Lucky Number Slevin || Stalia AU

di Horror_Vacui
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Mossa Kansas City ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. L'uomo sbagliato ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. La trappola ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. James Bond ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Cane Rabbioso ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. Mossa Kansas City ***


«E dire che allora...» una voce al suo fianco lo svegliò.
Era arrivato all'aeroporto con un'ora di anticipo per non rischiare di fare tardi, poi si era appisolato su una delle sedie blu nella sala d'attesa fuori dal gate.
Si voltò alla sua destra e vide un uomo in sedia a rotelle che lo guardava. Portava cappello e impermeabile color cachi, aveva una lunga barba curata, occhi azzurro cielo e un sorrisetto enigmatico a incurvare le labbra sottili.
Cosa gli aveva chiesto? Forse voleva solo sapere l'ora, guardò l'orologio che aveva al polso.
«Le quattro e trentacinque» disse, sperando di liberarsene.
«No, hai capito male. Non ho detto “Mi sai dire l'ora”, ho detto “E dire che allora”».
«E dire che allora?» chiese spazientito. L'altro annuì continuando a sorridere.
«Prendi quello zuccherino di canna lì dietro» indicò una senzatetto che dormiva poco più in là.
«Gran bella fica, no?»
«Cosa? Avrà settant'anni» disse, mentre un senso di inquietudine lo invadeva. Era come se, da qualche parte in quella sala, ci fosse un serpente pronto a morderlo.
«A dir poco. E dire che allora...» ripeté l'uomo.
Aveva perso il sorriso, lo guardava negli occhi con un'intensità tale da metterlo a disagio.
«Non la seguo» sospirò distogliendo lo sguardo.
«Mi chiamo Argent, non vivo da queste parti».
«Senta signor Argent...»
«Solo Argent» lo interruppe brusco. «E mi trovo qui, se vuoi saperlo, per via della mossa Kansas City» spiegò con lo stesso tono piatto. Era come se la sua voce non conoscesse altri colori oltre il grigio.
Forse era un uomo solo che aveva bisogno di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno e, se l'avesse ascoltato, magari la Divina Provvidenza sarebbe stata magnanima con lui e glielo avrebbe tolto dai piedi.
«Cos'è la mossa Kansas City?» chiese sospirando per la seconda volta.
«La mossa Kansas City è quando guardano a destra e tu vai a sinistra».
«Non l'ho mai sentita».
«Be', non è che se ne parli tanto. Alla fine colpisce chi non vuol sentire. Questa in particolare è in preparazione da più di vent'anni».
«Vent'anni, eh?»
«Non è una cosa da poco. Richiede una grande programmazione, coinvolge un bel po' di persone. Persone collegate solo da un evento insignificante, una soffiata nella notte in un ambiente che non dimentica, anche se tutti ne avrebbero voglia».
Argent fece una pausa, il suo sguardo si perse in un luogo lontano a lui irraggiungibile, alla ricerca di ricordi che forse credeva dimenticati.
«Inizia tutto con un cavallo. È quella che all'epoca si chiamava “corsa del droghiere”. Un tizio vuole una cosa che un altro definisce sicura e si dà da fare per ottenerla; così chiama Doc, un esperto di Anversa molto bravo a dare la dose giusta al cavallo giusto, ma molto poco discreto. E lo stesso si può dire per la donna di Doc, Gloria. Gloria era troppo miele per un solo alveare ed Abe era tanto vecchio quanto ricco e riconoscente. E lei era disposta a farsi mettere le mani addosso da uno come lui per qualche regalo e feste di lusso, perciò gli rivelò tutti i dettagli della corsa truccata che Doc si era lasciato sfuggire».
«E questo Abe li denunciò?» la storia cominciava ad appassionarlo sul serio.
«No, nient'affatto. Abe non era un ficcanaso, ma aveva un buon naso. E subito sotto il naso aveva la bocca. Raccontò tutto a un amico fidato: corsa truccata ad Aqueduct, numero 7, decima corsa. Peccato non si trovasse nel suo salotto, ma in un club affollato. Lì c'era una farfalla che aveva buone orecchie e che guarda un po' era lo zio di qualcuno. Lui, il nostro uomo».
«Il nostro uomo?»
«Già, lo chiameremo così. Il nostro uomo».
«Lo zio faceva il cameriere proprio nel club frequentato da Abe e caso volle che fosse lì a prendere i bicchieri vuoti proprio mentre Abe vuotava il sacco».
«Una vera fortuna, no? Intendo, per il nostro uomo».
Argent fece schioccare la lingua, senza scomporsi.
«Dipende dai punti di vista, immagino. Il nostro uomo era giovane, ma in fondo non più così tanto, e lavorava sodo. Quanto lavorava. Ed era tanto tanto stanco. Stanco di lavorare senza vivere, stanco di scoprire la mattina che i suoi sogni erano solo sogni, ma soprattutto era stanco di non avere un giardinetto davanti casa. La notizia di quella corsa sicura gli diede la speranza che aspettava da tempo, quella di poter finalmente rivoluzionare la propria vita e quella di suo figlio. Già, non fare quella faccia, il nostro uomo aveva una moglie e un figlio. Un figlio molto sveglio e intelligente, che portò con sé il giorno della corsa ad Aqueduct. Lo lasciò in macchina ad aspettarlo, dandogli il proprio orologio per contare i minuti fino al suo ritorno».
«Perché lasciarlo lì? Voglio dire era una corsa di cavalli, non una bisca clandestina».
«Ci sei andato molto vicino. Un'occasione come quella era irripetibile, quindi scommettere al picchetto sarebbe stato da pazzi: se qualcuno avesse scoperto il trucco gli avrebbero preso ogni cosa, tutti i suoi soldi e tutti i suoi sogni, senza contare che sperava di guadagnare qualcosa in più. Perciò si rivolse a un allibratore sottobanco, di quello che gestiva scommesse non proprio legali, un certo Roth. Lui lo avvisò: quella puntata sarebbe passata ad un altro allibratore, che gestiva gli affari di gente poco raccomandabile, gente con cui era meglio non avere un debito. Se il cavallo avesse perso, il nostro uomo avrebbe dovuto dar loro ventiduemila dollari».
«E il cavallo vinse la corsa?»
«No, certo che no, altrimenti non saremmo qui a parlarne. Il cuore del cavallo numero 7 esplose a metà della gara e il nostro uomo si rese conto che i suoi sogni l'avevano trascinato giù in un incubo».
«Accidenti! E poi cosa accadde?»
«Tornò al parcheggio, sperava di poter risolvere le cose in qualche modo. La sua auto però era sparita e di suo figlio neanche l'ombra. Lo chiamò a gran voce, tanto da attirare su di sé l'attenzione dei lupi che lo stavano aspettando. Ricordi la gente poco raccomandabile di prima?»
«Sì, certo».
«Gliele suonarono di santa ragione, poi gli misero una busta di plastica in testa. Nel mentre altri due sicari si occuparono della moglie e del figlio. Morti, tutti morti».
«Merda. Cazzo! Porca...»
«Merda, cazzo, porca. Esatto».
«Ma io non capisco, perché hanno ucciso la sua famiglia?»
«Una nuova banda. Non volevano farsi fregare subito con una corsa truccata appena arrivati. Una lezione esemplare».
«Wow, cioè... che cazzo di storia assurda».
«Charlie Chaplin partecipò a un concorso per sosia di Charlie Chaplin a Montecarlo e arrivò terzo. Quella è una storia assurda. Questa è tutta un'altra cosa».
Si pentiva di aver pensato male di quell'uomo, in fondo non era tanto terribile ascoltare le sue storie.
«Allora è questa la mossa Kansas City?» chiese ricambiando il sorriso.
«No. È solo il fatto scatenante, il catalizzatore. Questa è una mossa Kansas City» indicò con il braccio qualcosa davanti a sé, lui si girò per vedere a cosa si riferisse: non c'era nulla.
Si rigirò a destra verso Argent, ma la sedia era incredibilmente vuota.
«Loro guardano a destra e tu vai a sinistra».
Prima che se ne rendesse conto aveva il collo spezzato e la vita lasciava per sempre il suo corpo.
Argent lo mise sulla sedia a rotelle, lo coprì con il cappello e il cappotto color cachi e lo portò fuori dall'aeroporto, caricandolo nel retro di un camion.
«Mi dispiace figliolo, ma a volte la vita non è fatta di solo vivere. E poi non si può fare una mossa Kansas City senza un morto».


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Capitolo 2
*** Capitolo 2. L'uomo sbagliato ***


Il naso pulsava come se il cuore gli si fosse spostato in mezzo alla faccia. Lo tastò per constatare che era rotto e lo tirò con delicatezza per rimetterlo a posto. Digrignò i denti, lasciandosi sfuggire una mezza imprecazione. Quel bastardo ci era andato giù pesante, il pugno gli era piombato addosso senza alcun preavviso e aveva fatto male il doppio.
Tolse gli ultimi residui di schiuma da barba dal viso e si passò una mano tra i capelli umidi, portandoli indietro. Prima o poi avrebbe dovuto tagliarli, cominciava a sembrare una ragazzina che ha giocato troppo con le forbici.
Un insistente e fastidioso bussare alla porta lo distolse dalla sua immagine riflessa, così si annodò un asciugamano in vita e corse ad aprire, sperando che fosse chi stava aspettando.
Girò la chiave nella toppa e una ragazza s'infilò nell'appartamento senza nemmeno salutare.
«Ci hai messo una vita» disse dirigendosi svelta in cucina.
«Be', in realtà io...» cominciò a dire e la sua voce la convinse a fermarsi.
Lo guardò dalla testa ai piedi con sorpresa, mentre le guance le si coloravano di un delizioso color pesca. Preso atto della figuraccia appena fatta, si strinse nel cardigan di lana arancione e incrociò le braccia al petto, sollevando il mento in posizione di sfida.
«Tu non sei Nick».
«E tu non sei muscolosa come immaginavo» disse divertito.
«Sono abbastanza forte da romperti di nuovo il naso».
«Be', come puoi vedere da sola, non serve» si strinse nelle spalle.
«Cosa ti ha fatto pensare che fossi muscolosa?»
«La tua bussata. Credevo che fuori dalla porta ci fosse un energumeno pronto a picchiarmi».
«E invece hai trovato me. Ti è andata bene» arricciò le labbra infastidita.
«Direi proprio di sì» ammise. «E forse è andata bene anche te» sorrise vedendola impegnata a scannerizzare i suoi addominali. A quelle parole lei distolse subito lo sguardo.
«Tu chi sei?» gli chiese.
«Mi chiamo Slevin».
«Che hai combinato al naso?»
«L'ho usato per rompere il pugno a un tizio» disse e la superò entrando in cucina.
«Dai, ti hanno picchiato?» domandò lei seguendolo.
Prese alcune fette di pane e ci spalmò sopra del burro d'arachidi. Lei nel frattempo si era seduta sul bancone e lo osservava incuriosita. Sotto il cardigan indossava dei semplici pantaloncini di cotone e una canottiera sottile. Aveva gambe lunghe e occhi da gatta, profumava di lavanda e biscotti: le pericolosa ragazza della porta accanto.
«Sì, però un po' me l'aspettavo» addentò il suo meritato panino.
«Come te l'aspettavi?!»
«Sai, visto che non c'è due senza tre... Prima ho perso il lavoro. Torno a casa e trovo che il mio palazzo è spacciato, tutta colpa di una razza incrociata di super termiti ecuadoriane, così vado da Lydia, la mia fidanzata».
«Senza preavviso?»
«Già, pensa che idiota, avevo la chiave e sono entrato. Vengo accolto da una sinfonia di cigolii e mugolii, vado in camera da letto e la trovo a novanta con il suo collega, Jordan. Ci stavano dando dentro di brutto, così tanto che non mi hanno sentito. Si sono inventati mille scuse, tutte inutili».
«E allora hai chiamato Nick».
«Esatto. Mi aveva detto che abitava da solo a New York in un appartamento piuttosto grande e, dato che la mia vita è a pezzi, mi è sembrata una buona idea ricominciare proprio in questa città. Così ieri notte ho preso il primo volo e sono arrivato stamattina, ma Nick non c'era e appena sono uscito dall'aeroporto un uomo mi ha dato un pugno e mi ha rubato il portafogli. E perciò eccomi qui».
La ragazza balzò giù dal ripiano e lo guardò di traverso: sembrava proprio un felino.
«Mmh, hai detto tre» disse andando verso la porta.
«Cosa?» il panino quasi gli andò di traverso.
«Hai detto “non c'è due senza tre”: hai perso il lavoro, devono demolire il tuo palazzo, Lydia ti ha tradito e sei stato rapinato, così fanno quattro» elencò le sue disgrazie contandole con le dita.
Mandò giù il boccone a fatica e bevve un sorso di latte dal cartone.
«Be' quando hai preso il via, hai preso il via. Questa è la terza rapina in due mesi».
«Interessante. Anche se lui non era il fenomeno delle rapine lampo, non brillava di certo in astuzia».
«Però mi ha rotto il naso».
«Ma ti ha lasciato la valigia» disse lei indicando il bagaglio aperto in corridoio.
«È pesante, forse non gli sembrava adatta a una fuga lampo».
Prese l'altro panino e andò a sedersi in salotto, seguito a ruota dalla ragazza. Lui si aggiustò l'asciugamano e lei lasciò che il cardigan cadesse poco sotto la spalla.
«Vero, ma c'è l'enigma del tuo orologio, parecchio fighetto».
«È un falso» sollevò il polso per mostrarglielo.
«Ma lui non lo sapeva».
«Forse non l'ha visto».
«Certo che l'ha visto, ti ha chiesto l'ora!» roteò gli occhi al cielo.
Lo stava riempiendo di domande, gli serviva qualcosa da bere, magari più forte del latte...
«Hai detto che sei alla terza rapina?»
«Sì, ecco... sai, io viaggio molto» aprì il frigo ma non c'era altro a parte bibite gassate, acqua e latte.
«Dov'è Nick?» gli chiese lei appoggiandosi allo sportello.
«Non lo so, dovevamo incontrarci in aeroporto ma non si è fatto vedere».
«E allora come sei entrato?!»
Astuta, molto astuta.
«La porta era aperta» spiegò semplicemente.
«La porta era aperta?» ripeté per nulla convinta.
«Sì, te l'assicuro».
«Aperta o chiusa male?» tamburellò le dita sulla plastica ingiallita e lo guardò dritto negli occhi.
«Non me lo ricordo» rispose e chiuse di colpo il frigo.
L'improvvisa perdita di equilibrio la costrinse ad aggrapparsi al suo petto per non cadere. Sentì un brivido attraversargli la schiena quando le unghie gli graffiarono le spalle, ma fu un attimo, lei si allontanò fulminea.
«Ops, scusa» non riusciva a smettere di sorridere, quella ragazza lo intrigava.
«Avevi detto aperta» lo rimproverò puntandogli un dito contro.
«Mmh, sì potrebbe essere... ma ehi, come ti chiami?»
Lei trasformò il dito puntato in una mano tesa verso di lui.
«Hai ragione, sono Malia. Sono la vicina di Nick ed ero venuta a chiedergli una tazza di zucchero» anche la stretta era forte e poderosa, come il suo carattere.
Gli diede le spalle e tornò in cucina, diretta al motivo per cui si era fiondata in quell'appartamento.
«E dov'è la tazza?»
«Ho detto che volevo un tazza di zucchero, se avessi avuto una tazza avrei chiesto dello zucchero».
«Touché» fu costretto ad ammettere la sconfitta, mentre il suo stesso sorrisetto divertito si dipingeva sulle labbra a cuore della ragazza.
La guardò armeggiare in cucina come se quella fosse casa sua, sapeva come muoversi e dove trovare ciò che le serviva. E poi il telefono squillò e Malia quasi si lasciò sfuggire lo zucchero dalle mani.
«Oh, potrebbe essere Nick!»
Lui andò a rispondere, ma la cornetta gli restituì pochi secondi di silenzio e il click di chi ha riagganciato.
«Ha attaccato» sospirò rimettendola a posto.
«Ah, ho un'idea!» esclamò Malia prendendo il telefono. «L'hai usato da quando sei qui?»
«No».
«Perfetto» disse e compose un numero, quando ricevette risposta riagganciò con la scusa di aver sbagliato persona.
«Che cosa stai facendo?» le chiese con il tono paziente che si usa con i matti.
«Era l'hotel Cheval, quindi ora sappiamo l'ultima chiamata di Nick, non ci resta che scoprire chi l'ha chiamato. Colombo dice che ci sono tre cose...»
«Colombo?» quasi le scoppiò a ridere in faccia.
Malia lo guardò contrariata ma non si lasciò abbattere.
«Sì, Colombo. Era un detective di una serie tv».
«So chi è Colombo, ma cosa c'entra con Nick?»
«Lui dice che vanno esaminate tre cose sul luogo del delitto: cosa c'è ora che non c'era prima, cosa c'era prima che non c'è più e cosa è stato spostato».
«Questo è un luogo del delitto?» si guardò intorno spaesato, mentre lei componeva un altro numero.
«Per me Nick è nei guai» disse, attorcigliando tra le dita una ciocca dei suoi lunghi capelli castani.
La risata che stava trattenendo da un po' gli sfuggì senza che potesse far nulla per ricacciarla indietro.
«Non starai esagerando?»
Lei lo ignorò.
«Pronto? Oh, scusi ho sbagliato» mise giù la cornetta come se fosse diventata bollente. «Ha risposto di nuovo l'hotel Cheval!»
«Lui ha chiamato l'albergo e loro l'hanno richiamato, è normale» provò a tranquillizzarla.
«Allora forse è un indizio» disse e prese a camminare in cerchio.
«Di cosa?»
«Di quello che può essergli successo!»
«Forse non gli è successo niente».
«Ma forse sì! Dovevate incontrarvi e tu sei qui e lui no, la porta era aperta e succedono brutte cose quand... oh, cazzo!» esclamò guardando l'orologio. «Devo passare al lavoro, ma solo per un paio d'ore, poi torno così possiamo cominciare l'indagine» disse saltellando verso l'uscita.
«L'indagine? Non starai correndo un po' troppo?»
«Dai, ci divertiremo!» gli sorrise chiudendosi la porta alle spalle.
Era stranamente euforica per essere preoccupata, come se non avesse aspettato altro per tutta la vita.
Che poteva fare se non assecondarla? In fondo anche lui aspettava di incontrare una come lei da tutta la vita.
Distratto da quel pensiero – ma anche dall'immagine del suo seno nudo sotto la canottiera leggera –, non si accorse che qualcosa si stava muovendo a sud dell'Equatore, destabilizzando il fragile equilibrio del nodo all'asciugamano, che di fatto gli scivolò dai fianchi proprio nell'istante in cui la porta si riaprì.
Gli occhi furbetti di Malia ammirarono le sue grazie, mentre lui cercava di nasconderle di nuovo sotto il pezzo di stoffa traditore.
«Ti serve altro?» sorrise, provando a mascherare l'imbarazzo.
«Sì, scusa. La mia tazza di zucchero, ricordi?»
«Prego, conosci la strada» la invitò indicando con un ampio gesto la piccola cucina.
Malia non se lo fece ripetere e ciabattò fino alla credenza.
«Me ne sono accorta dopo aver fatto il caffè, stavo andando a comprarlo ma poi ho pensato “ce l'avrà Nick”» disse rigirandosi la tazza di zucchero tra le mani.
Lo guardava come si guarda un bocconcino alla crema e a lui non dispiaceva affatto.
«Già, Nick è sempre pieno di risorse» si morse le labbra, senza trattenersi.
Malia ridacchiò.
«Tu mi racconti la tua storia, io me ne vado senza zucchero, torno qui e metti in mostra il pisello e, anche se il caffè a questo punto sarà una porcheria, io voglio andare fino in fondo».
«Ah sì?»
«Già» fece un pausa. «Sembra la scena di un quadro di Norman Rockwell».
«Cosa, il mio pisello?» ghignò malizioso.
«Che...? No! No, lo zucchero. I vicini che si prestano lo zucchero a vicenda, è molto “Casa nella prateria”. Il tuo pisello invece non credo sia molto adatto ad uno show per famiglie» disse e si
diresse per l'ennesima volta verso l'uscita.
«Oh, e grazie per lo zucchero, zucchero!» gli fece l'occhiolino e se ne andò, per poi riaprire subito la porta. Lui alzò un sopracciglio e si appoggiò al muro incrociando le braccia al petto.
«Be', che ci fai qui?»
«Volevo imbroccare il prossimo spettacolo» spiegò con candore.
«Non replico fino alle otto».
«Mmh, ok» disse con finta delusione e se ne andò sul serio.
Un tornado avrebbe causato meno scompiglio di quanto ne aveva portato lei in appena quindici minuti.
Decise che era meglio rivestirsi prima di beccarsi un raffreddore, ma quando voltò le spalle alla porta qualcuno bussò più forte di Malia. Doveva essere di nuovo lei.
«Non ci provare, non sono le otto» disse e aprì, ma invece di Malia si ritrovò attorno al collo la mano gigantesca di un armadio a due ante.
Il gigante lo sollevò di qualche centimetro da terra, spingendolo dentro l'appartamento. Accanto a lui c'era un altro uomo, più piccolo, con il viso affilato di una volpe. Puzzavano di sigari, cuoio e ferro e sembravano usciti dal Padrino, con le loro giacche di velluto a coste, i cappotti neri e i pantaloni eleganti.
«Il boff vuole vederti» disse il primo, stringendo le dita fino a fargli mancare l'aria.
«Chi?» chiese, provando a divincolarsi.
«Il boff!» gridò e lo lasciò andare con stizza.
Era grande e grosso, aveva i denti superiori così sporgenti che toccavano il mento e gli occhi piccoli e storti. Voleva risultare minaccioso, ma era difficile prenderlo sul serio con quel sibilo farfallino.
«Chi è il boff?» tossì e si massaggiò il collo indolenzito.
Se proprio doveva morire, tanto valeva divertirsi un po'. Fece un passo avanti, ma il piccoletto lo spinse sul divano. Aveva una grossa cicatrice che gli attraversava la guancia sinistra e la bocca da parte a parte.
«Ehi, metti giù le chiappe!» lo rimbrottò quando provò ad alzarsi.
Ripeterono quella scenetta per un paio di volte, ma nemmeno l'altro riuscì a intimorirlo.
Erano gli scagnozzi più insulsi che avesse mai visto, così tonti che forse sarebbe riuscito ad abbindolarli con le parole giuste.
«Sentite, non sono quello che cercate, io non abito qui».
«Fì, però fembri quello che abita qui» disse quello grosso.
«Ma voi non sapete nemmeno che faccia ha!»
I due si guardarono confusi, poi il piccoletto trovò la risposta giusta in calcio d'angolo.
«Lui voleva dire che tu sembri che abiti qui».
Poté quasi vedere il lampo di fierezza attraversargli gli occhi mentre lo diceva.
L'energumeno annuì ghignando come una iena. «Fì, volevo dire proprio questo!»
«Sì, sembra che io abiti qui e invece no. Sono venuto a trovare un amico, sono arrivato giusto stamattina» provò a spiegare usando un tono amichevole.
Sembrò funzionare, perché i due fecero un passo indietro e gli permisero di alzarsi in piedi.
«Ok, fenti il ragazzo che sto cercando fi chiama Nick. Tu ti chiami?»
«Mi chiamo Slevin» disse esibendo il suo sorriso migliore.
«Ah».
Il gigante assunse un'espressione ancora più ebete.
«C-ce... ce l'hai un documento?»
Era fregato? Era fregato.
«Ehm, be' il buffo è che sono stato rapinato e...»
«EHI, fenti! Fenti questo vallo a dire a Faccia Calva, lui ti può sbudellare in fondo alla strada».
Lo scagnozzo si agitò così tanto da riempirlo di sputi, ma nemmeno il suo compare sembrò capire a cosa si riferisse. Guardò prima lui, poi Slevin, poi di nuovo lui, poi di nuovo Slevin e alla fine partì alla carica.
«Senti, figlio di puttana...!»
«No, no, gli sto addoffo io, gli sto addoffo io!» lo spostò indietro con una manata.
«Lento, molla la presa!» gridò.
«Elvif, gli sto addoffo io!» ripeté lo scimmione per una decina di volte, finché l'altro non gli diede un calcio negli stinchi che lo fece calmare.
«Figlio di puttana» disse poi quello secco, puntandogli un dito contro.
«Io so solo che il Boss mi ha rifilato questo indirizzo e ha detto “Lento”, che sarebbe lui, “Elvis”, che sarei io, “portatemi il personaggio che trovate a questo indirizzo”. Me l'ha detto proprio oggi e tu, guarda un po', ti trovi qui oggi, quindi sei tu quello che devo portarmi via. Per me. Oggi».
«Ma io non sono Nick» disse Slevin, per niente impressionato.
«Sì, ma purtroppo per te, tu non sei il primo a dirci che non sei quello che stavamo cercando».
«Ok, possiamo chiedere a Malia, la ragazza che abita qui di fronte» fece per andare verso la porta, ma Lento gli mostrò il pugno ed Elvis lo prese per le spalle.
«Ehi ehi ehi, fermo fermo, aspetta! Nick, Slevin, Clark Kent, chiamati come cazzo ti pare. Potrebbe venire la Regina d'Inghilterra in persona, con il suo bel culo, le tette al vento e tutto il resto e se mi giurasse che tu sei il Principe Carlo, be' io dovrei portarti comunque dal Boss. E lo sai perché?»
«No» scosse la testa.
«Ordini» scandì piano. «Sai che sono gli ordini, vero?»
«Credo di capire il concett...»
«Gli ordini sono ordini
Voleva dire qualcosa di brillante, un'uscita a effetto che lo avrebbe salvato dai guai come quelle di James Bond.
«È da ignoranti usare la parola da definire nella definizione» fu la cosa migliore che gli venne in mente.
Elvis gli restituì il sorriso e poi gli piantò un pugno nello stomaco.
«Di' un'altra parola e ti spacco quella merda di naso, non mi prendi per il culo».
Sentì salire il panino al burro d'arachidi e lo ricacciò giù per non vomitargli sulle scarpe. Purtroppo però non era così bravo a mandar giù un altro tipo di vomito.
«Il mio naso è già spaccato!»
Il colpo gli rimbombò sui denti e sentì le ossa rotte scricchiolare una contro l'altra. Almeno sapeva una cosa: Elvis era uno che manteneva la parola.


«Posso dire solo una cosa?»
«Che c'è?!»
«Puoi alzare il riscaldamento? Fa veramente freddo» disse stringendosi le ginocchia al petto.
Avevano perso troppo tempo, quindi non gli lasciarono nemmeno un minuto per vestirsi, ma lo portarono fuori dall'appartamento in pantofole e asciugamano. Doveva essere un quartiere piuttosto malfamato o magari solo spaventato, perché nessuno dei passanti osò dire e far nulla mentre lo costringevano a salire in auto.
Elvis lo guardò dallo specchietto retrovisore.
«Ecco vedi, tu dovevi pensarci prima di mandare la lingua a passeggio, ti avevo avvertito».
«Lo so» disse, contorcendosi nel tentativo di trovare una posizione comoda.
«Ehi, smettila di sanguinare! Non sulla mia macchina, non su questa tappezzeria! Metti quel cazzo di ghiaccio su quel cazzo di naso!»
Il ghiaccio era quasi del tutto sciolto e la pezza in cui era avvolto era umidiccia di acqua gelida e sangue. L'odore ferroso del suo stesso sangue non lo avrebbe abbandonato per un bel po'.
Arrivarono in un ampio viale costeggiato da due identici e giganteschi edifici a mattoncini rossi. Fu come trovarsi davanti a uno specchio, una pallida imitazione delle due torri ridotte in cenere.
Un altro energumeno dalla pelle d'ebano li accolse quando accostarono di fronte a uno dei due edifici, in una mano teneva un giornale, nell'altra il mitra nascosto sotto il loden scuro.
Slevin si guardò intorno e si rese conto che quella non era l'unica guardia posta di fronte agli ideali cancelli di quell'ideale castello. Ne contò almeno altre cinque, tutte armate.
L'atrio all'interno era semplice ed elegante, per nulla sfarzoso, dava l'impressione di forza e sicurezza. Le pareti chiare, il parquet, il legno di noce e i tappeti persiani: era come trovarsi all'interno di una banca, la più grande e affidabile della città.
Elvis e Lento lo spinsero dentro un ascensore e si fecero un viaggetto fino al super attico.
Le porte si aprirono su un corridoio in marmo bianco e nero, circondato da due pareti ricoperte di faretti dorati. Era quella la via per l'inferno? Lui la stava percorrendo in pantofole, con un asciugamano alla vita e il naso rotto e sanguinante... ma c'erano margini di peggioramento.
Entrò nella stanza in fondo al corridoio, era ampia e arredata come tutto il resto. In piedi davanti a una delle grandi finestre c'era l'ennesimo uomo alto e scuro. Era largo il doppio di Lento e aveva un'espressione più incazzata di quella di Elvis. Aveva due opzioni: convincerlo della propria innocenza o uscire da quel palazzo dentro un sacco della spazzatura. Nella migliore delle ipotesi.
«Senta, i suoi ragazzi Elvis e Lento hanno pizzicato l'uomo sbagliato. Io non sono Nick Fisher».
«Signor Fisher!» esclamò una voce alla sua destra. Lì c'era una scala a chiocciola nera e lucida, da cui scese un uomo anziano e distinto.
Teneva in mano un bastone da passeggio dall'aspetto costoso e lo faceva dondolare ad ogni gradino con eleganza. La sua ombra proiettata sulle pareti e sul gigantesco specchio di fronte alla scala, lo faceva apparire più ingombrante e minaccioso di quel che era in realtà.
«Lei ha presente lo Shmoo, signor Fisher? Era un fumetto che mi piaceva da bambino. Lo Shmoo era una creatura adorabile: deponeva le uova, dava il latte e moriva di pura estasi quando un affamato lo guardava, perché adorava essere mangiato. Poteva assumere qualunque sapore tu desiderassi».
Lo raggiunse e lo guardò negli occhi. Gli venne in mente una parola: carisma. Quel vecchio emanava carisma da ogni poro della pelle stanca. Il suo sguardo fiero e sicuro pareva trapassarlo da parte a parte, come se fosse capace di entrargli nella testa e carpire ogni suo più piccolo segreto.
Il sangue gli si gelò nelle vene e la lingua gli si paralizzò tra i denti.
Non ricevendo risposta, l'anziano riprese a parlare e a muoversi intorno alla stanza.
«Le pelle di Shmoo, tagliata fine, diventava cuoio sottile; perfino i baffi di Shmoo erano ottimi stuzzicadenti. In sostanza, lo Shmoo soddisfaceva tutti i desideri del mondo» si fermò accanto all'altro uomo, vicino la finestra.
«Ho usato l'esempio dello Shmoo solo perché è attinente alla ragione per cui è stato portato qui».
«Mi scusi, ma lei chi è?» disse, ritrovando la voce e la parlantina.
Se nella vita aveva imparato qualcosa era che un animale ferito non sopravvive a lungo nella giungla.
«Io sono il Boss» rispose l'altro, senza scomporsi di fronte alla sua palese arroganza.
«Credevo che fosse lui il Boss» indicò quella che era evidentemente una guardia del corpo.
Il Boss squadrò la guardia dalla testa ai piedi e poi domandò: «Perché? Ci somigliamo?»
Avrebbe risposto “touché”, ma preferì non rischiare di indisporre troppo un uomo con così tanto potere. Spostò il suo peso da un piede all'altro, mentre il Boss prendeva posto dietro la scrivania.
«Dunque signor Fisher, lei voleva dirmi qualcosa?»
«Io? A dire il vero è lei che mi ha fatto venire qui» si strinse nelle spalle.
«Sì, ma dicevo prima, quando pensava che io fossi lui».
«Non pensavo che lei fosse lui, pensavo che lui fosse lei. E stavo cercando di farle capire che hanno preso l'uomo sbagliato».
Il Boss poggiò entrambe le mani sui braccioli e si mise comodo sulla sedia di pelle verde bottiglia.
«L'uomo sbagliato per cosa?»
«Per qualsiasi cosa voglia da me».
«Lo sa cosa voglio da lei?»
«No».
«E come sa che ho preso l'uomo sbagliato?»
«Be', perché io non sono quello...»
«Forse voglio darle 96.000 dollari. Ho preso sempre l'uomo sbagliato?» ghignò.
A Slevin scappò una risatina.
«Vuole darmi 96.000 dollari?»
Il Boss si alzò, fece il giro della scrivania e gli si piazzò di fronte, faccia a faccia.
«No. E lei vuole darmi 96.000 dollari?»
«No, dovrei?»
«Non lo so, dovrebbe?»
L'aria divenne più pesante e all'improvviso sentì caldo, nonostante fosse praticamente nudo. Deglutì a fatica, la gola sempre più secca, e strinse forte le mani dietro la schiena.
«Non lo so... dovrei?»
Il Boss fece schioccare la lingua contro il palato.
«Be', per farla breve...»
«Breve mi sembra una parola grossa» disse di getto.
«Scommetto che è stata quella lingua lunga a procurarti quel naso, quindi facciamo così: dimmi che idea ti sei fatto sul perché sei stato portato qui» lo invitò a parlare con un gesto della mano.
Esitò un attimo, studiando l'espressione del Boss, ma lui sembrava piuttosto serio, quindi...
«Ho come l'impressione che lei abbia l'impressione che io le devo 96.000 dollari».
«No, tu devi a Slim Hopkins 96.000 dollari. Tu li devi a Slim, Slim li deve a me... tu li devi a me».
«E non si può parlare con questo Slim?»
Il Boss e la guardia del corpo si scambiarono una veloce occhiata e in meno di dieci minuti si ritrovarono nel seminterrato del palazzo. Un posto buio, freddo e sporco che gli fece venire i brividi per diversi motivi, compresi gli occhi morti di un uomo dentro una cella frigorifera.
Era come quella che si trova nei macelli, solo che al posto della carne c'era un uomo con un buco in fronte e i vestiti sporchi di sangue. Il Boss levò la brina dal vetro con una mano.
«Ehi Slim, conosci questo ragazzo? Slim?» chiese al cadavere.
«È inutile,» scosse la testa «da quando gli hanno sparato è diventato sordo».
«C-cos'è che ha reso Slim sordo?» disse Slevin con un voce malferma.
Il Boss lo guardò come se fosse ingiustamente impressionato.
«Perché me lo chiedi?»
«Perché io le devo 96.000 dollari e ho un leggero problemino a metterli insieme».
«Ah, per quello! Ok, dai non ti preoccupare, facciamo che pareggiamo a 90.000».
«Molto generoso, ma il problemino rimane lo stesso» disse con un filo di voce.
«Mh, va bene. Allora facciamo che io ti cancello l'intero debito in cambio di un piccolo favore».
«D-dipende dal favore».
Il Boss gli diede una manata sulla schiena, che bruciò fino alle ossa.
«Sei con le spalle al muro, eppure non ti arrendi e provi a dettare le condizioni. Tree, chiama l'ascensore, il ragazzo è più freddo di Slim e non vogliamo mica rischiare che muoia».
Una volta tornati nell'appartamento il Boss andò dritto alla scrivania, prese una cornice e gli mostrò la foto che racchiudeva.
«Questo era mio figlio. Hai notato che ho detto era?» disse serio e Slevin quasi poté toccare l'aura di cupa tristezza che emanava.
«Sì» annuì abbassando lo sguardo.
«Perché ora è morto. Ammazzato con un proiettile in testa sulla porta di casa. Relegato all'imperfetto dell'essere. Spedito da un “è” a un “era” prima di colazione».
«Bel problema».
«Già, è un bel cazzo di problema. E sai cosa significa questo?»
«No, non saprei» incrociò le mani davanti a sé, temendo un colpo basso che non arrivò.
Il Boss si spostò di nuovo davanti alla finestra per guardare il palazzo di fronte.
«Lex talionis, la legge del taglione. È stato infranto un patto. Mio figlio è stato ucciso quindi lo stesso destino dovrà toccare al figlio del Rabbino».
«Al... al figlio di chi?»
«Del Rabbino».
Aveva ancora la gola secca da quando aveva visto quel cadavere nella cella frigorifera e sulla scrivania c'erano una brocca e due bicchieri pronti per essere riempiti.
«Perché lo chiamano il Rabbino?» chiese versandosi dell'acqua.
«Perché è un rabbino».
Il Boss gli rivolse un'occhiataccia proprio mentre stava per poggiare le labbra sul bordo del bicchiere.
«E chi è il figlio?» chiese per distrarlo, mentre rimetteva a posto la tanto agognata fonte di liquidi. Nudo, assetato, con il naso rotto e a rischio di morte, peggio di così non poteva andare, no?
«Yitzchok».
«Yitzchok il figlio del Rabbino» registrò mentalmente quell'informazione.
«Yitzchok la fatina» precisò il Boss.
«E perché lo chiamano “la fatina”?» chiese. Non che fosse difficile intuirne il motivo, ma fare domande lo aiutava a mantenere la concentrazione. Il Boss alzò gli occhi al cielo.
«Perché è una fatina!»
«Come? Ha le ali, sa volare, sparge polverina magica dappertutto?» ridacchiò.
«È una checca» .
«Ok, capito» sollevò le mani in segno di resa.
«Andiamo» disse il Boss, incamminandosi verso l'uscita.
Lo seguì svelto, nonostante avesse le pantofole e l'asciugamano stesse per cadergli.
«E il Rabbino che cosa ne pensa?» domandò riannodandolo in vita.
«Lui non lo sa».
«Lei lo sa, ma lui non lo sa».
«Tutti lo sanno».
«Tranne il Rabbino».
«Esatto».
Si sentiva più leggero ora che stavano attraversando a ritroso il corridoio con i faretti dorati.
«E io che ruolo ho?»
«Tu?» il Boss si voltò a guardarlo. «L'ammazza-fatine».
«I-io?» ora non sorrideva più.
«Tu».
Restò a bocca aperta, mentre la testa lavorava per mettere insieme i pezzi.
«Non esistono dei professionisti per fare queste cose?»
Il Boss scoppiò a ridere di gusto.
«Certo che esistono! Ma tu mi devi 96.000 dollari, quindi perché dovrei pagare qualcun altro se ho già pagato te?»
La sua faccia atterrita dovette far pena al Boss, che gli mise un braccio attorno alle spalle per accompagnarlo all'ascensore.
«Con i tuoi debiti non vai molto lontano, il che vuol dire che ti tengo nel taschino, ovverosia se tu non fai quello che io voglio che tu faccia, passerai dal mio taschino alla cella frigorifera. A Slim farà piacere avere compagnia e a me farà comodo lo Shmoo. Aspetto una tua risposta domattina».
Le porte dell'ascensore si aprirono e dentro c'erano Lento ed Elvis ad aspettarlo.
«C'è qualcos'altro?» chiese con il morale sotto le suole sbriciolate delle sue pantofole.
«Be' non penso sia necessario dire una frase banale o un cliché come “se chiami la polizia sei morto”» disse lapidario.
«Però l'ha detta».
«Però l'ho detta».

Le porte dell'ascensore si chiusero e il Boss restò solo con le sue guardie del corpo e una presenza celata dietro una delle porte a scomparsa tra i pennelli di legno.
«Allora, mi faccia capire se ho afferrato: io la pago una fortuna per ammazzare qualcuno e lei prende un altro per farlo?»
L'uomo uscì allo scoperto. Indossava un completo elegante che lo faceva somigliare ad Humprey Bogart in Casablanca e dai suoi occhi azzurro cielo non trapelava alcuna emozione.
«Non si preoccupi. Io ucciderò qualcuno» sentenziò gelido.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. La trappola ***


Raccolse il giornale che il postino aveva lasciato sullo zerbino e lo usò per asciugare il sangue che aveva ripreso a colare a causa dello sbalzo di temperatura, dal caldo dell'appartamento del Boss al freddo gelido di New York. Il naso gli pulsava più di prima e il dolore si irradiava a tutta la testa.
Andò dritto in bagno – lì aveva visto delle medicine –, prese un antidolorifico e tornò in salotto.
C'era ancora uno dei panini che non aveva finito di mangiare, si lasciò cadere sul divano e lo agguantò, affamato come un leone nel deserto.

Aveva un sacco di informazioni da elaborare, gli serviva un po' di calma per riflettere sul da farsi, ma Malia spalancò la porta ed entrò nell'appartamento.
Indossava dei pantaloncini di jeans scuri, un maglione largo rosa antico, calze parigine nere e un paio di stivali sotto il ginocchio pieni di lacci e borchie. I capelli lunghi le incorniciavano il viso leggermente truccato. Restò ipnotizzato per qualche secondo dal luccicare del gloss sulle sue labbra.

Una persona normale non avrebbe notato così tanti dettagli in poco tempo, ma lui non era una persona normale.
«Nick non si è visto, eh?» gli chiese, aggrappata con entrambe le braccia agli stipiti della porta.
«No» tossì con la gola in fiamme.
Malia fece una faccia stupita e le braccia le ricaddero lungo i fianchi.
«Ancora con l'asciugamano? Vuoi aggiungere una polmonite alla lista dei tuoi problemi?»
«Ah, Malia, è una storia lunghissima» si passò una mano tra i capelli ribelli.
«Be' vestiti, me la racconti mentre andiamo».
Scosse la testa confuso. «Mentre andiamo? Dove andiamo?»
«Noi sappiamo solo che qualcuno ha chiamato Nick dall'hotel Cheval. Ho parlato con un'amica che ci lavora, dice che prendono nota di tutte le chiamate e che può accedere al computer e scoprire da quale camera è partita. Mi chiama da un momento all'altro» spiegò brevemente, ma l'attenzione di lui era stata catturata dall'articolo in prima pagina, appena sotto la macchia di sangue con cui aveva sporcato il giornale.
Questo particolare non sfuggì a Malia, che sgattaiolò sul divano al suo fianco.
«Che c'è?» gli chiese, piegando il collo per sbirciare l'articolo.
«Io questo lo conosco» indicò la foto in bianco e nero di Slim Hopkins.
«Conosci quell'uomo?!»

«Sì, l'ho incontrato, ma era morto» disse dandole il giornale.
Malia non sembrò impressionata da quell'affermazione.

«Hai incontrato un morto?»
«Sì, era in una cella frigorifera» disse e tornò al suo panino, facendone fuori metà con un morso.
Malia aprì il giornale e lesse ad alta voce.
«La moglie dell'allibratore Slim Hopkins ne ha denunciato la scomparsa, la polizia non ha indizi, bla bla bla... ah! Un portavoce ha commentato ufficiosamente:“È il colmo che Hopkins sia scomparso, visto che è sospettato di essere responsabile di alcune scomparse”».
Quando ebbe finito gli prese il panino dalle mani e lo costrinse a guardarla negli occhi.

«Senti, è ora che mi racconti perché indossi ancora quell'asciugamano».
«Posso almeno vestirmi?» le fece l'occhiolino.
Malia mise giù i resti del panino e si alzò in piedi.
«Va bene, te lo concedo».
«Grazie tante».
Prese un paio di pantaloni, una camicia e un gilet di lana con il collo a V dalla valigia, poi andò in camera da letto a vestirsi. La sentì canticchiare qualcosa, una canzone familiare ma di cui non riusciva a ricordare il titolo. Quando ebbe finito uscì in corridoio in cerca delle scarpe, Malia gli restituì l'occhiolino e stava per dire qualcosa, quando un telefono squillò in lontananza.
«Oh! Dev'essere la mia amica, torno subito!» disse scappando via.
Lui sospirò passandosi di nuovo una mano tra i capelli e vide con la coda dell'occhio la sua immagine riflessa nello specchio appeso all'entrata. Doveva fare qualcosa per quel naso, cominciava ad essere insofferente alla sensazione di chiusura, come se fosse raffreddato.
Si arrotolò le maniche fino ai gomiti, poi andò in cucina, mise del ghiaccio dentro un tovagliolo e lo appoggiò alla base del naso, infine raccolse tutte le sue energie e lo raddrizzò con le dita. Il dolore quasi lo fece svenire e dovette appoggiarsi alla parete di fronte per non cadere.
Si rimise in piedi ansante, giusto in tempo per sentire bussare alla porta.

«No Malia, secondo me non è una buona idea che continuiamo...» disse aprendola, ma per la seconda volta fu sorpreso di trovare qualcun altro sul pianerottolo.
Due ebrei ultra-ortodossi, per niente contenti di vederlo, lo guardarono dalla testa ai piedi senza muovere un muscolo. Uno dei due era senza capelli, portava la kippah e aveva un mezzo sorriso enigmatico, l'altro aveva i classici riccioli ai lati del viso, il cappello nero a tesa larga e gli occhi più grandi e sporgenti che avesse mai visto.

«Mettiti le scarpe, Shlomo vuole vederti» disse il primo con tono neutro.
«Mi dispiace, ma non conosco nessuno Shlomo».
«Ma c'è uno Shlomo che conosce te, non c'è altro da sapere. Andiamo».
«Come ho già detto non conos...» la frase fu interrotta a metà da un pugno dritto allo stomaco che gli mozzò il respiro. Era stato occhi-a-palla a sferrare quel destro micidiale.
Si appoggiò allo stipite, piegato in avanti in cerca d'aria.
«Io credo che sia meglio che lasci parlare me» proseguì il tizio pelato.

«Tu credi?» disse con un filo di voce.
Cinque minuti dopo era di nuovo su una macchina con degli sconosciuti, diretto chissà dove.
Occhi-a-palla guidava rigido come un pezzo di legno, senza staccargli gli occhi di dosso attraverso lo specchietto retrovisore. Che ne avesse due paia per guardare anche la strada?
Ad un certo punto fece un breve cenno della testa verso di lui.

«Cosa c'è?» gli chiese il pelato.
Lui non disse niente ma rifece lo stesso cenno, l'altro allora si voltò indietro.
«Gli dispiace averti picchiato» disse come se fosse una cosa normale.
«Parli sempre per lui?»
«Sì».
«Mmh, capisco. Allora è muto».
«Non proprio».
«E perché?»
«È personale, chiedi a lui».
«Ah sì, e come me lo dice?»
«Non lo dice».

Svoltarono a sinistra ed ecco spuntare i palazzi gemelli dove solo un'ora prima aveva incontrato il Boss.
«Ehi, andiamo da...?» cominciò a dire, ma il pelato interruppe la sua domanda sul nascere.
«No».
«Ma lui è lì».
«Questa è un'altra organizzazione» disse e indicò il palazzo gemello di fronte a quello del Boss.
«Cos..? Uno di fronte all'altro?!»

«Un tempo lavoravano insieme, poi hanno cercato di uccidersi. Ora nessuno dei due esce più, nessuno lascia la propria torre per paura di quello che l'altro può fare».
La hall del palazzo di Shlomo era molto più elegante e ricercata di quella del Boss, gli elementi predominanti erano il cristallo, il marmo e i colori nero, bianco e oro.
Slevin si sentiva un esperto in materia ormai, perciò si diresse tranquillo verso l'ascensore.
«Lasciami indovinare: ultimo piano?»
«Sì» disse lo scagnozzo pelato, prima di premere il pulsante che li avrebbe portati all'attico.
L'appartamento era grande come quello del Boss, ma si respirava un'aria completamente diversa, molto più solenne, come quella di un tempio. Stelle di David dorate decoravano ogni angolo, il marmo nero rivestiva il pavimento e le pareti erano abbellite da motivi geometrici sui toni del grigio e dell'oro. La musica delicata di un pianoforte suonava attraverso un vecchio grammofono.
In mezzo alla sala principale vi era un tavolo esagonale di cristallo e lì seduto c'era un uomo calvo, con un buffo pizzetto e un naso lungo, che prendeva il tè. Quando lo vide entrare prese il tovagliolo bianco che aveva sulle gambe e si pulì la bocca.

«Devi essere il signor Fisher» lo interpellò, mentre ripiegava con cura il tovagliolo.
«Devo proprio? Perché è un po' scomodo ultimamente» si strinse nelle spalle.
«Ho paura che tu debba proprio» rispose il boss con tono duro.
«Be', se devo proprio...»
«Sai perché sei stato portato qui?» gli domandò guardandolo dritto negli occhi.
«Ehm, perché sono sfortunato?» provò a sorridere.
«Gli sfortunati sono soltanto un metro per i fortunati» disse Shlomo, accompagnando ogni parola da un ritmico gesto della mano, quasi tenesse il tempo durante la lettura dei testi sacri.
«Tu sei sfortunato, così io so di non esserlo. Sfortunatamente i fortunati riconoscono la fortuna solo quando la perdono. Prendi te stesso per esempio: ieri stavi meglio di oggi eppure ti ci voleva oggi per capirlo, ma oggi è arrivato e ora è tardi, hai visto? Nessuno è mai contento di ciò che ha, vogliono tutti quello che avevano, quello che ha qualcun altro».
Slevin lo guardò interdetto, non riuscendo a capire dove volesse andare a parare.
«Un po' come un rabbino che vorrebbe essere un gangster e un gangster che vorrebbe essere un rabbino. Insomma, cos'è la solita storia che l'erba del vicino è sempre più verde? E lei come giustifica il fatto di essere un rabbino e un gangster?»
Una vena guizzò sulla tempia glabra del Rabbino.

«Non lo faccio. Sono un malvagio che non perde tempo a chiedersi come poteva essere, sono quello che poteva essere e quello che non poteva essere. Io vivo qui e dal vicino, la mia erba è sempre verde. Considera, signor Fisher, che qui ci sono due uomini davanti a te e di uno dovresti avere timore. Dove sono i miei soldi?»
«Me lo chiedete in molti, ma io sono so di cosa...»
«Mio padre me lo diceva sempre: la prima volta che ti chiamano asino gli dai un pugno sul naso, la seconda volta che ti chiamano asino gli dici stronzo, ma la terza volta che ti chiamano asino, be' forse è ora che ti vada a comprare una soma».
Non sapeva più come spiegare di non essere Nick, la situazione era paradossale e chiaramente nessuno gli avrebbe creduto, tanto valeva prenderla di petto...
«Io non ho i suoi soldi» ammise con candore.
«Non stiamo parlando di saltare un pagamento. Tu mi devi dei soldi, io li devo a qualcuno: tu devi loro dei soldi».
«Io non so neanche quanto le devo!»
«Trentatremila dollari».
«Ma io non sono Nick Fisher!» esclamò sull'orlo dell'esasperazione.
«E chi diavolo sei?»
«Uno nel posto sbagliato al momento sbagliatissimo».
Il Rabbino giocherellò per qualche secondo con la tazza vuota, poi sollevò lo sguardo su di lui.
«Hai 48 ore per portarmi i miei soldi. Saul ti terrà d'occhio nel frattempo, ora puoi andare».
Saul, il pelato che lo aveva accompagnato, lo prese sottobraccio per portarlo via, ma lui tornò indietro.

«Ah, un'ultima domanda! Perché non mi hanno perquisito?»
Il Rabbino spostò il costoso servizio da tè ed estrasse un fucile a canne mozze da sotto il tavolo, puntandoglielo dritto al petto senza scomporsi.

«Ho capito, quindi essere un rabbino, un uomo di fede è...»
«Ci sono tre cose che un ebreo non può fare per salvare una vita, compresa la propria: non può adorare gli idoli, non può commettere adulterio e compiere un omicidio premeditato. Perciò ucciderti prima che tu uccidi me sarebbe...»
«Kosher?»
«Direi accettabile».

Slevin lo salutò con un mezzo inchino e andò via scortato da Saul e da Occhi-a-palla.
Il Rabbino mise via il fucile e si pulì le mani col tovagliolo, mentre una figura in impermeabile usciva dall'ombra.
«Metà dei suoi soldi sono già sul suo conto alle Cayman, l'altra metà l'avrà quando il nostro amico sarà sotto terra. Quando pensa che potrà accadere?»
«Presto» fu la laconica risposta.
«Bene, allora mi dica cosa vuole da quel ragazzo?»
«Abbiamo un conto in sospeso» rispose e fece per andarsene.
«Sa, se c'è una cosa che capisco è quando qualcuno sta mentendo. Per un uomo nella mia posizione è essenziale riconoscere subito una bugia, potrebbe salvare una vita, la tua o quella di un altro. Detto questo, però, lui non mentiva: non è Nick Fisher».
Ci fu una lunga pausa.

«Lo so».


*


Tornò all'appartamento di Nick con un altro debito da saldare sulle spalle. Le luci erano tutte accese e qualcuno stava trafficando in cucina. Sperò si trattasse di Malia e, quando varcò la soglia, tirò un sospirò di sollievo vedendo i lunghi boccoli castani muoversi con leggerezza.

«Bentornato straniero. Credevo fossi finito nello stesso buco in cui è finito Nick» gli disse puntandogli contro un mestolo sporco.
«Magari...» sussurrò lui tra i denti.

«Ora mettiti a sedere, ho preparato della zuppa».
«Hai preparato o hai comprato della zuppa? L'odore è invitante» disse sedendosi al tavolo.
Malia lo guardò di traverso mentre le labbra si piegavano in un sorrisetto e l'imbarazzo le colorava le guance. Versò una generosa dose di zuppa in entrambi i piatti, poi mise in tavola un cestino di crostini, due cucchiai, due bicchieri e una brocca d'acqua.
«Be', diciamo che l'ho comprata e la stavo scaldando per entrambi, sperando che prima o poi tornassi, ad un certo punto. Oggi ho avuto molto da fare» confessò sedendosi anche lei.
«Del tipo? Che hai combinato?» disse, annegando tre crostini nel piatto.
«Sono tornata quasi subito, ma tu non c'eri più, così sono andata dalla mia amica senza di te. Dice che hanno chiamato Nick dalla stanza 1009, un uomo registrato con il cognome “Argent”, pensa un po' che roba. Salgo al decimo piano e, proprio mentre arrivo, si apre la porta della 1009 ed esce il nostro Argent in carne e ossa! Allora faccio finta di andare verso l'ascensore, invece che venire da lì, e scendiamo insieme. Lui mi sorride e io sorrido a lui, non so ancora chi sia, ma penso che forse tu lo sai, così fingo di fare una telefonata e gli faccio una foto col cellulare. L'ho sempre considerato uno spreco, perché con il mio modello preistorico le foto vengono uno schifo e non le faccio mai... insomma, adesso abbiamo un volto! E non si accorto di niente» tirò fuori il cellulare dalla borsa e gli mostrò la foto. «Ecco Argent, lo riconosci?»
Era così arguta e brillante, gli venne spontaneo sorridere alla vista di quella prova. Stavano davvero lavorando a un caso ora?
«No, mai visto» fu costretto ad ammettere.
«Lo immaginavo, ma valeva la pena tentare».
La delusione sgonfiò l'entusiasmo di Malia come un palloncino, così mise da parte il telefono e tornò a mangiare la zuppa con i crostini, guardandolo di sottecchi. Nonostante tutto la luce furbetta nei suoi occhi non si era ancora spenta.

«Che c'è? Perché mi guardi in quel modo?» le sorrise apertamente.
«Io e il signor Argent siamo scesi al piano terra insieme e lui è uscito al volo e si è infilato in un taxi... e così l'ho seguito. È entrato in un palazzo in centro e allora io l'ho aspettato e, dopo un'ora, proprio mentre sto per andarmene, chi esce da lì?»
«Argent?»
«Tu!» sollevò un sopracciglio e arricciò le labbra.
L'aveva raggirato e condotto in trappola, gli aveva chiesto di scoprire le carte nascondendo accuratamente le sue. Davvero brillante.

«Come io?»
«Tu, da quello stesso palazzo, con due ebrei ortodossi ai fianchi. Amici tuoi?» gli chiese stringendo le palpebre con fare indagatore.
«Non precisamente» sospirò sconfitto.
«Penso sia ora che mi racconti tutto» disse appoggiandosi allo schienale della sedia, con le braccia incrociate al petto.
Lui mise da parte la zuppa e si alzò in piedi per riordinare le idee, Malia lo seguì e si sedette sul ripiano della cucina come aveva fatto quella mattina.
«Dunque, c'è un uomo che chiamano il Boss e nel palazzo di fronte c'è un uomo che chiamano il Rabbino».
«Perché lo chiamano il Rabbino?»
«Perché è un rabbino».
«Mmh, banale».

«Comunque, stamattina sono venuti due scagnozzi del Boss e mi hanno portato via in asciugamano e pantofole. Ho incontrato il Boss e ho scoperto che Nick ha con lui un debito da 96.000 dollari. Ho provato a dirgli che non sono Nick, ma a lui non importa. Vuole i suoi soldi entro due giorni, oppure mi uccide. Suo figlio però è stato ucciso di recente, lui pensa sia stato il Rabbino e per vendetta vuole ripagarlo con la stessa moneta. Ecco perché mi ha offerto un patto: dato che non ho tutti quei soldi, salderò il debito uccidendo io stesso Ytzchok, il figlio del Rabbino, detto “la Fatina”».
«Aspetta, non dirmelo. Lo chiamano così perché è gay?»
«Già, proprio così».

«E i due ortodossi?»
«Oggi Nick ha fatto bingo. Dopo essere tornato a casa sono arrivati quei due a prelevarmi, di nuovo. Erano tirapiedi niente di meno che del Rabbino. Nick gli deve più di 30.000 dollari e lui li vuole entro due giorni, altrimenti...»
«Ti uccide» finì lei lapidaria.
«Esatto e quindi adesso, per usare il loro gergo, devo fare secco “la Fatina”, per poter azzerare un debito che non è neanche il mio e, come se non bastasse, devo mettere insieme 33.000 dollari. Io... io non so chi sia il signor Argent e il peggio è che non sono neanche Nick Fisher».
Si voltò a guardare Malia, che fissava il vuoto con sguardo assente, persa in chissà quale congettura.

«È assurdo, al limite del paradossale» disse dopo un po'.
«Lo so, io non gioco nemmeno».
«No, dico il figlio di un gangster che viene chiamato “la Fatina”, è assurdo. Per quanto riguarda te, siamo di fronte a un evidente caso di scambio d'identità. Queste cose non dovrebbero capitare veramente, è come l'amnesia... eppure tu sei qua e Nick non si sa che fine abbia fatto quindi direi che sei...»
«Fottuto».
«Già, lo sei. E non mi spiego una cosa» scese giù con un balzo e lo affiancò.
«Cosa?»
«Non dovresti essere più preoccupato? Sei troppo calmo, non è normale».
Slevin sollevò entrambe le sopracciglia, colto di sorpresa.
«Soffro di atarassia, è uno stato di totale mancanza di inquietudine, una forma di depreoccupazione».
«Ah, ne avevo sentito parlare, ma non credevo di poter conoscere qualcuno come te un giorno».
Lui sorrise con una punta di amarezza.

«Nemmeno io credevo di poter conoscere qualcuno come te, ma eccoci qui».
Malia si morse le labbra, all'improvviso senza parole, e si strinse nel maglione informe.

«E ora cosa farai?»
«Be', devo dare una risposta al Boss domani mattina».
«Cosa gli dirai?»
«Quello che qualsiasi uomo con due piselli direbbe a un sarto che gli chiede se lo porta sia a destra che a sinistra».
«E sarebbe?»


«Sì!» disse convinto e affondò le mani nelle tasche della giacca.
«Ah, sapevo che avevi buonsenso» disse il Boss, muovendo un pedone sulla scacchiera di cristallo.
Stava giocando con Elvis, uno degli scagnozzi che l'avevano praticamente rapito il giorno prima.
«Il buonsenso ce l'hai quando hai scelta» puntualizzò.
«Sì, il più delle volte. A volte ce l'hai quando sai di non averla» rispose e prese in mano un alfiere.
«No, non muova quell'alfiere!» disse di getto. «È una mossa troppo stupida, se non lo sposta lei vince in quattro mosse, se lo fa adesso lui le darà matto in una».
Il Boss lo guardò meravigliato.

«Lui non se ne accorgerebbe e comunque fa lo stesso: Elvis mi lascia vincere. Tutti mi lasciano vincere... ehi, un momento! Tu sai giocare bene».
Cinque minuti dopo erano davanti alla scacchiera, uno di fronte all'altro.

«Hai tre giorni» disse il Boss.
«Io pensavo più a una settimana».

«Ah! Tu hai pensato a questo? Dall'alto della tua esperienza di killer consumato».
Prese fiato per ribattere ma il Boss ebbe un'altra idea.

«Facciamo così: se vinci questa partita hai una settimana».
Accettò la sfida, non poteva far altro, anche se era in netto svantaggio e aveva poche mosse dalla sua. Elvis, Lento e gli altri bodyguard si avvicinarono per assistere alla sua sconfitta.
«Qual è il tuo piano con Yitzchok?» chiese a un certo punto il Boss.
Slevin fece una mossa pericolosa, guadagnandosi un sommesso sghignazzare da parte di Elvis.
«Be', diciamo che andrò a occhio» disse, provando a non lasciarsi distrarre.

«Meglio usare una cartina, è una strada complicata. E a proposito, ha delle ombre».
«Ombre
«Guardie del corpo che non lo lasciano mai. Militari, ex Mossad israeliano. Dove va lui vanno loro, a qualsiasi ora».
«Ex Mossad? Non la vedo tanto bene».

«Vivono nell'appartamento accanto. Lui ha una catenina con un pulsante nel ciondolo, sembra una normale stella di David, ma se lui spinge quel pulsante sappiamo come va a finire. Il tempo di reazione è dai tre ai cinque secondi, quindi dovrai colpirlo quando meno se lo aspetta».
«Dove?»
«Nel suo appartamento».
«E come entro? Non posso mica bussare ed entrare dalla porta principale».
Il volto del Boss si deformò in un ghigno sardonico.
«No, pensavo che entrassi dalla porta di servizio. Non sarà difficile ucciderlo e sgattaiolare via».

«Bel piano Goodkat, non c'è che dire. E poi che succede?»

«Lui si fa il ragazzo e io mi faccio lui. Metto la mia pistola pulita e senza precedenti in mano a Yitzchok, lo faccio sparare, così gli restano i segni sulle mani. Li spoglio tutti e due e lo faccio sembrare un doppio suicidio, del tipo “tu uccidi me, io uccido te, siamo due gay, il mondo non ci capisce”. Un lavoretto pulito come vuole lei».

«E questo è quanto?» chiese Slevin.
«Già. Oh andiamo, non guardarmi con quella faccia da cane bastonato, io non sono così cattivo in fondo. C'è chi si è fatto una fortuna con me».
«Sì, ma c'è anche chi si è fatto morto» disse senza abbassare lo sguardo.

Il Boss si piegò leggermente sul tavolo da gioco.
«Tu sei un bell'enigma. Arrivi qui e spari stronzate a raffica come se non te ne fregasse un cazzo di venire ammazzato».
Quell'affermazione aveva l'eco di una domanda.

«Può uccidermi una volta sola».
Il Boss mosse la sua regina contro il re di Slevin.

«Scacco matto! Come vedi è vero che posso ucciderti una volta sola, ma non è detto che debba farlo rapidamente. Io sono il gatto e tu sei il topo. Hai tre giorni».
In quel momento un uomo in tenuta elegante fece il suo ingresso nella sala, gli occhi azzurro cielo si fissarono su Slevin, quasi volessero trapassarlo da parte a parte. Lo riconobbe, era Argent.
«Ora puoi andare» disse il Boss alzandosi in piedi per andare incontro al nuovo arrivato.
Slevin fu condotto fuori dai suoi scagnozzi preferiti, mentre due persone su un vecchio camioncino di una ditta di riparazioni lo osservava con binocoli di precisione.
«Chi cazzo è questo adesso?» disse ad alta voce il detective Peter Hale.
L'interno di quel camion puzzava ancora di ferro e olio di motore, nonostante si fossero impegnati a ripulirlo e arredarlo come se fosse un piccolo ufficio. Il suo collega, il detective Parrish, sfogliò la sua rivista per niente toccato dalla vicenda. Era giovane, non aveva molti anni di servizio alle spalle, ma la ferita alla gamba – che lo aveva quasi azzoppato –, gli ricordava costantemente che impegnarsi era inutile in quella città, lui contava meno di zero e non poteva fare la differenza.
«Non lo so, ma chiunque sia è nella merda fino al collo, perché gioca sia coi circoncisi che con gli abbronzati e chissà con chi altri» rispose annoiato.
«Metti via quel coso e chiama Murphy, chiedigli se il ragazzo è lo stesso di quelle foto che ha scattato ieri Marty».

«Sì capo» l'altro sospirò senza entusiasmo.
Peter abbassò il binocolo e gli rivolse un'occhiataccia.
«Voglio un rapporto completo su questo stronzo, tutto dalla A alla Z. Voglio sapere chi è e chi conosce e quelli che conosce chi conoscono, voglio sapere che cazzo ci fa nella mia città!»
«Va bene, ma non capisco perché ti scaldi tanto».
«Ah, non lo capisci?»
«No, non lo capisco!» lo sfidò con lo sguardo.
«Te lo spiego subito, brutta merdina. Quei due boss non si parlano da anni, non hanno alcun tipo di contatto. E ora uno stronzo qualunque, mai visto prima, si fa i giretti da un palazzo all'altro scortato prima dai neri e poi dagli ebrei, il tutto dopo che il figlio del Boss è stato fatto secco sulla porta di casa. Sai cosa significa questo?»

«No, che significa?»
«Che qualcuno è davvero nella merda fino al collo e quel qualcuno potremmo essere noi. Mettiamo caso che quello sia un corriere o una sorta di messaggero, significherebbe che le due più grandi organizzazioni criminali della città stanno tramando qualcosa, magari di riunirsi sotto un unico gigantesco impero della criminalità contro una nuova banda. E se invece quel ragazzo è solo un povero stronzo nei guai, puoi scommettere il culo che non sarà l'unico ad affondare, ma trascinerà un sacco di gente con sé».
«Come fai ad esserne così sicuro?»

«Tu non c'eri vent'anni fa, quando il Boss e il Rabbino lavoravano insieme, né quando si divisero dando inizio a una guerra aperta per le strade. Era come stare su un campo di battaglia, la guerra in Vietnam dei poliziotti di New York. Almeno di quelli onesti, gli altri ne hanno approfittato per arricchirsi. Se il ragazzo non è ancora morto e non è un corriere, allora di sicuro è una pedina di un piano più grande ed elaborato e sta a noi scoprire di che si tratta».
Parrish sospirò stropicciandosi la faccia e poi si massaggiò il polpaccio con una smorfia.
«Non so chi ti dà tutta questa energia, ma comunque non smettere. A volte quasi mi fai ricordare il motivo per cui ho deciso di entrare in polizia».
Peter fece un mezzo sorriso, appoggiandosi a uno degli scaffali dove tenevano le apparecchiature.
«Ecco, vedi di ricordartelo e di scrollarti di dosso la depressione post-sparatoria».
«Non... non è una depressione post-sparatoria! Io mi fidavo del mio partner e lui mi ha venduto al miglior offerente per un mucchio di soldi sporchi. Sarei potuto morire!»
Due colpi al portello posteriore ed entrò un ometto basso e tarchiato, con in testa un elmetto giallo da cantiere.
«Dovreste smetterla di urlare, vi si sente da fuori!»

«Oh, Marty! Risparmiami la predica e dimmi che hai trovato» lo rimbrottò Peter.
Marty si tolse l'elmetto e gli passò il caffè annacquato del bar all'angolo.

«Indovina un po'? Kat è tornato».
«Goodkat?»
«Già, è quello che cinguettano i tossici».
«E chi l'ha chiamato?»
Un brivido freddo corse lungo la schiena del detective Hale, ma aprì la bustina di zucchero e lo gettò nel caffè come se quella notizia non l'avesse minimamente toccato.

«Non lo sapevano, hanno solo detto che gira voce che Kat è tornato».
Parrish li guardò confuso. «Ehm, chi è Goodkat?»

«Il killer dei più tosti» disse Marty.
«Il più tosto» rincarò la dose Peter.
«Arriva lui, muore qualcuno e poi sparisce. Nessuno sa chi sia né che faccia abbia e non lavora a New York, da quanto? Due decenni?»
«Pff, giusto quello che ci voleva» disse Parrish, passandosi una mano sugli occhi stanchi.

«D'accordo, questa situazione di merda si sta complicando sempre di più. Tenete gli occhi aperti e, Marty, la prossima volta trova un caffè decente, cazzo. Devo andare all'obitorio, chiamatemi se ci sono novità» disse Peter e poi scese dal camioncino.
Nella sua carriera aveva visto così tanta gente morta ammazzata che aveva perso il conto dei cadaveri e dei casi di omicidio di cui si era occupato, perciò entrò all'obitorio con la disinvoltura data dall'abitudine.
«Buongiorno, dottoressa Tate».
La ragazza con il camice bianco si abbassò la mascherina e gli sorrise. Malia Elizabeth Tate, così giovane e dall'aspetto delicato, eppure in grado di segare un cranio a metà senza battere ciglio.

«Buongiorno a lei, detective».
Il corpo di un uomo di mezza età con la fronte sfondata e la bocca aperta lo accolse.
«Benny Begin, eh? Ucciso da una palla da baseball» disse con un mezzo sorriso.

«Lanciata da Joe di Maggio!»
«In ogni caso il buon Dio ha il senso dell'umorismo» disse accostandosi al cadavere.
«Lo conosceva?»
«Allibratore famoso, lavorava per il Rabbino. Detto tra noi, vent'anni fa era anche il mio allibratore, gli giravo gli assegni dello stipendio... ma ora è acqua passata. E sugli altri due, scoperto niente?» indicò i corpi sui tavoli accanto a quello di Benny.
Malia rimise la mascherina sul viso e sollevò uno dei lenzuoli, per mettere in mostra i segni violacei sul collo di uno dei due.
«Sono stati avvelenati con qualche veleno esotico, roba da tribù dell'Amazzonia, per intenderci. Ci sto lavorando».
«Perfetto, mi faccia sapere. Buona giornata» le diede una pacca sulla spalla e andò via.


Malia guardò l'orologio, era quasi mezzogiorno e se aveva fatto bene i calcoli Slevin doveva già essere rientrato a casa. Coprì i cadaveri con i lenzuoli bianchi e li rimise nelle celle, tolse i guanti e lavò le mani, poi entrò nella saletta delle analisi.
«Jimmy, io sono in pausa pranzo!» gridò al collega che stava analizzando dei campioni di DNA.
Non aspettò una risposta, aveva poco tempo, perciò prese cappotto, borsa e sciarpa e corse via.
Prese un taxi al volo e in men che non si dica era tornata a casa. Fece le scale a due a due e quasi sfondò la porta dell'appartamento di Nick.
Trovò Slevin in piedi con la giacca in mano, aveva i capelli scuri più arruffati del solito e la salutò con un sorriso sincero, di quelli che arrivano fino agli occhi. In un altro momento glielo avrebbe fatto notare, ma non c'era tempo!
«Ho capito tutto!» esclamò a corto di fiato.
«Ciao anche a te. Cosa hai capito?» le chiese con la solita strafottente leggerezza.

«Hopkins lavorava per il Boss, giusto?»
«Sì, esatto».
Era stanca, doveva sedersi, così lo afferrò per un braccio e lo costrinse a fare altrettanto.
«Ascolta, anche il Rabbino aveva un allibratore, Benny Begin, che ora è all'obitorio. Qualcuno ha ucciso lui e i suoi scagnozzi!»
«Cosa? Ti sei introdotta nell'obitorio?!» saltò su, ma lei lo fece rimettere a sedere.
«No, no! Lavoro lì, non te l'ho detto?»
Il sorriso di Slevin si allargò fino a mostrare i denti bianchi: quell'espressione gli donava.

«No, non mi hai detto che sei medico legale e di sicuro io non l'avrei mai detto, perché sai...»
«Oh cielo! Ma non capisci? Nick non è scomparso, si è nascosto e ti ha incastrato!» lo interruppe.
Lui parve cadere dalle nuvole e aggrottò le sopracciglia.
«C-cosa? Nick ha incastrato me?»
«Come una palla in un flipper. Si è trovato nei guai e ti ha fatto prendere il suo posto. Ha pagato un delinquente per rapinarti, ma voleva solo il portafogli e la patente, ecco perché ha ignorato l'orologio e la valigia; poi ha ucciso Hopkins e Begin, gli unici che sapevano che faccia ha e ora ha lasciato te con il culo per terra!»
«Ma l'ho chiamato io Nick, ho stabilito io il contatto».

«Forse ti sembra che sia così o forse sei solo capitato al momento giusto».
«E Argent invece?»
«Lui non capisco che cosa c'entri» sospirò.
Slevin portò le mani alla bocca e si grattò la guancia con fare pensieroso. Era in pericolo e se Malia si concentrava poteva vedere la falce della Morte pendere minacciosa sulla sua testa. Al pensiero di ritrovarselo tra i cadaveri in obitorio il cuore le arrivò in gola.
«Devi scappare» disse stringendogli una mano.
Slevin spalancò gli occhi, colto alla sprovvista.
«No, non posso».
«Ma ti ammazzano se rimani!»

«Mi ammazzano se me ne vado».
«E allora vai alla polizia!»
«Quelli comprano poliziotti come ciambelle... cazzo, non è la prima volta che succede, ora che ci penso» fece una smorfia infastidita.
«Non è la prima volta che un boss ti chiede di uccidere il figlio gay di un rivale per pagare un debito di un amico dal quale abiti perché hai perso il lavoro, la casa e hai trovato la tua donna a letto con un altro?!» disse tutto d'un fiato. L'atarassia lo rendeva affascinante ma anche molto irritante.
«No, in effetti è la prima volta che mi succede, ma non è la prima volta che Nick mi mette all'angolo. Da bambini ero più io amico suo che lui amico mio...»
«Ehm, sì mi piacerebbe stare a sentire la fine, ma purtroppo devo tornare a lavoro!» corse svelta verso la porta, ma non riusciva proprio a scollarsi di dosso l'immagine di Slevin che le sorrideva con dolcezza. Era entrato nella sua vita come un fulmine a ciel sereno e aveva sentito scattare un click da qualche parte all'altezza del cuore. Pensava a lui in ogni momento e si sentiva come una sciocca ragazzina alla prima cotta, ma cosa poteva farci? Lui sorrideva e lei si scioglieva.
Tornò sui suoi passi, meno sicura e spavalda del solito, per via della proposta che stava per fargli.
«Ehi, stavo pensando che se quando torno sei ancora vivo, potremmo... ehm, non lo so... potremmo cenare fuori insieme?» voleva essere un'affermazione ma suonò più come una domanda e si maledisse mentalmente senza smettere di torturare le frange della sciarpa.
Lo guardò di sottecchi solo per rendersi conto che lui era più in imbarazzo di lei: aprì e chiuse la bocca, sorrise, tossicchiò e si grattò il mento, il tutto con un sorriso ebete stampato in faccia.
«S-sì, vo... volentieri, certo» annuì.
«Davvero?» domandò incredula.
«Sì, perché no?»
L'istinto di baciarlo prevalse per un momento sulla ragione, ma riuscì a tornare in sé a pochi centimetri dalla meta.
«No, no» disse più a se stessa che a lui, allontanandosi da quelle labbra tentatrici.
«Ci vediamo dopo, ciao» lo salutò e si fiondò giù per le scale.


*


Che fosse bella non era di certo un mistero, ma vederla con i capelli sciolti, truccata e con quel vestito corto e aderente gli mandò il sangue alla testa. La parte migliore? Non era consapevole dell'effetto che gli faceva, anzi si guardava intorno a disagio mentre aspettavano che un cameriere li accompagnasse al tavolo.
«Stai benissimo» le sussurrò tra i capelli, sfiorandole appena i fianchi.
Malia arrossì e abbassò lo sguardo, stranamente senza parole.
Un'altra ragazza avrebbe piluccato un'insalata, sorseggiando vino rosè e mantenendo una posa ammiccante da rivista di moda, lei invece ordinò un risotto ai funghi e bevve un intero bicchiere di vino rosso in pochi secondi.
«Posso assaggiare un po' dei tuoi spaghetti?» gli chiese quando arrivarono i piatti fumanti.
«Fai pure».
Appoggiò il mento sulle mani intrecciate per gustarsi la scena, mentre lei addentava una quantità troppo generosa di spaghetti. Riusciva a mantenere una certa eleganza, nonostante tutto.
«Che c'è?» scoppiò a ridere quando si accorse che la stava osservando.
«Niente, pensavo a come sarebbe stato se ci fossimo incontrati in un'altra situazione».
Malia si pulì con il tovagliolo e bevve un altro sorso di vino.
«Ci si dovrebbe innamorare solo se c'è una grande storia dietro il primo incontro. Insomma, visto che lo devi raccontare un mucchio di volte... se noi due ci innamorassimo avremmo una storia pazzesca da raccontare» gli fece l'occhiolino.
Fu il suo turno di sorridere e restare senza parole.
«Magari siamo a cena e qualcuno ci chiede “come vi siete conosciuti?”» continuò lei imperterrita «e io ti direi “raccontalo tu, tesoro” e tu mi risponderesti “no, tu lo racconti meglio”».
I loro sguardi s'incrociarono e fu come guardarsi per la prima volta. Si sarebbe perso volentieri in quegli occhi color cioccolato e non avrebbe voluto sentire altro sapore all'infuori delle sue labbra.
Fu Malia a rompere l'incantesimo.
«Come... come mai hai scelto questo posto? Sei stato piuttosto deciso a riguardo» domandò.
Lui si schiarì la voce, perché temeva che il suo tono tradisse il desiderio represso di averla.
«Per via delle buone recensioni e perché è il locale preferito di una certa persona» ammiccò alla sua destra.
Malia lasciò vagare lo sguardo sulla sala con finta noncuranza, finché non lo individuò: era piuttosto bruttino, ma due bei ragazzi accanto a lui era in adorazione. Cosa non potevano comprare i soldi?
«Ah, la Fatina!» esclamò sottovoce.

«Esatto».
«Dai è assurdo, che vuoi fare?»
«Provare un nuovo piano».
«E qual è?» si sporse in avanti incuriosita.

«Parlarci» fece spallucce.
«Sì? E cosa vuoi fare, avvicinarti e dirgli “Ciao, mi chiamo Slevin, c'è un brutto cattivo che mi ha preso per un altro e ora devo farti fuori sennò fanno fuori me e volevo sapere se ti andava di parlarne”?!» sussurrò sull'orlo di una crisi isterica.

«Non posso farlo».
«Be', direi!»
«Dai, non posso avvicinarmi a lui, ha le guardie del corpo. A parte questo, è proprio quello che ho intenzione di fare».
«G-guardie del corpo? Dove?» quasi si strozzò con il vino.
«Sono due, dietro di lui. Israeliani, hanno la barba. Li vedi?».
«Wow, stai diventando bravo» disse lei meravigliata.
«Grazie» ghignò divertito.
«E allora come ci parli? Spiegami».

«Aspetto che vada in bagno, poi mi alzo e lo seguo. Che ne pensi?»
«Penso che se ti fai ammazzare, ti uccido».


«Ehi, ma perché io devo restare sul pulmino?» gli chiese Marty alla cuffia.
Peter la sistemò meglio per non farla vedere, fingendo di grattarsi l'orecchio, poi si voltò verso Parrish per rispondere.
«Perché quando ho prenotato ho trovato solo due posti liberi, niente di personale. Com'è la situazione lì fuori, c'è movimento?»
«No, tutto regolare. E dentro invece?»

«Allora, la Fatina è in un tavolo al centro della sala e le guardie del corpo sono vicine. Il nostro ragazzo non è lontano, ma non riesco a vedere chi c'è con lui. Hai avuto sue notizie?»
«Murphy dice che chiunque sia è un fantasma. Nessuno l'ha mai incrociato e lui non ha mai pestato i piedi a nessuno».
Peter e Parrish si scambiarono un'occhiata nervosa.
«La Fatina va in bagno... e il nostro ragazzo è partito, cazzo!» per poco Peter non urlò.
Si alzò dal proprio posto con tutta la calma che riuscì a mantenere e li seguì in bagno, ma la porta era già chiusa a chiave.
«Marty, la porta è chiusa».

«Sta' calmo, non succederà nel bagno degli uomini».
Imprecò sotto voce e dopo pochi attimi si ritrovò dietro due energumeni con la barba, le guardie del corpo di Yitzchok. Mostrò loro il distintivo.

«Dopo ci sono io, poche storie ragazzi».
Il figlio del Rabbino fu il primo a uscire e Peter entrò nel bagno prima che il ragazzo potesse fare altrettanto. Era alto e magro, aveva i capelli lunghi e un po' spettinati e l'atteggiamento imperturbabile di chi sa esattamente cosa sta facendo. Fece per andarsene ma Peter gli sbarrò la strada.
«Scusa, senza offesa, ma non sono gay» disse l'altro sorridendo.

«Fai meno lo spiritoso, io sono un poliziotto».
«Be', io non sono un ladro, non so se rendo l'idea».
«Ti ho tenuto d'occhio, so tutte le tue mosse. Chi sei? Perché io so chi non sei. Non sei Nick Fisher, il padrone della casa in cui stai, lo so perché Fisher si è fatto otto anni in riformatorio per aver violentato una cheerleader di 14 anni. Il riformatorio mi ha mandato la sua foto e non sei lui, quindi chi cazzo sei tu
«Solo uno a cui si sta freddando la cena e lei non può trattenermi qui senza un mandato, sarebbe abuso di potere. Posso andare adesso?» rispose sicuro di sé.
A malincuore, Peter si fece da parte.
«Sappi che non finisce qui» lo minacciò.

«Ci conto» rispose il ragazzo uscendo dal bagno.
Rimasto solo, il detective Hale si guardò allo specchio, deluso da se stesso per essersi lasciato infinocchiare da un pivellino qualunque. Tirò un pugno sulle mattonelle della parete, sentendo le ossa della mano incrinarsi.
«Dannato figlio di puttana!»

***

Grazie per essere arrivati fino a qui! Se il capitolo vi è piaciuto o se qualcosa vi è poco chiara non esitate a chiedere lasciando una recensione.
Vi anticipo che il prossimo sarà l'ultimo capitolo, seguito poi da un breve epilogo.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. James Bond ***


Camminavano fianco a fianco per le vie della città. Le luci colorate delle vetrine si riflettevano sul marciapiedi umido, l'aria puzzava di hot dog bruciati e gas di scarico e faceva così freddo che ogni loro respiro si trasformava in una nuvoletta bianca.
Lui era abituato a quelle temperature, aveva vissuto all'estero per parecchi anni prima di tornare in America, stabilendosi anche in luoghi inospitali per la maggior parte della gente comune.
Lei invece aveva indossato i guanti, la sciarpa e un cappotto pesante, ma sembrava comunque in procinto di congelare. Le mise un braccio attorno alle spalle senza nemmeno pensarci e quando se ne rese conto fece per sollevarlo, ma lei gli artigliò la mano e si strinse ancora di più al suo fianco.
Non gli era mai successo di camminare abbracciato a qualcuno, era come avere un corpo e quattro gambe. Era scomodo, ma i capelli di Malia profumavano di lavanda.
«Perché sorridi?» gli domandò.
Il trucco le si era un po' sbavato, ma le labbra luccicavano rosse come ciliegie anche senza rossetto. D'istinto lui morse le proprie e deglutì pesantemente.
«Be', perché puzzi di vino rosso» rispose, evitando il suo sguardo indagatore.
Malia si finse oltraggiata e lo spinse via con un sorriso.
«Sei davvero crudele!»
«Ah, sarei io il cattivo?» ricambiò il sorriso sbarrandole la strada.
Si guardarono negli occhi, finché entrambi non tornarono seri.
«Cos'è successo nel bagno degli uomini?» gli chiese lei a bruciapelo.
«Abbiamo parlato e gli ho detto che dobbiamo vederci» disse e riprese a camminare svelto. Malia quasi lo inseguì per tenere il passo.
«Non ci credo!»
«Credici, mi ha dato un appuntamento».
«Cosa? E pensi che sia prudente?!»
Slevin si guardò alle spalle, in mezzo ai taxi gialli spiccava un'auto con i vetri oscurati.
«Non può essere peggio di quello che mi aspetta nella busta numero 2, ma sarà dura. Devo aver beccato una coda di porco».
La macchina era sempre più vicina, così prese Malia per mano e la spinse nella rientranza della vetrina di un negozio di abbigliamento.
«Una che?»
«La polizia».
«Che?! Dove, nel bagno?»
«Già, c'era uno sbirro ficcanaso. A quanto pare mi sta tenendo d'occhio» si sporse fuori giusto in tempo per vedere l'auto scura passare oltre.
«Per questo ci nascondiamo qui?»
«Vieni!» la prese di nuovo per mano e la trascinò via.
Malia lo seguì per alcuni metri, poi gli passò davanti facendo una piccola piroetta, costringendolo a fermarsi. Poggiò le mani coperte dai guanti sul suo petto e Slevin le passò le braccia attorno ai fianchi.
«Cadaveri nei frigoriferi, poliziotti nel bagno degli uomini... mi fai venire in mente James Bond».
Lui spalancò gli occhi meravigliato e sorrise apertamente, stringendola un po' di più.
«Lo sai che è la cosa più bella che mi abbiano mai detto?»
Malia ridacchiò in imbarazzo e sciolse l'abbraccio riprendendo a camminare, come se nulla fosse accaduto, come se pochi sguardi non avessero già detto tutto quello che loro due continuavano a nascondere.
«Il Boss potrebbe essere Kananga» disse con il solito tono sbarazzino, strappandogli un sospiro.
«Kananga? No, il Boss non è Kananga».
«E allora chi è?»
«Mmh... direi Ernst Stavro Blofeld».
«E quale? Donald Pleasence? Telly Savalas? Max von Sydow?» chiese lei entusiasta.
«Sei una fan di Bond, eh? Purtroppo pensavo a Anthony Dawson, era Blofeld in “Dalla Russia con amore”».
«Aaah, ma non gli si vede mai il viso in quel film!»
«Ed è così che il cattivo funziona meglio: quando non sai che faccia ha» le fece l'occhiolino. 

Giunsero davanti alle porte ai loro appartamenti in meno tempo del previsto, nonostante avessero deciso di proseguire a piedi, ignorando la fila di taxi che scorreva regolare in strada.
Malia prese le chiavi dalla borsa, ma si appoggiò allo stipite rigirandosele tra le dita.
«Allora... ehm, ci vediamo» disse lui, dandole le spalle per aprire la porta.
La sentì fare altrettanto, mentre si dava mentalmente dell'imbecille per non averla invitata a entrare.
Fece un passo dentro casa di Nick, ma quando si voltò per un'ultima occhiata vide che quella di Malia era aperta.
Nel salotto dalle pareti rosse la luce era soffusa e la pericolosa ragazza della porta accanto si stava liberando da tutti i pesanti vestiti, con un sorriso languido che si allargò quando lui se ne accorse.
Prima i guanti, poi la sciarpa, il cappotto rosso e infine abbassò una spallina del vestito nero, fino a mostrare il pizzo del reggiseno.
Con il cuore in gola Slevin richiuse in fretta e furia la porta del suo appartamento e si fiondò in quello di Malia, sbattendo così forte anche la sua porta da farla tremare sui cardini.
La baciò con urgenza, mordendole le labbra e rubandole ogni respiro, mentre lei gli strappava via i bottoni della camicia, ricambiandolo con la stessa foga.
Non aveva mai sentito una connessione così profonda con nessuna delle poche ragazze conosciute nella sua solitaria esistenza. Lei era unica, era speciale, era la compagna che non si sarebbe mai aspettato di desiderare. Abbassò la cerniera del vestito e la liberò – con qualche difficoltà – dal grazioso corsetto di pizzo nero. Malia smise di baciarlo e fece un passo indietro, coprendosi il petto con le mani, ma senza smettere di guardarlo con bramosia.
Lui strinse i denti per imporsi contegno, incapace di nascondere il desiderio crescente che lo animava. Quel gesto, il rispetto dimostrato, bastò a Malia per tornare sui suoi passi.
Tolse le scarpe col tacco e lo raggiunse in punta di piedi, poi in silenzio gli accarezzò il viso e Slevin si lasciò cullare dal suo tocco leggero a occhi chiusi. L'altra mano nel frattempo scese sul petto e finì il suo percorso sulla cerniera semi-aperta dei pantaloni. Emise un gemito più forte degli altri quando lei lo aiutò ad abbassarli e se ne liberò scalciandoli via assieme ai calzini.
Erano entrambi coperti solo dagli slip, a lui serviva solo l'ultimo cenno di assenso. Lei lo capì, perché lo prese per mano e lo condusse in camera da letto e con delicatezza lo fece sedere sul materasso, mettendosi a cavalcioni sopra di lui.
Le lasciò prendere il controllo, consapevole che sarebbe stata lei la prima a cedere a quella dolce tortura a cui stava sottoponendo entrambi. Erano andati di fretta fin da subito e sembrava che Malia volesse recuperare settimane di conoscenza prolungando all'infinito il preludio all'atto principale.
Slevin accolse uno dei seni sul palmo della mano, mentre con la bocca scese a baciare l'altro; Malia gettò la testa indietro, tirandogli i capelli all'altezza della nuca.
I loro corpi si incontravano al ritmo della danza di Malia, finché Slevin non decise di averne abbastanza e, con una mossa rapida, la fece stendere sotto di lui.
Ansimante e poco lucido, si prese comunque del tempo per ammirare il volto arrossato, incorniciato dai capelli arruffati, e gli occhi che gli restituirono uno sguardo infuocato.
Scese a baciarle le labbra gonfie e fece scivolare una mano tra le sue gambe, che si schiusero per lui. Malia emise un urletto strozzato, inarcando la schiena per approfondire quel contatto e allora Slevin la liberò dall'ultimo ostacolo. Lei fece altrettanto, aiutandolo a togliere i boxer.
Erano entrambi al limite della sopportazione, Malia però accennò un sorriso e lo accarezzò fino a strappargli un vero gemito di piacere, fu solo allora che allungò una mano verso il comodino e prese un condom. Slevin si morse l'interno della bocca e strinse i pugni contro il materasso, mentre lei lo posizionava con studiata calma. Era pronto ad afferrarle le mani per bloccargliele sopra la testa, ma a sorpresa Malia lo guidò, indicandogli la via.
Si rese conto di aver trattenuto il respiro solo quando lei lo accolse dentro di sé e poi l'aria divenne sempre più rarefatta e lui si sentì ubriaco e con la testa leggera. Aveva voglia di ridere e di urlare, di dimenticare chi era, cosa aveva fatto e cosa sarebbe stato costretto a fare, aveva voglia di lasciarsi andare, inebriarsi di lei fino a fondersi con il suo battito cardiaco. Nelle orecchie aveva solo la sinfonia dei loro respiri, il ritmico scontrarsi dei loro bacini e l'imbarazzante cigolio del materasso.
Malia si aggrappò alle sue spalle e un gemito di dolore si unì a quelli di piacere quando sentì le sue unghie graffiargli la pelle.
Guidato dall'istinto più che dalla ragione, le fece sollevare le gambe facendo pressione sotto le ginocchia e aumentò il ritmo, mentre goccioline di sudore gli imperlavano la fronte.
«Oh, Slevin!» urlò lei in preda all'estasi più profonda.
Il piacere li travolse infine come un'esplosione di fuochi d'artificio e lui cadde esausto sopra di lei, la guancia poggiata sul cuore da colibrì.

Rimasero in quella posizione per un tempo indefinito, Malia gli carezzava i capelli umidi e lui si lasciava coccolare come mai prima di allora. Era una bella sensazione, come stare dentro una soffice nuvola di zucchero filato in un posto sperduto, dove nessuno avrebbe potuto trovarli.
«Sai, stavo pensando che noi due abbiamo appena fatto l'amore» disse, posandole un bacio sul collo.
Malia ridacchiò.
«E te ne accorgi solo adesso?»
Rotolò di lato e si stese al suo fianco per poterla guardare negli occhi. Malia tirò su il lenzuolo per coprirsi e poggiò la testa sulla sua spalla.
«No, è che ancora non so a chi ti riferivi quando hai detto che ti ricordavo James Bond. È la cosa più bella che mi abbiano mai detto, ma ho dato per scontato naturalmente che...»
«Hai dato per scontato di sapere a chi mi riferissi» disse, disegnando con le dita dei ghirigori sul suo petto.
«Se non stavi parlando di chi io penso che tu stessi parlando, allora mi devi aver scambiato per qualcun altro, perché per me esiste un solo James Bond».
«Ah, su questo siamo d'accordo».
«Ok, allora diciamo insieme al mio tre. Uno... due... tre. Roger Moore!»
«George Lazenby!»
«Cosa? Roger Moore? Io stavo scherzando!»
«E tu con Lazenby? Stavo scherzando anch'io. L'unico vero James Bond è... Timothy Dalton».
«Pierce Brosnan!»
Entrambi scoppiarono a ridere e poi Malia gli sussurrò all'orecchio: «Scozia forever».
«Wow, mi sento molto meglio, davvero» rispose, passandole un braccio attorno alla vita.
Nessuno poteva competere con la classe scozzese di Sean Connery, nemmeno quel palestrato di Daniel Craig.

Dormirono abbracciati  finché la luce azzurrina del mattino non inondò la stanza.
Avrebbe preferito guardarla dormire, ma anche lei doveva essere un tipo mattiniero perché aprì gli occhi proprio mentre lui si stava rimettendo i pantaloni.
«Buongiorno, piccolo raggio di sole» disse sottovoce, dandole un bacio sulla fronte.
Malia aggrottò le sopracciglia contrariata e si stiracchiò.
«Risparmiatelo per dopo, quando avrò recuperato l'aspetto di un essere umano».
«Perché mai? Non vedo alcuna differenza».
«Vuoi dirmi che il mio alito non ti disturba? Dovrei comprare delle mentine se...» provò a dire, ma lui interruppe la battuta sul nascere, baciandola sulle labbra.
Malia saltò su a sedere sorpresa e gli mise le mani sul petto per allontanarlo.
«Che fai? Non mi sono ancora lavata i denti».
Il lenzuolo le si era aggrovigliato attorno ai fianchi e quel movimento brusco la fece rimanere di nuovo nuda. Mise i piedi giù dal letto per alzarsi, ma lui si inginocchiò fra le sue gambe e riprese a baciarla, lento e calmo come se la sua bocca fosse un dolce particolarmente goloso.
«Nemmeno io e sinceramente non m'importa» le disse poi a fior di labbra.
Malia sorrise diventando rossa come le pareti del suo salotto.
«Sei proprio strano. Sei la persona più strana che conosca... in senso buono, ovviamente!» si affrettò a precisare.
«Be' ma io sono James Bond, non potrei essere normale neanche volendo» si strinse nelle spalle, poi si alzò e prese le scarpe.
«Dove vai?»
«Vado a prendere il caffé».
«E le ciambelle» aggiunse lei.
«E le ciambelle» confermò sorridendo, mentre si abbottonava la camicia.
«Con la glassa!» gli urlò dietro quando era ormai sul pianerottolo.

Fuori dal palazzo, ai due lati della strada, c'erano appostati i soliti scagnozzi del Boss e del Rabbino.
Fece un cenno di saluto a Elvis senza farsi vedere dagli altri e, quando si rese conto che lo stavano solo tenendo sotto controllo, si incamminò verso la caffetteria più vicina.
Passò accanto a una vecchia cabina telefonica, non si accorse del tipo che fingeva di fare una chiamata finché non gli puntò una pistola alla schiena intimandogli di fermarsi.
«Fermo, polizia» gli disse mentre lo spingeva sul ciglio della strada, dove era parcheggiato un vecchio furgone di una ditta di riparazioni.
Il portello posteriore si aprì e lui venne spinto dentro senza troppe cerimonie.
Il poliziotto che aveva conosciuto la sera prima lo stava aspettando impassibile, con le braccia incrociate al petto. Quando l'altro lo fece a sedere su una delle sedie, diede due colpi al furgone e quello partì. Era in trappola.
«Buongiorno, sono l'agente Parrish e quello lì è il detective Peter Hale» disse il suo finto aggressore.
«Buongiorno agente Parrish, mi avete appena rapito?» chiese con il suo solito tono spavaldo.
«No, vogliamo solo fare due chiacchiere tra amici con te» rispose il detective Hale.
«E questa è la procedura standard nel manuale dello sbirro, alla voce “due chiacchiere tra amici”?»
«No, non c'è una procedura standard per il casino in cui ti sei infilato» disse Parrish.
«Ah. E di che volete parlare?»
«Di te» disse Peter.
«Mmm... ok! Che volete sapere?»
«Chi sei?»
«Filosoficamente?»
«No, il tuo nome».
«Ti conviene stare in squadra» chiarì Parrish seccato.
«Be', voi contro chi giocate?»
Il detective Hale non disse nulla, gli sferrò un pugno nello stomaco che gli mozzò il fiato. Tossì in cerca d'aria, tenendosi stretto la pancia per non vomitare.
«Come ti chiami?»
«Ah, sì ora mi ricordo» rispose con un filo di voce. «Sono Slevin, Slevin Kelevra».
«Senti ragazzo, non so che sta succedendo né perché ci sei dentro, ma ti assicuro che se riuscirò a capire quel che c'è da capire, non sarò così gentile con te» lo minacciò Hale.
«Se questo è essere gentili, non farmi mai favori».
«Questa è l'ultima possibilità che hai di parlare».
Slevin guardò entrambi i poliziotti con un sorriso strafottente stampato in faccia e nessuna voglia di aprire bocca. Loro erano la legge e la legge diceva che non potevano costringere nessuno a fare un bel niente senza prove convincenti.
Peter sospirò spazientito e lo tirò su per la giacca.
«Vai a farti un giro» disse gettandolo giù dal furgone in corsa.


*



La notte appena passata era stata la più intensa che avesse mai vissuto in tutta la sua vita. Non poteva credere di aver conosciuto un tipo come Slevin, era convinta che certe cose accadessero solo nei film, eppure lui era lì, era reale e lei si stava impelagando in una situazione più grande di se stessa.
Il suo vicino Nick era scomparso, Slevin era conteso tra i due gangster più pericolosi della città e lei era a un passo dal restarne invischiata.
Lasciò che il getto d'acqua calda lavasse via il sapone alla lavanda, la stanchezza e l'agitazione.
Si avvolse nel suo accappatoio verde menta e tornò in camera da letto per spazzolare i capelli che Slevin aveva impunemente aggrovigliato. Doveva ricordargli di andarci piano la prossima volta...
Proprio mentre formulava quel pensiero, Slevin entrò nell'appartamento e la raggiunse.
Aveva il volto cereo del malessere – alla faccia dell'atarassia.
«Ehi, ci hai messo una vita. Tutto bene?» mise giù la spazzola e gli andò vicino.
Slevin poggiò i due caffé sul comò e incrociò le braccia al petto pensieroso.
«Sì, tutto bene».
«Ne sei sicuro? Sei bianco come un cadavere e io me ne intendo, visto che sono un medico legale» disse accarezzandogli il viso.
Lui sospirò e prese a muoversi in cerchio attorno alla stanza senza darle spiegazioni.
«Senti, non c'è bisogno di farla tanto lunga. Se pensi che quello di ieri sera sia stato un errore, va bene, ma per favore non girarci attorno. In tutti i sensi».
Quelle parole ebbero l'effetto di riportare Slevin nel mondo dei vivi, ma non nel modo in cui si sarebbe aspettata.
Attraversò la stanza in poche falcate, le prese il volto tra le mani e la baciò come se quella fosse l'ultima volta, arrivando a gettarla sul letto come se fosse una bambola.
«Ti devo dire una cosa».


*



Malia era uscita per andare al lavoro. L'aveva vista andare via con il cuore in gola, ma non poteva impedirle di vivere la sua vita per restare accanto a lui.
Tornò nel suo appartamento a malincuore, fece una doccia e mangiò un altro dei suoi tristi panini. Non aveva molto da fare, perciò passò il resto della mattinata a fare zapping in tv.
Era da poco passata l'ora di pranzo, quando qualcuno bussò alla porta.
«Ragazzi, che ci fate qui?» chiese a Elvis e Lento.
Il primo gli sbatté in faccia un vestito dentro una custodia nera.
«È il momento e il Boss ti vuole elegante per la Fatina. Muoviti a vestirti, se non vuoi che ti portiamo nudo all'appuntamento».
«Ma se hai appena detto che il Boss mi vuole elegante!»
«Senti, non ricominciare!» gli puntò il dito contro, pronto a sferrargli un altro pugno sul naso.
«Ok, va bene, non c'è bisogno di scaldarsi tanto» sollevò le mani in segno di resa.
Indossò l'abito scuro, con tanto di cravatta e pochette di seta, e fu scortato fuori fino all'auto.
Una volta giunto in strada vide la macchina dei tirapiedi del Rabbino: c'erano due fori nel parabrezza e loro giacevano scomposti sui sedili.
«Smettila di guardarti intorno e sali in macchina!» gli disse Elvis.
«S-sì, scusa».
«E smettila di sembrare così tranquillo, lo sappiamo che sei un pivellino al primo omicidio che se la sta facendo addosso. Mi metti ansia con quel tuo sorrisetto del cazzo!» continuò a rimproverarlo una volta che furono in macchina.

L'appartamento di Yitzchok si trovava in un moderno ed elegante palazzo in centro, nella zona dei super ricchi, la famosissima Upper East Side.
Slevin attraversò i corridoi in punta di piedi, quasi temesse di far rumore con la sua normalità.
«Ehi, sei in anticipo» gli disse con tono suadente il figlio del Rabbino, quando lo vide.
«Posso entrare?»
«Ma certo, vieni pure» si fece da parte per lasciarlo passare.
Slevin entrò e poggiò la porta sullo stipite senza chiuderla.
Capelli ricci, naso adunco su cui erano posati occhialetti rettangolari dalla montatura leggera, fisico mingherlino da ranocchietto gracile. Il figlio del Rabbino gli fece quasi pena.
«Versati da bere, io mi stavo preparando. Mi devi scusare, non ti aspettavo così presto. Vuoi un po' di vino? Sai, stai benissimo» disse un po' agitato.
Slevin ricambiò lo sguardo, sperando di non lasciar trasparire nulla.
«C'è qualcosa che non va?»
«Qualcuno vuole ucciderti» gli disse guardandolo dritto negli occhi.
«Cosa? Chi?» chiese l'altro incredulo.
«Io» ammise con candore, poi tirò fuori la pistola con il silenziatore e gli sparò due colpi al petto.
Yitzchok cadde senza emettere un suono, mentre il sangue colava copioso sulla moquette chiara.
Si abbassò per sincerarsi che fosse morto, ma il suono di un grilletto alle sue spalle gli fece gelare il sangue nelle vene.

Argent era lì, proprio dietro di lui, indossava il suo solito impermeabile color sabbia e teneva in mano una pistola identica alla sua. Sollevò il braccio e sparò un colpo dritto in mezzo agli occhi di Yitzchok, mettendo fine alla sua agonia poco prima che premesse il pulsante sulla catenina.
«C'è mancato poco» disse gelido, lanciandogli le chiavi di una macchina.
«Quasi» rispose Slevin afferrandole al volo.
«Scendi giù a prenderlo, qui finisco io».
C'era una parete grande e spoglia in salotto, Argent avvicinò l'orecchio e sentì due uomini ridere e parlottare: i due ex Mossad al servizio del Rabbino.
Strappò la catenina dal collo di Yitzchok, si posizionò di fronte alla parete, premette il pulsante e poi si preparò impugnando la sua pistola e quella di Slevin.
Come previsto, le guardie sfondarono la parete di cartongesso con i loro mitra carichi, ma vennero freddati dai proiettili di Mr. Goodkat prima di poter capire cosa stesse accadendo.
Slevin tornò nell'appartamento insieme a una grossa valigia nera, la posò a terra e guardò il disastro di calcinacci e cadaveri.
«Quasi» disse di nuovo con il suo tono impassibile.
Aprì il bagaglio e tirò fuori il cadavere congelato di Nick Fisher, scambiò il suo vecchio orologio con quello alla moda di Nick e poi lo trascinò accanto al corpo di Yitzchok.
Completarono quel macabro quadretto cospargendo tutta la cucina e il salotto di benzina, poi accesero un fiammifero e corsero via.
Salirono in macchina giusto in tempo per vedere l'esplosione dell'appartamento del figlio del Rabbino, la cui unica colpa era proprio essere figlio del Rabbino.




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Capitolo 5
*** Capitolo 5. Cane Rabbioso ***


slevin5

La notte era calata inesorabile e gelida su New York, portando con sé una scia di sangue e morte.
Lo sapeva bene il Boss, che non riusciva a smettere di pensare a quanto altro sangue avrebbe dovuto vedere da lì ai prossimi mesi, forse anni. Stringeva il suo bastone da passeggio tra le dita e guardava dalla vetrata la città brulicante di vita e miseria.
Il figlio del Rabbino era morto, proprio come voleva, e insieme a lui anche quel Fisher; eppure non poteva dirsi soddisfatto, non quando tutta la città, la polizia e di sicuro i fottuti affari interni erano stati allertati dall'esplosione del palazzo in cui abitava.
L'ascensore si aprì e ne venne fuori Goodkat, con il suo solito mezzo sorriso sornione e l'impermeabile color sabbia.
«L'ho ingaggiata per un lavoretto, ma non doveva sembrare un lavoretto; invece lei ammazza gli israeliani, fa esplodere l'intero edificio. E adesso il lavoretto che non doveva sembrare un lavoretto, comincia a sembrare... un vero lavoretto».
Argent non disse nulla, la sua espressione imperturbabile sembrava volergli comunicare qualcosa, ma lui non poteva sapere davvero cosa, poteva immaginarlo. E di solito, quando si capisce di essere in una brutta posizione, ci si immagina quello che fa più comodo.
«E va bene, fanculo. Se il Rabbino vuole una guerra, gli daremo una guerra».


Il Rabbino, nel frattempo, stava in piedi nel suo ufficio ignaro di tutto, perché era venerdì sera, momento d'inizio dello Shabbat.
È bene sapere che ogni sabato di ogni mese di ogni anno, un buon ebreo celebra il giorno sacro del riposo, così come è stato ordinato dal Signore nelle Sacre Scritture. Nel giorno del riposo è vietato lavorare, scrivere, disegnare e addirittura viaggiare, ma tra le altre cose è permesso studiare la Torah. E lui amava studiare la Torah e odiava essere interrotto durante la lettura.
Ecco perché il telefono aveva squillato e nessuno gli aveva dato notizie ed ecco perché nessuno gli aveva annunciato l'arrivo di Nick Fisher.
Era strano, molto diverso dal solito. Forse era l'abito elegante, magari i capelli pettinati o forse ancora il sorriso sornione con cui l'aveva salutato. Gli ricordava qualcuno, ma non avrebbe saputo dire chi...
«Oh, salve signor Fisher! Credevo fossi Saul, il mio assistente».
«Ultimamente mi prendono tutti per qualcun altro» sorrise tranquillo.
Aveva con sé una valigetta, quindi era quella la differenza: stava per saldare il suo debito.
«Sai, la tua brutta situazione mi ricorda un film di Alfred Hitchcock, “Intrigo Internazionale”. Tutti pensano che Cary Grant sia un uomo chiamato George Kaplan, ma non esiste nessun George Kaplan, è un nome inventato. I nomi, anche quelli inventati, possono provocare brutti guai. Ora, la protagonista femminile si chiamava...»
«Eva Marie Saint».
«Oh, conosci quel film!»
«Conosco quel film» disse lapidario, ma il Rabbino non fece caso al suo tono.
«Ho portato mio padre a vederlo nel '59. Non capiva bene la lingua, ma perbacco se gli piaceva Eve Marie Saint. In ogni caso quel film ha provocato molta confusione».
«Scambiare nomi può farlo».
«Già» annuì. «Quelli sono i miei soldi?»
Il ragazzo batté una mano sulla valigetta marrone e disse: «Sì, è quello che le devo».
Il Rabbino si tolse allora la kippah e gli occhiali a mezza luna, poi spostò un'agenda dalla scrivania e gli fece cenno di poggiare la valigetta lì.
L'espressione imperturbabile, il sorrisetto, gli ricordavano qualcuno, ma chi? Di sicuro qualcuno di cui non fidarsi. Il telefono nel frattempo aveva ripreso a squillare.
«Oggi è Shabbat e noi non rispondiamo al telefono durante lo Shabbat».
«Lo so».
«Saul di solito toglie la suoneria, ma al giorno d'oggi è difficile trovare del personale valido».
Aprì la valigetta, ma era vuota. Non fece in tempo a sollevare lo sguardo che venne colpito alla testa con violenza. Ebbe la sensazione che il cranio si fosse spaccato a metà e, prima di perdere conoscenza, gli sentì dire qualcosa:
«Saul è morto. Sono tutti morti».



*


Il risveglio dopo un colpo alla testa non è mai dei più piacevoli. Sentiva di essere seduto, ma gli mancava lo stesso la terra sotto i piedi e lo stomaco e il cervello sembravano volergli uscire dalla bocca e dagli occhi. Sbatté le palpebre diverse volte, prima di scacciare la patina bianca che gli offuscava la vista. Provò a sollevare una mano per sincerarsi della gravità del danno, ed ebbe un tremito alla vista del nastro isolante che lo teneva legato alla sedia.

Gli bastò una breve occhiata all'ambiente circostante e al caminetto acceso, per rendersi conto di non essere più nel suo ufficio, ma in quello del suo acerrimo rivale.

«Oh, ci sono già stato in questo posto, è rimasto com'era vent'anni fa. Comunque non so perché, ma sembra diverso, come la tua macchina quando è guidata da qualcun altro. Del resto è da vent'anni che non salgo su una macchina... due decenni dietro nove centimetri di vetro anti-proiettile per paura di essere ucciso da un fucile ad alto potenziale, senza mai uscire di casa. Vent'anni! Rinchiuso nella mia paranoia, prigioniero in casa mia, solo per poi finire nelle mani di un ragazzino. Be', complimenti, sembra che abbiate vinto, mi avete fregato. Se portassi un cappello, me lo toglierei. Volete la mia testa? Eccola!» disse e abbassò il capo in avanti.
Ci fu una pausa e allora il Rabbino guardò le scale, quelle da cui lui e il Boss di solito scendevano per fare un'entrata a effetto, ma quelle restarono vuote e la voce del Boss lo raggiunse alle spalle.
«Puoi tenere il cappello e la testa, Shlomo. A quanto pare, ci è stato tirato un bidone dallo stesso lanciatore. Bel discorso però, mi sarei alzato volentieri in piedi per ascoltarlo» disse il Boss, seduto proprio dietro di lui, schiena contro schiena.
Il Rabbino si sforzò di voltare indietro la testa, nonostante il dolore lancinante, e lui fece altrettanto.
Eccoli lì, i due gangster più pericolosi di New York, faccia a faccia dopo più di vent'anni.
«È colpa tua se siamo in questo guaio!» gli disse pieno di risentimento.
«Mia?»
«Sì, tua! Tu hai assoldato Goodkat per uccidere mio figlio!»
«Dopo che tu hai ucciso il mio!»
Shlomo scosse la testa con decisione.
«No, io non c'entro niente».
«Certo, come no. Come nel '98? Nemmeno quella era opera tua? Hai solo dato l'idea magari. Tempo scaduto, Rabbino. Mentire a un uomo morto è come mentire a se stessi».
«Diventavi troppo potente. Quando in una stanza ci sono due uomini, tu ne puoi guardare soltanto uno alla volta. E gli altri guardavano te e intanto ridevano alle mie spalle. E quando poi ti hanno chiamato Boss! È stato chiaro cosa andava fatto».
«Cerca di immaginare cosa si prova, Shlomo. A svegliarsi di notte con sei pallottole che ti bruciano lo stomaco, immerso in una pozza del tuo sangue e della tua merda. Gli occhi sbarrati di tua moglie morta, che ti fissano. L'unica cosa che ti impedisce di svenire sono i passi dell'uomo che si allontana nel corridoio, in cerca di tuo figlio. Io ero riuscito a salvarlo, mio figlio. E ora, dopo tutti questi anni, tu... Tu, nonostante il nostro accordo, tu! Filisteo di merda! Brutto traditore del cazzo! Alla fine me l'hai portato via per sempre. Be', adesso io ti ho tolto il tuo per sempre».
«Te l'ho già detto, io non c'entro niente».
«Non hai sentito allora?»
«Impossibile, stai mentendo».
«Girati e guarda il mio sorriso, Shlomo. Tuo figlio è morto. Tuo figlio è morto!»
«Io... io ti ucciderò!» si agitò sulla sedia, mentre il Boss se la rideva.

E poi un'ombra si fece avanti nel corridoio accanto alle scale.
«Rabbino! Lei ha presente lo Shmoo?»
Era il ragazzo! Scendeva con calma, un gradino alla volta, con le mani nelle tasche e il suo sorrisetto del cazzo stampato in faccia.
Il Boss si mosse in preda alla paura, poteva quasi sentirne l'odore.
«F-fisher?! Fisher, ascoltami...!»
Quella supplica spense il sorriso del ragazzo, che si gelò in una maschera di puro odio.
«Te l'ho già detto: non sono Nick Fisher».
«Allora chi è Nick Fisher?»
Slevin fece un giro attorno a loro, come un lupo che circonda una preda.
«Forse volevi dire chi era Nick Fisher. Fisher è stata la risposta a una domanda. Come arrivi a due uomini a cui non si può arrivare? Li fai venire da te. Ma per farli arrivare mi serviva un nome e dove si trovano i nomi? Nei libri. E chi li tiene i libri? I vostri allibratori tengono i libri. Allibratori sbranatori, al servizio dell'Impero del Male».
«Mi serviva un giocatore, uno che fosse presente sui libri di entrambi e che avesse un po' di rosso sulla colonna dei debiti. E ha vinto Nick Fisher, uno che non sarebbe mancato a nessuno».
«Hai... hai ucciso Nick Fisher?» chiese il Boss incredulo.
«Mi dispiace, volevi tu l'onore?» ghignò cattivo. «A quel punto, comunque, bisognava solo far squillare il telefono. Mi è bastato premere il grilletto di un fucile di precisione e aspettare che tu chiamassi qualcuno per un lavoretto. E tu hai chiamato quel qualcuno, per fare un lavoretto che non sembrasse un lavoretto, giusto? Mr. Goodkat, lo specialista in lavori sporchi, quelli che nessuno vuole fare. In fondo chi avrebbe mai voluto uccidere uno che viene chiamato la Fatina? E poi il rischio di una nuova guerra era troppo alto e Goodkat non ti aveva mai deluso. Ecco perché ti sei fidato ciecamente del suo piano di scegliere uno a caso nel registro dei debiti, no?»
«E tu, Rabbino, tu sei sempre stato un uomo di fede incline al peccato. E tra un omicidio e l'altro non hai mai disdegnato un tradimento qua e là, per ottenere più denaro e più potere, giusto? Un modus operandi vicino al tuo modo di essere, che non ti ha stupito ritrovare anche nel signor Goodkat. Così, quando ti ha chiesto il doppio di quanto il Boss gli aveva offerto per uccidere tuo figlio, hai accettato. Ma come coinvolgere Nick Fisher in questa faccenda? Un semplice scambio di favori, una cosa all'apparenza di poca importanza. D'altronde Fisher era un perdente, che differenza poteva fare? Tu compravi la lealtà di Goodkat e in cambio lui ti chiedeva di far fuori un perdente».
«Un pugno sul naso era l'alibi perfetto per fingere di essere stato derubato di tutti i miei documenti: ero nell'appartamento di Nick Fisher, ma non potevo dimostrare in alcun modo di non essere lui. Così a quel punto ero libero di entrare e uscire come volevo».
Il Rabbino gli fece segno di avvicinarsi.
«Qualunque cifra loro ti paghino, io la raddoppio» gli sussurrò all'orecchio.
Slevin fece qualche passo indietro e scosse la testa.
«No, non hai capito, non c'è nessun loro. È tutta un'idea mia».
«T-tua?»
«Già, mia».
«Chi sei tu?!» quasi urlò il Boss.
«Voi sapete già chi sono, solo che non lo ricordate, quindi lasciate che vi rinfreschi la memoria» disse, riprendendo a girare intorno alle sedie come un avvoltoio su due cadaveri freschi.
«L'anno è il 1995, il luogo Aqueduct, settimo cavallo, decima corsa. Vi suona familiare? La corsa truccata di Aqueduct, la corsa del droghiere. Tra quelli che avevano scommesso parecchi soldi c'era un uomo, si chiamava Noah...»
«Non so di cosa tu stia parlando!» disse il Rabbino con forza.
«Ah, no? Be', ma di sicuro entrambi ricorderete questa parte, la vostra firma».
Prese due buste di plastica trasparente dalla scrivania e, quando le videro, entrambi i gangster avvertirono il brivido gelido della morte e la consapevolezza di chi fosse quel ragazzo in piedi di fronte a loro.
«No, no è impossibile, t-tu... sei morto» disse il Boss, gli occhi sbarrati di chi ha visto un fantasma.
Fu solo quando ebbe la certezza che entrambi l'avessero riconosciuto, che Slevin piazzò le buste sulle loro teste; poi si prese un momento per guardarli negli occhi, mentre annaspavano per catturare quanto più aria possibile attraverso gli spazi lasciati aperti dalla plastica.
«Voi vi siete presi tutto quello che amavo. Vaffanculo» sputò le parole come se fossero veleno, poi avvolse il nastro isolante attorno al collo del Rabbino e a quello del Boss.
Il primo non oppose resistenza, sembrava rassegnato e, chissà, forse anche pentito di ogni minuto di vita passato nell'oscurità. Il Boss invece lottò fino all'ultimo istante, attaccato alla sua oscura esistenza con ogni briciolo del proprio essere.
L'Impero del Male era finito.




*



Una chiamata nel cuore della notte l'aveva avvisata dell'esplosione di un appartamento e della disgraziata morte di alcuni uomini, così si era messa i primi abiti che aveva trovato ed era corsa in obitorio.
Al suo arrivo i due cadaveri erano già stati posti sui tavoli d'acciaio e coperti con dei lenzuoli.
Il braccio di uno dei due, però, spuntava restando scoperto: era completamente carbonizzato e al polso portava un vecchio orologio fin troppo familiare.
Malia ebbe un tuffo al cuore e sollevò tremante il lenzuolo, solo per scoprire che il corpo era troppo bruciato per riconoscerne i connotati.
Il detective Hale arrivò giusto in tempo per impedirle di mettersi a piangere nel bel mezzo del laboratorio.
«Allora, cosa abbiamo qui?» chiese, poggiandosi un fazzoletto sul naso.
«Difficile a dirsi. Dalla statura e dall'ampiezza delle spalle, direi due uomini».
«Sì, uno è il figlio di un gangster, ma l'altro chi è?»
«Visto che non abbiamo più impronte digitali, mi sembra improbabile che lo sapremo».
«E le cartelle odontoiatriche?»
«Certo, appena mi trova da qualche parte la mandibola inferiore» si strinse nelle spalle, mostrando la testa deturpata del cadavere.
«Cristo, è proprio un cazzo di casino» sospirò il detective, passandosi una mano sugli occhi.
La radio appesa alla sua cintura prese a parlare, ma non portava buone notizie.
«Ehi Peter, sono Marty. Ci sei?»
«Sì, dimmi tutto».
«Abbiamo trovato altri due cadaveri che fanno il paio con quei due che hai lì».
«Va bene, vengo subito. Sei riuscito a contattare il Rabbino per dirgli di venire a identificare quel che resta del figlio?»
«Negativo. Stiamo chiamando da un'ora, non rispondono».
«Allora manda qualcuno».
«Ricevuto».
Quando sentì nominare il Rabbino, Malia tossì per ricacciare giù il cuore palpitante. Era dunque di Slevin il corpo carbonizzato con l'orologio? La mascherina era all'improvviso troppo stretta, così l'abbassò sul collo per respirare, nonostante l'odore acre di bruciato le pizzicasse le narici.
«Si sente bene? La vedo un po' scossa» disse il detective.
«No, sto bene» accennò un sorriso.
«È pallida, forse dovrebbe fare una pausa».
«No, stia tranquillo, ho visto di peggio. E poi se mi fermassi si fermerebbe anche il caso, no?»
«Già. Be', ora devo proprio andare, mi chiami se ha delle novità».
«Senz'altro».

Quando fu certa che se ne fosse andato, Malia si appoggiò con entrambe le mani sul ripiano del bancone, in preda a una nausea a lei fino ad allora sconosciuta.
Captò con la coda dell'occhio l'arrivo di un uomo e si voltò verso la porta aperta dell'obitorio.
Occhi di ghiaccio, un impermeabile color sabbia e un sorrisetto enigmatico stampato in faccia.
«Abbiamo lo stesso telefono» disse l'uomo, poi sollevò la pistola e le sparò un colpo dritto al cuore.
Il dolore fu così intenso da mozzarle il respiro e cadde a terra in una pozza di sangue, mentre Argent andava via silenzioso com'era arrivato.



*



Un opprimente senso di inquietudine non lo lasciava da quando quel ragazzo, Slevin, era giunto in città.
Prima era entrato nel palazzo del Boss, poi in quello del Rabbino, infine l'aveva beccato nello stesso ristorante della Fatina e ora il corpo della Fatina era carbonizzato su un tavolo in obitorio.
C'era qualcosa, un disegno più grande che non riusciva a vedere e tutta la situazione gli stava sfuggendo di mano.
Salì in macchina e il telefono squillò.
«Hale, sono Murphy».
«Ciao Murphy, che mi dici?»
«Oggi è passato Henry Keller, te lo ricordi Henry? È in pensione, la moglie è morta, perciò passa in centrale un paio di volte a settimana per fare due chiacchiere, raccontare le sue imprese ai nuovi e inizia ogni frase con “Ai miei tempi era così...”, insomma è uno che vive nel passato».
«Sì, sì ho capito, ma che c'entra ora?» chiese spazientito.
«Stavamo chiacchierando e diceva che non si può lamentare, e invece non fa altro che lamentarsi cazzo! Per la moglie che è morta, per la gamba in cui gli hanno sparato, la pensione di merda, ma poi si blocca quando vede la foto che ha fatto Marty, e si ferma a fissarla. E io gli chiedo “Che c'è? Conosci il ragazzo?”. Il fatto è che lui non guarda la foto, guarda il nome, perché l'ho scritto su un foglietto attaccato sotto. Conosce quel nome, Slevin. Lì per lì non dice niente e va via. Un'ora dopo squilla il telefono ed è Henry che parla a raffica di una corsa di cavalli del '95 ad Aqueduct».

Il gelo del terrore s'insinuò sotto la pelle di Peter e raggiunse le ossa.

«Era una corsa di cavalli vestita e truccata, un grosso pacco regalo. Il Boss e il Rabbino avevano appena aperto bottega a New York, prima che la gente cominciasse a svegliarsi con un pugnale nella schiena. Comunque, continua a parlare di una leggenda metropolitana, di un giovanotto, un certo Noah... Noah Bilinski... Stilinski, una roba del genere. Il ragazzo ha avuto una soffiata sulla corsa, quindi ha piazzato una grossa giocata con un allibratore, Roth, che poi a sua volta l'ha passata ai due gangster. Però quando il Boss e il Rabbino scoprono che la corsa è truccata, be', sono tutt'altro che felici! Comincia a girare voce che bisogna dare un esempio, così quelli ammazzano tutti, ma proprio tutti: Noah, la moglie, il figlio, Roth... perfino il cavallo è morto, cazzo! Quei due sono piombati in città con il machete, è stato un massacro. Hanno dovuto addirittura chiamare uno specialista per stendere il bambino, nessuno voleva farlo. Insomma, alla fine del racconto gli chiedo cosa c'entri tutto questo con il caso e lui dice “Il nome del cavallo era Lucky Number Slevin!”, Slevin numero vincente. C'è un fatto però: non esiste nessuno Slevin Kelevra. Ed è curioso che il ragazzo abbia scelto come pseudonimo il nome di un cavallo morto e che sia stato in compagnia del Boss e del Rabbino, visto che erano invischiati proprio con quel cavallo. Ho pensato tra me e me, forse c'è sotto qualcosa, o forse è solo una coincidenza, ma il nome deve venire da qualche parte, no?»

A quel tempo Peter era un novellino che tirava a campare e scommetteva sulle corse dei cavalli; girava a Roth gli assegni del suo stipendio ed era spesso in debito. Così quando gli chiesero di sbrigare un lavoretto in cambio di informazioni che l'avrebbero fatto avanzare di grado, non poté rifiutare. Sognava di far carriera in polizia e l'occasione era troppo ghiotta per farsela scappare...

«Ah, un'ultima cosa!» disse Murphy. «C'è un nuovo agente qui in ufficio, è ebreo, un tipo divertente con una bella parlantina, ha letto il nome e, se ti interessa saperlo, ha detto che Kelevra in ebraico significa... aspetta, me lo sono segnato qui da qualche parte...»

Vide attraverso lo specchietto retrovisore una figura sollevarsi dai sedili posteriori.
Era rimasto sdraiato lì tutto quel tempo, senza che lui se ne accorgesse. Aveva i capelli arruffati e un'espressione dura, nonostante alcune lacrime gli rigassero il viso.
Come dei sassi scagliati da una fionda, le immagini della giovane Claudia Stilinski che asciugava i piatti in cucina lo colpirono in pieno viso. Ricordava ancora in modo nitido la sua espressione di paura e sgomento, e il rumore dei piatti che cadevano a terra, infrangendosi, dopo che lui aveva sparato il colpo allo stomaco che l'aveva uccisa.
Murphy stava cercando ancora quel dannato foglietto, mentre il ragazzo alzava la mano con in pugno la pistola e gliela puntava alla testa.
«Significa “Cane rabbioso”» disse e poi Peter ebbe appena il tempo di sentire premere il grilletto.
Il cellulare cadde fuori dal finestrino, mentre il corpo senza vita del detective Peter Hale si accasciava sul volante della macchina.

Dopo anni di attesa e sacrifici, Mieczyslaw Stilinski aveva aveva avuto la sua vendetta.









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Capitolo 6
*** Epilogo ***


epilogo

L'aveva sognata, progettata e desiderata per anni.
Negli ultimi vent'anni aveva impiegato ogni sua risorsa per arrivare a quel momento, lì seduto su una sedia blu all'aeroporto di New York, con in mano un biglietto di sola andata per un paese straniero.
Aveva avuto la sua vendetta, ma non era dolce né soddisfacente come si era aspettato.
I suoi genitori non sarebberro di certo tornati in vita, così come tutte le persone che erano morte e avevano sofferto a causa del Boss e del Rabbino. Il suo premio di consolazione era sapere che almeno nessun altro avrebbe patito ciò che lui aveva patito per mano dei due gangster.
Era certo che altri avrebbero preso il loro posto, ma era anche sicuro che non sarebbe toccato a lui fermarli. Aveva riflettuto molto su quel punto e si era già messo l'anima in pace prima di arrivare a New York.
Ciò che rendeva amara quella vittoria era non vedere Malia. Mancava ancora poco alla partenza e non vederla poteva solo significare una cosa, cioè che Goodkat era andato a trovarla.

Gli aveva risparmiato la vita, l'aveva cresciuto e addestrato come se fosse figlio suo; gli doveva tanto ma non sapeva se sarebbe riuscito a perdonarlo per ciò che aveva fatto. In fondo aveva improntato la sua vita a serbare rancore...
Il brusio della gente attorno a lui si fece troppo forte da sopportare, così si calò il cappello di lana sugli occhi e nascose il viso tra le mani. Qualcuno però gli diede una spinta e per poco non cadde giù dalla sedia.
Si levò il cappello e si alzò in piedi con tutta l'intenzione di prendere a pugni quell'idiota, ma quando lo guardò in faccia dovette trattenersi dall'urlare.
«Sei... sei qui» disse.
Malia poggiò a terra la valigia e si tuffò tra le sue braccia. Stiles si staccò quel tanto che bastava per darle un leggero bacio sulla fronte e poi l'avvolse in un caldo abbraccio.



*




«Dove vai?»
«Vado a prendere il caffè».
«E le ciambelle» aggiunse lei.
«E le ciambelle» confermò sorridendo, mentre si abbottonava la camicia.
«Con la glassa!» la sentì urlargli dietro quando era ormai sul pianerottolo.

Qualche giorno prima aveva visto una tavola calda dall'aspetto accogliente a due isolati dal palazzo di Nick. Era diretto lì quando il detective Hale gli aveva teso uno dei suoi agguati a sorpresa, e non cambiò idea nemmeno dopo essere stato gettato via dal furgone come un sacco dell'immondizia.

Entrò da Metro Diner e ordinò due caffè e quattro ciambelle di diversi gusti, sperando di azzeccare quello preferito di Malia.
Certo, Goodkat non ne sarebbe stato entusiasta, preparavano quel colpo da anni e Malia era stata uno splendido incidente di percorso, ma lui non aveva mai passato una notte così bella come quella appena trascorsa. Era stato bene, si era sentito nel posto giusto al momento giusto. E in ogni caso, dopo aver portato a termine la sua vendetta, sarebbe sparito nel nulla, magari lasciandole un biglietto o qualcosa del genere.

Goodkat non sarebbe mai venuto a saperlo, in fondo era stato bravo a tenerglielo nascosto, pensò fischiettando mentre saliva le scale fino all'appartamento di Malia. Il suo buonumore però si spense come la candelina su una torta di compleanno.
«La tua ragazza mi ha fregato. Mi ha fatto una foto. Deve finire sotto terra» disse Goodkat, le mani in tasca e il sorriso da Gioconda stampato in viso.
«Ok» annuì masticando la sabbia del deserto.

Malia stava sonnecchiando sotto le coperte, non si era accorta di lui che camminava avanti e indietro per tutto l'appartamento, era ignara del caffè che stava rapidamente raffreddando sul comò e delle ciambelle che stavano assumendo la consistenza di una gomma da masticare.

Si accorse del suo ritorno solo quando le si coricò addosso, sussurrandole all'orecchio.
«Malia, devo dirti una cosa importante».
«Cosa c'è?» si tirò su a sedere e lui fece altrettanto.

Restarono a guardarsi negli occhi per un po', lei curiosa e in ansia di sapere cosa fosse successo, lui in preda a un conflitto interiore che non gli permetteva di trovare le parole giuste.
Infine chiuse gli occhi e sospirò, prendendole le mani tra le proprie.
«Io non sono Nick Fisher».
«Sì, questo lo so».
«E non sono neanche Slevin Kelevra. Non esiste nessuno che si chiami così».
Il petto di Malia si gonfiò di sorpresa e gli occhi castani si spalancarono. Lui le strinse le mani con maggiore forza per non perdere la sua attenzione.
Le raccontò la storia della corsa ad Aqueduct, senza tralasciare nulla, neppure la storia dell'orologio che portava al polso. Non aveva alcun valore se non quello affettivo legato a Noah, suo padre. Era l'unico oggetto che gli ricordava ogni giorno quale fosse il suo unico obiettivo, la vendetta.
Le spiegò che fine aveva fatto Nick e, anche in quel caso, non tralasciò alcun particolare della mossa Kansas City.
Malia lo ascoltò in silenzio, ma il suo respiro era più pesante e le sue mani leggermente umide.
«Lo so che è difficile da credere, so che potrò sembrarti un pazzo maniaco omicida, che ha ucciso il tuo vicino di casa e ha preso il suo posto per arrivare a te ma... la verità è che tu non eri compresa nel nostro piano. Sei stata un imprevisto e ora io devo... devo proteggerti».
«P-proteggermi? Da chi...?» chiese ma la risposta si materializzò davanti ai suoi occhi prima ancora di concludere la domanda. «Goodkat».
Corse in bagno a sciacquarsi il viso, mentre un vago senso di nausea le attorcigliava lo stomaco, poi tornò in camera e lo trovò in piedi con un espressione contrita a sconvolgergli i lineamenti del viso.
«Io... io non so neanche come ti chiami!» esclamò ricacciando indietro le lacrime.

«Il mio nome è Mieczyslaw Stilinski, ma tutti mi chiamano Stiles».

«Bene, Stiles. Ora dimmi che hai intenzione di fare per "proteggermi"» mimò le virgolette con le dita.
«Senti, so che sei arrabbiata ma devi darmi ascolto e devi fare esattamente cosa ti dico io».
Malia sentì la stanza girare tutta intorno a lei, perciò andò di nuovo a stendersi per evitare di cadere.
Stiles la raggiunse e le si sedette accanto.
«Quando tutto sarà finito, lui verrà a trovarti. Conoscendolo avrà già scoperto quali sono i tuoi orari e i momenti della giornata in cui sei da sola. Sarà silenzioso, quindi stai all'erta e non dare mai le spalle alla porta. Lui ti sparerà qui» poggiò il palmo della mano sul suo petto, all'altezza del cuore.
«Ho un... un giubbotto antiproiettile nell'armadio» disse Malia con voce neutra.
Stiles inarcò le sopracciglia fino all'attaccatura dei capelli.
«Tu hai cosa?»
«Un giubbotto antiproiettile. Il mio ex ragazzo era un patito di armi ed esercitazioni per prepararsi alla fine del mondo. Sì, insomma è un regalo di compleanno. Avrei dovuto buttarlo insieme al resto della sua roba quando abbiamo rotto, ma ho pensato che un giorno mi sarebbe potuto tornare utile, quindi...»
Stiles si lasciò andare ad una risata liberatoria, cadendo sul letto al suo fianco.
«Lo trovi divertente? No, perché se non te ne fossi accorto la situazione non lo è per niente».
«Scusa, è che sei così piena di risorse» ridacchiò ancora in preda all'euforia.
«A questo punto immagino che per te non sia poi così difficile procurarsi una sacca di sangue...»
«Certo che no, ho diverse amiche in ospedale. Il punto è che non sappiamo se mi sparerà in faccia, capisci? E la cosa più tragica è che ne sto parlando come se la cosa non mi riguardasse».
«Tranquilla, è un normale meccanismo di difesa per non perdere la testa».
«Dovrei urlare, scappare in strada a piedi nudi, oppure... oppure prenderti a pugni, odiarti e lanciarti addosso ogni oggetto in questa stanza, ma...»
Stiles avvicinò il viso al suo, per guardarla ancora più da vicino.
«Ma?» le domandò a un soffio dalle sue labbra.
«Ma non ci riesco».


*



Erano in piedi da un po', stretti l'uno all'altra, quando si decise a raggiungerli. Sorprendere la gente alle spalle restava una delle sue cose preferite in assoluto.
Quando lo vide, Stiles si affrettò a mettersi tra lui e la ragazza. Sembrava dire "uccidimi pure, ma non portare via anche lei". Trattenne a stento un sorriso vedendo quella scena.
Si era chiesto cosa avesse quella ragazza di tanto speciale da fargli mettere a rischio ogni cosa, poi l'aveva guardata negli occhi prima di spararle e aveva capito.
Malia Tate aveva lo stesso sguardo di Stiles. Ti guardava negli occhi e sapevi che ti stava giudicando, ma che era pronta ad affrontare la morte con stoica rassegnazione, senza abbassarsi a piangere e supplicare.
«Pensavo che non avresti capito» gli disse Stiles, sostenendo il suo sguardo.
«Invece ho capito».
«Come hai fatto a scoprirci?»
«Sono un killer fuoriclasse, testa di cazzo. Come credi che abbia fatto?» ghignò, poi mise una mano in tasca e tirò fuori l'orologio annerito di Noah Stilinski.
«Ho pensato che lo volessi» disse porgendoglielo.
Nonostante fosse sporco, senza vetro né lancette, Stiles se lo rimise al polso, là dove era stato negli ultimi vent'anni.
«Grazie» gli disse con voce rotta, poi si salutarono con un cordiale cenno del capo, così come avevano stabilito.
Lui era un'ombra, un killer senza nome e quella sarebbe stata la sua vita fino alla morte. Stiles aveva del talento, ma non se l'era scelta quella strada, quindi era il momento per lui di tornare a vivere alla luce del sole.
Era stato un buon figlio e a lui non era dispiaciuto fare il padre, a modo proprio.




*




Il caldo torrido gli faceva sudare la faccia sotto quegli occhiali scuri e tollerava a malapena i baffi e quel dannato abito elegante, ma aveva un lavoro da sbrigare ed era meglio farlo in un posto isolato.
Quel ragazzino era strano, il più strano che avesse mai visto. Continuava a fissare l'orologio e non sembrava preoccuparsi di ciò che gli accadeva intorno.
Lo portò fuori città, al confine, dove c'erano solo terra ed erbacce, e gli disse di scendere dall'auto.
L'avrebbe colpito alle spalle, come aveva già fatto in casi del genere; ma proprio mentre stava per premere il grilletto, il ragazzino si voltò a guardarlo e rimase fermo e impassibile di fronte alla pistola. Quello sguardo, quel dannatissimo sguardo...
Mise giù la pistola.
«Forza, sali in macchina».
Il ragazzino ubbidì.
«Voglio andare a casa mia».
«Né io né te torneremo a casa per un bel po', piccolo. Io sono Goodkat, puoi chiamarmi Mr. Goodkat».
Mise in moto, accese la radio e la sintonizzò sulla sua stazione preferita:
"Sono le quattro e venti, qui su Radio WMNR, e questa è la mia nuova canzone preferita. È di J. Ralph, si chiama 'Kansas City Shuffle'!"



FINE





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