Lucky Number Slevin || Stalia AU di Horror_Vacui (/viewuser.php?uid=4218)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Mossa Kansas City ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. L'uomo sbagliato ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. La trappola ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. James Bond ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Cane Rabbioso ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. Mossa Kansas City ***
«E
dire che allora...» una voce al
suo fianco lo svegliò.
Era arrivato
all'aeroporto con un'ora di
anticipo per non rischiare di fare tardi, poi si era appisolato su
una delle sedie blu nella sala d'attesa fuori dal gate.
Si
voltò
alla sua destra e vide un uomo in sedia a rotelle che lo guardava.
Portava cappello e impermeabile color cachi, aveva una lunga barba
curata, occhi azzurro cielo e un sorrisetto enigmatico a incurvare le
labbra sottili.
Cosa gli aveva
chiesto? Forse voleva
solo sapere l'ora, guardò l'orologio che aveva al polso.
«Le
quattro e trentacinque» disse, sperando di liberarsene.
«No,
hai
capito male. Non ho detto “Mi sai dire l'ora”, ho
detto “E dire
che allora”».
«E
dire che allora?» chiese spazientito.
L'altro annuì continuando a sorridere.
«Prendi
quello zuccherino
di canna lì dietro» indicò una
senzatetto che dormiva poco più in
là.
«Gran
bella fica, no?»
«Cosa?
Avrà settant'anni»
disse, mentre un senso di inquietudine lo invadeva. Era come se, da
qualche parte in quella sala, ci fosse un serpente pronto a
morderlo.
«A
dir poco. E dire che allora...» ripeté l'uomo.
Aveva perso il
sorriso, lo guardava negli occhi con un'intensità
tale da metterlo a disagio.
«Non
la seguo» sospirò distogliendo
lo sguardo.
«Mi
chiamo Argent, non vivo da queste parti».
«Senta
signor Argent...»
«Solo
Argent» lo interruppe brusco. «E mi
trovo qui, se vuoi saperlo, per via della mossa Kansas City»
spiegò
con lo stesso tono piatto. Era come se la sua voce non conoscesse
altri colori oltre il grigio.
Forse era un
uomo solo che aveva
bisogno di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno e, se l'avesse
ascoltato, magari la Divina Provvidenza sarebbe stata magnanima con
lui e glielo avrebbe tolto dai piedi.
«Cos'è
la mossa Kansas
City?» chiese sospirando per la seconda volta.
«La
mossa Kansas
City è quando guardano a destra e tu vai a
sinistra».
«Non
l'ho
mai sentita».
«Be',
non è che se ne parli tanto.
Alla fine colpisce chi non vuol sentire. Questa in particolare
è in
preparazione da più di vent'anni».
«Vent'anni,
eh?»
«Non
è una cosa da poco. Richiede una grande programmazione,
coinvolge un
bel po' di persone. Persone collegate solo da un evento
insignificante, una soffiata nella notte in un ambiente che non
dimentica, anche se tutti ne avrebbero voglia».
Argent fece
una
pausa, il suo sguardo si perse in un luogo lontano a lui
irraggiungibile, alla ricerca di ricordi che forse credeva
dimenticati.
«Inizia
tutto con un cavallo. È quella che
all'epoca si chiamava “corsa del droghiere”. Un
tizio vuole una
cosa che un altro definisce sicura e si dà da fare per
ottenerla;
così chiama Doc, un esperto di Anversa molto bravo a dare la
dose
giusta al cavallo giusto, ma molto poco discreto. E lo stesso si
può
dire per la donna di Doc, Gloria. Gloria era troppo miele per un solo
alveare ed Abe era tanto vecchio quanto ricco e riconoscente. E lei
era disposta a farsi mettere le mani addosso da uno come lui per
qualche regalo e feste di lusso, perciò gli
rivelò tutti i dettagli
della corsa truccata che Doc si era lasciato sfuggire».
«E
questo Abe li denunciò?» la storia cominciava ad
appassionarlo sul
serio.
«No,
nient'affatto. Abe non era un ficcanaso, ma aveva un
buon naso. E subito sotto il naso aveva la bocca. Raccontò
tutto a
un amico fidato: corsa truccata ad Aqueduct, numero 7, decima corsa.
Peccato non si trovasse nel suo salotto, ma in un club affollato.
Lì
c'era una farfalla che aveva buone orecchie e che guarda un po' era
lo zio di qualcuno. Lui, il nostro uomo».
«Il
nostro
uomo?»
«Già,
lo chiameremo così. Il nostro
uomo».
«Lo
zio faceva il cameriere proprio nel club
frequentato da Abe e caso volle che fosse lì a prendere i
bicchieri
vuoti proprio mentre Abe vuotava il sacco».
«Una
vera fortuna,
no? Intendo, per il nostro uomo».
Argent fece
schioccare la
lingua, senza scomporsi.
«Dipende
dai punti di vista, immagino.
Il nostro uomo era giovane, ma in fondo non più
così tanto, e
lavorava sodo. Quanto lavorava. Ed era tanto tanto stanco. Stanco di
lavorare senza vivere, stanco di scoprire la mattina che i suoi sogni
erano solo sogni, ma soprattutto era stanco di non avere un
giardinetto davanti casa. La notizia di quella corsa sicura gli diede
la speranza che aspettava da tempo, quella di poter finalmente
rivoluzionare la propria vita e quella di suo figlio. Già,
non fare
quella faccia, il nostro uomo aveva una moglie e un figlio. Un figlio
molto sveglio e intelligente, che portò con sé il
giorno della
corsa ad Aqueduct. Lo lasciò in macchina ad aspettarlo,
dandogli il
proprio orologio per contare i minuti fino al suo ritorno».
«Perché
lasciarlo lì? Voglio dire era una corsa di cavalli, non una
bisca
clandestina».
«Ci
sei andato molto vicino. Un'occasione come
quella era irripetibile, quindi scommettere al picchetto sarebbe
stato da pazzi: se qualcuno avesse scoperto il trucco gli avrebbero
preso ogni cosa, tutti i suoi soldi e tutti i suoi sogni, senza
contare che sperava di guadagnare qualcosa in più.
Perciò si
rivolse a un allibratore sottobanco, di quello che gestiva scommesse
non proprio legali, un certo Roth. Lui lo avvisò: quella
puntata
sarebbe passata ad un altro allibratore, che gestiva gli affari di
gente poco raccomandabile, gente con cui era meglio non avere un
debito. Se il cavallo avesse perso, il nostro uomo avrebbe dovuto dar
loro ventiduemila dollari».
«E
il cavallo vinse la corsa?»
«No,
certo che no, altrimenti non saremmo qui a parlarne. Il
cuore del cavallo numero 7 esplose a metà della gara e il
nostro
uomo si rese conto che i suoi sogni l'avevano trascinato giù
in un
incubo».
«Accidenti!
E poi cosa accadde?»
«Tornò
al parcheggio, sperava di poter risolvere le cose in
qualche modo. La sua auto però era sparita e di suo figlio
neanche
l'ombra. Lo chiamò a gran voce, tanto da attirare su di
sé
l'attenzione dei lupi che lo stavano aspettando. Ricordi la gente
poco raccomandabile di prima?»
«Sì,
certo».
«Gliele
suonarono di santa ragione, poi gli misero una busta di plastica in
testa. Nel mentre altri due sicari si occuparono della moglie e del
figlio. Morti, tutti morti».
«Merda.
Cazzo! Porca...»
«Merda,
cazzo, porca. Esatto».
«Ma
io non capisco, perché hanno ucciso
la sua famiglia?»
«Una
nuova banda. Non volevano farsi
fregare subito con una corsa truccata appena arrivati. Una lezione
esemplare».
«Wow,
cioè... che cazzo di storia assurda».
«Charlie
Chaplin partecipò a un
concorso per sosia di Charlie Chaplin a Montecarlo e arrivò
terzo.
Quella è una storia assurda. Questa è tutta
un'altra cosa».
Si
pentiva di aver pensato male di quell'uomo, in fondo non era tanto
terribile ascoltare le sue storie.
«Allora
è questa la mossa Kansas
City?» chiese ricambiando il sorriso.
«No.
È solo il fatto
scatenante, il catalizzatore. Questa è una mossa Kansas
City»
indicò con il braccio qualcosa davanti a sé, lui
si girò per
vedere a cosa si riferisse: non c'era nulla.
Si
rigirò a destra
verso Argent, ma la sedia era incredibilmente vuota.
«Loro
guardano a destra e tu vai a sinistra».
Prima che se
ne rendesse
conto aveva il collo spezzato e la vita lasciava per sempre il suo
corpo.
Argent lo mise
sulla sedia a rotelle, lo coprì con il
cappello e il cappotto color cachi e lo portò fuori
dall'aeroporto,
caricandolo nel retro di un camion.
«Mi
dispiace figliolo, ma a
volte la vita non è fatta di solo vivere. E poi non si
può fare una
mossa Kansas City senza un morto».
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. L'uomo sbagliato ***
Il
naso pulsava
come se il cuore gli si fosse spostato in mezzo alla faccia. Lo
tastò
per constatare che era rotto e lo tirò con delicatezza per
rimetterlo a posto. Digrignò i denti, lasciandosi sfuggire
una mezza
imprecazione. Quel bastardo ci era andato giù pesante, il
pugno gli
era piombato addosso senza alcun preavviso e aveva fatto male il
doppio.
Tolse gli
ultimi residui di schiuma da barba dal viso e si
passò una mano tra i capelli umidi, portandoli indietro.
Prima o poi
avrebbe dovuto tagliarli, cominciava a sembrare una ragazzina che ha
giocato troppo con le forbici.
Un insistente
e
fastidioso bussare alla porta lo distolse dalla sua immagine
riflessa, così si annodò un asciugamano in vita e
corse ad aprire,
sperando che fosse chi stava aspettando.
Girò
la chiave nella
toppa e una ragazza s'infilò nell'appartamento senza nemmeno
salutare.
«Ci
hai messo
una vita» disse dirigendosi svelta in cucina.
«Be',
in realtà
io...» cominciò a dire e la sua voce la convinse a
fermarsi.
Lo
guardò dalla testa ai piedi con sorpresa, mentre le guance
le si
coloravano di un delizioso color pesca. Preso atto della figuraccia
appena fatta, si strinse nel cardigan di lana arancione e
incrociò
le braccia al petto, sollevando il mento in posizione di sfida.
«Tu
non sei Nick».
«E
tu non sei
muscolosa come immaginavo» disse divertito.
«Sono
abbastanza forte da romperti di nuovo il naso».
«Be',
come puoi
vedere da sola, non serve» si strinse nelle spalle.
«Cosa
ti ha
fatto pensare che fossi muscolosa?»
«La
tua
bussata. Credevo che fuori dalla porta ci fosse un energumeno pronto
a picchiarmi».
«E
invece hai
trovato me. Ti è andata bene» arricciò
le labbra infastidita.
«Direi
proprio
di sì» ammise. «E forse è
andata bene anche te» sorrise
vedendola impegnata a scannerizzare i suoi addominali. A quelle
parole lei distolse subito lo sguardo.
«Tu
chi sei?» gli
chiese.
«Mi
chiamo Slevin».
«Che
hai combinato al naso?»
«L'ho
usato per rompere il pugno a un tizio» disse e la
superò
entrando in cucina.
«Dai,
ti hanno picchiato?» domandò lei
seguendolo.
Prese alcune
fette di pane e ci spalmò sopra del burro d'arachidi. Lei
nel
frattempo si era seduta sul bancone e lo osservava incuriosita. Sotto
il cardigan indossava dei semplici pantaloncini di cotone e una
canottiera sottile. Aveva gambe lunghe e occhi da gatta, profumava di
lavanda e biscotti: le pericolosa ragazza della porta accanto.
«Sì,
però un
po' me l'aspettavo» addentò il suo meritato panino.
«Come
te
l'aspettavi?!»
«Sai,
visto che
non c'è due senza tre... Prima ho perso il lavoro. Torno a
casa e
trovo che il mio palazzo è spacciato, tutta colpa di una
razza
incrociata di super termiti ecuadoriane, così vado da Lydia,
la mia
fidanzata».
«Senza
preavviso?»
«Già,
pensa
che idiota, avevo la chiave e sono entrato. Vengo accolto da una
sinfonia di cigolii e mugolii, vado in camera da letto e la trovo a
novanta con il suo collega, Jordan. Ci stavano dando dentro di
brutto, così tanto che non mi hanno sentito. Si sono
inventati mille
scuse, tutte inutili».
«E
allora hai
chiamato Nick».
«Esatto.
Mi
aveva detto che abitava da solo a New York in un appartamento
piuttosto grande e, dato che la mia vita è a pezzi, mi
è sembrata
una buona idea ricominciare proprio in questa città.
Così ieri
notte ho preso il primo volo e sono arrivato stamattina, ma Nick non
c'era e appena sono uscito dall'aeroporto un uomo mi ha dato un pugno
e mi ha rubato il portafogli. E perciò eccomi
qui».
La ragazza
balzò
giù dal ripiano e lo guardò di traverso: sembrava
proprio un
felino.
«Mmh,
hai detto
tre» disse andando verso la porta.
«Cosa?»
il
panino quasi gli andò di traverso.
«Hai
detto “non
c'è due senza tre”: hai perso il lavoro, devono
demolire il tuo
palazzo, Lydia ti ha tradito e sei stato rapinato, così
fanno
quattro» elencò le sue disgrazie contandole con le
dita.
Mandò
giù il boccone a fatica e bevve un sorso di latte dal
cartone.
«Be'
quando hai preso il via, hai preso il via. Questa è la terza
rapina
in due mesi».
«Interessante.
Anche se lui non era il fenomeno delle rapine lampo, non brillava di
certo in astuzia».
«Però
mi ha
rotto il naso».
«Ma
ti ha
lasciato la valigia» disse lei indicando il bagaglio aperto
in
corridoio.
«È
pesante,
forse non gli sembrava adatta a una fuga lampo».
Prese l'altro
panino e andò a sedersi in salotto, seguito a ruota dalla
ragazza.
Lui si aggiustò l'asciugamano e lei lasciò che il
cardigan cadesse
poco sotto la spalla.
«Vero,
ma c'è
l'enigma del tuo orologio, parecchio fighetto».
«È
un falso»
sollevò il polso per mostrarglielo.
«Ma
lui non lo
sapeva».
«Forse
non l'ha
visto».
«Certo
che l'ha
visto, ti ha chiesto l'ora!» roteò gli occhi al
cielo.
Lo stava
riempiendo di domande, gli serviva qualcosa da bere, magari
più
forte del latte...
«Hai
detto che sei alla terza rapina?»
«Sì,
ecco...
sai, io viaggio molto» aprì il frigo ma non c'era
altro a parte
bibite gassate, acqua e latte.
«Dov'è
Nick?»
gli chiese lei appoggiandosi allo sportello.
«Non
lo so,
dovevamo incontrarci in aeroporto ma non si è fatto
vedere».
«E
allora come
sei entrato?!»
Astuta, molto
astuta.
«La
porta era
aperta» spiegò semplicemente.
«La
porta era
aperta?» ripeté per nulla convinta.
«Sì,
te
l'assicuro».
«Aperta
o
chiusa male?» tamburellò le dita sulla plastica
ingiallita e lo
guardò dritto negli occhi.
«Non
me lo ricordo» rispose e chiuse
di colpo il frigo.
L'improvvisa
perdita di equilibrio la
costrinse ad aggrapparsi al suo petto per non cadere. Sentì
un
brivido attraversargli la schiena quando le unghie gli graffiarono le
spalle, ma fu un attimo, lei si allontanò fulminea.
«Ops,
scusa»
non riusciva a smettere di sorridere, quella ragazza lo
intrigava.
«Avevi
detto aperta» lo rimproverò puntandogli un
dito contro.
«Mmh,
sì potrebbe essere... ma ehi, come ti
chiami?»
Lei
trasformò il dito puntato in una mano tesa verso
di lui.
«Hai
ragione,
sono Malia. Sono la vicina di Nick ed ero venuta a chiedergli una
tazza di zucchero» anche la stretta era forte e poderosa,
come il
suo carattere.
Gli diede le
spalle e tornò in cucina, diretta al motivo per cui si era
fiondata
in quell'appartamento.
«E
dov'è la
tazza?»
«Ho
detto che volevo un tazza di zucchero, se avessi
avuto una tazza avrei chiesto dello zucchero».
«Touché»
fu
costretto ad ammettere la sconfitta, mentre il suo stesso sorrisetto
divertito si dipingeva sulle labbra a cuore della ragazza.
La
guardò armeggiare in cucina come se quella fosse casa sua,
sapeva
come muoversi e dove trovare ciò che le serviva. E poi il
telefono
squillò e Malia quasi si lasciò sfuggire lo
zucchero dalle mani.
«Oh,
potrebbe
essere Nick!»
Lui
andò a rispondere, ma la cornetta gli
restituì pochi secondi di silenzio e il click di chi ha
riagganciato.
«Ha
attaccato»
sospirò rimettendola a posto.
«Ah,
ho
un'idea!» esclamò Malia prendendo il telefono.
«L'hai usato da
quando sei qui?»
«No».
«Perfetto»
disse e compose un numero, quando ricevette risposta
riagganciò con
la scusa di aver sbagliato persona.
«Che
cosa stai
facendo?» le chiese con il tono paziente che si usa con i
matti.
«Era
l'hotel
Cheval, quindi ora sappiamo l'ultima chiamata di Nick, non ci resta
che scoprire chi l'ha chiamato. Colombo dice che ci sono tre
cose...»
«Colombo?»
quasi le scoppiò a ridere in faccia.
Malia lo
guardò
contrariata ma non si lasciò abbattere.
«Sì,
Colombo.
Era un detective di una serie tv».
«So
chi è
Colombo, ma cosa c'entra con Nick?»
«Lui
dice che
vanno esaminate tre cose sul luogo del delitto: cosa c'è ora
che non
c'era prima, cosa c'era prima che non c'è più e
cosa è stato
spostato».
«Questo
è un luogo del delitto?» si guardò
intorno
spaesato, mentre lei componeva un altro numero.
«Per
me Nick è
nei guai» disse, attorcigliando tra le dita una ciocca dei
suoi
lunghi capelli castani.
La risata che
stava trattenendo da un po'
gli sfuggì senza che potesse far nulla per ricacciarla
indietro.
«Non
starai esagerando?»
Lei lo
ignorò.
«Pronto?
Oh,
scusi ho sbagliato» mise giù la cornetta come se
fosse diventata
bollente. «Ha risposto di nuovo l'hotel Cheval!»
«Lui
ha
chiamato l'albergo e loro l'hanno richiamato, è
normale» provò a
tranquillizzarla.
«Allora
forse è
un indizio» disse e prese a camminare in cerchio.
«Di
cosa?»
«Di
quello che
può essergli successo!»
«Forse
non gli
è successo niente».
«Ma
forse sì!
Dovevate incontrarvi e tu sei qui e lui no, la porta era aperta e
succedono brutte cose quand... oh, cazzo!» esclamò
guardando
l'orologio. «Devo passare al lavoro, ma solo per un paio
d'ore, poi
torno così possiamo cominciare l'indagine» disse
saltellando verso
l'uscita.
«L'indagine?
Non starai correndo un po' troppo?»
«Dai,
ci divertiremo!» gli sorrise chiudendosi la porta alle
spalle.
Era
stranamente euforica per essere preoccupata, come se
non avesse aspettato altro per tutta la vita.
Che poteva
fare
se non assecondarla? In fondo anche lui aspettava di incontrare una
come lei da tutta la vita.
Distratto da
quel pensiero – ma anche dall'immagine del suo seno nudo
sotto la
canottiera leggera –, non si accorse che qualcosa si stava
muovendo
a sud dell'Equatore, destabilizzando il fragile equilibrio del nodo
all'asciugamano, che di fatto gli scivolò dai fianchi
proprio
nell'istante in cui la porta si riaprì.
Gli occhi
furbetti di
Malia ammirarono le sue grazie, mentre lui cercava di nasconderle di
nuovo sotto il pezzo di stoffa traditore.
«Ti
serve
altro?» sorrise, provando a mascherare l'imbarazzo.
«Sì,
scusa. La
mia tazza di zucchero, ricordi?»
«Prego,
conosci la strada» la
invitò indicando con un ampio gesto la piccola cucina.
Malia non se
lo
fece ripetere e ciabattò fino alla credenza.
«Me
ne sono accorta
dopo aver fatto il caffè, stavo andando a comprarlo ma poi
ho
pensato “ce l'avrà Nick”»
disse rigirandosi la tazza di
zucchero tra le mani.
Lo guardava
come
si guarda un bocconcino alla crema e a lui non dispiaceva affatto.
«Già,
Nick è
sempre pieno di risorse» si morse le labbra, senza
trattenersi.
Malia
ridacchiò.
«Tu
mi racconti
la tua storia, io me ne vado senza zucchero, torno qui e metti in
mostra il pisello e, anche se il caffè a questo punto
sarà una
porcheria, io voglio andare fino in fondo».
«Ah
sì?»
«Già»
fece un pausa. «Sembra la scena di un quadro di Norman
Rockwell».
«Cosa,
il mio pisello?» ghignò malizioso.
«Che...?
No!
No, lo zucchero. I vicini che si prestano lo zucchero a vicenda,
è
molto “Casa nella prateria”. Il tuo pisello invece
non credo sia
molto adatto ad uno show per famiglie» disse e si
diresse per
l'ennesima volta verso l'uscita.
«Oh,
e grazie
per lo zucchero, zucchero!» gli fece
l'occhiolino e se ne
andò, per poi riaprire subito la porta. Lui alzò
un sopracciglio e
si appoggiò al muro incrociando le braccia al petto.
«Be',
che ci
fai qui?»
«Volevo
imbroccare il prossimo spettacolo» spiegò
con candore.
«Non
replico
fino alle otto».
«Mmh,
ok»
disse con finta delusione e se ne andò sul serio.
Un tornado
avrebbe causato meno scompiglio di quanto ne aveva portato lei in
appena quindici minuti.
Decise che era
meglio rivestirsi prima di beccarsi un raffreddore, ma quando
voltò
le spalle alla porta qualcuno bussò più forte di
Malia. Doveva
essere di nuovo lei.
«Non
ci
provare, non sono le otto» disse e aprì, ma invece
di Malia si
ritrovò attorno al collo la mano gigantesca di un armadio a
due
ante.
Il gigante lo
sollevò di qualche centimetro da terra, spingendolo dentro
l'appartamento. Accanto a lui c'era un altro uomo, più
piccolo, con
il viso affilato di una volpe. Puzzavano di sigari, cuoio e ferro e
sembravano usciti dal Padrino, con le loro giacche di velluto a
coste, i cappotti neri e i pantaloni eleganti.
«Il
boff vuole
vederti» disse il primo, stringendo le dita fino a fargli
mancare
l'aria.
«Chi?»
chiese,
provando a divincolarsi.
«Il
boff!»
gridò e lo lasciò andare con stizza.
Era grande e
grosso, aveva i denti superiori così sporgenti che toccavano
il
mento e gli occhi piccoli e storti. Voleva risultare minaccioso, ma
era difficile prenderlo sul serio con quel sibilo farfallino.
«Chi
è il
boff?» tossì e si massaggiò il collo
indolenzito.
Se proprio
doveva morire, tanto valeva divertirsi un po'. Fece un passo avanti,
ma il piccoletto lo spinse sul divano. Aveva una grossa cicatrice che
gli attraversava la guancia sinistra e la bocca da parte a parte.
«Ehi,
metti giù
le chiappe!» lo rimbrottò quando provò
ad alzarsi.
Ripeterono
quella scenetta per un paio di volte, ma nemmeno l'altro
riuscì a
intimorirlo.
Erano gli
scagnozzi più insulsi che avesse mai
visto, così tonti che forse sarebbe riuscito ad abbindolarli
con le
parole giuste.
«Sentite,
non sono quello che cercate, io non
abito qui».
«Fì,
però
fembri quello che abita qui» disse quello grosso.
«Ma
voi non
sapete nemmeno che faccia ha!»
I due si
guardarono confusi, poi
il piccoletto trovò la risposta giusta in calcio d'angolo.
«Lui
voleva
dire che tu sembri che abiti qui».
Poté
quasi vedere il lampo di
fierezza attraversargli gli occhi mentre lo diceva.
L'energumeno
annuì ghignando come una iena. «Fì,
volevo dire proprio questo!»
«Sì,
sembra
che io abiti qui e invece no. Sono venuto a trovare un amico, sono
arrivato giusto stamattina» provò a spiegare
usando un tono
amichevole.
Sembrò
funzionare, perché i due fecero un passo
indietro e gli permisero di alzarsi in piedi.
«Ok,
fenti il
ragazzo che sto cercando fi chiama Nick. Tu ti chiami?»
«Mi
chiamo
Slevin» disse esibendo il suo sorriso migliore.
«Ah».
Il
gigante assunse un'espressione ancora più ebete.
«C-ce...
ce
l'hai un documento?»
Era fregato?
Era
fregato.
«Ehm,
be' il
buffo è che sono stato rapinato e...»
«EHI,
fenti! Fenti
questo vallo a dire a Faccia Calva, lui ti può sbudellare in
fondo
alla strada».
Lo scagnozzo
si agitò così tanto da riempirlo di
sputi, ma nemmeno il suo compare sembrò capire a cosa si
riferisse.
Guardò prima lui, poi Slevin, poi di nuovo lui, poi di nuovo
Slevin
e alla fine partì alla carica.
«Senti,
figlio
di puttana...!»
«No,
no, gli sto addoffo io, gli sto addoffo
io!» lo spostò indietro con una manata.
«Lento,
molla la
presa!» gridò.
«Elvif,
gli sto
addoffo io!» ripeté lo scimmione per una decina di
volte, finché
l'altro non gli diede un calcio negli stinchi che lo fece calmare.
«Figlio
di
puttana» disse poi quello secco, puntandogli un dito contro.
«Io
so solo che
il Boss mi ha rifilato questo indirizzo e ha detto
“Lento”, che
sarebbe lui, “Elvis”, che sarei io,
“portatemi il personaggio
che trovate a questo indirizzo”. Me l'ha detto proprio oggi e
tu,
guarda un po', ti trovi qui oggi, quindi sei tu quello che devo
portarmi via. Per me. Oggi».
«Ma
io non sono Nick»
disse Slevin, per niente impressionato.
«Sì,
ma
purtroppo per te, tu non sei il primo a dirci che non sei quello che
stavamo cercando».
«Ok,
possiamo chiedere a Malia, la ragazza
che abita qui di fronte» fece per andare verso la porta, ma
Lento
gli mostrò il pugno ed Elvis lo prese per le spalle.
«Ehi
ehi ehi,
fermo fermo, aspetta! Nick, Slevin, Clark Kent, chiamati come cazzo
ti pare. Potrebbe venire la Regina d'Inghilterra in persona, con il
suo bel culo, le tette al vento e tutto il resto e se mi giurasse che
tu sei il Principe Carlo, be' io dovrei portarti comunque dal Boss. E
lo sai perché?»
«No»
scosse la
testa.
«Ordini»
scandì piano. «Sai che sono gli ordini,
vero?»
«Credo
di
capire il concett...»
«Gli
ordini sono ordini!»
Voleva dire
qualcosa di brillante, un'uscita a effetto che lo
avrebbe salvato dai guai come quelle di James Bond.
«È
da
ignoranti usare la parola da definire nella definizione» fu
la cosa
migliore che gli venne in mente.
Elvis gli
restituì il sorriso e
poi gli piantò un pugno nello stomaco.
«Di'
un'altra
parola e ti spacco quella merda di naso, non mi prendi per il
culo».
Sentì
salire il panino al burro d'arachidi e lo ricacciò
giù per non vomitargli sulle scarpe. Purtroppo
però non era così
bravo a mandar giù un altro tipo di vomito.
«Il
mio naso è
già spaccato!»
Il colpo gli
rimbombò sui denti e sentì le ossa
rotte scricchiolare una contro l'altra. Almeno sapeva una cosa: Elvis
era uno che manteneva la parola.
«Posso
dire
solo una cosa?»
«Che
c'è?!»
«Puoi
alzare il
riscaldamento? Fa veramente freddo» disse stringendosi le
ginocchia
al petto.
Avevano perso
troppo tempo, quindi non gli lasciarono nemmeno un minuto per
vestirsi, ma lo portarono fuori dall'appartamento in pantofole e
asciugamano. Doveva essere un quartiere piuttosto malfamato o magari
solo spaventato, perché nessuno dei passanti osò
dire e far nulla
mentre lo costringevano a salire in auto.
Elvis lo
guardò dallo
specchietto retrovisore.
«Ecco
vedi, tu
dovevi pensarci prima di mandare la lingua a passeggio, ti avevo
avvertito».
«Lo
so» disse, contorcendosi nel tentativo di
trovare una posizione comoda.
«Ehi,
smettila di sanguinare! Non
sulla mia macchina, non su questa tappezzeria! Metti quel cazzo di
ghiaccio su quel cazzo di naso!»
Il ghiaccio
era quasi del
tutto sciolto e la pezza in cui era avvolto era umidiccia di acqua
gelida e sangue. L'odore ferroso del suo stesso sangue non lo avrebbe
abbandonato per un bel po'.
Arrivarono in
un ampio viale
costeggiato da due identici e giganteschi edifici a mattoncini rossi.
Fu come trovarsi davanti a uno specchio, una pallida imitazione delle
due torri ridotte in cenere.
Un altro
energumeno dalla pelle
d'ebano li accolse quando accostarono di fronte a uno dei due
edifici, in una mano teneva un giornale, nell'altra il mitra nascosto
sotto il loden scuro.
Slevin si
guardò intorno e si rese conto
che quella non era l'unica guardia posta di fronte agli ideali
cancelli di quell'ideale castello. Ne contò almeno altre
cinque,
tutte armate.
L'atrio
all'interno era semplice ed elegante, per
nulla sfarzoso, dava l'impressione di forza e sicurezza. Le pareti
chiare, il parquet, il legno di noce e i tappeti persiani: era come
trovarsi all'interno di una banca, la più grande e
affidabile della
città.
Elvis e Lento
lo spinsero dentro un ascensore e si fecero
un viaggetto fino al super attico.
Le porte si
aprirono su un
corridoio in marmo bianco e nero, circondato da due pareti ricoperte
di faretti dorati. Era quella la via per l'inferno? Lui la stava
percorrendo in pantofole, con un asciugamano alla vita e il naso
rotto e sanguinante... ma c'erano margini di peggioramento.
Entrò
nella
stanza in fondo al corridoio, era ampia e arredata come tutto il
resto. In piedi davanti a una delle grandi finestre c'era l'ennesimo
uomo alto e scuro. Era largo il doppio di Lento e aveva
un'espressione più incazzata di quella di Elvis. Aveva due
opzioni:
convincerlo della propria innocenza o uscire da quel palazzo dentro
un sacco della spazzatura. Nella migliore delle ipotesi.
«Senta,
i suoi
ragazzi Elvis e Lento hanno pizzicato l'uomo sbagliato. Io non sono
Nick Fisher».
«Signor
Fisher!» esclamò una voce alla sua destra.
Lì c'era una scala a
chiocciola nera e lucida, da cui scese un uomo anziano e distinto.
Teneva in mano
un bastone da passeggio dall'aspetto costoso e lo
faceva dondolare ad ogni gradino con eleganza. La sua ombra
proiettata sulle pareti e sul gigantesco specchio di fronte alla
scala, lo faceva apparire più ingombrante e minaccioso di
quel che
era in realtà.
«Lei
ha
presente lo Shmoo, signor Fisher? Era un fumetto che mi piaceva da
bambino. Lo Shmoo era una creatura adorabile: deponeva le uova, dava
il latte e moriva di pura estasi quando un affamato lo guardava,
perché adorava essere mangiato. Poteva assumere qualunque
sapore tu
desiderassi».
Lo raggiunse e
lo guardò negli occhi. Gli venne in
mente una parola: carisma. Quel vecchio emanava carisma da ogni poro
della pelle stanca. Il suo sguardo fiero e sicuro pareva trapassarlo
da parte a parte, come se fosse capace di entrargli nella testa e
carpire ogni suo più piccolo segreto.
Il sangue gli
si
gelò nelle vene e la lingua gli si paralizzò tra
i denti.
Non ricevendo
risposta, l'anziano riprese a parlare e a muoversi intorno alla
stanza.
«Le
pelle di
Shmoo, tagliata fine, diventava cuoio sottile; perfino i baffi di
Shmoo erano ottimi stuzzicadenti. In sostanza, lo Shmoo soddisfaceva
tutti i desideri del mondo» si fermò accanto
all'altro uomo, vicino
la finestra.
«Ho
usato
l'esempio dello Shmoo solo perché è attinente
alla ragione per cui
è stato portato qui».
«Mi
scusi, ma lei chi è?» disse,
ritrovando la voce e la parlantina.
Se nella vita
aveva imparato
qualcosa era che un animale ferito non sopravvive a lungo nella
giungla.
«Io
sono il
Boss» rispose l'altro, senza scomporsi di fronte alla sua
palese
arroganza.
«Credevo
che
fosse lui il Boss» indicò quella che era
evidentemente una guardia
del corpo.
Il Boss
squadrò
la guardia dalla testa ai piedi e poi domandò:
«Perché? Ci
somigliamo?»
Avrebbe
risposto “touché”, ma preferì
non
rischiare di indisporre troppo un uomo con così tanto
potere. Spostò
il suo peso da un piede all'altro, mentre il Boss prendeva posto
dietro la scrivania.
«Dunque
signor
Fisher, lei voleva dirmi qualcosa?»
«Io?
A dire il
vero è lei che mi ha fatto venire qui» si strinse
nelle spalle.
«Sì,
ma dicevo
prima, quando pensava che io fossi lui».
«Non
pensavo
che lei fosse lui, pensavo che lui fosse lei. E stavo cercando di
farle capire che hanno preso l'uomo sbagliato».
Il Boss
poggiò
entrambe le mani sui braccioli e si mise comodo sulla sedia di pelle
verde bottiglia.
«L'uomo
sbagliato per cosa?»
«Per
qualsiasi
cosa voglia da me».
«Lo
sa cosa
voglio da lei?»
«No».
«E
come sa che
ho preso l'uomo sbagliato?»
«Be',
perché
io non sono quello...»
«Forse
voglio
darle 96.000 dollari. Ho preso sempre l'uomo sbagliato?»
ghignò.
A
Slevin scappò una risatina.
«Vuole
darmi
96.000 dollari?»
Il Boss si
alzò,
fece il giro della scrivania e gli si piazzò di fronte,
faccia a
faccia.
«No.
E lei
vuole darmi 96.000 dollari?»
«No,
dovrei?»
«Non
lo so,
dovrebbe?»
L'aria divenne
più pesante e all'improvviso sentì
caldo, nonostante fosse praticamente nudo. Deglutì a fatica,
la gola
sempre più secca, e strinse forte le mani dietro la schiena.
«Non
lo so...
dovrei?»
Il Boss fece
schioccare la lingua contro il palato.
«Be',
per farla
breve...»
«Breve
mi
sembra una parola grossa» disse di getto.
«Scommetto
che
è stata quella lingua lunga a procurarti quel naso, quindi
facciamo
così: dimmi che idea ti sei fatto sul perché sei
stato portato qui»
lo invitò a parlare con un gesto della mano.
Esitò
un attimo,
studiando l'espressione del Boss, ma lui sembrava piuttosto serio,
quindi...
«Ho
come
l'impressione che lei abbia l'impressione che io le devo 96.000
dollari».
«No,
tu devi a
Slim Hopkins 96.000 dollari. Tu li devi a Slim, Slim li deve a me...
tu li devi a me».
«E
non si può
parlare con questo Slim?»
Il Boss e la
guardia del corpo si scambiarono una veloce occhiata e in meno di
dieci minuti si ritrovarono nel seminterrato del palazzo. Un posto
buio, freddo e sporco che gli fece venire i brividi per diversi
motivi, compresi gli occhi morti di un uomo dentro una cella
frigorifera.
Era come
quella
che si trova nei macelli, solo che al posto della carne c'era un uomo
con un buco in fronte e i vestiti sporchi di sangue. Il Boss
levò la
brina dal vetro con una mano.
«Ehi
Slim,
conosci questo ragazzo? Slim?» chiese al cadavere.
«È
inutile,» scosse la testa «da quando gli hanno
sparato è diventato
sordo».
«C-cos'è
che
ha reso Slim sordo?» disse Slevin con un voce malferma.
Il Boss lo
guardò come se fosse ingiustamente impressionato.
«Perché
me lo
chiedi?»
«Perché
io le
devo 96.000 dollari e ho un leggero problemino a metterli
insieme».
«Ah,
per
quello! Ok, dai non ti preoccupare, facciamo che pareggiamo a
90.000».
«Molto
generoso, ma il problemino rimane lo stesso» disse con un
filo di
voce.
«Mh,
va bene.
Allora facciamo che io ti cancello l'intero debito in cambio di un
piccolo favore».
«D-dipende
dal
favore».
Il Boss gli
diede una manata sulla schiena, che bruciò
fino alle ossa.
«Sei
con le
spalle al muro, eppure non ti arrendi e provi a dettare le
condizioni. Tree, chiama l'ascensore, il ragazzo è
più freddo di
Slim e non vogliamo mica rischiare che muoia».
Una volta
tornati
nell'appartamento il Boss andò dritto alla scrivania, prese
una
cornice e gli mostrò la foto che racchiudeva.
«Questo
era mio
figlio. Hai notato che ho detto era?» disse serio e Slevin
quasi
poté toccare l'aura di cupa tristezza che emanava.
«Sì»
annuì
abbassando lo sguardo.
«Perché
ora è
morto. Ammazzato con un proiettile in testa sulla porta di casa.
Relegato all'imperfetto dell'essere. Spedito da un
“è” a un
“era” prima di colazione».
«Bel
problema».
«Già,
è un
bel cazzo di problema. E sai cosa significa questo?»
«No,
non
saprei» incrociò le mani davanti a sé,
temendo un colpo basso che
non arrivò.
Il Boss si
spostò di nuovo davanti alla finestra
per guardare il palazzo di fronte.
«Lex
talionis,
la legge del taglione. È stato infranto un patto. Mio
figlio è stato ucciso quindi lo stesso destino
dovrà toccare al
figlio del Rabbino».
«Al...
al
figlio di chi?»
«Del
Rabbino».
Aveva ancora
la gola secca da quando aveva visto quel
cadavere nella cella frigorifera e sulla scrivania c'erano una brocca
e due bicchieri pronti per essere riempiti.
«Perché
lo
chiamano il Rabbino?» chiese versandosi dell'acqua.
«Perché
è
un rabbino».
Il Boss gli
rivolse un'occhiataccia proprio mentre stava per poggiare le labbra
sul bordo del bicchiere.
«E
chi è il figlio?» chiese per
distrarlo, mentre rimetteva a posto la tanto agognata fonte di
liquidi. Nudo, assetato, con il naso rotto e a rischio di morte,
peggio di così non poteva andare, no?
«Yitzchok».
«Yitzchok
il
figlio del Rabbino» registrò mentalmente
quell'informazione.
«Yitzchok
la
fatina» precisò il Boss.
«E
perché lo
chiamano “la fatina”?» chiese. Non che
fosse difficile intuirne
il motivo, ma fare domande lo aiutava a mantenere la concentrazione.
Il Boss alzò gli occhi al cielo.
«Perché
è una
fatina!»
«Come?
Ha le
ali, sa volare, sparge polverina magica dappertutto?»
ridacchiò.
«È
una checca»
.
«Ok,
capito»
sollevò le mani in segno di resa.
«Andiamo»
disse il Boss, incamminandosi verso l'uscita.
Lo
seguì svelto,
nonostante avesse le pantofole e l'asciugamano stesse per cadergli.
«E
il Rabbino
che cosa ne pensa?» domandò riannodandolo in vita.
«Lui
non lo
sa».
«Lei
lo sa, ma
lui non lo sa».
«Tutti
lo
sanno».
«Tranne
il
Rabbino».
«Esatto».
Si
sentiva più leggero ora che stavano attraversando a ritroso
il
corridoio con i faretti dorati.
«E
io che ruolo
ho?»
«Tu?»
il Boss
si voltò a guardarlo.
«L'ammazza-fatine».
«I-io?»
ora non
sorrideva più.
«Tu».
Restò
a bocca aperta, mentre la testa lavorava per mettere insieme i pezzi.
«Non
esistono
dei professionisti per fare queste cose?»
Il Boss
scoppiò
a ridere di gusto.
«Certo
che
esistono! Ma tu mi devi 96.000 dollari, quindi perché dovrei
pagare
qualcun altro se ho già pagato te?»
La sua faccia
atterrita dovette far pena al Boss, che gli mise un braccio attorno
alle spalle per accompagnarlo all'ascensore.
«Con
i tuoi
debiti non vai molto lontano, il che vuol dire che ti tengo nel
taschino, ovverosia se tu non fai quello che io voglio che tu faccia,
passerai dal mio taschino alla cella frigorifera. A Slim
farà
piacere avere compagnia e a me farà comodo lo Shmoo. Aspetto
una tua
risposta domattina».
Le porte
dell'ascensore si aprirono e dentro
c'erano Lento ed Elvis ad aspettarlo.
«C'è
qualcos'altro?» chiese con il morale sotto le suole
sbriciolate
delle sue pantofole.
«Be'
non penso
sia necessario dire una frase banale o un cliché come
“se chiami
la polizia sei morto”» disse lapidario.
«Però
l'ha
detta».
«Però
l'ho
detta».
Le porte
dell'ascensore si chiusero e il Boss restò solo con le sue
guardie
del corpo e una presenza celata dietro una delle porte a scomparsa
tra i pennelli di legno.
«Allora,
mi
faccia capire se ho afferrato: io la pago una fortuna per ammazzare
qualcuno e lei prende un altro per farlo?»
L'uomo
uscì
allo scoperto. Indossava un completo elegante che lo faceva
somigliare ad Humprey Bogart in Casablanca e dai suoi occhi azzurro
cielo non trapelava alcuna emozione.
«Non
si
preoccupi. Io ucciderò qualcuno»
sentenziò gelido.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. La trappola ***
Raccolse
il giornale che il postino aveva lasciato sullo zerbino e lo
usò per
asciugare il sangue che aveva ripreso a colare a causa dello sbalzo
di temperatura, dal caldo dell'appartamento del Boss al freddo gelido
di New York. Il naso gli pulsava più di prima e il dolore si
irradiava a tutta la testa.
Andò dritto in bagno – lì aveva
visto delle medicine –, prese un antidolorifico e
tornò in
salotto.
C'era ancora uno dei panini che non aveva finito di
mangiare, si lasciò cadere sul divano e lo
agguantò, affamato come
un leone nel deserto.
Aveva
un sacco di informazioni da elaborare, gli serviva un po' di calma
per riflettere sul da farsi, ma Malia spalancò la porta ed
entrò
nell'appartamento.
Indossava dei pantaloncini di jeans scuri, un
maglione largo rosa antico, calze parigine nere e un paio di stivali
sotto il ginocchio pieni di lacci e borchie. I capelli lunghi le
incorniciavano il viso leggermente truccato. Restò
ipnotizzato per
qualche secondo dal luccicare del gloss sulle sue labbra.
Una
persona normale non avrebbe notato così tanti dettagli in
poco
tempo, ma lui non era una persona normale.
«Nick
non si è visto, eh?» gli chiese, aggrappata con
entrambe le braccia
agli stipiti della porta.
«No»
tossì con la gola in fiamme.
Malia
fece una faccia stupita e le braccia le ricaddero lungo i fianchi.
«Ancora
con l'asciugamano? Vuoi aggiungere una polmonite alla lista dei tuoi
problemi?»
«Ah,
Malia, è una storia lunghissima» si
passò una mano tra i capelli
ribelli.
«Be'
vestiti, me la racconti mentre andiamo».
Scosse
la testa confuso. «Mentre andiamo? Dove andiamo?»
«Noi
sappiamo solo che qualcuno ha chiamato Nick dall'hotel Cheval. Ho
parlato con un'amica che ci lavora, dice che prendono nota di tutte
le chiamate e che può accedere al computer e scoprire da
quale
camera è partita. Mi chiama da un momento
all'altro» spiegò
brevemente, ma l'attenzione di lui era stata catturata dall'articolo
in prima pagina, appena sotto la macchia di sangue con cui aveva
sporcato il giornale.
Questo
particolare non sfuggì a Malia, che sgattaiolò
sul divano al suo
fianco.
«Che
c'è?» gli chiese, piegando il collo per sbirciare
l'articolo.
«Io
questo lo conosco» indicò la foto in bianco e nero
di Slim
Hopkins.
«Conosci quell'uomo?!»
«Sì,
l'ho incontrato, ma era morto» disse dandole il giornale.
Malia
non sembrò impressionata da quell'affermazione.
«Hai
incontrato un morto?»
«Sì,
era in una cella frigorifera» disse e tornò al suo
panino,
facendone fuori metà con un morso.
Malia aprì il giornale e
lesse ad alta voce.
«La moglie dell'allibratore Slim Hopkins
ne ha denunciato la scomparsa, la polizia non ha indizi, bla
bla
bla... ah! Un portavoce ha commentato
ufficiosamente:“È il
colmo che Hopkins sia scomparso, visto che è sospettato di
essere
responsabile di alcune scomparse”».
Quando ebbe finito gli
prese il panino dalle mani e lo costrinse a guardarla negli occhi.
«Senti,
è ora che mi racconti perché indossi ancora
quell'asciugamano».
«Posso
almeno vestirmi?» le fece l'occhiolino.
Malia
mise giù i resti del panino e si alzò in piedi.
«Va
bene, te lo concedo».
«Grazie
tante».
Prese un paio di pantaloni, una camicia e un gilet di
lana con il collo a V dalla valigia, poi andò in camera da
letto a
vestirsi. La sentì canticchiare qualcosa, una canzone
familiare ma
di cui non riusciva a ricordare il titolo. Quando ebbe finito
uscì
in corridoio in cerca delle scarpe, Malia gli restituì
l'occhiolino
e stava per dire qualcosa, quando un telefono squillò in
lontananza.
«Oh! Dev'essere la mia amica, torno subito!» disse
scappando via.
Lui sospirò passandosi di nuovo una mano tra i
capelli e vide con la coda dell'occhio la sua immagine riflessa nello
specchio appeso all'entrata. Doveva fare qualcosa per quel naso,
cominciava ad essere insofferente alla sensazione di chiusura, come
se fosse raffreddato.
Si arrotolò le maniche fino ai gomiti, poi
andò in cucina, mise del ghiaccio dentro un tovagliolo e lo
appoggiò
alla base del naso, infine raccolse tutte le sue energie e lo
raddrizzò con le dita. Il dolore quasi lo fece svenire e
dovette
appoggiarsi alla parete di fronte per non cadere.
Si rimise in
piedi ansante, giusto in tempo per sentire bussare alla porta.
«No
Malia, secondo me non è una buona idea che
continuiamo...» disse
aprendola, ma per la seconda volta fu sorpreso di trovare qualcun
altro sul pianerottolo.
Due ebrei ultra-ortodossi, per niente
contenti di vederlo, lo guardarono dalla testa ai piedi senza muovere
un muscolo. Uno dei due era senza capelli, portava la kippah e aveva
un mezzo sorriso enigmatico, l'altro aveva i classici riccioli ai
lati del viso, il cappello nero a tesa larga e gli occhi più
grandi
e sporgenti che avesse mai visto.
«Mettiti
le scarpe, Shlomo vuole vederti» disse il primo con tono
neutro.
«Mi
dispiace, ma non conosco nessuno Shlomo».
«Ma
c'è uno Shlomo che conosce te, non c'è altro da
sapere. Andiamo».
«Come
ho già detto non conos...» la frase fu interrotta
a metà da un
pugno dritto allo stomaco che gli mozzò il respiro. Era
stato
occhi-a-palla a sferrare quel destro micidiale.
Si
appoggiò allo stipite, piegato in avanti in cerca d'aria.
«Io
credo che sia meglio che lasci parlare me»
proseguì il tizio
pelato.
«Tu
credi?» disse con un filo di voce.
Cinque
minuti dopo era di nuovo su una macchina con degli sconosciuti,
diretto chissà dove.
Occhi-a-palla guidava rigido come un pezzo
di legno, senza staccargli gli occhi di dosso attraverso lo
specchietto retrovisore. Che ne avesse due paia per guardare anche la
strada?
Ad un certo punto fece un breve cenno della testa verso di
lui.
«Cosa
c'è?» gli chiese il pelato.
Lui
non disse niente ma rifece lo stesso cenno, l'altro allora si
voltò
indietro.
«Gli
dispiace averti picchiato» disse come se fosse una cosa
normale.
«Parli
sempre per lui?»
«Sì».
«Mmh,
capisco. Allora è muto».
«Non
proprio».
«E
perché?»
«È
personale, chiedi a lui».
«Ah
sì, e come me lo dice?»
«Non lo dice».
Svoltarono
a sinistra ed ecco spuntare i palazzi gemelli dove solo un'ora prima
aveva incontrato il Boss.
«Ehi,
andiamo da...?» cominciò a dire, ma il pelato
interruppe la sua
domanda sul nascere.
«No».
«Ma
lui è lì».
«Questa
è un'altra organizzazione» disse e
indicò il palazzo gemello di
fronte a quello del Boss.
«Cos..? Uno di fronte all'altro?!»
«Un
tempo lavoravano insieme, poi hanno cercato di uccidersi. Ora nessuno
dei due esce più, nessuno lascia la propria torre per paura
di
quello che l'altro può fare».
La
hall del palazzo di Shlomo era molto più elegante e
ricercata di
quella del Boss, gli elementi predominanti erano il cristallo, il
marmo e i colori nero, bianco e oro.
Slevin si sentiva un esperto
in materia ormai, perciò si diresse tranquillo verso
l'ascensore.
«Lasciami indovinare: ultimo piano?»
«Sì»
disse lo scagnozzo pelato, prima di premere il pulsante che li
avrebbe portati all'attico.
L'appartamento era grande come quello
del Boss, ma si respirava un'aria completamente diversa, molto
più
solenne, come quella di un tempio. Stelle di David dorate decoravano
ogni angolo, il marmo nero rivestiva il pavimento e le pareti erano
abbellite da motivi geometrici sui toni del grigio e dell'oro. La
musica delicata di un pianoforte suonava attraverso un vecchio
grammofono.
In mezzo alla sala principale vi era un tavolo
esagonale di cristallo e lì seduto c'era un uomo calvo, con
un buffo
pizzetto e un naso lungo, che prendeva il tè. Quando lo vide
entrare
prese il tovagliolo bianco che aveva sulle gambe e si pulì
la bocca.
«Devi
essere il signor Fisher» lo interpellò, mentre
ripiegava con cura
il tovagliolo.
«Devo
proprio? Perché è un po' scomodo
ultimamente» si strinse nelle
spalle.
«Ho
paura che tu debba proprio» rispose il boss con tono duro.
«Be',
se devo proprio...»
«Sai
perché sei stato portato qui?» gli
domandò guardandolo dritto
negli occhi.
«Ehm,
perché sono sfortunato?» provò a
sorridere.
«Gli
sfortunati sono soltanto un metro per i fortunati» disse
Shlomo,
accompagnando ogni parola da un ritmico gesto della mano, quasi
tenesse il tempo durante la lettura dei testi sacri.
«Tu
sei sfortunato, così io so di non esserlo. Sfortunatamente i
fortunati riconoscono la fortuna solo quando la perdono. Prendi te
stesso per esempio: ieri stavi meglio di oggi eppure ti ci voleva
oggi per capirlo, ma oggi è arrivato e ora è
tardi, hai visto?
Nessuno è mai contento di ciò che ha, vogliono
tutti quello che
avevano, quello che ha qualcun altro».
Slevin
lo guardò interdetto, non riuscendo a capire dove volesse
andare a
parare.
«Un
po' come un rabbino che vorrebbe essere un gangster e un gangster che
vorrebbe essere un rabbino. Insomma, cos'è la solita storia
che
l'erba del vicino è sempre più verde? E lei come
giustifica il
fatto di essere un rabbino e un gangster?»
Una vena guizzò
sulla tempia glabra del Rabbino.
«Non
lo faccio. Sono un malvagio che non perde tempo a chiedersi come
poteva essere, sono quello che poteva essere e quello che non poteva
essere. Io vivo qui e dal vicino, la mia erba è sempre
verde.
Considera, signor Fisher, che qui ci sono due uomini davanti a te e
di uno dovresti avere timore. Dove sono i miei soldi?»
«Me
lo chiedete in molti, ma io sono so di cosa...»
«Mio
padre me lo diceva sempre: la prima volta che ti chiamano asino gli
dai un pugno sul naso, la seconda volta che ti chiamano asino gli
dici stronzo, ma la terza volta che ti chiamano asino, be' forse
è
ora che ti vada a comprare una soma».
Non
sapeva più come spiegare di non essere Nick, la situazione
era
paradossale e chiaramente nessuno gli avrebbe creduto, tanto valeva
prenderla di petto...
«Io
non ho i suoi soldi» ammise con candore.
«Non
stiamo parlando di saltare un pagamento. Tu mi devi dei soldi, io li
devo a qualcuno: tu devi loro dei soldi».
«Io
non so neanche quanto le devo!»
«Trentatremila
dollari».
«Ma
io non sono Nick Fisher!» esclamò sull'orlo
dell'esasperazione.
«E
chi diavolo sei?»
«Uno
nel posto sbagliato al momento sbagliatissimo».
Il
Rabbino giocherellò per qualche secondo con la tazza vuota,
poi
sollevò lo sguardo su di lui.
«Hai
48 ore per portarmi i miei soldi. Saul ti terrà d'occhio nel
frattempo, ora puoi andare».
Saul, il pelato che lo aveva
accompagnato, lo prese sottobraccio per portarlo via, ma lui
tornò
indietro.
«Ah,
un'ultima domanda! Perché non mi hanno
perquisito?»
Il
Rabbino spostò il costoso servizio da tè ed
estrasse un fucile a
canne mozze da sotto il tavolo, puntandoglielo dritto al petto senza
scomporsi.
«Ho
capito, quindi essere un rabbino, un uomo di fede
è...»
«Ci
sono tre cose che un ebreo non può fare per salvare una
vita,
compresa la propria: non può adorare gli idoli, non
può commettere
adulterio e compiere un omicidio premeditato. Perciò
ucciderti prima
che tu uccidi me sarebbe...»
«Kosher?»
«Direi accettabile».
Slevin
lo salutò con un mezzo inchino e andò via
scortato da Saul e da
Occhi-a-palla.
Il
Rabbino mise via il fucile e si pulì le mani col tovagliolo,
mentre
una figura in impermeabile usciva dall'ombra.
«Metà
dei suoi soldi sono già sul suo conto alle Cayman, l'altra
metà
l'avrà quando il nostro amico sarà sotto terra.
Quando pensa che
potrà accadere?»
«Presto»
fu la laconica risposta.
«Bene,
allora mi dica cosa vuole da quel ragazzo?»
«Abbiamo
un conto in sospeso» rispose e fece per andarsene.
«Sa,
se c'è una cosa che capisco è quando qualcuno sta
mentendo. Per un
uomo nella mia posizione è essenziale riconoscere subito una
bugia,
potrebbe salvare una vita, la tua o quella di un altro. Detto questo,
però, lui non mentiva: non è Nick
Fisher».
Ci fu una lunga
pausa.
«Lo
so».
*
Tornò
all'appartamento di Nick con un altro debito da saldare sulle spalle.
Le luci erano tutte accese e qualcuno stava trafficando in cucina.
Sperò si trattasse di Malia e, quando varcò la
soglia, tirò un
sospirò di sollievo vedendo i lunghi boccoli castani
muoversi con
leggerezza.
«Bentornato
straniero. Credevo fossi finito nello stesso buco in cui è
finito
Nick» gli disse puntandogli contro un mestolo sporco.
«Magari...»
sussurrò lui tra i denti.
«Ora
mettiti a sedere, ho preparato della zuppa».
«Hai
preparato o hai comprato della zuppa? L'odore è
invitante» disse
sedendosi al tavolo.
Malia
lo guardò di traverso mentre le labbra si piegavano in un
sorrisetto
e l'imbarazzo le colorava le guance. Versò una generosa dose
di
zuppa in entrambi i piatti, poi mise in tavola un cestino di
crostini, due cucchiai, due bicchieri e una brocca d'acqua.
«Be',
diciamo che l'ho comprata e la stavo scaldando per entrambi, sperando
che prima o poi tornassi, ad un certo punto. Oggi ho avuto molto da
fare» confessò sedendosi anche lei.
«Del
tipo? Che hai combinato?» disse, annegando tre crostini nel
piatto.
«Sono
tornata quasi subito, ma tu non c'eri più, così
sono andata dalla
mia amica senza di te. Dice che hanno chiamato Nick dalla stanza
1009, un uomo registrato con il cognome “Argent”,
pensa un po'
che roba. Salgo al decimo piano e, proprio mentre arrivo, si apre la
porta della 1009 ed esce il nostro Argent in carne e ossa! Allora
faccio finta di andare verso l'ascensore, invece che venire da
lì, e
scendiamo insieme. Lui mi sorride e io sorrido a lui, non so ancora
chi sia, ma penso che forse tu lo sai, così fingo di fare
una
telefonata e gli faccio una foto col cellulare. L'ho sempre
considerato uno spreco, perché con il mio modello
preistorico le
foto vengono uno schifo e non le faccio mai... insomma, adesso
abbiamo un volto! E non si accorto di niente» tirò
fuori il
cellulare dalla borsa e gli mostrò la foto. «Ecco
Argent, lo
riconosci?»
Era così arguta e brillante, gli venne spontaneo
sorridere alla vista di quella prova. Stavano davvero lavorando a un
caso ora?
«No, mai visto» fu costretto ad ammettere.
«Lo
immaginavo, ma valeva la pena tentare».
La delusione sgonfiò
l'entusiasmo di Malia come un palloncino, così mise da parte
il
telefono e tornò a mangiare la zuppa con i crostini,
guardandolo di
sottecchi. Nonostante tutto la luce furbetta nei suoi occhi non si
era ancora spenta.
«Che
c'è? Perché mi guardi in quel modo?» le
sorrise apertamente.
«Io
e il signor Argent siamo scesi al piano terra insieme e lui
è uscito
al volo e si è infilato in un taxi... e così l'ho
seguito. È
entrato in un palazzo in centro e allora io l'ho aspettato e, dopo
un'ora, proprio mentre sto per andarmene, chi esce da
lì?»
«Argent?»
«Tu!» sollevò un sopracciglio e
arricciò le labbra.
L'aveva
raggirato e condotto in trappola, gli aveva chiesto di scoprire le
carte nascondendo accuratamente le sue. Davvero brillante.
«Come
io?»
«Tu,
da quello stesso palazzo, con due ebrei ortodossi ai fianchi. Amici
tuoi?» gli chiese stringendo le palpebre con fare indagatore.
«Non
precisamente» sospirò sconfitto.
«Penso
sia ora che mi racconti tutto» disse appoggiandosi allo
schienale
della sedia, con le braccia incrociate al petto.
Lui
mise da parte la zuppa e si alzò in piedi per riordinare le
idee,
Malia lo seguì e si sedette sul ripiano della cucina come
aveva
fatto quella mattina.
«Dunque,
c'è un uomo che chiamano il Boss e nel palazzo di fronte
c'è un
uomo che chiamano il Rabbino».
«Perché
lo chiamano il Rabbino?»
«Perché
è un rabbino».
«Mmh, banale».
«Comunque,
stamattina sono venuti due scagnozzi del Boss e mi hanno portato via
in asciugamano e pantofole. Ho incontrato il Boss e ho scoperto che
Nick ha con lui un debito da 96.000 dollari. Ho provato a dirgli che
non sono Nick, ma a lui non importa. Vuole i suoi soldi entro due
giorni, oppure mi uccide. Suo figlio però è stato
ucciso di
recente, lui pensa sia stato il Rabbino e per vendetta vuole
ripagarlo con la stessa moneta. Ecco perché mi ha offerto un
patto:
dato che non ho tutti quei soldi, salderò il debito
uccidendo io
stesso Ytzchok, il figlio del Rabbino, detto “la
Fatina”».
«Aspetta, non dirmelo. Lo chiamano così
perché è
gay?»
«Già, proprio così».
«E
i due ortodossi?»
«Oggi
Nick ha fatto bingo. Dopo essere tornato a casa sono arrivati quei
due a prelevarmi, di nuovo. Erano tirapiedi niente di meno che del
Rabbino. Nick gli deve più di 30.000 dollari e lui li vuole
entro
due giorni, altrimenti...»
«Ti
uccide» finì lei lapidaria.
«Esatto e quindi adesso, per usare
il loro gergo, devo fare secco “la Fatina”, per
poter azzerare un
debito che non è neanche il mio e, come se non bastasse,
devo
mettere insieme 33.000 dollari. Io... io non so chi sia il signor
Argent e il peggio è che non sono neanche Nick
Fisher».
Si voltò
a guardare Malia, che fissava il vuoto con sguardo assente, persa in
chissà quale congettura.
«È
assurdo, al limite del paradossale» disse dopo un po'.
«Lo
so, io non gioco nemmeno».
«No,
dico il figlio di un gangster che viene chiamato “la
Fatina”, è
assurdo. Per quanto riguarda te, siamo di fronte a un evidente caso
di scambio d'identità. Queste cose non dovrebbero capitare
veramente, è come l'amnesia... eppure tu sei qua e Nick non
si sa
che fine abbia fatto quindi direi che sei...»
«Fottuto».
«Già,
lo sei. E non mi spiego una cosa» scese giù con un
balzo e lo
affiancò.
«Cosa?»
«Non
dovresti essere più preoccupato? Sei troppo calmo, non
è normale».
Slevin
sollevò entrambe le sopracciglia, colto di sorpresa.
«Soffro
di atarassia, è uno stato di totale mancanza di
inquietudine, una
forma di depreoccupazione».
«Ah,
ne avevo sentito parlare, ma non credevo di poter conoscere qualcuno
come te un giorno».
Lui sorrise con una punta di amarezza.
«Nemmeno
io credevo di poter conoscere qualcuno come te, ma eccoci
qui».
Malia
si morse le labbra, all'improvviso senza parole, e si strinse nel
maglione informe.
«E
ora cosa farai?»
«Be',
devo dare una risposta al Boss domani mattina».
«Cosa
gli dirai?»
«Quello che qualsiasi uomo con due piselli direbbe
a un sarto che gli chiede se lo porta sia a destra che a
sinistra».
«E sarebbe?»
«Sì!»
disse convinto e affondò le mani nelle tasche della giacca.
«Ah,
sapevo che avevi buonsenso» disse il Boss, muovendo un pedone
sulla
scacchiera di cristallo.
Stava
giocando con Elvis, uno degli scagnozzi che l'avevano praticamente
rapito il giorno prima.
«Il
buonsenso ce l'hai quando hai scelta» puntualizzò.
«Sì,
il più delle volte. A volte ce l'hai quando sai di non
averla»
rispose e prese in mano un alfiere.
«No,
non muova quell'alfiere!» disse di getto.
«È una mossa troppo
stupida, se non lo sposta lei vince in quattro mosse, se lo fa adesso
lui le darà matto in una».
Il Boss lo guardò meravigliato.
«Lui
non se ne accorgerebbe e comunque fa lo stesso: Elvis mi lascia
vincere. Tutti mi lasciano vincere... ehi, un momento! Tu sai giocare
bene».
Cinque minuti dopo erano davanti alla scacchiera, uno di
fronte all'altro.
«Hai
tre giorni» disse il Boss.
«Io pensavo più a una settimana».
«Ah!
Tu hai pensato a questo? Dall'alto della tua esperienza di killer
consumato».
Prese fiato per ribattere ma il Boss ebbe un'altra
idea.
«Facciamo
così: se vinci questa partita hai una settimana».
Accettò
la sfida, non poteva far altro, anche se era in netto svantaggio e
aveva poche mosse dalla sua. Elvis, Lento e gli altri bodyguard si
avvicinarono per assistere alla sua sconfitta.
«Qual
è il tuo piano con Yitzchok?» chiese a un certo
punto il
Boss.
Slevin fece una mossa pericolosa, guadagnandosi un sommesso
sghignazzare da parte di Elvis.
«Be', diciamo che andrò a
occhio» disse, provando a non lasciarsi distrarre.
«Meglio
usare una cartina, è una strada complicata. E a proposito,
ha delle
ombre».
«Ombre?»
«Guardie
del corpo che non lo lasciano mai. Militari, ex Mossad israeliano.
Dove va lui vanno loro, a qualsiasi ora».
«Ex Mossad? Non la
vedo tanto bene».
«Vivono
nell'appartamento accanto. Lui ha una catenina con un pulsante nel
ciondolo, sembra una normale stella di David, ma se lui spinge quel
pulsante sappiamo come va a finire. Il tempo di reazione è
dai tre
ai cinque secondi, quindi dovrai colpirlo quando meno se lo
aspetta».
«Dove?»
«Nel
suo appartamento».
«E
come entro? Non posso mica bussare ed entrare dalla porta
principale».
Il
volto del Boss si deformò in un ghigno sardonico.
«No,
pensavo che entrassi dalla porta di servizio. Non sarà
difficile
ucciderlo e sgattaiolare via».
«Bel piano Goodkat, non
c'è che dire. E poi che succede?»
«Lui
si fa il ragazzo e io mi faccio lui. Metto la mia pistola pulita e
senza precedenti in mano a Yitzchok, lo faccio sparare, così
gli
restano i segni sulle mani. Li spoglio tutti e due e lo faccio
sembrare un doppio suicidio, del tipo “tu uccidi me, io
uccido te,
siamo due gay, il mondo non ci capisce”. Un lavoretto pulito
come
vuole lei».
«E
questo è quanto?» chiese Slevin.
«Già.
Oh andiamo, non guardarmi con quella faccia da cane bastonato, io non
sono così cattivo in fondo. C'è chi si
è fatto una fortuna con
me».
«Sì, ma c'è anche chi si è
fatto morto» disse senza
abbassare lo sguardo.
Il
Boss si piegò leggermente sul tavolo da gioco.
«Tu
sei un bell'enigma. Arrivi qui e spari stronzate a raffica come se
non te ne fregasse un cazzo di venire ammazzato».
Quell'affermazione
aveva l'eco di una domanda.
«Può
uccidermi una volta sola».
Il Boss mosse la sua regina contro il
re di Slevin.
«Scacco
matto! Come vedi è vero che posso ucciderti una volta sola,
ma non è
detto che debba farlo rapidamente. Io sono il gatto e tu sei il topo.
Hai tre giorni».
In
quel momento un uomo in tenuta elegante fece il suo ingresso nella
sala, gli occhi azzurro cielo si fissarono su Slevin, quasi volessero
trapassarlo da parte a parte. Lo riconobbe, era Argent.
«Ora
puoi andare» disse il Boss alzandosi in piedi per andare
incontro al
nuovo arrivato.
Slevin fu condotto fuori dai suoi scagnozzi
preferiti, mentre due persone su un vecchio camioncino di una ditta
di riparazioni lo osservava con binocoli di precisione.
«Chi
cazzo è questo adesso?» disse ad alta voce il
detective Peter
Hale.
L'interno di quel camion puzzava ancora di ferro e olio di
motore, nonostante si fossero impegnati a ripulirlo e arredarlo come
se fosse un piccolo ufficio. Il suo collega, il detective Parrish,
sfogliò la sua rivista per niente toccato dalla vicenda. Era
giovane, non aveva molti anni di servizio alle spalle, ma la ferita
alla gamba – che lo aveva quasi azzoppato –, gli
ricordava
costantemente che impegnarsi era inutile in quella città,
lui
contava meno di zero e non poteva fare la differenza.
«Non lo so,
ma chiunque sia è nella merda fino al collo,
perché gioca sia coi
circoncisi che con gli abbronzati e chissà con chi
altri» rispose
annoiato.
«Metti via quel coso e chiama Murphy, chiedigli se il
ragazzo è lo stesso di quelle foto che ha scattato ieri
Marty».
«Sì
capo» l'altro sospirò senza entusiasmo.
Peter
abbassò il binocolo e gli rivolse un'occhiataccia.
«Voglio
un rapporto completo su questo stronzo, tutto dalla A alla Z. Voglio
sapere chi è e chi conosce e quelli che conosce chi
conoscono,
voglio sapere che cazzo ci fa nella mia città!»
«Va
bene, ma non capisco perché ti scaldi tanto».
«Ah, non lo
capisci?»
«No, non lo capisco!» lo sfidò con lo
sguardo.
«Te
lo spiego subito, brutta merdina. Quei due boss non si parlano da
anni, non hanno alcun tipo di contatto. E ora uno stronzo qualunque,
mai visto prima, si fa i giretti da un palazzo all'altro scortato
prima dai neri e poi dagli ebrei, il tutto dopo che il figlio del
Boss è stato fatto secco sulla porta di casa. Sai cosa
significa
questo?»
«No,
che significa?»
«Che
qualcuno è davvero nella merda fino al
collo e quel qualcuno
potremmo essere noi. Mettiamo caso che quello sia un corriere o una
sorta di messaggero, significherebbe che le due più grandi
organizzazioni criminali della città stanno tramando
qualcosa,
magari di riunirsi sotto un unico gigantesco impero della
criminalità
contro una nuova banda. E se invece quel ragazzo è solo un
povero
stronzo nei guai, puoi scommettere il culo che non sarà
l'unico ad
affondare, ma trascinerà un sacco di gente con
sé».
«Come fai
ad esserne così sicuro?»
«Tu
non c'eri vent'anni fa, quando il Boss e il Rabbino lavoravano
insieme, né quando si divisero dando inizio a una guerra
aperta per
le strade. Era come stare su un campo di battaglia, la guerra in
Vietnam dei poliziotti di New York. Almeno di quelli onesti, gli
altri ne hanno approfittato per arricchirsi. Se il ragazzo non
è
ancora morto e non è un corriere, allora di sicuro
è una pedina di
un piano più grande ed elaborato e sta a noi scoprire di che
si
tratta».
Parrish
sospirò stropicciandosi la faccia e poi si
massaggiò il polpaccio
con una smorfia.
«Non so chi ti dà tutta questa energia, ma
comunque non smettere. A volte quasi mi fai ricordare il motivo per
cui ho deciso di entrare in polizia».
Peter fece un mezzo
sorriso, appoggiandosi a uno degli scaffali dove tenevano le
apparecchiature.
«Ecco, vedi di ricordartelo e di scrollarti di
dosso la depressione post-sparatoria».
«Non... non è una
depressione post-sparatoria! Io mi fidavo del mio partner e lui mi ha
venduto al miglior offerente per un mucchio di soldi sporchi. Sarei
potuto morire!»
Due colpi al portello posteriore ed entrò un
ometto basso e tarchiato, con in testa un elmetto giallo da
cantiere.
«Dovreste smetterla di urlare, vi si sente da
fuori!»
«Oh,
Marty! Risparmiami la predica e dimmi che hai trovato» lo
rimbrottò
Peter.
Marty si tolse l'elmetto e gli passò il caffè
annacquato
del bar all'angolo.
«Indovina
un po'? Kat è tornato».
«Goodkat?»
«Già,
è quello che cinguettano i tossici».
«E chi l'ha chiamato?»
Un brivido freddo corse lungo la schiena del detective Hale, ma
aprì la bustina di zucchero e lo gettò nel
caffè come se quella
notizia non l'avesse minimamente toccato.
«Non
lo sapevano, hanno solo detto che gira voce che Kat è
tornato».
Parrish li guardò confuso. «Ehm, chi è
Goodkat?»
«Il
killer dei più tosti» disse Marty.
«Il
più tosto» rincarò la dose Peter.
«Arriva
lui, muore qualcuno e poi sparisce. Nessuno sa chi sia né
che faccia
abbia e non lavora a New York, da quanto? Due decenni?»
«Pff,
giusto quello che ci voleva» disse Parrish, passandosi una
mano
sugli occhi stanchi.
«D'accordo,
questa situazione di merda si sta complicando sempre di più.
Tenete
gli occhi aperti e, Marty, la prossima volta trova un caffè
decente,
cazzo. Devo andare all'obitorio, chiamatemi se ci sono
novità»
disse Peter e poi scese dal camioncino.
Nella sua carriera aveva
visto così tanta gente morta ammazzata che aveva perso il
conto dei
cadaveri e dei casi di omicidio di cui si era occupato,
perciò entrò
all'obitorio con la disinvoltura data dall'abitudine.
«Buongiorno,
dottoressa Tate».
La ragazza con il camice bianco si abbassò la
mascherina e gli sorrise. Malia Elizabeth Tate, così giovane
e
dall'aspetto delicato, eppure in grado di segare un cranio a
metà
senza battere ciglio.
«Buongiorno
a lei, detective».
Il
corpo di un uomo di mezza età con la fronte sfondata e la
bocca
aperta lo accolse.
«Benny Begin, eh? Ucciso da una palla da
baseball» disse con un mezzo sorriso.
«Lanciata
da Joe di Maggio!»
«In ogni caso il buon Dio ha il senso
dell'umorismo» disse accostandosi al cadavere.
«Lo conosceva?»
«Allibratore famoso, lavorava per il Rabbino. Detto tra noi,
vent'anni fa era anche il mio allibratore, gli giravo gli assegni
dello stipendio... ma ora è acqua passata. E sugli altri
due,
scoperto niente?» indicò i corpi sui tavoli
accanto a quello di
Benny.
Malia rimise la mascherina sul viso e sollevò uno dei
lenzuoli, per mettere in mostra i segni violacei sul collo di uno dei
due.
«Sono stati avvelenati con qualche veleno esotico, roba da
tribù dell'Amazzonia, per intenderci. Ci sto
lavorando».
«Perfetto,
mi faccia sapere. Buona giornata» le diede una pacca sulla
spalla e
andò via.
Malia
guardò l'orologio, era quasi mezzogiorno e se aveva fatto
bene i
calcoli Slevin doveva già essere rientrato a casa.
Coprì i cadaveri
con i lenzuoli bianchi e li rimise nelle celle, tolse i guanti e
lavò
le mani, poi entrò nella saletta delle analisi.
«Jimmy, io sono
in pausa pranzo!» gridò al collega che stava
analizzando dei
campioni di DNA.
Non aspettò una risposta, aveva poco tempo,
perciò prese cappotto, borsa e sciarpa e corse via.
Prese un taxi
al volo e in men che non si dica era tornata a casa. Fece le scale a
due a due e quasi sfondò la porta dell'appartamento di Nick.
Trovò
Slevin in piedi con la giacca in mano, aveva i capelli scuri
più
arruffati del solito e la salutò con un sorriso sincero, di
quelli
che arrivano fino agli occhi. In un altro momento glielo avrebbe
fatto notare, ma non c'era tempo!
«Ho capito tutto!» esclamò a
corto di fiato.
«Ciao anche a te. Cosa hai capito?» le chiese
con la solita strafottente leggerezza.
«Hopkins
lavorava per il Boss, giusto?»
«Sì, esatto».
Era stanca,
doveva sedersi, così lo afferrò per un braccio e
lo costrinse a
fare altrettanto.
«Ascolta, anche il Rabbino aveva un
allibratore, Benny Begin, che ora è all'obitorio. Qualcuno
ha ucciso
lui e i suoi scagnozzi!»
«Cosa? Ti sei introdotta
nell'obitorio?!» saltò su, ma lei lo fece
rimettere a sedere.
«No,
no! Lavoro lì, non te l'ho detto?»
Il sorriso di Slevin si
allargò fino a mostrare i denti bianchi: quell'espressione
gli
donava.
«No,
non mi hai detto che sei medico legale e di sicuro io non l'avrei mai
detto, perché sai...»
«Oh cielo! Ma non capisci? Nick non è
scomparso, si è nascosto e ti ha incastrato!» lo
interruppe.
Lui
parve cadere dalle nuvole e aggrottò le sopracciglia.
«C-cosa?
Nick ha incastrato me?»
«Come una palla in un flipper. Si è
trovato nei guai e ti ha fatto prendere il suo posto. Ha pagato un
delinquente per rapinarti, ma voleva solo il portafogli e la patente,
ecco perché ha ignorato l'orologio e la valigia; poi ha
ucciso
Hopkins e Begin, gli unici che sapevano che faccia ha e ora ha
lasciato te con il culo per terra!»
«Ma l'ho chiamato io Nick,
ho stabilito io il contatto».
«Forse
ti sembra che sia così o forse sei solo capitato al momento
giusto».
«E Argent invece?»
«Lui non capisco che cosa
c'entri» sospirò.
Slevin portò le mani alla bocca e si grattò
la guancia con fare pensieroso. Era in pericolo e se Malia si
concentrava poteva vedere la falce della Morte pendere minacciosa
sulla sua testa. Al pensiero di ritrovarselo tra i cadaveri in
obitorio il cuore le arrivò in gola.
«Devi scappare» disse
stringendogli una mano.
Slevin spalancò gli occhi, colto alla
sprovvista.
«No, non posso».
«Ma ti ammazzano se rimani!»
«Mi
ammazzano se me ne vado».
«E allora vai alla polizia!»
«Quelli
comprano poliziotti come ciambelle... cazzo, non è la prima
volta
che succede, ora che ci penso» fece una smorfia infastidita.
«Non
è la prima volta che un boss ti chiede di uccidere il figlio
gay di
un rivale per pagare un debito di un amico dal quale abiti
perché
hai perso il lavoro, la casa e hai trovato la tua donna a letto con
un altro?!» disse tutto d'un fiato. L'atarassia lo rendeva
affascinante ma anche molto irritante.
«No, in effetti è la
prima volta che mi succede, ma non è la prima volta che Nick
mi
mette all'angolo. Da bambini ero più io amico suo che lui
amico
mio...»
«Ehm, sì mi piacerebbe stare a sentire la fine, ma
purtroppo devo tornare a lavoro!» corse svelta verso la
porta, ma
non riusciva proprio a scollarsi di dosso l'immagine di Slevin che le
sorrideva con dolcezza. Era entrato nella sua vita come un fulmine a
ciel sereno e aveva sentito scattare un click da qualche parte
all'altezza del cuore. Pensava a lui in ogni momento e si sentiva
come una sciocca ragazzina alla prima cotta, ma cosa poteva farci?
Lui sorrideva e lei si scioglieva.
Tornò sui suoi passi, meno
sicura e spavalda del solito, per via della proposta che stava per
fargli.
«Ehi, stavo pensando che se quando torno sei ancora vivo,
potremmo... ehm, non lo so... potremmo cenare fuori insieme?»
voleva
essere un'affermazione ma suonò più come una
domanda e si maledisse
mentalmente senza smettere di torturare le frange della sciarpa.
Lo
guardò di sottecchi solo per rendersi conto che lui era
più in
imbarazzo di lei: aprì e chiuse la bocca, sorrise,
tossicchiò e si
grattò il mento, il tutto con un sorriso ebete stampato in
faccia.
«S-sì, vo... volentieri, certo»
annuì.
«Davvero?»
domandò incredula.
«Sì, perché no?»
L'istinto di baciarlo
prevalse per un momento sulla ragione, ma riuscì a tornare
in sé a
pochi centimetri dalla meta.
«No, no» disse più a se stessa
che a lui, allontanandosi da quelle labbra tentatrici.
«Ci
vediamo dopo, ciao» lo salutò e si
fiondò giù per le scale.
*
Che
fosse bella non era di certo un mistero, ma vederla con i capelli
sciolti, truccata e con quel vestito corto e aderente gli
mandò il
sangue alla testa. La parte migliore? Non era consapevole
dell'effetto che gli faceva, anzi si guardava intorno a disagio
mentre aspettavano che un cameriere li accompagnasse al tavolo.
«Stai benissimo» le sussurrò tra i
capelli, sfiorandole appena
i fianchi.
Malia arrossì e abbassò lo sguardo, stranamente
senza
parole.
Un'altra ragazza avrebbe piluccato un'insalata,
sorseggiando vino rosè e mantenendo una posa ammiccante da
rivista
di moda, lei invece ordinò un risotto ai funghi e bevve un
intero
bicchiere di vino rosso in pochi secondi.
«Posso assaggiare un
po' dei tuoi spaghetti?» gli chiese quando arrivarono i
piatti
fumanti.
«Fai pure».
Appoggiò il mento sulle mani
intrecciate per gustarsi la scena, mentre lei addentava una
quantità
troppo generosa di spaghetti. Riusciva a mantenere una certa
eleganza, nonostante tutto.
«Che c'è?» scoppiò a ridere
quando
si accorse che la stava osservando.
«Niente, pensavo a come
sarebbe stato se ci fossimo incontrati in un'altra
situazione».
Malia
si pulì con il tovagliolo e bevve un altro sorso di vino.
«Ci si
dovrebbe innamorare solo se c'è una grande storia dietro il
primo
incontro. Insomma, visto che lo devi raccontare un mucchio di
volte... se noi due ci innamorassimo avremmo una storia pazzesca da
raccontare» gli fece l'occhiolino.
Fu il suo turno di sorridere e
restare senza parole.
«Magari siamo a cena e qualcuno ci chiede
“come vi siete conosciuti?”»
continuò lei imperterrita «e io
ti direi “raccontalo tu, tesoro” e tu mi
risponderesti “no, tu
lo racconti meglio”».
I loro sguardi s'incrociarono e fu come
guardarsi per la prima volta. Si sarebbe perso volentieri in quegli
occhi color cioccolato e non avrebbe voluto sentire altro sapore
all'infuori delle sue labbra.
Fu Malia a rompere
l'incantesimo.
«Come... come mai hai scelto questo posto? Sei
stato piuttosto deciso a riguardo» domandò.
Lui si schiarì la
voce, perché temeva che il suo tono tradisse il desiderio
represso
di averla.
«Per via delle buone recensioni e perché
è il locale
preferito di una certa persona» ammiccò alla sua
destra.
Malia
lasciò vagare lo sguardo sulla sala con finta noncuranza,
finché
non lo individuò: era piuttosto bruttino, ma due bei ragazzi
accanto
a lui era in adorazione. Cosa non potevano comprare i soldi?
«Ah,
la Fatina!» esclamò sottovoce.
«Esatto».
«Dai
è assurdo, che vuoi fare?»
«Provare un nuovo piano».
«E
qual è?» si sporse in avanti incuriosita.
«Parlarci»
fece spallucce.
«Sì? E cosa vuoi fare, avvicinarti e dirgli
“Ciao, mi chiamo Slevin, c'è un brutto cattivo che
mi ha preso per
un altro e ora devo farti fuori sennò fanno fuori me e
volevo sapere
se ti andava di parlarne”?!» sussurrò
sull'orlo di una crisi
isterica.
«Non
posso farlo».
«Be',
direi!»
«Dai,
non posso avvicinarmi a lui, ha le guardie del corpo. A parte questo,
è proprio quello che ho intenzione di fare».
«G-guardie
del corpo? Dove?» quasi si strozzò con il vino.
«Sono due,
dietro di lui. Israeliani, hanno la barba. Li vedi?».
«Wow, stai
diventando bravo» disse lei meravigliata.
«Grazie» ghignò
divertito.
«E allora come ci parli? Spiegami».
«Aspetto
che vada in bagno, poi mi alzo e lo seguo. Che ne pensi?»
«Penso
che se ti fai ammazzare, ti uccido».
«Ehi,
ma perché io devo restare sul pulmino?» gli chiese
Marty alla
cuffia.
Peter la sistemò meglio per non farla vedere, fingendo di
grattarsi l'orecchio, poi si voltò verso Parrish per
rispondere.
«Perché quando ho prenotato ho trovato solo due
posti liberi, niente di personale. Com'è la situazione
lì fuori,
c'è movimento?»
«No, tutto regolare. E dentro invece?»
«Allora,
la Fatina è in un tavolo al centro della sala e le guardie
del corpo
sono vicine. Il nostro ragazzo non è lontano, ma non riesco
a vedere
chi c'è con lui. Hai avuto sue notizie?»
«Murphy
dice che chiunque sia è un fantasma. Nessuno l'ha mai
incrociato e
lui non ha mai pestato i piedi a nessuno».
Peter e Parrish si
scambiarono un'occhiata nervosa.
«La Fatina va in bagno... e il
nostro ragazzo è partito, cazzo!» per poco Peter
non urlò.
Si
alzò dal proprio posto con tutta la calma che
riuscì a mantenere e
li seguì in bagno, ma la porta era già chiusa a
chiave.
«Marty,
la porta è chiusa».
«Sta'
calmo, non succederà nel bagno degli uomini».
Imprecò sotto
voce e dopo pochi attimi si ritrovò dietro due energumeni
con la
barba, le guardie del corpo di Yitzchok. Mostrò loro il
distintivo.
«Dopo
ci sono io, poche storie ragazzi».
Il figlio del Rabbino fu il
primo a uscire e Peter entrò nel bagno prima che il ragazzo
potesse
fare altrettanto. Era alto e magro, aveva i capelli lunghi e un po'
spettinati e l'atteggiamento imperturbabile di chi sa esattamente
cosa sta facendo. Fece per andarsene ma Peter gli sbarrò la
strada.
«Scusa, senza offesa, ma non sono gay» disse
l'altro
sorridendo.
«Fai
meno lo spiritoso, io sono un poliziotto».
«Be',
io non sono un ladro, non so se rendo l'idea».
«Ti
ho tenuto d'occhio, so tutte le tue mosse. Chi sei? Perché
io so chi
non sei. Non sei Nick Fisher, il padrone della casa in cui stai, lo
so perché Fisher si è fatto otto anni in
riformatorio per aver
violentato una cheerleader di 14 anni. Il riformatorio mi ha mandato
la sua foto e non sei lui, quindi chi cazzo sei tu?»
«Solo
uno a cui si sta freddando la cena e lei non può trattenermi
qui
senza un mandato, sarebbe abuso di potere. Posso andare
adesso?»
rispose sicuro di sé.
A malincuore, Peter si fece da parte.
«Sappi che non finisce qui» lo minacciò.
«Ci
conto» rispose il ragazzo uscendo dal bagno.
Rimasto solo, il
detective Hale si guardò allo specchio, deluso da se stesso
per
essersi lasciato infinocchiare da un pivellino qualunque.
Tirò un
pugno sulle mattonelle della parete, sentendo le ossa della mano
incrinarsi.
«Dannato figlio di puttana!»
***
Grazie
per essere arrivati fino a qui! Se il capitolo vi è piaciuto
o se qualcosa vi è poco chiara non
esitate a chiedere lasciando
una recensione.
Vi anticipo che il
prossimo sarà l'ultimo capitolo, seguito poi da un breve
epilogo.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4. James Bond ***
Camminavano
fianco a fianco per le vie
della città. Le luci colorate delle vetrine si riflettevano
sul
marciapiedi umido, l'aria puzzava di hot dog bruciati e gas di
scarico e faceva così freddo che ogni loro respiro si
trasformava in
una nuvoletta bianca.
Lui era abituato a quelle temperature,
aveva vissuto all'estero per parecchi anni prima di tornare in
America, stabilendosi anche in luoghi inospitali per la maggior parte
della gente comune.
Lei invece aveva indossato i guanti, la
sciarpa e un cappotto pesante, ma sembrava comunque in procinto di
congelare. Le mise un braccio attorno alle spalle senza nemmeno
pensarci e quando se ne rese conto fece per sollevarlo, ma lei gli
artigliò la mano e si strinse ancora di più al
suo fianco.
Non
gli era mai successo di camminare abbracciato a qualcuno, era come
avere un corpo e quattro gambe. Era scomodo, ma i capelli di Malia
profumavano di lavanda.
«Perché sorridi?» gli domandò.
Il
trucco le si era un po' sbavato, ma le labbra luccicavano rosse come
ciliegie anche senza rossetto. D'istinto lui morse le proprie e
deglutì pesantemente.
«Be', perché puzzi di vino rosso»
rispose, evitando il suo sguardo indagatore.
Malia si finse
oltraggiata e lo spinse via con un sorriso.
«Sei davvero
crudele!»
«Ah, sarei io il cattivo?» ricambiò il
sorriso
sbarrandole la strada.
Si guardarono negli occhi, finché
entrambi non tornarono seri.
«Cos'è successo nel bagno degli
uomini?» gli chiese lei a bruciapelo.
«Abbiamo parlato e gli ho detto che
dobbiamo vederci» disse e riprese a camminare svelto. Malia
quasi lo
inseguì per tenere il passo.
«Non ci credo!»
«Credici, mi ha
dato un appuntamento».
«Cosa? E pensi che sia prudente?!»
Slevin si guardò alle spalle, in mezzo ai taxi gialli
spiccava
un'auto con i vetri oscurati.
«Non può essere peggio di quello
che mi aspetta nella busta numero 2, ma sarà dura. Devo aver
beccato
una coda di porco».
La macchina era sempre più vicina, così
prese Malia per mano e la spinse nella rientranza della vetrina di un
negozio di abbigliamento.
«Una che?»
«La polizia».
«Che?! Dove, nel bagno?»
«Già, c'era uno sbirro
ficcanaso. A quanto pare mi sta tenendo d'occhio» si sporse
fuori
giusto in tempo per vedere l'auto scura passare oltre.
«Per questo ci nascondiamo qui?»
«Vieni!» la prese di nuovo per mano e la
trascinò via.
Malia
lo seguì per alcuni metri, poi gli passò davanti
facendo una
piccola piroetta, costringendolo a fermarsi. Poggiò le mani
coperte
dai guanti sul suo petto e Slevin le passò le braccia
attorno ai
fianchi.
«Cadaveri nei frigoriferi, poliziotti nel bagno degli
uomini... mi fai venire in mente James Bond».
Lui spalancò gli
occhi meravigliato e sorrise apertamente, stringendola un po' di
più.
«Lo sai che è la cosa più bella che mi
abbiano mai
detto?»
Malia ridacchiò in imbarazzo e sciolse l'abbraccio
riprendendo a camminare, come se nulla fosse accaduto, come se pochi
sguardi non avessero già detto tutto quello che loro due
continuavano a nascondere.
«Il Boss potrebbe essere Kananga»
disse con il solito tono sbarazzino, strappandogli un
sospiro.
«Kananga? No, il Boss non è Kananga».
«E allora
chi è?»
«Mmh... direi Ernst Stavro Blofeld».
«E quale?
Donald Pleasence? Telly Savalas? Max von Sydow?» chiese lei
entusiasta.
«Sei una fan di Bond, eh? Purtroppo pensavo a Anthony
Dawson, era Blofeld in “Dalla Russia con
amore”».
«Aaah, ma
non gli si vede mai il viso in quel film!»
«Ed è così che il cattivo funziona
meglio: quando non sai che faccia ha» le fece
l'occhiolino.
Giunsero
davanti alle porte ai loro appartamenti in meno
tempo del previsto, nonostante avessero deciso di proseguire a piedi,
ignorando la fila di taxi che scorreva regolare in strada.
Malia
prese le chiavi dalla borsa, ma si appoggiò allo stipite
rigirandosele tra le dita.
«Allora... ehm, ci vediamo» disse
lui, dandole le spalle per aprire la porta.
La sentì fare
altrettanto, mentre si dava mentalmente dell'imbecille per non averla
invitata a entrare.
Fece un passo dentro casa di Nick, ma quando
si voltò per un'ultima occhiata vide che quella di Malia era
aperta.
Nel salotto dalle pareti rosse la luce era soffusa e la
pericolosa ragazza della porta accanto si stava liberando da tutti i
pesanti vestiti, con un sorriso languido che si allargò
quando lui
se ne accorse.
Prima i guanti, poi la sciarpa, il cappotto rosso e
infine abbassò una spallina del vestito nero, fino a
mostrare il
pizzo del reggiseno.
Con il cuore in gola Slevin richiuse in
fretta e furia la porta del suo appartamento e si fiondò in
quello
di Malia, sbattendo così forte anche la sua porta da farla
tremare
sui cardini.
La baciò con urgenza, mordendole le labbra e
rubandole ogni respiro, mentre lei gli strappava via i bottoni della
camicia, ricambiandolo con la stessa foga.
Non aveva mai sentito una connessione
così profonda con nessuna delle poche ragazze conosciute
nella sua
solitaria esistenza. Lei era unica, era speciale, era la compagna che
non si sarebbe mai aspettato di desiderare. Abbassò la
cerniera del
vestito e la liberò – con qualche
difficoltà – dal grazioso
corsetto di pizzo nero. Malia smise di baciarlo e fece un passo
indietro, coprendosi il petto con le mani, ma senza smettere di
guardarlo con bramosia.
Lui strinse i denti per imporsi contegno,
incapace di nascondere il desiderio crescente che lo animava. Quel
gesto, il rispetto dimostrato, bastò a Malia per tornare sui
suoi
passi.
Tolse le scarpe col tacco e lo raggiunse in punta di piedi,
poi in silenzio gli accarezzò il viso e Slevin si
lasciò cullare
dal suo tocco leggero a occhi chiusi. L'altra mano nel frattempo
scese sul petto e finì il suo percorso sulla cerniera
semi-aperta
dei pantaloni. Emise un gemito più forte degli altri quando
lei lo
aiutò ad abbassarli e se ne liberò scalciandoli
via assieme ai
calzini.
Erano entrambi coperti solo dagli slip, a lui serviva
solo l'ultimo cenno di assenso. Lei lo capì,
perché lo prese per
mano e lo condusse in camera da letto e con delicatezza lo fece
sedere sul materasso, mettendosi a cavalcioni sopra di lui.
Le
lasciò prendere il controllo, consapevole che sarebbe stata
lei la
prima a cedere a quella dolce tortura a cui stava sottoponendo
entrambi. Erano andati di fretta fin da subito e sembrava che Malia
volesse recuperare settimane di conoscenza prolungando all'infinito
il preludio all'atto principale.
Slevin accolse uno dei seni sul
palmo della mano, mentre con la bocca scese a baciare l'altro; Malia
gettò la testa indietro, tirandogli i capelli all'altezza
della
nuca.
I loro corpi si incontravano al ritmo della danza di Malia,
finché Slevin non decise di averne abbastanza e, con una
mossa
rapida, la fece stendere sotto di lui.
Ansimante e poco lucido, si
prese comunque del tempo per ammirare il volto arrossato,
incorniciato dai capelli arruffati, e gli occhi che gli restituirono
uno sguardo infuocato.
Scese a baciarle le labbra gonfie e
fece scivolare una mano tra le sue gambe, che si schiusero per lui.
Malia emise un urletto strozzato, inarcando la schiena per
approfondire quel contatto e allora Slevin la liberò
dall'ultimo
ostacolo. Lei fece altrettanto, aiutandolo a togliere i boxer.
Erano
entrambi al limite della sopportazione, Malia però
accennò un
sorriso e lo accarezzò fino a strappargli un vero gemito di
piacere,
fu solo allora che allungò una mano verso il comodino e
prese un
condom. Slevin si morse l'interno della bocca e strinse i pugni
contro il materasso, mentre lei lo posizionava con studiata calma.
Era pronto ad afferrarle le mani per bloccargliele sopra la testa, ma
a sorpresa Malia lo guidò, indicandogli la via.
Si rese conto di aver trattenuto il
respiro solo quando lei lo accolse dentro di sé e poi l'aria
divenne
sempre più rarefatta e lui si sentì ubriaco e con
la testa leggera.
Aveva voglia di ridere e di urlare, di dimenticare chi era, cosa
aveva fatto e cosa sarebbe stato costretto a fare, aveva voglia di
lasciarsi andare, inebriarsi di lei fino a fondersi con il suo
battito cardiaco. Nelle orecchie aveva solo la sinfonia dei loro
respiri, il ritmico scontrarsi dei loro bacini e l'imbarazzante
cigolio del materasso.
Malia si aggrappò alle sue spalle e un
gemito di dolore si unì a quelli di piacere quando
sentì le sue
unghie graffiargli la pelle.
Guidato dall'istinto più che dalla
ragione, le fece sollevare le gambe facendo pressione sotto le
ginocchia e aumentò il ritmo, mentre goccioline di sudore
gli
imperlavano la fronte.
«Oh, Slevin!» urlò lei in preda
all'estasi più profonda.
Il piacere li travolse infine come
un'esplosione di fuochi d'artificio e lui cadde esausto sopra di lei,
la guancia poggiata sul cuore da colibrì.
Rimasero
in quella posizione per un
tempo indefinito, Malia gli carezzava i capelli umidi e lui si
lasciava coccolare come mai prima di allora. Era una bella
sensazione, come stare dentro una soffice nuvola di zucchero filato
in un posto sperduto, dove nessuno avrebbe potuto trovarli.
«Sai,
stavo pensando che noi due abbiamo appena fatto l'amore»
disse,
posandole un bacio sul collo.
Malia ridacchiò.
«E te ne
accorgi solo adesso?»
Rotolò di lato e si stese al suo fianco
per poterla guardare negli occhi. Malia tirò su il lenzuolo
per
coprirsi e poggiò la testa sulla sua spalla.
«No, è che ancora
non so a chi ti riferivi quando hai detto che ti ricordavo James
Bond. È la cosa più bella che mi abbiano mai
detto, ma ho dato per
scontato naturalmente che...»
«Hai dato per scontato di sapere a
chi mi riferissi» disse, disegnando con le dita dei ghirigori
sul
suo petto.
«Se non stavi parlando di chi io penso che tu stessi
parlando, allora mi devi aver scambiato per qualcun altro,
perché
per me esiste un solo James Bond».
«Ah, su questo siamo
d'accordo».
«Ok, allora diciamo insieme al mio tre. Uno...
due... tre. Roger Moore!»
«George Lazenby!»
«Cosa? Roger
Moore? Io stavo scherzando!»
«E tu con Lazenby? Stavo scherzando
anch'io. L'unico vero James Bond è... Timothy
Dalton».
«Pierce
Brosnan!»
Entrambi scoppiarono a ridere e poi Malia gli sussurrò
all'orecchio: «Scozia forever».
«Wow, mi sento molto meglio,
davvero» rispose, passandole un braccio attorno alla vita.
Nessuno
poteva competere con la classe scozzese di Sean Connery, nemmeno quel
palestrato di Daniel Craig.
Dormirono abbracciati finché la luce azzurrina del
mattino non inondò la
stanza.
Avrebbe preferito guardarla dormire, ma anche lei doveva
essere un tipo mattiniero perché aprì gli occhi
proprio mentre lui
si stava rimettendo i pantaloni.
«Buongiorno, piccolo raggio di
sole» disse sottovoce, dandole un bacio sulla fronte.
Malia
aggrottò le sopracciglia contrariata e si
stiracchiò.
«Risparmiatelo
per dopo, quando avrò recuperato l'aspetto di un essere
umano».
«Perché mai? Non vedo alcuna differenza».
«Vuoi
dirmi che il mio alito non ti disturba? Dovrei comprare delle mentine
se...» provò a dire, ma lui interruppe la battuta
sul nascere,
baciandola sulle labbra.
Malia saltò su a sedere sorpresa e gli
mise le mani sul petto per allontanarlo.
«Che fai? Non mi sono
ancora lavata i denti».
Il lenzuolo le si era aggrovigliato
attorno ai fianchi e quel movimento brusco la fece rimanere di nuovo
nuda. Mise i piedi giù dal letto per alzarsi, ma lui si
inginocchiò
fra le sue gambe e riprese a baciarla, lento e calmo come se la sua
bocca fosse un dolce particolarmente goloso.
«Nemmeno io e
sinceramente non m'importa» le disse poi a fior di labbra.
Malia
sorrise diventando rossa come le pareti del suo salotto.
«Sei
proprio strano. Sei la persona più strana che conosca... in
senso
buono, ovviamente!» si affrettò a precisare.
«Be' ma io sono
James Bond, non potrei essere normale neanche volendo» si
strinse
nelle spalle, poi si alzò e prese le scarpe.
«Dove vai?»
«Vado
a prendere il caffé».
«E le ciambelle» aggiunse lei.
«E le
ciambelle» confermò sorridendo, mentre si
abbottonava la
camicia.
«Con la glassa!» gli urlò dietro quando
era ormai sul
pianerottolo.
Fuori
dal palazzo, ai due lati della
strada, c'erano appostati i soliti scagnozzi del Boss e del
Rabbino.
Fece un cenno di saluto a Elvis senza farsi vedere dagli
altri e, quando si rese conto che lo stavano solo tenendo sotto
controllo, si incamminò verso la caffetteria più
vicina.
Passò
accanto a una vecchia cabina telefonica, non si accorse del tipo che
fingeva di fare una chiamata finché non gli puntò
una pistola alla
schiena intimandogli di fermarsi.
«Fermo, polizia» gli disse
mentre lo spingeva sul ciglio della strada, dove era parcheggiato un
vecchio furgone di una ditta di riparazioni.
Il portello
posteriore si aprì e lui venne spinto dentro senza troppe
cerimonie.
Il poliziotto che aveva conosciuto la sera prima lo
stava aspettando impassibile, con le braccia incrociate al petto.
Quando l'altro lo fece a sedere su una delle sedie, diede due colpi
al furgone e quello partì. Era in trappola.
«Buongiorno, sono
l'agente Parrish e quello lì è il detective Peter
Hale» disse il
suo finto aggressore.
«Buongiorno agente Parrish, mi avete appena
rapito?» chiese con il suo solito tono spavaldo.
«No, vogliamo
solo fare due chiacchiere tra amici con te» rispose il
detective
Hale.
«E questa è la procedura standard nel manuale
dello
sbirro, alla voce “due chiacchiere tra
amici”?»
«No, non c'è
una procedura standard per il casino in cui ti sei infilato»
disse
Parrish.
«Ah. E di che volete parlare?»
«Di
te» disse Peter.
«Mmm... ok! Che volete sapere?»
«Chi
sei?»
«Filosoficamente?»
«No, il tuo
nome».
«Ti conviene stare in squadra» chiarì
Parrish seccato.
«Be', voi contro chi giocate?»
Il
detective Hale non disse nulla, gli sferrò un pugno nello
stomaco
che gli mozzò il fiato. Tossì in cerca d'aria,
tenendosi stretto la
pancia per non vomitare.
«Come ti chiami?»
«Ah, sì ora mi
ricordo» rispose con un filo di voce. «Sono Slevin,
Slevin
Kelevra».
«Senti ragazzo, non so che sta succedendo né
perché
ci sei dentro, ma ti assicuro che se riuscirò a capire quel
che c'è
da capire, non sarò così gentile con
te» lo minacciò Hale.
«Se
questo è essere gentili, non farmi mai favori».
«Questa è l'ultima possibilità che
hai di parlare».
Slevin guardò entrambi i poliziotti con un
sorriso strafottente stampato in faccia e nessuna voglia di aprire
bocca. Loro erano la legge e la legge diceva che non potevano
costringere nessuno a fare un bel niente senza prove
convincenti.
Peter sospirò spazientito e lo tirò su per la
giacca.
«Vai a farti un giro» disse gettandolo
giù dal furgone
in corsa.
La notte appena passata era stata
la più intensa che avesse mai vissuto in tutta la sua vita.
Non
poteva credere di aver conosciuto un tipo come Slevin, era convinta
che certe cose accadessero solo nei film, eppure lui era lì,
era
reale e lei si stava impelagando in una situazione più
grande di se
stessa.
Il suo vicino Nick era scomparso,
Slevin era conteso tra i due gangster più pericolosi della
città e
lei era a un passo dal restarne invischiata.
Lasciò che il getto d'acqua calda
lavasse via il sapone alla lavanda, la stanchezza e l'agitazione.
Si
avvolse nel suo accappatoio verde menta e tornò in camera da
letto
per spazzolare i capelli che Slevin aveva impunemente aggrovigliato.
Doveva ricordargli di andarci piano la prossima volta...
Proprio
mentre formulava quel pensiero, Slevin entrò
nell'appartamento e la
raggiunse.
Aveva il volto cereo del malessere – alla faccia
dell'atarassia.
«Ehi, ci hai messo una vita. Tutto bene?» mise
giù la spazzola e gli andò vicino.
Slevin poggiò i due caffé
sul comò e incrociò le braccia al petto
pensieroso.
«Sì, tutto
bene».
«Ne sei sicuro? Sei bianco come un cadavere e io me ne
intendo, visto che sono un medico legale» disse
accarezzandogli il
viso.
Lui sospirò e prese a muoversi in cerchio attorno alla
stanza senza darle spiegazioni.
«Senti, non c'è bisogno di
farla tanto lunga. Se pensi che quello di ieri sera sia stato un
errore, va bene, ma per favore non girarci attorno. In tutti i
sensi».
Quelle parole ebbero l'effetto di riportare Slevin nel
mondo dei vivi, ma non nel modo in cui si sarebbe aspettata.
Attraversò la stanza in poche falcate,
le prese il volto tra le mani e la baciò come se quella
fosse
l'ultima volta, arrivando a gettarla sul letto come se fosse una
bambola.
«Ti devo dire una cosa».
Malia
era uscita per andare al lavoro.
L'aveva vista andare via con il cuore in gola, ma non poteva
impedirle di vivere la sua vita per restare accanto a lui.
Tornò
nel suo appartamento a malincuore, fece una doccia e mangiò
un altro
dei suoi tristi panini. Non aveva molto da fare, perciò
passò il
resto della mattinata a fare zapping in tv.
Era da poco passata
l'ora di pranzo, quando qualcuno bussò alla porta.
«Ragazzi, che ci fate qui?» chiese a
Elvis e Lento.
Il primo gli sbatté in faccia un vestito dentro
una custodia nera.
«È il momento e il Boss ti vuole elegante per
la Fatina. Muoviti a vestirti, se non vuoi che ti portiamo nudo
all'appuntamento».
«Ma se hai appena detto che il Boss mi vuole
elegante!»
«Senti, non ricominciare!» gli puntò
il dito contro, pronto a sferrargli un altro pugno sul naso.
«Ok,
va bene, non c'è bisogno di scaldarsi tanto»
sollevò le mani in
segno di resa.
Indossò l'abito scuro, con tanto di cravatta e
pochette di seta, e fu scortato fuori fino all'auto.
Una volta
giunto in strada vide la macchina dei tirapiedi del Rabbino: c'erano
due fori nel parabrezza e loro giacevano scomposti sui
sedili.
«Smettila di guardarti intorno e sali in macchina!»
gli
disse Elvis.
«S-sì, scusa».
«E smettila di sembrare così
tranquillo, lo sappiamo che sei un pivellino al primo omicidio che se
la sta facendo addosso. Mi metti ansia con quel tuo sorrisetto del
cazzo!» continuò a rimproverarlo una volta che
furono in
macchina.
L'appartamento di Yitzchok si trovava in un moderno
ed elegante palazzo in centro, nella zona dei super ricchi, la
famosissima Upper East Side.
Slevin attraversò i corridoi in
punta di piedi, quasi temesse di far rumore con la sua
normalità.
«Ehi, sei in anticipo» gli disse con tono suadente
il figlio del Rabbino, quando lo vide.
«Posso entrare?»
«Ma
certo, vieni pure» si fece da parte per lasciarlo passare.
Slevin
entrò e poggiò la porta sullo stipite senza
chiuderla.
Capelli
ricci, naso adunco su cui erano posati occhialetti rettangolari dalla
montatura leggera, fisico mingherlino da ranocchietto gracile. Il
figlio del Rabbino gli fece quasi pena.
«Versati da bere, io mi
stavo preparando. Mi devi scusare, non ti aspettavo così
presto.
Vuoi un po' di vino? Sai, stai benissimo» disse un po'
agitato.
Slevin ricambiò lo sguardo, sperando di non lasciar
trasparire
nulla.
«C'è qualcosa che non va?»
«Qualcuno vuole
ucciderti» gli disse guardandolo dritto negli occhi.
«Cosa?
Chi?» chiese l'altro incredulo.
«Io» ammise con candore, poi
tirò fuori la pistola con il silenziatore e gli
sparò due colpi al
petto.
Yitzchok cadde senza emettere un suono, mentre il sangue
colava copioso sulla moquette chiara.
Si abbassò per sincerarsi
che fosse morto, ma il suono di un grilletto alle sue spalle gli fece
gelare il sangue nelle vene.
Argent era lì, proprio dietro
di lui, indossava il suo solito impermeabile color sabbia e teneva in
mano una pistola identica alla sua. Sollevò il braccio e
sparò un
colpo dritto in mezzo agli occhi di Yitzchok, mettendo fine alla sua
agonia poco prima che premesse il pulsante sulla catenina.
«C'è
mancato poco» disse gelido, lanciandogli le chiavi di una
macchina.
«Quasi» rispose Slevin afferrandole al volo.
«Scendi
giù a prenderlo, qui finisco io».
C'era una parete grande e
spoglia in salotto, Argent avvicinò l'orecchio e
sentì due uomini
ridere e parlottare: i due ex Mossad al servizio del Rabbino.
Strappò
la catenina dal collo di Yitzchok, si posizionò di fronte
alla
parete, premette il pulsante e poi si preparò impugnando la
sua
pistola e quella di Slevin.
Come previsto, le guardie sfondarono
la parete di cartongesso con i loro mitra carichi, ma vennero
freddati dai proiettili di Mr. Goodkat prima di poter capire cosa
stesse accadendo.
Slevin tornò nell'appartamento insieme a una
grossa valigia nera, la posò a terra e guardò il
disastro di
calcinacci e cadaveri.
«Quasi» disse di nuovo con il suo tono
impassibile.
Aprì il bagaglio e tirò fuori il cadavere
congelato
di Nick Fisher, scambiò il suo vecchio orologio con quello
alla moda
di Nick e poi lo trascinò accanto al corpo di Yitzchok.
Completarono
quel macabro quadretto cospargendo tutta la cucina e il salotto di
benzina, poi accesero un fiammifero e corsero via.
Salirono in
macchina giusto in tempo per vedere l'esplosione dell'appartamento
del figlio del Rabbino, la cui unica colpa era proprio essere figlio
del Rabbino.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5. Cane Rabbioso ***
slevin5
La
notte era
calata inesorabile e gelida su New York, portando con sé una
scia di
sangue e morte.
Lo sapeva bene il Boss, che non riusciva a
smettere di pensare a quanto altro sangue avrebbe dovuto vedere da
lì
ai prossimi mesi, forse anni. Stringeva il suo bastone da passeggio
tra le dita e guardava dalla vetrata la città brulicante di
vita e
miseria.
Il figlio del
Rabbino era morto, proprio come voleva, e insieme a lui anche quel
Fisher; eppure non poteva dirsi soddisfatto, non quando tutta la
città, la polizia e di sicuro i fottuti affari interni erano
stati
allertati dall'esplosione del palazzo in cui abitava.
L'ascensore
si aprì e ne venne fuori Goodkat, con il suo solito mezzo
sorriso
sornione e l'impermeabile color sabbia.
«L'ho ingaggiata per un
lavoretto, ma non doveva sembrare un lavoretto; invece lei ammazza
gli israeliani, fa esplodere l'intero edificio. E adesso il lavoretto
che non doveva sembrare un lavoretto, comincia a sembrare... un vero
lavoretto».
Argent non disse
nulla, la sua espressione imperturbabile sembrava volergli comunicare
qualcosa, ma lui non poteva sapere davvero cosa, poteva immaginarlo.
E di solito, quando si capisce di essere in una brutta posizione, ci
si immagina quello che fa più comodo.
«E va bene, fanculo. Se il
Rabbino vuole una guerra, gli daremo una guerra».
Il Rabbino,
nel frattempo, stava in piedi nel suo ufficio ignaro di tutto,
perché
era venerdì sera, momento d'inizio dello Shabbat.
È bene sapere
che ogni sabato di ogni mese di ogni anno, un buon ebreo celebra il
giorno sacro del riposo, così come è stato
ordinato dal Signore
nelle Sacre Scritture. Nel giorno del riposo è vietato
lavorare,
scrivere, disegnare e addirittura viaggiare, ma tra le altre cose
è
permesso studiare la Torah. E lui amava studiare la Torah e odiava
essere interrotto durante la lettura.
Ecco perché il telefono
aveva squillato e nessuno gli aveva dato notizie ed ecco
perché
nessuno gli aveva annunciato l'arrivo di Nick Fisher.
Era strano,
molto diverso dal solito. Forse era l'abito elegante, magari i
capelli pettinati o forse ancora il sorriso sornione con cui l'aveva
salutato. Gli ricordava qualcuno, ma non avrebbe saputo dire
chi...
«Oh, salve signor Fisher! Credevo fossi Saul, il mio
assistente».
«Ultimamente mi prendono tutti per qualcun altro»
sorrise tranquillo.
Aveva con sé una valigetta, quindi era quella
la differenza: stava per saldare il suo debito.
«Sai, la tua
brutta situazione mi ricorda un film di Alfred Hitchcock,
“Intrigo
Internazionale”. Tutti pensano che Cary Grant sia un uomo
chiamato
George Kaplan, ma non esiste nessun George Kaplan, è un nome
inventato. I nomi, anche quelli inventati, possono provocare brutti
guai. Ora, la protagonista femminile si chiamava...»
«Eva Marie
Saint».
«Oh, conosci quel film!»
«Conosco quel film» disse
lapidario, ma il Rabbino non fece caso al suo tono.
«Ho portato
mio padre a vederlo nel '59. Non capiva bene la lingua, ma perbacco
se gli piaceva Eve Marie Saint. In ogni caso quel film ha provocato
molta confusione».
«Scambiare nomi può farlo».
«Già»
annuì. «Quelli sono i miei soldi?»
Il ragazzo batté
una mano sulla valigetta marrone e disse: «Sì,
è quello che le
devo».
Il Rabbino si tolse allora la kippah e gli occhiali a
mezza luna, poi spostò un'agenda dalla scrivania e gli fece
cenno di
poggiare la valigetta lì.
L'espressione
imperturbabile, il sorrisetto, gli ricordavano qualcuno, ma chi? Di
sicuro qualcuno di cui non fidarsi. Il telefono nel frattempo aveva
ripreso a squillare.
«Oggi è Shabbat e noi non rispondiamo al
telefono durante lo Shabbat».
«Lo so».
«Saul di solito
toglie la suoneria, ma al giorno d'oggi è difficile trovare
del
personale valido».
Aprì la valigetta, ma era vuota. Non fece in
tempo a sollevare lo sguardo che venne colpito alla testa con
violenza. Ebbe la sensazione che il cranio si fosse spaccato a
metà
e, prima di perdere conoscenza, gli sentì dire qualcosa:
«Saul
è morto. Sono tutti morti».
*
Il
risveglio
dopo un colpo alla testa non è mai dei più
piacevoli. Sentiva di
essere seduto, ma gli mancava lo stesso la terra sotto i piedi e lo
stomaco e il cervello sembravano volergli uscire dalla bocca e dagli
occhi. Sbatté le palpebre diverse volte, prima di scacciare
la
patina bianca che gli offuscava la vista. Provò a sollevare
una mano
per sincerarsi della gravità del danno, ed ebbe un tremito
alla
vista del nastro isolante che lo teneva legato alla sedia.
Gli
bastò una
breve occhiata all'ambiente circostante e al caminetto acceso, per
rendersi conto di non essere più nel suo ufficio, ma in
quello del
suo acerrimo rivale.
«Oh, ci
sono già stato in questo posto, è rimasto com'era
vent'anni fa.
Comunque non so perché, ma sembra diverso, come la tua
macchina
quando è guidata da qualcun altro. Del resto è da
vent'anni che non
salgo su una macchina... due decenni dietro nove centimetri di vetro
anti-proiettile per paura di essere ucciso da un fucile ad alto
potenziale, senza mai uscire di casa. Vent'anni! Rinchiuso nella mia
paranoia, prigioniero in casa mia, solo per poi finire nelle mani di
un ragazzino. Be', complimenti, sembra che abbiate vinto, mi avete
fregato. Se portassi un cappello, me lo toglierei. Volete la mia
testa? Eccola!» disse e abbassò il capo in avanti.
Ci fu una
pausa e allora il Rabbino guardò le scale, quelle da cui lui
e il
Boss di solito scendevano per fare un'entrata a effetto, ma quelle
restarono vuote e la voce del Boss lo raggiunse alle spalle.
«Puoi
tenere il cappello e la testa, Shlomo. A quanto pare, ci è
stato
tirato un bidone dallo stesso lanciatore. Bel discorso però,
mi
sarei alzato volentieri in piedi per ascoltarlo» disse il
Boss,
seduto proprio dietro di lui, schiena contro schiena.
Il Rabbino
si sforzò di voltare indietro la testa, nonostante il dolore
lancinante, e lui fece altrettanto.
Eccoli lì, i due gangster più
pericolosi di New York, faccia a faccia dopo più di
vent'anni.
«È colpa tua
se siamo in questo guaio!» gli disse pieno di
risentimento.
«Mia?»
«Sì, tua! Tu hai assoldato Goodkat per
uccidere mio figlio!»
«Dopo che tu hai ucciso il mio!»
Shlomo scosse la
testa con decisione.
«No, io non c'entro niente».
«Certo,
come no. Come nel '98? Nemmeno quella era opera tua? Hai solo dato
l'idea magari. Tempo scaduto, Rabbino. Mentire a un uomo morto
è
come mentire a se stessi».
«Diventavi troppo potente. Quando in
una stanza ci sono due uomini, tu ne puoi guardare soltanto uno alla
volta. E gli altri guardavano te e intanto ridevano alle mie spalle.
E quando poi ti hanno chiamato Boss! È stato chiaro cosa
andava
fatto».
«Cerca di immaginare cosa si prova, Shlomo. A svegliarsi
di notte con sei pallottole che ti bruciano lo stomaco, immerso in
una pozza del tuo sangue e della tua merda. Gli occhi sbarrati di tua
moglie morta, che ti fissano. L'unica cosa che ti impedisce di
svenire sono i passi dell'uomo che si allontana nel corridoio, in
cerca di tuo figlio. Io ero riuscito a salvarlo, mio figlio. E ora,
dopo tutti questi anni, tu... Tu, nonostante il nostro accordo, tu!
Filisteo di merda! Brutto traditore del cazzo! Alla fine me l'hai
portato via per sempre. Be', adesso io ti ho tolto il tuo per
sempre».
«Te l'ho già detto, io non c'entro
niente».
«Non
hai sentito allora?»
«Impossibile, stai mentendo».
«Girati
e guarda il mio sorriso, Shlomo. Tuo figlio è morto. Tuo
figlio è
morto!»
«Io... io ti ucciderò!» si
agitò sulla sedia, mentre
il Boss se la rideva.
E poi un'ombra si fece avanti nel
corridoio accanto alle scale.
«Rabbino! Lei ha presente lo
Shmoo?»
Era il ragazzo! Scendeva con calma, un gradino alla
volta, con le mani nelle tasche e il suo sorrisetto del cazzo
stampato in faccia.
Il Boss si mosse in preda alla paura, poteva
quasi sentirne l'odore.
«F-fisher?! Fisher, ascoltami...!»
Quella
supplica spense il sorriso del ragazzo, che si gelò in una
maschera
di puro odio.
«Te l'ho già detto: non sono Nick
Fisher».
«Allora
chi è Nick Fisher?»
Slevin fece un giro attorno a loro, come un
lupo che circonda una preda.
«Forse volevi dire chi era
Nick Fisher. Fisher è stata la risposta a una domanda. Come
arrivi a
due uomini a cui non si può arrivare? Li fai venire da te.
Ma per
farli arrivare mi serviva un nome e dove si trovano i nomi? Nei
libri. E chi li tiene i libri? I vostri allibratori tengono i libri.
Allibratori sbranatori, al servizio dell'Impero del Male».
«Mi
serviva un giocatore, uno che fosse presente sui libri di entrambi e
che avesse un po' di rosso sulla colonna dei debiti. E ha vinto Nick
Fisher, uno che non sarebbe mancato a nessuno».
«Hai... hai
ucciso Nick Fisher?» chiese il Boss incredulo.
«Mi dispiace,
volevi tu l'onore?» ghignò cattivo. «A
quel punto, comunque,
bisognava solo far squillare il telefono. Mi è bastato
premere il
grilletto di un fucile di precisione e aspettare che tu chiamassi
qualcuno per un lavoretto. E tu hai chiamato quel qualcuno, per fare
un lavoretto che non sembrasse un lavoretto, giusto? Mr. Goodkat, lo
specialista in lavori sporchi, quelli che nessuno vuole fare. In
fondo chi avrebbe mai voluto uccidere uno che viene chiamato la
Fatina? E poi il rischio di una nuova guerra era troppo alto e
Goodkat non ti aveva mai deluso. Ecco perché ti sei fidato
ciecamente del suo piano di scegliere uno a caso nel registro dei
debiti, no?»
«E tu, Rabbino, tu sei sempre stato un uomo di fede
incline al peccato. E tra un omicidio e l'altro non hai mai
disdegnato un tradimento qua e là, per ottenere
più denaro e più
potere, giusto? Un modus operandi vicino al tuo modo di essere, che
non ti ha stupito ritrovare anche nel signor Goodkat. Così,
quando
ti ha chiesto il doppio di quanto il Boss gli aveva offerto per
uccidere tuo figlio, hai accettato. Ma come coinvolgere Nick Fisher
in questa faccenda? Un semplice scambio di favori, una cosa
all'apparenza di poca importanza. D'altronde Fisher era un perdente,
che differenza poteva fare? Tu compravi la lealtà di Goodkat
e in
cambio lui ti chiedeva di far fuori un perdente».
«Un pugno sul
naso era l'alibi perfetto per fingere di essere stato derubato di
tutti i miei documenti: ero nell'appartamento di Nick Fisher, ma non
potevo dimostrare in alcun modo di non essere lui. Così a
quel punto
ero libero di entrare e uscire come volevo».
Il Rabbino gli fece
segno di avvicinarsi.
«Qualunque cifra loro ti paghino, io la
raddoppio» gli sussurrò all'orecchio.
Slevin fece qualche passo
indietro e scosse la testa.
«No, non hai capito, non c'è nessun
loro. È tutta un'idea mia».
«T-tua?»
«Già, mia».
«Chi
sei tu?!» quasi urlò il Boss.
«Voi sapete già chi sono, solo
che non lo ricordate, quindi lasciate che vi rinfreschi la
memoria»
disse, riprendendo a girare intorno alle sedie come un avvoltoio su
due cadaveri freschi.
«L'anno è il 1995, il luogo Aqueduct,
settimo cavallo, decima corsa. Vi suona familiare? La corsa truccata
di Aqueduct, la corsa del droghiere. Tra quelli che avevano scommesso
parecchi soldi c'era un uomo, si chiamava Noah...»
«Non so di
cosa tu stia parlando!» disse il Rabbino con forza.
«Ah, no?
Be', ma di sicuro entrambi ricorderete questa parte, la vostra
firma».
Prese due buste di plastica trasparente dalla scrivania
e, quando le videro, entrambi i gangster avvertirono il brivido
gelido della morte e la consapevolezza di chi fosse quel ragazzo in
piedi di fronte a loro.
«No, no è impossibile, t-tu... sei
morto» disse il Boss, gli occhi sbarrati di chi ha visto un
fantasma.
Fu solo quando
ebbe la certezza che entrambi l'avessero riconosciuto, che Slevin
piazzò le buste sulle loro teste; poi si prese un momento
per
guardarli negli occhi, mentre annaspavano per catturare quanto
più
aria possibile attraverso gli spazi lasciati aperti dalla
plastica.
«Voi vi siete presi tutto quello che amavo.
Vaffanculo»
sputò le parole come se fossero veleno, poi avvolse il
nastro
isolante attorno al collo del Rabbino e a quello del Boss.
Il
primo non oppose resistenza, sembrava rassegnato e, chissà,
forse
anche pentito di ogni minuto di vita passato nell'oscurità.
Il Boss
invece lottò fino all'ultimo istante, attaccato alla sua
oscura
esistenza con ogni briciolo del proprio essere.
L'Impero del Male
era finito.
*
Una
chiamata nel
cuore della notte l'aveva avvisata dell'esplosione di un appartamento
e della disgraziata morte di alcuni uomini, così si era
messa i
primi abiti che aveva trovato ed era corsa in obitorio.
Al suo arrivo i
due cadaveri erano già stati posti sui tavoli d'acciaio e
coperti
con dei lenzuoli.
Il braccio di
uno dei due, però, spuntava restando scoperto: era
completamente
carbonizzato e al polso portava un vecchio orologio fin troppo
familiare.
Malia ebbe un
tuffo al cuore e sollevò tremante il lenzuolo, solo per
scoprire che
il corpo era troppo bruciato per riconoscerne i connotati.
Il
detective Hale arrivò giusto in tempo per impedirle di
mettersi a
piangere nel bel mezzo del laboratorio.
«Allora, cosa abbiamo
qui?» chiese, poggiandosi un fazzoletto sul naso.
«Difficile a
dirsi. Dalla statura e dall'ampiezza delle spalle, direi due
uomini».
«Sì, uno è il figlio di un gangster, ma
l'altro chi
è?»
«Visto che non
abbiamo più impronte digitali, mi sembra improbabile che lo
sapremo».
«E le cartelle odontoiatriche?»
«Certo, appena mi
trova da qualche parte la mandibola inferiore» si strinse
nelle
spalle, mostrando la testa deturpata del cadavere.
«Cristo, è
proprio un cazzo di casino» sospirò il detective,
passandosi una
mano sugli occhi.
La radio appesa alla sua cintura prese a
parlare, ma non portava buone notizie.
«Ehi Peter, sono Marty.
Ci sei?»
«Sì, dimmi
tutto».
«Abbiamo
trovato altri due cadaveri che fanno il paio con quei due che hai
lì».
«Va bene, vengo subito. Sei riuscito a contattare il
Rabbino per dirgli di venire a identificare quel che resta del
figlio?»
«Negativo. Stiamo chiamando da un'ora, non
rispondono».
«Allora manda
qualcuno».
«Ricevuto».
Quando sentì
nominare il Rabbino, Malia tossì per ricacciare
giù il cuore
palpitante. Era dunque di Slevin il corpo carbonizzato con
l'orologio? La mascherina era all'improvviso troppo stretta,
così
l'abbassò sul collo per respirare, nonostante l'odore acre
di
bruciato le pizzicasse le narici.
«Si sente bene? La vedo un po'
scossa» disse il detective.
«No, sto bene» accennò un
sorriso.
«È pallida, forse dovrebbe fare una
pausa».
«No,
stia tranquillo, ho visto di peggio. E poi se mi fermassi si
fermerebbe anche il caso, no?»
«Già. Be', ora devo proprio
andare, mi chiami se ha delle novità».
«Senz'altro».
Quando
fu certa
che se ne fosse andato, Malia si appoggiò con entrambe le
mani sul
ripiano del bancone, in preda a una nausea a lei fino ad allora
sconosciuta.
Captò con la
coda dell'occhio l'arrivo di un uomo e si voltò verso la
porta
aperta dell'obitorio.
Occhi di
ghiaccio, un impermeabile color sabbia e un sorrisetto enigmatico
stampato in faccia.
«Abbiamo lo stesso telefono» disse l'uomo,
poi sollevò la pistola e le sparò un colpo dritto
al cuore.
Il dolore fu
così intenso da mozzarle il respiro e cadde a terra in una
pozza di
sangue, mentre Argent andava via silenzioso com'era arrivato.
*
Un
opprimente
senso di inquietudine non lo lasciava da quando quel ragazzo, Slevin,
era giunto in città.
Prima era
entrato nel palazzo del Boss, poi in quello del Rabbino, infine
l'aveva beccato nello stesso ristorante della Fatina e ora il corpo
della Fatina era carbonizzato su un tavolo in obitorio.
C'era
qualcosa, un disegno più grande che non riusciva a vedere e
tutta la
situazione gli stava sfuggendo di mano.
Salì in
macchina e il telefono squillò.
«Hale, sono Murphy».
«Ciao Murphy,
che mi dici?»
«Oggi è
passato Henry Keller, te lo ricordi Henry? È in pensione, la
moglie
è morta, perciò passa in centrale un paio di
volte a settimana per
fare due chiacchiere, raccontare le sue imprese ai nuovi e inizia
ogni frase con “Ai miei tempi era
così...”, insomma è uno che
vive nel passato».
«Sì, sì ho
capito, ma che c'entra ora?» chiese spazientito.
«Stavamo
chiacchierando e diceva che non si può lamentare, e invece
non fa
altro che lamentarsi cazzo! Per la moglie che è morta, per
la gamba
in cui gli hanno sparato, la pensione di merda, ma poi si blocca
quando vede la foto che ha fatto Marty, e si ferma a fissarla. E io
gli chiedo “Che c'è? Conosci il
ragazzo?”. Il fatto è che lui
non guarda la foto, guarda il nome, perché l'ho scritto su
un
foglietto attaccato sotto. Conosce quel nome, Slevin. Lì per
lì non
dice niente e va via. Un'ora dopo squilla il telefono ed è
Henry che
parla a raffica di una corsa di cavalli del '95 ad Aqueduct».
Il
gelo del
terrore s'insinuò sotto la pelle di Peter e raggiunse le
ossa.
«Era una
corsa di cavalli vestita e truccata, un grosso pacco regalo. Il Boss
e il Rabbino avevano appena aperto bottega a New York, prima che la
gente cominciasse a svegliarsi con un pugnale nella schiena.
Comunque, continua a parlare di una leggenda metropolitana, di un
giovanotto, un certo Noah... Noah Bilinski... Stilinski, una roba del
genere. Il ragazzo ha avuto una soffiata sulla corsa, quindi ha
piazzato una grossa giocata con un allibratore, Roth, che poi a sua
volta l'ha passata ai due gangster. Però quando il Boss e il
Rabbino
scoprono che la corsa è truccata, be', sono tutt'altro che
felici!
Comincia a girare voce che bisogna dare un esempio, così
quelli
ammazzano tutti, ma proprio tutti: Noah, la moglie, il figlio,
Roth... perfino il cavallo è morto, cazzo! Quei due sono
piombati in
città con il machete, è stato un massacro. Hanno
dovuto addirittura
chiamare uno specialista per stendere il bambino, nessuno voleva
farlo. Insomma, alla fine del racconto gli chiedo cosa c'entri tutto
questo con il caso e lui dice “Il nome del cavallo era Lucky
Number Slevin!”, Slevin numero
vincente. C'è un fatto
però: non esiste nessuno Slevin Kelevra. Ed è
curioso che il
ragazzo abbia scelto come pseudonimo il nome di un cavallo morto e
che sia stato in compagnia del Boss e del Rabbino, visto che erano
invischiati proprio con quel cavallo. Ho pensato tra me e me, forse
c'è sotto qualcosa, o forse è solo una
coincidenza, ma il nome deve
venire da qualche parte, no?»
A quel tempo
Peter era un novellino che tirava a campare e scommetteva sulle corse
dei cavalli; girava a Roth gli assegni del suo stipendio ed era
spesso in debito. Così quando gli chiesero di sbrigare un
lavoretto
in cambio di informazioni che l'avrebbero fatto avanzare di grado,
non poté rifiutare. Sognava di far carriera in polizia e
l'occasione
era troppo ghiotta per farsela scappare...
«Ah,
un'ultima cosa!» disse Murphy. «C'è
un nuovo agente qui in
ufficio, è ebreo, un tipo divertente con una bella
parlantina, ha
letto il nome e, se ti interessa saperlo, ha detto che Kelevra in
ebraico significa... aspetta, me lo sono segnato qui da qualche
parte...»
Vide
attraverso lo specchietto retrovisore una figura sollevarsi dai
sedili posteriori.
Era rimasto sdraiato lì tutto quel tempo,
senza che lui se ne accorgesse. Aveva i capelli arruffati e
un'espressione dura, nonostante alcune lacrime gli rigassero il viso.
Come dei sassi
scagliati da una fionda, le immagini della giovane Claudia Stilinski
che asciugava i piatti in cucina lo colpirono in pieno viso.
Ricordava ancora in modo nitido la sua espressione di paura e
sgomento, e il rumore dei piatti che cadevano a terra, infrangendosi,
dopo che lui aveva sparato il colpo allo stomaco che l'aveva uccisa.
Murphy stava cercando ancora quel dannato foglietto, mentre il
ragazzo alzava la mano con in pugno la pistola e gliela puntava alla
testa.
«Significa “Cane rabbioso”»
disse e poi Peter ebbe
appena il tempo di sentire premere il grilletto.
Il cellulare
cadde fuori dal finestrino, mentre il corpo senza vita del detective
Peter Hale si accasciava sul volante della macchina.
Dopo anni
di attesa e sacrifici, Mieczyslaw Stilinski aveva aveva avuto la sua
vendetta.
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Capitolo 6 *** Epilogo ***
epilogo
L'aveva
sognata, progettata e
desiderata per anni.
Negli ultimi vent'anni aveva impiegato ogni
sua risorsa per arrivare a quel momento, lì seduto su una
sedia blu
all'aeroporto di New York, con in mano un biglietto di sola andata
per un paese straniero.
Aveva avuto la sua vendetta, ma non era
dolce né soddisfacente come si era aspettato.
I suoi genitori non sarebberro di certo
tornati in vita, così come tutte le persone che erano morte
e
avevano sofferto a causa del Boss e del Rabbino. Il suo premio di
consolazione era sapere che almeno nessun altro avrebbe patito
ciò
che lui aveva patito per mano dei due gangster.
Era certo che
altri avrebbero preso il loro posto, ma era anche sicuro che non
sarebbe toccato a lui fermarli. Aveva riflettuto molto su quel punto
e si era già messo l'anima in pace prima di arrivare a New
York.
Ciò che rendeva amara quella vittoria
era non vedere Malia. Mancava ancora poco alla partenza e non vederla
poteva solo significare una cosa, cioè che Goodkat era
andato a
trovarla.
Gli
aveva risparmiato la vita, l'aveva
cresciuto e addestrato come se fosse figlio suo; gli doveva tanto ma
non sapeva se sarebbe riuscito a perdonarlo per ciò che
aveva fatto.
In fondo aveva improntato la sua vita a serbare rancore...
Il
brusio della gente attorno a lui si fece troppo forte da sopportare,
così si calò il cappello di lana sugli occhi e
nascose il viso tra
le mani. Qualcuno però gli diede una spinta e per poco non
cadde giù
dalla sedia.
Si levò il cappello e si alzò in piedi con tutta
l'intenzione di prendere a pugni quell'idiota, ma quando lo
guardò
in faccia dovette trattenersi dall'urlare.
«Sei... sei qui»
disse.
Malia poggiò a terra la valigia e si tuffò tra le
sue
braccia. Stiles si staccò quel tanto che bastava per darle
un
leggero bacio sulla fronte e poi l'avvolse in un caldo abbraccio.
*
«Dove vai?»
«Vado a
prendere il caffè».
«E le ciambelle» aggiunse lei.
«E le
ciambelle» confermò sorridendo, mentre si
abbottonava la
camicia.
«Con la glassa!» la sentì urlargli
dietro quando era
ormai sul pianerottolo.
Qualche giorno prima aveva visto
una tavola calda dall'aspetto accogliente a due isolati dal palazzo
di Nick. Era diretto lì quando il detective Hale gli aveva
teso uno
dei suoi agguati a sorpresa, e non cambiò idea nemmeno dopo
essere
stato gettato via dal furgone come un sacco dell'immondizia.
Entrò
da Metro Diner e ordinò due
caffè e quattro ciambelle di diversi gusti, sperando di
azzeccare
quello preferito di Malia.
Certo, Goodkat non ne sarebbe stato
entusiasta, preparavano quel colpo da anni e Malia era stata uno
splendido incidente di percorso, ma lui non aveva mai passato una
notte così bella come quella appena trascorsa. Era stato
bene, si
era sentito nel posto giusto al momento giusto. E in ogni caso, dopo
aver portato a termine la sua vendetta, sarebbe sparito nel nulla,
magari lasciandole un biglietto o qualcosa del genere.
Goodkat
non sarebbe mai venuto a
saperlo, in fondo era stato bravo a tenerglielo nascosto,
pensò
fischiettando mentre saliva le scale fino all'appartamento di Malia.
Il suo buonumore però si spense come la candelina su una
torta di
compleanno.
«La tua ragazza mi ha fregato. Mi ha fatto una foto.
Deve finire sotto terra» disse Goodkat, le mani in tasca e il
sorriso da Gioconda stampato in viso.
«Ok» annuì masticando la
sabbia del deserto.
Malia stava sonnecchiando sotto le
coperte, non si era accorta di lui che camminava avanti e indietro
per tutto l'appartamento, era ignara del caffè che stava
rapidamente
raffreddando sul comò e delle ciambelle che stavano
assumendo la
consistenza di una gomma da masticare.
Si
accorse del suo ritorno solo quando
le si coricò addosso, sussurrandole all'orecchio.
«Malia, devo
dirti una cosa importante».
«Cosa c'è?» si tirò su a
sedere e
lui fece altrettanto.
Restarono
a guardarsi negli occhi per
un po', lei curiosa e in ansia di sapere cosa fosse successo, lui in
preda a un conflitto interiore che non gli permetteva di trovare le
parole giuste.
Infine chiuse gli occhi e sospirò, prendendole le
mani tra le proprie.
«Io non sono Nick Fisher».
«Sì, questo
lo so».
«E non sono neanche Slevin Kelevra. Non esiste nessuno
che si chiami così».
Il petto di Malia si gonfiò di sorpresa e
gli occhi castani si spalancarono. Lui le strinse le mani con
maggiore forza per non perdere la sua attenzione.
Le raccontò la
storia della corsa ad Aqueduct, senza tralasciare nulla, neppure la
storia dell'orologio che portava al polso. Non aveva alcun valore se
non quello affettivo legato a Noah, suo padre. Era l'unico oggetto
che gli ricordava ogni giorno quale fosse il suo unico obiettivo, la
vendetta.
Le spiegò che fine aveva fatto Nick e, anche in quel
caso, non tralasciò alcun particolare della mossa
Kansas
City.
Malia lo ascoltò in silenzio, ma il suo respiro era
più
pesante e le sue mani leggermente umide.
«Lo so che è difficile
da credere, so che potrò sembrarti un pazzo maniaco omicida,
che ha
ucciso il tuo vicino di casa e ha preso il suo posto per arrivare a
te ma... la verità è che tu non eri compresa nel
nostro piano. Sei
stata un imprevisto e ora io devo... devo
proteggerti».
«P-proteggermi? Da chi...?» chiese ma la risposta
si materializzò davanti ai suoi occhi prima ancora di
concludere la
domanda. «Goodkat».
Corse in bagno a sciacquarsi il viso, mentre
un vago senso di nausea le attorcigliava lo stomaco, poi
tornò in
camera e lo trovò in piedi con un espressione contrita a
sconvolgergli i lineamenti del viso.
«Io... io non so neanche
come ti chiami!» esclamò ricacciando indietro le
lacrime.
«Il
mio nome è Mieczyslaw Stilinski,
ma tutti mi chiamano Stiles».
«Bene,
Stiles. Ora dimmi che
hai intenzione di fare per "proteggermi"» mimò le
virgolette con le dita.
«Senti, so che sei arrabbiata ma devi
darmi ascolto e devi fare esattamente cosa ti dico io».
Malia
sentì la stanza girare tutta intorno a lei,
perciò andò di nuovo a
stendersi per evitare di cadere.
Stiles la raggiunse e le si
sedette accanto.
«Quando tutto sarà finito, lui verrà a
trovarti. Conoscendolo avrà già scoperto quali
sono i tuoi orari e
i momenti della giornata in cui sei da sola. Sarà
silenzioso, quindi
stai all'erta e non dare mai le spalle alla porta. Lui ti
sparerà
qui» poggiò il palmo della mano sul suo petto,
all'altezza del
cuore.
«Ho un... un giubbotto antiproiettile nell'armadio»
disse
Malia con voce neutra.
Stiles inarcò le sopracciglia fino
all'attaccatura dei capelli.
«Tu hai cosa?»
«Un giubbotto
antiproiettile. Il mio ex ragazzo era un patito di armi ed
esercitazioni per prepararsi alla fine del mondo. Sì,
insomma è un
regalo di compleanno. Avrei dovuto buttarlo insieme al resto della
sua roba quando abbiamo rotto, ma ho pensato che un giorno mi sarebbe
potuto tornare utile, quindi...»
Stiles si lasciò andare ad una risata
liberatoria, cadendo sul letto al suo fianco.
«Lo trovi
divertente? No, perché se non te ne fossi accorto la
situazione non
lo è per niente».
«Scusa, è che sei così piena di
risorse»
ridacchiò ancora in preda all'euforia.
«A questo punto immagino
che per te non sia poi così difficile procurarsi una sacca
di
sangue...»
«Certo che no, ho diverse amiche in
ospedale. Il punto è che non sappiamo se mi
sparerà in faccia,
capisci? E la cosa più tragica è che ne sto
parlando come se la
cosa non mi riguardasse».
«Tranquilla, è un normale meccanismo
di difesa per non perdere la testa».
«Dovrei urlare, scappare in
strada a piedi nudi, oppure... oppure prenderti a pugni, odiarti e
lanciarti addosso ogni oggetto in questa stanza, ma...»
Stiles
avvicinò il viso al suo, per guardarla ancora più
da vicino.
«Ma?»
le domandò a un soffio dalle sue labbra.
«Ma non ci riesco».
*
Erano in piedi da un po',
stretti l'uno all'altra, quando si decise a raggiungerli. Sorprendere
la gente alle spalle restava una delle sue cose preferite in
assoluto.
Quando lo vide, Stiles si affrettò a mettersi tra lui e
la ragazza. Sembrava dire "uccidimi pure, ma non portare via
anche lei". Trattenne a stento un sorriso vedendo quella
scena.
Si era chiesto cosa avesse quella ragazza di tanto speciale
da fargli mettere a rischio ogni cosa, poi l'aveva guardata negli
occhi prima di spararle e aveva capito.
Malia Tate aveva lo
stesso sguardo di Stiles. Ti guardava negli occhi e sapevi che ti
stava giudicando, ma che era pronta ad affrontare la morte con stoica
rassegnazione, senza abbassarsi a piangere e supplicare.
«Pensavo
che non avresti capito» gli disse Stiles, sostenendo il suo
sguardo.
«Invece ho capito».
«Come hai fatto a scoprirci?»
«Sono un killer fuoriclasse, testa di cazzo. Come credi che
abbia fatto?» ghignò, poi mise una mano in tasca e
tirò fuori
l'orologio annerito di Noah Stilinski.
«Ho pensato che lo
volessi» disse porgendoglielo.
Nonostante fosse sporco, senza
vetro né lancette, Stiles se lo rimise al polso,
là dove era stato
negli ultimi vent'anni.
«Grazie» gli disse con voce rotta, poi
si salutarono con un cordiale cenno del capo, così come
avevano
stabilito.
Lui era un'ombra, un killer senza nome e quella sarebbe
stata la sua vita fino alla morte. Stiles aveva del talento, ma non
se l'era scelta quella strada, quindi era il momento per lui di
tornare a vivere alla luce del sole.
Era stato un buon figlio e a
lui non era dispiaciuto fare il padre, a modo proprio.
*
Il caldo torrido gli faceva
sudare la faccia sotto quegli occhiali scuri e tollerava a malapena i
baffi e quel dannato abito elegante, ma aveva un lavoro da sbrigare
ed era meglio farlo in un posto isolato.
Quel ragazzino era
strano, il più strano che avesse mai visto. Continuava a
fissare
l'orologio e non sembrava preoccuparsi di ciò che gli
accadeva
intorno.
Lo portò fuori città, al confine, dove c'erano
solo
terra ed erbacce, e gli disse di scendere dall'auto.
L'avrebbe
colpito alle spalle, come aveva già fatto in casi del
genere; ma
proprio mentre stava per premere il grilletto, il ragazzino si
voltò
a guardarlo e rimase fermo e impassibile di fronte alla pistola.
Quello sguardo, quel dannatissimo sguardo...
Mise giù la
pistola.
«Forza, sali in macchina».
Il ragazzino
ubbidì.
«Voglio andare a casa mia».
«Né io né te
torneremo a casa per un bel po', piccolo. Io sono Goodkat, puoi
chiamarmi Mr. Goodkat».
Mise in moto, accese la radio e la
sintonizzò sulla sua stazione preferita:
"Sono le quattro
e venti, qui su Radio WMNR, e questa è la mia nuova canzone
preferita. È di J. Ralph, si chiama 'Kansas City Shuffle'!"
FINE
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