Cercasi amore per la fine del mondo

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Samosa e rabiyan ***
Capitolo 2: *** Minuto più, minuto meno ***
Capitolo 3: *** Hai_Bis0gn0_Di_Me_? ***
Capitolo 4: *** Velvet Buzzsaw ***



Capitolo 1
*** Samosa e rabiyan ***


SAMOSA E RABIYAN



 
"Eravamo insieme, tutto il resto l'ho scordato" [Walt Whitman]


 

Era iniziata così. 
Quando Usopp diceva che era iniziata "così", parlando con Kaya e con Chopper, davvero non sapeva come essere più preciso né come dettagliare il "così". 
Le prime settimane di lockdown restavano confuse nella sua testa, la corsa alle mascherine, all'alcool, al gel per le mani, la riorganizzazione al lavoro, Chopper che se n'era andato da Kaya appunto, per evitare di contagiarlo. 
Usopp non andava d'accordo con la solitudine, con il panico generalizzato, con il fatto di non avere orari e con i fornelli. 
A un certo punto, una sera, era uscito sul balcone mentre il vicino di casa era sul proprio a fumare una sigaretta, sconsolato ma stoico, e avevano iniziato a parlare ed era iniziata così. 
Come Sanji fosse venuto a conoscenza della sua pessima routine alimentare, Usopp non lo ricordava. Usopp però era piuttosto certo che era stato in quel contesto che aveva scoperto che Sanji lavorava nella ristorazione, una delle categorie più colpite dagli avvenimenti in corso. 
Era stato allora, per provare a distrarlo, che Usopp si era sciolto e aveva iniziato a raccontargli sciocchi anedotti di lavoro e vita in generale, fino a trascorrere insieme l'intera serata. 
E il giorno dopo Sanji si era presentato con una scatola piena di cibo per Usopp e una per sé. Usopp aveva provato debolmente a declinare ma era bastata poca insistenza perché accettasse e gli proponesse, per sdebitarsi, di mangiare insieme sui rispettivi balconi e tenersi compagnia. Usopp lo aveva archiviato come un piacevole diversivo nella monotonia imposta dal piombo ambrato, ma era stato smentito quando Sanji aveva riproposto la cena in balcone, allungandogli un'altra scatola, avanzi che sembravano il cibo degli dei. Ed era successo di nuovo, il giorno dopo ancora. E quello dopo ancora. 
Per Usopp, che senza orari era uno stakanovista e mangiava spazzatura che lo avrebbe probabilmente portato a una prematura morte, Sanji era diventato una salvezza. Non solo perché, di fatto, lo nutriva, ma perché Usopp era tornato consapevole del tempo che scorreva, perché lo aspettava puntualmente alle ventuno e trentaquattro e, se aveva ancora del lavoro da sbrigare, lo metteva da parte e proseguiva l'indomani.
Aveva ricominciato a stare all'aria aperta, aveva ripreso a fare una pausa pranzo degna di tale nome, tutto per cucinarsi dei pasti decenti pur di non rovinarsi l'appetito in vista delle prelibatezze che Sanji condivideva con lui giornalmente.
E anche se un grazie a Sanji bastava, anche se, a suo dire, era Usopp che gli faceva un favore perché Sanji odiava sprecare il cibo, Usopp lo voleva ripagare. E lo ripagava nel solo modo possibile, con la sua sciolta parlantina e quelle mezze verità raccontate con così tanta maestria da cancellare le preoccupazioni dalla testa del cuoco, almeno finché non si salutavano per la buonanotte, in genere intorno all'una. 
Prima che se ne rendessero conto, era diventata un'abitudine. Era diventata quotidianità. 
Sembrava strano chiamare quotidianità una cena sul balcone, con addosso la giacca, con due balaustre e mezzo metro a dividerli. 
Ma ognuno aveva il proprio modo per sopravvivere alla pandemia. Per Sanji e Usopp erano anedotti abbelliti e scatole di "avanzi". 
«Samosa?» Usopp sollevò un sopracciglio, osservando il contenuto della scatola di quella sera. Di quante scatole fossero passate per le sue mani, aveva perso il conto. 
«Mh?» Sanji distolse lo sguardo dallo skyline cittadino, immerso nella penombra primaverile e picchiettò via la cenere dalla sigaretta, la sola che ormai fumava a volte senza neanche arrivare alla cicca, contro le quattro che era abituato a trangugiare, nell'arco della serata, quando lui e Usopp si erano conosciuti. «Credevo avessi problemi solo con i funghi» 
«Che mi hai comunque propinato l'altra sera» non riuscì a trattenersi Usopp, incassando con ormai consumata classe l'occhiataccia di Sanji. «E comunque io non credevo faceste cucina etnica» 
«Sono con il pesce, è una mia variante» Sanji si rilassò sulla propria sedia a sdraio, che Usopp lo aveva convinto a comprare, approfittando di un vergognoso sconto dell'ottanta per cento che Usopp si era guadagnato a suon di acquisti online durante l'anno precedente, in scadenza e che non avrebbe utilizzato per niente. Sanji aveva ceduto solo sotto minaccia di non accettare più il cibo che lui gli portava gratis tutti i giorni. «Ne ho fatta qualcuna in più apposta» ammise con noncuranza, come se non fosse sottointeso che aveva pensato a lui mentre cucinava. 
Usopp ringraziò la penombra che, alleata alla sua carnagione scura, era sufficiente per nascondere l'ombra più scura sulla punta del suo naso, e si concentrò sui triangoli di pastella, afferrandone uno per assaggiarlo con sacra attenzione. 
Il guscio esterno, per niente unto, crepitò sotto i suoi denti prima di sciogliersi tra le sue papille, liberando il ripiedo morbido, lievemente piccante e con una punta di fondo appena dolciastra. 
«Porca miseria, Sanji!» Usopp si portò una mano alla bocca, incapace di aspettare di aver mandato giù il boccone per esprimere il proprio estasiato giudizio. «Ma c'è del cocco?» chiese, curioso ed entusiasta di tutto, come era Usopp. Usopp che era un chimico, o forse un unabomber, mancato e che si esaltava per tutto ciò che prevedeva sperimentazione e intrugli. Usopp per cui la cucina era un'arte, e Sanji un artista, ma che minimizzava l'effettiva bellezza del ritratto a carboncino che aveva fatto a Sanji la settimana prima. 
"È merito del soggetto" così aveva risposto agli elogi di Sanji, affogando più che poteva nella propria kefia. Chopper avrebbe disapprovato ed era tutto dire. Ma Usopp era così, bravo a lodarsi finché era tutta una posa, pessimo a credere in se stesso e nelle proprie capacità, che erano tutt'altro che poche. 
Sanji ne era affascinato, in un modo che non sapeva spiegare e non gli interessava spiegare. Gli bastava dividere e condividere con lui la cena e la serata, gli bastavano il suo parere, i suoi consigli, le sue storie. Gli bastava avere una propria dimensione che avesse un senso, in quell'insensata pandemia. 
«Latte di cocco» precisò il cuoco, con un sorriso che mai sarebbe riuscito a trattenere, non con davanti Usopp che trangugiava l'altra metà di samosa e poi si leccava le dita prima di attaccare la seconda. «Capesante, latte di cocco, zenzero e...» 
«Cardamomo» Usopp lo precedette, quasi un pensiero ad alta voce, un'illuminazione improvvisa.
«Esatto» confermò Sanji, con un cenno del capo. 
Usopp mandò giù, ignorando il fremito dalla safena al cervelletto. Doveva essere un caso, era stupido pensare che Sanji avesse messo il cardamomo in un proprio piatto solo perché due sere prima Usopp gli aveva raccontato di come sua madre mettesse quella spezia ovunque, quando suo padre gliene portava di ritorno da uno dei suoi viaggi di lavoro, incapace di centellinarla, nonostante non potessero permettersi di averne in casa sempre visto il costo dell'ingrediente. 
A ripensarci, era strano persino che Usopp gli avesse rivelato tanto. Era un argomento che neanche i suoi più cari amici avevano potuto conoscere così approfonditamente in una sola volta, tranne Rufy che frequentava casa Sharpshooter dall'infanzia ed era come un nipote per Banchina e Yasopp. 
Ma Sanji non era un suo caro amico. Sanji era qualcosa di indefinito che lo stava tenendo a galla in quelle interminabili giornate di lavoro e nulla, che nessuno sapeva quando avrebbero avuto fine. L'onestà gli era dovuta e Sanji la faceva apparire allettante quanto un suo piatto. 
E ciò nonostante, Usopp doveva tenere a mente che non poteva che essere un caso. 
«Sono contento che ti piacciano» la voce di Sanji lo trascinò fuori dai propri pensieri e di nuovo nella realtà. «Le ho chiamate nagai hana samosa» 
«Suona bene» ribattè di getto Usopp e Sanji sapeva che una risposta così rapida da parte sua, significava che era sincera. «Vuol dire qualcosa in particolare?» 
Sanji rimase in silenzio qualche secondo, soppesando la sigaretta tra le dita, prima di decidersi a spegnerla e schiacciarla nonostante fosse poco oltre la metà. «Ha solo un bel suono» replicò, afferrando il calice di vino bianco ed estendendo il braccio nel vuoto che li separava, il busto piegato in avanti. 
Usopp lo imitò, la propria, più economica birra in mano. 
«Alle nagai hana samosa?» domandò e Sanji tornò a sorridere. Chissà cos'avrebbero detto al lavoro se lo avessero visto sorridere così tanto. 
«Alle nagai hana samosa» 


 
***


«Io sono bi» 
Un momento di silenzio si dilatò mentre Sanji metabolizzava la frase semplice che Usopp aveva appena pronunciato. 
«Cosa...»
«Sono bisessuale. Tra il livello quattro e il livello cinque della scala Kinsey per essere precisi. Ho fatto il test perché me lo ha chiesto Kaya, tra l'altro l'ho dovuto rifare tipo cinque volt...» 
Sanji cercò di restare concentrato sul racconto a mitraglia di Usopp, che mascherava splendidamente un nervosismo di cui il cuoco non si sarebbe riuscito ad accorgere comunque, non in quel momento. Era troppo concentrato a cercare di dare un nome a quello che stava provando lui, a cercare di capire perché la nuova l'informazione lo avesse scombussolato così tanto. 
Non era niente che potesse cambiare la sua opinione di Usopp.
«S-Sanji?»
Purtroppo, Usopp smise di parlare che Sanji non era ancora riuscito a trovare una risposta all'annosa questione e cercò rapidamente qualcosa da dire, anche se non aveva sentito praticamente una parola. 
«Quindi...» Sanji scosse il capo e si impose di tornare al suo solito tono neutrale. «Quindi insomma, sei bisessuale ma preferisci le donne?» chiese e quasi si strozzò con la sua stessa saliva. Non sapeva neanche lui che stava per domandarglielo finché non lo aveva domandato e come si incastrava con tutto il resto? 
A giudicare dall'espressione di Usopp, se lo stava domandando anche lui ma per fortuna recuperò prima che il tutto diventasse troppo imbarazzante. 
«N-no, no quello sarebbe il livello uno, io sono praticamente, cioè no, non è proprio vero ma mi avvicino m-molto a essere, ecco, a essere g-g-gay» la voce gli morì in gola, gli occhi a fissarsi le pantofole, il respiro bloccato, in attesa. 
In attesa che Sanji si alzasse, tornasse in casa per non uscire più, non quando c'era fuori anche lui, non portargli più nessun avanzo, non passare più la serata con lui. Non sarebbe stata la prima volta che gli capitava, ed era anche tentato di darsi dello stupido per averglielo rivelato così, quando in fin dei conti non era necessario. 
Ma Sanji gli aveva chiesto un consiglio su una certa Purchan che lavorava con lui e le parole si erano formate praticamente da sole sulla sua lingua e Usopp non si nascondeva, non più, non con Sanji. 
«Ma hai detto che lo hai fatto per Kaya» 
Usopp sollevò la testa di scatto e immediatamente riprese a darsi dell'idiota, ma stavolta per aver pensato che Sanji si sarebbe mai potuto rivelare così infimo. Sanji che invece si era girato completamente verso di lui e aveva negli occhi così tanta fame di sapere, così tanta fame di capire. 
E nella sua voce vibrava qualcosa di simile ad attesa... aspettativa... sper...
«Sì, per la sua tesi» ripeté Usopp, conscio che probabilmente Sanji non aveva sentito la prima volta. «Kaya vuole diventare sessuologa e... cioè io e Kaya non... non in quel senso!» rise Usopp, perché non aveva senso e perché era così sollevato. Non sapeva neanche lui per cosa. «Sì insomma io credevo di avere una cotta per Kaya ma a otto anni e solo perché ho visto dei fiori e ho pensato di regalarglieli perché mi avevano fatto pensare a lei e cioè, io non, io... io preferisco gli uomini!» riaffermò tutto d'un fiato, lo stomaco che sfarfallava come se lo avesse appena urlato al mondo intero anziché a Sanji. 
Sanji che respirava piano, come se stesse calibrando la sua stessa energia per sostenere il peso di qualcosa che lo faceva apparire incredibilmente... leggero. 
«Mi hai chiesto un consiglio riguardo a questa Purchan e v-volevo ecco... essere chiaro» Usopp esalò, sfregandosi la punta del naso.
Sanji sbatté le palpebre lentamente, rimettendosi più dritto dalla posizione proiettata in avanti, verso la balaustra, verso Usopp, senza però staccare gli occhi da lui. 
«A dire il vero era un consiglio per mio fratello Yonji. Avrei dovuto specificarlo ma è con lui che Purchan ha litigato e non so come aiutarlo perché l'impulso è quello di prenderlo a calci per averci discusso e dubito che sarebbe di aiuto e tu sei così pieno di risorse e ho pens...»
«Sanji! Sanji, respira!» Usopp si sporse verso di lui ma Sanji neanche si era accorto si fosse alzato e avvicinato alla balaustra e quando lo vide estendere il busto nel vuoto, non riuscì a trattenersi, scattò verso di lui e allungò le mani per prenderlo, afferrarlo, fare qualcosa. 
La mano di Usopp si chiuse sul suo avambraccio, una stretta sicura ma non tale da non poter far scorrere le dita giù, lungo il suo polso e fino al suo palmo, incastrando le loro mani con un sorriso. 
«Posso provare ad aiutarti, anche se non ho esattamente esperienze di prima mano» 
Sanji si fece violenza per staccare gli occhi dalle loro mani, per ignorare la sensazione che gli crepitava nelle vene, metterla da parte fino a fine serata, per rifletterci con calma, quando davvero non avesse avuto di meglio da fare. 
Alzò gli occhi su Usopp e annuì piano, il braccio ancora teso, le dita ancora contratte in una presa che non voleva allentare.
Non sapeva cosa stavano facendo. E, per il momento, non gli serviva saperlo. 

 

***


Poi le cose erano cambiate. 
Le cose erano cambiate e Usopp sarebbe dovuto essere felice. 
Quel cambiamento significava che, forse, dopotutto, si poteva trovare un modo per convinvere con la pandemia. 
Quel cambiamento era non solo inevitabile ma auspicabile. 
Quel cambiamento avrebbe impedito al ristorante di Sanji di fallire e Usopp sarebbe dovuto essere felice. 
E Usopp era felice. Per Sanji. 
Per se stesso provava un'egoistica prostrazione. 
Erano stati tre giorni infiniti. Tre lunghe, interminabili mattine, seguite da tre lunghi, interminabili pomeriggi, durante i quali Usopp aveva fatto ciò che sempre faceva - lavorare, videochiamare i suoi, videochiamare Rufy o Perona, aggiornarsi con Kaya e Chopper su come girava in ospedale - ma senza aspettare le ventuno e trentaquattro. 
Si era sforzato di continuare a cucinarsi dei pasti per lo meno accettabili, ovviamente aveva controllato l'orologio, appurando che il tempo scorreva con lentezza esasperante, ma senza aspettare le ventuno e trentaquattro. 
Non più. 
Finalmente i ristoranti avevano potuto ricominciare a lavorare, non solo con l'asporto, e Usopp era felice per Sanji. 
Sperava che anche Sanji lo fosse, immaginava che lo fosse, era probabile che lo fosse. 
Ma non poteva averne conferma, perché erano tre giorni che non vedeva Sanji. Preso come era stato ad aiutare al ristorante per attrezzarsi e organizzarsi secondo le nuove norme di sicurezza, Usopp non era neanche certo che fosse rientrato a dormire e, comunque, non erano affari suoi. 
Anche se aveva passato un'ora sul balcone ogni sera, tra mezzanotte e l'una, e mai una luce si era accesa nell'appartamento vicino, non erano affari suoi. 
Anche se gli mancava e non gli sembrava più di avere tanto uno scopo nella vita al di fuori del lavoro, che rischiava di ricominciare a fagocitarlo, non erano affari suoi. 
Era un suo problema ma non affari suoi. 
Aveva il legittimo dubbio che qualsiasi cosa fosse che lo legava a Sanji non fosse molto sana, ma aveva anche il legittimo dubbio che non se ne sarebbe dovuto preoccupare poi più di tanto, ora che Sanji aveva ripreso la propria routine. E non che acussasse Sanji di essersi disinteressato a lui, non avrebbe mai potuto, non lo pensava nemmeno e capiva. 
Usopp capiva ed era felice per Sanji. Se solo non gli fosse mancato così tanto. 
Si sentiva ridicolo e patetico. E per sentirsi un po' meno ridicolo e patetico quella sera, la terza, si era imposto di non uscire sul balcone, né di continuare a lavorare. Per sentirsi meno ridicolo e patetico aveva rispolverato la sua vecchia consolle, e stava giocando a un videogame il cui villain di turno lo stava riducendo in poltiglia.  Imprecando a voce bassa, cercò di recuperare ma neanche ricordava i comandi e, sconfitto, osservò lo schermo diventare il nero sfondo per la sfavillante scritta Game Over. 
La voglia di scaraventare il joystick contro la tivù, e la tivù con la consolle ancora attaccata giù dalla finestra, lo attanagliò per un lungo attimo. Scosse energicamente la testa. 
Era patetico. Ridicolo e patetico. Neanche Sanji fosse partito per la guerra! Abitavano uno accanto all'altro, poi! Prima o dopo si sarebbero rivisti no?!
In uno slancio di rabbia agitò il joystick nell'aria, rischiando di staccarlo dalla consolle, e si fermò per il suo del campanello. Accigliato, Usopp lanciò un'occhiata alla porta, che intravedeva dalla sua posizione sul pavimento, e poi all'orologio. 
Le ventitré e diciotto. 
Con un sospiro si sollevò e avviò all'ingresso, si accorse di non avere la mascherina, tornò indietro a recuperarne una poi di nuovo all'ingresso. Vista l'ora doveva essere la vecchia Nyon, che aveva inconsapevolmente cambiato l'input d'ingresso e ora non capiva perché la sua televisione fosse diventata tutta nera. 
Di nuovo. 
«Nyon, buonasera! Mi lasci indovinare, la televisione è diventata tutta... nera...» l'espressione scettica di Usopp virò all'incredulo e poi al preoccupato. 
Non perché fosse strano che Sanji fosse lì, sul pianerottolo dei loro appartamenti. Neanche perché Sanji avesse suonato alla sua porta, era stato Usopp per primo a sperare di rivederlo. 
Ma, al di là della dissonanza cognitiva di trovarlo alla porta, senza niente a dividerli, dopo settimane di comunicazione solo attraverso i balconi, Sanji aveva l'aria di un uomo che aveva appena seminato il diavolo alle sue calcagna. 
Il fiatone, la fronte imperlata di sudore, il tremito che lo scuoteva che sarebbe potuto passare inosservato se non per la scatola che ballava la conga tra le sue mani.
«San?» 
«È una torta» mormorò nella mascherina con il respiro grosso, gli occhi puntati sul busto di Usopp. «Purchan l'ha chiamata torta rabiyan, base biscotto, ganache di cioccolato bianco e fragole ed è tutta decorata, ricorda un tappeto orientale» 
«Sanji, che ti prende? Guardami!» Usopp avanzò di mezzo passo e Sanji indietreggiò di uno. 
Un brivido scosse Usopp. Okay, okay non stava andando in panico, assolutamente no. Non lui, il grande Usopp Sharpshooter. 
«Ha detto che era la torta più adatta per... per questo...» la voce morì nella gola di Sanji, il cuoco sospirò mandando Usopp ancora più in confusione. 
«Questo?» domandò con cautela. 
«Sono stati tre giorni infernali, Usopp. Tu... io... è un casino là fuori, sai? Ed è stato un inferno, con le distanze, la sanificazione, l'ansia di sbagliare qualcosa, la mascherina e in tutto questo il mio unico, ridodante pensiero è stato che non sarei tornato la sera da te» Sanji si lasciò scappare una risata, che non era poi molto divertita quanto più sardonica, al pensiero che alla fine i commenti i colleghi li avevano fatti perché di colpo aveva smesso di sorridere. 
Di nuovo. 
Neanche si era accorto di aver iniziato a sorridere sempre, anche quando Usopp non era in giro. 
Prese un profondo respiro, e alzò gli occhi a incrociare quelli del moro, che aveva tutta l'aria di essere in apnea. 
«Sono bisessuale Usopp. Sul livello uno della scala Kinsey da quello che dice il test che ho fatto online, che non penso sia attendibile come quello che hai fatto tu, e poi all'inizio credevo che si scrivesse come il tipo di Harry Potter, sai, Kingsley, e non è che mi servisse davvero farlo, cioè lo avevo già capito in cuor mio che la mia sporadica omosessualità è così sporadica perché è limitata a te» Sanji si fermò per mandare giù un po' di saliva e il brevissimo attimo di silenzio si riprodusse nella testa di Usopp come un boato dietro l'altro, nel realizzare che quella di Sanji era una confessione per lui. 
Per. Lui
«Io lo so che non ci possiamo fare niente e... cazzo, non so neanche se la cosa è reciproca io...» Sanji si passò le mani sul viso, neanche conscio che Usopp gli aveva tolto la scatola con la torta e l'aveva appoggiata sul primo ripiano disponibile. «I nostri orari non coincidono e io sto a contatto con il pubblico e tu no e non posso chiederti di aspettare fino alla fine di questa maledetta pandemia, non so cosa fare Usopp, io n...» 
Lo strattone lo colse impreparato, così come la porta che si richiudeva violenta alle sue spalle, ma mai quanto le dita che gli abbassavano la mascherina e le labbra che si posavano sulle sue. 
Scariche elettriche schioccarono nella sua testa e nella testa di Usopp, ancora e ancora e ancora, ad ogni tocco, morso, respiro. 
Poi un formicolio sulle labbra umide e di nuovo a contatto con l'aria e non era abbastanza, quel bacio non era neanche lontanamente abbastanza dopo settimane di inconsapevole attesa e desiderio. Ma Sanji desistette dal ributtarsi su di lui quando Usopp trovò un po' di voce rauca per dirgli «Si può fare che torni da me alla sera e ci svegliamo insieme alla mattina, se vuoi» 
E Sanji voleva, oh se voleva, e voleva quel sorriso e voleva un altro bacio e...
«O-okay» mandò giù senza fiato e Usopp annuì. 
«Okay» rispose anche lui, con un sorriso che aveva qualcosa di strano. Come nervoso, congelato. 
Terrorizzato? 
«Ora tu a-accomodati pure» Usopp si staccò da lui, barcollando appena mentre si passava una mano sulla fronte. «Io vado ad avvisare Chopper che ho b-baciato il mio neo-fidanzato che sta a contatto con la gente e che probabilmente d-domani morirò di piombo ambrato» 
«Cos... Usopp! Usopp dai! Non farla così tragica! Usopp!» 




 
 
 

Angolo dell'autrice:
Ho avuto l'idea per questa raccolta due giorni fa, leggendo un articolo, e sono rimasta folgorata, o forse fulminata, e quindi eccomi qui. È una raccolta senza grandi pretese, per dare spero un po' di leggerezza a chi vorrà leggerla. 
Ringrazio di cuore Zomi per il suo sempiterno sostegno, la pazienza e i consigli. 
"Nagai hana" vuole dire "naso lungo" in giapponese. Perché mai Sanji dovrebbe usare il giapponese per dare il nome a un proprio piatto non lo so, ma suonava bene e non mi pento di niente. Rabiyan invece è il tappeto volante di Pudding, non so se sia un nome sensato per una torta ma mi piaceva troppo e non ho resistito. 
Il titolo della raccolta è impunemente preso dal film omonimo (ma che parla di tutt'altro) del 2012, che consiglio nella sua romantica malinconia. 
Un bacio grande a tutti e buon San Valentino! 
Page. 

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Capitolo 2
*** Minuto più, minuto meno ***




MINUTO PIÙ, MINUTO MENO



 
"La felicità è un'abitudine. Coltivatela" [Elbert Hubbard]


 

Per Perona, le abitudini erano importanti. 
Le davano continuità, sicurezza, controllo. 
Erano capisaldi di cui non riusciva a fare a meno, come dormire rivolta alla finestra, svegliarsi almeno un quarto d'ora prima di alzarsi, non farsi mai la doccia al mattino e truccarsi, anche se non poteva uscire di casa, come nessun altro, dopotutto. 
A Perona, le continue modifiche alle normative per contenere il contagio del piombo ambrato, con cadenza bisettimanale, stavano rischiando di portarla sull'orlo della pazzia e se ancora riusciva a mantenersi sana, era merito della sua routine. 
A Perona, le abitudini servivano. 
Le pause attentamente scandite, lo skincare della mattina e della sera, il giro dopo pranzo nel giardino comune, la veloce telefonata a casa sul balcone nel tardo pomeriggio. 
Per Perona, le abitudini erano una salvezza ed erano intoccabili. 
Non era come se rispettasse pedissequamente un qualche schema appiccicato al frigo. Semplicemente le azioni si susseguivano naturalmente e le davano un senso di equilibrio, di cui Perona non poteva fare a meno, a maggior ragione in un momento tanto incerto. 
C'era da dire che Perona rientrava in quella percentuale di popolazione che non aveva poi patito molto l'inizio della pandemia e del lockdown. Non era stare a casa o da sola a crearle problemi, quello che Perona odiava erano le disposizioni in continuo cambiamento, che rendevano complicato organizzarsi pure per la spesa senza scombinare il suo schema giornaliero. 
Certo il trascorrere dei mesi si faceva sentire, essere fuori sede quello sì che le pesava vista la situazione, e le avrebbe fatto piacere riuscire a incrociare Monet un po' più spesso, cenare con lei e chiacchierare, ma Monet non si sapeva più neanche che turni facesse. Tornava quando tornava e neanche sempre, forse si era trasferita permanentemente da Yamato e Perona neanche lo sapeva. 
Ciò nonostante, Perona doveva ammettere di essere più fortunata della media. Una bella doccia e un po' di Netflix dopo lo studio in genere le bastava per scacciare l'inquietudine, se proprio non funzionava ripiegava su una videochiamata, che comunque non sostituiva quella del tardo pomeriggio ai suoi, che stava concludendo proprio in quel momento. 
«Buona serata allora, vi voglio bene» 
«Anche noi. Sei bellissima tesoro, tutta la mamma» 
«Boa non dovrei essere io a dirlo?» 
«Drag se aspettiamo te per un complimento esplic...» 

Perona chiuse la telefonata sul lieve diverbio che avrebbe probabilmente condotto i suoi genitori tra le lenzuola e si girò di spalle alla balaustra, scuotendo appena il capo. Si perse qualche istante a fissare il salotto attraverso la finestra, Kumachi messo a sedere di fianco alla coperta con il teschio messicano, suoi fedeli compagni di quelle serate. 
Si riscosse dopo qualche istante, dandosi una lieve spinta per rientrare e posando una mano sulla bat box appesa subito fuori dalla cucina. «Che tempi ci tocca vivere, Padron Moria» mormorò, la voce bassa per non disturbare il suo pipistello, non esattamente domestico e neanche esattamente selvatico. 
Scivolò in casa, sbirciando distrattamente l'orologio sopra il frigo, e si sorprese di vedere che erano quasi le sette. Era stata al telefono più del solito ed era mercoledì. Sarebbe arrivato a momenti. 
Il citofono trillò un secondo dopo. Perona richiuse la portafinestra e afferrò il piatto posato sul tavolo mentre raggiungeva l'ingresso con il suo passo quasi fluttuante. Pigiò il tasto che apriva il portone senza darsi pena di rispondere, afferrò la maniglia e, sentito l'ascensore rollare giù dalla propria tromba verso il pian terreno, prese a contare mentalmente prima di aprire la porta con impeccabile tempismo. 
L'uscio scricchiolò sui cardini mentre l'ascensore scampanellava il proprio arrivo, e un refolo di aria fredda risaliva dalle scale. Ottobre alle porte si faceva sentire. 
«Buonasera» 
Perona lo fissò scettica dalla porta, perché lo fissava sempre scettica ogni volta che lui usava quel tono cantilenante e vagamente suadente per salutare, e cioè sempre. Attese che l'ascensore si fosse almeno richiuso prima di offrire il piatto. 
«Ho fatto le focaccine» annunciò e seppe che Ace stava sorridendo quando i suoi occhi divamparono per un attimo prima di ridimensionarsi a un luminoso bagliore. 
Perona era affascinata da come l'uso della mascherina l'avesse resa così attenta e consapevole di cosa succedesse negli occhi delle persone. 
«Perona così mi vizi. Potrei abituarmici» 
«Se non le vuoi basta dirlo» ribatté subito, arcuando le sopracciglia. 
Per tutta risposta, Ace allungò una mano per farsi consegnare una focaccina, senza contaminare le altre presenti nel piatto, e si sfilò la mascherina da un'orecchio. Perona fece un passo indietro, compensando con più distanza il fatto di non indossare la mascherina, mentre rifletteva sulle parole di Ace. 
Potrei abituarmici.
Perona sapeva che tutta la situazione con Ace non rientrava nell'ordine della normalità, come niente da quando il piombo ambrato aveva iniziato a girare per il mondo. 
Il fatto era che, normale o no, lei ci si era già abituata eccome. Se l'era concesso una volta appurato che Ace faceva sempre lo stesso turno il mercoledì e che la consegna di fine giornata era sempre la sua, tanto che aveva iniziato a sospettare che vivesse lì vicino. 
La spesa online era comoda, per lei forse necessaria, e Perona inizialmente si sarebbe accontentata di farsela consegnare sempre lo stesso giorno e sempre verso sera. Non aveva osato sperare sempre dalla stessa persona e sempre alla stessa ora. 
E si sarebbe limitata a ringraziare il karma se Ace non fosse stato così... loquace. E carino. Troppo curioso, perfino invadente. Ma carino. 
Aveva un naso carino e un modo di fare carino. La sua voce non era qualcosa che Perona avrebbe definito carina ma non perché la trovasse poco piacevole e le lentiggini... quelle erano sfortunatamente davvero molto, troppo, eccessivamente carine. 
E sarebbe dovuto essere illegale per Ace girare con la mascherina sagomata che lasciava gli zigomi scoperti. D'altronde, se Ace non fosse stato così loquace, sarebbe rimasto per sempre "Il rider con le lentiggini". 
E se Ace non fosse stato così invadente - curioso, invadente, era un dibattito ancora aperto - Perona non gli avrebbe mai rivelato il proprio nome, non avrebbe iniziato a parlarci, non si sarebbe abituata
Come fossero passati dai cortesi "come stai" a raccontarsi eventuali anedotti degni di nota delle rispettive settimane a Perona non era chiaro. Era successo in modo naturale, come tutto accadeva con le sue abitudini. E ciò nonostante era importante chiarire che le focaccine le aveva cucinate per sé. 
Per sé. Non per Ace. 
Semplicemente, potendo scegliere tra oggi e domani, aveva scelto oggi perché era mercoledì. 
Fine della storia. 
«Sono buonissime, grazie» 
Perona si riscosse e rialzò gli occhi appena in tempo per cogliere uno scorcio di sorriso, mentre Ace risistemava correttamente la mascherina. 
«Allora, qualcosa da raccontarmi?» chiese, entrando in casa. Sganciò le cinghie dello zaino termico e lo depose a terra per aprirlo, mentre Perona socchiudeva la porta. 
«A Padron Moria piacciono le prugne» replicò, mentre convalidava la consegna dal proprio cellulare. 
Ace la guardò da sotto in su, ancora chinato per estrarre i sacchetti della sua spesa. «Settimana poco entusiasmante ah?» 
Perona fece spallucce. «Lockdown. E tu? Successo niente?» 
«Solo una tipa ieri che ha inserito l'indirizzo sbagliato e poi ha sclerato perché ho consegnato in ritardo. Ordinaria amministrazione» cercò di minimizzare con una scrollata di spalle e un sorriso ma a Perona non era sfuggita la scintilla di tensione nei suoi occhi. Se era vero che tutto il mondo era vessato dal lockdown, Ace era decisamente una delle categorie più stressate del momento, a contatto con gente sempre più nervosa, sempre meno gentile, con l'obbligo di essere sempre cortese, sorridente, paziente. 
«Ha fatto reclamo?» 
«Devo rispondere?» Ace sollevò un sopracciglio, mani sui fianchi. 
«Stronza» la parola le sfuggì attraverso i denti serrati, gli occhi dardeggianti che fissavano il vuoto. 
«Ehi!» Ace scoppiò a ridere dopo un momento di incredula interdizione. «Tranquilla! Mi sono preso una lavata di capo tutta telefonica e la cosa è morta lì» ammiccò verso di lei. «Non che non mi faccia piacere averti come guardia del corpo ma non voglio che ti preoccupi dove non serve. Hai già l'università che ti fagocita» 
Il tono era leggero ma i movimenti tradivano molta più stanchezza di quella che dava a vedere e Perona provò uno strano moto di qualcosa, che dopo due settimane cominciava a identificare come un non meglio definito impulso di invitarlo a cena. 
«Beh io ora levo le tende, scusa per l'intrusione. Ci vediamo mercoledì prossimo» 
«Aspetta!» Perona lo fermò sul pianerottolo prima di rientrare in cucina e aprire un cassetto alla ricerca di un sacchettino di carta alimentare, dove fece scivolare cinque focaccine, prima di sigillarlo e, tornata all'ingresso, tenderlo con cura a Ace. 
«Uh?» 
«Le puoi mangiare mentre ti prepari la cena» spiegò senza guardarlo, ma anche così si ritrovò quasi acceccata dalla luce che emanava da Ace. 
«Grazie Perona!» 
«Non è niente di che. A mercoledì» borbottò lei, richiudendo la porta. 



 
***

 

Era stato tra il dodicesimo e il quindicesimo mercoledì che era successo, e Perona sapeva che non andava affatto bene. 
Poco importava che poi Usopp l'avesse rassicurata, Usopp era ancora nel pieno della fase luna di miele con quel Sanji della porta accanto, Usopp non era attendibile. 
Ma lei neanche era tutta questa lucidità al riguardo. 
Stavano parlando, o meglio lei stava animatamente raccontando a Ace di un'assurda discussione avuta quella mattina durante una lezione su zoom, iniziata come un dibattito e finita a male parole. Ora delle sette, Perona era ancora talmente incredula per l'accaduto che, appena era arrivato, aveva raccontato tutto a Ace, come un fiume in piena. 
«Ma questa gente fa l'università?» domandò Ace incredulo. 
«Sì!» confermò Perona, esasperata. 
«Io pensavo che per fare l'università si dovesse essere intelligenti» 
«Esatto!» Perona lo indicò a braccio teso, grata che avesse colto, grata di avere qualcuno accanto che la capisse. «Santa merda secca, come sono nervosa» mormorò Perona, massaggiandosi le tempie. «E ho anche finito Bly Manor ieri sera» sospirò sconfortata. 
Ace si accigliò, perdendo per un attimo lo sguardo nel vuoto, a inseguire un pensiero. «Un mio amico, quello che fa il designer, non so se hai presente...» 
«A-ah» confermò Perona, massaggiandosi lo scalpo a occhi chiusi per rilassarsi. 
«Mi ha parlato di un film su Netflix, un horror con le gallerie d'arte. Velvet qualcosa. Magari puoi provare a vedere quello stasera» 
Perona socchiuse gli occhi, riflettendo sulle parole del rider. Non era una cosa usuale proporre un horror per una serata di relax e Perona si stupiva ancora di quanto Ace l'avesse inquadrata bene. 
«Grazie» la voce morbida e le labbra piegate in un sorriso dolce che svanì lentamente dal suo volto, quando Perona si rese conto della situazione. 
Perché, che cosa ci faceva Ace seduto al suo tavolo? Da quanto stavano effettivamente parlando e soprattutto...
Dominandosi per continuare ad apparire controllata, Perona si guardò casualmente intorno e no, non se l'era immaginato. 
Ace le aveva davvero dato una mano a mettere via la spesa mentre la ascoltava blaterare. Era l'unica spiegazione logica per cui, tutto quello che andava nei vani più alti dell'eccessivamente alta dispensa non si trovava sparpagliato sul tavolo o ancora nei sacchetti a terra. 
In realtà, ora che ci pensava attentamente, ricordava di avergli indicato lei dove mettere cosa. 
Non andava affatto bene. O forse sì? 
Ace appariva talmente a proprio agio seduto al tavolo della cucina di casa sua, che il dubbio era più che legittimo. Sembrava così... così... giusto. 
Perona si ritrovò a respirare pianissimo, le labbra schiuse e la familiare sensazione che montava dentro di lei. 
«Ace...» 
Ti va di restare per cena?
La suoneria del suo stesso cellulare la fece saltare in aria come un petardo e, tra lo spavento e la confusione per quello che stava per succedere, - anche se non stava per succedere niente, niente! Stava solo per fare una domanda, una semplice e cortese proposta senza nessun significato profondo! - Perona rispose, praticamente in automatico. 
Era Usopp. Che ovviamente, come prima domanda, di rito, le chiese se disturbava e il silenzio era tale che le parole arrivarono senza fatica alle orecchie di Ace. 
Perona lo vide con la coda dell'occhio alzarsi e avrebbe voluto dirgli di aspettare, di restare, urlarglielo quasi. La violenza della sua stessa reazione interiore la lasciò così interdetta che quando Ace le fece capire a gesti che andava, a malapena riuscì ad alzare la mano per salutarlo. 
Fu solo quando la porta si chiuse che Perona riuscì a sbloccarsi. 
«Merda» sibilò a denti stretti. 
«È un brutto momento?» 
«No» sospirò Perona. «È solo che, ecco... quanto tempo hai? Okay, allora, è che c'è questo rider che...» 
Usopp l'avrebbe rassicurata, dicendole che forse doveva provare a vederla da una prospettiva differente. 
Ma Usopp, doveva tenerlo a mente, non era attendibile. 



 
***
 

Comunque, poi, Perona ci aveva provato, a vederla da un'altra prospettiva. Il fatto che Usopp vivesse al settimo piano della mesosfera da circa cinque mesi, magari lo portava a minimizzare la questione ma non lo aveva reso improvvisamente stupido o meno saggio. E, in effetti, Usopp aveva la sua parte di ragione. 
Che il suo rapporto con Ace fosse strano, era innegabile. Era anche vero che buona parte delle riserve di Perona erano autogenerate. 
Si teneva a distanza - metaforicamente, quella fisica era spiegata in plichi e plichi di decreti e normative -, perché non lo conosceva abbastanza da capire quanta confidenza poteva concedersi con lui. E non lo conosceva abbastanza da capire quanta confidenza concendersi, perché si teneva a distanza. 
Ecco perché il mercoledì successivo l'avvenimento che aveva soprannominato "L'inspiegabile incidente", Perona aveva deciso di proporre a Ace un impegnativo ma non troppo scambio di contatti. 
Telefonici. 
Monet aveva sottolineato con dovizia di malizia e soddisfazione quanto suonasse ambiguo se non lo specificava. Doveva assolutamente ricordarsi di specificarlo. 
Si morse il labbro inferiore mentre ricontrollava l'ora sul cellulare stretto in una mano, le braccia incrociate, l'altra mano che picchiettava a fior di dita sulla coscia opposta e Kumachi stretto nell'intreccio. 
Erano quasi le sette e lei era mortalmente agitata. Il che era perfettamente normale. 
Era gelosa della propria comfort zone, faticava a lasciar entrare chiunque, ergo era normale che fosse agitata. 
Ed era di conseguenza normale che il suono del citofono fosse bastato a farla sobbalzare, facendo scivolare Kumachi sulle sue ginocchia. «Non guardarmi così» sibilò all'orsacchiotto zombie, prima di sistemarlo con cura sul divano, prendere un bel respiro e andare ad aprire, senza rispondere com'era ormai abituata. 
Aprì la porta e ripeté mentalmente, per l'ennesima volta, quello che aveva intenzione di dirgli.
Era un discorso facile, conciso e diretto e lasciava spazio a più di un semplice sì o no. Anche se avesse declinato, Ace avrebbe trovato il modo di risponderle senza deluderla, ne era certa. 
Ne era certa perché, insomma, era di Ace che si parlava. 
«Buonasera» 
Ma purtroppo non era Ace quello che stava uscendo dall'ascensore. 
Perona fissò l'uomo corpulento davanti a lei, spalle larghe, cofana di capelli castani e un casco da moto in mano. 
Non lo aveva mai visto. Sbatté le palpebre un paio di volte ma ne era sicura. Non lo aveva mai visto, non sul suo pianerottolo per lo meno, neanche nel condominio in generale in realtà, e Perona avrebbe voluto non capire cosa ci facesse lì, perché avesse uno zaino termico in mano e perché fosse rivolto verso di lei, in attesa. 
Se fosse stata un po' meno interdetta, avrebbe probabilmente controllato che Ace non fosse nell'ascensore intento a farle uno scherzo. 
«Tu non sei Ace» 
Il rider si passò pollice e indice lungo la mascella squadrata, giungendo le dita sul mento. «No in effetti. Sono Satch» le fece l'occhiolino. «È un piacere, lei è la signorina Mihawk, giusto?» 
Perona annuì, le labbra strette e il respiro non proprio regolarissimo. 
Dov'era Ace? Quella non era la sua... la loro routine! Chi era quel tizio? E dov'era Ace?
«Qualcosa non va?» 
«Che?! No, no va tutto bene!» Perona rispose più piccata di quel che avrebbe voluto, estrasse il cellulare, convalidò la consegna e allungò le braccia per farsi consegnare i due sacchetti. «È stata solo una lunga giornata. Un'altra» 
«La capisco. Questo lockdown...» 
«Già» ribatté asciutta Perona, ritirandosi in casa. «Allora buona serata e grazie per la consegna» 
«Si figuri, a lei!» la salutò Satch, con un altro occhiolino, che Perona stava già richiudendo.
Si appoggiò di spalle e chiuse gli occhi, il cuore che batteva all'impazzata. 
Calma. Doveva stare calma. Non era per forza successo qualcosa. 
«Merda secca!» 



 
***
 

Il mercoledì successivo, alle sette minuto più minuto meno, il citofono suonò puntuale come sempre. Perona rispose. 
Era di nuovo Satch. 
Perona ritirò la spesa sul pianerottolo. 



 
***
 

«Se si fosse licenziato mi avrebbe avvisata»
«M-mh» mormorò Monet, continuando ad amalgamare la ghiaccia per guarnire i biscotti. 
«Ho pensato che avrebbe potuto prendere il mio contatto dai file di consegna» ammise Perona, lanciando un'occhiata di striscio alla sua coinquilina, per poi sospirare, girando gli occhi al soffitto. «Telefonico, il contatto telefonico. E detto così non suonava ambiguo» 
«Punti di vista» ribatté Monet rubando qualche goccia di cioccolato, il sorriso famelico. «Ad ogni modo, credo non sarebbe legale ma sì, avrebbe potuto. la ghiaccia è pronta» 
Perona estrasse la seconda infornata, posò la leccarda sul piano cottura, sfilò il guanto da forno e si avvicinò al tavolo su cui i biscotti della prima infornata aspettavano di essere decorati. Afferrò con entrambi le mani il bordo del tavolo, le braccia tese e il capo chino mentre sospirava. 
«Che altra spiegazione potrebbe esserci?» si arrese a chiedere. 
«Magari lo hanno obbligato a smaltire le ferie» considerò Monet, prendendo un fantasmino alla zucca e ponderando se decorarlo o assaggiarlo. «Oppure...» 
«Oppure?!» Perona si raddrizzò, speranzosa. 
Monet continuò a riflettere, mentre addentava il biscotto. «In realtà non mi viene in mente altro, Perona, mi dispiace» 
Perona sospirò di nuovo. «Non dispiacerti. Probabilmente è come dici tu, sarà in ferie» 



 
***
 

Il terzo mercoledì a fila che Satch si presentò puntuale a casa sua, Perona decise di farlo accedere almeno all'ingresso e che Ace era stato cacciato. Era la spiegazione più logica. Perona ci aveva pensato e ripensato ed era la spiegazione più logica del perché Ace fosse sparito nel nulla e non avesse cercato un modo per contattarla. 
Lo avevano licenziato loro, in tronco, e Ace non aveva fatto neanche in tempo a procurarsi il suo numero. 
Perona ne era certa. Era sicuramente andata così. 



 
***
 

I social non l'avevano aiutata. Ace era un nome non comune ma diffuso, Perona non conosceva altre informazioni personali, solo che faceva il rider, non sapeva precisamente di che anno fosse né i nomi dei suoi amici. 
Sapeva che c'era un designer, un cuoco, che aveva un fratello ma di nomi neanche l'ombra. 
Neanche di foto ne aveva trovate.   
Perona era ufficialmente a corto di risorse e pronta a giocarsi la sua ultima carta. Era mercoledì, il quarto da quando Satch aveva iniziato a portarle la spesa, erano quasi le sette e lei era decisa come un'Erinni all'Inferno. 
Satch poteva sapere qualcosa, o poteva conoscere qualcuno che poteva sapere qualcosa. Non era un novellino in quel lavoro, quindi per un periodo non meglio quantificabile era stato collega di Ace. Magari si conoscevano, magari Satch aveva un mezzo per metterla in contatto con lui.
Il citofono trillò nell'ingresso, Perona si staccò dal muro del balcone. L'idea di chiedere a Satch informazioni su Ace, e il suo numero, l'idea di confessare a Satch, o a chiunque, che voleva ritrovare Ace la metteva terribilmente a disagio, ma doveva farcela. 
Era importante. Era davvero davvero importante. 
«Andiamo a fare quello che si deve fare, Padron Moria» sussurrò, posando la mano sulla bat box nel passarci davanti. Con passo più fermo della sua convinzione, raggiunse l'ingresso e aprì senza rispondere. 
L'ascensore arrancò fino al piano con lentezza esasperante e Perona raccolse il coraggio a quattro mani quando si aprì con il suo tipico scampanellio. 
«Ehi ciao!» 
Per cinque, infiniti, immobili secondi, Perona smise di respirare. Poi, senza nessun preavviso neanche per se stessa, si sparò in avanti e lanciò le braccia al collo di Ace. 
«Ehi!» esclamò lui, con un'incredula risata, mentre si piantonava con i piedi per restare in equilibrio, afferrandola istintivamente per i fianchi. «Che accoglienza!» 
Perona inspirò a fondo, concentrata sul proprio corpo che aderiva a quello di Ace, come un coenzima nel suo sito. Si stava così bene lì, se solo...
«Non ho la mascherina» Perona realizzò di colpo e cercò di districarsi da lui ma Ace aumentò la presa su di lei. 
Perona non aveva idea di cosa stesse facendo, sul pianerottolo, ad occhi chiusi, appesa al ragazzo che le consegnava la spesa da mesi. Sapeva solo che la tromba delle scale era gelida e Ace era caldo come una stufa. 
«Stai» mormorò, affondando con il naso nelle ciocche rosa. «Tanto l'ho appena fatto» 
Perona riaprì gli occhi di scatto, il fiato sospeso. 
«Come?» riuscì a distanziarsi il necessario per guardarlo in volto. «Hai f... hai avuto il piombo ambrato?» domandò con malcelata agitazione. 
Ace batté le palpebre, gli occhi pieni di confusione. «Non lo sapevi?»
«Credevo ti avessero licenziato...» 
Come aveva potuto non pensarci? Era la cosa più logica, era così ovvio, era così plausibile e Monet... Monet ci aveva sicuramente pensato, perché non le aveva detto niente? Oh ma chi voleva prendere in giro, sapeva benissimo il perché! Sadica di una coinquilina! 
«Ero in quarantena. Satch ti doveva avvisare e mi ha detto che non avevi chiesto niente di me» 
Il cuore di Perona le salì in gola mentre sgranava i suoi già enormi occhi. «Beh è v-vero... ma non sapevo che fossi in isolamento! Satch non mi ha detto nulla!» 
Ace aprì e richiuse la bocca dietro alla mascherina, per poi serrarla e squadrare la mascella. 
«Bastardo. Chissà come starà gongolando» 
«Ace?» 
«Mi dispiace, Perona, io...» Ace la rimise a terra e si passò due dita sugli occhi mentre con l'altra mano sganciava esperto lo zaino. «Satch è uno dei miei più cari amici. Con questa situazione al lavoro gli girava male e così ho proposto al capo di assumerlo a chiamata, per tamponare i colleghi che devono chiudersi in casa per la quarantena» 
«Sì ma perché non ci ha detto niente?» 
«Perchè me la mena da settimane che dovrei smetterla di girarci intorno e invitarti a uscire. Avrà scomesso sulla tua reazione e sperato che mi avrebbe sbloccato» 
A Perona non piaceva essere prevedibile. Per una con una routine tanto scandita e ripetitiva era tutto dire, ma a Perona non interessava essere coerente. A dirla tutta, in quel momento non le interessava neanche non essere prevedibile o che Satch l'avesse in qualche modo "manovrata". 
In quel momento a Perona interessava solo e soltanto una cosa. 
«Ha funzionato? La strategia di Satch dico, ha... ha funzionato?» 
Ace era una persona temeraria. Aveva poche paure e tutte molto ragionevoli, venire rifiutato da una ragazza non rientrava nella lista. 
Ma le sensazioni che gli provocava quella ragazza, ben lungi dall'essere solo una ragazza. 
Mandò giù grosso, lo sguardo fisso negli occhi di carbone che lo stavano risucchiando. Era una sensazione tutt'altro che spiacevole e sarebbe stato un cretino a continuare a girarci intorno. Forse lo era comunque per averlo fatto per tutto quel tempo. 
«Sì» 
Perona distolse per un momento gli occhi e prese un profondo respiro.
«Ti va di restare per cena?» 
Ace esitò meno di un secondo, poi lentamente si sfilò la mascherina, rivelando un sorriso dentro cui c'era tutto l'universo. «A me andrebbe anche di restare per sem...» 
«Ehi, non ti allargare» lo rimbeccò Perona, cercando di suonare tagliente ma era poco credibile se non riusciva a smettere di sorridere. Le labbra ancora piegate, si morse quello inferiore, mentre allungava una mano, senza estrarre il cellulare e convalidare la consegna, perché non era la spesa il suo obbiettivo. 
La stretta di Ace nella sua era delicata e sicura insieme, mentre Perona lo guidava in casa, richiudendo la porta senza voltarsi indietro, il cuore che batteva all'impazzata. 
Per sempre era decisamente prematuro, ma sospettava che Ace avrebbe fatto in modo di fermarsi oltre il coprifuoco. 
L'idea non la turbava poi più di tanto. 


 



 
 
Angolo dell'autrice:
Buon C&S Day, gente!  
Grazie a questa raccolta riesco a partecipare anche quest'anno e le peripezie amorose in lockdown comunque non finiscono qui! 
Sì, c'è la citazione di Mulan perché Ace è fondamentalmente da sposare, pure quella di Spiderman e Perona non indossa mai la mascherina nella storia, neppure per il ritiro spesa, per non rovinare il rossetto. E perché è una cucciola, lo so che non c'entra niente ma volevo dirlo. 
Grazie infinite a tutti coloro che sono passati di qui, che mi leggete, che mi seguite, che mi spronate. 
Pace, bene e, soprattutto, amore a tutti. 
Page. 

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Capitolo 3
*** Hai_Bis0gn0_Di_Me_? ***


HAI_BIS0GN0_DI_ME_?


"Se quando manca vieni preso dallo sconforto e dalla disperazione, è amore. Oppure la connessione WiFi." [TristeMietitore, Twitter]


 

Per Shachi, il silenzio non era fondamentale.
Il nulla cosmico non lo aiutava necessariamente a lavorare meglio, anzi, meno che meno gli piaceva. In effetti, per Shachi ascoltare musica era di grande aiuto quando programmava. 
Lo aiutava a concentrarsi, a chiudere fuori le distrazioni e i cattivi pensieri. Al riparo dietro le sue cuffie Polartang YS360, regalo dei suoi amici di una vita per i suoi trent'anni, Shachi aveva la propria dimensione, fatta di codici di linguaggio e melodie. 
Trance. 
Rigorosamente e unicamente trance. Quella era la musica che gli piaceva, la musica che lo rilassava, la musica che aveva il pieno diritto di ascoltare visto che stava lavorando, lui. 
Certo era chiaro che doveva restare connesso anche con il mondo esterno in qualche modo, per questo le Polartang YS360 erano state scelte tra altre candidate, per l'equilibrio tra qualità del suono e un isolamento acustico buono ma non assoluto, con una cancellazione del rumore solo parziale. 
Ovviamente era stato Law ad avere quell'accorto pensiero. "Magari evitiamo di fargli prendere un infarto se qualche suo collega deve attirare la sua attenzione", così aveva detto. 
E Shachi aveva apprezzato, aveva apprezzato tutto e mai Shachi aveva messo in discussione la lungimiranza e la praticità di Law, e non che ora la mettesse in discussione perché d'altronde neanche Law poteva prevedere l'esplosione della pandemia di piombo ambrato. Ma se solo Law fosse stato un po' più lungimirante o un po' meno pratico, ora Shachi avrebbe avuto delle cuffie più isolanti e con una cancellazione del rumore quasi totale e probabilmente questo avrebbe significato una migliore conservazione della sua sanità mentale. 
Perché ovviamente finché aveva lavorato in ufficio le Polartang YS360 si erano rivelate più che perfette così com'erano. E così sarebbe stato anche lavorando da casa, in teoria, perché Pen non era molesto, o meglio era molesto a volte ma sapeva quando non esserlo, capiva quando non esserlo, era consapevole di doverlo essere molto meno, quasi per nulla, dal momento che il novantotto per cento della popolazione e del loro condominio non poteva uscire di casa e lavorava in smartworking. 
Lui, Pen, l'architetto, il suo migliore amico e coinquilino, non per niente, lo capiva. 
Lei no. 
Lei non ci arrivava, era evidente, non conosceva le meraviglie tecnologiche di strumenti quali cuffie e auricolari, né il concetto del "non disturbare". 
Se di una cosa Shachi era grato, era che quanto meno non ci viveva assieme. Se di una cosa Shachi non era per niente grato, era che lei viveva nell'appartamento sopra al loro. 
E puntualmente, ogni giorno, all'ora di pranzo, le sue opinabili scelte di musica commerciale venivano propinate dall'assurda acustica che i due appartamenti avevano a lui e Pen. 
Ci aveva provato, Shachi, ad ignorarle. Ci aveva provato alzando il volume, ripetendo ad alta voce i codici di programmazione mentre li trascriveva, aveva sperato di caderci per davvero in trance ma niente, niente aveva funzionato. Per uno scherzo del destino, l'interferenza si mischiava costruttivamente con la sua musica e definire il risultato cacofonico era un eufemismo. 
Ad onor del vero, quello era l'unico in cui Baby sparava la musica a tutto volume, un momento in cui teoricamente non avrebbe dovuto dare disturbo, ma non era un problema di Shachi se Baby riusciva a fare la pausa pranzo all'ora di pranzo e lui invece no. 
E ogni singolo giorno, all'ora di pranzo, Shachi gettava la spugna e le cuffie e certi giorni, almeno una volta alla settimana, anche la pazienza. Certi giorni, in quelle condizioni, non riusciva a continuare a lavorare. Quelli erano i giorni in cui Shachi senza una parola usciva di casa, infilava le scale e la mascherina, raggiungeva il piano superiore e si attaccava al campanello dell'appartamento esattamente sopra al loro, finché il cane si metteva ad abbaiare, la musica cessava e lei veniva ad aprire. 
«Ciao Baby» 
Baby aveva ventiquattro o venticinque anni, lunghi capelli corvini, gli occhi grandi e blu e un molosso color pece, di probabilmente duecento chili, al seguito. Dal poco che Shachi aveva potuto vedere, la bestia degli Inferi era socievole con tutti tranne che con lui. A lui ringhiava sempre e comunque. Non che la cosa gli importasse, mica gli serviva piacere a quel sacco di pulci, aveva Bepo lui, anche se Law se l'era portato via. E poi, era lì per parlare con Baby. 
«Oh sei tu»
Shachi lo odiava. Odiava il momento in cui Baby lo riconosceva e poi le sue guance prendevano talmente tanto fuoco che neanche la mascherina magenta riusciva a nasconderlo. Rossa di imbarazzo perché lo sapeva, doveva saperlo per forza che lui stava lavorando, che lei lo stava disturbando. Ma lo faceva lo stesso e poi si imbarazzava e Shachi lo odiava.
«Buffalo stai buono, cucciolo» lo grattò dietro le orecchie per calmarlo, anche se Buffalo continuava a fissarlo con profonda disapprovazione per essere lì a mortificare la propria padroncina. 
«Io starei lavorando, potresti abbassare la musica» Shachi tirò fuori le parole nella formulazione più cortese che riuscì a trovarsi in animo, le braccia incrociate al petto. 
«Certo, scusa, non volevo disturbare» 
«Ne sono certo» 
Non lo era. Shachi Aveva seriamente pensato, in alcune occasioni, che Baby lo facesse apposta. Pen non gli aveva neanche risposto. 
«Buon appetito» fece per congedarsi ma riuscì a malapena a raggiungere l'imbocco delle scale che si dovette fermare di nuovo. 
«Aspetta!» 
Sorpreso si rigirò verso Baby, che era uscita due passi sul pianerottolo, il busto sporto in avanti e una mano ancora agganciata allo stipite. Sahchi si scambiò un'occhiata con Buffalo che pareva confuso quanto lui. E sempre molto giudicante.
«Non voglio disturbare, ma mi arriva il nuovo Wi-Fi nei prossimi giorni e lo devo installare e non so se sono capace. Se ho problemi posso chiamarti? Nel weekend ovviamente» 
Shachi sbattè le palpebre, interdetto. Non era affatto certo di aver sentito bene, era sicuro al mille per cento di non essere affatto riuscito ad inquadrarla e aveva il legittimo dubbio di non essere stato altrettanto enigmatico, lui, con la vicina. Perché Baby gli stava facendo gli occhi a calamita e se c'era qualcosa a cui Shachi mai nella vita, mai in nessuna situazione documentata e non, era stato in grado di ignorare, erano gli occhi a calamita di una bella ragazza. Tentennò un istante e quando Buffalo gli abbaiò contro si decise a rispondere, con una scrollata le spalle e tutta l'indifferenza di cui era capace. 
«Certo, come vuoi» 
«Grazie!» si illuminò Baby e Shachi smise di esitare, imboccando veloce i gradini. 
«Figurati» rispose senza voltarsi, a metà della rampa, la testa già al lavoro che aveva lasciato incompiuto. 
A meno che Baby non lo avesse davvero chiamato per la configurazione del router, per un'altra settimana era a posto.  



 
***

 

Baby non lo aveva chiamato per la configurazione del router. 
In realtà Shachi non ci aveva pensato più di tanto e, se ci stava pensando in quel momento, era perché si stava consumando una tragedia. 
Shachi scattò sull'attenti quando la porta si aprì, pregando in buone notizie che sapeva non sarebbero arrivate. 
«Allora?» 
Pen negò con il capo, dispiaciuto, di ritorno dal giro in cantina e Shachi trattenne a stento un'imprecazione. 
Lo sapeva, sapeva che il problema non era che qualcuno aveva tagliato il cavo del loro WiFi nell'installare quello di Baby, ci aveva sperato ma sapeva che era impossibile. Internet aveva funzionato per tutto il weekend e poi era saltato quella mattina, così, senza un motivo. 
Aveva smesso di funzionare e basta. 
«E adesso cosa faccio?» si passò le mani nei capelli, tenendoli sollevati e meditando se strapparseli. «Pen, che cosa faccio?!» lo guardò implorante. 
«Dati a pacchetto? Con un lavoro come il tuo l'azienda non dovrebbe dartene un migliaio in dotazione?» 
«Sì certo, in un mondo perfetto» rise una risata vuota, tornando poi a stropicciarsi la faccia con espressione desolata. «L'hotspot è inutile, farei fuori tutto in venti minuti, sono fottuto» 
«Hai sentito l'assistenza?» 
«Sì» gemette con un gesto svolazzante della mano che terminò sulla sua fronte. «Hanno detto che ci vogliono tre barra cinque giorni. Minimo» Shachi scosse il capo, sconsolato. «Se solo Law non ci avesse abbandonato» 
«Cosa?» Pen sollevò un sopracciglio tra lo scettico e il basito. «Provava a rianimare il modem? Senti Shachi, non voglio minimizzare il problema ma ultimamente sei stato molto... assorbito dal lavoro. Potresti prenderli come due giorni di riposo» propose mentre gli si siedeva davanti. 
Shachi lo fissò per un lungo attimo, prima di sporgersi verso di lui. 
«Sono arrivati tre ordini stamattina, e sto ancora cercando di capire perché il nuovo bootloader non funziona, senza neanche poter accedere perché la backdoor mi continua a sputare fuori, capisci?» 
Pen si impose di ragionare un attimo sulle parole dell'amico prime di rispondere. «Sì, no, non ho capito una parola ma scommetto che si può riassumere dicendo che sei fottuto» 
«Già» esalò Shachi, guadagnandosi una comprensiva pacca sulla spalla. 
«Shachi, io devo andare. Ma tu... magari riprova con la connessione, non si sa mai» gli sorrise incoraggiante. «Torno appena riesco» 
«Non preoccuparti» lo salutò con un cenno della mano. 
«Certo...» commentò poco convinto Pen, dalla porta. «Comunque Law non ci ha abbandonato, è andato a convivere. Devi superarla» 
«Lo sai, ti preferivo quando non scop...» Shachi si girò verso la porta che gli si stava ormai chiudendo in faccia. «...avi» sospirò e sospirò ancora, prima di dirigersi verso il proprio pc senza alcuna verve. 
Non ci sperava ma magari Pen aveva ragione, magari valeva la pena fare un tentativo. 
Riattivò lo schermo, si sedette sulla fitball verde acido - o giallo muco non avevano ancora raggiunto un accordo al riguardo - e aprì direttamente la finestra delle reti Wi-Fi in basso destra. Shachi non si era mai soffermato prima sui nomi delle connessioni dei vicini, a dire il vero quella finestra non la apriva praticamente mai. 
Ma quando in cima alla lista nessun Fre3Wi-lly fece la propria comparsa, neppure dopo un lungo momento di attesa e preghiere e occhiate di fuoco all'innocente monitor che rischiava la combustione, Shachi prese a scorrere per puro intrattenimento, nella speranza di riuscire a ignorare la disperazione che lo stava lentamente pervadendo. Considerate le dimensioni del complesso dove abitavano, le reti erano tutt'altro che poche e con nomi che andavano dal noioso/banale all'originale/assurdo. 
Dopo un quarto d'ora, Shachi stava scorrendo nel senso opposto per tornare in cima alla lista, dopo aver scelto le tre reti con i nomi più improbabili che avesse mai sentito. 
Cosci@dimonton3 si era aggiudicato il primo posto, mentre Va1ColMambo! se la giocava ad armi pari con... 
Si bloccò con il dito sopra alla rotella del mouse, leggendo e rileggendo più colpito di quel che avrebbe dovuto, dopo essere appena tornato da un viaggio mistico attraverso la discutibile creatività delle menti del vicinato. Eppure quel nome di quella rete lo aveva colpito. 
Intanto perché non sembrava un nome. Sembrava un messaggio. 
E sembrava messo lì apposta per lui. 
Hai_Bis0gn0_Di_Me_?
Shachi tenne gli occhi chiusi qualche secondo in più. Poi li riaprì ma la rete con il nome/messaggio era ancora lì. E Shachi si sentiva un cretino a pensare che potesse significare qualcosa, a credere in un segno dell'universo, a sperarci. 
Ma chi dava un nome del genere alla propria rete? Okay, forse voleva un po' troppo che fosse come sperava ma verificare non costava nulla, no? 
Con gesti cauti e calcolati, mosse il cursore e cliccò per espandere i dettagli. 
Si mise quasi a piangere quando la scritta "aperta" si srotolò sotto al nome/messaggio. 
Aveva trovato una rete aperta. Una rete che domandava se per caso qualcuno avesse bisogno e poi era aperta non poteva essere un caso. Doveva essere voluto, ergo era stata lasciata aperta apposta, ergo poteva usarla, connettersi. 
Lavorare. 
Poteva, era scritto lì, era la domanda che chi aveva installato quella rete gli stava facendo. 
Hai_Bis0gn0_Di_Me_?
Shachi pensò a tutto il lavoro che aveva da fare, a quanto voleva levarsela di torno il prima possibile, a quanto gli sarebbe costata una pausa, forzata o meno che fosse. 
Prese un bel respiro. 
«Sì, ho bisogno di te» 
Cli-click



 
***
 

L'assistenza non si era fatta viva in tre barra cinque giorni. Neanche in una settimana e neanche dopo dieci giorni. 
E andava tutto bene. Shachi aveva potuto continuare a lavorare, risparmiando preziosissimo tempo, che sarebbe altrimenti andato perso in lunghe e, probabilmente, infruttuose telefonate a un servizio clienti sotto organico e oberato. 
Era tutto merito di Hai_Bis0gn0_Di_Me_?, o meglio, del suo proprietario. Shachi avrebbe tanto voluto scoprire chi fosse, anche solo ringraziare e sdebitarsi con una qualche forma di regalo. 
Ne aveva discusso con Pen. A onor del vero, aveva discusso e chiacchierato di molte cose con Pen in quei giorni, soprattutto la sera. 
Senza una connessione per poter usare Netflix o la PlayStation - perché nessuno dei due si sarebbe mai sognato di usare la rete di un vicino per qualcosa di diverso dal lavorare - avevano riscoperto la gioia e il divertimento di intrattenersi con una partita a Plague Inc. o a Jumanji o anche solo parlando e reminiscendo. 
Una sera avevano addirittura tirato fuori delle vecchie foto e Shachi aveva poi dormito come un bambino, non un solo pensiero alla mole di lavoro che ancora, nonostante tutto, lo attendeva per il giorno dopo. 
Ma anche quella, man mano, era andata scemando e diminuendo. E dopo undici giorni di ininterrotto lavoro, weekend compreso, più la mattina appena trascorsa Shachi aveva finalmente finito. Aveva smaltito i tre ordini, risolto un paio di problemi irrisolti e ora poteva finalmente fermarsi, prendere fiato, andare a fare la spesa più che altro per avere una scusa per uscire. Il frigo era probabilmente pieno, essendo stato competenza esclusiva di Pen per settimane.
In effetti, non fosse stato per Pen, che si era sempre preoccupato di cucinare anche per lui, probabilmente non avrebbe mangiato un solo pasto decente negli undici giorni appena trascorsi e poteva essere un bel gesto sdebitarsi, approfittare del frigo straripante per cucinare lui qualcosa per pranzo. 
Shachi socchiuse gli occhi, cercando di afferrare una dissonanza che sapeva esserci nel suo ultimo pensiero. 
Pranzo. 
Era ora di pranzo.
Alzò gli occhi al soffitto. 
Silenzio. 
Assoluto, pacifico silenzio. Anche all'ora di pranzo. Da undici giorni. Dodici contando quello attuale. 
Shachi si chiese come avesse potuto non rendersene conto prima che erano undici giorni - dodici contando quello attuale - che Baby non metteva più la musica a palla, né a pranzo né mai. 
Era... strano, in mancanza di un migliore aggettivo. Anche se "strano" non convogliava il giusto sentimento, era generico e non aveva un'accezione necessariamente negativa. E non che fosse necessariamente negativo che Baby aveva smesso di flagellarli con le sue playlist da pandemia, ma al tempo stesso Shachi non stava neanche pensando, non in quel momento, che fosse una cosa necessariamente positiva. 
Per questo "strano" non era il giusto aggettivo, forse un miglior termine sarebbe stato "preoccupante".
Ma non perché Shachi fosse preoccupato. Lui non era affatto preoccupato per Baby. Figurarsi! 
Solo che era "preoccupato" - e neanche questo aggettivo comunque calzava ancora alla perfezione - che Baby non avesse più messo musica perché non era riuscita a configurare il nuovo router. Il che sarebbe stato strano - e stavolta l'aggettivo calzava - visto che non lo aveva chiamato per l'aiuto richiesto preventivamente. Shachi aveva dato per scontato che se la fosse cavata da sola ma se invece avesse lasciato perdere per non disturbarlo? 
Lo stomaco diede due calci in protesta all'idea. Certo Shachi avrebbe potuto affermare che Baby lo disturbava ogni giorno con la propria musica ma non sarebbe stato corretto. Erano poi quei quaranta minuti al giorno, quaranta minuti in cui teoricamente anche chi lavorava da casa sarebbe dovuto essere in pausa. Era fastidioso ma nulla di così drammatico come a volte Shachi l'aveva presa. 
Se davvero Baby era rimasta senza internet tutto quel tempo per non disturbarlo, Shachi sapeva che ne sarebbe stato profondamente mortificato. Perché gli sarebbe dispiaciuto per Baby ovviamente ma anche perché avrebbe dovuto ammettere, foss'anche solo con se stesso, di averla giudicata male. 
Lanciò un'occhiata all'orologio, un'altra al soffitto. Poteva cucinare per Pen a cena. 
Agile si diresse alla porta, sul pianerottolo, su per le scale, un tragitto ormai meccanico e memorizzato, avrebbe saputo indovinare dove finivano i gradini di metà rampa e al piano da bendato. 
Per la prima volta da moltissimo tempo, se non in assoluto, suonò il campanello di Baby in modo normale. Non ricordava se quando lui e Pen erano andati a darle il benvenuto nella palazzina avessero suonato o bussato. 
Si stava ancora arrovellando su quel dettaglio del tutto irrilevante, quando Buffalo prese ad abbaiare, un attimo prima che la porta si aprisse e due occhi blu, incorniciati da una frangia corvina e una mascherina magenta, sbirciassero dallo spiraglio tra la porta e lo stipite. 
Qualcosa sembrò accendersi negli occhi di Baby quando Shachi entrò nel suo campo visivo e la porta venne aperta completamente. 
«Oh sei tu!» 
Shachi sentì un altro calcio dalle parti del duodeno nel realizzare che normalmente Baby spalancava subito, quando lui saliva per la musica, a causa del suo scortese e rozzo modo di attaccarsi al campanello. Anche se Baby lo accoglieva sempre con un "Oh sei tu" probabilmente sapeva prima ancora di verificare che si trattava di lui. 
Era imbarazzante a dir poco. Shachi si sarebbe voluto sotterrare e Buffalo di sicuro lo avrebbe aiutato volentieri.
«Ehi ciao» cercò di dissimulare. «Tutto bene?» 
Baby sgranò gli occhi con stupore e poi sorrise, così di cuore che la mascherina non bastava a mascherare tutta la felicità che quel sorriso conteneva. Shachi si sarebbe decisamente sotterrato alla fine di quella conversazione. 
«Oh sì, tutto benissimo! Vieni, entra pure!» lo invitò rientrando in casa così in fretta da non lasciare tempo a Shachi per poter declinare. «Non fare caso al caos, sto facendo revisione e pulizia alle mie armi» 
Shachi sobbalzò e distolse l'attenzione dall'arredamento di casa di Baby, una casa che aveva visto una volta soltanto, piena di scatoloni e con le pareti ancora spoglie. Stava per fare un complimento sul suo buon gusto ma aveva davvero detto armi?! 
Si girò verso Buffalo, che lo teneva sotto tiro, quasi. 
«Posso offrirti qualcosa? Non mi ero neanche accorta che fosse ora di pranzo, che sbadata» rise euforica. 
Sì, Baby era decisamente euforica, sembrava anche un po' fatta, e Shachi sperava che non fosse entrata in un qualche losco giro di metanfetamine. Avrebbe spiegato anche le armi. 
«Oh no, sono a posto grazie. In realtà ero salito solo per... per beh, ecco... È stato molto tranquillo ultimamente qui» 
Baby si fermò con la mani a mezz'aria tese verso qualcosa - possibilmente non una delle sue armi - e corrugò le sopracciglia. «In che senso?» 
«Beh non ho più sentito molta... musica... da qui...» si spiegò Shachi, la voce che veniva sempre meno e Buffalo, che non aveva smesso di tenerlo sotto tiro un solo istante, che lo guardava con un'espressione molto alla Trafalgar Law. Se avesse avuto delle sopracciglia, Shachi non aveva dubbi che una sarebbe stata alzata. E, d'altronde, Shachi si rendeva conto che detto da lui suonava una beffa. 
Sperava che Baby non pensasse che la stava prendendo in giro. 
Ma forse Baby non era semplicemente ingenua o maliziosa e manipolatrice come Shachi aveva sempre pensato a fasi alterne da che la conosceva. Forse Baby non aveva un solo sentimento negativo in corpo, se si tralasciava il possesso delle armi, che comunque non era prova di niente. 
«Oh quello! No è che sono stata senza internet per un po' di giorni e il Dial Home non funziona senza connessione. Ho usato il cellulare comunque» spiegò, gli occhi che brillavano. 
Shachi sentì lo stomaco accartocciarsi del tutto stavolta, schiacciato dal senso di colpa. Forse Baby non aveva voluto disturbarlo e tanto bastava per sentirsi una schifezza ad aver pensato ben più di una volta che invece lei lo volesse disturbare di proposito eccome. L'alternativa era che Baby ci avesse ripensato sull'affidarsi a lui, alla luce della ben poca cortesia che Shachi le aveva sempre usato. Chi mai avrebbe voluto passare il sabato pomeriggio a farsi trattare con sufficienza? 
In ogni caso, Shachi si rendeva conto di meritarsi quella sensazione ed era consapevole che era inutile guardarsi indietro. Il passato non lo poteva cambiare ma poteva mettere una pezza nel presente per salvaguardare almeno il futuro. 
«Se vuoi, ho avuto parecchio lavoro ma ho finito, e sarò libero per un paio di giorni. Posso aiutarti con la configurazione del modem» propose, grattandosi la nuca. 
«Oh grazie, Shachi!» si girò verso di lui, armata di un grosso coltello da carne, appena estratto dalla lavastoviglie e rivolto a lama in su. Shachi si impose di non indietreggiare, né di sospirare sollevato, quando Baby ripose l'arm... il coltello, nell'apposito ceppo. «Ma è già a posto, la configurazione era semplice e c'era un servizio vocale che guidava passo a passo. Solo che ho lasciato la rete aperta e qualcuno la sta usando da qualche giorno» raccontò, chiaramente soddisfatta. 
Shachi pensò di aver sentito male o di esserselo immaginato. Shachi voleva aver sentito male o averlo immaginato. 
«Hai lasciato la rete aperta?» domandò come l'imbecille che si sentiva. 
«Sì, sì! Lo so che sembra una cosa...» 
Andiamo, non poteva essere vero! Non poteva essere stato così fottutamente cieco nei riguardi di Baby, non ci poteva credere! 
«...'gi chi non ha internet? Quindi penso che se usano la rete aperta è perché ne hanno bisogno!» Si strinse nelle spalle Baby, riponendo un trinciapollo. «L'ho anche messo come nome del WiFi. "Hai bisogno di me?" ma con gli zeri perché doveva essere alfanumerico» 
Shachi non rispose. Rimase a fissarla, riflettendo su cosa fare anziché sotterrarsi perché onestamente non credeva esistesse un punto abbastanza in profondità dove andare a interrarsi, dopo una simile mastodontica figura di merda e di pregiudizio, neanche avesse raggiunto il nucleo terrestre. 
Baby, la stessa Baby che non ricordava neanche quando avesse iniziato a criticare, lo aveva letteralmente salvato, privandosi di una linea ADSL che pagava per aiutare una persona a caso, che si era rivelata essere proprio lui, ed era felice come un bambino a Natale per... cosa esattamente? Essere stata utile a qualcuno? 
Era tutta vera? 
«Shachi?» 
Dita svolazzanti entrarono nel suo campo visivo e lo riscossero bruscamente. Baby lo guardava a un passo di distanza, gli occhi accesi ed enormi e le guance un po' rosse. 
C'erano solo due possibilità per sistemare quella faccenda e Shachi non aveva davvero scelta, non visto come si sentiva. 
«Ti va di mangiare un boccone? So fare una frittata di ceci buonissima, deve stare un po' a riposo ma possiamo chiacchierare intanto. Anzi, ti faccio vedere le mie armi!» 
«Baby io... mi dispiace ma devo andare. Devo...» indietreggiò massaggiandosi le tempie, Shachi. «Devo andare a fare una cosa importante» 
«Come?!» domandò confusa Baby, ma stava già parlando con l'aria, e si ritrovò a fissare il nulla dove Shachi era fino a un attimo prima, per poi sospirare e andare a chiudere la porta con passo lento e tutto l'entusiasmo improvvisamente dissolto.  
 



 
***
 

Baby pativa il lockdown. Era inutile fingere che così non fosse, anche se Baby era la prima ad affermare che le sarebbe potuta andare molto peggio. 
Pativa la solitudine, il non poter vedere la propria famiglia, la mascherina, non potersi sfogare al poligono. 
Ma tutto considerato, si riteneva fortunata. Andava d'accordo con i suoi vicini di pianerottolo, una coppia che la mezz'età se l'era lasciata anni luce alle spalle e una famiglia con due bambine. 
Lao e Bakkin erano uno di quegli amori basati sulle urla e i litigi, ma era sufficiente ignorarli per riuscire ad apprezzarli, almeno per Baby. Kiros e Scarlett invece erano sempre disponibili ad aiutarla, dei genitori adottivi nonostante i pochi anni di differenza, e le loro figlie, Viola e Rebecca, adoravano lei e Buffalo.
Era una piccola oasi di pace e per di più Baby era certa di poter contare su Shachi e Pen, da quando, all'epoca del suo trasloco, quando erano ancora in tre più Bepo, il loro samoiedo bianco, l'avevano aiutata con gli scatoloni. 
Certo era vero che, se prima del lockdow li incontrava spesso entrambi e due chiacchiere ci scappavano sempre, negli utlimi mesi era capitato sempre più sporadicamente, a distanza e solo con Pen. A un certo punto aveva iniziato a pensare che Shachi si fosse trasferito, finché un giorno, qualche settimana prima, Shachi non era salito a chiederle di abbassare la musica. 
Baby aveva continuato a metterla alta. Shachi era salito di nuovo. E Baby aveva continuato ad alzare il volume. 
Si rendeva conto che non era la migliore delle strategie, non era neanche una strategia in realtà, ed era infantile e controproducente. Avrebbe dovuto offrirgli un caffè ma il Shachi che saliva a chiederle di abbassare la musica non era lo stesso che l'aveva aiutata con il trasloco, che aveva incontrato a volte nell'ingresso del condominio, che la faceva sempre ridere e sentire accettata. 
Fino a quel momento. 
Il Shachi che era salito a chiederle se le serviva una mano con il modem, quello era lo Shachi che conosceva e che le era mancato e che Baby voleva così tanto vedere da mettere la musica a palla ogni giorno. Peccato non si fosse trattenuto molto. 
Baby sospirò, finendo di pulire a fondo la canna della pistola e Buffalo si appoggiò con il muso sulle sue gambe, con un guaito che voleva probabilmente essere di conforto. 
Era evidente che a Shachi la sua compagnia non faceva piacere se non a piccole dosi o, comunque, non quanto a lei facesse piacere la compagnia di lui. 
Forse dopotutto avrebbe dovuto declinare l'invito di Pen per una cena non ancora meglio definita, a casa loro. 
«Arrivo!» chiamò dal salotto in risposta al lieve bussare alla porta, che la trascinò fuori dalle proprie riflessioni. In realtà ci stava ancora pensando mentre metteva su il suo miglior sorriso, nonostante la mascherina. Viola e Rebecca di solito bussavano perché non arrivavano al campanello e non voleva deludere le bambine. «Eccomi, ecc...» 
«Ciao, ehm, sono tornato» Buffalo smise di scodinzolare e si produsse in un grugnito di naso, quando Shachi la salutò. 
Uno Shachi che non era quello che le chiedeva di abbassare la musica ma neanche quello delle due chiacchiere nell'androne. Si avvicinava di più al secondo, certamente, ma uno Shachi così Baby era la prima volta che lo vedeva e la novità le prese lo stomaco, con un piacevole spasmo. 
A occhi grandi studiò ciò che Shachi le stava porgendo, incredula. Ma pur guardandolo e riguardandolo non c'era altro modo di descriverlo se non come un bouquet di mascherine, arrotolate una ad una per simulare delle rose in boccio. 
«I fiorai sono chiusi» si spiegò lui, grattandosi la nuca attraverso il cappellino bianco e nero. «L'ho visto in vetrina in farmacia e ho pensato...» 
«È bellissimo» intervenne Baby, le guance arrossate, prendendo il mazzo di boccioli verdi e rosa.
«I-io volevo ringraziarti ecco. Per la rete» 
Baby rialzò gli occhi su di lui, la sorpresa non bastava a mascherare la felicità. «Davvero?! Eri tu?!» 
«Sì, e ho, appunto, ho finito con il lavoro quindi ora potrai avere di nuovo internet e rimettere... la musica...» la voce gli morì in gola quando Baby si avvicinò il bouquet al viso, come per annusarlo attraverso la mascherina, tenendolo fuori dalla portata di Buffalo. 
Era così dolce che toglieva il fiato. E strana. Baby era strana, Shachi lo sapeva da sempre ma non era per quello che non aveva mai approfondito la conoscenza, e in quel momento proprio non si spiegava il perché.  
«Sono stato uno stronzo» parlò prima ancora di sapere cosa stesse per dire e Baby lo guardò sinceramente confusa. 
«Cos...»
«Ti va se andiamo a fare la spesa insieme?» 
Shachi sgranò gli occhi nel sentire cosa la sua stessa voce aveva appena domandato e l'espressione alla Trafalgar Law tornò sul muso di Buffalo, provocandogli un'improvvisa urgenza di spiegargli. 
«Voglio dire, ti avrei invitato al cinema o al parco a tema o a bere una cosa fuori ma c'è il lockdown, il supermercato è vicino e così possiamo fare due passi e...» 
«Vado a prepararmi» lo interruppe lei, sparendo in uno svolazzo di capelli corvini al profumo di mora. 
Shachi boccheggiò, fermo sulla porta, il cuore che andava a mille. 
Un nuovo grugnito portò la sua attenzione sul molosso, che lo fissava con la sempiterna disapprovazione riservata a lui. 
«Sì, lo so che sono un idiota. Fai il bravo e portiamo anche te, okay, sacco di pulci?» contrattò con voce piatta, ricevendo una specie di starnuto in risposta, prima che Baby tornasse con addosso sciarpa e cappotto e il passo fluttuante. 
Shachi la guardò avvicinarsi, eccitata come una bambina diretta al parco giochi e si sentì sopraffatto per un attimo dall'idea che non poteva essere il giro al supermercato a renderla così felice, ma il fatto di andarci con lui. 
Non sapeva se fosse vero, sinceramente non gli sembrava neanche possibile. Ma, di questo Shachi era certo, era determinato a scoprirlo. 



 



 
 
Angolo dell'autrice:
Sono convinta del finale di questo capitolo? Assolutamente no! Ma sono riuscita a scriverlo in tempo per oggi  e sono felice per questo! 
La coppia. Ragazzi, non c'è un vero perché. Ho letto due storie di Dreamer_97 su di loro e li ho trovati assolutamente adorabili e a un certo punto, senza neanche rendermene conto, mi veniva spontaneo accoppiarli nella mia testa. D'altronde per me sono due cuori che hanno bisogno di tanto amore e possono darsene a vicenda. 
È la prima volta che ci scrivo qualcosa, quindi chiedo perdono per l'eventuale ooc ma non posso negare di essermi divertita a scriverla. 
Ringrazio di cuore Jules per l'idea del wifi aperto, perfetta per Baby, e Zomi per il nome del wifi, anche quello perfetto per Baby. Le ringrazio anche del sostegno e ringrazio tutti voi per essere passati di qui! 
Pace, bene e amore a tutti. 
Page. 

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Capitolo 4
*** Velvet Buzzsaw ***


VELVET BUZZSAW
 
"Con te mi trovo bene. E mi perdo anche meglio" [Serafino Bandini]
 




A Pen stare con le mani in mano non faceva bene. Non era che disdegnasse poltrire, starsene a letto fino a tardi, passare i pomeriggi di pioggia rintanato in casa o non muovere le terga dal divano.
Ma quando gli capitava di cedere alla pigrizia senza che fosse meritata, a posteriori se n'era pentito.
A Pen fare qualcosa serviva e con la fortuna di avere una professione che amava non era mai stato complicato.
Fino al lockdown.
I cantieri si erano fermati, il lavoro era diminuito e soprattutto si era spostato dallo studio al salotto di casa.
Pen non avrebbe capito subito la necessità di correre ai ripari, se Law non avesse proposto di punto in bianco, a una manciata di giorni dalla chiusura totale, a Koala di andare a convivere. 
A Pen era bastato per capire, non si sarebbe trattato di poche settimane.
Con le ore decurtate e senza neanche più Bepo da portare fuori, Pen doveva trovarsi qualcosa da fare.
Certo c'era sempre Shachi che, però, per quanto non sapesse prendersi cura di sé non andava portato fuori, e la casa da gestire ma, anche così, anche se allo studio si erano stupiti, Pen non aveva esitato a offrirsi volontario per seguire il corso di aggiornamento per la gestione del nuovo software, che avrebbero dovuto adottare a partire dall’estate.
Un solo uomo per il bene di tutti, tanto lui quanto i suoi colleghi sapevano per esperienza che alla fine avrebbero imparato sul campo, una volta che il nuovo software fosse stato effettivamente distribuito, ma il corso, che si teneva il venerdì dalle diciotto alle venti, andava seguito e Pen si era prescelto da solo.
Salvo poi scoprire che il corso era una noia mortale, di quelli che ti veniva voglia di appenderti al soffitto per i pollici, e a poco serviva l’ironia del professor. Iceburg che, per quanto non sprizzasse certo vitalità da tutti i pori, non si poteva comunque incolpare per tanta monotonia. Anzi, gli si doveva riconoscere lo sforzo che faceva per cercare di rendere un minimo interessanti le intricate spiegazioni ma, anche se Pen glielo riconosceva eccome, aveva abbandonato l’utopia di restare sul pezzo per centoventi minuti. Alla ormai terza lezione, non ci provava neanche più e in quel momento, ore diciotto e quarantotto postmeridiane, erano trentadue minuti che non stava più seguendo.
Studiò lo scarabocchio che si era trasformato in uno schizzo sempre più dettagliato di un sottomarino, accanto a cui un riquadro per ospitarne il progetto interno era già stato tracciato, prima di lanciare un’occhiata allo schermo.
Otto riquadri attorniavano quello centrale del professore, dove il monitor di quest’ultimo veniva condiviso per tutta la lezione. Nessuno dei suoi compagni di sventura aveva l’aria particolarmente coinvolta. Franky, il tipo con i capelli azzurri ed entusiasmo da vendere addirittura aveva tutta l’aria di essersi addormentato in una posa strategica.
E come sempre, da tre settimane a quella parte, su otto riquadri due erano perennemente oscurati.
E Pen non era una persona visceralmente curiosa, né così incoerente da andare a ficcare il naso negli affari di qualcuno che, proprio come lui, poteva anche essere solo un po' socialmente disfunzionale e non gradire di esporsi troppo con degli sconosciuti.
Accorgersi che la propria webcam era rotta, il giorno della prima lezione, era stata una piacevole scoperta e con Shachi non aveva esattamente insistito perché ci desse un'occhiata e la sistemasse. D'altronde, l'amico aveva da lavorare.
Tuttavia, per quanto non visceralmente curioso né incoerente, Pen era terribilmente annoiato.
Avrebbe potuto mollare la postazione ma ascoltare con un orecchio era meglio che non ascoltare affatto e di continuare il progetto del sottomarino non aveva particolarmente voglia.  
Senza darsi pena di girarsi verso il pc, allungò un braccio verso il touchpad e in pochi tocchi aprì una finestra di chat privata con I. Judan. E rimase a fissarla.
Improvvisamente gli sembrava stupido e fuori luogo iniziare una conversazione con uno sconosciuto o sconosciuta che probabilmente voleva solo essere lasciato in pace, che magari non era neanche davanti allo schermo in quel momento, con un “ciao”.
Sarebbe stato legittimo chiedersi che cosa volesse nonché non rispondergli. Almeno che non lo prendesse per un maniaco stalker e così Pen decise di esternare cosa lo avesse spinto a contattarlo.
“Webcam ancora rotta?”
Pen rilesse un paio di volte il messaggio, in cerca di refusi che non c’erano, tanto per concedersi un momento ancora di dubbio, prima di stringersi nelle spalle e pigiare invio.
I. Judan poteva anche non rispondergli se non gradiva, dopotutto. Era un paese libero e quando dopo cinque minuti la casella di chat continuava a restare muta, Pen riprese in mano la matita con un sospiro, rassegnato a progettare il suo futuro sottomarino pur di restare sveglio durante quella tortura formato webinar.
La mina aveva appena toccato il foglio quando un lieve lampeggio, ai margini del suo campo visivo, attirò la sua attenzione.
Sorpreso, Pen mosse il cursore verso il puntino che indicava un nuovo messaggio in chat, e non quella di gruppo su cui nessuno aveva mai scritto mezza parola in tre settimane.
I.Judan: “E tu?”
Pen corrugò le sopracciglia ma solo per un attimo. Non era come se potesse biasimare la domanda.
Pen Haruto: “Da tre settimane e non penso di farla riparare. Sai, il lockdown”
Pen si girò con la sedia, di nuovo dritto verso la scrivania, gli occhi fissi sul riquadro bluastro, in attesa.
I. Judan: “Immagino il disagio. Cioè la mia webcam funziona alla perfezione, ma mi sto facendo una maschera al cetriolo, quindi…”
Pen si fece pensieroso per un attimo, poche parole della spiegazione che Iceburg stava dando filtrarono nel suo orecchio, più comprensibili di quelle precedenti e successive. 
Pen Haruto: “Posso chiederti la ricetta?”
I. Judan: “Certo, puoi farci anche un fantastico antipasto”
Pen Haruto: “Senza contare che sarà più interessante di questo corso anche fosse solo cetrioli, yogurt e pepe”
I. Judan: “Oh, Pen Haruto, la usi anche tu? Non ti facevo tipo da maschera per il viso”
Pen Haruto: “A dimostrazione che non mi hai mai visto in faccia”
I. Judan: “Hai la webcam rotta da tre settimane, non è colpa mia”
Pen nascose un ghigno dietro le mani, per poi riportarle quasi subito alla tastiera e lasciarle ferme lì. Lanciò un’occhiata verso il blocco da disegno ora abbandonato, pensando febbrilmente a qualcosa da dire per tenere viva la conversazione, quando un nuovo messaggio saltò fuori dal fondo del riquadro.
I. Judan: “Questo corso mi ucciderà di noia e la cosa che mi scoccia di più è che sarò morto per un software che a me potrebbe servire al massimo per scegliere il font più accattivante per la prossima campagna”
“Graphic designer?” tabulò Pen senza pensare, immerso nel flusso di conversazione. “O… assistente?”
I. Judan: “Fa davvero differenza? Tanto tutti, pure i miei migliori amici, pensano che faccia il designer in ogni caso”
A Pen sembrò quasi di percepire l’esasperazione e l’alzata di spalle dall’altra parte dello schermo.
Pen Haruto: “Ho capito, assistente direttore artistico”
I. Judan: “Mi stalkeri, Pen Haruto?”
Pen Haruto: “È lo stesso problema che c’è con architetto e geometra. Nessuno capisce la differenza e si chiedono perché uno perde tempo a laurearsi per fare lo stesso lavoro per cui basta un diploma”
Pen sospirò nell’inviare il messaggio, sperando che il sentimento attraversasse l’etere com’era successo con il precedente messaggio del suo interlocutore. Uomo. Maschio. “Un assistente direttore artistico” senza apostrofo.  
I. Judan: “E tu cosa sei? Architetto o geometra?”
Pen Haruto: “Io sono un animo libero e faccio l’architetto di professione”
I. Judan: “Oh. È perché ti piace studiare? Voglio dire, potevi fare il geometra ed era lo stesso, no?”
Pen rimase interdetto per un attimo, salvo poi scoppiare a ridere senza trattenersi, certo di aver colto l’ironia come se i messaggi scritti avessero avuto una ben precisa cadenza.
«Stai ridendo?» la voce di Shachi lo raggiunse attraverso la porta socchiusa.
«No, te lo sei immaginato» alzò la voce in risposta, gli occhi di nuovo fissi al monitor.
I. Judan: “Io vado a togliere la maschera e fare la pipì. Se interroga coprimi, se dice qualcosa di interessante invece datti uno schiaffo, vuol dire che ti sei addormentato”
Pen scoppiò a ridere di nuovo e si lasciò sfuggire anche un grugnito con il naso.
«Stavolta ti ho sentito! Sono sicuro!»
«Fatti gli affari tuoi, Shachi!»
 

§
 

I. Judan: "Che fai connesso a quest'ora?"
Pen inarcò la schiena sulla poltroncina ergonomica, schioccando le dita tra loro, prima di portarle alla tastiera.
"Credevo di essere io il tuo stalker" digitò Pen, fermandosi un istante a studiare la I puntata che precedeva il cognome. "Iñaki Judan?"
I. Judan: "Ahhhh no. Non è abbastanza giapponese per essere il mio nome"
Pen si accigliò, incuriosito da quella rivelazione, forse un po' più che solo incuriosito.
Pen Haruto: "Neanche il tuo cognome suona molto giapponese"
I. Judan: "È quello di mia madre, è shandiano. Li porto tutti e due ma al lavoro uso solo questo, suona, sai... Più esotico e quelle cavolate lì"
Pen Haruto: "Lo ami, eh, il tuo lavoro?"
I. Judan: "Di certo più dei pregiudizi che ancora circolano nell'ambiente. Che sono comunque meno di quelli che circolano fuori"
Pen tolse le mani dalla tastiera.
Non voleva far morire lì la conversazione ma non era un terreno semplice da tastare. Non aveva idea di quanto il suo interlocutore parlasse per cognizione di causa e se ne volesse parlare proprio. Di contro non fare neanche mezzo commento e cambiare argomento poteva sembrare una fuga bella e buona da parte sua.
Forse ci stava pure pensando troppo, stava già per scartare il “forse” che un nuovo messaggio lo tolse dall’impaccio.
I. Judan: “Quindi come mai connesso a quest’ora?”
Pen Haruto: “E tu?”
I Judan: “Volevo mandarti un meme che è stato chiaramente fatto da qualcuno che ha già seguito il webinar prima di noi. Ma non mi aspettavo di trovarti su Reverie alle quattro di mercoledì pomeriggio”
Pen Haruto: “Con il lockdown il lavoro langue e mi sono iscritto a un canale di corsi creativi. Cambia docente e attività ogni una o due settimane e sono lezioni da un’ora. Per passare il tempo”  
I. Judan: “E cosa prevede il corso di oggi?”
Pen Haruto: “Origami”
I. Judan: “Origami?”
Pen Haruto; “Origami”
Un momento di stasi seguì la conferma di Pen. Le dita aleggiarono sulla tastiera, indecise.
“Poi se vuoi ti insegno” scrisse pigiando un tasto per volta con il polpastrello del suo indice dominante, conscio che per insegnare gli origami a qualcuno sarebbe stata necessaria una webcam funzionante e farsi vedere in faccia. O meglio sarebbero bastate le mani ma sarebbe stato davvero ridicolo restare nascosto dal collo in su. Per di più, gli sembrava anche fuori luogo proporre di insegnare gli origami a un giapponese, anche se non era affatto detto che il fatto di essere per metà giapponese implicasse che sapeva fare gli origami e…
I. Judan: “Io dovrei riprenderci la mano, mi farai vedere come si fa. Ora devo tornare al lavoro. Ci sentiamo venerdì”
Pen rilesse un paio di volte il messaggio, prima di affrettarsi a cancellare quello non inviato e digitare al suo posto un “Ehi, mandami il meme!”.
 

§
 

Pen Haruto: “Stasera la maschera a che gusto è?”
I. Judan: “Avena. Ace credeva che fosse l’impasto dei biscotti”
Pen Haruto: “Ace?”
I. Judan: “Il mio amico che fa il rider, mi ha portato la spesa. Di solito vado io, così esco, ma ho avuto tre giorni infernali”
Pen Haruto: “Casini al lavoro”
I. Judan: “Catastrofi naturali”
Pen mosse le dita nell’aria, un gesto che stava diventando anche troppo familiare da tre settimane a quella parte, la mascella contratta e un piede che picchiava nervoso a terra. Mandò giù a vuoto, consapevole che fare finta di niente non avrebbe cambiato la realtà dei fatti e che lo stomaco annodato non c’entrava niente con il fatto che a pranzo avesse cucinato Shachi.
“Per lo meno, stasera è l’ultima lezione di webinar” digitò e inviò senza alcuna verve, anche se per il compagno di sventure doveva essere l’avvenimento del mese.
I. Judan: “Sì, non mi sembra vero. Anche se pensavo che mi sarebbero sembrate molto più lunghe, queste sei settimane”
«Sì, lo pensavo anche io»
«Hai detto qualcosa?»
«Si è impallato il pc e stavo imprecando» alzò la voce per farsi sentire da Shachi, che in cucina si apprestava a mettere insieme il secondo pasto della giornata.
Non c’era mai fine al peggio.
Pen prese un profondo respiro, la voce di Iceburg in sottofondo che raccontava un nuovo aneddoto su Tirannosauro, il suo furetto albino, di cui ormai conoscevano ogni abitudine alimentare e non.
Pen Haruto: “Le ultime tre poi sono volate. Giusto perché avevo deciso di scoprire il tuo nome, Isamu”
I. Judan: “Gli elenchi di nomi di Wattpad sono estremamente lacunosi, Pen. È giusto che io ti avvisi”
Pen Haruto: “Non sto usando Wattpad, per chi mi hai preso? Ho un elenco serio ma sto provando solo quelli che suonano bene con Judan”
I. Judan: “Non ti sembra un filtro un po’ azzardato?”
Pen Haruto: “Non direi, da qualcuno le doti artistiche le avrai prese, punto tutto su tua madre, non ti avrebbe mai dato un nome che non stesse bene con tutto il resto, Iesada”
Silenzio.
Se c’era una cosa che davvero turbava Pen di quel metodo di comunicazione, ancora di più di non vedersi in faccia, ancora di più di non poter sentire le rispettive voci e l’intonazione e osservare i gesti, erano le pause.
Quelle prolungate, che non sapeva come interpretare, se come la fine della conversazione, come un imprevisto dall’altra parte dello schermo o come una sua uscita infelice.
Certo in quel momento Pen aveva la doppia speranza che la mancata risposta potesse indicare che ci aveva finalmente preso ma anche così…
I. Judan: “Scusa, controllavo l’ora per la maschera. E comunque ritenta, sarai più fortunato. Io vado a sciacquarmi e fare pipì”
Pen mosse le dita senza pensare.
Pen Haruto: “Dammi il tuo numero”
Ma forse ci aveva messo comunque troppo, visto che dopo trenta secondi ancora non era arrivata una risposta.
I. Judan: “Come?”
Pen Haruto: “Il tuo numero di telefono. Così se interroga ti avviso”
Pen riportò le mani davanti al viso, le dita giunte a nascondere bocca e naso, il fiato sospeso. Non aveva nessun motivo ragionevole per stare così in tensione, voleva solo tenere i contatti con una persona con cui era piacevole parlare e che lo faceva ridere.
Eppure la poltroncina sotto di lui non molleggiava certamente da sola e lo stomaco gli fece una capriola quando dieci cifre apparvero nell’ultima riga della finestra di chat e poco ci mancò che gli scappasse un grido di esultanza.
I. Judan: “Mi aspetto venga usato responsabilmente”
Pen Haruto: “È in ottime mani. Posso salvarti come Iwai?”
I. Judan: “Mio dio, assolutamente no!”
 

§
 

Izou non era una persona diffidente. Tutt’altro. Si considerava un animale sociale, capace di trovare un punto di incontro praticamente con chiunque, l’anima della festa.
Trovarsi a fare gruppo con sconosciuti non lo metteva a disagio, era così che aveva conosciuto Ace e poi che lui, Ace e Satch avevano conosciuto Marco.
Izou non era una persona diffidente. Izou era una persona cauta.
Trovava profondamente ingiusto essere additato a diffidente quando la sua era solo sana cautela nello snocciolare dettagli personali e intimi finchè il rapporto non si definiva meglio sull’asse dell’amicizia.
Non portarsi gente appena conosciuta a casa era cautela.
Non sganciare il proprio numero di telefono dopo un primo contatto era cautela.
Non rivelare il proprio nome a Pen Haruto era innegabilmente cautela.
Non era neanche un conoscente, non sapeva cosa avrebbe potuto farci con il suo nome completo, anche se, okay, gli aveva dato il proprio numero di cellulare ma solo perché continuare a comunicare solo con la chat di Reverie era snervante.
Almeno quanto Satch che gli continuava a chiedere aggiornamenti su di lui, su di loro, insinuando che la cautela di Izou stava iniziando a sfociare nella diffidenza.
Satch non sapeva di cosa stesse parlando.
Izou non provava diffidenza nei confronti di Pen Haruto, non era quello il problema. Per essere precisi, non ci sarebbe proprio stato un problema, se Izou avesse provato niente per Pen Haruto.
C’era una familiarità nelle loro conversazioni, sin dall’inizio, che in altre circostanze sarebbe bastata a incasellare Pen Haruto nella categoria “amici”, se solo Izou non fosse stato consapevole che quello strano rapporto, che si era creato nel blackout di due webcam spente e una pandemia, fosse da definire su un asse diverso da quello dell’amicizia, almeno per lui.
Era nell’entusiasmo con cui si era ritrovato ad aspettare le lezioni del webinar, prima, e nell’urgenza con cui afferrava il telefono a ogni vibrazione da messaggio, poi. Era tutto lì, impossibile da ignorare, anche se non era chissà che.
Per il proprio benessere mentale non poteva essere chissà che. Per il proprio benessere mentale, si raccontava che fosse cautela la sua caparbietà nel non dirgli il proprio nome, non una garanzia che Pen gli avrebbe scritto almeno finché non avesse scoperto come si chiamava.
Per il proprio benessere mentale, Izou non gli aveva mai proposto una videochiamata né aveva mai usato un vocale perché Izou si rendeva conto che sarebbe potuto essere ben più preso di così da Pen Haruto e che non sarebbe servito poi molto, non quando era bastata una conversazione sulla sua maschera al cetriolo per entrargli in testa.
Sarebbe bastato così poco. Come ad esempio ricevere un vocale da Pen, sentire la sua voce, immaginarsi da quel momento in avanti ogni suo singolo messaggio pronunciato con un timbro di cui fino a quel momento non aveva cognizione.
Sarebbe bastato ascoltare il vocale che Pen gli aveva appena mandato.
Izou era conscio di non avere poi molte alternative. Il messaggio era lì, con la doppia spunta ancora grigia ma non poteva restare così per sempre. O meglio poteva, se Izou accettava di non sentire mai più Pen Haruto.
Il dito sfiorò appena lo schermo, accompagnato da un sospiro. Che gli aveva fatto, senza che neanche lo avesse mai visto in faccia o ci avesse mai parlato di persona, Izou non se lo riusciva a spiegare e, la cosa peggiore, neanche gli importava spiegarselo.
 
«Ehi Itachi, disturbo? Scusa il vocale ma sto andando in farmacia»
 
Izou si accigliò, neanche il tempo di assorbire l’effetto della voce di Pen che si stava già preoccupando.
 
«Nessun sintomo, sto solo andando a prendere l’antistaminico. Ma comunque! Non ho saputo resistere, mi è appena successa una cosa incredibile e te la doveva raccontare subito, aspetta… Okay, dicevo. Mi ha appena chiamato Iceburg, a quanto pare Reverie ha una funzione che permette all’admin di un gruppo di vedere le attività di tutti i membri del gruppo. Quindi siamo stati sgamati, Iceburg sa che abbiamo chiacchierato tutto il tempo durante il webinar, anche se non sa che cosa ci siamo detti»
 
Izou ascoltò allibito il trillo che indicava la fine del vocale, seguito subito dall’inizio del successivo. E non sapeva cosa lo avesse colpito tanto. Se il fatto che Iceburg non avesse detto niente, se l’euforia che gli sembrava di sentire nella voce di Pen, se la voce di Pen.
La voce di Pen era probabilmente la rispsota giusta. Avrebbe dovuto lavorare in radio. O fare il doppiatore. O anche passare il tempo a mandare vocali a lui.
 
«Comunque insomma, ha pensato fossimo amici e dice che deve aver segnato male il tuo indirizzo email perché non riesce a mandarti l’attestato di partecipazione, e prima che potessi dirgli che non ho la tua email e che non ero neanche a casa, me l’ha letta per chiedermi conferma. Ti confesso che da te non mi aspettavo avessi usato la classica formula nome.cognome e so anche che non è molto aderente alle regole del nostro gioco ma, non me la sono andata a cercare per cui, insomma…»
 
Izou rimase immobile con il cellulare all’orecchio e il fiato sospeso.
 
«... Piacere di conoscerti, Izou»
 
Izou esalò, occhi sgranati. Era fottuto.
 

§
 

«Cosa fai qui?»
Fu l’entusiasmo malcelato nel tono sorpreso di Shachi a non lasciargli dubbi su chi avesse suonato alla porta. Sorrideva già quando raggiunse l’ingresso, dove Law aspettava che il suo ex coinquilino e amico storico si togliesse dalla porta e lo lasciasse entrare.
«Con il tesserino medico posso andare ovunque»
«Ma c’è il lockdown!» protestò Shachi.
«E allora?» fu l’asciutto commento di Law, mentre già si sfilava le scarpe.
«Preparo il caffè» annunciò Pen, ribollendo di gioia per l’inaspettata visita e conseguente rimpatriata.
Non aveva un’idea precisa di quanto tempo fosse effettivamente passato dall’ultima volta che erano stati insieme fisicamente tutti e tre. Anche se si videochiamavano abbastanza regolarmente, non era lo stesso che vedersi di persona.
Vedersi di persona era diverso, Pen non poteva negarlo. Non poteva negare di pensarlo. Non poteva negare che ne stava avendo una prova tangibile in quello stesso momento.
E se era diverso per loro, che erano amici da una vita e conoscevano le rispettive facce…
 «Pen, amico?»
Pen posò uno sguardo interrogativo su Shachi, sguardo che si fece perplesso quando si accorse dell’espressione accigliata dei suoi amici.
«Che c’è?»
«Stai bene?­»
«Sì, perché?»
Fu la loquace occhiata di Law che si abbassava verso la sua tazzina. Si accorse che stava picchiando ritmicamente il cucchiaio contro la ceramica e che non aveva idea di quale fosse stato l’argomento di conversazioni per svariati minuti.
«Oh» commentò, posando il cucchiaino e giungendo i polpastrelli sopra la tazzina e davanti al viso.
Law e Shachi si scambiarono un’occhiata, prima di riportare l’attenzione su di lui.
«Se qualcosa non va…­» cominciò Law, cambiando posizione sulla sedia.
«No no!» lo interruppe Pen, alzando le mani ai lati del viso, per poi riportarle davanti alla bocca, lo sguardo di nuovo perso nel vuoto, riflessivo.  
Law e Shachi si scambiarono un’altra occhiata.
«Pen…»
«Mi piace un ragazzo»
La mascella di Shachi rischiò di toccare il tavolo mentre Law, impassibile, aveva l’aria di essere ancora in attesa.
Pen spostò gli occhi da uno all’altro, indeciso su come proseguire, e si soffermò un attimo di troppo su Shachi, che richiuse con grande sforzo la bocca e deglutì a vuoto, agitato.
«Pen, io… io… sono lusingato ma… Cioè mi dispia…» balbettò sconnesso solo per venire brutalmente interrotto dall’occhiata incredula e il sopracciglio svettante di Law, che si rivolse a Pen subito dopo averlo zittito.
«Come lo hai conosciuto?»
Pen lo guardò di sottecchi. Non si stupiva che in pochi istanti Law si fosse già orientato nella giusta direzione. «A un webinar. E ci sentiamo. Spesso anche e mi trovo bene a parlare con lui»
«Ma…­­­»
«Non so che faccia abbia. Non ci siamo mai visti»
Il sopracciglio di Law si sollevò di nuovo, molto lentamente, ad accompagnare un’espressione che aveva un che di vagamente divertito e Pen percepì distintamente del fumo uscirgli dalle orecchie. Inalò a fondo e sfregò le mani tra loro prima di passarsene una tra i capelli.
«Ehi aspetta un attimo, parli del webinar che hai appena seguito da casa, vero?! Allora avevo ragione a dire che ti comportavi in modo strano quando avevi lezione!»
«Sei ancora fermo lì?»      
«Non è questo il punto, Shachi­»
«Oh okay, allora la prossima volta che mi prendo una cotta anche io ti mentirò spudoratamente e poi vediamo se non è questo il punto»
 «È offeso perché pensava di essere lui» commentò Law, strappando a tradimento un’incredula risata a Pen. Cosa di quella sua rivelazione lo avesse messo tanto di buonumore gli sfuggiva, ma neanche gli importava. Che Law fosse contento, gli bastava senza bisogno di spiegazioni.
Almeno quanto lui che una volta tanto non era andato in paranoia, e ci sarebbero stati tutti gli estremi per andarci, visto che non aveva mai contemplato prima di poter esser attratto dagli uomini. Ma a dire il vero non aveva mai neanche contemplato di non poterlo essere in assoluto, quindi non c’era niente da andare in paranoia.
Eccezion fatta per il dettaglio, appunto, che non aveva mai incontrato Izou di persona e di conseguenza c’era il rischio di...
«Quindi insomma, immagino tu sia preoccupato di averlo idealizzato troppo»
Pen si strozzò con la propria saliva, preso in contropiede anche se non aveva poi così motivo. Era di Law che si parlava, non c’era da stupirsi che gli avesse letto nel pensiero. E neanche c’era bisogno che gli confermasse di avere indovinato.
«Ridimensiona il rapporto. Se ti piace ancora dopo che ti sei ricordato che è un essere umano, non hai niente di cui preoccuparti»
Questa volta gli occhi di Pen si assottigliarono, le sopracciglia corrugate nell’espressione di una muta domanda che Law non aveva bisogno di sentire ad alta voce.
«Chiamalo. Con il video, senza video. Scopri almeno che voce ha» si strinse nelle spalle il moro.
«Ma di che cosa state parlando?» intervenne Shachi, spostando lo sguardo da uno all’altro, mentre il viso di Pen si distendeva in un’espressione a metà tra l’illuminato e il rilassato.
«Okay, io devo andare a fare pipì» annunciò il rosso, alzandosi di slancio, un sorriso da imbecille stampato sulla faccia. «Grazie amico» strinse una spalla a Law nel passargli accanto, lasciando Shachi ancora più interdetto.
Una manciata di secondi di assoluto silenzio seguirono la fischiettante uscita di Pen dalla cucina, prima che Shachi si rigirasse verso Law, puntando il pollice oltre la propria spalla, in direzione del bagno.
«Non starà andando a masturbarsi, vero? Che c’è?! Che hai da guardarmi così?!»
 

§
 

Izou ricontrolló per la terza volta che fosse tutto pronto, appurando, per la terza volta, che non mancava nulla, mentre lanciava per la terza volta un'occhiata all'orologio.
Le venti e cinquantaquattro e tutto era al suo posto, la borraccia, il barattolino di gelato all'uva-fragola, il telecomando della tivù, quello della soundbar, quello del ventilatore che chissà perché lo aveva messo lì visto che non faceva poi così caldo.
Come se il telecomando del ventilatore fosse poi così strano rispetto a guardare un film insieme ma a distanza con Pen. O rispetto al film stesso; Izou non aveva neanche idea del perché avesse proposto quello.
Non aveva idea del perché lo avesse proposto lui, l'idea era stata di Pen ma a Pen la proposta era piaciuta. Doveva essere un amante degli horror. Izou dal canto suo si era lasciato attirare dall'ambientazione della galleria d'arte e dal protagonista.
Velvet Buzzsaw.
Già il titolo non prometteva niente di buono ma ormai era tardi per ripensarci e, comunque, era più curioso di quanto gli piacesse ammettere e lui gli horror da solo non li guardava. Non che tecnicamente non fosse solo, ma...
Il suono a goccia di una nuova notifica stroncó il nuovo treno di pensieri all'uscita della stazione, proprio mentre tornava in salotto dalla canonica pipì prefilm.
Raggiunse il divano e afferrò il cellulare, un vago senso di aspettativa alla bocca dello stomaco.
Pen: “Buonasera, ho una consegna per il signor Judan, un promemoria per una serata film in compagnia”
Izou: “I promemoria dovrebbero servire a ricordarsi dei propri impegni per tempo, non all’ultimo minuto. E poi non te lo sei sudato il mio nome? Ora usalo”
Pen: “Sembra quasi ti dispiaccia se non lo faccio”
Izou percepì uno spasmo allo stomaco, piacevole e perturbante al tempo stesso. Avrebbe voluto ribattere con qualche piccata e acida risposta ma non riusciva a staccare gli occhi dal piccolo “sta scrivendo” verde che appariva e scompariva come se Pen stesse tabulando a bocconi, forse indeciso su cosa dire.
Perché mai sarebbe dovuto essere indeciso su cosa dire? Cosa doveva mai dirgli? Izou avrebbe voluto essere meno coinvolto dalla possibile risposta.
Pen: “In ogni caso non ho temuto neanche un istante che ti potessi dimenticare. Hai la mia totale fiducia, Izou Judan. E a proposito, sei pronto?”
Lo spasmo si trasformò in un crampo di breve durata, fastidio o forse dispiacere, Izou non sapeva neanche per cosa. Forse perché intanto il termine giusto era “delusione” e poteva essere per la disattesa aspettativa di ciò che Pen stava scrivendo, o perché da quando aveva scoperto il suo nome Pen lo aveva usato raramente senza metterci il cognome, o preferirigli “signor Judan”, o continuare a usare nomi giapponesi che iniziavano per I.
Forse era che Izou riteneva non avrebbe dovuto deluderlo affatto, era che non gli piaceva per niente trovarsi in quella bolla, sapendo che era destinata a scoppiare prima o dopo, ma ora Izou non voleva rovinarsi la serata. Poteva sempre metterci un freno poi, ci avrebbe pensato a tempo debito.
Qualche passo indietro e tutto sarebbe tornato come prima, quindi era sciocco non godersi l’attimo per delle inutili pare.
Izou: “Io sono sempre pronto, per qualsiasi evenienza, Pen Haruto. Ma non riusciremo mai a coordinarci alla perfezione, mi auguro tu lo sappia”
Pen: “Basta capire chi dei due è più in differita dell’altro per non farci spoiler. Dammi tu il via”
Izou avrebbe giurato di aver percepito dell’eccitazione nel messaggio di Pen, che probabilmente amava intrattenersi in quel genere di attività con i propri amici. Agli occhi di Pen forse era addirittura il battesimo di fuoco di Izou, quella serata, e Izou si voleva impegnare.
Non aveva mai commentato un film per via scritta ma fu con sollievo che scoprì che non gli risultava poi così difficile senza perdersi nessun passaggio saliente. Forse anche perché il suo istinto non aveva sbagliato e la trama era fedele alle aspettative che titolo e trailer trasmettevano, sebbene ben fatto. E molto più godibile con i commenti di Pen ad accompagnarlo di quanto mai lo sarebbe stato in visione solitaria.
Almeno fino alla prima morte. Izou aveva capito che stava per arrivare, sapeva che genere di film stavano guardando, la musica, l’atmosfera. Si era aspettato la morte, non che delle maledettesime scimmie dipinte prendessero vita e cacciasero le zampe fuori dalla tela per seviziare il gallerista curioso.
Il cuore in gola, Izou si accorse di essersi schiacciato contro lo schienale, di provare un violento desiderio di mettere in pausa e che il suo cellulare stava suonando. Senza riflettere, senza guardare, Izou lo portò all’orecchio strisciando il bottone verde.
«Delle scimmie dipinte?! Sul serio?!»
«Non te la prendere con me, mica lo sapevo!»
«Delle scimmie!»
«Delle scimmie!» confermò Izou, un principio di risata sulle labbra.
«Delle fottutissime scimmie!» ribadì Pen, il divertimento palpabile nella sua voce.
«Lo so! Che razza di gente malata scrive una cosa simile e…»
La sua voce.
Quella di Izou gli morì in gola quando realizzò che quella di Pen stava parlando in diretta. Erano al telefono. Stavano parlando al telefono, come una chiamata, come una normale conversazione.
E non che fosse la prima volta che comunicavano vocalmente ma era sempre stato comunque tramite vocali e questo era così diverso, così famigliare e… intimo.
E Izou non si era neanche accorto di aver risposto, non si era neanche posto il problema, lui…
«Izou, ci sei?»
«Eh? Oh sì, sono qui, sono qui, scusa è che stavo… mettevo in pausa» affermò, fissando il telecomando che neanche si era accorto di aver afferrato.
«Ah anche tu?! Allora non devo fare finta che in realtà non voglio perdermi pezzi per capire che cosa cavolo succede ora!»
La risata di Pen era come uno scacciapensieri di conchiglie appeso in un portico, ma la voce era profonda come il mare, rassicurante come lo sciabordio delle onde. Izou sarebbe potuto stare ad ascoltarla per ore.
«Non devi, non serve tu faccia mai finta con me» affermò prima di rendersi conto e un lungo silenzio seguì la sua affermazione. Ma, per qualche ragione, neanche il più vago sentore di panico si insinuò sotto la pelle di Izou. Sapeva che non era un silenzio negativo. Non sapeva come ma se lo sentiva e, ciò nonostante, la leggerezza lo pervase quando Pen ridacchiò di nuovo, all’altro capo del filo.
«Ehi Pen…­»
«Okay allora adesso ti las… sì, dimmi!»
Aspettativa. Izou la riconobbe subito nel suo stomaco, nella voce di Pen se la stava probabilmente immaginando. Forse.
«Pensavo, non è più pratico commentare in diretta così? Possiamo coordinarci meglio per essere sempre allo stesso minuto e poi onestamente… io mi sono preso un colpo, non so te, ma preferirei non essere da solo per il resto di questa roba!» sgranò gli occhi, svolazzando una mano nell’aria, anche se nessuno poteva vederlo.
Ma gli sembrava solo equo, se voleva che con lui Pen fosse sempre spontaneo e non si trattenesse, fare altrettanto.
«Se non vuoi ovviamente io…»
«Voglio! Mi… mi farebbe piacere restare al telefono sì»
Izou sentì le proprie labbra arricciarsi all’insù. Su tutte le altre sensazioni era meglio non soffermarsi, decise.
«Okay» sussurrò, quasi un soffio, un segreto.
«Okay. Io sono al minuto…»
 

§
 

Alla fine Velvet Buzzsaw si era rivelato senza infamia e senza lode. Un’ambientazione di tutto rispetto incastrata con una trama che avrebbe potuto dare di più del classico horror medio, ma tuttavia abbastanza poco banale da essere sufficientemente intrattenitivo. Se visto in compagnia, ecco.
«Non guarderò mai più l’arte contemporanea con gli stessi occhi»
«Nel senso che d’ora in poi cercherai segni di omicidio nei pressi di qualsiasi opera?»
«Precisamente!»
Izou non sapeva da quanto fosse finito il film, da mezz’ora forse, forse di più, erano ancora al telefono e per Izou ci sarebbero potuti restare anche tutta la notte. Era stato divertente pronosticare chi e come sarebbe morto durante la visione, soddisfacente e a tratti goliardico commentare la pellicola a posteriori, e Izou fremeva per scoprire che aggettivo avrebbe descritto lo scivolare in rilassate chiacchiere su tutto e niente.   
«Stavo per dichiarare che non metterò mai più piede in una galleria d’arte ma non posso perdermi lo spettacolo di te che ti improvvisi detective»
Izou ridacchiò sdraiato sul divano, una mano incastrata nei capelli una volta tanto sciolti, mentre scuoteva piano il capo. Ormai non si stupiva più dell’inadulterata sintonia che permeava l’aria intorno a lui quando parlava con Pen.
«Ehi, Izou… Senti…»
Izou spalancò gli occhi. Ovviamente la sintonia si era dissolta nel momento esatto in cui aveva prodotto il pensiero, figurarsi. Scemo lui.
Fatto sta che Pen aveva finalmente usato il suo nome senza aggiungerci niente e il suo tono era tutt’altro che rilassato, aveva anche esitato e, se aveva sentito bene, deglutito pesante prima del “senti”.
«Che succede?»
«So che ora non è possibile, che c’è il lockdown e non dipende da noi ma i-io vorrei incontrarti. Di persona. Non appena sarà possibile, insomma, potremmo già farlo a distanza però…»
Izou si rimise a sedere sul divano, il volto improvvisamente una maschera, in contrasto con le violente sensazioni che il resto del suo corpo stava inviando freneticamente al suo cervello. Non si era aspettato che la bolla fosse destinata a scoppiare così presto.
Perché non poteva dire di sì, non sarebbe finita bene, non poteva finire bene, non dopo aver idealizzato così tanto quel rapporto dietro il monitor di un cellulare a fare da scudo. E Izou si era raccontato solo bugie a dirsi che non era poi così coinvolto, era decisamente troppo coinvolto, troppo per affrontare il fallimento, la delusione di scoprire che senza pandemia e lockdown e l’incognita di quale fosse il loro aspetto quel rapporto non poteva sopravvivere.
«Io penso che sia meglio di no­»
Non si accorse di aver parlato finché non sentì la propria voce, così distaccata da essere irreale.
Un «Oh» dall’altro capo del telefono e poi più niente. Silenzio. Che stava già durando troppo.
«Mi dispiace, è molto tardi, ora devo andare. Grazie della bella serata e buonanotte»
Il cellulare precipitò sul divano con un tonfo sordo. Qualcosa nella sua cassa toracica aveva prodotto un rumore molto simile.
 

§
 

Izou si sentiva un idiota.
Amava il proprio lavoro, lo amava. Amava meno, ed era un eufemismo, la pressione che l’ambiente metteva addosso in certe situazioni, che gli venisse detto di ostentare di più la propria omosessualità quando metteva i mocassini e che i tacchi del giorno dopo venissero presi come un atteggiamento accondiscendente verso i consigli non richiesti, anziché per ciò che erano, ovvero una scelta di stile.
Ma non tutti i colleghi erano così, la moda era il suo regno da sempre, la pittura una passione che in quel lavoro poteva trovare un impiego e la sua posizione a dir poco desiderabile, alle dirette dipendenze di Whitey Bay che si fidava ciecamente di lui. Così ciecamente di affidargli il primo shooting fotografico dall’inizio del lockdown.
Dopo settimane di articoli messi insieme con immagini di archivio e manichini per modelle, tutto sempre in ambienti chiusi e rigorosamente asettici, tutto controllato in remoto e spesso a posteriori, erano di nuovo all’aria aperta, con tutti i permessi per lavorare con modelle e modelli in carne e ossa - si sperava nella giusta proporzione - e a contatto con altri esseri umani, in presenza, reali e tangibili oltre la distanza di sicurezza che, comunque, la direzione si era più volte raccomandata, non andava superata se non in caso di estrema necessità.
A Izou non sembrava vero, a Izou sembrava un’occasione da segnarsi a fuoco nella memoria, anche se le norme stringenti dei primi tre mesi e mezzo si iniziavano ad allentare e si intravedeva un po' di luce in fondo del tunnel. Era incline a pensarla come Marco, a cui una volta tanto persino Satch aveva dato retta e ragione, che gli avrebbero liberati per l’estate per poi tornare alla chiusura in autunno. Quindi Izou non voleva illudersi ma voleva comunque godersi il momento.
Solo che si sentiva un idiota.
Era stata una piacevole sorpresa scoprire che la sua idea di un servizio sulle collezioni estive di mascherine griffate fosse stato non solo approvato, ma anche accolto con grande entusiasmo. Era stato eccitante vedersi assegnare il primo progetto tutto suo, da senior, e scoprire di esserne perfettamente all’altezza, non tanto per mansioni come scelta della location, dei soggetti, delle collezioni appunto e del tema. Bay lo coinvolgeva sempre su ognuno di quegli aspetti.
Era stato più essere il riferimento di ogni singolo membro coinvolto nel progetto, controllare tutti i modelli e le modelle, rispondere al triplo delle domande a cui era abituato a rispondere quando lo faceva in veste di assistente. Se l’era cavata, più che egregiamente, era ancora lucido nonostante la quantità di parole a mitraglia che aveva dovuto immagazzinare, il servizio stava procedendo senza intoppi.
Eppure, si sentiva un idiota.
Il set era spettacolare. Liguria Plaza, nel quartiere di Water Seven, riverberava di blu ogni ora del giorno e quando il sole tramontava, incendiando il deserto che Raftel era da settimane, virava semplicemente all’indaco per un fenomeno che nessuno sapeva spiegare. Era come trovarsi sul fondo dell’oceano.
Izou aveva pensato molto all’acqua in quei giorni, al potere calmante che l’acqua aveva su di lui. L’acqua era leggerezza, l’acqua era purificatrice.
«Okay a posto! Vai! Sii fluida e impalpabile come l’acqua!» rispedì Lulis verso la spettacolare fontana monumentale Aqua Laguna, dopo averle sistemato due boccoli rossi e la cintura dell’abito, e si portò quattro dita alle tempie sudate, gli occhi chiusi. «Certe volte mi sento un idiota a dire queste cose»
Ed era appurato che Izou si sentisse un idiota ma a onor del vero non era una sensazione che si portava dietro da pochi secondi, ma da due settimane.  E non per ciò che aveva appena detto a Lulis, ovviamente, ma per qualcosa che aveva detto a qualcun altro. Qualcuno di infinitamente più importante.
Io penso che sia meglio di no.
Io penso che sia meglio di no.
Io penso che sia meglio di no.
Come aveva fatto a essere così stupido?! Anziché ignorare l’istinto e concedersi un attimo per riflettere, prima di rispondere, magari prendendo tempo e invece…
Aveva cercato di ignorare la pregnante assenza di Pen per tutta la prima settimana, dopo la famigerata serata di Velvet Buzzsaw. La sua credenza, che sarebbe bastato fare pochi passi indietro e smettere di sentirlo con tutta quell’assidua frequenza, per tornare alla normalità pre-Pen Haruto, si era rivelata ovviamente errata e non si stupiva neanche più.
Aveva pensato e fatto e detto talmente tante cose sbagliate in quegli ultimi mesi.
Poi era arrivata la notizia del servizio sulle mascherine e, in un mix di nostalgia, adrenalina e delirio di onnipotenza, aveva preso la scusa per scrivergli. Gli aveva raccontato ogni cosa, ogni dettaglio, persino quando e dove avrebbe diretto il suo primo photoshooting, ma consapevolmente fingendo che non fosse successo nulla. Che i sette giorni di vuoto e nulla fossero stati solo sette giorni molto pieni e impegnati per entrambi.
Pen non aveva risposto.
Niente su Whatsapp, niente su Reverie, niente sulla mail di Izou che, in effetti, Pen non aveva mai usato e quindi era stato anche idiota controllare. Davvero inaspettato, che avesse fatto una cosa idiota.
E poi, due giorni prima del grande evento, Izou si era finalmente deciso a fare ciò che andava fatto e in un lungo messaggio gli aveva detto tutto. O quasi.
Che era dispiaciuto, che si era fatto prendere dal panico, e questo non lo giustificava, ma sapeva di averlo deluso. Che mai nella vita gli era capitato di instaurare un rapporto con qualcuno che non conoscesse la sua faccia e che, così abituato dall’avere il proprio aspetto messo davanti a tutto il resto, non sapeva cosa aspettarsi dal loro incontro.
Gli aveva detto tutto, tranne che l’idea di perderlo lo atterriva.
E forse era già successo perché Pen non aveva risposto neanche a quel papiro e Izou non ci voleva pensare, non ci poteva pensare, e aveva deciso di non controllare il telefono fino alla fine dello shooting, dopodiché, senza più il servizio a tenerlo impegnato non sapeva che cosa avrebbe fatto per non soccombere.
Ma ora aveva ancora qualcosa con cui riempirsi il cervello per anestetizzare il cuore.
«Izou?»
«Sì­» si voltò abbassando le mani, verso un ragazzo che lo superava di mezza spanna, occhi dal taglio dritto e leggermente allungato, mascella squadrata evidente nonostante la mascherina, zazzera spettinata a regola e rossa. «Devi fare pausa?» si accigliò per un attimo il moro, prima di realizzare con una rapida occhiata che il ragazzo era ancora in borghese. Era appena arrivato. «L’area per i modelli è là. Con questa situazione dobbiamo tenere tutto il più separato possibile. Dai il nome e ti daranno gli outfit che hanno preparato per te, poi ci vediamo sul set» spiegò pratico e rapido a quell’ultimo acquisto, oer giunta in ritardo, che però non ricordava davvero chi fosse. Di solito non aveva problemi a memorizzare le facce e associare i nomi.
Non che il ragazzo sembrasse aver inteso le sue parole. Era ancora fermo lì a fissarlo e Izou cominciava a spazientirsi. Poi, il ragazzo scoppiò a ridere e il suono di uno scacciapensieri riecheggiò nei ricordi di Izou.   
«Beh sono lusingato. Anche se forse è merito della mascherina e non dovrei esaltarmi troppo»
Izou trattenne il fiato, il volto più bianco che mai con il sangue tutto defluito allo stomaco.
Non poteva essere, doveva stare allucinando eppure quella voce… Un po’ diversa senza il filtro del telefono ma non così tanto, ovattata dalla mascherina ma non abbastanza. La voce di…
«P-Pen?­»
Un primordiale, irrazionale slancio di perfezionismo lo pervase. Per un attimo si domandò se lo chignon fosse a posto, allentato e spettinato il giusto, se non fosse troppo sudato e poi l’eyeliner, il rossetto che tanto non si vedeva. Poi si ricordò di tutto il resto e prese a domandarsi cosa ci facesse lì Pen.
Perché quello era Pen, nessuna risposta verbale avrebbe potuto essere più eloquente di come il ragazzo si stava accarezzando il coppino, gli occhi al suolo accesi da un sorriso imbarazzato. Izou lo stava ancora fissando pietrificato quando Pen risollevò il capo e, perso lo sguardo nel vuoto per un attimo, mando giù a vuoto e prese un profondo respiro prima di cercare di nuovo il contatto visivo.
«Forse non avrei dovuto ma ho pensato… In effetti, forse non ho pensato» ammise con un altro sospiro. «Ho riletto il tuo messaggio non so quante volte e non funzionava nessuna risposta, se non di persona. Mi faceva ipocrita dirti che non mi sarebbe importato neanche se avessi due teste via messaggio» buttò fuori tutto d’un fiato.
Troppo diretto, probabilmente. Non che avesse senso girarci intorno ma a giudicare dall’espressione di Izou poteva avergli rotto qualche sinapsi.
«Per la cronaca, non mi è neanche chiaro di cosa saresti preoccupato» tentò ancora, indicandolo con una risata nervosa, ma ancora nessuna reazione sembrava destinata a pervenire da Izou.
Pen esalò una terza volta, l’ultima, rassegnato. Dopotutto, lo aveva messo in conto che le scuse di Izou non significassero necessariamente che avesse cambiato opinione, sul portare il rapporto a un livello diverso dall’amicizia virtuale. Così come mai si era concesso più di semplicemente sperare che Izou ricambiasse i suoi sentimenti.
E, certo, non andava bene ma non poteva fare altro che accettarlo.
«Ora immagino sia meglio che vada, stai lavorando e…» le parole gli morirono in gola quando dita non proprio ferme e stabili  si intrecciarono alle sue, tirando appena per impedirgli di allontanarsi, prima ancora che Pen avesse anche solo avuto tempo di muoversi.
Il fiato sospeso, il cuore a mille, Pen spostò lo sguardo dalle loro mani al volto di Izou, mezzo coperto ma gli occhi dicevano abbastanza.
«Mi dispiace»
Pen si avvicinò, strinse la presa. «Lo so, non devi scusarti ancora»
«Ero nel panico, lo sono da quando mi hai mandato il primo vocale»
«Cosa?!»
«Ma è un panico così eccitante! Come quando c’è il temporale e le onde di cinque metri e vorresti lanciarti comunque in acqua!»
«Ehi aspetta! Come sono passato da modello a catastrofe naturale?!»
Izou scoppiò a ridere «Mi hai incasinato il cervello, lo sai, Pen Haruto?» si fece più vicino anche lui, abbastanza da premere la fronte contro la sua e Pen non perse tempo a procedere.
Poteva sembrare strana, tutta quella intimità al loro primo incontro, se non avessero saputo entrambi che, in realtà, quell’intimità era lì da settimane, in attesa solo di potersi manifestare con i gesti oltre che con parole di cristalli liquidi.
«Mi dichiaro colpevole, Vostro Onore» Pen incastrò tra loro anche le dita delle mani libere. «Posso restare?»
«Sì. Per favore» Izou mosse il volto per strusciare il proprio naso sul suo, come un gatto intento a fare le fusa, e sospirò rilassato, finalmente calmo dopo giorni di mare mosso e tempesta. «Lo sai?»
«Cosa?»
«Non riesco a credere che tu sia rosso. Oggi è tipo il giorno più bello della mia vita»
 
 


Angolo dell'autrice:
A-ehm. 
Prova microfono. Mi sentite? Sì? No? 
Okay, la verità è che non ho scuse, la mia vita si è un po' incasinata e ora sono di nuovo un po' più non incasinata e quindi insomma, eccomi di ritorno. Ancora.
Non ho molto da dire sulla storia. La coppia è strana, lo so e non penso sia una novità con me. Il film è opinabile ma per qualche ragione mi sembrava assolutamente perfetto per loro! E per finire, nella cronologia narrativa, questa storia viene prima del secondo e del terzo capitolo, è la prima ondata per intenderci, quella del 2020. Wow, 2020! Sembra passato mooolto di più.
La verità è che mi mancavate e spero ci sia ancora qualcuno dietro a questo schermo che ha ancora voglia di leggermi.

Oh giusto! "Judan" è una parola giapponese, vuol dire pallottola, ma come cognome non suonava così giapponese e quindi insomma, il resto è nella storia. 

Grazie a chi è passato da qui. ;)

Pace e bene a tutti e un bacione. 
Sempre vostra, 
Page. 
 

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