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Titolo: Long and Lost - I
Figured Out Where I Belong
Personaggi: Derek Hale, Stiles
Stilinski, Nuovo personaggio
Pairing: DerekxStiles [Sterek]
Rating: Verde
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo, Malinconico,
Sentimentale, Slice of life
Avviso:Slash, Whatif, Kidfic
Note: Ambientata dopo la sesta stagione.
1° Capitolo
«Sei sicuro?» gli domandò Derek con
serietà, davanti le scale in pietra che conducevano al municipio, i piedi
ancora ben piantati sul marciapiede comunale prima di procedere con il grande
passo.
Le iridi d’ambrosia di Stiles si
voltarono sorprese verso quelle di giada ed improvvisamente si chiese se non ci
fosse un problema tra loro che non avesse avuto premura di accettarsi. «Certo
che sono sicuro, mai stato più sicuro di così» ma forse si era perso un pezzo?
«Non sei della stessa opinione?».
«Lo sono» confermò il lupo mannaro
con certezza, senza arrancare un colpo o soffermarsi una manciata anche minima
di secondi a rimuginarci su. «Ma dopo questo, non si potrà tornare indietro».
«Non vorrò tornare indietro, non
voglio tornare indietro» di certo nella sua vita non si sarebbe mai aspettato
di arrivare a quel punto. Poteva essere onesto e affermare che nell’età
infantile ed adolescenziale qualche pensierino gli
fosse scappato di mente, con una persona ben precisa al suo fianco e con degli
scenari piuttosto vasti ed improbabili a fare da contorno, ma nelle sue
fantasie fanciullesche Derek Hale non era mai comparso; non in quelle
romantiche prima del suo arrivo precipitoso e devastante durante i suoi
disastrosi ed impopolari sedici anni.
Derek era entrato spietatamente nel
suo campo visivo e mentale, senza che l’avesse fatto di proposito o con qualche
intenzione di alcuna sorta, ma era giunto, si era piantato come un chiodo fisso
tra i pensieri del figlio dello sceriffo e non era andato mai più via. Quindi
no, non si era mai aspettato di arrivare a quel punto senza alcuna
fantasticheria anche soltanto abbozzata con il lupo completo. «Non ci servono
documenti, attestati, firme, timbri e sigilli che rappresenti e certifichi cosa
siamo l’uno per l’altro. Non abbiamo bisogno di queste prove per noi stessi,
non dobbiamo dimostrare niente a nessuno, ma è quello che ci serve per scrivere
il nostro prossimo capitolo» ne avevano parlato così tanto e per due anni
interi, organizzando i secondi, scandagliando ogni cavillo, studiando i singoli
incastri, ponderando ogni decisione, il cambiamento profondo e indelebile che
avrebbe comportato nella loro vita, la continua crescita che portavano avanti
come persona, duo e coppia. Ne avevano affrontate talmente tante nella loro
vita e con ripercussioni spiacevoli sulle loro anime dilaniate che si erano
chiesti se ne fossero realmente in grado, se fossero pronti per quel passo così
enorme ed incredibile a cui si sarebbero dedicati per il resto delle rispettive
esistenze. «Ma forse non ti va più bene?» chiederlo gli strappò un pezzettino
di quel cuore che per Derek Hale aveva sanguinato in lungo e in largo, per ogni
motivazione possibile e che nel tempo aveva provato a rimettere a posto senza
di lui, finché il mutaforma più musone dell’intero
creato non aveva provveduto lui stesso a ripararlo con le proprie mani.
«Ti seguirò ovunque andrai, sempre»
dichiarò Derek senza alcuna remora, fermo, immobile ed inflessibile. «Se sei
sicuro, lo sono anch’io».
Un battito cardiaco arrancò un colpo
in Stiles e le labbra si sciolsero in un sorriso incredibilmente dedito, così pieno
di una felicità che pensava, in un tempo passato, gli sarebbe stata negata.
«Allora non perdiamo altro tempo, Sourwolf».
Derek lo baciò su quella curva lieta
ed incantevole, un po’ per amore e un po’, enormemente di più, per dispetto.
«Fa’ strada, ragazzino».
Stiles se lo trascinò nell’immediato,
con il passo di Derek più certo del suo, invalicabile ed incontrovertibile,
uscendo dall’edificio pubblico soltanto un’ora dopo, con in mano una copia del
documento che riportava ambedue le loro firme una accanto all’altra, stretta
tra quelle dite da cui emergeva uno scintillio particolare sull’anulare
sinistro di entrambi. I raggi solari di Washington stuzzicavano due
nuovissime e impeccabili fascette dorate identiche.
«Esilarante» fu la prima parola che
attraversò la mente casinista di Stiles quando adocchiarono il nome dell’unico
orfanatrofio che corrispondesse alle solo esigenze e richieste in città, quella
particolarità unica presente in pochissime strutture in tutto l’intero paese,
faticando a star dietro ai numeri che con gli anni andavano ad aumentare. Era
una stretta al petto che l’umano non riusciva a spianare in nessun modo.
Derek l’aveva guardato giudicante e
sopprimendo uno sbuffo ringhiato che voleva ammonirlo. Non lo trovava per nulla
esilarante.
Eppure quel vocabolo non era riuscito
a toglierselo dalla testa nemmeno quando varcarono effettivamente e per la
prima volta la soglia della Wolfgang Childhood, mesi dopo
che l’avevano trovata sull’elenco delle associazioni a protezione di quei
bambini con specificità speciali, perché soprannaturali non era un
indicativo accreditato e legale.
«Noto che siete sposati da tre mesi»
disse la direttrice, Wilkinson, dell’istituto con tono incolore, sbirciando le
carte che un paio di settimane prima avevano inviato sia via posta ufficiale
che attraverso indirizzo email autentificato.
«Sì» confermò il lupo mannaro dal
pelo nero, diretto e inflessibile.
«Non è un tempo sufficiente? Crede
che non saremmo abbastanza stabili come coppia?» domandò il figlio dello sceriffo
a raffica, indispettito dall’accento lievemente riluttante della loro
interlocutrice. «Stiamo insieme da dieci anni, conviviamo da nove e ci
conosciamo da tredici» cavolo, erano la coppia più coppiosa
che potesse esistere. Anche se doveva ammettere che Stiles era entrato a
conoscenza di Derek molti anni prima, ma il licantropo non aveva alcuna
percezione di lui. In realtà, aveva cercato di ignorarlo anche successivamente.
«Le servono dei testimoni? Abbiamo dei testimoni».
«Signor Stilinski» strascicò tra i
denti la donna, lanciando un’occhiata al foglio con il suo nome
impronunciabile. «Non siamo come gli altri orfanatrofi, le nostre procedure
sono sfoltite e più veloci, siamo più flessibili su certi aspetti, requisiti e
richieste, meno su altri. Lei è umano, sa che genere di bambini accudiamo
qui?».
Non gli piaceva quell’accusa nella
sua voce, ma forse se la stava immaginando, perché Derek non pareva per nulla
risentito o piccato, ma Stiles aveva lottato per una vita per far valere la sua
natura umana in mezzo a tutto quel soprannaturale che lo circondava in ogni
dove, precipitandogli addosso, entrandogli fin dentro le vene. Primi tra tutti,
aveva dovuto combattere con lo stesso lupastro acido
che gli sedeva a fianco. Soprattutto con lui. «Ho sposato un lupo mannaro,
quindi so benissimo di quali bambini stiamo parlando».
La direttrice non poté ignorare gli
anelli dorati che entrambi indossavano in quel momento e la data concreta del
loro matrimonio riportato sul certificato ufficiale. «E da quanto tempo conosce
questa verità?».
Stiles non riusciva proprio a capire
a cosa la donna puntasse. «Avevo sedici anni» con la vista periferica vide il
licantropo irrigidirsi e Stiles sapeva bene quanto tempo effettivo fosse
passato da allora, quanto male avessero affrontato, quanto giovane fosse
realmente in quel momento e quanto lo fosse Derek stesso nei suoi ventuno anni,
ancora una volta con un pezzo della sua anima che gli era stata brutalmente
strappata via e mai più restituita; quando a quel tempo pensava che tutta la
sua famiglia fosse stata rasa al suolo, come unico superstite lui e quello zio
in coma, che aveva considerato il suo migliore amico in un’eternità precedente,
ma che poi si era rivelato il peggiore dei suoi incubi. Il carnefice ultimo.
«Siamo un’associazione molto
riservata e non permettiamo l’accesso a persone estranee al mondo
soprannaturale» dichiarò la donna coincisa, tassativa e con delle motivazioni
alle spalle, Stiles capiva bene quella rigidità, riuscire ad ottenere un
appuntamento era stato un calvario inimmaginabile ed era stato necessario
presentare il cognome Hale per potervi accedere, con l’intera reputazione che
quel branco sfortunato e quasi estinto si era guadagnato nel corso dei secoli
precedenti. Presumeva che nemmeno la sicurezza del suo conto in banca a
sostegno di probabili piccini da adottare fosse stato ignorato, Stiles capiva
anche quello. Era necessario tenere gli umani banditi da quella cerchia
privata. «È soltanto insolito che un umano faccia richiesta di adozione dalle
nostre parti e vogliamo essere certi che sappia a cosa vada in contro, che cosa
l’aspetta, che questi sono bambini che hanno bisogno di attenzioni maggiori e
nessuna distrazione. Niente di socialmente accettabile accade con loro nella
propria vita».
«Sono pronto» dichiarò con certezza
il figlio dello sceriffo; si era preparato a quel nuovo capitolo della sua vita
insieme a Derek per anni, aveva affrontato ogni genere si avversità nei suoi
ventinove anni, tredici dei quali dedicati a creature mitologiche che l’avevano
arricchito, che aveva amato e odiato, che l’avevano distrutto e fatto
rinascere, delle innumerevoli perdite che l’avevano accerchiato e delle nuove
opportunità che gli avevano fornito. Aveva stretto i denti, serrato i pugni,
versato litri di sangue, aveva pianto e urlato ed in tutto quel cataclisma
aveva continuato a rincorrere Derek che lo teneva a quanta più debita distanza
possibile. Voleva quella opportunità, avrebbe lottato ancora e ancora per
quell’opportunità, voleva crescere uno o due bambini insieme all’uomo che amava
dall’adolescenza, i loro figli; voleva maturare ulteriormente insieme a quella
famiglia immaginaria e così dannatamente imminente che desideravano ampliare.
«Lo siamo entrambi» convenne e
sottolineò il lupo completo, prodigandosi ad afferrare una mano di Stiles,
facendone intrecciare le dita, infondendogli tutto il suo sostegno, la trave
portante che rappresentavano l’uno per l’altro. Stiles gli dedicò il più bel
sorriso pieno d’amore, affetto e gratitudine che avesse visto negli ultimi
tempi.
«Va bene» sovvenne la Wilkinson,
impilando la documentazione e sistemandola sulla scrivania. «Ho tutto il
materiale per studiare il vostro caso, vi richiamerò quando avrò una risposta
per voi. Buona giornata».
Stiles si sentì liquidato all’istante
e rimase paralizzato sulla poltrona per qualche attimo di troppo, finché non fu
il mannaro a risvegliarlo dalla sua stretta, tirandoselo via e conducendolo
verso l’uscita di quel posto infame e avverso. Non si era nemmeno congedato
come l’etichetta richiedeva ed era uscito in silenzio, sperò che almeno Derek,
perfetto ed impeccabile come fosse, non avesse peccato di orgoglio insieme a
lui.
«È stata una disfatta» proferì
l’essere umano con il morale a pezzi, l’ira e il rincrescimento che ne facevano
da padroni, una volta che abbandonarono l’edificio imponente e percossero
qualche passo per una delle vie principali della città.
«Non lo è stata» affermò fermamente
la creatura della notte, procedendo fedelmente al suo fianco.
«Invece sì!» esclamò con ardore
Stiles, fomentato ed agitato, fermandosi in mezzo al marciapiede pubblico
all’improvviso. «C’eri anche tu lì dentro, non puoi negarlo».
«Stai travisando la situazione,
Stiles» lo ribeccò il mutaforma, interrompendo
l’andatura esattamente un paio di centimetri avanti a lui. «Non era avversa nei
tuo riguardi né infastidita, hai frainteso».
«Questa è bella» lo additò l’umano
spietatamente, per nulla d’accordo con l’opinione del marito. «Non ho frainteso
nulla, riconoscere il linguaggio del corpo è il mio lavoro, sono stato
addestrato per questo, come decriptare ogni sillaba e tono usato. Sono un
detective dell’FBI, per diamine» era bravo, eccellente, anche prima; i
dettagli, i piccoli gesti, le parole, l’inflessione leggera della voce o quella
più forte, le mezze verità, le cose non dette o dette platealmente, gli
inganni, la macchinazioni, la manipolazione, i sentimenti genuini e quelli
malvagi, gli intenti con doppie finalità e le bugie inventate senza davvero una
ragione, Stiles aveva imparato a riconoscerle fin da bambino e crescendo il suo
acume si era espanso, fatto più diligente e preciso. Era sempre stato dotato
nella lettura delle persone, la base della sua diffidenza l’aveva soltanto
protetto di più.
«È vero» confermò Derek, ben
conoscitore e testimone delle sue abilità, del suo talento; ne era stato
vittima. Forse lo era ancora. «Ma quando sei coinvolto emotivamente non sei
lucido» Stiles gli lanciò un’occhiata assassina, del tutto in disaccordo con il
suo pensiero e ben pronto a mettergli davanti agli occhi i fatti di quanto non
fosse assolutamente non lucido quando era coinvolto emotivamente. «Non sempre».
Stiles sbuffò al suo ritrattare e
lasciò correre, perché in parte era purtroppo vero. «Derek».
La supplica e il dolore invasero
l’epidermide del lupo, i cinque sensi che erano costantemente attivi quando il
suo umano era nei paraggi e il corpo che era continuamente predisposto verso il
suo. «Non è successo niente di grave» le mani andarono a circondargli il viso
niveo e il tocco rilassò Stiles nell’immediato. «Fidati di me, ho delle doti
anch’io».
Le labbra di Stiles si curvano appena
verso il cielo, sotto i polpastrelli della creatura della notte che sapevano
esattamente cosa dovevano fare in sua presenza. «Doti soprannaturali?».
«Sì» confermò Derek rispondendo a
malapena al suo sorriso stanco e provato, accarezzandogli un angolo della
bocca.
«E se…» provò ancora Stiles,
frastornato dalle miliari di sensazioni che lo invadevano e non volevano
lasciarlo andare. «Se non dovessero richiamarci? Se fosse andata male? Se non
ci permettessero di adottare?».
«Cercheremo un’altra associazione, in
un'altra città, ovunque potremo andare» Derek non era uno che si arrendeva,
soprattutto non davanti ai desideri di Stiles. E ai suoi.
Stiles sapeva chi aveva di fronte,
sapeva quanto il suo uomo potesse essere temerario, quanto lontano potesse
andare, me non poteva trattenersi dal dissentire sotto le sue dita, dinegando
il capo. «E se non bastasse? Se il mio essere stupidamente e limitatamente umano
non fosse un requisito su cui si possa semplicemente soprassedere».
«Mio padre era umano» affermò il lupo
mannaro, mandando in frantumi le sue teorie complottistiche. «Non siamo una
società così chiusa come credi».
Oh,
doveva vederlo davvero a pezzi per tirare fuori un argomento che difficilmente
Derek affrontava; non che gli tenesse certi parti della sua vita occultate, non
c’erano segreti o tabù tra loro, ma Stiles sapeva quanto dolore provocasse a
Derek parlare di una famiglia che non esisteva più. Nemmeno Stiles parlava mai
troppo di sua madre. «Non devo davvero ricordati che tuo padre ti ha procreato
con tua madre, vero?» se il lupo si inorridì a quella rivelazione non richiesta
e non necessaria, ma abbastanza logica, lo nascose piuttosto bene, ma il sospiro
in fondo alla gola, soppresso, lo percepì eccome. «L’adozione è diversa, più
complicata, lunga e complessa, troppi parametri in cui rientrare, troppi veti
ed imposizioni, troppa burocrazia, troppa amarezza ed è scoraggiante,
stancante, snervante e sempre a dimostrare di essere perfetti ed impeccabili.
Ma non lo siamo, siamo imperfetti e disastrosi. Io sono un disastroso comune
essere umano, non esiste un parametro in cui posso rientrare».
«Il tuo essere umano non è mai stato
un difetto e non lo sarà adesso» Derek aveva dovuto scenderne a patti
tantissimi anni fa, prima che Stiles se ne rendesse conto.
Un sopracciglio di Stiles si arcuò e
aggrottò, insieme alle pieghe del naso che il mannaro trovava adorabili.
«Ricordo benissimo che all’inizio per te era un serio motivo di fastidio».
«Non volevo ti facessi male» ci aveva
provato davvero ad allontanarlo, a scoraggiarlo, ad infierire per tenerlo il
più distante possibile dal pericolo, ma non conosceva ancora niente di Stiles e
non sapeva quanto quest’ultimo fosse propenso a sfidarlo, a mettere in campo le
sue prodezze e dimostrargli che non avrebbe mai dovuto sottovalutarlo. Derek
aveva imparato a sue spese. Entrambi avevano pagato il prezzo troppo alto di
quella vita stracolma di rischi.
Stiles rimane ammutolito da quella
rivelazione, un po’ sospettata, ma mai espressa. Derek aveva ripetutamente
tentato di tenerlo alla larga dai guai, da qualsiasi pericolo, ma Stiles li
trovava sempre, anche dove non c’erano. Si chiese per la prima volta se quella
premura apprensiva e costante che nutriva nei suoi confronti non fosse
indirettamente riflessa su quel padre unicamente umano, senza alcun gene
mannaro che avrebbe potuto dare l’illusione di potersi salvare, che si era
trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Con la famiglia sbagliata.
Era stato un errore che un umano avesse sposato una lupa mannara, Alpha,
mettendo al mondo dei figli e allargando i gradi parentali, quelli che erano
svaniti in una nube di fumo e cenere? Erano undici le vittime dell’incendio di
villa Hale, scatenato dalla psicopatica cacciatrice Kate Argent, in cui
all’interno vi soggiornavano anche bambini umani, presumibilmente parenti dal
lato paterno. Perché Stiles non sembrava saperne abbastanza? Nemmeno Derek a
volte sembrava saperne abbastanza, del tutto all’oscuro della salvezza di sua
sorella minore, Cora, che si trovava stranamente in Sud America in quel
particolare giorno avverso – per quale ragione? –, portando il mannaro per
sette anni a convincersi che alla devastazione del ramo Hale si fossero salvati
solo lui e sua sorella maggiore, Laura, con il caro zio Peter in
condizioni precarie e profondamente distrutto ed ustionato dal fuoco. E poi non
poteva essere ignorata la prematura dipartita di Paige, trasversalmente causata
dai desideri egoistici di un Derek quindicenne; aveva sbagliato e continuava a
punirsi. «Voglio davvero crescere dei lupacchiotti con
te, Der».
«Lo so» abbozzò un sorriso flebile,
specchiandosi nelle iridi di miele desiderose e speranzose, lambendogli il naso
con il proprio e schioccandogli un bacio castamente dolce sulle labbra carnose.
«Lo faremo».
Stiles si era un po’ illuso, forse
eccessivamente troppo, quando Derek tornò a Beacon Hills. O meglio, quando
Stiles lo andò a prendere di peso, per salvarlo e scagionarlo dall’ennesima
accusa di omicidio. Era molto e troppo positivo che il lupo avesse dalla sua
parte oltre a lui, sia uno sceriffo – che casualmente era il padre del suddetto
Stiles – sia un agente a pieno servizio dell’FBI – per coincidenza fortuita
corrispondeva alla figura paterna di Scott McCall – che gli ripulirono la
fedina penale, di nuovo.
Ma cosa comportava? Cosa
rappresentava per lui riaverlo nella sua vita dopo che era sparito per quasi
due anni? Si sarebbe corretto con un
anno e mezzo. Non sapeva se fosse quel mezzo a pesare eccessivamente
su quel cuore compromesso che aveva finto fosse stato riparato in una prima
parte da Malia Tate/Hale e successivamente da Lydia Martin, il suo grande amore
fanciullesco. Il suo unico amore, avrebbe ribattuto una volta.
Ma lo era stato per quanto tempo?
Stiles sapeva di avere amato una sola persona negli ultimi tre anni di quel
frammento esistenziale, profondamente, svisceratamente, fino a procurargli
dolore fisico ogni volta che spariva dalla sua vita per andare chissà dove,
senza mai metterlo al corrente delle sue decisioni.
Aveva sedici anni quando aveva posato
lo sguardo su di lui la prima volta, consapevole di chi fosse, di chi fosse
tornato in quella sfortunata cittadina trascorsi i sei anni dalla tragedia.
Aveva sedici anni quando aveva capito
di essersi innamorato di quell’anima dannata e maledetta, offuscando tutto
quello che fino a quel momento aveva rappresentato importante per se stesso.
Aveva diciassette anni quando aveva
capito che il sentimento innocente e semplice, non troppo chiaro e
possibilmente meno complesso di quanto si aspettasse, si era sostituito a
qualcosa di ben più grande, di enorme ed incalcolabile, lacerante e
totalizzante, la fase dell’innamoramento che veniva cancellata via, estirpata,
per giungere dove mai si sarebbe aspettato. Non per la persona più tormentata
dalle avversità che avesse mai incontrato. Aveva diciassette anni quando aveva
capito di amarla e di non poter tornare indietro.
«Ehy, Der»
salutò quando entrò dopo secoli all’interno del loft su cui non aveva più messo
piede dalla sua ennesima partenza – o fuga, per gli intenditori.
Derek sembrò non sentirlo nemmeno,
comportamento a cui l’umano aveva smesso di reagire tempo prima, ma in
quell’attimo non sembrava volerlo ignorare deliberatamente, semplicemente si
guardava attorno senza che riuscisse a riconoscere nulla di quello che gli era
intorno, di quello che meno di diciannove mesi prima gli apparteneva di
diritto, circondandosene.
Stiles non sapeva proprio come avrebbe
dovuto reagire, se togliere il disturbo o rimanere; all’interno dell’edificio a
volte faticava a calcolare se possedesse una maggiore quantità di ricordi
felici o infelici. Era successo di tutto e sia lui che il lupo completo ne
erano stati protagonisti, vittime e testimoni immobili, esamine.
«O resti o te ne vai» Derek la sua
indecisione dovette percepirla interamente e mal digerire.
Stiles ci impiegò meno di un secondo
a decidere di far scorrere la porta dietro di sé e accomodarsi sul divano che
probabilmente aveva bisogno di una spolverata, come tutto il resto.
Il silenzio perdurò per una notevole
quantità di tempo e Stiles, rigido e fremente, lo rispettò, lasciando al
padrone di casa tutto lo spazio di cui avesse bisogno. Se non l’avesse voluto
tra i piedi, l’avrebbe buttato fuori senza ripensamenti, giusto?
«Stiles» strascicò tra i denti
stretti, voltandosi appena verso di lui, distogliendo lo sguardo da
quell’enorme vetrata, unica attrice di quello spazio senza mura divisorie.
«Cosa vuoi?».
«Volevo solo vedere come te la
passassi» Derek gli rispose con un’alzata scettica e giudicatrice delle
sopracciglia, nemico numero uno dei convenevoli vuoti. «Che progetti avessi».
«Progetti?» domandò di riflesso la
creatura della notte, quasi non riconoscesse il significato di quel vocabolo.
«Sì, sei tornato, ma adesso? Resti?
Andrai di nuovo via?» a Stiles costava anni di vita quella serie di domande che
in passato non avrebbe neanche potuto accennargli.
«Non ho piani» Derek appariva
completamente distaccato da quell’aspetto, come se non ci avesse riflettuto
affatto e Stiles non stentava a crederci. «Quali sono i tuoi?».
Oh, quello non se l’aspettava
proprio. «Tornerò indietro a finire il mio percorso e poi volerò dritto al
college».
«College?» chiese stupito il lupo
mannaro, guardandolo per la prima volta da quanto era entrato nell’appartamento
con interesse. «Pensavo ti saresti limitato all’accademia».
Erano accadute alcune cose durante il
loro viaggio che li avrebbe condotti a Beacon Hills a salvare il branco targato
McCall. In tutta onestà non erano di chissà quale grandezza, ma mentre
guidavano per autostrade e statali, dandosi spesso il cambio quando si
percepiva stanchezza nell’atmosfera, il bisogno di essere più veloci, la
preoccupazione e l’ansia che appestavano l’abitacolo, si erano trovati perfino
a parlare tra loro, a snocciolare parole come se avessero bisogno di rendere il
proprio compagno d’avventura al corrente di tutto quello che si erano persi
stando a miglia di distanza. Non si erano detti ogni cosa, molte erano state
lasciate all’immaginazione dell’interlocutore o semplicemente non bisognavano
di approfondimento, ma altre erano state descritte nel dettaglio. Con la fatica
che si faceva sentire, avevano avvertito l’esigenza di fermarsi per qualche ora
in uno squallido motel da viaggiatori a raccogliere le forze, recuperare un
sonno perduto che avrebbe potuto rivelarsi fatale nel caso fossero stati messi
alle strette. Per Stiles si era rivelato un incubo condividere la camera con
Derek, la vicinanza impalpabile anche se abbandonati in due letti singoli
separati, la percezione che lampeggiava per l’essenza del lupo che lo lambiva,
ma che non poteva toccare, allungare distrattamente la mano e azzerare il
divario insormontabile che c’era tra loro. In cuor suo era consapevole che
Derek percepisse il tumulto delle sue emozioni, i sentimenti che lo
consumavano, ma non si espresse in alcuna maniera in merito né gli fece pesare
la sua agitazione. «No, quello è solo un corso preparatorio. Del tipo: cosa
vuoi fare da grande? Da lì ti forniscono gli strumenti e le informazioni che
potrebbero servirti nel caso volessi continuare su quella strada» anche se il
figlio dello sceriffo conosceva perfettamente la prassi da seguirsi, ma non era
riuscito a rinunciare alla possibilità di frequentare quel corso formativo.
Derek lo guardò attento, quasi non si
lasciasse scappare un solo battito di ciglia, e si avviò verso l’altro capo del
sofà, approcciandosi a sedervisi. «Ed è quello che vuoi fare?».
«Non mi dispiacerebbe l’idea» in
realtà aveva adorato tutto il tempo che aveva passato in quella stanza
stimolante, anche se nel medesimo tempo lavorava sotto copertura, illegalmente,
per riuscire ad arrivare a Derek prima di loro. «Semplicemente non avevo mai
davvero considerato a quale organo governativo fare riferimento».
«FBI, quindi» sentenziò il mannaro
per lui, in una conclusione definitiva.
«Sì» ma fin dove l’avrebbe portato?
L’assenza di suoni perdurò e per la
prima volta Stiles si chiese come avrebbe dovuto romperlo. Se avrebbe potuto.
«Quale college?» chiese invece il mutaforma, lasciandolo sfiancato.
Stiles provava degli enormi giramenti
di testa, quasi le vertigini. «SUNY».
Derek lo guardò in tralice,
profondamente, come se volesse scavargli dentro e carpirgli delle informazioni
che teneva per sé; o quantomeno tentava. «New York».
Per la prima volta l’umano si sentì
profondamente smascherato, denudato, come se Derek gli avesse appena strappato
il grande segreto che teneva per se stesso. Ma non era
mai stato premeditato, era una coincidenza che non riusciva a classificare a
che categoria appartenesse. «Sì, nello specifico il campus SUNY OldWestbury, specializzato in
criminologia» il college che aveva scelto possedeva
un numero sproporzionato di campus in tutta la città, molti condividevano lo
stesso titolo di studio, ma i percorsi erano strutturati in modo differente,
con corsi avanzati ed esclusivi a secondo della richiesta, si acquisivano
determinate nozioni che davano quel tocco di diversità, offrendo ad ogni
studente la possibilità di trovare la strada più adatta.
«Long Island» fu tutto quello che Derek proferì, fermo, tassativo e brusco, i fantasmi
che prendevano forma.
«Sì, come…» c’era notevolmente
qualcosa che gli stava sfuggendo di mano. «Come lo sai?».
«Vivevo da quelle parti con… Laura»
l’esitazione fu devastante, peggio fu completare il pensiero. Il nome. «In
realtà, possiedo ancora quell’appartamento. Buffo, l’avevo rimosso».
Buffo? Non pagava le tasse? Le
bollette? Un mutuo? Era così disinteressato ai soldi, al patrimonio
sproporzionato ottenuto con lo stermino della sua famiglia – aveva ereditato
anche la quota di Laura alla sua morte? – da non notare prelevamenti automatici
concordarti, per esclusione, in precedenza? In un’altra vita, quando nel mondo
i sopravvissuti Hale erano soltanto due, lui e la sua Alpha, sua sorella
maggiore.
«Ti serve?» domandò ad un tratto il
lupo mannaro, un’insensata e immotivata rabbia, probabilmente scaturita da
qualcosa che non aveva nulla a che fare con l’umano.
«No, cosa? No» Stiles era tramortito,
terrorizzato e non aveva alcuna idea di come dovesse davvero sentirsi. «Ho una
borsa di studio, l’alloggio è compreso» si interrogò sulla possibilità se anche
quell’appartamento sconosciuto fosse un monolocale.
Derek tornò nel suo mutismo e Stiles
era così pentito di rimanere lì, a farsi distruggere, a vedere l’uomo che amava
annientarsi per delle conseguenze dovute alla sua presenza che non aveva
minimamente calcolato. «Non ti sto inseguendo, Derek» perché? Perché era così avventato a non ragionare mai su quello che la
sua bocca avrebbe dato fiato? Perché era così incauto da non controllare
minimamente la sua impulsività?
Le iridi verdi del lupo lo
attraversarono da parte a parte e Stiles seppe di aver perso. «Non lo penso».
Stiles non credeva affatto che
corrispondesse alla verità.
«Quando ripartirai?» gli chiese
invece il mannaro, quasi non volesse che la conversazione si concludesse,
estrapolando quante più informazioni possibili.
«Tra due giorni» riuscì soltanto a
farfugliare, con un groppo tremendo alla gola. «Ho ancora un paio di settimane
di corso e poi mi dirigerò direttamente al college, ho una proroga finché non
avrò terminato» l’illusione stava tornando a perseguitarlo? Ad ingurgitarlo? La speranza era l’ultima a morire, ma era la peggiore dei nemici per chi
avrebbe dovuto imparare a rassegnarsi.
«Fammi sapere se ti serve un punto
d’appoggio» affermò Derek senza crederci davvero, senza che ci fosse una reale
azione che lo guidasse.
E quello era tutto.
«Che succede?» lo risvegliò Lydia da
dei pensieri che non avrebbe dovuto possedere, da tormenti che non sarebbero
dovuti esistere. Cristo, aveva una relazione, era
impegnato e coinvolto sentimentalmente ed invece tutto quello su cui riusciva a
concentrarsi era quel dannatissimo lupo misantropo.
«Non succede niente» sarebbe cambiato
qualcosa se fosse accaduto il contrario?
«Oh» soffiò Lydia, piazzandosi davanti
al cofano dell’amata Jeep azzurra di Stiles, su cui era appollaiato. «Penso di
sapere cosa sia successo».
Il ragazzo la guardò con sguardo
interrogativo, inclinando leggermente il capo e tentando in qualche maniera di
carpire la sentenza prima che gliela rivelasse lei. «Sarebbe?».
Lei gli rispose con occhi furbi,
sorridendogli ilare. «Derek è tornato».
Quello avrebbe risposto ad ogni
quesito, corretto? «Sì, Derek è tornato».
La banshee gli si sedette accanto,
scuotendo leggermente la lunga gonna e poggiandosi appena. «Gli hai chiesto di
seguirti?».
Stiles aveva l’impressione di essere
appena ruzzolato sgraziatamente sull’asfalto. «Perché dovrei chiedergli una
cosa del genere?».
«Sappiamo entrambi quanto lo ami»
rivelò candida, veritiera, senza nessuna accusa o risentimento, la voce della
sua coscienza che prendeva finalmente forma e lo metteva davanti ad una
oggettività incontrovertibile.
Sogno o son desto? «Lo sappiamo?».
«Sì» confermò la bionda fragola con
autenticità.
«Amo anche te» non aveva mai dubitato
di quello.
«Non allo stesso modo» lo contradisse
lei, quasi lo sapesse meglio di lui stesso. Forse era così.
«No» convenne, erano due tipi di
amore completamente distinti e separati. Un amore fanciullesco e un amore
adulto. Un amore nato dal cuore di un bambino che non aveva ancora conosciuto
nessuno dolore, che vi avrebbe trovato svoltando l’angolo, e un amore di un
ragazzo che aveva sofferto ogni tormento possibile, versando lacrime di sangue
per una metà che sentiva appartenergli. «Non allo stesso modo».
«Allora, glielo hai chiesto?» Lydia
si sistemò meglio, guardando la vegetazione totalmente verde che gli balenava
davanti.
«Non ne sono sicuro» Stiles in realtà
non aveva capito niente di quello che era accaduto tra lui e Derek. «Intrinsecamente, forse?».
La rossa ne rise deliberatamente
deliziata e Stiles non poteva per nulla colpevolizzarla, in più adorava la sua
risata.
«Quindi, è finita?» domandarlo gli
chiese un enorme sforzo, maggiormente di quanto ne sentisse la necessità. «Tra
noi».
Lydia lo fissò deliberatamente negli
occhi, senza permettergli di sfuggirgli. «Ha senso continuare?».
«No» aveva mai avuto senso? Quello
che c’era tra loro era terminato così com’era iniziato e si chiese se fosse
realmente mai iniziato qualcosa. «Non sei stata un rimpiazzo, Lyds» sentiva che era importante specificarlo, che non vi
era mai stato nessuna intenzione di renderla tale; nessuna delle sue ragazze.
Ma possibile che in qualche modo, senza che lui ne avesse minimamente
coscienza, l’avessero percepito?
«Non mi sarei mai abbassata a tanto»
dichiarò la rossa senza inclinature, le iridi verdi che lo guardarono serie e
prive di fraintendimenti, la conoscenza sopraffina che aveva di lui, poi un
ambiente privo di suoni si presentò, quasi a concedergli un angolo di mondo
riservato per respirare senza mettersi fretta.
La banshee saltò in piedi con grazia
subito dopo, scostandosi dall’auto e scomponendosi i lunghi capelli biondo
fragola. «Non puoi dire di non averci provato. Provato ad andare avanti senza
di lui» ma non era servito a nulla la fantasia fallace che si era costruito.
«Magra consolazione» in realtà non
vedeva nulla di positivo in tutta quella situazione. Aveva avuto due ragazze
stupende, le aveva investite di affetto ed attenzioni, ma nessuna di loro riusciva
ad ottenere l’effetto sperato. Nessuna di loro riusciva ad eliminare il
profondo e radicato sentimento d’amore autentico che provava per Derek Hale.
Lydia rimase in religioso silenzio
per un lungo arco temporale, fissando il cielo azzurro e godendosi la leggera
brezza che le accarezzava il viso, scuotendo le cime degli alberi secolari che
li avvolgevano, simulando un abbraccio protettivo. Peccato che quelle stesse
radici inviolabili nascondessero le peggiori insidie. «Sai, non penso che Derek
sia davvero del tutto immune al tuo fascino».
Stiles rise veramente divertito,
forse un po’ sguaiatamente, forse anche un po’ in collera con se stesso, burlandosi spietatamente della propria persona.
«Ho del fascino?».
«A modo tuo» lo pizzicò la banshee
con affetto, dedicandogli una curva complice e mordace, da vera presa in giro.
«Spero che troverai quello che stai cercando».
«Anche tu» proferì Stiles quando la
osservò congedarsi, l’ultimo sorriso comprensivo che le avrebbe visto prima di
partire, a chiedersi quando mai l’avrebbe rincontrato. A domandarsi se avesse
permesso al suo antico sogno bambinesco, rincorso per oltre otto – nove e dieci
– anni, di abbandonarlo troppo facilmente e freneticamente, imponendogli di
sgretolarsi e volare via.
Due giorni dopo aveva preso un volo
per tornare a Quantico, per terminare il suo corso preparatorio con il
risultato migliore che potesse ottenere, e quando l’aveva lasciato nelle
settimane successive, per prendere un ulteriore aereo e raggiungere New York,
la casa che l’avrebbe ospitato per i prossimi quattro anni, si chiese se una
volta terminati i suoi studi accademici, ci sarebbe mai tornato per completare
l’addestramento ed avere l’opportunità ultima di essere un candidato papabile
per divenire un ottimo agente dell’FBI.
Nel suo nido da scapolo universitario
si sistemò in fretta e furia, come se fosse in ritardo sulla tabella di marcia,
ma l’inizio dei suoi corsi erano previsti soltanto nei tre giorni successivi,
permettendogli di ambientarsi ed esplorare il campus come meglio credeva,
magari provando ad istaurare dei rapporti sociali che gli avrebbero permesso
quell’esperienza condivisa più piacevole.
«Chi è quel ragazzo?» ma la piega
degli eventi fu destinata a cambiare al quinto giorno, quando uscendo dall’aula
di scienze politiche – corso facoltativo, ma molto apprezzato dai piani alti –,
seguendo il gruppetto di studenti e futuri colleghi con cui aveva conferito
fino a qualche momento prima, conducendolo verso l’uscita, uno di loro pose
quella domanda pericolosa, del tutto inconsapevole che la vita del figlio dello
sceriffo avrebbe avuto una svolta completamente inaspettata.
«Il bel tenebroso?» indagò
qualcun’altra in risposta, lanciando occhiate per niente disinvolte.
Le iridi ambrate di Stiles ebbero
bisogno di qualche attimo di troppo rispetto ai suoi interlocutori per mettere
a fuoco ciò che attirava tutta la loro attenzione, stranamente non
particolarmente curioso dei pettegolezzi che di lì a poco sarebbero potuti
sorgere, probabilmente perché quel giorno aveva già seguito tre lezioni
diverse, con nessuna correlazione tra loro e la sua mente apparisse
ignobilmente stanca. Nel momento in cui poté dare un nome al volto che attirava
tutte quelle considerazioni – probabilmente per il suo sguardo stoico ed
assassino, per nulla propenso ad emettere vibrazioni positive –, credette che
il suo petto avesse cessato di battere. O stesse andando talmente tanto veloce
da non avere le capacità di stargli dietro.
Stiles e il non tanto sconosciuto si
riconobbero in un soffio di vento incorporeo e l’umano fu attraversato dalla
terribile ed infatua certezza che fosse lì per lui. «Scusatemi, devo allontanarmi
per un minuto».
Una serie di lo conosci? Sai chi è? Da dove salta fuori? Che cosa vuole? lo
bersagliarono, ma gli scivolarono tutti addosso, precipitandosi verso la statua
da dio greco che lo stava aspettando. «Derek» fu tutto quello che riuscì a
bofonchiare a stento, quasi in apnea, un fiatone immotivato che gli addentava i
polmoni. «Ehy, che ci fai da queste parti?» forse
sarebbe stato più appropriato chiedergli cosa ci facesse esattamente a New
York.
«Sono venuto a controllare la casa»
fu la risposta pronta che la creatura della notte gli diede, imperturbabile al
ritrovarselo davanti.
La casa? La stessa casa di cui
aveva dimenticato l’esistenza? «Poi mi sono ricordato che dovessi già essere
nei dintorni».
Dio, Derek lo stava aspettando sul
serio. «Io… sì, sono arrivato qualche giorno fa» l’ossigeno stranamente
cominciò a scarseggiare e la morsa all’apparato respiratorio si fece più
mordente. «Gentile da parte tua passare» gentile? Ma Derek lo era stato
mai?
Fu imperativo che il mutismo calasse
nuovamente su di loro, non gli era mai pesato in passato, riempire i silenzi
era il suo compito e Derek faceva finta di esserne abbastanza infastidito,
quando in realtà l’attendeva al varco, a farsi assordare dai suoi sproloqui
incompiuti, tuttavia in quell’istante la gravità del peso lo sentiva eccome,
era un macigno sullo stomaco di cui non aveva le nozioni per disfarsene. «È
tutta intera, la casa?» soltanto nel secondo successivo si rese conto di quanto
infelice fosse quell’uscita, assalito dall’immagine di una casa che
effettivamente era caduta a picco, sprofondando tra le ceneri.
Le iridi di giada del mannaro si
pietrificarono su quelle di miele, congelando la scenografia. «Non sono
riuscito ad entrare» accidenti, non poteva essere vero.
«Ho aperto la porta e mi sono reso conto che era esattamente tutto come l’avevo
lasciato».
Stiles si sentì risucchiare dal suolo
che avrebbe dovuto sostenerlo, ma non si sentiva sostenuto, saldo su quelle
gambe lunghe che correvano da un’aula all’altra senza fermarsi, inciampando di
tanto in tanto, giusto per non togliersi il vizio e far presente la sua firma
indiscussa di ragazzo senza coordinazione. Stiles sentiva la morte nel cuore,
una morte che non gli apparteneva, un lutto che gli balenò Derek non avesse mai
superato, affrontato ed accettato. «E cosa hai fatto?».
«Ho chiuso tutto e ho cominciato a
camminare senza meta, finché non mi sono ritrovato qui» rivelò il licantropo,
più a se stesso che al suo interlocutore, come se non
avesse affatto ascoltato la domanda sussurrata e trattenuta del figlio dello
sceriffo.
Stiles era quasi certo che gli
servisse nell’immediato una bomboletta di ossigeno per riprendere fiato. Cos’è
che Derek stava effettivamente cercando? Gli occorreva una faccia amica? Una
qualunque? Da quanto tempo lo stava attendendo impalato lì davanti all’ingresso
del campus, tentando di scorgerlo prima o poi tra la folla frastornante di
studenti? Le sue doti mannare potevano venirgli in soccorso?
Ritrovarsi in quello stato Derek
sapeva non fosse l’ideale; così distrutto, sopraffatto, vuoto ed
inspiegabilmente bisognoso di lui, lo stava lacerando ed aveva soltanto una
minima percezione di quali pensieri disturbanti e dolorosi stessero
bersagliando la mente della creatura della notte. «Qui ho finito» disse
indicando l’edificio dietro di lui, afferrando tutto il coraggio che sapeva
volersela dare a gambe. «Ho bisogno di mettere qualcosa sotto i denti, mi
accompagni?».
Derek non se lo fece ripetere e per
Stiles anche quello risuonava come un campanello d’allarme.
Fu Derek a condurlo all’interno di
una tavola calda vicino al college, Stiles non aveva ancora imparato nulla
sulla zona ed aveva sempre mangiato alla mensa, quindi fu piacevole che
qualcuno di loro sapesse cosa stesse facendo e dove andare senza tentennamenti,
dimostrazione che il mutaforma avesse davvero vissuto
da quelle parti, per ben sei anni.
Non parlarono quasi di niente di
concreto, Derek si limitata ad i suoi soliti mugugni senza finalità, giusto per
fargli presente che lo stava ascoltando, mentre Stiles lo riempiva di
chiacchere rumorose ed a volte impedite, balbettando quando accavallava una
parola con un’altra, per l’eccessiva velocità della sua logorrea. La nota
positiva fu il cibo rivelatosi davvero molto buono e doveva assolutamente
appuntarselo. «Che cosa hai intenzione di fare?» la patata bollente prima o poi
sarebbe dovuta saltare fuori.
«Nell’immediato futuro?» chiese
retoricamente il lupo completo, ricevendo un cenno d’assenso dall’umano.
«Trovarmi una camera d’hotel».
Un hotel? Uno di quelli ultra
lusso, cinque stelle più una, da mille dollari una camera a notte – quando il
prezzo era ottimistico?
Derek si lasciò scappare un singolo
colpo di risa quando il naso di Stiles si arricciò contrariato a quel piano e
sentì un battito quasi mancare nella sua direzione, cogliendo entrambi
impreparati. «Non approvi?».
«Piango per il tuo portafoglio» Stiles
era una persona troppo parsimoniosa, soprattutto se era a conoscenza di un
appartamento di proprietà che era pronto per ospitarlo, senza aggiungere un
centesimo in più, ma poteva capire quanto estenuante e drammatico fosse per
Derek tornare dentro delle mura che soltanto fino a tre anni prima avevano
accolto lui e Laura, riprendendo in mano le loro vite e provando ad andare
avanti, ricominciare, convinti che null’altro male potesse colpirli,
sopravvissuti all’annientamento dell’antico branco Hale.
«Vuoi vederlo, non è così?» domandò
il beta dagli occhi blu metallico, ricevendo un’alzata interrogativa del
sopracciglio da parte del suo interlocutore. «L’appartamento».
«Beh, sono alquanto curioso, sarà
anche questo un tugurio immerso nell’oscurità, dove tutta la luce viene
assorbita?» proferì con sarcasmo il figlio della massima autorità di Beacon
Hills, esibendosi nel suo più famoso ghigno malizioso.
Gli angoli delle labbra di Derek si
arricciarono appena e Stiles stava ottenendo troppe vittorie in una volta sola;
era esaltante. «Non oggi, ragazzino».
Stiles gli dedicò il sorriso da volpe
furba quale era. «Farò il bravo bambino».
Derek era decisamente rassegnato, ma
non se ne lamentò affatto.
Per tutta la settimana seguente Derek
passò a prenderlo ogni giorno, portandolo a mangiare in un posto continuamente
diverso, ritrovandosi sempre ad essere premiato dai suoi mugugni contenti e
deliziati quando addentava qualcosa che rientrava tra i suoi gusti, facendogli
cantare le papille gustative. Era anche l’unico tempo libero che Stiles aveva e
Derek se ne appropriava senza neppure premurarsi di chiedergli il permesso, non
che il ragazzo si tirasse indietro.
«Penso che una volta che mi sarò
laureato, mi dedicherò a qualche specialistica. Probabilmente giustizia penale»
dichiarò il diciannovenne sovrappensiero, mordendo probabilmente la patatina
fritta più buona del mondo. Dio,
Derek conosceva talmente bene i suoi gusti alimentari da essere quasi
allarmante.
«Punti in alto, eh» Derek non ne era
nemmeno troppo sorpreso, Stiles era talmente talentuoso e propenso a compiere
più cose allo stesso tempo, che sarebbe stato quasi un peccato capitale
limitarsi ad un seminato sobrio.
«Non voglio precludermi alcuna
possibilità» il programma per accedere all’FBI era molto duro e chiaro, Stiles
conosceva ogni passaggio. «Ma
prima dovrò tornare a Quantico e successivamente trovarmi un posto nella
polizia locale o statale» c’era talmente tanto da fare che poteva quasi esserne
sopraffatto, probabilmente perché aveva la mania di correre.
«Non avere fretta, Stiles» lo rabbonì
Derek, fin troppo consapevole dei pensieri assordanti che si stavano
accumulando in quel preciso momento.
Stiles sospirò esausto e si passò una
mano tra i capelli indomabili, contraendo le spalle. «Mi sento soltanto in
ritardo sulla tabella di marcia».
«Un paio di mesi non fanno un
ritardo» Derek sapeva che Stiles aveva preferito ritardare la sua
frequentazione all’università per dedicarsi al corso preparatorio, un corso che
era offerto a pochi. Era una notifica in più che sarebbe risaltato sul suo
curriculum perfetto, che aveva ben intenzione di riempire. «Rilassati».
Stiles gli dedicò un sorrisetto
saputo e leggermente divertito, probabilmente investito di stupore. «Lo sai con
chi stai parlando?».
«Ahimè» con la persona più iperattiva
e sconclusionata che conoscesse.
Stiles rise, davvero, di cuore.
Poteva confessare di trovare Derek divertente? Probabilmente era un aggettivo
che nessuno gli avrebbe mai attribuito e nemmeno il lupo l’avrebbe accettato,
ma Stiles non riusciva a non vederlo sotto quella luce, a ridere con lui, ad
alleggerirsi un po’ l’animo pessimistico. Era un divertimento cupo e sottile,
ma lo adorava. E adorava trascorrere il suo tempo con lui, si sentiva bene. Ma
forse non era il più affidabile dei testimoni, eppure poteva dichiarare di
essere la persona che lo conosceva e comprendeva meglio. «E tu, come passi il
tuo tempo?» di certo non entrando nell’appartamento
che gli apparteneva ed affrontando i fantasmi che vi erano dentro, continuando
a preferire strapagare una camera d’albergo che non gli serviva.
«Mi guardo un po’ in giro» riferì la
creatura della notte, bevendo il suo caffè annacquato mediamente nero e
ristretto. Stiles non sapeva cosa avrebbe mai dovuto significare
quell’espressione. «Sono passato per le vie delle case degli studenti del mio
vecchio college».
«Che?» aveva sentito bene? «College?
Tu?».
Il lupo lo fissò con giudizio severo,
perdurando nell’istantaneità del momento con la tazza di ceramica in mano. «Sì».
Okay, forse non avrebbe dovuto
apparire così sorpreso, era molto poco lusinghiero e magari poteva evitare di
strozzarsi con l’acqua. «Hai appena distrutto la mia idea di lupo delle
caverne» che era una mezza bugia, Derek era incredibilmente colto e preparato,
era un pozzo di conoscenza da cui attingere e Stiles si era deliziato fin
troppe volte di ascoltarlo dispensarla.
«Veramente costernato» Derek lo prese
spietatamente in giro e Stiles lo amò un pochino di più.
«Quale college hai frequentato?» era
affamato di sapere, pensava di conoscere ogni curiosità su Derek, ma in realtà
non era per nulla vero. Il nato lupo era un libro da migliaia di pagine ancora
da scoprire.
Le dita del licantropo ticchettarono
sulla porcellana della tazza, il nuovo sorso che prese dalla bevanda che
lentamente si raffreddava e l’evidenza di quanto stesse rimandando l’esternare
della risposta. «Columbia».
Stiles non riuscì proprio a
processare l’informazione che gli veniva consegnata, il suo cervello andò quasi
in tilt; gli sembrava così impossibile da credere che si stesse burlando di lui
senza una reale ragione. «Columbia?» gli fece eco, scandendo sillaba per
sillaba e chiedendo allo stesso tempo se fosse la stessa università che aveva
nella mente. «Ma è ad un’ora di auto da qui, con i mezzi pubblici è persino il
doppio» non che pensasse che Derek avesse mai usato un mezzo pubblico in vita
sua, probabilmente non l’aveva nemmeno mai adocchiato da lontano, ma gli
forniva chiaramente quanto la distanza fosse enorme dal luogo in cui si trovano
in quel momento, quanto disaggio creasse raggiungere un punto dall’altro.
«Sì» Derek si limitò a confermare
senza che fosse minimamente turbato o comprendesse lo sbalordimento dell’umano.
Se fosse stato vero, non avrebbe
esitato nel fornirgli quel nome, era più credibile che se ne vantasse. «Allora…
perché l’appartamento si trova qui?» non vedeva la logica in quella scelta,
ancora meno comprendeva le azioni del mannaro in quei giorni. Dopo il viaggio
faticoso e lungo che l’aveva visto quel giorno, andando a curiosare nel
perimetro del suo vecchio college, perché era tornato perfettamente in orario
soltanto per non mancare al loro appuntamento concordato silenziosamente dalla
loro scoperta quotidianità?
La tazza per metà piena di caffè fu
poggiata sul tavolo a cui sedevano, lo sguardo che si faceva improvvisamente
lontano e Stiles si ritrovò a pentirsi enormemente della domanda. «La vita di
Laura era già iniziata qui, prima che tornasse per prendermi con lei» i
fantasmi sgusciarono silenziosi sulle iridi boscose, quasi di passaggio, un
bussare leggero in un avviso di cortesia, per poi svanire, ma Stiles sapeva che
nulla andava via. «Anche lei frequentava la SUNY, amministrazione
aziendale, nel tuo stesso campus» il figlio
dello sceriffo impallidì per la notizia e Derek non poteva proprio negarsi tale
reazione; aveva sentito un vuoto e una risata derisoria in fondo alle orecchie
quando Stiles gli aveva comunicato i suoi propositi futuri nella penombra del
loft di Beacon Hills. L’universo aveva uno spietato senso dell’umorismo. «Ci
serviva una casa, io avevo soltanto quindici anni e nessuna idea del futuro, ha
scelto in base alle esigenze che avevamo in quel momento» con gli occhi rivolti
al passato, sapeva fosse stata la sua eroina. «In seguito aveva anche trovato
lavoro a venti minuti dall’appartamento, per lei si era rivelato essere una
scelta azzeccata ed a me non è mai pesato la distanza che dovevo percorrere».
Stiles sentiva della devozione
nell’aria e la stretta al petto che andava a stringersi si accentuava per quel
piccolissimo antro di paradiso che Derek in qualche modo aveva trovato, ma che
gli era stato nuovamente sottratto. «E in cosa…» ah, com’era diventato difficile mettere in fila le parole, eppure sapeva
di dover direzionare la conversazione su qualcosa di diverso. «In cosa ti sei
laureato?».
«Non l’ho fatto» la risposta di Derek
fu lapidaria.
«Perché no?» Stiles aveva seriamente
paura di chiedere, di addentrarsi in un territorio che si stava rivelando
eccessivamente tortuoso. Ma c’era qualcosa che non lo fosse con Derek Hale?
«Avevo appena iniziato il terzo anno
quando Laura scomparve» nel momento in cui aveva smesso di ricevere
aggiornamenti regolari da parte di sua sorella, cominciando a tartassarla di
chiamate senza risposta, Derek aveva lasciato tutto e l’aveva raggiunta alla
meta da lei indicata, Beacon Hills – la città da cui erano scappati e gli aveva
tolto ogni affetto familiare –, ma tutto ciò che l’aveva atteso, a discapito
del ricongiungimento sperato incolume, fu il suo cadavere dilaniato in due.
Tradita e uccisa dal loro stesso zio per sottrarle il potere di Alpha. «Non ci
ho più pensato, non era importante» non ne aveva avuto il tempo né la voglia.
Perché? Perché Derek si trovava lì?
In una città che conservava forse ancora più dolore e rammarico di quella che
aveva abbandonato negli anni precedenti? New York aveva rappresentato una
possibile rinascita; ricominciare, lasciarsi la tragedia alle spalle per
ricostruire qualcosa di nuovo, di stabile, qualcosa che valesse e giustificasse
tutta quella distruzione, ma era stato ripagato con maggiore accanimento,
crudeltà e annientamento. Derek aveva perso tutto, di nuovo. Aveva perso ciò
che aveva provato a ricostituire nella Grande Mela e poi nuovamente a Beacon
Hills: il branco, lo stato di Alpha guadagnato appartenuto a Laura, una sorella
minore ritrovata, ma che aveva preferito tornare indietro, ed era stato
spogliato perfino della sua stessa natura soprannaturale. Che cosa aveva
ottenuto in cambio? Divenire uno splendido lupo completo era la giusta moneta
di scambio? E cos’era rimasto? A Derek non era rimasto niente, se non fantasmi
e rimpianti.
Stiles si sentiva così male, stava
morendo dentro, gli scoppiava il petto dallo strazio e non riusciva a
respirare, sentiva un attacco di panico dietro l’angolo e non poteva
permetterselo, perché non era giusto, non aveva il diritto di soffrire per e
con lui. «Quale facoltà avevi scelto?».
Derek non distolse mai l’attenzione
dal figlio dello sceriffo, era quasi certo che potesse sentire e captare tutto
lo scompenso che gli viveva dentro, poteva ascoltarlo dirgli attraverso quelle
perle di giada eloquenti non star male
per me,caccialo fuori, ma Stiles non ne era in grado, non credeva
neppure di volerlo. «Letteratura».
Uno sbuffo di risa gli sfuggì dalle
labbra serrate ed era davvero tutto troppo inopportuno, farsesco per credere
che potesse essere reale, ma lo era e si chiese a chi avrebbe dovuto vendere
l’anima per avere quell’uomo meraviglioso per sempre nella propria vita. Ma la
sua anima era già stata venduta, rubata e strappata via senza il suo consenso,
da uno spirito oscuro millenario, un Nogitsune, che l’aveva condannato
nell’eternità dell’esistenza.
«Lo trovi divertente?» domandò il
mannaro con scetticismo e leggermente adirato, aggrottando le folte
sopracciglia.
«È proprio da te» Stiles ne era
talmente deliziato che sarebbe imploso. «L’uomo che non parla, ma che ama le
parole».
Derek soffiò insofferente,
considerandolo una causa persa, nascondendosi dietro la sua bevanda fumante e
Stiles gli sorrise ammaliante.
Derek non riuscì a rinunciare ai loro
sprazzi ritagliati di tempo nemmeno nei giorni a seguire.
La Wolfgang Childhoodfece
squillare il cellulare personale di Derek un mese dopo, accettò la chiamata
senza neanche guardarsi intorno. «Vogliono che presentiamo delle lettere di
referenza».
«Che cosa?» chiese furioso Stiles
saltando giù dal divano a penisola, talmente carico di elettricità da
rappresentare un pericolo.
«È la procedura» a volte Derek aveva
bisogno di fargli presente fatti che conosceva meglio di lui, ma che
l’escandescenza cancellava.
«Non mi interessa se è la procedura»
che cosa dovevano dimostrare ancora? Volevano davvero dei testimoni che
affermassero quanto lui ed il mannaro fossero una coppia stabile e solida?
«Stiles» la creatura della notte
dovette intercettarlo, afferrarlo e bloccarlo per le spalle. «È una cosa buona,
è il secondo atto, vuol dire che stanno seriamente valutando la nostra
domanda».
Stiles mal ingoiò l’affronto
immotivato che stavo provando dentro, ma il tocco di Derek aveva sempre la
capacità di sgonfiarlo, di calmarlo e farlo ragionare. «Ne sei sicuro, Der? Non
mi fido di quella donna».
«Non devi fidarti, dobbiamo solo fare
del nostro meglio per dimostrare di essere degni tutori» una mano si incastrò
tra i capelli castani dell’umano e gli alzò il viso per permettergli di
fissarlo accuratamente. «Gli forniremo tutta la documentazione che ci
richiederanno».
Stiles soffiò uno sbuffo d’aria tra
le labbra di Derek e il mutaforma lambì appena le sue.
«Sei tu l’uomo pragmatico».
«Sì» Derek gli baciò la bocca di
riflesso, come premio del totale affidamento che riponeva in lui. «Proprio per
questo le avevo già fatte preparare».
Stiles stentò a credere alle proprie
stesse orecchie e lo guardò con occhi sgranati, completamente scioccato.
«Davvero, da chi?».
«Da tuo padre, Scott, Malia, Liam e
anche Cora» il lupo completo elencò per bene, scadendo nomi che per loro erano
fin troppo familiari.
Stiles non poteva fare a meno di
notare quanto Derek fosse stato attento e scrupoloso, delle persone che più gli
stavano al cuore e di quanta cura si fosse occupato di tutti loro, con un
occhio di riguardo per i membri del branco che fin dall’inizio avevano
manifestato problemi nel gestire la loro natura mannara, ma di cui Stiles si
era fatto carico, aiutandoli e riuscendo nell’impresa. Chi meglio di Malia e
Liam potevano raccontare senza riserve e con certezza quanto l’umano fosse
adatto a prendersi cura di cuccioli di lupo, incapaci di controllare la loro
parte animale e soprannaturale. «L’ho chiesta anche al tuo supervisore».
Dopo dieci anni di relazione riusciva
ancora a sorprendersi di quanto Derek fosse tre passi avanti a lui quando si
parlava di documentazione e ragionasse con lucidità al contrario suo che invece
veniva divorato dall’ansia? «Sei proprio un uomo da sposare, Derek» in più
c’era qualcuno all’interno del suo ufficio che non fosse al corrente della decisione
sua e di Derek di adottare un marmocchio? La loro vita di coppia era sempre
stata di dominio pubblico.
«Non sei riuscito a resistere» Derek
aveva il sospetto che quella battuta fosse sulla punta della lingua da quando
avevano convogliato a nozze, ormai aveva perso ogni speranza di buon senso da
parte del suo tsunami personale. La volpe più furba e leziosa su cui avesse
posato gli occhi.
Stiles gli avvolse il viso tra le
mani e lo baciò esattamente lì, in mezzo al soggiorno enorme ripieno dei loro oggetti
personali e pronto per essere ribaltato completamente dai futuri piccoli
componenti della famiglia Hale-Stilinski. «Ti amo dalla profondità del mio
cuore».
Derek ricambiò la morsa con la stessa
medesima intensità, stringendolo maggiormente contro di sé e propenso a non
mollarlo. «Ti amo nell’identico modo».
«Cos’è questa?» domandò la creatura
della notte quando Stiles gli porse una busta aperta con cura una volta che
fece ritorno in casa. Il francobollo affiancato riportava Parigi, su cui
vi era raffigurata a tratteggi colorati la riconoscibile ed indistinguibile
Torre Eiffel.
«La lettera di referenza che ho
chiesto di scrivere ad Isaac» Stiles era stato un po’ sulle spine per tutta la
giornata, quando l’aveva ritirata dalla buca delle lettere quella stessa
mattina, divorando parola per parola seduto alla scrivania del suo ufficio.
Le pupille nere del lupo si
rimpicciolirono, stuzzicate da qualcosa che l’umano non poteva cogliere, e lo
guardò senza che capisse con chi stesse parlando. «Perché?».
«Principalmente hai pensato di
raccogliere lettere dalla mia parte, raccontano anche di te, ma non mi sembrava
abbastanza» chi aveva Derek interamente dalla sua parte? Soltanto Cora, forse e
Stiles non lo trovava sufficiente. «Sei stato il suo tutore, mi è sembrata la
persona più giusta».
Derek rigirò la busta senza crederla
reale, le dita che sembravano non toccarla seriamente, stringendo aria. «Non ho
fatto un buon lavoro» anzi, era stato terribile.
«Questo non è vero» dissentì il
figlio dello sceriffo con enfasi, battendosi a mani nude per una verità che
Derek si ostinava a non voler vedere. «L’hai accolto quando non aveva un posto
in cui tornare, l’hai protetto nel modo in cui ti era stato permesso, cercando
di trovare la soluzione più appropriata, e sei stato la prima persona a credere
in lui, ti pare poco?».
Derek non era persuaso e Stiles se
l’aspettava. «È una bella lettera, Der, non ti chiederei di allegarla alle
altre se non lo fosse».
Le perle boscose si legarono a quelle
di miele, cercando di mettere a fuoco seriamente chi avesse di fronte, la sua
vera natura. «Hai chiesto un favore ad Isaac, qualcuno che mal digerisci» era
davvero qualcosa di mastodontico, qualcosa di incalcolabile.
I tratti del viso di Stiles mutarono
e gli regalò uno dei suoi marchi di fabbrica: un sogghigno impudico. «Sempre
pronto a sacrificarmi per le cause giuste».
L’abbraccio con cui Derek lo stritolo
fu del tutto inaspettato.
Derek allegò davvero la lettera di
Isaac alle altre, insieme a tutta la documentazione nuova richiesta e due mesi
dopo la Wolfgang Childhood li richiamò per fissare un appuntamento. Stiles era un fascio di nervi e in
un’ansia perpetua.
«Tra i moduli di preferenza avete
scartato la fascia d’età compresa dai 12 ai 17 anni» riassunse la Wilkinson dopo che gli ebbe illustrato passo
per passo i fascicoli che avevano presentato, affrontando punto per punto e
spiegando le varie procedure, tenendosi vicino le numerose lettere di referenza
che lui e Derek avevano presentato.
«Ehm, sì» era una cosa brutta? Stiles
non voleva escludere nessuno, non aveva nessuna preferenza. Lui e Derek erano
stati bene attenti a compilare il più correttamente possibile i moduli, a
sottolineare che non cercavano niente di speciale, che erano aperti ad ogni
possibilità, senza alcun limite. Che avrebbero accettato tutto quello che gli
avrebbero offerto, salvabile. «Diciamo che siamo un po’ esausti di avere
adolescenti intorno, vorremmo una pausa per qualche anno» sia Stiles che il
mannaro si erano occupati per anni di adolescenti, adolescenti di tutti i tipi,
pieni di rabbia e privi di controllo, fagocitati da vendette e prese di potere,
ribellione. Dio, Stiles stesso era un adolescente a quel tempo e doveva
trovare ogni rimedio da insegnare a quei dannati lupi, coyote e chimere novelle
su come gestire, controllare e padroneggiare la loro natura soprannaturale; lui
che era solo un semplice e comune essere umano che si era affacciato per puro
caso a quel mondo celato. «Magari con il secondo procederemo in modo diverso».
«Non vi sto giudicando» proferì la
direttrice, percependo il disagio di entrambi. «Secondo, dice? L’avete già
messo in programma?».
Stiles non capiva se volesse
infierire su una certezza, che non avevano, di riuscire ad adottare un primo
bambino, pensando di avere vita più facile in una seconda occasione, o se in
realtà era mera curiosità professionale. In realtà non erano così comuni le
doppie adozioni. «Ci piacerebbe, una volta che avremo ingranato».
«A tempo debito» si aggiunse in
salvataggio Derek a concordare, prima che Stiles compiesse una delle sue
avventatezze, poggiandogli una mano sulla spalla a calmarlo e rallentarlo. «Un
passo alla volta».
Stiles gli sorrise incoraggiato e
leggermente inebetito, mentre la creatura leggendaria gli rispondeva
tacitamente con una stretta sul punto in cui aveva depositato le dita e un
lieve cenno della testa, gesti che alla loro interlocutrice non sfuggirono.
«Se volete seguirmi, ho qualcuno a
cui vi piacerebbe presentarvi» comunicò la donna con una complicità un po’
nascosta che Stiles proprio non si aspettava, precedendoli nell’aprire la porta
e indicandogli il corridoio in cui voleva condurli.
Stiles e Derek esitarono per un
momento, con l’umano che cercava nel lupo completo un sostegno e la conferma
nell’aver interpretato in modo corretto il significato non tanto nascosto in
quell’offerta forte.
La seguirono con un singolo cenno del
capo, mentre il figlio dello sceriffo stringeva la mano di Derek da cui
emergeva la fede, procedendo di un passo avanti emozionato ed intimorito.
La Wilkinson li accompagnò
davanti un’enorme camera che entrambi identificarono come la stanza dei giochi,
il cui interno era occupato da numerose testoline di tutte le età e dimensioni
intenti a dilettarsi tra loro, creando piccoli gruppi coesi, con pochi soggetti
completamente isolati. Il cuore di Stiles si contrasse pericolosamente e la
stretta sulle dita di suo marito si fece più ferrea.
«Lei è Corine,
provate a pallarle con semplicità, come se foste dei comuni volontari pronti a
socializzare con tutti loro» la direttrice accennò con descrizione nella
direzione di un minuscolo gruppetto di tre esserini di differente età, due
bambine intente ad interagire tra loro e un maschietto che si limitata a vigilare,
come un corvo ‒ o un lupo Alpha, avrebbe corretto Stiles. «È la
più piccola».
Stiles non vedette più nulla e
l’intera attenzione fu catturata dal frugoletto tutto in tinta di verde, da cui
emergevano i capelli di un biondo dorato, sorridente e splendente verso la
figura sedutale di fianco. La presa su Derek si allentò, fino a sciogliersi.
«Ehy, ciao»
fu tutto quello che l’umano riuscì a farfugliare una volta giunto a lei, con un
groppo in gola e la voce che manifestava il turbine di emozioni che gli vorticavano
nell’organismo.
La bambina lo adocchiò per la prima
volta, posando i suoi occhioni dell’azzurro più maestoso che avesse visto,
contraendo appena il nasino alla francese cosparso di leggere lentiggini, come
se tentasse di richiamare alla memoria un viso che non riconosceva ‒ a
Derek, testimone silenzioso, quella smorfia ricordava sicuramente qualcuno.
«Ciao».
Quanti anni avrebbe mai potuto avere,
quattro? «Io sono Stiles, tu come ti chiami?».
«Stils,
che nome buffo» ripeté in una eco infantile e legittimamente divertita,
inciampando sulle vocali e sbagliando pronuncia. «Corine»
si presentò lei, mostrando il suo sorriso dolce e la mancanza di un canino.
«Che nome ridicolo» dichiarò una voce
infastidita, fanciullesca e del tutto sconosciuta alle orecchie di Stiles,
accompagnata da uno sbuffo derisorio.
Le iridi di ambrosia si inoltrarono
nella direzione da cui captò la nuova intrusione e si affacciarono su degli
occhi azzurri ostili, brutali e freddi, taglienti come pochi ne avesse visto.
Ma Stiles li conosceva bene, tredici anni prima vi si era imbattuto in simili,
deturpati dal dolore e dalla sofferenza, l’immensa solitudine che non potevano
scacciare e che li gremiva; con il trascorrere del tempo e delle avversità
erano perfino peggiorati. Stiles aveva tentato di salvarli come poteva, al
meglio delle sue capacità.
«Erick» lo
sgridò l’altra bambina, intimandogli di tacere e lui sbuffò infastidito,
ignorandoli l’istante dopo, tornando al suo oggetto di interesse.
Stiles la mise a fuoco per la prima
volta, venendo catturato dai lunghi capelli biondissimi, distribuiti in dolci
boccoli e l’aria riservata, le stesse identiche iridi azzurre degli altri due
componenti del gruppo, le lentiggini sparse sulle parti superiori delle gote
come se fossero state abilmente disegnate; anche Erick
le aveva, ma molto più discrete. Fu attraversato da un sospetto e qualcos’altro
lo turbò.
«Io sono Derek» si intromise il lupo
completo, richiamando tutta l’attenzione su di sé, poggiando entrambe le mani
sulle spalle tese e turbate di Stiles, avendo percepito perfettamente il
mutamento del suo stato d’animo al suono delle ultime lettere pronunciate dalla
voce femminile, un suono che rispondeva ad un rimbombo spaventosamente simile
del passato. Aveva effetto anche su di sé.
Stiles lo adocchiò appena, con tutta
la gratitudine del mondo per quel salvataggio tempestivo e l’ossigeno tornò a
circolare più fluidamente dentro di lui. «E tu, lupacchiotta, chi sei?».
La ricciolina l’osservò sorpresa per
un attimo, la leggera timidezza dei suoi ipotetici sette anni che le
imporporava le guance chiare, facendo risaltare le piccole macchioline
colorate, l’impercettibile sorrisetto sul viso lusingata da quel nomignolo
estremamente dolce. «Laura».
La presa di Derek si serrò su
l’umano, gli faceva quasi male per quanto le sue dita stessero scavando dentro
la pelle e le ossa, ma Stiles non si sarebbe lamentato, non glielo avrebbe
fatto notare e sarebbe rimasto in silenzio a subire il suo sconvolgimento. Uno
che li stava colpendo in egual modo, seppur con entità diverse. Uno schiaffo
perfido della realtà, i fantasmi che apparivano tornare a bersagliarli.
«Piacere di conoscervi» faceva profondamente male cercare di andare avanti con
il sorriso sul volto, senza mostrare quanto fossero colpiti e sopraffatti, ma
lo doveva a Derek ed alla bambina che forse sarebbero riusciti ad adottare dopo
anni di organizzazione e piani. «Siete molto amiche?».
Corine lo guardò contrariata, studiandolo un po’, quasi lo trovasse evidentemente
ottuso. «Siamo sorelle» lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo, un
legame che potevano vedere a occhio nudo, insieme alla grande complicità che vi
era tra loro. «E Erick è il fratello grande grande».
Stiles quasi saltò in aria sulla
sediolina per le fattezze di un bambino su cui si era accomodato per istaurare
un dialogo di conoscenza primaria, cercando immediatamente con sguardo
allarmato ed interrogativo la figura del consorte che provava la medesima
costernazione. «Siete tutti e tre fratelli?» ottenere delle conferme era un suo
diritto, ma non era sicuro di voler conoscerne il responso.
«Siete qui per adottare mia sorella?»
domandò a bruciapelo l’unico maschietto del gruppo, l’oscurità che li
attraversava da parte a parte. «Non ci riuscirete, non ci separerete».
«Che significa?» Derek dovette
chiederlo alla direttrice, esigere delle spiegazioni, perché era sicuro che non
stesse parlando con lui.
«Mi dispiace signori Hale» Stiles in
un altro momento l’avrebbe corretta, entrambi avevano mantenuto il loro
rispettivo cognome al momento del matrimonio, ma non sembrava più avere
importanza davanti alla sua desolazione e scuse. «Erick
è ostile, non lasciatevi intimidire, non ha nessun potere decisionale»
sottolineo con i tratti severi, investiti di un profondo e ripetuto rimprovero
verso il bambino.
Come poteva averlo? A occhio e croce
dimostrava avere meno di dieci anni, completamente nessun controllo su un
membro che gli sarebbe stato strappato via se la pratica fosse andata avanti.
Forse nessuna possibilità di rincontrarlo in futuro. Divisi, spezzati per
sempre.
Quasi mai i fratelli venivano
adottati dalla stessa famiglia, in rarissime occasioni il medesimo nucleo
familiare ritornava l’anno successivo per procedere con una seconda pratica, ma
tre? Tre fratelli non sarebbero mai più stati riuniti sotto lo stesso tetto,
forse nemmeno sotto lo stesso cielo, separati da interi stati. Non avevano già
sofferto abbastanza nella loro brevissima vita? «Prendiamoli noi».
«Che cosa?» Derek lo guardò senza che
riuscisse ad interpretare il suo linguaggio mentre Stiles si alzava dalla
sediolina e si animava nella sua direzione, quasi gli fosse diventato ostico,
una lingua straniera del tutto sconosciuta. Eppure i suoi occhi verdi si
accesero di consapevolezza e terrore, inviandogli una scintilla di
avvertimento.
«Adottiamoli noi, tutti e tre» quando
l’ultima sillaba lasciò le sue labbra lo sguardo severo e deluso di Derek lo
inchiodò, insieme a quello giudicante e di disapprovazione della Wilkinson, accompagnati da una triade di sorpresi e disorientati, investiti
da un pallido ed insospettato riflesso di speranza e si rese conto dell’enorme errore di
cui si era macchiato, impossibilitato a ritornare sui propri passi.
Sarò
sincera, pensavo che la mia vena artistica targata sterek
avesse terminato di creare storie a loro delicate, o quantomeno ad avere la
voglia di metterle per iscritto, ma a quanto pare mi sbagliavo. Sono anni che
ho questa storia nella testa, ma non l’ho mai concretizzata, finché un giorno
ha preteso di essere realizzata.
È
pronta da diversi mesi, ma ritardavo nel revisionarla, mi sono presa le mie
pause e mi pare ironico che sia riuscita a trovare il tempo di pubblicarla
proprio dopo che l’annuncio di un certo film è stato dato, un film di cui
ignorerò l’esistenza.
Purtroppo
questa storia ha avuto solo i miei occhi e non è stata betata
da nessuno, eccetto me, quindi mi scuso se troverete dei refusi o errori
sparsi, ma quando si conosce una storia a memoria, difficilmente si notano.
Spero
che questi Stiles e Derek adulti e maturati insieme possano tenervi compagnia,
insieme alle sorprese che avranno per noi.
«Dove mi stai portando?» Derek
l’aveva prelevato dal palazzo appartenente all’FBI, trascinandoselo dietro
senza dirgli niente, dentro la sua utilitaria super mega lussuosa ‒ le
tanto beneamate auto sportive messe di lato ‒, acquistata alcuni mesi
prima, proiettato verso il passo definitivo che li avrebbe visti protagonisti,
si sperava entro il nuovo anno. A poco a poco si stavano muovendo in quella
direzione, procedendo con discrezione e meticolosità, uno stravolgimento alla
volta.
Derek non fiatò, non che la cosa lo
sorprendesse, e lo invitò a scendere dall’automobile familiare, attendendo di
vedere una sua reazione.
Stiles non capiva cosa si aspettasse
da lui. «Cos’è, un altro dei tuoi
investimenti?» guardò la costruzione maestosa con un punto chiaramente
interrogativo sul viso, dall’angolazione in cui Derek l’aveva sistemato
riusciva ad intravedere il prato che si estendeva fino all’ingresso principale
falciato e perfettamente curato, l’edificio che si disponeva su due piani, il
garage a due posti e il vialetto acciottolato privato. Forse intravvide perfino
una dépendance sullo sfondo sull’enorme giardino che si stendeva dietro la
casa, con molta fantasia.
«Forse» il mannaro era strettamente
sulle spine, aspetto su cui non si era mai imbattuto prima di allora. «Se lo
vorrai anche tu».
L’umano credeva di essersi perso un
pezzo essenziale da qualche parte. «Da quando hai bisogno del mio giudizio per
amministrare il tuo patrimonio?».
Derek ridacchiò con leggerezza e
accadeva decisamente più di frequente da quando erano una coppia. «Da quando
voglio investirlo per noi».
Noi, che suono poetico e
definitivo. «Vuoi comprare questa casa per noi?».
«Acquisto beni immobiliari in
continuazione, perché non dovrei farlo per noi?» Derek si era quasi
specializzato in quello nel corso degli anni, era risultato davvero bravo
nell’amministrare e trovare buoni affari, comprare appartamenti di ogni sorta
ed affittarli, investire l’eredità che aveva ricevuto e farla crescere
maggiormente per l’occhio acuto che aveva. Ormai il suo conto in banca era
decisamente triplicato, se non quadruplicato.
«Quello è perché lo hai fatto
diventare il tuo lavoro» con capo se stesso, un
avvocato e un commercialista, con tanta infinita burocrazia. «E ricordo
benissimo che anche il loft in cui viviamo adesso è di tua proprietà».
Il lupo completo scosse il capo,
curvando le labbra liete e depositandogli uno schiocco su una tempia. «Il loft
è per scapoli, non è mai stata la sistemazione definitiva».
A Stiles si aprì un mondo intero, uno
incredibilmente rumoroso e ricco di ogni esperienza possibile. «E vuoi che sia
questa quella definitiva?».
«Solo se sarai d’accordo» a lui e
Stiles non erano mai serviti grandi spazi né privacy di alcun tipo, Derek
l’aveva comprato dopo che il figlio dello sceriffo ebbe ottenuto il
trasferimento per Washington senza informarlo davvero della cosa ‒ non aveva
apprezzato, si era anche imbronciato e protestato, ma Derek non vedeva alcuna
ragione per cui avrebbero dovuto vivere in affitto se comprava immobili in ogni
dove ‒, sapendo che era soltanto qualcosa di provvisorio. Un monolocale
non si sposava per nulla con l’idea che avevano di ampliare la famiglia quando
Stiles avrebbe guadagnato un po’ di stabilita lavorativa. «È esattamente dove
la volevi tu, nel quartiere di Forest Hills con il giardino che si affaccia su
Rock Creek Park» Stiles aveva quell’idea romantica che a dei lupi servisse
quanto più verde possibile dove perdersi e manifestare la loro vera natura,
soprattutto nelle lunghe notti di luna piena. Un luogo dove essere se stessi senza ripercussioni possibili in quella grande
capitale, un posto perfetto dove dei lupacchiotti potessero vivere in serenità.
Derek l’aveva decisamente appoggiata.
«Oh, te la sei studiata per bene» la
voce di Stiles suonava lieta e con una leggera nota di malizia, dedicandogli un
sogghigno sopraffino. «Da quanto tempo la tenevi d’occhio?».
«Un paio d’anni» poterglielo
finalmente comunicare dava tutto un altro corpo alla sua ricerca, al traguardo
quasi raggiunto.
«Un paio d’anni?» l’umano lo ripeté
incredulo, fissandolo con occhi giganti e sbigottivi. «Ma noi viviamo qui da
due anni».
Derek si chinò a depositargli un
bacio d’amore sulla bocca. «Stavo aspettando finissero di costruirla» aveva
continuato di tanto in tanto a visitare il cantiere in quel lasso di tempo,
contattato il proprietario, consultato la planimetria ed i progetti di
costruzione, aveva abbozzato una prima offerta e lasciato la prima caparra
l’anno precedente, con il timore che potessero portagliela via. «Ha uno studio
che possiamo condividere e quattro camere da letto; una per noi, due per i
marmocchi e una per gli ospiti, come lo sceriffo».
Quasi si arricciarono le dita dei
piedi di Stiles quando sentì che Derek avesse messo sul conto due camere per
dei bambini che ancora dovevano arrivare, nel loro bell’immaginario, non
precludendo nessuna opzione. «Oh, hai pensato al vecchio Stilinski» ne era
vivamente deliziato. «Oppure per Cora».
«Sì, Cora» acconsentì il mutaforma, accarezzandogli con il retro di un dito una
guancia. «O chiunque altro».
Scott, Malia, Lydia, Liam e così a
continuare. «Immagino che la dépendance abbia lo stesso scopo».
«Gli spazi non ci mancano» era la
casa perfetta, Derek ne era sicuro.
«Sei proprio un uomo previdente, hai
pensato a tutto» Stiles stentava quasi a crederci, rendersi conto che il suo
lupo brontolone e solitario volesse circondarsi di rumori e figure di ogni
tipo, senza escludere nulla. «Anche a come divideremo la spesa?».
«Non divideremo la spesa» per Derek
era intransigente. «È un regalo per te, per noi».
Stiles poteva quasi sciogliersi a
quelle parole talmente ricche di significato da stordirlo. «Ma voglio
contribuire alla spesa. Non una metà uguale, ma quantomeno in proporzione» non
poteva per niente competere con il portafoglio quasi illimitato del mannaro,
non ci provava nemmeno né Derek glielo aveva mai fatto pesare in alcun modo.
Tutto il contrario.
«Possiamo dividere le bollette, se ci
tieni tanto» il licantropo non vedeva minimamente il problema, non gli era di
alcun intralcio essere di sostentamento per Stiles, ma sapeva che su certi
importi l’umano fosse irremovibile; fin troppo spesso gli aveva categoricamente
vietato di aiutarlo finanziariamente.
«Non è la stessa cosa» le dividevano
già, l’avevano sempre fatto da quando la decisione di vivere sotto il medesimo
tetto era stata presa. «Questa dovrebbe essere la casa in cui vivremo per il
resto della nostra vita, un bene comune, dovremmo contribuire entrambi».
Derek gli accerchiò il capo con
entrambe le mani, immergendo le dita nei capelli sbarazzini ed accarezzandogli
con i pollici gli zigomi, perdendosi in quel mare del nettare degli dei. «Non
posso semplicemente regalarci una casa? Una in cui vivremo insieme alla
famiglia numerosa che vogliamo costruire. Una promessa di quello che diverremo»
Derek e Stiles l’avevano immaginata a lungo, nell’appartamento che quindici
anni prima Laura aveva comprato per iniziare una nuova vita insieme a lui, una
speranza di riuscita ed umano e lupo stavano tentando di mettercela tutta, di
realizzare quel sogno anche per lei che non l’avrebbe mai concretizzarlo.
«Questo è quello che desidero per noi».
Le gambe del figlio dello sceriffo
quasi cedettero e se Derek non fosse stato lì, stabile come una roccia su un
letto di fiume straripante, sarebbe stramazzato a terra in modo indecoroso.
Tutti quegli anni insieme a lui e persisteva a rimanerne abbagliato. «Come
posso dire di no ad una proposta così ben confezionata?».
La creatura della notte lo guardò con
conoscenza, dalla posizione di privilegio in cui si trovava. «Non dovresti mai
dirmi di no».
Stiles si diede una leggera spinta
sulle punte dei piedi, catturando con furberia le labbra dell’uomo che nel giro
di qualche mese avrebbe sposato, sogghignando da volpe suprema nella morsa.
«Sapevo che un giorno mi avresti venduto qualcosa».
«Come ti è saltato in mente?» Derek
inveì contro di lui con una rabbia che non incontrava da anni, fissandolo con
giudizio negativo al centro del soggiorno di quella villa che il lupo aveva
acquistato per loro.
«Mi dispiace, so di aver sbagliato,
so di essere stato impulsivo e di non averci ragionato sopra» il ritorno a casa
era stato terribile. Derek l’aveva condotto in malo modo fuori dalla Wolfgang Childhood
il più in fretta possibile e il viaggio in auto era stato di un silenzio
glaciale ed assordante, Stiles riusciva a sentire quanto Derek fosse adirato e
sfiduciato nei suoi riguardi, che non ci fosse alcun verso che gli passasse in
fretta. «Avrei dovuto discuterne con te
prima».
«Mi fa piacere tu ne sia consapevole,
ma non serve a niente» il sarcasmo puntente del consorte lo schiaffeggiò e
Stiles sapeva di meritarselo. «Lo sai che cosa significa? Non puoi andare in
giro ad illudere le persone, soprattutto dei bambini».
«Non voglio illudere nessuno» era
qualcosa che proprio non gli passava per l’anticamera del cervello.
«Stiles» lo ammonì con un ringhio
fermo, inchiodandolo al pavimento. «Quello che hai fatto, io… non so nemmeno
come classificarlo».
Dannazione, non aveva mai visto Derek così deluso da lui. «Mi dispiace, davvero, ma
quando li ho visti così soli, così distrutti e con la paura di essere separati,
non sono riuscito a controllarmi».
«Non è una giustificazione» il
mannaro proprio non ci stava, non gliel’avrebbe fatta passare liscia, come se
nulla fosse. «Non sono bambini comuni questi, hanno un lutto alle spalle che
non so nemmeno se supereranno mai» era la propria personale esperienza a
parlare? «Probabilmente verranno continuamente rifiutati dalle famiglie a cui
vengono presentati e tu te ne sei uscito fuori con questa bella fiaba, una che
non esiste» Stiles ne aveva sempre combinate di tutti i colori, un disastro
dopo l’altro, ma non aveva mai spezzato il cuore a nessuno.
«Non è una fiaba» dissentì l’umano,
prendendo il controllo e non volendo rimanere a subire il rimprovero, se pur
ragionevole, di Derek. «Voglio farlo davvero».
La creatura della notte rimase in
totale silenzio, completamente frastornato da quella dichiarazione di pazzia.
«Nel tuo grande progetto sono incluso anch’io?» cominciava seriamente a
dubitarne.
«Certo che sì» l’ovvietà nel suo tono
vocale gli arrivò dritto e chiaro.
«Tre bambini, Stiles!» la voce si
alzò, rimbombando nella grande villa, con incredulità e furibonda. «Tre lupi
mannari e tu li vuoi tutti in una volta dentro questa casa, senza nemmeno
sapere se sapremmo gestirne anche soltanto uno?» Stiles era sempre stato folle,
ma non aveva mai capito fino a che punto.
«Abbiamo gestito adolescenti per
secoli» Stiles se lo ricorda bene, come se fosse soltanto il giorno prima, il
costante equilibrio fallace che tentavano di tenere stabile. «Ormoni, frenesia,
cambiamenti d’umore, rabbia, vendetta, suscettibilità. Abbiamo affrontato di
tutto».
«Tu non sai com’è» lo rabbonì il
licantropo, presentandogli un aspetto che non aveva mai incontrato, che
disconosceva completamente. «Non sai come reagisce un bambino nel momento in
cui la sua natura mannara si manifesta, si risveglia; cosa comporta, come ci si
relaziona, come istruirlo e vigilare costantemente. Non lo so nemmeno io, non
sono mai stato d’altra parte».
«Questo… questo l’avevamo messo in
conto, non ne siamo spaventati» Stiles era sicuro di non esserlo e lo era anche
per Derek, ne avevano parlato talmente tanto negli anni passati, che non poteva
credere che lo stesse tirando fuori proprio in quel momento, presentandoglielo
come un problema. «E non accadrà in contemporanea».
Derek scosse la testa in diniego, un
unico singolo movimento. «Erick ha nove anni, ha l’età giusta e La-… l’altra
bambina ne ha già sette, è troppo sottile come distacco» la voce ebbe un
sussulto quando provò a dare fiato al nome della pargoletta di mezzo, incrinata
e con quel bagliore leggero di turbamento che Stiles percepì; il suo cuore si
strinse in una stretta di empatia. «Devi esserne cosciente».
«Pensavo… pensavo fossimo pronti»
Stiles non poteva nascondere la testa sotto la sabbia, sapeva che Derek avesse
la ragione dalla sua parte, tutta, ma avrebbe dovuto ignorare il resto? «Non
vuoi più farlo?».
Le crepe che si formarono nell’organo
cardiaco dell’umano Derek le sentì ad una ad una. «Certo che voglio» creare,
allargare la famiglia con Stiles era tutto quello che desiderava. «Ma con un
bambino alla volta, non tre insieme».
Stiles rimase in silenzio,
galleggiando nell’aria, perché quello che provava non riusciva nemmeno a quantificarlo. «Ha i tuoi occhi» il mutaforma lo guardò interrogativo, non
sapendo minimamente a cosa si riferisse e Stiles dovette prendere un profondo
respiro. «Erick ha i tuoi occhi, di quando ti ho incontrato la prima volta» non
li aveva mai dimenticati, nei giorni, nei mesi e negli anni, Stiles li aveva
sempre avuti impressi nella memoria, indelebili, come se nulla avesse potuto
cancellarli e così era stato. Con il trascorrere del tempo quegli occhi pieni
di struggimento e profondo senso di abbandono si erano intensificati, il
deserto era cresciuto prosciugando quella vaga illusione di speranza nel
trovare finalmente conforto nella compagnia, insieme al continuo dolore che gli
veniva costantemente iniettato direttamente nelle vene, perdita dopo perdita,
tradimento dopo tradimento, fallimento dopo fallimento, finché di lui non era
rimasto quasi più nulla, nemmeno la profonda rabbia tormentata, distruttiva e
lacerante che l’aveva sempre caratterizzato. Aveva provato a rinascere
innumerevoli volte e ognuna di esse gli era stata strappata da mani perfide,
annientandolo, sottraendogli ogni cosa e non c’era stata quasi più via di
salvezza. Di redenzione. Nella loro vita insieme, nella loro lunga, disastrosa
ed incantevole storia d’amore, Stiles pensava di avergliela finalmente fornita.
Alla visa di Erick non era riuscito a resistere, a contenersi, il fervore e la
necessità erano stati troppo forti, essenziali e scalpitanti, non vi era stata
alcuna ragione e sensatezza a placarlo.
Che spietata realtà, nella sua vita
era costantemente stato circondato da persone e situazioni senza alcuna
possibilità di incolumità e risoluzione; l’aveva incontrata nel suo privato,
nella crescita e nel suo stesso spietato lavoro. «No» ammise, perché non era
una verità che poteva essere negata. «Ma potremmo salvare loro» Derek non
demorse e Stiles sapeva di stare per commettere un altro passo falso. «Come
sarebbe stata la tua vita se Laura non avesse potuto prenderti con sé?» uno
terrificante, Derek si mostrò piccato immediatamente. «Se non fosse stata
maggiorenne? Se non le avessero riconosciuto le competenze e qualità per
crescerti? Se non si fosse sentita in grado?» Laura l’aveva portato via dalla
desolazione e distruzione subito dopo che avevano perduto ogni cosa; aveva
dovuto farsi forza, stringere i denti, ereditare quegli occhi rossi del comando
comparsele troppo anticipatamente, prendere in mano la situazione, scrollarsi
la disperazione ed il cordoglio che l’affliggeva per divenire il punto di
riferimento e di appoggio per un Derek allora quindicenne, con la morte nel
cuore e un senso di colpa estremo che non le avrebbe mai confidato, di cui lei
non sarebbe mai entrata a conoscenza, eppure l’aveva percepito interamente. «Se
tutto quello che era in suo potere non fosse valso a niente e vi avessero
separato? Anche soltanto per un anno. Sei stato così fortunato sotto questo
punto di vista, Derek e non te ne rendi neanche conto».
Stiles si pentì immediatamente della
sua aringa infame, del profondo male che gli aveva appena scaturito, della
ferita mai guarita su cui aveva abominevolmente infierito; avrebbe voluto
prostrarsi ai suoi piedi ed implorarlo di perdonarlo, ma Derek lo freddò sul
posto, trapassandolo di netto, senza dargli alcuna occasione di ritrattare e
scusarsi. «Credi di saperne sempre più degli altri, Stiles, ma così non è».
Successe tre settimane dopo il loro primo
incontro non tanto casuale, Derek in un silenzio perentorio passò dal campus in
attesa che finisse le lezioni di quel giorno e cominciò a camminare senza meta,
o quanto meno era quello che Stiles credette. Non gli disse nulla, non proferì
parola o mormorii di indicazioni, camminò e basta per quasi mezzora e l’umano
rispettò il suo stato d’animo, zitto nel seguirlo ovunque volesse andare.
Lo condusse dentro un edificio in
ottime condizioni e in una posizione perfetta, la materia di ottima fattura
scintillava all’interno dell’atrio principale, fin dentro l’ascensore e la
trovò nel pianerottolo dove si fermarono, davanti a un campanello che riportava
una singola parola: Hale; Stiles ebbe la conferma
ultima.
Il lupo fece scattare la serratura,
disinserì l’allarme e rimase fermo come uno stoccafisso sull’uscio, senza
minimamente attraversarlo e non accadde altro.
Stiles si chiese sinceramente perché
fossero lì. «Vuoi che provi ad entrare io per primo?» ma era giusto farlo?
Togliergli quell’esperienza?
Derek posò per la prima volta in
quella giornata gli occhi su di lui, come se non l’avesse mai individuato in
vita sua e prendesse coscienza solo in quel momento. Ma l’impressione fu un
frammento di secondo e poi fu inghiottita via, perché Derek sapeva perfettamente
chi fosse il ragazzo che si trovava dinnanzi.
Tutto quello che fece in risposta fu
un impercettibile cenno di consenso con il capo.
Okay, il figlio dello sceriffo si
armò di coraggio e oltrepassò la porta aperta.
Non era per niente come il loft che Derek
teneva a Beacon Hills; intanto non era un monolocale, ma un bilocale, le mura
erano visibili da una stanza all’altra, l’enorme open space che racchiudeva la
cucina moderna e il soggiorno, con tanto di tavola da pranzo, e riusciva ad
individuare un piccolo corridoio che si biforcava in due, conducendo a quelle
che immaginava fossero le camere dei due fratelli.
C’era luce dappertutto, i colori
brillavano ed era accogliente, gridava benvenuto
a casa e Stiles si rese conto quanto quella figura femminile che non aveva
mai conosciuto avesse fatto in suo potere per tirare il meglio di entrambi. La
stretta al petto si manifestò quando intravide le poche stoviglie mattutine
lavate al lato del lavabo con quasi più di tre anni di polvere, quelle che
suppose Derek avesse usato prima di uscire dall’appartamento e sistemato
velocemente. Gli oggetti di uso comune e quotidiano, per quanto fossero in
totale ordine, erano esposti, in bella vista, come se ci si aspettasse che da
un momento all’altro sarebbero stati usati. Ambedue avrebbero dovuto
allontanarsi per qualche giorno, ma nessuno di loro fece più ritorno.
Ma Derek infine era davvero ritornato
e la casa lo richiamava a sé, chiedendogli bisbigliando dove fosse finita la
loro padroncina. Stiles capiva perché entrarvi gli costasse dolore fisico. «Un
tubo dell’acqua perde».
«Cosa?» Derek saltò in aria e si
risvegliò tutto insieme, precipitandosi all’interno dell’appartamento allarmato
e in soccorso, trovandolo perfetto. Trovò anche un ghignetto vittorioso e
machiavellico sulle labbra viziose del peggior essere con cui avesse avuto a
che fare. «Stiles» non aveva nemmeno supposto di dover usare i suoi super sensi
per controllare l’effettiva esistenza della perdita o immaginato che quel vile
potesse mentire in quel momento, con gli anni aveva temprato la sua capacità di
fregare le creature dotate di super udito, vere ed autentiche macchine della
verità.
Il ringhio basso tra i denti l’umano
lo percepì tutto, insieme alla voglia matta che aveva di divorarlo vivo. Stiles
semplicemente gli regalò il suo sorriso migliore di manipolatore. «Bentornato,
Sourwolf».
La luminosità all’interno del
soggiorno esplose tutta in una volta, la piega sulla bocca da volpe
doppiogiochista si distese in una piena di affetto e calore, una dedicata
esclusivamente a suo uso e consumo; Derek fu certo che non se la sarebbe mai
tolto dalla testa.
In quell’istante si rese conto che
non aveva più motivo di fuggire, che era all’interno del luogo da cui stava
scappando; si costrinse a guardarlo davvero, scrutare ogni centimetro della
casa in cui aveva vissuto per sei anni, trovandola esattamente e perfettamente
come l’aveva abbandonata quando era corso alla ricerca della sorella di cui
aveva perso le tracce. La polvere dilagava ovunque, gli odori erano quasi del
tutto spariti, ma era ancora casa sua.
Stiles si trovava esattamente davanti
l’ingresso del corridoio, rimanendo in bilico e quasi aspettandolo, non si
sarebbe mosso di un passo se non gli avesse dato un ulteriore consenso.
Derek lo affiancò e proseguì al suo
interno, vi erano tre porte, una chiusa che conteneva il bagno principale,
mentre le restanti due erano una di fronte all’altra, lasciate aperte a
mostrare cosa vi era conservato. Tutti gli averi erano al loro posto,
perfettamente sistemati, le camere da letto che parlavano da sé, indicando
perfettamente a chi appartenesse quale; il mannaro non degnò di alcuna occhiata
la propria e si concentrò su quella che gli si parava dinnanzi, il respiro
trattenuto, le spalle rigide e le pupille degli occhi ridotte a punte di
spilli. Poggiò una mano sul telaio della porta e rimase impietrito, il nodo in
fondo alla gola che non voleva più togliere le valigie.
Stiles sentiva tutta la sofferenza
che il mutaforma stava esprimendo nella totalità del
suo silenzio, il dolore che lo attraversava completamente, quasi fosse
l’ossigeno che lo teneva in vita e l’umano riusciva a capirlo perfettamente.
Un piede scivolò oltre il corridoio,
insidiandosi dentro quelle mura che contenevano il ricordo di una persona che
non esisteva più, tutta l’essenza che era evaporata via, e si piantò proprio al
centro, i raggi dell’astro del cielo che annunciavano un tramonto imminente che
penetravano dalla finestra, illuminando l’enorme libreria e il letto ad una
piazza e mezza. C’erano quadri appesi nelle grandi pareti, riproduzioni di
opere famose, ma non vi era alcuna foto, come non ve n’erano per tutto
l’appartamento, ma ne individuò una soltanto sul comodino, protetta sotto una
cornice d’argento dal taglio moderno; la curiosità di scoprire cosa vi fosse
ritratto era incontenibile, ma tentò di scacciarla via.
«Ho sofferto di attacchi di panico,
dopo la morte di mia madre» proferì Stiles alla figura che statuava sull’uscio,
impossibilitato ad entrare. «Nemmeno io riuscivo ad entrare nella sua camera da
letto, sapevo che non l’avrei trovata» non vi soggiornava più dall’anno
precedente. «In realtà, era già andata via da tempo» la malattia l’aveva
ghermita divorandola, lasciando di lei solo affanni, terrore e un’avversione
verso la propria stessa progenie, indotta da allucinazioni che le davano il
tormento. «Non so cosa mi aspettassi, ero consapevole che non sarebbe mai
tornata».
«Sempre troppo intelligente» il
mannaro non lo disse come un’accusa, ma come un dato di fatto.
Stiles si stupì a guardarlo,
probabilmente perché Derek non l’aveva mai esternato a voce, ma l’avesse sempre
dato per scontato. In effetti, era stato così. «A volte è una condanna».
Derek non proferì parole aggiunte,
forse perché stavano pensando alla stessa identica cosa. «Ho continuato a
soffrine per anni, nel cuore della notte, poi ho imparato a gestirli e sono
spariti, finché…» qualcosa di più forte di lui era tornando a maledirlo.
All’improvviso era davanti al lupo
completo, le mani che protendevano verso di lui e che cercavano quelle
dell’altro, afferrandole e conducendolo verso l’interno della camera; non si
oppose minimamente. Aveva notato spesso come Derek si lasciasse toccare e
guidare da lui, un fattore del tutto estraneo per qualcuno che detestava il
contatto fisico, l’invasione dello spazio personale, ma che avvallava quando
era lui stesso a farlo con gli altri, più che altro per intimidazione; odiava
che gli altri provassero anche soltanto a sfiorarlo. Quell’aspetto scostante
l’aveva indirizzato a Stiles solo una volta, poi non aveva mai più mostrato
reticenze.
«Mi stai distraendo, non è vero?» lo
colse in fallo la creatura della notte, rifilandogli un’occhiata lunga e
conoscitrice.
Le labbra di Stiles si aprirono in
una piega sagace ed astuta, ma dentro di lui c’era qualcosa che non poteva
proprio esternare. «Ti sei fidato di me» non credeva veramente di riuscire a
far entrare Derek dentro la stanza di Laura, soprattutto non con quella
facilità.
«Ho imparato a farlo» rivelò il
licantropo in un’esternazione profonda che colpì a pieno petto il figlio dello
sceriffo. «E questo è un problema».
Stiles gli regalò un sorriso affabile
e malizioso, ma il suo cuore stava scoppiando. «Sei al centro del mondo»
spalancò le braccia ancora legate alla presa di Derek, volendo alludere
all’esatto luogo in cui si trovavano in quel preciso momento, catturati dentro
i muri che avevano accolto Laura prima che tutto finisse.
Ma Derek non stava guardando la camera
né sembrava intenzionato a sciogliere la stretta delle loro mani. «Il Nogitsune
ti ha fatto credere di essere affetto dalla stessa malattia di tua madre» se lo
ricordava bene, non aveva mai visto Stiles così a pezzi, rotto. Cambiamenti di
personalità e di comportamento, iperattività, disturbi dell’umore e paranoia,
allucinazioni ed insogna, quelli erano solo alcuni dei sintomi della Demenza
Frontotemporale e Stiles li aveva manifestati tutti.
«Uhm, sì» lo sbigottimento nella
matricola era evidente, insieme al disorientamento. «Voleva il controllo su di
me».
«Come se si potesse averlo» le dita
di una mano si slegarono dalla trama istaurata da Stiles e volò sul viso, a
sistemargli una ciocca ribelle che sfuggiva al caos della sua chioma
scarmigliata studiata. «Sei sempre stato una volpe subdola e doppiogiochista,
da quando ti conosco, non ha nulla a che fare con quello che è venuto dopo».
L’organo involontario di Stiles ebbe
un crescendo di palpitazioni esagerate e sapeva con tutto se
stesso che non poteva controllarle, che Derek era perfettamente in grado di
udirle e riempirsi le orecchie. «Non capisco se è un complimento o un insulto».
«Sei soltanto tu, Stiles» il tono
univoco del padrone di casa fu tassativo, imperiale e Stiles si chiese come
un’operazione di soccorso verso Derek si fosse spostata su di sé. Riusciva a
sentire quanto fosse rotto, esattamente come lui faceva con il lupo?
L’umano sciolse la presa dal mannaro
ed andò a prendere la cornice che si trovava sul comodino, guardandola bene per
qualche istante e tornando indietro, porgendogliela tra le dita ferree che in
quel momento tremarono appena, rivolgendo l’immagine verso di lui. «Questa è
casa tua, Derek» due figure erano state catturate dalla pellicola, una
femminile ed una maschile, sorella e fratello, Alpha e Beta, con Laura
divertita che obbligava un accigliato giovane Derek a posare, impedendogli di
scappare, sullo sfondo il divano arancione pastello che sostava nel soggiorno.
«Non ha soltanto ricordi infelici».
Derek fissò il suo interlocutore per
lungo tempo, spostando poi l’attenzione sulla fotografia, osservandola come se
gli fosse completamente estranea e cercasse di decifrare il significato
nascosto che Stiles aveva risolto con una sola occhiata.
«Potresti fartene dei nuovi» concluse
il figlio dello sceriffo con quello che Derek catalogò come il sorriso di una
volpe ammaliante.
Si poteva sfuggire ad una magia tanto
fatale? «Resta a dormire qui».
Stiles si trasformò in una statua di
sale al suono di quella proposta bisognosa, sottoposta ad ordine, che lo
investì in pieno, lasciandolo incapace di riprodurre qualsiasi rantolo
vocale.
«Stavo pensando ad una cosa e sei
pregato di non fare battute» fermò Derek ancor prima che potesse beffeggiarlo
con arte.
Stiles sì, si era fermato quella
notte a dormire sul divano del lupo, la necessità di averlo lì a frapporsi tra
i fantasmi, a vietargli di pensare che quella camera non sarebbe mai più stata
abitata, serrata dietro una porta chiusa, l’aveva percepita tutta nella sua
richiesta brutale e diretta, rendendogli impossibile abbandonarlo, soprattutto
perché in un tempo remoto Derek non si sarebbe mai abbassato a tanto. Eppure la
persona che più di tutte l’aveva visto nei suoi momenti di vulnerabilità in
verità era sempre stato lui; a volte si domandava se fosse tra le persone di
cui il mutaforma si fidasse di più, senza interrogarsi
se potesse farlo veramente.
Quella sera non era stata l’unica
occasione in cui lo studente universitario si era stabilito sul sofà piuttosto
comodo dell’essere più burrascoso che conoscesse, ne erano seguite altre,
correndo a perdifiato la mattina per non tardare alle lezioni, con le coperte
che Derek gli faceva sempre trovare perfettamente piegate e il magone che
nell’umano che cresceva.
Avevano anche pulito l’intero
appartamento da cima a fondo, spolverato, spazzato, stracci da ogni parte,
lavatrici e oh, perfino una piccola lavapiatti
perfetta da riempire con i pochi utensili che utilizzavano; avevano persino
trovato l’asciugatrice ancora piena con gli abiti che Derek aveva lasciato lì
tre anni prima nella fretta, perfettamente puliti ed asciutti. Vuoi
ripulirli o gli facciamo prendere aria? gli aveva chiesto quando li avevano
visti attoniti, chinati sull’elettrodomestico per un paio di minuti. Derek li
aveva presi tutti in una presa e li aveva infilati dentro al nuovo giro di
lavate; sospettava ci fossero indumenti anche di Laura nella mischia.
Ma non si erano mai avvicinati alla
camera della ragazza, Derek l’aveva sigillata e Stiles non aveva insistito; a
prima vista non era valso a nulla l’azione titanica che aveva compiuto per
riportare il grande lupo cattivo in sintonia con gli averi di Laura, con le sue
memorie, eppure Derek era tornato a vivere dentro quella casa, abbandonando la
camera d’hotel e riempiendo le mura dei momenti che condivideva con Stiles
quando era libero dalle lezioni. Era una vittoria che la matricola non poteva
disdegnare.
«Sentiamo» Derek arcuò le
sopracciglia con scetticismo e quel commento sarcastico che avrebbe tanto
voluto fare.
«Perché non chiedi a Cora se è
interessata ad avere gli oggetti personali di Laura?» ci aveva pensato a lungo
disteso su quel divano, il mannaro a due metri di distanza, chiuso nella stanza
a cui avevano cambiato le lenzuola. Gli era parsa la soluzione migliore, la più
ragionevole, quella che forse gli avrebbe permesso di respirare dentro la sua
stessa proprietà.
Derek si paralizzò con il suo panino
all’hamburger in mano ancora intonso ‒ cena che avevano ordinato
d’asporto ‒, perché preferiva iniziare dalle patatine fritte, una cosa
del tutto sconosciuta e barbara per lui; lo sguardo così bruciante che Stiles
si pentì di aver parlato.
«Lei non conosce nulla della ragazza
che ha vissuto con te, penso che potrebbe piacerle, permetterle di conoscerla
almeno un pochino» se a Stiles fosse stata offerta l’occasione di conoscere in
qualche modo un membro della famiglia che non vi era più, avrebbe colto la
palla al balzo.
La luce nelle iridi boscose cambiò,
ma la durezza dei suoi tratti rimase invariata. «Ci penserò».
Almeno non l’aveva divorato in un sol
boccone.
«Rimani anche stanotte?» domandò
invece la creatura della notte, a smentire quanto volesse attentare alla sua
vita.
«Se mi vuoi qui, sì» ancora si
stupiva di quanto Derek gli permettesse di ronzargli intorno, era attraversato
ad ogni ripetuto invito da una scossa che gli attraversava tutta la colonna
vertebrale.
«Ti voglio» la risposta arrivò chiara
e asciutta, senza fraintendimenti di alcuna sorta.
Stiles gli fece regalo di una curva
incantatrice e gioiosa sulla bocca peccaminosa. «Il grande capo branco ha
parlato» proferì con superbia divertita la volpe giocherellona, rubandogli per
dispetto voluto una delle poche patatine che gli erano rimaste sul piatto.
Derek soffiò fintamente scocciato,
nascondendo nel primo morso un minuscolo sorriso di compiacenza.
«Ho parlato con Cora» proferì Derek
dall’autoparlante, mentre Stiles era in pausa caffè nella caffetteria del
college e teneva stretto il cellulare dalla presa libera. «È interessata».
Nel gergo degli Hale voleva dire che
ne era entusiasta, Stiles non aveva sperato in niente di meglio. «Sono
contento, sono sicuro che saprà prendersene cura».
Derek tacque per qualche momento e
tutto quello che all’umano era permesso udire era soltanto il suo respiro
calmo. «Hai avuto una buona idea, per una volta».
«Ahi, picchi duro, Sourwolf» ma
Stiles stava sorridendo attraverso il bicchiere caldo e pieno di caffeina
zuccherata.
«Riesci a passare oggi?» cambiò
completamente argomento il lupo mannaro, ignorandolo, modulando la voce e
contenendo quanto fosse in aspettativa di una risposta definitiva.
«Eh, no» la matricola fissò l’orario
al polso che gli scandagliava il tempo, segnava le cinque del pomeriggio e
l’ultima lezione si sarebbe conclusa verso le otto di sera, non avrebbe
minimamente avuto le forze di camminare fino all’appartamento di Derek e
tenergli perfino compagnia. «Per stavolta mi toccherà disertare, finirò tardi»
e magari avrebbe dovuto cominciare a farsi vedere dal suo compagno di stanza.
«Va bene» il tono impeccabile di
Derek non lasciava alcun fraintendimento che la faccenda lo turbasse, ma Stiles
riconosceva la lieve inclinazione soppressa che gli comunicava
involontariamente quanto ne fosse scontento. «Domani».
«Domani, sì» il figlio della massima
autorità di Beacon Hills era così in visibilio che non riusciva a contenersi,
ma ad un certo punto avrebbe dovuto cominciare a rimettere i piedi per terra,
quantomeno per una sorta di amor proprio. «Prevedo una giornata impegnativa,
prendi delle scatole di cartone e del nastro adesivo, spesso. Magari anche un
pennarello».
«Penso di sapermi organizzare senza
le tue direttive, Stiles» lo ribeccò esasperato e c’era sempre una nota di
rimprovero quando dava fiato al suo nome, che Stiles trovava nettamente
divertente.
«Un’indicazione in più non può far
male nel caos» a Stiles piaceva indispettirlo e quello lo sapevano entrambi.
«Passa una buona giornata».
«Anche tu» la chiamata rimase in
sospeso per qualche attimo, come se non volesse essere interrotta e poi
all’ultimo respiro profondo del licantropo la linea cadde.
Il giorno dopo si videro davvero, la
casa era piena di scatoloni da riempire, forse ce n’erano perfino troppi di
quelli che erano necessari, ma Stiles non glielo fece notare, però si
impossessò del pennarello indelebile senza apparente motivo.
Entrarono nella camera appartenuta a
Laura e Derek prese un pesante respiro prima di esserne assorbito e lo rilasciò
soltanto una volta all’interno, le prime scatole che subentrarono con lui e che
posò sul pavimento; Stiles provava senso di fierezza nei suoi confronti. In
realtà non si era aspettato che il mutaforma avesse
preso seriamente la sua proposta di spedire tutto a Cora, che vi avesse perfino
rimuginato su e che si fosse mosso per premere il numero della sorella minore
tra le chiamate rapide; aveva il sentore che Derek non avesse alcuna idea di
che cosa avrebbe dovuto fare, che per quanto strazio provasse verso la presenza
di quegli oggetti personali, non riuscisse nemmeno a separarsene.
«Uao, tua sorella era una vera
rocker» dichiarò l’umano con ammirazione e meraviglia, la collezione
invidiabile di vienili tutta bella esposta su una mensola dedicata sopra il
letto ed un’altra accanto alla porta, il giradischi su un mobile esterno, dove
sembrava che l’acustica fosse migliore e uao
‒ di nuovo ‒ non aveva mai immaginato e calcolato che i lupi
mannari bisognassero di buona acustica con i sensi amplificati che si
ritrovavano. La collezione che sfogliava tra le mani, scrutando titolo per
titolo, conteneva quasi tutto il panorama del rock, da quello classico a quello
sperimentale. Ne era decisamente incantato e stupefatto.
«Mh, sì» Derek non li notava nemmeno,
del tutto disinteressano a quel panorama musicale, imperterrito a infilare
quante più cose nei pacchi da spedire.
Stiles ridacchiò dilettato, non
perché pensasse che creasse degli scompensi nel licantropo, ma perché dava per
scontato che non fosse minimamente il suo genere ‒ ne aveva uno? Ne prese
una manciata e la impilò con cura dentro un contenitore di cellulosa. «Una
purista, come te».
Derek si fermò e lo fissò con un
sopracciglio arcuato, giudicandolo apertamente. «Soltanto perché preferisco un
libro vero?».
Stiles avrebbe tanto voluto
sottolineare quel vero, borioso ed inflessibile,
come se tutto il resto che non fosse rilegato in pagine tattili fosse
automaticamente immondizia. «Diciamo che la tecnologia non è una tua buona
amica, nemmeno una lontanissima vicina di casa».
«Prediligo la carta» lo liquidò la
creatura della notte, senza che ci fosse nient’altro da aggiungere.
Stiles non riuscì proprio a
trattenere la risata di cuore che gli scappò dal fondo della trachea. «Purista»
consolidò, impossibilitato ad essere smosso da quella verità palese. Di certo
si sposava perfettamente con la sua aria da autentico letterato.
Derek sbuffò scocciato e
disinteressato e Stiles gli rifilò un sogghigno vittorioso.
Successivamente a quello scambio
proseguirono indisturbati, riempiendo e riempiendo, spostando e risistemando,
stavano perfino spolverando ogni oggetto ‒ di certo non era troppo
galante inviare a Cora anche degli acari in eccesso ‒ e la matricola
punzecchiava il suo compagno d’avventura di tanto in tanto.
«Anche le sue letture sono
interessanti» Stiles stava perdendo notevole tempo a gingillarsi in quella
conoscenza, invadendo spazi non propri, imprimendosi titoli ed autori, gli
spessori dei volumi e la cura quasi maniacale con cui erano stati trattati. Si
fermava perfino a leggere la sinossi e di alcuni anche la prima pagina del
capitolo d’apertura.
«Vuoi tenerle tu?» chiese Derek a
quell’osservazione, avendo assistito per l’intero arco temporale alla sua
ispezione meticolosa e alle pieghe allietate che si dipingevano sul viso niveo.
Quasi i libri gli caddero dalle mani
e le perle d’ambrosia si posarono sgomente ed interdette su quelle di giada.
«Come dici?».
«Se ti interessa qualcosa, prendila
tu» semplice e lineare, non c’era nulla di più chiaro.
«Ma…» Stiles si era improvvisamente
smarrito. «Sono oggetti che vi appartengono, è giusto li abbia Cora».
«Tra te e Cora non c’è differenza»
dichiarò onestamente, prendendo una scatola vuota che sostava all’entrata del
corridoio, afferrando il pennarello nero abbandonato sulle piastrelle e
scrivendo Stiles con grafia elegante ed
impeccabile su un lato. «Riempila come ti pare» gli disse in conclusione,
tagliando qualsiasi protesta potesse fare e passandogliela.
Stiles se la ritrovò tra le mani,
leggera, priva di qualsiasi peso, tuttavia era la cosa più pesante che avesse
mai tenuto tra le dita. Avrebbe voluto obiettare che la differenza tra lui e
Cora esisteva eccome, che quelli erano beni patrimoniali della famiglia e che
Cora ne era interamente parte, un suo diritto di nascita, ma Stiles cos’era? Un
individuo del tutto estraneo a quella cerchia privata, eppure Derek l’aveva
comunque incluso. Era sicuro che il suo cuore non avrebbe retto a lungo se
avessero continuato così. «Grazie, Der».
Derek lo silurò con uno scrollamento
delle spalle, come se quel gesto non avesse nessun significato di qualche tipo
e non gli costasse particolare impegno. Forse era vero, ma per Stiles era
importante quanta fiducia riponesse in lui.
La riempì quasi del tutto in un
baleno, ignorando volutamente che lo spazio nel dormitorio fosse carente,
ritornando a destreggiarsi nel suo compito e fermandosi di tanto in tanto per
inserire qualcosa di nuovo nel proprio scatolone. «Che intenzioni hai con i
mobili?» gli chiese poco dopo, vedendo i vari scaffali svuotarsi e le mura
perdere la loro personalità.
«Resteranno qui, l’appartamento era
già ammobiliato quando l’abbiamo comprato» il licantropo non si era nemmeno
posto il problema, li avrebbe ignorati e basta.
«Oh» aveva senso, dopo l’incendio e
l’essere rimasti orfani, non gli era rimasto più nulla di solido, tutto
dissolto in polvere e cenere, nero e grigio, non avrebbero potuto portarsi
nulla dietro a prescindere da quanto avrebbero voluto salvare qualsiasi cosa.
«Questo spiega il divano».
Derek lo scrutò con perizia,
perforandolo da parte a parte. «Non ti piace il divano?».
«Oh, lo adoro» le labbra si accesero
di divertimento giocoso, la piega di giubilo che si espanse in tutta l’aria
circostante. «Ne vorrò uno identico nella mia futura dimora».
Derek gli tirò addosso per dispetto
uno dei cuscini che riposavano sul letto, ammonendo quella volpe infame che
provava godimento satirico a suo discapito.
La risata vivace ed autentica di
Stiles lo invase in ogni parte.
«Perché non provi a terminare gli
studi?» gli domandò invece la matricola poco dopo, quando tutto il divertimento
era evaporato via e l’impegno era richiesto. Il camion dei traslochi sarebbe
stato lì soltanto due giorni dopo e non avevano tempo di trastullarsi sul
nulla.
«Non ho più la mentalità dello
studente» Derek si era espettato quella domanda molto tempo prima, quando gli
aveva rivelato che fosse stato uno studente del college ed a quale laurea
puntasse.
«Sarebbe un vero peccato» proferì
Stiles, mentre ripiegava una delle maglie che aveva estratto dall’armadio
stracolmo, sistemandola con cura nel recipiente da spedire. Si chiese se Cora
avrebbe tenuto tutti quegli indumenti per se stessa o
se avesse avuto più forza di Derek, dandola in beneficienza. Era un argomento
che preferiva non prendere con lui. «Sono soltanto due anni» tutti gli sforzi
fatti prima di quella fase disastrosa della sua vita sarebbero andati in fumo
per niente? Avrebbe anche voluto chiedergli perché
sei ancora qui? Come passi il tempo? Che cosa ti trattiene? Era passato un
mese e mezzo dal suo arrivo, ma Derek non dava segno di voler levare le tende.
«In un anno cambiano tante cose,
immagina in due» Derek quella conoscenza l’aveva vissuta a caro prezzo.
«Posso prestarti un po’ delle mie
energie» propose il figlio dello sceriffo con disinvoltura, davvero propenso a
mettercela tutta. «Sono multitasking, non mi fermo mai».
Derek abbozzò un sorriso che Stiles
colse in tutta la sua interezza, rimanendone folgorato. «Perché sei sempre
proiettato verso il futuro».
«Posso condividere anche quello con
te» accidenti, perché non imparava mai
a controllare il suo cervello e ad impedire di dare voce a ogni pensiero che
l’attraversava? Come il non rassegnarsi a lasciar perdere l’uomo che amava e
che non mostrava alcun interesse verso di lui.
Le iridi verdi del mannaro lo
inchiodarono sul posto e la consapevolezza composta ne era padrona. Stiles
sentì il vuoto e il pentimento gremirlo.
«Non è una decisione che devi
prendere nell’immediato» si giustificò l’umano di conseguenza, cercando di
salvarsi in fallo.
Derek prese una delle scatole
strapiene, alzandosi in piedi ed immettendosi con il corpo verso la via
d’uscita, rifilandogli un’ultima lunga occhiata perforatrice. «Decisamente no».
Stiles, con un groppo nella gola
asciutta, si chiese se stessero ancora parlando del medesimo proposito.
La matricola dormì poco e male,
rigirandosi invano tra le coperte sul divano arancione pastello e fissando il
soffitto immerso nella penombra.
Lui e Derek erano andati avanti con
il pilota automatico per il resto della giornata, avevano continuato a
comportarsi come sempre, a parlare attraverso mezze frasi ed a riempire
scatoloni su scatoloni, ma il magone che aveva nello stomaco non era riuscito a
scacciarlo, quasi conscio che si fosse rotto qualcosa tra loro, che Stiles
avesse osato troppo e si fosse sospinto dove non avrebbe dovuto.
Non voleva perdere la poca stabilità
che aveva trovato con Derek, ma aveva sempre saputo che non sarebbe potuta durare
molto a lungo.
Poco dopo l’alba si alzò, il
turbamento che sentiva dentro lo condusse senza una vera ragione verso la
camera che era appartenuta a Laura Hale, adocchiando la porta chiusa di quella
di Derek. Stava tergiversando anche lui con la sonnolenza? Dormiva? Sperava di
sì.
Si sedette sul pavimento, la schiena
poggiata sulla sponda del materasso e le gambe tirate verso di sé. Nel chiarore
rosato del sorgere del sole la stanza appariva per quasi più della metà
svuotata, un senso di disagio che prendeva il sopravvento, insieme alla
consapevolezza del vuoto che essa rappresentava, di una storia che tentava di
essere raccontata, ma che non avrebbe mai avuto una prosecuzione. Spogliandola
del tutto che cosa sarebbe rimasto? Era anche l’unica terapia che avrebbero mai
potuto adottare.
Gli oggetti della ragazza che aveva
guidato Derek sia come sorella maggiore, capo famiglia e Alpha gli davano
frammenti della persona che sarebbe potuta essere, un
aspetto effimero della sua personalità, un abbozzo della sua essenza. Che cosa
avrebbe detto, che cosa avrebbe fatto per far star meglio l’uomo che il lupo
era diventato? Ci sarebbe riuscita? Di certo un frammento del cuore distrutto
di Derek sarebbe stato ancora intero, l’unico amore incondizionato che aveva conosciuto
per sei anni e che poi gli era stato negato per l’eternità. Per quanto
ritrovare Cora gli avesse riacceso la scintilla, non sarebbe mai potuta
bastare. Erano persone diverse, avevano bisogni differenti ed avevano imparato
a vivere l’uno a meno dell’altra.
Ma forse il grande quesito era
proprio quello: Derek sarebbe riuscito a vivere, ritrovandosi ancora una volta
con polvere di stelle tra le dita? Ogni scopo che aveva perseguito era
diventato labile, finché era rimasto l’unico giocatore, come tutte le volte
precedenti.
«Hai un suggerimento per me?»
interrogò le mura senza anima in un sussurro, la melanconia che primeggiava nel
petto, opprimendoglielo, in attesa di un oracolo che sapeva non sarebbe giunto.
Le mani andarono ad afferrare con
portamento la cornice d’argento che persisteva a rimanere ben piazzata sul
comodino, ritrovandosi a riflettersi su quelle due figure in uno spaccato di
vita così giovani e così dannate, condannate. Non si stupiva nemmeno di non
intravedere alcun bagliore dagli occhi dei due lupi, che avrebbero potuto
compromettere la foto e renderla inutilizzabile, aveva capito con gli anni che
quando volevano, potevano controllare quella caratteristica come meglio
volevano e solo quando lo ritenevano necessario, come quando Derek aveva
alterato volutamente le foto segnaletiche ‒ che Stiles non avrebbe certo
mai ammesso sotto tortura che le conservava ancora da qualche parte.
Nel caso specifico che teneva in
mano, anche se Derek non appariva particolarmente entusiasta di essere
immortalato sulla pellicola, l’affetto per la sorella doveva essere stato più
grande del suo malessere imbronciato. Stiles non poteva ignorare il calore che
sentiva espandersi nell’organismo. «Tenterò del mio meglio per tenere intero il
nostro lupo scorbutico preferito» promise alla figura che sorrideva
all’obbiettivo, ignara e felice, artefice di uno dei rarissimi momenti di
quotidianità semplice di Derek. «Lo amo profondamente» confessò infine, come se
le dovesse almeno quel segreto celato che celato non era, comunicandole quanto
l’impegno preso fosse di vitale importanza per lui e che non era fiato gettato
al vento.
Sperò che avesse compreso, perché era
l’unica cosa che potessero fare entrambi, limitarsi ad amare l’uomo chiuso nel
suo dolore della perdita, per se stesso e per chiunque
fosse entrato in contatto con lui.
Non poteva credere che si fosse
addormentato, lì, nella camera della sorella tanto amata dal mannaro, sulle
mattonelle fredde e abbandonato contro il letto di una padrona che non avrebbe
mai fatto ritorno, con le braccia che stringevano la foto contro il ventre;
quindi probabilmente avrà semplicemente sonnecchiato nell’incoscienza, ma
quando aprì le palpebre e mise a fuoco cosa avesse davanti, senza capire dove
fosse, incontrò la statura da adone greco che sostava accanto al telaio della
porta lasciata aperta, con indosso soltanto i pantaloni di una tuta comoda, a
scrutarlo nella sua immobilità. Grandioso.
«Deduco necessiti di una colazione»
diede per scontato il mutaforma, la voce priva di
inflessione ed impeccabile, eppure Stiles sentiva che c’era un sottotono
nascosto e diverso, una cadenza che vi era eccome.
Stiles mugugnò frustrato in assenso,
irrigidito e con i muscoli che si lamentavano per la pessima postura assunta
per un discreto numero di ore. «Buongiorno, Sourwolf».
Derek non ricambiò il saluto, non che
se l’aspettasse, e gli concesse soltanto un’ultima occhiata senza alcuna
direzione specifica, se non quella generica su tutta la sua interezza ‒
chissà se l’avesse osservato indisturbato e giudicandolo amaramente mentre era
stato rapito dal regno di Morfeo ‒, per poi sparire un secondo dopo nel
corridoio, da cui attimi dopo Stiles sentì provenire il rumore di utensili da
cucina e tazze di portellana.
Il figlio dello sceriffo imprecò
dentro di sé e si diete una spinta per rimettersi in piedi, accarezzando la
cornice argentata con benevolenza, soffermandosi per un attimo di troppo e
riponendola al proprio posto.
«Pensavo di averli sistemati» disse
Stiles dopo che ebbe fatto ritorno dalla sua giornata universitaria, scappato
quella medesima mattina dopo un’abbondante colazione, soprattutto a base di
caffè per ridestarsi e riattivare le sinapsi. Una colazione piuttosto
tranquilla per il misfatto di cui si era macchiato.
I vienili erano stati riposti nel
loro vecchio posto e la camera sembrava di nuovo piena dei suoi colori
originali; era sicurissimo di averli conservati dentro diverse scatole di
cartone e di averli anche circondati di protezione scoppiettante.
«Ho avuto la sensazione che fossi
interessato» proferì Derek imperturbabile, intendo a svuotare la seconda
libreria.
«È un bell’assortimento, ma non avrei
dove tenerli» si era limitato a riempire un solo scatolone, facendo una cernita
precisa dei libri che sarebbero potuti rientrare tra i suoi interessi, delle
nozioni di cui Laura sembrava essersi arricchita. Di tanto in tanto aveva
adocchiato anche la collezione di dischi che aveva spostato nel soggiorno, ma
era consapevole di non poterne tenere nemmeno uno per mancanza di uno spazio
proprio né di possedere un giradischi da qualche parte.
«Allora li lasceremo qui» dichiarò la
creatura leggendaria come unica soluzione praticabile, con tutta la nonchalance
del mondo.
Stiles era notevolmente confuso,
oltre al tempo che avevano perso il giorno precedente, Derek ne aveva
sicuramente investito di più per risistemare tutto com’era prima che ci
mettessero mano, quasi ignorasse che avessero le ore contate per preparare
tutto quello che avrebbero dovuto spedire in Sud America. «Dovrei
monopolizzarti l’appartamento per poterli ascoltare» ma glielo avrebbe mai
permesso?
«Oppure prenderteli quando avrai un
tuo di appartamento nel mondo» semplificò il lupo mannaro, la giustificazione
che appariva essere pronta per essere esternata. «E sì, puoi usarli in
qualsiasi momento».
E quello cosa voleva dire? Che
sarebbe rimasto? O che sarebbe andato via e che la sua futura presenza non gli
avrebbe accusato alcun fastidio? Sarebbe dovuto tornare in quella residenza da
solo? «Se ti fa piacere così, va bene».
Il licantropo rallentò fino a
bloccarsi completamente, con l’apparenza che volesse ribattere qualcosa, ma che
il suo grillo parlante l’avesse messo davanti a fatti compiuti se avesse
proseguito. Si rimmerse nel suo sbarazzare.
Non è che Stiles non apprezzasse il
gesto, che perfino non avesse restrizioni temporali, soltanto non riusciva a
inquadrarlo in nessuna maniera.
Quando la stanza fu quasi del tutto
svuotata e le energie scarseggiarono, ciò che attirò l’attenzione dell’umano fu
la cornice d’argento che ancora sostava sul comodino, senza che Derek l’avesse
più guardata o sfiorata. Gli facevano male le ossa a razionalizzare che quella
era una delle poche, se non l’unica, testimonianza dell’esistenza di Laura;
tutto ciò che era esistito in formato pellicola o digitale in villa Hale a
Beacon Hills si era sciolto al calore delle fiamme. Derek stava rinnegando
anche quella briciola. «Posso tenere anche questa?».
Il lupo mannaro incrociò
interrogativo le mani di Stiles che tenevano come un tesoro prezioso la foto
che ritraeva lui e sua sorella maggiore. «Perché?» cosa te ne fai? era la domanda corretta che il licantropo mordeva con i
denti serrati.
Gli occhi ambrati accarezzarono con
dolcezza affranta l’immagine che teneva tra le dita, i polpastrelli che
blandivano il bordo argentato e quella dedica per qualcuno che non c’era più.
Nemmeno quel giovane ragazzo spezzato era più esistente, già con un suo
tormento ed un cordoglio senza fine, ma che non poteva essere paragonato a
quello che l’avrebbe atteso nel futuro molesto ed infame. «Perché un giorno la
rivorrai indietro e quando accadrà, dovrà ritornare da te il più rapidamente
possibile».
L’intensità con cui Derek lo guardò
lo atterrò e lo lasciò privo di fiato, sentì il terreno mancargli sotto i piedi
e galleggiare nel nulla assoluto. «Fa come credi».
Non era un vero lasciapassare, ma era
più di quanto si aspettasse. Si prodigò ad abbozzare un sorriso sincero,
arraffando un foglio del pluriball già tagliato delle dimensioni che gli
sembravano più opportune, avvolgendo la cornice con perizia e precipitandosi
verso un piccolo cantuccio del soggiorno appartato, dov’era stata riposta la
sua scatola personale per differenziarla da tutte le altre, cacciando nelle
retrovie la cognizione degli occhi di Derek che non l’avevano abbandonato un
secondo.
Si chiese esattamente dove sarebbero
stati quando quel fatidico momento sarebbe arrivato, se si sarebbero trovati
nello stesso luogo, se mai si sarebbero incrociati ancora; avrebbe continuato a
custodirla, in attesa.
Con quei pensieri non troppo fausti
si dedicò a sigillare gli scatoloni con il nastro adesivo ‒ spesso ‒,
seduto sul pavimento piastrellato, scrivendo su ognuno l’indirizzo di Cora per
sicurezza e maniacalità.
Il mutaforma lo raggiunse silenziosamente qualche minuto dopo, passo felpato e
l’invisibilità che l’aveva costantemente caratterizzato, l’ultimo pacco in mano
e bisognoso di essere chiuso, per essere spedito in massa insieme ai fratelli,
di fatti Derek lo imitò e si accomodò al suo fianco, mentre Stiles glielo
prendeva dalla presa e staccava uno, due nuovi pezzi del nastro adesivo che
adagiò sulla cellulosa compatta marrone. «Dobbiamo solo caricare tutto»
proclamò la matricola con una piega sfinita ma contenta sulle labbra, la
certezza di essere riusciti a far tutto prima che il giorno seguente il camion
si presentasse sullo spiazzale del palazzo.
Avvertì l’assenza di suoni tutta
intorno a loro, l’aria che si faceva più satura, la mano di Derek che si
stringeva sul suo polso delicata e possente insieme, tirandolo appena verso di
sé, congiungendo la bocca alla compagna che trovò immediatamente, carezzandola
e vezzeggiandola con il calore perpetuo che gli infuse nell’intero organismo,
razziandolo completamente, gli angoli appunti e spietati dei pacchi chiusi
conficcati nella carne e nella schiena dell’umano. «Se fossi io ad
inseguirti?».
L’ossigeno dai polmoni scomparve completamente,
le sinapsi si arrestarono e probabilmente qualche neurone l’aveva salutato;
credette di essere appena passato a miglior vita, di essere precipitato in
qualche varco pericoloso che non aveva notato per la sua sbadataggine, un piede
messo in modo scorretto, una scivolata improvvisa da imbranato qual era, la
testa che si abbatteva su uno spigolo e si fracassava; estinto, defunto,
deceduto. «Che… Cosa…» le iridi attonite di Stiles primeggiavano su tutto,
talmente esterrefatte da non percepirlo nemmeno attraverso la visione
periferica. «Mi sono perso».
Derek soffiò uno sbuffò a metà tra il
divertito e il compiaciuto, lambendogli le labbra con il respiro caldo. «L’ho
notato».
Stiles lo guardò stralunato e
ubriaco, la ragione che sembrava aver preso i bagagli per filarsela via e gli
occhi vitrei, trasparenti. Quel lupo infame se la rideva persino.
«Delucidazione: è reale?».
La bocca di Derek si curvò in
qualcosa che assomigliava spaventosamente ad un sorriso, un lontanissimo
parente, un antenato, sfiorandogli il ponte nasale con il suo e ispirando
pienamente il suo odore, rilasciandolo soltanto attimi dopo, assaporandolo con
dovizia. Stiles rabbrividì in ogni parte e si chiese se avesse necessariamente
bisogno di porre quella domanda davanti ad una risposta tanto plateale. «Ho
cercato in ogni modo di rifuggire da te, ma ogni volta ritorno indietro» gli
percorse lentamente tutto il setto nasale con la punta del suo, schioccandogli
un bacio bagnato al centro della fronte. «Passo dopo passo, decisione dopo
decisione, le metto in discussione e ripercorro il sentiero lasciatomi dietro,
ritrovandomi immancabilmente al punto di partenza, ma nettamente più
coinvolto».
Stiles non riusciva a distogliere lo
sguardo da quella confessione inaspettata, insperata e bruciante, distorta.
«Perché?».
«Non voglio legarti ad una persona
maledetta» proferì il mannaro con tormento e demolizione, unicità di verità.
«Maledetta» ripeté il figlio dello
sceriffo con sgomento, la ramificazione dell’angoscia che divampava in un fuoco
nello sterno. «Ho dimostrato di essere maledetto anch’io» da quanto tempo Derek
si crucciava su una fatalità così erronea? «E non siamo maledetti, siamo
sfortunati, disgraziati, bombardati dalle avversità, dalla crudeltà del mondo
che non ha nessun riguardo verso di noi e facciamo del nostro meglio per
tenerla sotto scacco».
Le dita libere del lupo si
incastrarono tra i capelli sfuggenti di Stiles, la vicinanza tra loro che
diveniva assottigliata ad ogni emissione di anidride carbonica. «C’è una grossa
differenza tra me e te; i miei mali accadono per l’ingenuità, i tuoi perché
attiri falene per l’intelligenza e perspicacia, l’astuzia che ti fanno brillare
incontrastato» e Derek ne era rimasto talmente abbagliato e annichilito da non
riuscire a scorgere nient’altro. «Peter, il Nogitsune e Theo erano stregati dal
tuo potenziale, da te» il polpastrello del pollice gli sedusse l’interno del
polso, le pulsazioni frenetiche che battevano incessanti sotto il suo tocco.
«Gerald ed i Ghost Riders ti temevano».
«Avrei da obbiettare in proposito»
doveva davvero stupirsi se Derek ci avesse rimuginato così tanto, fino a
perdersi? «Da due mali, nasce del bene».
Uno scintillio attraversò le iridi di
giada, ma fu subito risucchiato dalla severità del suo animo. «Non funziona
così».
Il buco in cui Derek si era andato a
rintanare Stiles lo vide chiaro, palpabile, talmente reale per quella mente
provata, sconsolata. Gli fece male, sentiva il suo supplizio autoimposto e non
voleva che lo liberasse. «Io ti amo».
La presa sul capo dell’umano si
accentuò, forte, autoritaria e devastata, come il suo padrone. «Sì».
«E sei l’unica persona con cui voglia
stare» i suoi segreti furono rivelati per la prima volta a voce alta.
«Lo so» disse il lupo mannaro con
consapevolezza grave, la conoscenza che la faceva padrone.
C’era qualcuno su quel pianeta che
non ne sapesse niente? «Mi sto scontrando con un muro» esasperante e frustante,
con Derek era sempre così, per qualsiasi cosa. «Non capisco cosa vuoi, Derek»
probabilmente non lo sapeva nemmeno lui.
I tratti mutarono in tristi e
sofferenti, come se dovesse attingere a tutte le energie che aveva in corpo,
avere il coraggio di dare un volto alle parole che erano radicate nel cervello.
«Il meglio per te».
Fu talmente scioccato che ebbe
l’impressione che il flusso del sangue si fosse arrestato. «E non puoi farne
parte?» a che autopunizione si stava esattamente sottoponendo? «Essere parte
dell’insieme».
Derek dinegò con un singolo e netto
cenno della testa, il responso definitivo. «Non sei l’unico tra i due ad amare
l’altro».
Stiles quella volta era sicuro, se
non era deceduto precedentemente, sicuramente lo era in quel momento; era
fatta: infine aveva raggiunto il Creatore.
Non poteva credere alle proprie
orecchie, alle proprie stesse reazioni, al modo in cui il suo cuore batteva
irrefrenabile, ai globuli rossi che correvano irrefrenabili per tutti i vasi
sanguigni, a quella dichiarazione così intricata e precisa, sibillina, ma che
urlava a squarcia gola. «Questo che significa?» riprendere l’autocontrollo ed
emettere suoni vocali gli costò il pedaggio di qualche neurone di troppo e
anche di nervi, ma sapeva che le parole che Derek gli aveva appena sbattuto in
faccia con tanta prepotenza e spietatezza non avevano il significato classico,
la meta finale, il risultato che avrebbero dovuto raggiungere una volta
verificato l’interesse reciproco dei soggetti protagonisti. Per il lupo era la
battuta d’arresto.
«Conosci quanto me le mie passate
relazioni, Stiles» disastrose, terribili e deleterie, devastanti, da radere al
suolo tutto quello che incontravano e l’avevano ben fatto, metaforicamente e
fisicamente, distruggendo, spargendo sangue, fiamme che si accendevano, il
fuoco che divampava, la cenere che si depositava, cuori strappati da petti
grondanti di liquido vermiglio, altari, sacrifici, annullamento, raggiro,
manipolazione e spietatezza, crudeltà, malvagità, sadismo e odio,
autocelebrazione; erano state fiere dell’orrore e non ne aveva mai capito
niente, se non quando era troppo tardi, spalle al muro, morte dappertutto e la
sua totale incapacità di riprendersi la sua vita, di ricominciare, di espiare,
di non lasciarsi coglierne nuovamente impreparato e di essere molto più
scrupoloso, attento e meticoloso, diffidente, intrattabile ed irascibile,
qualcuno che non doveva avvicinarsi né fare avvicinare; un autentico lupo
solitario, ma non era servito a nulla, continuava a farsi raggirare, ingannare
e soggiogare. Tutte quelle energie sprecate le aveva ripetutamente riservate
alla persona sbagliata, incaponendosi, ma quella bella e perfetta volpe rossa,
acuta, intraprendente, sfrontata e saputella, audace e diabolica, astuta,
smaliziata e del tutto incurante del pericolo, si era insinuata dentro di lui
anche davanti alle sue qualità peggiori e non aveva desistito, affrontandolo a
viso aperto, mostrando il suo ghigno da predatrice scaltra. Non poteva
permetterle di prendere una altra parte di sé, perché stava già vincendo. «Non
sono finite bene».
Eufemismo del secolo, forse solo
Braeden aveva rappresentato una vera ventata d’aria fresca, una simil
relazione, nata in uno dei momenti più vulnerabili di Derek, ma che si basava
tutto su un rapporto di mentore ed allievo, un lupo che non era più tale,
sottratto di ogni parte della sua natura sovrannaturale, indirizzato a dover
rivedere tutto se stesso, ricominciare a vivere da
zero, umano, inerme e sguarnito. Niente più luna, nessuna rigenerazione
istantanea.
La loro relazione sessuale si era
evoluta in qualcosa, ma lo aveva fatto anche Derek, riappropriandosi della sua
eredità genetica, la forma del lupo completo che si era manifestata nella sua
interezza. Licantropo e mercenaria presero il largo da Beacon Hills come
coppia, ma ne ritornarono separati da comune accordo e pacifica decisione. O
almeno era quello che Stiles aveva captato, si erano lasciati per le fisime di
Derek? Le stesse che propinava a lui? «Temi che possa riaccadere?».
Derek non rispose direttamente, ma
l’espressione significativa e tirata che gli diede valle come monito. «Puoi
anche depennarmi dalla lista di possibili catastrofi, ho già passato la mia
fase ribelle da pluriomicida».
«Stiles» lo riprese il mutaforma a bocca serrata, inammissibile, inaccettabile,
non avrebbe acconsentito al suo essere indisponente su quell’argomento.
Beh, non avrebbero potuto ignorare
e soprassedere su quel piccolo dettaglio che lo vedeva posseduto da uno spirito
oscuro millenario, che lo controllava e gli faceva commettere i peggiori
crimini dell’umanità per nutrirsi di dolore e alimentare il suo divertimento
sadico. «Sei un bell’ipocrita» lo additò, per nulla impressionato. «Non vuoi
mai che mi colpevolizzi su quello che mi è accaduto, ma lo fai con te stesso»
Derek provò a protestare, ad argomentare le sue ragioni, ma Stiles lo bloccò
prima che potesse emettere qualsiasi fiato. «E non rifilarmi la solita
manfrina».
Rimasero in un silenzio
attanagliante, come se le parole avessero preso il volo e non ci fosse niente
da dire o ce ne fosse troppo, la necessità di dare una fine a quello stallo.
Stiles sospirò internamente, prendendo
tutte le sue buoni intenzioni per non commettere azioni avventate. «I miei
desideri non contano?».
Lo sguardo di Derek fu nuovamente catturato
dalla presenza che gli stava dinnanzi, la sensazione di essere fragili, al
limite di un dirupo. «Sì, contano».
«E valgono qualcosa?» chiese con un
nodo alla gola, un responso negativo che proprio non era pronto a ricevere.
Le labbra del lupo si socchiusero,
serrate, le emozioni disparate di Stiles che lo travolgevano tutte in una
volta. «Sì».
Stiles fu investito da un’intuizione,
il cielo nuvoloso che improvvisamente si dissipava. Derek era lì perché l’aveva
seguito, raggiungendolo in una città che conservava una parte di lui che non
esisteva più, affrontando dei fantasmi che albergavano nella casa che aveva
abbandonato tre anni prima, ritornando al suo interno e rimanendoci, senza che
mostrasse l’intenzione di volersi allontanare; l’appartamento si era presentato
come un pretesto e poi una motivazione per poter rimanere, per poter vedere
cosa sarebbe successo; forse si era accorto di non voler sottrarsi a nessuno
delle due possibilità. Qualcosa l’aveva perfino fatto scattare, facendo
scomparire tutti quei paletti che si era imposto, le ritrosie che volevano la
meglio su tutto il resto e gli era saltato addosso, reclamandolo, esigendolo,
comunicandogli sono esattamente dove mi vuoi,
tuttavia il purgatorio a cui si era soggetto non mollava la presa. Cos’è che
voleva esattamente da lui? Aveva frainteso ed invece voleva che gli venisse
donata la libertà? Che avesse la meglio sulla sua testardaggine? Che gli
facesse abbassare tutte le difese? Sono pronto a prendere tutto, ma non
glielo aveva già dimostrato in passato? In quel medesimo attimo?
Il suo istinto prese il sopravvento,
le azioni azzardate che voleva controllare che acquistavano il dominio, le mani
che corsero ad afferrare il capo del lupo completo, le iridi dorate nefaste nel
mare in tumulto di giada. «Ti amo, Derek» proferì chiaramente, innegabilmente,
scadendo sillaba per sillaba, lasciandole scivolare sulla lingua e riempiendo
la bocca. «Non cambierà, era evidente prima e lo sarà nel futuro».
«L’amore non basta» obiettò la
creatura della notte, ben conoscitore di quella penosa verità.
No, non bastava, serviva impegno,
perseveranza, pazienza ed investire ogni grammo di energia per tenere tutto in
equilibrio e non sprofondare. «Ma è una buonissima base di partenza, anzi
ottima».
Derek soffocò uno sbuffo di risa un
po’ amara e un po’ completamente conquistato dallo tsunami che lo teneva fermo.
«Non ti arrendi mai, ragazzino?».
«Mi conosci così bene, Der» proferì
ad un respiro da lui, la smorfia diabolica e compiaciuta che gli ridisegnava i
tratti del viso. «Non possiamo semplicemente provarci? Vedere come va a finire?
Se non dovesse funzionare, so dov’è la porta» lo voleva così tanto e aveva la
certezza che lo ricambiasse anche lui in egual modo, che Derek avesse soltanto
bisogno che gli offrisse un braccio per tirarselo dietro, la mano che l’avrebbe
fatto desistere, senza più guardarsi indietro.
Derek restò di sasso, meditativo,
investito e un po’ guardingo, la diffidenza che si mostrava a chiare lettere,
ma verso di chi? «Se non volessi che l’oltrepassassi?».
Il muscolo cardiaco involontario si
esibì in una giravolta molto pericolosa e Stiles era ad un passo dall’avere un
infarto da un momento all’altro. Lo baciò per la prima volta di sua iniziativa,
l’epidermide che entrava in contatto con l’altra, a fare conoscenza, lo strato
di barba curata, attenta che graffiava morbida, le labbra che accoglievano ogni
sua decisione, intenzione e movimento, la bocca della bella volpe ammaliatrice
che si curvava lieta su quella del lupo catturato. «Allora non farmi uscire».
Derek dopo la loro discussione si
allontanò da lui, quasi non riuscisse a sopportarne la vista e le successive
due notti le trascorse nella dependance; per Stiles fu un duro colpo,
risvegliarsi accanto ad un letto vuoto e congelato dopo anni che lo
condividevano, nove lunghissimi anni di convivenza che avevano costantemente
passato insieme. Erano poche le occasioni in cui rimanevano separati, le volte
in cui Stiles raggiungeva Quantico per missioni particolari o rapporti
importanti e quando Derek viaggiava per controllare i suoi immobili.
Prima che lo Stiles prossimo ai
vent’anni, con il secondo anno di college dietro l’angolo, rinnovasse la
domanda per il dormitorio, Derek gli chiese di andare a vivere insieme
nell’appartamento a meno di mezzora dal campus, la casa che aveva condiviso con
Laura; in risposta la non più matricola aveva stracciato il contratto. Non
poteva immaginare che il mannaro fosse talmente deluso da lui da sentire il
bisogno di stargli alla larga, di mettere quanta più distanza tra loro quando
in quell’arco narrativo della loro vita aveva costantemente dimostrato il
contrario. Si era immerso totalmente nel lavoro per evitare di pensare alle
ripercussioni, fallimento assicurato per una mente iperattiva come la sua.
Quando sentì il portone principale
aprirsi e richiudersi subito dopo, spense i fornelli che avrebbero dovuto
cucinare la cena ‒ accuratezza necessaria, si era imposto di stare
attento ad ogni scintilla sfuggente, che mai nelle proprietà nelle vicinanze
del lupo scoppiasse anche il più piccolo fuocherello ‒, lasciando la
cucina e fiondandosi in salone. «Derek».
La creatura della notte si palesò
nella grande stanza, serio, impeccabile nella sua aura imponente. «Stiles».
«Sei-» tornato, avrebbe voluto
concludere con l’ovvio, ma non lo era se aveva sentito il bisogno di non
condividere lo stesso letto per due notti di fila. Non lo era davanti ad una
cartelletta contenente dei fogli che il mannaro teneva in mano, con una
missione ben predisposta nelle iridi verdi; gli si spezzò completamente il
cuore che avevano rimesso insieme in sesto. «S-sono le carte del divorzio?».
L’espressione di Derek si increspò,
guardandolo allucinato per una manciata di secondi, spostandolo su quel
blocchetto di documenti che le dita tenevano insieme. «Le carte del divorzio,
seriamente, Stiles?».
Era un’interrogazione retorica, con
inclinazione beffarda, non sapeva se potesse rilasciare il respiro che gli
ostruiva la carotide. «Avresti le tue buonissime ragioni».
Il licantropo lo guardò giudicandolo
apertamente e Stiles sapeva di meritarselo. «Le disconosco, ma forse vuoi
illustrarmele tu, così provvederò a farle preparare».
Il suo lupo picchiava ancora duro,
non era cambiato niente. «Sono stato ingiusto con te» lo era anche in quel
momento con quell’uscita decisamente infelice.
«Sono abituato alle tue scorrettezze»
in genere era anche bravo a saperle gestire o ad incassare il colpo, fin dal
loro primissimo incontro le loro interazioni si era basate su quello scambio,
invece in quell’occasione era rimasto completamente devastato. «Non ti lascerei
per qualcosa di così effimero» non lo lascerebbe proprio e basta, era fuori
discussione.
Effimero? Adorava quando Derek parlava come un libro stampato, manifestata tutta la
sua propensione letteraria. «Forse ho avuto una reazione esagerata».
«Dici?» il
mutaforma arcuò un sopracciglio con scetticismo, a sottolineare
l’evidenza. «Ho sentito un principio di attacco di panico dietro l’angolo».
Stiles soffiò esausto, la stanchezza
che gli ricadeva tutta sulle spalle, la testa che gli doleva per l’accumulo
della tensione. «Mi dispiace, questa storia sta tirando fuori la parte peggiore
di me».
«Stiles» la cartella fu abbandonata
sul tavolo posto alla sua sinistra e le mani possenti si poggiarono sulle
braccia del figlio dello sceriffo, confrontandosi a viso aperto. «Credi che non
sappia chi abbia sposato? Con chi abbia passato gli ultimi dieci anni della mia
vita» le dita presero a scendere e salire, in movimenti rigeneranti e
rilassanti. «Il ragazzino che tredici anni fa mi dava il tormento e che non
demordeva mai?».
«Lusinghiero» proferì Stiles con
un’inclinazione sarcastica, arricciando il naso.
Derek gli sollevò maggiormente il
viso, costringendolo a guardarlo dritto negli occhi. «Conosco i tuoi
stratagemmi, conosco la tua indole incontrollata ed impulsiva, le
progettazioni, il modo in cui ti muovi per attaccare prima di divenire un
bersaglio, per avere sempre la meglio e lasciare tutti gli altri nel torto, le
tue migliori qualità e le peggiori, la parte più bella e la più malvagia; non
credere che non le abbia messe in conto davanti alla prospettiva di condividere
per sempre la mia vita con te» il tono era solenne, imperioso, irremovibile e
del tutto devoto a lui. «Che sia per un attestato dello stato o meno, sceglierò
sempre di stare con te finché saremo vivi. Non ti ho sposato perché dovevamo,
ma perché lo volevo».
Stiles tremò in ogni parte, le sinapsi
impazzite, le vibrazioni che pizzicavano vertebra dopo vertebra senza dargli
pace. «Beh, sai che ti perseguiterei anche nella morte».
Derek gli sorrise trascinato prima di
depositargli un bacio aperto e carico di sentimento sulla bocca. «Non avevo dubbi».
Dio, si
poteva morire di troppo amore? Quello sarebbe stato il momento adatto. Nascose
il viso nel suo e se lo strinse forte al torace.
«Che ne dici di apporre la tua firma
lì» gli propose il lupo mannaro, indicando la pila di fogli nascosti.
Stiles si mosse con un attimo di
ritardo, il significato che faticò a comporre nella mente in continua corsa,
scostandosi lievemente da lui e guardandolo dal basso con un interrogativo ben
stampato nei tratti non più fanciulleschi, avvicinandosi incoraggiato dalla
tempra del marito. «Che cosa sono?» disse con titubanza e morbosa curiosità,
scostando ed alzando la copertina leggermente spessa che proteggeva
l’involucro, lasciandola cadere di getto, scottato dalle parole che vide
scritte in grassetto e dalla dimensione del carattere piuttosto elevata, certificato
di adozione, insieme a tre nomi incolonnati uno sotto l’altro: Erick, Laura
e Corine Lefèvre. «Che sta succedendo? Hai cambiato idea?».
«Succede che hai ragione anche quando
sei completamente in errore» in realtà, capitava continuamente, si chiedeva
come potesse stupirsene ogni singola volta.
«Davvero?» non che avesse ragione,
quello era indiscutibile, era soltanto sorpreso che Derek volesse farlo
seriamente.
«Sì» convenne il licantropo con
convinzione, avvicinandosi di un passo alla lastra di legno lavorato che
sosteneva in bella vista la documentazione necessaria per autentificare la
prossima fase. «La famiglia non va divisa, soprattutto i fratelli».
A Stiles scoppiò il cuore, era così
importante da romperlo, a quell’insieme vide la personale esperienza di Derek,
come sarebbe stata la sua vita se Cora fosse cresciuta con lui? «Sei convinto
davvero?» tuttavia individuava ancora della titubanza dalla sua parte, non che
non la capisse.
«Sono solo sorpreso che tu voglia
farlo» ragionò con se stesso il nato lupo, osservando
l’atto su cui era già stata depositata la sua firma. «Pensavo volessi prendere
una nuova specialistica, era già impraticabile con un bambino in giro, ma con
tre sarà impossibile» per quanto avessero potuto giostrarsi bene e dividersi i
compiti perfettamente, Derek non vedeva proprio come avrebbero potuto fare
funzionare le cose per permettergli di acquistare un nuovo titolo per aumentare
le sue credenziali.
«È questo che ti preoccupa?» Stiles fu
folgorato nell’immediato, completamente allibito e commosso. «Negli ultimi
dieci anni ci siamo concentrati soltanto sulla mia carriera, il college, le
specialistiche, l’accademia, i periodi di prova, gli anni d’esperienza nelle
forze dell’ordine prima del passaggio definitivo e tu mi hai sostenuto sempre.
Posso rallentare, posso prendermi una pausa dalla mia convulsione a
pianificare, posso dedicarmi interamente a questa famiglia, lo devo a me, lo
devo a te e noi tutti».
«Non mi devi niente» obiettò Derek,
riprendendolo fermamente e con determinatezza. «Non devi sacrificare le tue
ambizioni per questo progetto, non devi fermarti».
«Non le sacrificherò, ma è arrivato
il momento di dare la priorità a qualcos’altro, a noi» Stiles era sempre stato
convinto di quello, da quando ne avevano parlato la prima volta. Si erano mossi
lentamente, con calma verso quella direzione, prendendosi tutto il tempo di cui
necessitavano e studiando passo dopo passo, arrivando al periodo che ritenevano
ideale per aprire le danze. «Se dovessi fermarmi, sei autorizzato a
riprendermi».
Derek lo guardò attentamente,
scrutando ogni centimetro della sua epidermide e sondando la veridicità delle
sue parole. «Va bene».
Stiles si esibì in una piega sincera
ed amabile sulla bocca, sfiorando con i polpastrelli i fogli su cui figurava
già la firma del lupo completo, sempre previdente. «Come fai ad avere già le
carte?».
«Sono due giorni che ne discuto con
la Wilkinson» rivelò atono il
mutaforma, ripensando alle enormi discussioni che aveva tenuto con lei.
«Le ho appena ritirate».
Ed era corso subito da lui. «Tu
cosa?» Stiles per due notti e tre giorni aveva pensato che Derek necessitasse
di una pausa dalle sue malefatte, dalle continue situazioni disastrose in cui
lo metteva, mentre in realtà si era già mosso per realizzare la sua blanda ed
avventata proposta. Quanto tempo gli era servito per poterla accettare,
soppesare i pro e i contro, poter tirare le somme e decretare che fosse la
strada giusta? Che potesse essere fattibile. Sicuramente una distanza da lui
che gli assordava i pensieri gli era stata necessaria.
«Non era per niente entusiasta della
tua prodezza» disse la creatura della notte, rifilandogli un’occhiata tagliente
e significativa.
«Ma io era serio» esclamò con impeto,
l’irrefrenabile impulso di battere i piedi e dimostrare quanto lo fosse.
«Lei non ti conosce, non sa quanto
testardo e molesto puoi essere» Derek, purtroppo, ne era fin troppo consapevole
e spesso vittima. «Hai buone intenzioni, ma agisci nel modo sbagliato».
Stiles strinse i pugni perché sapeva
di dover incassare il colpo, l’autenticità nella voce del marito e il suo
rimprovero continuo non tanto velato; era dura fare l’uomo adulto. «Mi scuserò
anche con lei» benché non gli andasse affatto.
Le falangi del mannaro si inoltrano
tra le ciocche castane, avvicinandolo maggiormente a lui e depositandogli un
bacio pieno sulle labbra. «Che ne dici di terminare la trattativa,
Mieczysław Stilinski?».
Stiles rabbrividì di scontento e
raccapriccio, increspando la fronte e arricciando il naso come se avesse appena
ingurgitato un limone intero. «Non chiamarmi così» chissà com’era possibile che
tutti azzeccassero la pronuncia del suo nome di battesimo ed a lui continuasse
ad essere ostica. Probabilmente aveva un rifiuto colossale.
Derek non riuscì per nulla a
trattenere la risata che gli sfuggì da dentro la gola, conoscitore di quanto
l’umano disprezzasse quell’insieme di suoni. «Eppure è questa la firma
riportata sui documenti» dal contratto d’acquisto della villa al certificato
del matrimonio, come tutta la sua posta.
Il figlio dello sceriffo lo fulminò
con gli occhi, ben vedendo quando il suo disgraziato consorte si stesse
divertendo. «Giuro che un giorno lo cambierò».
«Odi la burocrazia» era uno dei tanti
motivi per cui se ne occupasse sempre lui, cosa che non poteva accadere con le
scartoffie dell’FBI, di cui Stiles si lamentava in continuazione.
Stiles sospirò scontento e Derek gli
scioccò un bacio ad un angolo della bocca a ricompensarlo e tirarlo su di
morale. «Avanti» lo invogliò, andando a prendere una penna a sfera dallo
scrittoio d’esposizione che si trovava poco lontano, rifornito di ogni
taccuino, agenda e fogli prendi-appunti, biro e matite.
Stiles se la ritrovò in mano quando
il mannaro gliela porse, invitandolo a rendere concreta la loro ultima
decisione. La fissò come se non capisse a cosa servisse, le sensazioni erano
innumerevoli e una più ridondante dell’altra, mandandolo in confusione, ma mai
così certo come lo era in quel momento di svolta, tuttavia qualcosa gli impedita
di dare un taglio netto e rendere concreto il passo successivo. «E tu, Derek?»
tutto quello che ricevette dal lupo fu uno sguardo stralunato e con
un’espressione d’incognita ben stampata. Quanto avrebbe potuto essere esplicito
per non ferirlo? «Con la bambina, Laura».
Il dolore attraversò le iridi di
giada, il fiato sul collo del fantasma che gravava sospeso su di lui. «È
soltanto un nome».
«Quello della tua Alpha, di tua sorella»
Stiles capiva bene quanto Derek soffrisse per quell’omonimia, l’aveva visto sin
dal primo momento che quell’insieme di sillabe fu rivelato con pudore e
dolcezza, in una presentazione sopraffina, la smorfietta allegra sul visino
tutta dedita a loro; si era sentito conquistato in un istante, era sicuro che
era valso anche per il licantropo, ma poi gli artigli beffardi del fato
l’avevano annientato. Non poteva semplicemente soprassedere, Stiles aveva
impiegato molto tempo ed energie per rendere le memorie di Laura un porto
sicuro per Derek, qualcosa da non rinnegare, ma di cui parlare con fierezza,
ricordandola. Soltanto due anni dopo che gli affidò la fotografia incorniciata
sotto un bordo d’argento lavorato, che ritraeva impeccabilmente sorella e fratello,
Derek l’aveva richiesta indietro ed era ancora lì, sul suo comodino nella loro
camera da letto. Non era soltanto un nome.
«Sono sceso a patti con me stesso»
rivelò la creatura leggendaria, il tono moderato e rassegnato, il leggero
sottotono dell’affanno ed afflizione. «Non voglio dire che sarà facile, ma non
è una ragione per rinunciare».
Gli arrecava del male fisico non
essere stato al suo fianco quando era giunto a quella illuminazione, a quel
compromesso, l’esserne stato completamente tagliato fuori, senza soppesare
insieme la situazione; a quel punto della storia si chiese se in realtà quei
tre giorni di distanza tra loro non fossero necessari a Derek per vedersela con
se stesso, oltre alla mal indulgenza che provava nei
suoi confronti dopo quell’errore di troppo.
«Sono tanto fiero di te, Sourwolf»
proferì univoco e orgoglioso il detective, la voce che si amplificava in tutto
l’ambiente casalingo, l’amore profondo che provava per quell’uomo completamente
a pezzi che era riuscito a rimettere tessera dopo tessera nel posto corretto.
Derek amplificò la stretta sul cuoio
cappelluto e Stiles si sporse per legarlo ad una morsa che gli trasmettesse
esattamente quel sentimento di fierezza, l’autentico valore che gli riponeva.
L’umano si rigirò la stilo tra le
dita, concentrandosi sui documenti che aveva davanti a sé e dividendosi dal
contatto con il mutaforma, depositando una sfilza di Mieczysław
Stilinski su ogni incarto di cellulosa che lo richiedesse, di fianco a
quelle di Derek Hale, riempiendo con meticolosità anche le due copie
allegate.
Posò la biro sulla tavola da pranzo,
sentendosi esausto ed al colmo di una felicità mai sperimentata in precedenza.
«Avremo davvero i nostri lupacchiotti».
La commozione ed il tremito d’affetto
furono così devastanti per i sensi amplificati di Derek da esserne schiacciato,
trangugiato, avvolgendo il marito tra le braccia e tenendoselo ben stretto al
torace, immergendogli il naso nell’incavo del collo. «Lo sceriffo dovrà
rinunciare alla camera degli ospiti tra qualche anno».
Stiles rise con autenticità sulla sua
pelle, accentuando l’intreccio dei loro arti superiori. «È un bene che tu sia
un uomo previdente, adorerà la dépendance».
«Non fare mai più una bravata come
questa, Stiles» lo ammonì Derek con inclemenza accondiscendente, sudando freddo
per tutto quello che li attendeva dietro l’angolo, nel momento in cui avrebbero
consegnato i documenti siglati all’orfanatrofio.
Stiles ridacchiò spudorato e senza
alcuna vergogna, non rassicurandolo affatto di mantenere nulle le sue
birichinate. «Adottiamo anche un cane? Ne ho sempre desiderato uno» perché
quattro lupi sotto il medesimo tetto non gli bastavano minimamente.
Forse era finalmente giunto il giorno
in cui Derek gli avrebbe strappato la gola con i propri denti.
Ci siamo totalmente
tuffati in loro in questo capitolo, così tanti aspetti del passato che si
collegano al presente che hanno costruito insieme, passo dopo passo, lentamente
e con i loro tempi, peccato che Stiles abbia delle brutte abitudini che però
Derek, in qualche modo, sa gestire, anche se necessita dei suoi spazi per
metabolizzarle. Quanta pazienza deve avere quest’uomo con quell’uragano
volposo.
Sì, i nostri ragazzi preferiti
si stanno per immergere in qualcosa di eccessivamente grande perfino per loro
che hanno affrontato di tutto, tre marmocchi luposi non sono proprio di facile
gestione e non ci resta che osservare i tentativi che li vedranno protagonisti.
«Non ho bisogno delle sue scuse,
signor Stilinski» quando Derek si era premurato di riportare i documenti
firmati alla Wolfgang Childhood, Stiles l’aveva seguito, un po’ perché doveva chiarirsi
con quella donna, un po’ perché era un atto importante che preannunciava un
cambiamento netto nella loro vita; era mortalmente importante. «Suo marito mi ha illustrato ineccepibilmente la sua
indole impetuosa».
Ah, allora era proprio in una botte di ferro. «Spero non sia stato troppo
crudele nei miei riguardi» ce lo vedeva bene, Derek non si limitava mai ad
esaltare i suoi difetti.
Derek roteò gli occhi per
esasperazione, ignorandolo bellamente, mentre la Wilkinson li studiava con
accuratezza. «Ha detto che è di buon cuore».
Oh,
quello non se l’aspettava affatto. Si voltò appena per adocchiarlo, la macchia
sulle labbra carnose sapute ed accattivanti, la complicità che li
caratterizzava sopra ogni cosa.
«Ma come ben sa, un buon cuore non è
sufficiente in questi casi» proseguì con severità la direttrice, mettendo in
chiaro che cosa li avrebbe attesi. «Abbiamo i fratelli Lefèvre sotto la nostra custodia da due anni, non siamo mai riusciti ad
avvicinarci ad un’adozione con loro. Abbiamo cercato di presentarli tutti
insieme, ma non ha mai funzionato, successivamente abbiamo optato per
dividerli, ma ogni volta che le bambine erano ad un passo dal lasciare questo
posto, Erick distruggeva ogni possibilità. Ha una grande ascendenza sulle sue
sorelle. È molto caro e dedito a loro, ma non si può dire lo stesso verso gli
altri».
Le bambine, ai due coniugi non piacque molto quella precisazione, lasciava presagire
soltanto una cosa. «Nessuno ha mai mostrato interesse verso Erick?» si
costrinse a chiedere il lupo completo, il tono apparentemente atono, ma con
grande disapprovazione.
«No» la donna lo scandì a chiare
lettere, lapidaria e assolutistica. «Troppo molesto, troppo grande, troppo
vicino al risveglio della sua natura soprannaturale».
Stiles fu attraversato da brividi
spiacevoli ed avviliti, cominciava a covare molta rabbia, mentre lo sguardo
duro di Derek l’esprimeva in piena regola.
«Si pensa che dei lupi mannari siano
più predisposti ai proprio simili, assimilarli al branco, insegnargli e tutto
il resto, ma sono esattamente come tutti gli essere umani» dichiarò la Wilkinson
con amarezza. «Non è facile trovare una casa per
tutti gli orfanelli che abbiamo».
A Stiles si strinse il cuore e sapeva
fin troppo bene quanto fosse difficile trovare una famiglia affidataria per i
bambini di tutto il mondo, umani o superdotati.
La direttrice rilesse con cura più e
più volte la documentazione che le era stata consegnata, le firme messe l’una
accanto all’altra su un certificato che confermava l’impegno di prendersi
carico di tre esserini. «Avete davvero intenzione di tenerli?».
«Certo che ne abbiamo l’intenzione»
esclamò animato l’unico umano dell’intero edificio, sottolineando la veridicità
delle sue parole con la foga con cui gli diede vita. «Le sfide non ci
spaventano».
«A te di sicuro no» proferì
sarcastico Derek, ormai rassegnato alla natura del consorte di inoltrarsi in
cose più grandi di lui e di cavarsela sempre, di vincere. Stiles gli rispose
con un sogghigno sopraffino, da vera volpe spudorata.
«Non presumo di conoscere la sua
storia, signor Hale, ma non è tanto diversa dalla loro. Tutta la famiglia è
morta, uccisa dai cacciatori. L’intero branco è stato annientato» rivelò la Wilkinson
con brutalità e professionalità, interrompendo quel momento di quiete
materializzata da quelle due figure che presto sarebbero divenute genitori. «Non era un branco numeroso, ma era molto compatto, composto da diversi membri
esterni alla famiglia, come l’Alpha. Li hanno uccisi davanti ai loro occhi, non
è rimasto nessuno a cui poterli affidare» prese un grosso respiro, per quanto
fosse abituata a tutta quella devastazione e l’impeccabilità fosse necessaria
nel suo lavoro, la tenaglia al petto l’avvertiva tutte le volte, il respiro sul
collo che incombeva su tutti loro. «La piccola non ricorda nulla, ma per gli
altri due è diverso. Capita continuamente, è il destino della maggior parte dei
bambini che abbiamo qui. Alcuni cacciatori seguono solo parte del codice e
lasciano i cuccioli vivi, altri non sono così clementi. È un divertimento per
loro, un hobby, un accanimento; siamo continuamente in guerra».
Stiles e Derek purtroppo conoscevano bene quell’aspetto, l’avevano
sperimentato sulla loro pelle continuamente e con sempre più regolarità uscirne
fuori illesi era stato ripetutamente più difficoltoso, una scalata dopo l’altra
per rivendicare l’importanza della loro singola vita, il diritto di vivere come
tutti gli altri; la maggior parte di coloro che decantavano di volere
proteggere il genere umano dai mostri erano sordi, più mostruosi delle creature
leggendarie a cui davano la caccia. «Ne siamo consapevoli» ma lo strazio per la
storia dei tre piccoli orfanelli non era qualcosa che avrebbero mai potuto
imparare a reprimere.
La direttrice annuì con accordo, sistemando le carte per l’adozione e
riponendole dentro la cartellina in cui sarebbero stati protetti, consegnando
loro la copia dell’attestato che gli spettava. «A
questi bambini serve qualcuno dalla loro parte» non ci fu altro da aggiungere.
Trascorsero sette giorni prima che
un’assistente sociale accompagnasse i bambini alla villa Hale-Stilinski,
accostando l’automobile al vialetto ed invitandoli a scendere, Derek e Stiles
erano già davanti alla porta d’ingresso lasciata aperta, frementi, pieni di
aspettativa e con i nervi tesi, ma fecero di tutto per mantenere il controllo.
L’assistente sorrise ai cuccioli con
sicurezza e serenità, rassicurandoli e diede la stessa attenzione anche ai
neogenitori, lasciandoli con le ultime raccomandazioni e invitando i bambini a
comportarsi bene.
Le due fanciulle si tenevano per mano
intimorite, le diverse altezze che primeggiavano, mentre Erick emanava un’aura
nera e poco propensa alla socializzazione, un groppo alla gola si formò in
Stiles e Derek gli accarezzò la base della schiena per fargli forza. «Volete
vedere le vostre camere?» era la cosa giusta da dire? Forse avrebbero dovuto
iniziare da qualcos’altro? Magari istaurare un dialogo? Ma da come vide i
visini illuminarsi delle lupacchiotte, pensò che fosse una cosa buona.
I coniugi Hale-Stilinski cominciarono
a fare strada, salendo le scale seguiti da due esserini entusiaste ed uno che
non mostrava alcun contento. Indicarono loro le porte lasciate aperte, la
prima, quella che sarebbe divenuta di Erick, era situata dall’altra parte del
corridoio, vicino alla camera degli ospiti e al bagno principale, mentre la
seconda era la più vicina alla camera padronale, designazione perfetta per le
bambine. Il giovane non mostrò alcuna emozione, totale distacco, ma Derek notò
la scintilla che gli attraversò le iridi azzurre, quella della riconquista del
riservo, di un luogo sicuro in cui potersi proteggere ed eclissarsi da
qualsiasi altro, da ogni afflizione e dolore.
Le lupacchiotte invece rimasero
emozionate sul ciglio della porta, osservando quella camera immensa piena di
colori pastello tenui, accuranti e caldi, il giallo e l’azzurro che li
avvolgeva in ogni parte, anche nei dettagli del mobilio, con due letti da una
piazza e mezza situati ad equa distanza, una libreria, scatole da giochi da riempire
e una cabina armadio incassata nel muro; mancava il tocco di personalità delle
abitanti, giochi e bambole, peluche o qualsiasi altro loro desiderio, ma Derek
e Stiles erano sicuri che avrebbero rimediato quanto prima. Vi erano già alcuni
abiti tra i cassetti e nell’armadio, acquistati sei giorni prima nell’attimo in
cui erano venuti a conoscenza delle taglie dei pargoletti – Stiles aveva
l’impressione che Derek avesse esagerato con gli acquisti.
Le videro risplendere, la stessa
scintilla negli occhi di Erick che non doveva essere contenuta, ma sfavillante,
abbagliante, autentica nella loro commozione di avere di nuovo qualcosa di
proprio, un vero tetto sopra le teste e dei muri a ripararle.
Si fiondarono all’interno piene di
energie e contentezza, seguite da un’impeccabile Erick, tagliandoli
completamente fuori. «Forse dovremo mostrargli il resto della casa in un altro
momento» suggerì il lupo completo davanti la scena che gli si ripresentava
d’innanzi, un istante di felicità per qualcuno che si era visto portare via
ogni cosa.
Stiles lo adocchiò appena, le labbra
che si curvavano contagiose alle sensazioni che le piccole manifestavano. «Sì,
in un altro momento».
Un’ora più tardi il licantropo adulto
fu attirato dall’odore persistente proveniente dalla cucina. «Non era il mio
turno, oggi?».
L’unico umano dell’intera dimora
trafficò tra padelle e pentole, impegnandosi a non bruciare nulla per la sua
natura a distrarsi o strafare. «Sì, ma non riesco a stare fermo».
«Il solito ragazzo iperattivo»
proferì Derek con un cenno di sarcasmo addolcito, avvicinandosi ai fornelli ed
aspirando tutte le varietà di ingredienti utilizzati. «Vuoi sfamare un
esercito?»
«Adesso ci sono quattro lupi in
questa casa, devo sopravvivere» non fosse mai che per un attacco di fame
compulsivo decidessero di togliersi lo sfizio con lui. «E poi non so cosa
mangino».
Derek ne sorrise vivamente,
chinandosi a depositargli un bacio di velluto sulle labbra increspate e
preoccupate. «Non sono certo che mangeranno».
Gli occhi di Stiles quasi
fuoriuscirono dalle orbite ed un bianco cadaverico prese il sopravvento.
«Perché no?».
«Casa nuova, persone nuove mai
conosciute, posti mai visti, odori mai sentiti, un nuovo inizio, troppe
emozioni in una volta sola» il mannaro le elencò con diligenza, scandendo ogni
loro significato, facendogli un sintetico quadro generale che abbracciasse
tutto quello che viveva in quei bambini in quel lunghissimo istante. «Saranno
intimoriti a tavola, spizzicheranno soltanto».
«Oh» Stiles non ci aveva minimamente
ragionato sopra, impegnato a cercare di presentarsi al meglio, di dimostrare
quanto amico loro fosse, ben disposto, d’anima buona e del tutto dalla loro
parte; fargli vedere quanto erano al sicuro. «Allora… sistemerò gli avanzi a
loro portata, nel caso avessero un languorino stanotte».
Derek se lo strinse contro e stampò
uno schiocco di bocca su una tempia a cui il detective si abbandonò
completamente, spegnendo nell’immediato il fuoco.
Gli avvenimenti andarono proprio come
Derek li aveva descritti e i bambini mangiarono qualcosa solo dal bordo del
piatto, bevendo ancora meno. Erick manifestò perfino un rifiuto totale e non
seppero dire se le fanciulle si limitassero ad imitarlo o fossero unicamente
schiacciante delle forti emozioni della giornata.
Ad un certo punto, quando lupo e
umano concordarono che fosse arrivato il momento di mettere fine a quella cena
tesa e sparecchiare la tavola principale, si alzarono tutti dalle loro sedie,
ma le bambine furono richiamate dall’enorme vetrata della cucina aperta e
spaziosa una volta entrate, dove risiedeva il tavolo per la colazione e
un’isola centrale annessa di sgabelli alti, che si affacciava sull’enorme
giardino che appariva sconfinato, ma che semplicemente confinava con il Rock Creek
Park, rendendo tutto infinito e senza alcun limite a vista d’occhio. «Anche questo è nostro?» domandò la voce acuta ed infantile di Corine,
ammaliata, incantata e del tutto incredula, ma incerta se potesse chiedere.
Laura dal canto suo la scosse per un
braccio, quasi a rimproverarla della sua sfacciataggine e impudenza.
A Stiles palpitò il cuore davanti a
tanta tenerezza. «Volete uscire e vederlo con i vostri occhi?».
Tutta l’impazienza controllata di
Laura svaporò e Corine brillò di luce propria. Nel cuore di una calda sera
primaverile Derek aprì le imposte e le lupette sgambettarono sul prato
rigoglioso e curato, le lanterne accese ad illuminare punti strategici, i fiori
di stagione aperti e fluenti, il chiaro di una luna quasi piena e appena
accennata, in procinto di proseguire con il suo ciclo in gibbosa calante, che
lauta sorrideva nell’immensa distesa di un blu notte stracolmo di stelle
lucenti, con il plenilunio che si era lasciata alle spalle soltanto due giorni
prima.
La brezza di vento candido le
accarezzò e sollevò appena l’orlo dei loro abitini colorati, lambendo il viso e
scompigliando morbida le ciocche dorate, abbracciate dalle chiome degli alberi
con radici forti ma ancora giovani che diedero loro il benvenuto, tintinnò la crespa
dell’acqua di un piccolo stagno, solleticata dalla coda dei pesci rossi che vi
abitavano, nuotando spensierati e scorrazzando tra le foglie di ninfee, tra
erbetta disposta su tutta la circonferenza del bordo.
L’incanto del momento, la serenità
dell’aria, il tepore della notte e i giochi di luce erano tutto ciò che
regnava.
«Mi piace questo posto» esalò Laura
con il batticuore, le perle di zaffiro pizzicate dai raggi dell’unico satellite
della Terra, lì, al centro del patio in legno bianco, immobilizzata
dall’ebbrezza di qualcosa di bello che la toccava dopo tanto tempo.
Era la prima frase completa che
pronunciava da quando l’avevano incontrata all’orfanatrofio, l’unica presenza
della sua voce in quella casa rivolta verso di loro ed a tutto quello che li
accerchiava dal momento in cui aveva attraversato l’ingresso, la timidezza che
allentava la presa e le permetteva di esprimere i suoi sentimenti che non
pensava poter più esternare. La stretta al petto colpì entrambi gli uomini e le
dita di Derek incerte andarono a sfiorarle i lunghi capelli dell’oro con
gentilezza, mentre lei si apriva in un sorriso candido ed esclusivamente per
lui.
«Anche a me» concordò Corine con
fremito innocente, il barlume della meraviglia e le braccine che correvano per
allacciarsi ad una gamba di Stiles, aggrappandosi forte a lui.
Stiles ne fu completamente
tramortito, la leggera collisione che lo spostò minimamente, l’incredulità che
l’investiva in una volta sola, costringendolo a cercare gli occhi del marito
per chiedergli se tutto quello fosse reale e trovandovi una risposta ferma ed
affermativa, mentre una mano scendeva verso le scapole della cucciola di lupo
per ricambiare il suo abbraccio dedito al miracoloso spettacolo che si stendeva
davanti alla loro presenza.
Quando provò a lanciare uno sguardo
dietro di sé, a cercare la figura mancante al quadro completo, Erick si era
dissolto.
Con la notte che bussava alla porta,
al rimembragli della giornata faticosa che li attendeva l’indomani e che voleva
mettere una chiusura a quella che doveva ancora volgere al termine, la coppia
accompagnò le bambine ai propri giacigli e rimboccarono loro le coperte con
cura, già mezze assonnate e pronte per abbandonarli ed entrare nel regno di
Morfeo, eppure Corine aveva esternato il suo bisogno di aver raccontata una
storia.
«E quale storia vuol sentire, sua
signoria?» aveva chiesto Stiles con la furbizia che ne sporcava i tratti,
manifestando a tutti i presenti la sua natura di autentico canide rosso, la
piega da Stregatto che Derek conosceva come le sue tasche ed a cui, tuttavia,
non si abituava mai.
«Principesse coraggiose» rivelò con
la sua vocetta minuta eppure molto acuta, scandendo perfettamente la sua
richiesta da sognatrice intransigente.
Derek vide annuire Laura come se
approvasse su tutta la linea la sua scelta e non si aspettasse nulla di
diverso, preparandosi anch’ella a prestare orecchio e sistemandosi sotto le
coltri in attesa.
«Oh, principesse coraggiose» ripeté
Stiles con la tenerezza nel cuore, la scintilla che gli attraversava le iridi
di miele e la posa da cantastorie che assunse, sistemandosi comodamente e con
fare teatrale ai piedi del letto. «Ho proprio la storia che fa per te».
Derek conosceva molte storie, ma il
suo campo era molto più macabro e poco gentile, non pensava affatto di avere le
credenziali per deliziare le orecchie delle due giovani fanciulle senza
traumatizzarle più di quanto non lo fossero già, forse avrebbe dovuto
attrezzarsi di libri che potessero rientrare tra i loro gusti e fascia d’età
corretta, ma era evidente che Stiles non necessitasse di quell’attenzione di
studio perché si calò completamente nel suo ruolo, la narrazione che prendeva
vita e la recitazione che ne fece da padrone. In realtà, Derek poteva osservare
quanto Stiles fosse affine alla recitazione, all’interpretazione e all’attirare
tutta l’attenzione su di sé, divenendo un vero intrattenitore di feste, del
tutto opposto alla sua natura riservata e antisociale che aveva mostrato per
tutta la sua vita, forse perché nessuno gli permetteva di esporsi.
Raccontò di Merida, la principessa
arciera dalla mira perfetta, il coraggio che sgorgava a fiumi e il suo senso di
libertà per cui avrebbe combattuto fino all’ultima cellula di se stessa, di
fuochi fatui, destino e orsi giganti. Si chiese, se in quella storia
tipicamente disneyana – e lo era –, Stiles non vi vedesse Allison, la
cacciatrice e amica che aveva sacrificato la sua stessa vita nel tentativo di
salvarlo, con il suo bell’arco in mano e la stessa stupefacente mira
impeccabile.
Di certo, fu sicuro che non ne fu
affatto turbato e che continuò nella sua fabula senza reprimersi o rallentare,
accrescendo la gioia sui visini delle lupacchiotte che lo ascoltavano e
guardavano rapite, in fibrillazione, del tutto conquistate. La parlantina
raffinata, accurata e passionale di Stiles aveva fatto centro ancora una volta.
Farle sprofondare tra le braccia del
dio greco dei sogni fu complicato dopo il monologo dell’umano, eppure nessuno
appariva pentito degli avvenimenti che li avevano visti protagonisti.
«È andata bene» disse stravolto
Stiles con il viso gocciolante dentro il bagno padronale all’interno della loro
camera da letto, i denti già lavati e sciacquati, le lenzuola che lo chiamavano
a gran voce. «Per essere il primo giorno».
Derek si avvicinò all’entrata, il
petto scoperto e solo i pantaloni del pigiama a vestirlo, fissandolo dall’uscio
e appoggiato di schiena a braccia conserte alla cornice della porta. «È andata
bene».
L’umano si asciugò il volto con un
asciugamano, curvando le labbra stanche verso l’alto e mettendolo al suo posto
per dirigersi verso il consorte. «Erick invece ci darà del filo da torcere».
Il malcontento lo percepì tutto in
Stiles, l’impercettibile punta della voce sconfortata e quella pulce
nell’orecchio che gli sussurrava di aver perso ancora prima di aver iniziato.
«Dagli tempo».
Stiles annuì appena in concordia, le
pile della sua energia vitale che andavano ad esaurirsi per le troppe
vicissitudini una di seguita all’altra. «Una vittoria alla volta, giusto?».
La domanda retorica restò
nell’atmosfera, mentre si accingeva a oltrepassare la creatura della notte, che
lo trattenne afferrandogli un avambraccio e piantandolo sul fermo della porta,
a condividere precisamente lo stesso metro quadrato, un unico millimetro a dividerli.
«Ti amo».
Il tono grave di Derek gli
scombussolò l’intero organismo e il flusso sanguigno defluì ad una velocità
spaventosa lasciandolo completamente senza fiato. Tutti quegli anni e l’effetto
su di lui non faceva che aumentare. «Sai sempre come tirarmi su di morale».
«Perché è vero» affermò con
autenticità indiscutibile, accarezzandogli il labbro inferiore carnoso con il
pollice, incatenandolo sotto gli occhi del lupo, il blu metallico che prendeva
il dominio.
Stiles gli regalò uno schiocco asciutto
ma pieno d’amore sul polpastrello che lo lambiva, accentuando la piega fausta
della bocca, la pesantezza del suo fallimento appena iniziato che si
volatilizzava. «Anch’io ti amo, Sourwolf».
Il lupo cattivo divorò la bella volpe
ammaliante.
Nel cuore delle tenebre Derek lo
ridestò, le coperte sfatte, le lenzuola attorcigliate intorno ai corpi nudi, i
succhiotti sotto le clavicole ed il velo di sudore e umori che li sporcava.
Le palpebre sbatterono alla cieca
nella penombra, cercando di abituarsi allo scenario solitamente familiare che
l’accoglieva, mettere a fuoco il punto che il mutaforma gli indicava con le
falangi, la maglia della tenuta da letto che indossò alla svelta, mentre
l’altro si riappropriava dei pantaloni e gli tirava sulla testa i suoi. Derek
lo incitava a perseverare nel silenzio, un dito davanti le labbra e il naso, la
chiave dalla porta che scattava nella serratura per essere aperta e i piedi
scalzi che si inoltrarono nel corridoio, proseguendo nella direzione in cui i
sensi del lupo li guidavano, ritrovandosi davanti alla più vicina lastra di
legno spessa e verticale, lasciandola schiudere con accuratezza quando
abbassarono la maniglia ed incontrando uno dei due letti, quello più vicino
alla finestra, notevolmente affollato.
Dentro le coltri spuntavano tre
teste, vicine vicine e strette strette, come se sotto al loro scudo di stoffa e
cuciture si stessero abbracciando, senza mollare la presa nemmeno nel lungo
sonno restauratore.
«Abbiamo fatto male a dividerli?»
domandò in un sussurro allarmato il figlio dello sceriffo, gli occhi che si
abituavano alla luce notturna che gli permetteva di vedere i tre bambini
dormire sereni l’uno alla presenza dell’altro, Corine al centro ed i fratelli
maggiori ognuno su un lato diverso, a impedirle di cadere.
«No, va bene così» lo rassicurò il
licantropo, le dita che andavano ad immergersi tra i capelli castani sconvolti
rassicurandolo. «Prima o poi vorranno i loro spazi, gli serve tempo».
Tempo, Derek era un vero maestro dell’avere pazienza e aspettare che le lancette
di un orologio tintinnassero compiendo la loro rotazione completa, ma che tipo
di tempo era il loro? Tempo per guarire? Tempo per ambientarsi? Tempo per
essere certi che non sarebbero stati divisi? Forse era tutto quello e molto di
più; erano rimasti da soli per due lunghissimi anni e pensavano che lo
sarebbero rimasti per l’eternità. Probabilmente una parte di loro lo sarebbe
rimasta per sempre, con una ferita che non sarebbe mai potuta essere sanata, ma
soltanto allenita, cicatrizzata. «Aggiungere un letto è fuori discussione,
vero?».
«Se lo vorranno, lo faremo» concluse
nella soluzione più semplice il lupo completo, benché pensasse non gli servisse
affatto, attirandoselo più vicino e fissando con un moto d’orgoglio le tre
creaturine che lottavano nella tempesta dell’oscurità. «Hanno tutto quello di
cui necessitano».
In quella prima mattina nella nuova
alba per la famiglia Hale-Stilinski divenuta affollata, Stiles aprì il frigo a
quattro ante per prendere le uova, il latte e il burro che gli sarebbero
serviti per preparare al volo l’impasto fresco per i pancake da servire ai suoi
neo piccoli coinquilini ancora dormienti. Tuttavia, nel momento in cui lo aprì
e cercò le uova, gli occhi gli caddero sui ripiani più in basso, ad altezza
bambina di quattro anni, trovando una discreta parte degli avanzi della sera
prima quasi del tutto scomparsi. Lo stupore lo colpì e il nascere di un calore
gli affiorò al centro del petto; non aveva sentito nulla nella notte, ma era
evidente che i pargoletti fossero zampettati di sotto per rifocillarsi e
depredare quell’area alimentare che Stiles aveva allestito appositamente per
loro. Derek li aveva uditi? Tutti e tre avevano percorso le scale con i piedini
nudi e si erano accerchiati attorno all’elettrodomestico refrigeratore per
sopperire ai brontolii dei loro stomaci?
Derek l’osservò dall’alto della sua
posizione privilegiata, composta ed impeccabile, vicino ad uno degli sgabelli,
il sopracciglio arcuato che comunicava per lui esplicitamente, calcolando al
secondo quanto tempo l’umano rimasse in contemplazione del frigorifero. Stiles
si voltò conscio del suo silenzio significativo e le labbra si incresparono
automaticamente, prese alla sprovvista. «Sei stato bravo, lungimirante».
Stiles non riuscì a reprimere la piccola
curva che gli arcuò la bocca, appagato dal commento positivo di suo marito e
dall’impronta che i loro bambini stavano cominciando a lasciare dappertutto ad
una velocità che non si sarebbe aspettato. Derek decretò che fossero meritate
che piccole vittorie che l’umano otteneva per se stesso. «Vado a svegliarli».
Il detective lo guardò per un
lunghissimo secondo, come se quella dichiarazione nascondesse una comunicazione
più grande, più impegnativa di quello che fosse ed effettivamente lo era. Derek
navigava verso una meta sconosciuta, senza che avesse gli strumenti per
affrontare ciò che aveva in serbo per lui, eppure il ticchettio dell’orologio
proseguiva, la colazione doveva essere servita e le bestioline preparate per
affrontare quel nuovo giorno di scuola, che mai come allora lo era stato;
Stiles e Derek non avevano il tempo di affrontare quelle nuove questioni con la
delicatezza e il tempo che avrebbero voluto ritagliarsi.
Stiles si limitò ad annuire,
afferrare il cartone del latte, la confezione di burro e il numero di uova
corrette per accingersi a dar vita alla pastella, chiudendo lo sportello del
frigo e aprendone uno della dispensa, in cui erano conservati il lievito e la
farina di cui necessitava.
Derek lo lasciò lì, ad afferrare la
ciotola e il frustino a mano – conscio che ad un certo punto avrebbe utilizzato
quello elettrico –, il pizzico di sale e zucchero che inserì nella miscela,
lasciandoselo alle spalle e proseguendo verso la scalinata in legno intagliato,
perfettamente arrotondato e privo di spigoli, esattamente com’era l’intera
casa, insieme a tutti i mobili in cui era presente la chiusura di sicurezza.
Tutto in quella struttura era stato pensato e modellato a prova di bambini, a
loro totale beneficio.
«Sento odore di colazione» proferì
Corine al di là della porta ancora chiusa, il fruscio delle coperte che si
muovevano attorno agli abitanti. Derek la percepì subito, i piedi fermi davanti
all’uscio serrato, le orecchie tese a verificare se tutti i piccoli coinquilini
fossero sorti con il sole. «È anche per noi?».
Il licantropo restò di sasso a quella
domanda innocente, la vocina acuta che interrogava i suoi fratelli; la trovò
straziante. Non riuscì a comprendere la motivazione di quel quesito.
«Non lo so» fu tutto quello che Erick
farfugliò privo di sfumatura, le lenzuola che leggermente scacciava con i piedi
per liberarsi.
Laura rimaneva in silenzio, in totale
contemplazione. «Dobbiamo essere più buoni?».
«Siamo stati cattivi?» domandò con
spavento ed orrore la cucciola, l’ansia che leggermente impregnava l’ambiente,
insieme ad un affanno primordiale.
«Forse» borbottò la sorella di mezzo,
gli arti che scricchiolavano sul materasso che si abbassava sotto i suoi
movimenti, poggiando il tallone sul pavimento fresco. «Sì, un po’ lo siamo
stati».
Derek avvertì tutto il rincrescimento
di Laura, insieme al senso di colpa che cresceva in una interdetta Corine,
mentre Erick si perdeva in una landa desolata. Sapeva di avere a che fare con
bambini distrutti fino al midollo, esattamente come lo era stato lui, eppure
trovava quello scenario anomalo. Stiles ne sarebbe stato distrutto se avesse
avuto la capacità di sentirli fino in fondo, ma con gli anni aveva imparato che
l’umano possedeva gli strumenti per compensare la sua mancanza di sensi
ipersviluppati; li avrebbe compresi in egual modo, com’era riuscito ad
individuare l’oscurità premente in Erick e che Derek non poteva negare affatto.
«Siete svegli» incorse la creatura
della notte quando si decise a far scattare la serratura, il tono affermativo,
senza che mostrasse sorpresa o consapevolezza, era un’osservazione concreta che
non avrebbe manifestato il suo aver origliato, lasciandogli della parvenza di
riservatezza.
Le tre creaturine scattarono
sull’attenti, presi alla sprovvista ed i loro occhioni si facevano maggiormente
giganti. Derek gli sorrise tenue, nel suo modo stretto e composto. «Che ne dite
di scendere e far colazione? Stiles sta preparando i pancake».
Le loro intense iridi azzurre
brillarono d’emozione e Derek non sapeva bene se fosse scaturita dall’invito
che si estendeva ovviamente a loro o se fosse per i pancake in sé.
«Davvero?» domandò in sequenza la
cucciola di casa, gli occhioni enormi e la corsa per scendere dal letto,
impigliandosi tra le lenzuola e inciampando su se stessa, Laura la guardò con
allarme e Erick si rilevò troppo lontano per acciuffarla ed impedirgli di
essere sopraffatta dalla coltri.
Derek avrebbe ridacchiato di gusto e
tenerezza se fosse stato meno stoico, ma soprattutto avrebbe esternato ad alta
voce quanto quelle movenze disastrate facessero eco all’uomo che al piano
inferiore era impegnato a dorare perfettamente delle frittelle e che
inesorabilmente aveva sposato. «Certo» confutò senza esitazione, avvicinandosi
ai piedi del letto e liberando con abilità la frugoletta di stoffa dalla sua
trappola, prendendola in braccio e sistemandole pigramente la chioma dorata
completamente scompigliata. «Tutti quelli che questa principessa vorrà».
Corine si illuminò raggiante, il
leggero rossore dovizioso scaturito dal nomignolo che il lupo le aveva appena
assegnato – forse in eco alle preferenze che la pargoletta aveva esternato la
sera precedente – ad esaltarle le gote tempestate di lentiggini discrete.
Applaudì contenta, riempiendo le quattro mura private della sua risata
cristallina ed incredibilmente zuccherosa.
«Andiamo?» si rivolse il mannaro agli
altri due abitanti che ancora persistevano nelle loro posizioni, indicando loro
l’uscita in un ulteriore invito.
Laura lo guardò perforante, come se
non credesse alle sue orecchie e allo scenario a cui stava assistendo, con la
sorellina stretta tra gli arti superiori della creatura notturna a cui affidava
tutta se stessa, sorridendogli illuminata. Non l’aveva mai vista così, in un
tutt’uno con un adulto a cui importava veramente di lei.
Non proferì parola, ma si puntellò
sui piedi, indirizzandosi verso le scale, incitando Erick stesso che non
appariva volersi unire particolarmente a quella recita, ma era colpito quanto
lei dalla figura di Derek Hale.
«Lupacchiotte, ben svegliate» le
accolse Stiles con vitalità una volta che se le trovò all’ingresso della
cucina, Laura con autonomia e Corine ben legata al mannaro che sciolse la presa
adagiandola su una sedia intorno al tavolo della colazione. «Quanta fame
avete?» chiese retoricamente, non aspettandosi nessun tipo di vera risposta,
depositando sotto i loro nasini lentigginosi piatti grondanti da una pila
infinita di pancake spettacolosamente invitanti e ancora fumanti; riuscivano a
intravedere il sottile filo del calore.
Le bambine deglutirono per la gola
portata dalla pietanza offertale e Stiles regalò loro uno dei sorrisi più belli
che Derek avesse avuto l’onore di vedere.
Erick invece non varcò minimamente la
soglia, rimase ad un soffio dal confine, le spalle che davano sul salone in cui
la sera precedente avevano cenato, impossibilitato a rendersi partecipe di
quello spaccato casalingo che dava inizio alla sua nuova vita familiare.
«Ometto, buongiorno» lo investì la
calorosità e l’espansività del figlio dello sceriffo, notando la sua presenza
distaccata e seminascosta dalla schiena possente di Derek, la curva delle
labbra che gli arrivava fino agli occhi ambrati. «Questi sono tutti tuoi».
L’incolonnamento di frittelle di
farina e latte bollenti fu depositato su un posto ancora libero, la sedia
leggermente scostata in un’offerta accattivante, insieme ad ogni guarnizione
con cui avrebbe voluto condirle.
Era allettante, Derek vedeva il
tentennamento nelle iridi del cielo, ma era troppo restio dal farsi conquistare
da Stiles, dalle sue prodezze culinarie e da tutto l’affetto che era evidente
volesse donargli.
Erick fece un passo indietro e tornò
sul suo percorso, lontano dal profumo e dalla sete di cui bisognava placarsi,
dagli occhi feriti e mortificati dell’umano che si manifestarono alla sua fuga.
Stiles era già pronto a muoversi
nella sua direzione, ma Derek lo fermò con un unico gesto della mano, a
comunicare silenziosamente, ma assordantemente, un ci penso io.
Erick si era rintanato in una delle
poltrone più lontane all’accesso della cucina, le gambe piegate su se stesse,
il pigiamino ad avvolgerlo e la testa incassata vicino al bracciolo, era così
contorto e scomposto, da interrogarsi sulla validità della comodità che si
presumeva avesse.
«C’è qualche problema?» chiese Derek
quando lo raggiunse con modi pacati e inudibili, sedendosi sull’ultimo cuscino
del grande divano a tre posti e dedicandogli la sua totale attenzione.
Il lupetto lo individuò appena e
Derek non se la prese in alcun modo, rimase in silenzio a rispettare il suo
spazio personale.
«Puoi dirci se qualcosa non va»
riprese la creatura della notte dopo poco, la voce controllata e non aggressiva
come un tempo lo era stata con lo Stiles adolescente. «Se hai delle preferenze
in particolare».
Erick lo guardò allarmato, come se
una sirena stesse risuonando dentro di lui a rimetterlo sull’attenti, a
indicargli la linea di demarcazione erronea che stava oltrepassando. «No, va
bene».
Cos’è che esattamente andasse bene?
Derek non era sicuro della risposta, sentiva le emozioni ingarbugliate del
bambino, il terrore – della separazione? Di venire allontanato? – e quella
sorta di barriera che innalzava in occasioni specifiche e ad oltranza, incapace
di lasciarla andare o semplicemente indebolirla, assottigliarla; era qualcosa
che il lupo conosceva come le sue tasche.
«Qualsiasi cosa tu stia provando adesso,
va bene» non pretendeva di conoscere ogni suo singolo pensiero, ma gli odori
delle sue emozioni erano inconfutabili ed innumerevoli, la maggior parte le
aveva provate anche lui per una fetta enorme della sua vita – le provava
ancora, a volte, e Stiles sapeva sempre individuare il momento e muoversi di
conseguenza –, la rabbia e il rancore, il continuo senso di colpa e
quell’accanirsi su ogni persona che individuasse, soprattutto verso colei che
aveva un effetto troppo positivo su di sé. «Non è sbagliata» ma sarebbe potuto
accadere se avesse perseverato, se si fosse lasciato schiacciare dai sentimenti
negativi; Stiles e Derek avrebbero dovuto impegnare ogni fibra di sé per non
permetterlo.
Udì qualcosa variare in Erick, le sue
immense gemme dall’oceano che lo vedevano per la prima volta, acquisendo
qualcosa che non aveva mai conosciuto prima e una comprensione che nessuno si
era apprestato a dedicargli, ma che al contrario gli era stata vietata. Il
cambiamento in Erick verso la sua persona la vide avvenire davanti ai suoi
occhi.
Nessuna parola fu fatta e il silenzio
perdurò, lasciando sopraggiungere senza ostacoli il rumore delle posate che si
intersecavano tra loro e toccavano i piatti, la porcellana delle tazze e del
vetro dei bicchieri ricolmi di succo e bevande varie che tintinnavano, le
chiacchere colorate e rigogliose di Corine che riempivano l’ambiente ed i
mormorii timidi centellinati di Laura che l’abilità sopraffina di Stiles
riusciva a strapparle, rendendola attiva e partecipe di quello sprazzo
familiare di unione priva di alcuna pressione.
Erick li sentiva perfettamente come
accadeva con Derek, il riverbero e la complicità appartata ed esuberante
insieme, la spensieratezza, gli era quasi impossibile rimanerne immune, eppure
l’ostinazione la faceva da padrona.
«Non è troppo tardi per unirti alle
tue sorelle» gli fece presente il licantropo, ignorando bellamente lo scorrere
del tempo che procedeva imperterrito, incurante di qualsiasi momento di
raccolta o privato un essere vivente avesse bisogno per se stesso. «Sono sicuro
che saranno molto felici di averti lì con loro».
Premere sulla tentazione evidente di
Erick poteva essere un tiro mancino, tuttavia il lupetto rimase in
contemplazione riflessiva per alcuni attimi, lo sproloquiare di Corine che raggiungeva
vette più alte ed incontrastate, incitate a crescere dal trasporto che l’umano
scatenava e dal suo ridacchiare; in un certo modo era come se parlassero la
medesima lingua e Derek non doveva affatto stupirsi del potere della logorrea
di Stiles che diveniva contagiosa.
Il pargolo annuì più a se stesso che
al suo interlocutore e si accinse a lasciare la sua postazione ed oltrepassare
il confine, che identificava come pericoloso, della cucina. Derek si accodò
subito dopo, ad un soffio da lui come un silenzioso sostegno e quando Erick
tentennò di nuovo e si bloccò sull’uscio, una mano del mannaro si depositò tra
le scapole in accompagnamento e rimase semplicemente in attesa a rispettare le
sue scelte tormentate ancora una volta.
Nell’arco finale della sua decisione,
Stiles lo accolse con un altro dei suoi sorrisi maggiormente luminosi e
completamente complice, sostituendo la pietanza ormai fredda con una bollente,
ma Erick lo ignorò e si accomodò al posto più lontano da lui, non proferendo
alcuna parola.
Stiles confuso e impietrito rivolse
le sue attenzioni al lupo adulto, ma Derek non aveva alcuna spiegazione
razionale da fornirgli e si limitò a spazzolare il piatto raffreddato che in
precedenza sarebbe toccato al bambino, ma che preferì consumare lui stesso,
mentre le fanciulle davano un benvenuto entusiasta al fratello.
Quello che invece Stiles ricevette da
quest’ultimo fu solo gelo, avversione e fastidio verso la sua persona.
«Ehy, ometto, è ora di svegliarsi» la
voce morbida di Stiles si espanse per tutta la stanza delle bambine, le falangi
affettuose che si immergevano tra i capelli chiari dell’unico abitante rimasto
sul letto, avvolto dalle lenzuola, l’astro d’Apollo che salutava dalla finestra
e il rumore della ceramica adagiata sulla tavola della colazione per riempire
lo stomaco delle lupacchiotte già alzate e pimpanti da diversi minuti.
Erick si lamentò da sotto le coperte,
le palpebre serrate per sfuggire alla luce solare, il broncio che gli sporcava
le labbra e in quel momento sembrava un bambino come tutti gli altri, nemico
numero uno della malavita scolastica. «Non toccarmi» ma durò un battito di
ciglio, gli ingranaggi che mettevano in moto le cellule celebrali, la
consapevolezza di dove trovarsi e con chi, il malcontento che sfociò in un soffio.
La mano dell’umano scattò indietro
colpito, guardandola senza capire cosa avesse commesso di male, lo sguardo
burrascoso dell’altro che bruciava come lava, inorridito, così simile al suo
conosciuto a sedici anni da lasciarlo sempre senza ossigeno. «Preparati» fu
tutto quello che gli disse nel tono più neutrale che gli venisse in soccorso.
Non che non l’avesse notato, l’aveva
nottato eccome, Erick evitava costantemente di non farsi sfiorare da lui, di
non stargli troppo vicino, di girargli al largo quanto gli era possibile e
mantenersi a distanza di sicurezza; spesso usava perfino le sue sorelle come
scudo senza alcun ritegno. Stiles aveva cercato di lasciar correre, di non
prendersela troppo per quell’avversione nei propri confronti, ma non stavano compiendo
alcun passo per favorire l’uno l’altro e si chiedeva se non stesse commettendo
un errore continuo.
Scivolò in cucina, prendendo una
tazza di caffè da zuccherare dalla macchinetta apposita, già preparato da Derek
che tentava di far mangiare le due signorinelle che giocavano con i cereali al
cioccolato e caramello dalle forme bizzarre che amavano mischiare; per loro era
un continuo gioco comune. «Mi ha detto che non vuole essere toccato» dichiarò
alcuni attimi successivi alla sua metà, che spediva a lavare le giovani
coinquiline ridacchianti, intimandole di non perdere tempo. «Forse è un altro
lupo tenebroso ed acido che odia il contatto fisico».
Il mannaro gli prestò totale
attenzione, le tazze delle lupette che venivano sparecchiate ed adagiante sul
lavabo, per essere sciacquate appena ed inserite nella lavapiatti nella
disposizione corretta. «Hai del talento» si burlò con spensieratezza, chiudendo
lo sportello, ma percependo bene la discordia che viveva nel marito.
Stiles ammiccò appena senza entusiasmo,
sorseggiando la sua bevanda a base di caffeina senza alcun sentimento, non ne
sentiva nemmeno il sapore, ma almeno lo riscaldava. «Con te non è così ostile»
poteva negarlo? No. «Quasi ti venera».
Derek storse il naso, mostrando
evidentemente il suo disaccordo. «Non la metterei su quel piano».
«Rispetta la tua autorità» dalla
creatura della notte che aveva sposato sfociava da ogni poro, era innegabile
che ne fosse pregno. «Rispetta te, quello che sei, di certo non ti prenderebbe
a morsi se lo toccassi» anche se sarebbe stato davvero esilarante assistere,
avrebbe pagato oro.
Il licantropo si appoggiò di schiena
al marmo chiaro sotto la credenza, scrutandolo con le iridi profonde e
scavatrici. «Stai insinuando qualcosa che non mi piace».
«Eppure è un dato di fatto» non
avrebbe dovuto prendersela tanto, negli anni non era accaduto, era
costantemente riuscito a combattere quella sensazione di inadeguatezza. «Sono
umano».
A Derek proprio non aggradava per
niente il terreno insidioso in cui si stavano immergendo. «Pensi sia questo che
lo indispettisca?».
«Non lo so, può darsi» Stiles sperava
tanto di no, odiava che qualcosa che aveva preservato contro ogni avversità e
desolazione di morte potesse essere un difetto. «Di certo c’è qualcosa».
Il mutaforma scivolò verso di lui,
alzandogli il viso verso l’alto con le punta delle dita e scostandogli i
capelli sbarazzini del risveglio dagli occhi. «Non devo ricordarti quanto non
sia un problema la tua umanità, vero?» enunciò pragmatico e serafico,
incollandosi alle iridi d’ambrosia. «Ho ancora ben presente quel ragazzino
testardo di sedici anni che mi teneva a galla in una piscina, mentre un Kanima
inveiva contro di noi» immobilizzato, paralizzato, impotente, del tutto alla
sua mercé, a quella di entrambi.
Le labbra del detective si curvarono
all’insù contro di lui, di diletto, mentre Derek gli accarezzava una guancia
con il setto nasale. «Vorrei solo capire il problema, Der. Dove sto sbagliando,
sono bravo a risolverli».
«Lo so» proferì con conoscenza,
testimone chiave delle sue virtù. «Riuscirai ad entrare tra le sue grazie» gli
adagiò un bacio sopra l’arco di Cupido come ulteriore incoraggiamento. «Ci
riesci sempre con i lupi tormentati che non ti vogliono nella propria vita».
Stiles emise uno scoppio di risa
oltraggiata, assestandogli un pugno sulla spalla senza aspettarsi nessun
risultato, con Derek che lo legava ad una morsa indivisibile, mangiandogli la
bocca. «Li accompagno io a scuola, mi porto anche Corine».
Stiles dovette processare più del
dovuto per decriptare il messaggio in codice che il marito gli trasferì. «Tu? E
io? Resto qui da solo?».
«È stata una settimana impegnativa,
puoi prenderti del tempo per te stesso» si allontanò dirigendosi verso il
tavolo ed afferrando le due scatole di cereali dalle varietà diverse,
inserendole dentro lo scaffale che le conteneva quotidianamente.
«Abbiamo avuto la stessa settimana»
quei frugoletti adorabili e tanto impegnativi riempivano la loro routine
stravolta da ben sette giorni, sette giorni incredibilmente e inauditamente
pieni.
«Vero» concordò il mutaforma,
rubandogli la tazza del caffè dalle dita e prendendone un sorso. «Ma stai
dormendo in piedi, hai ancora gli occhi sporchi di sonno e non hai ancora fatto
colazione. Oggi ci penserò io».
Stiles sbuffò con risentimento,
soprattutto perché il suo consorte aveva spietatamente ragione. E non amava che
gli rubasse il caffè dalle mani mentre ne aveva un disperato bisogno; se lo
riprese all’instante, bevendogli davanti beffardo. «Anche Erick deve farla».
«Me ne occuperò io» durante l’ora del
pasto mattutino il bambino non si era mai presentato, afferrava uno o due
pancake al volo che Stiles o Derek preparavano quando si svegliava in tempo,
senza nemmeno sedersi e salutare; si precipitava direttamente davanti alla
porta in attesa di partire. «Goditi un po’ il tuo congedo».
Stiles aveva richiesto il congedo di
paternità, composto da appena dodici settimane, nell’istante in cui avevano
ottenuto l’adozione e che era scattato il giorno dopo in cui quelle tre pesti
avevano varcato per la primissima volta la soglia di villa Hale-Stilinski.
«Ragazzo iperattivo, rammenti? Non so stare senza fare niente» ma era anche
vero che era realmente esausto. «E ti stai portando via la mia cucciola».
Sentirono qualcuno che sgambettava
sulle scale che percorreva velocemente, inforcando l’entrata per la zona
cottura. «Der Der, vengo con te?» non erano ancora dei lupetti veri, ma avevano
già un udito sopraffino, non gli sfuggiva mai niente; Derek affermava che fosse
predisposizione e Stiles era sempre più rassegnato a trovarsi costantemente in
svantaggio in mezzo a quelle doti totalmente o parzialmente sovrumane.
Derek prese Corine al volo, issandola
sulle braccia e avvolgendola con perizia, posizionandola su un lato del petto,
i biondi capelli all’altezza del collo che svolazzavano ovunque. «Sì,
principessa. Saluta Stiles».
«Ciao, ciao, Stils» salutò
gioiosa la più piccola di casa, con il difetto di pronuncia portato dai suoi
quattro anni e dall’agglomerato ostico delle consonanti che componevano l’alias
del figlio dello sceriffo, agitando le braccine contenta.
Com’era possibile che quel lupastro
acido fosse così popolare tra quelle innocenti creaturine? «Ciao, cucciola. Fa
stancare il lupo cattivo».
Corine ridacchiò deliziata e si
protese dalla presa salda di Derek, lasciando intendere che volesse
avvicinarsi, costringendolo ad assecondarla e vedendola schioccare un bacio
adorabile sulla guancia dell’unico umano presente. «Sì, cappuccetto rosso» aveva
dimostrato largamente quanto quel gioco la rallegrasse e Stiles non si lasciava
mai scappare l’occasione di riproporlo.
Stiles le accarezzò con dolcezza la
chioma d’oro, il dorso dell’indice che scendeva con perizia delicata sul nasino
alla francese costellato di lentiggini in un’accurata intenzione di scatenarle
la risata ricca che invase immediatamente l’apparato uditivo di entrambi gli
uomini. «Non comprarle l’intero negozio di giocattoli, Derek».
Lo sbuffo di risa abbandonò il suo
portamento stoico, riprendendo il controllo sulla bambina e dirigendosi verso
il soggiorno. «Farò del mio meglio».
«Sei pericoloso, Derek Hale» era
passata una singola settimana e Derek stava dando il meglio di sé per viziare
le fanciulle, contro le sue proteste.Da
quando era lui il poliziotto cattivo e il mannaro quello buono? «E non tornare
con cibo spazzatura da fast food per pranzo».
La nota piccata di Stiles la sentì
eccome, la becchettata che non poteva frenare, ne era decisamente divertito.
Anche se condivideva la sua vita con l’umano da un decennio, Stiles non aveva
mai smesso di occuparsi della dieta sana di suo padre, anche se miglia e
miglia, chilometri e chilometri, li separavano; si occupava anche della loro,
benché per Derek non ci fosse alcun motivo, ma Stiles professava uno stile di
vita sano ed era qualcosa di impensabile da associare ad una personalità che si
ingozzava di patatine fritte e crocchette di pollo pregne d’olio in tutte le
occasioni che riusciva ad escogitare. «Non posso promettertelo».
Stiles sbuffò sonoramente, il naso
arricciato per lo sdegno e Corine batté le mani come se fosse estasiata dallo
spettacolo che regolarmente proponevano, la risatina zuccherosa che
riecheggiava per le pareti.
«Ragazzi, vi do un minuto per
raggiungere l’ingresso» abbaiò la creatura leggendaria, battendo in modo
significativo un piede sul pavimento.
Cosa aveva detto sull’autorità di
Derek?
Erick e Laura mentre erano sotto la
tutela della Wolfgang Childhood furono iscritti alla stessa scuola elementare, vicino
all’orfanatrofio e ingiustamente lontana dalla dimora Hale-Stilinski, la
seconda classe per la bambina più timida che conoscesse e la quarta per il
secondo brontolone della sua vita. Di comune accordo i neogenitori avevano
deciso di permettere loro di finire la frequentazione dell’anno corrente, senza
salti pindarici e smarrimento ambientale più di quanto avessero già patito. Per
Laura era già stata presentata l’iscrizione per il nuovo anno scolastico, la
terza classe, nella scuola più vicina al loro quartiere ‒ nella speranza
ottimistica che passassero lo scrupoloso esame delle assistenti sociali ‒,
mentre con Erick navigano ancora nel buio. Quanto aveva senso imporgli di
abbandonare un luogo in cui si era costruito il suo giro di amicizie e
sicurezze per strapparlo via per un singolo anno? Era qualcosa a cui dovevano
venire a capo quanto prima.
Per Corine le cose erano diverse; aveva frequentato soltanto l’asilo
privato riservato della Wolfgang Childhood, senza mai mettere un piede fuori da
un luogo diverso da quello e non era più previsto che lo frequentasse, non
c’era nessun accordo preventivato con altre strutture all’esterno e nessun
posto disponibile per un anno oltre la metà del suo percorso. Derek e Stiles
avevano già fatto domanda per l’asilo più adiacente a loro e qualche altro un
po’ più distante per sicurezza, ma fino a che l’inizio di settembre non si
sarebbe manifestato, i due uomini avrebbero dovuto ingegnarsi per organizzare i
turni delle loro mattinate. Per Stiles non era per nulla una passeggiata amministrare
gli orari d’ufficio e gli incarichi da detective a tempo pieno, ma al contrario
suo, Derek non aveva dei veri orari fissi da rispettare, tuttavia non lo
tranquillizzava, il licantropo non dipendeva da nessuno se non da se stesso
all’apparenza, ma c’erano troppe variabili nelle sue attività da autodidatta.
Avrebbero dovuto stringere i denti e rimboccarsi le maniche.
Laura scese le scale esattamente come aveva fatto precedentemente la
sorellina, infilandosi lo zainetto sulle spalle e agitando una mano in segno di
saluto nella direzione del figlio dello sceriffo a cui ricambiò, mentre Erick
non mostrava alcuna emozione sul volto, se non una profonda scocciatura.
Ci fu un coro di ciao agitato e la porta principale che veniva
chiusa in un tonfo controllato.
Per la prima volta dopo intramontabili sette giornate, Stiles si ritrovò in
una casa deserta e dal suono inesistente, solo.
«C’è il tuo uomo» lo informò uno dei
compagni d’accademia, indicandogli con la testa la direzione in cui il suddetto
uomo lo stava attendendo al di là
del cancello laterale semichiuso.
Stiles si volò di tre quarti,
trovando Derek che aspettava nell’impeccabilità della sua posa statuaria. Non
poteva negare quanti scompensi gli creasse dopo quattro anni pieni di relazione
sentire come gli altri etichettassero il lupo mannaro che gli girava intorno, il tuo uomo. «Credo proprio che toglierò il disturbo, gente. A domani»
si congedò con saluto obbligato ai giovani ragazzi e ragazze con cui
condivideva l’esperienza a Quantico.
«Cosa ti porta qui, straniero?» si
fiondò da Derek senza nemmeno darsi un contegno, avvolgendogli le braccia
intorno al collo e mostrando i trentadue denti di un bianco immacolato,
l’esaltazione che gli percorreva vertebra per vertebra alla manifestazione
della verità che l’avesse seguito in quell’avventura senza che ce ne fosse
davvero una ragione.
«Mi guardavo in giro» dichiarò il
mutaforma senza nessuna sfumatura particolare, tenendolo fermo da un fianco, la
noia del momento che lo portava a muoversi e girare per quella cittadina
microscopica di pochi abitanti e per lo più attinenti al quartier generale
dell’FBI; i civili scarseggiavano. «Ho pensato di passare».
«Che galanteria» non avrebbe certo
mai dichiarato che andasse in brodo di giuggiole ogni volta che capiva quanto
fosse tra i pensieri di Derek, tuttavia Stiles aveva compreso con gli anni che
l’espressione mi guardavo in giro o affini
intendessero la sua ricerca di proprietà immobiliari da acquistare per
aumentare i suoi introiti, la cura maniacale, ma anche istintiva, di trovare
l’affare giusto al medesimo prezzo e Stiles poteva garantire che Derek fosse un
meraviglioso uomo d’affari senza nemmeno dare nell’occhio. Nell periodo universitario
dell’umano aveva anche acquistato un paio di palazzine vicino al college in cui
aveva studiato letteratura, una ad anno, le aveva ristrutturate ed ammobiliate,
ricreando numerosi piccoli appartamenti comodi e pieni di calore; erano anche
affittati al prezzo più onesto che Stiles avesse mai visto. Se fosse stato uno
studente interessato, avrebbe mandato la sua richiesta di possibile affittuario
anni prima dell’inizio delle elezioni da matricola scongiurandolo, i contratti
andavano via come il pane e c’era sempre il tutto esaurito; proprio per quella
ragione, Derek stava pensando di ampliare gli acquisti sulla zona.
«È accaduto niente di interessante?»
domandò la creatura della notte alla spensieratezza genuina del neolaureato,
scompigliandogli i capelli sbarazzini.
Stiles curvò le labbra contro di lui,
la leggerezza che gli invadeva tutti i tessuti cellulari al tocco accurato e
premuroso del licantropo; era il suo personalissimo modo di chiedergli come
fosse andata la sua giornata accademica. «Oggi hanno distribuito le domande di
collocazione, il nostro ideale luogo di assegnazione».
«Ah, perché, potete scegliere?» a
Derek suonava improbabile, ma lui non aveva mai avuto a che fare con quella
tipologia di affari di stato.
Il figlio dello sceriffo ridacchiò
con ilarità morbida, aumentando la presa sull’abbraccio che lo legava al lupo.
«No, è quello che vogliono farci credere» che simpatica presa per i fondelli,
non che si aspettasse qualcosa di diverso, la pia illusione di avere il
controllo. «Ho segnato Washington».
«Washington» gli fece eco il lupo mannaro in una pittoresca cantilena, come
se dovesse assaporare che significato celasse dietro e gli fosse sconosciuto.
«È lì che vorresti andare?».
«La grande capitale, mi piacerebbe, è una sfida interessante» prima che
fosse accettato al corso preparatorio a Quantico non ci aveva nemmeno mai
pensato, minimamente mai presa in considerazione; gli sembrava lontana miglia e
miglia da Beacon Hills, da suo padre, l’unica figura genitoriale che gli era
rimasta, l’unica parte della sua famiglia e del suo cuore, ma l’idea l’aveva
stuzzicato leggendo i vari distretti di distribuzione, il suo percorso infine
l’aveva portato a New York che non era propriamente chissà quanto vicina alla
sua città natale e la stretta dell’abbandonare il nido si era allentata, a
tutto quell’insieme si era aggiunta la sua vita di coppia con il lupo acido per
eccellenza; il distacco era avvenuto con maggiore facilità. Riprendere le
valigie e ricominciare in un altro stato non gli ostruiva più lo stomaco, ma
sicuramente qualcosa che gli doleva c’era. «Non ci sono mai stato».
Derek sapeva, a differenza sua, quanto poco del mondo Stiles avesse visto,
il suo desiderio di ampliare le vedute per trovare il suo posto non gli era
estraneo. «Nemmeno io» Stiles sorrise intimo alla sua risposta e Derek si
chiese perché non gli ponesse la domanda che sembrava turbarlo. «Se è lì che
vuoi andare, da parte mia non ci sono veti».
«No?» gli occhi giganti dell’umano si mostrarono in tutta la loro
chiarezza, lo sbigottimento infuso a confusione che si manifestavano senza
censure.
«Non ho nulla che mi trattiene, né a Beacon Hills né a New York, possiamo
andare ovunque desideri» non pensava avesse davvero bisogno di ricordarglielo,
di confermarglielo.
«Mi seguiresti anche in questa avventura?» Stiles era pronto a sciogliersi,
di lui non sarebbe rimasto niente davanti all’amore incondizionato che Derek
gli dimostrava giorno dopo giorno; nulla di convenzionale o elaborato, di
appariscente e esposto sotto ad un vetro, ma per Stiles era abbagliate, era
tutto quello che le sue pupille riuscivano a catturare, alla luce,
nell’oscurità.
«Ti seguirò dovunque vorrai andare, sempre» la promessa era solenne,
perentoria ed ambiziosa, poteva perfino spaventarlo.
Ma Stiles non era spaventato, non lo era per niente, Derek rimaneva
comunque tutto quello che aveva desiderato vivere da quando l’aveva incontrato
la prima volta. «Va bene».
Congiunsero le fronti, appoggiandosi l’uno all’altro e respirandosi per
qualche attimo esclusivo a loro, le palpebre serrate in serenità, per poi Derek
interrompere il contatto per depositargli uno schiocco sulla fronte che
racchiudeva una tenerezza che nessuno gli avrebbe mai attribuito.
«Dimmi di te, invece, Der» elargì Stiles, ancora perso nel loro momento
privato, l’affezione che sentiva ancora tutta dentro l’organismo. «Trovato qualche affare che ti fa gola? Non potresti limitarti a pagare
l’affitto per un po’?» ma forse era leggermente scorretto semplificare le cose
in quel modo, Derek non aveva davvero molto da fare lì, l’aveva seguito per il
suo periodo d’addestramento senza voler sentire ragioni ‒ certo che ti seguirò, non resterò ad aspettarti; l’aveva ampiamente
dimostrato soltanto un battito di ciglia precedente ‒ e non trascorrevano
chissà quanto tempo insieme, Stiles era obbligato a vivere al campus durante
tutte le ventuno settimane che l’accademia prevedeva e soltanto nel fine
settimana riusciva a svincolarsi, raggiugendolo nella villetta che aveva preso
in affitto al confine tra Quantico e Triangle ‒ perché, in caso avessero
problemi di qualsiasi sorta, soprannaturale o meno, essere sotto un’altra
giurisdizione era una vera manna dal cielo ‒; cos’è che faceva per tutto
il resto del tempo, aspettando di vederlo? Oltre a fargli improvvisate quasi
ogni giorno e agli occasionali voli aerei che lo riportavano a Beacon Hills o a
New York.
«Praticamente le regalano» dichiarò
Derek con una leggera derisione, quasi trovasse ridicoli prezzi così
stracciati, gli era perfino difficile vedere la differenza tra il prezzo
dell’affitto e quello d’acquisto. «Potrei comprarne una ad occhi chiusi» il
valore di mercato cambiava sempre a seconda del luogo, ne era ben consapevole,
ma a volte lo trovava davvero imbarazzante.
L’umano ridacchiò ammaliato contro di
lui, il bacio che gli schioccò sulla mandibola. «Mio caro Sourwolf, hai un
disturbo da acquisto compulsivo per le case. Magari hai un desiderio intrinseco
di mettere radici?».
«Può darsi» proferì con scherno,
chinandosi per baciargli la bocca esattamente lì, davanti all’ingresso
principale della base d’addestramento, poco lontani alla replica accurata del Marine Memorial.«Il settore immobiliare è il più sicuro» recitò impeccabile, credendoci
ciecamente, ma in realtà si stava divertendo enormemente.
«Uao, non sapevo di avere una
relazione con un agente di vendita» Stiles era un po’ tanto innamorato di
quella parte caratteriale del lupo, la più insospettabile, ma che era sempre
stata sotto il naso di tutti. «Vuoi forse vendermi qualcosa?».
Lo sguardo di Derek cambiò e la
profondità nelle sue perle di giada si fece intensa, pesante ed intellegibile.
«Non ancora».
Oh, ecco che la tachicardia
aumentava esponenzialmente. «Aspetterò, allora» chissà che cos’è che avrebbe
dovuto aspettare ad a cosa Derek volesse legarlo. «Sento che scalpita
l’imprenditore che è in te, l’impero Hale: attenti, mordo reclama».
«Vorrei acquistarla davvero» rivelò
la creatura della notte, la serietà che ancora una volta si palesava.
«Che cosa? Una casa, qui?» un’isteria
involontaria gli scappò dal tono tipicamente controllato quando affrontavano
quel tipo di argomenti, interrompendo la stretta che li vedeva uniti. Stiles
spesso aveva la sensazione che il licantropo avesse più che altro le mani
bucate che un vero senso per gli affari, ma gli aveva costantemente dimostrato
quanto invece i suoi timori fossero infondati. Il suo patrimonio era aumentato
esponenzialmente in quei quattro anni, gestito solo dal suo capitale inziale;
quando aveva ritrovato Cora, le aveva intestato l’eredità che le spettava di
diritto, assommata ad una metà identica della quota di Laura, una quota che
Derek non aveva mai toccato dal momento in cui la sua Alpha non camminava più
sulla terra dei vivi, accompagnata dalla scusa di serbarla per dei ipotetici
periodi di magra o brutte sorprese. Non aveva alcun torto a non volerla
sperperare, ma Derek aveva costituito molti conti di salvataggio che gli
garantivano una vita dignitosa in qualsiasi caso. «Che cosa dovresti farci?».
«Potrebbe servirci» dichiarò con
semplicità l’uomo, per nulla turbato dall’incredulità del figlio dello
sceriffo.
«A
noi?» evidentemente doveva aver sbattuto la testa da qualche parte senza che
se ne fosse reso conto. «A cosa potrebbe servirci?».
«Se continuerai per questa strada, le
tue visite a Quantico potrebbero farsi frequenti, avere una casa fissa
d’appoggio sarebbe comodo» Derek considerava l’idea da diverse settimane,
giorno per giorno a girare in cerca di una buona transazione.
«Non so- non so nemmeno dove sarò fra
tre anni e tu già mi vedi a vagabondare tra un centro dell’FBI e l’altro» gli
metteva agitazione e confusione, non sapeva nemmeno se dovesse sentirsi
lusingato.
«Io so dove sarai, Stiles» non si
doveva nemmeno sindacare su quell’aspetto.
«Derek» com’era possibile che un
attimo prima scoppiasse d’energia e mentre affrontava quella discussione al
limite dell’assurdo la sentisse venire meno? «Non ho mai espresso la mia
opinione su come gestisci le tue finanze, ma questo mi sembra un azzardo. È
troppo presto».
«Okay» ma non sembrava per nulla
convinto e dopotutto non è che dovesse necessariamente dargli ragione o
ottenere il suo permesso. «Nel caso recondito che non ci servisse in quel
campo, potrò sempre affittarla, il guadagno è assicurato».
«Non puoi semplicemente aspettare, se
è questa la tua motivazione?» in cuor suo sapeva che qualcosa gli stava
sfuggendo, che in Derek c’era più di quanto dichiarasse.
Derek rimase per qualche attimo a
guardarlo, come se potessero comunicare telepaticamente ‒ aspetto di cui
era sicuro il lupo credesse essere capaci di fare ‒ o cercasse di mettere
in ordine i pensieri che gli affollavano la mente. «Mi piace questo posto, mi
piace Triangle e la sue riserve naturali, i parchi» soprattutto quelli,
Triangle e Quantico erano avvolti dalla natura incontrastata ovunque girasse
gli occhi, ne era incantato.
A Stiles si aprì il cielo, tutte le
parole di Derek che prendevano finalmente un senso. L’aveva visto in forma da
lupo completo perdersi nell’ampiezza sconfinata del verde rigoglioso che lo
inghiottiva, poter inoltrarsi e godersi la natura come un autentico primate a
quattro zampe, l’essenza lupesca che si risvegliava e che poteva vivere libera,
senza nascondersi, privarsi, celarsi, reprimersi, ma soltanto dare sfogo al suo
vero essere. Stiles amava vederlo così in sintonia con gli elementi creati da
madre natura, la vegetazione florida che manteneva il suo segreto,
proteggendolo, ma lasciando che sbocciasse. Aveva manifestato più volte la sua
preferenza per l’area di Chopawamsic Backcountry e Stiles non avrebbe mai
potuto ignorarla.
«Quando avremo dei piccoli lupi tra i
piedi e allargheremo la famiglia, voglio che si sentano come mi sento io» fu
tutta la verità che Derek gli confessò in quel giorno del tutto inaspettato.
Il tumulto in Stiles crebbe così
tanto che pensò che il cuore potesse scappargli dal petto, andare nelle riserve
dei desideri del lupo più scontroso e brontolone che conoscesse, quello con cui
avrebbe voluto condividere per sempre la sua linfa vitale. Derek era talmente
proiettato nel futuro da lasciarlo inerte, una parola che una volta non
figurava affatto sul suo vocabolario, privo di qualsiasi pensiero che non fosse
il presente. Il cambiamento drastico e positivo che aveva compiuto, animava
Stiles come nient’altro al mondo. Stava perfino già immaginando la loro vita
animata dai lupacchiotti che avrebbero tanto desiderato adottare un giorno, non
sapeva proprio come sarebbe sopravvissuto davanti a tanta manifestazione
d’amore in tutte le sue forme.
Si sbilanciò incatenandolo ad un
bacio passionale e pieno di sentimento, prendendogli il viso tra le mani e
conducendolo soltanto su di sé, a fargli sentire l’interezza di ciò che
provava. «Realizza tutto quello che ti fa felice, farà felice anche me».
Non le aveva comprato un intero
negozio di giocattoli, ma non era certo che non ci avesse meditato su; c’era
andato pericolosamente vicino in quei giorni, ricoprendola di doni quasi
quotidiani. Quello che apparve innegabile fu come Corine si presentò nel pomeriggio
con un peluche di medie dimensioni che tutta contenta stringeva strettamente al
petto, con tutti gli scolari al seguito riportati alla tana. «Il lupo cattivo
ti ha fatto un regalo?».
Corine rise dilettata, riverberando
in tutta la casa, talmente piena di vita da creargli degli scompensi. «Sì,
guarda Stils».
Stiles si ritrovò tra le mani un
peluche di un rosso aranciato e bianco, il muso a punta e le orecchie nere, la
coda voluttuosa dalla punta bianca, non aveva alcun dubbio di cosa
rappresentasse. «Ti piacciono le volpi?».
«Sì» dichiarò entusiasta, mostrando
un sorriso smagliante, riprendendo l’oggetto tra le braccia e mostrandogli
meglio il musetto peloso e morbido, gli occhietti neri vispi. Di certo Stiles
non avrebbe potuto negare la magnifica fattura. «Sono uguali a te».
Sentì Derek scoppiare a ridere dietro
di lui senza lode, ma con autentico divertimento. «Ti ha inquadrato per bene».
Stiles gli rifilò un’occhiata
assassina di cui il mannaro continuò a ghignazzare senza esserne toccato. «In
cosa siamo uguali?» provò ad ascoltare i grandi ragionamenti che potevano mai
esserci dietro dentro quella testolina pura e infantile, ma tanto acuta.
«Mh… è difficile» la cucciola mostrò
delle complicazioni ad articolare un pensiero di cui forse le mancavano i termini
per inquadrarlo, aggrottando la fronte ed arricciando il nasino lentigginoso,
mentre le ciocche dorate le ricadevano sulle iridi del mare, spremendosi le
meningi. «Fanno gli scherzetti» quello fu l’unico compromesso che le venne in
aiuto.
A quel punto avrebbe tanto voluto
accoppare suo marito per quanto non stesse gestendo per niente bene la sua
ilarità che cresceva di minuto in minuto, mentre sistemava la spesa nella
credenza ed esprimendo chiaramente il suo pensiero affine alla pargola. «Credo
non ci sia descrizione più accurata».
«Sono furbe» si intromise Laura,
venendo in soccorso della sorellina e inoltrandosi in cucina, spinta dalla
curiosità della conversazione. «E scaltre».
«Sì, furbe!» esclamò illuminata la
piccola di casa Hale-Stilinski, come se capisse davvero il significato che non
era riuscita ad esprimere. «E sono intelligenti. E belle».
«Sì, molto belle» concordò Laura con
enfasi, accompagnando il tutto con un gesto esplicativo del capo.
«Decisamente belle» approvò il lupo
completo, il sorriso che gli sporcava le labbra non più sardoniche.
Stiles sentiva le orecchie in fiamme
ed i sensi offuscati. «Non capisco se devo sentirmi oltraggiato o lusingato».
Derek si avvicinò a passo felpato, la
sua capacità incredibile di sparire e riapparire come per magia senza spostare
l’aria, regalandogli un bacio benevolo sulla bocca. «Magari entrambi».
Stiles sbuffò per nulla sorpreso
contro il contatto intimo, ricambiandolo con dispetto e fuggendo dalle sue
grinfie. «Quindi, piacciono anche a te le volpi, lupacchiotta?» domandò ad una
Laura attenta che non si lasciava mai sfuggire le effusioni tra i due uomini,
ne sembrava sempre lieta. Adorava il calore familiare.
«Sì» affermò positivamente, le gote
che si imporporavano ogni volta che l’umano usava quel nomignolo affettuoso
esclusivo alla sua persona, le macchiette marroncine sulle gote che
sottolineavano la loro presenza. «A te no?».
«Sì» vide i tratti della sua bella
ricciolina bionda adombrarsi ad una possibile risposta negativa. Non aveva
chissà quale avversione per le volpi in sé, ma aveva troppi trascorsi negativi
e anche positivi; era complicato definirlo. «Ma preferisco le lupette».
Laura arrossì in ogni parte,
l’espressione di autentica esultanza ed orgoglio che disegnava tratti efebici
nuovi nella sua espressione, Stiles la trovava davvero adorabile. «Qualcuno
vuole la merenda?» indagò senza avere davvero necessità di conoscere la
risposta, punzecchiando con dolcezza la punta del naso della bambina che aveva
davanti a sé.
«Sì! Sì!» esplose la cucciola con
entusiasmo, agitando felice la volpe morbida, saltando sul posto per
enfatizzare la sua manifestazione.
Laura si limitò ad annuire
silenziosamente, agitando i lunghi boccoli dell’oro, gli occhi dell’oceano che
brillavano di aspettativa gioiosa. «Andate a chiamare vostro fratello» disse
loro, la missione primaria che aveva importanza su tutto il resto ai loro
occhi, portandole a muoversi di conseguenza.
Ma ad un tratto Corine si fermò dopo
che Laura la precedette, il peluche stretto tra le mani nervose, indugiando su
quello che avrebbe voluto esprimere. «Erick non è cattivo».
Derek e Stiles si immobilizzarono sul
posto, le movenze che non avevano più uno scopo e lo sguardo dell’uno che
cercava l’altro interrogativo e perplesso, quasi preoccupato. «Nessuno di noi
lo pensa».
Corine indugiò per un altro secondo e
poi annuì a se stessa, come se in qualche modo avesse chiarito quello che
doveva e avesse una sicurezza in più. Si congedò l’attimo successivo, con il
setto nasale affondato nella testa della volpe.
«Non l’ho mai vista così turbata»
proferì Stiles interdetto, una confusione che proprio non si aspettava sarebbe
stata scaturita da lei.
Derek fece un cenno d’assenso,
depositando i cereali al miele nello scaffare richiudibile, gli unici che Erick
mangiava e che erano anche i preferiti di Stiles, chiudendo successivamente lo
sportello. «Mi ha detto la stessa cosa mentre eravamo in giro».
Derek e Corine nei successivi
quattordici giorni avevano preso l’abitudine di dedicarsi due giornate a
settimana soltanto per loro, una pausa per Stiles, ma uno svuotamento del
portafoglio da parte di Derek, non che se lamentasse affatto. I restanti giorni
li passavano costantemente insieme, allontanandosi soltanto quando uno dei due
aveva delle commissioni da svolgere. «È preoccupata, ma per cosa?».
«Non lo so» Derek era rimasto
sorpreso quanto l’umano a quella posizione che la cucciola della famiglia aveva
preso. Era evidente quanto adorasse il fratello maggiore e quanto fosse
ricambiata, non aveva mai visto qualcosa che potesse indispettirla, affrontare
di petto la questione. Era spensierata, felice, un uragano di emozioni positive
e impazziva per Stiles, il suo visino non era mai stato sporcato da frammenti
di sentimenti negativi da quando viveva sotto quel tetto.
«Dovremmo indagare?» era sicuro che
quello avrebbe aumentato l’alterco che incorreva tra lui ed Erick, che
persisteva a non digerirlo in nessuna maniera e che feriva profondamente
Stiles.
«Sì» convenne il mutaforma,
comprendendo che quella situazione avesse il suo delicato peso. «Ma con calma».
Stiles la frecciatina la colse tutta,
fulminandolo a vista, ricambiato da uno sguardo di assestamento che non
ammetteva repliche. Di certo Stiles non aveva alcuna ragione di desistere così
facilmente. «Le hai comprato una volpe».
Derek comprendeva quanto il figlio
dello sceriffo la ritenesse una scelta infelice, ma non era mai stato d’accordo
su quell’avviso. «L’ha voluta lei» era stata una bella scena a cui assistere,
non se la sarebbe persa per niente al mondo. «Si è incantata davanti la vetrina
e ha espresso Stils, non capivo a cosa si riferisse finché non ho visto
i suoi occhi illuminarsi davanti al peluche della volpe esposta, ne era
innamorata. Amore a prima vista» Derek un po’ la capiva, era impossibile
resisterle.
Stiles soffiò risentito, perché la
sua vita era uno continuo scherzo del destino. «Una volpe, eh».
Il mannaro si mosse fluido,
scivolando su di lui, alzandogli lievemente il viso per specchiarsi
maggiormente in quelle iridi che rappresentavano il nettare degli dei, proibito
ai comuni mortali. «Non è un male che vedano chi sei realmente» l’umano arrancò
una piega sul volto senza una vera emozione e una mano del lupo andò a legarsi
a quella in cui spiccava la fede d’oro che Stiles sfoggiava orgogliosamente.
«Sarai sempre la più bella volpe scorretta che abbia mai incontrato».
Stiles scoppiò in un sospiro di risa
invaghita e liberatrice che Derek baciò approfonditamente.
Due minuti dopo i pargoli li
raggiunsero e gli occhi del cielo di Erick li scrutarono in meditazione,
immersi nel grande segreto che si preparava a svelare, tentando di capire con
chi avesse a che fare.
«Derek» chiamò l’umano nella villa
silenziosa, avendo scorto ed analizzato ogni angolo che gli venisse alla mente,
cercandolo dappertutto e non ricevendo alcun segno di essere stato udito in
risposta. «Dere- oh» la sorpresa lo colse nell’immediato e un ridacchiare
addolcito e di tenerezza gli scaturì dalle labbra quando lo adocchiò,
nascondendolo malamente dietro un avambraccio. «Ti serve una mano?».
Il lupo cattivo per i comuni mortali
sedeva mezzo sdraiato e in posizione precaria sul letto di Laura, tra le mani
un libro di fiabe moderno, accerchiato e ricoperto dalle due bambine che gli
ronfavano addosso spensierate, totalmente in pace con se stesse e con ciò che
le circondava, impedendogli di muoversi senza incorrere nel danno irreparabile
di risvegliare una delle due. «Sarebbe gradito».
Stiles non riusciva a resistere
all’evidente difficoltà in cui il suo consorte si era imbattuto, ma gli
scaldava il cuore in modi che non si sarebbe sognato mai e la risatina di
piccola gioia divertita sormontò con grazia. Depositargli un bacio sulla bocca
fu conseguenziale.
Le braccia salde dell’uomo di legge
presero in custodia con impeccabile delicatezza e dedizione la piccola della
cucciolata, ancorandola fortemente a sé e regalandole un mezzo dondolio,
schioccandole le labbra al centro della fronte e indirizzandosi verso l’altro
lato della camera, scostando con un braccio le lenzuola perfettamente sistemate
e adagiandola delicatamente sul suo letto d’appartenenza, scarsamente usato in
quelle settimane iniziali considerando che tutti e tre i bambini nella notte
dormissero rannicchiati su quello di Laura. La rimboccò impeccabilmente e si
sedette sul bordo del materasso, scompigliandole appena i fili biondi che le
ricadevano sul visino.
Dal fruscio che avvertiva dietro di
sé, capì che Derek stava imitando i suoi movimenti. Quanta attenzione
sopraffina per un omone scorbutico come lui.
«È impossibile resistergli» enunciò
Stiles quando individuò il mannaro sostare impeccabilmente vicino alla
lupacchiotta, il respiro tranquillo che le usciva dalla bocca, identico a
quello della sorellina. Era piuttosto certo che l’ora della storia si fosse
rivelata più complicata di quanto Derek si sarebbe aspettato; Stiles li aveva
lasciati nella loro nicchia apparata piena di cuscini in una delle grandi
finestre del salone che affacciava direttamente sul laghetto abitato dai pesci
rossi, ma qualcosa era andato storto sul piano prestabilito ed in effetti, era
sicuro che non fosse quello il libro che stavano leggendo quando si era
allontanato per rispondere al telefono e parlare ininterrottamente con suo
padre, deliziandolo con ogni aneddoto gli venisse alla mente che vedeva
protagonisti le tre piccole creaturine che adorava.
«Già» Derek si limitò a confermare,
arricciando una ciocca del sole intorno ad un dito e liberandolo subito dopo
intorno a lei.
Stiles sorrise innamorato, godendosi
quell’attimo di quiete benevola. «Ognuno di loro, in qualche modo, mi ricordano
Erica» era un pensiero che l’aveva scalfito fin dal primo istante, ma
all’inizio si era chiesto se non fosse influenzato dalla rivelazione del nome
di Erick; in lui, oltre tutto quello che vedeva del Derek della sua
adolescenza, intravedeva anche quel mondo che l’aveva messo da parte e che non
riusciva a vederlo, a valorizzarlo, come se fosse bloccato nel suo corpo o
semplicemente per quello che rappresentava, che fosse per la sua natura lupesca
o per il bagaglio grottesco della sua storia personale. Erica aveva voluto
riscattarsi seguendo Derek, vendicarsi a suo modo, come se stesse giocando al
gatto con il topo, divertendosi, eppure in realtà non aveva mai fatto male a
nessuno, era soltanto una ragazzina spaventata che tentava di scalare la sua
parete rocciosa come premio per se stessa.
Il lupo mannaro lo adocchiò
nell’oscurità e le due testoline dorate non riuscivano ad essere ignorate. «Sì»
asserì senza che potesse dissentire. «Hanno la sua resistenza e la sua
generosità» per quanto lei volesse apparire aggressiva e desiderabile dopo il
morso dell’Alpha, in realtà era un’anima estremamente altruista e anche dedita
alla salvaguardia in particolare di un certo essere umano, che Derek stesso le
aveva ordinato espressamente di tenere d’occhio. Manifestava una certa
altezzosità in quel compito, spesso era molto manesca nei suoi riguardi, ma
tenere Stiles al sicuro era la priorità primaria sia per lei sia per l’Alpha,
ma proprio perché il suo debole per il figlio dello sceriffo fosse evidente e
conosciuto, per Erica spesso era difficile seguire la voce di Derek e non
quella di Stiles, perché fin troppo spesso l’umano si preoccupava per lei nei
modi in cui al mannaro sfuggivano.
Stiles avrebbe voluto aggiungere che
i tre lupetti lo seguivano diligentemente e con quegli occhi sognanti e fieri
esattamente come accadeva con Erica, ma era sicuro non fosse qualcosa che
volesse sentirsi dire. Alla fine, anche lei veniva assommata agli errori che
Derek riteneva avesse commesso, eppure ella era morta credendo ciecamente in
lui e non era qualcosa che avrebbe mai potuto negarle, Stiles non glielo
avrebbe permesso.
Fu a quel punto, con le memorie delle
punzecchiate in cui lui ed Erica si erano visti protagonisti, che i suoi occhi
caddero oltre il muro e si indirizzarono verso un punto preciso, dall’altra
parte del corridoio spezzato dall’ingresso delle scale. «Che cosa fa?».
Derek non aveva bisogno di seguire la
traiettoria della testa del marito per sapere cosa stesse guardando, dove i
suoi pensieri stessero confluendo, eppure individuò comunque la porta aperta
che dava sul resto delle camere e sugli affanni di Stiles. «Non vedo ancora
attraverso le pareti».
Stiles uggiolò stizzito, come se la
cosa gli stesse molto stretta e gli provocasse dolore fisico. «Sei veramente
inutile».
Il mannaro lo ignorò volutamente, era
abituato ai melodrammi del suo consorte e nell’ultimo periodo stava dando il
meglio di sé sotto quella sfera. «Perché non vai a controllare tu stesso?».
«Non mi vuole intorno» Erick passava
gran parte della sua giornata, una volta che ritornava dalla scuola, dentro la
sua camera privata in solitaria. Trascorreva anche molto tempo con le sue sorelle
a deliziarle e ricoprirle d’amore, dedicava perfino una discreta quantità a
Derek, ma non si poteva riscontrare lo stesso per Stiles.
«E da quando questo ti ha fermato?»
l’osservazione del licantropo si espanse per le pareti, la voce soffusa e
controllata per non interrompere i sogni dorati delle due lupacchiotte.
«È diverso» fu l’unica risposta del
figlio dello sceriffo che racchiudeva ogni suo pensiero, l’impraticabilità che
gli appariva davanti simile ad una montagna insormontabile.
«Non ti ho mai visto così» Derek non
riusciva a comprende cosa ci fosse di differente da tutte le battaglie che
Stiles aveva intrapreso per tutto il suo arco vitale.
Stiles riportò lo sguardo su di lui a
quell’affermazione allarmante, un’osservazione che andava studiata. «Così
come?».
«Arreso, sconfitto» Derek ricordava
idilliacamente com’era la testardaggine combattiva di quella volpe
impossibilitata a fermarsi davanti perfino all’ostacolo più grande, di come
scaltramente fosse riuscita a sconfiggere il nemico più ineluttabile. Di come
avesse carpito l’essere che più la rifiutava, ma che la desiderava con eguale e
maggiore ardore. «Ferito».
Le pupille nere furono pizzicate e si
persero nell’oceano ambrato, guardò il lupo completo come se gli dovesse
qualcosa. «Sono stato ferito molte volte».
«È vero» a volte si chiedeva se su
quel pianeta esistesse una persona che l’avesse ferito più di quanto avesse
fatto lui, ma era piuttosto conoscitore della risoluzione di quel quesito.
Il capo di Stiles calò adombrandogli
il volto e Derek fu sicuro di star perdendo un pezzo.
Si alzò nell’assenza di suoni e si
diresse verso l’altra metà di se stesso, chinandoglisi davanti e cercando il
suo sguardo, le punta delle dita che gli sfioravano il viso e lo alzavano
leggermente, a mostrarsi apertamente a lui. «Ehy, perché non mi dici cosa ti
tormenta?» le iridi di miele brillavano nell’oscurità, tagliata dal fascio di
luce che penetrava dalla porta rimasta spalancata. «Non sei il tipo di persona
che si fa mettere i piedi in testa da un bambino».
«Ma è il nostro bambino» proferì
Stiles con la verità nel cuore, le fitte che sentiva intorno ad esso. Il
rifiuto netto da chi amava e desiderava gli aveva sempre provocato dolore
reale. «Se non riuscissi a…».
Il discorso cadde e Derek tentò di
trovare il completamento di quelle parole osservandolo, folgorato dalle
sensazioni infinite che il corpo di Stiles rilasciava. L’ansia in Stiles era
sempre esistita, era stato bersaglio di continui attacchi d’ansia e di panico
senza esclusioni di colpi ed aveva tentato il meglio di sé per gestirli e non
farmi sopprimere, ma in quei lunghi ultimi quattro mesi di trattazione sembrava
che non riuscisse proprio ad averne il controllo, che respirare gli risultasse
troppo ostico. «Senti che il tempo sta scorrendo, ma non sta terminando»
potevano passare mesi, anni persino, prima che in qualche modo avesse il
benestare di Erick, Stiles non poteva dichiararsi sbaragliato prima dell’arrivo
dell’effettiva fine.
«Non sei nella mia posizione, Derek.
Il tempo che vorrei trascorrere con loro ha una scadenza» era qualcosa da cui
si era ripromesso non farsi schiacciare quando aveva intrapreso quella strada
con la creatura della notte, tuttavia era tutto quello che riusciva ad
avvertire, stringersi imperterrito attorno a lui. «Sono passate appena tre
settimane, eppure sento che il termine per il mio congedo sia dietro l’angolo.
Non è sufficiente, vorrei richiedere altri permessi».
«No» Derek lo bocciò nell’immediato,
scartando qualsiasi replica. «Ne abbiamo già discusso, non metterai al secondo
posto il tuo lavoro».
«Ma è sempre stato al secondo posto»
Stiles lo fissò allucinato, incredulo che avesse potuto pensare il contrario.
«Sei tu, voi, il primo».
Derek gli circondò le guance con le
mani e lo baciò come unica risposta corale, fino a strappargli ogni capacità di
respirare. Poi fu solo un incontro perpetuo di fronti premute tra loro. «So
quanto questi bambini siano importanti per te, come lo sono per me; troveremo
il modo di far funzionare le cose, ma non puoi affrettarle o aspettarti che
basti uno schiocco di dita, serve tempo e pazienza per farle evolvere e tu
possiedi tutte queste qualità».
«E se non bastasse?» domandò di getto
l’unico essere umano della grande villa, conscio di ogni parola che il mannaro
aveva usato. «Se l’incompatibilità tra me ed Erick indispettisse gli assistenti
sociali quando verranno a controllare e decretare se siamo o meno capaci di
crescerli, di tenerli con noi?».
Improvvisamente tutto acquisì un
senso concreto nella mente razionale di Derek. «È questo che ti preoccupa?»
darsi dello stupido fu meritato.
Stiles annuì contro di lui nel suo
mutismo inconsueto, esposto e rivelatore.
Il lupo completo legò nuovamente le
loro bocche, con le labbra che si curvavano su quelle della volpe arruffata. «È
solo una formalità, Stiles. Nessuno ce li poterà via».
«Non puoi saperlo» Stiles ne aveva
viste di ogni nella sua vita e nel suo lavoro, le brutte cose accadevano
continuamente, per quanto si combattesse per impedire che si concretizzassero.
«Non posso usare la mia scaltrezza per aggirare il sistema, non posso
falsificare documenti o infiltrarmi in stanze chiuse di cui possiedo la chiave
come in passato, manipolare dati o impossessarmi di password. Non posso fare
niente, non ho nessun potere».
Lo Stiles adolescente era un vero
asso in quelle pratiche e in altre nella sua familiare Beacon Hills, in campi
che conosceva come il palmo delle sue mani; erano dei trucchetti che, con molta
moderazione e furbizia, usava anche tra le fauci dell’FBI, il detto non
ufficiale e nemmeno lecito bisogna infrangere le regole per farle rispettare
non era mai stato così concreto con Stiles, eppure conoscere ogni cavillo dava
quella capacità legittima. Era comunque qualcosa che non doveva ottenere troppa
risonanza. «Non ci sarà bisogno di ricorrere a queste cose, non c’è persona più
capace di te di crescere questi bambini».
Stiles annaspò alla certezza prodotta
da Derek e quest’ultimo lo baciò ancora una volta, le falangi che si annidavano
tra i capelli castani e lo attiravano a sé, liberandolo almeno parzialmente
dalle sue pene e che lo annichilivano nell’aspetto che meno aveva considerato,
per un lasso temporale che non era riuscito a notare. «Fidati di me, Stiles.
Hai tutto il tempo che desideri da trascorre con loro senza che intacchi troppo
la tua sfera lavorativa e non permetteremo a nessuno di portarceli via,
combatteremo sempre per loro».
Avevano sviluppato le loro abitudini quotidiane
dopo aver loro riempito gli stomaci con una lauta merenda, si spostavano
generalmente nel grande soggiorno, ognuno con la sua ala dedicata: Derek sul
tappeto a giocare ed interagire con una Laura del tutto concentrata a comporre
costruzioni di ogni varietà con diversi tipi di set di Lego ‒ che il lupo
ovviamente le aveva regalato tempestivamente due giorni dopo essere arrivata ‒,
Erick studiava sul tavolo da pranzo, immerso nella lettura e Corine
monopolizzava Stiles sul divano a penisola, che tentata di leggerle la fiaba di
Cappuccetto Rosso da una mezzoretta buona senza riuscirci, abbracciata alla sua
adorata volpe di finto pelo e parlando senza nemmeno riprendere fiato delle
cose più banali e senza davvero alcuna connessione tra loro, in un flusso di
coscienza interminabile, ma era così piena di entusiasmo che Stiles non aveva
il cuore di fermarla, ma la incitava soltanto di più.
«È tale e quale a te» soffiò Derek
dalla sua postazione privilegiata, il baffo sornione che gli sporcava la barba
curata.
«Adorabile?» ammiccò spudorato il
detective, la vera natura di autentica scaltrezza che si palesava in tutto il
suo splendore.
«Molesta» dichiarò imperiare e
spavaldo, prendendolo brutalmente in giro.
Stiles in tutta risposta gli lanciò
contro con mal grazia un cuscino colorato che adornava il sofà di un blu notte
molto acceso.
Il licantropo se la rise non
celandolo affatto, trattenendo per sé l’arma del delitto e tornando a dedicare
la sua totale attenzione alla bella biondina che gli sedeva dinnanzi, del tutto
impettita a svolgere il suo progetto con il miglior risultato.
Stiles ne era incantato, avrebbe
potuto trascorrere ore intere a vederlo relazionarsi con la piccola Laura, così
opposta alla grande Alpha che Derek gli aveva descritto nel tempo. Aveva occhi
speciali per lei, quell’interesse e premura che manifestava esclusivamente in
sua presenza, la dolcezza totale con cui si scioglieva davanti le sue esigenze,
i gesti d’affetto che sapeva avessero un grande significato per quel lupo
controllato ed addolorato, soprattutto per qualcuna che portava lo stesso nome
di una delle persone più importanti della sua vita andata in fumo. Era
adorazione pura. «Non dovresti avere delle preferenze» lo schernì con una nota
di sottofondo innamorata, aggrappandosi al bracciolo e sporgendosi meglio per
ammirare a tutto tondo lo spettacolo che gli si presentava dinnanzi.
«Non ho delle preferenze» Derek lo
giudicò apertamente con un sopracciglio elevato senza capirlo, in mano uno dei
mattoncini rossi che avrebbe passato a Laura un secondo dopo.
Il sorriso saputo e machiavellico di
Stiles prese vita, ma era macchiato dalla profonda tenerezza che Derek gli
scatenava quando era accerchiato dalle lupacchiotte e gli cedeva tutto se
stesso; era un aggettivo che mai qualcuno avrebbe accostato a lui, ma al
contrario ne era stracolmo, così dedito e delicato da far scoppiare il petto.
Aveva talmente tanto da dare da chiedersi come avesse fatto a trattenerlo così
a lungo, a celarlo sotto sguardi indiscreti e inclementi, con la mascella dura
e serrata. «L’amore rende ciechi, dopotutto. Anche un sourwolf come te».
Il mannaro gli dedicò un’occhiata
torva, roteando gli occhi senza esserne minimamente risentito, conoscendo a
menadito l’anima tendenziosa del coniuge.
Laura guardò circospetta il lupo
davanti a lei, un punto interrogativo sull’espressione morbida e poi il sorriso
carico di dolcezza che gli dedicò interamente. Ah, avrebbe potuto
annientarlo come niente.
Derek si limitò a passarle il nuovo
incastro colorato, senza suggerirle in alcuna maniera dove potesse inserirlo, e
lei lo prese con parsimonia, osservando la struttura che aveva una maggiore
stabilità e scopo, ma ancora indefinito, aggiungendo il nuovo tassello nel
punto che le ispirava più fiducia. Fatto quello, alzò di nuovo le sue
incantevoli iridi del mare, la domanda muta che gli poneva e il responso
positivo senza suono da parte del licantropo.
Potevano tenere intere conversazioni
con quel riserbo, dei minuscoli ingranaggi a cui avevano accesso soltanto i due
soggetti interessati, la timidezza che non scompariva completamente, ma che si
metteva da parte davanti alla creatura della notte adombrata che sapeva
comprenderla così bene, senza esporla più di quanto non si sentisse pronta, la
totale complicità che le avvolgeva.
Laura non parlava molto, quasi le
parole le fossero nemiche, era molto chiusa e avvolta in se stessa, ma con la
giusta chiave d’accesso accadevano miracoli. «Stiles» disse con un unico tono,
quasi contenesse la domanda che avrebbe voluto porgli, scostandosi appena e
mostrandogli l’interezza dell’opera di ingegneria.
«Molto bella» l’umano aveva notato
quanto la lupacchiotta amasse costruire edifici di ogni sorta, spesso dalla
dinamica impeccabile, seguendo ogni legge fisica esistente, e altri lasciati
più all’immaginazione. All’ispirazione cubistica, forse? «Una perfetta
architetta. O geometra. Quello che più ti piace».
«Davvero?» la futura lupetta si
illuminò di un sole nascente, facendo risplendere l’intero soggiorno, il moto
d’orgoglio e speranza che le cresceva dentro, alla portata di tutti.
«Certo, non ci sono limiti alle tue
possibilità» Stiles ne era un esempio perfetto ed era sicuro che lui e Derek
avrebbero intrapreso battaglie con gli artigli sguainati per permetterle di
realizzare qualsiasi desiderio volesse esprimere.
Corine gattonò sulle gambe dell’umano
per ammirare in prima persona l’oggetto che la sorella maggiore gli aveva
mostrato, venendo presa in braccio per assicurarla maggiormente a sé ed evitare
che capitolasse dal divano, mentre Laura riceveva un ulteriore assenso da parte
del mannaro, invogliata a rimettersi al lavoro.
«E tu? Sei esente dalle preferenze?»
chiese Derek senza una vocalità particolare, ma la lunga occhiata che lanciò
alla bambina a cui accarezzava i capelli dell’oro parlava per lui.
Stiles ridacchiò con numerose
sfumature, la volpe di peluche in mano che usava contro di lei per scatenarle
ilarità infantile. «Il mio cuore è aperto a tutti» peccato che quei tutti non
fossero interessati.
«Spero non davvero a tutti» lo
ripigliò il mutaforma, le sopracciglia aggrottate e il dissenso ben udibile
dalle labbra strette.
Stiles ammiccò spudorato, la natura
di volpe furba che prendeva il sopravvento. «Tutti questi anni e sei ancora
geloso?».
Derek non l’avrebbe affatto messa
sotto quella prospettiva. «Bisogna sempre guardarsi le spalle quando sei in
giro, non si sa mai cosa stai architettando».
Lo scoppio di risa dovizia di Stiles
investì interamente gli abitanti del salotto, lasciandoli impreparati. «Il mio
cuore ti appartiene da quando ti ho conosciuto».
«E a me, Stils? A me vuoi
bene?» Derek non ebbe mai modo di ribattere o di provare a farlo, Corine si
gettò completamente sull’umano che la teneva con sicurezza dai fianchi,
agitando le braccine e spalancandole, ad indicare tutta se stessa.
«Certo che sì, cucciola» la rassicurò
Stiles con morbidezza, la piega limpida che gli colorava il volto, sistemandola
meglio nel suo abbraccio. «Ho tanto amore da dare anche a te».
La risata piena di vita della piccola
riecheggiò per tutte le mura e avvolse il collo di Stiles con le braccine che
faticavano a chiudere la presa, corrisposta nell’immediato.
«Che assurdità» la voce oltraggiata
di Erick si fece sentire, la sedia su cui studiava che si schiantava sul
pavimento per i suoi movimenti avventati e di collera, il rumore spaventoso che
si espanse nell’atmosfera. «Sei patetica, Corine. Lo siete tutti. Sei così
attaccata a quello perché non ricordi niente dei nostri genitori» la
parola quello fu intrisa di disgusto e ripugnanza, la meschinità che gli
trasudava da ogni poro. «Non hai alcuna idea di come fossero fatti».
Il gelò cadde su tutti i presenti, lasciandoli
inebetiti e immobili, bloccando completamente tutte le loro attività, mentre
gli occhini blu di Corine si riempivano di liquido trasparente, il labbro
inferiore che tremava cercando di trattenere le lacrime. «Non è vero».
«Invece sì» la furia dilagò, come il
risentimento, le iridi che si scurivano e il suo disappunto che cresceva. «Non
li ricorderai mai e nel frattempo ti accontenti di quello».
Le stille d’acqua infine presero il
sopravvento e le irrigarono il viso diafano, scuotendo convulsivamente il capo
e i filamenti dorati che lo ricoprivano. «Stils è buono e bravo».
«Adesso basta» prima che Erick
potesse ribattere e continuare ad attaccarla con cattiveria gratuita, la voce
di Stiles si impose tra loro, costringendolo ad alzarsi dalla sua seduta
comoda, cominciando a dondolare la bambina per calmarla e rassicurarla,
stampandole un bacio tra i capelli. «Tesoro, calmati, non è successo niente di
male».
«Tu non c’entri niente con noi» colpì
duro il maggiore della cucciolata, infierendo con i pugni contratti, per nulla
indispettito da quanto stesse facendo soffrire la sorellina. «Sei uno stupido e
inutile umano».
I ricordi echeggiarono in un lampo
nel figlio dello sceriffo, la sua impotenza che gli veniva sbattuta in faccia
come in passato, lo sbeffeggiarsi di chi gli stava intorno.
«Erick» il boato della vocalità
severa ed austera di Derek li sovrastò, mettendolo immediatamente al suo posto,
Laura che si alzava insieme a lui irrequieta e sgomenta, un pezzo di un
mattoncino verde che stringeva nella mano.
Erick si irrigidì, le spalle travi di
ferro, un tic nervoso all’angolo della bocca, le palpebre che si serravano come
per raccogliere le forze e non esplodere tutto in una volta sola, lo scenario
di trovarsi svantaggiato. «Credevo fossi un grande Alpha, uno del famosissimo
branco Hale, le leggende con cui sono stato cresciuto, invece non sei niente. E
come se non bastasse, hai scelto un pietoso compagno umano. Sarebbe stato
meglio se ci lasciavate all’orfanatrofio».
L’incredulità fuoriuscì dalla bocca
di Laura in un acuto inaspettato, il pianto di Corine aumentò con una litania
di non è vero e Stiles improvvisamente perdeva consistenza, eppure non
smetteva di prestare le sue attenzioni alla pargoletta disperata che teneva tra
le braccia.
«Ragazzino, stai abusando della mia
pazienza» Derek era del tutto immune alle sue parole di veleno, ma il ringhio
fu emesso, le iridi del verde più rigoglioso si accesero in un blu metallico e
la sua autorità prese il dominio – in quel momento inopportuno, totalmente
fuori luogo, la mente di Stiles fu attraversata dalla consapevolezza imprevista
di non essere più il ragazzino di Derek.
Erick fu colpito nel profondo,
completamente in fallo, la consapevolezza del danno che aveva commesso e
l’irrefrenabile voglia di scappare lo portarono a fiondarsi per le scale, ad
una velocità inaudita, accompagnata dalla porta che sbatté in un tonfo rumoroso
e oltraggiato, le scosse sinistre che si espansero fino alle fondamenta, come
se fossero state scatenate da una forza sovrumana.
Li abbandonò lì, nella totale
desolazione dei suoi misfatti.
«Non devi badare alle sue parole»
dichiarò Derek quando la notte calò e le stelle si palesarono, mostrando una
luna sempre più vicina alla fase di plenilunio, ferma nella gibbosa crescente.
Stiles lo ignorò, indossando la
maglia del pigiama e scostando le coperte in cui era propenso a tuffarsi per
dimenticare la giornata, pronto a raccogliere le energie per il giorno
seguente.
Quando Erick levò le tende, l’umano
sentì il bisogno di allontanarsi ed abbandonare il soggiorno, portandosi dietro
Corine che piangeva ancora e indirizzandosi verso l’unico bagno degli ospiti
situato a pian terreno, cercando invano di placarla e lavandole il musetto
tutto sporcato dalle lacrime salate, impasticciato dai fili d’oro appiccicati,
mentre ispirava pesantemente dal nasino. Laura li raggiunse subito, dopo aver
rialzato la sedia sbattuta a terra, aggrappandosi alle sue gambe lunghe e
sussurrando una serie di mi dispiace strozzati senza fine.
Derek non si unì, sentiva di dover
rispettare la solitudine in cui voleva rinchiudersi per un po’, anche il lupo
ne aveva bisogno; si ritirò in cucina a massaggiarsi le tempie, davanti ai
fornelli per decidere cosa fare.
La cena fu consumata in silenzio,
anche se Corine in seguito riuscì a riportare la risata piena di Stiles,
scurito dalla figura mancante di Erick che non si presentò né lo andarono a
chiamare. Stiles gli lasciò comunque un piatto abbondante di cibarie davanti la
porta chiusa, coperto dalla carta stagnola.
«Non l’avevo preso inconsiderazione»
proferì Stiles con un vuoto nel petto, le movenze che si fermavano sopra al
materasso e la domanda interrogativa non espressa che il marito gli rivolse.
«Che possa vederci come impostori, qualcuno che voglia cancellare l’esistenza
dei loro genitori, prendere il loro posto».
«L’adozione funziona così,
sostituiamo le figure genitoriali» il meccanismo era semplice, la complicità
meno.
«Le sostituiamo, non le cancelliamo,
compensiamo l’assenza» la differenza era talmente sottile che poteva sfuggire,
ma era anche abissale e l’umano riusciva a vederla chiaramente. «Non quando
hanno dei bei ricordi alle spalle. Non sono bambini che sono stati abbandonati
o maltrattati, gli è stato strappato volutamente qualcuno che amavano con tutto
il cuore» lo sconforto lo colse improvvisamente, era un aspetto della vita che
conosceva molto bene e Derek ancor meglio di lui. «Se non fosse accaduto
niente, se non fossero stati braccati dai cacciatori, sarebbero ancora tutti
insieme, sarebbero felici e tra le persone che le amavano incondizionatamente.
Corine avrebbe avuto la possibilità di crescere con loro, raccogliere i
ricordi, invece saranno per sempre persone senza volti».
«No, non cadere nell’inganno dei se
e dei ma» il Derek quindicenne c’era cascato spesso quando aveva perso
ogni cosa, quando la colpa della tragedia, da qualsiasi lato la si volesse
vedere, era esclusivamente sua e dell’ingenuità che l’aveva caratterizzato,
nell’aver riposto fiducia e amore nella persona sbagliata. Per ben due volte
nello stesso anno aveva commesso lo stesso errore, dare per scontato la sua
invulnerabilità e l’impossibilità di essere toccato dal male. La sua spavalderia
e saccenteria erano stati ripagati con il conto più salato che qualcuno avrebbe
mai potuto saldare. «Non si può tornare indietro, non si possono aggiustare i
passi falsi o cambiare una variabile. Non puoi nemmeno supporre che le cose
sarebbero potute andare comunque allo stesso modo, ma con finalità diverse».
Stiles si ammutolì, le labbra
assottigliate e la schiena che si abbandonava contro la testata del letto,
socchiudendo esausto le palpebre. «Vorrei che Erick si rassicurasse».
«Nessuno di noi vuole che vengano
dimenticati, nessuno dovrebbe mai dimenticare da dove proviene» l’impronta
personale che quella dichiarazione rilasciava era inequivocabile.
Le iridi d’ambra tornarono a
riflettersi nella camera padronale, la testa che si voltava verso il lupo che
l’aveva seguito sotto le coperte. «Tu non hai dimenticato» era uno dei tanti
motivi per la sofferenza che l’aveva accompagnato per anni e di cui portava
ancora strascichi importanti.
«Ci ho provato» forse il senso di
colpa lo avrebbe attanagliato con meno forza, ma ogni volta veniva sostituito
da quello di non meritarsi affatto di essere cancellati dalle proprie memorie.
Le dita di Stiles gli sfiorarono il
volto, il corpo che invadeva il suo spazio sul materasso, i polpastrelli che
gli accarezzavano uno zigomo. «Sei un uomo meraviglioso, Derek. Sono sicuro che
la tua famiglia sia molto fiera di te. Io lo sono».
Derek l’accolse, le due teste che
riposavano sullo stesso cuscino, la mano del lupo con indosso la fede che
tratteneva quella dell’umano, assaporandone il contatto e la temperatura
corporea, baciandone con devozione il monte di Venere. «Tu sei la mia
famiglia».
Aveva voglia di piangere, in passato Derek
non gli avrebbe mai fatto una confessione simile, estraniandolo, ma arrivati a
quell’incredibile fase della loro vita, per il mannaro non esistevano divari
tra la famiglia che l’aveva messo al mondo e cresciuto e quella che aveva
creato con le sue stesse mani. «Vale decisamente anche per me».
La creatura della notte lasciò un
bacio al centro del palmo e fece intrecciare le falangi, tenendo
l’incatenamento tra loro, nel minuscolo divario che si poneva. «Nemmeno tu hai
dimenticato».
«Sai com’è, sono masochista» le
labbra si curvarono lievemente all’insù, più rassegnate che altro. Dimenticare
sua madre gli era impossibile, insieme a tutte le perdite che le erano
susseguite. «A volte vorrei che la mia mente sia sgombra, meno confusione a
tartassarla».
«Eppure è una delle cose che più ti
caratterizza» che fosse un bene o un male era un discorso molto più ampio che
non aveva nemmeno alcun senso intraprendere. «Esattamente come la tua umanità».
Stiles rise con un filo di allegria,
le narici che si allargavano a dimostrare il dissenso. «Quale Derek parla?
Quello che la odiava, trovandola d’intralcio o mio marito?».
«Non l’ho mai odiata né considerata
un difetto» lo Stiles sedicenne che si imbarcava in ogni disavventura più
grande di lui l’aveva tormentato per anni, seguito da uno che cresceva di pari
passo e che si immergeva in guai maggiormente più insormontabili, aveva creduto
di perderlo in così innumerevoli occasioni, da venirne continuamente
sopraffatto. «La amo, amo le infinite possibilità che può darti, la libertà di
essere chiunque tu voglia, senza veti, costrizioni, astri nel cielo che hanno
la meglio su di te, istinti animali che dettano le regole, insieme all’oscurità
che ne consegue, la consolazione di poterne essere estraneo e non venir
trascinato dalle macchinazioni a cui siamo legati, ma tu hai comunque scelto
noi, il nostro mondo».
Stiles sentiva un grosso ingroppo
alla trachea, respirare gli costava una grande fatica, quel maledettissimo lupo
era sempre stato troppo bravo a ridurlo a quel modo. «Credi davvero che avrei
mai potuto abbandonare i miei amici e l’uomo che amo?» una volta ci aveva
provato e non si era mai sentito più sporco di allora.
«No» Derek era categorico,
inflessibile, anche se spesso ci aveva sperato, pregato che avvenisse, Stiles gli
aveva costantemente dimostrato il contrario, quanto si mettesse in gioco e
trionfasse su quello che avrebbe potuto annientarlo. Stiles non era scappato, a
differenza di Derek che in diverse occasioni aveva tentato, nell’illusione che
fosse la volta buona. «Ed è proprio una delle cose che adoro di te, non la
baratterei con niente al mondo».
Stiles trattenne a malapena e con
mezzo fallimento il singhiozzo che gli grattava la gola per la commozione,
tutti i sacrifici che aveva fatto, le cose che aveva perso, ogni singolo dolore
erano valsi ad avere quello per cui aveva faticosamente combattuto, mentre il
mutaforma se lo tirava contro e incastrava il viso nel suo, respirando appieno
il suo odore irrefrenabile ed instancabile, bevendosi la sua essenza.
Dopo alcuni minuti di recupero e
vicinanza reciproca due colpi impacciati alla porta li riportò alla realtà.
«Abbiamo ospiti?» chiese enigmatico
il detective, riprendendosi e scostando le coltri da cui Derek si liberò per
andare ad aprire.
Sull’uscio vi erano due esseri
angelici biondi, con i loro pigiamini colorati e disegni carini di ogni sorta,
timorosi e irrequieti, le manine che si tenevano l’un l’altra e da cui faceva
capolinea una piccola volpe di stoffa. «Qualcosa non va?».
Laura posò le iridi di zaffiro su
quelle di giada che avevano posto la domanda, il passo incerto ed intimidito,
mentre quello della sua piccola compagna fremeva e scalpitava, poi lo sguardo
di entrambe le sorelle si posò su uno Stiles preoccupato, che sembrava pronto a
raggiungerle e risolvere il problema.
L’impazienza ebbe la meglio e le due
bambine accorsero sul grande letto a due piazze, saltandoci sopra e
raggiungendo l’umano, buttandosi di peso su di lui. «Ti vogliamo bene, Stiles»
le voci si mescolarono in quel coro perfetto, nemmeno fosse stato provato,
coprendo perfino il difetto di pronuncia di Corine.
Stiles ne fu talmente travolto che
non capì assolutamente nulla, quasi fosse stato trasportato in un’altra
dimensione e si ritrovò ad acchiapparle tutte intorno a sé, stringendole
strette strette, immergendo il capo tra loro. «Ve ne voglio anch’io,
lupacchiotte».
Derek socchiuse la porta e ritornò al
suo posto, leggermente invaso ma con ancora la forma perfetta che gli
permetteva di accomodarsi senza disturbare le adorabili intruse che scalze
avevano preso il predominio.
Stiles lo guardò confuso, con il
cuore gonfio e sopraffatto, ma con un interrogativo ben presente, allarmato di
vedere ancora le bambine sveglie a quell’ora tarda della notte.
Prima che potessero indagare su qualsiasi
altra cosa le avesse animate a non cadere tra le braccia di Morfeo e riposare,
Laura si lanciò sul lupo mannaro, immergendo il naso nel suo petto. «Vogliamo
bene anche a te, Derek».
«Sì, Der Der» confutò la piccola
della cucciolata, gli occhi lucidi e il visino che faceva capolinea dalla presa
del figlio dello sceriffo.
Derek in un primo momento restò
completamente paralizzato, del tutto incapace di reagire, ritrovandosi in un
secondo momento con gli arti superiori che si muovevano da sé a ricambiare l’abbraccio
della bambina. «Anch’io» fu tutto quello che riuscì a mormorare, l’emozione
incredula che non era in grado di quantificare.
«Erick vi ha detto delle cose
orribili, ma non le pensiamo» la voce arrocchita di Laura prese il sopravvento,
mortificata, addolorata ed enormemente dispiaciuta. «Nemmeno lui le pensa».
Corine si agitò tra le mani di
Stiles, i capelli ondulati che andavano in ogni parte. «Vero».
«Ehy, non vi dovete preoccupare, non
siamo offesi» quantomeno non lo erano più, di cose crudeli ne avevano sentite e
ne avrebbero sentito ancora, se Stiles cominciava a farsi turbare dalle parole
piene di dolore di un bambino di nove anni, che non riusciva a somatizzare,
aveva delle priorità da rivedere.
Laura si girò verso di lui con gli
occhi giganti, increduli e stupefatti, il tumulto irrefrenabile. «Davvero?».
«Davvero» la sua attenzione venne
richiamata dalla creatura della notte su cui si era appollaiata, che le
scostava i lunghi capelli color del sole che le ricadevano sul viso,
sistemandone le ciocche dietro le orecchie. «Troveremo il modo di sistemare le
cose con lui».
L’espressione grata di Laura non
passò inosservata, come l’attaccamento a Derek che divenne più nefasto ed
evidente, impossibilitato a poterla separare da sé. Corine la imitò con
trasporto e si addormentarono lì dopo pochi minuti per lo sfinimento ben
evidente, a monopolizzare il letto matrimoniale.
Fu la prima notte che se ne
impadronirono ed in cui misero radici nei cuori della volpe scaltra e del lupo
cattivo.
Ebbene,
direi che sono capitate un po’ di cose. Questi tre pargoletti si sono insinuati
completamente nella vita di Stiles e Derek e finalmente li vediamo interagire
tra loro, con entusiasmo e tante paranoie. Le fanciulle sono del tutto
conquistate, ma con Erick è tutta un’altra storia, per quanto appaia ben
disposto con Derek, è completamente ostile a Stiles ed è qualcosa che tiene
tutta la situazione precaria.
Chissà
cos’altro avranno per noi e per loro stessi.
Le labbra di Derek lo vezzeggiavano
con lentezza e scrupolosità, la barba curata e morbida che sfregava sul suo volto
perpetuamente rasato, i baci che gli scoccava con gentilezza, ma con la piena
voglia che aveva di lui, la luce del sole già sorto che illuminava pigramente
la stanza filtrando dalle veneziane che chiudevano costantemente malamente,
preferendo di essere inondati dal mattino, i corpi totalmente nudi avvolti
dalle lenzuola in cui la sera prima si erano arrotolati appassionatamente,
pelle contro pelle, bocca sulla bocca, arti da ogni parte e fluidi che
continuavano a miscelarsi tra loro, respiri rarefatti, ansimi affannati e pieni
di parole d’amore sussurrate, la stretta che li teneva uniti indissolubilmente
uno sull’altro, nell’altro, il legame che continuavano a creare e rafforzare
giorno dopo giorno, nell’eternità. «Der» chiamò idilliaco, le labbra che si
incurvavano sotto quelle che continuavano a baciarlo.
Il lupo lo ignorò e continuò a
depositare piccoli baci su tutto il viso, su una guancia, sotto un occhio, sul
neo vicino all’angolo della bocca, su una tempia e al centro della fronte, sul
ponte del naso e sulla punta, su uno zigomo e su una palpebra che si chiuse al
suo contatto, la scia che continuava su tutti gli altri puntini marroni sparsi
sull’epidermide chiara; ne era completamente incantato. «Sei in vena di
coccole, Sourwolf?» Stiles rise più per l’assurdità espressa che per la realtà
che si palesava, Derek si lasciava andare spesso a quelle effusioni, a
qualsiasi tipo di effusione in realtà, ed era una particolarità che agli inizi
della loro relazione l’aveva quasi fatto ammattire, qualcosa di insospettabile
per l’essere borioso e acido che era quel lupone
musone; se n’era innamorato subito e gli riusciva difficilissimo smettere di
sorprendersene, di godersi appieno tutte le attenzioni con cui il mutaforma lo
ricopriva giornalmente. «Che ore sono?».
«Manca ancora mezzora alla sveglia»
bisbigliò il mannaro sulla bocca, il nuovo schiocco che gli depositò senza
esitazione, la punta del naso che gli accarezzava il setto nasale, mentre le
iridi verdi si riflettevano su quelle d’ambrosia. «Vuoi continuare a dormire?».
«No, sono sveglio» la cura con cui la
voce di Derek gli bruciò l’apparato auricolare gli annebbiò il cervello, la
lieve nota di pentimento per aver spezzato il suo sonno restauratore. «E poi,
Derek, preferisco passare questo tempo con te. Tutto il mio tempo».
Derek ispirò a pieni polmoni il suo
odore frizzantino e spumeggiante, le labbra bollenti poggiate in un minuscolo
angolo del viso e la sensazione di rasserenamento che lo coglieva in ogni
muscolo. Respirò su di lui prima di catturargli il capo tra le mani, le dita
che scivolavano sui capelli castani, mentre la bocca si impossessava di quella
dell’umano, profondamente e intimamente, con la stessa intensità con cui veniva
ricambiato privo di reticenza; non c’era nient’altro che loro. Si separò con
riluttanza, i cuscinetti rosa che si sfioravano ancora, il calore che li
lambiva, l’impercettibile schiocco che Stiles rilasciò e che il lupo sentì
riverberarsi ovunque; riuscì ad appoggiarsi alla sua essenza, la fronte che
combaciava con la sua e la temperatura corporea che li investiva in tutte le
cellule che li componevano, rendendoli reali. Quello era reale, la pace dei
sensi che solo il figlio dello sceriffo riusciva a donargli. «Devo mostrarti
una cosa» disse finalmente, il segreto che si era tenuto per tutta la notte
senza alcuna ragione, quasi gli fosse sfuggito di mente o l’occasione. Ma non
voleva rimandare ancora, riparlarne quando Stiles sarebbe rincasato soltanto a
tarda sera, con gli orari massacranti da recluta che teneva a lavoro, al
distretto di polizia, a svolgere tutte le sue mansioni tra scartoffie ed
arresti, a perlustrare ogni strada sospetta o a correre a rispondere a tutte le
chiamate d’emergenza; dopo il suo turno giornaliero si sarebbe precipitato, con
ancora il boccone in bocca – sempre se riusciva ad agguantarlo –, a frequentare
le lezioni serali per poter ottenere la specialistica tanto ambita. Non aveva
perso tempo, Stiles non ne perdeva mai, dopo la laurea e l’aver concluso
l’addestramento all’accademia dell’FBI a Quantico, si era buttato con tutto se
stesso a cercare un posto tra le forze dell’ordine, soltanto dopo che trascorse
meno di un anno dalla posizione ottenuta, si era immerso in nuovi piani di
studio, a far conciliare gli orari ed i turni, a trovare ogni stratagemma
possibile per seguirli e il denaro per finanziarsi – vietando espressamente
Derek di pagare le sue rette –; in tutto quel calvario, doveva anche trovare i
momenti opportuni per imparare quello che aveva appreso, studiando pagine e
pagine di tomi infiniti. Derek si estenuava solo a guardarlo, ma Stiles invece
era ancora in piedi e pronto a combattere.
Le pupille scure dell’umano si
dilatarono un attimo per tornare alla forma precedente, la testa che si alzava
leggermente richiamato dall’urgenza della voce di Derek, seguito da buona parte
del torso. «Sono tutto tuo».
Il lupo pressò ancora per qualche
istante la fronte sulla sua, godendosi appieno il loro affiatamento, rimandando
l’inevitabile e rubandogli un nuovo bacio.
Si allontanò per avvicinarsi al
comodino, allungando un braccio e prendendo una manciata di fogli ripiegati in
quattro su se stessi e posizionati sotto il cellulare
tenuto costantemente acceso. Si accomodò con una spalla poggiata alla testata
del letto, il corpo svestito interamente diretto verso il figlio dello sceriffo
e le dita che tenevano strette quelle pagine stampate, il respiro sospeso.
Stiles non capiva la sua ritrosia, ma
percepiva quanto fosse importante quell’evento per Derek, quindi rispettò i
suoi tempi, le falangi che gli porgevano la cellulosa lavorata esitando un solo
attimo. L’umano la strinse tra le proprie, guardando attentamente nelle iridi
di Derek e attendendo una sua ulteriore conferma che arrivò nell’immediato.
Dispiegò i fogli ripiegati con la stessa cura con cui gli erano stati concessi
e la prima parola che lesse, scritta con un carattere abbastanza grande e in
grassetto, fu Columbia, anticipato da università
della dalla grandezza del testo inferiore e una sfilza di dati anagrafici
che corrispondevano a quelli della creatura leggendaria, insieme al suo nome ed
alla firma accurata e chiara che vi era stata depositata. Esitò incredulo, gli
occhi che non riuscivano a staccarsi dalle scritte e allo stesso tempo che
correvano verso il suo uomo in cerca di conferma che rimaneva in silenzio a
scrutarlo, mentre le mani di Stiles si muovevano per correre al secondo foglio,
dove vi erano le materie convalidate dei primi due anni che il licantropo aveva
frequentato, date nel corretto anno di appartenenza, seguite dalle materie che
dovevano ancora essere sostenute, un sigillo che autentificava la domanda e
un’ulteriore firma del lupo. «È quello che penso io?» domandò retoricamente con
sconcerto e la bocca schiusa, le pupille che saettavano imperterrite sulle
pagine stampate che gli erano state presentate, l’inequivocabile domanda di
iscrizione per riprendere a frequentare i due anni persi e mantenere quelli
passati. La rinnovata conferma silenziosa di Derek, ma vistosa, con il capo che
annuiva, rese l’evento ancora più enorme di quanto non apparisse a priori.
«Pensavo non avessi più la mentalità da studente».
Il tono lievemente scherzoso e
bonario di Stiles gli arrivò dritto e chiaro, le labbra ricurve pizzicate dalla
sua impudenza e non si aspettava nulla di diverso da quella volpe stratega.
«Infatti è così».
La curva sull’umano si accentuò e
l’attenzione ritornò alla cellulosa, l’inchiostro nero e l’elenco delle materie
da affrontare, con l’aggiunta di corsi extra ed avanzati che un giovane Derek
universitario aveva segnato quando aspirava ancora in qualcosa, mitologia e leggende; sogghignò alla vista. «Vuoi tenerle?»gli
chiese con vocalità esaltata e un calore disarmante che lo accerchiò in ogni
parte.
«Sì» confermò il lupo senza alcuna
riluttanza, la fermezza nel suo sguardo di giada.
«Come mai hai cambiato idea?» Stiles
non poteva dimenticare come cinque anni prima avesse del tutto scartato l’idea
con intenzionalità, bocciando categoricamente la proposta che gli aveva posto
mentre erano intenti a sistemare gli oggetti personali di Laura da inviare a
Cora dall’altra parte del continente. Era sorprendente come molte cose fossero,
infine, rimaste con loro: la collezione stratosferica di vienili e numerosi dei
suoi libri; la camera non era mai stata smontata, i mobili venivano spolverati
continuamente, come ogni angolo affiliato ripulito, e con il trascorrere del
tempo e la permanenza di Stiles tra quelle mura, molti dei suoi averi erano
stati collocati lì dall’autorità e il lasciapassare del lupo completo, insieme
al letto sempre a disposizione di suo padre nelle rare volte in cui li
raggiungeva e rimaneva a soggiornare da loro.
Derek si lasciò andare ad una risata
sentita che Stiles proprio non si aspettava e subito dopo il mannaro lo baciò
senza esitazione, le dita inoltrate tra le ciocche a tenerlo dalla nuca. «A
causa tua» i grandi occhi di Stiles si ingrandirono maggiormente, non
comprendendo affatto cosa volesse dirgli e se ci fosse un’accusa da qualche
parte che non si spiegava minimamente. Derek lo baciò ancora una volta. «Ti
osservo in continuazione, ogni giorno; non stai mai fermo, prosegui nei tuoi
progetti senza guardarti indietro e sei sempre pronto a gettarti in qualcosa di
nuovo, incurante delle difficoltà» che non voleva dire che fosse una cosa
buona, ma con Stiles sembrava non esisterne di cattive. «Da quando ti conosco
mi invogli a riprendere da dove avevo rinunciato, non lasciare niente in
sospeso» la testa si congiunse per un’ulteriore volta a quella dell’umano che
tremava sotto il suo tocco, le pupille leggermente dilatate ed incredule e il
bisogno inarrestabile di non distogliere l’attenzione da lui. «E mi porti anche
a desiderare novità, un futuro che non avevo minimamente considerato».
Stiles non sapeva bene che cosa
dovesse avvertire, cosa quella confessione gli scatenasse, ma era decisamente
qualcosa di immenso e incalcolabile. «È una prova per te?».
«È qualcosa che amavo, voglio
portarla a termine» affermò con certezza la creatura della notte, un pollice
che accarezzava con trasporto una tempia del figlio dello sceriffo.
Stiles gli sorrise di tutto cuore, il
motto d’orgoglio che dilagò e che investì in pieno il suo prezioso
interlocutore. «Sono con te, Derek» proferì candidamente e deciso, gli occhi
del nettare degli dei luminosi e nefasti, così belli da togliergli il fiato.
«Posso darti una mano, in qualsiasi momento» disse con disponibilità,
promettendosi alle sue dipendenze. «Non esitare a chiedere».
Derek non aveva più alcuna intenzione
di esitare.
Il mattino arrivò in un soffio, le
perle dell’oceano di Laura che si aprirono al mondo, i raggi dell’astro
d’Apollo che filtravano dalla finestra e la sensazione di essere tenuta al
caldo e al sicuro; era qualcosa che non avvertiva da tanto tempo da essersene
quasi dimenticata.
«Buongiorno, fanciulla» l’accolse una
voce profonda e premurosa, la morbidezza della lingua che sbatteva contro il
palato, le iridi della foresta che si posavano su di lei con vero interesse.
«’giorno» farfugliò con la voce
arrocchita, la visione ancora appannata e un pugnetto che strofinava un occhio,
un piccolo sbadiglio che le sfuggì e le braccia di Derek che la tenevano ancora
stretta a sé, sotto le coperte a proteggerla. La visione periferica che le
faceva intuire che ci fosse qualcun altro nel grande lettone che li ospitava.
«Sei più tranquilla?» domandò il
licantropo con moderazione, le dita che scacciavano con grazia le ciocche
dorate che rimanevano impigliate davanti al visetto diafano.
Laura lo guardò interdetta e
leggermente confusa, colta alla sprovvista, le pupille che si spostavano per
posarsi sulla figura dell’altro uomo che dormiva beato, a tenere tra le braccia
la sorellina che si era avvinghiata a lui insieme alla volpe di peluche,
nascondendo il viso contro il suo petto. I due adulti erano accuratamente
sistemati in modo da non gravare sulle bambine, a salvaguardarle dalle
intemperie. «Sì» casa era quello che la mente le suggerì,
un’appartenenza che non pensava di poter mai più esprimere, l’abbraccio
familiare che la conduceva al posto a cui era destinata. La spaventò anche.
Derek se l’avvicinò e le depositò un
bacio al centro della fronte, dolce e pieno d’affetto, così tanto che la
lupetta l’avvertì interamente, bruciata da sentimenti che le erano stati
brutalmente strappati, ma le erano stati gentilmente riconcessi nel momento in
cui Stiles e Derek erano venuti per riportarli alla luce. «Va bene, allora».
Laura sorrise lauta, tutto il calore che
la scaldava, la teneva intera, l’incredibile comprensione che riceveva
giornalmente da iridi che sembravano conoscere un dolore simile o uguale al
suo. Anche Stiles ne aveva uno, diverso, ma ugualmente forte, tuttavia entrambi
sembravano aver trovato il modo di gestirlo. Si chiese se anche lei ci sarebbe
mai riuscita. Se Erick ci avrebbe mai provato.
Aumentò la stretta sul lupo che
ricambiò, la testolina che si abbandonava contro il punto in cui batteva con
potenza e sicurezza il suo cuore, facendola sentire parte di qualcosa di
immenso, tutelato.
Un movimento accanto a lei scosse le
lenzuola, ma non fu pronunciato nulla, nessun risveglio avvenne e la sua
attenzione cadde sulla foto che il mannaro teneva sul comodino, la cornice
argentava che rifletteva al sole come l’anello d’oro all’anulare che Derek
indossava sempre, senza mai accennare a toglierselo. Era così simile alla
creatura della notte su cui soggiornava, da farle nascere un’idea nella mente.
«E lei, chi è?».
La richiesta colse in contropiede il mutaforma, avendo quasi la necessità di voltarsi ad
adocchiare la fotografia che Stiles aveva conservato con cura, pronto a
riconsegnargliela nel momento di un suo bisogno. Si era arreso da tempo
all’evidenza di quanto l’umano avesse ripetutamente ragione su fin troppi
aspetti «Mia sorella».
La sorpresa si dipinse su ogni tratto
della bambina, gli occhi sgranati e pizzicati di stupore. «Hai una sorella?».
«Due, in realtà» a volte si chiedeva
come dovesse sentirsi in proposito: arrabbiato marcio con l’universo per
avergliele sottratte in tempi e modi diversi o grato per essere riuscito a
viverle entrambe in qualche modo, ricevendo come dono il ritorno della sorella
minore creduta scomparsa?
«Oh, due» lo sguardo della lupetta si
spostò da se stessa a sua sorella minore raggomitolata
serena contro Stiles, nessun incubo a disturbarla, probabilmente com’era
accaduto anche a lei; erano costantemente bersagliate da brutti sogni da quando
erano state prese sotto l’ala dell’orfanatrofio, come per Erick,
di sonni piacevoli non ne avevano vissuti. «Come noi».
«Esattamente come voi» il fato si era
mosso nel modo più bizzarro che potesse accadere.
Laura riportò lo sguardo su Derek, un
fremito che le pizzicava le labbra e la connessione che sentiva crescere ancora
una volta. «E come si chiamano?».
«La minore Cora» vide le iridi
azzurre pizzicare, ma per Derek era un argomento troppo tetro da affrontare,
sperava che sarebbe avvenuto nel più tardi possibile. «Lei, invece, Laura».
L’ingenuità nella sua interlocutrice
si accese, come lo sgomento, un misto che le fece brillare gli occhi. «Ha il
mio nome».
Le labbra di Derek si curvarono con
dolore verso l’alto, represso dentro di sé a celarlo alla piccola testimone che
sostava sulle sue gambe su cui si era spostata, la schiena retta e la postura
perfetta. «Proprio così» accettare l’omonimia che l’aveva schiaffeggiato
spietatamente non era stato per nulla semplice, soprattutto davanti
all’avventatezza di Stiles che l’aveva costretto con le spalle al muro a
fronteggiare la realtà, come se fosse stato un’avvisaglia che lo metteva sul
sentiero giusto, a compiere la scelta corretta che avrebbe dovuto affrontare;
nessuna reticenza, nessuna opportunità di scambio, nessun errore di qualsiasi
sorta.
Le gemme del mare si posarono sullo
scatto casalingo che primeggiava sul comodino, la curiosità evidente che
tentava di decifrare i contorni delle due figure che erano ritratte. «Vuoi
vederla?» gli chiese di conseguenza Derek, l’evidenza che non poteva negare.
I suoi grandi occhi blu si allargarono
a dismisura, stupefatta dell’essere stata beccata, l’espressione buffa che
scatenò un colpo di risa ricreativa nel lupo, allungando un braccio al lato
senza aspettare una risposta verbale o visiva della lupacchiotta timida,
prendendo l’oggetto della sua decantazione e porgendolo con minuzia tra le
manine.
Laura osservò le due entità
raffigurate con fame, la sete di conoscenza che veniva finalmente placata, le
informazioni visive che si completarono in un istante, specchiandosi in occhi
verdi ed un Derek infinitamente più giovane. La sorella, evidentemente
maggiore, era simile a lui in modo straordinario. «È tanto diversa da me».
Il licantropo le accarezzò le
lunghezze dai boccoli d’oro, tutta la dolcezza che la penetrava nei tessuti
muscolari. «Solo i colori» dichiarò con coscienza, era l’unica differenza che
potesse esistere. «Sei forte e coraggiosa come lei».
La lupetta si illuminò di meraviglia,
l’incredulità mista a prestigio che l’attraversavano insieme, il furore che
prendeva il sopravvento. Si strinse al petto la foto, come se le appartenesse,
come se avesse trovato il suo scopo nel mondo e quella fosse testimone del
modello a cui aspirava. «Mi racconti di lei?».
Un’inaspettata nausea colse il mutaforma, la tenaglia al cuore che lo accerchiò, stringendo
e stringendo, spietata e perfida. «Un giorno, un giorno lo farò».
La delusione affiorò sul visetto
della bambina, la vista che si posava nuovamente sul ritratto a contemplarlo e
la compostezza che si manifestò, reggendo il colpo da vera campionessa. «Va
bene».
«Posso parlarti di Cora, invece»
subentrò la voce impastata dal sonno dell’altro occupante del letto, una
singola iride di miele che faceva capolinea dal cuscino a scrutarli con immensa
tenerezza e un ghignetto furbo da vera volpe, come il peluche che la sorellina
si era portata dietro nella notte e con cui giocava tutti i giorni; chissà se
avvertiva la differenza. «È una scontrosa brontolona tale e quale a Derek».
Derek sbuffò annoiato, per nulla
d’accordo con quella teoria e il viso di Stiles si distorse in una curva felina
a suggerire vedi, esattamente così. Il ridacchiare sincero di Laura fu
inevitabile.
«Eri sveglio e stavi origliando,
tipico di te» lo additò la creatura della notte, scontrosa eppure nemmeno tanto
stupefatta. I suoi sensi l’avevano captato molto prima, ma aveva lasciato
correre.
«Stavo soltanto concedendo a due
delle mie persone preferite il loro momento» ribatté l’umano con la
giustificazione pronta, la sapienza che sbandierava ai quattro venti.
Derek lo ignorò, perché quello
sfacciato trovava sempre il modo di uscirne incolume e colpire nel segno, la
dimostrazione ultima fu data dal cuoricino di Laura che emozionato corse
velocissimo quando le parole mie persone preferite presero forma e, con
rammarica ammissione, il lupo sapeva perfettamente come ci si sentisse
ad essere il destinatario di tutto
quell’amore, con l’afflizione di chiedersi se ne fosse davvero degno.
«Forse avrai capito che questo lupone acido è un fratello di mezzo, proprio come te»
affermò l’umano in un ulteriore illuminazione, la piega indomabile sulle labbra
che ilare continuava a persistere.
«Oh» l’epifania la accolse in un
istante, gli occhi sgranati di consapevolezza. «Così simili».
«Spaventosamente simili» Stiles le
sorrise in modo autentico, ammaliante, il dorso di un dito delicato che le
scivolava in un massaggio sul braccio più vicino a lui. «Dagli tutto il tuo
affetto e lui ti darà il suo».
Laura rabbrividì per la grandezza della
cosa, un’entità che mai aveva avuto l’onore di udire. «E tu, Stiles, hai
sorelle o fratelli?».
«No» la verità uscì senza bisogno di
meditare sulla risposta. «Sono solo io» la tristezza e il dispiace si dipinse
sui tratti efebici della lupetta, ma Stiles non l’aveva mai vissuta come un
fattore negativo, ma per chi era stato circondato da una sovrabbondanza di
fratelli e sorelle, unici compagni di vita, poteva comprendere perché ne fosse
affranta; se non avesse avuto loro, sarebbe rimasta sola e conosceva qualcuno
che viveva con quella croce nel cuore. «Ma ehy, il
mio migliore amico è come un fratello per me» ci avrebbe messo la mano sul
fuoco; anzi, l’aveva fatto letteralmente.
L’aria intorno a lei cambiò, la foto
fu riconsegnata tra le falangi del lupo mannaro e la fierezza della decisione
sbocciò. «Anche tu hai tutto il mio affetto».
Stiles ne fu completamente infatuato,
la tenerezza che balzava da una parte all’altra. «E tu tutto il mio,
lupacchiotta».
Laura gli regalò il sorriso più bello
che gli avesse fatto finora, le guance leggermente arrossate, le lentiggini in
evidenza e il riserbo che piano piano si allontanava.
«Che ne dite di prepararci una bella
colazione?» propose Stiles alla fine di quel momento potente, scostandosi
appena dalla cucciola che sonnecchiava ancora tra i suoi arti che la tenevano
al sicuro. «Puoi andare a svegliare tuo fratello».
Laura annuì contenta al languorino
che sentiva svegliarsi, i piedini nudi che toccavano il pavimento freddo, la
cornice d’argento riposta già al suo luogo d’appartenenza a schiacciarle un
occhiolino di complicità. «Non siete arrabbiati con lui, vero?» ma la
preoccupazione la piantò esattamente dov’era, lo sguardo carico di aspettativa
che rivolse ad ognuno di loro.
«Aggiusteremo le cose con Erick» dichiarò la creatura leggendaria che l’aveva
seguita, la presenza austera che primeggiava in tutta la camera padronale.
«Puoi scommetterci» confermò l’unico
essere umano dell’edificio, un occhio di strizza che le lasciava intendere il
gioco da ragazzi che gli sarebbe toccato.
Un formicolio la invase in ogni
parte, l’aria più spensierata e tranquilla di quanto non l’avesse avuta un
attimo prima. Annuì rasserenata, lasciando la stanza.
Gli occhi d’ambra cercarono quelli di
giada, la comunicazione muta che avvenne e il numero di quelle preoccupazioni
per Erick che aumentavano; siamo già a tre.
Quante volte si sarebbero espresse per sostenere il fratello maggiore?
«Non la svegli?» chiese Derek quando
vide che copriva Corine accuratamente con le coperte,
sistemandone le pieghe ed accertandosi che non potesse sentire freddo.
«No, lasciamola dormire finché può»
le scosse i capelli biondi dal viso, lambendole la punta del naso con un
polpastrello. Presto, quando l’estate sarebbe terminata, avrebbero dovuto
lasciarla all’asilo, a cominciare il suo nuovo percorso di vita. «Si sveglierà
quando vorrà».
«Non avevi dei piani per oggi?»
domandò di riflesso il mutaforma, i progetti
giornalieri che Stiles aveva stilato per organizzare al meglio le loro
giornate, godersi i bambini che avevano in custodia, imparare a conoscerli e
farsi conoscere. Sapeva che sentiva un cappio al collo, la velocità del tempo
che proseguiva, le dodici settimane di congedo per la paternità che si
accorciavano; tre si erano già concluse.
«Possiamo andare al parco più tardi»
affermò Stiles con non curanza per se stesso,
stiracchiando il corpo intorpidito come se fosse un gatto ‒ o una
volpe, se Derek poteva esprimere la sua ‒ per risvegliarlo e
riacquistarne il controllo. «O domani, non c’è problema».
Derek lasciò correre, non era
necessario che l’umano passasse ogni secondo della giornata dietro la cucciola
di casa, in più doveva smuoversi per prepararsi, se voleva concedersi una
colazione senza fretta e prepararsi per accompagnare i due scolari a scuola;
era il suo turno secondo la tabella di marcia stilata da Stiles dopo la prima
settimana, avevano una lavagna magnetica attaccata al frigorifero che non
mancava mai di dimenticargli la programmazione.
«Derek» lo chiamò Stiles, il lupo già
accinto a raggiungere il bagno per darsi una sciacquata e uscire completamente
dall’intontimento della sonnolenza.
Il mannaro si voltò appena
circospetto, Stiles già dietro di lui, la profondità del suo sguardo ambrato
consapevole che gli dedicava tutta la sua attenzione. Si ritrovò le sue mani
fredde a contatto con quelle calde, legate in una trama indelebile, i due
cerchietti dell’oro più splendente che padroneggiavano senza nascondersi.
«Anche tu sei forte e coraggioso, Derek. Davvero, davvero tanto coraggioso».
Se Derek avesse potuto infrangersi,
quello sarebbe stato il momento, perché era a conoscenza di quanto Stiles
sapesse della sua difficoltà nell’aver intavolato quella conversazione con la
piccola Laura, così opposta all’Alpha che si era presa cura di lui, alla sorella
che gli aveva dato tutto quando non aveva più niente, eppure così simile ad
entrambe.
Tutto quello che Stiles gli dava:
amore, comprensione, temerarietà ed animo, erano qualcosa che credeva non
meritarsi nemmeno tra cento vite, invece era tutto lì, sotto il proprio tocco,
a completa disposizione.
L’abbraccio claustrofobico in cui lo
rinchiuse, lo divorò, pressato contro di lui senza che Stiles uscisse mai più
dalla sua vita.
«Fortissimo» gli sussurrò l’umano
sull’epidermide, il bacio candido che gli schioccò sotto l’orecchio a sancire
il loro legame inscindibile.
Laura si trovava con un passo oltre
l’uscio della camera del fratello, ma i suoi sensi sensibili la fecero tornare
indietro, il batticuore che la guidava e l’investiva tutta in un’unica irripetibile
volta.
Sotto i suoi occhi pieni di emozioni,
la pelle d’oca che dominava, assistette nuovamente alla dimostrazione
indomabile di quanto straripasse quella casa di amore. Ne era circondata
ovunque andasse e si ritrovava il cuore pieno, pronto ad esplodere per
accoglierne ancora di più, tutto quello che c’era in serbo per lei, senza
limitazioni.
Derek si inoltrò dentro la camera di Erick con il passo felpato che lo caratterizzava, inudibile
ed invisibile, senza destare il ragazzo che tentava invano di studiare seduto
alla scrivania, evento che aveva notato spesso. «Stiles è molto bravo ad
aiutare nello studio» se era riuscito a istaurare un metodo d’apprendimento
concreto ad una ragazza che per nove anni aveva vissuto da coyote selvatico in
mezzo alla natura, senza alcun rapporto con il mondo umano e i suddetti umani,
riuscendo a farla diplomare ed a colmare tutte le sue lacune di base su ogni
ambito culturale, poteva riuscire in tutto.
Il bambino saltò in aria colto sul
fatto, il rincrescimento che si disegnava sui tratti infantili voltati verso di
lui e la matita senza scopo tenuta in mano che sbatteva sulla pagina del libro
che stava consultando. «Non ho bisogno di quello».
«Ragazzino, è meglio se cominci ad
imparare cosa sia il rispetto» Derek era entrato già con le migliori intenzioni
di riprenderlo, affrontare l’argomento Stiles, approfittando del tempo
che quest’ultimo stava trascorrendo in giardino in compagnia di Corine e Laura, a godersele senza un pensiero al mondo; il
modo in cui trattava l’umano non gli era congeniale ed Erick
persisteva su quella strada.
Un groppo alla gola colse il lupetto,
colpito dalla rigidità che il licantropo stava emanando, insieme all’autorità
incontrastata. L’intimidazione lo schiacciò e si chiuse a riccio.
Derek sospirò esausto dentro di sé.
«Stiles vuole solo essere dalla tua parte e tu non glielo permetti».
«Non vedo cosa c’entri non noi un
inutile umano» la sua mancanza di appartenenza al mondo sovrannaturale l’aveva
avvertita subito, nulla di lui lo legava al loro universo, un estraneo, un
esterno, un alieno. Non aveva alcun diritto da imporgli.
«C’entra eccome con noi, con il
nostro mondo» la severità nella creatura della notte crebbe, accompagnato dal
dissenso. «Non hai la minima idea di quanto ne sia legato».
Ercik soffiò annoiato, come se non gli credesse minimamente.
«Pensi davvero che sia tutto bianco o
nero?» domandò retoricamente l’uomo, le lettere che scandiva chiaramente. «Il
mondo reale è molto più complicato di quanto credi, intersecato come mai
potresti comprendere».
«Questo non spiega-» ma Erick fu zittito prima che potesse emettere qualsiasi altro
verso, battere i piedi e dimenarsi, far valere le sue ragioni. Bastava lo
sguardo tagliente e glaciale del lupo mannaro.
«Stiles non si può spiegare, ti
capita nella vita e basta. E non potrai mai fare nulla per scrollartelo di
dosso» ci aveva provato, eccome, ma aveva sempre fallito clamorosamente. «È il
ragazzino più ostinato che abbia mai conosciuto» e con l’età adulta che era
avanzata l’aveva perfino sposato, contrariamente al piano iniziale di
lasciarselo alle spalle. «Puoi dire tutto quello che ti pare su di me se ti da
tanta soddisfazione, ma non accetto che tu lo faccia con Stiles».
«Lui non mi piace» forse Erick stava sfidando la sorte, ma non gli piaceva che gli
dicessero cosa poteva o non poteva fare e per il nervosismo roteò più volte la
matita che teneva in mano, quasi a controllare la sua impulsività.
«Come fai a dirlo?» domandò con
ridondanza il mutaforma, quasi stupendosi di avere a
che fare con testardi da tutta la vita. «Non lo conosci, non gliene hai data
l’occasione» anche Derek in passato si era mosso per quella via, ma soltanto
per non farsi trascinare da lui, dal sedicenne perspicace ed impiccione che
sembrava saperne perfino più del nato lupo. «Vuoi sapere chi è?».
Una strana emozione colse il
lupacchiotto, una che represse fino in fondo, per quanto non volesse sentire
nulla su quello, aveva la netta sensazione che Derek non si sarebbe
fermato. Restò unicamente in silenzio, le dita che si accanivano sul bastoncino
di fragile grafite.
«Quando non avevo niente, quando mi
era stato tolto tutto, ho trovato Stiles» la coincidenza era stata così letale
e simbolica che spesso si era chiesto se lo fosse davvero, se lo scambio di
vite tra Laura e Stiles non avesse un messaggio diverso, uno scopo
significativo, se in qualche modo non glielo avesse inviato lei. «Molesto,
impertinente, furbo e scaltro come una volpe, colpiva esattamente dove faceva
più male, lungimirante come pochi. Sempre nel posto e nel momento sbagliato, ma
era lì e non se ne andava nemmeno nel periodo peggiore della tua vita, in tutti
i peggiori della tua vita».
Una consapevolezza bislacca colpì Erick come uno schiaffo, gli occhi blu si dipinsero di
stupore ed incredulità, ed un singolare puzzle che gli viveva nella testa prese
a comporsi, tassello dopo tassello, il senso di tutta quella compatibilità con
loro. «Sei un orfano anche tu?».
«Sì» dichiarò Derek univoco, l’unica
verità che esisteva dalla sua adolescenza. «Sono un orfano».
Erick si sentì pressato, bersagliato, capiva il perché nell’uomo che gli faceva
da tutore vivesse quel lunghissimo lutto talmente simile al proprio da
annichilirlo. «E quanti… quanti anni avevi?».
«Quindici» a quindici anni aveva
perso fin troppe cose, il primo amore ucciso per pietà con le proprie stesse
mani, la consapevolezza di essere stato usato nel suo dolore per quella perdita
e nella sua ingenuità dal secondo amore, che l’aveva tradito in modo inaudito,
ardendo viva la sua intera famiglia. La tragedia chiama altra tragedia. Era
stato convinto che la maledizione che gli era stata scagliata si fosse estinta,
ma era soltanto a metà percorso.
Erick si sentì male senza davvero sapere perché, non era qualcosa che gli era
estraneo, forse in realtà non si sentiva davvero compreso, lui aveva soltanto
sette anni quando i cacciatori incorsero dentro casa sua e debellarono
qualsiasi essere adulto fosse presente. «E lui, l’hai trovato in quel
momento?» chiese in eco alle parole che aveva usato pocanzi, senza davvero
capire quale correlazione ci fosse.
«No» negò vivamente, la prontezza
della sua risposta profonda. Un ragazzino di quindici anni con la morte nel
cuore ed un profondo senso di colpa dubitava che si sarebbe fatto raggirare da
un bambino di dieci che assisteva inerte alla degradazione dello stato mentale
della madre, conclusa inevitabilmente con il lutto a poche pulsazioni di
distanza. Avevano vissuto il cordoglio familiare quasi nello stesso periodo.
«L’ho incontrato sei anni dopo, quando mi portarono via mia sorella, la mia
Alpha, tutto ciò che mi era rimasto».
Un boccone amaro si intrappolò nella
trachea del lupetto, gli avvelenò il palato ed un pessimo presentimento lo
invase in un ogni parte, la terribile sensazione che se le cose fossero andate
in modo diverso, la sua vita sarebbe stata completamente differente, isolata,
in totale solitudine, senza nessuna rassicurazione familiare. «Non c’è più?».
«No» la risposta arrivò letale, senza
alcuna speranza, un microscopio barlume che potesse fare la differenza. «Stiles
è la mia famiglia da allora».
Aveva davvero valore per lui? L’umano
per Erick non era niente né voleva che fosse
qualcosa, soltanto perché per Derek, per quel lupo immenso e l’aria da Alpha
che si portava dietro, rappresentava qualcosa di importante, di viscerale, non
significava che dovessero condividere lo stesso sentimento.
«Stiles ha affrontato ogni prova
possibile, qualcosa che non immagini nemmeno, esperienze da cui perfino persone
come noi difficilmente ne uscirebbero incolume» aveva rischiato di smarrirlo
talmente infinite volte da non avere più la cognizione delle occasioni in cui aveva
trattenuto il respiro e smesso di vivere con l’ansia di non vederlo risorgere,
la testardaggine e l’amore che guidavano le azioni dell’umano, il suo valore e
il fato che non gli dava tregua. Ogni singola volta ne era uscito vincitore, ma
in tutte quelle occasioni una parte di lui era stata sacrificata per un bene
più grande, pezzettino dopo pezzettino, un frammento di anima dopo l’altro,
finché non era quasi più stato in grado di riconoscersi, di perdersi per
sempre. Derek era sicuro delle sue parole, sapeva con le prove in mano che, se
fosse toccato a se stesso, non ne sarebbe mai uscito
indenne, perché a stento era riuscito a sopravvivere alle sue di prove e in
quelle difficoltà Stiles era sempre stato con lui o addirittura, se l’era
andato a prendere di peso. Lo stesso non poteva dirsi di Derek nei confronti
dell’umano. Stiles era riemerso dalle ceneri da solo ‒ ognuno ha le
sue battaglie da affrontare, Derek. Non crucciarti, pensi che io sarei stato in
grado di affrontare le tue? gli domandò quando vide la ruga sulla sua
fronte formarsi ad ogni avversità riportata a galla nei meandri della loro
memoria. Sì, dichiarò Derek categorico e lapidario. «È stato Stiles a
scegliervi. È stato lui a combattere per voi, per ognuno di voi, in modo
sconsiderato ed incosciente, ma con il cuore come unica guida».
Erick tremò da ogni parte, l’insinuazione non tanto sottile che sentì
serpeggiare sotto l’epidermide quasi impalpabile, insinuandosi con infamia
nelle vertebre che costituivano la colonna della postura. «Non ci volevi?» il
singhiozzo incastrato tra le parole non riuscì a trattenerlo nemmeno se si
fosse messo a scongiurare ogni divinità esistente.
Derek fu sorpreso dalla
manifestazione per la prima volta delle vere emozioni del bambino di nove anni
che si trovava dinnanzi a lui, rinchiuso in quella che poteva essere la sua
nuova tana dove sentirsi a sicuro, seduto a quella scrivania dove cercava di
sfuggire con le spalle incassate e tutto il peso del mondo su di esse. Nulla a
che vedere con la rabbia e il dissenso che aveva esternato il giorno prima.
«No» il lupo non era mai stato qualcuno che indorava la pillola, neanche
davanti alla matita che Erick distrusse con tutte le
sue forze, rimanendogli una metà per ogni mano. «Non volevo sotto la mia
responsabilità tre bambini in un’unica volta senza alcuna esperienza raccolta a
guidarci, senza sapere se eravamo in grado di gestirne anche soltanto uno. Ma
Stiles ha il potere di mettere in discussione ogni cosa, anche e soprattutto se
stessi, di far valere una ragione tutta sua».
Un silenzio attanagliante scese tra
loro, le emozioni contrastanti di Erick tempestavano
le mura, l’enorme confusione che gli invadeva ogni circuito celebrale.
«Non fraintendermi» aggiunse Derek,
la schiettezza che fin troppo spesso aveva il dominio, ma sapeva che non era
corretto fingere e circondarsi di bugie. «Non sono pentito di avervi con noi,
tutto il contrario».
Il cuore di Erick
implose, si accartocciò su se stesso e si disperse,
tutto quello che sentiva era così enorme che non riusciva a contabilizzarlo. «E
lui?».
«È lo stesso» l’inflessione nella
voce del bambino, l’indecisione e quell’ansia nell’aria che l’accompagnò a
proferire quella richiesta non gli sfuggì. C’era un’insofferenza profonda in Erick, ma non riusciva a inquadrare su cosa fosse
catalizzata. «Non deve piacerti per forza, ma si merita un trattamento migliore
da parte tua».
Erick annuì impercettibilmente come se fosse stato colpito in pieno petto, come se
fosse costretto e non perché ci credesse davvero. Era immerso in ragionamenti a
cui Derek non aveva accesso e di cui probabilmente avrebbe faticato
notevolmente ad ottenere la chiave.
«So che nessuno ci avrebbe mai preso
tutti insieme» prima che l’uomo oltrepassasse la porta, con la missione che gli
appariva terminata o comunque ad un buon punto base, la voce addolorata e piena
di conoscenza del lupetto lo trattenne, impedendogli di abbandonare la camera
dove versava tutto il suo malessere.
La sorpresa colse Derek come mai si
sarebbe aspettato, la mano già sulla maniglia per abbassarla e il capo che
tornava a dirigersi verso l’abitante della camera di quel verde pastello
festoso che Stiles aveva scelto con tanto vigore, con la speranza che potesse
rasserenare chiunque vi avrebbe soggiornato. «Stiles non vuole la tua
gratitudine o riconoscenza e nemmeno io» la creatura leggendaria non sapeva
bene cosa si aspettasse che gli rispondesse. «Vuole solo esserti amico, è la
persona migliore che potrai mai avere dalla tua parte» e nella vita.
Le ultime parole pietrificarono il
bambino, lasciandolo sgomento e con un tumulto irrefrenabile che galoppava
nelle sensazioni devastate che non avevano più controllo. Derek non pensava di
doversi trattenere oltre.
«Derek, vorrei portarli al parco» lo
beccò Stiles quando si richiuse la porta della camera di Erick
alle spalle, un passo sull’ultimo gradino e l’evidenza di quanto l’umano lo
stesse cercando per l’intera casa. «Ti unisci a noi?».
Era finalmente giunto il giorno, infine.
«Mi piacerebbe, ma Erick deve ancora terminare di
studiare ed è il caso che noi due rimaniamo qui» voleva concedere al quel
lupacchiotto appena bersagliato il tempo di riprendersi ed assimilare tutta la
conflittualità che gli viveva dentro.
Stiles lo guardò con occhi giganti,
una strana tensione e preoccupazione che danzarono nel movimento che fece per
scrutare la lastra verticale legnosa sigillata. «Ha bisogno di aiuto?».
Eccolo lì, Stiles in modalità tutor pronto ad entrare in azione. «Sono più che sufficiente».
La risata cristallina del figlio
dello sceriffo assordò i timpani di entrambi i lupi che erano nello stesso
raggio d’azione. «Non tocchi un libro dalla tua laurea, Der».
Derek arcuò un sopracciglio e lo
giudicò ampiamente. «Non credi che possa avere la meglio su un testo di quarta
elementare?» erano trascorsi tre anni da quando il lupo completo riuscì ad
ottenere la sua laurea, faticando enormemente ad ingranare all’inizio, del
tutto deconcentrato ed avendo perso ogni cognizione da studente, i metodi
d’apprendimento che con il tempo aveva appreso e che erano completamente
svaniti dalle sue memorie. Stiles gli stette accanto finché non acquisì un
ritmo che lo soddisfacesse e non lo tenesse bloccato, aspettando che
sbocciasse. E l’aveva fatto, con voti eccellenti. Tenevano le loro due lauree
incorniciate e sotto vetro dentro lo studio che condividevano.
«Non ho alcun dubbio sulle tue
capacità intellettive e di comprensione del testo» l’umano era leggermente
infatuato da tutta quella situazione, le labbra liete curvate. «Ma non sei
paziente in queste cose; al contrario tuo, ho molta più esperienza di te, tra
Veri Alpha e coyote smarrite come miei discepoli» sull’educare un giovane lupo
a controllare la bestia che aveva dentro ed a svelare tutto il suo potenziale
era un autentico mago, ma sul resto era alquanto suscettibile.
«Dovrò imparare» dichiarò Derek con
lungimiranza, una verità incontrovertibile che non era certo Stiles avesse
preso in considerazione. «Abbiamo tre bambini, non posso relegare questo
aspetto tutto a te» né gli orari impossibili di Stiles avrebbero reso la cosa
semplice o possibile.
Stiles restò impalato per un
lunghissimo secondo, per poi esibirsi in uno dei suoi sorrisi più belli e
toccati. «Chiamami, se avrai bisogno».
Derek si limitò ad acconsentire con
un singolo gesto del capo, ben conoscitore che non l’avrebbe fatto nemmeno
sotto tortura. «Non darmi per spacciato».
La leggera risata fragorosa
dell’umano lo catturò. «Non ti do per spacciato, Sourwolf; pagherei oro per
vedere la scena» Derek assottigliò gli occhi a quella irriverente derisione di
classe, come se il detective si aspettasse che commettesse un enorme disastro
che era pronto a risolvere. «Ma non mancheranno occasioni, se hai intenzione di
occupartene con tutti i nostri figli».
L’ultima parola si impadronì di tutto
lo spazio aereo che conteneva i presenti, un peso ed una consistenza che erano
apparsi fino ad un attimo prima irreali. «Figli?» era la prima volta che quel
vocabolo prendeva vita, avevano continuato a girarci intorno senza mai
realmente esternarlo, come se lupacchiotti e bambini fossero un
surrogato di qualcosa che poteva rivelarsi un tabù.
Stiles si imbambolò come se non
riuscisse a metabolizzare quanto detto, il vero valore che si nascondeva dietro
quell’unico insieme di lettere, due singole sillabe inestimabili. «Ho
sbagliato? Troppo presto?» le dita affusolate andarono a coprire ad un
centimetro di distanza la bocca che aveva osato troppo, come il più grande dei
rincrescimenti.
Il torpore risvegliò il lupo mannaro,
le falangi calde che si aggrovigliarono a quelle in cui faceva fieramente
mostra di sé l’anello d’oro che decantava il capitolo ultimo e definivo della
loro storia d’amore, ammonendo il nascondiglio di apparente orrore per quello
che agli occhi di Stiles poteva apparire come uno dei suoi terribili errori
impulsivi. «No, è perfetto. Davvero perfetto».
Erick collassò alla grandezza che quella conversazione origliata custodiva,
rivelando qualcosa di immenso, privo di qualsiasi confine, incurante della sua
posizione statica di rinnegazione ostica e schiaffeggiandolo senza alcuna
preparazione in faccia. Figli. Figli di qualcuno. Figli che avevano il loro
posto nel mondo. Era stato figlio di qualcuno, ma non lo era più.
«Domani dovrò assentarmi» rivelò
Derek subito dopo pranzo, Corine già messa a letto
per il suo riposino pomeridiano, mentre gli altri due bambini si trovavano
ancora a scuola, turno di prelievo di Stiles. «Devo fare un salto di alcune ore
a Triangle».
Stiles si trovava all’interno dello
studio che condividevano, le carte che gli appartenevano sparse per tutta la
scrivania che da settimane rimandava di rimettere in ordine, troppo preso da
quella vita da neogenitore a tempo pieno; rimase con in mano una delle carpette
spesse da riempire. «Domani? Ma c’è la luna piena».
«Lo so» ammise il mannaro, ben
consapevole di quale fase cruciale fosse in agguato, non aveva bisogno di un
calendario per sapere quando il plenilunio fosse in procinto di assaltare,
sentendolo arrivare sotto l’epidermide, a differenza di Stiles che lo cerchiava
ogni mese, stilizzando nel giorno dedicato un piccolo lupo nero perché
possedeva un pittoresco senso dell’umorismo. «Ma non posso rimandare, i Ramos mi segnalano gravi problemi con le tubature e voglio andare a controllare
con un mio uomo di fiducia».
Derek aveva davvero comprato quella
decantata casa a Triangle per loro, un anno e mezzo
prima che si trasferissero a Washington, insieme a quella nel tempo ne aveva
acquistate altre quattro, come se ci fosse una grande offerta conveniente da paghitre e prendi cinque. Ciò che lo sorprese davvero fu che quando il suo
trasferimento per la grande capitale avvenne ed entrò tra le fila dell’FBI, gli
capitò fin troppo spesso di fare da sponda tra Washington e Quantico,
ritrovando restaurante avere un luogo che poteva definirsi privatamente proprio
in ogni angolo dopo una giornata estenuante a dieci minuti di auto. Oltre a
quelle estemporanee lavorative, spesso lui e il licantropo tornavano tra quei
confini, soprattutto nei fine settimana o quando Stiles aveva ferie da
bruciare, che non toccassero i giorni di rientro a Beacon Hills quando andavano
a trovare suo padre e gli altri del branco. Derek, le altre abitazioni, le
aveva affittate ognuna ed i Ramos erano soltanto una delle famiglie che vi abitavano. «La vedi nera?».
«È possibile che l’impianto idraulico
andrà rifatto» da come gli affittuari gli avevano descritto la situazione e dal
confronto con il capo della squadra specialistica da cui si serviva da anni,
non gli appariva per niente come una situazione florida.
«Ahi» a Stiles non piaceva per niente
quella prospettiva, erano rogne fastidiose. «Sarà molto costoso».
«Ho un fondo per imprevisti come
questi» doveva averlo, era la prima cosa da considerare prima di pensare
lontanamente di poter comprare una proprietà immobiliare per ricavarci un
profitto.
Stiles sospirò rumorosamente con
stanchezza, il contenitore per i documenti che veniva poggiato dal bordo sul tavolo
da lavoro. «Va bene, non si può fermare il grande imprenditore».
«Tornerò in serata, non devi
preoccuparti» Triangle era ad un’ora senza traffico da
Washington, era sempre stata un’attraversata sicura che compievano spesso.
Derek non capiva come mai in quella particolare circostanza Stiles fosse tanto
urtato. O forse era meglio dire, scosso.
«Non sono preoccupato» dinegò
l’umano, le dita che giocano con l’elastico spesso della carpetta di cartone,
il cervello rumoroso che rimuginava, perfettamente udibile per l’udito al di
fuori di ogni comprensione umana del mutaforma.
«Abbiamo sempre passato le sere di plenilunio insieme in questi dieci anni e
non ho alcun timore che tu non sappia controllare il tuo lupo, ma è la prima
luna piena con i bambini, mi sembrava una cosa importante».
Improvvisamente il mondo di Derek
acquistò colore e tutto prese un senso. Gli arti superiori della creatura della
notte si mossero nella direzione del detective, posandosi sulle spalle rigide e
tese. «Non me la perderei per niente al mondo».
Le iridi d’ambrosia si specchiarono
in quelle verdi, attente, limpide e comunicative come nessun’altre. «Non fare
tardi, Derek».
«No» sugellò la promessa con un bacio
univoco, in un voto indissolubile.
«C’è un traffico illegale» Derek
chiamò molte ore più tardi, il tramonto era prossimo, il cielo che lentamente
si colorava di un rosso fuoco.
Stiles afferrò il cellulare mentre
giocava con le bambine sul prato curato in giardino, controllando di tanto in
tanto l’orario in cui avrebbe dovuto mettersi davanti ai fornelli per sfamare
le belve fameliche con cui conviveva. «Come sempre» erano abituati ad evitare
gli orari di punta quando gli era fattibile, ma era evidente che Derek fosse
stato costretto a trattenersi più del dovuto nella cittadina in cui teneva
parte dei beni immobili.
«Impiegherò più tempo, ma arriverò»
sottolineò il lupo mannaro, quasi avesse il dovere di ricordargli la promessa
del giorno prima.
«Ci conto» le labbra dell’umano si
curvarono verso l’alto come se fossero allietate dall’impegno che l’altro stava
investendo per non deluderle o per non deludere nessuno dei presenti e se stesso.
«È Derek?» chiese Laura con le
orecchie tese, la sorpresa che si dipingeva sui tratti bambineschi e che la
portava a cercarlo in ogni dove.
«Der Der»
disse Corine con un urletto, correndo verso
l’apparecchio telefonico temendo che potesse scappare da un momento all’altro e
non fare in fretta prima che svanisse. «Quando torni?».
«Torno presto, principessa» proferì
il licantropo dall’altoparlante, con un calore che sentiva partire ed
espandersi dal petto davanti a quella manifestazione d’affetto fanciullesco e
puro.
Non è vero, scandì Stiles col labiale senza emettere un suono, sorridendo alle
bambine che si agitavano per poter parlare e manifestare i loro bisogni al lupo
cattivo per eccellenza.
«Ti aspettiamo» continuò la cucciola
della famiglia contenta, sbattendo le manine tra loro per trasmettere il suo
trasporto, il cellulare di Stiles indirizzato verso la sua direzione con il
vivavoce attivo. «Ci manchi» Laura annuì convinta in sostegno come se potesse
vederla.
«Anche voi» Derek era del tutto
impreparato davanti a tutta quella dimostrazione di attaccamento benevolo che
lo inondava senza dargli tregua, erano trascorse una manciata di ore e sentiva
già la distanza che li separava.
«Mi dispiace per te, Sourwolf, ma a
quanto pare hai delle aspettative da soddisfare» la voce di Stiles si liberò in
una risatina aperta, così profonda e sollevata da perforare il timpano del mutaforma a chilometri di distanza.
«Oltre le tue, intendi» a volte
faticava a credere che la sua vita solitaria si fosse arricchita in modo
esagerato. La presenza di Stiles era sempre stata d’impatto, ingombrante e
rumorosa, prendeva degli spazi di cui nemmeno conosceva l’ubicazione, si
insidiava in modo insospettabile e non si muoveva più, riempiendo ogni attimo
delle sue giornate, dei pensieri tetri che spesso e malvolentieri condividevano,
diveniva tutto perfettamente bilanciato in qualcosa di enorme a differenza di
ogni sua previsione; era convinto che non potesse essere più piena di così, ma
Stiles era riuscito ad amplificarla, triplicarla, riempiendo tutto quello che
non era stato toccato da tre esserini che gli scorrazzavano intorno.
«Le mie sono state soddisfatte tanto
tempo fa» la solennità con cui lo disse quasi strappò il timpano di Derek,
mentre Stiles accarezzava il viso delle lupacchiotte e le invitava a tornare a
giocare. «Dimmi invece come vanno le cose».
Derek rimase per qualche attimo in
silenzio, soffiando con fatica l’aria che aveva contenuto nei polmoni fino a
quel momento. «È come temevo, ci saranno diversi lavori da fare, l’impianto
idraulico è tutto da sostituire».
Stiles lasciò che le parole gli
entrassero dentro, prendendo posto nella definizione corretta che quello
comportava. «Hai dato un’occhiata alla nostra di casa?».
«Sì» confermò il mannaro, era stato
il primo pensiero che l’aveva colto quando le prime notizie dai suoi affittuari
gli inviarono. «Non ho trovato niente di anomalo, non che me l’aspettassi, gli
altri edifici sono più recenti» prima di un acquisto faceva sempre controllare
ogni centimetro dell’immobile, fondamenta, impianti, presenza di amianto e
qualsiasi giochetto di cattivo gusto potesse esserci in agguato, le faceva
anche disinfestare per una maggiore sicurezza. «Può succedere, le cose si
rompono, niente è fatto per durare per sempre».
Un brivido allarmante scaturì in
tutta la colonna vertebrale del figlio dello sceriffo, non lasciandogli
presagire nulla di buono. «Che pensiero cupo».
«Non la intendevo in quel senso» non
la intendeva in nessun senso, era un pensiero estemporaneo, senza nessuno
scopo. «Ciò che è fatto di materia non è destinato a perdurare».
«Noi siamo fatti di materia» ribatté
abile Stiles, l’attenzione scaltra che scattava in ogni momento.
«Sì» non aveva nessuna argomentazione
per contrastare quell’osservazione concreta ed evidente. «Ma la tua anima mi
perseguirà per l’eternità».
La risata colpita e un po’ più
tranquilla di Stiles gli accarezzò l’apparato acustico, rasserenando entrambi.
«Puoi scommetterci il tuo patrimonio».
«Senti, a proposito di questo…» aveva
rimandato per tutto il giorno quella conversazione, non sapendo davvero come
risolvere il problema senza mettere tutti i diretti interessati in una
situazione difficile. «Visto gli importanti lavori che dovranno essere fatti,
ho messo a disposizione della famiglia Ramos casa nostra».
«Casa nostra? In che senso?» Stiles
guardò il vuoto davanti a sé come se potesse fornirgli le informazioni che gli
servivano per decriptare il messaggio contorto del marito.
«Tutte le altre proprietà sono
occupate e non aveva alcun senso che andassero in un motel finché i lavori non
saranno finiti. Stessa cosa sul mettersi a cercare un’altra abitazione così
all’improvviso, così gli ho dato le chiavi di casa nostra» ci aveva pensato per
tutto il giorno prima di quella missiva, armandosi degli strumenti che gli
servivano per rendere concreta quella mossa, le copie del mazzo che
abitualmente lui e Stiles usavano.
«Tu hai…» Stiles si interruppe a metà
frase con sconvolgimento, quasi le parole si fossero defilate o avesse troppi
pensieri per la testa da mettere in fila ed esternarli in qualche modo. «Uao, sei il padrone di casa più perfetto che possa
esistere» era qualcosa che tredici anni prima non gli avrebbe mai attraversato
l’anticamera del cervello, non davanti ad un Derek che frequentava le spoglie
di una villa andata a fuoco, dove rimanevano poche pareti e pilastri in piedi,
la cenere che ancora ricadeva ovunque e appestava ogni angolo, entrando dentro
le narici senza mai andarsene davvero; l’incapacità di Derek di separarsi da
quella che una volta era la dimora in cui aveva vissuto tutta la sua vita
spensierata gli aveva sempre spezzato il cuore. Alla fine gli avevano portato
via perfino lo scheletro di quello che rimaneva, smantellando mattone dopo
mattone.
«È un problema?» domandò Derek con
un’incognita d’incertezza per le parole che Stiles aveva esternato, non
riuscendo a capire cosa pensasse realmente. «Mi sembrava la soluzione migliore
per non mettere tutti a disagio. Farò sostituire tutte le serrature quando si
risolverà la situazione, ho anche già cambiato il codice d’allarme».
«Nessun problema, Derek, davvero.
Sono solo sorpreso» lo era seriamente, il lupo trovava continuamente il modo di
sbalordirlo. «Ho sempre pensato fossi un buonissimo ed onestissimo padrone di
casa, ci credo che i tuoi affittuari ti adorino» rise della situazione, perché
da un uomo imponente e riservato come Derek, era l’ultima cosa che qualcuno si
sarebbe mai aspettato. Era un privilegiato a conoscere intimamente il suo cuore
d’oro. «E poi dubito fortemente che passeremo da quelle parti molto presto».
Derek scese in un mutismo riflessivo,
mettendo in moto l’automobile per una decina di centimetri. Le fila di mezzi
privati non ne volevano sapere di sfoltirsi e fargli raggiungere casa. «Quando
i bambini si saranno ambientati e saranno più tranquilli, li porteremo qui».
«Sì, mi sembra la scelta migliore»
non era per niente il momento di spostarli da una parte all’altra senza alcun
motivo, prima avrebbero dovuto abituarsi alla nuova casa in cui vivevano e alle
persone che stavano imparando a conoscere che si prendevano cura di loro.
«Ho un’altra cosa da dirti» continuò
la creatura della notte con un’impercettibile incertezza di interferenza che
Stiles colse come se l’avesse di fronte proprio in quell’istante. «Voglio che
tu sappia che, a prescindere da qualsiasi cosa accadrà, ho lasciato
disposizioni che puoi seguire tranquillamente».
Stiles si paralizzò nell’immediato,
l’organo cardiaco che rallentava per la pesantezza dell’aria frizzante che
l’aveva sfiorato con una lama inattesa. «Che cosa-… che cosa stai dicendo? Sta
accadendo qualcosa che non so?».
«Niente di tutto questo, Stiles»
anche quello era un argomento che Derek rimandava da tanto tempo, ma non poteva
tergiversare per sempre. «Non sta accadendo niente, ma è giusto che tu sia informato,
che non ti ritroverai ad annaspare nella burocrazia se non sarò lì».
«Derek» la severità nella voce
dell’umano fu inequivocabile, come un principio d’ansia che la sporcava, il
fiato pesante che non l’aiutava. «Mi vuoi dire che diavolo ti passa per la
testa? Hai già fatto testamento?».
«Sì» la risposta fu chiara e diretta,
non ammetteva nessuna incertezza.
«Perché?» l’acuto si sprigionò,
insieme all’accenno di panico che non gli era per niente estraneo, fino a
richiamare perfino l’attenzione delle bambine ignare che si divertivano vicino
al laghetto pieno di pesci, alzando e voltando la testa nella sua direzione.
«Perché ho te, perché quello che è
mio è anche tuo» il tono immutabile del lupo non permetteva repliche, asciutto
ed inflessibile. Poteva immaginarla bene la smorfietta che arricciava il naso
del figlio dello sceriffo, c’era stato un tempo in cui mal digeriva l’argomento
denaro, in cui proprio non voleva saperne di toccare i suoi soldi. C’era stato
persino un tempo in cui Stiles aveva proposto di pagargli l’affitto quando
avevano cominciato a convivere e Derek si era visto invischiato in una dura
battaglia per farlo desistere, sottolineare che spartirsi le bollette era più
che abbastanza – anche se ne avrebbe fatto volentieri a meno –, ma l’umano era
caparbio come pochi e aveva cominciato a riempire la dispensa sperperando la
maggior parte dei suoi buoni pasto, ignorando l’accordo di dividere la spesa in
parti eque; il lupo avevo dovuto riprenderlo varie volte per raggiungere un
accordo che soddisfacesse entrambi, senza colpi di testa. Gli era occorso del
tempo per decifrare le sue motivazioni, le restrizioni che imponeva sul
contante, la mente di Stiles che correva a quando aveva ancora diciassette
anni, le parcelle dell’ospedale per la risonanza magnetica e il ricovero all’Eichen House ai tempi del Nogitsune che mettevano in seria
difficoltà lo sceriffo, i soldi che scarseggiavano e che il suo stipendio non
poteva soddisfare; Stiles ne era troppo consapevole, talmente consapevole che
affrontò una dura lotta contro se stesso quando una buona parte del patrimonio
Hale arrivò tra le sue mani, tenuto celato all’interno di una loro cripta nelle
fondamenta del liceo da lui frequentato. Voleva tenerlo, sottrarlo al legittimo
proprietario che pensava fosse Derek stesso, usarlo per poter pagare quei conti
troppo alti per la famiglia Stilinski. Aveva provato disgusto per se stesso, il pensiero repellente di derubare quello che
decantava essere l’uomo che amava, anche se nel silenzio del suo privato. Non
si era sentito affatto meglio quando aveva scoperto che quel denaro
appartenesse a Peter, che una discreta fetta della sua ricchezza Derek l’avesse
investita nell’acquisto del condominio in cui viveva e da cui ricavava i suoi
introiti – ah, eccolo il Derek imprenditore, aveva realizzato Stiles
anni dopo, quando il numero di proprietà sotto il suo nome aumentavano
vertiginosamente –; si era odiato così tanto da non riuscire a trovare il
coraggio di affrontarlo e consegnargli quel denaro che teneva sotto il letto,
delegando Scott che sembrava avere più senno di lui. È come se ti avessi
derubato, aveva esternato tra una discussione e l’altra nell’appartamento
comprato da Laura. Ma non l’hai fatto, aveva invece ribattuto Derek non
riuscendo proprio a focalizzare il problema. Ma ci ho pensato, seriamente,
visceralmente, presumevo ne avessi meno bisogno di me, aveva continuato
l’umano, dibattendosi con vigore e quella iperattività che tanto lo
contraddistingueva. Derek avrebbe voluto ribadire che fosse vero, ma non
avrebbe cambiato il concetto che Stiles stava esprimendo con vergogna pungente,
al contrario l’avrebbe indispettito ancora di più, quindi si era limitato ad
ascoltare, digerire il suo fiume di consonanti senza dirgli semplicemente non
preoccuparti, è passato e trovare una soluzione consona ed equilibrata che
avrebbe giovato a tutti e due, evitandogli di sentirsi in difetto per il resto
della loro frequentazione e per quella che Derek sperava fosse molto di più, un
tempo decisamente più dilatato e definitivo. «Perché adesso abbiamo tre bambini
e devo tutelarvi. Devi sapere che ho tutto in ordine, che non ci saranno
sorprese che non saprai gestire, che non devi preoccuparti».
«Tu mi stai facendo preoccupare
proprio adesso, Derek» il tumulto lo investì senza dargli tregua, in combo
all’isteria che cresceva ad ogni parola che il consorte gli stava comunicando.
«Porta il tuo brutto muso qui, siamo sposati da soli sette mesi, non ti
permetterò di lasciarmi».
«Stiamo insieme da dieci anni» gli
fece presente il licantropo, come se avesse davvero rilevanza. «Sai bene che in
questa vita gli imprevisti sono dietro l’angolo, l’abbiamo vissuto sulla nostra
pelle» le vite che si erano spezzate davanti i loro occhi erano state numerose,
con vittime troppo giovani, non avevano avuto alcun potere per impedirle.
«E con ciò? A volte detesto il tuo
essere così previdente e meticoloso. Non mi interessa se mi ritroverò sommerso
da documenti e documenti, se gli avvoltoi mi aspetteranno davanti la porta di
casa, venderei tutto al primo offerente e risolverei il problema, ma non voglio
che tu abbia queste preoccupazioni già da adesso» si sgolò il detective senza
minimamente accorgersene, il trasporto della frenesia scaturita dal pericolo e
dalla paura che parlava per lui. «Aspetta, posso vendere?» chiese a metà
ramanzina, come se ci avesse ripensato, tornando indietro con i pensieri e
rivedendo se ciò che aveva detto avesse un senso.
La risata secca e fragorosa di Derek
non gliela risparmiò nessuno. «Potrai fare quello che vuoi, Stiles. Avrai tutto
tu il potere» aspetto che era quasi sicuro fosse attuale anche in quell’arco
narrativo della loro storia. Probabilmente da quando si erano incontrati la
prima volta, tredici anni prima.
«Ma non lo voglio. Ti voglio accanto
a me finché non saremo vecchi decrepiti e tu sarai perfetto come sempre, perché
sei un dannatissimo licantropo» Stiles batté i piedi, perfettamente udibili
perfino dal ripetitore telefonico, facendo valere tutti i suoi desideri ed i
progetti che aveva in mente per il futuro. Un futuro che doveva comprendere
loro due e le tre creature di cui si erano presi la responsabilità. «Ma poi ti
rendi conto con chi stai parlando? I miei affari sono un vero disastro».
Derek sorrise alla moltitudine che
era quel concentrato di iperattività e logorrea, il tornado che non gli dava
tregua. «Li conosco benissimo, sono incasinati come te» e lo adorava anche per
quella caratteristica così sua.
«Allora torna a casa incolume, senza
questi pensieri tetri e la tua mania di mettere le cose in ordine» c’era una
sorta di preghiera nella sua richiesta che non poteva essere rifiutata, le
bambine che si erano mosse per andargli incontro e Stiles che dovette
tranquillizzarle con un unico gesto, le dita che sfioravano e delineavano i
tratti dei loro visi candidi. «E poi perché me lo stai dicendo mentre siamo al
telefono? Il traffico ti ispira?».
Una serie di luci di avviso di
fermata rosse si estendevano tutte davanti a sé, le auto che continuavano a
procedere più lente di qualsiasi tartaruga fosse mai esistita. «Non lo so, ho
pensato fosse il momento giusto, eravamo in argomento».
A Stiles non gli sembrava affatto che
fossero in argomento. «Nel cielo c’è la luna piena» anche se il tramonto
era nel suo momento massimo, la sfera d’argento luminosa e completa era ben
visibile sul cielo di un incantevole cremisi, l’umano la stava osservando
inesorabile. «Non prenderla per il verso sbagliato, Derek. So che la tua
preoccupazione è sincera, so cosa significa per te e cosa provi, ma hai scelto
la serata sbagliata, la luna non ha mai avuto un effetto troppo positivo su di
te» bravissimo a gestirla, ne conosceva ogni segreto, non era mai riuscita a
piegarlo da quando lo conosceva, ma il suo umore era altalenante e scostante,
tutto in perfetta sintonia con la lunatica che brillava nella distesa di blu
inchiostro, tempestato di brillanti piccoli astri che bruciavano ad anni e anni
luce lontani da loro. «Torna a casa prima che puoi, questa giornata ci ha già
messo a dura prova» le lupacchiotte gli si aggrapparono alle gambe come se
avvertissero quel malessere passeggiero che stava pian piano svanendo, benché
l’inquietudine non sarebbe evaporata finché il lupo mannaro non avrebbe
oltrepassato la soglia di villa Hale-Stilinski, lasciando che l’ingresso si
chiudesse dietro la sua schiena. Ci fu un coro agitato e invogliato di Der Der e Derek che lo reclamava. «Ti stiamo
aspettando».
Ti stiamo aspettando, era un invito che non riceveva da tempo immemore, da quando le cose
giravano per il verso giusto e lui non aveva alcun problema al mondo, protetto
e coccolato da quella famiglia che gli dimostrava costantemente il proprio
amore. Per anni era stato convinto che mai più gli sarebbe stato rivolto, che
tutto gli sarebbe stato negato, che per una data senza scadenza sarebbe stato
privato di quel calore familiare che aveva perduto in lingue di fuoco e
nell’oscurità della cenere. «Sto tornando».
Come si aspettava, Derek non riuscì a
rientrare in tempo per la cena e l’unica cosa che gli rimaneva da fare era far
mangiare quantomeno i bambini, lui avrebbe atteso.
Le cose furono tranquille finché non
notò che la casa era incredibilmente e inspiegabilmente silenziosa, quasi
lugubre e non sentiva provenire delle vibrazioni positive dalle mura che lo
circondavano. Cominciò a salire le scale, sussurri fitti che provenivano
dall’alto, la camera delle bambine lasciata aperta e vuota, mentre quella di Erick che si trovava nell’altra metà del corridoio era ben
chiusa e non vedeva nessuno dei tre marmocchi da nessuna parte, l’intuizione
che fossero tutti rinchiusi lì dentro lo illuminò in un istante, ma quando la
mano si avventurò per toccare la maniglia e abbassarla per accingersi a
entrare, esitò.
Evitava quante più volte possibili di
varcare la soglia se Erick era al suo interno, gli
aveva ben fatto presente in passato quanto fuori lo volesse dalla sua vita,
quanto gli fosse ostile e poco propenso ad averlo intorno, il suo fastidio lo
seguiva da ogni parte e Stiles ne soffriva enormemente, per quanti tentativi
avesse fatto per poter creare un qualsiasi dialogo pacifico, il bambino non gli
permetteva alcun acceso e lo fissava sempre con quei occhi freddi giudicanti,
perfidi e intransigenti, come se stesse commettendo un errore dopo l’altro e
non ci fosse alcuna salvezza per lui, nessun modo per riscattarsi e apparire
diversamente al suo severo giudizio.
Stiles non era uno che demordeva, di
certo non si sarebbe lasciato mettere sotto da un esserino di nove anni, ma sapeva
di dover procedere con passi di piombo, tuttavia a volte era troppo pesante
sentirsi rifiutato con tanto evidente astio, quasi negandogli la possibilità di
rapportarsi in qualsiasi maniera civile. Per quanto impegno ci mettesse, per
quante attenzioni gli dedicasse, i piccoli gesti, la sua completa
disponibilità, non riusciva a perforare di un millimetro quel muro insondabile
e di muri impossibili ne aveva affrontati diversi, uno più impetrabile
dell’altro, uno sempre più disinteressato ad averlo in giro.
Le dita si serrarono e la serratura
scattò, lo spiraglio gli materializzò una fitta oscurità, la luce esterna che
veniva completamente inglobata, quasi al suo interno non vi fosse nulla, ma
Stiles ricordava bene il verde pastello rigoglioso delle pareti, i mobili di
legno lavorato e laccato che la riempivano, la scrivania davanti la finestra,
nella posizione ottimale per ricevere al meglio i raggi del sole, il letto
grande con comodino annesso sul lato opposto, la cabina armadio incassata nel
muro e la libreria alta che piano piano si sarebbe riempita degli interessi del
piccolo, insieme a qualche mensola come ulteriore appoggio, per invogliarlo.
Non vedeva niente di tutto quello, la vista completamente accecata e fu accolto
da una immobilità inumata, i recettori del pericolo vibrarono tutti in una
volta.
«Bambini» fu tutto quello che la sua
voce articolò, un interrogativo insicuro a metà e la risposta di due gridolini
femminili sussurrati nel buio, l’agitazione che permeava l’aria e movimenti
incerti di contorno. «Che state combinando?» l’interruttore della luce fu
premuto e divampò in un istante, scacciando le ombre e portando tutto in
superficie, due sagome piccole e bionde accovacciate davanti la scrivania a
fare da muro e una terza che si nascondeva proprio sotto, stretta su se stessa.
Quella sensazione di disagio e
pericolo l’umano la conosceva fin troppo bene, innumerevoli volte senza ormai
poterle contare le aveva affrontate e non sempre ne era uscito vincitore;
proseguì con il passo più fermo che fosse in grado di ottenere in quella
situazione.
«Spostatevi» disse alle bambine che
si ergevano come prima difesa, la voce ferma ed autoritaria, lo sguardo severo
e le intenzioni ben evidenti, tuttavia le fanciulle non si mossero, rimasero
esattamente dov’erano, i corpicini che si giravano per rallentare la sua
avanzata e continuare a celare il segreto che era evidente avessero.
«Non ci farà del male» proferì Laura
con fermezza, ma sporcata dalla preoccupazione, le iridi dell’oceano che
l’affrontavano di petto, quasi volesse si fidasse e rassicurarlo.
«Spostatevi, vi ho detto» l’aria si
stava elettrificando, un bagliore dalla penombra data dal tavolo di studio di Erick si materializzò e Stiles non poteva mentire a se stesso, non identificarlo per quello che era.
«Non ha mai fatto niente di male» si
aggiunse Corine in soccorso, la vocina infantile e
tesa nella sua autenticità, il peluche della volpe rossa che teneva tra le dita
quasi potesse fungere da ulteriore protezione e darle una forza maggiore.
Una scossa attraversò tutta la
colonna vertebrale del figlio dello sceriffo, un presentimento che non pensava
potesse coglierlo lo invase, ma non poteva affrontarlo in quel momento, non
poteva indagare, sapeva di dover rimandare. «Laura, Corine,
adesso».
L’intransigenza di Stiles non
ammetteva repliche e le lupacchiotte si ritrovarono a corto di soluzioni,
l’uomo si stava avvicinando e loro erano completamente inerte. Si scostarono
appena alla presa ferrea di Stiles sulle spalle, un singolo trafiletto da cui sbirciare.
Le iridi di un dorato acceso lo
accolsero, orecchie a punta, basette ed artigli sulle mani che pressavano
nell’abbraccio sofferto che Erick si stava dando per
trattenersi e affrontare il dolore della trasformazione, delle azioni
involontarie che la luna piena gli scatenava, conficcati dentro la pelle e il
rosso vermiglio che scorreva senza limitazioni. Il dolore rende umani,
era la prima lezione che Derek gli aveva impartito, accompagnate da ogni
dimostrazione di quanto il dolore fisico avesse la dominazione sulla natura
sovrannaturale fuori controllo. Era una lezione che Erick
conosceva? Gli era stata insegnata o l’aveva appresa da solo? «Erick, possiamo affrontare questa cosa insieme. Va tutto
bene».
Le gemme incendiarie del bambino si
scontrarono contro quelle dell’ambra, una furia incontrollata le adombrò e un
ringhio terrorizzante gli scappò dai canini allungati, le bambine urlarono
inaspettate.
Fu in quel momento che i vestiti del
piccolo licantropo cominciarono a strapparsi, la mutazione che avveniva in sua
presenza, le zampe che sostituivano le mani ed i piedi, il viso che si
allungava e si trasformava in un muso vero e proprio, dentatura animalesca
perfetta, il corpo che si contraeva e cambiava, avviluppandosi su se stesso. In un battito ci ciglio Stiles si ritrovò faccia
a faccia con un esemplare giovane di lupo dal manto mielato, fili biondi e
dorati ad adornarlo, aggressivo, minaccioso ed intimidatorio, stringeva i denti
in un ringhio sinistro e sembrava avere tutta l’intenzione di divorarlo vivo.
Eppure Stiles lo trovava bellissimo.
Fu un pensiero forviante, spostò con
fretta in direzioni opposte Laura e Corine nel
momento in cui vide il mannaro muoversi nella loro direzione con la bocca
aperta e il morso in agguato, addentando il braccio dell’umano in cui emergeva
l’anello che lo lega in modo indiscusso a Derek, scuotendolo malamente. Il
dolore fu lancinante, i recettori impazzirono, i canini affondarono fin dentro
l’epidermide, rompendo tessuti e capillari, il sangue cremisi sgorgò, imbrattato
dalla bava dell’animale maestoso, infierendo di secondo in secondo, aveva il
terrore che potesse strapparglielo da un momento all’altro.
«Che cosa fai, Erick?
Lascialo andare subito!» lo ammonì Laura in apprensione e con terrore, non
stupita dalla forma da lupo completo che aveva assunto, ma da come si fosse
avventato con malvagità su Stiles, le uniche intenzioni di arrecargli ogni
danno immaginabile. «Stiles è la persona più buona del mondo».
Il lupo chiaro si fermò nel suo
attacco per spostare le iridi accese sulla persona che aveva parlato, attirando
tutta la sua attenzione e scaturendo uno scintillio che all’umano non piacque
affatto. La morsa si allentò, i denti sporchi di sangue brillarono alla luce
artificiale e la carica era tutta indirizzata verso di lei.
«Laura, esci subito via di qui» merda,
doveva riuscire a raggiungere il piano inferiore, portarsi il lupo con lui e
allontanarlo dalle bambine che erano nel panico, del tutto incapaci di capire
cosa fare e stupefatte dal comportamento che il fratello maggiore stava
tenendo. Davvero non riuscivano a capire che in quelle condizioni non ragionava
lucidamente? Che nessuno gli avesse insegnato come controllarlo e gestirlo.
Corine scoppiò a piangere senza controllo abbracciata alla volpe morbida e Laura
era pietrificava nel luogo in cui Stiles l’aveva scagliata per proteggerla, le
mani strette e le gambe contratte, lo stupore misto a tradimento che le
sporcava gli occhi dello zaffiro più intenso. Nessuno si mosse.
«Ehy,
lupetto» Stiles fu costretto a rientrare nel suo campo d’azione, a distogliere
la morbosa curiosità letale che stava dirigendo verso la bambina di sette anni.
Sbatté il braccio sano sul lato della libreria, lì dove l’assalto della
creatura della notte l’aveva trascinato contro il suo volere. «Non vuoi fare
del male alle tue sorelle, non è vero?».
Ciò che conteneva Erick
riportò lo sguardo su di sé, ringhiante ed intollerante, la fame di distruggere
che spiccava e il fiato pesante, non c’era alito di uscirne incolume. «È me che
vuoi» continuò imperterrito, i passi studiati che procedevano a ritroso verso
la porta, senza agitarlo, senza indispettirlo.
«Ma…» Laura protestò, Corine si azzittì per tentare di trattenere le lacrime che
imperterrite scorrevano, ma che il singhiozzo quasi la soffocava, Stiles vedeva
quanto il lupo stesse puntando entrambe e non sapesse su chi buttarsi prima,
stuzzicato da ogni rumorino che emettevano.
«No!» urlò l’umano con
disapprovazione e furore, il calcio che diede malamente alla porta per creare
più rumore e riacquistare l’interesse della creatura omicida, coprire
l’esistenza delle bambine che si trovavano agli angoli della camera senza poter
scappare. «Vuoi me, prendi me».
Il lupo si abbatté brutale verso la
sua direzione e Stiles si gettò verso le scale di gran carriera, le gambe
lunghe che scendevano i gradini, i piedi che battevano sul legno per non
perdere il vantaggio della sua attenzione che poteva distogliersi in qualsiasi
momento, continuando a buttare la voce per invogliarlo a non perderlo di vista,
proseguendo per il suo percorso verso la stanza di sicurezza che lui e Derek
avevano allestito in passato per evenienze come quelle, nascosta nello studio
di lavoro di entrambi, non pensando che gli potesse servire tanto
anticipatamente. La corsa e la missione erano frenetiche, Stiles sentiva il
cuore in gola e la preoccupazione per le lupacchiotte che gli urlavano dietro
con affanno, pregandolo di fermarsi, ma non poteva credere che tutti gli
allenamenti fisici tenuti con l’addestramento dell’FBI e la forma che
continuava a curare non gli fossero di alcuno aiuto in quel momento.
Sentì un mobile cadere e il legno
graffiare, mentre apriva la porta a chiusura ermetica di ferro chiaro,
perfettamente in armonia con la camera in cui venivano conservati i loro documenti
e lavori, lanciando l’ultimo invito a seguirlo con sfrontatezza, urlandolo con
il ghigno da volpe scaltra che gli sporcava i tratti perfetti. «Chiamate Derek»
gridò prima che il lupo gli addentasse nuovamente il braccio ferito che Stiles
gli stava offrendo di proposito, tirandosi dietro il portellone di sicurezza
che scattò in automatico, chiudendosi e lasciandoli completamente isolati dal
resto della villa, senza alcuna possibilità di poter uscire da lì.
Laura gli urlò di rimando per
impedirgli quell’azione avventata, ma non servì a nulla, la serratura a doppio
cilindro si sigillò e non riuscì a sentire più nulla. Sbatté con i pugnetti
sulla lastra dura e impenetrabile, facendosi male e scrostandosi l’epidermide,
del tutto impreparata su come aprirla, non trovando nessun innesco da attivare,
mentre Corine la seguiva dietro con il peluche della
sua amata volpe stretto al visto e impiastricciato di lacrime salate, il
terrore e la paura che le impediva di proferire qualsiasi parola. «Lalla» fu
tutto quello che riuscì a balbettare con le labbra tremanti chiamando il suo
nome.
Laura si ridestò con fatica, sentiva
un enorme vuoto all’altezza del cuore, senza riuscire ad identificare la
velocità dei battiti che stava scandendo, il respiro pesante e l’enorme sensazione
di essere impotente.
Posò le iridi oceaniche su quelle
identiche alle sue, così provate e sofferte da scaturirle un tonfo sordo al
centro del petto.
Uscì dall’ufficio privato dei suoi
tutori, si indirizzò verso il telefono fisso che si trovava sotto le scale, il
mobile in cui tenevano le chiavi di casa e delle auto, insieme a un taccuino
sempre a disposizione per qualunque evenienza ed una serie interminabile di
penne a sfera. Accanto al telefono cordless, sull’apposito spazio dato dal
supporto, vi erano scritti con grafia elegante i numeri di emergenza da
chiamare; figuravano l’indimenticabile 911, seguito dai numeri di
cellulare di Stiles e Derek, insieme ad alcuni che Laura non aveva mai
adocchiato, sceriffo S, Cora e Scott. Stiles aveva mostrato a
tutti e tre i bambini il giorno dopo il loro arrivo in villa Hale-Stilinski la
collocazione da chiamata, indicando con meticolosa attenzione e apprensione i
numeri scritti di pugno da Derek appositamente per la loro incolumità. Sempre,
quando avrete bisogno d’aiuto e non riuscite a trovarci o c’è un problema che
non possiamo risolvere, chiamate uno di questi numeri, Stiles l’aveva
sottolineato più volte e Laura l’aveva radicato nella mente nell’immediato.
Il cellulare dall’altra parte prese a
squillare, lentamente, con troppa calma, calma che Laura non aveva proprio in
quel momento con l’angoscia che le mangiava il fegato. Suonò una, due e tre
volte, prima che l’interferenza fosse scossa come se un movimento l’avesse
sfiorata, interrompendola con l’accettazione della chiamava, ma la bambina
sentì un altro squillo e un altro ancora e l’oppressione che le divorava i
nervi cresceva, spazientita e terrorizzata. «Pronto?» fu la risposta temperata
e moderata del lupo mannaro adulto, calda e propensa all’ascolto, la scritta casa
che compariva sullo schermo touch del suo cellulare.
Laura avvertiva le stille d’acqua
minacciare di sgorgare senza alcun controllo, insieme al singhiozzo ferito che
le sfuggì dalla bocca provata, non riusciva più a capire come si sentisse, se
da qualche parte il sollievo fosse in procinto di accoglierla. «Papà, Erick si è trasformato e Stiles si è chiuso con lui. Non
riesco ad aprire la porta. Ti prego, corri» la linea le scappò dalle mani e
cadde.
Nessuno gli avrebbe risparmiato le
multe che durante il percorso, infrangendo ogni codice stradale, limiti di
velocità, divieti d’accesso, manovre illecite, sorpassi arbitrari, controsensi,
si sarebbe beccato senza potersi giustificare, ma con giudizio.
Abbandonò l’auto sul vialetto senza
perdere alcun tempo a parcheggiarla dentro il garage, correndo verso l’interno
della casa, sbattendo la porta d’ingresso contro il muro e trovandola fin
troppo silenziosa, accolto dalla scia tipica del sangue di Stiles.
Non vedeva le bambine da nessuna
parte, né, come si aspettava con rincrescimento, Stiles ed Erick.
Sentì però dei leggeri singhiozzi, in
fondo, oltre le scale, lì dov’era collocato lo studio che condivideva con il
marito, respiri pesanti e una gran paura che appestava le pareti. Si diresse
verso quella direzione, oltrepassando la porta che generalmente tenevano
chiusa, incontrando le due figure delle lupacchiotte sedute una addossata
all’altra sul pavimento, davanti al portellone di metallo rafforzato, l’ufficio
completamente in disordine con fogli e carte sparse ovunque. Laura avvolgeva le
spalle della sorella minore, mentre Corine aveva il
volto completamente affondato nel peluche della volpe, le lacrime che non le
davano tregua e che sporcavano anche il viso della maggiore.
«Che cosa è successo qui?» non aveva
davvero bisogno di chiederlo, era evidente come il sole, la camera a soqquadro,
gli artigli, l’odore di un lupo mannaro mai sentito, le trecce di sangue che
l’avevano condotto fino a lì, appestandogli le narici, l’assenza di Stiles che
presumibilmente si era rinchiuso insieme alla belva fuori controllo nella
stanza di sicurezza che Derek aveva fatto aggiungere nei progetti mentre la
villa veniva costruita pezzo dopo pezzo.
I due esserini saltarono in aria al
suono della sua voce, Laura che si alzava in piedi con sgomento, annichilita,
l’enorme groviglio in fondo alla gola che si scioglieva lentamente, con il
conforto che lentamente prendeva il sopravvento, le lacrime d’acqua salata che
aveva tentato di trattenere fino a quel momento e con fatica estrema per non
lasciarsi sopraffare presero a contornagli gli occhi provati ed esausti,
liberandosi in un istante. «Papà» senza alcuna difesa, come la prima volta, le
scivolò con tono smezzato quell’insieme di poche lettere, offuscato dal
piagnisteo che aveva la meglio sul suo controllo da campionessa. «No- non
doveva succedere niente, non l’aveva mai fatto» le stille salate si infransero
sulle labbra, facendo sentire tutto il loro sapore, lo sconforto la impregnò
nuovamente. «Non riesco ad aprire la porta».
Il licantropo si avvicinò per
prenderla in braccio e avvinghiandola forte a sé, mentre Corine
sussurrava sconsolata una serie di Der Der
aggrappata ad una sua gamba, tenendo sempre per una mano la volpe di pelo
simulato, ed entrambe strinsero e strinsero, lasciandosi andare in quel pianto
che non ne voleva affatto saperne di lasciarle stare. «Non è colpa vostra.
Stiles sa quel che fa» ma aveva i suoi dubbi davanti le spoglie della casa che
aveva tentato di preservare, insieme alla salvaguardia delle bambine che era
evidente avesse messo al primo posto.
Le tranquillizzò per un lungo ed
eterno momento, i nervi che fremevano per accettarsi in che condizioni fossero
Stiles e l’altro cucciolo, i volti delle pargolette che premevano contro di lui
senza accennare a voler mollare la presa. Ma dovevano, stavano già perdendo
minuti preziosi. «Ora voglio che vi allontaniate, quando aprirò quella porta
non dovrete essere qui, non posso occuparmi nello stesso momento sia di loro
che di voi» non aveva la minima idea di cosa potesse attenderli, non voleva
metterle in pericolo se non aveva la certezza di poter gestire la situazione.
Non riusciva nemmeno a captare il minimo rumore provenire dalla camera
blindata, era stata insonorizzata ad arte secondo le sue richieste e non
avrebbe mai pensato che potesse ritorcersi contro.
Laura esitò insieme a Corine che indugiarono sul mollare la stretta che le legava
a Derek. Al lupo non piaceva. «Avete capito?».
«Erick è
nostro fratello» fu tutto quello che Laura riuscì ad articolare, l’unica
giustificazione che movesse le loro azioni.
«Esattamente» di certo non avrebbe
mai potuto loro rimproverare l’unione familiare che le caratterizzava così
tanto, ma a volte era un enorme difetto che aveva visto ripetersi spesso. «E
pensate che sarebbe felice se scoprisse che vi ha fatto del male? Quando aprirò
quella porta, non sappiamo cosa succederà».
Laura calò in un silenzio riflessivo
e Corine ispirò forte dal naso, una manina che
strofinava sul visetto per asciugare le scie cristalline. «Okay» disse la
principessa, il corpicino che si staccava da quello dell’uomo, attaccando al
petto, avvolgendola con le braccine, la volpe di pezza. «Come Stils».
Le iridi verdi si posarono con dubbio
e sorpresa sulla più piccola del quadretto familiare, portandosi a chiedere
cosa fosse davvero accaduto tra quelle mura, cos’è che avesse fatto e detto
Stiles per riuscire a condurre il lupo mannaro risvegliato lì dentro. «Come
Stiles» concordò in totale sintonia con lei, scompisciandole i corti capelli
biondi con affetto e scaturendole un dolce sorriso sdentato.
Rimise Laura per terra, sciogliendola
dall’abbraccio e mettendosi alla sua altezza a scrutarla con attenzione. «Resta
con tua sorella, puoi farmi questo favore?».
La lupacchiotta indugiò ancora per
alcuni attimi per nulla convinta, ma il rimbombo come Stiles le
fischiava nelle orecchie e non poteva proprio rendere vane le azioni dell’unico
essere umano dell’intero edificio. «Va bene» disse con fermezza, l’imitazione
del coraggio che Stiles aveva dimostrato per tenerle al sicuro dalla minaccia
che si era presentata. Prese Corine per mano e si
avventurarono oltre la stanza da lavoro degli adulti, rimanendo però a portata
d’orecchio. Derek decretò fosse l’unico stallo possibile in quella situazione.
Quella che Derek si ritrovava davanti
era una porta insolita, poteva essere aperta solo dall’esterno da un codice
segreto da digitare nell’apposito pannello, però esisteva una leva di sicurezza
dell’altra parte, un po’ macchinosa, ma essenziale, una vera trovata
anti-artigli e zampe. Sapeva che Stiles non l’avrebbe mai toccata se non a
pericolo scansato.
Il suono scaturito dalla pressione
dei pulsanti digitali premuti si espanse per le mura che lo circondarono e la
serratura a doppia mandata scattò lentamente, un solo spiraglio a stendersi
davanti a sé, ma che non permetteva nessuna visione. Un respiro profondo pronto
a qualsiasi evenienza fu preso e la lastra di ferro spesso fu spalancata con
accuratezza, la luce tenue d’emergenza che brillava in alcuni punti strategici,
lasciando la stanza in una penombra studiata a non urtare le iridi cangianti
delle creature soprannaturali. Tutto era avvolto da una cappa silenziosa,
protettiva, come se niente di male fosse stato consumato, a differenza di
quello che aveva trovato nel resto della dimora e in totale contrasto con
l’odore del sangue stantio dell’umano che impregnava ogni angolo che lo
circondava in quell’attimo.
Un piede fu inserito ed il corpo lo
seguì nell’immediato, trovando sul fondo due figure nascoste sotto una coperta,
oggetto che l’umano inserì come prima cosa nel momento del completamento del
rifugio, e attorcigliate tra loro. «Stiles».
Le palpebre serrate del figlio dello
sceriffo si aprirono con difficoltà al suono della voce che lo chiamava,
incontrando la presenza austera e perfetta del consorte, cinerea e propensa
tutta verso di sé. «Sh, sta dormendo» proferì con
stanchezza evidente, un dito portato davanti al naso e la bocca a sottolineare
la sua attenzione.
Derek abbozzò gli occhi per
scrupolosità, la schiena di Stiles che aderiva esausta alla parete, vi era un
graffio profondo sotto un occhio dal sangue ormai secco, mentre le falangi
affusolate accarezzavano con delicatezza e affezione le ciocche dorate di un Erick trasportato completamente tre le braccia di Morfeo,
la coperta accuratamente riboccata a non scoprire nessuna parte di quel piccolo
corpo provato che appariva nudo, totalmente abbandonato tra le cosce dell’umano
che gli facevano da cuscino. «Perché non sono sorpreso?».
«So domare le bestie che vogliono
uccidermi» le labbra esangui del detective si curvarono verso l’alto in
automatico, la testa sostenuta dal muro e i tocchi affettuosi rivolti al
bambino che si accentuavano. «Ma forse sono io quello che dovrebbe fare
testamento tra i due» anche se non aveva proprio niente di sostanzioso da
lasciarsi dietro.
Derek scosse la testa rassegnato alla
risposta sarcastica costantemente pronta, bloccando la porta blindata
all’esterno e lasciandola aperta, per poi avvicinarsi a lui, sedendosi al suo
fianco e scioccandogli un bacio sul capo, a cui l’essere umano sospirò di
apprezzamento, sistemandosi per stringendolo a sé dalle spalle, ma con molti
accorgimenti, il tocco gli faceva capire quanto dolore in realtà Stiles stesse
provando.
«È stato molto bravo» continuò
l’umano in sussurri, le ciocche dell’oro che si attorcigliavano tra le dita e
il rilassamento di Erick che ne conseguiva. «È un
lupo meraviglioso».
Derek stentò a credere alle proprie
perfette orecchie, inarcando pronunciato un sopracciglio. «Un lupo? Completo?».
Stiles annuì contro di lui, le forze
del tutte arrese alla sua vicinanza che gli facevano da sostegno.
«Completamente diverso da te: lui brilla di luce, tu la catturi».
Prima che il licantropo potesse
indagare a fondo su quella rivelazione inaspettata ‒ non solo la sua
natura sovrannaturale si era svegliata, ma addirittura poteva prendere la forma
di un lupo vero ‒ due piccole frugolette apparvero dal passaggio lasciato
aperto, incerte ed indecise scrutavano con le loro iridi marine il paesaggio
senza apparente pericolo.
«Ehy,
tesori miei» le richiamò Stiles alla loro visione, illuminandosi e
rasserenandosi nel trovarle incolume.
Corine partì sgambettando senza aspettare un esplicito invito e tentò di
fiondarsi sulla volpe tanto simile al suo peluche, intercettata da Derek che la
prese al volo prima che si buttasse e svegliasse la figura assopita. «Attenta».
Lei lo guardò con i suoi grandi
occhioni blu senza afferrare il concetto, il profondo senso di occupazione che
l’aveva accompagnata fino a quel momento, e lo sguardo verde le indicò la
presenza del fratello che dormiva rilassato, del tutto devoto al rasserenamento
che Stiles gli infondeva. «Oh» fu quello che enunciò nascosta dietro la volpe
rossa di stoffa.
Stiles le rivolse il suo sorriso più
radioso e lei gli abbracciò il volto, tenuta ferma dal
mutaforma che le concedeva lo spazio di manovra, mentre l’umano le
schioccava amorevolmente un bacio per ogni guancia.
Laura rimase immobile dove si
trovava, incapace di proseguire e raggiungerli, il profondo senso di colpa che
l’accerchiava da quando Stiles era entrato nella camera di Erick
per accettarsi delle loro condizioni. «Mi dispiace».
L’attenzione del figlio dello sceriffo
fu richiamata e un singolo gesto comunicò al mannaro di scostare la bambina che
non voleva mollarlo, dedicando i suoi caldi occhi di miele alla biondina che
non procedeva di un passo. «Hai solo pensato di fare la cosa giusta, di
proteggere tuo fratello».
Laura si strinse su se stessa, indifesa, totalmente esposta e conscia di quanto
fosse in errore, di quanto non sapessero. «Però non era la cosa giusta».
«No, non lo era» sarebbe potuta
finire molto male, in quella particolare circostanza non sarebbe stato solo il
braccio a dolergli, ma qualcosa di molto più sostanzioso.
Mentre adagiava Corine
al suo fianco, scostandole i capelli bagnati dalle lacrime e rassicurandola con
gesti premurosi, Derek spostò lo sguardo dall’uno all’altra senza capire,
quella conversazione celava dei segreti che in quel momento non gli stavano
fornendo e non sapeva quanto fosse giusto interrogarli quella sera, con i nervi
a pezzi di Stiles e l’essere stremata della lupacchiotta. «Vieni qui».
Laura scattò sull’attenti quando
Derek la chiamò, preoccupata, in un’ansia perpetua, ma il lupo non mostrava
nessun sentimento negativo, era calmo e composto come sempre, si limitava ad
invitarla a raggiungerlo.
Si avventurò con passo incerto, i
piedini che esitavano, ma poi l’andatura si fece più sicura e si gettò tra le
braccia della creatura della notte che l’accolse tempestivamente, serrandola
forte contro di sé. «Lo so che ti sei spaventata» proferì contro di lei,
depositandole un bacio purificatore sulla fronte, riscaldandola con movenze
studiate a tranquillizzarla. «Ma adesso non devi temere niente».
Laura tirò forte con il naso,
nascondendo il viso contro i pettorali del mannaro e facendosi piccola piccola nella sua presa.
«Ehy,
lupacchiotta» la nominò l’umano con dolcezza e tenacia, catturandole gli occhi
e indicandosi con il pollice della mano destra che aveva temporaneamente smesso
di vezzeggiare Erick. «Sono difficile
da annientare» tutto fu coronato da una strizzata d’occhio di complicità ed il
ghignetto sprezzante che tanto lo caratterizzata e lo faceva risaltare.
«Già» confermò Derek per nulla
entusiasta, roteando gli occhi con noia. «Sono anni che cerco di
sbarazzarmene».
Il colpo alla spalla da parte di
Stiles arrivò preciso come un orologio svizzero, ma Derek non si scompose minimamente
né il figlio dello sceriffo se l’aspettava. «Galante come sempre».
Derek gli regalò un sorriso borioso e
conoscitore, con Stiles che sbuffò pesantemente, adagiando la testa castana
nell’esatto punto che aveva colpito e socchiudendo le palpebre in un riposo
restauratore.
Una curva intenerita e spiazzata si
disegnò sul visetto di Laura, la facevano costantemente divertire anche quando
non dovevano e si ritrovava ad adorarli sempre un po’ di più. Priva di energie
si rilassò talmente tanto contro il colpo che emanava calore del licantropo da
assopirsi a poco a poco, fino a cadere completamente nel regno dei sogni della
divinità greca. La seguì anche Corine, accoccolata
comodamente su un lato del lupo e confortata dalla volpe di peluche. Derek,
quando se ne accorse e ne fu certo, le sistemò per bene sullo stesso lato, la
gamba che faceva loro da cuscino in una perfetta replica di ciò che accadeva
dalla parte di Stiles con Erick, premurandosi di
snodare l’enorme coperta e sistemarla sopra i loro corpicini, a ricoprile come
meglio poteva.
«Dovremmo aggiungerne un’altra»
proferì l’umano nel suo stato comatoso, il naso che sfregava contro la curva
del collo del marito.
«Lo faremo» lo rassicurò con
morbidezza, un nuovo schioccò che si depositava sulla tempia più vicina a lui.
Stiles mugugnò di liberazione e
contentezza, avviluppandosi alla temperatura che l’altro emanava. Chi aveva
bisogno di una coperta quando si aveva accanto un essere sovrannaturale dal
sangue caldo?
«Ora mi fai vedere quel braccio?» non
era neanche una vera domanda, ma un’osservazione che proprio non gli era
sfuggita, l’umano era stato molto attento a non allertare nessuno degli abitati
di quella strana camera allestita per essere un contenitore per mannari
incontrollati, ma era anche evidente quanto stesse soffrendo in silenzio e
quanto si fosse dissanguato. «Sento l’odore del sangue e della carne recisa».
Stiles emise un suono di protesta,
per nulla lusingato di essere stato smascherato. «Non riesco mai a nasconderti
niente, eh».
Derek lo fissò in modo eloquente e
Stiles sbuffò ancora una volta. «Avanti».
Stiles di malavoglia gli porse l’arto
richiesto, gesti calcolati per non essere troppo bruschi o veloci,
diligentemente ricoperto dalla maglia primaverile lacerata che indossava e non
aveva intenzione di toccare.
Derek lo sfiorò appena, i denti
serrati che l’umano teneva, e le mani bronzee che si apprestarono a far
scorrere nel modo più indolente possibile la stoffa che si era attaccata alla
ferita, impregnata e sporcata dal liquido scarlatto che molto lentamente si
stava seccando. Fu come togliere un cerotto in un unico gesto, ma l’effetto su
Stiles fu devastante, ritrovandosi a stringere le dita sulla gamba di Derek ed
a mordere l’aria per trattenere il lamento che gli scaturì.
«Stiles» fu quello che esclamò con
tono contenuto davanti allo scempio che si ritrovò ad osservare, il sangue
represso che in molti punti defluiva ancora, le impronte della dentatura
perfettamente stampata sull’epidermide recisa, strappata era il termine
corretto, masticata e pronta a decomporsi se non fosse stata curata
tempestivamente; gli fece pensare che potesse essere perfino infetta e si
chiese se in qualche modo i morsi che vedeva delinearsi, non fossero arrivati
ad intaccargli la placca ossea. Di certo il contatto prolungato con il cotone
non aveva aiutato.
«È meglio di quel che sembra»
protestò in soccorso di se stesso, le dita del braccio
ferito che mosse per dimostrare che stava bene e che tutto funzionava a dovere.
I palmi della creatura mitologica si
posarono ad accerchiare tutto l’arto superiore, le vene nere che si tinsero
nell’immediato a dimostrare quanto invece fosse peggio di quel che sembrasse,
a risucchiare quel dolore che Stiles stava sopportando con coraggio ed
ostinazione, il sangue che si ritirava indietro e la carne quasi in letargo che
faticava a ricompattarsi, a stimolare le piccolissime piastrine a ricorrere al
loro lavoro di rimarginazione. «Te l’ha quasi staccato, non hai praticamente
più pelle a proteggerti».
L’umano adocchiò il braccio inferto
incontrandolo per la prima volta, prontamente coperto dalle mani di Derek
intente a curarlo al meglio delle sue doti lunari con il plenilunio che
comunque aveva una buona influenza su di lui, i vasi sanguigni che accentuavano
l’inchiostro che si trascinavano da una parte all’altra. «Stai soffrendo anche
tu».
Derek scrollò le spalle come se non
avesse alcuna importanza il dolore che stava provando nel sottrargli il suo, a
tentare di velocizzare la rigenerazione cellulare e salvare il salvabile.
Il figlio dello sceriffo cadde in un
silenzio significativo, le iridi ambrate che accarezzavano l’oscurità che
imbrattava gli arti di Derek e il bacio di gratitudine che gli posò
all’attaccatura della spalla. «Non l’ha fatto di proposito» Stiles aveva ben
impresso quanto apparisse costernato e distrutto quando il buon senso era
ritornato in Erick.
«Questo è da discutere» di certo la
sua antipatia riconosciuta verso Stiles era stato un elemento di contributo,
non riteneva per nulla una coincidenza l’accanimento che aveva manifestato.
Stiles posò l’altra mano sopra quelle
che si stavano occupando di lui, le dita che si legavano insieme in uno
sfioramento, senza che il lupo smettesse nella sua pratica ricostruttiva. «Si è
fermato, è stato bravo».
Il mannaro soffiò la sua contrarietà,
la lunga occhiata di assestamento che gli assegnò e che Stiles accolse con un
sorrisino sulle labbra scaltre, quelle che sapevano giostrarlo così bene; era
tutto fiato sprecato contro la testardaggine di quella volpe pericolosa.
Le vene smisero di tingersi di nero e
Derek esaminò l’epidermide sottile con scrupolosità, rigirandosi il braccio su
ogni lato e non riuscendo ad individuare una prossima mossa. «Per ora, è il
massimo che riesco a fare» lo strato era troppo sottile, un taglietto, un
singolo urto e la ferita si sarebbe riaperta. Bisognavano di altre sedute
soprannaturali per riottenere una pelle compatta e solida, che non si
disfacesse al primo soffio di vento. «Serve tempo».
Stiles osservò il lavoro meticoloso
che il consorte aveva svolto contro le sue malcelate proteste, con la luna
piena che gli rendeva più complicata qualsiasi azione compiesse, l’attenzione
dovizia che gli dedicava in ogni movimento e quanto fosse sempre pronto ad
intervenire tempestivamente. «Sei stato bravo anche tu».
Derek baciò la bocca impudica che
voleva lodarlo e adularlo.
Stiles si abbandonò contro lo zigomo
più vicino a lui socchiudendo gli occhi, mentre un nuovo schiocco gli fu
depositato sul taglio sotto l’occhio, le labbra bollenti del lupo completamente
a contatto sulla ferita, rimarginandosi immediatamente e le dita del mannaro
che nel medesimo momento si mossero per strapparsi la parte inferiore
dell’indumento che indossava, un’unica fascia che avvolse intorno al braccio
troppo delicato del figlio dello sceriffo, sigillandola strettamente in un
nodo. «Abbiamo la cassetta del pronto soccorso in cucina, Derek» gli fece
notare davanti quel martoriare immotivato, le falangi scure che si accertavano
che la medicazione improvvisata svolgesse il suo lavoro.
«Non mi alzerò per lasciarvi qui da
soli» lo raggirò nell’immediato, come se il suo fosse stato un gesto ben
calcolato, mentre le labbra si chiudevano sull’anello che Stiles indossava
perfino in quella circostanza, donandogli un bacio d’amore.
Le dita di Stiles fibrillarono e lo
accarezzarono appena con i polpastrelli, invogliato a regalargli un suo di
schiocco, esattamente sull’angolo della bocca.
Derek se lo avvinghiò con un solo
arto superiore, incastrando le dita tra i capelli chiari ed ispirando a pieni
polmoni l’adrenalina che ancora gli scorreva dentro. Rimasero in silenzio per
un tempo interminabile.
«Derek» lo chiamò con tono sommesso
qualche momento dopo, risvegliando le sinapsi di entrambi e scacciando la sonnolenza
che li stava accerchiando.
«Ti ascolto» proferì il licantropo
con i sensi in allerta, la luna piena era ancora alta nel cielo, i suoi effetti
non sarebbero terminati finché l’alba non avrebbe fatto la sua comparsa e Derek
la sentiva in ogni secondo.
Stiles si aggrappò al suo abbraccio,
le gemme dell’ambrosia più intensa che fuoriuscivano dall’antro in cui si erano
celate per ricevere ristoro. «Non credo sia la prima volta per Erick».
Derek si ridestò in un istante e si
focalizzò totalmente sull’espressione grave di Stiles che sembrava aver capito
fin troppo. «Perché lo credi?».
«Le bambine hanno detto qualcosa in
proposito» non aveva avuto il tempo di esaminarne i significati, non l’aveva
quasi trovato nemmeno per respirare, letteralmente, era qualcosa che aveva
mandato nelle retrovie dei suoi pensieri affollati. «Non ci farà del male
e non ha mai fatto niente di male sono state le loro parole, non erano
nemmeno sorprese di vederlo in forma da lupo».
Insolito, ma era davvero da imputare
come prova? Da un lato le scuse continue di Laura, il suo perpetuo senso di
colpa che l’aveva accompagnata finché non si era addormenta e lo scambio di
battute che aveva tenuto con Stiles acquisivano un valore non insignificante.
«Se fosse vero, l’orfanatrofio ce l’ha nascosto di proposito o non ne era al
corrente?».
«Sarebbe possibile? Non esserne al
corrente?» Stiles scattò come se quella possibilità non l’avesse nemmeno
scalfito, ma era troppo intelligente per cullarsi di quella versione.
Derek gli massaggiò la cute, premendo
le labbra contro una tempia. «Hanno tanti bambini da sorvegliare, non sarebbe
nemmeno così strano» anche se era qualcosa di imperdonabile. «Finché un lupo
non si mostra volontariamente, può celare la sua identità per sempre» perfino
gli odori nelle forme, umana e mannara, erano differenti, rivelandosi come
un’ulteriore barriera protettiva.
Non solo i lupi, ma qualsiasi
creatura sovrumana esistente, Stiles e Derek l’avevano ben scontato sulla loro
pelle. «Se fosse così, da quanto va avanti questa storia? Da quanto combatte da
solo? Si trattiene e doma il lupo? Le uniche a saperlo sono le sue sorelle,
sono così piccole, non dovrebbero portarsi un segreto simile».
«Forse è proprio questo» enfatizzò il
licantropo, lo sguardo lontano e nostalgico, la fitta potente che lo colse e
che Stiles vide riflessa nelle iridi di giada. «L’amore per le sorelle, ha
soltanto loro».
Stiles si sentì terribilmente male,
fu sopraffatto dal dolore, ma non da quello fisico che Derek gli aveva
sottratto via, ma dall’immensità che quelle creature straordinarie avevano
sofferto nell’attimo in cui tutti i beni familiari che più amavano gli erano
stati strappati via brutalmente, annientati. «Ma le cose sono cambiate, troppe
variabili, insidie e stimoli, sentimenti contrastanti» lui, che non gli
era per niente bene accetto. Che cosa ne poteva sapere un sempliciotto umano di
loro. «Una nuova casa, il sentirsi di nuovo al sicuro, voluto, ma il profondo
tradimento per chi si è lasciato indietro. Non è riuscito a non farsi sopraffare».
Derek meditò in un silenzio pesante,
pieno di sottintesi, la grandezza della sfida che aveva colto Erick non era da bollare in modo negativo, rimproverare e
fargliene una vergogna. Avrebbero dovuto imparare a gestirla, a catalizzarla e
farla fiorire nel modo migliore. «Domani ne verremo a capo».
Stiles abbassò le armi perché non
aveva più un briciolo di forza per portare avanti qualsiasi possibilità di
rimedio, asserendo a contatto con il capo dell’altro e mettendosi comodo sulla
curva del collo e della spalla, prendendo un nuovo respiro che lo liberasse
almeno per quella notte dalle complicanze che quegli esseri avevano e dovevano
ancora affrontare.
«Devo dirti una cosa» gli comunicò il
licantropo quando il mondo dei sogni era ad un passo da lui, a vezzeggiarlo e
sedurlo, preannunciandogli l’alleggerimento di ogni preoccupazione.
La sua unica risposta fu un mormorio di
accordo a procedere, non davvero trascinato da possibili problemi che potevano
insorgere da un momento all’altro senza dargli tregua, impedendogli di
ricaricare le batterie completamente andate.
«Laura mi ha chiamato papà» fu
la sua dichiarazione altisonante, l’orgoglio e l’onorevolezza che sfuggivano
alla pragmaticità che lo caratterizzava in ogni dove, facendo prevalere come si
sentisse realmente al riguardo.
«Oh» Stiles ne fu abbagliato,
completamente accecato, incapace di tenere gli occhi puntati sulla felicità
incontrastata del suo bellissimo lupo nero. Tutto quello che Derek aveva
cercato nella vita era l’amore ‒ quello che gli era stato negato tra
inganni e sotterfugi, strappandoglielo con perfidia e malvagità fondata,
lasciandolo con un pugno di cenere ‒ e lentamente e con pazienza, sotto
le mani e la guida di Stiles, stava per esserne tempestato. «È stata una serata
impegnativa anche per te».
Stiles si ancorò a lui meglio che
poté, trasmettendogli tutta la fierezza che provava nei suoi confronti, sussurrandogli
e donandogli il suo cuore che Derek ricambiò ampiamente, chiamando a
testimoniare la sfera di madreperla che brillava nella distesa incontrastata
della notte.
Da
dove cominciare? Credo ci sia davvero tanta carne al fuoco. Tutto era partito
con la serenità, la conoscenza reciproca, ma poi diciamo che le cose si
complicano abbastanza. Erick non è soltanto un
licantropo, ma un piccolo lupetto in tutto e per tutto e ha reso le cose molto
difficili per Stiles. Ma adesso cosa cambierà nell’assetto familiare così
giovane e precario?
Sicuramente
dovrei aggiungere qualcosa, ma lascio la parola a voi.
Il braccio gli doleva, come qualsiasi
altra parte del suo corpo ed uscire dalla foschia della sonnolenza che non voleva
abbandonarlo era molto complicato, quasi fosse risucchiato al suo interno e gli
impedisse di uscirne indenne. Mugugnò con scontentezza, la luce del giorno che
attraversava l’oscurità creata dalle palpebre sigillate.
Gli servirono diversi minuti per mettere
a fuoco, rendersi conto di trovarsi nel tepore e nella comodità del letto che
condivideva con Derek, accerchiato dalle pareti della camera in cui
coabitavano. Meno gli servì per notare la fasciatura medica ad arte che era
stata applicata sull’arto superiore ferito, insieme alla consapevolezza di
trovarsi dentro uno dei suoi pigiami confortevoli. Derek, ad un certo punto
della notte, doveva averlo portato di peso fino al loro giaciglio privato.
Si alzò con fatica, le sinapsi
rallentate ed i piedi scalzi che si infilavano automaticamente dentro le
ciabatte morbide. Il primo istinto, dopo essersi ricomposto e schizzato di
acqua sul viso, fu di sbirciare dentro la camera delle bambine per vedere se
era toccato loro la stessa sorte da belle addormentate nel bosco ‒ niente
principe azzurro in attesa da cento anni, ma un lupo nero molto contrarioso ‒,
trovando la porta leggermente socchiusa ed entrambi i letti occupati; in uno
erano presenti avvolte dalle coperte le due figure femminili, mentre nell’altro
riposava Erick, avvinghiato alle lenzuola. Strana
scelta, i cuccioli avevano cominciato ad essere più autonomi rispetto alla
prima notte sotto quel tetto nel mese quasi concluso, soprattutto dopo la
sfuriata di Erick, era stupito che Derek avesse
adottato quella situazione.
Scese le scale con la mente
intorpidita, lanciando un’occhiata al circondato e trovandolo immacolato, come
se all’interno delle mura di villa Hale-Stilinski non si fosse allestita una
lotta mannara soltanto diverse ore precedenti.
Trovò il lupo intento a svuotare la
lavapiatti ed a sistemare i vari oggetti negli appositi scomparti, la macchina
del caffè già in funzione per riempirgli la tazza con la bevanda appena
preparata. Stiles mugolò contento, inebriato dall’odore della caffeina fresca
di tostatura, abbandonandosi contro una delle sedie più vicine all’ingresso
della cucina, la testa trattenuta dagli arti anteriori con i gomiti poggiati
sul tavolo della colazione.
Derek gli si avvicinò con la tazza
designata fumante, il liquido nero che gli inebriava le membra e lo ammaliava,
come il bacio che il marito gli diede in un ben svegliato; dieci anni di
relazione, nove di convivenza e sette mesi di matrimonio e ancora non riusciva
ad essere immune davanti ai piccoli gesti quotidiani d’affetto con cui Derek lo
riempiva.
Quando il primo sorso avvenne, il
mondo riprese a scorrere nell’ordine giusto, a cogliere ogni senso della vita.
«Vacci piano con quello» lo riprese
la creatura della notte, sedendosi sulla sedia a due centimetri da lui. «Ti rende
più iperattivo».
Stiles emise uno sbuffo di noia,
sordo a tutte le volte che glielo faceva notare. «Sai che non sono clinicamente
iperattivo, vero? Sono solo pieno di energie che devo scaricare».
«Sono un uomo fortunato» gli fece il
verso l’altro, bevendo il suo di caffè, che non era per niente la bomba
calorica che Stiles ingurgitava. «È così facile starti dietro, in effetti».
Il figlio dello sceriffo in tutta
risposta e con dignità matura si esibì in una delle sue migliori smorfie, con
tanto di linguaccia annessa e continuò a tracannare la sua bevanda magica
ignorandolo bellamente.
«Come ti senti?» fu ciò che il
licantropo gli chiese un paio di minuti dopo, lasciandogli il tempo di
relazionarsi nuovamente con la Terra.
Provò dolore soltanto per il ricordo.
«Indolenzito» possedeva ancora un braccio, quindi andava più che a meraviglia.
Derek lo guardò per un lungo momento
con i suoi occhi verdi e Stiles ricambiò con una forma interrogativa. «Mi
chiedo perché ti ritrovi sempre in queste situazioni».
Ah, la domanda del secolo. «Attiro sempre bei mannari tormentati» lupi, coyote, chimere.
La creatura leggendaria non replicò,
ma non distorse nemmeno l’attenzione. «Non avevo scelta, Derek. I nostri figli
sono più importanti».
«Non lo sto contestando» già,
con Stiles la storia non faceva che ripetersi, l’importanza che dava
principalmente agli affetti che a se stesso, Derek
aveva dovuto convincerci per anni prima di comprenderlo totalmente, prima di
capire che in quell’elenco ci rientrasse anche lui. «Avrei fatto lo stesso, ma
avrei preferito essere lì con te, a risolvere insieme il problema, invece
quello che ho trovato è stata una casa con l’odore del tuo sangue dappertutto»
non era solo l’odore ad essere dappertutto.
«Ehy, è
stato un imprevisto, ci capitano continuamente» la mano libera dalla tazza, con
indosso la fede, si poggiò su quella del lupo mannaro, stringendogli
leggermente le dita e incontrando il metallo dorato gemello. «Avevamo una
sottospecie di piano, è vero, ma non è colpa tua se il tempismo ha giocato con
noi» proprio perché Derek aveva ipotizzato l’età portata da Erick
come quella del risveglio prossimo, si erano messi d’accordo sullo stare
attenti e pronti ad entrare in azione se avessero avvistato delle avvisaglie,
ma quelle non c’erano state da nessuna parte, né il giorno precedente né quello
effettivo, e non era difficile capirne la motivazione. «Me la sono cavata
comunque».
Le iridi boscose continuavano a
scrutarlo senza nessuno stupore, facendo intrecciare le falangi tra loro.
«Perché sei sfacciato».
Stiles gli presentò il suo tipico
sogghigno da prestigiatore, portandosi il palmo del licantropo alle labbra e
regalandogli uno schiocco caloroso. «C’era davvero tutto quell’odore di
sangue?».
«Non solo l’odore, la scia era sparsa
per tutto il pavimento, sulle scale e nella camera di Erick;
l’intero percorso che hai fatto da lì allo studio» era stata una scoperta
interessante, ma non necessaria. Gli aveva descritto per filo e per segno cosa
fosse accaduto, le tempistiche e tutti i movimenti che avevano fatto, quanto
Stiles avesse corso per attirarlo verso la stanza di sicurezza.
«Oh, non me ne sono reso conto» la
sua attenzione si spostò sul braccio fasciato, nascosto sotto la manica del
pigiama, lo stesso di cui Derek si era preso cura non appena aveva potuto.
Mollò la presa sulla tazza fumante e, senza sciogliere la trama che lo legava
al consorte, scostò la stoffa che lo ricopriva mostrando la gazza perfettamente
sistemata, passandovi i polpastrelli come se potesse sentire cosa ci fosse al
di sotto, ma era sicuro che il mannaro avesse adempiuto ad un’altra seduta di
vene nere per ispessire lo strato d’epidermide. Probabilmente aveva sanato
perfino le schegge d’osso che aveva sentito lacerarsi. «Hai pulito tutto?»
domandò quando si rese conto che non aveva trovato nessuna traccia di liquido
plasmatico durante tutto il suo tragitto, spiegava anche il perché Erick non fosse nel suo letto.
«Sì» era la prima faccenda di cui si
era occupato dopo aver portato i quattro addormentati nei rispettivi letti ed
essersi occupato di medicare Stiles; armato di ogni tipo di detergente cancella
odori e stracci di generi diversi, aveva tirato a lucido ogni cosa, come se non
fosse capitato nulla. Eccetto il piccolo mobile d’esposizione composto da
piccoli cassettini incolonnati che il lupo giovane aveva artigliato e fatto
cadere, era indeciso se farlo sistemare o tenerlo così com’era.
Le labbra del figlio dello sceriffo
si curvarono liete ed un po’ costernate, nascondendole dietro il caffè, mentre
Derek si alzava, scioglieva la stretta che li accomunava e lo immortalava con
un bacio sul timpano, scompigliandogli i capelli e accingendosi a preparargli
la colazione per rimetterlo in forze. Fu alcuni minuti dopo che tre paia di
piedini accorsero con reticenza sulle scale, procedendo con adagio.
Li videro entrare con la colpa
stampata sui visetti, la mortificazione che la faceva da padrone, i piedini
scalzi e i pigiamini colorati ancora indosso, esitavano sulla soglia della
porta della cucina. «Sento i vostri stomaci brontolare, mangiate insieme a me».
I tre bambini si guardarono tra loro
indecisi, come se cercassero di carpire un significato segreto che era contenuto
tra le parole appena pronunciate, eppure Derek consegnò i pancake appena tolti
dalla padella su quattro piatti già disposti, muovendosi per farne degli altri
e prevenire le loro future richieste. Erano caldi e invoglianti, fumavano in
modo delizioso e lo sciroppo d’acero fu fatto scivolare con maestria, a
richiamarli ed incentivare l’offerta con l’ambrato liquido che spiccava sulla
pila che il mannaro adulto aveva sistemato. Gli stomaci brontolarono seriamente
e Stiles rise di cuore, prima che Corine gli corresse
incontro, balzando sulla sedia e aggrappandosi a lui. Stiles la riempì di baci
su ogni centimetro riuscisse ad arrivare ed i risolini complici e felici della
sua vocetta tenera si espansero per tutta la stanza. Laura ed Erick la seguirono senza sbilanciarsi, ma rimanendo tesi
sulle loro rispettive sedie, in mano la forchetta e il primo boccone che fu
ingurgitato. La cucciola venne presa in carico da Derek, non mostrando alcuna
intensione a volersi separare da uno Stiles martoriato, e se la sistemò sulle
gambe, tagliandole le frittelle di farina e uova immerse nello sciroppo in
piccoli pezzettini, mettendole la posata principale a disposizione e facendo
sparire i coltelli dalla sua vista. Dalla sua mancata partecipazione al pasto
più importante della giornata, l’umano decretò che Derek avesse già mangiato e
si chiese da quanto tempo fosse sveglio in giro per casa a sistemare la
confusione che era stata creata la sera precedente.
«Ci manderete via?» fu la prima
domanda diretta che Erick porse a Stiles da quanto
vivevano sotto la loro tutela, il boccone ancora intrappolato tra i denti di
metallo ed impossibilitato a mandarlo giù. Pittorescamente fu anche la prima in
cui si sedette accanto a lui, diversamente da Laura che si sistemò sul posto più
lontano, come se ancora non riuscisse a perdonassi e bisognasse di mantenere le
distanze dai due uomini che sapeva aver deluso enormemente.
Le orecchie di Stiles si rizzarono e
le iridi di miele si posarono su quelle fredde e tese del bambino di nove anni,
erano intense e magnetiche. «Prego?» Derek dipinse sul volto la stessa
richiesta, mentre perfino le altre due smisero di far colazione con i nervi a
fior di pelle.
«È quello che succede in questi casi,
quando si creano problemi» disse con pragmaticità il lupo giovane, in una
rivelazione di un dato di fatto, conscio fino al midollo.
Stiles fu così sopraffatto dal
distacco e maturità che Erick stava dimostrando per
non cadere a pezzi, da spezzargli il cuore. A quanti casi simili aveva
assistito? Quanti bambini mentre erano all’interno della Wolfgang Childhood erano stati riportati indietro perché considerati
un ostacolo? Era sempre stato quello il loro terrore? Trovare un posto dove
sentirsi a casa per poi essere rispediti indietro non voluti. Era il motivo per
cui Laura e Corine tentassero in ogni modo di
proteggere il fratello e mettere continuamente una buona parola per lui?
«Ascoltami bene, lupetto» lo vide illuminarsi per la prima volta, toccato nel
profondo dalla carineria. «Voi siete nostri e noi siamo vostri, nessuno sarà
mai rimandato indietro» se perfino dopo l’anno di prova gli assistenti sociali
avessero decretato che non andassero bene, lui e Derek si sarebbero battuti
fino allo sfinimento per non farseli portare via. «È questa casa vostra, con noi».
Le iridi del mare del più grande della cucciolata si inumidirono, ma
rimanevano fisse e incredule su di lui, la sola visione periferica che gli
permetteva di divedere la stessa credenza nella creatura della notte che
tranquillizzava Corine, stampandole un bacio sulla
testa. «Davvero?».
Stiles gli accarezzò il setto nasale con le punta delle dita del braccio
dolorante, dolcemente e con amore smisurato. «Davvero, davvero».
Derek assistette per la prima volta ad un contatto tra i due, il modo in
cui tutte le barriere di Erick si infransero a quel
singolo sfioramento, al sorriso d’affetto e sicurezza che Stiles gli donava, il
totale ostruzionismo che sembrava essersi volatilizzato, la propensione ad
accettare tutto quello che aveva da dargli in prima linea, come se ne
dipendesse, avesse ogni bisogno del mondo. Si chiese cosa fosse accaduto tra
loro in quello spazio isolato la notte precedente da cambiarlo in un
atteggiamento tanto evidente. L’aveva notato anche dal modo in cui si fosse
abbandonato completamente all’umano nel suo momento più fragile, le membra che
cadevano nel sonno privo di qualsiasi energia per ridestarsi, lasciandosi
completamente tra le sue mani. In un iniziale piccolissimo momento, si ribellò
perfino quando li separò per ricondurlo ad un letto vero ed accogliente, che
uno fatto di ossa e pelle.
«Ti fa male, Stiles?» domandò Erick subito dopo,
gli occhi fissi sulla benda che ricopriva tutto l’avambraccio sinistro
dell’umano che aveva dimenticato di ricoprire con la manica della tenuta da notte
– si sarebbe vista ugualmente. In realtà il bambino l’aveva osservata per tutto
il tempo da quando era entrato in cucina, di soppiatto, con moderazione, ma
senza riuscire a togliersela dalla mente. Era anche la prima volta che Derek lo
sentiva riferirsi a Stiles con il suo nome e non con appellativi poco dignitosi
come quello o lui.
Le perle del nettare degli dei scivolarono sul punto che attirava
l’attenzione del bambino e sventolò l’arto sinistro come se niente fosse, anche
se l’Hale poteva quasi giurare che quella leggerezza gli creasse degli
scompensi che sopprimeva a denti stretti; era sempre stato troppo bravo a
celare e mascherare il dolore che provava agli altri, soprattutto ai suoi cari.
«Non ti preoccupare, è soltanto Derek ad essere molto apprensivo» aspetto
molto molto vero, nella sua vita l’aveva ampiamente testato. «Da di matto
anche per un graffietto, è divertente vederlo quando succede».
Derek si ritrovò come regalo il sorrisetto doppiogiochista dell’autentica
volpe che viveva in lui e con cui condivideva il letto; si limitò a roteare gli
occhi per niente toccato dalla sua scorrettezza tipica. «Ora, perché non ci
dite la verità?».
I tre bambini saltarono in aria alla domanda camuffata del lupo mannaro,
che risuonava come un ordine a cui dovevano fornire tutti gli elementi
richiesti.
Si chiusero a riccio come se non l’avessero capita in pieno.
«Da quanto puoi mutare in un lupo completo?» lo incentivò Stiles con più
cura, come se avesse compreso che avrebbero dovuto essere più espliciti ed imboccarli
una portata alla volta. «Abbiamo capito che ieri non era la notte del tuo
risveglio».
Laura tremò vistosamente come se qualcosa di importante l’avesse tradita,
aveva ipotizzato che Stiles potesse avere dei sospetti, ma non che ne fosse
tanto certo. «Pap- Derek, Stiles, non volevamo
nasconderlo».
Il licantropo e l’umano la guardarono con un aggrottamento della fronte al
suono di quella correzione che si apprestò ad apportare e Stiles rifilò una
sola occhiata veloce a Derek che era interamente concentrato su di lei.
«Non è colpa loro» intervenne Erick in soccorso,
tirando le sue sorelle fuori dai pasticci. «L’ho deciso io».
«Insieme» si intromise Corine, la fermezza della
sua fanciullezza candida e il lupo nero se la strinse meglio al petto per
evitare che scivolasse ulteriormente.
«Sì, abbiamo deciso insieme» si aggiunse la lupacchiotta a sottolineare il
ruolo che tutti i fratelli avevano ricoperto. Stava diventando più forte e
propensa a combattere per le sue battaglie, i due adulti riuscivano a vederlo
chiaramente giorno dopo giorno.
Erick sospirò come se non gli andasse bene quella presa di posizione delle
sorelle, ma era stato in svantaggio con loro da quando erano nate. «Avevo sette
anni, la prima luna piena dopo la morte dei nostri genitori».
«Sette anni?» Stiles saltò in aria senza aspettarsi minimamente quella
rivelazione, gli occhi sgomenti che cercavano quelli del marito per accettarsi
di aver compreso bene. «È possibile, non è troppo presto?» perfino Malia, che
all’epoca aveva soltanto otto anni, era risultata leggermente fuori scala
rispetto all’età indicativa che girava intorno ai nove, esattamente quella in
cui la natura soprannaturale si svegliò in Derek.
Derek scrollò le spalle come se non avesse alcuna risposta, sorpreso quanto
lui, e Corine gli tirò una manica per farsi mettere
giù, correndo intorno alla tavola, i fili d’oro che svolazzavano, e
aggrappandosi alla schiena del fratello maggiore, ricevendo in cambio un
sorriso sincero ed un arruffamento delle ciocche chiare. «Forse, se si ha uno
stato emotivo compromesso. Le emozioni hanno molto effetto su di noi».
Oh, Stiles lo sapeva fin troppo bene. «Non lo sa nessuno alla Wolfgang Childhood?» tutto quel tempo e nessuno aveva notato niente,
era veritiero? Come gestivano lì le cose?
«No» confermò Erick
imperiale, le dita che accarezzavano la nuca della sorellina. «Nei primi due mesi ci hanno permesso di dormire insieme, eravamo da soli
quando è successo» il controllo gli era sfuggito dalle mani, la rabbia e
l’aggressività, il peso del cuore rotto, la fragilità e il male, l’affanno, la
sofferenza, l’angoscia e il tormento, le immagini della loro famiglia che
veniva sterminata davanti ai loro occhi; gli artigli erano usciti da soli, gli
occhi si erano accesi di giallo luminoso, si ritrovava zampe al posto dei
piedi, aveva gambe ricoperte di pelliccia, riusciva a stare soltanto in
equilibrio utilizzando sia gli arti superiori che inferiori e gli era
impossibile stare in piedi, nessuna posizione da bipede, ma soltanto da
quadrupede, aveva un muso lungo e dei denti pericolosi, la bava che gli usciva
dalla bocca senza che potesse fermarla, la sete di sangue che gli diceva di
affondare le fauci nelle carni tenere e morbide dei corpicini delle sorelline,
allora rispettivamente cinque e due anni. Si erano svegliate con le urla
trattenute al suono del suo lungo ringhio e del respiro pesante che incombeva
tra loro, in lacrime e spaventate. Ma si era fermato al loro cospetto, al nome Erick che persistevano a ripetere come un mantra,
alle pozze d’acqua salata che continuavano a formarsi ai loro piedini scalzi e
freddi, ai corpi che tremavano di paura e tristezza profonda. Erano soltanto
loro, lasciati da soli nel mondo ad affrontare le avversità senza nessuno che
gli copriva le spalle, senza poter gridare in aiuto mamma e papà,
senza spiegazioni, senza le informazioni base per poter affrontare la natura
che faceva parte di loro ma che disconoscevano totalmente. Nessuna spalla su
cui piangere nel cuore della notte quando un incubo aveva la meglio su ciò che
c’era di buono, nessuno da cui correre per trovare conforto o felicità in
qualsiasi momento della vita che fino a quattro settimane prima esisteva e poi
era svanita in un puff, quasi non fosse
esistito nulla prima di quel giorno. Erano rimasti esclusivamente loro tre a
formare il centro del loro universo e dovevano proteggerlo a qualsiasi costo.
La forma del suo lupo leccò i loro visi rigati dalle lacrime e le sorelle gli
gettarono le braccia al collo, continuando a versare stille di cristallo sulla
pelliccia di miele per tutta la notte, buttate con le ginocchia sul pavimento,
le gambe incrociate ed aspettando che tutto il dolore di Erick
evaporasse in una nuvola di fumo, i raggi dell’alba che accoglievano il
rinnovato e vecchio aspetto del bambino, le iridi da lupo che avrebbe
necessariamente celato per un tempo non calcolato, il segreto che dovevano
proteggere per non essere separati ulteriormente, con la certezza che fosse per
sempre.
Stiles fu sconvolto dal suo racconto,
esattamente come Derek, da quello che nella segretezza avevano dovuto subire
per non perdersi, a stringersi così tanto tra loro tagliando tutto il resto del
mondo fuori, a rimanere uniti; si pensa che dei lupi mannari siano più
predisposti ai proprio simili, assimilarli al branco, insegnargli e tutto il
resto, ma sono esattamente come tutti gli esseri umani era quello che la Wilkinson
gli aveva comunicato quando avevano consegnato i documenti per adottare i
trovatelli Lefèvre. Era demoralizzante che dei bambini così piccoli avessero
compreso quell’amara verità, oltre a tutti gli orrori che avevano già vissuto.
L’umano si alzò automaticamente, senza pensare, senza riflettere,
portandosi davanti a Erick ed a una piccola Corine che lo guardava con gli occhi giganti nascosta
dietro le sue spalle, amplificando la stretta sul fratello, l’interrogativo
stampato sui tratti facciali di entrambi. «Sei stato bravissimo» si piegò in
modo da raggiungere la sua altezza, le gemme dell’ambra riflesse in quelle
dell’oceano. «Sono tanto fiero di te» le dita della mano da cui emergeva
l’anello che lo legava indissolubilmente a Derek, il braccio ferito,
affondarono lievemente nei corti capelli biondi, il lato del pollice che gli
accarezzava in una riverenza una tempia affaticava dal peso che si portava
dentro da due lunghissimi anni di solitudine, domando la bestia con il solo
amore che provava per le sue sorelle, il suo tesoro più grande che avrebbe
dovuto proteggere perfino da se stesso. «Sei un lupetto speciale».
Un singhiozzo si incastrò nella
trachea di Erick, ma non lo sprigionò mai,
impedendogli di mormorare qualsiasi cosa avesse voluto, limitandosi a chinare
il capo come un assenso, tentando di sfuggire al sorriso pieno di Stiles che
brillava di orgoglio per lui.
Derek capì che il lupetto era appena
stato catturato dal fascino ammaliante della volpe più spudorata esistente, ma
che era stracolma di amore da donargli senza compromessi.
«Adesso non devi più preoccuparti» riprese
Stiles incoraggiandolo, l’impegno che stava prendendo senza minimamente avere
dei timori. «Derek saprà come insegnarti, è molto bravo ed è anche un lupo
buonissimo».
La sorpresa nelle tre creaturine si
diffuse come la tessera di un domino che cade su quella successiva e sei occhi
si concentrarono tutti sul mannaro adulto. «Pa-
Derek, sai diventare anche tu un lupo? Uno vero?» la voce di Laura sovrastò
tutte quelle degli altri, lo stupore e l’eccitazione che crescevano
inesorabili, come se non avesse mai avuto a che fare con quell’essere a quattro
zampe citato.
Derek annuì soltanto come se non ci
fosse alcun merito o qualcosa di speciale in quella capacità, ma non era vero,
Stiles sapeva benissimo quanto pochi fossero i licantropi che potevano assumere
la forma completa di un lupo. «Sì, è il lupo nero più bello del mondo» Derek lo
ignorò volutamente, quasi a comunicargli che era di parte. Probabilmente lo
era, ma era innegabile la regalità che gli apparteneva, la maestosità e
l’eleganza che lo caratterizzavano. «Avevo diciassette anni e non sono più
riuscito a togliermelo dalla testa. In realtà, anche prima di quel momento era
stato impossibile, un interesse non ricambiato».
«Chi te l’ha detto?» lo colse in
fallo il mutaforma, immobilizzandolo sul posto e
lasciandolo senza niente con cui controbattere. «Non mi pare di aver negato di
provare lo stesso interesse già da allora».
Stiles strabuzzò gli occhi quasi non
riconoscesse il suo interlocutore, improvvisamente c’erano delle brecce nei
suoi ricordi. «Lo eri?».
«Chissà» ammiccò deliberatamente il
consorte.
Stiles ebbe l’irrefrenabile impulso
di strozzarlo e di avvelenargli il caffè con una bella dose di strozzalupo che
sapeva bene come procurarsela. «Ho cambiato idea, te l’ho insegnerò io, mio
giovane Padawan. Lasciamo stare questo villano».
Derek rise per la sua reazione,
stuzzicarlo non smetteva mai di divertirlo. «Che ne dite di andare al Rock Creek
Park per un po’? L’aria fresca ci farà bene
e posso insegnarvi tutto quello che so».
«Anche a noi?» chiesero in coro le
bambine stupefatte, l’adrenalina che scorreva loro in modo incontrollato e
speranzose.
«Certo» fu la sola risposta del
mannaro adulto, senza che dovessero minimamente dubitarne.
Corine e Laura si liberarono dalle loro postazioni e gli corsero incontro a
strappargli un abbraccio leggero, per poi fiondarsi festaiole su per le scale a
cercare di svuotare l’armadio.
Erick rimase esattamente dov’era, incapace di muoversi, scendere dalla sedia e
mettere un passo dietro l’altro, mentre Stiles lo guardava con intensità e
conoscenza ancora dalla posizione scomoda che lo teneva alla sua altezza. «Puoi
andare, lupetto» un dito che gli percorreva con morbidezza tutto il setto
nasale, depositandogli un puffetto affettuoso sulla punta. «Sei libero».
Gli occhi del bambino si fecero
giganti ed increduli, tutto il peso sulle spalle che Stiles e Derek avevano
visto in lui dal loro primo incontro alla Wolfgang Childhood si sfarinò, permettendo di intravedere la vera essenza amaramente
bersagliata della creatura di nove anni che sarebbe dovuta
essere. Fu leggero, capace di sbattere le ali e volare ovunque volesse, essere
chiunque volesse.
Con le lacrime serrate dietro le
palpebre ripetutamente abbassate, Erick si dileguò
incapace ancora di esternare tutte le emozioni che l’assalivano.
Stiles, rimettendosi in piedi, lo
vide oltrepassare la porta della cucina e sentì i piedi percorrere le scale in
salita, le preoccupazioni che ancora l’accompagnavano, ma vittorioso dei
traguardi che erano riusciti a raggiungere.
Derek lo affiancò al suo lato del
tavolo, i piatti vuoti che andavano opportunamente sparecchiati e completamente
in sintonia con i pensieri che affollavano la mente caotica dell’unico essere
umano della villa. «Lo ero».
Il sussurro del lupo lo riportò
indietro, ridestandolo e fu automatico voltarsi nella sua direzione, fissandolo
con un cipiglio interrogativo, incapace di afferrare cosa gli avesse appena
comunicato. Si specchiò nelle sue gemme verdi per un attimo di troppo, in cerca
delle risposte che teneva segregate dentro di sé e Stiles brillò di
comprensione quando ogni neurone si focalizzò su di lui, a ripescare indietro a
un tempo non troppo remoto. Le labbra si incurvarono giocose e liete, del tutto
verse nella sua direzione. «Davvero?».
Fu pronunciato con la stessa cadenza
dei loro bambini lontano dal pasto consumato e di cui rimanevano le tracce
sulla tavola, l’imitazione di quel candore che difficilmente lo rispecchiava.
«Sì» la conferma di Derek arrivò sottoforma di un bacio di velluto su quella
bocca curvata di felicità, a confessare il suo amore longevo.
Il dolore era lancinante, quasi non
sentiva più l’arto sinistro o qualsiasi altra parte del suo corpo, l’adrenalina
che aveva in circolo non lo faceva rimanere lucido su quello che gli accadeva
direttamente, ma era tutta dirottava verso l’aggressore che stringeva sempre di
più le fauci, il liquido scarlatto che si addensava sulla maglia magicamente
intonsa e che fluiva verso la manica che contrariamente era sfibrata, cadendo
giù a macchiare tutta la lastra di cemento in un unico blocco, le iridi gialle
dorate accese piene di collera e rabbia pronte a sbranarlo, a mandarlo al
tappeto e ridurlo in pezzi. Il ragazzino di nove anni con un enorme dolore nel
petto, ma pieno di ogni brutto pensiero sul mondo era scomparso, davanti a sé
vedeva solo un nemico di cui poteva nutrirsi, liberando le sue paure e
lasciando che le azioni malvagie ed a cui non aveva controllo comandassero per
lui, prendessero quella decisione che si era ostinato di tenere per se stesso.
Stiles la vedeva veramente brutta, in
passato aveva affrontato ogni genere di creatura che voleva sbarazzarsi di lui,
fargli un torto, annientarlo, scaricare la natura soprannaturale che la luna
piena scaturiva, l’istinto animale irrefrenabile che voleva essere ascoltato e
appagato. Non ne era sempre uscito vincitore, spesso aveva perso varie parti
della sua umanità per sopravvivere, ritrovandosi a convivere con il peccato di
cui si era macchiato. Ma quello era il bambino che aveva deciso di mettere
sotto la sua ala protettiva, era
suo figlio, il figlio che lo rinnegava non riconoscendo la sua valenza. A
Stiles poteva anche andargli bene se riusciva comunque a proteggerlo e
ridonargli la vita che la malvagità di persone assetate di sangue e cattiveria
gli avevano strappato.
Il suo bambino stava soffrendo così
tanto da lacerargli il cuore.
«Mi dispiace» proferì alla creatura
meravigliosa e brutale che stringeva i denti, ringhiandogli contro. La porta di
sicurezza era sbarrata, nulla avrebbe potuto aprirla dall’interno se l’umano
non avesse voluto e non si sarebbe mai mosso sapendo che le bambine, le sue figlie, erano al di là ad aspettare e probabilmente piangendo.
«So perfettamente che questa non è la vita che volevi, che non era me che
volevi, un insulso umano che non ha nulla da spartire con voi» si chiese se
fossero state in grado di contattare Derek, ma non avrebbe mai fatto in tempo.
«Volevi crescere nella tua casa, con le tue sorelle ed i tuoi genitori, non
conoscere la brutalità di persone che si divertono a fare del male,
spacciandosi per paladini alla difesa degli umani che non potrebbero
proteggersi da voi» ma era una bugia così grossa, se ogni essere umano fosse
entrato a conoscenza delle debolezze dei lupi mannari o qualsiasi altra
creatura leggendaria, sarebbero stati annientati e di loro non sarebbe rimasta
nessuna traccia. «Stai soffrendo, lo so. Tutto questo dolore ti sta
schiacciando, ti lacera dentro e non riesci più a respirare, a comprendere
cos’è che puoi fare per uscirne illeso, ad essere più forte del lupo che prende
il sopravvento senza che tu lo voglia davvero» oppresso, soffocato
dall’oscurità, da una mano più forte, Stiles sapeva perfettamente come ci si
sentisse, quanto impotenti si era e fosse impossibile far valere le proprie
ragioni.
Un ringhio più forte si espanse per
la stanza rafforzata, immersa nel buio con spicchi di luce strategici a non
abbandonarli nelle tenebre, ma da nasconderli alla malia dei raggi lunari.
L’umano teneva il braccio a difesa come uno scudo, l’unica barriera che gli
impediva di essere assalito, ma sentiva i denti affondare nell’osso e graffiare
e se si fosse impegnato un filo di più, il lupo di miele avrebbe potuto
strapparglielo con uno strattone e di Stiles non sarebbe rimasto traccia.
Un’artigliata gli arrivò dritta sul volto a graffiargli il viso sotto un occhio
nell’attimo in cui riuscì a farlo cadere sul pavimento duro e freddo, mentre
tentava di spingerlo ulteriormente indietro per bloccargli le vie di fuga e
saltargli addosso per permettergli un banchetto senza difficoltà.
Stiles la vedeva molto brutta con
l’alito pesante che gli arrivava dritto in faccia a schiaffeggiarlo, i canini
minacciosi imbrattati di saliva davanti gli occhi e quella massa possente che
troneggiava su di lui ad intimorirlo, non lasciandogli presagire nulla di
buono. «Sei pieno di rabbia e risentimento per quello che ti hanno portato via»
come avrebbe potuto non trovarsi in quelle circostanze così ingiuste, Stiles
sentiva il bisogno di piangere con lui. «Questa non è per niente la condizione
in cui avresti voluto ricominciare, insieme ad un essere così simile alle
persone che ti hanno sottratto tutto, legato totalmente ad un lupo come te. Non
riesci a concepirlo, a credere che l’universo possa essere talmente spietato da
metterti davanti qualcosa che odi profondamente» le iridi gialle brillarono più
irrequiete e il figlio dello sceriffo si chiese se invece di aiutarlo, si
stesse scavando la fossa da solo, se l’affanno costernato del lupetto se lo
stesse immaginando. «Sei stato portato dentro una casa in cui le tue sorelle
vivono bene, in cui sono amate e sono felici, mentre tu non riesci a trovare il
tuo posto, ad accettare che qualcosa di buono possa venire fuori dopo tutto il
male che avete patito, che hai patito. Le hai protette, continui a proteggerle,
ma adesso puoi allentare, Erick. Non ci sei soltanto
tu a vegliare su di loro, non devi più salvaguardarle dal mondo in solitudine»
l’unica mano che gli rimaneva osò inoltrarsi verso la belva, che confusa e
provata rimaneva aggrappata all’avambraccio senza sapere come procedere,
sfiorandogli la pelliccia morbida, procedendo con adagio. «Lascia andare tutto
questo dolore, abbraccialo e non combatterlo. Ti prometto che io e Derek
sapremo darti quello di cui hai bisogno, che non ci arrenderemo con te. Che non
ha importanza se non ti piaccio per niente, ma tu, invece, mi piaci
tantissimo».
«Stiles» il suo nome risuonò per le
pareti grigie scuro frammentato e con un singhiozzo sotterrato ben presente, il
braccio quasi lacerato liberato dalla morsa tremenda e l’altro sospeso in aria.
«M-mi dispiace così tanto» le iridi dell’oceano più immenso che avesse visto
gli si palesarono davanti, ricolme di lacrime inespresse, il viso di nuovo
umano e il corpo completamente nudo del bambino, la pelle d’oca che scorreva su
ogni lembo scoperto. Il lupo splendido che rilasciava luce era scomparso per
lasciare un pargoletto con un dolore troppo grande da poter gestire. «Mi
dispiace, mi dispiace, mi dispiace».
Gli si fiondò tra le braccia senza
che Stiles se l’aspettasse minimamente, i piccoli arti superiori che gli
circondavano la vita e la testa bionda nascosta nel suo petto. Nel panico,
l’umano chiuse la stretta, le dita della mano destra che si infilavano tra le
ciocche color del grano, mentre le altre, intorpidite e sofferenti, si mossero
sulla schiena per tenerlo con sé. «Non è successo niente, va bene così».
Il singhiozzo alla fine si infranse e
le stille d’acqua salata cominciarono a scorrere sul viso di Erick e sulla maglia del suo tutore. «Non volevo farti
male, non volevo fare male a nessuno».
«Non l’hai fatto» l’abbraccio si fece
più intenso, il viso di Stiles si incastrò nel suo e piccoli baci furono
depositati su ogni parte del suo volto a cui riuscisse ad avere accesso. «Sto
bene» Erick scoppiò in un pianto distruttivo e
liberatorio, incassandosi maggiormente contro di lui. «È tutto okay, sei stato
un lupetto bravissimo».
Erick gli tremò contro, continuando a versare tutto l’amaro e lo strazio che
sentiva dentro, manifestando quanto avesse bisogno del contatto umano con
Stiles, del suo calore. Stiles si trovava in difficoltà, sapeva che non poteva
allentare la presa sul cucciolo in quel momento fatale e raggiungere la coperta
che si trovava nell’unico mobile incassato nel muro che conteneva beni di prima
necessità, come la coperta che aveva inserito a tempo debito, ma affrontare quella
prova fisica con un braccio in pessime condizioni e la stanchezza dell’evento
appena vissuto portandoselo dietro gli appariva impraticabile.
«Mi sento così male» furono le parole
rotte che Erick rilasciò, la dilatazione del tormento
che gli viveva dentro, l’oscurità opprimente che lo richiamava a sé, farcita di
tutta la sofferenza e la disperazione che lo gremiva, non lasciandogli alcuna
speranza.
Un tonfo sordo e lacerante colpì
l’organo cardiaco di Stiles, assorbendo il tormento del lupetto che non gli
permetteva di liberarsi. C’era una desolazione talmente immensa da far
precipitare perfino lui. «Lo so» le falangi tra le ciocche amplificarono il
legame, accarezzandogli la fronte con il pollice e schioccandogli un nuovo
bacio esattamente al centro. «Dispiace a me, mi dispiace per tutto questo
dolore, ma non dovrai mai scusarti per questo, imparerai a domarlo. Saprai che
nella vita c’è di più, che ti sta aspettando e farò di tutto per mostrartelo,
per combattere per te e con te».
Un nuovo singhiozzo si infranse a
contatto con la sua pelle, insieme al tremolio che accompagnava il bambino e
Stiles si issò sulle gambe con fatica estrema, l’arto superiore destro che
prendeva il comando, stringendosi il corpicino più forte che poté contro di sé,
suscitando un sussulto sorpreso nel lupo, e affrontando i pochi metri che lo
separavano dall’oggetto dei suoi desideri, aprendo l’anta con il braccio in
pessime condizioni attraversato da spasmi e afferrando alla meno peggio la
coperta a tinta unita che scivolò giù, tenuta salda da una punta, mentre Stiles
si abbandonava proprio al lato, la schiena alla parete ed i piedi che
scivolavano sul pavimento di cemento, ritrovandosi seduto a gambe distese un
secondo dopo, il lupacchiotto accoccolato sopra di lui che si apprezzò a
ricoprire immediatamente dalle intemperie, circondandolo con il cotone
intrecciato alla lana e incentivando la morsa con le braccia che si stringevano
intono a lui. Erick sospirò appagato, rassicurato, in
pace con se stesso e con quel medesimo universo che
l’aveva preso di mira privo di qualsiasi motivazione, aggrappandosi
all’indumento che l’umano indossava. Stiles abbassò la testa verso quella del
piccolo mannaro, le labbra nascoste trai i suoi capelli dorati sudati, insieme
al nuovo bacio che gli regalò. «Non c’è nulla che non farei per il lupetto del
mio cuore».
Erick si abbandonò completamente alle premure di Stiles, l’umano che aveva tanto
disprezzato e deriso, che gli sussurrava all’orecchio parole di conforto e
d’amore senza riserve, come quello di un genitore che non chiedeva nulla in
cambio, riempiendole di affetto illimitato e comprensione, accompagnandolo
nella dormiveglia che lo reclamava da tutto il tempo, a placare la tempesta che
gli viveva nell’organismo, conducendolo per mano nel regno di Morfeo dove trovò
la pace definiva, con la certezza di essere vegliato da qualcuno che l’avrebbe
tenuto al sicuro con tutte le sue energie.
Derek teneva tra le mani il braccio
leso di Stiles, l’ultima seduta che gli avrebbe permesso di ripristinare completamente
tutto lo strato di epidermide, enfatizzando cellula dopo cellula, assorbendo
anche il più minuscolo indolenzimento, scacciando la memoria della sera del
plenilunio.
Erano al centro del loro letto, la
porta lasciata per metà aperta a permettere la visione su di loro, Erick che in silenzio rimaneva nascosto nella penombra del
corridoio, prestando orecchio e sbirciando le ferite quasi sparite nell’umano,
il senso di colpa che non voleva ancora abbandonarlo e che l’accompagnava ogni
volta che le bende facevano capolinea, sotto le movenze di uno Stiles che non
mostrava nessuna reticenza o forma di sofferenza. Non riusciva a smettere di
distogliere gli occhi dalle sue azioni avventate ed incontrollate, ma Stiles
aveva sempre un sorriso pieno per lui, traboccante di calore; rischiava di
bruciarsi.
Le vene del lupo mannaro adulto
continuarono a tingersi di nero inchiostro, concentrato, ma anche immerso in
una conversazione con il figlio dello sceriffo, le cui dita si aprivano e
chiudevano per dimostrare che andasse magnificamente anche senza il suo
intervento soprannaturale. «Hai visto? Adesso ho un nome, non sono più quello».
La felicità di Stiles era
pericolosamente contagiosa, ma non poteva fargliene una colpa se emanava
vittoria da tutti i pori. «Ho visto che hai un nuovo amico».
Stiles brillò con la piega scaltra
che gli sporcava le labbra e Derek poggiò le proprie al centro dell’avambraccio
ormai curato in ogni parte, schioccandole in un bacio di venerazione. «La
prossima volta useremo mezzi più appropriati e duri».
«Non ho intenzione di legare i nostri
figli, Derek» catene di metallo, spesse, fredde e crudeli, anche no, c’era già
passato per buona parte della sua adolescenza e non erano delle grandi alleate.
Il lupo storse la bocca come se non
fosse per niente in linea di pensiero col marito. «Disse quello che legava la
sua ragazza».
«Così suona molto ambiguo» Stiles lo
guardò oltraggiato e scandalizzato, un po’ piccato per quell’uscita infelice,
come se avesse davvero quelle manie distorte – stava volontariamente sorvolando
su pratiche affini che lui e Derek portavano reciprocamente avanti in occasioni
piccanti. «E avverto del risentimento. Non ti è mai andata giù la mia storia
con Malia» sua cugina, per Dio.
Le dita del licantropo massaggiarono
l’interno del polso, lì dove emergevano dalla pelle diafana le vene colorate,
l’accesso facilitato al pulsare del suo cuore. «Sei sempre stato libero di
stare con chi volevi».
«Anche tu» già, forse
l’avevano preso fin troppo alla lettera. Ogni volta che uno dei due si
distraeva, ecco che magicamente l’altro si ritrovava accasato e non vedeva mai
loro due come protagonisti congiunti. «Pensavo che stessi bene con Braeden».
Derek si fermò nella sua adorazione
tattile, la testa che scattava e gli occhi verdi che si piantavano davanti a
quelli ambrati, il sondaggio inespresso che ebbe avvio. «Era così».
Non lo era stato più? «Era cambiato
qualcosa?».
La presa del
mutaforma si sciolse ed improvvisamente appariva molto più distante di
quanto non lo fosse mai stato, guardingo e perplesso. «Me lo chiedi adesso?
Dopo dieci anni».
«Siamo in argomento» gli fece verso
la volpe furba e manipolatrice che si era sposato, a richiamare le parole che
soltanto due giorni prima aveva usato con lui tra un’interferenza telefonica e
l’altra.
Derek dimostrò tutto il suo
malcontento alla sua ennesima astuzia ed era evidente quanto avrebbe volentieri
fatto a meno di rispondere, Stiles non l’avrebbe certo costretto. «Posso dire
che con lei ho imparato ad essere qualcun altro» a difendersi come un essere
umano, senza superforza, iper sensi e guarigione automatica in tempo record. A
sopravvivere come qualcuno che doveva rimparare a vivere, a conoscere i suoi
limiti e punti di forza, a rendersi conto di quanto sottile fosse il velo che
lo divideva dalla vita e dalla morte. Perdere il suo lupo, tutto quello che era
stato per un ventennio l’aveva distrutto, aveva dovuto accettarlo e provare a
ricominciare. «Mi sono evoluto».
«Oh, quello senz’altro» si intromise
l’umano, a sottolineare quanto ne fosse conscio e testimone visivo, anche se
tardivo. «Sei diventato un autentico lupo».
«Non lo so diventato per o grazie a
lei» lo ribeccò prima che potesse uscirsene con qualsiasi sparata fosse pronto
a rigettargli addosso.
Stiles tacque, un brivido che tentò di
sopprimere che gli attraversò tutta la colonna vertebrale, la domanda che aveva
sulla punta della lingua, ma che non sapeva se potesse esprimerla. L’intensità
con cui Derek, suo marito, lo guardava, non gli dava adito a
fraintendimenti. «Ma questo era prima che decidessi di andare con lei» a Stiles
aveva provocato molto dolore quella scelta, ma non aveva nessun diritto di
fermarlo, di tenerlo con sé, anche se era tutto ciò che avrebbe voluto.
«Dovevo di nuovo conoscere me stesso,
era l’unica scelta da fare» stare lontano da una città che gli aveva tolto
tutto, ma che gli aveva dato anche la cosa più importante che rinnegava, era
ciò di cui sentiva il bisogno. Ricominciare, ripartire da zero e apprendere
meglio ciò che era, ciò che voleva ed era diventato. «Siamo stati bene, ma
abbiamo preso strade diverse».
Così semplice e lineare, quasi
banale? «Tutto qui?» domandò il detective con un cipiglio ben visibile, quasi
non riuscisse a credere a quella versione della storia. Ma lui non era stato lì
con loro, non poteva sapere cosa fosse davvero accaduto.
«Non sei soddisfatto?» Derek arcuò un
folto sopracciglio, la pazienza che scalpitava per togliere il disturbo.
«Se è questa la tua verità, va bene» alla
fine aveva davvero importanza? Qualsiasi convergenza astrale si fosse mossa per
permettere la vita che conducevano da dieci anni era bene accetta; doveva solo
stare attento a non cadere nel baratro dei e se, che gli avrebbero
avvelenato l’animo.
«La mia verità?» rise amaro la
creatura della notte, la piega distolta sul viso e una profonda stanchezza che
Stiles non incontrava da tanto tempo.
«Ehy,
Derek» scivolò verso di lui privo di controllo, l’esigenza di congiungersi al
mannaro che lo richiamava a gran voce, una mano che si poggiava su uno zigomo,
accarezzando la pelle intorno con il primo dito. Erano così vicini che niente
avrebbe potuto separarli. «Non devi dirmi nient’altro, va bene così com’è. Sei
con me».
Le iridi di giada divennero
perforanti ed accese, tutto quello che potevano mettere a fuoco era la figura
slanciata dinnanzi a sé, calamitante come poche altre. «Non puoi stare con una
persona, per quanto bene ti faccia stare, se sei innamorato di un’altra».
Stiles sentì l’ossigeno defluire via e
schivarlo di proposito. «È questo che è successo? Eri innamorato di un’altra
persona?».
«Non ero semplicemente innamorato»
chissà come sarebbe stata la sua vita se qualcosa di così effimero e superfluo,
qualcosa di così facile da depennare e una probabile data di scadenza, fosse
evaporato in fretta, senza ramificarsi ed impedirgli di dimenticarlo.
«L’amavo».
Strada di non ritorno. Il muscolo involontario prese a pulsare in modo anomalo, sentiva la gola
raschiare ed era ben consapevole di quanto Derek potesse udire. «La conosco?»
come aveva fatto a non accorgersene? Come poteva una cosa tanto ovvia per
Derek, essergli incomprensibile ed invisibile. Era sempre stata là e lui non
era stato in grado di vederla?
«Sei la solita volpe astuta e
giocherellona» un sorriso intricato e piacevole cancellò l’espressione negativa
che indossava precedentemente, per niente stupito dalla sua natura indiscussa,
eppure ne rimaneva costantemente sorpreso, come se fosse la prima volta che lo
metteva nel sacco. Ammaliato, ammaliato e ammaliato.
Stiles curvò la bocca con
l’impudicizia che lo marchiava, facendolo emergere e manifestare la sua vera
essenza, ma era anche tanto incantato e allettato.
«C’era questo ragazzino di appena
sedici anni che pensava di saperne più di tutti, perfino di un nato lupo,
spudorato e sfrontato, non si tirava mai indietro» adagiò un palmo sul dorso di
Stiles, la pelle che incontrava il dorato metallo, le labbra che baciavano il
monte di Venere. «Esibiva la presunzione di avere costantemente ragione».
«E l’aveva, ragione?» era una domanda
a trabocchetto, molto pericolosa, ma si chiese come potesse essere stato
talmente cieco da non vedere quello che il lupo provava nei suoi riguardi nello
stesso periodo in cui era stato toccato lui.
Derek sbuffò come se non avesse
alcuna voglia di rispondere, ma che contenesse già il suo responso. «In più
occasioni di quanto vorrei ammettere» la piega sulla bocca di Stiles si fece
vittoriosa e il lupo sapeva bene quanto quella continua conferma gli si sarebbe
ritorta contro con l’andare avanti nel loro arco narrativo. «È anche la persona
più leale che abbia conosciuto» peccato che di quella lealtà Derek ne era stato
inizialmente privato, lui e Stiles fin troppo spesso si erano imbattuti l’uno
contro l’altro, per poi trovare ripetutamente il modo di unirsi e perdersi di
nuovo. Derek non gli aveva mai reso le cose semplici, ma probabilmente perché
avrebbe voluto averlo dalla sua parte fin dall’inizio, senza mai combatterlo,
ma come il migliore dei suoi alleati. «La più intelligente e capace. Sin dalla
prima volta sono stato incantato da questa volpe ammaliatrice».
Il suo cuore stupidamente umano stava
facendo dei capricci allucinanti, i salti pindarici non si fermavano e si
chiedeva come fosse possibile dopo dieci anni di relazione, dopo averlo sposato
ed indossando una fede che autentificava la loro unione ogni giorno, senza mai
sfilarla. «Dalla prima?» fu un successo sapere che il suo scetticismo si
presentò come avrebbe voluto, non annichilito dalle emozioni e dai sentimenti
che Derek gli scatenava con le sue continue dichiarazioni inaspettate.
Derek ridacchiò con un colpo solo,
baciandogli il polpastrello che lo sfiorava. «Magari, dalla seconda».
«Diciamo pure terza» Derek se lo tirò
addosso a quella ribeccata ed aveva tutto il braccio che l’avvolgeva dalla
vita, i centimetri che li dividevano quasi inesistenti ed il calore corporeo
che gli entrava fin dentro i vasi sanguigni. «Posso dirti che quella volpe
aveva davvero una cotta per te dalla prima volta» cavolo, era stato un
tale colpo di fulmine da rimanerne stordito per giornate prive di fine.
Il mannaro fece intrecciare le
falangi tra loro, allontanandole dal suo viso, ma portandosi Stiles sulle
ginocchia, a completo contatto con lui. «Lo so» lo baciò sulle labbra schiuse e
schernite prima che potesse sguinzagliare la lingua velenosa.
«Dannato sourwolf con i super poteri»
Stiles si dibatté come se gli avesse arrecato l’offesa più grande del mondo.
Come volevasi dimostrare, Derek lo zittì con una nuova unione delle loro bocche.
Stiles soffiò a contatto con i
cuscinetti morbidi che lo vezzeggiavano ed avevano la supremazia, riflettendosi
completamente sulle iridi del bosco più rigoglioso. «Questa tiritera è per
convincermi a legare i nostri figli durante la luna piena? Non lo farò».
«So bene che non lo farai» con Stiles
si era continuamente sotto scacco, anche quando non si stava giocando. «Hai ben
dimostrato in passato quanto tu sia più bravo di me ad addestrare e risvegliare
ogni creatura soprannaturale che hai incontrato» i suoi risultati erano
talmente evidenti ed eclatanti che era impossibile negarlo, sottrargli le
capacità di cui era equipaggiato. «Scott, Erica, Lydia, Malia e Liam» si stava
sicuramente dimenticando qualcuno, ma l’intervento di Stiles era sempre stato
determinato perfino dove non si intravedeva il suo zampino, ma c’era, era lì ad
avere la meglio. «Dove io fallisco, tu hai successo».
«Non è propriamente vero» c’erano
insegnamenti che non avrebbe mai potuto dispendere, essendone completamente
estraneo ed incapace, campi in cui Derek eccelleva senza nessuno sforzo. «Hai
solo il difetto di pretendere che quello che ha funzionato con te, funzioni con
tutti gli altri. Non hai mai cercato di provare qualcosa di diverso, di capire
che cosa servisse per ognuno. Ogni persona è unica, ha bisogni differenti, dei
meccanismi del tutto opposti ai tuoi. È soltanto questo, trovare la giusta
chiave d’accesso».
«Sì, è qualcosa che ho imparato da
te» Stiles conosceva perfino più mantra di lui e sapeva adoperarli
perfettamente, tirarli fuori nei momenti più opportuni. Se succedeva qualcosa
di catastrofico era perché non si trovava nei paraggi a risolvere la
situazione. «Proprio per questo so che con Erick
sarai bravissimo, lo sei già stato».
«Io posso intercedere fino ad un
certo punto» sarebbe riuscito a gestire anche le splendide bambine spensierate
che giocavano nella stanza accanto in totale allegria? Quanti errori avrebbe
commesso lungo la strada? «Ci completiamo a vicenda, dove uno dei due non
riesce ad arrivare, ci riuscirà sicuramente l’altro. Siamo una squadra
perfetta».
«Sì» confermò con certezza il
licantropo, la presa sull’umano che si faceva più intenza e complice.
«Perfetta» e Derek tanto tempo prima l’aveva data per scontata, con il rischio
di perderla per l’eternità. Era maledettamente grato alla vita e all’universo
se quella volpe diabolica era andata a riprenderselo con le sue stesse gambe,
trascinandoselo dietro e regalandogli l’esperienza più meravigliosa che avesse
mai desiderato per sé.
Erick abbracciò se stesso, gli arti che lo avvolgevano
ovunque riuscisse ad arrivare, il cuore che straripava di tutte le emozioni
contrastanti che lo stavano investendo, divorandolo vivo.
Figlio, era nuovamente figlio di qualcuno che avrebbe combattuto a mani nude per
lui, incurante della fragilità che l’essere semplicemente umano comportava. Si
domandò se non fosse quella la vera forza.
«Posso sedermi accanto a te?» domandò
Stiles quando lo ebbe raggiunto vicino al laghetto di villa Hale-Stilinski,
passo leggerlo e tutto il tempo di cui necessitava per decidere se rimanere
dov’era o andarsene via.
Erick sostava vicino la riva, l’erba che gli accarezzava i polpacci lasciati
scoperti dai pantaloni di cotone, lo specchio d’acqua che ondeggiava ogni volta
che la coda dei pesci lo sfioravano, nuotavano spensierati senza un solo
problema al mondo e lui si perdeva per ore a fissarli, le foglie di ninfee che
scivolavano sul pelo ogni volta che un leggeva brezza di vento le accarezzava,
insieme a cerchi concentrici che si espandevano per tutto la superficie
cristallina. Ne rimaneva completamente ipnotizzato ed era anche colui che si
era preso l’incarico di versare ogni giorno ed alla stessa ora il mangime extra
per gli abitanti di quel piccolo ecosistema.
Gli occhi blu non diedero alcun
segnale di ricerca e si limitò ad asserire con il capo, unica risposta alla sua
domanda.
Stiles si accomodò di fianco a lui,
la giusta distanza per non opprimerlo troppo ed invadere eccessivamente lo
spazio personale che gli occorreva. Si immersero in un silenzio rasserenante,
il fruscio primaverile dell’aria che li lambiva, insieme a tutti i suoni della
flora e dalla fauna che li avvolgeva, era paradisiaco e capiva perché il
bambino preferisse passare il suo tempo da quelle parti, sempre isolato e
distante; se solo le sue sorelle glielo avessero permesso, buttandosi
frizzantine in qualunque occasione che si presentava a peso morto su di lui.
Gli gravitavano attorno senza che potesse schivarle in nessun modo, eppure non
ne era mai infastidito. Le adorava sopra ogni cosa.
«Che cosa c’entri con noi?» la
domanda arrivò in un’unica volata, sempre sospesa e rigettata nei momenti più
brutali, con una mozione negativa e disgustata, ma in quel momento risuonava in
modo completamente diverso. Perché sei legato a questo mondo? erano le
vere parole che si celavano. «C’entra Derek?».
«Derek?» Stiles lo guardò
inizialmente turbato dalla prima richiesta che gli era stata posta, pensando di
essere tornato di nuovo indietro di settimane, quando il lupacchiotto non ne
voleva proprio sapere di lui, ma con l’inflessione di curiosità e vera sete di
conoscenza, insieme a tutte le motivazioni che gli vorticavano intorno, capì
che voleva soltanto capirlo, comprendere che cosa ci facesse un umano in mezzo
a creature leggendarie di propria scelta. «No, lui era solo una vittima delle
circostanze, come tutti noi».
Le iridi dell’oceano si accesero
stupite e smarrite, automaticamente si voltarono verso il figlio dello sceriffo
e non riuscirono più a mollarlo. «E allora cosa?».
«Avevo sedici anni quando il mio
migliore amico è stato morso da un’Alpha senza avergli mai chiesto il permesso.
Una pessima persona, davvero malvagia. Ha fatto del male a tantissima gente,
compreso Derek» a volte pensava che si fosse accanito brutalmente sul lupo
nero, adolescente ed adulto, con le sue macchinazioni continue, eppure aveva
trovato il modo di riscattarsi agli occhi del mondo per amore di sua figlia,
Malia, ma non fidarsi di Peter Hale era sempre la cosa migliore da fare, come
sapere costantemente quali fossero le sue mosse. Era una delle tante ragioni
per cui i due coniugi lo volessero fuori dalla vita che stavano costruendo con
quei tre cuccioli smarriti. «Una volta che il mio migliore amico, Scott, è
stato coinvolto completamente, lo sono stato anch’io. Non mi sono tirato
indietro» era passato tantissimo tempo, ma portava ancora le cicatrici di ogni
singola scelta che aveva compiuto da allora. «Ho conosciuto Derek esattamente
dopo quel morso, voleva aiutare, ma a modo suo. Non è mai stato bravo con i
rapporti sociali».
Reprimere il sorrisino che colorò le
labbra di Erick fu quasi impossibile, ma si impegnò.
Derek era una persona molto seria e che incuteva abbastanza timore, emanava
vibrazioni che invitavano a stargli alla larga, tuttavia era sempre circondato
dalle sue sorelle, da lui e soprattutto da Stiles. «Credevo fosse morta la sua
Alpha, sua sorella, in quei giorni» si chiese se avesse dovuto dirlo ad alta
voce, era qualcosa che non era riuscito a togliersi dalla testa, la coincidenza
che Derek fosse un orfano proprio come lui.
La sorpresa nell’umano si dipinse in
ogni tratto facciale e stentò a credere alle sue orecchie. «Ti ha parlato di
Laura?».
«Laura? Come mia sorella?» un conato
di vomito lo colse nel momento in cui la mente gli materializzò la visione
della dipartita di una delle persone più importanti per lui, sostituendo
l’immagine creata da sé dell’Alpha del suo tutore con quella della sua Laura.
«Sì, era il suo nome» cos’è
esattamente che il marito gli aveva riferito su di lei? «Era davvero importante
per lui, ha cercato di fare del suo meglio dopo la sua scomparsa» ma aveva
sempre fallito in modo eclatante. Non c’era mai stata gentilezza nella sua vita
dopo che i quindici anni erano scattati. «Voleva ricominciare con Scott, ma nel
pacchetto ero compreso anch’io. Non gli è mai andata troppo giù, voleva che
stessi lontano da tutto quello che riguardavano le faccende lupesche, ma
diciamo che non gli ho lasciato troppa scelta» in effetti, non era cambiato
completamente niente da quei giorni.
«Davvero? Non ti voleva con sé?»
quella verità gli era totalmente estranea, Derek aveva ben dimostrato il
contrario da quando era in quella casa. Non voleva affermare che le parole di
Stiles fossero legge per lui, ma quasi.
«Per niente, soprattutto all’inizio.
Ma poi, guarda caso, era me che cercava quando aveva bisogno d’aiuto» o quando
voleva dargli fastidio. In realtà, si divertivano ad irritarsi a vicenda. «È
sempre stato un brontolone cocciuto».
«A me ha detto una cosa diversa»
sapeva che era importante, forse Erick non era stato
l’unico a considerare la fragilità umana come un difetto, forse anche il lupo
adulto aveva commesso quell’errore e poi aveva dovuto fare un passo avanti. O
forse voleva semplicemente tenerlo fuori da pericoli che non gli toccavano, ma
che una vita nel soprannaturale gli avrebbe procurato. «Ha detto che sei la sua
famiglia da quando ha perso sua sorella».
«Oh» forse stava riscontrando più
problemi di udito di quanto avesse mai pensato. «Si scoprono sempre cose
nuove».
Erick lo guardò con occhi enormi, tanto da temere che potessero cadergli e
scappare dalle orbite, l’incredulità regnava sovrana. «Non ti ha mai detto di
essere la sua famiglia?».
«Oh, sì, tante volte» la prima volta
era quasi morto di crepacuore, la sorpresa era stata così immersa ed
inaspettata che aveva dovuto pretendere la certezza, sicuro che Derek non gli
avrebbe dato quello che riteneva essere una soddisfazione personale, ma glielo
aveva ripetuto, scandendo sillaba per sillaba. Non erano mai più tornati
indietro. «Non mi ha detto di esserlo dai nostri primi incontri» era una
scoperta talmente sconcertante, tutti quei pezzi che si aggiungevano al quadro
ben definito che aveva costantemente avuto di Derek e che si disfaceva per
crearne uno nuovo e molto più ampio, quasi infinito. Le prove che attestassero
quanto il mannaro fosse preso da lui sin dal principio stavano strabordando
giorno dopo giorno e si chiese come avesse potuto affermare con certezza di non
essere minimamente ricambiato per anni. Era quasi come se si stesse divertendo
a smentirlo di ogni sua sicurezza passata senza nemmeno rendersene conto.
«Derek non è molto portato con le parole o a condividere qualsiasi cosa. Sarà
il nostro piccolo segreto» per quanto se ne possano avere con un licantropo
sotto lo stesso tetto. E molto presto ne avrebbero avuto quattro.
Stiles gli dedicò una piega complice,
con tanto di occhiolino ad enfatizzare il concetto ed Erick
si ritrovò a sorridere completamente coinvolto. «Derek mi piace».
Niente di nuovo sotto il sole. «Anche
tu gli piaci».
L’espressione contrita del bambino
comunicava qualcosa di totalmente opposto, arricciando malamente il naso
costellato da spruzzatine di lentiggini leggere. «Non gli piace chi non è
gentile con te e io non lo sono stato».
Stiles non aveva nessuna capacità
sovrumana che l’aiutava a fiutare le emozioni che una persona emetteva, ma era
un ottimo osservatore e molto empatico, il senso di colpa e il dispiacere che Erick si portava dietro erano estremamente evidenti,
insieme a tutto lo strazio che l’accompagnava. «Come hai potuto sentire,
nemmeno Derek è stato gentile con me né io con lui».
«Ma ti ama» puntualizzò il lupo
mielato, come se avesse una grande rilevanza.
«È vero» confermò il detective con
fermezza, senza che potesse esistere una cosa diversa da quella. «Adesso. Ma
prima di arrivare a questo punto ne abbiamo passate davvero tante e ci siamo fatti
male» volente o nolente, era quella l’unica vera verità. «Non credere mai per
un solo minuto che l’affetto che Derek prova per te possa essere offuscato da
una tua antipatia. È burbero e severo, ma è buono e onesto» gli diede un
buffetto affezionato sul nasino, la curva ammaliante che figurò sul viso niveo.
«Ed anche a me piaci, lupetto».
Le gote del lupacchiotto si
arrossarono, ma non sapeva se per imbarazzo o vergogna, e le iridi zaffiro si
inumidirono pericolosamente. «Scusami, per tutto».
«Ti ho perdonato da tempo» ma non ne
aveva mai avuto bisogno, non era mai stato in collera con lui, capiva bene cosa
avesse provato, che cosa gli viveva ancora nel cuore. Sarebbe servito tanto
tempo e impegno per guarirlo.
«Anche per il braccio» soprattutto,
probabilmente. Quel senso di turbamento per ciò che aveva scatenato durante il
plenilunio lo accompagnava ovunque andasse. L’accanimento con cui si era
scagliato contro di lui come se fosse la fonte di ogni suo male e bastasse
sbarazzarsene per riportare ogni cosa all’origine era una macchia di cui non
riusciva a disfarsi.
«Era solo un graffio» alzò la manica
a dimostrare quanto le sue parole fossero autentiche e non ci fosse nulla che
non andasse, che era in perfetta salute. «Ho affrontato di molto peggio».
Forse era vero, ma Erick ricordava bene la benda applicata sull’avambraccio
che aveva addentato con la sola intenzione di strapparglielo con un unico
morso, di come Derek l’avesse sciolta, prendendo tra le mani il punto che era
stato ferito brutalmente, le vene che si tingevano d’inchiostro e assorbivano
il dolore che Stiles provava davanti alle sue proteste, dichiarando che ne
avrebbe fatto a meno. Aveva capito che i due sposi battibeccassero
continuamente e poi trovassero ripetutamente il modo di andare incontro ai
bisogni o alla testardaggine dell’altro. «Eri giovane quando hai conosciuto il
nostro mondo, non ti è bastato?».
Voleva dire che era diventato
vecchio? Cavolo, non aveva nemmeno trent’anni ancora. «È diventato anche
il mio e poi adoro i lupacchiotti, siete creaturine incredibili».
Il porpore si prodigò sulle guance lentigginose del lupetto e Stiles fu certo che
fosse per la timidezza e l’imbarazzo, esattamente come accadeva con Laura;
adoravano ricevere piccole lodi che nessuno evidentemente gli aveva più
rivolto, pensando non meritarsele affatto. Erick si
limitò ad annuire con la testa china, non volendo emettere alcuna sillaba.
Stiles gli sorrise di rimando, non
aspettandosi nulla in cambio e si prodigò per alzarsi, sprimacciando i
pantaloni dall’erba fresca e verde, ripromettendosi di lasciargli il suo antro
di paradiso e la pace a cui le sue membra ambivano.
«Puoi rimanere ancora un po’?» lo
fermò Erick con una richiesta lasciata a se stessa, ma che conteneva tutte le speranze che tratteneva
dentro di sé, la fatica che ancora compieva nell’ammettere che cosa volesse
davvero e quali fossero i suoi desideri.
Non smetteva di ricordargli il Derek
del passato. «Certo» tornò a sedersi a gambe incrociate di fianco al bambino
che l’aveva preteso lì come compagnia, combattendo contro le sue stesse
reticenze.
Gli scompigliò i fili dorati con
orgoglio e fierezza ed Erick si strinse un po’ a lui,
ad azzerare la distanza che li separava, entrando più in contatto, il calore
corporeo che passava dall’uno all’altro e che li univa passo dopo passo,
testimone dalla strada che stavano percorrendo insieme. Anche tu sei una
creatura incredibile, Stiles.
«Vuoi spiegarmi perché hai il muso?»
Stiles aveva seguito il marito nella lavanderia dopo pochi minuti che vi era
entrato, in faccia un’espressione scontrosa e molto seccata, quella che nel suo
caso specifico corrispondeva ad un broncio.
«Non ho il muso» Derek lo ignorò
bellamente, contrastando la sua osservazione e cominciando ad estrarre capo
dopo capo dall’asciugatrice, inserendoli nell’apposito contenitore destinato
agli indumenti da stirare.
«Stai facendo il bucato» l’umano gli
sorrise beffardo, facendogli ben notare quanto invece avesse ragione.
«Qualcuno deve farlo» il mannaro era
veramente annoiato dalla sua invadenza, non sarebbe andato più veloce con la
sua presenza molesta che lo rallentava.
Stiles si guardò intorno, il piccolo
buttatoio posizionato vicino al mobiletto in cui tenevano i detersivi da cui
poteva osservare la ceramica leggermente bagnata e una singola goccia che
pendeva ancora dal rubinetto, segno che Derek l’avesse usato recentemente per
lavarsi le mani velocemente, la catasta degli abiti sporchi che esplodeva, la
lavatrice già azionata con i capi colorati da cui intravedeva centrifugata
anche la volpe adorata di Corine che aveva visto
decisamente giorni migliori e la marcia delle loro faccende domestiche che
batteva il ritmo. In qualche modo non riuscivano a stare mai entro i tempi. «È
innegabile, siamo passati da due persone a cinque in un battito di ciglio».
Derek gli rifilò un’occhiata
assassina come se la colpa di quella situazione disastrata fosse sua e forse un
po’ lo era, ma dubitava seriamente che il suo consorte lo ritenesse davvero
colpevole di quell’aumento esponenziale di inquilini dalla voce squillante e
tenera.
Stiles vide come il licantropo esitò
qualche secondo di troppo su una delle maglie variopinte della lupacchiotta, il
sospiro inespresso, riponendola con cura dentro il cesto della biancheria
pulita. «È per Laura, vero? Perché non ti ha più chiamato papà».
La creatura della notte gli rifilò
uno sguardo tagliante, invitandolo non tanto caldamente a rispettare limiti
invalicabili e Stiles trovava tutto quello adorabile. «Era spaventata, chi si
chiama quando si ha paura? Il papà ed eri tu a ricoprire quella carica in quel
momento. Cavolo, ho quasi trent’anni e chiamo ancora il mio» erano passate due
settimane dalla notte del plenilunio, dall’enorme spavento che aveva colto sia Corine che Laura, dalle parole che quest’ultima aveva
pronunciato nei riguardi di Derek con le lacrime agli occhi. Dopo quell’evento,
non erano più uscite dalla sua boccuccia di rose. A volte le sfuggiva la prima
sillaba, le lentiggini che si tingevano appena, ma si correggeva sempre in
tempo e Derek appariva molto frustrato da quello, ma solo nel privato con
l’umano, davanti a lei non faceva mai una piega.
«Vuol dire che se ne è pentita?» non
era una vera domanda quella del mutaforma, più una
certezza per se stesso.
A Stiles scoppiava il cuore a vederlo
così provato da qualcosa di apparentemente semplice. «Non credo si sia pentita.
Magari pensa di non poterlo fare».
Derek si voltò verso di lui con un
paio di pantaloni del pigiamino di Corine, era quello
con la volpe addormentata arrotolata su se stessa che
aveva espressamente richiesto in uno delle loro passeggiate da acquisti tutti
insieme. «Perché dovrebbe pensarlo?».
«Non lo so, per tanti motivi» pure
troppi a suo dire, che avrebbero fatto loro al suo posto? «Magari pensa che
potrebbe darti fastidio o che non sia giusto nei confronti di chi l’ha
lasciata. Sono qui da poco più di un mese, è troppo presto, Derek. Potrebbero
non chiamarci mai in nessun altro modo, se non con i nostri nomi» anche se
avrebbe pagato pile di diamanti per sentire rimbombare per tutta la casa un papà
Der Der.
Derek sospirò, il capo che passava di
mano in mano. «So che hai ragione, ma è stato bello. Mi è difficile
rinunciarvi».
Poteva affermare di amare un altro
po’ quello splendido uomo chiuso in se stesso e che si
illuminava per due sillabe pronunciate dalla vocina di una bambina? «Posso solo
immaginarlo, ma dobbiamo essere pazienti. Credi che, se mio padre mi avesse
portato un’altra donna in casa dopo la morte di mia madre, l’avrei chiamata mamma?»
Dio, aveva un rifiuto solo per quella via ipotetica.
«Non è la stessa cosa» ribatté Derek
con impeto, i pantaloncini che venivano gettati di nuovo nell’asciugatrice
senza un apparente motivo.
«Come fai a dirlo? Ho già avuto una
madre che mi ha dato ogni cosa, chiunque altra sarebbe stata una impostora, per
quanto bene potesse comportarsi con me» davvero Derek non riusciva a capirlo?
Forse l’aver vissuto lutti completamente diversi faceva di loro due persone con
vedute totalmente differenti.
«Non siamo degli impostori» la voce
dalla lama liscia ed affilata del licantropo arrivò in un attimo, i denti
stretti e gli occhi seri fino al midollo.
«Mi sono espresso
male, non mi riferivo alla nostra situazione» aveva fatto un passo falso,
sapeva quanto fosse dura e quasi impossibile gestire quella situazione, quanto
entrambi ci stessero male. Se non fosse accaduto niente a quelle tre
creaturine, non sarebbero state lì con loro. «Ma devi capire che lei ha già avuto
dei genitori da chiamare mamma e papà, ha un passato con loro, se li ricorda,
l’hanno resa quella che è. Ha provato affetto e rabbia verso di loro, l’hanno
cresciuta ed educata, l’hanno amata e protetta. Probabilmente li sogna la notte
e lo farà per tutta la vita».
«Non voglio certo che li dimentichi»
era impensabile la sola idea, gli straziava il cuore, la morte e l’obblio dei
ricordi equivalevano a due perdite, era come un secondo lutto, Derek cercava in
ogni modo di non perdere le memorie e tenerle legate quanto più possibile a
lui, di non lasciare andare ciò che la sua famiglia scomparsa gli aveva
lasciato in eredità. Erano stati quindici gli anni con i suoi genitori, insieme
a tutti gli altri membri persi, e ventuno in solitudine con Laura, ma era tutto
quello che aveva, ricordi limitati che non avevano alcun destino di aumentare.
«Ma l’amiamo anche noi, lei deve saperlo, è nostra figlia».
«Sono sicuro che lo sappia» impedirsi
di raggiungerlo gli fu impossibile e le mani andarono a circondargli il volto
barbuto, guardandolo dritto nelle perle verdi e dedicandogli una piega affabile
sulle labbra. «Sii paziente, rispetta i suoi tempi ed i suoi desideri, potresti
essere ricompensato» gli schioccò un bacio sulla bocca come se quello facesse
parte del pacchetto. «E se non accadrà, non sarà così tremendo».
Derek soffiò sulle sue labbra
affaticato, come se portasse un enorme peso che gli grondava sulla schiena, e
si abbandonò contro la fronte del marito a riposarsi e riprendere fiato. «Sì».
«E questo vale sia per Erick che per Corine» il mannaro
si limitò ad annuire per enfatizzare un concetto che gli appariva già espresso
in precedenza e Stiles gli adagiò uno sciocco sull’arco di Cupido. «Ero
convinto che la prima a cedere, sarebbe stata Corine».
Il mannaro lo guardò meditativo dalla
distanza ravvicinata in cui si trovavano e gli baciò un angolo della bocca
prima di separarsi da lui. «Anch’io».
Nomi senza volti, ricordi quasi
inesistenti, affetto e calore che quasi non erano stati reali, erano delle
sensazioni guidate dal sapere che c’erano stati che dalla reale fermezza di
poterli toccare a mani nude; tutto quello che Corine
possedeva erano i racconti dei suoi fratelli, l’unica cosa che teneva vivo il
ricordo di persone che non pensava nemmeno di aver conosciuto. Più il tempo
trascorreva, più tutto quell’insieme sbiadiva e sia Derek sia Stiles erano
sicuri che sarebbero spariti completamente. Non volevano che accadesse, ma un
racconto orale aveva delle limitazioni immense. «Abbiamo dei lupacchiotti che
vanno oltre qualsiasi aspettativa».
Stiles stava sorridendo, ma Derek
poteva sentire l’inquietudine e la tristezza che emanavano dal suo odore,
prendersi a carico dei figli che erano appartenuti ad altri e con cui competere
era già qualcosa di incommensurabile, ma conoscere il dolore della perdita dei
proprio cari e cosa viveva nel cuore di quelle tre creaturine aggravava
l’intero quadro. «Pensi che terranno i nostri cognomi?».
Il figlio dello sceriffo lo guardò
con uno stupore immenso e la bocca schiusa con lo stesso impeto. «Ci stai già
pensando?».
«Sono degli orfani con delle
identità, sì, ci sto già pensando» la verità era che ci aveva sempre rimuginato
su, Derek aveva un passato da orfano completamente diverso dal loro, ma sapeva
che non avrebbe mai potuto rinnegare le sue origini, in nessun caso.
«Sono dell’idea che dovrebbero essere
liberi di essere chiunque vogliano. I nostri nomi o qualunque altro, da adulti
faranno la loro scelta» Stiles si rifletté sulle iridi boscose e si chiese
cos’è che davvero turbasse tanto Derek. La mancanza di possibilità di
tramandare l’antico e prestigioso nome degli Hale? «Sarebbe importante per te
che non la facessero?».
«Non ha nulla a che fare con questo»
Hale-Stilinski o Lefèvre, in un modo o nell’altro avrebbero ereditato ogni cosa. «Sono solo
molte identità per una sola persona e le porteranno tutte. Vorrei non si
confondessero» Derek era stato tante persone diverse rimanendo comunque se stesso e si era perso e perso ancora, cosa avrebbe
comportato convivere con tutta quella varietà nei tre lupacchiotti?
«Sei sempre stato apprensivo, adesso
sei un papà apprensivo» gli faceva scoppiare il petto, Derek era andato
talmente in là da essere quasi impossibile raggiungerlo ed era la cosa migliore
che gli fosse accaduta. «L’unica cosa che possiamo fare sarà insegnargli tutto
quello che sappiamo, al meglio delle nostre possibilità e sperare che sia
sufficiente. È tutto nelle loro mani».
«Davvero?» una vocina maschile spaccò
la loro intimità, piccola e cauta, sbirciava dall’arco della porta. Derek non
aveva neppure avuto il tempo di dare una qualsiasi risposta verbale o non
verbale a Stiles, che aveva sentito il cucciolo avvicinarsi con passo felpato.
«Potremo avere il nostro cognome?».
L’umano si girò verso il nuovo intruso,
gli occhi azzurri speranzosi e attoniti, come se non sapesse cosa gli passasse
prima per la testa. «Certo, lupetto. Quando avrai diciotto anni o da quel
momento in poi, potrai fare qualunque tua scelta».
Erick si illuminò in un modo che nessuno dei due uomini aveva ancora mai visto,
eppure si rivolse a Derek con titubanza ed ansia, in attesa del suo responso. Erick adorava Derek, ma comunque riusciva a suscitargli
sempre un grande turbamento interiore – che era un po’ il suo talento –, avendo
il presentimento di commettere continui errori che non avrebbe approvato.
«Se è quello che vorrai, potrai
farlo» fu la risposta imperturbabile che il mannaro adulto gli diede,
l’attenzione attenta che non distoglieva minimamente.
Le mani di Stiles scompigliarono
amorevolmente la chioma bionda, annunciando la conclusione di quella
conversazione, ma Erick non si mosse né diede segno
di aver perso l’angoscia che lo stava accompagnando. «E sarebbe giusto?» chiese
lasciandoli completamente senza parole ed esterrefatti, i due coniugi che si
cercavano strategicamente per non dare nell’occhio e accrescere la
preoccupazione insospettata nel bambino, scambiandosi sguardi perplessi. «Non…
non penserete che non siamo felici con voi?».
«No» Stiles era completamente in
apnea, ma Derek aveva la risposta pronta, racchiusa in uno scrigno, in attesa
di essere sfoggiata o quella era l’impressone dell’umano a bocca asciutta.
«Prima della nostra felicità viene la vostra. Scegli la tua strada e noi saremo
con te».
Erick ispirò forte dal naso, le iridi del mare umide e commosse, con Stiles che
era prossimo a seguirlo a ruota; Derek aveva il potere di devastarli.
La creatura della notte si avvicinò
al lupetto ed alla volpe, stringendoseli forte a sé e del tutto propenso a non
lasciali andare mai, mentre le braccine gli accerchiavano parte della vita,
insieme a quelle tremanti del marito che tentavano di ricambiare l’abbraccio di
entrambi, affondando il viso nell’incavo del collo e la spalla del mutaforma. «Sii chi vuoi essere, Erick,
e andrà bene».
«Erick,
così non va bene, non lo stai controllando» Derek lo sgridò a piena voce, ma
con nessuna rabbia e adiramento, lo stava solo rabbonendo.
Le iridi di un giallo brillante erano
accese e sfuggivano leggermente al suo controllo, come gli artigli e i denti
che apparivano voler agguantare qualcosa senza una vera motivazione. Guardò
Derek con mortificazione ed i segni del lupo sparirono al loro posto.
«Fermiamoci per un po’» elargì il
mannaro adulto nell’unica soluzione perseguibile, le gambe muscolose che con
eleganza si incrociarono sul prato rigoglioso del Rock Creek
Park, invitando il suo giovane allievo a seguirlo, mentre afferrava una delle
bottigliette d’acciaio che manteneva l’acqua fresca all’interno, bevendone il
contenuto e offrendola anche al bambino.
Erick era esausto e confuso, Derek lo allenava ogni volta che ne avevano
l’occasione, portandolo nel parco immenso attraverso il loro giardino,
conducendolo dove era certo non vi fosse nessuno, lontano da occhi e orecchie
indiscrete, ma le sue erano sempre attive per captare qualsiasi ospite
indesiderato che avrebbe potuto assistere a qualcosa di indesiderato e che
dovevano proteggere. Da quando la prima luna piena in quella casa si era
manifestata, attivando malamente la trasformazione da lupetto dorato e la sua
rabbia repressa, Derek gli insegnava ogni cosa con scrupolo e pazienza, non lo
lasciava mai solo ad affrontare i suoi fantasmi e il malessere che gli viveva
dentro. Le sedute si intensificavano quando il plenilunio si avvicinava ed Erick ne sentiva gli effetti, come in quel momento; Derek
diventava ancora più scrupoloso.
Accettò la bevanda fredda che gli veniva offerta nella bottiglietta
brandizzata Star Wars – ovviamente di Stiles – e si lasciò cadere con
stanchezza poco vicino al suo fianco, per niente minimamente simile alla
galanteria che investiva il lupo nero – gli si era mostrato solo una volta,
fino a quel momento, e ne era rimasto completamente incantato ed abbagliato,
concordando con le parole dell’umano che lo decantavano.
Aveva il fiatone, le iridi del sole nascose dietro le palpebre serrate per
poi ricomparire con il colore del mare, era quasi del tutto coricato sulla
distesa verde e le gambe erano spalancate e scomposte, ma stava di nuovo
ricominciando a respirare. Controllare la sua natura mannara non era per niente
facile quando veniva stuzzicata e Derek sapeva perfettamente come fare; allo
stesso tempo poteva osservare quanto invece lui fosse bravo a gestirsi, gli
occhi che si tingevano di un blu metallico e l’autorità che sgorgava a fiumi,
ad Erick appariva fin troppo spesso come un Alpha.
L’uomo lo lasciò nella quiete a riprendere fiato.
«Un giorno ti porterò in un posto dove potrai essere te stesso senza troppe
paure» dichiarò la creatura della notte che celava un manto inchiostrato, la
credenza nella voce che si manifestava e che abbracciava tutto il circondato.
Aveva scovato un buon posto per quell’aspetto al Rock Creek Park, ma non era
paragonabile alla libertà che aveva trovato a Triangle. «C’è tutto il verde che
potresti desiderare, sorveglianza quasi inesistente, spazi senza confini e il
tuo lupo lo amerebbe immediatamente».
Erick si sorprese per la loquacità di Derek, non che non parlassero, soprattutto
quando erano da soli, ma dall’esterno non appariva come qualcuno che desse
fiato alla bocca; ne era sempre stupito e il mannaro lo riempiva continuamente
di maggiore conoscenza ad ogni minuto che passavano in compagnia. «È molto
lontano?».
«No, abbiamo anche una casa lì, ma al momento sarà occupata per qualche
tempo» forse c’era del leggero pentimento sul limitare della frase, sapere di
non potere raggiungere la sua proprietà in qualunque momento volesse lo faceva
ammattire lievemente, sapeva di aver preso la decisione giusta e di essersi
comportato al meglio delle sue possibilità, ma se avesse saputo prima in quale
fase Erick si fosse trovato, avrebbe agito allo
stesso modo? Quell’esperienza sarebbe stata del tutto diversa, ma nulla
presagiva che potesse essere anche migliore o facile. «Ci andremo quando la situazione
sarà più tranquilla, quando tutti i pezzi saranno al posto giusto».
Il lupetto si chiese se si riferisse alla condizione dell’abitazione occupata
o a lui e alle sue sorelle. «Noi stiamo bene con voi» gli sfuggì prima che
potesse ripensarci, l’impulsività per tutte le sensazioni che l’investivano
quando trascorreva il suo tempo con Stiles e Derek.
«Anche noi» fu la risposta tempestiva del lupo mannaro, incisiva e piena di
calore, le iridi boscose che l’accarezzavano appena e con profonda moderazione,
concedendogli tutto il tempo esistente per far attecchire ciò che stava
provando.
Sia Derek sia Stiles erano le persone più attente che Erick
avesse mai incontrato, non invadevano mai i suoi spazi privati se non erano ben
voluti e difficilmente lo forzavano, eccetto in alcuni casi che ritenevano
necessari. Educarlo era il loro lavoro e lo portavano a compimento con
accuratezza, ma c’era anche una comprensione enorme che gli dedicavano con cura
e gentilezza; Erick non riusciva a credere che
potessero essere reali, eppure lo erano ed avevano scelto lui, quella
rivelazione lo lasciava costantemente senza fiato. «Stiles non ha la mamma?» domandò esponendosi ad un tratto, i pensieri che
gli affollavano la testa e il senso di disagio nato per aver dato voce a
quell’osservazione inopportuna.
Derek interruppe il suo ristoro per
portare l’attenzione sul suo nuovo giovane compagno di avventura, scandagliando
le emozioni che emanava. «Perché lo chiedi?».
Il lupetto esitò, stuzzicando
leggermente con i canini il labbro inferiore. «Parla sempre con il papà»
parlava anche soltanto di lui, non aveva mai sentito nulla di diverso dal
fantomatico sceriffo della città natale dei suoi tutori e Stiles poteva passare
delle ore al telefono o in videochiamata a chiacchierare con quell’uomo
sconosciuto.
«Dovrò insegnarti a non origliare» la
creatura della notte lo scrutò con un mezzo rimprovero che non espresse.
«Immagino che le tue capacità ti abbiano aiutato molto quand’eri
all’orfanatrofio, ma non è corretto usarli sulle altre persone per spiarle e
invadere la loro riservatezza».
Erick si chiuse in se stesso, consapevole di aver fatto
un errore, anche se non era per nulla intenzionato, ma era talmente abituato ad
usare il super udito e sentire tutto quello che lo circondava in cerca di
qualcosa che avrebbe potuto nuocergli, che privarsi gli era difficoltoso
all’ennesima potenza ed in realtà non pensava nemmeno di doverlo fare. «Scusa».
«Non ci sono segreti in questa
famiglia, a Stiles non importerà» dichiarò l’adulto meticoloso, la leggera cura
per dei sensi di colpa che poteva evitarsi. «Devi solo imparare che ci sono dei
limiti che non vanno varcarti, questo non vuol dire che sarà facile, noi lupi
abbiamo l’attitudine a voler tenere tutto sotto controllo».
Non aveva mai potuto fare quei
discorsi con i suoi genitori, non l’avevano mai educato su quell’aspetto, forse
si sarebbero mobilitati presto, considerando che l’età del risveglio si stava
avvicinando, se i cacciatori non li avessero presi di mira; avevano preferito
fargli vivere la spensieratezza finché avrebbero potuto, ma i loro piani non
erano andati in porto. Aveva imparato da solo per amore delle sue sorelle e
aveva fallito tante volte, Derek si stava impegnando con tutto se stesso per correggere i suoi difetti e fornirgli quanti
più strumenti possibili che potessero aiutarlo. Erick
si limitò ad annuire a quel rimprovero pacato che voleva soltanto istruirlo.
«Comunque no, Stiles non ha la madre»
dichiarò Derek subito dopo, osservando la riservatezza in cui il bambino si
stava chiudendo pensando di aver osato troppo. «Non l’ha da tanto tempo».
Erick lo guardò sorpreso, la testa che si girava di qualche grado verso di lui,
e non capiva nemmeno perché lo fosse, in qualche modo l’aveva dato per
scontato, eppure era qualcosa che gli creava un certo vuoto al centro del
petto. «Quanto tempo?».
«Era poco più grande di te, soltanto
dieci anni» quant’era incredibile e maligno il fato che aveva fatto vivere una
tragedia insuperabile ad entrambi nel medesimo periodo? Lui e Stiles non si
conosceva nemmeno, ma erano già uniti dal dolore della perdita. «Ha vissuto ed
è cresciuto soltanto con suo padre, per questo sono così uniti. Sono la forza
dell’altro» se ci rifletteva meglio, Stiles aveva vissuto la maggior parte
della vita con suo padre e con lui, non c’era stato praticamente quasi
nient’altro in mezzo; perfino nell’anno da matricola passava quanto più tempo
possibile tra le mura dell’appartamento Hale e nel suo letto.
Erick fu colto da un’epifania e la comprensione lo animò in ogni parte. «Quindi,
sapete cosa significa».
Non disse che cosa effettivamente
sapessero, ma a Derek non servita che lo specificasse. «Sì» erano una famiglia
costituita da orfani.
Il cuore del bambino si espanse e la
sofferenza crebbe, quella empatica che si estendeva ai due tutori che lo
tenevano sotto la loro ala protettrice. Quasi faticava a credere quanto
erroneamente avesse giudicato Stiles, mentre era fin troppo affine a tutte
quelle persone con cui divideva gli spazi e il suo amore. Le lacrime bussarono
pericolosamente. «Niente fratelli o sorelle?».
«No, soltanto loro due» la solitudine
in Stiles aveva fatto fatica ad individuarla le prime volte, troppo clamore e
rumore intorno a lui, esagerazione ed acclamazione, quasi in una recita, ma
bastava aguzzare un po’ i sensi ed espanderli per cogliere veramente chi fosse,
eppure non aveva mai permesso che fosse un peso, peccato che la consapevolezza
di doversela cavare da solo aveva avuto degli effetti indesiderati; ai tempi
del Nogitsune nessuno gli aveva prestato ascolto e quando l’avevano fatto,
messi alle strette e con le spalle al muro, si era rilevato essere troppo
tardi. Stiles aveva perso molto di se stesso, la vita
stessa lo stava abbandonando e nulla avrebbe mai potuto togliere dalla testa
del licantropo che, se le sue mani umane erano sporche di sangue innocente,
loro, quel branco mal assortito, ne avevano pienamente la colpa. «Però ha un
amico che considera come un fratello».
«Scott? L’amico che è stato morso da
un Alpha?» quello fu il solo nome che attraversò la mente del lupetto, Stiles
non aveva nominato nessun altro ed Erick aveva
imparato a stare attento quando qualcosa veniva detta.
Derek lo fissò molto a lungo,
scavandogli a fondo e tentando di ripotare alla mente quando mai Stiles potesse
aver esternato dettagli simili. «Te ne ha parlato?» era un’altra informazione
estratta dal suo origliare?
«Sì, mi ha detto che avevano sedici
anni, per questo conosce così bene il nostro mondo» Erick
acconsentì subito, come se avesse il bisogno di esternare tutto quello che
aveva appreso.
Stiles quell’universo lo conosceva
anche fin troppo. «Sai che Scott è un Vero Alpha da diversi anni?».
Tutto il volto di Erick
si illuminò e non riuscì a contenere la sua luce. Tsk,
tipico. «Davvero?».
«Sì» lo era diventato praticamente
davanti a lui, quasi avessero fatto uno scambio. «Sono stato un’Alpha anch’io,
per un po’».
Erick lo guardò con tanto d’occhi e si vedevano soltanto quelli in lui, enormi
gemme dell’oceano in tumulto. «Oh».
Ma non commentò, non gli disse come
mai non lo fosse più, probabilmente conosceva un solo modo per perdere lo stato
di capo branco ed era la morte, la fine che era toccato al suo. «Ti svelerò
qualcosa che conoscono in pochi: il potere di un Alpha può salvare la vita di
una persona cara molto amata, ma il suo potere verrà sacrificato e svanirà» non
aveva bisogno di catturare l’interesse del bambino, era già tutta incentrata su
di lui, eppure sentì il bisogno di palesarsi ancora di più, di voltarsi con
tutto il corpo verso la sua direzione. «Ho un’altra sorella, pensavo di averla
persa, ma non era così. Ci siamo ritrovati e poi un brutto male, a cui perfino
i lupi non possono sottrarsi, l’ha attaccata e non riuscivo a trovare un modo
per curarla. L’unico era quello dell’Alpha e l’ho usato» l’antico potere della
sua famiglia, l’eredità di Laura che le era stata sottratta con l’inganno e
meschinità, la stessa di cui Derek si era riappropriato per rivendicarne i
diritti e darle giustizia, non esisteva più, evaporata.
«Ha funzionato?» fu tutto quello che
il lupetto gli chiese con l’incanto dell’informazione che gli scivolò dentro le
vene e che racchiuse in una scatola dentro il suo cervello.
«Sì» era qualcosa che sapeva avrebbe
rifatto per la sua famiglia. «Sta bene».
«E lei, adesso dov’è?» da quando
viveva in quella casa non aveva mai incontrato amici o familiari dei suoi
tutori, con il tempo aveva capito che di familiari quasi non ne esistevano e
che gli amici erano da tutt’altra parte, insieme al famoso sceriffo che non
aveva mai incontrato.
«Molto lontano da qui, quando ci
siamo rincontrati ognuno aveva già la propria vita, lei è ritornata alla sua»
in realtà Derek aveva perso tutto a quel tempo, l’aveva seguita per ritrovare
una qualche forma di posto nella famiglia che aveva cresciuto Cora,
ricominciare, ma qualcosa di in sospeso l’aveva richiamato ed era tornato
indietro da solo. Qualcosa era riuscito a chiuderla, altre cose erano rimaste
in quello stato per anni e tra esse figurava in vetta alla classifica il nome
di Stiles.
Una strana forma di malessere colse il
piccolo lupo e l’immaginazione gli dipinse un mondo in cui sarebbe stato
separato da una o entrambe le sorelle; era qualcosa che lo rodeva dentro,
qualcosa che aveva impedito con tutte le sue forze prima che Derek e Stiles li
adottassero. Quella di Derek era la vita che gli sarebbe toccata se le cose
fossero andate per un verso differente, una sola variabile cambiata, e non
riusciva a farsene una ragione, allo stesso tempo il dolore per quell’uomo
taciturno e solitario si concretizzava, si sentiva soffocare. «Se Scott è un
Alpha, tu e Stiles fate parte del suo branco?».
«Stiles senza dubbio» quei due
terremoti lo erano stati ancor prima che la definizione branco prendesse
consistenza, quando il soprannaturale era solo in ciò che leggevano sui libri o
fumetti e vedevano sugli schermi.
Non arrivò una completezza ed Erick ne fu incuriosito e un po’ allarmato, quella
sensazione di stallo sarebbe valsa anche per lui? «Tu no?».
«Stiles ti direbbe che sono un lupo
solitario» roteò gli occhi a quell’uscita, come se il consorte molesto fosse
proprio lì a dirlo ad alta voce con le sue labbra insubordinate curvate verso
l’alto. «In realtà non voglio appartenere a nessun branco. L’unica persona che
seguo è Stiles».
Erick esitò, non perché non fosse abbastanza evidente, ma perché lasciava
presagire qualcosa che aveva timore a chiedere, perché era troppo personale,
tuttavia Derek era l’unico che potesse insegnarglielo. «È la tua ancora?».
Un singolo battito di ciglia e il
lupo nero si rese conto di chi avesse realmente dinnanzi. «È la famiglia e ne
fate parte anche voi. Abbiamo la stessa ancora».
Le lacrime cominciarono ad affiorare,
le iridi di zaffiro che si inumidirono e le stille d’acqua che straripavano,
cadendo sul viso e irrigandoglielo, contenersi gli fu impossibile, insieme
all’enorme calore e senso di appartenenza che sentiva crescere dalla profondità
del suo cuore in lotta in una sofferenza senza fine; si strinse su se stesso a
nascondere il volto tra le braccia, impedito completamente a scacciare il fiume
che stava versando, e conscio di quanto fosse stato capito ed accettato da quei
due uomini che reggevano sulle spalle il suo stesso dolore. Sentiva tutto
l’amore che gli dedicavano come se fosse a portata di mano, doveva soltanto
distendere le dita e sfiorarlo, afferrarlo e tirarlo verso di sé, urlargli
quanto fosse reale e tangibile, quanto fosse tutto suo e che nessuno glielo
avrebbe mai portato via. Riceveva talmente tante prove da loro, da esserne
schiacciato e non riusciva a tenere il passo.
Derek si allungò per avvolgerlo con
un singolo braccio e attrarlo a sé, depositandogli piccoli baci tra i capelli
dell’oro e dondolandolo leggermente a calmare il suo stato emozionale. «Sei
stato bravo a trovarla da solo» Derek aveva capito diverse cose su quel bambino
chiuso in se stesso, della scorza dura ed
impenetrabile che manifestava, insieme al suo carattere scostante ed ostile che
racchiudeva una tra le persone più emotive e fragili che avesse mai incontrato.
Era anche tra le persone più forti, capace di trovare un’ancora completamente
in autonomia, senza alcun insegnamento o suggerimento, tentativi e prove che
avrebbero potuto aiutarlo, nel momento più brutto e devastante della sua vita,
lasciato completamente da solo e con i pensieri fermi sulla protezione delle sue
sorelle. Quella era l’ancora che aveva trovato sottoforma di lupo completo
all’età di sette anni, nel cuore della notte in un anonimo orfanatrofio,
rinchiuso con gli unici membri familiari che gli erano rimasti, a combattere
contro la natura sovrannaturale su cui non aveva alcun controllo e su cui non
era stato addestrato a sovrastarla. La famiglia, le sue sorelle. «La renderemo
ancora più forte».
Erick singhiozzò contro di lui in modo convulso e Derek gli trasmise tutta la
calma e la pazienza di cui necessitava. Il bambino si aggrappò a lui nettamente
di più. «Torniamo a casa» fu la sentenza di Derek.
«Sì» affermò il lupetto scosso, le
lacrime che continuavano a scendere imperterrite e il capo annuiva per
enfatizzare la risposta.
Il mannaro adulto gli concesse ancora
un poco di tempo per sfogarsi, donandogli parole di lode, prima di issarlo tra
le braccia ed avviarsi con tutto il suo peso addosso verso la strada del
ritorno. Erick lo circondò con tutte le sue forze, il
viso seppellito nell’incavo del collo e la spalla, e con le lacrime che non si
esaurirono nemmeno davanti lo steccato di Villa Hale-Stilinski. Derek aspettò
al confine finché le scosse non si assestarono, perseverando nell’elogiarlo.
Stiles era già sotto le coperte,
l’unica luce a illuminare la stanza portata dalle abat-jour sui comodini, in
mano uno dei fascicoli da lavoro che non avrebbe dovuto portare in casa, ma che
aveva stampato quel pomeriggio stesso, chiedendo esplicitamente i documenti
alla sua sede; si sentiva arrugginito per l’essere stato messo in panchina
tanto a lungo – volontariamente – ed aveva bisogno di rimettere in moto gli
ingranaggi da detective. Derek arrivò più tardi, dopo aver messo tutti i
bambini a letto, stremato dalle chiacchere infinite di Corine
e della sua pretesa di voler letta una fiaba, mentre Laura ascoltava
interessata ed incantata. Non usciva da quella camera finché entrambe non erano
crollate, Erick invece cercava di essere il più
autonomo possibile, ma sia Stiles che Derek passavano sempre per augurargli la
buonanotte e rimboccarlo per bene.
L’umano l’occhieggiò dubbioso quando
lo vide sedersi a gambe incrociare ad un angolo del bordo del letto, sul suo
lato personale, con indosso i soli pantaloni del pigiama e la mancanza costante
di un capo superiore a coprirlo, l’aria di chi dovesse proferire qualcosa che
ancora bisognava essere formulato chiaramente nella propria mente.
«Vorrei destinare l’eredità di Laura
come fondo per il college» rivelò il lupo mannaro dopo qualche minuto di
immersione totale nei suoi pensieri trafficati, l’evidente battaglia che stava
tenendo dentro di sé.
Lo stupore di Stiles si manifestò
istantaneamente. «Il college? Siamo così proiettati avanti?».
«In genere si costituisce un fondo
per il college anni prima di quel momento, molti lo fanno alla nascita di un
figlio» gli fece ben presente il licantropo, impossibilitato a credere che
Stiles fosse sprovvisto di quella nozione. «E noi ne abbiamo tre».
«Sì, è vero. Mio padre ci ha provato,
non ha avuto molto successo» stipendio moderato e troppe uscite, aveva sempre
cercato di fare del suo meglio e di non far mai mancare niente a suo figlio, ma
anche Stiles si era impegnato per creare meno fastidi monetari possibili, ma
c’erano le cartelle mediche ed i ricoveri, erano state spese pesanti, anche
dopo essere stati liberati dal conto da saldare per il suo infelice soggiorno
all’Eichen House. «Ho puntato tutto sulla borsa di
studio».
«Me lo ricordo» proferì sommessamente
il lupo.
Gli occhi di Stiles scintillarono
vistosamente. «Certo che te lo ricordi, pensavi volessi il tuo appartamento e
insediarmi, io nemmeno sapevo ne avessi uno».
«Ti ho chiesto se ti servisse, non se
lo volessi» mise in evidenza le differenze sostanziali che esistevano tra quei
due aspetti. «E comunque, ricordo bene che ti sei insediato eccome».
Stiles afferrò il guanciale personale
di Derek per tirarglielo contro con offesa pungente, prendendolo in pieno, ma
soltanto perché il mutaforma glielo permise. «Sei
stato tu ad invitarmi e poi mi hai chiesto di vivere insieme a te».
«Mi hai appena esposto chiaramente il
quadro generale di quando ho commesso il mio errore» era evidente che Derek se
la stesse ridendo sotto i baffi, ma questo non fermò Stiles dal lanciargli un
altro cuscino che l’altro bloccò senza fatica. «Non sono pentito».
«Lo spero bene» il figlio dello
sceriffo sbuffò vistosamente e rumorosamente e Derek ne era solo più divertito.
«Che ne pensi, del fondo?» domandò
negli attimi successivi l’uomo che sedeva ancora all’angolo del materasso in
attesa di un responso.
Stiles lo guardò sorpreso per un
primo momento, ritornando indietro con i pensieri e rientrando in possesso
della consapevolezza del peso di quella decisione. «So bene che non vorresti
mai toccare quei soldi se non fossi costretto e non lo sei, ma so anche che
vorresti investirli in qualcosa di buono e il futuro dei nostri figli lo è. A
lei piacerebbe».
Sì,
Laura avrebbe appoggiato quella decisione. «E tu, sei d’accordo?».
«Lo sono» affermò caldamente l’umano,
le pagine del fascicolo che venivano scosse da un gesto della mano che ne
sfiorò le punta. «Ma se qualcuno di loro non volesse frequentare il college?».
«Non è un problema» dichiarò senza nemmeno
fermarsi a ragionare il mannaro, fermo nella sua decisione. «Ognuno di loro
avrà la sua parte, che sia per un’accademia di qualsiasi tipo o per un anno
sabatico a girare il mondo».
«A girare il mondo? Cavolo, quello
vorrei farlo anch’io» annunciò meravigliato e sognante Stiles, forse anche
lievemente preoccupato alla prospettiva che uno dei suoi figli o tutti
prendessero quella strada.
«Quando sarai in pensione» disse
invece la creatura della notte a contrastarlo, spezzando i sogni poco
realistici del consorte che si immergeva completamente nel lavoro e negli
obiettivi che voleva raggiungere. Non erano nemmeno mai andati chissà dove
quando Stiles era in ferie, si dividevano continuamente tra Beacon Hills e Triangle, vedeva molto difficile la possibilità di
spostarsi per grandi distanze da globo intero in futuro con tre bambini a
carico.
Stiles sbuffò per il sogno ad occhi
aperto sfumato; ben consapevole della realtà tornò a consultare le pagine che
aveva in mano, sfogliandone una nuova.
«Ti va bene davvero?» lo interrogò
ancora una volta il lupo nero, inflessibile sul posto in cui si trovava,
scandagliando attentamente il marito immerso in fatiche da FBI che avrebbe
potuto rimandare a giorni futuri, quando il congedo di paternità sarebbe
scaduto. Anzi, era stranamente sorpreso e compiaciuto che Stiles avesse
resistito talmente tanto dal seppellire la testa in casi di omicidio irrisolti.
«Non eri tu quello che voleva contribuire alle spese?».
«Certo che sì, a cosa servirebbe il
mio stipendio altrimenti» la domanda retorica la lasciò in sospeso, senza
dargli un vero peso. «Ma so quando qualcosa è importante per te e questo lo è.
Tu pagherai il college e io le lezioni di musica».
Derek innalzò un sopracciglio con
scetticismo. «Lezioni di musica?».
«Tre figli e nessuno che si dedicherà
alla musica? Sarebbe un affronto» Stiles lo guardò quasi scandalizzato e
orripilato, stendando a credere all’incredulità del consorte.
Derek ridette dentro di sé, a volte
dimenticava la passione che condivideva con sua sorella, l’intera collezione di
vienili che aveva esposto nella libreria del salotto e il giradischi in bella
mostra. Derek era riuscito perfino a portarlo a diversi festival di musica rock
e pop sparsi per il paese; forse erano quelle le loro vacanze per staccare la
spina. «E lo strumento? Chi lo paga?».
«Una perfetta metà, ovviamente»
chiarì con semplicità il figlio dello sceriffo, il ragionamento logico che
metteva in mostra. «Stessa cosa per gli equipaggiamenti sportivi o qualsiasi
altra loro passione».
«Finanziamo i loro sogni» espose
Derek senza rifletterci seriamente, trascinato dalle varie immagini dei
possibili futuri che li avrebbero attesi di lì a qualche anno.
«È una bella immagine. Sì, finanziamo
i loro sogni» si fermò ad assaporare l’insieme di quelle parole, i loro
meccanismi e la complessità di cui erano formati. Si ritrovò a posare il
fascicolo che stava studiando sul comodino meditabondo e nostalgico. «Sai, la
batteria è molto terapeutica, permette di scaricare tutte le energie in eccesso
e di liberare dalla negatività, la rabbia e i cattivi pensieri. Libera e
trasforma il negativo in magia dalla grandezza illimitata».
Derek rimase in silenzio per qualche
tempo, i sensi concentrati sulle emozioni che Stiles stava sprigionando in
silenzio e c’era qualcosa nella sua espressione serafica che non riusciva a
decifrare, qualcosa che non aveva mia visto. «Come lo sai?».
«L’ho suonata per diverso tempo»
annunciò per la prima volta l’essere umano, i ricordi e le sensazioni che si
affollavano sulle retine. «Bambino iperattivo, ricordi?» gli mostrò le mani
sempre in movimento e impossibili da tenere a freno, dovevano avere qualcosa da
fare in continuazione, la necessità di investire le energie in eccesso in
qualcosa di costruttivo. «Mi ha aiutato anche durante la malattia e la morte di
mia madre, tra un attacco di panico e l’altro. Era l’unico momento in cui
riuscissi a respirare davvero, l’unica cosa che mi facesse stare bene».
«Non l’ho mai vista» Derek aveva
manifestato la brutta abitudine di entrare un po’ troppo spesso dalla finestra
di uno Stiles adolescente, ogni volta aveva una motivazione diversa e ben
congeniata; certo, non poteva dichiarare di aver perlustrato ogni angolo della
villetta a due piani dello sceriffo, ma dubitava che una struttura composta da
piatti e tamburi di varie grandezze gli sarebbe sfuggita.
«L’ho data via quando è iniziata
tutta la storia di Scott e lupi ringhianti, non avevo più tempo da dedicarle»
sospirò a mezza bocca, tentando invano di trattenere l’insofferenza che quella
decisione aveva comportato, un pezzo fondamentale della sua vita che si era
distaccata da lui, come molte altre cose. Aveva cominciato a perdere parti di
sé ancora prima che se ne accorgesse. «Non fare quell’espressione afflitta,
forse mi sarebbe servita per affrontare tutto quello che abbiamo vissuto o
forse no, non possiamo saperlo».
Stiles lo affrontò a spada tratta,
ammonendolo per i sentimenti oscuri e di dispiacere che il mannaro stava
lasciando traspirare. «Non posso non notare quanto ti sei sacrificato per noi».
L’umano tremò a quel noi, il
vecchio Derek non si sarebbe mai incluso tra le schiere che Stiles aveva
tentato di proteggere con ogni parte di sé, si sarebbe escluso e inserito in un
gruppo assestante che non toccasse la sfera privata del ragazzino che in
qualche modo gli ronzava costantemente intorno – ma anche Derek orbitava
continuamente su di lui. «Nemmeno io mi pento delle mie scelte».
La creatura della notte serrò le
labbra per evitare di emettere ulteriore suono e protrarre quella conversazione
all’infinito, si limitò a fissarlo per qualche attimo di troppo, a sondare e
carpire l’essenza che ancora gli celava, ma aveva una vita intera per scoprire
tutti i piccoli aneddoti che rendevano Stiles quello che era. «Vorresti
proporla ad Erick?» i riferimenti non gli erano
sfuggiti, entrambi conoscevano bene quello stato d’animo.
«Sì» confermò il detective con
autenticità, l’idea che prendeva piede e acquisiva corpo. «Credo che
l’aiuterebbe molto».
«Va bene» Derek approvò senza che ci
fosse altro da sondare, la propria di rabbia l’aveva gestita pessimamente sin
dall’inizio, quando perfino non ne aveva, avvelenato dai sussurri di Peter che
tentavano soltanto di annientarlo lentamente. Stiles, al contrario, aveva
dimostrato di essere in grado di sopraffarla; il più delle volte. «Ma potrebbe
preferire suonare il violino o il clavicembalo».
«Il clavicembalo?» Stiles
quasi ruzzolò giù dal letto, con la faccia sgomenta e stupefatta, impossibilitato
a credere chi avesse davanti e Derek fece molta fatica a trattenersi dallo
scoppiargli a ridere in faccia. «Non sai distinguere un clarinetto da un oboe e
mi parli di clavicembali?».
«Sono molto interessanti» si
giustificò Derek con l’insano impulso di lasciarsi andare ad una fragorosa
risata; indispettire Stiles continuava ad essere la sua aspirazione massima.
«Un giorno, quando meno te
l’aspetterai, ti metterò davanti ad un pianoforte e un clavicembalo e mi farò
una pelliccia con il tuo manto nero se non saprai distinguerli correttamente»
lo puntò il figlio dello sceriffo, gli occhi stretti a due fessure, la minaccia
sottolineata con l’indice che lo additava.
Derek avrebbe voluto ribattere con
qualche altra conoscenza di base che gli era rimasta dai tempi d’oro del liceo,
ma un bussare secco arrivò alla loro porta, la sveglia che segnava le undici
passate e la consapevolezza di aver già messo a dormire le tre piccole pesti
che soggiornavano davanti la soglia con il fiato sospeso. Il lupo adulto si
mobilitò per raggiungere la fonte del suono e scostare la lastra di legno
annessa di maniglia per mostrare gli ospiti che li guardavano con occhi
giganti.
«Qual buon vento?» proferì sottoforma
di domanda l’unico umano dell’intero edificio, sporgendosi dalle lenzuola come
se volesse accorrere da loro, mentre Derek rimaneva con espressione
interrogativa e arcigna davanti a loro, in attesa di sentire quale scusa
avessero pronta.
«Possiamo stare qui per un po’?»
chiese con voce soffusa e piccola Corine, la volpe
che teneva stretta a sé e seguita dal restante della cucciolata che aspettava
in sospeso un responso di qualsiasi tipo.
Sia Stiles che Derek furono molto
sorpresi di ritrovarsi al loro cospetto anche Erick.
Laura e Corine fin troppo spesso venivano a fargli
visita, finendo ripetutamente per addormentarsi sul lettone incastrate ai corpi
dei due uomini che le sorvegliavano, ma il bambino non si era mai fatto vedere.
«Sì, certo» l’umano indirizzò un’occhiata sorpresa al marito, inviandogli una
domanda segreta e Derek si scostò semplicemente dalla porta per farli passare,
mentre Stiles sospingeva le coperte per accoglierli tutti. «Brutti sogni?»
chiese con leggera apprensione quando tutti i lupetti si accomodarono, con il
cerchio che veniva chiuso dal capo branco brontolone.
«No» disse sicura Laura, la testa già
adagiata su una parte del cuscino di Derek, i lunghi capelli dorati sparsi da
ogni parte. «Vogliamo solo stare qui per un pochino».
«Non ci servono motivazioni, l’importante
è che stiate bene» dichiarò il mutaforma adulto con
accuratezza e visione lunga, scostando magistralmente un ciuffo che ricadeva
sulle iridi azzurre di Corine.
«Stiamo bene» fu tutto quello che
proferì Erick, la moderazione che faceva ancora ampiamente
parte di sé.
I due coniugi non proferirono altra
parola e la camera padronale scese in un silenzio restauratore in cui le tre
creature erano disposte diligentemente sul materasso, Corine
al centro, Laura a farle da sponda dal lato di Derek ed Erick
che riposava accanto a Stiles in un perfetto muro; erano le assegnazioni che
adottavano quando dormivano tutti e tre sullo stesso letto dal loro primo
giorno in quella casa e probabilmente era la stessa che assumevano in segreto e
rigoroso silenzio, vigili a non farsi scoprire, all’orfanatrofio. Certe
abitudini erano dure a morire.
La cucciola riempì l’assenza di suoni
con la sua voce candida e pulita, talmente piena di entusiasmo e voglia di
condividere ogni suo pensiero da scaldare il cuore, agitando le braccine e le
manine per enfatizzare quanto aveva da dare, alzandosi in piedi e scavalcando
la sorella, accomodandosi sullo stomaco di Derek – tenendola saldamente – e
deliziandolo con le sue novelle, con i continui Der Der
che vibravano per le pareti, mentre gli altri abitanti si lasciavano riempire
le orecchie e ridacchiavano allietati, intervenendo di tanto in tanto,
costituendo delle vere forme di discussioni.
«Stai davvero bene, lupetto?» gli
domandò molto tempo dopo l’umano, Corine addormentata
sul petto del lupo e Laura accartocciata contro di lui, in balia del regno di
Morfeo che la reclamava; Erick mostrava di essere
ancora abbastanza vigile e di starsi godendo quella quiete momentanea e
familiare.
«Sì» confermò affermativo il bambino,
le palpebre che si abbassavano per godersi il leggero solletico scaturito dalle
dita di Stiles che gli sfioravano l’attaccatura del cuoio capelluto.
Le labbra del figlio dello sceriffo
si curvarono verso l’alto alla reazione del suo piccolo ospite, accompagnando la
pace delle sue membra per ancora qualche secondo. «Ti piacerebbe passare in un
negozio di musica in questi giorni? Provare uno strumento?».
«Uno strumento?» domandò in una eco
con evidente sorpresa, le iridi dell’oceano che si mostravano plateali, affacciate
in un campo che non conoscevano minimamente.
«Tutti quelli che vuoi» parò il tiro
l’umano, strizzandogli un occhio di complicità. «Potresti trovarne uno che ti
piaccia e sai quanto sarà divertente infastidire l’udito sopraffino del grande
lupo cattivo?».
Erick faticò a trattenere il ridacchiare che gli sporcò la voce, emettendo suoni
impercettibili, mentre Derek a occhi serrati grugniva contrariato, tentando di
ricoprire Corine con più accuratezza senza
svegliarla, una mano ferma e morbida sulla schiena ad impedirle di muoversi e
capitolare dal letto.
«Solo se ti va» precisò Stiles con
attenzione, la possibilità illimitata di scelta che era tutta a sua
disposizione.
«Non lo so, non ci ho mai pensato» Erick cadde in un vortice di incertezza, panorami e scelte
che non gli erano mai state presentate e che era stato certo per tanto tempo
che mai gli si sarebbero parate davanti, ma Stiles e Derek gli stavano offrendo
un mondo pieno di ogni opportunità esistente, perfino le più inimmaginabili;
infinità di capitoli da riempire con le innumerevoli esperienze che avrebbe
deciso di intraprendere. «Okay, magari sarà davvero divertente».
«Sì?» indagò ancora per un’ulteriore
certezza, sorridendogli con la curva da volpe indomita che lo caratterizzava.
«Sì» confermò ampiamente il bambino,
la fermezza della sua decisione ultima. Era bello sapere che Stiles non lo
avrebbe pressato e che gli dava l’occasione di cambiare idea in qualsiasi
momento; era certo che se avesse ritrattato, Stiles non si sarebbe opposto.
Nemmeno Derek.
«Bravo il mio lupetto» soffiò con
amore l’umano, adagiandogli un bacio al limitare della fronte, sfiorandogli
lievemente i capelli biondi, scaturendogli brividi positivi. «Sarà sicuramente
divertente».
Il cuore di Erick
si scaldò in ogni angolo, il ribollire che sentiva nelle vene e l’affetto
immenso di Stiles che lo avvolgeva come un mantello, sbocciando in ciascuna
cellula che lo componesse e sovrastandolo interamente; affondò il viso sul
cuscino per non lasciare defluire tutte le emozioni che era sicuro fossero
visibili dai tratti facciali, abbandonandosi totalmente alle cure dell’umano
che calmavano ed esaltavano allo stesso tempo il tornado che si rigirava
all’interno del proprio organismo. Era a casa. Finalmente a casa.
Stiles si risvegliò all’albeggiare, i
colori tenui che penetravano appena dalla finestra, rischiarando al minimo la
camera, i lumini sul comodino spenti, tre figure che gli ronfavano accanto ed
una che attendeva il suo risveglio. Le bambine erano esattamente dove le aveva
lasciate prima che la malia del dolce dormire lo richiamasse a sé, mentre Erick era attaccato a lui, tutto il corpo girato verso la
sua direzione e una manina che gli stringeva parte della maglia del pigiama,
intrappolata ed impossibile da recidere dalla sua stretta. Era l’espressione
più pacifica che gli avesse mai visto da quando era giunto sotto quel tetto.
«Cosa è successo?» domandò con la voce in un sussurro, sgomenta ed intorpidita,
non certo di aver messo a fuoco lo spettacolo che gli si parava dinnanzi, attribuendogli
il corretto significato.
«Hai domato la bestia» dichiarò con
autenticità il lupo mannaro nero con il medesimo riguardo, la cura nel
continuare a regalare delle ore tranquille tra le braccia del dio greco dei
sogni ai marmocchi che gli avevano monopolizzato le coltri che condivideva con
il marito.
Stiles riportò le iridi di miele
sullo scricciolo che gli si era attaccato addosso, nessuna titubanza e
riluttanza a dividere i suoi spazi con l’umano, dimostrando l’esatto opposto.
«Oh» si illuminò di incredulità, colto da un’epifania felice ed impareggiabile.
Un braccio non impegnato a
sorvegliare Corine si mosse all’indirizzo del figlio
dello sceriffo, aggirando le teste delle piccole creature che sonnecchiavano
nella pace dei sensi e raggiunto dall’altro, intrecciando in una trama
peculiare le dita delle loro mani, gli anelli di biondo metallo stuzzicati
dall’astro d’Apollo pigro e l’espressione commossa ed impagabile di Stiles che
sorgeva insieme ad esso. «Sei la volpe incantatrice che ha ammaliato tutti i
lupi tormentati che ha incrociato sul suo cammino».
«Hai mai pensato di avere bambini?»
Stiles sedeva con il portatile sulle gambe incrociate sul divano arancione
pastello su cui fin troppo spesso avevano fatto l’amore, gli occhi che
leggevano ogni riga e le dita che scorrevano sulla tastiera per correggere o
aggiungere qualcosa di nuovo, uno dei vienili di Laura che alleggiava nell’aria
a riempire le mura e ad alleggerire quell’ardua impresa di terminare la tesi
che avrebbe dovuto consegnare entro tre settimane, mentre Derek sostava sul
lato opposto, le mani che tenevano con eleganza un nuovo mattone dei suoi e che
leggeva affascinato.
«Bambini?» gli fece eco il lupo
mannaro, le iridi verdi che si scostavano dal libro e che si posavano
interrogative sul compagno, quasi non riconoscesse il vocabolo. «No, mai».
Le falangi di Stiles si interruppero
nel loro lavoro di correzione e rimasero in sospensione, sollevate dai tasti
grigi, l’attenzione che si spostava completamente sul licantropo. «Davvero? Proprio
tu che ti circondavi di adolescenti».
«Non sono proprio la stessa cosa» non
era nemmeno mai stata una vera scelta, al contrario, pensava di non averne
affatto. Aveva puntato la categoria più influenzabile e in essa aveva pescato
gli individui maggiormente fragili, ma che sapeva erano portati a sopravvivere
al morso di un Alpha. Prima di quello aveva provato ad avere Scott dalla sua
parte, ma Stiles sussurrava alle sue orecchie e nella sua ingenuità, il
messicano era fin troppo guidato da una testa efficacemente pensante che lo
metteva in guardia; erano un duo difficilmente soggiogabile. Dopo tutti loro,
Derek era rimasto semplicemente incastrato e non ne era mai uscito bene; di
nuovo, si era lasciato tutto alle spalle come se li avesse rinnegati ed era
andato via, consapevole di star ferendo l’unica persona che non avrebbe voluto
nuocere, ma a cui aveva fatto più male. Eppure era lì al suo fianco in quel
preciso momento, scrivevano un capitolo alla volta della loro storia insieme.
Il figlio dello sceriffo gli dedicò
la curva scaltra e sarcastica che lo contraddistingueva enormemente, cambiando
completamente i suoi tratti facciali e tornando a dedicarsi al suo elaborato
dalla priorità impellente.
Stiles stava frequentando l’ultimo
anno di college, le sue energie erano tutte indirizzate al completamento del
suo corso di studio, della laurea che gli spettava di diritto, le intere
nottate passate insonne sui libri evidenziati di ogni colore immaginabile, le
aggiunte scritte a mano su ogni pagina, fogli pieni di appunti sparsi sul
tavolo e sul sofà, le sue ricerche per approfondire tutto quello che gli
interessava che aumentavano l’ammontare di lavoro, tazze usate e strausate per
il caffè che rubava di soppiatto sotto i rimproveri del lupo per il troppo abuso,
insieme alle bevande energizzanti. Spesso Derek rimaneva con lui a vigilare
sullo stress da studente, in altre occasioni invece andava a dormire senza
aspettarlo, per poi alzarsi nella notte e trovarlo addormentato sulle pagine,
prendendolo di peso e conducendolo nella camera da letto che condividevano,
immergendolo sotto le coperte insieme a lui e con Stiles che mugugnava di
apprezzamento, stringendosi al tepore che lo investiva in pieno, incastrandosi
al corpo del mutaforma. Quella era una vita che portava
avanti da quando aveva iniziato la sua relazione con l’umano da più di tre anni
e maggiormente da quando vivevano sotto lo stesso soffitto. Era più ricca di
quanto si sarebbe aspettato. «Non pensavo mi sarebbe stato concesso molto
tempo, quindi non ci ho mai riflettuto».
Stiles si immobilizzò di nuovo, le
iridi di miele che si posavano su quelle di giada e che rimanevano sgomente ed
atterrite. «Che vuoi dire?».
«Lo sai» l’inflessione nella sua voce
era empirica ed enfatizzata, Derek non lasciava nulla al caso. «La mia vita ha
visto arrivare la fine fin troppe volte, ho imparato a vivere un giorno alla
volta, niente progetti a lungo termine» anche alla vita di Stiles ero toccato
lo stesso destino, ma aveva sempre avuto una visione completamente diversa
dalla sua.
«Tu hai dei progetti con me, Derek»
era piuttosto sicuro che non avesse parlato al vuoto negli ultimi tre anni, ma
che al contrario fosse stato ben ascoltato e che avessero perfino concordato
certi aspetti; magari non tutti, magari non erano stati precisi e dettagliati,
ma il quadro generale era chiaro ad entrambi.
«Con te, Stiles, adesso» la
differenza era significativa.
Le dita dell’umano scalfino appena la
tastiera e una lettera che non andava inserita si stampò sul documento, mentre
il computer scivolava leggermente dalle gambe. «Okay, quindi vuoi che te lo
richieda tra qualche anno, quando ci avrai riflettuto?».
«No, non è quello… tu li vuoi, è
così?» il libro tra le mani di Derek si richiuse in un tonfo di carta spesso,
incastrandolo tra il bracciolo e il cuscino, e gli occhi erano completamente
assorbiti dalla figura di Stiles, dalla consapevolezza che lampeggiava che gli
metteva in luce il motivo della domanda che era stata posta all’inizio di quel
dialogo.
«Era solo una conversazione, non ne
abbiamo mai parlato» forse finalmente capiva il perché, era stato stupido da
parte sua non arrivarci. «Però, sì. Li vorrei, dei lupacchiotti».
«Dei lupa… Stiles!» l’esclamazione
incredula risuonò per le pareti, emergendo tra le note basse del vienile della
sorella maggiore che risuonavano sul mobile poco lontano, dov’era stato
collocato il giradischi un paio d’anni prima.
Le labbra dell’umano assunsero una
piega vittoriosa e trionfa, come se avessero conquistato qualcosa di immenso.
«Pensavo mi conoscessi».
«Ti conosco, purtroppo, eppure spero
imperterrito che il tuo cervello autodistruttivo si decida a riprendere a
funzionare» ma forse il discorso stava nel fatto che funzionasse fin troppo
bene sotto quella prospettiva. «Non sei stanco di avere una vita circoscritta e
obbligata con i lupi?».
«Non so se ne
sei a conoscenza, ma ho una relazione con un lupo» il sarcasmo puntente dello
studente colpì senza esitazione, preciso come una freccia di un arciere
esperto. «Forse ti è sfuggito».
«E ne vuoi ancora» forse aveva preso
sottogamba l’ossessione suicida di Stiles o l’ossessione generale per il
soprannaturale, ma pensava ne avesse avuto abbastanza, non era stato granché
gentile con lui, il suo amore non era ricambiato come avrebbe dovuto.
«Amo i lupi» era la sua unica
risposta a qualcosa che aveva manifestato da quando si conoscevano, non pensava
affatto che avrebbe dovuto sottolinearlo dopo tutto quel tempo. «E voglio
amarli insieme a te» il portatile fu spostato sul tavolino di vetro che sostava
a mezzo metro da loro, ancora acceso e perfettamente funzionante, la tesi quasi
terminata a cui occorrevano modifiche ed interventi che rimaneva in bella
vista. «E, a loro volta, amerebbero te come ti amo io» scivolò sui cuscini
pastello, le gambe che si muovevano fluide, il calore del suo corpo che lambiva
quello della creatura della notte, le dita lunghe e affusolate che gli
accarezzavano il viso con morbidezza. «Non è questo che hai sempre desiderato?
Riavere un branco, una famiglia».
«Ho già la mia famiglia, Stiles, e
sei tu» Derek era piuttosto fiscale su quell’aspetto, non dovevano esserci
fraintendimenti. Non glielo aveva dimostrato in tempi remoti, ma non mancava di
farglielo presente da quando a legarli era una relazione sentimentale.
Stiles sorrise di cuore e abbandonò
la testa sul bordo dello schienale, gli occhi luminosi e del tutto indirizzati
verso di lui. Derek non riusciva a smettere di trovarlo ammaliante. «E tu sei
la mia, Der. Proprio per questo mi piacerebbe poterti dare di più, ampliarla;
dei piccoli lupacchiotti che scorrazzano per casa e che saranno inebriati ed
ubidienti a questo splendido lupo nero».
«È questa l’idea che ti sei fatto?
Che devi darmi di più?» il tono del mannaro era duro e asciutto, come gli occhi
impenetrabili che lo fissavano con un sopracciglio inarcato.
«Riformulo: voglio di più per noi»
Stiles raddrizzò il capo e le iridi si fecero più affilate, brillanti e sicure
dei loro desideri, l’affabilità della volpe rossa si palesò inesorabile. «Al
contrario tuo, io sono sempre stato solo, ho sempre sognato una famiglia
numerosa ed imprevisti dappertutto, piccole creature che mi scorrazzano intorno
e rumori in ogni parte. Vorrei tante voci nella mia vita e so che vuoi lo
stesso» la famiglia di Derek, a differenza della sua, era sempre stata piena e
circondata da un’infinità di persone legate dal soprannaturale, da altri
branchi, druidi e diverse creature leggendarie; la quiete non era di casa in
Villa Hale e Derek ci aveva sguazzato dentro fin dalla nascita, ma poi era
terminato tutto e si era chiuso in se stesso, ad
emarginare tutto l’ambiente circostante. Aveva provato, a modo proprio, a
riprendersi quella parte passata di se stesso, ma non
era andato in porto ed era tornato a isolarsi. Stiles era tutto quello che
aveva da quando una nuova decisione fu presa ed avendo cambiato ancora se stesso; il suo raggio d’azione si limitava a quello che
toccava l’umano e non sempre la cosa lo rallegrava, serrava i denti e si armava
dell’intera pazienza che gli scorreva in corpo.
«E pensi che ne sarei in grado?» la
domanda del mutaforma arrivò come un fulmine che
attraversa il cielo, dietro l’angolo e zitto, lontano dal boato del tuono che
sarebbe giunto soltanto secondi più tardi per annunciarsi. «Ho distrutto tutto
quello che ho toccato».
Una stilettata arrivò dritta ad
attraversare l’organo primario che dava moto alla complessità dell’organismo e
Stiles arrancò nel respirare. «Non sei stato tu, non sei mai stato tu» una mano
si allungò per circondargli il volto e la fronte si poggiò su quella del
licantropo ad azzerare qualsiasi distanza tra loro, tutto ciò che gli impediva
di cadere era quel divano dal colore improponibile. «Io so per certo che sarai
splendido e meraviglioso e non sei più da solo, Derek, hai me dalla tua parte e
noi siamo una squadra perfetta».
Derek sbuffò sulla sua bocca con
contrarietà, in quella presa in giro dedicata a chi si credeva costantemente
inarrestabile, insostituibile e la chiave di ogni successo. «Perché due mali
fanno del bene».
«Sì» rispose sorpreso e innamorato
Stiles al suono di quelle parole che alcuni anni prima aveva esternato soltanto
per lui, quando Derek non voleva proprio saperne di farli divenire una cosa
sola e sentiva le grinfie di una presunta maledizione alitare su di sé,
annientandogli tutto quello che amava. Ad occhio esterno Derek poteva apparire
invariato, ma Stiles era in grado di vedere anche la più piccola ed
impercettibile intagliatura essere mutata.
Derek gli schioccò le labbra in mezzo
agli occhi e si godette quella vicinanza per un lungo secondo, prima di
scostarsi appena per avere una visione maggiorata. «Sentiamo: quanti ne
vorresti e come vorresti farlo?» l’ultimo era un fattore piuttosto essenziale e
basilare, come coppia costituita da esclusivo genere maschile, in cui sì,
esisteva sia il cromosoma X sia quello Y, avevano dei limiti ben delineati, ma
molta possibilità di scelta.
«Mi piacerebbe averne almeno due» era
il numero perfetto che la sua mente riusciva a quantizzare davanti alle
giornate iper lavorative che in futuro l’avrebbero travolto, ma voleva esserlo
anche da due lupacchiotti che gli avrebbero scaricato le poche energie rimaste
e che avrebbe serbato soltanto per loro totale utilizzo. «E vorrei adottarli»
esitò un attimo prima di continuare, avrebbe rilevato da quanto tempo effettivo
ci stesse riflettendo su. «In passato ho letto nei libri di famiglia di Peter
che esistono degli orfanatrofi dedicati ai lupi mannari e che accolgono, come
possono, altre creature soprannaturali» gli unici libri del grande ed antico
branco Hale che erano scampati all’incendio erano i suoi, la sua eredità che
teneva custodita gelosamente nella casa privata che possedeva già a quei tempi
nel centro di Beacon Hills. Era tutto quello che era rimasto e Stiles li aveva
studiati di ogni parola, mentre Derek non aveva mai voluto avvicinarcisi,
eppure era l’unico lascito che sarebbe sopravvissuto a tutti loro.
Il licantropo lo guardò a lungo e in
silenzio, ascoltando i numerosi ingranaggi che in Stiles si erano mossi con un
affanno immotivato. «È vero».
L’umano era sempre stato certo che il
Derek minorenne senza una Laura maggiorenne a vegliare su di lui, sarebbe
finito in uno di quei posti e chissà come ne sarebbe uscito. «Questo è il mio
piano, se concorderai».
«Perché?» fu la domanda che la
creatura della notte gli porse, profonda e indagatrice. «Ci sono altri modi».
«Lo so, ma non voglio un altro modo»
quando aveva letto l’esistenza di quegli orfanatrofi e case famiglia – su cui
in seguito si era documentato autonomamente –, antiche e sempre a lavoro, senza
che potessero mai prendere respiro, Stiles aveva capito all’istante che era
quello che voleva, che era l’unica strada percorribile. «Tu invece sì?» lo
sconcerto lo colse nel momento in cui capì che era una possibilità molto valida
il rifiuto di Derek. Non aveva dato per scontato nulla nella sua progettazione
immaginaria e in solitaria, ma aveva sperato che per il mannaro non si
presentasse come un problema.
«A me non importa il modo, ma a te
sì» cinque minuti prima non aveva nemmeno mai immaginato di poter avere
bambini, di certo non si era concentrato su come fare ad averli, al massimo su
come evitare; non aveva delle vere demarcazioni su come muoversi, ma voleva
delle motivazioni. «Voglio sapere il perché».
Era un argomento che il figlio dello
sceriffo proprio non avrebbe voluto affrontare e circumnavigarlo alla lontana gli
era parsa la scelta migliore, ma a Derek certe cose non sfuggivano affatto.
«Esistono tanti bambini che hanno vissuto la tua stessa esperienza, case
devastate, familiari uccisi da cacciatori, puniti per la loro vera natura,
unici superstiti rinchiusi ed ammassati tutti insieme, vorrei… vorrei poter
fare qualcosa per loro, almeno per qualcuno, uno sprazzo di normalità in questo
mondo crudele che noi conosciamo fin troppo bene. Così tanti bambini, Derek,
senza più nessuno».
«Stai ancora cercando di salvarmi»
dichiarò univocamente il mutaforma, le iridi verdi che
si fissavano immobili su quelle d’ambrosia e la consapevolezza che fluiva da
uno all’altro.
«Non è così» ma Derek gli rifilò
un’occhiata di contrasto e Stiles sospirò pesantemente. «Non posso negare di
essere stato ispirato da te, di essermi immaginato cosa sarebbe stata la tua
vita se un solo tassello fosse stato variato. Sei un orfano, è una realtà
incontrovertibile, come quella che ti sarebbe potuta toccare e che accade a
tantissimi piccoli lupi» il mannaro si mosse per ribattere in qualche modo, ma
Stiles lo zittì agitando ammonitore le mani. «Non è una cosa necessariamente
brutta, non lo è affatto, gli eventi capitano, formano la persona e il suo
pensiero, lo portano a fare delle scelte e questa è la mia scelta. E chi meglio
di noi sa cosa significa crescere senza genitori? È qualcosa che dovremmo
impedire in ogni modo possibile e questo è un uno di quelli».
Anche Stiles poteva essere
classificato come orfano, orfano di madre
era la dicitura corretta, se l’umano spesso aveva manifestato quanto
comprendesse Derek sotto quello aspetto, insieme a tanti altri, era perché
conosceva a menadito quel dolore insopportabile e insuperabile, conosceva
perfino il senso di colpa che si portava dietro; erano due esperienze diverte
con entità incalcolabili, ma nessuna delle due poteva essere etichettata con
una soglia del dolore inferiore rispetto al cataclisma che si era abbattuto su
di loro, non esisteva il io ho sofferto più di te, perché ogni dolore
era personale e veniva vissuto in modo differente, ma nel medesimo tempo era
affine; Derek l’aveva trovata immediatamente in Stiles. «Va bene» tutti quelli
che li circondavano da sei anni avevano sempre visto e classificato Scott
McCall come puro di cuore, bontà vera, altruismo, ma Derek non era mai stato
troppo di quell’avviso, nel messicano c’era anche tante ingenuità e l’essere
indubbiamente sciocco, aveva degli ideali sì, ma erano cresciuti insieme alla
sua vita con Stiles e contrariamente, l’umano non corrispondeva mai ad una
forma di purezza con la scaltrezza e malizia che gli appartenevano, ma per
Derek lo era: un puro di cuore un po’ sporcato ed ammaccato, nessuna
definizione classica, ma l’unica che lo rispecchiasse seriamente; glielo
dimostrava continuamente.
«Va bene?» Stiles scattò versò
l’altro del tutto impreparato e sordo completamente delle sue orecchie. «Tutto
qui?».
«Ti ho chiesto delle motivazioni e tu
me le hai date, non mi serve altro» semplificò assolutistico la creatura della
notte, tuttavia il figlio dello sceriffo lo guardò con dubbio e perplessità,
come se lui, invece, necessitasse di ulteriore chiarimento. «Sono delle ragioni
valide, non ho niente da controbattere. Al contrario, odio quando hai ragione».
Le pupille nere si dilatarono
nell’ambrosia e gli occhi si spalancarono in sequenza, lo sbalordimento fu
talmente grande che era spaccato in due sul ridere o indignarsi; gli uscì una
strana risata confusa e risentita che non aveva idea di cosa avrebbe dovuto
davvero esprimere. «Non capisco se hai preso una decisione in merito o se mi
stai solo assegnando punti».
«Ti sto decisamente assegnando punti»
lo sbeffeggiò brutalmente il lupo, ma con quella dovizia amabile che dedicava
esclusivamente a lui.
La testa di Stiles si inclinò
leggermente da un lato, la prospettiva che cambiava e che necessitava di avere
una nuova visione che lo delucidasse su qualcosa, su quello che aveva dinnanzi.
«Se un giorno faremo davvero questa cosa, dovremmo… sposarci. È uno dei
primissimi requisiti richiesti per fare domanda; il primo, in realtà» il
secondo era una stabilità economica, possibilmente fruttuosa.
Derek lo inchiodò con attenzione con
le gemme fredde, eppure erano le più calde su cui Stiles si fosse mai
specchiato e che accrescevano il nodo in fondo alla gola che aveva, insieme al
suo disagio. «È La proposta quella che sento?».
«Più che altro, è una transazione
d’affari» sorrise Stiles affabile e affascinante, il sarcasmo che tentava di
cacciare il malessere che gli viveva dentro e il tormento di quella realtà che
prima o poi avrebbe dovuto far emergere quando l’argomento lupacchiotti da
adottare sarebbe saltato fuori.
«Okay» gli occhi di Derek
scintillarono e le labbra si curvarono lievemente scaltre ed incantatrici,
gemelle a quelle che in genere l’umano mostrava incontrastato. «Fammi sentire
come vorresti vendermi il tuo prodotto».
Stiles si schiarì la voce per la
difficoltà, slittando ulteriormente verso il mutaforma
ad accrescere la loro vicinanza, l’agitazione e la pressione che stanziavano
sospese sopra di lui, le gocce di sudore per le parole involontariamente
sbagliate che avrebbe potuto emettere. «Derek Hale, vuoi trascorrere il resto
della tua vita con me a crescere lupacchiotti?».
Derek incatenò la bocca di Stiles
alla propria, inflessibile, completamente trasportato e un fondo senza fine, lo
agguantò dovunque riuscisse ad arrivare e oltre per non lasciarlo scappare.
«Stiles, non hai ancora capito che ti inseguirò ovunque andrai».
Era una mezza domanda molto e troppo
retorica e l’umano lo guardò platealmente, febbrile e interdetto, le labbra
arrossate, calde e pulsanti che testimoniavano il bacio appena scambiato, si
sentiva come se fosse stato lasciando indietro a scovare indizi e trovare il
responso da sé. «È un sì?».
Derek gli sorrise come se avesse
tutte le risposte del mondo contenute al suo interno e gli schioccò un nuovo
bacio al centro della fronte, per poi tornare ai cuscinetti rosa che
conservavano ancora il tepore precedente, depositandogliene un altro con
passione inaudita; era luminoso come poche volte Stiles ebbe l’opportunità di
osservarlo. «È decisamente un sì».
Le note vivaci ed articolate del
vienile di Laura si espansero in ogni dove, infiltrandosi in tutte le
canalature che riuscivano a trovare, nei cuori frementi e ritmici dei due abitanti,
riscaldandoli e accompagnandoli al meglio delle loro capacità, con Stiles che
avvolgeva con le braccia Derek e si incastrava perfettamente a lui, le labbra
curvate verso l’alto felici ed appagate, mentre il volto del lupo si nascondeva
nel suo a sancire cosa il futuro aveva in serbo per entrambi.
Non
ci girerò intorno, questo è l’ultimo capitolo.
Abbiamo
visto un po’ di tutto in queste pagine, la relazione salda tra Derek e Stiles e
il desiderio di allargare la famiglia, il rapporto conflittuale tra Stiles e Erick che si è evoluto in qualcosa di decisamente non
ostile. Nulla di questo è stato un percorso facile, ma loro sono riusciti a
raggiungere un bellissimo risultato.
Soltanto
che la somma finale la tireremo la settimana prossima, con l’epilogo. Chissà se
non abbia altre sorprese per noi.
«Cosa sto dimenticando?» Stiles si
aggirava con ansia e sospetto per tutta la camera padronale, il letto ancora
sfatto e parte di vestiti inutilizzati buttati sopra, la sveglia segnava un
orario proibito rispetto a quello a cui si era abituato in quelle dodici
settimane.
«Niente» disse Derek con certezza,
seguendolo per le scale e fin dentro lo studio, guardandolo raggiungere la
cassaforte e digitare il codice di sicurezza, estraendo la pistola in dotazione
e inserendola nella fondina; il distintivo era già dentro il taschino interno
della giacca scura.
Gli occhi d’ambrosia scandagliarono
tutto quello che aveva intorno, i documenti letti e riletti sul tavolo da
lavoro, gli evidenziatori colorati e le innumerevoli penne inserite nel loro
apposito contenitore, non c’era niente fuori posto. «Sicuro?».
«Sicuro» confermò il lupo mannaro,
allungando le mani e strizzandogli le spalle per rilassarlo, stando ben attento
a non sgualcirgli il vestito elegante che indossava come se fosse una divisa.
Stiles sospirò già esausto e ancora
non aveva attraversato l’ingresso principale per lasciare l’abitazione,
dirigersi in auto e metterla in moto, l’angoscia che sentiva dentro non
riusciva a scacciarla via. «C’è qualcosa che mi frena».
«È del tutto normale» asserì Derek
senza alcun stupore, le dita meticolose che scioglievano i nodi che il giorno
precedente l’umano non aveva. «Sindrome da distacco».
Il detective gli soffiò contro con
dispetto e noia, assestandogli un’occhiataccia. «Ti diverte, vero?».
«Un po’» Derek gli rifilò il suo
sorriso affascinante che tirava fuori in rare occasioni, principalmente per
deriderlo.
«Hai tutto sotto controllo? Ti serve
una mano?» lo ignorò l’umano, tempestandolo di domande e facendo emergere
l’ansia perpetua che lo caratterizzava, ma che giunti al quel punto si
mischiava con l’apprensione genitoriale: con connubio letale.
«Ho tutto sotto controllo, va tutto
bene» proferì per nulla turbato la creatura della notte, la pazienza che si
palesava a prendere il sopravvento. «Tranquillo».
«Sarò tranquillo quando Corine inizierà a frequentare l’asilo» non trovava proprio
pace davanti alla prospettiva che non potesse occuparsi a tempo pieno della
cucciola, di doverla lasciare ogni mattina a se
stessa, sprovvista completamente della compagnia dei fratelli e di lui, ma con
solo Derek a badare a lei. Il lupo poteva non avere delle ore lavorative fisse,
ma aveva molti progetti che lo coinvolgevano, persone da incontrare,
appuntamenti a cui partecipare, commissioni di ogni genere e luoghi da ispezionare,
aerei da prendere e visite fuoriporta, faticava a comprendere come avrebbero
fatto a far coincidere i loro orari ed i turni per averla sempre sotto i loro
occhi; Derek non sarebbe stato sempre disponibile e Stiles sapeva che avrebbe
dovuto cominciare ad organizzare la sua agenza mattutina e fare numerosi
sacrifici, chiedere favori e contraccambiarli. Sapeva anche che, laddove in
città Derek fosse sicuro, se la sarebbe portata con sé ovunque fosse andato.
«Sono soltanto un paio di mesi, ce la
caveremo» lo quietò il mutaforma, la ragionevolezza
dalla sua parte, come se non vi fosse alcuna preoccupazione che lo turbasse.
Era una fortuna che nella coppia ci
fosse qualcuno pragmatico, che non si facesse sopraffare dall’agitazione
dell’ignoto e delle troppe incognite che quella situazione avrebbe potuto
portare. «Sì, hai ragione» se la cavavano sempre, tuttavia l’attenzione del
figlio dello sceriffo riprese a girare per tutta la stanza come se non fosse
persuaso, finché gli occhi non brillarono davanti alle tre piccole figure che
li osservavano dalla porta, i baffi di latte e indossando per metà ancora i
pigiami dalle fantasie complesse, non lasciando una buona impressione che le
cose stessero funzionando poi così bene e due di loro sarebbero dovuti già
essere pronti per essere condotti all’istituto scolastico; purtroppo non aveva
tempo per occuparsi di quello, di sorvegliarli mentre terminavano di lavarsi e
vestirsi, l’orologio ticchettava e non poteva permettersi di essere in ritardo
il suo primo giorno di rientro a lavoro. «Ehy, tesori
miei».
I bambini videro i lunghi arti
superiori di Stiles spalancarsi, invitandoli ad accorrere verso di lui per
ricevere l’abbraccio di augurio di buona giornata e quelle coccole dovute solo
a loro; si illuminarono a loro volta.
«Alt» li fermò tempestivamente Derek,
parandosi davanti all’umano, la voce autoritaria che riecheggiava per le
pareti, bloccando la loro corsa già avviata e ricevendo tre paia d’occhi, più
una extra, confuse ed interrogative, non capacitandosi di dove avessero
sbagliato. «Mostratemi le mani pulite, Stiles non ha tempo di cambiarsi».
I pargoletti fissarono inorriditi le
loro mani come se li avessero traditi senza metterli al corrente, trovandole apparentemente
immacolate, ma con evidenti tracce di briciole e dita inzuppate di liquido
bianco; lo guardo severo di Derek non ammetteva repliche. Lanciarono delle
occhiate colpevoli e corsero a raggiungere il bagno più vicino, quello
collocato al piano terra.
«Uao, dei
perfetti soldatini» proferì Stiles con evidente stupore. Era un po’ ingiusto,
erano dei bambini obbedienti che difficilmente ritrattavano, seguendo le
direttive con molta cura e Derek sapeva di certo il fatto suo, era un bravo
genitore scrupoloso.
«Come ho detto: è tutto sotto
controllo» affermò con fermezza il licantropo, voltandosi verso di lui con la
sua aura austera ed impossibile da battere.
Stiles gli dedicò una curva rilassata
e fiera sulle labbra, protendendosi appena per adagiargli un bacio a stampo.
Derek ne pretese uno decisamente più approfondito.
I lupetti si presentarono in fila
scoordinata e movimentata nel soggiorno che i due coniugi avevano raggiunto,
l’ingresso ancora serrato e allo stesso tempo pronto per essere varcato,
precipitandosi in direzione dell’unico umano della famiglia e gettandogli le
braccia che l’avvolgevano ovunque riuscissero ad arrivare; Erick
rimaneva ancora un passo indietro, limitandosi ad assistere all’affetto che le
sue sorelle stavano manifestando.
Stiles aveva un sorriso per tutti
loro di puro apprezzamento e contentezza, dispensando baci alle lupacchiotte e
prendendole a turno in braccio per dedicare maggiore attenzione. Nessuna
preferenza, era tutto distribuito in egual misura ed Erick
non riusciva proprio ad ignorarlo.
Stiles si era liberato dalle sorelle
che gli artigliavano le gambe e si presentava fermo davanti a lui, le iridi
furbe che lo guardavano attente e la bocca in una smorfia accattivante
d’attesa; gli appariva molto più alto e posato di quanto non l’avesse visto da
quando li avevano accolti in casa propria. «Ciao, lupetto» disse benevolmente,
le dita di una mano che andavano ad arruffargli con simpatia la chioma dorata,
tutto il suo calore che l’attraversava in ogni cellula. «Torno presto».
L’impulso fu irreprimibile e gli arti
corti andarono ad accerchiare i fianchi dell’umano, stringendo e stringendo, il
viso immerso nella camicia immacolata e la giacca che presentava già qualche
piega; contrariamente a quanto si aspettasse, non lo rimproverò nessuno.
La stretta fu ricambiata ed Erick non aveva alcuna intenzione di scioglierla. «Ti
voglio bene» gli disse Stiles con autenticità, infondendogli totalmente
l’amorevolezza che provava.
Il cuore del lupetto si riempì e
sgorgò, provocando uno scoppio che era certo non avesse percepito soltanto
l’udito perfetto del licantropo adulto; la diga che conteneva tutte le sue
emozioni era stata distrutta dai due uomini che l’avevano accolto combattendo
contro e per lui.
Per Stiles fu quasi infattibile
uscire da quella casa ad un orario decente, la vera vittoria consistette nel
riuscire a mettere un piede fuori dall’uscio.
«Papà, puoi aggiungere le gocce di
cioccolato nei miei?» Laura era ancora molto assonnata e mezza addormentata, le
sinapsi non si erano ancora attivate del tutto e continuava a strofinare gli
occhi stretta nel suo pigiamino giallo, sbadigliando di tanto in tanto,
trascinandosi in cucina guidata dal profumo dei pancake caldi che venivano
cotti al momento dalle mani sapienti di Derek, arrampicandosi su uno degli
sgabelli incassati all’isola che sostava in mezzo alla stanza principale e che
venivano utilizzati per pasti veloci o, per la maggior parte delle occasioni,
per intrattenere conversazioni. Fu seguita dai fratelli insonnoliti che privi
di peso si gettarono sulle sedie adibite per il tavolo della colazione.
Un silenzio indicativo calò su tutto
l’ambiente, il risveglio repentino di tutte e tre le creaturine e Stiles che
era rimasto con il buongiorno incastrato nella gola mentre attraversava
la porta e si accomodava tra Erick e Corine. Derek si paralizzò sul posto, la fiamma accesa con
il manico stretto tra le dita, le frittelle di farina e uova che sfrigolavano
sulla superficie antiaderente.
Laura si tappò la bocca imbarazzata
con le manine, il rossore che le chiazzava il viso costellato di lentiggini e
le iridi azzurre che schizzavano da ogni parte come per chiedere aiuto o
accertarsi di qualcosa per l’errore che aveva commesso. Erano passati dei mesi
da quando l’aveva pronunciato l’ultima volta e anche prima, in una notte di
luna piena.
«Tesoro, non devi vergognarti»
proferì Stiles quando comprese il suo disaggio e il senso di colpa che la
copriva da ogni parte, il danno che pensava di aver arrecato. «Non è un
problema, va tutto bene».
«No?» farfugliò incerta a labbra
serrate, i grandi occhi che divenivano ancora più giganti ed i capelli biondi
che tentavano di nasconderla.
La padella sul fuoco fu agitata e
Stiles seppe che suo marito stava tentando di portare avanti l’incombenza di
preparare il pasto principale per quell’inizio di giornata che, secondo il
calendario stilato dall’umano, ricadeva su di lui. «No, se è quello che senti»
scivolò dalla sedia allo sgabello che sostava proprio davanti a lei,
sfiorandole teneramente la punta del naso e sorridendole candidamente. «Puoi
chiamarci come vuoi, non ci sono limiti o divieti, non devi qualcosa a noi o a
qualcun altro. Sei libera di usare qualsiasi appellativo o nome che desideri,
qualsiasi cosa ti faccia stare bene».
La lupacchiotta si strinse su se stessa, lasciando fluire le mani che le coprivano la
bocca e abbracciandosi di riflesso, come se non ne potesse farne a meno, messa
completamente a nudo ed incapace di formulare qualsiasi cosa le attraversasse
la mente. Le gemme di zaffiro si posavano su quattro identiche alle sue,
combattuta contro la propria persona e quelle con cui condivideva il patrimonio
genetico, torturandosi con gli incisivi il labbro inferiore. «È quello che
sento» bisbigliò con voce spezzata, ma piena di intensità, arrivando forte e
chiara alle orecchie di entrambi i coniugi.
Stiles le dedicò la sua curva
incantevole, stracolma d’affetto e le accarezzò una tempia su cui adagiò un
piccolo bacio. «Va bene, allora».
Laura rimaneva tutta impettita sulla
sua seduta, i fili dorati che venivano spostati malamente dalla vista,
voltandosi appena verso il piano cottura ed incontrando la schiena ampia e
forte dell’uomo che non aveva ancora proferito parola, ma che si era limitato
ad ascoltare senza intervenire. Si chiedeva se fosse veramente interessato o se
non gli importasse affatto, eppure sapeva che sarebbe sempre accorso per lei,
qualsiasi insieme di lettere avrebbe deciso di usare per chiamarlo. «Papà».
Il fiato venne trattenuto da tutti
gli abitanti all’interno di quelle mura e un piatto pieno di pancake con gocce
di cioccolato appena cotti le fu offerto, fumanti e perfettamente impilati.
«Ciao, fanciulla» fu tutto quello che Derek proferì con voce piena di calore,
l’espressione felice che gli sporcava la bocca.
Le iridi oceaniche si inumidirono e
il lupo le scostò i capelli dal viso, incastrando le ciocche ribelle dietro le
orecchie a liberarla totalmente da qualsiasi maschera potesse adottare e
frapporsi tra loro. Laura strinse forte il braccio che la vezzeggiava con
entrambi i suoi, tenendolo ancorato e godendosi appieno quel contatto così
intimo e privato, familiare. Quello era il suo papà. Derek era il suo
papà.
«Anch’io» le gambe di una sedia
sussultarono, un piccolo tornado schizzò per la cucina, girando intorno al
tavolo e all’isola, portandosi davanti al licantropo adulto ed attaccandosi
alle gambe chilometriche, stropicciando i pantaloni della tuta che indossava.
«Anch’io voglio chiamarti papà, Der Der».
Derek la guardò sorpreso, per qualche
attimo con il linguaggio azzerato, totalmente riflesso sugli occhi del mare che
lo guardavano speranzosi ed un minuscolo broncio di chi si sentiva privato di
qualcosa, ma Stiles non era per nulla stupito. «Certo che puoi, principessa».
Corine gli regalò il sorriso più bello del mondo e il lupo nero la prese tra le
braccia dopo essersi separato con consenso da Laura, cullandola dolcemente e
schioccandole un bacio pieno di dolcezza su una guancia paffuta.
«Anche Stils»
approdò la cucciola, facendo sentire la sua autorità e indicando l’umano che se
li stava mangiando con gli occhi, godendosi appieno quella scenetta smielata,
tirando il mutaforma per una manica per condurlo verso
di lui. «Anche Stils voglio chiamare papà».
«Cucciola, credo che ci sarebbe un
po’ di confusione con tutti questi papà» sarebbe stato molto divertente
all’inizio e avrebbe riscaldato il cuore sia al lupo che alla volpe, ma il
figlio dello sceriffo era sicuro che ci sarebbero stati troppi fraintendimenti.
«Puoi continuare a chiamarmi Stiles o in qualsiasi altro modo».
«Non è giusto» si dimostrò in
disaccorto la piccola di casa, le iridi che fiammeggiavano dispiaciute e per
nulla arrese, stringendo i pugnetti ad enfatizzare quanto impegno ci stesse
investendo. «Anche tu sei il mio papà».
Laura annuì con convinzione, unendosi
alla battaglia della sorellina, ignorando totalmente i bei pancake caldi caldi che Derek aveva cucinato di proposito per lei. «Sì, è
vero, anche tu sei il nostro papà».
Il cuore di Stiles stava diventando
improvvisamente troppo debole e facilmente attaccabile da tutto quell’amore
smisurato delle sue belle lupacchiotte. «Mi onorate» ma davvero, non sapeva
come evitare di deludere le sue piccole.
«Io so come chiamare Stiles»
sopraggiunse in un miraggio Erick che era rimasto
perfettamente in silenzio per tutto il tempo, pietrificato sul posto e con il
piatto ancora vuoto, spettatore del nuovo atto che stava prendendo vigore,
concretizzando qualcosa che gli era stato sottratto in un tempo remoto, ma non
dimenticato.
Su di lui si concentrarono le
attenzioni di quattro teste, gli occhi assetati di sapere delle bambine che lo
fissavano stupefatte ed incredule, non sapendo minimamente cosa aspettarsi da
lui. «Come?» chiese Corine, il nasino arricciato e
sporgendosi dalla presa ferrea di Derek, invitandolo a metterla giù e correndo
con i suoi piedini verso il fratello maggiore, le pupille lievemente dilatate,
come se fossero stuzzicate da ulteriori raggi solari che attraversavano la
vetrata che dava sul giardino privato. «Come chiamiamo Stils?»
«Papa» l’accento francese sostituì
completamente quello americano, defluì come se non avesse mai pronunciato
niente di diverso da quei suoni sconosciuti ai due sposi, c’era anche un enorme
languore che si intersecava tra quelle poche e singole sillabe.
Gli occhi di Laura si sgranarono,
stentando a credere alle sue orecchie e Corine lo
guardò come se non riconoscesse minimamente l’essere che aveva le fattezze di
suo fratello. «Davvero?».
Il coro delle cucciole sbigottite
arrivò dritto e chiaro alle orecchie degli adulti esclusi che non sapevano come
approcciarsi alla grande rivelazione che era arrivata alle figlie, ma che per
loro era del tutto sconosciuta. «Che significa?».
«Non guardare me, niente francese»
disse Derek quando le iridi d’ambrosia si puntarono su di lui come se fosse in
possesso di tutte le nozioni di cui necessitava. «Conosco lo spagnolo».
«Quello lo conosco anch’io» ribatté
annoiato Stiles, l’insinuazione non tanto velata che il suo consorte non
servisse proprio a granché quando se ne aveva seriamente bisogno.
«Mh,
passabile» lo sminuì con sarcasmo miscelato la creatura della notte dal pelo
scuro, punzecchiandolo con grazia.
Il figlio dello sceriffo lo accigliò
sconvolto e scandalizzato, la bocca semiaperta e il fuoco che era pronto a
divampare. «Scusami tanto se non sono un madrelingua come te».
Derek gli sorrise ilare e con un
doppio scopo ben evidente, la burla accattivante che cancellava tutto il resto.
«Posso darti ripetizioni tutte le volte che vuoi».
L’umano gli soffiò contro con risentimento
e l’offesa ben evidente, cancellata trionfo da un bacio a cui Stiles si ritrovò
a ricambiare suo malgrado. Succedeva veramente, in quei dieci anni speso e
volentieri si era esercitato con la lingua ispanica in cui era risultato
piuttosto arrugginito con Derek, strumento che gli sarebbe stato molto utile
nel suo lavoro sia nelle forze dell’ordine che soprattutto nell’FBI; più di una
volta l’aveva utilizzata in diversi casi.
«Possiamo davvero davvero
chiamarlo papa?» nel frattempo la conversazione tra i pargoli continuava
con prepotenza ed incredulità, Laura si era perfino volatizzata dalla sua
postazione ed aveva raggiunto Erick e Corine, la domanda che ripeteva sorda alle sue stesse
orecchie. «Pensavo ci fosse vietato, che non volevi più usarlo».
«Sto realizzando che un latino e un
polacco cresceranno tre bambini francesi» dichiarò il detective colpito dalla
rivelazione dei continui accenti che variavano senza che ne avesse davvero
preso coscienza.
«Il potere di un mondo globalizzato e
fondato sull’immigrazione» proferì Derek come se la questione non lo toccasse
minimamente, benché fosse abbastanza evidente.
«Io pensavo più al genocidio» rettificò
l’umano perfidamente, ma con la leggerezza di esternare un dato di fatto.
«Che ragazzo cupo e cinico» osservò
il licantropo moro con scherno a imbrattargli il tono vocale, fissandolo
dall’alto con intensità. «Credevo fosse una mia caratteristica».
Stiles gli mostrò la bocca sardonica
che prendeva destrezza, non lasciandogli scampo. «Non ho mai avuto una
personalità solare».
Derek sbuffò non avendo nulla da
ribattere.
«Non esiste persona più adatta di
Stiles» affermò univocamente il lupetto, rispondendo alle domande stupefatte
delle sorelle che sembravano essere pronte a scoppiare a piangere da un momento
all’altro e né Derek né Stiles ne capivano la reale motivazione.
«Possiamo conoscere il segreto?» si
intromise Stiles con moderazione, con l’ansia crescente che si elevava a mano a
mano, preoccupato e non certo di voler davvero conoscere il responso di una
tale manifestazione di turbamenti contrastati, si sentiva in sospeso ed in
profonda apnea. «Cosa significa?».
I tre bambini si mutarono e le iridi
azzurre si indirizzarono tutte in contemporanea sull’umano, provocandogli un
momento di disagio e un nodo di saliva difficile da ingoiare. «Papà» lo informò
Erick con un’emozione inclassificabile che prendeva
forma, l’aria tesa e un profondo magone che sentiva all’altezza dello stomaco.
Si aprì completamente ai sentimenti positivi che provava per lui. «Papa
significa papà».
L’universo di Stiles implose ed
improvvisamente non era più certo di dove si trovasse e cosa stesse facendo,
con chi avesse a che fare. «Oh».
Due piccoli terremoti femminili biondi
gli si abbatterò addosso e una litania di papa fu pronunciata in un coro
scoordinato con toni acuti e teneri, l’accento francese che faceva da padrone e
le manine che afferravano gli arti inferiori lunghi, sovrastandolo e
ritrovandosi improvvisamente a perdere l’equilibrio, precipitando con il sedere
per terra e venendo avvinghiato dalle braccine che lo circondarono, saltandogli
addosso mentre ridacchiavano entusiaste ed estasiate, perseverando a chiamarlo papa.
«È così che chiamavamo il nostro
papà» enunciò Erick frastornato, ma del tutto dedito
alla causa quando si ritrovò ad un passo dal groviglio che erano le sue sorelle
e Stiles, rendendolo partecipe di una nozione di cui era all’oscuro.
Stiles credette che tutti i neuroni e
le sinapsi lo abbandonassero in contemporanea, decedendo, lasciandolo totalmente
incapace di reagire e comunicare un qualsiasi pensiero, l’intensità di quella
rivelazione privata che rimbombò per l’intera scatola cranica che avrebbe
potuto definire momentaneamente vuota.
Stiles lo agguantò per un braccio
tirandoselo addosso, obbligandolo a gettarsi su di lui e stringendolo forte
forte contro di sé, stritolandolo insieme alle bambine che non volevano cedere
il loro posto nemmeno di un millimetro.
Non avrebbe mai creduto possibile di
provare un’emozione indefinita ed incalcolabile come quella che lo stava
investendo, prendendolo in pieno petto, lasciandolo completamente senza aria ed
incapace di emettere qualsiasi forma di suono. La stoccata definitiva arrivò
quando Derek avvolse tutti loro tra le sue braccia forti, consacrando l’attimo
più importante della loro vita familiare, la fiducia indiscussa che quei tre
piccoli esserini sfortunati stavano indirizzando totalmente verso di loro.
Il viaggio da Washington a Triangle non aveva subito difetti ed era proseguito senza
incidenti di alcuna sorta, non era un tragitto eterno, senza traffico un’ora
abbondante era più che sufficiente, ma era la prima gita fuori porta che
facevano tutti insieme, caricati sulla grande auto familiare, il bagaglio
traboccante dei loro averi calcolati per i tre giorni che li avrebbero visti
lontani dalla grande capitale. C’era esaltazione da tutte le parti e perfino la
musica per l’attraversata era stata scelta dai pargoli, le cinture di sicurezza
ben allacciate su ogni passeggiero, non transigendo affatto su quello.
La prima tappa ovviamente era stata per la piccola villetta che possedevano
da quelle parti, il giardino grande quasi quanto quello presente nella casa
principale, ma un po’ meno curato ed addobbato, niente laghetti o alberi a fare
da paravento, ma c’era verde ovunque posassero gli occhi. Vi erano soltanto tre
camere da letto, di cui si appropriarono automaticamente, e le misure di tutti
gli altri spazi abitabili erano più contenute, ma era molto calda ed appartata;
riscosse molto successo.
Ma in quel momento erano da tutt’altra parte, il sole alto nel cielo,
cosparso da latitanti nuvole bianche, una leggera brezza che spettinava le
chiome di tre figure sedute su un’enorme tovaglia da picnic a fissare
l’orizzonte boscoso, in attesa di veder scorgere qualcosa. Gli alberi erano
alti e secolari, non riuscivano a vederne le cime, il terriccio insieme
all’erba selvatica li accerchiava in ogni parte, alcune foglie secche a
ricoprire le parti scoperte e sentieri che erano stati tracciati dai loro
predecessori; non vi era una sola anima che potesse disturbarli.
Corine si arrampicò tra le gambe di Stiles, piazzandosi proprio al centro e
lasciandosi circondare dal suo abbraccio, mentre Laura si avvicinava di qualche
centimetro chiedendosi se da quella postazione si adocchiasse qualcosa di più,
strizzando gli occhi e sforzando di notare qualcosa di nuovo. Non vide nulla.
Poi qualcosa accadde lì al Chopawamsic Backcountry Area, un essere a
quattro zampe si palesò lentamente davanti a loro, il folto pelo del miele
miscelato a fili dorati, la consistenza morbida e il desiderio di strapazzarlo
fortemente, camminando verso di loro con perplessità e ritrosia. «Erick!» esclamò con entusiasmo vivo la cucciola
della famiglia Hale-Stilinski, agitandosi dalla presa dell’umano e sbattendo le
manine contenta, aspettando che si avvicinasse a loro, incitandolo con la
felicità che strabordava da ogni poro. Laura rise alla visione e Corine scappò dalle braccia di Stiles, fiondandosi sul
giovane lupo dalle iridi gialle luminose e aggrappandosi all’immenso collo,
ridacchiando sulla pelliccia e affondandovi completamente, con Stiles che
sorrideva cordialmente. Non vi era nessuna apprensione o inquietudine da parte
sua, il plenilunio era passato da due giorni e conosceva bene le fatiche che
avevano visto protagonista il lupetto in quei lunghi mesi in cui Derek gli
aveva insegnato ogni cosa sul controllo, sull’essere un lupo vero, come
muoversi, ascoltare e trovare le tracce, a rafforzare l’ancora che l’aveva
tenuto intero per due immensi anni e sul dominare la luna stessa.
Erick soffiò con finto fastidio, trascinandosi una sorellina molto incollata a
lui, i piedini sospesi e la vocina che emetteva versetti deliziati, la presa
che si faceva più intensa per non rischiare di cadere e il totale affidamento
che riponeva in lui. Difatti il canide si avvicinò con adagio, fermandosi
esattamente davanti all’unico umano a distanza di chilometri e lasciando che la
riprendesse con sé, ma nessuno dei due si mosse, al contrario Laura abbandonò
il suo posto comodo, mollando la presa sul piccolo borsone che conteneva un
cambio di vestiario per ognuno dei due lupi della famiglia, per accarezzare il
manto dorato, adulandolo. «Ciao, bel lupetto» fu il modo in cui l’accolse
Stiles, la curva indomita sulle labbra carnose e lo scintillio da volpe furba
che emergeva incontrastata. Era la prima volta che si presentava davanti a lui
sotto quella forma da quella fantomatica luna piena pericolosa, aveva sempre
evitato finché non sarebbe stato certo di sapersi domane come avrebbe dovuto,
pensando che gli sarebbe servito molto più tempo per adeguarsi e accettare
tutte le emozioni contrastanti che gli vivevano dentro, ma Derek un giorno gli
aveva dato il suo benestare e non gli serviva una conferma diversa da quella,
era stato Erick a ritardare ancora un pochino.
Corine sciolse il legame, i piedini che toccavano nuovamente terra, muovendosi
per volergli salire in groppa e le zampe della creatura si mossero un po’ più
in avanti, premiata delle dita affusolate di Stiles che gli accarezzarono il
pelo morbido, immergendole totalmente e completando il contatto. Fu
un’esperienza senza precedenti per entrambi. «Sei proprio un bravo lupetto» tutta
l’anima di Erick vibrò a quelle parole e
l’accettazione fu imprescindibile, si sentiva proprio al posto giusto con le
uniche persone che avrebbero mai potuto capirlo.
«Papa, quello è papà?» domandò
con stupore immenso Laura, le cure che stava riservando al fratello che si
bloccarono, richiamata da un'altra figura che sorgeva dai rami, il manto di
puro inchiostro nero e due gemme blu elettriche a farne da padrone.
«Papà?» domandò in una eco immediata Corine, l’attenzione che si spostava dal lupetto al canide
adulto che procedeva a passo spedito verso di loro.
Stiles non aveva bisogno di
adocchiare l’animale maestoso che trotterellava nella direzione in cui si erano
accomodati aspettandoli, conosceva ogni suo centimetro, i riflessi della luce
che si posavano su di lui donandogli nuove tonalità e il portamento reale che
assumeva privo di qualsiasi sforzo, tuttavia spostò comunque le iridi sul nuovo
arrivato, senza stancarsi mai di ammirarlo. «È proprio il vostro papà».
Le lupacchiotte rimasero interdette per
qualche attimo, indecise sul da farsi, ma Derek era già lì, maestoso e
catturava tutta l’attenzione, statuario e immobile nella sua posa
rappresentativa. Era la prima esperienza anche per loro.
Entrambe gli si gettarono addosso
senza guardarsi indietro. «Papà, sei davvero bellissimo» affermò Laura
completamente soggiogata, abbracciandogli il collo enorme e soffice, stringendo
più forte.
«Sì, sì, bellissimo, papà» confermò
la cucciola con vigore, riuscendo ad ancorarsi solo al petto e parte di una gamba
zampata, ma non meno disposta a manifestare quanto fosse colpita e quanto bene
gli volesse in qualsiasi forma assumesse.
Stiles sorrise per niente
impressionato, conosceva perfettamente l’effetto che suo marito suscitava sotto
quelle sembianze, rimanerne immuni sarebbe stato un peccato capitale. Schioccò
un piccolo bacio sul muso di Erick, accerchiandogli
la testa con un solo braccio e poggiandovi il capo su un lato. «Anche tu sei
bellissimo, hai tanta luce con te».
Il lupetto non riuscì a frenare la
sua contentezza, strofinandosi contro di lui dove lo toccava ed esibendosi in
qualcosa fin troppo simile alle fusa; Stiles curvò le labbra verso l’alto in
automatico, ma non infierì in alcuna maniera.
La situazione procedette pacifica per
diversi minuti, finché le bambine non si buttarono nuovamente su Erick e lui si spostò per iniziare a giocare con loro,
seguito dalle loro risatine divertite ed estasiate, invogliato a scatenarne
ancora di più, abbandonando completamente Stiles che si limitò ad osservarli
allontanarsi, stando ben attento che non uscissero dal suo campo visivo. Ma era
evidente che un certo lupo nero avesse degli altri progetti, l’umano si ritrovò
assaltato dalla bestia che amava, spinto sull’enorme tovaglia variopinta,
l’ombra della sua stazza che si abbatteva su di lui e le quattro zampe che
sostavano alzate sopra il suo corpo, a scrutarlo attentamente dalla posizione
privilegiata in cui si trovava.
Stiles impiegò qualche secondo di
troppo a metterlo a fuoco, disteso e con l’immensità accecante dell’Astro
d’Apollo che lo accecava volutamente, ma anche con quello svantaggio, riusciva
comunque a comprendere tutto lo splendore che racchiudeva; ne era
inverosimilmente incantato. «Sei sempre magnifico, Sourwolf».
Il lupo si chinò a leccargli la
faccia e Stiles scoppiò in una sonora risata. Fu il suo turno di agguantarlo
per il collo peloso e lucido, a tenerlo legato fortemente a sé nella posa più
scomoda che potessero escogitare.
Fu una giornata ricca di sorprese e
le bambine si divertirono fino allo sfinimento ad inseguire quelle meravigliose
creature della notte, totalmente disposte a cedere alle loro attenzioni. Fu uno
spettacolo a cui assistere senza pari e non importava affatto se
all’avvicinarsi del crepuscolo, Stiles e Derek avrebbero dovuto portare i
pargoli in braccio – Laura stretta all’umano, mentre Corine
ed Erick avviluppati al licantropo –, privi di forza
e addormentati, per l’intero tragitto verso casa; quando l’ora di cena sarebbe
passata e loro si sarebbero ridestati nel cuore della notte, fiondandosi nel
lettone matrimoniale e tenendo i due adulti svegli fino ad ore proibite, finché
non sarebbero collassati tutti insieme, avvolti da un connubio di arti
protettori.
Era irrealisticamente e interamente
vero.
Il campanello alla porta d’ingresso
risuonò per tutta Villa Hale-Stilinski e Stiles si precipitò ad aprire al suo
nuovo ospite. «Papà!» esclamò colmo di entusiasmo, mostrando un sorriso a
trentadue denti e abbracciandolo nell’immediato. Era passato davvero troppo
tempo da quando l’aveva visto l’ultima volta, dal matrimonio a fargli da
testimone, non c’erano state altre occasioni con il tempo speso con i bambini
ed era troppo presto per costringerli ad attraversare l’intero stato; rivederlo
gli appariva come una visione.
Lo sceriffo se lo strinse forte al
petto, beandosi finalmente della sua vicinanza fisica e non della sola voce che
attraversava la linea telefonica o delle videochiamate che di tanto in tanto
riuscivano a strapparsi in mezzo agli orari sballati e lavorativi che avevano,
insieme al fuso orario che non gli rendeva le cose affatto semplici. «Ciao,
figliolo».
«Tutto bene? Il viaggio è stato
faticoso?» domandò Stiles a raffica, sciogliendo la presa e guardandolo dritto
nelle iridi azzurre, così simili a quelle dei suoi bambini, ma anche
incredibilmente diverse.
«Tutto bene» lo rasserenò Noah con un
piccolo sorriso sulle labbra, non era cambiato assolutamente nulla nel suo
comportamento espansivo ed apprensivo.
«Papa» un piccolo uragano
dorato si precipitò verso di lui con energia con qualcosa che fremeva di
condividere con lui, ma si piantò dietro una sua gamba quando notò la nuova
figura che sostava davanti l’uscio di casa, nascondendosi appena. «Chi è?».
Una mano di Stiles andò a
scompigliarsi affettuosamente i fili biondi, scacciando il leggero timore ed uno
dei rarissimi episodi di timidezza che l’aveva appena colpita. «È il mio papà».
Gli occhi della cucciola divennero
giganti e lo stupore crebbe inesorabilmente. «Oh, il tuo papà».
Lo sceriffo notò bene come la bambina
si fosse aggrappata ad un arto inferiore del figlio, il leggero scetticismo che
era volato via e il rifugio che per lei rappresentava. «Ciao, sono Corine» eppure ne uscì con coraggio, la manina che gli
porgeva per presentarsi e il velo di imbarazzo che stava mettendo via con tutte
le sue forze.
L’uomo più grande le sorrise
calorosamente. «Ciao, Corine, mi chiamo Noah» le
strinse la manina che gli offrì, trattandola da sua pari.
«Oppure potresti chiamarlo nonno»
fece la sua incursione una figura femminile piuttosto simile nei colori e nel
portamento a quelli di un certo lupo nero.
«Cora!» la accolse Stiles con
inaspettata sorpresa, benché non ce ne fosse davvero ragione, ma nemmeno lei
vedeva dal giorno del matrimonio.
«Stiles» si limitò a salutare la
minore degli Hale, una piccola valigia che portava appresso, insieme
all’evidente jet lag. «Allora cosa abbiamo qui?» tutta la sua attenzione fu
rivolta alla creaturina che sostava vicino all’uomo etichettato come il papà
di Stiles e da un’altra che silenziosa si era avvicinata, nascondendosi
anch’ella dietro le gambe del figlio dello sceriffo.
Stiles non si stupì affatto
dell’approccio diretto di Cora, niente convenevoli e giri di parole. «Corine, Laura, questa è Cora, la sorella del vostro papà» a
quelle presentazioni un braccio scese sulla schiena della lupacchiotta a
confortarla, se Corine aveva dimostrato della
titubanza timida, con Laura le cose si triplicavano, aveva bisogno di più tempo
per accettare nuove persone nella sua sfera personale.
«Potete chiamarmi zia Cora» le punzecchiò
dritta al sodo la nuova arrivata, ammiccando spudoratamente, come una lupa
pronta a mangiarle.
«Cora, potresti smetterla di forzare
le mie figlie» la richiamò all’ordine Derek quando varcò la porta ancora
aperta, carico di qualche altro bagaglio e di sacchi della spesa, depositando i
primi al lato dell’ingresso e bisognoso di lasciare il resto in cucina.
«Papà!» si erse un coro femminile, le
bambine che si fiondarono dai loro posti per raggiungerlo e richiamare tutta la
sua attenzione, abbracciando strettamente le sue gambe lunghe. Era qualcosa di
adorabile vederle correre per ricoprirlo d’amore, come se non lo vedessero da secoli
quando in realtà erano passate una manciata di ore, ma accadeva anche con
Stiles, veniva investito dalla medesima festa nel momento in cui rincasava dopo
infiniti turni di lavoro laceranti e colmi d’orrore.
Ricevettero un ehy
di saluto pieno di calore, ma Stiles notò bene quanto fosse in difficoltà in
quel momento. «Lupacchiotte, che ne dite di accompagnare il mio papà nella
camera degli ospiti?» propose loro venendo in soccorso del marito.
Le bambine lo guardarono con un lieve
scetticismo, ma poi Corine annuì, prendendo lo
sceriffo per mano e conducendolo verso la scalinata, mentre Laura con
incertezza li seguiva, non prima di aver dato un’ultima stretta prolungata a
Derek, segno che non avesse alcuna intenzione di separarsene. «Andiamo papà del
mio papa» lo incitò la cucciola di casa, mentre l’uomo riuscì a stento a
prendere la propria valigia al seguito che Derek aveva trasportato al posto
suo. Prima di salire sul primo gradino sentirono un io sono Laura
tentennante, ma stracolmo di buona volontà e le cose proseguirono da sole.
«Aspetta un attimo» si espose Cora a
quella presentazione silenziosa e si fermarono tutti esattamente dov’erano,
senza capire a chi si riferisse. «Tu sei Laura, vero?».
Il terzetto si bloccò all’inizio
delle scale, Corine già sul secondo gradino a
trascinarsi lo sceriffo, che sostava sul primo, e Laura che si approcciava a
seguirli. Quest’ultima in automatico annuì confusa e anche in soggezione,
ritrovandosi improvvisamente al centro dell’attenzione, evento che in genere le
procurava agitazione.
Derek e Stiles videro Cora armeggiare
con la valigia, aprire la cerniera quanto bastava e afferrare qualcosa alla
cieca, attirando l’attenzione dei presenti ed estraendo un piccolo libro
vissuto, dalle pagine ingiallite e dalla copertina leggermente rovinata agli
angoli. «Questo è per te» disse a quel punto la lupa, mentre raggiungeva
lentamente la lupacchiotta e le metteva tra le mani l’oggetto.
Laura lo accettò senza davvero
capire, restia e sorpresa, rivolgendo uno sguardo di panico ai suoi genitori
che, invece, le influivano coraggio e sicurezza. Quando le dita presero
confidenza con il volume, quello che si limitò a leggere fu il titolo:
lupacchiotta va in città.
«Era uno dei libri di mia sorella» spiegò
Cora, come se quello rendesse tutto chiaro e colmo di ogni senso.
Laura la guardò con occhi giganti,
come se lei avesse capito esattamente il valore di quel tesoro nascosto, e le
manine corsero a sfogliare la prima pagina, incontrando una firma impeccabile.
In tutta la sua eleganza vissuta il nome Laura Hale spiccava sul
giallognolo, imprimendosi sulla retina. «Grazie».
Cora asserì con il capo, quasi in una
riverenza, e la lupacchiotta strinse a sé il libro, abbracciandolo forte e
precipitandosi a percorrere le scale da cui fu seguita subito dopo.
Sia Stiles che Derek erano sicuri che
quel tomo non facesse parte dei numerosi pacchi che avevano spedito più di un
decennio prima alla sua dimora, eppure in qualche modo esisteva.
«Non guardarmi così, Derek» proferì
Cora quando intercettò i loro sguardi bisognosi di conoscenza, la cerniera del
trolley che veniva richiusa. «È stato con me per tanto tempo. Non so perché, ma
era l’unica cosa che avessi di voi a quel tempo» chissà quando e per quale
ragione Laura glielo avesse ceduto, ma non se ne era mai separata dopo la
tragedia.
Derek la guardò con visione rinnovata
e lei se lo fece scivolare addosso, come se la questione fosse conclusa. Non
c’era nulla da rivangare. «Dov’è il terzo?» chiese allora la lupa mannara mentre
si guardava intorno e percependo la mancanza di un tassello. Derek tergiversò
ancora qualche attimo prima di decidere di filarsela per poter quantomeno
posare la spesa effettuata prima di andare a prendere Cora e lo sceriffo
all’aeroporto.
L’umano rimasto riservò un occhio di
riguardo verso il marito, sapeva che in un certo modo fosse scosso, ma quei due
erano degli autentici Hale ed erano programmati per essere frigidi e lontano
dal parlarsi con il cuore in mano. «Scott l’ha sequestrato» disse semplicemente
sorridendo bonariamente, perché non si aspettava niente di buono da quella
accoppiata. Scott, accompagnato da Malia, li avevano raggiunti la sera
precedente, collocandosi nella dépendance e procedendo molto a tentoni con le
piccole creature che non avevano mai incontrato prima di allora. Era stata una
serata molto movimentata e un’ottima anteprima di ciò che sarebbe accaduto il
giorno dopo, nel lungo e fortuito weekend del Ringraziamento.
Cora annuì a nulla di particolare,
posando gli occhi sul cerchietto dorato che adornava l’anulare sinistro di Stiles,
gemello a quello che suo fratello indossava e con cui si era presentato
all’aera riservata agli arrivi già in compagnia di Noah Stilinski; aveva
assistito in prima persona quando quei due scellerati se li erano scambiati in
un giorno di piena estate soltanto un anno prima, con tanto di promesse al
seguito non necessarie alla cerimonia di stato e lei a far da testimone a Derek.
Sentiva su entrambi cinque odori miscelati perfettamente. «Tre bambini, eh»
sottolineo con peculiarità la follia, ma era davvero stupita da quello che
Stiles e Derek erano riusciti a fare da quando erano diventati da ben undici
anni una coppia ufficiale. «Hai incastrato per bene mio fratello» fu in quel
momento che Derek ritornò nel soggiorno in un pessimo tempismo.
Stiles sbuffò, non sentendosi
colpevole affatto dell’accusa che gli veniva mossa. «Non ho incastrato proprio
nessuno».
«Oh, andiamo, sappiamo benissimo che
Derek non ti negherebbe niente» lo provocò con audacia la cognata,
strizzandogli un occhio giocoso. «Farebbe di tutto per te».
Stiles posò uno sguardo eloquente sul
marito e il mannaro si limitò a scuotere le spalle. «È vero».
L’umano lanciò una mala occhiata ad
entrambi gli Hale. «Sono sempre io il cattivo della storia?».
«Sì» risposero all’unisono i fratelli
e Stiles roteò gli occhi molto e troppo esasperatamente.
«Voi Hale siete davvero estenuanti ed
insopportabili» abbaiò piccato il detective, profondamente colpito a tradimento
dal suo consorte che si stava burlando di lui in buona compagnia della
consanguinea. Era un bene che suo padre non fosse lì, avrebbe dato loro man
forte.
Cora scoppiò a ridere con autentico
divertimento fragoroso e sardonico. «È proprio per questo che ne hai sposato
uno».
«Stiles» soffiò pacifico Derek, agguantandolo
per un avambraccio e tirandolo verso di sé, tenendolo ben stretto. «Amo la mia
vita con te».
Le iridi di miele brillarono di
meraviglia e tutto il risentimento per quella leggera burla verso la propria
persona evaporò, la fronte che si abbandonava con leggerezza su quella del mutaforma. «La amo anch’io».
Derek gli depositò un tiepido bacio
sotto l’occhio, lambendogli sopraffino il setto nasale con la punta del suo.
«Credo proprio che andrò a cercare il
mio angolino nella dépendance» dichiarò Cora a nessuno in particolare,
piuttosto certa che non fosse udita dai due padroni di casa, ma per quanto li
amasse entrambi non aveva voglia di vederli amoreggiare in ogni momento della
giornata per quanto fossero una gioia per il cuore. Lo facevano già negli anni
passati, quando lei era ritornata da Derek, in modo passivo-aggressivo e molto
testardi; nel momento in cui aveva saputo che avevano finalmente abbassato le
armi e che avevano ufficializzato il loro stare insieme, avrebbe tanto voluto
sparare giochi d’artificio nel cielo di tutto il globo. La vetta massima della
sua felicità per l’anima tormentata del suo caro e unico fratello arrivò quando
annunciarono la loro intenzione di convogliare a nozze ed impegnarsi per
allargare la famiglia; tutto si sarebbe aspetta, ma mai che avrebbero portato
sotto il loro tetto in un’unica volta tre piccoli lupetti. Quelli erano i
grandi eventi che erano in grado soltanto loro di far nascere e funzionare
perfettamente.
«Perché c’è una batteria nella
dépendance?» chiese la voce forte e confusa di Malia che tratteneva da qualche
tempo, ma che per una serie di ragioni aveva scartato in una parte periferica
della sua mente, entrando dalla vetrata della cucina e penetrando nelle stanze
del piano inferiore.
Stiles e Derek ridacchiarono e
sorrisero, sospirando un po’ e Cora si chiese se ci fosse davvero un posto per
lei in quella casa enorme con ogni centimetro quadrato assegnato, finché non
scoprì che i suoi oggetti personali furono sistemati nella camera di Erick, occasionalmente datale in prestito.
Arrivata la sera quel branco mal
assortito era piuttosto su di giri e lo sceriffo preferì allontanarsi dal
clamore che creavano con piccola Laura che gli dormiva beatamente tra le
braccia, stretta nella sua presa mentre proseguiva per la scalinata, stando
attendo a non farla scivolare e di non provocare una caduta per entrambi,
atterrando sul corridoio indegne che conduceva alla sua stanza e proseguendo
verso la porta socchiusa. Stiles uscì dalla propria camera da letto proprio in
quell’istante. «Papà, aspetta, ti aiuto».
«No, ce la faccio» Noah interruppe la
corsa di suo figlio che si precipitava da loro, gli arti superiori già
lievemente spalancati per prendere la lupacchiotta con sé.
Stiles si immobilizzò all’istante, fissando
l’intenzione del padre a non cedere, tenendo saldamente la fanciulla che
continuava a dormire imperterrita persa nei suoi sogni dorati. Era ancora un
uomo perfettamente in grado e in forze da poter mettere a letto una bambina
personalmente senza alcuna fatica, anche arrampicandosi per una rampa di scale
con tutto il suo dolce peso. Stiles non rettificò per nulla la propensione a
volersi godere qualche attimo di più quell’esserino timido che aveva
conquistato facilmente, spalancandogli la porta e conducendolo all’interno,
dirigendosi verso il letto di Laura, accanto alla finestra, e scostando le
lenzuola per facilitarlo nell’impresa.
Lo sceriffo lo seguì senza alcun
problema, adagiando la bella addormentata sul materasso e rimboccandola
accuratamente con le coperte, scostandole dal viso i lunghi fili color del
grano. «È crollata subito».
«Sì» Stiles sorrise ampiamente, il
dorso di alcune dita che le accarezzavano l’attaccatura dei capelli. «È stata
una giornata impegnativa per lei» d’altronde c’era da aspettarselo, le emozioni
e l’adrenalina in quella casa erano state numerose e perduranti; di ospiti
raramente erano stati rallegrati in quei otto mesi e mai talmente numerosi, ma
in quell’occasione di festa una piccola folla si era radunata tra quelle mura,
facce che non avevano incontrato in nessuna occasione e che attivavano la
timidezza che primeggiava sulla figlia di mezzo, triplicando le sue energie per
riuscire a gestirsi e integrassi. Né Stiles né Derek avevano abbassato la
guardia con lei in tutte quelle ore, ma Corine
riusciva a trascinarla abbastanza con sé e suo padre sembrava sapere
perfettamente come prenderla, con lui si era trovata a suo agio quasi subito,
ma con gli altri aveva faticato parecchio.
«Sono delle bambine dolcissime»
osservò Noah, riferendosi ad entrambe le creaturine che gli avevano riempito
l’intera giornata e, in qualche modo, facendogliene quasi lode, come se fosse
merito suo, ma non era nemmeno propriamente veritiero.
Stiles si chinò appena su di lei,
regalandole un bacio pieno di tenerezza su una tempia. «Sono le mie meraviglie,
è difficile separarsi da loro» tuttavia dovevano farlo. Sistemò alla meno
peggio le lenzuola e si premurò di abbassare le veneziane in modo che nel
mattino successivo, le sarebbe entrata meno luce possibile. Invitò anche suo
padre ad uscire dalla stanza.
«Non dovresti metterle il pigiama?»
gli fece notare lo sceriffo un attimo prima che la porta si chiudesse dietro le
loro schiene.
«No, la sveglierei» non era
decisamente un compito che in genere gli spettava, aveva fallito tutte le volte
in cui aveva provato.
Dei passi felpati si distinsero
impercettibilmente e una figura alta ed avvolta dall’ombra proseguiva verso di
loro dall’ultimo gradino, piccole braccine che gli circondavano il collo e una
testolina sonnecchiante adagiata sul bordo dell’incavo di una spalla. «C’è una
riunione di bambine addormentate?» chiese Derek un attimo prima che la maniglia
serrasse la porta della camera delle sue figlie, facendo ben intendere
l’esistenza dell’assembramento sul corridoio, accompagnato dai bisbigli che
aveva percepito nei pochi attimi precedenti.
«Sembra proprio di sì» sussurrò
Stiles, uno schiocco pieno di affetto che adagiò su un pugnetto chiuso della
cucciola, sorridendole intenerito dalle sue ciglia sfarfallanti e al pigolio papa
con cui lo salutò. Voleva strapazzarla di coccole. «Ho il sospetto che anche Erick le affiancherà molto presto» la testa cigolante
l’aveva ampiamente notata, poggiata sulla sedia ad ascoltare assetata di sapere
tutti i racconti che il branco dei suoi genitori snocciolava tranquillamente,
così come gli occhietti che si aprivano e chiudevano in continuazione; stava
dando il meglio di sé per non crollare e perdersi l’esperienza di essere
circondato da quell’innumerevole quantità di creature sovrannaturali
variegate.
Derek si limitò ad annuire con il
colpo secco del capo e l’evidenza di avergli voluto concedere altro tempo prima
di sottrarlo e metterlo a letto sotto le sue probabili proteste. «Che ne dici,
principessa, ci mettiamo il pigiama?» domandò retoricamente il lupo mannaro,
cullandola dolcemente e mormorandole ad un orecchio senza svegliarla più di
quanto non fosse già.
«Papà, sì» borbottò appena con il
sonno che ne faceva da padrone, insinuandosi sotto le palpebre che volevano
serrarsi una volta per tutte, aumentando la stretta sull’uomo che l’ancorava
con accuratezza a sé.
«Anche Laura dovrebbe essere cambiata»
gli fece presente il consorte, aprendogli la porta per facilitare la sua
entrata e rendergli quel compito più semplice, non prima di aver rubato un
altro piccolo bacio a Corine.
«Me ne occuperò» lo rassicurò il
licantropo, inabissandosi dentro la camera delle bambine e avviandosi verso il
letto occupato dalla lupacchiotta abbandonata nel regno di Morfeo.
Lo sceriffo guardò in modo esplicito
suo figlio, la chiara domanda che lampeggiava nei suoi occhi azzurri, la sua
osservazione precedente che era stata stroncata e Stiles non faticò a
comprenderla. «Derek è la persona più scontrosa che conosca, ma anche quella
con il tocco più delicato, non la sveglierà mai» di quegli episodi ne avevano
vissuti parecchi in quegli eterni ed anche velocissimi otto mesi. Stiles per
primo l’aveva sperimentato sulla propria pelle per tutti gli anni in relazione
con il mutaforma. Era un aspetto di cui tutti dovevano
cominciare a fidarsi.
«No, con Erick»
protestò la piccola e testarda lupetta, tirandolo per la maglia come se potesse
fermarlo e guidarlo nella direzione opposta.
«Va bene, ma basta capricci,
signorinella» la accontentò il grande lupo cattivo, rabbonendola allo stesso
tempo, adagiandola lentamente sul suo letto d’appartenenza, le lenzuola vuote che
raffiguravano una quantità notevole di volpi in diverse pose contraddistinte da
pennellate che ricordavano gli acquarelli, e cominciando a spogliarla in modo
aggraziato, rivestendola alla velocità della luce. «Vuoi la tua volpe?» gli
domandò quando ebbe finito, incitandola a coricarsi sulle coperte scostate.
«Sì» gracchiò entusiasta Corine e allo stesso tempo con tono imperiale, come se non
avesse nemmeno dovuto chiederle una cosa simile.
Derek la rintracciò immediatamente
con la sua vista notturna e la cucciola strinse con tutta se
stessa il suo peluche preferito, coricandosi sotto le lenzuola che il suo papà
le rimboccò con meticolosità. «Facciamo in modo di non svegliare tua sorella».
Corine ridacchiò ovattata dal cotone spesso, il viso affondato nella testolina
della volpe di pelo finto, riuscendo a strappare all’essere più brontolone del
pianeta un bacio che le adagiò sulla chioma dorata, accompagnato da un buonanotte stracolmo di calore solo per lei.
Stiles socchiuse la porta un attimo
dopo che il marito raggiunse il letto della lupacchiotta che ronfava
bellamente, per nulla disturbata dalle nuove figure che avevano invaso il suo
spazio di tranquillità. Aveva il cuore in subbuglio ogni volta che poteva
osservare Derek interagire in modo divino e quotidiano con le loro preziose
creaturine. «È bello vederlo così amato e contraccambiare quell’amore» era
un autentico toccasana, lo espresse per la prima volta ad alta voce, la
verità che poteva finalmente condividere con qualcuno di esterno a loro,
l’autenticità che l’universo aveva ancora qualcosa di buono da offrire
all’anima più dannata che avesse incontrato nella sua strada trafelata.
Lo sceriffo l’aveva testimoniato
eccome in quella lunghissima giornata, l’aveva già fatto quando Derek e Stiles
avevano dato inizio alla loro vita di coppia undici anni prima, ne era stato
certo molto prima che ufficializzassero il tutto con il matrimonio ed era
categorico ad un anno da quel giorno mentre si occupavano con l’immenso affetto
che possedevano e che volevano donare a quei tre lupetti. L’amore in quella
casa trasbordava da ogni impercettibile fessura ed era qualcosa di innegabile. «Le
piacciono le volpi?» chiese dopo che assistette in silenzio a tutta quella
scenetta incorniciata dal telaio della porta.
«Oh, sì» enfatizzò suo figlio, un
leggero cipiglio non identificabile che prendeva forma in lui; probabilmente
era rassegnazione per qualcosa che a Stiles proprio sfuggiva, non
raccapezzandosene. «Per questo ad Halloween si è voluta travestire da
volpacchiotta, era davvero adorabile, me la sarei mangiata» rise al ricordo, le
foto che custodiva gelosamente ancora nello smartphone e che aveva tutta
l’intenzione di far sviluppare su pellicola, insieme a tante altre. «Laura
invece è una gran furbacchiona, è andata in giro tutto il giorno con il vestito
da cappuccetto rosso; peccato che Derek non abbia accettato di accompagnarla in
versione lupo, sarebbe stato esilarante ed eclatante» l’avrebbe adorato alla follia,
sarebbe stato il suo momento preferito nella storia, ma Derek non si era
guadagnato il titolo di lupo acido per niente.
«Ed Erick?»
chiese il tutore della legge di Beacon Hills sollecitato dalla mancanza della
sua menzione in merito. Alcune foto Stiles gliele aveva mandate in
fibrillazione, cuori e stelle allegati a manifestare il suo entusiasmo. Lo
sceriffo si era ritrovato a salvarne una in cui figuravano in posa perfetta le
due bambine mascherate insieme a suo figlio, con una tunica annessa ad un
grande cappuccio a simulare un maestro Jedi, come sfondo principale del
cellulare – chi sono? gli era stato chiesto da uno dei colleghi di lunga
data quando aveva notato l’immagine illuminarsi. Le mie nipotine, aveva
risposto con fierezza e un languore caldo che l’aveva attraversato da parte a
parte.
Stiles sospirò lievemente, i passi
che scendevano la scalinata con calma. «È voluto rimanere con Derek a casa» non
ne aveva affatto voluto sapere di agghindarsi con qualche costume o una
maschera poco vistosa, aveva preferito passare tutto il pomeriggio seduto
scompostamente sul divano a guardare i suoi lungometraggi animati favoriti e
film sui supereroi pieni di speranza – Stiles si era dovuto rassegnare
malamente alla consapevolezza che i suoi tre preziosi bambini avessero un
debole per la coloratissima Marvel e disdegnassero la tetra ed oscura DC; era
stato un duro colpo da incassare –, con la testa rasserenata abbandonata sulla
spalla del suo papà lupo e sgranocchiando popcorn salati e caldi preparati al
momento. Nessuno dei due adulti avevano protestato alla sua mancata voglia di
partecipazione, c’erano ancora molte cose che apparivano ostiche agli occhi di Erick.
Il padrone di casa si abbandonò
esausto su uno dei divani del salone, preferendo concedersi ancora qualche
minuto prima di raggiungere gli ospiti ancora accomodati sul patio insieme al
suo bambino, le temperature notturne che precipitavano, ma gli unici a
risentire del freddo erano i due Stilinski, circondati da creature sovrumane
che emanavano un calore corporeo decisamente elevato e ben tre di loro potevano
farsi spuntare addosso una comoda e confortevole pelliccia in qualsiasi
occasione.
Noah si accomodò ad un cuscino di
distanza da suo figlio, scrutandolo attentamente e prendendosi più tempo di quanto
fosse necessario. «La pensione si sta avvicinando».
La bomba arrivò dritta dritta su Stiles, prendendolo in pieno e strappandolo
totalmente dalla quiete momentanea a cui si era abbandonato. «Stai già pensando
a quanto ti annoierai?» era consapevole che il pensionamento fosse dietro
l’angolo, che la vita da sceriffo di Beacon Hills stava giungendo al termine,
ma con tutto quello che aveva passato ed affrontato, quella ricompensa gli
spettava di diritto.
«Sto pensando di trasferirmi» proclamò
senza peli sulla lingua, ma dritto al punto. «Qui».
Stiles sgranò gli occhi e le orecchie
stentarono a credere a ciò che avevano udito. «Qui?» poi un sospetto gli
pizzicò la materia grigia. «Perché? Pensi che non ce la stiamo cavando?».
«Affatto» dissentì immediatamente la
massima autorità della loro città natale, scacciando quella pessima idea che
stava stuzzicando la mente distruttiva di suo figlio. «State andando
benissimo».
Stiles lo guardò a lungo con un
interrogativo ben stampato sul volto, la testa leggermente inclinata a tentare
di trovare una prospettiva diversa che potesse illuminarlo sulla questione.
«Allora perché?».
«Non tornerai più a Beacon Hills»
disse privo di giri di parole, letale.
«Certo che tornerò, ho i miei amici
lì, il mio branco e ho te» il neo genitore stava avendo dei seri problemi a
decriptare i messaggi che il padre gli stava lanciando.
«Non è la stessa cosa, tornerai un
paio di volte all’anno» aveva sempre cercato di non fargli pesare quanto la
distanza tra loro fosse enorme e si sentisse separato da lui, in quegli anni
avevano tentato di organizzarsi al meglio delle loro possibilità, ma le cose
erano cambiate nell’ultimo ed i piani d’incontro non più facilmente
realizzabili. «Vorrei essere presente nella tua vita, nella vita dei miei
nipoti».
L’apparato uditivo smise di
funzionare quando la parola nipoti prese suono, era decisamente la prima
volta che la mettevano su quel piano, com’era stato quando la parola figli
gli era sfuggita con Derek, ma non poteva ignorare che le sue meravigliose
creature rappresentassero esattamente quello. «E la casa? I tuoi amici, papà?
La tua vita è lì».
«Non c’è nulla che mi trattenga a
Beacon Hills» tutto quello che gli era rimasto era il lavoro ed i colleghi, ma
a breve avrebbe raggiunto l’età per riscattare la sua pensione ed era
nettamente difficile che i colleghi si frequentassero al di fuori dell’ambiente
lavorativo; forse i primi tempi sarebbe andata bene, ma poi non sarebbe rimasto
nulla e il suo cuore avrebbe reclamato quella parte di sé da cui era stato
reciso. «E la casa non sarà un problema, posso affittarla o vederla» era un
aspetto che non aveva affrontato completamente, ma era sicuro di non volerla
tenere chiusa e disabitata a prendere polvere. In passato aveva creduto che
Stiles l’avrebbe ereditata per viverci con chiunque volesse; anche se aveva
messo in conto che un giorno avrebbe potuto lasciare la città per vivere in
un’altra, non aveva calcolato che avrebbe trovato il suo futuro da tutt’altra
parte, senza alcun segnale che sarebbe tornato a Beacon Hills, meno che meno
aveva ipotizzato che quella vita l’avrebbe condivisa con Derek Hale. «La mia
famiglia è qui».
Stiles fu investito da un tumulto
all’altezza del cuore che gli paralizzò l’afflusso dell’ossigeno. «Certo che è
qui. Mi piacerebbe moltissimo averti con noi».
«Bene» proferì Noah compiaciuto,
rilassandosi sullo schienale e pronto per sganciare qualcosa di nuovo. «Ho già
cominciato a cercare degli appartamenti in zona».
«Cosa?» lo sconcerto nell’agente
dell’FBI fu non trascendibile, come la sua opposizione. «C’è la dépendance a
tua disposizione, puoi trasferirti lì».
«Non andrò a vivere con mio figlio e
suo marito, mantenete la vostra indipendenza» era decisamente l’ultima cosa che
voleva, anche lui voleva mantenere la sua autonomia, ma voleva comunque essere
facilmente rintracciabile e raggiungibile.
«Okay, sì» probabilmente era stato
troppo precipitoso, ma tutta quella storia lo stava prendendo completamente
alla sprovvista. Non aveva mai riflettuto sull’idea che la famiglia che stava
costruendo con Derek e suo padre potessero coabitare nello stesso stato,
figurarsi nella stessa città, ma evidentemente aveva ignorato i desideri
dell’unica figura genitoriale che gli era rimasta e che l’aveva cresciuto con
le sue sole forze. «Almeno fatti aiutare da Derek, è il suo campo».
«Derek me lo comprerebbe un
appartamento» adorava il nato lupo e come rendeva felice suo figlio, ma c’erano
dei limiti che non andavano proprio superati tra suocero e genero. «Non fa
parte dei miei piani» tra l’altro voleva soltanto affittarne uno, non sapeva
proprio cosa farci con una casa di proprietà giunto a quel capitolo della sua
storia.
«Ah» la risata di Stiles uscì
irrefrenabile, la sua mente stava già dipingendo uno scenario che l’avrebbe
divertito fino all’inverosimile. «Mi dispiace dichiararti già perdente per la battaglia
che ti attenderà».
Noah Stilinski si risentì e pentì
allo stesso tempo; la mossa migliore sarebbe stata procedere con il suo
trasloco senza informare nessuno dei fatti e presentarsi davanti l’ingresso
principale all’improvviso, un emozionantissimo e scioccante momento di sorpresa.
«A chi dovrei comprare un
appartamento?» domandò un Derek leggermente appesantito dalla stanchezza, la
confusione che si dipingeva a chiare lettere sul volto accigliato e la
scalinata che veniva abbandonata dietro le spalle larghe.
Un’altra risata piena prese vita da
Stiles e scattò in piedi, stiracchiando le giunture e le ossa che avevano
bisogno di vitalizzarsi, dirigendosi verso la figura del consorte con le
sopracciglia aggrottate e rubandogli un bacio a tradimento con il diletto sulle
labbra. «Ti aspetta una conversazione molto interessante, vado a recuperare il
lupetto del mio cuore» gli stampò un altro schiocco di completa comprensione,
dirigendosi verso l’esterno della casa per prelevare il giovane Erick che andava riconsegnato tra le braccia della divinità
greca dei sogni e soprattutto tra quelle della sua sorellina minore che lo
reclamava con tanto ardore tra le lenzuola stracolme di volpi rosse
acquarellate. «Trovate un accordo, ragionevole».
Derek diresse l’espressione interrogativa
ed eloquente al suocero e lo sceriffo si preparò a prendere quanta più aria
possibile all’interno dei polmoni per affrontare la questione, senza che quella
volpe doppiogiochista sotto mentite sfoglie del suo unico figlio facesse da
arbitro.
«Lupetto, ti vedo riflessivo, che
succede?» chiese Stiles il giorno successivo, alcune ore dopo il pranzo carico
di portate che avevano consumato, trovandolo in cucina da solo seduto su uno
degli sgabelli a guardare dalla vetrata il gruppetto formato dai loro ospiti a
parlucchiare tra loro, accomodati ad un lungo tavolo da esterno sistemato in
giardino, sotto vari piccoli alberi a dare frescura e riparati dall’ombra della
villa, poco lontano dal patio.
Erick posò gli zaffiri su di lui per poi spostarli nuovamente dov’erano prima,
le orecchie rizzate ad ascoltare la tavolata, le parole che quegli sconosciuti
si scambiavano, era indeciso se porgere la domanda che era evidente lo
pungolasse da qualche tempo. «Papà è loro amico?».
Stiles nel momento iniziale apparve
perplesso, non comprendendo appieno quell’indagine, ma poi le iridi ambrate si
spostarono verso l’attenzione che richiamava il bambino, il lupo nero che
sedeva tra Lydia e Scott, il posto destinato a Stiles vuoto, poco più in là suo
padre si intratteneva con le lupacchiotte davanti allo stagno, rallegrandole
senza alcuno sforzo; perfino con Erick era riuscito
nell’intento di conquistarlo subito, quando si era presentato a lui aveva visto
una forma di rispetto prendere vita nelle sue gemme acquatiche verso quell’uomo
che aveva cresciuto il suo papa, che non sapeva propriamente spiegarsi.
«Difficile da identificare, a tuo padre non piacciono le etichette, ma posso
dirti che è sempre accorso e accorerebbe in caso di aiuto per tutti loro».
Erick rimuginò ancora, non comprendendo totalmente ciò che Stiles volesse dire.
«Non sembra a suo agio, ecco» l’unica persona che seguo è Stiles erano
state le parole di Derek, avevano una qualche correlazione?
Stiles sorrise leggermente
instupidito e molto commosso dalla capacità d’osservazione del suo bambino.
Derek poteva apparire rilassato e disinteressato, ma c’era sempre un po’ di
rigidità nelle sue spalle, qualcosa di impercettibile per qualcuno poco
allenato, qualcuno che non lo conosceva come invece sapevano fare loro. «Sai
che è poco socievole, è un musone brontolone» proprio come te. «È stato
solo per tanto tempo, preferisce rimanere per conto proprio, è semplicemente il
suo modo di fare».
«Ma adesso non è più solo, papa»
proferì Erick con fermezza, quasi avesse timore di
essere stato escluso dalla cerchia privata dell’uomo che identificava come uno
dei suoi padri. «Ci siamo noi».
«Amore, lo so benissimo» disse Stiles
con morbidezza e affabilità, scompigliandogli con trasporto la chioma bionda.
«E lo sa anche lui».
Il bambino lo guardò un po’ dubbioso
e con una leggera ansia che gli intricava i tratti facciali, continuando a osservare
oltre il patio, su quel tavolo a cui erano accomodati momentaneamente soltanto
gli adulti. Non appariva per niente tranquillo.
«Non sei convinto» osservò l’umano
con moderazione, la percezione aperta del tutto dedicata alle preoccupazioni
del lupetto.
«Non lo so» fu tutto ciò che Erick riuscì ad articolare, la perplessità confusa che non
riusciva ad indirizzare in nessuna forma, a darle un corpo, qualcosa di
facilmente comprensibile.
A Stiles, al contrario, appariva
chiaro come il sole. «Vuoi combattere per il tuo papà».
Le iridi dell’oceano divennero
enormi, le pupille si dilatarono e una consapevolezza, mista ad un’epifania concreta,
presero vigore, divenendo tutto improvvisamente e spaventosamente limpido.
Stiles gli rispose con un sorriso moderato e comprensivo, sapeva fin troppo
bene cosa si provasse, quanto assiduamente si era battuto per dimostrare e manifestare
l’immenso amore che provava per Derek, di fargli comprendere che non se ne
sarebbe andato e che non l’avrebbe abbandonato per nessuna ragione al mondo. Il
licantropo in numerose occasioni ne era fuggito, non credendoci affatto e
ferendo ripetutamente il figlio dello sceriffo con le sue scelte, con la sua
miscredenza, acchiapparlo e documentargli la verità non era stato minimamente
facile; dubitava che Erick avrebbe mai dovuto
affrontare quel calvario, ma era importante ed abbagliante notare quanto fosse vitale
per quella piccola creatura bersagliata dalla sfortuna e dal dolore, voler
dimostrare quanto tenesse fermamente a quel lupo nero intricato di sofferenze
affini.
Derek varcò l’entrata dalla vetrata
soleggiata pochi attimi dopo, seguito allegramente dalle lupacchiotte che gli
volteggiavano attorno in una danza, non perdendolo di vista nemmeno un momento,
allontanandosi dallo sceriffo di Beacon Hills che si era accomodato al fianco
di Liam, prendendo fiato da quelle bestioline ricche di energie; supponeva che il mutaforma fosse rientrato per ricaricarsi di bevande e
stuzzichini, come se non avessero passato buona parte della giornata a
rifocillarsi.
«Papà» lo chiamò il lupetto in un
momento dal suo ingresso nella cucina, dopo che ebbe preso una sorta di coraggio
e decisione.
Derek posò sul bancone di marmo
chiaro alcune delle bottiglie e dei vassoi vuoti che si era riportato indietro,
sciacquandosi brevemente le mani nel lavabo al lato del piano cottura. «Ehy, ometto».
Un groppo in gola si formò in Erick quando il padre si girò verso la sua direzione, gli
occhi verdi attenti a tutte le sue esigenze e richieste, mentre teneva a freno Corine che voleva uno dei suoi biscotti preferiti
conservati nella credenza nei piani superiori, tirando e stropicciando un lembo
dei suoi jeans. Laura, invece, si lasciava vezzeggiare dalle attenzioni di
Stiles, avvolta da un avambraccio che le massaggiava un fianco; era
estremamente felice immersa in tutto quel calore d’amore, le guance arrossate e
il tiepido sorriso sulle labbra rosee ed Erick voleva
versare il suo.
Si avvicinò all’uomo che gli aveva
insegnato e contribuito a renderlo un lupo ed una persona migliore, il coraggio
e la determinazione che gli scorreva nelle vene, allungando le braccia e
stringendole attorno alla vita, aderendo completamente a lui. «Ti voglio bene,
papà».
Derek posò prima le iridi boscose
spiazzate sul bambino, che mai aveva menzionato quelle parole, e poi le
indirizzò su Stiles che gli concesse una delle sue espressioni sapute, con le
bambine che reagirono allo stupore della scena in egual misura, correndo per
manifestare lo stesso sentimento e anche un abbraccio gemello, Laura incitata
ad abbandonare combattuta la sua postazione da una pacca e un sussurro di
comprensione da parte dell’umano. «Anch’io, anch’io, papà, ti voglio bene» fu
il coro che diedero vita in simultanea, aggrappandosi al grande lupo cattivo
senza permettergli alcuna via di scampo.
«Cos’è successo?» domandò Derek al
marito con confusione, non comprendendo bene da cosa fosse scaturita
quell’improvvisa dimostrazione bisognosa d’affetto, tentando arrancando di
ricambiare quella tripletta d’abbracci.
Stiles gli regalò una curva delle
labbra lungimirante, lo scintillio giocoso e di conoscenza che gli animava le
perle d’ambrosia. «Hai trovato il tuo posto nel mondo».
Le pupille nere di Derek si
dilatarono e rimpicciolirono stuzzicate da quella rivelazione inaspettata,
automaticamente calamitate sui pargoletti che si tenevano ancorati al suo
corpo, investendolo con tutto l’amore di cui erano pregni. Lo scompenso era
enorme per quel cuore martoriato da ogni cataclisma che si era abbattuta su di
sé. «Vi voglio bene anch’io».
La presa fu aumentata da entrambe le
parti e per un lunghissimo momento eterno, tra quelle mura casalinghe esisteva
soltanto quel quartetto con un unico testimone orgoglioso di loro,
successivamente Erick si staccò placidamente,
un’arruffata tra i fili dorati che l’accompagnava, mentre Corine
veniva presa in braccio e Laura intensificava la sua stretta, con la missione
del lupetto di estendere l’identico abbraccio d’affetto che si chiuse intorno a
Stiles una volta che l’ebbe raggiunto, spiazzandolo sul colpo. «Papa, voglio
combattere anche per te. Ti voglio bene».
Le iridi d’ambrosia lo fissarono con
sconcerto, ricevendo segni d’assenso e sillabe affermative dalle cucciole che
rimavano aggrappate al mannaro dal manto inchiostrato, con una sfilza di sì.
Sentiva ogni sentimento ed emozione scaturiti dalle quattro persone che amava
di più nell’universo attraversarlo in ogni centimetro del suo essere,
lasciandolo privo di ossigeno e con il cuore traboccante di quell’amore
inestimabile, con la voce di Derek che si ramificava, rendo l’intera scena
ancora più reale. «Anche tu hai trovato il tuo posto nel mondo».
Questa
è proprio la fine.
Questa
è la storia di cinque persone che si sono trovate nel dolore e si sono amate
senza vincoli; alcune di loro hanno dovuto faticare maggiormente, ma hanno
raggiunto un traguardo impagabile. Possiamo solo sperare che il loro futuro sia
soltanto più radioso.
Vi
ringrazio per avermi e averci seguito fino a qui, per averla apprezzata e amata
insieme a me. Ringrazio chi si imbatterà in lei dopo oggi.