A storm is coming - A Joshua Carter Story

di Marco1989
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sogno ***
Capitolo 2: *** Una nuova famiglia ***
Capitolo 3: *** La Coppa del Mondo di Quidditch ***
Capitolo 4: *** Scontro nel buio ***
Capitolo 5: *** Udienza al Ministero ***
Capitolo 6: *** Ritorno ad Hogwarts ***



Capitolo 1
*** Il sogno ***


Salve a tutti, e parafrasando quello che direbbe Albus Silente: "Ai miei vecchi lettori, bentornati! A quelli nuovi, benvenuti!". Siamo di nuovo qui con la storia di Joshua Carter, alias Matteo Simoncini, alias "nonlosabeneneanchelui". So di aver detto, quando ho terminato la prima storia (che, come forse avrete visto, ho rititolato per abbinare il titolo a quella nuova), che avreste dovuto attendere un po' di tempo per vedere il seguito, volendolo pubblicare solo a scrittura completata, ma sinceramente mi sono reso conto di sentire la mancanza dei vostri feedback.

Ho quindi deciso di iniziare la pubblicazione di questa seconda parte della mia personale saga, anche se, poiché odio essere in ritardo, comunico da ora che la pubblicazione procederà a ritmo lento, almeno per il momento: un capitolo al mese, anche se mi riservo la possibilità di accelerare se mi renderò conto di riuscire a produrre nuovi capitoli più in fretta.

Voglio comunque lasciare aperta, diciamo, una scappatoia: prometto di anticipare la pubblicazione del capitolo successivo se il precedente raggiungerà le sette recensioni, quindi dipende tutto da voi!

Un'ultima cosa prima di passare al primo capitolo: vorrei avvisare gli eventuali nuovi lettori che per comprendere questa storia è necessario aver letto 'A strange, new world', quindi vi consiglio di andare a recuperarla. Detto questo, buona lettura!

 

1: IL SOGNO

Era il luogo più strano che avessi mai visto, tanto bello da essere innaturale: un grande prato verde, intervallato qua e là da piccoli alberi, che sembrava stendersi fino all’orizzonte in tutte le direzioni, il tutto sotto un cielo talmente azzurro da sembrare dipinto. La cosa più simile che avessi mai visto erano le campagne dell’Irlanda, che avevo visitato durante una gita con la scuola parecchi anni prima, ma sapevo che il paragone non poteva reggere: a parte il fatto che sapevo di non essermi recato in Irlanda, quel luogo trametteva una sensazione che nessun paese reale, ne ero convinto, poteva possedere. Avvertivo uno stato di assoluta pace, come mai ne avevo provata in vita mia. Mi guardai in giro, cercando di capire cosa dovevo fare, e allo stesso tempo come avessi fatto ad arrivare lì. Non ricordavo di aver fatto niente di strano, l’ultima cosa che ricordavo era di essermi coricato dopo cena, nella casa della mia ‘famiglia’ in Galles, dopo un giorno delle vacanze estive uguale a quelli delle sei settimane che lo avevano preceduto. Ricordavo il bacio sulla fronte di quella che ormai avevo iniziato a considerare mia madre e la sensazione ancora un po’ strana ma insolitamente piacevole che mi aveva trasmesso. Sei settimane nella vita familiare di Joshua Carter, di finte litigate con la ‘mia’ sorellina, di passeggiate tra le viuzze della cittadina natale del ragazzo del quale ormai da quasi nove mesi occupavo il corpo, pur senza riuscire a farmi dimenticare del tutto la vita di Matteo Simoncini, mi aveva tolto la maggior parte dei rimpianti che mi erano rimasti dopo che il misterioso incidente in auto del novembre precedente e l’ancora più misterioso ‘viaggio’ che avevo compiuto mi aveva trasportato nel mondo di Harry Potter, che fino a quel momento avevo conosciuto soltanto nei libri. Avevo ormai smesso di chiedermi come fosse potuto accadere, soprattutto da quando, poco prima della fine del mio primo, vero anno alla scuola di Hogwarts, avevo scoperto la ragione per la quale la misteriosa entità che mi aveva parlato tante volte nella mente, prima attraverso sensazioni e piccole premonizioni, poi con vere parole, aveva deciso di portarmi in un luogo che sarebbe dovuto esistere solo nella fantasia di una scrittrice inglese. Allo stesso modo, avevo smesso di chiedermi perché fossi ancora lì dopo aver fallito la mia ‘missione’: una parte di me si era aspettata per settimane di essere catapultata di nuovo nel mio mondo, ammesso che fosse rimasto qualcosa di me al quale tornare dopo il terribile schianto che aveva sancito l’inizio del mio viaggio, dopo che non ero riuscito a convincermi ad uccidere Peter Minus, il servo di Lord Voldemort, consentendogli sostanzialmente di scappare e, forse, di tornare dal suo padrone, ma non era accaduto. Dopo la mia avventura notturna nella foresta e sulla riva del lago, avevo vissuto la normale vita di un giovane mago di quasi quattordici anni. Fino a quel momento.

Per un istante mi attraversò la mente la terribile sensazione che, alla fine, avessi davvero compiuto il viaggio a ritroso, e che le mie peggiori paure si fossero concretizzate: quel luogo idilliaco sembrava realmente la rappresentazione del Paradiso. E se la Forza che mi aveva portato in quel mondo magico avesse infine deciso di rimandarmi indietro, senza però trovare un Matteo Simoncini vivente nel cui corpo la mia anima potesse ritornare? Era possibile che quello fosse l’Aldilà? Un brivido scosse il mio corpo. Mi abbassai in ginocchio, tastando l’erba e cercando di annusarne l’odore. Sia il tatto che l’olfatto sembravano essere appannati, quasi stessero funzionando al minimo delle loro capacità. Avevo già provato quella sensazione: era il modo nel quale i sensi parevano funzionare nei sogni. Poteva essere una fantasia onirica quella che stavo vivendo? Possibile, ma d’altro canto non avevo idea di come potesse sentirsi un’anima in Paradiso, quindi…

La figura apparve dal nulla, ad una decina di metri da me, per poi avviarsi lentamente nella mia direzione, in parte camminando, in parte quasi fluttuando. Il suo movimento ricordava in qualche modo quello dei Dissennatori, ma in realtà non avevo mai visto nulla di più differente dai neri demoni di Azkaban: avevo davanti una donna bellissima, apparentemente troppo bella per appartenere alla specie umana, dai lunghi capelli biondi come l’oro, vestita di una splendente tunica bianca. Tutta la sua figura sembrava emanare una luce eterea e soprannaturale. Sul volto dell’essere angelico era dipinto un sorriso sereno, e nella mia mente si fece strada una sorta di musica ultraterrena, dolcissima, che mi trasmise uno straordinario senso di pace, che fece scomparire in un istante il timore che l’apparizione della misteriosa donna ed il luogo sconosciuto aveva fatto calare sul mio animo.

L’apparizione si fermò a non più di un paio di metri da me, il suo sorriso sembrò allargarsi ulteriormente, poi parlò, con una voce argentina come il suono dell’acqua che sgorga da una fonte: “Non aver paura, Matteo. Nessuno ti farà del male”.

Rimasi per un istante sorpreso quando udii il nome che mi apparteneva dall’altra parte, poi nella mia mente si formò un collegamento: avevo già sentito quella voce, in un luogo molto più oscuro di quello nel quale ci trovavamo in quel momento. All’epoca, nonostante il suono altrettanto dolce e gentile, le sue parole erano state molto meno piacevoli, ed avevano cercato di spingermi a fare qualcosa di molto, molto brutto.

Cercai di parlare, ma le mie corde vocali sembravano faticare a connettersi con il cervello: “S…sei tu? Cioè…esisti veramente? Non sei solo nella mia testa, vero? Cioè…chi sei?”.

La donna continuò a sorridere: “Io sono colei che ha potuto gettare uno sguardo nel futuro. Il mio nome non è importante in questo momento, ma sì, esisto veramente. Puoi continuare a definirmi ‘Signora Voce’, se vuoi – il suo sorriso sembrò oscurarsi in parte, poi riprese a parlare – Purtroppo hai fallito, Matteo. Non sei riuscito a cambiare il destino, ed ora tutto diventa più difficile”.

Nella mia testa sembrava essersi fatta strada una sorta di nebbia. Faticavo anche solo a pensare: avevo davanti l’entità che tante volte mi aveva parlato durante i mesi precedenti, prima trasmettendomi soltanto dei suggerimenti, poi direttamente. Era colei che aveva cercato di convincermi ad uccidere Peter Minus!

Alla fine riuscii a spiccicare qualche parola, cercando la risposta ad una delle domande che maggiormente mi avevano attanagliato da quando mi ero svegliato ad Hogwarts: “Sei stata tu a portarmi in questo mondo, vero?”.

La figura mi fissò per qualche istante, sorridendo con la sua espressione eterea, poi disse: “Sì… e allo stesso tempo no”.

La sua risposta era talmente evasiva da lasciarmi a bocca aperta. La donna se ne dovette accorgere, perché per un istante il suo sorriso si accentuò, poi divenne improvvisamente più seria: “Come ti ho già detto, io ho potuto gettare uno sguardo alle cose che devono ancora accadere, ed ho visto guerra, ho visto distruzione…ho visto morte, tanta morte. Ho lanciato nel tempo e nello spazio una richiesta di aiuto, una possibilità di cambiare le cose, di deviare il corso del Fato verso una nuova direzione… e qualcosa ha risposto. Neanche io so chi… o cosa… abbia scelto di prestare orecchio alla mia supplica, se sia stata una delle divinità dei Babbani, l’energia che guida tutto e che i maghi definiscono semplicemente ‘Forze dell’Essere’ o qualcosa di ancora differente, ma mi è stata data una possibilità. Neanche io sapevo cosa sarebbe successo quando ho messo a disposizione la mia energia per compiere quello che speravo sarebbe stato un miracolo. Il drenaggio di forza è stato tale che quasi mi ha ucciso, e solo dopo ho scoperto che il risultato eri stato…tu – e mi indicò con un dito – Joshua Carter, un giovane, anonimo studente di Hogwarts, era divenuto qualcosa di unico nella storia del nostro mondo”.

La mia testa sembrava sul punto di scoppiare: non capita tutti i giorni di scoprire che sei stato prescelto da una Forza dai poteri divini per una missione, e se si aggiungeva la consapevolezza di averla fallita, ce n’era più che abbastanza per mandare in frantumi quanto restava della mia sanità mentale. Erano talmente tante le domande che avrei voluto fare alla donna, che non sapevo neanche da dove iniziare. Alla fine scelsi di partire da una di quelle che potevano considerarsi più innocue: “Quindi… da dove vengono gli strani poteri che ho? La percezione del futuro… la magia più potente rispetto ai miei compagni di scuola… sei stata tu?”.

L’entità scosse la testa: “Mio è solo il compito di sorvegliarti e guidarti. Ogni altra cosa è venuta da chi è molto più potente di me. Lo stesso vale – aggiunse, anticipando un dubbio che mi attanagliava fin dallo scontro con Nott – per l’istinto da guerriero che ogni tanto ti ha pervaso. So bene che te ne sei accorto, sono stata con te ogni momento durante gli ultimi mesi. Neanche a me è stato spiegato tutto, ma immagino che la combinazione tra poteri, istinto e quello che tu definivi ‘Senso di Ragno’ dovesse permetterti di eseguire meglio la tua missione, di farti essere nel posto giusto al momento giusto, di farti inserire nell’ingranaggio del destino un ostacolo che potesse indirizzarlo su una via differente. Purtroppo, non è bastato: il tuo spirito è stato più forte del condizionamento, il tuo modo di essere ti ha impedito di compiere un gesto che consideravi ingiusto, e purtroppo proprio quel gesto avrebbe impedito ad una intera catena di eventi di realizzarsi – scosse la testa, assumendo un’aria sconsolata – Non mi è permesso di dirti più di tanto, il futuro non può essere rivelato, lo avrai capito vedendo quanto fumose erano le tue percezioni, ma credo che tu abbia capito a cosa porterà la linea sulla quale il destino ora si trova”.

Il ricordo della profezia della Cooman mi provocò una violenta stretta di rimorso allo stomaco: sì, avevo capito fin troppo bene cosa sarebbe accaduto, a cosa avrebbe condotto la mia decisione di non abbattere Minus, quindi tutto il sangue che sarebbe scorso sarebbe stato anche sulle mie mani. Con voce sconfitta, domandai: “Quindi, ora cosa mi aspetta? Se ho fallito la missione, se non sono riuscito a cambiare il corso del Fato, perché sono ancora qui?”. Poi, benché fossi tutt’altro che certo che fosse quello che realmente volevo, aggiunsi in un sussurro: “Tu… tu potresti riportarmi indietro?”.

Assumendo un’aria vagamente afflitta che poco si addiceva al suo aspetto splendente, la donna rispose: “No, Matteo. Io non ho il potere di farti compiere il viaggio a ritroso. Come ti ho detto, io ho fornito solo l’energia necessaria per portarti qui, e questo mi ha quasi ucciso. Non fraintendermi, non esiterei a farlo di nuovo se potessi, ma non ne ho la facoltà: già la prima volta non avrei potuto fare nulla, se una forza superiore non me lo avesse concesso. Non so neppure – aggiunse, guardandomi con comprensione – se esiste ancora qualcosa dall’altra parte alla quale potresti tornare, non mi è permesso di vederlo”.

Un peso da una tonnellata sembrò calarmi sul cuore: se davvero era stata nella mia testa per tutto il tempo, doveva aver visto quale era la mia peggiore paura, e il fatto che neanche lei avesse una risposta al quesito che assillava le mie notti aveva inflitto un colpo devastante alle mie speranze.

Faticai enormemente a fare la domanda successiva, perché temevo terribilmente la risposta: “Ch…che cosa devo fare? Sono destinato… a sparire? A non esistere più né qui né dall’altra parte?”.

Il sorriso della donna tornò, almeno in parte: “No, non credo che le cose stiano così. Non so che cosa ti aspetti, ma il solo fatto che tu esista ancora nel mondo nel quale sei giunto lo scorso novembre mi fa pensare che per te esista ancora un ruolo, che la tua presenza possa rivelarsi determinante in un modo diverso. Si sta avvicinando una tempesta, e tu non potrai evitare di affrontarla: il tuo tentativo di catturare Minus non passerà inosservato, occhi interessati già stanno pensando se rivolgersi verso di te. Ti aspettano giorni difficili, ed arriveranno presto, quindi dovrai essere pronto. Ricorda, però: anche nei momenti più oscuri, la speranza rimane sempre, anche se trovarla può essere difficile.”.

Improvvisamente mi resi conto che qualcosa stava cambiando: i contorni eterei della donna stavano diventando meno definiti, e anche l’ambiente sembrava velarsi di una sorta di caligine bianca.

“Aspetta! Non andartene! Non lasciarmi!” urlai, con una punta di panico, mentre mi sentivo in qualche modo risucchiare lontano dalla donna.

“Non ti lascerò mai – disse la voce sempre più distante, e mentre qualcosa sembrava trascinarmi via da lei, vidi un ultimo, dolcissimo sorriso dipingersi sulle sue labbra: “Io ti resterò vicina, qualsiasi cosa accada. Buona fortuna, Matteo… o meglio, Joshua Carter!”.

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Capitolo 2
*** Una nuova famiglia ***


Salve di nuovo a tutti i miei lettori. Ho scelto di anticipare di qualche giorno la pubblicazione di questo nuovo capitolo, considerando che per il momento avevo messo soltanto il primo e che, d'altro canto, sono relativamente avanti nella scrittura dei successivi. Indicativamente, quindi, il prossimo sarà inserito il 24 gennaio. Vi chiedo nuovamente, se possibile, di dedicare qualche minuto del vostro tempo a scrivere una recensione, per me valgono quanto un pagamento. Buona lettura!

2: UNA NUOVA FAMIGLIA

Aprii gli occhi di colpo, rizzandomi a sedere come se improvvisamente fossi stato attraversato da una scossa elettrica. Impiegai qualche secondo per rendermi conto di essere davvero sveglio: i postumi del sogno faticavano a lasciare la mia testa. Stordito, mi guardai in giro, e mi sentii stranamente perso: la camera dove mi trovavo era allo stesso tempo familiare ed estranea. La stanza nella quale ricordavo di aver passato gran parte della mia vita era piccolo, anche se accogliente, con un letto singolo incastrato tra due pareti e sormontato da una grande bandiera della mia squadra di calcio preferita, e letteralmente ogni centimetro disponibile occupato da scaffali e armadi, molti dei quali pieni di libri. Quella nella quale mi trovavo, invece, era relativamente grande, con mobili di legno apparentemente fatti a mano, incluso il letto ad una piazza e mezzo sul quale ero sdraiato. Un raggio di sole penetrava dalle persiane verde acqua, abbastanza luminoso da farmi capire che era mattina inoltrata e da permettermi di vedere bene ogni dettaglio. Non potetti fare a meno di sorridere quando, sui ripiani della libreria, vidi tomi con titoli come ‘Animali Fantastici e Dove Trovarli’, ‘Mille Erbe e Funghi Magici’ e ‘Trasfigurazione, livello intermedio”. I normali libri di testo di uno studente di Hogwarts sul punto di iniziare il suo quarto anno di istruzione. Sul comodino a fianco del mio letto, accanto ad una lampada a forma di bottiglia, era appoggiata una bacchetta magica di legno rossiccio. Per il resto, c’erano tutti i segni tipici della stanza di un adolescente: abiti sparsi letteralmente in ogni angolo, a diversi livelli di pulizia e spiegazzatura, oggetti che sembravano mantenersi miracolosamente in bilico in posizioni improbabili e, sopra la scrivania, una inquietante cumulo di libri, pergamene, boccette d’inchiostro, piume e altro materiale scolastico, residuo di un tentativo non particolarmente fruttuoso di svolgere i compiti delle vacanze. Appeso alla parete c’era un poster della squadra di Quidditch dei Finchbury Finchies, pluricampioni degli Stati Uniti, come avevo scoperto, o per meglio dire, ri-scoperto, circa un mese prima.

Questo erano state, in buona sostanza, le quattro settimane estive che avevo passato a Bangor, nel nord del Galles, dopo il mio ritorno da Hogwarts: una lunga serie di scoperte che, in realtà, avevano significato il ritorno delle memorie di Joshua Carter: se per lui sarebbe stato un semplice ritorno a casa, per me aveva significato conoscere un nuovo mondo. E, soprattutto, una nuova famiglia.

Quello di mia madre e mia sorella era un pensiero allegro, che però non durò molto. Mentre mi toglievo il pigiama ed indossavo un paio di jeans e una maglietta, non potetti fare a meno di riflettere su ciò che la misteriosa donna vestita di luce mi aveva detto: certo, aveva chiarito molti misteri, ed aveva risposto a parecchie delle domande che mi ero posto negli ultimi mesi, ma aveva lasciato fin troppi punti oscuri. Per di più, il peso di tutte le cose che mi aveva raccontato era a dir poco schiacciante: una forza superiore, forse di livello divino, non solo mi aveva scelto, ma aveva organizzato il mio ‘trasporto’ in una realtà che, a quanto ne sapevo io, doveva esistere solo in una saga di libri! Già, perché a questo ci ero arrivato da solo senza che la donna me lo confermasse: il mio incidente non era stato casuale, era stato il suo modo per farmi compiere il viaggio. C’era di che farsi venire un mal di testa da primato… di nuovo.

‘Beh, qualsiasi cosa questa entità e la Signora Voce avessero in mente, non è andata come si aspettavano -  pensai con una punta di furia mentre mi legavo una scarpa – Minus è fuggito, io ho sbagliato tutto e la guerra che lei ha previsto arriverà comunque’. In buona sostanza, mi avevano strappato alla mia vita senza ottenere alcun risultato.

Eppure…

Rimasi pensieroso davanti alla porta della mia camera, momentaneamente incapace di aprirla. Nonostante tutto, io ero ancora lì: non ero tornato indietro, non ero scomparso nel nulla. Ero rimasto in quel mondo, e la donna aveva ragione: doveva per forza esserci una ragione. Scoprire quale potesse essere, mi dissi mentre finalmente mi decidevo ad oltrepassare la soglia e a dirigermi verso le scale per scendere al piano di sotto, andava, almeno per il momento, oltre le mie capacità, ma qualcosa, non saprei dire se su indicazione della Signora Voce o del mio istinto, mi diceva che non sarebbe stato sempre così, che avrei capito al momento giusto. Fu quindi con un animo un po’ più sereno che entrai in cucina, e non ebbi problemi a esclamare con allegria: “Buongiorno, mie signore”.

“Giorno si è fatto da un bel po’, Bell’Addormentato” disse con una punta di ironia una voce femminile, proveniente da una donna impegnata ai fornelli, mentre da un lato di un tavolo di quercia vidi una ragazzina farmi una infantile linguaccia, alla quale risposi volentieri.

Mia madre e mia sorella erano state una sorpresa fin dal momento nel quale le avevo incontrate a King’s Cross: nonostante avessi recuperato la stragrande maggioranza dei ricordi di Joshua Carter, per qualche motivo avevo un ricordo molto remoto e vago del loro aspetto, così come di quello di mio padre. Considerando, però, che se presi alla stessa età, Joshua Carter e Matteo Simoncini erano praticamente due gocce d’acqua, mi ero costruito in testa un’immagine che tendeva a coincidere con mia…con la madre di Matteo. In realtà, in quel caso, anche se innegabilmente le due donne si somigliavano, non c’era una vera e propria identità come tra i figli. La madre di Matteo era bassa, rotondetta, con i capelli a caschetto castani ormai strinati di grigio. Katherine Jones aveva a sua volta i capelli castani che le arrivavano a metà collo, ma il grigio era sostituito da striature bionde, era molto magra, e rispetto all’altra donna aveva dieci centimetri di altezza in più e, apparentemente, dieci anni d’età in meno. Gli occhi, però, erano inconfondibili: Matteo aveva ereditato il marrone screziato di verde dalla madre, e lo stesso sembrava aver fatto Joshua. Occhi che, in entrambi i casi, sembravano avere quasi sempre un sorriso per il figlio, anche se era un sorriso variabile, capace di adattarsi alle necessità: poteva essere allegro, come in quel momento, durante un quieto momento familiare, ma anche comprensivo se uno dei due figli aveva bisogno di consiglio o consolazione, oppure poteva diventare inquisitorio, se non predatorio, quando riteneva che avessero fatto qualcosa che non avrebbe approvato.

Immaginarmi Sheila era stato ancora più difficile, perché mi mancava un valido termine di paragone, non avendo Matteo alcuna sorella. La figura che avevo costruito era in qualche modo simile a mia cugina, ma la bambina non ancora undicenne somigliava in maniera molto labile alla Sara che avevo lasciato dall’altra parte: di poco più bassa nonostante i tre anni di differenza, aveva la stessa figura sottile della madre, anche se i riflessi dei suoi capelli, più che al biondo, tendevano al ramato. Anche se qualcosa nei tratti del volto rammentava Joshua, il resto, dalla struttura fisica al modo di muoversi e camminare, ricordavano piuttosto la donna che in quel momento stava versando in una padella l’impasto per i pancakes. Immaginai che io… o forse avrei dovuto dire Joshua… somigliasse maggiormente a quel padre che, dopo l’invio del regalo di Natale, non aveva più dato alcun segno di ricordare di avere due figli in Gran Bretagna. Ebbi un piccolo capogiro, come mi accadeva quasi sempre quando mi trovavo a mettere a confronto le vite di Matteo e Joshua: altro che sdoppiamento di personalità! Nonostante il tempo trascorso, era ancora difficile rapportarmi al fatto di avere i ricordi di due persone differenti in un solo corpo. Ci sono persone che parlano con se stesse in terza persona, ma nel mio caso la situazione a volte rischiava di diventare ridicola!

Cercando di ignorare la sensazione di malessere, mi lasciai cadere sulla sedia di fronte a Sheila, che continuava a divertirsi nel farmi le boccacce come solo una ragazzina che ancora indugia nell’infanzia può fare. Mio malgrado, mi trovai a sorridere: per me, che ero cresciuto con soltanto un fratello più grande, avere una sorellina si stava rivelando molto divertente, benché a volte potesse essere frustrante. Sheila era pestifera come poche persone avessi mai conosciuto, e sapeva essere incredibilmente pungente, in una maniera che solo per un pre-adolescente poteva essere sopportabile. O quasi.

Non potetti fare a meno di leccarmi i baffi quando mia madre mi mise davanti un piatto con una pila di pancakes al miele: se la famiglia aveva lasciato l’America, sembrava che l’America non avesse lasciato la famiglia! Avevo a malapena tagliato il primo boccone, però, quando la voce della donna mi bloccò con una frase che, con qualche piccola modifica, avevo sentito fin troppe volte nella mia vita: “Ti sei deciso finalmente a mettere a posto in quel nido di Doxy che hai il coraggio di chiamare camera?”.

La mia carissima sorellina non risparmiò un ghigno perfettamente visibile, mentre io dovetti trattenermi per evitare, allo stesso tempo, una risata ed uno sbuffo esasperato: si può cambiare anche universo, ma le madri rimarranno sempre uguali!

“Ehm… ho iniziato! – borbottai, sentendomi di nuovo un quattordicenne quanto mai prima di allora – Ho sistemato l’armadio ed i cassetti, ora devo mettere a posto la libreria, la scrivania e… beh… il pavimento. Ma ti prometto che finirò…”.

“Quando mi spunteranno le pinne al posto dei piedi” concluse mia madre con aria sconsolata , dando a mia sorella una ragione per farsi un’altra risata, poi si sedette al tavolo stringendo in mano una grossa tazza di caffè e mi fissò con occhi penetranti: “E con i compiti a che punto stai? Mancano meno di dieci giorni al rientro a scuola, immagino che li avrai praticamente finiti”.

Appunto… se a livello estetico Katherine non era esattamente uguale a mia madre, per atteggiamento e discorsi avrebbero potuto essere gemelle. Dopo la camera da sistemare, i compiti. E purtroppo, mi trovavo ad essere nuovamente in fallo: “Beh…diciamo quasi finiti. Ho completato i temi di Storia della Magia, Difesa Contro le Arti Oscure e Trasfigurazione, gli esercizi di Incantesimi ed Astronomia…”.

“E per quanto riguarda Pozioni ed Erbologia? – chiese mia madre, sorseggiando il caffè e squadrandomi con occhio indagatore. Mia sorella ormai rideva senza ritegno. La fulminai: ‘Aspetta solo un paio di settimane, ragazzina – pensai – poi vedrai cosa significano i compiti di Hogwarts!’. Sheila avrebbe affrontato il suo primo anno alla scuola di lì a pochi giorni.

“Ancora da fare” risposi con semplicità, sapendo che non sarebbe stato sufficiente. Se mia madre era stata chiaramente felice di rivedermi, c’erano stati alcuni punti di contrasto nei primi giorni dopo la fine delle vacanze. Il mio carattere era stato uno dei problemi: a quanto pareva, nonostante ormai mi fossi più o meno messo in pari con i ricordi del mio alter ego, il Joshua Carter che era sceso dall’Hogwarts Express era piuttosto differente da quello che ci era salito dieci mesi prima. I ragazzi a scuola lo avevano conosciuto solo per poco più di due mesi prima del mio ‘viaggio’, quindi non avevano faticato troppo ad accettare che, dopo l’incidente che gli era accaduto sulla scopa, il ragazzo timido ed un po’ schivo giunto dall’America fosse diventato ostinato e permaloso, ben deciso ad avere l’ultima parola su tutto. Per mia madre, invece, era stato decisamente più complicato, ed aveva significato, nella prima settimana dopo il mio ritorno, una lunga serie di litigate da far tremare le pareti, prima che io riuscissi a darmi una calmata e che mia madre arrivasse alla conclusione che il mio nuovo atteggiamento fosse strettamente collegato agli ormoni e alla volontà di ribellione di un ragazzo ormai pienamente entrato nell’adolescenza.

Il secondo problema, almeno altrettanto serio, aveva riguardato la pagella scolastica. In realtà, dal mio punto di vista, i voti erano buoni: avevo ottenuto il massimo a Storia della Magia (praticamente un record per chiunque non si chiamasse Hermione Granger), voti molto alti in Incantesimi, Trasfigurazione e Difesa Contro le Arti Oscure e la sufficienza in tutte le altre materie, perfino in Pozioni, dove avevo seriamente temuto la bocciatura. Questo, però, non sembrava aver soddisfatto pienamente mia madre, soprattutto per quanto riguardava Erbologia: quella materia era il suo lavoro, e a quanto pareva, finché aveva frequentato Ilvernmonry, era stata anche una delle preferite di suo figlio, quindi il mio crollo doveva essersi rivelato, per lei, particolarmente deludente.

“Una piccola domanda per te, Joshua – sibilò in maniera pericolosa mia madre, mentre la carognetta undicenne davanti a me continuava a ridere sotto i baffi – Tu sai chi mi ha spedito un gufo appena due giorni dopo la fine della scuola?”.

Sentendo di stare saltando dentro la bocca di uno squalo, scossi la testa.

“Va bene, una domanda più semplice allora: sai chi è la persona che stimo di più in questo paese, quella che mi ha insegnato l’amore per le piante, che mi ha spinto a scegliere questo lavoro dopo il mio settimo anno?”.

Con l’orribile impressione di avere intuito la risposta, feci un secondo cenno di diniego.

“La risposta è la stessa ad entrambe le domande – il sibilo di mia madre si trasformò in qualcosa di molto simile ad un ringhio – Pomona Sprite, mia insegnante ai tempi di Hogwarts prima e mia ottima amica poi. Mi ha scritto una bella lettera nella quale sottolinea che, dopo un buon inizio d’anno, hai avuto un crollo improvviso quanto incomprensibile nella sua materia. Benché tu ti sia salvato per il rotto della cuffia nell’esame finale, sei andato ad un soffio dalla bocciatura – si passò una mano sulla fronte – Ho rinunciato a capire cosa ti sia successo, considerando che prima adoravi l’Erbologia e rischiavi di addormentarti su qualsiasi libro di Storia, ma che tu abbia avuto una crisi mistica o una commozione celebrale dopo il Bolide che hai preso in testa, la sostanza non cambia: mi rifiuto di credere che mio figlio non sia in grado di prendere un voto decente in Erbologia! E tu cosa fai? Mancano dieci giorni all’inizio della scuola e neanche hai iniziato i compiti! Al tuo ritorno pretendo che ti ci dedichi con tutto l’impegno possibile!”.

Ero talmente preso dalla ramanzina che impiegai qualche secondo per registrare le ultime parole: “Il mio… ritorno? Da dove?”.

Katherine mi fissò con un sopracciglio inarcato: “Che fai, mi prendi in giro?”.

Scossi la testa con sguardo vacuo: “Non ho la minima idea di cosa tu stia parlando, giuro! Devo andare da qualche parte?”.

Uno sbuffo di frustrazione giunse dall’altra parte del tavolo: “Ti sei svegliato dal lato stupido del letto, fratellone?” chiese mia sorella con voce contrariata.

Mi voltai verso di lei: aveva il gomito sul tavolo e la testa appoggiata alla mano. Sembrava allo steso tempo delusa ed arrabbiata: “Non ti ricordi veramente che giorno è? Non ti viene in mente un certo impegno che hai questo pomeriggio, un certo posto dove devi andare? – vedendo che continuavo a non capire, sbuffò nuovamente – Che razza di imbranato! Hai tutte le fortune del mondo e neanche te ne ricordi!”.

Continuavo a non capire: era come se il sogno avesse lasciato una coltre di nebbia sulla mia memoria, e non riuscivo proprio a ricordare, anche se la chiara invidia che in quel momento trasudava da mia sorella stava smuovendo qualcosa. In cerca d’ispirazione, girai distrattamente la testa verso il calendario appeso al muro: era il 21 agosto, e vidi che la data era cerchiata di rosso. Quella del giorno successivo, invece, era seguita da una serie di punti esclamativi. Fu come se una diga fosse improvvisamente crollata all’interno della mia testa, e un sorriso di pura felicità mi spuntò sulle labbra: “LA PARTITA! – urlai – Idiota che sono, non ricordavo che giorno è!”.

Mia madre gettò gli occhi all’indietro, con aria di commiserazione per lo stato della mia mente, mentre mia sorella sbuffò di nuovo, chiaramente contrariata. D’altronde, potevo capirla: era dal Natale precedente che io smaniavo per quell’occasione. La sera successiva, a Dartmoor, si sarebbe tenuta la finale della Coppa del Mondo di Quidditch, con ogni probabilità l’evento sportivo più importante del mondo dei maghi: Irlanda e Bulgaria si sarebbero affrontate davanti a centomila spettatori, e io sarei stato uno di loro! Mio padre, o il padre di Joshua, o comunque volessi chiamarlo, era un Auror americano che aveva divorziato da mia madre l’estate precedente, e che mi aveva mandato, come dono natalizio, un biglietto omaggio per la grande partita. Da quando lo aveva saputo, mia sorella aveva covato un’invidia difficile anche solo da descrivere; avrebbe fatto letteralmente qualsiasi cosa per venire anche lei, ma purtroppo si era rivelato impossibile: a quanto avevo capito dopo il mio ritorno a casa, non eravamo poveri, ma neanche navigavamo nell’oro, e i biglietti per la grande partita costavano una piccola fortuna. Perfino mio padre ne aveva ottenuto uno solo, ed aveva deciso di spedirlo a me.

“Non è giusto – borbottò mia sorella per quella che doveva essere come minimo la dodicesima volta dal mio ritorno dalla scuola – Io adoro il Quidditch anche più di lui, perché non posso andare?”.

“Dai, Sheila, ne abbiamo già parlato – intervenne mia madre, cercando di stemperare una eventuale lite sul nascere – Lo sai come stanno le cose, purtroppo per questa volta non è possibile -  le sorrise con sguardo rassicurante – Tu domani verrai a Londra con la mamma, andremo a Diagon Alley a comprare le cose per la scuola!”.

“Già, grazie mille mammina! – sospirò la ragazzina con tutta l’ironia che fu capace di mettere nella frase – E’ esattamente la stessa cosa, davvero!”.

Mia madre alzò di nuovo gli occhi al cielo e si avvicinò al lavello, borbottando qualcosa sui figli adolescenti. Dal canto mio, iniziai a mangiare cercando di evitare gli sguardi accusatori di mia sorella. In realtà, benché fossi più che felice di poter andare alla partita, sapevo che aveva tutte le ragioni di essere infuriata, lo sarei stato anch’io al suo posto: scegliendo di prediligere un figlio rispetto all’altro, mio padre aveva compiuto un gesto piuttosto insolito per un genitore, ma da quando ero tornato a casa avevo fatto abbastanza chiarezza nella memoria di Joshua Carter da capirne il motivo.

A quanto pareva, era stato Grant Carter a causare il divorzio con Katherine, tradendola ripetutamente con diverse donne, come quel coglione di Nott si era premurato di ricordarmi. Joshua era grande abbastanza per capire quello che stava accadendo, e proprio per questa ragione si era infuriato. Oddio, infuriato era un termine riduttivo: da quanto riuscivo a ricordare, c’era stata una impressionante lite tra padre e figlio, con Grant che cercava inutilmente di giustificarsi e Joshua che gli vomitava addosso tutto l’odio che aveva accumulato dentro di se assimilando un anno di urla in famiglia. Non ero in grado di ricordare esattamente che cosa fosse uscito da quella che ormai era la mia bocca, ma rammentavo il finale: Joshua aveva urlato a suo padre di odiarlo, e che non intendeva vederlo mai più. Dopo quell’occasione Grant non aveva più cercato un contatto con il figlio, non aveva tentato di vederlo e non gli aveva scritto, come non aveva tentato di parlare con Sheila, nonostante lei non provasse per lui lo stesso grado di ostilità. Il biglietto doveva essere stato un disperato tentativo di chiedere scusa a Joshua per l’accaduto. Da parte mia, non sapevo veramente come comportarmi: sentivo di provare ancora una notevole rabbia nei confronti di quell’uomo che non avevo mai visto, anche se non allo stesso livello del mio ‘alter ego’. Avevo accettato il regalo, ma non avevo intenzione, almeno per il momento, di tendere la mano ad un padre che non aveva avuto neppure il coraggio di ammettere i suoi errori e che, in ogni caso, aveva scelto di ignorare quasi interamente i suoi figli per un anno.

“In ogni caso – riprese mia madre, cercando di ignorare il pessimo umore di Sheila – stamattina, mentre tu eri ancora beatamente nel mondo dei sogni, è arrivato un gufo dalla signora Finnegan: ha detto che passerà a prenderti alle tre del pomeriggio. Quindi, per quel momento, vedi di aver finito di sistemare la tua camera e di aver preparato il tuo zaino, o potrei cambiare idea e spedire Sheila al tuo posto!” concluse con una risatina che indignò ulteriormente la ragazzina.

La signora Finnegan era stata la soluzione ad un problema che mi ero posto già a Natale, non appena ricevuto il biglietto: Joshua Carter aveva compiuto quattordici anni solo un mese prima…o meglio, io avevo compiuto quattordici anni un mese prima, per la seconda volta. Di certo non avrei potuto recarmi ad assistere alla partita da solo, per quanto me ne sentissi, logicamente, del tutto in grado. Era una questione non da poco, con un solo biglietto a disposizione, e per quanto sul momento ci avessi pensato, non avevo realmente intenzione di scappare di casa. La soluzione era giunta da Seamus Finnigan, che con Dean Thomas era il mio migliore amico ad Hogwarts, e che era, tra le altre cose, un grande tifoso di Quidditch e un irlandese purosangue. Con la sua nazionale in finale, lui e la madre avevano deciso di assistere alla partita. Si sarebbero recati sul luogo del match con un giorno d’anticipo, passando due notti in tenda, e la signora Finnegan si era dichiarata più che disponibile a portarmi con loro, cosa che aveva tranquillizzato mia madre e spedito me al settimo cielo. Non riuscivo ancora a spiegarmi come avessi fatto a dimenticarmene!

Trangugiai a tutta velocità i pancakes, ignorando gli sguardi di disapprovazione di mia sorella, poi schizzai in piedi e corsi su per le scale. Se avevo imparato una cosa in poco meno di due mesi, era che Katherine, come la madre che avevo lasciato dall’altra parte, scherzava sempre solo fino ad un certo punto, e per sicurezza, sarebbe stato meglio sistemare la camera ben prima delle tre del pomeriggio!

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Capitolo 3
*** La Coppa del Mondo di Quidditch ***


3 – LA COPPA DEL MONDO DI QUIDDITCH

Decisamente, le Passaporte non sarebbero entrate nella classifica delle cose che mi piacevano di più nel mondo magico. Dieci minuti dopo lo sgradevole viaggio attaccato ad una vecchia caffettiera, quando io, Seamus e sua madre, una donna dall’aria simpatica con gli stessi capelli rossi del figlio, avevamo ormai ricevuto l’ubicazione della nostra piazzola dal proprietario Babbano del campeggio appena fuori dalla foresta dove era stato eretto lo stadio per la finale della Coppa, avevo ancora lo stomaco in subbuglio, e camminavo attraverso la distesa di tende coperte di trifoglio dei tifosi irlandesi barcollando leggermente.

La maggior parte della gente sarebbe arrivata soltanto il giorno successivo, compresi, lo sapevamo, diversi dei nostri compagni di scuola, ma c’erano già moltissime persone, tra le quali alcune nostre vecchie conoscenze. Tra queste, una che avrei fatto a meno volentieri di rivedere prima di esserci obbligato dall’inizio dell’anno scolastico: fuori dall’area dei tifosi più sfegatati, di fronte ad una tenda particolarmente lussuosa davanti dalla quale era stata eretta quella che sembrava una cucina da campo completamente attrezzata, vidi Theodore Nott in piedi con in mano una tazza, a fianco di un uomo magro dai capelli completamente grigi che immaginai essere suo padre. Il ragazzo mi lanciò uno sguardo fiammeggiante, e si chinò a sussurrare qualcosa al padre, che si voltò verso di me guardandomi con blando interesse. Chissà perché, dubitavo fortemente che qualsiasi cosa il mio poco amato compagno di scuola avesse detto fosse un complimento. Sostenni lo sguardo di Nott Senior, e dopo un paio di secondi lui si voltò e sussurrò qualche parola al figlio, il quale, dopo un secondo lancio di coltelli oculari, tornò a concentrarsi sulla bevanda che aveva in mano. Chiaramente, la cocente sconfitta subita davanti al lago gli bruciava ancora tremendamente, ma per lo meno sembrava avere abbastanza buon senso da non tentare mosse azzardate.

Altri incontri furono decisamente più piacevoli: eravamo ad un paio di file dalla nostra piazzola quando un piccolo uragano biondo si fece largo tra le tende e mi saltò letteralmente in braccio, trascinandomi nel più caloroso degli abbracci e stampandomi un gioioso bacio sulla guancia. Mary Sutton, probabilmente la più cara amica che avessi a Hogwarts, mi accolse come se non mi avesse visto né sentito per un paio d’anni, anche se avevo risposto alla sua ultima lettera appena tre giorni prima. Poche frasi, e compresi che l’evidente cotta che la dolce ragazzina aveva dimostrato di avere per me, lungi dallo smorzarsi nei cinquanta giorni di separazione, era più viva che mai, e dal piccolo rivolgimento che avvertii all’altezza dello stomaco mi resi conto che una parte del mio corpo e della mia mente, difficile dire per il momento quanto importante, non sembrava esserne affatto dispiaciuta. Mary avrebbe voluto portare me e Seamus (anche se avevo la sensazione che avesse esteso l’invito al ragazzo irlandese più per educazione che per altro) alla sua tenda per farci conoscere i suoi genitori, ma visto che noi dovevamo ancora montare la nostra accettò di differire il tutto ad una cioccolata dopo cena.

Mentre raggiungevamo sua madre alla piazzola, Seamus mi prese in giro in maniera spietata sull’atteggiamento di Mary nei miei confronti: “E fu così che il nostro Joshua Carter diventò il primo del nostro anno a trovarsi la ragazza!” sghignazzò.

“Oh, sta zitto, Pel di Carota!” risposi con uno sbuffo imbarazzato.

“Che problema hai, Gringo? – chiese, sempre ridendo – Al posto tuo non mi porrei neanche il problema! Mary è fantastica, e dire che è carina mi sembra riduttivo! Vedi di darti una svegliata prima che se ne accorda anche qualcuno meno gentile e corretto di me!”.

Feci il gesto di allungare un calcio a Seamus, che lo scansò con una sghignazzata supplementare, prima che sua madre ci richiamasse all’ordine affinché l’aiutassimo a montare la tenda. Per mia fortuna, godevo, una volta tanto, di un doppio vantaggio: Matteo Simoncini aveva sempre amato il campeggio, aveva passato almeno cinque vacanze estive in tenda, e Grant Carter, a quanto emergeva dai miei ricordi, era un grande appassionato delle tecniche Babbane per la vita all’aria aperta, e negli anni precedenti al catastrofico divorzio aveva condotto diverse volte il figlio a bivaccare in alcune delle zone più selvagge degli Stati Uniti, inclusi il parco di Yellowstone, le Everglades e il deserto di Sonora, dove il piccolo Joshua aveva seriamente rischiato la sua giovane pelle a causa della puntura di uno scorpione. Questa combinazione di esperienze si rivelò provvidenziale, perché Seamus non aveva la minima idea di come rizzare una tenda o accendere un fuoco da campo, e sua madre sembrava soltanto leggermente più esperta di lui. Dando fondo ai miei ricordi, comunque, riuscimmo a tirare su una tenda a quattro posti, che si rivelò poi, all’interno, magicamente ingrandita al punto di diventare la replica di un piccolo appartamento con due camere e un bagno, e per l’ora di cena il fuoco produceva calore sufficiente per arrostire delle invitanti salsicce. Mentre Seamus continuava a prendermi in giro sulla questione Mary, con la madre che in parte lo redarguiva e in parte mi metteva in imbarazzo chiedendomi informazioni sulla ragazza in questione, dovetti ammettere che erano anni che non mi sentivo tanto in pace con me stesso. Benché tornare a vivere certi problemi, inclusi quelli di cuore, avesse i suoi piccoli svantaggi, nel complesso, forse anche grazie all’abitudine, avevo cambiato idea rispetto all’anno precedente: era bello essere di nuovo un adolescente!

 

Il giorno successivo fu senza dubbio uno dei più divertenti della mia vita, soprattutto da quando iniziarono ad arrivare molti altri ragazzi di Hogwarts: da Oliver Baston, l’ormai ex capitano della squadra di Quidditch di Grifondoro, a Ernie Macmillan, un ragazzo un po’ pomposo ma simpatico di Tassorosso. Dal giorno dopo, per di più, al nutrito gruppo dei nostri compagni di scuola si aggiunsero Harry, Hermione e Ron, che era giunto con tutta la sua famiglia, ad eccezione della madre: fu un vero piacere conoscere Bill e Charlie, i suoi fratelli maggiori che avevano già finito Hogwarts, e ancora di più rivedere Ginny, che mi era cara quasi quanto Mary. L’incontro con Hermione, invece, fu leggermente più carico d’imbarazzo, una conseguenza inevitabile del fatto che la geniale ragazza, subito prima della fine dell’anno scolastico, fosse andata estremamente vicina a scoprire il mio segreto. La ragazza si era rivelata abbastanza intelligente da comprendere le mie ragioni, ed aveva deciso di non indagare ulteriormente quando le avevo chiesto di accettare, per il momento, che non potessi spiegarle tutto, ma dalle continue occhiate che mi lanciava era fin troppo chiaro che aveva deciso di tenermi sotto stretta, per quanto garbata, sorveglianza.

La compagnia più costante, comunque, fu quella di Mary: senza essere invadente, la ragazzina sembrava ben decisa a passare quanto più tempo possibile insieme a me, che si trattasse di cucinare i marshmallow (che io avevo trovato allo spaccio del campeggio e che per lei e per gli altri giovani maghi si erano rivelati una scoperta entusiasmante) sul fuoco, di giocare a Spara Schiocco, a scacchi oppure con un mazzo di carte Babbane (la ragazzina si era dimostrata un talento naturale nel poker, al punto da spillare un totale di sedici Galeoni a me, Seamus e Baston) seduti sull’erba, oppure semplicemente passeggiare tra le tende, osservando le particolarità delle migliaia di maghi stranieri che erano giunti a Dartmoor. Benché sembrasse impegnarsi nel tentativo di comportarsi come un’amica, i suoi sentimenti dovevano essere fin troppo chiari, considerando che, a metà del pomeriggio del giorno della partita, Hermione approfittò della scusa di farsi accompagnare a prendere l’acqua alla fontanella per affrontare con me il discorso. Furono minuti quasi peggiori di quelli nei quali, due mesi prima, aveva demolito le difese costruite intorno alla mia vera identità.

“Senti, Joshua… - iniziò mentre ci avviavamo con i secchi, e nella mia mente già iniziò a suonare l’allarme – Devo chiederti una cosa”.

Vedendo il mio volto preoccupato, si affrettò a precisare: “Non intendo parlare… beh, di quello che sai! – si fermò e mi fissò negli occhi con serietà – In realtà vorrei sapere che cosa hai intenzione di fare con Mary”.

Era una domanda totalmente inaspettata: “Che cosa intendi, Hermione?” chiesi, improvvisamente imbarazzato.

La ragazza mi fissò con sguardo furbo: “Josh, sei veramente pessimo quando tenti di fare l’indifferente! Sai benissimo cosa voglio dire!”.

Eccome se lo sapevo, fin troppo bene in effetti, ma questo non mi aiutava per niente. Sospirai: “Mi crederesti se ti dicessi che non ne ho idea?”.

Era la pura e semplice verità: la dignitosa esperienza accumulata dal mio alter ego sembrava essersi completamente estinta nel passaggio a Joshua, e non avevo la minima idea di come comportarmi. Il ritorno all’adolescenza, per le questioni sentimentali, si prospettava perfino peggiore rispetto al primo giro di giostra, perché questa volta, oltre ai problemi tipici dell’età, dovevo sopportare anche il peso della situazione assurda nella quale mi trovavo. Era, per di più, una situazione che non potevo ignorare, visto che ormai avevo capito che Mary non mi era affatto indifferente: era molto carina, incredibilmente simpatica, dolcissima, divertente. Una ragazzina straordinaria, insomma, e se fossi stato un normale quattordicenne non avrei avuto il minimo dubbio sul modo di comportarmi. O meglio, avrei avuto i tipici dubbi di un ragazzo di quell’età che si approccia per la prima volta al sesso opposto, quindi sarei stato, probabilmente, ridotto ad un patetico rottame, ma sarebbe stato, appunto, il normale corso dell’eventi.

Quell’aggettivo, purtroppo, si poteva applicare a me soltanto con una ‘a’ posta davanti, perciò i problemi, con Mary, erano anche troppi. Prima di tutto, benché ormai da dieci mesi abitassi il corpo di un adolescente, non avevo ancora dimenticato la vita dalla quale provenivo, e una parte di me continuava a sentirsi decisamente troppo vecchia per dare corda alle pulsioni sentimentali di una tredicenne. Era come se nel mio cervello ci fosse, costantemente, un conflitto in atto tra il ragazzo e l’uomo, e nessuno dei due sembrava riuscire ad ottenere una vittoria definitiva. E poi, c’era Sabrina. Il fatto che le probabilità di poterla mai rivedere, almeno considerando ciò che sapevo, fossero letteralmente ridotte al lumicino, non voleva dire che avessi dimenticato. Non si scordano così facilmente tre anni di relazione, con i sogni ed i progetti ad essa correlati. Era assurdo, considerato ciò che stavo vivendo, ma ogni volta che Joshua pensava alla possibilità che potesse nascere qualcosa con Mary, Matteo sentiva di stare in qualche modo tradendo Sabrina. Altro che conflitto di coscienza, avevo voglia di prendere la rincorsa e dare una testata contro il più vicino muro!

Ovviamente, però, non potevo raccontare nulla di tutto questo a Hermione, la quale, però, sembrò intuirne almeno il senso: “A dire la verità, sì. Ti credo – mi fissò dritto negli occhi – Ti conosco abbastanza bene, ormai, Joshua Carter. Non sei bravo a nascondere quello che provi – la mia amica sorrise – Mary è una ragazza fantastica, ma non ho certo bisogno di dirtelo, ti si legge in faccia che lo sai benissimo. Eppure, c’è qualcosa che ti blocca. E’… è legato a ciò che non mi hai raccontato?”.

Avvertii un’ombra calarmi sul volto. Abbassai lo sguardo a terra ed annuii. Subito sentii una mano delicata stringermi la spalla, e quando risollevai la testa vidi Hermione davanti a me, con atteggiamento comprensivo: “Capisco. Prenditi il tempo che ti serve, Josh… solo… non farla soffrire, va bene? Perché quello che ti ho detto alla fine della scuola è ancora vero: Mary tiene moltissimo a te, anzi, sempre di più direi!”.

Toccò a me sorridere: “Non lo farò, Hermione. Hai ragione, anche io tengo molto a lei, e l’ultima cosa che voglio è rischiare di farle del male. Solo… devo capire cosa fare – le presi la mano e la strinsi tra le mie – Grazie, davvero. E’ bello sapere che c’è qualcuno che si preoccupa tanto per me e per gli altri. Sei davvero una persona fantastica, Hermione”.

Mentre la mia amica si voltava sorridendo per tornare a dirigersi verso la fontanella, vidi che il suo volto aveva assunto una sfumatura di colore molto simile ai capelli di Ginny.

 

Solo pochi mesi prima avevo pensato che la finale del campionato scolastico fosse stata un’esperienza entusiasmante, adrenalinica. Avevo pensato che niente potesse scatenare emozioni più forti. Evidentemente, non sapevo di cosa stessi parlando. Lo compresi mentre, da una delle tribune d’oro dell’enorme stadio realizzato per ospitare la finale della Coppa del Mondo di Quidditch, un cappello verde coperto di trifogli in testa e un paio di omniocoli in mano, assistevo, insieme ad altre centomila persone, alla grande sfida tra Irlanda e Bulgaria. Avevo ancora il sangue in subbuglio dopo lo spettacolo delle mascotte, in particolare delle Veela della Bulgaria: in fondo, rimanevo pur sempre un adolescente in piena tempesta ormonale, e vedere un paio di dozzine di donne bellissime (o almeno, avevano l’aspetto di donne bellissime) che ballavano in abiti di lustrini davanti ai miei occhi era più che abbastanza per mandarmi fuori giri. Fortunatamente, benché non faticassi affatto a trovarle bellissime e seducenti, per lo meno compresi che il loro particolare fascino non esercitava su di me un effetto devastante come sulla maggior parte degli altri maschi: per lo meno, non ero nello stato di Seamus, che mandava in fuori il petto quanto più possibile, nel tentativo di mostrarsi forte e possente, mentre il risultato era invece piuttosto ridicolo. La mia capacità di resistere al potere delle Veela mi fece guadagnare qualche punto con la madre del mio amico, che fissava il figlio con sguardo esasperato: “E’ bello vedere che ci sono maschi che non si riducono a larve di fronte ad un paio di gambe nude!”.

Poi la partita iniziò, e in pochi secondi dimenticai le Veela. Non era Quidditch, non come lo conoscevo io almeno: era qualcosa di superiore, perfino un dilettante come me lo capiva perfettamente. Avevo davanti dei veri campioni, ad un livello che non avrei mai immaginato. Il ritmo della partita era incalzante, l’ondata di adrenalina somigliava ad una inondazione: anche se, in teoria, non avevo nessuna ragione, tranne la gratitudine verso Seamus e sua madre, per sostenere una squadra in particolare, mi trovai a tifare per l’Irlanda con tutto il fiato che avevo in corpo, straordinariamente coinvolto dall’insieme della situazione.

Da Cacciatore, mi trovai a valutare le prestazioni del trio irlandese: Troy, Mullet e Moran non erano semplicemente abili, erano… di più. Sembravano una sola persona divisa in tre corpi, vista la facilità con la quale si trovavano. La Bulgaria era forte, ma non abbastanza, e si trovò presto in ampio svantaggio. La sola eccezione alla superiorità dell’Irlanda era Viktor Krum, il giovanissimo cercatore e chiaramente il miglior volatore trai quattordici in campo. Si stava, sostanzialmente, battendo da solo contro l’intera squadra avversaria: riuscì a mandare il cercatore irlandese a schiantarsi a terra, e poi, nonostante il naso rotto da un Bolide, si produsse in uno spettacolare tuffo verso il suolo, recuperando il boccino a pochi centimetri da terra e mandando l’irlandese Lynch ad abbracciare per la seconda volta il terreno. Sorpreso per la repentina conclusione del match, voltai la testa verso il tabellone: nonostante la presa del boccino, la Bulgaria aveva comunque perso di dieci punti.

“Perché ha fatto una simile stupidaggine? – chiesi a Seamus, che stava saltando come un pazzo – Stavano perdendo di centosessanta punti, in questo modo li ha condannati alla sconfitta!”.

“Beh, meglio per noi, no?” sghignazzò il mio amico, rischiando di volare giù dalla tribuna per l’emozione.

“Non sarebbero mai riusciti a recuperare – disse con un sorriso la madre del mio amico – L’Irlanda ha dimostrato di essere molto più forte. Ha solo voluto chiudere la partita con un colpo di classe, dimostrando di essere il più abile”.

Probabilmente aveva ragione, ma perfino lo stesso Krum non sembrava soddisfatto di quanto aveva fatto, a giudicare dall’espressione torva che era dipinta sul suo viso.

Fendendo a fatica la folla, riuscimmo ad attraversare il bosco che separava lo stadio dal campeggio, ma ovviamente nessuno aveva voglia di dormire, eravamo tutti troppo eccitati da quanto avevamo visto. Mentre gli adulti si riunivano presso la tenda dei Weasley, io e gli altri ragazzi ci ammassammo di fronte a quella di Seamus: seduti in cerchio intorno al fuoco, sul quale cuocevamo delle fette di pane sulle quali spalmare l’ottima marmellata casereccia della madre di Baston, non facevamo che parlare della partita, ripercorrendola azione per azione, quasi secondo per secondo. Mary, prevedibilmente, si era seduta accanto a me, e dopo pochi minuti, mostrando una stanchezza forse non completamente reale, mi appoggiò la testa sul petto, stringendomi con il braccio sinistro. Un po’ sorpreso, impiegai qualche secondo per reagire, poi però le passai il braccio destro sulle spalle, anche se le mie giunture sembravano reagire con qualche difficoltà. La sentii irrigidirsi, ma con la coda dell’occhio la vidi sorridere. I ragazzi erano troppo impegnati a ripercorrere il match per rendersi conto della situazione, ma Hermione e Ginny, sedute di fronte a me dall’altra parte del fuoco, ridacchiavano senza ritegno, invitandomi chiaramente con lo sguardo a fare qualcosa. Le avrei volentieri strangolate.

Da parte mia, più passavano i minuti più la mia mente sprofondava nel caos; se una parte continuava a rammentarmi quanto fosse sbagliato stare abbracciato ad una ragazzina di tredici anni e quanto sarebbe stato un gesto vergognoso se avessi deciso di spingermi oltre, un’altra aveva pensieri diametralmente opposti, che potevano essere riassunti con una semplicissima frase: ‘Baciala, imbecille!’. Sembrava essere anche il muto suggerimento delle due iene ridens travestite da studentesse che avevo davanti. Già, fosse stato facile! Anche ammesso che fossi riuscito a superare le mie remore morali, eravamo comunque in mezzo ad un mucchio di ragazzi. Non avrei mai avuto il coraggio di compiere un gesto simile in pubblico! Per Mary si sarebbe con ogni probabilità trattato del primo bacio, e lo stesso valeva, tecnicamente, per Joshua! Non potevo veramente farlo, entrambi probabilmente saremmo sprofondati sotto terra per l’imbarazzo. Eppure non potevo nascondermi di essere molto, forse troppo tentato. Distrattamente, quasi senza accorgermene, iniziai a giocare con i capelli di Mary, e la sentii rilassarsi. Nel mio cervello sembrava essersi scatenata una guerra civile: Matteo Simoncini urlava che stavamo facendo qualcosa di tremendamente sbagliato, mentre Joshua Carter, pur vergognandosi come un ladro, sottolineava che non poteva esserci nulla di più giusto. L’inevitabile conseguenza, ovviamente, fu che rimasi completamente bloccato, incapace sia di staccarmi da Mary, sia di fare qualcosa di più che passare le dita nei suoi capelli, finché, poco prima di mezzanotte, la madre di Seamus tornò alla tenda dichiarando che era ora di andare a dormire, visto che la mattina dopo avremmo dovuto svegliarci presto per smontare il campo e tornare a casa.

Mi sciolsi a malincuore dall’abbraccio e aiutai Mary ad alzarsi. A giudicare dagli occhi con i quali mi fissò mentre mi augurava la buonanotte, sembrava sperare in un gesto coraggioso da parte mia. Per un istante ebbi veramente la tentazione di baciarla, mandando al diavolo le mie riserve e senza neanche considerare che i suoi genitori potevano essere a pochi metri da noi. Quasi senza rendermene conto, le presi il viso tra le mani. Mary arrossì violentemente, e fu sufficiente per farmi uscire dalla sorta di trance che sembrava avermi colto. Cambiai bersaglio a metà del gesto, e le stampai un casto bacio sulla fronte. Dal suo sguardo, sembrò essere sia delusa che sollevata dalla mia decisione, ma riuscì comunque a sorridere e a salutarmi con un ultimo abbraccio prima di dirigersi verso la sua tenda. Prendendomi mentalmente a calci per la mia irresolutezza, entrai in quella di Seamus.

Il ragazzo, per quanto distratto dall’argomento Quidditch, sembrava aver notato più di quanto pensassi, visto che continuò a prendermi in giro finché non fummo pronti ad entrare nel letto a castello. Gli risposi solo distrattamente, e non soltanto perché avevo la mente impegnata con quanto era successo quella sera e con i miei dubbi sul giusto comportamento da tenere: la verità era che, da quando non ero più distratto dalla presenza di Mary, una sorta di strano ronzio sembrava avermi invaso la testa, troppo basso per essere realmente fastidioso, troppo costante per essere ignorato. Erano due mesi che il mio ‘Senso di Ragno’ mi lasciava in pace, ma non era passato abbastanza tempo perché non lo riconoscessi: era un avviso perfino più generico del solito, ma sentivo chiaramente che qualcosa non tornava, che stava per accadere qualcosa di inaspettato. Non avrei saputo in alcun modo dire cosa, ma avvertivo che non sarebbe stato niente di positivo. Quasi senza rendermene conto, mi fermai a metà del gesto di infilare la bacchetta magica nello zaino, la fissai per qualche secondo, poi la misi sotto il cuscino.

“Cos’è, hai paura di essere attaccato nel sonno?” sghignazzò Seamus, che era già salito sulla cuccetta superiore.

“Non si sa mai – risposi con un sorriso convincente mentre spegnevo la lampada ad olio posata su un mobiletto vicino al letto – I bulgari potrebbero decidere di volere la rivincita!”.

“Ha! Devono solo provarci – rispose il mio amico ridendo – Tra l’euforia per la vittoria e la quantità di alcool che hanno ingurgitato i tifosi irlandesi, rischierebbero di tornare a casa dentro un ditale!”.

Ridacchiai a mia volta e mi infilai sotto le coperte, tenendo però addosso i jeans per sicurezza: “Beh, speriamo che siano abbastanza furbi da evitare! Buonanotte, Seamus”.

“Buonanotte, Josh”.

 

Nonostante fossi molto stanco, le emozioni della giornata e il vago allarme che continuava a rimbalzare nella mia testa mi permisero soltanto un sonno leggero, perciò impiegai meno di un secondo a svegliarmi quando iniziarono le urla e le esplosioni. Seamus era ancora semi-addormentato, e si stava chiedendo con voce assonnata cosa stesse succedendo, ma io ero già saltato in piedi con la bacchetta in mano quando sua madre piombò nella nostra stanza con sguardo preoccupato: “Veloci, ragazzi! Vestitevi e venite fuori! Ci sono guai!”.

Nel tempo che Seamus impiegò a scendere dalla sua cuccetta, io mi ero già infilato le scarpe da ginnastica e mi ero buttato addosso un giubbotto, quindi fui il primo a raggiungere la signora Finnegan all’esterno. Quello che trovai fece saltare un paio di battiti al mio cuore: alla luce dei pochi fuochi ancora accesi, vidi un gruppo di maghi incappucciati e, apparentemente, con i volti coperti da inquietanti maschere bianche, che avanzava attraverso l’accampamento, facendo saltare in aria le tende davanti a se. Diverse erano già in fiamme. Sopra di loro, tenuti in aria dalle bacchette di diversi membri del gruppo, il proprietario del campeggio e la sua famiglia rotolavano come marionette.

“Mangiamorte” sussurrò con un filo di voce la signora Finnegan, e io, benché non riuscissi a ricordare il significato di quella parola, avvertii una scossa di paura scendermi lungo la schiena.

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Capitolo 4
*** Scontro nel buio ***


SCONTRO NEL BUIO

Nel giro di pochi secondi il caos si impadronì dell’intero campeggio: la maggior parte delle persone presero a fuggire verso il bosco, terrorizzate di potersi trovare in mezzo agli scontri che si stavano accendendo tra il gruppo di maghi vestiti di nero ed i funzionari del Ministero, che insieme ad alcuni volontari stavano accorrendo per salvare i Babbani presi in ostaggio. Ovunque si vedevano tende rovesciate o in fiamme. Un nuovo brivido mi scosse quando, nella calca, vidi alcune teste rosse dirigersi, bacchette alla mano, verso quelli che la madre di Seamus, nel frattempo rientrata per recuperare il figlio, aveva chiamato ‘Mangiamorte’: Bill, Charlie e Percy, i fratelli maggiori di Ron, si stavano gettando nella mischia insieme al padre. Mi chiesi dove fossero i miei amici, se avessero già raggiunto la relativa sicurezza del bosco. Voltai di nuovo la testa verso il gruppo di incappucciati: benché, pur scavando nelle memorie sia di Matteo che di Joshua, non riuscissi in alcun modo a ricordare a cosa rimandasse quel nome, un campanello di allarme aveva nuovamente iniziato a squillare nella mia testa. Era come se si fosse accesa una luce rossa lampeggiante: il mio ‘Senso di Ragno’ mi stava lanciando segnali di pericolo come mai aveva fatto in nove mesi passati in quel mondo. Non che ne avessi realmente bisogno: guardando gli uomini simili a mostri che avevo di fronte, era fin troppo chiaro quanto rappresentassero una minaccia. Mentre alcuni continuavano a far girare nell’aria il disgraziato proprietario del campeggio ed i suoi familiari, altri si erano staccati per continuare a devastare il campo, mentre un gruppo compatto si era schierato di fronte ai funzionari del Ministero, pronti allo scontro. Mentre i primi incantesimi iniziavano a volare, la signora Finnegan uscì di corsa dalla tenda, trascinandosi ancora un mezzo addormentato Seamus, che si era infilato una giacca al contrario direttamente sul pigiama. La donna mi abbrancò una spalla: “Voi due correte nel bosco, mettetevi al riparo! Verrò a cercarvi quando tornerà la calma! Andate!” e si diresse verso il caos.

Io e Seamus ci mettemmo a correre in direzione del bosco, ma la calca era tale da rendere estremamente difficile riuscire a rimanere vicini. Finimmo quasi subito separati da un gruppo di maghi e streghe che imprecavano in una strana lingua che immaginai essere bulgaro. Passato il gruppo, riuscii ad afferrare per un istante la giacca di Seamus, prima che una spallata mi mandasse a terra. Lo sentii chiamare il mio nome una volta, poi incassai un calcio in faccia, e fui troppo impegnato a vedere le stelle per occuparmi del resto. Quando riuscii a riportarmi in piedi, il mio amico era scomparso. Rimasi per qualche secondo fermo, intontito, con una mano stretta alla mascella malandata: il colpo doveva avermi per lo meno allentato un paio di denti, ma fortunatamente nel mondo dei Maghi era un danno da poco. Ero quasi pronto a riprendere la corsa quando udii un’esplosione a breve distanza da me. Mi voltai, e vidi che una buona parte della seconda fila alle spalle di quella dove si trovava la nostra tenda sparire di colpo in uno sbuffo di fiamme e polvere.

Una coltre di gelo mi calò sul cuore: ‘Mary!’. Improvvisamente dimentico dei pericoli, mi trovai, senza neanche rendermi conto di come fosse accaduto, a correre controcorrente, tornando verso il centro del campeggio. Se avessi potuto vedermi dall’esterno, avrei probabilmente giudicato una simile azione stupida, se non degna della temporanea infermità mentale: se fossi stato ancora in grado di pensare, mi sarei reso conto che, a giudicare dalla bolgia che c’era in giro, era virtualmente impossibile che Mary e la sua famiglia fossero rimasti alla tenda, che era il posto meno probabile dove trovarli in un momento simile, e che quindi le possibilità che la mia potenziale ragazza fosse realmente in pericolo, o almeno, più in pericolo di tutte le altre persone presenti nel campeggio, erano minime. Avevo chiaramente smesso di ragionare, e ignorai completamente perfino i sempre più disperati avvisi del ‘Senso di Ragno’, che sembrava impegnarsi al massimo nel tentativo di ricordarmi che il livello di idiozia del mio gesto era elevatissimo: sgusciando disperatamente in mezzo alla folla in fuga come un salmone nella corrente di una cascata, e incassando anche una buona dose di gomitate, riuscii a raggiungere la fila di tende dove si trovava quella di Mary.

La devastazione che trovai davanti ai miei occhi mi fece dimenticare tutto il resto: parecchie delle tende erano completamente bruciate fino all’intelaiatura, altre (quelle di origine Babbana con i montanti in alluminio anziché in legno) erano ridotte a scheletri contorti. Molte dovevano essere state magicamente modificate come quella di Seamus, perché le fiamme sembravano aver rotto gli incantesimi, obbligandole a rovesciare un contenuto divenuto ormai eccessivo per lo spazio rimasto: il terreno era ingombro di mobili, bauli, zaini e borse. La mia lucidità calò ulteriormente di fronte a quello spettacolo da campo di battaglia: senza neanche accorgermi che quasi tutta la gente era ormai passata oltre ed ero rimasto praticamente solo, iniziai ad aggirarmi trai rottami urlando il nome di Mary e spostando pezzi di tela cerata per essere certo che sotto non vi fossero persone ferite.

Era incredibile quanti danni avesse subito quella parte di campeggio nel giro di pochissimi minuti: ovunque c’erano piccoli principi d’incendio e oggetti a vari gradi di distruzione. A parte la tremolante luce proveniente dalle fiamme, l’oscurità era quasi totale. Per aiutarmi nella ricerca, sfilai la bacchetta dalla tasca dei jeans e la puntai in alto: “Lumos!”.

Il fascio di luce andò ad illuminare le tende semidemolite, ed io ripresi la ricerca. Sembrava che non ci fosse nessuno, ed il pensiero di aver fatto una cosa, per quanto coraggiosa, piuttosto stupida iniziava a farsi strada nella mia testa, benché continuassi a chiamare Mary, quando una voce dal sentore metallico, giunse dalle mie spalle: “Bene bene, cosa abbiamo qui? Perché questo leprotto non si è dato alla fuga con gli altri conigli?”.

Assurdamente, il suono che apparentemente sembrava provenire da dietro una maschera mi fece balenare in testa l’immagine di Darth Vader, al punto che, quando mi voltai di scatto, pensai che entro pochi istanti avrei udito la Marcia Imperiale ed avrei visto una lama di mortifera luce rossa balenare nel buio. Quello che mi trovai di fronte era poco meno spaventoso del Signore dei Sith: una figura umana, avvolta in un mantello con cappuccio, il volto coperto da una maschera bianca, si stagliava contro le fiamme. L’uomo in nero lasciò cadere la scopa che sembrava aver appena rubato da una tenda vicina ed estrasse la bacchetta. Ebbi la sensazione di udire una risata gorgogliante provenire dalla sua direzione. Gettando un occhio alle sue spalle, vidi che gli scontri erano concentrati a parecchia distanza da noi, e una paura ancora più glaciale mi colpì: ero solo, contro un tipo che sembrava tutt’altro che ben intenzionato nei miei confronti. Il terrore paralizzante, però, durò solo un istante: subito dopo sentii una nuova decisione montare dentro di me. Riconobbi la stessa sensazione che avevo provato al momento del confronto con Nott sulla riva del lago, e questa volta accolsi il duro istinto da combattente che ormai sapevo essermi stato donato dalla stessa Forza che mi aveva portato in quel mondo come una benedizione: a giudicare dall’atteggiamento dell’uomo che avevo davanti, era con ogni probabilità la sola cosa che mi separava da un morte orribile. Mi misi di profilo, con l’idea di offrire un bersaglio più ridotto, e sollevai la bacchetta di fronte a me, mostrando di essere più pronto al combattimento di quanto realmente mi sentissi.

La risata dell’uomo in nero divenne inconfondibile: “Abbiamo un giovane eroe! – sghignazzò – Bene! Pensavo che tutto sommato sarebbe stata una serata noiosa, invece credo che ci sarà da divertirsi! Vediamo cosa sai fare, ragazzino!”.

A stento aveva finito di pronunciare l’ultima parola quando io lanciai il mio attacco: avevo già compreso che in quel confronto non ci sarebbe stato posto per l’onore, e a dispetto della spavalderia che avevo mostrato, immaginavo di aver bisogno di ogni vantaggio possibile. Puntai la bacchetta in un lampo e urlai: “Petrificus Totalus!”.

Un secondo fu tutto il tempo che mi occorse per capire di essere nei guai fino al collo: l’uomo in nero deviò il mio incantesimo con un gesto quasi pigro della bacchetta, poi rispose fulmineo scagliando contro di me un fiotto di luce arancione senza neanche pronunciare l’incantesimo.

Fu più per fortuna che per abilità se evitai il colpo: senza il tempo necessario anche soltanto per provare a creare uno scudo, mi tuffai di lato. Un’esplosione illuminò a giorno l’oscurità, e io avvertii una vampata di calore contro la schiena, mentre la tenda più vicina a me si sbriciolava e qualcosa di simile ad una mano gigantesca sembrò colpirmi e scagliarmi ad un paio di metri di distanza. Dolorante, mi alzai in piedi, appena in tempo per vedere l’uomo prendermi nuovamente di mira. Ancora una volta mi gettai fuori dalla sua linea di tiro: la successiva fattura, chiaramente un qualche tipo di Incantesimo Tagliente sovrapotenziato, scavò nel terreno un solco simile ad una trincea. Se non mi fossi tolto di mezzo mi avrebbe letteralmente tagliato in due! Tentando disperatamente di recuperare l’iniziativa, alzai la bacchetta mentre ero ancora in ginocchio e strillai, una punta di panico nella voce: “Percutio!”. In quel momento, qualsiasi dubbio avessi avuto di fronte alla possibilità di uccidere Minus era stato annichilito dalla consapevolezza di starmi giocando la vita, ma non servì a nulla: ancora una volta il mio avversario, apparentemente senza sforzo, deviò il mio incantesimo, poi, anziché rispondere, portò la bacchetta di fronte a se e mi rivolse un chiaro gesto d’invito con la mano libera.

Sentii la rabbia montare dentro di me come un’onda di piena: come si permetteva quel bastardo di prendermi in giro? Furioso, rilasciai la mia migliore offensiva: “Lacero! Impactus! Tonare!”.

Con quella velocissima combinazione speravo di spiazzarlo, di riuscire a mettere a segno almeno un colpo su tre. Mi sbagliavo di grosso. Quello che accadde rese fin troppo evidente l’abissale differenza che correva tra me e il mio avversario: deviò l’Incantesimo Lacerante, poi eresse uno scudo traslucido che sopportò l’Incantesimo d’Impatto come una scogliera resiste alle onde dell’oceano e contro il quale andò a schiantarsi anche la Maledizione Esplosiva. La mia bocca cedette di diversi centimetri: avevo riversato tutto il mio potere in quell’assalto, e non ero riuscito a causare al mio nemico un singolo graffio! L’istante di distrazione che seguì mi fu quasi fatale: l’uomo mascherato puntò di nuovo la sua bacchetta contro di me e urlò: “Telum Glacies!”.

Non avevo mai sentito quell’incantesimo, ma vidi un oggetto solido di un colore indefinibile piombare verso di me. Disperatamente, gridai: “Protego!”. L’Incantesimo Scudo con ogni probabilità mi salvò la vita: non fu sufficiente a bloccare del tutto la lancia di ghiaccio che rischiava di impalarmi, ma bastò per frantumarla e per consentire soltanto ad una grossa scheggia di oltrepassarlo. Avvertii ugualmente un improvviso, bruciante dolore, e la violenza del colpo bastò per mandarmi a terra. Portai una mano al fianco sinistro, e sentii qualcosa di umido sotto le dita. Quando la ritrassi, anche nella luce incerta che gravava sul campeggio vidi che era macchiata di sangue.

Ero troppo sotto shock per essere in grado di difendermi quando l’uomo in nero, che si era avvicinato di qualche passo, urlò un altro incantesimo a me sconosciuto: “Crucio!”.

Un’ondata di dolore indescrivibile, che fece somigliare la ferita al fianco alla puntura di un insetto, invase tutto il mio corpo: era come se mille coltelli infuocati mi stessero lacerando. Sentivo le mie ossa sul punto di esplodere, e ogni millimetro del mio corpo era in fiamme, Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, quasi scorticandomi la gola: era insopportabile, intollerabile. Non avevo mai neanche immaginato che potesse esistere una simile sofferenza nel mondo. In quel momento avrei volentieri accettato la morte, se avesse significato la fine di quell’orribile tormento. Sotto le mie grida, sentivo l’uomo ridere sadicamente, e sentii di essere finito. Non riuscivo neanche a pensare.

Tra gli spasmi udii uno scoppio, e improvvisamente il dolore si attenuò. Nonostante avessi gli occhi velati di lacrime, riuscii a vedere che il mio avversario si era voltato, distratto da un’esplosione più vicina delle altre, ed aveva rilasciato l’incantesimo. Senza riflettere, nonostante sentissi scricchiolare le giunture anchilosate per le convulsioni che mi avevano attraversato fino a pochi istanti prima, sollevai il braccio e urlai: “Depulso!”.

Questa volta lo colsi di sorpresa: l’Incantesimo di Esilio, benché piuttosto debole viste le mie condizioni, centrò l’uomo al diaframma, spedendolo indietro di diversi metri, finché i suoi piedi centrarono un oggetto abbandonato sul terreno facendolo capitombolare. In teoria, avrei potuto approfittare del vantaggio. In pratica, fui soltanto grato di avere qualche secondo per riprendere fiato e trascinarmi faticosamente in piedi. Mentre la figura si rialzava, mi resi conto che le mie alternative si stavano rapidamente avvicinando allo zero: sentivo il sangue scorrere dalla ferita al fianco, tremavo come una foglia per le conseguenze dell’orrendo dolore provato, faticavo addirittura a stare in piedi, ed ero stremato come se avessi corso una intera maratona. Qualsiasi sensazione di superiorità mi avesse provocato il duello facilmente vinto contro Nott si era dissolta di fronte alla consapevolezza di essere soltanto un ragazzino: a scuola potevo risultare forte, lì, su un vero campo di battaglia, ero un nano di fronte ad un gigante. Ero riuscito a colpire una volta soltanto perché avevo colto il mio avversario in un momento di distrazione, ma l’occasione non si sarebbe ripresentata: io ero letteralmente a pezzi, lui era illeso. Avevo ormai compreso di avere di fronte un nemico abissalmente più forte di me, nonché un uomo abituato ad uccidere: stava soltanto giocando, e quando avesse finito di divertirsi, mi avrebbe schiacciato come un insetto. Davanti a me c’era la morte, e sentii la paura invadermi: mi voltai disperatamente in giro in cerca di aiuto, ma mi resi conto di essere tragicamente solo. Ero spacciato.

“Non arrenderti, Joshua!”.

Le parole esplosero nella mia mente come un fuoco d’artificio, e avvertii una improvvisa ondata di speranza avvolgermi, mentre la voce della donna che avevo sognato solo due notti prima cercava di incoraggiarmi: “Tu sei più forte di quanto credi! Pensa, Joshua! Tu puoi farcela! Il potere grezzo non è tutto! Rifletti!”.

Riflettere? E chi ne aveva la forza, o il tempo! L’uomo si era ormai rialzato, e stava tornando ad avanzare verso di me, con ogni probabilità deciso a porre fine al gioco. Disperato, sollevai la bacchetta, senza però avere alcuna idea di cosa fare. I miei occhi saettarono in giro, in cerca di un’illuminazione, e fu in quel momento che notai l’oggetto, di forma vagamente cilindrica, sul quale l’uomo era inciampato: anche nella quasi oscurità, riconobbi un fornelletto da campeggio a propano.

Un’idea si fece strada dentro di me, e in meno di un secondo si trasformò in qualcosa di simile ad un piano d’azione: se il serbatoio del fornelletto fosse stato pieno…se l’uomo avesse reagito come speravo…

Era l’estremo tentativo di un disperato, lo sapevo perfettamente, ma l’alternativa era rimanere fermo ad attendere la morte, quindi la scelta era fin troppo facile. In un lampo, abbassai la bacchetta e la puntai verso terra. Vidi la testa dell’uomo seguirne la traiettoria. Probabilmente notò l’oggetto e intuì, almeno in parte, cosa volevo fare, perché si bloccò di colpo e iniziò ad erigere un frettoloso scudo. Dando fondo alle mie energie, urlai: “Confringo!”.

Il fornelletto esplose in una fiammata gialla. Lo scudo del mio avversario resse, ma fu comunque costretto ad indietreggiare sotto la spinta della violenta onda d’urto, mentre la sua vista veniva oscurata da una nuvola di polvere e terra. Era esattamente ciò su cui contavo!

Vertixcis!” proseguii, senza dargli il tempo di realizzare cosa avessi intenzione di fare. L’improvvisa folata di vento gli lanciò la polvere direttamente negli occhi, e lo sentii tossire mentre alzava alla cieca un secondo scudo. Peccato che io non avessi intenzione di metterlo alla prova: puntai la bacchetta verso una vicina tenda abbattuta gridando “Vingardium Leviosa!”. La tela cerata si sollevò, e con uno scatto del polso, che mi provocò un’ondata di dolore a stento sopportabile, la diressi contro il mio avversario, facendogliela cadere sopra. Mentre lo vedevo annaspare, presi un’ultima volta la mira. Non c’era pietà in me in quel momento: non si trattava di un semplice duello tra ragazzi, era questione di vita o di morte, e da parte mia non avevo dubbi su chi dovesse vivere e chi dovesse morire. Se fossi sopravvissuto a quella notte, ci sarebbe stato tempo per i sensi di colpa. Forse.

Incendio!”.

La mia bacchetta sembrò tramutarsi in un lanciafiamme babbano: lingue di fuoco rosso fuoriuscirono dalla punta ed andarono a schiantarsi contro la tela cerata, che in pochi secondi divenne un unico rogo. Neanche un secondo, e un urlo che niente aveva di umano si levò da sotto la cortina di fiamme e scintille. Tirai un sospiro di sollievo: non ero affatto sicuro che la cerata fosse infiammabile, ma quella folle idea era stata tutto ciò che ero riuscito a trovare, avevo dovuto provarci. E ci ero riuscito.

Mentre l’uomo si contorceva sotto la tela con le fiamme che iniziavano a morderlo, io mi appoggiai ad un vicino palo rimasto miracolosamente in piedi. Dentro di me, oltre alla stanchezza, sentivo una strana esaltazione: avevo affrontato un mago adulto, un Mago Oscuro, ed avevo vinto! Certo, era stata più la furbizia che la forza a concedermi il successo, ma che importava? La sola cosa che non sentivo, in effetti, era il rimorso: in pratica, stavo togliendo una vita, ma considerando che l’essere che avevo davanti non si era posto il minimo problema nel tentare di uccidere un ragazzino, non vedevo nulla di sbagliato in ciò che stavo facendo.

Fu un istante: l’urlo dell’uomo si interruppe, e subito dopo la tela incendiata esplose. Un’onda di potere emanò a raggiera intorno al punto dove si era trovata. Senza sapere neanche come fosse accaduto, mi ritrovai scaraventato a terra. Il colpo riportò in superficie tutti i dolori che lo strano incantesimo di poco prima mi aveva lasciato: boccheggiando nel tentativo di respirare, mi trascinai a sedere, poi riuscii a mettermi sulle ginocchia. Alzarmi in piedi mi sembrava un’impresa che andava oltre le energie che mi restavano. Non riuscivo a capire cosa fosse successo, ma quando riuscii a sollevare la testa e a guardare davanti a me, tutto mi fu orrendamente chiaro: il mio avversario era in piedi, il lungo mantello fumante in più punti, ma sembrava praticamente incolume. Non potevo vedere il suo volto sotto il cappuccio e la maschera, ma dal modo nel quale si muoveva intuii che non vi fosse più un sorriso di scherno dipinto sopra. Aveva smesso di scherzare. Questa volta sentii la paura invadermi come un veleno: ero sfinito, completamente privo di forze. Sentivo il dolore emanarsi da ogni osso, da ogni muscolo, da ogni nervo del mio corpo. Dubitavo che sarei stato in grado anche solo di sollevare un braccio, figurarsi di scagliare un incantesimo. Ero spacciato.

L’uomo avanzò di un paio di passi, spegnendo con una mano guantata un piccolo principio di combustione sul braccio destro, poi si volse di nuovo nella mia direzione: “Bravo, ragazzino. Niente male – disse con la sua voce metallica, per la prima volta venata non di ironia, ma di rabbia – Sei perfino riuscito a farmi sentire un po’ di dolore. Congratulazioni. Adesso però te lo farò scontare cento volte”. E sollevò la bacchetta.

Faticando come se avessi dovuto sollevare una tonnellata di ferro sulla schiena, mi costrinsi ad alzarmi in piedi. Nonostante il terrore che mi attanagliava, avevo una piccola certezza: non volevo morire in ginocchio. Alle spalle dell’uomo, a stento distinguibile nella luce altalenante degli scoppi di magia, vidi una figura correre verso di noi, ma era cristallino che non sarebbe arrivata in tempo. Mentre attendevo il colpo fatale, incapace di fare qualsiasi cosa per respingerlo, la mente improvvisamente vuota, mi chiesi distrattamente dove sarei finito. Ci sarebbe stato un altro luogo ad attendermi? O stavolta avrei trovato solo il nulla? Una luce verde iniziò a formarsi sulla punta della bacchetta dell’uomo in nero…

Un istante dopo, il verde sembrò esplodere ovunque, come se qualcuno avesse acceso una gigantesca lampada. Non proveniva, però, dalla bacchetta del mio avversario: sembrava emanare direttamente dal cielo. L’uomo alzò la testa di scatto, ed io, dimentico della situazione, lo imitai. Rimasi letteralmente a bocca aperta: un gigantesco teschio color smeraldo, con un serpente che gli usciva dalla bocca come una lingua grottesca, si stagliava vivido contro il cielo nero. Ovunque sembrarono esplodere grida. L’uomo mascherato, come se avesse di colpo dimenticato il nostro combattimento, abbassò la bacchetta e scomparve con un guizzo del mantello. Si era Smaterializzato.

Lottando per restare in piedi, sorpreso di essere ancora vivo, tornai a guardare la misteriosa forma che campeggiava sopra gli alberi: non avevo mai visto nulla di simile, eppure mi trasmetteva una sensazione orribile, perfino peggiore di quella che avevo provato solo pochi secondi prima, quando ero stato convinto che la mia vita fosse sul punto di terminare. Era forse banale da dire, visto il soggetto rappresentato, ma quel teschio odorava di morte. Ero talmente distratto dall’apparizione da non rendermi conto dell’uomo che mi aveva raggiunto finché non udii la sua voce: “Ti serve una mano? Mi sembri un po’… ehi, ma tu sei Joshua! L’amico di Ron! Che ci fai qui?”.

Abbassai lo sguardo, e mi trovai davanti un giovane uomo con lunghi capelli raccolti in una coda e uno strano orecchino a forma di zanna. Lo riconobbi immediatamente: “Bill! Bill Weasley! Accidenti, se sono felice di vederti!”. Il solo pronunciare quelle poche parole mi fece sentire un gran dolore al fianco, e barcollai.

Bill accese la sua bacchetta: “Ti ho visto scontrarti con quel tipo, stavo venendo ad aiutarti quando si è smaterializzato. Sono scappati tutti appena hanno visto il Marchio Nero”.

“Il cosa?”.

Con la mano libera Bill indicò il cielo, dove il teschio non accennava a scomparire: “E’ il suo simbolo. Il simbolo di Colui che Non Deve Essere Nominato. Quelli che abbiamo visto stasera erano i suoi Mangiamorte, i suoi seguaci più stretti, o almeno, quelli che non sono morti o non sono finiti in galera. Ma come ti ho detto, sono fuggiti tutti appena è stato sparato in cielo”.

Barcollai, sia per il dolore, sia per l’impatto delle informazioni: il marchio di Voldemort… i seguaci di Voldemort… non ero un esperto in segni del fato, ma impiegai ben poco a collegare tutto questo a servo di Voldemort fuggito solo poche settimane prima. Avvertii un tremito: era così che doveva iniziare?

Vedendomi poco stabile, Bill si avvicinò con apprensione: “Stai bene? Mi sembri un po’ malmesso – la luce mi investì, e il giovane trasalì – E’ sangue quello?” mi chiese, indicando il mio fianco. Per la prima volta abbassai gli occhi, e rischiai di svenire: a metà addome c’era uno squarcio nella giacca, ed una macchia rossa si estendeva da lì fino al ginocchio.

“Aspetta, fammi vedere” mi disse, e si avvicinò. Inginocchiatosi al mio fianco, iniziò ad armeggiare con la mia giacca per mettere a nudo la ferita: “Cosa ci facevi qui? Ron e gli altri sono scappati verso il bosco appena è iniziato il caos, come mai tu sei rimasto dentro l’accampamento.

Per aiutare le azioni di Bill tirai giù la lampo, e sentii una notevole dose di dolore quando lui scostò il lembo della giacca, staccandolo dalla ferita: “Stavo scappando anche io insieme a Seamus, ma siamo stati separati – risposi a denti stretti – Poi ho visto queste tende abbattute… c’era una mia amica qui… ho voluto – ahi! – controllare che non fosse nei guai e…”.

“E ci sei finito tu” concluse Bill, che aveva afferrato l’estremità della maglietta e sembrava starsi chiedendo se era il caso di sollevare anche quella. Prima però alzò gli occhi sorridendo: “Dev’esserti molto cara questa amica per rischiare la vita per lei” e mi strizzò l’occhio. Nonostante la notevole dose di sofferenza che avevo addosso, non potetti fare a meno di ricambiare con un sorriso imbarazzato, poi mi incupii: “Ho rischiato davvero. Quel tipo… quel Mangiamorte… mi ha battuto come un tappeto, quando il simbolo è apparso in cielo stava probabilmente per uccidermi. Perché sono scappati, per inciso? Non è il simbolo del loro padrone?”.

Bill alzò lo sguardo al cielo, sull’orrendo teschio verde, poi mi fissò, improvvisamente serio: “Nessuno ha visto quel simbolo per tredici anni. Rivederlo è stato, in un certo senso, come rivedere Colui che Non Deve Essere Nominato, sia per noi che per i suoi vecchi seguaci. E loro devono essere stati perfino meno contento degli altri”. Vedendomi dubbioso, spiegò: “Mettiti un attimo nei loro panni: se sono fuori di galera significa che hanno rinnegato pubblicamente il loro Signore. I Mangiamorte che non sono stati arrestati hanno dichiarato di averlo seguito perché stregati, ingannati o ricattati. Dubito che Lui sarebbe molto felice di saperlo. Credo che se dovesse tornare loro sarebbero quelli più spaventati di tutti”.

Il giovane dai capelli rossi tornò ad osservare la mia ferita. Con la mano destra alzò la bacchetta, e con la sinistra sollevò la maglietta: “Comunque, non devi abbatterti per com’è andato il duello, anzi: non sono molti i quattordicenni che potrebbero scontrarsi con un Mangiamorte per poi raccontarlo, quindi…” si interruppe, rimase per qualche istante in silenzio con lo sguardo fisso sul mio fianco, poi lasciò partire un fischio di sorpresa.

Mi sentii gelare: “E’ così brutta?” chiesi con voce tremante.

Bill sembrò soppesare per qualche istante le parole, poi rispose: “Beh, non è bella, ma non credo che abbia leso nessun organo, è abbastanza superficiale – alzò gli occhi – Con cosa ti ha colpito, comunque? Ti ha staccato un bel pezzo di carne. E’ stata una Maledizione Perforante?”.

Scossi la testa, ancora sofferente: “No…sembrava una lancia di ghiaccio”.

Bill fischiò di nuovo: “Telum Glacies? Era quella? – quando annuii, vidi che era piuttosto sorpreso – Faceva veramente sul serio il tipo! Senti, credo di poterla sistemare, nel mio lavoro mi capita spesso di dover usare qualche incantesimo medico. Un Guaritore probabilmente farebbe di meglio, ma sta ancora sanguinando...”.

Mi occorsero un paio di secondi per decidere, poi dissi: “Va bene, chiudila”.

Bill puntò la bacchetta contro la ferita, poi disse: “Epismendo!”. Avvertii una sensazione fastidiosa, poi Bill si rialzò: “Bene, è a posto. Forse ci resterà una cicatrice, ma a quanto ne so le ragazze le adorano – sorrise – Te la senti di camminare? Ti riaccompagno alla tua tenda, se ricordo dov’è credo sia rimasta intatta”.

“Credo di si” dissi, e feci per muovermi, ma già dopo il primo passo sentii la mia testa girare, mentre un dolore simile ad una scarica elettrica piuttosto forte mi attraversò da capo a piedi. Barcollai, e Bill mi sostenne: “Ehi, va tutto bene?” mi chiese preoccupato.

“Sì… cioè… No – risposi con sincerità, cercando di riprendere fiato – Il Mangiamorte mi ha lanciato uno strano incantesimo… ho sentito un dolore terribile in tutto il corpo, e ancora ne risento”.

Lo sguardo di Bill passò da preoccupato a orripilato: “Non dirmi che ti ha lanciato una Maledizione Cruciatus!”.

“N…non lo so, è la prima volta che sento quel nome – ammisi – Però mi sembra che abbia detto ‘Crucio’…”.

Il giovane era esterrefatto: “Assurdo… veramente assurdo! – poi, cercando di riscuotersi, si passò un mio braccio sopra le spalle. Era più alto di me, quindi la situazione era abbastanza scomoda, ma sorrise: “Meglio se ti aiuto, non sono sicuro che riusciresti ad arrivare altrimenti, e cadere davanti a tutti offuscherebbe un po’ l’aura di eroismo del tuo gesto!”.

Quando arrivammo alla tenda di Seamus, lui e sua madre erano già tornati, e intorno a loro si era riunita una piccola folla. Tra gli altri, riconobbi Charlie, il fratello di Bill, Oliver Baston e, con un piccolo tuffo al cuore, Mary, accompagnata da sua madre. Fu proprio la ragazza a notarmi per prima: emise una strana via di mezzo tra un urlo e un singhiozzo, e mi corse incontro, subito seguita dalla signora Finnegan.

“Per Merlino, Joshua! Dov’eri finito? Seamus mi ha detto di averti perso nella folla!” mi chiese con preoccupazione, poi ebbe una sorta di singulto: “E’… è sangue quello che hai sulla giacca?”.

“Non si preoccupi, signora Finnegan – risposi, imponendomi di sorridere – Ho perso di vista Seamus, è vero, e poi ho avuto un piccolo alterco con uno di quei tizi in nero, ma Bill, qui, mi ha già rappezzato. Sto bene!”. Non era esattamene vero, ma non mi pareva il caso di farla spaventare più di quanto già non fosse.

Mary, dal canto suo, sembrava sull’orlo delle lacrime: “Josh… ho avuto tanta paura! Appena tornati dal bosco abbiamo incontrato la signora Finnegan…loro ci hanno detto che eri sparito, e io…io…” fece un gesto come per abbracciarmi, ma si bloccò a metà, probabilmente per paura di farmi male.

Staccai il braccio dalle spalle di Bill e, cercando di restare in equilibrio e di barcollare meno possibile, le accarezzai il viso con una mano e sorrisi: “Tranquilla, piccola. Lo sai che io sono indistruttibile, no?”.

 

In realtà, però, quando una ventina di minuti dopo, sostituiti gli abiti semidistrutti e imbrattati di sangue con altri puliti, e dopo che la madre di Seamus si fu fatta raccontare quello che era accaduto mentre mi controllava la ferita ormai richiusa (benché non avessi capito di cosa si trattasse esattamente, glissai sulla Maledizione Cruciatus, dalla reazione di Bill sembrava un cosa molto seria), mi sdraiai faticosamente sul letto cercando di ignorare i dolori che ancora mi attraversavano praticamente tutte le membra, piuttosto che indistruttibile, mi sentivo distrutto.

Una vera e propria ondata di pensieri mi stava attraversando la mente, rimbalzando in ogni direzione. Troppe cose erano accadute quella notte, ed avevano lasciato molti segni, non soltanto sul mio corpo. Mentre l’adrenalina lasciava le mie vene, era arrivata la consapevolezza di quello che era successo durante lo scontro con il Mangiamorte: io avevo provato ad ucciderlo, su questo non c’erano dubbi, non si fuoco ad un uomo se non si ha l’intenzione di eliminarlo dal mondo. La cosa che mi colpiva di più era lo scarso senso di colpa che sentivo: mi ero macerato dai rimorsi per essere andato vicino a fare una cosa molto simile a Nott, mentre questa volta non mi sembrava di aver fatto niente di sbagliato. Cercai di convincermi che fosse soltanto perché il mio poco amato compagno di scuola non aveva realmente tentato di uccidermi, ma il dubbio che stessi iniziando a dare troppo retta a quella che la Signora Voce aveva definito ‘personalità da guerriero’. Quella sera si era trattato, letteralmente, di una situazione di vita o di morte, ma come avrei reagito in occasioni differenti?

C’era poi la questione dei Mangiamorte e del Marchio Nero. Ero sicuro che non potesse trattarsi di semplici coincidenze, e il mio ‘Senso di Ragno’ me lo confermava con veemenza: una serie di ingranaggi erano stati messi in movimento, e anche se per il momento era impossibile dire verso quale direzione, le mie sensazioni erano molto oscure.

Proprio queste impressioni mi conducevano al più grave dei miei pensieri, che derivava dallo svolgimento e dall’esito del combattimento che avevo sostenuto: era stata la prima volta che avevo duellato senza trattenermi minimamente, usando tutta la mia forza e tutte le mie capacità, ed ero stato battuto, senza appello e senza eccezioni. Il mio avversario si era dimostrato ampiamente superiore, da qualsiasi punto di vista. Le azioni che avevo compiuto durante l’anno precedente mi apparivano improvvisamente miserabili: a scuola, contro i Dissennatori, avevo superato la prima, vera prova che quel mondo mi aveva posto davanti, ma la seconda, contro un mio simile, mi aveva trovato tristemente mancante. La sensazione di non essere forte abbastanza era estremamente sgradevole, oltre che preoccupante: sentivo che l’oscurità era più vicina, la avvertivo incombere su di me e su tutto ciò a cui tenevo, e sapevo di non essere in grado di fare la differenza. Non ero abbastanza forte.

Mentre la stanchezza sopraffaceva i dolori e sentivo il sonno vincermi, compresi di non potermi permettere di indugiare in quella condizione: un altro avrebbe potuto cullarsi nella consapevolezza di essere solo un ragazzino, ma io sapevo di non essere un normale quattordicenne. Sapevo troppe cose per poterle ignorare. La tempesta stava arrivando, e io avevo poco tempo per prepararmi a riceverla.

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Capitolo 5
*** Udienza al Ministero ***


UDIENZA AL MINISTERO

“Udienza del 26 agosto, in merito agli eventi che hanno coinvolto il qui presente Joshua Grant Carter, residente al numero 23 di Garth Hill, Bangor, Gwynedd. Presiede l’udienza Amelia Bones, Direttore dell’Ufficio Applicazione della Legge Sulla Magia. Il ruolo di Assistente e Scrivana sarà ricoperto da Mafalda Hopkirk. A Katherine Jones, madre del minorenne Joshua Carter, è consentito di presenziare all’udienza”.

Queste parole, ripetute meccanicamente e con tono ufficiale, erano state pronunciate da un’austera strega dalla mascella quadrata, che indossava un antiquato monocolo. Era seduta di fronte a me, dall’altra parte di una grande scrivania all’interno di un ufficio al Secondo Livello del Ministero della Magia. Una seconda donna dai capelli grigi, seduta ad un’altra scrivania sul lato della stanza, aveva subito iniziato a prendere appunti con una piuma d’oca. Avvertii la rassicurante stretta di mia madre sulla spalla, ma non potetti ugualmente fare a meno di ingoiare faticosamente un groppo di saliva che sembrava intenzionato a bloccarmi la gola.

Erano passati quattro giorni dalla battaglia notturna con il Mangiamorte che mi era quasi costata la vita. La mattina dopo, ancora pesto e dolorante, ero stato riaccompagnato a casa dalla signora Finnegan, che si era profusa in un oceano di scuse per mia madre (la quale, a giudicare dagli occhi rossi, doveva essere stata divorata dall’ansia fin da quando, quella mattina, erano emerse le prime notizie sull’accaduto) mentre le raccontava quel poco che sapeva. Katherine, dal canto suo, l’aveva rassicurata, dichiarandosi certa che avesse fatto tutto il possibile per proteggermi, ma non appena io ebbi salutato Seamus, dandogli appuntamento a qualche giorno dopo sull’Hogwarts Express, aveva chiuso la porta alle mie spalle e mi aveva condotto in cucina con sguardo a metà tra il preoccupato e il feroce. La sola cosa che mi aveva salvato da una esemplare sgridata era stato, con ogni probabilità, il pessimo stato nel quale dovevo versare: sentivo un dolore pulsante in ogni parte del corpo, che si rifletteva nella mia andatura claudicante e nella schiena leggermente incurvata da uomo anziano che esibivo. Nel vedermi, perfino mia sorella, che era seduta al tavolo, non era riuscita a trovare le giuste parole per prendermi in giro, ed era rimasta silenziosa, gli occhi spalancati. Ero crollato faticosamente su una delle sedie. Mia madre mi aveva messo di fronte una tazza di tè fumante, si era seduta a sua volta e aveva detto, con voce neutra: “Raccontami tutto quello che è successo”.

Lo avevo fatto, senza tralasciare quasi niente, neanche la Maledizione Cruciatus, il cui nome aveva fatto sobbalzare entrambe le donne, che avevano preso a guardarmi con ulteriore preoccupazione. Alla fine, mi sentivo la gola secca: le urla della notte precedente mi avevano lasciato una forte irritazione. Mia madre non aveva parlato per diversi minuti, e alla fine aveva detto qualcosa di inaspettato: “Sono molto indecisa se definire il tuo gesto incredibilmente coraggioso o incredibilmente stupido. Probabilmente è stato un po’ di entrambi: hai corso un rischio terribile, e senza dubbio sei stato uno sciocco, ma non saresti figlio di tuo padre se non fossi corso ad aiutare un’amica che credevi in difficoltà – aveva sorriso, ricordando le qualità positive dell’uomo che, nonostante il male che le aveva fatto alla fine, aveva amato – Non farti strane idee, sono molto arrabbiata con te, ma allo stesso tempo, lo devo ammettere, sono orgogliosa”.

Avevo sorriso, mentre mia sorella, ancora stranamente ammutolita, era scesa a sorpresa dalla sedia e mi aveva stretto in un abbraccio. La smorfia di dolore che avevo fatto aveva convinto mia madre a portarmi al San Mungo per un controllo, ed era stato proprio lì che mi aveva raggiunto il gufo inviato dal Ministero della Magia, che mi convocava per un’udienza il 26 agosto. Mi ero aspettato qualcosa di simile: benché solo quattordicenne, avevo usato un sacco di magia durante il duello, violando, in teoria, il Decreto per la Ragionevole Restrizione delle Arti Magiche trai Minorenni. Allo stesso tempo, non ero particolarmente preoccupato: sapevo che esisteva una clausola che consentiva di utilizzare la magia in caso di vita o di morte, e la situazione nella quale mi ero trovato sembrava rispondere esattamente a questa condizione. A confermarlo, in fondo alla convocazione, campeggiava la precisazione ‘Le comunichiamo inoltre che lei non comparirà all’udienza come imputato, ma soltanto come persona informata sui fatti’.

Una ulteriore conferma mi giunse subito da Madame Bones, la quale, con voce ancora dura ma decisamente meno formale, continuò: “Signor Carter, vorrei ribadirle che lei non è in alcun modo sotto accusa: la testimonianza del signor William Weasley, rilasciata già la mattina successiva agli eventi, ci ha confermato, come già sospettavamo dalla lista degli incantesimi che abbiamo registrato grazie alla Traccia che lei, come mago minorenne, ha su di se, che ha impiegato la magia solo per difendere la sua vita. L’abbiamo convocata perché stiamo cercando di ricostruire pienamente gli avvenimenti verificatisi al campeggio di Dartmoor la sera del 22 agosto – incrociò le mani davanti al petto e mi fissò con grande attenzione – Le chiedo di raccontarmi tutti i fatti dei quali è stato protagonista”.

Per la seconda volta mi trovai a ripetere ciò che era successo, a partire da quando io e Seamus eravamo usciti dalla tenda. Madama Bones non mi interruppe mai, finché non arrivai al lancio della maledizione che mi aveva inferto un lancinante dolore: “Mi sta dicendo – chiese, con aria estremamente sorpresa – che l’uomo mascherato le ha lanciato la Maledizione Cruciatus?”.

Annuii: “Sul momento non sapevo cosa fosse, sinceramente. Non avevo mai sentito parlare delle Maledizioni Senza Perdono. Ho solo avvertito un dolore tremendo, come mai mi era successo nella vita”.

La donna si rivolse a mia madre per la prima volta dall’inizio dell’udienza: “Il ragazzo è stato visitato da un Guaritore?”.

“Sì, la mattina dopo, appena è tornato a casa, l’ho portato al San Mungo – rispose lei – A parte due costole incrinate, qualche ammaccatura ed i segni della ferita che il giovane Weasley aveva già rimarginato, hanno registrato la rottura di parecchi capillari e altri sintomi conformi alla Maledizione Cruciatus, ma nulla di potenzialmente pericoloso per la sua futura salute. Per fortuna, il Mangiamorte ha mantenuto attiva la Maledizione solo per pochi secondi, non abbastanza per provocare dei danni permanenti. Hanno detto che i dolori dovrebbero sparire del tutto in un paio di settimane”.

Madame Bones annuì, apparentemente soddisfatta, poi si rivolse nuovamente a me e mi fece cenno di continuare. Io arrivai al termine del racconto, pur glissando su un paio di punti, come gli ultimi incantesimi che avevo lanciato al Mangiamorte: non ne avevo parlato neanche a mia madre, temendo non poco il suo giudizio per quello che, a conti fatti, era stato un tentativo di omicidio. Considerando che il mio avversario stava tentando di uccidermi, non mi sentivo minimamente in colpa, ma non ero sicuro che lei l’avrebbe pensata nello stesso modo.

Smisi di parlare quando ebbi terminato di raccontare il modo nel quale Bill mi aveva soccorso e riaccompagnato alla tenda. Amelia Bones rimase in silenzio per qualche secondo, poi si rivolse di nuovo a me : “Signor Carter, a prescindere dal fatto che ritengo non sia stata un’idea particolarmente sensata gettarsi a capofitto in una situazione tanto pericolosa, anche se posso comprendere le ragioni dietro al suo gesto, devo comunque complimentarmi per il coraggio che ha dimostrato: pur essendo solo un ragazzo, ha saputo lottare come un uomo, e di questo deve essere orgoglioso”.

La donna tacque, mentre mia madre mi stringeva di nuovo la spalla con dolcezza, quasi per confermarmi che era perfettamente d’accordo. Vidi gli occhi di Amelia Bones scorrere un foglio che aveva di fronte: “Direi che abbiamo praticamente finito. Vorrei solo avere una precisazione sugli incantesimi che lei ha scagliato durante il combattimento…”.

Sentii un campanello d’allarme scattare nella mia testa, e questa volta non proveniva dalla Signora Voce, bensì dal mio istinto di conservazione: compresi che sul foglio dovevano essere segnati tutti gli incantesimi che avevo scagliato e che i sistemi di rilevamento del Ministero avevano registrato. Inevitabilmente, Madama Bones doveva aver notato ciò che avevo fatto, e altrettanto inevitabilmente si era posta qualche domanda.

“Si tratta certamente di una valida selezione di incantesimi da combattimento, e anche in questo caso devo complimentarmi con lei per l’abilità che ha dimostrato, non sono molti gli studenti che, subito dopo il termine del terzo anno ad Hogwarts, sarebbero in grado di scagliare anche solo la metà di queste fatture – fece una piccola pausa – Alcune sono abbastanza pericolose, devo ammetterlo, ma vista la situazione nella quale le ha impiegate non trovo nessuna critica da muoverle – altra pausa – Devo dire però di essere rimasta incuriosita dalla sequenza finale, gli ultimi quattro incantesimi che ha lanciato – scorse con un dito la pergamena – Un Incantesimo Esplosivo standard, uno di Vento Elementale, uno di Librazione base e uno Incendiario. Per quanto mi sia impegnata, non sono veramente riuscita a capire cosa abbia cercato di fare con questa combinazione. Le dispiacerebbe soddisfare la mia curiosità?”.

Esitai per un istante. Era la cosa che temevo di più: dover ammettere di fronte a Katherine di essere andato ad un passo dal divenire un assassino. Ormai avevo superato quasi tutte le remore dell’anno precedente, arrivando a considerarla mia madre quanto quella che avevo lasciato dall’altra parte, e non volevo vedere sul suo volto delusione e paura. Non potevo, però, mentire di fronte ad un alto funzionario del Ministero, e per di più scoprii di non essere in grado di inventare su due piedi una valida spiegazione alternativa, quindi finii per spiegarle tutto. La stretta sulla mia spalla si accentuò quando arrivai al momento nel quale avevo dato fuoco alla tela cerata.

Per la prima volta Amelia Bones inarcò un sopracciglio con aria di disapprovazione: “Mi sta dicendo che lei ha consapevolmente cercato di uccidere il suo avversario?”.

Presi un lungo respiro: “Madama Bones, posso parlare francamente?”.

“E’ ovvio” rispose con nuova durezza.

“In quel momento io ero stremato ed estremamente dolorante – cercai di spiegare – Non ero riuscito a infliggere neanche un vero danno al Mangiamorte, e sentivo di non essere più in grado di difendermi efficacemente. Sapevo che mi avrebbe ucciso entro pochi secondi se non avessi fatto qualcosa, quindi ho cercato di usare una tattica che lo ponesse in condizioni di non nuocere, mettendo in pratica la sola idea che mi è venuta in mente e che credevo avesse una possibilità di riuscita – sospirai – Sapevo di poterlo uccidere? Sì, ne ero consapevole, ma sapevo anche che se non lo avessi fatto sarei stato senza dubbio io a morire: era molto più forte di me, non avevo nulla nel mio arsenale che fosse sufficiente per batterlo, quindi ho provato a giocare d’astuzia. Era la sua vita contro la mia. Ho sbagliato a tentare di salvarmi in ogni modo possibile?”. Misi nelle ultime parole un senso di colpa che non provavo realmente: non ero dispiaciuto per aver provato ad ammazzare una carogna pronta a torturare un ragazzino, ma non volevo apparire tanto indifferente, a mia madre non sarebbe piaciuto affatto, e probabilmente neanche alla donna che avevo davanti.

Amelia Bones rimase pensierosa per qualche secondo, poi rispose: “No, non posso sinceramente dire che lei abbia sbagliato, signor Carter, ma vorrei consigliarle di valutare bene le sue opzioni in ogni situazione che non comporti il rischio di una morte immediata: posso comprendere i suoi sentimenti di fronte al pericolo, ma spero che non si abituerà a valutare con tanta freddezza la vita o la morte di un uomo, anche se stiamo parlando di un criminale della peggiore specie”.

Scossi platealmente la testa: “Sinceramente, Signora, spero di non trovarmi mai più in una situazione simile”. Ero assolutamente sincero, anche se una voce fin troppo nota dentro di me mi fece notare, con un tono rassegnato, di non farci troppo conto.

“Lo spero anch’io – disse lei, ed iniziò a raccogliere le sue carte – Bene, l’udienza è finita. Confermo che nessuna accusa verrà mossa contro di lei, signor Carter. La ringrazio per la sua disponibilità e le auguro un buon ritorno ad Hogwarts”. Tese la mano a me e a mia madre, ed entrambi la stringemmo. Subito dopo, Katherine mi guidò fuori dall’ufficio.

Eravamo solo a metà del corridoio quando giunse la fatidica domanda: “Perché non mi hai raccontato quello che è successo nell’ultima parte dello scontro?” mi chiese, una punta perfettamente percepibile di delusione nella voce. Quando mi voltai verso di lei, vidi lo stesso sentimento dipinto sul suo volto.

“Avevo paura, mamma – ammisi con sincerità, e perfino io avvertii il dispiacere per niente simulato nel mio tono – Temevo che… se avessi saputo quello che ho quasi fatto… temevo che mi avresti giudicato un…un…”.

Katherine mi abbracciò con calore, e io avvertii tutto l’affetto di una madre nel suo gesto. Mi sentii letteralmente sciogliere, e una lacrima mi scorse sul viso. Non disse una parola: non ce n’era bisogno.

 

Tronando a casa mi sentii un vincitore, ma la sensazione durò poco. Quella notte il mio sonno fu costellato di incubi: rivissi i terribili momenti del duello, il senso di impotenza, il lancinante dolore della Maledizione Cruciatus, fino agli ultimi momenti, nei quali avevo accettato di stare per morire. Solo che questa volta nessun Marchio Nero apparve nel cielo per salvarmi. Una differente luce verde illuminò tutto, mentre un rumore simile ad un treno in corsa occupò l’aria. Non li riconobbi, ma sentii qualcosa di orribile premere ai confini della mia memoria, e mi svegliai trattenendo a stento un urlo. Ansimando, mi passai una mano sulla fronte: era madida di gelido sudore. Mi alzai e mi affacciai alla finestra aperta, respirando la fresca aria della notte e cercando di calmarmi. In quel momento, per la prima volta, mi resi conto di quanto ci fossi andato vicino: per la seconda volta nella mia vita, avevo visto la morte in faccia. Per la seconda volta, avevo scoperto di non poter fare nulla per evitarla. L’incidente mi aveva trasportato in quel mondo, ma difficilmente sarei stato di nuovo così fortunato. Sollevai la mano, e la vidi tremare. Avevo paura. Non volevo morire, e sapevo che c’era mancato davvero pochissimo. In quel momento odiai il corpo da quattordicenne che il Destino, o chi per lui, mi avevano dato: volevo di nuovo essere un adulto, non un semplice pulcino. Volevo potermi confrontare alla pari con i miei avversari, non essere una semplice vittima sacrificale! Se c’era un ruolo per me in quel mondo, nel momento presente non ero in grado di sostenerlo.

Presi un lungo respiro, cercando di calmarmi: sentivo dentro di me che il pericolo non era lontano, ma il mio ‘Senso di Ragno’ si stava impegnando per comunicarmi che non era neppure imminente. Avevo tempo per prepararmi. Tempo per farmi trovare pronto. Mentre osservavo la notte stellata, però, dovetti concludere tristemente di non sapere come avrei fatto: ero soltanto uno studente, non un soldato. Come diavolo avrei fatto a diventare il cacciatore che avevo bisogno di essere?

 

Sei giorni dopo, per la prima volta in vita mia, mi trovai a compiere una delle esperienze che più volte avevo sperato di poter sperimentare da ragazzino: attraversare il muro che divideva la stazione di King’s Cross, a Londra, dal Binario Nove e Tre Quarti. Fu una sensazione stranissima passare attraverso la barriera, ma assolutamente nulla in confronto a ciò che mi trovai di fronte una volta arrivato dall’altra parte.

Mi ero sempre immaginato quanto dovesse essere spettacolare la partenza dell’Hogwarts Express: l’anno precedente ero ‘arrivato’ dopo il viaggio di andata, quindi non avevo vissuto l’emozione di salire sul treno trainato dalla poderosa locomotiva rossa insieme ad altre centinaia di ragazzi come me. Trovandomi lì, con mia madre e mia sorella al mio fianco e i bauli miei e di Sheila caricati su un carrello, mi sentivo a dir poco entusiasta. Ormai avevo capito che avevo una enorme voglia di tornare a Hogwarts: quel luogo era divenuto per me una seconda (o forse una terza) casa, e sentivo che era proprio lì che dovevo stare. Mentre salutavo i tanti ragazzi che avevo conosciuto l’anno precedente, però, sentii una strana coltre di ghiaccio calarmi sul cuore: improvvisamente, avvertivo qualcosa di strano. Non lì sul binario, bensì davanti a me, e non in senso geografico: non sarei in alcun modo stato in grado di dire di cosa si trattasse, ma sentivo che quello non sarebbe stato un anno normale, ammesso che quello precedente potesse essere definito in termini simili. Più reale, concreta e spaventosa che mai, sentii la tempesta, ancora distante, ma decisamente sulla strada che l’avrebbe portata verso il mio mondo. Non riuscii a trattenere un tremito, ma cercai di riscuotermi: non volevo che mia madre se ne accorgesse.

Katherine, dal canto suo, mi accompagnò fino ad una delle scalette, dove avevo intravisto Seamus e Dean che mi salutavano con calore. I due ragazzi mi aiutarono a caricare i due bauli, mentre il treno iniziava ad eruttare fumo e il fischio avvisava i ritardatari della partenza imminente. Saltai rapidamente giù per l’ultima volta e strinsi mia madre in un forte abbraccio: forse condizionato dai pensieri neri di qualche minuto prima, cercai con quella stretta di trasmetterle tutto l’affetto che avevo imparato a provare per lei. Dalla sua risposta, ritenni di esserci riuscito. Una volta staccatomi, Sheila mi sostituì: nonostante l’emozione del suo primo viaggio verso Hogwarts, o forse proprio per quella, non riuscì a trattenere qualche lacrima, ma poche parole di nostra madre furono sufficienti per riportarle il sorriso sul volto. Katherine mi affidò la bambina, raccomandando ad entrambi di fare i bravi e a me di occuparmi di lei. Un ultimo bacio, e io guidai Sheila su per la scaletta.

Raggiungemmo rapidamente lo scompartimento già occupato da Seamus, Dean, Neville, Ginny e Mary, ai quali presentai una improvvisamente timida Sheila. Il mio stomaco ebbe un piccolo sobbalzo quando la ragazzina mi salutò con un sorriso, e la cosa non sembrò passare inosservata alla mia fin troppo perspicace sorellina, che mi tirò per una manica in modo che abbassassi l’orecchio al livello della sua bocca: “E’ lei, vero? – mi chiese in un sussurro udibile, sperai, solo da me – La ragazza che hai cercato di salvare al campeggio! E’ veramente carina!”.

Sentii improvvisamente le mie guance avvampare, ma fui salvato dal momento di imbarazzo dal nuovo fischio del treno, che subito dopo iniziò ad arrancare in avanti. Sheila si precipitò al finestrino, ed io la seguii. Di fronte alla carrozza, nostra madre ci stava salutando con la mano, ed entrambi ci sporgemmo fuori per ricambiare, urlando che le avremmo scritto già il giorno dopo. Pochi secondi, e Katherine Jones scomparve dietro la curva.

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Capitolo 6
*** Ritorno ad Hogwarts ***


RITORNO AD HOGWARTS

Il tempo rimase terribile per tutto il viaggio sul treno: il cielo color piombo era solcato da fulmini, e la pioggia non smise mai di cadere a cascata mentre l’Hogwarts Express si dirigeva verso nord. Io, Dean, Seamus, Neville, Ginny e Mary ci eravamo riuniti in uno scompartimento, e Sheila non aveva voluto staccarsi da me. Per quanto la ragazzina cercasse di mostrare un volto spavaldo, era chiaramente intimorita da ciò che l’attendeva alla fine del viaggio, e non smise per un secondo di fare domande sull’attraversamento in barca del lago e sulla cerimonia di smistamento. Per quanto noioso potesse essere rispondere per ore alle curiosità di un’undicenne, le fui grata: concentrando su di se l’attenzione di tutto il gruppo, riuscì a defletterla da me, evitandomi di dover raccontare a tutti quello che era accaduto al campeggio. Dal volto di Mary traspariva una notevole preoccupazione, così come su quelli di Dean e Neville si poteva leggere una curiosità al limite del morboso. Prima o poi avrei dovuto rispondere a parecchie domande, ma ero più che felice di poter rimandare quel momento.

In realtà l’intero viaggio mi vide assai poco presente nelle conversazioni, anche se cercai di dimostrarmi allegro e di rispondere nella giusta maniera quando i miei amici mi coinvolgevano con qualche domanda. La verità era che più Hogwarts si avvicinava, più sentivo un peso depositarmisi sul cuore: non sarei stato capace di dire perché, ma la prospettiva di tornare al castello sembrava essere diventata molto meno allettante rispetto a pochi giorni prima. Era una sensazione strana, indistinta, melmosa. Inizialmente avevo creduto che fossero soltanto le conseguenze della brutta avventura vissuta dopo la Coppa del Mondo di Quidditch, ma mentre il castello iniziava a delinearsi all’orizzonte (quando le torri comparvero, stagliandosi contro il cielo d’acciaio, mia sorella, dimentica delle sue paure, iniziò a saltare per l’entusiasmo) compresi che l’origine del mio malessere non era da ricercare nel passato, bensì nel futuro. Se la Signora Voce non si era più fatta sentire dopo il duello, il mio “Senso di Ragno” mi stava lanciando un allarme, straordinariamente generico ma continuo. Era come se qualcosa di orribile, di mostruoso, stesse volteggiando sopra il luogo che avevo imparato ad amare quanto la mia casa, e questo non poteva che spaventarmi.

 

Mi ritrovai a varcare le porte della Sala Grande praticamente senza sapere dove fosse finita la discesa dal treno ed il viaggio nelle carrozze, tanto mi ero mosso automaticamente. Perfino il tentativo di Pix di colpirci con un gavettone d’acqua gelata non mi aveva scosso dai miei pensieri cupi. L’immenso ambiente, però, portò un po’ di calore nel mio cuore: era come ritrovare un vecchio amico. Lanciai un’occhiata al tavolo degli insegnanti, dove Silente, come al solito, occupava la sedia simile ad un trono posta al centro, circondato dagli altri professori. Feci scorrere gli occhi da una parte all’altra, nella puerile speranza di vedere il volto prematuramente invecchiato ma sereno di Lupin: sapevo che si era dimesso due mesi prima, ma avevo conservato il sogno che il mio insegnante preferito avesse cambiato idea ed avesse deciso, contro ogni logica, di restare un altro anno a scuola. Non soltanto, invece, non vidi il licantropo, ma il posto solitamente occupato dal professore di Difesa contro le Arti Oscure era vuoto.

Seamus probabilmente lo notò quasi nello stesso istante, perché esclamò: “Possibile che non abbiano trovato nessuno per sostituire Lupin?”.

“Può anche essere – rispose Dean – Si dice da anni che quel lavoro sia maledetto. Solo noi ne abbiamo visti passare tre in tre anni, e un ragazzo del settimo anno mi ha detto che in quelli precedenti è sempre andata nello stesso modo”.

Non avessi avuto il cervello stipato di pensieri mi sarei chiesto come avrebbero fatto a coprire le ore di Difesa: esistevano i supplenti nel mondo magico? Neanche Joshua aveva una risposta precisa su questo argomento. Mentre ci sedevamo al tavolo di Grifondoro feci scorrere gli occhi lungo le due file di panche, quasi per avere la certezza che i miei compagni fossero tutti lì dopo le travagliate avventure che molti avevano vissuto pochi giorni prima. Qualche posto più in giù vidi Harry, Hermione e Ron, che come al solito parlottavano tra loro. A quanto avevo sentito, Harry si era trovato a pochi metri dall’uomo che aveva lanciato in cielo il Marchio Nero e che, involontariamente, mi aveva salvato la vita. Mi ero chiesto molte volte chi fosse: avevo compreso che quello per lanciare il Marchio non era sicuramente un incantesimo di pubblico dominio, e che solo i Mangiamorte lo conoscevano. Chiunque fosse diventato negli anni l’uomo che aveva fatto comparire l’orribile figura sopra Dartmoor, un tempo doveva per forza essere stato uno dei più stretti seguaci di Voldemort, e questo lasciava aperti degli interrogativi enormi.

Ero ancora preso da questi pensieri quando le porte della Sala Grande si aprirono, e la McGrannitt entrò conducendo un gruppo di alcune decine di bambini, con i vestiti completamente inzuppati ed i volti mostravano sentimenti che andavano dal nervosismo al più puro terrore, ad eccezione di uno: il più piccolo, uno scricciolo dai capelli color topo avvolto nell’enorme pastrano di talpa di Hagrid, rivolse un sorriso estasiato verso il tavolo di Grifondoro alzando entrambi i pollici. Quando vidi Colin Canon rispondere al suo saluto, riconobbi una notevole somiglianza tra i due, e non potetti fare a meno di alzare gli occhi al cielo: anche in un luogo grande come Hogwarts credevo che un solo Canon fosse più che sufficiente.

Mentre la McGrannitt sistemava lo sgabello con sopra il Cappello Parlante, scorsi la fila di nuovi studenti fino a trovare Sheila: appariva estremamente nervosa, ma i suoi occhi non mostravano la medesima nota di panico di alcuni dei suoi compagni, forse perché grazie a me, al contrario di loro, conosceva effettivamente le modalità dello smistamento, e sapeva di non avere nulla da temere, almeno a livello fisico.

Ascoltando solo con la coda dell’orecchio la canzone del Cappello, diversa da quella che avevo sentito io solo un anno prima, sentendomi estremamente fuori posto da tredicenne in mezzo ad un branco di primini, pensai ai tanti discorsi che io e mia sorella avevamo fatto durante l’estate in relazione alla sua possibile futura Casa. Diverse volte, citando come ragione il suo caratterino mordace, le avevo preannunciato una probabile selezione in Serpeverde, con l’idea di farla arrabbiare, ma ottenendo pochi risultati: essendo cresciuta, come Joshua, negli Stati Uniti, la ragazzina aveva maggiore dimestichezza con le Case di Ilvernmorny piuttosto che con quelle di Hogwarts, perciò sapeva ben poco della pessima fama delle Serpi. In realtà, non ero affatto convinto di quale potesse essere la destinazione più adatta per Sheila. L’avevo realmente conosciuta solo per pochi mesi, anche se potevo attingere alle vecchie memorie di Joshua, quindi non potevo valutare bene ogni aspetto del suo carattere: certo, era molto intelligente, ma non esattamente una maniaca dello studio. Nelle nostre discussioni aveva mostrato una notevole vena di furbizia, oltre che la capacità di accattivarsi il consenso degli altri, che si trattasse di mia madre o di me. La questione della Coppa del Mondo era stata un’eccezione, dovuta a cause di forza maggiore, ma quasi sempre Sheila riusciva ad ottenere quello che voleva. Aveva una lingua molto tagliente, perfino per un’undicenne, e quando si arrabbiava sapeva colpire decisamente sotto la cintura, anche se spesso finiva per pentirsi rapidamente delle cose che diceva quando finiva per esagerare, pur arrivando di rado a chiedere scusa. Non avrei saputo cosa dire riguardo a cose come ‘coraggio’ e ‘audacia’, ma sicuramente aveva una notevole abilità nel ribaltare le situazioni a suo favore, e questo un po’ mi preoccupava: benché fossi arrivato da un solo anno e nonostante il mio particolare status, mi sentivo un Grifondoro fino nel midollo, e non potevo fare a meno di pensare che i colori verde e argento potessero trovarsi nell’immediato futuro di mia sorella. Benché i miei ricordi relativi all’altra parte fossero ancora limitati nel tempo, ricordavo di aver sempre trovato leggermente razzista l’ostilità di principio nei confronti di Serpeverde. Ciò che avevo vissuto l’anno precedente, però, non mi aveva certamente aiutato ad avere una mente più aperta nei confronti della Casa rivale. A questo si aggiungeva Nott: temevo seriamente per la felicità, e perfino per la salute di Sheila se il bastardo si fosse ritrovato una Carter a portata di mano e di bacchetta.

Mi accorsi che il cappello era pronto alle sue scelte soltanto quando la McGrannitt chiamò ad alta voce “Ackerley, Stewart”. Mentre il ragazzo veniva assegnato ai Corvonero, lanciai una minuscola e silenziosa preghiera verso l’oggetto magico affinché dimostrasse abbastanza senno da evitare ad una ragazzina entusiasta di trovarsi in un guaio per il quale non aveva alcuna colpa.

Prestai poca attenzione ai diversi ragazzini che raggiungevano lo sgabello e venivano smistati nelle Case, almeno finché non toccò a Dennis Canon. Mentre il minuscolo fratello di Colin barcollava verso il cappello trascinandosi dietro l’enorme pastrano di Hagrid notai improvvisamente uno strano dettaglio: non riuscivo a ricordare cosa mi avesse detto il Cappello prima di assegnarmi a Grifondoro. Sapevo bene che il potente oggetto magico giustificava, solitamente, le sue scelte, ed ero certo che avesse spiegato a Joshua perché avesse deciso di porlo nella Casa di Godric. Era insolito, considerando che ricordavo praticamente ogni minuto dell’anno precedente, anche prima del mio ‘viaggio’, anche se non credevo si trattasse di qualcosa di fondamentale: semplicemente, il Joshua Carter che aveva partecipato allo Smistamento era una persona molto diversa da quella che, un anno dopo, assisteva da spettatore alla stessa scena. Provai l’improvvisa, folle curiosità di indossare nuovamente il Cappello Parlante: non potevo fare a meno di chiedermi se avrebbe assegnato anche il nuovo ‘me’ a Grifondoro. Per quanto timido, Joshua poteva essere stato coraggioso e audace, magari senza neanche saperlo, ma il nuovo mix tra lui e Matteo Simoncini era assai più complesso e sfaccettato. Per quanto mi desse una certa sensazione di malessere pensarlo, un’uniforme bordata di verde e argento non avrebbe stonato neanche addosso a me.

“Grifondoro!” urlò il Cappello riscuotendomi dai miei pensieri e scatenando l’applauso del mio tavolo, anche se mentre un sorridente Dennis correva a cercare un posto vicino al fratello notai diverse facce esasperate, prima tra tutte quella di Harry.

“Carter, Sheila”.

Il tempo sembrò rallentare mentre tutta la mia attenzione si concentrava sulla ragazzina nervosa e leggermente tremante che si avvicinava allo sgabello e indossava l’artefatto magico subito dopo essersi seduta. Incrociai le dita senza farmi vedere, sperando che tutto andasse bene.

Occorse decisamente più tempo rispetto ai ragazzi che avevano preceduto Sheila: vedendo il volto concentrato di mia sorella, sembrava che nella sua mente si stesse svolgendo una discussione molto accesa. Ci vollero quasi due minuti prima che lo strappo vicino all’orlo del Cappello si spalancasse: “Serpeverde!” urlò alla fine.

Sentii il mio stomaco sprofondare, come se si fosse improvvisamente riempito di piombo. Dal tavolo dei Serpeverde si levò un applauso, che però mi parve poco convinto, cosa che incrementò le mie preoccupazioni: le Serpi sapevano fin troppo bene con chi era imparentata la loro nuova leva, e stavano valutando le implicazioni di quella scelta.

Dal tavolo di Grifondoro arrivarono alcune imprecazioni soffocate, soprattutto da parte dei miei amici: molto spesso i fratelli finivano nella stessa Casa, anche se non si trattava di una regola inderogabile, e tutti avevano da subito dato per scontato che Sheila sarebbe stata una Grifondoro. Dean mi guardò con delusione, quasi come se l’accaduto fosse stato colpa mia: “Credevo che tua sorella fosse a posto” borbottò.

“Lo è” dissi con notevole durezza e fulminandolo con lo sguardo, tanto che il ragazzo abbassò gli occhi imbarazzato. Sentii qualcosa afferrare la mia mano, e quando mi voltai vidi che Mary l’aveva afferrata con la sua. La mia amica mi sorrise: “Tranquillo, se la caverà”.

Quasi involontariamente avvertii i lati della mia bocca incurvarsi verso l’alto. Cara, dolce Mary! Ancora una volta aveva dimostrato di sapermi capire ad una velocità incredibile, e di avere la capacità di calmarmi solo con poche parole. Speravo che avesse ragione, ma non potetti fare a meno di lanciare uno sguardo verso il tavolo di Serpeverde: se la maggior parte dei ragazzi sembrava abbastanza interdetta, il disgusto negli occhi di Nott era inconfondibile, e aumentò ancora quando si voltò leggermente per fissarmi. Sentii immediatamente un fortissimo odore di guai. Cercai di guardare il mio rivale con tutta la durezza della quale ero capace, provando a trasmettergli un’immagine mentale del destino che gli avrei riservato se avesse osato fare del male a Sheila, ma in qualche modo dubitavo che sarebbe stato sufficiente.

A mala pena sentii il resto dello Smistamento, e compresi che era terminato solo quando udii la voce profonda di Silente echeggiare nella sala: “Ho una sola parola da dirvi: abbuffatevi!”.

“Ma sicuro!” risposero Harry e Ron a qualche posto da me, per poi lanciarsi sui piatti che si erano magicamente riempiti di cibo.

Il banchetto era spettacolare come sempre, ma non ero nelle condizioni di godermelo al meglio. Mary provò diverse volte a coinvolgermi in una discussione, per poi rinunciare dopo poche battute, fissandomi con sguardo preoccupato.

Benché, volendo andare ad analizzare le cose nel dettaglio, conoscessi effettivamente Sheila solo da pochi mesi, ero arrivato a volerle bene come se fosse sempre stata mia sorella, e sapere di averla messa, per quanto involontariamente, in pericolo mi faceva veramente male: la ragazzina era incredibilmente entusiasta di iniziare la scuola, e adesso rischiava di vivere un’esperienza molto meno gradevole di quanto avrebbe potuto aspettarsi. Sorprendentemente, il problema non mi sembrava il fatto che fosse finita a Serpeverde, ma solo ciò che questo avrebbe significato per lei. La mia rivalità con Nott poteva produrre effetti devastanti.

Una volta che i piatti furono ben ripuliti ed i resti di cibo scomparsi, il preside si alzò di nuovo, e come sempre accadeva il chiacchiericcio tra gli studenti si interruppe di colpo, rendendo ancora più evidente l’ululato del vento e il rombo della tempesta che infuriava fuori.

“Dunque – esordì il preside con un sorriso – Ora che siamo tutti sazi e soddisfatti, devo richiamare ancora una volta la vostra attenzione su alcuni avvisi. Mastro Gazza, il custode, mi ha chiesto di dirvi che la lista di oggetti proibiti all’interno delle mura del castello è estesa agli Yo-yo Ululanti…”.

La mia attenzione scemò rapidamente: se avevo per qualche ragione rimosso lo smistamento di Joshua, la sua memoria combinata a quella di Matteo ricordava almeno due edizioni della famigerata lista di avvisi di inizio anno di Silente. A meno che non vi fosse nuovamente un corridoio proibito con un cane gigante a tre teste, non c’era nulla di eccessivamente interessante: nessuno dava veramente retta ai divieti di Gazza, e per quanto riguardava la Foresta Proibita…

“E’ altresì mio doloroso compito informarvi che quest’anno non ci sarà la Coppa del Quidditch”.

“CHE COSA?”.

La voce di Harry rimbombò nel silenzio più totale. Fu il solo a riuscire ad emettere un suono: tutti gli altri, me compreso, sembravano troppo stupefatti per profferire una singola parola. Fred e George sembravano aver ricevuto una violenta botta in testa. Dal canto mio, ero incredibilmente rattristato: Grifondoro deteneva la Coppa, quindi avremmo dovuto difenderla, un compito che aspettavamo fin dal termine dell’anno precedente. Sei elementi su sette della squadra vincitrice erano pronti a cercare il bis: soltanto Baston, il nostro Portiere e Capitano, aveva terminato gli studi. Per me, si trattava sostanzialmente di una nuova condanna alla panchina: ammesso che il nuovo Capitano non decidesse di limitare i provini al solo ruolo vacante, era praticamente impossibile che riuscissi a scalzare una delle tre Cacciatrici titolari. Oltre ad essere molto abili se prese singolarmente, infatti, Angelina, Katie e Alicia avevano sviluppato, negli anni, una coordinazione che sfiorava la preveggenza, quindi nessun leader sano di mente le avrebbe separate. Anche rimanendo una riserva, però, vivere di nuovo le emozioni della Coppa, e magari infliggere un’altra sonora sconfitta a Serpeverde, era una delle ragioni per le quali aspettavo il ritorno a scuola con maggiore trepidazione. Le parole di Silente, quindi, mi avevano colpito duramente, al punto che non riuscivo neanche a chiedermi cosa mai potesse essere accaduto di tanto straordinario da provocare la cancellazione dell’intrattenimento preferito dall’intera scolaresca.

“Ciò è dovuto – riprese Silente – a un evento che prenderà il via in ottobre e continuerà per tutto l’anno scolastico, impegnando molto del tempo e delle energie degli insegnanti: sono sicuro che però vi divertirete tutti enormemente! Ho l’immenso piacere di annunciare che quest’anno a Hogwarts…”.

Un tuono più violento degli altri interruppe la spiegazione del preside, e nello stesso istante le porte della Sala Grande si spalancarono.

Gli sguardi di tutti corsero all’uomo vestito con un mantello nero da viaggio che apparve sulla soglia e, abbassato il cappuccio, iniziò ad avanzare verso il tavolo degli insegnanti. Non si udì neanche un singolo mormorio da parte dei quattro tavoli: in maniera simile a quanto era avvenuto con l’annuncio-shock di Silente, tutti i ragazzi sembravano troppo sorpresi per spiccicare parola.

Un sentimento che non potevo che condividere: l’aspetto dello sconosciuto era abbastanza strano ed inquietante da togliere il fiato. Alla luce dei lampi potetti vederlo abbastanza bene: aveva un’età indefinibile, ma apparentemente abbastanza avanzata a giudicare dalla chioma di capelli color ferro che avvolgeva la sua testa, eppure non mostrava alcuna debolezza, nonostante le condizioni tutt’altro che perfette che mostrava. Il suo volto duro era letteralmente coperto di cicatrici, mancava di un grosso pezzo di naso, ma la parte più inquietante erano senza dubbio gli occhi spaiati: uno era piccolo, scuro e lucente, l’altro grande, rotondo e di coloro blu elettrico. Per un istante pensai che si trattasse di un occhio elettronico, come quelli che dall’altra parte avevo visto in parecchi film di fantascienza, poi compresi che, naturalmente, doveva essere magico. La sola cosa certa era che l’uomo aveva perduto uno dei suoi, e questo, unito agli altri danni fisici che mostrava, non faceva che renderlo ancora più impressionante. Camminava appoggiandosi ad un bastone e zoppicando vistosamente. Uno dei due piedi emetteva un rumore sordo quando toccava il pavimento, e questo mi portò immediatamente a credere che avesse anche una gamba artificiale. Nel complesso, sembrava un uomo distrutto e ricostruito alla meglio, ma trasmetteva ugualmente una notevole sensazione di potere.

Questo agli altri, perché a me trasmise anche qualcosa in più: nell’istante nel quale l’occhio blu elettrico, che girovagava nell’orbita osservando l’intera stanza, si posò su di me, avvertii qualcosa nella mente: avevo imparato a riconoscere gli avvisi del mio “Senso di Ragno”, ma questa volta si trattava di un avviso perfino più generico di quelli dell’anno precedente. Sentivo che c’era qualcosa di strano dietro all’uomo che stava attraversando la stanza, qualcosa che andava oltre il solo aspetto bizzarro. Non ero affatto sicuro, però, che fosse qualcosa di negativo: era un impulso abbastanza remoto ed elusivo da essere incomprensibile. L’uomo, d’altronde, era abbastanza fuori posto all’interno della Sala Grande da poter destare apprensione anche in chi non aveva percezioni extrasensoriali.

L’uomo non sembrò accorgersi della mia analisi approfondita: l’occhio passò oltre, girandosi infine verso il retro della testa. Lo straniero raggiunse il tavolo degli insegnanti, strinse la mano a Silente e scambiò brevemente alcune parole con lui, poi, ad un cenno del preside, si sedette nel posto vuoto alla sua destra. Il posto dell’insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure.

Mentre il nuovo arrivato iniziava a mangiare, Silente tornò a rivolgersi alla sala: “Vorrei presentarvi il vostro nuovo insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure: il professor Moody!”.

Di solito un nuovo insegnante veniva accolto da un applauso degli studenti e dei suoi colleghi. Era successo l’anno prima, quando il preside aveva presentato Lupin e Hagrid. In quel momento, però, solo il guardacaccia e Silente applaudirono, ed il suono delle loro mani riverberò nel silenzio assoluto della Sala Grande: tutti sembravano essere decisamente troppo sconvolti per il bizzarro aspetto di Moody per riuscire a festeggiarne l’arrivo. Un sentimento nel quale mi riconoscevo pienamente: non sapevo cosa pensare della strana sensazione che avevo provato incrociando lo sguardo dell’uomo, ma anche senza contare le mie misteriose percezioni, sicuramente mi metteva addosso una notevole dose di inquietudine. Non sapevo chi fosse, anche se dai brusii che udivo intorno a me sembrava che non si trattasse di uno sconosciuto per chi era cresciuto nel mondo magico inglese, ma la sola idea che un simile personaggio dovesse insegnare a dei bambini mi risultava difficile da accettare.

Qualsiasi ulteriore domanda, però, dovette essere rinviata, perché Silente riprese a parlare da dove era stato interrotto: “Come stavo dicendo, nei prossimi mesi avremo l’onore di ospitare un evento molto emozionante, che non ha luogo da oltre un secolo. E’ con grande piacere che vi annuncio che il Torneo Tremaghi quest’anno si terrà ad Hogwarts!”.

“STA SCHERZANDO!”.

L’urlò di Fred Weasley risuonò come un colpo di pistola, e improvvisamente la sala fu piena di rumore. Ero interdetto: per me il nome che il preside aveva appena pronunciato non significava assolutamente nulla, e lo stesso, a giudicare delle facce, sembrava valere per parecchi degli altri studenti. Non per tutti però: diversi ragazzi osservavano Silente con sguardi che andavano dallo stupore all’entusiasmo, fino alla bramosia.

La successiva spiegazione del preside mi chiarì perfettamente le ragioni di simili atteggiamenti: il Torneo Tremaghi era una competizione vecchia di sette secoli, nuovamente organizzata, nonostante le molte difficoltà, dopo una sospensione centenaria, nella quale si affrontavano i campioni delle principali scuole magiche d’Europa. Tre rappresentanti di Hogwarts, Beuxbatons e Durmstrang si sarebbero sfidati in tre complicate prove di magia. Le delegazioni delle altre due scuole sarebbero arrivate in ottobre, ad Halloween un giudice imparziale avrebbe selezionato i migliori, che avrebbero gareggiato nel corso dell’anno. Il vincitore, oltre alla gloria eterna per se e per la sua scuola, avrebbe portato a casa un premio personale di mille galeoni.

La cifra era abbastanza elevata da far girare la testa anche a me: le preoccupazioni che avevano accompagnato il mio viaggio verso la scuola furono in un istante obliterate dall’idea di compiere un’impresa tanto grande. In un istante mi vidi nel ruolo di Campione Tremaghi, acclamato dall’intera scuola. Joshua Carter era stato un ragazzo relativamente timido, poco desideroso di trovarsi al centro dell’attenzione, ma Matteo Simoncini aveva sempre posseduto un carattere decisamente diverso. A lui non sarebbe dispiaciuto affatto poter competere per dimostrare le sue capacità.

Le successive parole di Silente, però spensero l’entusiasmo di molti: “Pur sapendo quanto ognuno di voi sia desideroso di portare ad Hogwarts la Coppa Tremaghi, abbiamo deciso di imporre un limite d’età: solo gli studenti di almeno diciassette anni potranno proporsi per la selezione – il preside spense le proteste alzando di pochissimo la voce – Questo perché le prove saranno molto difficili, nonostante il nostro impegno per garantire la sicurezza, ed è improbabile che uno studente sotto il sesto anno possa essere in grado di affrontarle. Mi assicurerò personalmente che nessuno sotto i diciassette anni possa ingannare il giudice imparziale, quindi evitate di provarci”.

Silente prese per un secondo fiato, dando modo a tutti di fare i conti con la bomba che aveva appena sganciato. Per quanto mi riguardava, dovevo ammettere di essere un po’ dispiaciuto, ma non quanto la maggior parte degli altri: la vera età della mia mente, benché per molti versi fossi tornato a pensare come un adolescente, mi concedeva un grado di riflessione leggermente superiore rispetto ai miei compagni, quindi potevo in qualche modo capire la scelta fatta dagli adulti. Già di per se, l’idea di una pericolosa competizione affrontata da un trio di ragazzi mi lasciava più di qualche dubbio, ma far competere dei quattordicenni sarebbe stato delirante.

“Il resto della scuola non avrà comunque di che annoiarsi nel corso dell’anno, e non dovranno limitarsi a fornire il massimo sostegno al campione che sarà designato per difendere i colori di Hogwarts. Dall’edizione di quest’anno, infatti, proprio per garantire una maggiore partecipazione degli studenti dei tre istituti alla competizione, sono stati inseriti alcuni eventi collaterali, dei quali vi parlerò maggiormente nel dettaglio in seguito, ai quali potranno prendere parte anche altri studenti oltre al campione, e che anche senza avere lo stesso prestigio della Coppa Tremaghi garantiranno ugualmente gloria e onori ai vincitori”.

Fu un istante, non di più. Una frazione di secondo. Se non fossi stato abituato, dopo un anno di vita molto particolare, a notare fin nei minimi dettagli le mie sensazioni, probabilmente non me ne sarei neanche reso conto. Anche se la avvertii, però, non sarei mai stato in grado di descrivere a pieno la strana impressione che le ultime parole di Silente mi avevano suscitato: per un singolo momento, avvertii come un senso di… dissociazione. Il miglior paragone che sarei stato in grado di trovare fu un bug all’interno di un videogioco. Scossi la testa, guadagnandomi un’occhiata preoccupata da parte di Mary. Le rivolsi un sorriso per farle capire che stavo bene mentre Silente concludeva il banchetto e gli studenti iniziavano ad alzarsi, ma nella mia testa si era improvvisamente scatenata una baraonda: che diavolo era accaduto? Era come se la realtà avesse subito un improvviso scossone, e nonostante la sensazione fosse rapidamente scomparsa, era evidente che fosse accaduto qualcosa di molto, molto strano.

Ci stavamo riunendo in fila per uscire dalla Sala Grande, quando udii alle mie spalle una voce strascicata: “Non avere fretta, Carter. Devo parlarti”.

Mi bloccai, resistendo alla tentazione di gettare gli occhi al cielo. Mary, al mio fianco, si fermò a sua volta, guardandomi con un mix di sorpresa e timore, ma io, con un piccolo gesto, le segnalai di andare avanti, per poi voltarmi a fronteggiare il professor Piton. La faccia dell’uomo era abbastanza inespressiva: non sembrava arrabbiato, ma mostrava una fin troppo tipica vena di disprezzo, come se stesse facendo un grosso sforzo per parlare con me in maniera civile. Non riuscivo neanche ad immaginare cosa volesse da me l’insegnante che probabilmente apprezzavo di meno in tutta la scuola: ero certo di non avere, per il momento, fatto nulla di sbagliato, non avevo avuto il tempo materiale per mettermi nei guai, ed avevo strappato la sufficienza in Pozioni l’anno precedente, quindi non trovavo una ragione per la quale Piton avesse bisogno di parlarmi prima ancora che la scuola iniziasse ufficialmente.

Cercando di essere quanto più educato possibile e di non far trasparire la minima traccia di fastidio, dissi: “Certamente, Professore. Mi dica”.

La bocca di Piton si contorse, come se avesse dato un morso ad un limone: “Avrai sentito, immagino, l’annuncio del Preside”.

Mi limitai ad annuire, non riuscendo a capire dove volesse andare a parare.

“Gli eventi secondari del Torneo Tremaghi saranno ufficialmente annunciati dopo l’arrivo delle delegazioni delle altre due scuole – continuò – Una di esse, però, sarà una competizione di duello tra una selezione di rappresentati di Hogwarts, di Beuxbatons e di Durmstrang”.

Eccola di nuovo. Ancora una volta, ebbi la strana sensazione che la realtà si fosse per un istante dissociata, come se due immagini si fossero sovrapposte per una frazione di secondo prima che ciò che avevo davanti tornasse a fuoco. Sbattei un paio di volte le palpebre nel tentativo di comprendere cosa fosse accaduto, ma tutto era tornato normale troppo in fretta perché potessi trovare una spiegazione.

Piton si rese conto del mio smarrimento, perché inarcò un sopracciglio: “Ti sembra una notizia così assurda, Carter”.

“M…mi scusi, Professore – risposi prontamente, cercando di riportare i miei pensieri sulla conversazione in corso – Ho solo avuto un piccolo giramento di testa. Un torneo di duello, ha detto?”.

L’insegnante di Pozioni mi fissò per qualche secondo, come nel tentativo di capire se stessi dicendo la verità, poi, decidendo apparentemente di non essere interessato al mio stato di salute, riprese: “Si. Come ha detto il Professor Silente, per questa edizione del Torneo Tremaghi sono stati organizzati degli eventi esterni alla competizione tra i tre Campioni, in modo da coinvolgere maggiormente il resto degli studenti. Uno, sarà, appunto, un confronto diretto per mettere alla prova le capacità nel duello magico delle tre scuole. In questo caso, poiché si tratterà di scontri relativamente amichevoli, senza l’impiego di incantesimi potenzialmente letali e attentamente sorvegliati dagli arbitri, è stato deciso di permettere la partecipazione a studenti dal quarto anno in su, purché abbiano le necessarie capacità”.

Cercando di rimuovere la strana sensazione che avevo provato, focalizzai l’attenzione su ciò che Piton stava dicendo, ed un fremito mi attraversò: possibile che…?

“Ogni scuola schiererà quattro combattenti, che si affronteranno in una serie di scontri singoli – proseguì Piton - Il Preside ha scelto uno degli insegnanti per organizzare e condurre la squadra di Hogwarts. In teoria, il professor Vitious, che in gioventù è stato campione di duelli, sarebbe stato una scelta ovvia, ma proprio per la sua esperienza è stato selezionato come arbitro degli incontri insieme a due insegnanti di Durmstrang e Beuxbatons. Sarò io, quindi, a selezionare i partecipanti”.

Possibile? Veramente? Piton intendeva sul serio quello che stavo immaginando?

“Voglio una risposta adesso, Carter. Sei disposto a prendere parte alla competizione?”.

Lo avevo intuito, è vero, ma non riuscii a fare a meno di sgranare gli occhi quando il professore confermò la mia sensazione: voleva realmente che io entrassi a far parte della squadra di Hogwarts?

“Vuole che io… che sia uno dei membri della squadra?” chiesi, mettendo una notevole dose di incredulità nelle mie parole. Lasciando perdere il fatto che andare immediatamente a scegliere un ragazzo del quarto anno senza neanche passare in rassegna i ragazzi più grandi mi sembrava insolito, l’idea che Severus Piton, che non mi aveva mai dimostrato alcuna simpatia, viste anche le mie limitate abilità nella sua materia, venisse a chiedere proprio a me di partecipare era quasi incredibile. La mia vena competitiva stava vibrando come la corda di una chitarra, ma anche se il ‘Senso di Ragno’ taceva, non potevo fare a meno di avvertire qualcosa di molto strano.

Il disprezzo sul volto di Piton aumentò di parecchi livelli: “Se non sei interessato…” iniziò a dire.

“No, no! – mi affrettai a precisare – Non è che non sono interessato! Solo che… ecco… perché io, Signore?” chiesi, con tutto il rispetto e la curiosità possibili.

Piton sospirò, come a farmi capire che riteneva superflua qualsiasi spiegazione, poi iniziò: “Ognuna delle tre scuole ha proposto un differente tipo di competizione accessoria, basandosi, ovviamente, sulle caratteristiche migliori dei suoi studenti. Hogwarts, vista l’importanza che ha il campionato da noi ed il livello dei nostri giocatori, ha proposto un torneo di Quidditch. Beuxbatons ha ideato una gara di pura conoscenza magica. L’idea di una competizione di duelli è stata lanciata da Durmstrang, che ha la magia da combattimento come materia a parte nel suo curriculum di studi. Hogwarts, purtroppo, in questo campo mostra delle grosse lacune: i duelli sono trattati in maniera molto blanda e considerati parte di Incantesimi e Difesa Contro Le Arti Oscure. Inoltre, salvo un pietoso tentativo di rilancio un paio di anni fa, da quasi due decenni non esiste più un Club dei Duellanti – il suo disprezzo salì a livelli inquietanti per un secondo quando, lo capii subito, nella sua mente ricomparve l’immagine del suo imbarazzante scontro con Allock – Da quando il Professor Silente mi ha comunicato, alcune settimane fa, che la competizione era stata approvata, ho iniziato a pensare ai potenziali membri della squadra di Hogwarts, e ho concluso di essere pietosamente a corto di candidati: non c’è un singolo elemento di questa scuola del quale mi fiderei nel caso dovessi combattere in duello – mi fissò direttamente negli occhi – Per quanto mi secchi dirlo, nella generale mediocrità tu non sei uno dei peggiori”.

Detto da uno come Piton, una frase simile equivaleva a dirmi che ero un elemento di spicco! Non riuscii a nascondere la sorpresa: “Dice sul serio, Professore?”.

Piton gettò gli occhi al cielo, come chiedendosi se fosse il caso di rimangiarsi le sue ultime parole, poi rispose: “Sfortunatamente, si – tornò ad abbassare lo sguardo e lo puntò direttamente contro di me – Credevi veramente che non sarei venuto a sapere del tuo piccolo alterco con Nott sulla riva del lago?”.

Sentii il mio sangue trasformarsi in ghiaccio: se Piton sapeva realmente che avevo malmenato Nott, era un miracolo che io fossi ancora ad Hogwarts!

Il professore dovette notare la mia paura, perché un sorriso maligno si dipinse sul suo volto: “Esattamente. Appena rientrato a scuola, Nott è venuto da me a piagnucolare perché tu lo avevi aggredito. Ti avrei volentieri fatto espellere seduta stante, non fosse stato perché la storia che mi aveva raccontato aveva più lacune di una tua pozione. Ho torchiato un po’ Nott, e a quel punto mi ha raccontato ciò che aveva fatto a Mary Sutton prima che tu lo massacrassi – Piton sospirò, quasi fosse dispiaciuto per non aver avuto modo di cacciarmi dalla scuola – In simili condizioni, come minimo sareste stati espulsi entrambi, quindi ho deciso di soprassedere. Non ho però dimenticato quanto facilmente avessi battuto Nott, che pur essendo un idiota non è di sicuro il peggiore studente di Hogwarts. C’è poi da considerare quello che è successo questa estate alla Coppa del Mondo di Quidditch”.

Non riuscii a trattenermi: “Sono stato sconfitto nello scontro al campeggio, e anche malamente!”.

Piton sbuffò, quasi a sottolineare la mia ottusità: “Sei sopravvissuto, che è più di quanto mi sarei aspettato da uno studente messo di fronte ad un Mangiamorte. Considerando la manica di teste di legno che compongono la maggior parte del corpo studentesco quando si parla di duelli, sei qualificato per fare parte della squadra di Hogwarts, sperando che siate in grado di farci fare una figura non completamente pessima”.

Ero in totale confusione: Piton mi stava offrendo di fare parte di un gruppo da lui guidato. Non mi sarei mai aspettato un simile sviluppo. La sola cosa che riuscii a fare fu annuire con la testa.

A Piton sembrò bastare: “Ti comunicherò nei prossimi giorni la data ed il luogo del primo allenamento della squadra. Ti conviene non deludermi, o ti assicuro che renderò la tua vita a scuola straordinariamente miserabile” poi si voltò e si diresse nuovamente verso il tavolo dei professori.

Mi mossi a mia volta per raggiungere l’Ingresso. Mentre salivo le scale verso la Torre di Grifondoro, cercai di mettere ordine nei miei pensieri. La totalmente imprevista decisione di Piton mi aveva lasciato a bocca aperta: la possibilità di prendere parte alla competizione non soltanto solleticava la vena competitiva di Matteo Simoncini, ma mi forniva anche la possibilità di allenarmi nel combattimento, cosa della quale sentivo di avere bisogno, in maniera palese.

Non era però quello il punto centrale delle mie riflessioni: la mia mente continuava a tornare ai due istanti di smarrimento che avevo provato mentre Silente prima e Piton poi parlavano delle competizioni secondarie del Torneo Tremaghi. Continuavo ad avere la sensazione che qualcosa non quadrasse per niente. Cercai disperatamente di scavare nella mia memoria, nel tentativo di capire di cosa si trattasse, ma si rivelò completamente inutile: i miei ricordi relativi alla saga ‘originale’ continuavano, inevitabilmente, a fermarsi al novembre dell’anno precedente, quindi non avevo modo di paragonare ad essa ciò che stava succedendo. Non potevo comunque fare a meno di pensare che quella sera fosse accaduto qualcosa di molto, molto strano, e vista la situazione complicata che già stavo vivendo, non potevo non sentirmi estremamente preoccupato.

 

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