Disclaimer:
I personaggi di Lady
Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di
Ryoko Ikeda.
I
– 14 Luglio 1788
I
gomiti mollemente appoggiati alle
ginocchia, le mani giunte a reggere lo stelo del bicchiere
già mezzo vuoto, lo
sguardo fisso davanti a se sembrerebbe intento ad osservare la crepa
che corre
lungo la parete portante, seguendone il percorso contorto di meandri
sinuosi,
quasi fosse un’antica mappa pronta a svelare arcani tesori a
colui in grado di
interpretarla.
Ingannerebbe
un osservatore poco attento
forse, di certo non lui, cui non sfuggirebbe la rigidità
delle spalle tese,
seppure un poco curve in avanti, o il tremore quasi impercettibile
delle mani
che stringono il bicchiere a increspare la superficie del poco liquido
rimasto
in minuscole onde concentriche.
Ma
non deve preoccuparsi di lui, non
ancora.
Sa
che tornerà tardi, a notte fonda, come
suo solito ultimamente. Avrà tutto il tempo di ricomporre la
solita maschera,
mai così pesante come questa sera eppure mai così
indispensabile alla buona
riuscita dell’atto finale di una recita dolorosa quanto
inevitabile.
Nell’immobilità
della calura estiva, il
frinire ostinato e insistente di una cicala la riscuote, riportandola
improvvisamente alla realtà della stanza in cui si trova e
che ora prende a
osservare distrattamente. Lascia vagare lo sguardo Oscar, a posarsi,
quasi ad
accarezzarli, sui tasti lucidi del pianoforte a coda lasciato aperto a
troneggiare
al centro della stanza. Pensa a come la netta dicotomia del bianco e
del nero
riesca sorprendentemente a ricomporsi in un’armonica
alternanza. Indugia ancora
un poco su questa immagine che inspiegabilmente pare restituirle un
barlume di
serenità, poi lo sguardo riprende a frugare inquieto alla
ricerca degli oggetti
conosciuti ritrovando appena poco distante il tavolino di legno rotondo
col suo
ceppo intagliato di foglie e fiori e la scacchiera intarsiata sul piano
ben
levigato.
Come
rispondendo a un richiamo, si
protende allungando il braccio fino a raggiungere il bordo. Allora
chiude gli
occhi e lascia che le dita scorrano sulla superficie liscia. Le labbra
si
increspano in un sorriso appena accennato nell’anticipazione
di ciò che sa bene
troverà. Non ha bisogno di riaprire gli occhi per sapere che
si tratta
dell’asperità irregolare di una scheggiatura
nell’angolo inferiore del terzo
riquadro nero sulla seconda fila dal basso, conseguenza indelebile di
una mal
digerita vittoria del suo avversario una notte di una vita fa.
La
pervade una piacevole malinconia che
non dura però se non lo spazio di pochi istanti, giusto il
tempo di percepire
una nota stonata, un elemento estraneo che troppo stride con
l’intimità del
ricordo lontano.
Dal
punto in cui si trova lo sguardo può
correre diagonalmente fino ad incontrare l’arco che separa
l’ampia anticamera
dall’ambiente più raccolto della camera da letto.
La luce fioca delle poche
candele accese che occhieggiano dalle bugie, lascia appena indovinare
la sagoma
del letto e le colonne del baldacchino, con il suo drappeggio
impalpabile
scostato appena un po’ di lato a mostrare lenzuola candide
ben tirate e cuscini
rigonfi mollemente adagiati. Uno scorcio fin troppo familiare, non
fosse per
l’ammasso vaporoso e disordinato abbandonato con noncuranza
sul pavimento lì
accanto. Una macchia di colore informe che non può non
catturare l’occhio
nell’ambiente altrimenti così ordinato
nell’essenzialità delle linee rigorose.
Si
interrompe bruscamente l’immobilismo
della serata quando d’istinto si alza dalla poltrona in un
moto rabbioso, che
la porta in poche decise falcate a raggiungere ed afferrare il
groviglio di
tessuto comprimendolo poi con tutte le sue forze in un fagotto, le
nocche
bianche dallo sforzo, quasi a volerlo far scomparire. Allunga una mano
ad
aprire l’anta del guardaroba lì di fianco pronta a
buttarcelo dentro e a
farcelo rimanere per sempre insieme a tutto ciò che esso
rappresenta.
Ma
è troppo tardi. Il freddo che
percepisce sotto le dita non è già più
quello del pomello in bronzo della
pesante anta di legno, ma quello del marmo liscio e perfettamente
levigato
della maestosa fontana antistante il Salon de Mars. Solo poche ore
prima, al
mormorio quieto delle sue acque limpide aveva confidato il fallimento
del suo
piano e aveva pianto lacrime silenziose nella consapevolezza di
ciò che sarebbe
venuto poi.
Ingenua.
Maledettamente ingenua. L'aveva
riconosciuto quello sguardo cupo di amore e passione che lui aveva
rivolto alla
sua regina già da loro primo incontro, e l'aveva voluto per
se, su di se.
Allora sapeva di prendersi in giro, ma con l'andare del tempo aveva
finito per
crederci. Aveva bisogno di crederci per non perdersi e si era
aggrappata a
quell'idea come un naufrago alla zattera, per quanto malconcia. Si era
convinta
che se lui le avesse rivolto quello stesso sguardo, avrebbe potuto
riassaporare
la sensazione di pienezza che già una volta le avevano
regalato altri occhi,
che l'avevano bruciata fino in fondo all'anima, che l'avevano fatta
fremere
nella carne. Sarebbe stata finalmente libera, avrebbe potuto
ricominciare a
vivere. Come una donna.
E
lei alla fine l'aveva avuto per se
quello sguardo. Eppure si era ritrovata lì, le braccia tese
sul bordo di una
fontana e il capo chino sulla superficie dell'acqua disturbata dallo
zampillio
discreto dei getti che non erano però riusciti ad impedirle
di vedere riflessa
tutta la sua delusione. Non l'aveva riconosciuta che alla fine. Non
l'aveva
riconosciuta nemmeno dopo averla stretta tra le braccia e averla fatta
danzare.
Per lo spazio di qualche ballo era stata una donna ai suoi occhi, per
poi
tornare a essere "il suo migliore amico" nella versione di
sé
fasciata nei pantaloni di un'uniforme. Quasi che fosse l'abito a
determinare
l’identità di una persona. In fondo non si era
aspettata nulla di diverso, non
da lui quanto meno. A quel punto era corsa via, non c'era
più nessun motivo per
restare.
Aveva
indugiato a lungo fissando la sua
immagine riflessa senza in realtà vederla. Pensava al corso
che avrebbe potuto
prendere la sua vita se quello sguardo le avesse fatto vibrare l'anima,
se il
suo tocco l'avesse infiammata fin nelle viscere. Ma non aveva sentito
nulla di
tutto ciò ed era stato inevitabile sentirsi sollevata, come
quando si comprende
di aver scampato un serio pericolo. Scoppiò in una risata
liberatoria
nell'immaginarsi a maneggiare con grazia un ventaglio disquisendo
dell'ultima
moda in fatto di acconciature con qualche dama a corte.
Non
più donna soldato.
Nell'opinione
dei più la parte del soldato
era meramente il ruolo impostole dal padre, eppure quel pianto ostinato
nel
racconto della propria nascita che Nanny ogni volta teneva a
sottolineare, era
sicura fosse stato il proprio modo di implorarlo a non condannarla ad
una vita
così contraria alla sua indole libera e ribelle. E qualsiasi
fossero state le
ragioni che lo spinsero a tale decisione, non aveva mai abbandonato la
convinzione che, inconsciamente, lui avesse sentito il suo richiamo in
una
comunicazione muta quanto profonda.
Una
donna con una vocazione da soldato.
Essenza naturale della propria identità per lei, una
dicotomia impossibile da
ricomporre agli occhi degli altri, inaccettabile per qualsiasi uomo.
Quasi.
Inaccettabile per chiunque tranne che per lui, l'unico che non
può permettersi.
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