendo.

Annaspò sul sedile posteriore come un’annegata, aggrappandosi alla portiera mentre un’altra contrazione così violenta da scuoterla da capo a piedi le strappava un grido lancinante. Il sangue grondava copioso tra le sue gambe e giù dal sedile, impregnando la moquette dell’abitacolo.

Steven sentì l’odore metallico invadergli le narici e schiacciò l’acceleratore fino in fondo, le mani madide di sudore serrate sul volante. Avrebbero dovuto restare a casa e aspettare l’ambulanza, Lea avrebbe dovuto stare distesa e al sicuro, non venir sballottata su un sedile duro mentre il cielo riversava su di loro un nuovo diluvio universale.

Gli alberi e il guard rail erano appena visibili oltre il muro d’acqua e i fari non abbastanza potenti da illuminare più di un metro d’asfalto alla volta.

L’impatto fu terribile.

Il cofano s’accartocciò come cartone mentre l’auto si capovolgeva e i vetri esplodevano. L’acqua invase l’abitacolo, mischiandosi al sangue. Le ruote posteriori giravano ancora quando il cuore di Steven smise di battere, il bel volto lentigginoso fracassato contro lo sportello, schegge di vetro che gli affondavano negli occhi e nel collo. L’airbag non aveva fatto altro che peggiorare le cose.

Leandra giaceva scomposta sul sedile anteriore, riversa su un fianco e schiacciata dal ventre sproporzionatamente gonfio, una gamba maciullata tra le lamiere, gli occhi sbarrati alla flebile luce della luna, il volto cereo fradicio di pioggia.

A pochi passi dalla carcassa ritorta dell’auto, qualcosa si mosse sull’asfalto. Scuotendo la grande testa cornuta, il cervo bruno che era appena stato investito si alzò vacillando sulle zampe, apparentemente illeso. L’animale scrollò la pelliccia grondante e anziché fuggire nella foresta esitò un momento, come se stesse ponderando sul da farsi. Tutt'intorno regnava un silenzio surreale rotto soltanto dallo scrosciare della pioggia e il ritmico beep dei sistemi di sicurezza del veicolo distrutto.

Alla fievole luce dei fari ancora accesi, la forma del cervo sembrò svanire e ricomporsi nella foschia assumendo le fattezze di qualcosa di quasi umano. L’essere avanzò verso l’auto, volgendo la testa ancora sormontata da grandi corna per scrutare oltre il parabrezza. L’oscurità volteggiava attorno a lui, avvolgendo la figura in una cappa di ombre liquide che sembravano espandersi e contrarsi all’unisono col suo respiro.

Gettò appena uno sguardo all’uomo morto seduto al posto di guida prima di strappare la portiera anteriore dal resto della carrozzeria senza alcuno sforzo e allungarsi all’interno per raggiungere la donna.

Tese una mano dalle unghie incrostate di terra per posarla sul suo ventre gravido, incurante del sangue. Sentì qualcosa muoversi sotto la pelle arroventata, ma non avrebbe saputo dire se si trattasse dei gemelli o degli ultimi spasmi della donna morente. Si avvicinò ancora, scavalcando le ginocchia di Leandra per prendere posto al suo fianco nell’abitacolo capovolto, ispezionando il suo corpo come un animale avrebbe fatto con una carcassa, fiutando i capelli neri madidi di sudore e affondando le dita nella carne.

Era nel fiore degli anni, sana, florida, perfetta per generare figli forti e sani. Tracciò l’ovale del suo volto con l’indice, ponderando sul da farsi. La donna respirava ancora, ma non avrebbe continuato a farlo ancora per molto vista la rapidità con cui perdeva sangue. Era soltanto colpa sua se era ridotta in quello stato, ma a lui non importava molto della vita degli umani, a differenza di altri suoi simili, non gli trovava poi così interessanti. Ma se c’era qualcuno per cui l’essere dalle lunghe corna provava un minimo di empatia, quel qualcuno era sicuramente una femmina gravida.

Non importava che fosse una mortale, un’orsa o un mostro, se portava in grembo una vita, come lui stesso aveva fatto ormai molti secoli orsono, Loki non poteva restare indifferente.

Sollevò il capo della donna con delicatezza, frugando nelle tasche del suo pastrano fatto di ombre e foglie morte alla ricerca dell’ultima mela di Iðunn in suo possesso. Un solo morso era sufficiente a tenere in vita quelli come lui per centinaia e centinaia di anni, ma un mortale doveva consumarla intera per trarne un qualche beneficio.

Odino diceva sempre che la fibra di cui sono fatti gli uomini non è la stessa degli Dei, eppure anche il Padre di Tutto era morto, proprio come gli altri, come muoiono gli uomini. E, a differenza di quanto dicevano le leggende, non era stato per causa sua.

Tornò a guardare la donna tra le sue braccia e la sentì tremare, scossa dall’anemia e dalle contrazioni. I gemelli non sembravano curarsi del fatto che la loro madre stesse per morire e il Padre delle Menzogne gli avrebbe accontentati.

Anche se questo significava rinunciare agli ultimi secoli che gli restavano da vivere su Midgar, perchè i meleti di Iðunn erano tutti andati distrutti all’arrivo del Fimbulvetr, l’implacabile inverno che precedette la fine di tutte le cose.

Loki addentò la mela gialla ed avvizzita, ultima della sua specie, e cominciò a masticare senza inghiottire. Un morso alla volta, divorò il frutto fino al torsolo assaporandone la dolcezza sulla lingua. Poi, con le guance piene di polpa sminuzzata attirò il volto della mortale verso di sé, premendo con decisione le labbra screpolate contro quelle ormai esangui della donna e iniziò a spingere il cibo con la lingua come avrebbe fatto un uccello che rigurgita insetti e briciole di pane direttamente nelle gole dei propri pulcini affamati.

Rise di sé stesso nello scoprirsi a chiudere gli occhi e a godersi quel contatto così umano. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva baciato qualcuno? La mortale stava a poco a poco riacquistando calore, i bocconi di mela che le scendevano lentamente giù per la gola mentre il Padre delle Menzogne tornava a concentrarsi sul ventre della donna, tastandolo con entrambe le mani con l’abilità di un dottore. Quello che scoprì non gli piacque affatto, ma non c’era più tempo da perdere. I gemelli dovevano nascere, oppure l’ultima mela incantata degli Aesir sarebbe andata sprecata.

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Capitolo 2
*** Naglfar ***


 

Leandra aprì gli occhi.

Le sembrava di aver dormito per mille anni e si sentiva completamente intorpidita. Sollevò a fatica la mano destra per portarsela alla fronte bruciante di febbre. La testa le girava e sulla lingua sentiva un disgustoso sapore dolciastro, come di frutta così matura da essere quasi marcia.

I suoi pensieri erano confusi, un vortice di ombre e luci, Steven che la chiamava, i fari accesi nella notte, gli alberi, la foresta, il sangue.

Schizzò a sedere, tastandosi il ventre con incredulità. Sotto la maglia azzurra e sporca vi era soltanto un addome liscio screziato di smagliature. Il peso che per sette mesi l’aveva accompagnata era sparito, la nausea era sparita, così come il dolore.

Aveva partorito sotto anestesia? Era svenuta? Non ricordava niente… si guardò intorno con circospezione, il nome di Steven sulla punta delle labbra, pronto a sfuggirle in un richiamo inquieto. Ma tacque, rendendosi conto di non essere in una camera d’ospedale nè in nessun altro posto a lei familiare.

La stanza era interamente costruita in legno grigio e levigato, come quello ricavato dagli alberi che sono andati alla deriva in mare per troppo tempo. Non vi erano finestre e il letto su cui era adagiata odorava di paglia e salsedine. Alle pareti, ampi arazzi scoloriti e sfilacciati davano all’ambiente un’atmosfera antica ed inquietante, così come faceva la lampada ad olio posata su una sedia a fianco del letto. Sembrava una stanza rimasta a lungo in disuso ma che qualcuno s’era frettolosamente premurato di ripulire.

Non aveva la minima idea di dove si trovasse.

Né di dove fossero Steven e… i bambini.

Vacillando sulle ginocchia, Leandra si alzò in piedi combattendo l’attacco di panico che stava per assalirla. I suoi piedi nudi fecero scricchiolare le assi del pavimento mentre con passi incerti raggiungeva la porta, serrando le mani pallidissime sulla maniglia d’ottone.

“Steven?”

La porta era aperta e la donna si trovò di fronte un lungo corridoio punteggiato da porte e stanze identiche a quella in cui si era risvegliata.

Avanzò esitante, guardandosi alle spalle con circospezione temendo che qualcosa potesse aggredirla ma nei paraggi non sembrava esserci anima viva. Il corridoio fievolmente illuminato era vuoto e silenzioso, soltanto lo sciabordare delle onde sembrava penetrare le spesse pareti di legno slavato.

Leandra abbandonò lo schiena contro la parete per combattere le vertigini improvvise. Erano l’avvisaglia di un altro svenimento oppure il pavimento si stava davvero muovendo? Le pareva che oscillasse impercettibilmente, come il ponte di una nave.

Ovviamente era assurdo. Come diamine ci era arrivata sulla costa? Per quanto tempo era rimasta incosciente? Chi l’aveva portata lì? Le domande si accavallavano l’una sull’altra nella sua testa, impedendole di pensare lucidamente. Doveva esserci una spiegazione razionale. Eppure, più camminava, oltrepassando una stanzetta dopo l’altra più si convinceva di trovarsi realmente nella stiva di un’antica nave. Tendendo l’orecchio, le sembrava persino di sentire il grido dei gabbiani.

Cominciò a correre, diretta verso le scale che aveva scorto all’estremità opposta del corridoio “Steven! Steven dove sei?! Cosa sta succedendo?!” chiamò, sempre più angosciata, incerspicando sui ripidi gradini finché non sbucò all’aria aperta e il pallore del sole della mattina l’accecò, costringendola a sollevare un braccio per proteggere gli occhi dal riverbero.

Il vento carico di salsedine le riempì i polmoni, gonfiandole i capelli neri. Col fiato corto e gli occhi sgranati, Leandra si guardò intorno, girando su sè stessa per razionalizzare il panorama sconcertante che le si era appena parato davanti. Il Mar Celtico s’increspava in lunghe onde grigie davanti a lei mentre alle sue spalle s’ergeva un’immensa formazione rocciosa ricoperta di erba ingiallita dal sole. Alghe morte e ricci di mare ricoprivano gli scogli tra cui la nave su cui si trovava era incagliata e le sue vele stracciate garrivano al vento come stendardi sulle torri di un castello.

Un alto corrimano scolpito separava il ponte dalle fiancate spioventi e a poppa, seduta sulla polena a picco sull’oceano come se niente fosse, stava una figura solitaria vestita di nero.

Le spalle larghe lasciavano intuire che si trattasse di un uomo, ma i lunghi capelli fulvi che sfuggivano dal cappuccio calato sugli occhi suggerivano il contrario. Chiunque fosse, non sembrava essersi accorto della sua presenza, intento com’era a contemplare qualcosa che teneva stretto tra le braccia.

“H-hey…” esordì la donna facendo un passo in direzione dello sconosciuto “Vi prego, ho bisogno d’aiuto. Non so dove mi trovo e-”

“Shh. Sta dormendo.” la zittì lui voltantosi lentamente, un dito lungo e pallido premuto sulle labbra.

Fu soltanto allora che Leandra realizzò che il fagotto che l’uomo (perché sì, di un uomo si trattava) teneva in braccio era un bambino in fasce.

“E’ una bellissima bambina. Congratulazioni, Leandra.”

Leandra sentì un brivido correrle lungo la schiena “Chi… chi è lei? Come sa-?” farneticò, ancora troppo scossa per formulare frasi coerenti.

“Mi sono permesso di frugare nelle vostre cose, ho letto il nome sul passaporto. Ho già contattato l’ospedale, un’ambulanza sarà qui nel giro di venti minuti.” rispose placidamente lui, rimettendosi in piedi senza però abbandonare il suo posto all’estremità della nave. “Anche se vedo che vi siete completamente ripresa. E’ un vero sollievo. E, come vedete, anche la piccolina sta bene.”

Leandra fece rimbalzare lo sguardo tra lo strano volto dell’uomo e quello seraficamente addormentato del neonato. “Piccolina…?”

“Oh sì, è una signorina. Una vera combattente, se posso permettermi. Non ha fatto altro che tirare calci da quando è venuta al mondo. Sorprendente, considerando quanto è piccola.”

La donna scosse il capo come per schiarirsi le idee, la testa che ancora le dava fitte dolorose. “E’... mia?”

“Non la vuole?”

Quella risposta velata di sarcasmo la riportò coi piedi per terra “Risponda alla mia domanda!” sbottò, coi nervi a fior di pelle.

L’uomo sorrise e Leandra provò un’istintiva repulsione per quel ghigno troppo largo impresso su labbra ricoperte di cicatrici.

“Sì, è sua figlia. Mi sono preso cura di lei mentre era incosciente, ma dovrebbe allattarla al più presto, appena si sveglierà, è molto debole. La poverina stava morendo di fame.” Così detto, lo sconosciuto coprì la distanza che lo separava dalla donna dai capelli corvini, scavalcando il corrimano senza alcuno sforzo.

Leandra lo guardò avvicinarsi senza dire niente, ma dovette combattere l’istinto di indietreggiare. Qualcosa nella sua figura le incuteva un timore che andava ben oltre la diffidenza che chiunque con un briciolo di buon senso proverebbe per un perfetto sconosciuto in una situazione così surreale.

Era alto e magro, probabilmente sopra il metro e novanta. La sua postura curva e il naso aquilino ricordavano a Leandra le fattezze di un uccello, forse un corvo, forse uno sgraziato avvoltoio. Aveva mani grandi e nodose, indurite dai calli, ma la cosa che più di ogni altra catturò l’attenzione della donna furono le vistose cicatrici che gli sfregiavano le guance e le labbra. Le prime sembravano bruciature, forse causate da uno schizzo d’acido. Le seconde erano strani fori ormai cicatrizzati tutt’intorno alla sua bocca, equidistanti, decisamente troppo simmetrici per essere causati da una qualche malattia della pelle.

Era come se qualcuno gli avesse cucito le labbra per impedirgli di parlare.

A quel pensiero, Leandra rabbrividì.

Lo sfregiato le mise la bambina tra le braccia, scostando un lembo della copertina di lana per scoprire il visino roseo e paffuto. Per essere prematura di due mesi, era tutto sommato piuttosto pesante e nel sentire il suo cuoricino batterle contro la mano, per un solo istante, Leandra dimenticò la situazione assurda in cui si trovava e rimase imbambolata a fissare la piccola. L'istinto materno che combatteva ferocemente con la sua razionalità e il bisogno di comprendere cosa fosse succeso. Alzò gli occhi di scatto “Dov’è sua sorella?”

L’uomo chiuse gli occhi, sospirando con fare rassegnato. “Fratello. Era un fratello. E non ce l’ha fatta, mi dispiace.”

Leandra si aggrappò al braccio dello sconosciuto come se quel contatto l’aiutasse ad incassare meglio il colpo. “Dov’è?”

“Ai cancelli di Hel, immagino.” (“At Hel’s gates, I suppose.”*)

“Cosa…?” balbettò lei tirandolo ancor di più a sè, stavolta con forza, costringendolo a guardarla.

“E’ nato morto, Leandra. L’ho seppellito. Credetemi, non avreste voluto vederlo.” Mentì lui. In realtà aveva bruciato il corpicino come si confaceva ad un innocente. Meritava un funerale degno, meritava di incamminarsi senza peso verso Helheim, non di marcire in una cassa di legno dopo un vacuo funerale cattolico. Loki non era mai stato molto presente come padre, ma amava molto i suoi figli e Hel, la Signora dell’Oltretomba, era senza alcun dubbio la sua figlia preferita. Mentre bruciava il corpo del neonato sulla battigia sassosa aveva rivolto una muta richiesta proprio a lei, che non vedeva da così tante lune, pregandola di accogliere quel piccolino che non aveva conosciuto altro che il ventre materno.

“Come- perchè?! Ho il diritto di sapere cos’è successo al mio bambino! Chi mi ha fatta partorire? Come sono finita qui!?” gridò Leandra continuando a scrollarlo. La bambina che teneva in braccio si svegliò e iniziò a piangere a squarciagola, costringendo Leandra a lasciar andare il Dio dell’Inganno per accostarsi la bambina al petto. “Rispondimi!”

“So che siete sconvolta.” disse lui in un sibilo. “Ma non m’importa. Tra poco andrete per la vostra strada e io per la mia. Non c’incontreremo mai più, perciò non perdete tempo con domande come queste. Anche se vi rispondessi, non mi credereste.”

“E allora dovrei credere che un’ambulanza verrà a prendermi in questo posto sperduto? Per quanto ne so, potresti avermi rapita! Potresti aver preso mio figlio e-!”

Lui s’abbassò il cappuccio, ravviandosi i foltissimi capelli rossi striati di grigio. Doveva avere all’incirca quarant’anni, forse cinquanta, difficile dirlo visto che il suo viso era così deturpato, ma i suoi occhi brillavano di una vivacità sorprendente. E c’era qualcosa di oscuro nel blu oceano delle sue iridi. Qualcosa che a Leandra non piaceva affatto.

“Verranno. Non vi ho rapita, vi ho salvata. Non ho preso vostro figlio, l’ho solo indirizzato verso l’altro mondo. Queste sono domande a cui posso rispondere. Adesso però dovreste riposare e prendervi cura della bambina. Ha molta fame e i vostri seni sembrano colmi di latte.” Così detto, Loki fece per voltarle le spalle ed allontanarsi, ma lei lo prese in contropiede “Voglio un cellulare.”

“Temo che il vostro si trovi ancora nell’auto.”

Leandra si morse le labbra, la bambina che ancora s’agitava tra le sue braccia.

Giusto, l’auto!

La pioggia, gli alberi... l’incidente!

“Dov’è mio marito?” le parole le uscivano a fatica, un’ombra le gravava sul cuore, le ginocchia si fecero improvvisamente deboli. Temeva di conoscere la risposta. Se lo sentiva nelle viscere ed era sul punto di svenire, o vomitare. Forse entrambe le cose. Una goccia di sudore freddo le scese lungo la tempia.

L’espressione sul volto dello sfregiato restò immutata. “E’ morto.”

Tornò a darle le spalle “Non ha sofferto. Non credo ne abbia avuto il tempo.”

“C-come lo sai…? Rispondimi maledizione!” strillò lei cadendo in ginocchio, lacrime calde e pesanti che le rotolavano giù dagli occhi mentre la bimba strillava e si dimenava sempre più forte, spaventata e confusa.

“E’ me che avete investito.”



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NOTA DELL'AUTRICE: Grazie per aver letto fin qui! Certo, in questo secondo capitolo Leandra non brilla di certo ma si trova in una situazione alquanto surreale e non voglio ignorare quanto scossa si senta in questo momento. Loki già inizia a farsi vedere per il bastardo che è, ma al tempo stesso spero di essere riuscita a comunicare che sotto sotto non ha cattive intenzioni. Semplicemente non vuole avere a che fare con la povera umana più del necessario ma, capriccioso com'è, ha imposto al gemello della piccolina appena nata un servizio funebre in stile vichingo con i controfiocchi. Approfondirò successivamente il perchè di questa scelta apparentemente un pò campata per aria ma per adesso vi basti sapere che ha a che fare con Hel.
Ci vediamo nel prossimo capitolo!

- Calia
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Capitolo 3
*** Seiðr ***


“E’ me che avete investito.”

Quelle parole sembrarono echeggiare attorno a lei, sospinte dalla brezza carica di salmastro. Stringendo al petto la piccola piangente, Leandra si lasciò andare ai singhiozzi. Niente aveva più senso.

Loki distolse lo sguardo, e abbandonò Leandra sul ponte di Naglfar, o meglio, della nave che il Dio aveva costruito con i materiali recuperati dal relitto della Naglfar originale. Gli alberi bianchi da cui il suo legno era stato ricavato crescevano solo nei più profondi recessi di Helheim, nelle  fosse dove i morti che il Valhalla non accoglieva venivano scaraventati.

Gli alberi, ritorti ed altissimi, erano continuamente scalati dalle anime nel disperato tentativo di andarsene, ma nessuna era mai riuscita a salire abbastanza in alto da ritornare nel mondo dei vivi. La corteccia era stata graffiata da migliaia e migliaia di mani le cui unghie spezzate adesso ricoprivano completamente i tronchi alti come montagne.

Scese le scale, il Dio trasse un sospiro, passandosi una mano sul volto deturpato e chiedendosi cosa diamine gli fosse saltato in testa.

Perché non aveva lasciato quella donna al suo destino? Avrebbe potuto abbandonare il luogo dell’incidente e sparire nella foresta senza neppure mutare la sua forma di cervo. Non c’era niente che quell’umana potesse offrirgli, ma del resto, ormai solo pochissime cose al mondo destavano il suo interesse. Midgard era sempre stata un mortorio a confronto degli altri otto regni, ma da quando il Bifrost era andato distrutto, viaggiare era diventata una vera rogna.

Soprattutto adesso che gli umani avevano riempito il cielo di satelliti e le strade di telecamere. L’ultima volta che Naglfar aveva salpato era stata durante la Seconda Guerra Mondiale. Allora, gli umani erano troppo intenti a farsi saltare in aria a vicenda per curarsi del suo vascello e Loki si era persino avvicinato alle loro imbarcazioni cariche di strumenti di morte, passeggiando sulle portaerei come uno dei tanti gabbiani che andavano a riposare sulle fusoliere degli aerei da combattimento.

A lungo aveva vagato, osservato, cercato neppure lui sapeva cosa. La moderna società dei mortali non lo entusiasmava e ormai da molti secoli aveva iniziato a rifuggire anche quella dei suoi simili. Gli Aesir e i Vanir non esistevano più, sebbene Loki sospettasse che Heimdallr fosse ancora in circolazione anche se non s’era mai preso la briga di controllare. In effetti, era dai tempi del Ragnarǫk che non ricercava attivamente la compagnia di altri immortali.

Del resto, era andata così bene l’ultima volta che avevano avuto la loro gran rimpatriata! Fiumi di sangue avevano bagnato la terra e il sole e la luna si erano eclissati. Cosette da niente, insomma.

Ma questo non significava che non avesse avuto contatti con altri immortali, tutt’altro. Da quando s’era sparsa la voce che era sopravvissuto (e c’era voluto più tempo di quanto Loki s’aspettasse) erano stati gli altri ad andarlo a cercare. Spesso si trattava di divinità più giovani, curiose di sviscerare la natura di colui che aveva causato nientemeno che la fine del mondo. Volevano conoscere i suoi segreti, udire le sue storie. Altri invece, erano così antichi da precedere l’esistenza di Midgard stessa, signori delle stelle capaci di compiere prodigi ben oltre la portata di entità come lui, o Kali, o Chernobog e suo fratello Belobog, Bast e Artemide. Una manciata di nomi tra quelli che, per quanto Loki ne sapeva, ancora si muovevano invisibili sulla superficie del pianeta.

Il solo da cui il Padre delle Menzogne amava davvero ricevere visite era proprio uno di quegli antichissimi ed elusivi signori del cosmo che avrebbero potuto ucciderlo con uno sguardo, senza muovere un solo dito. Forse era per questo che Loki apprezzava sinceramente la sua compagnia. Non poteva mai sapere se la serata si sarebbe conclusa con un addio o un arrivederci e lui aveva sempre amato il rischio.

Sorridendo al ricordo di un episodio piuttosto divertente di cui lui e il suo imprevedibile amico si erano resi protagonisti, Loki sfiorò con la punta delle dita il legno bianco della cambusa, carezzando le assi della nave come fossero il dorso di un amato destriero.

A quel comando, il vascello si mosse per la prima volta dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

Un vento gelido invase la stiva, salendo dai piani inferiori della nave ed espandendosi fin sul ponte dove Leandra ancora stava pietrificata dallo sconforto. Loki sentì le anime dannate di Helheim sfiorarlo mentre passavano, invisibili e gelide, per raggiungere i loro posti di rematori.

Leandra si alzò in piedi e come in trance si trascinò fino al parapetto, guardando in basso mentre la nave scricchiolava e gemeva liberandosi dagli scogli e dai cavalloni per librarsi in aria come il vascello di Capitan Uncino.

Stava ancora fissando il mare farsi sempre più lontano quando la voce dello sfregiato le giunse nuovamente alle orecchie “Ti lascerò sulla cima. Nel giro di pochi minuti arriveranno i soccorritori.” disse lui, affiancandolesi ed indicando la scogliera. “Prenditi cura di te.”

Pallida come uno spettro, Leandra non ebbe neppure la forza di girare gli occhi per guardarlo “Sono impazzita. Devo esserlo, non c’è altra spiegazione.”

Loki fece spallucce, rifiutare il soprannaturale era una classica reazione dei mortali, la più scontata, la più immediata. Davano la colpa al loro cervello, allo stress, ai traumi. Proprio come si rifugiavano nelle menzogne di religioni inventate da un branco di zotici per sfuggire alla paura dell’ignoto e della morte. Erano così patetici.

“Prenditi cura di te, Leandra.” disse però, ingoiando tutta la bile e sforzandosi di suonare gentile. Del resto, portarla lì era stata una sua decisione. Stendere il suo corpo febbricitante su una lettiga e assisterla durante il parto con una professionalità tale da fare invidia a tutte le levatrici mai esistite era stata una sua decisione. Non poteva lamentarsi ora, cacciarsi in situazioni scomode era sempre stata la sua specialità, così come lo era tirarsene fuori.

Se non altro, aveva passato una giornata diversa dal solito, immerso fino ai gomiti nel sangue di una partoriente, ripensando ai propri figli sparsi per il mondo, alcuni vivi, altri massacrati, altri imprigionati dalla loro stessa natura sin dalla nascita.

La donna al suo fianco serrò le labbra tremanti e finalmente trovò il coraggio di guardarlo. I suoi occhi rossi di pianto si fissarono contro quelli del Dio, colmi di paura, frustrazione ma anche collera. “Dimmi chi sei.”

Sembrava sul punto di tirargli uno schiaffo, forse di cavargli gli occhi a mani nude. Loki aveva visto fin troppe donne e Dee in azione per sottovalutarle. Nutriva per loro un certo reverenziale rispetto e a lungo aveva temuto la magia delle madri e delle streghe prima di imparare a padroneggiarla lui stesso. Forse era anche per questo che non menzionava mai suo padre quando gli veniva chiesto di proclamare la sua discendenza. Sua madre, incuteva decisamente molto più timore ed il suo nome era degno di essere gridato sui campi di battaglia.

“Conoscete le leggende dei popoli scandinavi? O, forse farei prima a chiedervi se avete visto qualche film di supereroi di recente.” domandò in un sussurro velato di sarcasmo.

Lo sguardo di Leandra si fece ancora più tagliente mentre il vento prendeva a soffiare con più forza, gonfiando le vele sbrindellate. La piccola infagottata tra le braccia della madre riprese a piangere a squarciagola, ma Loki la placò con un gesto della mano, un semplice incantesimo Seiðr che la tranquillizzò all’istante.

Leandra sobbalzò alla vista delle scintille azzurre che percorsero le dita dello sfregiato e della reazione immediata della piccola. “S-sei una specie di stregone?” balbettò indietreggiando, il freddo che le aggrediva la pelle.

“Sono stato chiamato così, sì.” ammise Loki con un sospiro “Ma ciò che sono realmente voglio che resti per sempre un mistero, mi piacciono le storie che avete fabbricato sul mio conto, perciò perché annoiarvi con la verità? Sappiate solo che mi chiamo Loki, figlio di Laufey, e che posso mutare il mio aspetto a piacimento. Ero un cervo quando mi avete investito e ora sono un uomo perchè ho avuto bisogno di mani per trasportarvi e di una bocca con cui parlarvi. Domani sarò un falco, forse una donna o un mostro marino. Chissà.”

Lei non sapeva cosa rispondere, come processare quella rivelazione così assurda senza provare il desiderio di ricoverarsi spontaneamente in psichiatria. Quel tizio doveva averla drogata, doveva trattarsi tutto di un’allucinazione o di un sogno. Le navi non possono volare e di certo lei non stava parlando con una figura mitologica.

Non aveva mai nutrito particolare interesse per le religioni pagane e la sua conoscenza si limitava alle classi di letteratura Greca che aveva seguito all’università e a blockbuster cinematografici come Giasone e gli Argonauti, Harry Potter e Percy Jackson. A Steven piacevano i film della Marvel e andava sempre a vederli con gli amici, ma Leandra aveva passato tutto il tempo a sbadigliare durante ‘Il Primo Vendicatore’ e da allora suo marito le aveva risparmiato quell’agonia.

Comunque, una vaga idea di chi fosse Loki ce l’aveva. Un cattivo, interpretato da un attore principalmente conosciuto per ruoli Shakespeariani per cui le ragazzine andavano matte.

Ma l’uomo che aveva affianco non avrebbe certo attirato i sospiri innamorati di un branco di quattordicenni, anzi, le avrebbe fatte scappare a gambe levate. La realtà delude sempre le aspettative di chi sogna. E lei, per quanto disperatamente cercasse di convincersi del contrario, non stava sognando.

La nave su cui si trovava stava davvero volando e ormai aveva raggiunto la cima della scogliera.


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NOTA DELL'AUTRICE: Come vi comportereste nel ritrovarvi in una situazione così strana? La povera Leandra davvero non sa più che pesci prendere! L'immancabile citazione Marvel è arrivata, ma prometto che non rimarcherò troppo sulla questione. Ho decisio di menzionare la cosa per coerenza perchè è abbastanza ovvio che la gran maggioranza conosce i personaggi della mitologia norrena proprio per via della Marvel. Leggendo i commenti della gente sulla trama di God of War infatti, ho infatti notato che moltissime persone sono convinte che Loki sia il fratello adottivo di Thor, quando in realtà è fratello acquisito di Odino e non perchè è stato adottato, semplicemente i due hanno stretto un patto di reciproco rispetto/tolleranza che è il motivo per cui a Loki erano permesse e perdonate molte marachelle. - Calia

 

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Capitolo 4
*** Sigyn ***


Sigyn colse l’ultima mela d’oro e s’avviò con passo leggero verso il grande palazzo del Padre degli Dei, portando la cesta carica di frutti sottobraccio.

Se fosse stata mortale avrebbe avuto l’aspetto di una vecchia raggrinzita ma per sua fortuna il sangue che le scorreva nelle vene era quello degli Aesir e quindi, nonostante i suoi quasi cento anni, aveva l’aspetto di una ventenne. I capelli neri legati in una morbida treccia le scivolavano sulla spalla e gli occhi d’oro (proprio come le sue mele) scintillavano alla luce del mattino orlati dalle lunghe ciglia. Certo, non era bella come la sua signora, la Divina Freyja, ma per essere una divinità minore Sigyn si difendeva piuttosto bene. Aveva un fisico tonico e la pelle baciata dal sole che splendeva alto sui tetti di paglia intessuta di Asgard.

I suoi piedi nudi calpestarono l'erba soffice della chiostra interna del palazzo mentre l’abito bianco e azzurro frusciava dietro di lei. Il cielo terso vibrava dei colori iridescenti del Bifrost e le colombe tubavano placidamente sui rami possenti delle querce. Sarebbe stata una giornata perfetta se non fosse stato per i venti di guerra che ormai da settimane spiravano sulla città dorata di Odino.

Gli Jötunn, i rozzi abitanti delle lande ghiacciate di Jotunheim erano irrequieti. Le loro streghe avevano gettato le rune e letto oscuri presagi che persino il Padre degli Dei non riusciva ad interpretare e tutti, ad Asgard, sentivano che qualcosa sarebbe presto cambiato e nessuno credeva per il meglio.

Quando Sigyn oltrepassò la porta della sala dei banchetti come faceva ogni mattina, non aveva idea di quale forza del Caos Odino si fosse fatta amica durante il suo ultimo viaggio a Midgar, la terra degli uomini.

Ma intuì che qualcosa era diverso dal solito per via del silenzio sospetto che gravava cupamente sulla sala, solitamente luogo di risate e grandi bevute. Dei e Dee erano seduti come di consueto sui loro rispettivi seggi, ognuno con le proprie insegne scolpite sullo schienale. Due corvi e un grande occhio spalancato erano cesellati sul seggio di Odino mentre Thor e Baldr sedevano su troni rispettivamente decorati con saette e raggi di sole.

Sigyn stessa aveva una sua seduta alla sinistra di Freyja, ma la sua sedia non riportava ancora alcun simbolo poiché lei era ancora troppo giovane per essere proclamata ufficialmente Dea di qualcosa in particolare. Per il momento, era soltanto l’ancella della bella Freyja, Dea dell’Amore e del Desiderio.

La sua signora le rivolse un’occhiata non appena la vide entrare, come per farle intendere che avrebbe fatto meglio a sbrigarsi e così fece Sigyn, guardandosi attorno con aria sempre più confusa.

Fu allora che notò che un nuovo trono, privo d’incisioni proprio come il suo, era stato aggiunto al lato opposto della tavola imbandita di dolciumi e caraffe di idromele.

Prese posto di fianco a Freyja e, posato il canestro di mele si rivolse alla Dea “Buongiorno mia Signora. Abbiamo forse un nuovo fratello?”

Freyja stirò le labbra carnose “Il Padre di Tutti ci sta tenendo sulle spine. Non vuol dirci di chi si tratta. Ma ho ascoltato i mormorii della servitù e spero di tutto cuore che quelle sempliciotte abbiano preso un abbaglio.” confessò lei bevendo una lunga sorsata dal calice d’oro. Freyja era la più bella tra le Dee, alta quanto suo fratello Freyr, bionda come il grano e con un fisico dalle curve abbondanti e morbide che avrebbe fatto impazzire qualsiasi mortale e forse persino qualsiasi Dio. Si diceva infatti, che tutti volessero Freyja come loro sposa, perfino lo stesso Odino nonostante la sua ormai secolare unione con Frigg.

“Cosa dicono le serve?” indagò Sigyn in un sussurro, percependo l’inquietudine nella voce della sua Signora.

“Che Odino è completamente impazzito ed ha intenzione di accogliere tra noi uno Jötunn.”

Nell’udire quelle parole, Sigyn impallidì visibilmente. Gli Dei di Asgard avevano concluso la loro guerra intestina soltanto una cinquantina d’anni prima, Aesir e Vanir un tempo acerrimi nemici, avevano sancito una tregua e unito la propria forza militare e magica. Freyja stessa era una principessa Vanir che come molti altri aveva abbandonato la rurale Vanaheim in favore dei lussuosi palazzi di Asgard. Ma uno Jötunn?

Si poteva trattare con gente civilizzata, non con una razza di selvaggi ed ingannatori. Gli Jötunn erano per lo più predoni e sciacalli, assaltavano le carovane dei mortali quando questi si perdevano nelle tormente di neve, sconfinando nella gelida Jotunheim attraverso le fessure che di tanto in tanto s’aprivano tra i regni. Il loro mondo freddo ed inospitale rendeva i loro cuori duri come pietra e l’invidia che provavano nei confronti delle lussureggianti pianure di Asgard dove animali e bestie favolose di ogni sorta pascolavano e cacciavano era ben nota.

Sigyn ne aveva visti alcuni, in passato. Non erano poi tanto diversi dagli Aesir e Vanir per quanto riguardava l’aspetto fisico, ma sembravano fare tutto il possibile per apparire selvaggi e sgradevoli, pitturando la pelle lattea con sangue rappreso e rasando i capelli di uomini e donne. Le femmine Jötunn erano considerate ben più pericolose dei loro mariti, perché univano l’astuzia alle arti magiche ed erano note per rapire giovani mortali e persino Dei per farne i loro servi o amanti.

La loro magia attingeva direttamente dal caos ed era consentita ad Asgard esclusivamente se Odino lo permetteva. Solo in casi di estrema necessità.

“Lo credete sul serio, mia signora?” indagò la giovane Dea rivolta a Freyja, ma fu suo fratello Freyr a rispondere.

“Il Padre di Tutti è stato più criptico del solito. Non è da escludere che le sguattere stiano dicendo la verità.”

“Non ci credo. Odino conosce la loro natura, sarebbe come invitare una serpe all’interno delal propria tana!” sbottò Freyja posando i gomiti sul tavolo facendo tintinnare i numerosi bracciali d’ottone.

Lui sbocconcellò il pane dolce con aria inquieta. Poi, deglutito il boccone, trasse un profondo sospiro e s’alzò, la spada ricoperta di rune che scintillava appesa alla sua cintura borchiata “Odino, mio condottiero e Re. Sapete che l’impazienza non è nella mia natura ma voci sinistre si rincorrono per il palazzo.”

Baldr, biondissimo e dagli occhi azzurri, gettò un’occhiata in direzione del padre ma Odino restò impassibile. Era un uomo alto e dal portamento solenne, fasciato in una veste verde smeraldo ricamata di foglie di quercia. Sul capo portava una tiara raffigurante un’aquila ad ali spiegate mentre una benda di cuoio gli copriva l’occhio destro che si diceva avesse ceduto in cambio del dono terribile e meraviglioso della conoscenza.

“E di quali voci stiamo parlando, mio buon Freyr?”

Il gemello della Dea del Desiderio indicò il nuovo seggio con un gesto ampio “Si vocifera che il nostro nuovo fratello venga da Jotunheim.”

Un mormorio angosciato percorse la sala e persino Frigg, seduta compostamente al fianco del Padre di Tutti, sembrò rabbrividire al solo pensiero.

Odino annuì “Le voci che avete udito sono vere, miei cari fratelli. Ma come vedete, non c’è niente di cui preoccuparsi. Il nostro ospite non è ancora pronto per debuttare in società, se così possiamo dire ed è’ stata una mia decisione quella di rimandare la sua presenza qui. Avrà bisogno di un po’ di tempo, e così noi. Non sono ancora completamente cieco, fratelli miei e so bene che la presenza di uno Jötunn tra di noi porterà un certo scompiglio. Ma costui è mio fratello tanto quanto lo siete voi, abbiamo stretto un patto e un’alleanza che va ben oltre le divergenze dei nostri popoli.” il Re degli Dei fece una pausa, facendo cenno a Sigyn di distribuire le mele di Iðunn come faceva ogni giorno.

A quel comando, la ragazza scattò in piedi goffamente, ma recuperò in fretta la sua solita compostezza. Odino riprese a parlare mentre uno ad uno, Aesir e Vanir ricevevano la loro dose quotidiana di immortalità direttamente dalle mani di Sigyn.

“In questo momento, il vostro nuovo fratello sta banchettando nelle sue stanze con altrettanto fasto, poiché ho giurato che mai mi sarei concesso una coppa di idromele senza che lui ne potesse bere una altrettanto buona.” l’occhio color ferro del Dio si posò su Sigyn “E la stessa cosa vale per i frutti del meleto di Iðunn. Sigyn, diletta di Freyja e custode della nostra giovinezza, ti prego di serbare una mela per il nostro ospite. Lo troverete nella sala degli arazzi al piano inferiore.”

La giovane Dea per poco non lasciò cadere la cesta “Volete… volete che gliela porti di persona?”

Odino accennò un sorriso “Non morde mica, ragazza mia. O almeno lo spero.”

Sigyn si sentì sprofondare, ma fortunatamente Thor sembrò avvedersi della sua preoccupazione e, alzandosi in piedi come aveva fatto Freyr, dichiarò “Se la vostra Signora è d’accordo, vi scorterò personalmente, Dama Sigyn.”

Freyja fece per rispondere, ma Odino la precedette “No, figlio mio. Una delle condizioni stabilite tra me e il nostro ospite comprende il non incrociare il suo sguardo col tuo.”

Il Dio del Tuono aggrottò le sopracciglia “Perché sottostare ai capricci di questo nuovo venuto? Si reputa così importante da poter scegliere chi poserà o meno gli occhi su di lui?”

“Niente di tutto ciò. In effetti, è piuttosto il contrario. La tua presenza lo intimidisce.”

Sigyn vide un’espressione compiaciuta farsi largo sul volto del guerriero barbuto. Se c’era una cosa che Thor amava più di ogni altra, questa era certamente dimostrare la propria superiorità in battaglia o in qualsiasi tipo di sfida.

Purtroppo, questo significava che Sigyn non avrebbe avuto il figlio del Re degli Dei come sua scorta personale, ma in quel momento il suo sconforto fu soffocato dall’irritazione.

Certo, non era una guerriera provetta come il Dio del Tuono, ma il fatto che quel selvaggio fosse spaventato da Thor ma non da lei la mandava su tutte le furie. Era giovane sì, e una donna, ma era pur sempre una delle Aesir, figlia del giudice degli Dei, l’imparziale e giusto Forseti che in quel momento sedeva alla destra di Baldr.

“Imparerà ad essere intimidito anche dalla sottoscritta.” scandì Sigyn, godendosi l’espressione orgogliosa che si dipinse sul volto del vecchio padre.

“Siate gentile con lui, ragazza.” l’ammonì bonariamente Odino. “E’ nostro ospite, dopotutto.”

Sigyn chinò il capo in segno di scusa “Perdonate la mia insolenza, Padre degli Dei.”

“Non c’è niente da perdonare. Adesso andate, attenderemo il vostro ritorno prima di servire da bere.”

Sigyn si congedò con una riverenza “Non ce n’è bisogno, cominciate pure senza di me.”

Thor e Baldr non se lo fecero ripetere due volte, allungando le mani verso gli sformati di frutta e tuberi dolci.

Lasciandosi alle spalle la sala da cui ricominciava a levarsi il solito vivace chiacchiericcio, Sigyn strinse la mela dorata al petto come per farsi coraggio. Come ogni donna Aesir, anche lei era stata istruita sin dall’infanzia nell’arte della spada e in quel momento ringraziò suo padre per averla resa paranoica abbastanza da portare sempre con sé un corto pugnale.

Farseti conosceva l’anima dei malvagi come nessun’altro. Era il giudice degli Dei, chiamato a risolvere dispute e alterchi di qualsiasi genere oltre che a servire da ambasciatore per conto di Asgard negli altri otto regni. Da lui, Sigyn aveva imparato il significato delle parole giustizia e fedeltà, poiché la fiducia di suo padre nell’operato di Odino era assoluta. Gli altri Aesir e Vanir ogni tanto lo contestavano, anche in modo piuttosto veemente come di certo stava ancora facendo Freyr, ma Farseti sapeva che Odino aveva visto il futuro quando in cambio del proprio occhio aveva ricevuto il dono della conoscenza. Perciò, come si poteva dubitare delle sue decisioni?

Sigyn scese in fretta le scale a spirale e oltrepassò l’elegante porticato ricoperto d’edera che separava l’ala Est del palazzo da quella centrale. La sala degli arazzi era un tempo la sala dei banchetti, ma da quando i Vanir avevano rimpolpato le fila dei signori di Asgard era stato necessario spostarsi in un locale più spazioso. Raggiunto il pesante portone di legno borchiato, la Dea esitò un istante prima di trovare il coraggio di bussare. In giro non vi erano guardie nè servitù di alcun genere e Sigyn nel ritrovarsi completamente sola sentì la propria spavalderia venir meno. Ma doveva farsi coraggio.

In fin dei conti, Odino le aveva assicurato che lo Jötunn non mordeva… probabilmente.

Serrò la mano libera a pugno e bussò tre volte.

“Il Padre degli Dei mi manda a condividere con voi i frutti del meleto di Iðunn.” scandì a voce alta.

La risposta giunse immediatamente, come se chi si trovava dall’altro lato la stesse aspettando con trepidazione. “Chi siete?”

“Il mio nome è Sigyn, figlia di Farseti il Giudice degli Dei.”

La porta si mosse quanto bastava perché il suo interlocutore potesse dare una sbirciata all’esterno. Un bagliore rossastro scintillò oltre la fessura prima di scomparire “Entrate.”

Sigyn serrò la mascella per farsi coraggio e spinse la porta, trovandosi dinnanzi una sala completamente vuota. Forse lo Jötunn era davvero spaventato dagli Aesir, non soltanto da Thor.

Il fuoco scoppiettava vivace nel camino e la lunga tavola dove un tempo avevano banchettato gli Dei era completamente spoglia fatta eccezione per un drappo posto ad una delle estremità su cui erano stati poggiati piatti e vassoi d’argento. Un’unica sedia era posta a capotavola.

Sigyn avanzò con cautela, certa che da un momento all’altro la porta si sarebbe richiusa alle sue spalle facendola sobbalzare ma quel che accadde fu di gran lunga più sorprendente.

Il fuoco strisciò fuori dal camino come un serpente, una lingua sinuosa che percorse il pavimento prima d’ingrossarsi e prender forma, levandosi alta davanti a lei prima di assumere le fattezze di un giovane uomo. Sigyn era così abituata a figurarsi gli Jötunn come barbari coperti di pittura e dai crani rasati che per un istante temette di essere entrata nella stanza dell’ospite sbagliato.

Il nuovo fratello di Odino aveva lunghi capelli rosso fiamma, occhi sottili come schegge di ghiaccio e una figura slanciata e forse fin troppo magra. Era più alto di lei di almeno due spanne ed indossava solamente dei grezzi calzoni ed una cintura con fibbia, lasciando ben visibili i tatuaggi blu che gli segnavano il torace e le braccia. I colori dei disegni geometrici e delle rune erano brillanti e netti, chiaramente opera di un artista bravo tanto quanto quelli che marchiavano i corpi degli Dei di Asgard.

“Non credevo che il vecchio vi avrebbe inviata sul serio, Sigyn, figlia di Farseti. Odino è un uomo di parola. Non me lo sarei mai aspettato.” esordì lui, esibendosi in uno sgraziato inchino che gli fece scivolare i capelli sul volto.

Sigyn si accigliò nel sentirlo apostrofare Odino in modo così poco rispettoso. “La stregoneria della tua gente non è ben vista nel palazzo del Re degli Dei.”

“Diciamo pure che è la mia gente a non essere ben vista, tanto per cominciare.” le rimbrottò lui raddrizzandosi per guardarla dritta negli occhi “Ma sono il vostro nuovo fratello, che la cosa vi piaccia o meno. E se il vecchio non ha niente da obbiettare, che diritto ne ha una donnetta come voi?”

Sigyn strinse i pugni.

“Non mi stupisco che Odino non abbia voluto presentarvi agli altri Dei, questa mattina.” disse con apparente freddezza “Avete molto da imparare su come ci si comporta al cospetto di una Dea.”

“Oh, ma voi non siete una Dea, non ancora.” le fece notare lo Jötunn con un sorriso sghembo e Sigyn sentì lo stomaco rivoltarsi per la rabbia. Il fatto che fosse attraente non faceva altro che rendere il suo ghigno ancora più odioso. Aveva un profilo deciso, le sopracciglia folte e gli zigomi alti, ma anziché trasmettere lo stesso senso di regalità che i bei lineamenti degli Aesir e Vanir trasmettevano, i suoi avevano un non so che di ferino.

“E voi non lo sarete mai.” scandì lei in risposta, porgendogli la mela “Persino un maiale vivrebbe a lungo mangiando una di queste. Ma resterà sempre un maiale.”

“Mi state forse insultando, Sigyn, figlia di Farseti?”

“Vi sto mettendo in guardia. Il Padre di Tutti mi ha chiesto di essere gentile.”

“Carino da parte sua.” soffiò lui afferrando la mela e lanciandola in aria ripetutamente per soppesarla.

“C’è altro che posso fare per voi?” chiese la ragazza, mantenendo inalterato il suo apparente distacco.

“Non volete nemmeno sapere come mi chiamo? Che scortese!” s’imbronciò lo Jötunn, posandosi drammaticamente una mano sul petto.

“Avreste dovuto presentarvi quando l’ho fatto io. E’ così che funziona.”

“Non dalle mie parti. I nomi sono preziosi. E molto privati.”

“Qui non siamo dalle tue parti. E sono più che certa che Odino conosca già il tuo nome.”

“Certo che lo sa.” rispose lui, addentando distrattamente la mela, il succo dolce che gli colava giù per il mento affilato. “Chiedetelo a lui, se proprio ci tenete a saperlo.”

“State pur certo che lo farò.” concluse Sigyn scuotendo il capo con esasperazione. Quando era entrata temeva di dover affrontare un barbaro assetato di sangue, invece si era trovata a battibecco con un ragazzino insopportabile.

Sarebbe potuta andare molto peggio, tutto considerato.

Lo Jötunn la guardò richiudersi la porta alle spalle, continuando a sgranocchiare la mela con l’aria soddisfatta di un lupo che finalmente ha trovato il modo d’intrufolarsi nel pollaio del contadino più ricco dei nove regni.

 

ᛚᛟᚲᛁ

 

Loki si svegliò di soprassalto, la sveglia che suonava imperterrita nella penombra del suo piccolo ma accogliente appartamento nella cittadina di Crookhaven o, come la chiamavano gli Irlandesi, An Cruachán.

La spense con un grugnito, andando a tentoni sul comodino prima di trovare il pulsante. La luce filtrava attraverso le persiane scolorite e Naflgar ondeggiava placidamente ancorata nel porticciolo a pochi metri dalla sua abitazione. Crookhaven contava si e no una sessantina di abitanti, perlopiù pescatori e anziani che passavano le serate al pub ad inveire contro chissà quale fallo in chissà quale sport. Loki l’aveva scelta perchè era un angolo di mondo dimenticato da tutti, dove molte delle bizzarrie che la sua presenza nel regno dei mortali non mancava mai di causare passavano completamente inosservate.

La gente non si domandava perché il mare e la tempesta imitassero il suo umore né perché quello strano uomo vivesse completamente solo a pochi passi dal faro.

Anche se era nato dal fuoco e dal ghiaccio, Loki aveva sempre amato il mare. Forse perchè gli ricordava il caos primordiale, forse perché come lui era scostante ed irrequieto.

Si passò una mano sulla fronte, traendo un profondo sospiro.

Erano almeno trent’anni che non si svegliava pensando a Sigyn e Asgard. Alla prima volta che s’erano incontrati, a come quella strana donna fosse cambiata sotto i suoi occhi, a come l’intero destino degli Dei era stato plasmato dalle loro azioni.

Si chiese se quel sogno così vivido fosse stato causato da quant’era successo la sera prima. Dall’incidente e dalle strane parole di quella mortale. Strano, perchè di cose bizzarre nella vita di Loki ne erano capitate a bizzeffe e Leandra non somigliava a Sigyn neanche un pò. Sì, avevano entrambe i capelli neri ma quella era l’unica cosa ad accumunarle.

Leandra era chiaramente di origini mediterranee, forse addirittura nordafricane, difficile dirlo. Era chiaro che fosse stata adottata da piccola e cresciuta come una vera Irlandese. Sigyn d’altro canto, era una figlia del nord e delle sue leggende. Nei suoi occhi splendeva l’oro di Asgard, la sua pelle era alabastro, il suo volto un ovale perfetto.

Ancora stordito dal sonno, Loki si trascinò fuori dal letto e s’infilò la prima maglia che gli capitò a tiro, nascondendo i segni di frustate che portava ancora sulla schiena. Il suo corpo era stato pugnalato, ustionato e perforato da pallottole mille altre volte dopo il Ragnarǫk, ma soltanto le torture infertegli da altri Dei erano ancora visibili sulla sua pelle. Solo i suoi simili potevano realmente ferirlo.

Sbadigliando pigramente si preparò il caffè ed accese la radio, curioso di sapere se Leandra e la sua ricomparsa sull’isola di Skellig avessero già fatto notizia. Si chiese che cosa si sarebbero inventati i mortali, questa volta, per spiegare quel suo ennesimo colpo di mano.


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NOTA DELL'AUTRICE: Ed ecco a voi un pò di Asgard! Spero che questo saltellare tra il presente ed il passato non sia troppo confusionario. Come vedete mi sono presa alcune libertà riguardo il personaggio di Sigyn, rendendolo praticamente un tutt'uno con quello di Idunn. Il padre di Sigyn è un Dio di cui sappiamo molto poco ma ho pensato che fosse interessante averla come figlia di chi si occupa di far rispettare la legge nel regno di Odino in modo da spiegare il perchè delle sue azioni da qui in avanti. Continuate a seguirmi se vi piace la storia e mi raccomando, recensite!

 

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Capitolo 5
*** Skellig ***


Loki scortò Leandra sulla terra ferma, Naflgar che fluttuava alle loro spalle oltre l’orlo del precipizio.

“Aspettate qui. Stanno arrivando.”

Leandra teneva lo sguardo basso, torturando con le dita l’orlo della coperta di lana grezza in cui la bambina serenamente addormentata tra le sue braccia era avviluppata. Nonostante il gelo pungente, le guance della neonata erano rosee e tiepide.

Loki stava dicendo la verità. In lontananza, la donna poteva già udire il vorticare delle pale di un elicottero, anche se la foschia mattutina non le permetteva ancora di vederlo.

Senza aggiungere altro, il Dio le dette le spalle diretto verso l’imbarcazione e sfiorò il corrimano impartendo un nuovo ordine agli spettri rematori rinchiusi nella cambusa. Lo scafo s’inclinò verso l’alto, apparentemente privo di peso.

La donna guardò la figura scura ed emaciata dell’uomo allontanarsi con un certo senso di sollievo. Ma al tempo stesso una parte di lei stava iniziando a razionalizzare quanto prodigiosa fosse la sua situazione, quanto incredibile e terrificante fosse trovarsi al cospetto di un potere antico ed inspiegabile.

Era come se tutto il mondo le fosse crollato addosso, come se quelle che per tutta la vita aveva conosciuto come realtà e verità si fossero rivelate per le bugie clamorose che erano. Aveva paura, eppure, per un breve, raggelante istante, la presunta morte di suo marito e dell’altro suo figlio svanirono dai suoi pensieri. Aveva paura ma era contenta di essere viva, estatica perfino.

E la bambina che stringeva al petto era fortunata quanto lei. Benedetta, forse.

“Loki…?” lo chiamò con voce esile.

Lui si voltò, i suoi occhi cerulei sembravano lampeggiare all’ombra del cappuccio.

“Perché mi hai salvata?”

L’uomo in nero fu sul punto di rispondere di getto, ma poi si morse le labbra coperte di cicatrici ”Non ho bisogno di una ragione. Il caos guida la mia mano, il caso guida il mio istinto. L’ho fatto perché mi andava.”

“Capisco.” annuì lei tremando “E ti andrebbe anche di farmi un ultimo favore?”

“Credetemi, sono l’ultima persona in tutti i mondi con cui vorreste essere in debito. Non chiedetemi niente che non sono disposto a concedere, potreste pentirvene.” scandì seccamente. “Addio.”

Ma leandra non avrebbe accettato un no come risposta. Corse fino al margine estremo della scogliera, gli occhi grandi ed estatici fissi contro la nave che s’andava lentamente sollevando. Alghe e molluschi pendevano dalle sue assi rimaste così a lungo immerse in acqua, i gabbiani strillavano tutt’intorno. Loki continuava a guardarla, adesso con perplessità.

“Vorrei che fossi tu a scegliere un nome per mia figlia.”

Lui scoppiò a ridere. Una risata acuta e sgradevole. “Non sono il tuo benefattore, donna. Non sono qui per elargire miracoli.”

“Ma mi hai salvata-” cercò di obiettare lei, ma Loki la interruppe, pura irritazione adesso percepibile nella sua voce graffiante. Odiava quando i mortali si comportavano così ancor più di quanto detestava il loro sforzarsi di spiegare le cose con la loro stupida scienza. Sembrava che non ci fosse una via di mezzo, sapevano soltanto essere troppo razionali o troppo superstiziosi. “E ho anche causato l’incidente. Ho ucciso tuo marito e tuo figlio. Non t’importa?”

Lacrime pesanti tornarono a rigare le guance della donna “Non so più cosa sia importante. La tua voce mi ricorda Steven... hai i suoi capelli rossi… il dolore è scomparso e questo sapore nella mia bocca…”

Loki si accigliò. Che strana mortale, forse aveva battuto la testa quando l’auto si era rovesciata, forse era ancora troppo scombussolata per pensare lucidamente o forse la mela di Iðunn stava avendo su di lei effetti collaterali che non aveva previsto. Era una mela ormai rancida, dopotutto. Vecchia di secoli. Forse piena di vermi.

Mentre Naflgar virava, sospinta dal gelido vento del nord, Loki guardò in basso verso l’umana che continuava a fissarlo piangendo, ponderando sul da farsi.

L’elicottero si faceva sempre più vicino, la sagoma scura adesso percepibile oltre la coltre di nebbia e nubi. Doveva decidere in fretta, ma perché mai avrebbe dovuto ascoltare le suppliche di quella donna? Probabilmente l’aveva preso per una sottospecie di angelo custode o altre baggianate del genere.

Inoltre, i nomi avevano un potere terribile ed era bene non scherzarci. Conoscerli significava controllare il fato della persona in questione e dare un nome a ciò che non lo aveva equivaleva all’assegnare ad esso un posto nel mondo, così come la terribile Jotun Laufey aveva fatto con lui tanto tempo prima quando era nato dal fuoco e dal ghiaccio al confine tra Jotunheim e Muspelheim, i reami più antichi della creazione.

Sua madre lo aveva stretto al petto, piccolo, gracile e mostruoso com’era già allora, e l’aveva presentato a tutti i mondi come Loptr, Lokke, Lucky, Locke, Logen, Liuben, Lokkeràn, Lodi, Loki. Nove nomi, uno per ogni regno.

Dare un nome alle cose era indubbiamente una grande responsabilità, e a lui, le responsabilità non erano mai piaciute, motivo per cui aveva lasciato che fosse Sigyn a scegliere come chiamare i loro gemelli, Vàri e Narfi.

Anche se si trattava soltanto di “battezzare” (quanto odiava quella parola!) una bambina mortale, che sarebbe invecchiata e morta molto prima che il Padre delle Menzogne vedesse sorgere il suo ultimo giorno, Loki non aveva alcuna intenzione di influire sul suo fato più di quanto avesse già fatto.

Distolse lo sguardo dalla figura della donna in piedi sull’orlo del precipizio, ormai piccola e sfocata sotto di lui e raggiunse il timone, ruotandolo con maestria verso il mare aperto, confondendosi con la nebbia, diventando un tutt’uno con essa.

Leandra stava ancora fissando il vuoto lasciato in cielo da quel vascello spettrale quando i soccorritori la raggiunsero, procedendo cautamente lungo il promontorio coperto d’erba temendo che fosse una disperata sul punto di gettarsi nel vuoto.

La telefonata che avevano ricevuto era stata così strana che immediatamente il personale del centralino aveva riavvolto il nastro per riascoltarla, scoprendo con stupore che soltanto la voce dell’operatore era stata registrata. Chiunque fosse dall’altro capo del telefono, doveva aver usato un qualche strano dispositivo per manipolare il suono in modo da trasformarlo in un sibilo incomprensibile, eppure la centralinista che aveva alzato la cornetta era certissima di aver sentito forte e chiara una voce d’uomo.

“Signora, mantenga la calma.” esordì il capo dei soccorritori, tendendo amichevolmente una mano in direzione di Leandra che continuava, impassibile, a dar loro le spalle.

“Oh cazzo, ha un bambino con sé!” bofonchiò il pilota dell’elicottero balzando giù dal velivolo che aveva fatto atterrare a poca distanza.

“Siamo qui per aiutarla, qualunque cosa stia pensando in questo momento, le assicuro che-”

Leandra si voltò lentamente, lo sguardo fisso sulla piccola addormentata tra le sue braccia “Non ho alcuna intenzione di buttarmi.”

I soccorritori si scambiarono un’occhiata sbigottita, ma nessuno disse niente mentre la donna s’avvicinava con passo lento. Non sembrava sotto l’effetto di droghe o alcool, ma doveva aver davvero passato un brutto quarto d’ora. La maglia e i pantaloni erano sporchi di sangue secco e il vento le aveva annodato i capelli in una treccia scomposta. I suoi occhi poi, erano lucidi e grandissimi, come se avesse pianto (o forse riso) sguaiatamente per ore.

“Brava, così.” la incoraggiò il medico della squadra affiancandolese e prendendola sotto braccio per aiutarla a camminare “E’ ferita?”

Leandra scosse la testa “Sto bene.”

“Questo sangue-”

“Ho partorito.”

Il medico sbatté le palpebre, gettando un’occhiata stupita alla bambina. Il visino roseo era perfettamente pulito e la piccola dormiva placidamente, forse persino troppo placidamente. Per un istante, il medico temette che la piccolina fosse morta, ma poi s’accorse che respirava. “Quanto tempo fa?”

“Non ero cosciente. Immagino siano passate alcune ore.”

L’uomo avrebbe voluto porle altre domande, ma tenne a freno la propria curiosità ben consapevole che quello non era né il momento né il luogo adatto per un interrogatorio. Ma l’intera squadra non faceva altro che guardarsi intorno pervasa da un opprimente senso d’inquietudine, come se ci fosse qualcosa di innaturale in quell'intera situazione.

E loro ne avevano visti tanti di scenari a dir poco agghiaccianti. Salvare persone in pericolo era il loro mestiere anche se molte volte tutto quel che potevano fare era estrarre corpi freddi dalle macerie o da un relitto. Soltanto la settimana prima, il Dottor Gallagher aveva condotto personalmente l’autopsia su quel poco che restava dei corpi carbonizzati di una coppia di automobilisti rimasti intrappolati nel loro veicolo durante un tamponamento all’interno di una galleria. Era abituato ad essere testimone di eventi a dir poco terribili, a parlare con i sopravvissuti ancora sotto shock, ad ascoltare le grida dei feriti. Eppure, in quel momento, persino lui percepiva qualcosa di incredibilmente... sbagliato nella calma dimostrata dalla donna che avevano appena recuperato sul promontorio più alto dell’isola Great Skellig, separata da oltre trentacinque chilometri di acque burrascose da dove l’auto su cui viaggiava era stata ritrovata con ancora a bordo il cadavere del marito.




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NOTA DELL'AUTRICE: E così, Loki ha preso e se n'è andato! Delusi? Beh, non preoccupatevi, tornerà a farsi vivo prima del previsto e nel frattempo, Leandra avrà finalmente il tempo di rimettere in ordine le idee e decidere come affrontare il futuro adesso che la sua piccina ancora senza nome è l'unica cosa che le è rimasta. O forse no? E soprattutto, come spiegherà ai dottori e alla sua famiglia quel che è successo? Come la prenderanno? Vi anticipo anche (per i lettori maggiormente interessati all'aspetto mitologico della storia) che presto scoprirete anche un paio di cosette sul passato del nostro Dio dai capelli rossi preferito e su come e perchè s'è reso responsabile del Ragnarok tanti secoli addietro :D ci vediamo nel prossimo capitolo! - Calia

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Capitolo 6
*** Narfi ***


 

Leandra non sollevò neppure lo sguardo nel sentire la porta della camera d’ospedale aprirsi per l’ennesima volta.

“Buongiorno Mrs.Halloran. Il Dottor Gallagher mi ha chiesto di venire a scambiare due chiacchiere con voi, lasciate che mi presenti...“

“Immagino siate il cosiddetto ‘esperto’.” lo interruppe freddamente lei, continuando a sfogliare un opuscolo sulla prevenzione delle malattie cardio-circolatorie con aria distratta.

“Non sono uno strizzacervelli, se è questo che vi state chiedendo. Sono il Professor Wagner, docente di storia e letteratura scandinava presso l’Università di Dublino”

Leandra lasciò cadere l’opuscolo in grembo, il braccio destro ancora intorpidito dalla fasciatura che le teneva in posizione la flebo. “Credevo che tutti mi avessero preso per matta.”

Il professore accostò la sedia di fianco al suo letto. Era un uomo longilineo di sì e no trent’anni, ma la barba riccia e gli occhiali spessi lo facevano sembrare molto più vecchio. Indossava un completo di tweed dall’aria piuttosto costosa e portava una cartella nera sottobraccio. “Oh, questo è certo. Non capita tutti i giorni di sentirsi raccontare da una paziente che è stata tratta in salvo da un Dio delle leggende.”

La donna sospirò “Vorrei tanto dare una spiegazione razionale a quel che mi è successo, ma non posso. Anche la polizia ha dovuto riconoscere che non avevo modo di raggiungere l’isola senza un’imbarcazione e-”

“Si rilassi, Mrs.Halloran. Io le credo. E’ tutta la vita che studio e raccolgo testimonianze di persone che sono entrate in contatto con il soprannaturale e so riconoscere le storielle messe in giro da gente in cerca d’attenzione e chi ha veramente sperimentato qualcosa di straordinario. In effetti, sono qui per chiedere la vostra collaborazione.”

Leandra lo guardò di sottecchi “Cos’è, state cercando di reclutarmi in Scientology o qualche altra assurdità del genere?”

Lui mise subito le mani avanti “Certo che no! Vede, i medici là fuori penserebbero che anch’io sono matto se sapessero il vero motivo per cui sono qui. Eccezion fatta per il Dottor Gallagher, ovviamente. E’ stato lui a contattarmi non appena ha ascoltato la vostra storia.”

“Siete venuto fin qui da Dublino?”

“E senza nemmeno chiamare un supplente.” asserì lui con giovialità “I miei studenti saranno furiosi, ma non potevo lasciarmi sfuggire una simile occasione, capite?”

“E così volete che vi dica di Loki.”

“Esattamente. Ma, prima di proseguire, il dottor Gallagher ci tiene a farvi sapere che vostra figlia sta bene, ma che la terranno sotto osservazione per qualche giorno. Credo l’abbiano messa in incubatrice per un pò, visto quanto è piccola. ”

Leandra si raddrizzò sullo schienale reclinabile del letto d’ospedale “Vi ringrazio. E’ da quando sono arrivata che chiedo di lei ma le infermiere non fanno altro che ignorarmi e imbottirmi di medicine.”

“Il personale è molto nervoso, ma dovete capirli. Questo è un ospedale di provincia, non sono abituati ai media e ad avere poliziotti che corrono su e giù per le corsie.”

La donna abbozzò un sorriso stanco “Già m’immagino i titoli dei giornali.”

“Oh sì, potete star certa che la stampa locale si sbizzarrirà. Non che io li biasimi, dato che sono intrigato dal vostro caso quanto loro. Ma vi prometto che tutto quello che mi direte resterà strettamente confidenziale.”

“Pensavo che quelli come voi volessero convincere l’opinione pubblica dell’esistenza degli UFO e cose del genere.”

Il professore nascose un sorriso all’angolo della bocca “Secoli fa, Loki amava starsene sotto i riflettori. Adesso è una figura elusiva, come una rockstar ritiratasi dalle scene per isolarsi da tutto e da tutti. L’unico modo per avvicinarlo è rispettare la sua privacy.”

“Credete che lui esista davvero?”

L’uomo posò i gomiti sulle ginocchia “Credo che voi lo abbiate incontrato. Non vi basta?”

“Potrei essere stata drogata e aver sognato tutto.”

“Non lo pensate veramente, ve lo leggo negli occhi. E, i dettagli che avete fornito…” iniziò a dire lui, estraendo un fascicolo dalla cartella “...sono sorprendentemente accurati.”

“Altre persone l’hanno descritto così?”

“L’aspetto non è importante. Vedete, lui può assumere qualsiasi forma desideri, gli antichi avevano paura di pronunciare il suo nome ad alta voce perché sapevano che poteva essere in mezzo a loro, vestendo la pelle di un caro amico, del mendicante giunto a tarda notte o della bella figlia del mugnaio. No, i dettagli sono quel che conta veramente. La piccola nave di legno grigio, per esempio.”

“L’ha fatta volare…” mormorò Leandra rabbrividendo “L’ho sentita tremare sotto i piedi mentre si staccava dalle rocce.”

“Quella è Naglfar , la nave dei morti. O almeno, ciò che ne resta. Loki la condusse fuori da Helheim, l’oltretomba, quando gli Dei si combatterono nella grande battaglia del Ragnarǫk. Per semplicità, immaginate l’equivalente vichingo dell’Apocalisse Cristiana.”

“Se ciò fosse realmente accaduto, il mondo non dovrebbe più esistere… no?”

Wagner scosse il capo “Per i Cristiani l’Apocalisse è la fine dei tempi ma per gli antichi, Ragnarǫk era soltanto un modo per sgombrare la scacchiera e ricominciare a giocare. Doveva accadere e accadrà ancora. Alcune cose però non sono andate secondo i piani e non tutte le pedine sono state messe da parte. Loki è ancora in circolazione per esempio, e con lui altri Dei e potenti spiriti.”

“E voi li state cercando.” concluse Leandra con un’espressione indecifrabile impressa in volto.

“Sto cercando Loki. Gli altri non m’interessano.” rinviò l’uomo con una scrollata di spalle. “Ho delle domande da fargli. Ci sono molte cose che ancora non capisco.”

“Quindi tutto questo in nome del sapere? Non v’interessa davvero rendere pubblica quest’intera faccenda della fine del mondo? Potreste vendere un sacco di libri, come Il Codice Da Vinci che ha convinto mezzo mondo che le spoglie di Maria Maddalena riposano sotto la piramide del Louvre.”

“La storia di Loki non è altrettanto facile da vendere. E di certo non farebbe presa sulle masse perbeniste di oggi.” ironizzò lui “La gente vuol sentir parlare di eroi, miracoli e salvatori. Loki, per gli uomini moderni, è più simile al Demonio che ad un Dio.”

“E per gli antichi invece che cos’era?”

“Un male necessario, una forza del caos che metteva in moto il destino di mortali ed immortali. Portò grandi benefici agli Dei, donando loro prodigiosi oggetti magici che li resero ancora più potenti, ma ingannò anche tutti loro, li derise e sbeffeggiò, attizzando invidie e rancori che misero fratello contro fratello.” Wagner riprese fiato “E la sua progenie uccise il Re degli Dei e i suoi figli durante il Ragnarǫk.”

Leandra ricordò come Loki avesse placato il pianto della sua piccolina con un solo gesto, come l’avesse tenuta al petto e cullata quando ancora lei era priva di sensi. E ricordò cos’aveva detto riguardo al bambino nato morto, che l’aveva scortato ai cancelli di… Hel.

Parlava dell’Inferno bruciante dei Cristiani o dell’oltretomba Helheim? Erano la stessa cosa? Esistevano realmente?

“Loki aveva dei figli?” chiese in un sussurro, sentendo le lacrime riaffiorarle agli occhi al pensiero di quel bambino che non aveva mai stretto tra le braccia.

Wagner sembrò irrigidirsi un poco e per un istante interruppe il contatto visivo con Leandra. Nei suoi occhi color miele, la donna scorse un barlume di mestizia. “Molti. E tutti erano creature mostruose che gli Dei temevano e imprigionarono alla prima occasione. Con l’eccezione dei suoi due ultimogeniti, tutti i suoi figli erano nati dalla sua unione con esseri del caos. Nei circoli accademici c’è chi sostiene che Lilith, la prima moglie d’Adamo che generò le legioni demoniache dopo essere stata esiliata dall’Eden fosse Loki in guisa di donna. Io, al contrario, sostengo che i monaci che trascrissero le storie pagane finirono con l’usarle come ispirazione per le loro parabole ammonitrici.”

“E la cosa vi disturba?”

“Come vi ho detto, io credo nell’esistenza di Loki e degli altri antichi Dei. Ho visto il loro operato, ho parlato con persone che come voi sostengono di averli incontrati, di aver camminato con loro. Il Dio delle religioni Abramitiche ha migliaia di cattedrali, sinagoghe e moschee erette in suo nome e fedeli in ogni angolo del globo, ma è sordo e cieco alle preghiere. Non si può vedere, né toccare e di certo non è sceso dalla sua nuvola per tirarvi fuori dall’automobile dopo il vostro incidente, Mrs.Halloran.”

“Loki invece…”

“Loki, così come i suoi fratelli e figli, non è onnipotente. Non è immortale, non possiede il dono dell’ubiquità nè può moltiplicare pani e pesci a suo piacimento. Non è un ‘Dio’ nel senso assoluto del termine, ma è antico, astuto e soprattutto, reale. Non si aspetta una buona condotta dall’umanità, non chiede devozione, né sottomissione. Lui semplicemente è. E io voglio incontrarlo. Mi aiuterete?”

Leandra si morse il labbro inferiore “Non so se posso farlo.”

“Ovviamente non voglio costringervi, né farvi pressione alcuna. Soprattutto non adesso, mi rendo conto che tutto questo sia a dir poco sconvolgente per voi, senza contare il dolore della vostra perdita.”

“Vorrei che Steven fosse qui.” disse lei asciugandosi una lacrima, per poi premere la mano sulle labbra nel tentativo di soffocare i singhiozzi che sentiva salire dal profondo della gola.

Wagner stava per farle le sue condoglianze e scusarsi per aver tirato in ballo l’argomento, ma due rapidi colpi alla porta glielo impedirono.

Il Dottor Gallagher fece il suo ingresso, seguito a ruota da due infermiere. In braccio, teneva la bambina di Leandra avvolta in un soffice panno color cielo.

“Buongiorno Leandra, ho pensato che vi avrebbe fatto piacere vedere la vostra creaturina.” la salutò bonariamente l’uomo più anziano “Oh, e vedo anche che il buon Wagner non ha perso tempo. Spero non vi abbia annoiato con le sue storielle!”

“Tutt’altro.” Disse lei scuotendo il capo “Direi che è stato alquanto illuminante.”

“Non diteglielo o si monterà la testa.” ribatté giovialmente il dottore, posando la bambina sul letto a fianco della madre che immediatamente la strinse a sè con dolcezza.

“Piuttosto, dovremo proprio preparare il certificato di nascita, perciò ci servirebbe sapere come avete deciso di chiamarla. Ovviamente, se vi serve del tempo per pensarci-”

“Solo un secondo.” rispose Leandra tornando a rivolgersi al professore “Mr.Wagner, visto quel che ci siamo detti, crede di potermi consigliare un nome per mia figlia?”

“Cosa intende, esattamente?” indagò l’uomo accigliandosi.

“Vorrei che… lui sapesse che gli sono grata.”

“...capisco. Mi lasci pensare.”

Il Dottor Gallagher e le due infermiere si scambiarono uno sguardo perplesso, ma non dissero niente.

“Che ne pensa di… ‘Eydís’? Significa baciata dalla buona sorte, ma anche colei che la dispensa. Si tratta della variante Islandese del nome tedesco ‘Heidi’ che però ha origini ed un significato completamente diverso.”

Leandra sorrise, carezzando teneramente la guancetta rosea della bambina “Eydìs andrà benissimo.”

“Molto bene… venga, Professor Wagner, lasciamo riposare la nostra paziente, mi aiuti a scrivere il nome correttamente.”

 

ᛚᛟᚲᛁ

 

Il Professor Wagner lasciò l’ospedale alcune ore dopo e procedette spedito verso la berlina grigia che aveva noleggiato all'aeroporto quella mattina. Si era procurato il numero di cellulare di Leandra e le aveva detto di chiamarlo se avesse sentito il bisogno di parlare della sua esperienza con qualcuno senza essere derisa e presa per matta.

Salì a bordo, prendendosi un momento per tirare il fiato prima di mettere in moto. Doveva pianificare la sua prossima mossa con cautela.

Anche con Naglfar a sua disposizione, Loki non poteva essere andato lontano. Per secoli, Wagner aveva sospettato che il Dio si fosse nascosto da qualche parte e adesso aveva finalmente trovato una pista lì nel sud-ovest dell’Irlanda e sulle sue isole impervie e tempestate di monoliti.

Una risata grave gli salì alle labbra, pensando a quanto fosse cambiato suo padre in quegli ultimi cinquecento anni. Al termine del Ragnarǫk, i pochi sopravvissuti s’erano dispersi in lungo e in largo ma non loro. Loki era tornato a prenderlo là dove Odino l’aveva imprigionato, facendo irruzione nei sotterranei di Svartalfheim e massacrando i nani che gli si paravano davanti.

Suo fratello maggiore Fenrir combatté e morì durante il Ragnarǫk e lui avrebbe voluto essere al suo fianco, ma Narfi, a differenza di Fenrir, non era un vero lupo, anche se ne aveva l’aspetto. In realtà, nella sua vera forma non era neanche grande abbastanza da riuscire a sollevare una spada.

Per tre lunghi inverni era rimasto intrappolato là sotto, incatenato e costretto a nutrirsi degli avanzi e delle carogne che i nani gli lanciavano. Lo avevano fatto combattere con i loro segugi tarchiati, gli avevano tosato il pelo lasciandolo glabro ed infreddolito sulla pietra ricoperta di escrementi e paglia bagnata.

Poi era arrivato il fuoco, suo padre, l’astuto Loki e aveva riversato una tempesta di fiamme nelle gallerie dei nani, incenerendoli dal primo all’ultimo.

“Sei al sicuro, Narfi. È finita.”

Il lupacchiotto s’era gettato tra le braccia del padre uggiolando mentre la malia del Dio lo liberava dall’incantesimo di Odino, restituendogli il suo aspetto di ragazzo. A lungo rimasero stretti l’uno all’altro nel buio di Svartalfheim, Loki coperto di ferite e sangue, col volto sfregiato da anni di torture e Narfi nudo e tremante, anche lui con la sua bella collezione di cicatrici.

Un sorriso nostalgico si fece largo sulle labbra di Wagner a quel ricordo. Per secoli lui e Loki avevano vagato insieme per i Nove Regni, cercando una nuova casa, un posto da cui ricominciare.

Ma non l’avevano mai trovato, o meglio, Loki non aveva mai voluto fermarsi troppo a lungo. Essere scostante e incontentabile era nella sua natura e Narfi lo sapeva, ma ciò li portò a separarsi quando Narfi, ormai adulto, decise di vivere in pianta stabile tra i mortali.

Si fingeva uno di loro, cambiava identità ogni trent’anni o giù di lì, fingeva la propria morte e ricominciava da capo. Era stato soldato, dottore, ballerino, scienziato, pittore e persino collaudatore per la Nasa, una volta. Conosceva bene i mortali e si affezionava a loro anche se le loro vite erano così brevi e misere.

Loki invece, con l’avanzare dell’età aveva preso ad isolarsi, a vivere nelle profondità delle foreste o degli oceani, preferiva essere una bestia che un uomo, forse perché lo aiutava a non pensare. A dimenticare.

Ma Narfi sentiva la mancanza del padre ormai da molte lune e desiderava parlare con lui più di ogni altra cosa al mondo. Era persino andato alla prima mondiale di Thor della Marvel sperando che il suo vecchio si facesse vivo. Il Loki di una volta non si sarebbe fatto sfuggire l'occasione di vedere come lo immaginavano gli umani. Gli era sempre piaciuto ascoltare le storie che s'inventavano su di lui.

Narfi aveva guardato il film in silenzio, immaginando i commenti poco lusinghieri che suo padre avrebbe riservato ai costumi e all’impostazione ridicolmente Shakespeariana dell’intera narrazione. Ma il Loki sullo schermo, col suo accento Inglese, le manie di grandezza e la capigliatura nera, era il solo Loki che Narfi avrebbe visto quella sera e per tutte quelle a venire.

Wagner alzò lo sguardo sullo specchietto retrovisore ed incontrò il riflesso degli occhi ambrati che aveva ereditato da sua madre Sigyn e schiacciò l’acceleratore, sfrecciando fuori dal parcheggio diretto verso il suo hotel in periferia.

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NOTA DELL'AUTRICE: Ed ecco apparire anche uno dei figlioletti di Loki! Narfi e suo fratello Vàli non sono tra i più famosi, sempre adombrati dai loro fratelloni grandi, grossi e cattivi, ma sono sicuramente quelli con la storia più tragica alle spalle. E finalmente, anche la piccina di Leandra ha un nome tutto suo :D chissà come s'intrecceranno le storie di queste due famiglie scombussolate! Grazie mille per le recensioni, fatemi sapere come sta andando questa storiella!

 

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