Come il Sole ad Est di hotaru (/viewuser.php?uid=42075)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Misteri d'estate ***
Capitolo 2: *** Lo spirito dell'inverno ***
Capitolo 3: *** Il mandorlo ***
Capitolo 4: *** Dimenticare, o forse no ***
Capitolo 5: *** Un passo indietro ***
Capitolo 6: *** Cose da bambine ***
Capitolo 7: *** Coraggio ***
Capitolo 8: *** Il sogno ***
Capitolo 9: *** Come la marea ***
Capitolo 1 *** Misteri d'estate ***
1- Misteri d'estate
Tutta
questa storia è dedicata a kibachan,
che con la sua fic
“verità velate” ha cominciato a farmi
apprezzare per
prima le Kiba/Hinata
Come il Sole ad Est
Misteri d’estate
“Finalmente!” fu l’unico pensiero che in
quel momento dominò la sua giovane mente di tredicenne.
Basta esami, basta lezioni, basta collegio!
“Almeno fino a settembre…” si rese conto
amaramente,
ma fu soltanto una nuvola passeggera. Era estate, era giugno, ed era
libera! Persino una ragazzina abituata alle briglie più
inamidate e al morso più prezioso poteva arrivare a provare
il
senso di oppressione che aveva avvertito lei nelle ultime settimane, e
il senso di libertà che provava in quel momento la faceva
sentire euforica.
Innanzitutto a partire dal vestito. Sarà anche vero che
l’abito non fa il monaco, ma dopo un intero terzo anno
stretta
nelle maniche e nelle calze della divisa scolastica scura, non poteva
non provare un moto di gioia nell’indossare un semplice
prendisole bianco.
L’aria calda, eppure così rinfrescante, che
sentiva sulle
braccia nude era quanto di più meraviglioso potesse esserci
al
mondo in quel momento. Si sentiva come un uccello pronto a spiccare il
volo.
Correva a perdifiato per quella stradina deserta, il vento che le
accarezzava la nuca su cui i capelli erano tagliati corti, e poco le
importava che la corsa le gonfiasse di tanto in tanto la gonna. Su
quella strada non c’era nessuno, nessuno avrebbe potuto
vederla e
giudicarla storcendo leziosamente il naso.
Persino i suoni di quella giornata idilliaca acquistavano
un’intensa nota di perfezione: il vociare dei suoi coetanei
nella
piazza poco distante, gli uccelli che cantavano a squarciagola, il
ronzio dei frigoriferi della gelateria che aveva appena sorpassato, al
momento ancora praticamente deserta… e uno
“Yap”
vivace proveniente da un punto imprecisato fra l’erba sul
ciglio
della strada.
Yap?
Hinata arrestò la sua corsa così bruscamente da
rischiare di inciampare nei suoi stessi piedi.
Ancora ansimante, si guardò intorno, circospetta.
L’unica
cosa che potesse fare “yap”, secondo le sue nozioni
di
zoologia, erano i cani. E i cani non le piacevano affatto. Diciamo
piuttosto che le facevano parecchia paura, anche se al momento era
ancora in grado di trattenere l’emozione che provava sotto la
soglia del “gelido timore”.
Incerta se muoversi verso il punto da cui aveva udito provenire il
suono, se ne stava ancora ferma impalata in mezzo a quella stradina
sterrata buona solo per le biciclette, quando una macchia indistinta
color panna si staccò dal verde circostante e in pochi balzi
fu
ai suoi piedi.
Un sospiro di totale sollievo si fece strada dai polmoni della
ragazzina. Il cagnolino scodinzolante che stava alzando la testa verso
di lei era minuscolo, di sicuro più piccolo degli enormi
gatti
boriosi che sua madre insisteva nel tenere in casa, dicendo che
diminuivano la sua ansia. Non costituiva in alcun modo un pericolo, per
lei.
Così si decise a piegarsi sulle ginocchia e ad allungare la
mano
verso la testolina dell’animale, che non esitò ad
approfittare della quantità di coccole che gli veniva
offerta.
- Ciao, cucciolo – disse la
ragazzina, che
sorrise quando il cagnolino iniziò a leccarle grato la mano,
piacevolmente sorpresa da quell’inaspettata manifestazione
d’affetto.
- Da dove vieni? – chiese
ancora, come se l’animale potesse davvero risponderle.
Giocarono ancora per un po’, con il cane che si metteva a
pancia
in su per farsi coccolare e guaiva soddisfatto in risposta. Poi ad un
certo punto, come avesse udito qualcosa a cui gli esseri umani erano
sordi, si rialzò e drizzò le orecchie.
Due secondi dopo si era già dato alla macchia, mettendosi a
correre per la stradina senza nemmeno voltarsi indietro.
- Ehi! – esclamò
Hinata, più
sorpresa che contrariata. Perse un istante a chiedersi se gli avesse
dato fastidio in qualche modo, ma lasciò perdere non appena
vide
il cucciolo svoltare l’angolo e sparire dalla sua visuale.
Si mise a correre, inseguendolo.
Fortuna che aveva zampe tanto corte, si ritrovò a pensare
Hinata, altrimenti l’avrebbe seminata in quattro e
quattr’otto. Invece, dato che era così piccolo e
così bianco, stava riuscendo discretamente a stargli dietro,
anche se si stavano inoltrando in un punto della cittadina che
conosceva poco.
Si trovavano in uno dei quartieri più antichi, con tutte
quelle
case grandi e austere costruite almeno due secoli prima, appartenute a
coloro che avevano avuto in mano le redini di quello che un tempo era
un semplice paese, e della campagna circostante. Niente a che vedere
con la parte più ricca e moderna in cui abitava lei, da
quando
si erano trasferiti dopo che sua madre aveva iniziato a soffrire di
“stress da grande città”. Il padre era
sempre via
per lavoro, quindi in quell’enorme e asettica casa erano solo
in
tre: lei, sua madre e la sua sorellina. Più cinque o sei
gatti,
che la madre accudiva forse più delle figlie.
Un angolo, un muro, un albero e un’altra strada. Hinata non
era
sicura che sarebbe riuscita a tornare indietro. Stava vagamente
iniziando a capire come doveva essersi sentita Alice
nell’inseguire il coniglio bianco, un cespuglio dopo
l’altro. Sperava solo di non finire in un buco profondo in
cui
sarebbe precipitata fino a capitare nel Paese delle
Meraviglie…
non le sarebbe certo piaciuto finire in un posto simile, già
il
libro l’aveva letto solo perché costretta a scuola.
Ad un certo punto si chiese da dove spuntasse quel flusso di pensieri
contorti e assurdi che stavano affollando la sua mente. Che stesse
davvero finendo in un mondo sconosciuto dove l’intera
realtà sarebbe risultata capovolta?
A riportarla nel mondo reale fu l’improvvisa scomparsa del
batuffolo bianco che stava inseguendo, in mezzo a un’edera
verde
e rampicante che celava un muro sconosciuto.
Hinata si fermò, boccheggiando un po’ di fronte a
quella
barriera, per poi accovacciarsi e spostare con le mani le foglie nel
punto in cui aveva visto sparire il cane. Alla base del muro
c’era un’apertura, provocata da alcuni mattoni
sconnessi,
apparentemente minuscola ma senz’altro sufficiente a far
passare
un animale così piccolo.
In un solo istante Hinata constatò che tra lei e Alice
c’era un abisso surreale: da quel buco non ci sarebbe mai
passata, inutile sperarci.
Iniziò a guardarsi intorno, cercando un altro modo per
superare
quell’ostacolo. Nemmeno per un istante le sfiorò
la mente
il pensiero che quel che stava per fare potesse definirsi
“violazione di domicilio”: per quel che ne sapeva,
l’intero circondario era praticamente disabitato, nella
maggior
parte di quelle case non viveva più nessuno da anni. I
proprietari abitavano da decenni in qualche città
più
moderna, abbastanza ricchi da lasciar marcire senza rimpianti case di
due secoli prima senza tornarci per anni.
Nella sua accurata ispezione Hinata si accorse che il muro, nei punti
in cui non era ricoperto dall’edera, presentava alcune
sporgenze,
perfette per un’arrampicata. Ringraziando mentalmente- per la
prima e ultima volta in vita sua- quella suora missionaria che aveva
costretto lei e le sue compagne a fare una specie di “corso
di
sopravvivenza”, si arrampicò agilmente su per la
parete,
arrivando presto in cima e finendo tra i rami frondosi di un albero.
A una ventina di centimetri da dove si trovava lei c’era un
ramo
dall’aria robusta, che giudicò abbastanza sicuro
da
reggere il suo peso.
Un piccolo salto, in cui si aiutò reggendosi agli altri rami
tutt’attorno, e si ritrovò dove voleva.
Fece appena in tempo a sedersi e a sentire il legno fresco contro la
pelle, seppur ingentilito dal tessuto del vestito, che una voce
improvvisa e profonda le fece mancare un battito:
- E adesso cosa vorresti fare?
Abbassò immediatamente la testa, allarmata. Ad osservarla
c’erano gli occhi più stretti e allungati che
avesse mai
visto, sovrastati da una capigliatura folta, castana e ribelle. Il
mento aguzzo e i lineamenti affilati contribuivano a rendere ancora
più duro lo sguardo che le stava rivolgendo.
Hinata cominciò a sudare freddo. Non era paura la sua, ma
profonda vergogna per essere stata beccata a fare qualcosa di
sbagliato. Gli anni assieme alle suore avevano prodotto qualche
risultato, alla fine.
- I-io… - balbettò,
confusa e mortificata, non sapendo come scusarsi.
- Senti mocciosa, posso capire che finora
tu e la tua
banda possiate esservi divertiti a venire qui, ma d’ora in
poi si
cambia musica. Se prima la casa era disabitata e potevate fare i cavoli
vostri, adesso dovrete trovarvi un altro posto.
La ragazzina avrebbe avuto almeno un paio di risposte da dargli.
Innanzitutto lì non c’era mai venuta. Poi non
aveva uno
straccio di amico, figurarsi una banda! Infine non si era mai fatta i
“cavoli propri”, né lì
né da
nessun’altra parte, a dire il vero.
Ma la lingua ancora impastata le permise soltanto di dire:
- Io… io ho solo seguito il
cane…
Il viso del giovane che la stava osservando mutò leggermente
d’espressione, squadrandola a metà tra lo scettico
e il
sospettoso. Stava per risponderle qualcosa come un secco
“Vattene, mi hai scocciato”, quando una palla di
pelo
scodinzolante spuntò dal nulla e andò a
sistemarsi
proprio sotto il ramo da cui penzolavano le gambe nude di Hinata.
La ragazzina gli sorrise brevemente, grata quanto un imputato che sente
una testimonianza a proprio favore, prima di alzare leggermente la
testa e dire timidamente, additandolo: - Lui…
Il giovane uomo alzò vagamente un sopracciglio, il viso
contratto in una smorfia obliqua, per poi ringhiare: - Va bene,
mocciosa. Adesso fuori di qui – in tono tanto minaccioso che
Hinata si affrettò ad alzarsi con cautela dal ramo.
Il ragazzo si era voltato dopo aver fatto un breve cenno al cane, che
lo aveva seguito immediatamente, e si era diretto verso il punto del
giardino da cui evidentemente era venuto poco prima.
Hinata stava per girarsi verso il muro, quando con la coda
nell’occhio notò che cosa c’era nel
posto in cui
stava tornando il giovane. Qualcosa di grande, bianco e rettangolare,
appoggiato su un cavalletto. Dove in alcuni punti si cominciavano a
distinguere delle macchie di colore. Una tela.
Non fece in tempo a concentrarsi per un momento nel cercare di capire
che cosa vi si volesse rappresentare, che un paio di parole in grado di
far stramazzare al suolo qualunque suora la fecero girare sui tacchi e
saltare in cima al muro, da dove saltò giù e
iniziò a correre come avesse avuto un intero branco di lupi
alle
calcagna.
Per un paio di giorni Hinata si guardò bene dal tornare
là, ed
ammazzò il tempo leggendo libri ed
assaggiando
tutti i gusti di granite che il negozietto della cittadina offriva.
L’assortimento era meno vario rispetto a quello della grande
città, ma senza dubbio lì gli sciroppi erano
molto
più densi, e quindi la granita sapeva effettivamente di
granita,
più che di ghiaccio soltanto.
Quando si rese conto a che razza di riflessioni era arrivata a forza di
rimanersene da sola tutto il tempo, accettò di buon grado di
accompagnare Hanabi a prendere un gelato al locale centrale, quello che
Hinata di solito evitava, visti tutti i ragazzi più o meno
della
sua età che giocavano a pallone in piazza.
Tuttavia con la sorellina al proprio fianco sentiva di poterli
affrontare. Magari una volta soltanto e non esattamente a testa alta,
ma era meglio di niente.
Ed effettivamente nessuno di quei ragazzini le disse niente, non venne
colpita da una pallonata e nemmeno da un attacco di colera, anzi
raggiunsero entrambe la porta a vetri del locale, facendo tintinnare il
campanello d’entrata quando aprirono e ritrovandosi
d’improvviso nella frescura dell’aria condizionata.
- Ti dico che è
così!
- Ma dai, non posso crederci. E
l’hanno lasciato uscire in questo modo? Dove andremo a
finire…
La vecchia signora dietro il bancone era troppo intenta a discutere con
l’eterna compagna di pettegolezzi per accorgersi delle due
ragazzine entrate nel negozio. Ma Hanabi sapeva farsi sentire, a
differenza della sorella maggiore.
- Un cono cioccolato e pistacchio
– disse, la voce alta e chiara.
Hinata fu tentata di aggiungere “per favore” ma,
vedendo
che nessuna delle due donne aveva battuto ciglio, decise di tacere.
Anzi, non avevano nemmeno smesso di spettegolare:
- Sai, credevo che quella casa sarebbe
rimasta
disabitata per sempre, ormai. E forse sarebbe stato meglio, non mi
è mai piaciuta…
- Gli Inuzuka sono sempre stati dei
selvaggi, era
già tanto che stessero in una casa. Poi la madre era fuori
di
testa, e quando è scappata la sorella avrebbero dovuto
prevederlo che il figlio più piccolo sarebbe finito nei guai.
- Sarebbero guai se avesse avuto la
decenza di farsi
del male per conto suo. Ma quello che ha fatto è abominevole.
- Sono d’accordo, non capisco
come abbiano
potuto lasciarlo uscire. Quanto ci è rimasto in prigione?
- Quattro anni, sembra. E adesso
è agli
arresti domiciliari, quindi non può andare da nessuna parte.
- Dai retta a me, avrebbero dovuto
lasciarlo in
quella cella e buttare la chiave. Ti rendi conto che c’era di
mezzo un ragazzino morto? E per…
Una leggera gomitata e un’occhiata eloquente alle ragazzine
presenti fu sufficiente a far tacere la vecchia, ma solo per un istante.
- Comunque è una vergogna che
l’abbiamo
rimandato proprio qui, secondo me. Speriamo solo che la cosa non si
sappia troppo in giro.
Il commento che Hanabi fece non appena furono uscite nella calura
estiva, prima di leccare il suo gelato, fu:
- Qualunque cosa sia, ci penseranno
quelle due a farlo sapere a tutti nel giro di due giorni, garantito.
Hinata non disse nulla, ma era pienamente d’accordo. Un altro
motivo per cui non le piaceva andare lì erano i pettegolezzi
che
circolavano senza freno, e che cercava sempre di non ascoltare.
Ma quella volta una vocina le diceva che forse la nuova storia poteva
interessarle, se in qualche modo collegata a ciò che le era
accaduto due giorni prima.
Passarono un altro paio di giorni, e Hinata si svegliò
quella
mattina con una strana sensazione. Complice forse un sogno particolare,
di cui ricordava soltanto una tela grezza ricca di macchie di colore
che cambiavano ad ogni movimento, come la luce sulle code dei pesci,
aprì l’armadio in preda ad una vaga ispirazione.
Era piuttosto presto per gli standard estivi, il sole non era ancora
alto, e la ragazzina non incontrò quasi nessuno durante il
suo
percorso solitario. Il gelato di Hanabi le aveva in qualche modo dato
un’idea: quella mattina si era infilata un paio di
pantaloncini
marroni e una canottiera verde oliva, che sperava sarebbero riusciti a
mimetizzarla meglio di un vistoso prendisole bianco.
Giunta alla base di un ben noto muro, si sfilò i sandali,
attenta a non fare il benché minimo rumore. Li
appoggiò a
terra e poi, a piedi nudi, iniziò la scalata.
Pensava che si sarebbe vergognata come un ladro- effettivamente, si
stava comportando come tale- invece era in preda ad una strana euforia.
Non aveva mai fatto qualcosa che andasse contro le regole, prima.
La paura le attanagliava lo stomaco, formandole un nodo in gola, eppure
era tutto così stranamente… eccitante. Nel
momento in cui
non fece caso a quella spina che le si era infilata nel polpastrello,
si sentì in grado di fare qualunque cosa. Per la prima volta
in
vita sua, si sentiva invincibile.
Tra l’altro, era anche il fatto di portare avanti questa sua
piccola avventura completamente da sola ad entusiasmarla tanto. A
decidere era lei e solo lei, non avrebbe dovuto obbedire a nessuno,
né tanto meno ascoltare beffe o prese in giro in caso di
fallimento.
Perché, anche se lui se ne fosse accorto, non sarebbe andato
a
dirlo a nessuno, ne era sicura. Offrendosi di andare a fare qualche
commissione al posto della donna di servizio, aveva potuto ascoltare
parecchie chiacchiere, e si era convinta che il misterioso Inuzuka
rilasciato dalla prigione e messo agli arresti domiciliari fosse
proprio il giovane che aveva incontrato qualche giorno prima.
Al supermercato aveva udito che non parlava con nessuno, se non al
telefono per ordinare la spesa, la quale gli veniva portata a casa dal
ragazzo delle consegne e abbandonata nel giardino non appena superato
l’alto cancello in ferro battuto. La donna del negozio
asseriva
che era un vero cafone, e che gli faceva solo un favore a
“sfamarlo”, come diceva lei. Il fatto che il
giovane
recluso ordinasse ogni settimana viveri per un reggimento e costituisse
praticamente un quarto del fatturato dell’intero mese,
evitava
però sempre di
riferirlo.
Hinata non aveva ancora avuto il tempo di fare ricerche più
approfondite, ma a quel punto era chiaro che l’Inuzuka- il
nome
non era ancora riuscita a scoprirlo- non aveva contatti con alcun
essere umano, quindi non avrebbe potuto raccontare ad anima viva
l’eventuale “cacciata” di una mocciosa
invadente. In
qualche modo, questo pensiero la confortava. Qualunque cosa fosse
successa, sarebbe rimasta un segreto fra loro due.
Malgrado tutti questi pensieri, era rimasta concentrata sul proprio
intento, e alla fine era riuscita ad arrivare in cima al muro. Cercando
di non smuovere nemmeno una foglia, raggiunse il ramo
dell’altra
volta e ci si appollaiò sopra, attenta a non far penzolare
le
gambe pallide.
Una volta che ebbe terminato con tutti questi accorgimenti, si permise
di dare un’occhiata tra le fronde, spaventata ma curiosa,
trattenendo a stento un sospiro di meraviglia.
In molti se ne sarebbero chiesti il motivo, dato che quel grande
appezzamento di terra aveva tutta l’aria di venire trascurato
da
anni, con lampanti conseguenze. Parecchie piante sembravano morte-
l’albero su cui stava Hinata doveva essere una felice
eccezione-
e chiazze intere di giallo macchiavano l’erba, assetata
d’acqua nella calura estiva. Tuttavia la presenza di un
giardiniere in quel posto era impensabile, praticamente impossibile.
Forse tanto tempo prima c’era stato, e quel giardino doveva
aver
raggiunto una bellezza inimmaginabile, ma era fuori discussione che
l’attuale, unico abitante della casa se ne sarebbe
preoccupato.
“È un vero peccato” pensò
Hinata, osservando
attentamente le varie piante lasciate a se stesse “Sono
sicura
che dove ci sono tutti quei cespugli rinsecchiti un tempo crescessero
miriadi di splendidi fiori. In primavera doveva essere
stupendo”.
Sentendosi quasi una novella Mary Lennox nel proprio privato giardino
segreto, Hinata aveva iniziato a fare congetture su quali tipi di fiori
sarebbe stato meglio piantare in quella zona d’ombra vicino
al
pino, o a come potare il glicine sfiorito all’angolo del
portico,
che doveva aver visto tempi migliori… quando ad un tratto la
sua
attenzione fu attratta da un particolare a cui non aveva fatto caso
prima- e dire che era lei quella che doveva mimetizzarsi e non farsi
notare.
Più o meno nello stesso punto di qualche giorno prima era
sistemato uno sgabello, e di fronte una tela riempita da colori tenui e
al tempo stesso decisi. Dettagli forse insignificanti, se non fosse
che, seduto sullo sgabello, c’era qualcuno intento a
dipingere.
Proprio lui, a dire il vero.
Hinata si irrigidì un attimo, dimenticandosi per un momento
di
respirare, sicura che entro un istante si sarebbe alzato e sarebbe
venuto a cacciarla urlando, prendendo magari a calci l’albero
per
farla cadere e darle una bella lezione (cosa che, in tutto il suo
candore, Hinata sentiva di meritare pienamente).
Tuttavia non avvenne nulla di tutto ciò. Il giovane
continuava a
dipingere senza dar segno di essersi accorto della sua presenza,
attento e meticoloso.
Dalla posizione in cui si trovava, Hinata non riusciva a vedere molto
della tela, il cui disegno principale era nascosto dalla testa
arruffata di lui, ma poteva di tanto in tanto intravedere il viso del
ragazzo. Infatti nei momenti in cui si chinava ad intingere il pennello
nell’acqua per pulirlo, lo posava sulla tavolozza per
cambiare
colore, o indietreggiava un po’ anche solo per osservare con
aria
critica il risultato dei propri sforzi, se ne poteva scorgere
l’espressione concentrata e rilassata. Decisamente
diversa
da quella che a Hinata aveva fatto tanta paura da cacciarla in men che
non si dica dalla proprietà.
D’un tratto il giovane si pulì le mani sullo
straccio che aveva lì vicino, e si alzò.
Stavolta Hinata si immobilizzò del tutto, sicura che da un
momento all’altro se lo sarebbe ritrovato sotto
l’albero,
invece il ragazzo si diresse tranquillamente verso la casa, le mani in
tasca.
Quando fu scomparso dietro l’angolo, la ragazzina si permise
di
respirare di nuovo e si accorse che adesso riusciva ad avere una
panoramica decente della tela. Aguzzò la vista,
perché
non si sarebbe mai azzardata a scendere dal proprio nascondiglio per
andare a vedere meglio. Fortuna che tutti, nella sua famiglia, avevano
una vista d’aquila, così non dovette fare molti
sforzi per
focalizzare l’immagine dipinta.
Fece tanto d’occhi quando si accorse che il soggetto del
quadro
altro non era che… la casa. Quella casa scura, incombente,
secolare, quasi minacciosa a causa di quelle torrette fatte costruire
da chissà chi. Tuttavia nel dipinto i colori scuri
dell’edificio contrastavano notevolmente con il cielo chiaro
di
quella mattina estiva e con il verde degli alberi più
vecchi,
che avevano saputo resistere bene nonostante gli anni di incuria.
Anche da lontano, era sicura che in quei tratti sicuri ci fosse del
notevole talento, e soprattutto una certa passione. Chi
l’avrebbe
mai detto che un tipo così potesse dipingere?
Ora che la sua curiosità era stata soddisfatta, Hinata
decise
che avrebbe anche potuto mettere fine a quella sua intrusione
così sfacciata. Prima che il giovane tornasse e rischiasse
di
vederla, si alzò dal ramo e saltò sul muro, per
poi
scendere con attenzione ed infilarsi i sandali.
Quello che Hinata non sapeva, perché non se ne era nemmeno
accorta, era che il giovane pittore aveva visto, girando
l’angolo
per tornare alla tela con un pennello più fine in mano,
l’ombra di qualcuno che era un po’ troppo cresciuto
per
sembrare uno scoiattolo.
Si era informata, aveva letto i giornali. E aveva scoperto ogni
particolare della sua storia: a quanto sembrava mancava dalla sua
cittadina natale da circa nove anni, ma a quel tempo sua sorella se
n’era già andata da un pezzo. La madre, invece,
era morta
durante la sua assenza.
I giornali dicevano che nel corso di quegli anni si era messo nei guai
in vari modi: furti, rapine varie, vandalismo… ma la cosa
più grossa fu quando arrivò allo spaccio di
droga, che
ebbe conseguenze irreversibili.
Ci fu un morto, un ragazzo di appena sedici anni. In realtà
l’Inuzuka lo conosceva da poco, era stato portato nel giro da
un
gruppo di compagni di scuola, era la prima volta che
“provava”. Ma gli fu fatale. Uzumaki Naruto, bianco
di
sedici anni, era morto a causa della “roba” che gli
aveva
dato lui.
Omicidio.
Il giovane era rimasto in carcere qualche anno, ma alla fine gli
avevano concesso gli arresti domiciliari per buona condotta. Ed era
arrivato lì.
Ovviamente, però, per qualunque paesino e qualsiasi piccola
cittadina una notizia simile era come il miele per le api: le voci
erano volate, aggiungendo crimini orribili alla lista di quelli
commessi dall’erede degli Inuzuka, gonfiando i dettagli
all’inverosimile. Ormai agli occhi dei più era il
peggior
criminale mai esistito, e a poco serviva che i pochi con la testa sulle
spalle cercassero di riportare tutti gli altri con i piedi per terra,
esibendo giornali e prove. Per l’intera cittadina, il
galeotto
tornato all’ovile era ormai etichettato come la
“Bestia”.
Vi era tornata una terza volta. Alla casa, al suo ramo, e a quel
giardino. Spinta da una forza misteriosa, a cui non avrebbe nemmeno
saputo dare un nome. Forse spirito d’avventura, del pericolo,
di
ciò che non
si dovrebbe fare. Sensazioni che,
mentre le
provava,
la facevano sentire quasi un’altra persona. Perché
non era
Hinata Hyuuga a fare quelle cose, non quella che tutti conoscevano.
Però questi “tutti” erano anche quelli
che davano a
lui
della
Bestia. Ma una persona che dipinge con tanta passione non
può essere definita tale. Assurdo.
Stavolta c’era tornata verso il tramonto, curiosa di vedere
se
anche in quell’ora della giornata il giovane sarebbe stato
lì, nello stesso posto delle altre volte, a dipingere lo
stesso
quadro della casa.
Non rimase delusa. Tuttavia si rese conto che i colori dominanti,
quella volta, erano l’arancione e il giallo, pigmenti decisi
che
caratterizzavano quello splendido tramonto di fine giugno. Sembrava
quasi che il ragazzo volesse dipingere la casa nei vari momenti della
giornata, di volta in volta incorniciata da un diverso tempo
atmosferico; un pensiero forse assurdo, eppure quella era la sensazione
che Hinata ne aveva.
Ma quella terza volta non si risolse in maniera molto positiva. Ad un
certo punto, infatti, il giovane si era alzato, dirigendosi con piglio
deciso verso l’albero su cui se ne stava appollaiata la
ragazzina.
Quest’ultima, sentendosi irrimediabilmente scoperta, non ci
pensò due volte: si alzò di scatto e
tornò
sulla cima del muro, saltandone praticamente giù prima che
il
ragazzo potesse dirle qualunque cosa.
Il problema era che, nell’impeto della fuga, aveva messo male
un
piede, procurandosi una storta alla caviglia. Si era così
rassegnata a tornarsene a casa in quel misero stato, zoppicante e
dolorante.
Per un paio di giorni non era riuscita nemmeno ad alzarsi, e aveva
tenuto per tutto il tempo un pacchetto di ghiaccio sulla caviglia
gonfia. Fortuna che la storta si era rivelata meno grave del previsto,
ed era guarita molto in fretta.
Tuttavia il tempo che Hinata aveva avuto a disposizione in quei momenti
di immobilità forzata l’aveva occupato con
pensieri e
ragionamenti di ogni sorta, domande e dubbi che avevano per soggetto
soltanto tre cose: dei quadri, una casa e il loro misterioso e
misantropo proprietario.
E aveva avuto un’idea.
Non riesco ancora a crederci! Prima al "Fairytale
Contest"! Ne sono davvero felice, per
svariati motivi:
1- è la mia prima kibahina
2- è la mia prima storia
sentimentale, quindi una vera storia d’amore
3- questa fic mi ha davvero preso, in un
modo che non
avrei creduto possibile. Non sono il tipo da long, perché ho
bisogno di “rimanere dentro” alla storia per
continuare a
scriverla. Ma questa… non lo so, avevo proprio bisogno di
scriverla
4- mi sono riguardata “La Bella
e la Bestia” della Disney. E dovreste farlo anche voi.
Detto questo, ringrazio moltissimo Lalani, la giudice, e faccio i
complimenti a tutte le altre partecipanti, di cui non vedo
l’ora
di leggere le storie.
Commentino (guardate che sarà ancora lunga)?
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Capitolo 2 *** Lo spirito dell'inverno ***
2- Lo spirito dell'inverno
Lo spirito dell’inverno
L’idea
brillante che Hinata aveva avuto la portò, non appena
poté riprendere a camminare, nell’Ufficio Anagrafe della
propria cittadina.
Conosceva l’uomo che
vi lavorava: sapeva che il figlio doveva avere più o meno la sua
età, e se lo ricordava bene. Era l’unico ragazzino
silenzioso e schivo in quella gazzarra vociante costituita da tutti i
suoi coetanei.
Hinata sentiva che
avrebbero anche potuto andare d’accordo se si fossero frequentati
di più, ma gli eventi non lo avevano mai permesso: lei era
sempre in collegio, e lui dedicava tutto il suo tempo libero alla
collezione degli insetti per cui nutriva tanta passione. Era quasi
impossibile riuscire a trovarlo.
Con quella famiglia tanto
bizzarra Hinata si sentiva comunque a proprio agio: e non si
stupì, quella mattina, quando vide che il signor Aburame
indossava un giaccone chiaro in piena estate e degli occhialini da sole
anche se non si trovavano all’aperto. Malgrado tutto ciò
che le avevano sempre insegnato, non lo trovò maleducato.
Non appena entrò, si
rese subito conto che la quantità di mosche presenti era
leggermente superiore al normale, ma non vi fece caso più di
tanto. Sollevata nel constatare che al momento non c’erano altre
persone, si diresse verso il bancone, salutando gentilmente.
Il signor Aburame la riconobbe subito:
- Oh, la
piccola Hyuuga – disse, con una voce atona che a Hinata
suonò invece molto cordiale – Di che cosa hai bisogno?
- Ecco,
io… - cominciò la ragazzina, un po’ titubante,
mentre sentiva il rossore salirle fino alle orecchie.
All’improvviso le vennero un sacco di dubbi: quello che voleva
fare era legale? E comunque non avrebbe dovuto disturbare il signor
Aburame, che aveva sicuramente molto lavoro da sbrigare…
Gli lanciò
un’occhiata veloce, ancora timorosa. Lui era lì ad
aspettare, tranquillo, senza alcuna traccia di impazienza. Se avesse
avuto dell’altro da fare non sarebbe certo rimasto lì a
guardarla, giusto?
Quindi Hinata si fece coraggio e piano piano, tra un balbettio e l’altro, espose la propria richiesta.
Alla fine
Hinata dovette constatare che era stato tutto molto più semplice
di come se l’era immaginato. Il signor Aburame le aveva spiegato
che non era esattamente permesso
fare quello che voleva, ma per lei avrebbe fatto un’eccezione.
L’aveva guidata nella saletta vicino, dove stavano stipati tanti
antichi documenti, e le aveva tirato subito fuori la scartoffia di cui
aveva bisogno.
Dopodiché
l’aveva lasciata sola, tornandosene al proprio lavoro, al
computer il cui ronzio somigliava vagamente a quello di un insetto.
Hinata si era seduta ad un
tavolo, studiando con reverenza ciò che teneva in mano. Si
sentiva quasi in colpa a ficcare il naso così, sapeva che a
rigor di logica era profondamente sbagliato, eppure… eppure una
vocina, da qualche parte, le stava dicendo che quella era la cosa
giusta. L’unica.
Quindi iniziò a
leggere il foglio che aveva davanti, e scoprì tante cose
interessanti. Innanzitutto, che il giovane Inuzuka portava come primo
nome Kiba- poteva sembrare assurdo, ma nessun giornale si era degnato
di inserire il suo nome in uno dei tanti articoli a lui dedicati- e che
era nato nella casa in cui viveva quasi venticinque anni prima.
Fu quel quasi
ad accenderle una lampadina in testa. O, nel suo caso, forse si
trattava solo di una timida candelina, ma era sufficiente. Tornò
nell’ufficio, restituì il documento al signor Aburame e lo
ringraziò calorosamente, con un sorriso sincero.
Lui le fece solamente un
cenno con la mano, il cui significato poteva andare dal
“Ciao” al “Felice di esserti stato utile”. E
tornò al proprio lavoro.
Visto
però che le cose non vanno mai come dovrebbero, la mattina del
sette luglio una vecchia zia fece visita a Hinata, sua madre e sua
sorella. Perciò dovette rimanersene buona e tranquilla tutta la
mattina, sorridendo gentile e rispondendo solo se interpellata. Cosa
normalmente non troppo difficile, perlomeno per lei, ma quella volta
Hinata fremeva.
Per fortuna nel pomeriggio, quando la zia andò a fare il suo pisolino, fu finalmente libera.
Si diresse quasi di corsa
verso la casa e, giunta di fronte al famoso muro coperto d’edera,
dovette fermarsi un momento a riprendere fiato. Il fiatone avrebbe
potuto tradirla, doveva stare attenta.
Si tolse ancora una volta i
sandali e si arrampicò, per poi saltare direttamente sul ramo
una volta arrivata in cima. Era diventata una vera esperta, ormai.
Tuttavia si era talmente
impegnata a fare tutto nel maggior silenzio possibile che aveva
dimenticato di dare un’occhiata al giardino, tanto per essere
sicura che non ci fosse nessuno o che nessuno la vedesse. Di solito lo
faceva, ma quella volta lo scordò.
E- accidenti!- quando se ne ricordò fu troppo tardi.
Perché il pittore
misantropo se ne stava tranquillo sotto il suo ramo prediletto, con le
braccia incrociate, i capelli spettinati e un ghigno beffardo stampato
in faccia.
Quando lo vide, Hinata
rimase talmente sbalordita che dimenticò di spaventarsi. Forse
avrebbe dovuto voltarsi e andarsene all’istante, ma non
riuscì a fare altro che rimanere lì a guardarlo,
totalmente stupefatta.
Per qualche momento nessuno
dei due aprì bocca. Ad interrompere il silenzio pensò il
minuscolo cagnolino color panna, che arrivò trotterellando con
il suo festoso “yap!” e si sistemò scodinzolante
sotto il ramo su cui se ne stava Hinata, ancora immobile.
Il ragazzo gli rivolse
un’occhiata bieca, sospirando rassegnato, per poi rialzare lo
sguardo verso la ragazzina e commentare:
- Bene, mocciosa, sei decisamente fortunata.
Visto che ad Akamaru stai così simpatica,
non ti beccherai né una denuncia per violazione di domicilio
né qualche altro metodo più
drastico… anche se sappi che in sala da pranzo c’è
ancora una baionetta del Settecento… -
alzò leggermente un sopracciglio, assottigliando gli occhi, per
vedere se la minaccia
stesse facendo effetto. Sembrava una ragazzina impressionabile, non ci
doveva volere
molto per spaventarla a dovere. Anche se, in realtà, pensava che
la prima volta sarebbe
bastata, e invece…
- Comunque sia – riprese - mi auguro solo che
tu non vada in giro a vantarti di essere l’unica ad entrare nella
proprietà della “Bestia”… come a quanto pare hanno cominciato a chiamarmi.
Hinata avrebbe voluto
chiedergli come facesse a conoscere questo dettaglio delle voci che
correvano su di lui, dato che era sempre chiuso lì dentro, ma
naturalmente si sarebbe seppellita viva piuttosto di farlo.
Si impose invece di non pensare- almeno per qualche secondo- giusto il tempo di riuscire a fare ciò per cui era venuta.
Inspirò
profondamente e, prima di avere il tempo di vergognarsi o anche solo di
pensarci due volte, disse d’un fiato, pronunciando con cura ogni
parola a voce alta:
- Buon compleanno.
Lui la guardò
decisamente sorpreso e, dopo qualche secondo, per la prima volta
sorrise. O perlomeno quella fu l’impressione che Hinata ne ebbe,
anche se esteriormente sembrava soltanto un ghigno un po’ meno
aggressivo del solito.
Trascorse qualche istante di silenzio, che il ragazzo ruppe chiedendo:
- Tu quando sei nata, invece?
La ragazzina rimane un po’ sbigottita, ma rispose in fretta:
- Il ventisette dicembre.
Il giovane sembrò studiarla un attimo, per poi asserire convinto:
- Ci
avrei scommesso. Effettivamente un fantasma pallido come te sullo
sfondo dell’estate è decisamente fuori posto… di'
un po’, che classe fai?
- Ho f-finito le medie…
- Sei una
mocciosetta di tredici anni, allora. Ti facevo più
piccola… - commentò il ragazzo con un sorriso obliquo.
Il volto di Hinata prese fuoco.
- Io… veramente quest’anno ne compio quattordici…
Lui rimase ad osservarla,
non commentando l’ultima affermazione della ragazzina e senza
dare adito di averla nemmeno sentita.
-
Sì… effettivamente hai proprio l’aspetto
dello spirito dell’inverno – articolò piano, quasi
assorto.
Hinata non era sicura di aver capito bene:
- C-come? Io…
Ma il giovane sembrò
essersi improvvisamente stancato di quella conversazione che lo
costringeva a stare perennemente a testa in su, e in due parole la
liquidò:
- Bene, immagino tu abbia compiuto la tua missione. Adesso puoi anche andartene.
La ragazzina avrebbe voluto
aggiungere qualcosa, ma quando l’altro girò sui tacchi,
diretto verso l’immancabile cavalletto, si rese conto che per
quel giorno aveva già avuto abbastanza fortuna.
Rivolse un sorriso al
cagnolino e saltò sul muro, per poi tornare verso casa. Per una
volta non a rotta di collo e senza il cuore in gola.
Passò qualche giorno, durante i quali Hinata rimuginò a lungo per decidere se tornare o no alla casa.
Lì nella cittadina,
in quell’estate senza compiti, non aveva praticamente niente da
fare, ma sentiva che non era la semplice noia a spingerla laggiù.
Per quasi una settimana
cercò di distrarsi: si offrì di andare a fare la spesa al
supermercato, per esempio. Ci pensava già la loro domestica, ma
un po’ di frutta poteva sempre andare a prenderla. Il fatto che
ogni volta tendesse le orecchie per riuscire a cogliere qualche
commento sul miglior cliente del negozio, però, era solo un
dettaglio.
Un pomeriggio andò
anche a trovare il figlio del signor Aburame. Trascorse con lui delle
ore davvero interessanti, in giro per la campagna attorno alla
cittadina, alla ricerca di insetti.
Potrebbe sembrare noioso,
ma per lei non lo fu affatto: passeggiarono per ore, Shino ben attento
al minimo movimento- malgrado i piccoli occhiali da sole- Hinata che si
godeva il paesaggio che li circondava.
Quando trovavano qualcosa
il ragazzino glielo mostrava come fosse il suo più grande
tesoro, era in grado di parlarle di uno scarabeo come della creatura
più stupefacente dell’universo. A Hinata piaceva
ascoltarlo, ed era contenta che quando parlava con lei scegliesse tutti
i dettagli più interessanti da raccontarle.
Andava molto
d’accordo con lui, ma sapeva anche che non avrebbe dovuto
disturbarlo più di tanto. Forse qualche volta avrebbe potuto
accompagnarlo ancora nei suoi giri, tuttavia si sarebbe trattato di
episodi sporadici. Perché in fondo erano l’unica cosa che
potevano condividere; Hinata sapeva che lei non sarebbe mai riuscita a
proporgli niente che lo interessasse. Forse avrebbe potuto accettare
per farle piacere, ma la ragazzina sentiva che non era così che
doveva andare.
Lei non aveva mai avuto una
passione per qualcosa, e forse per questo le piacevano le persone il
cui animo s’infervorava per una qualche attività. Persone
che riuscivano a trascorrere ore ed ore del loro tempo più
prezioso- il tempo libero- a fare all’incirca sempre la stessa
cosa. Lei non aveva mai provato nulla del genere.
Le piacevano le persone che coltivavano le proprie passioni. Fossero esse gli insetti o la pittura.
L’occasione,
se vogliamo chiamarla così, le si presentò in un tardo
pomeriggio di luglio, il cui cielo violaceo minacciava un temporale
imminente.
Hinata stava dando una mano
al giardiniere a ritirare le sedie e il tavolino da esterno sotto il
portico, al riparo, quando fra l’erba sferzata dal vento vide una
macchia color panna che saltellava.
- Akamaru! – esclamò sottovoce, per non farsi udire dall’uomo.
In pochi passi lo raggiunse e lo prese tra le braccia.
- Che ci
fai qui? – gli chiese stupita. Come faceva a sapere dove abitava?
C’era finito per caso? O aveva seguito la traccia del suo odore?
Hinata alzò gli
occhi al cielo: si faceva sempre più scuro, con saettanti lampi
che di tanto in tanto lo illuminavano per un istante, o per meglio dire
evidenziavano quanto fosse livido.
Sicuramente erano entrati tutti in casa. Lei invece strinse Akamaru a sé e corse fuori.
Corse a perdifiato lungo
tutta la strada, che conosceva ormai a memoria. Cercò di fare
più in fretta che poté, ma la pioggia la sorprese
comunque: iniziarono a cadere le prime gocce quando era ancora a
metà strada. Grasse gocce d’acqua che la inzupparono fino
al midollo, mentre i tuoni si scatenavano. L’unica cosa che
Hinata sperava era che non si mettesse a grandinare.
Sapeva che non era sicuro
ripararsi sotto gli alberi durante i temporali, perciò non lo
fece. L’unica cosa che trovò fu una pensilina ad una
fermata dell’autobus, che fu sufficiente perché lo
scroscio più violento non li investisse in pieno.
Non appena i rovesci
d’acqua si quietarono a sufficienza, Hinata lasciò il
rifugio. Cadeva ancora una pioggerellina leggera, che sembrava aver
risvegliato tutti gli odori delle piante e della terra.
Giunta a destinazione, la
ragazzina fece il giro del muro attorno alla casa. Se ricordava bene,
doveva esserci un buco da qualche parte...
Eccolo! - esclamò, non appena l'ebbe trovato.
Fece scendere Akamaru e lo
spinse gentilmente verso l’apertura. Lui sembrò capire,
perché si infilò rapidamente nel pertugio, il didietro
all’insù, e in breve sparì dall’altra parte.
Hinata strappò un po’ d’edera dal muro e ve la infilò, giusto per coprire il buco.
Dopodichè si diresse
verso la sua entrata personale, salì sul muro e saltò
sull’albero, giusto in tempo per sentire Akamaru abbaiare
festoso. Sembrava divertirsi un mondo, sotto la pioggia.
Hinata vide il giovane
uscire di casa senza ombrello e correre incontro al cane, chinandosi
per accarezzarlo. Mentre l’animale gli faceva allegramente le
feste, il ragazzo esclamò sorridendo:
- Ehi, ma dov’eri? Mi hai fatto preoccupare, lo sai?
Hinata sorrise. Niente ghigni, stavolta. Sul suo viso c’era solo un sorriso sincero e sollevato per il proprio amico.
- Chissà come fai a scappare… forse passi attraverso le sbarre del cancello…
- No, non è così.
Il giovane si voltò,
decisamente sorpreso, verso il punto da cui proveniva la voce. E
stavolta rimase veramente senza parole. Perché la solita
ragazzina era lì, sullo stesso ramo dello stesso albero,
indifferente alla pioggerella che continuava a scendere, incurante dei
vestiti zuppi e dei capelli madidi appiccicati al viso. I suoi occhi
avevano lo stesso colore della pioggia, se la pioggia ha un colore.
- Ma si può sapere chi sei? – articolò piano.
Hinata arrossì un po’, imbarazzata.
- C’è un buco nel muro – riprese – Proprio là.
Indicò col braccio una direzione alle spalle del ragazzo.
- Credo
che manchi un mattone. Ci ho infilato dentro un po’
d’edera, ma non basta. Se non viene chiuso continuerà a
scappare.
Il giovane si era lentamente avvicinato, evitando movimenti bruschi per non spaventarla.
- Come ti chiami? – chiese, quando si trovò sotto il ramo.
Sorpresa soprattutto per il suo tono né minaccioso né ringhiante, Hinata ci mise un momento a rispondere.
- Ehi! Guarda che non mordo mica, anche se abbaio! – scherzò il ragazzo accennando a un sorriso.
Quel tentativo di metterla a suo agio la rincuorò, e rispose:
- Hinata.
- Hinata… - ripeté il giovane, come assaporandone il suono – Io sono Kiba.
-
Sì, lo so – rispose d’istinto Hinata,
mordendosi la lingua l’istante dopo vedendo che il viso del
ragazzo si era rabbuiato.
- Già, lo immagino – fece lui.
La ragazzina fece per
andarsene, sicura di aver tirato troppo la corda anche quella volta, ma
fu fermata dalla voce dell’altro che le disse:
- Visto che quest’albero sembra piacerti molto, puoi anche tornarci. Non ti caccerò.
Hinata non rispose, incredula per quello che aveva appena sentito.
- V-vuol dire che… - balbettò.
- Che
puoi venire quando vuoi. Non ti accoglierò con lo schioppo in
mano, stai tranquilla. E sistemerò anche quel buco. Se i tuoi
venissero a sapere che pur di riportarmi il cane sei disposta ad
inzupparti come un pulcino, mi beccherei un’altra denuncia.
Detto questo si congedò, dirigendosi verso la casa tallonato da Akamaru.
Hinata ancora non riusciva a credere quelle parole.
Non riuscì a
crederci nemmeno quando rimise i piedi per terra, neanche quando si
incamminò a passo lento verso casa.
Ma a metà strada,
quando la pioggia smise e il cielo iniziò a rischiarare,
mostrando un accenno di arcobaleno tra le nuvole, fu finalmente certa
di ciò che aveva sentito.
Poteva tornarci! Ora sì che il problema della noia estiva era finalmente risolto.
sushiprecotto_chan:
il primo capitolo ha fatto più che altro da introduzione alla
storia. Vedrai che i personaggi verranno maggiormente approfonditi man
mano che la fic va avanti. ^^
Nemmeno
a me, da piccola, piaceva molto “La Bella e la Bestia” (il
mio mito è sempre stato “Il Re Leone”!), ma grazie a
questo contest l’ho riscoperto. Mi sono resa conto che quelli
della Disney sono dei geni, perché da una storia insipida quale
è “La Bella e la Bestia” originale (la fiaba) hanno
tirato fuori un film dai particolari magistrali.
Mi sono ricreduta, insomma!
Clahp:
in realtà a me “La Bella e la Bestia” non è
mai piaciuto particolarmente (preferivo di gran lunga “Il Re
Leone”… XD), ma grazie a questo contest l’ho
riscoperto. E mi sono accorta che è bellissimo!
Grazie a Lalani per aver inserito il giudizio del contest.
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Capitolo 3 *** Il mandorlo ***
3- Il mandorlo
Il mandorlo
-
Sai almeno che albero è quello che hai eletto a tua
dimora? – chiese Kiba ad alta voce, per farsi sentire dal suo
sgabello di fronte al cavalletto con la tela.
- Come? – rispose Hinata – No, veramente non me lo sono mai chiesta…
Anche se ogni volta che
veniva non poteva fare a meno di ammirarne i rami dolci e le tenere
foglie, così delicate, non si era mai chiesta che tipo
d’albero fosse, e adesso si scoprì curiosa.
- È un mandorlo – la informò Kiba.
- Un mandorlo? Fa le mandorle?
-
Dovrebbe. Ma visto che fra queste mura siamo tutti refrattari
alle regole, lui non ne ha praticamente mai fatte.
Lanciò
un’occhiata in tralice alla ragazzina. Anche se dal punto in cui
era non riusciva a vederla molto bene, era sicuro che un po’ di
delusione si fosse dipinta sul suo viso.
- Ma fa moltissimi fiori – aggiunse, simulando indifferenza.
- Davvero? – la voce di Hinata suonava speranzosa. Aveva toccato il tasto giusto.
Annuì, anche se non
si girò a guardarla. Quel comignolo era sempre un punto ostico,
ci volevano mano ferma e concentrazione perché venisse fuori
bene.
-
Sì, in primavera ne è talmente pieno che certi rami
leggeri si piegano. È un peccato che tu non li abbia visti. Sei
arrivata tardi.
Hinata non rispose. Era
troppo impegnata ad immaginare le fronde che la circondavano cariche di
fiori. Ma fiori… come? A un tratto si rese conto di non sapere
assolutamente nulla dei mandorli.
- E di che colore sono?
- Mmm… tra il bianco e il rosa chiaro. Un colore molto tenue.
- Non
è che magari non fa frutti perché è una specie
ornamentale? – azzardò Hinata.
Kiba si grattò dubbioso la testa con la punta del manico del pennello.
- Mah! Sai che non ci ho mai pensato? Forse hai ragione.
Hinata sorrise. Stava bene, lì. Così bene che non sarebbe nemmeno tornata a casa.
Per una settimana dopo il
temporale non era potuta tornare, visto che tutta quell’acqua le
aveva fatto venire una bella influenza. Non aveva mai desiderato
così ardentemente di tornare a stare meglio, e aveva seguito
più diligentemente del solito le prescrizioni del medico.
Kiba, quando l’aveva vista rispuntare sul ramo del suo albero, aveva commentato:
- Toh, rieccoti qui! Cominciavo a pensare di averti spaventato più delle altre volte!
Adesso era lì
praticamente tutti i giorni. A volte andava a trovare Shino,
accompagnava Hanabi in gelateria, faceva un salto in biblioteca…
ma il resto del tempo la si poteva trovare lì, appollaiata sul
quel ramo che ormai doveva aver preso la forma del suo sedere.
All’inizio il didietro le aveva fatto anche male, ma ci si era
abituata in fretta. Forse si sarebbe trasformata in un uccello prima
della fine dell’estate.
Quando poteva rimaneva
tutto il giorno, tanto Kiba restava sempre fuori a dipingere, con in
testa un largo cappello di paglia nelle ore più calde.
Tornava a casa solo a
pranzo e a cena, tanto per far sapere che era ancora viva, ma nessuno
le chiedeva mai dove era stata. Suo padre non c’era a causa del
lavoro, e sia sua madre che sua sorella avevano una loro vita. A volte
capitava che, a parte “Buongiorno” e “Buon
appetito”, non si dicessero altro per un’intera giornata.
Era sempre lei ad augurare per prima la buonanotte.
Di conseguenza, era sempre lì.
-
Ah, avevo dimenticato di dirtelo… ho chiuso il buco. Ci ho
messo un mattone nuovo, anche se a dire il vero stona un po’ con
tutti gli altri, che sono decrepiti – gli venne in mente una
volta.
- Beh, l’importante è che Akamaru non scappi più – rispose Hinata.
- Tanto
fra un po’ non potrà farlo comunque. Quando
crescerà non riuscirà più ad infilarci nemmeno il
muso!
- Cosa? – fece la ragazzina, un po’ turbata – Diventerà così grosso?
-
Esattamente – annuì Kiba, compiaciuto –
È una razza particolare, i cui cuccioli sono minuscoli e gli
adulti delle bestie enormi. L’ho preso apposta.
- Ah… - commentò Hinata.
Sentendo il suo tono, Kiba si voltò verso di lei.
- Che hai? Mi sembri poco convinta. Cos’è quella faccia?
- È che… non mi piacciono i cani grandi – ammise.
- Hai paura?
Hinata annuì.
- Sono stata morsa da un grosso cane quand’ero piccola – disse.
- Capisco. Ma non devi preoccuparti: lui non ti dimenticherà – le rispose.
- Davvero?
Kiba la guardò fiducioso.
- I cani non dimenticano mai nessuno. Non sono come noi.
Hinata lanciò
un’occhiata al cagnolino, in quel momento occupato a cercare una
lucertola sparita dentro un fitto cespuglio. Di lui era visibile
soltanto il didietro scodinzolante. Le riusciva difficile immaginarlo
come un maestoso e colossale molosso.
C’era
una domanda che Hinata avrebbe tanto voluto fargli, ma non ne aveva mai
avuto il coraggio. Nonostante stesse prendendo sempre più
confidenza, si sentiva sempre in imbarazzo ad affrontare argomenti
personali, le sembrava di ficcare un po' troppo il naso.
Tuttavia il primo giorno di agosto si decise a farlo. Con tono indifferente, buttò lì:
- Quindi ti piace dipingere?
Kiba scoppiò in una grassa risata, che la fece sobbalzare. Sì, aveva cominciato anche a ridere.
- Dimmi
un po’ – le disse, poggiando il pennello sul bordo del
cavalletto e girandosi di un quarto verso di lei – È da
giugno che vieni qui, e tutte le volte mi hai visto seduto e con il
pennello in mano. Secondo te mi hanno condannato ad un “lavoro
forzato” di questo genere?
Hinata arrossì furiosamente. Quanto era stata stupida!
- Non sei
capace di dissimulare – la informò, tornando alla propria
tela – Se vuoi chiedermi qualcosa, fallo e basta. Ti ho
già detto che non ti mangio.
Quindi poteva?
-
Beh… - la curiosità ebbe la meglio, e prima di
rendersene conto chiese: - Perché dipingi sempre casa tua?
- Brava,
vedo che l’hai notato – sghignazzò lui - Scommetto
che ti sembrerà l’ennesima follia di un matto carcerato!
A volte le faceva queste
battute sulla condizione in cui si trovava, ma erano rare. Non aveva
mai parlato di quello che gli era successo prima di tornare lì,
del crimine di cui era accusato. Ma lei era solo una ragazzina, in
fondo.
- Veramente no – rispose gentilmente
Hinata – Mi ricorda Monet.
Kiba si girò di nuovo a guardarla, decisamente sorpreso.
- Scusa, quanti anni hai detto di avere? Tredici? E conosci Monet?
Hinata annuì, arrossendo compiaciuta per essere riuscita a stupirlo, lui che sembrava avere visto tutto.
- A marzo
ci hanno portato in gita a Parigi, e mi ricordo che in un museo
abbiamo visto vari quadri con lo stesso soggetto, ma dipinti in momenti
diversi della giornata. Mi sembrava ci fossero una chiesa e dei covoni
in un campo…
Il ragazzo annuì col capo, confermando:
-
Sì, “La cattedrale di Rouen” e
“Covoni”, per l’appunto – poi si voltò
verso la propria tela – Io sto facendo più o meno la
stessa cosa. In fondo sono rinchiuso qui notte e giorno, e da dipingere
non c’è altro. A parte Akamaru, forse, ma lui non sta
fermo un attimo e non ho alcuna voglia di corrergli dietro col pennello.
L’interpellato scodinzolò allegro, totalmente ignaro delle accuse che gli venivano rivolte.
-
Però, sai – continuò Kiba – Forse va
bene così. Adesso che sono costretto a guardarla per ore sto
scoprendo un sacco di cose. Cose che non avrei mai immaginato…
Hinata avrebbe voluto
chiedergli di quali cose si trattasse, ma vedendolo così
meditabondo pensò potesse trattarsi di faccende riguardanti la
sua famiglia e il suo passato, e se ne rimase zitta.
- Li tieni tutti in casa? – chiese invece, cercando di cambiare discorso.
- Sì. Credo di aver quasi riempito una stanza. Ma tanto prima o poi li brucerò tutti.
Quell’affermazione la sconcertò:
- Cosa? Perché? Secondo me non dovresti, sono molto belli!
- Di’ un po’, ma tu cosa puoi vedere dalla tua postazione vegetale?
- In
famiglia abbiamo una buona vista – rispose semplicemente –
E poi i tuoi quadri mi hanno davvero colpito. Una notte li ho sognati.
- Davvero? – Kiba sembrava sorpreso – Ma pensa… spero non fosse un incubo!
- No, anche se non me lo ricordo molto bene.
- In ogni
caso, anche se li bruciassi non farebbe molta differenza. Magari potrei
tenerne uno o due, ma gli altri sono tutti esercizi per riprendere un
po’ la mano. Non c’è niente dentro.
- Dentro?
Kiba le lanciò uno sguardo penetrante.
- Non
c’è un sentimento, un bisogno impellente che mi ha spinto
a dipingerli. Non c’è un progetto pensato e ripensato per
rendere al meglio l’idea – spiegò – In pratica
non hanno alcuna ragione d’esistere.
Hinata si
guardò intorno. Ogni volta le sembrava di vedere quel posto per
la prima volta, tanto lo amava. Quella sera d’agosto una leggera
brezza s’insinuava tra le fronde e i suoi capelli, regalandole
una piacevole frescura al posto dell’abituale afa.
Fece una panoramica della
porzione di giardino che le era possibile vedere dalla propria
posizione. Ormai la sognava anche di notte, ma voleva imprimersela bene
nella mente, per essere sicura di continuare a farlo. Dato che da
lì a una settimana sarebbe partita.
Non era mai scesa
dall’albero. Non aveva mai toccato con i propri piedi la terra
del giardino, né tanto meno era entrata in casa, ma era felice
così.
Sapeva che doveva
dirglielo, ma non riusciva a trovare un modo per iniziare il discorso.
“Tra l’altro, non è detto che gli importi
qualcosa” pensò “Certo, non mi ha più
cacciata, ma magari si è stancato di avermi intorno tutto il
santo giorno. Forse non vede l’ora che me ne vada, quindi gli
farei solo un gran favore a sparire da un giorno all’altro”.
Tuttavia l’occasione gliela presentò proprio lui, il giorno dopo, quando con tono tranquillo le chiese:
- E la
scuola? Fra un po’ ricomincia, eh? Cosa racconterai se ti faranno
fare uno di quegli stupidi temi sulle vacanze estive? Che sei rimasta
appollaiata su un albero per tre mesi?
- Non credo che ci faranno fare temi così. Non sono più alle medie.
- Oh, giusto, è vero. Che scuola hai scelto? – chiese.
Scelto.
Parola grossa. Suo padre aveva provveduto all’iscrizione e alla
prima retta e gliel’aveva comunicato. Tutto lì.
- È un collegio. Femminile. Dovrò stare via tutto l’anno fino a giugno.
Kiba mise giù il pennello e si voltò a guardarla:
- E ti hanno chiesto cosa ne pensavi, prima di sbatterti là a forza?
Hinata arrossì,
pensando che in un secondo lui aveva già capito tutto, mentre
suo padre non si era nemmeno chiesto se lei avesse voluto andarci o
meno. O forse lo sapeva, che cosa ne pensava lei, ma non gli importava.
- In fondo non importa. Non avevo un’idea particolare – disse remissiva.
- Avere
un sacco di soldi ha anche i suoi svantaggi – commentò lui
– Ne so qualcosa anch’io.
Hinata annuì mesta, lo sguardo basso. Kiba se ne accorse e cambiò prontamente discorso:
-
È tutta l’estate che mi chiedo come fai a startene
delle ore seduta lì sopra. Non sei caduta nemmeno una volta. Lo
sai che una volta mia sorella, arrampicandosi, è caduta proprio
da quell’albero? Non ci giurerei, ma mi sembra che il ramo fosse
proprio quello dove sei seduta tu.
Questo le fece alzare la
testa e dimenticare i propri problemi. Era la prima volta che parlava
della sua famiglia, non aveva mai nominato nemmeno sua madre.
- Hai una sorella? – chiese.
-
L’avevo – puntualizzò lui – Non so se ce
l’ho ancora, può darsi di sì. Era più
vecchia di me di qualche anno.
Diede un paio di pennellate, poi sbuffò.
- I fratelli maggiori sono la razza peggiore del mondo – sbottò.
- Io sono la sorella maggiore – rise Hinata.
- Davvero? Credevo fossi figlia unica.
- No, ho una sorellina – rispose – Però non parliamo molto.
Kiba annuì.
-
Sì, lo immagino. Sai, quando eravamo piccoli lei era
davvero forte: faceva un sacco di cose, e mi coinvolgeva sempre. Non mi
ha mai visto come una palla al piede.
- Cosa facevate? – chiese Hinata curiosa.
- Le
piacevano un sacco gli animali – rispose lui incrociando le
braccia dietro la testa, perso nei ricordi – Ogni volta che
trovava un cane per strada o una cucciolata di gattini abbandonati
doveva per forza soccorrerli. Nostra madre non voleva, ma la casa era
grande a sufficienza da poterli nascondere. Fu proprio per rimettere un
uccellino nel nido da cui era precipitato che cadde dall’albero.
Hinata si guardò
intorno, e per un istante le sembrò di vedere una giovane
Inuzuka scalare il tronco con un uccellino in mano, negli occhi lo
stesso sprezzo del pericolo del fratello. Doveva essere una ragazza
coraggiosa, altruista e avventurosa. Esattamente il contrario di
ciò che era lei.
- Forse avrebbe dovuto fare la veterinaria – azzardò.
- Forse
lo è diventata – rispose lui, riprendendo in mano il
pennello con uno sbuffo – Non è più un problema
mio, ormai.
Mentre lo guardava
rimettersi al lavoro, Hinata si chiese se anche lei un giorno avrebbe
detto che Hanabi “non era più un problema suo”. Si
diventava così crescendo? Essere fratelli non significava
più nulla?
Si sentì amareggiata
più del dovuto da quella conversazione, e in silenzio
saltò sul muro e se ne andò, senza salutare.
Quella sera portò ad
Hanabi una vaschetta di gelato dai gusti misti, che mangiarono a
cucchiaiate guardando un film e giocando a carte. Sua sorella non aveva
niente da fare e sembrava abbastanza di buonumore, tanto che alla fine
si addormentarono nello stesso letto raccontandosi vecchie storie.
Prima che il sonno scendesse su di loro, Hanabi sussurrò:
- Hinata? Hai mai… baciato qualcuno?
- Come? – gli occhi di Hinata si spalancarono nella notte afosa e buia.
- L’hai mai fatto? – insisté Hanabi.
- Beh… no – rispose lei, arrossendo notevolmente.
- Io
sì – la voce di Hanabi suonava come se le labbra si
fossero distese in un sorriso – Ieri.
- E come… è successo? – chiese Hinata, curiosa suo malgrado.
- È stato Konohamaru – bisbigliò la più piccola.
- Quel
ragazzino che gioca spesso a calcio in piazza? È per questo che
vuoi sempre andare a prendere il gelato là?
Hanabi tirò su il leggero lenzuolo che le ricopriva.
- No,
certo che no. Figurati se farei una cosa del genere! Sono io che
piaccio a lui, non il contrario. Ho lasciato che mi baciasse solo
perché ero curiosa di vedere cosa si prova – rispose
piccata, difendendo strenuamente il proprio orgoglio. Ma Hinata sapeva
di aver colto nel segno.
-
E… com’è? – si ritrovò a
chiedere la più grande, arrossendo come un papavero e
quasi vergognandosi della curiosità che provava.
A questo punto la testa di
Hanabi sparì completamente sotto le lenzuola, borbottando
qualcosa come “Ho sonno, sono stanchissima” e rigirandosi
dall’altra parte.
Hinata sospirò
silenziosamente, ma capì. La mancanza di un’amica intima
aveva portato la sorella a confidarsi con lei, ma dubitava che lei
stessa sarebbe stata più ciarliera se si fosse trovata nei suoi
panni. Anzi, forse non l’avrebbe detto a nessuno.
“E così, mia
sorella ha già baciato qualcuno” pensò “Cosa
che a me non accadrà ancora per molto, molto tempo. Ma forse
è meglio così, non credo che ne avrei il coraggio”.
La presenza di Hanabi
scaldava metà del letto, cosicché presto entrambe si
ritrovarono in un bagno di sudore. Ma nessuna delle due si
spostò di lì, anche se sarebbe stata questione di due
minuti alzarsi e andare a dormire nella stanza accanto.
La mattina dopo entrambe si
svegliarono con la pelle appiccicaticcia e i capelli madidi di sudore,
ma nessuna delle due se ne lamentò. Fecero colazione insieme,
poi ciascuna andò per la propria strada. Almeno per quel giorno.
-
Domani parto – riuscì ad annunciare Hinata,
stentando a riconoscere la propria voce fattasi improvvisamente atona.
- Ah,
sì? – fece Kiba, con un tono indifferente che
inaspettatamente la ferì – E che ci fai qui? Non dovresti
essere a casa tua a preparare i bagagli?
-
È già tutto a posto – lo informò,
anche se controvoglia – Ci ha pensato ieri la cameriera.
- Come
immaginavo – sbottò Kiba, alzando un angolo della bocca
– Fai bene ad andartene. Lo farei anch’io, se potessi.
Qualcosa non andava.
Sembrava essere tornato il ragazzo diffidente dei primi tempi, con lo
stesso ghigno stampato in faccia e le stesse parole affilate.
Perché faceva così?
-
Però tornerò a Natale – azzardò
Hinata, non capendo bene nemmeno lei perché lo stesse dicendo.
- Ah, lo
spero bene: dovrebbe essere un collegio, mica una prigione. Anche se la
differenza è piuttosto labile…
- Posso tornare anche qua… - la voce della ragazzina si fece piccola piccola, quasi un sussurro.
- E
arrampicarti anche con la neve? Scordatelo, sarebbe la volta buona per
romperti una gamba – il tono si era fatto aspro.
- Magari l’estate prossima…
- Fa’ quello che vuoi – la liquidò Kiba, alzando le spalle.
A questo punto Hinata aveva
veramente le lacrime agli occhi. Il cielo si stava ormai arrossando
della luce languida dei tramonti di fine estate, e avrebbe dovuto
tornare a casa. Per tutto il pomeriggio aveva pensato ad un modo per
salutare quello che, in fondo, pensava fosse diventato un amico, ma si
era resa conto di essere comunque e soltanto una mocciosa.
Sentiva di essere ormai
prossima al pianto, tanto che avrebbe voluto voltarsi e scappare via.
Ma proprio in quel momento Akamaru si diresse verso di lei, appoggiando
le zampe anteriori sul tronco del mandorlo e alzandosi in tutta la sua
lunghezza.
Hinata sorrise, mentre
sentiva una lacrima calda scivolare giù. Veloce come uno
scoiattolo, raggiunse il tronco e scese a terra, malgrado fosse la
prima volta che effettivamente lo faceva. Prese in braccio il cane e
gli diede una grattatina dolce dietro le orecchie, prima di riprendere
la via silvestre.
Non perse nemmeno un
momento a pensare che quella era stata la prima volta che era scesa a
toccare la terra del giardino con i propri piedi, perché in men
che non si dica saltò sul muro e sparì dall’altra
parte.
Parecchi minuti dopo,
quando ormai il sole era scomparso oltre l’orizzonte, Kiba
iniziò a mettere via i propri arnesi per dipingere. Akamaru lo
raggiunse e si sedette accanto a lui, scodinzolando piano.
- Non
sperarci – lo avvisò il giovane – E non tenerci
troppo, perché non la rivedrai. Sarà cresciuta, e non
tornerà più. Vedi di abituarti all’idea.
A me questo capitolo piace molto. È una storia lenta, lo so, ma volevo che fosse così. Volevo far capire come le barriere cadono piano, senza quasi che i due se ne accorgano.
I pochi
episodi descritti avvengono in diversi momenti nel corso di tutta
l’estate: si prende lentamente confidenza finché non
vengono fuori i pensieri più nascosti, quelli che non si
rivelerebbero mai. Kiba che riesce a parlare di sé, Hinata che
si sente talmente a suo agio da fargli delle domande personali.
Ho
voluto inserire anche un accenno alle due sorelle Hyuuga, a cui
personalmente tengo molto. A mio parere, i fratelli di solito sono
persone con un carattere diversissimo fra loro, eppure riescono a
intendersi per il solo fatto di convivere sotto lo stesso tetto, di
usare lo stesso bagno.
Ci si
può allontanare, non parlarsi più, ma ciò non
cambia il fatto che al mondo c’è qualcuno con il tuo
stesso sangue e i tuoi stessi geni. Per questo Hana fa ancora parte
della vita di Kiba, e Hanabi non smetterà mai di essere in
quella di Hinata.
Liberi di pensarla come volete, ma questo fa parte della mia “poetica”.
…
sono anch’io una sorella maggiore. Di tre fratelli. E mi è
sempre piaciuto essere il “capo” quando mia madre non
c’è. xD
Aurychan: sono contenta che la mia storia ti sembri piena di sentimento… grazie mille!
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Capitolo 4 *** Dimenticare, o forse no ***
4- Dimenticare, o forse no
Dimenticare, o forse no
La previsione di
Kiba si rivelò più che azzeccata. Hinata non tornò
più alla dimora Inuzuka, né tanto meno al ramo di quello
che era diventato il suo albero.
Non vi tornò fisicamente, ma in realtà non smise mai di
pensarci, a volte tanto intensamente che le sembrava di sentire
l’odore di Akamaru quando l’aveva preso in braccio
l’ultimo giorno, o toccando il materasso le pareva che fosse
ruvido al tatto come il ramo di un albero. Ma era la sensazione di un
istante, che svaniva l’attimo dopo.
Per quel Natale suo padre portò l’intera famiglia in
vacanza in una notissima località montana. Hinata si rese conto
di quanto fosse un evento più unico che raro, tuttavia non
poté fare a meno di rammaricarsi del mancato ritorno alla
cittadina.
L’estate dopo, invece, le sembrò che un masso le fosse
precipitato addosso quando suo padre le annunciò che sarebbe
dovuta andare in una casa vacanze per ragazze di buona famiglia. In
Svizzera. Per l’intera stagione.
Tuttavia un “no” non passò nemmeno per la testa di
Hinata, che non mangiò per una settimana, praticamente
sconvolta. La sua compagna di stanza si preoccupò moltissimo per
lei, tanto che alla fine riuscì a convincere i propri genitori a
mandarla nello stesso posto assieme a lei.
Già, perlomeno una grande fortuna c’era stata nella sua
vita. All’inizio, all’idea del collegio, si era consolata
pensando che perlomeno lei era rimasta nel suo Paese, mentre suo cugino
si trovava già da un anno in un istituto privato negli Stati
Uniti.
Invece ci si era trovata bene, molto bene. Soprattutto perché
aveva trovato delle amiche, una in special modo. Non aveva mai avuto
moltissimi contatti con le sue coetanee, prima d’ora, ma adesso
in un collegio femminile la cosa era inevitabile. Se ne era preoccupata
un po’ all’inizio, ma poi non ne aveva più avuto il
tempo, perché la sua compagna di stanza l’aveva investita
come un tornado fin dal primo giorno.
- Fammi indovinare, tu sei di famiglia ricca –
le aveva detto tendendole la mano, senza traccia d’astio nella
voce – Io invece no. Piacere, Ten Ten.
Ciò che le fu subito chiaro, infatti, fu che quel collegio era
in realtà una scuola molto più aperta di quel che
sembrava. Prestigiosa al massimo, ma oltre ai rampolli di buona
famiglia selezionava talenti particolari cui concedeva una borsa di
studio per tutti e cinque gli anni.
Ten Ten, ad esempio, era una grande ginnasta: aveva già vinto
parecchie gare importanti con nastro e clavette, tanto da venire
ammessa nel collegio. Sakura era riuscita addirittura a superare
l’esame d’ingresso, che secondo voci di corridoio era
difficile quanto una prova universitaria.
Ino, invece, era più o meno come lei, in quanto figlia di un
grande magnate olandese dell’industria dei tulipani. Di solito
Hinata tentennava parecchio nel paragonarsi a lei, perché a ben
guardare erano l’esatto opposto, sia fisicamente che
caratterialmente, e non avevano mai legato molto.
Con Ten Ten, invece, era nata una grande amicizia. La prima amicizia femminile della sua vita.
Tuttavia non riuscì più a tornare dove voleva lei, per un
motivo o per un altro. Il padre la spuntò ogni volta, mandandola
dove riteneva più opportuno. Quando Hinata ebbe diciotto anni
ritenne una grande concessione quella di lasciarla andare in America a
trovare il cugino. Ovviamente per tutta l’estate, così
avrebbe potuto frequentare ulteriori corsi negli Stati Uniti.
In fondo a Hinata non dispiacque, ovviamente, di rivedere Neji dopo
tanto tempo. Tanto più che il rammarico di non riuscire mai ad
ottenere ciò che veramente avrebbe voluto si era ormai
trasformato in rassegnazione passiva. Ogni volta che pensava a quella
casa, all’albero, ai quadri e ad Akamaru e… beh sì,
anche a qualcun altro, sentiva una stretta al cuore, simile alla
nostalgia più profonda. Tuttavia la realtà della vita che
la circondava cominciava a farle credere di aver vissuto solo un sogno,
bellissimo e lontano, senza più possibilità alcuna di
recuperarlo.
“In fondo sono cresciuta” si diceva “Anche se
tornassi, sarebbe cambiato tutto. Forse è meglio
così”.
Fedele alla propria filosofia di vita, ad ogni nuova delusione cercava
di convincersi che “le cose andavano meglio così”.
Forse tutto ciò non sarebbe mai cambiato se quell’inverno,
l’ultimo nella sua carriera scolastica al collegio, non fosse
accaduto qualcosa. In seguito
Hinata si era chiesta come il Caso avesse potuto essere così
tempestivo e perfetto. I mesi passati con suo cugino l’avevano
convinta che forse il destino esisteva veramente, e quella ne era stata
la prova.
In quanto giovani promesse della società, le studentesse del
collegio erano tenute ad una certa “solidarietà
sociale”, che si esprimeva perlopiù tramite feste e balli
di beneficenza, quelli che Sakura soleva definire borbottando un
“vergognoso insulto all’intelligenza femminile del
ventunesimo secolo”. Oltre a ciò, avevano anche il dovere
di tenersi aggiornate sulle evoluzioni culturali del mondo esterno-
“Che ci lascino uscire un po’, ce ne accorgeremmo da
sole!” era solita lamentarsi Ino.
Una di tali attività si era rivelata essere la visita ad una
mostra artistica di giovani talenti, le cui opere erano state
selezionate dalla più competente giuria del Paese.
- E noi che ruolo avremmo in tutto questo? –
commentò Sakura – Sembriamo le matrone di un ente di
beneficenza, mi faccio schifo da sola.
- Inutile lamentarsi – rispose Ino – Ma
pensa che saltiamo un giorno di scuola! Certo, sarebbe meglio se
fossero presenti anche gli autori di queste “opere
d’arte”: chissà, magari ce n’è qualcuno
niente male…
- Sentite, ragazze – intervenne Ten Ten –
Non so voi, ma io la maggior parte di questi quadri non li capisco.
Sarà anche arte moderna, ma mi piace di più quella
tradizionale.
Un mormorio di assenso accolse il suo commento, tranne Hinata che rimase in silenzio.
- Ehi – aggiunse Ten Ten – Perché
non andiamo a mangiare qualcosa? Ho visto un bar da qualche parte nella
sala…
- Sì, buona idea – risposero le altre.
- Hinata, tu vieni?
- Mmm… no, preferisco continuare il giro della mostra. Ci sono altre opere da vedere…
- Ma di’ un po’, ti piace questa roba?
– le chiese la sua compagna di stanza, che non aveva tanti peli
sulla lingua.
- Beh, il fatto che mi piacciano o no ha poca
importanza – rispose – Ciò che dovrei fare è
riuscire a capire cosa voleva trasmettere chi li ha fatti. Quello
che… quello che c’è dentro.
- Dentro? – le domandò Ino.
- Beh… sì – fece Hinata confusa,
chiedendosi da dove venisse quella spiegazione che le era uscita di
bocca in modo così naturale, come se l’avesse già
sentita da un’altra parte.
- D’accordo, fai come vuoi - le disse Ten Ten – Ma se ti viene voglia, raggiungici pure!
- Sì, va bene – rispose la ragazza,
tirandosi indietro i capelli scuri che in quegli anni le erano
cresciuti parecchio – Ci vediamo dopo.
Invece si rividero prima del previsto, perché Ten Ten
arrivò di corsa, tutta trafelata, prendendola per un braccio.
- Presto, Hinata, vieni a vedere! – esclamò.
- Ma cosa…
- Forza, non farti pregare!
Poco dopo l’amica riuscì a trascinarla in un altro angolo
della sala, sulla strada per arrivare al bar, in un punto dove si
trovavano già Ino e Sakura.
- Guarda! – esclamò l’amica trionfante – Non ti somiglia?
Hinata fissò il punto che le veniva indicato, che coincideva con
uno dei tanti quadri in mostra, e per un istante si dimenticò di
respirare.
Si dimenticò di respirare davanti a un dipinto che rappresentava
un giardino innevato di fronte a una casa scura, dove sul ramo
stranamente fiorito di un albero sedeva una ragazzina pallida dai
capelli corti e neri.
- Devo ammettere che questo è piuttosto bello
– stava dicendo Sakura, da qualche parte di fianco a lei –
È molto diverso dagli altri… ha qualcosa di onirico, come
un sogno.
- Guarda il titolo – intervenne Ino –
“Sogno di una notte di mezz’inverno”… bah,
scontato!
- Molto adatto, invece – ribatté Sakura
– E tu che ne dici, Hinata? Ci vedi qualcosa,
“dentro”?
Visto che Hinata non rispondeva, anzi non sembrava nemmeno aver sentito la domanda, Ten Ten insistette con la sua teoria:
- Ma insomma, ci vedete o no? Questa
ragazzina… ti somiglia moltissimo! Mi ricordo che in prima avevi
i capelli corti corti, proprio come in questo quadro. E poi gli
occhi… è pazzesco, sembra che il pittore volesse ritrarre
proprio te!
Hinata non rispose. Non ce la faceva.
Perché Ten Ten aveva ragione: quella era lei, senza ombra di
dubbio. E la casa imponente e cupa del quadro somigliava in modo
inconfondibile alla dimora Inuzuka. Perfino l’albero era lo
stesso, e il ramo aveva l’esatta curvatura di quello dove sedeva
lei.
- Dici? – fece Ino, critica – A me sembra
solo una ragazzina pallida in un giardino pieno di neve…
chissà poi chi dovrebbe rappresentare…
- È lo spirito dell’inverno…
– si sentì rispondere Hinata, in un mormorio lieve quanto
sicuro di sé.
- Spirito dell’inverno? – chiese
l’amica, scuotendo i capelli biondi – Ma se l’albero
su cui è seduta sta fiorendo…
- È un sogno - spiegò Hinata con
semplicità, come fosse la cosa più naturale del mondo -
In un sogno può avvenire qualunque cosa.
Le altre non risposero, poi Sakura si avvicinò al dipinto con aria critica.
- I fiori sembrano dipinti in modo molto dettagliato
- mormorò tra sé - Chissà se c’è un
motivo…
- Beh, magari gli piacevano semplicemente i fiori di mandorlo – ribatté Ino.
- Mandorlo?
- Sì, sono fiori di mandorlo. Ne sono sicura.
Se c’era un argomento in cui Ino era decisamente più
ferrata di Sakura questo era, oltre alla moda, il mondo vegetale. Era
in grado di riconoscere fragranze, petali e foglie con precisione
assoluta. “Deformazione di famiglia”, era solita dire.
Anche quella volta nessuno mise in dubbio le sue parole, malgrado il
fatto che una di loro avrebbe potuto confermarle senza alcuna
esitazione, ma per motivi che preferiva mantenere segreti.
Hinata non aveva mai dimenticato. E ora aveva la certezza che nemmeno qualcun altro l’aveva fatto.
Era lì che lo ammirava, per l’ennesima volta in quella
giornata. Se l’era sistemato sul letto, appoggiato alla parete, e
continuava a rimirarlo senza sosta, cogliendone sempre nuovi
particolari.
Il bianco usato per i suoi occhi non era immacolato quanto quello
utilizzato per la neve: doveva esservi stato mescolato un po’ di
grigio, perché aveva una sfumatura vagamente perlacea.
La linea dell’albero era delicata, sinuosa, mentre i tratti che
rappresentavano la casa avevano un che di pesante, angoscioso. Come un
gioco di contrasti tra il bianco della neve e il nero delle pareti,
l’inverno del giardino e la primavera del ramo.
Più lo guardava, e più a Hinata sembrava di entrarci
dentro. Sakura aveva ragione, c’era qualcosa di incredibilmente
onirico… e se tale atmosfera da sogno aveva colpito lei,
personificazione della Ragione, significava che l’autore era
riuscito nel proprio intento.
Anche lei era riuscita nel suo, quando aveva chiesto agli addetti alla
mostra chi fosse l’autore del dipinto. Le avevano detto quel nome
e quel cognome che già intimamente conosceva, rendendola felice
come non mai.
E quando suo padre le aveva chiesto se desiderava qualcosa come regalo
di fine scuola… beh, per una volta non aveva avuto né
dubbi né tentennamenti. Gli aveva esposto la sua richiesta con
voce limpida e cristallina, chiedendogli anche se fosse possibile fare
l’acquisto senza che si venisse a sapere il vero nome
dell’acquirente. Sebbene un po’ sorpreso, Hiashi Hyuuga
l’aveva accontentata, procedendo all’acquisto tramite il
direttore di una sua società, intestando quindi l’assegno
a nome suo.
La settimana dopo, alla fine degli esami, il dipinto si trovava già nella stanza di Hinata.
Era tornata, finalmente. Dopo un’assenza di cinque anni, sua
madre aveva finalmente sentito nostalgia della tranquillità di
quella cittadina, e ci erano tornate lei e le due figlie. Il marito si
trovava da qualche parte in viaggio d’affari, come sempre.
Hinata sentì a un tratto di capire ciò che doveva aver
provato Heidi tornando sulle Alpi. Una felicità così
intensa da farti soffocare, tanto che si era ritrovata a fare un salto
a casa Aburame, a trovare il suo vecchio amico Shino.
Non era cambiato: si trovava sempre chino sui suoi libri di insetti,
anche se si era fatto più alto e più simile al padre, e
l’aveva salutata come se si fossero lasciati il giorno prima.
Forse parlava un po’ di più ora, cosa che a Hinata non
dispiaceva affatto.
Ma il giorno dopo si era svegliata di buon mattino, aveva indossato un
vestito leggero di cotone blu ed era uscita. Il fatto che la canicola
estiva fosse scomparsa per un po’ e che un venticello fresco
accarezzasse erba e fiori non fece che aumentare il suo coraggio.
Di buon passo attraversò la cittadina, stavolta passando per le
strade frequentate, salutando chi la riconosceva ancora dopo cinque
anni.
Una ventina di minuti dopo, era arrivata.
D’istinto andò verso il punto che meglio conosceva, e sospirò di sollievo nel vedere che nulla era cambiato.
Guardò il muro da sotto in su. L’edera vi si arrampicava
ancora e le fronde del mandorlo, fitte di foglie, erano quelle di
sempre. Tuttavia Hinata sapeva che non avrebbe mai più potuto
passare di nuovo per di lì: non solo perché il suo corpo
si era fatto più alto, più femminile, i suoi fianchi
più larghi. Ma soprattutto perché era giusto che
quell’incursione avventurosa e forse poco ortodossa appartenesse
al passato, ad un’infanzia ormai conclusa. E si diresse decisa
verso il cancello.
Fece appena in tempo a suonare il campanello che un enorme molosso
arrivò di corsa, quasi latrando. Una minacciosa montagna di pelo
color panna che aveva tutta l’intenzione di tenere lontana dalla
proprietà quella sconosciuta dai capelli lunghi. Hinata fece un
passo indietro, spaventata, ma non ebbe il tempo di pensare di correre
via che la situazione inaspettatamente si ribaltò: giunto in
prossimità del cancello il cane si era seduto, scodinzolando
felice con quella coda che avrebbe potuto spolverare un comò,
nella gola un uggiolio sommesso e quasi implorante.
Hinata spalancò gli occhi, sbigottita. Dopo qualche istante mormorò:
– Akamaru…
A quel nome il cane si alzò, spingendo speranzoso il muso contro il cancello.
La ragazza, cercando di non pensare che avrebbe tranquillamente potuto
staccarle un dito con un morso, allungò la mano oltre le sbarre
scure, fino ad incontrare il pelo morbido e caldo del cagnone,
iniziando a grattargli il mento.
– Mi hai riconosciuta… - sussurrò felice.
Poi sembrò riprendere confidenza, perché mormorò:
– Non credo passeresti ancora attraverso il vecchio buco… chissà se te ne ricordi...
Mentre Hinata era impegnata a prodigarsi in coccole verso il suo
vecchio amico, qualcun altro era uscito a vedere cosa diavolo stesse
succedendo. Aveva sentito il campanello suonare e udito Akamaru
abbaiare, ma ad un certo punto i latrati del cane si erano
misteriosamente zittiti. Era una cosa che non accadeva mai, perlomeno
finché l'estraneo era fuori dal cancello. Oltretutto non gli
sembrava di aver chiamato il ragazzo delle consegne, e non capiva
perché mai qualcuno dovesse venire fin lì.
La scena che gli si presentò davanti gli fece decisamente
strabuzzare gli occhi: una sconosciuta dai capelli neri stava
accarezzando Akamaru da dietro il cancello, china su di lui. Kiba non
l'aveva mai visto dare tanta confidenza a qualcuno che non fosse lui.
Tuttavia, quando la “sconosciuta” alzò gli occhi,
rimase basito nel riconoscerla. Per un attimo si bloccò,
immobile, e ad essere sinceri nemmeno Hinata aprì bocca. Quando
finalmente il padrone di casa si decise a parlare non la salutò,
ma disse soltanto:
– Ora ti apro – per poi sparire di nuovo in casa.
Hinata entrò, seguita fedelmente da un Akamaru in brodo di
giuggiole, e nel tragitto fino alla porta d'ingresso diede un veloce
sguardo al giardino. È vero che i ricordi sono sempre migliori
della realtà in sé, ma era sicura che cinque anni prima
piante e fiori non fossero tanto trascurati. Da dove si trovava lei non
riusciva a vedere il mandorlo, ma sperava ardentemente che stesse bene.
Giunta di fronte alla porta si ritrovò davanti Kiba, e rimase
per un istante interdetta. Lei ricordava un giovane che era poco
più di un ragazzo, ma quello... era un uomo fatto. Per un attimo
si chiese se avesse fatto bene a tornare lì.
– Beh, non restare lì... entra –
disse Kiba scompigliandosi nervoso i capelli, decisamente a disagio
quanto lei.
Quando Hinata mise piede in casa, pensò che era proprio come se
l'era sempre immaginata: grande, solenne, scura e dai mobili
incombenti. Lei stava decisamente molto meglio in giardino.
– Vieni – continuò lui, guidandola
in una stanza piuttosto grande con divani rossi, tappeti e un tavolo
rotondo accanto ad un'ampia finestra – Siediti pure.
Quando Hinata si fu accomodata senza aver detto ancora una parola, lui
si fermò un attimo con una mano fra i capelli e l'altra
sistemata su un fianco, come indeciso sul da farsi.
– Devo offrirti qualcosa? - chiese, a lei o a se stesso – Sì, sì, ti offro qualcosa.
Si diresse verso quella che doveva probabilmente essere la cucina, sparendo qualche istante, per poi ricomparire e chiedere:
– Che cosa vuoi?
– Io... s-sto bene così, grazie – rispose lei impacciata.
– Non avrai mica ripreso a balbettare, vero?
– fece lui, mentre l'ombra del solito, vecchio, rassicurante
ghigno si ripresentava per un attimo sulle sue labbra – Avanti,
bevi qualcosa.
Quel sorriso bieco sembrò metterla a proprio agio, come se per
un istante un'eco di cinque anni prima avesse fatto la sua comparsa.
– Beh... una tazza di tè andrebbe bene, allora – disse.
– Uhm... tè, dici? Sì, dovrei averne – e sparì nell'altra stanza.
Dopo una manciata di minuti Kiba ricomparve, portandosi di fronte a
lei, dall'altra parte del tavolo, e appoggiando le mani su una sedia.
– Ho messo a bollire l'acqua – la informò – Non dovrebbe metterci molto.
Hinata annuì, e calò il silenzio.
– Però – provò a dire
– Ci vorrà qualche minuto, magari non c'è bisogno
di stare in piedi ad...
– Sì, hai ragione – la interruppe lui, inforcando la sedia e accomodandosi.
– Allora... - tentò poi – Da dove salti fuori?
– Siamo tornati nella casa che abbiamo qui – rispose lei – Per quest'estate.
– Ah, capisco... - fece Kiba, lanciando uno
sguardo distratto fuori dalla finestra, e ghignando come se un pensiero
improvviso l'avesse colpito – ...e com'è che sei entrata
dal cancello?
Hinata arrossì, tuttavia compiaciuta dal fatto che lui
ricordasse così bene quello che faceva, e sollevata che il
vecchio ghigno si ripresentasse regolarmente sul suo volto.
– Forse... forse sono un po' troppo cresciuta
per arrampicarmi ancora – spiegò – magari il ramo
non sostiene più nemmeno il mio peso...
– Mmm... può darsi –
commentò lui, dandole un'occhiata dal collo in giù senza
farsene accorgere – Ma non si sa mai.
– Come... come sta? - ritentò lei, schiarendosi la voce.
Stavolta il viso di Kiba si illuminò completamente, dagli occhi
agli angoli della bocca, e alzando un sopracciglio ribatté
sbalordito:
– Ehi, ragazzina! Mi stai dando del lei?
Hinata arrossì di botto, non sapendo come comportarsi:
– Beh, ecco... i-io pensavo...
– Mi credi già così vecchio?
Guarda che non sono ancora decrepito! E tecnicamente, visto che sei
maggiorenne anche tu, dovrei darti del lei anch'io.
– Ma no, no... non c'è alcun bisogno! - si affrettò ad assicurare Hinata.
– Bene, quindi non vedo che motivo ci sia perché lo faccia tu con me.
– D'acc...
Furono interrotti dal fischio della teiera, che aveva probabilmente compiuto il proprio dovere.
– Scusami un attimo – fece Kiba, alzandosi e andando nell'altra stanza.
Mentre lui era di là, Hinata ebbe il tempo di respirare a fondo
e cercare di calmarsi un po'. Si sentiva leggermente a disagio a
parlare con un uomo, erano secoli che a parte i professori e i propri
parenti non vedeva nessuno. Però si stava rendendo conto che in
fondo il suo carattere non era cambiato, quindi non c'era nulla di cui
preoccuparsi, no?
Quando Kiba tornò e, un po' impacciato, le mise davanti una
tazza piena fino all'orlo, Hinata alzò la testa per
ringraziarlo, come dettavano le buone maniere.
– Grazie – disse in fretta, guardandolo
educatamente in viso, e si costrinse a continuare a farlo anche quando
la labbra di lui si distesero in un breve sorriso.
Mentre tornava al proprio posto e si versava un po' di birra presa da
una bottiglia appena aperta, Hinata ebbe il tempo di osservarlo senza
farsene accorgere. La luce che filtrava tra gli alberi ed entrava dalla
finestra rendeva i suoi lineamenti ancora più aspri di come si
erano fatti negli ultimi cinque anni. Marcati, ben definiti, con gli
occhi allungati e le labbra sottili. Nel complesso somigliavano quasi
al muso selvatico di un lupo, ma non le dispiacevano. Anzi.
– Di', la verità, stai cercando qualche
ruga – commentò lui alzando la testa dal proprio
bicchiere, apparentemente intento a contemplare la birra, mentre
l'aveva tenuta d'occhio tutto il tempo – Guarda che sei cresciuta
anche tu, la differenza d'età che abbiamo è sempre la
stessa.
– Sì, lo so, però è strano – ammise sinceramente Hinata.
– Strano cosa? Essere di nuovo qui?
Lei annuì, cercando di spiegarsi meglio:
– Sì, ed entrare in casa, rivedere Akamaru, sedersi qui...
– A proposito di Akamaru! - fece lui, come se
gli fosse appena venuta in mente una cosa – Hai visto
com'è cresciuto? Che ti avevo detto?
– Già, l'ho notato – rispose lei sorridendo – E si è ricordato di me.
– Lui non ti ha mai dimenticata. Pensa che
quando sei partita è rimasto per due settimane sotto il
mandorlo, guaiva dalla mattina alla sera. Non riusciva a capire
perché non tornassi più.
Quella rivelazione fu per Hinata come una stilettata al cuore.
– Mi dispiace, io...
– E all'inizio di ogni estate ci tornava,
guardando il ramo come se si aspettasse di vederti da un momento
all'altro. Scodinzolava, perfino!
– Io... non lo avrei mai immaginato. Volevo tornare, ma... ci sono state altre cose...
Kiba fece un gesto con la mano, come a voler cancellare le sue scuse.
– Non diciamo sciocchezze, per favore –
intimò secco, forse a entrambi – Tu avevi la tua vita da
vivere.
– Sì, ma... - Hinata non poteva fare a
meno di sentirsi profondamente in colpa. Oltretutto pensando a tutte le
volte in cui aveva desiderato di tornare lì: se avesse saputo
che qualcuno la stava aspettando con altrettanta ansia, avrebbe cercato
di tornare a qualunque costo – Mi dispiace...
Sentì una mano posarsi inaspettatamente sulla sua testa e arruffarle i capelli.
– Ehi, piccola, su con la vita – si era
sporto un po', arrivando col braccio dal suo lato – Non è
mica morto nessuno. Quello sì sarebbe grave.
Hinata alzò la testa, sorpresa e un po' arrossita. Quando lui si
rese conto di ciò che aveva fatto, ritirò in fretta la
mano.
– Oh, scusa – borbottò – Mi sono dimenticato che non sei più una bambina...
– Non fa niente – rispose lei, sorridendo.
Poi, dando un'occhiata fuori dalla finestra, si rese conto di quanto
tempo era passato. Finì di malavoglia il suo tè e disse:
– Devo andare, ho promesso a mia madre che le
avrei dato una mano a scegliere l'arredamento nuovo – si
zittì subito, ma le era scappato.
Kiba si mise a ridere.
– Ah, io non ho di questi problemi! - proruppe,
alzandosi - Questa roba è qui da non so quanto tempo, nessuno si
è mai preso la briga di cambiarla! Men che meno io!
Hinata sorrise a sua volta, seguendolo fino all'ingresso.
Guardò la sua mano aprire la porta, poggiando le dita sulla
maniglia, e lo osservò mentre si spostava per farla passare.
All'ultimo momento fece appello a tutto il suo coraggio, quello che le
aveva permesso di arrampicarsi la prima volta sul muro, e disse d'un
fiato:
– Posso tornare?
Kiba rimase decisamente sorpreso da quella richiesta. Non fece in tempo
a rispondere che un latrante Akamaru entrò praticamente in casa
per buttarsi su di lei.
– Ehi, orso, fa' piano! Guarda che non sei
più un'innocua palla di pelo! - esclamò, cercando di
spingerlo indietro perché Hinata non cadesse sotto il suo peso.
Sperava che non l'avesse spaventata, invece la trovò che rideva
di gusto, incapace di trattenersi. Al che lui, senza pensare, disse di
getto:
– Puoi venire quando vuoi. Anche perché
rischio che questo bestione scavalchi il muro o butti giù il
cancello, pur di riuscire a trovarti.
Hinata, cercando di riprendere a respirare, rispose raggiante:
– Allora verrò. Sono in debito di cinque anni con lui!
Mi sono emozionata tantissimo nello scrivere questa parte della storia, come se al posto di Hinata ci fossi io! ; v ;
Sono rimasta davvero sorpresa dal
calore con cui è stato accolto l’ultimo capitolo. Davvero,
non me l’aspettavo: grazie di cuore!
kibachan:
sono davvero contenta che per il momento ti piaccia! Sul serio, se non
avessi letto “verità velate” non mi sarebbe mai
venuto in mente di scrivere una kibahina!
Anch’io all’inizio non
leggevo molto le AU- figurarsi scriverle- poi ne ho scritta una per un
contest e non mi sono più fermata! Ho cominciato ad apprezzare
il fatto che, essendo “Naruto” ambientato in una specie di
mondo a sé, trasferire i personaggi nel mondo reale permette di
analizzarne la psicologia in moltissimi modi, rendendoli quasi
“veri”. E così nacque il mio amore per le AU…
Ho voluto rendere Kiba più
grande per aumentare ancor più la distanza che li separa- a
livello di carattere, di mondo, di vita- ma anche per dare forse un
input in più. Se Hinata non fosse stata solo una ragazzina,
probabilmente non sarebbe mai riuscita ad avvicinarsi a lui,
perché una bambina non viene percepita come una minaccia…
ma come hai visto da questo capitolo, le cose iniziano a cambiare!
Mi ha quasi commossa il paragone con i vecchi film con le dissolvenze... ; v ;
Aurychan: certo che la storia continua! Tranquilla, ci sono ancora un po’ di capitoli prima di arrivare alla fine…
Clahp:
eh, sì. Una storia d’amore, soprattutto all’inizio,
non può che essere lenta, tanto lenta che nessuno si accorge che
cosa sta succedendo. E poi... pam!
Va bene, al di là del
“pam”, adesso le cose iniziano a muoversi, perché i
tempi sono cambiati. Un certo periodo è passato, e ne è
iniziato un altro.
Hai ragione, forse quel passaggio su
Hinata e Hanabi si sarebbe potuto ampliare, ma ho preferito lasciarlo
quasi “accennato”, quasi sfumato… non so
perché, ma mi piaceva di più così (che
spiegazione, eh?).
E certo che continuerò a
leggere la tua fic, il parallelo Simba-Shikamaru mi intriga moltissimo!
E poi metti i cervi! *w*
Niggle:
penso anch’io che l’estate e la lentezza vadano
d’accordo… perché d’estate ci sono meno
impegni, e il tempo di fare tutto con la dovuta calma... (sono una
grande estimatrice dell’estate, lo ammetto).
Dryas:
se ti piace “La Bella e la Bestia” aspetta un paio di
capitoli. Vedrai che salterà fuori più di un riferimento!
^^
Talpina Pensierosa: sono contenta che la storia ti piaccia!
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Capitolo 5 *** Un passo indietro ***
5- Un passo indietro
Un passo indietro
–
Dipingi ancora? - chiese Hinata, mentre passeggiavano per il
giardino con il cane che correva continuamente avanti e indietro, prima
ad inseguirli e poi ad aspettarli.
– Mah, a volte... - rispose distrattamente
Kiba, arruffandosi i capelli – Comunque non dipingo più la
casa, di quei quadri ne avrò fatti a centinaia!
– Non li hai bruciati, vero? - chiese lei
preoccupata, ma si tranquillizzò quando il suo interlocutore
scoppiò in una risata che somigliava a un ululato.
– No, tranquilla! - esclamò – Ci
sono tutti, da qualche parte in soffitta! Ma dovrò decidermi a
farlo questo falò, prima o poi.
– E... - che doveva fare? Doveva dirglielo che
uno dei suoi quadri l'aveva lei? - ... hai dipinto qualcosa che valesse
la pena...?
– Uhm, no – ribatté Kiba –
Sai, probabilmente l'arte non fa per me. Un'ispirazione vera e propria
non mi è mai venuta, quindi ho lasciato perdere. Penso di aver
fatto un favore a tutti.
Hinata non rispose, piuttosto sorpresa. Ma come? Perché le stava
mentendo? Aveva dipinto un quadro splendido non molto tempo fa,
sicuramente dovevano essercene degli altri. Comunque non insistette,
pensando che doveva avere i suoi motivi per non dirle la verità.
Anche se non capiva quali.
– Lo porti fuori qualche volta? - chiese, cambiando discorso e accennando ad Akamaru.
– Sì, di sera, ogni tanto – borbottò lui – Facciamo un giro qui intorno...
– E di giorno no? - domandò Hinata, un po' stupita.
– No, non vorrei che la gente si spaventasse,
dato che è così grosso, e che mi ordinassero di mettergli
la museruola... sai com'è...
Veramente Hinata non sapeva “come fosse”, ma non
indagò oltre. Qualcosa le diceva che Kiba stesse facendo di
tutto per evitare certi discorsi. Ma in fondo non erano affari suoi,
no? Che diritto aveva di ficcare il naso?
Tuttavia l'attimo dopo si dimenticò all'istante di tutte queste
domande. Aveva visto qualcosa che la fece sorridere di riflesso, come
se la stesse aspettando a braccia aperte.
– È ancora uguale! - esclamò
commossa. Averne visto le fronde dalla base del muro era stato bello,
ma vederlo nella sua interezza… beh, era tutta un’altra
cosa.
– Beh, è un albero. Non si sposta, non
scappa e cresce piuttosto lentamente. Cosa doveva cambiare? - la
schernì Kiba, che non riuscì comunque a non sorridere
quando la vide correre verso il mandorlo e appoggiarvi una mano sul
tronco, emozionata.
– Sono... sono contenta – mormorò Hinata, incapace di trattenersi – Sono contenta...
Si era girata un attimo verso di lui, ma poi tornò a rivolgersi
all'albero, con Akamaru che le trottava intorno con la sua stazza da
vitello.
Kiba rimase a guardarli, serio e immobile. Si sentiva come se qualcuno
gli avesse messo una mano all'altezza del cuore e avesse stretto forte.
Avrebbe tanto voluto tenerla lì. Non lasciarla più uscire
da quel cancello, come non ci era più uscito lui. Lo spettacolo
che gli si presentava davanti era il solito di sempre: gli alberi, il
giardino, Akamaru, la casa e ciò che conteneva. Ma erano come
una cornice vuota, senza alcun motivo d'esistere. E con lei dentro,
tutto acquistava un senso. Perché doveva andarsene?
L'Inuzuka si portò una mano alle tempie, massaggiandole e
chiudendo gli occhi. Ma che diavolo andava a pensare? Forse stava
impazzendo sul serio. Magari era stato solo il fatto che qualcuno
avesse suonato alla sua porta e fosse entrato in casa a scombussolarlo
così.
– Va... va tutto bene? - sentì una voce
dolce accanto a lui, e si sorprese di non averla sentita avvicinarsi.
– Sì, è solo un po' di mal di
testa – mentì – Sai, a una certa età capita...
La vide sorridere leggermente, con i capelli che le incorniciavano il viso e formavano un'onda morbida sulle spalle.
– Non credo che trentun anni si possano
definire “una certa età” - osservò –
Altrimenti mio padre cosa dovrebbe essere?
Ormai era andata a trovarlo tre o quattro volte. Avevano parlato di
tante cose, lei gli aveva raccontato del collegio e di ciò che
aveva fatto, dei posti orribili dove l'avevano mandata d'estate, a
parte il viaggio in America da suo cugino. Qui gli aveva raccontato chi
era e cosa studiasse, e che tipo di persona fosse.
Le sembrava di non aver mai parlato tanto come in quelle poche ore.
Kiba rimaneva ad ascoltarla senza mai interromperla, seduto sotto un
albero o con un bottiglia di birra in mano. Di sé aveva detto
poco o nulla, e anche di domande ne faceva poche. A Hinata sembrava
strano andare così a briglia sciolta, quando di norma
l'ascoltatrice era sempre stata lei, e di quando in quando si
interrompeva, scusandosi di essere così chiacchierona. Lui
scuoteva la testa, mandando giù un sorso di birra e commentando:
– Scherzi? Guarda Akamaru: quando parlo io fa
una gran confusione, invece con te è tranquillo come un agnello.
Continua pure, così me lo calmi un po'.
Allora Hinata arrossiva, lui le chiedeva ancora qualcosa e lei
ricominciava a raccontare. Spesso Akamaru teneva la testa sulle sue
ginocchia, riempiendole di peli il vestito, ma non le importava.
Quando usciva da quel cancello alto e nero, già non vedeva l'ora di tornare.
– Ehi, hai sentito? Sembra che anche questo
buco abbia i suoi misteri! - esclamò Hanabi tirando fuori una
bottiglia ghiacciata dal frigo.
– In che senso? - le domandò Hinata,
alzando la testa dal libro che stava leggendo – Stai attenta, fa
male berlo così freddo.
– Guarda che ho lo stomaco d'acciaio. E poi fa
un caldo infernale – ribatté la sorella, svitando il tappo
e mandando giù un sorso di tè. Poi poggiò i gomiti
sul bancone della zona cucina e strinse gli occhi, come fosse in
procinto di rivelare chissà quale segreto – La
“Bestia” non è ancora uscita.
A Hinata mancò un battito. Si impose di rimanere calma e di non
guardare sua sorella negli occhi, perché si sarebbe accorta
subito che qualcosa non andava.
– Cosa vuoi dire? - chiese, fingendo che la cosa non le stesse troppo a cuore.
– Ma sì... tu non lo sai, immagino, e
fino alla settimana scorsa non lo sapevo nemmeno io. Comunque sembra
che l'ultima volta che siamo state qui avessero mandato un assassino a
scontare gli arresti domiciliari a casa sua. Lo chiamavano la
“Bestia”.
Hinata non disse nulla, cercando di controllare il respiro.
– Dicono abbia scontato la pena –
proseguì Hanabi – ma che non sia più uscito di
casa. Chiama qualcuno solo quando ha bisogno che gli portino la spesa o
che gli puliscano la casa. O almeno una parte. Che storia, eh? E
proprio qui, in questo buco noioso dove non succede mai niente.
– Chi te l'ha raccontato? - indagò
Hinata, attenta che la sorella non si accorgesse quanto la cosa la
interessasse.
Ma Hanabi non le badò, abbassando la testa finché i capelli non le coprirono una parte del viso.
– Mmm... Konohamaru – confessò
– Dice che le pettegole non parlavano d'altro, cinque anni fa, ma
che adesso la cosa è come un tabù. Quel tizio fa paura,
confinato là dov'è, e dicono abbia una bestia feroce a
fare la guardia alla tenuta. Hanno paura che se la cosa si venisse
troppo a sapere la gente non verrebbe più.
“E così, gira ancora Konohamaru” fu la prima cosa
che Hinata inconsciamente pensò. Poi Hanabi uscì e lei se
ne rimase lì, col libro abbandonato sul tavolo e i pensieri che
turbinavano come impazziti. Possibile?
Possibile che fosse così? D'accordo, era difficile integrarsi in
una comunità che per principio non ti voleva più, ma da
qui a non uscire mai di casa... e nessuno che andava mai da lui, se non
chiamato per qualche incombenza. Non fosse stato così pieno di
soldi, l'avrebbero ignorato anche per queste cose, Hinata ne era sicura.
Non ci voleva credere, ma una parte di lei si stava convincendo che
fosse tutto vero, mentre ogni tassello andava al suo posto. Il giardino
incolto, la casa cupa e scura le cui finestre non venivano quasi mai
aperte, Akamaru che veniva portato a spasso “solo la sera, per
non spaventare nessuno”...
Era così, era tutto vero.
Per un po' non riuscì ad alzarsi, sentendo la pelle sudata per
il caldo stranamente in contrasto con il freddo che le attanagliava le
viscere. Non era paura, quella che sentiva, ma solo una grande
tristezza. O almeno così credeva.
Il giorno dopo era tornata a trovarlo, non sapendo ancora cosa gli
avrebbe detto. Avrebbe dovuto parlargliene? Dirgli che sapeva tutto,
chiedergli il perché? Non era sicura che ne avrebbe avuto il
coraggio.
E il poco che aveva venne meno non appena il cancello si aprì e
Akamaru le si fiondò addosso, poggiandole le zampe sulle spalle
e leccandole la faccia.
Kiba corse subito a salvarla, mentre lei si chiedeva perché
diamine le cose dovessero complicarsi sempre in quel modo, anche quando
erano così semplici.
Tuttavia le brutte sorprese non erano finite, perché trascorso
il pomeriggio e giunto il momento di andarsene, Kiba si fece serio. Ci
aveva pensato a lungo, ed era meglio dirglielo subito.
– Senti, è meglio che non torni
più – le disse, senza tanti giri di parole – Un
conto era quando eri una ragazzina che se ne andava in giro a giocare.
Ma ora potrebbero nascere delle brutte voci, che ti farebbero solo del
male. Non sei più una bambina.
Hinata non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito. Fu
come una doccia gelata, che le piombò addosso brutale come le
parole di sua sorella il giorno prima.
– Ma... m-ma perché? - balbettò confusa.
– Te l'ho appena detto – rispose lui,
paziente – Meglio che la finiamo qui prima che ti veda qualcuno.
Sarebbe solo un rischio, per te e per la tua famiglia.
Aveva capito. Sì, aveva capito, ma non era giusto. Tuttavia Kiba
sembrava veramente deciso, e a lei non restava altro da fare che
obbedire.
Però una cosa voleva saperla, una sola.
– È vero... - cominciò,
vergognandosi profondamente di ciò che stava per dire - ...
è vero che non esci mai di qui? Che stai da solo tutto il tempo?
– Quindi qualche voce ti è già
arrivata – fece lui, i lineamenti leggermente più duri
– Beh, un motivo in più per starmi alla larga, non credi?
Magari sono solo un pazzo malato.
– Ma... perché? - mormorò ancora Hinata con un filo di voce.
– Non tornare. Per favore.
Hinata si voltò e si incamminò verso il cancello, le
orecchie che fischiavano. Akamaru sembrava aver capito che qualcosa non
stava andando come al solito, perché non le corse dietro
facendole le feste ma se ne rimase seduto accanto al suo padrone,
limitandosi ad uggiolare piano.
La via del ritorno le parve più lunga che mai.
Non riusciva a pensare a niente, mettendo un piede davanti all'altro,
mentre una sensazione di solitudine opprimente si faceva strada dentro
di lei. Stava iniziando a capire che cosa dovesse significare vivere in
un universo fatto di metri quadri limitati, un passato tetro e
incombente e il disprezzo totale di chi avrebbe dovuto starti
più vicino.
Non c'era da stupirsi che a trentun anni la vita ti sembrasse già prossima alla fine.
Per il prossimo capitolo, fatemi un
favore. Andate a rivedervi il film Disney de “La Bella e la
Bestia”. Vedrete che servirà.
Dryas:
la cosa che mi rende più felice è sapere che tutto quello
che ho provato scrivendo è arrivato, emozionando anche chi
legge. ^^ Grazie, la faccenda del quadro è davvero una
delle più originali che mi sia mai venuta. Lo riconosco
anch’io, ma se provo a pensarci non riesco a ricordarmi come ha
fatto a saltare fuori. È solo che, costruendo la storia pian
piano, è arrivata da sola, come la conseguenza più ovvia.
Aurychan:
scherzi? Falle lunghe quanto vuoi, le recensioni! ^^ Ti ringrazio,
è bello sapere di essere riuscita a coinvolgerti così.
kibachan:
aspetto sempre con ansia le tue recensioni. Sono contenta perché
hai colto esattamente quello che ho provato anch’io quando ho
scritto del salto temporale. Da una parte ero contenta perché la
storia stava andando avanti, il rapporto evolvendosi, ma
dall’altra mi dispiaceva moltissimo perdere quella dimensione
così particolare dell’inizio. Come un’avventura
dell’infanzia, che è finita e non torna più.
Insomma, quando le cose cambiano è sempre un po’
malinconico…
Davvero ti è piaciuto il quadro? Mi fa piacere!
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Capitolo 6 *** Cose da bambine ***
6- Cose da bambine
Fate una cosa, per piacere. Come favore personale a me. Andate a riguardarvi il film de “La Bella e la Bestia”.
E poi venite a leggere questo capitolo.
Cose da bambine
Hinata
trascorse i due giorni successivi in un'apatia quasi completa,
limitandosi ad alzarsi dal letto e a mangiucchiare qualcosa quando
proprio doveva. Non fece nemmeno lo sforzo di cercare di capire perché si
sentisse così- in fondo, a guardare da fuori, cosa c'era di
tanto terribile nel non poter tornare alla casa di un misantropo dal
cane enorme che aveva conosciuto per caso un'estate, quando era ancora
una ragazzina? Che razza di rapporto era? Faceva acqua da tutte le
parti.
Tale orribile stato d'animo
sembrava dover durare tutta l'estate, ma un pomeriggio presto la
cameriera venne ad avvertirla che qualcuno era venuto a trovarla.
In preda ad una tachicardia
dalle cause poco chiare, Hinata si precipitò giù
nell'ingresso, dove rimase non poco stupita nel ritrovarsi davanti Ten
Ten.
–
Ehi, cos'è quella faccia? - esordì lei – Ci
eravamo messe d'accordo che a metà luglio sarei venuta a
trovarti, ti ricordi?
L'espressione di Hinata doveva essere fin troppo eloquente, perché l'amica sbuffò:
– Ma come? Te ne eri dimenticata? Quindi faccio la figura della scroccona che si è auto-invitata?
A questo punto la padrona di casa ricordò le buone maniere e si riscosse:
– No, no, tranquilla. Certo che me lo ricordavo. Sono... sono molto contenta di vederti!
– Uhm... non si direbbe, sai?
– Ma no! - Hinata fece un sorriso forzato – Vieni di sopra. Ti mostro la camera degli ospiti.
–
Non mi convinci, sai? Comunque va bene! - ribatté Ten Ten
agguantando la propria valigia e seguendola su per le scale.
Dopo che ebbe sistemato un po' del bagaglio, la ragazza si mise le mani sui fianchi e le domandò:
– Allora? Che cosa facciamo?
– Uhm... beh... - Hinata era un po' in difficoltà – Ti va una passeggiata?
– Ma sei sicura di stare bene? - le chiese l'amica, squadrandola diffidente.
– Certo, non preoccuparti. Andiamo?
– Sì, d'accordo – rispose Ten Ten, ancora poco convinta.
Arrivarono fino alla
piazza, dove si fermarono a prendere un gelato nel locale principale.
Non appena vi misero piede dentro, Hinata si ricordò che
l'ultima volta era stata lì con Hanabi, ben cinque anni prima.
Stavolta dietro al bancone c'era solo la proprietaria, con qualche ruga in più ma in buona salute.
–
Oh, guarda chi si rivede! - esclamò – Avevo sentito
dire che gli Hyuuga erano tornati... allora è proprio vero!
– Ehm... già – rispose Hinata, mentre Ten Ten ordinava il proprio gelato.
Mentre la donna serviva la
sua amica, Hinata pensò che non l'aveva guardata in modo
particolarmente interessato. Certo, era sempre la figlia maggiore degli
Hyuuga, una delle famiglie più ricche che avessero mai
acquistato una casa in quella cittadina, ma la curiosità nei
suoi confronti si limitava al fatto che costituisse la novità di
quell'estate. A quanto sembrava, non le era giunta alcuna “brutta
voce” riguardo a lei.
– Hinata, tu cosa vuoi? Ehi, Hinata! Ci sei? - la chiamò Ten Ten.
– Cosa? Oh, sì... una coppetta panna e fragola, grazie.
Quando uscirono con i loro
gelati, le cose iniziarono lentamente a migliorare. Ten Ten si rendeva
conto che qualcosa non andava, ma in fondo era la prima volta che si
vedevano a casa di una delle due, magari era la situazione un po'
diversa dal solito a scombussolare la sua amica.
Decise quindi di non farci
caso e di scherzare come al solito, cosa che fece solo del bene a
Hinata. Per tutto il resto del pomeriggio gironzolarono nella canicola
estiva, andando in qualche negozio o costeggiando i campi più
esterni alla cittadina, e ben presto il clima si alleggerì. La
spensieratezza di Ten Ten- specialmente ora che tutti gli esami si
erano conclusi- la condizionò, e al ritorno a casa stava ridendo
di gusto ad un racconto dell'amica su uno dei suoi tanti cuginetti.
Persino a cena
mangiò come non faceva da due giorni, scoprendo di avere una
gran fame, e per una volta l'atmosfera a tavola fu piuttosto allegra,
quasi familiare. Suo padre
ovviamente non c'era, ma Ten Ten riuscì in qualche modo a
conquistare anche Hanabi, cosa niente affatto semplice.
Si erano già fatte una doccia e infilate un pigiama leggero a maniche corte, che Ten Ten disse:
–
Scusa se ti costringo a rimanere a casa. È che è
stato un viaggio lungo, e non ce la farei a uscire anche stasera.
– Oh, non preoccuparti! - la rassicurò Hinata – Tanto non esco mai.
– Come sarebbe a dire che non esci mai? - chiese l'altra esterrefatta - E i tuoi amici?
–
Veramente non ne ho – ammise tranquillamente Hinata –
Cioè, a dire il vero qui c'è un ragazzo della mia
età con cui vado d'accordo, ma non mi sembra il tipo che esce
molto.
– Oh, un ragazzo! - Ten Ten drizzò subito le orecchie - È carino?
–
Veramente non saprei – effettivamente Hinata non aveva mai
pensato a Shino in questi termini – Però è
simpatico. Gli piacciono gli insetti.
–
Cosa? - tale informazione aveva definitivamente annullato tutte
le fantasie di Ten Ten – Ma che schifo!
– Ma no, in fondo sono interessanti...
–
Se lo dici tu – le sembrava un po' assurdo che all'amica
stesse simpatico un insettofilo, poi si riscosse all'improvviso.
–
Senti, Hinata... - esordì, quasi in imbarazzo – Se
non sai cosa fare io un'idea ce l'avrei, ma è... come dire... un
po' sciocca.
– Dimmi pure – rispose lei – Non credo affatto che sia sciocca, trattandosi di te.
–
Io mi stupirei del contrario, trattandosi di me! - rise Ten Ten,
andando a prendere una cosa dalla propria valigia e mostrandola a
Hinata – Ecco.
– “La Bella e la Bestia”? - lesse lei, un po' stupita.
– Possiamo vederla? - chiese Ten Ten, anticipando qualunque suo commento – Ti prego, ti prego!
Hinata era decisamente sorpresa, ma non fece alcun problema.
–
Certo, in questa stanza c'è anche un videoregistratore,
assieme alla tv. Ma... posso chiederti...
–
Come mai questa bambinata? Beh, perché è una di
quelle cose che ho sempre desiderato fare!
– Scusa?
–
Ti ho già raccontato come è stata la mia infanzia,
no? Che mio padre si era fissato con le arti marziali, e invece poi
sono riuscita a convincerlo a passare alla ginnastica ritmica? - chiese
d'un fiato, mentre Hinata annuiva senza capire – Beh, i miei
primi dieci anni di vita sono stati una specie di continuo allenamento.
Ero praticamente sempre in kimono bianco ad allenarmi a judo e a
karate, non ho fatto altro per tutte le elementari.
Questa storia gliel'aveva
già raccontata, dato che erano state compagne di stanza per
cinque anni, ma a quanto sembrava c'erano dei nuovi particolari che Ten
Ten non le aveva mai svelato.
Intanto l'amica si era lanciata in un'appassionata filippica sulla propria infelice infanzia:
–
Te lo giuro, sembravo Lady Oscar! Solo senza uno straccio di
André al mio fianco, ti immagini che tristezza? - qui Hinata non
poté fare a meno di ridere – E non ho mai avuto un'amica
di quelle che si hanno da bambine, con cui si fanno tutte le cose
più divertenti.
“Beh, se è per questo nemmeno io” pensò la Hyuuga, guardandosi bene però dal dirlo.
–
Non ho mai nemmeno guardato un film a cartoni animati a casa di
qualcuno – concluse Ten Ten con voce lamentosa – E qui
entri in gioco tu: faresti la mia amica delle elementari solo per
questa sera? Guardiamo un cartone della Disney?
A questo punto Hinata si
rese conto che c'era ben poco da ridere. Se Ten Ten le rivelava questo
suo piccolo, struggente desiderio, era perché si fidava di lei a
tal punto da sapere che non si sarebbe messa a ridere, né
l'avrebbe giudicata infantile. Anche se l'amica aveva vent'anni
compiuti, cosa importava?
– D'accordo – rispose allora – Ma prima sistemiamoci bene per la notte.
E così fecero.
Stesero i sacchi a pelo estivi sul morbido tappeto in gommapiuma tirato
fuori da qualche vecchio armadio dei giocattoli e sistemarono il
televisore alla loro altezza.
–
So che è assurdo trovarsi in una casa così, con dei
letti fantastici, e dormire in un sacco a pelo – disse Ten Ten
mentre Hinata metteva dentro la videocassetta – Ma fa molto
“pigiama party”, non credi? A ben pensarci, non ho mai
fatto nemmeno quello. Ah no, aspetta, una volta alle medie!
Mentre l'amica continuava a
ricordare a voce alta, Hinata spense la luce e si sistemò col
telecomando nel sacco a pelo, mentre la ben nota musichetta della
Disney si spandeva nella stanza.
– Oh, che emozione, sta per cominciare! - sussurrò Ten Ten senza riuscire a trattenersi.
Hinata si voltò per
un momento a guardarla: nel buio, con quei codini fatti per tenere su i
capelli e non avere troppo caldo, sembrava proprio una bambina. Non
riusciva ad immaginarsela alle elementari senza un'amica con cui poter
guardare almeno un film.
Era felice che fosse
lì. Le era mancata la sua spontaneità, e quella giornata
era stata una delle più belle che avesse mai trascorso. Adesso
ci sarebbe stato un buon vecchio film, qualche chiacchiera al buio e
poi a nanna.
Invece le cose non andarono
affatto così. Forse non era destino, chi lo sa. In un certo
senso Ten Ten aveva inconsapevolmente giocato la parte del fato.
Perché, ad un certo
punto del film, qualcosa nella mente di Hinata cominciò a dirle
che tutto quello che stava vedendo era già accaduto.
Iniziò ad avere come un senso di deja vù man mano che il
film andava avanti, e non perché semplicemente lo aveva
già visto: le sembrava di aver vissuto tutto in prima persona.
L’aveva quasi dimenticato, anche se ricordava vagamente la trama, ma ora le sembrava di entrarci dentro.
Era una sensazione
stranissima, che continuò inesorabilmente a farsi strada dentro
di lei. Quando vide l’alto cancello di ferro che, assieme alle
mura, circondava il cupo castello. Quando il poggiapiedi arrivò,
abbaiante e scodinzolante, a fare le feste al padre di Belle. E quelle
parole… “Eri curioso di vedere la Bestia?”, le
fecero portare inconsciamente una mano alla bocca.
Ma il momento cruciale arrivò alla scena del ballo, nel momento in cui Mrs. Bric iniziò a cantare.
È una storia sai
Vera più che mai
Solo amici e poi
Uno dice un noi
Tutto cambia già
Li guardò mentre cenavano allo stesso tavolo, l’attaccapanni violinista che provvedeva alla musica.
È una realtà
Che spaventa un po’
Una poesia piena di perché
E di verità
Quei sorrisi, mentre si guardavano, incapaci di staccare gli occhi l’uno dall’altra.
Ti sorprenderà
Come il sole ad est
Quando sale su e spalanca il blu
Dell’immensità
La sala dorata, il soffitto
dipinto da quale si affacciavano putti curiosi. Le grandi finestre che
lasciavano vedere lo spettacolo del cielo stellato.
Stessa melodia
Nuova armonia
Semplice magia
Che ti cambierà
Ti riscalderà
Hinata non si chiese
perché ad un certo punto tutto fosse iniziato ad apparirle
sfocato, perché la grande sala da ballo si fosse trasformata in
un luccicante ed indefinito gioiello. Udiva la melodia, la sentiva
penetrarle nella pelle, nel cuore, e le sembrava di non capire
più nulla.
Quando sembra che
Non succeda più
Ti riporta via
Come la marea
La felicità
Ti riporta via
Come la marea
La felicità
Fu quando Ten Ten le chiese
con voce incerta se andasse tutto bene, che si rese conto di stare
singhiozzando senza ritegno, con le lacrime che le rotolavano
giù dalle guance senza alcun controllo. Le grosse gocce calde
avevano già bagnato un po’ il sacco a pelo.
- Hinata
– mormorò Ten Ten, prendendo il telecomando e bloccando il
film – Hinata, che cos’hai?
Dal canto suo, Hinata non
riusciva a parlare, così l’amica le mise un braccio
attorno alle spalle, carezzandole la testa come si fa con i bambini
piccoli, e rimasero così finché non si fu calmata.
- Ehi, si
può sapere cosa ti è preso? – disse piano Ten Ten,
cercando di tirarla su – Se fai così adesso, mi immagino
quando arriva il finale!
Hinata sorrise suo malgrado, asciugandosi le lacrime e cercando un fazzoletto per soffiarsi il naso.
- Scusa… - mormorò piano, la voce ancora sommessa – Io…
- Hinata,
cosa c’è? – stavolta l’amica era seria, ed
esigeva una risposta – Sono stata la tua compagna di stanza per
cinque anni, e non ti ho mai vista piangere. Nemmeno una volta, anche
se quando a giugno tuo padre ti diceva che cosa avresti dovuto fare
d’estate avevi un’aria piuttosto turbata. Ho sempre
lasciato perdere, ma non mollo se sei in queste condizioni. Cosa
succede?
Hinata prese fiato un
momento, cercando la forza di sorridere e dirle che non c’era
niente di cui preoccuparsi, anche se forse riprendere a guardare il
film sarebbe stato troppo, per lei. Invece, non appena aprì
bocca, si ritrovò a confessarle tutto.
Come un fiume in piena, la
sua storia si raccontò da sola. Non guardò Ten Ten in
faccia una sola volta, tenendo gli occhi bassi sul fazzoletto che
strizzava tra le mani.
La casa, Akamaru, la “Bestia”.
L’estate di cinque anni prima e le ultime settimane.
E, forse più importante di tutti, il dipinto della mostra, che rivelò trovarsi in camera sua.
Le disse tutto, senza
tralasciare nulla. Pensava si sarebbe vergognata da morire, invece alla
fine si sentì sollevata. Il macigno che sentiva sul petto si era
sciolto fra le lacrime, dissolto nelle parole rivolte a Ten Ten.
L’amica, dal canto
suo, era rimasta decisamente senza parole. Si chiese chi fosse quella
persona che si ritrovava davanti, se Hinata fosse cambiata
improvvisamente o fosse sempre stata così. Se la seconda opzione
era quella giusta, allora lei era un’amica schifosa,
perché non l’aveva mai capito.
Quando però Hinata
alzò il viso per guardarla, gli occhi chiari rossi di pianto,
chiedendole: - Ma secondo te, tutto questo cosa c’entra con il
film? - Ten Ten non riuscì a reprimere un grande e tenero
sorriso.
- Santo cielo – non le sembrava vero – Ti sei innamorata.
Non poté fare a meno
di sorridere ancor più apertamente quando vide la reazione di
Hinata a quelle parole: sembrava che le avesse bestemmiato in faccia.
- Io… cosa? – riuscì a rispondere l’accusata dopo un lungo silenzio – No! Non sono…
Innamorata? Era per questo che se l’era presa tanto, che stava così male? Innamorata? Lei?
Si buttò di peso sul cuscino, chiudendo forte gli occhi.
- Hinata?
Hinata, non fare così! – Ten Ten stava quasi per mettersi
a ridere, vedendo l’assurda reazione dell’amica – Non
è mica una malattia! È una cosa bellissima!
- Invece
no! – mugugnò lamentosa Hinata, soffocando le parole
contro il cuscino – È un disastro! Un enorme disastro.
Ten Ten capì che
doveva essere molto paziente, perché l’amica sembrava
totalmente terrorizzata dai propri sentimenti. Sospirò piano,
poi le mise una mano sulla spalla, cercando di farle alzare la testa.
- Ehi – disse – Ehi. Guardami.
Il tono di voce così
dolce e pacato riuscì a convincerla. Hinata si tirò su,
scostando i capelli che le si erano appiccicati al viso nei punti in
cui erano scorse le lacrime.
Ten Ten la prese per le spalle, guardandola negli occhi.
- Hai
visto il film, non è vero? Ti ricordi come finisce? – date
le mani sulle sue spalle, riuscì a trattenerla dal ributtarsi
sul cuscino – Lo hai visto che non è facile, non lo
è mai. Anche loro avranno avuto paura, ma se fossero rimasti
sulle proprie posizioni la Bestia sarebbe ancora sotto
l’incantesimo. Vuoi lasciarlo là dov’è?
Saresti così egoista?
- Ma… non gliene importerà niente… - mormorò Hinata – Lui…
- Lui ti
vuole bene – ribatté sicura Ten Ten – Altrimenti non
ti avrebbe mandata via per paura che nascessero delle brutte voci. Non
gliene sarebbe importato niente, dato che a lui non avrebbero fatto
né caldo né freddo. Ti pare?
Hinata annuì debolmente, non del tutto convinta.
- E poi – seguitò Ten Ten, decisa a non mollare – Il quadro. Il quadro! È una dichiarazione! Come hai detto tu, non avrebbe mai mostrato in pubblico un dipinto in cui non avesse messo dentro qualcosa, qualcosa d’importante. Perché avrebbe dovuto farlo, se tu fossi stata solo una mocciosa ficcanaso?
Tale osservazione fece nascere una debole, pallida speranza. Troppo bella per potervi credere.
-
È innamorato di te – concluse Ten Ten –
È lampante. Ti sta solo proteggendo. Non sei una bambina, per
lui.
Ten Ten seppe di avercela fatta quando Hinata rispose piano:
- Tu… tu dici?
Annuì con vigore, ribadendo:
- Sì, ne sono sicura.
Hinata fece un respiro
profondo, cercando di mettere ordine dentro di sé. Sì, ne
era innamorata, ora se ne rendeva veramente conto. E c’era
davvero qualche speranza che anche lui… la ricambiasse?
Arrossì
furiosamente, come se il caldo afoso di quella notte non bastasse. Si
sdraiò di nuovo, balbettando che era ora di dormire, ma Ten Ten
non se ne preoccupò: era riuscita nel suo intento. Grande donna.
- Certo
che… - osservò con tono indifferente, sdraiandosi sul
proprio sacco a pelo – Undici anni di differenza… te li
trovi vecchi, eh?
Seppe che Hinata si era
finalmente ripresa quando sentì un cuscino piombarle sulla
testa, e lo restituì ridendo alla legittima proprietaria.
Questa è l’unica
fic che ho scritto in cui sia riuscita a farmi piacere il personaggio
di Ten Ten. Questo forse ha fatto sì che mi prendessi qualche
libertà nel caratterizzarla, ma avevo bisogno di un personaggio
che fosse il contrario di Hinata, e che tuttavia potesse farle da
“confidente”. Ino e Sakura non ce le vedevo proprio, Temari
men che meno, quindi la scelta è ricaduta su di lei.
Adesso Ten Ten mi sta un po’ più simpatica.
Niggle:
sì, immagino che ad una prima impressione questo Kiba sembri
lontano dall’originale, ma devi tenere conto della storia del
personaggio in questa fic. Quello che ha passato, quello che
c’è stato. Malgrado il carattere originale, chiunque
potrebbe subire dei cambiamenti. Tra l’altro, quello che mi
premeva di più era il rapporto con Hinata, e sono contenta che
questo ti sia piaciuto. Mancano ancora due o tre capitoli alla
fine…
Clahp: se hai rivisto “La Bella e la Bestia”, spero tanto che questo capitolo ti sia piaciuto!
Aurychan: ecco qui il nuovo capitolo!
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Capitolo 7 *** Coraggio ***
7- Coraggio
Coraggio
Ten Ten
rimase ancora un paio di giorni, durante i quali le due amiche fecero
qualche passeggiata, una gita nella città vicina, mangiando
altri gelati e parlando dei progetti per il futuro.
Nessuna delle due
nominò più i fatti della prima sera, ma prima di partire
Ten Ten le poggiò di nuovo le mani sulle spalle.
- Coraggio – le disse – Vedi di fare il primo passo e spezzare l’incantesimo.
Poi, per allentare la tensione che quelle parole avevano provocato, continuò:
- Mia cara, ora ti rivelerò un grande segreto,
che si tramanda da donna a donna. A me l’ha
detto mia madre molto tempo fa – prese un’aria molto
solenne – Gli uomini vanno braccati.
Sempre. Altrimenti ci saremmo già estinti da un pezzo, non
dimenticarlo.
Di fronte a tale, preziosa
rivelazione Hinata non poté fare a meno di mettersi a ridere.
Inutile, Ten Ten sapeva sempre come fare, con lei. Erano davvero in
pochi a conoscerla così bene.
E quello stesso pomeriggio, il consiglio di Ten Ten sembrò davvero fare effetto.
Hinata aveva accompagnato
l’amica alla stazione dei treni, era tornata per pranzo ma era
riuscita appena a sbocconcellare qualcosa. Continuava ad avere davanti
agli occhi il film, alternato da momentanee apparizioni del quadro.
Sospirò profondamente, poi si diresse verso la porta e uscì.
Era un pomeriggio un
po’ nuvoloso, abbastanza perché il sole non tormentasse la
gente con la sua forte luce, ma le nuvole basse contribuivano a
trattenere l’aria calda vicino alla terra, causando una forte
cappa d’afa.
Quando Hinata arrivò
alla dimora Inuzuka, non poté fare a meno di notare ancora una
volta come il cancello somigliasse a quello di un certo film. E prima
di poter avere un qualunque ripensamento, suonò il campanello.
Per un attimo temette che
non le avrebbe aperto, visto ciò che le aveva detto solo una
settimana prima, ma dopo lunghi minuti sentì il cancello
scattare.
Non vide Akamaru correrle
incontro, e quando proseguì lungo il vialetto d’entrata
capì il perché: Kiba lo stava tenendo saldamente per il
collare, anche se lui era seduto buono accanto a lui. Ogni tanto
accennava a un guaito o a un colpo di coda, ma ad un’occhiataccia
del padrone si zittì definitivamente.
Per un attimo Hinata rivide
un certo, vivace poggiapiedi, e sorrise internamente. Ora sapeva che
non poteva andarsene senza averglielo detto.
- Ciao – esordì, quando fu davanti a lui.
- Che
cosa ci fai qui? – chiese lui senza mezzi termini, guardandola
stringendo gli occhi. Hinata notò che tuttavia il suo tono era
molto diverso da quando, anni prima, cercava di cacciarla dal ramo del
mandorlo. Non era più una specie di ringhio sommesso. Ascoltando
bene, sembrava quasi che facesse fatica a dirle quelle parole.
Lei lo guardò dritto negli occhi, cosa che lo sorprese, e disse:
- Il quadro ce l’ho io.
Kiba non parve capire subito, ma un lampo di consapevolezza sembrò coglierlo all’improvviso.
- Come? – chiese solamente, con un filo di voce.
Hinata annuì sorridendo dolcemente, poi si fece seria.
- Perché l’hai dipinto? – domandò – Perché ci sono io?
Le sue parole non suonavano come delle accuse. Erano solo domande.
Non era sicura che Kiba
avrebbe risposto, e difatti lui doveva ancora aprire bocca. Aveva
lasciato andare il collare di Akamaru, anche se il cagnolone sembrava
aver annusato l’atmosfera e si guardava bene
dall’interferire.
Poi Kiba fece un sorriso sghembo e si portò imbarazzato una mano alla nuca.
- E
così l’hai trovato, eh? Mi chiedevo appunto chi avesse
speso tutti quei soldi per comprarlo... – sospirò
– Senti, forse ti devo delle scuse… non ha… non ha
alcun senso.
- E
perché l’hai fatto, allora? – domandò ancora
una volta Hinata, il cuore in tumulto.
Le rispose uno sbuffo simile a una risata nervosa, mentre Kiba allargava leggermente le braccia.
- Non lo
so – ammise – Non lo so nemmeno io. Anche se credo sia la
cosa migliore che abbia mai dipinto.
- Lo credo anch’io – mormorò Hinata.
- Ah,
sì? Bene – si grattò nervosamente la nuca –
Sul serio, non so cosa mi sia preso.
- E che cosa c’è dentro?
Se Kiba iniziava a sperare
di cavarsela in modo così superficiale, ricevette un duro colpo.
La ragazza- ormai quasi una donna- che stava davanti a lui era decisa a
ricevere una vera risposta. Lui l’aveva sempre saputo, che aveva
determinazione da vendere, anche se dosata in piccole parti. Sembrava
innocua, inoffensiva, ma era come la goccia che scava la pietra. Prima
o poi la buca.
Stava cercando di pensare
in fretta ad una soluzione che la portasse lontano da lì,
lontano da lui, quando lei si avvicinò.
Nulla di troppo intimo, ma
di certo la ventina di centimetri che li separava non era la distanza
che tengono due persone che parlano normalmente.
Era più bassa di lui
di tutta la testa, ma a quella vicinanza i suoi occhi sembravano ancora
più grandi. Come la nebbia che inghiotte ogni cosa. Dovette fare
uno sforzo per non esserne inghiottito a propria volta.
-
Dovresti andartene – mormorò ancora, cercando di
controllare quella strana massa infuocata che aveva iniziato a
ribollirgli all’altezza del petto e delle viscere.
- Con
tutte le volte che mi hai cacciata, dovrei trovarmi a chilometri da qui
– sorrise lei, arrossendo leggermente.
- Sei testarda, allora. Ostinata e testarda. Anche se credo non lo direbbe nessuno.
Senza rendersene conto
aveva alzato una mano, e ora quella mano aveva preso fra le dita una
ciocca di capelli, accarezzandoli piano. Era tanto di quel tempo che
non toccava una donna, che lì per lì pensò ci
fosse una differenza abissale dall’accarezzare il folto pelo di
Akamaru.
Quando la sua mano
arrivò alla guancia, Hinata vi si appoggiò fiduciosa.
Volendo, quella grande mano sarebbe riuscita a coprirle l’intero
viso.
Dopo qualche minuto di quella silenziosa tenerezza, Kiba abbassò repentinamente il braccio.
- Sono un
assassino – mormorò – Anche se sono passati anni,
anche se si è trattato di omicidio colposo e la
responsabilità è stata divisa fra più persone. Un
ragazzo è morto a causa mia, e il tempo non cambia le cose.
Hinata lo sapeva, ne era al
corrente da tempo. A parole sembrava una cosa abominevole, ma questo
non cambiava in alcun modo i suoi sentimenti. Erano due cose divise, il
cuore e la ragione, non se ne era mai resa conto come in quel momento.
- Lo so
– sussurrò, sentendo nuovamente il macigno farsi strada
dentro di sé – Ma io sono innamorata di te, non ci posso
fare niente.
Kiba sentì che
quelle parole sembrarono spalancare qualcosa dentro di sé. Una
porta immensa, che andava immediatamente richiusa.
Si voltò bruscamente verso la casa, richiamando Akamaru.
- Vai via – disse solamente – Vai via.
Stavolta non servì un film a far piangere Hinata, che percorse la via del ritorno completamente tra le lacrime.
In un
certo senso, per me è qui che viene fuori la determinazione di
Hinata: dato che non ci sono battaglie ninja da combattere, è
qui che tira fuori il suo coraggio.
Dite quello volete, ma io
mi sarei fatta monaca piuttosto di andare da Kiba e rivelargli ogni
cosa. Sono sentimentalmente una fifona, lo so, ma questo basta e avanza
perché ai miei occhi Hinata appaia come un vero cuor di
leone. ù.ù
Sumire 90: beh, se ti piace così tanto non posso che esserne contenta! Grazie mille!
Dryas:
in realtà non è che dovessimo seguire pari pari il film,
bastava trarre ispirazione dalla traccia fornitaci dalla giudice, e io
di mia iniziativa ho aggiunto anche qualche riferimento al film Disney.
Che te ne pare della mossa di Hinata?
Niggle:
grazie, il tuo commento mi è piaciuto davvero molto. In tre
righe hai azzeccato in pieno quello che volevo trasmettere, e sono
contenta che sia arrivato. ^^
Aurychan: ^w^… mi fai arrossire!
evechan: come dico sempre, certi libri e certi film non hanno età. ù_ù
Pensa che quando mi sono rivista il film per ricordare certi dettagli, si è aggregata anche mia madre! Quindi…
Clahp:
sì, Ten Ten l’ho messa apposta per fare da
“molla” a Hinata, altrimenti non saremmo andati da nessuna
parte... sono contenta che il personaggio così caratterizzato
abbia avuto successo!
|
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Capitolo 8 *** Il sogno ***
8- Il sogno
Il sogno
Kiba si
buttò sul letto, distrutto. Era stanchissimo, sia fisicamente
che mentalmente, anche se ovviamente non era uscito di casa e non aveva
fatto alcuna attività particolare.
Chiuse gli occhi cercando
di calmarsi, ma era come tentare di arrestare un fiume in piena.
Sembrava che la manciata di parole del pomeriggio avesse disintegrato
una diga immensa, e ora le cose correvano impazzite senza che lui
potesse fare nulla per arginarle.
Sia che aprisse o chiudesse
gli occhi, continuava a vedere sua madre, sua sorella da piccola e da
grande- il giorno prima che sparisse nel nulla- i giovani a cui
spacciava e soprattutto quel ragazzo, Naruto. Se c’era qualcuno
che non avrebbe dovuto morire, era proprio un ragazzo solare e
altruista come lui. Aveva anche cercato di diventargli amico,
invitandolo a pranzo ogni tanto. Gli piaceva la cucina giapponese,
specialmente il ramen. Ma quando Kiba ripensava a lui, subito dopo la
tazza fumante gli si ripresentavano gli occhi verdi di sua madre, al
processo, distrutti dal dolore. Era riuscito a guardarla in faccia una
volta soltanto, ma gli era bastata.
Poi, senza che se ne
rendesse conto, qualcuno aveva voltato pagina per lui. Non si era
accorto che era iniziato un nuovo capitolo nel momento stesso in cui
aveva visto, per la prima volta, quella ragazzina in prendisole bianco
su un albero del suo giardino.
A pensarci bene, era stata
tutta colpa di Akamaru. L’aveva portata lui la prima volta, e
l’aveva fatta tornare. Ma che razza di cane era andato a
prendersi?
Le ombre
dell’infanzia continuavano a camminare indisturbate su e
giù per la stanza, e per non vederle Kiba strinse forte gli
occhi. Li strinse talmente che iniziò a vedere tutto bianco, un
bianco che pian piano diventò reale.
Quando li riaprì, si
ritrovò immerso in una coltre di neve morbida, appena caduta. Il
cielo grigio perla sembrava dirgli di fare silenzio, perché
qualcuno stava riposando sotto il manto bianco.
Un po’ titubante,
Kiba avanzò piano nella neve, senza produrre alcun rumore che lo
scricchiolio della neve sotto i suoi piedi. Ma era poco più del
rumore che si fa accarezzando un gatto.
C’erano alcuni alberi
spogli qua e là, che spuntavano come mani scure dalle lunghe
dita rugose. Un albero più sinuoso degli altri attirò la
sua attenzione, perché sopra vi era qualcuno. Un unico essere
vivente in quella solitudine sterminata.
Non riusciva a vederlo
bene, distingueva appena un paio di gambe magre e penzolanti che si
dondolavano come al ritmo di una filastrocca.
Quando Kiba arrivò
in prossimità della pianta, le due gambe pallide si diedero un
piccolo slancio, e una specie di elfo atterrò sulla neve senza
fare rumore. Alzò la testa per guardarlo in faccia, e nel
vederlo meglio Kiba rimase impietrito.
Aveva la pelle chiarissima, i capelli scuri e corti e gli occhi dello stesso colore del cielo sopra di loro.
Il mondo circostante sembrava aver perso ogni colore che non si trovasse tra le gradazioni di nero, bianco e grigio.
- Tu – mormorò incredulo l’uomo.
- Io – gli rispose l’elfo con voce chiara e limpida.
- Ma cosa… sei vivo?
L’elfo fece spallucce.
- Sono
vivo quanto la neve qui intorno. Quanto il freddo –
dichiarò – In fondo dovresti saperlo, no? Sono nato dal
tuo pennello.
Kiba sorrise amaramente.
-
Già, è vero – ammise, portandosi poi una mano
a coprire gli occhi – Devo essermi addormentato. Che
assurdità.
- Come ti
permetti? – lo apostrofò il corpicino efebico che aveva
davanti – Abbi un po’ di rispetto, per cortesia.
- Ehi,
spirito – fece Kiba sorpreso – Da quando hai questo
carattere? Non somigli proprio a…
- A colei
che mi ha ispirato? Beh, per forza. La neve sarà anche quieta,
ma bisogna stare attenti perché può trasformarsi in
tormenta da un momento all’altro.
- Però, che perla di saggezza.
Lo spirito dell’inverno si fece improvvisamente serio.
- Sei un idiota – dichiarò tranquillamente – Perché l’hai mandata via?
Kiba si accigliò.
-
Sì, sono veramente un idiota se mi faccio insultare dai
miei stessi sogni. Vedi di moderare i termini.
- Sei un idiota – ripeté – E hai solo paura.
- E se
anche fosse? – ringhiò Kiba tra i denti – Se la
tengo lontana le faccio solo un favore. È troppo giovane, non sa
ancora niente della vita. Non sa che tutti ti abbandonano quando meno
te l’aspetti.
- Ah, così l’abbandoneresti – fece lo spirito, sarcastico.
- Non ho
detto questo – Kiba assottigliò gli occhi – Ma la
famiglia, l’amicizia, l’amore… che montagna di
stronzate. Lei ci crede ancora, io no… ho smesso da un sacco di
tempo di farmi certe illusioni.
Lo spirito non riuscì a trattenere il sorriso beffardo di chi sa come stanno veramente le cose.
- Se tu non credessi più a nulla, io non potrei essere qui. (*) Ti pare?
Kiba non rispose,
totalmente spiazzato. Gli sembrò che il senso di abbandono e di
colpa provati nel corso della sua vita lo assalissero a ondate, senza
dargli possibilità di difendersi. Si ritrovò a piangere
come un bambino, seduto nella neve.
Quando rialzò gli occhi, lo spirito era seduto di fronte a lui.
- Ehi,
vedi di andare da lei – gli disse piano – Segui Akamaru, se
non ne hai il coraggio. Non fare l’idiota più di quanto lo
sei già.
Dopo le ultime lacrime, l’unica cosa che Kiba ribatté fu:
- Ma la pianti di insultarmi? – al che lo spirito gli diede uno scherzoso colpo in fronte.
Kiba chiuse per un momento gli occhi, e quando li riaprì rivide la propria stanza.
Rimase inebetito per un
po’, ma quando si tastò il viso e guardò il cuscino
si rese conto di aver pianto nel sonno.
Andò in bagno a rinfrescarsi, mentre la forte luce che entrava dalle finestre gli diceva che era già mattina.
Uscì in giardino, chiamando Akamaru, ma il cane non arrivò trottando come al suo solito.
Un po’ sorpreso, Kiba
iniziò a fare il giro del cortile, anche se una vocina gli stava
dicendo che sapeva esattamente dove si trovasse in realtà il
cane.
E difatti, eccolo là: seduto sotto il mandorlo, scodinzolante a guardare il ramo vuoto.
Quando gli si
avvicinò, il padrone alzò a propria volta la testa verso
l'albero e poi abbassò il viso a guardare il cane.
- Di’ la verità – lo apostrofò – Tu lo sai cos’ho sognato, vero?
Akamaru si limitò ad aprire la bocca e ansimare con la lingua penzoloni.
- Sei
stato contro di me tutto il tempo, razza di traditore –
continuò Kiba – E dire che dovresti essere il mio migliore
amico.
Gli angoli della bocca del
cane si alzarono, arrivando quasi a mostrare l’ugola. Sembrava un
sorriso sghembo e divertito, quello che aveva stampato sul muso.
(*) Oltre
ad ispirarci al modello di un film, in questo contest dovevamo anche
inserire nella storia una frase tratta da un fim Disney. Io ho scelto
per l’appunto questa, tratta da “Cenerentola”.
E qui Kiba cade. Perché anche dopo anni, tutti questi pesi sulla schiena nessuno può sostenerli.
Aurychan: *inchino* Ti devo veramente ringraziare, mi lusinghi ogni volta!
Niggle:
sì, forse hai ragione. Hinata è una donna, ormai, e lo ha
ampiamente dimostrato. Oltretutto è una che pensa prima di
agire, e questo le fa avere dei punti in più. L’ho sempre
adorata, e se le ho reso giustizia non posso che esserne felice.
kibachan:
grazie per entrambi i commenti! Sia per quello di due capitoli fa,
perché anche a me capita di “entrare” in modo
particolare in certi film, e ho cercato di descriverne un po’ la
dinamica. Oltretutto sono andata a rivedermi “La Bella e la
Bestia” per farlo, quindi immaginati la scena: io che arrivo al
punto “Eri curioso di vedere la Bestia?”, salto sul divano
dicendo “Orpo!”, metto pausa e corro al computer a scrivere
la frase. Ecco, questa storia è stata scritta pressappoco in
questo modo…
Per il
capitolo scorso: non sono brava nelle scene “fisiche”,
quindi mi impegno il doppio per farle uscire perlomeno accettabili,
quindi le “scariche elettriche” in chi legge non possono
che farmi piacere!
evechan:
ma la scena dei capelli ha avuto davvero successo! Chi l’avrebbe
mai detto! Comunque sì, Ten Ten è stata proprio preziosa
in questa storia, io nelle AU riesco a vederla solo così.
Per il finale… eh, aspetta un po’. Ci siamo quasi.
|
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Capitolo 9 *** Come la marea ***
9- Come la marea
Come la marea
Hinata
stava tentando di farsene una ragione. Continuava mentalmente a
ripetersi “È meglio così”, “Sono troppo
giovane”, “Non saprei come fare in un rapporto simile, non
ho alcuna esperienza”.
Ricordava il sorrisetto di
Hanabi quando, anni prima, le aveva rivelato di aver baciato
Konohamaru, e la sua aria disinvolta ogni volta che tornava a casa la
sera. Non avrebbero potuto essere più diverse, e dire che
avevano gli stessi geni.
Era sdraiata sul letto, i
capelli sparsi sul cuscino perché non le facessero troppo caldo,
le braccia e le gambe nude. Guardava il soffitto e si sforzava di non
pensare a niente.
Il quadro era voltato verso
il muro, perché stesse in silenzio. Aveva come
l’impressione che si fosse offeso, mentre prima non se ne stava
mai zitto.
Hinata si coprì il
volto con le mani. Ma che andava a pensare, stava forse impazzendo del
tutto? Avrebbe dovuto alzarsi di lì e fare qualcosa, ma non ne
aveva la minima voglia. E forse nemmeno la forza, chi lo sa.
L’estate era ancora
lunga, se non avesse fatto qualcosa sarebbe sprofondata in una sorta di
depressione opprimente dalla quale sarebbe stata dura uscire. Magari
avrebbe potuto andare in America a trovare suo cugino, ma ciò
che la bloccava era che non aveva la benché minima voglia di
fargli sapere cos’era successo. Perché lui l’avrebbe
capito in un secondo, che c'era qualcosa che non andava.
Si girò a pancia in
giù, stringendo forte il cuscino. Era circondata da persone che
la ignoravano bellamente, come suo padre e sua madre, e altre che
riuscivano a leggerle dentro, come Ten Ten e Neji. Ma una via di mezzo
non era possibile?
Impegnata in tali,
disperate elucubrazioni, ci mise un po’ a sentire un pugno che
batteva freneticamente alla sua porta, e la voce di Hanabi che la
chiamava:
- Ehi, Hinata! Hinata, apri!
Si alzò a fatica e quando aprì la porta rimase sorpresa nel vedere lo stato di agitazione in cui era la sorella.
- Ma cosa succede? – chiese.
-
C’è la Bestia! – esclamò Hanabi, a
metà tra l’incredulo e il preoccupato –
C’è la Bestia fuori da casa nostra! E c’è
anche il suo cane enorme, cosa facciamo? Chiamiamo la polizia?
Il cuore di Hinata ebbe un sussulto. Ma fu qualcosa di enormemente lontano dalla paura.
Ignorò Hanabi,
precipitandosi giù dalle scale e ricordandosi a malapena di
infilarsi un paio di sandali per non uscire completamente scalza.
Aprì di scatto la
porta, e sentì un nodo salirle alla gola quando vide con i
propri occhi che Hanabi le aveva detto la verità: in strada,
fuori dalla cancellata del suo giardino, c’era Kiba con Akamaru
al guinzaglio, apparentemente in giro per una semplice passeggiata.
Le sembrò di volare
lungo il vialetto fino al cancello, tanto lo percorse in fretta, ma
quando fu fuori non riuscì a spiccicare parola.
- Ciao – disse Kiba, col suo solito ghigno rassicurante sul viso.
- Ciao
– rispose lei, un po’ ansimante per la breve corsa, un
po’ perché sentiva il cuore batterle come impazzito.
- Stavo
portando Akamaru a fare un giro – spiegò, mostrandole il
guinzaglio a mo’ di prova – Vieni anche tu?
L’unica cosa che
Hinata riuscì a fare fu annuire con un sorriso, dato che si
sentiva totalmente incapace di parlare.
Non si inoltrarono nelle
strade principali, non andarono fino alla piazza dove c’era la
gelateria delle pettegole. Si limitarono a rimanere sul ciglio dei
campi coltivati, dove c’erano terra e alberi e l’odore
della vegetazione era fortissimo.
Chiacchierarono
d’arte e posti da visitare, come non avevano mai fatto prima
d’ora, senza timore o ritrosia. Sembrava tutto diverso rispetto
al giorno prima.
Dato che il luogo era
pressoché deserto Kiba tolse il guinzaglio ad Akamaru, e mentre
accarezzava le orecchie vellutate del cane a Hinata tornò in
mente la strofa di un’altra canzone del film.
Qualcosa in lui
Si trasformò
Era sgarbato, un po’ volgare,
ora no.
È timido, piacevole,
non mi ero accorta che ora è incantevole.
- Ehi, cos’hai da ridere? – le chiese Kiba vedendola sorridere con tanto divertimento.
- Niente, stavo solamente immaginando come staresti con uno stormo di uccellini addosso.
- Eh?
Hinata rise di gusto alla sua espressione sbigottita, una risata cristallina che la fece sentire su di giri.
Pazzesco come poco prima si
sentisse in fondo al baratro, e ora una folata di vento caldo
l’avesse fatta risalire fino a toccare il cielo.
Mentre lei rideva, Kiba si fece serio.
- Ho trentun anni – le ricordò – Tu diciannove.
Hinata smise di ridere e ricambiò dolcemente il suo sguardo.
- A dicembre ne faccio venti – rispose.
Lui si avvicinò,
passandole un braccio attorno alla vita e attirandola a sé,
infilandole l’altra mano tra i capelli.
- Giusto – mormorò, respirando a fondo il loro odore – Il mio spirito dell’inverno...
Hinata sorrise piano. Avrebbe dovuto rivoltare il quadro, una volta tornata a casa.
- … che in realtà è piuttosto dispettoso, sai? Ha un caratterino…
- Come?
– chiese Hinata alzando la testa, ma smise di porsi domande
quando sentì una bocca posarsi sulle sue labbra.
Aveva iniziato a chiedersi
come fosse da quella sera delle confidenze di Hanabi. Aveva cercato di
immaginarselo, quando era sola da qualche parte, e non c’era
nessuno che potesse vederla arrossire.
Non aveva mai pensato che
potesse essere così caldo, anche se sentì la pelle
d’oca sulle braccia e perfino alla radice dei capelli. Gli
passò inconsciamente una mano tra i capelli ispidi, molto
più del pelo di Akamaru.
Era una fortuna che la
stesse tenendo per la vita, perché quando Kiba osò di
più sentì le ginocchia tremarle pericolosamente. La sua
guancia ruvida sul proprio viso la fece rimescolare dentro, in un modo
che non avrebbe mai creduto possibile.
Ad un certo punto una
montagna di pelo si insinuò a forza tra di loro, dividendoli.
Forse fu meglio così, perché Kiba si rese conto di stare
entusiasmandosi fin troppo. Doveva darsi una calmata e cercare di
controllarsi. Sarebbe stata una bella impresa la loro, difficile sotto
ogni punto di vista, dentro e fuori, tra loro e di fronte agli altri.
Ma quando Hinata gli
sorrise, scansando Akamaru e appoggiandosi fiduciosa al suo petto, si
rese conto che quell’impudente dello spirito dell’inverno
aveva ragione. Non era vero che non credeva più a nulla.
Akamaru guaì offeso,
incredulo che nessuno gli badasse. Si erano dimenticati che era tutto
merito suo? Ma non servì a nulla, perché entrambi
continuarono a ignorarlo bellamente.
Kiba appoggiò la
guancia ruvida sulla sua testa e Hinata si strinse a lui, incapace di
credere che tutto ciò fosse reale. Mentre respirava a fondo il
suo odore pungente, si rese conto che era proprio vero. Era come la
marea.
Ti riporta via
Come la marea
La felicità…
Direi
che, come storia nata sul modello di una fiaba, dovesse proprio avere
un lieto fine, no? E poi tiriamoci un po’ su, và.
Uhm…
stavo pensando di scrivere un capitolo speciale di questa storia,
magari sulla prima notte di Kiba e Hinata. Che ne dite? Potrebbe
interessarvi? Fatemi sapere!
Aurychan: grazie infinite! Spero che anche l’ultimo capitolo ti sia piaciuto!
kibachan:
se la mia storia ti ha fatto emozionare sono felicissima! Inoltre sono
contenta di non essere l’unica preda dei “raptus
creativi” (a proposito, ottima definizione), perché ogni
tanto ne ho uno... il che non mi fa sembrare molto normale, ma a casa
mia ci sono abituati.
evechan: cosa vuol dire che Kiba “si reffa”? O_O Me non capisce…
Niggle:
tranquilla, è filato tutto liscio… in fondo per il finale
mi sono attenuta al modello originale. ^^ Sono contenta che il capitolo
su Kiba ti sia piaciuto, ho pensato che il “mistero” non
potesse durare per sempre. Volevo far capire che, prima che una
“Bestia”, Kiba era soprattutto un essere umano.
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