Come un'onda d'improvviso di _EverAfter_ (/viewuser.php?uid=543122)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Ricordi il suo nome? ***
Capitolo 3: *** 2. Baka ***
Capitolo 4: *** 3. I ricordi che ho di te ***
Capitolo 5: *** 4. Storia di un quattrocchi e d'una nuotatrice che lo minacciò di morte ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
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Capitolo 2 *** 1. Ricordi il suo nome? ***
❝
Lo sclero di
ℰver❞
CAPITOLO I
Ricordi il suo nome? |
Se ne sta tranquilla sulla balaustra della vasta terrazza della casa
sul mare. È una cosa stupida, anche perché con
quel freddo avrebbe potuto fare tante cose, decisamente più
sensate di quella – ammesso che potesse avere il buonsenso di
pensarci.
Il vento agita le pagine di una lettera che sembra inghiottire ogni sua
convinzione. Guardandola, si sente sempre mancare un po’ il
respiro. Magari avrebbe potuto nasconderla sotto il letto e lamentarsi
con la professoressa d’averla smarrita per la quarta volta.
In fondo, non ci era mica tagliata per una cosa del genere.
«Dovrai pur fare
qualcosa, Hoshino.» Ricorda di averle sentito
dire qualcosa del genere.
Ed in effetti lei qualcosa la vuole fare davvero.
«Voglio nuotare.»
«E allora accetta quella proposta e partecipa.»
«Ma lì si fa agonismo.»
«E allora?»
«Non voglio competere.»
«E cosa vuoi fare?»
«Voglio nuotare!»
«Ma come fai a nuotare se non fai agonismo?»
Mentre rimembra la conversazione disastrosa avvenuta con la docente,
decide di fare una passeggiata lungo la spiaggia.
Come se gliene fregasse ancora delle medaglie, dei trofei. Tuttora ce
li ha tutti, e l’unica cosa che fanno è quella di
accumulare polvere. Eppure sua madre non vuole buttarli, fiera
dell’unica cosa decente che sa fare sua figlia.
Il vento si fa più insistente e la sabbia le si rifrange
contro ogni parte del corpo, appiccicosa a causa delle gocce
d’acqua salmastra che le impiastricciano i piedi nudi e la
stoffa di jeans che le ricopre le caviglie. I capelli corti le si
scompigliano, alcune ciocche ribelli si sfilano dalla piccola coda che
ha fatto frettolosamente. Ben le sta, la prossima volta almeno ci
penserà due volte prima di andare lì.
Rimane a fissare un punto impreciso d’innanzi a
quell’orizzonte troppo vasto ed il suo occhio non riesce a
tenere il passo con il magnifico blu che ha di fronte: l’aria
è tersa, e limpida le risulta quella linea che divide
beffardamente l’oceano dal cielo – supponendo che
entrambi, da qualche parte, abbiano una fine.
Pensa a tante cose, in quel momento. Così tante da non
riuscire a porre un filo che interconnetta tutti i suoi impulsi
nervosi. Anche questo giorno sta volgendo al termine; si sente
consumare dal Sole calante e dalla mestizia che crogiola il suo animo
perplesso e spaesato, mentre ciò che rimane della sua
attenzione viene rapito dalla macchinosa danza di un gabbiano dal
piumaggio spento, vittima dell’ennesima petroliera di
passaggio.
Lo afferra tra le piccole mani, richiudendo accuratamente le ali
dapprima spiegate. Per qualche motivo, ha paura che quelli siano gli
ultimi istanti di vita del volatile, ormai caduto sotto la morsa del
veleno nero. La scena le incute un certo timore, mentre lo osserva
divincolarsi in malo modo da una stretta che aveva creduto essere
confortevole; il venerando pennuto s’accascia a terra, fissa
il cielo con le belle iridi scure e più non si muove.
«Avresti voluto tornare al cielo, immagino.»
L’eco delle sue parole si perde nell’atmosfera
tetra del primo crepuscolo, celando una malaugurata premonizione. Forse
anche lei non sarebbe più riuscita a tornare
all’acqua come avrebbe voluto fare.
Forse qualcuno avrebbe davvero deciso per lei, per la sua vita. Forse
non sarebbe più stata destinata al suo elemento.
Allora sì, sarebbe stato meglio fare la fine di quel
gabbiano.
Ripensa alla lettera che ancora scotta sul tavolo della veranda.
L’ha lasciata lì perché non debba
sentirsi ancora osservata da quella risma, che imprime sulla cellulosa
a basso costo la decisione più difficile, quella
più detestabile. È come se le bruciasse via quel
po’ di ossigeno che le serve per riprendere fiato: condannata
ad un’infausta apnea, si sente come quando
l’avversaria della corsia accanto le sta davanti e non
può permettersi di sprecare neanche una bracciata,
perché significherebbe che ha perso.
La verità è che lei avrebbe potuto nuotare veloce
quanto le pareva, ma tanto il tempo l’avrebbe sempre
raggiunta.
Avverte di nuovo quel senso di vuoto colmarle la cassa toracica.
L’ironia della sorte è che non si può
riempire il nulla con altro nulla, o almeno è quello che si
era sempre detta. Eppure, in quel momento, sommersa
dall’attacco di panico che ha preso possesso di lei, si
chiede se non sia stato il suo destino a portarla lì, a
vedere il mare, ad osservare lo spegnersi del gabbiano, a pensare di
partecipare davvero a qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita per
sempre.
Socchiude gli occhi, mentre l’oscurità si porta
via la nitidezza delle cose intorno a sé: forse se si
concentra riesce ancora a vedere le belle lampade a sospensione della
balconata di casa. Il buio la fa da padrone ben presto, ma il suo
sguardo è ormai abituato alle ombre – poco importa
che siano quelle del cuore o del mondo.
Otto anni.
La vecchia sé stessa avrebbe cercato
d’intravedere, in quello scorrere inesorabile delle lancette,
qualche positività. Dopotutto, era sempre stata brava a
sorridere mentre nascondeva le lacrime. Dopo il nuoto, era decisamente
la sua specialità.
Inizia a sentire freddo; si stringe nelle spalle, sfregandosi gli
avambracci con le mani e appressando il viso nella calda sciarpa di
lana grezza che le punge il naso arrossato. Mentre ritorna verso la
luce della calda dimora, ripensa che ormai quegli anni passati
lì siano stati sufficienti e che forse la sua sensei ha
ragione. Forse deve davvero tornare a casa, quella vera.
Qui, in fondo, cosa mi
è rimasto? Ci riflette su.
Mette un piede davanti all’altro per inerzia, senza neanche
pensare d’accelerare il passo stanco: se avesse potuto
nuotare nell’aria forse sarebbe stata più veloce,
ma non è questo il mondo in cui poterlo fare. Si maledice
per essere nata nell’universo sbagliato; la sé
stessa che può notare nell’aria sarebbe
decisamente più felice: dannata ragazza
dell’universo giusto.
Alza lo sguardo verso la balconata ormai prossima. La sagoma longilinea
dell’ormai adulto fratello si staglia lottando contro le luci
che le offrono una visione sfocata del corpo atletico del suo
consanguineo, ma nonostante questo riesce a distinguere chiaramente le
salde mani di lui stringere la missiva incriminata. La alza verso di
lei, facendo il gesto di consegnargliela.
«Cos’hai deciso?» Il tono della sua voce
è calmo, ma fitto di quell’impazienza che la
sorella ha ormai imparato a distinguere.
Sarebbe stato meglio chiederle “Hai deciso?”, ma si
rende conto che non vi è spazio per un’ironia che
lui non riuscirebbe a cogliere. È serio. Anche lei dovrebbe
esserlo, ma le è stato insegnato che il metodo
più semplice per defilarsi dalle scelte è quello
di riderci su, per cui non riesce davvero ad essere onesta con il
giovane uomo che le sta di fronte. Un po’ si sente in colpa.
«Cosa vuoi sentirti dire?» gli chiede senza mezze
misure. «Tanto anche se decidessi di non andarmene, tu mi
cacceresti a calci in culo, giusto?»
«Non farei mai una cosa simile.»
«Ma ci penseresti.»
Afferra la busta color avorio, indugiando sui caratteri dai tratti
energici. Ha ancora un po’ paura di leggere quello che vi
è scritto, ma non può farne a meno.
Oggetto:
Convocazione Nazionali Giappone
Classe:
200 metri, stile libero
Sezione:
Femminile
Girone:
Eliminatorie
Batteria:
5ª
Alla Sig.rina Mizuko Hoshino.
Analizzato il quadro agonistico e la rapida ascesa in competizioni
della suddetta disciplina di nuoto a stile libero, il comitato
organizzativo per il Trofeo Nazionale Annuale, valuta la candidata alla
1ª selezione come IDONEA.
Con la presente la invitiamo a ritornare quanto prima in Giappone,
previa consultazione del personale preparatorio e della scuola di
appartenenza, per essere trasferita in un istituto locale per
l’ufficializzazione della sua partecipazione ai nazionali di
nuoto agonistico.
Certi di un suo riscontro positivo, le inviamo cordiali saluti.
Staff per il Trofeo Nazionale Annuale.
Tokyo, 2012-12-12
Sbuffa, innervosita.
«Analizzato il quadro agonistico» borbotta, facendo
il verso al cerebroleso che ha inviato quella lettera. «Ma si
può davvero scrivere una cosa del genere?»
«Perché, cosa volevi che ti scrivessero? Ciao
Mizuko, tutto bene in Francia?» Il fratello è
più sarcastico del solito, per quanto riesca a constatare.
Quando fa così vorrebbe solo prenderlo a pugni.
Non risponde, ma rimane in silenzio a fissare l’oceano mentre
viene inghiottito dall’ultimo albore crepuscolare.
È subito sera.
Prende coscienza del freddo improvviso, la cui testimonianza si cela
nelle piccole nuvolette del suo respiro mozzato a contatto con
l’aria frizzantina che la circonda. Sorride come
un’ebete, nel ricordare l’infanzia passata fingendo
che quelle nubi improvvisate uscissero da una sigaretta invisibile,
stretta tra l’indice e il medio della sua mano destra.
Un tempo le ci voleva davvero poco per essere felice. Cosa diavolo era
cambiato?
Ragiona attentamente e con dignitoso raziocinio – o almeno
questo è quello che pensa. «Ne, Kaito.»
«Che c’è?»
Si sente fissata, ma non ha alcuna intenzione di ricambiare lo sguardo.
«Il mare in Giappone è ancora lo stesso?»
È ormai abituato alle bizzarre domande che gli pone ogni
volta, per cui non si stupisce di vederla così assorta nei
suoi pensieri sconnessi. Quesiti che non avrebbero mai avuto senso per
qualcuno, ma per lei… quella è un’altra
storia.
«Suppongo di sì» si limita a
risponderle, assecondando la vista della sorella e concedendosi anche
lui di guardare l’orizzonte troppo scuro per poter essere
ancora apprezzabile.
La giovane sospira, frustrata all’idea di essere ancora
vittima di un burattinaio astratto che si diletta a tirare i fili della
sua vita a proprio piacimento. La verità è che
non c’è mai stata una vera scelta da fare, lei
questo lo sa bene.
Deve solo chinare il capo ed accettare per l’ennesima volta
d’essere quell’involucro fatto di carne che
affronta il cambiamento sorridendo, come ogni bambola sa fare. E in
effetti, se ci pensa, non ha mai visto una bambola triste. In fondo, cosa
importa… sono vuote.
Già. Vuote.
⚘
Le gocce gli cadono dalla chioma scura; una per volta scivolano veloci
lungo i capelli lisci per precipitare nuovamente nell’acqua
che riempie la vasca, creando piccoli cerchi che si disperdono tra le
pareti del piccolo abitacolo.
Non riesce ancora a sentire Makoto chiamarlo. Forse è ancora
troppo presto.
Poggia la schiena contro la parete bianca di ceramica; si sente
più stanco degli altri giorni, ma non sa spiegarsi il
motivo. Fissa il delfino posto sulla mensola d’innanzi allo
specchio: da quando era piccolo, aveva sempre trovato una certa
affinità con quel mammifero. Gli piaceva il suo modo
elegante di nuotare e la fierezza dei salti, a contatto con
l’aria densa delle gocce che il suo maestoso tuffo generava.
Rivede nella sua mente lo sguardo del rosso al club di nuoto ormai
abbandonato, il suo incedere pretenzioso, la voce carica di rabbia. Si
chiede cosa possa essere successo per averlo fatto cambiare
così repentinamente, ma prima che possa rispondersi una
stilettata dritta nel petto sembra trapassarlo, mentre ripensa al suo
primo anno di medie, alla loro sfida, alle lacrime del compagno troppo
orgogliose per poter abbandonare le sue ciglia.
Forse è davvero colpa sua, se Rin è in quelle
condizioni. Prima di adesso non ci ha mai riflettuto troppo, per paura
di trovare risposte scomode che avrebbero generato solo altri sensi di
colpa.
S’immerge sotto il pel d’acqua, lasciando le bolle
che fuggono dalla bocca salire veloci a cercare la luce che penetra
dalla finestra. Ha gli occhi chiusi, e
nell’oscurità delle palpebre serrate si susseguono
una serie di ricordi confusi, sbiaditi e senza apparente significato:
l’alone nebbioso del suo passato plasma la fisionomia di un
Makoto molto più giovane di adesso, un Nagisa decisamente
piccolo e Rin, con ancora stampato in volto quel ghigno che aveva
imparato a riconoscere come suo carattere distintivo.
Lì, sperduto nel buio della mente, vede la vecchia
felicità dell’infanzia svanire via e
l’acqua voltargli le spalle. Come quella volta.
Riemerge di colpo, non abbastanza svelto da evitare di ripensare a quegli occhi. Si
sente scosso; avrebbe giurato di rivedere l’immagine distorta
dell’amico mentre vince la loro recente sfida, ma
ciò che gli si palesa davanti è la malinconica
vista di uno sguardo dalle gemme preziose, l’una zaffiro e
l’altra rubìno. Deglutisce a fatica, ingoiando
parte dell’acqua della vasca, la quale scivola veloce lungo
l’esofago, a strozzargli la gola che si ribella a suon di
piccoli colpetti di tosse.
«Haru?»
Sente i passi rassicuranti di Makoto farsi strada nel bagno mentre
riprende ancora fiato. Lo sente avvicinarsi al bordo della vasca, ma
ancora non riesce a guardarlo. Respira col diaframma, certo di riuscire
a ritrovare il contegno.
«Tutto bene?»
«Perché lo chiedi?» Sa di aver fatto una
domanda stupida. In fondo da quando è entrato
l’amico, non ha spiccicato parola e non s’azzarda
neppure a guardarlo.
Makoto si gratta la testa. Trattare con Haru, a volte, può
risultare complicato. «Immaginavo che… beh, la
faccenda di Rin, sai…»
Si volta finalmente a guardarlo. Nel suo sguardo non vi è
nulla che possa tradirlo, eppure in cuor suo avverte ancora il disagio
per essersi concesso, anche solo per un istante, un ricordo proibito.
«Va tutto bene.» Afferra la mano
dell’amico che come sempre è il miglior sostegno
al suo improvviso mal di vivere.
Sente di essersi ripreso, ma non appena poggia il piede sul tappetino
di spugna, un terribile macigno si salda attorno al suo petto come il
più terrificante degli abbracci. Mantiene il controllo,
nonostante tutto. Non vuole che l’amico si preoccupi
inutilmente.
Si avviano a passo svelto verso l’istituto, con le cravatte
ben annodate attorno al colletto delle camicie lise. Il sole accecante
s’afferma litigioso contro il freddo frizzante
dell’aria di dicembre, mentre attorno ai due amici un clima
sempre più natalizio prende vita attraverso lustrini e luci
colorate – decisamente una cosa che non potrebbe essere
più indifferente agli occhi azzurri del giovane nuotatore
prodigio, che certo non ha mai apprezzato le convenzioni sociali.
Natale può significare solo una cosa: fa troppo freddo per
andare in acqua. La cosa lo urta parecchio, ma sa che esternando una
simile puerilità il castano rischierebbe di scoppiargli a
ridere in faccia, osservandolo con sguardo dolce e divertito al tempo
stesso. Non ha decisamente voglia di rischiare d’essere preso
in giro.
Camminano silenziosi lungo la stessa strada di sempre, ma lo sguardo
cobalto del meno alto non riesce a giovarsi del bel panorama terso
dell’oceano alla loro sinistra, che come sfondo leggiadro
diletta gli intraprendenti pescatori. Non riesce a bearsi di
quell’immensità, poiché la mente
intrisa di pensieri sconnessi ancora non vuol saperne di lasciar andare
il nefasto ricordo sortogli di sfuggita mentre era ancora nella vasca.
Erano anni che quello sguardo non sorgeva spontaneo ad irretirgli la
mente; in cuor suo sperava di essersene disfatto.
Dopo tanti anni passati a rimuginarci su, ancora non gli è
chiaro come lo faccia sentire tutta quella storia. Non sa se provare
tristezza, rabbia, delusione, felicità…
è uno di quei ricordi cogitabondi e sopiti, fitti di mistero
e che perciò devono essere dimenticati, o in altro modo si
rischierebbe d’impazzire. Questo è ciò
che si è sempre detto per giustificare la sua
incapacità di porre un freno a quelle domande senza mai
risposta.
«Haru.» Non ha bisogno di fissare l’amico
per capire come si sente.
Per quanto voglia lasciarlo fuori da tutta questa faccenda, si rende
conto che ormai ha compreso tutto. «Ho una domanda da
farti.»
L’aitante giovane presta subito l’orecchio. Per
qualche motivo, Haru sembra imbarazzato. «Tu… ti
ricordi il nome…»
«Eh?»
«Fammi finire» lo rimbecca il corvino, sbuffando.
Non è semplice per lui parlarne, figurarsi ammettere di star
pensando ancora ad una sciocchezza simile. «Ti ricordi il
nome di quella bambina?»
Makoto gli appare sempre più perplesso. Non è la
prima volta che gli fa domande strane, ma questa le batte decisamente
tutte. Se Nagisa o qualcun altro avessero posto a lui la stessa
domanda, probabilmente si sarebbe limitato a voltar loro le spalle e a
fare finta che fossero pazzi. La trova tuttora la soluzione
più logica.
«Haru…» Lo sguardo intenso
dell’amico si oscura di una certa preoccupazione.
«Non è che…»
Vuole chiedergli se ci sta ancora pensando. In effetti, si dice il
moro, è una domanda del tutto lecita. Si stupirebbe se non
gliela facesse. «Voglio solo ricordarmi il suo
nome.»
«In realtà te lo ricordi perfettamente, non
è vero?» sbotta Makoto, grattandosi nervosamente
la nuca. «Non ne avevamo già parlato?»
No,
vorrebbe rispondergli, non
l’abbiamo mai fatto. Se l’avessero
fatto, probabilmente lui non starebbe lì a cercare
disperatamente di dimenticarsi del peggiore tra i fantasmi del suo
passato. Distoglie la mente dal dolce ricordo del sorriso sdentato che
si allontana, soffermandosi sul volto incupito dell’amico.
Vorrebbe dirgli ancora che va tutto bene, come la sua presunzione gli
ha imposto quella mattina, quando Makoto era giunto a casa sua con la
speranza che anche quella fosse una giornata normale.
Beh, non lo è. Non lo è affatto.
Il castano si schiarisce la gola, riacquistando la sua solita
lucidità. Sa bene che turbare Haru risultandogli seccato non
è un buon metodo per lasciare che si confidi, per cui decide
di deporre l’ascia da guerra, inseguendo il deflusso rapido
dei pensieri in piena del bruno.
«È passato tanto tempo,
però…» Cerca di pensare con tutte le
sue forze a quel nome incastrato nella sua memoria, quel nome
addormentato e che ricorda molto bene. Quel nome che deve avere il
coraggio di pronunciare, se questo può liberare
l’amico dai propri incubi. Lo vuole, lo desidera con tutto il
cuore.
Che Haru torni ad essere libero.
«Si chiamava…»
⚘
«Mizuko Hoshino. Yoroshiku
onegai shimasu[1].»
Percepisce i mormorii dei suoi compagni di classe. È
abituata a tutto questo: probabilmente si staranno già
chiedendo chi sia, cosa ci fa nella loro scuola, perché si
è trasferita a dicembre e soprattutto da dove sono sbucati i
suoi occhi diversi ed intimidatori.
Il sorriso perlaceo che rivolge ai compagni è lo stesso di
sempre, bello e sfavillante come quello di tanti anni prima. Si sente
spaesata, come se quel luogo non gli appartenesse più come
un tempo, ma è certa di celare il suo disagio:
lì, dopotutto, non la conosce nessuno.
I mormorii si levano sempre più crescenti, mentre un ragazzo
alza la mano, scambiando una gomitata di assenso con il suo vicino di
banco.
«Sei fidanzata?» Delle risatine si levano dal fondo
dell’aula. Ha già capito che l’ultima
fila è da evitare come la peste.
«No» risponde senza scomporsi.
«È morto.»
Capisce subito che il suo scherzo non è stato considerato
tale dal resto dei presenti, poiché un silenzio glaciale
scende a rendere l’aula improvvisamente fredda. Non
è mai stata molto brava, con quel tipo di goliardie.
«Scherzavo.»
Sente levarsi dei sospiri di sollievo e qualche risatina nervosa, ma il
clima rimane teso fino a quando il sensei non le chiede di sedersi da
qualche parte. Con sua insolita sorpresa, vede le mani di molti alzarsi
per cederle i propri posti. Rimane impalata come uno stoccafisso, senza
pronunciare parola.
Non è più abituata a socializzare, si dice. Forse
avrebbe dovuto ricominciare. China rispettosamente il capo, scegliendo
uno dei posti accanto alla finestra: almeno, da lì, avrebbe
potuto guardare il cielo, se proprio la vista le impediva di vedere
l’azzurro dell’oceano.
Sposta distrattamente lo sguardo alla sua destra, osservando le
fattezze del suo vicino di banco. Sembra diverso rispetto al resto
dell’omogeneità maschile. Capisce subito che deve
praticare qualche tipo di sport che gli permetta di avere un fisico
decisamente più allenato e asciutto del resto dei ragazzi
presenti: forse basket, magari judo.
Risalendo su a fissargli l’ampio petto nascosto
dall’uniforme scolastica, si sofferma sui corti capelli blu e
su uno sguardo che non riesce subito a focalizzare a causa degli spessi
occhiali rossi che gli circondano le cavità oculari.
Il ragazzo si volta nella sua direzione e arrossisce, distogliendo lo
sguardo immediatamente, nonostante tenti ancora di studiare i suoi
movimenti con la coda dell’occhio; le sembra quasi tenero,
mentre è intenta ancora a comprendere il pigmento che gli
caratterizza l’iride. Non si preoccupa affatto di apparire
sfrontata, d’altronde prima o poi dovrà comunque
fare la sua conoscenza.
«Ohi» biascica d’un tratto, facendola
sobbalzare. «Ho qualcosa in faccia?»
La ragazza sbarra gli occhi, trattenendo a stento una risata. Se
qualcuno vedesse lei in quel modo, probabilmente penserebbe che
è pazzo, no di certo darebbe la colpa alla sua faccia.
«No.»
«E allora che hai da guardare?» È
infastidito e, a giudicare dal rossore delle goti, piuttosto
imbarazzato.
«Ah.» Deve trovare qualcosa di sensato da dire, ma
sa perfettamente che le sue sinapsi si divertono da morire a vederla in
difficoltà. «Beh. È che non riesco a
vedere il colore dei tuoi occhi.»
Rimane a fissarla imbambolato, incerto se credere di aver capito male o
pensare che sia davvero fuori di testa. Eppure, nonostante il suo
penetrante sguardo, si rende conto che non ne è affatto
spaventato, al contrario: perché diavolo un tappo del genere
avrebbe dovuto incutergli timore?
Con l’indice si porta gli occhiali più vicini
all’attaccatura del naso, sbuffando. «Tecnicamente
sono color malva.»
Lo fissa. Teme di scoppiargli a ridere in faccia da un momento
all’altro, ma si contiene; non ha voglia di apparire
maleducata. «Sono viola.»
«No, malva»
la rimbecca nuovamente il ragazzo. «Viola è un
altro colore.»
«Che diavolo di differenza vuoi che ci sia tra malva e
viola?!»
Ecco. Niente, non riesce proprio ad avere un bel carattere; tuttavia,
il suo interlocutore non sembra scomporsi minimamente. Si lascia
sfuggire una risata supponente e decisamente isterica, mentre la guarda
con fare superiore. «La malva possiede delle note purpuree
che la rendono decisamente differente da un comunissimo
viola.»
La ragazza si sporge di colpo verso di lui, suscitandogli un improvviso
rossore.
«C-che stai facendo?» È perplesso, ma
lei non ha alcuna intenzione di rispondergli.
Lo fissa negli occhi, con lo sguardo di chi ha intenzione di svelare un
mistero. Finita l’indagine si rimette a sedere composta sulla
sua sedia, incrociando le gambe e imitando qualcuno che si sistema gli
occhiali. «Non è presente alcuna nota purpurea nei
tuoi occhi.»
«Certo che sì!» Questa volta
è lui a sporgersi verso di lei, alzando di scatto gli
occhiali all’altezza della fronte ed indicandole
l’iride con il dito. «La vedi? Eh!?»
Lo fissa con sufficienza, preoccupata che possa accecarsi da un momento
all’altro. Quel tipo è davvero strano –
ma, in fondo, non sembra poi così male. Sorride sorniona,
nascondendo il ghigno nella sciarpa di lana. «Ora che mi fai
vedere meglio, si nota qualcosina.»
La vena che ti sta per
uscire dall’orbita, vorrebbe continuare, ma si
trattiene, contenta che quella risposta sia sufficiente a risollevargli
il morale. Sta per voltarsi nuovamente verso la finestra, pronta a
perdersi in malinconici pensieri, quando il compagno si schiarisce la
gola.
«Ryugazaki» si limita a dire.
Gli concede uno dei suoi migliori sorrisi, sorprendendosi di quanto sia
autentico. Quel ragazzo strano e dall’aria allucinata gli sta
già simpatico. Si sorprende di quanto abbia voglia di
parlare con lui, nonostante la lezione stia ormai per cominciare:
è la prima volta, dopo tanto tempo, che parla di qualcosa
che non sia il nuoto.
Economia domestica.
Fantastico,
pensa, maledicendosi per non essere mai stata attenta durante le
lezioni della docente francese. È la materia dove va peggio,
se possibile, dopo la matematica.
Si china a prendere il quaderno dalla sua cartella, scorgendo in mezzo
ai banchi un portachiavi a forma di pinguino che ricorda esserle
famigliare. Aguzza lo sguardo, rimanendo rigida sotto al banco.
Il ragazzo la studia come fosse ormai un caso clinico.
«Ohi.»
«Ai.»
Nell’alzarsi velocemente, sbatte violentemente la testa
contro la faccia inferiore del banco. «OUCH!»
«Stai bene?!» La voce del giovane è
troppo vicina, tanto da averle sfondato il timpano.
Metà della classe sta sogghignando, mentre l’altra
si sta ancora chiedendo cosa sia stato quel tonfo sordo. Mizuko fa un
cenno timido con la mano, a tranquillizzare quei pochi che, insieme a
Ryugazaki, hanno manifestato un po’ di preoccupazione.
Bene. È lì da pochi minuti ed è
riuscita a collezionare una serie di figure di merda che potrebbero
bastare per anni. Si chiede come sia possibile che il contegno che era
solita portare in Francia non abbia deciso di accompagnarla anche in
Giappone.
Dopotutto, la città d’Iwatobi è il
luogo dove è nata, dove ha imparato a nuotare, dove per la
prima volta ha nuotato in una vera gara, con vere persone che
facevano il tifo e gridavano il suo nome.
Eppure, da quando ha rimesso piede in quel luogo, non le è
mai sembrato così sconosciuto come adesso: la placida
città portuale di un tempo le appare priva di stimoli,
un’istantanea del suo passato che non è
più in grado di concederle niente. Un’insolita
malinconia le piomba addosso, se ripensa a quanto abbia pianto pur di
non dover lasciare quel posto.
Alla ricreazione le si affiancano tutti, curiosi d’ascoltare
la bella favola della ragazza giunta d’oltreoceano. Una
favola che però lei non sa raccontare.
«È vero che vieni dalla Francia?»
«Sì.»
«Com’è il tempo lì, in questa
stagione?»
«Freddo.»
«Hai difficoltà a parlare il giapponese dopo tanti
anni?»
«No.»
«Ohi.» Un ragazzo si sporge dalla calca, in preda
ad un’isterica domanda. «È vero che sei
una nuotatrice professionista?»
Domanda sbagliata.
Serra la mascella, pronta a gettare veleno contro il povero
malcapitato, ma si accorge, alzando lo sguardo, che lui la sta fissando
con gli occhi sbarrati.
Immersa nelle sue grandi pozze rosate, Mizuko si vede riflessa come nel
più limpido tra gli specchi. Rimane a bocca aperta, mentre
l’eco del suo passato sfiora le mille sfumature dai petali di
ciliegio di quegli occhi a lei tremendamente familiari.
«Mizu-chan» lo sente sussurrare.
Per un istante, è contenta di sentirsi chiamare con quel
nomignolo. Cerca di non apparire troppo sorpresa, ma prima che possa
rendersene conto è già in piedi, stritolando il
giovane come fosse un pupazzo di pezza.
«Nagisa-kun!»
«Sei cambiata tantissimo!»
Nagisa non riesce ancora a credere che la giovane ragazza di fronte a
sé sia l’ingenua e dolce Mizuko che tanti anni
prima faceva parte del loro stesso circolo di nuoto.
Ripensano con nostalgia ai bei tempi andati, seduti lì sulla
terrazza della scuola, certi di non essere disturbati. È
contento di potersi concedere un po’ di tempo in compagnia di
una vecchia amica, una conoscenza del passato che ritorna nel suo
presente come se non se ne fosse mai andata.
Si sente in difetto a non averne ancora parlato con Makoto e Haruka, ma
si convince che fare il ruolo dell’egoista, per quella volta,
non possa nuocergli più di tanto.
«Quindi era vero che ti eri trasferita in Francia.»
«Sì, assolutamente.»
«E com’era lì?» La sua domanda
cela un innegabile senso di curiosità.
Mizuko se ne rende conto, ma non riesce a mentirgli, per quanto sia
convinta che le sue parole possano risultargli presuntuose. Poggia le
mani dietro la schiena, fissando il cielo. Forse a Nizza, in quel
momento, il cielo non è poi così azzurro.
«Era davvero adorabile» dice infine, persa
nell’unico blu che le è consentito vedere.
«È vero che hai frequentato un’accademia
di nuoto professionale?»
«Già.»
«Racconta!»
L’entusiasmo del giovane amico l’aveva sempre
colpita, ma rimane sorpresa di vederlo così interessato alla
sua vita passata: non le era mai sembrato tipo da interessarsi alle
vicissitudini degli altri, nonostante fosse un rinomato impiccione.
«Cosa vuoi sapere?»
«Ogni cosa!» Sente le dita sfiorare la pelle
morbida del compagno. La sua mano è decisamente
più robusta dell’ultima volta che ne ha percepito
la presenza. «Non biasimarmi! Sei scomparsa da un giorno
all’altro senza dire niente!»
Vorrebbe ancora scusarsi per quel comportamento, ma si convince che con
il racconto della sua vita fino a quel momento potrebbe fare ammenda
per l’incresciosa fuga di tanti anni prima.
Sospira, soffocando una risata accondiscendente. «Gomen nasai[2].
Neanch’io sapevo che sarei dovuta partire.»
Lo sguardo che il ragazzo le rivolge non potrebbe essere più
dolce di quello che le riserva proprio lì, tra un boccone
del bento[3]
e l’altro.
Mizuko si sorprende di quanto sia cresciuto il piccolo bimbo che tanti
anni prima si tuffava in piscina con la spensieratezza di una
gioventù ancora tutta da vivere; non avrebbe mai creduto che
quegli occhi così fugaci e dediti solo alla leggerezza
dell’attimo, potessero risultarle or ora così
affidabili e saldi pur nella loro ancora celata acerbezza.
«Sono stata un’atleta in una scuola molto antica
che ha come scopo la formazione di nuovi talenti per
l’agonismo a livello nazionale.»
«Sugoi[4],
Mizu-chan! Sei davvero diventata una professionista!?»
Non vuole affatto deludere le aspettative dell’amico, ma
invece di rispondere a quella domanda con la sicurezza di cui un
esperto del settore si farebbe vanto, rimane in silenzio, nascondendo
ciò che le risulta essere disagio. Nagisa rimane a fissarla,
confuso.
«Mizu-chan, ho detto qualcosa di sbagliato?» La sua
preoccupazione è resa tangibile dal modo in cui le stringe
la mano, spaventato all’idea di averle arrecato
dell’imbarazzo.
Gli sorride mestamente, rifiutandosi d’intristire il tanto
entusiasta biondino. «No, affatto.»
«E allora cosa? Sembri così triste.»
Ridi, è la
cosa migliore. Fa ciò che la sua mente gli ha
acutamente suggerito, ottenendo l’effetto sperato: Nagisa
sembra tranquillizzarsi.
«Ma che dici!» lo rassicura, grattandosi la nuca
coperta dai corti capelli biondi. «È solo che
tornare dopo tanto tempo… beh…»
«Dev’essere stata dura per te, in questi
anni.» Come si aspettava, l’amico è
davvero cresciuto.
«Sì, forse è così.»
«Le aspettative che le persone si saranno fatte su di te
devono metterti sotto pressione.»
«Già.»
Rimangono in silenzio per un po’ di tempo. Vorrebbe chiederle
così tante cose, Nagisa, da non riuscire a trovare un filo
conduttore per rendere il discorso sensato. Non gli capita poi spesso
di poter incontrare una persona dopo così tanto tempo.
«Ne, Mizu-chan» la chiama infine, ponendo lo
sguardo rosato sulle nuvole bianche che passano veloci sopra le loro
teste. «Sei molto diversa, non è vero?»
La ragazza china lo sguardo; d’un tratto le proprie scarpe le
paiono molto più interessanti di quella scomoda
conversazione. Nagisa comprende che non riceverà mai una
risposta alla sua domanda, ma nonostante ciò continua, certo
che lei lo stia ancora ascoltando.
«Prima eri solare e piena di vita, adesso
sembri…» Vorrebbe continuare, ma la voce di lei
risuona grave nell’aria improvvisamente pesante.
«Le cose cambiano sempre, Nagisa.» È
tutto quello che riesce a dire, prima di sentire la gola divenire
insopportabilmente stretta. Sa che continuando a parlare un singhiozzo
potrebbe tradirla, per cui sceglie nuovamente la via del silenzio.
«Mizu-chan…»
«…»
«So che magari può sembrarti presuntuoso da parte
mia, cioè… io non sono un esperto di problemi
così grandi… però…
sì, beh… puoi parlarne con me, se vuoi.»
Mizuko avverte l’impellente desiderio di abbracciarlo, ma si
trattiene, certa che una manifestazione d’affetto come quella
avvenuta in classe sia più che sufficiente per quella
giornata. Gli afferra un lembo della manica, decisa a risollevargli il
morale: non ha alcuna intenzione di essere considerata come la ragazza
sensibile che non riesce a sopportare l’idea di essere stata
costretta a lasciare la propria casa.
Perché, in fondo, è di questo che si tratta.
«Va tutto bene, Nagisa.» Gli sorride, ma in quella
smorfia il biondo non riesce a riconoscere nulla che appartenga alla
bella immagine della bambina che ricorda con tanta affezione.
«Allora, perché sei tornata?»
«È complicato.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Altri monosillabi, altri groppi alla gola. Si sente davvero una frana,
nonostante abbia creduto di riuscire a fingere s’accorge di
non esserne in grado. È una sconfitta che le brucia
più di tutte le altre.
Quando sta per cedere, pronta per vomitare via tutto ciò che
il suo piccolo corpo non riesce più a contenere, Nagisa
scoppia a ridere. «Pensare a quando ti vedranno Mako-chan e
Haru-chan.»
Sbarra gli occhi, sorpresa. «C-che?»
«Ma sì! Non puoi non ricordarteli!»
«N-no, li ricordo! M-ma…» Si maledice
per non essere in grado di nascondere il nervoso.
D’improvviso, come un tuono che rimbalza violento contro le
finestre di una casa facendole sobbalzare, il suo cuore si ritrova in
preda ad un tumulto d’emozioni che non è in grado
di gestire: gli occhi blu che tanto le ricordano l’oceano le
sfrecciano davanti come ricordi incustoditi e la cui presenza
è stata celata solo dal tempo.
«Frequentano anche loro questa scuola!» sbotta
divertito Nagisa, senza sapere cosa si celi dietro
l’apparente silenzio della compagna. «Mi sorprende
che siano così in ritardo per il pranzo.»
Mizuko scatta in piedi, con gli occhi sbarrati e il sudore che comincia
a formarglisi dietro la nuca.
No. Cosa
dovrebbe fare? Sa di non essere nelle condizioni ottimali per poter
fronteggiare una situazione di quel tipo: potrebbe anche riuscire ad
ingannare Nagisa, ma non crede di essere all’altezza degli
altri due vecchi compagni di squadra.
«Eh…» Una serie sconclusionata di parole
le rimane impacciata in gola, mentre un nodo sempre più
evidente le si forma all’altezza dell’ugola.
Parlare non le è mai sembrato così complicato
come in quel momento. «Io…»
Voglio andarmene.
È quello che vorrebbe dire al biondino dagli occhi spaesati;
se prima gli aveva dato solo una mera impressione del suo malessere,
ora è ovvio che le cose siano più gravi di quelle
che ha cercato di fargli sembrare.
Indietreggia di qualche passo, guardando di sbieco la porta. I battiti
impazziti del cuore le rimbombano incessanti dentro la cassa toracica,
rendendo inesorabile il tempo che scorre veloce ad annullare la
distanza tra i due compagni: Nagisa è al suo fianco, e la
scuote come fosse vittima d’un improvviso sonno ad occhi
aperti.
«Mizu-chan!» si sente chiamare e le note di quella
voce sono terribilmente impaurite.
Mentre cerca di tornare padrone del suo corpo scosso dai tremiti, sente
il suono stridente del metallo della porta che sfrega contro
l’uscio. Trattiene il fiato, mentre Nagisa si volta in
direzione delle due figure che emergono dall’ombra delle
scale interne.
Quando la poca lucidità le impone di voltarsi, Mizuko
incrocia quello sguardo che tanto le ricorda il blu di casa.
NOTE:
[1] Letteralmente: “Vi
prego di considerarmi anche in futuro”. Italianizzata,
è uno pseudo-formale “Piacere di
conoscervi”.
[2] Lett. “Chiedo
perdono”.
[3] Vassoio contenitore con
coperchio, di varie forme e materiali, adibito a servire un pasto.
[4] Lett.
“Fantastico”.
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Capitolo 3 *** 2. Baka ***
❝
Lo sclero di
ℰver❞
I momenti della giornata che Haru preferisce sono sempre stati due:
l’alba e il tramonto. Di quello che sta in mezzo si
disinteressa completamente. Non sono affari suoi.
Ma l’alba è una cosa diversa, lui lo sa bene.
Acerba e piena di tutte le aspettative che la notte ha portato alle
persone, fatte di piacevoli sogni, d’incubi spaventosi.
Qualsiasi cosa porti con sé, è sempre il
principio di qualcosa di straordinario e imprevedibile.
È sempre dolce, l’alba. S’alza in punta
di piedi, a non voler recare alcun fastidio. È silenziosa e
non pretende mai d’essere guardata, ma sorride placida a chi
con coraggio affronta l’impresa di un risveglio mattiniero.
L’alba premia sempre gli insonni e gli intraprendenti. E
nessuno può odiarla, perché non si può
mai disprezzare davvero qualcosa che sorge. È
l’inizio.
Tanto rimane incantato dalla sua umiltà quanto dal suo
gemello lucente, il bel tramonto dalle mille sfumature purpuree che
rincorrono nuvole dall’aspetto fiammante
all’orizzonte, proprio lì dove un enorme cerchio
dapprima giallo si colora di un fuoco prepotente e pronto a collassare
dietro il circolo massimo del medesimo colore.
È diverso dall’alba, il tramonto. È
decisamente più egocentrico, con quei colori accesi che la
sua opposta non s’arrischia neppure a pensare. È
presuntuoso e pretende d’esser visto, perché lui
è la fine della giornata e le persone lo sanno.
Dopo di lui c’è solo la notte.
Guardatemi,
perché dopo di me non vedrete nient’altro,
sembra dire a chi distoglie lo sguardo dalla sua dipartita.
È sagace, il tramonto, e sa sempre cosa dire.
Quanti amori deve aver visto sbocciare, quel meditabondo sornione,
mentre la sorella se ne stava silenziosa ad accontentarsi di qualche
ignaro passante che non riusciva a prendere sonno.
Se le becca davvero tutte lui, le fortune.
Ma questo, in quel momento, per Haru non conta. E non conta
perché quei due gemelli estranei dall’azzurro
pastello e dal rosso vivo, se ne stanno incastonati nei begli occhi
della ragazza che di fronte a lui lo fissa smarrita.
È abituato sempre a ragionare a mente lucida, per cui si
convince che non possa essere davvero
lei. Sarebbe quello che potrebbe chiamare destino, se così
non fosse.
«Haru-chan! Mako-chan!» esulta Nagisa, mentre si
avvicina ai due amici. «La riconoscete? Eh? EH?»
Se ne rimangono entrambi zitti, ma la cosa non sembra pesarle affatto.
In fondo, preferisce il silenzio a commenti imbarazzanti. Cerca di
parlare per allentare la tensione, ma Makoto sembra precederla.
«Mizuko» mormora il castano, incerto sulla
pronuncia del nome.
Gli occhi di Haru tremano di un bizzarro luccichio, quando vede la
ragazza alzare lo sguardo e concedere loro un bel sorriso perlaceo che
non ha niente a che vedere con quello più sdentato e puerile
di tanti anni prima. La fissa rapito, mentre dentro di sé
una tempesta prende il sopravvento su ogni cosa che sente appartenergli.
«Ciao, ragazzi.» Il tono della sua voce
è dolce, come se fosse fatto da fili sottili pronti a
spezzarsi.
Vuole risentire ancora quel suono, ormai diverso dalle infantili note
distorte dall’eco dei ricordi sbiaditi. Non riesce ad
emettere alcun fiato, stordito com’è da una
presenza per lui troppa da sopportare.
La giovane sembra accorgersene; nel fissare i loro sguardi attoniti, si
rende conto che è lei l’unica che può
in qualche modo risolvere la faccenda. Inspira profondamente,
com’è solita fare, mentre si porta con lo sguardo
a fissare gli occhi sbarrati del delfino.
«Ciao, Nanase-kun.» Poi, voltandosi verso il
compagno più robusto sfoggia un altro dei suoi sorrisi.
«Tachibana-kun.»
Il corvino non emette un fiato; le sue labbra lo implorano di
pronunciare qualcosa, qualsiasi
cosa possa farle capire che anche lui si ricorda di lei,
che non l’ha dimenticata – e come avrebbe potuto?
Lei con quel suo fare stravagante, il suo precario equilibrio e
l’incapacità di rimanersene zitta quando serve;
lei con quegli occhi limpidi e strani, meravigliosamente
strani; lei con quei bei fili dorati che le incorniciano il volto
sorridente ed energico.
«Mi…»
Il groppo che gli blocca la gola si stringe quando la ragazza si gira
verso di lui: si è dimenticato come si senta ogni volta che
lei lo guarda a quel modo. Come lo faccia sentire sapere che
è riuscito a catturare l’attenzione dei due
momenti della giornata che preferisce.
S’accorge di assomigliare decisamente più al
tramonto: ha sempre voluto a tutti i costi che lei lo guardasse, ma
incapace di comprenderlo ha sempre finto d’essere
l’alba; in quel modo non avrebbe mai dovuto darsi spiegazioni
del perché volesse a tutti i costi appropriarsi di quello
sguardo.
«Mizuko.» La voce sembra evaporare nel momento
esatto in cui pronuncia quel nome.
Si sente stranito, Haruka. Tanto da non capire cosa stia accadendo nel
proprio petto. Qualcosa sbatte contro la cassa toracica ed aumenta
d’intensità quando vede la giovane sorridere,
mentre sospira d’entusiasmo.
«Allora vi ricordate di me!» sbotta felice,
strizzando le palpebre per la gioia.
Sorride istintivamente il giovane talento, mentre l’amico
dallo sguardo smeraldino rimane a fissarlo, preoccupato: si chiede se
non sia qualcosa attinente al famoso detto “Uwasa wo sureba kage”[1].
Nonostante il suo status psicologico sia instabile, Makoto si scopre
felice di rivederla, dopo tutto quel tempo: Mizuko non gli ricorda
affatto la bambina di tanti anni prima. Il suo sorriso è
più maturo, il suo sguardo più brillante di come
lo ricorda. S’accorge di quanto sia cresciuta dal petto
piccolo ma formoso, chiedendosi il perché sia rimasta
così minuta nonostante gli allenamenti.
Gli
allenamenti… «Mizuko.»
«Ai.»
«Tu…» Neanche sa il perché
glielo stia domandando, ma sente che è la cosa giusta da
dire. «Tu nuoti ancora, vero?»
Sente lo sguardo spaesato di Haruka spostarsi su di lui, mentre Nagisa
precede la bocca più tentennante della giovane.
«Ma certo!» sbotta il biondino, afferrando la mano
dell’amica e spingendola in avanti. «La nostra
Mizu-chan non avrebbe mai potuto smettere! Ne, Mizu-chan?»
La ragazza annuisce poco convinta. Nagisa conosce parte della storia
della sua vita, ma in cuor suo spera che il ragazzino se ne stia buono
senza farne parola con gli altri due. Per qualche motivo, non vuole che
Haruka ne venga a conoscenza.
«Quando sei tornata?» Il tono coinvolto del corvino
le sconquassa la testa, mentre fa appello a tutte le sue forze per
rispondergli senza balbettare.
«Da qualche giorno.»
Rimane a fissare le pozze oceaniche che brillano di una particolare
luce, mentre il ragazzo le si affianca facendole cenno di sedersi.
Mizuko sbarra gli occhi, confusa. D’improvviso sente le
nocche di Haru poggiarsi sulla propria fronte, ma il tocco è
troppo delicato per poter essere anche solo definito come un colpo.
«Noi non abbiamo ancora mangiato, baka.»
Arrossisce, mentre viene rapita dal sottile sorriso delle labbra di
lui. Sorriso che, se si concentra, riesce a vedere persino nel suo
sguardo profondo.
Si volta verso Makoto che, bisticciando con Nagisa per un wurstel a
forma di polipetto, è già per terra, pronto ad
aprire il suo bento. Quell’aria familiare le straripa
violenta nel cuore, mentre la tranquillità
s’impossessa del suo animo agitato.
Haruka l’ha chiamata baka.
L’ha chiamata come la chiamava di solito.
Si sente una sciocca per essere contenta solo per questa idiozia.
Eppure, non riesce a fare a meno di sorridere. Gli siede accanto,
aggiustandosi la gonna; Haru vorrebbe chiederle tante di quelle cose
che non ha idea di come lei possa rispondere a tutte le domande che ha
da farle.
«Mizuko, perché sei tornata?» Come
sempre Makoto lo precede, disinibito da tutta quella riservatezza che
è invece tipica del delfino.
La ragazza accanto a lui intreccia le dita delle mani, ridendo
nervosamente. Come sempre è strana, ma la cosa pare
tranquillizzarlo. Non le sembra cambiata di una virgola.
«È vero!» sbotta Nagisa, improvvisamente
serio. «Non me ne hai ancora parlato!»
«Beh, non che sia una storia tanto avvincente»
esordisce, portando le braccia indietro per stiracchiarsi.
«Anzi, a dirla tutta, non lo è per
niente.»
Haru la guarda, contrariato all’idea che possa aver parlato
di sé all’amico di un anno più giovane
di lui. Il motivo di un simile risentimento si cela nel fatto che, da
quando è partita, non ha mai saputo niente sul suo conto.
«È successo qualcosa?» Il suo tono
è atono come sempre, ma alle orecchie attente
dell’orca non sfugge una sfumatura di preoccupazione.
«Nulla di particolare.»
«Beh un motivo ci sarà
senz’altro» dice Nagisa, mentre è
intento a masticare l’ennesimo boccone del suo panino.
Mizuko rimane in silenzio per qualche istante. È evidente
che non voglia parlarne, ma sente l’improvviso bisogno di
farsi forte agli occhi del ragazzo che le siede accanto: vuole che lui
la guardi meravigliato, come non ha mai fatto in passato. Forse, a
loro, avrebbe anche potuto dirlo.
Giocherella distrattamente col pendolino che tiene attaccato al
cellulare, evitando lo sguardo dei presenti. Sta cercando di pensare al
modo migliore per dirlo senza risultare pretenziosa.
«Sono...»
Stata selezionata per i
nazionali. È quello che vorrebbe dire, ma la
sua bocca si rifiuta di pronunciare una frase simile. Decisamente
troppo diretta, eppure quello è l’unico metodo che
conosce per comunicare le cose.
«Sono stata…» Lo sguardo curioso dei
presenti si fa sempre più pressante. «Sono stata
chiamata da mia madre, in realtà.»
Ed ecco a voi una testa
di cazzo, si rimprovera mentalmente, consapevole di essere
un caso perso: si accontenta di raccontar loro una mezza
verità solo per paura che possano giudicarla. E lei che in
tutti quegli anni pensava di essere maturata quel tanto che bastava per
essere più sicura di sé stessa.
Lo sguardo di Makoto si rasserena, mentre le sorride placidamente. Come
sempre il suo modo gentile di rapportarsi con le persone le scalda il
cuore. È come vedere lo stesso bambino di sempre, solo
più alto e con più muscoli; il suo sguardo,
quello sguardo smeraldo ed intenso, è identico ad otto anni
fa. Per certi aspetti, la tranquillizza.
«Mizuko.»
Le si ghiaccia il sangue, al suono della profonda voce di Haruka mentre
la chiama per nome. Sbarra gli occhi, cercando di non apparire troppo
sorpresa. «Ai.»
Si perde nello sguardo intenso che le rivolge, rimanendo incantata a
fissarlo. Si chiede se l’abisso sia davvero dello stesso
colore degli occhi che la stanno guardando in quel momento. Il delfino
non dice una parola; rimane in silenzio, mentre perfino
l’attenzione degli altri due amici si focalizza sulla strana
atmosfera che aleggia tra i due prodigi del libero. Non servono parole
per descrivere ciò che sta accadendo, e anche a cercarle
probabilmente non esisterebbero.
È ciò che i romantici chiamano alchimia.
Nagisa scambia una sottile occhiata d’intesa con Makoto, il
quale gli fa un cenno affermativo col capo. «Ma guarda quanto
è tardi!» sbiascica, lasciandosi scappare un
risolino malizioso. «Dovremmo proprio andare adesso! Ne,
Haru-chan?»
Il bruno lo fulmina con lo sguardo, ma sa che non è ancora
giunto il momento per chiederle dei chiarimenti che magari lei non
sente di dovergli concedere. Eppure, più la guarda e
più si rende conto che l’unica cosa che vorrebbe
è capire perché è partita,
perché ha deciso di non farsi più
sentire… perché l’ha lasciato solo,
magari. Forse è davvero questo il problema, in fondo.
È frustrato. Arrabbiato.
E terribilmente felice di rivederla.
⚘
Cammina silenziosa, trascinandosi la tracolla con dentro i libri.
È pomeriggio e l’aria le sembra più
fredda del solito, ma la pigrizia le vieta di fermarsi a cercare la
sciarpa in mezzo al caos della sua borsa, così aumenta il
passo, certa di potersi riscaldare con una marcia più veloce.
Percorre le strade tranquille del bel paese di mare, buttando
l’occhio alla spuma bianca delle onde che si rifrangono sulla
battigia. Si concede un attimo di respiro, avvicinandosi alla sabbia e
chinandosi a sfiorarla con le dita.
Chiude gli occhi, beandosi di quella sensazione di freschezza e
libertà. Lì, vicino al mare, il freddo
è più pungente, ma non le importa. A Nizza ci era
più che abituata, dopotutto. Ripensa con somma nostalgia a
quei giorni di libertà, mentre l’immagine di Haru
le appare lesta a riempirle la mente: i begli occhi di cui si era
dimenticata, quel giorno l’avevano rivista per quello che era
diventata. Si chiede se anche lui sia stato sorpreso di vederla. Lo
spera.
Si siede sulla soffice arenaria, incurante di sporcare la gonna o le
lunghe calze che le avvolgono le gambe sottili. Se potesse, nuoterebbe
persino in quel momento, con quel ventaccio. Non le è mai
capitato di fare il bagno a dicembre, ma si convince che sia
un’esperienza da provare, prima o poi. Un raffreddore non
sarebbe poi la fine del mondo.
Si lascia cullare dalla bella emozione che le provoca l’aria
salmastra nelle narici: pensa che, comunque lo si guardi,
l’oceano è sempre uno e quell’acqua
è la stessa di Nizza. Si convince che non dovrebbe mancarle
così tanto, casa. Eppure, in cuor suo, sente di mentirsi
spudoratamente, da brava vigliacca.
Ha amato tutto, di quella vita. Ogni cosa. Non si pente del minimo
passo.
Si chiede cosa speri di ottenere adesso, partecipando a quelle
selezioni – ammesso che decida davvero di parteciparvi
– e che cosa possa pensare la gente attorno a lei. Ripensa
allo sguardo curioso di Makoto e sente
il respiro mancargli: non è in grado di mentire, tuttavia lo
fa. Lo fa perché non riesce a dire altro che non sia
menzogna, perché ammettere di non riuscire più a
nuotare solo per il gusto di farlo le sembra impossibile.
Probabilmente Haru la odierebbe, a quel punto. Proprio lui, che le ha
insegnato quanto sia facile abbandonarsi al bell’elemento,
l’unica cosa a questo mondo che sia in grado di abbracciarla,
ma di farlo davvero: ogni parte del suo corpo sfiorata dalla dolcezza
di minuscole molecole d’H₂O che scivolano lungo
l’epidermide, mentre con gli occhi semiaperti spia i raggi
del Sole, gelosi di quell’affetto, e che tuttavia non
riescono a raggiungerla; è ormai troppo lontana dalla
superficie, lontana dall’ossigeno che non le sembra
più così indispensabile: le sarebbe sufficiente
quel tanto che basta per rimanere lì ancor un po’.
Un tempo riusciva a provarle, quelle emozioni. Adesso non ne
è più così sicura.
Si alza in piedi a fatica, mentre riprende la via del ritorno senza
voltarsi neppure una volta a riguardare l’oceano. Quella
giornata può anche finire lì.
Imbocca una stradina secondaria per allungare il ritorno verso casa:
non ha proprio voglia di ritornarsene in quell’appartamento
silenzioso, in compagnia di sé stessa. Si dice che dopotutto
una camminata più lunga non può farle male.
Si avvia per un piccolo sentiero che sembra portare sulla
sommità della collina che torreggia su tutta Iwatobi: si
chiede come possa essere il mondo, visto da lassù.
S’incammina, accelerando il passo, mentre avverte i polmoni
iniziare a boccheggiare man mano che la pendenza si fa più
considerevole. Quando scorge la fine dello sterrato,
un’improvvisa sferzata di vento la raggiunge, obbligandola a
chiudere gli occhi.
Quel vento così infuriato è come un toccasana, un
dolce sussurro che le stordisce i sensi, obbligandola a non pensare. Se
potesse davvero riuscirci, probabilmente tutti i suoi dubbi
svanirebbero.
Socchiude gli occhi, mentre soffia la nenia dell’aria. Le
viene un’improvvisa voglia di togliersi le scarpe per sentire
il solletico che le fanno i fili d’erba che oscillano leggeri
sul bel praticello. Sta per afferrare i lacci, quando qualcosa in
lontananza cattura la sua attenzione. Affila lo sguardo, scostandosi
una ciocca di capelli dalla fronte. È quasi sicura di
scorgere la bella chioma dorata di Nagisa sotto ad un gazebo.
Cerca di farsi notare con un cenno della mano, ma l’amico
è girato di tre quarti e sembra stia parlando con qualcuno.
Quando se ne accorge, fa un passo indietro. Non ha voglia di
disturbarlo, se è davvero in compagnia. Fa’ per
andarsene, consapevole di quanto sia tardi, ora che il Sole sta
scomparendo stanco dietro l’orizzonte.
Sospira. Da dove è Nagisa si dovrebbe vedere, il tramonto.
Sbuffa, mentre si avvia.
«Mizu-chan!» sente infine chiamare, prima che possa
scomparire all’ombra dei cedri del boschetto.
Si volta; il braccio di Nagisa si muove da una parte
all’altra come il pendolo di un orologio.
«Ciao, Nagisa!» È contenta che lui si
sia accorto in tempo di lei. Almeno così potrà
capire cosa si vede da lassù.
Man mano che si avvicina riesce a scorgere altre due figure: una
è Makoto, cosa che la stupisce non poco.
«Tachibana-kun.» Si gratta la nuca, imbarazzata per
non essersi accorta di lui. «Pensavo tornassi sempre con
Nanase-kun.»
Il castano le sorride bonario, facendole un delicato cenno con la mano.
«Va bene così, Mizuko. Non preoccuparti.»
«Lei chi è?» Una terza voce fa capolino
da uno degli scalini del gazebo.
Quando Mizuko si volta a guardarla, il suo sguardo rimane
improvvisamente colpito dalla presenza di una giovane ragazza
– probabilmente della sua età – che la
fissa con due grandi occhi purpurei. La vede inarcare le sopracciglia,
sorpresa.
«Non ti ho mai vista in giro.»
Come avresti potuto,
vorrebbe risponderle, ma si trattiene dal risultarle maleducata sin da
subito. Le sorride, a disagio per la situazione creatasi. Dopotutto,
neanche lei l’ha mai vista.
«Mi chiamo Mizuko Hoshino» le dice, chinando
leggermente il capo in segno di rispetto. «Hajimemashite[2].»
La giovane che la sta davanti fa altrettanto. «Gou Matsuoka.
Ma per piacere, chiamami Kou.»
«Kou?»
«Sì.»
Non ha voglia di fare altre domande, per cui acconsente con un gesto
della testa. La rossa sembra rilassarsi, mentre si volta verso gli
altri due ragazzi. «La conoscete?»
«Sì, faceva parte del club di nuoto Iwatobi prima
che arrivasse Rin.»
«Rin?» Il nome le esce dalla bocca senza che possa
fermarlo, mentre i presenti si girano a fissarla. Nagisa le batte
amichevolmente una pacca sulla spalla.
«Gomen,
Mizu-chan. Non te ne abbiamo ancora parlato.»
«Di cosa, esattamente?»
«Beh…» Makoto si volta verso di lei.
«È una lunga storia.»
Gou annuisce, sorridendo. Un sorriso che a Mizuko non piace affatto,
perché è finto e carico di tensione. Lei, che non
è abituata all’ipocrisia delle cose, sbuffa
irritata. La giovane orca se ne accorge e le si affianca, sfiorandole
la spalla con una mano per tranquillizzarla. Quel contatto la fa subito
chetare.
«Allora, Gou, cosa ci facevi a casa di Haru?»
C-che?
Si volta verso la rossa, trapassandola con lo sguardo. Decisamente non
le sta simpatica. Ha sancito la sua condanna a morte, lo sa per certo.
Improvvisamente sente l’ansia montargli addosso, pensando che
magari quella strana ragazza e Haru…
Oddio, no.
Certo, è proprio carina. Sicuramente più di lei,
che al confronto è più bassa e più
stramba. No, no, no.
Attende impaziente una risposta alla domanda di Makoto, mentre
giochicchia distratta con le dita, in preda ad una malcelata isteria.
«Ah…» fa la giovane Matsuoka, prima di
distogliere lo sguardo.
Dio, vorrebbe prenderla a pugni. Cosa c’è di
difficile a sputare fuori il rospo?
«Volevo chiedergli di mio fratello.»
Sente il cuore diminuire bruscamente le pulsazioni, mentre trattiene un
sospiro di sollievo. Nonostante tutto, riesce a rilassarsi. Nagisa la
fissa di sottecchi, trattenendo una risata. In fondo, l’amica
non è affatto cambiata.
«Allora Rin è davvero tornato
dall’Australia?» La voce di Makoto è
più intensa del normale.
«Sì, lo scorso mese. Ora sta frequentando
l’Accademia Samezuka. È un collegio, per cui non
è mai tornato a casa.»
«La Samezuka?» ripete il castano, tra sé
e sé.
Mizuko conosce la famosa nomea di quell’istituto. Ne ha
sentito parlare spesso, persino quando era a Nizza: una scuola di
prestigio, il cui club più rinomato è proprio
quello di nuoto. Si chiede se quel fantomatico Rin non sia anche
lui un nuotatore come tutti loro.
Rimangono ancora lì a parlare per un po’ di tempo.
Nagisa non sta più nella pelle, preso
com’è dall’idea di andare a spiare gli
allenamenti dei collegiali alla ricerca del loro amico.
«Sarà divertente!» sbiascica, mentre
l’afferra per le spalle. «Mizu-chan, devi
assolutamente venire anche tu!»
«Manco…»
⚘
«Morto.»
Haru non è dell’umore adatto per quel tipo
d’avventura.
È rimasto tranquillo nella vasca, quando ha sentito entrare
le voci dei due compagni e quella più squillante di Mizuko,
che a quanto pare è stata trascinata da Nagisa a casa sua.
Al vederli nuovamente così vicini distoglie lo sguardo,
mentre si tampona la chioma bagnata con un piccolo asciugamano. La
osserva di sottecchi: è imbarazzata al vederlo con addosso
solo il costume e ancora fradicio dal recente bagno.
Ha lo sguardo rivolto altrove; si chiede cos’abbia pensato al
sentire la storia di Rin. Probabilmente i due non le hanno raccontato
tutto per filo e per segno – specie perché non
sanno davvero tutto.
«Andiamo alla Samezuka!» sbotta entusiasta il
biondino, afferrando Mizuko per le spalle. «Mizu-chan,
diglielo anche tu!»
Il modo con cui l’amico si avvicina con tanta disinvoltura
alla compagna d’infanzia lo infastidisce. Non riesce neanche
lui a capire il perché di tanto astio, ma ogni volta che
Nagisa le sta vicino, lui sente dentro di sé una rabbia che
neppure Rin è mai riuscito a tirar fuori. Fa per afferrargli
il braccio e allontanarlo da lei, ma le parole di Makoto sembrano
bloccarlo.
«Non vuoi rivedere Rin?» gli domanda semplicemente,
mentre dentro di sé la rabbia cede il posto
all’angoscia che il ricordo del rosso porta con sé.
Certo che
lo vuole rivedere.
«Lo abbiamo incontrato ieri.»
Mizuko si sorprende della freddezza con la quale risponde il corvino.
Lo fissa stralunata, incrociando per un istante il suo sguardo e non
riuscendo a fare a meno di pensare che stia mentendo. È
così, lo può sentire dall’eco delle sue
parole, lo può vedere dal leggero tremolio dei suoi occhi
blu. Ha detto esattamente il contrario di quello che vorrebbe fare.
Cerca di dirgli qualcosa, ma ancora una volta la voce di Makoto la
interrompe. «Credevo finalmente che saresti tornato a
nuotare, se ci fosse stato lui.»
La ragazza spalanca la bocca, confusa. «C-che significa che
finalmente sarebbe tornato a nuotare?»
Haru si volta a fissarla; è chiaramente turbata da quelle
parole, i suoi occhi sono sbarrati in una dolce espressione
disorientata, la bocca rimane semiaperta e fatica a inspirare. Il
delfino sa che, se potesse posare un orecchio sul suo piccolo petto,
sentirebbe i battiti accelerati del suo cuore intristito.
Di tutte le notizie, quella è l’unica di cui non
vuole parlare. Desidera risponderle, ma si accorge che non ha nulla di
concreto da poterle dire. In effetti, neanche gli altri sanno il
perché abbia smesso davvero
di nuotare. Eppure, a lei vuole parlarne. Vuole che capisca, questa
volta senza allontanarla.
«Mizuko» la chiama, allungando una mano a
carezzarle la corta chioma bionda. «Va tutto bene.»
La ragazza china il capo, consapevole che non sia quella la situazione
per poterne parlare. Si sente imbarazzata dal suo gesto, mentre gli
sguardi complici degli altri due compagni rimangono inebetiti a fissare
il piccolo siparietto di una dolcezza che di solito non appartiene al
delfino. A lui non importa, in realtà. Finché
può di nuovo aver vicino la sua personale rompiscatole, gli
va davvero bene tutto.
«La Samezuka in teoria ha una piscina al coperto»
dice infine il castano, sorridendo sornione.
I due liberi si guardano, scambiandosi un’occhiata
d’intesa che rende manifesta la loro decisione.
Qualche
istante dopo sono tutti fuori casa, in attesa di prendere il treno che
arriva puntuale come suo solito. Nagisa impiega pochissimo tempo per
appisolarsi sulla spalla di Haru, mentre la testa di Makoto oscilla
silenziosamente a causa del suo imprevisto pisolino.
La ragazza si mette in ginocchio con i gomiti poggiati sul finestrino
della cabina. Il suo sguardo fugge veloce lungo la distesa azzurra che
s’intravede in lontananza; sul viso si cela mal nascosta
un’insolita gaiezza. È la vista del mare che la
rassicura, ancora una volta. Lì dove il suo cuore non trova
pace, ci pensa l’oceano. È sempre stato
così, d’altronde.
Haru rimane in silenzio, a guardarla. I begli occhi della giovane sono
altrove, persi in chissà quali assurdi pensieri.
«Mizuko» la chiama infine. Sente il suo sguardo
addosso e china il capo, imbarazzato.
Vorrebbe dirle tante di quelle cose… a cominciare dal
dispiacere che ha provato nel vederla andare via. A quanto le sia
mancata, nonostante le avesse sempre detto di non sopportarla. A tutte
le volte in cui ha cercato il suo sguardo senza più poterlo
vedere. Alla rabbia, alla frustrazione, alla paura di non essere
più in grado di nuotare, se non ci fosse stata ancora lei.
Non le dice niente di tutto questo, perché è un
codardo che non ha neanche il coraggio di confessarle che lui, in tutti
quegli anni, non ha mai smesso di pensare a lei. Non gli è
mai importato di capire il perché. Lo ha fatto e basta. Se
glielo dicesse, lei penserebbe che sia davvero patetico.
«Ne, Nanase-kun.» Si volta a fissarla, rimanendo
stordito dalla vista del suo bel sorriso spontaneo. «Quanti
pesci stanno in mare?»
È proprio lei. Una domanda senza senso, esattamente come
tutte quelle che gli poneva alla fine degli allenamenti, quando
rimanevano ad aspettare il fratello. Sul suo volto corrucciato e
serioso appare l’ombra di un sorriso. Vuole risponderle
seriamente, questa volta. «Non saprei. Forse
miliardi.»
La giovane ridacchia, poggiando il capo sulle braccia e lasciandosi
illuminare dalla luce calda del tramonto.
«È un peccato che non si possano
contare» sospira infine, reprimendo uno sbadiglio.
«A me piacerebbe sapere quanti sono.»
«Perché?»
«Chissà se stanno stretti, nel mare.»
Lei non risponde mai alle domande che le vengono poste. Haru lo aveva
dimenticato, ma adesso gli è di nuovo chiaro. Sotto certi
aspetti, l’atteggiamento immutato della compagna lo
tranquillizza. È come un ricordo che non è mai
andato perduto, una piccola parentesi che, in qualche modo, riesce ad
annullare il terrore che ha di rivedere di nuovo il rivale.
«Mizuko.»
«Ai.»
«Questa volta…» Deglutisce, incapace di
esternare per bene quello che sente.
Si era dimenticato di come si sentisse quando lo guardava. Adesso che
avverte nuovamente quegli occhi addosso, è come se una parte
di sé implori per venire a galla; una parte ingenua e
irrazionale, quella che più adora nuotare. Quella che spera
di poterla vedere nuotare. La ragazza avvicina il viso al suo,
afferrandogli la testa con entrambe le mani. Sorride, osservando come
Haruka sia improvvisamente arrossito. «O-ohi!»
«Che c’è?»
«Sei… troppo vicina.»
«Voglio vedere.»
«Cosa?»
«I tuoi occhi.» Poggia la fronte contro quella del
corvino, mentre sente il suo respiro farsi sempre più
strozzato. È imbarazzato, ma a lei non importa. Vuole
capire. «Nanase-kun… perché sei
così triste?»
Haruka si sente mancare l’aria; capisce che la colpa non
è della vicinanza dell’amica, ma della domanda che
gli è appena stata posta. Uno strano tremolio gli consuma
gli occhi, mentre schiude le labbra per raccontarle ogni cosa, stanco
di lottare contro quello sguardo preoccupato, quello sguardo che sa
leggergli addosso tutte le sue emotive sfumature.
Non può vincere, contro di lei. Quand’era piccolo
si sentiva sempre pronto a sfidare quel suo modo di fare invadente ed
indisciplinato, ma adesso non riesce a immaginare cosa più
confortante di quella: una domanda che farebbe un bambino. Una domanda
semplice, che richiede una risposta complicata.
«Io…» Voglio rivedere Rin.
«Non voglio rivedere Rin.»
La vede storcere la testa, confusa. «Non gli vuoi
più bene?»
Sente la risposta morirgli in gola. Non è questo, il
problema.
Si libera sgarbatamente dalla delicata presa delle piccole mani,
distogliendo lo sguardo dalle sue iridi indagatrici. Lei è
troppo semplice, per capire uno come lui – o forse
è solo preoccupato di scoprire che la realtà
è davvero facile come la vedono quegli occhi diversi.
«Non voglio parlarne» mormora glaciale, tornando a
fissare il paesaggio fuori dal finestrino. «E piantala di
fissarmi in quel modo, baka.»
Mizuko sorride. Si aspettava che lo facesse: da quando la conosce, non
l’ha mai vista offendersi per i suoi modi scontrosi.
Abbassa lo sguardo, mentre cerca a tentoni la mano di lei. Quando la
trova, sente la delicatezza delle dita sottili sfiorargli il palmo. Non
gli è mai piaciuto il caldo, ma il tepore delle sue mani
è diverso da qualsiasi altro. È materno e dolce,
come il respiro vaporoso di una nenia di mezza estate.
Il delfino sente una strana vampa sfiorargli le guance, mentre
lentamente serra le proprie dita attorno a quelle di lei; non lo
farebbe mai, in altre circostanze. Si convince che, per una volta,
può anche gettare via quella maschera
d’indifferenza che si porta sempre addosso.
⚘
Ha le palpebre serrate dalle mani, mentre sente la voce isterica di
Makoto implorare Haru di non spogliarsi proprio lì, davanti
alle vetrate della piscina della Samezuka. Non riesce neanche ad
esprimere l’imbarazzo per quella paradossale situazione; si
volta di spalle, al fruscio della cinta che viene sfilata dai passanti
dei pantaloni.
«Ma aspettare, no?!» gli strilla addosso il
compagno di una vita.
Mizuko schiude una palpebra, sbirciando maldestramente il corpo del
ragazzo con addosso solo il suo costume preferito. Sospira di sollievo,
mentre cerca di far sparire via il rossore che ancora le ricopre le
guance. La forma del delfino è sempre perfetta, si dice,
mentre distoglie lo sguardo per paura che Nagisa possa prenderla in
giro.
Attendono pazientemente la fine degli allenamenti – Makoto,
nel frattempo, è riuscito nella titanica impresa di far
rivestire l’amico. Quando il Sole cala dietro
l’orizzonte, finalmente il più giovane si appresta
ad aprire la porta che s’affaccia direttamente sulla piscina.
È emozionata e al tempo stesso ha il terrore che qualcuno
possa scoprirli: non è certamente il miglior modo per
cominciare a rifarsi una vita.
Richiudono la porta alle loro spalle e subito la ragazza avverte il
richiamo dell’acqua, quel fatidico incontro tra i suoi occhi
e il grande specchio che riflette il grande tetto vetrato, dipinto da
migliaia – no – milioni di stelle sbrilluccicanti.
Spalanca la bocca, esterrefatta.
«Oh, Kamisama[3]!»
esclama, portandosi le mani alla bocca per evitare di urlare.
«È meravigliosa!»
«Continuo a pensare che sia una pessima idea»
sussurra il castano, le cui parole non sono abbastanza veloci da
raggiungere l’orecchio di Haru, già spogliato e in
procinto di tuffarsi. «Aspetta!»
Il delfino è ormai lontano da quell’insopportabile
chiacchiericcio. Si tuffa con impazienza, mentre Mizuko
l’osserva con la stessa intensità di tanti anni
prima: non è affatto cambiato, continua ad essere ancora
bellissimo quando è circondato dall’acqua.
«Haru mi ricorda un delfino, anche ora» sente
mormorare dal biondino, arrossito per l’emozione di rivedere
l’amico nuotare con tanta intensità.
Pensa le stesse cose anche lei, mentre il suo sguardo si perde a
contemplare quel corpo votato al nuoto più di qualsiasi
altro, elastico ed energico, che sembra liquefarsi ad ogni bracciata.
Un po’, deve ammetterlo, l’ha sempre invidiato.
«Mako-chan! Entriamo anche noi!» sbotta infine
Nagisa, mentre si allenta il nodo della cravatta ed ammicca
all’amica, invitandola con lo sguardo a fare lo stesso.
«N-non è possibile!» gli sbraita subito
contro lei, arrossendo.
«Se ci scoprono saranno guai! E poi dobbiamo cercare
Rin.» Come sempre, Makoto sembra essere quello più
razionale, in mezzo a quel mare di teste calde.
«Possiamo farci comunque una nuotatina prima! Non ci
scoprirà nessuno, se non accendiamo le luci!»
«Però il costume non ce l’hai!»
«Pazienza, anche nudi va bene.»
«Ma anche no!» sbotta infine la ragazza, voltandosi
di spalle con le mani che le sfondano i bulbi oculari. «Non
ti azzardare!»
Sente un tuffo improvviso. Le pare subito ovvio come l’amico
non abbia prestato attenzione alle sue parole. Sospira, voltandosi
piano a guardare il misero scherzo che il pinguino ha appena fatto
all’amico più robusto, che se ne sta in acqua
senza dire una parola, con la camicia fradicia a disegnargli i contorni
tipici di un nuotatore di dorso.
Mentre intraprendono una bizzarra acchiapparella subacquea, la ragazza
avverte l’improvvisa necessità di cercare anche
lei quel contatto che le manca più di tutto. Si avvicina
maldestramente al bordo della piscina, sfiorando la patina
d’acqua con l’indice: tanti piccoli cerchi si
dipartono dal suo dito, perdendosi in quella vastità
trasparente. Rimane in contemplazione del fenomeno, con lo sguardo
perso in ricordi troppo lontani per poter essere agguantati tanto
facilmente: la prima volta che ha visto l’oceano; la prima
volta che ha nuotato senza i braccioli; la prima gara.
Sorride, ma non come è solita fare. Chiude gli occhi,
inebriandosi della bella sensazione che le offre l’acqua.
Rimane ferma per degli istanti interminabili, convinta di poter
indugiare così in eterno, se solo potesse. In fondo, a lei
è sempre interessato solo quel contatto.
«Mizuko.» Chissà per quale motivo, ma
quando lui la chiama così non riesce a fare a meno di
pensare di essere speciale.
Schiude
le palpebre, trovandosi la mano del moro tesa verso di lei, come un
dolce invito a pretendere di più di quella semplice
vicinanza. Si sente improvvisamente tesa.
«Non ho il costume» mormora, contenta che il suo
rossore rimanga nascosto nel buio della sera.
«Non importa» le risponde lui. Non ha voglia di
lasciarla andare. Non questa volta.
La ragazza si slaccia le scarpe, levandosi le lunghe calze che le
coprono le gambe fin sopra alle ginocchia. Quando la fioca luce della
sera mette in risalto il suo pallido piedino, Haru lo afferra
delicatamente, guidandolo a cercare la freschezza dell’acqua.
Mizuko si porta una mano sul viso, cercando di nascondere la porpora
che le dipinge la faccia d’imbarazzo.
Non è mai stata abituata, a questo tipo di Haru. Ha sempre
conservato gelosamente i ricordi di un giovane ragazzo prodigio che
sembrava non sopportarla. A lei era sempre andato bene così,
in realtà. Ma questo ragazzo… questo ragazzo che
ha di fronte le piace, forse anche più del precedente bimbo
che è stato.
«G-grazie» biascica, titubante.
Il giovane distoglie lo sguardo imbarazzato, schizzandola leggermente
sulle ginocchia. «Non c’è bisogno che mi
ringrazi.»
«Devi chiamarmi baka,
altrimenti non vale.»
La fissa stranito, schiudendo la bocca per la sorpresa. Di tutte le
cose senza senso a cui si è preparato, quella è
decisamente la meno ovvia. Sorride, anche se lei non può
vederlo; poggia le braccia a bordo piscina, rimanendo a fissarla come
in trance.
Per un istante, un singolo maledettissimo istante, ritratta su tutto
ciò che ha sempre pensato di lei sin da piccolo: Mizuko le
sembra una ninfa, di quelle che sostano nelle pozze argentee per bearsi
di un bagno di mezzanotte; gli piace com’è
diventata e gli piace il suo sguardo quando è riflesso nello
specchio trasparente che lo sta avvolgendo.
Forse, in realtà, gli è sempre piaciuta.
Le afferra un polso, rimanendo con il capo poggiato sul braccio a bordo
piscina. «Baka.»
Quando rivede il bel sorriso di lei risplendere
nell’oscurità della notte, sente
l’improvvisa voglia di farsi più vicino, ma il
rumore di una porta che sbatte contro il muro lo desta
dall’imbarazzante intento.
Mizuko sobbalza, col cuore in gola. Non riesce a scorgere perfettamente
la sagoma che si avvicina minacciosamente al lato della piscina
più vicino a Nagisa e Makoto. Sembra alto e atletico, ma di
più non riesce a dire. Persino se affila lo sguardo, si
rende conto di scorgere solamente una divisa bianca.
Haru si allontana da lei, immergendosi nello specchio
d’acqua. D’un tratto, un dubbio l’assale.
Che sia…
«E voi che diavolo ci fate qui?» domanda una voce
carica d’astio.
Quelle note così aspre le stridono sonore tra le orecchie;
non le piace affatto quel tono di voce così perentorio.
«Rin!» Vede Makoto sbarrare gli occhi per la
sorpresa.
Nagisa, al contrario, sembra perfettamente a suo agio. «Siamo
venuti qui per veder…»
«Andate via, subito!»
«Rin-chan…» sussurra il biondino,
improvvisamente intristito dall’atteggiamento brusco del
compagno.
Lo sguardo del rosso passa in rassegna i volti familiari dei vecchi
amici, fermandosi infine su di lei. Mizuko non muove un muscolo,
persino quando sente addosso quegli occhi cremisi carichi di disprezzo.
La ragazza avverte uno strano senso d’inadeguatezza, come se
non dovesse trovarsi lì in quel momento.
«Tu chi diavolo sei?» mormora turbato, quando
incrocia gli occhi dissonanti di lei.
Vorrebbe rispondergli, soprattutto per rimproverargli di essere stato
così scontroso con persone che volevano solo rivederlo, ma
Haru la precede, emergendo dal pel d’acqua.
«Libero…» sussurra il corvino, come se
parlasse a sé stesso.
«Eh?» Rin sembra confuso, mentre il suo sguardo
continua a passare freneticamente dall’insolita immagine
della giovane a quella fin troppo conosciuta del rivale.
«Non ricordi? Ti ho detto che nuoto solo in stile
libero.»
L’atmosfera carica di tensione sembra affilarsi quando il
delfino s’issa sul bordo della vasca, uscendo dalla piscina
per ritrovarsi faccia a faccia con i due perplessi occhi cremisi.
Sorride sornione, mentre si scrolla di dosso l’acqua in
eccesso. «Voglio che mi mostri ancora quella parte di te. Ho
dimenticato ciò che ho visto in passato.»
«Certo, con piacere.» La bocca dello squalo si
distorce in un ghigno spaventoso, mentre gli occhi si trasformano in
due sfere fiammeggianti. «Ma stavolta non sarà la
stessa cosa. Ti mostrerò qualcosa di totalmente
diverso.»
Mizuko rimane in silenzio a contemplare la scena. Non riesce davvero a
credere che quella persona possa essere il Rin di cui ha tanto sentito
parlare dagli altri: davvero hanno fatto tutta quella strada per
incontrare un tipo del genere?
Si domanda come mai Haru sia cambiato così drasticamente al
solo vederlo. Non gli piace per niente, quando si comporta a quel modo.
Eppure, non riesce a fare a meno di pensare che ci sia sotto qualcosa.
S’accorge delle gambe che le tremano solo dopo essersi alzata
in piedi. La verità è che quel tipo la spaventa,
e non poco come vorrebbe credere. Per un istante, quando lui
l’ha guardata, è stato come se le succhiasse via
l’aria. Non ha alcuna voglia di riprovare ancora quella
sensazione, per cui s’avvicina goffamente ai due amici con
ancora i piedi nudi e le gambe scoperte, mentre i due sfidanti
s’avviano ai blocchi di partenza.
Vorrebbe dire qualcosa, ma le parole le muoiono in gola quando sente
nuovamente lo sguardo del rosso su di lei. Non alza la testa, per paura
di dover ancora incrociare quegli occhi; il braccio di Makoto giunge
veloce a cingerle le spalle, facendola spaventare.
«Va tutto bene, Mizuko» le dice, cercando di
tranquillizzarla.
«Ai.»
Non sa se sia davvero così, ma si convince che, se sta bene
anche a lui, allora non può essere una scelta
così sbagliata.
In fondo, non ha mai visto Haruka perdere.
NOTE:
[1] Lett. “Se si parla,
appare”. Questo famoso detto giapponese lascia intendere che
se si parla di una persona, questa alla fine
appare. È il corrispettivo giapponese
dell’italiano “Parli del diavolo, spuntano le
corna”.
[2] Lett. “Piacere di
conoscerti”. Si usa in un contesto informale.
[3] Il corrispettivo di Dio in
giapponese.
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Capitolo 4 *** 3. I ricordi che ho di te ***
❝
Lo sclero di
ℰver❞
CAPITOLO
III
I ricordi
che ho di te
|
È Makoto a dare il via a quella competizione. Una
competizione che, agli occhi di chi guarda, sembra una sfida destinata
a rimanere aperta; sebbene la gambata del rosso sia più
potente, le bracciate che spingono il corvino a stargli dietro sono
decisamente più poderose.
Mizuko sa che, nonostante siano solo cento metri, quella è a
tutti gli effetti una gara di resistenza: il primo che rinuncia alla
bracciata decisiva, perde.
Rimane con gli occhi sbarrati a fissare la curva longilinea dello
squalo, colpita dal suo modo violento di nuotare. Le sembra subito che
l’acqua attorno a lui si sposti da sola, per paura
d’essere picchiata. Non riesce ad essere sorpresa come i due
compagni che le stanno a fianco; lei può vederla,
l’acqua, può sentire cosa prova: Haruka
l’accarezza dolcemente, perfino a quella velocità
non vuole arrecarle nessun tipo di danno; è accorto, attento
e magnificamente in armonia con il suo elemento.
«Incredibile, Haru è davvero
bravissimo!» esclama Makoto, mentre una goccia di sudore gli
scivola lungo la tempia.
«È vero.» Nagisa si sporge in avanti per
osservare meglio i due rivali. «Ha perso terreno ad ogni
virata, ma l’ha quasi raggiunto!»
Lei rimane zitta, rapita dall’espressione decisa del libero;
per qualche istante si sente mancare l’aria nei polmoni,
desiderando anche lei di tuffarsi in quella vastità e
dimenticare tutto, la sua paura di non essere all’altezza, le
selezioni, le mezze verità dette a chi di lei si fida
ciecamente, l’incapacità di ricordarsi la gaiezza
che le procura l’acqua, ogni volta accogliendola con
ciò che ha sempre ritenuto essere due confortanti braccia.
«Vai, Nanase-kun!» grida, facendo sobbalzare gli
altri due.
Non le importa. Non le importa se appare strana, non le importa se gli
reca fastidio incitandolo. Vuole trovare anche lei
quell’inconscia forza di superare il grande muro che le
sormonta l’anima, perché è troppo alto
e da lì non riesce a vederlo,
il grande oceano delle sue emozioni.
Rin stringe i denti, infastidito da quell’incitamento non
richiesto. Si domanda ancora chi diavolo sia quella ragazzina tutta
pelle e ossa, mentre la virata lo porta nuovamente in vantaggio
rispetto al delfino. Si dice che questa volta potrebbe davvero vincere,
se rimane concentrato. Eppure…
«Vai, vai!»
Che cazzo ha da strillare!?
Sente il sangue pulsargli più del dovuto lungo la tempia
sinistra; comprende subito come non sia dovuto allo sforzo fisico, ma
alla voce della ragazza, divenuta quasi isterica per
l’entusiasmo. Tappati
quella bocca, mocciosa.
S’accorge che il rivale ha perso un po’ di
velocità, ma non se ne spiega il motivo. Di colpo, la sua
potenziale vittoria gli sembra inutile con il suo avversario in quelle
condizioni.
Haruka è lontano da tutti quei pensieri. Mentre nuota, sente
improvvisamente giungere all’orecchio la voce di lei, come
l’eco di un ricordo lontano e che risorge dal fondo della
piscina.
˪ È lei. La sente, lo sta chiamando. «Nanase-kun!
Nanase-kun!»
Si sente un attimo imbarazzato, mentre con l’ennesima
bracciata sorpassa l’ultimo bambino accanto alla sua corsia,
toccando per primo la parete della vasca. La ragazza grida di gioia e
lo raggiunge al suo blocco, spintonando per sbaglio l’amico
ch’è solito afferrargli la mano.
«Mizuko» la rimprovera docilmente Makoto,
afferrandola per un braccio per evitare che cada in piscina.
«Stai attenta, quando cammini. Qui si scivola.»
Haru sposta di lato lo sguardo, indispettito dal contatto tra i due.
«Ohi» chiama infine, puntando gli occhi sulla
figura gracilina della bambina. «Non gridare in questo modo.
È solo un allenamento.»
Lei si sporge dal bordo vasca, avvicinando il volto al suo. Il giovane
delfino si allontana di qualche centimetro, mentre le guance gli si
colorano di rosso. «C-che fai?»
Gli sorride, chiudendo gli occhi. «È che quando
nuoti sei davvero bellissimo, Nanase-kun.»
Per un brevissimo istante, le iridi azzurre del corvino tremano al
sentirle pronunciare quelle parole; sente le orecchie ancora tappate
dall’intermittente apnea della gara, ma la voce squillante di
Mizuko non ha bisogno di un udito che senta, ma di un cuore che
l’ascolti.
Fatto savio di questa verità, Haruka la fissa per la prima
volta, rendendosi conto di quanto gli piaccia che lei lo inciti a quel
modo, che lo sostenga e sia sempre lì ad attenderlo ai
blocchi di partenza.
Guardami, vorrebbe dirle. Non smettere mai di
guardarmi, Mizuko. ˥
Adesso la ricorda, quella sensazione. Capisce quello che stava
cercando, perché gli torna tutto alla mente: non ha bisogno
delle altre persone, fino a quando riesce a stare da solo con
l’acqua. Però, quella voce… quella voce
non avrebbe mai potuto dimenticarla.
Era lei,
nei suoi ricordi. Lo è sempre stata.
Tocca per secondo la parete della piscina; quando si toglie la cuffia e
gli occhialini, una strana felicità prende possesso di ogni
suo muscolo, mentre la vede correre verso di lui, seguita dagli altri.
Rimane fermo, con la testa tutta gocciolante, speranzoso che lei gli
dica qualcosa. Quando la vede accovacciarsi accanto a lui, il delfino
sta ancora ansimando per il colossale sforzo di raggiungere il rivale.
«Ne, Nanase-kun» lo chiama, con il sorriso
più bello che le abbia mai visto dipinto addosso.
«Sei ancora bellissimo quando nuoti, lo sai?»
Rin rimane impietrito a fissare l’avversario che le sorride.
Per un istante, tutta la grinta che sente straripargli addosso per la
vittoria si placa. Haru non sembra affatto dispiaciuto di aver perso,
al contrario: s’è accorto di come la guarda.
Eppure, non ricorda di aver mai sentito parlare di quella ragazza. Mai.
Neanche una volta.
Fissa cogitabondo la giovane, incapace di distogliere lo sguardo dai
suoi occhi. Si sorprende di come uno dei due assomigli tanto ai suoi;
è rosso, ma di quel corallo delicato e dai tratti leggeri.
Si sente smarrito al solo guardarla ed una rabbia cieca prende possesso
di ogni suo nervo quando vede il vecchio compagno voltarsi verso di
lui; reca sul volto un insolito sorriso.
«Hai vinto» gli dice solamente. «Bravo,
Rin.»
«Bravo?» ripete, sputando via tutto il rancore che
nutre per il delfino. Lo afferra per gli occhialini che gli cingono il
collo, avvicinandolo a sé. Se potesse, gli tirerebbe
volentieri un pugno.
«Ehi, tu!» sente infine sbraitare dalla stessa voce
isterica che ha sentito prima. «Lascialo in pace, che diavolo
vuoi?»
Si volta indispettito a cercare lo sguardo di lei. È chiaro
che non capisca cosa significhi rimanere al proprio posto in momenti
come questo.
«Chiunque tu sia, mocciosa…»
sta per replicare, ma le parole gli muoiono in gola.
Qualcuno ha appena aperto la porta della piscina.
«Perfetto» la sente mormorare. «Ora
sì che siamo fregati.»
⚘
Sente il telefono vibrare per l’ennesima volta; è
inutile cercare di dormire, quando sua sorella si ostina a mandargli
messaggi. Sbuffa incazzato, afferrandolo di malavoglia e leggendo
accigliato il contenuto dell’ultima mail.
Da: Gou Matsuoka
A: Rin Matsuoka
Sei andato da Nanase e
gli altri?
«’Fanculo» sbraita, lanciando via il
dispositivo elettronico.
Poggia la testa sulle braccia muscolose, socchiudendo lo sguardo;
è stanco e arrabbiato, ma non per il messaggio. È
incapace di pensare ad altro che non sia la vittoria rubata di quella
sera, lo sguardo luminoso del rivale mentre raggiungeva il blocco di
partenza. Perché non era arrabbiato, perché gli
ha sorriso?
I pensieri confusi lo spingono a cercare una risposta che forse non
riesce ancora a darsi, fino a quando distrattamente focalizza
l’attenzione sul nitido ricordo dello sguardo più
insolito che ha visto quella sera: è certo di non averla mai
incontrata prima, eppure sembrava intima con il resto dei suoi vecchi
compagni. Ripensa confuso allo sguardo dell’avversario quando
l’ha vista correre verso i blocchi di partenza.
Non ricorda di averlo mai visto sorridere a quel modo, prima. Non
avrebbe mai creduto, in passato, che una mocciosa del genere potesse
scuotere l’animo imperturbabile di uno come Haruka. Se ben
presta attenzione a ciò che ha osservato, ricorda
perfettamente di averli visti vicini quando ha aperto la porta.
È impossibile,
si dice, sfociando in pensieri totalmente incompatibili con
ciò che conosce dell’ex compagno. Non è proprio il suo
tipo.
Vinto dalla curiosità e dalla rabbia per non essere riuscito
ad andare avanti, afferra lo smartphone. Prende un profondo respiro,
mentre pigia coi pollici sulla tastiera del touchscreen.
Da: Rin Matsuoka
A: Gou Matsuoka
Chi diavolo
è quella ragazzina?
Non vuole rispondere alla precedente domanda postagli dalla
consanguinea, ma sa per certo che lei risponderà alla sua.
In fondo, è solo una sorella che ricerca l’affetto
del fratello maggiore, troppo cambiato per essere ancora un buon
esempio da seguire.
Rimane in attesa di un chiarimento, mentre la sua mente si rifiuta di
lasciar andare lo sguardo conosciuto quella sera, la voce squillante e
quell’aria trasognante che sembravano esser frutto della sua
immaginazione, se non fosse che quella ragazza lui l'ha vista davvero.
E, con lei, ha visto Haru cambiare, divenendo una persona a lui del
tutto sconosciuta.
Il telefono vibra, risvegliandolo dai pensieri; s’affretta ad
afferrarlo, mentre cerca di concentrarsi.
Da: Gou Matsuoka
A: Rin Matsuoka
Non so di chi tu stia
parlando, ma credo si tratti di una ragazza che andava con loro
all’Iwatobi Swimming Club prima del tuo arrivo.
Credo si chiamasse
Mizuko o qualcosa del genere, non ricordo bene.
Ricorda che Makoto l’ha chiamata proprio con quel nome, per
cui è certo che debba essere lei.
Una ragazza
dell’Iwatobi SC? Si ritrova a pensare, non
riuscendo a focalizzare il suo viso in nessun ricordo tangibile. Lo
innervosisce il pensiero che gli altri potessero aver avuto una vita
prima del suo arrivo e non si spiega la strana sensazione che gli
stringe il petto, mentre con lo sguardo vaga lungo le doghe del letto a
castello, ingelosito dal fatto che l’ignaro compagno di
stanza riesca a trovare il sonno molto più facilmente di
quanto non faccia lui.
Un’improvvisa curiosità l’assale: se
è andata via dal circolo, vuol dire che è partita
da qualche parte. E dove? E, soprattutto, perché
è tornata?
Sa perfettamente che non ha il diritto di farsi simili domande; in
fondo, la vita privata di una ragazza che ha visto di sfuggita non
è certo materia che possa interessargli, ma non riesce a
togliersi dalla testa lo sguardo di Haruka mentre la guarda.
Si convince che persino la sua immeritata vittoria abbia a che fare con
lei e non ha alcuna intenzione di continuare a tormentarsi con domande
a cui non può trovare una risposta. Si alza, facendo
attenzione a non svegliare il compagno: a volte, su un letto a
castello, dormire sotto non è poi così male.
S’avvia circospetto lungo il perimetro della Samezuka, con le
mani nelle tasche della felpa e lo sguardo fisso dinnanzi a
sé, preda della voglia di sapere chi diavolo sia quella
mocciosa e il perché stava con loro.
Magari l’hanno vista di sfuggita. Certo, Rin, come no.
Si dà mentalmente dello stupido, crollando sfinito su di una
panchina lì vicino. Lascia andare la testa
all’indietro, venendo colpito dal bel cielo stellato di
quella notte. Si chiede come mai tutti siano riusciti ad andare avanti
tranne lui.
Quel malessere che sente montargli addosso gli fa rabbia,
perché è la prova di quanto lui sia infinitamente
più debole rispetto agli altri. Rispetto ad Haruka, che
sembrava completamente diverso dal ragazzino apatico conosciuto cinque
anni prima.
Scatta a sedersi composto, come scottato dal pensiero appena avuto: se
era nel club di nuoto, allora anche lei nuota.
Allora, forse…
˪ Il rosso scruta attentamente l’armadietto accanto
all’amico. Incuriosito, sfiora con la punta delle dita la
piccola antina in acciaio, ma quando cerca di aprirla, la rigida manata
del corvino richiude il piccolo spiraglio che Rin era riuscito ad
aprire.
Sbuffa, innervosito. «Ohi, Haru!»
Il giovane delfino non ha voglia di rispondergli, gliel’ha
già ribadito molte volte: quell’armadietto non
deve essere toccato.
«Haru!» insiste a chiamarlo il rosso, gonfiando le
guance per il disappunto. «Ma perché non posso
aprirlo?»
«Perché non è il tuo.» Lo
sguardo blu minaccia di divenire presto un mare in tempesta.
Il piccolo squalo si sorprende ogni volta; non vi è cosa che
faccia infuriare quell’apatico bambino, ma quando qualcuno
sfiora – anche solo per sbaglio –
quell’armadietto, i suoi occhi s’incupiscono al
punto tale da far desistere chiunque dall’intento di aprirlo.
Rin osserva di sbieco le iniziali sbiadite sul piccolo cartello
dell’antina: M. H.
Si volta verso il bambino. «Non ho mai visto nessuno aprirlo,
da quando sono qui. Dì un po’, non è
che lo conosci, questo M.H.?»
Vede quello sguardo blu tremare leggermente al suono di quella domanda.
Si chiede se non abbia esagerato con la sua continua invadenza, ma
l’intervento repentino di Makoto distoglie entrambi dalla
conversazione.
«Rin» lo chiama, col suo solito sorriso.
«È una storia vecchia, non
dovresti…»
«Non è una storia vecchia.» La voce del
bruno è incrinata, ma non per il pianto. Quella è
rabbia. «Non ha mai detto che non sarebbe tornata.»
«Haru» cerca di consolarlo l’amico
più caro, ma il rosso si stupisce di come il delfino
respinga il suo aiuto.
«Non ti riguarda!» sbraita, prima di correre via
dalla stanza.
Rin fissa Makoto, spaesato. L’orca non ha voglia
d’incrociare altri sguardi, per quella giornata.
«Perché Haru è così
affezionato a quell’armadietto?» chiede infine,
sulla strada per tornare a casa.
«Apparteneva ad una persona speciale.» Non ha
voglia di aggiungere altro, questo Rin lo comprende facilmente, ma non
riesce proprio a trattenersi.
«A chi?»
«Una bambina.»
«EH?!»
Vede comparire sul viso dell’amico l’impronta di un
nostalgico sorriso. «Voleva avere l’armadietto
accanto a quello di Haru.»
«U-una femmina?!» domanda Rin, in preda al panico.
«Nello spogliatoio maschile?»
Makoto fa spallucce. «Lei ed Haru erano sempre gli ultimi ad
uscire dalla piscina. Il coach Sasabe ha pensato che non vi fosse nulla
di male, dopotutto.»
Il castano ha compreso male, non è per quello che il rosso
è così sconvolto. È semplicemente
l’idea d’immaginare Haruka, che già di
suo non esterna alcun tipo di emozione, affezionato ad una bambina.
Congettura subito su come possa essere: bionda, castana, bruna? Alta,
bassa? Robusta, gracile?
Fatica a immaginarla. E chissà che occhi deve avere, magari
azzurri oppure verdi. Gli piacerebbe che fosse bruna con gli occhi di
smeraldo, come il suo amico Sosuke. Però non riesce proprio
a fantasticarla robusta, immagina possa trattarsi di quelle graziose
bimbe che però non hanno un filo di muscolo oltre ai
tendini.
Il suo entusiasmo straripa facilmente a sorprendere l’amico
che gli sta accanto. Non vede l’ora di vederla.
«Quando torna?»
Lo sguardo smeraldino si rabbuia, distogliendosi dagli occhi cremisi
pieni d’energia dello squalo.
«Non credo tornerà mai» mormora, rivolto
al mare. Se potesse andrebbe lui stesso a cercarla, sperando di
ritrovare quella parte di Haru che è partita con lei.
Rin se ne sta zitto, mentre osserva le iridi spente di Makoto
illuminarsi debolmente di una pallida luce.
«È un peccato che tu non possa
conoscerla» dice infine l’orca, tornando a
sorridere. «Lei era davvero speciale.»
«Ah?» Il rosso è confuso, ma non ha
voglia d’interrompere l’amico. Per qualche motivo,
gli sembra che non sia Haru il solo ad essere rimasto ferito.
«Makoto» lo chiama infine, arrestando il passo.
«Non è che…»
«Come ho detto prima» lo interrompe
l’orca, dandogli le spalle. «È una
storia chiusa, ormai.»
Il rosso rimane a fissare inebetito la schiena del dorsista, pensando a
quanto dolore debba ancora celarsi in quella faccenda per ferire
così i suoi amici. Per un istante sente di odiarla, quella
bambina. Anche se non la conosce. Anche se non l’ha mai vista.
E nonostante tutto, Haru la sta ancora aspettando, non comprendendo il
perché l’abbia abbandonato.
Lui si dice che non l’avrebbe mai fatto.
Non li avrebbe mai abbandonati. ˥
La sorte è davvero ironica, o almeno è quello che
pensa ora, mentre la sua colpa sfocia a lacerargli il cuore: lui ha
fatto peggio, perché non solo li ha lasciati, ma adesso
è anche il rivale peggiore che Haru potesse trovare.
È arrabbiato, incattivito dalla sua incapacità di
superare un muro per lui troppo alto, e tuttavia gli fa ridere
l’idea che se lo sia costruito da solo, mattone dopo mattone,
ostacolo dopo ostacolo, senza più essere in grado di capire
perché l’ha fatto. Ha davvero il diritto di
giudicare qualcun altro, proprio lui che ha deciso di andarsene per
realizzare il suo sogno senza curarsi di ciò che si lasciava
alle spalle? Una domanda del genere non se la sarebbe mai posta prima,
ma ora è diverso. Lui è tornato.
E forse ha davvero sperato di vedere il fallimento anche negli altri,
per convincersi di non essere stato il solo a non aver raggiunto il suo
sogno. Si sarebbe sentito meglio, se avesse visto Haruka ridotto alla
sua stessa maniera; sa di essere un egoista, ma non può fare
a meno di pensare che, se lei non ci fosse stata, magari il rivale si
sarebbe davvero sentito come lui adesso.
«Dannazione!» sbraita, sbattendo violentemente un
pugno contro un tronco lì vicino. Si lascia cadere in
ginocchio accanto all’albero, affaticato dai troppi pensieri
e dalle poche ore di sonno.
Tra qualche ora sarebbe sorta l’alba. Peccato che lui non
sarebbe stato lì per poterla vedere.
⚘
«Razza d’idioti!»
Beh certo, se lo meritano dopotutto. Rimane in disparte, mentre il
sensei sbraita contro i compagni. «Almeno mostratevi pentiti
per quello che avete fatto!»
«Ci dispiace» rispondono in coro, Nagisa e Makoto
chinando lo sguardo, Haruka con gli occhi ben piantati sulle lenti
inspessite del docente.
«Prima vi intrufolate in un edificio abbandonato, ora nella
piscina di un altro istituto!» continua l’uomo di
mezza età, ignorando le loro scuse. «Diamine. Per
fortuna che hanno deciso di minimizzare l’accaduto e di non
sporgere denuncia.»
Rimane zitta, pensando al perché i suoi amici siano stati
beccati in un edificio abbandonato. Allora forse è divenuta
un’abitudine, trovarsi dove non devono.
È in piedi accanto ad Amakata-sensei; vorrebbe
intervenire nella conversazione, spiegando il tutto e scusandosi anche
lei – in fondo, era lì con loro. Dà
qualche colpetto di tosse per attirare l’attenzione ed
evitare così che il professore possa inveire ancora contro i
suoi amici.
«Sensei.» Sorride imbarazzata, consapevole di
essere dalla parte del torto, ma comunque ostinata nel cercare di
mettere una pezza a colori. «Non deve prendersela solo con
loro. La colpa è anche mia.»
L’uomo la fissa sbalordito, mentre si alza in piedi e le va
incontro, afferrandole le mani con fare protettivo.
«Hoshino-san, la colpa non è tua. Sono loro che ti
hanno sicuramente trascinata in questa situazione. Una ragazza a modo
come te, che viene da un istituto di prestigio
come…»
«V-va bene così professore, è davvero
anche colpa mia!» interviene, senza dargli il tempo di finire
il discorso. Non vuole certo parlarne adesso, di quanto sia una brava
ragazza ed una studentessa diligente.
Alle orecchie dei presenti, tuttavia, risulta evidente come lei tenti
di sviare il discorso. La cosa non va affatto bene, si dice, mentre una
frase fuori luogo di Amakata-sensei riesce in qualche modo a confondere
il docente, che li lascia andare senza ulteriori prediche.
S’incamminano silenziosi lungo i corridoi; spera davvero che
nessuno di loro faccia domande su quanto hanno sentito. Si ricorda di
averne parlato con Nagisa, ma è convinta di non aver
rivelato nulla di compromettente che possa in qualche modo
insospettirlo. Ma, come ben sa, Haruka e Makoto sono un’altra
storia.
Mentre cammina non si accorge di aver distanziato gli altri di qualche
metro; rimane in attesa ad aspettarli. Haruka è il primo a
raggiungerla, mentre gli altri due sono rimasti indietro, catturati
dalla parlantina frenetica di quella ragazzina incontrata qualche
giorno prima sulla collina.
«Andiamo» lo sente dire, mentre l’afferra
per un polso e la invita a camminare insieme a lui.
«Ai»
si limita a rispondere, assecondando la sua andatura svogliata.
Rimangono in silenzio per un po’ di tempo. Per strada, a
quell’ora del pomeriggio, non c’è mai
nessuno. La tranquillità di quel momento della giornata
l’è sempre piaciuta, ma godere di quella pace
insieme al corvino è tutta un’altra storia.
Ora che sono soli vorrebbe fargli tante di quelle domande da stordirlo,
eppure quando finalmente trova la forza per iniziare a parlare, sente
la voce di lui giungerle all’orecchio. «Dove sei
stata?»
È una domanda semplice e precisa, esattamente come quelle
che è solito fare. Ammette d’essersi trovata
spiazzata più di una volta, in passato.
«In Francia.» A domanda diretta, risposta diretta.
«Per fare cosa?»
La brezza fredda le attacca il viso, obbligandola a chiudere gli occhi
per qualche istante. Quando li riapre, Haruka la sta fissando.
«Che c’è?
Ho qualcosa in faccia?»
Il corvino sospira, distogliendo lo sguardo. «Rispondi e
basta.»
«Non che dovessi proprio fare qualcosa» borbotta,
mentre i suoi occhi si puntano a fissare il rosso di un semaforo che
sembra non volerli far passare. «È stata mia
madre. Ha deciso così.»
«E allora perché non mi hai detto che te ne
andavi?» Giurerebbe di vedere un leggero rossore proprio
sotto i suoi occhi mentre le pone quella domanda.
Si sente un po’ a disagio, al pensiero di non riuscire ancora
a dirgli tutto. Però in fondo lui è
Haruka… magari a lui potrebbe dirla, la verità.
Si blocca, puntando i piedi e con la mano ben stretta attorno alla
tracolla che porta ciondolante sulla spalla.
«Perché non lo sapevo.»
Sa che è giusto così, sa che tra tutti lui sia
l’unico che non potrebbe mai giudicarla. Il delfino
è fatto così, quando è con lui sente
di non dover mai dare spiegazioni, nonostante adesso le pretenda. Si
chiede se non abbia sofferto, per non averla più vista.
«Ne, Nanase-kun.» Gli afferra maldestramente un
lembo della giacca, costringendolo a fermarsi. «Hai smesso di
nuotare davvero?»
La terrorizza l’idea che quella voce possa essere fondata. Il
panico che prova all’idea di non poterlo più
vedere nuotare le riempie il cuore di angoscia. Ha lo sguardo chino e
non accenna minimamente a guardarlo: ha improvvisamente paura che quel
silenzio sia un monito per ricordarle di non immischiarsi in affari che
non le riguardano.
Vorrebbe dirgli che va tutto bene, che anche se ha smesso
c’è sempre un buon motivo per ricominciare
– ma certo, lo dice proprio lei che neanche ricorda
perché nuota.
«Io» continua, sapendo che il corvino non le
risponderà. «Io adoro il modo in cui nuoti. Non
sopporterei l’idea che tu… che
tu…»
È così stupida che le viene da piangere. Vorrebbe
continuare a parlargli, ma il groppo in gola non riesce più
a sciogliersi. Sente le labbra tremare ed il cuore mancare il battito
man mano che ripensa a tutto ciò che ha visto la sera
precedente. Non può aver smesso di nuotare. Non lui. Non
Haruka.
Si preme una mano contro la bocca, per evitare che possa sentirla
singhiozzare. Cerca di togliersi una lacrima che le scende lungo la
guancia con la manica della divisa scolastica, ma prima che il tessuto
possa dissipare via quell’improvvisa tristezza, la mano del
delfino è già lì, e con il pollice
asciuga via il piccolo rivoletto che le solca lo zigomo.
Quando alza lo sguardo, le due iridi blu la stanno già
aspettando. Si tuffa sconvolta tra le sue braccia, certa che lui non
sbaglierà la presa.
«Scusa!» strepita infine, lasciandosi andare ad un
pianto liberatorio. «Io non voglio che smetti di nuotare! Non
voglio che lo fai, voglio continuare a vederti, voglio continuare a
gridare il tuo nome, Nanase-kun!»
Haruka rimane assorto ad ascoltare il piagnisteo della ragazza;
è appagato nel vederla finalmente così vicina a
sé, spaventata e tremante, mentre gli sputa addosso tutta la
paura che prova, e l’ansia, e il dolore. Sorride
impercettibilmente, serrando la presa attorno alla sua piccola vita e
posando la testa sulla sua bella chioma bionda.
«Ohi, baka»
le sussurra infine, interrompendo di colpo il fiume in piena dei suoi
discorsi senza senso. «Se continui così, farai
girare tutta Iwatobi.»
Con il volto immerso nel calore del suo petto, Mizuko si guarda intorno
circospetta, poi torna con lo sguardo gonfio e ancora lucido a fissare
quello divertito del delfino. «Bugiardo! Qui non
c’è nessuno!»
Gli occhi di Haruka brillano di un’insolita luce;
è qualcosa che va ben oltre il vacuo senso di
felicità che prova quando è in acqua.
È più profondo e terribilmente più
dolce: è la serenità della normalità,
il sapere che lei è di nuovo lì con lui e che si
comporta esattamente come ha sempre fatto, come la bambina che
è stata, che è ancora.
S’inebria del dolce profumo dei suoi capelli,
tranquillizzandosi all’idea che lei non riesca a vedere
quanto il suo sguardo sia rilassato. «Mizuko.»
«Ai.»
Sorride, con le labbra premute contro la sua pelle morbida.
«Rimani.»
Non gli importa di altro, al momento. Vuole strapparle
l’insana promessa di non andarsene più,
perché gli si squarcia il petto al solo pensiero di perderla
nuovamente. Non vuole, è una cosa a cui non può
sopravvivere.
Rimani con me,
vorrebbe dirle, se ne avesse il coraggio. Rimani per me.
La sente aggrapparsi alla sua camicia, affondando il volto
nell’incavo del suo petto, mentre parte dei capelli dorati
s’intreccia all’ebano dei suoi.
«Non mi lasciare più.» Lo dice con una
tale spontaneità da non riuscire neppure a sorprenderlo. Da
lei se l’aspettava una richiesta assurda come quella.
Trattiene a stento una risata. È inutile. Con lei proprio
non riesce ad essere l’indifferente di sempre.
Dipenderà dal fatto che puntualmente, ogni volta che prova a
trattarla come se fosse una persona qualsiasi, Mizuko se ne esce con
qualche frase assurda e senza senso. Le stesse frasi di tutte le volte,
quelle che l’hanno indissolubilmente legato a lei fin da
quando l’ha vista cadere dal blocco di partenza il primo
giorno che l’ha incontrata.
Lo sa; resistere a quell’emozione, per quanto assurda sia,
è del tutto inutile. Il suo cuore, quando è con
lei, batte più velocemente. Chissà se
riesce a sentirlo in questo momento.
«Perché?» domanda infine, immergendo il
volto nel fitto dei suoi capelli e inspirando tutta l’aria
che riesce a far entrare nei polmoni. «Perché devi
essere così?»
La vede alzare il capo, confusa. «Così
come?»
Haruka sorride, mentre il suo sguardo inizia a tremare, riflesso nelle
iridi cangianti della piccola ragazza che stringe in un abbraccio di
quelli che non vengono definiti tali, ma che celano l’essenza
stessa di un sentimento troppo forte per poterlo esprimere a parole.
Già, così
come? Vi sarebbero una marea di aggettivi che potrebbe
attribuirle, ma in quel momento non gliene viene in mente neanche uno
per poter descrivere ciò che prova.
Forse un giorno la troverà, quella parola che vorrebbe tanto
dirle. Quella parola che la rappresenta, che appena la
pronuncia le viene in mente lei. Chissà se esiste davvero,
una parola simile.
«Vieni a casa mia» le dice infine, privo di malizia.
Gli occhi ancora umidi della giovane sembrano sorridergli e sente il
calore delle sue mani proteggergli il petto dal freddo sempre
più aggressivo. Se potesse concedersi ancora del tempo,
rimarrebbe in quella posizione ancora per un po’, ma a
giudicare dal nasino arrossato di lei il vento è diventato
decisamente troppo turbolento.
«Andiamo?» chiede la compagna, asciugandosi le
ciglia umettate. «Prometto di non piangere
più.»
Haruka le accarezza i capelli, stropicciandoglieli delicatamente.
«T’inventerai un’altra sciocchezza per
potermi abbracciare.»
Mizuko arrossisce di colpo, portandosi una mano a coprirsi le guance.
«N-no, non lo farò! Brutto cattivo!»
sbotta, incalzando il passo e portandosi un po’ distante da
lui.
Il delfino la osserva da lontano, contemplando il bel quadro che vede
dipingersi in ogni istante da quando è tornata. Si sente
bene, nonostante l’ombra di Rin continui a perseguitarlo.
Se sarà brava, forse lei riuscirà a farlo
smettere di scappare.
⚘
Non è felice, Mizuko. Per niente.
O almeno è quello che si dice quando vede apparire
sull’uscio della porta di casa Nanase gli sguardi curiosi dei
compagni, più un paio di occhi cremisi che tanto ricordano
il ragazzo sfacciato della sera precedente.
«Mizu-chan! Ci sei anche tu!» strilla Nagisa
entusiasta, buttandosi tra le sue braccia. Dovrebbe capire di essere
ormai troppo grande per credere che il corpo gracilino della giovane
sia in grado di sostenerlo. «Pensavamo fossi tornata a
casa.»
L’idea era quella,
vorrebbe rispondere, ma si limita a sorridere.
«Sì, beh… Haru mi ha chiesto di
venire.»
Si blocca di colpo; da quando lo chiama Haru? Scuote la testa,
tirandosi tanti piccoli schiaffi sulle guance; mentre Nagisa la fissa
sbigottito, Makoto le si affianca, sfiorandole la testa con la mano.
Conosce la ragazza abbastanza da sapere che non si perdonerebbe mai se
le scappasse un’altra volta di chiamarlo per nome. A volte il
suo essere così rispettosa è quasi troppo formale.
«Dov’è Haru?» le chiede,
ignorando la sua piccola sceneggiata. «Dobbiamo parlargli di
una cosa molto importante.»
Mizuko fa un cenno con la mano. «È a farsi un
bagno.»
E adesso si ritrova incastrata in una situazione terribile, nella quale
i suoi tre amici stanno discutendo animatamente al piano superiore,
mentre lei è vittima del sorrisetto falso della ragazza che
le sta di fronte. No, decisamente non riesce a sopportarla, neppure
quando non parla. È ovvio che sia un’antipatia di
pelle, nonostante ammette di non capire il motivo preciso per cui non
riesce a farsela andare a genio – anche se, ad essere onesta
con se stessa, non ricorda di aver mai avuto delle amiche vere.
Vorrebbe chiederle alcune cose su suo fratello; per esempio,
perché diavolo sia così incazzoso. Si rende conto
che potrebbe tranquillamente mandarla al diavolo, se ponesse la sua
domanda in maniera sbagliata. Non trova una scappatoia e si sente un
po’ in trappola, almeno fino a quando gli altri ragazzi non
fanno capolino dalla porta del corridoio.
Tira un sospiro di sollievo; non dovrà confrontarsi con una
ragazza di cui non vuole sapere niente, e questa è davvero
una cosa fantastica, si dice, mentre continua a fissarla. Lei non
sembra guardarla, ma sembra aver posto l’attenzione su altro.
Si volta a fissare i ragazzi e le parole le muoiono in gola.
«N-Nanase-kun!» sbraita, mentre arrossisce
lievemente. «Ma p-perché sei nudo?»
Il delfino non fa in tempo a rispondere; vede l’attenzione
della ragazza rivolta alla figura che si è voltata di spalle
non appena l’ha visto. Sembra una ragazza della stessa
età di Mizuko, con lunghi capelli rossi avvolti in una folta
coda.
La giovane nuotatrice si chiede subito il perché di tanta
vergogna. In fondo è solo un ragazzo nudo, una cosa normale
da guardare. Per certi aspetti, l’atteggiamento imbarazzato
della ragazza che le sta accanto la indispettisce, cosa che sembra
peggiorare nell’esatto momento in cui la vede portarsi un
indice alla bocca, vittima della perfezione anatomica del corvino che,
incurante di tutto, si sta togliendo l’acqua in eccesso sulle
braccia con un asciugamano.
Potrebbe ammazzarla, si dice. In fondo, è una ragazzina come
tante altre nel mondo. Non importerebbe a nessuno, o almeno si convince
che sia così.
Il suo sguardo oscuro viene colto dal placido Makoto, che le afferra un
braccio, trascinandola al suo fianco.
«Cerca di non ucciderla» le sussurra, facendosi
scappare una risata. «A quanto pare è
l’unico modo che abbiamo per avvicinarci a Rin.»
Perché
dovremmo avvicinarci ancora a Rin? Vorrebbe domandare, ma
si rende conto di trovarsi nel contesto sbagliato. Non
c’è tempo, adesso, per discutere di una cosa tanto
futile come quella.
«Ah, già» interviene Nagisa, salvandoli
da un certo imbarazzo. «Haru non era con noi
l’altra volta.» Il biondino fa un cenno con la mano
verso l’ospite. «Lei è la sorella minore
di Rin.»
«C-ciao» risponde Gou, con la vocina sottile.
«Da quanto tempo.»
«Matsuoka…» fa Haruka, ignorando il
rossore sulle guance della giovane. Cerca di ricordarsi la pronuncia
esatta del suo nome. «… Kou.»
«Sì!» risponde la ragazza, entusiasta
che qualcuno l’abbia denominata col nome con il quale
preferisce sentirsi chiamare. «Mi scuso per il comportamento
di mio fratello.»
Scusati per il tuo, di
comportamento, vorrebbe gridarle addosso la bionda,
fulminando di sottecchi gli occhi trasognanti della giovane che le sta
seduta accanto.
«Tranquilla» le risponde il ragazzo, indossando una
felpa. Non sembra troppo coinvolto dal discorso accorato della piccola
Matsuoka, mentre s’annoda un grembiule da cucina attorno alla
vita per avviarsi ai fornelli col suo solito atteggiamento svogliato.
«Ah, se prepari il thè, ho anche dei calamari da
mangiarci insieme» gli dice Makoto, alzando la voce
affinché possa sentirlo.
Nagisa non sembra entusiasta all’idea. «EH!? Ma il
cioccolato è decisamente meglio!»
«Allora faccio lo sgombro e vi accontento entrambi»
asserisce infine il ragazzo ai fornelli, afferrando una padella da
sotto il piano cottura.
«Beh, “accontento” mica tanto!»
si lagna il biondino, buttandosi sulla spalla dell’amica.
«Mizu-chan! Diglielo tu!»
Haruka si blocca, voltandosi a fissarla. È chiaro che stia
aspettando una sua conferma e la cosa, sotto certi aspetti, la
gratifica più di quanto si aspettasse. Si è detta
che avrebbe dovuto sembrare più normale nei confronti del
corvino quando ci sono anche gli altri, ma quel blu che la guarda
è come un fiume in piena per il suo cuore, che non riesce
affatto a controllare.
«E-ehm…» cerca di dire, schiarendosi la
voce. «Effettivamente a me piacciono i calamari.»
Ma che cazzo dico!? I
calamari, con il thè!? Pensa, mentre
l’ombra di un sorriso appare sul volto rilassato del delfino,
che si volta non concedendo a nessuno quella rara visione.
«Meglio che ti aiuti!» sbotta infine Nagisa,
avvicinandosi ai fornelli.
Mizuko tira un sospiro di sollievo, mentre Gou sofferma lo sguardo su
quello che ha tutta l’aria di essere un trofeo datato, posto
accanto al chabudai[1].
«Ma questo…»
La rossa non riesce neppure a concludere la frase che il dorsista le
sorride, portandosi una mano a grattarsi la nuca.
«È il trofeo che abbiamo vinto tempo fa. Rin ci ha
detto che non gli serve più.»
La giovane Matsuoka avvicina la mano ad una fotografia lasciata
lì vicino, afferrandola con le dita sottili.
Non sono affari miei,
pensa distrattamente la nuotatrice che le sta accanto, ma ignorando
completamente il flusso dei suoi pensieri butta un occhio,
convincendosi che non stia facendo nulla di male. Quando assottiglia lo
sguardo, riesce a vedere distintamente i tre amici e un bambino che
ricorda in tutto e per tutto il ragazzo scontroso della sera prima; si
stringono in un abbraccio vittorioso, con le medaglie al collo e Rin
che stringe tra le mani il trofeo del primo posto.
«State tutti ridendo…» sussurra triste
la giovane sorella dello squalo, ricordando i bei tempi in cui il
fratello ancora ricordava come si sorride.
«Beh, tranne Haru, in realtà» fa notare
l’orca, sorridendo gentile.
Mizuko sofferma lo sguardo sul bel bambino che ricorda con tanto
affetto, rimanendo colpita dal suo viso. Non è affatto come
dice Makoto, si dice. Solo guardando quella foto riesce a sentirlo,
quanto sia stato felice quel giorno. Le sue guance arrossiscono, mentre
i ricordi della piscina Iwatobi le tornano alla mente freschi e pieni
di dolci sentimenti.
«Ma lui in cuor suo sorride sempre.» La frase esce
sbadatamente dalla bocca del biondino che ha portato loro le tazze
colme di thè. Mizuko pensa per la prima volta che Nagisa
abbia fatto davvero centro: non avrebbe saputo descrivere meglio Haruka
di come non abbia fatto lui con quell’asserzione.
Gou ride, dimenticandosi per un istante della malinconia che si porta
addosso. «Così lo fai sembrare una persona brutta
e cattiva!»
Al contrario,
vorrebbe rispondere, ma qualcosa nello sguardo cremisi che le sta
accanto la fa desistere dall’intento di screditarla
ulteriormente. S’accorge di non riuscire affatto a provare
empatia per quella ragazza e la cosa sembra destabilizzarla
più di quanto non dia a vedere; è sempre stata
molto fiera della facilità con cui riesce a leggere le
persone, ma lei – così come il fratello
– le appare molto più distante di quanto non abbia
creduto la prima volta che l’ha vista. Forse è per
questo che crede di non sopportarla; è frustrante pensare di
non riuscire a leggerle addosso la storia della sua vita.
Si alza impensierita, avvicinandosi ai fornelli. «Serve una
mano?»
«Sì, passami i calamari» le risponde
Haruka, poi s’avvicina al suo orecchio, abbassando il tono
della voce. «Visto che gli sgombri non ti
piacciono.»
Gli tira una gomitata amichevole, trattenendo una risata, mentre nel
piccolo salottino Nagisa, Makoto e la Matsuoka intraprendono una
conversazione su Rin dai toni decisamente alti.
«Allora, è la prima volta che Rin torna in
Giappone?» chiede l’orca, cercando di fare
conversazione.
«Eh? Veramente è tornato ad ogni
Capodanno.» La confessione di Gou sembra turbarli, come
dimostra lo sguardo agitato del giovane nuotatore a rana.
«Perché non ce l’ha mai
detto?» domanda, sconvolto.
La nuotatrice non riesce affatto a capire come mai quella risposta li
inquieti in quel modo; avverte l’improvvisa tensione del
corpo che le sta a fianco: è tranquillo come al solito, ma
se posa l’attenzione sul suo sguardo, le sembra subito che
stia tremando. Nonostante la penombra non le permetta di focalizzare il
suo viso, Mizuko è certa d’averlo sentito
trattenere il respiro per qualche istante.
Si è sempre sentita inutile, quando anche in passato lo
vedeva in quello stato: solo, indifferente e completamente senza
difese. Si rimprovera per non essere in grado d’intervenire
neppure adesso, mentre il ricordo del vecchio amico lo ferisce, ma cosa
può farci lei, se neanche conosce la radice di quel male?
Vorrebbe gridargli di smetterla d’essere così
impassibile e di concedersi d’essere un po’
più umano almeno sotto quel punto di vista. Lo vorrebbe
tanto.
Si volta a guardare Makoto, certa che abbia sussurrato il nome
dell’amico. Quando incrocia il suo sguardo, capisce quanto
anche lui sia preoccupato per quella faccenda.
È come vedersi riflessa in uno specchio.
Un grande, immenso specchio che riflette nel castano tutte le
preoccupazioni che assillano anche lei, senza però la
certezza di poterle risolvere.
⚘
«Visto che siamo tutti d’accordo, ho preso il
modulo per la formazione del club!»
Mizuko rimane imbambolata, con il boccone a mezz’aria che le
cade distrattamente dalle bacchette. È certa di aver sentito
male. «Co-come?»
I tre amici la fissano, sorridendo tra di loro; per qualche motivo,
è convinta che di lì a poco possa scoprire
qualcosa di scioccante.
«Ragazzi» continua, riacquistando il controllo di
sé. «Spero vivamente che non stiate combinando
nulla di stupido.»
«È solo un club» sbotta Nagisa,
buttandosi sulle sue spalle. «Non fare la
bacchettona!»
Haruka lo strattona via, irritato. È inutile, da quando
Mizuko è tornata il biondino non riesce a staccarsi da lei;
deve ammettere che la cosa lo indispettisce un po’, specie
perché lui ha tanto tempo da poter passare con lei, comprese
le lezioni e l’ora di educazione fisica. «Ohi,
Nagisa. Cerca di spiegarle meglio.»
«Ai!»
risponde entusiasta il giovane nuotatore, ricomponendosi.
«Dunque… Abbiamo deciso di aprire un club di
nuoto.»
«Eh?!» Il suo stupore è del tutto
lecito, ma sembra non sorprendere affatto gli altri due ragazzi, che
continuano a consumare tranquillamente il loro pasto.
Nagisa continua, ignorando la sua incredulità.
«Dunque, vediamo…» Osserva il foglio che
stringe tra le mani. «Lo scopo di questo club è di
allenare mente e corpo tramite il nuoto e migliorare la nostra
esperienza scolastica.»
Mizuko sospira, ormai consapevole di non essere in grado di fermare in
alcun modo l’entusiasmo senza freni dell’amico. Lo
fissa di sbieco, schiaffeggiandosi il viso per non essere stata in
grado d’accorgersi prima del suo progetto senza speranze.
«Nagisa.»
«Sì, Mizu-chan?»
«Credi che basti questo per approvare un club?» gli
chiede, strappandogli di mano il foglio ed osservando minuziosamente le
diciture.
«Devo aggiungere altro?»
La ragazza si volta verso Haruka, che fissa quella scenetta senza dire
una parola, poi verso Makoto, che mastica tranquillamente un boccone di
riso bollito. «Non avete da dirgli niente, voi due?»
«Cosa dovremmo dirgli?» Makoto sorride, pulendosi
il contorno delle labbra dai chicchi bianchi. «Nagisa
è quello più informato.»
Haruka si limita a fare spallucce. Perfetto.
È ovvio che debba aiutarlo lei, nonostante non le abbia
chiesto ancora niente.
Sospira, sconfitta. «Per prima cosa devi specificare la
motivazione principale per la quale vuoi aprire il club. Hai qualche
idea migliore di quella di prima?»
Nagisa la fissa, senza capire.
«Non saprei» continua Mizuko, cercando di
spronarlo. «Avete intenzione di partecipare a delle
gare?»
«È un po’ presto per dirlo,
no?» domanda il castano, improvvisamente incuriosito dalla
piega che quella conversazione sta prendendo.
Mizuko sbuffa, infastidita. «Certo che no. Se scriviamo che
lo scopo del club è quello di competere a livello
agonistico, i risultati potrebbero portarci ad ottenere più
fondi, i quali potrebbero essere impiegati per i più
svariati motivi – attrezzature, costumi, persino per le
trasferte fuori porta.»
«Potrebbero
portarci?» Nagisa la fissa con sguardo
malizioso. «Ti unirai anche tu al club, vero
Mizu-chan?»
È certa di riuscire subito a replicare dandogli picche, ma
prima di rispondere il suo sguardo cerca quello blu di Haruka,
già in attesa d’incrociare i suoi occhi. Il
corvino la fissa intensamente, con uno strano luccichio che gli riempie
le iridi cerulee. «Dovresti farlo.»
Chissà perché, ma non riesce a pensare di
contraddirlo. È la stessa sensazione di sempre, quella che
pone il delfino su un piano più alto rispetto agli altri e
che la rende incredibilmente fragile in sua presenza. China lo sguardo,
cercando di non apparire troppo imbarazzata. «M-ma non vedo
come potervi aiutare, pur iscrivendomi.»
«È facile!» sbotta Nagisa, che vede
nell’intervento di Haruka la possibilità di
coinvolgere l’amica. «All’inizio ci
saranno quattro membri: Mako-chan sarà il
capitano.»
«Aspetta» lo ferma il castano, confuso.
«Non dovrebbe essere Haru, il capitano? È il
più veloce tra noi, in piscina.»
«Sì, ma qui la velocità non
c’entra. Ogni persona è portata per
qualcosa» spiega il biondino, mentre l’orca
immagina la scena esilarante del corvino che sbraita ordini ai suoi
sottoposti. Decisamente poco credibile.
«Haru-chan sarà il vicecapitano!»
continua imperterrito Nagisa.
«Ohi» lo interrompe il prodigio, irritato.
«Non decidere per me.»
«Dai! Il titolo di vicecapitano in realtà non
implica alcuna responsabilità, perciò non
preoccuparti» cerca di consolarlo Nagisa, poi, voltandosi
verso la ragazza: «Io sarò il tesoriere e tu,
Mizuko, sarai la nostra coordinatrice.»
«Coordinatrice?» ripete la ragazza, non capendo
cosa le voglia dire l’amico.
«Assolutamente.»
Nagisa le afferra un braccio con entrambe le mani, scuotendola
entusiasta. «Sarai impegnata in molte cose: dalla scelta
degli orari per gli allenamenti, all’agenda, al rendimento
settimanale di ogni esercizio, sarà divertente!»
«Per te, forse!» sbraita la bionda, in preda ad una
crisi di nervi. «Ti rendi conto che razza di lavoro mi stai
affibbiando?»
Il compagno s’imbroncia, guardandola di sottecchi.
«Sei tu quella brava in queste cose, Mizu-chan. Immagina uno
di noi tre a ricoprire un tale ruolo. Come pensi che possa
concludersi?»
Lei sospira, convinta che anche se provasse a rinunciare ad un incarico
simile, Nagisa gliela farebbe pagare per il resto della sua misera
vita. China il capo, alzando le mani in segno di resa, mentre il
giovane nuotatore si sporge per saltarle al collo dalla gioia.
Haruka rimane a fissare quella scena, chiedendosi per quale motivo sia
così innervosito dal fatto che il pinguino sia sempre
appiccicato a lei. Non è da lui irritarsi senza un vero
motivo, eppure si sente male ogni volta che la vede anche solo
sorridere a qualcun altro che non sia lui. Perché mai? In
fondo, anche Makoto e Nagisa sono suoi amici.
Non dovrebbe importargli, si dice, mentre la parte più
inconscia di lui vorrebbe che il ragazzo dagli occhi rosei
s’allontanasse da lei in quel preciso istante. Quel desiderio
che ha di poterla avere per sé diviene ben presto
più urgente, e con sguardo accigliato si ritrova a fissare
il suo cestino da pranzo ormai vuoto.
Un’idea, seppur piccola, gli balena nella testa.
Potrei invitarla a
mangiare da me, pensa, ignorando completamente il brusio
di sottofondo che sente provenire dalle voci del piccolo gruppo.
Sorride, mentre immagina quali piatti poterle preparare, dopo tanto
tempo che è stata lontana da casa.
Sì, una cena. Soltanto io e lei.
NOTE:
[1] Tavolo a
gambe corte, usato nelle case giapponesi tradizionali.
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Capitolo 5 *** 4. Storia di un quattrocchi e d'una nuotatrice che lo minacciò di morte ***
❝
Lo sclero di
ℰver❞
CAPITOLO
IV
Storia
di un quattrocchi e d'una nuotatrice che lo minacciò di morte
|
Quella sera è stanca ed affaticata, ma non ha alcuna voglia
di tornare a casa.
Ha lasciato gli altri da poco, utilizzando la banale scusa di dover
disimballare i cartoni, ma la realtà è che vuole
rimanere da sola. Le capitava spesso anche in Francia, quando aveva
troppi pensieri per la testa.
Cammina svogliata lungo la strada, con le mani nascoste dai profondi
tasconi del cappotto; la sciarpa riesce a proteggerla dal freddo che
soffia impetuoso dal mare, ma le dita intirizzite
l’ammoniscono di non sostare ancora a lungo
all’aria aperta. Dopotutto, è ancora inverno.
Durante il tragitto non fa che sentire il suo fastidioso scalpiccio.
Dannate scarpe nuove, se le avesse indossate un po’ di
più quando le ha comprate non farebbero tutto quel casino.
Ha la testa invasa da mille pensieri: l’ansia di non essere
ancora riuscita a raccontare la verità agli amici,
l’istituzione del nuovo club di nuoto, la voglia di nuotare e
la paura di non riuscirci… non più, almeno.
Iwatobi, persino in quel momento, non le pare casa sua.
Alza lo sguardo, stupita di trovarsi di fronte all’ITSC, o
almeno a quello che ne rimane. Si sente triste; nessuno le ha detto che
fosse ormai abbandonato.
Rimane in silenzio a contemplare la grande scritta rossa e il bambino
dipinto sopra che scorrazza felice in mezzo alle onde. Ricorda
d’essere stata gelosa da piccola, di quel bambino. Era
talmente felice da farla innervosire. Adesso, al contrario, sembra
pianga lacrime di ruggine.
L’iscrizione bianca dell’ingresso cattura la sua
attenzione: Iwatobi
Swimming Club.
Se ripensa ad ogni momento passato lì dentro, non riesce a
trovarne uno che non abbia un bel ricordo associato. È come
un’istantanea della sua vita passata, quando la bambina
dentro di lei ancora si dilettava a nuotare per passione, non per
punteggio.
Serra i pugni; a volte sa di essere troppo severa con se stessa, ma va
bene così. Se non lo facesse lei, non lo farebbe nessuno al
suo posto.
Fa per riprendere la via del ritorno, ma s’accorge che il
portone d’ingresso è stato lasciato socchiuso e da
dov’è lei può tranquillamente sbirciare
dentro il lungo corridoio che porta nella hall. Si morde un labbro,
certa che l’idea che l’è appena venuta
in mente sia davvero pessima.
Si guarda intorno, accertandosi che non vi sia nessuno nei paraggi.
Fissa il pomello della porta semiaperta, chiedendosi se sia davvero una
buona idea gironzolare per un edificio abbandonato. Preme delicatamente
le dita contro il vetro opaco; un allarmante scricchiolio le conferma
che l’uscio è ormai del tutto spalancato.
«Coraggio, baka» si dice, mentre intraprende i
primi passi lungo il corridoio buio. «In fondo, ci sei venuta
un sacco di volte.»
Deglutisce a fatica; l’aria è decisamente pesante,
la polvere e lo sporco accumulatisi nel tempo hanno reso quel luogo una
sciagura anche per i polmoni più allenati.
S’appoggia alla parete vicina, facendo scivolare la mano
lungo di essa per cercare d’orientarsi
nell’oscurità che avvolge l’androne.
Espira profondamente con la bocca; le tremano le gambe e sente il fiato
corto, ma si dice che vuole arrivare agli spogliatoi a tutti i costi.
Dei passi riecheggiano per il circolo; Mizuko è sicura non
si tratti dei suoi: sono più pesanti, molto più
lenti. Si blocca sul posto, nascondendosi dietro un angolo.
Ma come cazzo faccio a finire
in queste situazioni? Si rimprovera, mentre affonda il
viso nella sciarpa per soffocare l’improvviso affanno. Oddio… e se fosse un
serial killer?
Si porta una mano alla gola, affacciandosi leggermente sul corridoio
per controllare che sia libero. Prende un profondo respiro, prima
d’incamminarsi in punta di piedi verso l’uscita.
Appena s’accorge che i passi in lontananza si sono fermati,
intraprende una corsa impazzita verso l’ingresso, stando ben
attenta a non inciampare.
Dovrei esserci,
pensa, svoltando l’angolo della hall. Quando lo fa, il suo
cuore esplode come impazzito: le da la schiena una sagoma indistinta
avvolta nel nero, con addosso un capello che rende impossibile il
riconoscimento facciale.
Si lascia scappare un grido, mentre la figura sobbalza, voltandosi a
guardarla. Mizuko ha gli occhi serrati nelle palpebre e la voce
isterica; la parte più inconscia di sé la implora
di scappare e di non rimanere lì impalata a farsi uccidere.
«P-passavo di qui per caso!» urla disperata.
«Non mi uccidere, ho una lista di cose che voglio fare prima
di morire e non ne ho ancora completata la metà e poi devo
risolvere un sacco di…»
«Ohi.» Il cuore le si ghiaccia non appena sente la
voce roca dello sconosciuto.
«S-sì?» balbetta, mentre sente il sudore
infradiciarle la nuca.
«Cosa ci fai qui?» le domanda, con un tono che le
appare alquanto perplesso.
Deglutisce rumorosamente, rifiutandosi di aprire gli occhi.
«È stato il mio circolo di nuoto.»
Sente silenzio; è come se la sagoma si fosse dissolta, ma
non può ancora accertarsene fin quando continuerà
ad avere lo sguardo avvolto nell’oscurità delle
palpebre.
«Sei tu, allora.» Sobbalza, al sentire di nuovo
quei toni bassi.
Schiude un occhio, permettendo alla sua curiosità di vincere
sulla paura. Quando mette a fuoco l’ambiente, rimane sorpresa
di trovarsi davanti al ragazzo dagli occhi rossi conosciuto durante la
loro incursione alla Samezuka. Gli punta un indice contro, cercando di
ricordarsi il nome che tanto ha sentito pronunciare durante quei pochi
giorni in cui è tornata. È assurdo che
l’abbia completamente rimosso, ma alla fine si convince che
sia soltanto una riprova di quanto non lo sopporti.
«Ren» dice, sorridendo vittoriosa.
Il ragazzo la scruta, alzando un sopracciglio. «Rin,
tonta.»
Sbuffa, infastidita dal canzonatorio nomignolo che le ha conferito.
«Sarò pure una tonta, ma alla fine pensavo avessi
un nome da maschio» borbotta tra i denti, ma con tono
abbastanza alto perché lui possa sentirla.
Lo squalo si porta le mani nelle tasche della felpa, scrutando
l’esile corpicino davanti a lui: non può davvero
fare nuoto, quella figura così gracile. Fa un passo verso di
lei, sogghignando non appena la vede indietreggiare. «Guarda
che non mordo.»
«Un po’ presto per dirlo, non credi?»
constata lei, aguzzando lo sguardo. Le appare subito come una di quelle
vipere d’acqua pronte ad azzannarlo. Probabilmente ce
l’ha ancora con lui per la storia della sera prima.
Sospira, alzando le mani in segno di resa. «A questa distanza
riesci a parlare senza che ti tremino le gambe?»
Lo guarda indignata, mentre gira la testa di lato. «Tanto per
essere chiari: tu non mi fai affatto paura.»
«Detto dalla stessa persona che un minuto fa mi ha implorato
di risparmiarle la vita» le fa notare, con un insopportabile
sorriso dipinto sul volto.
«Che diavolo avrei dovuto pensare, solamente uno psicopatico
verrebbe qui a quest’ora della notte» gli risponde,
incurante dell’assurdità di
quell’affermazione.
«Vorrei ricordarti che ci sei anche tu, qui.»
Il rosso la scruta. È divertito dalla paradossale
situazione, ma più di tutto dallo sguardo vigile di lei, che
lo fissa in cagnesco. «Hai finito di guardarmi come se mi
volessi uccidere?»
«Affatto.»
«Esattamente, con chi pensi di parlare?»
«Rin Matsuoka.»
«E tu sei…» Il cremisi attende paziente
una risposta.
Vorrebbe davvero staccargli dalla faccia quel sorriso sornione, ma si
convince che apparirgli come una schizzata pazza non sia una delle
migliori soluzioni.
«Mizuko Hoshino.» Cavolo, avrebbe potuto
inventarselo, un nome dell’ultimo secondo. Si
dà mentalmente della stupida per non essere mai abbastanza
sveglia da pensare preventivamente a piani perfetti.
Lentamente riporta l’attenzione su di lui, agganciando il suo
sguardo che sembra squadrarla da capo a piedi. Arrossisce di colpo,
stringendosi nelle spalle. «C-che
c’è?»
Rin avvicina di scatto il viso al suo, cercando il bizzarro sguardo
iridescente.
«O-oh!» sbotta la ragazza, inarcando la schiena
all’indietro per mantenere le distanze da quel corpo
così minaccioso. «Che ti prende?»
«Dì un po’» le chiede infine.
«Nuoti davvero?»
La guarda trattenere il respiro per un attimo e non può fare
a meno di pensare che sia buffa. Si chiede se non sia stata la mascotte
del club prima del suo arrivo. A quei tempi, avrebbe anche potuto
trovarla adorabile.
La osserva mettere uno strano broncio, misto tra rabbia e
incredulità. Trattiene a stento una risata non appena la
vede.
«Mi stai dicendo che non ho il fisico per farlo
bene?!» sbotta infine, flettendo la schiena verso di lui con
fare minaccioso.
Adesso che è più vicina, s’accorge di
quanto sia anche terribilmente bassa. Un tappo con le braccia, per
essere più specifici.
«Ti sto solo chiedendo se nuoti» sbiascica infine,
al colmo dell’esasperazione. Sono lì da minuti
ormai e lei ancora si ostina a mostrargli la diffidenza di un cane
randagio.
Al sentir pronunciare quella domanda, qualcosa cambia
nell’atteggiamento della ragazza; la scheggia impazzita che
si trovava di fronte a lui qualche istante prima sembra placarsi e uno
sguardo raddolcito prende forma dalle iridi cangianti, mentre un
sorriso le si dipinge addosso, lasciandolo sbigottito.
«Sì, nuoto anche io» gli risponde
semplicemente, mentre s’accosta alle fotografie appese sulla
parete alle sue spalle. «È in questa piscina che
ho gareggiato per la prima volta.»
Anche il tono della sua voce è cambiato; è
più mite e sobrio, come se abbia dimenticato il motivo della
sua precedente indisposizione.
Rin s’accorge di averla vista solo due volte, eppure non gli
ha mai concesso di sentire il timbro pacato di adesso –
d’altronde l'ha sentita solo sgridarlo o sbraitargli addosso.
Lo
fissa, indicandogli con l’indice sottile una foto posta in
mezzo alle altre. Lo squalo le si affianca, studiando attentamente il
soggetto immortalato, nonostante la polvere abbia ormai sbiadito quel
ricordo su istantanea.
Non ha dubbi che si tratti di lei. È una bambina
piccola, con il sorriso sdentato e gli occhi pieni di gioia. Stringe a
sé un piccolo trofeo, reso ancora più altisonante
dalla medaglia che le sbrilluccica al collo, che sembra decisamente
troppo grande su quel petto da infante.
S’abbassa a leggere l’etichetta posta sotto la
cornice e rimane stupito di trovarla senza alcuna usura.
1° Posto
Sezione: Stile libero
MIZUKO HOSHINO
«Fai stile libero, eh?» sussurra, non aspettandosi
di ricevere una risposta.
Studia minuziosamente la fotografia; s’incupisce man mano che
focalizza l’attenzione su un dettaglio alle spalle della
piccola vincitrice. Non ha dubbi: quello è Haruka, e il suo
sguardo sta proprio fissando la giovane nuotatrice.
«Non ci posso credere» scatta infine, con le mani
tra i capelli. «Oddio, sei proprio tu!»
Mizuko lo fissa, con uno sguardo che chiaramente lascia intuire la sua
perplessità. Rin la squadra da capo a piedi, certo ormai di
trovarsi di fronte alla famosa M.H.
«Dì un po’, per caso il tuo armadietto
era accanto a quello di Haru?»
La vede sgranare gli occhi e prova un inappagabile senso di
soddisfazione nel constatare che finalmente ha potuto conoscere il
fantasma che perseguitava l’amico già cinque anni
addietro. Si sente un po’ deluso onestamente: è
davvero quella ragazzina sciatta la ragione del malessere profondo che
si celava nelle profonde iridi blu del compagno?
Gli scappa un’altra risata.
La ragazza lo fissa senza dire niente. Non ride, a stento respira, in
quel mare di fuliggine risvegliatosi dal lungo torpore.
Quel
ragazzo ha davvero qualcosa di spaventoso: non riesce a capire se
associare il suo disagio ai denti aguzzi o agli occhi che brillano di
un’insolita rabbia repressa. Per qualche istante è
convinta che non sia la polvere a farle mancare l’aria.
Pian
piano il ghigno malefico dello squalo scompare; si sente osservato
dallo sguardo indagatore e perfido della piccola ragazza che gli sta di
fronte, ma non riesce a capire come mai se ne stia zitta senza
proferire parola. Sbuffa, infastidito da quell’atteggiamento
supponente. «E adesso che hai?»
La vede fare spallucce. «Niente.»
«E allora piantala di guardarmi.»
«Non ti sto guardando.»
«Ah!?» Ma
com’è possibile che neghi l’evidenza
fino a questo punto? È davvero assurda.
«Non ti hanno mai insegnato che fissare le altre persone
è da maled-»
«Perché sei tornato?»
Mizuko non è una persona che risponde facilmente alle
domande che le vengono poste. Forse sarà dovuto al fatto che
ha troppi interrogativi in testa da non avere altro spazio anche per
risolverli.
Il rosso non ha alcuna intenzione di risponderle. È teso
come una corda di violino, incapace di poter spiegare ad una
sconosciuta cosa l’abbia portato nuovamente in Giappone,
quale problema si celi dietro la sua apparente spavalderia.
È certo che una tipa come lei non sia abbastanza sveglia per
capirlo.
«Potrei farti la stessa domanda» brontola acido,
voltandole le spalle. «Non sei stata tu la prima ad
andartene?»
«Sì.»
Deve ancora abituarsi a quei modi così diretti, si dice,
mentre torna a fissarla. «Perché allora lo domandi
a me?»
La ragazza si stringe nelle spalle, arrossendo leggermente.
«Beh, perché vedi… tu sembri davvero
triste.»
Per la prima volta da quando l’ha incontrata, lo sguardo
cremisi trema; non sa spiegarsi bene il motivo, ma la
facilità con la quale riesce a leggerlo lo destabilizza. Una
maledetta mocciosa che puzza ancora di latte non potrebbe mai capirlo,
è ovvio che stia solo cercando di soggiogarlo.
«Che diavolo ne puoi sapere tu, stupida!» sbraita,
improvvisamente incattivito.
Mizuko non sembra scomporsi affatto, ma rimane passiva a fissare lo
sguardo infuocato di Rin, sempre più rabbioso e senza
controllo. È ovvio che in lui ci sia qualcosa che non va, ma
quella rabbia non riesce a giustificarla neanche ipotizzando che
c’entri la rivalità con il delfino. È
più dura, la realtà. Lo sente. Gli fa
più male di quel che dovrebbe.
Trattiene un sospiro; non vuole irritarlo, sa che certi pensieri
possono annebbiare la mente, a volte. Lei ne è un esempio
vivente.
‘Fanculo, pensa, arrendendosi. In fondo, non credo ci
riparleremo più.
«Sono tornata perché voglio trovare delle
risposte» dice, ignorando il fatto che nella testa dello
squalo ci siano domande ben più importanti di quella che le
ha fatto. «Su me stessa.»
«Risposte?» Lo sguardo amarantino sembra placarsi,
vittima di un’improvvisa curiosità.
La bionda sorride, sfiorando con le dita sottili la fotografia
polverosa di una lei molto più felice.
«Sì, risposte. Sai, quelle che si danno quando si
fanno delle domande.»
«Anche spiritosa» lo sente mormorare, ma nella sua
voce non vi è più alcun accenno di cattiveria.
«Oh, certo.» Mizuko gli si para dinnanzi.
«Sono un vero spasso.»
«E modesta.»
Rin si lascia scappare una risata, riuscendo a dimenticare per un
istante il suo inferno personale. Quella ragazzina è strana
come poche. S’accorge che, nonostante i suoi modi siano
assolutamente insopportabili, il suo modo spicciolo di vedere la vita
gli piace. È come avere a che fare con una bambina, con i
suoi grandi occhi cangianti che scrutano un mondo solo a colori.
«Ohi.» Sa che non dovrebbe parlarne proprio con
lei, ma non riesce a frenare la curiosità. Quando riesce ad
attirare la sua attenzione, le labbra si muovono da sole.
«Cosa c’è tra te ed Haru?»
La giovane nuotatrice rimane a fissarlo, sorpresa da quella domanda
inaspettata. Di tutte le cose che ha pensato potesse chiederle, quella
sicuramente non rientra nell’elenco.
Oddio, e adesso cosa risponde? Trovare una risposta ad un quesito
così complesso è tutto fuorché facile.
Deve pensare a qualcosa di sensato da dire, ma ogni volta che prova a
rispondere, i magnetici occhi blu del libero le occupano la testa e si
sente come una di quelle teenager che stravedono per l’idol
di turno.
Dio, che scena raccapricciante.
«E-ehm» prova a dire, schiarendosi la voce.
«In realtà è difficile
spiegarlo.»
Magari riuscirà ad eludere la domanda, ma non appena osserva
gli occhi impazienti che le stanno di fronte capisce che non ha alcuna
via di fuga.
Respira profondamente, mentre con un unico forte sospiro butta via
tutta l’aria accumulata nei polmoni. Bene così,
dovrà pur trovare un modo per parlarne. Meglio con lui che
con Makoto o, peggio, Nagisa. Già se lo immagina, il
coetaneo, mentre lei si confida e lui la scruta con gli occhi rosei
illuminati dalla luce della malizia.
Giammai.
«Io non lo so» sbotta infine, passandosi una mano
tra i corti capelli biondi. «Per lui in realtà
credo di essere una palla al piede.»
«Credi questo?» Il rosso sembra sorpreso, ma non
riesce a spiegarsene la ragione.
La ragazza fa spallucce, strofinandosi il naso infreddolito contro la
sciarpa. «Quando eravamo più piccoli passavamo
molto tempo insieme – ah beh, non farti strane idee, solo in
piscina in realtà – e credo di averlo fatto spesso
arrabbiare.»
«Davvero?»
«Eh, già. Ero sempre molto chiassosa e imbranata e
goffa e…»
«Eri?»
Rin ripensa alla crisi isterica che le ha visto fare durante la sera
precedente, trattenendosi dal canzonarla. Crede davvero di essere tanto
cambiata?
Mizuko lo fissa, immusonita. «Sono un po’
migliorata» borbotta, girando lo sguardo di lato.
Lo squalo sorride sotto i baffi: si sorprende di trovare la sua
compagnia piacevole. «E adesso?»
«Adesso è diverso.» La ragazza sospira,
portando le mani dietro la schiena e strofinandosi le dita.
«Se è vero che io non sono cambiata, allora forse
è cambiato lui. Anche se…»
«Anche se…?»
«Il modo in cui nuota.» La osserva sorridere. Un
sorriso del tutto nuovo, dolce e malinconico al tempo stesso, di quelli
che quando si vedono impediscono allo sguardo di guardare altrove.
«Il modo in cui nuota è sempre
meraviglioso.»
Rin non riesce a capire cosa prova. Sente di essere arrabbiato e
tuttavia vuole sentirla parlare ancora, con quegli occhi illuminati dal
pensiero del rivale e col cuore in mano, trasognante. Come esistere
all’interno della sua bella favola rosa, fatta dei
più variopinti colori. Si convince che dev’essere
bello, vivere lì.
«Sembri davvero felice quando parli di lui» le
dice, maledicendosi per l’astio vagheggiante della sua voce.
Mizuko abbassa lo sguardo, fissandosi le punte degli stivaletti.
«Beh… è perché io amo
Nanase-kun» sussurra, con lo sguardo perso in
chissà quali dolci ricordi.
Rimane a fissarla, turbato al pensiero di quelle parole; allora
è vero che tra loro c’è davvero
qualcosa. Mentre cerca di replicare, lei lo ferma, scuotendo
freneticamente le braccia.
«Ma non c’è da
preoccuparsi!» sbraita, improvvisamente conscia di quanto
appena detto. «È un amore a senso unico!
Decisamente a senso unico! Figurati se una come me può
piacere ad uno come lui, cioè mi hai vista?»
Ride così come parla, pensa il rosso.
Istericamente.
Non dev’essersi accorta in tempo di quello che ha detto,
è certo che non glielo avrebbe mai confidato se fosse stata
presente a se stessa. In effetti, non può che essere
d’accordo con lei: come potrebbe mai piacere ad uno come
Haruka? È nevrotica, irragionevole, maldestra e dice sempre
cose che non dovrebbe dire, risultando per lo più fuori
luogo.
Ha tutte le carte in regola per essere il peggior incubo
dell’avversario. Dovrebbe essere così. Eppure, il
ricordo degli occhi blu del rivale che la cercano, che
s’illuminano a guardarla… quello Rin non
l’ha sognato, ne è sicuro.
Sbuffa infastidito, afferrandola per un braccio.
«Oh!» grida lei, colta di sorpresa. «Dove
diavolo stiamo andando?»
Il rosso la fulmina con lo sguardo. «Non avrai intenzione di
tornartene a casa da sola, mocciosa.»
Mizuko
lo fissa, socchiudendo la bocca e rimanendo imbambolata a fissarlo,
mentre Rin le fa un cenno con la mano, cercando di destarla da quella
improvvisa catalessi. È
proprio un caso perso, si dice, mentre
s’incammina all’uscita dell’edificio
trascinandola di forza – non che sia un problema in
realtà, la ragazza pesa a stento un terzo di quanto pesi lui.
Sul serio
Haru, come fai? Vorrebbe chiedergli. Come riesci a tenere il passo di
questa qui?
«Ohi, Rin» si sente chiamare.
«Cosa vuoi?» Non si volta a guardarla,
né si ferma. È stanco e vorrebbe solamente andare
a dormire.
Per un attimo è tentato di controllare che stia bene;
qualche istante dopo la sente mugugnare qualcosa di incomprensibile.
Sospira, ormai arresosi al suo atteggiamento bipolare. «E
adesso cos’hai detto?»
«Non è importante.»
«Dillo e basta!»
«Ho detto grazie, ok!? Però dato che faccio ancora
fatica a ricordarmi l’accento di alcune parole non volevo
sbagliare!» sbraita, dimenandosi come una pazza.
Non ridere,
si ammonisce. Non
ridere o lei s’incazzerà ancora di più.
«Sono arrivata» dice, una volta giunti in
prossimità di un bel cancello in ferro battuto.
«Buonanotte, Matsuoka-san.»
«Mi hai chiamato Rin per tutto questo tempo,
perché adesso te ne esci con Matsuoka-san?»
La ragazza si stringe nelle spalle, arrossendo di colpo.
«N-non mi ero accorta di chiamarti per nome.»
Il rosso si dà una manata sulla fronte, frastornato.
«Lascia stare. Va bene Rin.»
«O-ok.»
«Buonanotte, Mizuko.»
Quando finalmente la vede chiudere la porta di casa, lo squalo non
riesce a smettere di sorridere.
È decisamente fuori di testa, quella.
⚘
Amakata-sensei studia attentamente i volti dei presenti, facendo
svolazzare un foglio vicino ai loro nasi. «Dunque, per quanto
riguarda il modulo del club di nuoto che avete compilato…
dopo un’attenta analisi da parte del nostro
istituto…»
Ha sempre odiato chi si diletta con la suspense altrui. Sarà
dovuto al fatto che in Francia c’era una docente che non
faceva altro che parlare per puntini di sospensione.
«… È stato
approvato!»
Le mette subito tenerezza l’espressione sollevata del bel
castano, mentre l’isteria del più piccolo tra i
presenti prende il sopravvento su qualsiasi altra forma
d’esultanza.
«Magnifico! Sapevo che potevamo contare su una ex dipendente
di una compagnia di costumi!» esclama, mentre la sensei
sdrammatizza le sue lusinghe, risultando più falsa di quel
che crede.
«Ragazzi, c’è una condizione in
particolare…» s’affretta a dire poco
dopo la docente, dissipando l’ilarità generale.
«Beh, vedete…»
Una volta fuori, la piscina appare come un campo abbandonato. Mizuko la
studia attentamente: le recinzioni sono del tutto arrugginite,
strozzate dall’edera rampicante che sembra soffocarle; la
piscina, oltre agli evidenti segni dell’usura temporale,
sembra territorio di caccia d’erbacce e piante opportuniste
insinuatesi lungo le crepe allargate dalle intemperie; vi sono anche
dei considerevoli tronchi di legno marcio e qualche cartone buttato qui
e lì a mo’ di deposito. È impossibile
distinguere persino le linee bianche che separano le corsie.
«Wow, sembra l’Amazzonia» mormora il
biondino, ancora con l’argento vivo addosso.
«Vuol dire che…» prova a dire Makoto, ma
la professoressa lo precede.
«Esatto, dovrete rendere utilizzabile questa
piscina.» Il tono perentorio della sua voce manifesta subito
una rilevante necessità, non c’è dubbio.
Senza piscina, in effetti, nuotare è abbastanza difficile.
«Il va y avoir
du ménage à faire[1]»
sussurra la ragazza, portandosi una mano sulla bocca per non apparire
troppo stupita del disastro dinnanzi ai suoi occhi.
Haruka la fissa, confuso. «Cos’hai detto?»
«Ah!» Scuote freneticamente la mano,
sdrammatizzando il suo commento poco felice. «Niente di
importante. È un riflesso incondizionato, scusa!»
Il libero la guarda perplesso; distoglie lo sguardo da lui, ripensando
alla confessione fatta al suo rivale la sera prima.
Sono
un’idiota! Si dice, ripensando allo sguardo
incuriosito del rosso. Oddio
e se dovesse dirglielo?! Ma no, in fondo non si parlano, giusto?!
Però sono amici, potrebbero anche fare pace e allora vuol
dire che lui potrebbe in qualche modo confidargli quello che gli ho
detto, oddio no impossibile…
«Mizuko.» Scatta sull’attenti al suono
della voce sospettosa del corvino. «Qualcosa non
va?»
Si volta, cercando di mantenere il contegno. Quando lo vede, lo sguardo
blu che tanto adora è visibilmente preoccupato. Si
rimprovera per essere lei la ragione della sua angoscia.
«No.» Certo,
come no. «È tutto ok.»
Perché diavolo quando gli sta così vicino deve
comportarsi da stupida? Non può far finta d’essere
una ragazza normale, magari riservata, un po’ misteriosa,
capace di attirare la sua attenzione?
Certo che no. Lei è la solita vecchia amica infastidente e
con lo scarso senso d’equilibrio, si dice, mentre inizia a
strappare ogni ciuffo d’erba che osa sfidare la sua forza
fisica. Incazzarsi con se stessa è ormai diventata una delle
prerogative più urgenti.
Dà
uno sguardo veloce alle crepe delle pareti della piscina,
interrogandosi su chi abbia mai permesso di trascurarla a quel modo.
Studia la situazione, cercando di ricordarsi come fare per poterle
riparare.
«Mizuko.» Makoto le si avvicina, accovacciandosi
vicino a lei. «Sei stanca?»
Scuote la testa, tornando a fissare il muro d’azzurro
sbiadito. «Sto pensando ad una soluzione per questo
schifo.»
«T’intendi di riparazioni?»
«Assolutamente no» ride lei, sfiorando con le dita
la crepa. «Però possiamo provare a stuccare e poi
ridipingere sopra. In fondo, queste spaccature non sono poi
così profonde.»
«No, hai ragione» conviene il castano, mentre li
raggiungono gli altri due membri del club.
Haruka le si accosta, porgendole una mano per farla alzare da terra.
Arrossisce un po’, ma le ciocche non permettono al moro di
notarlo. Santi capelli.
«Cosa facciamo, quindi?» domanda Nagisa, portando
le braccia dietro la nuca. «Abbiamo ancora un po’
di tempo.»
«Beh, potremmo provare ad andare da DolphinS,
sicuramente avrà tutto l’occorrente» fa
notare Makoto, mentre s’avviano verso lo studio di
Amakata-sensei.
Una
volta in macchina con la docente, l’allegro gruppetto si
lascia andare ad una serie di fantasticherie su come verrà
su la piscina a lavoro finito, ognuno emozionato a modo suo su come
possa apparire nuova e tirata a lucido.
Prendono tutto il necessario per riparare le fessurazioni e il colore
per ridipingere; Mizuko dà una rapida occhiata alle vernici
bianche, poi si fa indicare da un commesso dove poter trovare le barre
galleggianti – certa che quelle conservate non siano
più utilizzabili. Afferra decisa il portafoglio, mentre
Makoto e Nagisa tentano disperatamente di dissuadere il libero dal
buttarsi dentro una vasca ricolma d’acqua – a volte
la vita degli amici di Haruka Nanase può essere
particolarmente difficile.
Nei giorni a seguire proseguono la loro tabella di marcia, continuando
ad allestire la piscina affinché sia pronta in poco tempo;
Nagisa ed Haruka si danno al disegno, coadiuvati dal club di arte per
la produzione di locandine al fine di sponsorizzare
l’apertura del nuovo club – lavoro in cui
l’arte cubista del primino incontra quella più
classicheggiante ed apprezzata del nuotatore prodigio.
Mizuko passa il suo giorno di meritato riposo sulla terrazza,
intenta a fissare in lontananza un giovane ragazzo che pulisce la
piscina. Persino da quella distanza riesce a vedere come brillino i
suoi occhi al pensiero di poter finalmente tornare a nuotare.
Sente aprirsi alle sue spalle la porta d’acciaio ed una voce
chiamare proprio il ragazzo che sta in piscina. Sorride ad un Makoto
chiaramente sorpreso di trovarla lì.
«Mizuko!»
«Buongiorno, Makoto» gli dice, affacciata alla
ringhiera. «Se cerchi Nanase-kun è
lì.»
Indica un piccolo omino immerso nella nuova pittura azzurra della
piscina. Il castano non può fare a meno di sorridere.
«S’impegna tanto, eh?»
«Più di tutti noi» gli fa notare la
ragazza, con lo sguardo trasognante. «Mi chiedo se esista
davvero al mondo qualcuno che possa competere con l’amore che
prova per il nuoto.»
L’orca la fissa, contento di trovarsi lì con lei.
Gli è sempre piaciuta, Mizuko.
Non nel senso vero del termine, o almeno crede. È
che lei è quel tipo di ragazza che, una volta che entra
nella vita altrui, non si può proprio dimenticare. Haruka
non c’era riuscito, ma se è per questo neanche
lui. S’era interrogato più volte, in passato, per
sapere come stesse, se fosse felice; non ha mai sopportato
l’idea che potesse essere triste, forse perché
è sempre stato abituato a vederla sorridere.
Forse chiamarlo amore è inesatto. No, non lo chiamerebbe
affatto amore. Forse per paura o forse solo perché
è troppo semplice: è quel tipo di affetto che non
pretende d’esser visto; è piccolo e forte, capace
di sbocciare anche nel mese più freddo; non è
geloso, non è arrogante né narcisista; non
è vanitoso o violento.
È il volere che lei sia felice, null’altro.
Vorrebbe tanto chiederle cos’abbia vissuto lontana da
Iwatobi, se abbia riso, pianto, se abbia trovato qualcosa
d’importante o sia stato solo un lungo viaggio per poter
tornare lì. Eppure, ogni volta che è sul punto di
domandarglielo, il suo sguardo incrocia quello di Haruka e
improvvisamente si sente in difetto, proprio come se lui non avesse
diritto di starle così vicino, d’essere al fianco
dell’amica.
Sa che è solo una sua fissazione: l’amico non
dubiterebbe mai di lui, questo lo sa bene, ma forse è
proprio per questo che si sente messo da parte.
Non ha mai potuto competere in acqua, con Haruka. E adesso non
può farlo neanche per lei, perché anche ad un
orbo parrebbe evidente come Mizuko non abbia occhi che per il delfino.
Non è un tipo che rischia, Makoto. Forse
è per questo che non ha mai potuto davvero essere se stesso;
nel suo atteggiamento paterno e protettivo si è dimenticato
com’è essere bambino. Quando le persone sognavano
di se stesse, lui sognava di loro, nel suo piccolo mondo sentimentale
fatto solo di amicizie preziose, d’affetti sinceri, dove non
ha mai trovato spazio per le menzogne. È difficile da
trovare, una persona del genere.
«Makoto» si sente chiamare dalla voce canterina.
«Tutto ok?»
«Sì» le risponde subito, portandosi una
mano a carezzarsi il collo tornito.
«Perché?»
Mizuko lo guarda con quei suoi adorabili globi luminescenti,
preoccupata che possa essergli accaduto qualcosa. «Sembri
strano.»
Si lascia scappare una risata nervosa, mentre porta lo sguardo a
cercare la figura dell’amico intento a pulire la piscina. No,
non può decisamente competere contro di lui. Non su questo.
«Non è niente» risponde, reprimendo il
flusso di quei pensieri ingiusti, troppo lontani da quella che
è la sua persona, il suo essere.
Quel sentimento non è un oceano in cui è in grado
di nuotare. Rischierebbe di affogare. Per cui, perché
tuffarsi? «Non è niente.»
Fa per andarsene, con una decisione che gli pesa addosso più
di tutto il resto. La sente, la parte di sé che sta
affondando, quella che sta urlando. Ma non importa.
Lui è Makoto. L’amico su cui si può
sempre contare. La spalla su cui piangere.
Non è proprio fatto per l’egoismo, lui. Per una
volta, però, avrebbe tanto voluto essere diverso.
Peggiore di così.
⚘
«L’avete ripulita proprio per bene!»
Per una volta deve convenire con Amakata-sensei. La piscina
è sempre più bella, si dice, mentre ripassa per
l’ennesima volta le strisce delle corsie con un pennello per
l’imbiancatura.
«Non potrebbe alzarsi da lì e darci una
mano?» sbotta innervosito il biondino, con attorno un mucchio
d’oggettistica che non sa bene come utilizzare.
Il solito imbranato,
le viene da pensare, udendo in sottofondo la voce della docente che
accampa la scusa dei raggi ultravioletti per godersi ancora la
tranquillità della sua sdraio.
A pochi metri di distanza da lei, un Makoto entusiasta dipinge la
parete più lunga della vasca.
«È divertente» lo sente dire,
rivolgendosi al corvino. «È come se fossimo
tornati alle elementari.»
«Alle elementari di sicuro non ti chiedono di
sistemare una piscina» gli risponde, irritato.
Mizuko sorride; è proprio da lui non sopportare
l’idea di attendere ancora per potersi tuffare in acqua.
Come se percepisse il suo sguardo addosso, il corvino si volta a
fissarla. Rimangono in silenzio per qualche istante: ormai non vi
è più alcun imbarazzo, quando i loro sguardi
s’incontrano. È un tacito accordo tra colori
dissonanti, il blu profondo dello sguardo del delfino che brama
d’esser visto, scrutato dal corallo e dall’azzurro
di lei.
È il cuore a lanciarle i primi segnali; sembra esploderle
dal petto non appena lo vede sorridere.
Oddio. Non ha pensato a nulla di intelligente da dirgli. Maledetto
cervello che non pensa mai a niente.
Quando è ormai sul punto di avvicinarsi a lui, avverte alle
sue spalle la voce fastidiosa della giovane Matsuoka. Tempismo
perfetto, e lei che sta ancora lì a si
chiedersi come mai non la sopporti.
«Ah Gou!» sente esclamare il coetaneo.
«Sei venuta ad aiutarci?»
«Ti ho detto di chiamarmi Kou, altrimenti non ti
darò nulla!» gli risponde acida, indicandogli il
sacchetto con dentro i rinfreschi.
Ti chiami
Gou, perciò non rompere. È quello
che pensa, ma sta ben attenta a non parlare. Non è la prima
volta che rischia di fare una figuraccia a causa della sua indole
troppo impulsiva.
«Eh?! Sei cattiva!»
«Nagisa» lo chiama, puntando i piedi ed attirando
l’attenzione degli altri due ragazzi.
«Andiamo.»
Il biondo la guarda, confuso. «Dove?»
Mizuko
s’aggrappa al bordo della piscina, issandosi sulle braccia
per poterne uscire. È arrabbiata, ma non ne capisce bene il
motivo. Forse è perché la rossa davvero non le
piace – insomma, come diavolo fa a sbucare sempre nei momenti
meno opportuni?
«Andiamo a fare pubblicità, no?» Fissa
il compagno, attendendo che la raggiunga.
Quando si allontanano, Makoto non può fare a meno di notare
quanto Haruka sia turbato. Ha sempre creduto fosse solo frutto della
sua immaginazione, ma adesso ne è fermamente convinto:
l’amico è geloso di Nagisa, anche se forse neanche
lui sa bene cosa sta provando. Lo fissa, sorridendo.
«Che c’è, Haru?»
«Niente» mugugna, continuando a dipingere.
Perciò è questo, pensa il castano,
osservando lo sguardo sempre più accigliato del compagno.
È proprio un libro aperto.
Mentre i due senpai continuano le rifiniture della piscina ormai
prossima all’apertura, Mizuko e Nagisa corrono per i corridoi
come due esaltati, in cerca di qualcuno abbastanza folle da unirsi al
loro club. È difficile, si dicono, mentre ogni studente che
incontrano trova una scusa qualsiasi per potersi defilare quanto prima
dai loro filosofici discorsi su quanto sia salutare nuotare.
«Ragazzi! Nuotiamo e divertiamoci insieme!» esclama
Nagisa, con addosso gli occhialini e una tavoletta azzurra con sopra un
pinguino.
«Perché dovremmo nuotare in una piscina, quando
c’è il mare a due passi?» rispondono due
ragazzi del primo anno.
«Se vi iscrivete subito, avrete in regalo una fornitura
annuale della mascotte dell’Iwatobi: Iwatobi-chan!»
continua il biondo, ad un altro gruppo.
«No, grazie» rispondono tutti in coro.
La ragazza appare sempre più arrendevole: il nuoto non
è uno sport che va per la maggiore, dopotutto. Non
è popolare come il basket o energico come il calcio.
Si dice che preferisce trovare poche persone che abbiano davvero voglia
di nuotare insieme a loro e, per la prima volta, sente davvero la
necessità di potersi tuffare anche lei nel primordiale
elemento e gustare appieno l’adrenalina di ogni falcata, di
ogni bracciata. Non vede l’ora.
Persa a fantasticare su come potrebbe essere nuotare di nuovo insieme
ai suoi vecchi compagni, sbatte la testa contro qualcosa
d’estremamente duro. Tiene la mano premuta contro il naso,
sperando di non iniziare a sanguinare. «Ma si può
sapere che cos-»
La frase le muore in gola, mentre mette a fuoco la sagoma sorpresa del
suo vicino di banco: Ryugazaki.
«Oh!» gli grida contro, facendolo sobbalzare.
«Ma guarda dove vai!»
«Io?! Ma sei tu che mi sei venuta addosso!» sbraita
lui di rimando.
«Mizu-chan!» Nagisa le si affianca dopo qualche
istante, preoccupato. «Mizu-chan, ti sei fatta
male?»
«No, sto bene» risponde, lasciando cadere la mano
sul fianco.
Rimane zitta, mentre i due compagni di classe intraprendono una sciocca
lite sul perché Ryugazaki non presti attenzione alla gente
più bassa di lui. In realtà, sta osservando da
vicino il bel fisico del turchino: sarebbe davvero perfetto per il
nuoto.
Scruta attentamente i deltoidi, dà una rapida occhiata ai
polpacci ben evidenti anche da sotto il pantalone. Sì,
potrebbe davvero funzionare.
«Senti, Ryugazaki-kun» lo chiama, distogliendo la
sua attenzione dal biondino. «Perché non ti unisci
al club di nuoto?»
La fissa perplesso – stessa espressione che vede ben presto
dipinta sul volto dell’amico, che comprende subito il motivo
per il quale la ragazza sia così interessata al giovane che
sta loro di fronte.
«Impossibile» risponde infine il blu, distogliendo
lo sguardo. «Mi sono già iscritto al club di
atletica.»
Mizuko non sembra voler desistere. «Il club di atletica
è davvero noioso.»
«E tu che ne sai?!» le urla addosso, irritato dalla
sua fastidiosa supponenza.
La nuotatrice fa spallucce. In realtà non sa molto di quello
sport, per cui non avrebbe il diritto di poterne parlare. Forse, in
realtà, non riesce proprio ad ammettere che possano esistere
persone che apprezzino altre discipline all’infuori del
nuoto. La cosa è alquanto indigeribile.
«Cosa c’è di emozionante in un tizio che
fa un salto con l’asta?» chiede, seriamente
dubbiosa.
Rei la fissa sconcertato, aggiustandosi gli occhiali che
sembrano scivolargli dal naso. È chiaro come lei non abbia
mai visto davvero un atleta, si dice, mentre trattiene una delle sue
solite risate maniacali.
«Non capisci, vero?» le domanda, lasciando da parte
la rabbia di poco prima. «Non può capire chi fa
uno sport esteticamente brutto come il nuoto.»
Mizuko sgrana gli occhi, mentre sente un fuoco divamparle dentro come
il peggiore degli incendi. Nagisa l’afferra al volo, avendo
previsto la reazione spropositata dell’amica. Come sempre,
non è cambiata neanche in quello.
«Ripetilo se hai il coraggio!» urla, mentre
l’amico la trattiene per le braccia. «Quattrocchi
esaltato!»
«I-io non sono esaltato!» Rei si nasconde dietro
una porta, certo che se la ragazza dovesse sfuggire a quella presa
probabilmente lo ucciderebbe.
«Rimangiati quello che hai detto!»
Se si concentra, può veder uscire del fumo dalle sue narici.
Deglutisce, certo delle sue convinzioni. «No!»
«Ah!?»
«Ho detto no!»
«Nagisa, lasciami andare!» grida contro
l’amico, in procinto di perdere l’equilibrio.
«Mizu-chan, sta’ calma!» la rimprovera
quest’ultimo, sperando di guadagnare tempo. Se ci fosse stato
Makoto, sicuramente trattenerla sarebbe stato più semplice.
«Sarà lento e doloroso, mi senti?!» Rei
trema al sentire quella voce così iraconda. «Ti
farò morire di atroci sofferenze, sai dove te la puoi
ficcare quell’ast…»
«Hoshino-san!» La voce del docente la riporta alla
realtà, distogliendola dal suo soliloquio. «Che
stai facendo?!»
«Mi sto prendendo una vita sensei, ne stia
fuori!» continua a rimbeccare, contorcendosi come una biscia.
«Nagisa, lasciami andare!»
«Aiuto! Makoto!» grida il biondino, nella speranza
che l’amico più robusto possa sentire la sua
richiesta.
L'indaco, terrorizzato, proprio non riesce a capire il
perché di quella reazione. Non osa muoversi da dietro la
porta, certo che lei gli salterebbe addosso, pronta a spezzargli la
cervicale.
Deglutisce, immaginando la scena. È da quando
l’ha vista in classe che quella ragazza non gli piace, e
adesso sa anche il perché: oltre a quell’aria
trasognante che si porta sempre addosso, il giovane atleta non sopporta
lo sguardo con cui studia tutti, certa di poter avere tutte le risposte. Lui, che è
così vittima di se stesso, non può comprendere
cosa si celi dietro quel comportamento sconsiderato.
Mizuko non è in grado di
esprimere ciò che prova, se non così.
D’altronde, non è mai stata brava a spiegarsi e,
spesso, ha anche dovuto rinunciare a farlo. In fondo, quale beneficio
avrebbe mai potuto trovare in persone che non la capivano?
Si è sentita spesso sola, questo non lo nega. Eppure, in
cuor suo ha sempre saputo di parlare una lingua che gli altri non
capiscono; quella silenziosa e che non esprime mai, se non quando
è in acqua.
Mizuko, quando è arrabbiata, nuota. Quando è
triste, nuota. Quando è felice, nuota.
Non conosce un altro modo per pronunciarsi.
Questo Nagisa lo sa perfettamente, e perciò non si
meraviglia affatto che l’amica voglia scuoiare vivo un
ragazzo che ha osato insultare ciò che le è
più indispensabile. In realtà, gli viene da
sorridere.
Nonostante la tenga ferma e senta la voce del sensei tentare di farla
ragionare, il nuotatore di rana pensa a tutt’altro, ormai
lontano da quel furioso battibeccare.
È per questo che lei ed Haruka sono così vicini,
pensa. Perché
provano le stesse cose.
È malinconico, quel pensiero. Perché lui, che
è tanto bravo a farsi comprendere, non ha la minima idea di
che cosa si provi.
Quando parli, ma nessuno ti capisce.
⚘
Qualche ora dopo Mizuko esce dall’aula professori, sfinita.
Suppone d’aver finalmente sfatato il mito d’essere
una ragazzina per bene. Peccato, cominciava a piacerle l’idea
d’essere trattata con un occhio di riguardo –
nonostante il sensei non sia stato affatto duro con lei, ma si sia
limitato semplicemente ad ammonirla.
Tutto per colpa dell’orbo narcisista.
Cos’ha provato durante la lite neanche riesce a ricordarlo.
Sa solo di non essere stata abbastanza svelta da sottrarsi alla presa
altalenante di Nagisa, che in qualche modo è riuscito a
contenere la sua furia.
Si dà della stupida, mentre ripensa al modo poco ortodosso
di relazionarsi col compagno di classe. In fondo, è stata
lei a cominciare.
Percorre
svogliata il corridoio d’ingresso agli spogliatoi, pronta
alla ramanzina che sicuramente anche Amakata-sensei le avrebbe fatto
– e d’altronde non si stupisce affatto, persino lei
si sarebbe autopunita per il gesto sconsiderato di pensare
d’uccidere un suo coscritto.
Quando apre la porta che la separa dall’ingresso del club,
Nagisa è già lì, con la faccia di chi
ha voglia di fare un mare di domande. «Mizu-chan!»
Haruka la guarda di sottecchi, continuando ad intagliare Iwatobi-chan
dall’aria spenta, mentre un Makoto sempre più in
ansia le si avvicina circospetto.
«Cos’ha detto il sensei?» domanda,
sperando che gli occhi verdi non tradiscano la sua eccessiva
preoccupazione.
«Niente di particolare» lo tranquillizza lei,
portandosi una mano dietro la nuca. «Suppongo fosse solo
sorpreso del mio atteggiamento.»
Il bruno si alza in piedi, scrutandola con fare minaccioso. Mizuko
sobbalza, vittima di quello sguardo blu che tanto ama e che adesso si
sta avvicinando a lei sempre più iroso.
«Ti rendi conto cosa sarebbe potuto accadere?» Il
tono della sua voce è baritonale, non molto diverso dal
solito timbro apatico, ma uno strano luccichio del suo sguardo rende
manifesta una rabbia mal celata. «Ti avrebbero potuta
sospendere.»
«Lo so, ma io…»
«No!» sbotta infine il delfino, afferrandola per le
spalle. «Tu non lo sai, baka!
Altrimenti non lo faresti.»
Makoto e Nagisa rimangono in disparte, inquietati dalla scena mai
veduta del loro amico così arrabbiato. Sotto certi aspetti
sono quasi sollevati che qualcuno riesca a suscitargli un simile
istinto. Si scambiano una veloce occhiata, prima di congedarsi
silenziosamente da quella lite che sembra non riguardarli affatto.
L’orca si volta a fissarli, prima di richiudere la porta alle
sue spalle. Sorride. A
vederli così, sembrano proprio una coppia di giovani
innamorati, si dice, mentre raggiunge il primino.
Mizuko rimane in silenzio, chinando il capo; vuole piangere, lo avverte
dal modo in cui le tremano le palpebre.
Tutti.
Può davvero litigare con tutti, ma con lui proprio non ci
riesce. Non riesce a rispondergli, a dirgli la verità, che
lei non voleva, che l’è partita la testa nel
momento stesso in cui ha sentito una voce insultare ciò che
lei ritiene più prezioso.
«Io…» prova a dire, ma si blocca.
Le labbra le tremano, gli occhi gonfi non mettono a fuoco
più nulla di ciò che un istante prima riusciva a
vedere del pavimento, la gola secca le vieta qualsiasi tipo di
spiegazione.
Haruka è arrabbiato e lei si sente come una bambina
insultata dal proprio genitore, mentre avverte la presa sulle sue
spalle divenire sempre più stretta.
«Mizuko» si sente chiamare, ma non ha il coraggio
di guardarlo in faccia. «Di’ qualcosa.»
Attende paziente una risposta della giovane, sperando si volti a
guardarlo e gli conceda di vedere nel suo sguardo il motivo che
l’ha spinta a comportarsi in quel modo. Sa cosa pensa lei;
è convinta che lui sia arrabbiato – ed in effetti
lo è – ma non riesce affatto a comprendere quanto
si sia preoccupato quando Nagisa ha spiegato loro ciò che
era accaduto.
Gli succede solo con lei, di preoccuparsi. Forse perché
tutte le persone di cui si è sempre circondato non sono
così pazze da voler spellare vivo un liceale.
China il capo, posando la fronte contro la sua chioma bionda;
socchiude gli occhi, mentre trasforma la presa attorno alle sue spalle
in un abbraccio pacato, privo di rabbia. Le sfiora la schiena con le
dita, cercando di tranquillizzarla, quando i primi singhiozzi
fuoriescono dalla sua piccola bocca, scuotendole la colonna vertebrale.
«Scusa» la sente dire, mentre avverte le sue
piccole mani stringergli la camicia. «È quello che
ha detto lui… lui… non doveva dirlo.»
«Cosa?»
«Io ho solo l’acqua» continua la
ragazzina, lasciando le lacrime scivolare lungo le guance.
«Io non me ne sono accorta, davvero, volevo solo che si
rimangiasse quello che aveva detto.»
«Cos’ha detto di così
sbagliato?» le domanda, cercando di trattenere un sorriso.
Quando fa così gli sembra davvero di parlare a una bambina.
«Che il nuoto è uno sport brutto»
risponde, imbronciandosi. «Ma lui che ne sa, mica
l’ha mai fatto, no?»
Haruka sospira, serrando la presa attorno alla minuta vita di lei.
«Sei proprio una baka.»
«Lui lo è di più.» Mizuko
alza la testa per fissarlo e, per un istante, si sente smarrito nel
vedere lo sguardo di lei inumidito dalle piccole gocce attorno alle
ciglia. «Lui è proprio un bako.»
«Si dice baka
anche per gli uomini» la riprende il corvino,
dimenticandosi d’essere ancora incollerito.
«Ah» gli risponde, scoppiando a ridere.
Il delfino osserva la scena: stringe tra le braccia una ragazza dagli
occhi rossi e gonfi che ha il sorriso perlaceo e il collo solcato da
tanti piccoli rivoletti di frustrazione, rabbia e paura. Una ragazza
completamente sbagliata, che attenta costantemente alla sua vita
puntando a farlo ammattire.
E c’è solo un modo per evitare che questo accada.
«Smettila di andartene in giro solo con Nagisa.»
Mizuko lo fissa, mentre il bel sorriso scompare. Studia attentamente il
ragazzo di fronte a sé e riesce a scrutare un lieve rossore
in prossimità degli zigomi.
«A-allora la prossima volta vieni tu con me» dice,
affondando il viso nella sua camicia. Se la guardasse adesso, il
delfino vedrebbe solamente una grande faccia rossa.
Haruka sorride. Quelle parole gli piacciono, gli piacciono
terribilmente. Persino lui si sorprende d’accontentarsi di
così poco.
«U-uhm.» È un’affermazione,
anche se non riesce a esprimerla come vorrebbe.
È così rilassato da non rendersi neppure conto di
quanto quell’abbraccio sia divenuto insolitamente lungo e
intenso, ma non gli importa. Fin quando può stare con lei in
quel modo, a lui non importa davvero.
«Amakata-sensei mi sgriderà» continua a
dire la piccoletta stretta tra le sue braccia. «Credi che se
la raccontassi la verità mi perdonerebbe?»
«Probabilmente» le risponde, lasciando scivolare le
sue dita lungo i fili dorati di lei.
Mizuko adora quel contatto. Adora sentire le mani di lui,
così gentili e piene di riguardo. La fanno sentire speciale.
Gli occhi le tremano, ma questa volta non è affatto per una
crisi di pianto. Ogni volta che gli è vicina, non
può fare a meno di pensare a quanto possa essere bello stare
sempre con lui, bearsi del suo sguardo, tranquillizzarsi al suono della
sua voce.
Ripensa alle parole rivolte a Rin la sera prima: è vero, ad
uno come lui non può piacere una svampita come lei. Ne
è certa.
E allora, perché? Perché vuole tanto illudersi
che non sia come pensa? Perché vuole tanto credere di poter
essere più di quello che è?
La gente normale si accontenterebbe, in fondo. Quando due persone sono
così incompatibili, di solito è un bene porre
delle distanze. Eppure, lei non riesce a farlo. Ha paura.
Paura di perderlo, paura di non poter più sentire le sue
dita sfiorargli i capelli, il suo respiro giungerle lieve
all’orecchio.
Vorrebbe
tanto trovare la forza per chiederglielo, ma sa di non essere
coraggiosa abbastanza per farlo. È troppo imbarazzante, ma
soprattutto la verità può farle male, e lei non
ha alcuna voglia di soffrire ancora.
«Sei ancora arrabbiato?» gli chiede, cercando il
suo sguardo. Quando lo incontra, l’oceano si è
finalmente placato.
«No» risponde. «E comunque lo
sapevo.»
«Cosa?»
«Che avresti trovato un’altra scusa assurda per
abbracciarmi» le fa, sorridendo.
La giovane sbarra gli occhi, evitando a tutti i costi di arrossire.
È avvinta dal calore di quel corpo che le sta pressato
contro e una strana sensazione la porta a credere d’essere un
po’ vittima del ragazzo che le sta accanto: Haruka la
conosce, sa cosa le piace, sa cosa la fa arrabbiare; fa esattamente
quello che lei fa con tutti. Studia.
Solo che lei lo fa un po’ più rumorosamente, ecco
tutto.
«A me piace abbracciarti, Nanase-kun» gli dice, con
un sorriso nascosto nel bianco della sua camicia.
Il ragazzo
rimane a contemplare la chioma bionda, cercando di scorgere il viso che
vuole tanto vedere: come sempre Mizuko non è in grado di
mentirgli, né di nascondere ciò che prova. Non
vuole ammetterlo, ma quell’aspetto del suo carattere gli
piace, e tanto.
Non le risponde. Sa che con lei non ce n’è
bisogno. Capisce i suoi silenzi meglio di chiunque altro.
«D-dovremmo andare» la sente dire, mentre le
piccole mani s’allontanano dal suo petto.
Istintivamente stringe la presa, riportandola contro il suo torace.
Non sa bene cosa fare, non è nella sua indole comportarsi in
quel modo; si sorprende d’essere così vulnerabile
quando è con lei. Come se si dimenticasse di tutto il resto.
Persino in questo momento, con la piscina quasi pronta e gli amici in
attesa di vederli, a lui non va di staccarsi da lei. Non gli va
proprio.
«N-Nanase-k…»
«Haru.» Sente il cuore di lei accelerare i battiti.
«Solo Haru.»
Finalmente si volta a guardarlo; i suoi occhi disorientati sono davvero
magnifici, si dice il corvino, mentre la osserva schiudere la bocca per
lo stupore.
Quella bocca, che è così tremendamente vicina
alla sua.
Le si appressa, sfiorando la punta del suo naso con la propria. Il
respiro flebile di lei è un piacevole invito ad assaporare
la dolce brezza di quei margini schiusi e tremanti. Nonostante questo
ancora s’interroga, ancora si domanda cosa prova. Eppure,
è ormai così evidente.
Che desidera quelle labbra tanto quanto desidera nuotare.
NOTE:
[1] Dal francese: “Ci
sarà un gran casino da pulire”.
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