Beyond Our Disguises

di _Princess_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Black Norway ***
Capitolo 2: *** Butterfly Caught ***
Capitolo 3: *** One Day In Your Life ***
Capitolo 4: *** Break Away ***
Capitolo 5: *** Bleib ***



Capitolo 1
*** Black Norway ***








Touch me
Take me to that other place
Reach me
I know I'm not a hopeless case
What you don't have, you don't need it now
What you don't know, you can feel it somehow
What you don't have, you don't need it now
Don't need it now

(Beautiful Day, U2)

 

***

 

Tom era stanchissimo. Il viaggio da Amburgo a Berlino era stato tranquillo e tutto sommato anche abbastanza indolore, ma lo aveva distrutto lo stesso.

Aveva pensato bene di inaugurare l’arrivo nella capitale provocando a Benjamin una bella incazzatura con una sequela di lamentele e imprecazioni non esattamente eleganti, guadagnandosi così una bella strigliata inerente il comportamento da tenere in presenza di persone esterne allo staff e le varie conseguenze. A coronare il tutto, c’era stato anche il pessimo umore di Bill, causato da nessuno sapeva bene cosa, che aveva messo addosso a Tom un’ulteriore dose di stress non richiesto. Si preoccupava sempre quando Bill aveva la luna di traverso.

Passeggiava a vuoto nella propria suite al quinto piano dell’hotel, una lattina di birra in mano e il cellulare nell’altra per ripassare gli appuntamenti che lo aspettavano nei prossimi giorni. Decisamente troppi, per i suoi gusti.

Erano le undici passate e fuori il cielo era di un blu scuro senza stelle, lambito lontano all’orizzonte dalle ultime sfumature schiarite dai raggi del sole ormai tramontato da un pezzo. Nevrotico com’era, Tom sentiva che se non avesse fatto quattro passi all’aria aperta sarebbe impazzito. Uscire era fuori discussione. Non voleva rischiare l’incolumità, e portarsi dietro una guardia del corpo sarebbe stato imbarazzante, visto il suo stato esagitato. Aveva bisogno solo di rilassarsi.

Decise che come compromesso si sarebbe fatto quattro passi dentro all’hotel. Era la prima volta che alloggiavano lì e sembrava un posto carino. Avrebbe fatto un giro di perlustrazione casuale, tanto per sgranchirsi le gambe e fare qualcosa, e poi gli sarebbe toccato tornare in camera e cercare di prendere sonno sopra quell’impossibile materasso marmoreo.

Vuotò la lattina di birra in un sorso e la abbandonò sul tavolino del salotto, poi ne prese un’altra dal frigobar e, risoluto, afferrò la tessera magnetica e uscì.

I corridoi dell’albergo erano letteralmente deserti. Scendere nella hall sarebbe stata un’idea poco intelligente: avrebbe potuto trovare Benjamin e qualcun altro al piano bar e proprio non gli andava di rischiare qualche altra ramanzina. Senza un perché, prese l’ascensore e selezionò l’ultimo piano. Quando le due porte si spalancarono davanti a lui, Tom si ritrovò in un piano meno sontuoso degli altri, con i pavimenti coperti di piastrelle anziché di moquette e le pareti prive di quadri, ma in compenso dotate di anonima lampade al neon, di quelle che restavano accese anche in assenza di corrente.

In fondo al corridoio, stretto e corto, Tom notò che c’era una porta blindata con un maniglione antipanico, con sopra affisso un cartello che diceva ‘Divieto d’accesso’. Lo fissò per qualche secondo, indeciso sul da farsi, poi, infilandosi le mani nelle tasche della felpa, si avvicinò.

Un ragazzo qualunque dotato di un minimo di buonsenso ci avrebbe pensato due volte prima di aprire una porta che era vietato usare, salvo in condizioni di emergenza, ma Tom si disse che non c’era niente di male a sfruttarla per una buona causa. In fondo la sua era in qualche modo un’emergenza.

Senza togliere le mani di tasca, sollevò un ginocchio e spinse contro la barra, accorgendosi che in realtà la porta era già aperta; la spalancò e si ritrovò di fronte a un vasto spiazzo di cemento recintato da una ringhiera in ferro battuto piuttosto spartana. Uscì, lasciando la provvidenziale lattina ancora chiusa a terra, per impedire che la porta si chiudesse. Avrebbe dovuto rinunciare alla seconda razione di alcol, ma se non altro non se ne sarebbe rimasto chiuso fuori all’addiaccio tutta la notte.

Respirò volentieri e a pieni polmoni l’aria frizzante della notte. Era quello che gli ci voleva per il senso di spossatezza che non gli dava tregua. Si accese una sigaretta e si stiracchiò un po’, guardandosi intorno. L’ingresso al tetto era una specie di cubo situato nel mezzo di un enorme quadrato che correva tutto intorno. Aveva appena girato sui tacchi per andare a vedere cosa c’era sull’altro lato, quando collise con qualcosa di morbido, che si lasciò sfuggire un’imprecazione che lui non comprese.

Dopo il primo attimo di smarrimento, arretrò di un passo, mettendo a fuoco una figura alla luce della luna piena: si trattava di una ragazza, o così sembrava. Era alta una spanna buona meno di lui, con una folta chioma di ondulati capelli di un innaturale rosso vermiglio. Portava una strana gonna viola a balze e un’assurda felpa rosa fluorescente, ma Tom non riusciva a vederle il viso, perché era china sui propri piedi, apparentemente paralizzata.

Tom guardò in giù e capì cosa non andava: su uno dei due anfibi che lei portava era finito un mucchietto di ceneri incandescenti che non poteva che provenire dalla sigaretta che lui stava fumando. Sotto alla cenere, la pelle nera era visibilmente bruciacchiata.

“Oh, scheisse!” esclamò, dispiaciuto. Non si era proprio aspettato che ci fosse qualcun altro, anche se, pensandoci, la porta aperta avrebbe dovuto dirgli qualcosa. “Entschuldigung!” (“Oh, merda! Scusami!”)

“Maledizione!” imprecò lei, con una voce da ragazzina. Parlava inglese. Forse non era tedesca. Tom si adeguò, pregando di non fare figuracce con la transizione linguistica:

“Scusa, non ti avevo proprio vista!”

“Oh, grandioso!” brontolò la sconosciuta, sfregando febbrilmente la bruciatura. Tom notò che aveva una scritta disegnata a caratteri svolazzanti sul polso destro. “Due settimane di attesa, ordine diretto dagli Stati Uniti, l’ultimo paio del mio numero, centodieci euro! Li avevo da solo una settimana, e sono rovinati!” Si tirò su e piantò due fiammeggianti occhi scuri su di lui. “Ma che cos’hai in quel maledetto cervello bacato?!”

Tom si strinse nelle spalle, intimidito. Che caratterino che aveva, quella…

“Scusami. Stavo –”

“La vuoi piantare di scusarti?” sbottò lei, scalciando a vuoto con il piede per eliminare gli ultimi residui di cenere. “Fino a due volte va bene, a tre diventa irritante.”

“Scu– Ehm… D’accordo.”

“Si può sapere cosa ci fai quassù?” lo interrogò la tizia. A guardarla meglio, Tom notò che doveva essere poco più grande di lui. “C’è scritto ‘Divieto d’accesso’.”

“Potrei fare a te la stessa domanda.”

Lei scrollò semplicemente le spalle.

“Riflettevo.”

“Riflettevi tipo ‘Mi butto o non mi butto?’ o tipo ‘Cosa mangio stasera?’”

“Una via di mezzo.” Rispose lei, sedendosi a terra, la schiena contro il muro. “E tu?”

Tom la imitò.

“Una via di mezzo tendente alla prima opzione.” Rispose, sistemandosi accanto a lei, una volta appurato che non lo avrebbe squartato vivo per via dell’incidente. Sembrava essersi calmata.

“Ma non mi dire. Perché ti dovresti buttare?”

“Ma tu lo sai chi sono io?”

Lei inarcò un sopracciglio in modo irritante, imbronciando leggermente le labbra, coperte da un vistoso velo di rossetto scarlatto.

“Volevo evitare la parte in cui io strillo il tuo nome stramazzandoti adorante ai piedi e tu scappi a gambe levate,” gli confidò in tono annoiato. “Ma visto che ci tieni… Ciao, Tom Kaulitz.”

Tom era sinceramente perplesso e quella ragazza era decisamente strana. Strana non solo nel modo di vestirsi e di porsi. Era proprio strana. Strana e basta.

“Ciao… ehm…?”

“Ah, giusto,” sbuffò lei. “Suppongo che tu non sappia chi sono io.”

A dire la verità non era proprio così. Sebbene fosse assurdo, Tom aveva la sensazione di conoscerla.

“Non vorrei dire cazzate, ma hai un’aria inspiegabilmente familiare. Sono sicuro di averti già vista.”

“Vediamo se con questa mi riconosci.” Disse la ragazza. Tirò fuori una mascherina di pizzo nero – dal nulla, o così parve a Tom – e se la mise davanti agli occhi.

Improvvisamente Tom ricordò dove l’aveva già vista: su dei cartelloni pubblicitari che promuovevano una saga di libri fantasy che stava spopolando da un paio d’anni a quella parte. Aveva anche sentito parlare di lei, da qualche parte.

“Sei la scrittrice! Quella tizia belga che ha scritto quei libri sui vampiri!”

“Sono olandese, veramente,” lo corresse lei, asciutta. “E non scrivo di vampiri, ma di lupi mannari.”

“Mi sfugge il tuo nome.”

“Norja Schwartz.” Gli porse la mano senza troppa convinzione. “Incantata.”

Tom si trattenne a stento dal ridere. Nome bizzarro. Probabilmente era un nome d’arte.

“Quella te la puoi togliere, adesso.” Le disse, accennando alla maschera.

“Sì, scusami.” Norja si tolse la maschera e se la mise in tasca. “Sono talmente abituata a portarla che non ci faccio più caso.”

Era carina, tutto sommato. Non possedeva quella che si poteva definire una bellezza convenzionale, ma era attraente. I suoi lineamenti avevano un che di orientale – occhi allungati e neri, naso piccolo e poco sporgente, labbra fini, viso triangolare – e nonostante la scarsa statura, sembrava piacevolmente proporzionata.

Rimasero in silenzio per lunghi secondi, entrambi guardando la città che brillava nel buio.

Tom trovava la situazione ai limiti del surreale: era sul tetto di un hotel, di notte, seduto per terra con un’alquanto estrosa scrittrice di fama che a quanto pareva aveva un’idea abbastanza precisa di chi lui fosse e che tuttavia non dava segni di isteria o collassi imminenti. Tutto sommato la cosa poteva avere qualche suo potenziale positivo.

“Me la togli una curiosità?” le chiese a un tratto.

“No.”

“Perché ti nascondi dietro a una maschera?”

Norja gli appioppò un’occhiata omicida:

“Sbaglio o avevo detto di no?”

“Ero solo curioso.” Si difese Tom. “A dirti la verità, penso che sia una mossa astuta. Potendo tornare indietro, lo farei anch’io.”

“Nasconderti dietro a una maschera?”

“E cambiare nome.”

Norja batté interrogativamente le ciglia.

“Dai, è ovvio che non può essere il tuo vero nome.” Disse Tom. “Ha un significato particolare?”

Lei parve soppesare la domanda, come se stesse decidendo se degnalo o meno di una risposta.

“Schwartz come nero, il mio colore preferito,” disse infine. “Ma dubito ti servano delucidazioni in merito. Norja significa Norvegia in finlandese, un paese e una lingua che adoro.”

“Sei proprio fantasiosa.” Commentò Tom, increspando la fronte.

“Ti concedi un po’ troppo sarcasmo per conoscermi da solo due minuti, ragazzino.”

“Ragazzino a chi?”

“Vedi qualcun altro qui a cui io mi possa rivolgere?”

“Perché, quanti anni hai tu?”

“Più di te.”

“Quanti?” insisté Tom. A occhio e croce gliene dava ventitré, massimo ventiquattro. Non poteva avere più di un paio d’anni più di lui.

“Sei un bel cafone!” si indignò lei. “Non ti hanno mai detto che non si chiede l’età ad una signora?”

“Vestita così mi sembri tutto fuorché una signora. E comunque hai cominciato tu.”

Norja sostenne il suo sguardo di sfida, ma alla fine cedette:

“Venticinque anni da compiere in autunno. Contento?”

“Allora non sei vecchia come sembri.”

“Riporto alla tua attenzione il commento sugli eccessi di sarcasmo.”

“Hai Tom Kaulitz qui con te, non puoi soprassedere sul sarcasmo?”

“Cosa ti fa pensare che avere qui Tom Kaulitz sia tanto diverso da avere qui Pinco Pallino?”

“Non farmi ridere!” ribatté lui. “Hai una french manicure nera alle unghie, la scritta Heilig tatuata sul polso e….” Tom finse di scrutare attentamente il suo sguardo. “Oh, guarda! Nei tuoi occhi c’è scritto ‘I love Tokio Hotel’!”

Un impercettibile  fremito solleticò che labbra di Norja, ma lei non si lasciò scappare il sorriso che Tom aveva già intuito.

“Continuo a sostenere che ti stai prendendo un po’ troppa confidenza.” Lo rimproverò, ma questa volta c’era un inconfondibile nota di vivacità nel suo tono.

“Guarda che non ho mica intenzione di saltarti addosso e violentarti.” La rassicurò. “Non sei nemmeno il mio tipo.”

“Ti mette a disagio parlare con ragazze che riescono a dialogare con te anziché sbavarti addosso?”

“Come siamo acide… Prova a fare sesso, ogni tanto, aiuta molto contro lo stress.”

Norja si avvolse le ginocchia con le braccia e lo fissò con un’espressione inquisitoria

“Sei esattamente come ho sempre immaginato che fossi.”

Tom sfoderò un sorriso seducente.

“Bellissimo e irresistibile?”

“Un impostore.”

Tom si sentì personalmente offeso. Forse non era un campione di spontaneità, in pubblico, ma non poteva accettare di farsi dare dell’impostore.

“Tu mi odi.” La accusò, mettendo il muso.

“Cosa te lo fa pensare?” domandò lei con assoluta innocenza, ma c’era una vaga sfumatura di rosa sulle sue guance candide che diceva a Tom che la sua non era un’ipotesi poi così campata per aria.

“Perché?”

“Perché cosa?”

“Perché mi odi?”

Il rossore sulle guance di Norja si intensificò.

“Non è vero che ti odio. Non ti conosco nemmeno”

“Vuoi farmi credere che sei così scontrosa con tutte le celebrità che incontri?”

“Sì.”

“Chissà che toccasana per la tua immagine pubblica!”

“Sempre meglio che andare in giro a raccontare patetiche balle monumentali sulla propria vita sessuale.”

Tom emise un debole rantolo frustrato. Ma perché le donne volevano a tutti costi disintegrare la sua autostima?

“Questa si chiama offesa gratuita.” Si lamentò, incrociando capricciosamente braccia e gambe.

“Te la sei cercata.” Sostenne Norja. Aveva lo sguardo perso nel vuoto davanti a loro, pensoso.

“Stai ancora riflettendo sul ‘mi butto o non mi butto?’, per caso?”

“No, perché?”

“Ti avrei volentieri dato una mano a scavalcare la ringhiera.”

Norja si lasciò finalmente andare in una risata divertita.

“Suppongo di doverlo considerare un gesto di premura.”

“Certo!” Tom era soddisfatto di essere finalmente riuscito a smuoverla da quel suo fastidioso atteggiamento distaccato. “Io odio quando nei film c’è sempre qualche idiota con manie di eroismo che tenta di far cambiare idea all’aspirante suicida. ‘Avanti, va tutto bene, dammi la mano!’… Insomma, lasciatelo in pace! Ci sarà qualche valido motivo se quel poveretto vuole saltare, no?”

Norja rise di nuovo, con più discrezione. Aveva una risata buffa, ma gradevole. Se non altro non sembrava una gallina su di giri.

Era stata una buona idea, in fin dei conti, optare per una passeggiatina notturna. E poi, doveva riconoscerlo, era rilassante dialogare con quella ragazza.

“Cosa c’è giù ad aspettarti?”

Tom cascò dalle nuvole.

“Come, scusa?”

“Giù di sotto.” Specificò Norja. “Cosa ti aspetta, uscito di qui? Sei qui da un quarto d’ora a scambiare carinerie con una che è ovvio che non sopporti, o sopporti a stento… Da cos’è che stai scappando?”

Tom spense il mozzicone di sigaretta contro il cemento del suolo, lasciandolo poi cadere.

“Da un manager incazzato nero, un letto scomodo e un fratello con la sindrome premestruale.”

“Ah, brutta, quella!” esclamò Norja, comprensiva. “Te lo dice una che ce l’ha trecentosessantacinque giorni all’anno.”

Tom rise.

“Immagino che vita facile avrà il tuo ragazzo.”

“Non ce l’ho.” Ammise Norja, sollevando le spalle.

“Ah no?” Tom era stupito. Per qualche motivo aveva dato per scontato che fosse impegnata. “Come mai?”

“Che c’è?” fece lei, sulla difensiva. “È obbligatorio essere accoppiati? Da quando serve una scusa per essere single?”

“Come sei permalosa! Ero semplicemente sorpreso, tutto qui.”

“Il mio ultimo, delizioso ragazzo mi ha lasciata un anno fa per una bionda del suo corso di dottorato.” Gli raccontò lei, atona.

“Simpatico.”

“Bene,” Norja si alzò in piedi, si tirò su le maniche della felpa con un gesto sgraziato e si avvicinò al parapetto, guardando in giù. “Ora che mi hai fatto rivangare questi bellissimi ricordi, credo di non avere più bisogno di riflettere sul ‘mi butto o non mi butto?’.”

“Bitte, spring nicht!” la pregò Tom, ridendo, senza nemmeno alzarsi a sua volta.

Norja si voltò, le mani appoggiate alla ringhiera, e sollevò un sopracciglio:

“Come sarebbe a dire ‘Spring nicht’? Fino a due minuti fa volevi buttarmi giù tu!”

Tom finalmente si decise a tirarsi su e la raggiunse. In lontananza riuscivano a vedere la Porta di Brandeburgo, illuminata da potenti riflettori.

“È che mi sono appena reso conto che c’è la terrazza della mia suite, da questa parte.” Le rivelò, indicando il grande balcone che sporgeva un qualche metro sotto di loro. “Se cortesemente tu volessi buttarti dall’altro lato, potresti comodamente sfracellarti sulla terrazza della suite di Georg.”

Una folata di vento scompigliò i capelli di Norja mentre lei sollevava le braccia sopra la testa e si stiracchiava.

“Penso che andrò a buttarmi nel mio letto prima che accada l’irreparabile.” Dichiarò.

“Cioè prima che ci finisca io sfracellato sulla terrazza di Georg?” indovinò Tom.

“Prima che io mi innamori della tua brillante prontezza di spirito.” Rispose lei, e lui non capì se fosse seria o meno. Probabilmente no. “Ti facevo meno sveglio, lo ammetto.”

“E te ne vai così?” protestò lui, mentre lei già gli dava le spalle per dirigersi alla porta. La vide fermarsi a metà strada e girarsi:

“Volevi un bacio della buonanotte?”

Tom sollevò entrambe le mani e scosse la testa.

“Oh, no, grazie. Il tuo rossetto si intona male con questa maglietta.” Azzardò una fugace ammiccata, che lei accolse volgendo pazientemente gli occhi al cielo. “Magari la prossima volta, con un rossetto diverso o una maglietta diversa.”

“O senza rossetto.” Suggerì lei.

“O senza maglietta.” Le fece eco lui, soave.

Norja rimase ferma dov’era per un po’, la gonna e i capelli che ondeggiavano ad ogni alito di vento. Lo scrutava in modo insolito, a metà strada tra il sospetto e il compiacimento. Forse non le stava poi così antipatico come credeva lui.

“Buonanotte, Tom Kaulitz.” gli augurò alla fine, avvolgendosi con le sue stesse braccia, poi raggiunse la porta.

“Buonanotte, Norvegia Nera.” Le disse Tom, appena prima che lei entrasse. Norja si voltò di nuovo, gli mostrò la lingua e poi sparì oltre la sua visuale.

Tom rimase lì, appoggiato con i gomiti alla ringhiera, faticando a capacitarsi di quanto era appena successo.

Aveva davvero passato mezzora a chiacchierare di insensatezze con una perfetta sconosciuta? Ed era possibile che quella stessa chiacchierata, durante il quale era stato maltrattato come raramente in vita sua gli era capitato, gli fosse piaciuta?

Scosse la testa, incredulo. Non le aveva nemmeno chiesto quanto a lungo sarebbe rimasta lì.

Ridacchiando fra sé, andò a recuperare la lattina di birra e rimase a bersela lì sulla soglia. Se non altro il malumore gli era passato.

 

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Note: so che per voi questa storia sarà una sorpresa, ma in realtà lo è stata anche per me! XD

Qualche giorno fa Lady Vibeke mi ha parlato di quest’idea che aveva per una storia in stile commedia, e mi è piaciuta subito, ma siccome lei sostiene di non avere tempo e ispirazione per scriverla, le ho chiesto se potevo “adottarla” e scriverla io. Dato che ho gentilmente avuto il permesso, eccomi qui!

Come sempre, il capitolo introduttivo è un po’ breve, ma gli altri saranno più lunghi. Vi devo premettere che si tratta di una storia molto, molto diversa da Lullaby For Emily e The Truth Beneath The Rose. È una ff completamente a sé stante, da leggere senza gli impegni profondi e psicologici delle altre mie creature. È una commedia scritta per sorridere e ridere, senza impegni, scritta anche in modo molto più leggero, diverso dal mio solito stile. Spero comunque che potrete apprezzarla lo stesso. ^^ Non sarà lunghissima, cinque o sei capitoli al massimo, quindi non aspettatevi chissà che. ;)

Per ora spero che abbiate gradito la lettura e che la troviate meritevole di un commento. ^^

Alla prossima!

P.S. grazie di cuore a Lady Vibeke per avermi fatto l'immagine di presentazione della storia e a Irina_89 per avermi aiutata a spulciare la rete alla ricerca di innagini che somigliassero a Norja! ;)

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Capitolo 2
*** Butterfly Caught ***


Norja aveva dormito poco e male. Aveva passato la maggior parte della notte rigirandosi nel letto a maledire il destino per aver deciso di trascinare Tom Kaulitz su quel tetto proprio quel giorno, a quell’ora, in quel preciso istante.

Aveva il serio terrore che non sarebbe più riuscita a prendere sonno per il resto della vita.

Aveva incontrato Tom Kaulitz. Sul tetto del Ritz. Nel cuore della notte.

Se le ricordava ancora le lunghe ore che non molti anni prima aveva passato a fissare i poster dei Tokio Hotel sui muri della sua stanza, soffermandosi spesso su quello che all’epoca era stato il ragazzino con i rasta e il sorriso ammiccante. Quello in cui lei si era imbattuta sul tetto, però, non era quella stessa persona. Quello che aveva visto, sollevando gli occhi, era un uomo fatto – ancora acerbo, ma pur sempre un uomo – che non aveva quasi più niente del ragazzo che lei si era abituata a conoscere per vie indirette.

Aveva avuto paura, d’istinto, perché si era vista crollare davanti quella che forse era stata la barriera più spessa, pesante e odiata della sua vita, e vederla sparire così all’improvviso l’aveva precipitata in un indesiderato vortice di confusione.

Anche se dall’esterno il suo shock doveva essere parso brevissimo o addirittura inesistente, lei, in quel microsecondo, si era sentita spazzata via dal senso di smarrimento dovuto a quel surreale incontro.

Le era capitato di incontrare altre celebrità, da quando era diventata famosa, e se l’era brillantemente cavata con tutti.

Con Tom Kaulitz, tuttavia, la faccenda era abissalmente diversa.

Con un sospiro nervoso, Norja si riempì una tazza di avena e un’altra di gelatina di lamponi. Non aveva trovato dei pancakes in tutto il buffet. Si chiedeva come avrebbe fatto a sopravvivere alla giornata senza una dose massiccia di zuccheri e carboidrati. Alla fine le toccò ripiegare su pane e marmellata.

Un paio di signore la guardarono male mentre passava loro accanto, probabilmente a causa della tuta non esattamente chic che indossava, ma lei non si fece toccare. Il comfort prima di tutto, appena poteva.

Stava andando verso il tavolo dei tostapane, quando avvertì una presenza alle proprie spalle. Stava già per voltarsi e propinare a Julian qualche battutina sulle levatacce mattutine, quando si rese conto che la persona dietro di lei era decisamente più alta e ingombrante del suo Julian.

Un terribile presentimento le gelò la schiena.

“Buongiorno, Norvegia!” esclamò una pimpante vivace voce maschile. E si dava il caso che lei quella voce la conoscesse fin troppo bene.

Dio, no!, piagnucolò con se stessa, strizzando gli occhi. No, no, no, no! Chiunque, ma non lui!

“Non mi saluti?”

Che qualcuno mi salvi!, pregò Norja, mentre si costringeva a voltarsi. Salvatemi, per favore!

E invece nessuno la salvò, perché lui era lì, Tom Kaulitz in carne – tanta, succulenta, muscolosa carne – e ossa, e le sorrideva in modo molto perfidamente seducente.

Oh, dio…

“Buongiorno a te, spina nel fianco.” Lo salutò, con tutto il contegno e l’indifferenza di cui era capace, cercando di ignorare il fatto che la gelatina di lamponi sembrava essersi trasferita immantinente dentro alle sue ginocchia. “Noto con piacere che porti una maglietta.”

Tom allungò una mano oltre lei, sfiorandole inavvertitamente il fianco, per prendersi un piatto.

“E io noto con dispiacere che porti ancora lo stesso rossetto di ieri sera.” Osservò, servendosi di qualche fetta di pancarré. “Che colore è, rosso meretrice?”

I delicatissimi nervi di Norja fremettero pericolosamente sotto alla sua pelle.

Brutto, disgustoso, insolente idiota!

“Rosso sangue di rompipalle.” Gli rispose, tentando uno scatto verso l’angolo più appartato del salone da pranzo.

“Oh, carino!” cinguettò Tom, tallonandola, raccogliendo cose a caso dal buffet. “Te lo sei fatta fare su misura?”

Anni e anni di corsa dietro alle gonnelle – e probabilmente anche un bel po’ di palestra, a giudicare dalla mercanzia che esibiva sotto a quei tendoni canadesi che si ostinava a voler far passare per magliette – dovevano aver giovato alle sue capacità di velocista.

Norja posò il vassoio che reggeva sul tavolo libero più vicino e lo fulminò con un’occhiata omicida:

“No. Appena alzata, esco e prendo a morsi il primo rompipalle che trovo.”

“Molto ecologico.” Approvò lui, appoggiando il vassoio accanto a quello di lei. “Ma come la mettiamo con HIV e AIDS?”

“Ho dei test istantanei sempre in tasca.”

“Proprio organizzata! L’antirabica ce l’hai?”

Norja scostò bruscamente la sedia e si sedette, le mani che le prudevano.

“No.”

Per niente scoraggiato dai segnali di chiara ostilità che gli venivano lanciati, Tom afferrò la sedia che stava di fronte a lei.

Hey, hey, che cosa credi di fare?, protestò la mente di Norja, in panico. Nessuno ti ha dato il permesso di –

Ma Tom si era già seduto.

“E che succede se per sbaglio ti mordi la lingua?” le chiese.

Lei sollevò un sopracciglio.

“Sono sopravvissuta a più di cinque minuti a stretto contatto con te. Penso di essere diventata immune a malattie che ancora non sono state scoperte.”

“Ammiro la tua spiccata vivacità linguistica. Dovresti fare la scrittrice!”

“Oh, grazie! Sai, anch’io quando ti vedo nei vostri video mi dico: ‘Che bravo! Dovrebbe mettersi a suonare!’.”

Pieno di dignità, Tom infilzò una salsiccia con la forchetta e ne tagliò un boccone.

“Me li dai un paio di minuti per concentrarmi su una risata spontanea?” le domandò, portandosi la forchetta alla bocca.

“Te ne concedo uno.”

Tom finse di concentrarsi per qualche secondo, poi sbuffò.

“Mi arrendo.”

“Oh, che bellezza!” gioì Norja, speranzosa. “Te ne vai?”

“No che non me ne vado,” ribatté Tom, in tono odiosamente rassicurante, come se lei avesse temuto che lui la lasciasse in pace. “Non vedi che ho preso la colazione?”

“A proposito, da quando in qua voi divinità olimpiche vi mescolate ai comuni mortali per la colazione?”

Tom sollevò le spalle.

Norja si domandò come si potesse trasudare sensualità anche da un movimento casuale e svogliato come quello, ma si costrinse a ritirare la mandria di ormoni nell’ormonile prima che potessero scavalcare il recinto della decenza e dilagare incontrollatamente nelle sue vene.

“Così. Mi sono svegliato presto e sono venuto a vedere cosa offriva la mensa della plebe.”

“Ero convinta che per te svegliarsi presto significasse essere buttati giù dal letto alle quattro del pomeriggio.”

“Voi fans la dovete smettere di prendere per oro colato le nostre interviste,” bofonchiò lui, masticando grossolanamente una cucchiaiata di cornflakes. “Soprattutto un’attempata come te dovrebbe saperlo meglio delle bambine.”

Norja, nel frattempo, si ingozzava di pane e marmellata, cercando di non guardarlo, o di farlo il meno possibile.

È sexy anche quando mastica cornflakes a bocca piena mentre parla. Questa me la devono spiegare.

“Guarda che l’epoca in cui mi bevevo ogni singola sillaba che usciva dalle vostre bocche come ambrosia è passata da un pezzo.”

“Per caso c’erano ancora i dinosauri?”

Norja sentì una vena sulla propria tempia pulsare di irritazione. Poteva anche essere bello da far vomitare, ma di questo passo le avrebbe causato un esaurimento entro un minuto.
“Senti, ma perché non vai a importunare qualcun altro?” gli suggerì cordialmente. “Io ho un’intervista tra due ore e una sessione di autografi più comparsata a RTL nel pomeriggio, e onestamente iniziare la giornata con la tua presenza importuna non è la cosa più salutare per i miei nervi.”

“Vieni a parlare a me di interviste, sessioni di autografi, nervi delicati e presenze importune?”

“Mica ti sono venuta a cercare io.”

Tom tracannò il suo bicchiere di spremuta d’arancia in un fiato e le rivolse una spietata occhiatina angelica.

“Dai, Svezia, volevo solo fare due chiacchiere!”

Qualche valvola del cuore di Norja parve scoppiare. Era un metro e novanta di sex appeal e libidine, ma in qualche oscura maniera gli riusciva bene anche la parte del cerbiatto dall’occhio tenero.

“Le due chiacchiere sono finite settemilacinquecentottantatré chiacchiere fa.” Sbottò, inforcando una badilata di pappa d’avena e ficcandosela in bocca con rabbia.

Perché a me? Perché a me, schiere celesti?

“Lo vedi che mi odi?” protestò Tom.

Norja si sarebbe premurata di strozzarlo personalmente, se solo il suo collo non fosse stato così delittuosamente armonioso e mascolino. Le sue mani erano troppo piccole per quel tipo di omicidio.

“Ti ho detto che non ti odio!”

“E allora perché mi tratti male?”

“Ti tratto come tratto chiunque minacci la mia tranquillità!” sbraitò lei, accorgendosi troppo tardi di quanto avesse alzato la voce. I fortunatamente pochi commensali si erano voltati tutti nella sua direzione e la fissavano ammutoliti.

Tom, d’altro canto, non dava cenni di sentirsi in imbarazzo o infastidito. Si sporse in avanti, poggiò i gomiti al tavolo e il mento sulle mani giunte, sfarfallando le ciglia in direzione di Norja:

“Cosa devo fare per starti simpatico?”

Lo chiedeva come se davvero si aspettasse delle istruzioni in risposta. E sembrava assolutamente serio.

Decise di accontentarlo.
“Lasciarmi in pace.”

Tom imbronciò capricciosamente le labbra.

“Ma che senso ha starti simpatico se poi non posso parlare con te?”

Maschio, tedesco, ventuno anni, professione rockstar. Diagnosi: pazzo da legare. Non era così che, a suo tempo, Norja se l’era immaginato.

“Senti,” Si chinò in avanti, incrociando le braccia. “So che ti potrà sembrare indelicato, ma… Che cosa vuoi da me?”

Imperturbabile, Tom la imitò:

“Come cosa voglio? Ci siamo divertiti così tanto, ieri sera!”

Il suo modo di fare turbava profondamente Norja, che già di suo aveva da sempre avuto qualche problema di concentrazione. Probabilmente lui non era nemmeno consapevole dell’ingombranza della propria presenza.

“Credo che tu mi stia scambiando per un’altra.” Sottolineò, sottraendo il bricco del latte alle grinfie di Tom appena prima che potesse impossessarsene. “Io ero quella del tetto. Ti ricordi? Quella a cui hai rovinato gli anfibi e che volevi buttare giù dal cornicione.”

“Ok, parentesi omicida a parte.” Sdrammatizzò Tom, infilandosi in bocca l’ennesima cucchiaiata di cereali, gli occhi che studiavano il contenuto del vassoio di Norja. “Posso assaggiare la tua marmellata?”

“No.”

“Grazie.”

Logicamente, Tom allungò la mano e intinse un dito nella ciotolina di marmellata, portandoselo poi alla bocca per succhiarlo con gusto.

Norja era basita, e non tanto per il deliberato affronto.

Ignora il lato erotico del gesto. Ignora il lato erotico del gesto. Ignora il lato erotico del gesto, si ripeteva disperatamente, concentrandosi con zelo eccessivo sulla raffinata metodologia di stesura del burro su una fetta biscottata.
“Credo che le tue sinapsi abbiano qualche difficoltà ad associare la parola ‘no’ al concetto di negazione.” Gli disse, senza osare guardarlo, in caso il suo dito si fosse trovato ancora in prossimità delle labbra o in quei pericolosi dintorni.

Era umiliante essere di dieci anni al di sopra dell’età media delle fan più svitate ed essere notevolmente più malmessa di loro.

“Le mie che?” biascicò Tom, masticando.

“Ecco, appunto.”

“Ma mangi sempre così poco?”

“Non è poco, è una normalissima colazione.”

“Mi fai assaggiare quella specie di gelatina rosa?”

Norja indugiò un istante, riflettendo.

“Sì.” Rispose poi.

“Grazie!”

Tom fece per avventarsi sulla gelatina di lamponi, ma Norja gliela portò via appena in tempo. Lui la guardò deluso, il cucchiaio ancora fermo a mezz’aria.

“Ho detto di sì nella speranza che ti facesse l’effetto contrario di un ‘no’, ma evidentemente è solo con le proibizioni che hai dei problemi recettivi.”

“Mamma mia, che termini aulici… Si chiama ostentazione, lo sai?”

“Anche quel tuo sorrisino spavaldo.”

Tom si sciolse in una risata rilassata.

“Anziché ‘Divieto di accesso’, su quel cartello ci dovevano mettere ‘Lasciate ogni speranza voi ch’entrate’.”

“E magari anche ‘Per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente’…”

“Non male come idea.” Convenne lui, annuendo. “Sicuramente più efficace del ‘Divieto d’accesso’. Devo ricordarmi di accennarla al direttore dell’hotel.”

“Buona fortuna.”

“Quelle cosine bianche che galleggiano nel tuo latte cosa sono?”

“Avena.”

“Ha un aspetto disgustoso.”

Norja represse un sospiro.

Di tutte le calamità che mi si potevano scagliare contro, perché proprio lui? Le cavallette sono passate di moda?

“Ti ho forse chiesto di analizzarmi la colazione?”

“No, è che sto cercando di capire cosa può spingere una persona sana di mente a ingoiare quella roba, ma suppongo che tu sia il soggetto sbagliato a cui chiedere.”

“Hai una parlantina degna di un Kaulitz, devo dire. Al confronto tuo fratello rischia di sembrare un pesce rosso.”

“Vedi?” Tom sollevò sfacciatamente un sopracciglio. “Certe cose sui DVD non le trovi. Bisogna conoscermi per scoprire il meglio di me.”

“E quando ti deciderai a mostrarmelo?”

“Indignitoso colpo basso.”

Norja lo studiava a tratti, un dettaglio per volta. La prima cosa che aveva notato erano stati i vestiti un po’ sciupati, poi i piccoli difetti cutanei del viso, lasciati scoperti dall’assenza di ritocchi di trucco; poi ancora si era lasciata fugacemente distrarre dalla stanchezza dei suoi occhi, opachi e gonfi di sonno arretrato o disturbato. Ora, invece, era il turno delle labbra, morbide e carnose, ma rovinate da una serie di minuscoli taglietti tipici dell’aggressivo freddo invernale.

“Devo pur difendermi dalle tue molestie.” Gli disse, strappando a forza la propria attenzione dall’oggetto delle sue considerazioni. Pensò che Tom avrebbe dovuto indossare per legge un cartello con un chiaro avvertimento stampato sopra: ‘Attenzione: la prolungata visione di questo soggetto causa dipendenza. In caso di deficit cardio-respiratori, consultare il medico con urgenza’.

Nel frattempo Tom, che era riuscito a spazzolare tutto quello di cui si era servito nella metà del tempo in cui lei aveva vuotato la tazza di avena, aveva messo su un faccino tutto occhi languidi e ammiccamenti:

“Ti sto molestando?”

Occhiata di fuoco.
“Tu che dici?”

“Ti risulterei meno molesto se tu ti dimostrassi un po’ meno indisponente nei miei confronti.” Sostenne lui, compunto.

“Mi dà fastidio averti intorno!” protestò Norja con fervore forse eccessivo. Non lo voleva offendere, ma la stava esasperando.

“Ma perché?” le chiese lui, non meno esasperato di lei, e altrettanto dispiaciuto.

“Perché sì, accidenti!”

“Mamma mia, come sei complicata! Quasi preferisco quelle che mi comunicano sconcezze tramite ultrasuoni isterici.” La osservò in tralice per qualche secondo, pensoso. “Perché non sortisco questo tipo di effetto, su di te?” ebbe poi la delicatezza di domandarle.

“Ego ferito?” tentò di svicolare lei, che iniziava a mal tollerare quella domanda insistente.

“No, sul serio.” Tom si era impuntato e non voleva mollare. “Non ti piaccio, fisicamente?”

Non c’era fair play, in quel gioco: era tremendamente sleale, da parte di Tom, tirare fuori tutti quei tiri mancini consecutivi, senza darle nemmeno modo di riprendersi tra l’uno e l’altro. I suoi occhi erano destabilizzanti. Le sue labbra erano destabilizzanti. I lineamenti del suo viso erano destabilizzanti. I suoi sorrisi erano destabilizzanti. Le sue mani erano destabilizzanti. Perfino il suo respiro era destabilizzante.

Non c’era nulla di più sciocco che chiederle se lui non le piacesse fisicamente.

“Tom, siamo obiettivi: sei così disgustosamente, irritantemente, sfacciatamente bello che ogni volta che ho la malaugurata e masochistica avventatezza di guardarti ho paura che l’imbarazzante fangirl che è relativamente assopita in me se ne torni alla carica e io finisca per sembrarti solo un’altra stupida, patetica ragazzina decerebrata.”

Aveva sciorinato quella risposta così rapidamente e nervosamente che perfino lei aveva dubbi sulla comprensibilità di quanto aveva appena detto. E infatti Tom la stava guardando con la faccia di uno che aveva tutt’altro che afferrato anche solo metà discorso.

Per fortuna, si disse Norja.

“Wow…” Tom batteva le ciglia in modo mortalmente, adorabilmente smarrito. “Non ho capito niente, ma è stato un gran bel discorso. Mi sono commosso.”

Come volevasi dimostrare, si rincuorò lei. Il suo inglese stretto doveva essere non proprio immediato per uno come lui, abituato a un impastatissimo americano.

“Te lo rifaccio in olandese?” gli propose.

Tom negò con una mano.
“No, grazie. Sei già abbastanza inquietante in una lingua che conosco.” Si riempì la bocca dell’ultima badilata di cereali, masticò grossolanamente e deglutì, pulendosi poi la bocca con il tovagliolo. “Allora,” riprese subito dopo. “Dove ce l’hai questa intervista?”

“Alexanderplatz.” Disse, senza interesse. “Classica intervista superspontanea all’aperto, al freddo, al gelo e alle intemperie. Uno spasso stratosferico, insomma.”

“Posso venire anch’io?”

Il boccone di pane che Norja stava ingoiando le si bloccò a metà gola, causandole un violento accesso di tosse.
“Scherzi?” biascicò, non appena ebbe riacquisito un minimo di regolarità respiratoria. Le lacrimavano gli occhi.

Tom non finse nemmeno di aiutarla con qualche pacca sulla schiena. Sorrise, semplicemente.

“Sì.”

Nonostante il rischio di asfissia appena scampato per miracolo, e non certo grazie al gentiluomo che la accompagnava, Norja si sentì molto risollevata.

“Sia ringraziato il cielo. È la prima buona notizia di stamattina.” Sospirò. Aveva seriamente creduto che lui volesse andare con lei all’intervista. Si passò velocemente il tovagliolo sulle labbra e lo posò sul tavolo, poi prese la borsa e si alzò in piedi, sotto allo sguardo interrogativo di Tom. “Ora, se mi vuoi scusare, vado a prepararmi.”

“Ci vediamo per pranzo?”
“Preferirei che almeno il pranzo non mi restasse sullo stomaco.”

Tom rise, scuotendo la testa.

“Che simpatica che sei!”

“Ma tu lavorare no? Ti pagano solo per essere bello?”

“Oggi siamo liberi.” Le comunicò lui. “Non sei contenta?”

Oh, sì, potrei morire…
“Come un condannato che imbocca il Miglio Verde.”

Affatto impressionato, Tom afferrò la brocca del latte, se ne versò un po’ nella tazza del caffè, e prese a sorseggiarlo.

“Allora ci vediamo più tardi?”

Lei stiracchiò rigidamente gli angoli della bocca.

“Se dio vuole, no.” Mormorò tra i denti. “Addio.”

Mentre si affrettava a lunghe falcate verso l’uscita della sala da pranzo, Norja udì distintamente la voce di Tom alle proprie spalle che esclamava:

“A dopo!”

Lei imprecò tra sé e sé.

Se fosse sopravvissuta a quella breve permanenza a Berlino, non si sarebbe mai più lamentata di niente.

 

***

 

Il Ritz-Carlton era sempre stato una garanzia per i Tokio Hotel: lussuoso, personale educato che sapeva stare al suo posto, spazi ampi e comodi e, soprattutto, clientela rara e molto esclusiva. Era bello potersi sedere tranquillamente al tavolo ed essere serviti senza avere sguardi inopportuni ad indagare ogni loro singolo movimento.

“Tom, aspetti qualcuno?”

Tom ripiombò nella realtà dopo aver fissato, e senza nemmeno rendersene conto, l’ingresso della sala per dieci minuti buoni.

“Come?” Dovette impegnarsi non poco per andare a ripescare nella memoria inconscia a breve termine quello che aveva sentito dire dalla voce di Gustav, senza però elaborarlo. “Oh, be’, no, è che…”

Stava farfugliando. Grandioso. Gli ci voleva un altro po’ di arrosto per carburare meglio.
“Lasciamolo stare,” Intervenne Bill, misericordioso come non mai. “Dev’essere il trauma della levataccia all’alba di stamattina.”

“Non era l’alba, erano le nove!” puntualizzò Tom, sbadigliando di riflesso.
“Ah, giusto,” rettificò Bill. “Volevo dire notte fonda.”

“Sai, Tom, la forchetta funziona meglio se la usi sul cibo.” Gli consigliò Georg. Tom abbassò lo sguardo: erano almeno due minuti che stava tentando di infilzare la nuda ceramica del piatto.

“Io lo dico sempre che questo qui non è a posto con la testa,” disse Bill in tono di sufficienza, servendosi con grazia una porzione di purè di patate. “Ma, no, non diamo retta a Bill, lui è troppo bello per dire qualcosa di intelligente.”

Tom non raccolse la provocazione, non per mancanza di spirito di confronto, ma perché era di nuovo intento a fissare l’enorme doppia porta dell’ingresso, da cui però non era entrato altro che una coppia di anziani signori eleganti. Non esattamente quello che si aspettava lui.

“Tom,” intervenne Georg. “Non sono sicuro se te lo abbiamo già chiesto, ma… Aspetti qualcuno?”
“Perché dovrei?” ribatté Tom, senza muovere la testa di un millimetro.

“Non so,” disse Georg. “Non fai che continuare a voltarti verso l’ingresso della sala, e dubito – spero – che non sia la maitresse ad attirarti, perché sinceramente la trovo un tantino al di sotto della media generale, e almeno un milione di chilometri al di sotto della tua.”

“Eh?”

“Lasciamo stare.”

“Hey, guardate un po’ quella!” trillò Bill ad un tratto, puntando maleducatamente il dito nella direzione in cui Tom aveva guardato fino a un attimo prima. Si girò speranzoso, e non fu una speranza vana: in fondo alla sala c’era una ragazza con vistosi capelli rossi e vestita in modo decisamente anonimo, almeno rispetto a quanto aveva visto Tom la sera precedente. Niente tinte strane tipo viola o fucsia, niente gonne ampie e lunghe, niente felpe da adolescente: Norja portava un tailleur pantalone nero sopra una semplicissima camicia bianca, un paio di decolleté nere ai piedi. Era anche truccata in modo abbastanza cupo, rispetto alla volta prima, anche se il rossetto color sangue di rompipalle era sempre lo stesso.

Bill la radiografò da capo a piedi con un’aria drammaticamente critica:

“Ho le traveggole o ha proprio i capelli raccolti in una treccia? Fa così trasandato… E sta malissimo con i vestiti che porta!”

“Hey, sta guardando da questa parte.” Notò Gustav.

Gli occhi di Norja, in effetti, puntavano dalla loro parte, e la sua espressione non poteva dirsi proprio entusiasta. Anzi.

“Sembra terrorizzata.” Osservò infatti Georg.

Ma Tom, incurante del puro orrore comparso sul viso pallido di Norja, si alzò in piedi e sventolò una mano in aria per richiamare la sua attenzione:

“Hey, Finlandia!”

Bill sollevò gli occhi sgranati su di lui:

“La conosci?”

“Più o meno.” Rispose Tom, mentre Norja faceva una piccolissima smorfia di panico. “Non vieni a salutare?” la esortò.

Dall’espressione che lei assunse, sembrava quasi che Tom le avesse chiesto di ingoiare un rospo vivo (e forse addirittura le sarebbe stato preferibile a quell’invito), ma non aveva molta scelta: tutti, membri dello staff compresi, la stavano ormai fissando dai rispettivi tavoli, in attesa.

Con una rigidità degna di una trave d’acciaio, Norja prese un lungo respiro e si incamminò verso di loro a passo tutt’altro che entusiasta. Quando arrivò a un metro dal loro tavolo, si fermò e gettò a Tom un’occhiatina tagliente.

“Ehm… Buongiorno.” Salutò timidamente, passando in rassegna non solo Bill, Gustav e Georg, ma anche le facce curiose di David, Benjamin, Dunja, Natalie e suo figlio.
“Ciao.” Fu la perplessa risposta semicorale.

“Ragazzi,” Tom le prese un polso e la attirò vicino al posto vuoto che c’era a capotavola, proprio accanto a lui. “Questa è Norja Schwartz.”

“Norja Schwartz?” si stupì Dunja. “La scrittrice?”

“Già.”

“Non ti avrei mai riconosciuta senza la mascherina.” Disse Georg, studiandola attentamente.

“Già.”

“Sei una di molte parole, vero?” commentò Bill sarcasticamente, squadrandola con occhio critico.
“Già.”

“Ciao, Norja,” Gustav le sorrise e le allungò amichevolmente la mano. “Io sono –”

Norja si ritrasse come un’anguilla minacciata da una fiocina.

“So chi siete.” Disse rapidamente. “È stato un piacere. Arrivederci.”

Fece per girare sui tacchi e sparire, proprio come aveva fatto la mattina stessa, ma Tom fu abbastanza svelto da riuscire a riacciuffarla appena in tempo.

“Aspetta, dove te ne vai?”

“A mangiare, spina nel fianco.”

“Puoi mangiare con noi.”

Per un nanosecondo l’orrore iniziale tornò a lampeggiare negli sgomenti occhi di Norja.

Perché un’offerta che farebbe collassare dalla gioia qualsiasi altra ragazza, a lei fa quest’effetto minatorio?
“Ricordi quando ti dicevo che non volevo che anche il pranzo mi restasse sullo stomaco?” sbottò Norja, le guance rosse come ciliegie. Tutti la fissavano a bocca aperta, e questo la rendeva platealmente nervosa.

“Tom, che cosa le hai fatto per meritare tanto astio?” domandò Benjamin, mentre due fossette deliziate gli apparivano nelle guance.

Tom fece spallucce.
“Non ne ho idea. Be’, a parte rovinarle le scarpe, ma è stato un incidente.”

“E volevi che mi suicidassi buttandomi sulla terrazza della suite di Georg.” Puntualizzò lei.

Georg emerse dal suo bicchiere di spremuta d’arancia con un’espressione confusa:
“Cosa c’entra la mia terrazza?”

“Siete voi che vivete con questo squinternato da una vita,” replicò lei. “Speravo che le aveste voi, delle risposte.”

“Devi scusare mio fratello, Norja.” Intervenne Bill, tamponandosi delicatamente le labbra con il tovagliolo. “Non so spiegarmi come un essere così rozzo possa essere uscito dal mio stesso embrione.”

“Su, siediti.” Gustav scostò una sedia e fece cenno a Norja di accomodarsi. “Tom lo curiamo noi.”

Lei arretrò di un passo, sempre più a disagio.

“Non è davvero il caso.”

“Non mi dirai che sei una di quelli che ci detestano!” si indignò subito Bill.

Norja perse di colpo colore.

“Tutt’altro,” pigolò, disperata. “È che…”

È che… Cosa?, si chiese Tom, divertito, intercettando il suo sguardo ansioso.

“Non ti mangiamo, promesso!” le assicurò Georg.

“No, eh?” fece lei, quasi delusa. Lanciò uno sguardo apprensivo ai tavoli vicini, occupati dai membri dello staff del gruppo, che la occhieggiavano incuriositi, e alla fine si decise a sedersi.

Era un fascio di nervi.

Tom fermò una cameriere e le fece ordinare qualcosa. Gustav le versò addirittura un po’ d’acqua per aiutarla a rilassarsi; Norja lo tracannò in un sorso, ma non sortì alcun effetto.

“Allora, com’è che vi conoscete, voi due?” volle sapere Georg, mentre si tagliava un pezzo di bistecca.
“Ieri sera le ho impedito di buttarsi dal tetto.” Affermò Tom, orgoglioso.

Gustav si accigliò:

“Sbaglio o la sua versione era diversa?”

“Veramente è stato a causa sua che stavo per farlo, ma penso sia questione di punti di vista.” Soggiunse Norja, gettando a Tom uno sguardo obliquo.
“Che cosa ci facevate sul tetto?”
“Io c’ero andata per godermi un po’ di sano relax. Poi purtroppo è arrivato lui.”

“E tu sei stata scortese fin da subito.” La rimproverò scherzosamente Tom, con una gomitata.

“Vorrei vedere se fossi stata io a rovinarti le scarpe!”

“Senti, te li pago quei maledetti anfibi, va bene?”

“Nonostante la vita degli scrittori sia ben misera, ti posso assicurare che non sono così malmessa da ridurmi ad accettare la carità.”

“Ce la regali qualche copia autografata dei tuoi libri?” si intromise Bill, senza quasi sollevare lo sguardo dal proprio piatto. La proposta gelò letteralmente Norja sul posto.
“Scherzi?”

Bill la guardò con un’espressione di sorpresa mista a perplessità:

“No. Mi piace la tua saga.”

Il rossore iniziale delle gote di Norja sembrava essere diventato solo un vago ricordo, completamente obliato dal crescente pallore che stava calandole sul viso.

“Tu hai letto i miei libri?”
“Tu hai letto i suoi libri?” le fecero eco Tom, Gustav e Georg, in coro.

Bill si strinse nelle spalle con assoluta indifferenza.

“Sì. È brava.”

“Lo posso far scrivere sulle copertine?” lo pregò lei. “‘Consigliato da Bill Kaulitz’. Potrei diventare ricca.”

Bill si strinse di nuovo nelle spalle.

“Per me non c’è problema.”

“Allora, Norja,” Gustav la interpellò proprio mentre lei si infilava in bocca un grissino. “Come mai sei a Berlino?”
“La mia casa editrice mi ha minacciata di crocefiggermi se non me ne fossi andata un po’ in giro a promuovere l’ultimo libro,” borbottò Norja, deglutendo. Alzava gli occhi solo per brevissimi istanti, e mai due volte di seguito sulla stessa persona. “Quindi sono a zonzo per l’Europa a massacrarmi il polso per migliaia di autografi, augurandomi che non mi venga un esaurimento prima di iniziare il round in Nord America. Dopo anni di perplessità, finalmente ho capito perché quando firmate voi sembra sempre che non abbiate mai preso in mano una biro in vita vostra.”

“Oh, no, loro firmavano così anche prima di consumarsi i polsi con gli autografi.” Le rivelò Georg, con una risata.

“A proposito,” intervenne Tom. “Quasi non ti riconoscevo, vestita così. Ti avevo quasi scambiata per una persona normale.”

“Vorrei poter dire lo stesso di te.”

Bill, Gustav e Georg scoppiarono a ridere, e con loro anche il resto della tavolata, che aveva inevitabilmente origliato.

“Hey, Tom, hai trovato pane per i tuoi denti, eh?” sghignazzò David, dal lato opposto del tavolo.

“Più che pane, cemento armato.” Borbottò Tom, anche se, intimamente, era consapevole del fatto di trovare Norja così interessante proprio per via di quella verve che la contraddistingueva. Lo divertiva punzecchiarsi con lei. Quello che ancora non gli era ben chiaro era se per lei fosse lo stesso, o se effettivamente non lo sopportasse. Una discreta parte di lui aveva il timore che si trattasse della seconda opzione.

“Certo che per conoscervi da poche ore avete una certa confidenza…” commentò Georg, spostando lo sguardo da Tom a lei.

Norja agitò la mano con indifferenza.

“A vedere com’è cominciata ieri sera, credevo che a quest’ora almeno uno dei due sarebbe già stato tre metri sottoterra.”

“Possibilmente tu.” Disse Tom.

“Perché proprio io?”

“Perché se tu crepi, non ci va di mezzo nessuno. Se crepo io, lascio un gruppo che senza di me non varrebbe niente e venti povere chitarre che starebbero malissimo senza il loro papino.”

“Non so…” rifletté Georg, serio. “Quel tizio che suonava qua fuori l’altro giorno era piuttosto bravo.”

“Fottiti!”

“Non essere volgare, SNF!” lo sgridò Norja, allungandogli un pugno sul braccio.

“SNF sta per Stupido Ninfomane Fallocrate?” si informò Gustav, mentre Tom si prodigava in un gemito di dolore esagerato, reggendosi il punto in cui Norja lo aveva colpito.

“Per Spina Nel Fianco, veramente, ma ora che mi ci fai pensare Stupido Ninfomane Fallocrate suona meglio!”

“Non è che adesso vi dovete alleare tutti con lei!” protestò Tom, iniziando a stancarsi del cambio di punto di vista: di solito era lui a prendere in giro.

“Ma guarda com’è carina!” chiocciò Bill, carezzando amorevolmente la testa di Norja. “Potremmo adottarla!”

Lei era visibilmente spaesata, così circondata di interesse e attenzioni. Appena Bill la aveva toccata era arrossita, ma almeno non lo aveva verbalmente aggredito. Tom avrebbe tanto voluto sapere perché si comportasse in modo così diverso, con gli altri.

“Al massimo è lei che adotta noi, visto che è quasi in età da prepensionamento.”

“Ma smettila!” lo rimbrottò Bill. “Quanti anni hai, Norja? Diciannove? Venti?”
“Venticinque tra qualche mese.”
“Sembri molto più piccola! Hai un visetto da bambina.”

“Un serio problema, se sei adulta e vaccinata e ogni volta che devi entrare in qualche locale sospettano che tu abbia falsificato la carta di identità.”

Tom schioccò la lingua.

“Non so come funzioni in Olanda, ma qui nei locali pubblici gli animali potenzialmente pericolosi non sono ammessi. La prossima volta prova a presentarti con la museruola.”

“È quello che dicono di solito a te?” ribatté lei, soave.

I ragazzi scoppiarono a ridere in faccia a Tom.

“Tom, devi impegnati di più.” Lo ammonì Georg, gli occhi umidi dalle risate. “È una spanna sopra di te, la fanciulla.”

“Questo solo perché lei con la retorica ci campa.” Grugnì lui. “Scommetto che se le pianto in mano una chitarra, vinco a occhi chiusi.”

“Quanto vogliamo scommettere?”

Tom si voltò interrogativamente verso Norja:

“Come?”
“Quanto vogliamo scommettere su una sfida tra noi due a colpi di chitarra?” rispose lei. “Facciamo mille?”

“Mille?” Tom non capiva, diceva sul serio?

“Duemila?”

Tom boccheggiò, interdetto e attonito:
“Tu suoni la chitarra?”
“Sì.” Norja sollevò fieramente il mento. “Mio padre è nell’ambiente discografico, ho preso lezioni da Brian Jones in persona.”

“E chi è?”
“Il chitarrista dei Rolling Stones.” Rispose Gustav prontamente.

Tom assunse un’espressione scioccata e molto preoccupata.

“Ah.”

Georg scoppiò a ridere.

“Che c’è?”

“Tom, dovresti vedere la tua faccia!”

“Be’, sono impressionato!”

“Sono sicuro che lo saresti ancora di più se sapessi che Brian Jones è morto nel ‘69.”

La realizzazione ci mise qualche secondo ad arrivare, ma finalmente Tom comprese: era stato di nuovo platealmente gabbato.

“Hai mentito!” accusò Norja, puntandole contro un dito.

“Ti prendevo solo in giro.”

“Quindi non sai suonare la chitarra?”

“A meno che non si tratti di una partita a Guitar Hero, no. E anche in quel caso faccio abbastanza pena.”

“Meno male.” Tom trasse un sospiro di sollievo. “Iniziavi a farmi paura.”

Il cameriere arrivò con l’ordinazione di Norja e lei si buttò sul piatto con eccessivo entusiasmo, come se non vedesse l’ora di sottrarsi alla conversazione. La lasciarono mangiare per un paio di minuti, ma poi, dopo un po’ che la studiava, Georg le chiese:

“Arrivi da un impegno mondano?”

“Una cavolo di intervista per RTL.” Biascicò lei, masticando una forchettata di insalata.

“Com’è andata?”

Un’espressione di sofferente rimembranza affiorò sul viso di lei:

“È durata il doppio di quello che doveva, quell’idiota del veejay continuava a sbagliare la pronuncia del mio nome, quella cima della sua collega non sapeva dire niente in inglese se non ‘È fantastico!’, e un telespettatore ha chiamato da casa per farmi una pretenziosa e alquanto volgare proposta di matrimonio. Ma, a parte questo, splendidamente.”

Tom si riscoprì a sorridere. Anche se non aveva mai letto nulla di suo, capì perché Norja era una scrittrice così famosa: aveva carattere nel raccontare le cose, nel scegliere toni e termini, nel comunicare.

“E dove hai imparato così bene l’inglese?” le stava domandando Gustav, intanto.
“Sui libri.”

“Beata te. I nostri facevano schifo, e gli insegnanti erano anche peggio.”
“Non sui libri di scuola. Sui libri che ho letto.”

“Che noia!” sbuffò Bill. “A questo punto tanto vale parlare del tempo!”

“Bill, non essere scortese!”

“Scusate, ma era di gran lunga più interessante guardare lei e Tom che si prendono a legnate verbali.”

“Vorrei dargli torto, ma non posso.” Sorrise Gustav.

“È proprio graziosa, vero?” affermò Bill, voltandosi verso Norja con un’espressione deliziata. “Le metterei un guinzaglio rosa e la porterei a zompettare in un parco.”

Tom spalancò gli occhi, sconvolto. Tutto poteva capire, tranne che quel ‘graziosa’. Come si faceva a ritenere ‘graziosa’ una così sboccata e maleducata?

“Graziosa? Lei?”
“Dovrei avere l’aspetto di una tenebrosa donna del mistero, non di un cucciolo di Labrador!” si lamentò lei.

“Io pensavo a un Cocker, visti i tuoi capelli.” Rifletté Bill, pensoso, squadrandola di sotto in su. “Non puoi fare il Cocker?” la pregò, implorante.

“Ma quale Cocker!” esclamò Tom, sghignazzando. “Al massimo può fare il Mastino.”

“Ti chiamerò Lilli!” decise Bill, ormai partito per la tangente. “Poi con calma ti troviamo il tuo Vagabondo, ok?”

“Sì, ti ci vedrei con un barbone!” approvò Tom.

Norja lo trafisse con uno sguardo ammonitivo:

“Buono, SNF. Non vorrei che ti venisse qualche ruga a fare tutte quelle smorfie. Ti conviene stare attento, perché se perdi il tuo appeal non vali un soldo bucato.”

Lui stavolta non riuscì a trattenersi: o lei gli confessava quale problemi avesse con lui, o la piantava.

“Mi vuoi spiegare cosa ti ho fatto, una volta per tutte?”

Norja si portò una mano alla fronte, chinando pazientemente la testa.

“Oh, no, ricomincia…”

“Tu mi detesti!”

“Come ho già detto le prime mille volte, Stupido Ninfomane Fallocrate: io non ti detesto!”

“Mi tartassi così per puro diletto, allora?”

“Sì.”

“Venticinque anni di stagionatura proprio ben riuscita, devo dire.”

Norja inspirò a fondo, gli occhi chiusi, e quando li riaprì gli parve stranamente arrendevole.

“Ti lamenti tanto di come ti tratto, ma non è che tu sia tanto più bendisposto di me.”
“Ma ho una reputazione da difendere, io!” si giustificò Tom, sfoderando un lieve sorriso sfrontato. “Guai se qualcuno sospettasse che ti trovo così adorabile!”

“La faccia prima di tutto.” Convenne Georg solennemente.

Ma Norja si era irrigidita e fissava il proprio piatto con insistenza senza fiatare.

“Groenlandia?” Tom si chinò in avanti, cercando di guardarla in faccia. “Va tutto –?”

“Scusatemi.” Mormorò rapidamente lei, scattando in piedi come se avesse preso qualche scossa, lo sguardo sempre basso, nascosto sotto alla frangetta. “Grazie della compagnia, ma ora devo andare.”

“Ma…”

“Scusatemi.” Ripeté Norja, in un tono strano che sembrava quasi sconvolto, e si volatilizzò in cinque secondi netti.

“Ha dimenticato la giacca.” Notò Gustav.

Tom guardò la sedia che aveva occupato Norja solo pochi istanti prima: la sua giacca di velluto nero, in effetti, era ancora lì.

“Tom, ma che cosa le hai detto?” gli chiese Bill, in tono accusatorio.

Tom non avrebbe saputo cosa rispondere: era perplesso quanto lui. Guardava ora la giacca sullo schienale della sedia, ora l’uscita della sala da pranzo, incapace di mettere insieme i pezzi in modo logico e comprensibile.

Una ragazza normale e sana di mente non la posso incontrare?

“Ma io… Niente... Credo.”

 

***

 

Quando Norja arrivò di fronte alla porta della propria stanza, le mani le tremavano così tanto che a malapena riuscì a reggere la tessera per infilarla correttamente nella serratura. Entrò in fretta e si richiuse la porta alle spalle, appoggiandovisi contro con la schiena mentre il suo cuore pompava così rapidamente da farla respirare a fatica.

Malediva il momento in cui il destino le aveva piazzato Tom Kaulitz davanti con quell’inaccettabile e perfida nonchalance.

Una passava la vita a perdersi in scintillanti fantasticherie utopistiche, sentendosi sicura all’interno dei solidi ed invalicabili confini dell’immaginazione, e poi un bel giorno, all’improvviso, illusione e realtà si scontravano nell’improbabile scenario del tetto di un hotel.

Era tutto dannatamente sbagliato.

Buttò la borsa a terra e quasi si strappò di dosso la sciarpa. Sperò che la sensazione di freddo che avvertiva non fosse dovuto a un principio di influenza, perché la sua agenda era così fitta di impegni che se solo avesse avuto bisogno un solo giorno di riposo, qualcuno ai piani alti avrebbe chiesto la sua testa su un vassoio d’argento.

Doveva riuscire a darsi una calmata entro un’ora, o rischiava un collasso nervoso nel bel mezzo della signing session, e la solita dose di valeriana, stavolta, non sarebbe di certo bastata.

 

***

 

La hall dell’hotel era deserta, per fortuna, e non si vedevano ficcanaso in giro. Con sollievo, Tom si avvicinò alla reception, la giacca di Norja sul braccio, e fu accolto da un uomo cordiale sulla quarantina che aveva un aspetto piuttosto altero.

“Mi scusi,” gli disse. “Sono Tom Kaulitz, alloggio qui. Mi saprebbe dire in che stanza alloggia la signorina Norja Schwartz?”

L’uomo scosse la testa senza scomporsi.

“Mi dispiace, signore, ma non posso fornirle questo tipo di informazioni.”

Calma, Tom, calma…
“Le spiego: abbiamo pranzato insieme qui in hotel, solo che quando lei se n'é andata ha dimenticato la giacca e ora gliela vorrei restituire.”

“Se vuole lasciarla a me, gliela posso far avere io.”

“No, vorrei dargliela di persona.”

“Allora non posso aiutarla.”

Tom trattenne a stento un gemito frustrato.

Dio, che palle che sei, vecchio!

“Non la può nemmeno chiamare?” insisté, supplichevole. “Solo per avvertirla che la sua giacca ce l’ho io.”

L’uomo parve ammorbidirsi impercettibilmente. Si spostò di qualche centimetro e si mise davanti a uno schermo ultrapiatto, le dita posizionate sulla tastiera.
“Che nome aveva detto?”
“Norja Schwartz. Schwartz come nero, ma con la T.”

Tom attese che lui digitasse e controllasse, ma la faccia che fece alla fine non promise nulla di buono.

“Sono spiacente, ma non mi risulta nessuna Norja Schwartz tra le prenotazioni.”

Tom si diede dell’idiota. Era ovvio che non ci fosse nessuna Norja Schwartz: il check in negli hotel richiedeva dei documenti di identità, quindi non poteva essersi registrata con il nome d’arte, ma solo con quello di battesimo.

Già, se solo lui lo avesse conosciuto, il suo nome di battesimo…

“Non può fare una ricerca? È una ragazza giovane, stravagante, non è qui da molto…”

L’uomo esibì un sorriso plastico e tirato.
“Signore, la prego, non insista.”

“Non mi costringa ad andare a bussare a tutte le dannate porte di questo dannato albergo!” sbottò Tom, esasperato. Non era abituato a non ottenere quel che voleva, e per di più questa volta ci teneva davvero. Era solo una stupida giacca, in fondo, eppure, sì, ci teneva.

“Signor Kaulitz,” gli intimò l’uomo, con falsa cortesia. “In qualità di direttore del suddetto dannato albergo, la devo pregare di non creare problemi ai miei clienti, altrimenti sarò costretto a prendere provvedimenti.”

“Va bene, va bene!” ringhiò lui, sollevando le mani in segno di resa. “Grazie tante dell’aiuto!” Poi gli voltò le spalle e se ne andò, fumante di rabbia.

Vaffanculo, Norja, o come cazzo ti chiami!, imprecò fra sé, infilando l’ascensore.

Aveva la sua giacca, erano nello stesso hotel, si conoscevano, e nemmeno sapeva come arrivare a lei. Non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a rivederla prima che entrambi se ne andassero.

Forse avrebbe voluto salutarla.

Forse gli sarebbe mancata.

Forse avrebbe voluto chiederle almeno un contatto.

Invece no.

Forse non era destino.

Vaffanculo, sì.

 

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Note: phew, dopo mille mila anni, ce l’ho fatta! ^^ Vi avevo detto che questa storia sarebbe stata subordinata in importanza alle altre, quindi comprenderete il ritardo. Insomma, ecco il secondo capitolo! Spero tanto che, anche se è dichiaratamente molto meno curata nella forma e nelle descrizioni, anche questa ff vi piaccia. Il titolo di questo capitolo è lo stesso di una bellissima canzone dei Massive Attack, che consiglio di ascoltare.

Ringrazio tutte voi che avete letto, commentato e aggiunto la storia tra le preferite e seguite, e mi auguro, come al solito, che continuerete così! :)

Nel prossimo capitolo vedremo Norja che cerca di godersi una delle sue poche giornate normali con la peggior zecca del mondo alle calcagna, aka Tom Kaulitz. Stay tuned! ;)

Alla prossima!

 

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Capitolo 3
*** One Day In Your Life ***


Seconda notte semi-insonne. Seconda notte tormentata da strani incubi indefiniti che le avevano impedito di dormire decentemente. Non ricordava nemmeno che cosa avesse sognato, ma sperava che fosse l’ultima volta.

Quando le porte dell’ascensore le si aprirono davanti, Norja chiuse istintivamente gli occhi.

Fa’ che non ci sia. Fa’ che non ci sia. Fa’ che non ci sia…, pregò intensamente, poi aprì gli occhi. Fortunatamente, lui non c’era.

Con il cuore un po’ più leggero e sereno, uscì e attraversò la hall dell’hotel, diretta a passo beato e sicuro verso l’ingresso della sala da pranzo, già pregustando una ricca colazione. Il solo profumo del caffè fresco le stava già risvegliando i sensi ancora intorpiditi dal sonno. Aveva la giornata libera; ancora non aveva deciso cosa avrebbe fatto. Magari quattro passi lungo Unter Den Linden, a deridere le sfilze di negozietti kitsch per turisti e comprare articoli altrettanto kitsch da portare a casa come souvenir per parenti e amici. O un giro nella zona del Duomo, del Pergamon Museum, oppure una piccola, rilassante crociera in battello sullo Spree. Ci avrebbe riflettuto meglio davanti a una bella fetta di torta alle mele.

Recuperò un vassoio dalla pila nel tavolo d’angolo e si gettò sul buffet, raccogliendo tutto quello che la ispirava: muffin ai frutti di bosco, patate arrosto, budino alla vaniglia, della quiche di ricotta e spinaci, e perfino un po’ di crema di mascarpone. Sua madre le aveva sempre rimproverato di avere la stessa voracità di un ragazzo, ma lei non se ne era mai curata. Si riempì una grossa tazza di caffè, arraffò qualche bustina di zucchero e si incamminò verso i tavoli, cercandone uno libero.

Fortunatamente non c’era poi così tanta gente che faceva colazione alle nove del mattino.

Sfortunatamente, tuttavia, tra questi pochi spiccava – e piuttosto letteralmente – un giovane scompostamente seduto che indossava una discretissima felpa rosso fuoco, impeccabilmente abbinata alla fascia attorno alla fronte. Tom Kaulitz – in carne, ossa e indecenti quintali di traboccante meravigliosità – era proprio lì, di fronte a lei, e le sorrideva con tanta genuina innocenza che quasi avrebbe potuto ingannarla.

“Guarda un po’ chi si rivede…” esclamò mellifluo.

La sola ed unica ragione per cui Norja non si infilò le mani nei capelli, strillando esasperata, era che non le andava di lasciar schiantare a terra un vassoio così ben assortito.

“Oh, dio, è una persecuzione!” si limitò a sbuffare, con un tono lacrimevole che infastidì perfino lei. Ma quando era troppo, era troppo.

“Lieto anch’io di rivederti, Russia.” La salutò lui, garbato, come appena uscito da un corso intensivo di Bon Ton. “Non ti siedi?”

Ma perché non mi puoi lasciare in pace e basta, tu?, piagnucolò Norja, frustrata. Tornatene dentro i tuoi CD, nei poster, dietro allo schermo della TV! Ovunque, ma sparisci, ti supplico, per il mio bene interiore!

“Stavo pensando di mangiare in piedi, veramente.”

Tom occhieggiò con eloquenza il suo pesante vassoio traboccante di roba.

“Non sapevo avessi doti da funambola.”

“Oh, quante cose che non sai!”

“Allora, ti siedi o devo venire a mangiare in piedi con te lì in mezzo al passaggio?”

Norja esitò.

Non oserà, si diceva. Non voleva sedersi con lui – no, non poteva proprio – ma non riusciva nemmeno a costringersi ad andarsene, così restò lì, imbambolata, senza riuscire a muoversi.

“Ok,” fece Tom, qualche secondo dopo, con aria risoluta. “Recepito il messaggio.” Afferrò la tazza strapiena di cornflakes e latte da cui stava mangiando, il cucchiaio in bocca, e fece per alzarsi in piedi.

Norja si precipitò alla sedia e prese posto prima che il fondoschiena di Tom si fosse sollevato del tutto. Lui le lanciò un sorrisetto trionfante, riaccomodandosi soddisfatto.

“Dormito bene?” le chiese poi, come nulla fosse.

“No.” Sbottò subito lei, inviperita per lo sleale ricatto a cui era stata sottoposta.

Tom annuì pensoso.

“Infatti hai un aspetto orrendo.”

“Grazie,” rispose lei, arida e scontrosa. “Vedo che a te invece le occhiaie donano parecchio.”

“Trovi?” Tom si rizzò più composto nella sedia, tutto ringalluzzito. “Mi danno un po’ quell’aria da bello e dannato, vero?”

Norja ingoiò a fatica la sola sillaba che la sua lingua stava morendo dalla voglia di pronunciare: Sì! Sì! Sì! Sì!

“Bello non so, dannato si sicuro, con tutte le maledizioni che ti sto tirando dietro in questi giorni.”

Tom assentì con la testa, masticando con gusto i suoi cereali. Probabilmente non la stava nemmeno ascoltando. Stranamente, rimase zitto per un po’, ruminando in silenzio, controllando di tanto in tanto quello che faceva lei. Norja poté quindi comodamente illudersi di riuscire mangiare in pace per ben cinque minuti, poi Tom, passandosi il tovagliolo sulle labbra, decise che era giunto il momento di tornare a turbare la sua fragile tranquillità:

“Sei libera, oggi?”

Norja ebbe la malaugurata idea di guardarlo: aveva le braccia conserte sul tavolo, la testa reclinata di lato, e l’espressione del suo viso era così ignobilmente, impietosamente, ingiustamente serafica che lei per un attimo si dimenticò completamente che respirare era uno dei requisiti minimi di base per restare in vita.

Tom Kaulitz le stava chiedendo se era libera.

Tom Kaulitz le stava chiedendo se era libera, succhiandosi tra le labbra un biscotto ricoperto di cioccolato.

Tom Kaulitz le stava chiedendo se era libera, succhiandosi tra le labbra un biscotto ricoperto di cioccolato, con tanta ingenua aspettativa negli occhi da poter causare gravi scompensi cerebrali anche a un tronco di legno.

E lei, almeno secondo i suoi buoni e virtuosi propositi, avrebbe dovuto trovare un modo di glissare.

“Ho paura che a dirti di sì, potrei automaticamente rischiare di non esserlo più.”

“Posso invitarti fuori a pranzo?”

Norja non seppe bene cosa successe prima – se fu prima il cucchiaio a caderle di mano, o la sua mandibola a precipitare rovinosamente, o i suoi occhi a sgranarsi sconvolti, o se accadde tutto simultaneamente – ma di una cosa non dubitava: i dieci anni di vita che aveva appena perso non glieli avrebbe restituiti nessuno.

“Ecco, appunto.” Mugugnò, chiedendosi che cosa ne sarebbe stato di quel poco di dignità che era finora riuscita a conservare se si fosse chinata a terra per cercare il cucchiaio perduto. Decise che era meglio non scoprirlo.

“Allora,” insisté Tom, chinandosi in avanti. Norja si ritrasse in automatico. “Posso?”

Sì! Sì! Sì! Sì!

“No,” Le labbra di Norja si piegarono a fatica a pronunciare quella semplice, complicatissima risposta. “Non puoi.”

Ma Tom non demorse:

“Dai, ti prego!”

Norja sbuffò.

“Dimenticavo i tuoi problemi di metabolizzazione di negazioni e divieti.”

“Senti, che male c’è se pranziamo insieme?” si impuntò lui, e Norja aveva il serio sospetto che veramente non ci vedesse nulla di male. Nulla di strano.

“Tutto il male del mondo.”

“La solita esagerata!” minimizzò lui, poi le puntò contro i suoi occhioni sgranati senza alcun pudore. “Dai, scegli tu il posto, offro io.”

“Ma tu te ne puoi andare in giro così indisturbato per Berlino senza babysitter?” obiettò lei. Non aveva carte migliori da giocare; era troppo impegnata a cercare di non lasciarsi liquefare dallo sguardo immisericordioso che Tom si ostinava a puntarle contro come un’arma impropria.

“Non proprio,” rispose lui, affatto tubato. “Però a quest’ora i soggetti pericolosi sono tutti a scuola e se mi maschero bene passo tranquillamente inosservato.”

Norja gli appioppò uno sguardo scettico:

“A parte l’inconfondibile scia di Eau du Ego che ti lasci dietro…”

“E poi mi curi tu, no?” aggiunse Tom, rincarando lo sguardo con la perfida aggiunta di un sorriso che avrebbe fatto impallidire il sole e tutti gli altri milioni di miliardi di stelle messe insieme.

Norja lo guardava interdetta, incapace di esternare un solo suono.

“Sai, questo sarebbe il punto in cui la ragazza maldisposta che non vuole per niente uscire con il rompipalle dice di no, secondo la tua teoria.” Le fece notare lui.

“E se io ti dicessi di no, tu cosa recepiresti?”

Tom scrollò le spalle.
“Qualcosa tipo ‘Sono pazza di te, ma amo fare la sostenuta e non voglio darti la soddisfazione di dare a vedere che pendo dalle tue labbra’. No, anzi, aspetta: ‘Che pendo letteralmente dalle tue labbra’.”

“Non si può certo dire che tu sia privo di immaginazione.” Commentò lei, grondando sarcasmo da ogni singola lettera.

“Allora,” Disinvolto, Tom le rubò un biscotto dal piatto e se lo ficcò in bocca intero. “Ci vieni a pranzo con me?”

La risposta giusta da un milione di euro è ‘No!’, suggerì suadente una voce nella testa di Norja; un’altra, però, insisteva a strillare ‘Sì! Sì! Sì! Sì!’.

E Tom la fissava, e sbatteva quelle ciglia meravigliose, e sorrideva speranzoso, e lei che cosa poteva fare? Che cosa poteva fare un’umile comune mortale di fronte all’inimmaginabile intensità di quello sguardo?

Norja si portò stancamente una mano alla fronte,  occhieggiando Tom di sottecchi, con fare diffidente.

“Perché sento che me ne pentirò amaramente?” pigolò, in una manifesta dichiarazione di resa.

“Grande!” Il sorriso sgargiante di Tom si triplicò in vastità e intensità. “Dove si va?”

Norja chiuse gli occhi, la pietà verso se stessa che si trasformava rapidamente in panico, e si maledì, sentendosi morire. Ma ormai era tardi.

Se ne sarebbe pentita, e molto più che amaramente.

 

***

 

Tom non riusciva a credere di avercela fatta. Si era mosso violenza psicologica per strapparsi dal letto all’improponibile orario delle otto e trenta con la sola e unica speranza di riuscire a incrociare quella pazza nevrotica, ma non ci aveva creduto poi tanto, in realtà. Quando, seduto mogio al proprio tavolo, la aveva finalmente vista arrivare, non gli era sembrato vero, e ancor meno gli sembrava di stare camminando fianco a fianco con lei per le vie di Berlino. Nonostante fossero un’accoppiata tutt’altro che discreta – lei con i suoi capelli rosso cremisi, lui con la sua altezza imponente e l’abbigliamento insolito – la gente che circolava per le strade non faceva caso a loro: passava e andava oltre, senza fermarsi, senza nemmeno guardare.

Tom provava una strana, piacevolissima sensazione di libertà. Niente strilli isterici nelle orecchie, niente mani avide che si protendevano morbosamente verso di lui, niente ansia, niente stress, niente fretta. Niente di niente.

Solo una banalissima passeggiata in un banalissimo giorno qualunque.

Tom non conosceva Berlino, ma non gli andava di scoprirla proprio adesso. Si sarebbe dedicato un’altra volta al turismo. Al momento gli bastava godersi la duramente conquistata compagnia di Norja.

Lei gli camminava accanto, più bassa di lui di tutta la testa e buona parte del collo, i capelli che ondeggiavano a ogni passo, le labbra scarlatte imbronciate in una piega assorta. E forse un po’, dopotutto, aveva ragione Bill: era proprio carina. Non gli piaceva la fredda versione di lei camuffata da donna in carriera: il nero la spegneva, la incupiva, la faceva sembrare più adulta – o forse, semplicemente, le faceva dimostrare l’età che aveva – e lui preferiva nettamente non sentirsi un patetico bambino, davanti a lei.

Quando Norja si fermò, Tom era così impegnato a osservarla che non se ne accorse e le finì addosso. Il contatto fu breve, poco più di un battito di ciglia, ma significativo: era la prima volta che la sentiva, che riusciva a percepirla in modo così fisico.

“Scusa.”

“Non importa.” Borbottò lei, scostandosi da parte, quasi infastidita.

Tom dovette mordersi la lingua per non scusarsi di nuovo. Gli dispiaceva vederla così astiosa nei proprio confronti; lui ce la stava mettendo tutta per essere di buona compagnia, ma più lui era gentile, più lei sembrava allontanarsi. Tom non ci capiva più niente.

“Che posto è?” domandò, leggendo l’insegna illuminata di rosso.

Norja si portò le mani ai fianchi, guardandolo con tanta pietosa pazienza da farlo sentire un emerito idiota.
“Secondo te un locale che si chiama Mexico Restaurant cosa potrebbe mai essere?”

Ma Tom sorrise candidamente, felice di avere un’occasione di giocare un po’ a fare l’ingenuo:

“Un ristorante messicano?”

Norja inarcò le sopracciglia, palesemente divertita:

“Alla faccia di chi ti dà del belloccio idiota, eh?”

“Sfotti?”

“No, figurati. Mi complimentavo per la tua perspicacia.”

Lui si limitò a replicare con una strizzatina d’occhio sfacciata che la fece avvampare.

La situazione, doveva essere sincero, stava cominciando a sfuggirgli di mano. Norja gli piaceva, non aveva mai nemmeno cercato di fingere di nasconderlo. Si sentiva abbastanza a proprio agi, con lei, da non sentire il bisogno di recitare la parte dello sbruffone. Tutt’al più lo faceva per divertimento, per istigarle quelle reazioni quasi allergiche che portavano alle battute pungenti, alle frecciatine, alle provocazioni.

Era la prima volta che gli capitava di trarre un concreto piacere da una semplice e pura conversazione. E Norja, poi, era veramente buffa, certe volte: sempre pronta ad avere l’ultima parola, sempre con una risposta vincente, eppure deliziosamente impacciata nel suo ostinato non rifiutarsi di guardarlo, nel modo in cui arrossiva e chinava la testa per non farsi vedere, nel tono fin troppo convinto che usava per dirgli di lasciarla in pace.

Tom, di norma, preferiva le ragazze classiche: alte, snelle, formose, capelli biondi, occhi azzurri, preferibilmente stupide, così da evitare il rischio di un reale coinvolgimento. Forse era per quello che Norja lo aveva scombussolato tanto: non era stato preparato all’eventualità di incontrare qualcuna che potesse interessargli sul serio. A lui in genere toccavano le fan più cretine, quelle abbagliate dalla seducente figura del Sex Gott e cieche davanti alla semplicità dell’umano e normalissimo Tom. Quelle che, nella fattispecie, non avevano capito proprio un cazzo di lui.

E poi arrivava questa assurda tizia olandese senza peli sulla lingua e tutto perdeva la sua logica, perché Norja era carina, sì, ma Tom non era così ipocrita da non ammettere, almeno con se stesso, che non si sarebbe mai nemmeno soffermato a guardarla, se non avesse avuto un assaggio tanto promettente della sua personalità. E nonostante questo, però, aveva la netta impressione che ci fosse qualcosa di lei – e anche piuttosto consistente – che ancora gli sfuggiva. Qualcosa di affatto irrilevante che lei, in qualche modo, per qualche motivo, gli stava tenendo gelosamente nascosta.

E chissà perché.

Forse un giorno, presto o tardi, lo avrebbe scoperto.

“Entriamo?” suggerì, distendendo un braccio verso l’ingresso del ristorante.

“Non so,” fece Norja, avvicinandosi alla porta. “Vuoi mangiare sul marciapiede?”

Tom ridacchiò, seguendola.

“Dopo una scampata colazione in piedi, sarebbe proprio l’ideale!”

“Proprio.”

Appena prima che lei toccasse la porta, Tom scattò in avanti e la aprì per lei, cedendole il passo.

“Prego, Miss Simpatia.”

Gli occhioni neri di Norja di spalancarono in un’espressione di puro sgomento:

“Grazie, SNF.” Disse, colpita, entrando. “Ti hanno dato una dose di Galanteria concentrata, stamattina?”

Lui alzò le spalle, le mani in tasca.

“Può darsi che il mio cocktail di farmaci abbia questo tipo di effetti collaterali, sì.”

“Non voglio sapere altro.”

Il locale fortunatamente era poco affollato: un cameriere li accolse e li fece accomodare ad un tavolo per due in un angolino discreto. Tom si sbarazzò in fretta del giubbotto e afferrò curioso un menù; non aveva mai mangiato cibo messicano in vita sua.

“Allora, cosa prendiamo?”

“Io penso prenderò un chili.” Gli comunicò Norja, sfogliando il proprio menù.

Tom lo cercò e ne studiò l’immagine: sembrava una specie di minestrone molto denso.

“Che roba è? Buono?”

“A me piace. È fatto con verdura, ceci, fagioli rossi, spezie e…”

“C’è carne dentro?”

“In questo che prendo io no.” Lo rassicurò lei.

“Bene. Sono vegetariano, sai…”

Norja assentì distrattamente.

“Sì, so.”

“Lo prendo anch’io.” Decise Tom.

Norja sollevò su di lui uno sguardo pieno di dubbiosità:

“Ma…”

“La foto mi ispira.”

“L’hai mai assaggiato?”

“No, ma guarda che io sono uno che mangia di tutto!” dichiarò. “Davvero.” Aggiunse, notando che lei restava titubante.

“Se lo dici tu.”

Un secondo dopo apparve il cameriere di poco prima, reggendo un blocchetto digitale in mano.

“Siete pronti per ordinare?

“Sì.” Norja chiese un’ultima conferma a Tom con un’occhiata veloce, ma lui tacque. Voleva il chili, punto. “Due chili di verdure, una porzione di burritos,” ordinò quindi lei. “E per me da bere acqua naturale.”

“Niente alcol?” si stupì Tom.

“No.”

“Hai paura di ubriacarti e cedere al mio fascino?”

Le guance di Norja si colorirono vistosamente.

“Chiudi il becco!”

Tom trattenne un sogghigno trionfante e si rivolse al cameriere:

“Per me una birra media.”

“Basta così?”

“Basta, grazie.”

L’uomo si allontanò, lasciandoli nuovamente soli.

“Hai detto ‘grazie’ o ho sentito male io?” si stupì Norja.

“La Galanteria funziona, eh?” si compiacque Tom.

“Strano ma vero.”

“Sei tu che mi sottovaluti, carina.”

“No, credimi.”

“Invece sì.”

“No, Tom.”

“Sì!”

“Oh, santo cielo!” sbottò Norja, spazientita.

“Non mi lasci possibilità se ti ostini a fare la prevenuta!” protestò Tom, non meno spazientito di lei.

“Io non voglio che tu abbia possibilità, infatti.”

Quell’osservazione lo ferì: non si poteva parlare a peggior sordo di chi non voleva sentire.

“Ma allora lo vedi che sei prevenuta e che mi odi?” le rinfacciò.

Norja emise un rantolo sommesso.
“Hai intenzione di tirare in ballo questa cavolata ancora molti miliardi di volte?”

“Solo finché non mi spiegherai cosa ti ho fatto di così grave.”

“Esisti!”

“Sì, sai, è una piaga che mi affligge da ventun anni, ma non so come sbarazzarmene senza spiacevoli conseguenze.”

“Ho qualche suggerimento, se vuoi.”

“Seppellirmi vivo non è un’opzione, ti avverto.”

“Oh, uffa, non vale!”

“Sei prevedibile, Germania. Un libro aperto.”

Di nuovo, come il giorno prima a colazione, Norja sembrò irrigidirsi all’improvviso e chiudersi in sé stessa. Tom proprio non capiva.

Fortunatamente arrivarono i loro piatti a salvare il momento morto. Ringraziarono il cameriere e questi se ne andò, augurando loro buon appetito.

Tom si ritrovò davanti una ciotola colma di verdura e legumi immersi in una brodaglia dall’intenso aroma speziato. Non aveva un aspetto granché invitante, dal vero.

“Buon appetito.” Disse Norja, mentre si sistemava il tovagliolo sulle ginocchia.

Tom fece lo stesso, non troppo convinto.

“Ehm… Sì, altrettanto.”

Prese la forchetta, anche se non era del tutto sicuro di come si potesse mangiare quella roba con una forchetta, e guardò Norja: lei stava mangiando il suo chili con gusto, prendendo di tanto in tanto qualche boccone di tortillas dal piatto che c’era al centro del tavolo. Appena più fiducioso, Tom si decise a raccogliere un po’ di brodaglia e le la portò in bocca. Dapprima non successe nulla; un istante dopo sentì la lingua pizzicargli e gli occhi riempirsi di lacrime. Quando deglutì, un accesso incontrollato di tosse lo scosse, facendolo lacrimare.

Quella roba era piccante oltre ogni sua peggiore immaginazione.

“Tom?” Norja smise di mangiare e si chinò in avanti con aria preoccupata. “Che succede?”

Lui provò a dire qualcosa, ma la gola gli bruciava, e la lingua anche, e aveva bisogno urgente di acqua.

“Tom!” Norja afferrò prontamente la bottiglia d’acqua e si riempì il bicchiere, per poi porgerglielo subito. Tom lo tracannò in mezzo secondo, poi tossì ancora un po’, cercando di riprendersi.

“Ma cosa diavolo c’è in questa robaccia?” biascicò, non appena ebbe un po’ di fiato.

“Chili, no?” replicò lei, con una nota di ansia che le restava nella voce.

“Non potevi dirmelo prima?”

“Ma è un chili, è ovvio che contenga del chili!”

“Ma non so nemmeno cosa sia un chili!”

“Peperoncino piccante, idiota!”

“Cazzo!” imprecò Tom, e prese appunto mentale di non fidarsi mai più del cibo etnico, per quanto invitante potesse apparire.

“Perché diavolo l’hai preso se non sapevi cos’era?!” lo rimproverò Norja.

“Sembrava buono!” esclamò Tom. Ancora non aveva smesso di tossicchiare e schiarirsi rumorosamente la gola.

“Va bene, non ti piace il piccante, ma datti un contegno! Ci stanno guardando tutti!”

“Che cazzo di contegno vuoi che mi dia?” si difese lui, che ancora non capiva come lei potesse mangiare quella roba senza conseguenze visibili. “Stavo per soffocare! Mi hai portato in un ristorante di assassini del palato!”

Norja agitò incurante una mano.

“Non essere melodrammatico. E comunque ci sei voluto venire tu con me, o sbaglio?”

“Mai fatta cazzata più grande.”

“Nascere non ti è bastato?”

“Fottiti!”

“Sì, magari più tardi, in un posticino più discreto.” Rispose Norja, abbassando la voce, suadente. “E scordati che ti lasci guardare.”

Tom fece appena in tempo a deglutire il sorso di birra che aveva appena preso, prima di scoppiare in una risata.

“Non farmi ridere, faccio già fatica a respirare!”

“Non ne dubito, visto che buona parte della responsabilità del buco dell’ozono è sicuramente dovuta a tutte le sigarette che ti fumi.”

“Hai idea di quanto sia stressante essere me e di quanto sia rilassante fumare?”

“Esistono antistress migliori, sai?” disse lei, in tono fastidiosamente saccente.

“Tipo cosa?” chiese però Tom, incuriosito.

“Non so,” rifletté Norja. “Il jogging, per dirne una, o la meditazione, o…”

“Il sesso?”

“Il lavoro a maglia!”

Tom era praticamente certo di aver compreso male.

“Il lavoro a maglia?”

Gli occhi di Norja brillarono.
“Sì. Se non facessi almeno mezzora di lavoro a maglia la sera, a quest’ora sarei già ricoverata in un ospedale psichiatrico.”

“A parte che in un ospedale psichiatrico ci dovresti stare a prescindere da lavori a maglia e affini, mi ci vedi alle prese con un hobby simile?”

“Seduto su una sedia a dondolo davanti al caminetto con un vaporoso scialle di lana rosa sulle spalle?” Le labbra rosse di Norja trattennero un sorriso. “Tantissimo.”

“Tu quando lavori a maglia sei seduta su una sedia a dondolo davanti al caminetto con un vaporoso scialle di lana rosa sulle spalle?” indagò Tom, cercando di immaginarla in una situazione simile, ma senza successo.

“Quando sono a casa mia, sì.” Confermò lei.

“Davvero?”

“Che c’è di strano? Fa tutto parte dell’effetto rilassante! Hai mai provato a sederti su una sedia a dondolo?”

Tom si domandò se per caso avesse l’aria di uno che abitualmente faceva cose di quel tipo.

“Non direi.” Le rispose. Non era ancora sicuro che stesse parlando seriamente. Intanto aveva spinto da parte il chili e si era servito di un paio di burritos, che sembravano un po’ più affidabili. Ne assaggiò uno e scoprì dì aver trovato qualcosa di ingeribile.

“Allora non puoi capire gli straordinari poteri che ha dondolarcisi sopra.” Dichiarò Norja, compunta. “Tu ti siedi e ti lasci cullare, e lo stress si volatilizza! Dà una sensazione di pace assoluta!”

“Ho paura di quel che ne sarebbe del mio status di virile maschio etero se provassi a fare una cosa simile.”

Norja schioccò la lingua, scuotendo la testa con disappunto.

“Questo denota insicurezza.” Disse. “Chi ha stima di sé non ha problemi a mettersi in discussione e prendersi un po’ in giro.”

“Adesso non mi verrai a dire che hai studiato psicologia!”

“Non ci vuole uno psicologo per capire che la tua immagine pubblica è una bufala monumentale.”

“Parla quella che da psycobambolina si trasforma in dark lady ogni volta che si presenta al pubblico!”

“Ma è diverso. Io lo faccio per assicurarmi che la figura di Norja Schwartz resti ben separata dalla mia vita mia privata.”
“Ciò non toglie che la stragrande maggioranza della gente penserà sicuramente che tu lo abbia fatto per creare un morboso interesse attorno alla tua persona. Non dico che non sai fare il tuo lavoro, ma sicuramente hai fatto scalpore anche grazie all’aura di mistero in cui sei avvolta.”

Norja parve colpita da quella frase, almeno a giudicare dalla sua faccia basita.

“Potrebbe essere una mia allucinazione, ma ho come il sospetto che tu abbia appena fatto un’osservazione non solo sensata, ma anche intelligente ed acuta.” Si sorprese.

Tom si incupì.

“Sei tu che mi sottovaluti!”

Ci fu un attimo di silenzio in cui si scrutarono l’un l’altra, poi Norja chinò il capo, sospirando.

“Forse hai ragione.”

“Ha!” esultò subito Tom.

“Ho detto forse.” Lo gambizzò lei, altrettanto rapidamente, ma lui, anziché arrabbiarsi, poggiò il mento tra le proprie mani, i gomiti sul tavolo, e si mise a fissarla. Norja resse lo sguardo più a lungo di quel che lui avrebbe scommesso, ma alla fine cedette. Era di nuovo arrossita.

“Senti un po’, Islanda…” esordì quindi Tom, passandosi la lingua sulle labbra.

“Che c’è?” mormorò lei, senza tornare a guardarlo.

“Ancora non so quale diavolo è il tuo vero nome.”

Lei face come se non lo avesse sentito.

“Dai, dimmelo!” la pregò Tom, supplichevole. “Non lo dico a nessuno!”

Norja emise un indolente gemito sommesso.

“Tom, non –”

“Ti prego!” rincarò lui, affatto scoraggiato. “Mi stai uccidendo di curiosità!”

“Se fosse…” bisbigliò lei tra i denti, roteando gli occhi.

“Me lo dici?”

“No.”

“Dai!”

“Ma cosa me lo chiedi a fare se tanto poi decidi tu?!”

“Per educazione.”

“Ah, bene.”

“Me lo dici?”

“No!”

“Ti prego!”

“Oh, per carità divina!” Norja si portò entrambe le mani alle tempie, trafiggendolo con un’occhiataccia velenosa. “Kelly Devenpeck, contento?” confessò infine, lasciando Tom alquanto stupito.

“No, dai,” ridacchiò. “Sul serio.”

Sto dicendo sul serio.” Sibilò Norja, alterata.

“Sul serio serio?”

“Drammaticamente sul serio.”

E così Norja Schwartz, la misteriosa scrittrice di libri fantasy, era in realtà Kelly Devenpeck. A Tom sembrava un nome forse più assurdo di quello d’arte stesso.

“Ok, capisco perché hai voluto uno pseudonimo.”

“Lo so, è un nome atrocemente banale.” Mugugnò lei. “Gradirei che tu mantenessi il segreto, per cortesia. Al di là della funzione di copertura per quell’orrore del mio nome di battesimo, il nome d’arte mi serve anche per non essere riconosciuta, quindi apprezzerei che tu non vanificassi tanti anni di duri sforzi di anonimato.”

Lo prendeva in giro, come sempre. Prendeva le distanze da lui.

Ti sei fidata di me. Ti fidi di me. E allora perché continui a tenermi così lontano, me lo dici?

 

***

 

Norja era incredula: aveva davvero appena spiattellato il proprio segretissimo vero nome con tanta e tale beata incuranza? E lo aveva davvero fatto solo perché il primo venuto la aveva implorata di rivelarglielo? Una parte di lei – purtroppo o per fortuna, non ne aveva idea – era tristemente sicura che, ci fosse stato chiunque altro al posto di Tom, la sua preziosa identità sarebbe stata ancora il tabù che sarebbe dovuta essere.

“Sarò muto come una tomba.” Le promise Tom, e il suo viso esprimeva una sincerità così vivida da non poter in alcun modo essere dubitabile.

“Sarà meglio per te,” lo minacciò lei. “Altrimenti ci finirai ad abitare, in una tomba.”

“Non male come idea. Arredamento minimalista, affitti bassi, vicini tranquilli… Peccato per i problemi di riscaldamento.”

“La gente potrebbe scambiarti per un putto decorativo.”

Tom assunse un’aria interrogativa:

“Che cos’è un putto?”

“Kleine engel, hai presente?”

“Se tu avessi detto angioletto avrei capito!”

Norja si obbligò a non ridere, né piangere, né scioccarsi. Poteva anche essere bello da fare schifo, ma era affetto da una forma mediamente grave di ignoranza.

“Ma a te chi te l’ha data la licenza media? L’hai trovata nell’uovo di Pasqua?”

Lui, però, le sorrise con fare complice:

“E poi dicono che si trovano solo aggeggini inutili!”

C’era una strana, dolorosa tenerezza nella sua gestualità. Aveva modi vagamente goffi, come quelli degli adolescenti cresciuti troppo in fretta, ma cercava di muoversi lentamente, con delicatezza, con risultati abbastanza buffi.

Lo osservava rapita staccare pezzetti di tortilla con le mani e passarli sul piatto dei burritos per raccogliere la salsa, per poi farli sparire in un sol boccone, leccandosi gustosamente le dita, e di conseguenza causando al sensibile cuore di Norja pericolose capriole inconsulte.

Così non va, piagnucolò tra sé. Non va bene. Non va affatto bene. Perché diavolo ho accettato di farmi trascinare in questa follia?

Perché Mister Occhi Incantevoli qui presente si è impossessato di ogni tuo brandello di sanità mentale e ne ha fatto ripieno per burritos messicani, che si è prontamente sbafato con gusto, senza lasciarti nemmeno le briciole, le rispose una vocetta leziosa dentro di lei.

Faceva quasi male guardarlo. Non tanto per tutta quella dolcezza inconsapevole che emanava, ma perché lui era lì, seduto davanti a lei, e avrebbe potuto toccarlo semplicemente allungando una mano sul tavolo, eppure non era più vicino di quando Norja, anni prima, lo guardava nei suoi poster.

Tom Kaulitz. Era Tom Kaulitz dei Tokio Hotel. Lo era sempre stato. Cosa c’era di così sconvolgente?

C’è che lui è qui.

“Hey, Lichtenstein, che ti prende?”

Norja rimpiombò bruscamente nella realtà:

“Uh?”

“Eri in fissa. Capisco che la mia bellezza sia… Com’è che era il termine? Destrutturante?”

“Sì, come il tuo inglese.”

E questo tuo maledetto, delizioso accento teutonico.

“Disequilibrante?” ritentò Tom, strizzando gli occhi per lo sforzo.

“Suppongo che tu voglia dire ‘destabilizzante’.” Indovinò allora lei.

“Sì, ecco.”

“Prendi nota, altrimenti la prossima volta che dovrai vantarti internazionalmente avrai ancora la lacuna.”

Ma Tom non la stava ascoltando più. aveva quel sorriso velato sulle labbra, lo sguardo un po’ trasognato e un po’ intento, perso altrove.

“Abbiamo un problema, sai?” sospirò, sorridendo appena.

“Tu di sicuro.” Ironizzò lei, ma aveva una brutta sensazione.

“Un grave problema.”

Norja deglutì. La brutta sensazione si stava facendo pessima.

“Quanto grave?” osò chiedere.

“Disastrosamente grave.”

“Non sono sicura di volerlo sapere.”

In realtà c’era un pesante conflitto in corso dentro di lei: una metà smaniava dalla voglia di sapere; l’altra tremava alla sola idea di quello che Tom avrebbe potuto dire. In entrambi i casi, comunque, un pensiero comune c’era: non avrebbe portato a nulla di buono.

“Ho il raggelante sospetto che tu mi piaccia davvero, Norvegia.”

Norja chiuse istintivamente gli occhi, come a voler stupidamente cancellare qualcosa che ormai era irreparabilmente successo. Non se lo ricordava nemmeno lei quando era stata l’ultima volta che si era sentita così male, se mai c’era stata.

Era fatta. Se l’era cercata.

“Ti avevo detto che non ero sicura di volerlo sapere.” Ribatté gelida.

Tom si strinse nelle spalle a mo di scuse.

“Nel dubbio, io te l’ho detto.”

“Avrei preferito di no.”

Il tavolo era piccolo. Minuscolo, anzi. Così stretto che tra loro due c’era solo una misera spanna di violabilissima aria, che si stava anche lentamente accorciando. I bellissimi occhi nocciola di Tom erano inchiodati nei suoi, e la tenevano come soggiogata nel loro incantesimo, paralizzandola lì dov’era. Il suo cuore batteva furiosamente invocando pietà, elemosinando collaborazione da parte dei muscoli, che però non ne volevano sapere di rispondere.

Voleva ridere. Voleva piangere. Voleva scappare.

Non sapeva cosa voleva, esattamente.

Quando le labbra di Tom furono a poco più di un soffio dalle proprie, Norja ebbe la forza di tirarsi indietro quanto bastasse per uscire dalla sua portata.

“Non credo sarebbe una buona idea.” Sussurrò, mentre un brivido le percorreva la schiena.

“Perché no?” volle sapere Tom, pacato, fermo dove lei lo aveva lasciato.

“Perché no.”

“Non ti piaccio, per caso?”

“No.”

Tom corrugò la fronte.
“No cosa?”

“No e basta.”

“Ma...”

“Tom,” La voce di Norja tremò dallo sforzo di non incrinarsi. “Dico davvero...”

“Anch’io.” Le fece eco lui, e con uno slancio imprevisto si sporse in avanti, riuscendo quasi a colmare la distanza tra di loro, tra le loro labbra. Ma Norja fu svelta:

“Tom, ho detto di no!” esclamò, e scattò in piedi, sentendosi caldissima in viso, gli occhi adombrati dalla frangetta.

Lui non ebbe nemmeno modo di tentare di dire o fare qualcosa: arrabbiata, agguantò alla cieca la propria roba e lo piantò in asso così, senza nemmeno insultarlo o reagire. Prima che potesse rendersene conto, era in strada, diretta a passo furioso verso l’hotel, e di Tom, alle sue spalle, nessuna traccia.

Meglio così.

Come aveva previsto, si era pentita di aver accettato di uscire con lui. Diversamente dalle previsioni, però, il danno non era affatto contenuto e facilmente riparabile.

 

***

 

Il delicato cuore di Bill per poco non soccombette a un infarto quando si vide piombare in camera un Tom spaventosamente cupo e scosso. Georg, che era da lui per una partita alla Playstation assieme a Gustav, scambiò con lui uno sguardo perplesso e preoccupato.

“Tom, cos’è quella faccia?”

Inespressivo e come in trance, Tom attraversò la stana e si lasciò cadere a peso morto sul divano, fissando il vuoto.

“Volevo solo baciarla…” mormorò, atono.

Bill gli si avvicinò e gli sedette accanto, accigliato.

“Scusa?”

“Norvegia Nera.” Aggiunse quindi Tom.

“Volevi baciare Lilli?”

“Sì. Stava andando tutto bene, ma poi… Non lo so, appena mi sono avvicinato, è diventata strana, rigida… Ho provato a baciarla, ma lei è schizzata in piedi e mi ha guardato come se fossi un mostro marino.”

“Allora forse c’è qualche speranza che ti trovi carino.”

“Bill, ci sei o ci fai?” scattò Tom, nervoso come non mai. “Sembrava terrorizzata! O furiosa. O offesa. Che cazzo ne so…”

Raccontò loro ogni cosa in mezzo minuto di collage di frasi semisconnesse, e alla fine Bill era persuaso che la faccenda fosse tremendamente seria.

“Magari ha qualche trauma psicologico, tu che ne sai?” azzardò Georg.

Tom cadde nel panico:

“Oddio, non ci avevo pensato!”

“Il solito animale insensibile.” Lo rimproverò Bill.

“Vaffanculo, che cazzo ne posso sapere io?!”

“Studi recenti hanno dimostrato che se quando una donna parla la ascolti, impari cosa è meglio dire e fare in sua presenza. O, in questo caso, cosa non dire e non fare.”

“Sì, ma non è mica tanto facile se la donna che ti parla è pazza!”

In quel momento comparve Gustav dalla stana accanto, una lattina di coca cola in mano.

“Che succede?” si informò.

“Tom ha tentato di baciare Lilli.” Gli spiegò Bill.

“Ah.”

“E lei se n’è scappata via sconvolta.” Precisò Georg.

“Tu sì che ci sai fare con le donne, vero, Tom?” sghignazzò Gustav.

“Fanculo.”

“Va bene,” Bill si alzò in piedi e si rimboccò stancamente le maniche. “Ho capito che qui ci devo pensare io.”

“Tu?!” esclamarono tre voci incredule.

Bill puntò il naso in aria con assoluta superiorità.

“Sì, io. Pare che sia l’unico che sappia trattare con una donna senza passare per un bifolco.”

“E che cos’avresti intenzione di fare, sentiamo?” indagò Georg.

“La inviterò a fare un giro nel backstage, domani.”

“Mi dicono che lei accetterà giubilante.” Intervenne Tom, sempre più cupo, ma questo non fece altro che fomentare la dterminazione di Bill a risolvere la questione. Per il bene di Tom, avrebbe fatto questo e ben altro.

“Certo che lo farà.” Affermò, sicuro. “Nessuno dice di no a me.”

“Auguri, allora.” Fecero Georg e Gustav. Tom tacque, ma Bill gli lesse la speranza negli occhi.

Uscì subito dalla stanza per andare a cercare quella di Norja. Non aveva idea di quale fosse, ma decise che avrebbe perlustrato i corridoi, almeno per controllare, e se poi non la avesse trovata, avrebbe trovato il modo. Camminando per il quarto piano, però, si ritrovò di fronte ad una porta che, per un piccolo ma determinante dettaglio, lo fece fermare. Poteva anche sbagliarsi e fare una figuraccia, ma sentiva di dover tentare, così sollevò una mano e bussò. Pochi istanti dopo, la porta si aprì e lui si ritrovò al cospetto di una Norja con un aspetto non troppo diverso da quello di Tom: scioccato e confuso.

“Ciao!” la salutò, regalandole un sorriso rassicurante.
“Oh, dio,” guaì lei, e non parve affatto felice di vederlo. “Anche tu no!”

 

***

 

Bill Kaulitz. Norja stentava  a crederci. Si rifiutava di crederci, perché Bill Kaulitz non poteva in alcun modo trovarsi alla porta della sua stanza, proprio adesso.
“Tranquilla, vengo in pace e non porto fratelli inopportuni.” Le assicurò lui, facendo sfoggio di un accento così marcato, tedesco e delizioso che lei per poco non si scordò di tutto quanto era successo solo un paio d’ire prima.

“Sembra quasi troppo bello per essere vero.”

“Sono venuto a scusarmi da parte di Tom per come si è comportato oggi.”

Lei batté le ciglia, smarrita:

“Tu sei venuto a scusarti da parte di Tom?”

“Voleva venire lui, ma ho pensato che fosse meglio impedirgli di peggiorare la situazione.”

Norja incrociò ostilmente le braccia.

“Vuoi vedere che Tom è così scemo perché il buonsenso te lo sei preso tu?”

“È molto sensibile,” la ignorò Bill, a piena dimostrazione della sua tesi. “Pieno di tatto. Solo che non sa applicarsi.”

“L’ho notato.”

“Insomma, gli dispiace per quello che è successo. È sinceramente pentito e vorrebbe che tu lo perdonassi.”

“Diciamo che lo perdono.”

Bill sollevò eloquentemente un sopracciglio, causando al sistema nervoso di Norja un repentino e pericoloso collasso istantaneo.

Dannato sopracciglio assassino! Non lo si può usare così, come un’arma impropria! Giochi sporco, Kaulitz!

“D’accordo, d’accordo, lo perdono.”

“Fantastico! Ora che è tutto sistemato, ho una proposta da farti.”

“Qualunque cosa sia, la risposta è no. Anche se ho come la sensazione che i problemi recettivi verso le negazioni siano genetici.”

“Eh?”

“Lascia stare.”

“Sei un tipo strano, lo sai?”

“Non vorrei sembrarti indelicata, ma detto da due metri di fenicottero glam-goth con un gilet peloso suona abbastanza… Bizzarro.”

Ma il lasciar correre doveva essere un’arte in cui i Kaulitz dovevano essere particolarmente ferrati, perché Bill non badò minimamente alla provocazione, e, anzi, le sorrise con più calore:

“Mi chiedevo se domani ti andrebbe di venire a trovarci nel backstage del concerto, nel pomeriggio.”

“Ero convinta di averti già dato una chiara risposta un momento fa…”

“Dev’essermi sfuggita.”

“Ecco, mi pareva… Disfunzioni recettive congenite.”

“Sei liberissima di rifiutare, comunque.” Specificò allora lui, candido e pacifico come un angioletto.

“Dov’è il trucco?” berciò Norja, per niente incline a fidarsi, soprattutto dato che si trattava del gemello del ragazzo con cui ce l’aveva a morte.

“Nessun trucco.” Bill sollevò le mani in segno di onestà. “Bill Kaulitz stasera ha bussato alla tua porta e ti ha personalmente invitata a fare un tour esclusivo del backstage prima di un soundcheck dei Tokio Hotel a cui nessuno in genere ha accesso. Non penso ci sia nulla di straordinario, giusto?”

La solida convinzione di Norja subì un fugace momento di instabilità:

“No, infatti.” Convenne, ma la gola improvvisamente secca.

“Non ci vuole nulla a declinare una simile offerta, mi pare.”

Lei annuì, risoluta, inattaccabile.

“Esatto.”

“Facciamo domani alle tre, allora?” propose Bill, come se tutta la precedente parte della conversazione non fosse mai avvenuta.
“Io…” Norja era interdetta, troppo stranita per riuscire a ragionare in modo coerente. Voleva andarci, ma non voleva rivedere Tom. Non voleva andarci, ma voleva rivedere Tom. Era tutto molto, molto complicato, e la presenza disequilibrante di Bill non aiutava affatto la concentrazione. “Oh, sì, suppongo di sì.” Si arrese alla fine, imprecando contro se stessa per aver ceduto e a lui per averla stordita al punto da farla cedere “Accidenti a te e a questa sleale essenza di irresistibile meravigliostà che emani!”

Il sorriso intercontinentale che Bill le spalancò davanti quasi eclissò le luci che illuminavano il corridoio.

“Sei proprio simpatica, sai?” le disse, accarezzandole amorevolmente la testa, poi si infilò una mano in tasca e le porse qualcosa. “Ecco, questo è il tuo pass, e qui c’è l’indirizzo.” Lei prese la tesserina meccanicamente, la bocca aperta, senza ben rendersi conto di quel che stava accadendo. “Buonanotte, Lilli,” le augurò poi Bill, facendo un passo indietro. “Sogni d’oro!”

Imbambolata, Norja lo guardò volarle le spalle per andarsene, il pass stretto in mano, l’altra mano ancora appoggiata alla maniglia della porta. Era stata fregata in un minuto netto per la seconda volta nella giornata. Stava iniziando a perdere colpi, oltre che dignità.

“Bambi?” lo chiamò, appena prima che lui entrasse nell’ascensore.

Lui si voltò:

“Sì?”

“Come diavolo hai trovato la mia stanza?”

Bill sfoderò l’ennesimo sorriso abbagliante, ma stavolta con una sfumatura di consapevolissima furbizia:

“Era l’unica con appeso fuori il cartellino ‘Non disturbare’.”

 

***

 

Tom era in fibrillazione: Bill ci stava mettendo secoli, forse perché non trovava la stanza di Norja, forse non l’avrebbe mai trovata. Plausibile, visto che nessuno del personale dell’hotel era disposto a collaborare. Georg e Gustav si limitavano a gironzolare per la stanza, tanto per tenerlo d’occhio, ma tutto era tranquillo, tranne le sue ginocchia, che ballavano ininterrottamente su e giù a velocità esagerata.

Quando finalmente la porta di ingresso si aprì e Bill rientrò, Tom saltò su come una molla e gli si parò davanti, esagitato:

“Allora?”

Bill ghignò altezzoso:
“Allora sono un dio della persuasione. No, aspetta: sono un dio e basta.”

“Non so perché, ma sapevo che l’avresti detto.” Disse Georg, ma sorrideva, e Gustav anche.

“Ha detto che ti perdona la cafoneria. Arriva domani alle tre, le ho dato un pass.” Li informò Bill.

“Ma come hai fatto?” si chiese Tom con un fil di voce.

Bill fece spallucce:

“Come dovresti imparare a fare tu: buona educazione, gentilezza e un bel sorriso.” Senza aggiungere altro, gli diede qualche pacca affettuosa sulla testa e sorrise compiaciuto. “‘Notte, Tomi.” Gli disse poi, e lo lasciò lì, al centro della stanza, con Georg e Gustav che ridevano di lui, e il suo cuore che gli martellava dentro.

Perdonato o no, un problema restava sempre: Norja lo odiava davvero così tanto?

 

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Note: ho poco da dire, in realtà. ^^ Sono stanca, quindi perdonate eventuali errori di battitura sfuggiti alla rilettura; saranno corretti al più presto, a mente più lucida. Per ora grazie a tutte voi che avete letto e commentato, eccetera. Vi adoro! Spero che anche stavolta troviate il capitolo degno di una recensione. ^^ Per dubbi, domande o che altro, lo sapere, ormai: basta chiedere!

Per ora, alla prossima!



P.S. Qualche giorno fa è stato aperto un gruppo su Facebook chiamato "_Princess_ Fans" e io ovviamente sono supercommossa da ciò. *___* Non ho nemmeno Facebook, ma mi hanno spiegato di che si tratta e mi è stato chiesto di sponsorizzarlo un po', quindi, se avete Facebook e siete interessati (ovviamente lo spero XD), il gruppo è qui

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Capitolo 4
*** Break Away ***


Norja stentava a credere di averlo fatto davvero. Di essere lì.

Era folle.

No, peggio: era follemente sensato.

Norja si trattenne dal mordersi le unghie mentre si dirigeva a passo tutt’altro che sicuro verso l’ingresso del Velodrom, pensando a cosa ne avrebbe detto Bambi se avesse osato presentarsi con lo smalto rosso fresco di manicure tutto rovinato. E pensare che a lei nemmeno piaceva lo smalto.

C’era già un sacco di gente in fila davanti all’arena. Erano ormai più di due anni che lei non andava a un concerto e il solo respirarne indirettamente l’atmosfera le aveva suscitato una nostalgia che avrebbe volentieri evitato.

Quando incontrò il proprio riflesso nelle vetrate, se possibile, il suo umore si incupì ulteriormente: aveva il viso tirato, segnato dallo stress intensivo di quei giorni fitti di impegni, e vedersi così, senza la sua mascherina, la faceva sentire terribilmente nuda e vulnerabile.

Aveva ragione Tom: non era lei, quando si presentava in pubblico.

Ringraziò il cielo che l’entrata posteriore non fosse accessibile al pubblico, perché in caso contrario non si sarebbe mai azzardata a passare allegramente davanti a tutti come se nulla fosse. Era già stato abbastanza imbarazzante dover discutere con le guardie che sorvegliavano l’ingresso, che l’avevano scambiata per una fan furbastra che voleva infiltrarsi. Dopo diverbi vari ed eventuali, alla fine le avevano magnanimamente concesso di recuperare il pass dalla borsa e solo allora, senza nemmeno un accenno di scuse, l’avevano lasciata passare. Ora, il pass ben visibile al collo, stava per entrare nell’imponente edificio, e le sue mani si rifiutavano di spingere la porta come se dall’altra parte ci fosse stata chissà quale minaccia incombente pronta ad aggredirla.

Il che, tutto sommato, non era poi così distante dalla realtà.

Guardandosi nel vetro man mano che si avvicinava, si sentì immensamente stupida per come si era vestita: sembrava una scolaretta appena uscita dalle lezioni. Il problema era che qualunque scelta di abbigliamento le era sembrata assurda: vestirsi da concerto era fuori luogo, visto che non ci sarebbe stato nessun concerto prima di sera; il casual-elegante non era nemmeno un’opzione, ne aveva abbastanza già di suo; sexy, nemmeno a parlarne, si sentiva già abbastanza impacciata in quella stupida gonnellina a pieghe. Alla fine si era arresa e aveva tirato fuori dalla valigia capi a caso, e il risultato era drammaticamente simile a una divisa collegiale.

Già mi sento i commentini audaci di quella piattola di SNF…

Norja si sentì parecchio osservata quando finalmente riuscì a varcare la soglia. All’interno del palazzetto c’erano una moltitudine di persone che andavano e venivano, e molte di loro le scoccarono occhiatine sospette nel vederla farsi strada in mezzo a loro.

No, non sono una terrorista né una maniaca sessuale, gente, state tranquilli!

Mentre un tizio con una uniforme da guardia giurata le andava incontro con aria allarmata, Norja aveva già sviluppato una mezza idea di fare dietrofront e volatilizzarsi. Il solo pensiero di dover essere di nuovo faccia a faccia con i Tokio Hotel la atterriva a tal punto che quasi la sua pressione precipitò di botto. Non che i ragazzi non le fossero simpatici… Anzi, il problema era proprio quello. Aveva di meglio da fare che andarsene in giro per backstage e arene e fare l’ospite  d’onore privilegiata.

Sì, aveva decisamente di meglio da fare, eppure eccola lì, sola e sperduta nel covo del nemico.

Non ci sarebbero state conseguenze poi così gravi, dopotutto, se non si fosse presentata all’appuntamento. Al massimo Bambi si sarebbe stizzito per la sua maleducata irriconoscenza e SNF le avrebbe scatenato contro qualche trilione di maledizioni teutoniche, ma a parte quello sarebbe stato tutto perfettamente regolare.

Sì, era la cosa giusta da fare: scappare a gambe levate senza alcuna dignità.

Se solo le mie gambe volessero farmi la cortesia di collaborare…

E invece no, le sue gambe se ne stavano rigide e immobili, paralizzate, e non ne volevano sapere di portarla via da lì. Dopo tutta la fatica che aveva fatto per costringerle a portarla lì dentro, in effetti, Norja la trovò un’ostinazione ragionevole.

“Hey, eccola là!” esclamò ad un tratto una voce vivace, da un’imprecisata provenienza “Ciao, Lilli!”

Non ci voleva certo la vista di un’aquila per vedere il ragazzo alto due metri dalla vistosa cresta rizzata sulla testa che si stava sbracciando in fondo al corridoio. E, dietro di lui, un fascinoso dio greco dagli occhi verdi e la meraviglia fatta persona con un paio di bacchette da batteria in mano. E, dietro ancora, lui.

Norja pregò che la sua vista si prendesse una vacanza da lì a tempo indeterminato, perché di quel passo i già poveri resti del suo senno sarebbero defunti senza lasciare nemmeno tracce di cenere.

Tom portava la felpa bianca più enorme che si fosse mai vista, coordinata con il morbido berretto di lana e le scarpe sportive su cui ricadevano i larghi jeans chiari. La maglia che si intravedeva al di sotto della felpa era invece nera, come la bandana che gli fasciava la testa. La sua espressione un po’ ansiosa era così ingiustamente soverchiante che il cuore di Norja fece una capriola tale da finirle prima in bocca e poi nello stomaco, ritornando infine al proprio posto con un doloroso assestamento.

“Ciao, Bambi.” Salutò, la gola improvvisamente arida, mentre Bill, Georg e Gustav le si disponevano di fronte con dei sorrisi gentili. “Tarzan. Hercules.”

“Buongiorno, Lapponia.” Intervenne Tom, facendosi prepotentemente largo fra gli altri, ma con aria un po’ impacciata.

“Ciao, Pinocchio.” Ricambiò Norja, senza riuscire a imitare in modo decente i loro sorrisi. Non ricordava di essere stata così nervosa nemmeno il giorno della sua laurea.

“Come stai?” le chiese Gustav. Norja si concesse un secondo per ripristinare la connessione con la realtà, ma solo dopo essersi lasciata sfuggire un ‘Oooh!’ deliziato nella propria testa frastornata.

“Bene, se non calcoliamo il malaugurato incontro ravvicinato con uno dei vostri bestioni della security.” Rispose, sfoderando prontamente le sue preziose riserve di verve. “Anche dopo che gli ho mostrato il pass, aveva tutta l’aria di credere che fossi una fanatica maniaca stupratrice.”

I ragazzi risero.

“L’aria ce l’hai.” Commentò Tom. Bill gli sferrò una gomitata la cui potenza era probabilmente inferiore al battito d’ali di una farfalla.

“Ma non è vero! Guardala com’è dolce con questi codini!” esclamò, allungando le sue dita filiformi per dare una tiratina ai capelli di Norja. “Sembra un Cocker vero!”

Lei, miracolosamente, riuscì a non sbranarlo.

Sei fortunato che sei tanto carino e coccoloso, maledetto esserino sfrontato!

“Vieni, Lilli,” disse Bill, afferrandola per la sciarpa, e la trascinò con sé verso la porta alle proprie spalle. “Andiamo a fare un giro.”

“Mollami!” protestò lei, cercando di fargli lasciare la presa d’acciaio. “Non sono il tuo cane!”

Bill la lasciò andare, ma si voltò con un sorrisetto impertinente:

“Dai, non fare la musona! Con me non ce n’è bisogno.” Sussurrò, chinandosi verso di lei. “Non ti faccio niente.”

Norja ebbe un attimo di stordimento. L’ambiguità di quello che aveva detto Bill, con tanta naturalezza, le fece per un attimo venire il dubbio che lui sapesse. Ma non era umanamente possibile. Bill Kaulitz, pur essendo tutto quello che era, ovviamente non aveva la facoltà sovrannaturale di leggere nel pensiero.

Giusto?

Bill in testa assieme a lei, Georg, Gustav e Tom in coda, il gruppetto attraversò un’altra porta, che dava su un altro corridoio, stavolta deserto.

“Sei stata carina a venire.”

“Oh, figurati.” Norja sventolò una mano con fare distratto. “Fortunatamente la regina Elisabetta è una che non se la prende se le dai buca all’ultimo minuto.”

Bill la guardò perplesso.

“Come, scusa?”

“Niente, lascia stare.” Sospirò lei. “È il filtro anti-Kaulitz automatico. Mi spiace, ma funziona a rilevamento di DNA.”

“Mi farò togliere qualche cromosoma, a scanso di equivoci.”

La pelle d’oca che dapprima era sorta solo sulle braccia di Norja, si propagò lungo tutta la schiena in un brivido di tenerezza.

“Bambi, potresti lasciar parlare gli altri, per favore?” lo pregò. “Il tuo accento mi sta uccidendo.”

“Necessita di miglioramenti, lo so.” Si scusò lui, afflitto.

“No, è che ho un contegno pubblico da mantenere e se tu mi infliggi qualcun’altra delle tue S sibilanti, posso dire addio all’ultimo dei miei neuroni.”

“Sul serio?”
“Ecco, se poi infierisci a suon di R pronunciate alla Kaulitz, siamo a posto.”

“Noi qui dietro esistiamo, tanto per la cronaca.” Si intromise una voce scherzosa, che Norja riconobbe come quella di Georg.

In quell’istante Bill si fermò davanti a una porta e la aprì.

“Scusatemi, non volevo sembrare maleducata.” Disse Norja a Georg e Gustav. “Ho bisogno di pause di almeno cinque minuti tra una parola e l’altra con voi due, giusto quel che serve per restituire un flusso normale alla mia salivazione.”

Gustav si limitò a sorriderle; Georg fece lo stesso, ma aggiunse:

“Non è la ragazza più simpatica che abbiamo mai conosciuto?”

“Proprio.” Sbuffò Tom, passandole oltre senza guardarla.

Norja ebbe la spiacevole sensazione di averlo offeso con la propria mancanza di considerazione nei suoi confronti.

“Tom, se devi fare la particella di acido muriatico, perché non evapori?” sbottò Bill, alterato.

Tom gettò un’occhiata sfuggente a Norja, poi si infilò le mani in tasca e scrollò le spalle.

“Bene! Me ne vado a cambiarmi.”

Uscì sbattendo la porta, e a quel punto Bill si concesse un sospiro esausto.

“Scusalo, Lilli. È davvero un pessimo padrone di casa, vero?”

“Per fortuna compensi tu.” Lo rassicurò Norja, che, appena Tom era uscito, si era resa conto di trovare quella stanza assurdamente vuota e fredda. Era una camera quadrata, non più grande di cinque metri per lato, con una sola finestra e un tavolo di metallo al centro, a cui erano accostate delle sedie nere da ufficio. In un angolo, appoggiati su un mobile, un minifrigorifero e uno stereo malconcio. Nell’angolo opposto, una strana batteria dai piatti rivestiti in gomma.

“Ecco,” esordì Bill, compiendo un gesto circolare con la mano. “Questo il nostro locul– Ehm, spazio ricreativo.”

Norja non riuscì a trattenere una risata. Tutta la tensione di prima era sparita d’un colpo.

“Vieni,” disse Gustav, aprendo nuovamente la porta. “Ti facciamo fare un tour della zona palco.”

Fu piacevole trascorrere qualche minuto a chiacchierare con i ragazzi. Mentre le mostravano il retropalco e lo stage, le chiesero un po’ di lei, della sua storia e della strada verso il successo. Lei raccontò loro tutto quanto come se fossero stati amici di vecchia data, e fu sincera perfino quando le chiesero se fosse mai stata una loro fan. Se lo fosse ancora.

Vi amerò sempre, aveva promesso loro attraverso un poster, diversi anni prima, e tuttora la promessa restava infrangibile.

Lei fu banale nel chiedere a loro: volle sapere della loro vita, dei loro interessi lontano dalla scena, di come le loro famiglie avevano preso il loro successo.

Nel rispondere alla domanda sulla vita personale, furono tutti vaghi e diplomatici, ma Bill usò un termine che le fece stringere il cuore: mutilata.

Quante cose ci dovevano essere nascoste dietro ai loro sorrisi da fotografia…

Il pensiero di Norja vagò verso Tom. Era stato così carino, con lei, e lei lo aveva ripagato con sarcasmo e frecciatine ostili, senza riflettere su cosa ci fosse veramente alla base di quei suoi atteggiamenti così contrastanti tra loro.

Il senso di colpa aveva appena iniziato a insinuarsi nella sua coscienza, che Tom apparve alle loro spalle. Si era cambiato: i dettagli che prima erano in nero, erano stati sostituiti da capi viola, mentre la felpa, la stessa di prima, era aperta su un’ampia t-shirt, sempre viola, con un disegno argentato che Norja non riuscì a distinguere.

Gli donava parecchio, quel colore.

“Riecco l’antisociale del giorno!” esclamò Gustav, ricevendo in risposta uno sguardo ben poco affettuoso.

“Lilli, ti lasciamo un attimo in balia dell’inetto mentre ci andiamo a cambiare anche noi.” Le annunciò Bill, facendo cenno a Georg e Gustav di seguirlo.

“No!” esclamò Norja, nel panico. “Vi – vi aspetto qui!”

Bill emise una risatina leggera.
“Non puoi, sciocchina. Qui adesso devono iniziare a montare tutto.”

Gustav annuì serio.

“Rischi di prenderti qualche trave di metallo in testa.”

“Affare fatto!”

“Torniamo subito.” Le assicurò Georg.

“No, no, un momento!” supplicò lei, ma nessuno sembrava disposto a darle retta.
“Sei affidata a Tomi, Lilli!” le disse Bill, prima di scomparire assieme ai due compagni oltre una lastra di metallo, lontano dalla sua vista.

“Ma… Ma…”

Era rimasta sola.

No, non semplicemente sola: era rimasta sola con Tom.
Non si dissero niente. Non si guardarono. Non si sfiorarono nemmeno, durante il tragitto di ritorno verso a quello che Bill, giustamente, era stato sul punto di definire ‘loculo’.

Una volta entrati, Tom si piazzò su una sedia, la chitarra imbracciata, e si mise a pizzicare a caso le corde. Norja, ancora in piedi accanto alla porta, stava andando in iperventilazione. Rimpianse di aver preso un solo Valium, a pranzo, prima di uscire, e ancor di più di non essersene portata uno in borsa, soprattutto quando Tom, senza neanche sprecarsi a sollevare lo sguardo, le disse:

“Rilassati, Lituania.”

‘Rilassati’, le diceva. Come se rilassarsi o agitarsi fosse un’attività dominabile e controllabile.

“No che non mi rilasso!”

“Ok, non rilassarti, ma non attaccarmi le tue nevrosi.”

Mentre lui suonava, Norja prese ad andare avanti e indietro per la stanza, mangiucchiandosi febbrilmente le unghie, vanificando così tutti gli sforzi precedenti di lasciarle illese. A Bill sarebbe venuta una sincope, se l’avesse vista.

“Senti, hai proprio intenzione di agitarti come una fiera in gabbia ancora per molto?” grugnì Tom, irritato. Era cupo, rispetto agli altri giorni. Norja si rifiutò di credere che fosse a causa di quanto era successo il giorno prima.

“Sono claustrofobica!”

“Se vuoi ti apro la finestra.”

“La stanza resterebbe il buco che è!”

“Ma tu potresti buttarti di sotto.”

“Ti è rimasto il rimpianto di non avermi buttata giù l’altra sera, eh?”

“Non sai quanto.” Disse Tom. Finalmente sollevò lo sguardo su di lei, senza smettere di sfiorare le corde della sua chitarra, ed era uno sguardo inconcepibilmente serio da accompagnare a una battuta.

Perché era una battuta, giusto?

Aria. Norja aveva un disperato bisogno di aria fresca.

“Come si esce da questo bunker corazzato?”

“La finestra resta la via più rapida.”

“Non respiro.” Rantolò Norja, appoggiandosi a una parete, le guance in fiamme, le mani gelate.

“Ok, ok, calma.” Allarmato, Tom le si avvicinò, cercando di aiutarla. “Su, vieni qui, adesso faccio entrare un po’ d’aria.”

Le afferrò un braccio e le pose delicatamente una mano sulla schiena, ma lei si ritrasse come se le avesse fatto del male.

“Giù le mani!”

“Scusami.” Mormorò lui, atterrito. “Volevo solo –”

“Lo so” replicò lei, la testa che le vorticava. “Lo so,” aggiunse più morbidamente. “Scusami tu. È che…”

Era scorretto. Era dannatamente scorretto che Tom disponesse di due occhi così belli e profondi da puntare dritti nei suoi per farle andare in tilt ogni facoltà cognitiva. Ed erano anche così pericolosamente vicini…

“Che cosa?”

Aveva senso vedere il proprio cuore battere furiosamente dentro agli occhi di qualcun altro?

Aveva senso sentirsi completamente annullati nella sensazione di due mani calde che ti toccavano la pelle?

“Hey, Tom, tuo fratello ha di nuovo – Oh, salve.”

Norja e Tom si separarono di scatto. Lei si sentì avvampare e fissò il pavimento, registrando a malapena chi fosse l’uomo che aveva appena fatto irruzione nella stanza. David Jost.
“Salve.” Lo salutò, in un mugolio imbarazzato.

“Ehm…” Tom si mise tra loro due, cercando di fare qualche presentazione decente. “Dunque: David, lei è Norja. Norja Schwartz, la scrittrice. Te ne abbiamo parlato.”

Jost la squadrò senza preoccuparsi di dissimulare un qual certo stupore.

“Tu sei Norja Schwartz?”

“Così mi hanno detto.”

Le palpebre di Jost batterono un paio di volte sugli occhi chiari.

“Credevo che fossi più… Meno…”

“Più carina e meno vecchia?” suggerì Tom prontamente.

“Tom!” Lo apostrofò David, in tono di rimprovero, poi si voltò verso Norja con un sorriso. Era chiaro che aveva voluto dire l’esatto contrario di quel che aveva suggerito Tom. “Sono David Jost, il –”

“Produttore di questi quattro sfaccendati.”

“È una nostra fan.” Spiegò Tom, gonfio come un pavone.
“Non è vero!”

“E poi Pinocchio sono io!”

“Che succede qui?”  La testa bionda di Gustav fece capolino dalla porta. “Oh, ciao David!”

“Hai conosciuto Norja?” disse Bill, entrando in un tintinnio di catene e ferraglie varie.“Non è deliziosa?”

“Fin troppo. Senza offesa. Scusa l’accoglienza poco calorosa, ma mi aspettavo una tizia alla JK Rowling.”

“Una vecchia rugosa e noiosa?” suggerì nuovamente Tom, sempre più pronto.

“Hey, a me piace JK Rowling!” obiettò Norja.
“Sì, ma potrebbe essere la madre di tutti i presenti.” Precisò Georg. “Tu decisamente no.”

“Be’, Norja, è un piacere conoscerti. Spero che siano stati educati con te.” Le disse David, in un tono che trasudava dubbio.

“Ehm… Certo.”

“Vuoi assistere all’intervista?”

“No!” rispose lei immediatamente. “No, credo – credo che sia meglio che vada.”

L’ultima cosa di cui aveva bisogno era che si spargesse la voce che lei e i Tokio Hotel si frequentavano. A ben pensarci, non sapeva nemmeno perché si trovasse lì. No, lo sapeva: si era lasciata fregare dalla brillante performance di Bill Kaulitz nel ruolo del dolce persuasore.

Era stata un pessima, pessima idea.

“Vi ringrazio di cuore per l’invito, siete stati molto gentili, ma ora devo proprio andare. Ho un appuntamento con... Con il… Ho un appuntamento.”

“Allora ci si vede domani a colazione?” domandò Tom. Non era esattamente cupo come lo aveva trovato appena arrivata; sembrava anzi che in lui si fosse riacceso qualcosa.

“No.”

“Come no? Dai, non fare la scorbutica, possiamo –”

“Parto per Londra domani mattina alle sette.”

Il silenzio cadde sulla stanza come un macigno. Bill, Gustav e Georg si voltarono tutti verso Tom con facce piene di compassione; Jost, logicamente, non ci stava capendo un bel niente. Tom, dal canto suo, sembrava pietrificato.

Mortificato, forse?

“Ma come? Avevi detto –”

“Mi hanno spostato un paio di interviste.” Fece lei, sbrigativa. Non doveva spiegazioni a nessuno. Era il suo lavoro. Era così, punto. “Devo essere là per domani pomeriggio.”

“Ma…”

“Grazie di tutto. Mi ha fatto davvero piacere conoscervi.”

“Lilli…” pigolò Bill, con un musetto costernato che la devastò.

Proprio come circa un’ora prima, le gambe di Norja non avevano nessunissima intenzione di mobilitarsi per portala via, nonostante la sua testa le stesse letteralmente implorando. Non poteva restare. Doveva andarsene prima che la situazione le sfuggisse completamente di mano. In fretta.

“Ciao, Bambi.” Sussurrò, deglutendo a fatica. Strinse le mani a tutti, iniziando a sentire la tristezza che scava in lei. “Tarzan, Hercules, David…” Ebbe un attimo di esitazione nell’incontrare lo sguardo di Tom. “SNF… Buon proseguimento.”

“Olanda, aspetta!” Tom la bloccò per un polso appena prima che lei si voltasse. “Hai da fare, stasera?”

Norja boccheggiò.

“Come?”

“Sei impegnata?”

“Ho… Ho una cena con –”

“E dopo cena?” La forza della presa di Tom aumentava con l’aumentare della speranza nei suoi occhi. “Noi qui ne avremo fino a mezzanotte, ma…”

“Dopo cena sono al Crimson,” lo stroncò lei, prima che potesse aggiungere altro. “Ho un incontro di –”

“Ti passo a trovare appena mi libero del concerto.”

“Non è necessario.”

“Ma lo voglio fare.” Insisté lui.

Norja non sapeva cosa fare. Era lì, tutti la stavano guardando, tutti erano in attesa di qualcosa, ma era qualcosa che lei non poteva dare a nessuno di loro. Tom men che meno.

Lei voleva rivederlo. Voleva salutarlo. Voleva qualche altra ora da passare con lui, ma non poteva cedere, perché, come ogni altra cosa che creava dipendenza, non avrebbe fatto altro che nuocerle.

“Tom,” Lo costrinse a lasciarle il polso, ma non osò guardarlo in faccia. “Non venire, per favore.”

“Ti voglio salutare!”

La vibrazione supplichevole nella sua voce le fece male. Le face male anche obbligarsi a rivolgergli quell’occhiata feroce:

“Sei nutri un minimo di pietà nei miei confronti,” gli disse a mezza voce. “Per favore, non venire.”

E poi, senza guardarsi indietro, se ne andò.

 

***

 

Se n’era andata.

Norja se n’era andata via, e lui non l’aveva fermata. Non aveva fatto niente. Niente di niente.

A quello aveva pensato Tom per tutta la durata del concerto, senza un secondo di tregua. Aveva suonato con quell’ossessione in testa, arrabbiato e offeso, demoralizzato e pieno di domande.

L’aveva lasciato così, senza spiegazioni o ragioni valide, chiedendogli soltanto – ‘per favore’ – di non andare da lei. Il comportamento di Norja nei suoi confronti era stato un susseguirsi di contraddizioni fin dal primo istante in cui si erano incontrati, un oscillare continuo tra l’ostilità e la confidenza, e lui più confuso di così non sarebbe potuto essere. Il suo modo di rapportarsi con il genere femminile era di norma molto semplice ed elementare: uno scambio equo di favori a breve scadenza, e il nulla dopo. Con Norja, per qualche strano motivo, non aveva funzionato. Lui aveva cercato in ogni maniera di trovare un contatto con lei, ma ogni volta che ne avevano stabilito uno, lei aveva sempre trovato il modo di interromperlo e rovinare tutto. C’era qualcosa, tuttavia, che lei si era tenuta gelosamente dentro, rifiutandosi di condividerlo con lui. Era una sensazione che Tom aveva avuto fin da subito, ma che si era consolidata man mano che la aveva conosciuta. Che cosa fosse, poi, quel qualcosa, non sapeva immaginarlo.

Probabilmente non lo avrebbe mai nemmeno scoperto.

Non c’era molta gente per strada a quell’ora tarda. Era anche stato complicato trovare un taxi a mezzanotte passata, ma alla fine ce l’aveva fatta. Davanti a lui, l’insegna scarlatta del Crimson illuminava di bagliori rossi le fitte e finissime gocce di pioggia che scendevano dal cielo.

Sapeva che non avrebbe dovuto trovarsi lì, ma era stato più forte di lui. Non pretendeva molto: solo un saluto decente – un addio decente – nient’altro. Voleva solo parlare con lei un’ultima volta.

Era cosciente che le sarebbe apparso patetico: lui, un ragazzino di poco più di vent’anni, che si ostinava a rincorrere lei, più grande di ben quattro anni, più intelligente e matura, più seria, più professionale, più…

No, non ci credeva nemmeno lui. Per quanto provasse a convincersi che Norja non era adatta  a lui, il ricordo del pur esiguo tempo trascorso con lei era una dimostrazione fin troppo concreta dell’esatto contrario. Non sarebbe arrivato fin lì, contro gli ordini di Norja stessa, se non avesse avuto la certezza che ne valesse la pena.

Entrò, le gocce di pioggia che gli colavano lungo la giacca impermeabile, e fu inondato da un gradevole sbuffo di calore. Non era mai stato lì: era un locale buio, con luci e colori sui toni caldi del fuoco, divanetti in pelle nera e tavolini circolari di vetro, musica jazz dalle casse sparse ovunque. Non esattamente il suo club ideale.

Iniziò a guardarsi intorno, un po’ spaesato dalla folla borbottante, ma di Norja nessuna traccia. Fortunatamente nessuno sembrava far caso a lui.

“E tu che diavolo ci fai qui?”

Una scheggia di ghiaccio trapassò il cuore di Tom. La voce era quella giusta, quella che aveva sperato di poter risentire, ma il suo tono era duro come mai avrebbe pensato potesse essere. Ma Tom non si perse d’animo; si voltò, sicuro di sé e delle proprie ragioni, e le sorrise:

“Te l’avevo detto che sarei passato a salutarti, no?”

Fece fatica a parlare con disinvoltura, perché vederla lo lasciò senza fiato, e non in senso lusinghiero. Non sembrava nemmeno lei.

“E io ti avevo espressamente chiesto di non venire. Devi andare via. Non ho tempo per te.”

Portava un abitino nero, che le abbracciava la spalle lasciandole scoperte ed evidenziandole il decolleté, una catenina di fine oro giallo a cingerle il collo, ai piedi, delle scarpe a punta con un tacco assurdamente alto e sottile. La mascherina le nascondeva metà del viso, gettando ombre che rendevano i suoi occhi praticamente invisibili. I capelli, raccolti in un rigido chignon, sembravano bruciare assieme alle luci della sala. Un ciocca sottile, però, era sfuggita all’acconciatura e le sfiorava la guancia, ricadendole subito accanto alle labbra, non rosse, come d’abitudine, ma velate da un lucido strato di gloss trasparente.

Non era lei. Tom non la riconosceva nemmeno.

“Andare via? Sono appena arrivato!”

“Non dovresti nemmeno essere qui, infatti!”

Le guance rosate di Norja si fecero appena più colorite, le sue mani strette in due pugni frementi.

“Che ingrata che sei!” le rinfacciò Tom, amareggiato. Non c’era verso di trovare punti di contatto con lei.

“Senti, apprezzo il pensiero, ma devi sparire.” Gli intimò Norja, senza troppi giri di parole. “Adesso. Se Julian ti vede, io...”

“Julian?” Tom aggrottò la fronte, un senso di gelo che gli percorreva la schiena. “Chi è Julian?”

Era single. Glielo aveva detto lei. Era single, maledizione.

“Ti prego, vattene!”

“Chi è Julian?”

In quel momento si avvicinò un uomo biondo e affascinante sulla trentina. Appoggiò con confidenza una mano alla base della schiena di Norja, facendo vedere rosso a Tom.

“Hey, biscottino, chi è il piccolo? Ha un’aria familiare.”

“Nessuno.”

“Julian?” fece Tom, sempre più irritato.

Il biondo inarcò le sopracciglia.

“Ci conosciamo?”

“Non ancora.”

“Jool, arrivo subito.” Intervenne Norja, spingendo Julian verso la porta che dava sulla sala attigua. “Tu inizia ad ordinare. Prendo un Dama Bianca senza ghiaccio.”

“Ma di là ci sono –”

“Non ci metto molto, giuro. Dammi solo un minuto.”

“D’accordo.”

Julian occhieggiò Tom con ben poca convinzione, ma alla fine si decise a togliere il disturbo. Tom lo guardò andare via con mille domande sulla punta della lingua.

“Carino.” Ironizzò, tornando a rivolgersi a Norja.

“Sì, certo.” Borbottò lei, senza ascoltarlo davvero. “Tom…”

“Bei muscoli. Fa palestra?”

“Non ne ho idea. Ora, per favore…”

“Da quanto uscite insieme?”

Un lampo di sofferenza apparve per un infinitesimale di secondo sul volto di Norja, ma sparì troppo in fretta perché Tom potesse essere certo di averlo visto davvero o di esserselo solo inventato.

“Oh, dio, ma perché a me?” Norja sembrava davvero sul punto di esplodere. “Stammi a sentire: Julian è il mio manager, ok? È sposato, due figli, un cane, tre gatti e una station wagon. È qui perché c’è della gente con cui dobbiamo assolutamente parlare, di là. È importante, quindi apprezzerei che tu levassi le tende adesso.”

Tom si lasciò spingere fino all’ingresso, osservato da diversi clienti incuriositi.

“È una mia impressione o mi stai letteralmente sbattendo fuori?”

“Brillante deduzione,” berciò Norja, trascinandolo fuori dal locale, all’aria fredda della notte. “Sono sbalordita.”

“Ma sta piovendo!”

“Non è colpa mia.”

Lei fece per tornare dentro, ma Tom le si parò davanti, ostruendole il passaggio.

“Lasciami restare, prometto che non disturbo nessuno!”

“Disturberesti me.”

“Sto zitto e buono!”

“Mi disturberesti comunque.”

“Come faccio a disturbarti se mi limito a starmene in un angolino a respirare?”

Norja si portò stancamente una mano alla fronte, chinando la testa da un lato.

“Vorrei tanto saperlo anch’io.”

Sembrava esserci del rimpianto in quelle parole. O forse era rimorso. Tom non aveva mai capito bene la differenza.

“Mi molli per strada così?”

“Sì!”

“E partirai senza nemmeno salutarmi in modo decente?”

“Sì!” Norja rispondeva con determinazione mordace, reggendo egregiamente tutti i tentativi di Tom di fare breccia attraverso la sua corazza. “E adesso piantala di rompere! Ora io torno là dentro e tu non oserai seguirmi, sono stata chiara? Sono sicura che Berlino pulluli di sensuali galline cerebrolese che non aspettano altro che intrattenere Tom Kaulitz per una bollente notte di sesso casuale, quindi vai, infilati nel primo club che trovi e –”

Silenzio.

Il mondo si era fermato per permettergli di compiere quel gesto che in cuor suo sapeva che non avrebbe mai dovuto commettere. Perché lei glielo aveva detto, gli aveva proibito di farlo, eppure, come lei si rifiutava di dare retta a lui, lui aveva scelto di non dare retta a lei, e così l’aveva fatto.

Le labbra di Norja erano rigide e fredde contro le sue, che cercavano in tutti i modi una risposta che non sarebbe mai venuta.

L’aveva fatto, però. L’aveva baciata. E nell’incontrarsi in quel bacio, la sua mascherina le era caduta, impigliandosi nella scollatura del vestito.

Tom non volle abusare di quell’attimo di follia. Si era già spinto fin troppo oltre la linea di confine stabilita. Si separò da lei lentamente, gli occhi chiusi, aspettandosi uno schiaffo, un urlo, o una reazione di qualunque tipo, che però non ci fu.

Norja era in piedi davanti a lui, e adesso poteva vedere i suoi occhi, pesantemente truccati di nero, con sfumature rossastre sulle palpebre. Non erano velati d’odio, come si era aspettato lui, ma di un sentimento forse peggiore: la delusione.

“Ora spiegamelo.” Farfugliò Norja, la voce flebile e spezzata da un nodo alla gola. “Spiegami perché l’hai fatto, dopo che io ti ho tanto pregato di lasciarmi stare.”

Sembrava sconvolta. Sembrava persa. Sembrava furiosa e disperata.

Ferita.

“Non – non sono riuscito a trattenermi.” Biascicò Tom, sorpreso della sua stessa azione. Eppure lo aveva fatto con assoluta coscienza di sé.

“Vaffanculo.” Sbottò Norja, tremando da capo a piedi. “Vaffanculo, Tom!”

Frastornato nel vederla voltargli bruscamente le spalle, Tom la afferrò per le braccia e la costrinse a voltarsi:

“Non odiarmi, Finlandia…” la implorò, sentendo la sua stessa voce incrinarsi dal dispiacere.

Gli occhi neri e lucidi di Norja lampeggiarono di una pericolosa luce esasperata.

“PER L’ENNESIMA VOLTA, TOM KAULITZ: IO NON TI ODIO, MALEDIZIONE, LA VUOI CAPIRE O NO? IO TI AMO, D’ACCORDO?! TI AMO DA QUANDO ERO UNA PATETICA SEDICENNE ORMONALE E TU UN RIDICOLO RAGAZZINO CON UNA CHITARRA PIÙ GROSSA DI LUI IN MANO! TI AMO DALLA PRIMA VOLTA CHE TI HO SENTITO APRIRE QUELLA TUA MALEDETTA BOCCACCIA PRESUNTUOSA PER VANTARTI DELLE VENTICINQUE RAGAZZE CHE TI ERI FATTO PRIMA DEI QUINDICI ANNI! LO SAI CHE COSA VUOL DIRE QUESTO? CHE SONO QUASI DIECI FOTTUTISSIMI ANNI CHE SONO INNAMORATA DI TE! DIECI ANNI DELLA MIA VITA AD AMARE UNA PERSONA CHE NON ERA REALE! SAI COSA SIGNIFICA?!”

Tom aprì la bocca in cerca di aria, ma non riuscì ad inspirarne. Era stato travolto da quel discorso come un fiume in piena, e qualche parte non la aveva compresa del tutto, ma il concetto basilare lo aveva perfettamente afferrato. Ed era stato un pugno in pieno stomaco.

Non aveva capito niente.

Tuttora non capiva niente.

“Ma io… Io sono reale…”

La pioggia sottile continuava a cadere, a scivolare via dalle spalle di Tom e ad inzuppare irrimediabilmente il leggero abito di Norja e i suoi capelli, che stavano pian piano sciogliendosi dallo chignon, cadendole sulle spalle nude.

“No, Tom! Tu sei reale nel tuo mondo, dall’altro lato della transenna, capisci? Nel mio mondo tu eri solo un bel sogno che apparteneva a una dimensione del tutto separata dalla realtà! Eri nel tuo Olimpo, lontano anni luce dai comuni mortali come me… E non puoi – non puoi, Tom! – immaginare cosa abbia significato per me vederti materializzato davanti a me dal nulla, quella sera! Te ne sei uscito così dalla mia fantasia e hai preteso di entrare nella mia vita come se nulla fosse, come se fosse normale! E non sei diventato vero solo, tu, ma anche tutto il resto, e io… Io…” La frase morì lì. Mordendosi il labbro, Norja si nascose il viso tra le mani. “Dio, ma com’è potuto succedere?”

Tom restava una statua di sale. C’erano troppe cose aggrovigliate nella sua mente che lottavano l’una con l’altra per essere sciolte e metabolizzate con la giusta attenzione.

“Io… Io non…”

Cosa poteva dire? Cosa poteva dire per rispondere anche a una sola di tutte quelle cose gli aveva appena rivelato lei? Anche volendo, non avrebbe saputo da dove cominciare. E poi non capiva il senso di tutto quell’inveire. Se davvero anche lei provava qualcosa per lui, dove stava il problema? Perché scappare così?

Non sapeva nemmeno cosa stesse provando lui stesso.

“Io non ti conosco, Tom.” Disse Norja, con una nota di rammarico. “Non so niente che valga veramente la pena di sapere di te. Sei… Un emerito sconosciuto che è saltato fuori da un poster e mi è piombato nella vita senza lasciarmi nemmeno il tempo di capire come e perché, quindi scusami se sono confusa!”

“Ma noi… Noi siamo stati bene…”

Lei scosse ostinatamente la testa, l’acqua che le incollava i capelli rossi lungo il viso stravolto.

“Hai presente la storia della falena e del fuoco? Lei è attratta all’inverosimile da quel fuoco, è tentata di avvicinarsi, ma il fuoco è troppo caldo, il fuoco scotta… Lei lo sa che non le farà bene avvicinarsi troppo, sente che finirà male, ma non può farne a meno, e così si avvicina sempre di più, anche se si sente bruciare… E alla fine è troppo tardi.”

Tom si sentiva stupido a starsene lì con la bocca spalancata, incapace di razionalizzare, incapace di reagire.

“Io… Che cos’è una falena?”

A Norja sfuggì suono strano, forse più simile a un singhiozzo che a una risata.

“Oh, Tom…”

Rimasero a scrutarsi l’un l’altra per un tempo indefinito, che poteva essere pochi secondi, così come ore intere. Tom voleva parlarle, cercare di sbrogliare qualcosa da tutto quel caos che era scoppiato, ma non era mai stato bravo con i discorsi, e ancor meno ad affrontare i sentimenti.

Era una situazione al di fuori della sua portata.

Però non poteva lasciar crollare tutto così. Non poteva…

“Norja…”

Cercò avvicinarsi a lei. Una voce nella sua testa gli diceva di togliersi la giacca e mettergliela addosso, perché così poco vestita si sarebbe sicuramente ammalata, ma le sue mani cercavano solo lei. Elei, invece, arretrava.

“Norja, guardami.” Con uno scatto, Tom le afferrò le mani e le strinse tra le proprie.

“Lasciami andare, per favore!”

Ma lui la ignorò.

“Io sono reale e concreto, mi senti?” Le sue dita la strinsero più forte, e non gli importava se le faceva male; voleva che lei lo sentisse. “Abiterò anche in qualche sottospecie di Olimpo, lontano anni luce quanto vuoi, inarrivabile quanto vuoi… Ma sono qui. Io adesso sono qui, Norja, e sono qui per te. Solo per te.”

Per un attimo, lei sembrò troppo disorientata per ribattere, persa nei suoi occhi, ma poi un brivido la fece tornare in sé.

Adesso sei qui,” gli rispose rigidamente. “Domani sarai chissà dove, e io pure! Lo capisci quanto è paradossale anche solo sperarci?”

“Ma noi –”

“Lasciami andare…”

Non era una richiesta, e nemmeno una supplica. Era una preghiera.

“Ma io voglio stare con te!” sibilò Tom, e si rese conto con orrore di quanto suonasse come un mero capriccio.

“Sono io che non voglio stare con te!” esclamò lei.

“Ma hai detto –”

“Quello che ho detto non cambia le cose. Tu sei ancora dall’altra parte. Sei dove io non posso stare. Non è cambiato niente, Tom: tu sei sempre tu, e io sono sempre io. È tutto uguale a prima.” Norja non riuscì a sostenere più il suo sguardo. “Solo che adesso è peggio.”

Una goccia d’acqua le scivolò lungo la guancia, morendole sulle labbra. Tom non seppe mai se fosse solo pioggia, o se fosse l’estrema sincerità di una lacrima.

Aveva tutto quanto un sapore strano: l’aria, il temporale, i rumori attutiti e distanti della città… Sapeva tutto di fine.

“Svezia, non scherzare…” la implorò, e lei implorò lui con uno sguardo.
“Lasciami andare, Tom. Ti prego…”

Che scelta aveva?

Cosa poteva fare?

Non poteva certo costringerla a stare con lui se lei non voleva.

Fu come se cuore di Tom smettesse d’improvviso di battere quando la consapevolezza face breccia tra i suoi pensieri. Era così che doveva andare. Sperare ormai era inutile. Tutto sapeva di fine perché era quello che era.

Era finita.

E mentre le sue mani allentavano la prese su quelle di Norja, Tom si rese conto che in realtà non sarebbe mai riuscito a lasciarla andare.

 






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Note: un grazie grosso così e di cuore a tutti voi che avete letto e recensito lo scorso capitolo! Davvero, penso che alcuni di voi sappiamo quando può essere gradito un commento, quindi non credo serva dirvi quanto apprezzi i cinque minuti che dedicate alle recensioni! Ovviamente spero tanto che ne avrete cinque da dedicare anche a questo nuovo capitolo. ;)
Vi informo già questa puntata numero quattro è la penultima della storia. Con la prossima saremo alla fine. ^^ So che è una ff veramente breve, ma l'avevamo detto, all'inizio, no? Quindi, nonostante sia una storia di ben poche prestese, mi auguro che vi sia stata comunque gradita.
Il titolo del capitolo, che avrete sicuramente riconosciuto, è tratto dall'omonima canzone di quell'oscura band tedesca che tutte noi disprezziamo con tanta dedizione: I tokio Hotel. XD
Per ora non mi resta che augurare a tutti un buon anno nuovo! Ci si risente nel 2010! ;)

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Capitolo 5
*** Bleib ***


Vattene
Cerca di dimenticarti di noi due
Riusciremo ad andare avanti
Solo se non ci vedremo più
Vattene
Vattene
I giorni passano
Senza essere qui…

 

***

 

 

“Ci siamo incontrati solo un paio di volte.”

“Siamo diventati amici, tutto qui.”

“Non ho avuto modo di conoscerla molto bene, ma mi è sembrata una bella persona.”

“No, non ci siamo più visti, da quella volta.”

“Purtroppo il mio lavoro mi impedisce di mantenere i contatti con tutta la gente nuova conosco, quindi non penso ci rivedremo.”

Tom aveva perso il conto delle volte che aveva ripetuto quelle frasi, davanti a giornalisti e intervistatori vari. Ormai era passato un anno da quando aveva conosciuto Norja, ed era diverso tempo che l’interesse mediatico verso il loro incontro era scemato, ma all’inizio, subito dopo che si erano separati, né lui né lei avevano avuto tregua, tra domande invadenti, supposizioni e congetture dilaganti, insorgere di fans inacidite dal sospetto che qualcuna potesse rubarsi il loro chitarrista preferito.

Tom aveva tentato di mettere le cose in chiaro, più e più volte, ed era certo che lo avesse fatto anche lei. Qualcuno aveva creduto alla storia del ‘solo amici’, qualcuno no, ma, in ogni caso, senza ulteriori prove che lui e Norja si frequentassero, alla fine il polverone si era diradato, fino a scomparire del tutto. L’unica cosa rimasta del loro incontro erano pochi scatti rubati di loro due che discutevano fuori dal Crimson e un paio di articoli insinuanti.

Nient’altro.

Tutto ciò che Tom sapeva di lei era quello che leggeva sulle riviste, vedeva in TV, sentiva dai pettegolezzi. Lei era stata a Los Angeles, negli ultimi mesi, a seguire le riprese del primo film dedicato ai suoi libri. Lui c’era stato due volte, a Los Angeles, in quel periodo, e, nonostante lo avesse sperato, non la aveva mai incontrata.

L’aveva cercata, però. In ogni ragazza che avesse dei capelli rosso vermiglio, o un abbigliamento poco consueto, o degli occhiali da sole che le nascondessero il viso come lei era solita nasconderselo dietro la sua maschera. Per quanto ci avesse provato, non l’aveva mai trovata. E le altre che aveva conosciuto gli erano più o meno piaciute, ma erano poche e il problema era sempre lo stesso: non c’era tempo per innamorarsi.

Per una aveva addirittura pensato di provare qualcosa, ma poi, come al solito, era arrivato il momento degli addii, e lui si era reso conto che non avrebbe sentito la sua mancanza come aveva voluto credere.

La mancanza di Norja, però, la sentiva ancora.

Era brutto essere di nuovo lì a Berlino, un anno esatto dopo averla incontrata per la prima volta, e dover fare tutto come se lei non fosse mai esistita. Aveva sorriso nel photoshoot che avevano fatto a Schloss Charlottenburg. Aveva sorriso all’intervista per MTV che era seguita. Aveva perfino sorriso alla manciata di fans raccomandate che avevano avuto accesso al set. Non era riuscito a sorridere quando Bill, Gustav e Georg lo avevano guardato con quell’aria compassionevole e nostalgica.

Ora se ne stava lì, seduto dietro a un tavolo all’ultimo piano dell’Europacenter, a firmare autografi su autografi per una fila infinita di fans che si accalcavano davanti a lui come insetti affamati su un brano di carne cruda.

Non aveva nemmeno idea di quanto tempo avesse passato a scarabocchiare quei maledetti poster, ma gli sembrava un’eternità. Probabilmente più tardi gli sarebbe toccata una strigliata per quel malumore che stava ostentando, ma non gli importava. Aveva solo voglia di alzarsi ed andarsene.

“Me la potresti fare una dedica personale?”

Non si degnò nemmeno di sollevare lo sguardo. L’ennesima fan pretenziosa che voleva qualcosa di speciale.

“Nome?” chiese in tono incolore, la punta del pennarello già pronta sul poster.

“Kels.”

Che cazzo di nome è Kels?, si domandò Tom, iniziando a scribacchiare distrattamente: ‘A Kels, Tom’.

“Sta per Kelly.” Lo informò la ragazza, come se gli avesse letto il pensiero.

Tom si gelò sul posto.

Non può essere, pensò, ma la sua testa stava già abbandonando il poster per sollevarsi sulla ragazza che aveva di fronte. Dapprima vide i jeans scuri, poi un maglione grigio piuttosto largo, un cappotto nero, poi una catena argentata, una voluminosa sciarpa rossa, infine un viso pallido. Erano castani i capelli che lo incorniciavano, ma gli occhi che lo illuminavano erano inconfondibilmente, intensamente, dolorosamente neri. E le sue labbra rosse sorridevano.

“Ucraina?”

Tom non riuscì a controllare il volume della propria voce. Molte teste si voltarono incuriosite, anche se di per sé quell’esclamazione aveva ben poco significato, per tutti loro. Bill, Gustav e Georg, invece, guardavano la ragazza a bocca aperta, del tutto dimentichi degli autografi.

“Vedo che non hai perso il senso dell’umorismo, SNF.”

Tom non era proprio sicurissimo di trovarsi in una scena reale. Era un’assurdità: lei non poteva essere lì, adesso, davanti a lui. No, non poteva essere. Lo aveva sperato troppe volte, e non era mai successo. Non poteva essere vero.

“Sei davvero tu!”

Le braccia conserte, Norja sollevò sarcasticamente un sopracciglio.

“Così pare.”

Era lei. Era lei davvero.

“Cosa cazzo ci fai qui?”

Altra alzata di sopracciglio:

“Non è chiaro?”

“No, intendo in mezzo a tutta questa folla!”

“Sono una fan, no?” fece lei con ovvietà. “Faccio la coda come tutti.”

Tom era esterrefatto. Lei, che come se nulla fosse, se ne andava tranquillamente a fare la coda per un autografo… Che senso aveva? Era come se lui si fosse messo in coda per farsi autografare un CD da Bill.

“Tu non dovevi fare nessuna coda, sarebbe bastato avvisarci!”

Lei distese le labbra in un sorriso rigido.

“E come? Telefonavo alla Universal e dicevo ‘Salve, sono un’emerita sconosciuta. Mi potrebbe fissare un appuntamento privato con i Tokio Hotel, per cortesia?’?”

“Tu non sei un’emerita sconosciuta!”

Norja si limitò a sorridere amaramente, scuotendo la testa. Tutt’intorno stava scoppiando il finimondo: la security non sapeva più come tenere a bada la folla di ragazze curiose, e le ragazze stesse erano esplose in un attacco di borbottii più o meno sommessi, cercando di capire cosa stesse succedendo e chi fosse quella sconosciuta con cui Tom stava parlando.

Tom, dal canto suo, era completamente estraneo a tutto ciò.

“Sei qui a Berlino?” domandò ansioso a Norja, quasi temendo che lei potesse smaterializzarglisi davanti da un momento all’altro.

“Solo per poco.”

“Alloggi ancora al –?”

“Tom, la prossima.” Lo esortò sgarbatamente uno dei bodyguard alle sue spalle.

A quel punto, Norja gli sfilò praticamente il poster dalle mani. Tom non ebbe nemmeno la prontezza di sollevare il pennarello dalla carta, così l’immagine fu sfigurata da una lunga riga di indelebile argentato.

“Ci vediamo, Tom.” Lo salutò Norja, come nulla fosse, e gli volse le spalle. Solo che Tom non era dell’idea di lasciar correre un’altra volta.

Col cavolo che mi molli così un’altra volta!

“No! Danimarca, aspetta!”

Saltò in piedi senza riflettere e fece per lanciarsi in avanti e trattenerla, ma le guardie del corpo furono più veloci e lo fermarono appena in tempo.

“Tom, dove credi di andare?”

Lei non si voltò nemmeno a guardarsi indietro, anche se lui era sicuro che lo avesse sentito chiamarla. Impotente, vincolato dalla salda presa dei due uomini, Tom fu costretto a desistere. Era il suo lavoro, dopotutto. Si accasciò quindi sulla sedia, svuotato bruscamente di ogni sensazione. Ci vollero diversi minuti prima che l’ordine all’interno della sala fosse ripristinato, ma alla fine la sessione di autografi riuscì a proseguire.

“Chi era quella?” ebbe il coraggio di domandargli qualche fan particolarmente sfacciata.

Lui non rispose.

Non l’avrebbe perdonata per questo suo scherzo.

No, questa volta non le avrebbe permesso di passarla liscia.

 

***

 

Era una cazzata, lo sapeva.

Erano già passate due ore da quando Norja aveva lasciato l’Europacenter e lasciato Tom con un palmo di naso in balia del proprio destino. Era davvero stupido pensare che lei fosse veramente lì al Ritz e ancora più stupido era illudersi che sarebbe riuscito a ottenere una conversazione decente con lei. Però valeva la pena di tentare.

Pagato il taxi, Tom scese dall’auto, trascinandosi dietro una cosa non di certo sua che però, in un modo o nell’altro, aveva con sé da ormai un anno. Entrò nella hall dell’hotel a passo sicuro, ma con un tale tumulto nascosto dentro che a stento si sentiva in grado di mettere insieme una frase di senso compito. Era nervoso, e arrabbiato, ed era tutta colpa di Norja.

Quando lo vide arrivare, l’uomo che stava al bancone della reception ebbe un fugace attimo di stupore, che mascherò rapidamente con un sorriso cordiale:

“Buonasera.”

“Salve.” Ricambiò Tom, indeciso sul da farsi. Non era riuscito ad elaborare un vero e proprio piano durante il tragitto dall’Europacenter a lì. Tutto quel che sapeva era che voleva trovare Norja.

“Ehm… Forse lei si ricorda di me. Sono Tom Kaulitz, alloggio spesso qui con la mia band. Un anno esatto fa eravamo qui.”

“Né io né il mio personale di pulizie lo abbiamo dimenticato.” Rispose l’uomo, con un bagliore ilare negli occhi.

“Senta, so che le sembrerà strano, ma… La vede questa?” Sollevò la cosa che teneva in mano per fargliela vedere bene. “È la stessa giacca che avevo con me l’anno scorso e dovrei proprio restituirla alla proprietaria.”

L’uomo assunse un’espressione incredula:

“Lei se ne va in giro da un anno con questa giacca e non è ancora riuscito a restituirla?”

“Lo so che può sembrare strano, ma è così.”

Stranamente, diversamente dall’anno prima, questa volta il direttore sembrava disposto a collaborare.

“Il nome della signorina, prego?”

“Kelly.” Rispose Tom, soddisfatto di conoscere finalmente la risposta giusta a quella maledetta domanda. “Kelly Devenpeck.”

L’uomo parve quasi dispiaciuto di sentire quel nome, come se fosse una conferma a un timore che già aveva.

“Mi dispiace, ma la signorina ha liberato la stanza due ore fa.”

Fu come se il mondo, da lucente e colorato e pieno di belle speranze, fosse improvvisamente precipitato nell’oscurità assoluta.

No, no, no, no, cazzo!, imprecò fra sé, già preso dal panico. Vaffanculo, brutta stronza!

“Ha detto di essere Tom Kaulitz?”

“Sì.” Boccheggiò Tom, a malapena conscio di ciò che gli era stato chiesto. Con una faccia seria, l’uomo si voltò verso la mensola dietro di sé e prese qualcosa.

“La signorina Devenpeck ha detto che probabilmente sarebbe passato.”

Tom restò immobile per un momento, letteralmente pietrificato. Non sapeva esattamente come si stesse sentendo, se più ferito, o offeso, o furioso, o deluso.

Tu lo sapevi, sbottò contro Norja. Sapevi che sarei venuto, e te ne sei andata lo stesso.

forse lo sapeva come si sentiva: preso in giro.

“Ha lasciato detto qualcosa?” domandò, la bocca insopportabilmente asciutta.

“Veramente no. Però mi ha pregato di darle questo.” E gli porse una busta bianca.

Perplesso e morbosamente curioso al tempo stesso, Tom, la mano tremante, afferrò il biglietto ripiegato in quattro e lo aprì.

Sei prevedibile, SNF. Spero che tu non ti sia fatto idee strane su stamattina. Volevo solo rivederti, nient’altro. Ammetto che ogni tanto mi manchi, ma il mio lavoro a maglia mi tiene abbastanza sana di mente (astieniti da commenti simpatici, per favore) da non farmi perdere la connessione con la realtà. Per quel che vale, mi dispiace davvero per come mi sono comportata con te, un anno fa. Che tu ci creda o meno, mi è sempre rimasto l’amaro del rimpianto in bocca, da allora. Grazie dell’autografo, a proposito, a te e al resto della banda Disney. Ah, piccola nota cultural-grammaticale: Kels si scrive senza H. Ad ogni modo, statemi bene tutti quanti. Magari ci si rivede, qualche volta.

Tom non seppe cosa lo trattenne dallo scoppiare. Aveva appena scoperto di essere in grado di provare una gamma di emozioni contrastanti infinitamente più vasta di quel che aveva sempre creduto.

“Tutto qui?”

L’occhio destro dell’uomo ebbe un fremito impaziente.

“Signore, questo è un hotel, non un’agenzia di pubbliche relazioni.”

Tom sospirò, chinando la testa impotente.

Sì, sì, ho capito…

“Ho sentito l’uomo che era con lei che parlava di qualche appuntamento ad Amburgo,” gli riferì una donna sulla settantina che sedeva a uno dei tavolini della hall con un caffè in mano, assieme ad un paio di amiche. “Ho avuto l’impressione che dovessero prendere un treno.”

Tom si rianimò in un attimo, ma la situazione non era poi migliorata di molto

Un treno. C’erano un’infinità di stazioni ferroviarie a Berlino. Non sarebbe mai riuscito a trovarla in tempo.

“Cazzo!”

“Non sia volgare, giovanotto!” lo rimproverò un’altra delle signore.

“Non sgridarlo, Gerta!” intervenne la terza. “Non vedi che il ragazzo è innamorato?”

Tom si sentì sbiancare, uno strano ronzio sordo nelle orecchie.

Cos’è che sono?

La donna si voltò verso di lui con un enorme sorriso rugoso.

“Ho sentito che dicevano al tassista di andare a Friedrichstraße, caro!”

Friedrichstraße… Non aveva la minima idea di dove fosse. O forse ce l’aveva ma non riusciva a ricordare. Ma non aveva importanza, avrebbe comunque preso un taxi per arrivarci.

Forse c’era ancora una speranza.

“Grazie!” disse alle signore, stritolandosi il foglio lasciato da Norja tra le dita.

“Però faresti meglio a sbrigarti,” lo avvertì la prima vecchietta. “Sono partiti un’ora fa!”

Merda!

 

***

 

Tom, nella sua scarsa lucidità, non aveva smesso un secondo di ripetere a se stesso che, una volta portata a termine quella pazzia, sarebbe stato consigliabile farsi internare in un ospedale psichiatrico, perché non sapeva bene nemmeno lui cosa diavolo stesse facendo e soprattutto perché.

Prima la corsa in taxi fino alla stazione ferroviaria di Friedrichstraße, poi la lotta contro il tempo per orientarsi in quel dannato labirinto di scale e binari, poi ancora l’individuazione del treno giusto e la corsa per saltarci sopra appena prima che le porte si chiedessero. O meglio, non era proprio sicuro che fosse proprio quello il treno giusto, ma era l’unico che partisse per Amburgo e dunque l’unico su cui avesse senso puntare.

Ovviamente non aveva avuto il tempo di comprare un biglietto, ma quello era l’ultimo dei suoi problemi. Stava risalendo il treno dall’ultima carrozza, perlustranolo palmo a palmo per cercare di individuare un volto noto. Sarebbe stato tutto molto più semplice se Norja avesse avuto ancora quegli assurdi capelli rosso fuoco. La gente non badava a lui, perché per fortuna erano quasi tutti professionisti che si spostavano per lavoro, ma, a giudicare dagli sguardi, qualcuno lo aveva senz’altro riconosciuto.

A metà del terzo vagone, il cellulare gli vibrò in tasca. Tom le recuperò automaticamente e se lo portò all’orecchio.

“Tom, dove cazzo sei?!” strillò la voce isterica di Bill, prima che lui potesse anche solo dire ‘Pronto?’.

“Ah,” Tom continuò ad avanzare attraverso i sedili, scandagliando speranzosamente ogni singolo passeggero. “Non ci crederesti.”

“Mettimi alla prova.”

Tom si leccò le labbra incerto.

“Su un treno per Amburgo.”

“Un cosa per dove?!” sbraitò Bill, dall’altra parte. “Tom, sei mi stai prendendo per il culo, io –”

“Sto cercando Norvegia Nera.” Sospirò Tom, continuando imperterrito a cercare.

“Lilli? Credevo fosse al Ritz.”

“Lo credevo anch’io, ma lo sai com’è fatta quella. Non è mai dove dovrebbe essere.”

“E adesso cosa pensi di fare?” chiese Bill, tutto eccitato.

“Non ne ho idea. Cioè, devo setacciare il treno, suppongo.”

“Come sai che è lì?”

Tom si morse un sorriso tra le labbra.
“È una lunga storia.”

“Oh, Tomi, è così romantico quello che stai facendo!”

“Lo vedrai come sarà romantico appena la trovo!” sbottò Tom, passando alla carrozza successiva. “È stata proprio una stronza a venire alla signing session e poi sparire così! Avrebbe almeno potuto –”

Il sangue di Tom defluì da ogni parte del suo corpo per concentrarsi tutto sul viso. La mano che reggeva il cellulare si abbassò inconsciamente e lo infilò in tasca, senza neanche chiudere la chiamata.

Un paio di occhi neri come il carbone lo fissavano sgranati da dietro ad un paio di occhiali rettangolari.

“Tom?”

Era lì.

Norja era lì, davanti a lui, seduta accanto al finestrino con un grosso libero in mano e la vaporosa sciarpa rossa della signing session avvolta attorno al collo.

“Scozia!”

Solo adesso che la aveva di fronte, Tom si rendeva conto di non aver mai creduto veramente che sarebbe riuscito a trovarla.

Lei sembrava incollata al sedile, il suo viso congelato in un’espressione sconvolta che Tom non sapeva come interpretare.

“Che cosa… Cosa diavolo ci fai tu qui?”

Suo malgrado, Tom le sorrise.
“Inseguo un Bianconiglio dispettoso.”

“Tu sei pazzo!”

“Ti ringrazio per averlo notato.” Tom si avvicinò e si sedette con noncuranza accanto a lei. “Scusa l’invadenza, mi rendo conto che venire a braccarti su un treno in corsa sia una mossa abbastanza estrema e scorretta, ma non mi hai lasciato scelta ed era un anno che aspettavo.”

“Sei pazzo!”

“Certo che sono pazzo. Una persona normale non sarebbe di certo qui, ti pare?”

“Come diavolo hai fatto a trovarmi?”
“Grazie a tre simpatiche vecchiette ficcanaso con un promettente futuro da spie che hanno origliato al Ritz.” Spiegò lui, compiaciuto. “Ti trovo ingrassata.” Aggiunse poi, dandole una rapida squadrata.

Norja, stranamente, non batté ciglio. Era proprio una statua di sale.

“Dov’è Julian?” insisté allora lui.

“A casa, dalla sua famiglia.” Balbettò lei. “Lui è di Berlino.”

“Meno male. Sai, quell’uomo mi irrita.”

Norja non accennava  a sciogliersi di una virgola. Sembrava non aver ancora compreso quello che stava accadendo.

“Il tizio dell’hotel non ti ha dato il mio biglietto?”

“Sì, certo.” Tom le mostrò la pallottola di carta stropicciata.

“E quello che ti ho scritto non era chiaro?
“Chiarissimo.”

“E allora?”

Imperturbabile, Tom distese accuratamente il foglio sulla propria gamba e lo lisciò per bene, poi lo porse a lei.
“Non hai firmato.”

Norja lo prese ma non fece altro che osservarlo e battere le ciglia perplessa.

“Ti spiacerebbe ripetere?”

“Non hai firmato il messaggio.” Spiegò pazientemente lui, indicandole il vuoto bianco alla fine del messaggio. “Tu il mio autografo ce l’hai, e non mi hai nemmeno lasciato il tuo.”

“Tu sei pazzo!” sbuffò ancora una volta lei, ma a Tom non sfuggì la minuscola e fugace arricciatura delle sue labbra scarlatte.

“La vuoi piantare di darmi del pazzo? Fino a due volte va bene, a tre diventa irritante.”

E da semplice arricciatura, la piega delle labbra di Norja divenne un sorriso vero.

“Oh, sta’ zitto!” gli disse con una gomitata.

Tom si concesse di contemplarla per qualche secondo mentre lei faceva lo stesso con il foglio sciupato: era carina, ma non bella in modo vistoso. Sicuramente non era come tutte quelle ragazze celebri con cui Tom era stato visto durante la sua carriera. Tom si sentì strano nel rendersi conto che, vedendola passare per strada, non si sarebbe mai accorto di lei. Se non avesse avuto modo di conoscerla, non si sarebbe mai interessato a una come lei, perché, sì, in fondo era l’aspetto che contava al primo impatto, e a lui le persone troppo stravaganti non erano mai andate giù. Un fratello così era più che sufficiente. Ma poi aveva incontrato lei, e con suo sommo stupore aveva scoperto che c’erano un bel po’ di modi a lui finora sconosciuti in cui una ragazza potesse piacere a un ragazzo, e da lì aveva capito tutto, o forse aveva cominciato a non capire più niente.

“L’ho fatto, sai?”

Norja lo guardò. Era buffa con quegli occhiali.

“Fatto cosa?”

“Ho provato una sedia a dondolo. A Natale, a casa dei miei nonni. È stato esattamente come avevi detto tu.”

“Tu hai provato una sedia a dondolo?” esclamò lei, incredula.

“Sì.” Rispose Tom, orgoglioso.

“E il vaporoso scialle di lana rosa?”

“Quello di mia nonna è verde e non molto vaporoso, ma, sì, ho provato anche quello. Certo, è stato interessante, poi, spiegare a mia madre la situazione, quando è entrata e mi ha trovato così, ma se sono qui vuol dire che ha creduto alla mia arringa in difesa della mia sanità mentale.”

Norja si portò entrambe le mani davanti alla bocca, ma questo non nascose il luccichio nel suo sguardo.

“Oh, mio dio.”

“Allora?” fece Tom, carico di aspettativa.

“Allora cosa?”

“Ma scusa, ti sono venuto a cercare in hotel; dall’hotel ti sono corso dietro fino alla stazione; dalla stazione sono saltato su un treno in partenza senza nemmeno essere sicuro che fosse veramente il tuo… Non sei nemmeno un po’ impressionata?”

Adesso che lo raccontava, gli sembrava ancora più assurdo. Lei, a giudicare dalla sua espressione, la pensava allo stesso modo.

“Non ricordo se ho già detto che sei pazzo…”

“Non fare la noiosa. Dai, sul serio… Non ti ho stupita nemmeno un pochino?”

“Più che stupita sono proprio incredula. Senza parole. Cosa ti è saltato in mente, si può sapere?”

Tom si fissava le mani, seduto scompostamente. Quella era la parte più difficile, per lui: parlare.

“Tu scappi sempre.” Mormorò. “Arrivi, sconvolgi tutto, poi prendi e te ne vai, e mi molli sempre con un palmo di naso. Hai idea di come sia pesante?”

Silenzio. Il visetto tondo di Norja era concentrato sulla carta, sulle parole che lei stessa aveva scritto.

“Com’è stato quest’ultimo anno, per te?” gli chiede a un tratto, atona.

“Come, scusa?”

La sua espressione si incupì leggermente, il suo sorriso si sciolse.

“No, perché, sai… Per me è stato abbastanza critico. Cioè, professionalmente è andato alla grande. Ho finito gli ultimi due libri della saga in sei mesi. Il mio editore stava per mettersi a piangere quando gli ho portato i manoscritti. E poi c’è stata la firma del contratto con la New Line per i film, e di conseguenza i miei impegni sono decuplicati… E a me andava più che bene, perché così non avevo tempo di fermarmi e pensare a un idiota molesto che ho incontrato lo scorso anno sul tetto di un albergo – sai, mi aveva rovinato le scarpe nuove – e a tutte le cavolate che ci eravamo detti. Ma lui…” Si interruppe, mordendosi il labbro, e si voltò verso di lui. “Lui… Mi mancava lo stesso, capisci?” Disse in un sussurro a stento udibile. “Mi mancava così tanto, certe volte, che quando ho scoperto che saremmo stati a Berlino lo stesso giorno, non ho potuto fare a meno di andare da lui. Solo per vedere come stava. Solo che poi…”

Tom deglutì il vuoto.
“Poi?”

Le dita sottili di Norja ebbero un lieve fremito, distese al di sopra del foglio che teneva appoggiato in grembo.
“Mentre lui mi firmava uno stupido poster, era come se la mia fredda razionalità cercasse di strappare i miei piedi da lì e trascinarmi via il più rapidamente possibile, mentre qualcosa giù nel profondo insisteva ad urlare ‘Lasciami qui! Non ho finito! Voglio restare!’… Ed è stato esattamente come un anno fa.”

“Un anno fa non vedevi l’ora che io me ne andassi.”

“No. Ti ho cacciato via, è diverso.”

Tom sbuffò, irritato.

“Diverso?”

No, non c’era niente di diverso. Un bel niente.

Norja, però, aveva un’aria mortalmente dispiaciuta.

“Tom, avevo quelli della New Line che mi aspettavano, dovevamo concordare gli ultimi dettagli di un contratto che mi avrebbe cambiato la vita, e l’ultima cosa di cui avevo bisogno era avere te lì nei paraggi a mandarmi in pappa il cervello!”

Il cervello di Tom, per quanto frastornato, impiegò relativamente poco a fare due più due ed elaborare i fatti sotto un punto di vista un bel po’ diverso dalla sua prima percezione.

“Avresti semplicemente potuto dirmelo.”

“Lo avrei fatto, se tu non mi avessi baciata a tradimento!”

Tom si era preparato a ribattere, ma questo era un colpo invincibile.

“Uffa, trovi sempre il modo di dare la colpa a me!”

“E vorrei ben vedere!”

“E non è cambiato niente in quest’anno in cui ci siamo persi di vista?” le chiese, incrociando mentalmente le dita.

“Dipende da quello che intendi.”

Tom sollevò le spalle.

“Sai, speravo che noi…”

“Non c’è mai stato nessun noi.”

“Ok, ma speravo che potesse esserci.”

“La vedo molto futuribile come cosa, ora che i miei libri diventeranno dei film e dovrò presenziare a prime, presentazioni e chissà che altro.” Berciò lei, acida. Acida, come sempre era stata. Come piaceva a lui.
“Non ti piacerebbe portarci quel gran pezzo di Tom SNF Kaulitz a tutte queste cose?” le suggerì languidamente, chino sul suo orecchio.

Norja, rabbrividendo, lo occhieggiò come se fosse stato un marziano:

“Eh?”

“Ho detto: non – ti – piacerebbe –”

“Ho sentito quello che hai detto!” chiarì lei, stizzita.

Tom iniziava ad acquisire fiducia. La sentiva ammorbidirsi lentamente ogni secondo che passava. Doveva solo giocare bene le sue carte.

“Dai, Irlanda, ce la diamo una possibilità?”

“Una possibilità?”

“Sì, insomma… Tu ti potresti benissimo presentare come Norja Schwartz e mantenere il tuo prezioso anonimato. Probabilmente innescheremmo una bomba mediatica di quelle epocali, ma… Potremmo anche provare a vedere come si incastrano le nostre vite, no?”

“Le nostre vite?”

“Hai finito di fare il pappagallo con quella faccia da pesce lesso?” fece Tom, spazientito. “Sto parlando seriamente.”

“Non ho capito l’avverbio, scusa.”

“Senti, io il mio impegno ce l’ho messo! Se non te ne frega niente, basta dirlo, me ne torno da dove sono venuto!”
“Non puoi tornare da dove sei venuto, siamo su un treno diretto.”

“Intendevo in senso figurato.”

“Tom, io…” La tentazione si rifletteva in ogni gesto di Norja, in ogni sua sillaba. “Io non posso. Passerei ogni giorno a chiedermi cose idiote come ‘Ma perché diavolo ha voluto me?’…”

“Perché mi fai ridere.”

“O ‘Come faccio a sapere che me lo merito?’…”

“Eri già cotta di me quando ero piccolo e sfigato.”

“Oppure ‘Quand’è che aprirà gli occhi e si accorgerà che può pretendere di più?...”

“Mai.”

Norja si portò una mano alla fronte con un sospiro disperato.

“Oh, Tom…”

Lui odiò quel tono: era il tono di chi sapeva esattamente cosa voleva ma insisteva a negarselo. Era il tono di qualcuno che non voleva scegliere. E lui ne aveva abbastanza.

“Norvegia, mi hai rotto, va bene?” tuonò, balzando in piedi. Era deluso, ma molto più in profondità di quanto non gli fosse mai capitato. “Sei patetica, tu e le tue paranoie da ragazzina complessata! Che palle! Posso avere il diritto di prendermi una sbandata per una tizia a caso che incontro sul tetto di un hotel? Posso avere la presunzione di sperare che lei possa contraccambiarmi, per una volta che mi interessa davvero? E, se non è troppo, ti spiacerebbe lasciar decidere a me cosa voglio, merito, eccetera? Ok, non sei bella come me, né ricca e famosa come me, e non sei nemmeno intelligente come me… Ma sono un tipo accomodante, sai? Qualche volta mi so accontentare, cosa credi?”

Gli altri tre passeggeri che condividevano il vagone con loro stavano seguendo la scena con una certa curiosità. Se non altro, si rallegrò Tom, probabilmente non capivano granché di quello che lui e Norja si stavano dicendo.

E lei, ancora affondata nel suo sedile, guardava in su verso di lui. Tom credette ce lo avrebbe aggredito da un momento all’altro. Quando Norja si levò in piedi minacciosa, infatti, arretrò istintivamente di un passo. Lei lo fronteggiò, scura in volto, e lui aspettava uno schiaffo, uno spintone, qualcosa di violento e liberatorio, ma tutto ciò che arrivò fu una strana risata simile a un singhiozzo.

“Quanto sei scemo.”

Tom non mosse un muscolo. Aveva paura che qualunque suo gesto avrebbe potuto infrangere quel delicatissimo filo di connessione che si era creato fra loro. L’istinto lo spingeva verso il contatto fisico, ma non fece niente, se non sforzarsi di apparire calmo e padrone dì sé:

“Allora? Vuoi che me ne vada o che resti?”

Norja scuoteva debolmente la testa fissandosi i piedi, e Tom aveva il terrore di sapere già cosa questo significasse.

“La mia testa mi sta supplicando di dire ‘Vattene’.” La udì mormorare. Eppure…

“Ma…?”

C’era un ‘Ma’ che lei aveva taciuto. C’era. Ci doveva essere. Tom lo sentiva.

“Ma…” Norja alzò lo sguardo. Era così bassa, rispetto a lui, che si ritrovò a fissargli il petto. “Porti ancora questa orribile maglietta?”

A Tom venne da ridere. Per tutta risposta, la costrinse a sollevare ulteriormente il viso, finché non fu in grado di guardarla negli occhi. E allora le sorrise.

“E tu porti ancora questo orribile rossetto?”

Lei strinse automaticamente le labbra tra loro.

“Starebbe male con qualunque tua maglietta.” Rispose tentennante. “Così vado sul sicuro.”

“Posso sempre togliermi la maglietta.” Replicò lui, scrollando le spalle.

“Bell’idea, a metà febbraio, in luogo pubblico.”

“Allora potresti toglierti tu il rossetto.”

Un semplice passo bastò ad avvicinarlo a lei quel tanto da permettergli di intrappolarla tra lui e il lato del sedile. Tom si perse nei suoi occhi. Per qualche motivo, aveva sempre pensato che gli occhi chiari – azzurri, verdi, grigi – fossero i più affascinanti, ma questo era stato prima che scoprisse quanto potessero essere belli e profondi degli occhi così straordinariamente neri.

“E se le mie labbra avessero freddo, senza?” azzardò Norja, la voce malferma, mentre lui le sfiorava la vita con le mani.

“A questo proposito,” le rispose, accostando le labbra alle sue con esasperante lentezza. “Ci sarebbe un’idea che vorrei illustrarti.”

E quando si chinò e Norja non si ritrasse, capì che l’idea – assieme a tutto il resto – era stata approvata.

 

***

 

Resta.

 

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Note: ebbene sì, è finita! ^^ Ringrazio di cuore tutti voi per aver letto e commentato questa storia, e avermi accompagnata lungo tutta la sua (lunghissssssima! XD) pubblicazione. Spero che anche per quest’ultimo capitolo vogliate lasciami due parole di impressioni e giudizi. ;)

Sto scrivendo una oneshot, al momento, e penso che la posterò a breve, quindi occhi aperti, mi raccomando! ;)

Alla prossima!

P.S. la canzone citata è la bellissima Geh, von Tokio Hotel.

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