Breve trattato sulla semina di fallimenti

di time_wings
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ba Sing Se ***
Capitolo 2: *** Oshubi ***
Capitolo 3: *** Gaoling ***
Capitolo 4: *** Il Tempio dell'Aria dell'Est ***
Capitolo 5: *** Kao Lai - Parte 1 ***
Capitolo 6: *** Kao Lai - Parte 2 ***
Capitolo 7: *** Kao Lai - Parte 3 ***



Capitolo 1
*** Ba Sing Se ***


Ciaaao allora questa storia è già esistita per molti mesi (cinque e un po' più, per la precisione) in formato One Shot nonostante il numero notevole di parole e l'evidente difficoltà che questo comportava perché nella mia testa era nata come One Shot e non riuscivo a vederla in nessuna altra maniera. Questo finché stamattina non mi sono messa a scrivere i progetti di scrittura per l'anno nuovo e ho plottato un seguito per questa storia. Ci ho visto la possibilità di costruirci una serie e improvvisamente il fatto che fosse una OS mi ha disturbato un sacco quindi eccomi arrivata a fare ciò che avrei dovuto fare cinque mesi fa. Se l'avete già letta è ESATTAMENTE la stessa storia, non la rileggete, è completamente inutile, è proprio uguale. Se non l'avete già letta ecco le istruzioni per l'uso che comparivano nella versione cancellata, però sintetizzate perché erano inutilmente lunghe: se non avete visto Avatar fa niente, è tutto spiegato, se l'avete visto è ambientata 15 anni prima dei fatti di Avatar e ci sono easter eggs, divertitevi! La storia è scritta con l'intento di non snaturare lo spirito della serie, quindi i nomi dei luoghi inediti, i paesaggi, alcune usanze sono stati mantenuti quanto più vicini allo stile della serie. Oooookay, grazie per l'attenzione e buooona lettura genteh!






Breve trattato sulla semina di fallimenti






 

Acqua.
Terra.
Fuoco.
Aria.
Molto tempo fa, nel mondo regnava la più completa armonia. Poi tutto cambiò quando la Nazione del Fuoco decise di attaccare. Solo l’Avatar, padrone di tutti e quattro gli elementi, poteva fermarla, ma quando il mondo aveva più bisogno di lui, scomparve.
Sono passati ottantacinque anni e dell’Avatar ancora non si hanno tracce.

 
 
PARTE PRIMA

Ba Sing Se

 
I gemelli Miya avevano perso il conto delle volte in cui avevano detto loro che erano destinati a fallire.
E l’avevano perso perché se ne infischiavano. Non che credessero di essere destinati al contrario a chissà quale ricchezza, ma il futuro remoto non aveva alcuna importanza.
A dire il vero non se la cavavano granché neanche con quello prossimo, perché nella lista di cose che si aspettavano sarebbero successe quel giorno ecco cosa non figurava: un bisonte volante, il Dai Li e una verità scomoda che veniva a galla. Senza contare che mai avrebbero immaginato che avrebbero lasciato quello schifo di posto. Presumibilmente per sempre.
L’acciottolato correva ai loro piedi nella forma di un pretesto, una gentile concessione pronta a piegarsi, se solo glielo si chiedeva gentilmente e con i corteggiamenti appropriati.
“Ehi!” urlò un uomo. Indossava un copricapo verde scuro che lo faceva assomigliare a un carciofo ed era tenuto su così male che il signore se lo manteneva con una mano, mentre agitava l’altra correndo come un matto. Il 90% delle volte, quando qualcuno si rivolgeva ai gemelli Miya con ‘ehi’, dopo aggiungeva sempre anche… “Tornate qui!”
Atsumu rise, intascò il borsellino tintinnante e indicò suo fratello.
“Fermatevi, vi dico!”
L’uomo mosse una mano per acciuffarli, ma, un attimo prima di sfiorare la maglietta di Atsumu, Osamu mosse il polso e un ciottolo si levò verso l’alto, fluttuando in aria giusto il tempo di esibirsi in qualche rapida rotazione, poi fece lo sgambetto al signore.
Lui incespicò ma non cadde. Anni e anni di convivenza con quel copricapo improbabile dovevano averlo reso un equilibrista provetto.
Sullo sfondo, case squallide si susseguivano in un turbinio di bianco sporco e tetti scuri. Odori acri spuntavano agli angoli delle strade come visitatori fantasma. Secondo il modesto parere di Osamu Miya, se non ti uccideva la noia lo faceva l’anello esterno di Ba Sing Se.
“Ma vedi un po’ tu se…” la voce dell’uomo si perse nella loro stessa velocità.
Ba Sing Se era una città complicata. Troppo grande perché vi si potesse accostare un solo aggettivo, troppo mutevole perché due poi fossero coerenti. Nessuno poteva dire di conoscerla come le sue tasche, non c’era anima al mondo che vantasse una mappa di ogni vicolo, ogni locale da evitare, ogni affare da accaparrarsi e ogni amore da gustare, ma l’anello esterno non aveva segreti per Osamu e Atsumu.
Lo navigavano come marinai esperti nel mare più calmo del mondo e, quando le acque minacciavano tempesta, semplicemente se la cavavano con l’astuzia.
I ragazzi si scambiarono un’occhiata d’intesa, poco più lenta dello scintillio che si coglie solo incrociando lo sguardo del proprio riflesso, appena più veloce di quella che si intuisce negli occhi di un fratello. Osamu pestò un piede per terra e sollevò le braccia. Un muro poco più alto di lui si levò dalla terra come se qualcuno avesse cercato di avvicinare i lembi opposti di un tappeto. La pietra scricchiolò e si assestò e, mentre la loro povera vittima si concedeva un momento di sorpresa, i gemelli si infilarono in una delle mille stradine buie che il nuovo muro adesso nascondeva.
“Aaaah” Atsumu rallentò il passo e incrociò le mani dietro la testa. Le mura degli edifici così vicini facevano rimbombare la sua voce. Da qualche parte una goccia d’acqua si infrangeva in plick costanti nel silenzio surreale del vicolo. Le monete del malcapitato che avevano seminato tintinnavano nella tasca di Atsumu a ogni suo passo. “Questa non me l’aspettavo proprio, ‘Samu.”
Lui scrollò le spalle. Stava per dire qualcosa, ma due mani spuntate dal nulla si infilarono nei colletti delle loro casacche e li costrinsero ad arrestarsi con uno strattone non soffocante, ma non gentile. Se la presa rigida non fosse stata abbastanza per svelare l’identità dello sconosciuto alle loro spalle, dall’altro lato della strada si fece avanti Aran, braccia incrociate e un sopracciglio alzato, impossibile dire se fosse divertito o deluso.
“Soddisfatti?” domandò la voce di Kita alle loro spalle. Li lasciò andare per guardarli in faccia e sollevò una mano all’altezza del petto di Atsumu, il palmo rivolto verso l’alto. “Non ha senso derubare i profughi di guerra. Non stanno mica trasferendo interi patrimoni.” Atsumu non accennò ad alzare lo sguardo, Kita lo incalzò a vuotare il sacco. Letteralmente.
Con un sospiro, Atsumu e Osamu si scambiarono un’ultima occhiata sconfitta, poi Atsumu depositò il borsellino con le monete al centro del palmo di Kita. Pensò che la presenza di Aran fosse completamente inutile, così inutile che l’unica possibilità era che fosse lì per godersi lo spettacolo della loro umiliazione.
“Era… molto facile, li stava praticamente sventolando, dovevi veder…” Atsumu si interruppe, perché il volto di Kita non tradiva alcuna emozione. In realtà non lo faceva mai, ma anni di esperienza avevano insegnato ai gemelli che con lui non serviva vedere il disappunto, bastava sentirne l’odore.
Kita si voltò per andarsene con il ‘loro’ borsellino e diede un’occhiata al muro che Osamu aveva alzato. “Bella tecnica,” commentò nel formato di un dato di fatto, poi sparì in cerca del vero proprietario di quelle monete.
Atsumu si grattò il palmo della mano sinistra. Era impossibile ragionare con Kita, perché l’aveva già fatto lui per tutti. Non gliene fregava niente di cosa fosse giusto o sbagliato, gli importava solamente che qualcosa avesse senso ed era difficile fare cose stupide e pretendere poi di giustificarsi, se si veniva messi davanti alla sua logica. Poiché Atsumu passava metà della sua vita a fare cose stupide e l’altra metà a giustificarsi, il suo rapporto con Kita era… burrascoso.
“Andiamo alla Zanna del Serpente?” propose Aran, abbandonando le braccia sulle spalle dei gemelli e guidandoli verso il locale.
Evidentemente non era una domanda.
 
Quello che nessuno sapeva era che il dominio della terra era una cosa che si affinava per strada. Atsumu aveva passato ore, giorni, anni a congelarsi il culo sulle panche di pietra della Zanna del Serpente, a farsi fare ogni tipo di scherzo da suo fratello e i suoi amici. Più li vedeva esercitarsi, diventare i dominatori migliori del vicinato, dell’anello esterno, di Ba Sing Se, del Regno della Terra, dannazione, del fottuto mondo intero, più gli prudevano le mani.
Perché a Ba Sing Se la guerra era finita da un pezzo, il che rappresentava una lieta e gioiosa novella senza dubbio. Il problema era che Atsumu era la guerra, o meglio ne era una prova. E quindi non doveva esistere.
Un errore di sistema in camicia e mani bucate.
La Zanna del Serpente aveva quattro tavoli rotti e quindici sedie dalle gambe non troppo stabili. La sedicesima era sparita una notte di quindici anni prima, stando alle storie dell’uomo gioviale dietro il bancone. La storia completa cambiava periodicamente, più o meno ogni settimana. Se si facevano bene i conti, si poteva ricevere sempre la stessa versione e darla così per vera. Ai ragazzi piaceva fare i rappresentanti ognuno di una versione diversa e, di tanto in tanto, fingere di svelare l’inganno nel locale e lanciarsi in arringhe insensate per difendere l’onore della loro versione. Ormai non si capiva più dove finisse la disonestà del proprietario e dove iniziasse la sua tenerezza nel vederli divertirsi così.
Ma la Zanna del Serpente non era solo una catapecchia dalla clientela eccentrica. In tutto quel nero di tetti e puzza di pesce avariato, il retro del locale offriva un rettangolo di pietra rialzato simile a un palco e panche nello stesso materiale tutt’attorno. Era la meta preferita di vecchi dominatori ubriachi smaniosi di divertimento e giovani dominatori sobri impazienti di migliorarsi.
Ed ecco perché Atsumu, in quel frizzante pomeriggio di chissà-quando, si stava gelando il culo sulla panca sul retro del locale.
Osservò suo fratello e i loro amici tirarsi sassi a vicenda, tenendo annoiato un cucchiaio di legno tra i denti. Negli anni avevano inventato centinaia di giochi e solo la metà di questi non prevedeva l’uso di un dominio, il che significava che Atsumu prendeva parte solo a una fetta di divertimento.
Kita schivò una pietra appuntita e scattante e la costrinse a infrangersi contro la lastra che fece emergere da terra con un movimento metodico della mano, poi mosse rigido un braccio, sferzando l’aria, e tagliò la lastra orizzontalmente per spedirla contro Aran.
Atsumu sospirò annoiato, perché i suoi amici erano ufficialmente entrati nella loro seconda mezz’ora di… qualunque cosa stessero facendo, e la voglia di farsi schiacciare da uno dei loro pericolosissimi attacchi rischiava di divorarlo vivo. Abbandonò la testa all’indietro, liberando un altro sospiro (è possibile che volesse farsi sentire dagli altri, perché, come tutti sanno, è sempre bene lamentarsi il più rumorosamente possibile), poi chiuse gli occhi contro il sole.
Lo immaginò sputare fuoco, lì ad almeno cinquanta milioni di Ba Sing Se intere di distanza. Fiotti e lingue e cascate di trasparenza incandescente, capaci di radere al suolo la loro città inespugnabile, capaci di abbattere le sue mura e, assieme a quelle, la divisione sociale stupida che costituivano.
Atsumu non odiava Ba Sing Se. Era la sua casa, era l’unico posto al mondo che avesse mai davvero conosciuto, era sicurezza, protezione da un mondo esterno che forse neanche esisteva. Però a volte sembrava una prigione. E, per quanto Osamu dicesse di stare bene lì, Atsumu sapeva che per lui era lo stesso.
Mentre pensava al sole, alle sue fruste e alla sua frustrazione, percepì un’ombra passare come una nuvola sopra le sue palpebre chiuse. Poi qualcosa nel cielo ruggì, cosa in cui le nuvole non si dilettano di sovente.
Atsumu aprì gli occhi di scatto.
Non è errato affermare che il suo cervello faticò a elaborare il bisonte volante che stava atterrando… be’ su di loro. Poi Aran, che era senza ombra di dubbio il più assennato della cricca, urlò. Non era una cosa molto alla Aran, ma un bisonte che minaccia di schiacciarti può tirar fuori ogni sorta di reazione.
Alla fine, però, l’animale non si accomodò sulle loro teste, ma effettuò un paio di spirali eleganti a mezz’aria e si posò delicatamente a qualche metro da loro, consentendo al ragazzo che viaggiava sulla sua schiena di scendere con altrettanta eleganza.
“Ehilà!” disse lui, sollevando una mano in segno di saluto e sorridendo. Se Atsumu non avesse avuto tutte le rotelle fuori posto, avrebbe notato la nota nervosa e urgente nel suo sorriso. Ma Atsumu non aveva neanche una rotella nel posto giusto e quindi si innamorò. “Vi andrebbe di farmi un favore?” Se Atsumu non avesse avuto cacca di capra essiccata al posto del cervello, avrebbe capito che il rumore di passi secco e cadenzato in avvicinamento era strettamente collegato al favore a cui accennava quell’angelo. Ma Atsumu aveva cacca di capra essiccata al posto del cervello e quindi abbassò lo sguardo sulle sue mani. Con una gesticolava e con l’altra reggeva una mazza lunga e completamente assurda. Si concesse un solo, piccolissimo pensiero sconcio.
Osamu scambiò un’occhiata veloce con suo fratello, lesse qualunque porcata gli fosse passata per la testa, poi fissò Aran, Kita e la loro voglia di rigare dritto in un anello in cui semplicemente non potevi. “Me ne occupo io,” sussurrò agli amici. Poi al ragazzo: “Che hai fatto?”
“Il Dai Li.”
Atsumu notò un accenno di azzurro sul dorso delle sue mani e, per la prima volta in vita sua, realizzò di avere davanti un’altra creatura che non sarebbe dovuta esistere. Era così abituato a pensare di essere l’unico al mondo che, per un attimo, stentò a crederci.
“Grazie,” continuò lo sconosciuto.
Osamu pestò un piede per terra e una scalinata di roccia si disegnò in contorni via via più tridimensionali, snodandosi sottoterra. Era troppo buio perché si potesse capire dove conduceva. “Andiamo?” domandò a quel punto. Ma non stava guardando lo sconosciuto, stava guardando lui. Tutto ciò che Atsumu riuscì a notare era che la scala era larga abbastanza per consentire il passaggio anche al bisonte.
Un errore di sistema.
 
“Sei un dominatore dell’aria?” domandò Atsumu, incapace di frenare la lingua, non appena Osamu ebbe richiuso il passaggio sopra le loro teste. “Ma non eravate spariti tutti nel nulla?”
“Spariti nel nulla?” arrivò una voce da qualche parte nel buio. Atsumu aveva già imparato ad associarla alla parola Shouyou. “Ma che diamine vi prende in questa città?”
“‘Tsumu?” intervenne Osamu, sempre da qualche parte nel buio, ma una diversa. “Ti spiace?”
‘Ti spiace?’ era la frase che Osamu utilizzava quando erano soli, lontani da occhi indiscreti, quando ciò che rendeva Atsumu impossibile tornava momentaneamente utile.
“Certo che sì, ‘Samu, mi spiace eccome,” sussurrò Atsumu, perché a volte, quando si era al buio, si era sempre un po’ abituati a non farsi scoprire svegli dalla mamma, anche se la mamma non l’avevi. “Dicevi?” Cercò di far suonare la sua voce il più neutra possibile, per nascondere il tono supplichevole verso cui tendeva il suo istinto.
“Sembra che viviate fuori dal mondo!” si lamentò Shouyou. Atsumu lo immaginò alzare gli occhi al cielo, le ciglia chiare che seguivano quell’onda e mostravano l’arco perfetto che formavano. “Quando sono arrivato mi si è avvicinata una tipa con un sorriso enorme, ha detto: ‘Io sono Joo Dee e questo è l’anello interno di Ba Sing Se’, riuscite a crederci? Mi ha messo i brividi! Poco dopo, invece, stavo chiedendo informazioni e all’improvviso swoosh mi sono trovato contro tutti i guerrieri più forti della città! Questi… Sì, insomma, questi tizi del Dai Li.”
Osamu e Atsumu si arrestarono. Shouyou se ne accorse perché non sentì più i loro passi e il bisonte perché andò a sbattere contro le loro schiene. Era soffice.
“Perché stai scappando dal Dai Li?” domandò Osamu, la voce tutta un terreno che sondava.
Shouyou esitò. “Perché mi stanno rincorrendo!”
Atsumu scoppiò a ridere e riprese a camminare. “Ti sta chiedendo perché ce l’hanno con te, Shouyou.” Disse il suo nome come se fosse stato solo un altro piccolo tesoro che aveva rubato, un lusso che si potevano concedere solo gli amici più intimi e che culminava con la casualità di chi non ci faceva neanche più caso. Invece lo assaporò.
“Oh, ma è proprio questo il punto, io non ne ho idea! Mi hanno guardato storto quando ho detto loro che venivo dal Tempio del Nord e cercavo informazioni. Ho detto: ‘Io sono Shouyou Hinata, uno dei pochi dominatori dell’aria rimasti durante la guerra’.” Prese fiato, fu il suo turno di fermarsi nel bel mezzo del loro assurdo cunicolo. “E LORO HANNO ATTACCATO SUBITO ME E MUGI! E allora prima che me ne rendessi conto shaaa è partita una strana mano di pietra volante che mi voleva afferrare. E Allora io ho fatto fiùùù verso l’alto…”
Ogni volta che Shouyou si lasciava andare a un’eloquentissima onomatopea, la accompagnava a un gesto che i gemelli non vedevano, ma percepivano. Il ragazzo muoveva l’aria attorno a loro in soffi che li colpivano come attacchi fantasma, una battaglia di cui stavano sperimentando una versione attenuata.
Affascinante.
“Mugi? Quel coso ha un nome?”
“EHI! Certo che ha un nome, potrei chiederti la stessa cosa.”
“Io non sono mica un coso.” 
“Non c’è alcuna guerra a Ba Sing Se,” ribatté Osamu, il tono poco più appassionato di quello di un’affermazione. “È finita almeno cinquant’anni fa.”
“Cinquant’anni fa? Siamo in guerra da ottantacinque anni!”
La terra sopra le loro teste iniziò a tremare, il bisonte volante cominciò ad agitarsi. Atsumu non augurava a nessuno di trovarsi con un bestione agitato in uno spazio così stretto. Non che avesse tutta questa esperienza per mettersi a dispensare consigli, ma una sola volta e un po’ di buon senso bastavano a costruire un assioma.
Osamu chiuse tutte le crepe nel terreno che aveva aperto perché respirassero laggiù, rinforzò il soffitto con rocce e pietre e sbarrò la strada in entrambe le direzioni: quella da cui venivano e quella che stavano seguendo.
“‘Samu, soffocheremo,” gli ricordò Atsumu, in un sussurro che il fratello ignorò.
I passi ammutolirono di colpo, un silenzio innaturale calò sulla terra. La permeò, si infilò nelle sue pieghe, la affogò. Ma ad Atsumu prudevano le mani.
Il suolo esplose, si aprì verso la superficie come una lattina presa a martellate. Osamu tentò di rimarginare la ferita, ma era una battaglia non equilibrata. Un solo dominatore contro una ventina dei migliori addestrati del Regno della Terra: il Dai Li.
Shouyou si infilò nella fessura come un proiettile, ma leggero come una piuma. Sollevò in alto quella sua mazza strana e la fece roteare finché il vento che provocava non si addensò in fruste spiraleggianti.
Poi il tempo tornò a scorrere a velocità normale.
Il bisonte si levò anche lui verso il cielo, scalciando con la coda e sfondando il resto della terra che li copriva. Osamu dispose le braccia lungo i fianchi, morbide e coi palmi rivolti verso l’alto, poi le alzò piano, sollevandoli entrambi su una colonna di terra e riportandoli in superficie.
Atsumu non stava capendo un cazzo, a eccezione della cosa più importante: erano circondati.
Ora, Atsumu non era un povero imbranato, era un criminale di tutto rispetto. Era stato circondato, fermato, braccato da più o meno ogni genere di persona a Ba Sing Se: altri ladri, bande, vittime che aveva scelto male, qualche guardia di basso livello, una volta persino il Dai Li, ma avevano lasciato perdere dopo poco perché a nessuno importava di un ragazzo povero dell’anello esterno che travolgeva scappando un carretto di cavoli.
Però questa volta era diverso. Questa volta sembrava una questione tanto pericolosa quanto allettante.
Osamu e Shouyou iniziarono, per qualche ragione, a fare gioco di squadra. Suo fratello sollevò un anello di pietre attorno a loro, poi le fece riatterrare e sbriciolare, Shouyou trasformò quella polvere in un polverone e insieme iniziarono a tirare pietre alla rinfusa attorno a loro. Atsumu si convinse che, in mancanza di altri ruoli da ricoprire, lui avrebbe dovuto essere la mente, la guida di quella spedizione, ma era impossibile pensare lucidamente quando si trovava bloccato in quel casino, accecato dal terreno, una fame crescente non nello stomaco ma intasata nella trachea e le mani che prudevano. Tantissimo.
Gli attacchi del Dai Li divennero più precisi. Un soldato si fece strada in quella nebbia, un altro rese una porzione del cerchio di terra in cui erano costretti un tappeto di spine, Osamu lo capì un attimo prima che queste li infilzassero tutti e due e trascinò Atsumu via con uno strattone.
Mugi, il bisonte di Shouyou, aveva le zampe bloccate da uno strato ostinato di roccia e il suo padrone non aveva tempo di liberarlo.
Le mani di pietra del Dai Li iniziarono a sfrecciare a un passo dalle loro orecchie, tracciando traiettorie rettilinee simili a laser. Shouyou le spazzava via, Osamu le frantumava, Atsumu tentava come uno scemo di schivarle.
“Ci serve una via d’uscita!” gridò Shouyou, mentre spediva un misto d’aria e pietra in direzione di un soldato.
“‘Tsumu, attento!” gridò suo fratello.
Atsumu si voltò di scatto, una mano di pietra puntava dritta alla sua faccia. Aveva i pugni serrati al punto che sentiva le unghie incidere i palmi. Registrò distrattamente suo fratello alzare una mano e Shouyou tirare su un piede per difenderlo. Non ce l’avrebbero mai fatta prima dell’impatto.
Così Atsumu attaccò. Si abbassò di scatto e il prurito svanì. Disegnò un cerchio di fuoco attorno a loro, alzò le fiamme verso l’alto e le udì crepitare, vive, pulsanti, in smaniosa attesa di essere liberate dalle catene della sua volontà e divorare il mondo intero.
Il fuoco è vivo, gli aveva detto una volta sua madre, il giorno in cui l’aveva costretto a nasconderlo. Tutti gli altri dominatori piegavano gli elementi al loro volere. Smuovevano aria, acqua e terra preesistenti, ma il fuoco era l’unico elemento che nasceva dal dominatore, perché a smuoversi era l’animo.
Il Dai Li arretrò, Atsumu vide paura e sorpresa agitarsi insieme alle fiamme riflesse nei loro occhi. Era la prova inconfutabile che Shouyou aveva ragione. La guerra esisteva, non era finita cinquant’anni prima. Non c’era nessun errore di sistema, ma doveva esserci un errore nel sistema, se bastava un ragazzo volante a demolire le loro bugie.
“Salta su!” gridò Shouyou da un punto imprecisato alla sua destra. Si voltò a guardare Osamu arrampicarsi goffamente sul bisonte e Hinata che gli faceva segno. Corse verso l’animale, un altro palmo di pietra lo attaccò, ma Shouyou lo deviò con la mano che un attimo dopo gli porse per issarsi sul bisonte. Atsumu l’accettò e si accomodò sulla sella. Non seppe spiegarsi se la scintilla che aveva avvertito quando aveva stretto la mano di Shouyou fosse una conseguenza del suo attacco o qualcosa di completamente diverso.
Il bisonte prese quota e si fiondò in cielo.
 
Sulla schiena di Mugi, Osamu osservò Ba Sing Se rimpicciolire e brillare sotto il sole gentile del primo pomeriggio. Si voltò per incontrare lo stesso sguardo strabiliato di suo fratello, ma si sorprese a scoprire che Atsumu era concentrato sul cielo blu cobalto dell’altitudine. Osamu scosse la testa e tornò a guardare Ba Sing Se. Da quella prospettiva, le cose che avevano visto acquistarono un nuovo senso.
Ecco cos’era realmente Ba Sing Se, capitale del Regno della Terra: un’utopia. Non c’era nessuna guerra, perché mura così alte e impenetrabili significavano protezione, ma anche isolamento, e ogni bugia poteva diventare verità. I profughi non erano famiglie decimate da una guerra avvenuta cinquant’anni prima, ma persone con ustioni ancora fresche. Un dominatore del fuoco non era un errore di sistema, un ricordo sbiadito di una guerra che cinquant’anni prima li aveva resi dei mostri, ma un nemico del Regno ancora molto minaccioso.

 

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Capitolo 2
*** Oshubi ***


PARTE SECONDA
Oshubi
 

Il sole picchiava forte, baciava cime immense facendole quasi luccicare. Osamu non aveva mai visto nulla del genere in tutta la sua vita.
Certo, non aveva mai superato i confini dell’anello esterno di Ba Sing Se. Di diverso, in tutto quel tempo, aveva visto solo il cielo. Ironico quanto mansueto possa diventare un uomo, se gli si consente di vedere nuvole e stelle. Assurdo, quanto inconsapevolmente si accontenti. Osamu aveva vissuto tutta la sua vita facendo due cose: rubare e dominare la terra. A quanto pareva, quattro mura di pietra erano bastate a dominare lui, un bambino rabbonito con i suoi giocattoli preferiti. 
Non odiava suo fratello. Era una cosa difficile da spiegare, ma odiare Atsumu, in qualche modo, sarebbe stato come odiare una parte di lui. Non udirlo russare all’altro capo del letto o piantargli un piede in faccia quando si agitava nel sonno, dopo tutti quegli anni, gli sarebbe parso innaturale. Però Osamu lo accusava.
Non era giusto che non avessero niente, che non potessero esporsi troppo, che fossero costretti ogni giorno in quel buco a trovare un modo per tirare avanti. Non era giusto che, oltretutto, dovessero guardarsi continuamente le spalle. Non c’era un modo carino di dirlo: non era giusto che la maledizione di Atsumu dovesse essere anche la sua. A volte la loro mera esistenza sembrava un brutto presagio. A volte quel fuoco sembrava un errore. E adesso Atsumu era stato catalogato erroneamente come nemico del regno e Osamu, vista la scarsa capacità di distinzione di un occhio non esercitato, lo era a sua volta.
Però ecco dove l’aveva portato: su un bisonte di nome Mugi, mentre sorvolavano le cime più alte che Osamu avesse mai visto. Diamine, avrebbe potuto smuoverle? Quanto pesavano? Quanto erano radicate nel continente? Fino a dove si spingeva il loro respiro? Non ne aveva viste molte, di montagne. In realtà, non ne aveva mai vista nessuna, se non si contavano dipinti e arazzi. C’era solo un piccolo inconveniente: Osamu aveva una nausea micidiale, non c’era prelibatezza che la potesse annientare.
“Questo è lusso sfrenato!” esclamò Atsumu, da qualche parte sul bisonte.
La risata di Hinata si sollevò cristallina nell’aria, più leggera delle loro, più sincera. Sembrava che rimbombasse sui dorsi delle montagne più in basso. “Tuo fratello non sembra pensarla così.”
“Non… Volare non mi fa impazzire.”
La prima parte del volo, una volta scappati da Ba Sing Se era stata abbastanza gentile col suo stomaco. Avevano sorvolato il Regno della Terra fino alla sera, poi si erano accampati al limitare di un villaggio. Hinata aveva buttato un mucchio di legno a terra e aveva guardato Atsumu, aspettandosi che facesse in fretta qualcosa a riguardo. Suo fratello aveva scrollato le spalle come se fosse stata normale amministrazione, per lui, ma Osamu aveva alzato un muretto di pietra attorno al legno.
“Credi che sia uno stupido?” gli aveva chiesto Atsumu, sorridendo come prima che si prendessero a botte a casa.
“Sì,” aveva risposto semplicemente Osamu, perché sapeva come provocarlo.
“Ragazzi, ho fame!” si era intromesso Hinata. Osamu ancora non aveva capito se fosse la creatura più stupida sulla faccia del pianeta o la più furba. Ancora non sapeva che, col passare degli anni, avrebbe continuato ad avere quel dubbio.
Comunque Atsumu aveva acceso il fuoco senza uccidere nessuno. Osamu non si era perso il sorriso compiaciuto che gli si era dipinto in volto. Era possibile che fosse il dominatore del fuoco peggiore al mondo, ma lui no, lui doveva tirarsela come il fanatico che era.
In lontananza, le luci del villaggio sfavillavano, fiammiferi nel buio di un mondo sconosciuto. Hinata li aveva messi al corrente della guerra, di quello che aveva fatto e ancora faceva la Nazione del Fuoco.
“La gente da queste parti ha paura dei dominatori del fuoco. Non sarà facile per te, sai” aveva detto guardando Atsumu, mentre addentava una nocciolina. Aveva parlato in maniera così diretta che quasi non era sembrato offensivo, al massimo sincero.
Osamu si concentrava sui ricordi della sera precedente e sui fianchi delle montagne lì sotto, aggrappandosi a una memoria visiva della terra, perché rischiava di vomitare oltre il fianco di Mugi. Un’esperienza certamente nuova, ma non allettante.
“Oh cazzo, ‘Samu, questa devi vederla.”
Osamu deglutì a vuoto ed emise un suono… complicato nella gola, poi si voltò.
Tra i monti, così alta da farli sembrare a confronto nuvole, svettava una torre. Il tetto concavo metteva in bella vista tegole verdi bordate d’oro. Era bellissima nella sua semplicità, una lancia che, in giorni peggiori, doveva poter trafiggere le nuvole e affacciarsi dove la pioggia non esisteva. “Ma che diamine è?”
Shouyou sorrise. Sembrava che il vento fosse suo. “Quella è la torre del Tempio dell’Aria del nord. Ci sono altri tre templi, potete immaginare come si chiamano.”
Sorvolarono una vallata. Le vette si tuffavano verso il basso come a voler divorare l’aria, usurparla o sfidarla a chi correva più forte. Osamu avrebbe voluto sfiorarle con un dito come sul pelo dell’acqua, ma a stento riusciva a respirare.
Poi il paesaggio si aprì e il Tempio dell’Aria si mostrò in tutte le sue pareti spoglie e minimaliste. Guglie e mura di cinta si arrampicavano su una montagna monca. Sui cornicioni delle piccole finestre ad arco e i tetti verdi si stava depositando un sottile strato di neve. Presto sarebbe stato impossibile distinguerne il colore, sotto il manto innevato di un inverno che, così sospeso, doveva sembrare magico. Un sentiero sottile di roccia collegava la base del tempio a un’altra montagna.
Man mano che si avvicinavano, però, il sogno svaniva ai bordi.
I ragazzi iniziarono a distinguere le crepe, l’edera sulle mura, il silenzio lacerato solo dagli uccelli che circondavano la torre centrale, rincorrendosi in un viaggio che, per traiettoria, risultava infinito.
Sembrava la rovina di un mondo intero.
Osamu guardò Atsumu lanciare un’occhiata tentennante a Hinata. Lo conoscevano a stento, ma era una creatura curiosa. Era un libro aperto, indossava le emozioni come se non avesse altra scelta, peccato che fossero scritte in una lingua che Osamu non capiva. A giudicare dal cipiglio di Atsumu, doveva star pensando la stessa cosa. Il ragazzo serrò la mascella, imperscrutabile nella sincerità quasi sbeffeggiante di quel gesto, e volarono oltre.
“Non ci fermiamo?” domandò Atsumu, guardando gli ultimi tetti squamati del tempio sparire sotto la pancia di Mugi.
“Non possiamo,” rispose semplicemente Hinata e puntò lo sguardo fisso sui nuovi monti inabitati davanti a loro.
A Osamu parve che, una volta superato il Tempio dell’Aria, il paesaggio si fosse irrigidito. La neve, prima solo sulle cime, stava lentamente colando più in basso, prendendo spazio sulle alture e imbiancandole via via sempre di più.
“Mugi l’hai trovato da qualche parte quassù?” domandò Atsumu.
Hinata si mise a ridere e lo guardò solo un attimo. “No, tutti i dominatori dell’aria hanno un bisonte volante. Sono i nostri compagni per la vita. E comunque è una ragazza!” Come al solito la stupidità di suo fratello tirava su il morale anche ai più scoraggiati.
Mugi fece un rutto.
“Davvero femminile!” commentò Atsumu, dando una pacca sulla schiena del bisonte.
 
Arrivarono a Oshubi poco prima del tramonto.
O quasi.
Mugi planò dolcemente verso il basso e atterrò con un tonfo sorprendente, per le sue dimensioni, su un misto di ghiaccio, fango e terra, non troppo distante dalla cittadina.
Shouyou non aveva mai, in tutta la sua non troppo lunga carriera da Nomade dell’Aria, messo piede o navigato il cielo della Tribù dell’Acqua.
Saltò via dalla schiena di Mugi e adoperò quanta più aria possibile per tamponare la caduta, quindi poggiò prima un piede a terra, poi l’altro e la sua mantellina rossa si sottomise di nuovo al regno della gravità con eleganza. Alle sue spalle, Hinata sentì due tonfi distanti qualche attimo l’uno dall’altro. Il primo era di Osamu; si era steso supino, le dita conficcate nei radi ciuffi d’erba che ancora resistevano al ghiaccio e respirava a grandi boccate. Il secondo era di Atsumu che, pur sprovvisto di mal d’aria, era riuscito a cadere a faccia a terra. Peccato che ‘terra’ fosse ghiaccio.
Shouyou tentò di trattenere le risate, quando si precipitò ad aiutarlo.
“Sto bene, sto bene,” disse Atsumu, la voce attutita da… qualunque cosa avesse in bocca. Si rialzò, ignorando volutamente la mano di Shouyou. “Guarda che l’ho fatto apposta, mi sembravi triste.”
C’era da rimanere impressionati, da quanto credibile sembrasse.
“Non lo ascoltare, sta mentendo.”
“Ma tu non eri morto?”
Osamu si strinse nelle spalle. “Ti piacerebbe.”
Atsumu sbuffò derisorio, ma cambiò discorso. “Perché ci siamo fermati qui, comunque? Siamo praticamente arrivati a Oshubi. Hai detto che volevi solo fare rifornimento di provviste lontano dal Regno della Terra, no?”
“Sì, be’...” Shouyou fece spallucce, “Mugi era stanca, ha volato tutto il giorno. Ci accampiamo qui, stasera! C’è una grotta.”
Atsumu spalancò la bocca, Osamu ebbe anche la forza di alzare la testa dalla terra solo per sollevare un sopracciglio. Hinata se ne curò poco e si mise a sedere in una zona asciutta.
“Quella grotta?” domandò Atsumu, indicando quella che, secondo il parere poco schizzinoso di Hinata, era una grotta di tutto rispetto.
Shouyou si guardò attorno, poi si strinse nelle spalle. “Non ce ne sono altre.”
“Stai scherzando? Quello è un modo veloce per morire. Oshubi è letteralmente a due metri da qui!” disse indicando un sentiero da qualche parte a ovest.
Shouyou sorrise. Si alzò paziente, poi prese il braccio di Atsumu e lo reindirizzò a nord, in una fetta di cielo tra due montagne aguzze come denti di una creatura selvaggia. La sua pelle era calda sotto il tessuto sottile della maglietta. Faceva un contrasto piacevole col paesaggio verso cui era rivolto. “Veramente è lì.”
“Cretino,” commentò Osamu, ancora sdraiato.
 
Osamu Miya era un tipo solitario.
Sì, sì, aveva condiviso il grembo materno con un incidente di percorso. Va bene, aveva vissuto la sua intera vita (fatta eccezione per un giorno e qualche ora) nella città più popolosa del mondo. Certo, condivideva il letto con l’incidente di percorso sopraccitato.
Però Osamu Miya andava al bagno, a volte, e la solitudine gli piaceva. Forse proprio perché l’aveva sempre considerata un lusso.
Così, quando Hinata aveva detto che avrebbero dovuto prendere la legna per la sera, Osamu era scattato in piedi e si era offerto di fare un giro nei paraggi. Non aveva atteso neanche che gli offrissero una mano, compagnia, dritte; era semplicemente partito per la sua spedizione.
Appena superò l’entrata della grotta, la solitudine lo avvolse come una coperta in quel freddo del nord: secco e offensivo, un artiglio conficcato nel fianco. Ma Osamu non temeva nulla di tutto ciò, era abituato a suo fratello, che era una spina nel fianco, dunque nulla di nuovo sotto il sole morente degli ultimi aliti del tramonto.
Un bosco vestito di bianco si nascondeva al di là del grappolo di rocce tra cui si erano accampati. Oltre, una catena di montagne appuntite celava la visuale di Oshubi, la capitale delle isole della Tribù del Nord.
Osamu varcò il confine dei primi alberi e i raggi rossi e arancioni presero a infilarsi tra le fessure, bucare le chiome nella speranza di sgonfiarle come palloncini. Il ghiaccio si depositava in granelli così piccoli da ricordare dei diamanti, quando la luce li colpiva. Aveva le punte delle dita gelate e una fame che non riusciva neanche lontanamente a immaginare di descrivere. Eppure, in quel regno sospeso fatto di elementi su cui non sapeva mettere le mani, Osamu conobbe un’emozione così ridicola e imbarazzante da prosciugare l’ironia sprezzante e lo scetticismo patologico di cui era gravemente affetto. E quell’emozione era la meraviglia.
Quella che lasciava i bambini a bocca aperta, quella che lui e suo fratello non potevano concedersi nella competizione eterna che ingaggiavano e nel poco che l’anello esterno di Ba Sing Se aveva da offrire.
La legna.
Era lì per la legna.
Tenne d’occhio il sole e il poco altro aiuto che poteva offrirgli. Cercò di muoversi in linea retta, ma per precauzione alzò piccole torri di terra laddove la neve non ricopriva lo strato sottostante. Il bosco era carino, gli alberi erano magici, il paesaggio era mozzafiato, ma morire di freddo in quel labirinto non rientrava nei suoi piani.
Derubò la base di qualche tronco, rami piccoli abbandonati al suolo da qualche animale che aveva fatto male i suoi calcoli. Lasciò stare i rami veri e il ghiaccio rigido che ne ricopriva alcuni. Quando si imbatté in un pezzo più grande e adatto al loro falò, Osamu sollevò una zolla di terra di scatto e tagliò di netto il legno.
Un attimo dopo, qualcosa si mosse e lui si irrigidì.
Era ovvio, era naturale, smuovere la terra richiedeva un riassestamento che neanche Osamu le poteva negare. Se Atsumu fosse stato lì, le braccia incrociate e una battuta sulla punta della lingua, Osamu avrebbe dovuto dargli ragione e dire che, se non se la stava proprio facendo sotto, almeno era esageratamente vigile.
Ma in un bosco un albero valeva un altro. I suoni si mescolavano, seguivano percorsi zigzagati, permeando l’aria e dando l’impressione che il canto d’un uccello provenisse dal centro del mondo, alle proprie spalle, a ovest, a venti metri da terra. Poi qualche altro uccello rispondeva e in poco tempo la situazione si trasformava in un macello.
Osamu espirò di sollievo, Atsumu gli avrebbe detto che se l’era fatta sotto per davvero e lui, mentre suo fratello non guardava, avrebbe dato solo un’occhiata di controllo alla sua patta. Poi, arrabbiato, gli avrebbe detto che un uccello gli aveva appena fatto cacca nei capelli e avrebbe goduto dello scetticismo e del dubbio nei suoi occhi.
Non ebbe neanche il tempo di rimettersi in marcia che il suono si ripeté.
Non era il bosco che si riassestava.
Erano passi.
Inconfondibili passi.
Quanti ne erano? Una cinquantina? Forse cento? Mille? Si allontanavano? Forse era il Dai Li, la prova che Ba Sing Se si era attivata perché due fecce della società erano partite sulla schiena di un bisonte volante. Forse volevano fargliela pagare, perché a nessuno venisse la malsana idea di mettere in dubbio la sincerità della città inespugnabile. Forse avevano pensato che se degli scarti erano riusciti a capire che qualcosa non andava, era solo questione di tempo perché negli altri anelli si facessero le stesse domande.
Era impossibile, ovviamente. Erano rifiuti e tali rimanevano. Forse la loro partenza era stata addirittura un sollievo. Due persone in meno non erano una soluzione al sovraffollamento dell’anello esterno, ma almeno non erano due persone in più. Avevano visto quello che sapeva fare Atsumu, meglio lasciarlo andare che gestirlo. E poi ormai la guerra c’era, per loro, meglio farli scappare che trovare un modo per silenziarli.
Ma non era il Dai Li per un motivo ben più pratico.
I passi appartenevano a una sola persona. Osamu non riusciva a capire da dove, ma era impossibile negare che si stessero avvicinando.
Ragionò in fretta. Mollò il legno che aveva raccolto e scrollò quanta più neve possibile via dal terreno, poi sollevò le mani in posizione di guardia e si piazzò meglio sui piedi.
Prese a guardarsi attorno. Stare all’erta gli dava una percezione della terra che normalmente ignorava. Il bosco era vivo. Radici e semi che si incrociavano, si danzavano attorno. Insetti che si rincorrevano, scavavano, bucavano, attingevano. Il bosco era vivo, eppure niente si muoveva. 
I passi si avvicinarono ancora un po’. Erano cauti, pericolosamente sensibili a qualcosa che tradiva l’esistenza di Osamu in quel posto. Infine, si arrestarono.
Si innescò tutta quella serie di suoni virtuali che il silenzio sa creare: le orecchie presero a fischiare, il cuore pareva sbattere contro la gabbia toracica a ritmo sempre più insistente.
Ad annunciarlo, fu un crepitio nell’aria. Poi Osamu registrò il sibilo di qualcosa che sfrecciava a un soffio dalla sua guancia e la schivò in tempo per vedere un filo d’acqua solidificarsi in ghiaccio davanti ai suoi occhi e conficcarsi nel tronco alle sue spalle. L’acqua si sciolse all’istante e tornò indietro, schiaffeggiandolo lungo il percorso con la coda.
Osamu si voltò nella direzione in cui l’acqua stava tornando e non vide niente, ma attaccò. Sollevò sette pietre e le lanciò a raffica, sperando rivelassero qualcosa. A contrastarle, sette getti d’acqua risposero in rapida successione, riducendo la roccia in poltiglia.
Distinse una sagoma che rotolava a terra. Senza pensarci due volte, Osamu sollevò altra pietra e la spinse con slancio verso la figura, modellandola poi affinché la circondasse. Ma il nemico scartò di lato, la terra si attorcigliò attorno al punto in cui era stato un attimo prima.
Era come gareggiare contro Aran e Kita. Era come tentare di batterli a Toki, l’ultimo gioco che avevano inventato. Il fatto che il suo avversario dominasse l’acqua non doveva spaventarlo. Erano in un bosco e Osamu era in vantaggio.
Una lezione che si impara sempre in maniera brusca è che il vantaggio batte l’esperienza solo quando entra in gioco la fortuna. E, al contrario di quanto diceva Atsumu per ragioni che gli erano oscure, la vita di Osamu non lasciava molti dubbi sulla quantità di baci che la fortuna elargiva per lui.
Il dominatore mosse le mani lentamente, ancora nell’ombra di un sole che ormai era tramontato, lasciandosi dietro una scia di ciclamino. Osamu non aveva mai visto alcun dominatore muoversi così, ma d’altronde non aveva mai visto alcun dominatore dell’acqua e basta.
Un colpo potente lo centrò in pieno e lo costrinse a indietreggiare e andare a sbattere con la schiena contro l’albero alle sue spalle. Osamu alzò le braccia per rispondere, ma tre spuntoni di ghiaccio si conficcarono nella sua casacca, uno a qualche millimetro dal fianco sinistro e due nelle maniche, bloccandogli le mani in alto.
La sagoma di un ragazzo si fece via via più nitida, finché Osamu non ne distinse il volto. Strattonò le braccia e mosse i polsi per avere un appiglio sulla terra, sentirne le redini, la vita, ma quello alzò una mano e piantò gli aculei di ghiaccio più a fondo nel tronco. Poi gli si avvicinò.
Osamu vide la borraccia appesa a un fianco e le ultime gocce che ne cavò fuori. Le solidificò assieme a un po’ di neve lì attorno, mentre sollevava tutta l’acqua che aveva radunato. Quando assunsero la forma di un’unica e ultima lama sottile, questa era ormai a un passo dalla sua gola. Osamu alzò la testa e fu costretto a guardarlo negli occhi.
Era… freddo.
I capelli scuri erano arruffati da un vento gelido che non c’era più, le guance e le labbra erano arrossate per il gelo. Nella penombra, gli occhi chiari avevano una tinta cupa, una luce opaca bagnava le pupille e il labbro inferiore. Osamu rimase a guardarlo appena il tempo di qualche battito di ciglia, respirando nuvole di condensa che, da qualche parte, si fondevano a quelle dello sconosciuto.
“Il bosco di Shoubei è sempre vuoto,” gli comunicò il ragazzo, come un dato di fatto, un’informazione da accettare nella sua semplicità. Una voce bassa vibrava su corde vocali di velluto.
Osamu rubava mele e arance a Ki, il fruttivendolo fuori casa, quando non guardava. Non gliene poteva fregar di meno di toni solenni e rompicapi dal retrogusto di leggende. Alzò un sopracciglio e, con le braccia ancora bloccate, riuscì comunque a scrollare le spalle. “Non oggi.”
Poi picchiò a terra con un piede e richiamò una roccia. Il ragazzo sembrò a stento guardarla, perché la lama di ghiaccio che teneva sollevata partì.
 
Atsumu Miya sorrideva sinceramente così come rubava: in fretta, in silenzio e solo quando era certo di non essere visto. Tutto il resto delle volte era fuffa. Erano tecniche per accaparrarsi qualcosa, commenti aspri, prese in giro, falsa modestia. Li si riconosceva perché erano a una delle estremità di un interruttore: bastava uno scatto perché si trasformassero in antipatia.
Ma quella sera, poiché una delle tre condizioni si era verificata, Atsumu sorrise senza promesse di svuotare le tasche a qualcuno.
Shouyou era seduto su un masso piatto e striato di neve e muschio. Aveva gli occhi chiusi, le gambe incrociate e i pugni serrati e uniti insieme, nocche contro nocche, attento a tenere le braccia sempre all’altezza delle mani. E basta. Non faceva altro.
Atsumu aveva radunato qualche rametto per accendere un fuoco provvisorio, in attesa che Osamu facesse ritorno alla loro lussuosissima grotta con della legna vera. Le fiamme timide bagnavano il profilo sereno di Shouyou, danzando sul suo viso come se seguissero il suono del vento.
Fu in quel momento che Atsumu sorrise. Si sedette davanti al fuoco, chiedendosi che razza di vita bisognasse condurre per essere capaci a meditare.
Ma non osava prenderlo in giro. Shouyou era così diverso da qualunque cosa avesse mai visto da risultare attraente al limite dell’irritante. Era sincero, quando lui era abituato a mentire. Era libero, e lui era stato chiuso tutta la vita tra due mura. Era un viaggiatore, e lui non si era mai mosso dai tre metri quadrati della sua miseria. Atsumu avrebbe potuto passare tutta la sera a guardarlo così, in silenzio, e questa sarebbe stata la cosa più simile alla meditazione a cui si sarebbe mai potuto accostare.
“Ti serve qualcosa?” domandò Shouyou di punto in bianco, schiudendo un occhio.
Certo che gli serviva qualcosa. Gli servivano un sacco di cose. Gli serviva un maestro, un posto dove stare, soldi a volontà, un bacino... Il pensiero lo distrasse momentaneamente. “Ti… stai mettendo in contatto con i tuoi amici?”
Shouyou si voltò finalmente a guardarlo, il fuoco gli illuminò tutto il viso. Tra vestiti rossi e capelli fiammanti, uno avrebbe detto che a scomodare il fuoco fosse lui. “Meditare non è mica una magia!”
Atsumu pensò che dovesse darsi proprio una calmata e volare basso. Quando era stato interpellato, stava pensando di baciarlo, era già tanto che fosse riuscito a mettere insieme una frase sensata, per la miseria. “E io che ne so, sei tu l’esperto spirituale, qui.”
Shouyou sorrise e scosse la testa, poi abbassò lo sguardo sulle sue mani, abbandonate in grembo. “No, sono mesi che non sento più nessuno.”
“Avremmo potuto fermarci al Tempio dell’Aria e controllare.”
“No, non possiamo, noi siamo…” Shouyou lo guardò negli occhi. Atsumu pensò che duecento raffiche di vento non avrebbero avuto lo stesso effetto. Forse Hinata cercava nel suo sguardo un motivo per fidarsi, una chiave per aprirsi. Di Atsumu non c’era da fidarsi, questa era la prima regola di tutti quelli che lo conoscevano e, per giunta, non era un passe-partout. Eppure Shouyou sospirò e riprese a parlare. “Ottantacinque anni fa, quando la guerra è iniziata, i dominatori dell’aria sono stati sterminati dalla Nazione del Fuoco. Siamo un popolo di nomadi, è difficile trovarci sempre tutti in un posto, ma i quattro Templi dell’Aria hanno smesso di essere sicuri. Ormai siamo rimasti in pochi, riceviamo gli insegnamenti in luoghi estremi,” gli occhi di Shouyou colsero di sfuggita una fiamma e si illuminarono di divertimento. “Una volta sono stato su una montagna altissima che aveva uno strapiombo sul nero più nero che abbia mai visto! Le mura del fossato avevano delle venature rosse, la lava ribolliva letteralmente sotto i miei piedi e, in mezzo a tutto quel fuoco, c’era una cascata. Riesci a crederci? Una cascata a picco nel vuoto! Credo che a te e tuo fratello sarebbe piaciuta molto di più.”
Asumu aggrottò la fronte sorpreso. Non aveva mai sentito nulla di simile, non sapeva neanche che la natura lo consentisse.
“Comunque siamo in contatto. A volte ci incrociamo in viaggio, altre lasciamo messaggi in codice per segnalare posti sicuri, altre ancora ci dividiamo i compiti.” Atsumu iniziò a vedere la libertà di Shouyou come tutt’altro che una pacchia. “È il motivo per cui sono venuto a Ba Sing Se! Pare che siano stati trovati dei tesori dei dominatori dell’aria che il nemico non aveva scovato quando aveva razziato il Tempio dell’Aria dell’Est, all’inizio della guerra. Cercavo di intercettarli prima che li portassero alla Nazione del Fuoco e speravo che il re della terra ne seguisse i movimenti, ma non sapevo niente della vostra strana tradizione. Stiamo andando a Oshubi perché è segnato tra i posti sicuri per fare rifornimento, poi volevo andare al tempio a cercare indizi. Ovviamente a Oshubi voi sarete al sicuro, potreste aspettare che le cose…”
“No.” Atsumu lo disse un po’ troppo in fretta. Non tanto perché avrebbe dovuto consultare Osamu (sarebbe stato egoista e avrebbe salutato Shouyou per sempre soltanto perché non gli piaceva volare), ma perché aveva una dignità da mantenere. “No, veniamo con te.”
Per un attimo, temette che Shouyou facesse domande difficili. Invece sorrise, un sorriso grandissimo che quasi fece dimenticare ad Atsumu le tre condizioni sacre perché potesse imitarlo. Quasi. Lui era un duro, attenzione. Pensò che fosse il momento di attestarlo.
“E poi il tuo piano fa acqua da tutte le parti, hai bisogno di noi. Ci servono soldi, non puoi aspettarti di derubare la Nazione del Fuoco senza qualcosa da scambiare.”
“Per rubare non ti servono soldi!” Shouyou sorrise di nuovo, come se avessero iniziato improvvisamente a sfidarsi e lui credesse di aver vinto. “Non pensavo di dover essere io a insegnartelo.”
“I soldi servono sempre, Shouyou.” Atsumu gli sorrise senza condizioni e questo significava che stava per fregarlo. “A prendere tempo, a far credere a chi stai per derubare che valga la pena ascoltarti, a trattare, a depistare. I ladri migliori sono quelli che ti illudono di aver fatto un affare.”
Si guardarono. Shouyou aveva un modo di disporre i silenzi in una conversazione in maniera che mormorassero qualcosa. Atsumu iniziava lentamente a parlare la lingua di quei sussurri. In una situazione normale, si sarebbe semplicemente sporto in avanti e l’avrebbe baciato, ma quella non era una situazione normale. Shouyou non era una persona normale. A volte, quando volava, dubitava anche che fosse una persona.
“Come credi, ci procureremo dei soldi. Conosco un posto, credi che a tuo fratello farebbe piacere gareggiare in un’arena?”
“Mio fratello non lo saprà finché non ce ne sarà bisogno.”
“Una missione segreta!”
Atsumu non capiva perché si fosse esaltato. La sua intera vita era una missione segreta, apparentemente. “La chiave è la discrezione” gli diede corda lo stesso. “Cosa che a te viene incredibilmente bene con quei tatuaggi.”
Shouyou assottigliò gli occhi, guardandosi le frecce azzurre sul dorso delle mani.
“Fino a dove arrivano, comunque?”
Lui si strinse nelle spalle e recuperò una noce da una tasca dei suoi pantaloni. “Magari un giorno lo scoprirai da solo,” disse, poi separò le due metà del guscio con un soffio e addentò la noce, sostenendo lo sguardo di Atsumu.
Lo stesso Atsumu, ovviamente, che andò in tilt. Due secondi prima Shouyou stava meditando. Non stava pescando, non stava contando le nuvole, stava meditando. Ora flirtava. Apparentemente i monaci non erano dei santi.
“Tu vuoi dirmi com’è possibile che siano nati due gemelli con domini diversi?”
“Non è una storia interessante, perché non la conosco.”
Shouyou non parve persuaso. “Ancora non so perché mi fido di te.”
“È perché mio fratello è quello rassicurante. È la tattica che ci fa guadagnare meglio.”
Shouyou inclinò il viso su un lato, come un animale confuso. “Tu non guadagni, tu rubi.”
“È la stessa cosa.”
Per la cronaca, Shouyou aveva ragione. Quella di Atsumu e Osamu era veramente una storia interessante, anche se loro la ignoravano, ma verrà affrontata più avanti.
 
Osamu sentì qualche goccia di sangue scivolare dalla guancia al collo della maglietta, impregnandola. Abbassò la pietra e abbandonò la testa contro il tronco dell’albero, sconfitto ma non rassegnato.
Il ragazzo davanti a lui inclinò il capo su un lato, soppesando forse il suo intero valore come essere umano. “Lo sai perché il bosco di Shoubei si chiama così?”
Aveva un tono così calmo e uno sguardo così diretto che Osamu si ritrovò, perplesso, a scuotere la testa in segno di diniego.
“In maniera semplice, significa difesa. Il bosco difende la città oltre le montagne, la prima della Tribù dell’Acqua del Nord, la più vicina agli altri paesi e la più soggetta ad attacchi imprevisti. Gli alberi le fanno da soldati costanti. Il bosco di Shoubei, la città di Oshubi. Il bosco è sempre vuoto, capisci?” Se avesse abbassato appena la voce, avrebbe sussurrato.
Osamu aggrottò le sopracciglia. “Sei un soldato? Credi che ti stia invadendo perché mi sono fatto un giro nel bosco?”
“Non sono un soldato, ho sentito un rumore e dei passi e ho attaccato, perché di solito il bosco è vuoto.”
Ma nella Tribù dell’Acqua avevano per caso il vizio di essere completamente fuori di testa? Se avesse ribadito ancora una volta che il bosco di Shoubei era sempre vuoto, Osamu avrebbe trovato il modo di fargli ingoiare quella dannata lama di ghiaccio. “Che cosa sei, allora, se non sei un soldato?”
“Sono un ricercatore.”
Osamu sollevò un sopracciglio. Il ragazzo davanti a lui fece lo stesso, ma meglio. “Non ho intenzione di invadere nessuno, quindi ti dispiacerebbe liberarmi?”
Lui sembrò pensarci su, poi diede un’occhiata ai suoi vestiti, forse convincendosi del fatto che non avesse niente a che fare con la Nazione del Fuoco. Infine si allontanò con un sospiro e sciolse il ghiaccio che lo impalava al tronco dell’albero.
Osamu abbassò le braccia, un po’ seccato, e si sfiorò la guancia. Quando ritirò le dita, diluì il sangue che ci trovò sopra col pollice e l’indice.
“Scusami,” gli fece quello, premendo un pugno contro il palmo dell’altra mano e chinando appena il capo. Osamu non capiva che bisogno ci fosse di fare tanto i formali.
Poi successe una cosa completamente assurda.
Il ragazzo davanti a lui mosse le dita e la lamina di ghiaccio che prima gli teneva puntata alla gola si sciolse e si tinse di un azzurro che Osamu non avrebbe mai saputo descrivere. Prima che potesse difendersi o temere un nuovo attacco, l’acqua levitò fino alla sua guancia.
“Ma che cazzo…” Osamu sollevò una mano per sfuggire all’attacco, ma si ritrovò a chiudere gli occhi a metà azione e inspirare profondamente. L’acqua era freschissima, ma non ghiacciata, piacevole come una carezza e stranamente soffice. La sensazione di benessere si espanse appena oltre la guancia e sfiorò la tempia e il collo. Poi, facile come era comparsa, se ne andò.
Osamu aprì gli occhi e passò di nuovo le dita dove si aspettava di trovare la ferita. Invece, quando si guardò i polpastrelli, li riscoprì puliti. Sollevò di scatto lo sguardo in quello del ragazzo, che invece lo guardava come se fosse stato una cavia da laboratorio. Sembrò intuire lo sconcerto di Osamu, però, perché disse: “Alcuni dominatori dell’acqua sono guaritori. Io non sono granché, ma era un taglio superficiale, niente di impossibile.”
“Certo.” Ovviamente. Sicuro.
“AKAAAAAASHI?”
Fu così improvviso che Osamu si ritrovò ad alzare le mani, sentendo già il formicolio della terra che si sporgeva per rispondergli. Ma il dominatore dell’acqua si voltò verso la voce che lo aveva chiamato, diede una rapida occhiata al cielo, valutando la gradazione di blu sempre più scuro che andava assumendo. “Devo andare,” disse e poi iniziò ad avviarsi lungo un sentiero che non esisteva, ma di cui non aveva bisogno. “Mi devi un favore!”
Osamu si sentiva un po’ frastornato. “Sei tu che lo devi a me. Sei stato tu a ferirmi, io non ti devo niente!”
“Non saresti dovuto entrare nel bosco e basta. Il bosco di Shoubei…”
“Sì, sì, è sempre vuoto. Ho capito.”
Il buio e la foschia invernale non aiutavano, ma, in lontananza, Osamu fu quasi certo che Akaashi si fosse voltato e gli avesse sorriso, una curva sulle labbra che scioglieva un po’ di quel gelo.
Raccolse i tronchi che aveva abbandonato durante il combattimento e si avviò lungo il percorso segnalato dai bozzi di terra che aveva sollevato all’andata. Mentre camminava, si sfiorò la guancia e constatò di nuovo che fosse intatta. Forse l’aveva sognato. Forse Akaashi non esisteva. Forse il viaggio in volo e la fame gli avevano giocato un brutto scherzo.
Le maniche della sua casacca, però, erano ancora bucate.
 
La mattina dopo, Oshubi era illuminata dal sole più caldo che un posto tanto a nord potesse offrire.
Osamu e Atsumu si guardavano attorno come se, invece di essere atterrati a qualche chilometro dall’accampamento della sera prima, fossero giunti sulla superficie di un pianeta vergine. 
Oshubi era completamente diversa dalla capitale della Tribù dell’Acqua del nord. Le abitazioni non erano fatte interamente di ghiaccio e le strade non erano interrotte da canali. Non lontano da lì, il mare incontrava una scogliera dalla roccia scura. Nei punti in cui non scivolava, la neve si ammassava in chiazze bianche, rendendo la vista quasi dolorosa agli occhi.
Shouyou aveva acquistato dei vestiti di ricambio e Atsumu aveva insistito che tutti si procurassero dei cappelli per passare inosservati. Osamu si era rifiutato categoricamente. Hinata ammetteva che non fossero strettamente necessari, ma sospettava anche che volesse semplicemente fare un dispetto al fratello. Presi due cappelli e una sciarpa, dunque, i ragazzi si erano messi in cerca di una locanda in cui consumare un pasto caldo. Osamu si era autoproclamato esperto e aveva deciso che non avrebbe lasciato che nessun altro scegliesse la loro meta gastronomica. Quando Hinata aveva provato a ribattere che una valeva l’altra, era stato accusato di saper mangiare solo frutta secca e aveva stroncato sul nascere ogni altra protesta di Atsumu, definendolo uno zotico senza papille gustative.
“Decidi con calma, ‘Samu” disse Atsumu e Shouyou colse con la coda dell’occhio la mano del ragazzo che affondava tra le mele di un carretto di frutta.
Lo guardò portarsi il frutto alla bocca. Stava per morderlo, doveva già pregustarne il contrasto di dolce e aspro, ma Shouyou sollevò discretamente la mano sinistra e mosse due dita verso destra, in un movimento secco e rapido. La mela saltò via dalle mani di Atsumu e si posò con un tonfo attutito in cima al mucchio nel carretto.
Atsumu si voltò a guardarlo di scatto, sollevando un angolo della bocca e scoprendo i denti. Shouyou gli sorrise.
“Mi state ascoltando?” domandò Osamu.
“No” rispose Hinata, lapidario.
Atsumu scoppiò a ridere. La conseguenza di quell’atto sconsiderato fu inciampare in una pietra che prima sicuramente non c’era stata.
“È stato Shouyou a risponderti!”
“Ma tu mi dai fastidio.”
Shouyou sorrise innocente e il resto della giornata a Oshubi proseguì senza intoppi. Atsumu non poté fare a meno di notare, a un livello a stento conscio e che sfiorava la magia, che Osamu non aveva smesso un attimo di guardarsi attorno, a caccia di qualcosa che, per la prima volta in vita sua, Atsumu fu certo di non saper decifrare.

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Capitolo 3
*** Gaoling ***


PARTE TERZA
Gaoling

 
Kao Lai, ottantacinque anni prima, era nota per essere la città più a ovest del Regno della Terra. Sorgeva su una zolla a forma di uncino ed era famosa per le sue spiagge dorate, ma striate di nero. Una sottile lingua di mare separava Kao Lai dall’isola di Shouhon, la più grande nell’arcipelago della Nazione del Fuoco e famosa per il vulcano che la dominava. Polveri e detriti si spingevano fino a Kao Lai e, per via di fenomeni atmosferici che i più grandi studiosi del mondo ancora non erano riusciti a decodificare, venti e piogge si tingevano di nero e crollavano nell’entroterra e sulla costa. La città era poi diventata famosa per le sue lacrime di carbone.
Kao Lai, ottantacinque anni dopo, era nota per essere la città più a ovest del Regno della Terra, per le sue lacrime di carbone e perché era una colonia della Nazione del Fuoco. Erano sparite le leggende sul vulcano di Shouhon ed erano state rimpiazzate dalle angherie dei soldati giovani che venivano mandati lì per far pratica di violenza, eserciti della Nazione del Fuoco in erba.
Kao Lai, però, era nota per un’altra, piccolissima cosa: gli imbrogli. E questo era vero ottantacinque anni prima come allora.
Oh,” disse il ragazzo, la bocca formava un anello perfetto di stupore e agitazione.
“Oh… cosa?”
Lui scosse la testa e ripose la mano del suo interlocutore sul tavolo, la voltò perché nascondesse il palmo e lasciò due buffetti costernati sulle nocche.
“Oh cosa?” ripeté il soldato con voce stridula. Se c’era una cosa che amavano, questi soldati della Nazione del Fuoco, era immergersi nel misticismo di Kao Lai, nel mistero della sua storia legata stretta a una magia che gli abitanti del luogo spacciavano per la più antica del mondo.
“Non son liete novelle” disse infine il ragazzo, scuotendo di nuovo la testa e osservando impotente le mani del soldato. “V’è a capo della linea, e della vita a essa congiunta, la più ardua delle prove. Il rischio è rilevante, specie quando piove. Di dir più non m’è concesso, ma, aguzzando l’occhio, il palmo segna il dove.”
Il soldato lo guardò fisso, la bocca semiaperta come un pesce annaspante, poi colse il senso delle parole dell’indovino e si alzò in piedi sconcertato, gli occhi fissi sul palmo della mano che, qualche istante prima, gli era stato letto.
Il mago fece spallucce – un tipo di spallucce solenni e per nulla noncuranti, si badi – e accennò con la mano sinistra al barattolo sul tavolo. Il soldato annuì svelto. Infilò le monete nel barattolo e scappò via come se la sua anima gli avesse ricordato di un’urgenza.
L’indovino espirò pesantemente dal naso e allacciò esausto le mani dietro la testa, poi sciolse le spalle e riprogrammò il suo cervello perché tornasse a parlare normalmente.
Oikawa Tooru non era un indovino, era un ciarlatano. Era noto a Kao Lai per essere l’espressione più pura della magia.
Ecco la parte di storia vera: i suoi genitori erano stati a trovare degli amici di famiglia nel sud del Regno della Terra, ma erano due dominatori dell’acqua, originari della Tribù dell’Acqua del Nord. A sua madre si erano rotte le acque sulla strada di ritorno per il nord, e si era trovata per caso a partorire a Kao Lai.
Ecco invece la parte di storia falsa: Kao Lai aveva benedetto il dominatore dell’acqua nato nel suo grembo e gli aveva donato un potere che neanche gli stregoni più potenti della città potevano vantare: la cura dalle maledizioni. L’acqua che toccava era sacra, intrisa di dominio e magia. Ma la sua potenza, ovviamente, era indimostrabile.
Oikawa Tooru prima leggeva disastri nella vita delle persone – la vita, tanto, era una tragedia per tutti, quindi bastava restare vaghi – e poi si faceva pagare una quantità spropositata di denaro per cancellare questi disastri dal loro futuro. Quelli che restavano, ovviamente, non erano una sua responsabilità: non si poteva pagare per tutti.
Nessuno aveva mai osato mettere in dubbio la sua credibilità. Nessuno, fino a quando l’ultima delegazione di soldati della Nazione del Fuoco alle prime armi non era sbarcata sulle coste striate di Kao Lai.
La porta della locanda si aprì con un suono secco e deciso. Molte delle sue sedute si tenevano in locande, negozi di antiquariato, a volte anche rocce in riva al mare. Non avere uno studio lasciava che la magia della terra di Kao Lai gli fluisse attorno, spirali e linee sinuose di ispirazione che non erano che una scusa che funzionava molto molto bene per non pagare i soldi dell’affitto di un locale per indovini.
Oikawa alzò gli occhi verso la porta della locanda e localizzò il nuovo arrivato.
“Se la ruota della fortuna vuoi girare,” iniziò con tono solenne, quando lui si fu avvicinato al suo tavolo, “il palmo della mano, o viaggiatore, ti conviene mostrare.”
“Piantala con le stronzate” gli rispose lui, sedendosi sulla sedia di fronte alla sua come se gli spettasse. Non gli spettava affatto, a dirla tutta costava una fortuna. Ma Hajime Iwaizumi era quell’unica persona che osava mettere in dubbio la sua credibilità. “Uno dei miei compagni è uscito di qui qualche minuto fa e ha detto che adesso vuole andare a pescare trote.”
Oikawa sollevò un sopracciglio. “Io l’ho sempre detto che voi della Nazione del Fuoco siete degli stupidi” disse leggero, cambiando completamente registro. Le rime non attaccavano con Iwaizumi, ciò che attaccava era farlo irritare e, in quello, Oikawa era quasi più bravo che a fingersi mago.
“Attento a come parli, non sei intoccabile solo perché una mandria di stronzi ti sta a sentire.” Iwaizumi lo fulminò con lo sguardo, ma Oikawa non aveva più paura della Nazione del Fuoco. Era un genere di lusso che si potevano concedere tutti quelli che li avevano visti ardere le vite attorno a loro.
“Guarda che sono i tuoi stronzi. E comunque espongo i fatti. Quel tuo amico dev’essere parecchio cretino se ha sentito nelle mie parole il suggerimento di andare a pescare trote, nella vita. Anche se tutto sarebbe meglio che continuare a fare quello che fate voi qui... qualunque cosa sia.” 
Iwaizumi abbassò la voce e piantò le mani sul tavolo. Si alzò in piedi, facendo stridere rumorosamente la sedia contro il pavimento, poi si sporse in avanti per fronteggiare Oikawa. “Questa è l’ultima volta che te lo dico: smettila con questa truffa.”
“Non è colpa mia se voi soldati siete così deboli da non saper resistere a una predizione” ribatté l’indovino, fronteggiandolo a sua volta.
“Questa cosa potrebbe mettersi seriamente male per te.”
“Preoccupato per la mia incolumità?”
“Addestrato così bene da non attaccare alle spalle.”
“Davvero nobile. Vuoi elencarmi tutte le altre cose leali e corrette che ha fatto la Nazione del Fuoco negli ultimi ottantacinque anni?” Oikawa percepì il suo respiro rimbalzargli sulle labbra. Fece scattare lo sguardo dai suoi occhi alla sua bocca, a metà strada tra sfida e qualcos’altro.
Iwaizumi scosse la testa rassegnato, poi si allontanò di scatto e tornò dritto. “Ci vediamo stasera al solito posto?”
Oikawa annuì e Iwaizumi gli diede le spalle. “Iwa-chan?” lo richiamò. Lui si voltò a metà, seccato. Della seccatura di Iwaizumi a lui importava quanto il futuro dei suoi clienti: zero. “Lo sai che vivi in una prigione, sì?”
Lui esitò solo un attimo, la prova di quella pausa nel dito medio che ancora non gli aveva mostrato. “Tu non capisci proprio niente,” disse, poi se ne andò.
Iwaizumi non si era ancora mai fatto leggere le mani, il che era un fatto peculiare, perché, tra tutte le mani dei soldati della Nazione del Fuoco che Oikawa aveva toccato, le sue erano quelle con cui aveva più familiarità.
Alcune notti, la differenza tra fuoco e acqua e fiamme e onde si affievoliva al punto che Oikawa e Iwaizumi si vedevano per qualche minuto solo per quello che erano: due ragazzi che, in una vita più facile, avrebbero potuto innamorarsi.
 
Passarono i giorni.
Incredibile come, tagliando alcune corde, anche le cose più improbabili scivolassero facilmente nell’abitudine. Atsumu e Osamu non avevano mai lasciato Ba Sing Se e adesso viaggiare sulla schiena di Mugi era diventata la loro attività fissa dopo la colazione. Avevano visto boschi, mari, fiumi, laghi e monti e, più lo facevano, più sembrava che non avessero fatto altro per tutta la vita. Shouyou, invece, che aveva sempre viaggiato da solo, abituato a nascondersi e a non fidarsi, era diventato forse il dominatore dell’aria che aveva più amici al mondo. Non era difficile, in fondo ne bastava uno, ma era qualcosa.
Osamu iniziava a superare le sue difficoltà con l’alta quota. Shouyou aveva anche avuto l’impressione che gli mancasse Oshubi, ma forse erano solo i suoi sensi di colpa a parlare.
Nell’ultima settimana avevano visto il grande Canyon, coi suoi percorsi guidati, e, dal clima rigido e inospitale delle Terre del Nord, erano passati per uno spicchio di deserto e per una palude così ampia e fitta che sembrava ricoprisse in qualche modo il mondo intero. Sorvolando quell’oceano di alberi, i ragazzi erano rimasti in silenzio, cullati dal respiro pesante di Mugi e dal suono distante e antichissimo del vento che scuoteva le foglie laggiù. Una volta superata, Shouyou si era voltato verso i suoi compagni di viaggio.
“Credete che avremmo dovuto fermarci?” aveva domandato, le sopracciglia aggrottate, confuso dalla sua stessa domanda.
“Nah, un mucchio di fango e melma,” aveva detto Atsumu, scrollando le spalle.
Ma Osamu era scivolato in un silenzio riflessivo e così avevano proseguito lungo la rotta per Gaoling più sicura per i dominatori dell’aria.
La prima e unica cosa interessante di quel viaggio accadde la notte prima che approdassero in città, a mezza giornata di viaggio dalla meta.
Shouyou si svegliò di scatto. Un fremito nell’aria, un accenno di vibrazione. Aprì gli occhi e uno spicchio di cielo lo fissò di rimando. Osamu, quando non trovavano accampamenti validi, costruiva tende di roccia per loro, lasciando solo uno scorcio di cielo sulla sommità conica. Al mattino li accoglievano i primi raggi timidi di una sveglia naturale.
Ma non era giorno. Non ancora. Due respiri regolari si alternavano non lontano da lui. Due. Quello di Osamu e quello di Mugi, oltre la tenda.
Si alzò a sedere e distinse appena, nel buio, la sagoma floscia di un sacco a pelo, la sagoma vuota.
Leggero come una piuma e per niente silenzioso, Shouyou sgusciò via dal suo sacco a pelo e si infilò nella fessura da cui si intravedevano le stelle.
L’aria della notte era fresca, lì al sud, frizzante ma non umida di rugiada. Faceva rabbrividire appena perché questa sembrasse una reazione superflua un attimo dopo. Il paesaggio era tutto massi scuri e alti, una foresta di rocce che dominava il cielo. Pinnacoli incredibili si ergevano come guardiani silenziosi di una landa desolata, ormai immemori dei terremoti che nel passato avevano scosso la terra perché loro si sollevassero. L’incremento di altitudine aveva cancellato ogni traccia della palude che si erano lasciati alle spalle non molto tempo prima. Eppure Shouyou era stato così sicuro che impregnasse il mondo intero!
Non lontano da lì scorreva un ruscello. Doveva essere un corso piccolo, che si tuffava da qualche parte nel vuoto, ma la notte amplificava ogni suono e lo trasformava in qualcosa di importante, meritevole di attenzioni.
Shouyou aveva imparato ad ascoltare i paesaggi grazie agli insegnamenti dei pochi monaci più anziani rimasti. La terra era un ostacolo, un muro. Il cielo era lontano e illeggibile. L’acqua era pericolosa almeno quanto era vitale. E il fuoco… be’, il fuoco era morte. All’inizio aveva finto di dar ragione ai suoi maestri, perché quando gli dicevano di chiudere gli occhi e ascoltare i paesaggi lui non sentiva un bel niente e la meditazione non era che una noiosissima e atroce tortura. Nessuno l’aveva mai propriamente costretto a far niente, ma Shouyou voleva essere il miglior dominatore dell’aria del mondo, al punto che da una cosa complessa e piena di variabili, quell’arte si trasformasse nel divertimento distintivo dei più forti e quindi doveva meditare.
Poi un giorno era successa una cosa strana: il vento aveva scosso le foglie quasi secche di fine estate, un fruscio distante e impalpabile affine a un’illusione più che una percezione. E Shouyou, invece che sentirlo, lo ascoltò.
Un soffio basso lo riportò al presente. Si guardò in giro all’erta. Stranamente, però, sbadigliò. Continuò a voltarsi smarrito finché un bagliore arancio colorò lo sfondo di una colonna di roccia, permettendole di stagliarsi nel buio nella forma di un’ombra. Poi la luce si spense e la colonna svanì.
Shouyou seguì quell’unico indizio a tentoni, finché non giunse, solo qualche minuto dopo, ai piedi del pilastro irregolare che aveva visto prima. “Atsumu?” chiamò voltando l’angolo, ma la sua voce fu superata e distrutta dal ruggito di una fiammata.
Si affrettò a nascondersi dietro la parete di pietra che faceva da angolo, poi capì che non era mai stato sulla linea d’azione dell’attacco e si sporse per sbirciare.
Le fiamme erano sparite, ma qualche scintilla si attardava ancora nel buio, conservando il crepitio dell’esplosione. Altre piccole fiammelle si accesero nell’aria, colorando a intermittenza quell’oscurità in file sinuose e apparentemente imprevedibili. Accendevano finestre sulla foresta di roccia che li circondava, uno spettacolo segreto che solitamente rispondeva solo al richiamo del giorno.
Al centro di quella guerra c’era Atsumu, calmo come Shouyou non l’aveva mai visto, ma gli occhi – che dal suo nascondiglio lui vedeva a stento e solo a volte – erano accesi di qualcosa di simile alla fame, una determinazione che bruciava più ardentemente dell’aria che incendiava.
Continuò a sbirciare e non lo interruppe. Non seppe bene perché, ma, più di quanto gli convenisse ammettere, Shouyou si fidava del suo istinto, e quindi non mosse un muscolo.
Aveva imparato a temere le fiamme più della morte, aveva imparato a distinguere la puzza di bruciato e a seguire le correnti d’aria che più si allontanavano da essa. Per tutta la sua vita Shouyou aveva associato il fuoco alla nazione che ne aveva preso il nome, alla violenza, alla disgrazia, alle notizie sulle scuole di lì, nelle quali si giurava ogni mattina fedeltà al loro paese e al loro Signore del Fuoco.
Però Atsumu non c’entrava niente con tutta quella distruzione.
Muoveva le mani in una maniera che Shouyou non aveva mai visto suo fratello fare e l’effetto fu strano-bello. C’era qualcosa di magico nella nascita di una scintilla, nella maniera violenta e rapida con cui questa si trasformava in fiamma, divorando un’aria che Shouyou avrebbe trattato certo con più garbo ma con meno magia. Era più o meno sicuro che Atsumu non avesse la più pallida idea di come si padroneggiasse quell’arte e, in un momento meno sospeso, avrebbe riso di lui, ma c’era comunque qualcosa di affascinante nel vederlo accendere una luce. Quel fuoco era vivo in una maniera che non rischiava di avvampare e poi divampare.
I maestri di Shouyou gli avevano detto che era un po’ troppo spericolato, tentato dalla curiosità e incapace di resisterle. Aveva imparato a meditare, ma era ancora incosciente e forse lo sarebbe stato per sempre.
Questo bisogno continuo di stimoli era la benedizione di un viaggiatore, ma straripava al punto che l’ultimo consiglio del suo maestro per lui fu: ‘non giocare col fuoco, Shouyou’.

“Che stai facendo?” lo interruppe Hinata, facendosi avanti. Atsumu si voltò di scatto e un cono di fuoco morì in cielo, spegnendosi in nuvole di fumo. Nel palmo della sua mano rimase solo una fiamma sfiatata.
Alzò le sopracciglia sorpreso, un angolo della sua bocca si sollevò appena, ebbe un fremito e poi tornò giù. “Niente, volevo…” poi la fiamma si spense e il paesaggio crollò nel buio, “provare.”
Shouyou si avvicinò di qualche passo. La terra brulla gli rispondeva ostinata e accomodante insieme. L’aria era pesante come se fosse piovuto fuoco. Soffiò davanti a sé per localizzare l’esatta posizione di Atsumu, poi si arrestò. Era così buio che tenere gli occhi aperti o chiusi non faceva differenza. A volte il buio ha delle sfumature, attiva i sensi e permette di percepire un ostacolo solo perché in certi punti pare più denso. Invece quello era totalizzante, immanente. Esistevano solo la terra sotto i suoi piedi e Atsumu, perché respirava. “Provare nel bel mezzo della notte?” Shouyou non era lì per giudicare. Aveva abitudini strane anche lui. D’altronde volava sulla schiena di un bisonte volante e si era volontariamente accollato una missione suicida.
“Non c’è un orario per provare,” fu la risposta ironica di Atsumu. Shouyou pensò che fosse proprio uno di quei tipi che dicevano le cose importanti scherzando e le battute con fare serio. Non li capiva.
“Hai proprio ragione, Atsumu!” Shouyou non sapeva perché, ma essere entusiasti al buio era diverso che esserlo al sole. “Allora tu continua ad allenarti molto duramente.” Fece per andarsene, ma Atsumu gli afferrò il polso.
“Resta,” sussurrò. Perché a volte, quando si era al buio, si era sempre un po’ abituati a non farsi scoprire svegli dalla mamma, anche se la mamma non l’avevi. “Mi fa piacere stare con te.”
Con la mano libera accese di nuovo la luce, un sorriso storto gli tagliava diagonalmente il viso. Shouyou captò la disonestà come al solito, ma si fidò, perché se Atsumu non sorrideva mai sinceramente di certo guardava sinceramente. E nei suoi occhi sembrava sempre che la fregatura non andasse mai a discapito di Shouyou, che fosse anzi volta a renderlo felice.
Shouyou era cresciuto temendo il fuoco, ma quello di Atsumu gli piaceva.
Atsumu gli piaceva.
 
Tirava un vento caldo dall’ovest quando, una manciata di ore prima del tramonto, i ragazzi intravidero Gaoling oltre il muso di Mugi.
La città consisteva di una serie di edifici di piccole dimensioni incrostati alla terra e circondati da montagne simili a denti, le cui basi sfumavano le une nelle altre. Quell’anello naturale di monti delimitava i confini di Gaoling e conferiva al paesaggio un aspetto brullo e secco.
Shouyou, dal suo posto speciale sul collo di Mugi, si voltò a favore del vento e annusò l’aria, la fronte aggrottata in quel modo ambiguo, a metà tra l’accigliato e il suo opposto.
Atsumu lo guardò mentre il vento si infilava tra i capelli e glieli sollevava sulla fronte, mettendo in mostra il tatuaggio. L’aveva intravisto altre volte, mentre volavano o al mattino, appena svegli, ma c’era qualcosa di affascinante ogni volta nel toccare con mano il modo in cui la spiritualità di Shouyou si scontrava con quel suo lato selvaggio. Atsumu seguì con lo sguardo il percorso della freccia tatuata lungo la nuca finché l’azzurro non si tuffò oltre il colletto della sua maglietta. Avrebbe voluto tracciarla con un dito e ripercorrerla al contrario, allontanandosi da quello a cui puntava e avvicinandosi alla sua origine, al suo motivo.
Quei pensieri furono interrotti in un baleno da Osamu, che gli colpì il mento. “Chiudi la bocca.” lo mise in guardia. “Il cielo è pieno di mosche.”
Atsumu fece scattare lo sguardo nel suo e mosse la mandibola per accertarsi che non gliel’avesse scardinata. “Non mi fanno paura le mosche. Ho vissuto per diciott’anni con la più fastidiosa di tutte.”
Osamu sollevò un sopracciglio, apparentemente poco turbato. “Dici?”
Shouyou sospese la sua conversazione telepatica col vento e si voltò a guardarli battibeccare. Atsumu ci teneva sempre a dare l’impressione che fosse quello meno coinvolto, nelle sue discussioni con il fratello. Questo secondo lui gli dava una certa aria superiore. La verità era che non vedeva l’ora che scattasse il momento più indicato per fare a botte e aveva la faccia di uno che non vedesse l’ora che scattasse il momento più indicato per fare a botte. Per fortuna anche Osamu aveva l’aria bellicosa.
“Che succede?” Shouyou sorrideva. All’inizio Atsumu l’avrebbe trovato tenero, ma dopo settimane di viaggio aveva capito che altro che piccolo gigante del dominio dell’aria: era un piccolo stronzo.
Osamu sfiorò lo sguardo di suo fratello, poi, con l’espressione più addolorata che riuscì a fingere, sospirò: “È un po’ patetico, a dire il vero, ma credo che ‘Tsumu…”
“Trovi questa città poco alla moda,” lo interruppe Atsumu, sfoggiando un sorriso sibillino. Conosceva Osamu abbastanza per sapere che sarebbe stato ambiguo, ma non conosceva Shouyou abbastanza per valutare la sua perspicacia.
Gaoling era tutt’altro che ‘poco alla moda’. Atterrarono poco fuori la città, alle spalle di una montagna dall’aspetto friabile, poi lasciarono Mugi al sicuro. Quando si addentrarono nella vallata, furono accolti da villette recintate che lasciavano intravedere solo le siepi più alte dei giardini al loro interno e targhette che segnalavano con tratti sinuosi ed eleganti i nomi dei residenti delle proprietà.
Attraversarono un ruscello dall’aria intrusa e circumnavigarono il muro più lungo in cui si fossero imbattuti lungo quella passeggiata nel lusso, finché questo non si interruppe per far posto al portone più sontuoso su cui i gemelli avessero mai posato gli occhi.
“Wow,” fu il commento articolato di Atsumu. Per una volta Osamu non lo prese in giro e stette a guardare a braccia incrociate quel capolavoro di intarsi e ghirigori. In cima al portone campeggiava lo stemma di un cinghiale volante.
 
“Quindi dove dobbiamo andare?”
Atsumu si fidava di Shouyou, soprattutto perché non aveva intenzione di mettere in dubbio quella rete fantasma di informazioni che i dominatori dell’aria avevano intessuto in silenzio per ottantacinque anni, però era quasi calato il buio e Osamu non aveva ancora gareggiato in un’arena.
“Ci sto lavorando,” fu la risposta criptica di Hinata. A giudicare dalla sua faccia, sembrava che il lavoro di Shouyou fosse vagare senza meta e sperare che la loro prossima mossa piovesse dal cielo, ma Atsumu non glielo disse, perché era un tipo misericordioso.
Buttò un occhio a suo fratello, qualche metro indietro, nella strada principale stracolma di bancarelle. Lo vide sussultare come un cane da caccia e seguire la scia di un odore che portava a un pentola di rame, poi annusò ancora e sgranò gli occhi come se gli fossero state aperte le porte del mondo degli spiriti. Atsumu sperò che la gara che lo attendeva nell’arena fosse qualcosa sul filo di ‘riconosci la cottura del bufalo’, perché altrimenti erano spacciati. Ebbe giusto il tempo di notare suo fratello chiedere qualcosa al signore fermo dietro alla bancarella, poi Shouyou, accanto a lui, sfiatò da un angolo della bocca.
“Ma che diavolo stai facendo?”
Hinata lo guardò con gli occhi sbarrati e la bocca ancora storta. Si ricompose in fretta facendosi dritto come un fuso e leccandosi le labbra per liquidare le prove del misfatto. “Niente, sto aumentando il raggio delle onde sonore che…”
“Non hai idea di come trovare quest’arena, eh?”
“No,” si sgonfiò come un palloncino, “i dominatori dell’aria parlano di una gara clandestina, ma è difficile decifrare i messaggi in codice.” Shouyou si grattò il capo. “Forse l’indizio si riferiva a un’area in cui si tiene una parata in una stradina.”
Atsumu lo guardo arrovellarsi e pensò, siamo sul serio spacciati, ma poggiò comunque una mano sulla spalla di Shouyou. “Non preoccuparti, sei al cospetto del miglior criminale di Ba Sing Se.”
Seppe di aver fatto la mossa giusta a non esprimere le sue perplessità, perché il viso di Shouyou sembrò raccogliere sul viso tutta la luce che la stringa di lanterne sulle loro teste emanava e rispedirla a lui, che non se la meritava. “Sei fantastico, Atsumu!”
La prima cosa che fece fu raccattare Osamu.
“Io prenderei la polpetta” gli consigliò, dando un colpetto col gomito a suo fratello per risvegliarlo dalla sua contemplazione assorta. “Ti devi mettere in forze.”
“Perché dovrei?”
“SALSICCE E CAVOLI FRESCHI PER I DOMINATORI PIÙ IN FORMA DI GAOLING!” un uomo scampanellava da una bancarella sgangherata che, fedele a se stessa, vendeva solo salsicce e cavoli. Attirò l’attenzione di Atsumu.
“Hai ragione. Perché non una salsiccia?”
Osamu lo guardò con l’espressione con cui lo guardava quando diceva qualcosa di estremamente stupido, ma Atsumu lo conosceva: lo guardava così anche quando capiva che stava mettendo a segno un colpo. Era l’espressione con cui lo studiava.
“Ti va una salsiccia?”
Osamu lanciò un’occhiata a Shouyou, alle loro spalle. Era basso, ma stava iniziando a bruciare e collassare su se stesso dall’impazienza, quindi si faceva notare. “È una battuta sporca?”
Atsumu lo guardò un attimo con le sopracciglia aggrottate.
Osamu scrollò le spalle. “Vabbè, in ogni caso mi va una salsiccia.”
Si avviarono alla bancarella ridendo e il tipo scampanellò più forte per attirare la loro attenzione. “SALSICCE E CAVOLI FREEEEESCHI…”
“Fammi indovinare,” lo interruppe Atsumu, sorridendo come a cercare un’intesa e puntando un dito contro di lui. “Per i dominatori più in forma di Gaoling?”
“Puoi dirlo forte, ragazzo!” rispose quello, allegro.
“Oh, lo stai dicendo bello forte tu, non voglio soffiarti il lavoro, amico.”
Il venditore sorrise, una scintilla nello sguardo che confermava i sospetti di Atsumu, perché brillava molto meno di goliardia e molto più di furbizia. “Sei sveglio.”
Atsumu si strinse nelle spalle. “Tu un po’ meno, non ho ancora visto neanche un dominatore in forma.”
“Ma che stai…” iniziò Osamu, ma Shouyou gli pestò il piede con forza.
“Forse stai guardando nel posto sbagliato.”
“Forse le tue salsicce sono una truffa.”
L’uomo si sporse appena oltre il bancone. “Stai cercando il quinto scontro del dominio della terra, ragazzo?”
Atsumu gli sorrise ingenuo.
L’uomo si allontanò di scatto e mise mano a salsicce e contenitori. “Tre salsicce con contorno, dico bene?”
“Corretto,” rispose Atsumu e fece segno con la mano a Osamu di passargli dei soldi. Quando suo fratello lo accontentò, Atsumu ebbe appena il tempo di notare un buco perfetto nella sua maglietta e interrogarlo con lo sguardo per un lunghissimo istante. Osamu si rese illeggibile, per la seconda volta negli ultimi giorni.
L'uomo si guardò intorno, guardingo, poi fece segno ai ragazzi. “Seguitemi in magazzino per le salse di accompagnamento.”
“Atsumu…” gli sussurrò Shouyou, reggendo la sua cena fumante tra le mani, mentre il venditore di salsicce li conduceva all’arena. “Io sono vegetariano.”
Atsumu rimase interdetto. “Ah, non ti piace?”
“No,” continuò a sussurrare Shouyou, scuotendo forte la testa. “No, nel senso che non mangio la carne, però ottimo piano!” disse poi, mostrandogli un pollice in su.
L’uomo bussò a una porta tre volte di fila, poi attese un secondo e bussò una quarta volta. La porta si spalancò. Dava su una scalinata che si snodava in un buio che sembrava denso, alla vista. Melassa, pasta di zucchero.
“Se gareggiate e vincete dite che vi manda Kyo.” Diede un’occhiata ai ragazzi da capo a piedi, in una valutazione vagamente sfiduciosa. “Oppure non dite niente. Buon divertimento!”
E, veloce come il vento, tornò alla sua bancarella.
 
L’arena del quinto scontro era costruita al centro di un’enorme sala sotterranea. Osamu contò almeno una dozzina di altri corridoi collegati a tunnel bui che sfumavano in gradinate, identici a quello che avevano appena attraversato loro. L’arena si trovava su una struttura rialzata nel bel mezzo di una fossa recintata ed era illuminata dall’alto da cristalli fluorescenti, che gettavano un bagliore spettrale e smanioso d’azione insieme.
“Wow!” esclamò Shouyou, gli occhi enormi riflettevano esterrefatti quell’immensità. Atsumu non sembrava granché impressionato dal luogo, ma più da come si rifletteva negli occhi di Hinata.
“Qualcuno di voi mi può spiegare che ci facciamo qua?”
“Siamo venuti a dare un’occhiata alla gara” spiegò Atsumu, guidandoli lungo il corridoio parallelo al lato più corto dell’arena. “Oh, hanno lasciato liberi i posti in prima fila!” trillò, correndo a prenotarne tre sdraiandosi su un gradino che aveva una vista perfetta sul ring.
“Mi stai dicendo che stiamo viaggiando da Oshubi da giorni perché volete vedere dei dominatori della terra lottare in un’arena?” Atsumu fece spallucce. “A Ba Sing Se l’ultima cosa che volevi fare era guardare me, Aran e Kita combattere.”
“Perché voi non siete esperti.” Osamu inclinò il viso su un lato, scettico. “Ehi, ora ho visto mezzo mondo. Il viaggio ti cambia, ‘Samu.”
“Ma non siamo venuti qui perché ci servivano soldi?”
“Perché non ti siedi e mi dai tregua?”
Osamu non gli dava tregua da quando la sua cellula aveva incontrato la cellula di Atsumu, ma si sedette comunque e osservò ammirato i cristalli inclinarsi con uno stridio e puntare dritto sul ring, lasciando in penombra gli spalti. Mormorii indistinguibili serpeggiarono tra gli spettatori, poi calò il silenzio.
Beeeenvenuti al quinto scontro del dominio della terra!” tuonò la voce di un ragazzo, in piedi su una colonnina di roccia. Osamu immaginò che fosse l’arbitro. “L’attesissimo evento che si tiene a Gaoling ogni quindici anni! Le regole sono semplici: gli avversari si scontreranno a coppie. Il primo sfidante a sbattere l’altro fuori dal ring con il dominio della terra passerà al round successivo. Il dominatore che arriverà all’ultimo round si scontrerà con il campione dello scorso scontro del dominio della terra!
Un coro di ovazioni si alzò dalla folla, poi un uomo basso e tarchiato, vestito in maniera stravagante, si fece largo sul ring, sollevando entrambe le braccia e annuendo fiero agli spalti in ombra.
Diamo il benvenuto a… il re matto!
Il re matto esultò come se avesse vinto già qualcosa, poi l’arbitrò presentò il suo sfidante e il primo scontro ebbe inizio.
Osamu era mediamente affascinato. Attacco e difesa coprivano a volte le basi del dominio della terra, altre le ribaltavano, rimodellandole e riplasmandole in varianti creative e talvolta spettacolari. L’azione era serrata, la gara era continua e l’arena veniva costantemente crepata, sollevata, distrutta e ricucita attacco dopo attacco, sfidante dopo sfidante. La polvere danzava nell’aria sotto le luci sinistre dei cristalli e poi si disperdeva. Non era completamente affascinato, però, perché molta di quella roba era del tutto inutile: una performance e niente di più. Alcuni movimenti erano di troppo, le forme acrobatiche non rispettavano ciò che al dominio della terra avrebbe dovuto stare più a cuore: l’attesa, l’ascolto, la semplicità. Gli scontri erano effimeri, mentre la terra era sostanza.
A Shouyou e suo fratello però sembrava piacere.
“L’HAI VISTO, ‘SAMU, HAI VISTO CHE HA FATTO?” urlava costantemente Atsumu nel suo orecchio e sembrava importargli relativamente poco dei detriti che venivano scagliati a qualche centimetro dalla sua testa durante il combattimento.
“Oh, adesso capisco perché le prime file erano tutte libere” commentò Shouyou a occhi spalancati, addentando una foglia della sua doppia porzione di cavolo, visto che Atsumu gli aveva ceduto la sua in cambio delle salsicce che non poteva mangiare.
“‘SAMU, QUESTO LO SAI FARE?”
“Ha solo sollevato una pietra, ‘Tsumu.”
“Sì, ma lo sai fare?” Atsumu lo guardò pieno di aspettativa.
Osamu ricambiò lo sguardo, poi, molto lentamente e con le sopracciglia aggrottate, disse: “Sì.”
Il re matto finì per perdere all’ultimo scontro, nella sfida contro il campione in carica. Gli spalti esplosero di fischi esaltati e grida di rivincita o di complimenti, ma l’arbitro richiamò il silenzio e questo permeò ovattato e trepidante la sala, donandole il sentore di una scintilla di possibilità.
Il re matto perde contro la campionessa del quarto scontro del dominio della terra! Facciamo un applauso alla guerriera dell’est, rimasta imbattuta!” Malgrado il malcontento di alcuni, la vincitrice fu accolta da applausi ed esultanze. “Ma,” riprese la parola l’arbitro. “Offro una ricompensa a chiunque, nel pubblico, creda di potersi battere con lei e strapparle la cintura del campione!
E a quel punto l’arena sotterranea ululò.
Osamu ebbe a stento il tempo di registrare un movimento alla sua sinistra, poi vide suo fratello alzarsi in piedi e dichiarare: “Lo faccio io.”
“‘Tsumu ma che diamine, tu non sei un…”
E qual è il nome del dominatore che tenta l’impossibile?
Osamu lo capì con un microsecondo di ritardo. “Oh, no,” mormorò.
“Il giullare di Ba Sing Se.”
Per poco un coro di risate non coprì la voce dell’arbitro, che dalla sua colonnina di roccia dichiarò: “Si faccia avanti… Il giullare di Ba Sing Se!” e questa volta le risate si trasformarono in applausi entusiasti.
Atsumu tornò a sedersi e lanciò un’occhiata a Osamu. “Ecco come faremo soldi a Gaoling. È il tuo momento.”
“‘Tsumu, odio doverlo dire, ma, se io provo anche solo ad alzare una pietra, lei mi fa il culo.”
Atsumu gli diede una spinta. “Meglio che inizi a fartelo piacere,” sollevò lo sguardo verso l’arbitro, che reggeva un sacchetto pieno zeppo di monete e una cintura che sembrava valere sei volte tutti i cristalli luminescenti sul soffitto, “perché non hai mai visto così tanti soldi in tutta la tua vita.”
Osamu seguì lo sguardo di Atsumu, poi chiuse gli occhi e inspirò forte per il naso.
In effetti.
Non aveva mai visto così tanti soldi in tutta la sua vita.
“Qual era esattamente il piano?”
“Prepararci per vincere con l’astuzia contro la Nazione del Fuoco al Tempio dell’Aria dell’Est, sfruttando tutte le risorse disponibili,” si intromise Shouyou e, guardandolo, Osamu pensò che non avesse mai visto creatura più fuori luogo di lui, in un’arena.
“No, intendo il piano per battere il campione.”
La domanda di Osamu incontrò due sguardi interrogativi. “Devi vincere?”
La folla ululò, questa volta sul confine tra il seccato e l’impaziente. “Volete dire che non avete un piano?”
Atsumu gli batté una mano tra le scapole. “Andrai benissimo, sono quindici anni che sorbisco i tuoi allenamenti con Aran e Kita.”
Giullare di Ba Sing Se?
Osamu si portò una mano alla fronte e inspirò di nuovo, poi si alzò di scatto e si tolse la maglietta. Doveva proteggere quei fori, ricordare che erano reali. “Tu sei morto,” sussurrò ad Atsumu, poi si avviò sul ring.
“Però!”
Atsumu seguì lo sguardo di Shouyou, che lo condusse direttamente a suo fratello. Correzione: sui pettorali di suo fratello. “Non guardare.”
“Invidioso?”
Atsumu gli sorrise e si guardò attorno giusto un attimo (abitudine), poi inclinò il busto nella direzione di Hinata e sollevò le sopracciglia. “Io sono un dominatore del fuoco, Shouyou.”
Lui lo guardò, una consapevolezza sospesa nell’aria del fatto che fossero tremendamente vicini. Atsumu si finse disinvolto a riguardo.
Brucio un sacco di calorie.”
La risata di Hinata fu soffocata dall’arbitro che annunciava l’inizio dello scontro.
 
Ecco le quattro cose di cui Osamu si rese conto nei primi tre secondi di battaglia sul ring:
  1. La guerriera dell’est era la dominatrice della terra più insospettabile sul pianeta. Si muoveva leggera come una dominatrice dell’aria, elegante come una dominatrice dell’acqua e precisa come una dominatrice del fuoco.
  2. La luce dei cristalli, inclinati perché puntassero sul ring, gli stava facendo vivere quell’esperienza come uno di quegli incubi che faceva a casa in cui era al centro di una folla, nudo, con l’ingrato compito di tenere un discorso sui rischi di estinzione dell’alce-leone dai denti a sciabola, nonostante lui non ci capisse niente di alci-leone dai denti a sciabola.
  3. La guerriera dell’est era superiore.
  4. No, sul serio. L’avrebbe stracciato.
Dunque Osamu, alla luce delle illuminanti consapevolezze ammassatesi nel suo cervello in tempo record, fece l’unica cosa possibile: allargò i piedi e sollevò le mani, con i palmi rivolti verso l’alto, ben piazzato in una posizione buona sia per l’attacco che per la difesa (e soprattutto ottima per cadere nel fossato senza farsi troppo male, grazie tante).
Poi il punto quattro del suo elenco mentale si illuminò a intermittenza nella sua testa, perché, senza dargli neanche il tempo di capire cosa stesse succedendo, l’avversaria mosse una mano verso il basso, naturale e fenomenale come se stesse accarezzando un gatto randagio, e Osamu si ritrovò nel ring. Non sopra, non sotto, all’interno. Le urla del pubblico erano attutite come sotto l’acqua più densa del mondo, in una fossa chiusa su ogni lato ma dinamica per mano della guerriera dell’est, che lo stava inesorabilmente spingendo oltre i limiti dell’arena dall’interno. Tecnicamente non era stato sbattuto fuori dal ring, quindi non aveva ancora perso.
Contrastò quella forza al buio, rimpiazzando se stesso con altra roccia e, contro ogni istinto umano, spingendosi più in basso. Un’ultima lastra sottilissima di terra lo separava dalla caduta di tre metri nel fossato. Iniziava a finire l’ossigeno e già sentiva i polmoni contrarsi attorno al vuoto. Avanzò ancora al di sotto dell’arena e bucò la terra su cui aveva camminato pochi istanti prima, procurandosi altra aria e quindi altro tempo. Fece volare una delle pietre rimaste sulla superficie del ring. Udì lo scontrarsi inquietante di pietra su pietra, nel silenzio attonito del pubblico. Infine mosse un pugno verso l’alto e tornò in superficie, atterrando alle spalle della sua avversaria e sollevando una colonna di roccia per farla volare dall’altro lato.
Una scheggia d’orgoglio gli trafisse il petto quando udì un pubblico che non poteva vedere esultare come un matto attorno a lui. Forse il punto quattro poteva essere aggirato. Forse poteva farcela, poteva stracciarla, poteva sentire i tifosi sgolarsi per lui.
La guerriera dell’est sbuffò rapida dalla bocca e attutì la caduta sollevando altri spuntoni di roccia e saltando da uno all’altro come se avesse preso a scendere una scala. Osamu cercò di spezzarglieli sotto i piedi, ma lei era troppo veloce. Quando atterrò la attaccò a raffica, chiudendo e riaprendo la mano senza sosta e sentendo già i muscoli delle braccia tremare per l’esercizio. Lei non sfiorò neanche la polvere di una roccia: si limitò a schivare ogni sasso come danzando. Guardandola, a Osamu sembrò che non si stesse neanche sforzando. Modificò il ritmo degli attacchi, forse stava contando, forse le sue pietre avevano preso una cadenza, ma quando cambiò ritmo la guerriera dell’est non sembrò notare affatto il cambio di melodia.
Al contrario, lei iniziò a spaccare il pavimento di pietra del ring a sua volta, tirandogli contro altra roccia con lentezza sospetta. Osamu non poté far altro che rispedirla indietro, assieme a quella che le stava lanciando.
E poi lo vide. Preciso come una ragnatela, paziente come il ragno che l’aveva intessuta. Ai piedi della guerriera dell’est c’era un tappeto di pietre, il che equivaleva, per un dominatore della terra, a un letto profumato alla fine di una giornata estenuante.
Lei inclinò il viso su un lato e piegò le sopracciglia folte costernata. “Hai perso, ragazzo.”
Osamu la guardò fisso negli occhi verdi, cercando di leggervi un insegnamento e non più una vittoria. Tentò di attirare a sé i sassi che lei stava già radunando in un masso compatto sopra le loro teste, ma non riuscì neanche a scalfire l’opera. Tentò di coprirsi con altra pietra, ma lei continuò, con la mano libera, a distruggere ogni suo tentativo di difesa e al contrario ad aggiungerli al gruzzolo. Osamu indietreggiò. Poi, quando capì che non aveva più assi nella manica, chiuse gli occhi e attese impotente l’impatto.
Non arrivò mai.
Il rumore della terra crepata lo costrinse a riaprire gli occhi.
Il masso della guerriera si distrusse in polvere e poi quella polvere lo accecò. Se avesse potuto, avrebbe sgranato gli occhi, invece sentì quelle infinite particelle attaccarsi ovunque e spingerlo indietro.
Si chiese per un attimo di calante lucidità se lei non fosse una dominatrice dell’aria. Se fosse riuscita in qualche modo a fregare tutti o se le leggende sull’Avatar scomparso, dominatore di tutti gli elementi, fossero pronte a riscrivere ottatacinque anni di storia quel giorno, davanti a un evidente sfoggio di due elementi.
Ma lei non era l’Avatar, era ovvio.
La guerriera dell’est stava controllando la terra che lui aveva addosso e la stava utilizzando come un’assistente. La polvere lo stava spingendo fuori dal ring per lei.
Osamu Miya aveva un gemello. Sapeva esattamente cosa significasse scontrarsi ogni giorno con qualcosa di tanto simile a lui e al contempo così contrario. Negli anni, lui e Atsumu avevano imparato a trarre fuori il meglio da quella condizione e l’anello esterno di Ba Sing Se aveva offerto loro il campo di battaglia più insidioso di tutti, e quindi il più istruttivo. I gemelli avevano imparato che, quando vedevano qualcosa che funzionava, dovevano appropriarsene o imitarla fino a migliorarla.
E quindi Osamu fece entrambe le cose.
Imitò la tecnica della guerriera dell’est e, facendolo, se ne appropriò.
Combatté il sudore, la sabbia negli occhi e un dolore sordo, messaggero dei muscoli esausti e dei colpi che aveva preso.
Il problema di controllare così tanta terra sparsa tutta insieme era che alcuni granelli erano debolmente legati alla volontà del loro dominatore. Osamu se ne appropriò con fatica immensa e costruì il suo guanto di terra, rilevando, privato di un senso, i punti in cui la polvere non era presente per individuare la posizione della sua avversaria.
Cominciò a spingerla a sua volta fuori dal ring. Nel momento in cui iniziò a controllare anche i suoi movimenti, Osamu avvertì il vuoto sotto i piedi e precipitò nel fossato.
Un singulto sorpreso gli scivolò via dalle labbra.
 
“Ero certo…” Atsumu si liberò furtivamente dei contenitori di carta di salsiccia e cavolo fresco, poi unì le mani tra loro, “che ti avesse seppellito vivo, all’inizio.”
Osamu camminava accanto a loro, ma sembrava essere ridotto all’involucro esterno di se stesso. Shouyou lo immaginò come un costume di riserva di Atsumu, abbandonato su una stampella sgangherata di un ripostiglio.
“Grazie, ‘Tsumu” mormorò Osamu, esausto e anche un po’ abbattuto.
“Però poi le hai fatto fare swiiiiish!” offrì Shouyou in risposta, perché era convinto che gli facesse bene un po’ di incoraggiamento, soprattutto perché, sconfitta a parte, la sua performance gli era parsa fenomenale.
“Sì, ma poi la guerriera dell’est gli ha fatto swiiiiish in faccia,” gli ricordò Atsumu.
“Ma poi che razza di nome è, la guerriera dell’est?” chiese Osamu, a metà di uno sbadiglio.
“Quello di una guerriera che viene dall’est,” disse una voce all’improvviso, da qualche parte alle loro spalle. “Piuttosto che razza di nome è ‘il giullare di Ba Sing Se’?”
La dominatrice della terra migliore che Shouyou avesse mai visto in azione se ne stava a braccia conserte qualche metro dietro di loro. Nonostante il buio del viottolo, a Hinata sembrò mille volte meno letale ed elegante di quanto pareva coi cristalli dell’arena puntati addosso e un fossato di distanza tra loro. Si era tolta il costume con cui gareggiava e adesso indossava vestiti comuni, fatta eccezione per la cintura del campione. Sembrava quasi… umana. Quando i suoi occhi chiari incrociarono quelli di Shouyou, però, un brivido gli corse lungo la spina dorsale.
Osamu si inchinò, rispettoso, e Hinata guardò Atsumu guardarlo sconcertato. Quella sorpresa si sciolse subito, però, per fare posto al sospetto. “È un piacere rivederti, signora guerriera dell’est, ma…”
“Saya.”
“Saya,” Atsumu annuì, condiscendente e per questo tutto fuorché quello. “Non vorrei sembrarti indiscreto, ma perché ci stai seguendo?”
Saya lo ignorò. Invece portò su Osamu una versione attenuata di quel suo sguardo deciso che l’aveva fatto tremare sul ring e lo considerò da capo a piedi per una manciata di istanti imbarazzanti, prima di proferir parola. “Dove hai imparato quella tecnica?”
Osamu scambiò uno sguardo smarrito con suo fratello. “Che tecnica?”
“Quella che ho usato contro di te.”
Lui esitò. “Quella che hai usato tu e con cui… hai vinto?”
Ma Saya si limitò ad annuire, trasparente al punto da fargli scartare subito l’ipotesi che l’avesse cercato solo per infierire sulla sua sconfitta e prenderlo in giro.
“Ho solo fatto quello che stavi facendo tu, ma era troppo tardi.”
La guerriera dell’est lo guardò per qualche secondo di completa confusione, poi aggrottò le sopracciglia e mosse qualche passo nella sua direzione. Non era una tipa molto facile da leggere, ma sembrava arrabbiata, forse minacciosa. “Non prendermi in giro, ragazzo, ci vogliono anni per padroneggiare quella tecnica. È antichissima, originaria dell’arcipelago di Zhan, il gruppo di isole al largo del Tempio dell’Aria del Sud, ed è stata tramandata di maestro in maestro per secoli. Non esistono pergamene che ne riportino gli insegnamenti. Vive nella tradizione dei dominatori di quelle isole, che l’hanno appresa dall’osservazione dei Nomadi dell’Aria.”
Ci fu qualche momento di silenzio riflessivo, durante il quale Osamu non fu sicuro se sentirsi orgoglioso di aver padroneggiato una tecnica difficile senza il minimo sforzo o imbarazzato per aver violato qualche tradizione sacra e bla bla bla.
Shouyou, però, non sembrava star vivendo lo stesso dubbio interiore, perché saltò in aria – quel tanto che bastava perché chiunque fosse in grado di classificare quel salto come decisamente anomalo per qualunque essere umano, quel tanto che bastava per svelare a tutti cosa fosse – e gridò: “Dai dominatori dell’aria? Ma è fenomenale, Osamu, sei praticamente una specie di Avatar! Devo dire che ci farebbe molto comodo, di questi tempi, il nostro non è stato un granché, ammesso che sia morto. Comunque se è così devi assolutamente insegnarmela, potremmo mettere a punto un attacco combinato!” poi prese a colpire l’aria, con mosse misurate di karate.
“Un tornado di terra,” lo aizzò Atsumu.
“Uuuh, un tornado di terra. È un nome figo, non trovi?”
Ma Osamu stava seguendo quelle elucubrazioni solo per metà, perché gli occhi verdi di Saya continuavano a provare a scavargli nell’anima.
“Davvero non l’avevi mai provata prima di stasera, sul ring?”
Lui scosse la testa, molto lentamente.
Poi successero una serie di cose strane. Il cipiglio di Saya si sciolse di scatto, mise mano alla sua borsa e ne tirò fuori un sacchetto tintinnante, infine si inchinò, offrendo a Osamu metà della sua vincita.
“Nessuno ha mai pagato me per aver rubato una tecnica e averci pure perso uno scontro,” commentò Atsumu, dopo i primi istanti di sbigottimento generale.
“È per questo che ti sei offerto di combattere, no? Vi servono soldi.”
La mano di Osamu era a un passo dal sacchetto di monete, ma all’udire quelle parole la ritirò di scatto, costringendo Saya a guardarlo. “Non ci serve la tua carità.”
“Veramente un pochino,” ragionò Shouyou, pratico.
Ma Osamu continuò a fissare Saya, un misto d’orgoglio, spirito da bastian contrario e abitudine a sfidare tutti indiscriminatamente che si agitava nello sguardo. Sembrava che in tutta la sua vita non gli fosse mai importato di niente, ma quella battaglia mortale a ‘chi sbatte le palpebre per primo perde’ tradiva il suo reale coinvolgimento. Shouyou pensò che fosse proprio uguale a quello del fratello e al contempo diametralmente opposto, che guardare uno significava guardare una smorfia, una caricatura dell’altro e non il suo riflesso. Pensò che dove Osamu era deciso, Atsumu era ingannevolmente disinvolto; che dove Osamu era fondamentalmente sincero, Atsumu era fondamentalmente bugiardo e che in qualche modo nessuno poteva essere l’altro senza sacrificare la credibilità assoluta della performance.
“Prendili e basta” disse lei, alla fine, e parlare in maniera così netta sembrava essere la tattica preferita dei dominatori della terra per vincere le conversazioni, perché Osamu parve sconfitto. Lei gli porse nuovamente il sacchetto. “Questa è la mia seconda vittoria e io non so che farmene, queste gare sono la cosa più noiosa del mondo e un insulto all’arte del dominio della terra. Non mi sono mai divertita così tanto a gareggiare come stasera. Voi invece…” rischiò un’occhiata alle spalle di Osamu che si posò su Hinata. Lui ne fu elettrizzato: lei era fenomenale ed elegante e forte e simpatica… e soprattutto Shouyou non era certo che si fosse accorta della sua esistenza e di quella di Atsumu, prima di quel momento. Però poi disse: “viaggiate con un dominatore dell’aria, non so in cosa vi siate cacciati, ma so che non dev’essere nulla di buono.”
Shouyou sgranò gli occhi. “Come l’ha capito?!”
Atsumu scosse la testa, esterrefatto. “Sorprendente. Davvero sorprendente, mi chiedo cosa gliel’abbia fatto capire.”
“Vero?” replicò Shouyou.
Lui lo guardò un attimo. “No,” aggrottò le sopracciglia. “No. Hai fatto un salto di tre metri e sei vestito… così. E poi ti si vede…” Atsumu gesticolò per indicargli la fronte, ma Shouyou si limitò a spingere gli occhi verso l’attaccatura dei capelli, così Atsumu sospirò, fece un passo nella sua direzione ed esitò solo un secondo, prima di sollevare una mano e arruffargli i capelli.
Osamu, che insieme a Saya aveva assistito a quel teatrino, tornò con lo sguardo su di lei e prese evidentemente coscienza della situazione in cui versavano (Shouyou pensava andassero alla grande, ma, a giudicare dalla sua faccia, Osamu non doveva essere dello stesso avviso). “Accettiamo i soldi” sentenziò, afferrando il sacchetto della guerriera dell’est con la rapidità delle tecniche di scippi più raffinate.
Ma Saya si inchinò e Shouyou scorse un fremito di inadeguatezza nei gesti di Osamu, prima che facesse lo stesso.
“Buona fortuna, viaggiatori. E non giocate col fuoco.”
“E chi si permette,” disse Atsumu.
Poi Saya si inchinò un’ultima volta e scomparve oltre un angolo retto di Gaoling.
“Shouyou,” chiamò Atsumu, dopo qualche secondo di collettiva perdita di sguardi nel vuoto. “Vai a chiamare Mugi, stasera dormirà in una stalla di lusso. E noi in un letto. Un letto vero. E di lusso anche quello.”

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Capitolo 4
*** Il Tempio dell'Aria dell'Est ***


PARTE QUARTA
Il Tempio dell’Aria dell’Est
 

La partenza dei gemelli Miya da Ba Sing Se non era stata neanche una notizia, era stata un mero strappo nello spaziotempo e quindi forse non era mai avvenuta, doveva ancora avvenire, era avvenuta vent’anni prima. Il Dai Li non era mai più tornato da quelle parti, il fruttivendolo Ki tirava avanti come al solito, se non per qualche arancia nel carretto in più, la Zanna del Serpente aveva sempre quindici sedie e, se i rappresentanti di due delle versioni della storia della scomparsa della sedicesima erano spariti nel nulla, il proprietario non sembrava averci fatto caso.
Kita, Aran e il resto del gruppo sembravano essere rimasti gli unici detentori di quel segreto che era stata l’esistenza di Osamu e Atsumu Miya.
Certo, la scomparsa di due ragazzi dell’anello esterno non doveva essere una notizia da segnalare al re e all’intera capitale del Regno della Terra, ma era senza dubbio insolito che sembrassero scomparsi addirittura dalla memoria di chi aveva subito le loro bravate.
Kita era un tipo logico e i tipi logici spesso si innamorano dell’inerzia. Aver vissuto tutta la sua vita in un modo ed essere ancora vivo significava aver fatto qualcosa di buono e fare qualcosa di buono portava ragionevolmente ad assumere che bastasse continuare così per non perdere quel record. Quando un dominatore dell’aria era atterrato sul retro della Zanna del Serpente in groppa al suo bisonte volante, però, Kita aveva aggrottato appena le sopracciglia e aveva abbassato lo sguardo in una ricalibrazione della sua bussola, un riorientamento di inerzia, perché qualcosa non andava. Qualcosa non quadrava. E Kita non poteva fingere di non farci caso.
Seguendo una strada praticamente opposta a quella di Kita, Aran sembrava essere giunto alle stesse conclusioni, perché da quel giorno le cose erano cambiate, radicalmente e permanentemente.
Era andata così: Kita aveva chiesto ad Aran di scambiare una parola nello stesso momento in cui lui, avvicinatosi di gran carriera e arrestatosi poi proprio a un passo dalla sua faccia, aveva sputato fuori: “I dominatori dell’aria non dovrebbero più esistere. Il Dai Li non può avere alcuna ragione al mondo per arrestarli, non sono mai stati una minaccia.”
Kita l’aveva guardato per qualche secondo, cercando di capire se Aran stesse tentando di mascherare la preoccupazione o se fosse solo stanco per aver corso. Non era riuscito a sciogliere l’enigma. “Ci stavo pensando anch’io,” aveva risposto Kita, concentrandosi sull’enigma che invece poteva sciogliere. “Anche ammettendo che non tutti i dominatori dell’aria siano spariti nel nulla, i conti non tornano. Erano… Sono nomadi, imparano fin da piccoli ad abbandonare la ricerca forsennata di beni e piaceri materiali. Non hanno alcun motivo per venire considerati una minaccia, a maggior ragione dal Dai Li, maestri di dominio della terra e protettori della città più potente del Regno. Non ha senso.”
Aran per una volta non aveva cercato di riportarlo indietro da uno qualunque dei suoi pensieri, ma l’aveva guardato come a chiedergli più informazioni, più conferme, più sicurezze sul fatto che non fosse pazzo a pensare che…
“Ba Sing Se non ha senso,” aveva decretato infine Kita, il cervello che si stringeva come un serpente affamato attorno a un concetto che non sapeva afferrare. “Qualcosa non quadra.”
Nel tempo in cui Osamu, Atsumu e Shouyou avevano volato sui paesaggi di mezzo mondo, Kita e Aran avevano costretto Suna a procurare loro dei documenti falsi e avevano pagato il servizio accettando di ragguagliare il ragazzo sulla loro missione e portandolo con loro. Erano usciti da Ba Sing Se e vi erano rientrati come rifugiati con i documenti nuovi, seguendo il percorso che seguivano loro, seguendo le regole che seguivano loro, perché se uno straniero innocuo per definizione era stato preso di mira dal Dai Li, Kita aveva immaginato che alcuni dei segreti di quella città – e quindi della fine che avevano fatto i gemelli – fossero intuibili entrandoci per la prima volta.
E infatti ai tre era stato dato un caldo benvenuto, una volta messo piede in città insieme a un gruppo di altri rifugiati. Una donna dai capelli corti e le folte sopracciglia scure aveva sorriso all’intero gruppo. Aveva un viso familiare e distante allo stesso tempo. Gli occhi erano spenti, le labbra tirate come se qualcuno le avesse prepotentemente sorretto gli angoli della bocca. “Io sono Joo Dee,” aveva scandito la donna, la voce rigida schiacciava le parole, ne annullava ogni intonazione. “Benvenuti a Ba Sing Se, spero che il vostro viaggio non si sia rivelato troppo rocambolesco.” A quelle parole, i ragazzi avevano dato un’occhiata agli altri rifugiati. Sembrava proprio che ognuno di loro avesse avuto un viaggio che definire rocambolesco sarebbe stato riduttivo. “Siete pregati di non fare menzione della guerra in nessuna circostanza,” aveva detto Joo Dee, la voce che passava da neutra a cortesemente glaciale, in un contrasto che aguzzava il suo sorriso e che metteva i brividi. “Siete a Ba Sing Se, adesso, siete al sicuro, ma la mancata osservazione di questa regola potrebbe avere… spiacevoli conseguenze.”
Poi aveva sorriso un’altra volta, il sogno dei dentisti e degli assassini, e aveva proceduto a scortarli sull’orlo di quella latrina spacciata per paradiso che era l’anello esterno.
Suna aveva inclinato discretamente il viso su un lato e i ragazzi si erano allontanati dal gruppo per riorganizzare le idee.
Venire a sapere che la guerra c’era anche a Ba Sing Se era stata solo la prima delle scoperte che avevano fatto in quelle settimane, in una reazione a cascata che li aveva portati, alla fine, a raggiungere un livello di raffinatezza di criminalità che avrebbe fatto cascare la mascella ad Atsumu.
Quella notte Aran guardò Suna saltare oltre il cornicione e sparire qualche metro più avanti, poi afferrò anche lui la grondaia e si issò sul tetto, prendendosi solo un attimo per conemplare Ba Sing Se scintillare in penombra, tutt’attorno a lui.
“Kita ha detto che, stando alla planimetria della torre, c’è una stanza senza porte, finestre o accessi di altro genere. Dovrebbe essere da qualche parte quaggiù.” Suna pestò col piede la pietra della torre. Più che una torre era un pilastro di roccia che si ergeva sulla sommità di una collina. Da lassù, col crepuscolo che derubava lentamente il cielo di ogni sua luce, si potevano vedere i tetti cambiare colore. La loro qualità sarebbe bastata da sola a delimitare i confini tra chi aveva tutto e chi non aveva niente, ma le mura ad anello confermavano in maniera assoluta e inviolabile quelle differenze.
“Non sono mai stato nell’anello interno,” disse Aran, guardando il punto distante in cui immaginava ci fosse casa sua, ma non distinse altro che un agglomerato di buio e miseria.
“E ci resterai meno di quanto dovresti, se non ci diamo una mossa.”
Aran si riscosse dalla contemplazione nostalgica di una città in cui in fondo ancora viveva e focalizzò la sua attenzione sull’anonimo soffitto della torre. Lentamente sollevò le mani, i palmi rivolti verso l’alto e una brezza gentile che gli accarezzava le dita. Poi, con uno scatto, il ragazzo batté le mani forte tra loro e la roccia tra lui e Suna si sbriciolò, crollando all’interno di una stanza illuminata da torce alle pareti.
Con un’occhiata complice, Aran e Suna si calarono nell’archivio segreto di Long Feng, quello che avevano scoperto, contro ogni aspettativa, essere l’uomo più potente di Ba Sing Se, anche più del re, burattinaio dietro le quinte che orchestrava le sorti dell’intera città. Localizzare l’archivio non era stato facile, perché i documenti non si trovavano tutti nello stesso posto. Invece erano divisi per età e importanza, a seconda della probabilità che si rivelassero necessari e, conseguentemente, della rapidità con cui si sarebbero resi reperibili in quel caso. Kita sosteneva che la torre sulla collina dell’anello interno fosse il luogo in cui il Dai Li aveva occultato informazioni cruciali sulla guerra. Kita sospettava che, in passato, Ba Sing Se avesse avuto problemi con i dominatori dell’aria e che la loro presenza in città da allora non fosse più benaccetta. Nessuno di loro, d’altro canto, aveva mai visto un bisonte volante prima del giorno in cui Osamu e Atsumu erano scomparsi.
Ma quando Suna mise mano a un libro spesso in cui erano schedate tutte le informazioni sui dominatori della Nazione del Fuoco che avevano messo piede in città negli ottantacinque anni in cui il mondo era stato in guerra, ogni supposizione di Kita fu spazzata via. La possibilità della verità si gonfiò come un palloncino e le pareti di quella stanza senza porte sembrarono stringersi e rinsecchirsi.
“Questo è sospetto,” disse Suna e qualunque traccia di ironia pungente abbandonò la sua faccia.
Aran gettò uno sguardo di sbieco al documento, una parte di lui temeva qualunque notizia abbastanza sconcertante da stupire anche Suna. Poi spalancò la bocca di riflesso.
Non poteva trattarsi di una coincidenza.
 
Il viaggio verso est durò cinque giorni, costeggiando le ultime montagne prima della sconfinata distesa di sabbia del deserto di Si Wong. Il Tempio dell’Aria si materializzò dal nulla, come quello del nord. Non era composto soltanto da un’alta torre che si ergeva come una lancia sopra le nuvole. Il tempio sorgeva su tre montagne mozzate. Lunghi ponti ad arco si estendevano da una torre a un’altra, come dita smaniose e snelle. Attorno alle tre torri principali si innalzavano montagne e costruzioni e, assieme a loro, altri ponti sospesi collegavano la struttura principale ad abitazioni in rovina e luoghi di aggregazione ormai vuoti. I tetti verdi a spiovente richiamavano il colore delle chiome degli alberi che punteggiavano il paesaggio e le tegole rispondevano a un vento destinato a non ricevere mai risposta, ricalcando i suoni tipici dei contenitori cavi.
“È immenso!” commentò Atsumu, per cui tutto era immenso, se comparato al quartiere in cui aveva vissuto a Ba Sing Se.
Una foglia secca ruzzolò lungo una scalinata e si arrestò ai piedi di Shouyou. L’aveva vista perché, in tutto quel silenzio e quell’eco, aveva fatto il rumore di una bomba. Qualche metro alle loro spalle, una nuvola era pronta ad accoglierli nel vuoto.
“Non solo è immenso” osservò Osamu. Incrociò le braccia al petto e guardò Shouyou, che pareva che a sua volta guardasse il silenzio dritto negli occhi. “È completamente deserto.”
Il vento si insinuò tra le finestre, strozzando il suo flusso e fischiando.
“Siamo in ritardo,” continuò Osamu.
In giro per il tempio, alcune bandiere della Nazione del Fuoco sventolavano con la placidità di una conquista per cui non si temeva più un’insurrezione. Atsumu fissò la spalla di Hinata, a qualche metro da lui e strinse i pugni per trattenersi dal toccarlo. I palmi prudevano come un tempo.
Erano davvero in ritardo.
Shouyou si era aspettato di coglierli con le mani nel sacco, a caccia di tesori che non avevano già razziato durante le loro altre gite ai Templi dell’Aria, negli ultimi ottantacinque anni. Si era aspettato, anche, di ottenere informazioni dal Re della Terra, a Ba Sing Se, per avere un’idea di cosa ne avrebbero fatto e anche in quel caso la ricerca si era risolta in un buco nell’acqua.
“E ora che si fa?” domandò Atsumu. C’era qualcosa di terrificante in quel capolinea. Sembrava che Shouyou potesse sparire assieme al suo bisonte volante. Sembrava che il Tempio dell’Aria dell’Est potesse sfumare con la sua risacca di nuvole nei contorni squallidi dell’anello esterno di Ba Sing Se. ‘Addio’, avrebbe detto Shouyou, salendo in groppa a Mugi con una mano sollevata in segno di saluto, e poi li avrebbe lasciati soli, nel bel mezzo del nulla, a osservarlo estinguersi in un puntino distante nel cielo. Atsumu non avrebbe avuto il tempo di salutarlo, non avrebbe mai seguito il percorso dei suoi tatuaggi.
Shouyou si voltò, negli occhi una concentrazione alimentata dalla fame e la fame alimentata da un incendio che non aveva appiccato lui ma che l’aveva accerchiato sessant’anni prima che nascesse.
“Ora tiriamo giù tutte le bandiere” disse, e il vento sibilò il suo assenso.
 
Così fecero.
Tirarono giù tutte le bandiere, una a una, nella bocca la cenere di una partita persa a tavolino e i sacrifici che avevano fatto anche solo per provare a giocarla.
Si ritrovarono un’ora e mezzo dopo su un balcone che dava sul vuoto. Shouyou se ne stava seduto sulla balaustra e osservava assente Atsumu e Osamu inerpicarsi lungo la scalinata che dall’esterno portava in cima a un pilone di pietra bianco panna. Qua e là l’edera aveva iniziato a muovere i primi passi incerti su quel candore, macchiando di vecchiaia quello che un tempo era stato un luogo sacro.
Atsumu si appropriò dell’ultima bandiera, poi i due ridiscesero la scalinata e gettarono l’ultima aggiunta in cima alla pila che ospitava una trentina di altri esemplari identici.
Shouyou esitò ancora un po’ sulla balaustra, le ginocchia raccolte al petto in bilico su quello sfondo di nuvole e inconsistenza. Se fosse stato un bambino, in piedi su un cornicione e a un passo da una caduta di centinaia di metri, una madre sarebbe corsa a salvarlo e poi a sgridarlo – non importava chi, una qualunque sarebbe intervenuta.
Un respiro brusco, poi li raggiunse davanti al mucchio di bandiere. Aveva qualcosa di etereo e feroce insieme, che era un po’ quello a cui Shouyou assomigliava sempre, ma risaltava in tutto il suo pericolo quando era il dolore, a fargli da cornice.
Atsumu sfregò l’indice e il pollice della mano destra tra loro, poi cercò gli occhi di Hinata e lui gli restituì uno sguardo che sembrava aspettare solo che gli desse il la per volare. Proprio in quel momento, tra le dita di Atsumu si accese una scintilla.
Aprì la mano, una fiamma si agitava impaziente nel suo palmo. Allargò le dita, la lasciò divampare e poi diede fuoco al mucchio di bandiere della Nazione del fuoco: le fiamme stilizzate nere, sullo sfondo rosso degli stendardi che riusciva a intravedere, si agitavano mentre bruciavano, in una danza che sapeva di lotta e di sconfitta; di rivincita e di resa.
Uno strato spesso di cenere scura fu tutto ciò che rimase dell’imposizione e la conquista che permaneva nonostante i simboli distrutti. Shouyou strinse le estremità del bastone di legno che si portava sempre dietro (gli continuava a ripetere che era una aliante, ma Atsumu era convinto che potesse essere tranquillamente impiegato nell’inflizione di dolore a Osamu), lo fece ruotare e un soffio di vento spazzò via la cenere.
Sopra le loro teste lo stridio di un uccello accompagnò quel rituale.
Shouyou gettò la testa all’indietro, vederlo così silenzioso e concentrato faceva un po’ strano. Inspirò, aprì piano gli occhi e fissò il cielo. “Oh!” esclamò, inaspettatamente.
Osamu e Atsumu seguirono il suo sguardo, fermo su un falco (la fonte molesta di quei versi) che volava in spirali sempre più basse.
Shouyou si piazzò due dita in bocca e fischiò. “I falchi sono i messaggeri della Nazione del Fuoco!” L’uccello volò in picchiata e si appollaiò sull’avambraccio già pronto di Hinata. “È così che i comandanti e i capitani comunicano con i loro soldati, quando sono distanti.” Procedette a sfilare una pergamena arrotolata in una sacca sulla schiena del falco, poi sollevò il braccio e lasciò che l’uccello volasse via. Atsumu notò gli artigli dell’animale affondare nella pelle di Shouyou mentre si dava lo slancio. Notò che lui non sussultò neanche un po’. Notò anche (in un momento di osservazione insolitamente acuto, per uno come lui) che era spacciato, fritto, fregato, perché sentì una manciata generosa di sangue inondargli le guance per questo, anche se non aveva alcun senso.
“Kao Lai?” Shouyou sussurrò e Osamu si sporse per gettare anche lui un’occhiata al messaggio.
I carichi restanti dei Templi dell’Aria sono stati tutti indirizzati a Kao Lai, per poi essere trasferiti in un solo carico nella Nazione del Fuoco. Chiunque sia rimasto indietro…” Osamu sollevò le sopracciglia mentre leggeva. “Chiunque sia rimasto indietro a girovagare per le terre conquistate è obbligato a raggiungere Kao Lai entro due settimane dalla data segnata alla fine del messaggio. Non sarà tollerata alcuna eccezione.”
Shouyou alzò lo sguardo di scatto in quello di Atsumu. Ogni traccia sul suo viso di dolorosa impotenza era stata sostituita dalla determinazione con cui l’aveva conosciuto. “È tra dieci giorni.”
“Quanto ci vuole per arrivare a Kao Lai?” domandò Osamu, scandagliando il cielo come se gli avesse potuto comunicare una rotta.
Shouyou si succhiò il labbro inferiore, le sopracciglia piegate adorabilmente in riflessione. “È il punto più a ovest del Regno della Terra. Normalmente ci vorrebbero due settimane.” Sollevò lo sguardo e lo divise tra quelli di Atsumu e Osamu. “Io posso farcela in nove giorni.”
“Allora…” iniziò Osamu.
“Dobbiamo andarcene subito,” concluse Atsumu.
Si misero in marcia per raggiungere Mugi, e Osamu, pochi metri indietro, mormorò qualcosa di simile a ‘Il mio stomaco non vede l’ora!’

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Capitolo 5
*** Kao Lai - Parte 1 ***


PARTE CINQUE
I. Kao Lai

 
Tre delle quindici sedie della Zanna del Serpente a Ba Sing Se erano occupate. Il tavolo era inondato di documenti e Suna era sbracato sulla sua sedia e sgranocchiava di tanto in tanto delle noccioline da una ciotola di terracotta che reggeva in una mano. A parte quello, sul tavolo regnava un silenzio raccolto.
“Quindi Atsumu è un dominatore del fuoco” disse Aran all’improvviso, lo sguardo perso tra un documento decrepito e il vuoto della realizzazione.
Kita raccolse tutte le carte sparpagliate disordinatamente sul tavolo e le impilò una sull’altra, continuando costantemente ad allinearle anche se le aveva già allineate al primo tentativo. Suna pensò che fosse l’unico segno di nervosismo che gli avrebbe mai più visto tradire.
“La storia è questa” parlò poi e sembrava lo stesso tono noioso di una delle sue paternali su quanto insensato fosse derubare i profughi appena arrivati in città. “Ba Sing Se è fuori dal mondo. Non ce l’ha con i dominatori dell’aria come pensavo, ce l’ha con chiunque minacci di parlare di guerra come qualcosa di concreto e attuale e non come un ricordo. I dominatori dell’aria dovrebbero essere stati sterminati, quindi vederne uno, oltre che essere virtualmente impossibile, aumenta il rischio che questo parli di guerra una volta qui.”
“La priorità di Ba Sing Se è mantenere il silenzio sulla guerra,” ragionò con lui Aran, che sembrava il più provato della cricca.
Kita annuì. “Dall’inizio della guerra, ottantacinque anni fa, Long Feng ha registrato tutti i dominatori del fuoco che sono entrati a Ba Sing Se. Ovviamente non parliamo di eserciti interi – anche mantenere lo status di città impenetrabile è una priorità – ma di singoli soldati o cittadini che si sono fermati qui credendo di riuscire a passare inosservati. Joo Dee, la verifica dei passaporti e l’intero sistema di accoglienza dei profughi sono un modo per controllare la città. Non so esattamente fino a dove si estenda l’area di influenza di Long Feng, né cosa faccia a chi viola le leggi, visto che non ci sono precedenti documentati, ma è altamente improbabile che nessuno si sia mai lasciato scappare una parola di troppo. Sospetto che esista qualche tipo di giustizia segreta che fa sparire queste persone.”
Suna si servì un’altra manciata di noccioline direttamente in bocca. “Questo non c’entra niente con Osamu e Atsumu.”
“C’entra perché nei documenti che abbiamo trovato non c’era scritto che Atsumu è un dominatore del fuoco. C’era scritto che un soldato della Nazione del Fuoco era riuscito a infiltrarsi in città per raccogliere informazioni, si era innamorato di una donna dell’anello interno di Ba Sing Se e insieme avevano avuto due figli, gemelli.”
“Non prova niente.”
Kita scosse la testa. “Lui è stato poi scoperto dalla Nazione del Fuoco e ucciso poco tempo dopo, accusato di tradimento. A quel punto la donna di Ba Sing Se dev’essere diventata troppo pericolosa per il silenzio sulla guerra e Long Feng le ha dato la caccia. È riuscita a resistere cinque, sei anni, ma quando ha capito di essere spacciata ha affidato i gemelli a una persona di cui si fidava nell’anello esterno della città. Non sarebbero cresciuti nella ricchezza e nello sfarzo dell’anello interno, ma sarebbero stati vivi. Long Feng dà loro la caccia da allora: di loro sanno solo che uno è un dominatore della terra, come la madre, l’altro un dominatore del fuoco, come il padre.”
“Quello che non capisco,” intervenne Aran, “è come puoi essere così sicuro che i gemelli della storia siano Osamu e Atsumu. Nessuno di noi ha mai visto Atsumu fare niente di strano col fuoco.”
“A Ba Sing Se non ci sarà nessuna guerra per la maggior parte delle persone nate dopo le leggi di Long Feng, ma tutti sanno che essere un dominatore del fuoco non è un buon biglietto da visita. Non ha mai avuto ragione di sbandierarlo. In ogni caso c’è un’altra prova.” Kita indicò un paragrafo sul documento in cima alla pila. Suna si rimise dritto sulla sedia. “Dopo aver catturato la dominatrice della terra, il Dai Li ha fatto irruzione in casa sua su ordine di Long Feng, per prelevare anche i figli. Hanno trovato l’intera villa vuota, non era rimasto neanche più un pezzo d’arredamento, solo mura spoglie e pavimento immacolato.” Kita picchiettò il dito sul rapporto.
Fatta eccezione per una sedia al centro della stanza più grande, con il simbolo di un serpente stilizzato intagliato sullo schienale” continuò Aran, con voce lieve, leggendo, “E un biglietto sulla seduta: ‘la guerra esiste.”
I tre ragazzi si guardarono. Il loro tavolo ospitava solo tre sedie, perché nella Zanna del Serpente, lo sapevano tutti, si trovavano quattro tavoli ma solo quindici sedie.
Aran si voltò di scatto verso il bancone della taverna. “Il proprietario del locale…”
“È l’uomo a cui la madre di Osamu e Atsumu ha affidato i suoi figli.”
L’uomo gioviale dietro al bancone, alla vista delle tre coppie d’occhi che si erano posate all’improvviso su di lui, sollevò una mano e la sventolò in segno di saluto.
“Se i ragazzi sono scappati perché il Dai Li ha visto Atsumu dominare il fuoco e l’ha attaccato, allora non sanno che a Ba Sing Se non possono più tornare.”
 
***
 
Lacrime di carbone piovevano sul bagnasciuga. Parevano inconsistenti, illusioni della risacca assordante che dominava il paesaggio, ma quando si posavano su una spiaggia altrimenti chiara al punto da diventare accecante, lasciavano strisce nere e decise.
Anche al buio, con la luna che faceva da unico riflettore, si intravedevano le scie scure sulla sabbia. La terra era impregnata di un lieve odore di legno bruciato.
I ragazzi scivolarono giù dalla schiena di Mugi e Shouyou li condusse lungo la spiaggia, con l’acqua che sfiorava loro le caviglie, lungo una strada giusta che sosteneva di riuscire a trovare.
“Ma il vento qui soffia solo in una direzione? Perché c’è sempre questa fuliggine?”
“È un mistero” sussurrò Hinata, scrollando le spalle. “Ma sì, il vento tira sempre dal vulcano di Shouhon a Kao Lai, mai in direzione contraria.”
Procedettero per alcuni minuti in silenzio lungo la costa. L’acqua baciava lembi di sabbia per qualche attimo di irresistibile desiderio, poi si ritirava nel buio di un mare che avevano da poco sorvolato. Di tanto in tanto, la sabbia umida restituiva riflessi semplificati della luce della luna, ingannando i sensi fino a poter dubitare che ci si muovesse su uno specchio liquido su cui pioveva catrame.
“Dobbiamo trovare un posto sicuro per Mugi,” disse Shouyou, in quel silenzio sospeso che non faceva mai sconti né a spiagge né a deserti.
Il viaggio era stato estenuante. Shouyou aveva detto che sarebbe riuscito a portarli a Kao Lai in nove giorni, ma ce l’aveva fatta in soli otto, a pochi minuti dallo scoccare della mezzanotte del nono. Avevano girato nuovamente il mondo, ma al contrario, in una rotta che dall’estremo est li aveva condotti all’estremo ovest del Regno della Terra, sorvolando quasi sempre solo mare. Acque in tempesta e calme, isole disabitate, spiagge e foreste e nuvole e pioggia, compresi i venti secchi del deserto di Si Wong e una tappa paradisiaca all’isola di Kyoshi, avevano colorato di curiosità il viaggio.
E ora la risacca placida di una notte serena che piangeva carbone aveva dato loro un benvenuto sommesso nella Città degli Imbrogli.
Atsumu si fermò un secondo solo sul bagnasciuga, la sagoma sottile di Shouyou si stagliava contro una luce quasi inconsistente. Avrebbe voluto prendergli una mano e camminare sicuro con lui, invece riprese il passo che aveva lasciato un attimo prima, la testa infossata tra le spalle e le mani che prudevano.
 
Oikawa espirò pesantemente dalla bocca e si lasciò cadere esausto sulla sabbia striata di mezzanotte. Sollevò pigramente una mano e mosse indice e medio rapidamente verso di sé. Il mare si impennò e gli rispose ubbidiente donandogli qualche schizzo d’acqua.
“L’unica volta che usi il dominio dell’acqua onestamente” borbottò Iwaizumi, trovando in realtà quel metodo di pulizia anche un po’ inefficiente, visto che doveva comunque attivamente ripulirsi anche così. L’acqua lo morse in risposta. “Va’ a farti fottere.”
“Già fatto.” Oikawa ridacchiò e, con uno sbadiglio, posizionò un braccio dietro la testa, lo sguardo fisso su stelle immobili che non potevano essere dominate.
Passò qualche secondo di confortevole e stanco silenzio, battute e provocazioni relegate a un tempo che batteva allo stesso ritmo dei suoi inganni.
Poi, come al solito, Iwaizumi rovinò tutto.
Lo sentì muoversi accanto a lui e sdraiarsi su un fianco per scrutarlo al buio. “Dopodomani verrà preparato un carico importante diretto alla Nazione del Fuoco” gli disse.
Oikawa aggrottò la fronte e sollevò una mano verso il cielo, disegnando traiettorie invisibili che collegavano una luce a un’altra. “Lo sai che non mi interessa se…”
“L’operazione coinvolgerà tutti gli squadroni di Kao Lai. Una volta finito, non ci sarà più ragione di mantenere tutte queste forze militari in una colonia normalmente utile solo a trasporti di merci e comunicazioni.” Iwaizumi si prese una pausa, tracciò con lo sguardo il percorso che Oikawa disegnava in cielo. “Ce ne andiamo.”
Oikawa abbassò il braccio e lo lasciò cadere tra di loro, poi finalmente ruotò il capo per incontrare il suo sguardo al buio. “Wow, quanta clemenza.”
Iwaizumi sbuffò. Poi si stese a pancia in giù sulla sabbia e appoggiò il mento tra le mani. “Pensavo che fosse quello che volevi.”
“Se dai fuoco a un manuale non puoi chiedermi di imparare dalla cenere, Iwa-chan. Non funziona così.”
“Non ti va mai bene niente.”
Oikawa fece schioccare la lingua. “È per questo che ho successo.”
“Successo, eh?”
“Proprio lui.”
Iwaizumi cercò il suo sguardo. Oikawa si divertì a sfuggirgli, poi fu lui a costringerlo a guardarlo. “Credo che mi stiano valutando per una promozione a capitano del mio squadrone.”
Si guardarono. Il vento fischiava tra le foglie della foresta che delimitava la costa, scuotendole in un miscuglio di suoni fusi di brezza marina e boscaglia selvaggia. “Congratulazioni,” soffiò infine Oikawa, la voce provenne da un sorriso allegro abbastanza perché curvasse in amaro.
Iwaizumi lasciò cadere le braccia nella sabbia e abbassò la testa. “Sì, ho lavorato sodo per questo.”
Oikawa si sdraiò su un fianco. Osservò le mani di Iwaizumi stringersi attorno a pugni di sabbia umida che poi lasciava andare. Risalì con lo sguardo fino alle spalle e la curva tra il collo e la schiena. La luce soffusa di una lanterna che avevano abbandonato lì vicino gli permetteva solo di indovinare la tonalità scura della sua pelle. “Lo vedo, che hai lavorato sodo.”
Iwaizumi sollevò la testa e lo guardò, poi processò la battuta e sbuffò. “Ma la smetti?”
“Me le servi su un piatto d’argento, non è colpa mia!”
Si zittirono. Un’onda si infranse sul bagnasciuga, prendendo le redini di quel silenzio e, assurdamente, accentuandolo col suo rumore.
“Cosa vuoi che ti dica? Che sono felice per te?”
Iwaizumi alzò gli occhi al cielo. “Non mi interessa la tua opinione.”
“A me sembra che tu ne abbia paura. Non fai altro che venire a ficcanasare nei fatti miei, ma sei l’unico della tua stupida banda che non si è lasciato leggere il futuro” rispose Oikawa con studiata leggerezza. Sentì le guance scaldarsi, ma il buio poteva essere suo alleato, in questo, bastava solo che non gli tremasse la voce. “Hai paura di me, soldato?”
“L’accordo era che di notte non avremmo mai parlato di queste cose.”
Oikawa si alzò, scosse la testa per liberarsi della sabbia in eccesso impigliata nei capelli, poi ci passò le dita in mezzo e inspirò a fondo l’aria salmastra e fuligginosa della spiaggia. “Guarda che hai cominciato tu. E comunque l’accordo può saltare, no? Se giochi bene le tue carte presto sarai capitano di uno squadrone nella Nazione del Fuoco.”
Iwaizumi lo guardò dal basso. Oikawa, di quello sguardo, colse solo un riflesso mogio nelle iridi. Avrebbe voluto tirargli un pugno per quanto ottuso e idiota e chiuso fosse a causa della sua incrollabile lealtà. “Sì, forse hai ragione” disse infatti Iwaizumi, e si alzò anche lui.
“Peccato, mi dispiace molto per te” Oikawa si voltò, il tono spensierato a dissimulare la delusione. Raccolse la sua maglietta e la lanterna. “Non saprai mai che nel tuo futuro avrebbe potuto esserci un bel principe della Tribù dell’Acqua, benedetto dalle ceneri del vulcano di…” si interruppe, gli occhi fissi sulla spiaggia, dove si intravedevano delle impronte nella sabbia simili a orme, non tutte umane. Sollevò la lanterna per assicurarsene, poi la abbassò di scatto.
“Che c’è?”
“Niente,” rispose Oikawa in fretta. Gli appoggiò un braccio sulle spalle e cercò di liberarsi della nota urgente nel tono e la sostituì con la seduzione. “Pensavo che potremmo restare un altro po’ qui.” Abbassò la voce, non nel volume ma nel tono. “Al buio” precisò. Poi soffiò via la fiamma della lanterna e cercò il suo collo con le labbra.
Iwaizumi se lo staccò di dosso come avrebbe fatto un pescatore con un polpo ancorato a una roccia. “Che hai visto?” domandò, accendendo una fiamma nel palmo della mano e guardandosi attorno.
“Non ho visto niente, Iwa-chan, sei paranoico. Stavo solo creando un po’ di atmosfera.”
“Balle.” Iwaizumi notò le orme sul bagnasciuga, laddove il mare non si spingeva con frequenza sufficiente per cancellare presto ogni traccia. “Ma quelle più grandi sono impronte di…”
Oikawa lo vide unire le sopracciglia a metà tra concentrazione e sconcerto.
“È un bisonte volante.”
Si morse un labbro, la posta in gioco era alta, l’occasione per la promozione era alla fine di quella scia di orme. Oikawa chiuse gli occhi. Inspirò, espirò, poi sollevò le braccia, raccolse un’onda e la abbatté sulle tracce che riusciva a vedere. “Mi dispiace” disse, ma sorrideva e non gli dispiaceva per niente, mentre già si incamminava verso la foresta per tornare nel centro di Kao Lai.
Iwaizumi guardò la sabbia nel punto in cui c’erano state le orme, poi puntò la luce in direzione di Oikawa.
“Io e te siamo nemici” disse lui, e corse nella foresta.
 
Il respiro affannoso del bisonte volante fu il primo segno. Poi, solo con l’aiuto della luce della luna, Iwaizumi distinse sagome scure fondersi con la fuliggine. Sfregò pollice e indice tra loro, abbastanza perché nascesse una coppia di scintille e non una fiamma, un crepitio che, per gli uomini alle sue spalle, prese la forma di un segnale d’attacco.
Fecero fuoco. Letteralmente.
Una delle sagome gridò e, reggendosi una spalla, saltò verso l’alto e scalciò. Un soffio di vento li colpì debolmente. Iwaizumi accese una fiamma nel palmo della mano, poi, col braccio libero, ordinò ai suoi uomini di fermarsi.
“Dominatori dell’aria” parlò, il tono deciso, il cipiglio ben definito. “Consegnatevi alla Nazione del Fuoco e nessuno si farà male.”
Con sua somma sorpresa, Iwaizumi distinse un’altra fiamma nascere tra le mani di uno degli infiltrati. Lo vide inclinare il capo su un lato e sorridere. Quando parlò, lo fece con la voce intrisa dello stesso fervore che lui aveva impiegato in tutti gli anni di addestramento per diventare un soldato della Nazione del Fuoco. “Col cazzo” disse, poi illuminò a giorno la spiaggia per un attimo e un’ondata di fuoco li investì.
“Giù!” gridò Iwaizumi e poi, dal basso, risposero all’attacco.
Da invisibile, quel campo di battaglia divenne la zona più illuminata di Kao Lai, su uno sfondo di schiuma di mare e vento intransigente.
“Non posso fare praticamente un cazzo!” gridò uno dei ragazzi, mentre Iwaizumi schivava insieme a un alleato un attacco d’aria della coda del bisonte. “La sabbia è troppo instabile, non riesco a dominarla.”
Iwaizumi sbuffò, deviando con una fiammata una pietra che quello stronzo doveva aver recuperato dalla riva o dal bagnasciuga. Pensò che quel dominatore della terra fosse una seccatura efficiente senza che scomodasse l’intera crosta terrestre in ogni caso.
“Dobbiamo trovare il modo di scappare,” disse il dominatore dell’aria. L’avevano ferito all’inizio, era lento e i suoi attacchi erano deboli. Riusciva a stento a deviare i getti di fuoco che gli lanciavano. Iwaizumi non ne andò fiero, ma in guerra si giocava sporco, lo sapevano tutti, quindi lo puntò.
Caricò, si sporse in avanti e un altro si mise tra lui e il dominatore dell’aria, i pugni alti, un braccio teso davanti a uno piegato, in una forma da combattimento che doveva aver imparato su un libro illustrato su come non dominare il fuoco. Lo guardò negli occhi, riflettevano i suoi ma bruciavano per fiamme diverse.
Prima che potesse attaccarlo, il ragazzo si mosse in avanti e gli tirò un pugno. Iwaizumi barcollò all’indietro, confuso. Provò a rispondere col fuoco, ma lui gli diede un colpo al petto e un calcio sugli stinchi. 
“Ma che fai?” Iwaizumi schivò un gancio destro. Sollevò una mano, ma lui fece scontrare i loro avambracci e l’attacco si perse in un cerchio di fuoco a vuoto.
“Non è ovvio?” il tizio sorrise. Era pazzo, completamente pazzo. “Ti prendo a pugni.”
“‘Tsumu!” gridò il dominatore della terra. Iwaizumi alzò lo sguardo e vide che gli altri erano già saltati in groppa al bisonte.
Iwaizumi incontrò gli occhi del dominatore del fuoco che lo stava prendendo a pugni, apparentemente. Guardò oltre il velo di fuliggine che pioveva loro addosso. Era certo che avesse combattuto tre volte al massimo in tutta la sua vita e che tutte e tre fossero state solo scazzottate tra amici, ma c’era qualcosa, nella disperazione con cui lo aveva attaccato, che riusciva a leggere anche nel riflesso del fuoco nelle sue pupille. In quella frazione di secondo, Iwaizumi si chiese se anche le sue brillassero così intensamente come un tempo, se fossero ancora scintilla e non fiammella da camino.
“Perché sei con loro?” gli gridò dietro, mentre questi correva verso il bisonte volante, schivando altre fiamme. Iwaizumi l’aveva lasciato andare senza rendersene davvero conto. “Perché sei dall’altro lato della guerra?”
Lui si voltò solo col viso. “Io non sono uno di voi” disse, poi lanciò una fiammata ai piedi del bisonte come a delimitare un confine, si issò sulla sua schiena e presero il volo.
Iwaizumi lanciò un attacco nel cielo, solo un fuoco d’artificio.
Il bisonte volante sparì nella fuliggine di Kao Lai, lasciandosi dietro una scia di luci, tentativi di abbatterlo.
Per un attimo, a Iwaizumi sembrò che tutta quella fuliggine non venisse dal vulcano di Shouhon e dal vento che soffiava diretto a est. Pareva che la cenere fosse figlia del loro fuoco.
 
“Là,” articolò a stento Shouyou, mentre, col braccio buono e una dose di determinazione notevole per uno a cui l’adrenalina doveva essere già calata da tempo, raccattava uno snack di paglia dalla sella su cui viaggiavano e lo lanciava a Mugi.
Osamu osservò i contorni di una montagna nera cedere il passo a un buio meno solido. Passò il dito sull’orlo di quella che scoprì con sorpresa essere una grotta e, quando lo ritirò, percepì la polvere del vulcano appiccicata ai polpastrelli. Poi si immersero in quella melassa di ignoto, sperando che la grotta offrisse loro un riparo valido.
Avevano spiccato il volo giusto il tempo di assicurarsi di non essere seguiti. Non potevano andarsene da Kao Lai, le loro settimane di viaggi li avevano portati lì, quindi si erano limitati a sparire in una coltre di buio e fuliggine ed erano riatterrati nel fitto della foresta, il più vicino possibile alle montagne.
“‘Tsumu” chiamò Osamu, e udì la sua stessa voce sfumare ai bordi, in un rimbombo acquoso che aveva imparato ad associare alle grotte. Questo, però, sembrava più denso. “Ti spiace?”
Atsumu tirò su col naso e soffiò un ‘sì’ così morbido da prendere le sembianze più di un sussurro.
Ma, prima che Atsumu accendesse la luce, i sensi di Osamu si attivarono tutti insieme. Il rimbombo non sembrava più denso, invece si arrestava, come onde concentriche di un sassolino lanciato in un lago, che si piegavano attorno a un tronco d’albero che galleggiava sul pelo dell’acqua.
Atsumu schioccò le dita un paio di volte e assieme a loro schioccarono due scintille.
L’aria si fece più fredda e appuntita all’istante. Osamu si lanciò in avanti e alzò uno scudo di terra in un tempo che mai avrebbe pensato di totalizzare. Le lame che li avrebbero trafitti andarono a sbattere contro l’ostacolo, poi si frantumarono e crollarono a terra come… ghiaccio.
Osamu distrusse la lastra di pietra e lanciò in avanti i detriti rimasti, proprio quando Atsumu accese una fiamma sul finire di un: “ma che diavolo sta…”
Pietra e ghiaccio si scontrarono a mezz’aria, mentre una luce illuminava finalmente i volti dei loro mittenti. Osamu incontrò gli occhi chiari dalla tinta cupa del suo avversario. “Tu!” esclamò nello stesso istante in cui lo disse anche lui.
Vide di sfuggita Atsumu guardarsi attorno perplesso. “Ma questo adesso chi cazzo è?”
Osamu ignorò suo fratello. Tenne gli occhi puntati in quelli torbidi del ragazzo davanti a lui, lo vide alzare le braccia per attaccare, quindi sollevò due spuntoni di roccia e li piantò nelle maniche della sua camicia e nel muro alle sue spalle, poi, con una lastra piatta di terra coprì la fonte d’acqua a cui attingeva. Si avvicinò fino a sentire il suono del suo respiro. “Kao Lai?” domandò soltanto. Akaashi teneva gli occhi bassi e lo sguardo disinteressato lontano dal suo. Osamu, per qualche ragione, sentì di essere lui, l’animale selvaggio in trappola. “Non proteggi il bosco di Shoubei?”
“Te l’ho detto,” Akaashi sollevò pigramente lo sguardo nel suo e disse, senza tradire alcuna emozione, se non una vaga seccatura inserita di default nella sua personalità: “non sono un soldato. Sono un ricercatore, quindi ricerco.”
“In una colonia della Nazione del Fuoco” ribatté Osamu, l’inflessione sarcastica nella voce era appena rilevabile.
Con la coda dell’occhio vide Akaashi muovere le dita. La lastra di pietra con cui aveva ostruito il passaggio d’acqua cominciò a vibrare. Osamu sospirò, si allontanò appena, poi invocò altra pietra e con essa gli incapsulò le mani e gliele piantò nella parete alle sue spalle.
Lo guardò. Era come guardare una cosa raccapricciante che non si riusciva a smettere di studiare, a un passo dal distogliere lo sguardo per riscoprirsi poi attratti da un dettaglio appena più a destra.
“Scusate,” si intromise la voce di Atsumu, da qualche parte alla sua sinistra. “Non vorrei interrompere questa colossale scopata teorica, ma abbiamo un problema.”
“Non c’è nessun problema” si unì la voce cinguettante di Shouyou, “dobbiamo trovare della legna per il fuoco. Visto che questo tipo è amico di Osamu possiamo chiedergli se ne ha un po’ e se conosce qualche aneddoto interessante da raccontare per passare il tempo.”
Gli occhi di Akaashi si spostarono da qualche parte dietro la sua testa, quindi Osamu si voltò.
“Per la cena possiamo mangiare direttamente te, visto che hai mezza spalla cotta dal Dolce Forno gentilmente offerto dalla Nazione del Fuoco e a stento ti reggi in piedi. Sono certo che sarà una storia esilarante da raccontare davanti al fuoco, insieme a quella che vede l’amico di mio fratello praticamente crocifisso.”
“Sei il dominatore dell’aria che ha attaccato lo squadrone di soldati della Nazione del Fuoco?” domandò Akaashi, rivolgendosi a Hinata.
“Veramente ci hanno attaccati loro” rispose Atsumu.
Osamu non mancò di notare la diffidenza con cui Akaashi passò con lo sguardo dalla sua faccia alla fiamma tra le sue dita e alla sua faccia di nuovo. Si aspettava che chiedesse spiegazioni sullo strano gruppo che formavano, loro tre, invece tornò a guardare Shouyou. “Posso aiutarti con la bruciatura” disse, pratico. “Conosco anche delle storie avvincenti” continuò, col tono meno avvincente che delle corde vocali avessero mai concepito.
Osamu adocchiò l’otre di Akaashi coperto dalla sua lastra di pietra, ricordò il taglio in faccia riparato e il sollievo e il benessere e la magia. Poi guardò Shouyou, mentre tentava di sopprimere l’urgenza di reggersi la spalla dolorante. “Niente ghiaccio,” disse, poi sciolse la pietra che lo teneva legato e lasciò che aiutasse Shouyou.
 
“Non posso fare di più, non sono un guaritore” disse il tipo strano che si chiamava Akaashi, quando ebbe finito di far aleggiare dell’acqua risplendente sulle sue ustioni. Dopo un primo momento di tensione e diffidenza, fuoco, cena frugale e immancabili noccioline avevano disteso l’atmosfera di ciò che restava di quella notte. Atsumu, però, credeva che il merito fosse in gran parte di Shouyou, che aveva questo modo genuino e schietto di farsi amici tutti. Atsumu ne era molto affascinato, perché lui aveva quel suo modo genuino e schietto di farsi nemici tutti, invece. “Ma in città vendono unguenti e medicine. Voi restate qui, andremo io e Osamu.”
Suo fratello si voltò confuso a seguire la conversazione. Ad Atsumu piaceva questo Akaashi, perché aveva iniziato subito a dire a Osamu cosa fare come se avesse sempre avuto in mente un piano d’azione e le volontà di suo fratello non fossero state mai comprese nell’equazione. Era uno spasso.
Akaashi annuì, immune all’espressione divertita di Atsumu, poi si diresse all’uscita della grotta, lasciandosi dietro un ‘andiamo’ per suo fratello.
“Vai a prendere gli unguenti con Akaashi, ‘Samu,” gli parlò dietro Atsumu, civettuolo, quando lui si avviò per seguirlo in città. “Mi raccomando, prendili belli umidi.”
Atsumu fu colpito da una pietruzza proprio al centro della fronte.
 
***
 
“E che lo spirito del vento si faccia ombra della sorte,” concluse Oikawa, lasciando la mano di un soldato della Nazione del Fuoco. Alzò gli occhi per congedarlo, ma fissò un punto alle sue spalle e incontrò invece lo sguardo di Iwaizumi.
Nella radura c’era un silenzio attivo. Stava all’ascolto, era pronto a spezzarsi per accogliere il canto di un uccello o il ronzare di un insetto. Il tappeto di radici e prato si stendeva solo per qualche metro, prima di ricongiungersi alla foresta che portava alla spiaggia. Non era troppo distante da uno dei campi più grandi dei soldati della Nazione del Fuoco, ma il silenzio era abile abbastanza da schermarne ogni rumore. Oikawa amava fare sedute lì, perché riusciva sempre a spillare ai malcapitati qualche soldo in più. Era un luogo molto suggestivo e lui poteva spacciarsi per ogni tipo di stregone.
Il tizio a cui aveva appena letto il futuro si alzò e si inchinò profondamente, poi scomparve oltre un gruppo di alberi centenari.
Iwaizumi mosse un passo nella sua direzione, attraverso la pioggia sottile di fuliggine del vulcano di Shouhon. Camminava a braccia conserte come se fosse stato il mandante di una distruzione ancora quiescente.
“Chi è lo spirito del vento?” Scattò con la testa in avanti, un cenno di saluto o una sfida a duello. Sembrava mille volte più rigido del solito, il che segnava un record, visto che Oikawa pensava che avesse costantemente una scopa in culo.
Lui rimase seduto, calmo, davanti al tronco mozzo dell’albero su cui leggeva il futuro ai soldati. “Se vuoi prenotare una lettura mi sa che rimarrai deluso. Sono pieno fino alla prossima settimana, ma tu riparti domani…”
Iwaizumi si sedette all’altro capo del ceppo. “Chi altro vuoi che si faccia leggere il futuro poco prima dell’alba?” Aveva le labbra imbronciate come sempre, ma c’era qualcosa oltre le sopracciglia corrucciate che lo tormentava.
“Scherzi? È il momento di massima ispirazione di un indovino.” Oikawa gli sorrise, il solito mix di sfida e seduzione, poi si sporse in avanti, i gomiti sul tronco d’albero, e fece per parlare.
Fu interrotto da passi concitati in avvicinamento. Ebbe solo il tempo di voltarsi da una parte all’altra dello spiazzo, poi il perimetro della radura fu presieduto da uomini della Nazione del Fuoco.
Si ritrasse di rimando e cominciò a guardarsi attorno, all’erta. “Che significa?”
“Inutile provarci, non c’è acqua, qui.”
Oikawa sbuffò in una risata e mostrò entrambe le mani. Incontrò gli occhi di Iwaizumi, fermo. “L’acqua, Iwa-chan, è ovunque.”
“Sono Iwaizumi Hajime, da qualche ora capitano dello squadrone di nuovi soldati A31.” Aggrottò la fronte e si interruppe per un attimo di confusa esitazione, quando notò che Oikawa aveva piegato un dito, ma si era bloccato per ascoltarlo. Di che acqua parlava? “Mi occuperò della gestione della spedizione di domani.”
“Ti hanno promosso a capitano per l’atto eroico di ieri notte, eh? Come ci sei finito, sulle tracce dei clandestini?”
Iwaizumi serrò la mascella. “Giro di ricognizione.”
“Oooh, il giro di ricognizione.” Oikawa annuì solenne. “Li chiamano così adesso.”
Alcuni mormorii aleggiarono tra i soldati che li circondavano. Iwaizumi li ignorò. “Sono qui per farmi leggere il futuro.”
“Tu?”
Lui annuì.
“Ma non c’è bisogno che porti l’intero squadrone a scorrazzare per boschi, Iwa-chan. È il mio lavoro.” Oikawa poggiò di nuovo un gomito sul ceppo e si resse la testa con una mano. “Devo avvertirti, però. I capitani pagano di più.”
“È una situazione speciale. In vista di domani, i dominatori giudicati soggetti pericolosi sono tenuti d’occhio, quindi immagino che per una volta lo farai gratis.”
Oikawa batté le mani davanti alla bocca e sgranò gli occhi, con studiata sorpresa. “Sono un soggetto pericoloso?!”
Iwaizumi sembrò spazientirsi. “Mi leggi il futuro o no?”
“Posso evitarlo?”
Si guardarono. Iwaizumi si mordeva il labbro inferiore, un cipiglio scavava profondo la pelle tra le sopracciglia scure. Oikawa chiuse gli occhi per un attimo e annuì a rassicurarlo, poi gli fece l’occhiolino.
Ruppe quella comunicazione turbinosa. Inspirò rumorosamente e sollevò lo sguardo ai rami più alti della foresta. Artigli di legno si protendevano come forsennati gli uni verso gli altri, in una tensione lentissima sotto la quale il mondo aveva imparato a scorrere incurante. Prese la mano che Iwaizumi gli stava offrendo tra le sue e cominciò a leggervi rughe e linee.
“Sul confine tra sabbia e foresta giace una promessa non suggellata, dove roccia e lacrime incontrano acqua salata.” Oikawa, ancora chino sulla sua mano, sollevò gli occhi a incontrare quelli di Iwaizumi. Capisci, pensò. Ti prego, capisci. “A mezz’ora di distanza si potrà riparare. Solo, al cospetto di un nemico che non ti sai inimicare. Non c’è paura né tradimento né disonore, se ha già direzione, il tuo cuore. Lui non conosce i volti della rivolta, ma ti aspetterà un’ultima volta. Troverai il re dell’oceano tra i quattro denti di scogli. D’altronde Kao Lai, o capitano, è la città degli imbrogli.”
“Ma che diavolo significa?” gridò uno dei soldati dalla fine della radura. La sua voce accartocciata si fece strada tra tutti quegli strati di silenzio.
Iwaizumi mantenne il suo sguardo quando separò le labbra, radunò le parole per un attimo e poi disse: “Significa che presto il nostro squadrone sarà attaccato da una forza ignota. Dobbiamo prepararci.”
Si alzò di scatto, riappropriandosi della sua mano, poi gli diede le spalle per ricongiungersi con gli altri soldati. Loro si stavano già riaccorpando come un mostro solo.
“Capitano, l’indovino?”
Quando Iwaizumi si voltò con un’occhiata pensierosa, Oikawa gli fece di nuovo l’occhiolino. “Di lui mi occupo io.”
Poi la nebbia mattutina della foresta di Kao Lai inghiottì lo squadrone A31.
 
Sul confine tra sabbia e foresta giace una promessa non suggellata, dove roccia e lacrime incontrano acqua salata.
Iwaizumi camminava sulla sabbia striata ansimando e intanto malediceva Oikawa. C’era qualcosa nell’aria densa e salmastra dell’alba che rendeva quella nebbiolina all’orizzonte quasi un ostacolo per la respirazione. Quando le cose avvenivano molto presto al mattino, prima che il sole sorgesse, si aveva sempre un po’ la sensazione che un’ora si allungasse ad abbracciarne due e si arrivava al pomeriggio accompagnati dallo strano sospetto che gli avvenimenti del mattino appartenessero a storie vecchie giorni.
A mezz’ora di distanza si potrà riparare, aveva detto Oikawa e Iwaizumi aveva deciso di assecondarlo in quella richiesta strampalata perché non aveva altra scelta e il tempo correva più di quanto riuscisse a stargli dietro.
Solo, al cospetto di un nemico che non ti sai inimicare. Iwaizumi avrebbe tanto voluto battere il pugno contro quel tronco d’albero mozzo e dirgli che non era uno stupido: non sarebbe arrivato con la scorta a un incontro segreto, grazie tante. E comunque non era Oikawa la ragione per cui non aveva chiuso occhio quella notte e aveva fissato impotente le stelle che lui aveva tracciato in una linea invisibile di costellazione solo qualche ora prima, cercando la forza per una scelta che in fondo aveva già compiuto.
Non c’è paura né tradimento né disonore, se ha già direzione, il tuo cuore.
Iwaizumi comunque era un tipo deciso, uno che non si trastullava con i forse e i magari. Era uno che decideva con la testa, col cuore, con lo spirito e con il corpo in una coerenza invidiata dai più e che non lasciava spazio a dubbi. Ed esattamente per questo che ci aveva dovuto pensare una notte intera. Non perché fosse indeciso, non perché tentennasse, non perché dubitasse, ma perché si esita sempre un momento quando si trascina un macigno per chilometri e poi si scopre di aver seguito la direzione sbagliata per tutto il tempo. Perché le inversioni a U hanno bisogno sempre di un attimo di contemplazione lungo la curva.
Lui non conosce i volti della rivolta, ma ti aspetterà un’ultima volta.
Iwaizumi individuò i quattro scogli acuminati in fondo alla spiaggia.
Era fondamentale che Oikawa identificasse i clandestini. Anche se era un soggetto considerato rischioso dalla Nazione del Fuoco, era comunque più libero di Iwaizumi. Ripensò a quando gli aveva chiesto se sapesse di vivere in una prigione. Era la cosa più irritante di Oikawa, la perspicacia. Gli era bastato uno sguardo al suo volto attento a mantenersi inespressivo e una richiesta a sorpresa di una predizione che aveva sempre rifiutato, per capire di avere campo libero e lasciargli un messaggio in codice. Iwaizumi non aveva avuto bisogno di strizzargli nessun occhio, non aveva avuto bisogno di picchiettare sul legno in codice Morse, non aveva avuto bisogno di sussurrare informazioni a mezza voce. Oikawa aveva capito e quando aveva ragione si trasformava nella sua versione più insopportabile.
Troverai il re dell’oceano tra i quattro denti di scogli.
Il re di stocazzo gli dava le spalle, oltre una parete di pietra martoriata dalla schiuma di mare. Iwaizumi non pensò che fosse ancora in tempo per tornare indietro alla bugia di una vita in fondo più comoda. Continuò a camminare dritto e sicuro nella sabbia corvina.
D’altronde Kao Lai, o capitano, è la città degli imbrogli.
E Iwaizumi imbrogliò.
“Ehi, idiota,” lo salutò, le mani seppellite nelle tasche come quando a scuola, nella Nazione del Fuoco, aveva chiesto alla sua compagnetta di classe se voleva affumicare il formaggio con lui, le guance in fiamme un po’ per l’imbarazzo un po’ per il fastidio di essere imbarazzato.
Oikawa si voltò sorridendo storto. Gli disse qualcosa, ma la risacca orgogliosa del mattino ne divorò ogni suono.
“Descrivimeli,” continuò poi, e questa volta il mare si era ritirato. “Sono sicuro che, qualunque cosa abbiano in mente, sfrutteranno l’alba per fare rifornimento in città. Li avvicinerò in qualche modo e poi tornerò all’accampamento in qualità di soggetto pericoloso.”
“Hai un piano, vero?”
Oikawa sorrise e scrollò le spalle. Era irritante oltre ogni misura. “Ho un piano.”
Da qualche parte, al di là di scogli acuminati come denti, un’ombra frusciò ondeggiando un po’ più vicino.
 
I primi raggi di sole combattevano contro la pioggia di cenere. Sui tetti, uno strato di umidità e di fuliggine dava l’impressione che la città fosse immersa in un incubo di corruzione e oppressione. Senza l’intervento del vulcano, quel posto sarebbe sembrato una città qualunque del Regno della Terra che tradiva qualche influsso dell’architettura della Nazione del Fuoco negli edifici dall’aria più antica. Qua e là, come apparizioni traslucide al di là di uno spesso velo, spuntavano gli abitanti di Kao Lai armati di scope e spolverini. Gli occhi di Osamu si posarono sulla figura minuta di una ragazza che gonfiava le guance e soffiava via della cenere da un fiore rosa.
“Vuoi dirmi che ci fai qui?”
Akaashi, che fino a quel momento aveva camminato accanto a lui come se non avesse percepito l’assurdità di quella città, si voltò. “Cerchiamo l’unguento per il tuo amico e poi torniamo alla grotta.”
Osamu aggrottò la fronte e cercò il suo sguardo. “Sai cosa voglio dire, non prendermi in giro.”
L’ombra di un sorriso passò sul volto di Akaashi. Giusto il tempo, per Osamu, di chiedersi se fosse reale. “Se ti senti preso in giro il problema è tuo.”
Osamu scrollò le spalle e si preparò a ribattere con una risposta degna di quella guerra silente a cui, a quanto pareva, ad Akaashi piaceva giocare. Osamu forse non amava giocare, ma odiava perdere. La ricerca della risposta perfetta fu interrotta quando lo sguardo gli cadde su un chiosco coperto da una tenda a strisce rosse e azzurre alla loro sinistra. Sembrava star aprendo i battenti in quel momento, perché era l’unica cosa non ricoperta di cenere, da quelle parti. Il suo stomaco brontolò e i piedi lo assecondarono all’istante.
“Ehi ehi ehi, viaggiatori,” li accolse una donna che doveva aver superato la soglia dei diecimila anni, “non potete perdervi un panzerotto ripieno di gamberi e patate per iniziare la giornata col piede giusto, è la specialità di Kao Lai, la colonia migliore della Nazione del Fuoco.”
Osamu scrollò le spalle. “Perché no, ne prendiamo due.”
La vecchia gli regalò il sorriso a due denti più radioso che avesse mai visto in faccia a qualcuno, anche a chi i denti ce li aveva tutti, e Osamu conosceva Shouyou Hinata. “Per non parlare di un bel bicchiere di Lacrime di Cocco, la bevanda più amata dai turisti. Vedete…” iniziò la donna, mentre preparava la bibita senza che nessuno le avesse chiesto alcunché, “è composta da latte di cocco e vaniglia, quindi le scaglie di cocco prendono il colore della vaniglia e ricordano le lacrime di carbone caratteristiche di Kao Lai!”
Presi panzerotti e lacrime di cocco, Osamu si avvicinò a un muretto con le braccia piene e le vuotò con un sospiro. “Sto morendo di fame” confessò ad Akaashi, che si avvicinò riluttante alla colazione strampalata. Osamu si ficcò il suo panzerotto in bocca senza troppi scrupoli. “Mh” mormorò masticando, un cipiglio che guadagnava di profondità di secondo in secondo. “Questi non sono gamberi, è granchio.”
Akaashi annuì e prese posto accanto a lui sul muretto. “Sai come viene anche chiamata Kao Lai?”
Osamu scosse la testa e gli porse il contenitore dell’altro panzerotto.
“La città degli imbrogli” disse, prendendo la sua colazione e spezzandola a metà con le dita per esaminarne distrattamente il ripieno. “I gamberi sono in quasi tutti i piatti tipici di Kao Lai, ma sono costosi. Invece il granchio inganna i turisti e costa meno. Spacciandolo per gambero te lo fanno pagare di più e ci guadagnano. In realtà sono sorpreso che tu l’abbia capito.”
“Hai dell’acqua?” domandò Osamu, a cui non importava granché della truffa, perché il panzerotto gli era parso buonissimo, anche se forse era per la fame.
Akaashi lo guardò come se fosse stupido.
“Me ne ghiacci un po’ e me la metti nel bicchiere? Fa caldo qui e il latte di cocco è più buono quando è fresco.”
Akaashi si guardò attorno, ruotò il tappo della sua bisaccia e ne cavò fuori dei cubetti di ghiaccio per entrambi. Osamu, con la bocca ancora piena, chinò il capo in segno di ringraziamento e prese un sorso della sua bibita.
“Forse sei davvero un ricercatore, sai un sacco di cose inutili.”
Akaashi distolse lo sguardo e alzò gli occhi al cielo, come se – di nuovo – Osamu avesse fatto un’osservazione davvero stupida. Prese un morso del suo panzerotto e ascoltò il vento contaminato farsi strada tra le foglie viola dell’acero lì vicino. “Secondo te da dove viene una leggenda?”
“Una leggenda,” ripeté Osamu, scettico.
“Io studio la storia di posti misteriosi e poi ci scrivo su delle favole. A volte capita che queste storie passino di bocca in bocca e diventino leggende.”
Osamu esitò. “Quindi sei un truffatore?”
“No,” Akaashi scosse la testa. “Vendo le mie favole come favole e non come realtà. In più, a volte studio luoghi che i ricercatori più famosi danno per troppo pericolosi o poco incisivi nella storia delle Quattro Nazioni, quindi ho scritto anche trattati storici su alcuni dei luoghi in cui sono stato.”
Osamu tenne gli occhi su di lui e la fronte aggrottata, mentre prendeva un altro sorso della sua bibita. “E tra tutti i posti misteriosi del pianeta hai scelto di dormire in una grotta di una colonia della Nazione del Fuoco?”
Akaashi si strinse nelle spalle, poi gli regalò un sorriso piccolo, confidenziale. “Il rischio è parte del lavoro.”
Aaaaah, fu il pensiero esatto di Osamu, questo dev’essere uno squilibrato in piena regola.
“Bene,” disse poi Akaashi. “Ora vuoi dirmi che ci fate voi qui?”
 
Un raggio angolato fece irruzione nella grotta.
Atsumu, seduto a gambe incrociate, osservò le lacrime di Kao Lai piangere all’interno di quel fascio rosato e dimenarsi e roteare e volteggiare, schiave di un vento che proveniva intransigente dall’ovest. A volte le cose più marce acquistavano un fascino inspiegabile, quando venivano rabbonite dalla luce. Si voltò per dare un’occhiata a Shouyou alle sue spalle.
Dormiva.
Si era abbattuto finalmente, dopo quasi nove giorni di viaggio, una battaglia e una ferita. La luce gli illuminava un angolo dell’occhio destro, metà del naso e la bocca semiaperta, un taglio obliquo che si estendeva da lì e divorava il resto della grotta. Se non avesse avuto più nozioni astronomiche, Atsumu avrebbe pensato che quella luce nascesse dall’angolo esterno del suo occhio destro e, come una lacrima, da lì si irradiasse per abbracciare il mondo intero.
Forse era la forma di meditazione più pura a cui si sarebbe mai accostato in tutta la sua vita.
Si lasciò cadere con la schiena all’indietro e aspettò che la colonna vertebrale si adeguasse alla pietra. Fissò il soffitto della grotta finché insenature e dossi non assunsero i contorni di volti, animali e vari oggetti. Era esausto anche lui, avrebbe potuto riassumere le ultime ore solo attraverso le temperature che aveva sperimentato sulla pelle: fresco da vento, freddo da acqua, caldo da adrenalina, bollore da dominio del fuoco, gelo da paura, caldo ancora da muscoli in azione, ghiaccio quando aveva incrociato lo sguardo del ragazzo che gli aveva chiesto perché non era uno di loro, freddo da foresta, gelo da grotta, tepore da falò, torpore da prime luci dell’alba.
Si voltò su un fianco per lasciarsi abbindolare dal sonno, ma si trovò davanti la schiena nuda di Shouyou.
Percepì una nuova temperatura: quella vibrante di caldo-freddo dell’elettricità.
La pelle della spalla sinistra era sbucciata fino al collo, contornata da chiazze scure e irritata e arrossata al centro. Le scapole e la colonna vertebrale sporgevano lì sotto e una striscia blu partiva dall’attaccatura dei capelli e si tuffava in una linea dritta nell’elastico dei suoi pantaloni.
Sollevò un dito e, come se avesse fatto una cosa naturale quanto chiudere finalmente gli occhi e dormire, cominciò a tracciare il percorso del suo tatuaggio, ma verso l’alto.
La schiena di Shouyou vibrò con una risata. Atsumu si stupì, per qualche ragione.
“Mi fai il solletico,” disse Hinata, la voce rauca e un po’ stanca ai bordi, “e hai le dita fredde.”
Poi si alzò a sedere e si ribaltò con un saltino per guardare Atsumu in faccia, reggendo il busto col braccio teso. Atsumu avrebbe voluto ricordargli che non doveva sforzare la spalla, ma sollevò gli occhi nei suoi per dirglielo e non ne ebbe modo.
Aveva le labbra rosse come se le avesse morse dal nervoso per ore, gli angoli della bocca erano arricciati attorno a un sorriso grande il giusto per far ammenda tra tenerezza e gioia. Atsumu deglutì a vuoto e pensò a una battuta simpatica e offensiva assieme, come per dimostrarsi di essere ancora se stesso. Gli venne in mente e la dimenticò, le esitava attorno con i pensieri come uno studente che finge di avere una risposta sulla punta della lingua. Shouyou si sporse un po’ in avanti, ma un po’ davvero, solo che ogni centimetro ne valeva almeno cento, lì.
Ciuffi di capelli resi dorati dall’alba si incurvavano attorno al suo viso, gli solleticavano gli occhi, gli sfioravano le lentiggini. Atsumu riusciva a sentire il calore del suo petto, distrattamente consapevole del braccio piegato di Shouyou, delle scapole sporgenti in quella posizione e del tatuaggio che si arrendeva a quel movimento. Sollevò un po’ il busto, sottrasse altri centimetri al raggio di alba che li separava, poi inspirò quella sospensione e lo baciò.
Durò un secondo, l’aveva rubato come se si fossero chiusi in uno dei vicoli di Ba Sing Se e Hinata fosse stato uno sfortunato turista con il borsellino troppo in bella vista.
Ma Shouyou gli sorrise – e sembrava davvero che avesse visto il mondo intero – e poi lo baciò di nuovo. Atsumu gli infilò una mano tra i capelli, se lo spinse addosso e fece scivolare le dita fino alla nuca.
Fuoco e aria potevano essere nemici per gli uomini, ma la verità era che si alimentavano. Il fuoco era vivo, l’aria era libera.
“Ma sei sicuro che questa roba funzioni?” la voce di Osamu giunse da lontano, su un sentiero che non esisteva ma che portava alla grotta. Atsumu lasciò le labbra di Shouyou con uno schiocco. La luce dell’alba era diventata più calda, stava assumendo sempre più i toni del giorno.
Shouyou lo guardò negli occhi, aveva le sopracciglia appena sollevate, come se stesse per chiedergli qualcosa che proprio non conosceva. Atsumu non gli lasciò il collo, fece cadere la fronte contro la sua e, con un altro bacio sulla punta del naso, lo lasciò andare. Fu certo di aver sorriso avvenente e sexy (non era vero. Aveva sorriso come un cretino).
“Credo di sì” rispose Akaashi, ancora fuori dalla grotta.
Due ombre lunghe caddero all’entrata, ondeggiavano e si ingrandivano a ogni passo dei loro proprietari.
“Ma come ‘credo’?”
“Te l’ho detto, non sono un guaritore, ma queste cose dovrebbero andare bene. Sono la base del primo soccorso, mi sorprende che tu non lo sappia.”
Osamu e Akaashi tornarono alla grotta con fiale e scatole di cartone tra le mani.
“Perché sembra che Mugi ti abbia dormito in faccia?” domandò Osamu a suo fratello.
Atsumu lo guardò, fece per rispondere e poi gli guardò le mani. “Che hai là?”
“Roba mia.”
Fece per acchiapparla, ma Osamu fu più veloce. “Condividi, ‘Samu.”
“Con te? Mai.”
Atsumu gli sottrasse la scatola di cartone, abbattendoci sopra una mano. “Cazzo, che fame” disse e prese a scartare le sue polpette di granchio. Pareva che che non avesse neanche sentito il pugno in testa che gli aveva rifilato Osamu.
Akaashi e Shouyou si scambiarono un’occhiata. “Le polpette le ha prese per voi,” disse poi Akaashi, osservando confuso la scena dei fratelli che si picchiavano sulla base di niente.
Shouyou gli sorrise soltanto, divenuto cieco da tempo a quel genere di rituali primitivi. “Grazie per esserti preso cura di me, Akaashi.”
“Siete tutti matti” commentò lui tra sé, poi incalzò Hinata con un gesto della mano a dargli le spalle per applicare gli unguenti.
“Comunque,” esordì Osamu, schivando un pugno di suo fratello. “In città siamo stati scoperti.”
 
“Bene ora vuoi dirmi che ci fate voi qui?”
Osamu aveva pensato che tanto valeva dire ad Akaashi come stavano veramente le cose. Li aveva accolti (un po’ forzatamente, va bene, ma era anche vero che lui l’aveva legato al muro) nella sua grotta, aveva rimesso Shouyou in sesto e non aveva fatto neanche una domanda sul fuoco di suo fratello. In più, lui sapeva un mucchio di cose su Kao Lai, cosa che loro non sarebbero mai riusciti a fare in meno di un giorno. Oltre a essere una colonia della Nazione del Fuoco, era anche il contrario di se stessa. Viveva sotto uno strato di fuliggine che le faceva cambiare faccia e, a quanto pareva, nascondere i suoi segreti.
Akaashi aveva ascoltato in silenzio il riassunto striminzito della loro storia. Osamu era tornato con i ricordi a Ba Sing Se, aveva accennato al Dai Li e ai loro segreti, aveva dato un contesto al loro incontro misterioso a Oshubi e poi gli aveva parlato di Gaoling e del motivo per cui, se avessero voluto, avrebbero potuto anche permettersi i gamberi veri di Kao Lai. Alla fine della storia, Akaashi aveva annuito un paio di volte, poi l’aveva guardato negli occhi e, fermo, aveva detto: “Vi aiuterò. Abbiamo tutti un conto in sospeso con la Nazione del Fuoco.”
Osamu era rimasto sorpreso dalla sua risposta così rapida e concisa. Akaashi non gli aveva chiesto altro, aveva messo i pezzi in ordine per conto suo, in un quadro completo di azioni e motivazioni che chiunque avrebbe impiegato ore a decifrare e poi aveva semplicemente deciso di dar loro una mano. Aveva gli occhi torbidi e freddi del ghiaccio con cui l’aveva inchiodato a un albero anonimo del bosco di Shoubei, ma ragionava tenendo ogni singolo dettaglio in considerazione, con la stessa versatilità intelligente dell’acqua con cui l’aveva curato dal suo stesso ghiaccio. Osamu aveva deciso in quel momento che si sarebbe lasciato ferire da lui almeno mille volte solo per il benessere risplendente e fresco di cui allo stesso tempo era capace.
Poi, da dietro l’albero viola a qualche metro da loro, era comparso un ragazzo.
“Oh, credetemi,” aveva esordito. Indossava il sorriso più pericoloso che Osamu avesse mai visto su un volto e sembrava che la sua faccia da sola bastasse a dare a Kao Lai il suo epiteto ufficioso. “Sono noto per essere il mago più potente del Regno della Terra, ma neanch’io sarei capace di ghiacciare un drink, se fossi un dominatore del fuoco.”
Gli sguardi di Osamu e Akaashi si erano divisi a turno tra il bicchiere di latte di cocco di Osamu, le loro rispettive facce e quella dello sconosciuto.
Contro ogni aspettativa, questo aveva addolcito i tratti affilati del viso, aveva porto loro una mano e aveva detto: “Sono Tooru Oikawa e dovete ringraziare che vi abbia sentito solo io.” Poi aveva aspettato che gli stringessero la mano, piano, a turno, aveva dato loro le spalle e aveva preso a camminare lungo un sentiero tutto ciottoli e terra fuligginosa. “Seguitemi, ho delle informazioni che potrebbero interessarvi e un piano per ostacolare la spedizione di domani.”
Si era voltato per un attimo, lo sguardo che esitava tra i contenitori di cibo vuoti e le loro facce.
“Comunque quello non era gambero.”
“Lo sappiamo,” aveva risposto Akaashi, guardandolo senza tradire alcuna emozione.
“Va bene,” Oikawa aveva scrollato le spalle e ripreso a camminare. “Dovrei avere delle polpette di granchio fresco, visto che vi piace così tanto da farvi fregare.”

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Capitolo 6
*** Kao Lai - Parte 2 ***


II. Kao Lai


Quella sera il vento era solo un soffio gentile che tirava da ovest. La cenere si vedeva cadere sottile solo in corrispondenza degli aloni pallidi di luce delle lanterne sparse per le strade. Oikawa se ne spazzolò un po’ via dalle maniche dei vestiti e voltò il viso verso Iwaizumi, alle sue spalle, che lo spingeva con una mano sulla schiena. “Sai,” iniziò, “non c’è bisogno che fingi di starmi addosso fino a questo punto, altrimenti capiranno da come mi guardi che ti fai fare le predizioni private.”
Iwaizumi alzò gli occhi al cielo e rispose alla provocazione con un grugnito, ma voltò la testa a guardarlo quando sentì il suo sguardo su di sé. Era serio, le labbra sottili come se lo stesse valutando. Oikawa non lo sapeva, ma quella era la sua versione più spaventosa. “Che c’è?”
“Niente,” scosse la testa e la abbassò di poco, poi riprese a camminare. “Stai facendo la cosa giusta, Iwa-chan.”
Lui esitò per un attimo, poi sbuffò derisorio, forse per nascondere proprio quell’esitazione. “Non mi serve la tua approvazione. Non lo faccio per te.”
“Lo so,” fu la risposta di Oikawa, accompagnata a una scrollata di spalle che la rendeva più leggera, volatile. Lo sapeva benissimo, che quella era una delle sue mosse più spaventose. “Non so cosa ti abbia fatto cambiare idea, ma so che è stata solo una scusa. L’hai sempre voluto. Fidati, sono l’indovino migliore di Kao Lai.”
Iwaizumi gli concesse una breve risata beffarda. “Al massimo il miglior truffatore.”
Oikawa rise. “Anche quella è un’arte.”
Non l’avrebbe mai detto ad alta voce, ma Iwaizumi sapeva che Oikawa aveva ragione. Il dominatore del fuoco selvaggio che aveva sfidato in spiaggia, la notte precedente, aveva ridotto in cenere tutto quello che la vita di Iwaizumi aveva rappresentato fino ad allora. Era lento, non era allenato, era mediamente incapace e tutto quello che sapeva sembrava frutto di uno sposalizio provvidenziale e temporaneo di tentativo e fortuna. In un duello l’avrebbe stracciato dopo i primi trenta secondi, ma, in una situazione caotica come quella della notte precedente, l’imprevedibilità dei suoi attacchi aveva giocato in suo favore. Piegava il fuoco al suo volere con arroganza infantile, lo vedeva accendersi con sorpresa e se ne serviva come se si divertisse da matti. Il suo fuoco era fatto di qualcosa che Iwaizumi aveva dimenticato tra un allenamento massacrante e una responsabilità sociale. Ma quel tizio gli aveva mostrato che il fuoco non era una concessione. Non era un dono della Nazione del Fuoco, a cui bisognava esprimere eterna gratitudine arruolandosi per proteggerla, non era rabbia e odio e dominazione, era suo e, da qualche parte lungo il percorso che l’aveva portato a diventare il capitano più giovane nella storia del suo paese, aveva iniziato a nascere dai semi sbagliati.
La Nazione del Fuoco era la causa di tutti i mali che negli ultimi ottantacinque anni erano calati sul mondo. Iwaizumi era bravissimo a essere rigido e a seguire gli ordini, ma era ancor più bravo a riconoscere cosa avesse senso e cosa no e ad agire di conseguenza, indipendentemente da quale fosse la strada più facile.
Dopo quella battaglia, quella che gli aveva garantito la promozione a capitano dello squadrone A31, Iwaizumi non aveva chiuso occhio. Poi, prima che il primo raggio del nuovo giorno facesse capolino oltre le montagne, aveva deciso da che parte stare.
“Visto che sei un artista della truffa, allora, metti in pratica questo talento e attieniti al piano.”
Oikawa gli agitò una mano davanti alla faccia, come a zittirlo, poi si accostò alla bancarella della vecchia che quella mattina aveva venduto panzerotti di falsi gamberi ai suoi nuovi alleati e le sorrise.
“Oh, che strana coppia!” commentò lei, ricambiando il sorriso.
“Sono un soggetto pericoloso per la Nazione del Fuoco, riesce a crederci?” Oikawa sgranò gli occhi divertito. “Questa sì che è vi…”
“Muoviti” lo interruppe Iwaizumi, alle sue spalle, che si guardava attorno come se il pensiero che il suo ostaggio dovesse nutrirsi fosse eccezionalmente seccante. In realtà voleva solo chiudere quella parte del piano in fretta e passare a quella successiva.
Oikawa scambiò un’occhiata complice con la donna e studiò le opzioni del carretto. “Prendiamo tre polpette di granchio e un’informazione.”
Gli occhi della donna luccicarono di furbizia per un breve istante, poi tornarono docili. “Gradirei che non gridassi, ragazzo, qui credono tutti che siano gamberi.”
“Oh, ma certo.”
La donna gli porse le polpette.
“Vede, il mio amico soldato, qui, non vede l’ora di mostrare ai suoi capi che è un capitano furbo e responsabile e vorrebbe apparire valoroso per farsi bello ai loro occhi, partecipando alle fasi più delicate della consegna del carico di domani. Il fatto è che il luogo in cui si terrà lo scambio è un’informazione segreta e non riesce a spillarla a nessuno.” Oikawa si avvicinò, confidenziale. “Ha detto che mi fa pisciare da solo se sfrutto le mie conoscenze in città per aiutarlo. Lei è qui dall’alba e non si è mossa un attimo: deve sapere qualcosa.”
La vecchia si guardò intorno circospetta, poi puntò gli occhi sottili su Oikawa, di nuovo. “Non è sicuro fare la spia ai danni della Nazione del Fuoco, ragazzo. Io non ho altre entrate a parte questo chiosco e loro non aspettano altro che una scusa per farmelo chiudere” concluse, lanciando un’occhiataccia a Iwaizumi.
Oikawa scrollò le spalle. “Comprendo appieno, ma il fatto è questo.” Smise di sorridere e poggiò una mano sul ripiano del chiosco su cui avrebbe dovuto lasciare i soldi. Non la sbatté, ma fece comunque più rumore di quanto ne avrebbe fatto se l’avesse lasciata solo casualmente cadere lì. “È sempre meglio non farsi nemici. Sia mai che si presentino un capitano di uno squadrone e un indovino alla sua bancarella e se ne vadano insoddisfatti. Il capitano potrebbe spifferare ai suoi uomini che la venditrice di panzerotti al granchio non vuole collaborare con la Nazione del Fuoco, indipendentemente dalla natura dell’informazione negata. Penso che in quel caso le sue entrate subirebbero un colpo notevole in ogni caso.”
Si guardarono per qualche secondo. Lo sguardo intelligente della vecchia uscì nuovamente allo scoperto come in un trucco di magia appena svelato, poi sbuffò. “Il carico dovrebbe arrivare domani sulla Spiaggia delle Scaglie di Drago, alle undici.”
Oikawa sorrise, poi lasciò cadere tre monetine sul bancone, che tintinnarono allegre sotto le sue dita. Aveva tenuto la mano lì per tutto il tempo, Iwaizumi non avrebbe saputo dire da dove diamine fossero spuntate fuori. “Grazie per le polpette,” disse prendendole, poi entrambi si voltarono e fecero per andarsene.
“Bellimbusto?” lo richiamò la donna. “Le informazioni si pagano almeno tre volte il costo di questo chiosco.”
Iwaizumi sgranò gli occhi, ma Oikawa sorrise, poi tirò fuori una cifra esorbitante da una manica e lasciò i soldi sul bancone. “Tenga il resto,” disse, e se ne andarono davvero.
“All’inizio pensavo che avessi un po’ esagerato con lei” gli disse Iwaizumi, quando si furono allontanati abbastanza dalle zone più frequentate.
“Voi soldati della Nazione del Fuoco siete sempre tra i piedi e ancora non avete capito come funzionano le cose qui. Più sembrano innocenti, più sono pericolosi.”
“Tu devi essere molto poco pericoloso,” commentò Iwaizumi, osservando i ciottoli del sentiero diminuire di densità man mano che si avvicinavano alla foresta. Poi si guardò alle spalle per assicurarsi che nessuno li stesse seguendo. Di lì a poco avrebbero incontrato i clandestini. Iwaizumi trovava distrattamente ironico il fatto che meno di ventiquattro ore prima erano stati nemici.
“Io sono super innocente, Iwa-chan!” si lamentò Oikawa, e sfoderò lo sguardo più allusivo sul pianeta.
“Da dove li hai presi tutti quei soldi, comunque?”
“Io sono un grande indovino, sei tu che sminuisci le mie doti.”
“Sì, certo.”
“E va bene. I nostri alleati sono venuti qui preparati.”
 
Quando una foresta finiva per chiamarsi foresta, uno si aspettava che non fosse altro che quello: una foresta. Ci si immaginava una manciata generosissima di alberi alti, muschio, terreno umido, raggi di sole dalle traiettorie più disparate e, se proprio si voleva essere fantasiosi, un ruscello.
Invece Shouyou aveva scoperto che la foresta di Kao Lai ospitava più di una sorpresa. Tanto per cominciare, non troppo lontano dal centro cittadino, si apriva in delle radure, spiazzi poco alberati e tratti dal suolo libero da arbusti e radici, dove di solito si concentravano i campi della Nazione del Fuoco. Nascondeva una serie di grotte (una di queste era la loro) e, sul confine più a sud, sbiadiva in torri di pietra che parevano montagne artificiali. Le loro cime venivano divorate da nubi dall’aspetto spettacolarmente simile a fumo. A causa della vicinanza al mare burrascoso che separava il Regno della Terra dalla Nazione del Fuoco, le montagne erano state corrose nelle zone più basse. Erano famose in tutto il mondo poiché molte di queste si rivelavano cave, all’interno si aprivano bizzarri corridoi e strappi nella pietra, conferendo al paesaggio interno un’aria spettrale e lontana da ogni tempo. Per via della loro struttura, venivano chiamati anche monti di Zoulang. Shouyou sedeva con la schiena contro uno dei sentieri appena inclinati che conduceva verso la cima esterna di una di queste montagne. Akaashi aveva insistito che restasse seduto per non affaticare la spalla, anche se Shouyou si sentiva fresco come un fiore e in ogni caso non capiva perché, se la spalla non si trovava sulle gambe, restare seduto fosse la mossa vincente per sconfiggere il dolore. Akaashi però non parlava molto e raccontava belle storie, quindi gli faceva piacere accontentarlo.
Sul sentiero che dalla foresta di Kao Lai portava ai piedi delle montagne di Zoulang distinse una fiammella tremolante che si avvicinava.
Osamu gli fece un cenno e Shouyou si alzò, accasciandosi sul lato che non gli faceva male per distribuire meglio il peso. Lo sguardo di Atsumu cadde su di lui giusto il tempo di venir ricambiato, poi si spostò sulla sua stessa mano e la fiamma che vi accese in risposta.
Alla luce che veniva dal sentiero della foresta si aggiunsero lentamente due ombre, poi due sagome, due esseri umani poco dettagliati e infine due persone. Nell’esatto momento in cui Shouyou posò gli occhi sui loro visi, un brivido gli percorse le ossa, risalì fino alla nuca e si trasformò in pelle d’oca. Con la coda dell’occhio, vide che la fiamma nelle mani di Atsumu divampò e un’instabilità momentanea nel terreno e uno sciabordio si unirono alla difesa.
Uno dei due tizi era a capo della squadra che li aveva attaccati la notte prima, la figura stilizzata di una fiamma svettava sulla sua divisa da soldato.
“Molto scenografici, in quattro fate un Avatar,” commentò l’altro che era con lui. Shouyou immaginò che fosse l’indovino che aveva esposto il piano a Osamu e Akaashi, quella mattina. “Però non c’è bisogno di attaccare, calmatevi, è con noi.”
“Ieri non mi sembrava dello stesso avviso” ribatté Atsumu, sollevando il capo. Shouyou pensò che quel look da criminale lo facesse sembrare proprio un figo!
“Mi dispiace per la ferita, ieri. Spero che tu stia meglio” disse formale il ragazzo della Nazione del Fuoco, guardando Shouyou negli occhi. Si esibì in un inchino profondo ma non esuberante. Hinata era bravo a capire quanto le persone fossero sincere solo guardandole e non gli parve di rilevare alcuna forma di doppio gioco, quindi chinò il capo e accettò le sue scuse.
Atsumu, invece, non sembrava possedere lo stesso talento. “Hai detto che avrei dovuto infiltrarmi in un campo della Nazione del Fuoco” iniziò, rivolgendosi a Osamu, “e lui è il tizio di cui ci stiamo fidando?”
“Voi due siete gemelli?” domandò l’indovino di Kao Lai, Shouyou ricordava dai racconti di Osamu e Akaashi che il suo nome era Oikawa.
L’attenzione di Atsumu si spostò su di lui. “Acuto,” ribatté sarcastico.
“Io sono certo che tu sia quello più stupido dei due, invece.”
“Va bene, ci rivediamo domani, allora?” intervenne Osamu, prima ancora che Atsumu potesse pensare di fare il minaccioso.
Lui infatti rilassò le spalle e si morse un labbro. Shouyou aveva notato che lo faceva quando ragionava. Atsumu era un po’ una sorpresa, a suo avviso, perché sembrava sempre uscito da poco da una rissa e, quando apriva bocca, a volte, incoraggiava quest’impressione. Poi però era capace di trovare la mossa più furba in pochi secondi e farla passare per un gioco da ragazzi. Allo stesso modo, aveva ancora notato Shouyou, più si mostrava sicuro di qualcosa, meno ne sapeva, ma era stato discreto abbastanza da non fargli mai presente di aver capito il suo trucco. Si poteva capire tanto di una persona quando la si guardava galleggiare in aria abbastanza a lungo.
Il capitano super serio amico di Oikawa passò una divisa da soldato ad Atsumu. Lui la accettò con un sopracciglio inarcato e una dose abbondante di diffidenza malcelata. Un pensiero inaccessibile gli oscurò lo sguardo, prima che lo dissimulasse scrollando le spalle e tornando la versione sicura e arrogante di sé. Shouyou avrebbe voluto dirgli che lo preferiva vulnerabile.
“A domani.” Atsumu si avvicinò a suo fratello e, ridacchiando, aggiunse melodrammatico: “Se tutto va male, di’ a Shouyou che l’ho amato.”
Hinata lo sentì e non riuscì a non sorridere, mentre Osamu lo allontanava con uno spintone.
Poi Atsumu regalò un’occhiataccia al tizio della Nazione del Fuoco e una ancor più velenosa a Oikawa, scompigliò i capelli di Shouyou e si avviò di nuovo nella foresta.
 
Il fuoco crepitava dietro i tronchi degli alberi, accendendo lo sfondo delle loro silhouette nodose. Muschio e aghi secchi coprivano un terreno altrimenti spoglio. Altro fuoco – sulle divise, sulle tende, sugli stendardi – dipingeva uno scenario simile a quello dei covi dei cattivi delle storie che sua madre leggeva ad Atsumu da piccolo, un gemello per ginocchio e i ricordi confusi di un luogo di cui non afferrava più alcun dettaglio.
Si riscosse con un brivido e si lisciò i lembi della divisa della Nazione del Fuoco. Doveva solo mentire. Forse col fuoco non era ancora una cima, ma mentire era il suo forte, dannazione.
“Sei un dominatore del fuoco, ma non vieni dalla Nazione del Fuoco,” gli disse Iwaizumi, poco prima che si addentrassero troppo nel campo e non potessero più parlarne. Atsumu aveva la sensazione che mordesse costantemente qualcosa coi molari o che non avesse un vasto repertorio di espressioni facciali. “Da dove vieni?”
“Ba Sing Se,” rispose lui. Aveva una voglia matta di passarsi una mano tra i capelli, ma quello stupido elmetto da soldato glielo impediva.
“Come ti sei allenato?”
Atsumu scrollò le spalle e alzò gli occhi al cielo con falsa modestia. “Sono autodidatta.”
“E infatti sei completamente incapace,” ribatté Iwaizumi, lapidario. Non sembrava giudicarlo, ma affermare un fatto. Questo fece più male.
Oikawa scoppiò a ridere e Atsumu sperò che soffocasse con la sua stessa saliva. Secondo lui Oikawa era un tipo oggettivamente attraente. Nella testa di Atsumu questo poteva significare due cose: che voleva baciarlo o che voleva strangolarlo. Oikawa rientrava nella seconda categoria.
E comunque Atsumu era più bello.
Varcarono la soglia di una prima fila esterna di bandiere della Nazione del Fuoco. “Vieni, ti insegno qualche mossa, prima.”
 
Mezz’ora dopo, Atsumu si trovava a terra, per quella che doveva essere la cinquecentesima volta, con una manciata di terriccio e fallimento in bocca. Sputò e si tirò a sedere, guardando l’espressione stoica di Iwaizumi dal basso e odiandolo un po’ per tutta quella compostezza.
“Guardarvi è diventato così noioso che mi è passata anche la voglia di prendervi in giro,” commentò Oikawa, seduto con la schiena contro il tronco di un albero non lontano da lì. Stava infilando un cordoncino nero in una serie di perline, una specie di talismano falso per scacciare la malasorte altrui, e Atsumu avrebbe voluto fargliele ingoiare una per una.
Iwaizumi gli offrì una mano per aiutarlo a rialzarsi prima che potesse rispondere a Oikawa per le rime. Atsumu gli sorrise – furbo e grato insieme, perché proprio non gli riusciva di farlo senza sottintendere un doppio gioco anche quando non c’era – poi fece per accettare la mano, ma un formicolio inaspettato gli attraversò l’avambraccio. D’istinto, Atsumu scartò di lato e tirò una fiamma con la mano destra.
Quando il fuoco si fu diradato, incontrò lo sguardo duro di Iwaizumi, ma Atsumu ci aveva combattuto abbastanza per scorgere la soddisfazione dietro la facciata. “Bravo,” disse solo lui e Atsumu non trattenne un sorriso orgoglioso. “Impari in fretta.” Poi gli offrì ancora una volta una mano per tirarlo su e questa volta Atsumu non rilevò alcun pericolo.
“In fretta? Alla Nazione del Fuoco avete un concetto molto pigro di fretta, Iwa-chan, mi è venuto il culo piatto.”
“Per fortuna già ce l’avevi, sennò sai che perdita” ribatté Atsumu. Oikawa si alzò, intascò la collanina pacchiana e si spazzolò il terreno via dai pantaloni. Poi si avviarono verso il cuore del campo.
“Lo sai che studi scientifici hanno provato che se passi tutto questo tempo a fare lo stronzo ti vengono le rughe in anticipo?”
“Oh, allora devo assolutamente chiederti che crema usi per nascondere le tue.”
“Fate pure.” Iwaizumi si arrestò davanti a una tenda più grande delle altre. La terra compatta del bosco lasciava posto a una pedana in legno. “Quando avete finito, avremmo un piano suicida da portare a termine.”
Orgoglioso di aver avuto l’ultima parola, Atsumu sorrise e strizzò l’occhio a Oikawa, mentre lui si lasciava legare le mani da Iwaizumi. “Non sapevo che ti piacessero queste cose, Iwa-chan, ma non trovi che la situazione non sia del tutto appropriata?”
ll capitano dello squadrone arrossì solo sulla punta delle orecchie, ignorando la battuta, poi scostò un telone con l’ennesimo stemma della Nazione del Fuoco (davvero, Atsumu capiva perché fossero un pericolo mondiale: quello non era patriottismo, era ossessione) e li invitò a entrare.
Atsumu guardò Oikawa giusto il tempo di riuscire a cogliere le sue labbra mimare: ‘Va’ a farti fottere, scartina’, poi entrarono.
L’interno della tenda consisteva in uno spazio grande circolare, pavimentato con una pedana di legno dall’aspetto consumato per via della secchezza del terreno che portavano dentro i soldati con i loro stivali. Un tendone rosso sormontava la struttura e si andava aguzzando verso l’alto al centro. Le pareti circolari ospitavano fiaccole e ganci per appendere armi e altri utensili. Quattro tavoli di pietra grezza erano disposti in quelli che in una tenda rettangolare avrebbero fatto da angoli. Al centro, un tappeto di pelle di un animale che Atsumu non avrebbe saputo identificare accoglieva spazzatura di vario genere e persone esauste e ilari. Sul fondo della tenda crepitava un fuoco che non aveva bisogno d’essere domato e lanciava riflessi su elmi senza padroni e vetri di bottiglie piene e vuote disseminate qua e là per la stanza, disegnandone i contorni.
I ragazzi presero posto a uno dei tavoli del tendone.
“Ti ho già visto da qualche parte?” domandò un tizio ad Atsumu, stringendo gli occhi per ripescare il ricordo. Aveva i capelli tutti spettinati e il pomo d’Adamo più prominente che Atsumu avesse mai visto in vita sua. “Ho la sensazione…”
“Ti confondi con qualcun altro, amico. Io sono arrivato qui stamattina per aiutare col carico di domani.”
Il ragazzo lo studiò a occhi stretti per qualche altro secondo di goliardica diffidenza, chinato verso di lui come se il problema fosse stato unicamente di tipo oculistico, poi si tirò indietro di scatto e sollevò le sopracciglia. “Ma sì, certo.” Afferrò il bicchiere di legno sul tavolo con uno schiaffo e se lo portò con leggerezza alle labbra.
“E che ci fanno uno arrivato stamattina e un soggetto rischioso da queste parti?” domandò un altro ragazzo dalla parte opposta del tavolo. Aveva folti capelli ricci e sorprendenti occhi verdi. Non sembrava affatto uno della Nazione del Fuoco.
“Già, ho sentito che voi delle altre squadre state dall’altra parte della foresta,” gli diede ragione Pomo d’Adamo.
Atsumu si lasciò cadere contro lo schienale della sedia. “Sono qui per il soggetto rischioso” disse poi, lanciando un’occhiata di sottecchi a Oikawa.
Riccio e Pomo d’Adamo aggrottarono le sopracciglia, incerti, gli sguardi che correvano per un attimo sul loro capitano. Iwaizumi si limitò a scrollare le spalle.
“Andiamo, ragazzi, è l’indovino più famoso di Kao Lai. Non ditemi che siete così poco scrupolosi da non farvi fare una lettura prima di un incarico così importante come quello di domani. In più, ora che è praticamente un prigioniero, non si fa neanche pagare.”
Oikawa sollevò le mani con i polsi legati e lanciò un’occhiata eloquente a Iwaizumi. “Non posso fare letture così, capitano.”
Iwaizumi grugnì e mormorò qualcosa di simile a un insulto, poi si armò di un coltello da caccia e ruppe le corde che gli stringevano i polsi. Oikawa si massaggiò la pelle arrossata nei punti in cui la corda aveva insistito di più, poi, con uno scatto rapido di un dito dominò l’acqua in una delle scodelle sul tavolo e schizzò Atsumu in faccia.
Lui si ripulì con una manica, senza batter ciglio. “Rinfrescante, grazie,” commentò con un sorriso affilato, e gli porse la mano destra. 
Oikawa chiuse gli occhi e preparò l’ennesima messinscena. “Tra le cime alte di nebbia risuona la fortuna, laddove la roccia è scandita dal mare e la sua spuma. Un tesoro assai raro attende il suo padrone, che sia fama, potere e soldi o che sia solo l’amore. Va’ lì, o viaggiatore, recati dove il vento fa coppia con un fischio. Tra i rovi di roccia, magari, un piccoletto annullerà ogni rischio.”
Atsumu l’avrebbe strangolato per l’occhiolino finale e il riferimento a Shouyou non richiesto, ma, per quando ebbe finito, parte della sala era ammutolita in un silenzio attento.
“Capitano, dovremmo…” iniziò Riccio, rivolgendosi a Iwaizumi e lasciando la frase sull’onda di un’esitazione. Iwaizumi si strinse nelle spalle e accennò con la testa in direzione di Oikawa.
Riccio tese la mano tremante all’indovino, mentre Pomo d’Adamo correva in giro per il tendone, esortando tutti a farsi avanti.
Oikawa confezionò previsioni perlopiù identiche, se non per qualche dettaglio personale che faceva sgranare gli occhi di sconcerto al proprietario della mano, in un antenato ugualmente affidabile dell’effetto Placebo.
Iwaizumi e Atsumu si scambiarono uno sguardo d’intesa.
 
“Posso chiederti una cosa?” Oikawa domandò a Iwaizumi, quella sera, mentre veniva scortato da lui a far la pipì. Si era messo dall’altra parte dell’albero, ma sentiva comunque il rumore. Oikawa però non sembrava curarsi di simili minuzie. “Cosa ti ha fatto cambiare idea?”
Iwaizumi pensò di fingere di non aver capito, invece optò per un più logico: “Non credo sia il caso di parlarne qui.”
“Avanti, più dici queste cose più sembra sospetto.”
Passò un momento di silenzio, in cui si udivano solo il suono occasionale delle cicale e la pipì di Oikawa. Aveva bevuto molto.
“È per quella scartina, non è vero?” la voce di Oikawa si illuminò di realizzazione. “Hai combattuto contro di lui e hai capito che dominare il fuoco non deve corrispondere alla lealtà alla nazione che ne porta il nome, che lo stavi usando per la causa sbagliata.”
Iwaizumi non rispose. Si limitò a lasciare il tronco d’albero a cui era appoggiato e circumnavigarlo per raggiungere il suo soggetto pericoloso, che stava ancora armeggiando con la patta dei pantaloni. “Dobbiamo andare o si insospettiranno.”
“Sei pieno di sorprese, Iwa-chan.” L’indovino liberò una risata alta, cristallina, arrivava fino ai rami più alti di quella foresta. “E uno zotico. Non riesco a credere che quattro schiaffi siano stati più efficaci di mesi passati a infrattarsi sulla spiaggia!”
 
***
 
Il giorno dopo, il sole era alto in cielo. Combatteva contro l’ostruzione degli ultimi alberi, prima della distesa striata di sabbia e fuliggine. La città respirava. C’erano periodi di venti fermi in cui le lacrime di carbone si contenevano appena, trasformando la pioggia bizzarra di Kao Lai in un cadere più raro e rarefatto di cenere.
Iwaizumi raggiunse la riva a passo costante e si unì al gruppo di capitani lì riuniti per accogliere il comandante venuto dalla Nazione del Fuoco, per gestire il trasporto del carico.
“Se qualcuno di voi ha delle novità da segnalare è bene che lo faccia subito” stava dicendo il comandante. La barba ispida vibrava a ogni parola.
Iwaizumi guardò alla sua sinistra. Una fila di uomini di età diverse – ma comunque maggiori della sua – guardava dritto davanti a sé, gli occhi puntati sull’orizzonte di un mare che cominciava ad agitarsi, ma il viso rivolto al loro superiore. Sembravano statue. Iwaizumi aveva lavorato sodo ed era stato diligente e capace durante tutta la sua formazione, eppure a promuoverlo al grado che aveva raggiunto era stata una scampagnata segreta con un locale che aveva spacciato per ronda extra. All’inizio si era sentito in colpa, distrutto da un tradimento a metà fatto di bugie e curiosità a cui aveva ceduto, poi aveva visto quanto poco meritato fosse in fondo il merito. “Sì, signor comandante” parlò, e voltò il capo per fissare anche lui l’orizzonte come gli altri. Sentì l’attenzione del suo sguardo serpentino spostarsi su di lui e bruciargli la pelle come acido. “Nella giornata di ieri tutte le squadre si sono adoperate per catturare i soggetti pericolosi di Kao Lai e tenerli in custodia nella notte, come da programma. Uno di questi, l’indovino del villaggio, ha predetto almeno a un centinaio di uomini che avrebbero trovato la fortuna sulle cime dei monti di Zoulang. Poi, nonostante tutte le misure di sicurezza e i turni di guardia, si è volatilizzato nel nulla nella notte. Stamattina, come vittime di un incantesimo, i miei uomini e quelli di altre squadre sono scomparsi, diretti verso i consigli dell’indovino. Non siamo riusciti a fermarli e siamo a corto di soldati. Inizio a credere che la città sia maledetta, signore.” Nonostante la certezza in quello che faceva, Iwaizumi non riusciva a smettere di pensare che la voce con cui aveva parlato non fosse la sua. Si sentiva uno dei tanti capitani in fila, dritti come fusi e attenti a non respirare troppo, impietosito dal soldato strano che stava parlando troppo e che presto sarebbe stato punito. Solo che quella volta il soldato strano era lui.
Il comandante emise un verso basso e pensieroso. “Maledetta, dici?” Poi, nel silenzio rotto solo dalla brezza marina, scoppiò a ridere. “Questo… indovino, come dici tu, ci ha fatto un gran favore!”
I primi fiocchi di fuliggine cominciarono a piovere dal cielo. Uno di questi si posò sulla guancia di Iwaizumi col suo odore pungente, ma lui non se ne curò. Mantenne lo sguardo fisso mentre un’ondata di terrore gli invadeva le viscere.
“Colgo l’occasione per avvertirvi che l’ultimo carico verrà trasportato in mongolfiera e depositato sulla cima più alta della catena di Zoulang. Sempre lì avverrà lo scambio con un’altra mongolfiera, che porterà tutto nella Nazione del Fuoco. Siete pregati di recarvi lì con gli uomini rimasti, per offrire sicurezza durante questa fase delicata. Vogliamo evitare spiacevoli…” catturò lo sguardo di Iwaizumi, sollevò un sopracciglio, piano, “imprevisti.”
Lui mantenne l’espressione più neutra che gli riuscì, mentre i suoi occhi si spostavano da quelli del comandante all’orizzonte e poi ancora alla nave con cui era arrivato. Non aveva senso: era con Oikawa, la notte prima, quando la venditrice di polpette di granchio aveva detto loro che lo scambio sarebbe avvenuto alle undici, sulla Spiaggia delle Scaglie di Drago, a meno di cinquecento metri da dove si trovavano loro in quel momento. Aveva anche avuto paura che diffondere le informazioni che aveva racimolato le si sarebbe ritorto contro.
Incrociò nuovamente lo sguardo del comandante. Lui lo stava già guardando, la luce furba negli occhi di chi era a un passo da una mossa vincente di Pai Sho, il gioco da tavolo più famoso al mondo.
E poi ci arrivò.
Kao Lai era la città degli imbrogli.
E loro non solo non erano riusciti a dirottare gran parte delle forze della Nazione del Fuoco lontano dal luogo dello scambio: le avevano addirittura deviate in quella corretta.
 
“Sono sicuro che questo accorci la strada, siamo…”
Osamu si arrestò di scatto sulla via principale della città. Fiocchi di fuliggine iniziarono a posarsi ostinati dopo una mattina atipicamente immersa nel sereno. Akaashi e Atsumu intercettarono il suo sguardo, incastrato sul chiosco sempreverde dell’anziana ciarlatana.
“Perché ti sei fermato?” domandò Atsumu, afferrando suo fratello per un braccio e cercando di spingerlo lungo la strada in discesa che portava alla foresta, ma era inamovibile.
“Cazzo,” disse Osamu in un soffio, minimalista nelle parole ma sempre d’effetto. La vecchia stava parlando con due ufficiali che parevano far parte dei ranghi alti delle forze della Nazione del Fuoco.
“Spero per te che non ti sia lasciata scappare una parola di troppo,” stava dicendo quello più alto dei due. Continuava a giocherellare con una moneta, facendola saltare da una mano all’altra e producendo ogni volta un tintinnio, quando questa si scontrava con qualcosa di metallico che doveva portare vicino alle dita.
“Chi è?” chiese ancora Atsumu, stanco di dover trarre le sue conclusioni dal contesto e non da risposte dirette.
“Ho fatto quello che mi avete chiesto,” si difese la vecchia. Aveva il tono fermo e una postura sicura, ma qualcosa di difficile da collocare con esattezza non tornava nel suo viso e andava allo stesso ritmo della moneta. “Ho detto all’indovino e al traditore che avevo sentito da alcuni soldati che il carico sarebbe arrivato alla Spiaggia delle Scaglie di Drago alle undici. Non ho detto niente sui monti di Zoulang e sulle mongolfiere.”
I due ufficiali annuirono, una fiamma si accese nella mano di quello che non aveva parlato. La donna sollevò un sopracciglio: una sfida a osare, un’offesa, una domanda.
Poi la fiamma si estinse e i due lasciarono il chiosco.
“Cazzo” ripeté Atsumu, che aveva messo i pezzi a posto e aveva dato un volto a quella che avevano creduto la loro informatrice involontaria.
“Vuol dire che loro lo sanno del piano… Non possono saperlo,” disse Akaashi, abbassando lo sguardo. Muoveva gli occhi così in fretta che pareva di riuscire a scorgere la sorgente di ogni suo pensiero e la direzione in cui si muoveva. “Sanno che il traditore è Iwaizumi. È in pericolo.” Fece un passo indietro, nella direzione opposta alla foresta. Riuscì a voltarsi solo per tre quarti prima che Osamu gli afferrasse il polso.
Atsumu e Akaashi abbassarono gli occhi su quel gesto. Osamu esitò solo un attimo con lo sguardo, ma non mollò la presa. “Non puoi andare. Manca mezz’ora all’arrivo del carico. Non è detto che lui sia in pericolo.”
Akaashi aggrottò le sopracciglia. “Sta raccontando una bugia che loro si aspettano di sentire. È sicuro che lo attaccheranno.” Si voltò per andarsene, ma Osamu gli stringeva ancora il polso. Tirò verso di sé e lo costrinse ad avvicinarsi.
“È circondato da capitani più grandi di lui e un comandante anziano,“ sussurrò tra i denti e lo guardò negli occhi. C’era qualcosa, negli occhi di Akaashi, che annullava il resto del mondo e faceva somigliare una città in cui pioveva cenere a un bosco che doveva restare sempre vuoto. “Tu sei un ricercatore.”
Atsumu, da qualche parte accanto a loro, fischiò. “Però, molto curate queste aiuole, eh?” osservò con caricaturale imbarazzo, sfiorando una fogliolina di una pianta lì vicino. Akaashi e Osamu interruppero quella comunicazione verbale e visiva per spostare lo sguardo su di lui. “Oh, no, no, continuate pure a fare…” agitò le mani, “qualunque cosa strana stiate facendo, però fate in fretta, perché mi annoio.”
I ragazzi lo ignorarono prontamente. “Io sono anche un dominatore dell’acqua,” Akaashi sfilò via il polso dalle dita di Osamu, aiutandosi con la mano libera. “E il comandante è venuto in nave. Sono circondati dal mare. Sono più utile lì che su una montagna.”
“Ma sei stato in grado di attaccarmi in un bosco,” gli ricordò Osamu.
Akaashi sorrise: una cosa discreta che Atsumu non doveva vedere. “Appunto.” Poi fece per correre in spiaggia ma si bloccò e si voltò di nuovo verso i gemelli, le sopracciglia aggrottate e le dita sospese attorno a un’idea che stava plasmando davanti ai loro occhi. “Possiamo ancora vincere.”
Atsumu inclinò il viso su un lato e scosse la testa, come a chiedere spiegazioni.
“Ho un nuovo piano.”
 
I monti di Zoulang non erano vere montagne almeno quanto la pioggia di Kao Lai non era vera pioggia.
Erano una ragnatela, scollature di pietra, gallerie e passaggi scavati dal mare. Le acque di Kao Lai sbattevano contro le pareti laterali come ospiti indesiderati alla porta di casa. I suoni si confondevano e si rendevano impossibili da localizzare. Scorci di luce si infiltravano in fori invisibili e illuminavano così intensamente certe zone da dare l’illusione che si trovassero all’aperto. Soffitti naturali imponenti si reggevano a volte su meri steli di pietra, lottando da millenni per tenersi in piedi e aspettando solo che la vibrazione di un’onda un po’ più ampia ne segnasse la caduta. La gravità lì esisteva nella sua forma più giocosa: veniva sfidata dalla natura in un intrico di caverne senza uscita, zone frastagliate che agevolavano la risalita, liane di pietra che pendevano dall’alto come stalattiti molli e vegetazione che si arrampicava su ogni parete umida abbastanza da consentirne la vita.
A conferire ai monti di Zoulang il loro stato di monti era il fatto che, dall’esterno, avessero tutto quello che avevano i monti normali: basi, fianchi, cime. Celavano quel segreto di fori, passaggi e cavità alla foresta, che non poteva vedere il mare che nel tempo – e grazie al vento che lì soffiava sempre solo in una direzione – ne aveva intagliato i contorni più stravaganti.
Shouyou se ne stava in piedi sulla cima più alta di tutte, dove si udiva a stento il mare sciabordare in lontananza. Il sudore gli imperlava la fronte, gli bagnava i capelli alla base e si infilava ovunque sotto i vestiti. Da oltre dieci minuti gli pareva di reggere il cielo sulle spalle… e in parte era vero. Aveva preso in ostaggio tutti i soldati che si erano lasciati convincere dalle previsioni di Oikawa, continuando a evocare una corrente d’aria che circondava in un vento fitto e invalicabile la cima del monte. Mugi, dall’alto, alimentava questo tornado ad anello con ripetuti colpi di coda.
Dalla fine di una scalinata naturale e accidentata apparvero Atsumu, Oikawa e Osamu.
“Fermati,” gli disse Atsumu.
Shouyou si voltò di scatto e aggrottò le sopracciglia. “Perché?”
“Ci hanno scoperti, tutte le forze della Nazione del Fuoco sono dirette qui.”
Il tornado si sciolse come nebbia a contatto col sole. Shouyou abbassò le braccia lungo il corpo. “Io non mi arrendo.”
Atsumu lo guardò per un attimo di sincera perplessità. Bisognava essere pazzi o completamente stupidi per saltare qualunque tipo di domanda che lo aiutasse a capire come e perché i loro avversari li avessero scoperti e pensare davvero di battere la Nazione del Fuoco nella sua colonia più importante senza un piano. Sorrise, però, perché in fondo Atsumu doveva essere pazzo e stupido almeno quanto lui, se aveva visto cadere un ragazzo dal cielo e, senza sapere come né perché, l’aveva seguito fino in capo al mondo. “Non ci stiamo arrendendo,” scosse la testa. “Akaashi ha avuto un’idea.”
Shouyou alzò gli occhi nei suoi, erano enormi e ancora determinati nonostante lo smarrimento e il sudore.
Atsumu gli porse una mano. “Fidati di me.”
Lui non esitò neanche un secondo. Sollevò un braccio per ricambiare la stretta e, quando fu a un passo dallo sfiorargli le dita, una fiamma costrinse entrambi a ritirare le mani.
“Oh, è davvero una giornata magnifica,” osservò una voce sottile alla loro sinistra. Vibrava in onde ad alta frequenza come un serpente a sonagli o un tamburello. I ragazzi si voltarono di scatto. Un uomo camminava verso di loro con il comodo incedere dei vincitori, gli occhi e le labbra sottili erano incurvati verso l’alto, grondando soddisfazione. Alle sue spalle decine di uomini, due di questi costringevano Iwaizumi e Akaashi a continuare a camminare. “Un carico importante verrà trasportato alla Nazione del Fuoco e abbiamo catturato un traditore e uno degli ultimi dominatori dell’aria nello stesso giorno.” Sollevò lo sguardo verso l’alto, con costruita confusione. “Quanti piccioni con una fava sono?”
“Credo che siano tre, signor comandante” rispose un uomo alle sue spalle, facendo un piccolo inchino con la testa.
Il comandante finse sorpresa, poi sorrise e arricciò il naso. “Davvero una giornata magnifica” confermò. Fece strisciare la lingua contro il retro dei denti e sollevò le mani come per consegnarsi. “Dunque mi permetto di…”
Una prima lingua di fuoco nacque dal palmo aperto della sua mano. Hinata saltò all’indietro e vide la punta di quella frusta acchiappare solo la sagoma del suo respiro, a qualche centimetro da dove si trovava a quel punto.
Il sorriso del comandante fece spazio a un ringhio, poi Shouyou rispose spingendo entrambe le braccia in avanti e tirandogli contro un muro d’aria.
La battaglia esplose.
Oikawa lanciò in aria un borraccia e la stappò con la pressione dell’acqua al suo interno. Con quella schiaffeggiò il soldato che teneva fermo Akaashi, poi la ghiacciò per recidere la corda che gli legava le mani. Akaashi si appropriò di metà dell’acqua e liberò Iwaizumi alla stessa maniera.
“Prendeteli!” sbraitò il comandante, abbandonando la camminata disinvolta del vincitore e avvicinandosi con un’intenzione diversa.
Atsumu fece un cenno a Shouyou e tirò un pugno che finiva con una fiammata. Hinata ne amplificò il viaggio aprendole un passaggio d’aria. Mugi ruggiva dall’alto schivando palle di fuoco e altre minacce.
“‘Samu!” gridò Atsumu dalla mischia, schivando la lancia infuocata di un tizio che pareva indemoniato. “Sarebbe veramente veramente veramente…” accentuò, deviando un altro attacco per un pelo, “veramente carino da parte tua darci una mano. Siamo su una fottuta montagna.”
Osamu, coi palmi rivolti verso il basso, agitò le dita, succhiandosi il labbro inferiore. “Non so come fare…” mormorò, sollevando la testa stralunato, quando un soffio d’aria deviò la traiettoria di una fiamma che gli avrebbe altrimenti bruciato metà faccia. Scambiò un’occhiata di ringraziamento con Hinata.
“‘Samu.”
“Non so come fare, idiota!” gridò contro suo fratello stavolta. “Queste montagne sono un casino, se sposto la pietra sbagliata qui crolla tutto.”
Chiuse gli occhi e cercò di stabilire la presa su qualcosa, ma era una rete di cause-effetto imprevedibile anche per la mente più brillante del mondo. Il fondo delle grotte era da escludere: solo per far risalire una misera pietra avrebbe dovuto sfondare le mura che la separavano dalla cima. Sarebbe stata una mossa troppo rischiosa.
“E tu sposta quella giusta,” ribatté Atsumu. Stava combattendo spalle contro spalle con Oikawa, che evocava altra acqua dalle bisacce dei nemici. In altre condizioni, Osamu avrebbe riso dell’accoppiata.
Mugi, dall’alto, mandava zaffate di aria rarefatta e Shouyou saltava leggiadro da un alto all’altro della montagna, caricando da solo o dando una mano ad Akaashi e Iwaizumi ad aumentare danno e gittata dei loro attacchi. Sembrava una danza della pioggia appena più nervosa.
E tu sposta quella giusta, aveva detto Atsumu.
L’idea brillò in quello scoppiettare di fuoco che lo circondava.
“‘Tsumu!” gridò Osamu. Invece di guardare suo fratello, però, intercettò per un attimo lo sguardo di Akaashi. “Coprimi.”
“E cosa stiamo facendo? Datti una mossa.”
Osamu pensò che suo fratello aveva imparato a combattere suppergiù cinque minuti prima e già faceva il gradasso, il che lo faceva sembrare proprio uno sfigato. Comunque si astenne dal dirlo, perché stavano combattendo e lui doveva concentrarsi.
Voltò di nuovo i palmi verso il basso e chiuse gli occhi. Vento, acqua e fuoco gli fischiavano accanto, le sentiva come si sentono quelle zanzare al buio che si riusciva a stento a ignorare in onore della stanchezza. Insultare Atsumu era il suo sport preferito, ma si fidava ciecamente di lui, erano una macchina ben oliata dalla nascita e non avrebbero mai fallito.
Iniziò a staccare pietruzze ovunque in quell’intrico di roccia che erano i monti di Zoulang, massimo dieci centimetri di diametro. Sarebbe stato in grado di sentire la roccia opporsi e minacciare di crollare sotto i loro piedi in ogni momento, concentrato com’era. Fece salire il primo gruzzolo verso l’alto e ricominciò da capo.
“Tuo fratello è più rompiscatole di te,” osservò Oikawa. Si piegò in basso per evitare il residuo di una fiammata deviata dalla coda di Mugi e trascinò Atsumu giù con sé con la mano libera. “È incredibile, siete una specie di incubo.”
“Almeno siamo in due,” Atsumu grugnì e tirò un dardo di fuoco sulla pettorina di metallo di un avversario. Questo barcollò indietro e cadde. “Tu invece sei un pacchetto unico di rotture.”
Oikawa trasformò altra acqua in ghiaccio e puntò un soldato che avrebbe bruciacchiato Atsumu alle spalle. Gli conficcò due schegge in una coscia e lo costrinse a inginocchiarsi un attimo prima che Atsumu tirasse Oikawa da parte per ricevere un attacco destinato a lui, che disperse con una vampata di fuoco a ventaglio. Gliel’aveva insegnata Iwaizumi la sera prima e gli parve assurdo che gli fosse venuta così naturale in combattimento.
Akaashi, poco più in là, lasciò cadere tutta la sua acqua. I soldati che lo circondavano si scambiarono qualche secondo di occhiate complici e risolini e si avvicinarono per catturarlo, ma l’acqua rimbalzò e Akaashi la ghiacciò mentre risaliva, solidificandola in spuntoni affilatissimi.
“Shouyou,” chiamò Osamu dalla sua zona protetta alla bell’e meglio da Atsumu e Oikawa. Hinata schivò una freccia infuocata e si voltò verso di lui. “Ti ricordi il tornado di terra?”
A Shouyou brillarono gli occhi, pareva che gli fosse stato offerto il piatto di noodles più succulento mai cucinato. Annuì energicamente e sorrise.
“Fermatevi tutti,” ordinò Osamu.
Atsumu alzò le mani all’istante, Oikawa si guardò alle spalle confuso. Akaashi esitò: non si fidava.
I soldati della Nazione del Fuoco, guidati dal comandante, si scambiarono sguardi smarriti ma soddisfatti.
Osamu chiuse gli occhi e sollevò entrambe le mani. Sembrava…
“Vi arrende…” ebbe modo di iniziare il comandante, poi Osamu allargò le braccia di scatto e le migliaia di pietruzze che aveva radunato dalle viscere dei monti di Zoulang esplosero.
Shouyou, in groppa a Mugi, riorganizzò i venti e li radunò finché anche la cenere del vulcano di Shouhon non iniziò a chiedersi se stesse soffiando nella giusta direzione. La polvere di pietre si addensò su di loro. Osamu respirò profondamente e chiuse gli occhi di nuovo.
Pensò all’eleganza con cui si era mossa Saya, alla sua capacità di sentire la terra anziché vederla, di localizzare con la polvere, di conoscere attraverso la roccia. L’acqua era vita, il fuoco era vivo, l’aria era libera, ma la terra era vita, viva e libera. Trasmetteva sicurezza e stabilità, ma era quando la si manipolava fantasiosamente che raggiungeva il massimo delle sue potenzialità. Bastava guardare i monti di Zoulang, d’altro canto. Scalfiti per secoli da vento, acqua e cenere, avevano trovato il modo di sopravvivere, di adattarsi, di mutare forma e di sfidare l’occhio di chi ci passava attraverso.
Osamu fece aderire i residui di pietra sui soldati più vicini e spinse in avanti con le mani, allontanandoli.
“Quando ve la sentite, lanciatevi nel vuoto!” gridò oltre il vento, la polvere in bocca e la confusione.
Quando percepì solo armature della Nazione del Fuoco, Osamu saltò nel vuoto. Shouyou virò con le redini di Mugi e lui atterrò sul pelo soffice del collo dell’animale. In quel momento tutta la polvere ricadde sulla cima del monte, mostrando il profilo sgargiante di una piccola mongolfiera che si posava dietro la linea difensiva della Nazione del Fuoco.
“Iwaizumi indossa… lui è ancora…” iniziò Atsumu, che aveva efficientemente già contato le teste. Iwaizumi combatteva ancora in mezzo all’esercito che aveva tradito.
“Non avevo notato che indossasse ancora l’armatura,” ammise Osamu, guardando impotente la scena.
“La mongolfiera!” gridò Shouyou.
Iwaizumi schivò la lancia di un uomo che gli si gettò addosso, gliela sfilò di mano e la scaldò, sbattendo il piatto della lama sul petto di un secondo soldato. Si voltò per seguire lo sguardo di Shouyou, identificò la cima rotonda e rossa del pallone, poi un’onda di calore gli sbocciò in petto e lo costrinse a incespicare all’indietro. Ebbe giusto il tempo di abbassare lo sguardo per notare le fiamme che si agitavano contro l’armatura.
“Nessuna pietà per i traditori!” gridò il comandante, dalla cima della montagna più alta della catena. Ricoperto di terra e sangue, fece fuoco nuovamente sulle mani di Iwaizumi, già pronte per il contrattacco. 
Il colpo lo fece arretrare ancora, oltre l’orlo della montagna.
Iwaizumi cadde nella nebbia fitta e satura di cenere. Il suono del suo corpo che fendeva il vento fu l’unico rumore che accompagnò la caduta.
Mugi ruggì e virò in picchiata, tagliando il cielo orizzontalmente per tentare di afferrarlo al volo.

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Capitolo 7
*** Kao Lai - Parte 3 ***


III. Kao Lai


“Sei proprio uno stupido,” commentò Oikawa, scuotendo la testa e scendendo seccato dalla groppa di Mugi. Iwaizumi si bloccò sul posto e lo guardò male, prima di seguirlo.
“Mica ho scelto io di cadere.”
“Sei stupido uguale.”
“Dobbiamo risalire. Quello è tutto ciò che resta dei dominatori dell’aria,” disse Shouyou.
Si erano momentaneamente nascosti nell’interno sfilacciato dei monti di Zoulang, in uno slargo di un percorso sottile scavato sul fondo di una montagna in una zona vicina al mare. Sembravano le fauci di un mostro marino: la pianta circolare era disseminata di spuntoni di pietra che si innalzavano dal basso e pendevano dall’alto come denti appuntiti, colonne sottilissime ostruivano ulteriormente la vista per dare l’impressione che la grotta fosse completamente chiusa. Attraverso le fessure di queste colonne, però, si facevano largo tenui bagliori. Si riflettevano sulla pozza d’acqua alta giusto qualche centimetro che faceva da pavimento, e rimbalzavano sulle mura attorno, colorando la grotta di una luce che aveva viaggiato abbastanza perché fosse impossibile collocarne la sorgente. Di tanto in tanto il suono costante di una goccia che cadeva nell’acqua rimbombava a sottolineare il silenzio.
“Nessuno degli altri dominatori dell’aria sa del pericolo. Ho sentito del carico sulla strada per Ba Sing Se e ho lasciato messaggi in codice ovunque, ma non si è presentato nessuno.” Hinata camminava qua e là per la grotta, il nervosismo che sporcava quell’entusiasmo naturale e lo trasformava in una carica inquinata e adrenalinica. Spostandosi creava piccole correnti d’aria che si tuffavano nell’acqua e la perturbavano in mulinelli innocui.
Atsumu fece per muovere un passo verso di lui, ma Akaashi lo tenne giù senza dire una parola e continuò a curargli una ferita superficiale con quel suo strano metodo fosforescente. “Ti ho detto di fidarti, abbiamo un piano,” disse, costringendosi a mantenere il suo sguardo, quando Shouyou si voltò. Alla fine fu Hinata ad abbassarlo per primo. “Credi che ‘Samu abbia scorrazzato in groppa a un bisonte volante per un mese nonostante il mal d’aria per niente? Ormai è la battaglia di tutti.”
“Parla per te,” Oikawa fece spallucce. “Io voglio vincere contro quegli sbruffoni della Nazione del Fuoco. Voglio che se ne vadano da Kao Lai: non fa bene al business. Non posso convertirli tutti alla sanità mentale con metodi poco ortodossi come ho fatto con questo qui.” Indicò Iwaizumi.
“Il punto è che abbiamo tutti lo stesso obiettivo,” intervenne Osamu, prima che Atsumu potesse ribattere dicendo qualcosa contro Oikawa. Non che non gli stesse completamente, assolutamente e integralmente sul cazzo, ma i loro battibecchi erano noiosissimi, a suo avviso. “Il nostro piano ha fallito perché abbiamo dirottato tutte le forze della Nazione del Fuoco sui monti di Zoulang, credendo che lo scambio sarebbe avvenuto sul litorale di Kao Lai. Quindi abbiamo dato per scontato che sarebbe arrivata una prima nave a portare il carico che non si trovava già a Kao Lai e che il carico completo sarebbe poi stato affidato a una seconda nave, che sarebbe tornata alla Nazione del Fuoco. Invece in questi minuti stanno scaricando il contenuto di una prima mongolfiera in quella che andrà alla Nazione del Fuoco. Con il nuovo piano stiamo solo cambiando mongolfiera da attaccare.”
Akaashi annuì e trasportò altra acqua luminosa sulla tibia di Atsumu. Non si era neanche accorto delle ustioni. “Questo comporta due vantaggi, per noi. Il primo è che, a differenza delle navi, le mongolfiere della Nazione del Fuoco non sono progettate per la guerra. Non dispongono di cannoni, balestre o altri dispositivi da combattimento. Il secondo è che noi in aria abbiamo più risorse e quindi più possibilità di vincere.”
 
Kao Lai era un mondo a parte.
Esisteva solo per chi si avventurava oltre la coltre fitta di lacrime di carbone, respirava solo grazie alla magia di cui si diceva fosse intrisa, veniva violata solo per la sete di conquista della Nazione del Fuoco e resisteva solo perché si era specializzata nell’unica arte al mondo che garantiva sempre la vittoria più sorprendente: gli imbrogli.
E quindi quel giorno, sotto il sole di mezzogiorno oscurato dalla fuliggine del vulcano di Shouhon, loro imbrogliarono.
In groppa a Mugi, Shouyou chiuse gli occhi. Il cielo gli gravava sulle spalle mentre, da solo in piedi sul collo dell’animale, sentiva il pelo solleticargli le caviglie, il vento riarrangiare le nuvole, la cenere frusciare e gli altri ragazzi respirare. Scandagliò il cielo misurandolo un soffio d’aria alla volta, le mani che ruotavano attorno ai polsi e le dita che si attorcigliavano a stringere il vuoto. Saltò in alto, allargò le braccia e abbracciò chilometri di etere e uccelli che migravano e si perdevano in mezzo a tutti quei residui di vulcano.
Poi la vide, aprì gli occhi di scatto e seppe che quella volta avrebbe vinto lui.
Atterrò sulla gobba del collo di Mugi, dominando l’aria sotto di lui, strinse le redini con cui gli indicava la strada, le attorcigliò attorno alle nocche finché queste non sbiancarono e deviò la rotta del bisonte.
“La vedo,” avvertì Iwaizumi e si alzò in piedi sull’ampia sella di Mugi. I contorni della fiamma stilizzata della Nazione del Fuoco si distinguevano appena oltre la pioggia di cenere che malediceva Kao Lai.
Shouyou fissò un punto della tela tesa del pallone, lo indicò, poi ruotò la mano di scatto e uno schiocco precedette di un secondo il suono acuto di una fuga d’aria.
La mongolfiera iniziò a perdere quota molto lentamente.
Più che una mongolfiera, in realtà, sembrava un dirigibile che sfruttasse lo stesso principio di funzionamento di una mongolfiera. Shouyou e gli altri dominatori dell’aria avevano sempre contato sul fatto che la Nazione del Fuoco potesse limitarsi a colonizzare ogni striscia di terra e solcare con le loro navi ogni angolo di oceano, ma il cielo sarebbe sempre appartenuto ai Nomadi dell’Aria. Ma il fatto era che con la scusa di nascondersi avevano finito per restare indietro sul progresso tecnologico del loro nemico. Shouyou realizzò con orrore che non ci avrebbero messo molto a far diventare quei bestioni delle macchine da guerra e allora il cielo, forse, avrebbero trovato il modo di bruciarlo.
Si avvicinarono all’entrata posteriore della mongolfiera. Mugi si adattò alla sua velocità di crociera e permise a Shouyou di fare pressione con le mani sulla porta di legno che isolava l’interno del lussuoso cesto inferiore. Un click segnalò il suo successo.
Dall’interno, urla concitate incalzavano gli addetti a bruciare altro gas, mentre qualcuno ordinava a qualcun altro di tirare funi come se fossero stati a bordo di una nave. Lo stretto corridoio d’ingresso curvava quasi subito, il che ostruiva completamente la vista di tutto quel trambusto.
Shouyou si voltò verso i suoi compagni di viaggio. “Voi entrate e prendete il comando della mongolfiera. Io e Mugi gestiremo l’atterraggio il più dolcemente possibile. Non si può riparare in tempo in ogni caso”
Iwaizumi e Oikawa saltarono per primi il corridoio d’aria che li separava dal cesto. Akaashi li seguì.
“Non posso intervenire,” disse Osamu a Shouyou, dando un’occhiata ai monti di Zoulang sotto di loro. “È tutto nelle tue mani.”
Hinata mandò giù con difficoltà un agglomerato denso di saliva. Forzò un sorriso e gli mostrò entrambi i pollici puntati in alto. Sperò che Osamu non captasse il nervosismo. A giudicare dal fremito esitante delle sue sopracciglia, Osamu lo captò, poi seguì Akaashi sulla mongolfiera e sparì oltre l’angolo retto del corridoio sottile.
“Vuoi che resti con te?” La voce di Atsumu era sporca di vento.
Shouyou si voltò a guardarlo, l’aria gli si infilava nei capelli e glieli scombinava. Colmò i passi che li separavano sulla sella di Mugi e sollevò un braccio per rimetterglieli a posto. Era inutile, con quel vento e tutta quella cenere, ma gli era venuta voglia di farlo. “Non mi servi mica, qui.”
Atsumu sorrise furbo. A Shouyou stavolta venne voglia di baciarlo. Quindi lo fece. Si sollevò sulle punte e gli sfiorò le labbra con le sue. Atsumu inspirò di scatto, si sporse in avanti e lo baciò davvero. Il vento si insinuava nei vestiti, rubava loro i respiri, rombava forte e manteneva il segreto.
A Shouyou sembrò che la corrente si impennasse, che tutt’attorno si acuisse come alla fine delle storie. Per anni aveva viaggiato da solo con Mugi e per anni si era fermato nei luoghi più trafficati e in quelli più remoti. Aveva incontrato occhi lattiginosi, volti stanchi, speranze accese e bottiglie vuote. Aveva dormito nel fieno, nella nebbia, nell’erba, sulla roccia e nella neve. Aveva mangiato, aveva respirato e aveva parlato, ma tutto sembrava spingerlo sempre più nella solitudine. Sembrava respingerlo. Ogni amicizia era destinata a bruciare ed estinguersi nell’arco di un paio di giorni, quando gli andava bene e poteva permettersi di fermarsi così a lungo. E quindi Shouyou prese quel bacio con l’avidità con cui ci si appropriava di una cosa rara e irripetibile, perché di lì a qualche ora avrebbero vinto o perso quella partita e tutto sarebbe finito per sempre. Forse anche Atsumu, con tutte le sue contraddizioni, sarebbe sparito per sempre, forse alla fine avrebbe truffato anche lui e si sarebbe rivelato un misero trucco del vento. E quindi, quando Atsumu si allontanò, lui lo baciò di nuovo perché Shouyou a volte non sapeva controllarsi e prendeva, prendeva, prendeva con una fame senza eguali.
“Quindi vuoi che resti con te” gli sussurrò alla fine Atsumu sulle labbra, facendo scontrare i loro nasi e sfiorandogli la fronte con la sua. Gli sorrise, un sorriso vero, uno di quelli che non sottintendevano nulla. “A me va bene, eh, non mi lamento, è molto comodo questo cielo, ci si potrebbe fare un bel progetto edi…”
Shouyou sorrise e fece un passo indietro. “Quando abbiamo vinto.”
Atsumu inclinò la testa su un lato e sollevò un sopracciglio. “Prometti?” E faceva sul serio. Era un imbroglione, aveva preso in giro mezzo anello esterno di Ba Sing Se, ma questo non escludeva che avesse dei principi. E quindi tutto quello che prometteva si cementificava e, se non era una fregatura, poi dava forma al futuro.
Hinata annuì e gli occhi di Atsumu acquistarono una sfumatura più scura. Era simile a quella che aveva visto accendersi la notte in cui l’aveva sorpreso ad allenarsi nella foresta di roccia alle porte Gaoling. Era la cosa che rendeva il suo fuoco migliore di qualunque altro, era quello che bruciava l’aria che Shouyou gli avrebbe ceduto con un sonoro fuum.
Atsumu gli soffiò un bacio scherzoso con la punta delle dita, poi seguì gli altri nella mongolfiera.
 
Dieci minuti dopo, il dirigibile atterrò con uno scossone da qualche parte sulle pendici più remote dei monti di Zoulang. Il pallone rosso si era afflosciato su un lato come un copricapo dimenticato in un armadio troppo a lungo e schiacciato dal peso del tempo e di qualche altro oggetto abbandonato.
“Trasportiamo un carico prezioso, per la maggior parte confiscato ai Templi dell’Aria, e pensavate che non fossimo preparati a un attacco aereo dei Nomadi?” Un uomo si parò loro davanti prima che potessero mettere mano alla ruota che apriva una pesante porta di legno e metallo. Aveva occhi nerissimi e capelli a spazzola dello stesso colore. Sembravano essere stati immersi nella gelatina o qualche altra sostanza appiccicosa. Qualunque cosa fosse non gli stava facendo un piacere. Forse per questo era così stressato.
Neutralizzare le guardie di più basso livello, sulla via per la sala di comando, non era stato troppo difficile. L’atterraggio di fortuna aveva già mietuto le prime vittime della paura e alcuni soldati non si erano preoccupati troppo di intrusi e pirati dei cieli: avevano preferito fiondarsi all’esterno non appena la mongolfiera aveva toccato terra. Molti di loro non erano neanche veri soldati, ma messaggeri e ingegneri, poiché quei palloni erano dispositivi nuovi e le loro potenzialità venivano ancora testate a ogni occasione utile. I più coriacei avevano provato a combattere, ma gli attacchi a sorpresa di dominatori di acqua, fuoco e terra avevano avuto la meglio prima ancora che la minaccia avesse modo di trasformarsi in sfida.
I problemi erano sorti solo a un passo dalla cabina di controllo, una mano idealmente già stretta attorno a una vittoria che sentivano di meritare, dopo tutto quel lavoro.
“Abbandonate la mongolfiera immediatamente,” li avvertì un tipo biondo, comparso dalle ombre.
Oikawa, però, ridacchiò. “Altrimenti?”
La guardia coi capelli a spazzola serrò le labbra, poi sollevò una mano scoppiettante di scatto. Oikawa era già pronto. Alzò un muro di ghiaccio con tutta l’acqua che aveva, lo spezzò in più punti e, la vittoria già certa nello sguardo, direzionò le lame verso gli avversari.
Poi accadde una cosa inaspettata. Il tempo rallentò nei secondi ripidi che la precederono, infine, come risacca, si abbatté nello spazio e sembrò accelerare.
La porta che le due guardie presiedevano si aprì con uno schianto, un uomo più vecchio e più grosso degli altri si piantò sotto il suo arco e allargò le braccia. A giudicare dalle rifiniture della sua tunica e dalla fattura dei pezzi di armatura che portava addosso, doveva essere uno importante. I capelli erano raccolti e tenuti su con un fermaglio che sembrava valere più di quanto avesse mai guadagnato lui con ogni sua predizione. Gli occhi chiari brillavano di crudeltà. Si fece avanti sicuro, distese le braccia di lato e scostò tutto il ghiaccio di Oikawa sulle pareti della cabina con due potenti fiammate, finché questo non evaporò.
“Merda,” sussurrò Iwaizumi.
“Esibizionista del cazzo,” mormorò Atsumu.
I due dominatori del fuoco scostarono Akaashi, Osamu e Oikawa e iniziarono a combattere negli spazi angusti di corridoi e leggeri slarghi della mongolfiera. La battaglia avanzava e indietreggiava lungo i passaggi stretti, prima verso l’uscita, poi verso la cabina di comando, a seconda di chi guidava momentaneamente quella danza.
“Hai dell’acqua?” domandò Oikawa ad Akaashi, lo sguardo bruciava di umiliazione, impotenza e offesa, ma lo portava con l’orgoglio di chi era sicuro che si sarebbe rifatto.
Akaashi scosse la testa e si guardò attorno, poi chiuse gli occhi più volte, sollevò le mani, infine scosse la testa un’ultima volta. “Non ne percepisco neanche.”
Oikawa si voltò verso Osamu, che gli mostrò i palmi, vagamente seccato. “Non posso toccare i monti di Zoulang.”
“L’hai già fatto stamattina.”
“Avevo tempo per concentrarmi e contatto diretto con la terra. Questo aggeggio è fatto interamente di legno e metallo, nessun dominatore della terra è capace di farci qualcosa.”
Oikawa si guardò attorno. I suoi movimenti non erano mai inutili, erano tutti calcolati, ma le pupille correvano frenetiche da un muro a un altro, come se vi apparisse a intermittenza un’iscrizione con la soluzione a tutti i loro problemi. “Be’, allora esci da qui e vai a raccogliere qualche pietra.”
“Già, mentre faccio avanti e indietro mio fratello riesce a morire sei volte,” Osamu gli si avvicinò con uno scatto, le sopracciglia aggrottate.
“Credi che l’abbia fatto apposta?”
“Credo che…”
“Ma che state facendo?!” Shouyou li raggiunse confuso, l’affanno rendeva la corsa incostante. In una mano reggeva il suo aliante. Li superò veloce e rarefatto come aria e attaccò i soldati volgendo di colpo i palmi delle mani verso di loro.
Osamu inspirò rassegnato, poi alzò gli occhi al cielo. “Al diavolo, la periferia di Ba Sing Se sarà servita a qualcosa,” e partì alla carica solo con calci e pugni.
Akaashi scambiò uno sguardo incerto con Oikawa, poi sfilò due coltelli affilatissimi da fondine invisibili legate ai passanti dei suoi pantaloni.
Oikawa invece, rimasto indietro a guardare la battaglia srotolarsi come una serie di fotogrammi, era solo un indovino. Con l’arrivo degli attacchi d’aria di Shouyou e la forza bruta di Osamu e Akaashi, l’asse del combattimento si spostò in loro favore. 
“State indietro,” avvertì Hinata, poi sollevò in alto l’aliante e lo abbatté con la punta sul pavimento di legno della struttura. Lo sollevò immediatamente e lo ruotò di novanta gradi, preparandosi a farlo roteare e sfruttare l’aria che avrebbe spostato.
Invece l’aliante si incagliò tra le pareti troppo strette dei corridoi. Shouyou sgranò gli occhi per un secondo di perplessità fatale. La Nazione del Fuoco attaccò con violenza e lui ebbe solo il tempo per mollare l’aliante e spingere indietro il fuoco con un muro d’aria.
Qualche fiamma sottile divorò il suo attacco invisibile e gli leccò le mani. Mollò la presa sull’attacco, sopraffatto dalla sorpresa per il dolore. Scosse la testa e grugnì, ristabilendo un contatto con l’aria che aveva più la costanza della difesa che l’istantaneità dell’offesa. L’esasperazione e la pazienza erano qualità che brillavano molto più intensamente in un dominatore dell’aria che nella sete della soddisfazione immediata che rincorrevano i dominatori del fuoco, ma c’era un motivo se qualcuno raggiungeva ranghi così alti in una gerarchia tanto rigida.
L’uomo anziano e grosso fece un passo, spinse con slancio le mani in avanti e una fiammata divampò e neutralizzò la difesa di Shouyou. Il ragazzo cadde in ginocchio, le mani ustionate a contatto col legno.
Atsumu, Iwaizumi, Akaashi e Osamu, dietro di lui, sollevarono le mani in segno di resa, gli sguardi ancora all’erta, ma rassegnati.
“È finita,” annunciò l’omone, con una risata fragorosa. Mosse qualche passo in avanti, come se una maledizione che gli impediva di avvicinarsi ai suoi nemici fosse stata appena sollevata e lui avesse finalmente potuto varcare un confine un tempo sacro.
Con una smorfia di dolore, ma senza lasciarsi scappare neanche un suono, Shouyou staccò le mani dal legno e le sollevò a sua volta.
Oikawa non era un indovino, era un ciarlatano. Era nato a Kao Lai per caso, ed era noto per essere l’espressione più pura della sua magia, anche se era un truffatore. L’unico talento vero che vantava era quello di saper inventare sul momento stronzate allucinanti, per giunta anche in rima, e riuscire a farsi pagare una fortuna. Tooru Oikawa era apparenza, era la sicurezza di vetro su cui si reggeva la sua intera esistenza e aveva abbandonato da anni la convinzione di essere speciale, di potersi fare spazio nel mondo magari non con il talento innato ma almeno con l’intelligenza e il duro lavoro. Lui non era speciale, lui non era destinato a grandi cose. Era nato per dare l’impressione che lo fosse, ma era un guscio vuoto. Era spaventosamente, completamente, inesorabilmente mediocre.
Però un segreto ce l’aveva davvero. Ed era spaventoso al punto che neanche l’ossessione di arrivare in alto era riuscita a convincerlo a scoperchiarlo.
L’aveva progettato una volta da bambino, sul tetto della casa in cui viveva nella periferia squallida della Tribù dell’Acqua del Nord. A quei tempi il suo sogno era diventare il dominatore dell’acqua più forte al mondo e la sua immaginazione era stata elaborata abbastanza da convincerlo che quello fosse qualcosa di più che un sogno: il futuro. È una cosa che possono permettersi i bambini e i malinconici, l’idea che i sogni si confondano e si amalgamino così bene al futuro. Ci aveva messo un anno di ostinati tentativi e alla fine ci era riuscito, il talento che era certo di possedere si era sposato allo studio di mesi e a un’intuizione semplice come tutte le cose a cui nessuno pensava mai: l’acqua era ovunque.
Aveva messo in pratica il suo esperimento e sua madre l’aveva scoperto, appena qualche anno prima che la Nazione del Fuoco spezzasse la sua vita e con lei tutti i castelli di vetro di Oikawa. Quella notte, gli aveva fatto promettere che non l’avrebbe fatto mai più. Lui le aveva dato retta, l’aveva giurato a se stesso perché aveva visto il terrore nei suoi occhi, un tipo di terrore così assoluto, così puro, che non aveva lasciato spazio neanche all’ombra dell’ammirazione che Oikawa si era aspettato quando per la prima volta aveva accarezzato l’idea. La vergogna aveva dato un nuovo colore a quel talento. Ed era marcio.
Un sospiro triste gli lasciò le labbra, quando sollevò gli occhi in quelli dell’uomo immenso che voleva vederlo inginocchiarsi. Cercò di farlo passare per arroganza.
“Oikawa, non è il momento,” gli sussurrò Iwaizumi, concitato, voltandosi quanto bastava per dare l’impressione che lo stesse guardando. “È inutile provarci. Non c’è acqua, qui.”
“L’acqua, Iwa-chan,” Oikawa sbuffò in una risata triste e alzò entrambe le mani in segno di resa. Incontrò i suoi occhi per un attimo, poi li spostò sulle tre guardie. “È ovunque.”
Sollevò le spalle e fletté le dita in avanti. I tre uomini sgranarono gli occhi, il terrore li investì e li soffocò, pareva che le loro pupille sparissero sotto il livello di un mare in tempesta, annaspando attorno a un concetto che non riuscivano a capire. Oikawa mosse le dita e loro cominciarono a muoversi a scatti contro la loro volontà. Atsumu si voltò di colpo a guardarlo, le sopracciglia aggrottate, mentre si alzava per lasciarli passare.
“Ma cos’è?” chiese Osamu, guardando la scena come se si stesse svolgendo al rovescio.
Akaashi tenne gli occhi sugli uomini che, lentamente ma inesorabilmente, Oikawa stava spingendo solo con le dita e la forza del pensiero fuori dalla mongolfiera. “Nel nostro corpo c’è molta acqua” spiegò, “in giro si dice che alcuni dominatori sappiano sfruttare questa cosa in loro favore. Lo chiamano dominio del sangue. Non è proprio… ben visto, neanche in teoria.”
I soldati abbandonarono la mongolfiera con un ultimo passo involontario, poi Oikawa chiuse la porta alle loro spalle e rimase lì, fermo davanti al suo legno scuro. “Dovreste riuscire a prendere comando della mongolfiera, adesso.”
Nessuno si mosse, però, il silenzio si allargò come le onde di una pietra lanciata in uno stagno immobile.
Oikawa si voltò a guardarli e Iwaizumi si riscosse di scatto. “Allora? Che stiamo aspettando? Hinata, tu hai il buco nel pallone da riparare.”
Shouyou si mise sull’attenti e si fiondò con un salto verso l’interno del pallone. Il resto del gruppo invece corse nella cabina di comando, di colpo indaffaratissimo.
 
“Ma perché credete che sappia governare questa cosa? Non sono io quello che ha un bisonte volante!”
“Perché, scartina,” rispose la voce di Oikawa, seccata, “altrimenti sei completamente inutile.”
“Io sono cresciuto tra due vicoli e un locale poco raccomandabile, perché dovrei saper far volare una mongolfiera della Nazione del Fuoco?”
“Puoi farcela, Atsumu!” si unì Shouyou, lanciandosi leggero da una parte all’altra dei meccanismi interni del velivolo per raggiungere il buco da riparare. Iwaizumi stava alimentando la combustione del gas.
“Sentito? Il tuo fan numero uno dice che ce la fai.”
“Oikawa.” La mongolfiera guadagnò qualche metro grazie allo sferragliare costante di Iwaizumi, il cui fuoco strisciava contro lo sportello del bruciatore e lo faceva sbatacchiare. Rumore di legno che strideva contro altro legno segnalò che Atsumu aveva mosso un po’ titubante il timone. “Appena prendiamo quota giuro che ti butto giù.”
Sobbalzarono in seguito a uno scossone, poi Atsumu raddrizzò il tiro gentilmente e i monti di Zoulang presero ad allontanarsi con crescente rapidità. Osamu attraversò il labirinto di corridoi e stive in cerca della stanza che conteneva il carico dei dominatori dell’aria. Attraverso degli oblò inseriti equidistanti sulle pareti esterne della mongolfiera, notò il paesaggio rimpicciolirsi e l’ombra scura di Mugi passargli davanti ogni volta che compiva un giro attorno al veicolo.
Si fermò davanti a una porta di legno che sbatacchiava contro l’intelaiatura al ritmo del vento, mosse un passo nella sua direzione e le assi del pavimento scricchiolarono. Aggrottò la fronte e strinse la mano attorno alla maniglia d’ottone opaco, il vociare leggero dei ragazzi dall’altra parte della mongolfiera gli arrivava attutito dagli strati di legno che lo separavano da loro. Poi ruotò la maniglia e il vento lo investì.
Sollevò una mano per parare il flusso d’aria. Si trovava su un balcone incastonato sul fondo della mongolfiera. Pareti di legno lavorato allo stesso modo degli interni contornavano l’intero spazio e ne facevano un cubicolo. Un parapetto dipinto vagamente più scuro si affacciava sul vuoto. Mughi ruggì appena più su e Osamu riconobbe la punta della sua coda abbassarsi per darsi la spinta.
Sul balcone non era solo.
Le voci erano state sostituite dal fischio permeante del vento, che lo investiva a ondate e infilava le dita irriverente nei capelli di Akaashi. Lui, affacciato alla balaustra, gli dava le spalle.
Osamu si avvicinò come se il ricercatore fosse stato un’anomalia del vento, un addensamento impossibile che avrebbe potuto svanire solo con un soffio del suo respiro.
“Non stavi cercando il carico dei dominatori dell’aria?” disse invece all’improvviso.
Osamu si stupì che l’avesse sentito e lo stupore stesso lo stupì. Era esattamente la forza invisibile che lo costringeva a gravitargli attorno. Perché Osamu semplicemente non si stupiva. Mai. Le cose le prevedeva o gli risultavano così insignificanti da non provocare alcuna reazione in lui quando poi si verificavano. Ba Sing Se era una fregatura, ma non era così sorprendente se per anni aveva sempre avuto la sensazione che qualcosa non quadrasse ma non avesse semplicemente mai avuto alcun interesse ad approfondire. A Kao Lai pioveva cenere, la guerra esisteva, aveva combattuto in un’arena e Shouyou Hinata era un dominatore dell’aria, ma nulla di tutto questo era riuscito a scalfire lo strato di calma di cui si vestiva per evitare di mettere piede fuori dalla certezza della sua testa troppo a lungo. Questo finché non si era trovato a specchiarsi negli occhi torbidi di Akaashi e vedere i suoi sgranarsi nel loro riflesso.
“E invece ho trovato te,” ribatté, appoggiandosi disinvolto anche lui alla ringhiera. Infilò l’indice della mano destra nel buco che il ghiaccio di Akaashi aveva aperto nei suoi vestiti nel bosco di Shoubei. Sembrava passata una vita.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, il suono del vento che si abbatteva sul pallone della mongolfiera sapeva essere dolce come quello di una nave che fende le acque dell’alba.
“Hai abbastanza materiale per la tua prossima favola?”
Akaashi si strinse nelle spalle e inspirò bruscamente in un fischio pensieroso. “Credo che quello che è successo si presti più all’informazione.”
“Sì.” Osamu annuì e sbuffò, cambiando posizione e appoggiandosi con la schiena alla ringhiera, a braccia conserte. Stare sull’orlo ricordava un po’ troppo il tipo di viaggio sulla schiena di Mugi e iniziava a dargli il mal d’aria. “In realtà avrei un’idea.”
Akaashi si voltò di scatto. Avere tutta la sua attenzione era un compito enorme che non era certo di saper gestire. Sembrava fragile e letale come il suo ghiaccio. Osamu si diede dello stupido e distolse lo sguardo. Lo incollò alla porta chiusa che aveva ripreso a sbattere su se stessa.
“Io vengo da Ba Sing Se. Lì molti credono che la guerra non ci sia o che sia finita da tempo, altri sono costretti a tacere. Il Dai Li, un gruppo di agenti addestrati nel dominio della terra, attacca chiunque attenti all’incolumità di questa bugia. Non so esattamente cosa accada a chi viola le leggi, ma data l’assenza di proteste e visto quanto la messinscena regge, immagino vengano messi a tacere in qualche modo.”
Akaashi piegò un sopracciglio. “Credevo che fosse la città più avanzata del Regno della Terra.”
“Lo è.” Osamu annuì, “ma è avanzata anche nel controllo della sua popolazione, immagino. In ogni caso, far entrare informazioni apertamente è del tutto impossibile, quindi stavo pensando che per una volta potresti unire favola e verità e… scrivere storie che contengano messaggi in codice su quello che accade davvero oltre le mura di Ba Sing Se. Forse non cambierà le cose, ma instillerà il dubbio in qualcuno e sarà impossibile identificare l’anello debole in un libro, quando la reazione a catena sarà così avanzata da produrre effetti rilevanti.”
Il volto di Akaashi si illuminò. Osamu pensò che fosse un po’ strano che avesse passato la vita a dividersi tra fatti storici e fantastici e non avesse mai pensato di unirli. “Si può fare,” fu la sua risposta ponderata, ma i suoi occhi brillavano.
“Potrei darti una mano. Faccio schifo a scrivere, ma so come funziona la mente della gente di Ba Sing Se, quindi…” lasciò che la mano e il resto della frase vagassero nel cielo immenso sopra Kao Lai. “E posso cucinare qualcosa tra una pausa e l’altra.” , pensò Osamu, sarcastico, poi potremmo comprare casa in campagna e circondarci di animali da compagnia e un bell’orto.
Osamu scacciò all’istante la vita bucolica che stava immaginando con filtro patetico, perché Akaashi gli stava porgendo una mano. La strinse, un po’ frastornato, e poi continuò a stringerla. Era calda, sorprendentemente – Osamu non smetteva di sorprendersi con lui, a quanto pareva –, al contrario del ghiaccio di cui si circondava. Lo guardò e sembrò l’inizio di tutti i loro incontri. Sembrava che facessero a gara a chi immobilizzava l’altro prima che potesse attaccare, sembrava che cercassero costantemente un punto debole in cui infilarsi e accendere una miccia, distruggere facciate che erano abili entrambi a costruire con meticolosa ostinazione.
Akaashi si schiarì la voce, Osamu lo imitò e gli lasciò la mano come se avesse preso una scossa a scoppio ritardato. Si impose di non arrossire, perché era una di quelle cose patetiche che faceva suo fratello e che si era ripromesso di non ereditare mai, perché non importava contro chi combatteva, Osamu lottava sempre un po’ anche con Atsumu.
“È davvero una buona idea,” ragionò Akaashi, lo sguardo vagava di nuovo nel vuoto, “come ho fatto a non pensarci prima?”
Osamu odiava Atsumu, odiava odiava odiava Atsumu, ma in quel momento cercò di imitare la sua faccia tosta. “Perché non conoscevi ancora me.”
Akaashi lo guardò un attimo soltanto, poi tornò a fissare il cielo. Gli angoli delle sue labbra si arricciarono appena in un sorriso.
 
***
 
Un paio d’ore più tardi, la mongolfiera atterrò con delicatezza sul suolo di un isolotto non lontano dal Tempio dell’Aria dell’Ovest, al largo di Kao Lai. Dalle coste scoscese a strapiombo sul mare, se si aguzzava la vista, si riuscivano a distinguere i contorni in divenire di una nube di lacrime di carbone.
Iwaizumi lasciò cadere una cassa di legno ai piedi della mongolfiera e si ripulì del sudore sulla fronte con il dorso della mano. “Questa era l’ultima.”
Shouyou gli sorrise grato e con un salto raggiunse la cassa più grande. Batté il lato di una mano su una zona fragile, dove due assi si incrociavano, e uno stridio di aria compressa anticipò la caduta di tutti i pannelli che tenevano in piedi la scatola.
Al suo interno c’erano due scatole più piccole, del tutto identiche. Legno e metalli preziosi si davano la caccia in un intrico di bassorilievi dettagliatissimi di dominatori dell’aria e simboli sacri. In cima a ognuno degli scrigni, al posto di un lucchetto, al centro, campeggiavano tre aperture simili alle campane delle trombe.
“Li apriamo e poi li riportiamo al Tempio dell’Aria dell’Ovest?” domandò Shouyou, voltandosi a intercettare gli occhi curiosi dei suoi cinque compagni di viaggio, che annuirono in fretta.
Il mare attaccò impetuoso la scogliera, rombava ostinato a dare l’impressione che bastasse una sola onda a scalfire le pareti dell’isola, eppure quella non si mosse. I capelli di Shouyou si arresero al vento, che lassù soffiava forte, padrone di tutto quel vuoto più di quanto lo fosse in cielo, dove forse il suo dominio pareva più scontato.
Sembrava il luogo perfetto per la fine di un viaggio.
Shouyou diede loro di nuovo le spalle, si sedette e fissò un punto distante della distesa d’acqua che dominava il paesaggio. Il sole faceva brillare le onde all’orizzonte. Svuotò i polmoni in un respiro lunghissimo e si portò le mani sotto al mento, allargando le dita per dividere il suo respiro in tre parti, che fece confluire nelle tre aperture in cima allo scrigno. A stento udì un click garantirgli l’accesso all’ultimo tesoro dei dominatori dell’aria.
Aprì il coperchio e sorrise raggiante al motivo di tutti quei chilometri.
“È uno scherzo?” udì Atsumu domandare, mentre si sporgeva oltre la sua spalla per dare un’occhiata.
Shouyou si voltò verso la sua voce e se lo trovò più vicino di quanto si aspettasse. Seduto sui calcagni, abbassò lo sguardo solo un attimo sulle sue labbra, prima di tornare a dedicarsi al contenuto della scatola. A Shouyou non sarebbe dispiaciuto un secondo in più di contatto di visivo, così continuò a guardarlo aggrottare le sopracciglia nel principio di un broncio. Era buffo.
“Sono… semi?”
Shouyou non staccò lo sguardo da lui, quando annuì.
“Che cosa?” domandò Oikawa in uno sbuffo divertito, avvicinandosi. “Semi, hai detto?”
“Abbiamo girato il mondo per dei semi?” continuò Atsumu, che doveva essere particolarmente sconcertato da una cosa che Shouyou trovava normalissima, se non aveva colto l’occasione per insultare Oikawa.
“Ma certo, ha assolutamente senso,” ribatté Osamu, le mani seppellite nelle tasche. Calciò una pietruzza giù dalla scogliera. Shouyou non la vide atterrare in acqua e non udì neanche il mare mangiarsela e spedirla sul fondale.
“Davvero? Sapevo che avresti capito, Osamu!”
“No, no,” anche Osamu si accovacciò e si sporse oltre la spalla che non stava occupando Atsumu. Affondò una mano nei semi, come per accertarsi che fossero reali. “Ero ironico,” sussurrò pensieroso, portandosene un paio al naso e inspirando. “Sono semi per davvero, assurdo,” commentò con fare pratico.
“Non sono solo semi, vero?” domandò all’improvviso Akaashi dalle retrovie. Shouyou si voltò a guardarlo con un sorriso enorme. Una cosa strana di Akaashi, secondo Hinata, era che sembrava impossibile riuscire a liberarlo dalla maledizione di quel cipiglio. Anche quando non ce l’aveva sembrava che ce l’avesse.
“Sì, sono solo semi!” Shouyou richiuse la scatola e il meccanismo a soffi scattò. Si tirò su, spazzolandosi i vestiti, “ma non sono solo semi, hanno un significato.”
Accolse gli sguardi non equamente divisi tra scetticismo e curiosità dei suoi nuovi amici. Akaashi pareva l’unico curioso.
“La Nazione del Fuoco non ha mai trovato queste scatole in ottantacinque anni di occupazione intermittente dei Templi dell’Aria. Non è strano?”
“È strano che gli scrigni valgano più di quello che c’è dentro,” interloquì Atsumu.
Shouyou scosse la testa. Non capiva perché non capissero. “È perché i dominatori dell’aria hanno fatto in modo che fossero difficilissimi da trovare. Hanno fatto di loro i grandi-mitici-ultimi tesori dei Nomadi dell’Aria! I semi simboleggiano la rinascita, la vita. Ogni scrigno contiene una manciata di semi delle piante più pregiate che i Nomadi hanno raccolto nei loro viaggi, ma anche di quelle più importanti da coltivare, così che, se accadesse qualcosa al mondo, i superstiti potrebbero farlo rinascere, ripopolarlo, dargli nuova vita. È una figata!”
“Ma per aprire la scatola serve un dominatore dell’aria. Ancora non capisco perché siano chiusi in scrigni così elaborati, se dentro ci sono solo dei semi,” intervenne Iwaizumi.
Shouyou scosse la testa e sorrise. “Non c’è bisogno che qualcosa sia di valore perché valga tanto.”
Mare e vento picchiarono placidi il loro assenso. Atsumu gli sorrise e Shouyou ricambiò, perché con tutte le sue ombre, Atsumu faceva davvero davvero un sacco di luce.
“Mangiamo?” offrì Shouyou e si portò due dita alla bocca per fare un fischio a Mugi, che ruggì in risposta.
 
I gemelli Miya avevano perso il conto delle volte in cui avevano detto loro che erano destinati a fallire.
C’era stato il venditore di pesce andato a male, a un paio di vie strette e malridotte di distanza dalla stanza fatiscente in cui vivevano. Il tanfo del suo pesce, alle prime luci dell’alba e col vento a favore, si infiltrava tra le aste piatte della tapparella della loro unica finestra, insieme ai primi raggi di sole, e la puzza restava a volte anche tutta la giornata. Che avrebbero fallito, gliel’avevano detto anche Ki, il fruttivendolo a cui Atsumu rubava sempre le mele, il calzolaio scemo, suo figlio ancora più scemo e la venditrice ambulante Flipper. La chiamavano così perché cambiava i prodotti che vendeva alla velocità della luce e in base a quello che si procurava per caso o per reato. Un giorno le si poteva chiedere un orologio, quello dopo una fetta di prosciutto. Il minimo comun denominatore era che non c’era comunque mai da fidarsi sul versante qualità. L’intera e pittoresca popolazione della zona in cui vivevano nell’anello esterno di Ba Sing Se si era adoperata negli anni per convincere tutti i ragazzi, in una forma di contorto senso di protezione, che nella vita avrebbero fallito e basta. Che sognare era bello, ma che non bisognava crederci troppo perché più si lottava per uscire dalla merda, più questa ti tirava giù. I gemelli Miya davano nell’occhio ed erano un’accoppiata particolarmente vivace sul fronte scippi come sul fronte casino e quindi erano più esposti di altri al mantra del fallimento.
I gemelli Miya non avevano mai dato troppo peso a quelle predizioni e non perché credessero di essere destinati a chissà quale tesoro, ma perché era impossibile disperarsi per il fallimento quando il più dorato successo a cui avessero mai aspirato era convincere l’uomo gioviale dietro il bancone della Zanna del Serpente a dar loro una birra omaggio. In realtà proprio lui, per qualche ragione, era sempre stato discretamente protettivo nei loro confronti.
Forse alla fine di quel viaggio, seduti con le gambe penzoloni oltre una scogliera che sembrava autoproclamarsi a gran voce il capolinea del mondo, il vento che fischiava e rombava e sussurrava nelle orecchie, il successo non aveva alcun valore. Restava una parola che acquistava significato solo come contrario di fallimento.
Avevano vinto alla fine e avevano fallito milioni di volte nel mezzo, a mostrare che forse un concetto estremo e conclusivo di successo non esisteva davvero. Avevano fallito quando erano stati costretti a scappare da Ba Sing Se e, assurdamente, questo aveva fatto assaporare loro la libertà. Avevano fallito quando Osamu si era avventurato nel bosco di Shoubei in cerca di legna e aveva incontrato un nemico prezioso. Avevano fallito quando Saya aveva distrutto la loro unica possibilità di mettere le mani su un mucchio di soldi utili e avevano vinto qualcosa di più importante poco dopo. Avevano fallito quando erano arrivati in ritardo al Tempio dell’Aria dell’Est ed erano stati costretti a correre a Kao Lai, ma era stato in quel momento che avevano dato il meglio di loro. Avevano fallito quando avevano speso tutti quei soldi nel modo sbagliato, stando al gioco della Nazione del Fuoco e poi poco dopo si erano riorganizzati e li avevano fatti a pezzi. Avevano fallito nel fallire, perché alla fine Atsumu aveva trovato il sole e Osamu il ghiaccio.
“Adesso che si fa?” domandò Oikawa, addentando una delle noccioline di Shouyou dalla sua scorta evidentemente illimitata. Sbadigliò prima che arrivasse il sapore un po’ stantio, poi accartocciò la faccia e tossicchiò.
“Io devo portare i semi al sicuro al Tempio dell’Aria dell’Ovest,” spiegò Hinata, ficcandosi poi una tonnellata di noccioline in bocca. Lui non sembrava avere le stesse difficoltà di Oikawa. “Poi riprenderò a viaggiare.”
“Be’, io pensavo di tornare alla Tribù dell’Acqua del Nord. Mi conviene sparire da Kao Lai per un po’.” Oikawa lasciò le noccioline che non voleva in grembo a Iwaizumi con uno scatto felino e si ripulì le mani per nascondere le prove. Lui se ne accorse in ritardo ed ebbe solo modo di soffocare una protesta e sbuffare esausto. Sfiorò gli occhi di Oikawa solo per un secondo, poi spostò lo sguardo sul mare, disinteressato.
“Mmh,” mormorò, come a dirgli che tornare al nord era una buona idea.
Oikawa invase il suo spazio personale e abbassò il capo a cercare il suo sguardo. “Vieni con me?”
“Ho delle…” Iwaizumi increspò le sopracciglia, con studiata concentrazione, “delle faccende da sbrigare…”
“Io e Iwa-chan andiamo alla Tribù dell’Acqua!” annunciò Oikawa ad alta voce a tutto il gruppo.
“Sei davvero un prepotente.”
Oikawa sollevò le sopracciglia, poi sorrise e alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo. “‘Ho delle faccende da sbrigare’, come no, non ti lasci proprio mai aiutare, tu.”
“Qualcuno deve bilanciare tutto il tuo piagnucolare,” borbottò Iwaizumi.
“Noi torniamo a Ba Sing Se,” disse invece Osamu, scambiando un’occhiata complice con Akaashi, che annuì tranquillo in risposta.
“Dobbiamo avvertire Aran, Kita e gli altri della guerra e di come stanno davvero le cose,” continuò Atsumu.
“Senza contare che probabilmente ci avranno dati per morti.”
“Non che mi manchi sorbirmi tre strigliate al giorno da Kita…”
“Gli animali selvaggi vanno addomesticati,” cinguettò Oikawa, intromettendosi.
“E i cagacazzi vanno lasciati su un’isola in mezzo al nulla, quindi tu resti a piedi,” ribatté Atsumu.
“Oooh, spaventoso.” Oikawa sgranò gli occhi e fece ondeggiare pigramente le braccia davanti a sé, in direzione di Atsumu. “Lasci un dominatore dell’acqua solo in mezzo al mare, è una tragedia, sei cattivissimo!”
Il resto dei ragazzi si alzò tra grugniti e risate (queste ultime solo di Shouyou, unicamente di Shouyou) per l’ennesimo round di battibecchi. Iwaizumi dovette scrollare il braccio di Oikawa via dal suo, dov’era attorcigliato, per riuscire nell’impresa. Raccolsero borse, provviste e tesori vari e recuperarono la mongolfiera per un ultimo giro verso ovest.
“Tu mi devi ancora un favore,” disse Osamu ad Akaashi. C’era qualcosa, nel vento che gli scompigliava i capelli, che lo rendeva più selvaggio e quindi, agli occhi di Osamu, più alla sua portata.
“Un favore?” Akaashi aggrottò la fronte. “Combattere insieme mi sembra un favore ragionevole. E in ogni caso non ti devo alcun favore, visto che il bosco di Shoubei…”
“È sempre vuoto,” concluse Osamu per lui, con un sorriso pigro.
Akaashi lo guardò come si guarda un enigma che si comprende abbastanza perché si capisca che la scelta più saggia è lasciarlo irrisolto. Tentennò, poi abbassò lo sguardo sulle sue mani, “magari ti devo una maglietta,” concesse.
Il sorriso di Osamu si allargò in furbizia. Gli strinse il polso e gli sollevò il braccio. Un buco identico a quello che aveva lui apriva una finestra su una cartina di vene blu. “Te ne devo una anch’io, credo.” Osamu abbassò il braccio di Akaashi e gli allargò il buco nella manica, facendoci entrare una mano per intrecciare le dita alle sue.
Akaashi si irrigidì giusto il tempo che gli ci volle a elaborare una cosa che non aveva previsto, poi ricambiò la stretta.
 
Qualche minuto dopo, mongolfiera e bisonte volante erano pronti per riprendere l’ultimo viaggio verso il Tempio dell’Aria dell’Ovest per svuotare il carico, prima di dividersi. Iwaizumi e Oikawa erano già saliti in mongolfiera, seguiti da Akaashi, che commentava alcune delle idee ingegneristiche della Nazione del Fuoco, facendo domande a Iwaizumi di cui lui non conosceva neanche l’ombra di una risposta.
Shouyou, invece, stava accarezzando calmo il muso di Mugi, parlandogli di cose che nessun altro avrebbe potuto sentire con tutto quel vento.
“‘Samu, stavo pensando…” Atsumu afferrò il polso di suo fratello, prima che potesse salire anche lui in mongolfiera. La porta era aperta sullo stesso corridoio buio che avevano dovuto raggiungere con un salto di centinaia di metri nel vuoto solo qualche ora prima. In quel momento invece sembrava innocuo. “Quanto pensi che ci fermeremo a Ba Sing Se?”
Osamu aggrottò le sopracciglia. Si inumidì le labbra, il vento gliele stava seccando. Era certo che stesse succedendo anche a quelle di Atsumu, ma lui non sembrava farci caso. Lì sembrava… a posto. “Che vuoi dire?” domandò cauto.
“Sì, intendo… una volta detto tutto agli altri. Quanto credi che aspetteremo prima di ripartire?”
“‘Tsumu…” Se la forza di una realizzazione avesse potuto scuotere e spaccare il mondo, l’intera scogliera avrebbe aperto una voragine così profonda e così improvvisa da non lasciare a nessuno il tempo di mettersi in salvo. Fu come specchiarsi e non vedersi riflessi. Osamu inclinò il capo su un lato e guardò suo fratello come se avesse avuto per la prima volta un volto diverso dal suo. “Ripartire?”
Ogni singolo momento chiave aprì la sua porta. Atsumu seduto sulle panchine di pietra sul retro della Zanna del Serpente. Atsumu che non si guardava indietro mentre scappavano da Ba Sing Se. Atsumu che non aveva il mal d’aria. Atsumu che non aveva mai dominato il fuoco, ma si faceva insegnare trucchi nuovi da Iwaizumi. Atsumu che delineava il piano di viaggio alle sue spalle. Atsumu che non gli chiedeva se voleva restare a Oshubi. Atsumu che bruciava gli stendardi della Nazione del Fuoco al Tempio dell’Aria dell’Est.
Si guardarono. Nel fremito delle sue sopracciglia, Osamu riconobbe che Atsumu era arrabbiato perché era ferito. “Io voglio tornare a casa, ‘Tsumu.” Era ovvio, era normale. Atsumu aveva vissuto tutta la vita in un posto in cui era un errore. Osamu aveva vissuto tutta la vita immerso nel suo elemento.
Il vento sfilacciò il silenzio. “È perché hai uno stupido progetto con Akaashi? Ti sei innamorato? È questo il punto? Non è una scelta lucida!”
“Potrei dire lo stesso di te!”
“Questa è vita, ‘Samu! Pensavo che lo volessi anche tu. Pensavo che vivere in quella merda ti stesse stretto.”
“Questo non c’entra con…” si interruppe. Sospirò. “Quando qualcosa non funziona non per forza si butta via. A volte si prova ad aggiustarla.”
Shouyou atterrò tra loro. I suoi spostamenti d’aria erano muti con tutto quel vento. “Dobbiamo ripartire! Che state…” sollevò un angolo della bocca, poi sgranò gli occhi. In un altro contesto, Osamu l’avrebbe trovato un sacco buffo. “Ehi, non litigate!”
“Io vado in mongolfiera, attenua il mal d’aria.”
Atsumu annuì, la sfida negli occhi. “Io vado con Mugi e Shouyou.”
“Va bene.”
“Bene.” Si avviarono in direzioni opposte. Shouyou rimase qualche altro attimo confuso nel mezzo, poi volò in groppa al bisonte volante. “‘Samu!”
“Che vuoi?” Osamu si voltò, seccato.
“Ti dimostrerò che sarò il fratello più felice.”
Osamu rise. La risata morì negli occhi. “Non se lo sarò io.”
 
 
A Ba Sing Se, Kita alzò lo sguardo verso il cielo terso del primo pomeriggio. Si portò una mano agli occhi per schermare la luce e scandagliò l’aria per assicurarsi di non scambiare alcun bisonte volante per una nuvola. “Vi prego, non tornate,” sussurrò a se stesso, poi aprì la porta sul retro della Zanna del Serpente per raggiungere gli altri a un tavolo con solo tre sedie.





 
Noteee: EEeeeeEEEeccoci, mi scuso per il disguido e il momentaneo monopolio di efp che ho avuto in questi intensi minuti di ripubblicazione (io lo so LO SO LO SOOO intimamente che ho commesso qualche errore. Nel caso questa fosse la vostra prima volta qui, vi lascio alle vere note.
COMUNQUE ho scritto questa storia a intermittenza per nove mesi. La maggior parte è stata scritta IN blocco e sono certa di non aver dato il meglio di me. Non posto da mesi e prima dell'ultima storia postata pure non ho postato per mesi. Mi sento iper arrugginita e questa intera fic non è per niente nel genere che scrivo di solito, quindi devo ammettere che sono terrorizzata all'idea di buttarla qui, ma ci ho lavorato tanto e voglio prendermi la soddisfazione di vederla qui, con tutti (e sono tanti, veramente un sacco) i suoi difetti.
Grazie alla Svizzera per alcuni paesaggi e alla Shilin in Cina per la foresta di pietra! E grazie a voi per aver letto veramente TUTTA questa roba, la pazienza la sopportazione la dedizione GRAZIE questa è roba tipica solo degli haters, quindi insultatemi, ve lo siete meritato!
(Grazie davvero, genteh)

El.

 

 

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