Yorbian Chronicles - The Elf and the Devil

di _Equinox
(/viewuser.php?uid=184291)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La prima volta che Illumi aveva visto un diavolo la ricordava bene, forse troppo. Era un ricordo vivido, straziante, che portava con sé il fetore della morte. Pioveva talmente tanto, quel giorno, che le gocce d’acqua sembravano volessero dilaniare la pelle su cui si posavano con violenza, con quello scroscio violento che preannunciava altrettanta devastazione. C’era la guerra ed ogni cosa, nelle terre di Yorbian, pareva volesse ricordarlo. Era solo un ragazzo, al tempo, un bambino, avrebbe osato dire la sua protettiva madre, aveva appena conquistato il Dono e, di lì a poco, gli sarebbe stato strappato via. Non importava quanto urlasse, quanto si dimenasse, quanto provasse a far bruciare i palmi per sperare di scacciare l’essere davanti a sé: il sangue perlaceo stava defluendo troppo in fretta, così come la sua energia. Pian piano, le palpebre si facevano stanche, assieme al capo, reso ancora più pesante dalla folta chioma corvina bagnata. Non riusciva a respirare, ogni movimento gli era difficile. Per un secondo, quello che credette l’ultimo della sua esistenza, abbassò lo sguardo d’ombra verso il carnefice che, con le sue grottesche fattezze, teneva le zanne nel suo fianco, lì dove parte delle squame del tatuaggio si propagavano. Davanti a sé aveva una delle cose più orride e volgari avesse mai visto, ma poco gli importava. Stava finendo tutto.
A distanza di anni, il giovane elfo non aveva ancora una risposta sulle ragioni per cui le divinità vollero risparmiarlo. Possedeva un grande potere, ma non era a lui che spettava ereditare la forza degli Zoldyck. Non credeva di essere un tassello fondamentale nella sua famiglia, soprattutto dopo la nascita di Alluka e Killua; eppure, quel bagliore rosato che gli salvò la vita rimase a lungo tempo impresso nella sua contorta mente.
Era bastato un fruscio per far distrarre il diavolo chinato davanti a sé, un altrettanto lieve spostamento d’aria per far sì che si ritrovasse con il collo brutalmente costretto all’indietro da una strana massa rosea. Sussurrò qualcosa di vagamente simile a traditore, poi ci fu solo sangue. Fiumi cremisi iniziarono a diramarsi sul prato, uniti all’argenteo e puro nettare elfico di cui quelle bestie non potevano fare a meno. Ma, senza saperlo, era stata proprio una di quelle bestie ad averlo salvato.
Hisoka veniva considerato dalla sua specie una sorta di reietto e mai gli erano state chiare le motivazioni – ormai non credeva più alla storia del mezzosangue, riteneva, piuttosto, vi fosse dell’altro. Il suo sguardo mellifluo, marchio imprescindibile dei diavoli, era sempre ardente e carico di malizia, così come i suoi ghigni. Era mezzo umano, ma con il suo noto sadismo si avvicina alla sua natura diabolica come se fosse un demonio a tutti gli effetti. E gli andava bene così, visto che la sua unica compagnia era la follia – una cara amica, che lo aveva addirittura spinto a salvare un elfo, uccidendo un altro diavolo. Se si fosse saputa una simile nefandezza, certamente la sua gola sarebbe stata recisa senza la minima pietà. Un pensiero malsano e piacevole in egual misura, doveva ammetterlo, ma su cui non poteva soffermarsi troppo. La creatura davanti a sé era ad un passo dall’attraversare il portale dell’Oltretomba.
Era un giovane rapido, nei pensieri e nei movimenti, quindi non gli ci volle molto per spostarsi alle spalle del ragazzo che, con una ferita di tale portata nel fianco, stava ancora sanguinando copiosamente. Gli portò una mano sugli occhi, non voleva farsi vedere, ma sentì l’altro irrigidirsi. Con la destra scivolò piano lungo quel corpo giovane e delicato, fino a giungere al morso. Sollevò gli occhi aurei verso il punto dove, presumibilmente, doveva esserci la luna e, come sua madre gli aveva insegnato, iniziò a recitare inni e litanie. Tra le sue braccia, contro il suo corpo, aveva quello che a tutti gli effetti appariva come un animale impaurito, in preda a tremori e respiri affannati. Aveva un fascino macabro, mentre danzava sul filo sospeso tra la vita e l’aldilà, e, se l’incantesimo non avesse funzionato, avrebbe assistito ad una delle morti più estasianti che potesse chiedere. Un peccato, stando ai pensieri di Hisoka, che preso dai rituali si perdeva ad ammirare il candore della pelle elfica e i ghirigori che i lunghi e setosi capelli neri stavano creando sul terreno – quasi disgustoso era, secondo il diavolo, che la terra sudicia osasse sporcare una chioma tanto bella.
Era una notte violenta e, che sapeva di amaro, una delle tante cariche di distruzione perché la guerra non sembrava voler cessare.
E, tuttavia, c’era ormai calma nell’aria.
La magia demoniaca non era potente come quella elfica, ma bastò a far ricongiungere i tessuti e a fermare il sanguinamento.
Illumi era stranito e non comprendeva perché dall’essere alle sue spalle provenisse lo stesso rivoltante odore che aveva sentito addosso alla bestia che lo aveva attaccato. Ciò nonostante, lo stava aiutando. E questo bastava a far crollare i suoi schemi, la sua normalità, tutto ciò portasse stabilità in lui. Quando capì di potersi muovere, scattò come una serpe velenosa lontano da quelle mani che ardevano e bruciavano su una pelle che mal tollerava il contatto prolungato. Riuscì a generare un incantesimo con il suo Dono, per cui la prima cosa che fece fu scagliare una scia di fuoco che, tuttavia, riuscì a sfiorare solo il braccio del diavolo, un attimo prima di sparire.
Non lo aveva visto in viso, non sapeva se lo avrebbe incontrato ancora, ma decise di abbandonare quel luogo per tornare a casa, con le lunghe gambe magre che tremavano per la tensione e la presenza fantasma di quelle mani che ancora si facevano sentire sul suo volto.

Ciao a tutt* e benvenut*! Non pensavo sarei tornat* a scrivere long dopo tutto questo tempo e in un fandom completamente inaspettato.  A tal proposito, mi presento: mi chiamo Ania e sono un cinnamon roll non-binary (Uso il neutro, vi pregherei di tenerlo a mente). Non so se qualcuno di voi mi conosce per altre fanfiction, ma eccoci qua. Ho già pubblicato due one-shot su Hisoka e Illumi, ma ora voglio cimentarmi in un progetto più grande che spero davvero di portare a termine. Mi auguro, intanto, che questo prologo abbia suscitato il vostro interesse! Detto ciò, ci vediamo al prossimo aggiornamento!
Kisses,
Ania

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Era un pomeriggio caldo e afoso, tale che nemmeno il fresco dei boschi riusciva ad alleviare i sensi. Sarebbe stata una lunga e calda estate, gli oracoli lo avevano detto, e tuttavia nessuno, nelle terre di Yorbian, pareva preparato ad un simile clima. Il vantaggio della Repubblica di Padokea era nel suo situarsi a nord, poiché, anche solo di un minimo, gli abitanti potevano giovare di temperature più miti.
Pensava a questo, Illumi, mentre entrava con movimenti felini nello specchio d’acqua gelida, accompagnato dal dolce scroscio della cascata dinanzi a sé. Era decisamente un luogo ameno, quello in cui talvolta trovava rifugio quando voleva meditare o, semplicemente, rilassarsi. Sotto ai suoi piedi nudi avvertiva la consistenza irregolare del fondale roccioso, che di tanto in tanto, diventava più scivoloso a causa del muschio e di altre piante acquatiche – un vero fastidio, per la sua pelle estremamente sensibile. Provò a non darci troppo peso, concentrandosi soprattutto sulla freschezza dell’acqua che, anche solo un poco, riusciva ad alleviare il fastidio causato dall’afa.
L’elfo teneva gli occhi chiusi e con le mani tracciava ghirigori invisibili sulla superficie del torrente. I lunghi capelli – lasciati ormai crescere fin sotto le natiche, come le antiche tradizioni della sua razza – erano immersi nella corrente e seguivano il flusso leggero di quello scorrere calmo e piacevole. Non vi era tuttavia altrettanta calma, nella mente e nel cuore del ragazzo. Il suo sonno era stato turbato da eventi passati e spiacevoli. Gli capitava, ogni tanto, ritrovarsi con la mente fissa su tematiche specifiche, ma di solito evitava di portarla sull’episodio che maggiormente aveva segnato il suo percorso.
Illumi era una creatura straordinariamente peculiare, appariva palese a chiunque avesse modo di conoscerlo. Risultava sempre chiuso in un mondo che apparteneva a lui soltanto, custodito con avarizia, e spesso era difficile comunicarvi. Non gli piaceva trascorrere il tempo in compagnia, non gli piacevano i rumori forti, non amava il contatto fisico: più di tutto, però, detestava gli sconvolgimenti eclatanti. Aveva un grande spirito di adattamento, forgiato su anni di allenamento e lavoro, ma preferiva evitare di allontanarsi da ciò che lo metteva a suo agio. Era plausibile ricollegare quanto detto all’attacco che aveva subito a soli undici anni di vita, però, in fondo, lui e la sua famiglia sapevano quanto peculiare fosse, fin dalla nascita, avvenuta in una notte tempestosa a cui seguì un incantevole plenilunio – evento che influenzò il suo nome, tra le tante cose. Non aveva respirato per alcuni secondi, a dire il vero, e le levatrici lo avrebbero dato per morto se non fosse stato che, un attimo prima di comunicare la nefasta notizia alla sua giovane madre, la luce tenute della luna lo abbia fatto urlare, con un tale vigore da aver terrorizzato persino suo padre, stoico e imperturbabile guerriero. E, alla tanto amata luna, doveva anche la sua seconda rinascita, per mano di quel diavolo a cui, talvolta, rivolgeva leggere attenzioni.
Perso nei suoi pensieri, percepì qualcosa.
Gli elfi, era risaputo, possedevano una grande capacità uditoria, grazie alla conformazione delle orecchie lunghe e appuntite – motivo di invidia da parte di altre razze. Illumi, però, avvertiva in maniera ancora più chiara i suoni. Qualcuno riteneva fosse un pregio, ma lui sapeva fosse solo un fastidio.
Aprì gli occhi, immense distese oscure all’interno delle quali era possibile perdersi, e si mosse con lentezza, immerso quasi completamente nell’acqua. La faretra con le frecce era abbandonata lungo i bordi del torrente, però aveva fatto in modo che gli fosse possibile afferrare in fretta un dardo – non gli occorreva neanche l’arco.
Accadde tutto in un secondo.
Il diavolo scattò fuori dai cespugli proprio come lui scattò verso l’arma. Afferrò due frecce, scagliate una tra gli occhi e una nel petto, dritta nel cuore. Ben presto, l’acqua iniziò a tingersi di liquido vermiglio, mentre il corpo accasciato del demonio – che, a giudicare dalle fattezze, doveva essere di sesso femminile – si contraeva in preda agli spasmi. Lo analizzò da lontano, mentre usciva dall’acqua, divenuta ormai cremisi: non indossava abiti ed emanava un odore che da qualcuno poteva essere ritenuto inebriante e attraente, con sé non aveva armi. Doveva trattarsi, a rigor di logica, di un diavolo intenzionato ad accoppiarsi, e non sarebbe stato inusuale.
La guerra che, anni prima, aveva dilaniato Yorbian era stata combattuta da quasi tutte le razze conosciute – si erano astenute solamente le creature marine e gli oracoli, questi ultimi consapevoli di quanto sciocco fosse massacrarsi senza ricorrere al dialogo. Tuttavia, gli scontri più violenti erano stati combattuti contro i diavoli. La loro razza era un’incognita pericolosa, poiché avevano doti ignote, sconosciute ai demoni stessi.
Solo poche erano le specie in grado di utilizzare la magia; primeggiavano gli elfi, che erano immediatamente seguiti dalle streghe, a loro volta superiori ai tanto temuti diavoli. Questi possedevano arti che, delle volte, sembravano inferiori persino a quelle delle fate, ma in altri momenti, quelli che sembravano nefandi come una tempesta nel mezzo della quieta navigazione, pareggiavano addirittura un elfo con Dono. Altre specie potevano maneggiare la magia, ma si trattava di aspetti parziali, che influenzavano solo alcune capacità – come nel caso delle banshee, il cui unico talento magico risiedeva nella voce mortale. Era, quindi, un mondo estremamente variegato, il loro. Un peccato che fosse quasi scomparso, alcuni anni prima, quando solo grazie ai negoziati era stato possibile raggiungere la tanto bramata tregua. Una cosa, però, era stata appresa nel corso di quella guerra che aveva portato tutta quella distruzione: i diavoli erano avidi, desiderosi di possesso. E quel possesso trovava riscontro nel sangue altrui, in particolar modo in quello elfico. Non erano paragonabili ai vampiri – di cui, tra l’altro, un intero clan era stato massacrato, lasciando solo un erede – dato che, la sete dei demoni, non era dettata da un bisogno, bensì da quello che poteva tranquillamente essere definito capriccio. Quegli esseri diabolici ammazzavano perché sentivano fosse giusto, secondo loro, farlo, motivo per cui vennero esiliati ai confini del mondo, lontano dagli occhi delle creature a cui avevano fatto del male, per quanto la loro presenza non potesse essere cancellata dalle menti. Ogni tanto, tuttavia, capitava che qualcuno violasse quelle regole. Si vociferava che negli ultimi tempi, l’obiettivo reale dei diavoli, abili cospiratori, non fosse quello di uccidere, ma di riprodursi. Pareva volessero creare un esercito di bastardi o semplicemente sperare di sperimentare sulle spalle di esseri innocenti, per capire fin dove il sangue potesse mischiarsi, fin dove la potenza arrivare.
Illumi era sveglio, checché potesse sembrare, e da quando aveva danzato ad un passo dalla morte, era divenuto spietato. Non era il primo diavolo che ammazzava, non sarebbe stato l’ultimo. Eppure, c’era qualcosa, in quel momento, che gli faceva avvertire altro nell’aria – e non seppe dire se fosse correlato allo spirito del suo Dono o a ben peggio.
L’elfo canalizzò le energie nel suo petto, poi inspirò profondamente. Nudo e statuario, con la stazza tipica della sua razza, compì dei movimenti rapidi che gli permisero di raggiungere la sponda opposta del torrente. Guardò, con gli occhi completamente anneriti dal potere, l’essere sotto di sé, e poi vi scaglio contro una saetta infuocata. Le fiamme divamparono immediatamente e, nel giro di pochissimo, non rimase che cenere dispersa sulla superficie acquatica che, pian piano, stava riacquistando trasparenza. Gli ci volle un attimo più del previsto per ricomporsi, attimo in cui percepì chiaramente una presenza alle sue spalle. Si voltò, ma non vide nulla. Nelle orecchie, però, risuonava quel fruscio fastidioso e familiare.
«Sei un fantasma?» domandò, a voce bassa, con i sensi all’erta. Come era prevedibile, non ci fu responso. Assai difficile era, per un elfo, sbagliare quando si trattava di intuito, e il giovane sapeva ci fosse qualcuno lì, anche solo uno stupido fauno spione e perverso. A tal proposito, gli passò per la mente fosse ancora nudo, motivo per cui tornò dall’altro lato del fiume e recuperò gli indumenti poggiati ad un ramo – erano ancora tutti lì, impossibile ci fosse un’entità dispettosa in sua compagnia. Si vestì piano, con movimenti lenti, partendo in primis dai calzoni bianchi di lino usati come biancheria intima, per passare poi ai pantaloni in cotone, verdi, messi dentro gli stivali leggeri adornati da nastri. Prima di indossare la casacca bianca, perse tempo più del dovuto con i lacci della cintura, e gli fu inevitabile sfiorare, con le sottili e delicate dita, la cicatrice sul fianco destro. Nessuna magia di guarigione era stata capace di farla sparire, era sempre lì, come un marchio indelebile, per ricordargli quanto fosse stato debole e patetico anni e anni prima.
Assorto dai suoi pensieri, non realizzò quanto accadde: una mano, familiare e bollente, gli coprì gli occhi, mentre un’altra venne sovrapposta alla sua sulla cicatrice. Gli venne istintivo trattenere il fiato, mentre le orecchie iniziavano a fischiare fastidiosamente e la sua pelle memorizzava quel contatto, per poi rendersi conto non fosse nuovo.
«Shh~»
Era lui, ne era certo: era il diavolo che lo aveva salvato. Come da bambino, il suo primo pensiero fu quello di infuocare i palmi per attaccarlo, ma venne colto alla sprovvista da un nuovo tipo di tocco. Due labbra calde si poggiarono tra il collo e la spalla, lì dove, sapeva bene, vi era la testa del dragone impresso sulla sua pelle. Era un contatto strano, strano in una maniera che non avrebbe saputo descrivere e che, ancora una volta, disturbava i suoi schemi.
«Ogni giorno che passa diventi sempre più bello~»
Quel diavolo aveva una voce perennemente incrinata in quella che gli sembrava una cantilena davvero dolce. C’era malizia nei suoi gesti, c’era malizia nelle sue parole, c’era malizia in tutto. Ed era estremamente fastidioso. Quando fece mente locale, Illumi scosse il capo, poi provò a caricare un nuovo attacco infuocato. Eppure, prima di riuscire a fare qualsiasi cosa, quella presenza sparì e i suoi occhi tornarono a vedere.
Era successo di nuovo, forse anche peggio, visto quanto quel sussurrare soave gli aveva causato brividi. Sentiva ancora quelle mani e quelle labbra lì dove erano state e sarebbe stato così per le ore successive, ormai si conosceva. Percepiva caldo, davvero tanto, al punto che persino la punta delle sue orecchie sembrava andare a fuoco. Non seppe dire se fosse imbarazzo, ma realizzò di essere rimasto intrigato da quei gesti e da quel modo di fare. Il diavolo sarebbe potuto morire incenerito, ma aveva comunque deciso di muoversi in quel modo. Doveva davvero essere un pazzo.
✧.*.✧
La cittadina situata ai piedi del monte Kukuroo era un variopinto incrocio di culture. Trattandosi prevalentemente di una zona risieduta da elfi, non era raro che razze di ogni dove vi facessero visita per un consulto magico o, semplicemente, per ammirarne la bellezza. Si trattava di un luogo unico nel suo genere, con le piccole case in mattoni ricoperte di edere e fiori, immersi, a loro volta, nella rigogliosa natura boschiva. In piccoli cunicoli arborei abitavano pixies e minuti folletti, amanti degli spazi ristretti che venivano sempre arredati oltre le quantità che, all’effettivo, potevano contenere. Tuttavia, erano piacevoli per la vista, soprattutto per la minuziosità e la cura del dettaglio che trasparivano grazie alle graziose lampade che illuminavano l’ambiente con l’ausilio delle lucciole. Uno spettacolo imperdibile, a cui occorreva assistere almeno una volta nella vita.
Pensava a questo il giovane dai capelli rossi, mentre sul dorso del nero unicorno passeggiava lungo quelle strade trafficate. Al suo sguardo attento non sfuggiva nulla ed era un piacere origliare le conversazioni leggere che avvenivano tra i passanti, sempre allegri e gioiosi.
Il sole stava tramontando, le luci rossastre del crepuscolo iniziavano a dipingere l’aria di un’atmosfera nuova, più romantica, che preannunciava una lieta serata. L’aria, rispetto al pomeriggio, iniziava ad essere più fresca e certamente sarebbe stato piacevole passeggiare lungo i corsi d’acqua – era un’area, quella della Repubblica di Padokea, ricca di muschi luminosi che illuminavano i sentieri lungo cui vi erano panchine in ferro battuto.
Hisoka ordinò al destriero di fermarsi, con garbo. Assunse una posizione in assetto per accarezzare le orecchie dell’animale, poi scese, assicurandosi di tenerlo buono con tocchi delicati. Erano bestie di incredibile bellezza, gli unicorni, dall’animo puro e sensibile. Quasi ironica, quindi, pareva la mansuetudine nei confronti di un diavolo; tuttavia, vi era una nota da non tralasciare quando si parlava di quel demonio dai capelli purpurei.
Nel corso della sua vita, l’uomo aveva consumato diversi tipi di sangue, ma il suo preferito era quello dei mutaforma: creature straordinarie, il cui unico talento risiedeva nella capacità di cambiare aspetto a proprio piacimento. Un’abilità che, Hisoka doveva ammetterlo, poteva far comodo a chi, come lui, voleva vedere il mondo. Spirito libero e sempre curioso, era stato denigrato, fin dalla nascita, da entrambe le razze a cui apparteneva. Suo padre, un allocco sbruffone, aveva ceduto al fascino di sua madre, demonio di rango elevato che, impietosita dalla cagionevole salute di quell’umano, si era fatta avventatamente ingravidare. I bastardi non erano una novità, né tantomeno uno scandalo: rappresentavano, però, un problema, soprattutto se in loro vi era una natura umana. E la madre di quel ragazzo, ancora giovane e nel fiore degli anni, aveva sviluppato fin da subito un attaccamento morboso nei confronti di quell’essere che aveva iniziato a far sentire la sua violenta indole omicida già da feto. Fu una simbiosi pericolosa, la gravidanza della donna, divenuta violenta e folle al solo pensiero che qualcuno potesse portarle via il suo primogenito – si vociferava avesse addirittura ucciso una dozzina di demoni, mentre era incinta. Possedeva una magia potente, specchio del suo rango, e ben presto decise di trasmetterla a quel bambino da cui proprio non riusciva a separarsi. Ma proprio questa morbosità, in dissonanza con il senso di libertà di Hisoka, la portò alla morte in una notte buia e senza stelle. Poco gli importò se, a tenergli lontano le inimicizie, era proprio il grado elevato della madre: il figlio la privò della capacità di respirare, le fece provare quel senso di asfissia che quotidianamente viveva proprio a causa sua. Dopo quell’incidente, decise di vagabondare in giro per le terre di Yorbian, aiutato proprio dal sangue mutaforma che, fuso alle proprie capacità magiche, gli permetteva di celare le corna, gli occhi d’oro e le orecchie a punta – più piccole e tozze di quelle elfiche, decisamente meno piacevoli da guardare. Proprio questi inganni gli permisero, negli anni, di procurarsi simpatie in ogni dove, comprese quelle di un misterioso unicorno nero, salvato da una battuta di caccia vampiresca – si sapeva quanto ghiotti fossero di quel sangue, i vampiri.
Conduceva una vita umile, da saltimbanco, che con i suoi trucchi semplici e mediocri catturava ogni tipo di attenzione. Non sapeva dire se dipendesse dal fatto che, almeno all’apparenza, fosse un comune essere umano o se, al contrario, proprio il magnetismo demoniaco, impossibile da celare, ad attirare quegli sguardi incuriositi.
Amava ricevere attenzioni e amava darne. Adulatore di natura, non era raro che si intrattenesse anche ben oltre il banale spettacolo con qualcuno. Era libero e viveva con la medesima libertà la sfera sessuale che, in un modo o nell’altro, era sempre tanto attiva. Bastava un sorriso in più, un complimento, un semplice gesto della mano: grazie all’eredità di sua madre, seduceva chiunque fosse suo bersaglio. E gli andava bene così.
Il motivo per cui si trovava in città, però, non aveva certo a che fare con il sesso o con gli spettacoli di strada – non avrebbe abbandonato la nave su cui aveva navigato insieme alla strana ciurma di bastardi come lui per quelle sciocchezze. La vita di Hisoka era stata segnata da tanti eventi, ma uno in particolare era vivo e impresso, letteralmente, sulle sue carni.
Doveva aver avuto all’incirca sedici anni quando, durante il suo vagabondare, aveva avvertito odore di sangue. Non era insolito, c’era una guerra tra razze in corso – e già allora doveva muoversi in incognito, per non rischiare di trovarsi con la testa mozzata – e non era insolito avvertire la morte nell’aria. Si trovava nei pressi del monte Kukuroo per una ragione che ancora gli era ignota e pioveva a dirotto, come se le divinità volessero punire i mortali con un diluvio. Nonostante questo, però, sentiva che, nel bosco lì vicino, stesse accadendo qualcosa. Si mosse con movimenti automatici, malgrado provasse ad opporre resistenza il suo corpo camminava, si muoveva verso quella radura da cui un forte fetore si innalzava – c’era un diavolo, la puzza della sua specie l’avrebbe riconosciuta a distanza di miglia.
Nascosto tra i cespugli, sgranò gli occhi nel ritrovarsi davanti ad una scena che fece sciogliere come neve al sole il suo travestimento: le corna spuntarono pian piano, assieme ad artigli e zanne. Dinanzi a sé, l’orrido spettacolo di un demonio intento a divorare una delle creature più belle avesse mai visto. Non aveva mai incontrato un elfo, prima di allora, poiché era raro si facessero vedere fuori dalle loro case o dai campi di battaglia. Aveva dei lunghi capelli neri, che arrivavano fino a metà schiena, lasciati liberi e resi pesanti dalla pioggia che non voleva smettere di abbattersi su di loro. Respirava a fatica, la camicia bianca era in parte strappata e resa brillante dal sangue argenteo della creatura, il cui braccio destro sembrava proteso verso la faretra poco più distante. Voleva reagire, era palese, ma non poteva fare nulla. Provò allora a fare qualche strano incantesimo, uno che gli rendeva i palmi brillanti, e nemmeno quello servì.
Era spacciato, non ce l’avrebbe fatta. E, proprio quel pensiero, fece scattare qualcosa nel corpo di Hisoka. Un brivido folle e adrenalinico gli scosse il corpo, permettendogli di generare una sottile corda rosata che utilizzò, come aveva fatto alcuni anni prima con sua madre, per tirare indietro il capo del diavolo lì a terra. Il suo collo si incrinò violentemente all’indietro, in un’angolazione perfetta che gli permise di lanciare una lama affilata per sgozzarlo, non prima di essersi sentito chiamare traditore. Ironico, davvero, come fosse considerato tale quando, per qualsiasi demonio, lui era solo un bastardo da eliminare. Non diede peso a quei pensieri, però, decidendo di raggiungere l’elfo alle spalle per provare ad aiutarlo. Non aveva mai utilizzato la magia di sua madre per guarire e il senso di potenza che quel gesto gli stava conferendo lo eccitò: aveva tra le mani una delle più potenti creature del loro mondo, la cui vita dipendeva solo dalla riuscita di un rituale.
Non si era mai aspettato di ricevere un ringraziamento, ma nemmeno un getto di fuoco che lo aveva colpito proprio sul braccio, lasciando un’indelebile cicatrice. Ed era stata proprio quella ferita a spingerlo, diversi anni dopo, a tornare. Aveva incontrato quell’elfo proprio mentre si stava recando nella radura dove lo aveva salvato. Non gli ci volle molto per riconoscerlo, lo aveva avvertito dall’aura che emanava e dai segni del morso sul fianco – anche quelli, dopo dodici anni, erano ancora lì. Era rimasto ad osservarlo e, come accadde in passato, qualcosa lo spinse verso di lui. Voleva toccarlo ancora, sentire il suo odore e il suo sapore, baciarlo. Si trattava di uno degli esseri più belli avesse mai visto, con i suoi sottili occhi allungati e profondi, la chioma morbida e setosa, le orecchie dalla punta leggermente arrossata. Gli aveva rivolto la parola per la prima volta e gli era piaciuto. Se non si fosse scansato in tempo forse sarebbe rimasto ferito, ma aveva ugualmente provato un brivido di piacere nel vedere quanto potente fosse diventato quel ragazzo.
Si chiese allora se anche lui avesse sentito quel bruciore sulla cicatrice. Perché, al di fuori di ogni cosa, Hisoka si trovava lì per quello: la ferita aveva iniziato a fargli male, a sanguinare, di tanto in tanto, cosa strana e insolita. Nemmeno Chrollo, mezz’elfo capo di quella ciurma criminale, aveva saputo rispondergli. Il suo suggerimento era quello di ritornare sui suoi passi e di indagare. Senza realizzarlo, però, la sua ricerca lo aveva condotto proprio dove tutto era iniziato. E non vedeva l’ora di approfondire la questione.
Con l’unicorno a seguito, si avvicinò ad un anziano barbuto.
«Buon uomo, mi scusi. Saprebbe indicarmi una taverna per trascorrere la notte?»
Si sarebbero rivelate giornate interessanti.
✧.*.✧
Illumi aprì gli occhi di scatto, annaspando alla ricerca di aria. Sentiva un peso sul petto, una costrizione che gli causava inquietudine e malessere. Attorno a sé, non vi erano i drappeggi e i glicini che caratterizzavano la sua camera, né tantomeno le vetrate colorate. Vi erano ombre maliziose e figure grottesche, cornute, che lo stavano toccando ovunque mentre parlavano, in un coro sovrapposto di voci che lo stava facendo impazzire, accompagnato dal forte suono della pioggia che continuava ad abbattersi selvaggia. Voleva portarsi le mani alle orecchie per tamponare il fastidioso rumore, ma anche quelle erano bloccate.
Poi, all’improvviso, un forte dolore lo percorse da capo a piedi. Inorridito, urlante, abbassò il capo verso la fonte del male.
L’ambiente attorno a sé tornò normale, di nuovo fu avvolto dalla familiarità della stanza e dalla dolcezza delle sottili coperte. Stava ansimando, mentre si sorreggeva su entrambe le braccia e, sconvolto, si guardava attorno. Era solo un incubo? Non seppe darsi una risposta, perché una nuova fitta di dolore lo fece contorcere.
E, abbassando lo sguardo abissale, vide che la ferita sul fianco stava sanguinando.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo II ***


La famiglia Zoldyck apparteneva ad un’antica stirpe elfica, purosangue fin dagli albori che si narrava fossero avvenuti per via di una stella spentasi troppo presto. E il candore pallido dell’astro pareva essere rimasto impresso nelle caratteristiche fisiche dei discendenti, che vantavano da generazioni lunghi capelli argentei e pelle eburnea, quasi brillante. Bizzarro come però, ad un certo punto della loro storia, le cose fossero cambiate.
Silva si era sempre distinto per l’autorità che riusciva a trasmettere con la sua presenza stoica che quasi stonava con quelle che erano le fattezze delicate degli elfi: guerriero fin dalla giovane età, aveva portato gloria al nome degli Zoldyck con la possanza che gli aveva garantito la vittoria, in battaglia, innumerevoli volte. Aveva spalle larghe, braccia forti, una stazza simile a quella di un orco, in piena antitesi con le lunghe orecchie a punta e i chiari capelli che, assieme agli intensi occhi cerulei, denotavano la sua appartenenza a quella nobile famiglia. Arrivò un giorno in cui, tuttavia, quasi annoiato dalle frivole battaglie, decise di spingersi oltre il mare e le terre della Repubblica di Padokea. Approdato sulle rive dell’isola Jappon, aveva per la prima volta provato un sentimento che riteneva un’incognita. Aveva posseduto innumerevoli elfe, ma mai nessuna gli parve essere bella come quella che gli si parò davanti, nel mezzo di una pianura fiorita e insanguinata: in luoghi ignoti e da lui inesplorati, fece la conoscenza di Kikyo.
La giovane elfa proveniva dalle lontane terre di Azian, il continente opposto a Yorbian, dove si diceva proliferassero cultura e ricchezze. Possedeva dei lunghi capelli corvini, intrecciati in una complessa acconciatura arricchita da gioielli e fermagli dagli intagli pregiati e raffinati. Le sue vesti avevano i toni del viola e del porpora, ma erano confezionate in maniera inusuale: si capiva fossero abiti tipicamente orientali dalle forme ampie delle maniche, leggermente tirate verso il basso in modo da lasciare le candide spalle esposte – e, divinità, quanto splendeva quella pelle. Anche le gambe, lunghe e affusolate, risultavano scoperte dallo spacco che la veste incrociata, tenuta assieme da quello che l’uomo avrebbe scoperto chiamarsi obi, presentava. Era una creatura di straordinaria bellezza, anche se ricoperta di quello che era il sangue di un licantropo, morente e strisciante ai suoi piedi. Doveva avergli reciso la gola con il ventaglio aureo che aveva in mano, sicuramente.
Silva mosse un passo in sua direzione, tenendo gli occhi puntati sul viso di cui, purtroppo, ancora non riusciva ad ammirare i lineamenti. La spada era impugnata nella destra, ma non credeva di riuscire ad avere il coraggio di utilizzarla. C’era una sorta di magnete che lo stava attirando verso quell’essere splendente nella sua violenza. Si fermò ad alcuni passi da lei, quando finalmente l’elfa decise di voltarsi, abbandonando l’animale sotto di sé ad un’agonizzante morte. Non lo aveva potuto notare prima, ma anch’ella era ferita e stava perdendo molto sangue da quelli che erano i segni di artiglio sulla coscia dentra.
«Chi è là?» la voce tremava, incrinata verso un senso di paura che già aveva spinto Kikyo ad aprire il ventaglio, su cui potevano ora ammirarsi dei complicati disegni floreali, intrecciati ad uno strano uccello di cui l’elfo non conosceva il nome. E, guardando ancora meglio la donna, la lunga coda piumata di quella bestia sembrava essere riprodotta anche sulla pelle, in prossimità della spalla destra, come se fosse un delicato dipinto.
Ciò che tuttavia lo colpì di più fu uno strano e sottile velo di pizzo, che fasciava il volto dell’altra, coprendone gli occhi. Stava ansimando, sospiri irregolari fuoriuscivano da quelle labbra tinte di rosso, graziose nella loro minutezza.
«Siete ferita? Non voglio farvi del male» in risposta, Silva gettò, forse avventatamente, la spada a terra, poi alzò le mani, come a voler mostrare un segno di resa. Nel peggiore dei casi, si sarebbe potuto battere in un corpo a corpo o avrebbe fatto ricorso all’uso della magia. Fece altri due passi, stavolta riuscendo a constatare vi fosse del sangue anche sul viso dell’elfa, che partiva dall’attaccatura dei capelli.
«Non muovere un altro passo, o ammazzo anche te»
C’era qualcosa di seducente, in quella minaccia. Non si trattava del solito avvertimento che chiunque avrebbe potuto fare, no: albergava, in quelle parole, un’intenzione concreta, una reale furia omicida che l’uomo aveva avvertito, fino ad allora, solo in se stesso e nei guerrieri che affrontava sul campo di battaglia. Oltretutto, il fatto che a rivolgergli quell’intimidazione fosse una donna, rendeva la cosa ancora più suggestiva. Non gli era mai capitato di incontrare una creatura femminile avente una tale forza e una simile presenza.
«Non voglio… Attaccarvi…»
Le parole di Silva rimasero in sospeso, fluttuanti in un’aria che sempre di più stava diventando sanguinolenta. Non aveva fatto caso, preso ad ammirare la donna, della scia di cadaveri dietro di ella. Un intero branco di licantropi giaceva nella pianura inerme, privo di vita. Che li avesse uccisi tutti lei?
«Volevano farmi del male… Mi sono solo difesa» mormorò piano l’elfa, mentre andava ad alzarsi le maniche dell’abito per coprire le spalle. Il giovane Zoldyck rimase in silenzio, conscio del fatto che lui, da uomo, poco potesse dire. Non aveva pensato, in effetti, alla quantità di esseri malintenzionati alla vista di una creatura così bella.
«Posso sapere il vostro nome? Non ho cattive intenzioni, posso giurarlo sul mio nome di Zoldyck. Vorrei aiutarvi, sarebbe un peccato per Yorbian perdere una forte guerriera come voi»
Ma non ricevette risposta, perché l’altra si accasciò con un tonfo a terra.
Da allora, un simbolico e fondamentale giorno in cui le forti braccia dell’elfo afferrarono quell’esile corpo, i loro destini colluttarono inevitabilmente. Due stelle ardenti si unirono, per dare vita a quella che a tutti gli effetti divenne una piccola, seppur cardinale, galassia. Col tempo, Silva apprese tante cose da Kikyo, primo tra tutte il significato del tatuaggio del pavone che spiccava imponente sulla carne lattea. Gli raccontò di come esso fosse collegato ad un’antica usanza dell’Est, oscura e primordiale magia che metteva in contatto un elfo con l’anima di un animale guida, il quale favoriva l’accrescimento della forza, mentale e fisica, attraverso un Dono. E, per suggellare quel patto saldo e imprescindibile, la pelle si macchiava della figura dello spirito nel mezzo di un lungo rituale.
Il matrimonio che seguì a quell’istante venne narrato per anni, e nelle terre di Yorbian e in quelle di Azian. Non era certo la prima unione che avveniva tra continenti, eppure fece parlare perché mai si erano viste due creature così potenti e letali unite, in quello che non si capiva se fosse amore o mera e sadica ossessione. Silva non riuscì ad apprendere l’arte del Dono, per quanto Kikyo avesse provato ogni tecnica da lei conosciuta per risvegliare il legame, tuttavia non si poté dire lo stesso della loro progenie.
Ebbero cinque figli e ognuno di loro poteva vantare una certa padronanza nell’antica arte materna.
Illumi, il primogenito, oltre ad aver avuto in eredità l’eterea bellezza della splendida elfa, aveva ritrovato nella sua guida il Dragone, bestia ancestrale e dalle mille risorse che trasmetteva sapere e razionalità, assieme ad un fuoco le cui fiamme potevano distruggere o creare a seconda della volontà propria. Inoltre, grazie alla sua riservatezza e alla sua predilezione per le arti oscure, era riuscito a generare degli incanti manipolatori, che giostrava a suo piacimento grazie all’utilizzo delle affilate punte di spilli che, assieme ai dardi, portava sempre con sé.
Milluki era il secondo, nato alcuni anni dopo il maggiore, e fin dalla tenera età aveva sviluppato una particolare propensione per il macabro, al punto che si dicesse che il suo sgradevole aspetto – non proprio in linea con la grazia elfica – derivasse da quello. Il suo Dono albergava nello spirito del Maiale, di cui assumeva sempre più le sembianze con il passare degli anni, e grazie ad esso il suo intelletto gli permetteva di dare forma ai più svariati marchingegni letali, come le sue disparate armi.
Era venuto poi al mondo Killua, colui che fin dal primo vagito era stato individuato come erede della famiglia. Aveva una forza straordinaria e l’agilità sinuosa di un felino, che tra l’altro aveva una correlazione con la sua guida: la Tigre. Era in grado di manipolare i fulmini, le tempeste, tutto ciò che avesse a che fare con campi elettrici, il che gli conferiva un grande vantaggio nelle battaglie, viste le abili doti di assassino che Silva aveva deciso di trasmettergli, oltre agli argentei capelli e agli occhi cerulei.
Con le stesse, meravigliose iridi color del cielo, c’era Alluka, la quartogenita, un’elfetta assai solare e legata dal suo primo respiro al fratello Killua. Era di una radiosità contagiosa, che celava tuttavia un terribile lato oscuro: albergava infatti nel suo corpo lo spirito della Lepre, che per qualche bizzarra complicazione nei delicati rituali di legame, aveva preso possesso in maniera diretta della giovane, che tanto si divertiva a chiamare quel parassita Nanika. I suoi poteri andavano ben oltre la semplice conoscenza della magia. Ella possedeva infatti una sola dote: quella di realizzare desideri, in cambio di ingenti sacrifici, quasi alla stregua di un demonio.
Vi era infine Kalluto, il minore, ma non per capacità. Aveva trascorso buona parte della sua vita dietro le gonne di sua madre, come d’altronde era accaduto con il primogenito, e proprio da lei aveva appreso l’arte dei ventagli, sua arma prediletta, la cui magia andava ad unirsi a quella del Serpente, spirito che gli aveva fatto dono di capacità distruttibili. Assomigliava in tutto e per tutto alla genitrice, tuttavia i suoi incanti facevano sì che i suoi grandi occhi assumessero un delizioso tono purpureo.
Era quindi una famiglia assai temibile, quella degli Zoldyck. Allo stesso tempo, però, era anche tra le più rispettate, in mezzo agli elfi. Rappresentavano una stirpe storica, eterea, dagli enormi poteri, al punto che difficilmente si trovavano dinanzi a nemici giurati. Si era vociferato, nel continente, che l’unione tra un erede di Yorbian e una figlia di Azian non potesse portare altro che chaos. E, all’effettivo, era stato così: chiunque avrebbe tremato dinanzi ad uno di loro.
Silva era fiero dei suoi figli, così come lo era Kikyo, la quale talvolta mostrava un vero e proprio senso di possessività nei loro confronti. Proprio per tale ragione, fece sgozzare ogni guaritore avesse messo mano, in passato, sulla ferita di Illumi, che ormai da giorni stava facendo preoccupare.
«Dovremmo far intervenire Alluka, dovevamo farlo quando uno di quei bastardi ti aveva messo le mani addosso» fu il commentò dell’elfa, che prese posto sull’ampio letto del figlio, il cui fianco era fasciato da garze precarie, perché nessuna magia sembrava essere in grado di placare il dolore e le perdite di sangue occasionali.
«Ne abbiamo già discusso, madre: non sprecheremo il Dono di Alluka per una simile sciocchezza. Sto bene, posso combattere e svolgere tutte le azioni necessarie alla mia sopravvivenza»
«Illumi, non posso permettermi di perderti. Chiameremo altri guaritori, e io parlerò con tua sorella»
Un sospiro abbandonò le labbra dell’elfo. Era incredibilmente difficile smuovere sua madre dalle proprie convinzioni e lui ben sapeva di essere nettamente più ragionevole. In quei giorni angoscianti aveva consultato ogni libro presente nella biblioteca privata della famiglia, senza trovarvi alcunché; si era rivolto a sua sorella minore, chiedendo di conferire con Nanika che, essendo uno spirito superiore, avrebbe certamente potuto avere delle risposte: l’unico responso, tuttavia, era stato il silenzio. Stava migliorando, se non altro poteva camminare e muoversi con più libertà, eppure non poteva dirsi sollevato: se non avessero scovato la radice di quello sgradevole problema, la sua incolumità avrebbe potuto essere a rischio. Si considerava fortunato, quel male lo aveva colpito mentre dormiva, nella più totale quiete, ma se fosse accaduto in battaglia?
Inevitabilmente, si ritrovò a pensare a quel demonio dai bizzarri modi di fare, che nel corso di quegli anni mai aveva abbandonato la sua mente. Avvertì una sgradevole sensazione all’altezza del collo, dove non troppo tempo prima era stato baciato, e si diede dell’allocco per non aver reagito, per la seconda volta, contro un’entità capace di fargli del male. Tuttavia, proprio grazie alle sue mille congetture, gli venne un’idea.
✧.*.✧
L’aria pacifica della notte gli stava accarezzando la pelle con delicatezza. Si sentiva trasportato da una brezza leggera e piacevole capace di far sparire il mondo intorno a sé per dare spazio a taciti pensieri che lo avrebbero cullato nel corso di quella passeggiata. I rigogliosi giardini del palazzo in cui risiedevano erano ricchi di vegetazione di ogni tipo, anche importata da lontani luoghi ameni; gli alti alberi e i dormienti salici creavano una sorta di scudo protettivo intorno ai prati, dove piccoli ruscelli scorrevano lenti in una serata tranquilla solo all’apparenza.
Illumi si stava muovendo piano in quelle fronde fiorite, con arco e faretra caricati in spalla e i capelli ebano che, raccolti in un’alta coda, oscillavano dolci. Le fasce che tenevano strette il suo fianco erano messe in mostra dalla casacca incrociata, tenuta stretta in vita da una cinta ricamata, di cui alcuni lembi più lunghi scendevano lungo la coscia sinistra. Le lunghe gambe magre erano poi coperte da semplici pantaloni larghi scuri, aperti di lato e lunghi fino ai piedi, dove delle morbide babbucce richiamavano il colore verde della giacca. Avvertiva ancora un po’ di dolore nei pressi della ferita, ma era assolutamente trascurabile in relazione a ciò che avrebbe fatto di lì a poco. Non si trattava della prima volta lontano da casa, ovviamente, tuttavia mai si era esposto al mondo con una ferita aperta e un mare burrascoso di pensieri in testa. A costo di arrivare persino nelle terre di Azian, sarebbe venuto a capo di quel mistero. Non capiva le dinamiche secondo cui, completamente all’improvviso, quel lato oscuro del proprio passato avesse deciso di emergere. Detestava quel frammento di storia, troppo doloroso da affrontare, e che lo aveva esposto, appena bambino, ad una consapevolezza crudele: lui non era all’altezza, mai abbastanza per portare avanti la stirpe di Silva, mai in grado di adempiere ai suoi compiti di elfo guerriero. Molto probabilmente, la causa dell’implacabile sete di sangue e di quella maschera fredda, distante, risiedeva proprio nell’attacco che, da bambino, aveva distrutto tutte le grandi aspettative riposte nel primogenito degli Zoldyck. Per quanto fosse bravo, per quanto fosse temibile, non sarebbe mai stato l’orgoglio di un padre che pareva avere occhi solo per Killua e le sue promettenti doti. E allora lui, nel silenzio più assordante, osservava da lontano, diveniva spettatore di una vita fatta di fantasmi, morte e disperazione. Dilaniava le carni dei propri nemici proprio come i suoi genitori, in passato, avevano fatto con lui. Era uno spettro anonimo, il cui unico bisogno appariva essere il perseguimento di obiettivi poco concreti e discordanti con ciò che avrebbe voluto – un desiderio ancora inesplorato, a cui non riusciva a dare un nome.
E quella notte, esattamente come faceva sempre, fuggì, accompagnato solo da un plenilunio malinconico, che tanto gli ricordava quella nefasta sera. Se nessuno riusciva a dargli risposte all’interno delle mura domestiche, le avrebbe scovate altrove.
Si muoveva con passo sicuro, svelto nella quiete di una foresta magica, il cui sentiero era illuminato da fiori e cespugli luminosi. Di tanto in tanto, dolci bagliori fluttuavano tra gli alberi, segno che qualche pixies stesse giocando; le acque del torrente, dove trovava spesso giovamento, scorrevano limpide e lente, con un morbido suono che lo accompagnava in quella discesa solitaria verso il centro abitato.
Erano trascorsi alcuni anni da quando vi era stato l’ultima volta, anche se solo di passaggio. L’apprensione di Kikyo l’aveva portato a condurre una vita incredibilmente solitaria, soprattutto dopo l’attacco, anche se, sospettava, Killua e Alluka avevano per certo trascorso del tempo lì. Nelle terre di Yorbian era abbastanza comune che le cittadine fossero abitate da clan o da creature della stessa specie, che per questioni di comodità presidiavano un territorio conforme alle loro esigenze. La famiglia Zoldyck, tuttavia, tra le tante cose presentava un’eccezione persino da quel punto di vista: gli elfi avevano dimora a York Nuova, ben più a sud della repubblica di Padochea, la cui città principale si presentava come un agglomerato di più razze raccolte in un crocevia vastissimo di culture. Quest’ultimo aspetto, terrorizzava Illumi, che era arrivato fino al confine delle mura magiche che separavano i possedimenti di casa sua dal mondo esterno, i cui pericoli talvolta sfuggivano a quelle barriere. Il giovane varcò la soglia, attraversando l’immensa porta ornata, avente molteplici strati che potevano essere aperti solo da chi fosse davvero degno, e chiuse gli occhi. Aveva un respiro regolare, tenuto sotto controllo dalla consapevolezza che quella follia servisse solo per il suo bene e quello della famiglia, a cui certamente non serviva un membro debole.
Esattamente oltre le mura, c’era un portale magico, formato da due ampie colonne decorate da intagli aurei narranti le imprese degli Zoldyck. Alcune punte di ametista spuntavano dal terreno e si propagavano sulla superficie marmorea, assieme a piccole edere. Non aveva una direzione specifica, poiché la forgiatura e l’elevata potenza facevano sì che chi utilizzava l’incanto potesse teletrasportarsi nel luogo designato con il semplice pensiero – assicurandosi di avere come meta un posto con almeno un singolo portale. Un trucco assai ingegnoso e comodo, doveva ammetterlo. Si apprestò quindi ad avvicinarsi al riflesso ceruleo che, nell’oscurità notturna, splendeva come un faro, e allungò una mano. Immaginò di trovarsi in quelle colorate e trafficate strade, con le taverne sempre aperte e le case policromatiche incastonate in antichi tronchi, i lunghi viali ciottolati e i mercati, con il loro viavai di gente.
Fu un attimo, e le sue lunghe orecchie vennero sommerse dal suono incessante dei mormorii ignoti delle più variegate creature. Non che avesse dubbi sulla traversata, ma c’era sempre una sorta di paura che qualcosa potesse andare storto. I suoi occhi oscuri vagarono rapidamente lungo il paesaggio, illuminato da alcune lanterne fluttuanti e dalle delicate piante di muschio luminoso, che proprio in quel periodo risplendevano al massimo. Alcune tende indicavano la presenza di qualche audace che, con i propri ninnoli, cercava di attirare l’attenzione delle maestose fate, le cui iridescenti ali brillavano sotto il bagliore lunare.
Illumi iniziò la sua traversata verso le larghe strade, dove riceveva sguardi indiscreti dovuti dal fatto che non fosse un estraneo, lì. Tutti sapevano chi fosse l’oscuro elfo dalla chioma corvina e le iridi abissali, avaro di sangue e desideroso di morte. Era una nomea poco nobile, per uno della sua specie, che però gli conferiva un importante privilegio: nessuno, per alcuna ragione, lo avrebbe mai importunato.
La sua meta era una locanda che ospitava sovente personaggi di un certo spessore. Aveva un cibo delizioso ed un aspetto curioso, dato che si trovava in un tronco millenario, articolata in più piani, che per la sua importanza storica riceveva ospiti importanti quali saggi e guaritori. Proprio uno di loro, chiunque fosse, interessava il giovane, che non appena individuò la propria meta, accelerò. Non amava stare in mezzo alla gente, non che ce ne fosse tanta, ma il fastidio di poter ricevere contatti involontari lo turbava. Era quasi arrivato, quando il suo cuore decise di battere più forte nel petto al suono di una dolce melodia.
«I’m in love, with a farytale
Even though it hurts
‘Cause I don’t care if I lose my mind
I’m already cursed»
La sinfonia del violino era delicata, pareva la carezza del vento, e non vi era una nota imprecisa. Ogni sequenza raccontava qualcosa, esattamente come quelle parole, cantate in una lingua lontana, e coinvolgevano a tal punto che Illumi si ritrovò costretto ad avvicinarsi alla fonte della musica, come se fosse nato per non fare altro che quello. Si ritrovò davanti ad un giovane, che doveva pressappoco avere qualche anno in più di lui e che si muoveva in mezzo al piccolo crocchio di persone, col violino poggiato in spalla. Aveva un sorriso beffardo sul volto, la cui caratteristica principale erano i sottili occhi azzurri, di tanto in tanto nascosti da ciuffi ribelli di capelli, riccissimi e rossi, che proprio non volevano saperne di assumere una forma più normale.
Il primo pensiero che affiorò nella mente di Illumi fu sulle doti magiche che quell’uomo possedeva: suonava bene, quasi quanto un bardo, ma non emetteva alcuna aura sovrannaturale. Un semplice umano, insomma, vestito di una larga camicia bianca con le maniche a sbuffo e i pantaloni neri, a palloncino, coordinati agli stivali in pelle che arrivavano fino al ginocchio – si ritrovò, ingenuamente, a paragonarlo ad un pirata. Il suo era un viso furbo, malizioso, che stava conquistando la folla con un bizzarro carisma che l’elfo non riusciva a comprendere. Tuttavia, quando quegli occhi si posarono su di sé, il mondo attorno parve diventare insignificante e privo di valore. Lui, che voleva vivere alla stregua di un fantasma, per la prima volta si sentiva guardato, scrutato nell’anima, notato in un modo inspiegabilmente piacevole. Indietreggiò appena quando vide l’altro muovere dei passi verso di lui, perché il suo cervello lo stava mettendo sulla difensiva, ma non poté fare molto quando, con un’insolita delicatezza, la melodia cessò per far sì che l’uomo potesse avere una mano libera, solo per poterla allungare verso quella del giovane per fare una sorta di saluto.
«Che piacere avere davanti a me Illumi Zoldyck» disse solo, però bastò per far sì che quella sensazione sgradevole esplodesse nel petto di Illumi. Gli ricordava ridicolmente quel maledetto demone che infestava le sue notti. Stava per allontanarsi e fuggire a quel contatto sgradevole, tuttavia una terribile fitta lo attraversò da capo a piedi. La ferita doveva essersi riaperta, perché l’unica cosa che avvertiva era il sangue che piano defluiva dal suo corpo e lo indeboliva. Fece per aprir bocca, ma le parole gli morirono in gola mentre la vista si appannava e rendeva le figure attorno a sé un insieme informe di colori. L’ultima cosa che riuscì a vedere con chiarezza fu la luna che, tra le fronde degli alberi, rideva beffarda della sua debolezza.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Era un cinguettio puro, quello che stava accarezzando le orecchie di Illumi, ancora abbandonato tra le braccia del dio del sonno, inconsapevole di quanto fosse avvenuto. Una brezza leggera gli stava baciando la pelle esposta, assieme ad alcuni raggi di sole che, morbidi, illuminavano la carnagione pallida. Si avvertiva, nell’aria, il fresco profumo della primavera, accompagnato da una fragranza assai dolce, che sapeva di casa e di buono.
L’elfo aprì lentamente gli occhi, con un senso di intontimento ad abbracciarlo. Le immagini attorno apparivano ancora un po’ confuse, ma la prima cosa che realizzo fu di non essere nelle sue ampie stanze. Si trovava infatti in una camera ben più piccola, dal mobilio semplice e caldo, che si articolava in forniture legnose come l’armadio, lo specchio, il divanetto posto in un angolo. Sulla sua sinistra figuravano un piccolo comodino ed un caminetto in mattoni, chiaramente spento viste le alte temperature. Le pareti avevano i toni del verde, suo colore prediletto insieme all’azzurro, e la piccola finestra sulla destra, esattamente sopra al letto, mostrava la quotidianità cittadina.
Si mise dritto, constatando che il fianco gli facesse ancora male, però le garze apparivano pulite – quando le aveva cambiate? Poi, il dettaglio di un violino, adagiato tra i cuscini del sofà, lo travolse impetuoso, facendogli ricordare quanto fosse successo la sera prima. Scattò avventatamente in piedi, senza curarsi di poter danneggiare la natura del segno impresso su di sé, e a stento riuscì ad arrivare di fronte lo specchio. Aveva i capelli sciolti, che delicati ricadevano lungo il corpo sinuoso e perfettamente proporzionato. Aveva la giusta massa muscolare, quella necessaria a mettergli in risalto l’addome e le braccia, senza però risultare troppo, come nel caso di suo padre. Indossava solo la biancheria e non sembrava ci fosse qualcosa fuori posto, il che era positivo considerando la propria natura, messa a repentaglio da quella vulnerabilità che infestava le sue giornate. Si diede un’ulteriore occhiata attorno, per individuare i vestiti, piegati e messi sul comodino, giusto accanto ad una tinozza d’acqua, che pensò di utilizzare per risciacquarsi il viso. Anche l’arco con la faretra era lì vicino, pronto all’utilizzo nel caso qualcuno si fosse avvicinato. E, proprio a tal proposito, le sensibili orecchie vibrarono e gli imposero di imbracciare l’arma, puntando una freccia dritta verso la porta. Si udivano dei passi, quasi irriconoscibili e delicati come quelli di un felino. Sempre più vicini, ma non minacciosi.
Poi, Illumi scattò. Un dardo colpì lo stipite in legno, nel momento esatto in cui una folta chioma di capelli rossi fece il suo ingresso nella stanza.
Era il musicista che, la sera prima, lo aveva incantato con le sue ballate e la sua straordinaria padronanza del violino, però non per questo poteva abbassare la guardia. Non aveva idea di chi fosse, tuttavia già il fatto che possedesse un insolito magnetismo, vista la sua condizione di umano, poteva essere sinonimo di qualcosa di ben più pericoloso.
«Cielo, che buongiorno insolito. Fate così, voi elfi?~» era un commento sarcastico, che strideva alle orecchie del giovane, che immediatamente prese un’altra freccia, con cui seguì i movimenti dell’altro. Indossava le stesse vesti della sera prima, assieme a quel ghigno canzonatorio che avrebbe volenti strappato via con un pugnale. Aveva tra le mani un vassoio in argento, che si premurò di appoggiare sul tavolino davanti al sofà; da esso proveniva un odore invitante, che fece ricordare all’elfo di essere ancora a digiuno.
«Ho portato la colazione, non sapevo se preferissi dolce o salato, quindi ho fatto mettere entrambe le cose»
«Chi sei e che cosa vuoi. Ti conviene rispondere se non vuoi che la tua vita finisca qui oggi» dritto al punto, il giovane tese l’arco, stavolta mirando ad un punto preciso tra gli occhi cerulei dell’uomo.
«Che sgarbato, hai ragione!» cominciò, prima di fare un plateale inchino «Il mio nome è Morou, piacere di conoscerti! Sono un semplice artista di strada, un umano che adora portare gioia alle persone che lo ascoltano!»
Illumi non si mosse, si limitò a tenere lo sguardo ben puntato sull’altro, aspettando finisse di rispondere alle proprie domande. Parlava con una strana cantilena nella voce, una musicalità che tanto ricordava le belle melodie che era capace di suonare.
«Ieri sera sei svenuto e mi sono offerto di aiutarti. Stavi perdendo molto sangue, sai? Fortunatamente, c’ero io lì per te ~»
I suoi erano movimenti morbidi, delicati, mentre afferrava alcune posate e le disponeva sulla superficie ruvida. Non sembrava importargli del dardo puntato addosso e non pareva mostrare segni di insicurezza di fronte al suo potere. Era assurdo, ma in qualche modo intrigante, pensò.
Fu proprio per quella ragione che, affascinato da un’incognita del tutto novella, abbassò l’arma e, con i sensi sempre all’erta, si avvicinò all’uomo, che aveva preso a mangiare una brioche alla crema. Non gli importava di essere ancora senza indumenti, la nudità non gli aveva mai dato fastidio, però vedeva le occhiate che di tanto in tanto lo scrutavano da capo a piedi, fermandosi sui piccoli dettagli. Tra le pietanze sul vassoio, c’erano per sua fortuna le pagnottelle al vapore, ripiene di carne di cervo, che fin da piccolo aveva adorato mangiare. Gli davano sempre la giusta carica quando, stremato da una giornata di allenamento, aveva lo stomaco che doleva per la fame. E i ricordi, mentre addentava la pagnotta morbidissima, lo cullarono dolcemente ad ogni boccone. Gli piaceva riesumare le reminiscenze di un tempo, soprattutto quando piacevoli – com’era bello abbandonarsi a quel solitario vuoto, persino con lo sguardo.
«E tu, Illumi?»
Quel piacere temporaneo venne interrotto dalla voce di Morou, il quale prese ad ammirarlo meglio, con il capo appena inclinato di lato e alcuni boccoli che, morbidi, ricadevano su quella pelle lattea.
«Io cosa?»
«Non mi hai detto cosa ci facessi giù in città ieri» rispose, con un sorriso innocente che nascondeva all’interno tutta la falsità del mondo. Doveva essere un bravo manipolatore.
«Non vedo perché dovrei dirlo ad uno sconosciuto» rispose secco l’elfo, inacidendo la voce, complice il fatto che il suo flusso di pensieri fosse stato interrotto. Si trattava di un banale umano, tuttavia non poteva – e voleva – spingersi oltre con le spiegazioni.
«Mh, che bel caratterino~»
Decise di non rispondere alla provocazione, proseguendo con il proprio pasto silenzioso, con le sopracciglia aggrottate e il cervello intento a programmare mille e altre prospettive per capire come andare avanti. Se ricordava bene dai suoi libri, la città di York Nuova brulicava di gente competente e preparata, capace di rispondere a più domande. Dovevano certamente trovarsi dei guaritori e, di conseguenza, qualcuno in grado di fornirgli delle spiegazioni circa la sua ferita. Era un viaggio lungo, avrebbe dovuto attraversare ben tre terre emerse, per raggiungerla, e viaggiare con dei portali, per troppo tempo, poteva portare a distorsioni fisiche sgradevoli. L’ipotesi migliore era quella di varcarne uno per raggiungere il Regno di Kukan’yu e arrivare fino a Zeban, dove partivano spesso dei battelli per arrivare a Saherta. Da lì, sarebbe stato relativamente semplice giungere nella captale. Sembrava un piano discreto, che però non teneva in considerazione due fattori fondamentali: la ferita e il suo essere un fuggitivo. Storse il naso.
«Sai, la cucina qui è veramente buona, non pensavo»
Su quelle parole leggere, Illumi si alzò, intenzionato a vestirsi. Si diede un’altra sciacquata al viso e alle mani, poi lesto indossò gli abiti con gli stivali. Doveva eseguire movimenti svelti, che tuttavia non dovevano compromettere la ferita. Quando gli sembrò di avere tutto con sé, prese la faretra e se la portò dietro la schiena, assieme all’arco. Si stava dirigendo verso la porta, quando d’un tratto la voce dell’uomo alle sue spalle lo fece paralizzare sul posto.
«Con una ferita di entità demoniaca non andrai molto lontano, ma se poi vuoi morire fa’ pure ~»
Cadde un silenzio talmente pesante da riuscire quasi a spaccargli i timpani e non seppe dire se dipendesse dal tono con cui erano state pronunciate quelle parole o dalla consapevolezza di essere vulnerabile di fronte ad un estraneo. Era certo, ormai, che le garze fossero state cambiate da quell’uomo, e tuttavia non si aspettava ugualmente un commento simile. Il sangue nelle sue vene sembrava essersi fatto gelido e fermo, malgrado il cuore stesse pulsando più forte del dovuto e l’aria, tutta intorno, diventava satura di una forte aura omicida – da chi provenisse, non si poteva ben dirlo.
Era in pericolo? Si trovava di spalle ad un essere umano, non avrebbe avuto motivo di avvertire quella sensazione di ansia, nel petto; eppure, pareva che i suoi sensi lo stessero mettendo in guardia.
«Come… Sai…» provò a sussurrare, in un sussurro di morte che preannunciava un imminente attacco.
«Mio padre è stato ammazzato da un demone, so riconoscere una ferita di quel tipo, quando la vedo ~»
Poi, improvvisamente, tutto si dissolse, come se fino ad un attimo prima quella stanza non potesse essere uno scenario di crudeltà.
«Ah» disse solo Illumi, voltandosi verso il violinista, che teneva un sorriso raggiante stampato sul viso, il naso colmo di lentiggini appena arricciato.
«Però sai, conosco un uomo che potrebbe aiutarti! Non mi è troppo simpatico, ma sono certo che sarebbe in grado di curare quella brutta piaga»
Quelle parole non suonavano come una menzogna, però il sesto senso dell’elfo gli imponeva comunque di tenere le distanze.
«E perché dovrei fidarmi di te?»
«Perché…» ma la frase non venne conclusa, perché immediatamente il giovane Zoldyck scattò verso la finestra, come richiamato da qualcosa. Vagò con le iridi profonde lungo i viali ciottolati e la vegetazione rigogliosa, fino a fermarsi sulla figura di un uomo alto, estremamente pallido, con i capelli pettinati all’indietro e un filo di barba sotto al mento. Si muoveva lento, ma sicuro nell’andatura, mentre le orecchie lunghe erano ben tese all’ascolto di qualcosa.
«Merda, è Gotoh» mormorò, stringendo i denti. Era ovvio che la sua famiglia avrebbe mandato qualcuno a cercarlo, Kikyo aveva un’apprensione nota in tutto il mondo verso quei figli per cui provava un morboso attaccamento. Evidentemente, perdere tempo a causa del mancamento della sera precedente gli stava costando caro. Doveva assolutamente sparire, andare verso il portale da cui era arrivato e dileguarsi quanto prima dalle sue terre.
«Cielo, quel tipo mette i brividi. È amico tuo? ~»
«No, è uno dei nostri domestici e sicuramente sta cercando me. Devo andarmene»
«Dobbiamo, forse ~»
Illumi sbatté le palpebre un paio di volte, poi piegò il capo di lato, interrogativo.
«Non ho detto di voler seguire il tuo piano» disse solo, mentre si avviava nuovamente verso la porta.
«Vero, ma hai altre alternative, Illumi? ~»
La verità era che no, altre ipotesi non erano possibili. Non sembrava ci fossero menzogne nella voce di quell’uomo così fastidioso e, all’effettivo, senza l’aiuto di qualcuno si sarebbe dovuto muovere alla cieca, sperando di arrivare a destinazione senza avere dei mancamenti – o, nel peggiore dei casi, delle emorragie mortali. D’altronde, se Morou avesse davvero voluto fargli del male, ne avrebbe approfittato quella notte stessa, quando era incosciente e privo di forze per reagire ad ogni stimolo; da un altro lato, però, a lui la compagnia di altri individui non piaceva. Amava lavorare in solitario, perché almeno non doveva avere pesi con sé. Stava inoltre parlando di un umano, una creatura priva di qual si volesse potere magico, che con alte probabilità lo avrebbe solo rallentato.
Maledizione.
«Giuro che se mi intralci, io-» ma non riuscì a concludere la frase, perché l’altro lo afferrò per mano e lo scaraventò a terra, mentre il forte rumore di vetro infranto si propagava per tutta la stanza. Cristalli taglienti rivestirono il pavimento sotto ai loro piedi, dalla cui superficie usciva, in quel momento, l’asta di una lancia dal motivo intricato.
«Mi sa che si sono accorti di noi ~»
Illumi accelerò il proprio respiro, irregolare mentre teneva gli occhi sgranati fissi sul corpo sopra di sé. Si era accorto, ben prima di lui, del colpo in arrivo, una cosa praticamente impossibile per un normale essere umano. Tuttavia, decise di non fare domande, per il momento, preoccupato a rialzarsi. Dovevano andare via quanto prima da lì e non lo avrebbero fatto guardandosi negli occhi – erano di una sfumatura cerulea davvero bella, quelli dell’umano.
«Riesci ad arrampicarti sui rami degli alberi?»
«Eh?»
«Ce la fai? Con la ferita»
L’elfo guardò verso il basso. Non stava sentendo dolore, però doveva pensare rapidamente: era certo non fosse la cosa più indicata improvvisarsi acrobata tra tetti e fogliame, tuttavia conosceva delle tecniche che forse avrebbero potuto dargli una mano.
Annuì deciso, imbracciando le proprie armi, i sensi sempre attivi per captare ogni sbavatura imperfetta potesse compromettere la fuga. Iniziarono a muoversi in ginocchio, abili come serpi, verso la porta che dava sul corridoio.
«Usiamo le scale, all’ultimo piano c’è un’uscita sul tetto che dà sul retro del locale, ci farà guadagnare del tempo»
Era un uomo razionale, glielo doveva concedere, e anche rapido nel pensare. In pochi minuti aveva avuto la capacità di elaborare un piano quasi eccellente e non era da chiunque. Allo stesso tempo, però, l’intricata mente di Illumi non poteva fare altro che pensare potesse essere pericoloso: c’era un’evidente disparità tra loro, dovuta all’appartenenza a razze diverse, ma lui era indebolito e vulnerabile. Rimuginava su questo, mentre saliva rapido quei gradini in legno e osservava la schiena dell’altro.
Arrivarono su un ampio balcone, la cui vista, in altre circostanze, sarebbe anche risultata piacevole. Offriva una splendida panoramica della capitale, che con il suo viavai già era viva e ricca di movimento. Intorno alla balconata, una serie di rami intricati formava un percorso tra un edificio e l’altro. Non si trattava di una conformazione artificiale, checché se ne potesse pensare considerando la precisione con cui le fronde andavano discendendo lungo le case – strutture variopinte, ornate da rigogliose edere fiorite.
L’elfo seguì con gli occhi color pece l’andamento dell’umano dai capelli di fuoco, osservando come già si stesse adoperando per accertarsi della stabilità della flora. Quando parve soddisfatto, allungò una mano verso la creatura alle sue spalle, che, nel suo silenzio, teneva stretta la corda dell’arco al petto.
«Possiamo scendere da qui ~»
Ma il giovane Zoldyck scosse il capo, richiudendosi ancora di più, per quanto possibile. Non gli piaceva il contatto, gli causava sensazioni sgradevoli che portava su di sé per parecchio tempo. Gli spettri di dita ignote sulla pelle rimanevano lì per ore, con il loro tocco assente che bruciava più della lava.
«Preferirei fare da solo, grazie» e, detto ciò, mosse dei passi a ritroso. Prese un po’ di rincorsa e saltò, con la grazia di un felino, avvertendo l’aria fresca scomporgli i lunghi capelli. Sapeva muoversi egregiamente, grazie ai duri allenamenti imposti in giovane età, ed era dannatamente veloce. Senza problemi, infatti, riuscì a saltare prima su due rami, poi, grazie al sostengo di una liana pendente, poté lasciarsi scivolare lungo la parete di mattoncini dinanzi a lui. Piano, infine, fece uso dell’edera per raggiungere i balconi più bassi, da cui poi raggiunse la strada. Il suo primo pensiero fu quello di controllare il fianco, dove sembrava ci fosse una situazione stabile – non sanguinava, sentiva giusto la pelle tirare leggermente a causa dello sforzo.
Con aria di sfida, portò le iridi corvine sulla figura dell’altro, da cui non si aspettava di certo una simile bravura. Scendeva deciso, aggrappandosi come meglio poteva ad ogni sporgenza o rilievo. Era aggraziato, quasi troppo per appartenere ad una razza la cui eleganza non era certo nota nel mondo, e ancora una volta si stava dimostrando un pericoloso compagno con cui viaggiare.
«Cielo, sei stato velocissimo! Il fianco sta bene? ~» domandò Morou, il suo solito sorriso sornione stampato sul volto. Illumi rimase in silenzio: detestava quell’estroversione e detestava quella confidenza, però sopportare era l’unico modo che aveva per sperare di risolvere la più spiacevole delle situazioni nella propria vita. Con passo leggero si incamminò quindi nei variopinti vicoli, attento a non uscire nella strada principale dove avvertiva l’imponente presenza del maggiordomo. Lui, al contrario, non avrebbe avuto motivo di preoccuparsi, poiché tra le molteplici abilità possedute vi era la capacità di scomparire, di confondersi in quell’ambiente rumoroso e a tratti anche fastidioso. Le orecchie lunghe si piegavano di tanto in tanto e, abili, filtravano ogni suono o rumore. Gotoh era in prossimità dell’ingresso della locanda dove erano stati, il che dava loro un ottimo vantaggio: avrebbero dovuto approfittare di quella deviazione per precipitarsi verso il portale.
«Per tutti gli Dei! Ho scordato il violino su in camera! Devo andare a recuperarlo!» fu però l’improvvisa e neanche troppo velata esclamazione del musicista, il cui ghigno beffardo già stava piegando pericolosamente le labbra all’insù. Era più forte di lui, assume quelle caratteristiche caotiche e imprevedibili, derivanti dalla doppia natura di cui l’elfo – ancora più turbato – non era a conoscenza.
«Di cosa stai parlando? Lascialo lì, non ci servirebbe a molto» la risposta razionale e brusca del giovane Zoldyck arrivò rapida, quando la creatura stava tenendo le iridi sgranate sulla figura dell’uomo che, noncurante, già stava cambiando strada.
«Tranquillo, ci impiegherò il tempo di un battito di ciglia ~» e, senza null’altro aggiungere, si dileguò rapido, con uno scatto che lasciò maggiore turbamento nell’animo di Illumi.
«Idiota» commentò solo a se stesso, pensando già al corpo forato dell’altro accasciato sul pavimento della stanza.
✧.*.✧
Hisoka, a dire il vero, sperava più di ogni altra cosa che la camera fosse occupata dal loro inseguitore. La brama di uccidere, il desiderio di dilaniare la pelle fresca con i propri artigli e i propri denti, la voglia di vedere il sangue sgorgare sul pavimento: tutti elementi in grado di mandarlo in estasi, di far sì che la lingua percorresse le labbra fino ad inumidirle. Aveva il bisogno di rubare l’ennesima vita in un gioco folle fatto di ferite e sofferenza.
Non fu deluso quando, varcando la soglia della stanza, si ritrovò davanti ad un elfo alto, dai capelli scuri, portati molto corti, con due basette ed un pizzetto di media lunghezza. Era in piedi nel bel mezzo di una perlustrazione, tuttavia bastò un passo in più da parte del demonio per far sì che l’altro si voltasse e scagliasse qualcosa in sua direzione. I pronti riflessi del diavolo gli permisero di scansarsi con facilità, ma la curiosità lo pervase quando constatò di aver schivato una moneta, scagliata con la stessa forza di un proiettile.
«Oh, questa cosa sembra molto interessante ~»
«Chi sei, tu?»
«Solo un semplice musicista intenzionato a recuperare il proprio violino ~» rispose canticchiando Hisoka, indicando con il capo lo strumento posto nella custodia che stava alle spalle della creatura, che immediatamente sistemò meglio gli ochhiali sul proprio naso dritto e ben definito.
«Se quest’oggetto ti appartiene, significa che sai anche dov’è Illumi. Parla, e non ti verrà fatto del male»
Nel sentir nominare il compagno di viaggio, il sorriso del demone si allargò selvaggiamente. Doveva essere davvero una preda succulenta se tanto lo si voleva tenere a casa e, il fatto che fosse ferito e chiaramente in difficoltò, quasi a sua completa disposizione, gli stava facendo ribollire il sangue nelle vene. Doveva assolutamente adempiere al proprio piano e non c’era ostacolo che glielo avrebbe impedito.
«Be’, se Illumi vive con gente simpatica come te credo che difficilmente sarebbe ben disposto a tornare ~»
«Ciò che deve fare non ti riguarda. La situazione, con lui, è molto più delicata di ciò che credi. Se mi accompagni da Illumi, la famiglia Zoldyck ti darà una lauta ricompensa» erano parole calme, dettate da una razionalità cauta che ben si addiceva all’aspetto austero dell’elfo, avvolto da un semplice completo nero elegante dai ricami intricati che riprendevano la classica tradizione della sua specie.
«Mmh, e se invece…» gli occhi del diavolo iniziarono a mutare, il ceruleo venne pian piano sommerso dall’aureo mellifluo, così brillante da far venire i brividi «… La mia ricompensa fosse proprio Illumi?~»
Fu questione di pochi attimi, ma bastarono a Gotoh per racimolare altre monete da scagliare contro l’avversario. Quelle iridi così intense poteva appartenere solo una razza, esattamente come l’aura oscura che stava emanando. Iniziò a scagliare quanti più proiettili possibili, che tuttavia vennero intercettati facilmente da una bizzarra barriera rosea che l’altro aveva materializzato tra le sue mani.
«Cosa…-» i suoi erano sensi all’erta e riflessi prontissimi, ma che non bastarono di fronte la furia omicida del demonio, le cui dita in quel momento stringevano due carte, pescate rapidamente dal mazzo in tasca. Vi diede una rapida occhiata, mentre con fulmineità dissolveva la sua energia per poter assalire l’elfo.
Un battito di ciglia, e il pavimento legnoso della stanza già assumeva le sfumature dell’argento più intenso. Le diramazioni di sangue brillavano alla luce del sole, con uno splendore tale che Hisoka rimase ad osservare incantato lo spettacolo ai suoi piedi, con l’altro che si accasciava e che, invano, provava a bloccare il flusso di sangue che defluiva dal taglio in gola.
«Non deludete mai, bambine mie ~» mormorò, osservando i due tarocchi tra le sue mani: cinque di spade e arcano della morte, una combinazione a dir poco sublime.
Il diavolo mosse dei passi, per recuperare il proprio strumento musicale mentre leccava via il sangue dalle carte, poi con sguardo annoiato si rivolse alla propria vittima, ormai morente.
«Non sopravvivrai. C’è del veleno qui sopra, e di solito taglio abbastanza in profondità da creare danni permanenti. È stato un piacere però ~» disse solo, soddisfatto.
Le imprecazioni strozzate e incomprensibili di Gotoh lo accompagnarono fino all’uscio della porta: si stava prospettando un’avventura entusiasmante, e non era nemmeno agli inizi.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4020477