A storm is coming - A Joshua Carter Story di Marco1989 (/viewuser.php?uid=18039)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sogno ***
Capitolo 2: *** Una nuova famiglia ***
Capitolo 3: *** La Coppa del Mondo di Quidditch ***
Capitolo 4: *** Scontro nel buio ***
Capitolo 5: *** Udienza al Ministero ***
Capitolo 6: *** Ritorno ad Hogwarts ***
Capitolo 1 *** Il sogno ***
Salve a tutti, e
parafrasando quello che direbbe Albus
Silente: "Ai miei vecchi lettori, bentornati! A quelli nuovi,
benvenuti!". Siamo di nuovo qui con la storia di Joshua Carter, alias
Matteo Simoncini, alias "nonlosabeneneanchelui". So di aver detto,
quando ho terminato la prima storia (che, come forse avrete visto, ho
rititolato per abbinare il titolo a quella nuova), che avreste dovuto
attendere
un po' di tempo per vedere il seguito, volendolo pubblicare solo a
scrittura
completata, ma sinceramente mi sono reso conto di sentire la mancanza
dei
vostri feedback.
Ho quindi deciso di iniziare
la pubblicazione di questa
seconda parte della mia personale saga, anche se, poiché
odio essere in
ritardo, comunico da ora che la pubblicazione procederà a
ritmo lento, almeno
per il momento: un capitolo al mese, anche se mi
riservo la
possibilità di accelerare se mi renderò
conto di riuscire a produrre
nuovi capitoli più in fretta.
Voglio comunque lasciare
aperta, diciamo, una scappatoia:
prometto di anticipare la pubblicazione del capitolo successivo se il
precedente raggiungerà le sette recensioni, quindi dipende
tutto da voi!
Un'ultima cosa prima di
passare al primo capitolo: vorrei
avvisare gli eventuali nuovi lettori che per comprendere questa storia
è
necessario aver letto 'A strange, new world', quindi vi consiglio di
andare a
recuperarla. Detto questo, buona lettura!
1: IL SOGNO
Era il luogo più strano
che avessi mai visto, tanto bello da
essere innaturale: un grande prato verde, intervallato qua e
là da piccoli
alberi, che sembrava stendersi fino all’orizzonte in tutte le
direzioni, il
tutto sotto un cielo talmente azzurro da sembrare dipinto. La cosa
più simile
che avessi mai visto erano le campagne dell’Irlanda, che
avevo visitato durante
una gita con la scuola parecchi anni prima, ma sapevo che il paragone
non
poteva reggere: a parte il fatto che sapevo di non essermi recato in
Irlanda,
quel luogo trametteva una sensazione che nessun paese reale, ne ero
convinto,
poteva possedere. Avvertivo uno stato di assoluta pace, come mai ne
avevo
provata in vita mia. Mi guardai in giro, cercando di capire cosa dovevo
fare, e
allo stesso tempo come avessi fatto ad arrivare lì. Non
ricordavo di aver fatto
niente di strano, l’ultima cosa che ricordavo era di essermi
coricato dopo cena,
nella casa della mia ‘famiglia’ in Galles, dopo un
giorno delle vacanze estive
uguale a quelli delle sei settimane che lo avevano preceduto. Ricordavo
il
bacio sulla fronte di quella che ormai avevo iniziato a considerare mia
madre e
la sensazione ancora un po’ strana ma insolitamente piacevole
che mi aveva
trasmesso. Sei settimane nella vita familiare di Joshua Carter, di
finte
litigate con la ‘mia’ sorellina, di passeggiate tra
le viuzze della cittadina
natale del ragazzo del quale ormai da quasi nove mesi occupavo il
corpo, pur
senza riuscire a farmi dimenticare del tutto la vita di Matteo
Simoncini, mi
aveva tolto la maggior parte dei rimpianti che mi erano rimasti dopo
che il
misterioso incidente in auto del novembre precedente e
l’ancora più misterioso
‘viaggio’ che avevo compiuto mi aveva trasportato
nel mondo di Harry Potter,
che fino a quel momento avevo conosciuto soltanto nei libri. Avevo
ormai smesso
di chiedermi come fosse potuto accadere, soprattutto da quando, poco
prima
della fine del mio primo, vero anno alla scuola di Hogwarts, avevo
scoperto la ragione
per la quale la misteriosa entità che mi aveva parlato tante
volte nella mente,
prima attraverso sensazioni e piccole premonizioni, poi con vere
parole, aveva
deciso di portarmi in un luogo che sarebbe dovuto esistere solo nella
fantasia
di una scrittrice inglese. Allo stesso modo, avevo smesso di chiedermi
perché
fossi ancora lì dopo aver fallito la mia
‘missione’: una parte di me si era
aspettata per settimane di essere catapultata di nuovo nel mio mondo,
ammesso
che fosse rimasto qualcosa di me al quale tornare dopo il terribile
schianto
che aveva sancito l’inizio del mio viaggio, dopo che non ero
riuscito a
convincermi ad uccidere Peter Minus, il servo di Lord Voldemort,
consentendogli
sostanzialmente di scappare e, forse, di tornare dal suo padrone, ma
non era
accaduto. Dopo la mia avventura notturna nella foresta e sulla riva del
lago,
avevo vissuto la normale vita di un giovane mago di quasi quattordici
anni.
Fino a quel momento.
Per un istante mi
attraversò la mente la terribile
sensazione che, alla fine, avessi davvero compiuto il viaggio a
ritroso, e che
le mie peggiori paure si fossero concretizzate: quel luogo idilliaco
sembrava
realmente la rappresentazione del Paradiso. E se la Forza che mi aveva
portato
in quel mondo magico avesse infine deciso di rimandarmi indietro, senza
però
trovare un Matteo Simoncini vivente nel cui corpo la mia anima potesse
ritornare? Era possibile che quello fosse
l’Aldilà? Un brivido scosse il mio
corpo. Mi abbassai in ginocchio, tastando l’erba e cercando
di annusarne
l’odore. Sia il tatto che l’olfatto sembravano
essere appannati, quasi stessero
funzionando al minimo delle loro capacità. Avevo
già provato quella sensazione:
era il modo nel quale i sensi parevano funzionare nei sogni. Poteva
essere una
fantasia onirica quella che stavo vivendo? Possibile, ma
d’altro canto non
avevo idea di come potesse sentirsi un’anima in Paradiso,
quindi…
La figura apparve dal nulla, ad una
decina di metri da me,
per poi avviarsi lentamente nella mia direzione, in parte camminando,
in parte
quasi fluttuando. Il suo movimento ricordava in qualche modo quello dei
Dissennatori, ma in realtà non avevo mai visto nulla di
più differente dai neri
demoni di Azkaban: avevo davanti una donna bellissima, apparentemente
troppo
bella per appartenere alla specie umana, dai lunghi capelli biondi come
l’oro,
vestita di una splendente tunica bianca. Tutta la sua figura sembrava
emanare
una luce eterea e soprannaturale. Sul volto dell’essere
angelico era dipinto un
sorriso sereno, e nella mia mente si fece strada una sorta di musica
ultraterrena, dolcissima, che mi trasmise uno straordinario senso di
pace, che
fece scomparire in un istante il timore che l’apparizione
della misteriosa
donna ed il luogo sconosciuto aveva fatto calare sul mio animo.
L’apparizione si
fermò a non più di un paio di metri da me,
il suo sorriso sembrò allargarsi ulteriormente, poi
parlò, con una voce
argentina come il suono dell’acqua che sgorga da una fonte:
“Non aver paura, Matteo.
Nessuno ti farà del male”.
Rimasi per un istante sorpreso quando
udii il nome che mi
apparteneva dall’altra parte, poi nella mia mente si
formò un collegamento:
avevo già sentito quella voce, in un luogo molto
più oscuro di quello nel quale
ci trovavamo in quel momento. All’epoca, nonostante il suono
altrettanto dolce
e gentile, le sue parole erano state molto meno piacevoli, ed avevano
cercato
di spingermi a fare qualcosa di molto, molto brutto.
Cercai di parlare, ma le mie corde
vocali sembravano
faticare a connettersi con il cervello: “S…sei tu?
Cioè…esisti veramente? Non
sei solo nella mia testa, vero? Cioè…chi
sei?”.
La donna continuò a
sorridere: “Io sono colei che ha potuto
gettare uno sguardo nel futuro. Il mio nome non è importante
in questo momento,
ma sì, esisto veramente. Puoi continuare a definirmi
‘Signora Voce’, se vuoi –
il suo sorriso sembrò oscurarsi in parte, poi riprese a
parlare – Purtroppo hai
fallito, Matteo. Non sei riuscito a cambiare il destino, ed ora tutto
diventa
più difficile”.
Nella mia testa sembrava essersi
fatta strada una sorta di
nebbia. Faticavo anche solo a pensare: avevo davanti
l’entità che tante volte
mi aveva parlato durante i mesi precedenti, prima trasmettendomi
soltanto dei
suggerimenti, poi direttamente. Era colei che aveva cercato di
convincermi ad
uccidere Peter Minus!
Alla fine riuscii a spiccicare
qualche parola, cercando la
risposta ad una delle domande che maggiormente mi avevano attanagliato
da
quando mi ero svegliato ad Hogwarts: “Sei stata tu a portarmi
in questo mondo,
vero?”.
La figura mi fissò per
qualche istante, sorridendo con la
sua espressione eterea, poi disse: “Sì…
e allo stesso tempo no”.
La sua risposta era talmente evasiva
da lasciarmi a bocca
aperta. La donna se ne dovette accorgere, perché per un
istante il suo sorriso
si accentuò, poi divenne improvvisamente più
seria: “Come ti ho già detto, io
ho potuto gettare uno sguardo alle cose che devono ancora accadere, ed
ho visto
guerra, ho visto distruzione…ho visto morte, tanta morte. Ho
lanciato nel tempo
e nello spazio una richiesta di aiuto, una possibilità di
cambiare le cose, di
deviare il corso del Fato verso una nuova direzione… e
qualcosa ha risposto. Neanche
io so chi… o cosa… abbia scelto di prestare
orecchio alla mia supplica, se sia
stata una delle divinità dei Babbani, l’energia
che guida tutto e che i maghi
definiscono semplicemente ‘Forze
dell’Essere’ o qualcosa di ancora differente,
ma mi è stata data una possibilità. Neanche io
sapevo cosa sarebbe successo
quando ho messo a disposizione la mia energia per compiere quello che
speravo
sarebbe stato un miracolo. Il drenaggio di forza è stato
tale che quasi mi ha
ucciso, e solo dopo ho scoperto che il risultato eri
stato…tu – e mi indicò con
un dito – Joshua Carter, un giovane, anonimo studente di
Hogwarts, era divenuto
qualcosa di unico nella storia del nostro mondo”.
La mia testa sembrava sul punto di
scoppiare: non capita
tutti i giorni di scoprire che sei stato prescelto da una Forza dai
poteri
divini per una missione, e se si aggiungeva la consapevolezza di averla
fallita, ce n’era più che abbastanza per mandare
in frantumi quanto restava
della mia sanità mentale. Erano talmente tante le domande
che avrei voluto fare
alla donna, che non sapevo neanche da dove iniziare. Alla fine scelsi
di
partire da una di quelle che potevano considerarsi più
innocue: “Quindi… da
dove vengono gli strani poteri che ho? La percezione del
futuro… la magia più
potente rispetto ai miei compagni di scuola… sei stata
tu?”.
L’entità scosse
la testa: “Mio è solo il compito di
sorvegliarti e guidarti. Ogni altra cosa è venuta da chi
è molto più potente di
me. Lo stesso vale – aggiunse, anticipando un dubbio che mi
attanagliava fin
dallo scontro con Nott – per l’istinto da guerriero
che ogni tanto ti ha
pervaso. So bene che te ne sei accorto, sono stata con te ogni momento
durante
gli ultimi mesi. Neanche a me è stato spiegato tutto, ma
immagino che la
combinazione tra poteri, istinto e quello che tu definivi
‘Senso di Ragno’
dovesse permetterti di eseguire meglio la tua missione, di farti essere
nel
posto giusto al momento giusto, di farti inserire
nell’ingranaggio del destino un
ostacolo che potesse indirizzarlo su una via differente. Purtroppo, non
è
bastato: il tuo spirito è stato più forte del
condizionamento, il tuo modo di
essere ti ha impedito di compiere un gesto che consideravi ingiusto, e
purtroppo proprio quel gesto avrebbe impedito ad una intera catena di
eventi di
realizzarsi – scosse la testa, assumendo un’aria
sconsolata – Non mi è permesso
di dirti più di tanto, il futuro non può essere
rivelato, lo avrai capito
vedendo quanto fumose erano le tue percezioni, ma credo che tu abbia
capito a
cosa porterà la linea sulla quale il destino ora si
trova”.
Il ricordo della profezia della
Cooman mi provocò una violenta
stretta di rimorso allo stomaco: sì, avevo capito fin troppo
bene cosa sarebbe
accaduto, a cosa avrebbe condotto la mia decisione di non abbattere
Minus,
quindi tutto il sangue che sarebbe scorso sarebbe stato anche sulle mie
mani. Con
voce sconfitta, domandai: “Quindi, ora cosa mi aspetta? Se ho
fallito la
missione, se non sono riuscito a cambiare il corso del Fato,
perché sono ancora
qui?”. Poi, benché fossi tutt’altro che
certo che fosse quello che realmente
volevo, aggiunsi in un sussurro: “Tu… tu potresti
riportarmi indietro?”.
Assumendo un’aria vagamente
afflitta che poco si addiceva al
suo aspetto splendente, la donna rispose: “No, Matteo. Io non
ho il potere di
farti compiere il viaggio a ritroso. Come ti ho detto, io ho fornito
solo
l’energia necessaria per portarti qui, e questo mi ha quasi
ucciso. Non
fraintendermi, non esiterei a farlo di nuovo se potessi, ma non ne ho
la
facoltà: già la prima volta non avrei potuto fare
nulla, se una forza superiore
non me lo avesse concesso. Non so neppure – aggiunse,
guardandomi con
comprensione – se esiste ancora qualcosa dall’altra
parte alla quale potresti
tornare, non mi è permesso di vederlo”.
Un peso da una tonnellata
sembrò calarmi sul cuore: se
davvero era stata nella mia testa per tutto il tempo, doveva aver visto
quale
era la mia peggiore paura, e il fatto che neanche lei avesse una
risposta al
quesito che assillava le mie notti aveva inflitto un colpo devastante
alle mie
speranze.
Faticai enormemente a fare la domanda
successiva, perché
temevo terribilmente la risposta: “Ch…che cosa
devo fare? Sono destinato… a
sparire? A non esistere più né qui né
dall’altra parte?”.
Il sorriso della donna
tornò, almeno in parte: “No, non
credo che le cose stiano così. Non so che cosa ti aspetti,
ma il solo fatto che
tu esista ancora nel mondo nel quale sei giunto lo scorso novembre mi
fa
pensare che per te esista ancora un ruolo, che la tua presenza possa
rivelarsi
determinante in un modo diverso. Si sta avvicinando una tempesta, e tu
non
potrai evitare di affrontarla: il tuo tentativo di catturare Minus non
passerà
inosservato, occhi interessati già stanno pensando se
rivolgersi verso di te.
Ti aspettano giorni difficili, ed arriveranno presto, quindi dovrai
essere
pronto. Ricorda, però: anche nei momenti più
oscuri, la speranza rimane sempre,
anche se trovarla può essere difficile.”.
Improvvisamente mi resi conto che
qualcosa stava cambiando:
i contorni eterei della donna stavano diventando meno definiti, e anche
l’ambiente sembrava velarsi di una sorta di caligine bianca.
“Aspetta! Non andartene!
Non lasciarmi!” urlai, con una
punta di panico, mentre mi sentivo in qualche modo risucchiare lontano
dalla
donna.
“Non ti lascerò
mai – disse la voce sempre più distante, e
mentre qualcosa sembrava trascinarmi via da lei, vidi un ultimo,
dolcissimo
sorriso dipingersi sulle sue labbra: “Io ti
resterò vicina, qualsiasi cosa
accada. Buona fortuna, Matteo… o meglio, Joshua
Carter!”.
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Capitolo 2 *** Una nuova famiglia ***
Salve
di nuovo a tutti i miei lettori. Ho scelto di anticipare di qualche
giorno la pubblicazione di questo nuovo capitolo, considerando che per
il momento avevo messo soltanto il primo e che, d'altro canto, sono
relativamente avanti nella scrittura dei successivi. Indicativamente,
quindi, il prossimo sarà inserito il 24 gennaio. Vi chiedo
nuovamente, se possibile, di dedicare qualche minuto del vostro tempo a
scrivere una recensione, per me valgono quanto un pagamento. Buona
lettura!
2: UNA NUOVA FAMIGLIA
Aprii gli occhi di colpo, rizzandomi
a sedere come se
improvvisamente fossi stato attraversato da una scossa elettrica.
Impiegai
qualche secondo per rendermi conto di essere davvero sveglio: i postumi
del
sogno faticavano a lasciare la mia testa. Stordito, mi guardai in giro,
e mi
sentii stranamente perso: la camera dove mi trovavo era allo stesso
tempo
familiare ed estranea. La stanza nella quale ricordavo di aver passato
gran
parte della mia vita era piccolo, anche se accogliente, con un letto
singolo
incastrato tra due pareti e sormontato da una grande bandiera della mia
squadra
di calcio preferita, e letteralmente ogni centimetro disponibile
occupato da
scaffali e armadi, molti dei quali pieni di libri. Quella nella quale
mi
trovavo, invece, era relativamente grande, con mobili di legno
apparentemente
fatti a mano, incluso il letto ad una piazza e mezzo sul quale ero
sdraiato. Un
raggio di sole penetrava dalle persiane verde acqua, abbastanza
luminoso da
farmi capire che era mattina inoltrata e da permettermi di vedere bene
ogni
dettaglio. Non potetti fare a meno di sorridere quando, sui ripiani
della
libreria, vidi tomi con titoli come ‘Animali
Fantastici e Dove Trovarli’,
‘Mille Erbe e Funghi Magici’ e
‘Trasfigurazione, livello intermedio”.
I normali libri di testo di uno studente di Hogwarts sul punto di
iniziare il
suo quarto anno di istruzione. Sul comodino a fianco del mio letto,
accanto ad
una lampada a forma di bottiglia, era appoggiata una bacchetta magica
di legno
rossiccio. Per il resto, c’erano tutti i segni tipici della
stanza di un
adolescente: abiti sparsi letteralmente in ogni angolo, a diversi
livelli di
pulizia e spiegazzatura, oggetti che sembravano mantenersi
miracolosamente in
bilico in posizioni improbabili e, sopra la scrivania, una inquietante
cumulo
di libri, pergamene, boccette d’inchiostro, piume e altro
materiale scolastico,
residuo di un tentativo non particolarmente fruttuoso di svolgere i
compiti
delle vacanze. Appeso alla parete c’era un poster della
squadra di Quidditch
dei Finchbury Finchies, pluricampioni degli Stati Uniti, come avevo
scoperto, o
per meglio dire, ri-scoperto, circa un mese prima.
Questo erano state, in buona
sostanza, le quattro settimane
estive che avevo passato a Bangor, nel nord del Galles, dopo il mio
ritorno da
Hogwarts: una lunga serie di scoperte che, in realtà,
avevano significato il
ritorno delle memorie di Joshua Carter: se per lui sarebbe stato un
semplice
ritorno a casa, per me aveva significato conoscere un nuovo mondo. E,
soprattutto, una nuova famiglia.
Quello di mia madre e mia sorella era
un pensiero allegro,
che però non durò molto. Mentre mi toglievo il
pigiama ed indossavo un paio di
jeans e una maglietta, non potetti fare a meno di riflettere su
ciò che la
misteriosa donna vestita di luce mi aveva detto: certo, aveva chiarito
molti
misteri, ed aveva risposto a parecchie delle domande che mi ero posto
negli
ultimi mesi, ma aveva lasciato fin troppi punti oscuri. Per di
più, il peso di
tutte le cose che mi aveva raccontato era a dir poco schiacciante: una
forza
superiore, forse di livello divino, non solo mi aveva scelto, ma aveva
organizzato il mio ‘trasporto’ in una
realtà che, a quanto ne sapevo io, doveva
esistere solo in una saga di libri! Già, perché a
questo ci ero arrivato da
solo senza che la donna me lo confermasse: il mio incidente non era
stato
casuale, era stato il suo modo per farmi compiere il viaggio.
C’era di che
farsi venire un mal di testa da primato… di nuovo.
‘Beh, qualsiasi cosa questa
entità e la Signora Voce avessero
in mente, non è andata come si aspettavano - pensai con una punta di
furia mentre mi legavo
una scarpa – Minus è fuggito, io ho sbagliato
tutto e la guerra che lei ha
previsto arriverà comunque’. In buona sostanza, mi
avevano strappato alla mia
vita senza ottenere alcun risultato.
Eppure…
Rimasi pensieroso davanti alla porta
della mia camera,
momentaneamente incapace di aprirla. Nonostante tutto, io ero ancora
lì: non
ero tornato indietro, non ero scomparso nel nulla. Ero rimasto in quel
mondo, e
la donna aveva ragione: doveva per forza esserci una ragione. Scoprire
quale
potesse essere, mi dissi mentre finalmente mi decidevo ad oltrepassare
la
soglia e a dirigermi verso le scale per scendere al piano di sotto,
andava,
almeno per il momento, oltre le mie capacità, ma qualcosa,
non saprei dire se
su indicazione della Signora Voce o del mio istinto, mi diceva che non
sarebbe
stato sempre così, che avrei capito al momento giusto. Fu
quindi con un animo
un po’ più sereno che entrai in cucina, e non ebbi
problemi a esclamare con
allegria: “Buongiorno, mie signore”.
“Giorno si è
fatto da un bel po’, Bell’Addormentato”
disse
con una punta di ironia una voce femminile, proveniente da una donna
impegnata
ai fornelli, mentre da un lato di un tavolo di quercia vidi una
ragazzina farmi
una infantile linguaccia, alla quale risposi volentieri.
Mia madre e mia sorella erano state
una sorpresa fin dal
momento nel quale le avevo incontrate a King’s Cross:
nonostante avessi
recuperato la stragrande maggioranza dei ricordi di Joshua Carter, per
qualche
motivo avevo un ricordo molto remoto e vago del loro aspetto,
così come di
quello di mio padre. Considerando, però, che se presi alla
stessa età, Joshua
Carter e Matteo Simoncini erano praticamente due gocce
d’acqua, mi ero
costruito in testa un’immagine che tendeva a coincidere con
mia…con la madre di
Matteo. In realtà, in quel caso, anche se innegabilmente le
due donne si
somigliavano, non c’era una vera e propria
identità come tra i figli. La madre
di Matteo era bassa, rotondetta, con i capelli a caschetto castani
ormai
strinati di grigio. Katherine Jones aveva a sua volta i capelli castani
che le
arrivavano a metà collo, ma il grigio era sostituito da
striature bionde, era
molto magra, e rispetto all’altra donna aveva dieci
centimetri di altezza in
più e, apparentemente, dieci anni d’età
in meno. Gli occhi, però, erano
inconfondibili: Matteo aveva ereditato il marrone screziato di verde
dalla
madre, e lo stesso sembrava aver fatto Joshua. Occhi che, in entrambi i
casi,
sembravano avere quasi sempre un sorriso per il figlio, anche se era un
sorriso
variabile, capace di adattarsi alle necessità: poteva essere
allegro, come in
quel momento, durante un quieto momento familiare, ma anche comprensivo
se uno
dei due figli aveva bisogno di consiglio o consolazione, oppure poteva
diventare inquisitorio, se non predatorio, quando riteneva che avessero
fatto
qualcosa che non avrebbe approvato.
Immaginarmi Sheila era stato ancora
più difficile, perché mi
mancava un valido termine di paragone, non avendo Matteo alcuna
sorella. La
figura che avevo costruito era in qualche modo simile a mia cugina, ma
la bambina
non ancora undicenne somigliava in maniera molto labile alla Sara che
avevo lasciato
dall’altra parte: di poco più bassa nonostante i
tre anni di differenza, aveva
la stessa figura sottile della madre, anche se i riflessi dei suoi
capelli, più
che al biondo, tendevano al ramato. Anche se qualcosa nei tratti del
volto
rammentava Joshua, il resto, dalla struttura fisica al modo di muoversi
e
camminare, ricordavano piuttosto la donna che in quel momento stava
versando in
una padella l’impasto per i pancakes. Immaginai che
io… o forse avrei dovuto
dire Joshua… somigliasse maggiormente a quel padre che, dopo
l’invio del regalo
di Natale, non aveva più dato alcun segno di ricordare di
avere due figli in
Gran Bretagna. Ebbi un piccolo capogiro, come mi accadeva quasi sempre
quando
mi trovavo a mettere a confronto le vite di Matteo e Joshua: altro che
sdoppiamento di personalità! Nonostante il tempo trascorso,
era ancora
difficile rapportarmi al fatto di avere i ricordi di due persone
differenti in
un solo corpo. Ci sono persone che parlano con se stesse in terza
persona, ma
nel mio caso la situazione a volte rischiava di diventare ridicola!
Cercando di ignorare la sensazione di
malessere, mi lasciai
cadere sulla sedia di fronte a Sheila, che continuava a divertirsi nel
farmi le
boccacce come solo una ragazzina che ancora indugia
nell’infanzia può fare. Mio
malgrado, mi trovai a sorridere: per me, che ero cresciuto con soltanto
un
fratello più grande, avere una sorellina si stava rivelando
molto divertente,
benché a volte potesse essere frustrante. Sheila era
pestifera come poche
persone avessi mai conosciuto, e sapeva essere incredibilmente
pungente, in una
maniera che solo per un pre-adolescente poteva essere sopportabile. O
quasi.
Non potetti fare a meno di leccarmi i
baffi quando mia madre
mi mise davanti un piatto con una pila di pancakes al miele: se la
famiglia
aveva lasciato l’America, sembrava che l’America
non avesse lasciato la
famiglia! Avevo a malapena tagliato il primo boccone, però,
quando la voce della
donna mi bloccò con una frase che, con qualche piccola
modifica, avevo sentito
fin troppe volte nella mia vita: “Ti sei deciso finalmente a
mettere a posto in
quel nido di Doxy che hai il coraggio di chiamare camera?”.
La mia carissima sorellina non
risparmiò un ghigno
perfettamente visibile, mentre io dovetti trattenermi per evitare, allo
stesso
tempo, una risata ed uno sbuffo esasperato: si può cambiare
anche universo, ma
le madri rimarranno sempre uguali!
“Ehm… ho
iniziato! – borbottai, sentendomi di nuovo un
quattordicenne quanto mai prima di allora – Ho sistemato
l’armadio ed i
cassetti, ora devo mettere a posto la libreria, la scrivania
e… beh… il
pavimento. Ma ti prometto che finirò…”.
“Quando mi spunteranno le
pinne al posto dei piedi” concluse
mia madre con aria sconsolata , dando a mia sorella una ragione per
farsi
un’altra risata, poi si sedette al tavolo stringendo in mano
una grossa tazza
di caffè e mi fissò con occhi penetranti:
“E con i compiti a che punto stai?
Mancano meno di dieci giorni al rientro a scuola, immagino che li avrai
praticamente finiti”.
Appunto… se a livello
estetico Katherine non era esattamente
uguale a mia madre, per atteggiamento e discorsi avrebbero potuto
essere
gemelle. Dopo la camera da sistemare, i compiti. E purtroppo, mi
trovavo ad
essere nuovamente in fallo: “Beh…diciamo quasi
finiti. Ho completato i
temi di Storia della Magia, Difesa Contro le Arti Oscure e
Trasfigurazione, gli
esercizi di Incantesimi ed Astronomia…”.
“E per quanto riguarda
Pozioni ed Erbologia? – chiese mia
madre, sorseggiando il caffè e squadrandomi con occhio
indagatore. Mia sorella
ormai rideva senza ritegno. La fulminai: ‘Aspetta solo un
paio di settimane,
ragazzina – pensai – poi vedrai cosa significano i
compiti di Hogwarts!’.
Sheila avrebbe affrontato il suo primo anno alla scuola di
lì a pochi giorni.
“Ancora da fare”
risposi con semplicità, sapendo che non
sarebbe stato sufficiente. Se mia madre era stata chiaramente felice di
rivedermi, c’erano stati alcuni punti di contrasto nei primi
giorni dopo la
fine delle vacanze. Il mio carattere era stato uno dei problemi: a
quanto
pareva, nonostante ormai mi fossi più o meno messo in pari
con i ricordi del
mio alter ego, il Joshua Carter che era sceso dall’Hogwarts
Express era
piuttosto differente da quello che ci era salito dieci mesi prima. I
ragazzi a
scuola lo avevano conosciuto solo per poco più di due mesi
prima del mio
‘viaggio’, quindi non avevano faticato troppo ad
accettare che, dopo
l’incidente che gli era accaduto sulla scopa, il ragazzo
timido ed un po’
schivo giunto dall’America fosse diventato ostinato e
permaloso, ben deciso ad
avere l’ultima parola su tutto. Per mia madre, invece, era
stato decisamente
più complicato, ed aveva significato, nella prima settimana
dopo il mio
ritorno, una lunga serie di litigate da far tremare le pareti, prima
che io
riuscissi a darmi una calmata e che mia madre arrivasse alla
conclusione che il
mio nuovo atteggiamento fosse strettamente collegato agli ormoni e alla
volontà
di ribellione di un ragazzo ormai pienamente entrato
nell’adolescenza.
Il secondo problema, almeno
altrettanto serio, aveva
riguardato la pagella scolastica. In realtà, dal mio punto
di vista, i voti erano
buoni: avevo ottenuto il massimo a Storia della Magia (praticamente un
record
per chiunque non si chiamasse Hermione Granger), voti molto alti in
Incantesimi, Trasfigurazione e Difesa Contro le Arti Oscure e la
sufficienza in
tutte le altre materie, perfino in Pozioni, dove avevo seriamente
temuto la
bocciatura. Questo, però, non sembrava aver soddisfatto
pienamente mia madre,
soprattutto per quanto riguardava Erbologia: quella materia era il suo
lavoro,
e a quanto pareva, finché aveva frequentato Ilvernmonry, era
stata anche una
delle preferite di suo figlio, quindi il mio crollo doveva essersi
rivelato,
per lei, particolarmente deludente.
“Una piccola domanda per
te, Joshua – sibilò in maniera
pericolosa mia madre, mentre la carognetta undicenne davanti a me
continuava a
ridere sotto i baffi – Tu sai chi mi ha spedito un gufo
appena due giorni dopo
la fine della scuola?”.
Sentendo di stare saltando dentro la
bocca di uno squalo, scossi
la testa.
“Va bene, una domanda
più semplice allora: sai chi è la
persona che stimo di più in questo paese, quella che mi ha
insegnato l’amore
per le piante, che mi ha spinto a scegliere questo lavoro dopo il mio
settimo
anno?”.
Con l’orribile impressione
di avere intuito la risposta,
feci un secondo cenno di diniego.
“La risposta è
la stessa ad entrambe le domande – il sibilo
di mia madre si trasformò in qualcosa di molto simile ad un
ringhio – Pomona
Sprite, mia insegnante ai tempi di Hogwarts prima e mia ottima amica
poi. Mi ha
scritto una bella lettera nella quale sottolinea che, dopo un buon
inizio
d’anno, hai avuto un crollo improvviso quanto incomprensibile
nella sua
materia. Benché tu ti sia salvato per il rotto della cuffia
nell’esame finale,
sei andato ad un soffio dalla bocciatura – si
passò una mano sulla fronte – Ho
rinunciato a capire cosa ti sia successo, considerando che prima
adoravi
l’Erbologia e rischiavi di addormentarti su qualsiasi libro
di Storia, ma che
tu abbia avuto una crisi mistica o una commozione celebrale dopo il
Bolide che
hai preso in testa, la sostanza non cambia: mi rifiuto di credere che
mio
figlio non sia in grado di prendere un voto decente in Erbologia! E tu
cosa
fai? Mancano dieci giorni all’inizio della scuola e neanche
hai iniziato i
compiti! Al tuo ritorno pretendo che ti ci dedichi con tutto
l’impegno
possibile!”.
Ero talmente preso dalla ramanzina
che impiegai qualche
secondo per registrare le ultime parole: “Il mio…
ritorno? Da dove?”.
Katherine mi fissò con un
sopracciglio inarcato: “Che fai,
mi prendi in giro?”.
Scossi la testa con sguardo vacuo:
“Non ho la minima idea di
cosa tu stia parlando, giuro! Devo andare da qualche parte?”.
Uno sbuffo di frustrazione giunse
dall’altra parte del
tavolo: “Ti sei svegliato dal lato stupido del letto,
fratellone?” chiese mia
sorella con voce contrariata.
Mi voltai verso di lei: aveva il
gomito sul tavolo e la
testa appoggiata alla mano. Sembrava allo steso tempo delusa ed
arrabbiata:
“Non ti ricordi veramente che giorno è? Non ti
viene in mente un certo impegno
che hai questo pomeriggio, un certo posto dove devi andare? –
vedendo che
continuavo a non capire, sbuffò nuovamente – Che
razza di imbranato! Hai tutte
le fortune del mondo e neanche te ne ricordi!”.
Continuavo a non capire: era come se
il sogno avesse
lasciato una coltre di nebbia sulla mia memoria, e non riuscivo proprio
a
ricordare, anche se la chiara invidia che in quel momento trasudava da
mia
sorella stava smuovendo qualcosa. In cerca d’ispirazione,
girai distrattamente la
testa verso il calendario appeso al muro: era il 21 agosto, e vidi che
la data
era cerchiata di rosso. Quella del giorno successivo, invece, era
seguita da
una serie di punti esclamativi. Fu come se una diga fosse
improvvisamente
crollata all’interno della mia testa, e un sorriso di pura
felicità mi spuntò
sulle labbra: “LA PARTITA! – urlai –
Idiota che sono, non ricordavo che giorno è!”.
Mia madre gettò gli occhi
all’indietro, con aria di
commiserazione per lo stato della mia mente, mentre mia sorella
sbuffò di
nuovo, chiaramente contrariata. D’altronde, potevo capirla:
era dal Natale
precedente che io smaniavo per quell’occasione. La sera
successiva, a Dartmoor,
si sarebbe tenuta la finale della Coppa del Mondo di Quidditch, con
ogni
probabilità l’evento sportivo più
importante del mondo dei maghi: Irlanda e
Bulgaria si sarebbero affrontate davanti a centomila spettatori, e io
sarei
stato uno di loro! Mio padre, o il padre di Joshua, o comunque volessi
chiamarlo, era un Auror americano che aveva divorziato da mia madre
l’estate
precedente, e che mi aveva mandato, come dono natalizio, un biglietto
omaggio
per la grande partita. Da quando lo aveva saputo, mia sorella aveva
covato
un’invidia difficile anche solo da descrivere; avrebbe fatto
letteralmente
qualsiasi cosa per venire anche lei, ma purtroppo si era rivelato
impossibile:
a quanto avevo capito dopo il mio ritorno a casa, non eravamo poveri,
ma
neanche navigavamo nell’oro, e i biglietti per la grande
partita costavano una
piccola fortuna. Perfino mio padre ne aveva ottenuto uno solo, ed aveva
deciso
di spedirlo a me.
“Non è giusto
– borbottò mia sorella per quella che doveva
essere come minimo la dodicesima volta dal mio ritorno dalla scuola
– Io adoro
il Quidditch anche più di lui, perché non posso
andare?”.
“Dai, Sheila, ne abbiamo
già parlato – intervenne mia madre,
cercando di stemperare una eventuale lite sul nascere – Lo
sai come stanno le
cose, purtroppo per questa volta non è possibile - le sorrise con sguardo
rassicurante – Tu
domani verrai a Londra con la mamma, andremo a Diagon Alley a comprare
le cose
per la scuola!”.
“Già, grazie
mille mammina! – sospirò la ragazzina con tutta
l’ironia che fu capace di mettere nella frase –
E’ esattamente la stessa cosa,
davvero!”.
Mia madre alzò di nuovo
gli occhi al cielo e si avvicinò al
lavello, borbottando qualcosa sui figli adolescenti. Dal canto mio,
iniziai a
mangiare cercando di evitare gli sguardi accusatori di mia sorella. In
realtà,
benché fossi più che felice di poter andare alla
partita, sapevo che aveva
tutte le ragioni di essere infuriata, lo sarei stato anch’io
al suo posto:
scegliendo di prediligere un figlio rispetto all’altro, mio
padre aveva
compiuto un gesto piuttosto insolito per un genitore, ma da quando ero
tornato
a casa avevo fatto abbastanza chiarezza nella memoria di Joshua Carter
da capirne
il motivo.
A quanto pareva, era stato Grant
Carter a causare il divorzio
con Katherine, tradendola ripetutamente con diverse donne, come quel
coglione
di Nott si era premurato di ricordarmi. Joshua era grande abbastanza
per capire
quello che stava accadendo, e proprio per questa ragione si era
infuriato.
Oddio, infuriato era un termine riduttivo: da quanto riuscivo a
ricordare,
c’era stata una impressionante lite tra padre e figlio, con
Grant che cercava
inutilmente di giustificarsi e Joshua che gli vomitava addosso tutto
l’odio che
aveva accumulato dentro di se assimilando un anno di urla in famiglia.
Non ero
in grado di ricordare esattamente che cosa fosse uscito da quella che
ormai era
la mia bocca, ma rammentavo il finale: Joshua aveva urlato a suo padre
di
odiarlo, e che non intendeva vederlo mai più. Dopo
quell’occasione Grant non
aveva più cercato un contatto con il figlio, non aveva
tentato di vederlo e non
gli aveva scritto, come non aveva tentato di parlare con Sheila,
nonostante lei
non provasse per lui lo stesso grado di ostilità. Il
biglietto doveva essere
stato un disperato tentativo di chiedere scusa a Joshua per
l’accaduto. Da
parte mia, non sapevo veramente come comportarmi: sentivo di provare
ancora una
notevole rabbia nei confronti di quell’uomo che non avevo mai
visto, anche se
non allo stesso livello del mio ‘alter ego’. Avevo
accettato il regalo, ma non
avevo intenzione, almeno per il momento, di tendere la mano ad un padre
che non
aveva avuto neppure il coraggio di ammettere i suoi errori e che, in
ogni caso,
aveva scelto di ignorare quasi interamente i suoi figli per un anno.
“In ogni caso –
riprese mia madre, cercando di ignorare il
pessimo umore di Sheila – stamattina, mentre tu eri ancora
beatamente nel mondo
dei sogni, è arrivato un gufo dalla signora Finnegan: ha
detto che passerà a
prenderti alle tre del pomeriggio. Quindi, per quel momento, vedi di
aver
finito di sistemare la tua camera e di aver preparato il tuo zaino, o
potrei
cambiare idea e spedire Sheila al tuo posto!” concluse con
una risatina che
indignò ulteriormente la ragazzina.
La signora Finnegan era stata la
soluzione ad un problema
che mi ero posto già a Natale, non appena ricevuto il
biglietto: Joshua Carter aveva
compiuto quattordici anni solo un mese prima…o meglio, io
avevo compiuto
quattordici anni un mese prima, per la seconda volta. Di certo non
avrei potuto
recarmi ad assistere alla partita da solo, per quanto me ne sentissi,
logicamente, del tutto in grado. Era una questione non da poco, con un
solo
biglietto a disposizione, e per quanto sul momento ci avessi pensato,
non avevo
realmente intenzione di scappare di casa. La soluzione era giunta da
Seamus
Finnigan, che con Dean Thomas era il mio migliore amico ad Hogwarts, e
che era,
tra le altre cose, un grande tifoso di Quidditch e un irlandese
purosangue. Con
la sua nazionale in finale, lui e la madre avevano deciso di assistere
alla
partita. Si sarebbero recati sul luogo del match con un giorno
d’anticipo,
passando due notti in tenda, e la signora Finnegan si era dichiarata
più che
disponibile a portarmi con loro, cosa che aveva tranquillizzato mia
madre e
spedito me al settimo cielo. Non riuscivo ancora a spiegarmi come
avessi fatto
a dimenticarmene!
Trangugiai a tutta
velocità i pancakes, ignorando gli
sguardi di disapprovazione di mia sorella, poi schizzai in piedi e
corsi su per
le scale. Se avevo imparato una cosa in poco meno di due mesi, era che
Katherine, come la madre che avevo lasciato dall’altra parte,
scherzava sempre
solo fino ad un certo punto, e per sicurezza, sarebbe stato meglio
sistemare la
camera ben prima delle tre del pomeriggio!
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Capitolo 3 *** La Coppa del Mondo di Quidditch ***
3 – LA COPPA DEL MONDO DI
QUIDDITCH
Decisamente, le Passaporte non
sarebbero entrate nella
classifica delle cose che mi piacevano di più nel mondo
magico. Dieci minuti
dopo lo sgradevole viaggio attaccato ad una vecchia caffettiera, quando
io,
Seamus e sua madre, una donna dall’aria simpatica con gli
stessi capelli rossi
del figlio, avevamo ormai ricevuto l’ubicazione della nostra
piazzola dal
proprietario Babbano del campeggio appena fuori dalla foresta dove era
stato
eretto lo stadio per la finale della Coppa, avevo ancora lo stomaco in
subbuglio, e camminavo attraverso la distesa di tende coperte di
trifoglio dei
tifosi irlandesi barcollando leggermente.
La maggior parte della gente sarebbe
arrivata soltanto il
giorno successivo, compresi, lo sapevamo, diversi dei nostri compagni
di
scuola, ma c’erano già moltissime persone, tra le
quali alcune nostre vecchie
conoscenze. Tra queste, una che avrei fatto a meno volentieri di
rivedere prima
di esserci obbligato dall’inizio dell’anno
scolastico: fuori dall’area dei
tifosi più sfegatati, di fronte ad una tenda particolarmente
lussuosa davanti
dalla quale era stata eretta quella che sembrava una cucina da campo
completamente attrezzata, vidi Theodore Nott in piedi con in mano una
tazza, a
fianco di un uomo magro dai capelli completamente grigi che immaginai
essere
suo padre. Il ragazzo mi lanciò uno sguardo fiammeggiante, e
si chinò a
sussurrare qualcosa al padre, che si voltò verso di me
guardandomi con blando
interesse. Chissà perché, dubitavo fortemente che
qualsiasi cosa il mio poco
amato compagno di scuola avesse detto fosse un complimento. Sostenni lo
sguardo
di Nott Senior, e dopo un paio di secondi lui si voltò e
sussurrò qualche
parola al figlio, il quale, dopo un secondo lancio di coltelli oculari,
tornò a
concentrarsi sulla bevanda che aveva in mano. Chiaramente, la cocente
sconfitta
subita davanti al lago gli bruciava ancora tremendamente, ma per lo
meno sembrava
avere abbastanza buon senso da non tentare mosse azzardate.
Altri incontri furono decisamente
più piacevoli: eravamo ad
un paio di file dalla nostra piazzola quando un piccolo uragano biondo
si fece largo
tra le tende e mi saltò letteralmente in braccio,
trascinandomi nel più
caloroso degli abbracci e stampandomi un gioioso bacio sulla guancia.
Mary
Sutton, probabilmente la più cara amica che avessi a
Hogwarts, mi accolse come se
non mi avesse visto né sentito per un paio d’anni,
anche se avevo risposto alla
sua ultima lettera appena tre giorni prima. Poche frasi, e compresi che
l’evidente cotta che la dolce ragazzina aveva dimostrato di
avere per me, lungi
dallo smorzarsi nei cinquanta giorni di separazione, era più
viva che mai, e
dal piccolo rivolgimento che avvertii all’altezza dello
stomaco mi resi conto
che una parte del mio corpo e della mia mente, difficile dire per il
momento
quanto importante, non sembrava esserne affatto dispiaciuta. Mary
avrebbe
voluto portare me e Seamus (anche se avevo la sensazione che avesse
esteso
l’invito al ragazzo irlandese più per educazione
che per altro) alla sua tenda
per farci conoscere i suoi genitori, ma visto che noi dovevamo ancora
montare
la nostra accettò di differire il tutto ad una cioccolata
dopo cena.
Mentre raggiungevamo sua madre alla
piazzola, Seamus mi
prese in giro in maniera spietata sull’atteggiamento di Mary
nei miei confronti:
“E fu così che il nostro Joshua Carter
diventò il primo del nostro anno a
trovarsi la ragazza!” sghignazzò.
“Oh, sta zitto, Pel di
Carota!” risposi con uno sbuffo
imbarazzato.
“Che problema hai, Gringo?
– chiese, sempre ridendo – Al
posto tuo non mi porrei neanche il problema! Mary è
fantastica, e dire che è
carina mi sembra riduttivo! Vedi di darti una svegliata prima che se ne
accorda
anche qualcuno meno gentile e corretto di me!”.
Feci il gesto di allungare un calcio
a Seamus, che lo scansò
con una sghignazzata supplementare, prima che sua madre ci richiamasse
all’ordine affinché l’aiutassimo a
montare la tenda. Per mia fortuna, godevo,
una volta tanto, di un doppio vantaggio: Matteo Simoncini aveva sempre
amato il
campeggio, aveva passato almeno cinque vacanze estive in tenda, e Grant
Carter,
a quanto emergeva dai miei ricordi, era un grande appassionato delle
tecniche
Babbane per la vita all’aria aperta, e negli anni precedenti
al catastrofico
divorzio aveva condotto diverse volte il figlio a bivaccare in alcune
delle
zone più selvagge degli Stati Uniti, inclusi il parco di
Yellowstone, le
Everglades e il deserto di Sonora, dove il piccolo Joshua aveva
seriamente
rischiato la sua giovane pelle a causa della puntura di uno scorpione.
Questa
combinazione di esperienze si rivelò provvidenziale,
perché Seamus non aveva la
minima idea di come rizzare una tenda o accendere un fuoco da campo, e
sua
madre sembrava soltanto leggermente più esperta di lui.
Dando fondo ai miei
ricordi, comunque, riuscimmo a tirare su una tenda a quattro posti, che
si
rivelò poi, all’interno, magicamente ingrandita al
punto di diventare la
replica di un piccolo appartamento con due camere e un bagno, e per
l’ora di
cena il fuoco produceva calore sufficiente per arrostire delle
invitanti
salsicce. Mentre Seamus continuava a prendermi in giro sulla questione
Mary,
con la madre che in parte lo redarguiva e in parte mi metteva in
imbarazzo
chiedendomi informazioni sulla ragazza in questione, dovetti ammettere
che
erano anni che non mi sentivo tanto in pace con me stesso.
Benché tornare a
vivere certi problemi, inclusi quelli di cuore, avesse i suoi piccoli
svantaggi, nel complesso, forse anche grazie all’abitudine,
avevo cambiato idea
rispetto all’anno precedente: era bello essere di nuovo un
adolescente!
Il giorno successivo fu senza dubbio
uno dei più divertenti
della mia vita, soprattutto da quando iniziarono ad arrivare molti
altri
ragazzi di Hogwarts: da Oliver Baston, l’ormai ex capitano
della squadra di
Quidditch di Grifondoro, a Ernie Macmillan, un ragazzo un po’
pomposo ma simpatico
di Tassorosso. Dal giorno dopo, per di più, al nutrito
gruppo dei nostri
compagni di scuola si aggiunsero Harry, Hermione e Ron, che era giunto
con
tutta la sua famiglia, ad eccezione della madre: fu un vero piacere
conoscere
Bill e Charlie, i suoi fratelli maggiori che avevano già
finito Hogwarts, e
ancora di più rivedere Ginny, che mi era cara quasi quanto
Mary. L’incontro con
Hermione, invece, fu leggermente più carico
d’imbarazzo, una conseguenza
inevitabile del fatto che la geniale ragazza, subito prima della fine
dell’anno
scolastico, fosse andata estremamente vicina a scoprire il mio segreto.
La
ragazza si era rivelata abbastanza intelligente da comprendere le mie
ragioni,
ed aveva deciso di non indagare ulteriormente quando le avevo chiesto
di accettare,
per il momento, che non potessi spiegarle tutto, ma dalle continue
occhiate che
mi lanciava era fin troppo chiaro che aveva deciso di tenermi sotto
stretta,
per quanto garbata, sorveglianza.
La compagnia più costante,
comunque, fu quella di Mary:
senza essere invadente, la ragazzina sembrava ben decisa a passare
quanto più
tempo possibile insieme a me, che si trattasse di cucinare i
marshmallow (che
io avevo trovato allo spaccio del campeggio e che per lei e per gli
altri
giovani maghi si erano rivelati una scoperta entusiasmante) sul fuoco,
di
giocare a Spara Schiocco, a scacchi oppure con un mazzo di carte
Babbane (la
ragazzina si era dimostrata un talento naturale nel poker, al punto da
spillare
un totale di sedici Galeoni a me, Seamus e Baston) seduti
sull’erba, oppure
semplicemente passeggiare tra le tende, osservando le
particolarità delle
migliaia di maghi stranieri che erano giunti a Dartmoor.
Benché sembrasse
impegnarsi nel tentativo di comportarsi come un’amica, i suoi
sentimenti
dovevano essere fin troppo chiari, considerando che, a metà
del pomeriggio del
giorno della partita, Hermione approfittò della scusa di
farsi accompagnare a
prendere l’acqua alla fontanella per affrontare con me il
discorso. Furono
minuti quasi peggiori di quelli nei quali, due mesi prima, aveva
demolito le
difese costruite intorno alla mia vera identità.
“Senti, Joshua…
- iniziò mentre ci avviavamo con i secchi, e
nella mia mente già iniziò a suonare
l’allarme – Devo chiederti una cosa”.
Vedendo il mio volto preoccupato, si
affrettò a precisare:
“Non intendo parlare… beh, di quello che sai!
– si fermò e mi fissò negli occhi
con serietà – In realtà vorrei sapere
che cosa hai intenzione di fare con
Mary”.
Era una domanda totalmente
inaspettata: “Che cosa intendi,
Hermione?” chiesi, improvvisamente imbarazzato.
La ragazza mi fissò con
sguardo furbo: “Josh, sei veramente
pessimo quando tenti di fare l’indifferente! Sai benissimo
cosa voglio dire!”.
Eccome se lo sapevo, fin troppo bene
in effetti, ma questo
non mi aiutava per niente. Sospirai: “Mi crederesti se ti
dicessi che non ne ho
idea?”.
Era la pura e semplice
verità: la dignitosa esperienza
accumulata dal mio alter ego sembrava essersi completamente estinta nel
passaggio a Joshua, e non avevo la minima idea di come comportarmi. Il
ritorno
all’adolescenza, per le questioni sentimentali, si
prospettava perfino peggiore
rispetto al primo giro di giostra, perché questa volta,
oltre ai problemi
tipici dell’età, dovevo sopportare anche il peso
della situazione assurda nella
quale mi trovavo. Era, per di più, una situazione che non
potevo ignorare,
visto che ormai avevo capito che Mary non mi era affatto indifferente:
era molto
carina, incredibilmente simpatica, dolcissima, divertente. Una
ragazzina
straordinaria, insomma, e se fossi stato un normale quattordicenne non
avrei
avuto il minimo dubbio sul modo di comportarmi. O meglio, avrei avuto i
tipici
dubbi di un ragazzo di quell’età che si approccia
per la prima volta al sesso
opposto, quindi sarei stato, probabilmente, ridotto ad un patetico
rottame, ma
sarebbe stato, appunto, il normale corso dell’eventi.
Quell’aggettivo, purtroppo,
si poteva applicare a me
soltanto con una ‘a’ posta davanti,
perciò i problemi, con Mary, erano anche
troppi. Prima di tutto, benché ormai da dieci mesi abitassi
il corpo di un adolescente,
non avevo ancora dimenticato la vita dalla quale provenivo, e una parte
di me
continuava a sentirsi decisamente troppo vecchia per dare corda alle
pulsioni
sentimentali di una tredicenne. Era come se nel mio cervello ci fosse,
costantemente, un conflitto in atto tra il ragazzo e l’uomo,
e nessuno dei due
sembrava riuscire ad ottenere una vittoria definitiva. E poi,
c’era Sabrina. Il
fatto che le probabilità di poterla mai rivedere, almeno
considerando ciò che
sapevo, fossero letteralmente ridotte al lumicino, non voleva dire che
avessi
dimenticato. Non si scordano così facilmente tre anni di
relazione, con i sogni
ed i progetti ad essa correlati. Era assurdo, considerato
ciò che stavo vivendo,
ma ogni volta che Joshua pensava alla possibilità che
potesse nascere qualcosa
con Mary, Matteo sentiva di stare in qualche modo tradendo Sabrina.
Altro che
conflitto di coscienza, avevo voglia di prendere la rincorsa e dare una
testata
contro il più vicino muro!
Ovviamente, però, non
potevo raccontare nulla di tutto
questo a Hermione, la quale, però, sembrò
intuirne almeno il senso: “A dire la
verità, sì. Ti credo – mi
fissò dritto negli occhi – Ti conosco abbastanza
bene, ormai, Joshua Carter. Non sei bravo a nascondere quello che provi
– la
mia amica sorrise – Mary è una ragazza fantastica,
ma non ho certo bisogno di
dirtelo, ti si legge in faccia che lo sai benissimo. Eppure,
c’è qualcosa che
ti blocca. E’… è legato a
ciò che non mi hai raccontato?”.
Avvertii un’ombra calarmi
sul volto. Abbassai lo sguardo a
terra ed annuii. Subito sentii una mano delicata stringermi la spalla,
e quando
risollevai la testa vidi Hermione davanti a me, con atteggiamento
comprensivo:
“Capisco. Prenditi il tempo che ti serve, Josh…
solo… non farla soffrire, va
bene? Perché quello che ti ho detto alla fine della scuola
è ancora vero: Mary
tiene moltissimo a te, anzi, sempre di più direi!”.
Toccò a me sorridere:
“Non lo farò, Hermione. Hai ragione, anche
io tengo molto a lei, e l’ultima cosa che voglio è
rischiare di farle del male.
Solo… devo capire cosa fare – le presi la mano e
la strinsi tra le mie –
Grazie, davvero. E’ bello sapere che c’è
qualcuno che si preoccupa tanto per me
e per gli altri. Sei davvero una persona fantastica,
Hermione”.
Mentre la mia amica si voltava
sorridendo per tornare a
dirigersi verso la fontanella, vidi che il suo volto aveva assunto una
sfumatura di colore molto simile ai capelli di Ginny.
Solo pochi mesi prima avevo pensato
che la finale del
campionato scolastico fosse stata un’esperienza
entusiasmante, adrenalinica.
Avevo pensato che niente potesse scatenare emozioni più
forti. Evidentemente,
non sapevo di cosa stessi parlando. Lo compresi mentre, da una delle
tribune
d’oro dell’enorme stadio realizzato per ospitare la
finale della Coppa del
Mondo di Quidditch, un cappello verde coperto di trifogli in testa e un
paio di
omniocoli in mano, assistevo, insieme ad altre centomila persone, alla
grande
sfida tra Irlanda e Bulgaria. Avevo ancora il sangue in subbuglio dopo
lo
spettacolo delle mascotte, in particolare delle Veela della Bulgaria:
in fondo,
rimanevo pur sempre un adolescente in piena tempesta ormonale, e vedere
un paio
di dozzine di donne bellissime (o almeno, avevano l’aspetto
di donne bellissime)
che ballavano in abiti di lustrini davanti ai miei occhi era
più che abbastanza
per mandarmi fuori giri. Fortunatamente, benché non
faticassi affatto a
trovarle bellissime e seducenti, per lo meno compresi che il loro
particolare
fascino non esercitava su di me un effetto devastante come sulla
maggior parte
degli altri maschi: per lo meno, non ero nello stato di Seamus, che
mandava in
fuori il petto quanto più possibile, nel tentativo di
mostrarsi forte e
possente, mentre il risultato era invece piuttosto ridicolo. La mia
capacità di
resistere al potere delle Veela mi fece guadagnare qualche punto con la
madre
del mio amico, che fissava il figlio con sguardo esasperato:
“E’ bello vedere
che ci sono maschi che non si riducono a larve di fronte ad un paio di
gambe
nude!”.
Poi la partita iniziò, e
in pochi secondi dimenticai le
Veela. Non era Quidditch, non come lo conoscevo io almeno: era qualcosa
di
superiore, perfino un dilettante come me lo capiva perfettamente. Avevo
davanti
dei veri campioni, ad un livello che non avrei mai immaginato. Il ritmo
della
partita era incalzante, l’ondata di adrenalina somigliava ad
una inondazione:
anche se, in teoria, non avevo nessuna ragione, tranne la gratitudine
verso
Seamus e sua madre, per sostenere una squadra in particolare, mi trovai
a
tifare per l’Irlanda con tutto il fiato che avevo in corpo,
straordinariamente
coinvolto dall’insieme della situazione.
Da Cacciatore, mi trovai a valutare
le prestazioni del trio
irlandese: Troy, Mullet e Moran non erano semplicemente abili,
erano… di più.
Sembravano una sola persona divisa in tre corpi, vista la
facilità con la quale
si trovavano. La Bulgaria era forte, ma non abbastanza, e si
trovò presto in
ampio svantaggio. La sola eccezione alla superiorità
dell’Irlanda era Viktor
Krum, il giovanissimo cercatore e chiaramente il miglior volatore trai
quattordici
in campo. Si stava, sostanzialmente, battendo da solo contro
l’intera squadra
avversaria: riuscì a mandare il cercatore irlandese a
schiantarsi a terra, e
poi, nonostante il naso rotto da un Bolide, si produsse in uno
spettacolare
tuffo verso il suolo, recuperando il boccino a pochi centimetri da
terra e
mandando l’irlandese Lynch ad abbracciare per la seconda
volta il terreno. Sorpreso
per la repentina conclusione del match, voltai la testa verso il
tabellone: nonostante
la presa del boccino, la Bulgaria aveva comunque perso di dieci punti.
“Perché ha fatto
una simile stupidaggine? – chiesi a Seamus,
che stava saltando come un pazzo – Stavano perdendo di
centosessanta punti, in
questo modo li ha condannati alla sconfitta!”.
“Beh, meglio per noi,
no?” sghignazzò il mio amico,
rischiando di volare giù dalla tribuna per
l’emozione.
“Non sarebbero mai riusciti
a recuperare – disse con un
sorriso la madre del mio amico – L’Irlanda ha
dimostrato di essere molto più forte.
Ha solo voluto chiudere la partita con un colpo di classe, dimostrando
di
essere il più abile”.
Probabilmente aveva ragione, ma
perfino lo stesso Krum non
sembrava soddisfatto di quanto aveva fatto, a giudicare
dall’espressione torva
che era dipinta sul suo viso.
Fendendo a fatica la folla, riuscimmo
ad attraversare il
bosco che separava lo stadio dal campeggio, ma ovviamente nessuno aveva
voglia
di dormire, eravamo tutti troppo eccitati da quanto avevamo visto.
Mentre gli
adulti si riunivano presso la tenda dei Weasley, io e gli altri ragazzi
ci
ammassammo di fronte a quella di Seamus: seduti in cerchio intorno al
fuoco,
sul quale cuocevamo delle fette di pane sulle quali spalmare
l’ottima
marmellata casereccia della madre di Baston, non facevamo che parlare
della
partita, ripercorrendola azione per azione, quasi secondo per secondo.
Mary,
prevedibilmente, si era seduta accanto a me, e dopo pochi minuti,
mostrando una
stanchezza forse non completamente reale, mi appoggiò la
testa sul petto, stringendomi
con il braccio sinistro. Un po’ sorpreso, impiegai qualche
secondo per reagire,
poi però le passai il braccio destro sulle spalle, anche se
le mie giunture
sembravano reagire con qualche difficoltà. La sentii
irrigidirsi, ma con la
coda dell’occhio la vidi sorridere. I ragazzi erano troppo
impegnati a
ripercorrere il match per rendersi conto della situazione, ma Hermione
e Ginny,
sedute di fronte a me dall’altra parte del fuoco,
ridacchiavano senza ritegno,
invitandomi chiaramente con lo sguardo a fare qualcosa. Le avrei
volentieri
strangolate.
Da parte mia, più
passavano i minuti più la mia mente sprofondava
nel caos; se una parte continuava a rammentarmi quanto fosse sbagliato
stare
abbracciato ad una ragazzina di tredici anni e quanto sarebbe stato un
gesto
vergognoso se avessi deciso di spingermi oltre, un’altra
aveva pensieri
diametralmente opposti, che potevano essere riassunti con una
semplicissima
frase: ‘Baciala, imbecille!’. Sembrava essere anche
il muto suggerimento delle
due iene ridens travestite da studentesse che avevo davanti.
Già, fosse stato
facile! Anche ammesso che fossi riuscito a superare le mie remore
morali, eravamo
comunque in mezzo ad un mucchio di ragazzi. Non avrei mai avuto il
coraggio di
compiere un gesto simile in pubblico! Per Mary si sarebbe con ogni
probabilità
trattato del primo bacio, e lo stesso valeva, tecnicamente, per Joshua!
Non
potevo veramente farlo, entrambi probabilmente saremmo sprofondati
sotto terra
per l’imbarazzo. Eppure non potevo nascondermi di essere
molto, forse troppo tentato.
Distrattamente, quasi senza accorgermene, iniziai a giocare con i
capelli di
Mary, e la sentii rilassarsi. Nel mio cervello sembrava essersi
scatenata una
guerra civile: Matteo Simoncini urlava che stavamo facendo qualcosa di
tremendamente sbagliato, mentre Joshua Carter, pur vergognandosi come
un ladro,
sottolineava che non poteva esserci nulla di più giusto.
L’inevitabile
conseguenza, ovviamente, fu che rimasi completamente bloccato, incapace
sia di
staccarmi da Mary, sia di fare qualcosa di più che passare
le dita nei suoi
capelli, finché, poco prima di mezzanotte, la madre di
Seamus tornò alla tenda
dichiarando che era ora di andare a dormire, visto che la mattina dopo
avremmo
dovuto svegliarci presto per smontare il campo e tornare a casa.
Mi sciolsi a malincuore
dall’abbraccio e aiutai Mary ad
alzarsi. A giudicare dagli occhi con i quali mi fissò mentre
mi augurava la
buonanotte, sembrava sperare in un gesto coraggioso da parte mia. Per
un
istante ebbi veramente la tentazione di baciarla, mandando al diavolo
le mie
riserve e senza neanche considerare che i suoi genitori potevano essere
a pochi
metri da noi. Quasi senza rendermene conto, le presi il viso tra le
mani. Mary
arrossì violentemente, e fu sufficiente per farmi uscire
dalla sorta di trance
che sembrava avermi colto. Cambiai bersaglio a metà del
gesto, e le stampai un
casto bacio sulla fronte. Dal suo sguardo, sembrò essere sia
delusa che
sollevata dalla mia decisione, ma riuscì comunque a
sorridere e a salutarmi con
un ultimo abbraccio prima di dirigersi verso la sua tenda. Prendendomi
mentalmente a calci per la mia irresolutezza, entrai in quella di
Seamus.
Il ragazzo, per quanto distratto
dall’argomento Quidditch,
sembrava aver notato più di quanto pensassi, visto che
continuò a prendermi in
giro finché non fummo pronti ad entrare nel letto a
castello. Gli risposi solo
distrattamente, e non soltanto perché avevo la mente
impegnata con quanto era
successo quella sera e con i miei dubbi sul giusto comportamento da
tenere: la
verità era che, da quando non ero più distratto
dalla presenza di Mary, una
sorta di strano ronzio sembrava avermi invaso la testa, troppo basso
per essere
realmente fastidioso, troppo costante per essere ignorato. Erano due
mesi che
il mio ‘Senso di Ragno’ mi lasciava in pace, ma non
era passato abbastanza
tempo perché non lo riconoscessi: era un avviso perfino
più generico del
solito, ma sentivo chiaramente che qualcosa non tornava, che stava per
accadere
qualcosa di inaspettato. Non avrei saputo in alcun modo dire cosa, ma
avvertivo
che non sarebbe stato niente di positivo. Quasi senza rendermene conto,
mi
fermai a metà del gesto di infilare la bacchetta magica
nello zaino, la fissai
per qualche secondo, poi la misi sotto il cuscino.
“Cos’è,
hai paura di essere attaccato nel sonno?”
sghignazzò
Seamus, che era già salito sulla cuccetta superiore.
“Non si sa mai –
risposi con un sorriso convincente mentre
spegnevo la lampada ad olio posata su un mobiletto vicino al letto
– I bulgari
potrebbero decidere di volere la rivincita!”.
“Ha! Devono solo provarci
– rispose il mio amico ridendo –
Tra l’euforia per la vittoria e la quantità di
alcool che hanno ingurgitato i
tifosi irlandesi, rischierebbero di tornare a casa dentro un
ditale!”.
Ridacchiai a mia volta e mi infilai
sotto le coperte,
tenendo però addosso i jeans per sicurezza: “Beh,
speriamo che siano abbastanza
furbi da evitare! Buonanotte, Seamus”.
“Buonanotte,
Josh”.
Nonostante fossi molto stanco, le
emozioni della giornata e
il vago allarme che continuava a rimbalzare nella mia testa mi
permisero
soltanto un sonno leggero, perciò impiegai meno di un
secondo a svegliarmi
quando iniziarono le urla e le esplosioni. Seamus era ancora
semi-addormentato,
e si stava chiedendo con voce assonnata cosa stesse succedendo, ma io
ero già
saltato in piedi con la bacchetta in mano quando sua madre
piombò nella nostra
stanza con sguardo preoccupato: “Veloci, ragazzi! Vestitevi e
venite fuori! Ci
sono guai!”.
Nel tempo che Seamus
impiegò a scendere dalla sua cuccetta,
io mi ero già infilato le scarpe da ginnastica e mi ero
buttato addosso un
giubbotto, quindi fui il primo a raggiungere la signora Finnegan
all’esterno.
Quello che trovai fece saltare un paio di battiti al mio cuore: alla
luce dei
pochi fuochi ancora accesi, vidi un gruppo di maghi incappucciati e,
apparentemente, con i volti coperti da inquietanti maschere bianche,
che
avanzava attraverso l’accampamento, facendo saltare in aria
le tende davanti a
se. Diverse erano già in fiamme. Sopra di loro, tenuti in
aria dalle bacchette
di diversi membri del gruppo, il proprietario del campeggio e la sua
famiglia rotolavano
come marionette.
“Mangiamorte”
sussurrò con un filo di voce la signora Finnegan,
e io, benché non riuscissi a ricordare il significato di
quella parola,
avvertii una scossa di paura scendermi lungo la schiena.
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Capitolo 4 *** Scontro nel buio ***
SCONTRO NEL BUIO
Nel giro di pochi secondi il caos si
impadronì dell’intero
campeggio: la maggior parte delle persone presero a fuggire verso il
bosco, terrorizzate
di potersi trovare in mezzo agli scontri che si stavano accendendo tra
il
gruppo di maghi vestiti di nero ed i funzionari del Ministero, che
insieme ad
alcuni volontari stavano accorrendo per salvare i Babbani presi in
ostaggio.
Ovunque si vedevano tende rovesciate o in fiamme. Un nuovo brivido mi
scosse
quando, nella calca, vidi alcune teste rosse dirigersi, bacchette alla
mano,
verso quelli che la madre di Seamus, nel frattempo rientrata per
recuperare il
figlio, aveva chiamato ‘Mangiamorte’: Bill, Charlie
e Percy, i fratelli
maggiori di Ron, si stavano gettando nella mischia insieme al padre. Mi
chiesi
dove fossero i miei amici, se avessero già raggiunto la
relativa sicurezza del
bosco. Voltai di nuovo la testa verso il gruppo di incappucciati:
benché, pur
scavando nelle memorie sia di Matteo che di Joshua, non riuscissi in
alcun modo
a ricordare a cosa rimandasse quel nome, un campanello di allarme aveva
nuovamente iniziato a squillare nella mia testa. Era come se si fosse
accesa
una luce rossa lampeggiante: il mio ‘Senso di
Ragno’ mi stava lanciando segnali
di pericolo come mai aveva fatto in nove mesi passati in quel mondo.
Non che ne
avessi realmente bisogno: guardando gli uomini simili a mostri che
avevo di
fronte, era fin troppo chiaro quanto rappresentassero una minaccia.
Mentre
alcuni continuavano a far girare nell’aria il disgraziato
proprietario del
campeggio ed i suoi familiari, altri si erano staccati per continuare a
devastare il campo, mentre un gruppo compatto si era schierato di
fronte ai
funzionari del Ministero, pronti allo scontro. Mentre i primi
incantesimi
iniziavano a volare, la signora Finnegan uscì di corsa dalla
tenda,
trascinandosi ancora un mezzo addormentato Seamus, che si era infilato
una
giacca al contrario direttamente sul pigiama. La donna mi
abbrancò una spalla:
“Voi due correte nel bosco, mettetevi al riparo!
Verrò a cercarvi quando
tornerà la calma! Andate!” e si diresse verso il
caos.
Io e Seamus ci mettemmo a correre in
direzione del bosco, ma
la calca era tale da rendere estremamente difficile riuscire a rimanere
vicini.
Finimmo quasi subito separati da un gruppo di maghi e streghe che
imprecavano
in una strana lingua che immaginai essere bulgaro. Passato il gruppo,
riuscii
ad afferrare per un istante la giacca di Seamus, prima che una spallata
mi
mandasse a terra. Lo sentii chiamare il mio nome una volta, poi
incassai un
calcio in faccia, e fui troppo impegnato a vedere le stelle per
occuparmi del
resto. Quando riuscii a riportarmi in piedi, il mio amico era
scomparso. Rimasi
per qualche secondo fermo, intontito, con una mano stretta alla
mascella
malandata: il colpo doveva avermi per lo meno allentato un paio di
denti, ma
fortunatamente nel mondo dei Maghi era un danno da poco. Ero quasi
pronto a
riprendere la corsa quando udii un’esplosione a breve
distanza da me. Mi
voltai, e vidi che una buona parte della seconda fila alle spalle di
quella
dove si trovava la nostra tenda sparire di colpo in uno sbuffo di
fiamme e
polvere.
Una coltre di gelo mi calò
sul cuore: ‘Mary!’.
Improvvisamente dimentico dei pericoli, mi trovai, senza neanche
rendermi conto
di come fosse accaduto, a correre controcorrente, tornando verso il
centro del
campeggio. Se avessi potuto vedermi dall’esterno, avrei
probabilmente giudicato
una simile azione stupida, se non degna della temporanea
infermità mentale: se
fossi stato ancora in grado di pensare, mi sarei reso conto che, a
giudicare
dalla bolgia che c’era in giro, era virtualmente impossibile
che Mary e la sua
famiglia fossero rimasti alla tenda, che era il posto meno probabile
dove
trovarli in un momento simile, e che quindi le possibilità
che la mia potenziale
ragazza fosse realmente in pericolo, o almeno, più in
pericolo di tutte le
altre persone presenti nel campeggio, erano minime. Avevo chiaramente
smesso di
ragionare, e ignorai completamente perfino i sempre più
disperati avvisi del
‘Senso di Ragno’, che sembrava impegnarsi al
massimo nel tentativo di
ricordarmi che il livello di idiozia del mio gesto era elevatissimo:
sgusciando
disperatamente in mezzo alla folla in fuga come un salmone nella
corrente di
una cascata, e incassando anche una buona dose di gomitate, riuscii a
raggiungere
la fila di tende dove si trovava quella di Mary.
La devastazione che trovai davanti ai
miei occhi mi fece
dimenticare tutto il resto: parecchie delle tende erano completamente
bruciate
fino all’intelaiatura, altre (quelle di origine Babbana con i
montanti in
alluminio anziché in legno) erano ridotte a scheletri
contorti. Molte dovevano
essere state magicamente modificate come quella di Seamus,
perché le fiamme
sembravano aver rotto gli incantesimi, obbligandole a rovesciare un
contenuto
divenuto ormai eccessivo per lo spazio rimasto: il terreno era ingombro
di
mobili, bauli, zaini e borse. La mia lucidità
calò ulteriormente di fronte a
quello spettacolo da campo di battaglia: senza neanche accorgermi che
quasi
tutta la gente era ormai passata oltre ed ero rimasto praticamente
solo, iniziai
ad aggirarmi trai rottami urlando il nome di Mary e spostando pezzi di
tela
cerata per essere certo che sotto non vi fossero persone ferite.
Era incredibile quanti danni avesse
subito quella parte di
campeggio nel giro di pochissimi minuti: ovunque c’erano
piccoli principi
d’incendio e oggetti a vari gradi di distruzione. A parte la
tremolante luce
proveniente dalle fiamme, l’oscurità era quasi
totale. Per aiutarmi nella
ricerca, sfilai la bacchetta dalla tasca dei jeans e la puntai in alto:
“Lumos!”.
Il fascio di luce andò ad
illuminare le tende semidemolite,
ed io ripresi la ricerca. Sembrava che non ci fosse nessuno, ed il
pensiero di
aver fatto una cosa, per quanto coraggiosa, piuttosto stupida iniziava
a farsi
strada nella mia testa, benché continuassi a chiamare Mary,
quando una voce dal
sentore metallico, giunse dalle mie spalle: “Bene bene, cosa
abbiamo qui? Perché
questo leprotto non si è dato alla fuga con gli altri
conigli?”.
Assurdamente, il suono che
apparentemente sembrava provenire
da dietro una maschera mi fece balenare in testa l’immagine
di Darth Vader, al
punto che, quando mi voltai di scatto, pensai che entro pochi istanti
avrei
udito la Marcia Imperiale ed avrei visto una lama di mortifera luce
rossa
balenare nel buio. Quello che mi trovai di fronte era poco meno
spaventoso del
Signore dei Sith: una figura umana, avvolta in un mantello con
cappuccio, il
volto coperto da una maschera bianca, si stagliava contro le fiamme.
L’uomo in
nero lasciò cadere la scopa che sembrava aver appena rubato
da una tenda vicina
ed estrasse la bacchetta. Ebbi la sensazione di udire una risata
gorgogliante provenire
dalla sua direzione. Gettando un occhio alle sue spalle, vidi che gli
scontri
erano concentrati a parecchia distanza da noi, e una paura ancora
più glaciale
mi colpì: ero solo, contro un tipo che sembrava
tutt’altro che ben intenzionato
nei miei confronti. Il terrore paralizzante, però,
durò solo un istante: subito
dopo sentii una nuova decisione montare dentro di me. Riconobbi la
stessa
sensazione che avevo provato al momento del confronto con Nott sulla
riva del
lago, e questa volta accolsi il duro istinto da combattente che ormai
sapevo
essermi stato donato dalla stessa Forza che mi aveva portato in quel
mondo come
una benedizione: a giudicare dall’atteggiamento
dell’uomo che avevo davanti,
era con ogni probabilità la sola cosa che mi separava da un
morte orribile. Mi
misi di profilo, con l’idea di offrire un bersaglio
più ridotto, e sollevai la
bacchetta di fronte a me, mostrando di essere più pronto al
combattimento di
quanto realmente mi sentissi.
La risata dell’uomo in nero
divenne inconfondibile: “Abbiamo
un giovane eroe! – sghignazzò – Bene!
Pensavo che tutto sommato sarebbe stata
una serata noiosa, invece credo che ci sarà da divertirsi!
Vediamo cosa sai
fare, ragazzino!”.
A stento aveva finito di pronunciare
l’ultima parola quando
io lanciai il mio attacco: avevo già compreso che in quel
confronto non ci
sarebbe stato posto per l’onore, e a dispetto della
spavalderia che avevo
mostrato, immaginavo di aver bisogno di ogni vantaggio possibile.
Puntai la
bacchetta in un lampo e urlai: “Petrificus Totalus!”.
Un secondo fu tutto il tempo che mi
occorse per capire di
essere nei guai fino al collo: l’uomo in nero
deviò il mio incantesimo con un
gesto quasi pigro della bacchetta, poi rispose fulmineo scagliando
contro di me
un fiotto di luce arancione senza neanche pronunciare
l’incantesimo.
Fu più per fortuna che per
abilità se evitai il colpo: senza
il tempo necessario anche soltanto per provare a creare uno scudo, mi
tuffai di
lato. Un’esplosione illuminò a giorno
l’oscurità, e io avvertii una vampata di
calore contro la schiena, mentre la tenda più vicina a me si
sbriciolava e
qualcosa di simile ad una mano gigantesca sembrò colpirmi e
scagliarmi ad un
paio di metri di distanza. Dolorante, mi alzai in piedi, appena in
tempo per
vedere l’uomo prendermi nuovamente di mira. Ancora una volta
mi gettai fuori
dalla sua linea di tiro: la successiva fattura, chiaramente un qualche
tipo di
Incantesimo Tagliente sovrapotenziato, scavò nel terreno un
solco simile ad una
trincea. Se non mi fossi tolto di mezzo mi avrebbe letteralmente
tagliato in
due! Tentando disperatamente di recuperare l’iniziativa,
alzai la bacchetta
mentre ero ancora in ginocchio e strillai, una punta di panico nella
voce: “Percutio!”.
In quel momento, qualsiasi dubbio avessi avuto di fronte alla
possibilità di
uccidere Minus era stato annichilito dalla consapevolezza di starmi
giocando la
vita, ma non servì a nulla: ancora una volta il mio
avversario, apparentemente
senza sforzo, deviò il mio incantesimo, poi,
anziché rispondere, portò la
bacchetta di fronte a se e mi rivolse un chiaro gesto
d’invito con la mano
libera.
Sentii la rabbia montare dentro di me
come un’onda di piena:
come si permetteva quel bastardo di prendermi in giro? Furioso,
rilasciai la
mia migliore offensiva: “Lacero! Impactus! Tonare!”.
Con quella velocissima combinazione
speravo di spiazzarlo,
di riuscire a mettere a segno almeno un colpo su tre. Mi sbagliavo di
grosso.
Quello che accadde rese fin troppo evidente l’abissale
differenza che correva
tra me e il mio avversario: deviò l’Incantesimo
Lacerante, poi eresse uno scudo
traslucido che sopportò l’Incantesimo
d’Impatto come una scogliera resiste alle
onde dell’oceano e contro il quale andò a
schiantarsi anche la Maledizione
Esplosiva. La mia bocca cedette di diversi centimetri: avevo riversato
tutto il
mio potere in quell’assalto, e non ero riuscito a causare al
mio nemico un
singolo graffio! L’istante di distrazione che
seguì mi fu quasi fatale: l’uomo
mascherato puntò di nuovo la sua bacchetta contro di me e
urlò: “Telum
Glacies!”.
Non avevo mai sentito
quell’incantesimo, ma vidi un oggetto
solido di un colore indefinibile piombare verso di me. Disperatamente,
gridai:
“Protego!”.
L’Incantesimo Scudo con ogni probabilità mi
salvò la vita:
non fu sufficiente a bloccare del tutto la lancia di ghiaccio che
rischiava di
impalarmi, ma bastò per frantumarla e per consentire
soltanto ad una grossa scheggia
di oltrepassarlo. Avvertii ugualmente un improvviso, bruciante dolore,
e la
violenza del colpo bastò per mandarmi a terra. Portai una
mano al fianco
sinistro, e sentii qualcosa di umido sotto le dita. Quando la ritrassi,
anche
nella luce incerta che gravava sul campeggio vidi che era macchiata di
sangue.
Ero troppo sotto shock per essere in
grado di difendermi
quando l’uomo in nero, che si era avvicinato di qualche
passo, urlò un altro
incantesimo a me sconosciuto: “Crucio!”.
Un’ondata di dolore
indescrivibile, che fece somigliare la
ferita al fianco alla puntura di un insetto, invase tutto il mio corpo:
era
come se mille coltelli infuocati mi stessero lacerando. Sentivo le mie
ossa sul
punto di esplodere, e ogni millimetro del mio corpo era in fiamme,
Urlai con
tutto il fiato che avevo in corpo, quasi scorticandomi la gola: era
insopportabile, intollerabile. Non avevo mai neanche immaginato che
potesse
esistere una simile sofferenza nel mondo. In quel momento avrei
volentieri
accettato la morte, se avesse significato la fine di
quell’orribile tormento.
Sotto le mie grida, sentivo l’uomo ridere sadicamente, e
sentii di essere
finito. Non riuscivo neanche a pensare.
Tra gli spasmi udii uno scoppio, e
improvvisamente il dolore
si attenuò. Nonostante avessi gli occhi velati di lacrime,
riuscii a vedere che
il mio avversario si era voltato, distratto da un’esplosione
più vicina delle
altre, ed aveva rilasciato l’incantesimo. Senza riflettere,
nonostante sentissi
scricchiolare le giunture anchilosate per le convulsioni che mi avevano
attraversato fino a pochi istanti prima, sollevai il braccio e urlai:
“Depulso!”.
Questa volta lo colsi di sorpresa:
l’Incantesimo di Esilio,
benché piuttosto debole viste le mie condizioni,
centrò l’uomo al diaframma,
spedendolo indietro di diversi metri, finché i suoi piedi
centrarono un oggetto
abbandonato sul terreno facendolo capitombolare. In teoria, avrei
potuto
approfittare del vantaggio. In pratica, fui soltanto grato di avere
qualche
secondo per riprendere fiato e trascinarmi faticosamente in piedi.
Mentre la
figura si rialzava, mi resi conto che le mie alternative si stavano
rapidamente
avvicinando allo zero: sentivo il sangue scorrere dalla ferita al
fianco,
tremavo come una foglia per le conseguenze dell’orrendo
dolore provato,
faticavo addirittura a stare in piedi, ed ero stremato come se avessi
corso una
intera maratona. Qualsiasi sensazione di superiorità mi
avesse provocato il
duello facilmente vinto contro Nott si era dissolta di fronte alla
consapevolezza di essere soltanto un ragazzino: a scuola potevo
risultare
forte, lì, su un vero campo di battaglia, ero un nano di
fronte ad un gigante.
Ero riuscito a colpire una volta soltanto perché avevo colto
il mio avversario
in un momento di distrazione, ma l’occasione non si sarebbe
ripresentata: io
ero letteralmente a pezzi, lui era illeso. Avevo ormai compreso di
avere di
fronte un nemico abissalmente più forte di me,
nonché un uomo abituato ad
uccidere: stava soltanto giocando, e quando avesse finito di
divertirsi, mi
avrebbe schiacciato come un insetto. Davanti a me c’era la
morte, e sentii la
paura invadermi: mi voltai disperatamente in giro in cerca di aiuto, ma
mi resi
conto di essere tragicamente solo. Ero spacciato.
“Non arrenderti,
Joshua!”.
Le parole esplosero nella mia mente
come un fuoco
d’artificio, e avvertii una improvvisa ondata di speranza
avvolgermi, mentre la
voce della donna che avevo sognato solo due notti prima cercava di
incoraggiarmi: “Tu sei più forte di quanto credi!
Pensa, Joshua! Tu puoi
farcela! Il potere grezzo non è tutto! Rifletti!”.
Riflettere? E chi ne aveva la forza,
o il tempo! L’uomo si
era ormai rialzato, e stava tornando ad avanzare verso di me, con ogni
probabilità deciso a porre fine al gioco. Disperato,
sollevai la bacchetta,
senza però avere alcuna idea di cosa fare. I miei occhi
saettarono in giro, in
cerca di un’illuminazione, e fu in quel momento che notai
l’oggetto, di forma
vagamente cilindrica, sul quale l’uomo era inciampato: anche
nella quasi
oscurità, riconobbi un fornelletto da campeggio a propano.
Un’idea si fece strada
dentro di me, e in meno di un secondo
si trasformò in qualcosa di simile ad un piano
d’azione: se il serbatoio del
fornelletto fosse stato pieno…se l’uomo avesse
reagito come speravo…
Era l’estremo tentativo di
un disperato, lo sapevo
perfettamente, ma l’alternativa era rimanere fermo ad
attendere la morte,
quindi la scelta era fin troppo facile. In un lampo, abbassai la
bacchetta e la
puntai verso terra. Vidi la testa dell’uomo seguirne la
traiettoria.
Probabilmente notò l’oggetto e intuì,
almeno in parte, cosa volevo fare, perché
si bloccò di colpo e iniziò ad erigere un
frettoloso scudo. Dando fondo alle
mie energie, urlai: “Confringo!”.
Il fornelletto esplose in una
fiammata gialla. Lo scudo del
mio avversario resse, ma fu comunque costretto ad indietreggiare sotto
la
spinta della violenta onda d’urto, mentre la sua vista veniva
oscurata da una
nuvola di polvere e terra. Era esattamente ciò su cui
contavo!
“Vertixcis!”
proseguii, senza dargli il tempo di
realizzare cosa avessi intenzione di fare. L’improvvisa
folata di vento gli lanciò
la polvere direttamente negli occhi, e lo sentii tossire mentre alzava
alla
cieca un secondo scudo. Peccato che io non avessi intenzione di
metterlo alla
prova: puntai la bacchetta verso una vicina tenda abbattuta gridando
“Vingardium
Leviosa!”. La tela cerata si sollevò, e
con uno scatto del polso, che mi
provocò un’ondata di dolore a stento sopportabile,
la diressi contro il mio avversario,
facendogliela cadere sopra. Mentre lo vedevo annaspare, presi
un’ultima volta
la mira. Non c’era pietà in me in quel momento:
non si trattava di un semplice
duello tra ragazzi, era questione di vita o di morte, e da parte mia
non avevo
dubbi su chi dovesse vivere e chi dovesse morire. Se fossi
sopravvissuto a
quella notte, ci sarebbe stato tempo per i sensi di colpa. Forse.
“Incendio!”.
La mia bacchetta sembrò
tramutarsi in un lanciafiamme
babbano: lingue di fuoco rosso fuoriuscirono dalla punta ed andarono a
schiantarsi contro la tela cerata, che in pochi secondi divenne un
unico rogo. Neanche
un secondo, e un urlo che niente aveva di umano si levò da
sotto la cortina di
fiamme e scintille. Tirai un sospiro di sollievo: non ero affatto
sicuro che la
cerata fosse infiammabile, ma quella folle idea era stata tutto
ciò che ero
riuscito a trovare, avevo dovuto provarci. E ci ero riuscito.
Mentre l’uomo si contorceva
sotto la tela con le fiamme che
iniziavano a morderlo, io mi appoggiai ad un vicino palo rimasto
miracolosamente in piedi. Dentro di me, oltre alla stanchezza, sentivo
una
strana esaltazione: avevo affrontato un mago adulto, un Mago Oscuro, ed
avevo
vinto! Certo, era stata più la furbizia che la forza a
concedermi il successo,
ma che importava? La sola cosa che non sentivo, in effetti, era il
rimorso: in
pratica, stavo togliendo una vita, ma considerando che
l’essere che avevo
davanti non si era posto il minimo problema nel tentare di uccidere un
ragazzino, non vedevo nulla di sbagliato in ciò che stavo
facendo.
Fu un istante: l’urlo
dell’uomo si interruppe, e subito dopo
la tela incendiata esplose. Un’onda di potere
emanò a raggiera intorno al punto
dove si era trovata. Senza sapere neanche come fosse accaduto, mi
ritrovai
scaraventato a terra. Il colpo riportò in superficie tutti i
dolori che lo
strano incantesimo di poco prima mi aveva lasciato: boccheggiando nel
tentativo
di respirare, mi trascinai a sedere, poi riuscii a mettermi sulle
ginocchia.
Alzarmi in piedi mi sembrava un’impresa che andava oltre le
energie che mi
restavano. Non riuscivo a capire cosa fosse successo, ma quando riuscii
a
sollevare la testa e a guardare davanti a me, tutto mi fu orrendamente
chiaro:
il mio avversario era in piedi, il lungo mantello fumante in
più punti, ma
sembrava praticamente incolume. Non potevo vedere il suo volto sotto il
cappuccio e la maschera, ma dal modo nel quale si muoveva intuii che
non vi fosse
più un sorriso di scherno dipinto sopra. Aveva smesso di
scherzare. Questa
volta sentii la paura invadermi come un veleno: ero sfinito,
completamente
privo di forze. Sentivo il dolore emanarsi da ogni osso, da ogni
muscolo, da
ogni nervo del mio corpo. Dubitavo che sarei stato in grado anche solo
di
sollevare un braccio, figurarsi di scagliare un incantesimo. Ero
spacciato.
L’uomo avanzò di
un paio di passi, spegnendo con una mano
guantata un piccolo principio di combustione sul braccio destro, poi si
volse
di nuovo nella mia direzione: “Bravo, ragazzino. Niente male
– disse con la sua
voce metallica, per la prima volta venata non di ironia, ma di rabbia
– Sei
perfino riuscito a farmi sentire un po’ di dolore.
Congratulazioni. Adesso però
te lo farò scontare cento volte”. E
sollevò la bacchetta.
Faticando come se avessi dovuto
sollevare una tonnellata di
ferro sulla schiena, mi costrinsi ad alzarmi in piedi. Nonostante il
terrore
che mi attanagliava, avevo una piccola certezza: non volevo morire in
ginocchio. Alle spalle dell’uomo, a stento distinguibile
nella luce altalenante
degli scoppi di magia, vidi una figura correre verso di noi, ma era
cristallino
che non sarebbe arrivata in tempo. Mentre attendevo il colpo fatale,
incapace
di fare qualsiasi cosa per respingerlo, la mente improvvisamente vuota,
mi
chiesi distrattamente dove sarei finito. Ci sarebbe stato un altro
luogo ad
attendermi? O stavolta avrei trovato solo il nulla? Una luce verde
iniziò a
formarsi sulla punta della bacchetta dell’uomo in
nero…
Un istante dopo, il verde
sembrò esplodere ovunque, come se
qualcuno avesse acceso una gigantesca lampada. Non proveniva,
però, dalla
bacchetta del mio avversario: sembrava emanare direttamente dal cielo.
L’uomo
alzò la testa di scatto, ed io, dimentico della situazione,
lo imitai. Rimasi
letteralmente a bocca aperta: un gigantesco teschio color smeraldo, con
un
serpente che gli usciva dalla bocca come una lingua grottesca, si
stagliava
vivido contro il cielo nero. Ovunque sembrarono esplodere grida.
L’uomo
mascherato, come se avesse di colpo dimenticato il nostro
combattimento,
abbassò la bacchetta e scomparve con un guizzo del mantello.
Si era
Smaterializzato.
Lottando per restare in piedi,
sorpreso di essere ancora
vivo, tornai a guardare la misteriosa forma che campeggiava sopra gli
alberi:
non avevo mai visto nulla di simile, eppure mi trasmetteva una
sensazione
orribile, perfino peggiore di quella che avevo provato solo pochi
secondi
prima, quando ero stato convinto che la mia vita fosse sul punto di
terminare.
Era forse banale da dire, visto il soggetto rappresentato, ma quel
teschio odorava
di morte. Ero talmente distratto dall’apparizione da non
rendermi conto
dell’uomo che mi aveva raggiunto finché non udii
la sua voce: “Ti serve una
mano? Mi sembri un po’… ehi, ma tu sei Joshua!
L’amico di Ron! Che ci fai
qui?”.
Abbassai lo sguardo, e mi trovai
davanti un giovane uomo con
lunghi capelli raccolti in una coda e uno strano orecchino a forma di
zanna. Lo
riconobbi immediatamente: “Bill! Bill Weasley! Accidenti, se
sono felice di
vederti!”. Il solo pronunciare quelle poche parole mi fece
sentire un gran
dolore al fianco, e barcollai.
Bill accese la sua bacchetta:
“Ti ho visto scontrarti con
quel tipo, stavo venendo ad aiutarti quando si è
smaterializzato. Sono scappati
tutti appena hanno visto il Marchio Nero”.
“Il cosa?”.
Con la mano libera Bill
indicò il cielo, dove il teschio non
accennava a scomparire: “E’ il suo simbolo. Il
simbolo di Colui che Non Deve
Essere Nominato. Quelli che abbiamo visto stasera erano i suoi
Mangiamorte, i
suoi seguaci più stretti, o almeno, quelli che non sono
morti o non sono finiti
in galera. Ma come ti ho detto, sono fuggiti tutti appena è
stato sparato in
cielo”.
Barcollai, sia per il dolore, sia per
l’impatto delle
informazioni: il marchio di Voldemort… i seguaci di
Voldemort… non ero un
esperto in segni del fato, ma impiegai ben poco a collegare tutto
questo a
servo di Voldemort fuggito solo poche settimane prima. Avvertii un
tremito: era
così che doveva iniziare?
Vedendomi poco stabile, Bill si
avvicinò con apprensione:
“Stai bene? Mi sembri un po’ malmesso –
la luce mi investì, e il giovane
trasalì – E’ sangue quello?”
mi chiese, indicando il mio fianco. Per la prima
volta abbassai gli occhi, e rischiai di svenire: a metà
addome c’era uno
squarcio nella giacca, ed una macchia rossa si estendeva da
lì fino al
ginocchio.
“Aspetta, fammi
vedere” mi disse, e si avvicinò. Inginocchiatosi
al mio fianco, iniziò ad armeggiare con la mia giacca per
mettere a nudo la
ferita: “Cosa ci facevi qui? Ron e gli altri sono scappati
verso il bosco appena
è iniziato il caos, come mai tu sei rimasto dentro
l’accampamento.
Per aiutare le azioni di Bill tirai
giù la lampo, e sentii
una notevole dose di dolore quando lui scostò il lembo della
giacca,
staccandolo dalla ferita: “Stavo scappando anche io insieme a
Seamus, ma siamo
stati separati – risposi a denti stretti – Poi ho
visto queste tende abbattute…
c’era una mia amica qui… ho voluto –
ahi! – controllare che non fosse nei guai
e…”.
“E ci sei finito
tu” concluse Bill, che aveva afferrato
l’estremità della maglietta e sembrava starsi
chiedendo se era il caso di
sollevare anche quella. Prima però alzò gli occhi
sorridendo: “Dev’esserti
molto cara questa amica per rischiare la vita per lei” e mi
strizzò l’occhio.
Nonostante la notevole dose di sofferenza che avevo addosso, non
potetti fare a
meno di ricambiare con un sorriso imbarazzato, poi mi incupii:
“Ho rischiato
davvero. Quel tipo… quel Mangiamorte… mi ha
battuto come un tappeto, quando il
simbolo è apparso in cielo stava probabilmente per
uccidermi. Perché sono
scappati, per inciso? Non è il simbolo del loro
padrone?”.
Bill alzò lo sguardo al
cielo, sull’orrendo teschio verde,
poi mi fissò, improvvisamente serio: “Nessuno ha
visto quel simbolo per tredici
anni. Rivederlo è stato, in un certo senso, come rivedere
Colui che Non Deve
Essere Nominato, sia per noi che per i suoi vecchi seguaci. E loro
devono
essere stati perfino meno contento degli altri”. Vedendomi
dubbioso, spiegò: “Mettiti
un attimo nei loro panni: se sono fuori di galera significa che hanno
rinnegato
pubblicamente il loro Signore. I Mangiamorte che non sono stati
arrestati hanno
dichiarato di averlo seguito perché stregati, ingannati o
ricattati. Dubito che
Lui sarebbe molto felice di saperlo. Credo che se dovesse tornare loro
sarebbero quelli più spaventati di tutti”.
Il giovane dai capelli rossi
tornò ad osservare la mia
ferita. Con la mano destra alzò la bacchetta, e con la
sinistra sollevò la
maglietta: “Comunque, non devi abbatterti per
com’è andato il duello, anzi: non
sono molti i quattordicenni che potrebbero scontrarsi con un
Mangiamorte per
poi raccontarlo, quindi…” si interruppe, rimase
per qualche istante in silenzio
con lo sguardo fisso sul mio fianco, poi lasciò partire un
fischio di sorpresa.
Mi sentii gelare:
“E’ così brutta?” chiesi con
voce
tremante.
Bill sembrò soppesare per
qualche istante le parole, poi
rispose: “Beh, non è bella, ma non credo che abbia
leso nessun organo, è
abbastanza superficiale – alzò gli occhi
– Con cosa ti ha colpito, comunque? Ti
ha staccato un bel pezzo di carne. E’ stata una Maledizione
Perforante?”.
Scossi la testa, ancora sofferente:
“No…sembrava una lancia
di ghiaccio”.
Bill fischiò di nuovo:
“Telum Glacies? Era quella? –
quando annuii, vidi che era piuttosto sorpreso – Faceva
veramente sul serio il
tipo! Senti, credo di poterla sistemare, nel mio lavoro mi capita
spesso di
dover usare qualche incantesimo medico. Un Guaritore probabilmente
farebbe di
meglio, ma sta ancora sanguinando...”.
Mi occorsero un paio di secondi per
decidere, poi dissi: “Va
bene, chiudila”.
Bill puntò la bacchetta
contro la ferita, poi disse: “Epismendo!”.
Avvertii una sensazione fastidiosa, poi Bill si rialzò:
“Bene, è a posto. Forse
ci resterà una cicatrice, ma a quanto ne so le ragazze le
adorano – sorrise –
Te la senti di camminare? Ti riaccompagno alla tua tenda, se ricordo
dov’è
credo sia rimasta intatta”.
“Credo di si”
dissi, e feci per muovermi, ma già dopo il
primo passo sentii la mia testa girare, mentre un dolore simile ad una
scarica
elettrica piuttosto forte mi attraversò da capo a piedi.
Barcollai, e Bill mi
sostenne: “Ehi, va tutto bene?” mi chiese
preoccupato.
“Sì…
cioè… No – risposi con
sincerità, cercando di
riprendere fiato – Il Mangiamorte mi ha lanciato uno strano
incantesimo… ho
sentito un dolore terribile in tutto il corpo, e ancora ne
risento”.
Lo sguardo di Bill passò
da preoccupato a orripilato: “Non
dirmi che ti ha lanciato una Maledizione Cruciatus!”.
“N…non lo so,
è la prima volta che sento quel nome – ammisi
– Però mi sembra che abbia detto ‘Crucio’…”.
Il giovane era esterrefatto:
“Assurdo… veramente assurdo! –
poi, cercando di riscuotersi, si passò un mio braccio sopra
le spalle. Era più
alto di me, quindi la situazione era abbastanza scomoda, ma sorrise:
“Meglio se
ti aiuto, non sono sicuro che riusciresti ad arrivare altrimenti, e
cadere
davanti a tutti offuscherebbe un po’ l’aura di
eroismo del tuo gesto!”.
Quando arrivammo alla tenda di
Seamus, lui e sua madre erano
già tornati, e intorno a loro si era riunita una piccola
folla. Tra gli altri,
riconobbi Charlie, il fratello di Bill, Oliver Baston e, con un piccolo
tuffo
al cuore, Mary, accompagnata da sua madre. Fu proprio la ragazza a
notarmi per
prima: emise una strana via di mezzo tra un urlo e un singhiozzo, e mi
corse
incontro, subito seguita dalla signora Finnegan.
“Per Merlino, Joshua!
Dov’eri finito? Seamus mi ha detto di
averti perso nella folla!” mi chiese con preoccupazione, poi
ebbe una sorta di
singulto: “E’… è sangue
quello che hai sulla giacca?”.
“Non si preoccupi, signora
Finnegan – risposi, imponendomi
di sorridere – Ho perso di vista Seamus, è vero, e
poi ho avuto un piccolo
alterco con uno di quei tizi in nero, ma Bill, qui, mi ha
già rappezzato. Sto
bene!”. Non era esattamene vero, ma non mi pareva il caso di
farla spaventare
più di quanto già non fosse.
Mary, dal canto suo, sembrava
sull’orlo delle lacrime:
“Josh… ho avuto tanta paura! Appena tornati dal
bosco abbiamo incontrato la
signora Finnegan…loro ci hanno detto che eri sparito, e
io…io…” fece un gesto
come per abbracciarmi, ma si bloccò a metà,
probabilmente per paura di farmi
male.
Staccai il braccio dalle spalle di
Bill e, cercando di restare
in equilibrio e di barcollare meno possibile, le accarezzai il viso con
una mano
e sorrisi: “Tranquilla, piccola. Lo sai che io sono
indistruttibile, no?”.
In realtà,
però, quando una ventina di minuti dopo,
sostituiti gli abiti semidistrutti e imbrattati di sangue con altri
puliti, e
dopo che la madre di Seamus si fu fatta raccontare quello che era
accaduto
mentre mi controllava la ferita ormai richiusa (benché non
avessi capito di
cosa si trattasse esattamente, glissai sulla Maledizione Cruciatus,
dalla
reazione di Bill sembrava un cosa molto seria), mi sdraiai
faticosamente sul
letto cercando di ignorare i dolori che ancora mi attraversavano
praticamente
tutte le membra, piuttosto che indistruttibile, mi sentivo distrutto.
Una vera e propria ondata di pensieri
mi stava attraversando
la mente, rimbalzando in ogni direzione. Troppe cose erano accadute
quella notte,
ed avevano lasciato molti segni, non soltanto sul mio corpo. Mentre
l’adrenalina lasciava le mie vene, era arrivata la
consapevolezza di quello che
era successo durante lo scontro con il Mangiamorte: io avevo provato ad
ucciderlo, su questo non c’erano dubbi, non si fuoco ad un
uomo se non si ha
l’intenzione di eliminarlo dal mondo. La cosa che mi colpiva
di più era lo
scarso senso di colpa che sentivo: mi ero macerato dai rimorsi per
essere
andato vicino a fare una cosa molto simile a Nott, mentre questa volta
non mi
sembrava di aver fatto niente di sbagliato. Cercai di convincermi che
fosse
soltanto perché il mio poco amato compagno di scuola non
aveva realmente
tentato di uccidermi, ma il dubbio che stessi iniziando a dare troppo
retta a
quella che la Signora Voce aveva definito
‘personalità da guerriero’. Quella
sera si era trattato, letteralmente, di una situazione di vita o di
morte, ma
come avrei reagito in occasioni differenti?
C’era poi la questione dei
Mangiamorte e del Marchio Nero.
Ero sicuro che non potesse trattarsi di semplici coincidenze, e il mio
‘Senso
di Ragno’ me lo confermava con veemenza: una serie di
ingranaggi erano stati
messi in movimento, e anche se per il momento era impossibile dire
verso quale
direzione, le mie sensazioni erano molto oscure.
Proprio queste impressioni mi
conducevano al più grave dei
miei pensieri, che derivava dallo svolgimento e dall’esito
del combattimento
che avevo sostenuto: era stata la prima volta che avevo duellato senza
trattenermi minimamente, usando tutta la mia forza e tutte le mie
capacità, ed
ero stato battuto, senza appello e senza eccezioni. Il mio avversario
si era dimostrato
ampiamente superiore, da qualsiasi punto di vista. Le azioni che avevo
compiuto
durante l’anno precedente mi apparivano improvvisamente
miserabili: a scuola,
contro i Dissennatori, avevo superato la prima, vera prova che quel
mondo mi
aveva posto davanti, ma la seconda, contro un mio simile, mi aveva
trovato
tristemente mancante. La sensazione di non essere forte abbastanza era
estremamente sgradevole, oltre che preoccupante: sentivo che
l’oscurità era più
vicina, la avvertivo incombere su di me e su tutto ciò a cui
tenevo, e sapevo
di non essere in grado di fare la differenza. Non ero abbastanza forte.
Mentre la stanchezza sopraffaceva i
dolori e sentivo il
sonno vincermi, compresi di non potermi permettere di indugiare in
quella condizione:
un altro avrebbe potuto cullarsi nella consapevolezza di essere solo un
ragazzino, ma io sapevo di non essere un normale quattordicenne. Sapevo
troppe
cose per poterle ignorare. La tempesta stava arrivando, e io avevo poco
tempo
per prepararmi a riceverla.
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Capitolo 5 *** Udienza al Ministero ***
UDIENZA AL MINISTERO
“Udienza del 26 agosto, in
merito agli eventi che hanno
coinvolto il qui presente Joshua Grant Carter, residente al numero 23
di Garth
Hill, Bangor, Gwynedd. Presiede l’udienza Amelia Bones,
Direttore dell’Ufficio
Applicazione della Legge Sulla Magia. Il ruolo di Assistente e Scrivana
sarà
ricoperto da Mafalda Hopkirk. A Katherine Jones, madre del minorenne
Joshua
Carter, è consentito di presenziare
all’udienza”.
Queste parole, ripetute
meccanicamente e con tono ufficiale,
erano state pronunciate da un’austera strega dalla mascella
quadrata, che
indossava un antiquato monocolo. Era seduta di fronte a me,
dall’altra parte di
una grande scrivania all’interno di un ufficio al Secondo
Livello del Ministero
della Magia. Una seconda donna dai capelli grigi, seduta ad
un’altra scrivania
sul lato della stanza, aveva subito iniziato a prendere appunti con una
piuma
d’oca. Avvertii la rassicurante stretta di mia madre sulla
spalla, ma non
potetti ugualmente fare a meno di ingoiare faticosamente un groppo di
saliva
che sembrava intenzionato a bloccarmi la gola.
Erano passati quattro giorni dalla
battaglia notturna con il
Mangiamorte che mi era quasi costata la vita. La mattina dopo, ancora
pesto e
dolorante, ero stato riaccompagnato a casa dalla signora Finnegan, che
si era
profusa in un oceano di scuse per mia madre (la quale, a giudicare
dagli occhi
rossi, doveva essere stata divorata dall’ansia fin da quando,
quella mattina,
erano emerse le prime notizie sull’accaduto) mentre le
raccontava quel poco che
sapeva. Katherine, dal canto suo, l’aveva rassicurata,
dichiarandosi certa che
avesse fatto tutto il possibile per proteggermi, ma non appena io ebbi
salutato
Seamus, dandogli appuntamento a qualche giorno dopo
sull’Hogwarts Express, aveva
chiuso la porta alle mie spalle e mi aveva condotto in cucina con
sguardo a
metà tra il preoccupato e il feroce. La sola cosa che mi
aveva salvato da una
esemplare sgridata era stato, con ogni probabilità, il
pessimo stato nel quale
dovevo versare: sentivo un dolore pulsante in ogni parte del corpo, che
si
rifletteva nella mia andatura claudicante e nella schiena leggermente
incurvata
da uomo anziano che esibivo. Nel vedermi, perfino mia sorella, che era
seduta
al tavolo, non era riuscita a trovare le giuste parole per prendermi in
giro, ed
era rimasta silenziosa, gli occhi spalancati. Ero crollato
faticosamente su una
delle sedie. Mia madre mi aveva messo di fronte una tazza di
tè fumante, si era
seduta a sua volta e aveva detto, con voce neutra:
“Raccontami tutto quello che
è successo”.
Lo avevo fatto, senza tralasciare
quasi niente, neanche la
Maledizione Cruciatus, il cui nome aveva fatto sobbalzare entrambe le
donne,
che avevano preso a guardarmi con ulteriore preoccupazione. Alla fine,
mi
sentivo la gola secca: le urla della notte precedente mi avevano
lasciato una
forte irritazione. Mia madre non aveva parlato per diversi minuti, e
alla fine
aveva detto qualcosa di inaspettato: “Sono molto indecisa se
definire il tuo
gesto incredibilmente coraggioso o incredibilmente stupido.
Probabilmente è
stato un po’ di entrambi: hai corso un rischio terribile, e
senza dubbio sei
stato uno sciocco, ma non saresti figlio di tuo padre se non fossi
corso ad
aiutare un’amica che credevi in difficoltà
– aveva sorriso, ricordando le
qualità positive dell’uomo che, nonostante il male
che le aveva fatto alla
fine, aveva amato – Non farti strane idee, sono molto
arrabbiata con te, ma
allo stesso tempo, lo devo ammettere, sono orgogliosa”.
Avevo sorriso, mentre mia sorella,
ancora stranamente
ammutolita, era scesa a sorpresa dalla sedia e mi aveva stretto in un
abbraccio. La smorfia di dolore che avevo fatto aveva convinto mia
madre a
portarmi al San Mungo per un controllo, ed era stato proprio
lì che mi aveva
raggiunto il gufo inviato dal Ministero della Magia, che mi convocava
per
un’udienza il 26 agosto. Mi ero aspettato qualcosa di simile:
benché solo
quattordicenne, avevo usato un sacco di magia durante il duello,
violando, in
teoria, il Decreto per la Ragionevole Restrizione delle Arti Magiche
trai
Minorenni. Allo stesso tempo, non ero particolarmente preoccupato:
sapevo che
esisteva una clausola che consentiva di utilizzare la magia in caso di
vita o di
morte, e la situazione nella quale mi ero trovato sembrava rispondere
esattamente a questa condizione. A confermarlo, in fondo alla
convocazione,
campeggiava la precisazione ‘Le comunichiamo inoltre
che lei non comparirà
all’udienza come imputato, ma soltanto come persona informata
sui fatti’.
Una ulteriore conferma mi giunse
subito da Madame Bones, la
quale, con voce ancora dura ma decisamente meno formale,
continuò: “Signor
Carter, vorrei ribadirle che lei non è in alcun modo sotto
accusa: la testimonianza
del signor William Weasley, rilasciata già la mattina
successiva agli eventi,
ci ha confermato, come già sospettavamo dalla lista degli
incantesimi che
abbiamo registrato grazie alla Traccia che lei, come mago minorenne, ha
su di
se, che ha impiegato la magia solo per difendere la sua vita.
L’abbiamo
convocata perché stiamo cercando di ricostruire pienamente
gli avvenimenti
verificatisi al campeggio di Dartmoor la sera del 22 agosto –
incrociò le mani
davanti al petto e mi fissò con grande attenzione
– Le chiedo di raccontarmi
tutti i fatti dei quali è stato protagonista”.
Per la seconda volta mi trovai a
ripetere ciò che era
successo, a partire da quando io e Seamus eravamo usciti dalla tenda.
Madama
Bones non mi interruppe mai, finché non arrivai al lancio
della maledizione che
mi aveva inferto un lancinante dolore: “Mi sta dicendo
– chiese, con aria
estremamente sorpresa – che l’uomo mascherato le ha
lanciato la Maledizione
Cruciatus?”.
Annuii: “Sul momento non
sapevo cosa fosse, sinceramente.
Non avevo mai sentito parlare delle Maledizioni Senza Perdono. Ho solo
avvertito
un dolore tremendo, come mai mi era successo nella vita”.
La donna si rivolse a mia madre per
la prima volta
dall’inizio dell’udienza: “Il ragazzo
è stato visitato da un Guaritore?”.
“Sì, la mattina
dopo, appena è tornato a casa, l’ho portato
al San Mungo – rispose lei – A parte due costole
incrinate, qualche ammaccatura
ed i segni della ferita che il giovane Weasley aveva già
rimarginato, hanno
registrato la rottura di parecchi capillari e altri sintomi conformi
alla
Maledizione Cruciatus, ma nulla di potenzialmente pericoloso per la sua
futura
salute. Per fortuna, il Mangiamorte ha mantenuto attiva la Maledizione
solo per
pochi secondi, non abbastanza per provocare dei danni permanenti. Hanno
detto
che i dolori dovrebbero sparire del tutto in un paio di
settimane”.
Madame Bones annuì,
apparentemente soddisfatta, poi si
rivolse nuovamente a me e mi fece cenno di continuare. Io arrivai al
termine
del racconto, pur glissando su un paio di punti, come gli ultimi
incantesimi
che avevo lanciato al Mangiamorte: non ne avevo parlato neanche a mia
madre,
temendo non poco il suo giudizio per quello che, a conti fatti, era
stato un
tentativo di omicidio. Considerando che il mio avversario stava
tentando di
uccidermi, non mi sentivo minimamente in colpa, ma non ero sicuro che
lei
l’avrebbe pensata nello stesso modo.
Smisi di parlare quando ebbi
terminato di raccontare il modo
nel quale Bill mi aveva soccorso e riaccompagnato alla tenda. Amelia
Bones
rimase in silenzio per qualche secondo, poi si rivolse di nuovo a me :
“Signor
Carter, a prescindere dal fatto che ritengo non sia stata
un’idea
particolarmente sensata gettarsi a capofitto in una situazione tanto
pericolosa, anche se posso comprendere le ragioni dietro al suo gesto,
devo
comunque complimentarmi per il coraggio che ha dimostrato: pur essendo
solo un
ragazzo, ha saputo lottare come un uomo, e di questo deve essere
orgoglioso”.
La donna tacque, mentre mia madre mi
stringeva di nuovo la
spalla con dolcezza, quasi per confermarmi che era perfettamente
d’accordo.
Vidi gli occhi di Amelia Bones scorrere un foglio che aveva di fronte:
“Direi
che abbiamo praticamente finito. Vorrei solo avere una precisazione
sugli
incantesimi che lei ha scagliato durante il
combattimento…”.
Sentii un campanello
d’allarme scattare nella mia testa, e
questa volta non proveniva dalla Signora Voce, bensì dal mio
istinto di
conservazione: compresi che sul foglio dovevano essere segnati tutti
gli
incantesimi che avevo scagliato e che i sistemi di rilevamento del
Ministero avevano
registrato. Inevitabilmente, Madama Bones doveva aver notato
ciò che avevo
fatto, e altrettanto inevitabilmente si era posta qualche domanda.
“Si tratta certamente di
una valida selezione di incantesimi
da combattimento, e anche in questo caso devo complimentarmi con lei
per
l’abilità che ha dimostrato, non sono molti gli
studenti che, subito dopo il
termine del terzo anno ad Hogwarts, sarebbero in grado di scagliare
anche solo
la metà di queste fatture – fece una piccola pausa
– Alcune sono abbastanza
pericolose, devo ammetterlo, ma vista la situazione nella quale le ha
impiegate
non trovo nessuna critica da muoverle – altra pausa
– Devo dire però di essere
rimasta incuriosita dalla sequenza finale, gli ultimi quattro
incantesimi che
ha lanciato – scorse con un dito la pergamena – Un
Incantesimo Esplosivo
standard, uno di Vento Elementale, uno di Librazione base e uno
Incendiario.
Per quanto mi sia impegnata, non sono veramente riuscita a capire cosa
abbia
cercato di fare con questa combinazione. Le dispiacerebbe soddisfare la
mia
curiosità?”.
Esitai per un istante. Era la cosa
che temevo di più: dover
ammettere di fronte a Katherine di essere andato ad un passo dal
divenire un
assassino. Ormai avevo superato quasi tutte le remore
dell’anno precedente,
arrivando a considerarla mia madre quanto quella che avevo lasciato
dall’altra
parte, e non volevo vedere sul suo volto delusione e paura. Non potevo,
però,
mentire di fronte ad un alto funzionario del Ministero, e per di
più scoprii di
non essere in grado di inventare su due piedi una valida spiegazione
alternativa, quindi finii per spiegarle tutto. La stretta sulla mia
spalla si
accentuò quando arrivai al momento nel quale avevo dato
fuoco alla tela cerata.
Per la prima volta Amelia Bones
inarcò un sopracciglio con aria
di disapprovazione: “Mi sta dicendo che lei ha
consapevolmente cercato di
uccidere il suo avversario?”.
Presi un lungo respiro:
“Madama Bones, posso parlare francamente?”.
“E’
ovvio” rispose con nuova durezza.
“In quel momento io ero
stremato ed estremamente dolorante –
cercai di spiegare – Non ero riuscito a infliggere neanche un
vero danno al
Mangiamorte, e sentivo di non essere più in grado di
difendermi efficacemente.
Sapevo che mi avrebbe ucciso entro pochi secondi se non avessi fatto
qualcosa,
quindi ho cercato di usare una tattica che lo ponesse in condizioni di
non
nuocere, mettendo in pratica la sola idea che mi è venuta in
mente e che
credevo avesse una possibilità di riuscita –
sospirai – Sapevo di poterlo
uccidere? Sì, ne ero consapevole, ma sapevo anche che se non
lo avessi fatto
sarei stato senza dubbio io a morire: era molto più forte di
me, non avevo
nulla nel mio arsenale che fosse sufficiente per batterlo, quindi ho
provato a
giocare d’astuzia. Era la sua vita contro la mia. Ho
sbagliato a tentare di
salvarmi in ogni modo possibile?”. Misi nelle ultime parole
un senso di colpa che
non provavo realmente: non ero dispiaciuto per aver provato ad
ammazzare una
carogna pronta a torturare un ragazzino, ma non volevo apparire tanto
indifferente, a mia madre non sarebbe piaciuto affatto, e probabilmente
neanche
alla donna che avevo davanti.
Amelia Bones rimase pensierosa per
qualche secondo, poi
rispose: “No, non posso sinceramente dire che lei abbia
sbagliato, signor Carter,
ma vorrei consigliarle di valutare bene le sue opzioni in ogni
situazione che
non comporti il rischio di una morte immediata: posso comprendere i
suoi
sentimenti di fronte al pericolo, ma spero che non si
abituerà a valutare con
tanta freddezza la vita o la morte di un uomo, anche se stiamo parlando
di un
criminale della peggiore specie”.
Scossi platealmente la testa:
“Sinceramente, Signora, spero
di non trovarmi mai più in una situazione simile”.
Ero assolutamente sincero,
anche se una voce fin troppo nota dentro di me mi fece notare, con un
tono
rassegnato, di non farci troppo conto.
“Lo spero anch’io
– disse lei, ed iniziò a raccogliere le
sue carte – Bene, l’udienza è finita.
Confermo che nessuna accusa verrà mossa
contro di lei, signor Carter. La ringrazio per la sua
disponibilità e le auguro
un buon ritorno ad Hogwarts”. Tese la mano a me e a mia
madre, ed entrambi la
stringemmo. Subito dopo, Katherine mi guidò fuori
dall’ufficio.
Eravamo solo a metà del
corridoio quando giunse la fatidica
domanda: “Perché non mi hai raccontato quello che
è successo nell’ultima parte
dello scontro?” mi chiese, una punta perfettamente
percepibile di delusione
nella voce. Quando mi voltai verso di lei, vidi lo stesso sentimento
dipinto
sul suo volto.
“Avevo paura, mamma
– ammisi con sincerità, e perfino io
avvertii il dispiacere per niente simulato nel mio tono –
Temevo che… se avessi
saputo quello che ho quasi fatto… temevo che mi avresti
giudicato un…un…”.
Katherine mi abbracciò con
calore, e io avvertii tutto
l’affetto di una madre nel suo gesto. Mi sentii letteralmente
sciogliere, e una
lacrima mi scorse sul viso. Non disse una parola: non ce
n’era bisogno.
Tronando a casa mi sentii un
vincitore, ma la sensazione
durò poco. Quella notte il mio sonno fu costellato di
incubi: rivissi i
terribili momenti del duello, il senso di impotenza, il lancinante
dolore della
Maledizione Cruciatus, fino agli ultimi momenti, nei quali avevo
accettato di
stare per morire. Solo che questa volta nessun Marchio Nero apparve nel
cielo
per salvarmi. Una differente luce verde illuminò tutto,
mentre un rumore simile
ad un treno in corsa occupò l’aria. Non li
riconobbi, ma sentii qualcosa di
orribile premere ai confini della mia memoria, e mi svegliai
trattenendo a
stento un urlo. Ansimando, mi passai una mano sulla fronte: era madida
di
gelido sudore. Mi alzai e mi affacciai alla finestra aperta, respirando
la
fresca aria della notte e cercando di calmarmi. In quel momento, per la
prima
volta, mi resi conto di quanto ci fossi andato vicino: per la seconda
volta
nella mia vita, avevo visto la morte in faccia. Per la seconda volta,
avevo
scoperto di non poter fare nulla per evitarla. L’incidente mi
aveva trasportato
in quel mondo, ma difficilmente sarei stato di nuovo così
fortunato. Sollevai
la mano, e la vidi tremare. Avevo paura. Non volevo morire, e sapevo
che c’era
mancato davvero pochissimo. In quel momento odiai il corpo da
quattordicenne
che il Destino, o chi per lui, mi avevano dato: volevo di nuovo essere
un
adulto, non un semplice pulcino. Volevo potermi confrontare alla pari
con i
miei avversari, non essere una semplice vittima sacrificale! Se
c’era un ruolo
per me in quel mondo, nel momento presente non ero in grado di
sostenerlo.
Presi un lungo respiro, cercando di
calmarmi: sentivo dentro
di me che il pericolo non era lontano, ma il mio ‘Senso di
Ragno’ si stava
impegnando per comunicarmi che non era neppure imminente. Avevo tempo
per
prepararmi. Tempo per farmi trovare pronto. Mentre osservavo la notte
stellata,
però, dovetti concludere tristemente di non sapere come
avrei fatto: ero
soltanto uno studente, non un soldato. Come diavolo avrei fatto a
diventare il
cacciatore che avevo bisogno di essere?
Sei giorni dopo, per la prima volta
in vita mia, mi trovai a
compiere una delle esperienze che più volte avevo sperato di
poter sperimentare
da ragazzino: attraversare il muro che divideva la stazione di
King’s Cross, a
Londra, dal Binario Nove e Tre Quarti. Fu una sensazione stranissima
passare
attraverso la barriera, ma assolutamente nulla in confronto a
ciò che mi trovai
di fronte una volta arrivato dall’altra parte.
Mi ero sempre immaginato quanto
dovesse essere spettacolare
la partenza dell’Hogwarts Express: l’anno
precedente ero ‘arrivato’ dopo il
viaggio di andata, quindi non avevo vissuto l’emozione di
salire sul treno
trainato dalla poderosa locomotiva rossa insieme ad altre centinaia di
ragazzi
come me. Trovandomi lì, con mia madre e mia sorella al mio
fianco e i bauli
miei e di Sheila caricati su un carrello, mi sentivo a dir poco
entusiasta.
Ormai avevo capito che avevo una enorme voglia di tornare a Hogwarts:
quel
luogo era divenuto per me una seconda (o forse una terza) casa, e
sentivo che
era proprio lì che dovevo stare. Mentre salutavo i tanti
ragazzi che avevo
conosciuto l’anno precedente, però, sentii una
strana coltre di ghiaccio calarmi
sul cuore: improvvisamente, avvertivo qualcosa di strano. Non
lì sul binario,
bensì davanti a me, e non in senso geografico: non sarei in
alcun modo stato in
grado di dire di cosa si trattasse, ma sentivo che quello non sarebbe
stato un
anno normale, ammesso che quello precedente potesse essere definito in
termini
simili. Più reale, concreta e spaventosa che mai, sentii la
tempesta, ancora
distante, ma decisamente sulla strada che l’avrebbe portata
verso il mio mondo.
Non riuscii a trattenere un tremito, ma cercai di riscuotermi: non
volevo che
mia madre se ne accorgesse.
Katherine, dal canto suo, mi
accompagnò fino ad una delle
scalette, dove avevo intravisto Seamus e Dean che mi salutavano con
calore. I
due ragazzi mi aiutarono a caricare i due bauli, mentre il treno
iniziava ad
eruttare fumo e il fischio avvisava i ritardatari della partenza
imminente.
Saltai rapidamente giù per l’ultima volta e
strinsi mia madre in un forte
abbraccio: forse condizionato dai pensieri neri di qualche minuto
prima, cercai
con quella stretta di trasmetterle tutto l’affetto che avevo
imparato a provare
per lei. Dalla sua risposta, ritenni di esserci riuscito. Una volta
staccatomi,
Sheila mi sostituì: nonostante l’emozione del suo
primo viaggio verso Hogwarts,
o forse proprio per quella, non riuscì a trattenere qualche
lacrima, ma poche
parole di nostra madre furono sufficienti per riportarle il sorriso sul
volto.
Katherine mi affidò la bambina, raccomandando ad entrambi di
fare i bravi e a
me di occuparmi di lei. Un ultimo bacio, e io guidai Sheila su per la
scaletta.
Raggiungemmo rapidamente lo
scompartimento già occupato da
Seamus, Dean, Neville, Ginny e Mary, ai quali presentai una
improvvisamente
timida Sheila. Il mio stomaco ebbe un piccolo sobbalzo quando la
ragazzina mi
salutò con un sorriso, e la cosa non sembrò
passare inosservata alla mia fin
troppo perspicace sorellina, che mi tirò per una manica in
modo che abbassassi
l’orecchio al livello della sua bocca:
“E’ lei, vero? – mi chiese in un
sussurro udibile, sperai, solo da me – La ragazza che hai
cercato di salvare al
campeggio! E’ veramente carina!”.
Sentii improvvisamente le mie guance
avvampare, ma fui
salvato dal momento di imbarazzo dal nuovo fischio del treno, che
subito dopo
iniziò ad arrancare in avanti. Sheila si
precipitò al finestrino, ed io la
seguii. Di fronte alla carrozza, nostra madre ci stava salutando con la
mano,
ed entrambi ci sporgemmo fuori per ricambiare, urlando che le avremmo
scritto
già il giorno dopo. Pochi secondi, e Katherine Jones
scomparve dietro la curva.
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Capitolo 6 *** Ritorno ad Hogwarts ***
RITORNO AD HOGWARTS
Il tempo rimase terribile per tutto
il viaggio sul treno: il
cielo color piombo era solcato da fulmini, e la pioggia non smise mai
di cadere
a cascata mentre l’Hogwarts Express si dirigeva verso nord.
Io, Dean, Seamus,
Neville, Ginny e Mary ci eravamo riuniti in uno scompartimento, e
Sheila non
aveva voluto staccarsi da me. Per quanto la ragazzina cercasse di
mostrare un
volto spavaldo, era chiaramente intimorita da ciò che
l’attendeva alla fine del
viaggio, e non smise per un secondo di fare domande
sull’attraversamento in
barca del lago e sulla cerimonia di smistamento. Per quanto noioso
potesse
essere rispondere per ore alle curiosità di
un’undicenne, le fui grata: concentrando
su di se l’attenzione di tutto il gruppo, riuscì a
defletterla da me,
evitandomi di dover raccontare a tutti quello che era accaduto al
campeggio.
Dal volto di Mary traspariva una notevole preoccupazione,
così come su quelli
di Dean e Neville si poteva leggere una curiosità al limite
del morboso. Prima
o poi avrei dovuto rispondere a parecchie domande, ma ero
più che felice di
poter rimandare quel momento.
In realtà
l’intero viaggio mi vide assai poco presente nelle
conversazioni, anche se cercai di dimostrarmi allegro e di rispondere
nella
giusta maniera quando i miei amici mi coinvolgevano con qualche
domanda. La
verità era che più Hogwarts si avvicinava,
più sentivo un peso depositarmisi
sul cuore: non sarei stato capace di dire perché, ma la
prospettiva di tornare
al castello sembrava essere diventata molto meno allettante rispetto a
pochi
giorni prima. Era una sensazione strana, indistinta, melmosa.
Inizialmente
avevo creduto che fossero soltanto le conseguenze della brutta
avventura
vissuta dopo la Coppa del Mondo di Quidditch, ma mentre il castello
iniziava a
delinearsi all’orizzonte (quando le torri comparvero,
stagliandosi contro il
cielo d’acciaio, mia sorella, dimentica delle sue paure,
iniziò a saltare per
l’entusiasmo) compresi che l’origine del mio
malessere non era da ricercare nel
passato, bensì nel futuro. Se la Signora Voce non si era
più fatta sentire dopo
il duello, il mio “Senso di Ragno” mi stava
lanciando un allarme,
straordinariamente generico ma continuo. Era come se qualcosa di
orribile, di
mostruoso, stesse volteggiando sopra il luogo che avevo imparato ad
amare
quanto la mia casa, e questo non poteva che spaventarmi.
Mi ritrovai a varcare le porte della
Sala Grande
praticamente senza sapere dove fosse finita la discesa dal treno ed il
viaggio
nelle carrozze, tanto mi ero mosso automaticamente. Perfino il
tentativo di Pix
di colpirci con un gavettone d’acqua gelata non mi aveva
scosso dai miei
pensieri cupi. L’immenso ambiente, però,
portò un po’ di calore nel mio cuore:
era come ritrovare un vecchio amico. Lanciai un’occhiata al
tavolo degli
insegnanti, dove Silente, come al solito, occupava la sedia simile ad
un trono
posta al centro, circondato dagli altri professori. Feci scorrere gli
occhi da
una parte all’altra, nella puerile speranza di vedere il
volto prematuramente
invecchiato ma sereno di Lupin: sapevo che si era dimesso due mesi
prima, ma
avevo conservato il sogno che il mio insegnante preferito avesse
cambiato idea
ed avesse deciso, contro ogni logica, di restare un altro anno a
scuola. Non
soltanto, invece, non vidi il licantropo, ma il posto solitamente
occupato dal
professore di Difesa contro le Arti Oscure era vuoto.
Seamus probabilmente lo
notò quasi nello stesso istante,
perché esclamò: “Possibile che non
abbiano trovato nessuno per sostituire
Lupin?”.
“Può anche
essere – rispose Dean – Si dice da anni che quel
lavoro sia maledetto. Solo noi ne abbiamo visti passare tre in tre
anni, e un
ragazzo del settimo anno mi ha detto che in quelli precedenti
è sempre andata
nello stesso modo”.
Non avessi avuto il cervello stipato
di pensieri mi sarei
chiesto come avrebbero fatto a coprire le ore di Difesa: esistevano i
supplenti
nel mondo magico? Neanche Joshua aveva una risposta precisa su questo
argomento. Mentre ci sedevamo al tavolo di Grifondoro feci scorrere gli
occhi
lungo le due file di panche, quasi per avere la certezza che i miei
compagni
fossero tutti lì dopo le travagliate avventure che molti
avevano vissuto pochi
giorni prima. Qualche posto più in giù vidi
Harry, Hermione e Ron, che come al
solito parlottavano tra loro. A quanto avevo sentito, Harry si era
trovato a
pochi metri dall’uomo che aveva lanciato in cielo il Marchio
Nero e che,
involontariamente, mi aveva salvato la vita. Mi ero chiesto molte volte
chi
fosse: avevo compreso che quello per lanciare il Marchio non era
sicuramente un
incantesimo di pubblico dominio, e che solo i Mangiamorte lo
conoscevano.
Chiunque fosse diventato negli anni l’uomo che aveva fatto
comparire l’orribile
figura sopra Dartmoor, un tempo doveva per forza essere stato uno dei
più
stretti seguaci di Voldemort, e questo lasciava aperti degli
interrogativi
enormi.
Ero ancora preso da questi pensieri
quando le porte della
Sala Grande si aprirono, e la McGrannitt entrò conducendo un
gruppo di alcune
decine di bambini, con i vestiti completamente inzuppati ed i volti
mostravano
sentimenti che andavano dal nervosismo al più puro terrore,
ad eccezione di
uno: il più piccolo, uno scricciolo dai capelli color topo
avvolto nell’enorme
pastrano di talpa di Hagrid, rivolse un sorriso estasiato verso il
tavolo di
Grifondoro alzando entrambi i pollici. Quando vidi Colin Canon
rispondere al
suo saluto, riconobbi una notevole somiglianza tra i due, e non potetti
fare a
meno di alzare gli occhi al cielo: anche in un luogo grande come
Hogwarts
credevo che un solo Canon fosse più che sufficiente.
Mentre la McGrannitt sistemava lo
sgabello con sopra il
Cappello Parlante, scorsi la fila di nuovi studenti fino a trovare
Sheila:
appariva estremamente nervosa, ma i suoi occhi non mostravano la
medesima nota
di panico di alcuni dei suoi compagni, forse perché grazie a
me, al contrario
di loro, conosceva effettivamente le modalità dello
smistamento, e sapeva di
non avere nulla da temere, almeno a livello fisico.
Ascoltando solo con la coda
dell’orecchio la canzone del
Cappello, diversa da quella che avevo sentito io solo un anno prima,
sentendomi
estremamente fuori posto da tredicenne in mezzo ad un branco di
primini, pensai
ai tanti discorsi che io e mia sorella avevamo fatto durante
l’estate in
relazione alla sua possibile futura Casa. Diverse volte, citando come
ragione
il suo caratterino mordace, le avevo preannunciato una probabile
selezione in
Serpeverde, con l’idea di farla arrabbiare, ma ottenendo
pochi risultati:
essendo cresciuta, come Joshua, negli Stati Uniti, la ragazzina aveva
maggiore
dimestichezza con le Case di Ilvernmorny piuttosto che con quelle di
Hogwarts, perciò
sapeva ben poco della pessima fama delle Serpi. In realtà,
non ero affatto
convinto di quale potesse essere la destinazione più adatta
per Sheila. L’avevo
realmente conosciuta solo per pochi mesi, anche se potevo attingere
alle
vecchie memorie di Joshua, quindi non potevo valutare bene ogni aspetto
del suo
carattere: certo, era molto intelligente, ma non esattamente una
maniaca dello
studio. Nelle nostre discussioni aveva mostrato una notevole vena di
furbizia,
oltre che la capacità di accattivarsi il consenso degli
altri, che si trattasse
di mia madre o di me. La questione della Coppa del Mondo era stata
un’eccezione,
dovuta a cause di forza maggiore, ma quasi sempre Sheila riusciva ad
ottenere
quello che voleva. Aveva una lingua molto tagliente, perfino per
un’undicenne,
e quando si arrabbiava sapeva colpire decisamente sotto la cintura,
anche se
spesso finiva per pentirsi rapidamente delle cose che diceva quando
finiva per
esagerare, pur arrivando di rado a chiedere scusa. Non avrei saputo
cosa dire
riguardo a cose come ‘coraggio’ e
‘audacia’, ma sicuramente aveva una notevole
abilità
nel ribaltare le situazioni a suo favore, e questo un po’ mi
preoccupava:
benché fossi arrivato da un solo anno e nonostante il mio
particolare status,
mi sentivo un Grifondoro fino nel midollo, e non potevo fare a meno di
pensare
che i colori verde e argento potessero trovarsi
nell’immediato futuro di mia
sorella. Benché i miei ricordi relativi all’altra
parte fossero ancora limitati
nel tempo, ricordavo di aver sempre trovato leggermente razzista
l’ostilità di
principio nei confronti di Serpeverde. Ciò che avevo vissuto
l’anno precedente,
però, non mi aveva certamente aiutato ad avere una mente
più aperta nei
confronti della Casa rivale. A questo si aggiungeva Nott: temevo
seriamente per
la felicità, e perfino per la salute di Sheila se il
bastardo si fosse
ritrovato una Carter a portata di mano e di bacchetta.
Mi accorsi che il cappello era pronto
alle sue scelte
soltanto quando la McGrannitt chiamò ad alta voce
“Ackerley, Stewart”. Mentre
il ragazzo veniva assegnato ai Corvonero, lanciai una minuscola e
silenziosa
preghiera verso l’oggetto magico affinché
dimostrasse abbastanza senno da
evitare ad una ragazzina entusiasta di trovarsi in un guaio per il
quale non
aveva alcuna colpa.
Prestai poca attenzione ai diversi
ragazzini che raggiungevano
lo sgabello e venivano smistati nelle Case, almeno finché
non toccò a Dennis
Canon. Mentre il minuscolo fratello di Colin barcollava verso il
cappello
trascinandosi dietro l’enorme pastrano di Hagrid notai
improvvisamente uno
strano dettaglio: non riuscivo a ricordare cosa mi avesse detto il
Cappello
prima di assegnarmi a Grifondoro. Sapevo bene che il potente oggetto
magico
giustificava, solitamente, le sue scelte, ed ero certo che avesse
spiegato a
Joshua perché avesse deciso di porlo nella Casa di Godric.
Era insolito,
considerando che ricordavo praticamente ogni minuto dell’anno
precedente, anche
prima del mio ‘viaggio’, anche se non credevo si
trattasse di qualcosa di
fondamentale: semplicemente, il Joshua Carter che aveva partecipato
allo
Smistamento era una persona molto diversa da quella che, un anno dopo,
assisteva da spettatore alla stessa scena. Provai
l’improvvisa, folle curiosità
di indossare nuovamente il Cappello Parlante: non potevo fare a meno di
chiedermi se avrebbe assegnato anche il nuovo ‘me’
a Grifondoro. Per quanto timido,
Joshua poteva essere stato coraggioso e audace, magari senza neanche
saperlo,
ma il nuovo mix tra lui e Matteo Simoncini era assai più
complesso e
sfaccettato. Per quanto mi desse una certa sensazione di malessere
pensarlo, un’uniforme
bordata di verde e argento non avrebbe stonato neanche addosso a me.
“Grifondoro!”
urlò il Cappello riscuotendomi dai miei
pensieri e scatenando l’applauso del mio tavolo, anche se
mentre un sorridente
Dennis correva a cercare un posto vicino al fratello notai diverse
facce
esasperate, prima tra tutte quella di Harry.
“Carter, Sheila”.
Il tempo sembrò rallentare
mentre tutta la mia attenzione si
concentrava sulla ragazzina nervosa e leggermente tremante che si
avvicinava
allo sgabello e indossava l’artefatto magico subito dopo
essersi seduta. Incrociai
le dita senza farmi vedere, sperando che tutto andasse bene.
Occorse decisamente più
tempo rispetto ai ragazzi che
avevano preceduto Sheila: vedendo il volto concentrato di mia sorella,
sembrava
che nella sua mente si stesse svolgendo una discussione molto accesa.
Ci
vollero quasi due minuti prima che lo strappo vicino all’orlo
del Cappello si
spalancasse: “Serpeverde!” urlò alla
fine.
Sentii il mio stomaco sprofondare,
come se si fosse
improvvisamente riempito di piombo. Dal tavolo dei Serpeverde si
levò un
applauso, che però mi parve poco convinto, cosa che
incrementò le mie
preoccupazioni: le Serpi sapevano fin troppo bene con chi era
imparentata la
loro nuova leva, e stavano valutando le implicazioni di quella scelta.
Dal tavolo di Grifondoro arrivarono
alcune imprecazioni
soffocate, soprattutto da parte dei miei amici: molto spesso i fratelli
finivano nella stessa Casa, anche se non si trattava di una regola
inderogabile,
e tutti avevano da subito dato per scontato che Sheila sarebbe stata
una
Grifondoro. Dean mi guardò con delusione, quasi come se
l’accaduto fosse stato
colpa mia: “Credevo che tua sorella fosse a posto”
borbottò.
“Lo è”
dissi con notevole durezza e fulminandolo con lo
sguardo, tanto che il ragazzo abbassò gli occhi imbarazzato.
Sentii qualcosa
afferrare la mia mano, e quando mi voltai vidi che Mary
l’aveva afferrata con
la sua. La mia amica mi sorrise: “Tranquillo, se la
caverà”.
Quasi involontariamente avvertii i
lati della mia bocca
incurvarsi verso l’alto. Cara, dolce Mary! Ancora una volta
aveva dimostrato di
sapermi capire ad una velocità incredibile, e di avere la
capacità di calmarmi
solo con poche parole. Speravo che avesse ragione, ma non potetti fare
a meno
di lanciare uno sguardo verso il tavolo di Serpeverde: se la maggior
parte dei
ragazzi sembrava abbastanza interdetta, il disgusto negli occhi di Nott
era
inconfondibile, e aumentò ancora quando si voltò
leggermente per fissarmi.
Sentii immediatamente un fortissimo odore di guai. Cercai di guardare
il mio
rivale con tutta la durezza della quale ero capace, provando a
trasmettergli
un’immagine mentale del destino che gli avrei riservato se
avesse osato fare
del male a Sheila, ma in qualche modo dubitavo che sarebbe stato
sufficiente.
A mala pena sentii il resto dello
Smistamento, e compresi
che era terminato solo quando udii la voce profonda di Silente
echeggiare nella
sala: “Ho una sola parola da dirvi: abbuffatevi!”.
“Ma sicuro!”
risposero Harry e Ron a qualche posto da me,
per poi lanciarsi sui piatti che si erano magicamente riempiti di cibo.
Il banchetto era spettacolare come
sempre, ma non ero nelle
condizioni di godermelo al meglio. Mary provò diverse volte
a coinvolgermi in
una discussione, per poi rinunciare dopo poche battute, fissandomi con
sguardo
preoccupato.
Benché, volendo andare ad
analizzare le cose nel dettaglio,
conoscessi effettivamente Sheila solo da pochi mesi, ero arrivato a
volerle
bene come se fosse sempre stata mia sorella, e sapere di averla messa,
per
quanto involontariamente, in pericolo mi faceva veramente male: la
ragazzina
era incredibilmente entusiasta di iniziare la scuola, e adesso
rischiava di
vivere un’esperienza molto meno gradevole di quanto avrebbe
potuto aspettarsi.
Sorprendentemente, il problema non mi sembrava il fatto che fosse
finita a
Serpeverde, ma solo ciò che questo avrebbe significato per
lei. La mia rivalità
con Nott poteva produrre effetti devastanti.
Una volta che i piatti furono ben
ripuliti ed i resti di
cibo scomparsi, il preside si alzò di nuovo, e come sempre
accadeva il
chiacchiericcio tra gli studenti si interruppe di colpo, rendendo
ancora più
evidente l’ululato del vento e il rombo della tempesta che
infuriava fuori.
“Dunque –
esordì il preside con un sorriso – Ora che siamo
tutti sazi e soddisfatti, devo richiamare ancora una volta la vostra
attenzione
su alcuni avvisi. Mastro Gazza, il custode, mi ha chiesto di dirvi che
la lista
di oggetti proibiti all’interno delle mura del castello
è estesa agli Yo-yo
Ululanti…”.
La mia attenzione scemò
rapidamente: se avevo per qualche
ragione rimosso lo smistamento di Joshua, la sua memoria combinata a
quella di
Matteo ricordava almeno due edizioni della famigerata lista di avvisi
di inizio
anno di Silente. A meno che non vi fosse nuovamente un corridoio
proibito con
un cane gigante a tre teste, non c’era nulla di
eccessivamente interessante:
nessuno dava veramente retta ai divieti di Gazza, e per quanto
riguardava la
Foresta Proibita…
“E’
altresì mio doloroso compito informarvi che
quest’anno
non ci sarà la Coppa del Quidditch”.
“CHE COSA?”.
La voce di Harry rimbombò
nel silenzio più totale. Fu il
solo a riuscire ad emettere un suono: tutti gli altri, me compreso,
sembravano
troppo stupefatti per profferire una singola parola. Fred e George
sembravano
aver ricevuto una violenta botta in testa. Dal canto mio, ero
incredibilmente
rattristato: Grifondoro deteneva la Coppa, quindi avremmo dovuto
difenderla, un
compito che aspettavamo fin dal termine dell’anno precedente.
Sei elementi su
sette della squadra vincitrice erano pronti a cercare il bis: soltanto
Baston,
il nostro Portiere e Capitano, aveva terminato gli studi. Per me, si
trattava
sostanzialmente di una nuova condanna alla panchina: ammesso che il
nuovo Capitano
non decidesse di limitare i provini al solo ruolo vacante, era
praticamente
impossibile che riuscissi a scalzare una delle tre Cacciatrici
titolari. Oltre
ad essere molto abili se prese singolarmente, infatti, Angelina, Katie
e Alicia
avevano sviluppato, negli anni, una coordinazione che sfiorava la
preveggenza,
quindi nessun leader sano di mente le avrebbe separate. Anche rimanendo
una
riserva, però, vivere di nuovo le emozioni della Coppa, e
magari infliggere
un’altra sonora sconfitta a Serpeverde, era una delle ragioni
per le quali
aspettavo il ritorno a scuola con maggiore trepidazione. Le parole di
Silente,
quindi, mi avevano colpito duramente, al punto che non riuscivo neanche
a
chiedermi cosa mai potesse essere accaduto di tanto straordinario da
provocare
la cancellazione dell’intrattenimento preferito
dall’intera scolaresca.
“Ciò
è dovuto – riprese Silente – a un evento
che prenderà
il via in ottobre e continuerà per tutto l’anno
scolastico, impegnando molto
del tempo e delle energie degli insegnanti: sono sicuro che
però vi divertirete
tutti enormemente! Ho l’immenso piacere di annunciare che
quest’anno a
Hogwarts…”.
Un tuono più violento
degli altri interruppe la spiegazione
del preside, e nello stesso istante le porte della Sala Grande si
spalancarono.
Gli sguardi di tutti corsero
all’uomo vestito con un mantello
nero da viaggio che apparve sulla soglia e, abbassato il cappuccio,
iniziò ad
avanzare verso il tavolo degli insegnanti. Non si udì
neanche un singolo
mormorio da parte dei quattro tavoli: in maniera simile a quanto era
avvenuto
con l’annuncio-shock di Silente, tutti i ragazzi sembravano
troppo sorpresi per
spiccicare parola.
Un sentimento che non potevo che
condividere: l’aspetto
dello sconosciuto era abbastanza strano ed inquietante da togliere il
fiato. Alla
luce dei lampi potetti vederlo abbastanza bene: aveva
un’età indefinibile, ma
apparentemente abbastanza avanzata a giudicare dalla chioma di capelli
color
ferro che avvolgeva la sua testa, eppure non mostrava alcuna debolezza,
nonostante le condizioni tutt’altro che perfette che
mostrava. Il suo volto
duro era letteralmente coperto di cicatrici, mancava di un grosso pezzo
di
naso, ma la parte più inquietante erano senza dubbio gli
occhi spaiati: uno era
piccolo, scuro e lucente, l’altro grande, rotondo e di coloro
blu elettrico.
Per un istante pensai che si trattasse di un occhio elettronico, come
quelli
che dall’altra parte avevo visto in parecchi film di
fantascienza, poi compresi
che, naturalmente, doveva essere magico. La sola cosa certa era che
l’uomo
aveva perduto uno dei suoi, e questo, unito agli altri danni fisici che
mostrava, non faceva che renderlo ancora più impressionante.
Camminava
appoggiandosi ad un bastone e zoppicando vistosamente. Uno dei due
piedi
emetteva un rumore sordo quando toccava il pavimento, e questo mi
portò immediatamente
a credere che avesse anche una gamba artificiale. Nel complesso,
sembrava un
uomo distrutto e ricostruito alla meglio, ma trasmetteva ugualmente una
notevole sensazione di potere.
Questo agli altri, perché
a me trasmise anche qualcosa in
più: nell’istante nel quale l’occhio blu
elettrico, che girovagava nell’orbita
osservando l’intera stanza, si posò su di me,
avvertii qualcosa nella mente:
avevo imparato a riconoscere gli avvisi del mio “Senso di
Ragno”, ma questa
volta si trattava di un avviso perfino più generico di
quelli dell’anno
precedente. Sentivo che c’era qualcosa di strano dietro
all’uomo che stava
attraversando la stanza, qualcosa che andava oltre il solo aspetto
bizzarro.
Non ero affatto sicuro, però, che fosse qualcosa di
negativo: era un impulso
abbastanza remoto ed elusivo da essere incomprensibile.
L’uomo, d’altronde, era
abbastanza fuori posto all’interno della Sala Grande da poter
destare
apprensione anche in chi non aveva percezioni extrasensoriali.
L’uomo non
sembrò accorgersi della mia analisi approfondita:
l’occhio passò oltre, girandosi infine verso il
retro della testa. Lo straniero
raggiunse il tavolo degli insegnanti, strinse la mano a Silente e
scambiò
brevemente alcune parole con lui, poi, ad un cenno del preside, si
sedette nel
posto vuoto alla sua destra. Il posto dell’insegnante di
Difesa Contro le Arti
Oscure.
Mentre il nuovo arrivato iniziava a
mangiare, Silente tornò
a rivolgersi alla sala: “Vorrei presentarvi il vostro nuovo
insegnante di
Difesa Contro le Arti Oscure: il professor Moody!”.
Di solito un nuovo insegnante veniva
accolto da un applauso
degli studenti e dei suoi colleghi. Era successo l’anno
prima, quando il
preside aveva presentato Lupin e Hagrid. In quel momento,
però, solo il
guardacaccia e Silente applaudirono, ed il suono delle loro mani
riverberò nel
silenzio assoluto della Sala Grande: tutti sembravano essere
decisamente troppo
sconvolti per il bizzarro aspetto di Moody per riuscire a festeggiarne
l’arrivo. Un sentimento nel quale mi riconoscevo pienamente:
non sapevo cosa
pensare della strana sensazione che avevo provato incrociando lo
sguardo
dell’uomo, ma anche senza contare le mie misteriose
percezioni, sicuramente mi
metteva addosso una notevole dose di inquietudine. Non sapevo chi
fosse, anche
se dai brusii che udivo intorno a me sembrava che non si trattasse di
uno
sconosciuto per chi era cresciuto nel mondo magico inglese, ma la sola
idea che
un simile personaggio dovesse insegnare a dei bambini mi risultava
difficile da
accettare.
Qualsiasi ulteriore domanda,
però, dovette essere rinviata,
perché Silente riprese a parlare da dove era stato
interrotto: “Come stavo
dicendo, nei prossimi mesi avremo l’onore di ospitare un
evento molto
emozionante, che non ha luogo da oltre un secolo. E’ con
grande piacere che vi
annuncio che il Torneo Tremaghi quest’anno si
terrà ad Hogwarts!”.
“STA SCHERZANDO!”.
L’urlò di Fred
Weasley risuonò come un colpo di pistola, e
improvvisamente la sala fu piena di rumore. Ero interdetto: per me il
nome che
il preside aveva appena pronunciato non significava assolutamente
nulla, e lo
stesso, a giudicare delle facce, sembrava valere per parecchi degli
altri
studenti. Non per tutti però: diversi ragazzi osservavano
Silente con sguardi
che andavano dallo stupore all’entusiasmo, fino alla
bramosia.
La successiva spiegazione del preside
mi chiarì
perfettamente le ragioni di simili atteggiamenti: il Torneo Tremaghi
era una
competizione vecchia di sette secoli, nuovamente organizzata,
nonostante le
molte difficoltà, dopo una sospensione centenaria, nella
quale si affrontavano
i campioni delle principali scuole magiche d’Europa. Tre
rappresentanti di
Hogwarts, Beuxbatons e Durmstrang si sarebbero sfidati in tre
complicate prove
di magia. Le delegazioni delle altre due scuole sarebbero arrivate in
ottobre,
ad Halloween un giudice imparziale avrebbe selezionato i migliori, che
avrebbero gareggiato nel corso dell’anno. Il vincitore, oltre
alla gloria
eterna per se e per la sua scuola, avrebbe portato a casa un premio
personale
di mille galeoni.
La cifra era abbastanza elevata da
far girare la testa anche
a me: le preoccupazioni che avevano accompagnato il mio viaggio verso
la scuola
furono in un istante obliterate dall’idea di compiere
un’impresa tanto grande. In
un istante mi vidi nel ruolo di Campione Tremaghi, acclamato
dall’intera
scuola. Joshua Carter era stato un ragazzo relativamente timido, poco
desideroso di trovarsi al centro dell’attenzione, ma Matteo
Simoncini aveva
sempre posseduto un carattere decisamente diverso. A lui non sarebbe
dispiaciuto affatto poter competere per dimostrare le sue
capacità.
Le successive parole di Silente,
però spensero l’entusiasmo
di molti: “Pur sapendo quanto ognuno di voi sia desideroso di
portare ad
Hogwarts la Coppa Tremaghi, abbiamo deciso di imporre un limite
d’età: solo gli
studenti di almeno diciassette anni potranno proporsi per la selezione
– il
preside spense le proteste alzando di pochissimo la voce –
Questo perché le
prove saranno molto difficili, nonostante il nostro impegno per
garantire la
sicurezza, ed è improbabile che uno studente sotto il sesto
anno possa essere
in grado di affrontarle. Mi assicurerò personalmente che
nessuno sotto i
diciassette anni possa ingannare il giudice imparziale, quindi evitate
di
provarci”.
Silente prese per un secondo fiato,
dando modo a tutti di
fare i conti con la bomba che aveva appena sganciato. Per quanto mi
riguardava,
dovevo ammettere di essere un po’ dispiaciuto, ma non quanto
la maggior parte
degli altri: la vera età della mia mente, benché
per molti versi fossi tornato
a pensare come un adolescente, mi concedeva un grado di riflessione
leggermente
superiore rispetto ai miei compagni, quindi potevo in qualche modo
capire la
scelta fatta dagli adulti. Già di per se, l’idea
di una pericolosa competizione
affrontata da un trio di ragazzi mi lasciava più di qualche
dubbio, ma far
competere dei quattordicenni sarebbe stato delirante.
“Il resto della scuola non
avrà comunque di che annoiarsi
nel corso dell’anno, e non dovranno limitarsi a fornire il
massimo sostegno al
campione che sarà designato per difendere i colori di
Hogwarts. Dall’edizione
di quest’anno, infatti, proprio per garantire una maggiore
partecipazione degli
studenti dei tre istituti alla competizione, sono stati inseriti alcuni
eventi
collaterali, dei quali vi parlerò maggiormente nel dettaglio
in seguito, ai
quali potranno prendere parte anche altri studenti oltre al campione, e
che
anche senza avere lo stesso prestigio della Coppa Tremaghi garantiranno
ugualmente gloria e onori ai vincitori”.
Fu un istante, non di più.
Una frazione di secondo. Se non
fossi stato abituato, dopo un anno di vita molto particolare, a notare
fin nei
minimi dettagli le mie sensazioni, probabilmente non me ne sarei
neanche reso
conto. Anche se la avvertii, però, non sarei mai stato in
grado di descrivere a
pieno la strana impressione che le ultime parole di Silente mi avevano
suscitato: per un singolo momento, avvertii come un senso
di… dissociazione. Il
miglior paragone che sarei stato in grado di trovare fu un bug
all’interno di
un videogioco. Scossi la testa, guadagnandomi un’occhiata
preoccupata da parte
di Mary. Le rivolsi un sorriso per farle capire che stavo bene mentre
Silente
concludeva il banchetto e gli studenti iniziavano ad alzarsi, ma nella
mia
testa si era improvvisamente scatenata una baraonda: che diavolo era
accaduto?
Era come se la realtà avesse subito un improvviso scossone,
e nonostante la
sensazione fosse rapidamente scomparsa, era evidente che fosse accaduto
qualcosa di molto, molto strano.
Ci stavamo riunendo in fila per
uscire dalla Sala Grande,
quando udii alle mie spalle una voce strascicata: “Non avere
fretta, Carter.
Devo parlarti”.
Mi bloccai, resistendo alla
tentazione di gettare gli occhi
al cielo. Mary, al mio fianco, si fermò a sua volta,
guardandomi con un mix di
sorpresa e timore, ma io, con un piccolo gesto, le segnalai di andare
avanti,
per poi voltarmi a fronteggiare il professor Piton. La faccia
dell’uomo era
abbastanza inespressiva: non sembrava arrabbiato, ma mostrava una fin
troppo
tipica vena di disprezzo, come se stesse facendo un grosso sforzo per
parlare
con me in maniera civile. Non riuscivo neanche ad immaginare cosa
volesse da me
l’insegnante che probabilmente apprezzavo di meno in tutta la
scuola: ero certo
di non avere, per il momento, fatto nulla di sbagliato, non avevo avuto
il
tempo materiale per mettermi nei guai, ed avevo strappato la
sufficienza in Pozioni
l’anno precedente, quindi non trovavo una ragione per la
quale Piton avesse
bisogno di parlarmi prima ancora che la scuola iniziasse ufficialmente.
Cercando di essere quanto
più educato possibile e di non far
trasparire la minima traccia di fastidio, dissi: “Certamente,
Professore. Mi
dica”.
La bocca di Piton si contorse, come
se avesse dato un morso
ad un limone: “Avrai sentito, immagino, l’annuncio
del Preside”.
Mi limitai ad annuire, non riuscendo
a capire dove volesse
andare a parare.
“Gli eventi secondari del
Torneo Tremaghi saranno
ufficialmente annunciati dopo l’arrivo delle delegazioni
delle altre due scuole
– continuò – Una di esse,
però, sarà una competizione di duello tra una
selezione di rappresentati di Hogwarts, di Beuxbatons e di
Durmstrang”.
Eccola di nuovo. Ancora una volta,
ebbi la strana sensazione
che la realtà si fosse per un istante dissociata, come se
due immagini si
fossero sovrapposte per una frazione di secondo prima che
ciò che avevo davanti
tornasse a fuoco. Sbattei un paio di volte le palpebre nel tentativo di
comprendere cosa fosse accaduto, ma tutto era tornato normale troppo in
fretta perché
potessi trovare una spiegazione.
Piton si rese conto del mio
smarrimento, perché inarcò un
sopracciglio: “Ti sembra una notizia così assurda,
Carter”.
“M…mi scusi,
Professore – risposi prontamente, cercando di
riportare i miei pensieri sulla conversazione in corso – Ho
solo avuto un
piccolo giramento di testa. Un torneo di duello, ha detto?”.
L’insegnante di Pozioni mi
fissò per qualche secondo, come
nel tentativo di capire se stessi dicendo la verità, poi,
decidendo
apparentemente di non essere interessato al mio stato di salute,
riprese: “Si.
Come ha detto il Professor Silente, per questa edizione del Torneo
Tremaghi
sono stati organizzati degli eventi esterni alla competizione tra i tre
Campioni, in modo da coinvolgere maggiormente il resto degli studenti.
Uno,
sarà, appunto, un confronto diretto per mettere alla prova
le capacità nel
duello magico delle tre scuole. In questo caso, poiché si
tratterà di scontri
relativamente amichevoli, senza l’impiego di incantesimi
potenzialmente letali
e attentamente sorvegliati dagli arbitri, è stato deciso di
permettere la
partecipazione a studenti dal quarto anno in su, purché
abbiano le necessarie
capacità”.
Cercando di rimuovere la strana
sensazione che avevo
provato, focalizzai l’attenzione su ciò che Piton
stava dicendo, ed un fremito
mi attraversò: possibile che…?
“Ogni scuola
schiererà quattro combattenti, che si
affronteranno in una serie di scontri singoli –
proseguì Piton - Il Preside ha
scelto uno degli insegnanti per organizzare e condurre la squadra di
Hogwarts.
In teoria, il professor Vitious, che in gioventù
è stato campione di duelli,
sarebbe stato una scelta ovvia, ma proprio per la sua esperienza
è stato
selezionato come arbitro degli incontri insieme a due insegnanti di
Durmstrang
e Beuxbatons. Sarò io, quindi, a selezionare i
partecipanti”.
Possibile? Veramente? Piton intendeva
sul serio quello che
stavo immaginando?
“Voglio una risposta
adesso, Carter. Sei disposto a prendere
parte alla competizione?”.
Lo avevo intuito, è vero,
ma non riuscii a fare a meno di
sgranare gli occhi quando il professore confermò la mia
sensazione: voleva
realmente che io entrassi a far parte della squadra di Hogwarts?
“Vuole che io…
che sia uno dei membri della squadra?”
chiesi, mettendo una notevole dose di incredulità nelle mie
parole. Lasciando
perdere il fatto che andare immediatamente a scegliere un ragazzo del
quarto
anno senza neanche passare in rassegna i ragazzi più grandi
mi sembrava
insolito, l’idea che Severus Piton, che non mi aveva mai
dimostrato alcuna
simpatia, viste anche le mie limitate abilità nella sua
materia, venisse a
chiedere proprio a me di partecipare era quasi incredibile. La mia vena
competitiva stava vibrando come la corda di una chitarra, ma anche se
il ‘Senso
di Ragno’ taceva, non potevo fare a meno di avvertire
qualcosa di molto strano.
Il disprezzo sul volto di Piton
aumentò di parecchi livelli:
“Se non sei interessato…”
iniziò a dire.
“No, no! – mi
affrettai a precisare – Non è che non sono
interessato! Solo che… ecco… perché
io, Signore?” chiesi, con tutto il rispetto
e la curiosità possibili.
Piton sospirò, come a
farmi capire che riteneva superflua
qualsiasi spiegazione, poi iniziò: “Ognuna delle
tre scuole ha proposto un
differente tipo di competizione accessoria, basandosi, ovviamente,
sulle
caratteristiche migliori dei suoi studenti. Hogwarts, vista
l’importanza che ha
il campionato da noi ed il livello dei nostri giocatori, ha proposto un
torneo
di Quidditch. Beuxbatons ha ideato una gara di pura conoscenza magica.
L’idea
di una competizione di duelli è stata lanciata da
Durmstrang, che ha la magia
da combattimento come materia a parte nel suo curriculum di studi.
Hogwarts,
purtroppo, in questo campo mostra delle grosse lacune: i duelli sono
trattati
in maniera molto blanda e considerati parte di Incantesimi e Difesa
Contro Le
Arti Oscure. Inoltre, salvo un pietoso tentativo di rilancio un paio di
anni fa,
da quasi due decenni non esiste più un Club dei Duellanti
– il suo disprezzo
salì a livelli inquietanti per un secondo quando, lo capii
subito, nella sua
mente ricomparve l’immagine del suo imbarazzante scontro con
Allock – Da quando
il Professor Silente mi ha comunicato, alcune settimane fa, che la
competizione
era stata approvata, ho iniziato a pensare ai potenziali membri della
squadra
di Hogwarts, e ho concluso di essere pietosamente a corto di candidati:
non c’è
un singolo elemento di questa scuola del quale mi fiderei nel caso
dovessi
combattere in duello – mi fissò direttamente negli
occhi – Per quanto mi secchi
dirlo, nella generale mediocrità tu non sei uno dei
peggiori”.
Detto da uno come Piton, una frase
simile equivaleva a dirmi
che ero un elemento di spicco! Non riuscii a nascondere la sorpresa:
“Dice sul
serio, Professore?”.
Piton gettò gli occhi al
cielo, come chiedendosi se fosse il
caso di rimangiarsi le sue ultime parole, poi rispose:
“Sfortunatamente, si –
tornò ad abbassare lo sguardo e lo puntò
direttamente contro di me – Credevi
veramente che non sarei venuto a sapere del tuo piccolo alterco con
Nott sulla
riva del lago?”.
Sentii il mio sangue trasformarsi in
ghiaccio: se Piton
sapeva realmente che avevo malmenato Nott, era un miracolo che io fossi
ancora
ad Hogwarts!
Il professore dovette notare la mia
paura, perché un sorriso
maligno si dipinse sul suo volto: “Esattamente. Appena
rientrato a scuola, Nott
è venuto da me a piagnucolare perché tu lo avevi
aggredito. Ti avrei volentieri
fatto espellere seduta stante, non fosse stato perché la
storia che mi aveva
raccontato aveva più lacune di una tua pozione. Ho torchiato
un po’ Nott, e a
quel punto mi ha raccontato ciò che aveva fatto a Mary
Sutton prima che tu lo
massacrassi – Piton sospirò, quasi fosse
dispiaciuto per non aver avuto modo di
cacciarmi dalla scuola – In simili condizioni, come minimo
sareste stati
espulsi entrambi, quindi ho deciso di soprassedere. Non ho
però dimenticato
quanto facilmente avessi battuto Nott, che pur essendo un idiota non
è di
sicuro il peggiore studente di Hogwarts. C’è poi
da considerare quello che è
successo questa estate alla Coppa del Mondo di Quidditch”.
Non riuscii a trattenermi:
“Sono stato sconfitto nello
scontro al campeggio, e anche malamente!”.
Piton sbuffò, quasi a
sottolineare la mia ottusità: “Sei
sopravvissuto, che è più di quanto mi sarei
aspettato da uno studente messo di
fronte ad un Mangiamorte. Considerando la manica di teste di legno che
compongono la maggior parte del corpo studentesco quando si parla di
duelli,
sei qualificato per fare parte della squadra di Hogwarts, sperando che
siate in
grado di farci fare una figura non completamente pessima”.
Ero in totale confusione: Piton mi
stava offrendo di fare
parte di un gruppo da lui guidato. Non mi sarei mai aspettato un simile
sviluppo. La sola cosa che riuscii a fare fu annuire con la testa.
A Piton sembrò bastare:
“Ti comunicherò nei prossimi giorni
la data ed il luogo del primo allenamento della squadra. Ti conviene
non
deludermi, o ti assicuro che renderò la tua vita a scuola
straordinariamente
miserabile” poi si voltò e si diresse nuovamente
verso il tavolo dei
professori.
Mi mossi a mia volta per raggiungere
l’Ingresso. Mentre salivo
le scale verso la Torre di Grifondoro, cercai di mettere ordine nei
miei
pensieri. La totalmente imprevista decisione di Piton mi aveva lasciato
a bocca
aperta: la possibilità di prendere parte alla competizione
non soltanto
solleticava la vena competitiva di Matteo Simoncini, ma mi forniva
anche la
possibilità di allenarmi nel combattimento, cosa della quale
sentivo di avere
bisogno, in maniera palese.
Non era però quello il
punto centrale delle mie riflessioni:
la mia mente continuava a tornare ai due istanti di smarrimento che
avevo provato
mentre Silente prima e Piton poi parlavano delle competizioni
secondarie del
Torneo Tremaghi. Continuavo ad avere la sensazione che qualcosa non
quadrasse
per niente. Cercai disperatamente di scavare nella mia memoria, nel
tentativo
di capire di cosa si trattasse, ma si rivelò completamente
inutile: i miei
ricordi relativi alla saga ‘originale’
continuavano, inevitabilmente, a
fermarsi al novembre dell’anno precedente, quindi non avevo
modo di paragonare
ad essa ciò che stava succedendo. Non potevo comunque fare a
meno di pensare
che quella sera fosse accaduto qualcosa di molto, molto strano, e vista
la
situazione complicata che già stavo vivendo, non potevo non
sentirmi
estremamente preoccupato.
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