Il Gioiello del Vaticano di Amy W Gildeary (/viewuser.php?uid=118734)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Papa ***
Capitolo 2: *** La Temperanza ***
Capitolo 3: *** L'Imperatrice ***
Capitolo 4: *** La Luna ***
Capitolo 5: *** Le Stelle ***
Capitolo 6: *** La Torre ***
Capitolo 7: *** Il Matto ***
Capitolo 8: *** L'Appeso ***
Capitolo 9: *** La Papessa ***
Capitolo 10: *** Il Mago ***
Capitolo 11: *** Il Carro ***
Capitolo 12: *** La Forza ***
Capitolo 13: *** Gli Amanti ***
Capitolo 14: *** L'Eremita ***
Capitolo 15: *** La Giustizia ***
Capitolo 16: *** Il Sole ***
Capitolo 17: *** Il Diavolo ***
Capitolo 18: *** La Ruota della Fortuna ***
Capitolo 19: *** L'Angelo ***
Capitolo 1 *** Il Papa ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
1 - Il
Papa
Nei tarocchi,
la carta del Papa rappresenta fecondità di pensiero che genera il
sapere, la
conoscenza. È saggezza, sacralità, divinazione, gnosi. Indica fede e
religione,
meditazione e modestia.
Al negativo, però, riflette rancori nascosti, fanatismo. Può generare
intolleranza e ribellione.
«I
nostri uomini hanno avuto
successo!», esclamò Lupo Mercuri, spalancando le porte che conducevano
ai bagni
del Vaticano. «Sforza è morto».
Dietro
di lui, Francesco Pazzi alzò gli occhi al cielo per tutto quel baccano,
poco
aiutato dalle proteste delle guardie alle sue spalle che intimavano i
due
ospiti di lasciare Sua Santità in pace.
Papa
Sisto, al contrario, non sembrò troppo infastidito dalla visita.
Abbandonò con
non curanza il ragazzino con cui si stava intrattenendo nella vasca ed
uscì a
grandi passi per raggiungere i due uomini. Alzò appena una mano in
alto, per
congedare le guardie all’ingresso della stanza, ed aspettò di vederle
uscire
prima di proseguire la conversazione. A quel punto, riportò la sua
attenzione
su Francesco Pazzi.
«Firenze è pronta ad accogliere,
Vostra Eminenza», rispose immediatamente il fiorentino, capendo che
quello
sguardo era una tacita domanda. «Credetemi», aggiunse, inchinandosi per
poter
baciare l’anello papale.
Nel
mentre, il cardinale Mercuri afferrò la veste del papa, e lo aiutò ad
indossarla.
«Come lo sapete?», domandò Sisto,
con diffidenza.
«Abbiamo un informatore alla corte
di Lorenzo», rispose prontamente Lupo, sistemando con cura il pesante
abito
riccamente decorato.
«E cos’altro sapete?», chiese ancora
il papa, per nulla convinto.
«I Medici stanno organizzando un
Carnevale, nel patetico intento di ingraziarsi il popolo», proseguì il
fiorentino, portando le mani dietro alla schiena in una posa rigida e
solenne. «Sono
deboli, ma cercano di distogliere l’attenzione della gente con
frivolezze del
genere», aggiunse, con un’espressione seccata.
«Santità…», si intromise Lupo
Mercuri, con un sorriso tutto elettrizzato che non fece altro che
infastidire
ancora di più Sisto. «È la vostra occasione per colpire», aggiunse
sottovoce,
come un bambino che non aspetta altro che il permesso per giocare.
In
tutta risposta, il papa sbuffò infastidito: più che una discussione su
mosse e
tattiche politiche, gli sembrava di avere a che fare con dei ragazzini.
Non si
fidava nemmeno un po’ di quei due piccoli scagnozzi, e sapeva che una
missione
di quel calibro necessitava di tutt’altra guida.
Come
se qualcuno gli avesse letto nel pensiero, le guardie fuori dalla porta
bussarono cinque colpi, il segnale prestabilito che annunciava l’ospite
ancor
prima di aprire l’ingresso.
«Prego», rispose lui subito, sapendo
che la soluzione a cui stava pensando era proprio lì fuori.
Il
portone di legno massiccio si aprì con un lieve cigolio, e fu subito
seguito
dal suono di passi lenti e misurati sul marmo della sala.
I
due ospiti si voltarono confusi ed incuriositi, mentre Sisto si lasciò
sfuggire
un sorrisetto soddisfatto.
«Signori…», esordì il papa, con una
nota di fierezza. «Vi presento uno dei più preziosi gioielli del
Vaticano».
L’ospite
appena entrata si concesse un leggero sorrisetto compiaciuto, mentre
raggiungeva il piccolo gruppetto. Una volta di fronte a Sisto, accennò
un
inchino, ma nemmeno un gesto tanto umile scalfì minimamente il suo
atteggiamento fiero ed altezzoso.
Né
le vesti completamente nere, tratto distintivo della divisa del
Vaticano e
spezzate solo dal candido simbolo della Chiesa cucito sul petto, né i
capelli
raccolti in un’elaborata ed austera acconciatura, né tanto meno la
spada o lo
stiletto nella cintura… Niente di tutto ciò intaccava minimamente la
sua
bellezza o la sua femminilità. Lo sguardo, vispo e fiero, manifestava
tutta la
sua sicurezza, e sarebbe stato capace di soggiogare chiunque in un
battito di
ciglia.
«Santo Padre», disse la giovane
donna, con decisione.
In
risposta, l’uomo sollevò una mano e la indicò ai due uomini suoi
ospiti.
«Mia nipote, nonché contessa, Gemma
Riario», affermò l’uomo, con un ghigno soddisfatto.
Un
po’ sorpreso, Francesco Pazzi chinò di poco la testa in un cenno di
saluto. Al
contrario, il cardinale Mercuri si improvvisò un gentiluomo e si
inchinò per un
galante baciamano. Con ogni probabilità, un modo come un altro per
ingraziarsi
Sua Santità, vista la fierezza mostrata nei confronti della giovane
donna.
«Ho sentito parlare
meravigliosamente di voi», proseguì il cardinale, con un sorriso
d’adulazione,
ma la contessa non si scomodò a rispondere se non con un cenno
d’assenso del
capo.
«Una donna, Vostra Santità?»,
domandò invece Francesco Pazzi, senza fare nulla per celare il suo
scetticismo.
«Vi consiglio di non sottovalutarla»,
ribatté prontamente Sisto, indurendo il tono della voce. «È una delle
armi
migliori a disposizione della Santa Romana Chiesa».
«Non è mai saggio lasciarsi
ingannare dalle apparenze», aggiunse la contessa Riario, con un sorriso
di
finta gentilezza che sicuramente non celava una nota di ammonimento.
Intuendo
che la situazione si stava evolvendo a suo sfavore, il fiorentino finse
la
migliore delle espressioni di accondiscendenza, e si sforzò di
compiacere papa
Sisto.
«Sicuramente possedete l’elemento
sorpresa», rispose l’uomo, annuendo. «Una tattica inusuale, ma molto
interessante».
Gemma
Riario era ben abituata a reazioni e commenti di quel tipo, e nel corso
degli
anni aveva imparato a farsi scivolare addosso ogni diffidenza da parte
di
altri: presto o tardi, tutti si rendevano conto di quale enorme sbaglio
fosse
crederla innocua, e la soddisfazione di vedere le loro espressioni
farsi
intimorite, nel realizzare quanto in realtà fosse pericolosa, era
un’ottima
ricompensa.
«Avrete presto prova del mio valore,
non dovete temere», rispose la contessa, con un sorriso di finta
cortesia.
A
quell’affermazione, sia Francesco Pazzi che Lupo Mercuri si voltarono
verso
papa Sisto, l’espressione del volto vagamente confusa in una tacita
richiesta
di spiegazioni.
«Sono certo che mia nipote sarà un
aiuto più che valido nel nostro piano contro i Medici», spiegò il papa,
sistemandosi meglio la veste addosso. «Qualcosa in contrario, per
caso?»,
aggiunse poi, in una domanda assolutamente retorica.
«No, certo che no», risposero
prontamente i due, suscitando in Gemma un sorrisetto soddisfatto: tali
a quali
a due cagnolini spaventati.
«Dunque datevi da fare», sentenziò Sua
Santità, tornando severo.
«Assolutamente», gli assicurò
Francesco Pazzi.
«C’è un’altra ragione per
affrettarsi», aggiunse Lupo Mercuri, facendosi più cupo. «Il Turco in
questo momento
si trova a Firenze. Cerca il Libro delle Lamine».
A
quelle parole anche Gemma tornò seria e si voltò verso il cardinale.
Sisto
invece, evidentemente infastidito dall’aver nominato quel manufatto
come se la
sua importanza superasse quella di mettere fine alla dinastia de’
Medici,
borbottò qualcosa di incomprensibile e se ne andò a grandi passi.
Prima
di giungere alla porta, però, si voltò un’ultima volta, e scoccò uno
sguardo
freddo e severo proprio verso la nipote. Il cardinale Mercuri e
Francesco Pazzi
si guardarono confusi, ma Gemma aveva capito perfettamente quello che
le era
appena stato ordinato, senza neanche bisogno di una parola. Annuì, e
Sisto uscì
definitivamente dalla sala.
La
contessa, invece, si voltò verso la vasca e piegò le labbra in un
sorriso
impregnato di falsità e sarcasmo, mentre lentamente si avvicinava agli
scalini
lambiti dall’acqua calda, lo sguardo puntato sul giovane ragazzino che
per
tutto il tempo della conversazione era rimasto seduto in silenzio.
«Sono… molto dispiaciuta», mormorò,
piegando leggermente la testa di lato, mentre si immergeva nell’acqua.
«Perché?», balbettò il ragazzino,
con un filo di voce.
La
mano di Gemma scivolò silenziosamente alla cintura e si strinse intorno
all’impugnatura dello stiletto, ma il suo sguardo rimase fisso negli
occhi del
giovane.
«Non avresti dovuto sentire»,
rispose semplicemente.
In
un istante, la sua espressione si fece fredda ed apatica, come se di
colpo
avesse perso qualsiasi capacità di provare emozioni, e rimase tale,
mentre
estraeva l’arma dalla cintura e con un gesto netto tagliava la gola del
ragazzo. La vittima non riuscì ad emettere altro che un gemito
strozzato,
mentre ricadeva nell’acqua, tingendola lentamente di rosso scarlatto.
Gemma
immerse lo stiletto nella vasca, ripulendolo dal sangue, per poi
riporlo nella
cintura con un movimento fluido ed elegante. Si voltò verso i due
ospiti, che
nel frattempo erano rimasti pietrificati di fronte a quella scena, le
loro
espressioni assolutamente gelate.
La
contessa riemerse dalla vasca, e li raggiunse sulla passerella di
marmo, come
se nulla fosse accaduto. Quanto meno, aveva già dimostrato loro quanto
qualsiasi pregiudizio fosse infondato.
«Bene, signori…», esordì Gemma, congiungendo
le mani davanti a sé. «Vogliamo proseguire?»
Angolo
dell’autrice
Che
dire, un buonsalve e un benvenut* a
tutt*!
Sono
nuova in questa sezione, quindi mi presento: piacere, sono Amy e sono
felicissima di potervi introdurre alla storia della contessa Gemma
Riario.
Un
ringraziamento speciale va all’episodio Liberum
Arbitrium, che mi mise la pulce nell’orecchio di “Cosa sarebbe
successo se…?”.
Episodio che, tra l’altro, andò in onda alla fine del 2015, il che dà
una vaga
idea del tempo che ci ho messo nel realizzare questa storia. Ma dopo
tanto
lavoro e una lunga revisione, sono finalmente giunta alla sua
conclusione e
posso pubblicarla. Non vedevo l’ora, giuro!
Dal
momento che questa prima stagione è già pronta, aggiornerò ogni due
mercoledì
con un nuovo capitolo, e facendo un rapido calcolo ci terremo compagnia
per un
discreto periodo di tempo.
Spero
tanto che il primo capitolo vi sia piaciuto, e mi farebbe davvero tanto
piacere
sapere che cosa ne pensate.
Un
bacione grandissimo!
Amy
W. Gildeary
P.S.:
da quando mi è stato fatto notare che gli episodi della prima stagione
hanno
come titolo alcune carte dei Tarocchi, ho voluto seguire lo stesso filo
conduttore. Ragion per cui, all’inizio di ogni capitolo, ci sarà un
piccolo
scorcio sul significato della carta che ha dato il nome ad ogni parte.
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Capitolo 2 *** La Temperanza ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
2 - La Temperanza
Nei Tarocchi,
la carta della Temperanza è medicina naturale, energia che fluisce per
trasfondere forza, per guarire, per trasformare. Temperanza che porta a
guardare con senso d’indifferenza a tutto ciò che la vita presenta
sotto forma
di grettezza, insegnando la rassegnazione. Può indicare sensibilità
profonda,
ricettività a tutto ciò che ci circonda, e ancora: senso di pace, di
dolcezza,
di riposo.
Al negativo, però, può indicare una natura apatica e instabile. Si può
giungere
a un’apatia totale, una passività negativa, o eccedere in certi settori
di
vita.
Gemma
estrasse per l’ennesima volta lo stiletto dalla cintura e ricominciò a
giocherellarci, cercando di ingannare l’attesa, sempre più snervante.
Ancor più
che dal ritardo dei suoi collaboratori, era seccata al pensiero di
quello che
stava per accadere.
Non
era la prima volta che aveva a che fare con Al-Rahim, ma in ogni
occasione
sperava e pregava che fosse l’ultima. La sua riapparizione voleva dire
lunghi
viaggi in tutta Italia, per tentare di stare al passo con i suoi
spostamenti,
oltre che interminabili interrogatori tutt’altro che piacevoli con
chiunque
avesse avuto la sfortuna di incontrare quell’uomo che tanto insisteva
nel farsi
chiamare il Turco.
E
soprattutto, quell’incarico comportava frequenti visite in Vaticano,
presso Sua
Santità. Al solo pensarci, strinse lo stiletto con tutta la forza di
cui era
capace, pur di opporsi alla tentazione di lanciarlo e conficcarlo nella
prima
superficie disponibile; una forza tale da far emergere il segno di un
anello
sotto la pelle nera dei guanti.
Prese
un profondo respiro e concentrò i suoi pensieri su tutt’altro, o ci
avrebbe
guadagnato solo una grande e dolorosa rabbia. Pur di distrarsi, rivolse
la sua attenzione
allo stiletto, al movimento fluido ed elegante con cui lo rigirava tra
le mani,
qualsiasi mossa volesse compiere. Quasi le scappò una risata nel
rifletterci:
aveva imparato ad impugnare e ad usare quell’arma ancor prima di
studiare le
basi della religione cattolica.
A
quale scopo investire tempo e denaro in una preparazione culturale, se
si fosse
rivelata incapace di combattere? Con ogni probabilità Sisto aveva
seguito
quello stesso ragionamento, facendo iniziare il suo addestramento
quanto prima
possibile.
Ed
eccola lì, in grado di impugnare un’arma da quando aveva appena otto
anni, ma a
volte incapace di recitare a comando gli insegnamenti della Bibbia.
D’altro
canto, si ritrovava a ventiquattro anni con due terzi della sua vita
trascorsi
al servizio della Santa Madre Chiesa, più o meno ufficialmente,
impegnata in
allenamenti ed addestramenti serrati e senza tregua, per mantenerla
degna di
essere definita il gioiello più prezioso
del Vaticano.
E
in contesti più nascosti, l’arma più
potente del Vaticano.
Titoli
che suonavano entrambi prestigiosi, di cui andare fieri, ma per Gemma
altro non
erano che macigni, onnipresenti sempre e comunque. A volte
sopportabili, a
volte così pesanti da impedirle di respirare.
Il
suono, ormai familiare, della serratura della porta la destò dai suoi
pensieri.
In tanti anni aveva attraversato quel passaggio segreto molto più
spesso dell’entrata
principale. I soliti discorsi sulla segretezza e sul bisogno di
discrezione.
Con
il suo caratteristico passo pesante e grezzo, il capitano Grunwald
comparve
nella sala, dopo aver superato un’imponente libreria colma di libri e
manufatti, e cercò Gemma con lo sguardo.
La
trovò seduta su uno dei maestosi tavoli degli Archivi, anch’essi
tutt’altro che
utili ad esplorare ed esaminare i tesori lì custoditi, ma volti solo ed
esclusivamente ad esibire e ad ostentare tutta la ricchezza posseduta
dalla
Chiesa. Probabilmente era stato usato più oro per decorare quello
scrittoio che
non per una corona.
Non
a caso, era il preferito di Gemma. Ogni volta che aveva la possibilità
di stare
da sola negli Archivi, senza papa Sisto nei paraggi, saltava sul quel
tavolo e
si sedeva sul bordo, rigorosamente con la più regale e raffinata delle
posture:
schiena dritta, una gamba accavallata sopra all’altra, e le mani
elegantemente
congiunge davanti a sé. Oppure, come in quel caso, impegnate a
giocherellare
con il suo amato stiletto.
Quando
la giovane donna rialzò gli occhi su di lui, però, lo sguardo che gli
rivolse
era molto più tagliente della sua arma preferita.
«Mi auguro che questo ritardo sia
seguito da un’ottima spiegazione», tuonò severamente, rallentando il
movimento
del pugnale nelle sue mani. «Ad esempio, che il Turco ha rinunciato
alla sua
missione suicida e che il mio lavoro qui è già finito», aggiunse, con
un
sorriso sarcastico e di pura cortesia.
«Purtroppo no, contessa Riario»,
rispose il capitano, con insolita umiltà.
In
una qualsiasi altra situazione, sarebbe stato bravissimo ad intimidire
il suo
avversario, aiutato anche dal suo aspetto minaccioso ed aggressivo. Ma
ogni
regola ha la sua eccezione, e per Grunwald quell’eccezione era Gemma.
«Certo che no», mormorò la giovane
donna, la voce impregnata di ironia. «Avanti, che altro dovete dirmi?
Ho già
perso abbastanza tempo», continuò poi, seccata.
«È ancora a Firenze, e molti altri
indizi indicano che anche il Libro si trovi-…», ma Gemma sollevò una
mano e
schioccò le dita: un tacito modo di zittirlo. E di umiliarlo, allo
stesso
tempo.
«Sono certa di non aver aspettato
tanto a lungo solo per avere la metà delle informazioni che ho
chiesto», disse
la contessa, volgendo lo sguardo verso il punto dal quale era comparso
il
capitano.
Pochi
secondi dopo, infatti, negli Archivi echeggiò il suono di altri passi,
molto
più lenti ed insicuri di quelli di Grunwald, e poco dopo girò l’angolo
un
secondo personaggio, completamente celato sotto ad un pesante mantello
di
velluto scuro.
«Quanta teatralità», commentò la
contessa, alzando gli occhi al cielo. «Siete una spia della Chiesa, non
il
personaggio di un qualche spettacolo teatrale», aggiunse poi, con tono
di
rimprovero.
Dovette
attendere qualche altro istante prima che il secondo ospite rinunciasse
a
quell’ultima barriera protettiva, costituita dal cappuccio del
mantello. Attesa
che non fece altro che infastidirla più di quanto già non lo fosse.
Con
un’espressione che tentava, invano, di celare l’irrequietezza, Madonna
Donati
fece la sua comparsa, lo sguardo dritto a terra e il labbro inferiore
torturato
con i denti per scaricare il nervosismo.
«Altro silenzio?», chiese Gemma, in
quella che non suonava affatto come una domanda, ma come una minaccia.
«Perché,
in tal caso, temo di non avere abbastanza pazienza per tollerarlo»,
precisò
poi, l’espressione severa e le mani fasciate dai guanti di pelle nera
che già
armeggiavano con lo stiletto.
«Il Turco ha avuto successo»,
rispose Lucrezia, e un secondo dopo la sua espressione si fece ancora
più tesa,
rendendosi conto che non avrebbe potuto scegliere parole peggiori,
soprattutto
visto l’umore già molto alterato della contessa. «Ha… ha trovato
qualcuno
interessato al libro», balbettò poi, con umiltà.
«Di bene in meglio», mormorò Gemma,
poggiandosi una mano sulla fronte e chiudendo gli occhi, nel tentativo
di
ritrovare un po’ di autocontrollo. «Chi è lo stolto di turno?», domandò
poi,
desiderosa di porre fine a quell’incontro il prima possibile.
«Un artista…», rispose Lucrezia. «…il
cui nome è Leonardo da Vinci».
«I Medici lo hanno assunto per progettare
armi da assedio», aggiunse Grunwald, capendo che la giovane fiorentina
non
sarebbe stata di alcun aiuto per accorciare la durata di quel
colloquio.
«Un artista?», ripeté Gemma,
dapprima perplessa. «Sarebbe questa la terribile notizia che tanto
temevate di
comunicarmi? Che dovrò occuparmi di un surrogato di giullare armato di
pennelli?», continuò retorica e sempre più divertita.
«Questo artista è diverso dagli
altri», tentò nuovamente Madonna Donati, e la sua sarebbe anche suonata
come
un’obiezioni audace, se solo non fosse stata minata dalla sua
espressione
intimidita e a disagio. «Le sue idee sono… insolite, rivoluzionarie».
«Avete catturato la sua attenzione: questo
pone già un limite alla sua intelligenza», ribatté Gemma, con un
sorriso
impegnato di falsità.
La
giovane fiorentina apparve visibilmente offesa, ma il timore ebbe la
meglio e
la costrinse a tornare docile e accondiscendente.
«Bene», mormorò Gemma con sarcasmo,
scendendo dal tavolo con una grazia a dir poco surreale. «Continuate a
tenerlo
d’occhio, così come il Magnifico. Voglio tutte le informazioni che il
vostro
presunto bel visino riesce ad estorcere», ordinò, schioccando le dita
in
direzione della fiorentina.
«Certamente», rispose Lucrezia, con
un filo di voce e il desiderio di allontanarsi il prima possibile.
Con
un gesto annoiato, Gemma la congedò, per poi lasciarsi sfuggire un
sospiro
pregno di seccatura.
«Sellate i cavalli, capitano
Grunwald», aggiunse poi, rivolta al suo collaboratore. «Firenze ci sta
aspettando».
«Qual è il vostro piano, contessa?»,
indagò l’uomo, con tutta l’accortezza che il suo istinto di
sopravvivenza gli
stava gridando di usare.
«Avere questo artista», rispose
Gemma, armata della risolutezza che da sempre caratterizzava il suo
nome. «Con
le buone o con le cattive».
Angolo
dell’autrice
Un
altro buonsalve a tutt* voi!
Ho
visto un bel numero di visite in queste prime due settimane e ne sono
davvero felicissima.
Quindi, con un gran sorriso in viso, vi lascio il secondo capitolo.
Come il
primo, ha un ritmo più lento e di presentazione, ma dal prossimo
l’azione si
sposta tutta a Firenze e cominceranno le scintille.
Vi
ringrazio di nuovo per aver letto e se vorrete lasciare un commento vi
ringrazierò doppiamente.
Appuntamento
tra due settimane!
Un
bacione grandissimo
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 3 *** L'Imperatrice ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
3 - L’Imperatrice
Nei Tarocchi,
la carta dell’Imperatrice rappresenta la luminosità dell’intelligenza
che
genera pensiero e comprensione. Indica forme e idee, rivela studio e
riflessione, sapere. Dominio esercitato con la bontà e l’affabilità,
che vuole
esprimersi in un’educazione materna. È, ancora, indice di fecondità, di
ricchezza interiore, di generosità.
Al negativo, però, riflette superficialità, prodigalità eccessiva,
intento di
seduzione, vanità e desiderio di lusso.
«Devo
scambiare due parole con te. Abbiamo trovato delle impronte l’altra
notte nel
cimitero: quelle di un asino, di un uomo… e quelle di un ragazzo, che
indossava
scarpe dalla punta allungata. Esattamente come quelle che indossi tu».
Il
piccolo scagnozzo reclutato dalle guardie svizzere, il signor Morgante,
non
disse altro, prima che il suo compare colpisse Nico alla nuca e lo
tramortisse.
I
due uomini attraversarono velocemente le viuzze di Firenze, ben attenti
a non
essere visti da nessuno, e caricarono il giovane su una carrozza,
avendo cura
di coprirgli la testa con un cappuccio di stoffa scura.
Arrivati
all’accampamento dei soldati di Roma, il signor Morgante scese per
primo, e
cercò con lo sguardo il braccio destro del mandante del rapimento: il
capitano
Grunwald. L’uomo, senza scomporsi eccessivamente, fece cenno di portare
il
collaboratore di da Vinci su un piccolo sgabello di legno, davanti ad
un
elegante tavolino dipinto di nero.
Alcuni
lamenti provenienti dalla carrozza avvertirono i presenti che il
giovane
fiorentino aveva ripreso conoscenza, ma legato ed incappucciato non
poteva
sapere dove fosse diretto.
E,
soprattutto, chi stesse per incontrare.
Le
guardie lo strattonarono fino al salottino improvvisato nel giardino e
lo
fecero inginocchiare a terra, con le braccia ben ferme dietro la
schiena. Da
sotto il cappuccio, non si udivano che singhiozzi sommessi e respiri
tremolanti.
Dall’altra
parte del tavolino, il suono di passi lenti e calcolati venne attutito
dal
soffice manto erboso, e l’ospite si prese tutto il tempo di cui aveva
voglia
per sedersi su un’elegante poltroncina rivestita di tessuti preziosi.
Sollevò
lo sguardo verso una delle sue guardie e le bastò un semplice cenno del
capo
per dare ordine di togliere il cappuccio al ragazzo. L’uomo annuì con
rispetto
e liberò il fiorentino dalla maschera.
Nico
sussultò per la sorpresa ed iniziò a guardarsi intorno, con il terrore
negli
occhi e il respiro bloccato in gola, le guance rigate dalle lacrime e i
capelli
arruffati. Un attimo dopo, il suo sguardo si soffermò sulla donna
seduta di
fronte a lui, l’espressione assolutamente imperturbabile, calma,
tutt’altro che
propensa a lascia trapelare un indizio sulle sue intenzioni.
«Sapete
chi sono?», domandò la giovane donna, chinando di poco la testa di
lato, la
voce morbida e vellutata, senza alcuna traccia di turbamento. «Sono
Gemma
Riario. Contessa di Imola, guida della Santa Romana Chiesa e nipote di
Sua
Santità, papa Sisto IV».
Nico
a malapena riuscì a sentire le sue parole, tanto attanagliato dalla
paura, e
nessun suono lasciò le sue labbra, mentre lo sguardo vagava di nuovo da
un
soldato all’altro.
«Sì,
lo so», commentò la contessa, con un sospiro annoiato. «Rimangono tutti
sempre
molto sorpresi di vedere una donna», continuò, con una naturalezza e
una
tranquillità a dir poco disarmanti, ben poco appropriati al contesto.
«Volevano
un figlio maschio. Lo avrebbero chiamato Girolamo. Ma poi sono arrivata
io».
Il
povero Nico non fece nulla per celare tutta la sua confusione, troppo
sopraffatto dalla situazione e dalla valanga di informazioni, e guardò
la
giovane donna con lo sguardo impaurito e spaesato.
«Ma
il titolo di Gioiello più prezioso del
Vaticano non sarebbe suonato altrettanto bene», aggiunse poi, con
una punta
di orgoglio. «Ci si adegua al meglio delle proprie capacità».
Non
vedendo alcuna reazione da parte del giovane fiorentino, diversa da
singhiozzi
e sussulti, Gemma sospirò e riportò la sua attenzione sugli affari più
urgenti.
«Il
signor Morgante ci ha informati delle vostre gesta da sciacallo»,
disse,
indicando l’uomo in questione con un elegante e leggiadro gesto della
mano.
«Non
so di cosa stiate parlando…», mormorò Nico, con quel poco di coraggio
che era
riuscito a raccogliere, ma tradito dalla voce incerta e malferma.
«Non
sprecate così le vostre forze, Nico», lo interruppe Gemma, con una vena
di
gentilezza che forse, in altre circostanze, sarebbe potuta sembrare
quasi
sincera. «Sappiamo così tanto, su di voi e sul vostro artista, che ogni
tentativo di negare sarebbe solo una perdita di tempo», continuò,
accavallando
una gamba sopra l’altra.
«Emm…
Vostra Eccellenza…», si intromise il signor Morgante, muovendo qualche
passo incerto
verso la contessa. «C’era… la questione del mio compenso».
A
quelle parole, Gemma sollevò lo sguardo verso la guardia con un che di
sorpreso,
mentre le dita delle mani giocherellavano con i guanti di pelle.
«Oh,
sì, certamente», rispose poi, accennando un altro dei suoi sorrisi,
all’apparenza
quasi sincero. «Capitano Grunwald?», chiamò poi, sollevando appena la
mano destra
verso il suo collaboratore.
Confuso,
Nico seguì tutta la scena con lo sguardo, nella vana speranza che quel
piccolo
imprevisto potesse distrarre l’attenzione della contessa dalla
questione
riguardante da Vinci. Il tempo di vedere il luccichio della spada di
Grunwald
sguainata, e un istante dopo quella stessa spada decapitare il signor
Morgante
con un solo unico colpo, e la sua illusione svanì immediatamente.
Degli
schizzi di sangue gli sporcarono il viso, e il ragazzo cercò di voltare
il capo
altrove, ma la guardia alle sue spalle lo fece tornare subito al suo
posto.
«Oh
mio Dio…», fu tutto ciò che riuscì a dire Nico, mentre il suo sguardo
tornava
sul volto di Gemma, sulla sua totale mancanza di turbamento o di
rimorso per
quanto appena fatto.
«Questa
convinzione di potermi credere innocua solo in quanto donna…», mormorò
Gemma,
con un che di fastidio nella voce. «Per quanto io ci sia abituata, è
sempre una
seccatura», aggiunse, prima di prendere un respiro profondo e tornare
concentrata sul giovane fiorentino. «Sappiamo del cadavere dell’ebreo
trafugato, quindi evitiamoci tante cerimonie inutili: a cosa è dovuto
l’interesse dell’artista in tutto ciò?»
Nonostante
le notevoli difficoltà nel respirare, Nico mantenne il suo silenzio,
cercando
di concentrare le forze nel tenere il suo corpo sotto controllo,
percorso dai
brividi per la paura. Il suo sguardo tornò sulla contessa, come si
aspettasse
un briciolo di pietà da un momento all’altro, ma l’espressione della
giovane
donna rimase imperscrutabile.
L’unica
emozione che fece capolino, dopo qualche altro secondo privo di parole,
fu la
noia, di fronte a quell’ennesima perdita di tempo.
«Ho
capito», mormorò Gemma, rivolgendo al suo fedele braccio destro un
altro cenno
della mano.
Al
suo segnale, due uomini si avvicinarono ad un tavolino poco distante,
ed
afferrarono uno strano oggetto: ad un primo sguardo, non sembrava altro
che uno
scrigno nero con una piccola maniglia bianca sul lato superiore. Uno
dei lati,
tuttavia, era decorato con una candida scultura raffigurante una
giovane donna,
dagli occhi vuoti e vacui.
«Arriverà
il giorno in cui non dovrò arrivare a tanto per essere ascoltata»,
mormorò
Gemma, con un sospiro di rassegnazione. «Ma quel giorno non è oggi», e
un
istante dopo, Nico si sentì strattonare una mano e forzato ad inserirla
nella
scatola; con un piccolo giro della leva, gli venne negata ogni
possibilità di
liberarsi.
«No…»,
mormorò con un fil di voce, in un’ultima supplica.
«Si
chiama Lacrima della vedova», spiegò
Gemma, con la stessa calma che aveva caratterizzato l’intera
conversazione
dall’inizio fino a quel punto. «La fonte del vostro fastidio è
un’affilata
creazione: una lima a punta diamantata», continuò, raddrizzandosi sulla
sedia
solo per potersi sporgere maggiormente verso il suo interlocutore. «Una
gemma.
Che coincidenza», aggiunse, con un sorriso sarcastico.
Poco
dopo, però, il sorriso scomparve, proprio nel momento in cui la mano
della
contessa si strinse attorno all’impugnatura, iniziando a farla girare.
«Un
semplice giro, ed ecco che il diamante incide, molto lentamente, il
dorso della
mano. Uno strato di epidermide alla volta», mormorò, e a riprova delle
sue
parole giunsero i lamenti sommessi di Nico, mentre la lama gli feriva
la mano,
lentamente ma dolorosamente.
Completato
il giro, Gemma tornò seduta composta sulla sedia, con le braccia
distese sui
braccioli della poltrona, e un sospiro venato di sofferenza lasciò le
sue
labbra prima che lei potesse fermarlo.
«Proviamo
un’altra volta: perché l’artista voleva il corpo dell’ebreo?», domandò
la
contessa, e non ebbe alcun controllo nemmeno sulla flebile speranza che
si
accese in lei che il giovane Nico capisse che il tempo di mostrarsi
forte era
finito.
Non
ricevendo altro che silenzio, però, le sue possibilità di scelta si
azzerarono,
e suo malgrado dovette tornare dritta sulla sedia.
«Un
altro giro, allora», mormorò, allungando di nuovo la mano verso la
maniglia e
stringendola con più forza del dovuto.
Stava
per girarla di nuovo, quando il giovane fiorentino singhiozzò.
«No,
vi prego», la implorò, con un filo di voce, prima che un altro
singhiozzo gli
bloccasse il respiro in gola.
Gemma
fece quanto in suo potere che mascherare quel accenno di sorriso come
un’espressione soddisfatta e compiaciuta, e tornò ad osservare il
ragazzo.
«Sto
ascoltando», mormorò, accavallando di nuovo una gamba sopra l’altra e
congiungendo le mani sopra al ginocchio.
«Cercava…
qualcosa», rispose Nico, sollevando debolmente lo sguardo.
Con
il suo ormai caratteristico cenno della mano, radunò i suoi soldati,
ordinando
così loro di essere pronti a partire.
«Che
cosa?», lo incoraggiò, con tono calmo e pacato.
«Una
chiave».
Per
quanto Gemma fosse addestrata a cavarsela in qualsiasi tipo di
situazione,
dalle più diplomatiche alle più scomode, in cui doveva sporcarsi le
mani in
prima persona, per una volta decise di delegare alle sue guardie il
compito di
perquisire da cima a fondo la bottega di Leonardo, in cerca della
chiave che, a
detta di Nico, si trovava da qualche parte tra quelle mura.
Con
ogni probabilità, la contessa era stata baciata dalla fortuna quel
giorno e,
grazie alla decisione di non seguire le guardie svizzere a Firenze, era
scampata all’esplosione innescata dal piccolo apprendista di Leonardo.
Quanto
meno, i suoi scagnozzi erano stati addestrati altrettanto bene, o
almeno
avevano imparato quando fosse il caso di fermarsi ed affrontare il
nemico e
quando invece scappare via. Ragion per cui, sentita la voce di Andrea
che
correva nella bottega, erano spariti nelle ombre della città, lasciando
Nico e
la sua mano sanguinante nel mezzo della bottega, sotto lo sguardo
preoccupato
di Andrea.
«Ma…
per tutti i diavoli!», esclamò Verrocchio, guardandosi intorno e stando
ben
attento a non avvicinarsi troppo alle fiamme ancora vive dell’incendio.
«Cos’è
accaduto qui?», domandò, avvicinandosi preoccupato a Nico.
Dietro
di lui, anche Leonardo e Zoroastro entrarono nello studio, entrambi
allibiti di
fronte ai danni provocati dallo scrigno esplosivo.
«Quegli
uomini sono spie del papa», mormorò l’artista, con ben poche tracce di
dubbio
nella sua voce.
«Non
ti bastava scontrarti con i Medici? Ora anche…», esclamò Andrea, la
rabbia
volta solo a mascherare la preoccupazione e la paura che lo
attanagliavano.
«Leonardo… stai parlando del papa», aggiunse, con un filo di voce, e
non volle
nemmeno provare ad immaginare cosa poteva comportare
quell’affermazione.
«Che
potrebbe fare? Strapparci le viscere con una forchetta arrugginita?»,
si
intromise Zoroastro, cono tono annoiato.
Leonardo
però non lo sentì nemmeno: il suo sguardo era caduto sul suo
apprendista, sulla
sua mano ferita e sanguinante, sulle sue guance rigate dalle lacrime e
sulla
sua espressione sconvolta.
«Nico…
chi ti ha fatto questo?», domandò, prendendogli delicatamente il polso
ed
esaminando la lesione.
«La
contessa Riario», rispose il giovane, con voce incerta.
In
quella che era sicuramente la reazione meno appropriata, Zoroastro
scoppiò a
ridere, sotto lo sguardo di rimprovero di Andrea.
«Una
donna?», ripeté, divertito. «L’istinto materno nei confronti di un
bambino
indifeso non ha prevalso?»
«Non
c’era nulla di umano o di compassionevole in lei», borbottò il giovane,
abbassando lo sguardo al solo ricordare quell’incontro.
«Nessuno
può resistere a questo bel faccino», commentò ancora l’amico,
avvicinandosi al
biondino e pizzicandogli le guance.
«Zoroastro»,
lo ammonì Leonardo, con un’occhiataccia tutt’altro che amichevole.
«Abbiamo un
problema serio», aggiunse, cercando di riportare la conversazione su
ciò che
era davvero importante.
«Andiamo,
non è umanamente possibile resistere allo sguardo da cucciolotto del
nostro
Nico», proseguì Zo imperterrito, con lo stesso tono che avrebbe usato
per
rivolgersi ad un bambino, e con le dita che gli scompigliavano i
capelli.
«Te
l’ho detto: era spietata e priva di rimorsi», ribatté Nico, alzando la
mano
sana per fermare l’amico da quei giochetti.
«Immune
a qualsivoglia emozione?», chiese il moro, con lo sguardo
improvvisamente
attento.
«Fredda
come il ghiaccio», mormorò l’apprendista, impaurito anche dal solo
ricordo.
«Abbastanza
da resistere al fascino…», iniziò
Zoroastro, usando tutto il sarcasmo di cui era capace per l’ultima
parola. «…di
un certo artista presuntuoso di nostra conoscenza?»
«Non
penso sappia nemmeno cos’è un’emozione», bofonchiò l’amico, andando a
cercare
uno straccio bagnato con cui ripulirsi la mano insanguinata.
«Interessante»,
commentò il moretto, con un sorrisetto che non prometteva nulla di
buono.
«Davvero molto interessante», ripeté, spostando lo sguardo su Leonardo.
«Non
c’è niente di interessante», ribatté subito l’artista, mentre aiutava
Nico a
medicare la ferita.
«Io
penso di sì, invece. Sono certo che uno scontro…»,
iniziò, calcando l’ultima parola di malizia. «…tra voi due sarebbe
molto
intrigante».
«Con
il piccolo braccio destro del papa? No, grazie», rispose l’artista,
fingendo di
rabbrividire alla sola idea.
Aveva
già abbastanza guai di cui occuparsi, senza che la Santa Romana Chiesa
gli
inviasse la sua piccola pietra preziosa a procurargliene altri. E visto
quello
che era stata in grado di fare a Nico, senza alcun rimorso come da lui
narrato,
non voleva nemmeno immaginare quali altri trucchetti avesse in serbo.
«Una
donna con le palle, non capita tutti i giorni», commentò
tranquillamente
Zoroastro, con un che di intrigato al solo pensiero. «Sono certo che
non
riusciresti a tenerle testa», affermò poi, puntandogli il dito contro.
Leonardo
scelse di ignorarlo, trovando l’idea, al contrario dell’amico,
tutt’altor che
allettante. E sicuramente nemmeno il suo orgoglio da egocentrico
artista pieno
di sé avrebbe gradito una sottomissione del genere.
«Un
bocconcino estremamente prelibato», continuò Zoroastro, rincarando la
dose,
mentre si avvicinava a lui. «Allettante... vero, artista?», gli
sussurrò, a
bassa voce.
«Come
no», borbottò il maestro, con non poco sarcasmo. «Te lo farò sapere
quando uno
di noi due finirà con un pugnale in gola».
Ovviamente,
però, l’amico scelse di concentrarsi solo sull’unico dettaglio che
poteva
tornargli utile, e proseguì nella sua tanto decantata teoria con un
sorrisetto
malizioso, mentre incrociava le braccia al petto ed assumeva un’aria
sognante.
«Voi
due…» ripeté, fingendosi estremamente concentrato. «Suona bene»,
sentenziò poi,
annuendo più e più volte con la testa. «È un buon inizio».
Per
sua sfortuna non ricevette alcuna risposta e, quando ebbe riportato lo
sguardo
sulla vittima delle sue ipotesi, trovò Leonardo intento ad ignorarlo e
a
prendersi cura della ferita alla mano del povero Nico. Di fronte alla
scena,
Zoroastro capì di non potere altro, e si abbandonò ad un sospiro di
sconforto.
«Staremo
a vedere».
Angolo
dell’autrice
Ormai
ci ho preso gusto quindi ripropongo il buonsalve a tutt*!
Passate
le dovute presentazioni e inquadrato il personaggio di Gemma (be’, più
o meno,
altrimenti sarebbe troppo facile), possiamo iniziare a muovere le
pedine sulla
scacchiera.
Il
velato accenno al vero Girolamo Riario era una tentazione a cui non
saputo
resistere. E ogni tanto nella mia mente prende forma un adorabile
quadretto in
cui esistono entrambi, ma questa è un’altra storia.
In
ogni caso, sono due personaggi diversi e con storie diverse, e così
sarà nel
resto dello sviluppo della storia.
A
spezzare la tensione ci pensano comunque Zoroastro e la sua lingua
lunga, una
combo che non guasta mai.
Nella
speranza di avervi intrigato e divertito, a seconda delle scene, ci
rileggiamo
tra due settimane.
Un
bacione grandissimo
Amy
W. Gildeary
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Capitolo 4 *** La Luna ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
4 - La Luna
Nei Tarocchi, la
carta della Luna raggruppa le apparenze, la forma visibile delle cose,
le
illusioni della fisicità e della materialità. È fantasia,
capricciosità,
originalità, ma anche errori e pregiudizi, spirito credulone. Incorpora
le
superstizioni e la passività mentale. È impressionabilità ed emotività.
Al negativo, però, indica i legami materiali che immobilizzano,
situazioni
equivoche, inganno. Può indicare la minaccia, l’adulazione.
La
piacevole
brezza della sera era un sollievo dopo la soffocante calura che aveva
predominato durante tutta la giornata, in seguito al temporale. Le
torce accese
in tutta la radura resistevano a fatica contro il vento che soffiava
sulla
collina, ma un paio di schiavi al servizio della contessa avevano
premura di continuare
a ravvivare le fiamme.
Gemma
sedeva
comodamente su una morbida poltrona, al centro del prato, e teneva gli
occhi
chiusi e il mento alto, inspirando profondamente l’aria fresca delle
ore buie
della giornata. Le gambe accavallate, un braccio rilassato e poggiato
su un
bracciolo, mentre con l’altra mano giocherellava con l’anello che
teneva all’anulare
destro.
Sentì
il tipico
suono di un cavallo al galoppo avvicinarsi sempre di più alla radura,
ma invece
di recuperare immediatamente le formalità che si devono agli affari,
rimase
ancora qualche secondo a godersi gli ultimi istanti di tranquillità
prima di
rimettere i guanti. Metaforicamente e letteralmente.
Ad
occhi
chiusi, sentì il capitano Grunwald lasciare il suo posto, alla sua
destra, per
avvicinarsi al perimetro del prato, andando così incontro all’ospite
che
cavalcava il suo destriero. Gemma invece non aveva bisogno di
disturbarsi, già
conosceva l’identità del visitatore.
Quando
poi
sentì il cavallo nitrire e fermarsi a pochi passi da lei, sbuffò
infastidita,
ormai consapevole che il suo breve momento di tranquillità era finito.
«L’ospite
che stavamo aspettando con impazienza», mormorò, ogni parola intrisa di
sarcasmo, mentre si alzava dalla poltrona ed indossava di nuovo i suoi
guanti
di pelle nera.
Madonna
Donati
abbassò il cappuccio del mantello e si avvicinò alla contessa, il passo
molto
meno impertinente e sicuro di quello che Gemma si aspettava, e già quel
minimo
dettaglio fece scattare il primo campanello d’allarme.
«È
pericoloso per me essere vista mentre mi incontro con voi», esordì
Lucrezia, in
quello che molto probabilmente voleva essere un affronto, ma privo di
un tratto
fondamentale: l’impertinenza. «Ci sono occhi indiscreti ovunque a
Firenze».
Gemma
tentò di
essere seria ed interessata, ci provò davvero, ma già dopo le prime
parole non
riuscì a trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo con aria annoiata.
«Se
venissi fermata lungo la strada, desterei i sospetti di Lorenzo e delle
Guardie
della Notte», proseguì comunque la nobildonna, e la contessa rincarò la
dose,
portando una mano davanti alla bocca e mimando uno sbadiglio.
«Avete
finito?», chiese poi, non poco seccata. «Non ho alcun bisogno di una
predica
sulla discrezione, benché meno da voi», continuò poi, più severamente.
A
quelle parole
Lucrezia si zittì, deludendo le aspettative della contessa: era più che
sicura
che la giovane donna avrebbe proseguito, costringendola a lasciare da
parte le
buone maniere per ribadire la sua totale assenza di interesse per le
lamentele
della spia del Vaticano. Il che, innescò un secondo campanello di
allarme.
«Dal
momento che sembrate così ansiosa di concludere questo incontro quanto
prima,
ditemi: quali informazioni mi avete portato?», chiese Gemma, tornando a
sedersi
sulla sua poltrona.
Dati
i primi
indizi, non fu affatto sorpresa di vedere la paura negli occhi di
Madonna
Donati mentre le porgeva la più prevedibile delle domande, considerato
il suo
ruolo di infiltrata. Né la stupì il silenzio seguente, così come lo
sguardo di
Lucrezia puntato verso il prato.
«Vi
prego, più lentamente e scandendo meglio le parole, oppure mi sarà
impossibile
capirvi», disse Gemma, portando una mano avanti e mimandole di
rallentare il
flusso, inesistente, di parole.
Di
nuovo, il
suo sarcasmo non ricevette alcuna reazione, quando normalmente Lucrezia
non
perdeva occasione per scontrarsi con la contessa Riario.
«Madonna
Donati…», l’ammonì Gemma, abbandonando il sarcasmo solo per ricorrere
ad un
tono più duro e minaccioso.
«Non
ho nulla», mormorò la fiorentina, senza mai sollevare lo sguardo in
quello
della donna di fronte a lei.
In
un primo
momento, la contessa finse un’espressione di confusione e perplessità,
mentre
si rialzava e si avvicinava a Lucrezia con passi lenti e brevi.
«Come,
prego?», chiese, nuovamente sarcastica.
«Non
ho nulla», ripeté Madonna Donati, rialzando il capo, ma la sua maschera
di
sicurezza era incapace di celare la paura che in realtà la stava
divorando.
Con
sua somma
sorpresa, invece, Gemma rise divertita, prima di proseguire la
conversazione
con un’insolita naturalezza, distante dalle minacce e
dall’intimidazione.
«Come
sarebbe a dire?», domandò, incrociando le braccia al petto. «Avete
avuto una
settimana di tempo per intrattenere il tanto celebrato da Vinci. Avete
entrambi
dimenticato come si conduce una conversazione?»
A
quelle
parole, Gemma vide Lucrezia irrigidirsi ulteriormente e farsi sempre
più
nervosa, e non le ci volle molto per capire quale spiegazione si
celasse dietro
al suo strano comportamento.
«Non
lo avete più incontrato», mormorò, un’affermazione più che una domanda
vera e
propria, ma la fiorentina non era affatto sorpresa dalla perspicacia
della
contessa.
«Ho
tentato, più e più volte», rispose l’altra, anteponendo prima di tutto
delle
precisazioni. «Ma non ha dimostrato alcun interesse in risposta, dalla
notte
del Carnevale».
Gemma
tentò con
tutte le sue forze di mantenere quell’aria leggera e rallegrata, ma il
suo
finto sorriso divertito si spense immediatamente, sostituito da un
sonoro
sospiro infastidito.
«Avevate
un compito. Uno solo», sibilò tagliente. «Trovare da Vinci, sedurlo,
farlo
parlare e poi riferire tutto a me. Quale parte non era chiara?»
«Ho
tentato», ripeté Lucrezia, ma Gemma la zittì alzando una mano in aria.
«Ma
ciò nonostante, io non ho le informazioni che ho chiesto», rispose la
contessa,
non poco infastidita.
«Non
è interessato, e non si è fatto alcuno scrupolo nel respingermi», si
giustificò
Lucrezia, e l’orgoglio ferito non tardò a mostrarsi nel suo tono di
voce e
nella sua espressione.
«Oh,
ma poverina», piagnucolò Gemma, con tutto il suo tipico e tagliente
sarcasmo. «Dev’essere
spiacevole fallire nell’unica cosa che si è capaci di fare», aggiunse
in un
bisbiglio, con una pietà palesemente falsa.
Lucrezia
serrò
con forza i denti, e cercò di esprimere tutto l’odio che provava
solamente
attraverso il suo sguardo, ma era la prima a sapere che sarebbe stato
assolutamente
inutile contro qualcuno come la contessa Riario.
«Quindi
non dovrei nemmeno sprecare il mio fiato chiedendovi se ha mai
menzionato una
chiave o un ebreo», proseguì, seccata.
La
spavalderia
e l’insolenza di Madonna Donati evaporarono immediatamente, perché
sapeva
benissimo che quel tono di voce non precedeva nulla di buono, e dovette
dare
fondo a tutto il suo coraggio anche solo per scuotere la testa in un
cenno di
dissenso. Nemmeno il suo sguardo fu immune alla paura, e tornò a
fissare il
prato sotto ai suoi piedi.
«Non
ci posso credere», sibilò Gemma, alzando gli occhi al cielo.
Sbuffò
pesantemente, prima di voltarsi verso i suoi uomini e schioccare le
dita, e i
soldati obbedirono immediatamente, correndo a recuperare la cassa di
legno che
si trovava nella tenda della contessa.
«Strano,
tuttavia. Ero fermamente convinta che voi foste il suo tipo», mormorò
Gemma,
rivolgendosi di nuovo a Lucrezia e riuscendo a risollevare il suo
sguardo con
aria perplessa, in una tacita domanda. «Respirate», precisò lei,
facendo spallucce
con finta innocenza.
«Lo
sottovalutate», mormorò la fiorentina a denti stretti, vistosamente
indignata.
«Chi?
Io? Non oserei mai», rispose Gemma, ironica, voltandosi verso i suoi
soldati ed
afferrando un paio di oggetti dalla cassa di legno appena portata.
Il
primo
oggetto fu una piccola ampolla di vetro, dal contenuto misterioso.
«A
che serve?», domandò Lucrezia, prendendola tra le mani.
«Le
istruzioni arriveranno presto», fu la brusca risposta della contessa,
ancora irritata
dal cambio di programma nel suo piano.
Dalla
cassa poi
estrasse un timbro per imprimere il sigillo papale e un foglio di carta
arrotolato.
«Nel
caso riusciste miracolosamente a rivelarvi più interessante di quanto
io non
creda…», iniziò Gemma, molto scettica. «…comunicatemi le vostre
scoperte
utilizzando uno di questi punti sicuri sparsi in tutta Firenze. Già
conoscete
simboli e significati», proseguì, porgendole il tutto con fare
sbrigativo.
«Non
credo che da Vinci cambierà idea», mormorò Lucrezia, di nuovo
intimorita.
«Dovrò
pensarci io, allora», rispose Gemma, e congedò l’ospite con un cenno di
sufficienza.
La
guardò
risalire a cavallo e sparire dalla sua vista con una certa urgenza,
nemmeno lei
immune alle minacce più o meno velate della contessa Riario, né alla
sua
caratteristica risolutezza. Solo quando la spia fu lontana dalla
radura, Gemma
si voltò e si avviò verso la sua tenda nell’accampamento.
«Capitano
Grunwald», lo richiamò, schioccando le dita.
«Contessa
Riario», rispose lui, raggiungendola a passo svelto.
«Contro
ordine. Ci tratteniamo per un paio di giorni ancora».
Era
ormai notte
fonda quando Grunwald percorse di nuovo il perimetro del campo, per
controllare
che fosse tutto tranquillo.
Il
silenzio era
spezzato solamente dal verso di alcuni grilli, ben nascosti e al riparo
tra i
fili d’erba del prato. Al contrario, le guardie incaricate di
sorvegliare
l’accampamento non emettevano alcun suono, nemmeno un respiro più
marcato degli
altri. Restavano immobili, la lancia in una mano e lo scudo nell’altra,
e
attraverso la feritoia dell’elmo vigilavano tutt’intorno, pronte ad
attaccare
alla minima minaccia.
Il
compito di
difendere l’esercito e la contessa spettava a loro, eppure il capitano
stava
sottraendo ore preziose al suo riposo solo per assicurarsi che
l’accampamento
fosse al sicuro.
O
forse, più
precisamente, che una persona in particolare fosse al sicuro.
Concluso
il
giro di perlustrazione, fece per tornare nella sua tenda e tentare di
dormire
almeno qualche ora. Avrebbe giurato di aver camminato fino al suo
giaciglio e
di averlo raggiunto, eppure le sue gambe si erano mosse da sole e,
senza che
lui avesse modo di rendersene conto, aveva raggiunto l’angolo più
isolato del
campo: la tenda della contessa Riario.
Nonostante
fosse il momento di riposare, era molto probabile trovarla ancora
sveglia.
Cercando
di
essere discreto e di non produrre alcun rumore sospetto, si avvicinò a
una
delle fessure tra i lembi di stoffa della tenda. Non si sarebbe esposto
troppo,
pensò tra sé e sé. Giusto il tempo di controllare che andasse tutto
bene, e se
ne sarebbe andato immediatamente.
Eppure,
tutti i
suoi buoni propositi andarono in fumo nel momento in cui il suo sguardo
si posò
su di lei, sulla sua figura assopita in un sonno ristoratore, dopo il
lungo
viaggio verso Firenze. E quella che doveva essere una fugace sosta, una
breve
variazione rispetto ai suoi piani, si trasformò in tutt’altro.
Gemma
sembrava
così tranquilla, serena, in pace, ma le sarebbe bastato riaprire gli
occhi,
riprendere il contatto con la realtà, perché quella serenità le
scivolasse via
dalle mani. Perché il suo ruolo e la sua genealogia non le avrebbero
mai
permesso di vivere una vita normale.
Vedendola
in
quello stato, i ricordi riaffiorarono davanti ai suoi occhi senza che
potesse
controllarli, e Grunwald si ritrovò a pensare alla prima volta che
l’aveva
vista, quando aveva solamente dieci anni.
Era
così
piccola, ancora così lontana dalla violenza e dal male di quel mondo.
Eppure,
quando l’aveva guardata negli occhi, aveva notato che un pezzetto della
sua
innocenza era già stato portato via. Solo dopo qualche anno aveva
scoperto che
i suoi sospetti erano fondati, e che il suo addestramento per diventare
una
spia era già iniziato da un paio d’anni.
«Occupatevi
di lei, capitano Grunwald», gli aveva detto Sisto, a quel tempo ancora
Francesco
della Rovere, un semplice cardinale del Vaticano. «Fatelo, e saprò
ricompensarvi profumatamente, un giorno», gli aveva promesso con una
sicurezza
invidiabile, come se avesse già visto la sua nomina a papa nel futuro.
E
lui aveva
ubbidito.
Una
volta
conquistato quel titolo, Grunwald era tornato da lui, facendo leva sul
potere
che aveva acquisito e che, da quel momento in poi, sarebbe solo
aumentato.
«Occupatevi
di lei, capitano Grunwald», gli aveva ripetuto. «Continuate a farlo, e
la
vostra ricompensa sarà immensa».
E
lui aveva ubbidito.
Di
nuovo.
Non
aveva fatto
altro, per ben quattordici anni. E avrebbe continuato a farlo,
aggrappato a
quella promessa.
Il
suo sguardo
si focalizzò di nuovo su Gemma, sulle sue palpebre appena appena
truccate di
nero, sulle sue labbra leggermente schiuse, sulle sue gote arrossate
per il
freddo della notte.
L’aveva
vista
muovere i primi passi nell’arte del combattimento, anche se ancora
troppo
piccola per riuscire a reggere una spada da sola.
L’aveva
vista
crescere, perdere la sua innocenza, una briciola alla volta, e imparare
l’arte
della manipolazione, dell’intimidazione, dell’uccisione, una vittima
alla
volta.
L’aveva
vista
abbandonare la sua infanzia, e diventare una ragazza, poi una giovane
donna.
L’aveva vista impugnare il potere, diventando contessa di Imola e
controllando
nel palmo della mano tutto l’esercito della Chiesa.
L’aveva
vista
risplendere nei suoi successi.
E
l’aveva vista
crollare nelle tenebre del dolore, nel suo momento più buio.
E
suo malgrado,
una piccola fitta lo colpì al petto, ripensando a quella tragedia.
Quando
aveva
scoperto che il suo incarico sarebbe stato quello di badare ad una
bambina,
avrebbe voluto sfogare la sua indignazione in una grassa e sana risata.
E quello
sdegno era cresciuto, costantemente, vedendola acquistare sempre più
potere,
mentre lui restava al suo posto.
Un
fedele e
diligente servitore che veniva superato da una ragazzina così piccola
da avere
bisogno di un piedistallo per essere vista.
Ma
nonostante
tutta quell’ingiustizia, qualcos’altro era nato in lui, ed era
cresciuto di
pari passo con il risentimento e l’astio. Qualcosa che non riusciva a
definire,
o che forse non voleva definire, per il timore di dargli un nome.
Forse,
in altre
circostanze, l’avrebbe chiamata ammirazione. Forse devozione. Forse
affetto.
O
forse, era
solo fedeltà per il suo papa; l’attesa di avere, un giorno, quanto
promesso. Prima
o poi, sarebbe arrivato il suo momento. E con quel pensiero ben
ripetuto nella
sua testa, si allontanò.
Angolo
dell’autrice
Un
carissimo saluto e un buonsalve a tutt*!
Non
so se sono l’unica, ma nell’universo di Da
Vinci’s Demons tendo sempre a dimenticare che Girolamo e Lucrezia
sono
cugini; nel ricostruire la storia con Gemma, però, ho dovuto
ricordarlo. Nonostante
tutto, questo rapporto tra cugine continua a non essere dei migliori.
C’è di
diverso che la cara Madonna Donati non ha ottenuto grandi risultati con
il
geniale artista fiorentino di cui tutti parlano. Urge un piano
alternativo, no?
Per
questo capitolo ho un sorriso in più, e a dipingermelo in volto è il
piccolo
spazio ritagliato per il capitano Grunwald, personaggio a malapena
accennato
nella serie ma che ha destato la mia curiosità, e che ho voluto
inserire
dandogli più spazio. L’ambiguità del suo ruolo e, soprattutto, dei suoi
pensieri, è assolutamente voluta, ma sarei molto curiosa di sapere che
impressioni vi ha suscitato.
Non
dovrei fare spoiler, ma non posso resistere alla tentazione di dirvi
che il
prossimo capitolo è tutto ambientato a palazzo Medici. Per la
precisione, ad un
certo banchetto organizzato per accogliere la nipote del papa a
Firenze. E il
geniale Leonardo da Vinci potrebbe forse mancare?
Ci
rileggiamo tra due settimane!
Nel
mentre, un bacione grandissimo
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 5 *** Le Stelle ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
5 - Le Stelle
Nei
Tarocchi, la
carta delle Stelle indica la dea, la prima donna, Eva, che
impersonifica la
Natura e si rivela attivatrice di vita per gli esseri gravati dal peso
della
vita terrena, è la Natura in azione. Simboleggia la notte illuminata
dalle
stelle della speranza. È anche significativa di bellezza, di dolcezza,
sentimenti che devono far parte della vita dell’anima.
Risveglia le speranze, gli ideali, ridona poesia e filosofia alla vita,
ma è
anche sensualità, arte, sensibilità. È la giovinezza ingenuamente
seduttrice, è
il fatalismo.
Al negativo, però, indica presentimenti non sempre positivi, curiosità
morbose
che possono portare danni.
Leonardo
afferrò un altro bicchiere di vino dal piccolo tavolo alle sue spalle,
e si
voltò nuovamente verso gli invitati presenti al banchetto. Intravide
solo per
un istante Lucrezia, ma distolse subito lo sguardo, cercando
qualcos’altro che potesse
ricevere la sua attenzione.
«Ti
vedo pensieroso», commentò Zoroastro, affiancandolo con un calice in
mano.
«Non
amo particolarmente questo tipo di eventi», borbottò lui, mentre con la
coda
dell’occhio si assicurava che Madonna Donati si fosse allontanata.
La
loro piccola avventura di Carnevale era stata un interessante svago, ma
il
giorno dopo non era stata il suo primo pensiero appena sveglio, né il
suo
chiodo fisso durante la giornata. Se qualcosa non era in grado di
mantenere il
suo interesse più a lungo di un paio d’ore, non valeva altro tempo.
Lucrezia
non era riuscita a conquistarlo la prima volta, né c’era riuscita la
seconda,
durante un fugace incontro al mercato, o la terza, nella sua stessa
bottega. Il
suo interesse nei confronti dell’artista era senz’altro lusinghiero,
tuttavia
Leonardo non era capace di mentirle e preferiva, per una volta tanto,
tenersi
lontano dai guai.
«Solo
tu sei capace di rifiutare le attenzioni di un fiore come quello»,
bofonchiò
l’amico, probabilmente aiutato dal vino.
«Dovresti
gioire», commentò da Vinci, alzando le spalle. «Puoi tentare tu di
avvicinarla».
«La
favorita del Magnifico? Ti ringrazio ma, al contrario di te, io ci
tengo alla
mia pellaccia».
Leonardo
alzò gli occhi al cielo e lanciò un rapido sguardo alle sue spalle, di
nuovo
alla ricerca di qualcosa che destasse la sua curiosità.
«Per
l’amor del cielo e della terra…»
La
voce di Zoroastro lo distrasse di nuovo e l’artista si voltò, ancora
più
infastidito di prima.
«Che
c’è?», borbottò annoiato, ma la sua espressione mutò in perplessità
vedendo
l’amico imbambolato come una statua.
«Dimentica
Lucrezia, ecco qualcuno che vorrei davvero avvicinare», rispose con
malizia e indicò
con discrezione un punto dall’altra parte della sala.
Leonardo,
suo malgrado, seguì lo sguardo dell’amico, ma quando scoprì la causa di
tanto
interesse la sua mente parve svuotarsi da ogni pensiero.
Nella
sala del banchetto era appena giunta una giovane donna, un volto
sconosciuto a
Firenze e soprattutto all’artista. Si guardava intorno con attenzione e
sincero
interesse, al contrario di tante damigelle dall’aria impaurita oppure
annoiata.
I
suoi occhi vagavano da un dettaglio all’altro, accentuati da alcune
piccole
decorazioni dorate applicate agli angoli delle palpebre e sulle tempie,
che accarezzate
dalla luce brillavano quasi quanto il suo sguardo sveglio, vispo,
intrigante.
Alcuni
ospiti si fecero da parte per permetterle di passare, rivelando così un
abito
altrettanto affascinante. Al contrario di molti vestiti, colorati con
tinte
vivaci, il suo era il più cupo; tuttavia, a modo suo, brillava su tutti
gli
altri.
Un
aderente corpetto di broccato nero, impreziosito da alcune decorazioni
dorate, era
incorniciato da delle maniche morbide e abbondanti, lunghe fino ai
polsi, di un
lucido velluto nero decorato da sottili catenelle d’oro. L’abito dava
poi
spazio ad una gonna lunga fino a terra, anch’essa di velluto nero,
aperta con
uno spacco al centro a rivelare il prezioso broccato dorato
sottostante.
I
morbidi capelli castani, acconciati in soffici boccoli, ricadevano
dolcemente
sulle spalle fino alla vita, poco più corti rispetto alle altre
damigelle.
Nulla in lei si conformava agli altri invitati, benché meno la sua rara
ed
intrigante bellezza.
«Wow»,
mormorò Zoroastro, non riuscendo a formulare niente di più elaborato.
Leonardo,
d’altro canto, nemmeno riuscì ad aprire bocca, incapace di distogliere
lo
sguardo da quella misteriosa ma affascinante damigella. Solo vedendola
allontanarsi
verso un’altra sala il suo cervello parve risvegliarsi, e l’ultima cosa
che
voleva fare era perderla di vista.
Poggiò
frettolosamente il suo bicchiere sul tavolo e salutò il moro con una
pacca
sulla spalla, prima di lasciarlo solo.
«Oh,
sì, certo. Grazie, amico», borbottò Zoroastro, parlando ormai a sé
stesso. «Non
c’è di che, sono qui apposta per cederti le mie prede».
Leonardo
si fece largo tra gli ospiti, senza mai distogliere lo sguardo dalla
misteriosa
invitata, e tirò un sospiro di sollievo quando la vide fermarsi in un
angolo
più tranquillo e meno affollato. L’artista poté finalmente rallentare
il passo
e avere il tempo di aggiustare velocemente il suo aspetto e,
soprattutto,
recuperare il suo atteggiamento sfrontato e sicuro di sé.
«Un
volto nuovo nella città di Firenze», esordì, attirando l’attenzione
della
ragazza su di sé.
Un
solo suo sguardo, così vivace e stuzzicante, bastò a fermargli il cuore
per
qualche secondo. Non avrebbe dimenticato facilmente degli occhi tanto
belli.
«Se
posso presentarmi…», continuò, inchinandosi con garbo; le tese la mano
e la
giovane gli porse la propria. «Mi chiamo Leonardo da Vinci. Artista,
anatomista, ingegnere, inventore, pittore visionario… e anche di una
certa
fama, aggiungerei».
Posò
le labbra sulla mano della nobildonna, senza mai distogliere lo sguardo
dai
suoi occhi, ed indugiò ben oltre il necessario, ma nessuno dei due
parve
trovarlo un problema.
«Aggiungerei
la modestia al vostro già ricco elenco di qualità», rispose prontamente
lei,
con una nota di sarcasmo.
«Semplici
dati di fatto, Madonna. Ma possiamo sempre spostare la conversazione su
di
voi».
«Non
credo che il vostro ego lo permetterebbe», rispose lei, fingendo
un’aria
diffidente e vagamente dispiaciuta, ma la sostituì subito con un
sorriso
divertito.
«Potrebbe,
se vinto dalla curiosità», ribatté immediatamente Leonardo,
improvvisamente
impaziente di conoscere a quale nome rispondesse la prima damigella in
grado di
tenergli testa con tanta maestria.
«Una
dama ha ben pochi segreti, maestro da Vinci. Perché non mi parlate
ancora un po’
di voi?», disse però la giovane.
Eppure,
Leonardo si sentì ancora più curioso ed intrigato dalla sconosciuta, e
le
avrebbe raccontato qualsiasi cosa, anche la storiella più banale che
conosceva,
pur di non porre fine a quella conversazione.
«Acconsentirò
volentieri alla vostra richiesta se voi sarete così gentile da
concedermi un
ballo», azzardò, inclinando leggermente la testa di lato con un
sorrisetto.
La
ragazza lo osservò per qualche istante in silenzio, socchiudendo
leggermente
gli occhi come se lo stesse studiando, e l’aspettativa dell’artista
crebbe.
Poi, senza dire nulla, si spostò verso gli altri ballerini e, dopo
alcuni
passi, si voltò alla ricerca dello sguardo di da Vinci, sollevando le
sopracciglia in un chiaro invito. Leonardo impiegò meno di un secondo
per
raggiungerla.
Gemma
non avrebbe mai pensato di poter avere tanta fortuna, ma per una volta
il
destino era a suo favore e le aveva permesso di avvicinare il famoso
Leonardo
da Vinci senza alcuno sforzo. E, a giudicare dal modo in cui la
guardava, senza
mai perderla di vista, la situazione era a suo favore, ben oltre ogni
sua
speranza.
La
contessa si voltò verso l’artista e si avvicinò a lui, prima di
iniziare a
danzare seguendo la musica.
L’artista
dovette ricordare a sé stesso di recuperare un minimo di dignità,
possibilmente
cominciando con il chiudere la bocca e smetterla di fissarla come un
cucciolo
di cane. Eppure qualcosa in lei lo stregava: l’aveva letteralmente
soggiogato
nell’istante in cui i suoi occhi si erano posati su di lei, e Leonardo
non
ricordava di aver mai provato qualcosa del genere.
Ormai
ben oltre i limiti del consono, lasciò che la sua voce agisse di vita
propria,
senza inibizioni.
«Mi
farebbe molto piacere ritrarvi, un giorno o l’altro», mormorò, per poi
rendersi
improvvisamente conto di ciò che aveva detto.
Si
aspettò di vederla indignata, offesa, sconvolta, come una qualsiasi
altra dama
avrebbe fatto; invece lei lo sorprese di nuovo, guardandolo incuriosita
ma con
una vena di malizia che Leonardo avrebbe facilmente potuto scambiare
per
interessamento per quella proposta.
«Sempre
che a voi faccia piacere, Madonna», si sbrigò a specificare, la sua
solita sicurezza
improvvisamente sparita.
Ma
Gemma si limitò a sorridere, divertita di fronte a quella piccola
dimostrazione
di impaccio.
«Vi
proponete come ritrattista a tutte le dame che conoscete appena?»,
chiese lei
con uno sguardo curioso, inclinando di poco la testa.
Da
Vinci sorrise sollevato e recuperò la sua spavalderia, tornando ad
osservare
con molta attenzione il suo viso e i suoi occhi.
«Solo
con chi riesce a catturare la mia attenzione. E vi posso assicurare che
è
davvero difficile destare il mio interesse», rispose lui, abbassando
notevolmente
il tono della voce e avvicinandosi maggiormente a lei.
Spostò
per un istante lo sguardo dai suoi occhi alle sue labbra, e Gemma fece
lo
stesso, stringendo leggermente la presa attorno alla mano di lui.
Per
alcuni istanti restarono in silenzio, l’uno perso nello sguardo
dell’altra, i
movimenti di danza ormai automatici, ben lontani dal seguire la musica.
«E
quando potremmo cominciare?»
La
voce di Gemma lo risvegliò improvvisamente e, così sorpreso dalla sua
risposta,
perse di colpo tutta la sua sicurezza. E non era la prima volta, quella
sera.
«Dunque
accettate?», domandò sorpreso, e dovette rassegnarsi all’idea di non
avere più
alcun controllo sulle sue parole.
«Potrei
prendere la vostra idea in considerazione», rispose la giovane donna,
con
semplicità. «Non c'è una vostra opera esposta a palazzo? Per poter
confermare
le vostre tanto decantate abilità», domandò poi, guardandosi in giro.
«Sfortunatamente
no. Ma posso improvvisare uno schizzo anche subito», propose da Vinci,
rallentando i passi di danza fino a fermarsi completamente.
«D’accordo»,
acconsentì Gemma, sciogliendo la posizione da ballo. «Mi avete
incuriosita, artista», e si allontanò dalla sala
senza aggiungere altro, permettendo a Leonardo di ricomporsi, in
particolare dopo
quel nomignolo che gli aveva bloccato il fiato in gola.
La
vide raggiungere uno dei corridoi del palazzo e le si avvicinò a grandi
passi,
superandola e indicandole la strada. Si spostò in uno studio poco
distante,
sapendo che nessuno sarebbe giunto a disturbarli, e le indicò una
poltrona su
cui accomodarsi.
Con
un’eleganza che raramente da Vinci aveva ammirato in una donna, la
giovane si
sedette, sistemò il suo abito e sollevò il mento, mettendosi in posa,
senza mai
perdere quel suo sguardo e quel suo sorriso, così accattivanti e
seducenti.
Leonardo
rialzò gli occhi dal suo fedele quaderno e, vedendola, per poco la
matita non
gli cadde dalle mani, ma ebbe la prontezza di afferrarla all’ultimo
secondo e di
stringerla più saldamente tra le dita. Proprio lui, che tanto aveva
deriso le Guardie
della Notte per la loro presa poco salda.
Iniziò
a disegnare alcuni rapidi tratti sulla carta, abbozzando la base del
suo
disegno, per poi lavorare con più precisione ai dettagli. Iniziò dai
lineamenti
del viso, incorniciato dai suoi lunghi capelli, per poi giungere al
collo, alle
spalle e al décolleté, fino alla parte superiore dell’abito e delle
maniche. Concentrò
poi maggiore attenzione per il naso, le labbra, e infine gli occhi.
Ebbe
bisogno di alcuni istanti per trovare il modo migliore di catturare il
suo
sguardo, ed inconsapevolmente iniziò ad avvicinarsi a lei, per studiare
meglio
i dettagli più piccoli ed elaborati. Solo dopo alcuni secondi si
accorse di
essere ormai a pochi passi da lei, leggermente chinato in avanti, ma
niente
nella ragazza gli fece pensare di averla infastidita.
Piano
piano, la presa attorno alla matita si indebolì e ormai la sua mano
stava solo
fingendo di disegnare. La vide chiudere e riaprire gli occhi con voluta
lentezza, e il suo sguardo si caricò di determinazione ed aspettativa,
intrecciandosi a quello di lui come per magia.
Dagli
occhi, Leonardo osservò con insistenza le sue labbra, ormai
completamente
soggiogato, e vedendola schiuderle non riuscì più a ragionare con
lucidità. Si
avvicinò di un altro passo e chiuse gli occhi, ormai determinato a
colmare
quella distanza.
Non
si aspettò di essere fermato dall’indice della giovane sulle sue
labbra.
«Forse
dovreste prima conoscere il mio nome», gli sussurrò lei, ad un soffio
dal suo
viso.
L’artista
sollevò lo sguardo nei suoi occhi, aspettandosi di scorgervi una
traccia di
paura, qualcosa che giustificasse il suo rifiuto, ma trovò la stessa
malizia
che lo aveva stregato fin da subito.
«Ah,
davvero?», chiese con sarcasmo, aspettandosi ormai un gioco di
seduzione e di provocazioni.
Gemma
sollevò le sopracciglia e si morse il labbro inferiore, mettendo a dura
prova
l’autocontrollo dell’artista. Con somma sorpresa da parte di Leonardo,
la
ragazza accorciò maggiormente la distanza tra di loro, il suo indice
ancora
contro le labbra di da Vinci.
«Piacere
di fare la vostra conoscenza, artista.
Sono la contessa Gemma Riario».
Il
sorriso di Leonardo crollò di colpo.
La
sua mente fu incapace di formulare un qualsiasi pensiero, troppo
occupata a
ripetersi quelle ultime tre parole e a collegarle velocemente al
racconto di
Nico.
Gemma
non pretese nient’altro né perse il suo sorrisetto soddisfatto,
semplicemente
si alzò dalla poltrona e guidò i movimenti dell’artista, facendolo
indietreggiare con ancora il suo indice contro la sua bocca.
«Mi
sento in dovere di ringraziarvi. È stato un incontro davvero
interessante»,
mormorò la contessa, seguendo con le dita e con lo sguardo il
cordoncino che da
Vinci aveva al collo, fino alla chiave.
La
lasciò ricadere e lanciò un ultimo sguardo all’artista, prima di
allontanarsi,
lasciandolo in totale balia dei suoi pensieri.
«Dov’è
il maestro?», domandò Nico, raggiungendo Zoroastro con il fiatone. Così
poco
avvezzo a certi eventi, non aveva idea di come muoversi o di dove
trovare i
suoi amici.
«A
provarci con la dama che avevo puntato io», brontolò il moro, con le
braccia
incrociate al petto.
Il
biondino lo guardò perplesso, ma in tutta risposta ricevette solo un
cenno del
capo in direzione di uno dei corridoi del palazzo che si affacciavano
sulla
sala. Dall’ingresso comparve una giovane dama, le decorazioni dorate
che
risplendevano sulla stoffa nera e sulla sua pelle di pesca, lo sguardo
vispo e
furbo.
Zoroastro
vide solo quello, ma Nico fu di tutt’altra opinione: non avrebbe mai
dimenticato quegli occhi e la freddezza che li avevano accompagnati.
E
il sangue gli si gelò nelle vene.
«Q-q-quella?»,
balbettò, sentendosi improvvisamente malfermo sulle sue stesse gambe.
«Sì,
lo so, è bellissima», rispose il moro, come un bambino offeso. «E
ovviamente
lui mi ha fregato».
«N-n-no,
Zo…», lo fermò il giovane, gesticolando con una mano. «Quella…
quella…», tentò
di nuovo, attirando su di sé lo sguardo dell’amico.
«Vedo
che nemmeno tu sei immune alla sua bellezza», commentò, con un che di
sorpresa:
non l’aveva mai visto così imbarazzato per una donna, e Nico non era di
certo
un tipo sicuro di sé.
«Zo…»,
mormorò di nuovo il biondo, cercando quanto meno di essere più fermo e
serio.
«Che
c’è?»
«Quella…
quella è la contessa Riario», disse, con un filo di voce.
E
in risposta ottenne solo silenzio.
Nient’altro
che silenzio. Per molti, molti secondi.
«…davvero?»,
domandò Zoroastro, una volta ritrovata la voce.
«Sì».
E
fu ancora silenzio, per un altro po’.
«Splendido!»,
esclamò il moro dal nulla, alzando gli occhi al cielo. «Non potevano
inviare
uno spocchioso ed antipatico conte? No, hanno ben pensato di usare la
più bella
ed irresistibile delle loro armi», continuò, indignato.
Nico
al contrario era ben poco interessato alle lamentele di Zoroastro, e
molto di
più al trovare il maestro e a salvarlo dalla sua nemica, nemica di cui
non
sospettava nemmeno minimamente l’identità.
«Zoroastro,
dobbiamo salvarlo!», esclamò il biondino, cercando di richiamare la sua
attenzione.
Il
moro, a quelle parole, parve calmarsi e, soprattutto, porre fine al suo
sproloquio di lamentele e complimenti, non poi così velati, nei
confronti del
prezioso gioiello del Vaticano. Fissò Nico con un che di sorpreso, come
se
avesse realizzato solo in quel momento la gravità della situazione.
«Nah,
lasciamolo dov’è», rispose invece, a sorpresa. «È una sorta di
giustizia
poetica», sentenziò, con decisione.
«M-ma…»,
balbettò l’apprendista, incredulo.
Per
sua fortuna, non passò molto tempo che Leonardo rientrò in sala, e
proprio
dallo stesso corridoio da cui era comparsa la contessa, poco prima.
L’unica
differenza era l’espressione sul volto dei due ospiti: se la prima era
il
ritratto della tranquillità, per il secondo l’aggettivo turbato
era un eufemismo.
Già
fu un miracolo, per l’artista, scovare i due volti amici tra la folla;
il fatto
che fosse riuscito addirittura a raggiungerli aveva dell’incredibile.
«Ancora
vivo?», domandò Zoroastro, fingendosi sorpreso. «Credevo che la
contessa Riario
ti avrebbe lasciato un suo marchio: rosso e di forma circolare»,
commentò, con
un sorrisetto malizioso. «E no, non sto parlando di un marchio simile a
quello
di Nico», precisò poi, tornando serio.
«Zoroastro…»,
lo ammonì Leonardo, il tono della voce affaticato come se avesse appena
attraversato la città di corsa.
«Che
faccia sconvolta», commentò invece il moro, ignorando allegramente
l’avvertimento. «Hai scoperto il suo nome solo dopo
esservi accoppiati come conigli?»
Nico
nemmeno cercò di nasconderlo o di distrarre l’attenzione degli amici:
semplicemente il suo disperato tentativo di trovare qualcosa a cui
reggersi non
gli diede modo di preoccuparsi dei commenti che lo avrebbero seguito.
Per sua fortuna,
da Vinci era ancora troppo sconvolto perfino per parlare, mentre
l’attenzione
di Zoroastro era tutta concentrata sulle sue ipotesi.
«No.
Direi che con quella faccia sei stato mandato in bianco, amico»,
affermò il
moro, con un dispiacere tutt’altro che sincero. «Meglio così, ho
sentito dire
che le mantidi religiose si mangiano i propri amanti, dopo», proseguì,
sempre
fingendo di essere genuinamente preoccupato per l’amico. «Ti lasciano
soddisfatto e poi, sul più bello, te lo mettono in quel posto… la
metafora di
ogni donna».
«Oh
mio Dio», singhiozzò Nico, perdendo di nuovo tutto il colorito tanto
faticosamente ricercato. Di nuovo, fu allegramente ignorato dai due
compari.
«Penso
che l’essere stato mandato in bianco ti abbia salvato la vita»,
commentò Zo sottovoce,
con tanto di occhiolino.
Nonostante
l’espressione a dir poco stravolta, Leonardo riuscì comunque a
fulminare il suo
caro compare con lo sguardo, prima di incamminarsi verso l’uscita del
palazzo.
«Ho…
bisogno d’aria».
Angolo
dell’autrice
Il
buonsalve stavolta ve lo do
saltellando perché questo è uno dei miei capitoli preferiti e non
vedevo l’ora
di pubblicarlo.
Finalmente
si sono accese le prime scintille della sfida, e sicuramente la piccola
dimenticanza durante le presentazioni ha contribuito ad attizzare il
fuoco. Di
certo anche io avrei nascosto il mio nome, se il risultato era essere
ritratta
dal talentuoso Leonardo da Vinci. Sono la sola?
In
ogni caso, ci pensa Zoroastro a salvare la situazione. O ad aggravarla,
a seconda
dei punti di vista.
Nei
capitoli precedenti come nei successivi, bene o male i significati dei
Tarocchi
vanno a braccetto con le vicende raccontate, ma qui trovo che la
descrizione
delle Stelle calzi particolarmente bene.
Vi
mando un forte abbraccio e l’appuntamento è, come sempre, tra due
settimane.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 6 *** La Torre ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
6 - La Torre
Nei
Tarocchi, la carta della Torre che crolla è simbolo del materiale e
delle
debolezze umane, libera lo spirito. Rappresenta la presunzione,
l’idealismo
eccessivo, la megalomania. Lo spirito eccessivo di cupidigia che viene
punito.
I pregiudizi offuscano la ragione, ma anche colui che oltrepassa i
propri
limiti e vive al di là delle proprie forze può rovinare al suolo.
Al negativo, però, presuppone minacce dall’esterno, catastrofi non
preventivate
né previste.
«Forse,
prima di presumere che sia opera del Diavolo, dovremmo escludere cause
più
profane, non credete?», domandò Leonardo a Giuliano de’ Medici, con il
suo
tipico tono saccente ed arrogante.
Non
ricevendo
risposte diverse da uno sguardo confuso e smarrito, da Vinci proseguì
con le
sue ipotesi.
«Consideriamo
l’amanita panterina, un fungo, noto per causare allucinazioni e morte.
Oppure, i
ragni licosidi. Il morso velenoso della licosa causa uno stato di
movimento
isterico chiamato tarantismo», spiegò
l’artista.
Per
sua
sfortuna, uno dopo l’altro, tutti i funghi trovati dalle Guardie della
Notte
attorno al convento non corrispondevano a quanto cercato, così come i
ragni
nascosti negli angoli delle stanze.
«E
ora, scribacchino?», borbottò il capitano Dragonetti, con
un’occhiataccia
scettica.
Escluse
quelle
ipotesi, le possibili spiegazioni rimaste erano quasi inesistenti, e
senza
prove che la causa dell’epidemia fosse profana, e non demoniaca, le
conseguenze
sulla reputazione dei Medici sarebbero state devastanti.
«Andiamo
ad ammirare le opere d’arte», rispose invece da Vinci, salendo a grandi
passi
le scale che conducevano agli studi delle suore.
«Quale
contaminazione potrebbe mai esservi qui?», chiese Giuliano de’ Medici,
evidentemente seccato.
«Viste
le fiorite immagini di cui si circondano le sorelle e la tecnica
amatoriale di
questi supposti dipinti… non mi meraviglia che le suore colpite si
credano
possedute», rispose Leonardo, gironzolando tra le scrivanie ed
osservando
attentamente i quadri.
«Non
avete altre ipotesi, da Vinci?», insistette Giuliano, guardandosi
intorno.
«Il
cibo e le bevande, ad esempio», borbottò l’artista, piuttosto
infastidito da
tutte quelle proteste ed obiezioni. «Nico, ti dispiacerebbe aiutare con
quello?»,
domandò poi, in una domanda chiaramente retorica: un altro minuto con
il
fratello minore di Lorenzo e non avrebbe più risposto delle sue azioni.
«Certamente,
maestro», rispose diligentemente il giovane apprendista, incamminandosi
verso
un’altra sala con Giuliano al seguito.
Finalmente
solo, Leonardo tornò a concentrarsi completamente sui quadri delle
suore, tutti
caratterizzati da tinte scure e violente e da immagini dell’Inferno e
del
Diavolo. Si sporse più vicino ad uno in particolare e rimase qualche
secondo
immobile ad esaminarlo, prima di chinare il capo e leccarlo per tutta
la
lunghezza.
Fece
una
smorfia disgustata e sputacchiò qua e là, ma la sua attenzione tornò
subito sul
quadro, con un’espressione delusa e contrariata.
«Poteva
esserci troppo mercurio nei pigmenti, ma non è così…», mormorò
sottovoce,
ragionando tra sé e sé.
«E
voi sareste l'unico in grado di trovare il Libro?»
Da
Vinci
sobbalzò a quella voce, a maggior ragione rendendosi conto di essere
stato in
grado di riconoscerla all’istante. Si voltò subito verso la porta, e
per poco
il fiato non gli si fermò in gola vedendo la contessa Riario appoggiata
allo
stipite, con le braccia conserte al petto.
Fatta
eccezione
per l’espressione scettica e vagamente disgustata, con ogni probabilità
causata
dall’averlo visto leccare un dipinto, l’artista ricordava ogni singolo
dettaglio del suo aspetto, anche il più piccolo. Non poté negare una
nota di
disappunto per la divisa del Vaticano, decisamente meno stuzzicante
dell’abito
che aveva indossato al banchetto, ma perfino in quelle vesti era
terribilmente
affascinante.
Anche
se, per i
suoi gusti, c’erano decisamente troppi strati di stoffa a fasciarle il
corpo:
la camicia dal collo alto, la sciarpa di seta elegantemente annodata,
la giacca
con il simbolo della Chiesa cucito sul petto, i guanti di pelle, i
pantaloni e
gli stivali… Tutto rigorosamente nero come la notte.
Avrebbe
voluto
dirsi che quelle vesti così maschili, combinate con i capelli raccolti,
minavano alla sua bellezza, ma dovette ricredersi anche su quello:
niente di
tutto ciò avrebbe mai potuto compromettere il suo fascino, né avrebbe
spento la
sua scintilla, che riconobbe immediatamente nei suoi occhi.
«Contessa»,
mormorò, recuperando una postura quanto meno composta.
«Artista»,
rispose Gemma, abbandonando la sua espressione perplessa solo per
tornare al
suo caratteristico sguardo, vispo e furbo.
«Posso
chiedervi, contessa, come mai vi trovate da queste parti?», domandò
Leonardo,
sperando che la perplessità nel tono della sua voce mascherasse
l’apprezzamento
rivolto alla sua presenza.
«Potrei
farvi la medesima domanda, artista», ribatté la giovane donna, muovendo
qualche
passo nello studio, le mani elegantemente congiunte davanti a sé. «Non
sapevo
foste un seguace del Signore».
«Non
lo sono, infatti», obiettò lui prontamente, con espressione diffidente.
«Cercavate
qualcosa da assaggiare?», domandò allora Gemma, indicando con un cenno
del capo
il dipinto che l’artista aveva leccato poco prima.
Da
Vinci invece
si chiese se non stesse avendo anche lui delle allucinazioni, perché
avrebbe
giurato che quell’assaggiare fosse
stato deliziosamente impregnato di malizia, quasi un… invito.
Dovette
sbattere più volte le palpebre per riacquistare abbastanza lucidità da
proseguire
nella conversazione.
«Sto
cercando di capire la causa di questa epidemia», spiegò, con quanta più
professionalità possibile.
«Leccando
i quadri?», chiese ancora la contessa, con il medesimo scetticismo.
«Controllavo
se contenessero o meno mercurio. I sintomi dell’intossicazione da
mercurio sono
molto simili a quelli che presentano le suore colpite».
«Allora
avete omesso di essere anche un medico, nella vostra ricca
presentazione al
banchetto», commentò Gemma, riacquistando tutta la sua malizia, nel
tono della
voce come nello sguardo. «Ricordate?», domandò poi, con una perplessità
palesemente finta, tutta volta a stuzzicarlo. E la gola improvvisamente
secca
di Leonardo ne fu una conferma.
«Mi
diletto nella medicina alle volte, ma non mi considero un medico»,
mormorò
l’artista, con la voce all'improvviso flebile.
Non
doveva
pensarci. Non doveva pensare a quell’abito, a quei capelli lasciati
sciolti, a
quanto fosse arrivato vicino al suo viso… Non doveva e basta.
«Avreste
potuto parlarmi anche di questo», rispose Gemma, rincarando così il
colpo. «Qualcosa
vi ha distratto, per caso?»
E
da Vinci
dovette mordersi la lingua per non rispondere Sì
all’istante.
La
sua unica
via di salvezza era spostare la conversazione su di lei, per quanto gli
sarebbe
piaciuto continuare quel gioco di provocazioni. Razionalmente, la
priorità più
impellente era capire il motivo del suo arrivo nel convento.
«Anche
voi ora apparite distratta. Avete dimenticato di rispondere alla mia
domanda»,
osservò l’artista. «O forse non volete farlo?», aggiunse, incrociando
le
braccia al petto e studiandola attentamente. «State forse tentando di
sviarmi
di proposito?»
«Chi?
Io? Non oserei mai», rispose con naturalezza la contessa, per nulla
turbata.
«Eppure
esitate a rispondere alla mia domanda», ribatté Leonardo.
«La
badessa del convento ha inviato una richiesta di aiuto al Vaticano»,
disse
Gemma con calma e semplicità, iniziando a gironzolare per lo studio. «E
io, in
quanto nipote del papa e umile servitrice di Dio, non potevo certo
negarle la
mia assistenza», aggiunse con la più ingenua delle espressioni, mentre
lentamente iniziava a sfilare uno dei suoi guanti di pelle dalla mano.
Se
non l’avesse
conosciuta a quel banchetto, se non avesse visto quanto un suo sguardo
fosse
capace di destabilizzarlo completamente, avrebbe anche potuto crederle,
ma gli
fu sufficiente ricordare il velo di malizia che lo aveva colpito fin
dal primo
secondo per capire che, in quel preciso istante, la sua aria pura ed
innocua
era solo una finta.
«Certo,
certo», commentò, con non poco sarcasmo. «Prima qualcuno avvelena
queste povere
suore, poi voi arrivate qui con la scusa di porgere i vostri servigi
alla
badessa», ragionò a voce alta. «Se il mio prima era solo un sospetto,
con la
vostra presenza qui è diventato una certezza».
A
Gemma quasi
scappò un sorriso a quelle parole. Se davvero l’artista pensava che per
spaventarla fosse sufficiente un’accusa impregnata di veleno, aveva
ancora
molto da imparare.
«Sono
un'anima candida ed innocente, azioni del genere non sono da me»,
rispose la
giovane donna, portando la mano libera dal guanto all’altezza del
cuore, come
se quelle parole l’avessero appena ferita.
«Strano,
mi avete dato esattamente l’idea opposta», mormorò l’artista, con un
mezzo
sorriso per quella scenetta.
Anche
la
contessa si sentì vagamente divertita e, per dissimulare, iniziò a
guardarsi
intorno per la stanza. Lo sguardo le cadde su una piccola ciotola di
legno
colma di quella che, a un rapido sguardo, sembrava una crema di frutta.
«Il
nostro precedente incontro mi ha portato a farmi un’idea-...», disse
l’artista,
ma non arrivò mai a concludere la frase, perché Gemma aveva sfiorato
con un
dito quanto contenuto nella ciotolina e poi lo aveva portato alle
labbra.
Leonardo
si
dimenticò di qualsiasi altra cosa presente in quella stanza, la sua
attenzione
catturata solo ed esclusivamente dal gesto compiuto da Gemma, lo
sguardo fisso
sulle sue labbra, il crescente desiderio di raggiungerla e di avere lui
il
piacere di compiere quell’assaggio.
Per
la contessa
fu davvero difficile trattenere un sorriso divertito, ma mantenne
imperterrita
una maschera di indifferenza e finta perplessità.
«Prego,
continuate pure. Vi sto ascoltando», mormorò, con aria innocente.
Ma
in risposta
non ottenne nulla di più di qualche monosillabo balbettato, né riebbe
lo
sguardo del fiorentino sui suoi occhi, invece che sulle sue labbra.
«Ehm…»,
mormorò Leonardo dopo un certo lasso di tempo, sbattendo velocemente le
palpebre per recuperare il contatto con la realtà.
«Qualcuno
vi ha morso la lingua, artista?», chiese Gemma, con uno sguardo
malizioso.
«Potete
rifarlo?», disse l’artista di getto, senza avere il tempo di chiedersi
quanto
fosse consona una richiesta del genere.
«Mordervi?»,
domandò lei con aria perplessa, e Leonardo colse l’occasione al volo
pur di
uscire da quello stato di ipnosi.
«Temo
che finirei avvelenato dal vostro sarcasmo», rispose prontamente.
Eppure,
Gemma
lo sorprese di nuovo, assumendo un’espressione vagamente dispiaciuta.
«Peccato.
Avrebbe potuto rivelarsi…», ma il suo sorriso malizioso non tardò a
ricomparire. «…piacevole», aggiunse, con voce bassa e vellutata.
«State
cercando di distrarmi, contessa?», chiese Leonardo, ma il suo sguardo
non si
era ancora mosso dalle sue labbra. «Sappiate che la vostra tattica non
ha
effetto su di me», continuò, ma più che un’affermazione suonava come un
tentativo di autoconvincimento.
«Oh,
no, non mi permetterei mai», rispose Gemma, un istante prima di
sfiorare
nuovamente il contenuto della ciotola con il dito e di portarselo alle
labbra,
facendo rischiare all’artista un attacco di cuore. «Specialmente…
quando non
riscontro alcun interesse dall’altra parte».
«No,
infatti, non ho il benché minimo interesse nei vostri confronti»,
mormorò
Leonardo, con la voce roca. «Questi trucchi su di me non hanno
effetto», eppure
la sua attenzione non dava segno di voler allentare la presa su di lei
o su
quel gesto provocatorio.
«È
un vero dispiacere», rispose la giovane donna, facendo spallucce.
«Perché sono
terribilmente brava. In questo e in molto, molto altro».
«Così,
per semplice curiosità…», iniziò l’artista, attingendo a tutte le sue
doti recitative
per fingersi disinteressato. «Come sarebbe continuata questa vostra
tattica
persuasiva?»
«Semplice
curiosità?»
«Semplice
curiosità».
«Non
mi sarei mai permessa di infrangere i limiti del consono», disse Gemma,
il suo
sguardo fisso negli occhi dell’artista mentre le mani armeggiavano per
togliersi
anche l’altro guanto. «Vi avrei semplicemente esposto i vantaggi e gli
svantaggi della mia offerta…», proseguì, avvicinandosi di qualche
passo. «…Le
spiacevoli conseguenze di un rifiuto…», e le sue lunghe ed affusolate
dita allentarono
delicatamente il nodo della sciarpa. «...e le ricompense di
un’alleanza»,
concluse, arrivando ad un soffio dal suo viso.
«Solo...
questo?», fu quanto Leonardo riuscì a dire, con un fil di voce.
«Per
quanto riguarda la comunicazione verbale», precisò Gemma, rincarando la
dose.
«Comunicazione…
verbale...», ripeté l’artista, senza preoccuparsi di celare con quanta
insistenza le stesse osservando le labbra. «Mi sembra un’ottima idea».
«Lo
credo anche io», concordò la contessa. «Nonostante io abbia un vero
debole per
tutto ciò che non prevede le parole», aggiunse, la voce ridotta ad un
roco
sussurro.
«Un
vero debole…», ripeté Leonardo nel suo ultimo barlume di lucidità,
prima di
dire addio a tutto il suo autocontrollo e sporgersi verso le sue
labbra, nessun
intento diverso dal baciarla.
Ma
all’ultimo
istante, Gemma si allontanò da lui lasciandolo, metaforicamente e
letteralmente,
a bocca asciutta.
«Ma
avete detto che niente del genere ha effetto su di voi, dunque…»,
ragionò ad
alta voce, con finta perplessità.
«Proprio
così…», mormorò Leonardo, approfittando di quell’allontanamento per
ridarsi un
contegno. Per quanto si fosse promesso di restare concentrato, aveva
ceduto,
proprio come un ragazzino alla sua prima cotta.
Spostando
lo
sguardo, però, la sua attenzione fu catturata dal braccio della
contessa, ormai
quasi completamente allontanata da lui e diretta altrove. Forse per
curiosità,
forse per l’orgoglio ferito, forse semplicemente ancora lontano dalla
lucidità
di cui aveva bisogno per evitare stupidaggini, ma non riuscì a
resistere.
Le
afferrò un
polso, attento a non farle male ma abbastanza deciso da fermarla
dov’era, e
l’attirò verso di sé, spingendola poi con la schiena contro la parete
più
vicina e bloccandole ogni via di fuga premendo il proprio corpo contro
il suo.
A
malapena
scorse una scia di sorpresa nella sua espressione, e vide solo uno
sguardo
soddisfatto che lo stava tacitamente sfidando. Sapeva che quella mossa
era in
tutto e per tutto un errore, perché le stava dando esattamente ciò che
lei
voleva: la conferma di avere un potere su di lui, un potere per niente
controbilanciato.
«E
su di voi ha effetto, invece?», le sussurrò, ad un soffio dalle sue
labbra.
«Voi
che ne pensate?», ribatté Gemma, senza alcuna traccia di turbamento, e
Leonardo
riconobbe immediatamente l’amaro sapore della delusione in bocca.
«Che
siamo più simili di quanto potrebbe sembrare a prima vista», mormorò
l’artista,
muovendo alcuni passi indietro e lasciando definitivamente la presa su
di lei.
«Peccato.
Si dice che siano gli opposti ad attrarsi», commentò la contessa,
studiando
attentamente la sua reazione.
«Anche
gli animi affini, però, hanno una certa complicità», rispose da Vinci,
sforzandosi di cacciare indietro la delusione e tornando su un terreno
più
familiare: le provocazioni.
«Mi
credete un’anima a voi affine?»
«Certamente.
Perseguiamo gli stessi obiettivi, ed entrambi non abbiamo intenzione di
fermarci davanti a niente pur di raggiungerli», spiegò Leonardo, il suo
sguardo
fisso in quello della contessa.
«Su
questo vi do ragione», convenne Gemma, annuendo, e la mente
dell’artista fu
libera di tornare a concentrarsi sul vero motivo che lo aveva portato
in quel
convento.
«Invece,
riguardo al vostro coinvolgimento in questa presunta possessione
demoniaca?
Negherete di essere a parte di questo piano?», domandò lui, anche se
già
conosceva la risposta.
«Assolutamente no».
E
per
l’ennesima volta, Leonardo rimase a dir poco sorpreso.
«Dunque
ammettete di sapere quale sia la vera causa dell’epidemia?», tentò
nuovamente,
scegliendo con cura le parole con la convinzione che sarebbero state
troppo estreme
per ricevere una risposta affermativa.
«Lo
confermo», rispose tranquillamente Gemma, e l’artista era ad un passo
dallo
spalancare la bocca per la sorpresa.
Vedendolo
così
sorpreso, la contessa proseguì da sola la conversazione.
«Sembrate
avere molto a cuore la sorte di queste povere vittime. Il minimo che io
possa
fare è offrirvi una possibilità di salvarle», aggiunse con estremo
zelo, mentre
si spostava dalla parete e si appoggiava di schiena ad uno degli
scrittoi.
Nonostante
fosse dannatamente tentato di crederle, grazie anche a
quell’espressione
all’apparenza così sincera, da Vinci si costrinse a pensare con
oggettività, e a
ricordarsi che stava parlando con la nipote di papa Sisto.
«E
in cambio cosa volete?», domandò lui, incrociando le braccia al petto.
«La
chiave», fu la sua risposta, priva di esitazioni, e a Leonardo scappò
una
risata divertita.
«Prevedibile»,
commentò, riconoscendo finalmente le vere intenzioni che si celavano
dietro a
quell’offerta.
«Determinata»,
lo corresse subito lei, con un sorriso fiero. «Non perdo di vista
l’obiettivo
così facilmente».
«E
quale sarebbe il vostro obiettivo finale?», domandò da Vinci, le
braccia ancora
conserte mentre muoveva qualche passo verso di lei. «Me o la chiave?»,
proseguì, con un sorrisetto compiaciuto.
«Il
Libro delle Lamine», ribatté immediatamente Gemma. «E trovarlo,
sfortunatamente, richiede sia la chiave che le vostre conoscenze»,
proseguì,
con finto dispiacere.
«Quindi
ammettete che io vi servo», tentò nuovamente Leonardo.
«Mi
servono le vostre conoscenze. Devo ripeterlo una terza volta?», chiese
la
giovane donna, con un atteggiamento così saccente da avvalorare la tesi
dell’artista che le loro fossero anime molto affini. «Credetemi, se
trovassi il
modo di esorcizzarle da voi, farei volentieri a meno della vostra
fastidiosa
presenza».
«Ma
fino a quando non troverete questo modo, sarete costretta ad usufruire
anche
del mio corpo», rispose lui prontamente, sollevando le sopracciglia con
malizia.
In
tutta
risposta, Gemma prese a torturarsi il labbro inferiore con i denti,
minando
quel briciolo di autocontrollo che Leonardo aveva appena ritrovato.
«Vi
ho mai accennato agli innumerevoli
modi in cui si può zittire un essere umano?», domandò lei, abbassando
il tono
della voce.
«Io
ne avrei in mente uno in particolare», mormorò da Vinci, la voce
ridotta ad un
bisbiglio mentre accorciava nuovamente le distanze.
«Non
funzionerebbe», rispose prontamente la contessa, e non c’era modo che
quella
frase fosse qualcosa di diverso da una provocazione, ben lontana dai
limiti del
consono.
«E
come fate ad esserne così certa?», indagò lui, la mente già lontana e
persa in
scenari tutt’altro che casti ed innocenti, le mani guidate da una forza
tutta
loro mentre lentamente stringevano Gemma a sé, cingendola all’altezza
della
vita.
«Avete
un debole per le minacce, artista?», chiese la contessa, con finta
sorpresa.
«Dipende
dal tipo di minacce, contessa», ribatté lui, studiando con molta
attenzione
ogni dettaglio del suo viso.
«Non
avete ancora risposto alla mia offerta», gli fece notare la giovane
donna, chinando
di poco la testa di lato, mentre le sue dita giocavano lentamente con
il
cordoncino che Leonardo aveva al collo.
«Non
la trovo del tutto equa, forse dovreste provare ad essere più
convincente»,
mormorò l’artista, scivolando con lo sguardo fino alle rosee labbra di
lei.
Nessuna
parola
giunse alle sue orecchie, in risposta, ma in compenso sentì fin troppo
chiaramente
la mano di Gemma scendere fino alla chiave e proseguire. Lentamente.
Fin troppo
lentamente, in una tortura straziante.
Nemmeno
lui, la
mente più geniale d’Europa, riuscì a spiegarsi cosa lo stesse
trattenendo
dall’annullare definitivamente quella distanza e riprendere da dove si
erano
interrotti al banchetto. Il motivo più plausibile era la crescente
aspettativa,
mentre sentiva molto bene quale percorso stessero seguendo le dita
della
contessa, ben lontane dall’intenzione di fermarsi al limite del
consono. E non
si fermarono, non fino al loro obiettivo.
E
a quel punto
all’artista si blocco il respiro in gola.
Lo
sapeva
Leonardo e lo sapeva Gemma. Lo aveva in pugno. In tutti i sensi.
E
poi, senza
alcun preavviso, lei strinse la presa. Non tanto da fargli male, ma
abbastanza
da farlo sussultare per la sorpresa, lasciando così la stretta attorno
al suo
corpo.
«Detto
io le condizioni, da Vinci», mormorò Gemma, ad un soffio dalle sue
labbra,
prima di allontanarsi ed uscire dalla stanza.
Angolo
dell’autrice
Flirtare
come
spudorati in un convento di suore… al limite del sacrilegio, no? Ma
intanto la stanza
stava per andare a fuoco, to say the
least.
Buonsalve
a
tutt*!
Gettate
le
maschere e messi sul tavolo i veri nomi e, soprattutto, le vere
intenzioni, i
giochi possono avere inizio. Comprendano minacce o meno, non ha
importanza.
Che
Gemma fosse
una provocatrice si era già intuito in passato, ma qui è stato
esilarante dar
sfogo a tutta la sua perfidia. Un po’ mi spiace che ci sia andato di
mezzo
Leonardo (e il suo appetito, per dirlo nel modo più velato possibile),
ma anche
i più arroganti hanno bisogno di un degno avversario ogni tanto, no?
Come
sempre,
spero di averti piacevolmente intrattenuto.
Ci
rivediamo
tra due settimane.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 7 *** Il Matto ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
7 - Il Matto
Nei
Tarocchi, la carta del Matto indica tutto ciò che supera la nostra
comprensione, è l’infinito, l’abisso. È il vuoto, il nulla in assoluto
che
rifuggiamo perché non comprendiamo. Può essere tanto Nirvana quanto
annientamento spirituale. È la passività fatta persona,
l’irresponsabilità che
perde l’uomo e lo assoggetta alla schiavitù, soprattutto materiale.
Al negativo, però, indica squilibri che portano alla pazzia e
all’errore. È
l’essere in balia degli altri e degli elementi. Può essere
insensibilità, incapacità
di risollevarsi e rendersi conto dei propri errori.
Quel
grido di terrore gli mozzò
il fiato in gola. D’istinto, Leonardo scattò verso la povera suora che
piangeva
e implorava pietà da ore, ma quando la raggiunse fu troppo tardi: nei
suoi occhi
non vide nulla, solo una lacrima rigarle la guancia e cadere sulle
lenzuola,
una volta candide, ora screziate di sangue e di dolore.
Un’altra
vittima di quel
contagio.
Ormai
aveva perso il conto,
insieme a qualsiasi intenzione di ricordare con esattezza quante anime
stavano
pagando per quell’assurda mossa di manipolazione da parte della Chiesa.
Sentendo
la gola chiudersi per
il dolore, da Vinci capì di aver bisogno di aria fresca. Traballante e
incerto
sulle sue stesse gambe, l’artista si rialzò in piedi e barcollò fino
alla porta
della stanza, per poi gettarcisi addosso con tutte le sue forze. Il
portone di
legno cedette sotto al suo peso, e gli permise di raggiungere la loggia
che si
affacciava sul cortile interno del convento.
La
testa continuava a non
collaborare, vittima di tremendi capogiri, e le dita delle mani erano
sempre
più intorpidite, formicolanti. Leonardo dovette stringere il balconcino
con
tutte le sue forze per riuscire a reggersi in piedi, mentre scuoteva
energicamente il capo per cercare di ritrovare un minimo di lucidità.
D’istinto
si morse le labbra,
ma nel farlo ricordò improvvisamente la sensazione di quelle di
Vanessa, fredde
e screpolate per la malattia, contro le sue, ancora calde e morbide. Il
solo ripensare
a quel bacio gli strinse lo stomaco.
Ogni
secondo che sprecava senza
avere nuove idee sulla possibile causa di quel contagio, era un altro
secondo
in cui la malattia progrediva, strappando sempre più anime alla vita
nella
verde terra di Dio.
Già,
Dio…
Il
suo sguardo vagò da solo,
senza che potesse essere esercitato alcun controllo su di esso, e si
posò di
nuovo su di lei, su quella figura tanto delicata quanto fatale. Gemma
era ancora
al convento, impegnata a disquisire insieme alla badessa, mentre altre
suore ancora
miracolosamente in salute la ascoltavano con tutta l’ammirazione e la
devozione
che si dovesse alla nipote del papa.
Leonardo
non sarebbe mai
riuscito a contestare il suo potere sugli altri, la sua straordinaria
capacità
di soggiogare chiunque avesse il piacere di poter ascoltare la sua voce
e le
sue parole. Lì, illuminata solo dalla delicata e fredda luce della
luna, le
labbra piegate in un sorriso bel lontano dalla falsità e dalle
manipolazioni… nemmeno
lui sarebbe riuscito a resisterle.
Ma
poi vedeva lo sguardo delle
altre suore, la loro paura, il loro dolore nell’assistere impotenti di
fronte a
quella tragedia, nel guardare le altre consorelle dilaniate dalla
sofferenza, e
sentiva in bocca l’amaro sapore della delusione.
Nemmeno
si accorse di aver
abbandonato la loggia, o di aver sceso le scale che conducevano al
cortile. Si
destò solo quando la sua mano entrò in contatto con la morbida stoffa
della
giacca nera della contessa, le dita strette con fermezza attorno al suo
polso
mentre la sottraeva a quel colloquio con la badessa e la trascinava
lontano da
lei.
«Ve
la rubo solo un momento», spiegò alla suora, con il suo caratteristico
sorrisetto di arroganza.
Non
fece caso allo sguardo
confuso delle altre consorelle, né si curò di non trovare alcun
turbamento
negli occhi della contessa, così in quel momento come in tanti altri
colloqui
passati.
Adocchiò
il primo angolo del
cortile abbastanza appartato da permettere loro di parlare senza il
fastidio o
l’intromissione di sguardi indiscreti, ma non vide alcuna ragione per
lasciare la
presa intorno al polso di Gemma.
«Avete
cambiato idea nei confronti della mia proposta?», domandò la giovane
donna, senza
alcuna traccia di turbamento, un atteggiamento tanto calmo quanto
snervante vista
la gravità della situazione che stavano vivendo.
Non
era nei piani di Leonardo
scoppiare a ridere, eppure non ebbe alcun controllo su quel gesto, né
sulla
notevole dose di amarezza con cui lo fece. Semplicemente rise,
guardandosi
intorno con il disgusto negli occhi.
«Proposta?», ripeté lui, le labbra ancora
piegate in quel sorriso di falsità. «Il vostro è un ricatto bello e
buono»,
disse poi, tornando serio e guardandola con durezza.
«Si
tratta di uno scambio: qualcosa in cambio di qualcos’altro», rispose
Gemma
semplicemente, senza alcuna traccia di preoccupazione.
«Un
scambio tutt’altro che equo», la
corresse da Vinci immediatamente.
«Siete
libero di pensarla come volete», lo liquidò lei, con aria quasi
annoiata per
quella disputa. «Ma ciò non intaccherà l’accordo».
Leonardo
non era mai stato
famoso per la sua pazienza, perché sicuramente ne aveva ben poca, ma
di certo la fama di essere totalmente incapace di tenere le proprie
opinioni
per sé era nota a molti.
In
ogni caso, era un uomo
adulto e, per quanto istintivo, sapeva quando era il momento di parlare
e quando
invece di cucirsi la bocca. Senza ombra di dubbio, quel particolare
colloquio
con Gemma non era la sede ideale per dar voce ad ogni suo pensiero,
senza alcun
filtro.
«Voi
non avete una coscienza, contessa».
Ma
evidentemente qualcosa era
andato storto.
«Non
vi importa minimamente che delle persone, che credono ciecamente in voi e
nella
vostra Santa Madre Chiesa, muoiano?», le domandò, con non poco veleno
nella
voce. «Stanno dedicando la loro vita al Dio di cui la vostra cara
Chiesa
dovrebbe essere il punto di raccordo qui sulla terra, e in cambio cosa
ricevono? Solo morte per qualche vostra assurda manipolazione
politica».
«Avete
davvero la spudoratezza di fare a me
una predica sulla responsabilità per queste morti?», ribatté Gemma, e
la calma
che tanto contraddistingueva i suoi colloqui non era più così
onnipresente. «Vi
ho offerto una soluzione, e l’ho fatto appena arrivata nel convento. Ma
voi
avete rifiutato, facendo affidamento solamente sulla vostra tanto
decantata
genialità», proseguì, la tentazione di incrociare le braccia al petto
fermata
solo dalla presa di Leonardo. «Se delle persone sono morte perché voi
avete
preferito sfruttare quel tempo per provare qualcosa a loro e a voi
stessi, non
azzardatevi ad incanalare la vostra frustrazione su di me».
Che
fosse semplicemente
l’abitudine di sentirsi accusare di peccare d’arroganza, o quella
strana
mancanza di inibizioni, ma nemmeno una delle sue parole ebbe effetto su
da
Vinci.
«Quelle
persone sono morte perché voi…», e dicendolo sollevò la mano libera e
le puntò
l’indice contro. «…le avete avvelenate. E per sviare i sospetti, siete
venuta
qui a portare il vostro umile aiuto».
Al
solo ripensare a come aveva
trovato Vanessa, appena giunto al convento, e come lei tante altre
vittime
innocenti, si sentì soffocare dalla sofferenza.
E
un attimo dopo, come se
niente fosse, Gemma era arrivata al monastero, con la sua divisa
immacolata, la
sua maschera imperscrutabile e il suo sguardo soggiogante. E lui ci era
cascato
in pieno.
«Se
pensate che io mi lasci manipolare da voi, allora non avete capito
proprio
nulla di me», mormorò a denti stretti, iniziando finalmente a capire
che non
c’era alcuna traccia di umanità in lei.
«Se
pensate che si riduca tutto a qualcosa di così semplice, allora non
avete
capito proprio niente», sibilò Gemma, avvertendo una sensazione che non
provava
da molto tempo, e tutt’altro che piacevole: lo sforzo di tenere le
proprie
emozioni sotto controllo. Emozioni che, in quel momento, erano
tutt’altro che
tacite.
Ma
se c’era qualcosa in grado
di pungerla sul vivo, era proprio toccare l’argomento riguardante la
sua vita. Solo
parlare del suo passato era peggio di quelle accuse.
«Come
riuscite anche solo a guardarvi allo specchio?», mormorò Leonardo,
lasciando la
presa attorno al suo polso, e non fece nulla per celare l’espressione
di
ribrezzo e disgusto con cui la stava osservando. «Non provate nemmeno
un minimo
di rimorso per ciò che state facendo a queste donne?», chiese ancora,
faticando
ad immaginare come fosse possibile compiere crudeltà di quel genere
senza alcun
rammarico. «Sono suore, innocue suore che hanno solamente avuto la
sfortuna di
mettersi sul vostro cammino».
Le
parole di Leonardo erano intrise
di ribrezzo nei confronti della persona che aveva di fronte, ma
celavano ben altro:
la delusione.
Ancor
prima di conoscerla di
persona, da Vinci sapeva che la contessa Riario sarebbe stata
l’incarnazione
della sua sfortuna, l’arma inviata dal Vaticano per ostacolare la sua
ricerca,
mossi dalla paura che l’umanità potesse evolversi e tramutarsi in
qualcosa che
la Chiesa non sarebbe più stata in grado di controllare.
Eppure,
una piccola parte di
lui, la più speranzosa, confidava che ci fosse sempre del buono in
tutti, anche
nei cuori più corrotti dalle malvagità, anche nel cuore di colei che
era stata
cresciuta ed addestrata per essere una macchina da guerra incarnata nel
corpo
di una persona.
La
giovane donna che stava
guardando con tanto disprezzo fu per lui la prova di non essere
infallibile, e
dovette arrendersi alla realtà: non tutti possono essere salvati. Per
quanto ci
avesse sperato.
«Sono
convinto che voi non riusciate a provare sentimenti come il rimorso o
la pietà.
Quante altre persone avete fatto soffrire o sono morte per colpa di
qualche
vostra manipolazione? Donne? Vecchi? Bambini?», continuò Leonardo,
senza il
benché minimo scrupolo nello sputarle addosso tanto veleno. «Scommetto
che non
vi siete mai fermata un attimo a farvi un esame di coscienza mentre
qualche
innocente moriva a causa vostra».
Fece
appena in tempo a scorgere
un luccichio nel buio, prima di ritrovarsi la fredda spada di Gemma
premuta
contro il collo, a tanto così dal tagliargli la gola.
E
finalmente si zittì.
La
contessa nemmeno perse tempo
a rimproverarsi per una tale perdita di controllo su sé stessa e sulle
sue
emozioni. Semplicemente, non sarebbe riuscita ad ascoltare altro, non
senza
l’atroce sofferenza che le stava già divorando il cuore.
«Credete
di aver capito ogni cosa di me sulla base di un paio di
conversazioni?», sibilò
la giovane donna, applicando un altro po’ di pressione sulla lama.
«Voi. Non
sapete. Niente», gli disse, scandendo attentamente ogni parola, ma la
sua voce
non era più tanto salda.
Il
tempo di accorgersi di avere
la vista leggermente offuscata, e sbatté subito le palpebre per cacciar
via le
lacrime dai suoi occhi. Già si era messa sulla difensiva minacciandolo
con
un’arma: non poteva permettersi di lasciar intravedere altro, nemmeno
la più
piccola crepa.
Fu
un segnale tutt’altro che rincuorante
vederlo sogghignare soddisfatto, con il suo tipico sorrisetto
impregnato di
arroganza.
«Ho
toccato i punti giusti, a quanto pare», commentò lui, compiaciuto.
Per
Gemma non furono solo
parole, ma l’ennesimo schiaffo.
«Un’altra
parola diversa da Accetto o Rifiuto,
e sono pronta a perforarvi il
collo», lo avvertì la contessa, nascondendo dietro al suo tono
minaccioso tutto
il timore che l’artista indagasse ulteriormente in quel piccolo
cedimento.
«Avete
una coscienza, allora», affermò da Vinci con un che di soddisfatto e,
sotto
sotto, di sollievo. «Non avreste reagito in questo modo, altrimenti»,
continuò,
osservandola dalla testa ai piedi.
Sotto
il peso di quello
sguardo, di quel compiacimento per aver portato a galla un lato di lei
che
nessuno avrebbe mai dovuto sfiorare, Gemma cedette e scattò indietro di
un
passo.
«Cercate
di nasconderla e di rinnegarla in tutti i modi, eppure sono riuscito a
farla
riemergere», proseguì lui imperterrito, vedendo in quella piccola fuga
un’altra
conferma della sua teoria.
E
ne vide un’altra, quando una
scia di terrore saettò nello sguardo della giovane donna, sguardo che
subito
dopo si spostò altrove, ovunque intorno a loro, pur di non tornare
negli occhi
dell’artista.
«Basta
così, da Vinci», sibilò la contessa con un filo di voce, stringendo
così tanto
la presa intorno all’elsa della spada che la pelle nera dei guanti fu
privata
di qualsiasi piega.
Più
osservava quella scena, più
il sorrisetto di Leonardo si spegneva. Perso il gusto della vittoria,
l’artista
si sentì quasi smarrito, come se non fosse più tanto sicuro di aver
ottenuto
quello che davvero desiderava. Voleva destabilizzarla, voleva mettere
alla
prova il suo autocontrollo, in un tentativo estremo di sondare i limiti
della
sua coscienza; eppure non avrebbe mai immaginato di raggiungere un
simile
risultato.
Avvertendo
solo il silenzio,
Gemma attinse a tutte le sue forze per indossare di nuovo la maschera
della
fredda ed imperscrutabile contessa Riario, e solo quando fu certa di
esserci
riuscita rialzò il capo.
«Siete
ancora in tempo per accettare lo scambio», mormorò lei, e anche se la
sua
espressione era tornata quella di sempre, non poteva dirsi lo stesso
della
voce.
L’artista
non prestò più
attenzione ad altro che non fossero i suoi occhi, sforzandosi di
leggervi
qualcosa di diverso da quel distacco su cui tanto Gemma faceva
affidamento per
tenere gli altri a distanza.
Avrebbe
voluto muovere un passo
avanti, avvicinarsi, tentare di nuovo di colpirla. Che fosse per
vincere su di
lei come su di un’avversaria, o per un altro motivo, non ne era sicuro
nemmeno
lui.
All’ultimo
istante, però, il
suo sguardo fu catturato da una delle consorelle del convento, le
guance rigate
dalle lacrime e il respiro rotto dal pianto, mentre si dirigeva verso
la statua
di Sant’Antonio. E quando la vide chinarsi a terra e lasciare un bacio
sui
piedi della scultura, improvvisamente vide riaccendersi la fiamma della
speranza.
«Forse
non ci sarà bisogno di accettare il vostro scambio», mormorò, prima di
accorrere al cospetto del santo patrono.
Angolo
dell’autrice
Be’,
non può essere sempre
tutto rose e fiori.
Buonsalve
a tutt*!
Sono
già passati quattro mesi
dal primo capitolo, e spero di avervi fatto compagnia fino a questo
punto.
Dopo
il mistero, gli intrighi e
qualche risata, i toni si sono irrigiditi. Ma si dice che a volte le
azioni valgano
più delle parole, e forse questo è proprio il caso.
Per
Gemma è sempre facile
gestire una facciata che lei stessa costruisce a seconda delle
situazioni, ma
perdere il controllo è qualcosa di molto diverso.
Leonardo,
seppur avvelenato, ha
fatto bene? O ha esagerato? A prescindere da ciò, la carta di questo
capitolo è
a dir poco azzeccata.
Io
vi mando un forte abbraccio
e ci rileggiamo tra due settimane.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 8 *** L'Appeso ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
8 - L’Appeso
Nei
Tarocchi, la carta dell’Appeso rappresenta l’esaltazione della
spiritualità che
sovrasta la fisicità. Può indicare misticismo, devozione a Dio. Può
significare
l’abbraccio con filosofie superiori che trascendono l’umano,
dimenticando il
materiale. Indica una persona disinteressata che sa sacrificarsi per un
credo,
un ideale. Può anche indicare una persona di fede, un sacerdote, come
anche un
sognatore, un utopista.
Al negativo, però, indica chi si nutre di illusioni, chi progetta senza
saper
realizzare, chi è amato senza sapere ricambiare.
«Affrettatevi.
Possiamo ancora salvare le persone colpite», mormorò Leonardo, porgendo
alla
suora le istruzioni per guarire le consorelle dall’avvelenamento.
«Complimenti,
da Vinci», si intromise Giuliano, ma la risposta dell’artista non fu
più di un
debole cenno del capo.
«Grazie,
maestro», aggiunse la badessa, con un sorriso colmo di riconoscenza.
Al
contrario,
Lupo Mercuri e i suoi scagnozzi rivolsero al prodigioso fiorentino un
ultimo
sguardo contrariato, prima di uscire a grandi passi dal dormitorio del
convento. Vedendoli andarsene a passo di carica, Leonardo non riuscì a
trattenere una risata soddisfatta e, in fondo, di sollievo.
Dovette
però
ammettere che, senza la loro oscura presenza in quella stanza, l’aria
era
decisamente più leggera e respirabile, così tanto che sentì i suoi
polmoni
implorarlo per averne di più, e l’artista assecondò quel bisogno.
Lasciò cadere
le braccia lungo i fianchi, alzò il capo al soffitto e respirò
profondamente.
Chiuse
gli
occhi e sentì la freschezza del mattino liberarlo dalle paure e dalle
angosce
di quegli ultimi giorni al convento, e le sue labbra si piegarono in un
sorriso.
Quando
riaprì
gli occhi, però, qualcosa era cambiato.
La
stanza del convento era
vuota. Completamente.
Niente
più letti di legno,
niente più lenzuola insanguinate, e nessuna persona sdraiata su quei
giacigli.
Il
silenzio, e nient’altro, a
saturare l’aria.
Leonardo
provò a muoversi, ma i
suoi muscoli erano improvvisamente indolenziti, pesanti come massi, e
anche
solo compiere un passo richiese uno sforzo disumano.
Sollevò
lo sguardo in direzione
di una delle finestre, per scorgere qualcosa al di là di esse, ma vide
solo il
vuoto. La campagna fiorentina era sparita, ingoiata da una nebbia densa
e bianca
come la neve, e non c’era possibilità di vedere altro che quel candore.
Quando
provò di nuovo a
muoversi, le gambe cedettero per lo sforzo, le energie lo
abbandonarono, e perse
i sensi.
Non
sapeva dire quando tempo
fosse passato. Forse giorni. Forse un battito di ciglia.
Quando
però riuscì a
risvegliarsi, non era più nel convento, ma in un luogo a lui
sconosciuto.
Da
Vinci giaceva a terra, la
guancia premuta contro un pavimento liscio e freddo come il ghiaccio.
Le forze
però sembravano essere tornate, e l’artista riuscì a sistemarsi seduto
e a
trascinarsi verso una delle pareti di quella stanza misteriosa, per
poter avere
il muro come supporto alle sue spalle mentre aspettava che i capogiri
cessassero.
Nemmeno
da quella prospettiva,
però, riuscì a riconoscere quel luogo, o almeno a capire di che cosa si
trattasse.
Le
pareti erano nere come la
pece, lucidate alla perfezione ma così oscure da soffocare anche il più
tenue
raggio di luce. Alte, imponenti, si innalzavano come a voler
raggiungere il
cielo, ma tutto ciò a cui riuscivano ad arrivare era il soffitto di
quella
stanza, anch’esso cupo e buio.
Un
debole tintinnio metallico
catturò l’attenzione dell’artista, che si voltò subito in direzione di
quel suono.
Scattò in piedi, cosa che si rivelò un grave errore per il suo già
precario
equilibrio, ma per fortuna la parete fu di nuovo il suo sostegno.
Recuperate
le forze, mosse
qualche passo barcollando, ma deciso a seguire quel suono.
Sentì
gli occhi bruciare e li
serrò con forza per placare le fiamme.
Quando
li riaprì, era altrove.
Quella
nuova stanza, al
contrario della precedente, era completamente bianca.
Le
pareti, il pavimento, il
soffitto, i mobili… ogni cosa era di marmo, di un marmo così candido da
riuscire quasi ad accecarlo.
Ma
non era la sola differenza
rispetto alla sala precedente.
Non
era più solo.
Al
centro del salone, una
figura misteriosa sedeva su un esile sgabello, chinata su di un tavolo.
Qualunque azione stesse svolgendo, era celata sotto ad un drappo di
velluto
nero, insieme all’identità di quella persona sconosciuta.
Quel
tintinnio metallico
risuonò di nuovo in tutta la stanza, più forte e nitido di prima, e
Leonardo
capì, osservando i movimenti sotto al mantello, che proveniva proprio
dall’individuo misterioso.
L’artista
mosse qualche passo
in quella direzione, ma poco dopo un altro attore entrò in scena.
Non
si trattava, però, di una
figura distinta e definita come la prima. Al contrario, il suo profilo
era evanescente,
fumo nero che si diradava lungo i suoi contorni, e lasciava dietro di
sé una
scia di cenere e polvere.
Aveva
però le fattezze di una
persona, di un uomo alto e robusto, che si muoveva in modo deciso e
sicuro
verso il lato del tavolo opposto alla persona seduta.
Da
quella coltre densa e cupa,
però, Leonardo riconobbe chiaramente la forma di una mano: ossuta,
scheletrica,
e dalle unghie lunghe e sporche di carbone. E stretto tra quelle dita
prive di
pelle, stringeva un cuore. Un cuore ancora pulsante.
Una
risata riecheggiò tra le
candide pareti, ma impregnata di malvagità, sadica, crudele, perversa.
D’istinto,
da Vinci mosse un
passo indietro, e il suo sguardo vagò subito fino a quella misteriosa
figura
chinata sul tavolo. Per qualche ragione, pregò che anch’essa scappasse,
chiunque egli o ella fosse, ma niente del genere accadde.
Tutto
ciò che quella persona fece
fu alzarsi in piedi, senza però allontanarsi dallo scrittoio. Al
contrario,
iniziò a camminare intorno ad esso con passi lenti e stanchi, e ad ogni
suo
movimento il tintinnio risuonò.
Solo
allora, Leonardo vide.
Massicce
catene di ferro
seguivano ogni mossa, ogni gesto, ormai non più celate dal velluto
nero, e osservandole
da Vinci si chiese come fosse possibile trascinarle, tanto apparivano
pesanti.
Nonostante
tutto, la figura
raggiunse l’altro lato del tavolo, dove una bilancia d’oro era
magicamente
comparsa, e il lucido marmo bianco la rifletteva come uno specchio.
L’altra
presenza, la nube di fumo nero, allungò la mano verso uno dei piatti e
lasciò
cadere il cuore.
Il
meccanismo della bilancia si
azionò, il primo piatto si abbassò e la sua controparte rispose.
E
su di essa, la seconda
chiave.
Sotto
il velluto nero, un’altra
mano si avvicinò alla bilancia. Candida, aggraziata, ma incerta e
tremolante.
Prima
di poter sfiorare la
chiave, una lacrima cadde sul piatto.
In
quei pochi secondi, da Vinci
prese coraggio e si avvicinò a quelle misteriose presenze, lo sguardo
che
vagava dalla bilancia al mantello nero.
Quando
poi la mano raggiunse la
chiave, posata sul piatto, il velluto scivolò via dal capo, rivelando
l’identità
della povera anima incatenata.
Gli
occhi vuoti e vacui, lo
sguardo perso, le forze prosciugate… ma era lei.
Era
Gemma.
Leonardo
riaprì
gli occhi di scatto, inspirando tutta l’aria che poté.
Provò
a
rialzarsi dal letto, ma si sentì strattonare da qualcosa, una stretta
attorno
ai polsi che gli impedì qualsiasi movimento.
«Mi
sbagliavo…», mormorò, con un filo di voce. «Mi sbagliavo… mi
sbagliavo…»,
ripeté più e più volte.
Era
sveglio, ma
l’immagine di quel volto, così vuoto e perso, privato di qualsiasi
emozione o
vitalità, lo aveva colpito più di quanto non volesse ammettere.
Se
poi
ripensava a quella discussione, a quelle parole intrise di veleno e
ribrezzo
dettate solo dal contagio, si sentiva ancora peggio. Perché lo aveva
visto nel
suo sguardo: non era quella la verità. Non ci era neanche lontanamente
vicino.
Sentiva
le voci
di Nico e di Giuliano de’ Medici chiamarlo, parlargli, porgli delle
domande, ma
non riusciva a rispondere, la sua mente non pensava ad altro che ad
una
persona.
Una
giovane
donna che, a sua insaputa, era proprio lì fuori, in piedi, appena
accanto alla
porta del dormitorio.
Gemma
aveva
sentito tutto e, per quanto provasse a negarlo, un sospiro di sollievo
era
sfuggito dalle sue labbra appena certa che Leonardo fosse sopravvissuto
al
contagio.
Prima
di darsi
tempo di pensarlo, però, scosse la testa e si allontanò. Si era
trattenuta anche
troppo a lungo, e il viaggio verso Roma sarebbe stato lungo. Dover
tornare in
Vaticano e riferire al papa che il piano era fallito… non sarebbe stato
facile.
Scese le scale verso il cortile con un passo via via più lento, al
pensiero di
quello che l’avrebbe aspettata una volta attraversato il portone e
lasciato il
convento.
Raggiunto
il chiostro,
però, il suo sguardo venne catturato dalla statua di Sant’Antonio, la
stessa
scultura che aveva fatto da tramite per il veleno e che era stata
strumento del
contagio.
Sapeva
che era
una pessima idea, che se qualcuno dei suoi collaboratori l’avesse vista
sarebbero sorte strane domande, e che lei per prima non doveva
pensarci, ma fu
più forte di qualsiasi buon senso.
Lentamente,
raggiunse il piccolo podio di pietra, incorniciato da un modesto arco
di
mattoni grezzi e da alcune piante rampicanti.
Congiunse
le
mani in grembo, sollevò lo sguardo verso il volto del santo patrono, e
lentamente si inginocchiò davanti alla sua statua. Il suo volto perse
qualsiasi
traccia di arroganza o di superbia, e al loro posto calò un velo di
malinconia.
La
sua mente si
allontanò da tutto: Roma, Firenze, il papa, la sua missione, perfino
Leonardo.
Da
tutto tranne
che da un pensiero. Da una persona.
E
a quella
persona rivolse la sua preghiera.
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a
tutt*!
Trovata
la cura
per salvare le suore, ore servirà una medicina per curare Leonardo dai
sensi di
colpa per quello che ha detto a Gemma. Essere stato contagiato è
un’attenuante?
Oppure ha davvero esagerato, a prescindere?
Inoltre,
so che
non dovrei dirlo, ma è stato buttato lì qualche dettaglio che piano
piano
ricomporrà quel puzzle che è la vita di Gemma, la sua storia e il suo
passato. Sono
sempre curiosa di sapere che teorie possono scaturire anche solo da
poche
frasi, sia in questo capitolo che in quelli precedenti. Idee?
Che
dire,
questo è l’ultimo capitolo del 2018, ma dal momento che il prossimo
sarà
mercoledì 2 gennaio, rimando gli auguri di buon anno ad allora. Qui, mi
limito
a farvi tantissimi auguri di buon Natale e a ringraziarvi per avermi
letto e
per continuare a leggermi. Se aveste voglia di farmi un piccolo regalo
per
queste feste, sarei felicissima di leggervi nelle recensioni e di
sapere che
cosa ne pensate.
Intanto,
un
bacione grandissimo!
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 9 *** La Papessa ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
9 - La Papessa
Nei
Tarocchi, la carta della Papessa indica il sapere. La Papessa è
insegnante
spirituale, benevolenza, generosità. La figura contiene suggerimenti
morali ed
esercita un’influenza suggestiva sul pensiero. Rivela funzioni che
conferiscono
prestigio, parla di sacerdozio, di metafisica.
Al negativo, però, indica che le negatività diverranno immoralità.
«La
contessa Riario avanzerà da Sud, attraversando il Val d’Arno», spiegò
il comandante
Quattrone, accompagnando il Magnifico oltre le mura. «Posizioneremo
l’artiglieria su tutti i lati, ma la maggioranza degli uomini arriverà
qui».
«Siamo
in numero inferiore», obiettò Lorenzo, osservando con disappunto le
difese
predisposte.
«Ma
meglio attrezzati», si intromise Leonardo, scendendo velocemente nel
cortile.
«Con
solo dieci spingarde? Ne siete certo?», fu la scettica risposta del
primo
cittadino di Firenze.
«Ne
stiamo predisponendo altre», tentò di rassicurarlo l’artista, con un
che di
umiltà nel suo atteggiamento solitamente spavaldo.
Sapeva
molto bene, così come
tutti gli altri soldati presenti intorno a lui, che Roma stava
lentamente
preparando il suo attacco attraverso tanti piccoli ma scaltri
sotterfugi, ed
incontrarsi sul campo di battaglia non era di certo una scusa per
scambiare due
chiacchiere. Tutte le azioni della Città Santa gridavano guerra, era
solo
questione di tempo.
«Ve
lo assicuro: non ci sarà bisogno di usarle», tentò da Vinci, con
cautela.
Che
fosse ciò che
effettivamente aveva in mente di dire, lui per primo ebbe qualche
dubbio.
Forse, più che una rassicurazione per Lorenzo, voleva essere una
rassicurazione
per sé stesso, una speranza.
Se
chiudeva gli occhi, poteva
ancora rivedere tanti piccoli frammenti di quanto successo al convento
di Sant’Antonio,
alcuni giorni prima. Nonostante cercasse di ripetersi che la colpa di
quanto
successo fosse tutta da imputare al veleno e al contagio, la sua
coscienza non
voleva dargli pace.
Le
aveva detto cose orribili,
l’aveva accusata delle azioni più malvagie e spietate, e quel che era
peggio,
di aver sempre agito senza sensi di colpa.
Forse
in quel preciso
frangente, con la fredda spada del Vaticano puntata alla gola e il
veleno in
circolo nel suo corpo, non lo aveva notato o non gli aveva prestato
sufficiente
attenzione. Ma da quando era guarito continuava a rivederla: il volto
privato
della sua maschera di apatia e indifferenze, gli occhi lucidi e le
lacrime che
premevano per uscire.
Si
riteneva la mente più
geniale d’Europa, eppure non era riuscito a vedere qualcosa di così
ovvio:
c’era molto, molto altro che non sapeva, ben oltre quella reputazione
di
soldatessa fredda e spietata.
Ciò
nonostante, il Magnifico
gli avrebbe tagliato la lingua al solo sentirlo tentare di difenderla,
ragion
per cui l’artista scelse saggiamente di zittirsi e fingersi
accondiscendente.
«E
poi a volte, se tutto ciò che il tuo nemico sa fare è uccidere…»,
iniziò,
zittendo quel Come se fosse vero che
tanto premeva per lasciare le sue labbra. «…un mero inganno può essere
sufficiente», tentò. La maniera più velata possibile per suggerirgli un
altro
modo di trattare.
Il
ghigno di superiorità che
Lorenzo gli lanciò, però, distrusse ogni sua speranza.
«La
contessa è molto più scaltra di quello che credete, da Vinci», sibilò
lui, come
se stesse parlando ad un bambino ingenuo.
Lo
so bene,
avrebbe
voluto rispondere Leonardo, ma di nuovo scelse di mordersi la lingua.
«Il
vostro acume non ci difenderà stavolta. Confido sulla vostra
artiglieria, e vi
assicuro che la useremo», lo zittì definitivamente, prima di superarlo
e
dirigersi verso il suo cavallo.
L’artista
avrebbe dovuto essere
d’accordo con lui: difendere Firenze era la priorità, a qualsiasi
costo, e a
maggior ragione nei confronti di un nemico come il Vaticano.
Ma
allora perché, al solo
pensiero di attaccare e ferire Gemma, sentiva qualcosa in lui
spezzarsi?
Con
un’andatura a cavallo così
elegante da poter essere definita divina, la contessa Riario stava
percorrendo
i verdi campi della campagna toscana, avvicinandosi a Firenze con tutta
la
calma che la guida dell’esercito del Vaticano poteva permettersi.
Il
suo esercito, proprio alle
sue spalle, la seguiva con la stessa lentezza, silenzioso e ligio al
dovere. Buona
parte dei soldati aveva stampato in volto un ghigno di soddisfazione,
all’idea
della facile vittoria che avrebbero conquistato da lì a poco.
Per
quanto quella sera al
banchetto si fosse divertita a stuzzicare Leonardo senza rendere noto
il suo
nome, la contessa non aveva perso di vista l’obiettivo. Lasciata la
festa a
palazzo, aveva incaricato alcuni dei suoi collaboratori di seguire
l’artista
l’indomani, il giorno successivo e quello dopo ancora. Nessuno doveva
perderlo
di vista e, tanto meno, tornare da lei senza informazioni utili.
Per
fortuna, Grunwald aveva
trovato traccia di un accordo tra l’ingegnere e il Magnifico per
incontrarsi all’alba
in una piccola valle lontano da Firenze. Non volendo lasciare nulla al
caso,
Gemma si era armata della sua scorta e si era recata sul luogo
dell’incontro,
in un punto riparato e nascosto ma che le permetteva comunque di tenere
d’occhio la situazione.
Come
se fosse stata baciata
dalla fortuna, aveva assistito a niente meno che la prova delle armi di
Leonardo, e non si era lasciata sfuggire il benché minimo dettaglio.
Tenendo
poi conto delle informazioni sfuggite a Giuliano, al convento, il suo
vantaggio
era notevole.
«Ci
stiamo avvicinando», le comunicò una delle guardie, poco dietro di lei.
Più
che darle informazioni,
l’aveva risvegliata dai suoi stessi pensieri, prima che sfuggissero al
suo
controllo.
«Tenetevi
pronti», rispose la contessa, sollevando la mano destra per comunicare
l’ordine
anche al resto dei suoi collaboratori.
Come
riuscisse ad essere sempre
così elegante ed aggraziata, anche in un movimento tanto semplice,
restava un
mistero per tutti. E in particolare per il suo collaboratore più
fidato, che
aveva avuto modo di assistere a tanta raffinatezza molto più spesso
rispetto a
chiunque altro nell’esercito.
Non
che le altre guardie
avessero mai azzardato un tale avvicinamento, visto che l’ultimo agente
che
aveva tentato di oltrepassare i limiti del consono era finito tra le
voci
bianche del coro del Vaticano.
Da
allora, chiunque lì dentro
con un minimo di istinto di sopravvivenza si limitava, saggiamente, a
pensieri
privati e molto silenziosi. In onore del suo nome, Gemma non era altro
che un
tesoro irraggiungibile. Uno splendido, prezioso e brillante tesoro, ma
irraggiungibile.
Per
chiunque.
«Contessa?»,
la chiamò Grunwald, accelerando leggermente l’andatura del cavallo per
poterla
raggiungere.
«Sì,
capitano?», gli rispose lei, ma senza voltarsi, e il suo sguardo rimase
fisso
sull’orizzonte.
«Qual
è il vostro piano?», domandò lui, con tono freddo e distaccato.
Il
fatto che nemmeno in
quell’occasione la contessa si fosse disturbata a voltare il capo era
per lui
motivo di irritazione, ma allo stesso tempo gli concedeva qualche altro
secondo
per lasciare che il suo sguardo si soffermasse sui tratti del suo viso,
senza
correre il rischio che lei lo notasse.
«Averlo»,
rispose Gemma, bruscamente, e nemmeno si accorse di aver stretto le
briglie del
suo cavallo con più forza.
«Voi
non avete una coscienza, contessa».
Non
voleva ripensarci. Avrebbe fatto
o dato qualsiasi cosa per avere un po’ di tregua da quelle parole che,
per lei,
erano come stilettate nello stomaco.
«Quelle
persone sono morte perché voi… le avete avvelenate».
Era
una buona cosa che lui le
attribuisse una reputazione del genere. Andava tutto a vantaggio della
sua
causa. Sisto le aveva sempre insegnato che un combattente ha già vinto
metà
della battaglia se la sua fama lo precede. Ma anche sapendolo,
quell’amaro in
bocca non voleva proprio saperne di sparire.
«Non
provate nemmeno un minimo di rimorso?»
Dio,
quanto si sbagliava. Non
poteva nemmeno cominciare ad immaginarlo. Ma non lo avrebbe mai
scoperto.
«Mi
sbagliavo».
Che
stesse parlando di lei? Che
fosse sincero? Che fosse solo l’effetto del veleno ancora in circolo,
nonostante le cure?
Quelle
domande la assillavano
da giorni, e l’ultima cosa che poteva permettersi era proprio lasciarsi
distrarre così dal nemico.
«Abbiamo
tutti i nostri demoni», mormorò Gemma sovrappensiero, con lo sguardo
fisso nel
vuoto.
Seguirono
alcuni istanti di
silenzio, in cui le sue parole sopravvissero nell’aria un altro po’.
«…prego,
contessa?», chiese Grunwald, dopo qualche secondo di esitazione per la
sorpresa.
In
tutta risposta, la giovane
donna strattonò con un po’ più di forza le briglie, per indirizzare il
suo
cavallo.
«Nessuno
è invincibile, capitano Grunwald», precisò Gemma, voltandosi finalmente
nella
sua direzione. «Chiunque ha almeno un punto debole, e la prima cosa da
fare è
sfruttarlo».
E
suo malgrado, l’uomo fu solo
capace di pensare che era tornata quella di sempre.
Un
respiro profondo, le mani
chiuse a pugno, e Gemma riprese il controllo di sé stessa. Riuscì
addirittura
ad indossare di nuovo la sua maschera di sicurezza ed arroganza, venata
di
quella malizia che riusciva sempre a conquistare chiunque incrociasse
il suo
sguardo.
Quando
raggiunse il punto
d’incontro, Lorenzo de’ Medici e tutti i suoi collaboratori erano già
presenti.
E tra di loro, anche Leonardo.
«Magnifico»,
mormorò la giovane donna, con un sorriso di pura cortesia.
«Comandante»,
aggiunse, il tono della voce invariato.
Ma
raggiunto da Vinci, abbassò
ulteriormente la voce, e gli riservò uno sguardo ben più penetrante.
«Artista»,
disse, in poco più di un sussurro.
E
nonostante tutto, il
fiorentino avvertì di nuovo quella fitta allo stomaco che solo lei
riusciva a
provocargli. Una sensazione agrodolce, una tentazione a dir poco
irresistibile
ma verso cui, purtroppo, non poteva fare altro che resistere.
«Ingegnere
bellico, in verità», si intromise Lorenzo, tentando di indirizzare uno
sguardo di
quel genere su di lui. E tentando di distrarre tutti dall’espressione
sul volto
dell’artista, ormai prossimo ad uno svenimento.
Sperava
che richiamarlo con un
titolo tanto prestigioso fosse sufficiente a risvegliarlo. Per quanto
capisse
che resistere ad una donna come lei fosse un’ardua impresa, contava sul
fatto
che la sicurezza di Firenze fosse più importante.
Non
ottenendo risposte diverse
dal silenzio, però, tentò un approccio meno discreto, come quello di
tossicchiare con fare vago per destarlo.
Al
terzo tentativo, tuttavia,
la pazienza di Lorenzo si esaurì.
«Da
Vinci!», esclamò, e chiunque avrebbe percepito la tacita minaccia.
Leonardo
compreso che, per l’inaspettato richiamo, sobbalzò; perfino il suo
cavallo
sbuffò, come se riuscisse a provare quella scocciatura.
«C’è
forse qualche problema, artista?», si intromise la contessa, fingendosi
perplessa.
In
tutta onestà, però, stava
assaporando ogni secondo di quel momento, di quella dimostrazione di
quanto
potere riuscisse ad avere su di lui.
E,
in fondo, era una
rassicurazione: quanto successo durante la presunta possessione
demoniaca non
aveva intaccato quello che Leonardo provava per lei. Non
irreparabilmente,
almeno.
«Assolutamente
nessuno», borbottò da Vinci, raddrizzandosi in groppa al suo cavallo.
Se fosse
stato sincero, forse avrebbe ammesso che il problema era la presenza di
tutte
quelle persone, oltre a loro due, ma rimase solo una sua fantasia. «E
per voi,
contessa?», chiese poi, per sviare l’attenzione su di lei.
«Invero,
sì», rispose Gemma, senza alcuna traccia di turbamento nella voce.
Di
certo Leonardo si sarebbe
aspettato tutt’altra risposta, ma ormai stava imparando a non lasciarsi
sorprendere
così facilmente. La contessa Riario, per lui, era una sorpresa
continua: prima imparava
a conviverci, meglio sarebbe stato per la sua sanità mentale.
Prima
di dargli il tempo di
indagare, Gemma accelerò i tempi e proseguì da sola la conversazione.
«Sono
stata incaricata dal Santo Padre in persona di recarmi presso la vostra
città
per una negoziazione, ma a quanto pare…», e lasciò volutamente qualche
secondo
di silenzio, colmato solo dalla sua migliore espressione di
perplessità. «…gli
interlocutori con cui sto intrattenendo questa conversazione non sono
particolarmente propensi a discutere un accordo».
Si
concesse qualche altro
secondo di tempo, un momento per squadrare da capo a piedi i
destinatari della
sua ultima frase.
«O
per meglio dire… non sono particolarmente attenti»,
precisò, sollevando le sopracciglia con aria di rimprovero.
E
suo malgrado, anche il
Magnifico si trovò a condividere quella stessa espressione. Il che fu a
dir
poco una sorpresa: ritrovarsi d’accordo con uno dei peggiori nemici
della città
che tanto amava non era di certo cosa da tutti i giorni.
Ma
gli bastò scoccare un altro
sguardo a Leonardo, e alla sua faccia da cucciolo di cane, per capire
che
sarebbe stato impossibile biasimare Gemma Riario.
«Vi
ascoltiamo molto attentamente, contessa», tentò di nuovo Lorenzo,
l’orgoglio
bruciante che si poteva facilmente percepire in ogni sua parola.
Tuttavia,
alla contessa non
parvero rassicurazioni sufficienti per proseguire la conversazione.
«Artista?»,
lo chiamò di nuovo, con il medesimo tono di molti altri incontri
precedenti, e
ottenendo in risposta pressoché la medesima reazione.
Se
Leonardo avesse potuto
scegliere di ignorare il suo buon senso e di rispondere seguendo solo
l’istinto, non avrebbe esitato a dirle che stava pendendo dalle sue
labbra, ma
per fortuna la sua parte razionale ebbe la meglio.
«Vi
ascolto», rispose, sistemandosi meglio a cavallo.
Di
certo il leggero sorriso di
vittoria che si dipinse sulle labbra di Gemma, all’udire quella
risposta, non fu
d’aiuto a tenere a bada la sua impulsività.
«Molto
bene», mormoro la giovane donna.
Che
quell’ultimo sguardo
rivolto a Leonardo, ad un soffio dall’oltrepassare i limiti del
consono, fosse volto
a sottolineare la sua autorità o volto a concedersi qualche altro
secondo di
contatto visivo, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lei.
«Onde
evitare ulteriori spargimenti di sangue, Sua Eminenza ha stilato una
lista di
richieste. Primo: Firenze deve formalmente accogliere nel suo grembo
Francesco
Salviati come arcivescovo di Pisa. Secondo: il banco de’ Medici
condonerà i debiti
alla Santa Sede. E terzo, solleverete alcuni artigiani dai loro
obblighi contrattuali,
in modo che possano impiegare i loro doni al servizio di una più grande
e
gloriosa… nuova cappella».
Avrebbe
potuto continuare a
parlare per delle ore, e con ogni probabilità nessuno sarebbe stato in
grado di
distogliere l’attenzione dalle sue parole, dalla sua voce, dal suo
volto. Nemmeno
le guardie svizzere del suo stesso esercito.
«E
a quali artisti è interessato Sua Santità?», domandò il Magnifico, più
per
proseguire la trattativa che per vero interesse: conosceva già la
risposta.
Tuttavia,
la contessa Riario
mantenne quella farsa in piedi, e cercò in una tasca del suo cappotto
un
piccolo foglio di carta accuratamente ripiegato. Lo accarezzò
lentamente con le
dita fasciate dalla pelle nera, lisciandolo tra le sue mani, e finse di
leggere
quei nomi per la prima volta.
«Un
certo… Pietro Perugino», cominciò, con noncuranza. «Sandro Botticelli»
e il Figurarsi borbottato da Leonardo, come
avrebbe fatto un bambino di cinque anni, non fu più di tanto una
sorpresa. «Oh!»,
esclamò poi la giovane donna, fingendosi sorpresa. «E Leonardo da
Vinci».
Un
estraneo avrebbe anche
potuto giudicare innocente il sorriso
che la contessa rivolse ai suoi avversari, ma perfino il Magnifico
riconobbe
facilmente l’inganno.
«Come
trovate l’offerta, artista?», domandò infine Gemma, sollevando le
sopracciglia
e calcando in particolar modo sul nomignolo.
«Irrealizzabile,
contessa».
«Oh», mormorò la giovane donna,
tornando seria. «Non è la risposta che volevo», aggiunse, e forse per
la prima
volta in tutta quella conversazione si poté percepire un velo di
minaccia nella
sua voce.
«Tuttavia,
temo che sarà l’unica che avrete», proseguì Leonardo.
Se
Zoroastro fosse stato
presente, avrebbe sicuramente avuto da ridire al riguardo.
«È
un vero peccato», rispose lei, con un leggero sospiro. «Si tratta di
un’offerta
molto…», ed esitò qualche secondo, come se stesse cercando la parola
più
adatta. «…allettante».
Attratto
dalla scintilla di
malizia che stava venando la conversazione, Leonardo abbandonò per un
momento il
buon senso e lasciò che le successive parole uscissero dalla sua bocca
senza
filtri.
«Temo
che sarebbe un piacere non condiviso», mormorò, facendo spallucce.
«Chi
può dirlo, artista», rispose la contessa, in un sospiro quasi di
dispiacere.
In
un quello scambio di
provocazioni e ambiguità, nessuno parve notare l’espressione dipinta
sul volto
del Magnifico, ad un passo dal disgusto. Fu egli stesso a riportare
l’attenzione
su argomenti più importanti, con un tossicchiare non poi così discreto.
«E
se non dovessimo capitolare?», domandò Lorenzo, ritornando alle minacce
mosse poco
prima dalla contessa.
Con
quale velocità Gemma fosse
capace di passare dallo scherzo alla serietà, era parte del suo
fascino.
«Ah…
le mie unità occuperebbero Firenze», sentenziò lei, con risolutezza.
«La
mia artiglieria… ridurrebbe i vostri uomini in brandelli», si intromise
Leonardo, che parve aver ritrovato la sua tipica arroganza.
«Le
vostre mitiche spingarde ad organo», lo seguì la contessa. «Certo,
quelle
abbatteranno alcuni dei miei soldati. Ma non tutti», e dal tono con cui
aveva
pronunciato quelle ultime tre parole, i presenti capirono che stava per
arrivare il peggio. «Grazie alla sventatezza di Giuliano so che avete
dieci
macchine da guerra, e osservandone una ho semplicemente dedotto la
ciclicità
del rateo di fuoco».
Al
solo sentire il nome del
Giuliano comparire in quella conversazione, Lorenzo sentì il sangue
ribollirgli
nelle vene per la rabbia.
«Diamine,
Giuliano…», si lasciò sfuggire, a denti stretti.
«Oh,
non perdete troppo tempo ad odiare vostro fratello», gli rispose la
contessa, con
una certa noncuranza. «Sarei stata perfettamente in grado di ricavare
le
medesime informazioni dall’ingegnere», aggiunse, scoccando uno sguardo
al
diretto interessato.
«Comincio
a pensare che la vostra arroganza riesca addirittura a superare la
mia»,
commentò Leonardo, in un guizzo di spavalderia.
«Ho
avuto prova di quanto siano veritiere le mie affermazioni».
E
tanto in fretta quella sfrontatezza
era apparsa, altrettanto in fretta scomparve, spazzata via dall’ultima
affermazione di Gemma. Quel minuscolo accenno di sorriso sulle labbra
dell’artista scomparve, e perfino Lorenzo notò il silenzio che seguì.
«Da
Vinci a corto di parole. Sono sbalordito», borbottò lui, a bassa voce.
«Mi
auguro sia prova delle mie abilità, Magnifico», rispose la giovane
donna, abbozzando
un piccolo cenno di riverenza con il capo, anche se non c’era traccia
dell’umiltà che avrebbe dovuto accompagnare quel gesto.
E
Leonardo poteva affermare con
grande certezza che quella dimostrata dalla contessa era tutta
finzione. Perché
lui non era come gli altri, non si fermava alle prime impressioni, alle
maschere
che lei voleva che gli altri
vedessero.
Sulla
scia di quella
consapevolezza, portò avanti la sua difesa.
«Permettetemi
di obiettare, contessa. Mentre voi studiavate me, io studiavo voi»,
affermò,
con un mezzo sorriso spavaldo. «E ho dedotto molto dalle nostre
conversazioni»,
aggiunse, abbassando appena la voce.
Non
fu affatto spiacevole il
sapore della soddisfazione che poté assaporare, vedendo finalmente una
piccola
crepa nella maschera di Gemma.
«E
che cosa avete dedotto, artista?», domandò lei, con un interesse e una
curiosità
finalmente sinceri.
«Se
ve lo rivelassi, perderei il vantaggio che ho su di voi. E non mi
sembra
proprio il caso, non ora che vi apprestate a dichiarare guerra a
Firenze».
«Seguitemi
a Roma, dunque», propose la contessa, con risolutezza. «Eviteremmo
l’attacco
alla città e potremmo continuare la nostra… conversazione».
Bastò
il modo in cui Gemma
sbatté le sue lunghe e folte ciglia per fargli capire che il suo vero
intento
era colpirlo allo stomaco. E non solo.
«Seguirvi
a Roma? Dove verrei considerato un eretico e messo al rogo? La vostra
offerta è
sempre meno allettante», ribatté il fiorentino.
Il
pensiero di essere bruciato
vivo gli sembrò un’ottima distrazione per tornare con i piedi per
terra.
«Il
papa avrà pietà di un povero artista confuso», lo rassicurò Gemma, con
una nota
quasi dolce nel tono della voce. Tuttavia, l’espressione sul suo volto
mutò
presto in perplessità. «Oh, aspettate…», li fermò, sollevando
delicatamente un
indice in aria per garantirsi il silenzio dei presenti. «Il vostro è
uno dei
nomi sulla lista di artisti richiesti da Sua Santità».
Da
Vinci iniziò a capire dove
quel discorso sarebbe andato a finire, e fece di tutto per non
scoppiare a
ridere. Poteva provare a difendersi quanto voleva, eppure Gemma
riusciva sempre
a rigirare il coltello per puntarlo contro di lui.
«Non
avete alcun motivo di temere l’ira del Santo Padre», concluse la
contessa, con
semplicità. «Non avete ascoltato le condizioni con cui ho aperto le
trattative?», chiese poi, fingendosi dubbiosa. «Qualcosa vi ha
distratto?»
«In
effetti…», borbottò Leonardo, tentando di prendere tempo. «…stavo
facendo dei
calcoli. Per capire con quanti uomini ve ne tornerete a Roma con la
coda tra le
gambe».
Ma
l’unica reazione che ottenne
fu una discreta risata.
Gemma
sollevò delicatamente la
mano destra in aria e schioccò le dita. Alle sue spalle una delle
guardie fischiò
e, nel giro di pochi secondi, un numero tremendamente alto di soldati
uscì dal
bosco ed iniziò ad avvicinarsi.
«Riprendiamo
per un momento le informazioni sulle vostre mitiche spingarde ad
organo», disse
Gemma, congiungendo le mani davanti a sé. «Trentatré canne ciascuna con
un’emissione di trecentotrenta scoppietti in totale. Quindi, signori,
supponiamo che… i due terzi colpiscano l’obiettivo. Ma cosa succederà
mentre i
vostri impavidi miliziani stanno ricaricando?», e lasciò volutamente
qualche
secondo di silenzio, mentre le sue parole alleggiavano nell’aria. «I
miei
restanti quattrocento usciranno allo scoperto. E sì, useranno i vostri
preziosi
fiorentini… per il tiro al bersaglio»
«Affrontate
una città cinta da mura. Vi terremo a distanza almeno per sei mesi», si
difese
il Magnifico.
Ma
la sua voce non era così
ferma e sicura come egli avrebbe voluto.
Quanto
meno lui era riuscito ad
aprire bocca e a dire qualcosa, al contrario di Leonardo. Quel
ragionamento
aveva posto in chiara evidenza i difetti della sua armeria, e la
prospettiva di
una vittoria su Roma era sempre meno nitida, a mano a mano che
immaginava lo
scenario appena descritto da Gemma.
Il
fallimento stava diventano un’ipotesi
sempre più reale, e per Leonardo fu un fendente dritto nello stomaco.
«È
sufficiente una sola persona per aprire le porte dall’interno e voi…
voi siete
davvero convinto che in tutti questi mesi il richiamo del Santo Padre
non verrà
ascoltato da una singola anima a Firenze?»
Nel
gesto di afferrare le
briglie del suo cavallo, la contessa Riario pose fine a quella
conversazione.
«Avete
ventiquattr’ore per ponderare l’offerta di Sua Santità. Felice
giornata».
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt* e tanti
auguri di buon anno!
Come
sono state queste feste?
Quante trasgressioni alla dieta contare? Risposta: nessuna, perché
tutto è
concesso sotto Natale.
Nonostante
io trovi la politica
terribilmente noiosa, spero di aver aggiunto abbastanza pepe da rendere
questo
capitolo di trattive (e minacce) più stuzzicante, e condito con gli
sforzi di
Leonardo per non sbavare spudoratamente proprio di fronte a Gemma,
esercito e
braccio destro compreso.
E
a proposito. Nello scorso
capitolo avevo parlato di “piccoli indizi sul passato di Gemma”.
Tuttavia,
neanche il capitano Grunwald è salvo dalle storyline secondarie. Di
nuovo,
sbizzarritevi nelle teorie perché sono sempre curiosa.
Che
dire, vi saluto e ci
rileggiamo tra due settimane!
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
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Capitolo 10 *** Il Mago ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
10 - Il Mago
Nei Tarocchi,
la carta del Mago
rappresenta lo spirito, il soggetto pensate che si riflette nell’Io.
Indica
intelligenza, azione, padronanza, libertà nei confronti del
pregiudizio. E
ancora, esprime abilità, diplomazia, furberia, capacità di persuasione.
Al negativo, però, significa intrigante, senza scrupoli e sfruttatore.
«Bisogna
dargliene atto: Riario sa esattamente come intimidire le sue prede».
«Forse
Dio è dalla parte della contessa in questa faccenda».
«Non
ho fede in alcun Dio che si schiera con quella… subdola manipolatrice».
«Volete
spuntare la vostra lama su di me, quando invece dovreste tenerla
affilata per
Riario?»
Leonardo
ormai non riusciva più a sentire nemmeno i suoi pensieri, tanto la sua
mente
era affollata di parole dall’ultima conversazione, avuta nell’osteria.
Uscì
barcollando dalla porta sul retro, sperando così di allontanarsi da
quelle
voci, da quelle accuse, ma purtroppo non trovò alcuna pace.
Si
passò le mani sugli occhi, cercando di recuperare lucidità, ma quando
sollevò
lo sguardo vide qualcuno attraversare il vicolo a passo svelto. Non
ebbe
bisogno di più di un secondo per riconoscere la persona davanti a lui:
l’arma
più potente del Vaticano.
Ancora
incerto sulle sue stesse gambe, cercò di nascondersi velocemente dietro
ad una
colonna, aspettando il momento giusto per lanciarsi per le strade di
Firenze,
all’inseguimento del suo nemico. Non appena la vide voltarsi dall’altra
parte e
dargli le spalle, uscì allo scoperto.
Purtroppo,
però, non riuscì a muovere più di qualche passo, e il suo sguardo fu
nuovamente
catturato.
Alla
sua sinistra, la strada era un lago di sangue, coperta da decine e
decine di
cadaveri brutalmente martoriati. Iniziò a tremare violentemente, mentre
si avvicinava
per controllare cosa fosse accaduto.
Tra
tanti cittadini a lui sconosciuti, però, vide chiaramente il volto di
Nico, la
pelle pallida, gli occhi sbarrati e il sangue che gli colava lungo la
fronte.
Accanto a lui, il corpo di Zoroastro giaceva senza vita, accasciato
scompostamente su sé stesso.
Avanzò
di qualche altro passo, sempre più incerto e scosso, ma presto desiderò
di non
averlo mai fatto.
Con
la schiena poggiata ad una colonna, Andrea aveva lo sguardo perso nel
vuoto e
la camicia impregnata di sangue. Poco distante giaceva tutta la
famiglia de’
Medici, comprese le tre piccole bambine di Clarice e Lorenzo, il
candore delle
loro vesti devastato dalle ferite. Giuliano aveva lo sguardo rivolto
altrove, e
seguendolo Leonardo riconobbe Vanessa, sdraiata su un fianco.
Sentiva
che il cuore stava per uscirgli dal petto, il suo viso era imperlato di
sudore
e i suoi occhi si stavano bagnando di lacrime. Rialzò lo sguardo ma la
situazione non fece che peggiorare: tutte le altre vie della città si
stavano
riempiendo di cadaveri, vittime innocenti morte per la sua incapacità
di
salvare la città.
L’aria
stava diventato irrespirabile, improvvisamente densa di fumo, mentre
nelle
orecchie dell’artista risuonava il boato dei suoi cannoni. Questa
volta, però,
non erano rivolti verso il nemico, ma nella sua direzione.
Tentò
invano di recuperare fiato, di deglutire, di muovere anche un solo
muscolo del
suo corpo, ma il terrore lo aveva paralizzato e nemmeno la sua mente
era in
grado di ragionare.
Per
cui, quando sentì qualcosa di freddo e metallico premuto contro la sua
gola non
accennò alla benché minima reazione, né oppose resistenza sentendosi
strattonato altrove. Tutte le sue energie erano concentrate sul tentare
di
respirare, prima che il suo corpo cedesse alla mancanza di aria.
Quando
finalmente la strada fu fuori dal suo campo visivo, così come il sangue
e i
cadaveri, Leonardo riuscì finalmente ad inspirare, i polmoni che
bruciavano per
la prolungata assenza di ossigeno. Sbatté più volte le palpebre e i
corpi senza
vita dei suoi amici sparirono.
Sentì
la schiena sbattere violentemente contro una parete, e solo allora si
rese
conto di essere stato trascinato via, in un piccolo angolo nascosto tra
una
casa e l’altra. E finalmente anche il viso della contessa Gemma Riario
fu
chiaro e nitido.
Ancora
scosso, da Vinci rimase in silenzio per qualche istante, cercando di
non cedere
ai tremendi capogiri che lo stavano tormentando.
«Siete
un’allucinazione anche voi?», mormorò lui con un filo di voce, mentre
ansimava
alla ricerca di aria.
Per
un istante, per un brevissimo istante,
gli parve di scorgere una traccia di preoccupazione negli occhi della
giovane
contessa, ma venne ben presto spazzato via dalla sua espressione fredda
e
determinata.
«Temo
di no, artista», rispose Gemma, con una certa dose di confusione nel
tono della
voce.
Leonardo
ripensò a quello che aveva visto poco prima: Gemma stava chiaramente
scappando
via dalla città, con la spada salda tra le mani, e poi erano apparsi
tutti quei
cadaveri, tutto quel sangue… Eppure in quel momento lei era lì, ad un
soffio
dal suo viso, con lo stiletto alla gola di lui e l’aria tutt’altro che
intimidita.
Solo
allora da Vinci capì che anche la sua figura in fuga per le strade di
Firenze
era stata frutto della sua immaginazione; ma in quel momento, al
contrario,
ogni cosa era reale. Tutto l’alcol in circolo gli stava giocando brutti
scherzi, e un brutto presentimento gli mormorò all’orecchio che il
peggio
doveva ancora arrivare.
Cercò
di recuperare un minimo di lucidità e il suo sguardo tornò sulla figura
di
fronte a lui, e soprattutto sull’arma con cui lo stava minacciando.
«Sapete
che se qualche guardia vi vedesse ora potreste dire addio alla vostra
guerra, contessa?»,
tentò di intimidirla, mentre si sforzava di capire come uscire da
quella brutta
situazione.
Non
si sorprese di non vederla minimamente turbata. Anzi, il suo sorrisetto
malizioso divenne un piccolo ghigno di soddisfazione.
«Credete
che i manifesti fossero coriandoli?», gli chiese.
«Popolo
di Firenze, i Medici vi
condurranno alla morte».
«Niente
svuota le strade come il terrore», mormorò Gemma, chinando leggermente
la testa
di lato.
Da
Vinci sollevò lo sguardo verso la città e, infatti, non scorse nemmeno
l’ombra
di un’altra persona fuori dalle abitazioni. A celare ulteriormente la
loro singolare
presenza lungo le vie di Firenze, ci pensava il piccolo angolino tra le
costruzioni in cui si trovavano.
«Mossa
davvero astuta, contessa», si complimentò l’artista, riportando la sua
attenzione sulla giovane donna.
Prima
che lei potesse anche solo accorgersene, Leonardo aveva colpito il suo
braccio,
facendole perdere la presa attorno allo stiletto, e altrettanto
velocemente le
aveva afferrato i polsi, capovolgendo le loro posizioni e tenendole
ferme le
braccia lungo i fianchi.
«Ma
non potrei dire la stessa cosa di ora», aggiunse, con finto dispiacere.
L’artista
vide chiaramente un briciolo di confusione nei suoi occhi, e per un
attimo
anche lui si sorprese di averla disarmata tanto facilmente, ma si
impose di
recuperare immediatamente la concentrazione, prima di perdere il suo
vantaggio.
«Accettate
la sconfitta, per una volta», sussurrò Gemma, la voce libera da
qualsiasi
traccia di paura o turbamento. «Nemmeno voi siete in grado di
sconfiggere un
esercito in una notte».
Leonardo
lo sapeva. Sapeva benissimo in quale tremenda situazione si era
cacciato, ma
darle la soddisfazione di vederlo sconfitto sarebbe stato ancora
peggio.
«Non
siete nella posizione adatta per lanciare le vostre solite minacce,
contessa»,
rispose lui, stringendo la presa attorno ai suoi polsi per sottolineare
il
concetto.
In
quale modo Gemma riuscisse ancora a dimostrarsi calma e imperturbata,
nonostante la situazione fosse totalmente a suo sfavore, per da Vinci
era un
mistero. Non si rese nemmeno conto che, tanto assorto nei suoi dubbi
sul suo
autocontrollo, si era sporto ulteriormente verso di lei, costringendola
ad
appiattirsi contro il muro alle sue spalle.
Il
giovane fiorentino rimase ancora in silenzio, cercando di scorgere
qualcosa nel
viso della contessa, qualcosa di diverso dalla maschera fredda e
controllata
che portava sempre e comunque.
«Dunque,
artista?», lo provocò lei. «È la vostra occasione».
Chiunque,
al suo posto, avrebbe mostrato un segno di cedimento, un alone di
paura, eppure
anche lì, bloccata e privata di ogni via di fuga, riusciva a sfidarlo
con sguardo
fiero e impassibile, aspettando quasi impaziente la sua prossima mossa.
Da
Vinci sapeva benissimo qual era la cosa giusta da fare, quale azione
avrebbe
risolto ogni problema, suo e di Firenze. Eppure, anche solo pensare di
portare
a compimento quel piano gli serrava la gola come solo l’allucinazione
di poco
prima era riuscita a fare.
Rimase
in silenzio, mentre il suo sguardo vagava dagli occhi della ragazza al
suo
viso, alle sue labbra. Era inspiegabile, eppure ogni volta che la
distanza tra
di loro si riduceva drasticamente, e ben oltre i limiti
dell’appropriato, Leonardo
non riusciva a fermare il suo desiderio di ammirarla, e il ricordo del
loro
primo incontro lo tormentava senza pietà.
«Sarei
molto tentato di farlo, e senz’altro questo porrebbe fine a tutti i
problemi di
Firenze…», mormorò, avvicinandosi ulteriormente a lei e restando in
silenzio
per qualche altro secondo. «…ma sarebbe davvero un peccato uccidervi,
non
trovate anche voi?», aggiunse, allontanandosi solamente il tanto da
poter
osservare i suoi occhi.
Niente.
Assolutamente niente. Nessuna traccia di turbamento, di paura, di
disagio.
Gemma non aveva perso nemmeno un briciolo della sua calma e della sua
sicurezza;
al contrario sembrava sfidarlo tacitamente, servendosi di nient’altro
se non il
suo sguardo.
«E
che cosa vi trattiene?», mormorò lei, genuinamente curiosa.
Leonardo
sentì l’alcol nel suo corpo ribollire, come se una scintilla lo avesse
appena
incendiato. E sapeva che, purtroppo, non avrebbe portato a nulla di
buono.
Ma
non arrivò a realizzare altro che la sua mente agì da sola, libera da
inibizioni.
«Il
fatto che io trovi queste nostre conversazioni tremendamente
stimolanti»,
sussurrò, tornando di nuovo ad un soffio dalle sue labbra. «Non
riuscirei ad
interromperle in questo modo».
Per
la prima volta, la curiosità di esaminare la sua reazione non ebbe la
meglio, e
da Vinci rimase lì, ad indugiare con lo sguardo sulle sue labbra, ogni
energia
impiegata nel tentativo di non avvicinarsi ulteriormente con il resto
del
corpo.
«Seguitemi
a Roma, dunque», sussurrò Gemma, e la sensazione del suo respiro a una
tale
vicinanza costrinse Leonardo a chiudere gli occhi, mentre la sua
immaginazione
viaggiava senza inibizioni. «Avremmo sicuramente tutto il tempo che
desiderate…», continuò lei, e la presa di lui attorno ai suoi polsi
stava per
cedere. «…per parlare».
La
contessa lo vide chiaramente bloccarsi di colpo, per effetto delle sue
ultime
parole, e non riuscì a celare un sorrisetto divertito vedendolo
allontanarsi di
poco da lei. Sapeva anche che non sarebbe mai riuscita a trattenersi
dall’infierire
ulteriormente: era una sfida persa in partenza.
«Ho
forse deluso le vostre aspettative, da Vinci?», domandò lei, fingendosi
dispiaciuta.
Leonardo
riaprì finalmente gli occhi e non riuscì a celare nessuna delle
emozioni che lo
stavano tormentando: confusione, brama, turbamento…
«Ho
avuto un repentino calo di desiderio non appena avete nominato Roma»,
mormorò
lui, fingendo una smorfia di disgusto.
Gemma
lo osservò per qualche secondo prima di inclinare la testa di lato,
come un
piccolo cucciolo dall’aria dispiaciuta.
«Niente
che possa compensarlo?», chiese, l’innocenza del suo sguardo che
lentamente
spariva, sostituita dalla sua inconfondibile vena di malizia.
Leonardo
non poté non scuotere la testa incredulo. Ogni volta che credeva di
aver
scoperto tutte le sue carte, di aver sondato ogni sua reazione, di aver
visto
ogni sua sfaccettatura, lei riusciva comunque a sorprenderlo, a destare
di
nuovo il suo interesse, ad accendere per l’ennesima volta il desiderio
nei suoi
confronti.
Quella
ragazza aveva un effetto incredibile su di lui, e l’alcol in circolo fu
tutt’altro che d’aiuto. Soprattutto per la terribile curiosità di
sapere se
anche lui fosse in grado di provocare in lei quello stesso devastante
effetto,
anche solo in minima parte.
«In
effetti, qualcosa ci sarebbe», mormorò da Vinci, concedendosi qualche
secondo
di silenzio per studiarla, ogni volta come se fosse la prima.
Lentamente,
prendendosi tutto il tempo di cui aveva voglia, strinse la presa
attorno ai
suoi polsi e li allontanò dal muro, per poi tenerli entrambi in una
mano, in
modo da avere libera l’altra. Una piccola parte di lui era sicura di
aver
commesso un errore e che in un secondo Gemma avrebbe sfruttato la cosa
a suo
favore per liberarsi; eppure niente di tutto ciò accadde, e la contessa
non
azzardò alcuna mossa.
Leonardo
sollevò di nuovo lo sguardo sul suo viso, e probabilmente da sobrio si
sarebbe
fermato ben prima di quel punto, ma nessuna traccia di buon senso si
era ancora
risvegliata dall’intorpidimento causato dall’alcol. Sollevò la mano
libera e,
con il dorso dell’indice, le sfiorò la tempia, poi lo zigomo e la
guancia.
Ricordò
il loro primo incontro, le piccole decorazioni dorate attorno ai suoi
occhi, e
per un attimo, nel buio della notte, gli parve di scorgere lo stesso
luccichio.
Solo dopo qualche istante si rese conto che era il suo sguardo a
brillare,
senza alcuna magia.
«Come
ci riuscite?», mormorò l’artista, l’espressione genuinamente confusa.
A
quelle parole, anche Gemma non si preoccupò di celare la sua
perplessità per
quella domanda così inaspettata.
«A
fare cosa?», chiese, sollevando lo sguardo.
Dopo
qualche istante, l’incertezza di Leonardo sparì, spazzata via da uno
sguardo
ben lontano dall’essere dubbioso e cauto. La sua mano si era fermata ed
indugiava sulla sua guancia, pericolosamente vicina alle sue labbra.
«Ad
essere la mia più grande minaccia e la mia più grande tentazione».
Da
Vinci ne era certo: avrebbe finalmente ottenuto una reazione, qualcosa
che gli
confermasse che nemmeno la fredda e subdola contessa Riario era immune
al
turbamento. Niente di paragonabile al turbinio di emozioni che lo
assalivano
giorno e notte, ma si sarebbe accontentato anche della più piccola
reazione.
Eppure,
per l’ennesima volta, niente di tutto quello che aveva detto o fatto
ebbe una
risposta. Gemma era ancora lì, davanti a lui, con un tenue accenno di
sorriso
sulle labbra, impregnato della sua inattaccabile sicurezza.
«Questo
dovreste dirmelo voi, artista», rispose lei, con una vena di sincera
curiosità.
Da
Vinci scosse la testa, incapace di capire che cosa fosse in grado di
penetrare
la sua corazza, di destabilizzarla almeno un briciolo di quanto lei
riusciva a
fare con un solo sguardo. I suoi occhi iniziarono a vagare senza sosta,
fino a
quando non vennero catturati dalla sciarpa al collo della contessa.
Ben
lontano dall’essere lucido e guidato da un minimo di buon senso, spostò
la mano
lungo il profilo del suo viso, fino ad entrare in contatto con il
soffice lembo
di seta nera, così severamente annodato attorno al suo collo. Non
sollevò
nemmeno lo sguardo nei suoi occhi, ma lo mantenne concentrato sul
lavoro che
stava compiendo, mentre con le sue abili dita da artista scioglievano
il nodo.
Quasi
non si sorprese di sentirla ancora tranquilla e rilassata tra le sue
braccia,
nessun sussulto sfuggito dalle sue labbra, nessun tentativo di
protesta.
«Non
vi state opponendo», mormorò lui, il tono a metà tra la sorpresa e il
compiacimento.
«Perché
dovrei, artista?», rispose Gemma, abbassando lo sguardo sul lembo di
stoffa.
«Questa non è altro che l’ennesima conferma del potere che ho su di
voi», e
come guidati da una misteriosa forza sovrannaturale, entrambi
rialzarono lo
sguardo l’uno negli occhi dell’altra, nello stesso momento.
La
sicurezza della contessa stava iniziando ad infastidirlo, soprattutto
quando
sottolineava così bene quanto Leonardo fosse incapace di combattere il
suo
dilemma, mentre lei ne era praticamente immune e anzi, lo sfruttava a
suo
vantaggio.
Il
nodo della sciarpa non fu più un problema e destò l’attenzione di
entrambi.
Gemma continuò a sostenere con fierezza lo sguardo dell’artista, mentre
da
Vinci abbassò il suo sul lembo di seta, che ben presto si allontanò dal
collo
della giovane e scivolò per terra.
Leonardo
iniziò ad avvicinarsi, l’alcol che lo stava stordendo, allontanandolo
definitivamente dal limite del buon senso.
«Sono
piuttosto sicuro che non sia necessario assecondarmi», mormorò lui,
prima di
chinarsi sulla pelle appena lasciata scoperta e poggiare le labbra sul
suo
collo, appena sotto l’orecchio.
Finalmente,
sentì il corpo della ragazza reagire, irrigidirsi tra le sue braccia, e
le sue
labbra si incurvarono in un sorriso compiaciuto. Incapace di
distinguere il
bene dal male, ciò che era giusto da ciò che era sbagliato, avvicinò
ulteriormente il suo corpo a quello della contessa, ormai bloccata
contro la
parete alle sue spalle.
Nonostante
tutto, nonostante le barriere di stoffa, sentì chiaramente i suoi
muscoli
contratti, non più così rilassati, mentre iniziava a lasciare una serie
di baci
sulla sua pelle, dovunque gli fosse possibile al di là del collo alto
della
camicia.
Gemma
recuperò ben presto il controllo della situazione, ricordando anni e
anni di
addestramento e di insegnamenti e, nel momento in cui riuscì di nuovo a
rilassare i muscoli del suo corpo, avvertì chiaramente Leonardo
rallentare i
movimenti, conscio di aver perso il suo piccolo vantaggio.
«È
un gioco pericoloso, artista», mormorò, sentendolo indugiare con le
labbra
contro la sua pelle. «Fin dove siete disposto a spingervi?»
A
malincuore, da Vinci si allontanò da lei e ripristinò un minimo di
distanza,
nonostante il bruciante desiderio di mandare tutto al diavolo e
baciarla una
volta per tutte.
«E
voi, contessa?», ribatté, con lo stesso tono. «Fin dove siete disposta
a
spingervi per ottenere la chiave?»
Purtroppo
per Leonardo, lo sguardo di Gemma non vacillò nemmeno per un attimo, e
l’artista iniziò ad allentare la presa attorno ai suoi polsi.
Senza
mai spezzare i loro sguardi intrecciati, la ragazza si chinò a terra,
recuperando il suo stiletto e riponendolo nella cintura. Si rialzò alla
sua
altezza, e rimase volutamente in silenzio per qualche altro istante, il
suo
sguardo ad amplificare l’importanza di quella pausa, prima delle sue
prossime
parole.
«Lo
vedrete. E allora rimpiangerete di non aver ceduto fin da subito», e un
istante
dopo era già sparita per le strade di Firenze.
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt*!
Capitolo
centrale della storia, uno dei primi capitoli che io abbia scritto e,
assolutamente, uno dei miei capitoli preferiti in tutta la prima
stagione della
fanfiction. Mi è sempre piaciuta, nel quarto episodio, la scena in cui
Leonardo
esce barcollando dalla locanda e ha tutte quelle allucinazioni, ed è
stato
molto interessante inserire anche Gemma nella situazione.
E
poi si sa, in vino veritas… con tutto
l’alcol che si è scolato il caro artista, ne è uscito qualcosa di
stuzzicante.
Sicuramente le vie di Firenze deserte hanno contribuito.
Con
ciò, vi saluto e si torna tra due settimane!
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 11 *** Il Carro ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
11 - Il Carro
Nei
Tarocchi, la carta del Carro rappresenta i trionfi, il progresso,
l’evoluzione.
La vittoria proviene dalla fermezza dei propositi, dalla coerenza,
dall’equilibrio. La capacità di governare sé stesso e gli eventi
richiede
discernimento e armonia. La riuscita nelle cose dipende da potenzialità
personali, dalla capacità di rovesciare il negativo in positivo, da
talento.
Al negativo, però, esiste incapacità di vincere le situazioni, mancano
la
diplomazia e la capacità di ricercare un ambito equilibrio.
«La
mia unica opzione è di offrirmi personalmente in ostaggio a Riario.
Dovrò
pregare, rimettendomi solo alla sua misericordia, che lei rinunci a
depredare
Firenze. Dovrò pregare, affinché garantisca a Clarice e alle nostre
figlie una
scorta per l’esilio. E dovrò pregare affinché ogni traccia del mio nome
e della
mia eredità… non venga cancellato per sempre».
«E
se Riario vuole voi… che vi abbia pure».
Erano
state quelle le ultime parole pronunciate dal Magnifico, prima di
uscire dalla
bottega dell’artista.
Per
un istante, per un solo breve istante, Leonardo aveva assecondato quel
pensiero, e nella sua mente aveva immaginato il futuro descritto da
Lorenzo.
Si
vide sul campo di battaglia, mentre ascoltava gli accordi presi tra il
potente
de’ Medici e la fredda contessa Riario.
Si
vide circondato dalle guardie svizzere, dagli scagnozzi agli ordini del
gioiello più prezioso del Vaticano.
Si
vide portato dall’altro lato della guerra, al servizio del papa, e
rinchiuso a
Castel Sant’Angelo.
E
per un istante, ancora più breve, vide che non era il solo prigioniero
in
quella gabbia dorata.
Un
attimo dopo, era tornato con i piedi per terra.
Gemma
arrivò con un discreto anticipo. Da sola, in prima linea e con il suo
esercito
alle sue spalle, si concesse un breve momento di pace per pregustare
l’imminente
vittoria di Roma su Firenze.
Sul
prato verde e rigoglioso stava cadendo una debole pioggia, e il cielo
era del
tutto celato dietro a candide nubi. Con le affusolate dita coperte
dalla pelle corvina
dei guanti, strinse il tessuto del cappuccio del mantello tra pollice e
indice,
e si coprì il capo.
Il
freddo era pungente e in poco tempo le si sarebbe insinuato nelle ossa,
ma la
giovane scacciò via qualsiasi pensiero che non fosse tornare a Roma con
il più
succulente dei bottini.
Eppure,
nel suo cuore, aleggiava una strana sensazione, un brutto presentimento
che le
agitava l’animo. Si sforzò di ignorarlo, ma più ci provava e più quel
sapore
amaro tornava, sempre più forte. Tentò quindi di pensare ad altro e,
per
ingannare il tempo, estrasse dalla giacca un elegante orologio d’oro, e
iniziò
a giocherellarci in attesa dell’arrivo del Magnifico e di Leonardo.
Tutto
sommato, sarebbe stato divertente guardarlo di nuovo negli occhi dopo
quello
che era accaduto la notte scorsa nel vicolo. Tuttavia, ripensandoci,
sentì
ancora i brividi sulla pelle del collo, sotto la sciarpa di seta.
Il
galoppo dei cavalli la risvegliò; riposto l’orologio, sollevò lo
sguardo
davanti a sé e indossò, per l’ennesima volta negli ultimi giorni, la
sua
impenetrabile maschera. Sorrise, quando vide i suoi interlocutori
fermarsi di
fronte a lei.
«Nico»,
esclamò Gemma, vedendo il giovane apprendista di Leonardo nella piccola
folla
di accompagnatori. «È una gioia vedervi di nuovo. Spero che la vostra
mano sia
guarita», aggiunse, e forse solo una persona tra tutte loro poteva
concedersi
il lusso di credere che la sua preoccupazione fosse sincera.
E
proprio su quella persona si posò lo sguardo della contessa.
«Artista»,
mormorò Gemma, con voce vellutata. «Puntuale e pronto per seguirmi a
Roma»,
aggiunse, congiungendo le mani davanti a sé e sorridendo soddisfatta.
Leonardo
da Vinci, giovane artista, anatomista e ingegnere di una certa fama,
sapeva
benissimo che qualsiasi persona, dotata di un minimo di senno, si
sarebbe
coperta il capo con il cappuccio del proprio mantello per proteggersi
dalla
pioggia; e la contessa non era sicuramente un’eccezione.
Ma
era come se quel velo la allontanasse per un secondo dal suo ruolo,
lasciando
al suo posto solo una giovane donna dalla pelle candida e dagli occhi
che
brillavano come due pietre preziose.
«Salve,
contessa», riuscì a dire Leonardo, per quanto fosse forte la tentazione
di
chiamarla per nome.
«Spero
abbiate riposato. E che abbiate le energie per stare al mio passo»,
proseguì
Gemma e, per sottolineare velatamente il concetto, si sistemò meglio in
sella
al suo cavallo.
«Siete
certa di essere voi quella in grado
di stare al mio passo?», ribatté il fiorentino, accompagnando la
provocazione
da uno dei suoi sorrisetti colmi di arroganza e presunzione.
«Non
sarei io, dei due, a restare senza fiato», ribatté lei, abbassando
sempre di
più il tono della voce.
E
come piccolo assaggio, lo aveva lasciato davvero senza fiato.
«Andiamo
senza indugi ai termini della resa», si intromise il Magnifico,
desideroso di
concludere quanto prima quel teatro di umiliazione che lo vedeva
protagonista.
«Certamente»,
rispose Riario, con la più falsa delle accondiscendenze. Vedere la
soddisfazione dipinta sul suo volto, forse, sarebbe stato meno
fastidioso di
quella finta gentilezza che voleva solo celare la vittoria.
Eppure,
in quel frangente che avrebbe ben presto determinato le sorti di
Firenze,
Leonardo fu capace solo di afferrare una melagrana dal suo piccolo
fagotto e di
iniziare a mangiarla, come se nulla fosse. In qualche modo, era anche
riuscito
ad allontanare dalla sua mente le immagini descritte da Gemma, poco
prima.
«Vorrei
delle…», iniziò Lorenzo, con umiltà, ma si fermò frenato dal suo
bruciante
orgoglio. «Esigo…», si corresse. «…da
voi alcune rassicurazioni».
La
contessa rispose con un cenno della mano che lo incitava a continuare,
con la
medesima falsa gentilezza di poco prima. Voleva fingere di non capire
per quale
motivo Lorenzo fosse tanto riluttante ad offrirsi in ostaggio; e nel
mentre,
assaporava con piacere il dolce sapore della vittoria.
«Firenze
e tutti i cittadini sono la mia priorità…», iniziò il Magnifico, ma fu
interrotto senza troppi complimenti da Leonardo.
«Un
momento!», esclamò l’ingegnere, con la bocca ancora mezza piena di
melagrana. «Scusate,
scusate», continuò, fermando sia Lorenzo che Gemma.
Tutto
ciò, sotto gli sguardi perplessi di Riario e del suo esercito, e
fulminanti del
Magnifico.
«Vi
è chiaro, contessa… di chi è la resa
di cui si discute?», domandò da Vinci, calcando notevolmente sul suo
titolo,
con un tono di voce basso e roco simile a quello usato da lei per
stordirlo.
«Illuminatemi,
artista», disse la giovane in tutta risposta, facendo spallucce.
Ma
prima di proseguire, Leonardo immaginò la reazione della temibile e
spietata
contessa Riario di fronte ad un’innegabile sconfitta. Sapeva che da lì
a poco
la sua mossa l’avrebbe completamente spiazzata e, senza che potesse
controllarlo, le sue labbra si piegarono in un sorriso di puro
compiacimento.
«È
la vostra», rispose lui.
La
reazione di Gemma, sfortunatamente, non fu né di rabbia, né di
smarrimento, né
di paura; fu però un’incantevole sorpresa per Leonardo.
Rise.
Rise
come non l’aveva mai sentita ridere prima di allora. L’aveva vista
sorridere,
l’aveva vista fingere interesse o divertimento, o tuttalpiù l’aveva
vista forzare
una piccola risatina sarcastica. Ma quella era una risata vera,
allegra, e così
bella da scaldargli il cuore.
«Prego?»,
chiese la giovane romana, senza abbandonare il suo sorriso.
E
di fronte a quella gioia, Leonardo ebbe bisogno di un paio di secondi
di tempo
per ricomporsi. Un’esitazione che Gemma sfruttò subito.
«Forse
qualcosa vi ha… distratto…», iniziò
lei, e sul suo viso ritornò quel sorriso malizioso e quello sguardo
magnetico
che erano la sua firma. «…ma la vostra città è in netto svantaggio».
«Da
Vinci…», lo rimproverò il Magnifico, con il più minaccioso dei suoi
sguardi: come
se quella situazione non fosse già abbastanza umiliante.
Ma
Leonardo lo ignorò, e si rivolse al suo giovane apprendista.
«Nico?»,
lo chiamò, voltandosi verso di lui e indicando il carro che avevano
portato sul
campo di battaglia. «Mostra alla contessa, nonché guida
della
Santa Romana Chiesa, il nostro dono»,
proseguì, e ai suoi ordini il biondino tolse il telo che copriva il
carico.
Enormi
oggetti sferici, dall’aspetto assolutamente sconosciuto a tutti i
presenti,
fecero capolino e chiunque, eccezion fatta per Leonardo e Nico, li
osservò con
diffidenza.
«Da
quando avete calcolato i potenziali delle mie armi, mi sono sforzato
per
aumentare il vantaggio di Firenze», iniziò da Vinci, prendendosi una
piccola
pausa per dare un altro morso alla sua melagrana. «È questione di
matematica,
in realtà. Cioè, come ammassare un gruppo di sfere economizzando
spazio. E
visto che la natura impiega sempre i mezzi più efficaci per raggiungere
i suoi fini…
ho colto ispirazione da un frutto», e detto ciò, sollevò quel che
restava del
suo spuntino con la mano, prima di gettarlo alle sue spalle.
Eccolo
di nuovo, quell’amaro presentimento che Gemma aveva sentito nel petto.
«E
così ho inventato… la bomba a grappolo», sentenziò l’artista, estraendo
dalla
tasca della giacca l’oggetto in questione, per poi lanciarlo alla
contessa.
Senza
esitazioni, la giovane Riario sollevò immediatamente la mano e prese al
volo la
piccola sfera, rigirandola tra le dita per esaminarla meglio.
«L’involucro
raccoglie esplosivi più piccoli, compattati, come le facce di un solido
archimedeo separate da distanziatori in ferro. Così, quando la bomba
viene
lanciata… si frammenta, creando una fontana di schegge a grappolo».
Più
la spiegazione di Leonardo continuava, più la presa della mano di Gemma
intorno
alla bomba si rafforzava, così tanto che iniziò ad emergere il segno
del suo
anello sotto la liscia pelle nera del guanto.
«Ho
stimato che ognuna di esse elimina una dozzina di uomini, compresi i
cavalli. Tuttavia,
una bomba colpisce il bersaglio solo se chi la lancia è abile. Per
questo…», e
con le parole, Leonardo si fermò. Scelse il silenzio, mentre si voltava
per
cercare Zoroastro e annuirgli.
Il
suo fedele amico, in fondo al prato, gli rispose con un cenno della
mano, prima
di dare ordine agli altri uomini di scoprire la loro arma segreta. Ed
essa, per
quanto fosse distante dalla contessa e dal suo esercito, aveva tutto
l’aspetto
di una balestra ma molto, molto più
grande e minacciosa.
Lorenzo
era ancora assorto nel suo silenzio, mentre cercava di capire a quale
gioco
Leonardo stesse giocando. Al contrario di lui, però, Gemma aveva già
compreso
che la situazione stava volgendo a suo sfavore, e che la sua posizione
di
potere si stava sgretolando.
Non
fece però in tempo ad aprire bocca, che qualcun altro lo fece per lei.
«Imponente»,
commentò il capitano Grunwald avanzando leggermente, in sella al suo
cavallo. «Ma
quel congegno funziona davvero?»
Già
per la controparte fiorentina fu una sorpresa vedere un sottoposto
della
terribile contessa Riario intromettersi con tanta sfrontatezza e
rubarle la
parola; ma per le guardie provenienti da Roma, fu quasi più
sconvolgente della
balestra appena scoperta.
Seguirono
alcuni secondi di silenzio, durante i quali buona parte dei presenti
già
ipotizzava quali strazianti torture sarebbero state inflitte ad un
soldato
tanto insolente. In quella pausa, Nico afferrò la balestra del suo
maestro,
quella di dimensioni normali, e gliela porse.
«Ve
lo mostro su scala molto ridotta», disse Leonardo.
Giusto
il tempo di accendere la miccia e di scoccare la bomba in aria, ed essa
esplose
in una moltitudine di scintille colorate e scoppiettanti.
«Va
da sé che la vera bomba più grande… non contiene fuochi d’artificio,
ovviamente»,
precisò da Vinci, onde evitare equivoci dopo quello che era appena
stato visto.
Il
Magnifico cominciò a sogghignare sotto i baffi, improvvisamente fiero
del suo
ingegnere bellico e ben lontano dagli insulti che gli aveva sputato
addosso
solo poche ore prima, nella sua bottega. Da Vinci invece lasciò perdere
la
vittoria, e si concentrò solo sulla rivale che aveva di fronte; ma non
per
sfidarla o per marcare con lo sguardo l’umiliazione che le stava
infliggendo.
Voleva
capire che cosa stesse pensando davvero. L’intervento di Grunwald, agli
occhi
dell’artista, era molto più di un gesto impulsivo da parte del suo
braccio
destro. Era segno che il silenzio della contessa era apparso così grave
e
inusuale da spingerlo ad intervenire, contro qualsiasi ordine o
insegnamento.
Ragion
per cui era del tutto plausibile aspettarsi rabbia, frustrazione,
smarrimento,
paura.
Che
fosse uno scherzo del destino o una maledizione, una condanna a
ricordargli
quello che le aveva detto, quello che le aveva fatto, ma quelli erano
gli
stessi sentimenti che Leonardo aveva visto sul volto di Gemma al
convento.
«Siete
ancora cerca di non voler trattare una resa, contessa?», le chiese da
Vinci, ma
con un tono molto più asciutto e pacato rispetto ai suoi soliti.
Ma
Gemma aveva sfruttato saggiamente quel lasso di tempo, quel silenzio
che
Grunwald aveva colmato, ben sapendo il rischio che correva. Nella sua
testa si
erano susseguiti anni e anni di insegnamenti, addestramenti, lezioni e
punizioni, e prime su tutto le parole di Papa Sisto, di quell’uomo che
nemmeno
lei riusciva a chiamare Padre.
Mai
mostrare le proprie
debolezze.
Mai
provare al nemico che
quello era un punto debole.
Mai
dargli la soddisfazione
della vittoria.
Mai
mostrarsi impreparati.
Mai.
Mai.
«D’accordo»,
rispose la nipote del Papa, con una calma e una compostezza a dir poco
sorprendenti. Soprattutto data la situazione. «E quali sarebbero i
termini?»
Il
Magnifico aveva ormai iniziato a prevedere il comportamento di Leonardo
e, per
quanto non approvasse alcuni suoi silenzi in risposta a determinate
mosse della
contessa Riario, specie se provocatorie, non poteva comunque dargli
torto. Dimenticando
per un momento il ruolo della giovane donna, quel che rimaneva era un
gioiello
degno del suo nome.
Lasciò
l’ingegnere impegnato a fissare la sua nemica con un’espressione
parecchio
perplessa, e si intromise.
«Roma
ha ancora dei debiti verso il banco dei Medici. Debiti ingenti»,
rispose Lorenzo, con un ghigno gongolante stampato sulle
labbra.
In
silenzio, Gemma rispose con un cenno della mano a continuare. Un cenno
privo
della superbia con cui la trattativa era iniziata, e il primo cittadino
di
Firenze sorrise ancora di più nel notarlo.
«Inoltre,
Pisa rientra sotto la giurisdizione di Firenze, quindi la nomina di
Francesco
Salviati come nuovo arcivescovo non è valida», aggiunse.
«Dunque
cosa proponete, Magnifico?», proseguì la contessa, e fu particolarmente
frustrante ritrovarsi dalla parte del perdente, specie per una
combattente come
lei, abituata a vincere.
«Sarà
la Repubblica di Firenze a nominare il nuovo arcivescovo», sentenziò
Lorenzo.
«Altro?»
Anche
solo una singola parola era uno sforzo, per lei.
Quello
che molti dei presenti ignoravano, però, era ciò che la stava tenendo
ancora in
piedi, ciò che le stava dando la forza di mantenere egregiamente
intatta la sua
maschera di indifferenza e tranquillità, anche in quella posizione di
svantaggio. Non era il talento, non erano gli addestramenti, non era il
suo bel
caratterino.
Era
la paura.
La
paura delle conseguenze che, ben presto, si sarebbero abbattute su di
lei. Perché
solo la fuga sarebbe stata una sconfitta peggiore di quel fallimento
contro i
fiorentini.
«Rivogliamo
le cave di allume che ci avete sottratto», sentenziò il Magnifico.
E
finalmente, Gemma colse una piccola occasione di riscattarsi.
«Cave
che sono state svuotate…», mormorò la giovane donna, con un’innocenza
ben
recitata. Innocenza che, però, centrò il bersaglio quando il de’ Medici
si
lasciò sfuggire una piccola smorfia di seccatura sul volto. «Ma prego,
sono
vostre», aggiunse, e quella gentilezza era finta tanto quanto
l’ingenuità di
poco prima.
«Le
spese di guerra devono essere risarcite», ribatté immediatamente il
Magnifico,
notevolmente infastidito per aver perso di mano il potere, per un
momento.
«Solitamente questo spetta al perdente».
«Per
questo particolare dato, dovremmo chiedere all’ingegnere bellico»,
rispose
Gemma, e con l’occasione scoccò un lungo sguardo a Leonardo. Quasi non
si
sorprese di trovare i suoi occhi già posati su di lei, quando si voltò
nella
sua direzione.
«Vi
metterò tutto per iscritto, contessa. Non preoccupatevi di questo»,
mormorò
l’artista, ma la questione del denaro era proprio l’ultimo dei suoi
pensieri.
Gemma
se ne accorse. Si accorse di tutto, ma scelse di andare oltre.
«E
quando potremmo discutere di questi particolari dettagli?», domandò la
giovane
romana al Magnifico, sperando che fosse l’ultima questione da
affrontare prima
di potersi voltare e andare via.
«Terrò
un banchetto a palazzo, tra due giorni. Potremmo disquisirne in
quell’occasione»,
propose Lorenzo.
Che
la malizia nella sua voce, nel suo sguardo e nella sua proposta fosse
dovuta
alla vittoria o ai suoi ben noti appetiti,
era difficile a dirsi. Lorenzo era prima di tutto il signore di
Firenze, ed era
fedele alla sua città; ma non lo era altrettanto nei confronti di sua
moglie, e
il numero delle sue amanti non era affatto lusinghiero.
Tuttavia,
trovarsi sul campo di battaglia dopo una vittoria che doveva tutto a
Leonardo e
niente a lui, e ciò nonostante lasciarsi andare a pensieri ben poco
consoni e
casti nei confronti di una delle nemiche più pericolose per la città
che tanto
decantava di amare… era quanto ti può lontano dal concetto di comportamento lodevole.
E
Gemma lo notò. Lo notò eccome.
«Invitereste
il nemico nella vostra stessa città?», chiese lei, sollevando le
sopracciglia
con scetticismo.
«Nemico
al quale sto offrendo un ramoscello d’ulivo», si giustificò lui, ma
senza
perdere quel ghigno di soddisfazione che ormai aveva ben stampato sulle
labbra.
Non
a caso, lo sguardo della contessa Riario continuò ad essere scettico e
distaccato, ma dovette comunque accettare.
«Così
sia, dunque», e nel dirlo, Gemma sentì un po’ della paura sfumare. Il
banchetto
avrebbe sicuramente ritardato il suo ritorno a Roma, e forse le avrebbe
offerto
un’altra occasione per rimediare.
Non
aveva alcuna possibilità di riportare a Sisto una vittoria che ormai
era
svanita, ma forse poteva ancora trovare il modo di lenire la sua rabbia
e
calmare la sua impazienza.
Strinse
tra le mani le briglie del cavallo, e accennò un inchino per
congedarsi. Il
tutto, firmato con la sua ineguagliabile eleganza.
«A
presto, contessa Riario», mormorò il primo cittadino.
«A
presto», rispose lei. «Magnifico…», aggiunse, per pura formalità.
«…Artista», e
a lui dedicò un ultimo sguardo, prima di voltarsi ed andarsene, seguita
dal suo
esercito.
Lorenzo
fece altrettanto, e si allontanò con le sue guardie a fargli da scorta.
L’unico
a tardare il ritorno in città, perso in una fitta nebbia di pensieri,
domande e
perplessità su quello che era appena accaduto, era Leonardo.
Tra
tutti i suoi dubbi, di una sola cosa era certo: più aveva modo di
conoscere
Gemma, e più il mistero che la circondava si infittiva.
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt* e buonasera!
Torniamo
sul campo di battaglia e nell’ambito di trattative e politica, per cui
rinnovo l’augurio
che mi ero fatta per il capitolo 9 di non avervi annoiata e di aver
reso le
minacce di qua e le intimidazioni di là abbastanza piccanti e
d’intrattenimento.
Intanto
quattro schiaffi al Magnifico che ci prova con qualsiasi donna abbia
davanti
non glieli vogliamo tirare? Così, per insegnargli il valore della
fedeltà.
Però
l’invito alla festa ormai è sul tavolo, sarebbe un vero peccato
lasciarlo lì.
Per
questo misterioso banchetto di fine guerra, ci rileggiamo tra due
settimane!
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 12 *** La Forza ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
12 - La Forza
Nei Tarocchi,
la carta della
Forza emana energia interiore, psichica. Ciò che si scatena nel corpo
fisico
può essere domato. Si uniscono sentimenti e ragione per imbrigliare
l’istinto.
È intelligenza che sottomette la brutalità. Indica il coraggio
tranquillo, la
forza spirituale e morale, il controllo. La forza d’animo viene
espressa con
attività ragionevole.
Al negativo, però, può indicare un eccesso di temerarietà, collera
incontrollata. Può significare crudeltà e insensibilità.
La
risata soddisfatta di Leonardo risuonò per tutto il corridoio, sotto lo
sguardo
confuso e perplesso di Nico. Il povero apprendista riuscì a malapena ad
annuire, mentre il suo maestro gli spiegava tutti i simboli contenuti
nel
ritratto di Cosimo de’ Medici, fino ad arrivare alla sua teoria: il Mago altro non era che un Figlio di
Mitra, ed ogni dettaglio di quel quadro riprendeva l’invocazione tipica
dell’ordine.
«Sono figlio della terra e del cielo
stellato. Di sete son arso. Vi prego, fate che io mi disseti alla
fontana della
memoria».
Leonardo
rise di nuovo soddisfatto, mentre si passava le mani tra i capelli e
fissava il
dipinto come se avesse appena trovato le risposte a tutte le sue
domande.
«Sembra
che tutte le mie ricerche convergano. È… è quasi… una ragnatela
immensa, un
merletto filato con perizia, talmente vasta e antica che sto
cominciando solo
ora ad afferrarne il fine», ragionò l’artista ad alta voce, mentre
spostava lo
sguardo sul ritratto del Magnifico. «Ho… ho dato prova di chi io sia, a
Lorenzo, guadagnando la sua fiducia. È ora che lui mi ripaghi il
favore»,
proseguì, più serio.
«Facendo
cosa?», chiese Nico, che intanto doveva ancora elaborare tutte quelle
informazioni.
«Finanziando
una spedizione, nella terra indicata sulla mappa dell’ebreo. Con una
nave e
provviste per il viaggio», rispose da Vinci, con risolutezza. «La Volta
Celeste
è di certo là fuori, Nico, con il Libro delle Lamine e la conoscenza in
esso
contenuta. Sento già che mi sta chiamando. E sarà proprio il Mago a
condurmici»,
e mentre lo diceva, corse ad abbracciare il suo apprendista, tanto era
preso
dall’entusiasmo.
«Dovremmo
parlare con il Magnifico, allora», gli consigliò Nico, ricordandosi
solo in
quel momento della festa organizzata in onore di Leonardo.
«Certo,
certo», rispose l’artista poco attento, osservando il quadro. «Tu… tu
vai pure,
io arrivo tra poco», aggiunse, dandogli una pacca sulla spalla.
Il
biondino sorrise e si allontanò verso la sala dei ricevimenti, in cui
già molti
ospiti erano arrivati e aspettavano solamente l’ospite d’onore.
Leonardo però
preferì rimandare ancora un po’ il suo ingresso alla festa, la sua
mente già
lontana ad immaginare il viaggio che avrebbe potuto intraprendere.
Era
totalmente concentrato ad ammirare il ritratto, quando sentì dei passi
lenti e
calcolati alle sue spalle, e pensò che qualcuno fosse stato inviato da
Lorenzo
per trovarlo e portarlo di peso alla celebrazione.
«Solo
un momento, per favore», disse, senza nemmeno voltarsi o distogliere
l’attenzione dal quadro.
«Stavo
per chiedervi lo stesso, artista», e Leonardo sbarrò gli occhi
all’istante,
riconoscendo la voce alle sue spalle.
Lentamente,
lasciò cadere l’attenzione per il dipinto e si voltò, trovando la
contessa di
fronte a sé.
«Sicuramente
omettendo il Per favore, ma la richiesta
sarebbe stata la stessa», precisò Gemma, con un sorriso soddisfatto dei
suoi.
Leonardo
però a malapena la sentì, mentre il suo sguardo la percorreva dalla
testa ai
piedi. Era a dir poco frustrante come la sua attenzione evaporasse
all’istante
ogni volta che si incontravano, ma quanto più lui si riprometteva di
sviluppare
una sorta di immunità nei confronti del suo fascino, tanto più lei si
impegnava
a distruggere anche la sua più piccola sicurezza.
E
se l’aspetto e le provocazioni non bastavano, sicuramente Gemma sapeva
come
valorizzare al meglio anche il suo corpo.
L’abito
che indossava, di un lucido e brillante velluto viola, fasciava ogni
centimetro
del suo corpo, sottolineando ancora una volta le sue indiscusse doti
come guerriera
e come i suoi costanti allenamenti la mantenessero in splendida forma.
Il
corpetto era succinto ed aderente, fin
troppo succinto ed aderente per l’autocontrollo di Leonardo, per
nulla
aiutato dalla luccicante scollatura, squadrata e tempestata di piccole
e
luccicanti pietre preziose. La silhouette del vestito le sottolineava
il punto
vita, avvolto da una fascia anch’essa tempestata di gemme, e seguiva da
una
gonna morbida e sinuosa.
Allo
stesso modo, le maniche erano aderenti dalle spalle ai gomiti, per poi
scendere
dolci e drappeggiate fino ai polsi. Altrettanto soffici e liberi da
costrizioni
erano i capelli, acconciati in morbidi e delicati boccoli, appena
appena
raccolti all’altezza delle tempie, mettendole in risalto il viso e,
soprattutto, il trucco degli occhi, leggermente più scuro e marcato del
solito.
Come se i suoi sguardi non fossero già sufficientemente magnetici.
Leonardo
nemmeno si sforzò di interrompere quel silenzio, poco lusinghiero per
la sua
arroganza, ma sapeva già in partenza che i suoi tentativi di articolare
qualche
parola sarebbero andati a vuoto.
«Vedo
che nemmeno tentate di opporvi a questo colloquio», commentò Gemma,
congiungendo le mani davanti a sé, all’altezza della vita. «Né prestate
troppa
importanza ad un eventuale ritardo alla festa organizzata in vostro
onore».
Prima
di ribattere, Leonardo dovette ricorrere ad uno sforzo notevole per
recuperare
saliva e deglutire, altrimenti quelle che avrebbero voluto essere
parole si sarebbero
trasformate in mugolii indefiniti.
«Lorenzo
può aspettare», mormorò, sorprendendo addirittura sé stesso per essere
riuscito
a risponderle.
La
vide sorridere soddisfatta e chinare di poco la testa di lato, prima di
mordersi il labbro inferiore. E così facendo, distrusse un altro po’
del suo
già scarso autocontrollo.
«Ottimo»,
mormorò Gemma. «Volete seguirmi?», lo invitò, indicando con un cenno
del capo
il proseguire del corridoio dei ritratti di famiglia.
Da
Vinci nemmeno si sforzò di assecondarla a parole, semplicemente la
raggiunse in
pochi passi, e la contessa si incamminò lentamente lungo la
balaustra.
«Ho
notato che il Magnifico ha particolarmente a cuore questa
manifestazione della
sua gratitudine nei vostri confronti», esordì Gemma, sciogliendo le sue
mani
intrecciate solo per congiungerle dietro la schiena, assumendo così una
postura
estremamente elegante e regale.
L’artista
a malapena la sentì: il suo sguardo scivolò lentamente sulla scollatura
del
vestito e, soprattutto, lungo la linea del collo. Non poté nulla contro
i
ricordi dell’altra notte, del loro piccolo scontro lungo le vie
fiorentine e
della sensazione di avere i loro corpi l’uno a contratto con l’altro,
senza
alcuna distanza.
Aveva
dovuto faticare parecchio per scoprire anche un solo lembo di pelle,
nascosta
sotto la sciarpa e il colletto della camicia, mentre in quel momento
ogni
barriera era sparita, e Leonardo iniziava a chiedersi se fosse in grado
di
resistere ad una simile tentazione.
«Come
noto che, al momento, non mi state nemmeno ascoltando», proseguì la
giovane
donna, scoccandogli un’occhiataccia di rimprovero.
Era
più che temprata ad affrontare qualsiasi impedimento, ma la mancanza di
attenzione da parte del suo interlocutore era ancora qualcosa che
riusciva ad
irritarla parecchio.
«Colpevole»,
ammise lui, alzando le braccia in segno di resa.
«Non
credete che io meriti la vostra attenzione, Messere?», domandò Gemma,
ma più
che una domanda suonava proprio come una minaccia.
«Oh,
vi posso giurare che al momento avete la mia completa attenzione»,
mormorò
Leonardo, la voce bassa e roca mentre il suo sguardo la percorreva da
capo a
piedi per l’ennesima volta.
«Mi
fa piacere saperlo», rispose la giovane Riario, continuando lentamente
a
camminare. «In tal modo, il nostro incontro procederà senza
difficoltà».
«E
quale sarebbe lo scopo di questo incontro, contessa?», domandò
Leonardo,
avvicinandosi notevolmente al viso di Gemma, in modo da poterle
sussurrare
quella domanda all’orecchio.
Con
una punta di sorpresa, ma senza intaccare il suo atteggiamento sicuro e
controllato, la nobildonna interruppe il proprio cammino e si voltò
verso l’artista,
in modo da poterlo guardare dritto negli occhi.
«Avervi»,
rispose semplicemente, con una risolutezza a dir poco disarmante. E a
Leonardo
si bloccò il respiro in gola.
In
un’altra situazione, liberi dai loro ruoli e della loro avversità,
probabilmente da Vinci non avrebbe esitato a mandare tutto al diavolo e
a
cedere, soprattutto di fronte a colei che, ultimamente, rappresentava
una delle
sue più grandi ossessioni.
Eppure,
per qualche misterioso motivo, si ricordò che la contessa Riario era
dannatamente brava a manipolare le persone, e altrettanto brava a
mantenere
l’attenzione sui suoi obiettivi. E, sfortunatamente per lui, ciò a cui
lei ambiva
era sottometterlo per raggiungere la Volta Celeste e il Libro delle
Lamine.
Nonostante
tutto, pensarlo non riuscì completamente ad inibirlo, e il suo corpo
agì di
vita propria, avvicinandosi di qualche passo a Gemma e facendola così
indietreggiare verso il parapetto del corridoio.
«E
come pensate di avermi, contessa?», mormorò lui, con una punta di
malizia e il
suo caratteristico sorrisetto da schiaffi.
Leonardo
non si sorprese di vederla comunque calma e rilassata, come ormai in
tanti
altri loro incontri, ma ancora non aveva rinunciato a tentare di
destabilizzarla come lei faceva con lui ogni singola volta.
«Sono
certa di essere in grado di persuadervi», rispose Gemma, anch’ella con
la voce
ridotta ad un sussurro, e un brivido di soddisfazione le percorse la
schiena
vedendo l’artista tremare appena, combattuto tra la tentazione di
cedere e il
buon senso.
«In
questo caso, vi conviene cominciare subito», la incoraggiò da Vinci,
con un
ulteriore passo avanti, facendo arrivare la contessa con la schiena
appoggiata
alla balaustra.
Per
quanto tentata di prolungare ulteriormente quel loro, ormai tipico,
gioco di
provocazioni e velate allusioni, Gemma ricordò il vero motivo che
l’aveva
spinta a presentarsi lì, e decise di accantonare momentaneamente
quell’aspetto
giocoso per ritornare a questioni più serie.
«Mentireste
dicendomi di aver sempre avuto l'appoggio che i Medici vi stanno
dimostrando
stasera, e solo per celebrare una vittoria a loro favorevole invece
della
vostra genialità», iniziò lei, e il leggero indurirsi nei lineamenti di
Leonardo le bastò come conferma di aver colpito nel punto giusto. «Ma
posso
assicurarvi che, seguendomi, riceverete tutto il supporto e le
attenzioni che
meritate».
Una
punta di delusione intaccò il classico sorrisetto arrogante e
presuntuoso dell’artista,
capendo che dietro ad ogni loro incontro c’era sempre e comunque lo
zampino del
Vaticano e della missione affidatale da papa Sisto, ma innegabilmente
una
seconda motivazione stava amplificando quell’amarezza: la
consapevolezza che
Gemma aveva ragione, che i Medici non si erano dimostrati mai
totalmente
entusiasti del suo lavoro come ingegnere militare, e che quel fervore
era nato
solo dopo la vittoria di Firenze su Roma.
La
contessa notò immediatamente quell’ombra nello sguardo dell’artista, e
ne
approfittò per calcare la mano e proseguire.
«Risorse,
fondi, manodopera… Concedeteci la vostra collaborazione, e potrete
avere
qualsiasi cosa desideriate», mormorò lei, concludendo la frase con un
sorriso
malizioso.
«Qualsiasi?»,
ripeté Leonardo, mentre il suo sguardo le percorreva il viso,
soffermandosi
inevitabilmente sulle labbra.
«Qualsiasi»,
confermò Gemma, le parole ridotte a un sussurro caldo e vellutato.
Lo
vide chiaramente combattuto tra la tentazione di rifiutare la sua
offerta a
prescindere, per la sua fedeltà verso Firenze, e quella di pensare solo
a sé
stesso e seguire la via più facile. Perché era vero, e lo sapevano
entrambi:
accettare l’offerta del Vaticano avrebbe ridotto drasticamente i tempi
necessari
a preparare il viaggio, ma significava anche tradire la fiducia di
Lorenzo,
dopo tutti i suoi sforzi per conquistarla.
«Vi
basta condividere con noi le informazioni in vostro possesso, e da quel
momento
non dovrete fare altro che chiedere per avere», proseguì la contessa,
inclinando di poco la testa di lato, e a Leonardo bastò uno dei suoi
sguardi
per sentirsi completamente stordito.
Suo
malgrado, l’espressione dell’artista si fece improvvisamente
interessata, ma che
lo fosse nei confronti di quell’offerta o della persona che la stava
proponendo, ancora non lo sapeva.
Gemma
intrepretò quella mossa come una reazione positiva, e il suo sorrisetto
si fece
soddisfatto.
«Dunque
siete disposto ad accettare e a seguirmi senza alcuna esitazione? Ad
assecondare
ogni mia richiesta?», chiese lei, alla ricerca di una conferma
definitiva per
sigillare l’accordo.
Nonostante
Leonardo sapesse benissimo che quella domanda era riferita alla sua
collaborazione con il Vaticano, si ritrovò incapace di ragionare
lucidamente, e
le parole successive lasciarono le sue labbra troppo in fretta per
essere
fermate.
«Per
voi farei questo e altro», le rispose, la voce ridotta ad un sussurro e
lo
sguardo che scivolava lentamente lungo tutto il suo corpo.
«Esattamente
quello che desideravo», mormorò la giovane Riario, in un sospiro che
mise a
dura prova la concentrazione dell’artista.
Talmente
tanto che Leonardo non riuscì a fare nulla per tenere a freno la sua
mano, che
lentamente scivolò lungo il fianco della contessa, fino a cingerle la
vita, e
la guidò lontana dal parapetto, verso la colonna alle sue spalle.
«Sto
assecondando bene i vostri desideri, Gemma?», mormorò da Vinci,
sporgendosi con
il suo corpo tanto da imprigionarla con la schiena contro il freddo
marmo del
pilastro.
Fu
chiaro ad entrambi che l’argomento che aveva aperto la conversazione
era ormai
un lontano ricordo, ma nessuno dei due mostrò l’intenzione di farlo
notare.
«Avete
ampio margine di miglioramento, artista», rispose la contessa, con uno
sguardo
di finto dispiacere.
«Permettetemi
di dimostrarvi il contrario», ribatté prontamente Leonardo, giungendo
ad un
soffio dal suo viso.
«Che
cosa avete in mente?», domandò lei, trattenendo a fatica l’istinto di
mordicchiarsi il labbro tra i denti.
«E
voi, Gemma?», sussurrò l’artista, lo sguardo concentrato lungo la linea
del suo
collo, una volta tanto libero dalle costrizioni della divisa vaticana.
«Io,
voi… Stanotte…», mormorò la giovane donna, la voce ridotta ad un
bisbiglio.
«Stanotte,
dite?», ripeté Leonardo, con un improvviso nodo alla gola per lo sforzo
che
stava compiendo nel tenere sotto controllo il suo corpo.
Lo
sguardo di Gemma lo studiò con attenzione, prima di essere macchiato da
una
vena di finta perplessità.
«La
considero l’idea migliore, ma possiamo sempre rimandare, se a voi fa
piacere».
«Io
lo farei anche subito», si lasciò sfuggire Leonardo, prima che la gola
si
facesse troppo secca per dire qualcos’altro.
Invece
in Gemma il dubbio si mutò in stupore, a quella risposta, ma tanto
quanto prima
era evidente la finzione di quelle espressioni.
«Perdendovi
la cerimonia organizzata proprio in vostro onore?», gli chiese.
«Per
avere il privilegio di passare un po’ di tempo in vostra compagnia?»,
ribatté da
Vinci, come se quello fosse un dettaglio tutt’altro che indifferente.
«Certamente»,
confermò con voce roca.
«Nessuna
limitazione, artista. Avremo più tempo di così», lo rassicurò Gemma,
riassumendo la sua caratteristica espressione vispa e maliziosa.
«Tutta… la
notte…», precisò, scandendo molto bene le parole, e a Leonardo sfuggì
un
pesante sospiro.
Ad
ogni respiro di Gemma, l’abito le si stringeva attorno al petto e, per
quanto
da Vinci si fosse sforzato di mantenere il controllo, a quel punto
nemmeno
tentò di frenare il suo sguardo dallo scivolare lungo la scollatura del
vestito,
catturato dal luccicare delle gemme che tempestavano il tessuto.
«E
molto, molto di più», proseguì la contessa, notando immediatamente che
cosa
avesse catturato l’attenzione dell’artista, e colse al volo
l’occasione. «Qualcosa
che non implichi l’impedimento causato da quest’abito».
«Il
vestito che avete addosso è magnifico, ma trovo anche io che sia un
impedimento»,
rispose con prontezza Leonardo, la mente improvvisamente affollata da
immagini
tutt’altro che innocenti.
«Siamo
finalmente d’accordo su qualcosa, dunque», replicò Gemma, con una vena
di
sorpresa.
«Sì,
lo siamo», affermò da Vinci, avvicinandosi pericolosamente alle sue
labbra.
Ma
all’ultimo istante chinò leggermente il capo e si spostò, posando un
lungo
bacio sul collo. Si concesse qualche secondo per inspirare
profondamente il
profumo della sua pelle, per imprimerlo nella memoria, assieme
all’inebriante
sensazione di quel contatto con il suo corpo, prima di iniziare a
deporre una
fitta scia di baci.
Gemma
non lo avrebbe mai ammesso, neppure sotto tortura, ma quei tocchi erano
deliziosamente piacevoli, delicati ma allo stesso tempo caldi e
stuzzicanti. Avrebbe
dovuto fermarlo, sapeva che era la scelta migliore, ma appartati in
quel
piccolo angolino e protetti da occhi indiscreti, si disse che non c’era
niente
di male nell’aspettare qualche altro momento prima di proseguire la
conversazione su un piano più professionale.
Soprattutto
se aiutata dal tepore del respiro di lui sulla sua pelle, dal contrasto
tra le
sue labbra così calde e la sua pelle così fredda, da quei baci che
delicatamente stavano risalendo tutta la linea del collo, verso
l’orecchio.
«Sarà
mia premura levarlo e relegarlo altrove, non dovete temere», proseguì
la
contessa, senza accorgersi di aver chiuso gli occhi, soggiogata da
quelle
attenzioni, né che le sue mani erano corse a percorrere con le dita il
cordoncino che Leonardo aveva attorno al collo, legato alla chiave.
Dal
canto suo, da Vinci si rese conto di aver firmato la sua condanna a
morte
nell’istante in cui aveva iniziato a baciarla, perché assaggiarla era
solo il
principio: non sarebbe mai stato abbastanza, non avrebbe mai avuto la
forza di
arrivare tanto vicino ad averla per poi desistere.
Ogni
pensiero stava sfumando. Svanì tutto quello che non contemplava varcare
quella
linea e porre fine alle sue strazianti sofferenze, dimenticarsi di
tutto e
tutti e ridursi a loro due soltanto.
Con
ogni probabilità, fu proprio il progressivo sparire di ogni idea anche
solo
minimamente razionale a sentenziare le parole successive di Leonardo,
tra un
bacio e l’altro.
«C’è…»,
mormorò, prima di posare di nuovo le labbra sulla sua pelle. «…una
stanza…», e
la baciò ancora. «…inutilizzata…», di nuovo un altro bacio. «…poco
lontano», e
proseguì, raggiungendo l’incavo del collo.
«Una
stanza, artista?», mormorò Gemma, vagamente confusa. Che lo fosse di
proposito,
da Vinci non avrebbe mai potuto saperlo, né tanto meno vederlo o
notarlo.
«Una
stanza…», precisò, posando un bacio sulla clavicola, vicino alla
scollatura del
vestito. «…con una scrivania», aggiunse, a bassa voce.
Ignorando
il retrogusto amaro che la sorprese, la contessa Riario capì che il
punto di
non ritorno era ormai troppo vicino; si costrinse quindi a riaprire gli
occhi e
ad indossare di nuovo il suo ruolo.
«Temo,
purtroppo, che voi abbiate mal compreso la mia proposta».
E
a quelle parole, Leonardo sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene, ma
rimase
ancora qualche istante immobile.
«Avremo
certo bisogno di tutta la notte…», proseguì Gemma, a voce bassa. «…per
iniziare
il nostro viaggio verso Roma».
Il
pungente sapore della delusione colpì da Vinci fino in gola e gli diede
la
forza di allontanarsi, abbastanza da poterla guardare in volto.
«Ecco
da dove arrivava tutta questa vostra accondiscendenza», commentò
Leonardo, con un
bel po’ di veleno nel tono della voce. «I miei complimenti, contessa,
per
essere riuscita ad ingannarmi un’altra volta», aggiunse, con una dose
non
indifferente di sarcasmo.
«Avete
detto voi stesso di essere pronto ad assecondarmi in ogni mio
desiderio»,
ribatté Gemma, in una precisazione che quasi suonava come una
giustificazione,
e da Vinci risposte con una risata impregnata di amarezza.
«Ci
vediamo ai festeggiamenti, contessa», si congedò lui, allontanandosi
definitivamente dalla giovane donna.
Sicuramente
non si aspettò di sentire una presa forte e decisa stringersi attorno
al suo
braccio e trattenerlo lì dov’era.
«Non
così in fretta», lo fermò Gemma, improvvisamente più seria.
«Che
altro c’è?», borbottò Leonardo seccato.
Fu
una sorpresa ritrovarsi improvvisamente nel ruolo opposto, quando Gemma
lo
spinse con la schiena contro la colonna alle sue spalle, e un accenno
di
stupore trapelò dal suo sguardo.
«Preferite
la schiettezza, artista? Non dovete fare altro che chiedere», iniziò la
contessa Riario, con tutta la franchezza caratteristica della sua
reputazione.
«Roma avrà anche lasciato andare la presa su Firenze, oggi, ma posso
darvi la
mia parola che non lascerà quella su di voi».
Riconoscendo
nient’altro che minacce, Leonardo non fece nulla per celare uno sguardo
ben
poco amichevole, in risposta, sperando così di incentivarla a
concludere il
prima possibile quella conversazione.
«Sono
qui per offrirvi una via di salvezza, da Vinci», proseguì Gemma,
rivelando
definitivamente il vero motivo della sua visita.
«Preferirei
la morte che concedermi a Roma», ribatté immediatamente l’artista,
nella
speranza di convincerla ad andarsene.
«Sapete
anche voi che esistono destini ben peggiori della morte. E per vostra
sfortuna,
Roma ne ha già uno in serbo per voi», proseguì imperterrita, sempre più
seria. «È
la vostra ultima possibilità», sentenziò infine, abbassando il braccio
con cui
l’aveva bloccato e liberandolo.
In
tutta risposta, Leonardo scoppiò in una sonora risata, ma che fosse
sincera o
un tentativo di fuggire dall’amarezza, non poteva saperlo.
«Sono
certo di avervelo già detto, ma ve lo ripeterò: per nessun motivo,
nemmeno per voi
o per la vostra cara città, rinuncerei mai alla mia libertà».
L’espressione
della contessa si fece piuttosto seccata, enfatizzando quel sospiro
annoiato provocato
dalle sue parole.
«Siete
stato avvisato», gli rispose, in un tono che suonava come un
avvertimento,
tanto che Leonardo iniziò a chiedersi se non ci fosse davvero qualcosa
sotto,
ma scelse di ignorare quel presagio.
«Dovreste
cercare di rilassarvi e di godervi la festa, come farò io», le suggerì,
riassumendo il suo tipico atteggiamento sfrontato e presuntuoso. «E
mettetevi
l'anima in pace: io non mi piegherò mai a voi», precisò, con aria di
sfida.
Non
si aspettò certo di vederla accennare un sorriso dei suoi, mentre si
torturava
il labbro inferiore con i denti.
«Sapete,
sono d’accordo con voi», rispose Gemma, inclinando la testa di lato.
«Dovreste
godervi gli ultimi momenti di libertà che vi restano», precisò poi,
tornando
più seria.
Leonardo
invece scelse di nuovo di ignorare le minacce della giovane donna, e
capì che
era il momento di porre fine all’incontro.
«Buona
serata, contessa», mormorò, accennando un inchino di cortesia. «Mi
aspetto le
vostre congratulazioni, a fine serata», aggiunse poi, con un sorrisetto
provocatorio.
«Sono
certa che avrete un’interessante sorpresa, prima
della fine della serata», rispose invece Gemma, per nulla toccata dalle
sue
parole o dal suo tono, ma anzi assolutamente calma e tranquilla. «Buona
serata
a voi, artista», aggiunse, prima di vederlo incamminarsi verso la sala
del
ricevimento.
Una
volta sicura che se ne fosse andato, si incamminò nella direzione
opposta,
pronta ad incontrare i Pazzi e le Guardie della Notte: la denuncia e
l’arresto
sarebbero scattati.
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt*!
Quanti
capitoli preferiti mi è lecito avere in tutta la storia? Perché questo
non
posso non inserirlo nella lista, mi dispiace. Cose dette e non dette,
sottintesi più o meno velati, provocazioni verbali e fisiche… Ho un
vero debole
per tutto ciò.
Ma
presto o tardi si deve tornare con i piedi per terra. Nel caso di Gemma
verso il
suo artista preferito, con delle catene attorno a polsi e/o caviglie,
chiuso in
una cella del Vaticano. E a tale scopo casca la famosa denuncia, che
tra l’altro
c’è stata veramente nella storia. Povero Leonardo…
Ci
rileggeremo alla fine del mese!
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 13 *** Gli Amanti ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
13 - Gli Amanti
Nei Tarocchi,
la carta degli
Amanti esprime amore come bellezza spirituale, come legame universale
attraverso l’espressione di un sentimento. Simboleggia l’amore puro,
gli
ideali. Indica i desideri migliori, il potere di scelta, il libero
arbitrio.
Al negativo, però, esprime dubbio e indecisione, cose che sono in
sospeso e non
si realizzano, esitazione, prova attraverso una tentazione.
Leonardo
passò per l’ultima volta l’affilata lama lungo il profilo del mento,
prima di
sciacquarla nell’acqua e gettarla senza cura in un angolo qualsiasi
della
stanza. Si appoggiò con la schiena alla vasca e rimase in silenzio a
fissare al
soffitto.
Aveva
così tanti pensieri per la testa che non riusciva a decretare quale
catturare e
seguire, per cui decise che la scelta migliore era ignorare ogni cosa e
cercare
di distrarsi. Lentamente si lasciò scivolare lungo la liscia superficie
alle
sue spalle e si immerse completamente nell’acqua, trattenendo il fiato
e
serrando con forza gli occhi.
Rivide
lo sguardo di Lucrezia nell’aula di tribunale, dopo l’emissione della
sentenza,
e non riusciva a togliersi dalla testa quella fastidiosa sensazione che
gli
aveva annodato lo stomaco: nel suo sguardo non c’era solo tristezza e
pietà,
c’era un dolore che la stava mangiando viva, un senso di colpa
straziante. E
più l’artista cercava di trovare una spiegazione a tutto ciò, più si
rafforzava
in lui un terribile presentimento.
Quando
i polmoni iniziarono a bruciare per lo sforzo, Leonardo riemerse
dall’acqua,
respirando profondamente per riprendere fiato. Non solo non riusciva a
spiegarsi la sua presenza al processo, ma avrebbe proprio fatto
volentieri a
meno di vederla.
Eppure,
in un minuscolo angolo della sua mente, troppo piccolo per essere
raggiunto, da
Vinci sapeva perfettamente qual era il suo vero desiderio, la persona
che
effettivamente avrebbe voluto vedere, nonostante gli eventi degli
ultimi
giorni.
Voleva
vederla. Voleva toccarla. Voleva baciarla.
Magari
proprio in quella vasca.
Ma
scosse energicamente la testa, bloccando la sua fantasia sul nascere.
Aveva
capito fin da subito l’effettivo piano dietro a quell’accusa, e quei
suoi
assurdi pensieri erano nettamente in contrasto con lo stato d’animo che
avrebbe
dovuto avere.
Sbuffò
sonoramente e si stropicciò gli occhi con aria stanca. La sua mente
stava
lavorando troppo e, se non si fosse fermato in tempo, avrebbe ottenuto
solo un
fastidioso mal di testa.
Per
sua fortuna, il cigolio della porta d’ingresso della sua bottega gli
fornì un’ottima
via di fuga da tutta quella confusione: Zoroastro e Nico avevano già
fatto la
loro comparsa per assicurarsi che stesse bene, per cui l’unica persona
rimanente era Vanessa. Il tempo di un saluto e di qualche
rassicurazione, e
sarebbe potuto tornare a mollo nell’acqua calda.
«Sto
bene, Vanessa», esclamò Leonardo, alzandosi in piedi ed uscendo dalla
vasca, circondato
da deboli filamenti di vapore tutt’intorno al suo corpo.
Riacquistò
la sua tipica espressione da artista presuntuoso ed arrogante e si
diresse
verso le scale, senza preoccuparsi di mettersi qualcosa addosso.
Non
appena mise piede sui gradini più in alto, scorse una figura di spalle,
coperta
dalla testa ai piedi da un semplice mantello nero.
«C’è
una meravigliosa vasca piena d’acqua profumata, al piano di sopra»,
iniziò
Leonardo, più seccato di quanto non volesse sembrare. «E vorrei
trovarla ancora
calda quando-…», ma le parole gli morirono in gola quando la donna di
fronte a
lui si voltò.
Gemma
impiegò giusto un secondo per perdere la sua aria distaccata ed
indifferente, e
ancora meno tempo per voltarsi di nuovo di spalle.
«Artista,
è così che accogliete una donna nella vostra bottega?», domandò, il
tono della
voce fermo ma ben diverso dall’espressione, decisamente più turbata,
che aveva
in volto. Per sua fortuna, però non poteva essere vista.
«Dipende
dalla donna in questione, contessa», rispose tranquillamente da Vinci,
per poi
rendersi conto dell’assurdità di quella situazione: avrebbe dovuto
sentirsi infuriato,
infastidito, o come minimo in imbarazzo, eppure nessuna di quelle
emozioni
sembrò scalfirlo.
«Temo
di appartenere ad un livello decisamente superiore rispetto alle vostre
solite
compagnie», commentò la giovane Riario, riacquistando il suo tipico
tono
tagliente.
Leonardo
approfittò di quei pochissimi secondi per acciuffare un paio di
pantaloni dal
mobile al suo fianco, cercando di essere allo stesso tempo il più
veloce e il
più silenzioso possibile.
«La
vostra stima nei miei confronti crolla tragicamente, quando non
parliamo della
mia genialità», continuò a tono l’ingegnere, approfittando delle sue
parole per
coprire il rumore della stoffa, mentre indossava i pantaloni.
Gemma
era perfettamente consapevole di quanto tempo stesse perdendo, ma era
più forte
di lei: non appena lei e Leonardo iniziavano una conversazione, tutto
diventava
una gara a chi dei due sarebbe riuscito a prevalere sull’altro. E,
purtroppo
per lei, azzuffarsi verbalmente con quell’artista era una tentazione
irresistibile.
«Credo
che definirla stima sia esagerato»,
continuò la nobildonna romana, senza riuscire a celare un sorrisetto
malizioso
sulle sue labbra.
Alle
sue spalle non aveva udito altro che silenzio, ma ad un tratto avvertì
perfettamente dei passi avvicinarsi a lei, lenti e calcolati.
«Non
la pensavate così quando mi avete supplicato di sottomettermi a Roma»,
mormorò da
Vinci, ormai sempre più vicino alla ragazza.
«Confondete
le suppliche con le minacce, artista», rispose la contessa, combattendo
l’irresistibile tentazione di voltarsi.
Non
si accorse che l’uomo era ormai alle sue spalle fino a quando non sentì
le sue
parole ad un soffio da lei, e fu difficile trattenere un sussulto.
«Nel
vostro caso, sembrano coincidere», bisbigliò Leonardo, abbassandole
lentamente
il cappuccio del mantello.
Era
così abituato a vederla costretta in complesse ed austere pettinature
quando
indossava la divisa del Vaticano, che rimase molto sorpreso nel vedere
i suoi
capelli completamente sciolti, acconciati in morbidi ricci che
sembravano
implorare le sue mani di accarezzarli.
La
vide mantenere lo sguardo dritto davanti a sé, e capì di essere
riuscito a
rivestirsi senza farglielo sapere.
«Ero
convinto che nulla riuscisse a turbarvi», la provocò di nuovo,
avvicinandosi
volutamente al suo orecchio e mantenendo il tono della voce basso e
roco.
«Credete
davvero che un pittore sia in grado di turbarmi?», si difese lei
immediatamente,
ma sapeva benissimo che, finché rimaneva di spalle, dimostrava il
contrario.
Decise
di correre il rischio, facendo affidamento sulla sua incredibile
capacità di
celare le sue emozioni, e si voltò lentamente verso l’artista,
sostenendo il
suo sguardo. Con la coda dell’occhio notò i pantaloni e, suo malgrado,
si sentì
sollevata.
«Sapevo
che eravate vestito», mormorò la contessa, ritrovata tutta la sua
sicurezza.
«Avete
un udito strabiliante o avete sbirciato?», la provocò lui, alzando le
sopracciglia
con eloquenza.
«Non
sopravvalutatevi, ho visto di meglio», rispose lei prontamente, con uno
sguardo
di sufficienza.
Suo
malgrado, il sorrisetto impertinente ed arrogante di Leonardo crollò di
colpo a
quelle parole, mentre quello della contessa si fece ancora più
soddisfatto.
Gemma
lo superò, iniziando a camminare per la bottega e concedendogli qualche
secondo
per raccogliere i cocci del suo orgoglio infranto. Anche se non
l’avrebbe mai
ammesso, nemmeno sotto tortura, in cuor suo sapeva che si era spostata
solo per
non cedere alla tentazione di osservare quanto del corpo dell’artista
non era
coperto dai vestiti. Inoltre quelle sue prime parole, riguardo ad una
vasca di
acqua calda che non doveva essere sprecata, suonavano fin troppo
stuzzicanti
alle sue orecchie.
«Allora
perché siete qui, quando avete evidentemente di meglio da fare?»,
domandò da
Vinci, maledicendosi subito dopo per il tono da cucciolo offeso che non
era
riuscito a nascondere.
Gemma
si destò dai suoi pensieri, decisamente poco consoni alla situazione,
ed
indossò di nuovo la maschera della fredda ed imperturbabile contessa
Riario.
Si
voltò di nuovo verso di lui, con un sorrisetto appena accennato, e
congiunse le
mani davanti a sé.
«Volevo
mettervi in guardia, artista», iniziò lei, con tono freddo e deciso.
«Avverto
una nota di preoccupazione, contessa»,
rispose Leonardo, ritrovando un po’ della sua tipica arroganza e
marcando
notevolmente il suo titolo.
Nel
mentre, si era concesso alcuni istanti per osservarla. I suoi abiti
erano
quelli di sempre, la cupa ed austera divisa papale, ma notò come il
mantello e
i lunghi capelli sciolti coprissero perfettamente il simbolo del
Vaticano. Senza
quell’emblema cucito all’altezza del cuore, sembrava una fanciulla come
tante
altre, libera da obblighi e missioni.
E
Leonardo si chiese come sarebbe stato conoscerla in altre circostanze.
Un
giovane uomo che conosce una giovane donna, niente di più.
«Continuate a
sopravvalutarvi», rispose lei con una finta
aria dispiaciuta, abbattendo per la seconda volta il sorriso
dell’artista.
«Permettetemi di essere chiaria», aggiunse, avvicinandosi di qualche
passo.
«Voi non siete niente di più di un mero strumento, un investimento.
Semplicemente, detesto gli imprevisti durante un affare».
Da
Vinci avrebbe voluto dirsi turbato, o quanto meno intimidito
da quelle parole, ma invece fu distratto da tutt’altro. Il suo sguardo
sfuggì
al suo controllo ed indugiò ovunque: sul suo viso, sui suoi occhi,
sulle sue
labbra, sui suoi capelli, sulla sua camicia così accollata. Troppo
accollata.
«Quanto accaduto questa settimana non è altro che la
dimostrazione del potere di Roma. Dunque, siete ancora convinto che la
vostra
fedeltà a Firenze vi manterrà in vita?»
La
voce di Gemma lo riportò con i piedi per terra, e lo
costrinse a recuperare la sua tipica arroganza, nonostante il duro
colpo
assestato da un commento in particolare. Un piccolo dettaglio nel
discorso
della contessa, però, gli fornì una perfetta distrazione.
«Detestate gli imprevisti?», ripeté l’artista, e la
contessa capì immediatamente, dal suo tono e del suo ghigno, che stava
per esserle
restituito il favore. «Deduco quindi che quell’accusa di stregoneria
non
rientrasse nei vostri piani», aggiunse lui, avvicinandosi di qualche
passo,
tanto da costringerla ad indietreggiare per sostenere il suo sguardo.
Gemma
avrebbe voluto prendersi a schiaffi da sola: talmente
presa dal desiderio di zittirlo a dovere, si era tradita senza nemmeno
accorgersene. Doveva trovare al più presto una soluzione o la sua
visita di
intimidazione le si sarebbe ritorta contro.
«Ogni cosa è stata attentamente calcolata», rispose la giovane
Riario, con il suo tipico atteggiamento freddo e distaccato. «Non avete
mai
corso il rischio di finire sul rogo».
«Non riesco a spiegarmi il perché, ma ho la netta
sensazione che stiate mentendo», ribatté l’artista, con non poco
sarcasmo.
«Mi assumo io il compito di spiegarvi più accuratamente la
situazione: le esplosioni fuori dalla prigione sono state
l’imprevisto», iniziò
la contessa, incrociando le braccia al petto. «È stato subito chiaro
chi ne fosse
l’artefice».
Leonardo
annuì distrattamente, fingendo di credere alla
spiegazione appena fornitagli, ma notò chiaramente i tratti del viso di
Gemma:
non più rilassati e sicuri, ma tesi e nervosi.
Nonostante
tutto, ancora non riusciva a spiegarsi il motivo
dietro la sua visita. Evidentemente i Pazzi avevano assunto il comando
della
situazione, alterando il piano inizialmente elaborato dalla contessa,
ma grazie
al suo ingegno era riuscito a scappare dalla pena di morte. Ma allora
perché la
nipote del Papa aveva fatto tanta strada per incontrarlo di persona?
«Supponiamo, per un istante, che io creda al vostro
maldestro tentativo di salvarvi», iniziò lui, con tutta l’arroganza di
cui era
capace. «Ancora non mi è chiaro il perché della vostra presenza qui, a
Firenze,
nella mia bottega», continuò Leonardo, e ad ogni parola il suo tono di
voce era
sempre più basso e la distanza tra lui e la contessa sempre più
insignificante.
Gemma
tentò di indietreggiare ancora ma si ritrovò con le spalle
al muro, letteralmente. Nonostante la
fastidiosa sensazione di sentirsi in trappola, recuperò tutto il suo
autocontrollo e la sua maschera non si incrinò.
«Non mi avete ascoltata, artista», mormorò lei, il tono di
voce che si era adeguato a quello di da Vinci. «Vi sto mettendo in
guardia:
questo processo è solo una minuscola dimostrazione di quello che Roma è
capace
di fare, pur di ottenere ciò che vuole».
«Ovvero me?», l’anticipò Leonardo, raggiungendola contro
la parete. Poggiò una mano a lato del suo viso e l’altra sul tavolino
al suo
fianco, imprigionandola.
«Ovvero voi», confermò Gemma, con un sorriso freddo e
tagliente.
Dietro
al turbamento nel vedere tutte le sue vie di fuga
bloccate, la contessa percepì perfettamente qualcos’altro, una
sensazione che
non avrebbe mai dovuto provare in una situazione del genere, e ancora
meno con colui
che era suo nemico e bersaglio.
«Non
dovreste avere più cura del vostro strumento?»,
la provocò da Vinci, sottolineando il modo in cui lei stessa lo aveva
definito,
poco prima.
Gemma
stava per rispondere con una delle sue frasi provocatorie, ma Leonardo
avanzò
improvvisamente verso di lei, fermandosi solo all’ultimo secondo, ad un
soffio
dal suo viso, bloccandole così qualsiasi risposta sul nascere. Lo vide
indugiare con lo sguardo sulle sue labbra, e il ricordo del loro primo
incontro
le ritornò in mente con prepotenza.
Leonardo
sembrava decisamente intenzionato a raggiungere il suo scopo, ovvero
annullare
del tutto quella distanza a dir poco logorante; tuttavia, non azzardò
alcuna
mossa, caricando l’atmosfera di aspettativa.
La
contessa Riario rimase in silenzio qualche altro istante, prima che la
sua
impazienza avesse la meglio.
«Che intenzioni avete?», mormorò in
un soffio, e d’istinto l’artista serrò gli occhi con forza.
I
tratti del viso di lui rivelavano chiaramente
tutta la sua frustrazione e il suo conflitto interiore, la lotta tra il
desiderio di baciarla e il ricordo del suo ruolo in quella battaglia.
La
contessa lo notò e, per quanto fosse sbagliato, lo provocò
ulteriormente.
«Potrei anche decidere di
assecondarvi», aggiunse lei, facendo scivolare lo sguardo sulle sue
labbra.
«Ah sì?», domandò Leonardo con un
filo di voce, senza concedersi il tempo di capire se fosse giusto o
meno
indagare oltre.
«Chi può dirlo, artista», mormorò
Gemma, chinando la testa di lato e mordendosi il labbro inferiore.
«Non siete tentata dall’idea di
scoprilo?», chiese da Vinci, genuinamente curioso, mentre le sue labbra
si
incurvavano in un sorrisetto dei suoi.
«Scoprire che cosa?», ribatté la
contessa, la voce ridotta ad un sussurro e la mente ormai lontana dal
vero
motivo della sua visita.
«Cosa potrebbe succedere…», iniziò
Leonardo, avvicinandosi nuovamente al suo viso, fino ad arrivare ad un
soffio
da lei. «…se sceglieste di lasciarvi andare…», proseguì, mentre le sue
mani le
cingevano la vita, avvicinandola a sé. «…di pensare a voi stessa, per
una
volta, ignorando il vostro ruolo e i vostri ordini…», e lentamente
iniziò ad
accarezzarle i fianchi, risalendo lungo tutto il suo corpo. «…se
provaste a
dimenticare che sono il vostro bersaglio», concluse in un sussurro,
giungendo con
le mani al nodo che legava il suo mantello.
«Ho quest’impressione che voi invece scordiate
facilmente che sono vostra nemica», replicò Gemma, fingendosi
perplessa.
Eppure,
se quella piccola dimenticanza
comportava tutto il resto, tutte le attenzioni e tutti i gesti
dell’artista per
lei, rinfrescargli la memoria sarebbe stato un vero peccato.
«Perché sono un artista», rispose lui
semplicemente, lasciando cadere il pesante mantello a terra.
Da
quel punto, le sue mani non si mossero di un
centimetro, e si dedicarono al primo bottone della giacca del Vaticano,
facendolo scorrere con una lentezza a dir poco straziante fuori
dall’asola.
«Dunque?», domandò la contessa, poco
soddisfatta della risposta.
«Riesco a vedere il mondo con occhi
diversi», spiegò lui, continuando il suo percorso, un bottone alla
volta.
«Lotto contro i limiti, e mi rifiuto di vedere solo bianco o nero, ma
cerco
anche tutti gli altri colori», continuò, finché la giacca non fu aperta
per
metà.
«Continua a non essere una risposta»,
obiettò Gemma, mentendo spudoratamente: aveva capito perfettamente
quale fosse
il punto di vista di Leonardo, ma proprio per quel motivo voleva
sentirlo
proseguire, ascoltare finalmente qualcuno che riuscisse a pensare fuori
dagli
schemi, che riuscisse…
Quasi
trasalì, rendendosene conto.
Che
riuscisse a vederla come nessun altro faceva.
«Potrebbe essere un invito», mormorò
da Vinci, mentre le sue abili dita d’artista raggiungevano la seta
della
sciarpa e si dedicavano al nodo che la affliggeva. «Ad andare oltre i
ruoli che
gli artefici di questa recita hanno scelto per noi», e anche la morbida
stoffa
scura che le avvolgeva il collo cadde a terra.
«Un invito ancora poco allettante,
non trovate anche voi?», domandò la contessa, nel tentativo di prendere
tempo.
E
nel tentativo di calmare quella sensazione di
tepore che le stava stringendo il petto. Non sapeva che cosa stesse
succedendo,
o più probabilmente aveva paura di conoscere la risposta, ma sentirlo
parlare
in quel modo, di fuggire dalle maschere, dalle menzogne, dalla
solitudine… la
stava colpendo più di quanto non credesse possibile.
Leonardo
si concesse qualche altro secondo di
tempo, abbastanza da dedicarsi ai primi bottoni della camicia, prima di
rispondere, con le labbra piegate in un piccolo sorriso.
«Posso renderlo più attraente»,
mormorò, mentre le dita indugiavano sul prossimo bottone lungo il suo
percorso,
senza dare segno di volerlo lasciare. «O persuadere la diretta
interessata»,
aggiunse, chinandosi abbastanza da pronunciare le ultime parole al suo
orecchio.
«In che modo, artista?», domandò la
contessa, sottovoce, cercando di combattere la tentazione di chiudere
gli occhi
e abbandonarsi a quello che stava per giungere.
«Perché rovinare così la sorpresa, Gemma?»,
ribatté Leonardo, cedendo per l’ennesima volta alla tentazione di
baciarla
lungo tutta la linea del collo, dall’orecchio a scendere fino
all’incavo con la
spalla. «È sufficiente un Sì»,
aggiunse, concentrando le sue attenzioni in un punto ben preciso.
Era
pronto a qualsiasi risposta, frecciatina,
battutina, offesa… Non si aspettò minimamente di sentirla sospirare e,
per
quanto si fosse sforzata di soffocarlo, quel piccolo segno di cedimento
non
passò affatto inosservato all’artista.
Incentivato,
le lasciò qualche altro bacio
nell’incavo del collo, prima di mordicchiare appena appena la morbida e
candida
pelle di quel punto tanto sensibile.
«Solo una volta, Gemma», mormorò,
facendola rabbrividire per il suo caldo respiro così vicino al suo
corpo. «Un’occasione
per fuggire dalle bugie, dagli inganni, dalle manipolazioni…»,
proseguì, mentre
le sue dita ricominciavano a dedicarsi ai bottoni successivi,
sfiorandole di
volta in volta la pelle.
Nessuna
risposta giunse alle sue orecchie, di nuovo, eppure
per Leonardo fu un
segnale tutt’altro che scoraggiante. Ad un soffio dal suo viso, sentì
il suo
respiro farsi più rapido e conciso, e questo gli diede man forte per
risalire
la linea del suo collo, bacio dopo bacio, fino alla guancia.
«Un’occasione di libertà», mormorò
lui, con un filo di voce, prima di lasciarle un lungo bacio sulla
fronte.
Gemma
stava per cedere. Ormai non poteva più
negarlo, lo sentiva fin troppo chiaramente. In gola. Nel petto. Nel
cuore.
Quando
sentì le labbra piegarsi in un Sì, capì di non avere
più alcun
controllo su quello che stava succedendo. E la possibilità che le sue
difese e
i suoi limiti crollassero era un rischio che non poteva permettersi.
«Attendo il vostro, di Sì», mormorò la
contessa, poggiando le
mani sui polsi di Leonardo e allontanandoli da sé stessa.
La
gola le si serrò dolorosamente, vedendo la
delusione tutt’altro che celata sul volto dell’artista, ma si rifiutò
di cedere:
se fosse rimasta, non se ne sarebbe più andata.
Si
limitò a spostare lo sguardo sul suo
mantello, che ben presto lasciò il pavimento della bottega, e allo
stesso modo
Gemma, senza mai voltarsi indietro.
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt*!
Fa
un po’ caldo qui dentro o
sbaglio?
E
se dico che questo è
probabilmente il mio capitolo preferito tra tutti, sbaglio di nuovo?
È
una scena che ha preso vita
da sola nella mia mente, le parole sono uscite da sole e quando la
rileggo mi
vengono ancora i brividi. Diciamo pure che Leonardo e le sue proposte
sono una
bella mina all’autocontrollo di chiunque…
Sarà
l’ultimo incontro tra i
due nemici, prima della partenza di Leonardo lontano da Firenze. Be’,
si sono
sicuramente lasciati molto a cui pensare. Entrambi.
Al
prossimo capitolo, tra due
settimane!
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 14 *** L'Eremita ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
14 - L’Eremita
Nei
Tarocchi, la carta dell’Eremita emana il soffio del sapere, ma anche
della
tradizione e dell’esperienza. La solitudine e il raccoglimento si
mescolano
alla saggezza di questa figura, che diviene medico dell’anima, oltre
che del
corpo. Significa anche riflessione su sé stessi, e sulle situazioni
indicate
dalle carte vicine. È desiderio di scoprire la verità, ricerca della
verità.
Al negativo, però, l’essere taciturno diviene scostante, diffidente,
pesante.
La misantropia porta alla tristezza, si unisce alla povertà, spesso
solo
spirituale.
Uno
dei suoi ultimi ricordi era
il luccichio della moneta d’oro del Turco. Al-Rahim l’aveva fatta
roteare su sé
stessa su un piatto d’argento e la luce riflessa sulle sue facce aveva
abbagliato l’artista.
Leonardo
non era riuscito a
distogliere lo sguardo e aveva continuato ad osservare quel movimento
fluido ed
elegante, come stregato. Poi i suoni si erano fatti più distanti e
ovattati,
gli oggetti intorno al piatto avevano cominciato a dissolversi e la
stanza sembrava
essersi trasformata in sabbia.
Subito
dopo, era in sella al
suo cavallo in mezzo al deserto, accompagnato dal misterioso Abissino e
dalle
sue parole criptiche riguardanti il Libro delle Lamine e il destino del
mondo.
I
Figli di Mitra non erano
proprio capaci di parlare senza usare enigmi.
Poi
l’Abissino gli aveva
sussurrato una semplice parola: «Svegliatevi».
Il
tempo di un battito di
ciglia, e da Vinci era nel bel mezzo di un bosco, a cavallo e
accompagnato dai
suoi fidati amici Nico e Zoroastro. Per qualche secondo rimase
tranquillo e
imperturbato, come se si fosse effettivamente appena risvegliato dopo
una lunga
notte di sonno. Però in poco tempo si rese conto che non era nel suo
letto,
nella sua bottega, nella sua Firenze, ma chissà dove e chissà da quanto
tempo.
«Dove
mi state portando?», chiese preoccupato ai suoi compagni.
Nico
si scambiò uno sguardo
colmo di confusione con Zoroastro, prima di ribattere.
«Portando
voi? Siete voi a condurre noi», replicò il giovane biondino.
«Cosa?»,
domandò nuovamente Leonardo, mentre cercava di riconoscere il luogo in
cui si
trovava, ma senza successo.
«Ci
hai svegliati in piena notte con una delle tue geniali liste della
spesa»,
borbottò Zoroastro, e la sua voce tradì tutto il suo fastidio per
l’interruzione del suo prezioso sonno. «Comprate
più magnesio, prendete oscure bevande
alcoliche d’Oriente, procuratevi tre cavalli…», iniziò ad elencare,
scimmiottandolo.
«Avete
un piano! Non lo rammentate?», tentò di nuovo Nico.
«Certo!
Certo… che lo rammento», mormorò Leonardo, più per convincere sé stesso
che non
gli altri. «Da quanto tempo siamo…?», ma non ebbe il tempo di
concludere la
domanda, perché Zo aveva già capito e lo interruppe.
«Giorni»,
rispose bruscamente: la sua irritazione era sempre più esternata. «E sei stato torbo per tutto il viaggio»,
aggiunse, scoccandogli un’occhiataccia poco amichevole. «Per uno
straniero
imbecille che si è fatto rapire».
«L’Abissino»,
lo corresse Nico, cercando allo stesso tempo di calmarlo.
«È
come… come se mi stessi svegliando», mormorò l’artista, stropicciandosi
gli
occhi con una mano. Le risposte dei suoi amici erano state tutte troppo
vaghe
per aiutarlo a ricostruire i suoi ricordi, e l’idea di avere interi
giorni
completamente cancellati dalla sua mente lo frustrava parecchio. «Ho
perso una
parte di me nel viaggio», aggiunse, con un filo di voce.
Doveva
assolutamente recuperare
la memoria, e al più presto possibile.
Ricordava
vagamente la visita
del Turco nella sua bottega. Ricordava l’assoluzione, la revoca delle
sentenze
in tribunale. Ricordava gli abbracci di Zoroastro, Nico e Vanessa, per
festeggiare la sua libertà. Ricordava il suo piano di evasione e le sue
minacce
al giudice.
Ma
erano tutti frammenti
confusi e sconnessi, che non seguivano un filo logico, erano solo
piccoli
brandelli che piano piano gli comparivano davanti agli occhi.
Eppure,
in quel caos, sentiva
che c’era qualcos’altro, qualcosa che non riusciva a vedere ma che
sentiva
mancare. Un momento importante in quella vorticosa giornata.
«Un’occasione di fuggire dalle bugie,
dagli inganni, dalle manipolazioni».
E
per un attimo gli parve di
vederla di nuovo, di fronte a lui, ad un soffio dal suo viso, con il
capo
leggermente sollevato verso l’alto per poterlo guardare negli occhi.
Gemma
non gli aveva concesso
alcun Sì verbale, ma nel suo cuore da
Vinci sapeva di aver sentito una parte di lei avvicinarsi a lui, sapeva
di aver
percepito una vicinanza che era molto più che fisica, e sapeva che
quella sera
entrambi avevano mosso un piccolo passo l’uno verso l’altra.
Tuttavia,
la contessa era
scappata. Per un breve momento si erano avvicinati, ma subito dopo lei
si era
allontanata ed era fuggita via. E la missione di Leonardo in Valacchia
era
un’altra fuga.
Ciò
da cui l’artista non riuscì
a fuggire, purtroppo, fu il grosso ramo che lo colpì in piena fronte,
ed egli,
talmente perso nei suoi pensieri, non ebbe modo neanche di provare a
reagire e
restare aggrappato al suo cavallo. In un secondo passò dall’essere
seduto sulla
sella all’essere disteso a terra, in mezzo a foglie secche e sassolini
sporchi
di fango.
Eppure
era un ramo bello
grosso, tanto quanto l’albero al quale apparteneva: sarebbe bastata
davvero
poca attenzione, il minimo, per vederlo ed evitarlo. Per un attimo
furono i
pensieri di Leonardo, mentre sbirciava dalle fessure dei suoi occhi
strizzati
per il dolore. Provò a portare una mano sulla sua testa, nel punto in
cui si era
scontrato con il ramo, ma il dolore parve togliergli qualsiasi
sensibilità, e
gli sembrò di toccare il nulla.
Nico
e Zoroastro, dal canto
loro, lo osservarono con un misto di pietà e di imbarazzo, chiedendosi
con uno
sguardo se fosse il caso di intervenire o di lasciarlo lì a recuperare
la sua
dignità.
«Leonardo,
hai tempo cinque secondi per alzarti, o ti lasceremo lì dove sei», lo
minacciò
Zoroastro, guardandolo letteralmente dall’alto verso il basso.
Purtroppo
per i due, nessuna
risposta di senso compiuto lasciò le labbra dell’artista. Al contrario,
solo
lamenti per il dolore intervallati occasionalmente da qualche Gemma o contessa mormorati qua e là. Il
che fu peggio del non ricevere
alcuna risposta.
«Nico,
parti. Lo lasciamo dov’è», sentenziò il moro, afferrando le briglie del
suo cavallo
e strattonandole con forza.
All’ultimo,
però, cambiò idea e
scese a terra per raggiungere Leonardo, ancora steso nel manto di
foglie e
ancora perso nel suo momento.
«Anzi,
aspetta. Prima ho una domanda», esclamò, puntando il dito contro il suo
amico.
«Quale parte di È tua nemica e le
basterebbe un tuo sì per trasformarti
nel suo schiavetto personale non ti è chiara?»
Da
Vinci esitò qualche secondo,
prima di rispondere.
«Quella…
quella in cui non me lo ha ancora chiesto», mormorò, e forse a causa
del dolore
la sua mente vagò in libertà, immaginando per un istante uno scenario
in cui
Gemma gli poneva proprio quella domanda.
«E
in quel caso diresti immediatamente di No,
vero?», tentò di nuovo il moro, con un che di disperazione nella sua
voce. «Ti
prego, dimmi che risponderesti di no», aggiunse sottovoce, serrando gli
occhi
come se stesse pregando.
Di
nuovo, da Vinci si riservò
qualche secondo di silenzio per poter pensare, e i movimenti con cui si
stava
massaggiando la fronte dolente rallentarono, fino a fermarsi
completamente.
«Non
ne sarei… così certo», ammise l’artista, con rassegnazione.
«Santa
madre di Dio», commentò invece Zoroastro, e prima di potersi chiedere
se fosse
giusto o sbagliato, si chinò a terra per lasciare una sonora pacca in
testa a
Leonardo.
«Ahia!»,
si lamentò l’ingegnere, fulminandolo con lo sguardo.
«Hai
perso la testa, amico», ribatté il moretto, sbrigativo. «Non può farti
male».
«La
mia testa è al suo posto», si difese invece da Vinci, con
un’occhiataccia
truce. «E sì, fa male», puntualizzò poi, passando a massaggiare il
punto appena
colpito. Come se il ramo non fosse stato già abbastanza.
«Allora
è vuota, altro che mente più geniale d’Europa», concluse Zoroastro.
Tuttavia,
vedendo l’amico ancora steso a terra tra le foglie secche, scelse di
provare comunque
un minimo di compassione e gli porse la mano per aiutarlo a rialzarsi.
«Il
fatto che tu sia così ben disposto ad accettare una proposta simile mi
fa
realmente dubitare della tua genialità».
«Grazie»,
borbottò Leonardo, con la voce colma di sarcasmo.
«Meriteresti
un altro ramo in testa, in realtà», aggiunse il moretto, incrociando le
braccia
al petto e osservando l’amico con aria di rimprovero.
«Sono
solo stato sincero con te», si difese l’artista. «Credevo che tra amici
si
potesse essere sinceri», aggiunse a voce bassa, spostando lo sguardo a
terra.
A
quel punto, anche il cinico
Zoroastro non poté fare altro che ammorbidirsi.
«Non
è questo il punto», gli rispose, addolcendo il tono della voce. «Il
punto è che
non… non dovresti pensare a lei come a qualcosa di diverso da una
nemica»,
tentò, usando le parole con molta cautela.
«Io
ci provo, Zo. Ci provo davvero», mormorò Leonardo, con un filo di voce.
«Ma non
ci riesco», ammise sollevando le spalle, e sul suo volto era dipinta la
più
impotente delle espressioni.
Ci
aveva provato dall’istante
in cui aveva saputo che la dama che aveva ritratto a palazzo Medici era
l’arma
segreta del Vaticano. Ci aveva provato al convento, dopo aver visto
tutte
quelle vite innocenti sacrificate per la sua crudeltà. Ci aveva provato
nel
buio vicolo di Firenze, quando gli sarebbe bastato un attimo per
ucciderla.
Ci
aveva provato ogni volta che
si era ritrovato così vicino al suo viso da poter sentire il respiro di
lei
sulla sua pelle.
Ma
puntualmente aveva fallito.
«La
guardo negli occhi, e nel frattempo continuo a ripetermi nella testa
che io e
lei siamo nemici, eppure non riesco a considerarla tale».
E
a quelle parole, così sincere
e genuine, Zoroastro non poté non ammorbidire il suo sguardo. Lo stesso
fu per Nico
che, ancora in sella al suo cavallo, aveva sentito tutto, ed era
riuscito a
percepire il dolore celato dietro all’ammissione di Leonardo.
«Niente
era mai riuscito ad ossessionarti a tal punto», osservò il moretto, e
dopo
tanti anni di amicizia, in cui era stato testimone delle peggio
fissazioni
dell’artista, le sue parole volevano dire molto.
«Lei
è… diversa», mormorò da Vinci, con lo sguardo perso nei ricordi.
«Unica».
E
tu sei innamorato,
avrebbe voluto aggiungere Zoroastro, ma scelse saggiamente di mordersi
la
lingua.
«Cerco
solo di tenerti alla larga dai guai», provò a spiegargli. Poteva capire
il
dilemma che lo stava affliggendo, ma questa volta non era
un’infatuazione
inopportuna che avrebbe comportato al massimo qualche percossa. Cedere
a quei
sentimenti avrebbe portato con sé conseguenze molto più gravi. «Prima o
poi…
questo tira e molla finirà e uno di voi due perderà», proseguì,
sinceramente
dispiaciuto.
In
tutta risposta, Leonardo si
lasciò sfuggire un pesante sospiro.
«Lo
so, Zo. Lo so», mormorò l’artista, con la voce spezzata. «Quel giorno…
quel
giorno non so che cosa accadrà», ammise, e non volle nemmeno provare ad
immaginarlo. «Ma non posso farne a meno, è più forte di me».
«Vorremmo
potervi dare una mano», si intromise Nico, avvicinandosi ai due amici.
«Ma
non potete», rispose il maestro, con rassegnazione, ma rivolgendo al
suo
giovane allievo un debole sorriso di gratitudine. «Nessuno può farlo».
«Non
ne farai una delle tue, vero?», chiese Zoroastro, vagamente
preoccupato.
Leonardo
però parve non
sentirlo, lo sguardo ancora perso nel vuoto, e Dio solo sapeva che cosa
stesse
passando per la testa del geniale artista fiorentino.
Dopo
diversi secondo di
silenzio, finalmente aprì di nuovo bocca.
«Magari
questa lontananza farà bene», ipotizzò, con una debole alzata di
spalle. «Ad
entrambi», aggiunse, ma dirlo gli bloccò il respiro in gola.
«Come
no…», borbottò Zoroastro, sarcastico. «Hai la faccia di uno che
vorrebbe solo
tornare, trovarla, rapirla e scappare via», continuò, dando voce ad un
pensiero
che lo aveva assillato per tutto il viaggio.
In
quella specie di stato di ipnosi
in cui Leonardo era rimasto per giorni, prima di risvegliarsi,
l’artista non
aveva mai detto nulla riguardante la sua rivale romana, ma molto spesso
il suo
volto aveva tradito i sentimenti che gli stavano dilaniando l’animo. E
con ogni
probabilità, tornare da lei sarebbe stata la sola soluzione per placare
quell’angoscia.
«Quello
sarebbe davvero fantastico», si lasciò scappare da Vinci, ricevendo in
risposta
due sguardi piuttosto stupiti. La mente più geniale d’Europa stava
dando
ragione al suo fedele compagno di avventure con tanta facilità, senza
neanche
una punta di orgoglio?
«Sai,
ti preferisco di gran lunga quando mi dici di chiudere la bocca e di
pensarci
bene prima di riaprirla e dire altre idiozie», si ritrovò suo malgrado
ad
ammettere Zoroastro.
Quanto
meno, riuscì a strappare
a Leonardo un debole sorriso divertito, il che sicuramente non guastò
vista la
piega che quella conversazione aveva preso.
«Per
una volta ci siamo scambiati i ruoli», ribatté l’artista, portando
avanti il
gioco.
«Così
pare», gli concesse lui, ma ben presto tornò serio. «Ma come…?»,
iniziò, ma
dovette fermarsi, improvvisamente incerto sul da farsi. Forse non era
il
momento giusto per porgli quella domanda, forse sì, ma non riusciva a
decidere
quale scelta fosse la migliore.
«Ma come cosa?», chiese Leonardo, dopo
alcuni secondi di silenzio.
Zoroastro
però, ancora incerto
sulle parole da usare, si limitò a sospirare e a prolungare il suo
silenzio.
Così facendo, non fece altro che innervosire ulteriormente l’artista di
fronte
a lui.
«Zo,
sono certo che tu possa esprimere qualsiasi pensiero ti passi per la
testa», lo
incitò da Vinci, con una nota di seccatura nella sua voce.
Di
fronte a quell’impazienza,
il moro capì che forse era meglio continuare quel discorso e, con un
po’ di
fortuna, ne sarebbe risultato qualcosa di buono.
«Come
puoi essere sicuro che… Insomma, è una guerriera perfettamente
addestrata, è
un’arma del Vaticano. È fredda, cinica, disposta a tutto. Come puoi
essere
certo che sia capace di…», ma a quel punto dovette per forza zittirsi,
perché
avrebbe tanto voluto dire amare, ma
non volle calcare troppo la mano. «…di provare dei sentimenti?»
Quella
domanda lasciò Nico
senza parole e lo portò a chiedersi come sarebbe riuscito a rispondere
il suo
maestro. Tuttavia, al contrario delle aspettative del suo allievo,
Leonardo non
si mostrò eccessivamente turbato, come se quello appena postogli fosse
un
interrogativo legittimo ma altrettanto semplice nella risposta.
«Io…
non lo so, non ne sono certo», ammise l’artista con sincerità. «Ma sono
convinto che lei non sia persa completamente. Credo che possa essere
salvata»,
e nel dirlo la vide di nuovo davanti a sé, al convento, quando le sue
provocazioni erano riuscite a farla crollare e ad aprire un piccolo
spiraglio
nella sua maschera.
Non
avrebbe mai reagito in quel
modo se quelle accuse non l’avessero colpita nel profondo. Se davvero
fosse
stata priva di rimorsi e disposta ad uccidere degli innocenti senza
perderci il
sonno, avrebbe liquidato le sue calunnie con non curanza e sarebbe
tornata a
parlare di affari.
Invece
il suo primo istinto era
stato quello di mettere mano alla spada, per difendersi da delle parole
che le
stavano facendo del male. Il suo primo istinto era stato quello di
proteggersi.
E
se Leonardo ripensava a
quello che aveva visto nel suo sguardo, aveva sempre più ragione di
credere che
ci fosse molto altro che non sapeva, qualcosa nella sua storia che era
ben
lontano dalla maschera di fredda e cinica arma senza sentimenti. E che
avrebbe
portato da Vinci a darsi dell’idiota altre mille volte, dopo le accuse
che le
aveva rivolto.
«Io
vorrei tanto aiutarla, ma lei non me lo permette», confessò, con un
filo di
voce. «L’ho visto nei suoi occhi, nel nostro modo di rapportarci… l’ho
visto in
lei», proseguì, in una sorta di monologo con sé stesso. «Alle volte
incontro il
suo sguardo e trovo che ci sia molto di più della fredda e spietata
assassina che
lei vuole far credere di essere. Credo che sotto tutti quegli strati di
ghiaccio
e di violenza ci sia una giovane donna che aspetta solo di potersi
mostrare. Ha
sofferto troppo per Dio solo sa cosa, e questi sono i risultati».
Come
se si fosse nuovamente
risvegliato, Leonardo sbatté velocemente le palpebre e sollevò lo
sguardo verso
Nico e Zoroastro, ricordandosi solo in quel momento che stava parlando
con
loro. E pochi secondi dopo, ricordò la domanda che aveva dato il via a
tutto.
«Sono
convinto che la vera Gemma non sia quella che appare. Quella è solo una
maschera. Lei è lì, da qualche parte, ma c’è».
Per
un momento, seguì solo il
silenzio. Da parte di tutti e tre.
«…wow»,
fu tutto quello che uscì dalla bocca di Zoroastro.
Dopo
tutto quello che aveva
appena sentito, non se la sentì di contestarlo né di dire altro, ma
sapeva che
una dimostrazione di vicinanza sarebbe stata meglio di qualunque frase
di
circostanza o di accondiscendenza.
Si
avvicinò all’artista e gli
poggiò una mano sulla spalla, in un gesto di amicizia. La sua
espressione,
però, era molto seria.
Dopo
qualche altro secondo di
silenzio sospirò, con un che di rassegnazione, e gli lasciò un’altra
sonora
pacca sulla schiena.
«Sì,
sei proprio innamorato», sentenziò, cercando in tutti i modi di
trattenere un
sorriso divertito. Con la coda dell’occhio, però, vide che anche Nico
si era
lasciato scappare una risatina per quell’affermazione.
L’unico
tutt’altro che
divertito dalla situazione era Leonardo, che rimase immobile sul posto
mentre i
suoi amici si preparavano a ripartire.
Non
vedendolo arrivare,
Zoroastro si voltò verso di lui e lo osservò con un che di sorpresa.
«Che
c’è? Non dirmi che la mente più geniale d’Europa non l’aveva già capito
da
solo», protestò con semplicità, come se avesse appena detto che il
cielo era
blu.
«Lo
ha capito quasi tutta la corte», commentò Nico a bassa voce, facendo
ridere il
suo compagno di burle.
«Non…
non sono… innamorato», balbettò l’artista scuotendo la testa, dapprima
lentamente ma poi sempre più energicamente.
«Certo,
certo», finse di assecondarlo il moro.
«Zoroastro»,
lo ammonì l’ingegnere, anche se il suo sguardo truce aveva ampio
margine di
miglioramento. «Non scherzare».
«E
chi scherza? Mai stato più serio», ribatté lui, facendo spallucce.
«Io.
Non. Sono. Innamorato», ripeté Leonardo, scandendo lentamente le
parole.
«Mmh
mmh», fu nuovamente la riposta accondiscendente del suo amico.
Da
Vinci capì che continuare quella
conversazione sarebbe stata una battaglia persa, e liquidò la questione
con un
gesto della mano, ma Zoroastro non demorse.
«Rispondi
a questo: se potessi scegliere tra avere il Libro delle Lamine e
salvare Gemma
dal suo ruolo, cosa faresti?», lo provocò ulteriormente.
«Ma
che diavolo stai dicendo?», sibilò da Vinci, guardandolo in maniera
tutt’altro
che amichevole mentre risaliva in sella al suo cavallo.
«Non
si risponde ad una domanda con un’altra domanda», lo rimproverò il
moro,
muovendo l’indice contro di lui come se stesse sgridando un ragazzino
disobbediente.
Purtroppo,
ottenne solo altro
silenzio.
«Non
ho sentito la risposta», lo punzecchiò di nuovo, cercando di soffocare
le
risate. Anche Nico, poco distante, si stava divertendo parecchio.
«E
non ne sentirai altre sull’argomento», borbottò Leonardo, dimostrando
un
comportamento più adatto ad un bambino di cinque anni che ad un giovane
uomo.
«In
effetti, hai risposto eccome», si corresse Zoroastro, concedendosi una
grassa e
grossa risata. «Forza, troviamo questo Vlad e andiamocene, così il
nostro
artista può tornare dalla sua fidanzata», esclamò, drizzandosi in sella
al
cavallo come se dovesse partire per la più importante delle missioni.
Per
qualche minuto, la
passeggiata dei tre amici proseguì nella calma e nel silenzio, dando a
da Vinci
l’illusione che l’argomento fosse stato chiuso e accantonato.
«La
tua è una femmina di cavallo?», domandò Zo, rompendo il silenzio.
«Potresti
chiamarla Gemma», propose, con un
sorrisetto sornione.
«È
un maschio, castrato», rispose Leonardo, con la voce stranamente
pacata.
«Proprio come te se dirai ancora una parola».
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt*!
Come
state?
Vi
ho strappato una risata? Era
il momento di scherzare un po’, ma anche di una chiacchierata
cuore-cuore,
schietta e onesta. Ma solo dopo aver preso un ramo in testa,
ovviamente: chissà
che non abbia smosso qualcosa nella testolina di un certo artista.
A
quanto pare, però, i ruoli si
sono invertiti e non è più Leonardo il genio della situazione, quello
che
capisce sempre tutto con un solo sguardo: Nico e Zo lo hanno
decisamente
superato in arguzia!
Che
dire, ci rileggiamo tra due
settimane! C’è una contessa di nostra conoscenza rimasta senza la sua
preda.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 15 *** La Giustizia ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
15 - La Giustizia
Nei
Tarocchi, la carta della Giustizia rappresenta la conseguenza logica di
ogni
azione, poiché è ordine e armonia che scaturiscono dalla natura, alla
cui base
sta una giustizia universale. Indica integrità morale e spirituale che
determinano onestà, disciplina e libertà di spirito. È regola ferrea, è
conseguenza di errori. Può significare il giudice, il ministro, l’uomo
di
legge.
Può anche voler dire resa dei conti, verifica, prova superata, virtù.
Se
davvero esisteva un Signore
Iddio, un Gesù Cristo portatore della parola divina o uno Spirito
Santo, quello
era un buon momento per assistere ad una manifestazione terrena del
potere
della fede.
Nonostante
le imposizioni che
gravavano su di lei, per via dei suoi legami di sangue con il Santo
Padre,
Gemma credeva in Dio ed era cresciuta rivolgendogli la sua fede e le
sue
preghiere.
Sebbene
la vita l’avesse messa
a dura prova, più e più volte, si era rifugiata nella preghiera e aveva
trovato
conforto nella speranza che ci fosse un potere molto più grande di
tutta
l’umanità, una forza inspiegabile che potesse permetterle di dire Tutto accade per una ragione.
Le
lunghe e affusolate dita
delle sue mani avevano spesso stretto le perle del rosario, in molte
preghiere
silenziose e condotte nella solitudine che a volte riusciva a
ritagliarsi.
Quando
il peso del suo ruolo
diventava troppo gravoso per poter essere sopportato, Gemma si
nascondeva sotto
pesanti mantelli di velluto e di broccato e fuggiva via, lontano da
Castel
Sant’Angelo e da San Pietro, per rifugiarsi in una piccola e anonima
chiesa di
Roma, una qualsiasi dove nessuno avrebbe pensato di cercarla.
In
alcuni momenti di calma in
Vaticano, papa Sisto la esonerava temporaneamente dai suoi incarichi e
la
esiliava a Imola, a governare la città. Per la contessa Riario, però,
quelle
non erano punizioni, ma preziosi momenti di pace in cui poteva tentare
di
illudersi di avere una vita normale, di essere solo una nobildonna, una
delle
poche donne a governare una città.
Anche
in quei momenti, la fede
era per lei un rifugio sicuro, in cui poteva nascondersi per tentare di
scappare dalla realtà.
Da
qualche giorno, però, Gemma
si era ritrovata più e più volte ad alzare gli occhi al cielo e a
chiedersi
quale preghiera avrebbe dovuto invocare per essere aiutata dal suo
Signore
Iddio.
Leonardo
era letteralmente
scomparso da Firenze, senza lasciare traccia. Da un giorno all’altro,
il
geniale artista si era dileguato e, dopo aver setacciato ogni angolo
della
Repubblica fiorentina, i soldati della contessa erano giunti alla
conclusione
che da Vinci si fosse recato altrove, al di fuori del loro raggio
d’azione.
Tuttavia,
Gemma non si era
persa d’animo. Afferrata una cartina e stesa sul tavolo del suo studio,
aveva
tentato di pensare come Leonardo e aveva individuato alcuni punti in
cui
proseguire la sua ricerca; un minuto dopo, dozzine di soldati e agenti
del
Vaticano erano stati sguinzagliati secondo le direttive della contessa
Riario.
Fortunatamente,
papa Sisto era
troppo impegnato a inveire contro Lupo Mercuri e a maledire in modo
molto
colorito il Magnifico, per via della sua missione diplomatica a Urbino,
per
potersi accorgere della momentanea sparizione dell’ingegnere bellico di
Lorenzo. E soprattutto, per accorgersi del fallimento di Gemma nel
sorvegliarlo
e nel convincerlo a prostrarsi al servizio della Santa Chiesa.
Ciò
nonostante, la pazienza
della giovane donna era stata messa a dura prova già molte volte negli
ultimi
mesi, e continuava a sfumare ogni volta che un suo agente metteva piede
nel suo
studio per portarle cattive notizie.
Quel
pomeriggio, però, sembrava
promettere una svolta. Alcune guardie svizzere avevano iniziato a
parlare di un
certo artista catturato in territorio francese, e in breve tempo la
notizia era
giunta alle orecchie di Gemma e del suo fedele braccio destro,
Grunwald. Sollecitati
a parlare, alcuni soldati le avevano promesso una conferma da lì a
poche ore,
seguita subito dopo dall’arrivo di Leonardo alle porte di Castel
Sant’Angelo,
legato e prostrato ai suoi piedi.
La
contessa non voleva gioire
prima del dovuto, ma quella poteva essere la fine della sua missione e
delle
minacce di Sisto, per cui non poté fare a meno di rifugiarsi nel suo
studio e
di rivolgere una preghiera al Signore, implorandolo di porre fine a
quell’agonia. Ogni suo errore poteva facilmente diventare l’ultimo, e
vivere
con quel terrore nel cuore non poteva chiamarsi vita.
Fece
appena in tempo a riporre
il rosario nello scrigno, quando Grunwald fece il suo ingresso nello
studio.
«Contessa
Riario», la chiamò lui, con un cenno di riverenza del capo.
«Capitano
Grunwald», rispose lei, congiungendo le mani davanti a sé. «Prego,
potete
entrare».
Non
avendo previsto alcun
viaggio o uscita, quel giorno Gemma aveva congedato le sue servitrici
prima del
solito, senza permettere loro di concludere la sua acconciatura. Alcune
morbide
trecce le raccoglievano delle ciocche lontane dal viso, ma lasciavano
il resto
dei suoi capelli liberi da costrizioni e morbidi lungo la schiena.
Sul
campo di battaglia o in
missione, la giovane donna aveva bisogno di pettinature più pratiche e
composte, ma in altre situazioni poteva concedersi qualche piccola
libertà. E
dopo anni al suo servizio, anche Grunwald avrebbe preferito per lei una
vita
più serena, una vita molto diversa da quella che doveva condurre l’arma
più
potente del Vaticano.
«Il
messaggero che state aspettando dovrebbe arrivare tra pochi minuti», le
comunicò, sperando di vedere una scia di sollievo sul suo volto.
«Molto
bene», rispose Gemma. «Restate pure. Avute quelle informazioni, ci
accorderemo
sul da farsi».
Il
capitano annuì e la
raggiunse accanto al suo scrittoio, con una mano già pronta
sull’impugnatura
della spada. Che fosse solo la forza dell’abitudine o un celato
desiderio di
difenderla, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui.
Vista
la portata delle notizie
che dovevano giungere in Vaticano, Gemma si aspettava di sentir bussare
alla
sua porta in maniera forte e decisa, non così debole da essere a
malapena
udibile.
Per
un attimo si rivolse a
Grunwald con uno sguardo confuso e scettico, vedendo nel volto del
soldato la
stessa diffidenza.
«Prego»,
disse lei con fermezza, e d’istinto strinse le mani l’una nell’altra,
cercando
di resistere all’impulso di afferrare un qualsiasi oggetto dalla sua
scrivania
per stringerlo bruscamente tra le mani.
Dovette
attendere qualche altro
secondo prima di vedere la porta aprirsi, secondi che non fecero altro
che
innervosirla ancora di più.
«C-con-contessa
Ri-ario…», balbettò intimorito il piccolo messaggero.
Era
di bassa statura, pallido
come un fantasma e con il viso imperlato di sudore: considerata la
fresca
temperatura nella stanza, di sicuro non era una conseguenza dovuta al
clima.
Il
valletto chiuse la porta
alle sue spalle ma vi rimase così appresso da poter lasciare la sua
sagoma
impressa nel legno, e nel mentre le sue mani tremolanti corsero a
togliersi i
capelli dalla fronte.
«Sono
proprio io, in carne ed ossa», rispose Gemma, con il suo caratteristico
tono
tagliente. «La stanza è molto grande e poco affollata. Non c’è bisogno
che vi
castighiate in un angolo», aggiunse, con falsa gentilezza.
A
sottolineare il velato
ordine, lo convocò con un cenno della mano a raggiungerla davanti al
suo
scrittoio.
Sperando
di non essere notato,
il messaggero prese un lungo e profondo respiro prima di obbedire alla
richiesta della contessa. Tuttavia, lasciò ancora qualche passo di
distanza tra
lui e una donna il cui desiderio di mettere mano allo stiletto era
sempre più
visibile in volto.
«Sto
aspettando», lo informò Gemma, e fu la sua ultima frase di cortesia
prima di
passare alle minacce.
«E-ecco…
d-da V-vin-ci…», iniziò lui, con un filo di voce. «E-ecco, l-lui…», ma
fu
interrotto dalla contessa.
«…è
qui fuori e attende solo che voi lo annunciate prima di essere portato
davanti
a me in catene?», chiese lei, retoricamente. Quello stampato sul suo
viso era
il più falso dei sorrisi, ma fu ben compensato dallo sguardo truce che
Grunwald
rivolse al valletto; giusto in caso il piccoletto fosse lento di
comprendonio.
«…l-lui»,
tentò di nuovo il messaggero, ma prima di poter esitare ancora vide gli
angoli
della bocca di Gemma abbassarsi sempre di più, e il suo istinto di
sopravvivenza gli strappò le parole di bocca. «…n-non è stato trovato,
mia
Signora», mormorò flebile.
Quel
silenzio parve durare in
eterno.
Grunwald
rimase immobile al suo
posto, pronto ad eseguire all’istante qualsiasi ordine; il valletto
invece non
osò alzare lo sguardo dai suoi piedi, neanche per un secondo.
Il
mondo poteva anche essersi
fermato, per quello che potevano saperne i presenti in quella stanza.
Nemmeno
la natura, appena fuori dalla finestra, parve azzardarsi a fare rumore.
«Come,
prego?», domandò Gemma infine, la voce calma e pacata.
Non
sentendo tracce di ira, l’ultimo
arrivato parve ritrovare un po’ del suo coraggio e rialzò lo sguardo
verso la
contessa. La vide serena, i lineamenti distesi, e quello che poteva
tranquillamente essere un accenno di sorriso.
«Ecco…
la soffiata su da Vinci in territorio francese… si è rivelata falsa»,
rispose
lui, concludendo la frase con un leggero inchino di scuse. «…non lo
abbiamo
trovato».
Seguirono
altri istanti di
silenzio.
Se
prima quell’accenno di
sorriso era stato di rassicurazione, ora iniziava a diventare vagamente
inquietante, come un presagio di sventure. Il piccoletto cercò di
trovare una
via di fuga spostando lo sguardo sul capitano, ma vide solo
un’espressione
molto minacciosa che lo convinse a scegliere di guardare di nuovo il
pavimento.
Era
già pronto a pregare e a
supplicare per avere salva la vita, quando accadde l’inaspettato.
Gemma
rise.
Scoppiò
a ridere come se si
trovasse nel mezzo di un’amichevole conversazione con altre dame di
corte,
tutte troppo disinibite da qualche bicchiere di vino in più per poter
rammentare
le regole dell’etichetta.
«Come
avete detto?», domandò la giovane romana, ridendo. «Non lo avete
trovato?»
Cercando
di vincere la paura
suscitatagli da quell’improvviso cambiamento d’umore, il valletto
scosse la
testa.
«P-purtroppo
no, contessa», balbettò con incertezza. «Non… non sappiamo dove si sia
recato».
«Nemmeno
una vaga idea?», domandò di nuovo Gemma, con un tono dispiaciuto che fu
presto
sostituito da un’altra risata, mentre si alzava in piedi.
«Sono…
s-siamo, contessa. Siamo…», si corresse il messaggero. «…tutti
mortificati per
questo… fallimento», e quell’ultima parola uscì dalla sua bocca come
una
sentenza di morte.
Gemma
finalmente calmò la sua
risata e si limitò ad un largo sorriso sul suo volto.
«Mortificati»,
ripeté tra sé e sé, abbassando lo sguardo. «Mortificati…», mormorò di
nuovo, e
lasciò calare il silenzio.
Il
pugno che tirò sullo
scrittoio fu così forte che scosse perfino Grunwald. Il giovane
valletto invece
non tentò neanche di soffocare un urlo di terrore.
«Mortificati?!»,
gridò Gemma, con una tale rabbia nella voce che il piccoletto
indietreggiò
subito verso la porta. «I miei soldati falliscono di nuovo così
miseramente, ed
è questo tutto quello che riuscite a dirmi?!»
«Contessa…»,
tentò di avvicinarla Grunwald, ma lei lo distanziò immediatamente con
un secco
gesto della mano.
«Giorni
e giorni di ricerche e di spedizioni, e venite a dirmi che un artista
da
quattro soldi è riuscito a lasciare l’Italia senza battere ciglio?»
Per
la rabbia, Gemma tirò un
secondo schiaffo contro lo scrittoio, ma non sentì nemmeno una punta di
dolore
superare la rabbia che le stava bruciando in corpo.
«P-poss-possiamo…»,
tentò di dire il valletto, probabilmente per proporle una nuova
spedizione, ma
il capitano lo fulminò con lo sguardo e il giovane non proferì altro.
«La
totalità delle mie risorse e del mio tempo investita in questa ricerca,
per
tornare qui con un pugno di mosche? Vi sembra forse accettabile?»,
esclamò di
nuovo la nipote del Papa, la voce così spezzata dalla collera da farle
male in
gola.
«Contessa,
possiamo tentare di nuovo», le disse Grunwald, nel tono più fermo
possibile.
«No!»,
gridò Gemma, voltandosi di scatto verso di lui. «No, io non tollererò
alcun
tentativo, non più. Io voglio risposte, voglio risultati, e li voglio
adesso!»,
sibilò, puntando il dito contro la superficie lignea ad ogni parola.
Approfittando
di quel breve
margine d’azione, il povero messaggero dimenticò completamente
l’etichetta e
fuggì via dallo studio senza pensarci due volte. La contessa lo degnò
appena di
uno sguardo infastidito, prima di tornare a pensare alla missione.
Era
stato tutto inutile. Tante
ricerche, tanti tentativi per capire quale direzione avesse preso da
Vinci,
tante energie, eppure erano di nuovo al punto di partenza. E tutto per
colpa di
quel surrogato di giullare armato di pennelli.
«Miserabile
sciagurato…», sibilò lei, rivedendo davanti a sé quel ghigno di
soddisfazione
che era la sua firma.
«Contessa
Riario», tentò di nuovo Grunwald, facendo appello ai titoli per
richiamare la
sua attenzione.
«Io
non lo accetto», mormorò Gemma, a voce così bassa che il capitano fece
fatica a
sentirla. «Io non posso accettarlo», disse di nuovo, a voce più alta.
«Non
posso, e non lo farò».
«…contessa?»,
provò lui, ancora, avvicinandosi di qualche passo.
«Devo
trovarlo», si ripeté, annuendo, come se stesse seguendo un discorso
tutto suo. «Devo
trovarlo, e costringerlo alla resa, a qualsiasi costo».
A
quel punto, Grunwald lasciò
perdere i limiti del consono e si spinse oltre un confine che molto
raramente
si concedeva di superare.
«…Gemma?»,
la chiamò, usando volutamente il suo nome.
Il
piano parve funzionare, e
per un attimo la giovane donna si sentì distratta dal suo monologo e la
sua
attenzione fu finalmente catturata.
Grunwald
la vide voltarsi verso
di lui, ma ciò che vide in lei non fu solo rabbia e determinazione. Non
vide la
forza che distingueva Gemma da tutti gli altri, non vide quel fuoco
bruciante
che la rendeva semplicemente unica agli occhi altrui.
Vide
paura.
Data
la reputazione di Sisto IV,
era una reazione comprensibile dopo aver ricevuto la notizia di un
altro
fallimento da parte dell’esercito romano e della sua guida.
Ma
Grunwald conosceva il
terrore che Gemma provava nei confronti del Santo Padre, e non era
quello il
caso.
Lei
invece temeva di aver
capito qual era la paura che le stava stringendo il cuore. Ben poche
cose
potevano spiegare quel sentimento angosciante e straziante che sentiva
stringerle il petto.
Era
paura verso tutt’altro.
Paura
di provare qualcosa. Di
nuovo.
«Devo
vincere», mormorò la contessa, con un filo di voce. «Non posso
permettermi
altrimenti».
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt*!
Dopo
lo smarrimento di Leonardo,
lontano da Firenze e da Gemma, era il turno della nostra contessa di
trovarsi
faccia a faccia con la situazione, senza un certo artista dalla mente
geniale
da minacciare di persona.
L’idea
iniziale per questo
capitolo era un po’ diversa, ma poi ci ho visto una bella occasione di
approfondire la storia di Grunwald e il rapporto tra lui e l’arma
preferita di papa
Sisto, e devo dire che mi è piaciuto molto questo rapido passaggio
‘impazienza-risata
isterica-rabbia fuoriosa’ di lei per l’imprevisto dato dalla partenza
di Leonardo.
E
con i due piccioncini divisi e
lontani l’uno dall’altra, vi do appuntamento non fra due ma fra tre
settimane.
Diciamo che per rispettare la solita cadenza umm… dovrei litigare un
po’ con…
il fuso orario.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 16 *** Il Sole ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
16 - Il Sole
Nei Tarocchi,
la carta del Sole
rappresenta la luce simbolica che salva, che rivitalizza. È la ragione
che
illumina lo spirito. Indica armonia, amicizia, generosità, felicità.
Inclina
alle arti e ai talenti. Dona chiarezza di ragionamento e di giudizio,
dona
onori e successi.
Al negativo, però, indica eccessi di frivolezza, idealismo falso,
sacrificio.
Può essere indicatore di aggressività, di permalosità e di mancanza di
senso
pratico.
Nonostante
le frequenti raccomandazioni di Andrea, Leonardo non aveva ancora
rinunciato
definitivamente alla pratica di fumare oppio. Credeva fosse una buona
idea per
riuscire a fare ordine nei suoi pensieri, ma come suo solito aveva
esagerato e
le palpebre iniziavano ad essere sempre più pesanti.
Doveva
resistere e restare sveglio. Era a Roma per trovare la seconda chiave e
aveva
ancora moltissimo lavoro da fare, mappe da esaminare, piani da
elaborare.
Tuttavia,
i suoi tentativi di concentrarsi sulla miriade di fogli che aveva
sparso sullo
scrittoio furono vani. Istante dopo istante, si rese conto che i
contorni
stavano sbiadendo e che le linee dei disegni erano ormai un groviglio
confuso.
Si
ritrovò a poggiare la testa contro il tavolo senza nemmeno
accorgersene, caduto
in un sonno profondo, ma turbato. Sentiva solo vagamente le dita delle
mani
agitarsi, di tanto in tanto, come percorse da deboli tremiti. Tutte le
informazioni acquisite nelle ultime ore gli affollavano la mente, ma da
Vinci non
riusciva a concentrare la sua attenzione su qualcosa in particolare;
l’unica
cosa che poteva fare era lasciare che quel brusio lo attraversasse,
senza
opporre resistenza.
Uno
spasmo più forte degli altri gli percorse il braccio, tanto da fargli
urtare un
oggetto poggiato lì accanto. Il suono del vetro in frantumi riuscì a
destare
l’artista dal torpore, ed egli alzò la testa di scatto, spalancando gli
occhi.
Cercò con lo sguardo la causa di quel rumore, e quasi sobbalzò dalla
sedia
quando si rese conto che si trattava di una piccola ampolla, un tempo
piena di
sangue.
Sangue
che, in quel momento, si stava espandendo copiosamente sui fogli che
ricoprivano il tavolo. Era impossibile che un oggetto così piccolo
contenesse
tanto liquido, eppure in breve tempo tutto lo scrittoio fu impregnato
di quel
fluido scarlatto, rendendo illeggibili le mappe del Vaticano.
Poco
importava: Leonardo era più che capace di riprodurre tutto a memoria;
eppure
quella scena lo agitò notevolmente, gravandolo della sensazione di
avere un
peso addosso che minacciava la sua possibilità di respirare.
L’ampolla
era ridotta in frantumi, ma il sangue continuò a scorrere, inzuppando
ogni
lembo di carta lungo il suo cammino, fino a giungere ai bordi del
tavolo, gocciolando
sul pavimento. In mezzo a tutto, da Vinci intravide il suo quaderno,
accuratamente avvolto dalla pelle che ne faceva da copertina. Nel
momento in
cui si ricordò quello che conteneva, in particolare su una delle tante
pagine,
tentò di balzare sul tavolo e di salvarlo da quella rovina, ma prima di
poterlo
afferrare il sangue lo raggiunse.
Nello
scatto, la chiave che aveva al collo venne spinta avanti per poi
ricadergli sul
petto, attirando lì lo sguardo dell’artista. Solo allora si accorse che
anch’essa era macchiata di sangue, e la prese tra le mani per cercare
di
ripulirla.
I
movimenti, inizialmente nervosi e concisi, si fecero via via più lenti
e
deboli, mentre lo sguardo di Leonardo tornava sul tavolo davanti a lui,
insieme
ad un terribile senso di inquietudine nel petto.
Solo
allora capì, e riuscì a dare un nome a quel sentimento: era incertezza.
Nonostante
gli piacesse vivere in un mondo tutto suo, convinto di riuscire a
combattere le
leggi e le regole, di poter agire senza limitazioni, sapeva che la
realtà era
molto diversa dalla sua immaginazione e, senza dubbio, molto più
crudele. Ogni
cosa aveva un prezzo, e la ricerca della conoscenza rischiava di
chiederne uno
troppo caro.
Il
sangue davanti a lui ne era la prova.
Non
aveva esitato a gettarsi a capofitto in una ricerca ben più grande di
lui, a
lasciarsi ogni altra cosa alle spalle, raccontandosi di non aver
bisogno di
altro che non fosse la libertà. E continuava a ripeterselo, ogni qual
volta il
benché minimo dubbio lo assaliva.
Ma
in quel momento, in una dimensione che era molto lontana dalla realtà e
dalle
menzogne che egli stesso si raccontava, poteva permettersi di dirsi la
verità,
e di dimenticarla una volta risvegliato: non era più così sicuro di
voler
proseguire.
Ogni
progresso, ogni passo verso il tesoro che stava cercando, non avevano
portato altro
che sofferenza e distruzione, e più lui si avvicinava a trovare la
strada, più
le conseguenze erano devastanti.
Riabbassò
lo sguardo sulla sua chiave, percorrendo con le dita il cordoncino che
dal
collo scendeva fino al freddo metallo, in un gesto che sapeva di
amarezza e di
nostalgia. Perché una sola persona aveva fatto lo stesso, in più di
un’occasione, e quella stessa persona incarnava al meglio le sue
strazianti
incertezze.
Sentì
dei passi alle sue spalle, lenti ma costanti, dapprima lontani poi
sempre più
vicini, fino a quando non poté scorgere una figura indistinta al suo
fianco,
con la coda dell’occhio.
«Crediamo
sempre che siano la vita e le sue prove il nostro peggior nemico», e
Leonardo
per un momento chiuse gli occhi, cullato da quella voce che non
ascoltava da
troppo tempo. «Ma non ci rendiamo conto che è la verità il più grande
degli
ostacoli».
L’artista
riaprì lentamente gli occhi, e altrettanto lentamente si voltò al suo
fianco,
verso l’artefice del suo tormento più straziante.
Di
fronte a lui, la contessa Riario non era costretta nella divisa del
Vaticano,
né in un contegno considerabile consono all’occasione. Era
semplicemente Gemma,
illuminata solamente in viso, mentre il resto della sua figura era
celato sotto
un pesante mantello di velluto nero, con un cappuccio decorato da
piccole
pietre preziose lungo il bordo.
Niente
però nascose la sua espressione, così diversa da quella che aveva
indossato nei
loro precedenti incontri. E scontri.
Stava
sorridendo; debolmente, ma stava sorridendo. L’espressione libera da
malizia e
scaltrezza, quasi… serena.
Leonardo
non ebbe alcun controllo sul suo corpo quando si ritrovò spinto nella
sua
direzione; le mani corsero senza esitazione all’orlo del cappuccio,
facendolo
scivolare via dal suo volto e scoprendo così una cascata di tanti
piccoli diamanti
tra i morbidi capelli castani della giovane donna.
La
sua mente era così affollata di parole, ma nemmeno una riuscì a
raggiungere le
sue labbra, e si ritrovò suo malgrado ad osservare Gemma in silenzio, a
studiare ogni minimo dettaglio, ad imprimerlo nella sua memoria per
l’eternità.
«Che
cosa vi ferma, Leonardo?», mormorò la contessa con un sorriso dolce,
così
estraneo all’atteggiamento che aveva sempre dimostrato.
Da
Vinci cercò di nuovo le parole, ma la sua voce era misteriosamente
sparita,
forse incapace di donarsi ai troppi pensieri che lottavano per essere
espressi.
Tutto ciò che fu capace di fare fu scuotere la testa, accennando un
debole
sorriso, mentre la sua mano risaliva lungo il profilo del volto della
giovane
donna, fino a sfiorare una delle tante gemme tra i suoi capelli.
«Cercate
di soffocare quelle sensazioni, ma forse dovreste concedere loro la
vostra
attenzione», continuò Gemma, nel tentativo di incoraggiarlo.
«Temo
di aver già compreso…», mormorò Leonardo, con amarezza e un sospiro
sconsolato.
«E pensarci mi fa mancare la terra sotto ai piedi».
La
contessa sollevò delicatamente una mano da sotto il pesante velluto
nero, e
cercò quella dell’artista, per stringerla con forza nella sua.
«Che
cosa è in grado di tormentarvi in questo modo?», chiese Gemma, ma il
suo tono
era più un invito che una vera domanda, e il suo sguardo era quello di
una
persona che conosce già la risposta.
«Voi»,
mormorò Leonardo, accarezzandole il dorso della mano con il pollice.
La
contessa sorrise, e lo fece con una dolcezza a dir poco disarmante,
così
potente da strappare all’artista stesso il medesimo sorriso.
«Siete…
un mistero», proseguì da Vinci, osservandola di nuovo come se fosse la
prima
volta. «Forse il più grande mistero con cui io abbia avuto a che fare».
«E
siete davvero certo che ogni mistero meriti di trovare la verità?»,
domandò
lei, tornando più seria.
Il
giovane artista sospirò, e a malincuore lasciò la sua mano, ma solo per
avvicinarsi pian piano al tavolo e vedere i suoi appunti ormai
illeggibili.
Allungò una mano verso il suo prezioso quaderno, e lentamente sciolse
il nodo
che stringeva la pelle della copertina attorno ai fogli ingialliti e
consumati.
Non
si sorprese di trovare molti di essi macchiati, ma la sua impazienza lo
portò a
sfogliarli velocemente, fino a giungere ad un punto preciso, un punto
che era
stato il suo solo ed unico pensiero, la sua sola preoccupazione, mentre
il
liquido scarlatto dell’ampolla distruggeva ogni indizio raccolto.
Rimase
sorpreso quando trovò quel ritratto ancora intatto, i tratti della
matita
perfettamente delineati e nitidi, come la prima sera in cui erano stati
tracciati sulla carta.
Di
nuovo udì dei passi alle sue spalle, e di nuovo Gemma lo raggiunse,
aspettando
pazientemente al suo fianco. Eppure, fu certo che lei stesse
sorridendo.
«Ne
vale la pena?», mormorò Leonardo, con un filo di voce, stupendosi di
essere
riuscito a dare forma a quel pensiero con tanta facilità.
Si
voltò verso di lei, l’espressione improvvisamente combattuta,
sofferente,
dilaniata da una domanda che lo assillava ogni giorno di più, ma a cui
non
riusciva a dare una risposta.
«Tutta
questa distruzione, tutta questa sofferenza, tutto questo odio…»,
continuò lui,
ripensando a tutto quello che era successo da quando quella ricerca
aveva avuto
inizio. «Vale davvero la pena soffrire tanto?»
Gemma
lo guardò con lo stesso dispiacere e lo sguardo colmo di compassione,
come se
riuscisse a capire perfettamente quale terribile tormento lo straziasse
tanto.
Come
se anche lei fosse vittima della stessa tragica disgrazia.
«Perché
io non ne sono più così sicuro», mormorò infine Leonardo, abbassando lo
sguardo
sul ritratto.
«Non
è la conoscenza il bene che più agognate?», domandò Gemma.
L’artista
non riuscì a trattenere una lieve risata, a quella domanda. Negli
ultimi tempi,
si era consolidata in lui la convinzione che l’infallibile Gemma Riario
fosse
sempre pronta ad ogni imprevisto, sempre capace di trovare una via di
fuga, di scovare
la verità dietro ad ogni quesito. Eppure, in quel momento, la risposta
a una
domanda del genere sembrava così scontata che la perplessità che le
vedeva in
volto fu quasi comica.
«Non
sono più sicuro nemmeno di questo», rispose infine, rialzando lo
sguardo solo
per posarlo su di lei, sui suoi occhi, sul suo viso, ed infine sul
piccolo
fiocco che chiudeva il suo mantello, proprio in corrispondenza della
gola.
Sembrava stretto, quasi soffocante, così tanto che per un momento
Leonardo
stesso si sentì mancare l’aria.
«Dunque
cosa desiderate, per davvero?», chiese la contessa, genuinamente
curiosa,
strappandogli un altro sorriso.
L’artista
si prese qualche istante di silenzio, prima di rispondere.
«Svelare
un mistero», rispose, annuendo con convinzione. «Ma non quello che
avvolge il
Libro delle Lamine», precisò poi, muovendo un passo più vicino a Gemma.
La
sua attenzione venne catturata dal quaderno che ancora stringeva tra le
mani, e
in particolare dalla pagina su cui era ancora aperto.
«Qual
è tale mistero?», lo incoraggiò la contessa, nascondendo le mani e le
braccia
sotto al pesante mantello di velluto.
«Il
vostro», disse immediatamente Leonardo, sfiorando con le dita il
ritratto che
le aveva fatto quella sera, durante il loro primo incontro. «Perché io
sono
profondamente convinto che ci sia molto altro che ancora non so,
Gemma».
La
vide sorridere per la piccola libertà che si era preso chiamandola per
nome, e
avrebbe dato qualsiasi cosa per vederla sempre con quel sorriso, con
quella
sensazione di pace e di serenità.
«E
sono altrettanto convinto che la contessa che ho visto sul campo di
battaglia,
che mi ha minacciato più e più volte, che è ricorsa a misure estreme
per
compiere la sua missione… non sia la vera Gemma», continuò poi, più
serio. «Non
è la giovane donna spigliata e spontanea che ho conosciuto quella
sera»,
aggiunse, avvicinandosi a lei.
L’espressione
della contessa si fece via via sempre più malinconica e nostalgica, e
lo
sguardo di Leonardo cadde di nuovo su quel nodo, che in quel momento
più che
mai gli diede l’impressione di bloccarle l’aria in gola, rendendole
sempre più
difficoltoso respirare.
Lentamente,
abbandonò il quadernetto e si avvicinò a lei, sollevò le mani
all’altezza della
chiusura del mantello e con delicatezza strinse i lembi di stoffa tra
le dita,
per poi iniziare a sciogliere il fiocco.
«La
donna che mi ha tenuto testa tanto abilmente…», iniziò, abbassando il
tono
della voce. «La donna con cui ho ballato e che ho potuto stringere tra
le
braccia…», continuò, sciogliendo finalmente il fiocco, e vedendola
inspirare
profondamente alla ricerca di aria. «La donna che ho visto regalarmi il
sorriso
più bello che io abbia mai visto… Quella donna esiste, ma è celata»,
concluse,
lasciando cadere a terra il mantello.
Come
a sottolineare maggiormente quanto appena detto dall’artista, il
pesante
velluto nero svanì a terra, scoprendo uno splendido abito bianco. La
seta,
soffice e liscia, avvolgeva delicatamente il corpo della giovane donna,
per poi
scendere morbida e leggiadra fino a terra, tempestata delle stesse
gemme che
brillavano tra i suoi capelli, lasciati sciolti.
Per
quanto la sua bellezza lo stordisse ogni volta come se fosse la prima,
Leonardo
si ritrovò comunque a trattenere il fiato, mentre faceva scorrere gli
occhi
lungo la sua figura. Quando poi tornò a guardarla in volto, rivide la
stessa
espressione di quella sera al banchetto, e sentì il cuore colmo di
gioia.
«Eccoti…»,
mormorò, senza nemmeno accorgersi di aver abbandonato le formalità,
tanto alienato
dall’averla ritrovata.
In
risposta, lei gli sorrise dolcemente, e mosse le mani per cercare le
sue,
producendo un leggero fruscio con la stoffa candida e leggera. Da Vinci
non le
diede nemmeno il tempo di compiere quel gesto fino in fondo che fu lui
stesso a
cercare e stringere le loro mani, desiderando solamente dimenticare
tutti i
suoi dubbi e tutte le sue sofferenze e restare lì, dovunque si
trovasse,
lontano da paure e ombre.
«Ma
sapete meglio di me che la realtà è molto più difficile di così»,
mormorò lei,
il suo sorriso che diventava amaro e malinconico.
«So
che tu ci sei…», rispose Leonardo, sollevando una mano per poterle
accarezzarle
la guancia. «In fondo in fondo, nascosta da un ruolo che ti grava
addosso e che
ti costringe ad annullarti per volere di altri... ma so che ci sei».
Le
accarezzò lentamente lo zigomo, prima di avvicinarsi ulteriormente e
poggiare
la fronte contro la sua, chiudendo gli occhi.
«E
so che vorrei trovarti», mormorò, sospirando con amarezza.
Quando
poi riaprì gli occhi, niente di quanto aveva appena visto era più
davanti a lui.
Nemmeno si accorse di essersi precipitato a cercare il suo quaderno, né
di
essere corso a sfogliare freneticamente le varie pagine, fino a quella
che
conservava come il più prezioso dei tesori.
Percorse
lentamente i tratti a matita con uno sospiro nostalgico, volendo
imprimere
ancora una volta il ricordo di quello sguardo, di quell’anima che aveva
intravisto dietro ad una maschera impregnata di bugie. Osservò il
disegno per
un’ultima volta, prima di chiudere il quadernetto e tornare al tavolo.
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt*!
Ho
scalato di una settimana in più rispetto al solito, ma ho scoperto di
aver
fatto bene perché avrei sì avuto problemi col fuso orario e, in più, non avrei avuto un computer per caricare
il capitolo. Sto aggiornando ora dopo aver betato con il jetleg a
gravarmi
addosso, mi ritengo fiera di me.
Scena
un po’ alienata dalla realtà, in un’atmosfera a sé, ma forse è l’unico
luogo e
l’unico momento per essere sinceri. Vero, Leonardo?
Sicuramente
gli è andata meglio che nella serie, dove Lucrezia lo uccide senza
tanti mezzi
termini.
Che
altro dire? Noi ci rileggiamo tra due settimane, tornando al palinsesto
tradizionale.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
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Capitolo 17 *** Il Diavolo ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
17 - Il Diavolo
Nei Tarocchi,
la carta del
Diavolo ha una polarità attiva e passiva. È l’istinto cieco al di là
del
conscio, è l’impulsività senza luce di ragione. Parla di messa in
pratica di
magnetismo umano, d’invadenza nell’inconscio altrui. Indica
sovvertimento dell’ordine,
passioni ed eccessi.
Al negativo, però, è indicatore di squilibri, di nevrastenia. E ancora,
incentra gli abusi, le perversioni in tutte le loro forme. La persona
macchinosa che non controlla i propri istinti.
Papa
Sisto pregava davanti alla maestosa poltrona rivestita di stoffa
dorata,
inginocchiato sul pavimento ligneo e intento a recitare l’ultima di una
serie
di orazioni.
Il
suono dei passi sulle lucide assi di legno non sembrò raggiungerlo, e
la
contessa aspettò qualche altro istante, prima di schiarirsi la voce e
aspettare
una reazione.
L’uomo,
con fare pigro e svogliato, recitò le ultime parole in latino, e si
alzò in piedi,
per poi voltarsi verso la persona che lo aveva disturbato. In altre
circostanze, il suo sguardo sarebbe stato sprezzante ed alterato, ma
evidentemente ricordava il motivo dietro a quella visita e la sua
espressione
divenne un ghigno soddisfatto. Posò gli occhi sulla giovane donna, che
rispose
con un cenno d’assenso del capo, prima di indicare con la mano l’uomo
in piedi
accanto a lei.
«Sua
Santità», iniziò, accennando un inchino. «Posso presentarvi Federico da
Montefeltro, Duca di Urbino?».
L’uomo
appena nominato rimase al suo posto, la postura fiera e il mento alto,
ed
osservava Papa Sisto con sguardo solenne, attraverso il solo occhio
rimastogli.
«Federico»,
mormorò il papa, porgendo avanti il braccio destro, gesto che l’ospite
interpretò come un permesso di avvicinarsi.
«Santità»,
rispose il duca, umilmente.
Prese
la mano dell’uomo tra le sue e baciò l’anello color ambra,
accompagnando il
gesto da un piccolo inchino.
«Grazie, per essere venuto in così
breve tempo», continuò Sisto, in un atteggiamento di gratitudine a dir
poco
inusuale per il suo temperamento freddo ed arrogante.
«Tutto
per Vostra Santità», minimizzò l’ospite, con un accenno di sorriso, e
ritornando al suo posto. «Io sono un servo di Dio», aggiunse, ma dal
suo tono
traspariva una nota di sarcasmo.
«Un
servitore alleato con la mano che porge l’offerta più attraente»,
commentò
Gemma, scoccandogli un’occhiataccia eloquente. «Un interessante
bisbiglio,
riguardante una vostra alleanza con Firenze, ha raggiunto la città del
Vaticano», aggiunse, con un sorriso di finta cortesia e l’aria
angelica.
«Che
voce a dir poco bizzarra», rispose Federico da Montefeltro, con aria
divertita.
«Siete
una città famosa per la sua originalità, dopo tutto», ribatté la
contessa: un
riferimento decisamente poco celato alla piccola opera svolta
all’occhio destro
del duca.
Ciò
nonostante, l’ospite rise divertito.
«Perdonate
mia nipote», si intromise Papa Sisto. «La schiettezza è una delle sue
caratteristiche più marcate», aggiunse, scoccandole uno sguardo di
rimprovero.
«No,
non occorre alcuna scusa», lo tranquillizzò l’uomo, per poi voltarsi di
nuovo
verso la contessa, con sguardo ammirato. «Una donna tanto risoluta è un
tesoro
raro… una gemma preziosa», aggiunse, senza fare nulla per celare uno
sguardo
tutt’altro che consono alla situazione. «Al vostro posto, farei molta
attenzione a tenermela ben stretta».
Gemma
non era affatto nuova a situazioni come quelle, tutt’altro che
lusinghiere e
piacevoli, e non fece nulla per nascondere uno sguardo scettico e
vagamente
infastidito, prima di spostare la conversazione su tutt’altro
territorio.
«Dunque
cosa potete dirci riguardo alla vostra alleanza con Lorenzo de’
Medici?»,
domandò, alzando le sopracciglia con aria di sfida e incrociando le
braccia al
petto.
«Non
potrei essere più d’accordo con voi, contessa Riario», rispose il duca,
ignorando lo sguardo di ammonimento rivoltogli poco prima. «Non faccio
certo
mistero della mia brama verso ciò che mi attrae», proseguì, e lo sforzo
compiuto da Gemma per non mettere mano al proprio stiletto fu a dir
poco
ammirevole.
Sisto,
d’altro canto, tornò a sedersi comodamente sulla sua poltrona,
osservando il
piccolo scontro con un sorriso soddisfatto. Non perdeva occasione di
vedere la
sua piccola spia all’opera e di compiacersi della decisione di aver
investito
tempo e risorse nella sua preparazione. Dimenticando per un momento
quanto
tempo stava impiegando per recuperare la chiave, era una delle migliori
armi a
disposizione del Vaticano.
«Lo
Stato Pontificio vi offre cinque mila fiorini d’oro per combattere per
noi
contro i Medici», rispose la contessa, tenendo ben salde le braccia
attorno al
petto, o al minimo segnale di cedimento le sue mani sarebbero corse
alle armi.
«Non
è il denaro ad attrarmi», rispose il duca. «Non uccido per soldi. Lo
faccio per
piacere», aggiunse con un ghigno sadico stampato in volto, e abbassando
il tono
della voce sull’ultima parola.
Tutto,
nella postura e nello sguardo di Gemma, indicava quanto volentieri
avrebbe
voluto sguainare la spada.
«Federico»,
si intromise Sisto, prima che la situazione iniziasse a degenerare.
«Credo
vogliate ristorarvi prima di discutere di affari. Bene, ci vedremo di
nuovo più
tardi», lo congedò, prima di fare cenno ad una serva di guidarlo verso
gli alloggi
degli ospiti.
Gemma
lo seguì con lo sguardo colmo di disprezzo, sguardo che ebbe premura di
celare
quando si voltò di nuovo verso Sisto.
«Credo
proprio che dovresti tenerti alla larga dalle nostre trattative
politiche», le
disse il papa, e la contessa si aspettò di ricevere un altro sguardo di
rimprovero, per cui fu parecchio sorpresa di vederlo sogghignare
soddisfatto.
«Sei più agguerrita del solito, ultimamente», aggiunse, studiandola con
attenzione. «Interessante».
«La
congiura dei Pazzi è alle porte e creerà molto scompiglio. Dobbiamo
essere
tutti pronti alle sue conseguenze», rispose lei con noncuranza.
«E
una nuova era nascerà con essa», aggiunse Sisto. «Ma fino ad allora,
anche
essere sempre vigili è importante. Il viaggio del Duca di Urbino
potrebbe aver
raggiunto orecchie indiscrete, quindi occupati di controllare tutto il
perimetro», le ordinò, congedandola con un cenno della mano.
«La
prudenza non è mai troppa», concordò Gemma, annuendo.
«E
nemmeno la violenza».
Uscita
dalla stanza in cui Sisto si era ritirato in preghiera, Gemma raggiunse
il suo
piccolo gruppetto di guardie svizzere e, con un semplice schiocco di
dita, le
sguinzagliò fuori dalla fortezza, in modo da far controllare le entrate
e i
giardini circostanti. Un’altra mezza dozzina di soldati la seguirono
verso la
parte più remota del palazzo, e vennero da lei inviati a sorvegliare
gli
ingressi.
«Controllerò
lo studio di Sua Santità e gli Archivi», disse la giovane donna con
tono
asciutto, avvicinandosi all’entrata dei bagni.
«Contessa
Riario, siete certa di non volere alcuna scorta?», chiese il capitano
Grunwald,
accompagnato da altre due guardie.
«Non
ne ho alcun bisogno», rispose la giovane donna, portando una mano sopra
all’impugnatura della spada, in un gesto eloquente. «Più tardi il Santo
Padre
si riunirà con il Duca di Urbino per rafforzare le nostre alleanze, e
il loro
incontro deve procedere senza alcuna interruzione».
«Darò
ordine ai soldati di controllare i loro alloggi», rispose il capitano,
senza
bisogno di ricevere ulteriori istruzioni.
Gemma
annuì e li congedò con un cenno della mano, prima di varcare la soglia
dei
bagni. Solo quando sentì la porta chiudersi alle sue spalle, poté
permettersi
di rilassare i muscoli del suo corpo.
La
partenza di Leonardo da Firenze era stata uno scomodo imprevisto, e la
contessa
temeva la vendetta di Sisto da un momento all’altro, viste le numerose
settimane
trascorse senza alcuna nuova informazione utile. Fortunatamente, la
Pasqua era
ormai alle porte e il collerico papa non aspettava altro che colpire la
dinastia de’ Medici: la congiura sarebbe stata per lui un ottimo
intrattenimento, una distrazione dalla ricerca della seconda chiave.
La
giovane donna iniziò a camminare lungo i bordi della vasca, con lo
sguardo poco
attento e la mente che vagava altrove. Doveva concludere quella
missione il
prima possibile, e soprattutto prima che i suoi pensieri, ancora
confusi,
diventassero veri e propri dubbi.
Non
si accorse nemmeno di aver già finito il perimetro della stanza e di
essere
tornata al punto di partenza, accanto al portone d’ingresso. Diede
un’ultima
occhiata tutt’intorno, poi si voltò verso il passaggio segreto per gli
Archivi.
Ebbe
appena il tempo di dare le spalle ai bagni, quando sentì un tonfo sordo
dietro
di lei, seguito dallo scorrere dell’acqua. Incerta, tornò più vicina
alle
vasche, ma il vapore celava ogni cosa sotto di esso, rendendole
impossibile
capire quale fosse stata la causa di quel rumore.
Poi,
d’un tratto, una figura iniziò ad emergere dalla densa nebbia bianca.
In
un primo istante, Gemma fu sicura di essere vittima delle
allucinazioni, e rimase
immobile con lo sguardo confuso e diffidente, aspettando di vedere
quell’immagine
scomparire dalla sua mente.
Leonardo
emerse dal candido vapore, alcune gocce d’acqua che cadevano dalle
ciocche di
capelli bagnati sul suo viso, gli abiti completamente aderenti al suo
corpo, e
il suo caratteristico sorrisino soddisfatto.
La
contessa indietreggiò di qualche passo, la mente che le urlava di
risvegliarsi
e di mettere mano alle armi, di fermarlo, di cogliere immediatamente
quell’occasione. Ma non riuscì a fare nulla del genere, rimase a
fissarlo sconvolta
e privata della voce.
«Contessa»,
mormorò da Vinci, percorrendola dalla testa ai piedi con lo sguardo.
«Artista»,
rispose Gemma in un sussurro, stupendosi di essere riuscita a fare
qualcosa di
diverso dal restare immobile al centro della stanza.
«La
porta era chiusa», scherzò Leonardo, indicando un punto indistinto alle
sue
spalle.
Il
tempo di rendersi conto di possedere finalmente un vantaggio su Gemma
e, in un
istante, il suo sorrisino sparì e la mano corse alla cintura,
afferrando e
sguainando una balestra. E l’arma puntava proprio lei.
«Un’entrata
di grande effetto», commentò la contessa, alzando lentamente le mani in
aria,
in segno di resa.
«Per
ottenere un’udienza… privata»,
rispose l’artista, marcando notevolmente l’ultima parola, e non
risparmiandole
un altro languido sguardo lungo il suo corpo. «Sono sorpreso di vedervi
sulla
difensiva», aggiunse poi, soffermando l’attenzione sulla spada e sullo
stiletto.
«Un’eccellente
conoscenza delle tecniche di combattimento», rispose lei, cercando di
tenere
sotto controllo il nervosismo per lo svantaggio che stava accumulando.
«Sguainare una delle mie armi richiederebbe comunque più tempo dello
scocco di
una delle vostre frecce».
Leonardo
annuì, d’accordo con il suo ragionamento, ma una parte di lui si sentì
amareggiata dalla tacita accusa celata dietro alle sue parole: quella
secondo
la quale non ci sarebbe stata alcuna esitazione nel ferirla.
«Speravo
di poter avere un colloquio con papa Sisto», disse Leonardo, uscendo
dalla
vasca ed avvicinandosi alla contessa. «Ma devo ammettere che questo
imprevisto
non mi dispiace affatto», proseguì, giungendo a pochi passi da lei.
«Temo
di non poter dire lo stesso, artista», rispose Gemma, ma sentire una
certa
mancanza di convinzione nel pronunciare quelle parole le sottrasse un
altro po’
di fiducia, carenza che andò ad alimentare il suo già discreto
svantaggio.
«Sono
passate settimane dall’ultima volta che abbiamo avuto il piacere di
sfidarci»,
proseguì Leonardo, senza dare segno di voler abbassare l’arma. «Non
vorrete
farmi credere che io sia stato l’unico a sentirne la mancanza»,
aggiunse,
abbassando notevolmente il tono della voce.
«Dev’essere
stata una tortura straziante, per portarvi a rischiare la vita
introducendovi
nella tana del lupo», ipotizzò la contessa, cercando in ogni modo di
spostare
l’argomento della conversazione altrove.
Sentiva
la sua caratteristica sicurezza abbandonarla secondo dopo secondo, e la
sensazione di camminare così vicina al limite delle sue certezza non la
stava
aiutando.
«Un
pericolo ampiamento ricompensato…», sussurrò Leonardo, avvicinandosi
ulteriormente, e per Gemma resistere all’impulso di indietreggiare fu
molto
difficile. «…dalla vostra presenza e da questo interessante scambio di
ruoli»,
concluse, arrivando a un soffio da lei.
«Vi
suggerisco dunque di goderne, fin tanto che potete», rispose la
contessa, con
aria di sfida. Ma sapeva meglio di lui che sarebbe stato alquanto arduo
riportare la situazione sotto il suo controllo.
«Assolutamente»,
sussurrò Leonardo, allungando una mano verso la cintura della giovane
donna ed
estraendone prima lo stiletto, e in seguito la spada, per poi gettarli
entrambi
nei pochi centimetri d’acqua che ancora coprivano il fondo della vasca.
Senza
mai dar segno di voler abbassare l’arma, da Vinci mantenne il contatto
visivo
con la contessa, e nel mentre la mano libera iniziò a vagare per tutto
il suo
corpo, premendo abbastanza da poter riconoscere la presenza di altre
armi. Non
distolse mai lo sguardo, nemmeno quando si chinò per controllare lungo
le sue
gambe, e mai perse il suo tipico sorriso di vittoria.
In
tanti incontri che avevano avuto, in tante occasioni in cui erano
arrivati ad
un soffio l’uno dall’altra, in tanti contatti fisici… Gemma non si era
mai
sentita tanto nervosa, né il suo corpo aveva mai risposto in quel modo
al suo
tocco. Era sempre riuscita a restare calma e sicura di sé, i muscoli
rilassati
ma pronti a rispondere ad ogni riflesso, la mente sgombra da
distrazioni e
concentrata sull’obiettivo.
In
quel momento, le sue certezze erano svanite, l’avevano abbandonata,
lasciando
il posto a reazioni e pensieri del tutto incapaci di tranquillizzarla.
Ogni
punto del suo corpo raggiunto da quel tocco sembrava bruciare,
protestare per
le barriere frapposte, bramare perché quel contatto potesse essere
qualcosa di
più.
Qualcosa
era cambiato, e niente era mai riuscita a spaventarla tanto.
Leonardo
raggiunse di nuovo la sua altezza, in un contatto visivo che non era
mai stato
spezzato, e si concesse alcuni istanti per assaporare quel momento.
Dopo
numerosi e vani tentativi di tenere in pugno la situazione, era giunta
la sua
occasione di condurre i giochi, e sapere di non essere lui quello con
le spalle
al muro gli regalò una piacevole sensazione di soddisfazione.
Non
abbassò comunque la balestra, nonostante avesse appurato che la
contessa non
aveva altre armi con sé, ma questo non le avrebbe impedito di
contrattaccare e
difendersi usando nient’altro che il suo corpo.
Ormai
vicina ad un limite che non aveva alcuna intenzione di oltrepassare,
Gemma
osservò Leonardo con sguardo confuso, abbassando lentamente le braccia.
«Non
avete ragione di preoccuparvi, artista. Privata delle armi, che altro
potrei
farvi?», domandò, cercando di ritrovare il tono caratteristico dei loro
scontri, una zona a lei familiare che potesse donarle un minimo e
sicurezza.
«Oh…»,
quasi gemette da Vinci, inclinando di poco la testa di lato.
«Innumerevoli
cose, in innumerevoli modi», mormorò, vagando con lo sguardo fino alle
sue
labbra.
«Non
se continuate a starmi così addosso», rispose invece Gemma. Non
esattamente
quello che il fiorentino si aspettava, ma attribuì la causa alla
situazione,
per la prima volta svantaggiosa, in cui la contessa si trovava.
«Potreste
usare un po’ di fantasia: sono certo che trovereste qualcosa da fare»,
proseguì
Leonardo, ricordando con una certa dose di ammirazione la capacità di
Gemma di
trovare punti deboli anche in momenti che ne sembravano privi.
«O
potreste muovere qualche passo indietro», ribatté la contessa,
apostrofandosi
mentalmente da sola, alla ricerca di una capacità di rispondere a tono
che
sembrava sparita.
«Io
sto benissimo», commentò da Vinci, sempre più sorpreso dall’improvvisa
mancanza
di malizia nelle parole della sua avversaria. «Siete voi che apparite
un po’
tesa», proseguì, accorciando ulteriormente la già modesta distanza.
«Posso fare
qualcosa per… aiutarvi a rilassarvi?», mormorò, con un filo di voce.
Gemma
lo vide abbassare lo sguardo sulle sue labbra e le pupille dilatarsi
per il
desiderio, ed attinse a tutte le sue forze per ritrovare la sua
maschera: se
non per contrastarlo almeno per guadagnare del tempo.
«Sono
certa che non possediate alcuna altra abilità, se non quella di
mettermi i bastoni
tra le ruote», mormorò, un’insinuazione molto più velata di tante altre
precedenti, ma sufficiente per farle ritrovare un minimo di
tranquillità.
Leonardo
però mandò la sua piccola conquista a monte, decidendo di proseguire la
conversazione vicino al suo orecchio. Troppo
vicino al suo orecchio.
«Io
invece sono certo che ce ne siano parecchie», mormorò lui, con voce
roca. «Una
più soddisfacente dell'altra», aggiunse, quasi sfiorandole la pelle con
le
labbra.
L’inaspettata
fitta che la colpì allo stomaco la colse completamente impreparata, e
nemmeno
si accorse di aver assecondato il suo desiderio di chiudere gli occhi,
di non
sentire altro che non fosse il suo respiro sulla pelle e la sua voce
calda e
morbida. Ebbe bisogno di qualche secondo per ritrovare il contatto con
la
realtà, giusto in tempo per capire che proseguire lungo quel sentiero
sarebbe
stato troppo pericoloso.
«Che
cosa volete, artista?», domandò lei, molto più brusca di quanto non
volesse.
Leonardo
parve ridestarsi a quelle parole, iniziando a ricordare il vero motivo
che lo
aveva spinto ad azzardare un’impresa del genere.
«Sarebbe
scortese non invitare un vostro ospite a visitare gli Archivi Segreti,
non
trovate anche voi?», mormorò lui con tono retorico, allontanandosi di
un passo
e puntandole di nuovo contro la balestra.
La
conosceva da un po’ di tempo, abbastanza da aver ormai imparato che il
minimo
punto debole diventava, per la contessa, un’occasione irresistibile di
attaccare. Era l’unico motivo che lo convinse a non riporre l’arma, per
quanto
fosse tentato.
«Pretesa
piuttosto arrogante, da parte di chi si è appena introdotto
furtivamente nella
casa di Dio», rispose Gemma con diffidenza.
Di
nuovo, non ebbe nemmeno il tempo di sentirsi tranquilla e su un terreno
a lei
familiare, che Leonardo la destabilizzò un’altra volta, iniziando a
camminarle
intorno fino a sparire dalla sua visuale.
«Pretesa
che, tuttavia, sarebbe meglio per voi esaudiate», mormorò l’artista
alle sue
spalle, premendo la balestra contro la sua schiena.
Un
istante dopo, la sua mano libera indugiò di nuovo sul suo corpo
cingendole la
vita, il tocco delicato ma allo stesso tempo fermo e deciso, di sicuro
non
intenzionato a lasciare la presa tanto facilmente.
«Avete
improvvisamente ritrovato il senso della giustizia?», domandò Gemma,
con un che
di amaro nel tono della voce. «Non vi ho mai visto così zelante nei
confronti
della vostra amata Firenze»,
aggiunse, ricordando quanto le fosse stato facile distrarlo dai suoi
doveri nei
confronti della città.
«Gli
Archivi Segreti…», ripeté Leonardo, chinando il capo su di lei.
«…Gemma»,
mormorò con un filo di voce, ad un soffio dal suo collo.
La
contessa avrebbe tanto voluto voltarsi. Che fosse per prenderlo a
schiaffi o per
zittirlo in altro modo non aveva importanza, ma ciò che più bramava in
quel
momento era la possibilità di voltarsi.
«Se
non desiderate altro…», mormorò Gemma, sperando che fosse ben celato
l’orgoglio
che le bruciava dentro.
Adocchiò
immediatamente la porta d’ingresso principale, e in religioso silenzio
iniziò a
camminare in quella direzione. Non era un’ingenua: c’erano ben poche
cose che
Leonardo poteva voler trovare negli Archivi Segreti, e il pensiero che
quel
particolare oggetto fosse addosso a lei non era d’aiuto, in un’infinita
lista
di punti a suo sfavore.
Il
respiro le si bloccò in gola quando sentì la presa attorno alla sua
vita
stringersi all’improvviso, fermandola sul posto.
«So
delle guardie là fuori», mormorò da Vinci, fin troppo vicino al suo
orecchio.
«Così come so che esiste senz’altro un’altra via per accedere agli
Archivi»,
aggiunse, senza alcun accenno di volersi allontanare.
«Dunque
non vedo come io possa esservi utile, se sapete già tutto», ribatté la
contessa,
restando immobile dov’era.
«Non
apprezzate la mia compagnia, forse?», chiese l’artista, con finto tono
perplesso. «Eppure…», proseguì, rafforzando ancora di più la presa, e
la
contessa trovò improvvisamente difficile riuscire a deglutire. «…il
vostro
corpo dice tutt’altro», bisbigliò, avvertendo chiaramente, nonostante
gli
strati di stoffa, i muscoli dell’addome tesi.
E
Gemma lo sapeva, sapeva benissimo di aver perso ogni controllo sulle
reazioni
che il tocco di Leonardo le stava scatenando. La sua ultima speranza
era
cercare di minare il suo potere su di lei, portare entrambi allo stesso
livello.
«Vedo
che la vostra brama di dimostrarmi
quanto apprezziate il mio corpo è rimasta invariata», mormorò,
abbassando il
tono della voce ad ogni parola. «Così come il mio… bruciante
desiderio… di piegarvi al mio volere», mormorò, riducendo
il tutto ad un sussurro roco.
Per
la prima volta da quando era emerso dalla vasca, anche Leonardo sentì
il suo
autocontrollo vacillare notevolmente, al solo provare ad assecondare la
sua
mente nelle immagini che quelle parole avevano evocato. Con non poca
difficoltà, mantenne salda la presa attorno alla balestra, ma non poté
nulla
contro l’improvviso desiderio di avvicinarsi ai suoi capelli e
inspirare
profondamene.
Aveva
sentito la sua mancanza ogni giorno durante il viaggio intrapreso in
Valacchia,
ma in quel momento si chiese come aveva potuto resistere tanto a lungo
senza di
lei. Senza vederla, senza sfidarla, senza toccarla.
«E
così niente è cambiato. Tranne forse per un dettaglio…», mormorò, le
parole di
lui soffocate contro i suoi morbidi capelli. «…non sono io a trovarmi
dalla
parte sbagliata di un’arma, ora», aggiunse, stringendole di nuovo la
presa in
vita e facendole premere la schiena contro la balestra.
Gemma
riconobbe facilmente la nota di soddisfazione e compiacimento nella sua
voce di
Leonardo, la stessa che assaporava lei ogni volta che sentiva di avere
l’artista in pugno. A ruoli invertiti, sentiva la mancanza di quel
potere.
«Siete
per caso dispiaciuto per questa posizione?», mormorò la contessa con
finto
rammarico, la sicurezza che piano piano stava, inspiegabilmente,
tornando.
«Possiamo tranquillamente rimediare».
«Invero
questa posizione mi dà molto piacere», ribatté Leonardo, incapace di
resistere
alla tentazione di chinare nuovamente il capo e proseguire ad un soffio
dal suo
orecchio. «E il mio intuito mi dice che per voi è lo stesso», sussurrò
e, a
riprova delle sue parole, spostò di poco la mano poggiata all’altezza
della
vita, avvicinandosi pericolosamente al seno.
«Non
brillate certo per la vostra perspicacia, artista», commentò Gemma, in
un
tentativo di voltare il capo e di poterlo vedere in volto.
Il
suo sforzo per proseguire la conversazione restando fermi dov’erano
fallì,
quando sentì la balestra spingerla di nuovo in avanti.
«Gli
Archivi Segreti, contessa», ripeté Leonardo, concentrandosi su
quell’obiettivo
pur di non cedere alla tentazione di mandare tutto al diavolo e
assecondare le
sue provocazioni.
Gemma
trattenne un sospiro di frustrazione, e ricominciò a camminare in
direzione del
passaggio segreto, celato dietro al drappo di velluto appeso alla
parete.
Camminava
lentamente.
Molto
lentamente.
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt*!
Ho
di nuovo finito di betare dieci minuti fa: questo nuovo palinsesto non
mi è
ancora entrato in mente, o forse sono io che eccello nell’arte di
procrastinare
le cose da fare. Chi può dirlo.
Non
so se si evince da questo capitolo (o dalla storia in generale, a voler
essere
più precisi), ma io ho un vero debole per le scene come queste:
provocazioni,
sfide, punti deboli scovati e sfruttati, frasi più o meno velate… Ed
era da un
po’ che l’artista fiorentino e la contessa romana non si cimentavano in
questa
gara a chi dei due cede per primo.
Quest’intero
scontro negli Archivi Segreti era originariamente un enorme capitolo di
venti
pagine, ma per ovvie ragioni di lunghezza (e di suspence) si interrompe
qui e
prosegue in quello successivo.
Spero
di avervi incuriosito abbastanza da attendere il prossimo aggiornamento
con più
impazienza del solito. Come sempre, ci si rilegge tra due settimane.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 18 *** La Ruota della Fortuna ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
18 - La Ruota della
Fortuna
Nei Tarocchi,
la carta della
Ruota della Fortuna ha molti significati: l’inizio dell’individualità,
energia
creativa, ma anche spirito creativo. Indica inoltre la riuscita
attraverso
opportunità e occasioni. Naturalmente, il successo è aiutato dalla
fortuna che,
a volte, dona senza richiedere meriti individuali. Può indicare
situazioni
remunerative, ma non continuative.
Al negativo, però, indica instabilità, positività incostante.
«Quanto
tempo credete che servirà alle guardie per notare la mia scomparsa?»,
domandò
Gemma, scostando il pesante tessuto che copriva la porta. Suo malgrado,
Leonardo dovette spostare la presa dalla vita alla spalla, per
permetterle di
compiere il movimento.
«Abbastanza
perché voi mi facciate fare un giro completo degli Archivi».
«Continuate
tranquillamente a crederlo», rispose lei con tono asciutto, girando il
crocifisso che fungeva da leva per aprire il passaggio.
«Chi
sospetterebbe mai di una vostra scomparsa involontaria o del fatto che
siate
tenuta contro la vostra volontà negli Archivi? I vostri uomini vi
temono e vi
considerano troppo in gamba perché un’eventualità del genere possa
accadere»,
spiegò da Vinci, seguendola attraverso il passaggio ed avendo cura di
restarle
ben vicino.
Senza
accorgersene, Gemma si ritrovò con un accenno di sorriso dipinto sulle
labbra.
«Un
velato complimento, artista?»
Leonardo
dovette mordersi la lingua per non lasciarsi sfuggire qualcosa di
decisamente
troppo esplicito, con ogni probabilità riguardante quali fossero le
lodi e le
lusinghe che avrebbe tanto voluto tessere in suo onore.
«Potrebbe
essere il primo di una lunga serie», rispose l’artista, la mano che
prima era
poggiata sulla spalla che lentamente iniziava a vagare verso la
clavicola e il
colletto della giacca.
«Potreste
aver finalmente destato la mia attenzione», ribatté la contessa Riario,
sperando di dare alla frase un tono provocatorio, a celare la genuina
curiosità
che sentiva nel petto.
«Dopo
aver finito qui sono certo che potrei proseguire», rispose Leonardo,
con un
sorrisetto soddisfatto che lei però non poteva vedere. «Vi assicuro,
Gemma, che
è una lista molto lunga», aggiunse in un sussurro, sfiorandole
l’orecchio con
le labbra.
Quando
voltarono l’angolo, la giovane donna si chiese se ricordava ancora la
strada da
percorrere, tanto si sentiva stordita dalle ultime parole pronunciate.
E non
andava bene. Non andava bene per niente.
Non
doveva reagire in quel modo, il massimo che poteva concedersi di
provare era
una sana soddisfazione nel vedere gli effetti delle sue provocazioni.
Non il
desiderio di sentirlo proseguire, di scoprire cosa avesse da dirle, di
sentirlo
di nuovo parlarle ad un soffio dalla pelle.
«Eccovi
giunto negli Archivi Segreti del Vaticano», affermò lei bruscamente,
prima che
i suoi pensieri sfuggissero al suo stesso controllo, e si fermò al
centro del
corridoio.
Leonardo
si allontanò di qualche passo ed iniziò a guardarsi intorno, sempre
mantenendo
la balestra puntata verso la contessa. Dopo qualche momento di
silenzio, però,
scoppiò in una fragorosa risata.
«Dovrei
sentirmi offeso?», chiese lui, tornando di nuovo di fronte a Gemma.
«Offendere
implica sminuire delle qualità. Ma non si può sminuire qualcosa che non
esiste», rispose la giovane donna, con un sorriso di finta cortesia.
«Davvero
mi credete così stupido da cascarci?»
«Oh,
lo credo. Eccome».
Stava
prendendo tempo, e lo sapevano entrambi, ma assaporare di nuovo quelle
loro
tipiche conversazioni, quei loro tipici toni di sfida e provocazione,
era così
piacevole da non riuscire a smettere, e le settimane passate l’uno
lontano
dall’altra erano solo un incentivo in più.
«Non
apprezzate una sana sfida, artista? Non si riceve mai niente per
niente», lo
punzecchiò la contessa, incrociando le braccia al petto e inclinando la
testa
di lato.
«Io
adoro le sfide», mormorò da Vinci, iniziando ad avvicinarsi, e il suo
sguardo
fu immediatamente catturato dalle labbra della giovane donna davanti a
lui. «E
voi, Gemma, siete una sfida a cui è impossibile resistere», proseguì in
un bisbiglio,
arrivando ad un soffio da lei.
«Eppure…»,
iniziò la giovane Riario, spostando anche lei lo sguardo dagli occhi
alla bocca
dell’artista. «…per qualche ragione, state opponendo resistenza», ed
entrambi
si chiesero se fosse solo un’osservazione, o un invito a smettere di
resistere.
«Portatemi
negli Archivi Segreti e smetterò di farlo», proseguì l’uomo, con la
voce roca.
«E
se non lo facessi?»
Le
parole di Gemma, il suo tono di voce, la sua vicinanza… Leonardo stava
per
cedere, lo sentiva. Sapeva che starle vicino comportava sempre un
rischio del genere,
così come sapeva che, da parte della contessa Riario, non c’era alcuna
emozione
di fondo, alcun sentimento, solo un’accondiscendenza mirata a
raggiungere uno
scopo. Fu quel pensiero l’unica arma in grado di risvegliarlo, quando
ormai la
distanza tra lui e la giovane donna stava per essere colmata
definitivamente.
Si
allontanò di qualche passo e si premurò di distendere di nuovo il
braccio
destro, sottolineando il suo vantaggio: la balestra. Nonostante tutto,
volle
comunque provare a studiare la sua espressione, per cercare di cogliere
qualche
indizio su cosa lei stesse provando
in quel momento.
Forse
era vittima di allucinazioni, forse la prolungata mancanza d’aria che
lo aveva
quasi soffocato nella sua tuta per le immersioni gli stava giocando
brutti
scherzi, ma avrebbe giurato di aver visto una punta di amarezza nei
suoi occhi,
una nota di delusione. Ebbe appena un paio di secondi per osservarla,
prima di
vederla voltarsi e ricominciare a camminare verso l’altra parte della
stanza.
«Vista
la vostra ossessione per i tesori della Chiesa, forse potrebbe
interessarvi
un’altra offerta», disse Gemma, continuando a dare le spalle
all’artista.
Da
Vinci ebbe subito il brutto presentimento che un altro subdolo
trucchetto
stesse per colpirlo, e si sbrigò a raggiungere la giovane donna, ma
solo per
premere di nuovo la balestra contro la sua schiena.
«Camminate,
contessa. Io vi ascolto molto attentamente», rispose lui, sinceramente
curioso
di conoscere tale proposta, nonostante il suo obiettivo fosse e
rimanesse la
seconda chiave.
Nel
mentre, Gemma raggiunse il maestoso tavolo al centro della sala, e si
voltò
verso Leonardo indossando la sua imperscrutabile maschera di
indifferenza.
«Se
siete negli Archivi Segreti del Vaticano, è perché cercate un tesoro. E
sono
certa che ci sia qualcosa di prezioso che
potreste volere», disse, accompagnando la parola prezioso
con un che di malizioso, e Leonardo non poté fare a meno
di squadrarla da capo a piedi, al solo pensare ai possibili sottintesi.
«Invero,
c'è più di un tesoro negli Archivi che ha destato il mio interesse»,
mormorò
l’artista, soffermando lo sguardo negli occhi di Gemma
«Potremmo
dunque giungere ad un accordo», rispose lei, soddisfatta, prima di
abbassare il
tono della voce. «Un accordo… estremamente vantaggioso, per entrambi»,
aggiunse, e sul suo volto ricomparve la tipica espressione maliziosa
che tanto
la caratterizzava.
«Vi
ascolto», accettò Leonardo, più attratto da quello sguardo che
dall’offerta in
sé.
«Posso
fare in modo che voi diventiate il nuovo curatore degli Archivi
Segreti. Tutti
i suoi tesori…», e di nuovo da Vinci si chiese se la sua particolare
scelta di
parole, con tutti i loro possibili significati, fosse intenzionale. «…a
vostra
completa disposizione. La possibilità di avere quanto più bramate al
mondo».
«Non
è la conoscenza il bene che più agognate?»
«Non
sono più sicuro nemmeno di questo».
«Dunque
cosa desiderate, per davvero?»
Per
un attimo la rivide, davanti a lui, vestita di bianco e ricoperta da
piccoli e
brillanti cristalli, il suo sguardo che implorava di avere una
risposta. E un
attimo dopo ricomparve l’altro suo volto, la cupa divisa del Vaticano e
la sola
intenzione di ingannarlo a guidare le sue azioni.
Dovette
sbattere le palpebre più e più volte per recuperare la lucidità, ma lo
sforzo
non fu nemmeno paragonabile a quello necessario per ricordare qual era
stata
l’ultima frase detta.
«Proposta
allettante», mormorò, deglutendo a fatica. «Molto…
allettante», gli sfuggì dalle labbra. «Tuttavia, ho la tendenza a non
accettare
prima di aver visto con i miei occhi questi… tesori», proseguì,
riacquistando
un minimo di contegno.
In
tutta risposta, Gemma gli fece cenno di raggiungerla e di salire
sull’imponente
tavolo di metallo, invito che l’artista accettò senza però mai
abbassare
l’arma.
«Posso
fare molto più di questo», sussurrò lei, con uno sguardo che mise a
dura prova l’autocontrollo
dell’artista. «Se vedere con i vostri occhi non è sufficiente...»,
continuò,
mentre si avvicinava alla leva. «...forse vi convincerà la possibilità
di...
toccare con mano».
Con
un gesto secco, azionò il meccanismo segreto del tavolo il quale, dopo
qualche
scossa di assestamento, cominciò a scendere in uno spazio buio e
angusto.
Diversi secondi dopo, la piattaforma si fermò, e la vista degli
scaffali colmi
di libri fu sostituita da quella di un’imponente porta di legno
massiccio.
Gemma
la raggiunse e con una lieve
spinta la aprì: oltre la soglia, apparve una cupa galleria sotterranea,
fredda
e umida, illuminata solo da un paio di fiaccole appese alle pareti ad
intervalli regolari l’una dall’altra.
«E
se io, futuro curatore degli Archivi Segreti del Vaticano…», iniziò
Leonardo,
cercando di restare serio, ma non riuscì a trattenere una risatina
divertita a
quell’ipotesi. «…volessi cercare qualcosa legato al Libro delle
Lamine?»
Sicuro
di averla messa in difficoltà, rimase molto sorpreso nel vederla
voltarsi verso
di lui con aria tranquilla e sicura di sé.
«Una
delle sue pagine potrebbe essere di vostro gradimento?», domandò Gemma,
con
noncuranza.
«Per
incominciare… sì, potrebbe», rispose lui, mascherando al meglio il suo
stupore.
«Dunque,
seguitemi», disse la contessa, prima di incamminarsi lungo la galleria.
Più
tempo passava, più aumentavano le probabilità che le sue guardie
notassero
l’improvvisa assenza del braccio destro del papa. Gemma stava prendendo
tempo
come meglio poteva, ma privata di spada e stiletto era davvero con le
spalle al
muro. A suo favore, però, si presentava la sua profonda conoscenza
degli
Archivi e, soprattutto, delle armi disseminate al loro interno.
Doveva
solo muovere qualche altro passo in avanti, e avrebbe trovato una delle
preziose lance lì custodite, pronta per essere afferrata ed usata.
Nei
suoi calcoli, sfortunatamente, non erano compresi i crescenti dubbi di
Leonardo
riguardanti il suo strano comportamento, più incoerente ed irrazionale
del
solito. Un attimo prima la vedeva maliziosa e sicura di sé come in
tanti altri
precedenti scontri, quello dopo invece era nervosa, tesa e turbata.
Leonardo
aveva notato tutti quei piccoli segnali, ed era pronto a vedere un
altro
improvviso cambiamento da un momento all’altro.
Ragion
per cui, quando la vide scattare verso una delle sporgenze della
parete, con
ogni probabilità per afferrare un qualsiasi oggetto per difendersi, fu
pronto a
fermarla. La afferrò per un braccio e la spinse contro il muro di
pietra della
galleria, bloccata tra di esso e il corpo dell’artista.
Dopo
un primo istante di smarrimento, il respiro di Gemma si fece conciso e
irregolare,
sconcertata dall’essere stata fermata ancor prima di riuscire a mettere
mano ad
un’arma. In un qualsiasi altro momento, avrebbe di certo trovato
qualcosa di
velenoso e tagliente da dire, ma in quel momento, con la sensazione
sempre più
forte che i vestiti iniziassero ad essere di troppo, non riuscì nemmeno
a
pensare, figurarsi a parlare.
Perfino
da Vinci si ritrovò costretto a prendersi qualche istante di silenzio,
resosi
conto della totale mancanza di spazio tra i loro corpi. Fu ancora più
sorpreso,
però, di non udire nemmeno una parola da parte della sua avversaria, e
capirlo
lo spronò a cogliere l’occasione al volo.
«Posizione
interessante, Gemma», mormorò Leonardo ad un soffio dalle sue labbra,
prima di
chinarsi su quanto del suo collo era lasciato scoperto dalla divisa.
«Non
trovate anche voi?», aggiunse, sfiorandole la pelle con la punta del
naso.
«Niente…»,
iniziò la contessa, costretta purtroppo ad interrompersi per
assicurarsi di
avere ferma la voce. «…che non ci sia mai successo».
«Avete
ragione, ma ogni volta è piacevole come la prima», rispose l’artista,
con un
sorriso malizioso. «Specialmente a ruoli invertiti».
«Non
avete perso il vizio di sopravvalutarvi».
«E
voi quello di provocarmi», e per non darle modo di ribattere, le sfiorò
il lobo
dell’orecchio con le labbra, prima di mordicchiarlo lentamente, e
sorrise
compiaciuto sentendola tentare di soffocare un sussulto di sorpresa.
Lentamente,
Leonardo ripristinò un minimo di distanza e puntò di nuovo il suo
sguardo negli
occhi di lei, incapace di celare il sorrisetto di soddisfazione
che si
era dipinto sulle sue labbra.
«Mi
avevate promesso una pagina del Libro, se la memoria non mi inganna»,
mormorò
lui con finta perplessità.
Raramente
Gemma aveva provato sulla propria pelle l’amaro sapore dell’orgoglio
ferito, ma
in quel momento si sentì bruciare dall’indignazione e dalla
frustrazione,
scoprendo di non volere altro che la possibilità di restituire il
favore
all’arrogante artista che aveva di fronte.
«Non
siete interessato agli altri tesori che la precedono?», gli chiese, e
il suo
sguardo era una chiara conferma del velato sottinteso.
«Assolutamente
no», ribatté però Leonardo, facendo spallucce.
Gemma
sospirò pesantemente, alla ricerca di un autocontrollo che però, in
quel
momento, non sarebbe mai giunto in suo aiuto, e si staccò dalla parete
alle sue
spalle, ritrovandosi di conseguenza ancora più vicina al viso
dell’artista.
Fece per incamminarsi verso il resto della galleria e continuare, suo
malgrado,
il percorso, ma Leonardo spinse il proprio corpo contro il suo,
imprigionandola
di nuovo tra lui e il muro.
Se
solo gli sguardi avessero avuto il potere di uccidere, da Vinci avrebbe
visto
la sua fine in quella cupa e umida galleria segreta.
Al
contrario, lo sguardo di Leonardo la stava osservando con molta
attenzione,
venato di malizia, e soffermatosi sugli occhi iniziò a percorrerle il
viso,
indugiando sulle labbra, fino a giungere alla costrizione della divisa
del
Vaticano. Quando poi vide la, ormai familiare, sciarpa di seta scura,
un’idea
gli balenò in testa.
Gemma
era una spia perfettamente addestrata, pericolosa, difficile da tenere
sotto
controllo, e avrebbe potuto tentare di attaccarlo di nuovo in qualsiasi
momento, forse riuscendoci. Da Vinci si aggrappò a quel pensiero per
giustificare quanto stava facendo: stringere i polsi della contessa tra
le
mani, trattenerli entrambi con una mentre l’altra lentamente scioglieva
il nodo
della sciarpa.
Una
scena già vista, che lo aveva tormentato giorno e notte senza accennare
ad una
tregua, ma che riusciva a strozzargli il respiro in gola ogni singola
volta. E
a giudicare dalla postura tesa della giovane donna, anche la sua
capacità di
inspirare ed espirare era messa a dura prova.
«Non
vi state opponendo», mormorò l’uomo, così come aveva fatto quella notte
nel
vicolo.
A
differenza di quell’incontro, però, la contessa Riario non fiatò,
nemmeno un
flebile sussurro, e per le labbra di Leonardo piegarsi in un ghigno
soddisfatto
fu una tentazione irresistibile.
Gemma
non avrebbe mai pensato, nemmeno nelle sue ipotesi più irrazionali, di
ritrovarsi un giorno con la sensazione di essere un topolino in gabbia,
metaforicamente e letteralmente con le spalle al muro per colpa di
Leonardo, di
essere oppressa dal turbamento. Eppure, quando il suo sguardo seguì le
mani
dell’artista e le vide usare la sua sciarpa per legarle i polsi, la
tentazione
di scappare via divenne insopportabile. E pregò con tutte le sue forze
che il
suo sguardo non facesse trapelare quelle emozioni.
«Non
lo trovate anche voi… tremendamente eccitante?», mormorò da Vinci,
prima di
serrare definitivamente il nodo.
«Oh
sì, sono divorata dal desiderio...», rispose Gemma, la voce impregnata
di
sarcasmo come sua unica arma di difesa. «…di tagliarvi la gola»,
aggiunse poi,
sollevando lo sguardo negli occhi di Leonardo e fulminandolo.
«Sarei
curioso di sapere come fareste», sussurrò lui, così vicino alle sue
labbra da
sfiorarle.
«Ho
dimostrato più e più volte di sapervi sorprendere».
«Sorprendetemi,
dunque».
Gemma
ebbe la netta sensazione che quella distanza stesse per essere colmata,
una
volta per tutte, e la ormai crescente convinzione che quel gesto
sarebbe stato
il punto di non ritorno fu la sua voce della ragione, l’arma che la
convinse a
voltare il capo verso la galleria, lo sguardo puntato verso quella che,
con
ogni probabilità, era l’ubicazione della pagina. I suoi occhi non
accennarono a
muoversi, né il suo corpo tentò una qualsiasi mossa, e Leonardo capì
che così
sarebbe rimasta, se lui non avesse mosso almeno un passo indietro.
A
passi piccoli e lenti, un po’ per prendere altro tempo e un po’ per non
dargli
motivo di imprigionarla di nuovo, Gemma percorse la galleria in
silenzio,
seguita dall’artista alle sue spalle, fino a raggiungere un blocco di
marmo
grezzo nel mezzo del corridoio.
«Eccola»,
disse la giovane donna, molto più bruscamente di quanto volesse.
Perplesso,
Leonardo iniziò a guardarsi intorno, pensando a un qualche tipo di
trucco o
manipolazione messo in atto dalla contessa, ma non trovò niente che lo
aiutasse
a capire.
«Oh
oh, il vostro piano ha una falla», mormorò Gemma, con una punta di
soddisfazione.
«Mi
piacerebbe sapere qual è», rispose da Vinci, raggiungendola alle sue
spalle.
«Mi
servono le mani libere», spiegò la contessa, sollevando i polsi a
sottolineare
il concetto.
«E
che cosa vorreste farne?», le sussurrò Leonardo all’orecchio, e un
istante dopo
le sue mani si poggiarono sul corpo di Gemma, all’altezza dei fianchi.
Con
una lentezza straziante, incominciarono a risalirle la vita, la schiena
e poi le
spalle, prima di scendere di nuovo lungo le braccia e terminare quel
percorso
sui polsi ancora fasciati dalla seta. E suo malgrado, la contessa sentì
ogni
cosa, ogni istante di quel tocco, ogni parte del suo corpo bruciare in
risposta, e gli occhi chiudersi e assecondare quel piacere.
Solo
quando lo sentì sospirare pesantemente sulla sua pelle, parve ritrovare
un
briciolo di lucidità, il minimo per ribattere senza tradirsi.
«A
parte uccidervi, s’intende?», chiese lei, con un filo di voce.
«A
parte uccidermi», ripeté Leonardo, soffocando una risata divertita
contro il
suo collo, rendendole molto difficile trattenere un sospiro di piacere.
«Esaudire
quanto avete chiesto», fu la risposta della giovane donna, con tutti i
suoi
possibili significati.
«Io
vi ho chiesto una pagina del Libro delle Lamine, niente che implichi
l’uso di
queste splendide mani».
«Come
tutte le cose preziose, anche la pagina è ben custodita».
«Oh…
capisco», mormorò l’artista, con scarsa convinzione e, soprattutto,
poca
intenzione di allontanarsi. «Ditemi dov’è, dunque».
«Proprio
davanti a voi, ma è tipico di voi uomini non riuscire a vedere nemmeno
quello
che si trova ad un palmo dal vostro naso», ribatté Gemma, prima di
agitare
nuovamente i polsi in un gesto eloquente.
Leonardo
però ebbe bisogno di qualche altro secondo per pensarci, chiedendosi se
fosse
l’ennesimo trucco oppure, per una volta, la verità. Lentamente, ed
indugiando
ben oltre i limiti del consono, raggiunse con le proprie mani quelle
della
contessa, ed iniziò a sciogliere il nodo di seta.
«Spero
di avere di nuovo l'onore di poter utilizzare questa sciarpa», le
sussurrò
all’orecchio, mentre lasciava cadere a terra il lembo di stoffa.
«Magari, in un
luogo più consono», aggiunse, con voce roca.
«Chi
può dirlo, artista», mormorò Gemma, e la sua mente non fece in tempo a
fermare
quel pensiero prima che si trasformasse in parole.
Travolta
dal terrore che potesse accadere di nuovo, si sbrigò a trovare altro su
cui
concentrare la propria attenzione. Con le mani finalmente libere,
afferrò il
bordo della teca che sporgeva appena appena dal blocco di marmo, e
sollevò il
quadro di vetro contenente la pagina.
Tutta
la spavalderia che ormai costituiva la firma di Leonardo evaporò nel
momento in
cui i suoi occhi si posarono sul quel tesoro. La pagina non era
sicuramente
nelle sue migliori condizioni: i bordi sgualciti, delle pieghe troppo
marcate
perché la teca di vetro potesse distenderle, il materiale ingiallito.
Nonostante tutto, però, sembrava brillare di luce propria.
Incassata
nel blocco di marmo si trovava una fiaccola accesa e, dopo alcuni
istanti di
smarrimento, l’artista la afferrò e la avvicinò all’involucro di vetro,
per
osservare meglio i tratti d’inchiostro che tempestavano la superficie
del
manufatto.
Si
accorse che Gemma aveva, a sua volta, allungato una mano e stretto il
manico di
legno solo nel momento in cui la fiamma venne fatta da lei ondeggiare
davanti
alla pagina, da parte a parte. Ogni volta che la luce le passava
davanti, i
simboli scritti mutavano.
«Le
parole cambiano ad ogni sguardo, e non hanno mai lo stesso contenuto»,
spiegò
Gemma, dando voce agli stessi pensieri che ronzavano in testa
all’artista. «E
in ogni caso le informazioni sono scritte in lingue completamente
sconosciute».
«Incredibile»,
mormorò da Vinci, con un filo di voce.
Il
giovane fiorentino afferrò nuovamente la torcia e riprovò a compiere lo
stesso
movimento, più e più volte, e puntualmente la pagina assumeva un
aspetto sempre
nuovo.
«È
stata recuperata a Firenze anni fa, ma in tutto questo tempo nessuno è
mai
riuscito a leggerla o a tradurla», continuò Gemma, senza mai
distogliere lo
sguardo da quel foglio, così piccolo e insignificante all’apparenza,
eppure
tanto potente e pericoloso.
«È
un enigma», sussurrò lui sospirando, ancora alle spalle della contessa
Riario.
«Esattamente»,
concordò lei, con un fil di voce.
«Se
solo riuscissi a risolverlo…»
E
a quelle parole, la giovane donna ricordò improvvisamente ogni cosa: il
suo
ruolo, la sua missione, il suo posto… e il sapore amaro della delusione
le
strozzò per un attimo il respiro in gola. Se da Vinci non avesse
accettato di
collaborare con la Chiesa, si sarebbe ridotto tutto ad una sola scelta:
la vita
dell’artista o quella della contessa, e Gemma non era più tanto sicura
di
meritare di conservare la propria.
Forse,
ponendolo davanti all’idea che un solo Sì
non era nulla al confronto di quello che avrebbe potuto avere trovando
il
libro, sarebbe riuscita a trovare il suo punto debole.
«Il
Vaticano può offrirvi tutte le risorse di cui avete bisogno, non dovete
fare
altro che chiedere», disse la contessa, grata di dare ancora le spalle
all’artista e di non permettergli di vedere l’amara espressione dipinta
sul suo
volto.
Lo
sentì chiaramente, a un soffio dal suo viso, sospirare sconsolato per
l’ennesimo tentativo di convincerlo a sottomettersi a Roma, e un attimo
dopo
muovere un passo indietro, allontanandosi dalla pagina.
«Mettermi
al servizio della Chiesa? Di papa Sisto? Mai», rispose Leonardo,
asciutto.
«Non
si fermerà davanti a nulla, finché non vi avrà», mormorò Gemma, e si
voltò in
modo da poterlo guardare negli occhi, per fargli capire con il suo
sguardo, e
non solo con le parole, che stava rischiando molto più di quanto il
Libro
potesse valere.
«Non
mi avrà, se è questo a preoccuparvi», rispose da Vinci con un velo di
diffidenza, nonostante crederle e fidarsi di lei fosse quanto di più
bello
potesse sperare di fare.
«Non
è preoccupazione, è una certezza», precisò la giovane donna. «Ho visto
più e
più volte di che cosa è capace il Santo Padre».
Non
erano i soliti toni con cui la contessa faceva capire, senza
possibilità di
equivoci, quanto serie fossero le sue intenzioni, e a Leonardo sfuggì
un lieve
sorrisino di compiacimento.
«Vi
state forse dando pena per me? Avverto dell’apprensione nella vostra
voce».
«Come
ho già detto, non brillate certo per perspicacia. Non è niente di
diverso dalle
molte altre minacce che vi ho rivolto in passato», e Gemma avrebbe
pagato oro
per essere libera di dirgli che non era una questione di non voler
provare dei
sentimenti, ma di non poterlo fare.
«Ne
siete davvero certa?», indagò Leonardo, avvicinandosi di nuovo al suo
orecchio
fino a sfiorarlo con le labbra, ormai piuttosto sicuro che la contessa
ne fosse
tutt’altro che indifferente.
«…sì»,
mormorò Gemma con un filo di voce, dopo una esitazione che era durata
troppo a
lungo per non destare sospetti.
«Non
ci credete nemmeno voi», rispose da Vinci, senza il minimo accenno di
volersi
allontanare, e questo diede alla giovane donna un istante per chiudere
gli
occhi e tentare, con tutte le sue forze, di recuperare la sua
razionalità, di
negarsi quei sentimenti che tanto premevano per raggiungerla.
«Ne
sono certa», disse lei, e la sicurezza riemersa nella sua voce fu
dolorosa. Per
entrambi.
«Anche
io sono certo delle mie condizioni».
«Rifiutarvi
vi condurrà alla morte».
«Morirei
comunque, se dovessi lavorare per Roma», disse Leonardo, ripristinando
un
minimo di distanza tra i loro volti. «Magari non fisicamente, ma
mentalmente
sì. Roma non sarebbe altro che una gabbia: una splendida gabbia dorata,
ma pur
sempre una gabbia».
«C’è
sempre un’altra scelta», riprovò Gemma, arrabbiata ed angosciata per la
poca
importanza che l’artista stava dimostrando per la sua stessa vita. «C’è
sempre
la possibilità di raggiungere un compromesso. Che cosa potrebbe
convincervi?»
«Non
lascerei mai Firenze», rispose lui prontamente, e la contessa iniziò ad
essere davvero
esasperata.
«Una
collaborazione a distanza, dunque», tentò lei di nuovo, ma ricevette
solo
l’ennesimo cenno di rifiuto.
E
fu in quell’istante, nel brevissimo momento in cui l’artista distolse
lo
sguardo dai suoi occhi, che Gemma vide la balestra, incustodita, in una
delle
tasche della cintura. E capendo che quella era la sua unica scelta,
sentì il
suo cuore spezzarsi.
«Non
voglio avere niente a che fare con Roma», mormorò da Vinci, rialzando
lo
sguardo in quello della giovane donna.
«Ne
siete certo, artista?», mormorò la contessa, con quel poco di voce
rimasta, e
per un attimo Leonardo avrebbe giurato di aver visto i suoi occhi colmi
di
dolore.
«Mai
stato così certo», rispose lui, ma più attento a lei che alle sue
stesse
parole.
La
vide chiaramente combattuta, esitante, priva della risolutezza e della
sicurezza che erano le sue firme, e in quel momento capì che c’era
qualcosa che
non andava.
Lo
sguardo di lei indugiò un’ultima volta nei suoi occhi, prima che la sua
mano
scattasse verso la balestra e l’afferrasse.
Gemma
fece appena in tempo a stringerla tra le dita e a tirarla fuori dalla
tasca,
che Leonardo le afferrò il polso e lo strattonò, affinché la sua presa
attorno
all’arma cedesse. Con l’altra mano colpì la balestra, facendola cadere
a terra,
e usò la presa attorno al polso di lei per far ruotare la giovane su sé
stessa,
attirandola di schiena contro il proprio petto. La sentì sussultare,
nel momento
in cui la distanza tra i loro corpi fu annullata, e in quel frangente
da Vinci
le afferrò anche l’altro braccio, bloccandole i movimenti.
Gemma
però non si lasciò fermare, nonostante il notevole svantaggio: sollevò
un piede
e colpì il blocco di marmo che custodiva la teca, spingendo entrambi
indietro
verso la parete della galleria.
Leonardo
sentì l’aria lasciargli i polmoni nell’impatto della sua schiena contro
il
muro, e suo malgrado la presa attorno al corpo della contessa si
affievolì per
un istante, ma abbastanza per permetterle di liberarsi. Lo sguardo
dell’uomo
vagò ovunque, e si fermò su una teca socchiusa proprio accanto a lui,
contenente una spada.
Non
si fermò nemmeno un istante a riflettere: se lo avesse fatto avrebbe
esitato,
sarebbe stato assalito dai dubbi, e non ne sarebbe uscito vivo. Gemma
ebbe
appena il tempo di liberarsi e correre verso la teca per recuperare la
balestra, che Leonardo afferrò la lancia e la raggiunse. Le afferrò un
braccio
e la fece voltare di nuovo su sé stessa, bloccandola tra il marmo e il
suo
corpo, e un momento dopo la lancia premeva sul collo della contessa,
proprio
alla gola.
Gemma
sentì il respiro bloccarsi per un momento, prima di forzarsi a calmarlo
ed
immobilizzarsi sotto la minaccia della lama. Si aspettava il taglio da
un
momento all’altro, sarebbe bastato davvero il benché minimo movimento
per
provocarle una ferita mortale. Eppure, da Vinci esitò, e invece di
applicare
pressione sull’arma, la applicò sul braccio che premeva contro il petto
della
contessa.
Ed
in quel momento, la sentirono entrambi: la chiave, proprio sotto al
tocco
dell’artista, la camicia e la giacca che non potevano celarla.
La
giovane donna vide lo sguardo incredulo di Leonardo abbassarsi su quel
punto.
Non c’era alcuna speranza che si fosse sbagliato, e Gemma capì che era
giunta la
sua fine.
Aveva
fallito, per l’ennesima volta, e Sisto non avrebbe sicuramente
sorvolato.
Aveva
tirato troppo la corda, per l’ennesima volta, e Leonardo non l’avrebbe
perdonata.
E
non aveva nient’altro nella sua vita, niente che fosse dipeso dalle sue scelte, invece che da quelle di
qualcun altro. Per l’ennesima volta.
Quando
sentì i bottoni della camicia saltare e il tessuto strapparsi,
scoprendo la
seconda chiave, la contessa smise di respirare e serrò gli occhi,
aspettando il
colpo decisivo.
Era
la fine, e lo sapeva.
I
pochi secondi successivi le sembrarono i più lunghi e strazianti della
sua
vita, mentre temeva il dolore lancinante della sua ultima ferita da un
momento
all’altro.
Invece,
un istante dopo, sentì una breve ma intensa pressione dietro il collo e
subito
dopo la catena della collana spezzarsi con un tintinnio, e non poté
nulla
contro il sussulto che lasciò le sue labbra.
Leonardo
si allontanò di scatto e Gemma si accasciò a terra, il capo chino e il
respiro
affannoso mentre tentava di recuperare fiato, pochi secondi che però
per lui
furono preziosi per scappare via.
La
contessa fece appena in tempo a vederlo chiudersi la porta alle spalle,
prima
che le guardie svizzere facessero irruzione nella galleria.
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt*!
Spero
di avervi suscitato abbastanza curiosità con lo scorso capitolo da
farvi arrivare
a questo con un po’ di trepidazione.
Capitolo
lunghissimo, con il quale tutte le carte sono in tavola e ormai pochi
segreti
sono rimasti al sicuro. Attenzione: pochi,
non nessuno.
Diciamoci
pure che tra Gemma e Leonardo è difficile dire quale dei due fosse il
più confuso
e provato dalla situazione, diviso tra ‘Quello che devo fare’ e ‘Quello
che
voglio fare’. Ma tutto getta le basi per il gran finale, tra due
settimane.
Ultimi
saluti, ringraziamenti, ed eventuali cosine da comunicare, alla
prossima volta.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary
|
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Capitolo 19 *** L'Angelo ***
Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
19 - L’Angelo
Anche
conosciuta come “Il Giudizio”, la carta dell’Angelo rappresenta la
libertà da
legami corporei e la consapevolezza nella spiritualità. Indica la
rinascita
alla vita spirituale, la comunicazione con lo spirito divino. Significa
anche
chiaroveggenza spirituale, è un richiamo dal passato, perciò
un’evocazione.
Indica ristabilimento anche nella persona fisica, ma soprattutto morale
e
spirituale; è predicazione, spirito missionario.
Al negativo, però, indica nervosismo profondo, esaltazione, reputazione
negativa, giudizio degli altri verso di noi, mancanza di temperanza.
L’Angelo
è una carta di rinnovamento, evidentemente una situazione va mutando.
La
situazione muta poiché si è arrivati al momento della resa dei conti.
Non si
può più tergiversare, posticipare, ma si deve affrontare la resa dei
conti e le
relative conseguenze. Nodi che vengono al pettine, chiusura di una
situazione,
giudizio finale.
Seduta
su una delle sedie di legno nella sagrestia Vecchia, Gemma torturava
incessantemente l’anello d’oro che portava al dito, nella vana speranza
di
sfogare la sua angoscia.
La
messa di Pasqua era cominciata, e il momento della comunione si stava
avvicinando pericolosamente. Sarebbero bastati pochi minuti, una volta
consumata l’ostia, perché tutto quell’inferno di odio e astio avesse
fine. La
dinastia de’ Medici sarebbe crollata, i Pazzi avrebbero assunto il
controllo
della città, e il suo compito come spia del Vaticano si sarebbe
concluso.
Sarebbe
rientrata a Roma, al servizio del papa, o nel migliore dei casi avrebbe
ricevuto l’ordine di tornare a Imola, per occuparsi di politica e della
sua
città. Nel peggiore dei casi… non voleva nemmeno pensarci.
Istintivamente
fece per mordersi il labbro, in un gesto dettato dal nervosismo, ma una
fitta
di dolore le ricordò quanto successo solo una settimana prima.
Nulla
avevano potuto le guardie che avevano fatto irruzione negli Archivi
Segreti: da
Vinci aveva trovato un’altra via di fuga ed era riuscito a scappare. E
con lui,
stretta saldamente nella sua mano, la seconda chiave per aprire la
Volta Celeste.
Né
erano riuscite, quelle stesse guardie, a mitigare la rabbia di Sua
Santità,
quando l’uomo si era trovato di fronte a sua nipote. Non ci era
riuscito il suo
aspetto, né gli abiti strappati, che per tutti erano stati chiari
indizi di
un’aggressione da parte dell’artista. Non ci era riuscita la sua
espressione,
per la prima volta dopo tanto tempo umile, mortificata, dilaniata dai
sensi di
colpa.
Niente
aveva trattenuto la mano di Sisto. E una settimana dopo, i segni erano
ancora
ben visibili: sulle labbra, sullo zigomo, attorno all’occhio, sulla
tempia…
Aveva
fallito, e se era ancora viva il merito era solamente dell’imminente
congiura
contro Firenze. Era ancora lei al comando della rivolta, e quel compito
doveva
essere portato a termine, prima di poter prendere una qualsiasi altra
decisione.
Ancora
una volta, la sua sopravvivenza si era ridotta ad una scelta: la sua
vita, o
quella di altri.
Eppure,
tutto quello a cui riusciva a pensare era l’espressione sul volto di
Leonardo,
resosi conto che la seconda chiave era sempre stata nelle sue mani. La
delusione, l’amarezza, il dolore che aveva potuto scorgere nei suoi
occhi, come
se tutto quello che avevano passato si fosse distrutto in un istante.
«Contessa
Riario», la chiamò una delle sue guardie, destandola dai suoi pensieri.
«Sì?»,
mormorò lei, alzando appena lo sguardo.
«È
il momento», rispose lui sottovoce, e Gemma capì che le ostie
avvelenate
stavano per essere servite.
«Bene»,
affermò la giovane donna con un filo di voce, e mai nulla di più falso
aveva
lasciato le sue labbra. «Tenetevi pronti», aggiunse, volgendo lo
sguardo al resto
delle guardie svizzere lì presenti, e ricevendo immediatamente un cenno
di
assenso.
Gemma
si rialzò lentamente in piedi, con tutta l’intenzione di allontanarsi
il più
possibile dalla porta che conduceva nel duomo, quando un tonfo sordo
giunse
alle sue orecchie: era senza alcun dubbio il suono delle porte
d’ingresso della
cattedrale che venivano aperte. Immediatamente tornò vigile e attenta,
e
schioccò le dita, zittendo ogni brusio proveniente dalle guardie lì con
lei.
«Che cosa vi è successo, Eccellenza?»,
domandò qualcuno in chiesa, e quelle parole furono più che sufficienti
per
capire: Giuliano de’ Medici era tornato a Firenze.
«Santo
Iddio…», mormorò la contessa, chiudendo gli occhi: sembrava davvero che
quell’inferno
non avesse fine. «Preparate le armi», aggiunse poi, rivolta ai suoi
scagnozzi.
«I Pazzi cospirano contro di noi, la mia
famiglia!», urlò Giuliano, dall’altra parte della porta. «Sono in combutta con Roma, e tradiscono
tutta Firenze».
«No…»,
gemette Gemma, con la voce così flebile che a malapena riuscì a udirsi
da sola.
«Popolo e libertà…», si intromise
Francesco Pazzi, e la giovane serrò gli occhi. «A morte i
Medici!».
Un
istante dopo, non si udì altro che colpi di spada, urla di terrore e il
caos.
Le
guardie svizzere si voltarono immediatamente verso la contessa Riario,
in
attesa di ordini, ma Gemma ebbe bisogno di alcuni istanti prima di
poter
proferire parola.
«Andate»,
mormorò semplicemente, senza nemmeno guardarli.
«Contessa…»,
tentò il capitano Grunwald, avvicinandosi a lei.
Quando
però la giovane donna rialzò lo sguardo, l’uomo non vi scorse più
quella
scintilla di forza e determinazione, quel fuoco che l’aveva sempre
contraddistinta,
ma vide solo il vuoto, qualcosa di estraneo alla sua natura. Non era
più lei, e
lo sapevano entrambi.
«Non
doveva andare così», mormorò Gemma, volgendo lo sguardo alla porta.
«Non avrà
mai fine…», aggiunse, con un filo di voce.
«Cosa
volete che faccia?», domandò il capitano, con la mano già pronta sulla
spada.
Ma
per qualche altro secondo, ci fu solo il silenzio in risposta, e mai
prima di
allora era successo: Gemma era una guerriera straordinaria,
terribilmente brava
a mantenere ogni cosa sotto controllo, anche quando un imprevisto
mandava in
pezzi i suoi piani.
«Voglio
alcuni uomini a controllare gli altri ingressi del Duomo», disse
finalmente,
incrociando le braccia al petto. «E voglio sapere ogni cosa su chiunque
fosse a
parte di questo piano», proseguì, rialzando lo sguardo su di lui. «Ogni
membro di
quella cerchia di congiurati. Chi sopravvivrà a questo… io lo voglio
qui,
davanti ai miei occhi».
Grunwald
annuì in silenzio, e si spostò verso un piccolo gruppo di guardie
svizzere
rimaste nella sagrestia, indicando loro quali ordini avessero. Al
contrario, lui
e un altro paio di uomini rimasero lì, come scorta per la contessa.
D’altro
canto, Gemma si allontanò in un angolo con una mano premuta sulla
fronte,
cercando di recuperare tutto il suo autocontrollo e di calmarsi.
Eppure, tutto
quello a cui riusciva a pensare era che non doveva andare in quel modo.
Se
tutto fosse andato come da piano, in quel momento i Medici sarebbero
caduti a
terra avvelenati e
si sarebbe vista la parola Fine a
quella che ormai Gemma sentiva di poter paragonare a una tortura.
Il
suo ultimo
barlume di speranza, l’unica cosa a cui riusciva a pensare senza
sentire la gola
chiudersi per il panico, era il destino di Leonardo: l’artista doveva
imbarcarsi sul Basilisco e partire alla volta del Nuovo Mondo. In tutto
quell’inferno di spade, odio e tradimenti, almeno lui sarebbe rimasto
al sicuro
e neppure lei, assieme a tutti i suoi uomini, sarebbe stata in grado di
trovarlo in tempo per catturarlo.
Nel
groviglio
dei suoi pensieri, nemmeno si accorse dello scorrere del tempo, fino a
quando
una voce a lei familiare non la ridestò.
«Contessa»,
la chiamò Lucrezia Donati,
con il respiro affannoso e la paura ben marcata nella voce.
Gemma
però si
prese un secondo per un profondo respiro, e rimase voltata di spalle.
Doveva
essere passato molto più tempo di quanto non pensasse, se le sue
guardie erano
già riuscite a trovare i congiurati di cui aveva chiesto notizie, ma
non era
ancora il momento. Non era ancora pronta a ritornare alla realtà e a
fare
quello che doveva essere fatto.
«Non
adesso, Madonna»,
rispose freddamente la nipote
del papa, con lo sguardo verso un punto indefinito.
«Contessa»,
ripeté l’altra di nuovo, con
più decisione.
«Ho
detto: non adesso»,
ribatté bruscamente la Riario,
la rabbia che iniziava a crescerle dentro.
«Gemma!»,
urlò Lucrezia, con la voce
ormai ben lontana dalla calma, ma impregnata di panico e angoscia. «Lui
è qui».
E
fu come se il
tempo si fosse fermato.
La
giovane
donna si sentì gelare il sangue nelle vene, mentre lentamente rialzava
il capo
e si voltava verso Lucrezia, la sua espressione che pregava di aver
capito
male. Ma quando le due donne si guardarono l’un l’altra negli occhi,
per Gemma non
ci furono più dubbi. E fu peggio di uno schiaffo in faccia.
Il
capitano
Grunwald teneva saldamente la nobildonna fiorentina ferma dov’era,
stringendo
le mani sulle sue spalle. Rialzando lo sguardo, Gemma capì subito che
la
guardia la stava studiando, perché era chiaro a lui come era chiaro a
tutti: la
contessa Riario non avrebbe mai reagito in quel modo senza un’ottima
ragione. Ma
lei era troppo occupata a non farsi prendere dal panico per curarsene.
Salvare
da
Vinci, sempre ammesso di riuscirci, significava tradire il Vaticano, e
a quel
punto niente e nessuno sarebbe stato in grado di garantirle più di un
paio di giorni
di vita. Ma mantenere il suo ruolo avrebbe condannato l’artista a morte
certa.
Ancora
una volta, la sua sopravvivenza si era ridotta ad una scelta: la sua
vita, o
quella di altri. Ma l’altra non era più la vita di uno sconosciuto o di
un
nemico. Era quella di Leonardo.
Gemma
non disse nulla, nemmeno una parola, mentre superava a passo svelto le
guardie
lì presenti ed usciva dalla sagrestia Vecchia. A malapena si rese conto
di
quale carneficina stesse avendo luogo nel mezzo del Duomo; il suo
sguardo
guizzava da una parte all’altra per trovare, in un groviglio di volti
estranei,
quello che ormai aveva imparato a conoscere.
A
malapena notò il corpo senza vita di Giuliano, accanto a una delle
panche di
legno della navata centrale, né il Magnifico a terra con una mano
premuta sul
collo, pallido in volto e con il terrore negli occhi. Quando vide
l’artista, il
suo corpo agì di vita propria, e corse nella sua direzione.
Gemma
ebbe appena il tempo di avvicinarsi di qualche passo, quando una
violenta
esplosione si frappose tra Leonardo e i congiurati, assicurandogli
qualche
istante di vantaggio. La contessa scattò fulminea ed evitò le fiamme,
mentre la
famiglia Pazzi indietreggiava e tentava di proteggersi dal fuoco.
Con
molta fatica, da Vinci trascinò sé stesso e Lorenzo verso la sagrestia
delle
Messe e si lanciò contro le porte con tutte le sue forze, spalancandole
sotto
il suo perso. Spinse il Magnifico all’interno della stanza, e si rialzò
velocemente
in piedi per tornare indietro e chiudere l’ingresso.
Fu
allora che si videro.
Il
tempo di scambiarsi uno sguardo, ma lo capirono entrambi.
Capirono
che era giunto il momento da cui avevano tentato di scappare. Capirono
che non
c’erano più vie di fuga o sotterfugi: erano l’uno contro l’altra, ma
solo una
delle loro vite poteva salvarsi. Capirono che era la fine. E non c’era
niente
che potessero fare.
Gemma
lo vide, vide quale dolore lo stesse colpendo a quella consapevolezza,
quanto
quei sentimenti tanto a lungo combattuti gli stessero straziando il
cuore. Ma
per la prima volta da quando si erano conosciuti, anche Leonardo
intravide lo
stesso dolore negli occhi della giovane donna. Lo scorse nel suo volto,
in uno
sguardo che non era il suo, ma quello di una persona imprigionata in
una
maschera di dolore, costrizioni e manipolazioni.
Quello
non era lo sguardo della Gemma che aveva conosciuto e per la quale
avrebbe dato
ogni cosa, pur di salvarla e di riportarla alla vita. Qualcosa in lei
si era
spezzato. E quando vide, un istante prima che le porte della sagrestia
si
chiudessero, i lividi e le ferite sul suo volto, fu come ricevere una
pugnalata
al cuore.
Il
tempo di scambiarsi uno sguardo, e le porte si chiusero.
Da
Vinci abbassò gli occhi sulle sue mani e si accorse che stavano
tremando
violentemente, così come il suo respiro che sembrava essersi bloccato
in gola. Tentò
di calmarsi, di concentrarsi su qualcos’altro, e corse da Lorenzo per
provare a
medicare il profondo taglio che aveva sul collo. Ma i suoi gesti erano
poco più
che movimenti vuoti ed automatici, il suo corpo stava agendo da solo;
la sua mente
invece era ben lontana da lì, devastata da quanto aveva visto.
Dall’altra
parte della porta, Gemma non si stava nemmeno sforzando per recuperare
il fiato
in gola. Non si era neppure accorta di aver smesso di respirare, fino a
quando
una voce alle sue spalle non la riportò violentemente alla realtà.
«Contessa»,
sibilò il capitano, e a lei non sarebbe servito a nulla voltarsi e
vederlo in
faccia: il suo tono era in tutto e per tutto una minaccia.
Grunwald
aveva visto l’intera scena, e come lui altri testimoni, e ogni secondo
a cui
avevano assistito era soltanto una prova in più ad avvalorare i loro
sospetti.
E se Gemma non avesse fatto qualcosa per smentirli, non sarebbe uscita
viva dal
Duomo.
«Capitano…»,
mormorò lei, e si costrinse a respirare prima di proseguire. «Abbattete
le
porte», aggiunse, la voce miracolosamente più ferma di prima.
Lo
sentì allontanarsi a passi pesanti alle sue spalle, e fece tesoro di
quel breve
momento da sola per indossare di nuovo la sua maschera. E per pregare
che, in
un modo o nell’altro, Leonardo trovasse il modo di salvarsi.
Poco
dopo alcune guardie svizzere e la famiglia Pazzi la superarono a grandi
passi,
impugnando qualsiasi oggetto che potesse essere un’arma, e iniziarono a
colpire
l’ingresso della sagrestia. Ma Gemma non era un’ingenua, le era bastato
un solo
sguardo a quel possente portone di legno per capire che non avrebbe
ceduto
tanto facilmente.
Prese
un ultimo profondo respiro, prima di rinunciare per sempre a sé stessa,
e fare
ciò che andava fatto.
Si
voltò alle sue spalle, cercando con lo sguardo il capitano Grunwald, e
l’uomo
capì immediatamente quale ordine gli fosse stato rivolto. Tornò poco
dopo con una
pesante spingarda tra le sue mani, ma Gemma nemmeno si voltò verso di
lui,
perché sapeva che facendolo quella flebile traccia di determinazione in
lei
sarebbe svanita.
«Procedete»,
mormorò la contessa, e sfogò ogni sua esitazione mordendosi
violentemente
l’interno della guancia.
Sentì
dei passi deboli e indecisi alle sue spalle, ben diversi dai pesanti
colpi
caratteristici delle sue guardie, e capì che Lucrezia le si era
avvicinata.
«Gemma…»,
la supplicò sommessamente, la voce incrinata e ormai prossima al
pianto.
Ma
la giovane non l’ascoltò. Non poteva permetterselo, perché stava già
morendo
dentro al pensiero di quello che stava per compiere.
«Contessa?»,
domandò un’ultima volta il capitano Grunwald, al suo fianco.
Lucidi
e velati di lacrime, Gemma rialzò gli occhi sull’ingresso della
sagrestia, ed
annuì.
«Fuoco»,
mormorò, con un filo di voce.
L’uomo
la superò e prese posizione di fronte al portone, mentre la corda del
colpo in
canna si stava consumando, divorata dalle fiamme. Ormai prossima allo
sparo,
Gemma serrò gli occhi, e una lacrima le rigò la guancia mentre voltava
il capo
dall’altra parte.
La
fiamma si spense e il colpo esplose, diretto alla porta della
sagrestia.
E
con essa, anche il cuore di Gemma andò in pezzi.
Angolo
dell’autrice
Sarà
un angolo molto grande…
Buonsalve
a tutt*!
Che
dire… Non ho mai pensato ad un finale roseo, volevo
una scena spacca cuore e, spero, qualche lacrima. Se ci sono riuscita,
anche
solo a metà, sono già felice.
(Vi
svelo un segreto: poteva andare peggio.
Ipoteticamente, potevano pugnalare Gemma e poteva toccare a Leonardo
cercare di
salvarle la vita. E, sempre ipoteticamente, il capitolo poteva finire
con un La contessa si salverà o non si salverà?)
Avevo
rimandato “saluti,
ringraziamenti, ed
eventuali cosine da comunicare” a questo capitolo, dunque così sia.
I
saluti sono d’obbligo in quanto ultimo capitolo, ma c’è anche da dire
che
questa era la prima stagione su tre, quindi questi possono essere
saluti
definitivi o in vista di una reunion. Tempo libero permettendo, a me
piacerebbe
molto proseguire, perché mi sono affezionata al personaggio di Gemma
molto più
di quanto pensassi e vorrei continuare a raccontare la sua storia. La
contessa
di Imola ha ancora tante cose da dire. A voi piacerebbe leggere di lei
ancora?
Insieme
a questi saluti, lascio una piccola richiesta a chi mi ha letto in
questi mesi.
Vedo le vostre visite e quei numeri mi scaldano sempre il cuore,
soprattutto
quanto aggiorno e vedo che un’ora dopo siete già passat*. Spero che in
occasione di questo finale, vogliate farmi un piccolo (ma per me
grandissimo)
regalo e lasciarmi un commento, anche di poche righe, con le vostre
opinioni
sulla storia. Non avete idea di quanto mi fareste felice. In qualsiasi
caso,
però, vi ringrazio uno per uno per questi mesi insieme e per aver
dedicato del
tempo a leggere quest’avventura.
“Eventuali
cosine da comunicare”? Dopo tante insistenze da parte di una persona di
mia
conoscenza, ho ceduto e ho aperto un profilo instagram tutto per Gemma
e per la
sua storia, e se vi va di passare lo trovate qui: https://www.instagram.com/gemma.riario/
Perché
solo ora, che è finita la storia? Perché finisce qui su EFP, ma… inizia
altrove, su Ao3. Per ora in italiano, ma chissà… Anche lì, mi trovate
come
AmyWendys (tutto attaccato): https://archiveofourown.org/users/AmyWendys
E
direi che può bastare o mi dilungherei troppo.
Che
sia un addio o un arrivederci, io vi saluto con un forte abbraccio e vi
mando
un bacione grandissimo!
Con
affetto
Amy
W. Gildeary
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