la deriva dei continenti

di AmericaBrtn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** x.pre ***
Capitolo 2: *** 0.Una lettera può cambiar la vita ***
Capitolo 3: *** 1.America ***



Capitolo 1
*** x.pre ***


Il pensiero della morte mi ha sempre terrorizzata. Da bambina, mi bastava immaginare cosa sarebbe successo alla mia mente, o ai miei pensieri, se il mio cuore avesse smesso di battere perché il cuore mi si stringesse in una tenaglia di terrore e il respiro mi si bloccasse in gola. Dovevo costringere la mia mente a pensare a qualcos’altro per non rischiare di mettermi a piangere. Non sopportavo l’idea di un mondo senza di me, o di una me, scheletro, senza una una Me, mente. Una me che non pensa, che non sogna e che non parla.

A questo punto della mia vita non posso più permettermi il lusso di questo modo di vedere le cose, rischierei un infarto al minuto. Dopo aver passato la soglia dei cent’anni, dopo aver visto crescere i miei figli, i figli delle mie sorelle e i figli dei miei figli, dopo aver visto nascere perfino qualche bisnipote, so bene che i giorni che mi rimangono sono come spiccioli di rame. Li sento scivolare fuori dalle tasche della mia vestaglia, silenziosi come un ago che cade sul pavimento di una casa enorme. Ormai quelli che restano, tintinnando tra loro, non producono più un fruscio morbido e confortante come quello di una cascata, anzi sembrano lo schiocco di un ramoscello calpestato che si spezza.

Fatto sta che l’altro giorno me ne stavo sulla mia solita poltrona, senza altro impegno se non quello di autocommiserarmi per i pochi giorni che mi restano e quello di osservare il grosso castagno fuori dalla finestra del secondo piano. Mentre mi rigiravo la mia collana, che ho da i tempi di cui sto per narrarvi, ho preso una decisione. Nella mia mente è stato finalmente chiaro che di lì a un giorno, una settimana o un mese, i miei occhi si sarebbero chiusi per sempre. Mi è stato più chiaro di tutte le altre volte che le mie gambe erano troppo stanche per continuare a reggere il mio peso ancora per molto, che il mio stomaco era più il cibo che rifiutava di quello che riusciva a digerire e che il mio cuore era decisamente esausto (non tanto a causa di una qualche malattia, solo per il peso degli anni). Ho capito che non avevo motivo di essere triste, ero l’unica ancora in vita delle mie sorelle, ma soprattutto ero arrivata fin qui perfettamente sana, se non si considerano i vari acciacchi poco gravi che si hanno superata una certa età.

In quel momento ho deciso che io non sono e non sarò mai una persona che si piange addosso e che dovevo trovare un modo per occupare il tempo che mi restava. Volevo lasciare un segno, qualcosa che tra qualche hanno ricordasse a chiunque venisse voglia di chiederselo che io sono esistita.

Inizialmente ho provato a scrivere a mano, ma poi mi sono resa conto che le mie povere dita non sarebbero riuscite a reggere una penna quanto basta per scrivere quello che voglio raccontare, così sono passata a scrivere sul mio vecchio computer, compagno fedele di molte avventure.

Non so se mai a nessuno interesserà tutto questo, so solo che se mai i miei trisnipoti, o magari i nipoti dei miei amici, vorranno sapere chi era quella strana vecchietta sdentata, sempre intenta a succhiellare una caramella al limone, voglio che parlino di me per quella che ero. Voglio che il mondo mi ricordi come io mi vedo ancora nella mia testa: con i lunghi capelli rossi sciolti, e non scoloriti dal tempo e raccolti in una rigida crocchia. Vorrei che dicessero di me che mi piaceva ridere, anche se ora lo faccio sempre meno spesso visto che i miei denti sono meno dei giorni che mi restano; vorrei che raccontassero che ero una persona avventurosa e che ho fatto molte follie nella mia vita.

Ci sono troppi figli dei figli che non conoscono le mie follie.

Mi scuso in anticipo se non riuscirò a completare il mio racconto, e sappi che se queste pagine sono finite nelle tue mani, sarebbe un comportamento meschino gettarle nel camino. Ricordati che il mio spirito potrebbe tornare a perseguitarti.

 

Quindi questa è la mia storia, la storia di come ho conosciuto la felicità e di come sono riuscita a ritagliarmi il mio pezzo di mondo.

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Capitolo 2
*** 0.Una lettera può cambiar la vita ***


Cara figliola,

Oggi è il giorno del tuo diciottesimo compleanno, sempre che tu riceva la lettera in tempo.

Vorrei innanzitutto scusarmi per le mie scarse capacità nello scrivere e spero tu riesca a decifrare la mia pessima calligrafia, ma purtroppo non ho frequentato l’università ( essendo incinta di cinque bestioline urlanti ).

Se hai tempo, siediti per un po’, perché vorrei raccontarti una storia, così che tu possa capire perché ti sto scrivendo e perché sto per farti questa proposta molto particolare.

La mia storia inizia una ventina di anni fa, quando anche io come voi ero giovane e sconsiderata. Vivevo una vita leggermente sopra le righe, senza molti orari a cui fare riferimento e con solo mia sorella come punto di appoggio. Lei era la mia roccia e la mia salvezza: sapevo di poter contare su di lei per tutto.

Quando rimasi incinta di voi (anche se inizialmente non era un voi ma un tu) non ero sicura di chi fosse vostro padre e non sapevo come avrei fatto a crescere un bambino da sola. La sorpresa poi, quando durante un ecografia il medico mi disse che i cuori non erano uno ma cinque e gli esseri viventi nelle mie viscere non erano uno ma cinque, proprio come le dita di una mano. Nonostante le lunghe insistenze di mia sorella non ho mai esitato: io volevo tenervi, volevo crescervi ed amarvi. Credevo di potercela fare e ci misi tutto l’impegno del mondo.

Mi presi una pausa con il fumo durante la gravidanza, ridussi il cibo spazzatura e le serate in discoteca (anche perché una donna col pancione vestita di paillettes e minigonne non era vista di buon occhio). Presi una tutina per ciascuna di voi (di cinque colori diversi per riuscire a distinguervi) e predisposi il mio letto matrimoniale con cuscini e coperte per ospitare ciascuna di voi. Ci credevo veramente, nonostante il pessimismo di mia sorella.

I problemi iniziarono a presentarsi con l’avvicinarsi alla linea di fine della gravidanza. I dolori notturni aumentarono, come le visite dal medico e i rimproveri per aver tenuto tutte le bambine. Mi riempirono di paroloni, di problemi e disfunzioni di cui eravate affette. Mi spaventarono. Dissero che ci sarebbe stato bisogno di continue visite all’ospedale e che una di voi si stava sviluppando con il cuore al di fuori del petto.

A metà del settimo mese mi dissero che se si volevano salvare tutte le bambine avrebbero dovuto eseguire un cesareo di urgenza per poi portare in sala operatoria tre di voi. Nello stesso periodo venne a mancare la mia amata sorella, la mia compagna per la vita, a causa di una persona meschina che vendeva droga mal tagliata sperando che qualcuno ci tirasse le cuoia, e io mi sono sentita persa.

Ho capito che come mi diceva lei, non avrei potuto farcela e non volevo assolutamente delle bambine malate. Volevo delle principesse a cui far indossare il costume da ape per halloween. Immagino che capirai ora la mia decisione di darvi tutte in adozione.

Insistetti molto per farvi adottare a tutti da un’unica famiglia e farvi crescere insieme, ma i dottori e gli assistenti sociali (che per inciso mi hanno sempre guardato dall’alto in basso) non hanno fatto che insistere che cinque bambine neonate erano un peso troppo grosso da assumersi per chiunque.

Sono riuscita a farmi valere solo nella scelta dei nomi, un continente per ognuna di voi, come voleva mia sorella.

Quello che voglio chiederti ora, non è di riconsiderarmi come madre o di recuperare il tempo perso. Vorrei solamente che, adesso che hai il potere di scegliere, tu costruisca un rapporto con le tue sorelle, sangue del tuo sangue, la tua parte mancante.

Ho una proposta da fare a ciascuna di voi, che è quella di prendermi a carico tutte le vostre spese per i prossimi cinque anni (sia che tu scelga di frequentare un’università sia che tu scelga di entrare nel mondo del lavoro), a patto che andiate a vivere tutti in una stessa casa da me acquistata e arredata da una professionista in fatto di design di interni.

Ricordati che puoi benissimo scegliere di non avere nulla a che fare con me nonostante tu accetti la mia proposta e che io sarò disponibile se vorrai conoscermi.

Ovviamente, i soldi arriveranno solo se sarete disposte ad accettare tutte e cinque.

Attendo con ansia la tua risposta, accompagnata se possibile dal tuo colore preferito e da quale sia la tua passione più grande, per poterti dedicare una stanza nella casa.

Con affetto,

 

Colei che ti ha portato in grembo per nove mesi (o quasi)

Laura

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Capitolo 3
*** 1.America ***


Buongiorno.

O buon pomeriggio se iniziate a leggere queste parole dopo l’ora di pranzo. La storia che sto per iniziare a raccontarvi è una storia comune, e allo stesso tempo un po’ particolare. Parla di come sono diventata grande, di come ho capito chi sono. Parla di cinque continenti, che in realtà sono cinque sorelle, che pur essendo alla deriva hanno trovato la strada verso casa, e che hanno scoperto che pur essendo sempre state lontane c’era il mare ad unirle.

 

La prima che andrò a presentare sono io in persona. Mi chiamo America, proprio come il continente ( mia madre era particolarmente svitata ), anche se ai tempi di cui sto per andare a parlarvi mi facevo chiamare Maria. Non sopportavo quell’unico ponte che mi univa con la mia vera madre e credevo fosse sia stupido che ridicolo un nome come il mio.

 

<< Andiamo, America, smettila con queste sceneggiate da bambina! >> urla Vanessa dall’altra parte del corridoio. La detesto quando mi dà della bambina e la detesto quando usa il mio nome per intero, ma più di tutto detesto che sappia bene entrambe le cose e le sfrutti contro di me.

Incastro velocemente l’ultimo bottone dei miei jeans corti e zoppico fino alla cucina, con una scarpa ai piedi e l’altra in mano. Lancio un’occhiataccia alla donna che se ne sta tranquillamente affacciata sul lavandino di metallo ad affettare le verdure per la sua cena. Lei è Vanessa, ed è la donna che mi ha fatto da madre negli ultimi dodici anni. Non è stata la prima nè la migliore, ma sicuramente l’unica disposta a tenermi. È secca come un chiodo e fa la dietologa. Sembrerebbe l’adulto perfetto per crescere una bambina con problemi nutrizionali sin dalla nascita, ma dubito che sarei riuscita ad arrivare all’equilibrio che ho ora non fosse stato per mio padre, ovvero suo marito, che era senza dubbio il migliore di tutti i padri esistenti sulla faccia della terra (dico era perchè se ne è andato, investito in pieno da un camion pieno di ciocchi di legno). Vanessa non è la migliore nel farti rassicurazioni sui ragazzi o sulle amiche scortesi e non c’è da fidarsi dei suoi consigli in fatto di moda (due giorni fa l’ho vista uscire di casa con dei pantaloni giallo fluo pieni di fiori fucsia). In ogni caso ha sempre tenuto a me, anche se in una maniera goffa e indelicata, e ha sempre cercato di non farmi mancare nulla, quindi le sono immensamente grata e vorrei avesse il meglio, nonostante tutto.

<< Non mi sto comportando da bambina. Ho il pieno diritto di decidere cosa voglio fare della mia vita, e di sicuro non voglio andare a vivere a Milano, in un appartamento pieno di muffa, finanziata da un cinese sfrutta bambini appagato dal punto di vista sessuale, solo perché una donna prossima alla menopausa viene assalita dai sensi di colpa! >> dico senza prendere fiato per paura che mi interrompa.

<< Sai che detesto quando fai questi discorsi interminabili, Amy - e lei sa perfettamente che odio quando mi chiama Amy, quasi quanto odio quando mi chiama America - e ora come ora sono superflui questi ripensamenti dell’ultimo minuto. Inutile piangere sul latte versato >> ribatte con una voce che dovrebbe sembrare saggia, ma a me ricorda tanto una papera. Per non parlare della sua abitudine di infilare il cibo in qualsiasi contesto, come se fosse l'unico argomento di cui riesce a trattare.

<< Sai benissimo che non sono ripensamenti dell’ultimo minuto, non avrei mai accettato se tu non mi avessi obbligato >> ora sto quasi urlando.

<< Non ti ho obbligato… >>

<< Sì che mi hai obbligato, >> intervengo fermandola prima che dica qualcosa che mi faccia arrabbiare più di quanto non sia già << hai detto chiaramente che se non avessi risposto io alla lettera ci avresti pensato te. O mi sbaglio? >>

<< Sai che non avrei potuto permettermi di mantenerti ad una buona università, non ora che non c’è più tuo padre. La gente sembra non aver ancora capito l’importanza del mio lavoro. >> cambia discorso lei, non sapendo più come ribattere.

<< Non tirare in ballo Papà >> sibilo mentre mi allontano per prendere una canottiera dalla cassettiera. << Mi sarei trovata un lavoro… >>

<< E perdere un’opportunità come questa solo per uno stupido capriccio? Non dire stupidaggini, grazie alla donna in menopausa con i sensi di colpa, come la chiami te, potrai frequentare un’università privata, anzi, una delle più prestigiose d’Italia. È come aver studiato in America >> dice, sottintendendo che lei ha studiato negli Stati Uniti e quindi è tipo il guru del sapere.

<< Non voglio nemmeno immaginare da dove provengano i soldi con cui… >> vengo interrotta di nuovo, stavolta però dal mio cellulare che squilla.

È Chiara, una delle mie migliori amiche. Mi dice che sta partendo ora di casa, di sbrigarmi e che ci troviamo al solito posto tra cinque minuti. Io farfuglio qualche sì, prima di terminare la chiamata. A causa di questo battibecco sono maledettamente in ritardo.

Corro in bagno per un’ultima sistema: un filo di trucco, una pettinata ai capelli e mezzo quintale di profumo.

<< Che ti importa dei soldi? >> continua Vanessa dalla cucina.

<< Vane... Mamma, dovrei essere uscita da dieci minuti, finiamola qui >> tento di dirle, correggendomi appena in tempo. Detesta quando la chiamo per nome, dice che mi ha adottata per un motivo e sostiene che l’appellativo “mamma” le si addica perfettamente.

<< Dovresti imparare, una buona volta  a cogliere al volo le occasioni che ti si presentano >> continua però imperterrita, come se io non avessi detto nulla.

Corro nella mia camera senza più ascoltarla e tento di infilarmi velocemente un giacchetto leggero, restando incastrata con un braccio nella manica.

<< Nella maggior parte dei casi, le chances bussano una volta sola >>

Afferro al volo la mia borsa argentata, facendo il punto della situazione: i vestiti vanno bene, le scarpe le ho, truccata sono truccata, i capelli li ho pettinati, il borsello c’è con anche il patentino, le chiavi di casa e la tessera della discoteca. Che mi manca?

<< Vanno acchiappate al volo, come fossero mosche, prima che sfuggano per sempre >>

Arrivo a due passi dalla porta prima di rendermi conto che le chiavi del motorino non sono appese nel portachiavi dell’ingresso.

<< Capisci quello che ti sto dicendo? Un giorno verrai da me e mi ringrazierai >>

Afferro lo strumento di metallo prima di precipitarmi nuovamente all’uscio di casa. Ho paura di sentire cosa potrebbe uscire dalla bocca di Vanessa.

<< Verrai da ma dicendo… >>

<< Ciao, io esco >> grido un attimo prima di chiudermi definitivamente la porta di casa alle spalle. Libero un sospiro di sollievo prima di precipitarmi fuori dal nostro condominio e dirigermi verso il mio motorino.

Mentre mi infilo il casco sulla testa (non prima di aver spostato la divisa dei capelli dal lato opposto così che non mi si spiaccichino), mi costringo a pensare a cose positive come: menomale abitiamo al piano terra, se no avrei sudato facendo le scale e mi sarei sentita puzzolente per tutta la serata.

Per di più, stasera non ci sono limiti all’alcol. Finalmente l’ultima ragazza della nostra classe ha dato l’esame orale, quindi è tempo di festeggiare. Facciamo una super cena tutti insieme, in cui tutti ripeteremo che ci ritroveremo e che questo non è un addio. Dopo di chè, io e le mie migliori amiche andremo a ballare in una delle poche discoteche di Follonica, il minuscolo paesino in cui vivo e studio da diversi anni. O almeno così sarà fino a settembre.

Anche grazie al breve viaggio in motorino riesco a smaltire quasi tutto il nervosismo. Mi ha sempre rilassato sentire il vento incastrato tra le ciglia e le due ruote sull’asfalto. Riesco quasi a provare qualcosa che si avvicina alla felicità, qualcosa che si avvicina alla libertà e alla gioia di vivere. Quasi.

Una volta arrivata al parcheggio vicino alla gelateria sul lungomare, trovo Chiara che sta richiudendo il sottosella, in cui immagino abbia riposto il casco.

<< Ejo, Chia >> la saluto << Sei qui da tanto? >>

<< No, ho fatto tardi anche io >> dice scoppiando a ridere e portandosi una ciocca di capelli neri dietro un orecchio. È famosa per essere una ritardataria di professione, nonostante negli ultimi tempi sia migliorata. C’era un periodo in cui ti faceva aspettare minimo mezz’ora prima di degnarti della sua presenza, poi si presentava con un sorrisetto sulle labbra salutando come se nulla fosse.

<< Tutto bene con tua madre? >> mi chiede, forse facendo caso alle mie sopracciglia ancora leggermente aggrottate.

<< No. Ci ho litigato di nuovo. >>

<< Hai intenzione di passare il prossimo mese a battibeccarti con lei? >> incalza la mia amica.

<< No, che non ne ho intenzione, ma è fuori dal mio controllo. Non riesco ad impedirlo, perdo le staffe. Non voglio davvero andare a Milano, non lo faccio solo per capriccio >> rispondo, non riuscendo a trattenere una smorfia. Non ho voglia di parlare di questo ora, ho solo bisogno di rilassarmi e ridere.

<< Lei tiene a te, cerca di fare del suo meglio anche se non sembra >> conclude, prima di afferrarmi per un braccio e trascinarmi verso la pizzeria in cui abbiamo prenotato.

Chiara è sempre stata la mia Amica con la A maiuscola. È sempre stata quella più disposta a parlare con me, e a farmi passare oltre ai pensieri peggiori.

Quando raggiungiamo la pizzeria salutiamo tutti quanti con abbracci e risate, così che mi ritrovo costretta a fingermi felice e spensierata.

Nonostante in questi anni non possa dire di essere stata la persona più felice della terra, non ho idea di come riuscirò a sopravvivere senza tutte le mie Persone. Non so come farò a svegliarmi la mattina senza il pensiero di Carlo, uno dei miei più vecchi amici che vive due case dopo il mio palazzo, che mi aspetta in fondo alla via con due cappuccini fumanti in mano. Per non parlare di tutte le volte in cui durante lo studio prenderò il telefono in mano, comporrò il numero di Ginevra per poi rendermi conto un attimo prima di premere il tasto verde che non andiamo più nella stessa scuola e che non può rispiegarmi gli argomenti che non ho capito. Le mattine avranno tutto un altro sapore senza la schiaccia del panificio più buono di Follonica che scroccavo ad Andrea, il mio vecchio compagno di banco. Per non parlare di Chiara, Sofia e Silvia, con cui ho condiviso, nel bene e nel male, quasi ogni giorno degli ultimi cinque anni, e delle quali conosco anche la più imbarazzante abitudine.

Non credo di riuscire a trovare altre persone così a Milano. Non credo che in una città caotica come quella, sempre frenetica, sempre sveglia, ci sia spazio per dettagli e momenti così poco preziosi e così tanto importanti.

 

Quando rientro a casa è notte inoltrata, un’oretta prima dei chiarori dell’alba. Nonostante senta Vanessa russare nella camera in fondo al corridoio so che per quando mi sveglierò mi aspetta una ramanzina con i fiocchi, per la tarda ora a cui sono ritornata, e che ci sarà di nuovo da leticare.

Subito dopo aver poggiato i miei effetti sulla poltrona della mia stanza mi imbatto nel mio riflesso, incastrato nello specchio di fianco al letto.

Resto ad osservarmi per qualche minuto. Il mio sguardo parte dai piedi, fasciati dai sandali argentati (sono come le allodole, adoro le cose che brillano) con dello smalto rosso sulle unghie. Continua poi percorrendo le gambe, lisce e abbronzate, nonostante il tempo per andare al mare non sia stato poi molto nell’ultimo periodo. Quest’ultime sono fasciate da dei pantaloncini. Mi soffermo per più tempo su i vestiti che sto indossando, come se fosse un particolare che non riconosco o come se avessi paura di andare oltre. Oltre la curva dei seni, oltre la linea della clavicola e l’incavo del collo. Forse ho paura di arrivare ad incontrare il mio viso, le guance lisce, contornate dai capelli ramati, le sopracciglia curate e gli occhi verdi leggermente truccati.

Mentre me ne sto lì, a fissare me stessa ininterrottamente, pronta a cogliere ogni minimo cambiamento, come se mi dovesse sbucare una ruga o una testa in più da un momento all’altro, mi ritorna in mente una cosa che mi ha chiesto Silvia a metà serata. Mi ha chiesto perché non volessi andare a Milano. Ha detto di voler sapere la vera ragione e non le solite scuse che rifilo a mia madre. Io sono rimasta in silenzio in quel momento, senza essere sicura di quel che stavo per rispondere, così che il discorso è caduto nel nulla con l’arrivo di Sofia.

Credo di aver trovato ora la risposta a quella domanda. Probabilmente sono solo ubriaca e sto farneticando, ma mi sembra di vedere i miei lineamenti muoversi e trasformarsi, come l’impasto della pizza. Mi sembra di vedere il mio riflesso sempre più alto l’attimo prima, ma un po’ più basso quello dopo. Sento i piedi formicolarmi e le dita delle mani allungarsi.

Credo di non voler partire per paura. Ho paura di perdere me stessa, di cambiare pelle come un serpente e ritrovarmi senza certezze, senza punti fissi o regole dietro le quali proteggermi. Temo con tutta me stessa, che la parte di me che sento staccarsi ora, quel pezzettino di fegato che ho perso quando ho risposto alla lettera, o quel po’ di polmone che ho lasciato per strada ieri sia la parte migliore di me. Non vorrei che lasciando la città in cui è vissuto mio padre, dove ho conosciuto i miei amici e dove Vanessa mi ha cresciuto, perda anche quel briciolo di umanità che mi è rimasto, diventando uno spietato mostro mitologico che uccide le vecchiette nei parchi e che si mangia i bambini.

Spero di riuscire a trattenere qualcosa di buono nonostante questo torrente, questa cascata, che tenta di portare con sé tutto quello su cui si abbatte, e che non ha smesso di scorrere da quando l’unico uomo che abbia mai amato, il mio papà, è morto.

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