Nove Antonio giacevano sul pavimento, inermi. A tutti era
stato calato sugli occhi l’orlo del cappello rosso e il
pom-pon infilato in bocca. L’ultimo Antonio, ancora in piedi,
guardava il Ragazzino Dai Capelli Bianchi che, imbroccato il fucile di
uno dei soldatini di piombo, glielo puntava.
«P-perché non ne parliamo?»
Il Ragazzino Dai Capelli Bianchi continuò a puntare.
«Lo sai che quell’affare spara caramelle?
Perché non provi?» L’Antonio sorrise,
mostrando i denti neri. «Ecco, metti in bocca la canna e poi
spari.»
«Impossibile» rispose il ragazzino.
«La canna è troppo lunga perché riesca
a sparare, dopo averla messa in bocca.»
«Ah, sì… ?»
«Però tu puoi aprire la bocca e io posso
centrarla, ti va?»
«N-no! No! Io… ho tante carie, vedi? Non
posso mangiare caramelle.»
Il ragazzino alzò le spalle. «Ma
sì, che puoi.» Sparò.
La palla di piombo mancò l’Antonio e
colpì uno di quei pacchi regalo semoventi di passaggio,
causandone l’esplosione.
«Queste caramelle sono troppo dure»
stabilì il ragazzino, e gettò il fucile.
L’Antonio intanto indietreggiava. Perché
Rudolph si era assentato? Tutti i mocciosi erano scappati e adesso
quello vestito di blu stava facendo piazza pulita dei suoi colleghi.
«Ehi» disse il ragazzino dai capelli
bianchi. L’Antonio trasalì.
«C’è un bagno, da queste parti?
È da un’ora che la tengo.»
«Oh, ma certo che
c’è.» Ora l’Antonio sorrise.
Corse a raccogliere il Sacco Magico da terra e lo tenne aperto con le
braccia. «Qui dentro c’è un bagno con
tutti i comfort.»
«Scemo» replicò il ragazzino.
«So cosa fa quel coso. Mi ci avete chiuso prima. Non
è un bagno.»
L’Antonio rigettò il sacco.
«Okay, hai vinto. Seguimi. Ti ci porto.» Se lo
conduco da Rudolph, pensò, ti verrà data una
bella lezione, moccioso.
*
La figura incappucciata e Rudolph si trovavano in una stanzetta dalle
pareti colorate in cui aleggiava un forte odore di torta di mele.
Rudolph sedeva dietro un forziere chiuso che veniva adoperato come
scrivania, mentre la figura incappucciata stava in piedi davanti a una
sediolina rosa su cui avrebbe dovuto sedere. La cosa non gli andava.
Per questo stava concentrandosi sul forziere. Dubitava che Rudolph non
fosse in grado di reperire una scrivania e questo gli faceva pensare
che utilizzasse quel forziere per qualche motivo di fondo. Forse
custodiva qualcosa di importante. Ma tralasciando questo, il forziere
aveva un particolare bizzarro: gli occhi. Due palle nere grandi due
teste umane poste sugli angoli anteriori. All’interno delle
palle, un piccolo cerchio bianco. Occhi, pensava appunto la figura
incappucciata. Giurava di aver visto le pupille bianche muoversi in
loro direzione quando erano entrati.
«Mostrami ciò che hai portato»
disse Rudolph.
«Cosa ti fa pensare ti abbia portato
qualcosa?»
Rudolph sorrise. «Qualcosa è la parola
giusta. Devi aver portato qualcosa, che sia anche una piccola
informazione. Non mi aspetto nessuna visita di piacere da parte dei
Progo.»
Il piede dell’incappucciato si mosse veloce e
colpì un gambo della sediolina rosa, facendola cadere sullo
schienale. Scandendo bene le parole disse: «Non chiamarmi
Progo.»
«Come ti pare. Ma solleva la sedia, o Babbo Natale
s’incazza.»
La figura si chinò, riposizionò la sedia
e vi sedette sopra. Incrociò le gambe e fece un lungo
sospiro. Non avrebbe vomitato. Finora era stato bravo a ricacciare ogni
conato laddove era venuto.
«Ti parrà strano, ma tutto il mobilio
è suo» continuò Rudolph.
«Dico di Natale Babbo.»
«Spero di non incontrarlo mai» disse
l’incappucciato.
Rudolph schioccò la lingua.
«Perché?»
«Se ha un gusto così orribile in fatto di
mobilia, non credo di poterlo trovare interessante.»
«Be’», Rudolph sorrise e nel
mentre accarezzò la superficie del forziere-scrivania.
«Credo che ti sorprenderebbe sapere quanto gli sei
vicino.» La renna allargò il sorriso e
l’incappucciato giurò di vedere il nasone rosso
illuminarsi per un istante. «Non metaforicamente parlando,
bada.
«Comunque» continuò,
«escludendo le ciance e… quelle cose
lì, perché sei venuto?»
«C’è un motivo, hai
ragione» disse la figura. «Devo appunto mostrarti
qualcosa.»
Ancora, Rudolph sorrise. La figura quasi si aspettava che il
naso s’illuminasse ancora, cosa che non accadde. Quasi
dispiaciuta, la figura allungò una mano guantata sulla
scrivania e ne aprì il palmo rivolto al basso. La mano si
illuminò, quindi una sfera nera vi apparve al di sotto. La
figura alzò il braccio e la sfera rimase lì, ma
mutò. Si affusolò, poi allargò e
allungò, fino ad assumere l’aspetto di un sacco di
tela grigio.
L’incappucciato si addossò allo schienale
della sedia e incrociò le braccia.
«Aprilo» disse.
«Non so mica se posso fidarmi» disse
Rudolph.
La figura annuì. «A tuo rischio e
pericolo.» Sorrise. «Soddisfare o non soddisfare la
curiosità? Grande dilemma.»
«Già» fece Rudolph.
Accompagnò le parole col sollevamento e
l’abbassamento del naso. Stava allungando lo zoccolo in
direzione del sacco quando bussarono alla porta.
Ritraendo l’arto, irritato in volto, Rudolph disse:
«Chi è?»
«Signore!» Una voce roca e smussata.
«Signore! Sono Antonio numero… non ricordo che
numero mi ha dato, Signore!»
«Entra.»
La porta cigolò nell’aprirsi e un tipo
bassotto vestito di stracci somiglianti a un costume da Babbo Natale
fece il suo ingresso, seguito da un ragazzino dai capelli bianchi.
Rudolph si alzò. «Che diavolo ci fa un
bambino, qui?»
Il tizio basso si affrettò a chiudere la porta,
lanciando occhiate oblique al ragazzino, che muoveva le gambe veloce
come in preda a un attacco di vescica. Il tizio guardò la
renna. «S-signore, posso parlarle un attimo in
privato?»
Rudolph grugnì un assenso e fece cenno
all’Antonio di avvicinarsi. Quello eseguì,
sgattaiolando alle spalle del forziere-scrivania. Rudolph si
chinò un poco così che l’Antonio
potesse sussurrargli nell’orecchio. Quando ebbero finito, la
renna guardò il ragazzino.
«Un bagno» gli disse. «Hai
bisogno di un bagno, bimbo?»
«Non sono un bimbo!» urlò il
ragazzino, stringendo i pugni nel saltellare.
Rudolph sorrise. «Certo che no, non lo
sei.»
Il ragazzino sorrise, forse fiero che qualcuno riconoscesse in
lui un adulto. La renna gli si avvicinò e gli
posò uno zoccolo sulla spalla. Il bambino smise un attimo di
sgambettare, poi ricominciò. «Facciamo
così» gli disse Rudolph, tono di voce lento e
rassicurante, «io ti dico dov’è il bagno
se prima mi fai un favore. Come ti chiami?»
Il ragazzino lo guardò in tralice. Forse avrebbe
voluto fare una smorfia in reazione all’attesa prolungata, ma
la vescica non glielo permetteva. «Mi chiamo Ulteh.»
«Ulteh? Strano nome. Ma incisivo. Me lo
ricorderò.» Diede un paio di pacche sulla spalla
del bambino, fino a convincerlo di avvicinarsi alla scrivania, cosa che
fece a gambe strette. Rudolph allungò lo zoccolo puntando il
sacco che l’incappucciato aveva fatto apparire sul forziere.
«Lo vedi questo?»
Ulteh annuì.
«Ecco. Dentro c’è una cosa
molto bella, vuoi tirarla fuori?»
«Poi…» Ulteh
s’interruppe per stringere i denti. «Poi posso
andare in bagno? Non ce la faccio più. Se me la faccio
ancora addosso mia sorella mi ammazza.»
«Non solo» s’intromise la figura
incappucciata, e Rudolph le rivolse un’occhiata
interrogativa. «Non solo potrai andare in bagno, ma anche
tenerti la cosa che c’è là dentro. Nel
sacco.»
«Può?» domandò
Rudolph, poco convinto.
L’incappucciato annuì.
«Assolutamente. Se la sarà guadagnata.»
Sgambettata. «Perché mi regalate
qualcosa?»
Rudolph esitò, e fu l’incappucciato a
parlare. «Perché…» Si
alzò e andò alle spalle del ragazzino, per
cingergliele con le mani. «Perché questa
è la città del Natale, no? E se nemmeno alla
città del Natale ci sono regali per i bambini, allora dove?
Ora…» Sollevò il braccio del ragazzino
e lo posò sul sacco. «Apri.»
Ulteh esitò un poco. Guardava il sacco e
sgambettava. Sgambettava e guardava il sacco. La figura incappucciata
sperava che stesse facendo troppe cose in contemporanea
perché il cervello si potesse ancora permettere di pensare.
D’altronde era solo uno stupido ragazzino.
Si decise. Aprì il sacco e ne estrasse il
contenuto.
La figura si allontanò. Rudolph fece lo stesso, ma
si fermò a metà del primo passo e storse le
labbra artiodattili. Guardò la figura e inarcò le
folte ciglia. «Un cappello» disse, quasi schifato.
«Un cappello!»
«A forma di Poring» commentò
Ulteh, che il cappello lo aveva in mano. «Un Poring un
po’ malmesso. Grigio. Guardate che occhi!»
La figura, che aveva incrociato le braccia, disse:
«Si chiama Ghostring. È un particolare tipo di
Poring.»
«Almeno non è rosa» si
rallegrò Ulteh. «Lo voglio tenere!»
«Puoi farlo» acconsentì la
figura.
«Aspetta un secondo.» Rudolph
afferrò il polso della figura e la spinse a sé.
«Che storia è questa?»
La figura guardò la renna e portò il
dito indice della mano libera all’interno del cappuccio, come
a coprirsi il naso. «Shhh…»
Guardò Ulteh. «Perché non lo
provi?»
«Eh?»
«Mettitelo in testa.»
*
La scatola sollevò il coperchio e rivelò un
guantone da boxe. Lo spadaccino osservò la scena con fare
stranito, finché il guantone non sfrecciò in sua
direzione. Schivò scattando di lato, calò la
spada in diagonale e mozzò la molla collegata al guantone.
Finì per trafiggere il resto della scatola facendola
esplodere in un mare di coriandoli.
«Com’è possibile che esploda?
Io l’ho tagliata» disse lo spadaccino. Qualcosa di
metallico saettò a pochi centimetri dalla sua testa.
L’evitò all’ultimo momento.
L’arciera scoccò una freccia e bucò la
testa di un soldatino di piombo armato di fucile nascosto dietro un
marchingegno colorato. «Odio questo posto»
finì lo spadaccino.
«Io invece lo trovo adorabile»
commentò Dasher. «Insomma, lavorare qui
è meraviglioso. Ho sempre pensato che le pareti di questa
fabbrica fossero come le piante, ma che al posto
dell’ossigeno donassero positività.»
«La positività è molto meno
utile dell’ossigeno, a volte» disse lo spadaccino,
restio a riporre la spada.
«E comunque stanno facendo cilecca»
sbottò l’arciera. «Non mi sento positiva
manco per il cazzo. Dov’è mio fratello?»
«Ehi, lo sentite questo rumore?»
domandò la renna, curvando il muso come a rivolgere
l’orecchio all’alto.
Lo spadaccino le si avvicinò. «Quale
rumo—»
Si udiva qualcosa come passi. Passi numerosi e veloci.
Una decina di bambini schiamazzanti. In corsa.
Apparvero da dietro sofisticati marchingegni da catena di
montaggio. Si spintonavano l’un l’altro e urlavano
come pazzi. Ignorarono il gruppo di avventurieri e proseguirono
costeggiando il nastro trasportatore.
Dopo che l’ebbero pestato il piede,
l’arciera rosa fu svelta ad afferrare un bambino per il
colletto, bloccando la sua corsa. Questo si dimenò e
urlò aiuto ai compari, ma le sue parole si persero nel
marasma e in breve la folla si era dileguata.
«Lasciami andare!» urlò il
bambino.
«Prima dimmi che sta succedendo qui
dentro» replicò l’arciera.
«Succede che scappiamo!»
sbraitò il bambino, e si dimenò ancora, ma la
presa era salda. Sembrò notare solo allora la presenza della
renna Dasher, e la puntò contro il dito urlando:
«Ah!! È tornata! È tornata la renna!
Lasciami andare!»
La ragazza e lo spadaccino guardarono Dasher. La renna
alzò gli zoccoli e disse: «Non l’ho mai
visto.» Poi il viso sembrò illuminarglisi.
«Forse sta parlando di Rudolph!»
L’arciera puntò il bambino.
«Parli di Rudolph?»
Il bambino aggrottò la fronte.
«Chi?»
«Una renna» disse la renna,
«come me! Con la differenza che questa renna ha un naso
rosso!» Attimo d’interruzione. «Rosso e
luminoso.»
Il bambino smise di agitarsi e curvò il capo verso
destra, come pensieroso. «È vero. Tu non hai il
naso come lei.»
La renna si avvicinò al bambino, che la ragazza
rosa lasciò andare. «Sai
dov’è andata, quella renna?»
Il bambino esitò, poi si volse e puntò
qualcosa a nord. «Si è allontanato con un tizio
incappucciato. Sono andati di là.»
«Allontanato?» domandò la
ragazza. «Quando? Perché? Cosa stava
facendo?»
«Ma quante domande fai?»
Lo spadaccino disse: «Basta così,
chiariremo con Rudolph stesso ciò che è accaduto,
che ne dite? Sappiamo dov’è. Più o
meno.»
«A nord» disse Dasher,
«c’è l’ufficio di Babbo
Natale. O per lo meno quello che una volta era l’ufficio di
Babbo Natale. Dev’essere là.»
La ragazza rosa mise le mani ai lati della testa del bambino e
lo obbligò a guardarla. «Mi serve sapere
un’ultima cosa.»
«Lasciami!»
La ragazza eseguì, poi: «Che ne sai di un
ragazzino coi capelli bianchi? Era con voi?»
Il bambino sorrise e fece un saltello.
«Sì! È stato lui a liberarci!»
«Liberarvi?»
«Dopo un po’ che la renna e quel tipo se
ne sono andati non ce la faceva più a stare legato,
così ha spezzato la corda e si è messo a
picchiare i finti babbi natale!»
«Gli Antonio!» esclamò Dasher.
«Gli Antoni, sì»
annuì il bambino, con decisione. «Li ha picchiati
per bene, poi ci ha liberati e ha detto: fuggite, sciocchi! Poi sapete
che è successo?»
«Gli sciocchi sono fuggiti?»
domandò lo spadaccino.
«Siamo fuggiti!» finì.
«Puoi andare» disse la ragazza, e il
bambino fuggì senza farselo ripetere. «Quindi mio
fratello non è con Rudolph.»
Lo spadaccino annuì. «Si direbbe di no,
se lui si era allontanato.»
«Quindi andare da Rudolph sarebbe una perdita di
tempo.» La ragazza guardò Dasher.
«Non del tutto vero» disse lo spadaccino.
«Conosci il moccioso. È forte. Si è
anche liberato da solo degli scagnozzi di quel tizio, quindi possiamo
anche lasciarlo perdere per un attimo e dedicarci alla
missione.»
La ragazza rimase in silenzio un poco. «Ci servono
davvero, quei soldi?»
«Oh, sì. Sai anche per cosa.»
Lo spadaccino guardò la renna. «Quanti hai detto
che ce ne dai?»
«Parecchi!»
Lo spadaccino sorrise. Guardò la ragazza.
«Parecchi, senti? D’altronde lavora per Babbo
Natale.»
«E Babbo Natale lavora un solo giorno
l’anno. Per di più senza paga.»
«Non ci avevo pensato.»
La renna agitò le zampe. «Ehi, ehi, ehi!
Chi pensate che fornisca giocattoli e dolciumi a tutto il
continente?» Puntò il soffitto. «Questa
fabbrica! E la fabbrica, di chi è?»
«Babbo Natale.» Lo spadaccino sorrise.
E l’arciera sbuffò. «E va bene.
Andiamo a sistemare quel lume con gli zoccoli. Ma dopo cerchiamo mio
fratello.»