Lost in Desperation

di Spoocky
(/viewuser.php?uid=180669)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Disclaimer: non possiedo né i personaggi né la canzone.

Buona Lettura ^.^ 
Do you feel cold and lost in desperation?
You build up hope but failure is all you’ve known?


Mac Taylor di solito non esprimeva apertamente le proprie emozioni.
In quel momento tuttavia era talmente divorato dall’ansia da non riuscire ad evitare di passeggiare nervosamente su e giù per l’ufficio mentre fissava intensamente il telefono come se avesse il potere di farlo squillare a comando.

In realtà non si aspettava una telefonata ma, visto lo stato delle cose, non poteva esserci altra conclusione logica: Donald Flack Jr, uno dei suoi collaboratori più fidati ed il suo riferimento nella Sessione Omicidi di New York, non rispondeva al telefono dalla mattina precedente, quando non si era presentato sulla scena del crimine.
Il suo telefono era irrintracciabile, in casa sua sembrava fosse esplosa una bomba ma di lui non c’era traccia, e la sua auto era parcheggiata in un vicolo nei pressi del Distretto, dove però non era mai entrato. Tanto che Mac aveva dovuto coprire la sua assenza con il tenente.
Nessuno che corrispondesse alla sua descrizione era stato ricoverato in ospedale e grazie a Dio neppure all’obitorio.
Tutto questo mentre uno dei peggiori serial killer del decennio imperversava in città.

A dirla tutta, il detective aveva preso una brutta piega da un anno a quella parte: la morte di Jessica Angel era stato un duro colpo per tutti ma lui le era legato sentimentalmente – stavano pensando al Matrimonio – e non si era ancora ripreso dal trauma. C’era anche qualcos’altro che lo stava divorando vivo, era peggiorato dal giorno in cui aveva ucciso l’assassino di Jessica.
Da parte sua Mac sapeva di non aver fatto abbastanza per sostenerlo, lui che più di tutti sapeva cosa volesse dire perdere una persona tanto cara, in quel momento difficile ma c’erano troppe cose a cui stare dietro: Danny paraplegico, il lavoro, questo serial killer. E Don si era allontanato, rinchiuso in se stesso, cercando rifugio nel lavoro e nell’alcool.
Era sempre stato molto discreto nelle sue cose e non si resero conto che avesse iniziato a bere finché Danny non gli aveva fatto visita una mattina in cui entrambi non erano di turno e lo aveva trovato svenuto sul divano, circondato da bottiglie di superalcolici piene a diversi livelli e lattine di birra.
Ripresosi, Flack gli aveva assicurato che si era trattato di un episodio isolato e che non aveva alcuna intenzione di ripetere l’esperienza.
Messer non ne fu affatto convinto e avvisò Mac in via del tutto informale, ma nessuno dei due aveva prove per dimostrare il contrario e comunque il detective si era sempre presentato sobrio e puntuale sul posto di lavoro.  
Entrambi si erano ripromessi di fare qualcosa, di starci attenti, ma c’erano sempre troppe cose a cui prestare attenzione, e comunque stava andando tutto bene.
Fino a quella mattina.
Ormai Mac non sospettava più, sapeva che stava succedendo qualcosa e poteva solo sperare che non fosse nulla di irreparabile.
Finalmente il telefono squillò.

“Detective Taylor? Sono Terence, l’informatore di Flack.”
“Sì, mi ricordo di te. Ti serve aiuto?”
“Grazie, detective, ma io sto bene: è Don ad essere nei guai.”
Proprio come aveva immaginato, le sue peggiori paure si stavano avverando e la voce gli tremò nel chiedere: “Cos’è successo?”
Dall’altra parte provenne un sospiro rassegnato, poteva quasi vedere Terence strofinarsi gli occhi per il nervoso: “Adesso sono nel parcheggio del Trinity Hospital, lo hanno appena portato dentro. Praticamente... stavo sulla metro e ad un certo punto ho visto due tizi grandi e grossi prendersela con un uomo a terra... calci e pugni come ad un incontro di MMA... normalmente mi sarei fatto gli affari miei ma quando uno ha tirato fuori il coltello non ce l’ho fatta a trattenermi. Li ho mandati via e ho soccorso il poveretto... solo allora mi sono accorto che si trattava di Flack...”
“Come sta?”Mac lo interruppe, l’ansia di sapere era troppo forte.
“Non bene. Non credo che siano riusciti a ferirlo con il coltello ma comunque lo hanno conciato proprio male: lo stavo portando a casa mia, per farlo riprendere... perché non era esattamente sobrio, capisce? Insomma, eravamo appena usciti dalla fermata della metro quando ha cominciato a vomitare e sputare sangue, poi è svenuto. Non è stato un bello spettacolo. Ho chiamato subito l’ambulanza e hanno parlato di ‘emorragia interna’, ‘trauma cranico’ e ‘shock ipovolemico’, lei ne capirà sicuramente meglio di me. Mi hanno chiesto di contattare un suo famigliare ma io ho visto il suo numero nelle chiamate perse di Flack e non sapevo chi altro chiamare...”
“Va bene, Terence. Hai fatto bene. Arrivo subito. Grazie.”
“Si figuri, detective! Flack mi ha parato il culo tante di quelle volte!  Non potevo certo lasciarlo lì. Solo, si sbrighi ad arrivare: non voglio pensino che faccio la corte ad uno sbirro.” E riattaccò.
Mac ordinò a Stella di sostituirlo nell’indagine sul Killer della Bussola e si precipitò immediatamente al Trinity Hospital.
 

Non fu sorpreso di non trovare Terence al suo arrivo, ma il personale medico lo aspettava e un’infermiera lo accompagnò fino al box dov’era ricoverato Flack.
L’informatore aveva ragione: non era un bello spettacolo.

Avvolto da teli sterili, su un lettino leggermente reclinato, il detective era pallidissimo e smagrito, sul viso aveva la ricrescita di un paio di giorni e respirava a fatica nonostante la cannula per l’ossigeno, un lato del volto era incrostato di sangue rappreso colato da un taglio in fronte che, stando ai medici, gli aveva causato una lieve commozione celebrale.
Il monitor accanto al cuscino segnava un battito rapido ed irregolare mentre una sacca di sangue zero negativo colava pigramente nel suo braccio insieme ad una bottiglia di fisiologica.
Le palpebre chiuse erano cerchiate di scuro ed il torace era un patchwork di lividi scuri, ad indicare un’emorragia ancora in corso. Nonostante avesse già perso molto sangue ancora non potevano operarlo: dovevano aspettare che smaltisse tutto l’alcool che aveva in circolo prima di procedere con l’anestesia.

La ragazza che lo aveva intercettato all’ingresso e che lo aveva identificato come il contatto per le emergenze del detective, gli aveva spiegato come un colpo violento al fianco sinistro avesse causato la rottura della milza, dando origine ad una grave emorragia interna: stavano aspettando il suo consenso per la splenectomia perché l’infortunato non era sufficientemente lucido da fornirlo, tra il post sbornia e il trauma cranico non poteva essere considerato in grado di intendere e volere.
Aveva firmato i documenti senza battere ciglio e mentre aspettava che accompagnassero Don in sala operatoria non volle perderlo di vista per un solo istante.
Grazie a Dio esisteva il segreto professionale e il personale ospedaliero non era tenuto a comunicare ad altri i risultati del test tossicologico, altrimenti Flack avrebbe perso molto più che la milza ed essere congedato dalla polizia sarebbe stato un colpo impossibile da reggere.

Provava sentimenti contrastanti: compassione per il suo dolore, rabbia per come si era ridotto, disappunto e senso di colpa per avergli permesso di farlo, preoccupazione per il suo stato, sollievo perché era ancora vivo e paura che andasse a finire così, gettando via vita e carriera.
Si lasciò scivolare sulla sedia di plastica accanto al letto, stringendo gli occhi contro il flashback di quattro anni prima che lo assalì immediatamente: ore ed ore in Terapia Intensiva, a tenere la mano immobile di un Flack in stato comatoso dopo avergli medicato uno squarcio sul ventre con mezzi di fortuna, le notti insonni a pregare perché si salvasse, perché continuasse a respirare almeno un’altra ora.
Adesso non riusciva a toccarlo, perché il minimo contatto avrebbe reso tutto reale, anche la possibilità di perderlo.

I rantoli si fecero più frequenti e il ferito aprì gli occhi.
Sbatté le palpebre diverse volte ma alla fine riuscì a mettere a fuoco il detective Taylor ed il battito accelerò: “M’c?” aveva la voce rauca e sottile, era evidente che stesse soffrendo molto.
La rabbia non scomparve ma si ritirò in un angolo molto remoto quando il detective si chinò sul ferito, appoggiandogli una mano sulla spalla livida: “Sono qui, Don.”
Flack rabbrividì da capo a piedi ed iniziò a piangere silenziosamente: “Io... mi dispiace... mi dispiace tantissimo... è stata tutta colpa mia... non è abbastanza ma... mi dispiace... mi dispiace... mi dispiace...”
Stava andando in iperventilazione e i valori sul monitor iniziarono a precipitare impossibile sapere se fosse causato dall’agitazione emotiva o dalle ferite, ma Taylor sapeva di non avere molto tempo.
Strinse forte la mano sinistra di Flack nella sua e con la mano libera iniziò ad accarezzargli la testa: “Shh, shh.” Anche lui aveva la voce rotta e sembrava sull’orlo del pianto “Ascoltami bene, Donald Flack: andrà tutto bene, capito? Qualunque cosa stia succedendo ne verremo a capo insieme. D’accordo?”
Non seppe mai se Don avesse capito o meno le sue parole perché subito dopo uscì un flebile: “Mi dispiace.” Poi gli occhi gli rotearono nella testa e perse i sensi, mentre i monitor impazzivano.
Subito un nugolo di infermieri e medici sciamò intorno al suo letto: “Inizio somministrazione manuale dell’ossigeno!”
“Pressione in calo! Aritmia ventricolare!”
“Lo stiamo perdendo. Subito in sala operatoria”

Più rapidamente di quanto Taylor potesse calcolare, staccarono monitor e attrezzatura e si misero a correre, trasportando il lettino verso l’ascensore mentre un’infermiera pompava ossigeno nei polmoni di Flack con un palloncino collegato ad una mascherina.
Non erano ancora alla fine del corridoio che un’altra, la stessa che Mac aveva incontrato all’ingresso, iniziò a praticare le compressioni toraciche.
Quando sparirono dietro le porte la rabbia del detective si era completamente dissipata per lasciare il posto ad un’ansia senza precedenti.

Mandò un messaggio a Stella: Hanno portato Flack in sala operatoria. E’ grave. Resto qui. Non dire niente alla squadra finché non ho notizie certe. Buona Fortuna!
Non attese la risposta: sapeva di potersi fidare ciecamente di lei.
E nemmeno chiese informazioni sulla sala d’attesa del Blocco Operatorio: sapeva già dove fosse. 

Note:

Il motivo principale per cui ho scritto questa storia è che mi sembrava avessero risolto il problema troppo rapidamente, voi cosa dite?

Warning: nel prossimo capitolo si parlerà di PTSD e pensieri suicidi, state attenti se queste cose vi disturbano.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Disclaimer: stesso del capitolo prima, sono troppo pigra per riscrivere tutto.

Warning: in questo capitolo si parla di PTSD, autolesionismo e pensieri suicidi. Non c'è nulla di grafico ma state attenti se queste tematiche vi disturbano.

Buona Lettura ^.^

 
Remember all the sadness and frustration
And let it go.


Dopo tre ore e mezza di attesa, finalmente vennero ad informarlo che l’intervento era riuscito.
Come aveva immaginato, Don era arrivato sul tavolo operatorio in arresto cardiaco. Erano però riusciti a ripristinare il battito con il defibrillatore e a procedere con la splenectomia.
Avevano rimosso l’organo danneggiato e fermato l’emorragia ma il detective aveva perso molto sangue sia prima che durante l’operazione e il battito non era ancora regolare.
 Il lato positivo era che, per quanto debole e confuso, aveva riaperto gli occhi in Sala di Risveglio ed aveva persino chiesto all’anestesista di poter dormire cinque minuti in più, impossibile dire se fosse serio o se stesse scherzando. In ogni caso era un buon segno perché implicava un aumento delle sue probabilità di sopravvivenza.
A quella, il detective Taylor si lasciò sfuggire un sorriso: quello era il Don Flack che conosceva.
Per via dell’immunosoppressione conseguente alla rimozione della milza, lo avevano ricoverato in isolamento ma avrebbe potuto ricevere visitatori che indossassero delle protezioni. Anzi, specificò il chirurgo, visto lo stato in cui era arrivato in Pronto Soccorso sarebbe stato meglio se avesse avuto vicino qualcuno che conosceva, soprattutto perché a causa dell’elevato tasso alcolemico al momento del ricovero avevano ritenuto fosse meglio non somministrare la morfina e non lo aspettava un risveglio piacevole.

Mac li seguì senza commentare, si prese solo il tempo di mandare un SMS a Stella: L’intervento è andato bene. Non è ancora fuori pericolo ma ha buone probabilità di farcela. Hanno bisogno che resti con lui. Tienimi aggiornato.
 


Nelle sei ore successive Don si svegliò tre volte: la prima borbottò una serie di oscenità prive di qualsivoglia senso logico, la seconda emise una serie di litanie di scusa, la terza finalmente era lucido.

Gemette piano e tentò di mettersi a sedere ma ricadde subito all’indietro, stringendosi l’addome quando il movimento gli tirò i punti.
Con indosso il camice dell’ospedale faceva ancora più impressione perché le braccia non riempivano le maniche come quattro anni prima: ora ci nuotava dentro, e le clavicole sporgevano orribilmente sotto il colletto ampio.
Era ancora molto pallido e respirava a fatica, il monitor accanto al letto tracciava un grafico tremolante ed anomalo ma evidentemente non preoccupante, visto che nessuno era accorso nella stanza.
Mac gli concesse del tempo per riprendere fiato prima di accostarsi al letto dal fianco sinistro, accanto alla piantana con le flebo.
Prese un fazzoletto dalla scatola sul comodino ed iniziò a tamponargli il sudore dalla fronte, senza dirgli una parola.
Lasciò che fosse lui ad iniziare.

“Mac?”
“Sono qui, Don. Come ti senti?”
“Come se un alieno mi fosse saltato fuori dal torace.”abbozzò un sorriso ma ritornò subito serio quando si accorse di non essere ricambiato.
“Sai dove sei?”
“In ospedale.”
“E sai come ci sei arrivato?”
“Ero sulla metro e due tizi mi hanno pestato per rubarmi il portafoglio... non ricordo molto altro. E’ possibile che Terence abbia chiamato l’ambulanza?”
“Sì, ti ha soccorso lui. Ti ha fatto accompagnare qui e poi ha chiamato me. Ufficialmente sei stato aggredito mentre stavi andando al Distretto ma hai deciso di non sporgere denuncia: non c’è bisogno che si sappia cosa stessi facendo a North Brooklyn.”
Don sprofondò nei cuscini con un gemito: “Oddio! Mi dispiace, Mac. Mi dispiace tanto!”
“Questo lo hai già detto. Ma non basta. Stamattina per poco non ti facevi ammazzare! Ognuno elabora il lutto in modo diverso ma secondo me qui c’è qualcos’altro.” Flack aprì la bocca per parlare ma il detective gli fece cenno di tacere “Non lo voglio neanche sapere. E’ una cosa tra te ed il tuo Dio, non sono il tuo parroco. Tutto quello che m’interessa è che tu ti rimetta in carreggiata.”
“Tu non capisci! Io ho...” crollò di nuovo sui cuscini stringendosi il fianco con una smorfia di dolore, il resto del discorso fu interrotto da rantoli affaticati “Ho provato a chiedere aiuto. Sono stato in chiesa, mi sono confessato, ho pregato e prego ancora perché tutto questo finisca. Ma ogni giorno è peggio. Ho cercato di parlare con te, con Stella e con gli altri ma c’erano sempre troppe cose da fare. Non volevo... non voglio essere di peso ma è più di quanto riesca a gestire e... Oh Dio! Mio Dio! Fa troppo male!”

In quel momento Mac capì che il detective non si stava riferendo solo alle proprie ferite fisiche, ma a qualcosa di anche più grave e capì che se non lo avesse lasciato sfogare e non lo avesse ascoltato lo avrebbe perso davvero.
Fece un respiro profondo e sedette accanto a lui sul letto, facendo attenzione a non disturbare le sue ferite: “Se hai bisogno di parlare sono qui: ti ascolto. “
Don rabbrividì da capo a piedi e strinse la coperta con le mani.
Quando iniziò a parlare guardò fisso di fronte a sé, evitando di incrociare lo sguardo dell’altro: “Dopo la morte di Jessica...” la voce gli si ruppe e dovette fare una breve pausa “Il mio unico desiderio era punire il bastardo che l’aveva uccisa. Così quando lo abbiamo trovato... era disarmato... l’ho gettato a terra, l’ho guardato dritto negli occhi... e... e...”rabbrividì e strinse le palpebre, le mani gli si contrassero sulle coperte tanto da sbiancare sulle nocche.
Il detective Taylor conosceva bene quei sintomi, sia per averli sperimentati in prima persona, sia per averli visti su decine di commilitoni dopo un evento traumatico. Sapeva che Don stava rivivendo la scena, ancora ed ancora, come probabilmente gli succedeva ogni sera prima di andare a dormire. Per questo beveva: per stordirsi quanto bastava da dormire senza incubi.

Come aveva previsto, Flack sobbalzò quando gli appoggiò le mani sulle spalle per accompagnarlo fuori dal flashback, però aprì gli occhi e si lasciò adagiare sul cuscino.
Mac non gli tolse le mani dalle spalle, nemmeno quando riprese a respirare regolarmente: “Da quanto va avanti?”
“Due mesi. Io... le ho provate tutte: sono anche andato in terapia ma mi dicevano che era tutto normale, che sarebbe passato presto. Ma ogni giorno è peggio. Continuo a pensare che... sono diventato come lui e che non merito di vivere. Se fossi morto questa mattina vi avrei risparmiato un sacco di problemi!” ormai piangeva apertamente, non riusciva più a trattenersi.
“Non ti azzardare mai più a dire una cosa del genere! Hai intorno un sacco di persone che ti vogliono bene e si preoccupano per te! Abbiamo fatto i salti mortali per cercarti.”
“Lo so benissimo.” Il sorriso mesto sulle labbra del detective spiazzò completamente l’ex marine “E’ proprio per questo che penso che voi stareste meglio senza di me: avreste meno preoccupazioni.”sospirò “Vedi, il fatto è che non mi fido più di me stesso e ho paura... ho paura di fare qualche stupidata se... intendo qualcosa di peggio di quella di stamattina, capisci?”
Solo allora Taylor si rese conto di quanto grave fosse effettivamente la situazione e che dovevano intervenire immediatamente: “Vuoi che avvisi l’infermiera che sei a rischio suicidio e di metterti sotto sorveglianza?”
Don nascose il volto tra le mani ed iniziò a singhiozzare violentemente: “Sì. Sì. Oh mio Dio! Sì.”
“D’accordo.”
Mac suonò il campanello di chiamata per l’infermiera e raccolse il detective in un abbraccio, in parte per consolarlo, in parte per sorreggerlo ed evitare che si strappasse i punti per essersi agitato troppo.

Quando arrivò l’infermiera non si mosse di un centimetro ma le spiegò con calma la situazione.
Lei ascoltò attentamente e sembrò ponderare diverse ipotesi prima di rispondere: “Non c’è problema. L’unica difficoltà sarebbe nel momento della dimissione: il paziente vive da solo?”
“Al momento sì.”
“Questo è un bel problema: dato che manifesta tendenze autolesionistiche e pensieri suicidi deve rimanere sotto sorveglianza almeno fino alla fine della fase acuta. Quindi o lo ricoveriamo in Psichiatria o in una struttura. In entrambi i casi mi permetta di dire che non sarà piacevole.”
“Perché non deve restare da solo, capisco. E se venisse a vivere con me per il periodo necessario?”
“Dipende, lei è disposto ad assumersene la responsabilità?”
Il detective strinse istintivamente la presa sulle spalle tremanti del ferito avvicinandoselo ancora di più in un impeto protettivo: “Ci può giurare. Lui per me farebbe lo stesso.”
Sotto la mascherina, la donna sorrise: “Bene così, allora. Contatto subito il primario per farvi avere tutte le carte. Tenga presente che ci vorranno almeno dieci giorni prima che lo dimettano, quindi ha tutto il tempo di ripensarci.”
“Non credo che lo farò, ma grazie comunque. Infermiera?”
“Jordan.”
“La ringrazio di cuore, infermiera Jordan. Anche a nome del detective Flack.”
“Ci mancherebbe! Non ha idea di quanti di questi ragazzi arrivino qui, alcuni anche in condizioni peggiori. Poliziotti, militari, vigili del fuoco... la maggior parte di loro adesso fa una vita normale e molti hanno anche ripreso servizio. Hanno solo bisogno di aiuto per rimettersi in sesto, tutto qui. Sono sicura che anche il nostro amico starà meglio in men che non si dica. Buona giornata, detective!”
“Anche a lei, infermiera.”

Quando ebbe sfogato almeno la maggior parte del proprio dolore, Don si accasciò stremato contro il petto di Mac, che lo ridistese delicatamente sul cuscino. Aveva ancora gli occhi arrossati e il viso rigato di lacrime.
“Adesso cosa succederà?”
“Ti toglieranno ogni oggetto con cui potresti farti del male e finché sarai ricoverato qui ci sarà sempre qualcuno nella stanza assieme a te.” Il tono dell’ex marine era pacato e sereno mentre gli rimboccava le coperte come ad un bambino “Farò in modo di esserci io o qualcun altro della squadra, se possibile. Così anche per te sarà più facile.  Ti troveremo un buon terapista, quelli del Distretto lasciano il tempo che trovano. Una volta dimesso, verrai a stare da me finché non ti sarai rimesso in sesto e potrai riprendere servizio: ho un sacco di ferie in arretrato e potremmo approfittarne per fare qualcosa insieme. Potremmo andare alle partite di hockey, per esempio.”
“Ma tu non odi l’hockey?”
“Con tutto me stesso. Ma a te piace ed hai bisogno di fare qualcosa che ti aiuti a stare bene.”
“E il Killer della Bussola?”
“Quello non dipende ne da me, ne da te. E comunque nulla vieta di lavorarci in via ufficiosa.” S’interruppe quando vide l’altro lottare per tenere le palpebre aperte “Tutto bene?”
“Mi sento molto debole. Mi gira la testa.”
“Hai dolore? Quanto da uno a dieci?”
“Otto. Non riesco a stare sveglio...”
“Gli ultimi due giorni sono stati molto duri e adesso stai crollando, è normale. Cerca di dormire un po’: sarò ancora qui quando ti sveglierai.”
“Grazie, Mac. Mi dispiace tantissimo.”
“Shh. Non è successo nulla di grave. Hai una brutta malattia ma non sei da solo ad affrontarla: ti aiuteremo ad uscirne. Ti aiuterò a superarla come hai superato il trauma di quattro anni fa. Andrà tutto bene, te lo prometto.”
Don sorrise leggermente prima di abbandonarsi ad un riposo finalmente privo di incubi.

Mac lo guardò addormentarsi con lo stesso sguardo di un padre che vegli sul figlio malato.
Proprio in quel momento il cellulare gli vibrò nella tasca.
Era un messaggio di Stella: Sappiamo chi è. 

- The End –
 
Note: 

Mi scuso se ci sono imprecisioni dal punto di vista medico: dove mi trovavo in questi giorni non ho potuto fare ricerche per accertarmi che fosse tutto corretto al 100%, se trovate qualche imprecisione vi prego di farmelo sapere e provvederò immediatamente a correggere.

Alla prossima! 
^.^

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3774805