I segreti degli altri

di rolly too
(/viewuser.php?uid=29305)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Pioggia ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Gioele ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Gabriele ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Caffè ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Ragazze ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Cinema ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Spia ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Uri ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Principessa ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Bar ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Silenzio ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Gelato ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Mamma ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Elena ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Respiro ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 - Ricreazione ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 - Ristorante ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 - Bacio ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 - Confronto ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 - Spiegazioni ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 - Amici ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 - Conclusione ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 - Mostro ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 - Maschera ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Pioggia ***


Martedì 21 Ottobre.

La pioggia cadeva incessantemente da più di due ore, e le strade illuminate dai lampioni erano lucide per l’acqua.
Il barbaglio dei fanali del mio motorino si rifletteva sull’asfalto liscio e mi colpiva gli occhi, ma non ci feci caso. Conoscevo quella strada tanto bene che non avevo bisogno di voltarmi per seguire le indicazioni, e la mia velocità era talmente moderata da farmi ritenere che non ci fosse particolare pericolo a viaggiare in quelle condizioni. Ero in ritardo, e mia madre non avrebbe tollerato un’altra assenza a una delle sue importanti cene di famiglia, perciò accelerai e mi sporsi leggermente in avanti per contrastare la forza del vento che mi colpiva.
Accadde tutto in un attimo.
Mi sbucò davanti all’improvviso e si bloccò in mezzo alla strada, lo sguardo puntato su di me e sul mio mezzo. Frenai di colpo, e sentii le ruote che scivolavano sulla strada, fuori dal mio controllo. La moto slittò verso di lui e nel patetico tentativo di evitarlo perdetti l’equilibrio. Caddi a terra a meno di un metro da lui e potei distintamente vedere il motorino che si arrestava con un guizzo improvviso e cadeva esattamente sopra al ragazzo, che non si era spostato di un millimetro, e lo nascondeva dalla mia vista.
Mi assicurai velocemente di essere ancora intera, tolsi il casco e corsi verso di lui, terrorizzata. Con le mani che tremavano per la paura di avergli fatto del male sollevai il motorino e lo spostai con tutta la forza di cui fui capace. Ignorai il colpo che provocò il contatto della moto con l’asfalto.
Guardai il ragazzo, incapace di dire una parola. Mi sentivo tremare, e avvertivo un fischio incessante alle orecchie. Era seduto a terra, immobile, la testa china. Era impossibile determinare se si fosse ferito, e feci più volte per avvicinarmi, ma tutto ciò che ottenni dalle mie gambe fu un tremolio di protesta che mi fece capire che non sarei riuscita a muovere un passo.
«Ehi!» lo chiamai ad alta voce, cercando di sovrastare il rumore della pioggia. La voce mi uscì più roca e vibrante di quanto avessi immaginato, ma non ci feci caso. Lui non rispose. Non si mosse, e non diede nessun segno di avermi sentito. «Ehi!» ripetei più forte, e solo allora si voltò verso di me.
Una macchia di sangue scuro gli copriva la parte sinistra della fronte e il liquido scarlatto, unito alla pioggia, gli era colato sul volto e sulla maglietta inzuppata di acqua.
Rabbrividii, mentre il cuore iniziava a rimbalzarmi in bocca e mi coglieva un fortissimo senso di nausea. Mi si offuscò per un attimo la vista, mentre il fischio nelle orecchie si faceva insopportabile.
Che cosa avevo fatto?
Avanzai barcollando verso di lui, che si era voltato e in quel momento fissava la strada, apparentemente privo di qualsiasi emozione. Lo afferrai per un braccio e lui si girò verso me con uno scatto sorpreso. Osservandolo alla luce pallida del lampione mi accorsi che non doveva essere molto più grande di me. Più pallido che mai, mi scrutò a lungo, gli occhi azzurri che vagavano veloci sulla mia figura, attenti, ma non disse nulla. Sembrava non essersi accorto di essersi ferito.
«Ce la fai d alzarti?» domandai ad alta voce indicandogli la fronte insanguinata. Si passò una mano sulla ferita, senza fare caso a me, poi osservò le dita sporche di sangue. Annuì debolmente e in un attimo fu in piedi accanto a me, che ancora gli tenevo il braccio.
«Sei ferito?» gli chiesi ancora, la voce che si incrinava sempre di più. Volevo che parlasse, che mi dicesse qualcosa, qualunque cosa, che mi insultasse: volevo accertarmi che stesse bene, che ciò che avevo fatto non era grave come mi sembrava.
Com’ero orrenda a pensare una cosa simile! A prescindere dall’entità delle ferite, la mia noncuranza avrebbe potuto trasformarsi in una tragedia, e c’era mancato davvero poco che accadesse davvero; come potevo sperare di trovare un modo per mitigare il mio senso di colpa? Era giusto che fossi terrorizzata, era giusto che mi sentissi male: mi sarebbe servito per ricordare di fare più attenzione, la prossima volta. Involontariamente, prima che riuscissi a fermarmi, sentii le lacrime che iniziavano a scendermi lungo le guance, nascoste dalle gocce di pioggia che continuavano a cadere fittissime e che ormai avevano inzuppato entrambi.
«Sei ferito?» ripetei con un urlo strozzato quando mi resi conto che non aveva ancora risposto. Perché si ostinava a non parlare?
Mi osservò con attenzione, fece un passo indietro per costringermi a lasciargli il braccio e fece un sorriso debole e forzato.
«Sto bene.» Forse lo mormorò soltanto e lo scroscio insopportabile della pioggia coprì le sue parole, o forse fu un’affermazione muta: di fatto, però, non sentii la sua voce.
Mosse qualche passo verso il mio motorino, ancora a terra, poi raccolse il casco che avevo gettato nella fretta di accertarmi delle sue condizioni e me lo porse.
«Tutto a posto?» domandò a bassa voce. Un tuono sovrastò le sue parole, e io riuscii a cogliere ciò che mi diceva solo grazie al movimento delle sue labbra.
Annuii.
«Certo.» replicai. Non ero io quella che era stata investita, non doveva preoccuparsi delle mie condizioni! Avrebbe piuttosto dovuto controllare di essere ancora tutto intero, invece che fare caso a me!
Mi lanciò un’occhiata scettica e si strinse nelle spalle. Mi affrettai ad afferrare il casco che mi porgeva e rimasi a guardarlo mentre lui, senza più badare a me, riprendeva la strada che l’avevo costretto a interrompere.
Camminava rapido, con la testa bassa e le mani affondate nelle tasche dei jeans fradici. Sparì dalla mia vista in poco tempo, e io rimasi ferma in mezzo alla strada, pietrificata.
Rendendomi conto di quanto fosse pericoloso restare lì, benché non fosse un posto molto frequentato, presi il mio motorino e lo trascinai sul lato della carreggiata.
Improvvisamente sentii le forze venirmi meno, e mille luci colorate esplosero davanti ai miei occhi mentre i rumori e i suoni si facevano più distanti.
Mi affrettai a sedermi sull’orlo del marciapiede e afferrai il cellulare che avevo nella tasca dell’impermeabile con la mano che ancora tremava violentemente. Tentai di fare il numero, ma non ci riuscii. Scoppiai a piangere, un senso di colpevolezza che mi schiacciava il petto.
E se quel ragazzo si fosse ferito gravemente? Avrebbe dovuto farsi controllare quella ferita, andare all’ospedale: e se si fosse procurato un trauma cranico? Avrei dovuto costringerlo a restare, obbligarlo a farsi medicare e chiamare la polizia per denunciare il fatto, ma in quel momento non c’avevo pensato. E ora era troppo tardi.
Quando finalmente riuscii a comporre il numero di mio fratello ero scossa da singhiozzi incontrollabili, tanto che lui faticò a capire ciò che gli dissi.
«Puoi venirmi a prendere?» balbettai non appena sentii la sua voce.
«Totta!» esclamò lui quando sentì il mio tono tremolante e i singulti che mi procurava il pianto. «Dove sei? E’ successo qualcosa? Sei ferita?»
«Sto bene.» mi affrettai a rassicurarlo rendendomi conto del panico che l’aveva invaso. «Non mi sono fatta niente.» Non io. Cercai di riprendere il controllo della mia voce, tirai un profondo sospiro e proseguii: «Sono in viale Roma, davanti alla stazione.»
Non feci nemmeno in tempo a finire la frase che lui mi interruppe.
«Arrivo subito.» Non mi diede il modo di replicare, perché riattaccò il telefono.
Rimasi lì, imbambolata, con la testa tra le mani, per quella che mi parve un’eternità.
Vidi la sua macchina sbucare dalla curva in fondo alla strada e tirai un sospiro di sollievo. Avevo freddo, avevo fame, e i vestiti e i capelli bagnati che mi si erano attaccati alla pelle formavano una barriera gelata che mi faceva rabbrividire.
Scese dall’auto ancora prima di frenare del tutto. L’abbandonò in mezzo alla strada, senza nemmeno darsi pena di chiudere lo sportello, e in due balzi fu accanto a me. Mi afferrò per i polsi e mi costrinse a guardarlo, scrutandomi attentamente in cerca di ferite o lividi.
«Dimmi subito che cosa è successo.» ordinò lanciando un’occhiata terrorizzata al motorino che giaceva accanto a me e al casco poggiato sul marciapiede. «Sei stata aggredita?» attraverso lo scroscio dell’acqua mi sembrò di sentire la sua voce vibrare, così mi affrettai a scuotere la testa.
«Ho investito un ragazzo.» soffiai mentre un singhiozzo mi scuoteva da capo a piedi. Rabbrividii e lasciai che mi aiutasse a rimettermi in piedi.
Alessandro si immobilizzò.
«E’ ferito?» domandò, rigido.
«Non lo so!» esclamai, la voce più acuta che mai. «Aveva un taglio sulla fronte, ma si è alzato, mi ha detto che stava bene e se n’è andato! Non ho fatto in tempo a dire niente…»
Mio fratello sorrise, mi carezzò i capelli fradici e mi abbracciò.
«Se camminava da solo significa che non si può essere fatto più di tanto male.» commentò. «Stai tranquilla. Andavi veloce?»
«No, il motorino era quasi spento quando gli è caduto addosso.»
«Allora vedrai che si riprenderà prestissimo. Magari sarà un po’ ammaccato per qualche giorno, niente di più.» Rialzò la mia moto e la parcheggiò in un angolo, poi mi condusse alla macchina e si mise al volante.
Non parlammo per tutto il viaggio. Sentivo la gola secca, mi girava la testa e il cuore batteva all’impazzata. Spensi la radio quando lui l’accese, e non diedi segno di voler intavolare una conversazione quando cercò di farmi qualche domanda.
Non appena arrivammo in garage sentii i passi frettolosi di mia madre che scendeva le scale.
«Parlerai tu con lei?» implorai a bassa voce scendendo dall’auto. Alessandro annuì.
Mi sospinse su per le scale e fermò mia madre che, con gli occhi sbarrati per la paura, mi era corsa incontro.
«Non ha voglia di parlare.» lo sentii dire. «E’ molto scossa, forse faremmo meglio a lasciarla stare per un po’.»
Corsi in bagno e mi sbattei la porta alle spalle. Mi tolsi i vestiti in fretta, con rabbia, gli scagliai sul pavimento di marmo e aprii l’acqua della doccia. Il suo rumore mi fece rabbrividire.
Troppo, troppo simile alla pioggia sull’asfalto.

Tremavo ancora quando uscii dal bagno. Fuori della porta, ad aspettarmi, c’erano i miei due fratelli insieme a mia madre. Alessandro le cingeva le spalle per tranquillizzarla; Mirko, accanto a lui, più alto e dinoccolato che mai, con gli occhiali poggiati in bilico sul naso adunco, reggeva tra le mani una tazza di cioccolato caldo fumante. Me la porse non appena mi vide.
«Con tanto zucchero.» annunciò mentre afferravo la tazza. «Stai bene?»
Annuii mentre sorseggiavo piano quella bevanda bollente.
«Voglio andare a dormire.» borbottai dopo un po’. Forse mi sarei svegliata la mattina dopo e avrei scoperto che tutto ciò che era successo non era che un brutto sogno.
Non dissero nulla, ma mi seguirono con lo sguardo fino alla mia stanza. Quando chiusi la porta ci vollero dieci minuti buoni prima che sentissi i loro passi allontanarsi.
Mi stesi sul letto e tirai le coperte fino agli occhi. Ero stanca, ma sentivo ancora il terrore nel petto e il freddo nelle ossa. Avevo paura di chiudere gli occhi, temevo di vedere qualcosa che non mi sarebbe piaciuto.
Quando, al limite delle forze, mi costrinsi a cercare di dormire, mi accorsi che non era così difficile ignorare gli avvenimenti e lasciarsi cullare del calore delle coperte e dal profumo di bucato del cuscino…
Quando mi svegliai erano le dieci della mattina. Mia madre, evidentemente, non aveva ritenuto opportuno svegliarmi in tempo per andare a scuola. Il ricordo dell’incidente della sera prima mi appariva quanto mai lontano, sfumato, e a ripensarci mi dava l’impressione di vedere quelle immagini attraverso uno schermo, come se si fosse trattato di un film.
Andai in cucina, ancora assonnata, e trovai mio fratello Mirko seduto sull’orlo del tavolo, con un grosso volume tra le mani. Leggeva chino, con il naso che sfiorava le pagine ingiallite.
«Ed ecco la Totta!» esclamò trionfante quando si accorse della mia presenza. Richiuse il libro con un tonfo e saltò giù dalla tavola. Mi si avvicinò e mi sorrise sornione. «Alessandro ha detto che sei una piratessa della strada.» mi apostrofò. Gli lanciai un’occhiataccia sbieca e lo spinsi da un lato.
«A me a detto che sei un idiota.»replicai, stizzita. «Non dovresti scherzare su queste cose.»
Lui sbuffò, poi mi si avvicinò e mi scompigliò i capelli.
«Ho guardato tutti i notiziari, questa mattina. Nessun ragazzino è stato ucciso da un motorino azzurro con le coccinelle, perciò suppongo che il povero malcapitato sia ancora vivo.»
«Se n’è andato camminando sulle sue gambe.» lo informai mentre aprivo il frigorifero e tiravo fuori la bottiglia del latte. Ne versai un po’ in una tazza e ci aggiunsi del cioccolato in polvere e della cannella. Mi sedetti a tavola e afferrai la ciambella che Mirko mi porgeva.
«Ale ha detto anche che il motorino gli è caduto addosso.»
«E’ stato così, infatti.»
Lui scrollò le spalle.
«Allora non può essersi fatto tanto male. A me è successo un sacco di volte e sono ancora qui, vedi?» Agitò una mano e improvvisò un balletto. Scoppiai a ridere.
«Torna ai tuoi libri, Mirko. Non sei fatto per la danza.» Mi lanciò un’occhiata volutamente affranta, fece finta di asciugarsi le lacrime e parlò con la voce più afflitta che riuscì a modulare.
«Sei ingiusta, Carlotta. Io ho sempre sognato di diventare un ballerino, come Billy Elliot.»
Scossi la testa, ridendo, e non risposi. Finii la mia colazione in silenzio, mentre mio fratello tornava al suo libro.
Tornai nella mia stanza. Improvvisamente, il senso di colpa per ciò che avevo combinato mi attanagliò nuovamente lo stomaco. Com’ero stata stupida a lasciarlo andare via in quel modo! Perché non avevo pensato di fermarlo? Se avessi almeno conosciuto il suo nome, avrei potuto cercare di rintracciarlo per vedere se, a distanza di qualche ora dall’incidente, aveva recuperato abbastanza lucidità da dirmi se stava bene o no.
Mi alzai di scatto e corsi in salotto. Dovevo assolutamente trovare qualcosa da fare per evitare di pensare alla sera prima.
Mi sdraiai in divano e accesi la televisione, la sintonizzai su una televendita e rimase immobile ad ascoltare uno speaker che, entusiasta come un gabbiano sulla discarica, elogiava i miracoli del triplo fondo sventolando una pentola in acciaio risplendente.

Rimasi ferma davanti alla televisione per tutta la giornata, alzandomi solo per affrontare uno stressante pranzo durante cui mia madre cercò di convincermi che la colpa dell’incidente della sera prima era senza dubbio del ragazzo che avevo investito. Non sarebbe dovuto sbucare fuori dal nulla, Totta. Non hai niente di cui preoccuparti. Aveva ripetuto per diverse volte, fino a che, al limite della sopportazione, Alessandro aveva bruscamente cambiato argomento, aggiornandoci sulle sue ultime avventure all’università.
Solo all’ora di cena finalmente mi riscossi. Uscii di casa che era già buio da un pezzo, perciò mi ripromisi di rimanere fuori solo per qualche minuto, giusto per prendere una boccata d’aria. Feci il giro dell’isolato per un paio di volte, poi decisi che forse era meglio andare a letto e puntare la sveglia, giusto per essere sicura di non dover passare un’altra giornata a casa a far nulla. Se fossi andata a scuola, almeno, avrei potuto parlare con le mie amiche e distrarmi.
Quando rientrai cercai di evitare mia madre, che lavava i piatti canticchiando, e i miei fratelli.
Mi rifugiai nella mia stanza e afferrai il libro di storia, sperando che una lettura veloce potesse aiutarmi a superare il compito che mi attendeva il giorno seguente.


«Credo che quando il professore leggerà il mio compito avrà un attacco di cuore.» mi lamentai con Francesca durante la ricreazione. Le prime due ore erano state, per me, un’agonia indicibile che era culminata con la consegna del test di storia peggiore della mia carriera scolastica e, dalla faccia sconsolata della mia amica Ines che, accanto a noi, non aveva ancora detto una parola, capii che forse non ero stata l’unica a fare un disastro.
«Dici sempre così.» mi rimbrottò Francesca scrollando le spalle «E poi te la cavi. Se poi per una volta prendi un’insufficienza, non sarà mica una tragedia.»
«La fai facile tu.» pigolò Ines dallo scalino su cui si era seduta. «Non hai idea di quello che mi farà mia madre quando scoprirà che mi è andato male un’altra volta…»
«Tua madre non dirà niente, come sempre.» replicò l’altra con aria stizzita. «Ti farà promettere che la prossima volta studierai di più e ti lascerà in pace. Piuttosto, non indovinerete mai che cosa è successo questa domenica!» esclamò e a quelle parole parve animarsi.
«Hai ritrovato il rossetto?» s’informò subito Ines, ma Francesca la fece tacere con un gesto impaziente della mano.
«Ho rinunciato a cercarlo, in fondo era solo uno stupido rossetto…»
Ines la interruppe con un grido strozzato.
«Che, oltre a essere introvabile, era mio.» sottolineò, ma già sorrideva, pregustando il pettegolezzo.
«Te ne comprerò un altro.» la liquidò Ines. «Piuttosto… Sono uscita con Uri!»
«Racconta tutto!» la spronai battendo le mani. Erano cinque anni che Francesca cercava di rimediare un appuntamento con lui, che in qualche modo aveva sempre rifiutato, ed ero felice di sapere che finalmente la mia amica aveva ottenuto ciò che desiderava. E, a giudicare dal suo sguardo entusiasta, si era anche divertita parecchio. Anche Ines si era fatta attenta, e si era leggermente sporta verso di lei per poter sentire meglio, sopra al frastuono dei ragazzi che giocavano a pallone e il rombo delle automobili che passavano per la strada.
«Mi ha portata al cinema.» raccontò Francesca parlando velocemente. «Il film non era un granché, ma lui è stato dolcissimo, e poi siamo andati a fare un giro in centro e abbiamo chiacchierato tutta la sera e quando mi ha riaccompagnata a casa mi ha detto che gli farebbe piacere uscire ancora!»
«Wow!» commentò Ines con un’occhiata eloquente. «Alla fine ha capito, allora!» mi lanciò un’occhiata complice.
«Credevamo che lo avresti aspettato per l’eternità.» completai io, poi scoppiammo a ridere.
Fu in quel momento che vedemmo avvicinarsi Uri. Rideva con un amico, un tipo che non conoscevo, ma era evidente che stava cercando di liberarsi di lui a gesti e parole.
Quando arrivò da noi era solo. Il suo amico era tornato a concentrarsi sulla partita di pallone che si stava svolgendo sul campo d’atletica.
«Ciao!» ci salutò con un sorriso radioso che metteva in mostra i denti bianchissimi. Si voltò verso Francesca e le lanciò un’occhiata intensa, carica di significati nascosti, gli occhi neri puntati sui suoi. «Vieni con me?» le domandò a bassa voce.
Lei annuì senza pensarci due volte, ci salutò con un gesto della mano e si allontanò.
Ines e io restammo in silenzio a osservarla mentre rideva insieme a Uri, poi la mia amica si alzò e fece per andarsene.
«Torno in classe.» annunciò. «Devo copiare la versione di latino prima che arrivi la prof. Ci si vede tra un po’.»
«Il mio quaderno è nello zaino!» le gridai quando era ormai giunta alla porta. Sollevò il pollice alle proprie spalle per farmi intendere che aveva capito e sparì dalla mia vista.
Rimasta sola, non trovai niente di meglio da fare che guardarmi i piedi. Mi accorsi di avere le scarpe slacciate, così mi chinai per rifare i nodi.
Mentre ero ancora inginocchiata a terra, due scarpe nere comparvero nel mio campo visivo.
«Ciao.» sentii dire da una voce maschile che non conoscevo. Era roca e bassa, completamente nuova per me. Non mi ricordava nessuno dei ragazzi con cui avevo parlato, magari anche una sola volta.
Alzai lo sguardo, e quando riconobbi il ragazzo che mi stava fissando mi sentii morire il fiato in gola.

 

Ed eccola qui. La storia a cui sto lavorando da più tempo (si parla di quasi due anni) e che, davvero, è quella che sento più mia tra tutte quelle che ho scritto. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate.

Baci,
rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Gioele ***


Giovedì 23 Ottobre

La prima cosa che vidi, come se ci fosse stata solo quella, era la crosta ancora rossa di sangue sulla tempia, in parte coperta dai ricci color mogano che gli ricadevano disordinatamente sulla fronte. Un livido violaceo gli si allungava dall’occhio sinistro al labbro, coprendogli quasi metà faccia.
Il volto, alla luce del sole, sembrava un po’ meno pallido di quanto non mi fosse sembrato sotto alla pioggia, ma l’incredibile azzurro dei suoi occhi era lo stesso. Le labbra sottili erano incurvate in quello che poteva sembrare un sorriso ansioso, e mi fissava come se si aspettasse di vedermi esplodere da un momento all’altro.
«Tu…» mormorai, imbarazzata. Cosa dovevo dire? Non sapevo come comportarmi.
«Mi chiamo Gioele.» si presentò a bassa voce, stringendosi nelle spalle e affondando le mani nelle tasche dei jeans. Da sotto la camicia a quadri si intravedeva la canottiera scura. «Sono quello che hai investito con il motorino.» mi rammentò, come se ce ne fosse stato bisogno. Credeva che non lo ricordassi?
«Sì, lo so.» borbottai, a disagio. «Stai… uhm… stai bene? Voglio dire, non sei ferito gravemente, vero?»
Scosse il capo e sorrise più apertamente. Si sfiorò delicatamente la ferita sulla tempia.
«Un po’ di mal di testa. E parecchi lividi qua e là.» rispose. «Ho preso una bella botta, credo, ma non è niente di mortale.»
«Mi dispiace tantissimo!» esclamai costernata. «Ho cercato di evitarti, ma la strada era bagnata e…»
«Lo so.» mi interruppe lui. «Non sono mica venuto qui per incolparti. E’ solo che mi sei sembrata parecchio sconvolta, così ho pensato che magari era il caso, sì, sai, di farti sapere che sono vivo e che non dovresti davvero preoccuparti.»
«Bè, tanto meglio se stai bene.» sospirai. «Ma vorrei fare qualcosa per scusarmi. Dovresti almeno denunciarmi.»
«Così ti sentirai meno in colpa?» mormorò guardandomi di sottecchi, intimidito. L’espressione dipinta sul suo volto mi diede una stranissima impressione.
Per un istante mi sembrò di trovarmi davanti a un cucciolo di tigre terrorizzato. Innocuo e tremante. Gioele, però, sembrava cercare di contenere bene la propria ansia.
«Credo che non smetterò di sentirmi in colpa solo per questo.» borbottai, rimproverando per l’ennesima volta la mia mancanza di responsabilità. Come avevo potuto accelerare sotto a quell’acquazzone? Ero forse impazzita?
Gioele alzò timidamente la mano e mi sfiorò il braccio per richiamare la mia attenzione.
«Smetti di pensarci, d’accordo?» sussurrò. «Non mi è successo niente.»
Annuii piano, cercando di convincermi che aveva ragione, che sarebbe potuta capitare una tragedia che invece era stata evitata.
«Allora…» borbottò a bassa voce «Hai un nome?»
«Carlotta. O Totta, se preferisci. Mi chiamano tutti così.» Ed era vero. Persino i miei professori sembravano conoscermi solo con quel nome, e solo raramente capitava che mi chiamassero per intero.
«Totta.» ripeté in un soffio inudibile, scandendo attentamente ogni lettera.
«In che classe sei?» domandai, cercando di capire come fosse possibile che non lo avessi mai visto prima. Non avevo mai notato la sua presenza a scuola, e, a essere onesta, non avevo mai sentito nessuno nominare qualcuno che si chiamasse Gioele.
«Quarta B.»
 Rimasi per un attimo a fissarlo, senza dire nulla.
Era un ragazzo così strano! Parlava lentamente, senza mai guardarmi negli occhi, a voce bassa. I suoi sorrisi erano appena accennati; i suoi movimenti delicati, timorosi, a tratti quasi femminili. I lineamenti potevano apparire spigolosi, ma nell’insieme il suo volto era dolce, e la pelle pallida, unita agli occhi chiari, lo faceva apparire tremendamente fragile, indifeso.
«Tu?» chiese dopo un po’, vedendo che ero persa nei miei pensieri.
«Terza C.»  m’interruppi, lo sguardo attirato dal sangue sulla fronte come da una calamita. «Sei andato da un medico?» gli domandai, forse un po’ brusca.
Si ritrasse leggermente, ma sorrise.
«Appena tornato a casa sono stato sottoposto a una stressante visita medica completa.» annunciò con un tono volutamente solenne. «Mia madre è traumatologa, ci ha messo più di un’ora per capire che stavo benissimo. Mi sono preso anche una bella strigliata perché non ho fatto abbastanza attenzione.» aggiunse sottovoce.
«Ma non è stata colpa tua!» esclamai, sconvolta. Sembrava che funzionasse tutto al contrario. Io, che avevo rischiato di ferire gravemente una persona, ero stata coccolata e tranquillizzata; lui, che era, semmai, la vittima, era stato rimproverato. Com’era assurdo!
«Sì, ma è proprio tipico di me farmi investire da un motorino quasi fermo.» borbottò stringendosi nelle spalle. «I miei genitori lo sanno bene. Mio padre crede che il mio sia un modo per attirare l’attenzione.» lasciò cadere quel commento quasi casualmente, e non capivo se fosse perché desiderava ricevere un mio parere o perché, semplicemente, voleva mettermi al corrente dei fatti.
«E’ così?» indagai.
Abbozzò un sorriso, guardando altrove.
«Non mi sono accorto del tuo motorino finché non me lo sono trovato sopra. Erano coccinelle?»
La sua risposta mi lasciò basita. Potevo capire la sbadataggine, perché io stessa non ero quella che si poteva definire una persona attenta, ma da lì a non accorgersi dell’arrivo di un motorino fuori controllo mi sembrava che ne passasse. Ma ciò che mi stupì maggiormente fu che avesse notato, in tutto quel trambusto, i disegni sulla scocca del mio mezzo.
«Sì…» mormorai. «Coccinelle.»
In quel momento suonò la campanella che segnava la ripresa delle lezioni. Mi avviai in silenzio verso la porta, meditabonda, mentre Gioele camminava lentamente accanto a me, lo sguardo perso nel vuoto. Un ragazzo con una folta zazzera di capelli biondi ci superò ridendo e diede una pacca sulla testa a Gioele, che immediatamente si portò una mano alla tempia con un’espressione di sofferenza sul volto contratto per il dolore.
«E’ la tua nuova ragazza, Genio?» lo denigrò, sputando l’ultima parola come se si fosse trattato di una terribile offesa.
«Idiota.» borbottai fermandomi accanto a Gioele, che si era bloccato in mezzo al cortile, le dita premute sulla fronte, le labbra contratte, gli occhi serrati.
«Ti senti male?» gli domandai con voce eccessivamente acuta mentre lo vedevo impallidire vistosamente davanti ai miei occhi.
Pensai che fosse sul punto di svenire, perciò gli poggiai una mano sulla spalla, preoccupata, e mi guardai intorno in cerca di qualcuno che potesse aiutarmi.
Ma in giardino non era rimasto nessuno, ormai, e i pochi ragazzi che passarono accanto a noi si limitarono a fissarci ridendo.
«E’ tutto a posto.» sputò lui tra i denti, mentre riapriva gli occhi e li sbarrava, come per rimettere a fuoco la scena. «E' la botta che ho preso.»
Si raddrizzò e trasse qualche profondo respiro, poi riprese a camminare verso l’ingresso. Non mi allontanai da lui, che, pallidissimo, mi sembrava ancora sofferente.
«E’ tutto a posto.» ripeté lui a voce leggermente più alta. Si scostò da me e annuì. «Dovremmo andare in classe, siamo già in ritardo.»
Aprii la bocca per parlare, per dirgli che avrebbe dovuto andare in infermeria, ma lui non mi diede il tempo di emettere un fiato. Si voltò verso di me, guardandomi negli occhi per la prima volta, e parlò lentamente, con voce stanca.
«Andiamo in classe. Non ho bisogno di niente, davvero. Ce la faccio, mi è passato.»
Annuii, turbata, e ripresi a camminare verso l’ingresso. Lui mi ignorò. Quando giungemmo davanti alla mia classe non mi guardò nemmeno e proseguì per la propria strada, proprio come se fossi stata una perfetta sconosciuta.
La professoressa non era ancora in classe quando entrai. Due mie compagne disegnavano fiori alla lavagna, mentre i maschi, seduti a terra vicino alla finestra, commentavano con urla e schiamazzi l’ultima partita di calcio.
Ines mi corse incontro.
«Grazie per la versione.» esordì non appena fu abbastanza vicina da farsi sentire. «Dovresti scrivere meglio, però, perché la tua calligrafia è illeggibile. Ci avrei messo la metà del tempo se fossi riuscita a decifrare tutte le parole. Chi era quel tipo con cui parlavi, poco fa? Non mi sembra d’averlo mai visto.»
«Uno che ho investito in motorino due giorni fa.» sospirai, evitando di notare il suo brusco cambio d’argomento. Ero abituata, ormai, all’esuberanza della mia amica, al suo particolare modo di sistemare i corti capelli rossi dietro alle orecchie e alla velocità con cui parlava, ma ogni tanto non potevo fare a meno di pensare che aveva, davvero, troppa energia.
«Ma dai? Com’è possibile questa cosa?» fece con tono sarcastico. «Ti diciamo sempre di non correre, e tu non ascolti mai!» mi rimproverò agitando una mano. «Spero che quel povero disgraziato non si sia fatto male. Anche se aveva un bel livido, diciamocelo.»
«Stavo andando piano!» protestai. «E comunque, dice di stare bene.»
«Non l’ho mai visto prima. Chi è?»
«Si chiama Gioele, è in quarta B. Ma tu mi credi se ti dico che non l’ho neppure mai sentito nominare?»
«Già.» annuì lei, pensierosa. «Pure per me è una faccia nuova, e neanche una faccia granché bella. Ce ne sono di migliori.»
«Questo cosa c’entra?» sbottai. Non era raro che Ines guardasse la situazione solo in relazione alla bellezza del ragazzo in questione, e, nonostante sapessi che i suoi erano solo commenti, e che la mia amica non era superficiale come avrebbe potuto sembrare, non riuscii a fare a meno di sentirmi irritata. «Avrei potuto ammazzarlo, cosa importa se è figo o non lo è?»
«Nulla, in effetti.» commentò Ines con leggerezza. «Facevo considerazioni. Cosa è venuto a dirti? Che intende denunciarti e che ti aspetterà fuori da scuola per riempirti di botte?»
Lanciai una breve occhiata all’orologio appeso alla parete, cercando di immaginare quanto tempo ci sarebbe voluto prima che la professoressa, già mostruosamente in ritardo, arrivasse, poi mi sedetti sul tavolo più vicino e sospirai.
«Esattamente il contrario, in effetti.» borbottai. «E’ venuto a dirmi di non preoccuparmi, che la colpa è stata sua e che sta bene. E’ stato piuttosto irritante.»
«Una bella sfuriata placa il senso di colpa.» sentenziò Ines incrociando le braccia. Rimase un istante in silenzio, gli occhi verdi chiusi, poi li riaprì e mi rivolse un sorriso vivace .
«Parlando di cose serie. Quando esci con Gabriele?»
Arrossii vistosamente e saltai giù dal tavolo, mi avvicinai alla mia amica e le tappai la bocca con la mano.
«Mai!» sibilai. «Non parlare ad alta voce, se Sandro lo sente lo va a raccontare a tutta la scuola.»
Ines si liberò dalla mia presa e mi rivolse uno sguardo di sufficienza.
«Sandro è suo fratello, sicuramente lo sa già. E poi, non c’è niente da nascondere. Prendi me, per esempio: tutti sanno che sono uscita con Marco.»
«E con Mattia, Vito, Leonardo, Simone, Gabriel, Dragan, Joe, Fabiano… lo sanno perché se lo sono raccontati tra di loro mentre parlavano delle fidanzate!»
«Esagerata. Lo sanno perché non lo nascondo a nessuno. Perché te ne vergogni?»
«Perché» sibilai «sabato esco con lui per la prima volta, e sarei molto più tranquilla se la faccenda non diventasse affare pubblico.»
«Certo, perché la tua vita interessa a tutto il mondo. Ascolta me: goditi l’appuntamento e fregatene degli altri.»
«Tutti a posto, fate silenzio!» tuonò una voce furiosa dalla porta. La professoressa, strizzata nel suo tailleur grigio topo, entrò in classe a passo di marcia e si sistemò dietro alla cattedra con uno scatto nervoso.
In pochi secondi, in classe tornò l’ordine e lei aprì il registro con un moto di stizza.
«Interrogo.» annunciò. Si voltò a guardarmi e mi fece un cenno eloquente con la mano. «Viglianisi, alla lavagna immediatamente. E voialtri… silenzio.»
La mia interrogazione durò per quello che mi parve un tempo immensamente lungo e non andò affatto bene.
Sospirando, mi trascinai al mio posto e aspettai in silenzio la fine della lezioni.

«Ciao.»
Salutai Francesca con un cenno della mano e m'incamminai verso la fermata dell'autobus, mentre lei mi seguiva con un'espressione interrogativa stampata sul volto.
«Che tipo è Gioele?» le domandai dopo un po'. Sollevò gli occhi al cielo e fece un cenno impaziente con la mano. «Non è in classe con te?» insistetti.
«Come l'hai conosciuto?» chiese, stupita. «Non parla con nessuno, a meno che non sia costretto.»
«L'ho investito con il motorino.» spiegai brevemente, in attesa di una risposta. Non sapevo per quale motivo sentissi il bisogno di saperne di più su di lui, ma in quel momento mi sembrava più importante che mai riuscire a racimolare il maggior numero possibile di informazioni su di lui.
«Un tipo pieno di soldi, ecco com'è.» rispose la mia amica con un sospiro desolato. «Credimi se ti dico che è una delle pochissime cose che si sa di lui. Te l'ho detto, non parla mai, e se qualcuno gli fa una domanda su di lui o sulla sua famiglia risponde con un non lo so o non me lo ricordo. Ah, e poi è bravissimo a scuola, questo sì. Quelli che hanno i nostri professori lo sanno tutti: lo adorano e ne parlano in continuazione. Credo che non abbia mai preso meno di otto, da quando è qui.»
«Accidenti.» commentai con un fischio.
«Infatti. E tu non hai idea di quello che voglia dire essere interrogati insieme a lui. Perché i prof. fanno i confronti e poi si strappano i capelli, e se c'era una speranza di prendere la sufficienza... bé, meglio rassegnarsi.»
«Non sembrerebbe, a vederlo.»
«No, vero? Eppure è così. Ma è un tipo tranquillo, sai, e se ci riesce cerca di aiutare durante i compiti. Non tutti, però. Odia Luca e sono sicura che un giorno o l'altro si uccideranno.»
Soffiai. Esagerata come sempre.
«Sei pronta per l'appuntamento di sabato?» cambiò improvvisamente argomento lei. «Scommetto che non vedi l'ora.»
Mi sentii arrossire violentemente,
«Volete smetterla di parlarne, tu e Ines? Lo sai che non mi va.»
«Se non volevi che ne parlassimo non dovevi dircelo. Dove andrete?»
«Non te lo dirò mai.» risposi piccata. L'ultima cosa che volevo era ritrovarmi le mie amiche alle costole durante l'appuntamento con il ragazzo a cui andavo dietro da una vita.
«Tanto lo scoprirò!» canticchiò lei con aria canzonatoria.
«Ma certo.» replicai ridendo. «Lo scoprirai il lunedì, quando ti racconterò com'è andata.»
Spalancò la bocca.
«Crudele!» si lagnò. «Credi davvero che sarei capace di seguirvi?»
«Assolutamente sì. So che lo faresti, e non dire di no.»
Incrociò le braccia sul petto prosperoso e scosse il capo. I ricci scuri, tagliati appena sotto alle orecchie, le si scompigliarono più di quanto non fossero già e lei non si diede pena di sistemarli.
«Forse lo farei.» ammise con un sorriso. «Ma sappi che ti chiamerò domenica mattina e tu mi dovrai raccontare ogni minimo particolare. Capito? Non dovrai saltare nemmeno una parola di quello che vi siete detti.»
«Lo farò!» risposi ridendo.
Salimmo sull'autobus chiacchierando, e non ci accorgemmo subito della presenza di Vito.
Portava i capelli lunghi, la sua immancabile giacca di pelle nera e i jeans scoloriti. Avevo parlato con lui solo un paio di volte, il mese prima, quando usciva con Ines. Alla fine, lei l'aveva piantato per quel Marco che stava al quarto anno e che già stava perdendo posizioni in confronto alla sua nuova preda, tale Filippo, di cui io non avevo assolutamente ricordi, nonostante lei continuasse a ripetere che ci avevo parlato insieme un paio di mesi prima.
«Ecco che arriva la lagna.» mi sussurrò all'orecchio Francesca, avvinghiata al palo di sostegno, mentre Vito avanzava verso di noi facendosi strada tra la calca di vecchiette che tornavano in autobus dal mercato del giovedì.
«Ciao, ragazze.» ci salutò mestamente quando fu sicuro che eravamo a portata d'orecchio.
«Vito!» lo salutò Francesca con falsa allegria. Io mi limitai a fargli un cenno con la testa, impegnata com'ero a cercare di mantenere l'equilibrio tra mille borse della spesa e un passeggino che qualcuno aveva abbandonato accanto a me. «Come stai?»
Le pestai con forza un piede. Con che coraggio gli faceva quella domanda? Probabilmente adesso ci sarebbe toccato ascoltare uno dei suoi monologhi sulla disperazione che l'aveva assalito quando Ines aveva deciso di rompere con lui.
«Niente è più come prima.» sospirò con aria melodrammatica. Francesca sbuffò piano, evitando di farsi sentire da lui che, fortunatamente, non era riuscito a venirci accanto e in quel momento si trovava a qualche passo da noi. I viaggiatori che si trovavano tra noi ci nascondevano in parte alla sua vista, tanto più che io non ero abbastanza alta da sovrastare le loro teste e guardare il ragazzo, perciò non mi feci problemi a sollevare gli occhi al cielo in direzione di Francesca, che annuì e si passò un dito sulla gola per indicarmi la fine che avrebbe preferito fare piuttosto che ascoltarlo sino all'arrivo.
«Quindi, capite, per me Ines era così importante... Non riesco a capire come abbia potuto preferire Marco a me. Voglio dire, lui è simpatico, però non riesco a capire l'attrazione...» stava dicendo Vito quando riuscii finalmente a riconcentrarmi sulle sue parole. Annuii con convinzione, facendogli così credere di aver ascoltato ciò che aveva detto.
«Certo.» approvò Francesca. «Assolutamente inspiegabile.»
Non so se Vito riuscì a cogliere il tono sarcastico della mia amica, perché continuò a parlare come se nessuno avesse detto niente.
«Così, quando la vedete, se vi capita di finire in argomento, chiedetele perché mai si ostina a evitarmi... Magari è disposta a cambiare idea,  forse ha solo timore di dirmelo...»
«Ma certamente.» mi sussurrò Francesca all'orecchio, ironica. «Se fosse così direi che stiamo parlando di due Ines diverse. L'ha lasciato perché è una piaga, cosa c'è da cambiare idea?»
Non risposi. Per fortuna la nostra fermata non era lontana, così mi affrettai a salutare Vito con mille scuse e cercai di farmi strada verso el porte d'uscita, con Francesca che mi camminava accanto spingendo da parte quelli che si trovavano sulla nostra traiettoria.
Quando scendemmo tirò un sospiro di sollievo.
«Lo ucciderò prima o poi.» esclamò esasperata. «Perché non fa come tutti, che quando vengono lasciati se ne vanno a cercare un'altra? E poi, che cosa avrebbe mai dovuto aspettarsi da Ines? Di portarla all'altare? Credimi se ti dico che quello lì su questo mondo ce l'hanno messo per sbaglio.»
Sorrisi e salutai la mia amica con un gesto stanco della mano.
«Vado.» annunciai, ignorando il suo sfogo. «Devo studiare e decidere che cosa mettermi sabato.»
«Hai bisogno di un consulto, magari, per il vestito? Sai che ho più occhio di te.»
«Sì, ma se scegli tu sembrerà che io stia andando a ritirare l'Oscar direttamente dalle mani di George Clooney, perciò grazie, ma credo che farò da me.»
Annuì e si allontanò per la strada deserta, saltellando allegra sotto al sole pallido di mezzogiorno mentre cantava una vecchia canzone d'amore.

 

Ed ecco il secondo capitolo, con la presentazione del povero disgraziato che è finito sotto al motorino. Spero che vi sia piaciuto.
Ringrazio le persone che hanno letto, che hanno inserito la storia tra le seguite e tra i preferiti e Charlie_me che ha commentato lo scorso capitolo.

Baci,
rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Gabriele ***


Sabato 25 Ottobre

Sabato arrivò più in fretta di quanto avessi sperato. Se, per tutta la settimana, avevo creduto che i giorni stessero trascorrendo troppo lentamente, quella mattina arrivai alla conclusione che non era così e che avevo bisogno di altro tempo per prepararmi, quanto meno psicologicamente, all’appuntamento.
Mentre ero ancora affannata a rovistare nel mio armadio, al culmine della disperazione, sentii due colpi alla porta.
«Totta!» ululò la voce di mio fratello Alessandro da fuori. «Sono le cinque meno un quarto! Sbrigati! Cacciati addosso la prima cosa che ti passa tra le mani e corri via, altrimenti arriverai in un ritardo mostruoso.»
«Sono pronta!» mentii afferrando la prima maglietta che mi capitò tra le mani. «Sto arrivando.»
Mi vestii in fretta, senza nemmeno fare caso a ciò che stavo indossando, consapevole che mio fratello aveva ragione. Gabriele ed io avremmo dovuto incontrarci alle cinque e un quarto in centro e ci avrei messo almeno quaranta minuti per arrivare lì.
Uscii dalla mia stanza di corsa, lasciando che la porta sbattesse alle mie spalle. Mi precipitai in garage agguantando al volo il giubbetto che avevo lasciato sull’attaccapanni, decisa a fare più presto possibile, ma quando vi arrivai mi fermai all’improvviso.
Era lì, davanti a me.
Il mio fedele motorino. Mirko l’aveva recuperato il giorno dopo l’incidente. Lo osservai per qualche istante.
Non aveva riportato grandi danni: a parte una lunga rigatura sulla scocca azzurra era in perfette condizioni. Mi tornò in mente il giorno in cui l’avevo portato dal mio amico Marco perché lo dipingesse. Quando gli avevo spiegato di volere delle coccinelle sullo sfondo azzurro mi aveva fissato con un misto di incredulità e compassione sul volto e aveva accettato solo dopo che gli avevo promesso che non avrei raccontato in giro che aveva accettato una simile richiesta.
Quanto ero affezionata a quella moto! L’idea di lasciarla ad arrugginire in garage mi tormentava, eppure ero terrorizzata all’idea di guidarla di nuovo. Se chiudevo gli occhi vedevo ancora Gioele che spariva sotto alla carrozzeria, il suo volto insanguinato, confuso… E se fosse successo di nuovo? Se avessi di nuovo perso il controllo, se non fossi riuscita a rimanere in carreggiata? Sarebbe potuto scoppiare un altro acquazzone…
Alla fine mi risolsi di prendere l’autobus. Sarei arrivata in ritardo e avrei congelato durante l’attesa alla fermata, ma non me la sentivo di mettermi di nuovo alla guida.
Feci per voltarmi e uscire dal garage quando sentii una mano che si poggiava sulla mia spalla.
«Dovresti davvero prendere la moto.» Commentò Mirko con un sorriso. Non mi diede il tempo di spiegargli le mie motivazioni e continuò: «E’ il modo migliore. Se non ricominci subito, finirai per averne paura tutta la vita. Non capita tutti i giorni di investire qualcuno, sai? E poi, non hai detto che non si è fatto nulla?»
«Nulla di grave.» Lo corressi. «E’ a scuola con me. L’ho visto due giorni fa. Ha un livido su tutta la faccia e un taglio spaventoso sulla fronte.»
«Avrebbe potuto essere una tragedia. Invece non è successo niente di così straordinario. Ascolta me, d’accordo? Sali su quel motorino e vai all’appuntamento. Oggi è limpido, non si metterà a piovere all’improvviso.»
«Non me la sento.»
«Non pensare a quello che è successo!» esclamò allora lui, severo. «Vuoi vivere nel terrore di fare del male a qualcuno per il resto dei tuoi giorni? Sali su quel motorino e fila all’appuntamento, sei già in ritardo e se non ti vede arrivare il tuo amichetto se ne andrà, vedrai se non ho ragione. Corri!»
Seguii il suo consiglio, riluttante.
Trascinai lentamente il motorino fuori dal garage e lo accesi. Quando salii sentii che mi tremavano le mani, ma appena diedi gas la sensazione cambiò.
Mi sembrava che l’incidente non fosse mai accaduto. Ero di nuovo sulla strada, più attenta che mai, ma comunque padrona di me stessa e del mio mezzo.
Mi presi la libertà di accelerare un poco in mezzo alla carreggiata pressoché deserta, consapevole di essere già in ritardo.
Arrivai in centro un quarto d’ora dopo l’orario stabilito, scesi dal motorino con un salto e mi sfilai il casco guardandomi intorno alla disperata ricerca di Gabriele.
E se si fosse stancato di aspettare, se avesse deciso di andarsene? Non avrei certo potuto dargli torto; non era stato carino, da parte mia, arrivare con un tale, mostruoso ritardo.
«Totta!» esclamò all’improvviso una voce maschile dietro di me. Mi voltai con un’espressione colpevole e un sospiro di sollievo.
«Scusa.» dissi in fretta, imbarazzata.
«Credevo avessi deciso di darmi buca!» rise Gabriele avvicinandosi a me e scoccandomi un bacio sulla guancia. Arrossi e sentii lo stomaco contrarsi violentemente a quell’improvviso contatto fisico che non mi aspettavo e a cui non ero preparata.
«C’ho messo più tempo del previsto per prepararmi.» confessai con il volto ancora in fiamme. Lui mi lanciò un’occhiata divertita e mi passò un braccio attorno alle spalle, spavaldo.
«L’avevo immaginato.» commentò, allegro. «Anche mia sorella ci mette sempre un sacco di tempo quando deve uscire con qualcuno. Devo quindi dedurre che hai passato il pomeriggio immersa tra i vestiti, in cerca di qualcosa di adatto?»
«Ci sei andato  vicino.» risposi ridendo. A dire la verità ci aveva proprio azzeccato. Aveva solo dimenticato di citare i miei innumerevoli tentativi di truccarmi e la decisione finale di lasciare perdere, e le scarpe che, in un impeto di rabbia, avevo gettato dalla finestra. Le maledette erano finite nell’unica pozzanghera rimasta nel giardino di casa, costringendomi così a recuperarle dal fango, a gettarle in lavatrice e ad asciugarle con il phon, ormai in preda a una terribile crisi isterica.
«Beh, sei molto carina.» si complimentò, compiaciuto, e io avvampai. In realtà sospettavo che lo dicesse per farmi un piacere; i miei abiti non avevano niente di speciale, dato che li avevo indossati il giorno prima per la scuola, avevo il volto arrossato per il vento che mi aveva colpito la faccia mentre andavo in motorino e i capelli arruffati dal casco.
A pensarci bene, riflettei, il mio aspetto doveva dare l’impressione che fossi una povera disperata. Nonostante questo, però, non potei impedirmi di rallegrarmi per il complimento.
Una folata improvvisa di vento mi fece rabbrividire. Il viaggio in moto aveva contribuito a congelarmi più di quanto non fossi alla partenza, e l’aria umida di quella giornata grigia mi si attaccava alla pelle, facendomi tremare.
«Allora…» esordii. «Ti andrebbe di andare a bere qualcosa di caldo?» proposi, sperando che accettasse.
«Qualcosa di caldo?» ripeté lui, stranito, come se lo avessi appena distratto da chissà quali pensieri.
«Sì.» annuii. «Qualcosa di caldo. Molto caldo.»
Mi fissò per un attimo, pensieroso, poi scoppiò a ridere.
«Ma certo!» acconsentì.  «Non vorrei davvero che tu congelassi qui.»
«Fa freddo e sono venuta in moto.» mi difesi, imbarazzata. A sentire parlare lui mi parve che la mia fosse una richiesta assurda.
«Conosco un posto molto carino vicino alla piazza.» m’informò. «Ti andrebbe di andare lì? E’ tranquillo, non rischiamo di incontrare nessuno di indesiderato.»
Il suo tono era leggero e spensierato, ma avevo il forte sospetto che temesse l’intrusione da parte di qualcuno dei suoi amici, o, peggio ancora, di uno dei suoi tanti fratelli.
«Sei pedinato?» domandai, fingendomi seria.
«Sembra di sì.» si interruppe un istante mentre camminavamo lentamente verso la piazza, mi rivolse un sorriso sardonico che gli conferiva un’aria assolutamente irresistibile e aggiunse: «Ma anche tu lo sei, perciò stai attenta. Credo di aver visto la tua amica con i capelli rossi poco fa. Passava per caso, o almeno questo è quello che dava l’impressione di fare, ma credo che oggi nessuno dei nostri amici sia da queste parti per caso
L’informazione mi irritò, ma dentro di me avevo sempre saputo che Ines non si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione per seguire un pettegolezzo così succulento. Erano anni che cercavo di attirare l’attenzione di Gabriele, in qualche modo, e quando alla fine ero riuscita nel mio intento non avevo resistito all’impulso di raccontarlo alle mie amiche, anche se sapevo che ciò avrebbe significato una perdita immediata della privacy.
E anche in quel momento, mentre camminavo accanto a lui con la sensazione di viaggiare tra le nuvole, mentre ancora mi teneva stretta a sé, non riuscivo a credere di essere davvero a un appuntamento con Gabriele.
Era stato lui a prendere l’iniziativa e lo aveva fatto in modo del tutto inaspettato. Fino a pochi mesi prima l’avevo conosciuto solo di vista, attraverso suo fratello Sandro, che era in classe con me, e avevo avuto occasione di parlare con lui solo poche volte, e mai per più di una decina di minuti.
E poi, durante un caldo pomeriggio di giugno, mentre ero sola in casa, aveva squillato il telefono. Ricordavo che il cuore mi aveva saltato un battito quando avevo riconosciuto, all’altro capo della cornetta, la voce melodiosa di Gabriele, che aveva asserito d’aver sbagliato numero e aveva iniziato a chiacchierare con me con una scusa. Quando avevo riagganciato avevo immaginato che fosse stato tutto un meraviglioso, irrealizzabile sogno, ma il giorno dopo il telefono aveva squillato di nuovo e a salutarmi era stata di nuovo la sua voce.
E quella consuetudine era durata fino all’inizio della scuola, quando l’avevo trovato ad attendermi all’uscita dalle lezioni. Mi aveva accompagnata a casa, chiedendomi di raccontargli di me, cercando di sapere tutto il possibile su ciò che amavo e ciò che, invece, non sopportavo.
E soltanto due settimane prima, quando, com’era ormai d’abitudine, era venuto a prendermi alla fine delle lezioni, mi aveva chiesto di uscire con lui, un pomeriggio, per quello che aveva scherzosamente definito un primo appuntamento.
«Eccoci qui!» esclamò allegro Gabriele quando giungemmo davanti a un piccolo bar quasi invisibile dalla strada.
Capii immediatamente perché mi avesse portato lì. Di sicuro né Ines né qualcuno dei suoi amici avrebbe mai pensato di cercarci in un posto simile.
L’ambiente era piccolo e caldo, con le pareti colorate di chiaro e il pavimento di legno tirato a lucido. Dietro al bancone un anziano barista si affaccendava attorno a tazzine e bicchieri con il volto arrossato per il caldo e la fatica. Quando ci vide entrare ci rivolse un sorriso raggiante e ci salutò con un cenno del capo.
«Buongiorno!» esclamò. Eravamo gli unici clienti, perciò ci dedicò tutta la sua attenzione. «Cosa vi posso portare?»
«Per me un caffè.»
Gabriele sollevò un attimo la testa per guardare il soffitto. Appariva quanto mai concentrato, come se la scelta fosse troppo difficile per lui.
«Un cappuccino.» decise alla fine. Mi circondò le spalle con il braccio, mi scoccò un bacio sulla fronte e mi condusse verso il tavolino più isolato del locale.
Il barista arrivò dopo pochissimo con le nostre ordinazioni e subito dopo si ritirò dietro al bancone, concedendoci un po’ di privacy.
«Allora.» esordii Gabriele con un sorriso splendente che mi fece attorcigliare piacevolmente lo stomaco. «Ho sentito dire in giro che hai lasciato la squadra di pallavolo. Non sarà mica vero? Sei brava, ti ho vista giocare.»
«Neanche la metà di quanto sarebbe necessario.» mi schernii, ma sorrisi compiaciuta dal complimento. «Comunque, alla fine ho dovuto smettere. Rischiavo di essere bocciata l’anno scorso, quindi ho dovuto scegliere…» Mi sentii assalire da un’ondata di nostalgia, perciò mi sforzai di sorridere e proseguii: «D’altra parte, se non avessi smesso in questo momento sarei a una partita e non certo in un bar insieme a te.»
Scoppiò a ridere, mi guardò e ammiccò.
«Allora forse è meglio se hai lasciato perdere!» concluse allegramente. «Anche se immagino che non sia stato facile, per niente. Ma sai com’è… ci saranno altre occasioni, suppongo.»
«Forse.» scrollai le spalle. «O magari no. Ma non sono qui per deprimermi. Perciò parliamo d’altro, ok?»
«Hai ragione.» approvò.
Per qualche lunghissimo istante calò un velo di silenzio imbarazzato.
«Dunque…» disse dopo un po’ lui, un sorrisetto ironico stampato sul volto abbronzato, gli occhi neri che rilucevano di curiosità. «Vediamo se sei una ragazza seria come sembri…»
Scoppiai a ridere e rischiai di soffocarmi con il mio caffè.
«Seria?» ripetei. «Credo che tu sia uscito con la Carlotta sbagliata!»
«Bè, a vederti lo sembreresti.» si difese lui senza smettere di sorridere. «Sei brava a scuola?»
Inarcai le sopracciglia, divertita.
«C’eri poco fa, quando ti ho detto che rischiavo di essere bocciata?»
«Certamente.» poggiò il gomito sul tavolo e mi fissò con apparente serietà, agitando il dito davanti al mio volto. «Quando hai detto che l’anno scorso rischiavi di essere bocciata. Ma io parlo di quest’anno.»
«Ok, è vero.» ammisi. «Comunque, sono riuscita a migliorare un po’. Anche se, come i professori non fanno che ricordarmi, potrei fare molto di più.» pronunciai le ultime parole imitando la voce della mia insegnante di latino, che mi ripeteva quella frase ogni volta che avevo la sfortuna di essere abbastanza vicina da poter sentire la sua voce. «Tu, invece? Sandro dice che sei il migliore della classe.»
«Sandro esagera.» replicò lui serio. «Sono i miei compagni che vanno malissimo, per questo sembra che io sia un secchione. Ma non è affatto così, credimi. E’ che quel poco che studio mi basta. E poi, sono uno a cui piace fare altro.»
«Del tipo?» indagai, incuriosita.
«Del tipo guardare la televisione. In quello, credimi, non mi batte nessuno. Sono campione nazionale di zapping, che cosa credi?»
Risi. In effetti, Sandro mi aveva accennato qualcosa riguardo al fatto che Gabriele aveva preferito abbandonare la squadra di calcio in cui giocava perché, come sosteneva lui, il fratello era una persona estremamente pigra, ma ero sempre piuttosto scettica riguardo a quello che mi diceva.
«Bè, complimenti.» scherzai. «Immagino ci sia voluto un certo impegno per guadagnarti il titolo.»
«E’ così.» mi assicurò. S’interruppe un istante, pensieroso, poi riprese: «Ma leggo, anche. Parecchio. Sì, direi che è uno dei miei hobby preferiti.»
Arrossi leggermente, imbarazzata. Io, in tutta la mia vita, avevo completato sì e no quattro libri e tre di questi mi erano stati imposti dalla mia insegnante di italiano, che sosteneva che i miei temi sarebbero migliorati moltissimo con un po’ di lettura. Ma non ero riuscita a resistere al potere soporifero che mi dava la carta stampata e ben presto avevo abbandonato tutti i miei propositi di impegnarmi a leggere di più.
Quando glielo confessai, un po’ a disagio, lui dapprima mi lanciò un’occhiata scettica, poi, dopo qualche istante di silenzio, sorrise.
«Suppongo che non sia così importante. Insomma, tu fai un sacco di altre cose che io odio e non ci trovo proprio niente di male.»
Annuii, ma mi resi conto che, con quella frase, la conversazione assumeva un tono più distaccato. L’imbarazzo che si era creato era terribile ed entrambi ne eravamo vittime.
Mi rigirai la tazzina del caffè ormai vuota tra le mani, in silenzio, fino a che lui non si alzò per andare a pagare. Appena feci per prendere i soldi mi rivolse un sorriso sconvolgente e scosse la testa.
«Ma sei matta?» mi redarguì, allegro. «Che non si venga mai a sapere che porto fuori una ragazza e poi le faccio pagare il caffè! Per carità, lasciami fare il cavaliere.»
«Come vuoi.» replicai rimettendo in tasca il portafogli, felice che fosse tornato a sorridere come prima.
Uscimmo dal bar e l’aria fredda che ci investì ci fece rabbrividire.
«Definitivamente si stava meglio dentro.» commentò lui con leggerezza. «Ma suppongo che sia del tutto impossibile teletrasportarsi, perciò penso che faremmo meglio a incamminarci verso il tuo povero motorino con le coccinelle. Mi credi se ti dico che non ne ho mai visto uno simile?»
«Certo che ti credo. L’ho fatto dipingere io da una persona che mi ha fatto promettere che non avrei mai detto in giro quello che aveva fatto. Dice che ha contribuito ad aumentare la mia follia.»
«Credo che abbia ragione!» esclamò Gabriele mentre iniziavamo a incamminarci verso il parcheggio. «Sai, qualcuno pensa che tu non stai su questa terra con la testa.»
Lo squadrai con un finto sguardo indagatore e sussurrai con tono da cospiratore:
«Hai parlato con mia madre, recentemente?»
«Credo che non ho mai avuto la fortuna di incontrarla. Ma Sandro mi ha raccontato alcune storielle molto divertenti su alcune cose che hai fatto a scuola…»
Mi sentii ghiacciare.
«Non voglio sapere che cosa ti ha detto.» sibilai prima che potesse emettere un altro suono. «Ma sappi che lunedì ucciderò tuo fratello, tanto per precauzione.»
«Come vuoi.» commentò con un sorriso sghembo che mi fece per un attimo perdere la lucidità. «Ma non era niente di così terribile. E’ vero che hai detto a un professore che avrebbe fatto meglio a lavarsi le orecchie, se proprio non sentiva quello che gli stavi dicendo?»
Mi sbattei una mano sulla faccia quando mi tornò in mente quella orrenda scena. Era stata durante una giornata molto stressante che era culminata con un litigio di classe per alcuni problemi che erano sorti durante una lezione particolarmente noiosa, che era degenerato fino al punto in cui avevo accusato il professore di non stare ad ascoltare ciò che avevamo da dire, fino a quando, infuriata, gli avevo gridato quella frase che Gabriele aveva ripetuto.
Mi ero subito resa conto della tremenda maleducazione con cui mi ero rivolta all’insegnante e così lui, che mi aveva affibbiato un meritato due sul registro, una nota di demerito e la convocazione dei miei genitori. Da quel giorno avevo imparato a tenere la bocca chiusa, e speravo che nessuno mi avrebbe riportato alla mente quello spiacevole avvenimento.
«Siamo arrivati.» constatò Gabriele quando giungemmo davanti al mio motorino. «Direi che è stato piacevole, ma più un incontro tra amici che un primo appuntamento.» sospirò con aria melodrammatica e aggiunse, guardandomi di sottecchi: «Spero proprio quindi che vorrai accettare di uscire con me ancora, in futuro, così potremo risolvere questa terribile mancanza.»
Arrossii e annuì, sorridendo. L’idea di un secondo appuntamento con Gabriele mi elettrizzava e così, quando mi chinai a prendere il casco, non mi accorsi che mi si era avvicinato. Nel momento in cui mi drizzai mi ritrovai il suo viso abbronzato a pochissimi centimetri dal mio.
Chiusi gli occhi per un istante, mentre un debole profumo di dopobarba mi arrivava alle narici. Sentivo il suo fiato caldo sul volto e già mi stavo perdendo in quelle piacevoli sensazioni quando sentii le sue labbra premute sulle mie.
Riaprii gli occhi, esterrefatta, e lui mi sorrise.
«Ho pensato che magari sarebbe stato un bel modo per concludere l’appuntamento.» spiegò accarezzandomi la guancia.
Incapace di parlare, con il cuore che mi rimbalzava in bocca per l’emozione, fui in grado solo di fare un cenno di assenso con il capo.
«Ci metteremo d’accordo per uscire ancora, ok?» aggiunse, e nuovamente annuii, senza essere capace di smettere di sorridere. «Ci si vede!»
«Ciao.» riuscii a mormorare dopo un po’, quando lui mi aveva già voltato le spalle e aveva già iniziato ad allontanarsi.
Mi infilai il casco in testa, salii sul motorino, lo accesi e diedi gas.
Mentre sfrecciavo sulla strada, piacevolmente intontita da quel bacio inaspettato, sentivo ancora le labbra che scottavano nel punto in cui le sue le avevano toccate.

 

Bè, direi che ho aggiornato abbastanza in fretta. Sono piuttosto soddisfatta di me stessa, sì.
Ci tengo a ringraziare tantissimo tutte le persone che hanno letto, commentato o inserito la storia tra le seguite o tra le preferite, mi fa un grandissimo piacere! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Caffè ***


Lunedì 27 Ottobre

«Restituiscimi i miei soldi.» sibilai infuriata in direzione della macchinetta del caffè. Battei con rabbia un colpo sul lato metallico dell’apparecchio, trattenendo a stento le mille imprecazioni che mi erano salite alle labbra.
Quanto odiavo quel dannato aggeggio!
Avevo passato l’intera mattina a racimolare spiccioli dai miei compassionevoli compagni di classe, che erano riusciti, con una faticosa colletta, ad aiutarmi a mettere insieme i trenta centesimi che avrebbero dovuto servirmi per prendere un caffè, a ricreazione, e li avevo perduti insieme alla mia tanto agognata merenda.
Colpii nuovamente la macchinetta, consapevole che era solo tempo sprecato.
Una ragazza del primo anno mi gettò uno sguardo terrorizzato e si allontanò da me, subito seguita da altri due o tre studenti che evidentemente ritenevano che la mia sanità mentale fosse abbastanza discutibile da potersi considerare in pericolo.
Mentre stavo per sferrare un altro pugno all’apparecchio una mano pallida e fragile comparì nel mio campo visivo reggendo un bicchiere di plastica bianca da cui si alzava un intenso profumo di caffè.
Mi voltai appena per cercare di capire chi mi stesse porgendo la bevanda, e fui estremamente sorpresa di vedere che era Gioele.
La crosta di sangue sulla fronte era ancora lì, ma era più scura della volta precedente e nel complesso molto più inquietante. Il livido sul volto si era fatto più scuro, e ormai aveva raggiunto un’intensa sfumatura di viola tendente al nero.
Mi sorrise timidamente e indicò la macchinetta con un impercettibile movimento del capo. I capelli, più disordinati che mai, gli ricaddero davanti agli occhi. Lui li ignorò.
«L’ho preso al piano di sopra.» m’informò quando finalmente mi decisi ad afferrare il bicchiere. «Come stai?» chiese poi, allontanandosi di qualche passo dai distributori. Si avvicinò alle scale e io lo seguii, desiderosa di eliminare dalla mia vista quella dannatissima macchinetta.
«Un po’ nervosa, credo.» borbottai sorseggiando il caffè.
Sorrise timidamente.
«L’avevo notato, sì.» commentò. «Sei sempre così suscettibile quando i distributori ti rubano i soldi?»
«Più che altro quando mi impediscono di ricevere la mia dose quotidiana di caffeina» replicai con un sospiro. «Grazie, comunque.» aggiunsi agitando un po’ il bicchiere.
«Nessun problema.»
Seguirono alcuni istanti di silenzio, in cui io, imbarazzata, non feci altro che sperare che dicesse qualcosa. Dopo un po’, dato che non sembrava intenzionato a parlare, decisi di prendere l’iniziativa.
«I lividi vanno un po’ meglio?» domandai a bassa voce mentre una fitta di senso di colpa mi attraversava lo stomaco. Decisi di ignorarla e tornai a concentrarmi su Gioele, che fissava il pavimento con un’espressione crucciata sul volto.
«Mi sono reso conto di essere estremamente angosciante, conciato così.» confessò con un sorriso appena accennato. «Ma tutto sommato suppongo che potrebbe andare peggio. Voglio dire, alla fine sono solo… ammaccature, ecco. Nulla di preoccupante.»
Annuii, imbarazzata. Sembrava facile, per lui, minimizzare l’accaduto. Ero certa che non si fosse ancora reso conto di ciò che sarebbe potuto accadere, se per caso quel martedì sera avessi corso un po’ di più o se non avessi fatto in tempo a frenare.
«E a scuola come va, invece?»
Lo fissai. Le sue parole non erano molto più che un lento sussurro un po’ roco, e mi dava la sensazione che quella, per lui, fosse solo una conversazione di cortesia. Sembrava quanto mai a disagio, e aveva l’aria di uno che non vedeva l’ora di andarsene e rimanere solo.
«Perché sei qui?» gli domandai alla fine, irritata dal suo atteggiamento. Mi guardò stranito, come se non avesse capito quello che gli avevo chiesto.
«Scusa?» mormorò, le labbra che si muovevano appena, d’un tratto agitato.
«Sembra che tu stia patendo le pene dell’inferno stando qui.» lo informai con un tono di voce forse un po’ troppo aggressivo per quella situazione. «Se ti da fastidio parlarmi, perché ti ostini?»
La mia rabbia parve terrorizzarlo. Si ritrasse, gli occhi azzurri sbarrati puntati su di me. La sua espressione contribuì ad aumentare la mia irritazione, perciò proseguii:
«Sembra che tu sia qui perché devi. Non sei obbligato a essere gentile con me, soprattutto dopo che ti ho quasi ucciso!» strillai, ormai fuori di me. Quasi non mi accorsi che una piccola folla si era riunita intorno a noi, attirata  dal litigio. O, piuttosto, dall’aggressione.
Perché, nonostante io, nella rabbia del momento, non me ne fossi resa conto, era di questo che si trattava.
Gioele si era ritirato fino a essere costretto a poggiare la schiena alla ringhiera della scala, gli occhi che dardeggiavano da me agli altri studenti, in evidente difficoltà. Non sembrava in grado di parlare, e per un unico, fugace istante ebbi l’impressione che stesse per mettersi a piangere.
«Io…» balbettò con voce rotta quando sembrò riacquistare un minimo di coraggio. «Io non…»
Ma s’interruppe. Chinò il capo e scosse la testa, un’espressione di sconfitta sul volto, si girò e corse su per le scale senza emettere un altro suono.
La sua fuga mi fece tornare in me. Mi voltai lentamente e incrociai gli sguardi stupefatti di chi era rimasto ad assistere alla mia follia. Tra quel mare di studenti curiosi riconobbi i capelli rossi di Ines, che si fece largo tra gli altri e mi raggiunse. 
Mi lanciò un’occhiata in tralice e si rivolse con uno scatto nervoso alla folla attorno a noi.
«Sparite!» gridò, autoritaria. «Non c’è niente da vedere, qui.»
In pochi istanti i ragazzi si sparpagliarono e tornarono alla loro ricreazione, mentre anche Francesca mi si avvicinava dalle scale.
«Ti ho sentita gridare dal piano di sopra.» mi spiegò quando mi fu chiaro che lei non aveva assistito alla mia sfuriata. «E Gioele mi ha praticamente travolta mentre scendevo a vedere cosa diavolo stessi combinando.»
«Non so che cosa mi sia preso.» mormorai, sconvolta. Mi sentii in preda a un attacco di nausea. Non riuscivo a capire per quale motivo me la fossi presa in quella maniera con Gioele, che pure non mi aveva fatto niente e, anzi, era sempre stato gentile con me. Ed era stato proprio questo a irritarmi! Sbottò una voce dentro di me. Perché si comportava così? Perché non aveva delle reazioni normali contro chi, volente o no, gli aveva fatto del male?
«Totta…» Mi richiamò alla realtà la voce di Ines. «Forse l’incidente di martedì ti ha sconvolta più di quanto credessi.»
«Questo non toglie che sei stata orrenda, con lui.» commentò Francesca inarcando le sopracciglia scure. «Voglio dire, è sempre gentile con te, no? Perché te la sei presa tanto?»
«E’ troppo gentile.» sbottai. «Vorrei che mi dicesse che sono stata un’idiota, che avrei dovuto fare più attenzione… e invece non fa che ripetere che non è successo niente, che è stata colpa sua e che avrebbe potuto finire molto peggio!»
«Lui cerca di tranquillizzarti e tu lo aggredisci?» fece Ines, stupefatta. «Non ti riconosco più, Totta.»
«Già.» replicai con un filo di voce. Avevo la nausea e mi fischiavano le orecchie. «Nemmeno io mi riconosco più.»
Sentivo di essere sul punto di svenire. Ines mi disse qualcosa, ma io non la sentii. Mossi qualche passo verso il muro, mi ci poggiai con la schiena e chiusi gli occhi.
«Se stai male per quello che hai fatto, Totta, ti giuro che questa è la volta che ti picchio.» mi minacciò la mia amica agitando il piccolo pugno davanti al mio volto.
«Me lo meriterei.» commentai con un filo di voce mentre tornavo lentamente a vedere con chiarezza.
«Dovresti parlargli.» suggerì Francesca guardandomi con aria critica. «Gioele è molto comprensivo. Sono sicura che ti perdonerà.»
«Non dovrebbe. Perché non reagisce in modo normale, ogni tanto?»
«Perché lui stesso non è normale. In ogni caso, tu hai bisogno di chiarirti con lui. Se proprio ti dà fastidio la sua presenza, diglielo e chiedigli di lasciarti in pace. Almeno non rischierà più di essere aggredito in modo simile.»
«Così non mi aiuti, Francesca…»
Lei fece per aprire la bocca e replicare, ma il suono della campanella annunciò la ripresa delle lezioni. Ci salutò con un cenno del capo e sparì correndo su per le scale.
Mi diressi verso la classe lentamente, confusa, con Ines che ancora berciava mentre camminava poco dietro di me, rimproverandomi per il comportamento vergognoso che avevo riservato a Gioele.
Non persi nemmeno tempo a spiegarle che non avevo voglia di parlarne, e che intendevo chiarirmi con lui appena fosse stato possibile, perché sapevo che non mi avrebbe ascoltata.
Mi lasciai cadere sulla mia sedia, ignorando le occhiate perplesse dei miei compagni e i mormorii di quelli che avevano assistito alla scena di poco prima.
Tirai fuori dallo zaino il libro di latino, incrociai le braccia sul tavolo e vi poggiai sopra la testa. Finsi di non vedere la professoressa che era entrata in classe e rimasi immobile in quella posizione fino alla fine della mattinata.
Quando finalmente suonò anche l’ultima campanella scattai in piedi, lo zaino già in spalla. Dovevo parlare con Gioele, possibilmente in un luogo isolato, lontano dagli occhi indiscreti di tutti quelli che volevano sapere come sarebbe finita tra noi due.
Mi precipitai in cortile e presi a cercare con lo sguardo i suoi capelli ricci tra la folla di studenti che si accalcava verso l’uscita. Non riuscii a vederlo e mi venne il terrore che potesse essersene già andato. Se fosse stato così, avrei dovuto avvicinarlo a ricreazione, il giorno seguente, senza la possibilità di avere un po’ di privacy.
Tra l’altro, non ero del tutto sicura che avesse voglia di parlarmi. Perciò preferivo essere sola con lui, mentre finalmente mi diceva cosa realmente pensava di me.
Mi feci rudemente largo tra i miei compagni, desiderosa di raggiungere la strada il prima possibile. Quando spostai lo sguardo sulla stradina che si snodava davanti al portone della scuola, semideserta, lo vidi.
Si dirigeva, camminando lento, verso una macchina nera tirata a lucido che da lontano mi parve una Jaguar nuova fiammante.
Era già sul punto di aprire lo sportello che mi misi a correre verso di lui. Inciampai in un sasso e caddi a terra.
«Gioele!» lo chiamai in un ultimo, disperato tentativo di fermarlo e di riuscire a parlare con lui.
S’immobilizzò. Per un attimo credetti che mi avrebbe ignorata e che se ne sarebbe andato, ma lui invece si voltò lentamente e mi guardò.
Parve riflettere velocemente, lo sguardo concentrato, poi si voltò verso la persona seduta dalla parte del conducente e disse qualcosa. Richiuse lo sportello della macchina e mosse qualche passo verso di me, che nel frattempo mi ero rialzata e l’avevo raggiunto.
«Mi dispiace tantissimo per quello che ti ho detto prima.» esalai prima ancora di fermarmi. Non attesi nemmeno una sua risposta e proseguii: «Non so davvero perché l’ho fatto. Immagino che sia stato perché avrei bisogno di sentirmi dire che sono un’idiota, e invece tu non fai altro che rassicurarmi.» Mi interruppi un istante per prendere fiato, ma lui non diede segno di essere intenzionato a rispondere. Continuò a guardarmi, attendendo che proseguissi. L’espressione sul suo volto era indecifrabile, ma non mi sembrava arrabbiato.
Perché, dannazione? Perché non poteva comportarsi normalmente?
«La verità» aggiunsi «E’ che avrei bisogno di parlare con te. Con calma, seriamente e possibilmente da soli. Per chiarire la situazione. Ovviamente capisco benissimo se non vuoi, dopotutto ti ho trattato malissimo e…»
«Ti andrebbe bene oggi pomeriggio alle tre?» m’interruppe a bassa voce, accennando un sorriso sghembo che per un istante gli illuminò gli occhi. «Sono impegnato tutta la settimana.»
Tardai a rispondere, frastornata. Non mi aspettavo che accettasse il mio invito, se non per la mia sfuriata di poco prima almeno per la sua infinita timidezza. Eppure, come sempre, mi aveva dimostrato che l’idea che mi ero fatta di lui era fondamentalmente sbagliata.
«Certo.» mormorai. «Qui, davanti alla scuola?»
«Sarebbe perfetto.»
Non aggiunse nient’altro.
Si voltò e salì in auto. L’uomo che era alla guida – in cui riconobbi gli occhi dello stesso incredibile azzurro di quelli di Gioele – disse qualcosa, Gioele annuì lentamente e lui scoppiò a ridere. Subito dopo ingranò la marcia, e dopo qualche manciata di secondi erano entrambi spariti dalla mia vista.
Leggermente più sollevata, mi diressi a passo spedito verso la fermata dell’autobus, mentre ripassavo nella mia mente ciò che mi ero prefissata di dirgli.

«Ti ho fatta aspettare?» la voce roca di Gioele mi colse un po’ di sorpresa. Era sbucato alle mie spalle da una stradina talmente minuscola che non l’avevo nemmeno presa in considerazione, in ritardo di appena qualche minuto rispetto all’orario che avevamo fissato.
«Sono appena arrivata.» mentii, senza trovare il coraggio di confessargli che, nel timore che lui arrivasse in anticipo e avesse il tempo di cambiare idea, ero arrivata davanti alla scuola quasi un’ora prima del previsto.
Dall’espressione che assunse capii che non doveva avermi creduto, ma non disse nulla.
Indicò con un debole cenno della mano gli scalini di pietra della chiesa che si trovava davanti alla nostra scuola.
«Oggi non fa freddo.» mormorò. «Ti andrebbe di sederci lì? Possiamo rimanere all’aperto, se ti va.»
«Certamente.» approvai, trattenendomi dal fortissimo impulso di fargli notare che i gradini sarebbero stati assolutamente ghiacciati e che mettermi lì era l’ultimo dei desideri.
«Scomodi.» commentò in un soffio quando ci fummo seduti. «Cosa volevi dirmi?» domandò poi con dolcezza, guardandomi tranquillo.
Lo odiavo. Ecco qual era la verità. Non sopportavo di vederlo sempre così calmo, di sentire le sue parole così dolci, o di vedere i movimenti deboli e insicuri. Perché sussurrava? Perché non mi dimostrava, per una volta, di essere infuriato con me? Quel suo comportamento mi faceva sentire in colpa molto più del necessario, e tuttavia non potevo fare a meno di pensare che ero stata un mostro per riuscire a prendermela con uno come lui.
Alla fine, era una presenza molto tranquilla, e mi rilassava stargli accanto. Non riuscivo a recuperare nemmeno un po’ della rabbia che mi aveva invasa quella mattina, e per un istante mi chiesi se non mi fossi inventata tutto, se lui non fosse solo un frutto della mia immaginazione.
«E’ che…» borbottai quando mi riscossi dai miei pensieri. «Non ti capisco. Voglio dire, un altro, al tuo posto, si sarebbe arrabbiato. Già da martedì sera, no? Quando ho spostato il motorino ero preparata a una sfuriata. E invece tu eri così calmo! E sei addirittura venuto a cercarmi per tranquillizzarmi! Non è normale, lo capisci, vero?»
Annuì piano, le labbra appena increspate in un minuscolo sorriso.
«Ed è la stessa cosa che mi aspettavo oggi. Cioè, ti ho aggredito, giusto? Perché non mi hai risposto a tono? Perché non ti sei arrabbiato?»
Non rispose. Inclinò leggermente la testa da un lato e chiese a sua volta:
«Perché mi hai detto quelle cose?»
Rimasi a bocca aperta. Non mi stava accusando di nulla. La sua sembrava essere davvero una semplice e genuina curiosità.
«Non lo so.» gracchiai dopo una breve riflessione. «Davvero. Io… non capivo più niente.» Non aggiunsi altro. Non sapevo che cosa dire. Man mano che mi rendevo conto dell’incredibile assurdità della mia reazione di quella mattina l’imbarazzo aumentava, e il suo sguardo comprensivo non mi aiutava.
«Credevo d’aver fatto qualcosa di sbagliato.» sussurrò invece Gioele, guardando avanti a sé. «Sai, magari avevo detto qualcosa che t’aveva offesa… Invece, se non ho capito male, eri solo un po’ nervosa.»
«Credo di sì.»
«Magari la prossima volta, al posto del caffè, ti offrirò una camomilla.» considerò a bassa voce, serio.
«Sarà meglio.» approvai sorridendo un po’. Sapere che non ce l’aveva con me, per qualche strana ragione, mi faceva stare meglio.
Quella mattina avevo preso in considerazione l’idea di chiedergli davvero di lasciarmi in pace, di starmi lontano e di non venirmi a cercare mai più, ma più tempo passavo accanto a lui, seduta su quello scalino ghiacciato, più mi rendevo conto che alla fine mi sarebbe dispiaciuto non riuscire a diventare sua amica. Immaginai che avrebbe potuto insegnarmi molto, così tranquillo e pacato, su come controllare la rabbia.
Nonostante i primi momenti di disagio, in cui il silenzio aveva preso il sopravvento e io aspettavo che lui dicesse qualcosa, stavo bene accanto a lui. La sua calma sembrava essere contagiosa e ben presto non avvertii più il bisogno di riempire il silenzio con parole che nessuno dei due sentiva il bisogno di pronunciare.
Mi voltai un po’ per guardarlo indisturbata, affascinata dal suo comportamento.
Aveva poggiato i gomiti al gradino sopra a quello su cui era seduto, e si guardava intorno con l’espressione più rilassata che avessi mai visto addosso a una persona, ma era serio.
Per un folle istante mi venne in mente l’ipotesi che non sapesse nemmeno ridere. Era così strano cercare di immaginarlo mentre lo faceva che mi venne istintivo giungere alla conclusione che non ne fosse in grado.
Mentre ero immersa nei miei pensieri lui si alzò, si passò le mani sulle gambe per sistemare i pantaloni e mi guardò.
«Credo che dovrei andare.» borbottò a voce talmente bassa che riuscii a capire ciò che stava dicendo solo guardandogli le labbra sottili.
«Come vuoi.» balbettai, sorpresa. Di già?
«Ciao.»
Lo salutai quando lui si era già voltato. Se ne andò, proprio come quel martedì sera che ci aveva fatti incontrare, con le mani affondate nelle tasche dei jeans, lo sguardo basso e la camminata lenta.
E, esattamente come quella sera, non potei fare altro che guardare la sua schiena che si allontanava da me.

 

Ed ecco il quarto! Ringrazio tantissimo tutte le persone che hanno letto o inserito la storia tra le preferite o le seguite, mi fa molto piacere!
Non so quando riuscirò a postare il quinto, dato che ricomincia la scuola, ma spero di non metterci molto.
I commenti sono sempre graditi!

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Ragazze ***


Martedì 28 Ottobre

Rimasi a osservare il mio riflesso nello specchio per diversi istanti, crucciata.
Ines, da fuori il camerino, continuava a chiamarmi a gran voce.
«Sto uscendo!» esclamai per l’ennesima volta. «Smettila di gridare. Ora esco.»
«Voglio vedere come ti sta quel vestito, Totta. Giovedì dovrai essere bellissima, con Gabriele, altrimenti vedrai che non ti chiederà di uscire mai più.»
Risi. Scostai la tenda dello spogliatoio con un gesto secco e lasciai che Ines mi studiasse per bene, com’era solita fare, con la mano poggiata al mento e un’espressione quanto mai critica dipinta sul volto.
«Non mi metterei mai questo affare per uscire con un ragazzo.» specificai in fretta prima che potesse aprire bocca. «La gonna è talmente corta che potrei fare a meno di metterla e la scollatura è esagerata.»
«Ma è proprio questo il bello!» gridò lei, entusiasta, alzando le braccia. Un paio di signore un po’ attempate, poco distanti da noi, si voltarono a guardarla, stupite da tanta energia.
«Ines…»
«No, no, no, no, no, no e no!» urlò ancora, la voce squillante carica d’eccitazione. «Dammi retta per una volta. Hai detto che andate al cinema, no?»
«Sì…» ammisi a bassa voce, turbata da ciò che avrebbe potuto uscire dalla bocca della mia amica.
Avevo già tentato di farla calmare pochi minuti prima, quando si era gettata a capofitto tra gli abiti da sera e ne aveva tirato fuori uno nero, coperto di paillette, esageratamente corto e oscenamente scollato, che per quanto mi riguardava non avrei mai messo ma che aveva insistito che provassi; ma non avevo ottenuto risultati soddisfacenti. Ci sarebbe voluta Francesca. Lei aveva sempre avuto il dono di tranquillizzare quella che definiva un demonio assatanato, ma l’influenza l’aveva bloccata a letto e mi aveva costretta a subire un intero pomeriggio di shopping sfrenato insieme a Ines, che sembrava invasata.
Saltellava tra vetrine e manichini con gli occhi che brillavano, aveva provato già decine di vestiti e aveva in programma di passare per tutti i negozi di scarpe durante il viaggio di ritorno.
«E allora ascoltami. Devi essere splendida! Hot! O vedrai che ti rimpiazzerà e…»
«E non voglio sentire altro.» La interruppi. Mi fece una boccaccia proprio nel momento in cui richiudevo la tenda del camerino. Mi sfilai il vestito sbuffando, stanca di tutti quegli abiti e di quelle prove.
Personalmente non sentivo l’impellente necessità di trovare un vestito elegante per il mio secondo appuntamento con Gabriele, ma Ines non era della stessa opinione e mi aveva giurato che non mi avrebbe lasciata tornare a casa fino a che non avessi avuto un nuovo corredo da sfoggiare giovedì sera, quando sarei andata al cinema insieme a Gabriele.
«Non possiamo cercare qualcosa di più… sobrio?» implorai una volta che mi fui rimessa i miei abiti, riponendo gli acquisti scartati nel rispettivi scaffali.
«Sapevo che me l’avresti chiesto.» replicò con un sorriso sornione. «Ho visto un negozio, un po’ più avanti, che forse potrebbe avere qualcosa che ti interessa.»
«E allora perché non mi hai portata lì fin da subito?» esclamai, esasperata.
Si strinse nelle spalle.
«Speravo di riuscire a convincerti a comprare qualcosa di più sexy.» confessò.
Mi afferrò per un braccio e mi trascinò fuori dal negozio. Si fece largo tra le persone che si accalcavano nella via principale del centro storico mentre io le arrancavo dietro, sperando di non perderla di vista.
Lanciai brevemente un’occhiata confusa intorno a me mentre mi indicava con entusiasmo una nuova vetrina.
E fu allora che vidi, poco davanti a noi, i capelli chiari di Gabriele. Cercai di guardarlo meglio, per capire con chi stesse parlando, ma prima che potessi accertarmene Ines mi aveva già trascinata in un’altra bottega e già era alla ricerca di un nuovo abito, confabulando qualcosa riguardo all’importanza di sapersi sempre vestire in modo adatto all’occasione.
Non la ascoltavo. Nella calca di poco prima, tra mille persone che avanzavano facendosi largo come meglio potevano, spingendo e urtando gli altri, mi era parso che Gabriele fosse stato insieme a una ragazza.
«Totta?» fece Ines dopo che, per diversi minuti, non le risposi. «Va tutto bene? Sei diventata strana.»
Scossi la testa, cercando di sorridere, ma non ci riuscii.
«Andiamo a bere qualcosa?» le domandai debolmente, spostandomi verso la porta. «Non mi sento molto bene.»
Lei annuì, preoccupata, e si affrettò a seguirmi attraverso le vie secondarie del centro fino a che non giungemmo davanti a un bar semivuoto.
Quando ci sedemmo al tavolo, dopo aver ordinato, le raccontai brevemente ciò che avevo visto, mentre sentivo che gli occhi mi si iniziavano a riempire di lacrime.
«Non è detto che stia facendo qualcosa di male.» mi consolò mentre sorseggiava il suo tè. «Forse è solo sua cugina, o magari è sua sorella. O un’amica. Secondo me esageri.»
Tirai su con il naso, infilai una mano nella borsa e mi misi a cercare un fazzoletto.
Forse Ines aveva ragione e io stavo facendo un dramma per una sciocchezza, ma gli sguardi che le aveva lanciato mi sembravano troppo intensi per una semplice amica, e assolutamente improponibili per una sorella o una parente.
«Ma se non lo fosse?» piagnucolai cercando di non scoppiare a piangere. «Se mi stesse solo prendendo in giro?»
«Non è detto, Totta…» disse Ines toccandomi un braccio con fare consolatorio. «Non sempre c’è qualcosa di losco dietro. Perché non sei capace di fidarti delle persone?»
«Di te e Francesca mi fido.» pigolai in risposta. «Ma tutto quello che è successo con Gabriele… E’ troppo strano, non credi? Non sarebbe poi così incredibile se lui avesse un’altra e mi avesse chiesto di uscire solo per prendermi in giro.»
«Smettila di pensare sempre male.» mi rimproverò lei con uno sguardo severo. «Non serve a niente fare così!»
«Seguiamoli.» soffiai prima ancora che finisse di parlare.
Lei mi lanciò uno sguardo scioccato, spiazzata, poi ripeté:
«Seguiamoli?»
«Sì.» Non mi veniva più da piangere. Mi sentivo esaltata, folle: volevo scoprire chi era quella ragazza, volevo capire se tutto il sogno che stavo vivendo insieme a Gabriele era la realtà o se il suo era solo un meschino gioco, una presa in giro che non sarebbe servito a niente se non a farmi star male.
Sentivo il bisogno di guardare in faccia quella ragazza, anche se da lontano, di imprimermi nella mente il suo volto e di ricordarmelo. Avrei scoperto chi era, perché era con lui.
Se avessi saputo che era solo una parente, o un’amica, avrei lasciato perdere. Avrei chiesto perdono per il mio comportamento.
Ma se invece avessi scoperto che non era così? Se avessi scoperto che quei due stavano insieme, che cosa avrei fatto?
«Sei pazza.» mormorò Ines portandosi una mano davanti alla bocca. «Hai perso la testa, Totta.»
Mi alzai e lanciai qualche moneta sul tavolino, afferrai il giubbotto e corsi fuori. Ines mi seguì dopo pochissimo, lo sguardo insieme scioccato e preoccupato.
«Se Gabriele mi sta prendendo in giro,» le dissi «io lo scoprirò. Voglio sapere chi è quella ragazza e non mi calmerò fino a che non l'avrò scoperto.»
«Magari è sua sorella.»
«L'hai già detto.» le feci notare, secca. Mi irritava che non capisse quello che stavo provando. Eppure da lei avrei dovuto aspettarmelo: non era da lei pretendere lealtà e fedeltà dai ragazzi con cui stava. «E io ti ripeto che non si guarda così una sorella, è impensabile!»
«Stai facendo questa tragedia per un'occhiata?» esclamò mentre le afferravo la mano e la trascinavo verso la via principale.
«Sì.» replicai in tono di sfida. Mi voltai verso di lei e la fissai implorante. «Ti prego, Ines. Per me è importante.»
Non rispose. Mi guardò, dubbiosa, per qualche istante, poi sospirò.
«E facciamo questa cazzata.» si arrese. «Ma qualunque cosa succeda, io non ero d'accordo.»
«Come ti pare.» accettai. «Ma cerca di dare un contributo significativo. Sento che potrei impazzire.»
Per replica si limitò a sbuffare.
Insieme, attente e concentrate al massimo, iniziammo a cercare.
Sentivo il cuore mi rimbombava nelle orecchie e la vista mi si offuscava tutte le volte che vedevo un ragazzo con i capelli chiari, e un paio di volte mi convinsi d'aver davvero individuato Gabriele. Ines, al mio fianco, svolgeva il suo compito con incredibile serietà. Scrutava all'interno dei negozi con occhio critico, s'infilava con noncuranza in ogni bar per controllare se per caso i due avessero deciso di ritirarsi in un luogo chiuso e studiava attentamente ogni persona che passasse vicino a noi.
Ma il centro era affollato, il cielo cominciava a farsi più buio e per quanto ne sapevamo Gabriele avrebbe potuto benissimo essere tornato a casa. A casa insieme alla ragazza misteriosa, commentò una voce maligna nella mia testa. E chissà se era vero! E se fossero stati insieme, abbracciati, a ridere di me e della mia stupidità? Se i miei sospetti erano fondati, non avrei saputo dar loro torto. Ero diventata la sciocca ragazzina che credeva alle lusinghe d'amore del ragazzo più desiderato del quartiere, proprio come le protagoniste di quei romanzi che mi avevano sempre lasciata con l'amaro in bocca.
Ma se invece Ines avesse avuto ragione, se tutti questi miei dubbi fossero stati solo stupidaggini...
«Il bar.» mormorai all'improvviso, quando un pensiero mi attraversò la mente come un flash.
«Come?» fece Ines, che, in mezzo al caos della gente che passava, non aveva sentito quello che avevo detto.
«Il bar.» ripetei a voce più alta. «Quando siamo usciti, sabato, mi ha portato in un bar che sta in una stradina secondaria. E' introvabile, credimi. Se io fossi insieme a una ragazza e non volessi farmi trovare, andrei lì.»
Cercai di non pensare al fatto che era proprio per quel motivo che mi aveva portata in quel locale, quel week-end. Volevamo sfuggire alla curiosità di amici e parenti, lontani dai loro occhi indiscreti.
E adesso ero io quella che spiava, quella che non concedeva privacy.
«Se io fossi insieme a una ragazza e non volessi farmi trovare» replicò Ines riprendendo la mia frase «me ne starei a casa. Non andrei in giro in centro, con il rischio di incontrare tutte le persone che conosco! Sarebbe la cosa più stupida che potrei fare. Non credi che questo sia un motivo sufficiente per lasciar perdere?»
Tentennai. Non aveva tutti i torti: perché correre il rischio di farsi vedere, quando sarebbe stato molto più semplice incontrarsi in un luogo isolato, lontano dalla vista di tutti?
Perché, rispose la stessa vocina maligna di poco prima, forse non si sono dati appuntamento. Forse si sono incontrarti per caso e lui non ha potuto ignorarla, non ha voluto...
«Andiamo in quel bar.» insistetti. «Se non troveremo nulla, torneremo indietro e riprenderemo a fare shopping, d'accordo? Concedimi solo quest'ultimo controllo.»
«D'accordo.» acconsentì Ines, che sembrava trovare accettabile questo compromesso. «Ma continuo a pensare che tutto questo sia un'assurdità.»
Non risposi. La condussi con il passo più veloce che potei tra le stradine semi-deserte del centro, tra viuzze laterali e negozi dimenticati da tutti, fino a che non riuscii, finalmente, a trovare quel minuscolo locale che era stato, per un paio d'ore di appena pochi pomeriggi prima, il mio paradiso personale. E in quel momento, se avessi guardato attraverso le grandi finestre e avessi visto ciò che temevo, sarebbe diventato l'inferno.
«Avvicinati prima tu.» implorai Ines quando fummo vicine. Le indicai una delle finestre. «Da lì puoi vedere tutto il bar. Ti prego.»
Mi fissò qualche istante con un misto di stanchezza e compassione negli occhi, poi annuì. Si avvicinò cautamente alla vetrina e guardò all'interno. Rimase ferma qualche istante, poi si girò verso di me. Si passò una mano tra i capelli corti e prese a mordicchiarsi l'interno delle guance, come era solita fare quando era in imbarazzo.
Non mi servirono parole. Mi avvicinai alla finestra e ogni passo che facevo mi sembrava che mi rubasse la forza. Le gambe mi diventavano sempre più pesanti e mi sentivo confusa. Non capivo più perché ero lì, perché fosse così importante scoprire che cosa stava facendo Gabriele. Non sarebbe stato più facile ignorare quell'occhiata e riprendere il nostro pomeriggio di compere? Perché avevo voluto insistere? Non volevo sapere cosa stesse facendo Gabriele.
Eppure lo sapevo. Lo vedevo attraverso il vetro. Era seduto a un tavolo con quella ragazza, che mi dava le spalle, allo stesso tavolo in cui era stato seduto insieme a me, con una tazza di caffè davanti a sé. Rideva.
Sentii un nodo che mi si stringeva in gola e che mi strozzava. Ines mi poggiò una mano sulla spalla, mi disse qualcosa, non la sentii.
Feci due passi all'indietro senza nemmeno pensarci, mi voltai e corsi via senza nemmeno trovare la forza per riuscire a piangere.

Sentivo i passi di Ines dietro di me, le sue urla che chiamavano il mio nome, ma continuai a correre fino a che non avvertii le gambe che iniziavano a cedere.
Mi fermai, scossa dai singhiozzi, in prossimità di un parchetto completamente vuoto, mi sedetti su una panchina e affondai il viso tra le mani.
Ines si accomodò accanto a me e mi abbracciò forte.
«Non fare così...» mi sussurrò tirando fuori dalla tasca un fazzoletto e porgendomelo. «Potresti aver frainteso tutto, sai?»
«Non lo so.» pigolai in risposta. «E' il modo in cui la guarda, Ines, sono gli occhi! Non capisci quello che voglio dire?»
«Credo di sì.» rispose a bassa voce allontanandosi un po' da me. «Ma continuo a pensare che tu ti stia sbagliando.»
«Sai, non credo che andrò all'appuntamento, giovedì.» borbottai quando fui in grado di smettere di singhiozzare. Non me la sentivo di vederlo così presto, non volevo guardarlo negli occhi e sapere che non mi fidavo di lui, che forse avevo ragione e aveva anche un'altra ragazza e che forse invece stavo facendo una tragedia per una sciocchezza.
«Invece ci andrai.» ribatté Ines con voce dura. «Gli parlerai, gli spiegherai bene cosa è successo oggi pomeriggio e pretenderai una risposta.»
«La verità» mugugnai asciugandomi gli occhi con la manica della maglietta «è che forse non voglio sentire quello che ha da dire.»

 

 

Sono tornaaaata! Ebbene sì, ecco qui il quinto capitolo! Finalmente, tra l'altro. Mi sono accorta che era da un po' che non aggiornavo, ma pazienza.
Ringrazio tantissimo tutte le persone che hanno letto e commentato i capitoli precedenti, quelle che hanno messo la storia tra i preferiti e quelle che l'hanno messa tra le seguite. Un grande, immenso Grazie!

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Cinema ***


Giovedì 30 Ottobre

Alla fine, un po' per noia e un po' per vero desiderio di farlo, decisi di andare ugualmente all'appuntamento con Gabriele.
Quando partii da casa, tuttavia, non riuscii a trovare l'entusiasmo che avevo la settimana prima, quando, in fibrillazione per la prospettiva di un incontro con lui, avevo passato l'intero pomeriggio a cercare di farmi carina per lui. Nonostante Ines mi avesse implorata di cercare di ignorare gli avvenimenti di due giorni prima e di godermi la serata, non fui nemmeno in grado di trovare la voglia per indossare dei vestiti decenti, così uscii con indosso una salopette di jeans scolorita con una maglia verde che proprio quella mattina avevo macchiato con del gelato.
«Sai, quando i ragazzi dicono stai acqua e sapone generalmente non vogliono che il loro consiglio venga preso alla lettera.» commentò Mirko, lanciandomi un'occhiataccia, quando passai accanto a lui.
«Fatti gli affari tuoi.» replicai, stizzita, prima di trascinarmi in garage e di mettere mano al mio motorino.
Sfrecciai per le strade a una velocità folle, dimenticando, per un istante, tutte le conseguenze che questo mio gesto avrebbe potuto comportare. Non ripensai alla moto che sfuggiva al mio controllo, a Gioele che scompariva, travolto dal mio mezzo, né al suo volto insanguinato, né ai lividi che ancora gli segnavano il volto diafano. Volevo solo sentire il vento che mi veniva addosso, scivolava su di me e mi contrastava e io lo vincevo, accelerando ancora...
Gabriele mi aspettava poco lontano dal cinema. Si era vestito elegantemente e sfoggiava il suo sorriso più dolce e rassicurante. Non appena lo vidi sentii la rabbia sbollire e provai un forte senso di vergogna per essermi presentata all'appuntamento in quelle condizioni. Più mi avvicinavo a lui, camminando lenta, più mi convincevo che Ines avesse ragione e che avevo scambiato un normale pomeriggio tra amici per un incontro romantico.
Quando arrivai davanti a lui sorrise più apertamente e indicò il mio abbigliamento con un gesto della mano.
«Stai cercando di lanciare una nuova moda?» domandò, allegro.
Scrollai le spalle e arrossii. Mi sentivo tremendamente in imbarazzo e non sapevo cosa rispondere.
«Sono uscita in fretta.» mormorai a mo' di scusa, ma lui scrollò la testa.
«Sei sexy.» mi comunicò. Mi scoccò un rapido bacio sulle labbra e mi passò un braccio attorno alle spalle. Sentii che quel contatto faceva tornare tutto come prima. Mi sembrò impossibile, quando avvertii le sue labbra calde sulle mie, che ci fosse qualcun'altra oltre a me. Era assurdo! Per quale motivo, altrimenti, avrebbe dovuto iniziare a uscire con me? Non l'avrebbe fatto, se ci fosse stata un'altra. E io ero stata stupida a non pensarci.
«Cosa vuoi vedere?» gli chiesi stringendomi un po' a lui, che si limitò a sorridere.
«Quello che preferisci.»
Optai per un film romantico di cui avevo sentito parlare molto bene, ma già dal primo fotogramma capii che non era stata la scelta adatta. Un'attrice mozzafiato, in lacrime per il tradimento del suo fidanzato, piagnucolava parole di sconforto a un'amica, tra le mani una tazza di tè fumante. Quella scena mi ricordava in modo impressionante le due giornate che avevo trascorso accoccolata sul divano, a casa di Ines, a ripeterle la mia convinzione che Gabriele uscisse con un'altra. Ed eccoli lì, quei giorni che volevo dimenticare, raccontati in un film! Sentii lo stomaco che mi si torceva e il dubbio che di nuovo nasceva in me. Forse m'irrigidii, perché Gabriele mi rivolse un'occhiata preoccupata.
«Ti senti male?» domandò a bassa voce sfiorandomi la mano.
«No.» soffiai, cercando di mantenere un tono di voce normale. Non so se ci riuscii, ma lui non rispose. Tornò a voltarsi verso lo schermo, apparentemente concentrato sulla trama.
Non fui più in grado di concentrarmi. La sua pelle toccava la mia e io la sentivo ardere, mi faceva male e volevo allontanarmi ma non potevo, perché sapevo che non ne sarei stata in grado. Lui era lì per me, mi stava accanto e di tanto in tanto mi rivolgeva sguardi dolci, nascosti a malapena dal buio della sala. Il suo volto, illuminato solo dalla luce che irradiava lo schermo, era sempre rivolto verso di me. Fingeva di essere interessato al film quando mi giravo a guardarlo, ma non appena distoglievo lo sguardo sentivo che lui lo posava su di me. Mi sentivo lusingata da quelle attenzioni e per solo pochi istanti riuscii a dimenticare tutto ciò che era successo martedì. Esistevamo solo noi e nel cinema non c'era nessun altro, le voci degli attori erano muti e tutto era ovattato e perfetto, ci circondava e noi, al centro, eravamo insieme. Non contava null'altro.
Ma ecco, tornava di nuovo quella sensazione, quel sospetto, e io precipitavo in un incubo.
Una cascata di capelli scuri arrivava accanto a noi e sotto c'era un volto senza occhi, senza naso, solo una splendida bocca tinta di rossetto che sorrideva e il suo sorriso attirava Gabriele, che si allontanava da me e seguiva quella creatura che aveva un corpo perfetto, che non era bassa come me, che era slanciata e ben fatta, e non aveva né le mie gambe secche né il mio petto piatto, ma era splendida e meravigliosa come solo un sogno può essere e a Gabriele non importava che non avesse volto.
La creatura rideva e quel suono era quanto di più melodioso esistesse, e che cos'ero io in confronto?
«Totta!» Sentii la mano di Gabriele sulla spalla e mi riscossi. Il suo volto era a pochi centimetri dal mio, aveva gli occhi sgranati e sembrava terrorizzato. Mi carezzò la fronte un paio di volte e mi studiò con attenzione. «Sei sicura di stare bene?»
«Sì.» sussurrai con voce roca, sperando di non disturbare gli altri spettatori. «Stavo solo... Mi ero incantata.»
«L'ho notato.» mormorò tornando a sedersi con compostezza. «Mi hai fatto spaventare.»
«Scusa.» Non riuscii a dire altro. Mi sentivo tremare e non ero sicura che se ne fosse accorto. Non volevo agitarlo più di quanto non fosse già. Gli presi la mano, mi sporsi un po' verso di lui e gli scoccai un bacio sulla guancia per scusarmi. Annuì senza convinzione.
Tornai a concentrarmi sul film. Avevo perso una buona parte della trama e non riuscivo più a seguire la storia, così non mi fu difficile tornare a ripensare agli avvenimenti di due giorni prima... Mi rendevo conto di esagerare. Sapevo che stavo sbagliando, ma non riuscivo a smettere di pensare a quel sorriso che lui le aveva rivolto.
Sentii la sua mano che stringeva forte la mia e che mi tirava verso di sé. Lo guardai senza capire e vidi che si era alzato. Stava chino in avanti per non disturbare gli altri mentre tentava di farmi alzare. Lo seguii e lui mi trascinò fuori dalla sala.
«Sei strana.» mi disse osservandomi quando fummo fuori. Sembrava seriamente preoccupato e non potevo pensare che stesse fingendo. Come ero stupida! Perché, perché mi ostinavo a dubitare di lui?
«Non è nulla.» replicai, ma capii subito che non ero stata abbastanza convincente. Dall'occhiata che mi rivolse intuii che stava pensando esattamente la stessa cosa.
«Ti ho vista, ieri, in centro.» disse all'improvviso. Trattenni il fiato. Non volevo sapere cos'altro aveva da dirmi, non volevo che mi ricordasse quant'ero stupida.
Avevo paura. Paura, perché non sapevo cosa aspettarmi dalle sue parole. Sapeva che l'avevo seguito, che l'avevo spiato, che avevo dubitato di lui?
«Ah, sì?» riuscii a rispondere a bassa voce.
«Sì.» confermò lui guardandomi negli occhi. «Fuori dal bar. Avevi una faccia strana.» Si accigliò. «Per un momento ho creduto... Ho creduto che fossi arrabbiata con me. E sei corsa via all'improvviso! Dimmi, questo comportamento c'entra qualcosa con quello che è successo?»
«No.» risposi in fretta. Ero incapace di mentire! Il suo sguardo lo diceva chiaramente e d'altra parte me n'ero accorta io stessa. Il mio tono era stato così falso, così falso... Presi fiato e dissi, quasi senza rendermi conto di ciò che stavo facendo: «E invece sì. T'ho visto insieme a quella ragazza e mi sono sentita male perché l'hai guardata in un modo strano e sembrava che tu la stessi venerando e non sapevo che cosa pensare, mi sentivo in colpa perché dubitavo di te e non avrei dovuto e non ci potevo fare niente, ti ho seguito e tu l'hai portata proprio nel bar in cui siamo stati noi, dove mi avevi detto che nessuno ci sarebbe venuto a cercare e quindi ho pensato che se eravate lì era perché non volevi farti vedere insieme a lei e se questo era vero allora...» Non riuscii a proseguire. Sentivo le lacrime che mi scorrevano lungo le guance e sapevo che presto avrei iniziato a singhiozzare. Gabriele mi fissava con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa e sembrava incapace di capire quello che gli stavo dicendo.
«Cioè...» mormorò dopo diversi istanti, carezzandomi piano la schiena in un vano tentativo di calmarmi «tu hai creduto che io stessi anche con un'altra?»
Annuii. A sentirlo dire da lui sembrava così stupido! E lo era, senza dubbio, ma come potevo spiegargli che cosa avevo provato quando mi ero accorta di quello sguardo? Non ne sarei stata in grado e se anche fossi riuscita a esprimere con le parole ciò che avevo sentito, lui non sarebbe stato in grado di capirlo.
Mi prese per le spalle e mi scrollò con delicatezza, poi mi carezzò i capelli. Aprì la bocca per parlare, incredulo, ma la richiuse subito dopo con uno schiocco. Spostò lo sguardo in basso, come per riflettere, poi farfugliò:
«Come hai fatto a credere a una cosa simile?»
«Non lo so!» gemetti. Mi sembrava arrabbiato e non sapevo cosa fare né cosa dire. «Non ero lucida, non lo sono nemmeno adesso, non so che cosa pensare! Mi fido di te, però non posso smettere di pensare che quella lì esca con te e capisco che probabilmente ho sbagliato a interpretare tutto, lo capisco, lo so! Eppure è un'idea che non riesco a togliermi dalla testa...»
Sorrise e mi baciò la fronte. Le sue labbra erano fredde sulla mia pelle.
Mi prese il viso tra le mani e sussurrò con al voce più dolce e suadente che avessi mai sentito:
«Non ti farei mai una cosa del genere. Mai. Quella ragazza che hai visto... Il suo nome è Elena, è un'amica di mia sorella. Era venuta a casa mia per studiare insieme a lei, poi sono dovuto uscire e l'ho accompagnata a casa. Strada facendo ci siamo fermati al bar a prendere qualcosa di caldo, perché stavamo congelando. Non c'è stato niente di più, te lo assicuro.»
«Ti credo.» risposi tra i singhiozzi. Era vero: la sua spiegazione, per quanto semplice fosse, mi sembrava plausibile. D'altro canto, i miei dubbi si basavano su un'occhiata che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa e che io avevo interpretato nell'unico modo che mi era venuto in mente. Mi fidavo di lui, ed ero stata stupida a lasciarmi prendere da quella situazione.
«Scusami.» mormorai asciugandomi gli occhi con la manica.
«Non importa.» replicò lui con un sorriso. «D'altra parte, è normale che, bello come sono, tu abbia paura che le ragazze mi mettano gli occhi addosso.»
Risi.
«Certamente.» risposi, ironica. «Sei come un dio.»
«E' la verità.» rispose lui, catturato dal gioco. «Hai mai visto qualcuno più bello di me? Di più intelligente? Di più sexy e affascinante?»
Gli battei piano una mano sul ventre e commentai ridendo, mentre sentivo che il mio umore si risollevava:
«Vola più basso, Gabriele!»
«Non è colpa mia se sono perfetto.» replicò lui con un'alzata di spalle. «E' un dato di fatto, non puoi negarlo.» Tornò serio e continuò: «Promettimi che non penserai mai più che io possa tradirti. Io voglio te, e non mi importa niente delle altre. Hai capito?»
Annuii.
«Certo.»
«Ottimo.» Si voltò per un istante a fissare le porte della sala chiusa dietro di noi, da cui proveniva l'eco della musica del film, appena come leggerissimo sottofondo per le nostre parole. Assunse un'espressione sofferente e piagnucolò: «Ti prego, non trascinarmi di nuovo lì dentro a vedere quella cosa mostruosa. E' da un'ora che piangono tutti, hanno bevuto litri e litri e litri di tè, consumato centinaia di fazzolettini di carta e lei ancora non ha capito che lui se n'è volato ai Caraibi e non tornerà mai più.»
Scoppiai a ridere e annuii nuovamente. Il suo riassunto mi sembrava piuttosto soddisfacente e in effetti anch'io, nei rari momenti di lucidità in cui avevo seguito lo svolgimento della trama, l'avevo trovata troppo lacrimevole per i miei gusti.
«Proporrei, se non ti dispiace» stava dicendo Gabriele massaggiandosi lo stomaco «una bella pizza. Sono già le sette e mezza e sto morendo di fame. Offro io.»
«Sicuro!» approvai. Avevo anch'io fame e mi era tornato il buonumore, perciò mi lasciai accompagnare alla sua macchina e salii con un mezzo sorriso, ignorando i ritagli di giornali gettati alla rinfusa sotto ai sedili, il pezzo di panino abbandonato sul cruscotto e i vestiti appallottolati sul sedile posteriore.
«Il casino non è mio.» mormorò Gabriele con un po' di imbarazzo. «E' tutta roba di Sandro. E' che mi sono dimenticato di pulire.»
Sorrisi, seppur un po' forzatamente, tolsi con la punta delle dita un calzino usato che qualcuno aveva ben pensato di lasciare sul sedile del passeggero e replicai:
«Nessun problema, camera mia non è molto diversa da così.»
«Bé, diciamo che non ho fatto un ottima figura.» commentò pacatamente lui girando la chiave con rabbia. Il motore emise una specie di miagolio agonizzante e solo dopo diversi tentativi Gabriele riuscì a far sì che si avviasse con un rombo devastante.
«Questa macchina ha più anni di me e te messi assieme.» confessò mentre usciva dal parcheggio, cercando di fare attenzione a non andare addosso a nessuna delle automobili che erano state parcheggiate un po' ovunque. «E' un miracolo che vada avanti e ho buone ragioni per credere che non durerà ancora per molto.»
«Bé, allora speriamo che non ci abbandoni proprio adesso.» replicai guardando fuori dal finestrino. Rise e annuì. Non mi veniva in mente niente da dire, così rimasi in silenzio ad attendere che perlomeno lui dicesse qualcosa, ma anche lui taceva.
Trascorremmo in silenzio tutto il viaggio, fino a che non parcheggiò davanti a un piccolo locale poco lontano dallo stadio, con un'insegna luminosa blu accesa solo per metà e le pareti di un insolito colore rosa acceso.
«Da fuori non sembra un granché» constatò quando incrociò il mio sguardo. «Però si mangia bene e si paga poco. Soprattutto la prima, credimi.»
L'interno, in effetti, dava un po' di speranza in più. Era stato tirato a lucido e tutti i camerieri indossavano la loro impeccabile divisa bianca e nera. Quello che ci accolse, altissimo e dinoccolato, aveva un'aria simpatica e un enorme sorriso stampato sul volto.
«Benvenuti!» ci salutò con un minuscolo inchino. A vedere quel gigante filiforme che s'inchinava ondeggiando mi colpì un accesso di risa che riuscii a reprimere in qualche colpo di tosse, non senza difficoltà, mentre anche Gabriele sembrava avere il mio stesso problema. «Un tavolo per due?» continuò il cameriere che sembrava non essersi accorto di niente. «Magari un po' appartato?»
«Perfetto.» approvò Gabriele con il volto tirato per evitare di ridere.
Seguimmo la nostra guida e ci trovammo davanti a un minuscolo tavolino traballante coperto da una tovaglia finemente ricamata, nell'angolo di una stanzetta calda e accogliente, in cui già stavano mangiando altre tre o quattro persone. Alcune di loro sollevarono la testa vedendoci entrare, ma subito la riabbassarono sui propri piatti.
Gabriele si sedette con le spalle al muro, afferrò il menù e iniziò a sfogliarlo febbrilmente, come se non potesse sopportare altri tre secondi senza cibo.
Io, più lentamente, feci lo stesso. L'elenco era breve e piuttosto tradizionale: le solite pizze dai nomi improbabili che non avevo mai capito, ma che davano, per lo meno, la certezza di mangiare qualcosa di conosciuto.
«Avete già scelto?» cinguettò la cameriera che ci apparve accanto dopo un paio di minuti, stringendo tra le mani un blocchetto riempito per metà.
«Prima tu, Totta.» fece Gabriele rilassandosi un po' sulla sedia, evidentemente soddisfatto della propria scelta.
«Una margherita.»
«Per me una vegetariana.» ordinò invece lui, poi proseguì: «E una birra piccola.»
«Una anche per me.»
La cameriera annuì, afferrò i menù e sparì con piccoli passi veloci.
«Magari al cinema ci andiamo un'altra volta.» disse Gabriele sgranocchiando un grissino che aveva pescato dal cestino posto al centro del tavolino. «A vedere, se non ti dispiace, qualcosa di più entusiasmante.»
«Sono d'accordo.» approvai. «Qualcosa in cui perlomeno qualcuno parli. Non ne potevo più di vederli piangere...»
«Ci intendiamo.» rise lui. «Il fatto è che cercano di commuoverci, ma non possono farlo così. Insomma... Non è che se qualcuno piange allora piangiamo anche noi, eh. Dovrebbero rifletterci un po', quando fanno questi film.»
«Sono d'accordo.»
Ci fu qualche minuto di silenzio imbarazzato. Non sapevo più che cosa dire, avevo paura di essere inopportuna e di tirare fuori argomenti poco piacevoli. Avrei voluto domandargli qualcosa di quella ragazza per cercare di capirne un po' di più, ma risolsi che non era una buona idea e accantonai quella possibilità.
«Abbiamo lasciato il mio motorino al cinema.» commentai dopo un po'. Non avevo minimamente pensato alla mia povera moto, quando mi aveva fatto cenno di salire in macchina. Significava che avrei dovuto, più tardi, farmi accompagnare di nuovo al parcheggio per recuperare il mio mezzo.
«Lo so.» rispose invece lui con un sorriso. «Ma ti porto a casa lo stesso. Il motorino te lo porto io questa sera. Me lo concedi?» Pronunciò le ultime parole con un tono tale che non riuscii a non ridere, annuii e replicai:
«Se ti fa piacere.»
«Certo che sì.»
Fu in quel momento che arrivarono le pizze. O meglio, quelle che avrebbero dovuto essere pizze. Perché le dimensioni erano più o meno quelle di due dischi volanti e dubitavo che il pizzaiolo avrebbe potuto mettere più verdura in quella di Gabriele, perché la povera cameriera, che era sottile come un giunco, sembrava far davvero fatica a sostenere i due piatti.
«Se non altro ti passerà la fame.» sorrisi quando Gabriele mi lanciò un'occhiata scioccata.
«Questo è sicuro.» commentò lui. «Ma non vorrei che me le facessero pagare di più, sai. Comunque, buon appetito!»
Ricambiai e rimasi a osservarlo qualche istante mentre si dava a un'accurata ispezione della sua pizza.
«Che stia facendo?» domandai, incredula, quando iniziò ad ammucchiare le verdure in un angolo del piatto per poi riposizionarle al loro posto.
«Controllo.» replicò lui, serio. «L'ultima volta che sono venuto qui nella pizza ho trovato... Ah! L'hanno fatto di nuovo!»
«Che cosa?» chiesi, incapace di capire cosa stesse accadendo. Ma lui si era già alzato ed era andato a recuperare la piccola cameriera che ci aveva serviti. Le indicò la pizza con aria tragica, spostò parte del condimento con la forchetta e le disse: «Senti un po', ma lo vedi questo? La pizza vegetariana, per sua natura, deve avere solo verdure. E questo invece che cos'è? Il famoso tonno di campo? Scriviti da qualche parte che non ci va il tonno e vallo a dire al cuoco. Sembra che lui non lo sappia.»
La piccoletta annuì, brontolò qualcosa di incomprensibile e si dileguò. Gabriele, dal canto suo, si sedette e iniziò a mangiare tranquillamente, come se nulla fosse successo.
«Spero che non ti abbia dato fastidio.» mi disse guardandomi. Scossi il capo lentamente, senza parlare, indecisa se ridere o piangere .«Ma non sopporto che sbaglino, e qui lo fanno spesso. Magari riuscirò a ottenere uno sconto, però.»
Scesi dalla macchina che mi sentivo a pezzi. Avevo sonno e volevo soltanto andare a dormire, anche se mi dispiaceva allontanarmi da Gabriele, che scese a sua volta e mi scoccò un paio di baci sulle labbra.
«Bé, spero che almeno nella seconda parte della serata tu ti sia divertita.»
«Direi di sì.» confermai con un sorriso. «Ma la prossima volta, invece che andare al cinema, andiamo a correre con i go-kart.»
Il sorriso che gli illuminò il volto, a quelle parole, fu sorprendente. Illuminato dalla luce pallida di un lampione, nel buio della notte, ululò:
«I go-kart!» Si fermò a riflettere. «Senti, facciamo che ti chiamo appena so quando possiamo andare. I go-kart! Non sapevo che ti piacessero, altrimenti ti ci avrei portato già oggi. Io li adoro! Se non fosse che sei ancora minorenne, Totta, credimi che ti chiederei di sposarmi.»
Risi, ma quelle parole, per qualche strano motivo, mi suonarono quasi come una minaccia.

 

 

Ecco il sesto capitolo! Ringrazio moltissimo tutte le persone che hanno letto o commentato i capitoli precedenti, quelle che hanno inserito la storia tra le preferite e quelle che l'hanno inserita tra le seguite. Grazie infinite! Spero che anche questo capitolo possa piacervi.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Spia ***


Lunedì 3 Novembre

Quella mattina, per qualche strana ragione, fui io ad andarlo a cercare. Generalmente era lui quello che mi compariva improvvisamente accanto, e io non potevo far altro che accusare il colpo, ammettere di non averlo nemmeno visto arrivare e salutarlo cercando di riprendermi dallo shock che il suo volto ammaccato mi procurava ogni volta.
Sapevo che la quarta B, la sua classe, era all'ultimo piano vicino alle macchinette del caffè, ma non ero sicura che l'avrei trovato lì. Avevo bisogno di fare sei rampe di scale per poter raggiungere quel piano e non ne ero entusiasta, ma desideravo vederlo e cercare di capire come aveva realmente reagito alla sfuriata che gli avevo fatto la settimana prima.
La classe, quando entrai, sembrava deserta. Tutti erano scesi a fare ricreazione, qualcuno era in cortile a fumare. Avevano aperto le finestre e l'aria all'interno era gelida. Stavo già per andarmene quando la sua voce, che arrivava da in fondo alla classe, mi fermò.
«Ciao.» lo sentii dire, un po' più forte delle altre volte in cui aveva parlato con me. Mi avvicinai al fondo della stanza e solo allora riuscii a vederlo. Stava fermo, seduto per terra, con le ginocchia raccolte al petto e le mani abbandonate lungo i fianchi, con i dorsi a contatto con il pavimento freddo e i palmi rivolti verso l'alto. Mi guardava. Gli occhi erano gonfi e arrossati, come se avesse appena finito di piangere, ma non ebbi il coraggio di domandargli se fosse davvero così. Faceva così impressione, rannicchiato lì! Un bambino spaurito, un cucciolo braccato da un leone! Non aveva niente di un normale ragazzo di diciassette anni. Pareva aver terrore del mondo.
Eppure si alzò e mi venne vicino.
«Come mai sei venuta qui?» chiese, sinceramente interessato. Ma aveva ricominciato a parlare a bassa voce, evitava il mio sguardo e le mani, che fino a pochi istanti prima aveva tenuto inermi lungo i fianchi, furono infilate nelle tasche dei jeans scoloriti a velocità strabiliante.
«Ti cercavo.» risposi con sincerità afferrando una sedia e lasciandomici cadere. «Ho pensato che magari potevo passare io a vedere come stavi, una volta tanto. Senza che fossi tu a comparirmi alle spalle all'improvviso, come fai di solito.»
«Oppure per vedere se sono arrabbiato con te per vedere quello che è successo lunedì scorso.» considerò a voce bassa, ma con tono neutrale. A sentir parlare lui sembrava una cosa del tutto normale.
«Anche.» ammisi, senza nemmeno tentare di svicolare. Sapevo che non aveva senso. Per qualche strana ragione, Gioele sembrava capire perfettamente tutto quello che mi passava per la testa.
«Non sono arrabbiato.» m'informò allora. Si sedette sul banco di fronte a quello in cui mi ero sistemata io e afferrò una penna dall'astuccio poggiato davanti a me. Prese a rigirarsela tra le mani, tolse il cappuccio e si segnò il dorso della mano con dei segni curvi privi di significato. Tante spirali, una accanto all'altra. Lo faceva senza pensare, guardando appena la sua pelle bianca che si riempiva di linee nere, poi rimise a posto la penna e tornò a guardarmi. «A dire la verità, non lo sono mai stato.»
«Sei sempre così tranquillo?» gli domandai allora, alzandomi e avvicinandomi a lui, che però rimase fermo dov'era. «Insomma... Non ti arrabbi mai?»
«A volte.» rispose con un piccolo sorriso. Piegò un po' la testa verso sinistra, come per guardare meglio davanti a sé. Aspettai che proseguisse, ma non lo fece.
«Ah, davvero? E quando?» lo incitai, sperando che mi dicesse qualcosa di più.
«Quando mia sorella finisce il dolce, per esempio.» esordì. Aveva una voce dolcissima nel pronunciare quelle parole, e gli occhi gli si illuminarono quando nominò la sorella.
«Quanti anni ha?» Speravo, chiedendogli della sorella, che sembrava essere un argomento piacevole, per lui, di farlo parlare un po'. Volevo capire che tipo fosse ed era troppo difficile farlo se non parlava.
«Sette.» replicò a bassa voce. Fece un respiro profondo, poi,  senza che lo spronassi, proseguì: «Si chiama Nguyet.»
«Nguyet?» ripetei, credendo d'aver capito male. Gioele era un nome che non si sentiva spesso, ma Nguyet era un nome che non si sentiva affatto.
«Viene dal Vietnam.» spiegò allora lui. Sembrava che avesse le corde vocali rivestite di miele, tanto era dolce la sua voce. «L'abbiamo portata in Italia... diciamo un paio d'anni fa. Forse tre, non ricordo. E' come se fosse sempre stata con noi. Be', ecco, quando Nguyet finisce la torta mi arrabbio.»
«Vorrei proprio vedere come!» commentai ridendo. «Non sembri il tipo capace di arrabbiarsi, sai?»
Sorrise anche lui, condiscendente, e mormorò:
«Eppure ne sono in grado.»
«Questo non lo metto in dubbio.» risposi. «Ma... non so, dovresti essere infuriato con me e non lo sei. Capisci quello che voglio dire? Come faccio a credere che tu te la prenda con una bambina di sette anni per un pezzo di dolce?»
«Ma io non ho mai detto che me la prendo con lei.» ribatté, sorpreso. Aveva utilizzato un tono di voce appena più alto, ma nel silenzio surreale della stanza, possibile solo grazie al fatto che anche il corridoio era stato abbandonato, sembrò che avesse urlato. Si morse il labbro inferiore, chinò lo sguardo e sussurrò:
«In realtà non ricordo d'aver mai litigato con qualcuno. Di solito preferisco arrabbiarmi per conto mio ed evitare di farlo notare agli altri.»
«Non sei quello che si potrebbe definire un tipo da combattimento.» conclusi.
Annuì.
«Già.» Seguì qualche minuto di silenzio, ma non sentii il bisogno di romperlo, come invece mi era successo il sabato con Gabriele. Gioele sembrava a suo agio in quell'assenza di suoni, e io, con lui, stavo altrettanto bene. Non diceva né faceva nulla di eclatante, eppure la sua sola presenza mi tranquillizzava.
«Te ne stai sempre qui da solo, a ricreazione?» gli domandai senza riflettere, dando voce a un pensiero che mi era passato momentaneamente per la testa.
Sembrò stupito dalla domanda. Mi guardò qualche istante, senza incrociare il mio sguardo, prima di rispondere.
«Ti interessa davvero?» chiese di rimando. Ci pensai per un po'. Sì, mi interessava. Non erano affari miei, ma volevo sapere per quale motivo fosse sempre e costantemente solo. Era lui che allontanava gli altri, o erano gli altri ad averlo allontanato? O forse nessuna delle due, forse semplicemente non si erano nemmeno mai avvicinati? Oppure un po' tutto quanto?
«M'interessa.» risposi con sincerità. «E' una cosa che non capisco.»
Fece con la mano un piccolo cenno ai banchi vuoti intorno a noi.
«Pensano che io sia strano.» spiegò con tono pacato. I suoi occhi, però, avevano assunto un'espressione che non riuscii a comprendere. «Dicono che è impossibile parlare con me, che non li ascolto, che rispondo solo a metà delle domande, che sono troppo silenzioso.»
«Te l'hanno detto loro?» chiesi, incredula. Non erano frasi di particolare impatto, ma che cosa avrebbe voluto dire sentirsele sputare in faccia da venticinque persone – contai velocemente i banchi per accertarmi del numero – con cui eri costretto a dividere metà della tua giornata?
«No.» rispose però lui, con la solita voce dolce e appena udibile.
«E allora come fai a dire che pensano questo?»
«E' evidente.» Scrollò le spalle, come se la cosa non lo interessasse, e aggiunse in un soffio tanto inudibile che, come spesso ero stata costretta a fare con lui, mi costrinse a seguire il contorno della sue labbra sottili con lo sguardo per cercare di decifrare le parole che aveva pronunciato: «Oltre ai miei genitori e a mia sorella, sei l'unica con cui parlo, in effetti.»
«Che cos'ho di diverso dagli altri?» Da sola non lo capivo. Non ero migliore di nessuno, né più intelligente. Semplicemente, trovavo strano e affascinante quel suo modo di fare che era tutto suo e che non avevo mai trovato in nessun altro. Mi incuriosivano i suoi jeans consunti, le camicie larghe a quadri, così simili a quelle che mio padre indossava per andare a pesca, le scarpe nere prive di personalità. Un abbigliamento anonimo ma lui, senza dubbio, anonimo non era affatto. Non era appariscente, non voleva essere al centro dell'attenzione e non cercava la compagnia di qualcuno che non lo desiderava, ma c'era e si faceva notare, dopotutto, con discrezione. E quasi non ci si accorgeva della sua presenza, eppure la si avvertiva. Era una sensazione strana. Accadeva solo a me?
Gli ci vollero diversi minuti per rispondere alla domanda. Mi sembrava di sentire i suoi pensieri accavallarsi l'uno sull'altro, la mente fremere, in cerca di qualcosa da dire, ma era tranquillo. Con quella sua espressione pacata, gli occhi azzurri che guardavano davanti a sé e probabilmente non vedevano nulla in particolare, perché c'era solo un muro giallo pallido di fronte a noi, rimaneva immobile.
Poi, all'improvviso, fece schioccare la lingua, dischiuse le labbra sottili e sussurrò:
«Sai aspettare le mie risposte. Ti accontenti di quello che ti dico. Non insisti più di tanto...»
«Se lo dici tu...»
«Non è vero? Ho sbagliato?» chiese lui, ma non erano vere domande. Non si aspettava una risposta e dal suo tono era fin troppo evidente. Mi aveva messa a parte dei suoi pensieri, gli andava bene così.
«Come fai a capire sempre quello che penso?» gli chiesi ancora, sperando che mi desse una risposta accettabile e sufficientemente esauriente. Ma speravo invano, e lo sapevo.
«In realtà non lo capisco.» mormorò Gioele guardando verso il basso. «Mi pare di intuirlo, provo a dirtelo e a volte faccio giusto.»
«Hai un ottimo intuito, allora.» ribattei, aspra. Non volevo rivolgermi a lui con quel tono e me ne pentii immediatamente, ma l'idea che riuscisse a comprendermi così bene mi irritava, considerato che quella era solo la terza volta che parlavamo insieme. «Voglio dire che è straordinario che tu ci riesca così bene.» aggiunsi addolcendo il tono. Se un attimo prima si era decisamente irrigidito, forse pronto a subire un'altra strigliata, sembrò rilassarsi immensamente. L'impressione che mi diede fu di un pupazzo di neve che si scioglieva sotto il sole. «Non molti sono in grado di farlo.»
«Osservo molto.» rispose lui con semplicità.
Lo capivo. D'altra parte, che altro poteva fare, se nessuno gli rivolgeva la parola? Chissà quanto aveva capito dei suoi compagni di classe, che era abituato a vedere ogni giorno. Chissà quanto, dei loro comportamenti, aveva imparato. Sapeva riconoscere tutti i loro stati d'animo? Sapeva capire, dal modo in cui stavano seduti, se temevano l'interrogazione o se l'aspettavano con tranquillità? Quanto era in grado di capire, con la semplice osservazione? Me lo chiedevo e avevo paura di rispondere.
«Credi che io sia molto strano?» chiese a voce bassissima all'improvviso, con un tono di voce strano, che mi diede l'impressione che lo stesse domandando più che altro a se stesso.
Mi attardai a rispondere. Che cosa dovevo dire?
«Voglio la verità.» sussurrò dopo qualche istante. «Non è per... insomma... non... voglio dire...» appariva davvero in difficoltà. Farfugliava parole incomprensibili, concentrato, parlava come se faticasse a respirare e non mi guardava. Gli posai una mano sulla spalla e lui sussultò. Mi fissò con gli occhi sgranati e attese che dicessi qualcosa.
«Stai tranquillo, Gio'. Non è necessario che termini la frase. Non mi farò idee strane su di te.»
Sorrise, davvero grato.
«Sai» commentò in un filo di voce, mentre sentivo che i ragazzi cominciavano a ripopolare il piano «sei la prima persona al mondo che mi chiama così.»
«Così come?» replicai. «Intendi Gio'
Annuì. Mi voltai verso l'orologio appeso alla parete. Mancava un minuto al suono della campanella, perciò avrei dovuto allontanarmi e tornare in classe. Ma non ne avevo voglia. Volevo che continuasse la frase, che mi dicesse per quale motivo aveva notato quell'insignificante particolare. Io avevo l'abitudine di abbreviare tutti i nomi e l'unica con cui non c'ero riuscita era Ines, ma anche a quello stavo lavorando. Nessuno sembrava averlo notato, fino a quel momento, o meglio, nessuno l'aveva ritenuto importante. Ma lui sì. Perché forse, nonostante tutto, era davvero diverso dagli altri. E sì, era strano.
«Sì.» rispose lui saltando giù dal banco. «Di solito, quei pochi che dicono il mio nome, lo pronunciano per intero.»
Non capivo dove volesse andare a parare, perciò gli domandai:
«Ti dà fastidio se io, invece, al contrario di tutti, lo abbrevio?»
Scrollò le spalle. Due o tre ragazze entrarono chiacchierando nella classe, ci guardarono per un po', meravigliate, poi scoppiarono a ridere.
Gioele rivolse loro una malinconica occhiata di sottecchi, poi mi guardò e sussurrò:
«Dovresti tornare in classe, sai? Arriverai tardi.»
Feci per replicare, ma, esattamente come se fossi scomparsa, si sedette al suo posto – in ultimo banco accanto alla finestra -, estrasse il libro dallo zaino e afferrò una matita mezza masticata dall'astuccio. Era pronto a seguire la lezione e io, che pure ero lì, ero come trasparente.
Me ne andai, un po' rammaricata. Non aveva risposto alla mia domanda.

Lo rividi all'uscita da scuola. Stava fermo davanti al cancello, dall'altra parte della strada, con le mani affondate nelle tasche dei jeans e il giubbotto chiuso solo per metà. La sciarpa di lana gli pendeva dal collo in maniera anomala, aveva un berretto infilato nella tasca della giacca e tra i passanti dei pantaloni e la cintura era riuscito a incastrare un paio di guanti dal colore improbabile. Sembrava un vagabondo che qualcuno aveva misericordiosamente lavato.
Dietro a lui, impeccabile nella sua giacca di pelle, con i capelli pettinati e lo zaino su una spalla, stava Gabriele. Mi stava cercando tra la folla di studenti che si accalcavano all'uscita. Quando mi individuò mi sorrise e mi fece segno di avvicinarmi a lui. Mi feci largo tra gli altri ragazzi e lo raggiunsi. Quando gli fui vicino mi scoccò un bacio sulle labbra, mi cinse le spalle con il braccio e fece per girarsi, ma io lo fermai.
«Aspetta un attimo.» lo pregai allontanandomi da lui.
Mi diressi verso Gioele, che aveva lo sguardo fisso nel vuoto e sembrava non essersi accorto di me, e per attirare la sua attenzione gli sfiorai appena il braccio. Sobbalzò e alzò in fretta lo sguardo. Quando si accorse di me sorrise.
«Non mi dà fastidio.» disse prima ancora che potessi aprire bocca. Aveva avuto la decenza di utilizzare un tono sufficientemente alto perché potessi sentirlo, ma la sua voce era ancora poco più che un sussurro. «Sembra...» Ma non mi disse cosa gli sembrasse. Gabriele si era avvicinato a noi, mi aveva stretto a sé e aveva salutato Gioele con un cenno della mano.
«Ciao.» lo salutò allegramente. Gioele parve ritrarsi. Incurvò le spalle e chinò la testa. Non sembrava avere il coraggio di guardare Gabriele, che proseguì: «Non sapevo che frequentassi questa scuola.»
Gioele non rispose. Si limitò a scrollare le spalle. Al che Gabriele commento, con un sorriso strano stampato in faccia:
«Loquace come sempre.»
E fu allora – ancora non so come sia potuto accadere – che Gioele alzò lo sguardo. I suoi occhi azzurri incontrarono quelli neri di Gabriele e l'occhiata che gli riservò fu la più cattiva che avessi mai visto. Rabbrividii e non seppi spiegarmi il perché di tutta quell'ostilità. Non distolse lo sguardo, come era solito fare: rimase immobile a guardare Gabriele, in una lotta che mi sembrò senza fine, fino a che Gabriele, che pure mi era sembrato assai sicuro di sé, non fece un passo all'indietro e chinò lo sguardo.
Dichiarava la propria sconfitta e alzava bandiera bianca.
E solo allora Gioele tornò a essere quello di sempre. I suo occhi saettarono verso l'asfalto scuro, mi salutò con un frettoloso «Ci vediamo, Carlotta.» e se ne andò camminando in fretta. Sparì all'interno della solita Jaguar nera in poco più di un secondo, disse qualcosa all'uomo al volante, che annuì e mise in moto. Si dileguarono più velocemente del solito, come se fossero stati inseguiti.
Gabriele mi sorrise e non riuscii a non notare qualcosa di crudele nel suo sguardo.

Mentre eravamo in macchina, con la radio a massimo volume che mi martellava nelle orecchie, non riuscii a smettere di pensare nemmeno per un secondo alla stranissima occhiata di Gioele. Mai, in tutta la mia vita, mi ero trovata davanti a un simile sguardo. Non era paura né timore né disprezzo né odio né alcuno dei sentimenti che pensavo di potrebbero provare per una persona: era disgusto. Semplicemente. Gioele, con quell'occhiata terribile che mi avrebbe perseguitata per settimane, stava dicendo a Gabriele: mi fai schifo. E mi turbava il fatto che Gabriele, accanto a me, non sembrasse minimamente toccato dalla faccenda: ripeteva allegro le parole della canzone battendo il ritmo sul volante con una mano. Con l'altra stringeva la mia e di tanto in tanto mi lanciava qualche occhiata trasognata.
«Lo conosci?» gli domandai all'improvviso, incapace di trattenermi. Se era successo qualcosa tra quei due, io dovevo saperlo.
«Gioele?»
Annuii. Si rabbuiò.
«Non dargli troppa confidenza.» mi ammonì. «E' un idiota.» S'interruppe per un po', serio, poi proseguì: «Sembra tanto buono, sai, con quella faccetta da angelo che si ritrova. Occhioni azzurri da cucciolo braccato dai cacciatori e vocina da suora di campagna... E' tutta una farsa.»
Rimasi di sasso. Non mi sarei mai aspettata simili parole da Gabriele. Non mi sarei aspettata simili parole su Gioele. Era assurdo! Come poteva essere tutto finto? Come poteva nascondere così bene il carattere che Gabriele mi stava descrivendo? Eppure ci riusciva, a quanto pareva. Non credevo che Gabriele mi avrebbe mentito, e il comportamento di Gioele era fin troppo strano per non avermi destato qualche sospetto riguardo alla sua sincerità.
«Che vuoi dire?» insistetti, dato che avevo capito che finalmente sarei riuscita a ottenere qualche informazione in più su di lui. Mi incuriosiva troppo e non riuscivo a trattenermi.
Gabriele sospirò.
«Non si fa mai gli affari suoi.» m'informò. «Non parla mai, hai visto? Non saluta nemmeno, maleducato com'è. Sembra uno scemo, ma non lo è. Lui sa tutto di tutti. Ascolta le conversazioni, ho saputo che ha persino seguito della gente e che l'ha spiata. Non devi fidarti di uno così, credimi. Sembra tanto un amico ed è una carogna. Se ti rivolge la parola è perché ha fiutato qualche pettegolezzo che in qualche modo può risultargli comodo, ci scommetto.»
«A vederlo non si direbbe.» obiettai cautamente.
«No, infatti. E' per quello che anch'io mi sono fidato di lui. Era mio amico, sai?» rivelò. La sua voce era quasi sofferente, il volto crucciato. Capivo che parlarne gli costasse una grande fatica, ma non lo interruppi. Lui, dal canto suo, proseguì: «Quando l'ho conosciuto ero al settimo cielo. Avevo proprio bisogno di un amico così. Lui c'era sempre, quando lo chiamavo, questo sì. A qualsiasi ora. Un giorno avevo bisogno di un consiglio per una cosa – è furbo come una volpe, mi serviva uno come lui – e gli ho telefonato alle undici e mezza di sera. Quaranta minuti dopo era a casa mia con la soluzione pronta proprio sulla punta della lingua. E se avevo bisogno di qualsiasi cosa e mi rivolgevo a lui non mi diceva mai di no. E poi, all'improvviso, ancora non so perché, ha smesso di rispondere al telefono. Se mi vedeva in giro non mi salutava nemmeno. L'ho sentito personalmente dire alla sua sorellina, un giorno che ci siamo trovati nello stesso negozio, di starmi lontana. Lontana da me!» Scosse la testa, come se ancora non si capacitasse di quello che era accaduto.
Io ero in uno stato di shock. Quello che mi stava dicendo era incredibile. Mai avrei pensato cose simili di Gioele! Il suo viso era troppo sereno, la sua voce troppo dolce, il suo sguardo troppo timoroso. Come poteva aver fatto ciò che Gabriele mi stava raccontando? Chi, dei due, mentiva?
Ci riflettei in fretta. Gioele, senza dubbio. Che motivo avrebbe avuto, Gabriele, di diffamare in quel modo un ragazzo con cui avevo avuto solo qualche incontro occasionale, tra l'altro piuttosto burrascoso? Mentre l'altro... Avrebbe avuto motivo di prendermi in giro, dopo tutto ciò che gli avevo fatto. E ci sarebbe riuscito in pieno, perché di uno come lui mi veniva istintivo fidarmi.
«E' un bugiardo.» aggiunse all'improvviso Gabriele entrando nella strada che mi avrebbe portata davanti a casa. «Non fidarti di quello che dice.»
Aveva un'espressione strana mentre mi faceva quest'ultima raccomandazione, ma il suo sguardo sembrò all'improvviso sollevato quando, sempre più perplessa, scesi dalla macchina. Lo salutai con un movimento rapido della mano, entrai in casa correndo e a malapena salutai i miei fratelli, che in salotto bisticciavano per il controllo del telecomando. Arrivata in camera mia mi gettai sul telefono, sollevai la cornetta e composi il numero di Francesca.

 

Ed ecco il settimo! Molto imparzialmente confesso che adoro Gioele... Lo preferisco di gran lunga a Gabriele.
Detto questo... ringrazio tantissmo tutte le persone che stanno leggendo e/o commentando la storia, quelle che l'hanno inserita tra le preferite e quelle che l'hanno inserita tra le seguite, grazie infinite!

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Uri ***


Mercoledì 5 Novembre

Nei due giorni che erano trascorsi dall'ultimo incontro con Gioele e dallo strano discorso che mi aveva fatto Gabriele su di lui avevo cercato, per quanto possibile, di capire cosa esattamente fosse successo tra i due.
Appena tornata a casa, il lunedì, avevo telefonato a Francesca per chiederle se sapeva qualcosa di tutta quella faccenda, ma lei aveva negato e mi aveva assicurato che mai, da che aveva incontrato Gioele, l'aveva sentito nominare Gabriele.
Io non sapevo che cosa pensare. Da un certo punto di vista ero più propensa a credere a Gabriele, che era il mio ragazzo – ormai ufficialmente, nonostante io stessa stentassi a crederlo – e che conoscevo da più tempo; dall'altro faticavo ad accettare l'idea che tutto il comportamento di Gioele fosse finto. Era troppo particolare, troppo tranquillo per essere tutto costruito! Sembrava così a suo agio quando, in completo silenzio, mi guardava appena, la mattina. Era il suo modo di salutarmi, di farmi sapere che si era accorto che c'ero e che mi augurava una buona giornata. Avevo imparato, ormai, che da lui non potevo aspettarmi nulla di più. Ed era così sempre. Non aveva mai avuto, da quando l'avevo conosciuto, un moto di rabbia, un guizzo di energia, uno sguardo diverso da quello che teneva di solito.
Mi alzai dal divano mugugnando e infilai le scarpe svogliatamente.
Francesca mi aveva costretta a giurare, il giorno prima, quando le avevo telefonato, che avrei passato il pomeriggio insieme a lei e a Ines. L'idea mi aveva entusiasmato fino a che, con grande disappunto mio e di Ines, non ci aveva annunciato che ci sarebbe stato anche Uri.
Sbuffai uscendo in strada. Non avevo nulla contro Uri, ma non mi entusiasmava la prospettiva di passare il pomeriggio con lui. Cosa avremmo potuto fare, con lui presente? Guardare i film commentando la bellezza degli attori? Lo escludevo, considerando che Francesca avrebbe evitato di mostrare di apprezzare degli uomini che non fossero lui. Nemmeno chiacchierare sarebbe stato possibile: come avremmo potuto, con lui presente?
Arrivai a casa di Francesca borbottando tra me, contrariata. Mi fermai davanti al cancello e guardai all'interno. Nel cortile, sull'erba, qualcuno aveva abbandonato una vecchia bicicletta a macchie rosa e verdi, un pallone bucato giaceva poco lontano. Il cancello si aprì prima ancora che suonassi il campanello. Si affacciò alla porta la madre di Francesca, una donna piccolina, dai lineamenti sudamericani, con folti capelli neri raccolti alla meno peggio, un sorriso caloroso sempre dipinto sul volto.
«Carlotta!» esclamò vedendomi. Aveva perso un po' l'accento brasiliano che aveva quando era arrivata in Italia insieme alla figlia, cinque anni prima, ma la sua parlata era ancora particolarissima, lontana da quella italiana. «E' da tanto che non vieni a trovarci. Francesca ti aspetta, è in camera sua. Corri da lei, che non mi piace che sta da sola con quel ragazzo, eh?»
Sorrisi e annuii mentre mi abbracciava brevemente. Capivo la sua preoccupazione, perché conoscevo Francesca e sapevo benissimo che non era particolarmente tranquilla, perciò entrai in casa e salii di corsa le scale. La stanza della mia amica era al terzo piano di quella villetta che, nonostante si articolasse su ben cinque piani, era orrendamente piccola.
«Ciao, Totta!» mi salutò Francesca dalla sedia della sua scrivania non appena aprii la porta. Uri se ne stava sdraiato sul suo letto, con un sorriso sornione sulle labbra e l'aria quanto mai allegra.
«Ciao.» mi disse quando mi vide. Si tirò a sedere perché potessi accomodarmi accanto a lui.
«Ines?» chiesi quando mi fui sistemata. Francesca agitò una mano davanti al volto.
«Sua madre ha scoperto il voto di latino.» spiegò. Non aggiunse altro, perché avevo capito benissimo. L'ultimo voto che Ines aveva preso in quella materia era un due. Da quando la professoressa di storia l'aveva chiamata a casa, tre giorni prima, per informarla della situazione scolastica della mia amica, la signora Rizza, che fino a quel momento si era mostrata anche troppo comprensiva con Ines, era diventata inflessibile e aveva deciso di punire con la reclusione qualsiasi voto al di sotto del sei.
Ciò significava che non ci sarebbe stato modo di convincerla a lasciare uscire Ines, e che io avrei passato il pomeriggio a fare il terzo incomodo con Francesca e Uri. Fantastico.
«Hai risolto il tuo problema con i tuoi due fanti?» domandò Francesca ignorando completamente Uri, che aveva afferrato un peluche a forma di mucca trovato chissà dove e gli stava dicendo qualcosa in una lingua incomprensibile che classificai come israeliano.
I miei fanti. Così Francesca chiamava Gioele e Gabriele. Sosteneva con caparbietà che Gabriele non poteva essere il mio principe, perché, secondo lei, che lo odiava, era Gioele ad attirare la mia attenzione. Io, quando mi riferiva questa sua convinzione, non la ascoltavo e continuavo a sognare a occhi aperti il mio Gabriele. Per Gioele, alla fine, non provavo altro che una irresistibile curiosità.
«Direi di no.» risposi brevemente rivolgendole un'occhiata di sbieco. Non mi andava di parlarne con Uri lì, anche se lui sembrava del tutto preso dal suo monologo con la mucca e non ci stava assolutamente badando.
«Ignoralo.» mi ordinò Francesca con uno sguardo perplesso in direzione del fidanzato, che le sorrise per un istante e poi tornò a concentrarsi sull'animale di pezza. «Sa che non deve ascoltare.»
«Il fatto che io non debba ascoltare, però,» intervenne Uri passandosi una mano tra i capelli ricci e crespi «non significa che non possa sentire. E, fra parentesi,» aggiunse guardando me, con uno sguardo straordinariamente intenso, «io li conosco entrambi e so che cosa va dicendo Gabriele di Gioele. Non credergli.»
L'ultima affermazione era stata pronunciata con un tono talmente inflessibile che mi sembrò non fosse nemmeno stato lui a parlare. Il suo volto era rilassato e l'espressione allegra, ma il suono della sua voce era stato quello del ghiaccio che si spezza.
«Cosa vuoi dire?» gli domandai senza riuscire a trattenermi.
«Non conosco bene Gabriele.» ammise. «Ma conosco Gioele. Non è un mio amico, no, lui non ha amici, è troppo strano, ma so com'è e so che non farebbe mai ciò che Gabriele dice che ha fatto. Gioele non è uno stronzo. E' buono, davvero. Non tratterebbe male una persona che si fida di lui, non senza motivo.»
«Quindi non sai che cosa è successo tra loro?» fece Francesca, che aveva avvicinato la sedia al letto e guardava Uri con aria trasognata.
«Ho provato a chiederlo.» sospirò Uri. «Ma Gabriele ha detto che non erano affari miei e Gioele semplicemente ha fatto finta di non sentirmi.»
«Tipico di lui.» borbottai, contrariata.
Uri rise e annuì.
«Sì, è vero. Ma non credere a Gabriele.» sentenziò. Feci per parlare, ma mi fermai.
Stavo esagerando. Dovevo smettere di fare domande su Gioele. Quello che era successo tra lui e Gabriele non mi riguardava e io non dovevo mettere il naso in affari che non erano miei.
«Allora, Totta,» mi disse Francesca lanciano uno sguardo sbieco a Uri, che aveva riafferrato la mucca di peluche e la fissava con intensità, come se avesse potuto, con la sola forza dello sguardo, costringerla a rispondere alle sue domande «che mi dici dell'ultimo appuntamento con Gabriele? Ti sei divertita?»
Guardai dubbiosa Uri, indecisa se parlare o meno, ma alla fine decisi di ignorarlo e mi rivolsi alla mia amica.
«Ero un po' sottosopra.» le risposi. «Sai, per tutta quella storia...»
«Della ragazza misteriosa.» concluse lei.
«Già.»
«Elena.» intervenne Uri a sorpresa. Stringeva ancora la mucca tra le mani, ma mi guardava. «Si chiama Elena. E' un'amica di sua sorella Lucia.»
«Come fai a saperlo?» soffiai. Non volevo sapere cos'altro aveva da dirmi. Se avesse confermato quei timori che stavo pian piano abbandonando, se mi avesse raccontato cose che non volevo sentire... Ma dovevo saperlo. Tutta la storia che stavo avendo con Gabriele mi uccideva. Nonostante tutti i miei sforzi non riuscivo a fidarmi di lui. Perché lo sguardo che le aveva lanciato non era come quelli che rivolgeva a me. Perché con me non rideva come aveva riso con lei e perché nessuno mi aveva ancora parlato bene di lui.
«E' in classe con Shira.»
Shira, la bellezza mediorientale che voleva diventare ingegnere nucleare. La splendida gemella di Uri, quella che era sulle bocche di tutti i ragazzi delle scuole del centro, di quei pochi che erano riusciti a parlare con lei e di quelli che erano riusciti a non farsi beccare dai suoi gelosissimi fratelli. Shira era la leggenda del centro storico.
«E Shira che cosa dice di lei?» domandò Francesca, il naso arricciato. Sembrava sospettosa. Uri, all'improvviso, sembrò accorgersi di aver detto troppo. Ma non poteva tacere, non ora, così si costrinse a guardarmi e rispose:
«In realtà non molto. Da quanto ho capito non è una che si fa notare più di tanto. E poi, Shira non è che parla della scuola, non con me, perlomeno. L'ha nominata un paio di volte perché sta insieme a quello che piace a mia sorella.»
«Quindi è fidanzata?» mormorai, lievemente consolata.
«Anche troppo!» esclamò Uri. «Shira mi ha costretto a seguire quei due per vedere se era proprio così o se magari lei non era molto interessata e lei – mia sorella – poteva provarci con questo qui, ma credimi se ti dico che questa Elena è tutta presa dal suo ragazzo e non ha in mente altro. Io e Nimrod l'abbiamo seguita per giorni e ti assicuro che per lei non c'è nessun altro.»
«Non mi sta simpatico, Nimrod.» intervenne Francesca dopo qualche istante di silenzio. La guardai. Nimrod era uno dei fratelli di Uri. Mi ricordavo bene di lui perché, ai tempi delle superiori, era sempre a casa mia per studiare insieme a Mirko. Era un tipo un po' strano, con metodi bruschi e un fortissimo accento israeliano.
«A Nimrod non piace avere gente in casa.» replicò Uri, improvvisamente di cattivo umore. «Non gli andava tanto bene che tu avessi portata con me. Dice che i miei amici, o la mia ragazza, li devo incontrare fuori.»
Francesca sbuffò, ma non rispose. Seguirono diversi minuti di completo silenzio, durante i quali non feci altro che pensare a qualcosa da dire. Ma invece che trovare una qualche brillante idea, mi venne in mente Gioele. Lui e il suo silenzio che non turbava. Si stava bene, con lui, senza parlare. In quel momento, invece, avrei dato qualsiasi cosa per un'interruzione che potesse portare un po' di rumore nella stanza. Giusto per non essere costretta a cercare un punto verso cui guardare senza risultare maleducata.
Alla fine fu Uri a parlare di nuovo.
«Sentite, io vado a casa. Fra', ci vediamo domani, ti va?»
«Alle quattro.»
«Va bene.» Si rivolse a me, mi fece un cenno di saluto con la mano. «Ciao, Totta. E stai tranquilla, che Gabriele è tutto preso da te. In autobus, con Sandro, non parla d'altro.»
Arrossii paurosamente e annuii.
«Allora» dissi quando fui certa che se ne fosse andato «sembra che sia una cosa seria, con questo tuo principe mediorientale.»
Francesca rise della sua risata più cristallina e scosse il capo.
«Detto così sembra una favola da "Le mille e una notte"!»
«Be', sei vuoi metterla in questo modo...» replicai sdraiandomi sul letto dove poco prima c'era Uri. «Comunque sia, sembra preso da te.»
«A me sembra piuttosto che sia preso dalla mia mucca di peluche.» commentò lei, acida.
«Che vuoi dire?» chiesi tirandomi a sedere. Sembrava seccata. «C'è qualcosa che non va?»
«No, niente...» si affrettò a negare, ma non mi sembrava poi così convinta. «Il fatto è che lui è un tipo un po' strano. Sai, non vuole che vada a dire in giro che stiamo insieme, non posso chiamarlo al telefono e quando usciamo dobbiamo sempre fare un sacco di strada perché lui non vuole stare in posti in cui possono vederci.»
«Non può vedervi chi, esattamente?» Ero scioccata. All'inizio, quando avevano appena iniziato a uscire insieme, Uri le era sempre attaccato. A ricreazione aveva smesso di stare con i suoi amici e si univa alle nostre conversazioni, oppure rimaneva in silenzio accanto a lei ad ascoltarci parlare. E non mi sembrava che avesse smesso di farlo, anzi. Mi appariva più rilassato quando era con noi, e anche i suoi amici sembravano essersi rassegnati al suo nuovo passatempo preferito.
«I suoi fratelli, credo.» rispose lei mordicchiandosi un labbro.
«Ah.» Non sapevo cosa dire. «Non approvano la vostra relazione?»
«Penso di no.» Fece un profondo respiro e proseguì: «Da quanto ho capito, lui stava con un'altra, prima. Una tizia che ai suoi fratelli piaceva più di quanto ci piaccia io. Credono che sia una facile.»
«E in base a cosa avrebbero stabilito questo?» domandai, furente.
«Ah, non ne ho idea. Probabilmente perché quando Uri mi ha chiesto di uscire insieme ho detto subito di sì. O perché sono uscita con altri, prima di lui.»
«Ma questo è normale!» ribattei.
«Già.» sospirò lei.
Seguirono alcuni istanti di silenzio, che vennero rotti da un cauto bussare alla porta. Francesca si alzò per aprire e si ritrovò davanti il volto abbronzato di sua madre.
«Carlotta, ha chiamato tua mamma. Ha detto che sono già le sette e mezza di sera e che devi andare a casa.» m'informò.
Annuii. Mi aveva portato il cappotto in camera; lo afferrai e lo stavo infilando, già sulle scale, quando Ines mi chiamò.
«Riguardo a quello che ti ha detto Gabriele, dovresti parlarne con Gioele. Secondo me ti direbbe la verità.»
La guardai e pensai che in fin dei conti aveva ragione. Che motivo avevo di dubitare di una persona che era sempre stata così buona con me?

 

Ed ecco l'ottavo capitolo! Voglio ringraziare tantissimo tutte le persone che hanno letto o commentato la storia, quelle che l'hanno inserita tra le preferite o tra le seguite. Grazie di cuore! Spero che questo capitolo vi piaccia.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Principessa ***


Giovedì 6 Novembre

Alla fine non avevo parlato con Gioele. Mi ero riproposta di chiamarlo, la sera prima, tornata da casa di Francesca, prima di rendermi conto di non avere il suo numero di telefono e di non conoscere nessuno, a parte Gabriele, che potesse averlo. Avevo provato a cercarlo nell'elenco telefonico, ma di Spampinato non ce n'era nemmeno uno. Avevo rinunciato solo dopo molto tempo e parecchi ripensamenti, fino a che non ero giunta alla conclusione che ci avrei parlato il giorno dopo a scuola. Ma non l'avevo fatto. Lui non era venuto da me e io non ero andata da lui. L'avevo incrociato per le scale, appena arrivata, l'avevo salutato ma lui aveva risposto talmente in fretta e talmente sovrappensiero che avevo deciso di lasciarlo stare. Sembrava di pessimo umore e non me la sentivo di affrontarlo.
E nel pomeriggio avevo deciso che sarei andata a fare un giro in centro, da sola. Avevo bisogno di riordinare le idee e di capire che cosa volevo esattamente da quei due ragazzi. Non potevo continuare a indagare alle loro spalle, soprattutto per quanto riguardava Gabriele, di cui avrei dovuto fidarmi e con cui avrei dovuto confidarmi per tutti i miei dubbi, almeno quelli che lo riguardavano. Ma mi riusciva difficile. Temevo che mi prendesse per stupida o che si offendesse.
Presi l'autobus poco dopo pranzo. Non c'era nessuno né lì né per le strade del centro. La città sembrava addormentata. Un paio di piccioni beccavano a terra, probabilmente in cerca di cibo, e una vecchia mendicante si trascinava dietro il suo sacco di stracci, ma a parte questi non si vedeva anima viva. Lo ritenevo perfetto per quello che avevo in mente. Concentrarmi solo su me stessa e sui miei pensieri... Non c'era nulla di meglio che un centro storico perfettamente deserto.
Iniziai a camminare senza riflettere, portandomi dove mi conducevano i passi che facevo, fino a che non sentii delle voci familiari e riconobbi una delle stradine secondarie che portavano alla mia scuola.
«Allora, Principessa, si può sapere a che gioco stai giocando?» sbraitava la prima voce. Capii subito a chi apparteneva, ma non volevo crederci. Non arrivava nessuna risposta, perciò mi arrischiai a fare un passo in avanti per riuscire a vedere nella direzione da cui provenivano le voci.
Erano in quattro, stavano davanti al portone della scuola e dalla mia posizione, nascosta quasi completamente da un pianta che stava fuori dalla porta del bar che c'era nell'angolo formato dalle due strade che si incontravano, ero abbastanza vicina da vederli e sentirli. E poi, se per caso si fossero voltati nella mia direzione, mi sarebbe bastato mezzo passo all'indietro per scomparire dietro al muro su cui mi ero poggiata. Avevo paura anche di respirare. Quello che stavo facendo era sbagliato, lo sapevo e non m'importava.
Perché lì, in mezzo a quella stradina, che era deserta a tutte le ore dato che portava soltanto alla scuola e in nessun altro posto, c'erano Gabriele e Gioele. Accanto al primo, Sandro e un ragazzo enorme che mi sembrava si chiamasse Mattia.
Era stato Gabriele a parlare, poco prima. Ed era stato Gioele a non rispondere. Lo guardai bene e mi accorsi che era strano. Aveva le spalle curve e la testa bassa, si teneva lontano da Gabriele e avrei potuto giurare che fosse terrorizzato, ma lo guardava negli occhi e il suo sguardo era schifato.
Non mi ero sbagliata, due giorni prima, quando mi era parso che i due si odiassero, e non avevo interpretato male l'espressione che allora aveva messo su Gioele. Era la stessa che aveva in quel momento, solo che adesso era solo e i due che erano con Gabriele non sembravano ben intenzionati.
«Sto aspettando, Principessa.» disse ancora Gabriele, a voce più alta. Fece schioccare le dita con fare minaccioso, ma Gioele non si scompose più di tanto.
«Anch'io.» rispose. Parlava a voce alta, non aveva paura di farsi sentire. Non sussurrava, non guardava altrove, non aveva le mani affondate in tasca. Teneva le braccia incrociate sul petto e man mano che il tempo passava sembrava raddrizzarsi lentamente con la schiena.
La risposta lasciò completamente basito Gabriele, che per un secondo assunse un'aria talmente imbambolata che, se non fosse stato per la situazione, mi avrebbe fatta ridere.
«Come?» domandò, come se non avesse ben capito le parole dell'altro.
«Ho detto» scandì lentamente Gioele, serio «che anch'io sto aspettando.»
«E che cosa, di grazia?» ringhiò Gabriele. Ma Gioele l'aveva giocato e lui ci era cascato, l'avevo capito benissimo pur stando lontana e pur non sapendo cosa stesse accadendo. Mattia, irrequieto, doveva essere giunto alla stessa conclusione. Guardava Gioele in cagnesco e cercava di attirare l'attenzione di Gabriele, ma lui era preso dal volto determinato – troppo determinato. Che fine aveva fatto il Gioele che avevo conosciuto? - di Gioele e sembrava non accorgersi dei due che ronzavano intorno a lui.
«Che ammetti di essere un vigliacco, per cominciare.» rispose Gioele con calma, come se stesse commentando il tempo.
«Non darmi del vigliacco!» ululò Gabriele e prima che potessi anche solo pensare qualcosa si era gettato verso Gioele e l'aveva colpito al volto. Gioele incassò il colpo con un gemito, indietreggiò, si portò una mano dove il pugno l'aveva colpito e mormorò qualcosa, poi, come se nulla fosse successo, guardò Gabriele e gli sorrise, tranquillo.
«Sei poco originale.» commentò. Sembrava quasi deluso. «Mi aspettavo qualcosa di meglio.»
«Ma come ti permetti?» esclamò Mattia scagliandosi contro di lui. Ma Gioele, questa volta, era preparato. In qualche modo riuscì a schivarlo e lo colpì con una violenza che non avrei mai potuto attribuirgli, partendo dal basso e, immaginai, rompendogli il naso, che iniziò subito a sanguinare.
Sandro, che era rimasto in disparte, si precipitò sul suo amico e lo allontanò in fretta da Gioele, che però non sembrava affatto intenzionato a colpirlo ancora.
«Dovresti dire ai tuoi amici di lasciarci parlare.» suggerì a Gabriele. Era furibondo. Le braccia gli ricadevano inermi ai lati del busto, ma ero certa che sarebbe stato rapidissimo a reagire, se qualcuno l'avesse attaccato nuovamente.
Gabriele, invece, sembrava essersi calmato. Respirava a fondo, alzando e abbassando il petto in modo particolarmente accentuato.
«Hai ragione.» acconsentì. Io, nel mio nascondiglio, tremavo. Sentivo le lacrime che mi bagnavano il volto, ma non avevo nemmeno la forza di asciugarle. Quelli che stavo vedendo non erano Gabriele e Gioele. E se era pur vero che Gioele aveva colpito solo dopo averle prese, era anche vero che Gabriele, invece, gli aveva sferrato un pugno solo per imporsi su di lui, perché non era in grado di ribattere con le parole a quello che Gioele gli aveva detto. «Allora parliamo con tranquillità. Dimmi perché ti stai immischiando in questa faccenda.»
«Per lo stesso motivo per cui tu vuoi che io ne rimanga fuori.» replicò lui. Non avevo capito cosa intendesse, ma Gabriele invece sembra aver compreso tutto.
«Cosa?» ansimò. «Vuoi dirmi che tu...?» Non terminò la frase. Gioele annuì e quello che nacque dal petto di Gabriele fu simile a un ringhio spaventoso.
«Sì.» stava dicendo Gioele. «E' così. Ma io non farò niente perché ho rispetto di te e ancora di più, se me lo concedi, della persona di cui stiamo parlando. Ma tu stai sbagliando e io vorrei impedirti di fare quello che stai facendo perché, in realtà, ritengo che sia una gran cazzata e che avrai da pentirtene.»
«Se dici una sola parola, se muovi un dito...» minacciò Gabriele avvicinandosi di un passo. Gioele indietreggiò.
«Non lo farò.» scandì. «E se avessi avuto intenzione di farlo non sarei venuto a parlare con te, ma sarei andato direttamente da lei e le avrei detto tutto.»
Quindi era stato Gioele a prendere l'iniziativa. Era in linea, pensai, con il suo carattere. In fin dei conti, anche quando c'era stato da chiarire con me era stato lui a fare il primo passo.
Ma quello che non capivo, e mi rodeva, era di cosa stessero parlando. Era ovvio che c'entrasse un'altra persona, di cui Gioele sembrava aver fatto apposta a non pronunciare il nome... La mia mente elaborava mille ipotesi, una meno probabile dell'altra, ma io non aveva tempo da perdere dietro a intuizioni e dubbi.
«Sei uno stronzo.» disse Gabriele.
«Forse.» rispose Gioele con calma. «Ma se io sono uno stronzo, cosa saresti tu, esattamente? Sai, faccio fatica ad arrivarci.»
Gemetti. Perché quell'idiota lo stava provocando? Aveva voglia di prenderle? E poi, che cosa era successo alla sua timidezza, dov'era finito il timore di parlare, il tono di voce inudibile, il sorriso sempre accennato sulle labbra e gli occhi che saettavano in tutte le direzioni pur di non incrociare lo sguardo di un'altra persona? Quel cambiamento improvviso non aveva il minimo senso, a meno di non voler confermare le parole di Gabriele che parlavano di menzogna e di recita.
Ma non potevo crederci. Sepolto sotto a quel coraggio improvviso doveva esserci ancora il terrore del mondo. Ma lo nascondeva bene e sembrava davvero determinato ad affrontare Gabriele e la presenza di quei due scimmioni, così pronti ad alzare le mani, non pareva causargli un problema.
Ma aveva guardato nella direzione in cui mi trovavo io già due volte e mi era sorto il timore che potesse essersi accorto della mia presenza. Sarebbe stato tipico di lui, così attento a tutto... Se fosse stato vero, come avrebbe reagito? Chissà cosa avrebbe pensato di me! E soprattutto, cosa sarebbe successo se se ne fosse accorto Gabriele? Deglutii, incapace di pensare alle conseguenze a cui il mio gesto avrebbe potuto portare.
«Non azzardarti a parlarmi così.» minacciava Gabriele nel frattempo. Era folle di rabbia. Ma Gioele lo stava prendendo in giro. Sorrideva e teneva la testa alta, sicuro di sé come non l'avevo mai visto e come, supponevo, non avrei più avuto modo di vederlo.
«Ah, giusto, a te non piace che venga detta la verità.» stava proseguendo nella sua arringa contro Gabriele parlando in fretta, scandendo bene le parole e muovendosi lentamente per spostarsi da un lato. Seguivo i suoi movimenti e non capivo cosa stesse facendo, e solo dopo lo intuii: intendeva trovare una posizione tale che il muro della scuola non fosse alle sue spalle, in modo che se uno dei tre l'avesse attaccato non avrebbe corso il rischio di essere sbattuto contro il bugnato della parete. «Forse è perché non sei una persona onesta?»
Gabriele, immobile, tremava d'ira. Ero convinta, e anche Gioele doveva averlo intuito, che presto l'avrebbe colpito nuovamente. Eppure Gioele non ne era preoccupato. Il suo tono era sempre più sbeffeggiatore mentre continuava:
«O forse non è che non ti piace dire la verità. E' che fai le cose senza pensarci, perché ovviamente, stupido come sei, non riesci a prevedere le conseguenze delle tue azioni, e quando ti trovi in mezzo ai guai non conosci altro sistema che insabbiare tutto e fingere che non sia successo niente?» assunse un'aria pensosa e con tono falsamente colpito concluse: «Sei un genio, non c'è che dire.»
«E tu» ringhiò Gabriele avvicinandosi, mentre anche Mattia si muoveva in avanti insieme a Sandro per fare in modo di circondare Gioele «sai prevedere le conseguenze delle tue azioni?»
Ma non aveva ancora finito la frase e già gli era addosso. E Gioele, contrariamente a quello che mi ero aspettata, rispose. Restituì ogni colpo con una forza e una rabbia spaventosi, fino a che i tre non si allontanarono da lui e Gabriele non riprese a guardarlo in cagnesco, il labbro che sanguinava, la cerniera del cappotto era strappata e la sciarpa era tra le mani di Gioele, che gliela gettò addosso con noncuranza e aprì nuovamente la bocca per parlare.
«Sai, io non credevo che tu fossi così.» ed ecco di nuovo la voce dolce e vellutata che aveva sempre usato per parlare con me. Ma il tono era più alto, il suono meno vibrante. «Quando ti ho conosciuto mi hai fatto un'impressione assolutamente pessima, ma poi ho cambiato idea. Parlando con te mi sono accorto di essermi sbagliato e questo capita a tutti, no?»
Gabriele non rispose. Lo stava ad ascoltare, probabilmente cercando di capire dove voleva andare a parare.
«Mi piaceva parlare con te, sembravi intelligente. E anche qui naturalmente mi sbagliavo, ma non importa. Anche l'apparenza fa la sua figura, nonostante tutto.»
Sandro fece per aprire la bocca e protestare, ma Gabriele lo zittì con una mano. Digrignava i denti, cercando, immaginai, di trattenersi dal rispondere, in silenzio, in attesa che Gioele proseguisse. Ma quello taceva, sorridendo.
«Continua.» sputò Gabriele alla fine. Gioele sembrava soddisfatto, ma non capivo cosa stesse facendo.
«Diciamo che ti consideravo un mio amico. L'unico amico che avessi mai avuto in tutta la mia vita! Ero molto felice di questo. Tu non mi calcolavi affatto, ovviamente, mi chiamavi se avevi bisogno di me o se ti serviva un piccolo prestito per fare un regalo a qualche ragazza con cui uscivi. Una volta che non ti fossi servito più ti saresti liberato di me, lo sapevo. E non m'importava.»
«Sei talmente bugiardo...» intervenne Gabriele.
«Quando parlo io, tu stai zitto.» saettò la voce di Gioele. Improvvisamente mi sembrò gelido. E continuò. «Quello che tu non sai è che io non ho amici perché, come ti piace tanto raccontare di me, non mi faccio abbastanza i fatti miei. Sono curioso e non posso farci niente. E poi, spesso è utile. Generalmente, se vengo a conoscenza di qualcosa che m'interessa, faccio qualche domanda e basta. Non sono indiscreto, non mi piace violare la privacy delle persone, nonostante a te piaccia andare in giro a raccontare il contrario.» S'interruppe all'improvviso. Spostò lo sguardo in basso, corrugò la fronte e rimase immobile come per riflettere, poi parlò lentamente, come ragionando ad alta voce.
«Io non sono uno che se la prende. Puoi offendermi, insultarmi, prendermi in giro. Ma non puoi, non puoi assolutamente mentirmi. Non posso perdonare una menzogna. Lo capisci?»
Gabriele non rispose. Era livido. Ma sembrava interessato alle parole di Gioele.
«No che non lo capisci. Altrimenti non continueresti a mentire. C'è poco di più vile di una bugia. E tu, dopo essere venuto da me a chiedere aiuto, dopo avermi tenuto al telefono per ore per raccontarmi i tuoi problemi e chiedere un parere, dopo avermi detto di essere mio amico!» Le ultime parole furono un urlo strozzato, carico di dolore «Andavi in giro a raccontare che non mi sopportavi, che ero uno stupido e che credevo alle tue stronzate, che ne avevi incontrati pochi fessi come me. Non hai avuto il coraggio di dirmi la verità fin da subito, mi hai mentito, denigrato, infamato alle spalle!» Ansimava. Il volto era cosparso di macchie rosse. Perdeva sangue dal naso e da un taglio sotto all'occhio e il sangue si mescolava al sudore che gli colava sul volto. Aveva gli occhi sgranati e nell'insieme appariva come qualcosa di decisamente demoniaco.
«E ho smesso di parlarti. Mi è costato molto, ma alla fine me ne sono fatto una ragione. E poi, quando ho scoperto tutto questo...» Indicò Gabriele e i suoi due amici con un cenno della mano, l'espressione disgustata. «Credevo che tenessi a questa persona. Pensavo che non avresti fatto quello che hai fatto a me a una persona a cui vuoi bene! Ma a quanto pare sei abbastanza schifoso da riuscire a fare anche questo! E non me ne capacito. Se posso impedirti di farla soffrire, io lo farò.»
«Stai esagerando.» intervenne Gabriele con voce adirata. «Se dici anche un'altra parola, vengo lì e ti ammazzo di botte.»
«E non è quello che hai già fatto?» replicò Gabriele, provocatorio. «Non è forse l'unico modo che conosci per confrontarti con qualcuno che parla più in fretta di te e che avresti comodo ti temesse? E' questo che vuoi? Che io abbia paura di te?»
Non era una domanda retorica e lo capii immediatamente mentre, tremante nel mio angolo, seguivo la scena. Aspettava una risposta da Gabriele e sapevo che non sarebbe arrivata. Perché Gabriele – ma non era Gabriele, non poteva esserlo – era troppo furente per capire appieno quello che stava succedendo, e non sarebbe mai riuscito a trovare la lucidità per mettere insieme un discorso che potesse controbattere a quello di Gabriele.
«Ti dico una cosa, allora.» continuò Gioele sempre più spavaldo. «Puoi farmi quello che vuoi. Fai quello che ti pare. Non posso avere paura di te perché tu ne hai di me. Sai quello che so e hai paura che parli. E fai bene ad averne, perché sto seriamente pensando di andare a raccontare tutto a chi potrebbe essere interessato a questa storia.»
«Non osare!» ululò Gabriele. Fece un cenno a Mattia e Sandro che si scagliarono in avanti. Contrariamente a quanto mi aspettavo, Gioele non reagì. Rimase immobile a lasciarsi picchiare e sentivo i suoi gemiti e i suoi lamenti. Iniziai a singhiozzare, incontrollata, davanti a tanta brutale violenza. Mi fischiavano le orecchie, avevo la vista appannata.
Avevo assistito a una scena che non avrei immaginato nemmeno nei miei incubi, avevo visto un lato di Gioele e Gabriele che non avrei voluto conoscere. Soprattutto, non potevo credere che dietro allo sguardo buono di Gabriele si nascondesse tanta cattiveria. E Sandro! Sandro con cui avevo condiviso il banco, a cui avevo passato i compiti, Sandro che obbediva al fratello maggiore e pestava un ragazzo solo che se ne stava fermo a lasciarlo fare...
Fu nel momento in cui Gioele si lasciò cadere a terra, accasciato su se stesso, che Gabriele fermò i due ragazzi con un urlo. Guardava nella mia direzione.
«Fermi!» Fece un passo verso il mio angolo. «C'è un figlio di puttana che guarda, laggiù.»
Sandro e Mattia lasciarono andare Gioele.
Entrambi guardarono verso di me, poi presero ad avvicinarsi, con Gabriele che osservava e Gioele che si raggomitolava su se stesso tenendosi la testa tra le mani.
Non rimasi ad aspettarli. Mi voltai e con tutta la forza che avevo nelle gambe corsi via.

Quando arrivai a casa ero sconvolta. Volevo parlare con Mirko, o con Alessandro, chiedere un parere su quello che avevo visto, poi decisi che non era il caso.
Dovevo fare finta di niente, tornare a comportarmi con loro come avevo sempre fatto, fare in modo che non si accorgessero che avevo visto tutto. Era la soluzione migliore per mantenere il rapporto che avevo con Gabriele e quella specie di strana amicizia con Gioele.
E poi mi tornarono in mente gli sguardi dei due mentre si affrontavano, Gabriele che ascoltava Gioele con la bocca semiaperta e gli occhi furenti e Gioele che, a terra, tremava e si teneva la testa tra le mani...
Attesi che arrivassero le otto di sera, quando, ne ero certa, anche Gabriele sarebbe tornato a casa, presi il telefono e lo chiamai. Quando rispose aveva un tono allegro e sereno, come se non fosse successo niente.
«Voglio vederti.» gli dissi senza troppi giri di parole. Forse non lo salutai neppure. «Domani mattina.»
«Domani mattina c'è la scuola.» ribatté con tono dolce, come per ricordarmi qualcosa che avevo ingenuamente dimenticato.
«Non m'interessa.» replicai, sbrigativa. «Ti aspetto al bar dell'altra volta alle otto.»
«D'accordo.» balbettò lui in risposta. Sembrava scioccato.
Riagganciai.

 

Ed ecco il nono capitolo! Voglio ringraziare tantissimo tutte le persone che hanno letto o commentato la storia, quelle che l'hanno inserita tra le preferite o tra le seguite. Grazie di cuore! Spero che questo capitolo vi piaccia.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Bar ***


Venerdì 7 Novembre

Ero furiosa.
Lo aspettavo già da dieci minuti e in quell'arco di tempo avevo già divorato due brioche e ingurgitato tre caffè bollenti, e lui ancora non si decideva ad arrivare. Normalmente quei pochi minuti di ritardo non mi avrebbero turbata più di tanto, dato che anch'io arrivavo sempre tardi, ma quel giorno ero talmente nervosa che ero certa che l'avrei aggredito anche se solo mi avesse salutata con un tono di voce diverso da quello che usava di solito.
Alla fine comparve sulla porta del bar, con il volto arrossato e il fiato corto, mi cercò brevemente con gli occhi e appena mi vide mi sorrise. Ma io non ricambiai. Quando si sedette davanti a me, con un'espressione più che mai preoccupata sul volto, dovetti trattenermi dal fortissimo impulso di sputargli in un occhio.
«Che faccia!» esclamò dopo un po' per rompere il silenzio. «Mi hai chiamato qui per lasciarmi?» scherzò sorridendo.
«Può essere.» replicai, serissima. E non potevo negare di non averci pensato seriamente. Ma poi, nonostante tutto, sapevo che non ci sarei riuscita. Eppure, la tentazione era stata così forte...
L'espressione che assunse lui era quella di chi ha appena ricevuto uno schiaffo in piena faccia. Uno schiaffo che non si aspettava.
«Non capisco.» mormorò con gli occhi sgranati.
«Che hai fatto ieri pomeriggio?» gli domandai con tono più neutro possibile, curiosa di sapere che cosa si sarebbe inventato. Se mi avesse detto la verità forse mi sarei addolcita e avrei potuto provare a parlare con lui in modo civile. Ma se mi avesse mentito?
«Mi sono visto con una persona.» rispose lui con circospezione.
«Posso sapere chi?» lo incalzai. Non lo guardavo nemmeno negli occhi. Non lo volevo vedere. Non volevo incrociare i suoi occhi neri – belli, stupendi – e ripensare a ciò che avevo visto il giorno precedente. Mi riusciva più facile infuriarmi continuando a fissare la superficie liscia del tavolino.
«Perché ti interessa?» fece Gabriele, seccato.
«Perché il figlio di puttana che guardava dall'angolo vicino al bar, ieri, ero io.» Le parole mi erano uscite di bocca senza che me ne accorgessi e non me ne pentii. Era giusto che lo sapesse. Alzai lo sguardo su di lui e vidi l'effetto che gli avevano fatto le mie parole.
Aveva la bocca semiaperta e gli occhi sgranati in un'espressione di stupore spaventosa. Aveva allontanato la sedia dal tavolino, con il busto stava lontano da me. E quella sua postura, l'assurdità della situazione, la consapevolezza che avrei dovuto essere a scuola e che invece ero in un bar a prendermela con il mio ragazzo per affari che non mi riguardavano, la rabbia per non essermi accorta di quel lato del suo carattere mi fecero salire le lacrime agli occhi. Sentivo che stavo per vomitare.
«Non sono uscita di casa con l'intenzione di seguirti.» gli dissi a voce bassa, senza guardarlo. Lui era silenzioso, ma sapevo che mi stava ascoltando. Aveva riavvicinato la sedia al tavolino, vi aveva incrociato sopra le braccia e mi fissava. Sentivo il suo sguardo su di me.
«Stavo camminando sovrappensiero e mi sono ritrovata vicina alla scuola. E ho sentito la tua voce.»
Allora, Principessa, si può sapere a che gioco stai giocando?
«Mi hai visto litigare con Gioele.» proseguì lui, serio. «Hai visto che l'ho picchiato.»
«Sì.» confermai. Tornai a guardarlo. «Perché, Gabriele? Perché hai sentito il bisogno di assalirlo in quel modo assurdo? E' questo il modo di risolvere i problemi?»
Non disse nulla.
Sto aspettando, Principessa.
«Rispondimi.» lo implorai allora congiungendo le mani davanti alla bocca. Piangevo ed ero furiosa perché non riuscivo a trattenermi.
«Non puoi capire.»
«Spiegamelo.»
Sospirò. Allungò la mano sopra al tavolino e strinse la mia.
«Ti ho già detto quello che è successo con Gioele. Quello che lui ha detto ieri... Non è la verità.»
Ammetti di essere un vigliacco, per cominciare.
«Non gli ho mai mentito e non sto mentendo a nessuno. Non so perché si sia convinto che non sono onesto ma, credimi, quelle che dice sono tutte bugie! Ed è bravo a raccontarle, perché tu gli hai creduto.» aggiunse indignato.
Scossi la testa.
«Non  ho creduto a quello che ha detto.» replicai. «Non conosco tutta la storia e perciò è impossibile giudicare. Quello a cui credo è che tu l'hai aggredito senza un motivo e che hai dato ordine ai tuoi amici di fare altrettanto.»
«Se non l'avessimo colpito noi per primi, l'avrebbe fatto lui.»
«Da solo contro tre persone con il fisico che si ritrova?» sbottai, sarcastica. «Dev'essere davvero un idiota, allora.»
«Lo è.»
Ero stanca di sentirmelo ripetere.
«Non prendermi per il culo.» ribattei. «Voglio una spiegazione.»
Ritirai la mano in modo che non potesse toccarmi.
«E' una storia lunga.»
«Ho tutto il tempo che vuoi.»
Sospirò. Mi guardava con tristezza.
«Va bene.» acconsentì. «Allora ascolta. Ci siamo conosciuti a un saggio di ginnastica artistica. Lui era lì per Nguyet, io per Alberto, mio fratello. Eravamo seduti vicini e in un modo o nell'altro abbiamo iniziato a parlare. Lui non ne sembrava particolarmente felice, ma io mi annoiavo e mi andava bene anche uno come lui. E mi sono accorto che quello che aveva da dire era interessante e che era davvero un tipo particolare. Dopo ci siamo incontrati ancora. Abita vicino a un mio amico, lo vedevo in autobus e siamo diventati amici. Non usciva mai con me né con gli altri della compagnia e di solito se ci sentivamo era per telefono, ma andava bene. Se avevo bisogno di un consiglio andavo da lui perché è intelligente e perché è sempre molto obbiettivo, nonostante tutto. E lui mi ascoltava sempre. E poi, come ti ho già detto, ha smesso di parlarmi e ha preso a trattarmi come se fossi un criminale.
«Non ci siamo sentiti per diverso tempo, poi, all'improvviso, due giorni fa mi ha telefonato e mi ha detto che mi deve parlare, che è importante. Ho capito subito che c'era qualcosa che non andava. Era furioso. Ci siamo dati appuntamento e abbiamo litigato. Aveva davvero intenzione di colpirci, Totta. Non gli avrei fatto del male se non ne fossi stato certo.»
«Non ti credo.» gli comunicai. Prima che potesse parlare aggiunsi: «Credo a tutta la storia che mi hai raccontato e anche al fatto che forse ti avrebbe colpito, anche se ho dubbi a riguardo. Ma non credo che non l'avresti colpito se non fossi stato certo che l'avrebbe fatto lui.»
Mi guardò, offeso.
«Cosa te lo fa pensare?» chiese, sospettoso.
«Ho visto come vi siete guardati, quando sei venuto a prendermi a scuola. Vi odiate. Non può esserci solo quello che mi hai raccontato.»
Altrimenti non si sarebbe spiegato tutto quel comportamento assurdo. Se anche avevano, per così dire, litigato, anche se Gioele aveva deciso di troncare tutti i rapporti con lui... Non si capiva come si potesse giustificare tanta violenza. E non riuscivo a togliermi dalla testa lo sguardo schifato di Gioele.
«Senti...» iniziò, poi s'interruppe. «Abbiamo fatto delle cazzate, tutti e due. Dopo che ha smesso di parlarmi l'ho tormentato per un po' e lui me l'ha fatta pagare. Avevamo un conto in sospeso e tutto quello che è successo ieri era più che altro dovuto a quello piuttosto che alla discussione che abbiamo avuto.»
«Che riguardava cosa, esattamente?» indagai. Dovevo saperlo e non m'interessava se non erano affari miei. Gabriele era il mio fidanzato e Gioele era un mio amico, volevo sapere per quale motivo si odiassero e perché avevano ritenuto opportuno affrontarsi con tanta violenza e con tanta cattiveria. Come potevo conciliare il bene che volevo a entrambi se non sapevo perché si odiavano? Avrei soltanto rischiato di perderli entrambi. E non volevo. Non potevo pensare di stare senza Gabriele, l'idea mi faceva impazzire e non volevo nemmeno prenderla in considerazione. Ma, allo stesso modo, non volevo rinunciare a Gioele. Stavo bene con lui e non sarei stata in grado di tornare a ignorarlo come prima dell'incidente.
Gabriele si morse un labbro.
«Gioele...» iniziò lentamente, scegliendo con cura le parole. «Abbiamo un amico in comune. Anzi, per lui non è esattamente un amico, è più... be', non saprei come dirtelo. Comunque sia conosciamo entrambi questa persona ed entrambi ci siamo affezionati, anche se in modi diversi. Lui si è messo in testa che io gli stia mentendo come sostiene che ho fatto con lui, cosa che non è vera, ma non importa. Ha scoperto... insomma, una volta ho parlato male di questo amico alle spalle, ma non lo facciamo tutti? Non lo dicevo con cattiveria, era un'osservazione che gli facevo... Ma Gioele, non so come, l'ha scoperto e minaccia di andargli a dire tutto. Questo qui è un tipo permaloso e io non voglio che sappia quello che ho detto, non è bello. So di aver sbagliato, ma mi sono infuriato quando Gioele si è messo in mezzo. Non sono affari che lo riguardano, tanto più che il suo intervento potrebbe rovinare tutto.»
Tacqui. Non sapevo se facevo bene a credergli e comunque il motivo della lite non mi sembrava abbastanza valido per gli avvenimenti di cui mi parlava Gabriele. Comunque, non era quello il mio problema.
«Non avresti potuto risolvere la situazione a parole?» sbottai guardandolo male. «C'era davvero bisogno di massacrarlo in quel modo?»
«Massacrarlo...» ripeté a bassa voce, come se le mie parole fossero un'esagerazione.
«Massacrarlo, sì.» confermai. «Perché eravate tre contro uno e quando me ne sono andata lui non riusciva nemmeno a reggersi in piedi. Era necessario?»
«Perché lo difendi?» esclamò allora lui, contrariato. «Ti interessa di più di lui che di me? E' questo che stai cercando di dirmi? Perché ti interessi tanto a quello lì?»
«No!» urlai in risposta. Ma non aggiunsi altro. Mi morsi il labbro inferiore e rimasi in silenzio. Non m'importava di più di Gioele che di Gabriele, no, però mi veniva più facile trovare una giustificazione al suo comportamento piuttosto che a quello del mio fidanzato. Era più comprensibile, più innocente.
«Vedi?» m'aggredì allora Gabriele con voce dura. «Vedi? Perché non vai da lui, invece che stare qui a parlare con me? E' quello che vuoi, no? Vai, vai da lui! Corri dalla Principessa!»
Principessa. Ancora. Perché lo chiamava così? Ma non glielo chiesi. Le sue parole, in fin dei conti, avevano un che di vero. Da quando ero entrata nel bar, non avevo fatto altro che pensare a Gioele, alla sua figura mingherlina che si accasciava a terra... E a Gabriele che lo guardava. Non riuscivo a capire quale fosse, delle due cose, a turbarmi.
Sicuramente l'espressione di Gabriele, la sua crudeltà gratuita... Avevo difeso Gioele nello stesso modo in cui avrei difeso qualcun altro, se si fosse trovato nella stessa situazione.
«Non è perché si tratta di lui.» sospirai cercando di tranquillizzare il tono della voce. «Quello che mi dà fastidio è il modo in cui ti sei comportato tu.» Allungai le mani sul tavolino e afferrai le sue. Non le ritrasse, ma mi guardò male.
«Senti, non pensarci.» suggerì, addolcendo lo sguardo. «Non sono così! Quella che hai visto è stata una cosa eccezionale, di solito è diverso.»
Non risposi. Non sapevo cosa dire. Anche se era stato un evento straordinario, comunque non mi sembrava il caso di dimenticare tutto come se nulla fosse successo.
«Non succederà mai più.» mi assicurò. «Non ho intenzione di vedere di nuovo Gioele, anzi, sai che ti dico? Non voglio nemmeno sentirne parlare. D'accordo? Quindi, una volta concluso l'argomento oggi, non nominarmelo più.»
Era troppo semplice concludere così, ma preferivo quella soluzione a una dichiarazione di guerra.
«Va bene.» acconsentii. Non potevo credere, dopotutto, che Gabriele fosse in grado di fare del male a un altro in quella maniera selvaggia. Doveva essere come diceva lui, una cosa che non era mai accaduta, un evento unico...
«So di aver sbagliato.» proseguì Gabriele con tono dolce. «Sul serio. Ma ormai è impossibile tornare indietro. Non posso chiedergli scusa, perché non lo sopporto ed è stata tutta colpa sua, ma ti posso promettere che non farò mai più una cosa del genere. Te lo giuro, Totta.»
«Ti credo.» mormorai sporgendomi verso di lui e baciandogli le labbra. «Ma non voglio che pensi che tengo di più a lui che a te, perché non è così. E' solo che...»
«E' solo che lui sembra proprio indifeso.» concluse lui, crucciato. «Lo so. Ma è tutta apparenza e te l'ho detto un milione di volte. Quando ci si mette è capace di essere davvero crudele. Se poi non lo fa alzando le mani, questo è un altro discorso. Ma adesso sono stanco di parlare di lui. Se vuoi chiarire ancora, vai a casa sua e chiedigli cosa ne pensa. Abita fuori di città, e devi prendere il treno per arrivarci, però se vuoi posso spiegarti dove andare.»
Me lo feci spiegare. Non avevo davvero intenzione di andarci, ma comunque volevo sapere dove avrei potuto trovarlo, se avessi cambiato idea.
Mi spiegò che dovevo prendere l'autobus, arrivare in stazione, e lì prendere il treno regionale che da Venezia portava a Verona. Avrei dovuto scendere in una stazione immersa nel nulla, percorrere una lunga strada sterrata e poi un'altra asfaltata, arrivare in uno sperduto paesello di campagna e da lì cercare di non perdermi tra piccole stradine un po' tutte uguali.
«Tutto qui.» terminò con aria soddisfatta.
«Perché mi dici questo?» domandai alla fine, non riuscendo a capire dove volesse andare a parare. «Pensavo che non volessi che io abbia a che fare con lui...»
«E' così.» replicò. «Ma ho anche pensato che alla fine non è giusto che te lo impedisca. Se vuoi parlargli, e incontrarlo, sei libera di farlo. Ma io ti ho avvertita. Quello che vedi è tutta una menzogna. Non fidarti di uno così.»
«Stai cercando di darmi una lezione?» lo aggredii. Il suo tono mi irritava. Sembrava davvero che lo facesse per farmi un dispetto! Cosa gli costava ammettere di non volere che parlassi con Gioele? Perché non mi diceva che era geloso, che anche lui, come tutti i ragazzi del mondo, voleva che la sua fidanzata fosse soltanto sua e di nessun altro? Perché?
«No.» rispose lui. Sembrava stanco. «Davvero, Totta, non potrei mai farlo. Soffriresti, ed è l'ultima cosa che voglio. Tesoro,» aggiunse lanciando una banconota sul bancone del bar e seguendomi di corsa fuori dal locale «credo che sbaglierei se ti impedissi di essere amica» sottolineò accuratamente l'ultima parola «di Gioele. Io lo odio, lui mi odia, tu sbagli: ma se è quello che vuoi allora mi sta bene.»
«Lo dici come se questa cosa ti offendesse a morte.»
Scosse la testa, mi prese il volto tra le mani e mi baciò la fronte. Le sue labbra erano caldissime.
«Non è così.» mi disse con voce dolce. «Ma ho paura che tu possa star male. Non voglio che Gioele ti faccia del male. Se si comportasse male con te, se tu soffristi per colpa sua... Non potrei perdonarmelo, sapendo che avrei potuto impedirlo. Non m'interessa con chi parli, basta che tu sia felice. Ed essere amica di uno come lui... E' il modo migliore per starci male, credimi.»
Non risposi. Sentivo la rabbia che lentamente sbolliva, il bisogno di chiarimenti che mi abbandonava. Ero stanca, non volevo più litigare con lui, volevo starci insieme e stare bene, come prima del suo litigio con Gioele.
«Non voglio vederti soffrire, Totta.» sussurrò quando lo guardai nuovamente.
Gli credetti.

 

Oh! Capitolo 10! *me si emoziona*. Sì, non fateci caso. Il fatto è che a me piace il numero 10, così mi sento molto felice d'aver postato ben dieci capitoli.
Detto questo... Bè, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Nel frattempo, ci tengo a rigraziare tantissimo Eva92 e totta91, che hanno commentato, e altrettanto di cuore anche tutte le persone che hanno letto/inserito la storia tra le seguite/inserito la storia tra le preferite/inserito la storia tra quelle da ricordare. Grazie di cuore!
Commenti e opinioni sono sempre graditissimi.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Silenzio ***


Sabato 8 Novembre

Il treno era vecchio e sporco. Accanto a me, una ragazza leggeva una rivista con aria annoiata. Nel vagone c'era un silenzio irreale, rotto solo da qualche commento riguardo l'odore nauseabondo che impregnava i sedili.
«Ragazza, devi scendere qui.» mi disse un uomo a cui avevo chiesto aiuto quando ero salita.
Lo ringraziai e mi alzai, raggiunsi la porta e scesi con un balzo. Pioveva a dirotto e io avevo dimenticato l'ombrello nell'autobus che mi aveva portata fino in stazione. Tutta quell'acqua che mi cadeva addosso mi faceva tornare in mente quella sera di qualche settimana prima, quando Gioele mi era sbucato davanti all'improvviso e il mio motorino l'aveva colpito. Se non fosse successo, non l'avrei mai conosciuto. Prima di quella sera non avevo notato la sua presenza, perché le cose avrebbero dovuto essere diverse? Sarebbe bastato fare un po' d'attenzione in più, e tutta la situazione in cui mi trovavo non avrebbe avuto modo di esistere...
Ma era successo, invece, e non potevo tornare indietro. Dovevo risolvere i problemi che avevo contribuito a creare.
La stazione era vuota e silenziosa e si affacciava su quella che avrei potuto definire strada sterrata. Gabriele mi aveva spiegato che avrei dovuto percorrerla tutta prima di arrivare a una vera e propria strada con tanto di bitume, strisce pedonali e persino un piccolo marciapiede. Sospirai, sperando vivamente di non aver sbagliato posto, e iniziai a camminare sotto la pioggia.
Non sapevo quanto tempo c'avrei messo prima di riuscire a vedere il paesello di cui mi aveva parlato, eppure non avevo intenzione di demordere. Ma faceva freddo, la pioggia continuava a cadere e io mi sentivo sempre più stupida per quell'idea che mi era venuta di andare a trovare Gioele a casa sua, nonostante lui non mi avesse mai detto dove si trovava e, soprattutto, senza che mi avesse invitata.
Alla fine, dopo molti tentativi e molta disperazione, riuscii a trovare la via giusta. Ispezionai accuratamente i campanelli delle villette che si ergevano ai lati della stradina fino a che non ne trovai uno che recava la scritta Spampinato in una grafia infantile e un po' incerta.
Suonai e attesi. Dopo poco tempo la porta si aprì e sull'uscio comparve una bimbetta dal volto tondo con lunghi capelli neri e grandi occhi a mandorla.
«Chi sei?» m'aggredì assottigliando gli occhi. «Cosa vuoi?»
«Mi chiamo Carlotta.» risposi in fretta. Le sorrisi, ma il suo sguardo si fece ancora più truce. «Abita qui Gioele?»
«Cosa vuoi?» ripeté ancora la bambina, sospettosa. «Voglio sapere che cosa vuoi.»
Feci per aprire bocca e rispondere, quando mi sembrò di sentire la voce di Gioele. Una mano maschile si posò sulla spalle della bambina che si voltò di scatto, lanciò uno sguardo cattivo alla persona che stava dietro di lei e si dileguò all'interno della casa. La porta s'aprì un po' di più e mi trovai davanti quello che avevo identificato come autista della Jaguar che ogni giorno aspettava Gioele fuori da scuola.
Era un uomo di bell'aspetto, con i capelli ricci brizzolati e gli stessi occhi chiari di Gioele.
«Posso aiutarti?» domandò educatamente con un lieve sorriso.
«Mi chiamo Carlotta.» mi presentai. «Sto cercando Gioele. Abita qui?»
Rimase silenzioso per pochi istanti, poi mi fece cenno di entrare in casa.
«Ciao.» disse una voce accanto a me. Mi voltai di scatto. Proprio accanto alla porta, da una rientranza nel muro, Gioele mi guardava, seduto sul divano con le ginocchia vicine alla bocca. Era pallido e abbattuto, ma nel complesso lo trovai molto meglio di quanto avessi sperato. Per lo meno, non riuscivo a vedere lividi né sangue.
«Ciao.» lo salutai. Mi guardai un po' in giro, a disagio. Quello che immaginai fosse il padre di Gioele era sparito, mentre la bambina che mi aveva aperto mi fissava furiosa dall'alto del soppalco, con il visino incorniciato dalle sbarre della ringhiera.
«Nguyet.» sospirò stancamente Gioele alzandosi e facendomi al contempo segno di accomodarmi sul divano. Rimasi in piedi. Non volevo bagnare in giro. Lo guardai mentre si avvicinava alle scale e alzava lo sguardo verso la bambina. «Vai a giocare.» le disse dolcemente. «Carlotta è un'amica, non devi esserle ostile.»
La bimba, per risposta, grugnì qualcosa d'incomprensibile e spinse ancora di più il volto tra le sbarre di metallo.
«Ti devo proteggere.» gli rispose con praticità. Gioele rise. La sua risata era un suono dolcissimo che non avevo mai sentito prima.
«Non ce n'è bisogno, davvero.»
Nguyet si alzò e scese qualche scalino, le dita ossute poggiate al parapetto. Era minuscola, esile, con un visetto carico d'amore mentre guardava Gioele e poi incredibilmente ostile nel momento in cui spostava lo sguardo su di me.
Gioele allontanò il braccio destro dal corpo, ignorandomi, e lei corse subito a gettarsi contro di lui, che la strinse, le baciò la fronte e poi s'inginocchiò davanti a lei. Prese a parlarle a voce bassissima e non riuscii a capire cosa le stesse dicendo, ma alla fine la bambina annuì e sparì a balzi su dalle scale.
«Ti prego di scusarla.» mi mormorò quando fummo soli. «Perché non ti siedi? Hai paura di bagnare il divano?» sorrise poi.
«In effetti sì.» ammisi, un po' a disagio. Mi sentivo sbagliata, lì dentro. C'era un silenzio irreale e lui manteneva quello stesso tono di voce pacato e flebile che ero abituata a sentire quando parlavo con lui.
«Ti dà fastidio che sia venuta qui?» gli domandai d'impulso guardandolo mentre tornava ad accoccolarsi nel suo angolo. Stavo in piedi davanti a lui, a disagio.
Mi fissò con gli occhi sgranati, stupito.
«No.» rispose semplicemente. «Sono solo... sorpreso, credo.»
«Credi?» ripetei con un sorriso. Non lo stavo prendendo in giro, ma non capivo cosa intendesse dire.
«Be'...» iniziò lentamente guardandomi. «Immaginavo che saresti venuta a parlarmi. Non mi aspettavo che venissi fino a qui, però.»
«A dire la verità, all'inizio avevo pensato che fosse meglio incontrarti a scuola.»
Mi sorrise.
«Poi hai parlato con lui e hai capito che avevi bisogno di conferme?»
Sospirai.
«Tra le altre cose. Volevo anche sapere se stai bene.»
«Sono tutto intero.» replicò dolcemente. Si sfiorò il petto, dove sapevo che Mattia l'aveva colpito, e proseguì: «Non mi hanno tormentato più di tanto. Ma immagino che a vederlo da dove eri tu facesse molta più impressione.»
Rimasi a bocca aperta. Avrei dovuto aspettarmi, da uno come Gioele, che si fosse accorto della mia presenza, ma per un momento avevo dimenticato il mio gesto. Lo guardai negli occhi e  mi vergognai per il mio comportamento. Ma il suo sguardo era tranquillo, rilassato, privo di rimproveri.
«Mi dispiace.» mormorai torcendomi le mani. «So di aver sbagliato, ma...»
«Non importa, Carlotta.» m'interruppe a bassa voce. Si alzò nuovamente e mi venne vicino. «Eravamo in una strada e gli occhi sono fatti per guardare. Non hai fatto nulla di male. Se avessimo voluto mantenere segreto il nostro incontro, ci saremmo trovati da qualche altra parte.»
Annuii, ma non dissi nulla. Il silenzio della casa venne interrotto dal rombo del motore di un'auto che si avvicinava e poi si spegneva, dallo scattare di una serratura e da passi veloci e leggeri sul pavimento di legno.
Da una porta in fondo alla stanza, proprio sotto al corridoio del soppalco del salotto, comparve una donna dall'aria indaffarata, con corti capelli biondi ben pettinati e grandi occhi scuri. Si fermò un istante, quando mi vide, poi mi sorrise e mi si avvicinò, tendendomi una mano.
«Ciao.» mi salutò con un sorriso. Parlava anche lei a bassa voce, come Gioele, ma era molto più spigliata. Mi presentai stringendole la mano. Era una mano pallida e delicata, e a stringerla sembrava di avere tra le dita la zampetta, fragile, di un uccellino.
«Carlotta...» ripeté quando le dissi il mio nome. «Sì, Gioele mi ha parlato di te.»
Sorrisi e guardai per un istante Gioele, che era arrossito vistosamente e stava borbottando qualcosa tra sé.
«Adesso penserà che sono un impiccione.» si lamentò a bassa voce guardando la donna.
«Penserà che sei un maleducato, piuttosto.» lo rimbeccò lei con un cipiglio severo. «Non l'hai nemmeno fatta accomodare. Le hai perlomeno offerto qualcosa da bere?»
Cercai di aprire la bocca per difenderlo e spiegare com'erano andate le cose, dirle che ero stata io a non volermi sedere e che non c'era stato ancora il tempo per bere, ma vidi che gli sorrideva e mi bloccai.
«Hai ragione.» sospirò allora lui passandomi accanto. Mi guardò e chiese: «Che cosa vorresti? Qualcosa da bere? O magari da mangiare?»
In realtà non volevo nulla, ma mi sembrava maleducato rifiutare.
«Un bicchiere d'acqua andrà benissimo.»
«Parlando di acqua...» intervenne la donna, che si era allontanata ed era già a metà delle scale. Mi guardò e proseguì: «Sei tutta bagnata, ti prenderai un malanno, con questo freddo. Ti vado a prendere dei vestiti asciutti, non voglio che ti ammali per colpa della nostra noncuranza.»
«Non è necessario, davvero, non voglio disturbare...» replicai in fretta, ma lei era già al piano di sopra. Dal salotto si riusciva a vedere un piccolo pianerottolo, quello da cui ci aveva guardati Nguyet, poco prima, e due porte di legno scuro vicino all'angolo formato dalle pareti. La donna se n'era già andata dietro a una delle due e mi aveva lasciata sola con Gioele.
Mi fece segno di seguirlo. Obbedii. Lo guardai mentre apriva due grandi porte scorrevoli di vetro decorato. Nella sua tuta da ginnastica grigia, con i pantaloni un po' troppo grandi e la felpa che gli arrivava quasi alle ginocchia, sembrava ancora più magro e ossuto di quello che era. I capelli ricci erano più scompigliati che mai e lui si muoveva lentamente, con quei suoi modi femminili e delicati che lo contraddistinguevano, ma nel complesso mi sembrava che stesse bene. Non aveva l'aspetto di uno che era stato pestato giusto due giorni prima.
Le porte di vetro nascondevano una cucina in stile moderno, con mobili di legno chiaro e tende giallo acceso. Sul tavolo erano ammucchiati libri di scuola aperti, con sottolineature colorate e appunti fitti fitti ai margini del testo.
«Lascia perdere la confusione.» mormorò Gioele, leggermente imbarazzato. Richiuse qualche libro con gesti veloci della mano, ne spostò qualcuno sulle sedie e alla fine riuscì a liberare un angolo del tavolo su cui poggiò due bicchieri.
«Solo acqua, sei sicura?» sussurrò aprendo il frigorifero. «Ci sarebbe anche del succo di frutta, se vuoi. O del tè.»
«Allora del succo di frutta.»
Annuì e sorrise mentre lo versava nei bicchieri. Si sedette e mi fece cenno di fare altrettanto, ma, come poco prima, non lo feci. I miei vestiti erano ancora fradici e non avevo nessuna intenzione di bagnare più del necessario. Fu in quel momento che tornò la donna. Aveva tra le mani quella che sembrava una tuta da ginnastica scura. Me la porse con un lieve sorriso.
«Credo che sia il meglio che posso offrirti, cara.» mi disse. Guardai i vestiti. Sembravano da uomo, e in un istante mi resi conto che erano di Gioele. Gli avevo visto addosso quella stessa felpa che reggevo tra le mani giusto pochi giorni prima. «Ho provato a cercare tra i miei vestiti ma non ho trovato nulla, così...» mi posò una mano sulla spalla e mi portò fuori dalla cucina. Gioele rimase seduto dov'era, lo sguardo perso.
«Lì c'è il bagno.» mi spiegò indicandomi una porta in corridoio. «Vai pure a cambiarti e poi dammi i tuoi vestiti, te li metto in una borsa.»
La ringraziai ed eseguii. Mi sentivo a disagio mentre infilavo quegli abiti che profumavano di bucato, più che altro perché mi sembrava di essere un peso per quella famiglia così gentile. Forse, l'unica che mi aveva accolta nel modo in cui lo meritavo, era proprio la piccola Nguyet.
Quando uscii dal bagno, la donna, presumibilmente madre di Gioele, era lì. Prese i vestiti bagnati e li mise in una busta di plastica, me li porse e senza dirmi una parola si allontanò. Salì le scale e, proprio come Nguyet poco prima, si eclissò dietro alla porta.
Tornai in cucina e, finalmente asciutta, mi sedetti.
«Che cosa vuoi sapere?» domandò Gioele a bassa voce, con quel suo solito sorriso sulle labbra. Non sembrava turbato dalla mia presenza lì, anzi, mi sembrò quasi che fosse ansioso di rispondere alle mie domande.
Ci pensai per un po'. C'erano troppe cose che volevo chiedergli e non sapevo da dove cominciare. A dire la verità, c'era una cosa che non facevo altro che domandarmi e a cui non avevo trovato risposta, ma non sapevo se avrebbe potuto dargli fastidio una domanda simile. Alla fine, decisi di tentare.
«Perché ti chiama Principessa?»
Rise di quella risata dolcissima che avevo sentito prima, mentre parlava con Nguyet, e chinò lo sguardo.
«Era un gioco.» spiegò in un soffio. «L'avevo appena conosciuto, diceva che sono effeminato. Che mi muovo come una ragazza, sai. Poi, un pomeriggio, eravamo a casa mia e Nguyet stava guardando un cartone animato in cui la protagonista era, per l'appunto, una principessa. Quando Gabriele l'ha vista ha detto che gli ricordava il modo in cui mi muovo e ha preso a chiamarmi così. E' stato solo dopo che ha iniziato a usare quel termine per offendermi.»
«Dopo che avete litigato la prima volta?» chiesi.
«Sì.» Mi dovetti avvicinare per sentire la sua voce. Inclinò un po' la testa di lato, lo sguardo davanti a sé. Rifletteva, ed era evidente. Quello che mi chiedevo era quale fosse il soggetto dei suoi pensieri.
«In realtà, quando mi chiama così non mi tocca più di tanto. E' una parola indifferente. Lo era prima e lo è anche adesso.» concluse con tono pratico. Ma la sua voce era così flebile, così vibrante...
«Gio',» Sobbalzò appena quando lo chiamai in quel modo «cosa è successo tra di voi?»
Inarcò le sopracciglia, mi guardò per un istante e chinò il capo. Prese a giocherellare con il bicchiere vuoto che teneva tra le mani. Sorrideva e rimase in silenzio per diverso tempo, poi sospirò.
«Dice che mi intrometto in affari che non mi riguardano.» mormorò. Altro sospiro. «Il che, probabilmente, è vero.»
«Continuo a non capire.» insistetti. Se non ero riuscita a ottenere risposte soddisfacenti da Gabriele, dovevo almeno provare con Gioele. Era sempre stato così onesto con me! Forse mi avrebbe detto la verità.
Lo guardai e mi sembrò incredibilmente in difficoltà. Si mordeva il labbro inferiore con insistenza, agitandosi sulla sedia.
«Io...» sussurrò «Io non so...» Fece una pausa di qualche secondo, prese fiato e proseguì: «Non so se...»
Non lo interruppi. Avevo la tentazione di dirgli che poteva lasciare perdere, che non era obbligato a rispondere, ma volevo dei chiarimenti e non avevo né il tempo né la voglia di farmi prendere dalla compassione. Si ostinavano, entrambi, a tenermi all'oscuro di qualcosa che io avrei dovuto conoscere, se non altro per sapere quanto tesi fossero i rapporti tra i due e quanto in là potessi spingermi con l'uno e con l'altro. Avrei potuto uscire con Gioele, al pomeriggio, solo per chiacchierare, se sapevo che Gabriele lo detestava? E allo stesso modo, come avrei potuto guardare negli occhi Gioele mentre stavo abbracciata a Gabriele, quando veniva a prendermi fuori da scuola? Come potevo conciliare i rapporti se non avevo idea della situazione tra loro? Nonostante fosse sbagliato, nonostante non fossero affari miei, avevo bisogno di sapere. Volevo rendermi conto di come stessero effettivamente le cose e non sarebbe stato il mutismo di Gioele a fermarmi.
«Non posso dirtelo.» riuscì a soffiare infine. Lo guardai supplicante, allungando le braccia sul tavolo e intrecciando le dita in segno di preghiera.
«Ti imploro, Gio'.»
«Non posso.» ribadì. Quelle parole sembravano essere così difficili da pronunciare... Non sembrava convinto della propria risposta e pensai che, forse, avrei potuto approfittarne. Se avessi insistito, se avessi dimostrato di essere più testarda di lui, magari l'avrei convinto a dire qualcosa in più.
«Ho bisogno di saperlo.» lo pregai. «Tutto questo mi fa impazzire, lo sai.»
Sorrise appena, mi guardo di sottecchi e sussurrò:
«Ne devi parlare con Gabriele. Io non posso dirti niente.» E com'era gentile la sua voce mentre parlava!
Stava mantenendo un segreto che avrebbe potuto essere compromettente per Gabriele? Temeva forse di darmi un'idea sbagliata su di lui? O magari, più semplicemente, non voleva che m'impicciassi in questioni in cui non c'entravo? Lo guardai negli occhi, ma lui li abbassò quasi subito e non riuscii a interpretare lo strano sorriso tirato che aveva messo su.
Fissai il tavolo, depressa. Non sarei riuscita a convincerlo. Era molto, molto più testardo di me. E probabilmente aveva anche un senso della morale molto più sviluppato.
«Carlotta.» mi chiamò dolcemente dopo qualche istante di silenzio. Alzò la testa e mi guardò qualche istante. «Quello che è successo tra me e lui...»
S'interruppe di nuovo. Si morse il labbro, si versò un altro po' di succo nel bicchiere e lo bevve tutto prima di ricominciare a parlare.
«Dovresti lasciare perdere.» L'aveva detto lentamente, a voce bassa, come suo solito, ma il suo tono era d'ammonimento e lo capii subito. Quello che non riuscii a capire era se lo dicesse per me oppure perché il mio atteggiamento lo infastidiva.
Lo guardai e intuii che fosse arrivata l'ora di andarmene. Era stanco. Non era cambiato minimamente e la sua espressione era quella di pochi minuti prima, ma era così evidente quanto fosse sfinito che non me la sentii di restare ancora.
«Gio',» dissi per attirare la sua attenzione mentre mi alzavo «a che ora è il prossimo treno?»
Guardò l'orologio, pensieroso. Erano le sei e un quarto. Imprecai mentalmente. Arrivata in città sarebbero state almeno le sette e l'ultimo autobus per tornare a casa passava alle sei e cinquanta. Avrei dovuto trovare un modo per rincasare in orario, magari elemosinando un passaggio da uno dei miei fratelli. Ma sapevo che Alessandro lavorava fino a tardi e che Mirko difficilmente si sarebbe scomodato per me.
«Alle sei e mezza.» rispose lentamente. «Ma... c'è l'autobus, quando torni?»
«Certo.» mentii.
Ma lui non mi credette. Si ritrasse appena, assottigliando gli occhi chiari.
«Bugiarda.» m'accusò. Ma il suo tono era tranquillo e pacato come sempre, aveva un piccolo sorriso sulle labbra e teneva la testa un po' inclinata, pensieroso.
«Potrei chiedere a mio padre di riaccompagnarti a casa.» propose.
Arrossii e mi affrettai a rifiutare.
«Non ce n'è bisogno, Gio', davvero! Non scomodarlo per me, non azzardarti!» Ma non avevo ancora finito di parlare che lui era già uscito dalla cucina. Lo seguii, ma non appena misi piede fuori dalla porta non lo trovai più. Doveva essere entrato in una delle stanze che si affacciavano sul corridoio, una di quelle in cui era entrato prima l'uomo che mi aveva aperto.
Sentii la voce del padre di Gioele che diceva qualcosa e poco dopo Gioele tornò, seguito da suo padre. Avevo la borsa con i vestiti bagnati tra le mani e il padre di Gioele s'affrettò a prenderla.
«Hai preso tutto?» mi domandò con voce gentile. Anche lui utilizzava un tono basso, proprio come facevano Gioele e sua madre. Non ero mai stata in una casa tanto silenziosa e, soprattutto, non avevo mai conosciuto persone così pacate. L'unica che non sussurrava, in quella casa, sembrava essere la piccola Nguyet.
«Sì.» replicai. «Ma non è necessario che mi accompagnate, davvero. Una volta arrivata in città posso chiamare a casa e...»
«Non è un problema per me.» s'affrettò a specificare l'uomo. «Anzi. Direi che possiamo partire subito, quindi. In macchina ci vuole quasi un'ora per arrivare in città.»
«Non voglio disturbare...» ripetei.
«Nessun disturbo.» ribadì lui con un sorriso.
Annuii, imbarazzata. Mi voltai verso Gioele.
«Vorrei accompagnarti.» mi disse. «Ma non possiamo lasciare Nguyet a casa da sola.»
Lo guardai, confusa. Non c'era sua madre, in casa?
«Elisabetta è uscita.» mi spiegò il padre di Gioele, che aveva intercettato il mio sguardo. Annuii di nuovo, lo sguardo basso. «A proposito,» proseguì allungando una mano. «Sono Mauro.»
La sua mano, quando la strinsi, mi apparve molto diversa da quella di Gioele. La pelle era ruvida, la stretta decisa, la carnagione scura. Nulla a che vedere con la bianchissima mano di Gioele, fragile quasi quanto quella della madre.
Seguii Mauro verso il garage, mi fece segno di accomodarmi nella Jaguar che tanto avevo visto fuori da scuola e mise in moto.
Uscimmo dal paese con calma. Mauro guidava piano, rispettando i limiti di velocità, con un sorriso leggero che tanto ricordava quello di Gioele e l'espressione rilassata.
«Sei anche tu al linguistico?» mi domandò all'improvviso quando imboccammo la tangenziale.
«Come?» feci. Non avevo recepito bene la domanda, che non mi aspettavo e a cui non avevo prestato attenzione.
«Sei anche tu al linguistico? A scuola, intendo.»
«Ah... No, no. Frequento il classico.»
«L'avevo chiesto a Gioele, ma non ha saputo dirmelo.» spiegò. «Mi ha parlato spesso di te.»
Sorrisi appena. Anche mia madre aveva il vizio di fare quel discorso con le mie amiche ed era una cosa che mi aveva sempre imbarazzata. Ma non mi era mai capitato di trovarmi dall'altra parte.
«Davvero?» non trovai nulla di più intelligente da dire.
«Sì.» confermò lui, tranquillo. «In realtà non dice nulla di che. Solo cose del tipo Oggi ho visto Carlotta oppure Le ho parlato. Nulla di più. Ma ti considera una sua amica.»
Il suo tono, tra il sorpreso e il commosso, mi fece star male. Se c'era quella sorpresa, significava che il fatto che Gioele avesse amici non era poi così frequente. Anzi, quest'amicizia era un'anomalia che nessuno sembrava essere in grado di spiegarsi.
Non parlammo per la successiva mezz'ora, se non quando gli indicavo la strada. Ma il silenzio non mi pesava.
«Volevo anche scusarmi per il comportamento di Nguyet.» esordì a un certo punto. «Non è stata gentile con te.»
«E' solo una bambina.» risposi lentamente. «E, comunque, non ha fatto nulla di male. E' normale che fosse sospettosa. Non mi aveva mai vista prima...»
«Non è quello.» replicò Mauro scuotendo la testa. «No, Nguyet odia chiunque chieda di Gioele. E' molto gelosa di lui, da quando lui e Gabriele...» S'interruppe all'improvviso e guardò un istante fuori dal finestrino, poi tornò a concentrarsi sulla strada. «Non dovrei dirtelo.»
Quant'era forte la tentazione di chiedergli cosa fosse accaduto! Ma non potevo farlo. Nemmeno conoscevo quell'uomo così gentile, non potevo insistere come avevo fatto con Gioele o Gabriele.
«Di qua?» domandò lui indicandomi una via laterale.
«Sì.» m'affrettai a confermare. Eravamo ormai arrivati alla mia via e in pochissimo mi trovai davanti a casa.
«E' stato un piacere conoscerla, signore.» gli dissi scendendo dalla macchina. «La ringrazio molto per avermi accompagnata, davvero.»
«Di nulla, figurati.» replicò lui con un sorriso. «Ti auguro una buona serata, Carlotta.»
«Altrettanto, signore. Arrivederci.»
Mi salutò con un cenno della mano, rimise in moto l'auto e se ne andò.
Entrai in casa con un misto di stanchezza e depressione addosso, con la borsa dei vestiti in mano e la tuta di Gioele che mi stava troppo larga. Salutai mia madre e i miei fratelli, non mangiai nemmeno e andai direttamente a letto.
Mi sdraiai completamente vestita, senza avere la forza di indossare il pigiama, e chiusi gli occhi.
Sognai Gabriele.

 

Ed ecco l'undicesimo capitolo, con la famiglia Spampinato al completo! Ho riflettuto a lungo sull'idea di inserire questo capitolo. Avevo pensato di eliminarlo, infatti, più che altro perché apre una parentesi piuttosto "di passaggio" e perché, a conti fatti, ai fini della trama in sé non è molto importante. Poi, però, ho cambiato idea. Perché mi sembrava importante mettere in luce la famiglia di Gioele, contestualizzare il suo strano comportamento, mostrare la piccola Nguyet, che io di per me adoro, l'autista della Jaguar e la traumatologa; far vedere qual è il mondo in cui Gioele vive, la sua casa sperduta tra i campi e il bisogno del treno per arrivare in una zona "viva". Insomma, non ho avuto cuore di cancellare questo capitolo, anche perché, alla fine, forse può aiutare ad aggiungere altri dettagli a Gioele e magari alcuni anche a Carlotta.
Spero che vi sia piaciuto nonostante la digressione.

Colgo l'occasione per ringraziare di cuore tutte le persone che hanno letto o commentato i capitoli precedenti, tutte quelle che hanno inserito la storia tra le seguite, le preferite o quelle da ricordare. Mi fa immensiamente piacere, grazie mille!

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Gelato ***


Lunedì 10 Novembre

Il giro in centro era stato organizzato da Ines. Da un po' di tempo sosteneva che, con la scusa dei fidanzati, Francesca e io l'avessimo lasciata in disparte. Avevamo tentato di spiegarle, inutilmente, che non era affatto così, e che di certo non era colpa nostra se lei era costantemente in punizione o a ripetizioni di qualsiasi materia, ma lei aveva finto di non sentire ed era passata a prenderci personalmente, di pomeriggio, interrompendo il mio studio e l'appuntamento di Francesca con Uri.
«Perché non si sbriga a scendere?» domandò nuovamente Ines. Eravamo davanti a casa di Francesca, ad aspettarla. Dal canto mio pensavo che fosse esagerato pretendere che cacciasse Uri per venire via con noi, ma Ines non aveva voluto sentire ragioni. Aveva parlato personalmente con il ragazzo, affacciato alla finestra, ma non era stata presa seriamente. Uri aveva continuato a ridere per tutto il tempo e quando se n'era andato aveva salutato entrambe con un bacio sulla guancia, scoccato tra una risata e l'altra.
«Hai sentito cos'ha detto Uri. Era in pigiama e lo sai che lei ci mette un sacco di tempo a scendere.»
«Ma perché non ci fa salire?» continuò lei, saltellando sul posto.
«Per farcela pagare perché abbiamo rovinato il suo appuntamento...» le ricordai pazientemente, ma sapevo che in realtà Francesca non era arrabbiata.
Scese dopo pochi minuti, un po' di fretta, con una scarpa in mano e il cappotto nero ancora aperto, la sciarpa abbandonata sulla spalla, cercando di finire di vestirsi e di camminare contemporaneamente.
«Ines, sei una piaga!» si lamentò chiudendo il cancello. «Soltanto a te poteva venire in mente di organizzare un'uscita così, su due piedi.»
«Be', mi è venuto in mente all'improvviso. Allora, siete pronte? L'autobus passa tra cinque minuti...»
«Pronte!» esclamai io con un sorriso.
Ci avviammo verso la fermata e per un po' rimanemmo tutte in silenzio, in attesa che una delle tre trovasse un argomento di conversazione.
«Sapete,» disse all'improvviso Ines «credo che chiederò a Sandro di uscire con me, sabato.»
Francesca si stava già complimentando per la scelta quando io, con uno strillo acuto, intervenni.
«Non farlo!»
Mi guardano entrambe, stranite.
«Che ti prende, Totta?» domandò Ines, preoccupata. «Perché non vuoi che ci esca? Sandro è un tipo tranquillo...»
«No che non lo è.» ribattei io, acida. Non lo era, no, per niente. Non sapevo se avrei fatto bene a raccontare alle mie amiche quello che gli avevo visto fare, quello che aveva fatto a Gioele solo perché il fratello gliel'aveva chiesto, ma non volevo che Ines uscisse con un tipo simile. Mi sarebbe sembrato di consegnarla alle mani di un bruto e non volevo che la mia amica venisse fatta soffrire da un ragazzo così. Perché sapevo benissimo che Ines, se avesse scoperto un simile comportamento, si sarebbe lasciata prendere dalla disperazione.
«L'ho visto picchiare Gioele, qualche giorno fa, solo perché Gabriele gliel'aveva chiesto.» riassunsi.
«Spiegati meglio.» esortò Francesca. La guardai. Era accigliata e una ruga sottile le era comparsa sulla fronte.
Eravamo arrivate alla fermata e l'autobus stava passando. Aspettai di essere a bordo prima di iniziare a raccontare loro ciò che era successo. Man mano che progredivo con la narrazione, il volto di Ines si faceva sempre più serio. Quando ebbi finito mi guardò, scosse la testa e inarcò le sopracciglia.
«Mi sembri un po' ipocrita.» disse alla fine.
La guardai senza riuscire a capire, ferita. Non mi aspettavo una risposta simile, non da Ines.
«In che senso?» domandai a bassa voce.
«Ines ha ragione.» confermò Francesca. «Mentre parlavi non hai fatto altro che criticare il comportamento di Sandro e questo lo si può tranquillamente capire,» Ines annuì, a quelle parole. «ma Gabriele è stato peggiore di lui e tu non lo vuoi ammettere. Perché criticare tanto Sandro, quando la colpa di ciò che è successo è di Gabriele?»
«Ma io...»  Non riuscii a proseguire. In fin dei conti, avevano ragione e lo sapevo. Ma era ben difficile ammetterlo. Non potevo credere che Gabriele fosse crudele come loro credevano! C'era un errore... Aveva esagerato, certo. Ma non era stato lui a eseguire ciecamente gli ordini di qualcun altro. Sapevo benissimo che il suo comportamento era da rimproverare, ma non riuscivo a non pensare che il gesto peggiore l'avesse compiuto Sandro. Il suo comportamento non aveva avuto una motivazione! Aveva colpito Gioele solo perché il fratello gliel'aveva chiesto, e l'aveva fatto senza pensarci due volte. O almeno, questo mi era parso.
Ines stava già per ribattere, ma Francesca la fermò.
«Comunque...» disse cambiando bruscamente argomento «Ho bisogno qualcosa da mettermi domani sera. Uri mi porta a cena fuori, mi ha detto di vestirmi come si deve e io non ho niente che possa andar bene.»
Ines la squadrò per un attimo, mi guardò storta e poi sorrise.
«E com'è che il tuo bel principe mediorientale ti porta fuori a cena e io lo scopro soltanto adesso?»
Francesca rise forte, si passò una mano tra i capelli scuri e abbassò un attimo lo sguardo, per poi riportarlo su Ines. Le riservò un'occhiata dolce e sospirò.
«Immagino che se non avessi interrotto il nostro appuntamento sul più bello sarei stata molto più disponibile con te...»
«Come sarebbe a dire sul più bello?» intervenni io. Le rivolsi uno sguardo eloquente e lei si limitò a scrollare le spalle.
«Non intendevo dire quello!» si difese. «E anche se fosse, non vedo quale sia il problema. Insomma, stavamo solo parlando...»
«Si dice così, adesso?» fece Ines con voce interessata. «Francesca, Francesca...» cantilenò, un sorriso enorme sulle labbra «Ma cosa combini?»
«Proprio nulla.» concluse l'altra, stavolta più decisa. «Fatto sta che mi aveva appena invitata e tu hai suonato il campanello.»
«Insomma mi stavi punendo.»
«Precisamente.»
«Ehi!» protestai ad alta voce. Qualcuno, accanto a noi, si voltò a guardarci. «Punivi anche me? Io non volevo venirti a disturbare, è lei che mi ha costretta! Avresti potuto dirmelo...»
«Adesso lo sapete.»
Ines mise su un'espressione imbronciata e incrociò le braccia, fingendosi offesa.
«Sei crudele.» protestò. «Io te l'avrei detto.»
«Ma anch'io ve l'ho detto!» rise Francesca mentre scendevamo dall'autobus. «Basta discutere.» tagliò corto poi mentre si avviava a passo di marcia verso il negozio di vestiti più vicino. «Ho bisogno di un parere costruttivo, presente?»
«L'avrai.» assicurò Ines, che alla vista dei vestiti esposti in vetrina si era animata e, prendendoci per le mani, ci aveva trascinate senza troppi complimenti all'interno del negozio. «Sarò spietata, vedrai.»
«Bene!» esclamò Francesca. Iniziai a cercare qualche vestito, ma tutti quelli che mi passavano tra le mani mi sembravano troppo costosi per le mie tasche. E, immaginai, anche per quelle di Francesca. Quando glielo feci notare, rise.
«Sì, immagino di non potermi permettere nemmeno un paio di calze, qui dentro.»
«E allora perché siamo qui?» m'informai, giusto per ricordare alle due che, se lei non aveva idea di che vestito comprare, avremmo fatto meglio a impiegare il nostro tempo a cercarne uno di adatto.
«Perché» intervenne Ines, con due vestiti coperti di paillette dorate riversi sul braccio. «tu e Fra' dovete assolutamente provarvi questi.»
Afferrai l'abito che mi porgeva e pensai che dovesse essere impazzita.
«Certo,» commento Francesca «e subito dopo posso andare a battere. Andiamo, Ines, sono tremendi! Sarei più coperta se andassi in giro nuda!»
«Appunto.» sorrise Ines, maliziosa. «Il tuo bel principe mediorientale non potrà resisterti.»
«Se davvero vai da lui con quell'affare addosso,» commentai io guardandola con un sorriso sbieco «immagino che Uri preferirà saltare la cena e passare direttamente al dessert...»
«Totta!» esclamò Francesca, fingendosi scandalizzata. «Da te non mi sarei mai aspettata niente di simile!»
«Oh,» fece Ines con voce melodrammatica. «Fra', hai diciotto anni e ti scandalizzi ancora per queste cose. E poi, Totta ha un fidanzato e...»
«E basta così!» la interruppi io ridendo. «Non facciamoci prendere la mano.»
«Vabbè.» acconsentì Ines. Sistemò i due abiti e tornò da noi in fretta. «Credo che abbiate ragione, comunque. Dovremmo andare in un posto più economico.»
«Esattamente.» approvò Francesca.
«Ma prima propongo una pausa-gelato.» propose Ines.
«Di già?» domandai io dando un'occhiata all'orologio. «Siamo in centro da mezz'ora! Aspettiamo un po', no?»
«No.» rifiutò Ines. «Magari tra un po' possiamo farne un'altra.»
«Ma facciamo in fretta, ok?» patteggiò Francesca, e a quel punto Ines annuì.
«Sì, sì, come ti pare. Però adesso andiamo, eh?»

In tutti gli anni di amicizia con Ines, non avevo mai smesso di stupirmi per la quantità di gelato che era in grado di ingurgitare nel giro di una decina di minuti. E perché, nonostante questo, rimanesse secca come un chiodo. Anche se sapevo benissimo che il gelato, e i dolci in generale, fossero sempre presenti in casa sua, e sicuramente non in quantità modiche, tutt'altro.
Quando uscimmo dalla gelateria ci mettemmo d'impegno a cercare l'abito giusto per Francesca. Alla fine, ottenemmo di farle comprare una camicia e un paio di pantaloni scuri che le stavano d'incanto, e Ines riuscì a convincerla anche ad acquistare delle scarpe abbinate.
Conoscendo Francesca ritenevo che fosse un ottimo traguardo, tanto più che eravamo riuscite a farle provare decine e decine di vestiti senza che si lamentasse nemmeno una volta.
«Ah,» stava dicendo Ines mentre ci dirigevamo verso la fermata dell'autobus per tornare a casa «e naturalmente voglio che mi chiami, quando torni dall'appuntamento. Anche se è tardi. Voglio tutti i dettagli, anche i più sconci.»
«Li avrai.» assicurò Francesca con una risata. «Devo chiamare anche te, Totta?»
«Ci puoi scommettere!» esclamai io. «E guarda che ci conto. Se non riceverò una tua telefonata, puoi credere bene che sarò offesissima.»
«Lo terrò a mente.»
Eravamo ormai arrivate alla fermata. Francesca aveva insistito per andare a quella più lontana, giusto per permettere a Ines di smaltire tutto il gelato che aveva mangiato. Avevo acconsentito, senza considerare il fatto che si trovava proprio di fronte al condominio in cui viveva Gabriele. E non c'avrei nemmeno fatto caso se non avessi scorto, proprio qualche secondo prima che passasse l'autobus, quella ragazza misteriosa con cui avevo visto il mio fidanzato, due settimane prima.
Usciva da casa di Gabriele.

 

Ebbene sì, ecco il dodicesimo. Un capitolo un po' corto, senza avvenimenti particolari... O quasi. E' che io, oltre a Gioele, adoro anche Ines e Uri, quindi li devo mettere in mezzo, ogni tanto. Che volete farci, sono assolutamente di parte.
E la povera Totta ancora una volta si trova davanti a una situazione in cui è presente la famosa ragazza. Si vedrà, si vedrà che accade tra le due.

Be', che aggiungere? Direi dei sentitissimi ringraziamenti per chi legge, chi inserisce la storia tra le preferite, le seguite, le storie da ricordare o altro. E un grazie immenso a Eva92, che ha commentato il capitolo precedente (E sì, anch'io odio Gabriele. E l'ho creato io, quindi questo dovrebbe farti riflettere sulla mia sanità mentale...).
Basta così. Ho detto tutto.
Qualsiasi tipo di parere sarà ben accetto.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Mamma ***


Giovedì 13 Novembre

Non mi presi nemmeno la briga di chiamarlo.
Quando avevo raccontato alle mie amiche, in autobus, ciò che avevo visto, Ines mi aveva saggiamente suggerito di dormirci su e di cercare di arrivare a una spiegazione razionale, ma io non c'ero riuscita. Avevo passato la notte insonne, e tutto ciò che avevo risolto era stato di decidermi ad andare direttamente a casa sua per chiarire la situazione.
Così, all'uscita da scuola, salutai sgarbatamente Ines e Francesca, che si limitarono a lanciarmi uno sguardo di commiserazione, e mi ero diretta, a piedi, verso il suo condominio.
Il cielo era nero e c'era un temporale spaventoso, forse segno che tutto ciò che mi riguardava, in quel periodo, dovesse essere caratterizzato da uno scroscio spaventoso di acqua e da un freddo terrificante. Ma avevo un ombrello, nonostante Francesca avesse cercato di persuadermi a lasciarlo a lei, ed ero del tutto intenzionata a usarlo come arma, se fosse stato necessario.
Quando arrivai pigiai sul campanello con tanta insistenza che mi stupii che non avessero aperto all'istante. Non avevo voglia di essere educata. Volevo parlare con Gabriele, sputargli in un occhio e prenderlo a calci. E dopo, magari, attendere una sua spiegazione.
«Chi sei?» mi chiese il bambino che mi aprì la porta.
«Carlotta.» risposi in fretta. Feci per aprire la bocca e spiegargli perché ero lì, furiosa perché mi stava facendo perdere tempo, ma lui si scansò per farmi entrare, come se mi avesse riconosciuta.
«Vado a chiamare Gabriele.» mi disse. Annuii. Trotterellò verso un'altra stanza, allegro, e quando fece ritorno Gabriele lo seguiva.
«Totta!» mi salutò con un sorriso. Si avvicinò e fece per darmi un bacio, ma io mi scansai.
«Ti devo parlare.»
S'irrigidì.
«È successo qualcosa?»
«Appena saremo da soli te lo spiegherò.»
Questa volta fu lui ad annuire, e mi sembrava particolarmente allarmato. Mi fece strada verso la sua stanza, in fondo al corridoio. Entrammo, e dopo che si fu richiuso la porta alle spalle mi arrischiai a guardarlo negli occhi.
«Chi è lei, Gabriele?»
Per un momento mi guardò come se non avesse capito a cosa mi stessi riferendo.
«Di che parli?» mi domandò, crucciato.
«Lo sai. La ragazza. L'ho vista che usciva da casa tua, ieri.»
«Continuo a non capire...»
«Elena.» sbottai allora. Ero furiosa e sentivo che entro poco mi sarei messa a urlare. Perché si ostinava a mentirmi? E soprattutto, chi era quella lì e che voleva da lui? Perché tutte le volte che mi trovavo nei pressi della casa di Gabriele la incontravo? Perché?
«Non so che cosa ti sia messa in testa tu.» cominciò lui. «Ma è un'amica di mia sorella, te l'ho già detto.»
«Ah, sì?» replicai io fingendomi colpita. Ma in realtà questo confermava solo i miei dubbi. Avevo parlato con la sorella di Gabriele due giorni prima, quando l'avevo incontrata, per caso, al supermercato. Mi aveva confermato di non conoscere nessuna che si chiamasse Elena e, soprattutto, di non avere amiche che fossero in confidenza con Gabriele. «Non è quello che mi ha detto Lucia.»
Lo vidi sgranare gli occhi e capii di aver fatto centro.
«O magari è amica di Sofia? Può essere, no? È assolutamente credibile che una ragazza di diciott'anni sia amica di una bambina di quattro. Che te ne pare?»
«Totta, io...»
«Tu sei un pezzo di merda!» urlai io con le lacrime agli occhi. «Chi è lei, perché ti è sempre intorno?»
«È soltanto una mia amica.» rispose. Si allontanò da me, poggiò le mani sulla scrivania dietro di lui. Mi guardava come se fossi stata pazza, e in quel momento era così che mi sentivo.
«Se è una tua amica perché me l'hai tenuta nascosta? Perché non me l'hai detto?» proseguii a voce ancora più alta. «Ti vergogni di me? O magari di lei? Oppure, e francamente penso che sia questo il vero motivo, non volevi che sapessi di lei?»
«Credevo che saresti stata gelosa!» esclamò allora, sulla difensiva. Mi si avvicinò e cercò di prendermi le mani, ma lo respinsi. Mi veniva da piangere. «Totta, io te l'avrei detto, te lo giuro! Ma pensavo, e a ragione, che avresti interpretato male. Avevo paura che mi facessi storie...»
«Ma è questo che pensi di me?» strillai. «Che ti impedisco di vedere i tuoi amici? Ti ho mai chiesto una cosa del genere?»
«No, Totta, certo che no...»
«Allora smettila di raccontare cazzate e dimmi le cose come stanno!» Ero talmente agitata che faticavo a respirare. «Se me l'hai tenuta nascosta vuol dire che c'è qualcosa che non vuoi che io sappia, no? Dimmi cosa c'è tra voi due! E voglio che sia la verità!»
«Te l'ho già detto!» urlò allora lui. Era pallido di rabbia e mi faceva paura. «È solo una mia amica! Ma tu, testarda come sei, non mi credi! E poi, si può sapere che cosa cazzo facevi davanti a casa mia, ieri?»
«Prendevo l'autobus!» ululai di rimando. «Se tu sei così imbecille da fare minchiate alla luce del giorno, quando tutti possono vedere, cosa posso farci io? Passavo di lì e l'ho vista!»
«Non ti fai mai i fatti tuoi!» sbottò. «Devi sempre impicciarti in cose che non ti riguardano! E questa è una di quelle!»
Sapevo che da un certo punto di vista aveva ragione. Lo pressavo perché volevo sapere quello che succedeva; lo obbligavo a raccontarmi quello che era successo, quando lo vedevo infuriato o abbattuto; m'interessavo del suo passato e di quello che aveva fatto. E avevo insistito come una folle per sapere cosa lo avesse portato a litigare con Gioele.
«Se non volevi che ti chiedessi chi sono i tuoi amici allora non dovevi chiedermi di mettermi con te!» gridai. «Pretendo di sapere chi è quella ragazza, mi hai capito? Sono stanca di vederti insieme a lei!»
«È solo un'amica!» urlò lui, ma io non lo ascoltai e proseguii con la mia accusa, come se nemmeno avesse aperto bocca.
«Esci anche con lei? Ci vai a letto insieme? È questo?»
«No!» strillò lui, e lo fece talmente forte che mi fece sobbalzare. Ormai gridavamo entrambi, io sentivo le lacrime che mi scendevano lungo le guance e le mani che mi tremavano. Un bambino piangeva, da qualche parte. Forse nella stanza accanto. Anche Gabriele lo sentì, ma lo ignorò.
«È Gioele che ti mette in testa queste cazzate?» domandò con rabbia. «Eh? È lui? Che fa? Ti dice Ehi Totta, hai mai pensato che Gabriele potrebbe avere un'altra? È così?»
«Cosa c'entra Gioele?» strillai. «Non è di questo che stiamo parlando!»
«E invece sì, anche di questo! Sei gelosa di Elena, no? Lei è solo una mia amica, ma che ne so io di quello che fai tu con Gioele?» Urlava, mi guardava con gli occhi sbarrati, agitava le mani, camminava in tondo per la stanza, a scatti. Il bambino piangeva ancora. «Pensi che non sia geloso? Pensi che non mi venga la tentazione di chiederti di non vederlo più? Ma non lo faccio! Perché è un tuo amico e io mi fido di te!»
«Anch'io mi fido di te!» urlai allora. «Mi fido, ma non capisco perché c'è sempre lei di mezzo! Dimmi chi è, dimmi perché è sempre qui e io la smetto!»
«Non sono affari che ti riguardano!»
«Invece mi sembra che non sia così! Mi tieni nascoste le cose, che cosa dovrei pensare?»
«Niente!» Mi diede le spalle, quando si rivoltò verso di me sembrava più calmo. «Non devi pensare niente.» sibilò. «Non devi rompere. È una mia amica. Non sono tenuto a dirti niente.»
«Non sei tenuto a dirmi niente.» ripetei, ma era solo perché quelle parole mi sembravano assurde. Quindi era questo quello che c'era tra di noi? Questo l'amore che tanto declamava, questo il profondo rispetto, questo il desiderio di condividere qualcosa?
Me ne andai. Semplicemente, senza dire nulla. Senza nemmeno avere la forza di pensare a qualcosa. Mi veniva da ridere, tutto qui. Sotto lo sguardo scioccato suo e dei suoi fratelli, che mi puntarono gli occhi addosso quando passai per il salotto, uscii da quella casa ridendo come una folle.

Non smisi di ridere nemmeno quando arrivai a casa. Una parte di me, certo, era furiosa, ma un'altra... Trovavo tutto quello che era successo assolutamente ridicolo. Ridicolo! E non riuscivo nemmeno a capire perché. Ma andava bene, dopotutto... Non era quello che mi ero cercata? Avrei dovuto capire fin da subito che sarebbe andata a finire così.
Mia madre mi si avvicinò non appena entrai in cucina, dove lei era impegnata a leggere alcune carte.
«Totta!» esclamò. «Come mai così allegra?»
Sospirai.
«Non sono allegra, mamma.» le risposi, ma non riuscii a smettere di ridere.
«Non sei credibile se me lo dici così.»
«Vero.» ammisi. «Il fatto è che la situazione generale è talmente ridicola che mi fa ridere.»
«Situazione di cosa?» si mise a indagare allora. Ovviamente. Chissà cosa le era venuto in mente! Conoscendola, pensai che probabilmente riteneva fosse accaduto un fatto gravissimo, una qualche disgrazia.
«Ho litigato con Gabriele.» le spiegai allora.
Inarcò le sopracciglia, poggiò le carte che teneva in mano e mi incoraggiò a continuare.
«Ieri sono andata in centro.» Proseguii prendendo un bicchiere per versarmi da bere. «E quando sono passata davanti a casa sua c'era una ragazza che usciva da lì, ed era la stessa con cui l'ho visto tempo fa. Così sono andata da lui e gli ho chiesto spiegazioni...»
«E lui ha negato tutto?»
«No! Peggio ancora!» esclamai mentre mi tornava la rabbia. Non mi veniva più da ridere, adesso. «Ha detto che non sono fatti miei, che in pratica lui fa quello che gli piace perché siamo pari: lui è geloso di Gioele e io di questa qui... Solo che lui sa chi è Gio', e io non ho idea di chi sia questa tizia perché lui si rifiuta di dirmelo!»
«Quindi, fammi capire.» Si sedette, congiunse le mani sul tavolo e fece il punto della situazione: «Sei preoccupata perché pensi che se non ti ha detto niente ti nasconde qualcosa?»
«Esatto. Se fosse sua amica potrebbe dirmelo. Non mi darebbe fastidio.»
«Gli hai mai fatto credere che potrebbe non essere così?»
«Così come, mamma?»
«Che non ti darebbe fastidio se lei fosse una sua amica.»
«No!» esclamai allora. No, non gliel'avevo mai fatto credere. Conoscevo le sue amiche e sapevo che usciva con loro, ogni tanto, e a volte ero andata anch'io con loro. Ma era diverso. Me ne aveva parlato fin da subito, me le aveva presentate, mi raccontava quello che faceva quando, magari, andavano in discoteca o al bar. Ma di quell'altra, quell'Elena... Io non sapevo nulla. Se non l'avessi vista insieme a lui probabilmente non avrei mai immaginato nemmeno la sua esistenza. «Sa che le sue amiche non mi danno fastidio. Non sono gelosa di loro.»
«Ma lo sei di lei.»
«Sì!» confermai. «Mi chiedo perché non me ne abbia parlato. Se fosse una sua amica l'avrebbe fatto, no? Che bisogno c'era di tenermela nascosta?»
«Non so.» sospirò mia madre. «La verità è che questo ragazzo è sfuggente, non trovi?»
«Che cosa vuoi dire?» domandai guardandola male. Sfuggente. Aveva messo in chiaro fin da subito, quando l'aveva conosciuto, che non le piaceva. Lo trovava arrogante, nonostante lui si fosse comportato in modo molto educato con lei, e non faceva altro che ripetermi di fare attenzione.
«Non ti dice la verità. Ho l'impressione che ti stia mentendo, e tu gli credi.»
Sapevo a cosa si stava riferendo. Le avevo raccontato ciò che era successo tra lui e Gioele, le avevo riferito quello che poi mi aveva detto lui e quello che aveva detto Gioele.
«So che mi ha mentito, riguardo a quella storia.»
«Non è vero.» protestò lei con voce calma. «Tu fingi di credere che ti abbia mentito, in realtà sei convinta che ti abbia detto la verità. Ti fidi di lui e quello lì lo sa benissimo. Usa la tua fiducia per prenderti in giro, Totta!»
Aveva ragione. Dentro di me ero disposta ad ammetterlo, perché era la verità. Avevo riflettuto a lungo su tutto quello che era accaduto, ed ero giunta alla conclusione che forse Gabriele non mi aveva mentito. Che quello che aveva raccontato su Gioele, almeno per quanto lo riguardava, poteva essere vero. Che ne sapevo io di come si era comportato con lui? Anche se con me Gio' era sempre stato gentile e disponibile, non potevo dare per scontato che si fosse comportato così anche con Gabriele. Magari aveva davvero fatto la spia con il suo amico, e perciò Gabriele era giustificato nella sua antipatia nei suoi confronti. Continuavo a non approvare il loro litigio, ma quello era secondario.
Il problema era che mamma non aveva il diritto di avere ragione. Mi aveva ascoltata, certo, quando avevo chiesto il suo parere; partecipava della mia gioia quando avevo un appuntamento con Gabriele, ma sotto sotto continuava a fare pressioni perché indagassi sul suo conto. Immaginavo che vedesse in quello che stava succedendo una conferma ai suoi dubbi, un chiaro segnale che le diceva che sì, aveva avuto ragione a giudicare Gabriele in quel modo. Dentro di sé, lei sperava che le cose tra noi andassero male.
«Non è vero.» ribattei con furia. «Potrebbe davvero non mentire, perché dovrei continuare a insistere?»
«Perché è un bugiardo!» esclamò allora lei. «Ma non lo capisci che così ti troverai solo a soffrire? Conosco i ragazzi come lui. Ho avuto anch'io la tua età, so come funziona. A te sembra perfetto, onesto, dolce e tutto il resto. Ti sembra che sia innamorato di te, eppure vedi che non ti dà motivo di fidarti di lui? Quante volte l'hai visto con questa ragazza? Due! E si nascondevano sempre.»
Feci per aprire la bocca e rispondere, ma lei non me ne diede modo.
«Non interrompermi.» m'ammonì. «Ora, forse con quella ragazza lui non sta facendo niente. Potrebbe essere solo una sua amica, come dice, io non dico che non sia possibile, anzi; spero che sia vero. Ma ammetti anche tu che questa situazione è strana! E nonostante questo ti fidi! Sei andata da lui per chiedergli spiegazioni, e se te le avesse date gli avresti creduto! L'unico motivo che ti porta a dubitare di lui è il fatto che si sia infuriato con te. Non negarlo, non ti crederei.»
Non risposi. Qualcosa di vero, in quello che aveva detto, c'era. Il fatto che me l'avesse tenuta nascosta aveva insinuato in me il dubbio, certamente. Ma non era quello che mi aveva dato conferma che c'era qualcosa che mi stava nascondendo... Era più il suo atteggiamento, il suo urlare, il suo arrabbiarsi davanti alle mie domande. Era sempre stato così. Quando aveva litigato con Gioele si era infuriato perché avevo voluto sapere cosa fosse successo, e in quel momento, allo stesso modo, la mia insistenza gli aveva fatto perdere la pazienza. E da parte mia, era stato quello a lasciarmi perplessa.
Chiedergli spiegazioni, dopotutto, voleva dire presupporre che ci fossero spiegazioni. Se lui me le avesse date, sarei stata soddisfatta. E lui avrebbe potuto tranquillamente inventarle, se fossero state credibili io non avrei insistito. Nonostante il suo atteggiamento fosse ambiguo. Nonostante dentro di me sentissi che c'era dell'altro.
«Vado in camera mia.» conclusi allora. Non volevo sentirla parlare ancora, mi bastava quello che avevo già sentito. Aveva vinto lei! Certo, era così. Aveva ragione, ma non m'importava. Non ero disposta ad ammetterlo, tutto qui.
Feci soltanto in tempo ad arrivare al piano di sopra che squillò il telefono. Mi precipitai a rispondere, forse sperando che fosse lui, che volesse chiedermi scusa per quello che era successo. Ma era Ines.
«Totta!» esclamò quando sentì la mia voce. «Ti prego, dimmi che sabato non hai niente da fare.»
«In teoria no. Ma dipende da cosa vuoi da me.» replicai rigirandomi il cavo del telefono intorno al dito. Ci mancava solo che ci si mettesse Ines... Stranamente, non avevo voglia di parlare con lei. Avevo bisogno di stare sola, magari in silenzio.
«No, no, non hai capito. È importantissimo!»
«Si può sapere di cosa stai parlando?» sbottai, infuriata perché non si decideva ad arrivare al punto.
«Si tratta della ragazza, quella che era con Gabriele. Siccome so che lui non ti ha spiegato un cavolo, ho pensato che magari poteva farlo lei.»
Rimasi di stucco. Non le chiesi come facesse a sapere che ero andata da Gabriele, perché immaginavo che c'entrasse Sandro, ma non riuscii nemmeno a capire come le fosse venuto in mente di cercare di contattare quella ragazza. Era folle! Era sbagliato...
«Sai chi è?» balbettai comunque. Avevo bisogno di risposte. A quel punto, non m'interessava come le avrei ottenute.
«Sì, Sandro mi ha dato il suo numero di cellulare e io l'ho chiamata.» E quindi Sandro c'entrava, ma non nel modo in cui credevo io. Mi stava dando una mano, facendo così, e probabilmente si stava mettendo contro suo fratello. Perché?
«Cosa?» strillai. «Senza nemmeno chiedere che cosa ne pensavo io?»
«Se avessi aspettato te non avresti risolto niente. Ha detto che se vuoi potete incontrarvi. Sabato.»
Era sbagliato. Lo era, e non c'era nessuna giustificazione per quel comportamento. Era scorretto, semplicemente. Ma ero decisa ad arrivare in fondo a quella questione, giusto per dimostrare a me stessa che no, non ero assuefatta da Gabriele al punto di non poter più ragionare liberamente.
«Va bene.» accettai quindi. «Dove e a che ora?»
«Alle tre e mezza, ai Giardini.»
La salutai e riagganciai sospirando.
Ed ecco, quindi, la resa dei conti. Sabato sarebbe stato il giorno in cui si sarebbe chiarito tutto, dunque? La ragazza mi avrebbe spiegato che cosa accadeva tra lei e Gabriele, e io sarei stata soddisfatta. Il fatto che avrebbe potuto dirmi cose che non avrei voluto sentire era secondario. E se mi avesse mentito? Non volevo nemmeno pensarci.
Non volevo più pensare a niente. Sabato, sabato avrei deciso che cosa fare.

 

Aggiornamento anticipato, questa volta, per festeggiare le vacanze! Ebbene, la povera Totta ha un po' di confusione in testa, sembrerebbe.
Ma nel prossimo capitolo ci sarà l'incontro con la famosa Elena, chissà che le si schiariscano le idee...
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi va.

Un ringraziamento enorme a tutte le persone che leggono questa storia, o che l'hanno iserita tra le seguite/preferite/da ricordare. Un ringraziamento speciale a VeraAuxilia04 e Pikky91, che hanno commentato lo scorso capitolo. Grazie infinite!

Un bacio,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14 - Elena ***


Sabato 15 Novembre

La prima cosa che pensai quando la vidi è che non avevo nulla da spartire con lei.
Quant'era bella! Non ci sarebbe stato da meravigliarsi se Gabriele avesse preferito lei a me. Non potevo neanche pensare di competere con una perfezione simile.
Era arrivata prima di me, mi aspettava seduta su una panchina. Ascoltava musica da un piccolo lettore mp3 rosso tenendo gli occhi chiusi. Quando mi avvicinai, però, li riaprì e mi sorrise. Si alzò, tolse le cuffie e infilò in tasca l'mp3. Mi tese la mano.
«Ciao.» mi salutò mentre ricambiavo la sua stretta. «Sei Carlotta, vero?»
Annuii. Non ero nemmeno in grado di parlare. Avevo terribilmente paura di quello che poteva dirmi. Sapevo che se davvero fosse stata insieme a Gabriele mi avrebbe anche potuto mentire, ma non riuscivo a smettere di pensare che se fosse stato davvero stato così, probabilmente anche a lei dava fastidio pensare che c'era anche un'altra, pur sapendo di essere la preferita. Come avrebbe potuto sopportare di non essere l'unica al centro dei suoi pensieri? Non lo ritenevo possibile.
«So che sei la fidanzata di Gabri.»
«È così.» confermai annuendo. Ebbene, lo sapeva. E il suo sguardo era anche troppo comprensivo.
«Ma perché hai voluto parlarmi? È successo qualcosa?» sembrava confusa, e potevo capirlo fin troppo bene.
Cosa avrei dovuto fare, quindi? Ammettere di non fidarmi di Gabriele, di credere che ci fosse un'altra, e che quell'altra fosse proprio lei, che era stata così gentile da accettare di incontrarmi, nonostante non sapesse nemmeno chi fossi?
«Ecco...» mormorai, imbarazzata. Non avevo pensato nemmeno per un momento a quello che avrei dovuto dirle. Ero partita da casa, semplicemente, con l'idea di chiarire il suo rapporto con Gabriele, e non m'era importato di pensare a un modo educato con cui chiederglielo. Però in quel momento, guardandola, non potevo nemmeno prendere in considerazione l'idea di domandarglielo così, brutalmente.
«C'è qualche problema?» insistette lei, vedendo che non mi decidevo a parlare.
«Diciamo che Gabriele si comporta in modo strano, ultimamente.» borbottai sperando che un'improvvisa ispirazione mi aiutasse a trovare le parole giuste. Invano, purtroppo. «Soprattutto se si parla di te.» soffiai poi, in fretta. Mi sentivo colpevole a tirarla in mezzo in quella maniera, ma da un certo punto di vista non m'importava più di tanto. Avevo bisogno di sapere.
Gabriele mi aveva chiamata, il giorno prima, e mi era sembrato tranquillo, come se non avessimo mai litigato. Nonostante questo, però, non avevo potuto fare a meno di essere fredda con lui. Non sopportavo che mi tenesse nascosto quello che faceva. E questa ragazza... Dopotutto, non la conoscevo nemmeno. Se per caso le fossi sembrata maleducata, in fin dei conti non era nemmeno un problema irrisolvibile: probabilmente non ci saremmo mai più parlate, quindi, perché indugiare?
«Insomma,» dissi prima che potesse replicare. «quello che mi interessa sapere è perché si ostina a mentirmi quando si tratta di te. Se sei sua amica... per me non è un problema. Solo che non capisco perché si comporta così, e dato che da lui non ottengo risposte ho pensato di chiedere a te.»
Mi guardò per un attimo, le sopracciglia inarcate, come se le avessi appena detto una scemenza assurda. E forse era proprio questo che pensava, ma non ero sicura che m'importasse. Doveva solo rispondere alla mia domanda.
«Insomma,» conclusi. «vorrei sapere cosa c'è tra voi.»
Sospirò e scosse la testa.
«Siamo amici.» rispose. Assunse un'aria pensierosa, poi aggiunse: «Ma non credo che dovrei dirtelo...»
«Non m'importa quello che credi, sinceramente.» sbottai. Che qualcuno mi desse delle spiegazioni, per pietà! Non m'importava chi e non m'importava come! Volevo solo sapere, capire se il mio rapporto con Gabriele era sincero. Io, dal canto mio, sapevo benissimo di non avere nulla da rimproverarmi, a quel proposito. Non gli avevo mai mentito, non gli avevo tenuto nascosto nulla. Ero stata onesta, avevo sempre risposto alle sue domande e non avevo mai dato segni di impazienza o di fastidio se lui aveva insistito con i suoi quesiti. E non era giusto che lui non facesse altrettanto con me. «Voglio solo... Voglio delle risposte. E sono disposta a qualunque cosa per ottenerle.»
Mi fissò, stranita.
«Se non ti fidi di lui, perché ti ci sei messa insieme? Perché è bello?» domandò allora, ma non sembrava che mi stesse accusando. La sua era davvero semplice curiosità.
«No, non è per questo.» soffiai tra i denti nel tentativo di impedirmi di risponderle male. «Io mi fido di lui. Sembra, però, che lui non si fidi di me.»
«Solo perché si comporta in modo strano?» insistette.
«Ti pare poco?» gemetti e la mia voce fu simile a uno strillo acuto.
La mia reazione parve prenderla in contropiede. Sospirò e scosse la testa.
«Se Gabriele scopre che sono qui, la nostra amicizia andrà a farsi benedire.»
Mi guardò e capii quello che voleva dire. Annuii. Certo, sapevo benissimo che il mio comportamento non era dei migliori e che anche lei ci sarebbe andata di mezzo, se a Gabriele fosse sembrato opportuno. Ero consapevole del fatto che si sarebbe infuriato, se avesse scoperto che ci eravamo incontrate per un motivo come questo, e non volevo che se la prendesse con lei, nonostante tutto.
Ancora non riuscivo a capire quale fosse il suo rapporto con lei, ma in qualsiasi caso non era giusto che lei ci rimettesse solo perché io non ero in grado di affrontare il mio fidanzato in maniera civile.
«Da me non saprà niente.» la rassicurai. Mi sporsi verso di lei. «Senti, so che quello che sto facendo non è bello. Ma non voglio parlare con te perché ho voglia di litigare o perché voglio fare le cose di nascosto. La verità è che io ho provato a parlare con Gabriele e lui non ha risposto alle mie domande, si è infuriato e il suo comportamento non mi è piaciuto.» Sospirai. «Non è che non mi fidi di lui... Dentro di me, io non ho praticamente dubbi. Solo che...»
Non sapevo spiegarglielo. Da un certo punto di vista, non volevo nemmeno. Perché avrei dovuto raccontarle per filo e per segno quello che mi passava per la testa, quando lei era solo una sconosciuta? La verità era che i dubbi li avevo, ma era stata la sua reazione a farmeli venire. E le parole di mia madre, gli sguardi di Gioele, il suo evitare di commentare il comportamento del mio fidanzato. Gioele, già. Era lui, alla fine. Non come pensava Gabriele, che credeva mi infondesse dubbi sulla sua fedeltà, ma con il suo strano comportamento. Il suo turbamento, quando gli parlavo di Gabriele. C'era davvero qualcosa sotto e io non sapevo più che cosa pensare. Ero confusa. Da una parte credevo a Gabriele, e non volevo nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi che la ragazza che stava seduta accanto a me fosse una con cui usciva di nascosto; da un'altra non mi fidavo e volevo capire con esattezza cosa c'era sotto.
«Siamo soltanto amici.» ripeté lei. «Non ti devi preoccupare.»
La guardai scettica.
«Non mi credi?» esclamò, interpretando giustamente il mio sguardo.
Non lo sapevo. Era quello sguardo... Da quando l'avevo vista per la prima volta, in centro con lui, non avevo in mente altro. Lo sguardo che lui le aveva rivolto era straordinariamente intenso per essere solo un'amica, e non ero in grado di ammettere che magari mi ero sbagliata. Ero sicura di quello che avevo visto ed esigevo delle spiegazioni. Ma non mi sembrava carino parlarle di quel particolare aspetto dei miei ragionamenti.
«Il punto non è se credo a te oppure no.» replicai evitando di guardarla. «Non sei tu quella che mi preoccupa. Insomma... è lui. Se sai perché non mi ha mai parlato di te, ti prego, dimmelo. Io conosco le sue amiche, non ho mai avuto nessun tipo di problema con loro! Non avrei voluto altro che essere messa a conoscenza della tua esistenza, non so se mi spiego.»
Mi guardò male, però annuì.
«Sì, credo di capire.» Rimase per un po' in silenzio, come per riflettere, poi sistemò una ciocca di capelli dietro all'orecchio e sospirò. «Senti,» disse con tono pratico tamburellando tra loro le dita delle mani «se mi giuri che farai finta di non saperne niente ti dirò perché penso che si stia comportando così.»
«Sì, te l'ho già detto. Non saprà nulla di tutto questo.»
Ma adesso avevo paura. Mi venne l'istinto di fermarla, di dirle che non volevo più sapere, che probabilmente non ero pronta per conoscere la verità. Non lo feci e lasciai che parlasse.
«Io e Gabriele siamo stati insieme, tempo fa.» spiegò a bassa voce. Mi lanciò un'occhiata di sottecchi, come per controllare la mia reazione.
Ma io, da parte mia, ero pietrificata. Non tanto per il fatto in sé, non mi sembrava strano che Gabriele avesse avuto altre ragazze prima di me e la cosa non mi infastidiva. Quello che non capivo era il perché non me l'avesse detto. Perché mi teneva nascoste tutte queste cose? Lo spaventava l'idea di condividerle, forse?
«Forse è per questo che non te l'ha detto.» proseguì Elena, più veloce. «Forse aveva paura che l'avresti presa male.»
«Se è così,» replicai io, furente. «allora è un idiota. Se vi siete lasciati, perché mai avrei dovuto prendermela?» Stavo praticamente urlando ed Elena sembrava allarmata. Mi guardava, tentando di parlare, ma se fosse riuscita a farlo non l'avrei neppure ascoltata. Non mi stavo rivolgendo a lei, non era con lei che ero infuriata. Era Gabriele. Mi deludeva pensare che aveva ritenuto di non potermi raccontare una cosa simile. Che cosa aveva in testa? Era davvero convinto che me la sarei presa, che gli avrei fatto dei problemi? Se era questa la fiducia che riponeva in me, allora poteva anche iniziare a cercarsi un'altra fidanzata! Non mi sembrava che avesse dei problemi in questo campo, quindi che cominciasse a darsi da fare.
«Ascolta,» tentò di tranquillizzarmi Elena poggiandomi una mano sul braccio. La guardai. «mi rendo conto che si è comportato male, davvero, ma non so se sia il caso di prendersela così. È stata solo insicurezza, non credi? Prova a metterti nei suoi panni!»
E io ci provai.
Ma mi resi orrendamente conto che, nei panni di Gabriele, io avrei scelto lei. Era davvero bella, con un viso molto particolare, lineamenti delicati e grandi occhi scuri. E il corpo! Non potevo assolutamente competere con una perfezione simile. E, checché ne dicesse lei, non potevo credere che lui non avesse notato quello che io stessa stavo osservando in lei.
A guardare il modo in cui si muoveva, poi, il tono di voce con cui mi parlava, mi sembrava che fosse anche molto più tranquilla e ragionevole di quanto non fossi io. E, tra l'altro, per qualche strana ragione la vedevo poco incline a scenate di gelosia come quelle che io facevo regolarmente.
«Come è successo che vi siete lasciati?» le domandai quindi, sperando che trovasse una motivazione che fugasse tutti i miei dubbi e che mi assicurasse che tra quei due non avrebbe più potuto esserci nulla.
«Abbiamo litigato.» rispose lei. «Voglio dire, alcuni fatti sono personali...»
«Non intendevo chiedere di raccontare nei particolari.» la rimbeccai. Capii subito d'essere stata estremamente sgarbata. «Scusa.»
«Non importa.» sospirò allora. «Immagino che per te sia difficile. La verità è che trovavo che Gabriele fosse asfissiante. Mi teneva sempre d'occhio, mi dava fastidio. E poi, diciamo che non siamo compatibili. Non lo siamo mai stati, in verità, ma ce ne siamo accorti dopo un po' che stavamo insieme.»
«È stato lui a lasciarti?» insistetti. Volevo cercare di capire se c'era motivo di pensare che lui potesse ancora essere preso da lei. Riconoscevo benissimo che la mia insistenza era maniacale, ma non ero in grado di cancellare dalla mia mente quello che mi aveva detto quando ero andata a chiedergli spiegazioni.
Non sono tenuto a dirti niente.
Avevo pensato a lungo a quella frase e non mi piaceva. Mi faceva sentire insignificante. Come se la mia presenza nella sua vita fosse rilegata a un semplice arredamento scenico, un passatempo, un giocattolo. In quelle parole non c'era nessuno dei sentimenti che andava tanto declamando. Rispetto, amore... Nulla di tutto ciò. Semplicemente, mi aveva comunicato che quello che pensavo non era importante. Che dovevo rimanere alla sua ombra, non impicciarmi, non provare nemmeno per un istante a credere che potevo permettermi di chiedergli qualcosa di personale. Non erano affari che mi riguardavano. Davanti a quella sentenza, io non ero nulla. E a me non andava bene.
«Sono stata io. Lui mi aveva proposto di continuare a provarci. Sai... diceva che se ci fossimo conosciuti meglio avremmo capito d'essere fatti l'uno per l'altro.» Rise. «Ma immagino che ormai abbia capito che non è così, anche perché altrimenti non ti avrebbe chiesto di metterti con lui, non credi?»
«Sì, immagino che tu abbia ragione...» Le sue parole avevano un senso. Tutto il suo ragionamento lo aveva, e io ero più che disposta ad ammetterlo. Ma i miei pensieri, al contrario, non ce l'avevano e non riuscivo a controllarli. A ogni dubbio che mi veniva sentivo crescere in me l'ansia di diventare consapevole di una nostra imminente rottura. D'altra parte, forse sarebbe stato meglio. Come potevamo stare insieme se lui riteneva che fosse necessario avere dei segreti e se io non riuscivo a credere alle sue parole? Potevamo davvero avere un futuro insieme, con tutte quelle menzogne alle spalle? Perché, se era vero che fino a quel momento io ero stata sempre onesta con lui, era vero anche che proprio in quel momento ero in un parco a incontrarmi con la sua ex-fidanzata, nonché mia principale sospettata, di nascosto. E se l'avesse scoperto e si fosse infuriato più di quanto non fosse già? Con quale coraggio avrei potuto difendere la mia posizione, davanti a una bassezza così enorme?
«Credo che dovrei andarmene.» soffiai all'improvviso. «Non posso proprio restare.»
Mi alzai dalla panchina e mossi qualche passo. Elena mi imitò e mi affiancò.
«Ho detto qualcosa che non va?» mi domandò e sembrava sinceramente preoccupata.
«No, no.» la rassicurai. Cercavo di non guardarla. Ero agitata, volevo soltanto andare via di lì. «È che ci ho pensato e credo che sia stato uno sbaglio venire qui, ma non è colpa tua. Mi dispiace di averti disturbata, e grazie per essere venuta. Non gli dirò nulla, tranquilla.»
Non rimasi nemmeno ad aspettare che mi rispondesse, non la salutai. Corsi via, lontano da lei, senza guardare dove stavo andando, sperando solo di riuscire, in questo modo, a scaricare la tensione e a trovare il coraggio di tornare a casa. Quando raggiunsi il mio motorino avevo il fiato corto e mi tremavano le gambe per la stanchezza, ma dentro di me sentivo ancora un'energia che non sarei riuscita a controllare nemmeno se avessi corso per tutta la città.
Mi risolsi che il modo migliore per affrontare quel problema era tornare a casa e chiamare immediatamente Ines.
E così feci. Rispose dopo i primi due squilli e non sembrò per nulla sorpresa di sentire che dall'altra parte della cornetta c'ero io.
«Allora?» mi domandò. «Com'è andata?»
«Stavano insieme.» la informai. «Ed è stata lei a lasciarlo. Quindi magari, boh, non so, lui pensa ancora che possa funzionare, che ne so? Forse ci sta provando con lei.»
«Totta, posso essere onesta?»
«Puoi.»
«Ti fai troppi problemi e vedi cose che non ci sono. Insomma, hai parlato con tutti e due. Lei che effetto ti ha fatto
«Sembrava sincera.» ammisi. Ma non era quello che volevo! In fin dei conti, io volevo che qualcuno confermasse i miei dubbi, giusto per farmi capire che no, non ero pazza.
«Visto? Te ne saresti accorta se ti avesse mentito
«Ma se invece non fosse così?» insistetti. «Magari è lui che ci prova e lei non se ne è nemmeno accorta... Da quello che ho capito, lei pensa che non stiano bene insieme, ma lui non era d'accordo, diceva che erano perfetti l'uno per l'altro. Non ti sembra sospetto?»
«Totta,» m'ammonì allora lei con tono severo. «ascolta. Lei l'ha lasciato e lui c'è rimasto male. Ti ricordi Vito
Certo che me lo ricordavo. Uno degli ex di Ines. Quello che era convinto che lei l'avesse lasciato perché l'amava troppo.
«Appunto. Appena ci siamo lasciati non faceva altro che ripetere che dovevamo tornare insieme, che stavamo bene, continuava a rompere anche a te e Fra' perché mi convinceste, ti ricordi?»
«Sì, ma...»
«Fammi finire.» brontolò. «Be', gli è passata. L'ho incontrato pochi giorni fa ed era insieme a un'altra, primo appuntamento. E mi ha detto che si è reso conto che non avremmo combinato proprio niente, insieme. Sono sicura che è stato così anche per Gabriele. Quando le ha detto quelle cose sarà stato arrabbiato per quello che era successo, ma secondo me adesso è diverso. Anzi, sai che ti dico? Dovresti chiamarlo e cercare di sistemare la faccenda.»
«Quindi tu pensi che i miei dubbi siano solo pare mentali che non stanno né in cielo né in terra?»
«Precisamente
«Ottimo.» ringhiai. Riagganciai senza nemmeno salutarla, corsi in camera mia e mi gettai sul letto. Quello che tutti pensavano era più che evidente.
Ero pazza.

 

Ed ecco a voi il quattordicesimo capitolo! Secondo i miei calcoli, dovremmo essere a metà esatta della storia, anche se ovviamente farò in tempo a cambiare idea sul numero di capitoli almeno un miliardo di volte. Ma non disperiamo. Che dire di importante su questo capitolo? Be', probabilmente che Elena è un personaggio che mi piace, in un certo senso. E che Totta è sempre più confusa, come avete notato...
Passando a cose più serie, vorrei ringraziare tantissimo, con tutto il cuore, VeraAuxilia 04 e Pikky91, che hanno commentato lo scorso capitolo. Ragazze, i vostri commenti mi riempiono di gioia tutte le volte, vi ringrazio un milione di volte, siete dolcissime! (Ah, Pikky91: grazie per avermi fatto notare l'errore di battitura! Io non l'avevo proprio visto! Ho riletto una decina di volte il capitolo e non l'avevo proprio individuato... E anche dopo ho fatto fatica a trovarlo!).

Ringrazio anche le persone che leggono soltanto, e quelle che hanno inserito la storia tra le seguite/preferite/da ricordare. Grazie infinite!

Ho detto tutto, mi pare.

Un bacio,

rolly too.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Respiro ***


Domenica 16 Novembre

Fu Francesca a darmi il numero di Gioele, ma lui non sembrò sorpreso di sentirmi quando lo chiamai.
Avevo voglia di vederlo, così avevo pensato che sarebbe stato carino trovarci, nonostante sapessi benissimo che uscire con lui non era una mossa intelligente dal momento che era uno dei motivi per cui avevo litigato con Gabriele, ma non m'importava più di tanto. Se lui era libero di tenermi nascoste le sue uscite con persone che non conoscevo, che motivo avevo io di dirgli che andavo fuori con Gioele?
Lo raggiunsi in centro, in piazza. Lui era già lì. Stava immobile, seduto sui gradini della Basilica. Non si mosse quando mi avvicinai.
«Ciao, Gio'.» lo salutai sedendomi accanto a lui. Mi sorrise in risposta. «Come stai?»
«Bene.» sussurrò. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e congiunse le mani davanti al volto pallido. «E tu?»
«Un po' incasinata.» confessai. Se c'era una persona che poteva aiutarmi a rimettere un po' di ordine nella mia testa, questa era proprio Gioele. O, perlomeno, la sua influenza poteva tranquillizzarmi.
Lui, però, non sembrava affatto calmo. Stava fermo e sorrideva leggermente, come faceva ogni volta, ma mi sembrava teso. Il suo sguardo guizzava da una parte all'altra della piazza come se si fosse aspettato di essere attaccato da un momento all'altro.
«C'è qualcosa che non va?» gli domandai allora, sporgendomi un po' verso di lui per guardare nella stessa direzione che stava fissando lui.
«No, nulla.» soffiò. Si voltò verso di me come se quel gesto gli costasse una grande fatica, poi sorrise abbassando lo sguardo. «Allora?»
«Allora cosa?»
«Hai detto...» iniziò a bassa voce. Inspirò profondamente, chiuse gli occhi e quando li riaprì proseguì con un tono leggermente più alto: «Hai detto che sei... incasinata.»
«È così.» confermai con leggerezza. «Sai, ho litigato con Gabriele. E ho fatto alcune cose... Insomma, non proprio corrette.»
Sorrise un po', rivolto verso di me, e annuì senza guardarmi negli occhi. Aprì lievemente la bocca, come per parlare, poi la richiuse. Infine sembrò prendere una decisione e mormorò:
«Ne vuoi parlare?»
«Non voglio annoiarti con le mie pare mentali. So di essere pazza.»
«Non mi annoieresti.» sussurrò allora, in fretta. «Io credo... credo che... insomma, se tu pensi certe cose... Non credo che tu sia pazza.» concluse. «Perché lo pensi?»
«Le persone con cui ho parlato dei miei dubbi dicono che sono infondati, che sono troppo gelosa.»
Scosse leggermente la testa, come se le mie parole fossero state assurde.
«Se hai dei dubbi,» disse lentamente. «allora significa che qualcuno te li ha fatti venire. Dubiteresti della mia presenza qui, di fianco a te, se qualcuno non ti venisse a chiedere perché mai stai parlando da sola?»
La verità era che Gioele mi piaceva. Non nello stesso modo in cui mi piaceva Gabriele, che mi faceva palpitare il cuore e stringere lo stomaco; ma apprezzavo il suo comportamento. La sua disponibilità, le sue parole... Un ragazzo che conoscevo da meno di un mese! Eppure sembrava sapere così tanto di me. Ed era sempre così buono, anche quando non me lo meritavo...
«Ho visto Gabriele con una ragazza,» sospirai allora. «qualche tempo fa. Erano in centro, camminavano insieme e lui l'ha guardata in un modo... Come faccio a spiegartelo, Gio'?»
Lo guardai.
«In un modo che ti ha fatto pensare che non fossero solo amici?» azzardò allora, la voce ridotta a poco più che un misero sussurro.
«Esatto!» confermai. «Gliene ho parlato e lui mi ha detto che è un'amica di sua sorella, ma era una bugia. Le ho parlato, e mi ha detto che non conosce nessuna che si chiama come lei.»
«E come si chiama?» m'interruppe. Stranamente mi guardava negli occhi, con un'intensità tale che, sulle prime, non riuscii a rispondergli. Sembrava sospettoso. Ma non riuscivo a capire perché.
«Elena. La conosci?» Se mi avesse risposto di sì, se lo avesse fatto guardandomi con quell'espressione, avrei trovato, semplicemente, una conferma a tutti i miei dubbi. Perché, nonostante quello che Gabriele mi diceva di lui, io gli credevo. Non poteva essere come il mio fidanzato lo dipingeva. Nessuno avrebbe potuto mentire così bene.
«No.» mormorò in risposta. Scostò lo sguardo e capii che voleva che continuassi a parlare.
«Insomma, ho lasciato perdere. Ma poi l'ho vista di nuovo, e stava uscendo da casa sua. Sono andata a chiedergli spiegazioni e lui si è messo a urlare e a dirmi che non sono affari miei. Così...»
Mi morsi il labbro. Gli avrei dovuto confessare che avevo incontrato Elena di nascosto, che le avevo fatto domande a cui avrebbe dovuto rispondere Gabriele, che a lui non avevo detto nulla di tutto questo. Nonostante parlassi tanto di lealtà e sincerità, gli avevo tenuto nascosto quello che avevo fatto e gli avrei mentito, se mi avesse fatto delle domande. Che cosa avrebbe pensato Gioele di me, davanti a un comportamento simile? Avrebbe avuto ragione a ritenermi una folle, una disonesta, un'ipocrita! Come avrei potuto negarlo, se l'avesse fatto?
«Ho incontrato quella ragazza di nascosto.» sospirai alla fine. Lo guardai di sottecchi per studiare le sue reazioni. Ma lui, che teneva lo sguardo fisso davanti a sé, sorrise e chinò il capo.
«A me sembra ragionevole.» soffiò. «Se voleva evitarlo... doveva... be', rispondere alle tue domande.»
Mi venne l'istinto, in quel momento, di ricordargli che nemmeno lui aveva risposto alle mie domande, ma mi trattenni. Non volevo che prendesse male le mie parole. Dopotutto, sapevo d'aver insistito abbastanza con lui. Non era Gioele che mi doveva delle risposte.
«Non capisco perché faccia così.» continuai.
«Ho cercato di capire Gabriele per moltissimo tempo.» confessò lui. Scosse appena la testa, guardando in basso, poi mormorò: «Forse siamo troppo diversi. Ma davvero... Io... non ho nulla a che vedere con lui. Non c'è... nulla... su cui siamo d'accordo.»
«Eppure eravate amici.» gli feci notare.
Il sorriso che mi rivolse mi fece capire benissimo come la pensava lui. Dal suo punto di vista, probabilmente, quella non era vera amicizia, e non me la sentivo nemmeno di dargli torto. Doveva essere così solo! Da quel che ne sapevo, non c'era nessuno che lo trovasse simpatico. I suoi compagni di classe non lo sopportavano. I ragazzi del paese in cui viveva lo trovavano strano.
E pure io, in effetti, ma non vedevo come questo avrebbe potuto condizionare la nostra amicizia. Era forse un difetto essere come era lui? Avere dei principi, rimanervi fedele, non cercare di cambiare per ottenere consensi che forse nemmeno voleva. Certo, non era facile. Di questo ero sicura. Perché dietro al suo sorriso gentile doveva esserci qualcos'altro. Quel suo balbettare continuo, la voce ridotta a meno di sussurri e soffi inudibili, il suo deciso rifiuto di guardare negli occhi le persone dovevano avere una causa più profonda.. Era per non leggervi la diffidenza e la compassione? Per non vedervi quello che gli altri pensavano di lui?
«Non ho mai avuto molti amici.» disse pianissimo. Guardava avanti a sé, malinconico. Eppure
sorrideva. «Gabriele... non è stato diverso dagli altri. Tutto qui.»
«E io?» gli domandai allora, d'impulso. «Io sono come gli altri?»
«Tu...» iniziò, ma non completò la frase. Tenne la bocca socchiusa per qualche istante, forse cercando qualcosa da dire, poi la richiuse con uno schiocco.
«Scusa.» mormorai. «Era inopportuno.»
«No, non lo era.» replicò lui in fretta. Mi guardò negli occhi pochi secondi, poi abbassò lo sguardo. «Io non credo...» sussurrò fissando la mia sciarpa «che sia sbagliato fare domande inopportune. Se... Se una persona non... non vuole rispondere, può non farlo. Io... non è che non voglia rispondere. Il fatto è... non lo so.»
Ci rimasi male. Gli sorrisi, perché era stupido prendersela, ma non potei fare a meno di pensare che lui, dopotutto, non si fidava di me. Mi riteneva una sua amica, o almeno, questo era quello che diceva suo padre, però non a tal punto da confessare che ero diversa da come era stato Gabriele per lui. Forse era giusto. Che cosa avevo fatto io per meritarmi il suo affetto? Nulla, assolutamente. Aveva fatto tutto lui, e io, in un certo senso, l'avevo usato. Lui lo sapeva. L'aveva capito fin da subito, eppure era rimasto in silenzio a lasciarmi fare. Ma davvero, davvero, che cosa avevo fatto di buono per lui, che pure aveva fatto tanto di buono per me? Prima dell'incidente non sapevo nemmeno che esistesse, e dopo non era stato molto diverso! Se non era lui a cercare me, non ero certo io a farlo, dopo.
«Ci sei rimasta male.» sussurrò dopo avermi guardata qualche istante.
Dovevo immaginare che l'avrebbe capito. Perché lui era fatto così. Gli bastava solo una semplice occhiata... Era davvero così facile leggermi? Immaginai che avrebbe detto qualcosa, invece tacque. Non si giustificò, non tentò di rendere meno amaro quello che aveva detto. Non aveva motivo di farlo, dopotutto. Era quello che pensava e io non meritavo altro.
«Cosa pensi che dovrei fare con Gabriele?» gli chiesi per cambiare argomento. Lo vidi rabbuiarsi e capii che la domanda lo turbava. Lo infastidiva così tanto parlare di lui!
Tardò a rispondere e mi venne quasi l'istinto di dirgli che forse era meglio lasciar perdere, che non era costretto a darmi un parere. Ma non lo feci, perché avevo bisogno di un suo consiglio equilibrato.
«Penso che... dovresti parlargli.» soffiò alla fine. «Ma prima... forse dovresti... riflettere.»
«In che senso?» lo interrogai ancora. Immaginavo d'aver capito cosa intendesse dire, ma ero confusa e avevo bisogno che continuasse a parlare.
«Dovresti chiederti... se volete le stesse cose l'uno dall'altro. Se ti aspetti da lui qualcosa che...» s'interruppe e inspirò profondamente. «che può darti.»
Annuii. Credevo di capire quello che stava cercando di dirmi, ma non sapevo come fare per attuare il suo consiglio. Non ero lucida, quando si trattava di Gabriele. Mi sembrava di stare così bene, insieme a lui! E non avrei saputo dire se per lui fosse davvero lo stesso oppure se a me sembrasse che lo fosse.
«Sarebbe la cosa più logica, vero?» gli domandai allora.
«Più che altro,» sussurrò in risposta «sarebbe la meno dolorosa.»
Non gli risposi perché quella risposta mi fece pena e non mi sembrava giusto. Avevo l'impressione che quelle parole si riferissero più a lui che a me. Quello era, semplicemente, il suo modo di ragionare. La scelta più giusta era quella che lo faceva soffrire di meno.
«Senti, Gio'» cominciai allora a bassa voce, imbarazzata per la domanda che intendevo fargli. Lui si volse verso di me, sempre tenendo lo sguardo basso, e annuì per farmi capire che potevo continuare. «volevo chiederti... Ma...» Non sapevo come proseguire senza essere crudele, perché intendevo chiedergli a cosa fosse dovuto quel suo strano comportamento. Era sempre stato così, o c'era stato un periodo in cui anche lui parlava a voce alta e guardava negli occhi le persone? Cos'è che l'aveva portato a diventare come era?
«Io...» mormorò lui prima che potessi anche solo tentare di formulare la domanda. «Io credo... di... sapere quello che vuoi chiedermi. Me... me l'hanno chiesto in tanti. Ma io... non... non lo so.»
Rimasi di stucco e lo guardai. Anche lui mi rivolse lo sguardo e sorrise appena.
«Insomma... Non so perché mi comporto così. Mi viene... naturale, ecco.»
«Sembri sempre nervoso quando sei con gli altri.» gli feci notare dolcemente. «Non lo so, ma credo che ci sia stato un momento in cui è cominciato, no? Anche da bambino eri così?»
«Le persone» sussurrò allora lui dopo aver sospirato. «mi mettono... a disagio. Mi sento sotto osservazione.»
«Credo che sia la sensazione che hanno un po' tutti quanti, sai?» gli dissi. Cercavo di essere più gentile possibile, perché vedevo che non gli piaceva parlare di quell'argomento. Si portò una mano tra i capelli e ne afferrò alcune ciocche. Fece una piccola smorfia, quasi di dolore, poi scosse la testa.
«Non era... quello che intendevo.» soffiò. Mi sembrava che facesse davvero fatica a parlarne. «Io... mi sento diverso. Alle persone... non... piaccio.»
«Ma questo non è vero!» protestai. Cercavo di rassicurarlo, di fargli capire che si sottovalutava e che non aveva motivo di fare quei pensieri, ma non sapevo bene come fare. Quel giorno era più teso che mai e io non riuscivo a essere delicata come volevo. Eppure, pensavo che quel discorso fosse necessario. Non sarebbe stato meglio anche lui, se fosse riuscito ad avere dei rapporti più normali con le altre persone? Vedevo, a scuola, il suo tormento nel trovarsi in mezzo a gente che non lo considerava minimamente. E nonostante lui sembrasse tranquillo, immaginavo che ci stesse male. E mi sarebbe piaciuto poterlo aiutare in qualche modo. Perché io lo trovavo simpatico e non capivo come gli altri potessero essere in completo disaccordo con me. Com'era possibile che nessuno lo sopportasse?
«Gio', a me piace come sei. E sono sicura che piaceresti anche agli altri se parlassi con loro ogni tanto...»
«No.» mormorò di nuovo scuotendo la testa. «No, Carlotta... Io... non ci riesco. Se... se loro... mi parlano, io... io non... io sto male se lo fanno. Mi sento... soffocare.»
Sembrava terrorizzato e io capii di aver osato troppo. L'avevo messo in difficoltà costringendolo a un argomento che lui non voleva nemmeno sfiorare. E vedevo, sentivo che ormai era tardi per tornare indietro. Non sapevo più che cosa fare e l'unica cosa che mi venne in mente fu di restare in silenzio e attendere che si calmasse.
Ma lui non si calmava. Il suo respiro era affannato, il volto rosso e le mani, che torceva in continuazione tenendole all'altezza del petto, sudate. Guardava fisso avanti a sé, gli occhi sgranati lucidi di lacrime.
«Gio',» lo chiamai a bassa voce dopo qualche minuto. Gli poggiai la mano sulla schiena per tentare di rassicurarlo. Ero terrorizzata e non sapevo che cosa fare. Non avevo mai visto nessuno comportarsi così e la stranezza di Gioele non mi aiutava a guardare la cosa da un punto di vista critico. «Gio', stai tranquillo. Scusa, non dovevo dirti quelle cose. Parliamo d'altro, va bene?»
Annuì, ebbe un singulto e nascose il volto dietro le mani. Sembrò accasciarsi su se stesso e io rimasi semplicemente accanto a lui, zitta e ferma, con la mano ferma sulla sua schiena.
«Scusa.» mormorò dopo poco, sollevando la testa e guardandomi. In quel momento s'era fatto pallido, ma gli occhi erano asciutti e sembrava stare meglio. «Io... mi sono...»
«Non mi devi spiegazioni.» lo rassicurai con la voce più dolce che riuscii a trovare.
«Camminiamo un po'?» sussurrò con voce implorante. Annuii.
Passeggiammo l'uno accanto all'altro, in completo silenzio, per un po'. Gioele teneva le mani affondate nelle tasche del cappotto e guardava la strada.
«Mi comporto sempre male...» soffiò d'un tratto «quando... si tratta... di Gabriele.»
«Che cosa vuoi dire?» Il suo comportamento non mi era sembrato particolarmente negativo e anzi mi stupiva che non se la prendesse, quando gli parlavo di lui. Sapevo che gli dava fastidio e mi dispiaceva costringerlo a rimuginarci su, ma era l'unica persona che, ne ero certa, non avrebbe esitato a dirmi quello che pensava.
«So che vedi che sono... scocciato, ecco, quando parli di lui. Mi dispiace.»
«Mi sembra piuttosto comprensibile.» osservai. «Piuttosto, sono io che sbaglio a tormentarti con questa storia.»
Non disse nulla e nemmeno io lo feci. Era strano il suo modo di affrontare gli argomenti di cui non voleva parlare. Non tentava di cambiare discorso e nemmeno si mostrava seccato o impaziente. Semplicemente, taceva. Era quello il suo modo di difendersi e a me non sembrava particolarmente efficace. Dava l'impressione – ed ero convinta che fosse sbagliata – di essere una persona fragile. In realtà, ero fermamente convinta che Gioele fosse una delle persone più forti che avessi mai incontrato. Perché era solo e sì, aveva alle spalle la propria famiglia, ma loro non potevano fare nulla per aiutarlo quando si trovava in mezzo a gente che non lo sopportava. Gioele non faceva nulla per farsi accettare dagli altri e la sua, più che incapacità di affrontare la situazione, sembrava una risoluta scelta. Non era disposto a cambiare modo di essere per nessuno, e per questo lo ammiravo. Era coriaceo, convinto delle proprie idee e disposto a restare solo pur di difenderle. Non era forse questo il motivo per cui aveva litigato con Gabriele? Anche se non sapevo con esattezza cosa fosse accaduto tra i due, era anche troppo chiaro che Gioele aveva preferito abbandonare il suo unico amico pur di non perdere se stesso. Da parte mia, non riuscivo a capire come facesse a riuscirci.
«Credo che dovrei andare in stazione.» disse all'improvviso, a bassa voce. «Il treno passa tra poco.»
«Ti accompagno.» mi offrii.
La cosa che più mi colpiva di lui era l'apparente indifferenza. Mentre camminava accanto a me, pacato, non sembrava minimamente interessato a quello che gli accadeva intorno. Guardava basso, semplicemente, e taceva. E io, stranamente, non mi sentivo per niente a disagio. Quel silenzio mi tranquillizzava.
«Ehi, Totta!» esclamò all'improvviso una voce acuta dietro di me. Mi voltai di scatto, riconoscendo Ines, e Gioele fece lo stesso.
Ines, accompagnata da Sandro, mi raggiunse correndo. Mi sentii gelare quando vidi lo sguardo che Sandro rivolse a Gioele e il sorriso, a metà tra un ghigno e una smorfia, che invece mise su Gioele. Scorsi la sua espressione di sfuggita, mentre lui si affrettava a chinare il capo e a concentrarsi sulla punta delle proprie scarpe.
«Che ci fate in centro?» domandò Ines con allegria, come se non si fosse resa conto del guaio in cui mi aveva cacciata. Sandro avrebbe sicuramente detto a Gabriele dove mi aveva vista e con chi, e questo non avrebbe fatto altro che diminuire le probabilità di rappacificazione tra noi.
«Ci siamo incontrati per caso.» mormorò Gioele al posto mio. Guardò brevemente Ines e aggiunse rivolto a me: «Comunque, io vado. Ciao.»
Lo salutai con un balbettio, scocciata perché avrei preferito accompagnarlo piuttosto che rimanere lì con Sandro e Ines.
«Che tipo strano.» commentò la mia amica guardandolo mentre si allontanava. «Non credi, Totta?»
«Abbastanza, sì.» ammisi, poi li guardai. «E voi due? Come mai da queste parti?»
«Andavamo a casa mia.» rispose Sandro. «Vuoi venire anche tu? Penso che a Gabriele farebbe piacere vederti.»
La prima reazione sarebbe stata quella di sputargli in un occhio, e l'avrei fatto se non ci fosse stata Ines. Era forse il suo modo per dirmi che non aveva creduto a Gioele e che lui avrebbe doviziosamente riferito tutto a Gabriele?
«Penso, invece,» replicai io cercando di mostrarmi calma «che me ne tornerò a casa. Inizio ad avere freddo.»
Non aspettai nemmeno una risposta e mi incamminai verso il mio motorino.
L'unica cosa a cui riuscii a pensare, tornando a casa, fu che avrei cento volte preferito concludere il mio pomeriggio con Gioele piuttosto che vedere Ines.

 

E sono tornata! E insieme a me è tornato anche Gioele, visto? Mi mancava, poveretto, e l'ho anche fatto patire parecchio con questo capitolo, cucciolo... Be', ma è perché Gioele non c'è con la testa, in fin dei conti.
Voglio ringraziare immensamente Pikky91, VeraAuxilia 04 (addirittura drogata della mia storia? Be', sono commossa!) e skricciola 95. Un bacio grande a tutte e tre, che mi riempite di gioia! Ringrazio anche chi ha solo letto, inserito la storia tra le seguite/preferite/da ricordare. Grazie infinite!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16 - Ricreazione ***


Martedì 18 Novembre

«Totta, ti dobbiamo parlare.»  Francesca mi guardò, più seria che mai. Dietro di lei, Ines mostrava un'espressione altrettanto composta. Per un istante mi parve preoccupata, ma le passò subito.
«Certo.» annuii lasciando cadere i libri sul banco.
«Non qui.» precisò Ines. «In privato.»
A quelle parole mi tesi.
«Ragazze, è successo qualcosa?»
«No, no.» mi rassicurò Francesca. «No, tranquilla. Però dobbiamo davvero parlarti e dove non ci vengano a disturbare.»
Si voltò e prese a camminare in fretta. Io, confusa, la seguii. Ines ci veniva dietro, pacata. Sembrava non aver conservato nemmeno un briciolo della sua vitalità. Francesca non sorrideva. Mi portarono in cortile, dove, tra la folla di studenti che trascorrevano serenamente l'intervallo, le nostre parole non sarebbero state ascoltate da nessuno. Passando riuscii a scorgere, in un angolo, Gioele, seduto a terra da solo. Mi guardò quando mi vide, ma il suo volto rimase impassibile.
«Volevamo dirti» cominciò titubante Ines dopo che ci fummo fermate vicino al cancello «che ci sembra che ti stai comportando male nei nostri confronti.»
«Cosa?» balbettai. Ero certa di aver capito male, perché non poteva aver detto quello che mi pareva d'aver sentito. Era così assurdo!
«Sì.» confermò Francesca. «Totta, ultimamente ci ignori.»
Le guardai con gli occhi sgranati, allibita. Ma cosa diavolo stavano dicendo?
«Non capisco.» mormorai. «Siete impazzite?»
«Sei tu a essere impazzita.» rispose Ines, piccata. «Da quando hai conosciuto Gabriele sei diversa. Non esci più con noi, non ci chiami più, e quando lo fai è per parlare di lui o di Gioele.»
«Ma io...»
«Non interrompermi, aspetta.» disse Ines. «È sbagliato nei nostri confronti, lo capisci, no? Siamo le tue amiche! E tu fai finta che non ci siamo!»
«Ma non è vero!» esclamai. «Non è affatto vero.»
«Noi siamo felicissime se hai questo ragazzo e stai bene con lui,» specificò Francesca tentando di sorridere. Non ci riuscì. «ma non ci piace che ci ignori.»
Lo trovavo un attaccato gratuito e ingiustificato al mio comportamento. Non mi sembrava affatto d'averle trascurate! Certo, era vero che uscivamo meno insieme, ma questo non era forse normale? Anche Francesca, da un po', era sempre in compagnia di Uri, e proprio due giorni prima Ines era in centro con Sandro! Prima non sarebbe stato possibile, dal momento che passavamo tutte le domeniche pomeriggio insieme, ma dunque?
«L'ultima volta che mi hai telefonato era la settimana scorsa.» prese a dire Francesca. «E l'hai fatto per chiedermi consiglio su Gabriele.»
«Sì. E domenica, quando ci siamo incontrate, sembrava che volessi andare via.»
Questo era vero, ma me lo tenni per me.
«Potevate telefonare voi!» esclamai, piccata. «Ci siamo incontrate la settimana scorsa, non sono secoli che non ci vediamo!»
«Io ti ho chiamata sei volte e tu non c'eri mai.» mi fece notare Ines.
«E da quando in qua mi è proibito uscire?» sbottai. All'improvviso mi sentii cogliere da un'ondata di rabbia. Con quale coraggio mi accusavano di colpe che non avevo? Da quando erano diventate le mie carceriere? Non avevo forse il diritto di andare dove volevo e quando volevo?
«Non stiamo dicendo che non puoi.» si scaldò Ines. «Stiamo dicendo che...»
«L'ho capito cosa state dicendo!» esclamai. «E mi sembrano un mare di cazzate!»
«Non mi sembra il caso di infuriarsi.» cercò di placarmi Francesca.
«Be', invece a me sembra proprio che lo sia.» ribattei. «Mi venite a dire che vi trascuro, che sono sempre via, che non vi telefono, e pretendi anche che rimanga calma? Se per voi è un problema non sentirci dieci volte nello stesso giorno, be', mi dispiace, ma siete pazze!»
«Stai esagerando!» replicò furiosamente Ines. «Siamo venute qui solo per parlarti!»
«Accusarmi, vorrai dire.»
«Non è così.» disse Francesca. «Tu non vuoi ascoltare. Ti stiamo solo facendo notare che sei cambiata.»
«Penso che sia normale cambiare.» sibilai in sua direzione. «Non siete più al centro del mio universo, questo è vero, ma ci siete ancora. Io vi voglio bene come prima.»
«Hai uno strano modo di dimostrarlo.» commentò Ines, acida.
«Piantala, tu.» la redarguì Francesca. Tornò a rivolgersi a me. «Non puoi fare uno sforzo e dedicarci un po' di tempo in più?»
«Ma che cosa vuol dire, Fra'? Che devo chiamarvi almeno tre volte al giorno, uscire con voi tutti i pomeriggi e dimenticarmi del mio fidanzato e di Gio'?»
«Non è quello che ti stiamo chiedendo!» protestò. «Però sì, faresti meglio a lasciare perdere quei due, per un po'.»
Quelle parole mi ammutolirono.
«Cosa?» balbettai. «Cosa vuoi dire?»
«Vuol dire che ti stia cacciando in guaio e non te ne rendi conto.» spiegò lei. «A quanto pare, sembra che quei due si odino. Se tu continui a frequentarli entrambi, a un certo punto sarai costretta a scegliere.»
«Cosa ne sapete voi due di questa storia?»
«Sappiamo solo» intervenne Ines «che hanno litigato piuttosto pesantemente. Me l'ha detto Sandro.»
«Quindi» la accusai «è questo che fate quando state insieme? Vi fate gli affari miei?»
«Totta!» esclamò Francesca. «Perché dici queste cose? Lo facciamo per te!»
«Sì, certo, dite così,» replicai, furiosa «ma in realtà a voi importa solo di sentirvi importanti quanto prima. E per vostra informazione, so che cosa è successo tra quei due. Ma il fatto che loro si odino non implica il fatto che io debba scegliere. Sono abbastanza grandi, tutti e due, per capire che non me ne frega niente dei problemi che hanno tra loro. Se c'è qualcosa che non va, possono anche risolvere la questione senza tirarmi in mezzo!»
E l'avevano fatto, sussurrò una vocina nella mia mente. O, perlomeno, ci avevano provato. Si erano presi a pugni davanti alla scuola e tutto questo senza dirmi nulla, quindi, perché preoccuparmi? Però, anche se non ero disposta ad ammetterlo, sapevo che avevano ragione. Un giorno sarei stata costretta a decidere che di uno dei due non volevo più saperne. Avrei dovuto scegliere e a quel punto, forse, sarebbe stato troppo tardi. Ma non potevo farlo! Non potevo, con tutto il bene che volevo a entrambi... Ma, anche se avessi dovuto prendere una decisione all'istante, né Ines né Francesca avevano il diritto di dirmi quelle cose. Ero io quella che doveva pensarci. E poi, avevo l'impressione che lo facessero solo perché, togliendo di mezzo i due ragazzi, avrei avuto più tempo da dedicare a loro.
«Non mi aspettavo» borbottai «una cosa simile da voi due. Siete le mie amiche. E non capite.»
«Che cosa non capiamo?» domandò Ines con uno strillo. «Che preferisci loro due a noi?»
«No!» urlai di rimando. «No, stupida che non sei altro, no! Io non preferisco nessuno a nessun altro!» E non era vero. «Io ho bisogno di tempo per sistemare le questioni in sospeso con Gabriele e per cercare di capire cosa sta succedendo con Gioele e perché si comporta in modo strano!» abbassai la voce nell'ultimo pezzo, sapendo che lui, che ancora non si era mosso dal suo angolo, ci stava guardando e non si stava lasciando sfuggire nulla di quello che dicevamo. O, almeno, ci provava.
«Quindi ci metti da parte?» insisté Ines.
«Non vi sto mettendo da parte!» gridai.
«Non negarlo.»
«Totta, Ines ha ragione!»
«Non chiamarmi Totta!» Sia Ines che Francesca, sentendo quelle parole, ammutolirono. Le avevo dette senza pensare, senza nemmeno volerlo. Ma per la prima volta da quando ci eravamo conosciute, nonostante avessimo già litigato in passato, chiedevo loro di non chiamarmi così.
«Allora ci siamo dette tutto.» sibilò Ines. «Vieni, Francesca.»
Si allontanarono e io non mi sforzai nemmeno di seguirle. A dire la verità, non mi sforzai di fare nulla. Mi sentivo così male, così vuota...
Ma era vero quello che avevano detto? Le stavo davvero ignorando? A essere onesta, a me davvero non sembrava. Le chiamavo meno, ci incontravamo con minore frequenza, ma non mi pareva un motivo sufficiente per accusarmi di averle messe da parte. Il vuoto lasciò posto alla rabbia. Perché si comportavano così? Qual era il loro problema? Ma soprattutto, qual era il mio?
Quando suonò la campanella di fine lezioni mi voltai verso l'angolo del giardino.
Gioele non c'era più.

«Hai una faccia terribile.» commentò cautamente Gabriele quando mi vide, fuori da scuola. «Sei ancora arrabbiata con me?»
«No.» soffiai lasciando che si facesse carico del mio zaino. «Ho litigato con le mie amiche.»
«Mi dispiace.» mormorò. Mi parve sollevato e feci a meno di pensare che era perché temeva che ce l'avessi con lui. In realtà sentivo ancora di essere diffidente e sospettosa nei suoi confronti, ma cercai di accantonare quelle sensazioni spiacevoli. Era tutto un equivoco, semplicemente. Ero troppo gelosa.
Se hai dei dubbi, risuonarono le parole di Gioele nella mia mente, significa che qualcuno te li ha fatti venire.
Ma non potevo ascoltarle, non ora! Avevo capito d'aver esagerato, o, almeno, mi sembrava d'averlo fatto. Avevo riflettuto, come lui stesso mi aveva consigliato, ed ero giunta alla conclusione che non mi fidavo abbastanza. Non ero forse io quella che baciava e abbracciava gli amici? Che diritto avevo di pensare che Gabriele non dovesse fare altrettanto? E poi, Elena mi era sembrata davvero sincera, quando avevo parlato con lei. Non potevano sapere mentire tutti in modo perfetto. Se ci fosse stato qualcosa, tra quei due, uno avrebbe fatto un passo falso. La mia insistenza, alla fine, li avrebbe fatti vacillare. Ma entrambi erano perfettamente padroni di sé, e questo mi sembrava un ottimo motivo per fidarmi di Gabriele e di ciò che mi diceva.
«Spero» fece Gabriele all'improvviso, mentre camminavamo insieme verso la fermata dell'autobus «che non sia stato per colpa mia.»
«Ti sopravvaluti.»
«Ah, ma davvero?»
«Sì.» sospirai. «Non c'entri tu. Era una cosa stupida e io ho esagerato, come sempre.»
«Conosco questo lato del tuo carattere.» mormorò allora. Mi sentii in colpa.
«Sì, lo so. Scusa.»
«Non devi scusarti!» esclamò. Si fermò di colpo e mi scoccò un bacio sulla fronte. «Ti ho aggredita, hai fatto bene ad arrabbiarti. Ma adesso è passato, no?»
«Sì.»
Non avevo né la forza né la voglia di dire altro. Lui sembrò capirlo. Si limitò a stringermi la mano e a tacere. Apprezzavo quel suo comportamento e non potevo credere di essere così insistente nel dubitare di lui. Ma era incredibilmente più forte di me, e non sapevo come fare per smettere di pensare a lui insieme a Elena.
«Se vengo a prenderti, giovedì,» mi disse poi, quando arrivammo alla fermata «vieni a fare un giro con me? Potremmo andare... Non so, dove ti pare. Poi andiamo a cena insieme, ti va?»
«Certo.» approvai. Forse quell'appuntamento sarebbe stato un modo per chiarire, finalmente, i miei sentimenti. Sarebbe stato un ritorno alla normalità. Mi avrebbe fatto bene. «A che ora?»
«Vengo a casa tua... diciamo alle sette?»
«Va benissimo.»
«Allora siamo d'accordo. Oh, eccolo qui.» aggiunse quando vide il mio autobus che si avvicinava. Mi baciò di sfuggita e mi salutò con la mano.
Improvvisamente, dopo quei giorni terribili, ero di nuovo felice ed entusiasta per la mia imminente uscita con lui.
Si sarebbe veramente sistemato tutto.

 

Ed ecco un capitolo incomprensibile e inaspettato tutto per voi! Cominciate a non capire più nulla di quello che sta succedendo? Bene, mi fa piacere. Perché a tutto c'è una risposta, ma non ora.
Quindi se vi state chiedendo se Ines e Francesca siano impazzite la risposta è No! Ma se vi state chiedendo se, invece, sia impazzita io... Be', questo è molto più probabile.
Come potete vedere, Totta ancora non si decide a chiarirsi come si deve con Gabriele. Ma anche qui: arriverà il momento giusto pure per loro. Non disperate. Nel frattempo, lasciamo che Totta sguazzi nella sua confusione...

Un grazie infinito a voi, che siete le mie gioie: VeraAuxilia 04, Pikky91 e la nuova arrivata Eky_87; i vostri commenti sono anche troppo buoni e voi mi fate sempre felicissima. E quindi: Grazie. Davvero.
Un ringraziamento anche a tutti coloro che leggono soltanto e a coloro che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare.

Ho finito. Sperando di avervi confuso a dovere,

Un bacio,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17 - Ristorante ***


Giovedì 20 Novembre

Avevo ritrovato il buonumore. Quell'incontro con Gabriele, fuori da scuola, nonostante fosse avvenuto subito dopo il litigio con le mie amiche, che comunque ero convinta si sarebbe risolto presto, mi aveva davvero fatto bene. Mi sentivo esattamente come la prima volta in cui ero uscita con lui ed ero convinta che questo fosse un modo per dire che era tutto passato, che ancora mi fidavo di lui e che mi piaceva come prima.
«Gabriele è giù da mezz'ora.» borbottò Mirko aprendo la porta della mia stanza e infilando all'interno la testa ricciuta. «Secondo me se non scendi tra poco se ne va.»
«Lo so, lo so!» piagnucolai davanti allo specchio. «Digli che sono in crisi. Capirà.»
«Sì, ma gliel'ho già detto tre volte. E...»
«Mirko, piantala.» sibilai. «Fuori di qui. Sto arrivando.»
Abbandonai tutti i vestiti che avevo tirato fuori dall'armadio sul letto e mi risolsi di andare via così com'ero. Feci le scale a due a due e quando arrivai in fondo corsi verso Gabriele, che era fermo sulla porta ad aspettarmi.
«Hai finito?» mi domandò con un sorriso. «Perché penso che potrei ripassare domani, se hai ancora da fare.»
«No, no!» esclamai ridendo. Gli diedi un piccolo colpo sul petto con il dorso della mano e afferrai il cappotto. «Sono pronta.»
«È un'ottima notizia!» esclamò allora lui, fingendosi sollevato. «Temevo davvero che non ce l'avresti fatta.»
«È perché mi sottovaluti.»
«Sicuramente.» approvò. «Allora,» proseguì uscendo di casa «dato che abbiamo fatto tardi mi sa che ci conviene andare direttamente a cena, non credi? Anche perché ho prenotato il tavolo e se non ci vedono arrivare ci toccherà mangiare in piedi.»
«Sarebbe emozionante.»
«È un'emozione che preferisco lasciare ad altri momenti.» commentò lui prendendomi la mano. «Sai com'è...»
«Sei in macchina?» domandai adocchiando un'auto scura parcheggiata in strada.
«Sì, ho pensato che fosse meglio. Preferivi l'autobus?»
«No, direi che va benissimo così.»
Mi aprì lo sportello e, quando mi fui accomodata, lo richiuse.
«Si parte!» annunciò una volta che anche lui ebbe preso posto.

Il ristorante era il più elegante che avessi mai visto e immediatamente mi sentii in enorme imbarazzo per il modo in cui ero vestita.
«Sei bellissima.» mi sussurrò Gabriele all'orecchio mentre entravamo, e questo bastò a far scomparire ogni traccia di disagio.
«Allora,» cominciò poi una volta che ci fummo seduti «sono perdonato per davvero?»
Annuii lentamente. Certo, lo era. Non potei fare a meno di pensare, però, che forse avrei dovuto evitare di dargli la mia completa fiducia così, all'improvviso. Non avrebbe prima dovuto almeno dimostrare di meritarla? Alla fine, non c'era nulla che mi assicurasse che avevo frainteso completamente il suo rapporto con Elena. Un'altra parte di me mi ricordò, però, che in effetti non c'era nemmeno nulla che mi dicesse che invece i miei sospetti erano fondati, e che quindi non avevo motivo di dubitare della sua lealtà. Era il mio ragazzo. Dovevo fidarmi di lui.
«Bene.» sospirò. «Senti, lo so che mi sono comportato male. Mi dispiace.»
«Non voglio parlare di questo.» lo interruppi con un sorriso implorante. Continuare a rimuginare su quello che era accaduto mi avrebbe soltanto portato a trovare altri mille motivi per essere sospettosa.
«Giusto.» sorrise. «Allora forza, a te la parola. Che mi racconti?»
Sospirai.
«Non saprei. Sai che ho litigato con Ines e Francesca?»
A quelle parole sgranò gli occhi e allungò una mano sul tavolo per poter afferrare la mia. Gliela strinsi e mi resi conto che non era come prima. Appena qualche settimana prima mi sarebbe bastato quel misero contatto a calmarmi. Quella sera, invece, avevo bisogno di qualcosa di più Gabriele... Improvvisamente, per un solo istante, mi sembrò lontano, irraggiungibile. Qualcuno che non mi riguardava. Mi accorsi con orrore che non mi faceva male pensarci, non più di tanto.
«Che cosa è successo, tesoro?» mi domandò lui, inconsapevole della mia titubanza.
«Non lo so.» confessai e sentii la rabbia che nuovamente mi attanagliava, accompagnata dall'impulso fortissimo di alzarmi e andarmene, lasciando lì Gabriele, che pure avevo atteso con tanta ansia, quel pomeriggio, e tornare a casa per poter riflettere, da sola, su tutto quello che stava succedendo.
«Non lo sai?»
«No. Loro dicono che le trascuro, le tratto male. In realtà non mi sembra proprio che sia vero. Non so cosa fare.»
Rimase in silenzio per qualche istante, pensieroso, poi mi rivolse un sorriso dolce e premuroso e mormorò:
«Dai loro del tempo. Credo che si comportino così perché non sono abituate a non stare sempre con te. Prima che tu ti mettessi con me eravate sempre insieme, no?»
«Sì.» confermai. «Ma comunque non capisco perché se la prendono così tanto. Non le sto ignorando.»
«Non so cosa dire.» mormorò. «Credevo che andasse tutto bene tra voi. Insomma, non avete mai litigato!»
«Non così.» ammisi.
«Be', anch'io ho litigato con qualcuno.» annunciò allora con tono leggero. Non m'interessava più di tanto. Volevo continuare a riflettere su Ines e Francesca, ma volevo mostrarmi gentile e, soprattutto, volevo che tutto tornasse come prima. Volevo tornare a essere folle per Gabriele. Volevo che tornasse a essere il centro del mio universo. Evitai di pensare che non era più così.
«Con chi?» domandai.
«Sandro.» replicò lui con una smorfia. «Non dico che sia colpa sua, ma è strano da quando esce con Ines. La ragazza rossa, si chiama così?»
Annuii.
«Be', ecco.» proseguì lui. «Quella gli mette in testa idee strane. E lui le dà retta! Mi ha fatto un sacco di storie per delle cose che ho detto e in cui lui non c'entrava niente, sai, e poi si ha iniziato a mettersi in mezzo ad affari che non lo riguardano.» Abbassò drasticamente la voce e spiegò: «Ha minacciato di raccontare ai miei quello che abbiamo fatto a Gioele.»
Lo guardai male, perché credevo che Sandro avrebbe fatto bene, ed evitai di pensare che anch'io ero stata zitta quando la cosa più giusta da fare sarebbe stato denunciare Gabriele e i suoi stupidi amici. Ma se Sandro, che pure era coinvolto, era giunto a tanto significava che c'era qualcosa sotto... Speravo che fosse solo una lite tra fratelli, una questione che non avrebbe cambiato la mia vita. Ero stanca di complicazioni. Ero stanca di essere coinvolta in situazioni che mi riguardavano e che mi erano ugualmente tenute nascoste.
«Mi dispiace.» risposi.
«Non devi dispiacerti.» replicò lui con un sorriso dolce. Ma non faceva lo stesso effetto di prima. Ero di nuovo fredda con lui e non riuscivo a farci niente. Che cosa c'era di sbagliato in me? Conoscevo la risposta e mi venne subito alla mente, prepotente. La ignorai.
«Ma non ha parlato, vero?»
«Non credo che sarei qui con te, se l'avesse fatto.» sospirò. «Sai, so di avere sbagliato, quella volta. Anche se poi quando sei venuta a parlarmi mi sono comportato ancora peggio... Mi sono reso conto d'aver esagerato. E ho anche provato a chiamare Gioele per scusarmi, ma non mi ha risposto. Ho pensato che fosse troppo andare direttamente a casa sua e parlargli di persona, così... Be', se lo vedi, puoi mica scusarti da parte mia? So che è poco. Ma non saprei che altro fare. Continuo a odiarlo, in verità, ma prendermela in quel modo è stato sbagliato. Non dovevo mettergli le mani addosso e non dovevo chiedere a Sandro e Mattia di venire con me.»
«Sono stati loro due idioti ad accettare.» commentai, ma lo feci con un tono troppo sprezzante che non avrei voluto usare. «Comunque, se l'hai capito è un bene. Ma non credo che sarebbe una buona idea se parlassi di te a Gioele.»
Mi guardò con gli occhi sbarrati e poi scoppiò a ridere.
«Ma dai!» esclamò. «Mi prendi in giro? Mi odia così tanto che non puoi semplicemente scusarti da parte mia?»
«Non credo che ti odi.» replicai, stizzita. «È che ci sta male tutte le volte se gli parlo di te e non mi va di tormentarlo sempre.»
«Non l'hai ancora capito, eh?»
«Cosa?»
«Fa finta. Non credere a quello che dice e fa. Mente.»
«Perché continui a ripetermelo? Come faccio a crederti?» Allargai le braccia, esasperata, e parlai a voce alta: «Dico, ma l'hai visto? Ma come può essere che menta? Non può riuscirci in modo così perfetto!» Non poteva fingere un attacco di panico come quello che avevo visto mentre eravamo in centro insieme. Ma questo non lo dissi. Era stata quella la mia conferma che non mentiva, che potevo fidarmi di lui. Era troppo reale per essere una finzione. E lui era così pallido, così tremante, che non avevo pensato nemmeno per un secondo che mi stesse mentendo.
«L'ho visto, l'ho visto!» esclamò lui. «E mi sono fidato, proprio come stai facendo tu. Sto solo cercando di aprirti gli occhi e aiutarti prima che dica o faccia qualcosa che ti faccia soffrire.»
«Non voglio sentire mai più questa storia.» sbottai. «Se dirà o farà qualcosa di sbagliato me ne occuperò per conto mio. Non è necessario che insisti in questo modo, è pedante e mi dà fastidio.»
Rimase in silenzio e mi guardò male. Nemmeno io parlai. Se non aveva intenzione di spiegarmi con esattezza quello che era successo tra loro, allora poteva anche scordarsi che ascoltassi i consigli che pretendeva di darmi. Gioele era stata, fino a quel momento, l'unica persona che non mi aveva fatta soffrire. Poco importava se lo conoscevo da poco tempo, quello che mi aveva dato era molto più di quanto meritassi e, soprattutto, era più di quanto Gabriele, Ines e Francesca erano riusciti a darmi nell'ultimo periodo. Il fatto era che Gioele mi donava un affetto disinteressato. Non se la prendeva se stavo con Gabriele, non faceva tragedie se non lo cercavo o se non passavo con lui un numero soddisfacente di ore. Semplicemente, c'era quando avevo bisogno di lui. L'avevo chiamato per parlare e lui era venuto in centro all'istante. Mi ero presentata a casa sua senza nemmeno avvisare e lui mi aveva accolta e mi aveva trattata con un riguardo e una gentilezza che non meritavo. E in tutto questo, era lui quello che, agli occhi degli altri, passava per quello che aveva torto. Era così profondamente ingiusto! E io ero sempre più confusa.
«Mi dispiace d'averti fatta arrabbiare.» si scusò Gabriele dopo qualche minuto di silenzio. «Non volevo litigare proprio questa sera, volevo che fosse speciale. Invece ho combinato un disastro, eh?»
«Non è stata colpa tua.» replicai stancamente. Mi sentivo in colpa. Ero stata troppo dura con lui. Avrei potuto semplicemente dirgli che avrei riferito a Gioele le sue scuse e poi non farlo. Non sarebbe successo nulla e non avremmo discusso. Invece avevo all'istante colto l'occasione per litigare e quando avevo capito che lui mi avrebbe dato corda avevo continuato a insistere. Stavo forse impazzendo? Andavo in cerca di litigare con Gabriele, dopo quanto avevo sperato di rappacificarmi con lui! Era una follia.
«Invece sì!» ribatté. «Tu hai ragione, dovrei evitare di dirti sempre di lasciarlo perdere. So che è un tuo amico. Non è mai piacevole sentire che alle persone non piacciono i tuoi amici e io... l'ho dimenticato. Mi stavo comportando male. Mi perdoni?»
Sorrisi leggermente inclinando la testa da un lato. Poi annuii.
«Certo.» lo rassicurai. «Ma che sia l'ultima volta che parliamo di lui. Finisce sempre che litighiamo.»
«Giusto. Eravamo già arrivati a una conclusione simile qualche tempo fa, sbaglio?»
«No, hai ragione. Basta, parliamo d'altro.»
«Ci sto.» approvò allora. «Allora? Che mi racconti? Che hai fatto in questa settimana?»
Che avevo fatto? Nulla di così rilevante, dopotutto. Avevo indagato su di lui, incontrandomi con Elena di nascosto; avevo avuto quello che mi venne naturale definire mezzo appuntamento con Gioele – e faceva male pensarci –; avevo litigato con le mie amiche e avevo accettato, non sapevo bene per quale motivo, di perdonarlo incondizionatamente e di uscire di nuovo con lui.
Scrollai le spalle.
«Niente di speciale. Le solite cose.»
Scoppiò a ridere.
«Eri così arrabbiata con me da non fare niente?»
«Non direi.» replicai con un sorriso. «Piuttosto, ero talmente arrabbiata con te che quando non facevo le solite cose – andare a scuola, sai, mangiare, dormire e tutte quelle robe lì – be', allora pensavo a un modo per fartela pagare.»
Rise ancora, interpretando le mie parole come uno scherzo, che era ciò che volevo, ma non potei fare a meno di chiedermi se davvero non avessi nutrito simili propositi, in quei giorni. Forse, in una qualche maniera, avevo avuto il desiderio di farlo star male nello stesso modo in cui lui aveva fatto soffrire me. Ma poi? Che cosa ci avrei ricavato? Altra sofferenza, altri sensi di colpa? O forse, più malignamente, un senso gelido di soddisfazione che mi avrebbe reso più semplice perdonare le mie colpe e accanirmi contro le sue?
«Spero che tu non abbia trovato niente.» disse, serio. Lo guardai e vidi che, in realtà, mi stava prendendo in giro. Non mi divertì. Ma era un mio problema, un mio limite, e non era giusto farglielo notare. L'avevo perdonato. E quindi dovevo comportarmi coerentemente con ciò che avevo detto. Non era facile. Non lo era per niente, e non riuscivo a capire se avessi fatto bene ad accettare l'appuntamento e a tentare di accantonare tutti i fatti relativi alle ultime due settimane così, senza nemmeno pretendere delle risposte chiare da lui.
«No,» ammisi con un sorriso, «ho cambiato idea dopo un po'.»
«Mi fa piacere.» gongolò. «Sai che cosa penso? Credo che tutte queste cose che sono successe ci abbiano fatto bene. Siamo diventati una coppia più forte, giusto?»
Non avevo voglia di riflettere su quello che aveva appena detto. Lo eravamo diventati? Non lo sapevo. La prima impressione che avevo avuto io, in effetti, era stata quella di essermi trovata davanti a una persona qualsiasi, priva di spessore. Non era un estraneo verso cui potevo nutrire la curiosità che nasceva dal desiderio di conoscerlo. Era più una forma, un involucro vuoto che sembrava essere una persona e che invece non era nulla. Soltanto un qualcosa di non ben definito che, inutilmente, riempiva uno spazio e rompeva un silenzio che forse sarebbe stato meglio conservare. Che cosa me ne facevo di una persona così? La volevo davvero una relazione con lui? E soprattutto, qual era il motivo per cui non riuscivo a prendere una decisione? Mi sentivo talmente confusa! Che cosa dovevo fare? Che cosa provavo davvero per lui? Quanto era importante per me? Quanto ero importante io per lui?
«Dovremmo...» considerò a un certo punto lui, interrompendo bruscamente i miei pensieri. «Dovremmo comportarci come se questo fosse il nostro primo appuntamento, non credi?»
«In che senso?» domandai.
«Ricominciare da capo. Dimenticare tutto quello che è successo fino ad adesso, a parte le cose belle.»
Dimenticare? Metterci una pietra sopra, così, come se nulla fosse accaduto? Era questo il suo modo di risolvere le situazioni difficili? Era questo il modo di affrontare i problemi?
«È una buona idea.» gracchiai alzandomi dalla sedia. «Scusami un attimo, ho bisogno del bagno.» mi accomiatai gentilmente.
Mi diressi verso i bagni senza riflettere, senza capire quello che stavo facendo. Quando fui sicura che lui non mi vedesse e non mi sentisse, tirai fuori dalla borsa il cellulare e cercai velocemente in rubrica la persona che stavo cercando.
«Gio'?» chiamai quando sentii che qualcuno aveva risposto al telefono. «Sei tu?»
«Sono Nguyet.» cinguettò la voce della bambina dall'altra parte della cornetta. «Aspetta, te lo passo.»
La ringraziai velocemente e attesi di sentire il mormorio fioco di Gioele dall'altra parte. Perché stessi chiamando proprio lui, non lo sapevo. Quello di cui ero certa era che avevo bisogno di lui e che non m'importava se nella stanza accanto c'era Gabriele che  mi aspettava, certo del mio amore.
«Carlotta?»
«Gio'!» esclamai sentendolo. «Gio', ascolta, lo so che ti sembro pazza, ma ho bisogno di vederti. Sono confusa, ho bisogno di parlare con te. Credi che potremmo trovarci, un giorno di questi? Ti dispiacerebbe?»
«No, va bene.» sussurrò lui. Al telefono la sua voce sembrava ancora più debole di quanto non lo fosse dal vivo. «Sabato ti andrebbe bene?»
Andava bene. Qualsiasi giorno andava bene. E non sapevo che cosa mi spingesse a cercarlo in questo modo tanto disperato, ma sapevo che se volevo delle risposte, dei consigli, era a lui che dovevo rivolgermi. Era lui l'unico che poteva fare un po' di ordine nella mia testa.
«È perfetto. In centro?»
«D'accordo.»
«A che ora?»
Esitò, poi mormorò, titubante:
«Tre?»
«Alle tre è perfetto. Grazie, Gio'. Grazie di cuore.»
«È un piacere.» sussurrò. «Ci vediamo, Carlotta.»
«Ciao.»
Riagganciai e mi rassettai i vestiti prima di tornare in sala.
Speravo solo che la serata si concludesse in fretta.

 

Sono tornata! Io, la mia follia e la confusione di Totta vi salutiamo allegramente. Se siete convinti che Carlotta abbia seriamente bisogno di uno psicologo, se non capite più niente di quello che sta succedendo, se vi chiedete se ce n'è almeno uno sano di mente tra me e tutti i miei personaggi... Be', ho ottenuto l'effetto che desideravo. La mia follia ormai è appurata e così anche l'incasinamento (ebbene sì, in-ca-si-na-men-to. Rende l'idea, no?) della trama... Ma tranquilli, non tutto è perduto. Ci saranno delle risposte. Tra poco, lo prometto. Ancora qualche capitolo di delirio puro e poi si comincerà a rimettere in ordine tutto. Nella storia. Per la mia salute mentale non c'è più speranza.

Detto questo. Un mega ringraziamento a Pikky91, manymany e Eky_87 che hanno commentato lo scorso capitolo (Sono stata felicissima dei vostri commenti!), e a tutti coloro che hanno letto, inserito la storia tra le preferite, seguite, da ricordare.
Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate anche di questo capitolo.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 18 - Bacio ***


Sabato 22 Novembre

L'idea di incontrare Gioele mi aveva stranamente riempita di una sorta di ansia che mi impediva di rimanere tranquilla. Chissà cosa mi avrebbe detto! Cosa aveva pensato quando gli avevo telefonato? Aveva forse interpretato le mie parole nel modo sbagliato, vi aveva visto una volontà che non avevo? No, era assolutamente impossibile. Capiva sempre, subito, tutto quello che mi passava per la testa. Anche quando non dicevo nulla, o quando le mie parole potevano essere fraintendibili.
La serata con Gabriele, due giorni prima, si era conclusa in modo piuttosto tranquillo. Lui non aveva notato la mia indisponenza e io non gliel'avevo fatta presente. Semplicemente, l'avevo assecondato, cercando di ritrovare quell'eccitazione da cui ero riempita ai miei primi appuntamenti con lui. Ma non c'ero riuscita, così, dopo un po', avevo smesso. Avevo aspettato che finisse, facendo di tutto per evitare di complicare ancora l'andamento dei miei ragionamenti.
Ma quel pomeriggio con Gioele chissà cosa avrebbe riservato! Forse sarei finalmente riuscita a capire cosa volevo e cosa dovevo fare, o forse no. Ma la cosa importante era che ci sarebbe stata una persona pronta ad ascoltarmi, che mi avrebbe fatta sentire sana di mente e che, forse, mi avrebbe aiutata a rilassarmi un po'.
Arrivai in centro troppo presto. Erano appena le due e mezza, ma non ero stata in grado di aspettare oltre. Mi sedetti sui gradini della Basilica e risolsi che l'unica cosa che potessi fare era attendere che anche Gioele arrivasse. E mi stupii non poco quando lo vidi arrivare camminando spedito da Corso Palladio, nonostante sapessi che da Gioele potevo aspettarmi qualcosa di simile. Guardai l'orologio: era in anticipo di venticinque minuti.
Mi si avvicinò, le mani affondate nelle tasche dei jeans, i capelli ricci più arruffati che mai e il giubbotto aperto che lasciava vedere la camicia di flanella a quadri.
«Ciao.» mormorò quando fu abbastanza vicino da farsi sentire.
«Ciao.» replicai senza riuscire a non sorridere. «Sei un sacco in anticipo!»
Spostò un po' il peso da un piede all'altro, inclinando leggermente la testa, poi mi rivolse un debole sorriso.
«Immaginavo che saresti arrivata presto.» soffiò. La sua voce era, al solito, inudibile, ma c'era qualcosa di diverso. Sembrava una sorta di placido entusiasmo, che gli faceva brillare gli occhi chiari e non si palesava in nessun altro modo se non in un debole sprazzo di gioia nel parlare. Risposi al sorriso con un entusiasmo che non sapevo motivarmi, mi alzai dagli scalini freddi e mi accostai a lui.
«Sei incredibile, Gio'.» sospirai. Fino a quel momento mi ero sentita leggera, felice, ma all'improvviso mi tornò in mente il motivo per cui gli avevo chiesto di incontrarci. «Gio',» proseguii con tono più serio, «ho bisogno che mi aiuti. Ti prego.»
Mi guardò intensamente, a lungo, come mai aveva fatto prima. Eppure, nonostante questo, il suo sguardo non mi metteva a disagio. Era una sorta di vicinanza intima, ma diversa da quella che avevo avvertito con Gabriele al nostro primo incontro. Gioele era un'apparizione, un'illusione, la sola sensazione di averlo, lì, vicino. Non mi sentivo legata alla sua presenza, eppure ne avevo bisogno e mai come in quel momento avevo sentito la sua vicinanza. Era strano, perché fino a quel momento ero stata assolutamente convinta che Ines e Francesca – e pensare a loro faceva più male di quanto fossi disposta ad ammettere – fossero le migliori amiche che potessi desiderare di avere. Ma non era così. Il modo in cui l'affetto di Gioele mi avvolgeva e sembrava avvicinarlo a me molto più di quanto io fossi in grado di avvicinarmi a lui, quello mi faceva capire che in realtà non era stato così. Volevo loro bene, conoscevo i loro segreti e loro conoscevano i miei, ma forse erano più estranee di quanto volessi credere. E Gioele, di cui invece non sapevo nulla, era la persona che in assoluto sentivo più vicina.
«E'...» sussurrò lui, che improvvisamente mi sembrò a disagio, «è... successo... qualcosa?»
Ma non feci in tempo nemmeno ad aprire bocce, perché proseguì:
«Voglio dire... so che... ho visto che hai... discusso con le tue amiche.»
Annuii e sentii le lacrime salirmi agli occhi. Iniziai a camminare, dirigendomi verso l'altro lato della piazza, e aspettai che Gioele mi si affiancasse nuovamente prima di parlare.
«Sì, ma non è solo questo il problema. Sono così confusa!» Ebbi un singulto e portai la mano a coprirmi la bocca. Non volevo piangere e mostrarmi patetica e disperata davanti a Gioele, che sicuramente sarebbe stato solo a disagio davanti a una reazione simile, ma era esattamente quello il modo in cui mi sentivo. Lui non disse niente. Camminava guardando basso, perciò proseguii:
«Loro... io non riesco a capire perché si comportino così. Ci ho pensato, ci ho pensato davvero tanto, ma non sono stata capace di spiegarmi quello che mi hanno detto. Non credo di averle trascurate, non così tanto, almeno! E ora non si degnano nemmeno di rispondere al telefono, o di salutarmi quando mi vedono a scuola. Io vorrei solo... parlare con loro. Vorrei che mi spiegassero...»
Non riuscii a proseguire. Ormai, il mio era solo un tentativo di trattenere le lacrime. Gioele, dal canto suo, mi guardò con uno sguardo tanto comprensivo che per un folle istante pensai che fosse in grado di capire le mie emozioni al punto di condividerle con me.
«Forse...» mormorò, e sembrava star facendo un'immensa fatica per riuscire a parlare, «forse sono loro che hanno un problema. Può essere che... la colpa... non sia tua.»
Mi arrestai di colpo. E se avesse avuto ragione? Ma anche così, che cosa poteva esserci di così grave da portarle a interrompere il nostro rapporto? E poi, perché mai, allora, fingere tutto quel risentimento nei miei confronti? Perché se era come diceva Gioele, se il problema ce l'avevano loro, allora tutta quella scenata era stata una finzione. Ma perché? Perché non essere sincere?
«Forse...» proseguì Gioele la voce ridotta a un fioco sussurro che quasi si perdeva, tra la folla che riempiva la piazza, «Forse non hanno il coraggio di dirti quello che sta succedendo in realtà.»
Annuii debolmente. Aveva ragione, certo, ma anche così...
«Ma che cosa dovrei fare, secondo te?» gli chiesi.
Scrollò le spalle e fissò lo sguardo a terra.
«Non saprei.» sussurrò. Sospirò e continuò: «Forse... Devi aspettare. Non credo che... tu possa fare... molto, adesso. Non dipende da te.»
«E' così, vero?» sospirai. «Sì, immagino che tu abbia ragione. Però non è facile.»
«No.» sussurò lui. «No, non lo è.»
Passeggiammo per un po' davanti alle vetrine del Corso, in silenzio. Non potevo fare a meno di pensare, di cercare di capire cosa ci fosse di sbagliato tra me, Ines e Francesca. Se anche Gioele avesse avuto ragione... Perché non volevano essere oneste con me? Eravamo amiche! Se tacevano, non volevano forse dire che non si fidavano di me e delle mie reazioni?
«Come fai?» gli domandai all'improvviso, senza riuscire a controllarmi.
Mi guardò senza capire.
«A fare... cosa?»
«Non so.» Alzai le spalle. «A sapere sempre che cosa dire.»
Mi sorrise, scrollò la testa e sussurrò:
«Non mi sembra di... dire cose particolari. E... sicuramente... non sono le cose che qualcuno vorrebbe sentirsi dire.»
«Ma dai!» esclamai. Il suo atteggiamento pacato e schivo mi metteva di buon umore, per qualche strana ragione. Non si rendeva nemmeno conto di quanto riuscisse ad aiutarmi soltanto parlando! E mentre rispondeva alle mie domande, con un lieve sorriso sulle labbra sottili, i suoi occhi brillavano di un'emozione che non avevo mai notato, prima, in lui.
«Esageri...» mormorò. «Io... dico solo quello che penso.»
«Be',» commentai con leggerezza «vuole dire che pensi cose intelligenti. E' raro.»
Era raro, sì. Non avevo mai conosciuto nessuno come Gioele. Era un amico che non ero preparata ad affrontare, perché se lui poteva farmi star bene soltanto con la sua presenza, io avevo l'impressione di essergli solo di peso e di trattarlo molto peggio di quanto meritasse. Ma non sapevo come altro pormi di fronte a lui, che aveva un comportamento strano e poco prevedibile.
Non rispose, ma mi rivolse un sorriso più ampio. Affondò ancora di più le mani nelle tasche dei pantaloni e alzò lo sguardo verso il cielo.
«Alcuni pensano che io sia pazzo.» constatò in un mormorio inudibile.
«Completamente normale non sei.» approvai con una risata. «Ma non è una cosa negativa.»
Tornò a guardare la strada sotto ai nostri piedi e si strinse nelle spalle.
«Non saprei.» borbottò. «Non riesco... a parlare con le persone, no? E' difficile.»
Non ci avevo mai pensato. In effetti, da quello che ne sapevo, non aveva amici. I suoi compagni di classe, per lo più, lo ignoravano, e lui si limitava a parlare con me e a evitare di finire tra le mani di Gabriele e dei suoi amici. Non avevo idea di cosa significasse per lui, non riuscivo a capire se quell'isolamento fosse una sua scelta, che portava avanti senza particolari difficoltà, o se fosse semplicemente l'inevitabile conseguenza del suo strano atteggiamento, che lo faceva soffrire.
Ci sedemmo su una panchina al lato della via. Vi incrociai sopra le gambe e mi misi in modo da essere esattamente davanti a lui, che vi aveva poggiato i piedi e aveva cinto le ginocchia con le braccia, intrecciandovi le dita davanti.
«E' sempre stato così?» gli chiesi. «Anche quando eri piccolo?»
Sospirò e spostò lo sguardo verso i negozi sul ciglio del Corso.
«Non saprei.» sussurrò. «Sì, forse un po'. Alle elementari... Non stavo molto con gli altri. Non mi piacevano.»
«E adesso? Non ti piacciono le persone?»
«Non so.» soffiò. «Non è che non mi piacciano... E' che... mi mettono... a disagio. Sì, a disagio. Ma forse anche un po' non mi piacciono.» ammise con un lieve sorriso. «Non mi piace che mi prendano in giro. Sono disoneste.»
«Non sono tutti così.» obiettai.
«E' vero.» replicò debolmente. «Ma non puoi sapere chi lo è e chi no. Io... Non so.» Sospirò nuovamente. «Forse è solo che mi manca... il coraggio... di provarci.»
Sì, probabilmente era quello il problema. Ma era così strano! Così debole... Ma proprio Gioele? Lui, che non cambiava mai idea? Che difendeva quello in cui credeva a costo di rimanere solo? Non riuscivo a capacitarmene.
«Ma ci hai provato, almeno?» Mi pentii all'istante della domanda, perché conoscevo la risposta e non ci avevo pensato. Certo che ci aveva provato, ed era finita a cazzotti davanti alla scuola. Tutto per cosa, poi? Per qualcosa che sentivo che avrei dovuto sapere, almeno per correttezza, considerato che c'entravano il mio fidanzato e il mio migliore amico – l'unico che mi era rimasto, in effetti – e che nessuno sembrava volermi dire. Mi guardò.
«Ti sei risposta da sola, vero?» sussurrò.
Annuii, mortificata, e non fui in grado di dire nulla. Neppure lui parlò, al solito, ma questa volta il silenzio mi metteva in imbarazzo.
«Camminiamo un po'?» lo supplicai alla fine sfregando tra loro le mani. «Sto congelando.»
Annuì e si alzò con uno scatto nervoso, guardando fisso davanti a sé, tra la folla, crucciato. Mi voltai anch'io per cercare quale fosse il motivo di tanta inquietudine, ma lui, in un gesto che non seppi interpretare e che mi sorprese, mi afferrò saldamente per il braccio e mi costrinse a voltarmi con un movimento brusco. Quando lo guardai, però, il suo sguardo era tornato dolce come prima e lui sembrava non essersi nemmeno accorto di quello strano comportamento.
«Entriamo in un negozio?» propose a voce bassa, incerto. «Sarà più caldo, dentro.»
Annuii, confusa sia per la strana richiesta sia per quello scatto improvviso. Che cosa diavolo gli era successo? Mi passai una mano sul braccio, lì dove le sue dita mi avevano stretta. Il movimento era stato tanto brusco che mi aveva fatto male, e non sapevo come interpretare quell'improvviso cambiamento. Stava solo cercando di attirare la mia attenzione? Ma se fosse stato così, perché usare tanta rudezza? Lo fissai di sottecchi, cercando di capire se ci fosse qualcosa che non andava, ma sembrava tranquillo. Decisi di ignorare a mia volta la questione e lo seguii all'interno del negozio.
«Decisamente meglio.» commentai quando fui dentro.
«Già.» approvò debolmente. «Qui fa anche troppo caldo.»
«Io sto benissimo.» replicai con un sorriso. «Ma adesso che siamo dentro, tanto vale dare un'occhiata, non credi?»
Non sembrava entusiasta, ma annuì e accettò di seguirmi tra borse e vestiti, senza mai lamentarsi e offrendomi, talvolta, il suo parere.
«Guarda quello!» esclamai all'improvviso quando il mio sguardo venne attirato da un peluche a forma di topo.
«Ti piace davvero?» domandò lui con un sussurro, ma anche se la sua voce era appena udibile sotto al chiacchiericcio degli altri clienti e alla musica che usciva dagli altoparlanti, sentii benissimo che non approvava minimamente il mio entusiasmo.
«Ma sì!» annuii. «Mi assomiglia, direi.»
Lo credevo davvero: aveva il mio stesso volto appuntito e il colore del pelo, marrone scuro, era assolutamente lo stesso dei miei capelli.
Gioele, alle mie parole, rise. Non era il suo solito sorriso debole e appena accennato, ma una vera risata, dolce e pacata proprio come era lui.
«Ti... sottovaluti.» commentò a bassa voce. «Sei molto più carina di così.»
Lo disse sorridendo, da amico, ma non riuscii a fare a meno di arrossire violentemente e di sentire lo stomaco che si contraeva piacevolmente. Conoscevo quella sensazione, ma la ignorai e giunsi alla conclusione che, semplicemente, mi lusingavano i complimenti. Se mi fosse stato rivolto da qualcun altro, di certo, avrei reagito allo stesso modo.
«No,» replicai «no, è proprio la mia copia sputata. Ma guardalo!» afferrai il peluche e glielo portai davanti al naso. «E' carinissimo, come fai a dire che non ti piace?»
«Non ho detto che non mi piace.» mormorò. Era ragionevole, pensai, non l'aveva detto.
«Ma l'hai fatto capire.»
«Oh, d'accordo.» ammise a voce bassa. «Non... mi piace tanto. Solo un po'.»
«Come ti pare.» risposi riponendo il topo al suo posto. «Ma per me resta bellissimo.»
Rise ancora e mi seguì quando mi diressi verso il reparto scarpe. Ne esaminai un paio, ma quando mi voltai per chiedere a Gioele cosa ne pensasse – durante il pomeriggio avevo scoperto che, nonostante le orride camicie di flanella che indossava sempre, aveva un ottimo gusto – lui non c'era più.
«Gio'!» lo chiamai ad alta voce guardandomi intorno. «Gio', che fine hai fatto? Vieni qui!»
Non feci nemmeno in tempo a finire di parlare che me lo ritrovai davanti, come se nulla fosse.
«Ero qui dietro.» mormorò a mo' di scusa.
«Ah, ok. Usciamo?»
Annuì, e mi sembrò estremamente soddisfatto della mia proposta. Mi seguì fuori dal negozio e subito presi a camminare verso Piazza Castello, dalla parte opposta rispetto a quella da cui eravamo arrivati.
«No, aspetta, andiamo dall'altra parte.» mi bloccò lui. Era teso, di nuovo, come prima, e guardava ancora davanti a sé. Ma io, anche volgendomi nella medesima direzione, non capii cosa lo infastidisse.
«Ma siamo appena venuti da di là!» protestai, ben decisa a capire quale fosse il motivo della sua ritrosia. «Dai! Non ho voglia di vedere le stesse vetrine di prima.»
Non rispose. Mi seguì, ma i suoi occhi saettavano da un lato all'altro della strada come cercando un pericolo, e la sua camminata era diventata improvvisamente rigida e lenta. Teneva una mano affondata nella tasca dei jeans, e solo allora mi accorsi che nell'altra teneva una borsa di carta con il simbolo del negozio in cui eravamo appena stati.
«Hai fatto acquisti?» gli domandai. Non l'avevo visto comprare nulla e, a essere onesta, non mi sembrava nemmeno aver fatto tanto caso alla merce esposta. Mi guardò, poi spostò lo sguardo sulla borsa e alla fine, arrossendo, mormorò:
«Be', sì, ecco...» Non finì la frase, ma mi porse il sacchetto. «Ti piaceva talmente tanto...»
Credetti di intuire quello che vi avrei trovato all'interno. Quando misi la mano nella borsa, infatti, ne tirai fuori il topo di peluche che mi aveva incantato, poco prima.
«Oh, Gio'!» esclamai, stringendo il peluche. «Grazie!»
Di slancio, senza riflettere, lo abbracciai e gli scoccai un bacio sulla guancia. Lo sentii irrigidirsi, ma pensai che fosse perché l'avevo colto di sorpresa, esattamente come aveva fatto lui con me. Invece, quando mi allontanai e lo guardai, vidi che il suo volto era più teso che mai e gli occhi, sbarrati, fissavano un punto tra la folla.
«Gio',» gli dissi «ma che ti prende? Che guardi?»
«Nulla, vieni, andiamo via...» sussurrò in fretta lui, ma era troppo tardi. Anch'io l'avevo visto.
In mezzo alla folla, poco più avanti di dove eravamo noi, accanto a una ragazza con i capelli scuri che portava una borsa da palestra e gli parlava concitatamente, apparentemente furiosa... Gabriele. E la ragazza era Elena.
«Mi aveva detto che aveva una partita di calcio...» mormorai sconnessamente, prima di rendermi conto che Gabriele fissava me con un muto furore negli occhi. Mi ci volle qualche secondo per capire. Aveva visto il bacio che avevo scoccato, per gioco, a Gioele, e l'aveva interpretato come mai avrebbe dovuto. Aveva scambiato il mio incontro con Gio' per un appuntamento! E ora era furioso, furioso con me! E lui? Lui che mi aveva detto di dover assolutamente partecipare alla partita di pallone, accompagnava in giro Elena? Lei, con i capelli spettinati, sembrava essere appena uscita da una palestra. Era andato a prenderla? Ma lei sembrava così arrabbiata... Si era accorta di me, comunque. Guardava alternativamente me e Gabriele, senza capire. Fece per venirmi vicino, forse per salutarmi, ma Gabriele la fermò. La prese per un braccio, brutalmente, e prima che le potesse fare qualsiasi cosa la baciò. Mi accorsi appena dello schiaffo che lei gli diede un secondo dopo, della corsa che fece per allontanarsi da lui, delle parole che mi urlò passandomi accanto. «Mi dispiace, Carlotta! Io non volevo!».
Non faceva male. Incredibilmente, non faceva male. Semplicemente, non sentivo nulla. Mi sembrava di non essere nemmeno lì. Galleggiavo... galleggiavo  in un cielo nero. Non vedevo niente, non sentivo niente. Forse Gioele disse qualcosa, forse no. Non riuscii a capirlo. Non avrei nemmeno saputo dire quanto tempo rimasi lì, immobile, prima di sentire la mano di Gioele che stringeva piano la mia.
«Devo andare a casa, Gio'.» gli dissi automaticamente, senza nemmeno guardarlo, senza vederlo. «Si è fatto tardi.»
Non sentii la sua risposta, non capii quello che accadde dopo. Forse mi accompagnò alla fermata dell'autobus, disse qualcosa sul mio motorino. Già, l'avevo lasciato da qualche parte, all'inizio del Corso... Ma prima che potessi capire cosa stesse succedendo, ero già arrivata davanti a casa.
Erano soltanto le sei del pomeriggio, e avrei avuto tante cose da fare.
Andai a dormire.

 

Pensavate che mi fossi dimenticata di questa storia, eh? E invece no! Visto, visto che ho aggiornato? Alzi la mano quelli che hanno pensato, anche solo per un istante, che Carlotta fosse pazza a fidarsi di Gabriele! Tutti, vedo... Bene. Come potete notare, il caro Gabriele si è dimostrato lo straordinario bastardo che è. Meraviglioso.
Il momento delle risposte si avvicina, direi. Sì, esatto, presto capirete che fine hanno fatto Ines e Francesca, perché si sono comportate così e come reagirà Carlotta una volta che l'avrà saputo. E ancora, verrete a conoscenza di ciò che è successo tra Gabriele e Gioele e anche tutte le altre questioni rimaste in sospeso troveranno una risposta.
Ma tutto questo non nel prossimo capitolo, temo.

Bene, dopo questo sproloquio, che siete liberissimi di ignorare, ringrazio di cuore tutte le persone che hanno letto, commentato, inserito la storia tra le seguite/preferite/da ricordare. Grazie di cuore!
Le risposte ai commenti le trovate nell'apposito spazio.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 19 - Confronto ***


Domenica 23 Novembre

La rabbia arrivò dopo. E, insieme a questa, il dolore. Non era tanto dolore per quello che Gabriele mi aveva fatto, in realtà, ma per il modo in cui aveva ritenuto di potersi prendere gioco di me. E, cosa ancora più grave, perché io l'avevo lasciato fare. Mi ero fidata di lui, come una stupida, senza pensare, senza riflettere, senza analizzare gli elementi che avevo a disposizione.
Avevo creduto ciecamente alle sue parole, e quindi mi meritavo quel trattamento. E allo stesso tempo, come poteva lui avere il coraggio di un gesto tanto crudele, tanto irrispettoso nei miei confronti? Il problema più grave, tuttavia, era quello che avrei dovuto fare ora, nel momento in cui avevo scoperto – anzi, lui mi aveva rivelato – il suo doppio gioco. Ero divisa tra la possibilità di uscire di casa, mettermi in sella al mio motorino e andare fino a casa sua, a urlargli la sua codardia e il mio rancore, oppure di ignorarlo completamente, come se fosse scomparso dalla terra e io mi fossi scordata di lui.
Optai per la prima opzione. Poco importava che non avessi più niente da spartire con lui, che non meritasse nemmeno la mia rabbia, che in questo modo gli avrei confermato che il suo comportamento mi aveva ferita. Volevo vederlo, guardarlo negli occhi e capire, finalmente, cosa dovevo leggerci.
Uscii di casa correndo, senza nemmeno avere la decenza di indossare le scarpe, senza pettinarmi; infilai il casco e partii colma di una furia che non mi apparteneva, e che non potevo fare a meno di accrescere a ogni secondo, a ogni metro guadagnato, a folle velocità, sulla strada asfaltata.
Arrivai a casa sua e suonai il campanello con insistenza, ma lui non mi aprì. Era probabile, pensai, che mi avesse vista arrivare, che non volesse parlarmi, ma io ero decisissima a incontrarlo e nulla mi avrebbe fermato. Premetti il dito sul primo campanello della colonna, in alto, e lo feci scorrere su tutti quelli che seguivano. Qualcuno mi avrebbe sicuramente aperto. E se non l'avesse fatto, avrei continuato a suonare. Ma non servì ripetere il gesto, perché qualcuno aprì e io fui libera di salire le scale fino alla porta di Gabriele. Incollai il dito al campanello, senza pensare al fatto che avrebbe potuto esserci qualcun altro in casa, e presi a bussare con foga. Si sarebbe stancato, prima o poi, e mi avrebbe aperto. Per molti minuti dall'interno non udii alcuna risposta, alcun rumore. Poi inziai a calciare la porta, senza staccare il dito dal campanello, senza smettere di bussare.
«Apri!» strillai. «Apri, perché non me ne vado prima di averti parlato!»
Non rispose, ma io non avevo nessuna intenzione di rinunciare. Continuai a calciare la porta e a suonare, e dopo un po' presi il cellulare e composi il numero di casa. Sentivo il telefono suonare, dall'interno, e sapevo benissimo che lui era lì. Dopo un po' sollevò la cornetta, ma non portai nemmeno il cellulare all'orecchio per sentire se aveva qualcosa da dire. Volevo che aprisse la porta.
E, dopo un tempo lunghissimo, durante il quale le energie, invece che venirmi meno, continuavano ad aumentare, aprì.
«Che cazzo vuoi?» mi domandò, furioso. Io non gli risposi. Senza attendere di essere invitata gli passai accanto, entrai in casa e aspettai che si voltasse verso di me. Quando si chiuse la porta alle spalle, finalmente, iniziai a parlare.
«Credi che sia stupida?»
«Che cazzo vuoi da me?» ripeté, senza dar segno d'avermi sentita. «Non ho niente da dirti.»
«Molto bene.» replicai. «Allora ascoltami, e fallo con attenzione.»
Sbuffò, ma tacque.
«Sei un vigliacco.» iniziai, fremendo di rabbia. Non riuscivo ad abbassare il tono della voce, e sapevo che entro breve, se non si fosse tolto dalla faccia quell'espressione compassionevole che mi rivolgeva, avrei cominciato a urlare. Eppure, la parola vigliacco sembrò infastidirlo. Quando me ne accorsi capii che temeva di essere bollato come tale, e sapevo che avrei potuto, a quel punto, condurre la conversazione, o meglio, il monologo, in modo che fosse a mio favore. Era anche troppo semplice e l'idea di umiliarlo mi riempiva di soddisfazione. Non si trattava più di parlargli del torto che mi aveva fatto e mi sembrava d'aver dimenticato il dolore. Si trattava solo di farlo star male, di ferirlo, di farlo sentire debole. Ero in grado di farlo, e mi interessava solo quello.
«Non hai avuto nemmeno il coraggio di dire la verità.» lo apostrofai. «Tu sì che sei un vero uomo!» esclamai ancora, sarcastica. «Quale grande coraggio, ottenere ciò che vuoi con le menzogne! Ingannare, nasconderti dietro alle parole, a tutti i tesoro e gli amore e i ti amo! È un po' triste, non credi anche tu? Oh, ovviamente, è questo il modo migliore. Tutti sono contenti se credono d'avere quello che vogliono, e tu ci fai la figura del figo che, guarda quanto è bravo, fa quello che vuole con ben due ragazze, tanto, che vuoi che sia, loro sono stupide, e non se ne accorgono, giusto?»
Fece per aprire la bocca e parlare, ma proseguii più in fretta, a voce più alta:
«È così che ti vanti con gli amici? Due ragazze, entrambe convinte di essere l'unica! E invece, vuoi sapere la novità? L'unico che ci rimane fregato, qui, sei tu. Perché, credimi, i tuoi amici sapranno molto presto come sono andate veramente le cose. Sapranno che non sei in grado di affrontare le tue decisioni, che sei un debole, che hai paura. Che cosa credi? Che non si sia notato? Sei un idiota, incapace di parlare, di pensare, e sai reagire solo con bugie e pugni, se queste non bastano. Sarà interessante far sapere in giro che sei un bugiardo, e che non si devono fidare di te. Potrei chiedere a Mattia, dopo avergli raccontato tutto quello che è successo, se davvero crede che non lo tradirai, che non gli addosserai la colpa per quello che avete fatto a Gioele. D'altra parte sei bravo a mentire, tutti ti crederebbero, soprattutto con quell'aria da bravo ragazzo che ti ritrovi. Ma sai? A me fai piuttosto molta pena e mi chiedo che cosa ci trovassi in un omuncolo debole e patetico come te.»
Avvampò, ma fu per un istante. Adesso, lo sapevo, sarebbe toccato a lui.
«Stai zitta, troia!» urlò sbattendo il pugno contro il muro. L'offesa non mi sclafì minamente. Anzi, piuttosto, ero curiosa di sapere che cosa avrebbe tirato fuori per difendersi. «Uscivi con me e avevi in mente soltanto quel coglione di Gioele! È lui che ti ha messo in testa queste cazzate, no? Sempre appiccicata a lui, sempre a pensare a quello che fa e a quello che dice! È colpa sua se è successo tutto, e lui ti ha fatto il lavaggio del cervello, e  ti fa credere che sia colpa mia e invece no, sei tu che dai sempre retta alle persone sbagliate!»
«Eri tu quello che baciava Elena, mi pare.» ribattei, tranquilla. «Senza che lei fosse d'accordo, naturalmente, perché figo come sei, non c'è bisogno che tu chieda. Basta che apri bocca e il mondo ti crolla ai piedi, non è così? Ed è inutile che tiri fuori la storia di Gioele, che in tutto questo è l'unico, che, stronzo come dici tu, ti difende e copre le tue cazzate, nonostante sappia benissimo che non te lo meriti. Tu puntavi a Elena da quando lei ti aveva lasciato, no? E quindi, da ben prima che conoscessi Gioele. È inutile che scarichi su altri le colpe che hai tu.»
«Io?» gridò. «Colpe che ho io? E tu? Tu niente, tu sei una santa? Hai sempre da ridire su tutto quello che faccio, mi tormenti!»
«Non avrei da ridire su niente se tu non facessi solo cazzate!» iniziai a urlare anch'io. Non pensavo nemmeno più, non sapevo con esattezza cosa stessi dicendo né quello che stesse dicendo lui. Mi limitavo a dirgli ciò che mi passava per la testa, con tutta la voce che riuscivo a trovare, sperando, più che di ferire lui, di calmarmi.
«Sono fatti miei!» ululò. «Quello che faccio quando non sono con te non sono affari tuoi!»
«E allora vale lo stesso per me!» strillai. «Se quando non sono con te sono con Gioele, che te ne frega? Tanto non ci sei, quindi che problemi ti fai? È questo che mi stai dicendo?»
«Sei la mia ragazza!» urlò. «Tutto quello che fai è affare mio!»
«Ah!» esclamai. «Ah, ecco. Perché sono una tua proprietà privata? Perché solo tu hai diritto a proseguire la tua vita, mentre io devo consacrarmi a te?»
Tacque.
«Sei la mia ragazza.» ripeté. «Tutto quello che fai è affare mio.»
«E allora.» lo rimbeccai. «Tu sei il mio ragazzo. E tutto quello che fai è affare mio e se fai scempiaggini allora è giusto che te lo faccia notare!»
«Se ti riferisci di nuovo a quello che è successo con Gioele, dato che pensi sempre a lui,» ringhiò «sappi che se l'è meritato!»
«Certo!» urlai. «Gli altri si meritano sempre quello che dici tu! E tu non meriti niente? Che cosa dovrei farti, cosa dovrei dirti io, dopo quello che hai fatto a me?»
«Tu eri fuori con Gioele!» ululò. «L'hai abbracciato e baciato davanti a tutti, come se fosse stato il tuo ragazzo!»
«Un bacio su una guancia a un amico corrisponde a un tradimento, per quanto ti riguarda?»
«Eravate a un appuntamento!»
«Non eravamo a un appuntamento!» specificai in un urlo acuto che non riuscii a moderare. «Sei ossessionato dall'idea che io esca con Gioele, quando non è per niente vero!»
«Eppure eri fuori con lui!»
Era troppo, troppo per me. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Non sapevo se la rabbia che provavo fosse dovuta al trattamento che Gabriele mi stava riservando o al fatto che lui, fin dal primo momento in cui si era messo insieme a me, non aveva fatto altro che pensare a come poter tornare con Elena. Quello che sapevo, e mi ci volle un po' per rendermene conto, era che l'avevo colpito. Non ero riuscita a fermarmi, o forse non ci avevo nemmeno provato, di fatto, comunque, gli avevo sferrato un pugno nello stomaco e il gesto, seppur sbagliato, mi aveva fatta stare meglio. Lui non rispose. Non disse nulla, non si mosse neppure. Semplicemente mi guardò. E io, invece che scusarmi per un comportamento che mai, in nessun caso, avrei approvato, proseguii a voce più bassa:
«Non ero a un appuntamento con Gioele. È un mio amico. Stavamo solo facendo una passeggiata. Quello che hai visto, quell'abbraccio, non era nulla. Mi aveva comprato un peluche che mi piaceva. Tu hai visto solo... Ma che cosa hai visto, poi?» Lo guardai negli occhi, furente. «Che cosa hai visto, cretino? Cosa ti è sembrato che stessimo facendo? Un abbraccio e un bacio, lo stesso tipo di baci che davo a Ines e Francesca, li stessi che do ai miei fratelli! E tu hai interpretato tutto, hai visto cose che non c'erano! E ti sei ritenuto in diritto di farmela pagare! Come, poi? Coinvolgendo anche Elena, che non c'entrava niente, ah! E poi... Adesso mi sono ricordata... Tu mi avevi detto... Mi avevi detto che dovevi andare a calcio! Che c'era la partita! E invece? Invece eri fuori con Elena! Ma che cosa ti aspettavi? Che non l'avrei mai scoperto? Che avresti potuto prendermi in giro finché ti fosse piaciuto?»
«Non avresti dovuto scoprirlo!» sbraitò lui, ma si morse le labbra un istante dopo. Ecco, aveva confessato. Ecco cosa voleva fare! Era Elena il suo obiettivo. Era lei che gli interessava, lei. Mai io. Non sapevo cosa avrei dovuto provare in quel momento, ma avevo l'impressione che la cosa non mi importasse più di tanto. Forse, semplicemente, tutta quella rabbia derivava dal fatto che aveva sminuito la mia intelligenza. Ma aveva ragione, perché, se non fosse stato per quell'incontro fortuito, avrei continuato a fidarmi di lui. Forse era stato un bene, tutto quello che era successo. Mi aveva aiutata a liberarmi dalle sue menzogne. Ma non mi bastava.
«Se non volevi che lo scoprissi» sibilai «avresti fatto meglio a rimanertene a casa.»
«Avevi detto che non saresti uscita!» mi rimbeccò.
«Ho cambiato idea!» urlai. «Se tu sei un idiota che non riesce nemmeno a fare le cose di nascosto come si deve, prenditela con te stesso! O forse, dal momento che lei nemmeno ti voleva, forse dovresti imparare ad accettare un no come risposta! Se non ne poteva più di te, e la capisco, la capisco davvero, allora potevi fartene una ragione e piantarla! E invece hai voluto tentare lo stesso, perché sei fissato, perché probabilmente lei non ti interessa nemmeno, ma non puoi accettare un rifiuto, giusto? Ferirebbe il tuo preziosissimo amor proprio!»
«Smettila di dire cazzate.»
«Smettila di fare cazzate.»
Sospirò.
«Quindi alla fine è colpa mia, giusto? Tu sei santa. Non hai fatto niente. Come sempre.»
«Io non sono santa.» soffiai, furibonda. «Anch'io mi sono comportata male. Ma tu... Tu mi hai presa in giro per tutto il tempo. Se non ti interessavo, potevi dirlo subito. Potevi evitare di metterti insieme a me. Potevi ignorarmi, come hai sempre fatto, e non giocare a recitare la parte dell'innamorato.»
«Non recitavo!» sbraitò.
«Ah, no?» replicai. «Ma che strano. A me sembra che invece fosse proprio così. Ma sentiamo, quale sarebbe stato il tuo brillante piano? Far ingelosire Elena, mostrandole che tanto tu avevi altre dementi con cui uscire? Ah, e dimmi, oltre a lei, quante altre ce ne sono? O forse farei meglio a dire oltre a me, non credi? Perché tutto girava intorno a lei e io ero soltanto un mezzo per raggiungerla, quindi mi aspetto che tu ci abbia provato anche con qualcun'altra.»
«Tu non hai capito niente!» gridò. Era rosso in volto per la collera, ma più passava il tempo e più mi calmavo. Sapevo benissimo come si sarebbe conclusa quella discussione, perciò non mi aspettavo nulla e anzi, piuttosto, cercavo di fare in modo che tutto andasse come avevo previsto. Ma Gabriele si animava, fremeva, agitava le mani. Voleva darmi delle spiegazioni, farmi capire che aveva ragione lui, che non avevo motivo di arrabbiarmi e che ero solo una povera pazza che non sapeva fare altro che sbraitare e addossargli la colpa di tutto. Ma non ci sarebbe riuscito. Sapevo quali fossero le sue colpe, sapevo quali fossero le mie. Non sarebbe riuscito in alcun modo a sbilanciare la situazione. Avevo una visione d'insieme chiarissima, almeno per quanto riguardava lui e me. Non bastavano le sue parole poco incisive ad appannarla.
«Non mi interessa Elena!» esclamò. Inspirò profondamente e quando riprese a parlare il tono di voce era molto più basso, seppur fremente. «Sono andato a prenderla quando è uscita dalla palestra, sì, e ti ho detto una bugia perché l'ultima volta che ci hai visti insieme sei impazzita e ti sei infuriata. Ma non è come pensi tu. L'ho baciata perché quando ti ho vista fare così con Gioele... Io credevo che tu stessi uscendo con lui. Che fosse un appuntamento.»
«Certo.» approvai, sarcastica. «Sono così cretina che, volendo tradirti con uno come Gioele, che abita in un posto sperduto tra i campi dove tu non andresti mai, piuttosto che rimanere nel suo paese sono venuta in centro, proprio sotto casa tua. Così potevi vedermi meglio.»
«Be', non ci ho pensato, va bene?» s'inalberò.
«Che cosa strana.» sbuffai. «Di solito pensi sempre, invece?»
«Smettila di trattarmi come se fossi un idiota.»
«Lo faccio perché lo sei. E, tanto per la cronaca, non credo minimamente a quello che hai detto.»
«Adesso fai la stronza per farmela pagare?» mi accusò.
«Fartela pagare?» Scoppiai a ridere. Ma era una risata amara, e non mi divertivo. Semplicemente, era stata la prima reazione che avevo avuto alle sue parole. «E per cosa? Per non avere cervello? Non credo che ci sia molto da fare. Oppure fartela pagare perché sono stata così cieca da fidarmi di te per tutto questo tempo? No, riconosco che non è colpa tua. Anzi, forse un po' sì. Sai, sei bravo a raccontare bugie. Molto credibile. Ma stai tranquillo. Non intendo fartela pagare, non avrebbe senso sprecare altre energie con te. Ho cose migliori da fare.»
«Cosa stai dicendo?»
Lo guardai sgranando gli occhi. Davvero non aveva capito? O forse sì, aveva capito, e credeva che fosse una soluzione stupida? Che potessi chiudere un occhio, o magari tutti e due, sull'intera questione? Che mi sarei gettata tra le sue braccia, gridando che l'avrei perdonato e che tutto sarebbe tornato come prima, se lui avesse avuto il buon cuore di perdonare me?
«Mi sembra che sia piuttosto chiaro.» dissi scrollando le spalle. «Sai, ho altre cose da fare. Per ora me ne vado a casa. Poi... farò qualcosa. Ma, cosa più importante di tutte, lo farò senza di te. Non ho bisogno di te. Non me ne frega nulla di quello che pensi, o quello che dici, o quello che vuoi o speri che faccia. Non hai nessuna speranza di farmi cambiare idea e forse è meglio così anche per te. Magari un giorno troverai qualcuna che crederà alle tue bugie oppure che te le perdonerà come se nulla fosse. O magari cambierai tu, che non sarebbe poi tanto male. Sicuramente, io non sono quel tipo di ragazza e soprattutto non starò ad aspettare che tu metta a posto la testa. Ci vediamo.»
Non attesi nemmeno una sua risposta. Gli voltai le spalle con decisione, aprii la porta e prima ancora che potesse dire qualcosa avevo già sceso le scale. Salii in fretta sul motorino, calcai in testa il casco e feci di tutto per allontanarmi in fretta da quel posto.
Quando arrivai a casa sentii le forze abbandonarmi. Non avevo più voglia di fare niente. Andai lentamente in camera mia, trascinando i piedi, senza nemmeno pensare. Adesso faceva male. Mi crollava tutto addosso, troppo in fretta perché potessi pensare di resistere. Chiusi la porta a chiave e mi sedetti a terra. Non avevo la forza di piangere, di arrabbiarmi, di riflettere.
Rimasi lì, immobile, in silenzio, senza fare nulla.
Faceva male.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 20 - Spiegazioni ***


Lunedì 24 Novembre

Non avevo voglia di tornare a casa.
Non avevo fame, non volevo che mia madre mi costringesse a mangiare e, soprattutto, a raccontarle che cosa fosse successo. Alla fine delle lezione le avevo telefonato e le avevo spiegato brevemente che sarei rimasta fuori, quel pomeriggio, che non era il caso che mi aspettasse. Non ne sembrava contenta, ma accettò e alla fine smise di chiedermi se stavo bene.
Ero stanca, distrutta. Non avevo la forza per piangere e non sapevo che cosa fare. In realtà, forse non avevo voglia di fare niente. Se fosse dipeso da me mi sarei chiusa a chiave in camera e sarei rimasta lì fino a che non fossi morta d'inedia. Ma una vocina, nel mio cervello, diceva che non era quella la soluzione adatta. Dovevo reagire, trovare un hobby, qualche amico.
Da quando avevo litigato con Ines e Francesca mi sentivo sola. In un momento come quello, con l'immagine di Gabriele intento a baciare Elena che mi rimbalzava nella mente, avrei avuto bisogno di loro. Ma non mi guardavano neppure e io non avevo il coraggio di affrontarle.
Avevo bisogno di un consiglio e non avevo amici con cui parlare. Per un po', riflettei mentre camminavo, da sola, nei paraggi della scuola ormai deserta, avevo preso in seria considerazione l'idea di parlare con Gioele. Ma avevo rinunciato subito. Credevo che fosse troppo coinvolto, che avrebbe interpretato male il mio comportamento. Era sbagliato cercarlo solo quando avevo bisogno d'aiuto.
Mi lasciai cadere sugli scalini della chiesa davanti alla scuola e sistemai lo zaino a terra accanto a me. Poggiai la testa alla porta dietro di me e chiusi gli occhi. Non volevo pensare, eppure non riuscivo a non farlo. Facevo fatica anche a respirare, mi sembrava di non capire più niente. Vedevo Gabriele che baciava Elena, lo sentivo dire che tra loro c'era solo amicizia; poi l'immagine spariva e comparivano i volti furiosi di quelle che ormai erano mie ex-amiche, che mi gridavano d'averle trascurate, d'avere per la testa solo Gabriele, d'essere egoista e di essere troppo insistente con le persone; vedevo Gioele, dietro di loro, volteggiare come un'apparizione e dirmi che non sapeva come aiutarmi, che non poteva parlare... Era un'allucinazione. Una tremenda, dolorosa allucinazione.
E mi parve un'allucinazione anche la voce delicata e bassa, un po' roca, che mi giunse alle orecchie.
«Carlotta?»
Aprii lentamente gli occhi e sbattei un paio di volte le palpebre. Lo fissai per un p', inebetita, fino a che non ripeté timidamente il mio nome.
«Carlotta?»
«Gio'?» lo chiamai di rimando, giusto per essere sicura di non averlo solo immaginato.
«Scusa.» sussurrò prima che potessi aggiungere altro. «Non avrei dovuto seguirti.» Spostava il peso da un piede all'altro, a disagio, e fissava la strada, ma dopo un po' sembrò prendere coraggio e mi si avvicinò. «Ho visto che non stavi bene, a scuola. Ho pensato che... forse... avresti avuto bisogno di un po' di compagnia. Ma se non vuoi...»
Non lo lasciai nemmeno finire la frase e non rimasi a pensare nemmeno un secondo a quello che stavo facendo. Mi alzai, mi avvicinai a lui in fretta e lo abbracciai. Sembrava che se lo aspettasse, perché mi accolse, semplicemente, tra le braccia. Mi strinse a sé e lasciò che poggiassi il volto nell'incavo del suo collo.
«Sto tanto male...» singhiozzai contro la sua spalla. Strinsi la stoffa della sua giacca, sulla schiena, e mi avvicinai ancora di più a lui. In quella giornata fredda, con il dolore che sentivo dentro e che mi ghiacciava le vene, il suo corpo mingherlino mi sembrava straordinariamente caldo. Avevo bisogno di quel contatto, avevo bisogno di parlare con lui.
«Sono stata così stupida...» continuai con voce rotta. «Avrei dovuto capire, avrei dovuto immaginare...»
«Non puoi dire queste cose.» mormorò lui contro i miei capelli. Sembrava addolorato o forse, nella mia disperazione, mi venne da pensare che anche lui stesse soffrendo. «Non sei stata stupida. Non è con te stessa che devi prendertela.»
«Mi ha sempre presa in giro.» ribattei tra un singhiozzo e l'altro. Non riuscivo a smettere di piangere e più piangevo più lui mi stringeva a sé. E sentivo che mi faceva bene. Ecco, quello di cui avevo bisogno era sempre stato lì, a disposizione, e io l'avevo ignorato! Dentro di me avevo sempre immaginato, o forse solo sperato, che sarebbe stato lui a consolarmi. Sapevo di avere bisogno di lui, l'avevo capito dalla prima volta in cui ci eravamo parlati. Ed essere tra le sue braccia, in quel momento, mi faceva stare meglio...
Ma rimase fermo solo un paio di minuti. Mi allontanò delicatamente da sé, mi guardò negli occhi e io capii che non era finita. C'era qualcos'altro che mi avrebbe dato il colpo definitivo e forse non sarebbe bastata nemmeno la sua rassicurante presenza per calmarmi. Vedevo i suoi occhi chiari, li vedevo umidi di lacrime e pieni di vergogna e di dolore.
«Mi dispiace, Carlotta...» mormorò con la voce che si incrinava. «Mi dispiace tanto...»
Mi stava implorando. Era in piedi di fronte a me, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, teso, a soli pochi centimetri di distanza, e mi stava confessando qualcosa che non riuscivo a capire.
«Cosa stai dicendo, Gio'?» sussurrai. Ma non volevo conoscere la risposta. Non volevo sapere perché le sue mani tremassero, né perché sembrasse così tormentato.
«Mi dispiace...» ripeté e la sua voce era un dolore lancinante al petto, una tortura immensa. Perché avevo capito e il suo sguardo mi confermava che avevo ragione.
«Lo sapevi?» gli domandai con un grido strozzato. Mi avvicinai, lo afferrai per la giacca e gli impedii di abbassare lo sguardo. Incontrai i suoi occhi e ripetei, a voce più alta:
«Lo sapevi, Gio'?»
Ma ancora non rispose. Sembrava paralizzato. Sembrava essersi pentito di essere lì, di essermi venuto a cercare. Vidi le lacrime che gli scendevano lungo le guance, ma continuò a guardarmi e il suo sguardo non mutò. Era il dolore, il pentimento. Li sentivo sul suo corpo rigido, li vedevo nel suo volto.
«Lo sapevi?» dissi ancora. La mia voce era ormai un urlo e lui, alla fine, cedette.
Annuì.
Lo lasciai andare come se fosse stato infuocato e feci due passi all'indietro. Non potevo fare a meno di osservarlo, ma in realtà volevo solo andarmene. Correre via, urlare, urlare ancora e prendermela con qualcuno. Con Gabriele, che mi aveva presa in giro; con Ines e Francesca, che mi avevano abbandonata; con Gioele, che sapeva e non mi aveva detto nulla.
Avrei voluto prenderlo per le spalle, sputargli in faccia, colpirlo, fargli male. Volevo dargli un pugno e sentire il suo naso che si rompeva sotto alle mie dita; colpirlo con un calcio e sentire che effetto faceva guardarlo mentre si accasciava a terra davanti a me.
«Perché?» gli chiesi invece, a voce bassa. Ero così stanca, così sfinita... Non m'importava. Che stesse zitto, che non mi rispondesse! Che tenesse per sé le proprie giustificazioni... Cosa avevo da guadagnarci? Che senso aveva conoscere le cause del suo comportamento quando ormai era tutto finito? Gabriele me l'aveva detto, di non fidarmi di lui, mi aveva avvertita... E se era vero che non potevo fidarmi nemmeno di Gabriele – e mi faceva male pensare a lui, mi faceva davvero male -, era vero anche che credevo che Gioele fosse l'unica persona su cui poter fare affidamento. E invece non era così.
Un'immensa menzogna. Tutto qui. Ecco cosa era stata la nostra amicizia. Lui sapeva e non mi aveva detto niente. Non avevo bisogno di altro per capire che non era una persona come lui quella di cui avevo bisogno.
«Perché sono un vigliacco.» rispose pacatamente lui, guardando a terra. «Avevo paura. Ce l'ho ancora.» Sospirò. «Solo che questa volta fa più male.»
Tacqui.
«Voglio spiegarti tutto.» mormorò con voce tremante. «Dopo, dopo so che non... non vorrai più avere niente a che fare con me. È giusto... Io... lo merito. Però...» mi guardò negli occhi. I suoi, pieni di lacrime. «Però, tu hai diritto a delle risposte. Delle spiegazioni. Ti racconterò ogni cosa. Tutto... tutto quello che è successo. Tra me e Gabriele. Forse... ti aiuterà a capire.»
Non riuscii a fare nient'altro che annuire. Si diresse verso una stradina laterale e io lo seguii. Ad aspettarci, lì, c'era suo padre. Ci guardava dalla macchina, l'espressione seria. Non disse nulla quando salimmo in macchina. Ignorò le lacrime di Gioele, silenziose. Non lo guardò nemmeno. Si concentrò sulla strada e rimase in silenzio per tutto il viaggio. Ci volle quasi un'ora per arrivare a casa di Gioele, e in quel lasso di tempo non riuscii a trovare una spiegazione per ciò che stava succedendo. Guardavo Gioele piangere, con la fronte poggiata al finestrino, e non riuscivo, per quanto mi sforzassi, a odiarlo per quello che aveva fatto. Sapeva tutto, e aveva taciuto. Ma sembrava così fragile, così debole, lì, accanto a me, pallido e tremante, che non riuscivo a pensare a nulla, se non che mi avrebbe dato delle risposte e che, forse, avrei compreso il suo comportamento.
Quando entrammo in casa suo padre si allontanò da noi, portando con sé Nguyet, che giocava con delle bambole, sdraiata a terra, e si chiuse in una stanza alla fine del corridoio che vedevo dall'ingresso.
Gioele si voltò verso di me.
«D'accordo. Adesso ti spiego.» mormorò alla fine guardando terra. Si torceva le mani e si mordeva il labbro inferiore, ma gli occhi erano sbarrati. Eppure mi sembrava che non stesse guardando nulla in particolare.
Mi fece cenno di seguirlo. Salimmo le scale in silenzio, poi passammo per il corridoio del soppalco e infine aprì una delle due porte dietro cui avevo visto sparire il resto della sua famiglia. C'era un altro corridoio, più largo, privo di arredamenti, eccezion fatta per un lungo tappeto scuro. Lo attraversammo e ci fermammo davanti all'ultima porta sulla destra.
Gioele l'aprì e mi fece cenno di entrare.
Era una camera da letto, la sua, immaginai. Era grande e luminosa, stranamente spoglia. Un armadio, un letto, un comodino e una scrivania. E un gran vuoto al centro. Scorsi un tappeto arrotolato abbandonato sotto a una finestra.
«Ci inciampavo sempre.» sussurrò quando vide che il mi sguardo si fermava lì. Mi indicò il letto e mi invitò a sedermi, poi si accomodò accanto a me.
«Comincerò dall'inizio.» esordì con un sospiro. Incrociò le mani pallide in grembo e, fissandosi le ginocchia, proseguì: «Come ti ho già detto, io e Gabriele eravamo amici. Un giorno mi ha presentato una ragazza, la sua fidanzata di allora. Non era un genio, in verità, ma... era simpatica. Ogni tanto mi chiamava per sentire come stavo, era molto premurosa. Sembrava che le piacesse vedermi.» spiegò a voce talmente bassa che faticai a sentirlo. Abbozzò un sorriso. «Se fosse vero, non lo so. Ma mi piace pensarlo. Comunque, dopo qualche mese Gabriele è venuto da me e ridendo mi ha detto che aveva un segreto da raccontarmi. Sono rimasto ad ascoltarlo, e lui mi ha spiegato che ne aveva conosciuta un'altra. Ragazza, intendo. Un'altra ragazza.» Mi guardò, colpevole. Quindi, alla fine, non era la prima volta che Gabriele si comportava così. Ma c'era da aspettarselo, da uno come lui. «Mi ha detto che aveva intenzione di uscirci, che avrei dovuto dargli una mano per fare in modo che l'altra non lo scoprisse.» Inspirò profondamente, come se quel racconto lo facesse soffrire. Gli sfiorai il gomito per incoraggiarlo a parlare, senza avere il cuore di interromperlo. Non volevo rendergli le cose più difficili di quanto non fossero già. Sapevo che era la mia unica possibilità di scoprire quello che era successo. «Sono stato educato in una famiglia in cui... Be', diciamo che questo genere di cose non sono tollerate. E io credo che sia giusto.»
«Per questo avete litigato?» mi azzardai a chiedergli.
Annuì.
«Sì. Diceva che non sono un buon amico, che avrei dovuto capirlo. Che era legittimo. Che lui voleva solo... Sì, insomma, che con quella ragazza nuova non c'era nulla, ma lui aveva bisogno di uno sfogo diverso, per così dire, rispetto a quelli che gli offriva la sua fidanzata.» Parlava a voce più alta, adesso. Sembrava aver acquistato un po' di fiducia, nonostante sussurrasse ancora. Riuscivo, perlomeno, a sentirlo.
«Insomma voleva solo andarci a letto.» tirai le somme io.
«Precisamente.» Scosse la testa e si passò una mano sul volto. «Io credevo – lo credo ancora – che fosse sbagliato. E non volevo prendere parte a uno scempio simile. Prendere in giro una ragazza innamorata di lui, solo perché non soddisfaceva i suoi impulsi animali! E, allo stesso modo, sfruttarne un'altra che invece ci stava. Non riuscivo a trovare una motivazione per aiutarlo. Gliel'ho spiegato, si è infuriato. Ha minacciato di picchiarmi, di farmi trovare da alcuni suoi amici.»
«L'ha fatto?»
«Sì.»
S'interruppe e per diversi secondi rimase in silenzio. Mi diede l'impressione che volesse smettere di parlare, perciò lo spronai:
«Tu che cos'hai fatto?»
«Ho minacciato di dire tutto alla sua fidanzata.» Non mi lasciò continuare. Si strinse le ginocchia con le mani fino a che le nocche diventarono bianche e continuò: «E l'ho fatto. Me ne sono andato, perché ero a casa sua, e l'ho chiamata all'istante. Le ho detto che dovevo parlarle, che era importante. Ci siamo incontrati.»
«Come l'ha presa?» mormorai, ma dentro di me conoscevo già la risposta. Era così ovvio...
«Adesso mi odia. In quel momento... Ha pianto. Mi ha colpito un paio di volte, urlava che era colpa mia, cose così. Non ha più voluto né vedermi né sentirmi. Non voleva che la chiamassi. Io l'avrei lasciata in pace, in realtà, solo che... volevo... scusarmi. Volevo veramente scusarmi con lei, ma non me l'ha mai permesso.»
Mi guardò, implorante, allungò una mano verso di me. Ma non mi sfiorò neppure. La tenne sollevata accanto al mio braccio, poi la mosse verso il basso, come in una carezza.
«Capisci perché non te ne ho parlato, Carlotta?» gemette con voce vibrante. «Lo capisci? Io... Sono stato un vigliacco!» Scattò in piedi, fece un paio di passi per allontanarsi dal letto e si voltò a guardarmi. «Ho così tanta paura che ti stanchi di me... Anche tu... Io... Io... non ho nessuno. Mi sento solo. E tu sei stata l'unica che...» ansimò. La sua voce era inudibile. Poco più che un soffio, un sospiro. Sembrava non ci stesse nemmeno mettendo suono. Era come sentir parlare il vento. «Non volevo che succedesse di nuovo.»
Tornò a sedersi accanto a me, ma questa volta più vicino. Mi sfiorò la mano e mi guardò negli occhi. I suoi erano lucidi, carichi di emozione.
«Non odiarmi per questo, Carlotta, ti imploro...» Abbassò la testa. Appariva esausto. «Ti imploro...»
E come avrei potuto? Non sarei mai stata in grado di odiarlo... Lui, che aveva fatto così tanto per me! Che c'era sempre stato. Anche quando l'avevo trattato male, quando fingevo di essermi dimenticata di lui, quando non lo andavo mai a cercare ed era lui che veniva da me. Non potevo credere che non avesse capito. Sapeva che avevo bisogno di lui ed era sempre pronto, sempre al mio fianco. E io, in tutto quello, ero stata cieca.
Gli misi una mano sulla schiena, lo tirai a me, appoggiai la mia fronte alla sua.
«Non potrei mai, Gio'.» Lasciai che mi si avvicinasse, che poggiasse il capo sulla mia spalla. Gli passai una mano tra i capelli ricci. Erano morbidi, profumavano di shampoo. Lo cinsi anche con l'altra mano, in un abbraccio. Era lì, tutto quello di cui avevo bisogno.
Tra le mie braccia. E io ero tra le sue, perché mi aveva tirato a sé e con una mano giocava con le punte dei miei capelli, con delicatezza.
Non volevo nient'altro. Bastava così.

 

 

Ebbene, ecco qui il motivo della litigata tra Gabriele e Gioele.
E Gioele che anche lui, comunque, del tutto innocente non è. Però Carlotta l'ha perdonato, per il semplice motivo che non sarei stata in grado di non farlo perdonare. Ma come si fa a odiare uno così? Me lo dite, eh?

Comunque, i vostri commenti, sia positivi che negativi, mi farebbero molto piacere.

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo 21 - Amici ***


Martedì 25 Novembre

Gioele mi aveva chiamata, il giorno prima, e mi aveva pregata di andare da lui, il pomeriggio successivo. Si era rifiutato di darmi spiegazioni, dicendomi solo che era importante, e che forse, una volta che fossi stata lì, avrei capito quali fossero le sue intenzioni.
Ma quando mi aprì la porta di casa, il suo sorriso nervoso, appena accennato mentre guardava terra, mi fece capire che, ancora una volta, si trattava di qualcosa che avrei preferito evitare. E non potei fare a meno di evitare di trovarmi intimamente d'accordo con quello sguardo colpevole quando, una volta varcata la soglia di casa, mi accorsi che sul divano alla mia destra c'erano Ines e Francesca.
Mi voltai rabbiosa verso Gioele.
«Spero che tu abbia una spiegazione soddisfacente per questo.»
Lui arrossì, chinò la testa e aprì la bocca per rispondere, ma Francesca, alzandosi di scatto dal divano, lo precedette.
«Gliel'ho chiesto io.» chiarì. «A scuola, ieri mattina. È un po' che volevamo parlarti, ma non siamo mai riuscite ad avvicinarti...»
«Non che ci abbiate provato.» ribattei, acida. Che non venisse a giustificarsi! Non intendevo minimamente ascoltare i loro patetici tentativi di far passare me per quella cattiva.
«Sì, è vero,» ammise Ines, «ma adesso siamo qui perché ci teniamo davvero a chiarire la situazione!»
Sospirai. Ero così stanca, così stanca di tutto quello... Mi voltai verso Gioele.
«Sai già tutto, vero? Sai cos'è successo?»
Annuì. Poi, delicatamente, quasi senza toccarmi, mi strinse il braccio e mi invitò a seguirlo. Attraversammo il salotto, poi ci addentrammo nel corridoio che stava di fronte all'ingresso e poi in una stanza sulla sinistra. Quando accese la luce, la trovai estremamente spoglia. C'era solo un armadio di legno chiaro e un tavolo.
«Loro... Non ti piacerà sentire quello che hanno da dire.» mormorò senza guardarmi. «Ma forse... è... giusto... che le ascolti.»
«Perché mi dici queste cose?» lo attaccai. «Non ti basta quello che hai fatto tu? Pensi che ormai, tanto vale che mi facciano star male anche loro?»
Impallidì paurosamente e si poggiò al tavolo. Non trovò la forza di parlare, o forse non aveva nulla da dire. Ma si mise a piangere. Non me lo aspettavo, perché l'avevo sempre visto trattenersi, perciò rimasi immobile, basita, a guardare le lacrime che gli rigavano le guance e cadevano sul pavimento. Teneva la testa abbassata e i ricci scuri gli coprivano gli occhi.
«Non fare così, Gio'.» mormorai, sconvolta. Non sapevo che cosa dire. Mi pentii di quello che avevo detto. L'avevo perdonato, e dunque perché rinfacciargli quello che era accaduto? Perché l'avevo fatto?
Non emetteva alcun suono. Piangeva in silenzio, piegato su se stesso. Feci per avvicinarmi, ma lui, con una voce bassa e spettrale che mi mise i brividi, incrinata per il pianto, mi fermò.
«Vai di là.»
Obbedii e lo lasciai solo, incerta se sentirmi in colpa o infuriarmi per quello che aveva organizzato alle mie spalle.
«Ci chiedevamo che fine aveste fatto.» esordì lentamente Ines quando mi vide arrivare. Non sembrava convinta di fare la cosa giusta mentre parlava, ma ignorai il commento.
«Avanti,» le esortai, «vi ascolto.»
Francesca guardò Ines, lei puntò lo sguardo oltre la mia spalla. Mi voltai brevemente. C'era Gioele, immobile sulla porta del corridoio. Ci osservava, ma non sembrava nemmeno del tutto consapevole di ciò che stava accadendo. Aveva un'aria totalmente assorta, disinteressata.
Tornai a guardare Ines e lei, incrociando il mio sguardo, assunse un'espressione seria. Gli occhi verdi erano più cupi che mai.
«Sapevamo tutto.» disse senza inflessioni.
Ecco. Bastava questo... Sapevano. Anche loro. Oltre a lui. L'unica che non sapeva niente ero io.
Non parlai e attesi che continuasse. Francesca si era avvicinata e ora stava poco dietro a Ines, fissandomi anche lei. Non avevo idea dell'espressione che avevo assunto. Forse non ne avevo nemmeno una. La notizia mi scalfì minimamente. Quelle cose non accadevano a me... Non riuscivo a capacitarmene.
Ma loro non parlarono. Tornarono a sedersi sul divano, silenziose, e io rimasi lì, in piedi al centro della sala, accanto alla stufa, fino a che Gioele non mi si avvicinò senza parlare e, poggiandomi una mano sulla schiena, mi spinse delicatamente verso il divano. Quando mi sedetti si allontanò da noi, salì le scale e scomparve lungo il corridoio che mi aveva fatto percorrere il giorno prima.
«Sandro ha sentito Gabriele parlare con Mattia. Mi ha raccontato tutto. Non sapevamo come fare per dirtelo.»
Poiché ancora mi ostinavo a tacere, riprese da capo e mi raccontò tutto per bene. Io ascoltavo e non sentivo niente.
«Un giorno Sandro mi ha chiesto come andava tra te e Gabriele. Gli ho risposto tutto bene, e lui mi ha spiegato che il giorno prima – adesso non mi ricordo quando è successo, però – Gabriele aveva invitato a casa loro Mattia. Dopo che hanno picchiato Gioele non si erano più visti, perché sembrava che lui e Gabriele volessero dargli tutta la colpa. A Sandro, intendo. Volevano raccontare tutto e dire che era stato lui a picchiarlo, che loro avevano cercato di farlo smettere. Così, dato che si sono chiusi in camera, lui ha pensato che si stessero organizzando per questo. Li ha ascoltati dalla porta e ha sentito Gabriele dire che voleva tornare con Elena. Lei non lo calcolava abbastanza quando stavano insieme, e poi l'ha mollato perché diceva che era troppo geloso. Lui voleva riconquistarla, insomma. Sandro mi ha raccontato che, in pratica, Gabriele crede che Elena sia ancora innamorata di lui, perché altrimenti non avrebbe voluto restare sua amica. In sostanza, l'idea era quella di farla ingelosire, però non stava funzionando. Anzi, Elena sembrava felice che Gabriele avesse trovato te. Così lui ha pensato di giocarsi la pietà. Ha iniziato a chiamarla, a lamentarsi e dire che secondo lui tu stavi con Gioele, che lo prendevi solo in giro, che soffriva.» Sospirò, scuotendo la testa. Io avevo la mente completamente vuota. Non riuscivo a pensare a nulla. Aspettai che continuasse il racconto. «Elena sa che Gabriele è un bugiardo, però lui sa recitare davvero bene e alla fine lei ha ceduto. Hanno inziato a uscire, per parlare. Lei gli dava dei consigli, sai, come si fa con gli amici, niente di strano. Secondo Mattia più stavano insieme più c'era possibilità che lei si innamorasse di nuovo di lui. Da questo punto di vista lui e Gabriele sono stupidi uguale.
«Ho parlato con Francesca, quando Sandro mi ha detto quelle cose. Pensavo che dovessimo dirtelo, e lei era d'accordo. Però i rapporti erano più freddi, nell'ultimo periodo, e non sapevamo come fare. Abbiamo pensato che dovevamo prima recuperare l'amicizia, per parlarti con calma, da amiche vere, non come nell'ultimo periodo. Ecco, è questo il motivo della scenata. Abbiamo pensato che facendo finta di essere arrabbiate con te – e forse un po' lo eravamo, ma non tanto quanto ti abbiamo fatto credere – avresti preso in considerazione l'idea di passare più tempo con noi.»
Troppe informazioni. Troppo, in soli due giorni. Non stava in piedi, non aveva logica. Eppure, ecco. Era quello che era successo. E adesso bisognava raccogliere i pezzi.
«Sono passati solo sei giorni da quando è successo. Pensavamo che avessi bisogno di tempo. Però vedevamo che non ci guardavi nemmeno più, insomma... la situazione ci è sfuggita di mano.»
«È per questo» intervenne Francesca «che sono andata da Gioele. Ieri mattina, a ricreazione. Era la prima volta che parlavo con lui, e all'inizio non voleva dire nulla. Gli ho chiesto come stai, cosa hai fatto in questo periodo, cosa sapeva di te e Gabriele. Diceva che non poteva parlare, allora io gli ho spiegato tutto quello che ha appena detto Ines. Non ha ceduto. Allora al pomeriggio gli ho telefonato e ho continuato a insistere finché non ha detto che avrebbe parlato con me, ma solo se avessi accettato la sua condizione. Voleva che chiarissimo tutto il prima possibile, e io ho accettato. Mi ha spiegato quello che è successo sabato, mi ha detto che anche lui sapeva già tutto, che stava per venirti a cercare e dirti la verità. Siamo venute qui per chiederti scusa. Perché siamo state talmente stupide... Avremmo dovuto parlarti all'istante, anche se le cose tra noi non andavano bene. Non ne abbiamo avuto il coraggio.»
Tacque.
«Sapevate tutto.»
«Sì.» confermò Francesca.
«E non mi avete detto niente.»
«No. Non sapevamo come fare!»
La guardai.
«Ma come sarebbe a dire che non sapevate come fare?» la aggredii. «Potevate dirmelo e basta, cosa c'era di difficile?»
«Non sapevamo come l'avresti presa!» si difese Ines, accorata. «Eri talmente presa da Gabriele...»
«Che avete pensato bene di lasciare che mi prendesse in giro! Certo che l'avrei presa male, ma sicuramente così è stato peggio! E poi, tutti voi» e alzai la voce, a questo punto, sperando che anche Gioele, dal piano di sopra, mi sentisse «che sapevate tutto e facevate finta di niente! Ma che razza di amiche siete?»
Nessuna delle due rispose, ma sentii dei passi alle mie spalle. Quando mi voltai, Gioele era in piedi sulle scale e ci guardava. Era strano. Aveva gli occhi rossi e gonfi, ma per un istante, quando incrociai il suo sguardo, mi sembrò furioso. Lentamente scese le scale e mi si avvicinò.
«Credo» mormorò «che sia inutile, adesso, infuriarsi.» Inspirò profondamente e continuò: «E' impossibile cambiare quello che è successo, e tutti noi» sottolineò con cure le ultime due parole, come a far intendere che aveva sentito quello che avevo detto «ti abbiamo spiegato le nostre ragioni. Ti abbiamo chiesto scusa. L'unica cosa che puoi fare è decidere se perdonarci o no. E se ci perdoni.., se ci perdoni, allora devi farlo per davvero. Altrimenti, devi solo... dirlo.»
Lo fissai stralunata. Non si era interrotto nemmeno una volta mentre parlava, la sua voce non aveva dubitato, ed ero praticamente certa che, in mia presenza, non avesse mai parlato con un tono così alto, sebbene la sua voce fosse ancora un sussurro.
«Gio'...» iniziai, ma lui scosse la testa.
«No.» ribatté seccamente. «Adesso... Io ho fatto quello che dovevo. Ho sbagliato, te l'ho detto. Ti ho spiegato tutto. Sono pentito e sono sicuro che lo siano... anche loro. Adesso è una cosa che riguarda te.»
Non parlò più nessuno. Gioele non mi aveva mai parlato così. Era sempre stato pronto ad aiutarmi, a starmi accanto, anche quando non glielo chiedevo. Sapeva sempre quando avevo bisogno di lui, e non si era mai tirato indietro. Ma ora, che veramente speravo nel suo aiuto, mi stava dicendo che era una situazione che dovevo affrontare da sola. E che, nonostante tutto, ero io quella che si stava comportando male. Aveva ragione quando diceva che, una volta concesso il mio perdono, dovevo comportarmi coerentemente con le mie parole. Ma non era facile. Non riuscivo a capire se ero davvero arrabbiata con loro o se la mia fosse solo una reazione dettata dalla furia del momento, dalla sensazione di essere stata sempre presa in giro da tutti.
«Io...» mormorai, ma non trovai niente da dire.
Continuarono a guardarmi, tutti e tre. Senza sapere perché, mi trovai a pensare che il silenzio di quella casa mi metteva a disagio. All'inizio non era stato così, ma ora, sentendo che le mie parole sarebbero state importanti, mi dava una sensazione opprimente. C'era una bambina di sette anni che giocava, lì dentro, possibile che non facesse alcun rumore?
E poi, all'improvviso, come in risposta al mio assoluto desiderio di sentire un rumore, uno qualsiasi, lo stomaco di Ines brontolò rumorosamente.
«Ti sembra il momento?» le domandò Francesca guardandola male.
«Non credo che abbia fatto apposta.» soffiai io, grata di quella interruzione.
«Ovvio.» borbottò Ines.
«Potremmo mangiare qualcosa.» propose debolmente Gioele, indicando con un lieve cenno della mano la porta di vetro della cucina. Ines annuì rivolgendogli un sorriso che gli fece chinare il capo e lo seguì docilmente nell'altra stanza. Io e Francesca, dietro di loro, ci guardammo per un attimo negli occhi prima di raggiungerli.
Ci sedemmo intorno al tavolo di legno chiaro mentre Gioele vi poggiava al centro un barattolo di ceramica chiara. Lo aprì e lasciò che ci servissimo abbondantemente di biscotti alla cannella. Poi, ignorandoci, iniziò a preparare il té.
«Insomma,» iniziai io, come rallegrata da quella situazione, «tutti e tre» e a quelle parole anche Gioele, che mi dava le spalle, si voltò e mi fissò «sapevate già tutto. E non mi avete detto niente per paura di litigare con me.»
Rimasero in silenzio. L'unico rumore nella stanza era quello della fiamma azzurra del fornello che scaldava l'acqua. Ines teneva il proprio biscotto in meno, a mezz'aria, e mi guardava come in attesa di un'esplosione. Sospirai. Ero così stanca di tutta quella situazione... Alla fine, mi avevano spiegato i loro motivi. Se adesso avessi detto che non intendevo perdonarli, li avrei persi tutti e tre, ed erano le persone più importanti della mia vita. Se invece li avessi perdonati, magari non sarebbe tornato tutto come prima, non subito almeno, ma saremmo rimasti amici. E poi, mi faceva piacere sapere che, mentre erano in difficoltà, Ines e Francesca si erano rivolte proprio a Gioele. Era un modo per dire che forse lui, adesso, avrebbe avuto modo di sperare di avere due amiche in più?
Gioele ci portò le tazze con il tè. Su ognuna era raffigurato uno diverso dei sette nani, e si premurò di riservare a me quella che ritraeva Brontolo.
«Immagino che questo» gli comunicai sollevando la tazza «sia un modo per dirmi che vi ho stressati con questa storia, vero, Gio'?»
«Forse.» mormorò. Piegò un po' la testa in avanti e i ricci gli ricaddero davanti agli occhi a nascondere lo sguardo. Con la tazza sollevata davanti alla bocca, non riuscivo a vedere la sua espressione, ma ero praticamente certa che stesse sorridendo.
«E il fatto invece che per sé si sia preso...» continuò Ines ruotando verso di sé la tazza che Gioele stringeva, in modo da poter vedere il disegno, sfiorandogli appena le mani pallide «Il fatto che per sé si sia preso la tazza con Cucciolo è un modo per dire che è tanto buono e ha bisogno di coccole?»
A quelle parole io scoppiai a ridere. Francesca mi imitò e Gioele, imbarazzato, divenne scarlatto, ma non disse nulla.
«Allora?» mi apostrofò poi Francesca, con dolcezza, guardandomi.
«Allora cosa?»
«Che intendi fare? Ci perdoni o no?»
Sospirai, scossi la testa e sorrisi a tutti e tre.
«Vi perdono.» annunciai. «E vi prometto che non tirerò più fuori l'argomento. Ma la prossima volta che c'è qualcosa che non va, per favore, venite a dirmelo.»
«Certo!» assicurarono in coro Ines e Francesca. Gioele, che si rigirava tra le mani un biscotto, apparentemente concentrato su quello, si limitò a sollevare appena lo sguardo e a guardarmi negli occhi.
E poi, senza capire bene come fosse successo, scoprii che Ines e Francesca mi stavano guardando e Gioele, che aveva preso a sbriciolare il biscotto, mi sorrise dall'altra parte del tavolo.
Ricambiai l'abbraccio delle mie amiche e poi, senza aspettare un suo cenno, mi avvicinai a Gioele, lo afferrai per un braccio, lo costrinsi ad alzarsi e abbracciai anche lui. Rimase spiazzato solo per un secondo, poi rispose.
Mi allontanai da lui e li guardai tutti e tre.
«Vi voglio bene, ragazzi.»

 

Ed ecco qua la spiegazione di ciò che è successo con Ines e Francesca... Era quello che vi aspettavate? Sì? No? Be', è tutto quello  che la mia mente malata è riuscita a produrre. E questo capitolo mi piace tanto, perché finalmente Gioele ha rapporti umani anche con qualcuno che non è Carlotta.
Mi farebbe comunque piacere sapere che cosa ne pensate.

Nel frattempo, ringrazio di cuore tutte le persone che hanno inserito la storia tra le seguite, preferite, da ricordare, quelli che hanno commentato e quelli che leggono. Grazie mille!

Baci,

rolly too

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo 22 - Conclusione ***


Mercoledì 26 Novembre

Salii le scale in fretta, facendo attenzione a non versarmi addosso il caffé. Ines, dietro di me, arrancava addentando un panino.
«Poteva scendere lei.» brontolava ogni tanto. «Adesso ci tocca fare le scale anche per scendere.»
Sbuffai ma non le risposi nemmeno. Ero felice di aver finalmente chiarito la questione con le mie amiche. In parte quello che avevano fatto mi bruciava ancora, ma conoscere il motivo del loro comportamento mi aveva dato la voglia di passare oltre e lasciarmi quella storia alle spalle. E dentro di me speravo che, dal momento che avevano chiesto aiuto a Gioele per riuscire ad avvicinarmi, non si sarebbero dimenticate di lui. Forse gli avrebbe fatto bene.
Quando arrivammo nella loro classe non c'era ancora nessuno.
«Hanno avuto ginnastica.» spiegò Ines guardandomi. «Te l'avevo detto che era meglio se aspettavamo che venisse lei.»
«Quanto sei pigra! Alla fine, sono solo due scalini in croce...»
«Parla quella che prende il motorino anche per attraversare la strada.»
Incassai il colpo e rimasi in silenzio.
«Cerchi qualcuno?» mi domandò all'improvviso un ragazzo che non avevo mai visto prima, appena entrato nella classe. Gettò a terra la borsa di ginnastica e si allungò oltre a un banco per afferrare un pacchetto di cracker dalla cartella.
«Francesca.»
«E Gioele.» rincarò Ines.
«Ah, sì.» commentò lui alzando le spalle. «Arrivano.»
Se ne andò, in fretta com'era venuto, e dopo poco arrivarono anche, in effetti, Francesca e Gioele. Nonostante ci avessi sperato, fui sorpresa di vedere che parlavano tra loro.
«Hai ragione,» stava dicendo Francesca «ma non mi sembra comunque il caso... Ah, guarda chi c'è.» s'interruppe quando ci vide. «Com'è che hai convinto Ines a fare le scale?»
«E' stata dura.» replicai con un finto sospiro. «Come va?»
«Bene.» rispose lei, mentre Gioele, che mi salutò con un breve sorriso, gli occhi bassi, si limitò ad annuire. «Lo sai che Gabriele questa mattina ha chiamato Gioele a casa?»
«Cosa?» esclamò Ines, facendosi avanti. «Ci prendi in giro?»
«E' la verità.» sussurrò allora Gioele, guardandola per un secondo. «Questa mattina, prima della scuola.»
«Che voleva?» gli chiesi, esterrefatta.
«Parlare con me, credo.» mormorò lui in risposta, torcendosi le mani. «Ha risposto Nguyet. Non ha voluto passarmelo... Ha detto... che vuole... incontrarmi.»
Tacque. Credevo di capire di che cosa lo spaventasse. L'ultima volta che aveva incontrato Gabriele era finita a cazzotti, e quello che ne era uscito peggio era sicuramente lui. Immaginavo che non fosse così entusiasta di ripetere l'esperienza. Tanto più che ora Gabriele doveva supporre che mi avesse detto tutto, e, quindi, aveva un motivo in più per avercela con Gioele.
«Ma tu pensa che tipo.» commentò Ines. «Uno che viene a rompere alla mattina presto per questo... E tu» proseguì rivolgendosi a Gioele, che sembrava a disagio, in mezzo a quelle attenzioni «che cosa hai intenzione di fare? Incontrarlo e chiarire?»
Lui chinò ancora di più lo sguardo, rosso in volto.
«Io...» sussurrò, e la sua voce era talmente bassa che tutte e tre dovemmo avvicinarci per sentirlo. «Io... Non voglio vederlo di nuovo. L'ultima volta...» scrollò le spalle e ci guardò. Quando incrociai il suo sguardo mi resi conto di quanto fosse spaventato in realtà. Gli occhi erano lucidi di lacrime, ma sapevo benissimo che non si sarebbe messo a piangere. «Io non sono un eroe.»
Nessuna di noi tre parlò, quindi lui proseguì a bassa voce:
«Gabriele mi fa paura. Non sono...  non mi piace... fare a pugni. E non mi va di prenderle ancora.»
«Be', non mi sembra così scema come considerazione.» commentò Francesca. «Ma come ti ho detto prima, se non chiarisci con lui ti tormenterà in continuazione.»
«Questo lo so.» mormorò Gioele, ma poi scrollò le spalle, come a far intendere che, comunque, non aveva una soluzione.
«Lascia perdere.» suggerii io, nello stesso momento in cui Ines esclamava:
«Certo che dovrai incontrarlo!»
Ci guardammo, allibilite, ma lei fu più rapida di me nel dare la propria giustificazione.
«Be', scusa, Gabriele è un idiota e non lo lascerà mai in pace se non accetta di incontrarlo. Tanto vale che ci vada e che si tolga il pensiero.»
«L'ultima volta è finita a pugni.» ribattei io inarcando le sopracciglia.
«Verremo con te.» propose allora Ines guardando Gioele, che ricambiò con uno sguardo spaurito. «Se proverà anche solo ad avvicinarsi lo faremo a pezzi!» Battè con forza il pugno contro la mano e annuì.
Gioele sembrò spaventato da quella possibilità, e si affrettò ad alzare pacatamente le mani, con un sorriso sghembo sul volto e gli occhi che brillavano di una strana luce.
«Non credo che sia il caso.» mormorò. «Io... gli parlerò. Se volete venire... va bene. Ma niente violenza.»
«Non ascoltarla, Gio'» intervenni io. «Non sei costretto.»
«No» ammise lui a bassa voce «ma Ines ha... ragione. Devo... andare.»

Così andammo. Tutti e quattro, insieme. Gioele telefonò a Gabriele e si misero d'accordo per incontrarsi fuori da scuola. Sapevo bene che cosa significasse quella scelta, ma Gioele mi disse che non era importante. Dubitava che l'avrebbero picchiato, se ci fossimo state anche noi. Io non ne ero sicura, ma annuii.
Gabriele era già lì, e vedemmo da lontano che era solo.
«Forse è meglio se vado solo io.» mormorò Gioele in un soffio.
«Noi ti aspettiamo qui, al bar.» annuì Ines. «Ma se hai bisogno di aiuto, vedi di tirare fuori un po' di voce e metterti a urlare. Guarda che io faccio boxe, so come si prende a pugni una persona.»
Gioele non rispose. Scrollò le spalle e si diresse verso Gabriele. Io, senza consultarlo, lo seguii. Lui non disse nulla e non si voltò nemmeno a guardarmi. Camminava lento, con le mani affondate nelle tasche dei jeans chiari e il giubbotto nero aperto. Stava curvo, ripiegato su se stesso, come se ci fosse stato un vento tremendo a respingerlo. Quando Gabriele si accorse che c'ero anch'io mi rivolse un sorriso speranzoso.
«Totta...» salutò piano, timoroso. Lo ignorai e guardai Gioele. Ma lui teneva lo sguardo su Gabriele senza vederlo davvero. Quando Gabriele si rese conto che Gioele non aveva intenzione di parlare, si rivolse di nuovo a me.
«Sono stato talmente stupido, Totta...»
«Sono della stessa opinione.» replicai. «Non volevi parlare con Gioele?»
«Sì, ma dato che sei qui tu preferisco parlare con te.»
Gioele non sembrava per nulla interessato a me e Gabriele. Se ne stava immobile, ricurvo, a fissarsi la punta delle scarpe da ginnastica consunte. O almeno, così pareva a me.
«Mi sono arrabbiato per nulla, Totta...» cominciò Gabriele con il tono più patetico che riuscì a tirare fuori. «Non avrei dovuto, il fatto è che ero geloso. Lo sai.»
«Lo so?» ripetei io. «No. Quello che so io è che ho sprecato parecchio tempo con te.» Parlavo lenta, senza particolari inflessioni. Mi resi conto che non me ne fregava più niente di Gabriele. Questa constatazione non mi fece effetto. Non mi importava, semplicemente.
«Totta...»
«Quello che intendo dire è che sono stata molto stupida. Ma questa volta ho imparato e non mi freghi più. Puoi piangere, strillare, agitarti, fustigarti, se vuoi. Non mi farai mai abbastanza pena da farmi convincere a tornare con te.»
«Sono cambiato!» esclamò Gabriele, risentito.
«Un cambiamento straordinariamente veloce!» esclamai io, ironica.
«Tu non... cambi mai.» mormorò Gioele senza guardare nessuno. Nel silenzio della strada la sua voce raggiunse anche Gabriele, che avvampò.
«Che cazzo ne sai tu?» lo aggredì. «Non stavo parlando con te.»
«Carlotta... Sa... tutto.»
«Cosa vuol dire?»
«Vuole dire che mi ha detto perché avete litigato.»
Gabriele si voltò verso Gioele, furioso. Gli si avvicinò con un balzo e lo afferrò per il colletto della camicia a quadri.
«Tu hai fatto cosa?» gridò sputando ogni parola come se fosse stata un sasso.
«Io le ho detto tutto.» sussurrò Gioele. «Ogni... cosa. Se davvero... ci tenevi, a lei... Avresti dovuto... dirglielo tu.»
La voce di Gioele era tanto bassa e tremante che faticai a capire che cosa stesse dicendo. Ma Gabriele non si era perso nulla e aveva già stretto il pugno, pronto a colpire Gioele... Che però fu più veloce. Con uno scatto che non seppi spiegarmi e che non riuscii nemmeno a distinguere, simile al guizzo di un serpente, Gioele aveva afferrato Gabriele alla base del collo e con una forza che non era sua l'aveva tirato contro di sé. Il naso e la bocca di Gabriele si scontrarono con la spalla ossuta di Gioele e produssero un rumore nauseabondo. Gioele lasciò andare Gabriele come se fosse stato infuocato e fece due passi all'indietro per allontanarsi da lui. Lo guardai e vidi i suoi occhi stranamente vuoti e inespressivi. Gabriele, piegato metà dal dolore, sputò a terra. Insieme al sangue riuscii a distinguere due denti.
«Gio'...» mormorai, sconvolta. Ma lui non sembrava toccato da ciò che aveva fatto. Si fece ancora più piccolo e sprofondò le mani più a fondo nelle tasche.
«Tu non cambi mai.» sussurrò di nuovo. Mi guardò, come colpito da una consapevolezza improvvisa, poi piombò di nuovo nei suoi pensieri e non mi badò più.
Gabriele si raddrizzò barcollando e puntò un dito tremante contro Gioele.
«L'hai visto?» urlò. «L'hai visto che cosa ha fatto? Ecco con chi ti vai a mettere! Con un pazzo!»
«L'unico pazzo, qui, sei tu.» risposi, acida, ma in cuor mio anch'io pensavo che Gioele fosse impazzito. E lui, che sembrava aver colto quel mio pensiero, si limitò a scrollare le spalle. Non disse nulla e non sollevò lo sguardo da terra. Era talmente distante, in quel momento, talmente incomprensibile... Mi voltai di scatto verso Ines e Francesca, che ci guardavano dal bar, e loro mi rivolsero un'occhiata scioccata. Io, tra Gioele e Gabriele, iniziai ad avere paura. A quel punto, non sapevo come si sarebbe evoluta la situazione. Ma poi, all'improvviso, Gioele si sedette a terra. Incrociò le caviglie, sollevò le ginocchia e le cinse con le braccia. Intrecciò le dita e puntò lo sguardo davanti a sé. Rimase immobile come una pallida statua di gesso. Non gliene importava niente di tutto quello che aveva intorno. Immaginai che Gabriele avesse capito che, per il momento, Gioele era innocuo, perciò tornò a concentrarsi su di me. Il sangue gli era colato dalla bocca e dal naso sul mento e da lì gocciolava sui vestiti. Lo ignorò.
«Se torni con me sarà diverso da prima. Mi concentrerò solo su di me.»
«Non penso proprio che andrà così.» sibilai io, disgustata da quel patetico tentativo di ingannarmi di nuovo. «Io penso che non tornerò con te, anche se dovessi essere l'ultimo uomo sulla Terra e a quel punto penso che mi sparerei così da essere sicura di non incontrarti mai più. Comunque, a parte queste ipotesi apocalittiche, credo che faresti meglio a trovarti qualcuna talmente cretina da esserlo più di me, che ti creda. Oppure qualcuna che si comporti proprio come te, a cui non interessa quello che fai. Comunque, come ti ho già detto, tutto quello che dici o fai è totalmente inutile. Sprechi il tuo tempo.»
«E' perché ti piace lui?» urlò Gabriele puntando il dito contro Gioele. «E' così? Ti piace lui?»
Sì, Gioele mi piaceva. Molto più di quanto mi fosse mai piaciuto Gabriele, in verità, ma avrei lasciato perdere Gabriele anche se non fosse stato così. E non mi sembrò il caso di turbarli entrambi con quell'informazione. Anche se era rimasto immobile, sapevo bene che Gioele non si era perso un sospiro della nostra discussione. Aveva ascoltato tutto, dall'inizio alla fine. E a quella domanda si era fatto particolarmente attento.
«Lascia stare Gioele, sei tu il problema.» sbottai. «Sei tu che sei patetico e che mi fai schifo. Ecco qual è la verità. E non ho più tempo da perdere con te.»
Mi avvicinai a Gioele, lo presi per un braccio e lo costrinsi ad alzarsi. Lui obbedì senza discutere. Guardò per un istante Gabriele, poi abbassò lo sguardo. Io mi voltai, decisa, e lasciato andare Gioele tornai al bar dalle mie amiche.
Non mi voltai nemmeno a guardare Gabriele. Tra me e lui era finita per davvero.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo 23 - Mostro ***


A lizzyred, perché mi ha fatto tornare la voglia di continuare questa long.



Giovedì 27 Novembre

Ines mi telefonò nel primo pomeriggio, appena uscite da scuola.
«Dove sei?»
«Quasi alla fermata dell'autobus.»
«Bene, torna indietro e vieni subito vicino al bar, dove andiamo di solito a fare colazione.»
Il suo tono aveva una nota di urgenza e quando mi comunicò il luogo in cui dovevo recarmi capii subito che c'era qualcosa che non andava, e immaginai anche cosa. Il bar era in una via piccola e poco frequentata, e non era raro trovarci qualcuno che litigava. Se poi i due rivali erano Gioele e Gabriele, tutto si spiegava.
Corsi fin lì con l'intenzione di prendere Gabriele per il collo e soffocarlo, intimandogli di lasciare in pace Gioele, ma quello che vidi quando arrivai mi sconvolse a tal punto che non riuscii a spiccicare una parola.
Al centro del gruppo di curiosi che seguivano la scena c'erano Gioele e Gabriele, come mi ero immaginata. Ma era Gabriele quello a terra, con la bocca insanguinata e il cappotto strappato. Gioele, in piedi di fronte a lui, con le mani affondate nelle tasche, guardava il cielo con disinteresse.
Mi avvicinai a Ines e vidi che con lei c'era Sandro.
«Che diamine sta succedendo?»
«Gabriele pensava di fargliela pagare.» rispose Sandro. «Ma Gioele dev'essersi stancato di prenderle. Gabriele non è riuscito nemmeno a toccarlo.»
Guardai Gioele e lui, che si era accorto della mia presenza, ricambiò il mio sguardo. Ma i suoi occhi azzurri rimasero fissi nei miei per più tempo di quanto mi aspettassi. Gioele non mi guardava mai negli occhi, e quando lo faceva era per non più di pochi secondi. Invece fui io a dover distogliere lo sguardo.
«Sei un traditore!» urlò Gabriele. Si rialzò, ma si guardò bene dall'avvicinarsi di nuovo a Gioele, che, dal canto suo, si limitò a lanciargli un'occhiata schifata.
«Quello che era successo tra me e quella ragazza... Tu non glielo dovevi dire! Io e te eravamo amici.»
«Io non ti dovevo niente.» replicò Gioele, e quando parlò mi mancò il fiato. Non aveva sussurrato né balbettato, e la sua voce era stata forte e chiara. Ma era diversa dal roco sussurro a cui ero abituata. Era come una pugnalata, fredda e gelida. Gioele stesso mi sembrava freddo e gelido. Il suo volto mi parve particolarmente minaccioso, e i suoi occhi vacui mi fecero tremare le gambe. Che cos'era successo al mio Gio'? Chi era il mostro che mi trovavo davanti?
Stava dritto con la schiena, parlava ad alta voce, aveva picchiato Gabriele. Senza esitare.
«E' vero che eravamo amici.» proseguì. «Ma è vero anche che tu mi hai sempre e solo usato, e che pensi che tutto ti sia dovuto. Dato che non è così ho deciso di lasciare perdere. Conosci la storia, no? Insomma, ti ho sempre lasciato fare quello che hai voluto. Mi hai picchiato, e io ti ho lasciato fare. Adesso però mi sono stancato, e non intendo più prenderle  da te. Mi dispiace.»
Non gli dispiaceva affatto. Lo vedevo nei suoi occhi chiari, lo sentivo nella sua voce. Gioele stava godendo di quello che faceva. Aveva ferito Gabriele, ne guardava il sangue che gli usciva dalla bocca e quella visione gli piaceva.
Era diverso dalla rabbia cieca di Gabriele. Era una violenza controllata, fredda. Gioele non voleva vendicarsi delle botte subite e non voleva difendersi, quando aveva attaccato. Voleva soltanto fargli male, fargliene più che poteva. Era un sadismo perverso. Gli piaceva, e non gli bastava quello che aveva già fatto.
Alcuni di quelli che stavano guardando se ne andarono. Forse l'incontro aveva perso interesse ai loro occhi, forse avevano soltanto fame. Magari credevano che avrebbero chiacchierato ancora, che ognuno sarebbe andato per la sua strada.
Mi sarebbe piaciuto pensare la stessa cosa. Ma non era così. Lo sentivo dentro di me e lo vedevo in Gioele. Non l'avrebbe lasciato andare finché non si fosse ritenuto soddisfatto.
«Smettetela.» mormorai, ma nessuno dei due mi sentì. Gioele mi lanciò uno sguardo veloce, ma mi sembrò indifferente e mi fece star male.
Poi tornò a concentrarsi su Gabriele, che taceva.
«Sei un folle.» disse alla fine Gabriele. Ero d'accordo con lui. Gioele era folle. «Non ha senso. Io volevo solo parlare con te.»
«So come parli tu di solito.»
Anche Gioele aveva ragione. Lo sapevo benissimo, ma non riuscivo a farmene una ragione. Da lui non mi aspettavo quel comportamento. Mi faceva venire i brividi.
Gabriele fece per andarsene, e a quel punto Gioele scattò. Lo colpì con un pugno nel mezzo della schiena, tra le scapole, e a Gabriele mancò il fiato. L'espressione di Gioele non cambiò. Non era soddisfatto, ancora. Sollevò di nuovo il pugno chiuso e colpì di nuovo. Gabriele urlò.
«Smettetela.» ripetei, ma ancora non mi sentivano.
«Piantala, Gioele!» urlò Ines, ma lui non la ascoltò. Non la guardò nemmeno. Voleva soltanto Gabriele. E sollevò di nuovo il pugno, ancora pronto a colpirlo, ma poi si fermò all'improvviso.
Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, sbatté le palpebre un paio di volte e fece un passo in avanti. Guardai anch'io nella sua direzione e vidi suo padre, fermo davanti a lui. Non disse niente, non si mosse nemmeno. Ma guardava il figlio con un'espressione indecifrabile, e Gioele sembrò calmarsi.
Guardò alternativamente me e Gabriele, il sangue nella sua bocca e il cappotto strappato. Non disse nulla, non emise nemmeno un suono. Ma rimise le mani in tasca, chinò lo sguardo e curvò le spalle. E' tornato il Gioele che conosco io, mi dissi, ma per quanto? Non riuscivo più a vedere il suo sguardo e questo mi faceva paura. Che occhi si nascondevano sotto ai ricci scuri?
Si avviò con il suo passo lento verso il padre, che si stava già dirigendo verso la macchina. Gli andai dietro. Lui mi guardò e scosse la testa, ma io non avevo bisogno del suo permesso.
«Signore!» esclamai in direzione di suo padre. «Signor Spampinato!»
Si voltò verso di me e mi sorrise con espressione stanca.
«Sì?» chiese con garbo.
«La prego, mi faccia venire con voi.»
Mi guardò qualche istante, poi spostò lo sguardo su Gioele, che di nuovo scosse la testa. Annuì.
«Certo, ma ricordati di avvertire i tuoi genitori.»
Lo ringraziai. Mi affrettai a mandare un sms a mia madre, per non dar motivo al padre di Gioele di rimproverarmi, poi mi sedetti in macchina nel sedile posteriore. Gioele si sedette davanti, ben deciso a ignorarmi.
«Avevamo già parlato di questo.» disse suo padre con voce tranquilla. «Avevi promesso.»
Gioele scrollò le spalle e non rispose. Sprofondò nel sedile, le mani nelle tasche, lo sguardo fisso davanti a sé. Io, seduta dietro a suo padre, riuscivo a vedere il suo viso pallido e per un istante mi sembrò che nei suoi occhi brillasse la stessa scintilla crudele che vi avevo visto poco prima.
«Non ti vergogni?» insistette Mauro.
«No.» soffiò Gioele.
«Alzare le mani è sempre sbagliato.»
«Non si ottiene niente, a parole.»
Parlava a bassa voce, ma non balbettava. Doveva essere ancora carico dell'eccitazione che l'aveva invaso mentre picchiava Gabriele, e mi chiesi se avessi fatto bene a seguirlo. Improvvisamente sentii crescere una paura folle dentro di me. Avevo paura di Gioele, di quello che poteva diventare. Gabriele era sempre stato onesto nei suoi comportamenti. Era un idiota, e come tale si comportava.
Ma Gioele era diverso. La maschera era quella che aveva tenuto fino a questo momento, o era quella che aveva mostrato pochi minuti prima a Gabriele? O forse nessuna delle due era una maschera, e lui si era mostrato semplicemente per quello che era? Ma era davvero possibile che fosse così altalenante, che potesse essere capace di un cambiamento simile?
«Gioele!» sbottò Mauro. «Non voglio mai più sentirti dire una cosa simile.»
«E' la verità.» replicò Gioele. «Adesso sono certo che non verrà più a disturbarmi.»
Quelle parole mi fecero venire i brividi, ma decisi che non avrei parlato. Volevo chiarire le cose con Gioele da sola, una volta che si fosse calmato per bene. Dovevamo affrontare un'ora di automobile prima di raggiungere la casa di Gioele. Forse in quel lasso di tempo Mauro sarebbe riuscito a far ragionare suo figlio.
Ma sapevo fin troppo bene che era impossibile far tornare Gioele sui propri passi.
«Quel ragazzo forse voleva davvero solo parlare.»
«Non l'ho fatto perché avevo paura che mi picchiasse.» confessò Gioele con tono leggero. Anche se parlava a bassa voce come prima, quella non mi sembrava nemmeno la sua voce. E quell'intonazione compiaciuta non gli apparteneva. Quello che avevo davanti era un estraneo, un folle.
«Allora perché l'hai fatto?»
«Perché mi andava di farlo.»
Mauro scosse vigorosamente la testa a quelle parole.
«Sai quali sono le conseguenze, vero?»
«Non potrebbe fregarmene di meno.»
Non sapevo di cosa stessero parlando e non mi interessava saperlo. Qualunque cosa fosse, quella frase mi sembrò minacciosa. La risposta di Gioele, se possibile, anche di più.
«Ne riparleremo.» promise Mauro, e Gioele annuì.
Poi mi rivolse un'occhiata torva.
«Non volevo che venissi.» mi accusò.
«E io invece volevo parlarti.» replicai, furente. «E capire che cosa ti è passato per la testa! Mi sembra che tu sia impazzito improvvisamente!»
«Sono solo stanco di essere sempre quello che ci rimette.» rispose. Sembrò riflettere qualche istante, poi aggiunse: «In ogni caso, non voglio che giudichi quello che faccio.»
«Non ti sto giudicando!» esplosi. «Sto solo...»
«Giudicando.» mi interruppe lui. «Potrei anche spiegarti i motivi del mio gesto, non li capiresti. Per me ha un significato, per te non vorrebbe dire nulla. Questo non ti autorizza a dirmi che mi sono comportato come un folle.»
Rimasi sconvolta dalla cattiveria di quelle parole e non trovai la forza di replicare.
Mauro sospirò, scosse la testa un paio di volte e guardò ancora Gioele. Aprì la bocca per parlare, ma la richiuse subito.
Io feci lo stesso. Gioele non mi avrebbe ascoltato.
E poi, cosa mai potevo dire a uno così?


Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo 24 - Maschera ***


Venerdì 28 Novembre

Il giorno prima Gioele aveva rotto tanto che alla fine, stanco delle sue lamentele e delle occhiate che mi rivolgeva, suo padre mi aveva pregato di tornare a casa. Si offrì di riaccompagnarmi, ma rifiutai. Per smaltire tutta quella rabbia avrei dovuto come minimo tornare a casa di corsa.
All'inizio, dopo ciò che Gio' aveva detto e fatto, il mio primo istinto era stato quello di scoppiare a piangere e farmi prendere dalla desolazione. Ma no, non potevo più permettermi di agire così. L'avevo fatto con Gabriele, ma dall'altra parte avevo Gioele che mi consolava e mi supportava. Adesso il problema era Gioele, e io non avevo nessuno a cui chiedere aiuto.
C'erano Ines e Francesca, ma sentivo che dovevo tenerle fuori. Quella era una cosa che riguardava solo me. Adesso basta, non ero più disposta a lasciarmi sconfiggere così.
Tornai a casa da sola. Camminai fino alla stazione, nonostante fossero quasi dieci chilometri e Mauro avesse insistito tanto per portarmi almeno fin lì. Ci misi un'ora e mezza, e ogni passo scioglieva la rabbia che sentivo nello stomaco.
Se Gioele voleva giocare a fare il crudele, bene, poteva farlo.
Se Gabriele voleva di nuovo tentare di vendicarsi, con il rischio di perdere anche i denti che gli erano rimasti, non sarei stata certo io a fermarlo.
Se quei due avevano un problema potevano risolverlo per conto loro. Io non c'entravo nulla. Quella storia non mi riguardava fin dall'inizio, avevo sbagliato a intervenire. E loro avevano sbagliato a tirarmi in mezzo.
Ero andata a letto presto, quella sera, decisa a lasciar perdere.
Ma il mattino, quando mi alzai, capii che non potevo lasciar perdere. Dovevo parlare con Gioele. Volevo capire che cosa gli passasse per la testa.
Sapevo già che non ci sarebbe stato, a scuola, e non ci andai nemmeno io. Ma presi l'autobus, andai in stazione. Presi il primo treno in partenza e quando arrivai al paese di Gioele capii di aver fatto la mossa giusta.
Camminai, di nuovo, fino alla sua casa. Questa volta ci misi due ore. Mi facevano male i piedi per il freddo, pensavo a quello che avrei dovuto dire. Poi rinunciai. Mi sarebbe venuto in mente una volta che me lo fossi trovato davanti. Con un po' di fortuna saremmo stati soli in casa.
I suoi genitori lavoravano, no? E Nguyet doveva essere a scuola. Non ci sarebbero stati filtri.
Suonai il campanello quattro volte prima che Gioele si decidesse ad aprire. Quando comparve sulla soglia mi guardò per qualche istante, muto. Sbatté le palpebre un paio di volte, poi si fece da parte per lasciarmi passare.
Teneva di nuovo le mani affondate nelle tasche, lo sguardo basso. Camminava a testa china, con le spalle curve.
«Non mi aspettavo che saresti venuta.» mormorò. Di nuovo quel suo tono inudibile.
La metamorfosi era già finita? Era già tornato quello di prima?
«Pensavo che non volessi più vedermi.» continuò.
«Non ti libererai di me così facilmente.» replicai, stizzita. «Mi hai trattata male, sono venuta qui perché voglio capire che cosa diavolo hai in quella testa.»
Spostò il peso da un piede all'altro, a disagio, si morse il labbro inferiore e distorse lo sguardo. Senza dire una parola salì le scale, e io gli andai dietro. Ma non si diresse verso la propria camera. Invece che proseguire dritto per il corridoio aprì una porta alla sua sinistra, e scoprii che lì dietro c'era un altro atrio, molto piccolo, con un tappeto scuro e pareti dipinte di un verde pesante, cupo.
Anche lì c'erano due porte chiuse, una alla nostra destra e l'altra alla sinistra. Gioele aprì quella di destra ed entrò in una piccola stanza con le pareti viola, lunga appena un paio di metri, senza finestre. Era freddissimo, lì dentro. Non c'era nemmeno un termosifone, e con la porta chiusa il calore rimaneva fuori. All'interno c'era la più grande confusione che avessi mai visto. In quei due metri la famiglia Spampinato era riuscita a far stare una libreria, una scrivania con due sedie e un piccolo mobile scuro. Ma poi, a terra, c'era di più. C'era la custodia di una chitarra, un numero spropositato di cuscini, fazzoletti usati, una bambola e delle scarpe di Gioele, una da una parte e una dall'altra. Una delle sue camicie di flanella era appesa in malo modo su una delle due sedie.
Capii che era quella la sua vera stanza. Era lì che Gioele passava le sue giornate, non nella camera ariosa e chiara che mi aveva mostrato l'altra volta. Ma lì dentro non c'era nemmeno un letto. Dormiva per terra?
«Gio', che significa tutto questo?» gli chiesi. Non capivo dove volesse andare a parare.
«Niente.» replicò. «Non significa proprio niente.»
E di nuovo capii. Aveva parlato a voce alta, senza balbettare, senza esitazioni. Mi guardava negli occhi. Quello lì era il suo mondo, e lì dentro si sentiva tranquillo. Poteva lasciar cadere la maschera.
«Perché sei stato così cattivo, ieri?» gli chiesi.
«Non lo so.» ammise lui. Si sedette su uno dei cuscini, allungò una mano e raccolse un paio di fazzoletti. Li gettò in un cestino che non avevo visto, quando ero entrata.
«Ma come fai a non saperlo?» sbottai.
«Non lo so e basta.» Mi guardò mentre anch'io mi sedevo su uno di quei cuscini. Mi sistemai accanto a lui. Volevo averlo vicino, cogliere tutti i suoi movimenti. Non potevo lasciarmi sfuggire nessuna reazione. Intendevo capirlo, e non me ne sarei andata prima di essere riuscita a farlo.
«Ho perso la testa.» spiegò. Nonostante il suo tono fosse piuttosto alto, per i suoi standard, continuava a parlare lento, come se stesse cercando di riordinare le parole nella sua mente prima di riferirle a me. «Voleva picchiarmi, o forse no, non lo so.»
Ricordai il suo sguardo freddo, il suo compiacimento davanti al sangue di Gabriele.
«A me sembravi piuttosto lucido.»
Mi guardò per un solo istante negli occhi. Ebbi paura che mi avrebbe picchiata, ma alla fine abbozzò un minuscolo sorriso, piegando appena un angolo della bocca, chiuse gli occhi e si lasciò cadere tra i cuscini.
«Che cosa vuoi che ti dica?» mi chiese con un tono sconsolato.
«La verità, Gio'. Non voglio che mi dici balle.»
«Fammi una domanda, allora.»
«Ti piaceva? Picchiarlo, voglio dire.» Feci appena in tempo a finire di parlare che mi resi conto che non volevo conoscere la risposta. Ti prego, Gio', mi dissi, non rispondere. Ma sapevo bene che non sarebbe andata così. L'avevo imparato fin da subito, me l'aveva detto anche Gabriele. Gioele non mentiva mai.
«Sì.»
Rabbrividii a quelle parole.
«Ma Gio', perché? Sei tanto buono!»
Scattò in piedi tanto in fretta che non me ne resi quasi conto finché non me lo trovai davanti, furioso, che mi sovrastava.
«No!» esclamò. Era la prima volta che lo sentivo parlare con un tono di voce così alto. Era stato molto vicino a un urlo, e non riuscii a capire se era disperato o furibondo. O forse, e sarebbe stato peggio, entrambe le cose. «No, no, no!» ripeté. La sua voce si incrinò e lui crollò in ginocchio, con le mani tra i capelli e la testa china.
Rimase in silenzio, immobile, per qualche istante, e io non feci nulla, spaventata dalle sue reazioni. Poi sollevò su di me uno sguardo implorante, gli occhi azzurri umidi di lacrime. Non sapevo che si sarebbe messo a piangere, probabilmente no. Ma di quel passo, mi sarei messa a piangere io.
«Io non sono buono.» pigolò. «Tutti non fanno altro che dirmi che sono buono, che sono questo e sono quello, che non sono capace di fare del male a nessuno, queste cose qui. Non è vero, Carlotta, non è vero!»
Avanzando carponi gli andai più vicino, mi inginocchiai di fronte a lui e gli scostai i capelli da davanti agli occhi. Non dissi nulla e attesi che proseguisse. Si alzò di nuovo in piedi e prese ad andare su e giù per la stanza. Mi sembrava un cucciolo di tigre in una gabbia. Non avevo più paura. Era innocuo, almeno per ora. Non ce l'aveva con me. Parlava come se non fossi stata lì.
«Io... non voglio fare del male a nessuno. Sono buono? Non lo so. Ma so che se voglio sono in grado di essere crudele, posso ferire le persone, a volte voglio farlo. A volte vedo una persona che cammina per strada e mi chiedo che effetto farebbe rompergli una bottiglia in testa, o pugnalarla. Sono cose che non farei mai, so cosa è giusto e cosa è sbagliato, so che la fantasia è diversa dalla realtà. Ma, Carlotta,» si chinò davanti a me, mi prese per le spalle, fissò i suoi occhi chiari nei miei «ci sono dei momenti in cui non riesco più a controllarmi. Quando Gabriele è venuto da me, all'inizio pensavo che sarebbe stato tutto come al solito. Mi avrebbe picchiato, insultato e detto e fatto le solite cose. Mi avrebbe chiamato, di sera, per dirmi che gli dispiaceva.»
«Ti avrebbe...?» mormorai, sconvolta, a quelle parole.
Gioele si morse un labbro, consapevole d'aver detto qualcosa che avrebbe dovuto tenere per sé, ma alla fine annuì.
«Sempre.» disse. «Ogni volta che mi ha picchiato, poi mi ha chiamato per scusarsi. Mi chiedeva di perdonarlo.»
«E tu l'hai fatto?» sussurrai.
«Mai.» Sospirò, scosse la testa e mi guardò di nuovo. «Carlotta, avrei voluto che le cose andassero così. Ma poi... Poi ho sentito qualcosa, non lo so, non era una voce, era una sensazione. Mi sono chiesto Perché devo essere sempre io? Perché devo sempre essere quello che ci rimette? Sono stanco di fare la parte di quello che non si sa difendere, quello a cui puoi fare qualsiasi cosa. All'inizio volevo soltanto dargli un pugno, che ne so, qualcosa di piccolo, di simbolico.»
Fece una lunga pausa, riprese fiato. Si allontanò da me, si sedette a distanza, prese un cuscino e se lo rigirò per un po' tra le mani pallide e ossute.
«Quando me lo sono trovato davanti... Non... non ci sono riuscito. L'ho colpito una volta, e poi... poi ho continuato... Io... A me... » Piaceva. Era quella la parola che completava la frase. Gli era piaciuto.
Ma lui non proseguì e io non dissi nulla.
Ero venuta a cercare risposte dalla persona sbagliata. Nemmeno Gioele sapeva perché aveva agito così. L'aveva fatto, e basta. Se mi aveva accolta, se mi aveva condotto in quella stanza, era solo per farmi capire che lui non era solo quello che mostrava a scuola o quando uscivamo insieme. Quella era solo una parte, quella più conveniente, quella che si poteva accettare.
Ma poi ce n'era un'altra, una che seguiva l'istinto, che dimenticava le regole, la società, la convenienza. In Gioele c'era qualcosa di selvaggio, indomabile. Era qualcosa che nemmeno lui sapeva affrontare. Mi sembrava di vederlo, dentro di lui.
Gio' conosceva quel lato del suo carattere. Non permetteva a nessuno di avvicinarglisi, forse il motivo era proprio questo. Sapeva che, prima o poi, quella parte dentro di lui avrebbe causato una spaccatura. E lui non voleva soffrire.
Ma a me si era mostrato per intero, così com'era, senza censure. Forse la cosa era partita involontariamente, senza che riuscisse a controllarsi, nel momento in cui quel lato selvaggio aveva preso il sopravvento su di lui. Ma poi aveva deciso di scoprirsi completamente.
La domanda, a questo punto, era se io ero in grado di accettarlo.
Oh, io avevo fatto di peggio. Io avevo agito in modo subdolo, ingannando Gabriele, usando Elena. Avevo peggiorato la situazione tra Gabriele e Gioele. Chi ero per giudicare? Chi ero per dirgli che non ci si comportava così? Gioele era solo spaventosamente onesto. Incapace di controllarsi, si mostrava sempre e solo per quello che era. Per questo era così sconveniente. Per questo sembrava che portasse una maschera.
Perché era l'unico a non portarla.
«Gio', posso abbracciarti?» gli domandai.
Mi rivolse uno sguardo spaurito, confuso, poi, senza dire nulla, mi si avvicinò gattonando. Fu lui ad abbracciarmi per primo e io non feci altro che lasciarmi cullare dalle sue braccia. Lo strinsi a me e gli passai una mano tra quei capelli che mi piacevano tanto.
Non provavo per lui l'attrazione che avevo provato per Gabriele, no. Ma avevo bisogno di Gioele. Ora sapevo quello che potevo aspettarmi da lui.
Non l'avevo perdonato per il suo comportamento, questo no. Però l'avevo capito, e non intendevo giudicarlo.
Era la prima volta che lo sentivo tanto rilassato. Ma forse, per una volta, avevo fatto qualcosa di buono. Non ne ero sicura.
L'unica cosa di cui ero davvero certa era che, con quel giorno, l'amicizia tra me e Gioele era decisamente passata di livello.


Ignoriamo il fatto che io domani avrei un esame e che invece sto postando un sacco di cose, vi va?
Sì, vabbe', non sono mai stata una studentessa modello, si sa.
Ebbene, visto il mio Gio' che razza di confusione ha in quella testaccia?
Comunque, scusate se sono imparziale, ma a me questo capitolo piace tanto. Però mi farebbe molto piacere sapere che cosa ne pensate voi. Qualsiasi critica o consiglio sarà ben accetto.
Nel frattempo, un abbraccio grandissimo a lizzyred, Elly4ever e Emmeti che hanno commentato lo scorso capitolo. Grazie!

Baci,
rolly too

P.S. Avete visto che brava? Non è passato nemmeno un mese dall'ultimo aggiornamento!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=379309