Tomo's troubles

di shanna_b
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


DEL PERCHE’ I 30STM NON HANNO FATTO LA SIGNING LINE A MILANO IL 12 FEBBRAIO 2008 (E HANNO CANNATO ‘THE MISSION’).

 

 

 

            “Io ti ammazzoooooo!! Ti ammazzoooooo!!”

“Dai, Jay… smettila!” Shannon teneva stretto il fratello come poteva, ma Jared era a dir poco furente.

“Ma Shan… ha rovinato tutto, non capisci?”

“Non è il caso di drammatizzare, Jared. Ho sbagliato e…” Tomo tentava di scusarsi ma… quelle erano le prime parole che riusciva a spiaccicare, rosso in volto e imbarazzato.

“SBAGLIATO???” Jared non aveva gridato così nemmeno sul palco e una vena bluastra, sulle quale le scrittrici di fan fiction avrebbero prodotto almeno dieci capitoli di sentita prosa, pulsava pericolosamente sul collo. “SEI UN PROFESSIONISTA, CAZZO!!”

“Ma Jared anche tu stecchi e…”

Shannon dovette stringere in modo supplementare, per evitare che il fratello prendesse il volo diretto alla giugulare del loro chitarrista e Tim, con il ciuffo di sbieco in mezzo agli occhi, si mise davanti a Tomo, per fargli da scudo.

“IO STECCO?? IO STECCO?? COME OSI????!!!” Jared era fuori di sé.

Tomo tentò di accampare una scusa: “Ma io volevo dire che capita di sbagliare, non sono l’unico, e…”

“Non si può sbagliare l’attacco di ‘The Mission’, non si può, anzi… NON SI DEVE!! Doveva essere un SOL e invece che cacchio era quell’accordo che ho sentito nelle cuffie? Ho perso metà dell’udito!! Per non dire che ho dovuto fare finta che qualcuno si stesse ammazzando nelle prime file per fermare tutto...”

“Io… Boh… Mi sono emozionato e…”

“E-M-O-Z-I-O-N-A-T-O?”

Tim cercò di intromettersi, in difesa del suo amico: “Anche a me è successo. Una  volta davanti a me, tra il pubblico, c’era una tipa con la canottiera mezza tolta e le dita mi si sono paralizzate e…”

Tim si interruppe subito quando Jared lo fissò con uno sguardo che emetteva pericolose saette azzurrognole: “Sto parlando con te, io? Tu non sbagli mai, quando suoni, e ti conviene continuare così se vuoi forse essere assunto in pianta stabile, un giorno.”

Tim sorrise, al settimo cielo, quasi commosso, spostandosi da davanti a Tomo e facendo un passettino verso Jared, gli occhi pietosi: “Davvero? Mi assumi?”

Jared incrociò le braccia: “Ho detto ‘FORSE’. E ho detto anche ‘UN GIORNO’.”

Shannon sogghignò, spuntò da dietro il fratello e mollò un po’ la presa su Jared: “Hai anche detto che suona bene, però...”

“No. Ho detto che non sbaglia mai, non che suona bene. Non sbaglia… AL CONTRARIO DI TOMO CHE ADESSO LO AMMAZZOOOO!!!”

Jared, approfittando della disattenzione del fratello, con un balzo si avventò su Tomo che cominciò a correre per il camerino mentre Tim diceva a Shannon, che, stanco marcio, si era accomodato sul divano con le gambe accavallate: “Chiamo la polizia?”

“Ma no… che si picchino… e il sangue lo recuperiamo per il blood ball di domani sera!”

Tim allora si sedette anche lui sul divano mentre Jared e Tomo ci giravano attorno rinfacciandosi errori musicali di ogni tipo e Tim e Shannon li guardavano come fosse una scenetta da recita scolastica.

“E quella volta che hai sbagliato gli accordi di ‘From Yesterday’…”

“Non è vero… tu hai steccato ‘The modern myth’…”

“Tu hai sbagliato perfino l’entrata con il violino, tre note in croce…”

“E chi si è scordato le parole di ‘Oblivion’?”

“E chi ha cannato l’arpeggio di ‘The kill’? Eh?  Chi è stato?”

Toc-toc. Un battito improvviso alla porta interruppe la lunga e non esaustiva lista di errori: “CHI CAZZO E’ CHE MI INTERROMPE MENTRE LITIGO?” disse un Jared infuriato come non mai.

Era Jon, che mise dentro solo la testa: “Signing line o tourbus?” disse, come se stesse recitando l’Amleto di Shakespeare, quella parte con ‘Essere o non essere’, per intenderci.

“Signing line.” dissero in coro Tomo e Shannon (e anche Tim, ma sottovoce, sperando in un miracolo mariano).

“Tourbus.” disse Jared, con aria compunta: “Tutti in albergo.” Poi allungò il dito contro Tomo, che era rimasto immobile vicino al divano, “Qualcuno qui deve ripassare gli accordi per il concerto di domani sera. Anche perché se qualcuna là fuori mi chiede perché abbiamo interrotto ‘The mission’, e io lo so che almeno una c’é, CHE CAZZO DICO?









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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


DEL PERCHE’ TOMO MILICEVIC NON HA DORMITO LA NOTTE TRA IL 12 E IL 13 FEBBRAIO (E S. VALENTINO NON C’ENTRA…)

 

Tomo teneva la sua Gibson nera con l’amplificatore portatile bassissimo, in modo da sentirla solo lui. Per fortuna tutte le camere dell’albergo extra-lusso in cui soggiornavano i 30 Seconds To Mars erano  anche insonorizzate, altrimenti qualche ospite dello stesso albergo avrebbe potuto lamentarsi del rock che usciva dalla sua camera, anche se a basso volume.

Il chitarrista aveva appoggiato le partiture per chitarra sul tavolo e le leggeva mentre le provava.

E gli riusciva tutto benissimo.

Gli accordi e gli arpeggi erano perfetti, i pochi assoli meravigliosi, il ritmo corretto.

E ALLORA PERCHE’ SUL PALCO SBAGLIAVA??

Tomo si diede un piccolo pugno in testa, risentito, e poi si passò le mani sui capelli lisci e scuri, buttando il plettro sul tavolo.

Ma che diavolo gli succedeva sul palco? Era un professionista, lui, come poteva sbagliare quei due semplici accordi che costituivano l’accompagnamento delle canzoni dei 30STM? In passato aveva suonato cose anche più difficili di queste, come mai adesso non gli riuscivano?

L’uomo appoggiò la Gibson sul tavolo e abbattuto si diresse verso il letto e vi si sedette pesantemente, sbuffando e guardandosi attorno.

Era distrutto e il suo bel viso era decisamente triste, i suoi occhi scuri un po’ spenti, i lineamenti tirati. Spettinato e con la barba lunga, si sentiva decisamente a pezzi.

E le parole di Jared gli avevano fatto un gran male, sentiva uno strano dolore al petto, ma non sapeva davvero cosa fare. Non voleva deluderlo, ma la soluzione non la sapeva, al momento.

Si sentiva come un pittore che avesse perso l’ispirazione e i quadri gli riuscivano soltanto come guazzabugli assurdi di colori pasticciati; come uno scrittore che, in un racconto, si trovava ad un bivio della trama e non sapeva da che parte condurre i suoi personaggi; come uno chef di alta scuola a cui i nuovi piatti uscivano senza senso, con i sapori non amalgamati e le salse insipide.

Insomma, UN DISASTRO.

Si prese la testa tra le mani, disperato.

C’erano ancora poche date e poi la tournee era finita, per fortuna, ma la tortura era rimandata soltanto di qualche mese, il tempo di ritornare in studio per la registrazione del terzo album. Anzi, sarebbe stato anche peggio dover imparare le partiture delle canzoni nuove.

Ecco: non aveva entusiasmo nemmeno per il nuovo CD. Jared aveva già scritto dei nuovi pezzi, Shannon aveva già registrato delle parti, Tim aveva già preso accordi per suonare, il produttore era pronto, le echelon erano in fervida attesa, pure la critica stava affilando le armi per stroncarli, come al solito, e lui… non si era mai fatto vedere allo studio di registrazione e l’ultima volta che doveva andarci, si era dato pure malato.

Non è che non volesse più stare con i 30 Seconds to Mars, no, non era quello, anzi, adorava far parte di questo gruppo, andar per concerti, festival, interviste televisive, etc. con quei due pazzi dei Leto, il suo amicone Tim, e tutto l’entourage, ma… Boh… non sapeva cosa gli stesse succedendo.

Forse era solo stanco. Aveva bisogno di riposare, di stare lontano dai 30 Seconds to Mars per un po’, andare in vacanza e occuparsi degli affari suoi.

E un pensiero lo colpì subito.

La sua vita privata.

Praticamente inesistente, da quando era con i 30 Seconds.

E la sua ragazza.

Che l’aveva lasciato tre mesi prima con il solito ultimatum che di solito danno le donne dei musicisti in giro per il mondo ai musicisti stessi: “O me o i 30 Seconds.”

Un colpo al cuore, una delusione fortissima, per lui, che in fondo non era uno stronzo né un donnaiolo, ma proprio un bravo ragazzo. Per i due anni che erano stati insieme, ad ogni pausa di tournee e registrazioni, Tomo era corso da lei, in qualsiasi posto del mondo si trovasse, e ora era da solo, con nessuno da cui tornare.

Che fosse quello il motivo per cui era così giù di corda?

Mah… cosa c’entrava la sua vita sentimentale con la sua incapacità sul palco? Un cavolo di niente. Jared e Shannon avevano un andirivieni di fidanzate che non impediva loro di suonare bene.

E allora?

Basta.

Era stufo di pensare.

Erano le tre di notte, era stato a cena con Tim e ora era proprio stanco, aveva bisogno di andare a dormire.

Tomo si alzò dal letto sospirando e passandosi le mani tra i capelli, si tolse la maglia, la gettò sul letto e poi si diresse verso il bagno: una doccia e poi fine della serata, si disse.

‘Ffanculo al mondo intero.

Ai suoi problemi ci avrebbe pensato il giorno dopo, sperando in una ispirazione notturna per risolverli… cosa che non avvenne, visto che si limitò a rigirarsi nel letto tutta notte.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


DEL PERCHE’ I FRATELLI LETO NON HANNO DORMITO LA NOTTE TRA IL 12 E IL 13 FEBBRAIO (E S. VALENTINO NON C’ENTRA MANCO QUI…)

 

Jared si sedette pesantemente sul divanetto della sua camera, rivolgendosi a suo fratello, in piedi a braccia conserte davanti a lui: “Dobbiamo mandarlo a scuola, Shan.”

Shannon soffocò una risatina: “A scuola? Non è un po’ grandicello?”

“Hai capito benissimo cosa voglio dire. Appena torniamo negli Stati Uniti troviamo qualcuno che faccia ripetizioni di chitarra a Tomo.”

Shannon sogghignò: “Eh sì, come no. Chi?”

“Non so. Conosci qualcuno?”

“Non credo.”

Jared si alzò e cominciò a passeggiare per la stanza, pensieroso: “Però ci vuole un chitarrista con le palle, uno famoso, bravo, un metallaro, per esempio.”

Metallaro? Shannon guardò suo fratello ad occhi spalancati. E che diavolo doveva farci, lui? “Posso fare una lista, se vuoi. La prendo da Wikipedia.”

Jared annuì, convinto: “Sì, sì, buona idea. Mettici tutti quelli che ti vengono fuori e poi decidiamo.”

“Va bene, te la preparo per domani. Buonanotte.” Shannon si avviò alla porta, contento di essere finalmente libero: aveva giusto sottomano una lista di locali notturni milanesi da visitare, un tiro a due di zoccole e...

“No. Per adesso. Decidiamo stanotte.”

“Stanotte?” Gli occhi di Shannon raggiunsero delle dimensioni notevoli, mentre si spalancavano in faccia al fratello.

“Sì, stanotte.”

“Avrei da fare, Jay…”

La rabbia a Jared non era ancora passata, gli mancava solo di litigare con il fratello: “NON ME NE FREGA NIENTE, SHAN. Ne va del buon nome dei 30 Seconds To Mars. Un critico in sala stasera all’Alcatraz e vai con un altro articolo di merda… Dobbiamo risolvere tutto il prima possibile.”

“Cazzo.”

“Ecco. Quello per stanotte lo lasci a riposo! Fammi la lista. Muoviti.”

Shannon uscì sbuffando e sbattendo la porta e, dopo dieci minuti, di malavoglia, tornò con una lista stampata con la stampante portatile di Emma (la santa donna previdente e pronta a tutto…) e si mise a leggere compìto i nomi davanti a Jared, seduto sul letto in attesa:

“Allora: Kirk Hammett – Metallica?”

Jared strabuzzò gli occhi: “Cosa? Se lo mangia vivo, Tomo, con contorno di patatine. Direi di no.”

“Claudio Sanchez o Travis Stever – Coheed and Cambria.”

“Sono in tournee fino a fine anno. Troppo tempo.”

“Joey Eppard dei Three?”

“Sta a New York. Tomo voglio che resti a Los Angeles, voglio tenerlo sott’occhio, sennò quello va a fare il turista.”

“Mark Knopfler – ex Dire Straits ?”

“Senti: qualcuno di un po’ più giovane, no? E poi è inglese, lascia perdere.”

“Tremonti, quello degli Alter Bridge?”

“Ma non faceva il ministro delle finanze di un qualche governo di un paese sottosviluppato?”

Shannon fece una smorfia di disapprovazione: “Lascia perdere. Jimmy Page – Led Zeppelin.”

“Ma è ancora vivo?”

“Keith Richards – Rolling Stones.”

“Idem come sopra. Adesso non mi tirare fuori i Beatles o mi incazzo.”

“No. George Harrison è morto. Eric Clapton?”

“Se Tomo suonasse metà di quello che suona ‘slow hand’ non saremmo qui. Passa avanti… costerebbe troppo.”

“Solon Bixler – Great Northern … ooops…”

“Se c’è anche lui, allora Wikipedia non è una cosa seria. Avanti.”

“No. Wikipedia non sbaglia mai. Tom DeLonge – Angels and Airwaves? Orca…”

“Non è il caso che me lo nomini…”

“Robert Smith – Cure... aaah simpatico, questo.”

“Non mi nominare nemmeno questo…”

“Jeff Beck?”

“Troppo jazz…”

“Jared Leto – 30 Seco… O cielo!!”

Jared balzò dal letto tutto contento: “CI SONO ANCH’IO??????”

Shannon tossicchiò: “Par di sì… ma può essere che in Wikipedia ci siano errori. Passiamo avanti: Matthew Bellamy – Muse.”

“Ma se è più statico di Tomo… sembra di cera, quello… chissà chi è la sua estetista… devo chiederglielo…”

“Alex Britti?”

“E chi cazzo è?”

“E che ne so. E’ nella lista. The Edge – U2?”

“Ma ti rendi conto quanti soldi potrebbe volere questo? Quattro mutui dobbiamo fare, Shan!!”

“Allora no. Ace Frehley – Kiss.”

“Lo chiamano ‘Ace’ perché è bravo con le donne, mica a suonare… Avanti…”

“John Frusciante – Red Hot Chili Peppers.”

“Da quando ha fatto quel video in cui l’hanno fatto cadere dalla macchina non è più lui… lasciamo perdere…”

“Noel Gallagher – Oasis?”

“Come no? Gli spezza le braccine a Tomo, questo. Dopo averle spezzate a me e a te.”

“Soprassediamo. Kelly Jones – Stereophonics?”

“ODIO I GALLESI!! AVANTIIIIIIIII!!!!!”

“Daron Malakian – System Of A Down?”

“Mmmmmmhhhhh… questo potrebbe andare… e poi è amico del mio amico Serj.”

“No, Jay…”

“Perché?”

“Ha l’alito pesante…”

“E tu come lo sai?”

“Me lo ha detto una con cui sono uscito l’altra sera, la sua dentista.”

“Beh, con Tomo mica deve baciarsi… deve insegnargli.”

“Tomo potrebbe traumatizzarsi, è troppo sensibile, credimi…”

“Dici?”

“Sì. E’ traumatizzata anche la dentista, ho dovuto applicare tutte le mie più efficaci tecniche psicologiche per farla riprendere e…”

“Sì, sì, non le voglio sapere, le tue efficaci tecniche psicologiche. Va bene, va bene, niente, allora. Avanti il prossimo…”

“Billie Joe Armstrong – Green Day.”

“No. Il punk lasciamolo fuori, per favore.”

Yngwie J. Malmsteen?”

“Mmmmmmhhhhh… no no, troppo vichingo…”

“Brain May – Queen?”

“Ma non è in pensione?”

“John Norun – Europe.”

“Ho detto vichinghi noooo!!”

“Mike Oldfield?”

“Troppo smielato.”

“Richie Sambora – Bon Jovi?”

“Sound vecchio!”

“Carlos Santana?”

“Sound TROOOOPPO vecchio!!”

“Eddie Van Halen.”

“Noooo… TROOOOPPO avanti!!”

“Omar Rodriguez Lopez – The Mars Volta?”

“Noooo… TROOOOPPISSIMO avanti!! E poi questi ci hanno mezzo copiato il nome. Poi chiamo l’avvocato e facciamo loro causa.”

“Angus Young – AC/DC?”

“E se poi Tomo mi si presenta in pantaloni corti al concerto? Mi tocca ammazzarlo… Avanti…”

“Frank Zappa?”

“Sicuro che non sia morto?”

“Boh. Slash – Velvet Revolver.”

“No.”

“Perché?”

“Perché no. Mi sta antipatico. E non gli si vede manco la faccia a quello…”

Shannon sbuffò, toccandosi la barba sfatta: “Senti Jay, sono le cinque del mattino e ce ne sono almeno altri duecento nella lista e tutti stra-famosi e tu non vuoi nessuno, a quanto pare. Come vuoi che ne usciamo?”

Jared si grattò la testa, perplesso: “Non lo so…”

“Beh… potresti insegnargli tu, no?”

“IO?? Non vorrai che perda il mio tempo in quel modo, no? Con tutto quello che ho da fare. Non esiste.” Jared si alzò e si mise a camminare per la stanza, nuovamente incazzato: ma vedi che adesso LUI doveva perdere tutto il SUO tempo prezioso con Tomo? Ma no, davvero.

Shannon lo seguiva con la lista in mano, sventolandola come una bandiera: “Eddai, tanto sono due accordi, non è che facciamo il progressive rock, via… Abbiamo partiture di una pagina, mica come i Coheed and Cambria che hanno canzoni con settanta pagine di accordi su sei chitarre diverse, cazzo…”

“Ma hanno sei chitarristi?”, disse Jared, perplesso da tutta quella varietà strumentale.

“Ma noooo… che dici?” Shannon era esausto, non ne poteva più. “Senti, io ne ho le palle piene. Sono stanco, esaurito, e adesso vado a dormire. Tu pensaci, intanto. Buonanotte.”

Jared si arrese, sospirando, e si appoggiò alla parete vicino alla porta. Non poteva pretendere di più da suo fratello e, in fondo in fondo, era stanco anche lui: “OK. ‘Notte, Shan.”

“’Notte.” Shannon mollò la lista sul tavolino ed uscì di corsa prima che Jay cambiasse idea: tutti i suoi propositi di folleggiare per Milano con un paio di spogliarelliste erano andati in fumo e aveva perso un sacco di tempo per niente con suo fratello. Arrivò in camera sua, deciso a farsi una doccia rinfrancante e ad assaltare il frigo bar, ma gli venne uno scrupolo di coscienza: dopo tutto i 30 Seconds to Mars erano una creatura anche sua e non poteva lasciare perdere così, sottovalutando il problema degli errori di Tomo. Non poteva non aiutare suo fratello a trovare una soluzione.

Forse qualcosa poteva fare. O almeno poteva provare. Prese il telefonino e passò in rassegna i numeri della rubrica. Consultò l’orologio: in California era giorno, poteva chiamare tranquillamente.

“Ciao, Zummo”

“Ehi, Shan, come butta?”

“Male. Tomo che sbaglia gli accordi e Jay in panico.”

Frank Zummo, uno dei batteristi degli Street Drum Corps, amici di Shannon, si mise a ridere a cuore aperto, dall’altra parte del mondo: “Spiacente, sono un batterista.”

“Pure io. ‘Scolta non conosci un chitarrista metal o giù di lì, per insegnare qualcosa al bel TOMO di TOMO, prima che Jared lo aTOMOzzi?”

“Ahahahahhah. Boh, può essere. Chiedo in giro.”

“Sì, dai, fai un favore…”

“Per quando ti serve?”

“Lunedì prossimo.”

“Urka. Prestino, mi pare.”

“Insomma il prima possibile, dai... Anche martedì va bene.”

“Faccio il possibile. Ma…”

“Cosa?”

“Metallo pesante?”

“Qualcuno che sappia suonare, via… e che costi poco. E che scuota un po’ Tomo… pare sempre morto, sul palco, e la volta che salta si rompe il piede…”

Zummo si mise a ridere di nuovo, anche se Shannon non credeva di dire cose tanto divertenti visto che, a quell’ora, il suo senso dell’umorismo era addormentato da un pezzo: “OK. Ti faccio sapere.”

“Grazie. Ciao.”

“Ciao.”

Shannon spense il telefonino, lo buttò sul tavolo e si avviò verso il frigobar. Che palle, però… ce n’era sempre una, accidenti… E perché doveva risolvere sempre tutto lui? Prima o poi lo avrebbero fatto santo, addirittura martire. Santo Shannon da Bossier City, Martire dei 30 Seconds To Mars. Sì, suonava pure bene. Facendoci una risatina sopra, Shannon bevve d’un fiato una bottiglietta di liquore e si avviò in bagno.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


DEL PERCHE’ TOMO SI PENTE DI FAR PARTE DEI 30 SECONDS TO MARS E PREFERIREBBE DI GRAN LUNGA FAR PARTE DI UN CORO DI FRATI FRANCESCANI.

 

Tomo suonò il campanello della casa, perplesso, sistemandosi la felpa e guardandosi intorno: una casetta a schiera a due piani come ce n’erano una fila, lungo quella via alberata della periferia, tutte uguali, di legno, con un giardinetto davanti. L’indirizzo che gli aveva dato Shannon non era sbagliato, sicuramente. E anche se Tomo non era pratico di Los Angeles, era certo di essere nel posto giusto, almeno dal punto di vista geografico, visto che da quello professionale ancora non aveva capito con chi avrebbe avuto a che fare e in che mani lo avessero buttato i Leto.

Un chitarrista molto bravo, gli aveva detto Shannon, dal nome d’arte di FirstLeaf, appartenente ad un gruppo di alternative rock chiamato FourLeafClover, Quadrifoglio.  Mah… Tomo non li aveva mai sentiti in vita sua, questi qui. Chissà chi erano e chissà com’era questo chitarrista genialoide e poi… come l’aveva trovato quel diavolo di Shan? Vallo a sapere.

Pensò che la sua curiosità avrebbe dovuto aspettare ancora, quando una ragazza venne ad aprire e lo guardò subito male. Tomo la studiò per un lungo momento, nello stesso modo in cui la ragazza faceva con lui: aveva circa venticinque anni, non era molto alta ed indossava pantaloni neri con tutte fibbie e cerniere e una maglietta nera attillata, sempre nera, con scritto “TheMarsVolta” in giallo. Masticava il chewing gum, era pesantemente truccata di nero sugli occhi e aveva un bel rossetto color rosso sangue. Occhi neri e capelli castani mechati lunghi, riccioluti e spettinati completavano il tutto. Una metallara con tutti i crismi, insomma, una di quelle capaci di tirare reggiseno e mutandine sul palco, pensò Tomo, magari proprio in faccia ad un poveretto che sta facendo l’assolo di chitarra della sua vita.

Si fece coraggio:  “Ciao. Ehm… abita qui...”

“Non voglio niente.”

“OK, ma abita qui…”

La ragazza era proprio aggressiva: “Ho detto che non compro niente. Vattene.”

Tomo la guardò male, per quanto potesse farlo un tipo amabile come lui: “E io non vendo niente: sto cercando un chitarrista di nome FirstLeaf.”

La ragazza sorrise lievemente: “Ahhh, potevi dirlo subito. L’hai trovato.”

“Bene. E’ tuo fratello?”

“No. Sono figlia unica.”

“Cugino?”

La ragazza scosse la testa: “No.”

“Cognato? Zio? Secondo cugino? Nipote?” Poi che altro? A Tomo non venivano in mente altre parentele possibili.

La ragazza riprese a guardarlo male: “No. SONO IO.”

Tomo strabuzzò gli occhi e per un momento pensò che gli rotolassero via: “CHE COSA?”

“FirstLeaf sono io.”

L’uomo avrebbe voluto sprofondare, lì, direttamente sul gradino di marmo della scala.

Quella ragazza era la sua insegnante di chitarra?

No.

No, davvero.

Doveva esserci uno sbaglio. Non poteva essere. Shannon doveva essere impazzito e lui ancora di più ad essere lì.

O forse non si erano capiti: “Sicura?”

La ragazza incrociò le braccia al petto in segno di sfida e gli sibilò: “Senti, coccobello. Io devo essere tra due ore in sala prove. Se sei un certo Tomo Miliqualcosa, mandato qui da Frank Zummo, entri e mi dici qual è il tuo problema. Se non lo sei, addio.”

“Ma…”

“Allora? Sei Tomo Milichecavolo o no?”

“Milicevic.”

“Beh, quel che è…”

Tomo annuì. Che altro poteva fare? “Sì.”

“Bene. E la chitarra dove ce l’hai, caro?”

Il chitarrista indicò l’auto parcheggiata davanti alla casa: “In auto.”

“Allora prendila; sennò con che diavolo suoni?”

“Ma…”

“E muoviti… ti ho detto che non ho tempo!”

Tomo annuì amaramente. Ma avrebbe dovuto farsi tiranneggiare da quella lì? E per quanto tempo? La tentazione era di andare verso l’auto, salirci e sparire. Ma poi cosa avrebbe detto ai Leto? ‘Scusate non sono andato perché mi faceva paura quella tizia…’?

Non si poteva.

I Leto avevano sempre riposto fiducia in lui e ora non poteva deluderli.

Aveva dei problemi? Beh, doveva risolverli.

Altrimenti doveva farsi da parte e mollare i 30 Seconds to Mars, lasciando spazio per un altro chitarrista, migliore di lui.

FirstLeaf era ancora lì che lo fissava, in attesa, e, con le braccia conserte, batteva un piede per terra .

“OK.” Tomo si girò, sospirando, andò verso la macchina, recuperò la chitarra, l’amplificatore portatile e le partiture e si avviò, un po’ abbattuto, verso la porta che la ragazza, rientrando in casa, aveva lasciato aperta.

Sarebbe stato un pomeriggio molto duro, pensò Tomo, entrando a sua volta e chiudendosi la porta alle spalle, pentendosi nel profondo del suo cuore di non avere fatto il frate francescano, visto anche che la pettinatura che gli aveva fatto la nuova truccatrice era perfettamente adatta allo scopo.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


DEL PERCHE’ FIRSTLEAF SI PENTE DI AVER ACCETTATO DI FARE UN FAVORE A FRANK ZUMMO (ANCHE SE PROFUMATAMENTE PAGATA) E VORREBBE SCAPPARE CON IL PRIMO MOTOCICLISTA DI PASSAGGIO.

 

 

FirstLeaf prese in mano i fogli degli spartiti che le aveva dato Tomo e li studiò un attimo: “E queste sarebbero le partiture…” Lo disse come se la sua tentazione fosse quella di accartocciarle e farne una palla di carta da tirare nel cestino.

“S-sì.” Tomo si era seduto sul divano del salotto e la osservava da sotto, con la sua Gibson nera sulle ginocchia, un po’ intimidito da tutta quella aggressività. Nemmeno un manipolo di echelon armate di macchine fotografiche, pacchetti regalo e bandiere gli faceva così paura come quella lì, che ora lo fissava come se avesse voluto dargli fuoco.

“E il problema dov’è?” FirstLeaf si grattò una guancia, dubbiosa, mentre si legava i capelli dietro con un elastico e teneva il foglio in bocca.

“In che senso?”

La ragazza puntò il dito sulle note scritte sul foglio: “Beh… Non mi dirai che non sai fare questi due accordi, SPERO…”

Tomo scosse la testa: “N-no…”

“E allora?” FirstLeaf si mise la sua chitarra elettrica a tracolla, con un po’ di nervosismo, e fece l’arpeggio iniziale di “A Beautiful Lie”, dopo averlo guardato soltanto una volta. Poi puntò un indice contro Tomo: “Fallo tu, ora.”

Tomo si alzò, attaccò la chitarra all’amplificatore e lo fece anche lui.

Perfettamente.

Come perfettamente fece tutto il resto della canzone, che FirstLeaf non conosceva ma che leggeva dalla partitura.

La ragazza aggrottò le sopracciglia, dubbiosa, con la voglia di prendere a calci qualcosa. Zummo non le aveva spiegato bene il problema di Tomo ed era rimasto sul vago anche su quale fosse il gruppo da cui proveniva, dicendo solo che era piuttosto famoso: “Scusa, ma non capisco dove sia il problema. Sono accordi facili e non hai difficoltà. Perché sei qui, allora?”

Tomo si schiarì la gola e timidamente disse: “Ehm… E’ sul palco che li sbaglio.”

FirstLeaf gli si piantò davanti, mentre Tomo si risiedeva sul divano, anche se si sentì come se si posasse su un formicaio in attività, specialmente quando la ragazza cominciò a fissarlo come se lo stesse radiografando. “E perché?”

“Boh. Non so.”

“Come ‘non sai’?”

“Non so… mi si incollano le dita e… sbaglio…”

Ma certo, perfetto, come no. Effetto ‘Coccoina’: “Non mi stai aiutando ad aiutarti perché non ho idea di cosa devo dirti.” FirstLeaf si grattò la testa: “Per caso… ti droghi?”

Tomo scosse la testa: “No.”

La ragazza si mise a camminare avanti e indietro sul tappeto davanti a Tomo, tenendo la chitarra elettrica dietro, mentre interrogava l’individuo tutt’altro che sospetto seduto sul suo divano e spuntava la sua lista personale di possibilità: “Sei un emotivo?”

“No.”

“Hai litigato con il leader o gli altri membri del tuo gruppo?”

“Beh un po’ ma… in fondo no, direi di no.”

“Pressione bassa? Problemi di salute?”

“No.”

“Vestiti inadeguati, troppo larghi o stretti e che impediscono i movimenti?”

“No.”

“Sei depresso? Problemi psicologici? Psicopatie?”

“No.”

“Trucco troppo pesante, capelli sugli occhi, unghie troppo lunghe o cose del genere?”

“No.”

“Canti, anche, mentre suoni?”

“No-no, per carità, sono stonato…”

FirstLeaf si fermò con le mani sui fianchi davanti a Tomo: “E allora?”

Tomo allargò le braccia: “Eccheneso…”

La ragazza appoggiò la chitarra e ricominciò a camminare avanti e indietro per il salotto.

Era un bel casino.

Il bellimbusto, detto anche Tomo, faceva confusione con gli accordi durante il concerto e non sapeva nemmeno lui perché… e allora doveva saperlo lei? Sembrava il chitarrista più innocuo al mondo con le partiture più semplici esistenti sulla faccia della terra e non riusciva suonarle dal vivo? Boh. Che diavolo doveva fare, lei? D’istinto lo avrebbe preso per la collottola e buttato fuori della porta con un calcio ben assestato nel deretano, ma aveva promesso a Zummo di fare il possibile, visto anche che veniva pagata. E poi stranamente quel ragazzo le faceva un po’ pena.

Si fermò e lo fissò un attimo: Tomo, tranquillo, seduto con le mani incrociate sulla chitarra, si guardava intorno e non si poteva dire che fosse un brutto ragazzo, anzi, ma… più che un rockettaro sembrava uno studente del liceo, un bravo ragazzo studioso. Non aveva quell’astio e quella rabbia negli occhi che caratterizzavano i rockettari veri. Con quella pettinatura poi… gli mancavano il saio e il rosario e poi altro che rock… convento di frati domenicani o giù di lì… Vabbé… essendo famoso avrà avuto fior fior di stilisti che si occupavano di lui. E poi lei doveva occuparsi solo della sua capacità musicale, non del suo look.

Bene. Cosa doveva fare? Guardò l’orologio. Ormai l’ora di lezione era quasi passata e poteva anche mandarlo via…

Sospirò e gli si avvicinò: “OK. Allora… non so ancora perché sul palco non funzioni, ma direi di fare come faccio di solito quando insegno ad altri non famosi e/o alle prime armi… un po’ di esercizi vari…” FirstLeaf si avviò verso la libreria e ne estrasse un raccoglitore che appoggiò sul tavolino in mezzo al salotto e si mise a sfogliare: “Uhm… partiamo da questa…” Estrasse dei fogli: “Questa è la partitura della canzone ‘One’ dei Metallica, conosci?”

“No.”

FirstLeaf lo guardò perplessa: “Ma certo che la conosci… magari non te la ricordi… Tutti i chitarristi rock la conoscono, non si può non conoscerla… e tutti la sanno suonare… certo non come Hetfield ed Hammett, ovviamente…”

Tomo fece alla ragazza, che si era seduta sul divano vicino a lui con i fogli in mano, un sorriso che FirstLeaf trovò molto dolce e disse, arrossendo: “Io… non so… No, non credo…”

La chitarrista lo guardò ad occhi spalancati: “Ma non sei un chitarrista rock, tu?”

“Beh, sì…”

FirstLeaf pensò che non era il caso di distruggere anche le poche sicurezze che avesse Tomo e gli disse, sorridendo a sua volta: “Allora vedrai che la sai fare anche tu, senza problemi…” e gli spalancò il foglio davanti, spiegandogli che le chitarre che suonavano erano due e che lui doveva imparare le parti di entrambe. “Oggi è martedì… uhm… torna giovedì pomeriggio e vediamo come va. La proviamo suonando assieme, facendo le due parti a turno, ok? Prima solista tu e io accompagno e poi viceversa, va bene?”

Tomo le piantò gli occhi addosso: “Sei sicura?”

“Sì.”

“Non è poco tempo?”

“Ma no, impegnati e vedrai che ce la fai.” FirstLeaf si alzò dal divano e mise via il faldone, mentre Tomo si diceva che, dopo tutto e nonostante il suo atteggiamento un po’ prepotente, quella ragazza aveva una gran fiducia in lui, molto di più di quella che avesse lui in sé stesso. Non era andata poi così male, aveva temuto di peggio, viste le premesse, ed invece FirstLeaf era andata subito al sodo per tentare di aiutarlo. Gli piaceva, sì, gli piaceva, quella strana ragazza che ora lo stava nuovamente fissando.

“OK.” Tomo si alzò e cominciò a raggruppare le sue cose per andarsene. “Torno giovedì, allora…”

“Certo.” FirstLeaf accompagnò Tomo verso la porta e gliela aprì, sollevata: dopotutto quel ragazzo non sembrava uno stronzo, un imbecille, anzi. Magari non sarebbe stata così dura insegnargli, forse il suo problema era di essere soltanto un po’ stanco, esaurito, magari non era un incapace e ancor meno un imbranato maldestro.

Ma su quest’ultima cosa cambiò idea e si pentì di avere accettato subito dopo, quando Tomo, dopo averla salutata, scendendo le scale incespicò sui pochi gradini e, con un perfetto volo d’angelo e per fortuna senza farsi niente, planò in giardino sopra la Gibson, in mezzo al suo cespuglio preferito di roselline fucsia.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


DEL COME FIRSTLEAF CAPISCE CHE I VERI TALENTI DI TOMO, NONCHE’ IL CORAGGIO, RISIEDONO IN ALTRI LUOGHI, PER ESEMPIO IN CUCINA.

 

Erano passate quattro settimane e FirstLeaf era sempre più perplessa: c’erano momenti in cui non si capacitava delle buone abilità musicali del suo allievo Tomo Miliqualcosa (con quel diavolo di un cognome che non si ricordava mai…) e altri in cui avrebbe voluto scavare una fossa in giardino, al posto del cespuglio di rose fucsia la cui crescita era rimasta compromessa dalla caduta di Tomo, e seppellircelo con la sua Gibson sopra, come i cavalieri templari che venivano tumulati con lo scudo.

Purtroppo non aveva ancora capito il problema di Tomo, il quale, bel bello, arrivava puntualissimo ogni volta (come il bonifico che la ragazza riceveva in banca ogni settimana da un certo Shannon Leto, chissà chi cazzo era, questo…), con la lezioncina studiata, la sua espressione pulita e quell’aria da bravo ragazzo che a FirstLeaf dava parecchio sui nervi. Un uomo che non si scomponeva mai, che non perdeva mai la pazienza e che alle provocazioni rispondeva con un timido sorriso, il contrario del suo carattere, cioé. E che stava simpatico perfino alla sua coinquilina Jane, medico dell’ospedale, che andava e veniva e in casa ci stava poco ma che di Tomo sembrava sapere tutto.

E Tomo? Lui era contento. Lo diceva a tutti, Leto compresi, ma a nessuno aveva detto che FirstLeaf era una ragazza perché sapeva che se i suoi colleghi lo avessero saputo, lui sarebbe diventato lo zimbello dei 30 Seconds to Mars. Tim lo avrebbe preso in giro ogni secondo e Jared avrebbe cominciato a fare battutine del cazzo ad ogni occasione. E Shannon avrebbe voluto mettersi sicuramente in mezzo e Tomo non voleva: il suo rapporto con FirstLeaf, anche se solo musicale, era una cosa tra lui e lei, e il resto della gente non c’entrava. Stava imparando un sacco di cose da quella ragazza e si era accorto che aveva mancato una caterva  di grandi canzoni rock. Canzoni che era una gioia suonare e che rappresentavano esempi di musica con la M maiuscola. Ma dove diavolo era vissuto fino ad ora?

Se lo stava chiedendo anche ora, mentre provavano ‘Alexander The Great’ degli Iron Maiden e guardava FirstLeaf, in minigonna di blue jeans e maglietta nera con scritto ‘Metallica’, in piedi davanti a lui con la chitarra al collo che lo accompagnava. E la ragazza lo osservava minuziosamente, speranzosa, Tomo ne era certo, di trovare la pecca del giorno da risolvere.

Cosa che avvenne quando all’improvviso la chitarrista smise di suonare e gli disse: “Che diavolo fai, CARO?”

Tomo si bloccò subito e si disse che quel ‘caro’ non preannunciava nulla di buono: “C-che cosa?”

FirstLeaf gli si avvicinò subito: “Perché guardi la cazzo di chitarra mentre suoni?”

“Non è vero...”

“SI’. Ti ho visto.” FirstLeaf gli puntò il dito al viso.

“Ma, no…”

“Sì, l’hai fatto… NON TI DEVI GUARDARE LE MANI, te l’ho detto l’altra volta…”

Tomo abbassò gli occhi: “Scusa…”

FirstLeaf non lo sopportava quando faceva l’arrendevole così: “Macchè scusa e scusa. Non devi chiedere scusa… Devi stare dritto e non devi guardare le corde. La chitarra è la tua estensione, non hai bisogno di guardarla. E’ come se ti guardassi i piedi quando cammini… Io non ho mai visto Santana che guarda le corde. Quando suoni non devi pensare nemmeno a quello che suoni: è la musica dentro di te che fa tutto. Le dita si muovono da sole, è la musica a muoverle, NON SEI TU… e quindi non devi guardare!”

“Scusa.”

La ragazza cominciava a perdere la pazienza: “BASTA CON QUESTO ‘SCUSA’, TI HO DETTO…”  FirstLeaf mise giù la chitarra e si piantò davanti a Tomo: “Ora facciamo come faceva mio zio con me quando mi guardavo le mani.” La ragazza si avviò verso l’attaccapanni e prese un suo foulard, poi lo arrotolò e si avvicinò con le braccia alzate ad un Tomo leggermente in apprensione. “Abbassati.”

“Uhm… perché?”

“Perché ti bendo…”

Tomo spalancò gli occhi: “Cosa?”

FirstLeaf lo spinse verso il divano mettendogli una mano sul petto: “Siediti sul divano.”

“Ma…”

“Niente ‘ma’. L’insegnante sono IO e facciamo come dico IO e basta…”

Tomo scosse la testa, un mezzo sorriso preoccupato, pensando che c’era sicuramente un bel gruppetto di echelon che avrebbe fatto lo stesso con lui, ma non per ragioni musicali. Che FirstLeaf fosse in combutta con le sue fans e le avrebbe subito chiamate dopo averlo bendato? Magari no, ma era meglio non rischiare: “No.”

FirstLeaf si mise a ridere: “Non è un gioco erotico, se è quello che pensi, è solo un esercizio… e non ti butto sul divano e ti violento, se è quello che temi…”

Tomo arrossì fino alla radice dei capelli e, mentendo spudoratamente, le rispose: “N-non avevo pensato a niente del genere…”

“Come no? Certo che l’hai pensato, per quello sei diventato tutto rosso… Dì la verità, sei il sex symbol del gruppo? Frotte di donne alle costole, plotoni di ammiratrici scatenate, pattuglie di ragazze alla ricerca di un tuo sorriso, di un’occhiata in tralice da quei tuoi begli occhi?”

Eccome no, e i Leto, allora? Tomo tossicchiò: “Ehm… Insomma, non proprio. Ho altri colleghi più sex symbol di me…”

FirstLeaf sgranò gli occhi: se Tomo non era il figaccio del gruppo, come diavolo erano gli altri? “Accidenti… un giorno me li presenti, allora, perché mi piacciono i bei ragazzi. Ora basta, fatti bendare, che è quasi scaduta l’ora…”

Tomo si sedette sospirando e FirstLeaf gli legò il foulard sugli occhi, ridacchiando dell’imbarazzo del chitarrista: “Dimmi se è troppo stretto…”

Tomo risospirò, pensando che quella che gli stava capitando era una cosa che non avrebbe dovuto raccontare a nessuno, nemmeno sotto tortura: “No, va bene.”

FirstLeaf si allontanò di un passo: “E ora proviamo così. Io dico una canzone che conosci e tu suoni. Come viene viene, tanto per fare pratica… OK?”

“Ma…”

“The Crowing dei Coheed and Cambria. Dai, suona…”

Tomo, ormai rassegnato e certo che anche quello potesse servire per risolvere il suo problema, si alzò, si sistemò la chitarra, mise le dita sui capotasti e iniziò a suonare. Correttamente.

Dopo poche note, FirstLeaf lo interruppe: “Bene. Ora l’assolo di Sultans of Swing dei Dire Straits…”

E Tomo lo eseguì giusto, ma FirstLeaf lo interruppe nuovamente. “Perfetto. E ora American Idiot dei Green Day.”

Ma il ragazzo fu salvato dal trillo del cellulare di FirstLeaf che corse a rispondere, mentre Tomo si abbassava immediatamente il foulard.

“Pronto? Ooohh! Ciao, nonna. Tutto bene? Come? Scordata? No-no, nooooo, ma scherzi? Sì. Certo, Come no? Pronta. Ok. Arrivo alle otto. Ciao, nonna.”

FirstLeaf chiuse il cellulare e si mise una mano sulla fronte. Poi si sedette, abbattuta, sul divano vicino a Tomo dicendo un sentito: “O nooooo.”

Tomo si tolse il foulard del tutto, contento che lo squillo del telefono fosse una sorta di campanella di fine orario: “Che c’è?”

La chitarrista scosse la testa: “Niente.”

“Problemi?”

“No, no…”

“Sicura?”

“No. O sì… non so…”

Tomo si alzò e cominciò a mettere via la sua chitarra, guardando la ragazza di sottecchi: “Dalla tua faccia non sembra. Sta male tua nonna?”

“No, al contrario. Oggi compie gli anni.”

“E allora?”

FirstLeaf soffiò: “Ehm… allora stasera dovevo andare alla casa di riposo a festeggiare con lei portando una torta. E…”

“E?”

“E me ne sono completamente scordata. Sia di lei che della torta… Posso sempre andare, ma ora dove la recupero una torta?”

Tomo fece spallucce e si risedette sul divano: “Beh i negozi sono aperti a quest’ora, no?”

“Ma alla nonna piacciono quelle fatte in casa…”

“E allora falla tu…”

La ragazza si grattò la testa: “Ehm… non ne sono capace.”

“No?”

“No. Mai fatto una torta in vita mia. Di solito me la fa Jane, per la nonna, ma oggi è di turno.”

Tomo sfoderò uno dei suoi sorrisi più convinti e, mentre FirstLeaf soltanto in quel momento si accorgeva che il ragazzo aveva due adorabili denti leggermente accavallati proprio davanti, dichiarò: “Beh, se vuoi te la faccio io.”

“COSA?”

Tomo si puntò un dito al petto, sicuro: “Ho un diploma in pasticceria e decorazione torte.”

FirstLeaf si tratteneva a malapena dal ridergli in faccia: “Eh sì, come no? E io ne ho uno in riparazione motori dello Shuttle. Stai scherzando, vero?”

“No.”

E la serietà con cui lo disse la fece immediatamente scoppiare a ridere come una matta: “E’ la cosa più ridicola che abbia sentito in vita mia. Tu che prepari le torte?”

“E allora?”

“Passi dal plettro al frullino così, su due piedi?”

“Se non ci credi fammi provare. Vado a vedere dentro il frigo cos’hai…” Tomo si alzò dal divano e si avviò verso la cucina, seguito da una FirstLeaf piuttosto perplessa ma che lasciava fare, visto che Tomo era la sua unica e ultima speranza di avere una torta a breve. Il ragazzo aprì il frigo ed infilò la testa dentro: “Uhm… uova, latte e burro ci sono, farina e lievito ne hai?”

FirstLeaf indicò un mobiletto: “Guarda lì dentro…”

Tomo aprì lo sportellino e si mise a frugare dentro. Poi estrasse due pacchettini e si rivolse alla ragazza: “Sì, c’è tutto. Bene. Che torta vuoi?”

FirstLeaf ancora non credeva ai suoi occhi: “Eh?”

“Che torta piace a tua nonna?”

“Uhm… Beh… A nonna non piacciono le torte con le creme. Preferisce quelle là basse con la marmellata.”

“Crostate alla marmellata.”

“Sì, quelle. Oppure quelle morbide con la polvere bianca sopra.”

“Torta margherita. E la polvere bianca è zucchero a velo.”

“Sì, ecco. Proprio quelle. Oppure quella che viene fatta con quel frutto… come si chiama, quella famosa? Uhm…”

“Torta di mele?”

“Sì sì, quella…”

Tomo sogghignò, contento di non sembrare l’imbranato di turno: “Accidenti… Si vede che te ne intendi… Quanto tempo abbiamo?”

FirstLeaf guardò l’orologio: erano le diciotto e trenta e alle venti doveva essere alla casa di riposo armata fino ai denti di una torta fatta in casa. “Un’ora e mezza, anche meno...”

“Uhm… Se hai la marmellata direi di fare la crostata, allora, che serve solo mezz’ora di forno. A proposito: funziona il forno?”

“Sì. Jane ci cucina sempre.”

“OK, allora.”

Tomo si girò e cominciò a ravanare dentro la credenza in cerca della marmellata e di una terrina dove preparare l’impasto e quando dispose sulla tavola tutto il necessario, si lavò le mani e cominciò, sotto lo sguardo incuriosito di FirstLeaf che non perdeva una mossa.

Nel giro di venti minuti Tomo aveva finito: la torta era in forno, FirstLeaf era senza parole, sbalordita dalla perizia del chitarrista-pasticciere, Jane era tornata a casa e si scambiava ricette di torte con Tomo che, seduto tranquillo in cucina con una gamba accavallata e una guancia leggermente infarinata, beveva un thé freddo, discuteva della consistenza corretta della pastafrolla e…

… non riusciva a non guardare le lunghe ed affusolate gambe di FirstLeaf che girava per la cucina in cerca di un  contenitore per mettere la torta. Perché, improvvisamente, mentre impastava la torta e non era concentrato con accordi e arpeggi, Tomo si era reso conto che FirstLeaf era davvero una bella ragazza. Quei capelli lunghissimi e tutti a ricciolini e quegli occhi neri, profondi e caldi… le cinghia lunghe, la bocca perfetta, il sedere ben disegnato, un bel seno…

“Non vai a prepararti?” Le disse l’uomo ad un tratto, mentre FirstLeaf era appoggiata alla credenza immersa nei suoi pensieri e Jane era andata di sopra a farsi una doccia.

“Eh?”

“Per andare da tua nonna, no? Ci vai vestita così?” Le disse, mentre le fissava la scollatura della maglietta.

FirstLeaf si guardò, sulla difensiva: “Perché? Cosa c’è?”

“N-non ti devi vestire da brava bambina?”

FirstLeaf fece spallucce e scosse la testa: “No. Mia nonna è più rockettara di me, è innamorata di Mick Jagger da cinquant’anni e mi faceva sentire i Led Zeppelin quando avevo cinque anni. Quindi da lei posso andare così.”

“OK. Ti accompagno io.”

La ragazza scosse la testa: “No, non importa, vado in metro, sono tre fermate, è qui a due passi…”

Tomo si alzò e le si mise davanti, piuttosto vicino: “Meglio di no, magari ti scippano la torta.”

FirstLeaf per un attimo si sorprese, ma poi alzò una mano per togliere il segno di farina dal viso di Tomo e gli appoggiò le dita sulla guancia: “Devi sorvegliare la tua creatura finché arriva a destinazione?”

Tomo le prese la mano e sorridendo disse: “E se invece volessi sorvegliare te?”

La ragazza tolse la mano e se la mise in tasca e pensò subito che la causa di quell’improvvisa avance di Tomo fosse il thé freddo molto zuccherato oppure una sniffata di troppo di farina e rispose, un po’ imbarazzata: “Beh, paura che la tua insegnante, favolosa ma a buon prezzo, venga rapita?”

Tomo si avvicinò di più e appoggiò una mano sul pensile sopra FirstLeaf che si trovò imprigionata tra il mobile e l’uomo, con gli occhi nei suoi. Che stava facendo quel Tomo? Ci provava, forse? Cominciava a sentirsi paralizzata mentre Tomo non si muoveva di un centimetro e continuava a fissarla.

“Eh già… dove ne troverei un’altra?”

Tomo allungò una mano a toccare un ciuffo di capelli sulla spalla di FirstLeaf che si ritrasse, ancora di più appiccicata al mobile, e disse: “Ehm… non dovresti controllare la torta?”

“Ah sì…” Tomo si spostò verso il forno e FirstLeaf cominciò a respirare normalmente, sconcertata del comportamento di Tomo e anche, o forse soprattutto, del fatto che non le era venuto l’istinto di tirargli un pugno in testa. “E’ pronta. Hai trovato dove metterla?”

“S-sì.”

Tomo sistemò con estrema cura la torta dentro la scatola e in cinque minuti FirstLeaf era in auto con il ragazzo, nel bel mezzo di un silenzio imbarazzante, interrotto solo dalle indicazioni sulla strada da seguire.

“Ecco… Qui gira a destra, Tomo.”

Il chitarrista accostò: “OK. Ci vediamo martedì, allora…”

“Certo… e ripassa tutte le canzoni perché interrogo a salti…”

Tomo sorrise: “Sì, maestra…”

FirstLeaf scese ridendo e chiuse la portiera ma, mentre Tomo la osservava entrare nella casa di riposo, si girò e, con un sorriso, gli mandò un bacio con la mano e, dalle sue belle labbra, Tomo poté leggere un sentito G-R-A-Z-I-E.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


DEL COME TOMO SCOPRE CHE FIRSTLEAF E’ COME IL MOTTO DEI TRANSFORMERS, ‘MORE THAN MEET THE EYES’, E SI TRASFORMA IN UN PERFETTO SHERLOCK HOLMES CROATO.

 

 

Tomo aveva ripreso coraggio.

Rassicurato anche dal fatto che, quando si era avvicinato in quel timido tentativo di avance, la ragazza non gli aveva tirato un calcio nella parti basse, come si sarebbe aspettato, dopo l’episodio della torta FirstLeaf non gli faceva più così tanta paura, non gli incuteva più un timore referenziale così forte da intimidirlo.

O almeno così pensava, mentre, puntuale come al solito alle ore diciassette e zero-zero, arrivava a casa di FirstLeaf  per la sua consueta lezione di chitarra del martedì, provvisto di un piccolo mazzo di fiori (roselline fucsia, come quelle che le aveva sterminato in giardino…), intenzionato a invitarla fuori a cena quella sera. Non sapeva nemmeno lui perché lo stesse facendo, ma, in effetti, quella ragazza gli piaceva parecchio e quindi, si era detto, perché no? La cena era un’occasione per conoscerla meglio, dato che, a ben vedere, non sapeva nemmeno quale fosse il suo vero nome!

Mentre parcheggiava la sua auto dall’altro lato della strada rispetto alla casa di FirstLeaf e si apprestava a scendere, con la coda dell’occhio notò uno strano movimento davanti alla porta della casa.

Una ragazza stava uscendo.

E non era Jane, riconoscibilissima per i capelli rossi e le lentiggini, e tantomeno FirstLeaf.

Tomo si girò per fissarla meglio e, quando la ragazza scese i pochi gradini per arrivare sul marciapiede e gli si mise a favore, l’uomo rimase di sasso.

ERA FirstLeaf.

O era sua sorella gemella?

No… FirstLeaf aveva detto che era figlia unica.

Ma…

Non era possibile che fosse lei…

FirstLeaf vestita così?

Un vestito a tubino azzurro scuro con la gonna al ginocchio e la giacca in pendant. Calze, borsa e scarpe blu con il tacco alto. Una cartellina portadocumenti in braccio, capelli pettinati e raccolti in una treccia, trucco leggero, occhialini da secchiona e… accidenti se non stava bene, vestita così elegante! Quel completo le stava benissimo e la ragazza a Tomo parve bellissima, anche se completamente diversa dalla FirstLeaf che conosceva lui.

L’uomo era lì fermo, a bocca aperta, mentre la ragazza, a piedi, cominciò ad allontanarsi lungo la via.

Ma che diavolo stava facendo quella donna?

Non avevano appuntamento per la lezione?

Sì, certo. E allora dove cazzo stava andando?

Improvvisamente Tomo si riscosse.

Scese, inforcò gli occhiali da sole, il suo berretto nero calato sugli occhi, chiuse l’auto e si acquattò dietro un albero.

Adesso era proprio curioso.

Doveva seguirla.

Doveva capire con chi diavolo avesse a che fare.

Doveva sapere.

Attraversò la strada, senza farsi scorgere, e cominciò a seguirla a distanza di sicurezza, nascondendosi ogni tanto dietro qualche persona o albero o cespuglio, quando gli pareva che la ragazza si girasse.

FirstLeaf non camminava velocemente e Tomo riusciva a tenerla sott’occhio piuttosto agevolmente. Dopo circa cinquecento metri, la ragazza girò per una via alla sua sinistra che portava alla piazza del quartiere. Poi si diresse verso il teatro che si ergeva su quella piazza, con Tomo dietro, nascosto dietro un cestino dei rifiuti prima e poi dietro una signora anziana ma piuttosto in carne che gli faceva da paravento.

La ragazza si fermò un attimo per guardare una bacheca appesa alla porta del teatro e poi entrò.

Tomo arrivò alla porta e lesse anche lui: “Ore 17: Conferenza sulle applicazioni della Teoria del Caos nella vita quotidiana. Prof. Carvarvon.”

Il chitarrista rimase a bocca aperta.

Che diavolo era questa roba?

E che ci faceva FirstLeaf lì?

Cosa le serviva quel congresso?

Se la ragazza voleva sapere qualcosa sul caos nella vita quotidiana, non occorreva una conferenza, bastava che chiedesse a lui: dopo sette giorni di seguito in tourbus con i 30 Second To Mars, il caos regnava sovrano più che mai. Una mattina Tomo si era perfino trovato i calzini di Shannon dentro la tazza per la colazione, per non parlare di quella volta che Tim aveva trovato il reggipetto di Emma dentro una sua scarpa, per non pensare nemmeno per un secondo a dove avevano trovato un giorno gli slip di Jared… al pensiero Tomo soffocò un conato… Applicazioni della Teoria del Caos? Più applicazione di quella!

Tomo entrò in modo circospetto: nella hall non c’era nessuno e anche il teatro, una sala piuttosto estesa con il soffitto a vetri e le poltroncine azzurre, sembrava mezzo vuoto.  Il chitarrista notò subito FirstLeaf, in prima fila, seduta proprio davanti al relatore, un signore piuttosto giovane, biondo e vestito molto elegantemente di marrone con un papillon rosso a pallini e il foulard al taschino intonato. 

Un professore universitario, forse. Uno di quelli geniali e stravaganti. E che non sembrava americano.

E soprattutto non era famoso, visto che al massimo ci saranno state una ventina di persone: un successone, insomma… come i primi concerti dei 30 Seconds to Mars, quelli dove andava anche lui prima di farne parte.

Tomo si guardò intorno un attimo e poi decise che non era il caso di rimanere, primo perché delle formule matematiche che aveva scritto sulla lavagna quel tizio, lui non ci capiva niente e poi perché non voleva farsi scorgere da FirstLeaf, tutta intenta a prendere appunti. Ma perché poi? Boh.

Il ragazzo uscì e si diresse verso il bar dall’altra parte della piazza, si sedette ad un tavolino appena fuori, con vista sulla porta del teatro, ed ordinò un caffè. Si nascose dietro un giornale trovato su una sedia e si mise di guardia: FirstLeaf non poteva scappargli.

E infatti, dopo ben due ore, durante le quali Tomo non sapeva più come sedersi su quella dannata sedia di metallo e aveva letto tutto il giornale per intero cinque volte, FirstLeaf uscì, ma non nel modo in cui si aspettava Tomo, visto che la ragazza era sottobraccio con il professorino e si sorridevano, dirigendosi proprio verso il bar.

E, a ben vedere, formavano proprio una bella coppia.

Tomo era sottosopra e brandì nuovamente il giornale per nascondersi. Che cazzo stava succedendo? Tutti i suoi propositi su FirstLeaf e la loro cena erano svaniti in due nanosecondi netti e adesso veniva pure fuori che la ragazza si prendeva certe confidenze con altri personaggi COMPLETAMENTE al di fuori del suo mondo? Ma non era una musicista? E chi cacchio era, invece, quello lì, che adesso molto galantemente le scostava la sedia e la faceva sedere in un tavolino in angolo ma poco distante da quello di Tomo? IL SUO RAGAZZO????? Non era possibile!

FirstLeaf non si era accorta della presenza di Tomo celato  dietro il giornale, visto che aveva occhi soltanto per il ‘suo’ professorino. La coppia ordinò due caffè e la ragazza estrasse un pacco di fogli dalla cartellina e cominciò a passarli uno a uno al professore spiegandogli cose che Tomo non capiva nel modo più assoluto. Tensori? Ipotesi? Teoremi? Che diavolo era quella roba?

Ad un certo punto si scocciò.

Era ora di finirla.

Era ora di sapere.

Era ora che FirstLeaf smettesse di sorridere in quel modo a quel cacchio di tizio imbalsamato.

Abbassò il giornale con un po’ di nervoso, lo accartocciò e lo mollò sul tavolo, si alzò e andò verso di loro.

“Ehi, Ciao.” Disse alla ragazza, abbassandosi, sorridendo e agitando la mano.

FirstLeaf fece quasi finta di non averlo visto, anche se sobbalzò leggermente: lo guardò con la coda dell’occhio e poi tornò a fissare velocemente il professore.

Tomo rimase un po’ sorpreso da questo atteggiamento: “Ehi? Ciao, FirstLeaf!”

La ragazza allora lo guardò, dicendo: “First cosa? Scusi, non mi pare di conoscerla…”

“Ma sì…”

FirstLeaf scosse la testa: “No, direi di no…”

Tomo alzò subito la voce, frustrato: “SI’ INVECE…”

Il professore intervenne in modo molto pacato, quasi gentile, a bassa voce: “La prego di non urlare… e se la signora le ha detto che non la conosce, la prego di allontanarsi…”

Ma Tomo era troppo agitato: “Sì che mi conosce e tu… stai zitto, capito? Che ci fai qui, FirstLeaf?”

La ragazza gli rispose con un finto sorriso di cortesia, guardandolo con uno strano occhio: “Non sono FirstLeaf, lei si sbaglia…”

Ma Tomo era scatenato: “Avevamo lezione oggi, ricordi? E’ martedì e tu dove diavolo te ne vai? Cazzo…”

“Veramente oggi è lunedì e comunque io non so di che genere di lezioni parla, lei…”

Il professore intervenne nuovamente: “La prego di andarsene e di evitare il turpiloquio…”

Ma anche il fatto che gli dessero del ‘lei’, fece infuriare ancora di più Tomo, che se la prese con il giovane uomo: “Ti ho detto di stare zitto, tu…”

Il professorino si alzò e gli puntò un dito in faccia, un po’ minacciosamente: “Lei non sa chi sono io. Sono Lord Julius Herbert George Carnarvon, bis-bis-nipote del noto Lord George Edward Stanhope Carvarvon, colui che ha finanziato la scoperta della tomba di Tutankhamon; quindi, anche nella sua immensa ignoranza in merito, le chiedo un po’ di rispetto…”

Tomo, con quei baffi sottili incurvati all’ingiù, fatti crescere in un solo week end per far colpo su FirstLeaf, sembrava un pistolero del west nel pieno di un perfetto ‘mezzogiorno di fuoco’; guardò il professorino negli occhi e gli sibilò: “Beh certo. Se non altro perché, a guardare te, vedo che la maledizione della mummia continua, nella tua famiglia…”, ‘e il ‘lei’ te lo scordi, lord destocazzo’, pensò.

FirstLeaf, che era rimasta seduta muta a fissare i due, si girò a guardare Tomo con gli occhi spalancati e a bocca aperta: non poteva credere che il mite e timido Tomo stesse insultando in quel modo una persona che non conosceva per niente. Per fortuna il professore non sembrava essersene accorto o, meglio, aveva fatto finta di non accorgersene e, con tutta la flemma inglese di cui era capace, dichiarò: “Bene, mia cara Dana, suggerirei di lasciare questo luogo popolato di personaggi oltremodo ambigui e maleducati e di dirigerci verso il mio ufficio all’università, dove potrò guardare il tuo interessante lavoro con tutta calma.” Poi, molto galantemente, senza badare Tomo di striscio, le scostò la sedia per aiutarla ad alzarsi.

“Grazie Julius.” FirstLeaf recuperò i suoi fogli e la sua borsa e, guardando per un momento Tomo di sottecchi, prese il braccio di Lord Carvarvon e si allontanò attraverso la piazza.

“Ma… FirstLeaf…” Tomo tentò di chiamarla nuovamente, ma la ragazza non lo badò. Fatti pochi passi, mentre Tomo li osservava allontanarsi, FirstLeaf mise una mano dietro la schiena e alzò verso Tomo un bel dito medio e, con la stessa mano, gli fece segno di andarsene.

Al che Tomo, visto che non poteva fare altro, con una voce talmente alta che avrebbe risvegliato Tutankhamon e tutti i suoi parenti, tanto per stare in argomento, le gridò dietro: “’Scolta FirstLeaf, ci vediamo domani, allora …”

E sembrava una minaccia bella e buona.

 

 

 

 

A tutte le mie fedeli lettrici: per un po’, causa concorso, non potrò aggiornare questa ff! Mi dispiace tanto…! Arrivederci a presto con nuove sorprese! Un bacio a tutti/e. Ciaooooo. :-*** Shanna

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


DEL COME LA CURIOSITA’ DI TOMO SI RIVELA ASSAI FLORIDA E LA PAZIENZA ASSAI SCARSA (E QUELLA DI FIRSTLEAF PURE)!

 

 

FirstLeaf camminava velocemente lungo il viale alberato, verso casa, nel pieno di un tramonto californiano. Quelle dannate scarpe blu con i tacchi le facevano un male da morire e non vedeva l’ora di buttarle con odio dentro la scarpiera, sciogliersi i capelli, togliersi quel cavolo di tailleur da funerale e anche quel diavolo di reggiseno che le faceva quasi mancare il fiato. Erano le otto di sera e voleva soltanto farsi una doccia, mettersi il suo pigiama da depressione, ingurgitare una cioccolata bollente e mandare l’intero universo conosciuto a ‘ffanculo, dal profondo del cuore, dalle fondamenta delle sue viscere.

Era stanca.

Esausta. E forse anche un po’ esaurita.

Arrivata davanti alla porta di casa, cominciò a frugare dentro la borsetta in cerca del mazzo di chiavi, quando un’ombra uscì dalla siepe vicino all’uscio facendola sobbalzare, un colpo al cuore: “E così avresti una doppia vita.”

Fece un salto indietro.

TOMO!

TOMO?

TOMO.

Accidenti anche a lui e ai suoi tiri da matto!

Si riprese subito dalla sorpresa: “CHE CAZZO CI FAI QUI?”

“Ma… vai all’Università?”

FirstLeaf gli piantò addosso due occhi fiammeggianti e a denti stretti affermò: “Non sono affari tuoi. Vattene.”

Il chitarrista si appoggiò a lato della porta, con molta non-chalanche, con le braccia conserte, in attesa e dichiarò, compunto: “Eh no. Adesso mi dici tutto…”

Oh sì, come no. Subito. “E perché dovrei? A te cosa interessa? Vieni solo per le lezioni di chitarra. Cosa ti interessa di me?”

“Come ti chiami, per esempio. E chi sei veramente.”

FirstLeaf infilò la chiave nella serratura, pensando che quella sera nemmeno lei sapeva chi era veramente, figurarsi a spiegarlo ad uno semi-sconosciuto come Tomo. Non era proprio il caso: “Vattene e torna quando abbiamo lezione, cioè domani pomeriggio. DOMANI. Martedì.”

Ma Tomo era decisamente aggressivo, come FirstLeaf non l’aveva mai visto, ancora di più rispetto a come si era rivolto al suo professore. L’uomo aggrottò le sopracciglia e le disse, minaccioso: “ Faccio quel che voglio… Non mi comandi tu.”

Che pretese! “Certo che no! Ma… ti lascio fuori.”

FirstLeaf aprì velocemente la porta e tentò di entrare, ma Tomo fu più scaltro, le diede una spinta e si infilò in casa prima di lei. Poi si mise in mezzo al corridoio d’entrata, mentre la ragazza buttava con veemenza borsa e libri sopra il tavolino dell’ingresso, con una specie di grugnito, e gli si avvicinava prontamente, le mani piantate sui fianchi, arrabbiata come una biscia.

“Cazzo, chiamo la polizia, adesso. TE NE VAI O NO?”

Ma Tomo aveva tutta la sua lista di domande pronta, preparata durante un soggiorno di oltre due ore passate acquattato sotto una dannata siepe: “E chi sarebbe quello? Lord Coso?”, disse, indicando con un indice da qualche parte.

“Vaffanculo, Tomo, non sono affari tuoi… Stavi rovinando tutto, bastardo…”, gli sibilò FirstLeaf.

“Rovinando cosa?”

“Rovinando e basta…”

“E ti chiami Dana, alla fine. Bel nome…”

FirstLeaf scosse la testa: “No. Non mi chiamo proprio niente. Per te io sono FirstLeaf e basta, non ho un nome, capito? Non sono Dana.”

Ma Tomo aveva deciso che non avrebbe rinunciato a sapere la verità per niente al mondo: la sua idea della cena con FirstLeaf/Dana era andata a farsi friggere in due secondi netti e ora doveva sapere in nome di cosa era successo. E allora insistette: “E che diavolo ci faresti con quello là, quel tipo mummificato? Chi è per te?”

Ma Dana non rispose e si avviò verso la cucina a passo di marcia, dopo aver buttato la giacca per aria e le scarpe in un angolo dell’entrata con un calcio.

E Tomo dietro: “E allora?”

FirstLeaf mise il tavolo della cucina tra sé e il chitarrista, dopo avere acceso la luce della stanza: “Non sono affari che ti riguardano…”

“Invece sì.”

“Direi di no.”

Tomo iniziò una circumnavigazione lenta del tavolo: “VOGLIO SAPERE!!”

“HO DETTO NO!!”

Tomo tentò di cambiare tattica: “Se non mi dici cosa succede potrei rovinare qualcosa, hai capito? Devo sapere, sono un disastro in queste cose!”

Il chitarrista era più vicino ma FirstLeaf gli scappò girando ancora: “Se te ne vai e torni domani, trovi la FirstLeaf che hai conosciuto, che non ha niente a che vedere con Dana, e così non ti poni tanti interrogativi strani in quel tuo cervello…”

Eh no, non era una cosa contemplata nelle possibilità di Tomo. E poi l’idea di quel professorino che avesse in qualche modo a che fare con la ‘sua’ FirstLeaf lo mandava in bestia: “CHI E’ QUELLO?”

FirstLeaf fece spallucce: “Cosa ti importa?”

“CHI E’?”

FirstLeaf si diresse verso l’uomo e gli si fermò a dieci centimetri dal viso. Lo guardò un attimo e poi gli gridò in faccia: “JULIUS E’ LA MIA SPERANZA DI RISCATTO, CAZZO!!!!” Poi la ragazza si sedette di peso su una sedia con i gomiti appoggiati al tavolo ed il viso tra le mani.

Tomo rimase di stucco. Non capiva l’atteggiamento misterioso di FirstLeaf né il motivo per cui questo Julius, così diverso da lei, potesse essere così importante per quella ragazza. Ma che diavolo voleva dire? Cosa stava succedendo? “Ma perché? Perché lui?”

FirstLeaf rimase con le mani sugli occhi e dopo un po’ disse, lentamente, quasi con difficoltà: “Tu… tu non capisci, non puoi capire. Io… Tu… Forse non lo sai ma le musiciste donne sono considerate alla stregua di battone, nessuno ci considera niente di più che puttane…”

FirstLeaf si fermò, sospirò e Tomo era senza fiato: non aveva mai pensato a come dovesse essere la vita e l’esperienza musicale per una ragazza come FirstLeaf, che a lui, ragazzo semplice e genuino, pareva così brava e sulla quale si era fatto tutta un’idea romantica con fiori, cena a lume di candela, parole dolci e baci appassionati. Non disse nulla, ma le si avvicinò di più.

La donna continuò: “Dopo anni che passo per una zoccola perché suono e… nessuno mi degna di interesse, e anzi mi schifano perché me la so cavare a suonare meglio di tanti maschi, Julius è l’unico che mi presta attenzione, che mi considera speciale.” FirstLeaf abbassò le mani ma rimase seduta, fissando la finestra, con l’espressione seria, il volto triste:  “Io… studio all’università. Studio Fisica. Devo solo fare la tesi e poi ho finito. Mi laureo il mese prossimo. Julius è il mio relatore. Stiamo sviluppando una parte della Teoria del Caos, una cosa nuova, mai proposta prima. Lui… beh… dice che sono brava, che posso diventare ancora più brava, che mi farà avere una borsa di studio in Inghilterra, che… insomma, mi considera una ragazza col cervello, non soltanto… soltanto…” First Leaf cominciò a sciogliersi la treccia dei capelli con rabbia, come se volesse strapparseli, e buttò il fermaglio sul tavolo, con collera, “… soltanto un paio di tette con la chitarra al collo, come fanno tutti! E non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello di farmi proposte oscene, di scoparmi dietro una porta, di sbattermi per terra! Cazzo!!!”

Dana si alzò rabbiosamente e si diresse verso il frigo. Lo aprì, prese una bottiglietta d’acqua e cominciò a bere.

Tomo, consternato e quasi senza parole, le si avvicinò: “E-e… e io?”

Dana lo guardò stancamente: “Tu cosa?”

“N-non ti presto attenzione, io? Non ti considero speciale?”

La ragazza sospirò: “Mi hai forse detto qualcosa che mi sono persa? Non mi pare…”

Tomo scosse la testa. “No. In effetti non ti ho detto niente, ma…”

“Lascia perdere Tomo, lascia stare, non dire cose che non sono vere, per favore…”

“Ma io… io volevo dirtelo stasera che… che per me sei speciale e che mi piaci e che…”

FirstLeaf sogghignò, ma più che cinica, la sua risata risultò piuttosto triste: “E secondo te, io dovrei crederti? Credi di essere il primo musicista che mi dice che gli piaccio? Il primo chitarrista sulla faccia della Terra? Potrei farti la lista di batteristi, tastieristi, bassisti, sassofonisti, trombettisti e anche produttori musicali, tutti maschi ovviamente, che mi hanno detto la stessa cosa solo e soltanto per potermi mettere le mani addosso e di come suono non importa a nessuno di loro. Sono dieci anni che succede. E io… beh… io adesso sono stanca di questo mondo, di questo vivere, di questa gente. Voglio cose diverse, ora. Ne ho la possibilità e tu non rovinerai tutto, capito?”

“Ma… ma  tu con Lord Coso non hai niente a che spartire.”

Dana sospirò nuovamente, fissando Tomo con uno sguardo in qualche modo sofferente e mettendogli una mano sul braccio, gli disse, quasi implorando: “Stanne fuori Tomo, per favore. Stanne fuori. Io ti insegno, ti aiuto. Lo faccio volentieri, davvero, perché tu in fondo non sei uno stronzo. Tu, o chi per te, non so,  paghi ed è finita lì. Non abbiamo niente a che spartire io e te, semmai. Non voglio spartire niente con te, non voglio musicisti tra i piedi, non più... E anzi… non rovinare tutto quello che di buono c’era tra di noi.”

“Ma Dana, io credo…”

FirstLeaf improvvisamente parve esasperata e lo interruppe: “Ti sto chiedendo PER FAVORE. Non complichiamoci la vita. Adesso hai saputo tutto quello che c’era da sapere e ora basta. Vattene. Ti chiedo solo di non rovinare tutto. Pochi sono a conoscenza delle cose che ti ho detto. Mantieni il segreto anche tu. Per favore. Io voglio cambiare vita…”

Tomo scosse la testa: “Stai sbagliando, Dana. Ascolta…”

“NO. Senti. Per te non è tanto difficile: ti scordi quello che hai visto oggi, ti scordi che sono Dana, torni domani, facciamo la lezione e… basta! Non cambia niente per te, no?” FirstLeaf cominciò ad alzare la voce: “CHE CAZZO TI CAMBIA! E poi… BASTA! Sono stanca di discutere con te! BASTA! Faccio il cazzo che voglio della mia vita!”

FirstLeaf si allontanò da Tomo velocemente, uscì dalla cucina e fece per avviarsi verso le scale per andare a chiudersi in camera sua, ma Tomo la raggiunse, la prese per un braccio e la imprigionò tra le sue braccia, mentre la ragazza si divincolava.

 “Lasciami, lasciami, stronzo…”

“Aspetta, aspetta…”

Tomo avrebbe voluto dirle tante cose, ma l’atteggiamento della ragazza non lo aiutava nell’esprimere quello che provava per lei. Avrebbe voluto dirle di non mandarlo via, di dargli una possibilità, di non trattarlo come un puttaniere, di ripensare ai suoi progetti, ma quella Dana che si divincolava tra le sue braccia, scalza, con i capelli al vento, il viso arrossato e le labbra socchiuse gli fecero perdere la testa. Improvvisamente i pensieri razionali di Tomo si sciolsero come neve al sole e la sua parte animale venne a galla. L’uomo la strinse a sé, le afferrò la nuca con una mano e diresse la sua bocca su quella di Dana. Poi cominciò a baciarla con forza.

Ma Dana, avvezza a rispondere a questo genere di avance e con dalla sua un corso di autodifesa personale, si divincolò ancora, lo spinse via e riuscì a staccarsi sufficientemente per alzare una gamba e tirare una ginocchiata a Tomo nelle sue parti basse. Il ragazzo la lasciò subito, arretrò mugolando e tenendosi le mani sul pube, e Dana ne approfittò per tirargli un pugno in faccia, con rabbia.

“Vedi che sei come tutti gli altri? Lo vedi? Vaffanculo,  Tomo…” gli gridò, mentre si passava il braccio sulla bocca, come a pulirsi dal bacio dell’uomo.

Tomo era piegato in due, indeciso se tenersi la guancia o il davanti dei pantaloni: “Ahioooo…”

In quel momento la porta d’entrata si aprì e Jane fece il suo ingresso, rimanendo in piedi in mezzo al corridoio, stupita alla vista di FirstLeaf, in elegante vestito blu e… guardia da pugilato,  che diceva: “E adesso vattene Tomo. Subito. O ti sistemo per le feste…”

“Ehi, che succede, qui?” chiese. “Perché picchi Tomo?”

FirstLeaf, con il fiatone, le si avvicinò: “Perché lo voglio convincere ad andarsene da qui…”

“Ma poveretto… non potevi provare con altri argomenti?”

“Ho provato, cazzo!! Ma non sente ragioni…”

Jane si avvicinò a Tomo e, con il suo spirito medico che prendeva il sopravvento, lo fece sedere sul gradino della scala e cominciò a chiedergli come stava, con Tomo che si lamentava e che pensava che FirstLeaf picchiava proprio come suonava la chitarra, cioè bene.

 

 

 

Eccomi tornata!! Mi dispiace per la lunga attesa! Grazie a chi, nel frattempo, ha recensito e ha messo questa ff tra i preferiti! :-*** Shanna

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


SUI MOLTI PENSIERI, SCONNESSI E NON, DEL NOSTRO ILLUSTRE EROE, IL BALDO TOMISLAV DETTO TOMO.

 

 

Tomo era KO.

Gli faceva male il viso, sulla guancia, dove FirstLeaf lo aveva colpito con veemenza. Per fortuna non gli erano rimasti segni scuri o aloni e anche sua mamma non si era accorta di niente: l’impacco di ghiaccio fatto nottetempo di nascosto era sicuramente servito.

Gli facevano male le parti basse, ma qui l’impacco non era servito a lenire le sue sofferenze. Vista la botta sui testicoli, avrebbe anche dovuto camminare un po’ storto, ma non si doveva far vedere da nessuno (specialmente dagli spioni dei due Leto, sempre là con due occhi spalancati come gufi e che, a sapere una cosa del genere, lo avrebbero preso per il culo in saecula saeculorum…).

Gli faceva male la testa, visto che aveva dormito pochissimo, abbattuto al massimo e con il viso di FirstLeaf tatuato nelle cellule cerebrali.

Ma soprattutto gli faceva male il fatto che non fosse riuscito a dire a FirstLeaf cosa provava per lei e l’aveva invece trattata, senza in realtà davvero volerlo, come lei diceva facessero tutti.

Era Martedì.

Il giorno dopo.

Tomo aveva passato la mattinata in sala di registrazione ma non aveva combinato un cavolo di niente, visto che con la mente non c’era proprio. E allora, vista la sua disattenzione e insofferenza,  Jared aveva cominciato a prenderlo in giro, Tim gli aveva offerto una birra consolatoria senza chiedergli niente dei suoi guai, mentre Shannon continuava a domandargli se stesse bene o se avesse preso un qualche virus influenzale primaverile.

Alla fine, verso mezzogiorno, Tomo, di cattivo umore,  aveva deciso di andarsene, promettendo a Shannon di prendere appuntamento con un medico. Invece era andato al ristorante dei suoi genitori e, per pensare, si era messo a preparare i dessert per i clienti, cosa che faceva anche prima di diventare componente dei 30 Seconds To Mars.

Faceva tutto in automatico, senza quasi vedere quello che combinava con i piatti, perché la domanda che albergava sovrana nella sua testa era: che diavolo aveva fatto? E, soprattutto, perché?

Ora erano le quattro del pomeriggio e Tomo girava goffamente per il salotto di casa sua, l’impacco di ghiaccio sottomano, in tuta da ginnastica grigia, spettinato, con la barba non rasata, facendo la spola porta-finestra-portadellacucina-porta: mancava un’ora alla lezione di chitarra e le aveva pensate ormai tutte. Ma la conclusione alla quale era giunto era piuttosto elementare: si era innamorato di Dana.

Fine.

Aveva preso una bella sbandata per lei.

Semplice, semplice.

La voleva per sé.

E basta.

Non poteva sopportare di perderla.

Davvero no.

Era geloso marcio.

Punto e a capo.

Bruciava di passione per lei.

Chiuso.

La amava.

Papale, papale.

Aveva sperato che l’essere due chitarristi e condividere la stessa eccezionale passione musicale per il rock, potesse essere il legame che li avrebbe uniti e ora non poteva credere nemmeno per un momento che fosse invece la cosa che li avrebbe separati. Dana però gli aveva detto chiaramente che non ne voleva più sapere di musicisti e quindi nemmeno di lui. Il tutto senza dargli una possibilità, presa com’era dall’idea della sua nuova vita.

E cosa poteva fare, ora, lui?

Non lo sapeva.

A forzare la situazione era peggio, visto come era andata con il bacio che le aveva dato, che voleva essere dolce e invece era stato… era stato… che diavolo era stato? Tomo si passò le mani tra i capelli, bloccandosi in mezzo al salotto. Era stato terribile, a dire poco. Disgustoso, inutile, orribile, eccessivo e… avrebbe potuto andare avanti tutto il pomeriggio a trovare aggettivi, anche senza l’aiuto del vocabolario.

Infastidito al ricordo, ricominciò a girare lentamente attorno al tavolino del salotto.

E poi, doveva andare alla lezione del martedì oppure no?

Uhm…

No.

Meglio di no.

Come avrebbe potuto fare finta che quella FirstLeaf fosse la stessa della settimana prima? Impossibile. Ora per lui quella ragazza era molto di più: era Dana, la donna di cui era innamorato. Era la ragazza che gli stava sfuggendo di mano, anche se non era stata sua nemmeno per un secondo.

Doveva già rinunciare a lei?

Si sedette un momento sul divano a pensare a quanto sarebbe stato bello averla con sé mentre era in tournee, che lo aspettava nel backstage dopo il concerto, che gli dava consigli su come suonare, che lo incoraggiava, che lo guardava con quei suoi occhi scuri.

Che lo abbracciava, lo baciava, lo amava.

E chissà che faccia avrebbero fatto i Leto a vederlo con una ragazza così. Per un momento si mise a sorridere all’idea di Dana alle prese con Jared: lei no che non ne avrebbe avuto soggezione, come avevano in molti… magari avrebbe picchiato pure lui, dopo avergli detto chissà cosa o tirato gli orecchi sul modo in cui Jared suonava la chitarra.

Tomo era certo che invece Shannon avrebbe sfoderato tutte le sue più formidabili tecniche seduttive (e anche quell’orribile dopobarba che si metteva ogni tanto e che aveva un retroprofumo/retropuzza di cimice schiacciato…) per fare colpo su Dana, ma lei avrebbe avuto occhi solo per il suo Tomo…

E Tim? Beh, lui le avrebbe offerto una birra e poi avrebbero sicuramente cominciato a discutere su accordi e giri di basso, seduti per terra in un corridoio, gli strumenti sulle ginocchia…

Il chitarrista sospirò: che belli i castelli in aria! Ma perché non potevano essere realtà? Perché? Accidenti!!!

Si alzò di scatto, stringendo i pugni, e ricominciò a percorrere il perimetro della stanza.

Però…

Improvvisamente si bloccò: ma CHI aveva detto che era tutto perduto? CHI? NESSUNO, CAZZO!

Nessuno! E in nome di quei castelli in aria, non poteva rinunciare a lei.

Accantonò per un attimo i sentimentalismi e l’emotività, pensò a come fosse Dana ed escogitò un piccolo piano, così, su due piedi.

Doveva andare a lezione: se fosse sparito le avrebbe fatto credere di non aver più bisogno di lei e Dana si sarebbe sicuramente incazzata per il suo amor proprio offeso. E poi lui non avrebbe più avuto nessuna possibilità. No. Doveva andarci, sfoderare la sua migliore faccia da schiaffi e via.

Doveva chiederle scusa: in effetti non si era comportato da gentiluomo, ma da comare ficcanaso. Si era precipitato a casa sua, era entrato come una furia, aveva fatto troppe domande e preteso troppe risposte. Troppo, per la conoscenza superficiale che avevano.

Doveva cercare di non forzare le cose: Dana era un osso duro, non doveva aggredirla, altrimenti rischiava che si chiudesse a riccio e, forse, rischiava di prenderle nuovamente.

Doveva fare il furbo: dopo anni in giro con i subdoli dei due Leto che, se non riuscivano a saltare l’ostacolo, trovavano il modo di aggirarlo, aveva pur imparato qualcosa, o no? Dana si sarebbe laureata nel giro di un mese e ci sarebbero state quindi ben otto lezioni: e vuoi che in otto lezioni, si disse  Tomo, non riesca a dirle quello che sento per lei? Che non riesca a convincerla che Lord-Julius-Coso-Carnarvon-Carneade, o qualsiasi cosa sia, non fa per lei? Che non riesca a piacerle nemmeno un pochino?

Tomo si rispose tre ‘sì’ convinti alle domande che si era posto e, con questo nuovo convincimento, andò in camera sua a prepararsi.

Nel vestirsi, scelse una classica maglietta nera degli ‘Iron Maiden’: era certo che alla sua Dana sarebbe piaciuta…

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


SUI MOLTI PENSIERI, CAOTICI E NON, DELLA NOSTRA STIMATA EROINA, L’INCAZZOSA DANA DETTA FIRSTLEAF.

 

 

Quattro e un quarto dello stesso martedì.

Dana, sdraiata sul letto in camera sua, le braccia dietro la testa, le gambe allungate sul copriletto rosa, in pigiama e capelli sciolti sul cuscino, osservava i due poster appesi alla parete davanti a lei.

Lo faceva sempre, studiandone i minimi particolari, perché ogni volta le pareva impossibile che i suoi geni ispiratori fossero due.

Fossero QUEI due.

Così diversi in tutto ed uniti solo da una cosa: la loro genialità.

A destra, impegnato a fare la linguaccia alla macchina fotografica, i capelli bianchi e spettinati, l’espressione allegra, l’occhio spiritato… Albert Einstein, indiscusso genio della Fisica.

A sinistra, con gli occhi chiusi dietro gli occhiali spessi, la Ibanez al collo, intento in un assolo dal vivo, vestito alla moda anni ’70… Omar Rodriguez-Lopez, chitarrista portento dei The Mars Volta.

Dana sospirò e spostò lo sguardo sullo scaffale sotto.

Stessa suddivisione: a destra libri e dispense di Fisica, fotocopie, quaderni, faldoni di formule matematiche, esercizi; a sinistra spartiti, quaderni pentagrammati, libri con biografie musicali, poster arrotolati, scatoline con plettri, metronomi.

Per un momento le sembrò che quella fosse anche la suddivisione che aveva nel cervello: lobo destro la Fisica, lobo sinistro la Musica.

Si alzò sbuffando dal letto e si mise a guardare il cielo dalla finestra: una suddivisione che si portava dentro da sempre e che la portava a vivere due vite praticamente diverse, agli antipodi.

Una… passata tra sala prove e locali fumosi di terz’ordine.

L’altra… tra aule, laboratori e biblioteche polverose.

In classico stile ‘Dottor Jekyll e Mr Hide’.

Due vite inconciliabili, che Dana avrebbe voluto entrambe e alle quali non avrebbe voluto rinunciare.

Come avrebbe fatto senza la Musica?

E senza la Fisica?

Non avrebbe saputo.

‘Ma un giorno dovrai scegliere…’ le aveva detto una volta una maga di un luna-park, leggendole la mano. Dana si era messa a ridere: ‘Non potrei mai…’, le aveva risposto, ma in cuor suo sapeva che la maga aveva ragione.

E forse il momento della scelta era giunto: i FourLeafClover non andavano male, ma di gruppi come loro nella Bay Area ce n’erano un’infinità e tutti praticamente uguali. Probabilmente, dopo quasi dieci anni di gavetta, non sarebbero mai diventati famosi, visto che non erano sufficientemente originali da avere un sound distinguibile in mezzo a tanti altri. Avevano fatto parecchie audizioni presso case discografiche indipendenti, ma senza esito. L’EP che avevano autoprodotto era andato bene, ma ora avevano ancora poche serate programmate e poi basta. Erano al palo.

E forse invece le si prospettava la possibilità di una borsa di studio in Inghilterra, ad Oxford, nel cuore della ricerca scientifica europea, la culla della Fisica, la patria di Isaac Newton.

E doveva rinunciare?

Doveva?

Oddio.

No.

Non poteva. Sarebbe stata matta: un’occasione che magari le sarebbe capitata una volta nella vita doveva buttarla così, in nome del nulla musicale che invece le si prospettava? Proprio no!

Ecco: in fondo aveva già deciso, aveva già scelto tra la Musica e la Fisica e nulla le avrebbe fatto cambiare idea, anche se le rimaneva in bocca uno strano gusto amarognolo.

Sospirò e uscì dalla sua camera per scendere in cucina.

Arrivata alla fine delle scale, nel gradino in cui Jane aveva fatto sedere Tomo per soccorrerlo, le venne improvvisamente in mente della discussione della sera precedente e non poté fare a meno di pensare che la suddivisione che aveva nella mente e nella vita ce l’aveva anche negli uomini che aveva intorno!

Tomo e Julius!

Dana si fermò a fissare il gradino, aggrottando le sopracciglia, pensierosa: alla fine, si disse, le piacevano entrambi anche se in modo completamente diverso.

Julius era aristocratico, geniale, sempre a suo agio in qualsiasi situazione. Un vero signore, nonostante avesse appena trent’anni. Un uomo del quale Dana si fidava ciecamente, che non le aveva mai fatto uno sgarbo da che lo conosceva (da un anno circa), sempre disponibile e gentile. Non si poteva dire che fosse bellissimo (con quei baffetti e la pettinatura un po’ retrò, il modo di vestire troppo da adulto), nonostante la schiera di studentesse che gli sospiravano dietro, ma a Dana piaceva. Le piaceva il fatto che Julius la trattasse come una signora, cedendole il passo, scostandole la sedia, aprendole la porta, con squisito galateo inglese: in quei momenti Dana si sentiva come una vera Lady, come non le capitava mai nell’altra sua mezza vita.

E Tomo?

Tomo era Tomo: il pazzo, il timido, l’imprevedibile Tomo. Dolce e scapestrato. Goffo e divertente. Con quel sorriso impacciato e l’espressione bonaria, ma che poteva diventare un despota all’occorrenza, sopra le righe, incontrollabile.

E Dana, in fondo, era arrabbiata con lui, furiosa: stava andando tutto a gonfie vele, lei riusciva a giostrarsi alla grande tra le sue due diverse vite e all’improvviso era arrivato lui a mettersi in mezzo.

Ma per cosa poi?

Cosa ne sapeva Tomo di quale fosse veramente la sua vita?

Come si permetteva di dirle che doveva lasciare perdere Julius e rinunciare alla Fisica?

Cosa ne sapeva di quello che Dana aveva passato in quegli anni? E, a ben vedere, forse non l’aveva capito nemmeno quando Dana aveva tentato di spiegarglielo, la sera prima.

Ma probabilmente Tomo, da rock star come le aveva raccontato Zummo che fosse, passava le sue giornate tra feste con modelle e droga party, concerti con folle oceaniche, interviste per radio e TV, studi di registrazione, soste da stilisti e visagisti. Una vita che lei non si sognava nemmeno.

E che diavolo poteva volere un tipo simile da lei? Con un bacio dato a tradimento che lasciava intendere ben altro che non una semplice amicizia?

Certo: gli dispiaceva averlo picchiato e trattato in quel modo, ma Tomo, con tutte quelle domande martellanti, l’aveva esasperata e Dana, che già di suo non era un tipo calmo e tranquillo, aveva perso la pazienza.

E ora?

Tomo si sarebbe presentato alla lezione di chitarra o no?

E lei doveva chiedergli scusa o no?

Mah… non sapeva. Avrebbe navigato a vista: a seconda del comportamento di Tomo avrebbe deciso, tenendo comunque in mente che non avrebbe mai cambiato idea sulla sua scelta di andarsene in Inghilterra, se possibile.

Sì. Perfetto.

Dana, rassicurata da queste decisioni, entrò in cucina, si versò l’ennesimo caffè freddo della giornata e cominciò ad ammucchiare i libri sul tavolo. Spense il portatile e poi andò di sopra a vestirsi.

E cosa c’era di meglio per una lezione di chitarra che non dei comodi blue jeans tutti tagliuzzati ed una maglietta nera degli Iron Maiden?

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


DEL COME FIRSTLEAF E TOMO TENTANO DI FAR FINTA DI PENSARE DI ESSERE FORSE ALLIEVO E MAESTRA.

 

 

Tomo, teso ed inquieto, stava facendo autoipnosi-autoconvincimento-autotrainigautogeno-autoincoraggiamento-autoqualcosa… in auto, la sua auto, parcheggiata davanti alla casa di FirstLeaf.

‘Carpe Diem…’

‘O la  va, o la spacca…’

‘Veni, vidi, vici…’

‘Chi vivrà, vedrà…’

‘Chi non risica, non rosica…’

‘Chi la dura, la vince…’

‘A mali estremi, estremi rimedi…’

‘Rosso di sera, bel tempo…’

Ah, no… quest’ultimo proverbio era proprio fuori luogo, non era adatto all’occasione, perfetto per le previsioni del tempo forse, ma inadeguato al coraggio che Tomo voleva trovare in quei motti.

L’uomo sospirò: OK.

Era ora di affrontare Dana.

Mancavano pochi minuti alle cinque.

Mentalmente il chitarrista ripassò il suo piano d’attacco, pensato non più tardi di un’ora prima, ed improvvisamente… gli parve soltanto un’accozzaglia di cazzate stratosferiche!

Gli tremavano le gambe… altro che fare fronte a Dana!

‘Aggirare l’ostacolo alla Leto’… e quando mai?

Chiederle scusa? Eh sì… Come???

Fare finta di niente… sì-sì, tra mille anni!

Tomo si rese conto di avere decisamente più dubbi che certezze e soprattutto tanta voglia di scappare a gambe levate, mettere in moto l’auto e partire sgommando, come fosse in pole-position ad un gran premio di Formula Uno.

Ma non poteva, non poteva, mannaggia la pergola!!!

Doveva combattere per quello che voleva.

Sennò che uomo era?

Un uomo che non valeva NIENTE, CAZZOOOOO!!

Niente di niente!

NO! NO! NO!

Tomo scese dalla macchina come se dovesse affrontare un intero esercito di fangirls assatanate, girò attorno all’auto ed estrasse dal bagagliaio la sua Gibson, con una nuova sicurezza. Si piantò il berretto in testa e poi attraversò la strada quasi correndo, con un cipiglio pericoloso.

Ah-ah-ah… ora Dana doveva vedersela con lui, altrochè…

Ah-ah-ah… adesso le avrebbe fatto vedere lui chi era…

Ah-ah-ah… lei credeva di passarla liscia e invece…

Ah-ah-ah… e poi chi si credeva di essere quella lì…

Ah-ah-ah… e lui era Tomo, mica bau-bau-micio-micio…

Ah-ah-ah… e lui sapeva tenere a bada i Leto che non erano bau-bau-micio-micio manco loro… Ah-ah-ah…

Mise la mano sul campanello, suonò con convinzione, Dana aprì la porta e gli si parò subito davanti con gli occhi fiammeggianti, il solito piglio sicuro e…

… una maglietta precisa identica alla sua!

Tomo spalancò gli occhi e così pure Dana.

Entrambi si guardarono un attimo la propria maglietta, poi quella dell’altro/altra, poi in viso e poi scoppiarono a ridere.

Ecco. Il ghiaccio era rotto. E tutto per una maglietta con Eddie T.H.!

Meglio così. Tomo non avrebbe saputo proprio come fare, nonostante tutte le rassicurazioni che aveva tentato di darsi a mo’ di mantra, ma la soluzione era arrivata senza volerlo. L’uomo subito lo interpretò come un segno positivo del cielo.

“Dai, entra…” gli disse Dana, dopo un po’, sfregandosi gli occhi pieni di lacrime dalle risate.

“Grazie…” Tomo riuscì a malapena a dire, soffocando ancora qualche risata e contento oltre ogni dire di aver indossato quell’indumento. Poi si chiuse la porta alle spalle e si avviò in salotto dietro Dana, il cuore che gli batteva forte. “Made in China pure la tua, scommetto…” le disse, tentando si dissimulare l’agitazione con una battuta, mentre toglieva la chitarra dalla custodia e gettava il berretto sul tavolino.

Dana rideva di gusto, buttando la testa all’indietro e sedendosi sul divano, con il libro degli spartiti in mano: “Sì, negozio import-export cinese, cinque dollari.”

Tomo spalancò gli occhi: “Cosa? Cinque dollari? Accidenti! Io l’ho presa al mercatino delle pulci e mi è costata dieci dollari. Mi hanno truffato!!!”

Dana riprese a ridere, anche lei contenta che la conversazione avesse preso quella piega, ma quando Tomo si sedette vicino a lei, tenendo la faccia fintamente scocciata per la storia della maglietta truffaldina, non riuscì a far finta di niente per quello che era successo la sera prima e gli disse: “Ehm… Tomo?”

“Sì?”

Dana abbassò gli occhi per un attimo, senza sapere nemmeno lei perché: “Io… Ehm… Scusa… non volevo…. Ehm… non volevo  picchiarti…”

Tomo non credeva ai propri orecchi: non avrebbe mai pensato che Dana potesse chiedergli scusa e gli ci volle un momento per mettere insieme le parole: “Ehm… Scusa a te… non-non volevo baciarti… Ehm, cioè, sì, ma non così… Io… Beh… Scusa… e poi non volevo intromettermi negli affari tuoi e… insomma… scusa…”

Dana scosse la testa: “OK. Dai… fa niente… tu… beh… non potevi sapere… non importa…”

Tomo le prese la mano, che lei aveva appoggiata sul divano, e pensò di dirle proprio quello che la ragazza voleva sentirsi dire, visto che non era il caso di attaccare adesso, meglio aspettare: “Io… voglio solo che… tu faccia come ti senti, come ti sembra meglio e… che tu sia felice…” Voleva anche aggiungere ‘anche senza di me’, ma si trattenne: non poteva apparire troppo melodrammatico, visto che Dana aveva quel librone in mano e non ci avrebbe messo niente a tirarglielo in testa.

Dana non tolse la mano, anzi gliela strinse: “Grazie, Tomo. Lo sapevo che avresti capito. Non sai cosa vuole dire questo per me. Grazie.”

Tomo sorrise a sua volta e, cacciando dentro un cassettino nella sua testa l’idea di prenderla tra le braccia e baciarla nuovamente, le disse: “Di nulla.” Poi si alzò, facendo il finto indifferente, si mise la chitarra a tracolla e le chiese, sfregandosi le mani: “Bene. Cosa suoniamo, oggi?”

Dana si alzò e, prendendo la sua chitarra, dichiarò, sollevata: “Umh, perché non inizi con ‘Supermassive Black Hole’ dei Muse, la canzone preferita dai miei colleghi astronomi?”

Tomo, sogghignando alla battuta, non fece nemmeno in tempo a prendere in mano l’amplificatore per accenderlo che il telefonino di Dana, sul tavolino, si mise a suonare.

La ragazza lo prese subito e disse, riconoscendo la suoneria: “Uhm…SecondLeaf? Che vorrà? Pronto? Ehi, ciao… no-no, dimmi…”

E mentre Tomo pensava se c’era la possibilità che alla ragazza servisse un’altra torta per il compleanno del chitarrista/cantante dei FourLeafClover, sentiva SecondLeaf parlare concitatamente a Dana che, nel contempo, in piedi vicino al divano, spalancava occhi e bocca sempre di più, sorpresa. Dopo un attimo la ragazza disse un “OK. Ciao…” poco convinto a SecondLeaf, chiuse il telefonino, e si sedette sul divano, guardandosi attorno perplessa.

La curiosità di Tomo non si fece attendere. Si avvicinò, si abbassò leggermente e le appoggiò una mano su una spalla: “Che c’è? Qualcosa di grave?”

Sembrava quasi che Dana facesse fatica ad articolare la frase, Tomo non l’aveva mai vista così: “No-no… è che… oddio…”, poi si passò una mano un po’ tremante sul viso, “S-secondLeaf ha iscritto i FourLeafClover ad un festival-concorso in cui dobbiamo presentare tre cover… in palio c’è un contratto discografico con un’etichetta indipendente…” Dana si alzò dal divano toccandosi i capelli: “E’ incredibile…”

Anche Tomo era strabiliato, mise giù subito la chitarra e prese le mani a Dana: “Uaoooh… è meraviglioso!”

“Sì-sì ma… ma entro oggi devo scegliere tre canzoni perché il concorso è tra due sabati…”

“E allora? C’è tutto il tempo sia per scegliere che per provare… uaoooh… che bello!!!”

Ma Dana era titubante. Per tutta la sua vita aveva sperato in un momento come questo e ora che era arrivato ne aveva una paura folle. Era terrorizzata all’idea di salire sul palco e che da una sola gara dipendesse il futuro dei FourLeafClover… e se poi avessero vinto? E se avesse anche ottenuto la borsa di studio per l’Inghilterra? Tutto insieme o niente del tutto, vero? Accidenti… Vabbè: era impossibile prevedere il futuro, tanto valeva pensare al presente. Si risedette sul divano e prese a scartabellare il suo librone di spartiti: “Che diavolo scegliamo?”

Tomo si mise a camminare sù e giù per il salotto, pensieroso, desideroso di dare una consulenza in merito: “Uhm… allora… Secondo me devono essere delle canzoni non troppo note, perché quelle famose le sanno tutti, rischiate che qualcuno le faccia prima o dopo di voi… Sai che palle sentire quattro volte ‘Smoke on the water’ dei Deep Purple? L’originalità invece paga…”

Dana annuì: “Bravo, buona idea...”

“Poi devi trovare la sequenza giusta: inizi con il botto, per attirare l’attenzione, poi una apparentemente lenta e poi… gran finale con i fuochi d’artificio…” Come nei concerti dei 30STM? Beh, forse no…

Dana non riusciva a staccare gli occhi da Tomo: “Uaoh… hai ragione…”

“E… non troppo lunghe, sennò il pubblico si rompe… ma di sostanza, non troppo corte… Con ‘Octavarium’ dei Dream Theater, per esempio, uno si rompe di brutto, non è da festival, anche se è bellissima…”

La chitarrista annuì: “Giusto…”

Ormai Tomo veleggiava verso le più alte vette della sua cultura musicale: “E poi… non troppo vecchie sennò la maggior parte del pubblico, e forse anche la giuria del concorso, non le conoscono… ‘Little Wing’ di Jimi Hendrix, per esempio… meravigliosa, ma troppo datata…”

“Ottimo. Che gruppi?”

Tomo si bloccò davanti alla ragazza: “Cosa suonate di solito? Che repertorio avete?”

“Beh, un po’ di tutto: Led Zeppelin, Pink Floyd, Iron Maiden, Metallica, Guns’n’Roses, FaithNoMore, Coheed and Cambria, Dire Straits, Three, Incubus, Muse, Nine Inch Nails, Red Hot Chili Peppers, The Killers, Green Day… insomma, non tutto di tutti ovviamente, qualche canzone, quelle che ci ispirano… poi dipende dalla situazione o dalla festa o dal festival, ci adattiamo alle circostanze, qualche volta decidiamo al momento, a seconda di quelle che ci sembrano meglio…”

Tomo si grattò la testa, ‘Accidenti!’, pensò, ‘Questi suonano TUTTO! E noi 30SecondsToMars fatichiamo con due canzoni in croce…’ “Uhm… tutti gruppi molto buoni, ma… io metterei come prima una canzone dei The Mars Volta…”

FirstLeaf mollò il librone e si alzò in piedi fissando Tomo a bocca aperta, come se avesse visto un fantasma aleggiare per la stanza: “N-no.”

“Perché?”

“Io… io non potrei mai suonare come Omar…”

Tomo fece spallucce: “Infatti tu suoni come FirstLeaf, non come Rodriguez-Lopez, che discorsi sono?”

Dana era perplessa: “Ma… ma rovinerei la canzone…”

“Macchè… le partiture le sai, no?”

“S-sì. A… a memoria.”

Tomo fece spallucce: “E allora? Non rovini proprio niente, anzi… Ne dai un’interpretazione personale, semmai… Nessuno suona come Omar…”

“Certo che no. Ma dici che io…?”

“Sì-sì. Non ho dubbi…”

FirstLeaf era semi allucinata, incredula: “E… che canzone penseresti?”

Tomo, che aveva passato le ultime settimane ad ascoltare gli album dei The Mars Volta per fare colpo su Dana, non ebbe dubbi, visto che gli erano piaciuti: “Io ti vedrei bene a suonare ‘Viscera Eyes’… Con quegli assoli di chitarra sempre diversi tra loro, con la chitarra che ad un certo punto sembra piangere, cambi di ritmo e un accompagnamento serrato… cantata in spagnolo e inglese, energetica, splendida…”

Dana spalancò gli occhi: “COSA?”

“Sì.”

“Ma…”

“Niente ma…”

“Ma … é… é difficilissima!”

“Sì, lo so. Ma tu sei brava e il pubblico ed i giudici rimarrebbero a bocca aperta. Garantito. Cappottati sulla sedia morti stecchiti.”

Dana si passò una mano quasi tremante sulla fronte, immaginando sé stessa mentre suonava con la Ibanez sul palco e che cadeva morta stecchita lei, non i giudici: “Oddio, sono già agitata al pensiero... non l’abbiamo mai fatta sul palco… in studio soltanto, per divertirci…”

Ma Tomo, ormai entrato nella parte del consigliere dei FourLeafClover, non le lasciò tempo di agitarsi e, dall’alto dei suoi ultimi ascolti musicali, enunciò, come fosse ad una finestra di Piazza San Pietro a dare la benedizione Urbi et Orbi: “Seconda canzone. Per dar tempo alla gente di riprendersi e ai giudici di rinvenire, io direi gli Alter Bridge. Un gran bel rock, mai banale, e belle parti di chitarra di un bravo Mark Tremonti. In particolare, uhm… direi… ‘Shed my skin’… Un bel crescendo, una canzone d’effetto, un coro che la gente può cantare…”

“Ma, Tomo…”

“SecondLeaf riesce ad arrivare alle note dove arriva Myles Kennedy?”

“Beh… SecondLeaf è un tenore, ha studiato al conservatorio, credo abbia quattro ottave e… penso di sì…”

“Chiediglielo perché se non arriva a quelle tonalità, rischi di rovinare la canzone…”

“Beh, se riesce a cantare come Cedric Bixler-Zavala…”

“Allora ce la fa, dai…” Tomo riprese a camminare per il salotto, mugugnando, con FirstLeaf impalata vicino al divano, l’occhio spalancato, stranamente senza parole: “Terza canzone, io vedrei bene i Tool. Per esempio… direi…  ‘46&2’… Sì, perfetta… molto spartana, cupa, notturna, con un finale secco e quasi violento. Però… uhm…”

“Cosa?”

“Come sono ThirdLeaf e FourthLeaf? Perché in questa canzone (e pure nelle altre, a dire la verità) basso e batteria sono fondamentali… E poi come suona un batterista come Danny Carey suonano davvero in pochi…”

“Beh, il bassista, ThirdLeaf, fa anche il session man, qualche volta, quando lo chiamano, e FourthLeaf andava a scuola da Travis Barker…”

“Allora siete a posto…” Tomo sorrise e si piantò davanti a Dana, contento: “Cosa dici della mia scaletta?”

“Beh…” Dana si guardò un attimo attorno e poi tornò al suo librone di spartiti, lo prese e lo chiuse. Poi si girò verso Tomo sorridendo: “E’ a dir poco… PERFETTAAAAAA!!!”

Quindi prese il suo telefonino e mandò la scaletta via sms agli altri ‘Leaf’ e Tomo, guardandola con le gote arrossate e lo sguardo che le brillava, si ritrovò a pensare che voleva assolutamente vederla suonare sul palco. “Posso venire a vederti suonare?”

“Ma Tomo… tu DEVI venire a vedermi… non posso pensare che tu non sia là con me… Te lo ordino, anzi: da maestra ad allievo, come uscita scolastica per la fine del corso…”

La parola ‘fine’ non piacque molto a Tomo, che però si limitò a sorriderle e ad imbracciare la sua chitarra, dicendole con un entusiasmo che non provava affatto: “Allora oggi proviamo le tre canzoni del concorso, dai…”

Sorprendentemente, Dana, prima di prendere a sua volta la Ibanez, gli si avvicinò e lo baciò su una guancia: “Grazie, Tomo.”

Tomo arrossì e pensò subito che il suo piano avventato stava andando nel migliore dei modi, dopo tutto, stava andando bene. Troppo bene, per non esserci una fregatura da qualche parte.

 

 

 

P.S.: Questo capitolo è interamente dedicato a Sonia e alla sua incredibile passione musicale, con tanto affetto e l’augurio che tutto si risolva nel migliore dei modi. Ti voglio bene, mia cara. :-***

P.P.S.: Per chi vuole avere un’idea delle canzoni che devono suonare i FourLeafClover, allego i link ai tre video relativi: The Mars Volta ‘Viscera Eyes’ (http://it.youtube.com/watch?v=U7mGBfJLZ6E), Alter Bridge ‘Shed my skin’ (http://it.youtube.com/watch?v=85rLUsCWg4Q) e Tool ‘46&2’ (http://it.youtube.com/watch?v=ZRe-sfb_XXY)…

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


DEL COME TOMO SCOPRE CHE IL TEOREMA DELLE MAGLIETTE FORTUNATE FALLISCE NEL CINQUANTA PER CENTO DEI CASI… O FORSE NO…

 

 

Tomo ce l’aveva fatta. Aveva passato in rassegna il novanta percento dei negozi cinesi di import-export, la quasi totalità delle bancarelle al mercato delle pulci, più della metà dei negozi che vendevano merchandising più o meno ufficiale, e alla fine, dopo oltre una settimana di ricerche, era riuscito nel suo intento. L’aveva trovata, convinto che gli avrebbe portato fortuna: era riuscito a scovare una maglietta dei FourLeafClover! Nera, con, ovviamente, un quadrifoglio rosso fosforescente stampato sul davanti. Una ennesima ciofeca ‘Made in China’, ad essere sinceri, dal costo di ben sette dollari, ma con quella addosso sicuramente avrebbe fatto colpo su Dana. Anzi: forse le avrebbe dato la ‘mazzata’ definitiva.

Pavoneggiandosi come se facesse una sfilata di moda, con la felpa nera non chiusa per mostrare meglio il suo trofeo, baffi,  barba lunga e occhiali scuri per passare inosservato al concerto, l’uomo si presentò puntuale a casa di Dana la sera del concorso musicale, per accompagnarla e rimanere a vederla suonare col suo gruppo, per la prima volta.

Tomo era riuscito per un pelo ad evitare di andare con Tim a cena da Shannon, il quale si era messo in testa che, quel sabato, mentre Jared era impegnato nell’ennesima festa per VIP, era la serata ideale per stare seduti sul divano ad ingurgitare chili di pizza, bere birra e guardare le finali del baseball per TV. Tomo aveva detto che aveva ben altro da fare e i Leto, allora, impiccioni come al solito, si erano messi ad interrogarlo sui suoi impegni, ma nemmeno la tortura cinese del solletico con una piuma sulla pianta del piede avrebbe fatto parlare il chitarrista, che, chiudendosi in uno sdegnoso silenzio, aveva fatto loro credere di avere un qualche impegno famigliare non ben identificato al quale non poteva mancare (il compleanno del gatto?)…

Ma nulla è casuale a questo mondo e quando Jane gli aprì la porta e lo fece entrare salutandolo con allegria e Tomo vide FirstLeaf scendere dalle scale interne, egli non potè fare a meno di pensare proprio a Shannon, visto che la ragazza indossava un kilt con lo stesso tartan a fantasia rossa indossato qualche volta dal loro batterista, ma almeno mezzo metro più corto, tanto da non arrivarle nemmeno a metà coscia! A Tomo mancò quasi il fiato: la ragazza indossava anche una maglietta nera aderente con tanti piccoli quadrifogli rossi disegnati, calze nere e stivali con il tacco, aveva i capelli raccolti in due code alte che le facevano ricadere una cascata di riccioli dai lati del viso, occhi truccati di nero e rossetto rosso sangue. Una bellezza da copertina… copertina del Kerrang, ovviamente!

Tomo si incantò a bocca aperta in mezzo al corridoio, mise al muro e fucilò seduta stante tutti i neuroni che avevano cominciato a scrivere una lunga lista di pensieri impuri su Dana e si limitò a dire: “Uaooooh… Sei bellissima…”

Invece Dana si mise a ridere alla vista della maglietta di Tomo dicendo: “Oddio, ma ce ne sono ancora di quegli obbrobri in giro? Ne avevamo fatte fare solo duecento, due anni fa, e ogni tanto ne salta fuori una…”

‘Sto giro a Tomo con la storia della maglietta non era andata proprio benissimo e l’uomo, un po’ deluso, tentò di glissare: “Sei pronta?”

“Certo.” Dana prese la sua giacchettina in pelle dall’attaccapanni, si infilò una borsetta nera a tracolla e si avviò alla porta. Non sembrava per nulla preoccupata.

Quasi quasi Tomo lo era per lei: “E la chitarra?”

Dana si sistemò i capelli: “E’ passato SecondLeaf a prenderla mezzora fa, con il furgone dei Leaf, così non devo portarmela dietro. La trovo direttamente al concerto.”

Tomo annuì e poi indicò il librone di FirstLeaf appoggiato sul tavolino: ”E gli spartiti?”

Dana fece spallucce: “Non mi servono.”

“Ma non devi ripassare?”

“No, perché?”

A Tomo vennero in mente i pomeriggi in tourbus con Jared a ripassare i testi e gli accordi delle loro canzoni, mentre Tim,  Shannon, Emma e il mondo intero li prendevano per il culo: “Niente, niente. Ma… ma non sei agitata?”

“No. Ormai quel che è fatto è fatto. Sono due settimane che proviamo, ormai me le sogno di notte queste tre canzoni…” Era vero. Anche Tomo le sapeva, ormai, visto che le aveva suonate anche lui. “Le conoscono anche i sassi del selciato qui fuori. Andiamo, dai…” Dana mise la mano sulla maniglia, dopo avere accettato gli ‘in-bocca-al-lupo’ di Jane, ma Tomo non era ancora convinto.

“Non prendi la mappa della città?”

“Per fare cosa?”

“Per vedere dov’è il posto…”

“So dov’é…”

“Ma se sbagliamo strada e non arriviamo in tempo…”

“Sono sempre arrivata in tempo ad un concerto, io… E poi il concerto inizia alle venti, tra più di un’ora, e noi suoniamo per quarti, cioè penultimi, tra almeno tre ore, quindi: vuoi che non facciamo in tempo?” Dana aprì la porta ed uscì nella splendida serata primaverile californiana, dicendo: “Vuoi che guidi io?”

“Ma, Dana…”

“Cristo Santo, Tomo, non ti pare di esagerare con tutte queste preoccupazioni? Mi sembri uno di quei mariti ansiosi ed agitati in sala parto. Continua così e allora sì che fai agitare anche me…”

L’uomo sospirò, prendendo le chiavi dell’auto dalla tasca: “Scusa, hai ragione.”

“E che tu dovresti essere abituato a suonare dal vivo, agli MTV Awards, al Live Aid, al PinkPop, davanti a folle oceaniche, con gente che grida e si azzuffa, no? Potresti darmi qualche consiglio, invece…”

Eh sì, come no? Consigli del tipo ‘Come scappare di corsa davanti a Jared imbufalito quando sbagli gli accordi’, per esempio? Oppure ‘Come sopravvivere ad una schiera di echelon che si tuffano sopra di te’? “Uhm… lasciamo perdere…” Tomo, quasi sbuffando, salì in auto, seguito dalla ragazza, e mise subito in moto, sperando che Dana non volesse altri consigli da lui e che, soprattutto, non lo stesse prendendo in giro.

Le indicazioni sulla strada date da Dana erano chiarissime e, in meno di mezzora, i due erano già dentro il piccolo e disordinato camerino dei FourLeafClover al locale dove si svolgeva la kermesse, un posto con già presenti un paio di migliaia di persone urlanti ed accalcate sotto il palco. Tomo sperò che nessuno lo riconoscesse, ma vide, quasi con rammarico, che la maggior parte dei rockettari che avevano incrociato dopo essere scesi dall’auto e che si dirigevano al locale, erano più interessati alla minigonna di Dana piuttosto che a lui: gli stava venendo voglia di inscatolare la ragazza dentro un burka in modo che non la vedesse nessuno, ma non poteva, ACCIDENTI!!

Allora masticava amaro, ancora di più quando Dana gli presentò SecondLeaf, che era proprio un bellissimo ragazzo e, dentro di sé, Tomo provò una punta di gelosia a vedere le confidenze che si prendeva con la sua Dana, tipo abbracciarla e tenerla stretta a sé per un lungo momento. Il ragazzo era più alto di Tomo, con lunghi capelli castani ondulati sciolti sulle spalle, un pizzetto biondo e due bellissimi occhi blu scuro; un tipico cantante rock, un misto tra James Hetfield, Joey Eppard e Chad Kroeger. Vestito di nero, con pantaloni e camicia semiaperta su dei bei pettorali scolpiti, in realtà si chiamava George, era un compagno di scuola di Dana dai tempi delle elementari e i due avevano la stessa età.

“Dov’è ThirdLeaf?”, chiese ad un certo punto Dana, truccando con la matita nera gli occhi di George, seduto di fronte a lei.

SecondLeaf indicò la porta del bagno, sorridendo: “Indovina.”

Dana si portò una mano alla fronte: “Oh nooo. E’ agitato?”

“Da morire. Ha bevuto sette camomille e ora gli stanno facendo effetto tutte assieme. E’ da dieci minuti che è in bagno.”

“Come ogni volta. Povero piccolo…”

Tomo si intromise: “Perché ‘povero piccolo’?”

“Ha vent’anni ed é molto emotivo. Sarebbe il miglior bassista al mondo se non fosse tanto ipersensibile. Fa così ogni santa volta. Prima di salire sul palco si calma, per fortuna… Quindi cerca di non farlo agitare anche tu…”

Quando, dopo un po’, la porta del bagno si aprì e ne uscì il ‘povero piccolo’ di ThirdLeaf, Tomo decise che QUELLO non era proprio il caso di farlo agitare: era un gigante di due metri, grande e grosso come un giocatore di rugby e con lo stesso cipiglio, con i capelli corti sparati in testa e colorati di rosso, camicia bianca e cravatta con la stessa fantasia della gonna di Dana. Data la possente massa corporea, era ovvio che sette camomille non gli avevano fatto niente! Forse nemmeno due boccette di Valium sarebbero potuto servire allo scopo. Una tanica? Forse…

Dana glielo presentò e ThirdLeaf, che in realtà si chiamava Tom, con un cordiale sorriso stritolò la mano di Tomo nel stringergliela, e lui non poté fare a meno di paragonarlo al loro bassista, alto sì ma che doveva pesare un quinto del personaggio che aveva davanti, visto che al confronto Tim era quasi trasparente.

All’appello mancava soltanto il batterista, che non tardò ad entrare dalla porta con il telefonino all’orecchio, mentre diceva: “No, mamma. Metti pure in forno, arrivo sul tardi. Le orecchiette al pesto? Sì, vanno bene, ma poi sai che voglio anche la cotoletta… uhm… sì sì con le patate al forno va bene… per dolce? COSA?? Cassata siciliana? Uaooooh!! Perfetta! Grazie mamma. Certo che ti voglio bene… Ciao-ciao.”

A Tomo, che non aveva cenato, venne una leggerissima acquolina in bocca al sentire tutta quella lista di cibi e FourthLeaf, dopo essere stato presentato da Dana, si affrettò subito a spiegargli che i suoi genitori avevano un ristorante sulla baia di San Francisco, che lui era di origini italiane e che si chiamava Carlo. E nonostante le abbuffate cui si sottoponeva, Carlo era magrissimo, con una coda di capelli neri lunga oltre metà schiena, baffetti e occhi neri e… un paio di pantaloni quadrettati del solito tartan rosso!

Ecco che Tomo, ora, con i ‘Leaf’ non aveva in comune solo Dana, ma pure quel dannato tartan rosso che lo perseguitava e anche un paio di  genitori col Ristorante! Casi della vita!

Però in fondo si stava divertendo con quei personaggi, anche quando il concerto iniziò e si ritrovò nel backstage con i ‘Leaf’ ad ascoltare gli altri gruppi suonare. I gruppi erano cinque e ognuno doveva presentare tre cover, i cui titoli erano noti soltanto ai giudici, che erano in dieci, tra i quali Tomo riconobbe un giornalista di una testata musicale che l’aveva anche intervistato, una volta. Non c’era un presentatore ufficiale, ma i giudici si alternavano nel presentare i gruppi e le canzoni proposte.

A Tomo scappò una grossa risata quando il primo gruppo presentò “Phase 1-Fortification” dei 30 Seconds to Mars come seconda canzone, anche se gli fecero impressione gli sguardi dubbiosi dei ‘Leaf’ che si chiedevano di chi fosse quel pezzo che loro non avevano mai sentito!

Il secondo gruppo arrischiò una ‘Kashmir’ dei Led Zeppelin che risultò piuttosto zoppicante a causa della debolezza vocale del frontman e, come aveva previsto Tomo, che per un momento pensò di darsi alla chiromanzia applicata, sia il secondo che il terzo gruppo suonarono ‘Smoke on the Water’ dei Deep Purple, la prima canzone che si impara con la chitarra elettrica. Da non credere. Qualcuno tentò una cover di ‘Unforgettable Fire’ degli U2 e qualcun altro ‘Bitter End’ dei Placebo, poi furono suonate ‘Basket Case’ dei Green Day, ‘Californication’ dei Red Hot Chili Peppers e ‘Whisky in the jar’ dei Metallica.

Il livello dei musicisti non era male, a parte qualche eccezione, ma Tomo pensò che se i FourLeafClover avessero suonato come sapevano fare, avrebbero sicuramente vinto, vista anche la complessità dei pezzi presentati.

Ma poi gli venne un dubbio improvviso…

Come suonavano i FourLeafClover?

LUI non li aveva mai sentiti, in realtà!

Aveva sentito soltanto Dana, gli era parsa brava, sicuramente superiore a tutti chitarristi che aveva visto quella sera, ma… gli altri?

Quasi gli venne un attacco di panico.

Guardò subito SecondLeaf, seduto per terra vicino a lui, già con una Fender Stratocaster nera e bianca al collo e che giochicchiava con il plettro: ma era vero che aveva una gran bella voce? Che riusciva a cantare come Bixler-Zavala e Myles Kennedy? E ThirdLeaf, che ora stava tranquillamente chiedendo al tecnico dei microfoni di metterne uno anche per lui, era davvero un gran bassista? O era Dana ad essersi presa un abbaglio? Tomo girò la testa fino a trovare FourthLeaf, appollaiato su una sedia con un panino in mano, la bocca in movimento e lo sguardo perso nel vuoto: quel tipo lì era andato a lezione da Travis Barker, da tutti riconosciuto come uno dei più grandi batteristi viventi? Ma che avesse imparato qualcosa o Barker gli aveva fatto portare via la spazzatura?

Infine si mise a fissare FirstLeaf, lontana da lui una decina di metri, appoggiata al muro con la sua Ibanez vicino, apparentemente tranquilla, intenta a studiare il chitarrista del terzo gruppo che suonava l’assolo dell’ultima canzone e si chiese cosa stesse pensando. Aveva ancora in mente il suo professorino o in quel momento la Fisica era fortemente relegata in un angolino del suo cervello? Se quella sera i FourLeafClover avessero vinto, sarebbe rimasta negli Stati Uniti o sarebbe andata comunque via?  Tomo si sentì rimescolare il sangue dalla frustrazione all’idea di Dana che se ne andava… Non poteva essere… La ragazza si girò quasi subito a guardarlo, come se avesse sentito quello sguardo puntato su di sé, e gli sorrise dolcemente, facendogli l’occhietto.

Tomo ricambiò lo sguardo e sorrise ma poi staccò gli occhi da Dana in tempo per vedere un tecnico del locale passare tra di loro con in mano una grancassa con un quadrifoglio rosso disegnato. Il chitarrista sobbalzò, senza volerlo: era ora.

Tra poco sarebbe toccato ai FourLeafClover visto che il terzo gruppo stava rientrando e uno dei giudici stava uscendo per presentarli e i ‘Leaf’ si stavano muovendo.

Per una forma di delicatezza tra musicisti, non si avvicinò a loro, ma rimase in disparte: sapeva che, come tutti i gruppi prima di un concerto, dovevano trovare la giusta concentrazione e definire le ultime intese. FirstLeaf si infilò la Ibanez, SecondLeaf si alzò e le si avvicinò, ThirdLeaf si mise al collo il basso (uno Spector ReBop4 dello stesso colore dei suoi capelli!) e FourthLeaf, con un paio di bacchette in mano, si unì al gruppo. Alcuni tecnici del suono cominciarono a piazzare le cuffiette e gli amplificatori radio addosso ai componenti del gruppo e sulle chitarre, mentre i Leaf si scambiavano sguardi,  parole e cenni che Tomo non capiva.

L’uomo non riusciva a staccare gli occhi da Dana, in realtà: la ragazza appariva determinata e concentrata, le sopracciglia leggermente aggrottate, lo sguardo severo. Controllando la lunghezza della cinghia che teneva la chitarra, Dana si tolse una ciocca di capelli che era finita sotto la stessa cinghia, sulla spalla, il plettro tra le labbra. Si sistemò la maglietta e la gonna, si passò una mano sul viso, strinse la cravatta di Tom e gli diede un buffetto sulla guancia. Ad un tratto FirstLeaf si girò a cercare Tomo con gli occhi e, quando lo vide, gli sorrise nuovamente e poi, con convinzione, gli fece il segno dei metallari con la mano sinistra, quindi, senza aspettare che Tomo rispondesse, uscì sul palco dietro a SecondLeaf, seguita dagli altri, accolti da un boato della folla.

Tomo si spostò subito da dietro le quinte verso il lato del proscenio, da dove poteva vedere bene il palco.

I ragazzi, dopo aver salutato la folla, si piazzarono tutti davanti alla grancassa di FourthLeaf, mentre Carlo prendeva posto sullo sgabello. Poi, dopo un lungo attimo in cui i ‘Leaf’ si guardavano negli occhi per cercare il momento giusto, FourthLeaf diede il via battendo le bacchette tra di loro: “One-two-three-four…”

Dana alzò il braccio e attaccò l’accordo iniziale di “Viscera eyes” in un modo tale che a Tomo scorse un involontario brivido sulla schiena: subito la ragazza si spostò verso la gente accalcata sotto il palco. Nel modo in cui la suonava, la Ibanez sembrava mandare onde di energia lungo tutto il locale, specialmente quando Dana si portò nel bel mezzo del palco, sopra una pedana sporgente e rialzata verso il pubblico.

La folla sembrava ondeggiare e Tomo vide uno dei giudici a bocca aperta, incantato dai movimenti di Dana che muoveva anche il bacino mentre suonava, ad occhi chiusi e bocca socchiusa, sembrava far l’amore con la chitarra.

Tomo in quel momento realizzò che se, quella sera, c’era una dea della chitarra elettrica scesa dal cielo per deliziare il pubblico, quella era FirstLeaf, che teneva legati alle note che si espandevano dal suo strumento un paio di migliaia di persone, incredule ed incantate.

Una maga degli accordi e degli arpeggi…

Una madonna degli assoli…

Una strega del plettro…

Una santa peccatrice che era diventata una cosa sola con la sua chitarra…

Per un momento Tomo chiuse gli occhi e si immedesimò in quello che stava suonando Dana… vide le note passargli per la mente, gli parve di suonare lui. Ma no, non poteva essere. Riaprì gli occhi di scatto. No. Lui non era così bravo… non avrebbe potuto mai…

Poi SecondLeaf cominciò a cantare e Dana si spostò per lasciarlo davanti al pubblico, in evidenza.

“Por quando te vi infermo con mentiras este ladron cuenta se dio trapa mal hecho de trampas te lo juro que yo ti se mato…”

Tomo spalancò gli occhi: in effetti la voce di SecondLeaf era simile a quella di Bixler-Zavala, anche se George ci metteva del suo, stava personalizzando l’interpretazione, così come l’accompagnamento di FirstLeaf era diverso da quello di Rodriguez-Lopez, perfetto nell’esecuzione ma differente. E visto che non c’era nessun percussionista che li accompagnasse, i ‘Leaf’ avevano trasformato quella canzone in modo da renderla meno “etnica” e più rock. Una meraviglia comunque.

E poi Dana e Tom non erano statici sul palco: presi dal ritmo e dall’energia della canzone si spostavano continuamente, si incrociavano dietro SecondLeaf, muovevano testa e gambe. Erano uno spettacolo, con tutte quelle luci quasi psichedeliche che si accendevano e spegnevano e gettavano strane ombre sul palco e sui visi dei ragazzi.

Alla fine delle strofe che componevano la prima parte della canzone, venne il momento del primo assolo di FirstLeaf: SecondLeaf si spostò verso la batteria e le lasciò spazio. La ragazza avanzò verso la gente e, piazzatasi di nuovo sul rialzo, venne inquadrata da un faro, cominciò l’assolo e… Tomo in quel momento credette di impazzire, i brividi che gli correvano lungo la schiena, la testa che sembrava scoppiargli: rispetto alla versione che aveva provato con lui per due settimane, Dana aveva cambiato tutto.

Non stava eseguendo la partitura.

Stava improvvisando.

Stava facendo la cosa che solo i chitarristi più in gamba riuscivano a fare. Mark Knopfler, Eric Clapton, Jimi Hendrix, Omar Rodriguez-Lopez… non suonavano mai la stessa cosa due volte di seguito. Tutti gli altri si limitavano a seguire quanto fedelmente scritto. Tomo per primo, che, nelle canzoni che suonava con i 30 Seconds To Mars non aveva poi chissà che assoli nemmeno per provarci. Invece solo i più bravi potevano “comporre” al momento, avendo in mente soltanto la tessitura musicale di accompagnamento.

Tomo era sconvolto, a bocca aperta.

E subito si rese conto che aveva trovato la donna della sua vita. Mai e poi mai avrebbe potuto lasciarsi scappare una creatura come quella. Era lei. L’aveva trovata, finalmente. Non aveva mai sentito niente del genere per nessuna donna, un calore che gli scaldava il cuore come non aveva mai provato, un sentimento di adorazione sconfinato.

Dana finì l’assolo e ritornò a suonare gli accordi base, SecondLeaf cantò il breve ritornello che tagliava a metà la canzone e poi si fermò, lasciando che Dana facesse un’arpeggio e poi...

Tomo, concentrato com’era su FirstLeaf, non aveva fatto tanto caso a FourthLeaf e alla sua parte ritmica. L’aveva sottovalutato. Sbagliando. Il ragazzo, accompagnato da ThirdLeaf, iniziò un assolo di batteria che avrebbe fatto impallidire Shannon: Carlo batteva così velocemente su timpano, rullante, sui tom e sui vari piatti attorno a lui, che Tomo faticava a vedere le bacchette. Era velocissimo. L’assolo di Carlo si concluse con un cambio di ritmo della canzone, che divenne più veloce, e venne seguito da un secondo assolo, ancora improvvisato e ancora più spedito del primo, di FirstLeaf, inginocchiata per terra in mezzo al palco, con i capelli che sembravano dotati di vita propria, come Medusa, e gli occhi chiusi, mentre le note di una chitarra quasi piangente si spandevano nell’aria.

Tomo concluse che i FourLeafClover erano bravissimi e che avrebbero vinto sicuramente. E questo poteva anche significare che Dana avrebbe forse rivisto i suoi piani futuri.

La ragazza, con il viso sudato, si rialzò per eseguire l’ultimo pezzo dell’accompagnamento mentre SecondLeaf cantava l’ultima strofa, ma improvvisamente… Dana si bloccò guardando ad occhi spalancati tra il pubblico, dalla parte destra del locale, e a Tomo sembrò impallidire. Poi di scatto girò le spalle al pubblico e si avviò verso la batteria, ma era chiaro che non lo faceva per fare spettacolo. Sembrava all’improvviso impaurita, aveva perso la sua freddezza, il suo desiderio di stare sul palco era scemato.

La canzone finì.

Dana chiuse l’ultima battuta e poi, senza ringraziare il pubblico che la applaudiva, si precipitò dietro le quinte, quasi franando addosso a Tomo. Si tolse subito la chitarra, la infilò attorno al collo dell’uomo e gli disse: “Devi suonare tu al posto mio, SUBITO…”

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


DEL COME TOMO SCOPRE CHE NON ESISTONO SOLTANTO I 30 SECONDS TO MARS.

 

 

Tomo era quasi senza parole: “C-come?”

“Devi suonare, Tomo! Al posto mio, ORA!!!”

SecondLeaf era arrivato anche lui dietro le quinte di corsa e Tomo tentava di togliersi lo strumento sfilandosi la cinghia dalla testa e schernendosi: “Ma perché? Non posso, dai…”

George chiese cosa stesse succedendo, mentre Dana teneva la chitarra addosso a Tomo in modo che non se la potesse togliere: “Ti prego, ti prego, Tomo… C’è… c’è Julius in platea. Io…”. Dana si mise le mani sulla testa, disperata: “Da non credere… io… non so cosa faccia qui, ma… ma se mi vede sono… rovinata, lo sai, no? Ti prego, Tomo…”

Tomo era decisamente a soqquadro: “Oddio santo, come faccio?”

“Le conosci le canzoni successive, Tomo?” chiese SecondLeaf, mettendogli una mano sulla spalla.

Finalmente Tomo riuscì a sfilarsi la Ibanez ed appoggiarla al muro lì vicino: “S-sì… ma…”

FirstLeaf gli si attaccò al collo: “Ti prego, ti prego… aiutaci… ti basta soltanto suonare le partiture che abbiamo studiato. Le sapevi quando le abbiamo provate giovedì, le sai anche ora… ti prego…”

“Ma io…”

Dana era disperata, il bel volto sofferente: “Nella scaletta di stasera ci sono quelle che hai studiato anche tu, ti prego, Tomo, mi hai già salvato una volta con la torta…. E questa è l’ultima volta che ti chiedo un favore… ti prego…”

Tomo si grattò la testa: vabbé, fare una torta era una cosa, suonare con un gruppo mai visto prima d’ora un’altra: “Preferirei farti un’altra torta…”

Dana si portò le mani alla faccia, mentre tra il pubblico cominciava a serpeggiare qualche fischio: “Oddio… siamo rovinati… e tutto per colpa mia…” La ragazza si sedette per terra, ai piedi di Tomo, distrutta, tirando la camicia a SecondLeaf. “George, io… io non posso, per favore… non posso suonare… non posso…”

SecondLeaf le accarezzò la testa, con tenerezza: “Lo so, lo so, ho capito. L’ho visto anch’io, il tuo prof…” Poi si rivolse a Tomo: “Tomo, dai, ce la puoi fare. Se Dana dice che conosci bene le due canzoni, io le credo. Ci puoi aiutare? Suona al posto di Dana… per favore…”

Nel frattempo erano arrivati anche un paio di giudici a chiedere dell’accaduto, e Carlo e Tom, abbandonato il palco e capito che Dana non avrebbe suonato più, si erano messi a fissare Tomo con occhio implorante.

“Allora vi ritirate dalla gara?” chiese improvvisamente uno dei giudici, con un bloc notes in mano, dopo che George gli aveva detto che Dana non si sentiva tanto bene.

SecondLeaf guardò per un istante i visi di Carlo e Tom e poi Tomo e disse, con una certa dose di sofferenza nella voce, sospirando, mestamente: “Sì.”

Ma a Tomo passarono improvvisamente per la testa mille immagini ravvicinate: si ricordò dei suoi esordi, della sua prima chitarra costruita con il papà, degli scantinati puzzolenti in cui suonava con i suoi amici, riprovò la frenesia che ci mettevano nel tentare di rifare i successi che sentivano alla radio, la speranza di diventare famosi che bruciava nelle vene, la passione che… la passione… oddio… e da quanto tempo non provava queste cose?

Si guardò intorno: gli occhi dei ‘Leaf’ bruciavano della medesima passione, che però non avrebbe portato a nulla se lui non li avesse aiutati. E allora doveva farlo, se lo meritavano. Lui non aveva niente da dimostrare a nessuno, era arrivato alla sua meta, ormai: ma i ‘Leaf’ no e, senza il suo aiuto, quella sarebbe stata un’ottima occasione persa, per non parlare del fatto che, se avessero vinto il contratto discografico, Dana forse non se ne sarebbe andata. Fatti i debiti conti, doveva farsi avanti. “No. Non ci ritiriamo.” Tomo si rimise a tracolla la chitarra di Dana, con decisione. Poi si rivolse ai giudici, mostrando la sua maglietta: “Suono io al posto di FirstLeaf. Vedete? Sono il suo sostituto. Si può, vero?”

Il giudice annuì, scrivendo sul bloc notes: “Sì, certo. Basta che facciamo presto. Presento la prossima canzone, allora.”

Tomo annuì, mentre si sistemava la chitarra e sentiva lo sguardo di FirstLeaf puntato su di lui e gli altri ‘Leaf’ che lo ringraziavano calorosamente. Mentre il giudice presentava la canzone e le luci si abbassavano perché il pezzo era piuttosto d’atmosfera, Tomo cominciò a ripassare mentalmente ‘Shed my skin’ degli Alter Bridge: una sola chitarra, arpeggio iniziale, poi qualche accordo con distorsione, poi senza, poi il bridge, etcetc… nessun assolo, solo un accompagnamento importante, fatto bene e quindi… ma sì, cazzo… lui  non era Tremonti, che suonava con la sua PRS Tremonti II personalizzata con le effigi di gabbiani incastonati nei capotasti, ma era o non era un chitarrista rock? Certo che sì… e non aveva bisogno del DVD ‘The Sound and the Story’ dello stesso Tremonti per imparare qualcosa. E davvero, come aveva supposto Dana, aveva suonato al PinkPop un paio di anni prima, davanti ad un paio di decine di migliaia di persone urlanti e sotto una pioggia torrenziale… non poteva certo farsi spaventare da quella situazione. E, porca puttana, era stato in Groenlandia su un iceberg alla deriva, avrebbe dovuto aver paura di suonare lì, in un teatro? Ma andiamo, via… che cazzo di dubbi si faceva…

SecondLeaf gli fece segno di uscire e Tomo lo seguì, con convinzione, piazzandosi a pochi metri da lui, mentre George, senza chitarra, prendeva in mano il microfono e si sistemava le cuffiette negli orecchi.

Subito Tomo guardò sulla destra del teatro per vedere se c’era ancora Julius ed in effetti lo scorse, appoggiato alla parete, che scrutava sul palco semibuio, lui, un lord inglese, chiaramente fuori posto in mezzo a quella massa di rockettari. Chissà perchè era lì e chissà se il professorino aveva riconosciuto Dana. Tomo sperò di no. Per un momento si girò verso le quinte e la guardò: FirstLeaf era ancora seduta là per terra e, ad occhi spalancati, guardava sul palco, tormentandosi le mani. Tomo le fece l’occhietto e poi si girò subito a guardare SecondLeaf, che annuì e gli disse, sottovoce: “Quando vuoi, Tomo…”

Tomo prese un plettro appeso al microfono, scacciò un dubbio improvviso su cosa avrebbero potuto dire i Leto se avessero saputo che stava suonando con un altro gruppo, deglutì un groppo di saliva e poi iniziò l’arpeggio, perfettamente. E, dopo poche note, SecondLeaf iniziò a cantare.

I am not alone, I live with the memories, regret is my home. This is my true freedom…”

Tomo chiuse gli occhi per un attimo e continuò a suonare, perso nella voce di George che cantava la prima strofa. Quella canzone era decisamente una meraviglia e, ad un tratto, le parole del testo sembravano quasi riflettere le difficoltà in cui Tomo si trovava, specialmente quando la scena si illuminò di una calda luce blu, con energia entrarono basso e batteria, il chitarrista passò agli accordi distorti e George cominciò a cantare il pezzo appena prima del ritornello che diceva: “It seems I've gone away, it seems I've lost myself, it seems really lost my way, it seems I've lost myself, it seems I've… shed my skin…”

Accidenti se era vero: Tomo ad un tratto si sentì di aver perso qualcosa, di non essere più lui, di non riuscire più a fare quello che era capace. Eppure… era lì… era il solito Tomo… e ora stava suonando con quei ragazzi, senza problemi, senza sbagliare… perché allora con i 30 Seconds To Mars era diverso… Cosa aveva perso? Cosa c’era che non andava? Cos’era cambiato col tempo? Stava cambiando ‘pelle’? Come i camaleonti che ne cambiavano soltanto il colore o come i serpenti che la perdevano perché sotto avevano una pella nuova? Aveva anche lui una ‘pelle nuova’ sotto? C’era forse una ‘pelle vecchia’ che gli faceva da zavorra e che doveva buttare al più presto?

La canzone, da brividi, scivolava via: la seconda strofa finì e, dopo il bridge, la canzone si avviò verso il finale, con SecondLeaf che era riuscito a coinvolgere così tanto il pubblico che l’ultimo ritornello lo cantarono tutti, le braccia alzate, con ThirdLeaf che faceva il coretto finale e con Tomo che suonava saltellando per il palco, in perfetta sintonia con gli altri musicisti.

Alla fine della canzone, i ‘Leaf’+Tomo non lasciarono nemmeno salire sul palco il giudice a presentare l’ultima canzone, perché Tomo, in accordo con gli altri, si portò sul davanti del palco ed iniziò subito l’inconfondibile arpeggio iniziale di ‘46&2’ dei Tool. Tutto il pezzo iniziale, con George che cantava, era sulle spalle del chitarrista, con un accompagnamento ipnotico, ripetitivo, cupo. Le luci ora erano rosse, lampeggianti, come gocce di sangue che cadevano sul palco, sembrava di essere dentro un cuore, specialmente quando entrò la grancassa di FourthLeaf in sottofondo. Tomo si sentiva fuggire via l’anima, da quanto gli piaceva suonare quella canzone.

E, da non credere, anche quel testo fu percepito da Tomo come se lo riguardasse, visto che, in una strofa, George cantava: “I wanna feel the changes coming down, I wanna know what I've been hiding in… my shadow… my shadow… Change is coming through my shadow…”: cosa era cambiato (o forse stava cambiando) in lui? Che cosa voleva ora che prima non si era accorto di volere? Dietro dove si era nascosto? Dietro la sua ombra? Tomo era quasi senza fiato, mentre suonava come se fosse in trance: gli parve che tutto lo stesse portando verso una qualche conclusione, sapeva che quella sera lui sarebbe riuscito a capire il perché della sua situazione. Sentiva che da qualche parte, non molto lontano, c’era l’illuminazione e forse anche la soluzione. “I choose to live and to lie, kill and give and to lie, learn and love and to do what it takes to step through…” Sì… c’era una soluzione…

Nella parte finale della canzone, tutta batteria e chitarra distorta, SecondLeaf si spostò, la luce si restrinse su FourthLeaf che, con l’aiuto di Tomo che lo accompagnava con gli ultimi accordi, con un paio di battute sul rullante e sul china ben assestate, diede il colpo di grazia alla giuria, lasciando un pubblico decisamente in delirio per loro!

Subito tutte le luci si accesero e Tomo si riscosse, quasi dispiacendosi che fosse tutto finito. I ‘Leaf’ si spostarono davanti per raccogliere gli applausi. Tomo guardò al lato del teatro: Julius non c’era più e chissà da quanto. Allora il chitarrista chiamò FirstLeaf per ricevere gli applausi assieme a loro, dopo averle fatto segno che il professore non c’era. La ragazza uscì, salutando il pubblico: quasi quasi era sembrato come se i FourLeafClover in realtà fossero stati in cinque e che due chitarristi si dessero il cambio a seconda della canzone suonata. I FourLeafClover erano bombardati dai flash dei fotografi e li applaudivano anche i giudici. Buon segno. I cinque, tenendosi per mano, si inchinarono un’ultima volta e poi uscirono, felicissimi.

Tra le quinte, FourthLeaf iniziò a saltare su e giù con ThirdLeaf dicendo “Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta!”, mentre SecondLeaf batteva una mano sulla spalla a Tomo e con l’altra teneva abbracciata Dana, che guardava il chitarrista con occhi adoranti.

“Sei stato bravissimo, Tomo. Davvero mitico…”

Tomo si schernì subito, quasi arrossendo, togliendosi la Ibanez e porgendola a FirstLeaf: “Ma no, non è stato niente.”

Ma George continuava: “Accidenti, devi suonare in un gruppo di musicisti sensazionali, per avere una padronanza tale del palco da poter suonare con chiunque e con un preavviso così breve…”

Tomo fece spallucce, sorridendo, e lo salvò dal rispondere a George solo il fatto che l’ultimo gruppo aveva iniziato a suonare. Riprese subito il filo dei suoi pensieri: Sì-sì, ‘musicisti sensazionali’ i 30 Seconds to Mars? Come no? Diciamo bravi, via, non di più… E continuamente stroncati dalla critica, quello sì… E poi senza una collocazione musicale definita: Emo/non-emo? Alternative? Pop-rock? Rock? Boh…

Il dubbio che lo stava rodendo ricominciò a fargli male.

Gli venne in mente che anche quello poteva essere uno dei motivi per cui aveva perso la fiducia in sé stesso: lui aveva sempre sognato di far parte di un gruppo di musicisti VERI, senza indeterminatezze su genere e capacità, il cui pubblico fosse costituito di gente che se ne intendeva di musica, che li adorava per la loro musica, non solo per la loro bella faccia… Nella sua mente cominciò a formarsi il puzzle delle motivazioni. Sì, quella era una: lui in realtà non si sentiva trattato come un musicista vero. Era solo un’immagine di sé stesso, un’ombra, una sagoma, un bamboccio truccato…

E poi da quando era con i Leto non aveva fatto altro che suonare le stesse cose per anni, non era progredito, non aveva imparato nulla di nuovo, non aveva composto una canzone che fosse una. Si era fossilizzato, come musicista. Aveva solo eseguito le partiture di altri, quelle scritte da Solon o da Jared, senza metterci nulla di suo. E ora Dana gli aveva dato uno scossone e anche, senza volerlo, una possibilità di rinascita.

E poi lui non decideva mai niente, non aveva voce in capitolo sulle cose che riguardavano i 30 Seconds To Mars: non poteva mettere bocca sui pezzi, sulle date delle tournee, sulle interviste, sui costumi, sui video, su… NIENTE. Decidevano tutto i Leto. E quindi alla fine lui NON era i 30 Seconds To Mars. A questo punto si poteva dire che fosse solo un session man, niente di più e niente di meno di come veniva trattato Tim. Al pensiero, gli prese quasi un moto di rabbia: essere parte di un gruppo voleva dire mettersi in gioco, mettere la propria passione, mettere tutto sé stesso in modo paritario e non fare il servo della gleba dei Leto. Tomo si sentì di essere stato in qualche modo soltanto usato.

E poi gli venne in mente un’altra cosa: da quanto tempo non provava VERA passione nel suonare con i 30 Seconds To Mars? Da quanto il momento in cui saliva sul palco lo viveva solo con il terrore di sbagliare gli accordi e non come vero piacere di suonare? Da quanto aveva desiderio di rimanere a letto a dormire piuttosto che andare in studio di registrazione?

Da sempre.

Con i 30 Seconds To Mars era sempre stato così.

Fin dall’inizio. In realtà era sempre stato terrorizzato di sbagliare a fare le cose, con i Leto, a partire dai concerti e finendo con le interviste, in cui, tra l’altro, non parlava quasi mai, per paura di dire cose che potevano non piacere ai fratelli terribili.

Ecco… a posto.

Tomo improvvisamente si rese conto di avere capito tutto: i Leto gli avevano dato tanto (un gruppo affermato, la fama, i soldi, le donne…) ma gli avevano anche tolto tanto: la passione, l’amore per la musica, la spontaneità, la creatività, la libertà…

Mentre era soprappensiero e stava guardando, senza vederli, i ragazzi dell’ultimo gruppo, non si accorse che Dana gli si era avvicinata e gli stava parlando, dopo avergli appoggiato una mano sul braccio, delicatamente.

Tomo sbatté gli occhi: “C-come?”

“Ti senti bene, Tomo?” Gli stava dicendo, con dolcezza.

“Sì, sì.”

“Sei sicuro?”

“Sì. Scusami… ero soprappensiero…”

“Sei tutto sudato, vuoi un po’ d’acqua?” Dana gli porse una bottiglietta, guardandolo un po’ preoccupata.

Tomo si asciugò il sudore dalla fronte con il braccio, accettando l’offerta, sorridendo. Oddio, preso com’era dai suoi pensieri non si era accorto che stava grondando. “Oh… Sì, grazie, Dana…”

“Vieni a sederti con noi?”

Tomo annuì e seguì Dana verso la parte interna delle quinte, dove i ‘Leaf’ si erano tutti seduti su una panca, in attesa del verdetto. Non ci volle molto: il quinto gruppo era il peggiore di tutti. Tomo, riemerso dai suoi pensieri, non riconobbe nemmeno le canzoni suonate e Dana disse che si trattava di tre canzoni di uno stesso gruppo punk noto in California una decina di anni prima. Una scelta piuttosto bizzarra, che non aveva portato alcun giovamento a quell’ultimo gruppo, se non una bella selva di fischi da parte di un pubblico quasi inviperito.

Ed ora era già arrivato il momento della proclamazione del vincitore. Tomo, in cuor suo, non aveva dubbi, ma George, forse per scaramanzia, sosteneva che anche il primo gruppo era stato ottimo. I giudici passarono per andare sul palco ad annunciare il gruppo vincitore, mentre tutti i musicisti si assieparono ai lati del proscenio per sentire.

Dana, dicendo che non voleva ascoltare, nascose la faccia contro la maglietta di uno sconcertato Tomo, stringendoglisi addosso quanto bastava per farlo sentire in paradiso, mentre lui la stringeva tra le braccia.

Un giudice cominciò a parlare: “Su richiesta della casa discografica indipendente XYZ-California, avevamo la missione di trovare un gruppo sul quale ci fosse la possibilità di lavorare. Un gruppo che potesse avere ampi margini di crescita, partendo da una solida base musicale. Un gruppo capace di fare provare delle emozioni anche suonando canzoni non proprie. E noi pensiamo di averlo trovato. Qui. Stasera.” Il microfono passò ad un altro giudice: “Niente da aggiungere! Con un margine immenso, i vincitori sono: i FOURLEAFCLOVEEER!!!”

Carlo, gridando, balzò in groppa a Tom come su un cavallo e il bassista si catapultò sul palco con una agilità insospettata, quasi galoppando. George, un sorriso da fotoromanzo, prese per mano una Dana che, mollata la maglietta di Tomo, gridava dalla contentezza e si avviò pure lui sul palco. Tomo rimase dietro le quinte: nonostante avesse suonato anche lui, il successo era tutto dei FourLeafClover; lui, in fondo, non c’entrava nulla e non poteva certo contrarre altri contratti discografici con chicchessia! Dana e George lo chiamarono un paio di volte, ma Tomo fece segno di no: non era giusto che si intromettesse. I ‘Leaf’ suonavano da anni insieme e lui era stato soltanto un ripiego di una mezzora. Per un attimo li invidiò, mentre ricevevano dalla giuria la busta con il contratto ed un trofeo: avrebbe voluto essere al loro posto, riprovare quelle sensazioni che lui aveva ormai perduto. Ma quelli erano problemi suoi e il momento era tutto dei ‘Leaf’.

“E ora i FourLeafClover per chiudere la serata ci presenteranno un altro pezzo! Va bene, ragazzi?”

Dana rientrò velocemente dietro le quinte e si avvicinò a Tomo: “Te la senti, Tomo? Suoniamo ancora e tu suoni con noi.”

“Ma… e’ il vostro momento… io…”

“Insisto, dai…”

“OK. Cosa?”

“Pensavamo ‘The Running Free’ dei Coheed and Cambria. Ti va?”

“Sì, ma… non ho la chitarra…”

“Te la presta George. Lui canta soltanto.”

Tomo annuì: suonare con Dana una canzone che avevano provato tante volte ma su un palco vero e non in un salotto, era una cosa che aveva sempre desiderato. “Va bene. Tu fai la parte di Sanchez, io quella di Stever.”

Dana annuì, riprendendo la Ibanez e sorridendo: “OK.”

Il palco si svuotò e i tecnici cominciarono a sistemare nuovamente gli strumenti dei ‘Leaf’. SecondLeaf, ringraziandolo per l’ennesima volta e sorridendo, mise intorno al collo di Tomo la sua Fender Stratocaster come fosse la medaglia d’oro delle Olimpiadi e in un attimo i FourLeafClover+Uno erano pronti per uscire. Dana si piazzò ad un lato del palco, con Tomo vicino: l’intro toccava a loro. La chitarrista, investita da luci bianche, attaccò subito gli accordi iniziali, seguita da Tomo e poi da tutti gli altri componenti del gruppo e ne venne fuori l’ennesima meraviglia di canzone, compreso il coretto di FirstLeaf e ThirdLeaf. Tomo non conosceva il testo del pezzo, ma quando George cantò il bridge in cui si diceva “There are no secrets you can hide from yourself, in your mind, leave the worst of all behind… Cause you're going home… You're running free… As only you would be if you never owed them anything… And now you've found your way out… In the trust you've seen your path on home…”, Tomo, sorridendo contento a Dana, si sentì di avere compreso finalmente appieno il suo problema.

E si sentì libero, leggero, fluttuante nell’aria.

Come non lo era da tempo.

Come, forse, non lo era mai stato.

E per tutta la serata, passata a festeggiare in una pizzeria con i suoi nuovi amici, Tomo si sentì d’incanto, anche quando fu il momento di riportare a casa Dana in auto.

La luce della luna, giusto sopra i gradini d’entrata, si rifletteva negli occhi scuri di Dana che, in piedi su uno dei pochi gradini, aveva il viso alla stessa altezza di quello di Tomo. L’uomo, stregato da quella ragazza, credette di non averle mai visto un sorriso simile, mentre la ragazza gli diceva: “Grazie per… per avere salvato i FourLeafClover.”

Tomo, al solito, si schernì: “E’ stato un piacere.”

“Spero che tu non ti sia sentito usato… non me lo perdonerei…”

Dana era una vera musicista per poter pensare una cosa del genere e a Tomo questo pensiero fece piacere. “No, per nulla. Tranquilla. Ho fatto un favore a degli amici, dai… E poi… beh mi è servito anche per capire un bel po’ di cose, utili per me. Per risolvere il mio problema.”

Dana gli appoggiò una mano sulla spalla: “Ah sì? E cosa hai capito?”

Tomo si schiarì la voce: “Che posso fare di meglio di quello che faccio attualmente e, anzi, che devo pretenderlo da me stesso e anche, e forse soprattutto, dagli altri.”

“Uhm… cose importanti, direi. E poi?”

“Che in fondo in fondo non sono malaccio…”

Dana sorrise: “E’ vero. A proposito: sei promosso! Domani manda i tuoi genitori a ritirare la pagella, OK?”

Tomo scoppiò a ridere: “Ooooh… grazie maestra!”

“E poi, qualcos’altro?”

“Sì.” Era il momento. Doveva dirle quello che provava. Tomo alzò una mano e accarezzò il viso di Dana: “Che non ti voglio perdere… e che se vai via io… io dirotto l’aereo… e ti riporto qui!”

Dana scoppiò a ridere, mentre Tomo, ridendo a sua volta, le metteva un braccio attorno alla vita: “Accidenti! Nessuno ha mai dirottato un aereo per me!”

“Dico sul serio…”

“Certo… Tu ormai sei il mio eroe salvatore… posso anche credere che potresti farlo, armato di torta e/o chitarra elettrica, a scelta…” Dana alzò una mano ad accarezzargli una guancia, poi passò un dito su un baffo di Tomo che piegava all’ingiù, rimanendo incantata a fissare gli occhi neri di quel ragazzo così particolare, i suoi capelli lisci e scuri che ora portava tagliati corti, quell’espressione pulita, quasi da bambino, chiedendosi per l’ennesima volta se fosse davvero una rockstar, trovandolo invece così schietto e genuino, così limpido da… da voler dirottare un aereo per lei! In fondo in fondo gli piaceva. Non sapendo che fare, gli sorrise, in attesa della mossa successiva del chitarrista, che non si fece attendere.

Tomo rise appena per il suo nuovo ruolo di super-eroe, appoggiò timidamente la sua bocca su quella di Dana e le diede un piccolo bacio, timoroso che la ragazza rispondesse con un montante destro. Ma non successe: quando si staccò per guardarla, Dana sorrise, lo fissò un attimo e poi gli passò le braccia attorno al collo, attirandolo a sé e rispondendo con un bacio più esplicito. Tomo immediatamente la strinse più forte, avvertendo che i suoi neuroni stavano svenendo uno dopo l’altro e il desiderio fisico di lei si accentuava di momento in momento, a sentire il sapore delle labbra di Dana, le loro lingue delicatamente a contatto, il corpo esile della ragazza premuto contro il suo, mentre FirstLeaf gli accarezzava i capelli sulla nuca.

Dopo un attimo Dana si staccò ed iniziò a cercare le chiavi dentro la borsetta. Poi aprì la porta di casa: “Vieni, Tomo…”

Ma l’uomo ebbe un attimo di esitazione: “Sei sicura, Dana? Io… lo sai che non ti resisto… Non voglio crearti problemi… Se entro, sai come potrebbe finire…”

La ragazza gli si avvicinò e gli prese una mano per tirarlo verso la porta: “Sì. Finisce come vogliamo che finisca.”

La strana sicurezza di Dana mandò a pezzi la presunta sicurezza di Tomo. C’era qualcosa che non andava, non poteva essere così semplice, quasi superficiale, altrimenti non avrebbe avuto alcun valore: “Non devi sentirti obbligata, non… non farlo per i FourLeafClover, non ti voglio come una sorta di compenso per avervi aiutato…”

Dana strabuzzò gli occhi: “Non mi era nemmeno passato per la testa una cosa del genere, non sono in vendita io… Te l’ho già detto, mi pare…”. Poi gli toccò nuovamente il viso: “Stasera voglio stare con te, perché voglio te e basta… senza altre ragioni…”

Nemmeno Tomo era in vendita e nemmeno i suoi sentimenti: “E Julius? Chi è per te?”

Dana fece una specie di smorfia ma non rispose: “E tu? Chi sei per me?”

“Non lo so. Io so chi vorrei essere per te, ma non so se sei tu a volerlo. Vuoi che io sia qualcuno per te, Dana?”

La ragazza cominciava ad innervosirsi: “Dobbiamo deciderlo ora? Prendo il PC e facciamo un programma al computer per decidere? O vuoi che lasciamo fare al nostro istinto?”

Eh già… l’istinto… Fosse stato per Tomo, lui avrebbe preso Dana in braccio, l’avrebbe portata in camera da letto, amata tutta la notte e, il mattino dopo, l’avrebbe presentata ai suoi genitori, ad Ivana e a Filip, e magari sposata prima di sera, per essere certo di non perderla più… alla faccia dell’istinto. Ma… Dana? Dana lo voleva per quella notte e poi… basta? Poi si laureava, faceva le valigie, se ne andava in Inghilterra con Julius, magari se lo sposava, diventava Lady Carnarvon e ciao-ciao-Tomo-scopata-di-una-notte? “Io parlo di sentimenti, Dana…”

Dana si morse un labbro e aggrottò le sopracciglia, dubbiosa. Sentimenti? Un uomo come quello che le parlava di sentimenti? Ma da che pianeta veniva? Ad una avance come quella che gli aveva fatto lei, un altro uomo non avrebbe fatto altro che seguirla dentro casa, senza remore e rimorsi, altrochè sentimenti… E invece Tomo le parlava come in un romanzo d’amore d’appendice? Accidenti, doveva essere proprio partito per lei… e allora doveva essere sincera, con lui. Sospirò, abbassò gli occhi per un attimo e poi gli disse: “Io… Non ho chiaro cosa sento per te, Tomo. Non lo so… Tu… sei strano, sei unico, sei raro, non ho mai conosciuto un tipo come te, io… Dammi tempo, per favore… E… stanotte… non mi lasciare… se vuoi…”

Poi gli si avvicinò e gli mise le braccia attorno alla vita, appoggiando il viso sulla spalla dell’uomo, gli occhi chiusi, percependo il suo profumo. Il chitarrista le passò le braccia attorno alle spalle e la strinse subito a sé, sospirando. Dana era stata sincera con lui, era quello che Tomo voleva: sapeva, da quello che le aveva detto la sera in cui l’aveva picchiato, di non poter pretendere dichiarazioni d’amore strappalacrime da quella ragazza, ma almeno la verità, sì. Lui non le era indifferente, dopo tutto, non sapeva fino a quanto, ma non lo era. E non poteva andarsene. Doveva farle capire quanto la amava. Ora. “Sì, Dana. Lo voglio.” Poi le prese con dolcezza il viso, lo diresse contro il suo e cominciò nuovamente a baciarla.

I due ragazzi entrarono in casa abbracciati, scambiandosi baci leggeri e carezze. Si tolsero le scarpe e subito Tomo prese Dana per un braccio e la attirò sul divano, contro di sé, riprendendo a baciarla con passione, accarezzandole la schiena e le spalle, sciogliendole le code di capelli. Dana rispondeva con altrettanta foga, stringendolo a sé così forte che a Tomo mancava quasi il fiato. Poi l’uomo la fece scivolare sotto di sé, su quel divano dove mille volte si erano seduti a suonare, e cominciò lentamente a spogliarla, sfilandole la maglietta, le calze, il kilt. Perso nelle sensazioni che gli dava il fatto di accarezzare la pelle bianca e setosa di Dana, Tomo lasciò che la ragazza gli sfilasse la maglietta dalla testa e gli baciasse il petto e le spalle.

Arrendevole e con il cuore che sembrava sciogliersi, Tomo lasciò fare anche quando Dana, dopo essersi tolta il resto dei vestiti e averli sfilati anche a Tomo, si alzò, lo fece sedere e poi gli si mise sopra a cavalcioni, con le ginocchia ai lati delle sue gambe. A Tomo quasi mancò il fiato: la abbracciò nuovamente e riprese a baciarla, accarezzandole i seni e i capelli, mentre la ragazza lo faceva scivolare dentro di lei con decisione e cominciava subito a muoversi. “Oddio, Dana…” le sussurrò, con le cellule cerebrali allucinate, il fiato corto, incredulo di provare sensazioni simili.

Tomo sentì improvvisamente che, con Dana, anche fare l’amore era diverso: la loro gli parve non solo l’unione di due corpi, ma di cuori e di passioni… per un momento sperò anche di anime.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


DEL COME TOMO-QUASI-FIFTHLEAF E DANA-FIRSTLEAF SCOPRONO CHE ESISTONO (PURTROPPO) ANCHE I 30 SECONDS TO MARS.

 

 

Tomo, felicissimo e con negli occhi e nel cuore l’immagine della bella Dana addormentata tra le sue braccia, arrivò in sala di registrazione in tarda mattinata a passo di marcia, come se fosse preceduto da una banda con centocinquanta ottoni, convinto di ribaltare il mondo con un sol gesto e sicuro di far valere le sue ragioni, musicali e non, con la premiata ditta fratelli-Leto-insopportabili.

Aveva capito il suo problema: ora doveva solo risolverlo, o almeno, tentare.

E non poteva esserci giorno migliore, visto che toccava proprio a lui registrare, sebbene fosse domenica, le sue parti di chitarra in alcune canzoni, mentre Shannon (barba lunga, occhiali scuri, cappuccio della felpa in testa, muso lungo, fratello insopportabile numero uno) e Jared (barba lunga, camicia a quadri, coda di capelli, muso lungo, fratello insopportabile numero due) coordinavano i lavori e Tim (barba tagliata, felpa scolorita, capello selvatico, muso lungo, fratello in sofferenze), che aveva registrato i suoi pezzi il giorno prima, se ne stava accucciato su un divano con la sigaretta in bocca (spenta, altrimenti Jared lo avrebbe sicuramente soppresso) e il suo basso in mano.

L’atmosfera non era delle migliori, ma tutto stava andando comunque per il meglio, se non che Tomo, rinchiuso nella saletta di registrazione con la chitarra al collo e le cuffie agli orecchi, improvvisamente saltò su con un quasi convinto “Io… beh, in questi giorni ho scritto un assolo di chitarra che potrebbe essere perfetto per questa parte e…”

Jared, ovviamente, al sentire che qualcuno aveva scritto qualcosa e quel qualcuno non era lui, lo interruppe subito, rianimandosi: “Non importa Tomo, qui non va bene, lo sai…”

Ma Tomo era già sullo scazzeggio, aspettandosi una risposta del genere: “Provo a suonartelo, OK? E poi decidiamo…” E il plurale era decisamente maiestatis.

“Ho detto di no.”

Tomo sbuffò, Tim alzò gli occhi al cielo, Shannon prese Jared per un braccio e gli disse, sottovoce: “Dai… fallo provare, sono due mesi che va a scuola, magari gli è venuto bene…”

“Ma…”

Shannon cominciò a stringere il braccio del fratello: “Dai Jay… Che cazzo! Non fare lo stronzo, dagli un po’ di credito…”

Jared sospirò, guardando male il fratello e togliendosi la sua mano di dosso, quasi disgustato: “OK, Tomo. Facci sentire.”

Tomo si sistemò le cuffie: “Va bene. Allora questo pezzo va tra la strofa e l’ultimo  ritornello, quando finisce l’arpeggio di DO. OK?”

Uno dei due tecnici del suono presenti nello studio spuntò da dietro una consolle: “Lo registro?”

“No!” Disse Jared.

“Sì!”, dissero in coro Shannon, Tomo e Tim. E Leto senior, lanciando un’occhiataccia, da dietro gli occhiali, all’anima nera di suo fratello, subito aggiunse: “La maggioranza vince. Registra, Ben, e poi alla fine mixalo con quello che abbiamo già registrato, OK?”

Il tecnico annuì e poi disse: “Tomo, quando vuoi…”

Tomo tirò fuori dal taschino dei pantaloni un foglio tutto accartocciato, lo stirò con una mano, lo appoggiò sul porta-spartiti e poi iniziò a suonare il suo assolo, tra lo stupore malcelato dei presenti, che diventò anche maggiore quando Ben, velocemente, mixò il tutto e ne uscì, completo della base musicale, un pezzo con i fiocchi, perfetto per la nuova canzone come un guanto della misura giusta che calza a pennello.

“Uaooh.” Disse Tim, da dietro il suo basso, il ciuffo che sembrava levitare dalla piacevole sorpresa, gli occhi spalancati.

“Bravo Tomo, bello davvero, perfetto.” Shannon, archiviato il muso lungo, sorrideva soddisfatto, sfregandosi le mani, contento, da buon parsimonioso, che i suoi soldi fossero davvero serviti a qualcosa.

L’unico perplesso era Jared: “No. Direi di toglierlo…”

“NOOOO!!” Shannon saltò sulla sedia, buttando gli occhiali sul tavolo e togliendosi il cappuccio dalla testa: “Ma è perfetto, lo lasciamo invece!”

“NO!”

“SI’!”

“Certo che no!”

“Certo che sì!”

“NO, ho detto!”

“SI’, ho detto!”

Tim aveva assunto l’espressione di uno straccio appeso al sole, i Leto gridavano come ossessi, Shannon tirò qualche pugno sul tavolo, Jared si alzò in piedi pronto a fare a botte con suo fratello, ma improvvisamente la voce di Tomo interruppe il battibecco: “Ehi, ehi, scusate… Jared, mi senti bene?”

“Certo Tomo, dimmi…”

Il momento era arrivato. O adesso o mai più: “VAFFANCULO JAY!”

Jared e Shannon si guardarono a bocca aperta.

Tomo uscì dalla sala d’incisione come una furia, togliendosi la Gibson di dosso, con gli occhi infuocati, i pugni stretti, un atteggiamento aggressivo come nessuno gli aveva mai visto: “Vaffanculo 30 Seconds to Mars! Chi cazzo vi credete di essere per decidere? Io non posso mai mettere bocca su quello che suono? MAI??? Non posso proporre niente? Non posso suonare quello che mi piace o scrivere almeno la MIA partitura? EH??? Ma andate a farvi fottere tutti quanti, voi e questa cazzo di musica di merda…”

Tomo buttò la Gibson sul divano con rabbia, prese la sua giacca dall’attaccapanni e uscì dalla porta, sbattendola con piacere in faccia ai due Leto allibiti e a Tim che invece sorrideva, in cuor suo contento.

 

 

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Stessa domenica: Dana sedeva in cucina con Jane mentre facevano una tardiva colazione. Il medico era appena tornato dal suo turno di notte in ospedale ed osservava, con un mezzo sorriso quasi compiaciuto, una Dana rilassata e felice, con i capelli raccolti con una matita sulla testa, che le raccontava gli eventi eccezionali della sera prima. Non soltanto quello che era successo durante la gara fortunosamente vinta, ma anche quanto accaduto dopo con Tomo.

E Jane, a suo modo contenta, non poteva esimersi dal fare la sorella maggiore: a lei, in fondo, Tomo stava simpatico e non avrebbe visto di cattivo occhio una relazione tra i due. “E ora? Che intenzioni hai con Tomo?” le chiese, quindi.

Dana scosse la testa: “Non so… sono indecisa.”

“Ti ha chiesto niente?”

La chitarrista annuì: “Sì. Di mettermi con lui. O di provare, almeno…”

“E Julius?”

La ragazza si toccò la fronte, in difficoltà: “Ho guardato la posta stamattina. Julius torna in Inghilterra, nel giro di un mese o anche meno, e mi ha chiesto di andare con lui, a vivere ad Oxford, nella villa di famiglia… Mi ha invitato a cena per domani sera. Non so se voglia dirmi qualcosa… parlarmi di sentimenti o che so io… Non so se abbia qualche intenzione oppure no…”

“E tu… cosa pensi di fare?”

Dana sospirò: “Io… non so se sono innamorata di uno dei due o di nessuno. Stamattina ti direi che scelgo Tomo, visto quanto è successo stanotte, ma Julius non mi è comunque indifferente e… poi ieri sera abbiamo vinto il contratto discografico, ma Julius mi ha anche comunicato che ho vinto la borsa di studio ad Oxford e… Oddio, Jane… ma ti rendi conto che devo scegliere tra la Musica e la Fisica, tra Tomo e Julius? Come diavolo faccio? Non so da dove partire per decidermi… ora come ora se metto tutto sui piatti della bilancia, sono pari, capisci? O forse no? Boh…” Dana si alzò e cominciò a camminare per la stanza. “E’ un casino. Non ho un appiglio per decidere. Niente. Non so cosa fare…”

Jane non rispose, ma guardò Dana con uno strano occhio. Prese il portatile, che era appoggiato sul tavolo lì vicino, e si collegò ad internet, poi si schiarì la voce:  “Uhm… C’è una cosa che dovevo mostrarti da un po’ e forse può aiutarti a prendere una decisione più facilmente…”. Poi girò il portatile verso Dana con il browser puntato su una pagina di wikipedia ben precisa: quella che parlava di Tomo. “Tu sai di che gruppo fa parte Milicevic, vero?”

Dana era perplessa: che importanza doveva avere di che gruppo faceva parte Tomo? “No. Perché?”

Jane puntò un dito sul monitor: “Leggi qui.”

La chitarrista si avvicinò, aggrottò le sopracciglia, scosse la testa e poi sgranò gli occhi mentre leggeva la biografia di Tomo: chitarrista dei 30 Seconds To Mars.

“30 SECONDS TO MARS? ODDIO NO! No, no, non può essere…. O noooooooo!”.

Poi si sedette di peso sulla sedia, si prese la testa tra le mani e cominciò a piangere.

Disperatamente.

 

 

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Shannon e Jared erano sconvolti.

Camminavano su e giù per lo studio di registrazione come leoni in gabbia, mentre Tim, tutto compunto e sorseggiando una birra che aveva preso chissà dove, sedeva ancora sul divano e non osava aprir bocca.

Shannon aveva ripreso a fumare da quel preciso momento, sottraendo a Tim l’intero pacchetto di sigarette, anche se, in cuor suo, avrebbe voluto farsi fuori una decina di sigari Havana, e Jared, in un momento di tragica follia, aveva pensato di ordinare al McDonald una pila di hamburger e una decina di sacchetti di patatine fritte, nel tentativo di consolarsi.

Erano arrivati anche Emma, che cercava di parlare a Jared, che non la calcolava di striscio, di altri suoi appuntamenti settimanali, e anche il produttore dei 30 Seconds To Mars, che, in realtà, era ‘passato per caso’ ad accertarsi che i Leto stessero lavorando al nuovo CD e invece si era ritrovato nel bel mezzo di un reparto della sede staccata del manicomio di Los Angeles.

In quel momento nessuno parlava.

Tutti erano in attesa della tempesta che si stava addensando e che non tardò a scoppiare quando Shannon emerse da una nuvola di fumo puntando un indice su Jared: “E’ TUTTA COLPA TUA!!!”, sibilò al fratello.

“Non è vero!”

“SI’.”

“NO.”

“SI’. E’ SEMPRE colpa tua…”

“NO. Semmai è colpa tua che lo hai mandato a lezione di chitarra…”

“NO. E’ colpa tua che lo hai sempre trattato male…”

“NO. E’ colpa tua che adesso ha imparato a suonare…”

“NO. E’ colpa tua che non gli hai mai dato la possibilità di fare niente…”

“NO. E’ colpa tua… Se tu non lo avessi mandato…”

“NO. E’ colpa tua… Se tu lo avessi ascoltato…”

Le voci si stavano alzando sempre di più, la distanza tra i Leto si accorciava, mentre i fratelli si puntavano l’indice accusatorio contro, e Tim girava la testa da un ‘colpevole’ all’altro chiedendosi per quanto ancora sarebbe continuata la lista delle colpe, quando la porta si aprì e, con una folata di vento primaverile, entrò un’apparizione bionda, leggera come una farfalla, in una improbabile casacca fucsia finta hippy, cappello di paglia e borsa della spesa attaccata al braccio.

Costance Leto.

“Buongiorno a tutti. Ehi… che state facendo?”

Shannon, la sigaretta fumante a un lato della bocca, non la guardò nemmeno, impegnato com’era a tenere a bada Jared: “Ciao, mamma. Litigando, non ti pare?”

La madre non si scompose un attimo: “Sì, ho visto, non è una novità… ma… tu, da quando fumi ancora?”

“Da adesso…”

Constance alzò gli occhi al cielo: “Che è successo?”

Fu la volta di Jared di rispondere: “Ciao, mamma. Abbiamo litigato con Tomo…”

Costance si avvicinò di un passo, grattandosi la testa, sorpresa: “Ah… Eh… uhm… che strano… che coincidenza… era proprio di lui che ero venuta a parlarvi…”

I fratelli si girarono verso la donna, subito insospettiti, con l’occhio inquisitore. Che ne sapeva la loro madre di Tomo? “Perché?”, chiesero in coro.

Costance estrasse dalla borsa un quotidiano e cominciò a spiegarlo davanti alla faccia dei figli che pendevano dalle sue labbra: “Beh… una cosa strana. Stamattina, come ogni domenica,  ho comperato il Los Angeles Tribune e… guardate qui: pagina degli spettacoli. Questa foto, di un gruppo rock che ha vinto non so che diavolo di concorso… E questo qui con la chitarra al collo e la maglietta con il quadrifoglio rosso, vicino a questa chitarrista, vedete? E’ Tomo, vero?”

Jared, svelto come un furetto, strappò dalle mani di sua madre il giornale e, seguito come un’ombra da Shannon, Tim ed Emma, lo mise sotto la lampada del tavolo per vedere meglio.

“CAZZOOOOO!!! E’ TOMOOOOO!!!” Gli occhi di Jared se possibile era ancora più a palla.

“Era lui, vero? Non mi ero sbagliata…”

Shannon aveva la faccia a forma di punto interrogativo: “E CHE CAZZO STA FACENDO IN QUESTA FOTO?”

“Eh lo so, le mamme non sbagliano mai…”

I Leto si girarono verso Costance come vipere: “MAMMA VAI A CASA, GRAZIEEEE…”

“Venite a cena una di queste sere?”

Shannon la accompagnò subito alla porta, per metterla in salvo, notando il tic nervoso/assassino che stava prendendo l’occhio di Jared: “Sì mamma, ora vai, ti chiamo, eh? Grazie, eh?” Poi ritornò dal gruppetto che non si era scollato dal giornale e che sembrava covarlo: “Che dice il cazzo di articolo?”

Emma cominciò a leggere ad alta voce: “Il gruppo musicale FourLeafClover di Los Angeles ha vinto ieri sera il festival bla-bla-bla…”

Shannon ebbe un sobbalzo, quel nome lo aveva già sentito: “FourLeafClover, hai detto?”

Emma continuò: “Sì… con in palio un contratto con la bla-bla-bla e bla-bla-bla e durante la serata… ecco-ecco-sentite… si è scivolati anche nel giallo quando la chitarrista dei FourLeafClover, tale FirstLeaf, dopo aver suonato una canzone dei The Mars Volta, si è sentita male ed è stata rimpiazzata dal chitarrista sostituto che…”

Jared emise una specie di lamento: “CHITARRISTA SOSTITUTO???”

Shannon sobbalzò nuovamente: “FirstLeaf, hai detto?”

“Sì… che ha suonato in modo egregio due pezzi, rispettivamente degli Alter Bridge e dei Tool, consentendo al gruppo di aggiudicarsi comunque il premio finale…”

Jared era ancora più sconvolto, oltre il fondo scala: “ALTER BRIDGE E TOOL??? EH? Tomo che suona gli Alter Bridge e i Tool? E da quando, cazzo?”

Emma continuò: “Soltanto alla fine FirstLeaf è apparsa sul palco per ricevere il premio e finire la serata suonando, anche con il suo sostituto, un pezzo dei Coheed and Cambria. Fine.”

Shannon credette di avere le allucinazioni: “COHEED AND CAMBRIA? E da quando Tomo suona i Coheed and Cambria?”

Nel bel mezzo del parapiglia a base di dubbi chitarristici/musicali, Tim si limitò a dire, un leggero sguardo da maniaco puntato sulla foto del giornale: “E FirstLeaf sarebbe questa gnocca qui nella foto? Però…”

I Leto si sedettero di peso sul divano, senza parole, mentre il produttore si defilava velocemente com’era arrivato e i tecnici del suono sparivano, come inghiottiti dal suolo. Emma e Tim rimasero nei pressi del tavolo con il giornale in mano, tenendolo come se fosse un paravento, pentendosi di essersi alzati dal letto quel soleggiato mattino di Maggio.

Dopo cinque lunghi minuti di riflessione, Jared si alzò e, camminando avanti e indietro per lo studio, tentò di riassumere la questione: “OK. Dunque. Tomo, i sabati sera, va in giro a suonare con un altro gruppo e NOI non ne sappiamo niente. E poi suona roba che non… non… insomma che non pensavo nemmeno conoscesse e NOI non ne sappiamo niente. Poi arriva in studio e pretende di insegnarmi il MIO lavoro e mi manda anche a ‘ffanculo. E NOI non diciamo niente. Che diavolo sta succedendo, Shan?”

Il batterista cominciò a grattarsi la testa, con un’espressione un po’ persa: “Ehm… io, beh, non io, cioè noi… ehm… cioè non noi, ehm… Frank Zummo, insomma…”

Jared cominciò a pensare male: quando Shannon tirava fuori quegli scapestrati degli Street Drums Corps c’era di che preoccuparsi. Cominciò a guardarlo con occhio omicida: “Che c’entra Zummo?”

Shannon si portò le mani al petto, come a fare un mea culpa: “Non è colpa mia! E’ Zummo che mi ha detto di mandarlo là…”

Jared si piantò con le braccia sui fianchi davanti al fratello seduto sul divano: “Il ‘là’ dove sarebbe? Che cazzo stai dicendo, SHAN?”

Shannon sospirò, abbattuto, e a mezza voce ammise il peccato, sperando nella clemenza di Jared: “Sto dicendo che FirstLeaf dei FourLeafClover è l’insegnante di chitarra di Tomo…”

“COSA?”

Shannon tentò di giustificarsi, cominciando a sudare freddo: “Zummo mi aveva detto che questo FirstLeaf era bravo ma… primo, io credevo fosse un uomo e non una gnocca, ehm… volevo dire… una ragazza come questa… e, secondo, credevo che non riuscisse ad insegnare così tanto a Tomo da far sì che il nostro chitarrista si sia… si sia addirittura MONTATO LA TESTA! E, terzo, non pensavo che ce lo volessero anche portare via…”

Jared batté un pugno risolutore sul tavolo: “Basta. Ho capito tutto. Dobbiamo chiamarlo e parlarci. E’ partito con il cervello, ma ha firmato un contratto e non può fare il cazzo che vuole. E poi… se va bene sarà anche innamorato di questa First-gnocca e adesso allora veramente non lo teniamo più…”

Tutti, con frenesia, presero il cellulare e cominciarono a fare il numero di Tomo, ma il chitarrista non rispose a nessuno. Jared, allora, uscì come un tornado dallo studio, prese la sua BMW Hydrogen 7 rigorosamente ecologica, vi caricò suo fratello, la sua segretaria e il loro bassista  come fossero pacchi, e, a folle velocità, cominciò a setacciare Los Angeles alla ricerca forsennata di Tomo, chitarrista perduto.

 

 

 

 

Princes_of_the_universe: Spero di non aver dato la mazzata finale al tuo ‘cuoricino di Echelon’… Ovviamente mi sono inventata tutto su Tomo e sui suoi ‘troubles’ con il mondo intero: se conoscessi i Leto e Milicevic personalmente tanto da sapere i loro reali problemi, non penso che sarei qui a scrivere ff su di loro, ma parcheggiata nel loro salotto in  modo permanente! :-P  Baci!

Cromia: … e se ti dicessi che per i capelli di Dana mi sono ispirata ai tuoi? ;-)

Folleria: Per Natale il DVD glielo regaliamo, dai… o alla prossima signing line (nel 2025)…

Per tutte le altre (BlueandYellow, Martunza, Madiris, Black Violet, TaccaH, Jaredina71, sally10989, Revolve90...): grazie delle recensioni.

A TUTTI: BUON NATALE!!!

Baci.   ;-***

Shanna

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


DEL COME TOMO SI FA FORZA, SCOPRENDO, CON SORPRESA, CHE LA FORZA E’ CON LUI E NON SOLO QUELLA…

 

 

Come faceva ogni volta che si sentiva in difficoltà, Tomo si rifugiò nella cucina del Ristorante dei suoi genitori a preparare il dessert per il pranzo dei clienti, assieme agli altri quattro cuochi, che ormai lo conoscevano e bonariamente lasciavano fare. Tomo avrebbe voluto un po’ di tranquillità, ma il suo cellulare sembrava dotato di vita propria, visto che non faceva altro che suonare: prima lo aveva chiamato Tim, poi Shannon, poi Jared, poi ancora Shannon, poi ancora Tim, poi Jared gli aveva mandato un sms, poi Emma, poi il loro produttore, poi… insomma un delirio di connessioni telefoniche rifiutate! Ma che si fottessero tutti quanti, dal primo all’ultimo, pensava Tomo, mentre controllava con occhio critico che la crema pasticcera non si attaccasse al pentolino: se avevano qualcosa da dire ci si poteva sedere tutti intorno ad un tavolo, tra qualche giorno, ad animi sbolliti e spiriti chetati, e parlarne seriamente, ma per telefono assolutamente ed inesorabilmente NO.

E poi lui doveva ancora discutere con Dana, che al momento aveva il cellulare staccato, dell’accaduto: oramai Tomo la considerava come far parte della sua vita, anche se avevano soltanto appena accennato al loro futuro, e qualsiasi decisione lui avesse preso nei riguardi dei 30 Seconds To Mars, avrebbe riguardato anche lei, in fondo. Eh sì: perché Tomo si sentiva ad una svolta, non avrebbe chiesto scusa del suo comportamento a Jared per niente al mondo e, anzi, era pronto, al momento opportuno, a dettare le sue condizioni ai Leto: o Tomislav Milicevic (e anche Timothy Kelleher, via… due al prezzo di uno… avrebbe sparato alto…) cominciava a contare qualcosa e ad avere voce in capitolo sulle decisioni, musicali e non, finora prese soltanto dai Leto, e che invece riguardavano il GRUPPO dei 30 Seconds To Mars, o lui se ne sarebbe andato.

E basta.

Fine delle opzioni.

Di gruppi rock ne avrebbe trovati altri, oppure avrebbe fatto il sostituto a vita dei FourLeafClover, o avrebbe aperto una pasticceria in centro o un bar sulla spiaggia a Beverly Hills, o avrebbe continuato a lavorare al Ristorante o… boh… qualcosa avrebbe fatto, ma non sarebbe più stato al servizio dei due Leto, per nessuna ragione.

Mentre inseriva la crema dentro le barchette di pastafrolla che gli aveva passato il cuoco addetto ai dessert e si consolava con l’immagine della sua Dana stesa sul divano vicino a lui con i capelli sciolti e lo sguardo languido, pensando a quando l’avrebbe rivista, Damir, sua mamma, entrò in cucina un po’ in affanno, gli si avvicinò e gli toccò una spalla.

“Tesoro, tutto bene?”, gli disse, in un soffio.

Tomo la guardò con la coda dell’occhio: “Uhm? Certo, mamma.”

“Sei sicuro?”

“Sì, perché?”

Damir gli diede un bacio sulla guancia, sicura al cento per cento che il figlio le stesse mentendo: “Ehm… ci sarebbe qualcuno che vuole parlarti con urgenza…”

“Al telefono?”

“Ehm… No, di là…”

“Chi?”

“I Leto, con Tim ed Emma.”

“O NO, CAZZO!”. Tomo sbatté il cucchiaio della crema con rabbia sul tavolo della cucina e una delle barchette di pastafrolla prese il volo e finì dentro una pentola di acqua bollente sul fornello lì vicino.

Damir era in difficoltà. I Leto li aveva visti un paio di volte e sicuramente non erano mai entrati nel suo Ristorante come avevano fatto pochi istanti prima, come se volessero picchettarlo, conquistarlo e dargli fuoco. C’era sicuramente qualcosa che non andava tra i Leto e Tomo e la reazione di suo figlio glielo confermava in pieno. Ma nascondersi dietro ai fornelli a Tomo non sarebbe servito a niente: “Li ho messi nella saletta rosa, quella piccola, semiprivata, e… mi sembrano un po’ alterati. Shannon sta fumando una sigaretta dietro l’altra e Jared ha voluto il menù…”

Tomo si sedette di peso su una sedia, sbuffando, mentre i cuochi si girarono tutti a guardarlo, perplessi ed incuriositi.

Accidenti, era troppo presto per parlare con i Leto.

Doveva prima organizzare una difesa, fare una lista di argomenti, predisporre le risposte alle domande che gli avrebbero fatto i fratelli (specialmente Jared), informarsi sui termini legali dell’intera faccenda, altrimenti sapeva che non sarebbe riuscito ad ottenere un cavolo di niente. E poi come doveva esordire? Un ‘che-cazzo-volete-perché-siete-venuti-a-rompere?’ era troppo esplicito, vero? Che casino!

Damir gli si portò davanti e gli accarezzò la testa: “Allora, caro? Cosa dico ai 30 Seconds?”

Tomo alzò il capo e la fissò: “Hai detto loro che io sono qui?”

“No. Ho detto che non ti ho visto e che sarei venuta a vedere SE eri qui in cucina. Ho fatto male?”

Però, che furba sua madre! “No…”

Damir fece spallucce: “Posso sempre dire che non ci sei, dai…”

Il chitarrista scosse la testa e sospirò: “Vabbè. Non cambia niente. Quelli non demordono e prima o poi devo affrontarli. Forse è meglio prima, che poi…”

Tomo prese e strinse per un momento la mano di sua madre, si alzò, fece per avviarsi verso la porta della cucina ma subito si fermò e si girò a guardare verso i cuochi. Gli venne un’idea. Forse era una sciocchezza, ma aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile, anche psicologico. Ne chiamò due, quelli più alti e nerboruti, uno dei quali aveva pure un coltello in mano: “Ehm… Venite di là con me un secondo? Mi state dietro, non dite niente, OK?”

Avutone il consenso, si avviò a passo un po’ incerto verso la saletta rosa, con i due che lo seguivano come ombre. Per un momento Tomo si sentì un po’ come Darth Fener scortato da due guardie imperiali, senza averne l’atteggiamento, anche se si diceva che non doveva avere paura dei Leto, che doveva far valere le sue argomentazioni, perché, a ben vedere, AVEVA RAGIONE, AVEVA RAGIONE, AVEVA RAGIONE!!! E la forza era sicuramente con lui, compreso il lato oscuro!

Ma il solo pensarli, seduti al tavolo rotondo, sicuramente in silenzio, gli sguardi torvi, gli fece perdere le sue sicurezze e Tomo si bloccò un attimo, tanto che i due individui alle sue spalle lo tamponarono nei pressi della porta e lo spinsero senza volerlo dentro la saletta rosa.

L’entrata un po’ goffa di Tomo non era stata delle migliori, e Jared, che aveva gli occhi fissi sulla porta mentre gli altri tre seduti con lui al tavolo davano le spalle all’uscio, lo vide subito e immediatamente si alzò e sventolando il Los Angeles Tribune si mise ad urlare, del tutto indifferente agli accompagnatori di Tomo: “CHE CAZZO VUOL DIRE QUESTA MERDA QUI????”

Tomo deglutì e si fece avanti. Che diavolo stava dicendo Jared? Cos’era quel giornale? Si avvicinò al tavolo con una nonchalanche che in realtà non provava affatto: “D-di che parli?”

Jared era furioso, mentre Tim ed Emma erano incollati alla sedia e Shannon permaneva avvolto nella sua nuvola di fumo, il volto impassibile: “Se pensi di filartela come se niente fosse, ti sbagli, capito? Hai firmato un contratto, caro il mio Milicevic…”

Tomo prese al volo il giornale che Jared gli aveva lanciato quasi in faccia, vide la foto di lui e Dana sul palco del festival e sorrise, senza volerlo: lei era l’unica cosa bella che aveva in mente, quel giorno, il resto erano rogne.

Jared si sedette, scazzato: “E quella gnocca, chi è?”

Tomo lo guardò male: “Quella non è una gnocca, è Dana, la mia ragazza.”

“Da quando sei anche fidanzato?” Il tono di voce di Jared era canzonatorio.

“Da ieri notte.”

“E cosa aspettavi a dircelo?”

“Lei non c’entra niente con i 30 Seconds To Mars e i nostri problemi, ve l’avrei detto in un altro momento…” Tomo prese una sedia, si sedette tra Tim e Shannon e, con i due cuochi sempre alle spalle, raccontò in breve cosa era successo la sera prima, durante il festival e con Dana, le sue sensazioni, le cose che aveva capito, quelle che aveva imparato.

“Perché ci vuoi lasciare?”, chiese ad un tratto Jared, senza lasciarlo finire.

Tomo sospirò: ecco, eravamo al punto. “Io… non vi voglio lasciare, non voglio suonare con i FourLeafClover, voglio stare con voi, con i 30 Seconds To Mars, ma… ma voglio contare qualcosa, non fare soltanto la bella statuina. Voglio scrivere le mie parti di chitarra, come Shannon si scrive le sue parti di batteria, voglio metterci del mio e partecipare anche alle decisioni del gruppo. E poi…”

Jared, seccato, alzò gli occhi al cielo. Non era abbastanza? “Cos’altro vuoi?”

Spara, Tomo, spara, usa il fulminatore laser, lì, in mezzo agli occhi, vai… “Tim. Anche Tim deve essere dei nostri.”

Jared scosse la testa, mentre il bassista, che aveva avuto un tremore improvviso, tratteneva il fiato, inutilmente: “No.”

Tomo non si arrese: “Ma perché?”

“Perché Matt è… è… è insostituibile…”, disse Jared, inaspettatamente.

Tomo fissò il cantante negli occhi, sporgendosi leggermente verso di lui: “Jared, Matt se n’è andato. E’ andato via. E non ci ha pensato un secondo a mollarci mentre eravamo all’apice del successo, avevamo una lista di concerti ed apparizioni televisive da fare e avevamo bisogno di lui. Non tornerà, mai più, e non ha senso tenergli un posto che non vuole. Ora è Tim il nostro bassista. E basta. Il posto deve andare a lui. Subito.”

Jared per un momento abbassò gli occhi: quello che Tomo diceva era vero, ma la perdita di Matt, così improvvisa e dolorosa, lo faceva ancora stare male. L’uomo si chiese per un attimo se, però, aveva ancora senso stare così male per Matt. Forse no, ma era una cosa che doveva risolvere tra sé e sé. Tomo e gli altri non c’entravano, se non marginalmente, e non potevano andarci di mezzo ancora a lungo. Tentò di cambiare discorso: “Ma, cazzo, abbiamo una causa da trenta milioni di dollari in corso! Non te ne puoi andare ora…”

Tomo sbuffò, riacquistando coraggio, visto che Jared non aveva ribattuto sul ‘Matt affair’: “Ti ho detto che non me ne voglio andare, e comunque la causa con la EMI non è per colpa mia… sei tu che scrivi le canzoni, non io… Se non hai scritto canzoni per cinque anni e non hai rispettato il contratto, la colpa è solo tua. E io, non appena dico qualcosa, mi tagli le gambe, non ti si può aiutare… Non ti fai aiutare, Jared, vuoi fare tutto da solo. Sei esagerato.”

Jared quasi balzò dalla sedia. A denti stretti, sibilò: “Tomo, come ti permetti di…”

Shannon sbucò fuori inaspettatamente nella conversazione, spegnendo la sigaretta nel posacenere, parlando con una specie di voce dall’oltretomba, bassa e definitiva: “Tomo ha ragione. Sia per Matt, che per la causa. Devi farti aiutare, Jay, non puoi fare tutto da solo.”

Jared era esterrefatto: “Shan, ti ci metti anche tu?”

Il batterista annuì, convinto: “Sì e ti dirò di più: se non dai credito a Tomo e non assumi Tim, me ne vado pure io…”. Jared spalancò due occhi enormi in faccia al fratello, non credendo ai suoi orecchi né avendo la forza di rispondere. Shannon continuò: “Ho ricevuto, giusto la settimana scorsa, una proposta da un gruppo di progressive rock californiano appena formato. Vogliono che, per il momento, registri la parte di batteria per il loro primo CD, mi pagano profumatamente e poi, se voglio, posso far parte a tempo pieno del gruppo. Intanto ho detto di sì per la registrazione, visto che con quei soldi ci paghiamo gli avvocati impegnati nella causa, e per la seconda cosa posso sempre pensarci.”

Questa era la goccia che faceva traboccare il vaso: Jared aveva sempre sopportato le pazzie di Shannon con i Wondergirls prima e con gli Street Drum Corps poi, ma quello era troppo. Il suo fratellone adorato che lo abbandonava? Non poteva essere, era una cosa che non aveva mai preventivato. Stava ancora cercando di capire cosa rispondere, che sentì Emma schiarirsi la voce. Si girò subito verso di lei, temendo il peggio.

La ragazza si scostò i capelli dagli occhi e poi cominciò a parlare, a voce bassa: “Ehm… anch’io ho un’altra offerta di lavoro. Ieri mi ha chiamato Joaquin Phoenix e vuole che vada a lavorare per lui. Vuole intraprendere la carriera musicale e gli serve una come me che, con te, si è divisa tra cinema e musica.” Jared era stranamente senza parole ed Emma continuò: “Perciò se se ne vanno Shannon e Tomo e i 30 Seconds to Mars vengono sciolti, non ha più senso che rimanga nemmeno io…”

Jared per un attimo rimase a guardarla ad occhi spalancati, ma poi si lasciò prendere dalla rabbia:  “Cazzo, ma siete proprio come dei topi pidocchiosi, che abbandonano la nave che affonda…”. Poi l’uomo  si alzò, sospirando con fare molto melodrammatico, quasi togliendo la tovaglia dal tavolo e, con aria molto adirata, dichiarò:  “E va bene. Come volete. Tim entrerà ufficialmente nei 30 Seconds, Tomo scriverà le sue parti di chitarra ed insieme prenderemo tutte le decisioni sul gruppo, MA, e dico MA e sottolineo MA e ribadisco MA, se questa cosa non funziona, i 30 Seconds finiscono nella merda più totale, non riusciamo a saldare i trenta milioni di dollari e non vendiamo un cazzo di dischi… IO…”, Jared fece una pausa d’effetto da consumato attore cinematografico, fissando negli occhi i quattro ancora seduti davanti a lui, ad uno ad uno, come se volesse ipnotizzarli, “… VI TIRO IL COLLO… a tutti e quattro! E in nessun posto nell’universo troverete riparo dalla mia ira…”

Poi si girò e si avviò verso la porta, sdegnosamente, avvolgendosi la sciarpa a quadretti attorno al collo, come una diva del muto teatralmente si avvolge il boa di struzzo.

I quattro seduti al tavolo si guardarono per un attimo, titubanti, e poi scoppiarono a ridere. Subito Emma si alzò per avviarsi dietro il suo capo, che già la stava chiamando al telefonino, mentre Shannon, Tomo e un Tim quasi piangente si complimentavano uno con l’altro per la riuscita dell’impresa, dandosi grandi manate sulle spalle e abbracciandosi.

Tomo congedò i due cuochi e poi disse: “Grazie, Emma. Bellissimo il bluff. Mancavi solo tu! Grazie.”

“Di nulla, Tomo. So per certo che il nostro Jared odia Joaquin Phoenix da morire.”

“Ma pensi che gli passerà?”

“Sì, sì, non ti preoccupare, gli passerà. In fondo vi vuole bene, è che ha un gran brutto carattere e non vuole ammettere di avere bisogno di voi.” Emma prese dal tavolo un pacchettino di grissini e si avviò verso la porta. “E ora, appena vado a dirgli che mi ha chiamato Steven Spielberg perché vuole parlargli di un nuovo film, gli passerà tutto. Il suo amor proprio lieviterà come una torta in forno e si sentirà nuovamente un dio in terra. Ciao belli, a domani!”

Tomo non perse tempo: “Dai, ragazzi, per festeggiare vi invito a pranzo…” Tim e Shannon non aspettarono ulteriori inviti e si accomodarono prendendo in mano subito il menù. Tomo continuò: “Allora una bella insalatina scondita per tutti, va bene?”

Un sincero “BLEAH!!!” di Shannon e Tim echeggiò per la stanza e, mentre rideva alla vista della faccia disgustata dei suoi due famelici soci, Tomo, che si sentiva come se avesse affrontato e vinto la Morte Nera in un’epica battaglia, pensò che in meno di ventiquattro ore nella sua vita erano successe così tante cose grandiose e travolgenti da doverle ricordare per sempre.

E il futuro si prospettava altrettanto radioso.

Forse.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


DEL COME TOMO SCOPRE CHE DANA NON E’ QUELLO CHE CREDE E UNA IBANEZ PEGGIORA LE COSE.

 

Tomo, per due intere settimane dopo quella fantastica notte con lei, non era riuscito a vedere Dana in nessun modo, nemmeno per un attimo. Prima la ragazza si era data malata (diagnosi: varicella, prognosi: talco mentolato e una settimana chiusa in casa), poi alle prese con la tesi (venticinque capitoli, quattrocentoquarantadue pagine di formule, diagrammi e schemi), poi alle prese con problemi con sua nonna (che voleva fuggire in Europa con un ex-chitarrista hippy di novantacinque anni di dubbia moralità incontrato in casa di riposo), poi alle prese con problemi con il contratto discografico con la XYZ-California (che il papà di George, avvocato, stata minuziosamente valutando riga per riga e su cui aveva trovato degli inghippi legali non da poco), e poi e poi e poi… e poi ne aveva sempre una.

Dana gli aveva sempre risposto gentilmente al telefono, lo aveva tenuto al corrente di tutti i più piccoli sviluppi che la riguardavano (compreso il fatto che Julius non l’aveva riconosciuta la sera del concerto e, a detta di Dana, era capitato là per caso, senza nessun interesse per la musica rock, e se n’era andato via praticamente subito), gli diceva anche che lo pensava spesso, che lo desiderava, che non vedeva l’ora di vederlo ma… i due non si erano più rivisti.

E anche Tomo era incasinato: ora che era riuscito ad ottenere da Jared quello che voleva, non aveva più un attimo di pace. Era continuamente ‘in riunione’ con i 30 Seconds To Mars  per qualsiasi cosa a qualsiasi ora del giorno e, qualche volta, anche della notte, quando Jared poneva sul tavolo un qualche problema, o presunto tale, che gli era balenato improvvisamente nel cervello nottetempo.

Tomo era stato investito della responsabilità degli arrangiamenti di chitarra dei pezzi nuovi dell’album e della rivisitazione di quelli già registrati. In tal modo Jared poteva concentrarsi maggiormente sui testi delle canzoni e sul canto. Tomo doveva anche proporre delle date per la prossima tournee e selezionare, con Tim, il gruppo d’appoggio per le date americane e il chitarrista aveva una mezza idea di proporre i FourLeafClover, non fosse che Shannon continuava a chiedergli di conoscere Dana e aveva cominciato di nuovo a cospargersi con il solito profumo alla retropuzza e a Tomo, geloso marcio, stava venendo il leggerissimo sospetto che al batterista piacesse la SUA bella Dana, anche se l’aveva vista soltanto una volta e soltanto in una foto…

Dopo due settimane passate così, Tomo era in fibrillazione, per non dire sull’orlo dell’esaurimento nervoso.

Avvertiva, senza sapere nemmeno lui come e perché, che stava succedendo qualcosa di spiacevole, o perlomeno di strano, e così, di punto in bianco, un martedì pomeriggio decise di presentarsi a casa di Dana, senza chiamarla e senza preavviso.

E, come in uno dei peggiori film drammatici, la porta gli venne aperta da Jane, in pigiama e capelli scompigliati.

“Dov’è Dana?” chiese subito Tomo, quasi senza salutare, già presentendo che qualcosa sarebbe andato a catafascio.

Jane deglutì imbarazzata, prima di rispondere, ulteriore segno che c’erano casini immondi all’orizzonte e gli disse proprio quello che Tomo non avrebbe mai e poi mai voluto sentirsi dire: “Se n’è andata. Stamattina.”

Tomo sobbalzò: “ANDATA? ANDATA DOVE?”

Jane gli aprì la porta per farlo entrare, sospirando, la voce atona, sicuramente reduce da una seduta di pianto a dirotto: “E’ andata in Inghilterra…”

Il ragazzo per un momento credette di essere nel bel mezzo di un incubo: “Oddio… Ma… ma… ma perché?”

Jane si accasciò sul divano, distrutta, mentre Tomo si rese inaspettatamente conto di non avere nemmeno il coraggio di avvicinarsi, a quel divano, in cui c’erano improvvisamente troppi e amari ricordi: “Dana… si è laureata ieri, in anticipo sui tempi previsti, e oggi è partita per l’Inghilterra con… con il professore.” La donna si bloccò ed indicò a Tomo un pacco vicino alla porta. “Quello è l’ultimo pacco della sua roba. Devo spedirglielo nei prossimi giorni.”

Tomo si guardò attorno, desolato, senza parole, amareggiato.

No.

Non poteva essere.

Laureata?

E… e non gli aveva detto niente di niente?

Anzi… ancora peggio!

Gli aveva mentito ogni secondo, per due settimane, come se quello che era successo tra loro quella notte non contasse niente... Nulla di nulla…

Ma… perché?

Potevano almeno parlarne… Dana non gli aveva più detto niente dell’Inghilterra e Tomo aveva dato per scontato che… aveva dato per scontato… aveva dato per scontato troppe cose.

Che stupido che era stato.

Non avrebbe mai pensato che Dana avesse potuto mentirgli così.

“La chiamo al cellulare.”

Jane scosse la testa, con mestizia: “Fatica sprecata. Il cellulare è lì, sopra il tavolino dell’ingresso. Me l’ha regalato. Vuol tagliare con il passato, del tutto. E non è l’unica cosa che ha lasciato…”. Jane si alzò e si mise davanti al ragazzo: “Senti, Tomo… Lo so che non dovrei farlo e che Dana mi odierà per averlo fatto, ma… io so che le volevi bene e, nello stesso tempo, avevi davvero stima di lei come musicista. Te lo si leggeva negli occhi ogni volta che la guardavi, che la ascoltavi suonare, quando suonavate insieme. E…”

Lasciando la frase in sospeso, Jane si diresse nello sgabuzzino vicino alla cucina e ne estrasse una custodia nera con tanti adesivi appiccicati di quadrifogli colorati.

Era la chitarra elettrica di Dana, la sua Ibanez bianca.

Jane la porse a Tomo, che la prese subito, gli occhi spalancati: “Tienila tu. Mi aveva detto di venderla, ma io… beh… io non posso farlo. Non riesco… mi parrebbe di dare via la sua anima. Io…” Due lacrime scesero sulle guance di Jane e lei se le tolse con il dorso della mano, prima di continuare: “Io so quanto tempo ha passato a suonarla e… sono sicura che una parte di lei, forse la parte migliore, è ancora lì dentro. Quindi… tienila tu. Te la regalo.”

Tomo, senza parole e senza contegno, scivolò seduto per terra in mezzo al corridoio dell’ingresso e, tenendo stretta la custodia della chitarra come se fosse la sua Dana, cominciò a piangere, silenziosamente e senza speranza.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


DEL COME DANA SI ACCORGE CHE LA SUA VITA E’ IMPROVVISAMENTE PIENA ZEPPA DI SARCOFAGI IMPOLVERATI, MUMMIE VENERATE, FOSSILI VIVENTI E ANIMALI IMPAGLIATI.

 

 

Dana se ne stava comodamente seduta, con un libro di Fisica in mano, sul divano della biblioteca della villa di Julius, e osservava con interesse la perfetta riproduzione del terzo sarcofago dorato di Tutankhamon in piedi appoggiato ad una parete e che brillava alla luce del caminetto acceso: ne osservava i lineamenti del viso, gli occhi scuri dipinti, i colori accesi e si chiedeva come dovevano essere la vita e i pensieri di un faraone bambino, morto a sedici anni, vissuto quasi tremila anni prima e che ora si trovava mummificato al museo di Londra, ammirato ed onorato, quasi come se fosse vivo.

Eppure…

Dana si sentiva strana, perplessa, allucinata, forse come se si fosse mummificata anche lei, come se la sua vita fosse immobile, ferma, polverosa. Erano sei mesi che si era spostata in Inghilterra,  che studiava alla prestigiosa Università di Oxford, che viveva in quella splendida dimora ottocentesca incastonata nella pianura intorno alla cittadina inglese, ma… ancora non riusciva a sentirsi del tutto a casa sua.

C’era qualcosa che non andava, davvero, ma Dava non riusciva a capire cosa. Ci stava pensando da un po’: tutto sembrava scorrere come aveva previsto e, spesso, desiderato ma… c’era un qualcosa che non quadrava, i conti non tornavano.

Dana si sistemò meglio sul divano e cominciò a pensare alla sua situazione: aveva lasciato la soleggiata California per tuffarsi nella perenne nebbia inglese ed ora, in un tardo pomeriggio novembrino, quasi si sentiva come se quella nebbia avesse invaso la sua anima e come se i suoi stessi sentimenti e pensieri le giungessero ovattati, attenuati. Si mise a fissare le fiamme, rabbrividendo e stringendosi addosso la felpa con il simbolo dell’Università di Oxford stampato davanti.

Eppure…

Passò gli occhi sui ritratti degli antenati dei Carnarvon appesi alle pareti. Nonostante l’imponente albero genealogico, la famiglia di Julius, presso cui viveva su insistenze del ‘professorino’, era una famiglia di studiosi genialoidi piuttosto atipica: a differenza dei Lord inglesi caratteristici, aristocratici e con la puzza sotto il naso, i Carnarvon erano molto alla mano, non avevano alcun preconcetto contro gli americani e l’avevano accettata fin dal primo giorno, come ospite di riguardo del loro unico figlio. Il padre di Julius, James, medico di mestiere, passava la maggior parte della settimana a Londra, alla Camera dei Lord, ed il resto del tempo nel suo ambulatorio nel centro di Oxford, mentre la madre, Eve, entomologa di professione, si divideva tra l’Università, la sua collezione di insetti infilzati in spilli e piccoli animali impagliati, e le sue varie organizzazioni benefiche. Insomma, i Carvarvon erano delle gran brave persone e Dana non avrebbe potuto sperare di capitare meglio.

Eppure…

Poi c’era Julius, che Dana non riusciva ad inquadrare del tutto, però: il professorino andava e veniva tra Università e il circolo degli scacchi, l’aiutava con il dottorato, era sempre cortese e disponibile e non le chiedeva nulla. Dana si sarebbe aspettata da Julius una qualche forma di corteggiamento (visto che a Los Angeles, la sera della cena, l’uomo le aveva fatto intendere di essere ‘interessato’ a lei), ma il giovane, da quando erano arrivati in Inghilterra, non parlava mai di loro, non le aveva chiesto di fidanzarsi con lui o cose simili, non faceva avance di alcun tipo e Dana stranamente percepiva come se Julius stesse aspettando qualcosa, una presa di posizione da parte della ragazza, un evento risolutore, un primo passo da parte di Dana, che la ragazza non aveva nessuna intenzione di fare. Non sapeva nemmeno lei perché. Qualcosa la bloccava e le pareva di essere in un limbo. Forse perché quello non era del tutto il suo mondo? Non era certa della sua scelta? Ma sì che lo era… o no? Chissà…

E poi…

Le mancavano da morire il mare della California, il profumo dell’oceano, la sua piccola casa, Jane, sua nonna, i suoi genitori, suo zio, e, soprattutto, le mancavano la musica, la sua chitarra elettrica, quelle emozioni uniche che provava quando suonava, su di un palco o nel salotto di casa sua, le note che si spandevano nell’aria, l’armonia delle melodie suonate… Le mancavano i suoi pazzi FourLeafClover, George, il piccolo Tom e Carlo, e anche se li sentiva via mail o li incontrava su FaceBook, non era la stessa cosa: erano troppo lontani, dall’altra parte del mondo, in tutti i sensi ormai. Tra l’altro i ragazzi, per una forte forma di rispetto e affetto nei suoi riguardi, non l’avevano ancora sostituita, il posto di chitarrista dei FourLeafClover era vacante e il contratto con la XYZ-California perennemente in alto mare. E questa cosa le metteva una tristezza tremenda.

Dana sospirò.

Pazienza.

Ormai aveva scelto.

Non poteva più tornare indietro.

Eppure…

In realtà c’era ancora una questione aperta, una pratica ancora da evadere, una porta ancora spalancata, una voragine da riempire.

Dana faceva di tutto per non pensarci ma non ci riusciva.

Ogni tanto un viso faceva capolino tra i suoi ricordi.

Tomo.

Al pensiero, Dana si alzò di scatto dalla poltrona.

No.

Non poteva pensare a Tomo.

Non doveva.

Tomo in parte rappresentava il mondo che lei aveva lasciato e quindi non doveva pensarlo mai più.

MAI PIU’.

Eppure…

Non si era comportata bene con lui, lo sapeva, ma non aveva potuto fare altrimenti, non aveva avuto scelta. Si augurava solo che non avesse sofferto troppo, che non la amasse così tanto da patirne. Contrariamente alle classiche storie d’amore che tutte le donne sognano, Dana sperava di essere stata per lui soltanto una delle tante, il calore di una notte, il ricordo di un momento e si illudeva di poter essere scordata presto. Ma non ne era sicura, visto che Tomo sembrava molto preso e questo le dispiaceva.

Dana andò alla finestra e cominciò a scrutare il giardino ormai buio: chissà dov’era, ora, Tomo… magari la stava pensando, oppure no… preso dai suoi mille impegni di rockstar l’aveva subito dimenticata. Per un momento pensò al bel sorriso di quel ragazzo, ai suoi occhi neri, alle espressioni del suo volto. Dana sospirò: sì, meglio così, meglio per tutti se l’avesse scordata.

Non era la donna giusta per lui, per tanti diversi motivi… o forse per uno solo.

Eppure…

Il cellulare le squillò improvvisamente in tasca e Dana sobbalzò. Rispose senza guardare chi fosse, tanto solo pochissimi conoscevano il suo numero (sua nonna, i suoi genitori, Julius e George).

“Pronto?”

“Ciao, Dana! Sono Sarah! Ho avuto il tuo numero da Julius. Come stai?”

Dana si sorprese un attimo: Sarah era la cugina di Julius, una ragazza un po’ pazza con cui aveva fatto amicizia subito dopo averla incontrata ad un cena di famiglia. Ogni tanto le due ragazze, che avevano più o meno la stessa età, si incontravano ed uscivano insieme a fare shopping per scambiare quattro chiacchiere e Sarah le chiedeva sempre di Los Angeles, perché avrebbe voluto frequentare un master in Economia alla UCLA. Sebbene anche Sarah fosse una ‘Lady Carnarvon’, di aristocratico non aveva proprio nulla, tanto meno il comportamento, e poteva essere scambiata per una studentessa come tante, tranquilla e che non se la tirava minimamente. Dopotutto era una ragazza con cui si poteva parlare e Dana fu contenta di sentirla.

“Ehi! Bene! E tu?”

“Hai trovato qualche reperto archeologico seppellito nel giardino della topaia dei Carnarvon o ti basta mio cugino?”

Dana scoppiò a ridere: Sarah prendeva in giro Julius, la villa e la famiglia da quando aveva il lume della ragione. “Non ho cercato, a dire il vero…”

Sarah sbuffò: “Ma anche se cerchi, dove diavolo pensi di trovarlo un altro fossile come lui? Mettilo in vetrinetta sennò prende polvere, eh…”

L’idea di spolverare Julius e metterlo in vetrina era piuttosto ridicola e Dana non riusciva a smettere di ridere: “Dai, basta, mi vuoi far morire dal ridere… a cosa devo l’onore della tua telefonata?”

“Vorrei invitarti ad un addio al nubilato di una mia amica.”

Dana ritornò verso il salotto e si risedette sul divano: “La conosco?”

“No, ma che ti importa?”

“Mah, così,  non so… devo chiedere a…”

Sarah la interruppe subito: “A chi, al fossile? Ma per favore… O vi siete fidanzati nel frattempo, ti ha rinchiuso in una tomba egizia  e non lo so?”

Dana disse, in un soffio: “No, macchè fidanzati…”

“E allora non devi chiedere a nessuno, dai. Ti passo a prendere dopodomani in mattinata e andiamo a Londra…”

“Londra?”

“Sì, sì. Abbiamo preparato alla futura sposa una cena come si deve in un locale di Soho con contorno di spogliarellisti muscolosi e forse anche un po’ gay! Ci divertiremo da pazze, vedrai… E prima della cena andiamo anche ad un concerto…”

Dana aggrottò le sopracciglia, incuriosita: “Che concerto?”

“Sorpresa. La futura sposa adora questo gruppo e le facciamo una sorpresa.”

MUSICA? Gruppo? Che gruppo? “Mi dici il nome?”

“Uhm… non è che me lo ricordo, sai… l’avevo scritto anche qui ma… dove avrò buttato il foglio… boh… comunque è alla Brixton Academy, sabato sera alle nove. Ho già cinque biglietti, anche per entrare alla festa che c’è dopo il concerto, in un locale lì vicino. E, mi raccomando, vèstiti di bianco…”

“Di bianco?”

“Sì. E se puoi anche in stile anni trenta…”

Beh, certo. Ne aveva giusto un guardaroba intero di abiti bianchi in stile ‘anni trenta’: “Ma è una festa in maschera?”

Dana si immaginò Sarah che faceva spallucce: “Boh, non so… è una cosa così, che ne so… Comunque per il vestito chiedi alla tua futura suocera, vedrai che ha sicuramente qualcosa… o ti fai comperare un vestito dall’essere in via d’estinzione…”

Sì, come no? La madre di Julius ne aveva sicuramente qualche esemplare, di vestiti del genere, magari ereditati dalla nonna. E, no, a Julius non era il caso di chiedere niente. “OK, dai.”

“Bene allora. A sabato! Ciao, carissima, e salutami tutta la famiglia Addams con cui vivi!”

Dana salutò a sua volta sghignazzando e riprendendo il libro in mano.

Sì, forse le serviva farsi un giro lontano da lì, frequentare un po’ di gente diversa, delle ragazze divertenti, fare un po’ di casino, andare ad un concerto, divertirsi un pochino. Ne aveva bisogno, dopo sei mesi passati a studiare e a rimuginare sul suo malessere. Magari era soltanto stanca e uno stacco di un paio di giorni da tutto poteva servirle a ricaricare le pile. O a farle vedere le cose in un altro modo.

Dana sospirò per l’ennesima volta e si stiracchiò, sbadigliando e chiudendo gli occhi, ma, nel buio che trovò dentro la sua mente, l’unica cosa che vide fu il sorriso di Tomo.

Aprì gli occhi di scatto, sobbalzando…

Eppure…

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


DEL COME TOMO CAPISCE CHE LA FILOSOFIA DEGLI UOMINI SULLE DONNE E’ VAGA, OPINABILE, PERSONALIZZABILE, IDEALE, INESISTENTE...

 

 

Dalla finestra della sala da pranzo del Grand Hotel, Tomo fissava, quasi senza vederlo, il magnifico Tower Bridge di Londra che svettava maestoso sopra il Tamigi. Erano le otto del mattino di un sabato di novembre e l’uomo aspettava pazientemente che arrivassero gli altri suoi colleghi dei 30 Seconds To Mars per la colazione e nel frattempo si godeva l’immagine di quella Londra novembrina, caliginosa e sfocata, sospesa ed immobile solo come poteva essere quella città.

Era soltanto dalla sera prima che i 30 Seconds To Mars erano a Londra, provenienti da Los Angeles, e, sia a causa di una trasmissione TV dell’ultima ora che di un ritardo consistente dell’aereo, erano arrivati sul tardi in albergo e si erano subito fiondati a letto, certi che quel loro primo giorno in Europa sarebbe stato un dì davvero pesante, che sarebbe iniziato alle dieci del mattino con un’intervista radiofonica, sarebbe terminato in tarda nottata con un gran party successivo al concerto e sarebbe proseguito tutto il giorno con altre interviste a radio e TV, foto, prelistening, soundcheck, trucco, concerto e preparativi vari. Il tutto con un bel jet lag sulle spalle. Insomma, una gran faticata.

Tomo sospirò, stiracchiandosi e sbadigliando, si spostò dalla finestra e si sedette al tavolo a loro assegnato: vabbé, era così, non c’era nulla da fare. Era il suo lavoro e, fatti i debiti conti, stava andando tutto bene: nell’ultimo anno avevano lavorato un sacco e nessuno si era risparmiato. Jared aveva disegnato una copertina superba, le foto dell’edizione del CD con il book interno le aveva fatte Shannon, Tim aveva selezionato dei gruppi di apertura fantastici, Emma si era fatta in quattro ed era più magra del solito, lui aveva fatto la sua parte, così come il produttore e tutti i loro collaboratori. Come risultato dell’impegno di tutto il gruppo e dello staff, il nuovo CD vendeva benissimo, la tournee segnava già alcune tappe soldout e forse, grazie al lavoro dei loro bravi avvocati, c’erano anche delle speranze che la causa con la EMI fosse sul punto di risolversi a loro favore.

Insomma, era tutto perfetto…

Eppure…

Mentre Tomo fissava i quadri appesi alle pareti e li classificava come delle perfette croste comperate a Portobello, il primo ad arrivare nella saletta, in cui il loro tavolo era già pronto con ogni bendiddio per la colazione internazionale, fu Shannon, in una inverosimile camicia a quadretti azzurrina (che assomigliava prepotentemente alle tovaglie del ristorante dei genitori di Tomo)  con il solito blackberry in mano, pantaloni della tuta spiegazzati, capelli ritti in testa e scarpe da ginnastica usate però a mo’ di ciabatte. “’Giornooo…”, gli disse, trattenendo uno sbadiglio.

“Ciao, Shan.”

“Ciao. Dormito bene?”

Tomo fece una specie di smorfia, spostandosi i capelli dagli occhi: “Insomma…”

Shannon si sedette subito a tavola, dirimpetto a Tomo, e si stiracchiò, fissandolo in viso: “Che c’è? Sei agitato per stasera?”

“Un po’… E tu?”

Il batterista inarcò le sopracciglia: “Beh… è il primo concerto con i pezzi del nuovo album, il primo della tournè mondiale, il primo dopo tanto tempo… direi che non è proprio da sottovalutare come grado di emozione…”

Tomo si versò un bicchiere di succo e cominciò a sorseggiarlo: “Eh già…”

A Shannon sembrò che Tomo stesse rispondendo superficialmente e automaticamente, ma che in realtà stesse pensando ad altro. E aveva anche una mezza idea di chi albergava nei pensieri di Tomo.

Dana.

Non ne avevano mai parlato, di Dana: Shannon aveva preferito aspettare che fosse Tomo a dire qualcosa, ma il chitarrista non aveva fatto parola con nessuno di quanto successo, se non superficialmente. Si era limitato a chiudersi in sé stesso, lasciando intendere l’accaduto. Aveva continuato il lavoro che gli era stato assegnato, aveva fatto tutto per benino (forse o soprattutto per avere la mente occupata), ma di lei non aveva mai parlato. Forse, dopo sei mesi di questo atteggiamento, era giunto il momento di intavolare il discorso, pensò Shannon, a cui mancava il Tomo spensierato e fanciullesco di prima. Allora, quasi bruscamente, gli disse: “E’ davvero per il concerto, o non hai dormito perchè stai pensando ancora a quella là?”

Tomo scosse subito la testa e, un po’ troppo velocemente, rispose, appoggiando il bicchiere: “No.”

Il batterista scoppiò a ridere: era risaputo che Tomo non sapeva mentire, era troppo trasparente e sincero, un libro aperto. “Sì, invece.”

Il ragazzo arrossì sotto lo sguardo indagatore di Shannon: “Un po’… E’ che… siamo in Inghilterra… e lei è qui… da qualche parte e… magari… magari mi pensa…”, concluse, sottovoce.

Shannon scoppiò a ridere nuovamente: “Ma va’… sarà dentro il letto dello scopritore di mummie che fa la zoccola…”

Tomo si inalberò: “Non ti permetto di parlare così di lei.”

“Parlo di lei come voglio, invece e…”, Shannon si interruppe subito quando vide che il viso di Tomo si era rabbuiato e il ragazzo aveva messo le braccia conserte, come per mantenere le distanze. Non voleva litigarci, ma essergli di aiuto, in fondo. “Tomo, ascolta… Era da tanto che volevo dirtelo. Non hai perso niente. Niente, capito? Dana non era niente e non è il caso che ci stai male così da tanto, solo perché ti ha lasciato …”

Tomo sbuffò: “SOLO perché mi ha lasciato? SOLO? Ma… ma sei mai stato lasciato, tu?”

Shannon, preso in contropiede, si grattò la fronte perplesso: “Uhm… Beh… cioè… forse alle elementari… ah sì, alle elementari sì… una volta…”

“E quindi sei sempre tu che lasci?”

L’uomo si alzò per recuperare il cestino delle fette biscottate dall’altro lato della tavola: “Ehm… sì, mi sa di sì…”

“Sei uno di quelli che le lascia su un letto sfatto di un albergo la mattina dopo, magari piangenti? E senza rimorso?”

Shannon si fermò con il cestino a mezz’aria, un po’ sorpreso, chiedendosi com’era successo che dovevano parlare di Tomo e invece stavano parlando di lui: “Ehm… ma… beh… la fai un po’ melodrammatica, da romanzo rosa, ma… sì, è capitato e… embeh allora?”

“Ma non pensi a cosa provano, quelle ragazze?”

“Ehm, no. Cioè… Cosa vuoi che provino? Io ho usato loro, come loro hanno usato me, no? Non è vero amore, no? E allora cosa importa?” Shannon allargò le braccia.

Tomo si girò verso la finestra, un po’ scazzato: “Usare, usare, usare… Ma che bel verbo!  E che bella filosofia! Complimenti, Shannon!”

Il batterista fece spallucce: “Beh… io non sono innamorato di nessuna, non sono mai stato innamorato e non lo sarò mai, quindi… una vale l’altra e tutte  non valgono niente…”. Shannon si risedette di scatto, nervosamente, e cominciò ad imburrare abbondantemente e velocemente una fetta biscottata, prima che arrivasse Jared ad impedirglielo con una sfilza di storie sul colesterolo alle stelle. Ma continuò il discorso: “E poi non mi pare che a te sia andata così bene: eri tanto innamorato, ma la tua cara Dana se l’è data a gambe levate senza nemmeno dirti perché. E quindi è stata solo una benemerita stronza e ricorda che, in fondo, le donne sono tutte stronze. Finché gli servi vai bene e poi non vai più bene. E allora io non voglio andar loro bene, non voglio che ottengano niente da me, non me ne frega un cazzo di loro…”

Tomo non era convinto: “Macchè… Io a Dana non servivo a niente, sarebbe andata avanti anche senza di me, ed è proprio quello che ha fatto. Era lei che mi serviva. Io avevo bisogno di lei, del suo amore, del suo sostegno, della sua carica e…”

Shannon lo interruppe, scuotendo la testa: “Sì, forse è vero… a lei serviva di più quell’altro…” Poi si morse la lingua dopo averlo detto, ma ormai era troppo tardi. Tentò di glissare: “Ehm… Pazienza: ne troverai un’altra, di ragazza, e…”

Tomo scosse la testa, abbattuto: “No.”

“Vabbè, magari non subito, sei scosso, ovviamente, ma te la devi far passare, mio caro… Non ti si può vedere così, posso dirlo?”

Tomo rispose a denti stretti: “Fai a meno di guardarmi…”

“Che discorso del cazzo…”

“Saranno belli i discorsi tuoi…”

Nel mentre Shannon e Tomo si guardavano in cagnesco attraverso il tavolo e andavano avanti con un botta e risposta assolutamente irriferibile, arrivò anche Tim, in maglietta nera, jeans ed infradito: “Ehi, buongiorno… che succede?”

Shannon rispose per primo, mentre spalmava uno strato di tre centimetri e mezzo di marmellata sulla sua fetta biscottata: “Succede che il bambolotto qui è ancora innamorato della chitarrista…”

Tim non si scompose un attimo, mentre si sedeva vicino a Tomo, ammucchiava davanti a sé, dentro il piatto, il novantanove percento dei panini dolci presenti sul tavolo e si accaparrava un vasetto di Nutella: “E allora?”

“E allora ci sta male…”

“E allora?”

“E allora non dorme per pensarla...”

“E allora?”

“E allora mi rompe il cazzo alle otto del mattino...”

“E allora?”

“E allora mi avete già distrutto i sentimenti tutti e due, e se dici un altro ‘e allora’ quei panini ti dico io dove te li metto…”

“E… va bene.” Tim cominciò a spalmare di buona lena i suoi panini, guardò con la coda dell’occhio Tomo, che si era messo sdegnosamente a leggere il Times, con un muso lungo un chilometro, e declamò, sperando che Shannon non gli tirasse dietro la caraffa del latte bollente: “Ma, Shan, lo sai che il nostro Tomo è un romantico, no? Che male c’è a pensare al grande amore perduto, come fa lui?”

Shannon ingoiò mezza tazza di caffè in un colpo: “Può pensarlo finchè gli pare, ma non è il caso di starci male visto che il grande amore non esiste.”

Tim non era convinto di questa affermazione così definitiva: “Il tuo magari no, ma il suo magari era lei…”

Shannon fece spallucce: “Io non lo voglio manco se esiste…”

“Beh, Tomo lo vuole…”

Tomo intervenne nella conversazione, spuntando da dietro il giornale: “Grazie Tim, almeno tu mi capisci…”

Tim addentò un panino, l’occhio perso nella degustazione della Nutella: “Beh, in realtà non so se sia vero, però… cioè… magari sì… cioè non so… e chi lo sa…”, disse, a bocca piena.

Jared, in tuta grigia e impercettibile come un fantasma, piombò come un falco sulla fetta biscottata imburrata e marmellatizzata che Shannon si preparava ad addentare, prendendogliela di mano e buttandola tra i rifiuti,  dicendo: “’Chi lo sa’ cosa? Buongiorno a tutti!”

Shannon digrignò i denti: tutti stavano facendo di tutto per rovinargli la colazione, quella mattina. “Chi lo sa se esiste il grande amore…”, disse, riassumendo velocemente, ma in realtà dentro di sé aveva tirato un bestemmione.

“Ma cerrrrrrto che esiste.” Disse subito Jared, sorridendo beato, di buon umore. Tutti si girarono a guardarlo: Tim con un panino per mano, Shannon con la tazza del caffè a mezz’aria (l’unica cosa che ormai gli restava, per consolarsi) e Tomo che aveva abbassato il giornale, mentre l’uomo si sedeva vicino a Shannon.

“Di chi stai parlando?”, chiese Leto Senior, a cui non risultava che suo fratello si fosse fidanzato, perlomeno non nelle ultime sette ore.

“Di me!”, disse subito Jared.

“E chi è la fortunata?”

“Che fortunata?”

“Chi è il tuo grande amore? Cameron? Scarlett? Paris? Chi? Quale delle tue tante sveltine?”

Jared scosse la testa, quasi disgustato: “E chi ha parlato di donne? Voi avete detto il ‘grande amore’ e io vi dico che esiste sicuramente.” Jared fece la sua solita pausa ad effetto, mentre Shannon stava presagendo il peggio, e poi affermò convinto: “IO sono il grande amore!!!”, e mettendosi le mani sul petto aggiunse trionfante: “IO soltanto sono il grande amore di tutte le Echelon! Tutti mi amano!”

A Tim andò per traverso il panino e mentre Tomo, mollato il giornale, gli diceva ‘guarda-l-uccellino-guarda-l-uccellino’ e gli dava dei colpi sulla schiena per farlo riprendere e Shannon approfittava del parapiglia per ficcarsi in tasca una mezza dozzina di mini-panetti di burro, arrivò anche Emma che, in uno strano tailleur blu da donna in carriera e senza nemmeno salutare, cominciò a recitare la lista dei miliardi di cose che dovevano fare quel giorno, come se dettasse i dieci comandamenti a Mosè.

Tomo però non l’ascoltò che pochi istanti e poi girò la testa di nuovo verso il panorama: c’era un debole sole, ora, il Tamigi aveva cambiato colore ed una brezza leggera entrava dalla finestra. L’uomo aspirò avidamente l’aria fresca e chiuse gli occhi, riaprendoli di scatto, perché la sua mente contorta gli aveva riportato di colpo l’immagine della sua amata Dana. Eppure...

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


DEL COME EMMA SCOPRE CHE UCCIDEREBBE VOLENTIERI DUE STILISTI ITALIANI, SHANNON SCOPRE CHE VUOLE CAMBIARE LAVORO E DANA SCOPRE CHE JULIA E’ UNA BASTARDA TRADITRICE…

 

 

Dana si osservava allo specchio della camera da letto nell’appartamento londinese di Elisabeth, la futura sposa, e non poteva davvero credere ai propri occhi: il vestito preso in prestito dalla madre di Julius, bianco con tutte frange e paillettes, senza maniche e lungo fino a metà polpaccio, con una scollatura sobria e in stile anni trenta, le stava davvero alla perfezione, come se lo avessero confezionato per lei settant’anni prima. Un salto al mercatino di Portobello con Sarah, le aveva consentito di trovare delle scarpe bianche di vernice con il tacco a rocchetto che erano il non plus ultra per quel vestito. Aveva anche pescato tra le bancarelle una borsetta bianca, sempre con le paillettes, fatta a sacchetto da portare al polso, una collana lunghissima di perle (finte) da annodare al collo, un paio di guanti bianchi di seta lunghi oltre il gomito e una fascia bianca di pizzo da mettere attorno alla testa con tanto di piuma svolazzante!

Insomma: sembrava che il tutto aspettasse solo lei. Completato da un trucco piuttosto accentuato e capelli raccolti dietro sulla nuca in una cascata di riccioli, il travestimento da charleston era praticamente perfetto.

Anche Sarah (testimone della sposa numero uno, abito bianco lungo di seta, pelliccia corta nera, parure di brillanti VERI), Judith (testimone della sposa numero due, vestito nero con paillettes, magrissima, alta, bionda ed eterea), Dora (testimone della sposa numero tre, vestito bianco di pizzo, occhiali spessi, boa di struzzo bianco) ed Elisabeth (vestito nero con pizzi e frange, parure di perle di fiume, emozionata da morire a tre giorni dalle nozze o forse non per quelle) erano a dir poco perfette nei loro abiti rubati alle madri e alle nonne, e il quintetto, alle sette di sera di quello stesso sabato, prese un taxi e si avviò al numero 211 della Stockwell Road, destinazione Brixton Carling Academy.

Dana era contenta di quella bella compagnia, era rilassata e sorridente e anche un po’ incuriosita: nessuna delle ragazze le aveva ancora detto di che gruppo in concerto si trattasse e la possibilità di vedere almeno la locandina dello spettacolo, appesa su una delle colonne del padiglione a semicerchio della parte anteriore della Brixton, andò in fumo quando il taxi, su indicazione di Sarah, si fermò a metà della Stockwell Road, cioè la via laterale che costeggiava la Academy sulla sinistra, e da cui non si vedeva per niente l’entrata del teatro.

Sarah pagò il taxi e tutte le ragazze scesero, guardandosi intorno, un po’ perplesse. Dora e Judith, con un foulard di seta, avevano bendato Elisabeth, che faceva finta di non sapere dove stavano andando, e lo strano gruppetto, con sorpresa di Dana, non si diresse verso l’entrata principale, ma verso il retro della Academy, fermandosi, su ordine di Sarah, davanti ad una porta blu scrostata ed assolutamente anonima.

“Ehm… che facciamo qui?” chiese subito Dana, un po’ in apprensione, mentre i numerosi passanti si giravano a guardarle incuriositi.

“Non ti preoccupare. Ora vedrai…”. Sarah avevo uno strano sorriso astuto.

Elisabeth, da sotto la benda, entrò subito in agitazione, da buona echelon: “Ehm… Ma dovremmo metterci in fila per entrare, no? Sono le sette e mezza…”

“No. Niente fila. Fidatevi.” Miss Carnarvon prese il telefonino dalla borsa e fece un numero. “Sì. Siamo qui, Ed. OK. Grazie.”

Dopo un paio di minuti, la porta si aprì lentamente ed un ragazzo biondino con i capelli lisci e gli occhiali fece capolino, guardando sospettoso la gente che si muoveva sul marciapiede davanti. Si rilassò soltanto quando riconobbe Sarah. “Ehi, cugina!”, le disse, “Quasi non ti riconoscevo vestita così! Vieni, vieni…”

Sarah, facendo velocemente le presentazioni e indicando il ragazzo come il suo cugino preferito (al contrario di Julius), si avviò verso la porta facendo segno alle altre di seguirla e, con sorpresa, le cinque ragazze si ritrovarono all’interno della Brixton Academy, entrate da una vecchia porta di servizio ormai in disuso! Da non credere!

Elisabeth gridò di gioia, nonostante fosse bendata, ed il cugino Ed rinchiuse con catenacci e chiave la porta dietro di loro.

Un corridoio illuminato e deserto portava verso il palco e i camerini, direttamente, ma il gruppo, capitanato da Ed, salì una scala polverosa subito sulla destra. “Il posto che ho pensato per voi è quello in alto sulla sinistra se guardiamo il palco.”, diceva Ed, mentre le accompagnava per altri corridoi e scale semibuie. “E` una specie di piccola loggia da cui potete vedere dall’alto. Non viene quasi mai usata, perché è praticamente irraggiungibile, come potete notare, ma si vede benissimo. Sono solo sei posti, è piccola e quindi non è in vendita. Diciamo che è privata. Serve ogni tanto ai registi degli spettacoli per controllare che tutto vada bene, non stasera però.”

Sarah estrasse dalla borsa i cinque biglietti: “Grazie Ed, ecco i biglietti, comunque…”

Ed, il tuttofare della Brixton, li prese, ne strappò la matrice e li restituì alla cugina. Poi le diede anche cinque braccialetti di plastica bianchi da fissare al polso per entrare alla festa, mentre arrivavano nei pressi di una porta marrone di legno tutta lavorata: “Ecco qui. Quando è finito il concerto vengo a prendervi io e vi riporto giù, altrimenti non vorrei che vi perdeste per il teatro, perché sapete che ogni teatro ha un suo fantasma…”, concluse, ammiccando e aprendo l’uscio.

Judith e Dora si misero a sghignazzare nervosamente, mentre Sarah toglieva la benda ad una fremente Elisabeth e la spingeva dentro per la porta aperta.

Mentre Ed le salutava e se ne andava, anche Dana entrò nel palco, per ultima, e l’immagine che subito ne ricavò fu tale da lasciarla senza fiato. Per un attimo non credette ai propri occhi: vista dalla parte alta, l’interno della Brixton era splendido, luci e colori impressionanti. Dana prese posto su una delle poche sedie e si affacciò a guardare giù, incantata. Le sembrava di stare in cielo, tanto la loggia era alta, ma la vista era perfetta: il palco, dove c’erano gli strumenti già disposti per il gruppo di appoggio, nonostante l’altezza sembrava vicinissimo e, anche se la loro loggia era da un lato, lo stage si poteva vedeva in tutte le sue dimensioni. Dana valutò subito la strumentazione presente, con occhio critico, ma, dagli strumenti, non riusciva ancora ad immaginarsi chi poteva essere il gruppo.

Poi spostò gli occhi sulla gente: una folla spumeggiante premeva sotto il palco e Dana vedeva che i colori dei vestiti delle persone erano prevalentemente bianchi e neri, proprio come i loro. Qualche bandiera appesa o issata, con rose, simboli strani, teschi e croci disegnate, ma nomi Dana non ne vedeva. Non riusciva a scorgere cosa fosse scritto nelle bandiere appese sul palco rialzato centrale sotto di loro e non capiva il perché di quel simbolismo che non conosceva.

A questo punto la ragazza era proprio curiosa: chi era il gruppo che poteva riempire la Brixton in ogni ordine e grado di una folla in così fremente attesa?

 

 

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“Sono arrivati! Sono arrivati!”. Emma, spalancando la porta di scatto, si catapultò dentro il camerino dei 30 Seconds To Mars tirandosi dietro un codazzo costituito da due costumiste, tre truccatrici, due parrucchieri e un visagista. Jared e Tim erano seduti sul divano nel centro della stanza: il primo con un libro in mano e il secondo che giochicchiava con il Nintendo-DS. Shannon picchiettava su un muro con le bacchette, le cuffiette dell’Ipod negli orecchi, e Tomo guardava dalla finestra, dietro le tende, la gente che si assiepava tra le transenne lungo la Astoria Walk per poter entrare in teatro, ormai al buio. Tutti si girarono a guardare l’indemoniata della loro segretaria, che non la smetteva di essere particolarmente indignata. “Sono arrivati! Oddio! Stavolta quei due babbei me la pagano, cazzo!”, ripeteva.

Emma era agitata sin dal primo mattino, quando aveva saputo che i completi dei suoi quattro musicisti erano smarriti chissà dove e non si sapeva se sarebbero arrivati in tempo per il concerto. Quattro abiti Dolce e Gabbana, tre neri e uno bianco, completi di camicie e cravatte, di un costo esorbitante, di una bellezza incredibile, fatti confezionare apposta per quell’evento, persi chissà dove e chissà per quanto??!?!?!

Emma era andata su tutte le furie, aveva preso il telefono e aveva minacciato i due stilisti italiani in tutti i modi, dall’azione legale alla tortura fisica, e alla fine, a meno di un’ora dal concerto, fortunatamente o fortunosamente, i completi erano arrivati, dopo essere stati bloccati in aeroporto per un tutta la mattina e senza un motivo apparente.

Emma cominciò a dirigere subito il traffico all’interno del camerino che, per fortuna, era sufficientemente grande per contenere tutta quella folla. “Allora, ecco qui…”. Si mise ad analizzare i vari pacchi tenuti in mano dai suoi accompagnatori, cominciando a scartare quelli lunghi degli abiti, assistita dalle costumiste. “Dunque… completo bianco, camicia e cravatta bianca… E’ quello di… Jared.” L’uomo si alzò dal divano, prese l’abito e si avviò dentro il bagno senza dire una parola, sapendo che, quando Emma era così, non c’era da discutere ma solo da ubbidire, anche perché era dannatamente tardi.

Mentre le truccatrici cominciavano a sistemare le loro borse del trucco, accendere le luci e predisporre le sedie davanti agli specchi, e uno dei parrucchieri scaldava la piastra per lisciare i capelli, Emma continuò: “Questo… uhm… completo nero, camicia bianca e cravatta nera… é… Tim.”  Il ragazzo balzò dal divano dicendo un “YUPPIE!!!” decisamente convinto: QUELLO era il momento che aspettava da anni, la sua definitiva e certa consacrazione a membro della band! Prese l’abito come se si trattasse di una vestizione papale e si avviò di corsa nel secondo bagno, grato alla sua buona stella e anche a Tomo.

Nel mentre Jared, vestitosi di bianco in un batter di ciglia, usciva dal bagno e si piazzava subito sulla poltrona per il trucco, Emma sistemò anche Shannon: “Completo nero, camicia e cravatta nera. Ecco a te…” L’uomo prese il tutto di malavoglia: aveva gufato tutto il giorno perché gli abiti non arrivassero e per poter suonare soltanto in bermuda e canottiera, ma ancora il malocchio non gli veniva completo, a quanto pareva. Prese gli indumenti e si avviò pure lui al suo destino, giurando a sé stesso che si sarebbe trovato presto un altro posto in un gruppo Death Metal, uomini duri e veri e soprattutto senza orpelli.

Tomo era ancora alla finestra: “Tomo, vieni…” gli disse Emma, dolcemente. “Ecco il tuo: quello nero, come quello di Tim.” Il ragazzo le si avvicinò e lo prese: “Grazie, Emma.”

“Di nulla.” Poi, notata l’espressione poco convinta del chitarrista: “Che c’è, Tomo?”

Il ragazzo scosse la testa: “Niente, niente…”

Emma sapeva della storia di Dana quello che sapevano tutto, cioè quasi niente, però aveva notato che Tomo era rimasto tutto il giorno piuttosto cupo, triste e in disparte. Ma lasciò perdere il discorso, ormai non c’era più tempo per dire niente, né per raccogliere confidenze e/o dare consigli amorosi. Forse solo per un incoraggiamento. “OK. Qualsiasi cosa sia, però…” Emma gli mise una mano sulla spalla, sorridendo. “Stasera cerca di divertirti, OK? E’ una grande serata per i 30 Seconds…”

Tomo rispose al sorriso. “Hai ragione.”

E mentre Jared discuteva con il parrucchiere della corretta consistenza del gel per tenergli indietro i capelli e Tim e Shannon uscivano dai bagni (il primo pavoneggiandosi come se fosse sulla passerella di una sfilata di moda, il secondo trascinando i piedi come se fosse sulla via del patibolo), Tomo si avviò a sua volta verso il bagno, sospirando.

Doveva concentrarsi sul concerto, si disse, era troppo importante per il gruppo.

Non poteva pensare a lei.

Anzi, NON DOVEVA.

Era finita.

Doveva convincersi che era davvero finita tra loro.

Doveva mettere la parola fine.

FINE.

E basta.

Dana non lo aveva voluto.

Dana non lo voleva.

Dana non lo avrebbe MAI voluto.

Chiuso.

E quella sera alla festa magari ne avrebbe trovata un’altra, come aveva detto Shannon, anche migliore di Dana…

No, migliore no…

Diversa, forse…

Si sorrise allo specchio del bagno per un attimo, sforzandosi. “Forza, Tomo, ce la puoi fare… ce la DEVI fare… Coraggio…”, si disse. Poi si passò le mani sul viso come a farsi una carezza, come a voler scacciare i segni della tensione e dell’amarezza, e respirò profondamente… ma non riuscì a convincersi del tutto.

 

 

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Dana sedeva sull’ultima delle cinque poltrone, quella laterale, con la sua quasi-cugina Sarah alla sua destra. Elisabeth era in centro, con le sue due damigelle sempre alla sua destra.

Sarah sgranocchiava popcorn a tutto spiano, mentre le ladies non facevano che parlare della set list, presunta e/o voluta, e recitavano in continuazione titoli di canzoni che Dana non conosceva per niente (A-beautiful-lie-the-kill-the-edge-of-the-earth-echelon-attack-artifact-kings-and-queens-Buddha-for-Mary-the-mission-hurricane…). Ma l’atmosfera tutto sommato era piacevole e il gruppo spalla non era niente male, si disse Dana, appoggiata alla balaustra e battendo il piede per terra a tenere il ritmo. Una specie di alternative rock un po’ banalotto, forse, ma suonato bene, che alle altre ragazze invece non piaceva.

“Sì-sì-bravetti…” ammise ad un tratto Elisabeth, sbadigliando: “Ma niente in confronto ai 30 Seconds to Mars… YUPPIEEEEEEEE!!!”

Dana non capì al primo colpo e mentalmente ripetè il nome: 3-0-S-E-C-O-N-D-S-T-O-M-A-R-S.

30 Seconds to Mars.

30 Seconds to Mars???

30 Seconds to Mars!!!!!

La ragazza balzò dalla sedia, il cuore in gola, gli occhi spalancati: “CHI HAI DETTO CHE SONO?!?”

“I 30 Seconds To Mars, conosci?” Sarah era serafica, come se stesse dicendo la lista della spesa.

“OCCAZZ…” Dana si trattenne per un pelo, risedendosi di peso, tentando di rimanere calma.

“Perché? Non ti piacciono?”, chiese subito Elisabeth, sospettosa e anche un po’ irritata.

Dana arrossì fino alla radice dei capelli, con la sudorazione a manetta e la salivazione azzerata: “Ehm… no… ehm…” Le altre Ladies si girarono subito a guardarla ad occhi spalancati, quasi biasimandola con lo sguardo, in attesa di una risposta. Dana corresse immediatamente il tiro. “Cioè… sì… ehm… cioè… non so… cioè… non li ho mai ascoltati seriamente…”

“Beh, adesso sentirai che forzaaaaaaa!”, cominciò ad agitarsi Elisabeth, ritornando a fissare il palco, mentre Dana si chiedeva dove le fosse finito il cuore che sentiva battere ma non nel posto giusto, bensì dappertutto, in ogni fibra del suo essere.  Elisabeth intanto proseguiva il suo monologo, l’occhio perso nel nulla: “E quel Jared, che canta e suona la chitarra così bene… ed è così sexy… e così… scapolo…”. Il conseguente sospiro della ragazza, a mo’ di tornado, avrebbe potuto spegnere le candeline di dieci torte di compleanno una dietro l’altra.

“E anche Shannon… il batterista…”, intervenne di rimando Judith, con gli occhi a cuore e una leggera bava alla bocca. “Così bravo e anche lui così… scapolo…”

Sarah si mise a ridere sommessamente, guardò Dana scuotendo la testa e a bassa voce le disse: “Ehm… fai finta di niente… hanno gli ormoni in agitazione perenne per quei due tizi là… non so cosa ci trovino… Queste non capiscono più niente, ormai… le abbiamo perse… encefalogramma piatto… biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip…”

Dora non poteva averne di meno, di ormoni: “Anche a me piace tanto-tanto-tanto Shannon… mi piacerebbe tanto-tanto-tanto visitarlo perché lo vedo tanto-tanto-tanto pallido…”

Sarah soffocò una risata: “Faresti il dottorato su Shannon, eh, Dora?”, le chiese, prendendola in giro neppure troppo di nascosto, e Dora, neo laureata in medicina, annuì convinta, sistemandosi gli occhiali sul naso, rossa in viso e cotta come una pera matura.

Dana ritrovò la voce: “Ehm… e gli altri?”, chiese, sottovoce. Già che c’era, forse era il caso di saperne un po’ di più, dei componenti di quel gruppo. Di uno in particolare, magari, di cui non sapeva più nulla da tempo.

Elisabeth si piazzò subito in cattedra, desiderosa di dare una dimostrazione delle sue profonde conoscenze ‘marziane’: “Il bassista si chiama Tim. Ha sostituito Matt Wachter nel marzo del 2007. E’  stato fatto da poco membro ufficiale, prima suonava con i My Darling Murder, ma si sono sciolti nel 2006. E’ fidanzato da anni con una ragazza di nome Brittany. Invece Tomo…”

Dana trattenne il fiato senza volerlo e, per la prima volta, una strana punta di gelosia le pizzicò il cuore. “E’… è fidanzato anche lui?”, chiese, quasi senza volerlo.

Elisabeth si sistemò un ciuffo di capelli che le cadeva sulla fronte: “Uhm… Ci sono strane voci che girano…”

“Che voci?”, chiese Dana, tentando di fare l’indifferente.

“Beh, si dice che sei mesi fa, a Maggio, la sua ragazza lo abbia lasciato senza dirgli niente e sia scappata con un altro. Lui era stato lasciato dalla sua ragazza precedente a Gennaio, quindi… nel giro di sei mesi è stato lasciato due volte… poverino… ma che cappero hanno queste ragazze nella zucca? Come si può mollare un tipo dolce come Tomo?”

Se lo stava chiedendo anche Dana.

Che si stava chiedendo anche come diavolo aveva fatto a ficcarsi in un pasticcio come quello…

 

 

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Tim si guardò allo specchio del camerino per l’ennesima volta e si sistemò la cravatta che, nonostante le estreme cure delle costumiste, a lui pendeva sempre un po’ di sbieco. Si infilò il suo guanto portafortuna alla mano destra (che non c’entrava niente con il completo che indossava, ma a cui lui non avrebbe mai rinunciato), si sistemò per bene il suo ciuffo appena lisciato davanti agli occhi e si preparò per uscire.

“Ehi, fermo!”, gli disse Jared, gli occhi truccati di nero e i capelli tirati indietro con il gel, bloccandolo sulla porta, “Non ti pare che manchi qualcosa?”

“Oh, no!”, rispose Shannon alzandosi dal divano, dopo essersi annodato le scarpe, e battendosi una mano sulla fronte, le bacchette infilate in tasca e i capelli ritti in testa. “Ancora ‘sto cazzo di sangue finto? Non possiamo lasciare che se ne cospargano le echelon soltanto? Non possiamo limitarci a metterci questa cazzo di matita nera sugli occhi, farci fare un po’ i capelli e basta?”

“No. Nemmeno per sogno.” Jared, convinto, se lo spruzzò sulla camicia bianca lasciandolo colare e poi se ne mise qualche ditata in faccia. Con la stessa mano, sporcò anche il viso di Shannon, sulla tempia, e quello di Tim, sulla fronte. Al bassista fece anche una impronta di mano insanguinata sulla camicia bianca, quasi artistica.

“Io me lo metto da solo.” Disse Tomo, prendendogli il tubetto dalla mano e versandosene un po’ sulla camicia, sulla sinistra, all’altezza del cuore. “Qui.” Decretò, con convinzione: “Che il sangue finto coli insieme a quello vero.”

Tutti rimasero di sasso, quasi tramortiti da quella strana confessione di Tomo, tranne lui, che, guardandoli in uno strano modo,  si mise a ridere: “Ehi, che c’è? Era una battuta, eh…”

I suoi tre compagni si rilassarono, respirando forte e ridendo, un po’ troppo nervosamente. Forse Tomo, a modo suo, stava guarendo dalla sua ossessione per Dana, pensò Shannon, certo di esserne l’autore, vista la perfetta opera di convinzione portata avanti quel mattino stesso.

“OK.”, esclamò Jared, contento che Tomo avesse messo via, almeno prima del concerto, il muso lungo che aveva tenuto tutto il giorno. “Sotto con le maschere, ora… Rossa per me, bianca per Shan, nera per Tim e Tomo.”

Shannon trattenne a stento una bestemmia, mentre Jared gli metteva la maschera, giurando a sé stesso che l’indomani avrebbe scritto una lettera accorata ai Korpiklaani per scongiurarli di prenderlo con loro anche solo come suonatore di triangolo.

 

 

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Erano le nove in punto.

Un telo bianco con una fenice rossa era stato calato una decina di minuti prima davanti al palco e Dana non vedeva più lo stage. Vedeva soltanto le vaghe ombre della gente che sistemava le apparecchiature e gli strumenti.

Sentiva la tensione della folla salire a poco a poco.

Perfino le ragazze sul palco con lei parlavano a bassa voce.

E, anche se non avrebbe voluto, pure Dana era in fibrillazione.

Forse per effetto dell’attesa che montava, o forse al pensiero di chi doveva salire sul palco.

Dana voleva scappare, ma voleva vedere Tomo.

Voleva sentirlo suonare, ma era terrorizzata.

Voleva nascondersi, ma voleva far parte di quella serata così importante per lui.

Era come se avesse dovuto suonare lei. No. Era emozionata ancora di più. Le tremavano le mani, capiva per metà quello che le dicevano le ragazze, aveva lo stomaco contratto. Il tempo non passava mai.

Dana era fuori di sé.

Improvvisamente le luci si spensero e nel teatro calò il buio. La gente cominciò ad urlare, in spasmodica attesa.

Una luce rossa spuntò in mezzo al telone bianco, nel centro della Fenice, ed una musica cupa e rimbombante cominciò a risuonare nel teatro. Dapprima Dana non la riconobbe, ma poi, all’udirne le parole, un lungo brivido le percorse la schiena.

“O Fortuna

velut luna

statu variabilis,

semper crescis,

aut decrescis

vita detestabilis…”

Carmina Burana!

Dana smise di respirare.

La luce rossa cominciò lentamente a spostarsi: illuminò uno dopo l’altro i quattro simboli attorno al corpo della fenice, poi si spostò sulle ali, illuminò il cerchio esterno, nella parte inferiore, con il motto del gruppo, poi la parte superiore con il nome. Infine si allargò ad illuminare tutto il gigantesco logo e il fatto che il telone si muovesse per l’effetto casuale delle correnti d’aria interne al teatro, faceva sì che la fenice sembrasse prendere il volo da un momento all’altro.

Un brivido le corse lungo la schiena.

Erano delle visioni fantastiche ed emozionanti.

Così suggestive che Dana faticava a staccare gli occhi, evitava quasi di sbattere per ciglia per non perdere nemmeno un millesimo di secondo. Specialmente verso la fine del pezzo, quando, in sincrono con la musica, le luci si accesero dietro al telone e, per un momento, le ombre di quattro musicisti apparvero.

Poi una intro di batteria spaccò il silenzio.

“THE BATTLE OF ONE!” gridarono le Ladies, e Dana vide l’ombra di un uomo che suonava la batteria. Doveva essere Shannon, quel famoso Shannon Leto che le pagava le lezioni di chitarra di Tomo.

I giochi di luce sul telone e sul palco continuavano e Dana vide altre tre persone sullo stage, ma i loro visi sembravano in qualche modo deformati. La batteria suonò per tre volte lo stesso fraseggio, mentre due chitarre erano entrate a costruire una lieve melodia sonora.

Poi, su un deciso colpo di piatto, il telone cadde, la folla urlò e Dana cercò immediatamente di vedere Tomo. Ma non riusciva a capire quale fosse, perché tutti i musicisti erano mascherati. Guardò subito a destra del palco ma il ragazzo alto e magro, scuro di capelli, con la maschera nera e vestito di nero, suonava un basso. Quello doveva essere Tim.

Spostò lo sguardo al centro, ma l’uomo con la maschera rossa, subito gettata via per cantare al microfono, vestito di bianco e con una strana chitarra nera, era sicuramente Jared.

Non rimaneva che l’ultimo.

Dana spostò lentamente lo sguardo sulla sinistra.

E rimase a bocca aperta.

Eccolo!

Era lui!

Era il suo Tomo.

Vestito di nero, maschera nera.

Con la Gibson Les Paul nera…

No.

Con una chitarra bianca.

Dana spalancò gli occhi, sorpresa.

Chitarra bianca?!?

Ibanez bianca.

Con un quadrifoglio rosso attaccato vicino al ponte delle corde.

Il cuore di Dana perse un colpo.

QUELLA CHITARRA ERA LA SUA IBANEZ!

Dana gettò un grido, cui  nessuno, per fortuna, fece caso.

MALEDETTA JANE! O benedetta? Ma perché l’aveva fatto? Perché l’aveva data a Tomo? Dana era fuori di sé, non credeva ai propri occhi.Non sapeva se essere adirata o in qualche modo lieta che il suo adorato strumento fosse finito a qualcuno che le aveva voluto bene.

E a cui lei ora, improvvisamente, scopriva di volere in qualche modo bene a sua volta.

Sentiva di apprezzare.

Forse di amare.

O forse no.

Era in preda ad emozioni che non riusciva ad identificare, non sapeva dire cosa provava per Tomo in quel momento.

Tutto e niente.

Riprese a fissare il ragazzo che suonava la sua Ibanez: Tomo suonava benissimo, teneva il tempo, era sicuro di sé, si muoveva su e giù per il palco, era bellissimo vestito di nero, molto sexy, era splendido. Dana non l’aveva mai visto così e non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Per un momento le venne in mente che forse aveva avuto tra le mani un diamante e non se n’era resa conto.

Ad un tratto si accorse che la canzone stava per finire.

Tomo eseguì l’ultimo accordo, poi tolse le mani dalle corde, si levò velocemente la maschera e la fece volare verso il pubblico, con un urlo quasi rabbioso, quindi gettò via anche il plettro, sollevò la chitarra verso il teatro e la baciò.

Dana sobbalzò.

Non poteva essere.

Quel bacio era rivolto a lei, ne era certa.

Era un tributo per Dana.

Un grazie.

Forse.

Oppure un addio?

O anche un vaffanculo.

Una presa in giro.

Cosa?

Dana non sapeva rispondere ma, qualsiasi cosa fosse, si rese conto che Tomo non l’aveva scordata.

Purtroppo per lui.

 

 

P.S. Dedico questo capitolo a Jcp, appena aggiunta alla lista delle appassionate di ff. E al solito ringrazio le mie beta readers (che mi hanno dato delle dritte sulla Brixton Academy visto che loro ci sono state…) e tutte le persone che recensiscono: ‘Without you, I’m nothing’… 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


DEL COME DANA TENTA LA FUGA, MA VIENE BLOCCATA DA DUE 007 DA MANUALE E DEL COME I LETO SCOPRONO CHE LE LADIES-ECHELON NON SONO PERSONAGGI DA SOTTOVALUTARE...

 

 

Dana non ne poteva più di quel dannato party post concerto in quel locale di lusso, pieno di gente e casino: cercava di mimetizzarsi nell’ombra, dietro una pianta, vicino a una tenda, sotto ad un tavolo, tra due porte accostate, ma ogni volta che trovava un nascondiglio perfetto, arrivava Elisabeth a cercarla per portarla ‘a caccia dei Leto’, dispersi chissà dove per il salone.

Le Ladies, decisamente alticce (a parte Sarah), nel bel mezzo di un addio al nubilato, le avevano anche artigliato il polso con un bracciale bianco di plastica troppo stretto e poi avevano anche tentato di imbrattarla di sangue finto, per amore del Blood Ball e dei 30 Seconds to Mars, ma Dana si era rifiutata, con la scusa che doveva restituire l’indumento intonso alla madre di Julius.

Ed erano due ore che quattro ragazze insanguinate la trascinavano di qua e di là, prima per il teatro e poi per la festa, ma Dana aveva soltanto voglia di scappare, rinchiudersi da qualche parte e stare da sola: non se la sentiva di incontrare Tomo. Non dopo quello che aveva visto in lui durante il concerto: un uomo ancora preso per lei e che non le era più indifferente, anzi. Dana non avrebbe saputo cosa dirgli, ad incontrarlo, né come avrebbe reagito davanti ai suoi occhi scuri, a quel sorriso che si era accorta che le era mancato per sei mesi.

Lo voleva, ma non poteva, doveva restare a tutti i costi nella vita che si era scelta.

Doveva cancellare Tomo ed il suo viso per sempre, mettersi il cuore in pace.

Tomo sarebbe sopravvissuto, come fanno tutti, lentamente si sarebbe ripreso, l’avrebbe scordata, forse, anzi, sicuramente avrebbe trovato un’altra donna e… basta.

Basta.

Dana non poteva fare niente, per lui.

Né per sé.

Poteva solo andarsene, scappare il prima possibile, ritornare ad Oxford e continuare la sua insipida vita.

Ad un certo punto, la ragazza era talmente esasperata dal fatto di dover continuamente guardarsi le spalle nel terrore che arrivasse Tomo (che ancora non aveva visto aggirarsi per il salone affollato e che quindi poteva essere dappertutto) e la sorprendesse lì, che decise di abbandonare per un po’ il salone della festa.

Si scusò con le sue amiche e, piegata un po’ in avanti e con la borsetta in faccia per nascondersi, fece la cosa più sbagliata che poteva fare: andare al bagno delle signore ed incrociarsi nel corridoio che portava ai bagni con… Tim!

Che lei ovviamente non riconobbe e che, bel bello ancora vestito con gli abiti di scena, usciva dal bagno degli uomini, che la fissò, si bloccò al lato del corridoio per lasciarla passare, fece 2+2=4, 4:2=2, 2x8=16, 16:3=5 resto 1, ripassò la tabellina del nove, recitò una poesia di Milton, si grattò la testa perplesso, ebbe un Deja-Vu e, alla fine, con un cortocircuito neuronale da paura, si rese conto che quella era FirstLeaf!

Correndo come una gazzella inseguita da un leone affamato nella savana africana, Tim balzò nel salone della festa insinuandosi tra la gente in cerca di… in cerca di… in cerca di non-sapeva-nemmeno-lui-di-chi, ma in cerca di aiuto, sicuramente.

E il primo che vide fu Shannon che, imbrattato ancora di sangue finto e seguito da un codazzo di almeno quindici donne tutte sorridenti e tutte più alte di lui, veleggiava per il salone della festa, tronfio come un galeone spagnolo in alto mare con il vento in poppa. Tim, boccheggiante, gli si avventò davanti, sui calli, tanto che Shannon si spostò di scatto, quasi spaventato e sicuramente seccato: “TIM-CHE-CAZZO-FAI???”

Il bassista era senza fiato: “Pant pant… E’ qui!”

“Chi?”

“Pant pant… In bagno!”

“Chi?”

“Pant pant… Appena vista!!”

Shannon si stava scazzando: “MA CHI, PERDIO?”

“Pant pant… LA GNOCCA!!”

Shannon gli prese un braccio e lo scostò dal gruppo, abbassò la voce e fece un sorriso da uomo di mondo, alzando le sopracciglia: “Ehm… Tim… ehm… qui è pieno di gnocche, mi pare, ne ho giusto una ventina alle calcagna da mezz’ora e ho una tasca zeppa di numeri di telefono… e se TU non te ne sei ancora accorto, vuol dire che non stai bene… Cosa e, soprattutto, QUANTO hai bevuto?”

“Ma no… è la cosa… quella là…”

“La ‘cosa’ CHI?”

La FirstDana… ehm… la LeafClover… ehm… la FirstClover… ehm… la FourFirst… ehm… la chitarrista… ehm… come diavolo si chiamava… insomma, la ragazza di Tomo, CAZZO!!”

Shannon spalancò gli occhi: “COSAAAAA???”

“E’ lei, sono sicuro.”

“Sei sicuro?”

“Sì.”

“Sicuro-sicuro?”

“Sì! Al mille percento!”

“E Tomo lo sa?”

“Non penso…”

“E allora dobbiamo dirglielo. Dov’è adesso, la ragazza?”

“E’ appena entrata in bagno…”

Nel frattempo Jared, dall’altra parte della sala, guardava sospettoso Tim e Shannon che confabulavano in quello strano  modo. Quasi li invidiava, essendo impegolato in una discussione con una tizia  sul perché avesse scelto la rosa come simbolo del secondo album e la tizia ci metteva ragioni mistiche/esoteriche/ilnomedellarosa/ilcodicedavinci che non c’entravano una benemerita fava. Jared si scusò con lei con un finto sorriso di cortesia e si avviò verso i suoi due colleghi, arrivando loro vicino proprio mentre Tim diceva la parola ‘bagno’. “Che bagno?” chiese immediatamente, curioso.

Ma nessuno dei due gli rispose, anzi.

“TU...” Gli disse subito Shannon, puntandogli il dito in faccia, in modo risoluto. “Vai a cercare Tomo e poi portalo in bagno. E TU…” Shannon spostò il dito sulla faccia di Tim: “Vieni con me. E VOI…” Shannon si girò verso le ragazze che lo seguivano adoranti: “Ferme qui, torno tra un attimo.”

Jared, mentre cercava di capire il motivo per cui doveva portare Tomo in bagno (a fare cosa, poi? La pipì come i bambini piccoli?), tentò di ribattere: “Ma…”

Shannon quasi lo aggredì: “E muoviti che non abbiamo tanto tempo, CAZZO!!!”

“Tempo per cosa?” Ma Shannon non rispose e si avviò a passo di marcia verso i bagni con Tim alle calcagna, entrambi con un’espressione ben poco raccomandabile, stile ‘Missione Punitiva’.

Jared, con lo stuolo di ragazze insanguinate che ora si erano assiepate adoranti intorno a lui, altrettanto insanguinato e vestito ancora di bianco, si guardò attorno e in un attimo decise che doveva ritornare ad essere il tirannico despota di sempre. Da quando, lasciandosi convincere, aveva lasciato andare troppe cose, ora tutti lo trattavano come l’ultima mosca sull’ultima cacca della compagnia, specialmente suo fratello, che ora OSAVA anche dargli ordini. Jared sbuffò: vabbè, ci avrebbe pensato dopo ma una bella sommatoria di conti l’avrebbe sicuramente fatta con tutti quanti, nessuno escluso. Si scusò con un sorriso anche con quelle ragazze e si avviò a cercare Tomo, chiedendosi dove diavolo potesse essere finito.

Nel frattempo, Shannon e Tim, con passo felpato, tipo elefante in negozio di cristalli, e scivolando lungo il muro del corridoio, tipo spie dei film comici, si erano piazzati ai lati della porta del bagno delle donne, sperando che Dana non fosse già uscita e non si fosse prontamente dileguata.

Ma la fortuna era dalla loro parte.

Infatti quando Dana uscì, dieci lunghi minuti dopo, la ragazza aprì lentamente la porta, sbirciò fuori sospettosa, fece un passettino all’esterno, giusto per trovarsi tra Tim e Shannon che le intimarono: “FERMA QUI!”

Dana gettò un grido e tentò di scappare, ma i due uomini furono più svelti e in un secondo la bloccarono contro il muro.

Subito Shannon, riconoscendola, le puntò un dito contro, come faceva ormai in automatico con tutti, quella sera: “Sei la ragazza di Tomo, tu?”

Dana, trattenendo una saracca, tentò la carta della gnorri: “Di chi?”

“Non fare la finta tonta. Sei Dana chiamata anche FirstLeaf, giusto?”

Tim interruppe l’interrogatorio di Shannon, alzando gli occhi al cielo e grattandosi la testa, sollevato: “Aaaaaah, ecco come diavolo si chiamava…”

“Zitto, Tim. Sei Dana, vero?”

“No.”

Tim non ce la faceva a tenere chiusa la bocca: “Sì, sei tu, sei tu, sei tu, ti abbiamo visto sul giornale!!”, cantilenò.

Merda-il-cazzo-del-Los-Angeles-Tribune, pensò Dana: “Che giornale?”

“Sei mesi fa, sul Los Angeles Tribune mi pare, quando hai vinto il concorso musicale con i FourLeafClover.”, continuò Shannon.

Diana imprecò tra sé: “Non so di cosa parlate. Non sono io, sarà una che mi assomiglia. Lasciatemi subito…”

Shannon sogghignò: “Col cazzo. Quando vedo una donna, io me la ricordo. Avevi il kilt scozzese come il mio…” Il batterista  si interruppe subito. Beh… forse non era proprio da uomini/machi/shannonleti dire delle cose del genere. “Ehm… cioè… avevi un kilt corto, stivali, maglia con i quadrifogli, eri pettinata con le code e suonavi una Ibanez bianca, quella stessa che ora suona Tomo…”

Dana non resistette alla battuta: “Sai anche la taglia del reggipetto?”

Shannon abbassò gli occhi e le guardò il seno per un momento: “No, ma quella la posso indovinare…”

Dana alzò gli occhi al cielo: “Sentite. Lasciatemi andare o ve le suono.”

Nonostante la minaccia, era come aver confessato: “Sei Dana, vero?”

“Mollami…”

“No. Devi parlare con Tomo, invece di scappare sempre come una ladra…”

“Non DEVO fare proprio niente, invece…”

“Gli devi delle spiegazioni.”

“No!” Dana cominciò a divincolarsi spingendo via Shannon ed evitando Tim con una finta. Stava quasi per scappare che Shannon la prese per le spalle, Tim, su comando di Shannon, la prese per le gambe ed entrambi la sollevarono di peso, mentre Dana si dibatteva come una biscia, inutilmente: “Lasciatemi, stronzi farabutti…” La ragazza tentò anche di dare un calcio sulla pancia di Tim, ma il bassista si mise le sue gambe sotto un braccio impedendole il movimento. Shannon fece lo stesso con le braccia e il busto di Dana e la ragazza, che era piuttosto leggera e in confronto ai due energumeni era un fuscello, si ritrovò perfettamente impacchettata, non più in grado di muoversi. 

“Dove la portiamo?”, chiese subito Tim, soffiandosi via il ciuffo di capelli da un occhio.

“Eh?”

“Dove la portiamo?”

Shannon era dubbioso: “Ehm… non lo so…”

“Se hai detto a Jared di portare Tomo qui, forse è il caso di aspettare, no?”

“Ah, già è vero… ma se la mettiamo giù questa scappa…”

La faccia di Tim si illuminò, mentre Dana li ricopriva di insulti e muovendosi a strattoni li faceva andare su e giù per il corridoio: “La portiamo sul tourbus?”

“Ma se siamo venuti qui in taxi…”

“Ah cazzo, è vero… Chiamo Emma?”

Shannon sbuffò: “Ma no, è una questione tra uomini, questa… se chiami Emma, poi tra donne fanno comunella ed è finita…”

“Allora che si fa?”

“La teniamo così finché non arriva Tomo.” Sperando che il cazzone di Jared sia davvero andato a chiamarlo e non a farsi un giro con le Echelon, pensò Shannon, sennò facciamo mattina.

Ma Tim aveva qualche dubbio: “E se arriva qualcuno e non è Tomo?”

“Ci poniamo il problema al momento…”

“E se arriva qualcuno e chiama la polizia?”

“Diciamo che era uno scherzo…”

“E se arriva qualcuno e ci denuncia?”

“Ho un buon avvocato…”

“E se…”

Shannon era sull’orlo di un esaurimento nervoso espresso: “TIM FALLA FINITA!!! Questa non sta ferma e ti ci metti anche tu con i tuoi ‘se e ma’???”

Per fortuna di lì a pochi secondi la porta del corridoio si spalancò e comparve Jared, con Tomo subito dietro.

Jared sgranò gli occhi alla vista di Tim e Shannon alle prese con una bianca biscia indemoniata: “CHE CAZZO STATE FACENDO?”

“DANA???!!” Tomo spostò Jared di lato con una spinta e si piazzò davanti al trio sospetto, a bocca aperta e con le braccia allargate. “Ma-ma-ma che diavolo succede?”. Shannon e Tim, con un sospiro e un grugnito, la lasciarono andare subito, rimettendola in piedi. Tomo aveva smesso di respirare a trovarsi la ragazza davanti. La guardò da capo a piedi, meravigliato anche del modo in cui era abbigliata, scuotendo la testa, incredulo: “Dana sei tu…” L’uomo non credeva ai propri occhi. Dana era bellissima, più di quello che si ricordasse, ed era lì! ACCIDENTI ERA LI’!!! ERA LI’!! Non avrebbe mai detto!

Dana, con il cuore in gola, arrossata e senza fiato, cercava di sistemarsi il vestito tutto sbilenco e gettava occhiate di fuoco a Shannon e Tim che si erano spostati di lato: “S-sì.”, ammise, di controvoglia, a mezza voce, trovando un imbarazzo estremo a guardare negli occhi Tomo.

Il chitarrista la prese per le spalle, ancora incredulo, guardandola in viso: “Oddio… ma… Stai bene? Che stava succedendo? E… perché sei qui? E… che ti stavano facendo questi due?”

Dana si strappò dalla testa con rabbia la fascia bianca con la piuma, ormai tutta schiacciata: “Non lo so, mi stavano… rapendo… che ne so…”

Tomo non credeva ai suoi orecchi: “Ma siete diventati scemi? Che modo di fare è?”

Shannon si fece avanti, cercando di essere collaborativo: “Tim l’ha vista e siccome devi parlare con lei abbiamo pensato di non farla andare via e…”

Dana non lo lasciò finire, si avvicinò a Shannon e gli tirò un calcio su uno stinco e, mentre il batterista cominciava a saltellare per il corridoio dicendo ‘ahia-ahia-che-male’, la ragazza si diresse verso Tim per tirargli un pugno sullo stomaco, ma il bassista fu più svelto e fuggì di corsa, sparendo verso il salone della festa.

Ovviamente, alla vista di Dana che picchiava suo fratello, Jared non poteva stare zitto: “Ehi tu, che cazzo stai facendo?”

Dana, senza paura, gli si mise davanti, a dieci centimetri dal viso e, guardandolo di sotto in su, gli sibilò a denti stretti, incazzata con il mondo intero, non necessariamente con lui: “Togliti dai piedi, tu… Nessuno ti ha interpellato… E impara a suonare la chitarra che sei penoso… Mia nonna suona meglio di te…”

Tomo, sogghignando e cercando di non ridere in faccia ai Leto, prese Dana per un braccio e tentò di portarla via, visto che la faccia di Jared aveva assunto uno strano color rosso carminio e Shannon aveva smesso di saltellare e le si era avvicinato con aria assassina, lo stinco in fiamme: “Dai, basta, Dana… vieni via…”

“NESSUNO HA MAI OSATO DIRMI QUESTE COSE!!!!” Jared era esploso, alla fine, ma Dana non fece una piega.

“Fottiti.”

“Dana, vieni via…”

Intervenne anche Shannon, incazzatissimo: “NESSUNO HA MAI OSATO PRENDERMI A CALCI SUGLI STINCHI!”

Dana si girò verso Shannon e gli puntò in faccia l’indice come lui aveva fatto con lei poco prima: “C’è sempre una prima volta. E tu hai bisogno di lezioni di batteria. Vai da Carlo…”

“Dana, vieni via…”

Improvvisamente un grido proveniente dalla porta che dava sul salone lacerò l’aria: “JAREEEED-SHANNOOOON-OMIODDIOOOOOO!!!!”.

Interrompendo la discussione in atto, tutti si girarono verso l’origine di quell’ululato quasi animalesco: era Elisabeth che, seguita da Judith e Dora e, un po’ più indietro da Sarah, faceva il suo ingresso, con gli occhi a forma di cuore, il viso sognante e le mani giunte come se avesse visto la Madonna di Lourdes. “OMIODDIO. Jarrrrred…” Elisabeth si catapultò contro l’uomo e gli si buttò addosso, passandogli le braccia sopra le spalle e tirandolo verso di sé.

“Ehi, ferma, ferma…” Ma la ragazza non mollava l’osso e  Judith e Dora stavano riservando lo stesso trattamento a Shannon che diceva un debole ‘aiuto-soffoco’.

Sarah, che si era messa vicino a Dana, rideva a crepapelle: “Ma siete partite proprio… Da non credere…”

“Jay ti prego sposami…”, ululava Elisabeth, “Non voglio sposare quel topo di biblioteca…”

“Ma… veramente…” Jared tentava di sottrarsi alla presa, ma Elisabeth pesava il doppio di lui e ormai lo aveva braccato e lo stringeva forte. “Ehm… Preferirei di no…”

“Ma Jared come puoi farmi questo??” Elisabeth cominciò a strattonarlo, “Non puoi rifiutarti, sono una Lady, io…”

Nello stesso tempo Judith, con estrema agilità, era saltata in groppa a Shannon, mentre Dora aveva tirato fuori chissà da dove uno stetoscopio e glielo passava sul petto dicendo, con aria professionale, sistemandosi i pesanti occhiali sul naso, le guance arrossate: “Uhm… battiti accelerati… più frutta e verdura e meno grassi… niente burro… dovresti metterti a dieta, Shany…”

Shannon tentava inutilmente di togliersi il braccio che Judith gli aveva messo intorno al collo pensando che DIETA e SHANNON erano due parole assolutamente incompatibili, inavvicinabili, che non avrebbero dovuto stare nemmeno nello stesso vocabolario: “Sto soffocando… mollatemi...”

Mentre Sarah aveva preso la macchina fotografica digitale e stava facendo un reportage completo dell’accaduto, Dana era rimasta a bocca aperta al vedere quello ridicolo spettacolo e si accorse a malapena che Tomo, con fare furtivo e contento di non avere delle Ladies alle calcagna, le aveva preso una mano e la stava portando verso la porta. Se ne accorse soltanto quando uscirono nel salone della festa. Solo allora la ragazza diede uno strattone, tolse la mano e cominciò a correre per cercare un’uscita, inseguita dal chitarrista che le diceva “Dana-aspetta-aspetta”, ma  Dana non riusciva a trovare nessuna porta: dal panico che le era preso, aveva perso il senso dell’orientamento e non vedeva nessuna via di fuga. Fece due giri intorno al salone a perdifiato e Tomo la riprese facilmente, afferrandole un braccio e girandola verso di sè.

“Dana, aspetta, fermati, per favore…”

Dana era in angoscia completa, non sapeva dove trovava il fiato per articolare le parole e per spingere via Tomo: “No, devo andare, devo andare… lasciami…”

“No, dobbiamo parlare, come minimo mi devi una spiegazione…”

“Non c’è  niente da dire…”

Il ragazzo le prese le mani, desideroso di dirle cosa era stata e cos’era per lui: “Un attimo soltanto… io…”

“NO!”

E a questo punto, all’ennesimo rifiuto, Tomo si incazzò: la frustrazione accumulata in quei lunghi sei mesi esplose in una rabbia totale, simile a quella che aveva provato quel giorno in studio di registrazione, quando aveva mandato Jared a ’ffanculo.

“BASTA, ADESSO, CAZZO!!!” Si abbassò, prese Dana con un braccio attorno alle gambe, all’altezza delle cosce, la sollevò e se la mise su una spalla, con lo stomaco sul suo omero, tra gli sguardi increduli di tutte le ragazze del salone. “SE HO DETTO CHE PARLIAMO, PARLIAMO…”, aggiunse, inviperito non poco. Poi si avviò verso l’uscita, con Dana che tentava di scalciare e dibattersi, incredula che quella sera fosse la seconda volta, nel giro di un quarto d’ora, che uomini vestiti in Dolce e Gabbana la rapissero alzandola da terra.

Ma lo spettacolo ‘marziano’ per le echelon rimaste alla festa non era ancora finito, visto che, come un treno in corsa, dal corridoio che dava ai bagni uscì Sarah con la macchina fotografica in mano, inseguita dai Leto mezzi spogliati, con la camicia aperta e fuori dei pantaloni, tutti spettinati e incazzati come iene che volevano le sue foto altamente compromettenti, inseguiti a loro volta dalle Ladies con in mano le loro giacche e cravatte, issate in aria come trofei di caccia. In coda al gruppo non poteva mancare Tim, che cercava di recuperare i costosissimi Dolce e Gabbana, temendo l’ira funesta di Emma.

 

 

 

 

 

P.S. Grazie per le gentili parole che usate nelle recensioni e che mi commuovono sempre e, sì Princes_of_the_universe, Jared vestito di bianco e sporco di sangue finto è una immagine difficile da cancellare, per questo l’ho rispolverata!

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


DEL COME TOMO SCOPRE CHI E’ IN REALTA’ FIRSTLEAF/DANA ED IL LOSCO MOTIVO PER CUI SE N’E’ ANDATA…

 

 

Tomo uscì dal locale con Dana su una spalla ed un codazzo di ragazze che dicevano “ooooooooohhhhhh”, ma lui, con l’espressione truce, il ciuffo di capelli scompigliato e la sua preda tanto ambita, non badava nessuno. Cominciò a camminare risoluto lungo la Brixton Road finché il codazzo si diradò e lui potè mescolarsi ai pochi passanti delle vie londinesi a quell’ora di notte. Non che i due, in realtà, passassero inosservati: né lui, macchiato di sangue finto e ancora con il costume di scena, tutto sudato e con una ragazza portata a mo’ di sacco di cemento, né Dana, che continuava ad agitarsi, perdeva perle dalla collana finta come Pollicino che semina le briciole nel bosco, e continuava ad inveire e a gridare a Tomo di metterla giù.

Ma l’uomo non ne aveva nessuna intenzione visto che Dana era leggera, non pesava niente e poteva scarrozzarla in giro ancora per un po’; non sapeva bene dove portarla, ma non se la sarebbe fatta fuggire per niente al mondo. “No, manco per niente, scordatelo.”, le disse, all’ennesima rimostranza.

“Mettimi giù, stronzo…”

“No. Adesso troviamo un posto e parliamo, prima che qualcuno ci arresti per schiamazzi, visto che non la smetti di gridare…”

“Non voglio parlare. Non ho niente da dire…”

“Io sì…”

“Io no…”

A Tomo balenò improvvisa un’idea: “Ti porto al mio albergo, adesso…”

“Noooooooo. Non ci voglio venire!!!”

“Invece sì.”

“E invece noooooo…”

Tomo cominciò a guardarsi attorno alla ricerca di un taxi, mentre Dana gli enumerava i motivi per cui non voleva andare con lui, ragioni che il ragazzo non ascoltava per niente. All’improvviso un’auto li sorpassò lentamente: era un ‘black cab’, il tipico taxi inglese, ed era vuoto. Tomo fece segno all’autista di fermarsi e l’auto accostò immediatamente, una decina di metri davanti a loro, lungo il marciapiede.

Tomo in pochi passi raggiunse il mezzo, aprì lo sportello posteriore, si chinò e fece sedere Dana sul sedile, spingendola dentro, sperando che la ragazza, in sei mesi, si fosse scordata le mosse imparate nel corso di autodifesa e anche il famigerato calcio sulle parti basse che gli aveva dato la famosa sera in cui lui aveva scoperto la sua doppia vita.

Ma Dana, quella sera, era davvero strana con lui: non attaccava, anzi, preferiva fuggire. Entrò del tutto nel taxi e cercò di uscire dall’altra parte, mentre Tomo, salendo a sua volta, le abbrancò subito una caviglia e diede al taxista il nome del suo albergo.

“VOGLIO SCENDERE!!!”, cominciò a gridare Dana mentre il taxi partiva sgommando.

“No-o.”

“Non voglio venire con te, non voglio… e mollami la caviglia che mi fai male.”

“Io ti lascio la caviglia ma tu stai ferma e non ti butti giù dal taxi, OK?”

Dana sbuffò: “OK. Ma quando si ferma me ne vado.”

Tomo tentava di apparire risoluto: “E’ da vedersi.”, declamò, con voce convinta, lasciandole la caviglia.

“Tomo, perché mi fai questo?”

“Non ti sto facendo niente, cazzo! Voglio solo parlare con te! Ma ne avrò il diritto, no?”

La ragazza non rispose, fece spallucce e si mise a guardare fuori dal finestrino le strade di Londra che correvano attorno a loro, pensando che ‘parlare’ con Tomo era l’ultima cosa al mondo che avrebbe voluto fare quella sera. Mentalmente si maledisse: ma perché non se n’era andata via non appena aveva saputo che il concerto era quello del gruppo di Tomo? Ma perché? Perché? Accidenti!!! Era stata troppo curiosa di vederlo suonare, di capire come stava, e ora quella curiosità la stava pagando salatissima. Lo guardò un attimo di sottecchi, girando appena la testa:  Tomo aveva il trucco degli occhi quasi colato ed un’espressione in volto a metà strada tra l’arrabbiato e il risoluto. Mannaggia, pensò Dana, stasera non sarà facile fuggirgli, è troppo incazzato.

Il taxista correva come un pazzo e, nel giro di una decina di minuti, durante i quali Dana tentava di mettere in piedi un piano di fuga e Tomo un piano per tirarla giù dalla macchina senza che scappasse, l’auto arrivò nei pressi dell’Hotel di Tomo.

Il ragazzo afferrò subito la mano di Dana e gliela strinse: “Da stamattina, davanti all’albergo, sono accampate decine di Echelon, fotografi, paparazzi e giornalisti di tutti i tipi. Ora scendiamo e tu non fare storie, non scappare, non metterti a correre, non strattonare e non gridare. Fa’ finta di niente e basta. E poi si vedrà.”

Dana lo guardò subito male: “Scendiamo, passiamo, entriamo ma poi io me ne vado.”

“Ho detto che si vedrà.”

“Ho detto che me ne vado.”

Tomo iniziò ad urlare: “HO DETTO CHE SI VEDRA’! E STASERA SI FA COME DICO IO!”

“Questa me la paghi, Tomo…”, gli sibilò Dana, a denti stretti.

“Domani sarai su tutti i giornali, non sei contenta?”

La ragazza scosse la testa: “No… Ti odio, lo sai?”

“Vedo già il titolo: ‘L’ex chitarrista dei FirstLeafClover avvistata con il chitarrista dei 30 Seconds To Mars al suo arrivo in albergo. Auguri e chitarristi maschi!’… Bella, no?”

Dana gettò un urlo isterico: “ARGH! Vaffanculo, Tomo…”

“Cosa dirà Julius?”

“Basta!”

“La mummia di Tutankhamon si rivolterà nel sarcofago! Uuuuuuuhhh!”

La ragazza si tappò gli orecchi: “Smettila, smettila!!!”

“Cosa diranno ad Oxford?”

A Dana vennero le lacrime agli occhi: “Sei crudele.”

Tomo, con la voce gelata come ghiaccio, seppellì l’intera conversazione sotto una lapide composta dalle parole “Crudele. Sì. Come sei stata tu con me.”

Dana abbassò la testa, sconfitta. In fondo era vero.

Il taxi arrivò davanti all’entrata e già una piccola folla si assiepò intorno all’auto. Alcuni concierge uscirono per spostare la gente ed uno aprì la porta a Tomo che scese sorridendo, salutando la gente e tenendo per mano e trascinandosi dietro una Dana seria seria. Alcuni flash li investirono e Dana era talmente abbattuta e sconvolta da non pensare nemmeno per un momento di nascondersi il viso con la borsetta.

I due entrarono nella hall e Tomo portò Dana verso l’ascensore, vi salirono e in pochi istanti arrivarono alla camera dell’uomo e vi entrarono.

Tomo accese le luci, si tolse subito la cravatta e la giacca e le buttò su una poltroncina, mentre Dana sembrava un leone in gabbia.

“Vuoi qualcosa da bere?” le chiese l’uomo, ma Dana si era messa a guardare dalla finestra, le braccia incrociate e l’espressione corrucciata. Ma non era la serata giusta: Tomo era scazzato da morire e si sentiva con i nervi a fior di pelle, anche perchè l’atteggiamento di Dana non aiutava.

Il chitarrista le si avvicinò e le prese un braccio, facendola girare verso di sé. “Senti. Inutile che ci giriamo tanto intorno. La situazione è semplice: sei fuggita con Julius senza dire niente e io ci sto male. Come minimo voglio, anzi, PRETENDO una spiegazione e subito. Mi pare ovvio che me la devi. Per rispetto di quello che c’è stato tra di noi. Non sto dicendo per amore, ma almeno per rispetto. Voglio sapere. E basta.”

Dana fece spallucce e scosse la testa, mordendosi un labbro, ma non disse niente: si limitò a guardare Tomo come se sapesse di avere fatto una marachella ma non volesse comunque giustificarsi.

Tomo non aveva nessuna voglia di demordere: “Non uscirai di qui finché non mi darai una risposta, quindi mettiti il cuore in pace. Barrico la porta se necessario.” Poi andò a chiudere la porta a chiave, si mise la chiave nella tasca dei pantaloni, si tolse le scarpe e ritornò da lei, mettendosi davanti a braccia conserte a fissarla.

Dana, che non riusciva a sostenere lo sguardo del ragazzo, dopo un po’ si spostò invece verso il letto e si sedette sul bordo, con la testa bassa e le mani sul grembo. Rimase così per un momento, poi si tolse il resto della collana, che le pendeva a pezzi dal collo, ed i guanti, appoggiò il tutto sul copriletto, borsettina bianca compresa, e si passò le mani sul viso, chiudendo gli occhi, sospirando e sfilandosi le scarpe.

A Tomo per un attimo fece una gran pena.

Non la riconosceva più, in realtà.

Non sembrava più lei.

Non capiva perché non gli desse spiegazioni, perché fosse così abbattuta e taciturna. E poi perché era al concerto e anche alla festa, se ora non gli voleva parlare? Era venuta per lui o no? E che diavolo ci faceva a Londra? Ma… stava ancora con Julius? O forse no?

Tomo sentì che aveva un milione di cose da chiederle. Le si avvicinò e le si inginocchiò davanti. Dana sollevò la testa e lo guardò con uno sguardo davvero infelice. Tomo allungò una mano a toccarle il viso, le fece una leggera carezza scostandole una ciocca di capelli da una guancia, e con l’altra le prese una mano, guardandola in quegli occhi scuri che aveva sognato per notti intere. “Dana, perché te ne sei andata, senza dire niente, in quel modo?”

Dana sospirò e con voce atona gli disse: “Perché… perché dovevo… dovevo farlo.”

“Questa non è una spiegazione.”

La ragazza annuì, quasi convinta. “Sì, lo é.”

Tomo le strinse entrambe le mani con le sue: “Se… se io non ti piacevo e non mi amavi bastava che me lo dicessi. Se preferisci Julius, almeno dimmelo… dimmelo che non mi vuoi. Dimmelo che con me sei infelice e con lui no. Io… avevo creduto che avessi cambiato idea dopo quella notte…”

La ragazza scosse la testa. “No.”

“No, cosa?”

Dana cominciò a fissarlo negli occhi: “Non sto con Julius, non è per quello…”

Tomo dentro di sé sospirò a sapere che almeno Dana non si era fidanzata con il Lord. Ma allora la situazione era anche peggio. Se Julius non era la causa della partenza di Dana, cosa lo era? “E allora? Cos’è?”

Dana abbassò gli occhi nuovamente, tentando di togliere le mani: “Io… Io non voglio dirlo.”

            Tomo era esasperato, non capiva: “Ma perché? Hai figli segreti, rubi al supermercato, butti le vecchiette sotto le auto, fai parte di qualche strana setta? Ma che cacchio può essere?”

            A Dana quasi scappò da ridere alla lista delle motivazioni assurde di Tomo e, da un certo punto di vista, si rammaricò che non fossero vere: “Io… Io… non c’entro… Cioè, non del tutto… in parte…”

Tomo spalancò gli occhi: “Cosa?”

Dana si liberò le mani e si alzò in piedi, passandosi una mano tra i capelli, poi diede le spalle a Tomo e fece pochi passi verso il centro della stanza: “Ecco… Beh… il motivo riguarda anche te.”

Il chitarrista si puntò un dito al petto, alzandosi a sua volta in piedi e seguendo la ragazza: “ME??? E… e allora a maggior ragione ho diritto di saperlo, no?”

Dana sospirò e ammise di controvoglia: “Sì”.

Tomo mise le mani sulle spalle di Dana e la ragazza si girò: “E allora dimmelo e basta. Qualsiasi cosa sia, dai… Non ce la faccio più. Devo sapere.”

Dana annuì. Gli puntò gli occhi nei suoi e rispose: “Io… io mi chiamo Dana Bixler. BIXLER.”

Tomo fece spallucce: “E allora? Sei parente di Cedric Bixler-Zavala, il cantante dei The Mars Volta?”

Dana fece una smorfia. “No, magari. Sarebbe meglio. Io… io sono la nipote di SOLON Bixler, l’ex-chitarrista dei 30 Seconds to Mars…”, concluse, in un filo di voce.

Tomo sobbalzò: “COSA????”

“Sì, sono la nipote della persona più indesiderata ed odiata in modo assoluto dai Leto. Il mio famoso zio chitarrista di cui ogni tanto ti parlo è Solon.”

Tomo si grattò la testa,  perplesso e preoccupato: “Ma…”

Dana si avviò verso il letto ed estrasse dalla borsetta appoggiata sul letto il suo passaporto e poi glielo passò. Tomo lesse i dati anagrafici e non credeva ai propri occhi. “Oddio…”

Dana si risedette sul letto, rimettendo via il documento che Tomo le aveva reso: “E’ un casino, vedi?”

Tomo era a dir poco perplesso: “Ma… ma Jared lo sa? E Shannon?”

“E come potrebbero? No. Io non li ho mai incontrati. Nemmeno quando mio zio suonava con loro. Non lo sanno. E nemmeno Frank Zummo che mi ha contattato per farti lezione lo sapeva. Mi conosceva solo come FirstLeaf. E… forse è meglio che non lo sappia nessuno. Era meglio se non lo sapevi nemmeno tu. Ed io…”

Tomo si sedette sul letto vicino a lei: “Cosa?”

“E io… io non sapevo chi fossi tu fino al mattino dopo la nostra notte speciale. Non avevo idea che tu fossi il chitarrista dei 30 Seconds To Mars. Davvero non lo sapevo…”

“NO?” Tomo si fermò un momento, perplesso. “Oddio è vero, io non te l’ho mai detto. Credevo te lo avesse detto Zummo o… o che tu avessi parlato con Shannon.”

“No. E, Tomo, io…”, Dana si girò a guardarlo in viso, gli occhi quasi supplicanti, “Io non volevo rovinarti la carriera musicale, per quello sono andata via… Non volevo essere d’impiccio tra te e i Leto… Non volevo creare problemi a te e al tuo gruppo, non me lo sarei mai perdonata di rovinare la tua esistenza…”

Poi abbassò gli occhi a fissarsi le mani incrociate in grembo. Tomo le mise un braccio attorno alle spalle, sospirando: “Ma perché dovrebbe cambiare qualcosa tra noi?”

Dana si girò nuovamente a cercare i suoi occhi: “Io… non credo che ai Leto farebbe piacere sapere che stai insieme alla nipote di Solon, considerando che si sono lasciati litigando furiosamente.”

Tomo scosse la testa: “Ma no, litigando no… l’annuncio ufficiale dato dai 30 Seconds To Mars non diceva che c’era stato un litigio, ma che Solon se ne andava di sua volontà perché era stanco. Mi ricordo che l’ho letto.”

“No, no. Non è così. Al tempo, io vivevo con i miei e mio zio veniva spesso a trovarci e quando lasciò i 30 Seconds lo fece perché ci fu un litigio. Lo so perché me l’ha detto mio padre…”

“Ma tu sai il perché della litigata?”

Dana scosse la testa: “No. Non lo so. Non ne ho idea. Mio zio non mi ha mai detto la ragione. A te hanno raccontato qualcosa?”

“No, mai. Non parlano mai di Solon. Io sono il suo sostituto e basta. Quando mi hanno assunto mi hanno detto che se n’era andato perché non voleva più stare con loro e fine. Senza una ragione particolare.”

Dana era dubbiosa: “Per me non è del tutto vero. Chissà cosa è successo…”

“Beh, qualsiasi cosa sia, dopo sei anni forse è il caso che tutti lascino perdere, no?”, declamò Tomo, convinto.

La ragazza fece una smorfia che a Tomo parve un po’ sinistra. “Ehm… Non è così semplice. Certi rancori durano tutta la vita… Purtroppo… E possono coinvolgere anche altre persone…” Poi Dana si mise a fissare Tomo, con uno sguardo un po’ strano: “Mio zio, tempo fa, mi ha fatto giurare che MAI e poi MAI avrei dovuto avere a che fare con i Leto e con i 30 Seconds To Mars, né come musicista, né come altro…”

Tomo spalancò gli occhi, sorpreso: “CHEEEE??? Ma… tu… io…” Tomo non sapeva più cosa dire. Un giuramento di Dana su una questione personale che alla fine non riguardava né lui né lei doveva impedire ad un amore appena sbocciato di continuare?

Ma era una cosa incredibile. Insostenibile!

Mai e poi mai avrebbe potuto pensare che la ragione fosse quella. Non poteva essere.

E lui non poteva stare con Dana perché i Leto probabilmente avrebbero fatto il diavolo a quattro?

No. Non lo accettava nel modo più assoluto.

“MA NON ESISTE AL MONDO!! Io… devo fare qualcosa. Non possiamo non stare insieme per una questione che in fondo non ci riguarda per niente. Non esiste. Devo capire cos’è successo tra di loro, vedere se c’è un rimedio. Trovare una soluzione. Non mi arrendo. Non possiamo arrenderci così, Dana.”

Dana invece si era già arresa. Sei mesi prima: “No, non c’è niente da fare. Non possiamo…” La ragazza si alzò e per un momento Tomo pensò che prendesse la porta per andare via (chissà come, poi, visto che la chiave ce l’aveva in tasca lui…), ma lei si riportò alla finestra. “Se ci fosse una soluzione…”, sospirò.

“Beh, possiamo mentire, no? I Leto non sanno chi sei, tuo zio Solon non mi vede mai, anche se magari sa chi sono. Siamo a posto, no?”

“Ma non vorrai che passiamo il resto delle nostre vite con questa spada di Damocle sulla testa, no? Con la costante paura che ci scoprano? Non potrò mai presentarti alla mia famiglia? Ma che vita è?”

“Già, hai ragione. Non si può. Dobbiamo trovare qualcos’altro.” Tomo, ancora seduto sul letto, sospirò e si passò una mano sui capelli, cercando di fare mente locale: per il momento non vedeva soluzioni MA… tutto sommato non era per lui che Dana era andata via, non era per Julius e nemmeno per sé stessa.

Era per gli altri.

In fondo in fondo era una cosa buona. La situazione non era delle migliori, ma sarebbe stato peggio se Dana non lo avesse amato o lo avesse cornificato con Julius. Molto peggio.

Il ragazzo si alzò. Doveva farsi coraggio e vedere che il proverbiale bicchiere era mezzo pieno, visto che in quel momento Dana era lì con lui e forse non aveva più tanta voglia di scappargli. Le si avvicinò. Dana gli dava le spalle e Tomo le si mise dietro. Un po’ timidamente, le portò le mani sulla vita, le passò le braccia davanti e la strinse a sé. Dana lasciò fare, sospirò e chiudendo gli occhi si appoggiò a lui mentre Tomo la stringeva di più, appoggiando il viso tra i capelli scuri della donna e chiudendo gli occhi. 

“Io… avevo paura che… che non ti avrei più rivisto e… Oddio, sono così contento di averti qui, non sai quanto… E l’idea che te ne sei andata non per me, ma… insomma, non so più cosa dire… mi sei mancata da morire ed è come se avessi avuto un incubo durato sei mesi...”, le sussurrò, piano, quasi commosso.

Dana gli avvolse le braccia con le sue, sorridendo: “Io… non credevo ma… mi rendo conto che sei mandato tanto anche a me. Ma… che facciamo adesso, Tomo?”

Il ragazzo aprì gli occhi: “Non so.”

“Io… vorrei stare con te, davvero… ma… non so cosa fare…”, la voce di Dana era quasi lamentosa.

“Una cosa per volta, dai. Troveremo una soluzione. Almeno stasera non siamo soli e separati. Ma insieme. Dopo tanto tempo.”

Dana sciolse l’abbraccio e si girò verso Tomo. Rimase un attimo a guardarlo, poi gli passò una mano sulla guancia, per una carezza leggera, e gli sorrise, ricordandosi improvvisamente le parole che Elisabeth e le sue amiche avevano usato parlando del chitarrista: “Dolce Tomo… Dolce… Sei un pazzo furioso in realtà, lo sai, vero?”

Tomo, sogghignando, subito le prese la mano e fece scivolare l’altro braccio attorno alla vita della ragazza: “Certo, ma, come si dice in questi casi: sì, sono pazzo. Pazzo di te.”

Dana scoppiò a ridere: “Oddio! Sembra di stare in una fanfiction! Mi viene il diabete fulminante!”

“Un esercito di carie da troppo zucchero!” Anche Tomo iniziò a ridere e si strinse forte Dana al petto, contro di sé, stretta stretta. Poi, quando smisero di ridere, le alzò il viso e la baciò sulle labbra, dolcemente, ancora quasi incredulo che, poche ore prima, si era ripromesso di scordarla e ora invece ce l’aveva tra le braccia.

Dana gli passò le braccia attorno al collo e rispose al bacio con più intenzione, mentre Tomo si perdeva nel suo profumo. Poi le baciò il collo sotto l’orecchio: “Ti voglio…”

“Non possiamo, lo sai…”

“Non mi importa…”

Dana tolse le braccia e tentò di allontanarsi da lui: “Aspettiamo. Ora come ora, mio zio mi ucciderebbe e i Leto farebbero lo stesso con te, lo sai, no?”

“Basta, non voglio sentir parlare ancora di loro, stasera, io voglio solo te e basta… da tempo…” Tomo con uno strattone attirò Dana verso di sé e cominciò a baciarla focosamente sulla bocca, stringendola forte a sé e spingendola verso il letto.

Nonostante quanto aveva appena detto, Dana non si ritrasse e, anzi, si arrese subito: l’ultima volta che aveva voluto un uomo, aveva voluto Tomo; l’ultima volta che aveva baciato qualcuno, quel qualcuno era stato Tomo; l’ultima volta che aveva fatto l’amore, lo aveva fatto con Tomo, sei lunghi e dannati mesi prima.

Lo desiderava anche lei.

Cominciò a sbottonargli la camicia mentre Tomo armeggiava con la cerniera posteriore del suo abito e ben presto entrambi gli indumenti caddero per terra. Dana passò le mani sul petto di Tomo e cominciò a baciarlo sul collo, ricordandosi l’odore della sua pelle. Tomo, dopo averle sciolto i capelli e baciata una spalla, la prese in braccio e la portò sul letto, senza nessuna voglia di attendere oltre: la voleva subito, voleva sentire il calore del corpo di Dana, voleva fondersi con lei e scordare il mondo intero.

La mise subito sotto di sé e riprese a baciarla sulla bocca, togliendole il reggiseno e accarezzandone la pelle bianca e delicata, mentre Dana gli sbottonava i pantaloni e li faceva scivolare via, lasciando che il ragazzo prendesse posto tra le sue gambe e pensando che, da quel momento in poi, non avrebbe mai più lasciato solo il suo Tomo per così tanto tempo.





P.S. Ovviamente, come potete ben immaginare, non ho la più pallida idea se Solon Bixler ha una nipote o meno… Ma cosa non si fa per amore di fanfiction? :-* Shanna

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


DEL COME TOMO SCOPRE CHE ODIA I PASSPARTOUT E CHE SA MENTIRE SPUDORATAMENTE SE SERVE.

 

 

Dana lentamente si svegliò, ma non aprì subito gli occhi, preferendo rimanere a crogiolarsi al calore del corpo di Tomo sdraiato vicino a sé. A giudicare dalla luce della stanza, che Dana riusciva ad apprezzare anche ad occhi chiusi, doveva essere giorno inoltrato. Stiracchiandosi leggermente, la ragazza si portò più vicino a Tomo, ancora addormentato, gli passò un braccio attorno al corpo e gli si strinse addosso, sorridendo lievemente, sospirando, e pensando che, per poter stare insieme in futuro come quella meravigliosa notte appena trascorsa, Tomo e lei avrebbero dovuto affrontare tutta una serie di persone della loro vita e dovevano riuscire in tutti i modi a convincerle che la loro unione era possibile.

Nell’ordine che le veniva in mente: i Leto, per primi.

Suo zio Solon, per secondo.

Julius e i Carnarvon, per terzi.

Dei Leto sapeva che non avevano un buon carattere e non erano malleabili, a detta di Tomo; suo zio Solon, conoscendolo, era un osso decisamente duro, anche se all’apparenza sembrava sempre calmo e tranquillo, e Julius? Cosa avrebbe detto Julius? Boh… A saperlo… La ragazza non riusciva ad immaginare, non lo conosceva a sufficienza.

Che strazio, pensò Dana, sbadigliando, una faticata immane. Ma d’altra parte lei e Tomo dovevano farlo, non c’erano soluzioni.

Prima di tutto perchè Dana non si sentiva di dover scegliere tra Tomo e la sua famiglia. No, davvero. Non avrebbe mai potuto scegliere il suo amato Tomo e, non rispettando un giuramento di cui tuttavia non sapeva del tutto il valore, fare un dispetto al suo carissimo zio Solon, che le aveva insegnato a suonare la chitarra e che le voleva un mondo di bene. Né avrebbe mai potuto, ormai, lasciare Tomo solo perché suo zio, anni prima, aveva litigato con i Leto. Non era più possibile: ci aveva già provato a farlo uscire dalla sua vita mettendo addirittura un oceano tra di loro, ma un simpatico fato aveva voluto che lei reincontrasse Tomo, e ora non poteva più lasciarlo.

In realtà li voleva entrambi nella sua vita, questi due uomini a cui sentiva di volere un gran bene.

E avrebbe trovato il modo.

Mentre la ragazza tentava di fare mente locale su cosa dire anche a sua nonna, che forse sarebbe stata contenta di avere un altro chitarrista in famiglia come nipote acquisito, una strana ed improvvisa sensazione la prese.

Era come se, oltre a lei e Tomo, ci fosse qualcun altro, in quella camera d’albergo. Una presenza estranea.

Dana sollevò piano il capo dal cuscino, aprì lentamente gli occhi, sbatté le ciglia per abituarsi alla luce, poi spalancò di colpo le palpebre, gettò un grido e si mise sotto le coperte addosso a Tomo esclamando: “Aiuto! C’è gente!!!”.

Tomo si svegliò di soprassalto, balzò a sedere, tirandosi su il lenzuolo sul petto e cominciando subito ad urlare: “MA CHE CAZZO CI FATE IN CAMERA MIA???!!???”

Jared, Shannon e Tim erano schierati a lato del letto dalla parte di Tomo, come una milizia di sorveglianza, con un sogghigno divertito stampato sui loro bei volti.

Subito Shannon gli puntò il solito dito addosso, con fare inquisitore: “Ah-ah, ecco dov’eri finito… a letto con la chitarrista manesca!”

Mentre Tim se ne stava zitto e occhieggiava curioso i capelli di Dana sparsi sul cuscino, l’unica cosa che si vedesse ora della ragazza, Jared intervenne subito: “Avevamo voglia a cercarti per i locali di Londra… facevamo prima a venire qui, mi sa…”, affermò, trattenendo un sorriso.

Ma Tomo non rideva, anzi, aveva voglia di ucciderli tutti in un sol momento, magari con un’occhiata, ed il suo cattivo umore era lievitato a livelli storici: “Nessuno vi ha detto di cercarmi. Chi vi ha fatto entrare e che cazzo volete a quest’ora del mattino?”

Jared non fece una piega, come se entrare nelle camere degli altri a rompere i cosiddetti come e quando voleva, fosse la cosa più naturale del mondo: “Ci ha fatto entrare il concierge con il suo passpartout e… uhm… veramente è l’una del pomeriggio…”

Tomo pensò per un attimo a come sarebbe stato bello vedere sparire quei tre paia d’occhi puntati su di lui in un fungo atomico di immani proporzioni: “Beh, non cambia… che cazzo volete a quest’ora del pomeriggio?”

Jared era un fiume in piena, di buon umore, visto il successone del primo concerto e le splendide recensioni sui giornali: “Volevamo vedere che fine avevi fatto e raccontarti che ieri sera siamo andati a cena con le Ladies e… ma lo sai che Elisabeth ci presta il suo castello in Scozia, con fantasma e tutto, per farci un video? E nel video ho pensato che si potrebbe mettere…”

Tomo alzò gli occhi al cielo, esasperato, chiedendosi quale  dio più o meno pagano lo stesse trattenendo dallo scendere dal letto e pigliarli tutti e tre a calci: “Beh, questa cosa me la puoi dire anche dopo, non credo che morirò se me lo racconti più tardi…”

Jared fece spallucce, mentre tentava di sedersi sul letto ma veniva cacciato via da Tomo con una spinta: “Vabbé, dopo allora. I particolari in cronaca. E… uhm… hai fatto pace con la tua… ehm… ragazza? Non ce la presenti?”

“Sì, dai, presenta-presenta…” aggiunse subito Shannon, sfregandosi le mani, mentre Tomo già aveva iniziato a guardarlo male, sbuffando.

“OK. Lei è Dana Bi… Bi…” Tomo si bloccò: gli serviva un altro cognome per Dana nel giro di due decimi di secondo, fosse mai che i Leto si ricordassero il cognome di Solon… “Z-Zavala. Dana Zavala. Sì, Zavala. Zavala.”

Dana, trattenendo una risata, estrasse un braccio da sotto le coperte come un sottomarino estrae un periscopio e si posizionò il lenzuolo sotto il naso, facendo uscire solo la fronte, gli occhi ed un ammasso informe di capelli scuri ricci e scompigliati: “P-piacere… ehm… non sono presentabile… scusate…”

Shannon, Tim e Jared le strinsero uno dopo l’altro la mano affusolata dicendo a loro volta “Molto lieto” e i loro nomi.

Dana pensò che forse, vista la situazione, non era il caso di inimicarsi subito i Leto, anzi: “E… ehm… scusate per ieri sera, io… beh… ero un bel po’ fuori di testa… scusate… ho detto e fatto un paio di cose non proprio da signora, ecco…”

“Beh, direi di sì…” intervenne subito Jared, ricordandosi improvvisamente chi avesse messo in dubbio le sue eccezionali abilità musicali. “E sbagliando clamorosamente il tuo giudizio, visto che IO il nostro primo album l’ho suonato praticamente tutto da solo, altro che ‘suoni come mia nonna’…”

Mentre Shannon inceneriva il fratello con uno sguardo avendo voglia di ricordargli che nel SelfTitle lui aveva suonato ‘almeno’ la batteria, Dana proseguì il suo discorso: “Scusa Jared per quello che ho detto e scusa Shannon per il calcio.”

Jared, dall’alto della sua papale magnanimità, fece un movimento con il capo come per dire ‘scuse-accettate’, invece Shannon si grattò la testa: “Ehm… beh… forse anch’io, cioè noi, io e Tim, ti dovremmo delle scuse perché ti abbiamo trattato come un pacco postale e…”

“Scusa, Dana.” Disse subito Tim, pensando che anche se non era ‘presentabile’ Dana era proprio una bella ragazza.

Shannon continuò, sorridendo: “Scusaci, ma… insomma… visto com’è andata, forse abbiamo fatto bene a trattenerti e…”

Tomo intervenne, subito geloso che Shannon si intromettesse negli affari suoi: “Scusate, non possiamo tenere le scuse e tutto il resto per quando saremo un po’ più vestiti?”. Poi si alzò dal letto, nudo come mamma lo aveva fatto, e cominciò a spingere i suoi compagni, che si erano immediatamente spostati dal lato del letto, verso la porta. “Fuori di qui, ora…”

“Non vieni a pranzo?”, gli chiese Tim, mettendosi una mano sugli occhi e facendosi spingere per la stanza senza opporre resistenza.

Tomo scosse la testa, spostandosi i capelli dagli occhi: “No, mandatemi su la colazione, invece…”

Nel contempo Jared si era anche messo a fare il lavoro di Emma: “Vabbè, adesso noi andiamo, ma alle cinque ti aspettiamo alla Brixton che abbiamo un’intervista per un giornale. OK?”

Tomo lo spinse verso la porta. “OK-OK. Andate ora.”

“Ciao-ciao-Dana. A presto!”, salutò Shannon con la mano, mentre Tomo aveva aperto la porta e con una spinta lo buttava fuori.

“MA CHE STRAZIO DI UOMINI!!”, declamò poi il chitarrista, sbattendo la porta, recuperando la chiave nei pantaloni, dandone tre mandate e, già che c’era, spostando anche un mobiletto davanti all’uscio.

Dana scoppiò a ridere allegramente, mettendosi a sedere sul letto, avvolta nel lenzuolo ed indicando la porta: “Ma sono dei matti!!!”

“Sì, non me lo dire. Sono imprevedibili. Non sei mai al sicuro con loro…”

“Però ti vogliono un sacco di bene, devo dire. Erano preoccupati veramente. Gli stai molto a cuore, vedo…”

Tomo fece una smorfia, mettendosi una mano sullo sterno: “E invece loro stamattina mi stanno sullo stomaco, vedi te… Non so se sia solo curiosità, invece…”

“Magari un po’, dai, ma non sembrano cattivi.”

Tomo si sedette sul letto vicino a Dana e le depose un bacio sulla bocca: “L’apparenza inganna, signorina Zavala…”

Dana scoppiò nuovamente a ridere, passandogli le braccia attorno al collo: “Dana Zavala?? Zavala??? Ma è un cognome orrendo!!”

“Il primo che mi è venuto in mente! Ho dovuto improvvisare!”

“Non ne avevi in mente uno croato un po’ simpatico, magari?”

“Ah sì, un cognome tipo ‘Milicevic’, per esempio, ma più avanti, non oggi!”

Dana spalancò gli occhi: “Ops… è una proposta di matrimonio, signor Milicevic?”

“Beh, non è quella formale che farò al sig. Bixler-padre quanto prima, ma quasi…”

Dana lo baciò sulla bocca, teneramente: “Mi piace, ma prima abbiamo un po’ di parentame da sistemare, non ti pare? Uno zio Bixler e una intera famiglia Leto da mettere a tacere. Che si fa?”

“Ho un piano, mi è venuto in mente stanotte.”

Dana lo guardò a bocca aperta: “Un piano?”

“Certo.” Tomo si alzò, si infilò i pantaloni e poi prese la sua agenda dal ripiano della scrivania, aprendola: “Allora, stasera abbiamo il secondo concerto alla Brixton, poi dopodomani siamo a Birminghan per due sere, poi Helsinki, Stoccolma, Goteborg, Parigi, Milano, Roma, etc etc, fino al 21 dicembre, a Madrid che è l’ultima data europea. Poi torniamo a casa per Natale e riprendiamo il 7 Gennaio in America Latina, poi l’Australia, facciamo l’Asia e poi ritorniamo a casa. A Maggio.”

Dana si grattò la testa: “Aspettiamo fino a Maggio per il tuo piano?”

“Ancora sei mesi di sofferenza? Neanche per sogno.”

“No. E’ troppo. Hai ragione.”

Tomo si sedette nuovamente sul letto, vicino alla ragazza: “Tu potresti tornare in California a Natale?”

“Sì, avevo una mezza idea.”

“Perfetto. Prima di Natale ti vengo a prendere e torniamo a casa assieme, OK?”

“OK.”

“Però…”

“Però, cosa?”

Tomo le prese una mano e gliela strinse, poi si mise a fissare la sua ragazza negli occhi: “Però il piano parte in quel momento: il primo ed il più semplice da sistemare secondo me è Julius. Devi parlarci, Dana.” La chitarrista  abbassò la testa a fissarsi le mani e Tomo continuò: “Se, come mi hai raccontato, tra te e lui non c’è niente, non c’è stato niente, non siete fidanzati, non ci sono legami se non di studio, allora non è il caso che ti senti obbligata con lui. Grata perché ti ha ospitato e aiutato con tesi e dottorato, certo, ma obbligata no.”

“Non so… Non so come possa reagire.”

“Secondo me è sufficiente che ci parli e gli dici cosa sta succedendo.”

“Può anche essere.”

Tomo le accarezzò i capelli: “Pensaci. Comunque: prima di partire, tu parli con Julius e gli dici di noi. Poi, quando siamo in California, sistemiamo i Leto e tuo zio, seconda parte del piano. Poi, finito anche con loro, io riparto per la tourneè con i 30 Seconds, tu finisci il tuo dottorato qui, a Maggio dell’anno prossimo ti vengo a prendere nuovamente e torniamo a casa insieme. Per sempre.”

Dana era strabiliata da questo Tomo in fase organizzativa: “Ma Tomo… sei sicuro che andrà tutto bene?”

Tomo la strinse tra le braccia e Dana gli si appoggiò subito addosso, passandogli le braccia attorno al corpo. “Certo che sì. Andrà tutto alla perfezione, vedrai…”

Dana sospirò, mentre Tomo le baciava la spalla nuda: “Speriamo…”

Un lieve bussare li avvisò che c’era il carrello della colazione fuori della porta, ma Tomo, allo zucchero del cappuccino, preferì la dolcezza dei baci di Dana, e alla Brixton arrivò solo sul tardi, ad intervista finita.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


DEL COME JULIUS DIMOSTRA DI ESSERE TUTT’ALTRO CHE UN TIPO MUMMIFICATO E DI VOLER BENE A DANA IN UN MODO DEL TUTTO SUO

 

 

Era la mattina del 23 Dicembre.

E nevicava forte in quel di Oxford.

Dana era pronta per partire per gli Stati Uniti ed aspettava da un momento all’altro che Tomo, che non vedeva da più di un mese e che aveva messo a punto il loro piano d’azione, suonasse il campanello della dimora dei Carnarvon.

La ragazza si trovava nella stanza adibita a studio, quella con il finto sarcofago di Tutankhamon, e guardava il paesaggio innevato dalla stessa finestra che dava sul giardino dalla quale, un mese e mezzo prima, aveva risposto alla telefonata che le aveva cambiato la vita: quella di Sarah che la invitava al concerto dei 30 Seconds To Mars.

Dana, che ormai aveva compreso che Tomo era l’uomo della sua vita, era grata alla cugina di Julius come nemmeno Sarah avrebbe mai potuto immaginare. Attraverso di lei, il destino le aveva dato una seconda opportunità con Tomo che, grazie al cielo e grazie anche alle manovre di Shannon e Tim, lei non aveva buttato via.

Ma ora lei e Tomo dovevano consolidare il loro rapporto.

Dovevano uscire allo scoperto e diventare una coppia.

Nel mondo del gossip e tra le echelon, per colpa e/o grazie  alle foto scattate la sera del Ball Blood davanti all’hotel, le voci di un probabile fidanzamento di Tomo stavano già girando, i Leto cominciavano a fare domande di vario tipo (quella preferita di Shannon era ‘Ma non è che Dana assomiglia a qualcuno che conosco?’) e lei… ora doveva parlare a Julius.

Assolutamente.

Doveva dirgli che non si sarebbe MAI fidanzata con lui e che, anzi, a Maggio dell’anno a venire sarebbe tornata negli Stati Uniti, che il professore l’avesse aiutata a finire il dottorato o meno.

Mentre pensava a come iniziare il discorso e il cuore le batteva forte per l’agitazione, Julius, tranquillo come sempre, arrivò nello studio con la sua elegante giacca in tweed, il papillon e il foulard del taschino intonati e la solita andatura da scienziato con la testa tra le nuvole alle prese con la sua teoria del Caos.

“Dimmi, mia cara, mi cercavi?”, le disse subito, sorridendo.

Dana gli si avvicinò, un po’ tremante. “Ehm… sì. Devo parlarti.”

“Benissimo. Sediamoci.”

Dana si sedette, sulle spine, su una poltrona dirimpetto a quella in cui si era seduto Julius e si schiarì la voce: “Julius, io… ehm… dunque… ehm… un mese fa, a Londra… ehm… io ho incontrato un ragazzo.” Era meglio non fare tanti preamboli, non cercare scuse o mezze verità, visto anche che non ce n’erano.

Le sopracciglia di Julius si incurvarono: “Che ragazzo?”

“Ehm… Un ragazzo che frequentavo a Los Angeles prima di venire qui con te e…”, Dana si interruppe sperando ardentemente che Julius capisse tutto, completasse la frase, traesse le conclusioni e si convincesse immediatamente.

“E…”

“Ehm… io… lo amo e col tempo voglio sposarlo.”

Dana, che chissà perché si era aspettata lo scoppio della Terza Guerra Mondiale con contorno di fuochi di artificio e una resurrezione di Tutankhamon in persona, rimase stupita di fronte ad un Julius rimasto quasi  impassibile che le disse soltanto “OK.”

La ragazza pensò che quella era la prima volta che sentiva Julius dire quella parola prettamente americana e che non si addiceva al dizionario di solito piuttosto forbito del professore. Per un momento pensò di non avere capito: “OK?”

L’uomo annuì con il capo: “Sì. OK.”

“Ma Julius…”

“Se è la persona che penso io, allora è OK.”

Dana strabuzzò gli occhi: “A… a chi pensi?”

“A quello strano tipo che ha osato insultarmi quel giorno a Los Angeles dopo la conferenza sul Caos. E’ lui, vero?”

Dana arrossì, senza volerlo e senza sapere bene perché: “Sì.”

Julius annuì: “Va bene.”

Dana era assolutamente esterrefatta. A Julius non importava proprio un cacchio di lei? “Ma tu…”

Julius si passò una mano a lisciarsi la giacca e poi sospirò, enunciando: “Sì, tu mi interessi, Dana. Ma con me non saresti mai felice. Lo so.”

“Ma Julius…”

“Io… io non ti ho mai toccata, non mi sono mai spinto oltre, perché so che tu in fondo non mi vuoi. E non mi hai mai voluto. Nemmeno per un secondo.”

La ragazza rimase di stucco. Era vero: Dana non aveva mai pensato a Julius come ad un fidanzato, un amante, un marito. Non gli si era mai avvicinata con l’intenzione di coccolarlo, baciarlo, abbracciarlo, non aveva mai sentito un impulso sensuale nei suoi confronti. Non aveva mai pensato a come poteva essere fare sesso con Julius.

Mai.

Lei non lo voleva.

Perché non lo amava.

E Julius, sorprendentemente per lei, lo aveva sempre saputo e si era comportato come un galantuomo d’altri tempi. Da non credere.

L’uomo continuò, di fronte ad una Dana perplessa come non mai: “Io ho aspettato tutto questo tempo che ti schiarissi le idee, perché non ti volevo senza che tu fossi convinta. Non mi pareva giusto. Volevo che fossi TU a scegliere me. E non l’hai fatto. In sei mesi non l’hai fatto. Non lo faresti in dieci lustri.”

A Dana vennero le lacrime agli occhi: l’analisi di Julius era perfetta. Non c’era nient’altro da dire. “Scusa, Julius.” Si limitò a dire, abbassando la testa. “Mi odierai, ora.”

Ma Julius era davvero un tipo speciale, unico, fatto con uno stampo che poi era stato buttato via. “No.”

Si alzò dalla poltrona e le si avvicinò. Anche Dana si alzò.

Lord Carnarvon le prese la mano e gliela baciò, in perfetto stile anglosassone, con tanto di inchino: “Mia signora, mia Lady della teoria del Caos, vi conviene portare fuori le valigie perché il vostro cavaliere arriverà a momenti.”

Fossero state parole pronunciate da un altro, avrebbero potuto sembrare una presa in giro bella e buona, ma dette da Julius no. Dana lo guardò in viso per un attimo, poi gli si buttò tra le braccia e lo strinse a sé, commossa: “Grazie Julius. In questi sei mesi hai capito di me più di quello che avessi capito io.”

Julius si schernì: “L’avevi capito anche tu, ma non volevi ammetterlo. Eri troppo orgogliosa per farlo. Troppo accecata delle tue scelte.”

“Forse sì.”

L’uomo le sorrise, accarezzandole leggermente una guancia: “Basta dai. Va bene così. Vai da lui.”

“Grazie, Julius.”

“Fammi sapere se vuoi continuare il dottorato qui o tornare a Los Angeles.”

Gli occhi di Dana brillavano alla luce del caminetto. “Va bene.”

“E intanto ti mando gli appunti per scrivere l’articolo per il ‘Physics Review’ che pubblichiamo dopo le feste, d’accordo?”

“OK.”

“E Buon Natale, anche alla tua famiglia.”

Dana gli fece gli auguri dandogli due baci, uno per guancia, poi, sentendo suonare il campanello, uscì dalla porta dello studio quasi di corsa, quasi volando, con il cuore leggero leggero, ancora incredula che fosse stato tutto così semplice.

Invece Julius, non più tanto sorridente e sicuro di sé, fatti pochi passi si risedette lentamente e pesantemente sul divano a fissare le fiamme del caminetto, mordendosi un labbro e lisciandosi con una mano i baffetti chiari.

L’uomo sospirò affranto.

Era stato difficile lasciarla andare via, ma…

Non era anche quello amore? Volere il bene di chi si ama, anche se la sua felicità non dipende da noi? Sì, anche se faceva un gran male dentro, nell’animo, nella profondità delle viscere.

Dopo un po’, la madre di Julius entrò e gli appoggiò una mano su una spalla, senza dire niente. L’uomo, riscuotendosi, prese la mano di Lady Carnarvon e gliela strinse leggermente, continuando a fissare il fuoco che consumava il ciocco di Natale.

“Dana è andata via.”, la voce della donna era un sussurro.

Julius annuì leggermente: “Sì.”

“Per sempre?”

“Non ho idea. Forse sì.”

“Potevi ricattarla quanto volevi per tenerla qui.”, gli disse sua madre, quasi con un moto di rabbia, a denti stretti.

L’uomo scosse la testa debolmente, guardando un attimo sua madre: “No. Non avrei mai potuto.”

“Lo so. Immagino. Ma potevi usare quello che sai per svergognarla davanti a tutti e se teneva tanto alla sua carriera di scienziata magari avrebbe rinunciato a quell’uomo, magari sarebbe rimasta qui...”

Julius scosse la testa. “Non credo. La musica fa parte di lei, la musica avrebbe vinto comunque e credo che ora la musica prenderà il sopravvento nella sua anima e la scienza la perderà per sempre.” Julius estrasse il telefonino dalla tasca e vi cercò una foto. Poi passò il cellulare a sua madre: “Perché questa è la vera Dana. Lo so per certo.”

Eve, nel piccolo schermo del cellulare, vide un’immagine di Dana con una chitarra elettrica bianca al collo, in minigonna scozzese e con i capelli mossi dal vento artificiale di un teatro. Lo sguardo perso nel vuoto, il viso sudato, l’espressione quasi allucinata. Era la sera della gara-concerto. Lei sapeva che suo figlio aveva quella foto, lui gliene aveva parlato, ma Eve non l’aveva mai vista.

“Com’era a suonare la chitarra?”, chiese, dopo un po’.

“Eccezionale.” Julius si alzò, riprese il telefonino, lo spense e si girò per andarsene. “Ma non gliel’ho mai detto…”, concluse, con amarezza. “Come non le ho mai detto che l’amo da morire.”

 

 

 

 

 

 

P.S. Julius Carnvarvon non esiste perché uomini del genere nella realtà non credo esistano, ma mi è piaciuto pensarlo, almeno per un capitolo. Baci e grazie per le recensioni su questa e sulle mie altre ff! :-*** Shanna.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


DEL COME LA TRAPPOLA E’ ORMAI PRONTA, I TOPI VI CADONO DENTRO E, COME TUTTO E’ INIZIATO, COSI’ TUTTO INEVITABILMENTE FINISCE…

 

 

Il pomeriggio dell’ultimo dell’anno, Jared stava facendo dei magnifici sogni di gloria.

Rilassato, con un sorriso a fior di labbra, sdraiato sul lettino della sua estetista di fiducia con una maschera antirughe/idratante/nutriente/ecologica in faccia  e la manicure che gli faceva le unghie e gli metteva lo smalto nero, beatamente sognava  i premi che avrebbe vinto in un prossimo futuro agli MTVMusicAwards, agli EuropeanMA, ai LatinMA… sognava i premi del Kerrang, quelli di RockTV, quelli di TRL, il premio Oscar per la miglior colonna sonora e, già che c’era, pure un premio Nobel. C’era quello per la Musica? No? Beh, lo avrebbero inventato appositamente per lui, ne era certo…

Poi, mentre pensava a quale andare, delle innumerevoli feste dell’ultimo dell’anno a cui era stato invitato, il suo cellulare lo riscosse dai suoi profondi pensieri. Sobbalzando sul lettino, estrasse con fastidio, ad occhi chiusi, il dannato blackberry dal taschino della sua camicia a quadretti rossa. Chi diavolo osava disturbarlo alle tre del pomeriggio mentre era impegnato in tal guisa?

“Pronto?”, grugnì.

“Ciao, sono Tomo.”

Meno male che non era il commercialista: “Ehi, ciao Tomo. Che vuoi?”

Tomo esitò un attimo: “Ehm… Devi venire a casa di Dana.”

“Da Dana? Quando e perché?”

“Alle quattro.”

“E perché?”

“Vuole vederti.”

“Ma non dovevamo vederci stasera a una delle feste, tutti quanti?”

“Sì, ma è saltato tutto, stasera non possiamo… Puoi oggi pomeriggio?”

“Ma perché?”

“Devi venire.”

“Sono impegnato tutto il giorno, non posso.”

“E’ importante. Per favore.”

“Uhm… non so.” Forse poteva spostare il suo appuntamento con Brent a più tardi.

La voce di Tomo diventò quasi supplichevole: “Per favore, Jared. Per favore…”

L’uomo si arrese, se non altro per curiosità. “Va bene, ma posso solo per cinque minuti.”

“OK, bastano. Grazie.”

“Dove vi trovo?”

“Ti mando un sms con l’indirizzo, OK?”

“Va bene.”

Jared chiuse il telefonino e solo allora si rese conto dello strano tono della telefonata.

Dana voleva vederlo a casa sua? Che assurdità.

E per cosa poi? Non si sapeva: Tomo non aveva risposto.

Era strano pure il tono di voce del loro chitarrista, così monotono e triste.

Era tutto strano, fuori dalle righe.

C’era qualcosa che non andava.

Jared non riuscì più a rilassarsi e quando, poco dopo l’estetista finì, balzò in auto e si diresse quasi di corsa verso la casa di Dana.

 

 

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Solon si rese conto che, invece di comporre una canzone, quel pomeriggio stava semplicemente cincischiando sopra la sua tastiera, perdendo e prendendo tempo. Continuava a infilare una dietro l’altra note a caso, senza senso, prive di una melodia e assolutamente inutili. Una benemerita porcheria.

Strano. Di solito non appena appoggiava le dita sui tasti, dopo poche note riusciva a trovare il bandolo del guazzabuglio di canzoni che aveva in testa, ma quel pomeriggio non ci riusciva, la sua vena creativa era andata a farsi un giro chissà dove e chissà quando sarebbe tornata.

Solon si spostò la frangetta di capelli neri e lisci dalla fronte, si tolse gli occhiali e si accese una sigaretta, rimuginando fra sé e sé.

‘Tutto per colpa di quella telefonata’, pensò.

Quella che aveva ricevuto da sua nipote Dana in mattinata.

“Ciao, zio.”

“Ciao, carissima Dana! Sei tornata e…”

Dana non l’aveva nemmeno lasciato finire: “Sì. Ascoltami. Puoi venire a casa mia per le quattro, oggi pomeriggio?”

“Non so… dovrei andare in sala d’incisione con Rachel,  dobbiamo dare gli ultimi ritocchi al nuovo CD e anzi pensavo che se volevi passare, noi…”

“No. Ti prego, zio, ti prego. E’ importante. Passa da me.”

Solon aveva piegato le sopracciglia, perplesso. Non era mai capitato che Dana avesse rifiutato un invito ad andare in studio da loro a vedere i Great Northern registrare. Mai. Ci doveva essere qualcosa sotto. “Io… va bene. Se insisti…”

“Grazie. A dopo, allora…”

“Ciao. E…”

Dana aveva messo giù subito.

Certo che era strana, quella ragazza, e il suo tono di voce ancora di più.

Che diavolo stava succedendo?

Solon spense la sigaretta, chiuse il quaderno degli spartiti in cui stava scrivendo e mise via tutto. Poi spense la tastiera.

Erano le tre ed un quarto.

Era ora di andare da Dana.

Era ora di sapere.

 

 

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“… settantadue, settantatre, settantaquattro…”

Shannon contava mentalmente il numero di volte che alzava i pesi, mentre, sdraiato sulla panca in canottiera e pantaloncini corti, rivoli di sudore gli scorrevano dappertutto.

“… settantacinque, settantasei…”

Certo che era comodo avere una mini palestra in casa, pensava Shannon, cosa che evitava di doversi vestire, uscire dalla porta e salire in auto, però ci voleva anche una discreta disciplina nell’adoperare gli attrezzi con assiduità. E questa benedetta disciplina lui non ce l’aveva. Anzi, non l’aveva mai avuta.

“…settantasette, settantotto, settantanove…”

Usava i pesi due volte all’anno e proprio quando non aveva nient’altro da fare. Ma alle tre e un quarto del pomeriggio dell’ultimo dell’anno, mentre aspettava che Jared si decidesse a quale festa andare ed era andato a farsi bello dall’estetista, che altro c’era da fare?

“… ottanta, ottantuno, ottantadue…”

No, c’era qualcos’altro da fare.

Shannon decise che sarebbe arrivato a cento, poi avrebbe abbandonato la sua palestra, avrebbe chiuso la porta della mansarda dove teneva i suoi attrezzi (almeno per i prossimi sei mesi) e si sarebbe sdraiato sul divano con un sacchetto da un chilo di popcorn, una bella lattina di birra gelata e la visione di un DVD appena acquistato sulle gare del MotoGP.

“… ottantatre, ottantaquattro, ottantacin…”

Ma il suo conteggio venne interrotto dalla suoneria del cellulare che lo avvisava che Tomo lo stava chiamando.

Shannon lo recuperò subito, quasi contento dell’interruzione.

“Ciao, Tomo! Allora a che festa si va stasera?”

“Ciao. Ehm… A nessuna, temo.”

“E perché? Che succede?”

“Ehm… Senti, Shannon…”

“Dimmi.”

“Potresti venire subito a casa di Dana?”

Il batterista si passò una mano sulla fronte per togliere il sudore: “Adesso?”

“Sì. Subito.”

“Perché?”

“Vieni e lo saprai.”

Shannon sospirò sulla sua montagna di popcorn e sul suo DVD che scomparivano dall’orizzonte delle sue intenzioni, ma, dopotutto, la voce di Tomo gli sembrava allarmata: “Ehm… OK.”

“Grazie, Shan.”

“Di niente.” Tomo riattaccò subito e Shannon guardò l’ora sul blackberry. Tre e mezza.

Perché diavolo c’era bisogno di lui a quell’ora?

Con un sospiro, l’uomo abbandonò la panca: c’erano guai in vista, lo sapeva, se lo sentiva sottopelle, visto che, come altre volte, si sentì come l’ormai noto Santo Shannon da Bossier City.

Cioè martire.

 

 

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Tim era in pieno delirio.

Finalmente, e per la prima volta, era riuscito ad arrivare al cinquantesimo livello del PacMan sulla sua PSP. Erano due ore che giocava, aveva iniziato dopo pranzo, aveva l’adrenalina che gli usciva dagli orecchi, gli occhi fuori dalle orbite e il ciuffo di capelli sparato in alto, indomito.

Seduto sul divano con le gambe raccolte e l’occhio fisso al televisore, non gli sembrava vero di essere arrivato lì, a quel livello, ed era certo che, nel giro di poco, vista la mano d’oro che aveva quel giorno, poteva riuscire a battere il record che sua sorella aveva fatto mentre lui era in tournee. Bastarda.

Non gli piacque per niente, quindi, quando sua madre arrivò di corsa in salotto tendendogli il suo cellulare che squillava.

“Timothy, hai il cellulare che suona. Tieni.”

“Non posso.”, grugnì, facendo una smorfia di disappunto.

“Metti giù la PlayStation.”

“NO! Sto facendo il record. Non mi distrarre, mamma…”

La madre guardò il display del telefonino: “E’ Tomo. Magari è importante.”

“Qualsiasi cosa sia, ora non posso.”

La madre di Tim sorrise: “Rispondo io, se vuoi.”

“No, lascia perdere. Lo chiamo dopo.”

“Dai, mi faccio dire.”

“Vabbé, se insisti…” Dopotutto la curiosità della madre poteva fargli anche comodo, pensò Tim, magari Tomo doveva dirgli una cavolata.

“Pronto. Ciao Tomo, sono la mamma di Tim. E’ un attimo impegnato. Dì pure a me…” Tim, con la coda dell’occhio, guardò sua madre mentre il suo PacMan veniva rincorso da un fantasmino nel labirinto e lei ascoltava la voce di Tomo, attenta. “Sì, OK. Glielo dico. OK. Ciao Tomo e… buon anno…”

“Che succede?”, le chiese subito Tim dopo aver visto la madre farsi scura in volto e ripiegare preoccupata le sopracciglia e, se lo faceva lei, c’era senza dubbio un motivo.

La madre scosse la testa. “Non so. Dice che devi andare subito a casa di Dana, che è urgente e che… Non so… Tomo era preoccupato, aveva uno strano tono di voce, come se avesse pianto… Mi ha fatto una bruttissima impressione…”

Tim abbassò il joypad della Playstation per guardare sua madre e il fantasmino si mangiò in un boccone il suo Pacman, ma al bassista ormai non interessava più.

Gli interessava di più capire cosa stesse succedendo al suo adorato amico Tomo.

Quasi di corsa, con preoccupazione, il bassista si alzò dal divano, mollando tutto, prese la giacca e le chiavi dell’auto ed uscì di casa, senza dire una parola.

 

 

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Quando Solon arrivò a casa di sua nipote, non si stupì più di tanto che la porta gli fosse aperta da Jane, la migliore amica di Dana, nonché sua co-inquilina.

Quello che invece aggiunse inquietudine maggiore alla sua agitazione, fu vedere che al piano di sotto non c’era nessuno e che Jane lo stava accompagnando di sopra, su per le scale, nella camera da letto di Dana.

E per Solon, entrare in quella camera, adesso in penombra, in cui tante volte aveva insegnato a sua nipote a suonare, fu un colpo al cuore.

Perché Dana era a letto, stesa supina ad occhi chiusi.

Giaceva sotto un piumone rosa a fiorellini con il capo appoggiato sul cuscino, i capelli sciolti, il viso pallido e smunto, l’espressione seria.

Chiaramente malata.

Solon per un attimo si bloccò, mentre Jane faceva il giro del letto e si sedeva su una sedia vicino alla finestra, lasciandone una per Solon, vicino al comodino. “Ciao, Dana.”, la salutò l’uomo, con circospezione, chiedendosi se non stesse dormendo.

Dana girò leggermente il capo a guardarlo e aprì piano gli occhi e poi, a bassa voce, rispose: “Ciao, zio.” 

Solon allora si avvicinò: “Che… che succede?”

La ragazza sembrò trattenere le lacrime e scosse leggermente la testa: “Io… io non lo so…”

Poi Jane, interrogata da Solon con lo sguardo, parlò, con un piglio che voleva essere professionale, ma che invece nascondeva una grande amarezza: “Dana sta male. Ha una infezione che… che non riusciamo a curare… E’ tornata dall’Inghilterra con questa malattia addosso, ma non riusciamo a capire cosa sia, a cosa sia dovuta…”

Solon si sedette sulla sedia, affranto, come se gli fosse crollato un muro addosso, e Dana gli allungò la mano perché la prendesse, mentre Jane si alzò e si diresse ad aprire la porta, visto che il campanello era suonato di nuovo.

“Oddio, Dana, mi dispiace io… non so davvero cosa dire, cosa… cosa posso fare?”

“Niente, zio. Nemmeno i medici sanno cosa fare, né quanto mi resta… da vivere…”, la ragazza parlava con grande fatica e sembrava sempre sul punto di scoppiare in lacrime.

“Ma… hai fatto tutti gli esami e…”

“Sì-sì, tutti. Un amico di Jane è il miglior medico infettologo degli Stati Uniti e nemmeno lui è riuscito a capire che virus mi ha colpito. Sai…”, poi la ragazza fece un piccolo sorriso, nel tentativo di alleggerire un’atmosfera piuttosto pesante, “… ho abitato nella casa dei discendenti dello scopritore della mummia di Tutankhamon… magari sono stata colpita dalla maledizione del faraone…”

Solon sorrise, ma dentro di sé non scartò questa possibilità: magari qualche reperto della casa dei Carvarvon era davvero ancora infetto. Poi le baciò la mano: “Ma no… magari sei tanto stanca. Hai studiato troppo in questo ultimo periodo e devi solo riposare…”

In quel momento la porta si aprì con un cigolio e Solon si girò, per chiedere ulteriori lumi a Jane, ma non vide chi avrebbe voluto. Solon mollò la mano di Dana, sorpreso, non aspettandosi per nulla al mondo di trovarsi davanti il chitarrista che lo aveva sostituito: “TOMO MILICEVIC?”, esclamò, spalancando gli occhi.

Il ragazzo lo salutò piuttosto serio, alzando una mano: “Ciao, Solon.”

“Ma… ma che ci fai tu qui?”

Tomo non fece nemmeno in tempo ad aprire bocca per rispondere che la porta della camera di Dana si aprì nuovamente ed entrarono in fila indiana Jared, Shannon e Tim, con la faccia da funerale, visto che Tomo li aveva appena edotti sulla malattia sconosciuta di Dana.

“SOLON?”, Jared si paralizzò dopo un passo.

“JARED?”, Solon balzò dalla sedia.

Anche Shannon si accorse del loro ex-chitarrista e spalancò gli occhi: “SOLON?”

Solon era diventato pallido: “SHANNON? E… E TIM? ECHECAZZO SUCCEDE? Che ci fanno questi qui, DANA? Che ci fanno i 30 Seconds to Mars al completo in casa tua?”

Sua nipote non rispose, ma Tomo si avvicinò al letto e si sedette vicino a Dana. La ragazza lo prese per una mano e lui le passò un braccio attorno alle spalle, mentre i quattro musicisti li fissavano a bocca aperta, in attesa di una spiegazione.

Dana cominciò a parlare lentamente, sottovoce, a fatica, cercando, senza riuscirci, di alzarsi un po’: “Shannon e Jared, Solon è… è mio zio. E, zio Solon, Tomo è il mio ragazzo e a Maggio ci sposiamo, se ci arrivo…”

Il mondo sembrò fermarsi.

Nessuno osava fiatare.

La notizia era pesante per tutti.

Jared e Shannon avevano l’espressione di chi, nei cartoni animati, è appena stato investito da un camion. Tim stava pensando se era il caso di chiamare un’ambulanza per la rissa che si sarebbe accesa da lì a poco e Solon non riusciva a staccare gli occhi da Tomo abbracciato alla sua Dana. Non poteva essere possibile una cosa del genere, doveva essere un incubo. La malattia di Dana e ora… il suo fidanzamento con Tomo… da non credere.

“Nipote?”, Jared ritrovò la voce per primo e si rivolse a Solon: “Dana è tua nipote?”

L’uomo annuì: “Sì. E’ la figlia di mio fratello maggiore. L’unica nipote che ho e…”

“Tua nipote è la ragazza di Tomo?” Shannon era assolutamente incredulo e cercò di riprovare con un’altra frase per trovare un po’ di senso nella vicenda.

Solon annuì: “Sì. Ma… ma… Non è possibile… io… Non vorrei che lei… avesse a che fare con voi!”

Dana continuò, con la voce supplicante: “Zio, per favore… ti prego… fai pace con Jared e Shannon. Fallo per me… Io… non voglio essere d’intralcio per colpa tua, tra Tomo e il suo gruppo… per favore…”

Solon scosse la testa: “Dana, tu sai che puoi chiedermi tutto, ma questo no. Questo. No.”

“Per favore…” Dana improvvisamente cominciò a tossire e Tomo le porse subito un po’ d’acqua, con l’aria affranta. Nel frattempo era tornata anche Jane che le passò un panno umido sulla fronte. Nessuno osava parlare e tutti avevano gli occhi puntati su di lei. Dopo un po’ la ragazza si riprese. “Per favore… non darmi questo dolore, non farmi andare avanti il poco che mi resta da vivere con il pensiero che io non posso stare con Tomo perché tu hai litigato con i Leto. Io amo Tomo…”

Solon si passò una mano sulla fronte: “Non… non sono stato io a litigare con i Leto, sono stati loro a litigare con me. E non me ne frega niente se ami Tomo. Avevi giurato.”

La ragazza sospirò, cercando di trovare fiato sufficiente per parlare: “Lo so,  ma avevo giurato che non avrei avuto niente a che fare con i 30 Seconds To Mars molto prima di conoscere Tomo e ora quel giuramento non vale niente. E, a ben vedere, non valeva niente nemmeno allora, visto che Tomo al tempo non faceva parte del gruppo. Lui non c’entra niente e quindi il giuramento non vale…”

Solon non era affatto convinto: “Con quello che mi hanno fatto questi qui, vale eccome.”, disse, indicandoli con un dito.

“Io non ti ho fatto niente!”, disse subito Jared, ma la fretta con cui intervenne, fece capire a tutti che il colpevole del litigio Leto-Bixler era proprio lui. Tutti si girarono a guardarlo.

“Oh, povero verginello! Sai benissimo cosa hai fatto, invece!” Solon si avvicinò pericolosamente a Jared, abbandonando perfino il tono di voce tranquillo e dimesso che usava di solito. Sua nipote faticava a riconoscerlo, uno zio Solon così scatenato. “Non parlare con me come se non sapessi cosa è successo e…”

“Ehi, non aggredire mio fratello così!”, intervenne però Shannon, mettendosi di fianco a Jared, prima che questo riuscisse a rispondere.

“Zitto, Shannon, falli spiegare, altrimenti non ne usciamo più!” Strano ma vero Tim, curioso di sapere la ragione della lite, era intervenuto a favore di Solon.

“Stai zitto, Tim! Che cazzo c’entri, tu?”, lo rimbeccò Shannon. Ed in breve tutti si misero a gridare uno contro l’altro: da una parte la premiata ditta Jared-Shannon e dall’altra la strana coppia Solon-Tim. Ed in mezzo Jane, che tentava di mettere ordine nella discussione, di calmare gli animi, ma faceva più confusione che altro.

E nessuno badava a Tomo e ad una emaciata Dana, ai quali sembrava di stare nell’ultima scena del primo atto del Barbiere di Siviglia di Rossini, dove tutti “cantano” sovrapponendo le voci e nessuno capisce cosa viene detto.

Dana si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore freddo e Tomo le strinse una mano, esasperato.

Doveva fare qualcosa.

Prese una sedia e vi salì sopra.

“ZITTI TUTTI! TUTTI!”, gridò, rivolto ai litiganti.

Il gruppo smise subito di urlare e tutti sgranarono un paio di occhi sorpresi sul chitarrista arrampicato su un trespolo.

“TU!” disse Tomo puntando il dito contro Jared. “E TU!” Poi spostò il medesimo dito contro Solon: “Chiaritevi. Picchiatevi. Uccidetevi. Fate quello che volete. Ma quando uscite di qui non dovete essere di ostacolo tra me e Dana. Per nessun motivo.  Io e Dana ci vogliamo bene, ci sposiamo presto e io NON voglio avere litigi e giuramenti sulla testa e, ogni volta che ci vediamo in tutti, finiamo per litigare. NON VOGLIO! NON LO ACCETTO, capito?”

Tomo, dopo averli squadrati in malo modo, scese dalla sedia e ritornò da Dana, mentre tutti si guardavano l’un l’altro perplessi. Jared incrociò le braccia davanti al petto come per volere tenere le distanze, Shannon e Tim si guardarono un po’ in cagnesco. E Solon abbassò la testa a fissarsi i piedi.

Allora Dana, in pigiama di flanella azzurro, si alzò lentamente dal letto, aiutata da Jane, si avvicinò a Solon e lo prese per una mano, guardandolo negli occhi: “Zio, è ora di fare pace. Tu ora hai i Great Northern, hai trovato il tuo equilibrio, non hai più bisogno dei 30 Seconds To Mars e loro non hanno più bisogno di te. Allora basta. Basta. Chiaritevi e fate pace. Fallo per me, per favore. Se mi vuoi bene, fallo per me. Ora. Adesso. Prima che sia troppo tardi…”

Solon scosse la testa: “Dana, io non posso. Non posso.”

La ragazza non capiva: “Ma perché? Cosa sarà mai di così grave? Dopo sei anni, cosa può essere?”

Solon sospirò, stringendole una mano: “E’ stato Jared. Jared ha fatto una cosa gravissima.”

Tutti si girarono nuovamente a guardare il leader dei 30 Seconds, che reagì immediatamente: “Ma non è vero!”

Ma Solon rimaneva delle sue convinzioni: “Sì che è vero! Una cosa che tra componenti dello stesso gruppo non si fa!”

“Ma cosa?”, la voce di Dana era supplichevole.

Solon si passò una mano sulla fronte e sospirò: “Mi… mi ha accusato di aver rubato una cosa.”

“Cosa? Una canzone, forse?”, l’ipotesi più probabile, tra  musicisti.

“No. Peggio…”

“Ma cosa?”

Jared intervenne: “Tuo zio ha rubato una cosa fondamentale. E dopo questo episodio, di lui non mi sono più fidato. Non potevo più fidarmi. Dopo quello, avrebbe potuto rubare qualsiasi cosa…”

“Cosa ha rubato, Jared, cosa?”

Solon scosse la testa: “Dana, io non ho rubato niente e… diglielo, Jared, cos’era questa cosa tanto fondamentale, così vedi che figura fai…”

Jared lo guardò con disprezzo: “Semmai la figura la fai tu, ladro…”

“Zio, per favore, cos’era questa cosa?”

Solon sospirò per l’ennesima volta: “Lo dico solo per te, Dana. Solo perché tu ti renda conto con che gente hai a che fare. Era il suo… smalto nero per le unghie.”

Tutti rimasero impietriti.

“COSA?”, dissero tutti in coro, dopo un attimo di smarrimento.

“Solon ha rubato il mio smalto nero per le unghie e questo era un affronto che non potevo perdonare.”, declamò convinto Jared.

Dana era senza parole, Tim si sedette pesantemente sul letto, Jane soffocò una risatina, e invece Tomo si stava adirando di brutto, sconvolto che una banalità del genere avesse messo a repentaglio il suo rapporto con Dana: “COSA? Voi avete litigato per questa cazzata, vi siete quasi sciolti e siete arrabbiati da sei anni per una boccetta di smalto per le unghie del valore di due dollari? E non ci sono altre ragioni musicali o che so io?”

“Embeh?”, disse Jared, facendo spallucce, per il quale era normale che nessuno dovesse toccare le sue cose, pena punizioni esemplari ed esagerate.

Tomo si rivolse allora a Shannon, stranamente silenzioso e in disparte, mentre Solon scuoteva la testa e Tim si diceva che lui aveva la sua boccetta di smalto al sicuro, per fortuna: “E tu lo sapevi, Shan? E hai accettato che questa immensa cazzata continuasse per anni?”

“No, Shannon non lo sapeva.”, disse subito Jared.

Il batterista aveva una strana voce: “Ehm… Infatti… Io credevo avessero litigato per questioni musicali, su come fare il secondo album, non… non sapevo… ma…”, Shannon si grattò la testa, come sempre faceva quando era  in imbarazzo, “Ehm… la faccenda della boccetta è successa quella volta che abbiamo fatto il concerto qui a Los Angeles, vero? Nell’autunno del 2002?”

Solon e Jared cominciarono a guardarlo male e tutta l’attenzione dei presenti si spostò su Shannon. Se non ne sapeva niente, com’è che invece ne sapeva? “Sì. Perché lo chiedi?”, gli disse il fratello, immediatamente insospettito.

Shannon indietreggiò di un passo: “Ehm… Jared… ehm… per caso quel giorno la boccetta l’avevi lasciata nel furgone degli strumenti, dentro il  vano portaoggetti?”

Jared annuì: “Sì, perché?”

“Ehm…”, Shannon si spostò verso la porta, “Ehm… l’ho presa io… e l’ho usata per…”, il batterista era sulla soglia della stanza, “… per  dipingere la marmitta della mia vecchia moto. Non avevo soldi per comperarla nuova, si era graffiata contro un cassonetto e così ho adoperato il tuo smalto senza dirtelo… E Solon non c’entra niente…”, disse, tutto d’un fiato, diventando piccolo-piccolo, come quando da bambino era costretto a confessare una marachella alla mamma.

Jared invece diventò paonazzo, spalancò gli occhi e si diresse verso suo fratello: “COSA HAI FATTO?”

Shannon uscì di corsa dalla stanza dicendo: “Ci ho dipinto la marmittaaaaaa…”

Jared uscì a sua volta di corsa inseguendo il fratello e dicendo, nel bel mezzo della sua personale sceneggiata: “Come hai potuto??? Come hai potuto farmi questo affronto? Con tutto quello che ho fatto per te!!! TU, SANGUE DEL MIO SANGUEEEEEE….”

Jane, Dana, Tomo, Solon e Tim rimasero a fissare la porta spalancata e i Leto che scendevano le scale di legno come potrebbe fare una mandria di bisonti imbufaliti, poi si guardarono un attimo uno con l’altro e scoppiarono a ridere.

“Se non se ne fossero andati, quei Leto, avrei chiamato il manicomio...”, disse per prima Jane, sentendo la porta di casa chiudersi sbattendo dietro ai due fratelli, “Perché qui siamo all’assurdo. Al delirio.”

Dana, ridendo, con lo stesso panno con cui Jane le asciugava la fronte, si tolse lo strato di cipria chiara che si era messa per sembrare pallida, poi abbracciò Tomo, ricambiata. “E’ finita, amore mio!”, gli disse, felicissima.

Tomo quasi la alzò di peso: “Sììììììì!! Hai visto che era meno peggio di quello che credevi, eh?”

Solon si mise in mezzo, perplesso: “Scusate, ma… ma tu… tu non avevi la maledizione del faraone?”

Dana fece un sorriso furbetto: “No. Era per finta. Per farvi fare pace.”

Solon si passò una mano sulla fronte e si sedette sul letto vicino a Tim, respirando finalmente normalmente: “Pfiù, meno male, ho preso uno spavento!”

Dana gli si avvicinò e gli accarezzò la testa: “Scusa, zio, ma non sapevamo come fare… Perdonami per la messinscena.”

Solon scosse la testa: “Vabbè, fa niente… è anche vero che dopo sei anni era una cosa ridicola che andasse avanti questa situazione… quasi mi vergognavo a dirla… per una sciocchezza del genere, poi…”

Tim si alzò, si avvicinò a Dana e le diede un bacio su una guancia, rasserenato pure lui, prima di stringere la mano a Tomo: “Sono contento che fosse tutto finto! Meno male… E ora… vado a vedere di recuperare i due Leto, prima che si ammazzino!”

Tomo scoppiò a ridere: “Ma no… tra di loro si perdonano sempre tutto. Sono fratelli. Litigheranno un po’ e poi Shannon chiederà scusa a Jared che lo perdonerà e torneranno inseparabili. Succede continuamente.”

“Dici?”, chiese Tim, “O mi devo trovare un altro posto di bassista da qualche parte?” e poi ridendo, uscì dalla porta anche lui.

“Sentite che ne dite se faccio un po’ di thè e ci mangiamo la torta di mele che ha fatto Tomo? Mi aiuti, Solon?”, chiese Jane escogitando su due piedi  una manovra per lasciare soli Tomo e Dana.

“Certo.” ‘Zio’ Solon capì al volo e la seguì facendo l’occhietto a Dana e i due innamorati rimasero soli.

“Allora?”, chiese Tomo sorridendo e guardandola negli occhi, “Sei contenta?”

“Sì, tanto!” gli rispose Dana, abbracciandolo. “E…”

“Cosa?”

“Ho una sorpresa per te.” Dana sciolse l’abbraccio e si spostò verso la parete in cui campeggiavano i poster ormai consunti di Omar Rodriguez-Lopez ed Albert Einstein. Li staccò entrambi e li arrotolò, mettendoli da parte. Poi, mentre Tomo la guardava senza capire, tirò fuori da sotto il letto un altro poster, ma inserito dentro un quadro, e lo appese alla parete.

Tomo sgranò gli occhi, sorpreso: era una sua foto presa durante un concerto. Una gigantografia in cui compariva con la Gibson al collo (http://leto30stm.com/tomo.jpg), le cuffiette agli orecchi, il ciuffo di capelli neri lisciato e un residuo di smalto nero. “Ora sei tu il mio chitarrista preferito.”, disse Dana contemplando la foto e poi girandosi verso Tomo. “Non esiste niente e nessun altro per me…”

Tomo era al settimo cielo, quasi aveva le lacrime agli occhi. “Nemmeno per me…”, disse, in un soffio. Poi si avvicinò a Dana, le si mise davanti, prese un qualcosa dal taschino della camicia, agguantò la mano sinistra di Dana e le mise un anello al dito. Il più classico e romantico degli anelli da fidanzamento, d’oro e con il diamante. “Ora che sei miracolosamente guarita dalla maledizione del faraone, va bene il week-end del primo maggio per il nostro matrimonio?”

Dana passò lo sguardo dall’anello agli occhi scuri di Tomo, che brillavano tanto quanto il diamante e gli accarezzò una guancia, contentissima: “Sì, va benissimo e…”

“Cosa?”

“Invitiamo tutti? Anche i Leto?”

“Certo! E come bomboniera possiamo fare i classici confetti con in più una boccetta di smalto nero, va bene? Così ognuno ha la sua e nessuno rompe, OK?”

In quel momento, mentre Dana rideva a crepapelle, il cellulare di Tomo segnalò l’arrivo di un sms. Il chitarrista lo prese dalla tasca. Era un sms di Jared che Tomo lesse a voce alta.

Diceva: “TOMO HAI PRESO TU LA MIA MATITA NERA PER GLI OCCHI?????!!!”

 

 

 

 

 

FINE

 

 

 

                P.S. In nessun modo e su nessun sito sono riuscita a trovare una ragione ‘sfiziosa’ per cui Solon Bixler abbia lasciato i 30STM nel marzo del 2003. Inizialmente avevo pensato che il motivo fosse di ordine musicale: Solon, che ai concerti e nelle interviste mi pareva piuttosto punkettaro, poteva essere contrario all’idea dei 30STM di fare un secondo album meno rock del primo. Cosa assolutamente smentita dagli album dei Great Northern che di rockettaro non hanno praticamente niente e dal fatto che il secondo album dei 30STM è uscito parecchio tempo dopo l’abbandono di Solon, e gli album dei Great Norhern ancora più tardi. Inoltre, nonostante suonasse durante i concerti dal vivo, Solon (e anche Matt) ha partecipato soltanto marginalmente alla registrazione del ST che, come dice anche Jared al cap.22 di questa ff, è stato davvero scritto e suonato praticamente tutto dai due fratelli Leto con dei musicisti di supporto (http://en.wikipedia.org/wiki/30_Seconds_to_Mars_(album)). Per di più, da tutti, Solon viene descritto come una persona assolutamente tranquilla e posata, che non ha mai avuto niente da ridire con nessuno, tantomeno con i Leto. In definitiva, secondo me il motivo per cui Solon se n’è andato è davvero quello scritto nella dichiarazione ufficiale rilasciata a suo tempo: solo che per la ff era troppo poco divertente, una ragione del genere… per cui ho dovuto ricorrere a buttarla sul ridicolo, altrimenti non ne uscivo più! Spero che così vi sia piaciuta comunque.

                E ora, parto con i ringraziamenti di rito.

                Prima di tutto le mie Beta-Readers, Tannaca e Folleria, che qualche volta cercano di farmi cambiare idea sui contenuti dei capitoli e non ci riescono mai, ma le cui ‘critiche’ mi sono utili per rivedere dialoghi e/o caratteri dei personaggi. Alla mia Beta Cromia che ‘fisicamente’ mi ha ispirato il personaggio di Dana. Inoltre, un ringraziamento a parte a JCP: carissima, se anche per un momento queste cose che scrivo ti consentono di scordare il mondo esterno, per me è un onore scriverle: grazie per  le tue belle parole e per il tuo incoraggiamento.

                Un grazie immenso a tutte le persone che ‘perdono’ il loro tempo a leggere e a quelle che hanno lasciato commenti e recensioni e che mi scrivono: Folleria, madiris, sally10989, BlueAndYellow, candidalametta, Revolve90, Jaredina71, Cromia, TaccaH, Martunza, princes_of_the_univers, Black Violet, Dying Atheist,pixie, StephenKing, Artemide82, PrinzexKikka, jcp, Blue_moon, LittleDarkVampire.

                Per terze, ma non per importanza, un grazie gigantesco a tutte le persone che hanno messo questa ff tra le preferite e seguite e che sono: alice_echelon, alice_chan, araya, BlueandYellow, Blue_moon, candidalametta, caporalez, Cromia, Dying Atheist, fteli, giugina2004,  GothicGirl, LittleDarkVampire, Lostwhite, LunaBlu89, madiris, Martunza, pixie, princes_of_the_univers, PrinzexKikka, Revolve90, sally10989, StephenKing, taccaH, The Fantasy, Titti_b, The Queen, _Sophy_xX.

                Spero di non avere scordato nessuno!

                Un abbraccio forte a tutti  e alla prossima!

                Baci e buona estate!

                :-***

                Shanna

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