Where have you gone, Joe DiMaggio?

di LionConway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1. Del mio Corpo sono sempre fier ***
Capitolo 2: *** #2. A Cosy Shade of Winter ***



Capitolo 1
*** #1. Del mio Corpo sono sempre fier ***


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Another head hangs slowly
Child is slowly taken
And the violence caused such silence
Who are we mistaken?
But you see, it’s not me
It’s not my family
In your head, in your head
They are fighting
With their tanks and their bombs
And their bombs and their guns
In your head, in your head
They are crying
 
  • The Cranberries, “Zombie”
 
# 1. Del mio Corpo sono sempre fier
 
Il motivo per cui si trovava in una camerata di reclute dei Marines a Parris Island era perché, qualche giorno prima della partenza, nell’esatto momento in cui aveva preso coscienza della stronzata fatta nell’arruolarsi volontariamente, Johnny aveva fallito nel lanciarsi dalla scala antincendio del suo palazzo. Sperava di rompersi una gamba o, nel peggiore delle ipotesi, ammazzarsi.
Era stato Michael, il suo migliore amico, a fermarlo.
Michael che gli aveva urlato di non fare cazzate.
Michael che in quei giorni si trovava senz’ombra di dubbio seduto nel silenzio di un’aula universitaria, circondato da figli di papà ai quali venivano finanziati gli studi che li avrebbero protetti dall’essere spediti in Vietnam. Immerso in un test d’ammissione a chissà quale facoltà, su un innocente foglio di carta, mentre i test di Johnny si svolgevano alla sbarra o su un campo a ostacoli di circa cinque miglia da percorrere in meno di venti minuti, che strappava i tendini delle gambe alle reclute, portava in fiamme i loro petti, li massacrava fisicamente e psicologicamente.
Michael che, fondamentalmente, avrebbe dovuto farsi i cazzi suoi.
Perché se al college qualcuno lasciava un armadietto aperto – c’erano poi gli armadietti al college? Johnny non lo sapeva di certo- il problema sarebbe stato suo, suo soltanto, solo dell’idiota che avrebbe pagato le conseguenze di quella mancanza d’attenzione.
In una camerata, invece, avrebbe potuto trattarsi di qualunque stronzo, qualsiasi imbecille incapace di girare la chiave in un lucchetto, ma il problema sarebbe stato di tutti. Non esisteva individualità nei Marines, non c’era nessun “io”. Esisteva solamente la squadra, esisteva il prendersi la responsabilità di una stronzata per cui tutti quanti ci avrebbero rimesso. Non vi erano scuse, non vi era redenzione, vi era soltanto il Sergente Maggiore Raymond Donovan che si sgolava per rivolgere alle reclute i peggiori insulti mai ascoltati dalle loro orecchie molestate dalle urla e dalle vessazioni.
Era stato Beaufort a dimenticare di chiudere quel cazzo di lucchetto.
Nessuno ne fu sorpreso, anzi: tutti si chiedevano come diavolo facesse Beaufort a essere ancora lì. Era grosso, stupido, sovrappeso. Faticava negli allenamenti e beccava i punteggi più bassi nei test a cui i soldati venivano sottoposti. Era sempre, costantemente distratto, e quasi esclusivamente la causa maggiore delle punizioni inflitte a tutta la camerata. Prima o poi, Johnny ne era sicuro, i compagni non si sarebbero accontentati di assistere alla strigliata e alla sua pubblica umiliazione da parte del Sergente Donovan: un giorno o l’altro gli avrebbero dato una gran saccagnata di botte e lui non sapeva se il pensiero lo rendesse triste o meno. Beaufort era uno stupido, ma era un bonaccione, un ragazzo di campagna incapace di fare del male a una mosca. Decisamente fuori posto in un corpo militare che si premurava di distruggere la personalità degli uomini per plasmarli in armi da guerra micidiali e scattanti. Certo però, come tutti, anche Johnny era stufo di essere punito per le disattenzioni del contadino.
Inevitabilmente, si domandò cosa Donovan avesse in serbo per loro, questa volta.
Accanto a lui, come se gli avesse letto nel pensiero, il soldato Robinson, un ragazzo nero dalle spalle possenti, gli diede un leggero colpo di gomito, attirando la sua attenzione.
“Guarda Riley” gli sussurrò all’orecchio. “Ci gode come un matto.”
Johnny volse lievemente la testa di lato, incrociando gli occhi del Caporale Riley, un vero stronzo di qualche anno più grande di lui la cui specialità era tirarsela come se avesse avuto il cazzo d’oro. Se ne stava a riposo, le gambe divaricate, con ai piedi un grosso contenitore di plastica dal contenuto ignoto. Quando il suo sguardo incontrò quello di Johnny, Riley gli rivolse un ghigno e, approfittando del Sergente che dava loro le spalle, il Caporale passò un dito sotto il proprio mento, facendo cenno di recidersi la gola.
Per tutta risposta, Johnny gli mostrò il dito medio della mano sinistra, ma non la riportò dietro la schiena abbastanza in fretta: Donovan si era appena voltato e lo aveva beccato in flagrante.
“Hai qualche problema, Castelluccio?” tuonò la voce del Sergente, allorché Johnny scattò sull’attenti.
“Signor no, signore!”
“Balle, secondo me ne hai parecchi di problemi, soldato!”
Donovan lasciò perdere Beaufort e fece qualche passo in sua direzione, piazzandosi ad appena qualche centimetro da Johnny, tanto che il suo alito caldo investì in pieno il volto della giovane recluta. “Avanti, spara, moccioso, confidati! Cosa c’è? Mammina non è venuta a salutarti alla stazione? Ti manca la fica fradicia della tua ragazza?”
“Signor no, signore!”
Dopo quattro settimane che si trovava lì, Johnny aveva imparato a trovare Donovan quasi comico quando sbraitava a quel modo: la larga bocca del Sergente si contraeva furiosamente in smorfie grottesche, quasi vignettistiche, e sputacchiava gocce di saliva in faccia al malcapitato di turno; i suoi penetranti occhi glaciali si incrociavano per via della vicinanza dei volti, rendendolo quasi ridicolo, e le vene sul collo e sulle tempie si facevano così evidenti che parevano sempre sul punto di scoppiare da un momento all’altro. 
“Allora, esattamente, qual è il motivo per cui sentivi così tanto bisogno di tirare su un dito medio, eh, Castelluccio? Ti piace metterti le dita nel culo, per caso?”
Johnny non resistette. Non era nella sua natura e, in ogni caso, avrebbe comunque pagato le conseguenze di qualcun altro se non le sue.
“Signore, a volte, signore!” esclamò in risposta, e i suoi occhietti vispi si mossero sul volto paonazzo di Donovan, sostenendo il suo sguardo truce. “Ho sentito dire che la stimolazione prostatica è consigliata dai medici, signore!”
Udì Robinson accanto a sé soffocare un suono strozzato a metà tra un singhiozzo e una risata. Per sua fortuna, Donovan era troppo incazzato con Johnny per accorgersene. Quella sua sfrontatezza, gli costò una ginocchiata nelle palle, così ben assestata che si ritrovò piegato in avanti per via del dolore.  
“In ginocchio, soldato!” gridò Donovan sopra di lui. “In ginocchio con i palmi a terra, brutto insignificante pezzo di prosciutto decomposto! Te la faccio vedere io la stimolazione prostatica!”
Johnny eseguì, imprecando tra i denti per il colpo ricevuto ai testicoli. Tuttavia, anche quando prese posizione, non volle dare a Donovan la soddisfazione di credere di averlo umiliato. Sulle sue labbra, restava quel sorrisetto impertinente che gli aveva donato ormai la fama di recluta insubordinata.
Gli stivali di Donovan scomparvero dal suo campo visivo e il calcio del Sergente arrivò così energico al suo didietro che dovette soffocare un’altra imprecazione.
Sentì una mano del suo superiore afferrargli saldamente la spalla destra e il suo respiro solleticargli l’orecchio.
“Ti piace così, soldato?” ringhiò Donovan.
Johnny sapeva che avrebbe dovuto starsene zitto. Invece, lo provocò per l’ennesima volta: “Credo che possa fare di meglio, Sergente.”
“Come ti pare.”
Donovan gli diede un altro calcio così forte che dei minuscoli lampi di luce colpirono gli occhi di Johnny e danzarono per un tempo indefinito davanti a lui: ecco cosa significava vedere le stelle.
“Allora, ne hai abbastanza?”
“Sì” gemette, contraendo i muscoli dello stomaco. “Sì, signore.”
“Terrai chiusa quella boccaccia?”
“Sì, signore”
“E le mani al loro fottuto posto dietro la schiena?”
“Signor sì, signore.”
“Rialzati, stronzetto!”
Johnny eseguì, tornando a riposo, le dita della mano destra che stringevano saldamente il polso della sinistra.
Donovan si allontanò e passò in rassegna i volti di tutte le altre reclute.
“C’è qualcun altro che vorrebbe prenderle nel culo come Castelluccio?” li minacciò.
In risposta, vi fu un coro di “Signor no, signore!”
“Bene, mi pare di aver capito che posso andare avanti, allora, e darvi quello che vi meritate tutti quanti per essere incapaci di assicurarvi che il soldato Beaufort qui presente compia il suo dovere!”
Gli occhi di tutti tornarono a muoversi in simultanea su Beaufort che, dal canto suo, aveva lo sguardo vitreo puntato su un punto impreciso davanti a lui e visibili gocce di sudore gli imperlavano la fronte e la testa rasata. A Johnny faceva una gran pena, ma al tempo stesso covava il profondo desiderio di prenderlo a pugni per quelle sue continue distrazioni. Gli ricordava un po’ suo fratello, incapace di concentrarsi per più di qualche minuto su qualunque cosa non rientrasse nel suo limitato campo d’interesse.
“Soldati!” urlò Donovan “Estraete i vostri fottuti lucchetti! Caporale Riley, proceda!”
Riley gongolava. Sollevò il coperchio della scatola ai suoi piedi e l’afferrò saldamente, mentre le reclute tiravano fuori dalle tasche dei pantaloni marroni i lucchetti che Donovan aveva fatto loro rimuovere dai rispettivi armadietti.
Quando il Caporale si piazzò con la scatola davanti a Johnny, sogghignò sprezzante: “Allora, preferisci dare o ricevere, Castelluccio?”
“Come mai le interessa, Caporale?” rispose Johnny, inserendo una mano nel recipiente che, come scoprì, conteneva palline di decorazione per l’albero di Natale. “Sta per caso valutando la merce? Le piace la carne giovane? Non potrei di certo biasimarla, eh.”
Riley digrignò i denti e le sue narici si dilatarono come quelle di un toro rabbioso.
“Ti consiglio di darti una regolata, Castelluccio” sibilò, mentre si spostava verso Robinson che prese anche lui una pallina. “O giuro su Dio, non ti faccio arrivare alla fine dell’addestramento.”
“Sono terrorizzato” bisbigliò Johnny, mentre l’altro si allontanava con un’occhiata rabbiosa.
Scosse la testa, osservandolo distribuire palline decorative a tutta la camerata, prima di incrociare i grandi occhi inquisitori di Robinson accanto a lui: “Che c’è?”
“Devi sempre fare il gradasso con tutti?”
“Cosa? È lui che fa lo spaccone con me.”
“No. Riley fa lo spaccone con gli altri. A te, invece, odia proprio. Perché sei insubordinato.”
“Che parolona” bofonchiò Johnny, rigirandosi la pallina rossa tra le dita. “Secondo te a che servono? Per punizione, vogliono farci decorare l’albero? Non è un po’ tardi?”
“Non credo si tratti di questo.”
Difatti, non lo era. Quando lo stronzo terminò di distribuire le palline, Donovan prese a camminare avanti e indietro tra le due file di reclute, spiegando loro che dovevano applicare i lucchetti al piccolo gancio della pallina, farle cadere sul pavimento e ritrovare la propria in meno di trenta secondi. Chiunque non sarebbe riuscito nell’impresa, sarebbe stato punito con cinque giri di campo completi.
Dalle reclute, si levò un coro di lamenti contrariati, che Donovan mise subito a tacere con altri spolmonamenti.
“Silenzio!” gridò “SILENZIO! O vi ci sbatto tutti subito a correre un numero indefinito di giri fino a quando non sorge il sole, è chiaro? Infilate subito quei cazzo di lucchetti in quel fottuto gancio!”
Tutti eseguirono di malavoglia. Johnny chiuse saldamente il proprio il lucchetto e si tastò nelle tasche, assicurandosi di avere con sé la piccola chiave per riaprirlo. Fece appena in tempo a tastarla che Donovan soffiò nel fischietto che portava al collo.
Johnny tentò disperatamente di seguire con gli occhi il percorso della propria pallina, ma quella rimbalzò più volte sul pavimento, mischiandosi a un’altra trentina di piccole sfere rosse, tutte identiche. Il giovane soldato si unì ai propri compagni sul pavimento, in mezzo al caos dove regnavano grida e imprecazioni. Attorno a sé non vedeva altro che teste rasate e sfumature militari verdi e marroni. Alla fine, prese in mano la prima pallina che trovò e si separò dalla mischia, strisciando verso la propria cuccetta.
Johnny infilò la mano in tasca, estrasse la chiave e, pregando tutti i Santi che conosceva di aver afferrato la pallina esatta, provò a inserirla dentro il lucchetto. Ovviamente, le sue preghiere non furono esaudite.
“Fanculo!” esclamò, mentre il suono acuto del fischietto di Donovan, odioso tanto quanto le sue urla, minacciava di fargli sanguinare le orecchie.
I soldati si misero nuovamente in riga, tutti visibilmente contrariati del proprio risultato. Johnny cercò con lo sguardo qualcuno che avrebbe potuto essere salvato dal proprio destino, ma sui volti che passò in rassegna riuscì a intravedere solamente rabbia e scontento.
Donovan e Riley si scambiarono un cenno e presero a controllare i risultati di ognuno di loro. Tutti, Sergente e Caporale compresi, quasi morirono quando Beaufort si mostrò l’unico ad aver avuto successo nell’impresa.
“Sìììììì!” esclamò il contadino, il sorriso sulle sue labbra raggiante per la prima volta dopo settimane.
Attorno a lui, invece, gli animi si stavano rapidamente infervorando. A Johnny parve quasi di sentire qualcuno scalciare, come un toro nell’arena che prendeva la rincorsa contro il suo matador.
Ci pensò Donovan a rimettere in stallo la situazione.
“Soldato Beaufort!” tuonò, portandosi nuovamente di fronte a lui. “Credi davvero che questa botta di fortuna spacciata completamente a caso possa salvarti dalla tua punizione? Sei l’artefice di tutto questo casino, grosso sacco di lardo penzolante, e la tua punizione era già decisa anche senza che ti portassi a fondo tutto il resto della nave! Se non esistesse il concetto di cameratismo tu a quest’ora staresti provando a portare il tuo mastodontico culo flaccido oltre il più semplice degli ostacoli completamente da solo! Ringrazia che i tuoi compagni siano indisciplinati quanto te, ridicolo sacco di merda!”
Johnny trattenne il respiro, mentre ogni singola parola che fuoriusciva dalla bocca sputacchiante di Donovan colpiva dritta alla faccia e al cuore di Beaufort, costringendolo a perdere il primo sorriso dopo tre settimane di duro allenamento e scarsi risultati. Si domandò se il Sergente non stesse esagerando con gli insulti nei confronti di quel povero Cristo, colpevole solamente di aver lasciato l’armadietto aperto. Tuttavia, si disse che, se il suo superiore avesse punito tutta la camerata salvando il culo a chi aveva scatenato il castigo, su Beaufort si sarebbe senz’altro scatenata la vendetta morale dei compagni d’arme. Pestato da una trentina di saponette avvolte negli asciugamani. A confronto, percorrere cinque volte il percorso a ostacoli era come andare al luna park.
 
 
 

A quell’ora, il percorso a ostacoli del bootcamp era illuminato da alti faretti che circondavano i lati del tragitto. Faceva un freddo schifo, il vento che soffiava e infastidiva le teste rasate delle reclute che procedevano due a due nel superare gli impedimenti, l’umidità che penetrava nelle ossa.
Johnny era consapevole che il clima e il training erano solamente una gita in villeggiatura rispetto a quello che lo avrebbe accolto in Vietnam. Una volta sbarcate, le nuove truppe sarebbero state spedite direttamente a Khe Sanh in supporto per la difesa della base militare assediata dai Vietcong proprio in quei giorni, sempre se fosse ancora esistita al momento del loro arrivo. Lo avrebbero circondato, gli avrebbero sparato addosso. Sarebbe stato ferito, forse sarebbe pure morto. Beaufort, con cui era stato accoppiato per correre i giri di campo, senz’altro non ce l’avrebbe fatta.
Guardandolo dall’alto delle travi di legno su cui si era appena arrampicato, Johnny pregò con tutto sé stesso che cadesse e si sfasciasse una caviglia, costretto dall’infortunio a tornare a casa o a essere spedito in un plotone destinato allo scarico merci degli elicotteri. Che cazzo ci era venuto a fare nei Marines? Non era particolarmente grasso: era solo molto alto e tarchiato, la sua mole avrebbe dovuto terrorizzare chiunque, specie quei Charlie musi gialli che si nascondevano nella giungla vietnamita in attesa di riempire di piombo le chiappe del nemico. Il problema di Beaufort era l’essere goffo, lento. Faticava a correre, figuriamoci arrampicarsi su una corda tesa per arrivare in cima a una costruzione di travi di legno.
Riley, che doveva assicurarsi che tutti completassero i giri di campo richiesti, era nel suo elemento: se c’era una persona che detestava più di Johnny, che non si lasciava sempre infinocchiare dalle sue vessazioni, quello era Beaufort. Tutti potevano scaricarsi su di lui: d’altronde, era scemo e non rispondeva mai.
“Beaufort, mia nonna non ci metterebbe nulla a batterti nell’arrampicarsi su quell’affare!” si sgolò il Caporale. “Ed è morta! Pensi di riuscire a muoverti più velocemente del cadavere della mia amata nonnina, soldato?”[¹]  
“Sì… signore”
Beaufort aveva il fiatone.
Con le mani saldamente strette alla corda, cercò di spingersi con il piede destro sulla trave di legno, ma scivolò goffamente e il suo petto e la sua pancia si schiantarono pesantemente sulla superficie dell’ostacolo. Lui rimase penzoloni a qualche centimetro da terra, con Riley che si spanciava dal ridere nel guardarlo faticare.
Mentre rideva in quel suo sguaiato e irritante modo, gli occhi del Caporale incontrarono per un attimo quelli di Johnny, e lui vi lesse un’espressione di sfottò che avrebbe tanto voluto cancellargli con un calcio in faccia.
“E nel frattempo Castelluccio si è preparato un piatto di spaghetti con le polpette!” annunciò Riley, rivolto a Beaufort che, con una fatica sovrumana, tornò a puntellare i talloni contro le travi. “Scommetto che se ci fossero un po’ di spaghetti con le polpette lassù, a quest’ora ti ci saresti già arrampicato, Beaufort! Avanti, vai a conquistarti il diritto di essere grasso, soldato! Aspettano solo te per essere mangiati! Forza, così!”
Per quanto stronze, quelle motivazioni sembrarono stimolare il giovane contadino, che riuscì finalmente a tirarsi su piano piano.
“Avanti, su quel culone!”
Esasperato, quando Beaufort fu finalmente a portata di mano, Johnny si sporse e gli afferrò il braccio, aiutandolo a issarsi sull’ostacolo.
“Coraggio, amico, sei arrivato.”
Inspirando ed espirando con intensità, Beaufort gli lanciò un sorriso a mo’ di ringraziamento. Quella premura, tuttavia, gli costò cara perché, ovviamente, Riley ebbe da ridire.
“Castelluccio!” esclamò “Torna subito giù! Vieni qui!”
Johnny sospirò, afferrò la corda e saltò giù, piazzandosi sull’attenti di fronte al suo Caporale. Aveva proprio una faccia da stronzo, scarna ma perennemente incattivita dagli zigomi pronunciati, da quegli occhietti truci e dai denti scheggiati che parevano le zanne appuntite di uno squalo. Alla fine, comunque, era solo apparenza: Riley era un bullo, gli piaceva bacchettare le reclute ed ergersi su di loro forte della sua posizione nella gerarchia militare, ma alla fine lui e Johnny stavano ad appena uno scalino di distanza. Donovan era un vero pezzo grosso, un Sergente con anni di esperienza alle spalle. Riley era solo un pezzo di merda e l’unica cosa che poteva fare per punirlo era riportare i suoi comportamenti a un altro superiore.
“Che cosa pensavi di fare, Castelluccio?” ringhiò il Caporale, a mezzo centimetro dalla sua faccia.
Johnny sostenne il suo sguardo e rispose: “Caporale, stavo solo dando una mano al soldato Beaufort.”
“Ed esattamente, chi ti avrebbe detto di farlo?”
“La mia coscienza, Signore. Nessun compagno viene lasciato indietro nel momento del bisogno.”
La risatina che provenne dalle labbra sottili di Riley fu di puro scherno. Sollevò l’indice e lo puntò su Beaufort, in piedi sull’ostacolo in attesa di poterlo scavalcare.
“Mi stai dicendo che ti faresti ammazzare per questa palla di lardo, Castelluccio?” sghignazzò.
Johnny si costrinse ad affondare le unghie nel palmo delle proprie mani per impedire a sé stesso di dare a Riley un pugno che gli avrebbe rivoltato la faccia.
“Non ho detto questo, Caporale” ribatté “Ma senz’altro gli guarderei le spalle. Non lo lascerei ferito e sanguinante, in pasto al nemico, se venisse colpito. Non esiste alcun io all’interno del plotone.”
Riley inspirò profondamente. Indietreggiò di un passo e sollevò il mento, come per guardarlo meglio. Johnny non mosse gli occhi da lui.
Il ghigno sul volto del Caporale non diede segno di voler scomparire.
“Che animo nobile!” esclamò, prima di afferrargli saldamente il mento tra pollice e indice. “Di me, invece, è meglio che tu sappia questo, Castelluccio: di te non me ne frega proprio nulla. Se ci trovassimo insieme nel folto della giungla e tu ti trovassi sotto il tiro di un fottuto muso giallo qualsiasi, io non alzerei un dito per salvarti. Sceglierò sempre il mio culo al posto del tuo, è chiaro? Quindi prega di non essere mai mandato in missione con me, fottuto negro mangia-mozzarella[²], perché l’unico modo in cui onorerei il tuo cadavere sarebbe pisciandoci sopra.”
Johnny si scostò malamente dalla sua presa, il volto contratto in un’espressione furibonda. Lo odiava. Cazzo, se lo odiava, lo detestava e non aveva la più pallida idea perché, tra tutte le reclute, dovesse per forza prendersela con lui. Di una cosa, però, era certo: il sentimento era completamente ricambiato.
“Allora forse dovrebbe cambiare corpo militare in cui servire, Caporale” sibilò, guadagnandosi un’occhiata furiosa da parte dell’altro. “Dal momento che mi sembra ovvio che non abbia ben compreso il concetto di cameratismo. Solo quello di egocentrica stronzaggine.”
Quelle parole gli fecero guadagnare un pugno al petto così potente che Johnny temette che quel bastardo gli avesse sfasciato lo sterno. Si piegò in avanti, dolorante, portandosi una mano al torace e cercando di prendere più aria possibile: lo stronzo gli aveva mozzato il fiato.
Le mani di Riley gli afferrarono saldamente le spalle e, quando si sporse su di lui, le sue labbra solleticarono per un attimo il lobo dell’orecchio di Johnny.
“Spero che tu muoia” soffiò il suo Caporale “E ora vedi di finire questo giro, fottuto pezzo di merda.”

 
 
**********
 
[¹] Citazione tratta da un episodio di Teen Wolf. Un sentito omaggio al coach Finstock durante gli allenamenti di lacrosse e vero protagonista della serie.
 
[²] So che è brutto da dire, ma per rispettare il clima fin troppo razzista che si respirava all’epoca –ma ancora adesso- all’interno del Corpo dei Marines, inserirò qualche slur decisamente offensivo. Questo, ad esempio, era un insulto particolarmente usato in America per chiamare gli italiani.

 
NdA: Salve, amici. Non so cosa mi abbia portato a iniziare questa raccolta di one-shot, che fa un po’ da spin off alla mia storia originale, Bridge Over Troubled Water. Se siete familiari con il personaggio di Johnny, sapete sicuramente che è un ex-marine, che soffre del Disturbo Post-Traumatico da Stress e che è praticamente il personaggio che più adoro all’interno della storia principale. Questa sarà una raccolta dove racconterò alcune delle sue esperienze vissute in Vietnam che lo hanno segnato fortemente. Non credo vi saranno particolari spoiler della storia principale, ma in tal caso vi avvertirò all’inizio dei capitoli.
Dal momento che si tratta di una raccolta, non so ogni quanto tot di tempo aggiornerò. Non voglio darmi deadline fisse, preferisco scrivere queste shot quando mi sento più ispirata, quando magari ho bisogno di una piccola pausa dalle mie long che, invece, hanno la priorità assoluta.
Mi sono informata il più possibile sulla Guerra del Vietnam, sul sistema di arruolamento e sulle tecniche di addestramento utilizzate dai Marines negli anni ’60, tuttavia alcune informazioni erano difficilmente reperibili e ho fatto in modo di ispirarmi il più possibile a tutti i film sul tema che mi è capitato di vedere. Perciò, lo svarione è sempre prepotentemente dietro l’angolo. Qui, in particolare, ho fatto continuo riferimento a Full Metal Jacket (a cui ho dedicato il titolo di questa prima shot. Inoltre, Beaufort potrebbe essere giusto un po’ ispirato a Palla di Lardo), oltre che ad alcune punizioni utilizzate realmente durante l’addestramento dei Marines –parlo dei lucchetti attaccati alle palline di Natale.
Al momento ho messo alla storia un rating arancione, anche se credo che, a una certa, sarò costretta ad alzarlo al rosso perché, parlando di guerra (soprattutto questa guerra) le scene di violenza saranno inevitabili. In generale, comunque, la storia vuole concentrarsi sull’evoluzione del rapporto tra Johnny e Riley, un personaggio che, in qualche modo, sarà presente anche in BOTW. Sta a voi continuare la lettura di entrambe le storie se volete scoprire come.
Spero che questa prima one shot vi sia piaciuta, in tal caso (o in caso contrario) fatemelo sapere con una recensione, mi farebbe più che piacere.

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Capitolo 2
*** #2. A Cosy Shade of Winter ***


Storia partecipante alla Word War indetta dal Giardino di EFP
Fluff, pre-slash, ambientata cinque anni prima degli eventi di Bridge Over Troubled Water. 
Dedicata a Ellie_x3, che mi ha sfidata. Spero tanto che ti piaccia, dear <3 


 
#2. A Cosy Shade of Winter 

 
27 Novembre 1973 
 

Già più o meno a metà Novembre, New York si trasformava e iniziava a prepararsi per l'imminente arrivo del Natale. Fili di luminarie venivano montate per attraversare le Avenue da un lato all'altro della strada, i passanti perdevano minuti interi a rimirare le vetrine decorate dei negozi, dalle caffetterie proveniva un dolce tepore e un profumo di cioccolata calda al quale resistere era pressoché impossibile.

Michael amava sentirsi avvolto dal caldo abbraccio del periodo natalizio, in contrasto con il vento gelido che soffiava impertinente sulla città nei mesi invernali e ingannava gli abitanti facendo credere loro di essere in balia di un clima più rigido di quanto fosse in realtà. New York era, invece, estremamente umida: era solo progettata in maniera che le forti correnti d'aria provenienti da Nord soffiassero imperterrite per il rettilineo di strade dritte.

Tutto questo in attesa della Macy's Thanksgiving Parade, che salutava il Ringraziamento e dava ufficialmente inizio alle festività natalizie.

Il giorno prima della parata, Michael aveva previsto di unirsi a un gruppo di compagni di corso per l'annuale costruzione di un pallone aerostatico al Museo di Storia Naturale. Tuttavia, si era accorto di essere ancora in alto mare nella revisione della tesi di laurea che avrebbe dovuto presentare a dicembre e fu quindi costretto a trascorrere il pomeriggio seduto a un lungo tavolo di mogano della Public Library, con il naso immerso tra libri e appunti che a malapena ricordava di aver preso. Era lì dalle dieci di quella mattina, giusto a pranzo aveva divorato un panino chiuso nel gabinetto della biblioteca e non era nemmeno al massimo delle sue forze: brividi di freddo erano corsi per tutto il giorno lungo la sua spina dorsale e, con il fastidio alla gola, Michael avvertiva il principio di un raffreddore, se non addirittura d'influenza. Dopo tutte quelle ore di studio ininterrotto, le lettere cominciavano a incrociarsi tra di loro. Fu quando lesse "Siringa" al posto di "Arringa" che decise di aver bisogno di una pausa. Il suo stomaco gorgogliava al solo pensiero di una fetta di torta alle mele, possibilmente accompagnata da una tazza di caffè così grande da poterci nuotare dentro. Suo nonno sputava a sentir nominare il caffè americano: lo chiamava risolutamente "Acqua sporca" e si era premurato di iniziare il nipote alla nobile arte della caffettiera italiana e dell'espresso al bar sotto casa, e Michael si era ben guardato per anni dal trasgredire a quell'importante filosofia di vita tramandata dal Bel Paese. Poi aveva iniziato l'università e da quel momento aveva capito che più una bevanda contenesse caffeina, meglio era, ancora di più se durava per almeno la metà di una sessione di studio nei pomeriggi tra autunno e inverno.

Raccolse in fretta le sue cose sparpagliate sul tavolo e le infilò in borsa. Poi si alzò e attraversò la lunga navata della sala di lettura, le braccia strette al petto tremolante. Con i tacchi dei suoi stivaletti che riecheggiavano sul il pavimento di granito, Michael si rese conto di quante poche persone fossero rimaste da quando era entrato. Controllò l'orologio che portava al polso, giusto per assicurarsi che fossero ancora le sei di sera anziché mezzanotte. Fuori, comunque, era già calato il buio, permettendo alle luminarie di fare il loro magnifico figurone.

Si sorprese nel trovare Johnny nel piazzale di fronte alla scalinata d'ingresso.

Avvolto in un cappotto color crema, troppo leggero per fronteggiare il vento freddo, e armato di chitarra acustica, suonava Winter Wonderland e ammiccava ai passanti -soprattutto se femmine, soprattutto se di bell'aspetto.

Nella custodia aperta ai suoi piedi, Michael vide un cospicuo gruppetto di monetine e pure una banconota stropicciata da un dollaro.

Sorridendo al di sotto della sciarpa che gli copriva la bocca, si avvicinò all'amico e incrociò i loro sguardi. Johnny allargò il sorriso sulle proprie labbra, secche per via di tutto quel cantare al freddo, e si sporse in avanti col busto, pizzicando le corde della chitarra e saltellando da un piede all'altro.

"He sings a love song, as we go along, walking in a winter wonderland! Signor Visentin, è per caso intenzionato a fare una richiesta?"

"Che ci fai qui?" domandò Michael.

"Ho visto tua madre e mi ha detto che eri venuto qui a studiare."

Johnny si sfilò la chitarra e, dopo essersi chinato a raccogliere i soldi e buttarli in tasca, ripose cautamente lo strumento nella custodia. "Cioccolata calda?" propose, raddrizzando la schiena.

Michael rimase qualche secondo a studiarlo: nelle ultime settimane, lui e Johnny non avevano avuto molte occasioni di uscire insieme, impegnato com'era con lo studio, ma nei minuti trascorsi a chiacchierare sulle scale del loro condominio non aveva notato quanto il suo amico fosse dimagrito in quel periodo. Le sue guance erano smunte e scavate, le spalle spigolose sotto il cappotto, gli occhi segnati da pesanti borse.

Michael deglutì, un po' nervosamente. Aveva la sensazione che Johnny non stesse affatto bene. Che gli mancasse qualcosa: il sonno, l'appetito, oppure entrambi. "Ho ancora un paio d'ore di lavoro" disse, "ma ero uscito apposta per prendermi una pausa. Andiamo, offro io."

"Sempre a studiare tu" bofonchiò Johnny. Mentre si muovevano in direzione della Fifth Avenue, Michael lasciò che gli circondasse affettuosamente le spalle con un braccio. "Non hai più tempo per gli amici."

"Scusa se voglio prendere quel Master!"

Michael ridacchiò, prima di lanciare un paio di starnuti. Sperò non avessero a che fare con i brividi e con il caldo che avvertiva sulla fronte e sulle guance. Imprecò quando, tastandosi nelle tasche del cappotto, si rese conto di non avere con sé il fazzoletto.

"Ecco, vedi? Sei sempre in giro e ti becchi pure il raffreddore!" 

Johnny, estrasse un lembo di stoffa bianca da una tasca interna della giacca. "Tieni, usa il mio. L'ho tirato fuori ieri dalla lavatrice, al momento è più vergine di te."

Questo Michael lo dubitava, ma accettò comunque il fazzoletto che l'amico gli porgeva.

Si spostarono sulla strada principale.

Johnny gli offrì il braccio da vero cavaliere e Michael non si fece problemi ad afferrarlo. Forse si stava appoggiando un po' troppo, ma sapeva che Johnny era abbastanza forte da sopportare quel minimo di pressione esercitato dal suo corpo. Normalmente, Michael non si sarebbe accollato così tanto, ma ogni passo gli costava un'immensa fatica, come se le proprie gambe fossero fatte di piombo. Si era senz'altro beccato l'influenza, ma si costrinse a resistere e, soprattutto, non lamentarsi: era Johnny quello che si lagnava sempre e supplicava di ricevere l'Estrema Unzione alla benché minima linea di febbre. Lui sarebbe sopravvissuto. Il suo umore era già comunque migliorato per la sola presenza del suo migliore amico. Gli era mancato passare con lui più di qualche minuto: ogni secondo trascorso senza Johnny, gli sembrava tempo sprecato, soprattutto dopo essere stati separati per cinque anni a causa della guerra.

Johnny lo costrinse a fermarsi sul marciapiede e gli indicò entusiasta la vetrina di una caffetteria addobbata a festa. Forse Michael non se ne accorse nemmeno perché sorridere in presenza di Johnny era la cosa che più gli veniva naturale al mondo, ma le sue labbra non poterono fare a meno di inarcarsi all'insù nel vedere gli occhi scuri del suo amico illuminarsi a quel modo, come se appartenessero a un bambino. Il suo naso a patata premeva contro il vetro del negozio, impegnato com'era a fissare gli scaffali coperti di finta neve e stelle di Natale, con scatole di biscotti e cioccolatini in bella mostra tra una statuetta di Santa Claus e quella di un pupazzo di neve.

Michael lanciò un altro, potente starnuto.

Johnny distolse gli occhi dalla vetrina e ghignò: "Vogliamo entrare, prima che ti prenda la polmonite? Sembra costoso, ma hai detto che offri tu."

"E certo!" esclamò Michael, soffiandosi il naso. "Intanto è risaputo che sono miliardario!"

Lui no, ma suo zio più o meno, e Johnny sapeva perfettamente che lo manteneva, così come gli finanziava gli studi in un'università dell'Ivy League.

Quando entrarono, Michael si beò del profumo di cioccolata e canditi che aleggiava nell'elegante locale. Gli altoparlanti di una radio suonavano Rudolph la renna dal naso rosso, mentre l'hostess all'ingresso -con cui Johnny non perse occasione di fare il piacione- li scortava a un tavolino, reggendo due grosse liste.

Michael sprofondò nella panca imbottita di ecopelle, stringendo le braccia al petto nel tentativo di scaldarsi. Il tepore all'interno del locale contrastava con il freddo becco che imperversava fuori in strada, ma i brividi che gli scorrevano lungo tutto il corpo sembravano decisi a non fargli notare la differenza.

Johnny lo fissava con un sopracciglio inarcato, mentre posava il proprio cappotto nello spazio libero alla sua destra.

"Ehi, se stai male possiamo andare a casa."

Michael scosse la testa, risoluto. "No" ribatté, "te l'ho detto, mi aspettano almeno altre due ore di studio."

"Che testaccia dura! Camera tua non va bene per studiare?"

Michael lo liquidò con un'alzata di spalle, prima di nascondere il viso dietro uno dei grossi menu. Fanculo la febbre. Si sarebbe preso il dolce e la bevanda più costosi lì dentro, in quel bar strapieno di sciccheria. 

Il loro cameriere era un ragazzo dalle spalle larghe su cui ricadevano riccioli scuri, abbigliato con una divisa verde e bianca. A Michael parve quasi di palpare la delusione di Johnny nel non rivedere la hostess avvicinarsi a loro.

Ordinò una tazza di cioccolata calda alla francese, aromatizzata con lo zenzero, e una bavarese alle fragole. Johnny si limitò a chiedere un tè alla menta piperita.

"Ehi, guarda che se è per i prezzi non c'è problema" commentò Michael, sedendosi più composto e sfilandosi la sciarpa. "Prendi pure quello che vuoi."

Per tutta risposta, Johnny si strinse nelle spalle. "Sto bene così, davvero."

"Non direi. Sei magro come un giunco. Stai mangiando?"

Johnny emise un lungo respiro e si mise a tamburellare con le dita sull'orlo del tavolo. "Sì, beh..." balbettò, "minestre e zuppe, più che altro, ma appena metto in bocca qualcos'altro, vomito anche l'anima."

"Johnny, così non va bene!"

Michael fece appena in tempo a posare una mano sulla spalla dell'amico, prima di venire interrotto dall'ennesimo starnuto. "Dovresti farti vedere." osservò, tirando su col naso.

Johnny poggiò un gomito sul ripiano del tavolo e lo scrutò intensamente, il mento appoggiato alla mano.

"Facciamo così" replicò, "io in questi giorni vado da un dottore se tu ti convinci a farti portare a casa, quando abbiamo finito qui. Scotti!" aggiunse, posandogli la mano libera sulla fronte.

Michael si scostò, gonfiò le guance e sbuffò come un bambino infastidito, suscitando le risatine di Johnny.

"Va bene" si arrese, puntando l'indice contro di lui, che fece finta di morderglielo, "quando però verrò bocciato, ti tormenterò per il resto della vita."

"Sei intelligente, non ti bocceranno."

Quando i loro ordini arrivarono, la conversazione era ancora volta sulla tesi di Michael.

"Questioni giuridiche relative al trattamento dei detenuti" spiegò, quando Johnny gli chiese di cosa si trattasse.

Udì l'amico fare qualche commento in proposito, ma lo sguardo di Michael rimase concentrato sul blocco di cioccolata che si scioglieva dentro al latte bollente. Il forte odore di zenzero invase piacevolmente le sue vie respiratorie, come a volerle disinfettare.

Il gomito di Johnny colpì il suo, riportandolo alla realtà.

"Oh! Mi senti?"

Michael batté le palpebre un paio di volte, confuso: la sagoma di Johnny gli appariva quasi sfocata.

"Scusa" bofonchiò, "che hai detto?"

"Ti stavo domandando quando devi esporla. Magari vengo a sentirti."

A suo zio la presenza di Johnny non sarebbe andata a genio.

Al contrario, lui sapeva che sarebbe stato l'unica maniera di sentirsi un po' più tranquillo di fronte agli esaminatori.

"Il dodici dicembre." rispose, prendendo un morso di bavarese, prima di offrirne un pezzo a Johnny. "Vuoi favorire? Magari questa non la vomiti."

"Che romantico" ridacchiò lui, affondando il cucchiaino per il tè nella mousse. 

 

*****

 

Una volta usciti, con il portafogli di Michael quasi del tutto privato di consistenza -bugia, non avevano speso neanche dieci dollari-, il giovane si arrese al farsi portare a casa in taxi. Mentre l'autovettura sfrecciava tra le luci notturne di Upper Manhattan in direzione di Mulberry Street, dove entrambi vivevano, Michael si divertì a stuzzicare Johnny sul sedile posteriore, incrociando le loro gambe per attirare la sua attenzione.

"Indovina a cosa sto pensando?"

"E come faccio a sapere cosa passa per quella tua testolina bacata?"

"Penso che dovremmo aprirci un ristorante tutto nostro."

Johnny non disse nulla, limitandosi a studiarlo con un'occhiata imperscrutabile. Poco male: quando faceva così, Michael sapeva che stava cercando di comprendere se facesse sul serio o meno. "Ma che dici? Secondo me hai la febbre e stai svalvolando."

Michael sollevò la gamba e la posò in grembo a Johnny.

"Dico davvero" rispose, estraendo per l'ennesima volta il fazzoletto. "Non me ne frega niente dello studio legale di mio zio. Se finirò a lavorarci, sarà solo per mettermi da parte un po' di soldi per aprirmi un posticino. Nemmeno tu stai lavorando, no?"

Johnny storse la bocca in una smorfia. "Non starei a suonare in strada per comprarmi le sigarette, se avessi un lavoro."

"Non ti attira come idea? Io è da un po' che ci penso."

Il suo amico voltò la testa di lato e sollevò le sopracciglia: "Ti do una mano solo se assumiamo quella sventola che ci ha portato al tavolo."

Michael fece finta di dargli un pugno.

"Sei sempre il solito" commentò, il petto scosso dalle risatine.

Johnny fu così gentile da pagare la corsa e lo aiutò addirittura a salire le scale fino al suo appartamento, un piano superiore rispetto a quello dove abitava lui. A Michael tutte quelle premure parevano alquanto esagerate, ma lo lasciò fare comunque. Sospettava che Johnny avesse voglia di trascorrere più tempo possibile insieme a lui, perciò lo invitò a stare un po' a casa sua. Ancora una volta, gli si scaldò il cuore nel vedere i suoi occhi illuminarsi a quella proposta. Sapeva che a Johnny piaceva stare da lui. Probabilmente, considerava la sua famiglia come la propria, almeno dal ramo della madre di Michael, e sempre si beava delle premure di nonna Enza a lui riservate, tra cibo, caffè e leccornie. E pure quella sera, nonostante le nausee che in quei giorni lo assalivano, Michael constatò che non si fece problemi a buttare giù qualche cucchiaiata di pasta e patate. A lui, in compenso, in seguito alla diagnosi di trentotto gradi di febbre, venne concessa solo una minestrina calda e l'esilio a letto.

Con gli appunti della tesi sulle ginocchia e una tazza di camomilla sul comodino, Michael tentava di concentrarsi e formulare qualche frase di senso compiuto. Alla fine, si arrese alla stanchezza e allo stordimento da influenza, e si allungò per sbirciare Johnny, disteso a pancia in giù ai piedi del letto con uno dei suoi fumetti aperti davanti agli occhi. "Che hai preso?"

"Boh, un Capitan America, penso" commentò lui, rigirandosi il giornaletto tra le mani. "Non so come fai a leggere 'sta roba: è noiosa fino allo sfinimento!"

Michael tirò su col naso. Stava cercando di limitare l'utilizzo del fazzoletto, che già in mezza giornata aveva preso a irritargli la pelle.

"Mi prendi quel librone blu sullo scaffale?"

Johnny si sollevò sulle ginocchia. Lui dovette guidarlo un po' perché trovasse esattamente il libro indicatogli, ma alla fine il suo amico riuscì nell'impresa.

Michael si sistemò con la schiena contro i cuscini, appoggiati alla testiera del letto. Sostituì gli appunti con il libro, aprendolo alla prima pagina, e colpì il materasso un paio di volte, facendo cenno a Johnny di sdraiarsi accanto a lui.

Johnny piantò i pugni sui fianchi. "Sì, certo" bofonchiò, "così me la prendo in culo pure io."

"Una volta ti piaceva ammalarti."

"Solo quando non volevo andare a scuola" ribatté lui ma, alla fine, si arrampicò comunque sul materasso, sdraiandosi sotto le coperte al calduccio.

Michael tirò il lenzuolo fin sotto al mento e si schiarì la gola, per quanto farlo gli desse fastidio.

"C'era una volta" cominciò a leggere, la voce più rauca e nasale di quanto fosse normalmente. "-Un re!, diranno subito i miei piccoli lettori."

Con la coda dell'occhio, vide le labbra di Johnny distendersi in un sorriso.

"-No, ragazzi, avete sbagliato."

Mentre Michael leggeva, Johnny gli andava dietro, recitando l'incipit a memoria. "-C'era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d'inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze..."

Era un loro piccolo segreto, uno di quelli che si sarebbero portati dietro fino alla tomba. Johnny, perlomeno: Michael non si faceva problemi a sfoggiare la passione che nutriva per le vecchie fiabe. Ma per Johnny ammettere che ancora amava ascoltarlo leggere Le Avventure di Pinocchio era un evidente attacco alla sua virilità. Poco male, comunque: se, da una parte, pensava che il suo amico non avesse alcun motivo per tenere nascosto al mondo il suo lato più docile, Michael adorava avere quella parte di Johnny tutta per sé. 

Ecco perché gli spezzava il cuore quando qualcuno -suo zio, soprattutto- faceva commenti poco carini su di lui: nessuno vedeva Johnny come lo vedeva Michael. Non perché non ne avessero l'occasione, ma perché non volevano nemmeno provarci. 

Quel pensiero gli fece venire in mente un'altra cosa. 

"Johnny" disse, interrompendo la lettura, "questo sarà il tuo primo Natale da quando sei tornato." 

Ecco perché era rimasto così estasiato dalle decorazioni che lo circondavano, quel pomeriggio. Avevano trascorso così tanti Natali insieme che Michael non aveva più pensato al fatto che il suo amico aveva trascorso quelli degli ultimi cinque anni... dove? A fare cosa? In licenza? A combattere? Sapeva ben poco di quello che aveva fatto Johnny in Vietnam: se capitava che gli raccontasse qualcosa, non scendeva mai nei particolari e lui cercava di evitare l'argomento il più possibile perché sapeva quanto ricordare gli facesse male. 

Johnny annuì, le labbra ancora sciolte in un caldo sorriso, gli occhi abbassati sul copriletto. "Già" rispose, "tra l'altro, non mi hai ancora dato nessuna idea su cosa vuoi ricevere quest'anno." 

"Non devi farmi nessun regalo." 

"Dicono tutti così, ma alla fine fa sempre piacere ricevere qualcosa che si desidera, no?" 

"Sono serio." 

Michael si tirò più su, voltando il busto per guardarlo meglio. "Non voglio niente. Mi importa solo che lo passiamo di nuovo insieme. Tu, piuttosto, che cosa ti piacerebbe? Ho questa sensazione che nei Marines non circolassero molti regali di Natale." 

"Ma perché stai sempre a pensare a me?" 

Johnny risollevò lo sguardo e i loro occhi s'incrociarono. "Me la cavo. E anche a me piacerebbe prendermi cura di te, ogni tanto." 

Era strano come Michael non avesse mai messo in conto quella possibilità. Gli era sempre venuto naturale essere premuroso nei confronti di Johnny, senza mai aspettarsi nulla in cambio. D'altronde, era normale che gli amici volessero prendersi cura l'uno dell'altro. Aprì la bocca per replicare in qualche modo, ma una serie di starnuti glielo impedì. Mentre si arrendeva a riutilizzare il fazzoletto che aveva precedentemente infilato sotto il cuscino, avvertì la mano di Johnny insinuarsi dolcemente tra i propri capelli ondulati, accarezzandogli con delicatezza la nuca. Il suo tocco era piacevolmente familiare, come se fino a quel momento a Michael fosse mancato un pezzo. 

"Dovresti dormire" mormorò Johnny, giocherellando con le sue ciocche scure. "Se vuoi, me ne vado." 

Michael si strofinò la punta del naso con il fazzoletto. "Oppure" replicò, "potresti fermarti qui." 

Improvvisamente, si sentiva come se rischiasse di perdere nuovamente il suo migliore amico da un momento all'altro. Come se vederlo uscire dalla porta di camera sua potesse rendere vera quella possibilità che aveva accarezzato così tante volte, negli ultimi cinque anni. 

"Ah, vuoi proprio che mi ammali, eh?" ridacchiò Johnny. 

Michael aveva come la sensazione che si fosse fatto più vicino. Sentì il libro di Pinocchio scivolargli via dalle gambe, liberandolo dal suo peso, e vide Johnny posarlo sulle proprie. 

Michael scivolò nuovamente sotto le coperte. Poggiò la testa sul cuscino, il fazzoletto premuto contro il naso, e con gli occhi chiusi rimase ad ascoltare la voce di Johnny che leggeva al posto suo. Non era proprio una cima, nella lettura: le parole gli uscivano poco scorrevoli e, a volte, ne sbagliava la pronuncia, eppure alle orecchie di Michael suonavano come una piacevole melodia che gli cullava il sonno. Finì senz'altro per addormentarsi all'improvviso perché, quando, ore dopo, si svegliò, Johnny aveva spento la luce e l'unica cosa che rischiarava la stanza era il lieve filtrare dei raggi della luna attraverso le tende. La gola di Michael era secca per via del respirare troppo con la bocca: aveva il naso tappato. 

Johnny si era sdraiato con la testa sul cuscino, ma era sveglio. 

"Non dormi?" bisbigliò Michael. 

Johnny alzò l'unica spalla che poteva sollevare. "Non ho molto sonno. Pensa a dormire tu. Io ti proteggo dai mostri nell'armadio." 

"Che stupido" borbottò Michael, ridacchiando. Chiuse gli occhi e questa volta si addormentò con la fronte contro il petto di Johnny. 
 

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ANGOLO AUTRICE 

SALVEEEEE!!!! Allora, questa è la mia nuova pazzia: una raccolta di one shot missing moments ispirata a Bridge Over Troubled Water. Tra l'altro, con l'avvicinarsi del Natale, sento una gran voglia di scrivere robine piene di fluff natalizio. Era un'idea che avevo già provato a sviluppare quando ho iniziato la raccolta su Johnny in Vietnam, ma visto che non sono più riuscita a portarla avanti ho deciso di accorpare le due cose. 

Questa storia è stata scritta per la Word War indetta dal Giardino di EFP in cui la mia carissima Ellie (alla quale è dedicata questa one shot) mi ha sfidato a scrivere una cosina fluff su Michael. A dirla tutta non sono sicura se sia fluff per Mike o per Johnny, fatto sta che mi sono seriamente sciolta a scriverla quindi GRAZIE per questa adorabile possibilità *-* Spero tanto che ti piaccia, non è una cosa particolarmente seria o scritta forbitamente, ho cercato di pubblicarla il prima possibile e, soprattutto, spero di aver eliminato tutti i refusi che sono riuscita a trovare. 

Se siete arrivati fino a qui, fatemi sapere cosa pensate di questa cosina, le recensioni sono sempre ben accette.

Ci vediamo al prossimo capitolo di Bridge Over Troubled Water, carissimi <3  

 

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