Tra Istinto e Amore

di Fiamma Drakon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pensieri in solitudine ***
Capitolo 2: *** Incontro col Destino ***
Capitolo 3: *** Conoscenza ***
Capitolo 4: *** Confessioni ***
Capitolo 5: *** Riflessioni ***
Capitolo 6: *** Passeggiata tra Diclonius e Alchimista ***
Capitolo 7: *** Tracce ***
Capitolo 8: *** Notte per due ***
Capitolo 9: *** Amore ***
Capitolo 10: *** Crepuscolo di sangue ***
Capitolo 11: *** Scoperta e addio ***
Capitolo 12: *** Oltre il vetro ***
Capitolo 13: *** Fuga ***
Capitolo 14: *** Isolamento ***
Capitolo 15: *** Parto ***
Capitolo 16: *** Localizzati ***
Capitolo 17: *** Fine ***



Capitolo 1
*** Pensieri in solitudine ***


1_Pensieri in solitudine Era tornata di nuovo lì.
Il rumore dell’acqua che cadeva, insinuandosi fra gli speroni di roccia del dirupo, la calmava molto più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Le piaceva starsene in solitudine a riflettere di tanto in tanto, isolarsi volontariamente da quel mondo dal quale già era emarginata per le sue corna, per il suo diverso DNA.
Strinse più forte le braccia attorno alle gambe e poggiò il viso sulle ginocchia, osservando tristemente la cristallina superficie del laghetto nel quale terminava la cascata.
Era sola.
Anche l’ultima Silpelit era morta ed era rimasta solo lei, l’unica Diclonius superstite in un mondo dominato dalla razza umana.
Le avevano uccise tutte, una dopo l’altra, le sue adorate Silpelit, le sue compagne, le uniche capaci di poterla realmente capire.
Ed ora che era l’unico Diclonius rimasto, cos’avrebbe fatto? Gli umani l’avrebbero rintracciata e, volente o nolente, l’avrebbero costretta a seguirli o sarebbe stata soppressa.
Il suo sguardo si soffermò sulla sua mano, che voltò in modo da poterne vedere chiaramente il palmo: chiazze di sangue.
Il suo era un passato intriso di sangue, di morti e massacri, per la sopravvivenza: fin dalla tenera età era stata emarginata e disprezzata per le sue corna, finché dentro di sé non aveva trovato il potere necessario a far emergere i suoi vettori.
Da quel momento, aveva vissuto senza provare terrore verso niente e nessuno: erano gli umani a doverla temere, non il contrario.
Era lei ad avere il potere, ad essere superiore a tutti gli altri umani, non viceversa. Finalmente aveva avuto la sua vendetta per tutto il male subito da piccola, per tutto il disprezzo nutrito dai suoi compagni dell’orfanotrofio nei suoi confronti.
Finalmente aveva avuto il controllo della sua vita, almeno, finché non era stata rinchiusa in quell’orribile laboratorio di ricerche sulla futura razza umana.
E lì aveva avuto la certezza di non essere sola al mondo, perché lì c’erano altre come lei, altre emarginate, sole e sofferenti, trattate come pezzi di carne su cui gli scienziati umani si divertivano a sperimentare i loro giochetti. Non le riservarono trattamenti di favore: solo dolore.
Dolore fisico, psicologico, emotivo, ma pur sempre dolore.
Solo mesi dopo il suo internamento aveva capito che quello non era un laboratorio: era la porta per l’Inferno.
E lei l’aveva patito, l’Inferno, per anni, senza poter far altro che sperare.
Sperare e sperare.
Poi la sua fuga e di nuovo la libertà.
Una libertà che, fino a poco tempo fa, sapeva davvero di libertà, ma che aveva assunto un retrogusto amaro dopo l’uccisione dell’ultima Silpelit.
Ora non era più libera: era braccata.
Nonostante fosse lei la cacciatrice, era divenuta preda, la più ambita preda degli stupidi esseri umani che si divertivano a torturare quelli diversi da loro.
Stupidi. Incoscienti.
Non sapevano con chi avevano a che fare: lei non si sarebbe certo fermata solo perché erano fragili esseri umani.
No, affatto: avevano sterminato le sue Silpelit, le sue fidate compagne senza farsi il minimo scrupolo.
Lei non sarebbe stata da meno: li avrebbe massacrati tutti, dal primo all’ultimo che avesse osato incrociare la sua strada.
Quegli stupidi, inutili umani...
Sospirò ancora, riportando tutta la sua attenzione al luogo dove era.
Percepiva qualcosa di diverso nell’aria attorno a sé, qualcosa di diverso dal sottile fetore ferroso del sangue rappreso sulle rocce dietro di sé.
Somigliava ad un fruscio, un impercettibile movimento d’aria alle sue spalle, qualche metro più indietro.
I suoi occhi si ridussero a due fessure che emanavano rossastri bagliori pericolosi: chiunque fosse, non gli avrebbe dato il tempo d’avvertire i compagni. L’avrebbe ucciso subito.
Si volse a fissare il punto della boscaglia dal quale sapeva sarebbe presto uscito il suo nuovo nemico. Non aveva affatto fretta: se ne stava lì, in piedi, completamente immobile a fissare le piante con disprezzo e superiorità. Nei suoi occhi c’era solo rabbia.
Una rabbia che a stento riusciva ancora a trattenere.
Una rabbia distruttrice che avrebbe vendicato tutte le sue compagne uccise.
Avvertì il consueto formicolio dei vettori che, impazienti, aspettavano di poter uscire e colpire, distruggere, squartare.
Quello era il suo potere.
Quella era la sua rabbia... la rabbia dei Diclonius.

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Capitolo 2
*** Incontro col Destino ***


2_Incontro col Destino Quel singolare fruscio divenne sempre più presente, sempre più vicino, tant’è che il suo fine udito riuscì a captare persino un respiro, regolare, sereno.
Ancora per poco.
Non si mosse, rimase ad attendere: mancavano solo pochi metri, poi sarebbe stata la fine per quello stupido umano che aveva osato raggiungerla fin lì.
I suoi vettori erano in spasmodica attesa: un ordine e sarebbero volati a sbriciolare qualsiasi bersaglio si fossero trovati dinanzi.
Erano le armi per eccellenza, ciò che ogni umano coscienzioso eviterebbe vita natural durante. Erano l’arma dei Diclonius, la forza sovrumana della razza che verrà.
Lucy rimase in attesa finché ecco arrivare a pochi passi di distanza il fruscio, seguito da quel respiro.
Le piante vennero spostate di lato per far passare un umano.
Lucy rimase ad osservare la bassa figura che si era appena materializzata davanti a lei senza riuscire a nascondere un po’ di scetticismo: era solo un bambino.
Era terribilmente basso, avrà avuto si e no dodici anni...
Aveva i capelli lunghi e biondi legati insieme da una treccia poggiata sulla sua spalla sinistra, con due grossi ciuffi che gli coprivano i lati del viso, espressivi occhi dalle iridi dorate, labbra semidischiuse in un’espressione di palese curiosità.
- Cosa ci fai qui? - domandò il ragazzo con voce molto più adulta di quella che si sarebbe aspettata da un umano di quell’età.
- Non dovresti essere qui... non sei un po’ troppo piccolo per andartene in giro da solo? - rispose Lucy in tono diffidente, rivolgendogli uno sguardo tagliente.
Il ragazzino assunse all’improvviso un cipiglio iroso e la fissò truce.
- IO NON SONO PICCOLO!!! - le urlò contro.
Forse non era il caso di ucciderlo: era solo un ragazzetto. Un po’ irritante, ma pur sempre un ragazzetto.
- Comunque non hai risposto alla mia domanda... - riprese il biondino, tornando a fissarla intensamente, impassibile.
Lucy si sentì come scannerizzata da quegli occhi perforanti. Era una sensazione spiacevole, terribilmente spiacevole, eppure c’era qualcosa di strano che la teneva invischiata in quello sguardo, impigliata a quella presenza. Era un qualcosa che non aveva mai sentito prima d’allora e che la spingeva verso quel ragazzo, inesorabilmente.
Aveva un desiderio nei confronti di quell’umano, un desiderio perverso, malsano, ma pur sempre un desiderio. Le nasceva da dentro, nel profondo. Che fosse il suo istinto di Diclonius regina? Non ne era assolutamente certa, ma lo sentiva. Era nuovo, totalmente fuori del mondo, ma non la metteva a disagio: se quello era il suo istinto alla riproduzione, allora non era totalmente fuori luogo, dato che per far prosperare la stirpe dei Diclonius avrebbe obbligatoriamente dovuto accoppiarsi con un umano.
Che fosse il Destino? Che strano modo di presentarsi: lei aveva sempre creduto che si sarebbe manifestato con un po’ più di solennità.
Chi poteva immaginare che il Destino fosse basso, biondo e indossasse vestiti che sarebbero stati molto più appropriati in un negozio d’abbigliamento d’antiquariato?
Eppure lui era lì e continuava a fissarla senza la minima paura né il minimo disprezzo.
- Sono... stavo pensando... - mormorò lei in risposta, abbassando gli occhi.
- E vieni fino a qui per pensare? Non ti sembra un po’... lontano? - chiese ancora il biondo.
Lei scosse la testa: ora si sentiva terribilmente a disagio.
- Ooooh... - lo sentì esclamare.
Alzò gli occhi, sconsolata: quell’esclamazione di sorpresa l’aveva sentita tante di quelle volte in vita sua che oramai ne aveva abbastanza. Poi, dalla sorpresa sarebbe passato al terrore, lo sapeva: era facile intuirne il motivo. L’avrebbe abbandonata, per sempre e sarebbe di nuovo rimasta sola.
- Quelle lì sono corna vere? - chiese, facendo un timido passo avanti.
- Sì... ce le ho dalla nascita... - spiegò lei in risposta: se doveva lasciarla, tanto valeva dirglielo. Se la notizia fosse trapelata altrove, non sarebbe più stata in grado di ucciderlo.
Si sorprese dell’improvvisa umanità di quel suo gesto: anche se era umano, non voleva ucciderlo. Voleva semplicemente lasciarlo andare.
Non aveva la benché minima idea del perché di un tale gesto: forse il suo istinto? O forse perché, in fondo, anche lei era capace di provare emozioni che non fossero solo odio, rancore e disprezzo?
Il biondo rimase estasiato a contemplare le sue corna per quelli che le parvero minuti interminabili.
- Belle... - esclamò.
Nei suoi occhi Lucy percepì qualcosa di simile alla venerazione.
- Che cosa sei venuto a fare qui? - chiese lei.
- Io abito qui vicino... ogni tanto vengo a fare una passeggiata... e tu dov’è che vivi? - domandò lui.
La Diclonius abbassò lo sguardo.
- Da nessuna parte... - rispose.
- Oooh... be’, se non hai un posto dove stare, puoi venire da noi! - propose il biondo, sorridendole.
Quel sorriso le scatenò dentro un tumulto di emozioni fra le quali riuscì a percepire una preponderante nostalgia: la nostalgia di qualcuno con cui parlare, confidarsi, qualcuno che non giudicasse solo dall’aspetto esteriore.
Abbassò di nuovo gli occhi: si stava facendo trascinare dalle emozioni e stava perdendo di vista l’obiettivo principale per cui i Diclonius erano nati.
Doveva distruggere la razza umana.
Però, essendo sola, aveva meno probabilità di riuscita, senza contare che era braccata dai ricercatori.
No, da sola non ce l’avrebbe mai fatta.
- Va bene... - rispose, palesemente a disagio.
Di nuovo, i suoi occhi incrociarono quelli del biondo e in essi trovarono una serenità che non riusciva a capire, ma che non le dispiaceva affatto.
- Comunque, io mi chiamo Edward... Edward Elric - si presentò lui.
- Io sono Lucy... solo Lucy - si presentò a sua volta lei con una nota di tristezza nella voce.
Lui la guardò ancora per qualche istante, perplesso, prima di scorgere il sangue sulle rocce e la sottile ma visibile strisciolina di sangue che le correva lungo il polpaccio.
- Ma sei ferita! - esclamò lui, allarmato.
- Uhm? -.
Abbassò lo sguardo: non si era accorta che era lei a perdere sangue. Non le faceva affatto male.
- È solo un taglio... - disse.
- Come solo un taglio?! Guarda come sta sanguinando!!! - esclamò Edward allarmato, chinandosi ad osservarle il polpaccio - Andiamo a casa! Dobbiamo fasciarti! - proseguì il biondo, rialzandosi, prendendola per il polso.
Lucy avvertì una vampata di emozioni susseguirsi confusamente dentro di sé, senza darle tempo di identificarle: sapeva solo che quel ragazzo non la disprezzava perché era diversa e la sua stretta, salda e delicata al tempo stesso, le trasmetteva uno strano senso di protezione.
I Diclonius non avrebbero dovuto sentirsi protetti dagli umani: avrebbero dovuto avvertire la minaccia della loro presenza. Ma quell’umano non sembrava rappresentare nessuna minaccia: sembrava essere solo molto preoccupato per la sua ferita.
A quel pensiero, la Diclonius sentì una vampata di calore invaderle il viso.
Non oppose resistenza: non voleva opporne.
Si scoprì desiderosa di pace, nonostante il profondo odio che provava verso gli umani, voleva solo un posto dove poter stare tranquilla, senza il timore di essere disprezzata né braccata.
Lo seguì, piena di speranza.
Ogni passo che metteva avanti, ne era sempre più convinta: quello era il Destino.

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Capitolo 3
*** Conoscenza ***


3_Conoscenza Edward la condusse attraverso il fitto sottobosco con decisione, fretta, voltandosi sovente a lanciarle occhiate cariche di struggente apprensione: era preoccupatissimo per lei.
Non sapeva né perché né da quanto fosse lì, da sola, né perché gli sembrasse così diffidente eppure tanto simile. L’unica cosa di cui era certo era che quella ragazza, Lucy, aveva bisogno di essere medicata.
Si volse di nuovo a guardarla: nei suoi occhi rossi scorse qualcosa che non riuscì a comprendere, qualcosa di completamente diverso dallo sguardo tagliente che gli aveva rivolto inizialmente. Affrettò il passo, tenendo salda la presa sul suo esile polso, sperando che l’auto-mail non le desse troppo fastidio.
Lucy iniziò ad avvertire la pelle della mano che Edward le teneva stretta attorno al polso più fredda, più dura. Provò a girarlo lentamente ed ebbe come l’impressione che qualcosa di più duro della semplice stretta le tenesse bloccato il polso in quella presa.
Non vi badò più di tanto, concentrata com’era ad osservare il profilo del ragazzo che la conduceva sapientemente avanti, fuori da quel bosco fitto e intricato.
Più lo osservava, più si sentiva attratta da lui.
Era strano, ma terribilmente piacevole.
Era l’unico umano che riusciva a darle una così piacevole sensazione d’agio, la sensazione che non era nata solo per sterminare la razza umana, ma anche per avere una vita normale, come tutte le persone. Non aveva mai provato sentimenti tanto positivi.
Si sentì come una persona normale, nonostante ogni volta osservasse la sua immagine, le sue corna le ricordassero la sua missione, ciò che era scritto nel suo DNA: portare la fine della razza umana.
No, non voleva ucciderlo. Era l’unico ad averla vista come una persona qualunque, una qualunque ragazza come se ne vedono tante in giro.
Ma lei era sola in un mondo dominato dagli uomini e non era come le altre. Lei era la regina dei Diclonius, l’unica Diclonius capace di riprodursi come le femmine umane.
Non era auto-discriminazione, solo la pura, semplice verità: non avrebbe mai potuto avere una vita normale. Lei e i suoi figli sarebbero stati braccati e in fuga in un mondo dove solo loro, con le loro forze, avrebbero potuto crearsi un posto in cui vivere in pace.
Perché la sua vita doveva essere così dura?
- Lucy... perché stai piangendo? -.
La voce di Edward interruppe il triste flusso di pensieri di Lucy, costringendola a tornare alla realtà: erano fermi al limitare del bosco e Edward la fissava, apprensivo, la mano ancora sigillata attorno al suo polso.
Lei non rispose, si limitò solo ad abbassare il capo in modo che i ciuffi di capelli sulla sua fronte le coprissero in parte anche il viso.
- Ti fa male la ferita? - le domandò lui, scostandole i capelli dagli occhi.
Lucy avvertì un improvviso, intenso imbarazzo, mentre la mano del ragazzo vagava sul suo viso, scostandole i ciuffi in modo da lasciar vedere il volto.
Le sorrise e lei ricambiò con un flebile cenno.
Ripresero a camminare.
Attraversarono l’aperta campagna che s’estendeva per chilometri davanti a loro, circondati da uno strano silenzio carico d’imbarazzo.

- Siamo quasi arrivati... - le disse Edward.
Avevano camminato a lungo fuori del bosco, attraverso i campi, sotto lo splendente sole mattutino.
In cuor suo, Lucy avrebbe tanto voluto prolungare quel cammino.
- AAAAAAAAAL! - chiamò il biondo.
Solo in quel momento la Diclonius s’accorse della casupola che si scorgeva sull’altura dinanzi a loro, non troppo lontano dal punto dove si trovavano.
Da dietro il piccolo muretto di pietre si erse una figura che salutò Edward con energia. Li osservò per qualche istante, prima di correr loro incontro.
S’incrociarono quando ormai solo pochi metri li separavano dal muretto.
Era un ragazzo un poco più alto di Edward, con lunghi capelli castani raccolti in una coda di cavallo alla base della testa. Avrà avuto tredici anni circa.
- Fratellone, che è successo? - domandò, rivolto a Edward.
- L’ho trovata da sola vicino alla cascata. È ferita - spiegò rapidamente il biondo.
Al la fissò per qualche istante, prima di prenderla per l’altro braccio e sospingerla verso la casa.
- Fratellone, possibile che combini sempre qualche guaio? - lo rimproverò il ragazzo.
- Non sono stato io! Perché deve sempre essere colpa mia?! - si difese il biondo, indignato.
- No... ha ragione. Sono stata io... - intervenne Lucy, pacata.
In realtà non era stata proprio colpa sua: l’avevano colpita di striscio con un proiettile mentre fuggiva.
I due fratelli si zittirono e l’accompagnarono alla casupola in silenzio.
Era piuttosto piccola come casa: un piccolo soggiorno dal quale si accedeva alla cucina, a giudicare dallo scorcio che Lucy riuscì ad intravedere, più un’altra porta.
- Vado a prendere le fasce... - disse Edward, congedandosi rapidamente dai due.
Al si sedette sulla poltrona. Lucy rimase in piedi a guardarsi intorno, confusa e imbarazzata.
- Puoi anche sederti... - le disse il ragazzo, indicandole con un cenno il divano dietro di lei.
Si sedette timorosamente, osservandosi il polpaccio sanguinante.
- Mi spiace crearvi problemi... - disse.
In effetti era vero: non voleva disturbare nessuno.
Era una Diclonius e avrebbe dovuto badare da sola a se stessa, invece di farsi aiutare dagli umani.
- Non c’è motivo di scusarsi... sei ferita - le rispose cordialmente Al - Comunque, poco fa mi sono dimenticato di presentarmi... piacere, io sono Alphonse - proseguì.
- Lucy - si limitò a dire lei.
- Sei stata fortunata ad imbatterti in mio fratello... anche se non è difficile trovarlo a gironzolare per il bosco... - disse lui.
Lucy si limitò ad abbassare lo sguardo: forse avrebbe fatto meglio a rifiutarsi di seguire Edward. Non avrebbe dovuto essere lì in quel momento, bensì in fuga da tutto e tutti.
- Quelle corna sono fissate al tuo cranio, dico bene? Sei la Diclonius... -.
Quelle parole fecero sobbalzare Lucy: lo sapevano. Sapevano cos’era, sapevano che era la ricercata, l’assassina.
Si alzò di scatto e avvertì un’improvvisa fitta alla gamba ferita: strano, non le aveva provocato dolore fino a quel momento.
Alphonse notò una stilla di paura nelle sue pupille seminascoste dall’ombra proiettata sul suo viso dai ciuffi di capelli sulla sua fronte.
- Sta’ tranquilla... mio fratello non sa nulla e non ho intenzione di farti del male né di denunciarti. La mia è solo semplice curiosità. Sei tu la Diclonius a cui sta dando la caccia mezzo mondo, dico bene? - disse il ragazzo.
Lucy fece un breve cenno col capo.
- Interessante... non fraintendermi, ma ero in un certo senso curioso di sapere che aspetto avevi... - esclamò Alphonse.
La Diclonius notò nel suo sguardo qualcosa di anomalo, un interesse strano verso di lei.
- Siediti, tranquilla... non dirò a nessuno quello che so... -.
La sua espressione mutò radicalmente in un istante: tornò allegro, senza la minima traccia di quel malsano interesse.
- Edward... poco fa l’hai chiamato “fratellone”... ma è veramente più grande di te? - domandò la Diclonius, cercando di sviare il discorso su un argomento più piacevole.
- Sì. Tutti ci confondono sempre, ma è lui quello più grande. Ha già sedici anni... io ne ho solo quattordici... - le spiegò Alphonse.
Sedici anni? Lei l’aveva scambiato per un dodicenne! Possibile che fosse così basso e avesse già sedici anni?
- L’avevi scambiato per un bambino, vero? A primo impatto può dare quest’impressione, però quando lo conosci meglio poi scopri che è molto più maturo... - le disse Al.
Lucy sorrise timidamente.
- Eccomi! Scusa se ti ho fatto aspettare ma non trovavo le fasce... - esclamò Edward, entrando nella stanza.
Si sedette accanto a lei e le prese delicatamente la gamba, ponendola sulle proprie.
Ancora una volta, Lucy percepì la differente temperatura fra la propria pelle e quella della mano destra del biondo, ma non si sottrasse al contatto: lo trovava delicato, piacevole.
Edward le ripulì pazientemente la ferita e le bendò il polpaccio, cercando di essere il più delicato e discreto possibile: si sentiva un po’ a disagio perché era la prima ragazza con la quale interagiva in modo così premuroso e, in un certo senso, intimo.
Non era certamente da lui, eppure avvertiva qualcosa dentro di sé, una specie di dovere protettivo nei suoi confronti. Le scoccò un’occhiata di sottecchi: nonostante gli sembrasse tanto forte e indipendente, non riusciva a non pensare che avesse bisogno di protezione.
Che stupido.
- Ecco fatto! - esclamò, poggiandole di nuovo la gamba a terra.
Lucy mosse la gamba per vedere se riusciva a camminare senza impedimenti, prima di riportare il proprio sguardo su Edward.
Repentina, gli afferrò il braccio destro e lo tastò: era molto più duro di qualsiasi altro braccio avesse mai toccato.
- Cosa...? - mormorò, sorpresa, lasciando la presa sul braccio e guardando Edward: il biondo aveva abbassato lo sguardo, improvvisamente triste.
- Ho... ho sbagliato? - chiese lei con quanto più tatto aveva: si sentiva colpevole, in un certo senso, anche se non sapeva di cosa.
- No... sono io quello che ha sbagliato... - mormorò lui, mentre calde lacrime iniziavano ad affiorargli ai lati degli occhi, bagnandogli alcuni ciuffi di capelli.

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Capitolo 4
*** Confessioni ***


4_Confessioni Lucy lo guardava, confusa e atterrita al tempo stesso: come “aveva sbagliato”? E dove? Perché? Lei non c’entrava le aveva detto, eppure le sembrava di essere l’unica colpevole di quell’improvviso cambiamento d’atmosfera in casa.
Con la coda dell’occhio, la Diclonius notò che anche Alphonse si era d’un tratto adombrato.
Abbassò gli occhi: forse era meglio se toglieva il disturbo. Aveva causato un guaio al quale non sapeva come porre rimedio.
Edward si tolse il guanto destro e Lucy poté vedere cosa c’era in realtà sotto: metallo, molto probabilmente acciaio, modellato e articolato in modo tale che sostituisse il suo arto.
- E... e la tua mano dov’è? - domandò, quasi timorosamente, a Edward.
Questo rimase in silenzio per alcuni istanti, prima di rispondere: - Non c’è più... -.
Lucy era sempre più confusa: che gliel’avesse strappata via un Diclonius? Se fosse stato così l’avrebbe riconosciuta immediatamente, l’avrebbe allontanata subito e suo fratello l’avrebbe denunciata appena fosse entrata nel suo raggio visivo.
No, forse i Diclonius in tutto ciò non rientravano minimamente... ma che altro poteva esistere in grado di strappare arti alle persone e distruggerli?
Edward parve riprendersi un pochino e alzò gli occhi a guardarla: nelle sue iridi, il biondo percepì confusione, rimorso, dolore.
Le sorrise amaramente.
- Dov’è andata la tua mano allora? Chi te l’ha portata via? - chiese Lucy.
Alphonse riuscì a capire dalle sue parole ciò che sembrava opprimerle l’animo: credeva che la mano e il resto del braccio destro di suo fratello gli fosse stato portato via da un Diclonius.
- Non è come pensi tu... - le disse lui, squadrandola profondamente.
Lei si volse a guardarlo istantaneamente, prima di riportare la propria attenzione su Edward.
Quest’ultimo inspirò profondamente, prima di parlare:
- È successo quando eravamo ancora bambini... abbiamo provato a riportare in vita nostra madre con una trasmutazione umana e... - il biondo s’interruppe, abbassando gli occhi.
Lucy continuò a guardarlo, profondamente scossa: anche alcune Silpelit avevano imparato l’Alchimia per cercare di riportare in vita qualche umano al quale si erano particolarmente affezionate, ma ne erano uscite distrutte fisicamente e psicologicamente, gusci vuoti senza la minima volontà di vivere, infatti erano morte poco dopo aver tentato la trasmutazione.
Edward però non le sembrava del tutto privo della volontà d’esistere: se non glielo avesse detto, avrebbe creduto che a mozzargli il braccio fosse stato un Diclonius.
Il biondo coprì di nuovo il braccio e alzò il viso verso Lucy: come Alphonse poco prima, aveva repentinamente cambiato espressione. Sembrava allegro, senza alcun pensiero.
Si alzò e la guardò di nuovo: non sapeva come spiegarselo eppure la trovava davvero bella e quelle corna le davano un aspetto così incredibilmente esotico... davvero unico.
Un attutito brontolio sostituì il silenzio che era calato nella stanza, attirando l’attenzione dei due ragazzi su Lucy, che guardava il pavimento, rossa per l’imbarazzo.
Edward rise.
- Immagino tu abbia fame... vado a prepararti qualcosa... - disse, avviandosi verso la cucina.
- Intanto che aspetti forse è meglio se ti troviamo qualcosa di meno... strappato da mettere... - le disse Al, alzandosi.
Ed, rimasto sull’uscio, si voltò a guardarla: non ci aveva fatto caso, ma i suoi vestiti erano a brandelli. Avrebbe tanto voluto essere stato più accorto e averlo notato lui, non Alphonse: avrebbe potuto starle vicino ancora un po’...
- Fratellone, che c’è? - gli giunse la domanda di Al.
Il biondo scosse la testa, liberandosi di quei pensieri.
- Niente! Vado... - rispose.
No, invece. Voleva stare con Lucy, da solo, ancora, come nel bosco.
Si mise ai fornelli, pensando costantemente a lei: avrebbe voluto poterle stare ancora accanto, loro due da soli.
Avvampò d’imbarazzo quando nella sua mente si affacciò quel pensiero assai imbarazzante sul quale non si era mai soffermato a riflettere.
Scosse il capo e cercò di concentrarsi sul pranzo, cosa che gli riuscì molto difficile proprio per l’insistenza di certi pensieri nella sua testa.
Lucy era così... particolare. Non voleva dire che era un po’ strana, né diversa: gli suonava come un’offesa. Era solo... bellissima.
Mancò poco che si affettasse una mano quando quella parola gli risuonò forte nella testa: ma perché pensava a certe cose mentre cucinava?!
Perché non riusciva a concentrarsi su quel che faceva invece di pensare ad altro?
Secondo te? Io credo che tu sia cotto...
Nella sua testa riecheggiò una vocina impertinente che lo costrinse nuovamente a spostare la propria attenzione dalla cucina ai propri pensieri.
Non è vero! Io non sono cotto...
Noooo, ma come è potuta passarmi per la testa un’idea simile... sveglia, Ed! Si vede lontano chilometri che sei stracotto!
Edward arrossì: era davvero tanto evidente?
E... e tu come fai a saperlo?
Perché io sono la tua Coscienza. Io so sempre tutto.
Ehi, non fare tanto l’aria da saputella con me! Tu non sai proprio un bel niente!
E invece sì caro mio! Io so cosa pensi quando la guardi, cosa provi, cosa desideri e ti posso assicurare che non sono così scema, come una certa persona, da non accorgermi che sei innamorato pazzo di lei. L’hai detto tu stesso, no? Hai detto che è bellissima, esotica e unica. È una prova più che sufficiente!
Ora si stava davvero stufando: possibile che non potesse avere un po’ di privacy nemmeno nei suoi pensieri?!
Ti spiacerebbe andartene a spiare i pensieri di qualcun altro? Mi stai scocciando...
Me ne vado se vuoi, ma sarò sempre qui dentro, ricordatelo.
Te ne vai sì o no?!
La sua coscienza non rispose più e Edward le fu grato di ciò, anche se trovava palesemente strano il fatto che avesse appena intavolato una discussione con la propria coscienza.
Riprese a cucinare, cercando un equilibrio psicologico che gli permettesse di cucinare senza il rischio di tagliarsi per sbaglio l’unica sua vera mano rimasta.
- Fratellone... cosa te ne pare? - domandò la voce di Alphonse dalla porta dopo quasi mezz’ora da quanto erano saliti a cercare qualcosa per Lucy.
Calmati e rimani concentrato... calmo... calmo...
Edward si volse verso la porta della cucina, cercando di mantenere i nervi saldi: era solo una ragazza.
Il suo sguardo incrociò la figura di suo fratello Alphonse, raggiante sull’uscio, dietro al quale stava lei, palesemente imbarazzata.
Sul suo snello fisico slanciato indossava una canotta nera che le stava piuttosto stretta e sottolineava in modo marcato le aggraziate curve del suo corpo. Al di sotto, indossava un paio di pantaloncini neri aderenti che spuntavano a malapena da sotto l’orlo della canotta.
Il biondo ebbe un moto di gratitudine improvviso verso Alphonse: le aveva dato una delle sue canotte e un paio dei suoi pantaloncini e le stavano un incanto.
- Le mie camicie le andavano un po’ larghe... ma direi che le tue canotte vanno bene. Cosa ne dici? - gli chiese Al, passando lo sguardo da Lucy a Edward.
- Eh... sì... bella... - si limitò a dire il biondo: ma perché non riusciva a mettere in fila parole che formassero una frase di senso compiuto?!
Lucy lo guardò, sistemandosi una ciocca fastidiosa dietro l’orecchio: era, in un certo senso, carino. I suoi occhi dorati la squadravano con un misto di adorazione e sorpresa che lei ricambiava implicitamente.
Quella sensazione di desiderio nei suoi confronti ritornò più pressante e più intensa in lei, costringendola ad un notevole sforzo di volontà per resistergli: sapeva che il suo istinto di Diclonius era troppo violento, troppo sconsiderato e non voleva causargli dolore. Il suo era un istinto troppo cruento perché potesse lasciarsi trascinare da esso e lo sapeva: era istintivamente portata allo sterminio della razza umana, al sangue, ai massacri.
Non poteva lasciarsi dominare da esso: avrebbe distrutto tutto e tutti indistintamente. Ma i Diclonius non erano solo esseri votati alla distruzione: erano dotati di un intelletto e lei sapeva che la razionalità poteva battere il suo istinto.
- Lucy è pronto! -.
La voce di Alphonse la distrasse dai suoi pensieri, facendola ritornare alla realtà.
Si guardò intorno: gli occhi dei due fratelli erano puntati su di lei, perplessi.
- Ah... - mormorò, imbarazzata.
Si sedette accanto a Edward e iniziò a mangiare.

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Capitolo 5
*** Riflessioni ***


5_Riflessioni Edward continuava a scoccarle occhiate di sottecchi, cercando di non essere visto, non riuscendo a starle così vicino senza guadarla: era letteralmente ammaliato dalla sua bellezza esotica e straordinaria.
Stava seduta impettita, osservando il piatto, senza alzare gli occhi da questo. In essi, Edward percepiva qualcosa di profondo, come intrinseche emozioni delle quali cercava disperatamente di cogliere la natura: voleva sapere tutto di lei. I suoi occhi parevano emanare una forte energia mistica che lo attraeva irresistibilmente a lei, come un magnete.
Avrebbe tanto voluto averla.
Ma cosa vado a pensare?! Ho solo sedici anni e lei come minimo ne avrà diciotto... uffa...
Non voleva essere allontanato da lei da uno stupido divario d’età. Era stupido ostinarsi a mentire con se stesso: gli piaceva. Forse troppo.
Odiava ammettere di essere vittima delle emozioni adolescenziali come un qualsiasi altro sedicenne, ma era masochistico da parte sua continuare a negarlo e, nonostante cercasse di nasconderlo, gli faceva male.
Lei era così perfetta, così bella, così irresistibilmente attraente. Lui era solo un peccatore, una bestia senza Dio che aveva tentato d’invadere il suo territorio fregandosene delle regole e dei rischi che sia lui che suo fratello avrebbero corso.
Si sentiva sporco dentro e così terribilmente diverso da lei...
Chinò lo sguardo e, avvilito, si concesse senza opporre resistenza alla depressione che minacciava di travolgerlo e che lo travolse senza pietà, trascinandolo sul fondo dell’immenso, nero specchio lacustre della sua struggente inquietudine.
Lucy non riusciva a capire perché il Destino fosse tanto gentile con lei: era una Diclonius in fin dei conti.
Era la nemica per eccellenza degli umani, che rappresentavano l’unico male da cui il mondo era afflitto. In quel preciso istante, i ricercatori del laboratorio, aiutati dal resto del mondo, le stavano davano la caccia, mentre lei mangiava assieme a quei due strani ragazzi.
Perché improvvisamente le sembrava di essere trattata diversamente da come doveva essere? Perché non riusciva ad essere felice di aver trovato qualcuno che l’accettasse pur sapendo cos’era?
Le sue Silpelit erano tutte state uccise senza pietà, massacrate senza aver mai potuto assaporare la felicità. Tutte loro erano state brutalmente trattate fin dall’infanzia, condotte alla pazzia e costrette da essa alla morte come unica via di salvezza da quell’esistenza condannata al dolore.
Gli umani si divertivano davvero così tanto a tormentare i Diclonius?
Non riusciva a capire cosa ci fosse di così esaltante nel torturare altri esseri senza alcun motivo, fino a spingerli alla morte. Non ne capiva il motivo.
Lei ne aveva uccisi così tanti per rabbia, per vendetta, che oramai aveva perso il conto.
Aveva versato tanto di quel sangue che ormai niente riusciva più ad intaccare il suo spirito.
Ogni gesto commesso contro gli umani, ogni arto strappato, ogni cadavere mutilato, l’aveva fatto per vendicare le sue Silpelit: era la regina dei Diclonius e, in quanto tale, si sentiva in un certo senso responsabile dell’orribile fine che avevano fatto le sue compagne.
E per quello non riusciva a smettere di massacrare gli umani che la cacciavano come un branco di lupi con le pecore.
Ma i Diclonius non erano prede: erano predatori e questo, gli umani, non l’avevano ancora capito.
Ecco perché si ostinavano a darle la caccia: erano ciechi. Non riuscivano a vedere l’effettivo divario che separava la razza umana dai Diclonius: troppo ampio e profondo per poterlo colmare con la sola tecnologia.
Il loro era un divario dettato dall’evoluzione. Era selezione naturale: i Diclonius erano nati per sterminare gli umani e dare origine ad una nuova razza.
Ora era lei la sola capace di portare quel fardello, perché era la sola rimasta.
Il suo sguardo si staccò dal piatto e si posò su Edward: pareva concentrato su chissà quali pensieri, pensieri che lei avrebbe tanto voluto conoscere.
Di nuovo si rafforzò in lei il desiderio di averlo e di nuovo lei lo frenò.
Con profondo rammarico constatò che erano troppo diversi per poter essere una cosa sola: nel suo DNA era inciso l’imperioso ordine di sterminio degli umani e lui era solo un innocente coinvolto nel suo scabroso compito per puro caso.
Eppure erano anche simili, molto simili, sotto alcuni aspetti: avevano ambedue un torbido passato pieno di dolore.
Ambedue avevano perso qualcosa: lui un arto, lei ogni stilla di emozione umana che aveva.
Erano ambedue provati da quel mondo che sembrava aver preso a funzionare al contrario, dominato solo da egoismo e violenza.
Che cos’altro poteva fare lei, se non adattarsi per sopravvivere?
Non aveva altra scelta se non quella di lottare per la sopravvivenza della sua specie.
Nessun’altra scelta.
Venne stretta da un’improvvisa morsa di tristezza: perché i Diclonius non potevano avere scelte alternative a quella dello sterminio? Perché non potevano avere una vita pacifica, come tutti gli umani? Perché erano trattati come feccia, come emarginati, fin dall’infanzia?
E quella morsa di tristezza di trasformò in una morsa di pura rabbia che rifluiva in lei come fiele.
Perché gli umani si credevano tanto superiori e invece erano solo bestie prive di scrupoli che si divertivano a giocare con la vita e i sentimenti altrui. Erano un male che andava eliminato per sempre dalla faccia della terra.
Non doveva rimanerne neanche uno.
Il suo sguardo si posò di nuovo su Edward: era un umano.

Altra differenza. Sostanziale.
Eppure, lui non era come gli altri umani: non riusciva, per quanto fosse arrabbiata con tutti loro, a vederlo come un effettivo nemico...

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Capitolo 6
*** Passeggiata tra Diclonius e Alchimista ***


6_Passeggiata tra Diclonius e Alchimista Il pranzo fu consumato in assoluto silenzio.
Edward fu il primo ad alzarsi e, cercando di mascherare al meglio ciò che provava, si voltò verso Lucy, la quale gli rivolse uno sguardo a metà tra il perplesso e il curioso.
- Ehm... - s’interruppe, a disagio: dannazione, ma perché non riusciva a dirle qualcosa di sensato?! - ... h-hai voglia di... fare una... passeggiata? - domandò.
Alphonse riusciva a stento a trattenere le risate: probabilmente suo fratello non se ne era accorto, ma era gradualmente passato dal rosa al rosso acceso.
Lucy rimase spiazzata dalla richiesta del biondo e, al contempo, sorpresa: non si aspettava una cosa simile proprio in quel momento.
Annuì e si alzò, facendo per seguirlo.
- Aspetta! - la fermò Alphonse.
Lei si volse, confusa, a guardarlo: per quale motivo si era intromesso nel momento che aveva tanto atteso?
- Le corna... vanno coperte. Non vogliamo certo che qualcuno inizi a parlar male di lei, non è vero fratellone...? - domandò Al, inarcando un sopracciglio in modo assai eloquente, rivolgendosi a Edward, che abbassò il proprio sguardo, palesemente imbarazzato.
Di nuovo era stato Al ad aver premura di lei, molto più di lui: non riusciva a badare a niente che non fosse il suo viso angelico, puro e innocente. Non voleva che Alphonse s’intromettesse troppo, rovinando ogni sua possibilità di riuscire nell’impresa più ardua che si fosse mai trovato ad affrontare: cercare di conquistare una ragazza.
Lucy rimase dov’era: non ci aveva pensato! Che stupida...
Le sarebbe piaciuto però che fosse stato Edward ad accorgersi della sua sbadataggine...
Al sparì oltre la soglia della cucina e riapparve poco dopo con un cappello che posò delicatamente sulla testa di Lucy, la quale lo calcò meglio sul capo. Era nero e ricordava vagamente le orecchie di un coniglio dal pelo nero con due pon pon bianchi appesi in fondo. Davvero troppo femminile.
- Eh... scusa. È il primo che mi è capitato alla mano... spero ti piaccia... - esclamò Alphonse a mo’ di scusa.
Lucy lo guardò, perplessa, troppo occupata ad osservarlo imbarazzata per notare il rapido cambiamento di Edward, che era passato dallo speranzoso spinto a strapparsi i capelli per quella che era senz’ombra di dubbio vergogna allo stato puro: quello era il cappello che si metteva sempre quando faceva terribilmente freddo, cosa che succedeva assai di rado in aperta campagna. Era così terribilmente imbarazzante...
- Fratellone... che ti succede? - chiese Alphonse, osservando stranito suo fratello, appena dietro Lucy.
Anche lei si volse a guardarlo.
Edward si calmò di botto e assunse una parvenza di comportamento normale.
- Niente... niente! - disse, cercando di dissimulare. - Eh-eh... Lucy, andiamo? - chiese, rivolto alla ragazza.
- Va bene... - rispose lei.
Uscirono da una porta sul retro e s’incamminarono giù lungo il pendio della collinetta sulla sommità della quale era la casupola dei due fratelli.
Edward continuava a scoccarle occhiate inquiete: avrebbe avuto di certo caldo con quel cappello in testa, soprattutto in una giornata afosa come quella...
Lucy osservava il selciato sotto i suoi piedi: era davvero singolare la sensazione di pace interiore che stava provando in quel momento. Era così surreale che si domandò se fosse realtà o finzione... magari un sogno troppo vivido.
Edward le camminava al fianco, silenzioso: era semplicemente incantevole, troppo per essere vero. Eppure era reale e lui ne era così felice...
Il biondo continuava ad arrovellarsi il cervello con pensieri banali sui quali era meglio che non si soffermasse troppo, ma ne era troppo preso per porsi in modo obiettivo dinanzi a certe questioni decisamente troppo materialiste per il suo essere.
- Err... -.
Non si rese neanche conto di aver parlato ad alta voce: se ne accorse solo quando vide Lucy guardarlo interrogativa.
- Sì...? - chiese lei a bassa voce.
Era così imbarazzato... possibile gli fosse tanto difficile parlare con lei?! Ma perché si faceva tutti quei complessi?!
Una parola gli riecheggiò nella testa: infatuazione.
Chissà, forse era una specie di vendetta della sua cara coscienza, eppure provò una strana sensazione a quella parola, una sensazione piacevole.
- Non... non hai caldo con quello in testa? - le chiese di getto.
Idiota, pensò fra sé e sé, di tutte le cose che poteva dirle, perché aveva scelto la più idiota di tutte?!
Lucy alzò gli occhi a guardare il cappello, calcandolo meglio sulla testa.
- No, affatto... si sta bene ed è pure carino... - disse.
Shock! Quello fu uno shock nel vero senso della parola: le piaceva?! Era il cappello più orribilmente femminile che avesse mai visto, nonostante lo tenesse caldo durante le giornate fredde. Già, che stupido: lei era una femmina...
E che femmina!
Waah! Ma a che razza di cose pensava?! Non era certo uscito a fare una passeggiata con lei per guardare quanto fosse femminile e attraente il suo corpo... no, doveva levarselo dal cervello, scordarselo totalmente.
Era lì per stare in sua compagnia, punto e basta.
Niente desideri sessuali di nessun tipo: non era quel genere di ragazzo e non era intenzionato a diventarlo proprio ora.
- Tutto bene? Mi sembri strano... -.
La voce di Lucy lo riportò bruscamente alla realtà e il suo sguardo cadde nelle iridi rosse di lei, che lo scrutavano piene di curiosità.
- No, no! Niente... hai visto che bella giornata? - chiese lui a sua volta, cercando di cambiare argomento: essere al centro della sua attenzione lo metteva terribilmente a disagio.
La Diclonius alzò gli occhi al cielo: il sole sfavillava alto nella volta celeste senza nuvole, irradiando calore e luce.
- Sì... è stupenda... - mormorò lei con una nota di palese malinconia nella voce: le belle giornate come quella la facevano sentire estranea a tutto e a tutti.
La facevano sentire come la sporca assassina che era e che sarebbe stata ancora per molto tempo, finché la razza umana non si fosse totalmente estinta.
I suoi occhi velati di un’impercettibile tristezza si posarono sulla mano d’acciaio di Edward.
- Tu la usi più l’Alchimia...? - domandò di getto, senza riflettere.
Si poggiò le dita sulle labbra, in una posizione che esprimeva perfettamente, molto meglio delle parole, il rammarico per ciò che aveva appena detto.
Erano arrivati ai piedi di una grossa quercia dai rami frondosi che gettava nella loro direzione la sua grande ombra, quasi a volerli proteggere.
Edward si fermò e Lucy accanto a lui.
Il biondo la osservò con meraviglia crescente: era così tragicamente bella in quella posizione di dolore.
Così terribilmente attraente.
Prima di riuscire a capire qualcosa di ciò che gli stava succedendo, le sue mani circondarono quelle di lei e la mano d’acciaio si poggiò delicatamente su quella che Lucy teneva vicina alle labbra.
- Lucy... - mormorò lui.
La Diclonius avvertì un moto interiore che la attraeva inesorabilmente a lui, come se umani e Diclonius fossero poli opposti elettricamente carichi.
E si sa, le cariche opposte si attraggono.
La voce con cui aveva pronunciato il suo nome era intrisa d’affetto ed ogni singola lettera era stata detta con tono così garbato e sensuale che la Diclonius ne era rimasta affascinata.
Si avvicinarono ancora un poco l’un l’altra, sfiorandosi timidamente le mani.
Non le importava affatto se l’acciaio della sua mano era freddo: le ricordava il suo stesso cuore. La sua insensibilità verso gli umani.
Ma quella mano d’acciaio era il simbolo del passato travagliato del ragazzo che aveva dinanzi.
Era il simbolo della loro somiglianza.
Sfuggì alla sua delicata presa metallica per prendergli la mano e carezzare amorevolmente il freddo acciaio, nonostante sapesse che quella mano non avrebbe potuto trasmettergli alcun senso.
- Edward... -.
Il suo nome scivolò fuori dalle sue labbra richiamato dalla carica che l’attraeva verso di lui.
Sentiva il suo seno premuto contro il duro petto del ragazzo e quel contatto era piacevole.
Assai piacevole.
In quell’istante non le importava più che lui fosse un umano e lei l’essere che avrebbe dovuto eliminarlo per sempre.
Non le importava più della missione incisa fin dalla nascita nel suo DNA.
Non le importava più della vendetta per la morte delle sue compagne.
L’unica cosa che per lei era veramente importante in quel momento erano loro due e nient’altro.
Con un movimento fluido e sincronico, le loro labbra si sfiorarono timidamente e si trovarono.

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Capitolo 7
*** Tracce ***


7_Tracce Erano quasi le sette di sera, ma non poteva assolutamente andarsene da lì: erano così vicini a rintracciarla che rimandare il tutto all’indomani sarebbe stata una vera stupidaggine.
Avevano di nuovo chiesto la collaborazione del SAT1, il quale aveva dato la propria piena adesione alla ricerca dopo esser stato messo al corrente della situazione: se l’avessero lasciata a piede libero, avrebbe cancellato dalla faccia della Terra tutti gli esseri umani. Lo sapeva, ne era certo: era nelle sue possibilità. Era la regina e come tale aveva una forza di molto superiore a quella degli altri esemplari della sua specie. Forse proprio perché era la più forte di tutti aveva resistito tanto a lungo alla caccia a livello globale contro di lei e le sue simili.
Ed era rimasta solo lei, l’ultimo esemplare di Diclonius, l’ultima possibilità per la nuova umanità di nascere.
Proprio per quello, era ancora più pericolosa: avrebbe massacrato tutti coloro che avrebbero incrociato il suo cammino non solo per vocazione genetica, ma soprattutto per vendetta.
Dovevano agire in fretta, catturarla e riportarla nel centro di ricerche: in gioco c’era il destino dell’umanità intera. Se il virus vettore si fosse sparso a macchia d’olio a causa sua e dei suoi massacri, ben presto avrebbe avuto altre Silpelit a darle man forte.
E per l’umanità, sarebbe stata la fine.
I Diclonius, gli esseri superiori scelti per rimpiazzare la razza umana, erano del tutto privi di scrupoli: fin dall’età di tre anni mostravano di avere comportamenti innaturalmente violenti ed un piacere perverso nell’uccidere le persone come fossero semplici animali, pupazzetti ai quali strappare parti del corpo.
Erano un male che doveva essere estirpato a qualsiasi costo.
E lui era l’unico in grado di poter arrivare a ciò.
- Direttore Kurama, in linea la squadra 7 - esclamò uno degli addetti ai computer, senza voltarsi.
- Passala in vivavoce - ordinò Kurama freddamente.
- Direttore Kurama, abbiamo individuato una scia di sangue che porta nell’aperta campagna fuori della capitale. Ci sono stati molte sparizioni negli ultimi giorni - comunicò la voce dall’altoparlante.
Kurama fissò gli occhi sullo schermo del computer dinanzi a sé.
È lei...
- Molto bene, mandiamo rinforzi. Non proseguite la ricerca finché non saranno arrivati - ordinò Kurama.
- Sì! - rispose l’uomo dall’altoparlante.
La comunicazione si chiuse.
E così si era diretta in campagna... sperava forse che i suoi omicidi passassero inosservati sparendo dalla circolazione, ritirandosi dove nessuno avrebbe mai pensato di cercarla?
Stupida... ora avrebbe fatto i conti con lui: se la sua Mariko era nata Diclonius, la colpa era soltanto sua e della sua razza. Se non fossero esistiti i Diclonius, sua moglie sarebbe stata ancora in vita e la sua Mariko una bambina normale, con una vita normale, priva di dolore.
Ma ormai non c’era più: era stata soppressa, assieme alle altre Diclonius del centro. Erano diventate troppo instabili, troppo violente per poter rimanere in vita.
Con l’uccisione di sua figlia, aveva perso ogni briciolo di umanità che aveva e ora viveva spinto solo dalla vendetta, dal desiderio di uccidere Lucy, la regina, la maggiore responsabile della diffusione su grande scala del virus vettore e della nascita di Mariko come Silpelit votata allo sterminio della razza umana.
Non avrebbe mai potuto dimenticare ciò che aveva provato quando aveva visto il cranio di Mariko, le sue corna, il simbolo della sua diversità, della sua non appartenenza alla specie umana.
Aveva provato l’orribile sensazione di chi ha perso tutte le speranze ancor prima di averne, di chi ha avuto una figlia e sapeva già di doversene separare, senza neanche averle dato un nome, averla abbracciata, coccolata, cresciuta.
Solo per le sue dannate corna, per il suo DNA sbagliato.
Lui odiava i Diclonius: a causa loro, sua moglie, la sua amata era morta. Aveva dato alla luce Mariko e dopo poco era morta, distrutta dalla fatica, dall’angoscia, dalla sofferenza patita per la sua piccola che non avrebbe mai potuto vivere una vita normale, come tutte le altre bambine.
Avrebbe preso Lucy: lo doveva alla sua Mariko, a sua moglie e all’umanità.
Non le avrebbe mai permesso di sopraffare totalmente il genere umano, perché era suo dovere, perché i Diclonius erano troppo violenti, troppo instabili per poter governare il mondo e... perché era la sua vendetta.
Lucy, la regina, l’ultima superstite di quella stirpe votata alla distruzione, non l’avrebbe avuta vinta.
No, mai.
Non gliel’avrebbe permesso, anche a costo della sua stessa vita.
Lo doveva alla sua Mariko...




SAT1: Special Assault Team (Squadra Speciale d’Assalto).

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Capitolo 8
*** Notte per due ***


8_Notte per due Erano già le sette, ancora nessun segno di Edward e Lucy e lui si stava irritando alquanto: aveva preparato la cena con ogni minima cura, ma loro non si erano ancora fatti vivi e odiava vedere il lavoro dell’ultima ora  andare in fumo a quella maniera.
Ma che cosa stavano facendo quei due fuori fino a quell’ora?! Se Lucy fosse stata avvistata e riconosciuta, i militari e i ricercatori che le davano la caccia sarebbero stati avvisati e in men che non si dica le sarebbero piombati addosso e lei avrebbe dovuto reagire... davanti a Edward.
Alphonse sapeva fin troppo bene cosa riusciva a suscitare le più profonde emozioni del fratello e vedere la gente uccisa ed orribilmente mutilata da una persona come Lucy era senz’altro una di quelle.
Edward odiava gli assassini, ma era palese l’attrazione che provava nei confronti di Lucy e non voleva assolutamente vedere suo fratello piegato alla tremenda realtà che si sarebbe trovato ad affrontare in un caso simile, all’inevitabile nuova concezione che avrebbe dovuto farsi di lei: un’assassina per vocazione genetica.
Lo sbattere della porta principale distrasse Alphonse dai propri pensieri.
Il ragazzo si voltò e vide arrivare sull’uscio un Edward decisamente scarmigliato e una Lucy piuttosto arrossata.
- È successo qualcosa? Perché siete arrivati così tardi? - li aggredì Alphonse, senza nascondere una certa ansia e indignazione.
- No, niente! Ci siamo un po’ trattenuti e non ci siamo accorti di che ore erano... - tentò di giustificarsi il biondo.
Al scosse il capo, esasperato: comportamento alla Ed, tipico.
- Ah, hai già preparato la cena? Meno male... ho una fame... - esclamò il biondo, prendendo rapidamente posto a tavola, senza degnare di altre attenzioni il fratellino.
Se solo Alphonse avesse prestato un po’ più d’attenzione al fratello, certamente avrebbe scorto un velo d’imbarazzo sul suo viso.
Il biondo sapeva di non farci una gran figura a comportarsi in quel modo, ma non voleva assolutamente che Al partisse con il solito terzo grado che gli faceva ogni volta che arrivava tardi, soprattutto perché non aveva intenzione di parlare con nessuno di ciò che era successo fuori.
- Tu non hai fame? - domandò Alphonse a Lucy.
Quest’ultima sobbalzò sul posto e si avvicinò al tavolo, sedendosi vicina a Edward e iniziando a mangiare.
Il ragazzo le scoccò un’occhiata di sbieco, avvampando ancora un po’: si erano baciati.
E che bacio!
Era la prima volta che baciava una ragazza e aveva trovato l’esperienza davvero piacevole: Lucy era così dolce...
Si ritrovò a pensare al suo letto al piano di sopra e scacciò il pensiero: no, non era ancora una relazione così forte, ma sotto sotto avrebbe tanto voluto che lo fosse.
E chissà com’era carina Lucy...
- Fratellone, guarda che non c’è bisogno di ingozzarsi così! Mica scappa la cena! - lo richiamò Alphonse, distogliendolo da quel pericoloso flusso di pensieri.
In cuor suo, Edward ringraziò il suo fratellino per averlo salvato dal gorgo che lo stava lentamente trascinando sul fondo del mare.
Sbatté le palpebre, come abbagliato, e si guardò intorno: suo fratello lo fissava a metà tra l’esasperato spinto e l’arrabbiato, mentre Lucy, seduta accanto a lui, mangiava a capo chino, senza alzare gli occhi dal piatto, ancora evidentemente scossa per il bacio.
- Scusa... sono stanco - disse, riprendendo a mangiare con più calma.
Menzogna che non stava né in cielo né in terra, ma cosa poteva dirgli altrimenti? Mangiava di fretta perché pensava e ripensava ad un molto probabile rapporto sessuale con Lucy? Alphonse come minimo gli avrebbe staccato la testa.
L’unica cosa che gli rimaneva da fare era mentire, anche se non gli piaceva affatto dire bugie a suo fratello.

Quando la cena fu finita, mentre Alphonse lavava i piatti, Edward richiamò con un cenno l’attenzione di Lucy, concentrata sulle ombre che s’intravedevano dalla finestra.
- Vieni ti... - s’interruppe, scacciando con veemenza il tumulto di pensieri che gli si affacciarono alla mente al pensiero di ciò che stava per dire - ... ti faccio vedere dove dormirai... - disse.
- Come? Io non posso dormire qui... vi ho già recato abbastanza disturbo... - esclamò.
- Quand’è che la finirai con questa solfa? Non ci dai alcun fastidio, anzi, è carino avere qualcun altro a far compagnia in casa! - s’intromise Alphonse, senza smettere di lavare i piatti.
Lei si alzò e seguì Edward senza aggiungere altro.
Quando ebbe varcato la porta della cucina, Al si volse per metà e sorrise di sghembo: era come una pecora smarrita, senza un posto dove andare, anche se, parlando di Diclonius, analogie del genere non si dovrebbero fare. Eppure non sembrava essere così cattiva come la descrivevano, forse semplicemente perché c’era qualcosa tra lei e Ed.
Sorrise tra sé e sé, riprendendo a lavare i piatti: forse suo fratello, da bravo gentiluomo, le avrebbe evitato di dormire sul divano...
Al piano di sopra, intanto, Edward aveva condotto Lucy lungo il breve corridoio dal quale si accedeva ad altre tre stanze.
- Non abbiamo molte camere, perciò ti cederò quella dove dormo io... - le disse Edward, aprendo la porta a destra.
Lucy riuscì ad intravedervi all’interno un letto matrimoniale.
Fece qualche passo incerto nella stanza, osservandola quasi con curiosità.
- Ma... tu dove dormirai? - domandò, voltandosi verso il biondo, ancora fermo sull’uscio.
- Giù, sul divano... - rispose con semplicità.
- E perché non fai dormire me sul divano? - chiese lei.
In poche, rapidissime falcate, Edward le fu dinanzi.
- Perché tu sei un’ospite... - disse, quasi trapassandola con lo sguardo.
Lucy indietreggiò di qualche passo e si sedette sul bordo del letto, guardando il pavimento, per poi alzare nuovamente gli occhi su Edward.
- Ti... ti dispiacerebbe dormire con me? - domandò.
Era riuscita a chiederglielo! Era riuscita a trovare il coraggio per chiederglielo!
Edward si sentiva istintivamente sospinto ad accettare l’offerta, mosso anche da certi vividi pensieri che non riusciva in alcun modo a scacciare, ma riuscì a far prevalere la ragione.
Abbassò gli occhi.
- Forse... forse è meglio se dormi da sola... - disse a bassa voce.
Lucy parve sinceramente dispiaciuta e si tolse il cappello, che poggiò sul comodino vicino a sé, per poi infilarsi sotto le coperte.
Non riusciva, per quanto si sforzasse, a distogliere lo sguardo da lei: era più forte di lui, della sua volontà di sopraffare il suo emergente istinto di maschio.
Fece qualche passo verso il letto.
- Ripensandoci... mi piacerebbe - si sentì dire.
Gli sembrava di essere in un corpo che non fosse il proprio, ma  il contatto attraverso la coperta con il corpo di Lucy era fin troppo concreto.
Camminò carponi sulla coperta, togliendosi il giubbino, gli stivaletti e i pantaloni.
Nell’oscurità che trapelava dalle finestre, scorse lo sguardo di Lucy: lo guardava, scioccata, eppure piacevolmente sorpresa.
Le strisciò accanto, sotto le coperte, tirando indietro i fastidiosi ciuffi ribelli che scappavano dalla treccia, passandole il braccio destro sul petto.
Lei lo afferrò prontamente e lo portò a cavallo del seno, voltandosi poi verso di lui.
Il biondo tracciò con il dito i contorni dei suoi seni, delicatamente, con la mano in auto-mail.
La sentì rabbrividire al contatto.
- Perdona il freddo acciaio... - sussurrò il biondo, lasciandole un caldo, affettuoso bacio sulle labbra.
Lei si puntellò su un gomito in modo da poterlo guardare bene e, piano, scivolò a cavallo del suo bacino.
Edward avvertì un’ondata di piacere diffondersi dal punto di contatto fino ad ogni sua più piccola terminazione nervosa. Era così intenso... così piacevole e coinvolgente.
Lucy gli si spalmò letteralmente sul petto, mordicchiandogli il labbro con fare provocatorio.
Edward sentì il suo seno premuto contro il suo petto, il suo ventre caldo a contatto con la sua pelle fredda, il freddo acciaio del suo auto-mail sulla schiena calda di lei.
Fu un istante e la situazione si ribaltò: Lucy sotto e Edward a cavallo del suo bacino perfetto, mentre osservava le meravigliose curve del suo corpo in ombra. Si chinò in avanti e la baciò appassionatamente, ritrovando in lei il medesimo fervore.
Si guardarono per lunghi istanti.
Poi, tutto fu confuso da un turbinio di passione travolgente...

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Capitolo 9
*** Amore ***


9_Amore Il cielo era già rischiarato dalla luce solare, quando Alphonse, ancora mezzo assonnato, scese le scale per andare a preparare la colazione e, passando davanti al divano, lo trovò vuoto, del tutto privo dei segni che avrebbero potuto dargli ad intendere che qualcuno aveva dormito lì quella notte.
Si stropicciò gli occhi e risalì le scale, attento a non cader per sbaglio ed entrò nella stanza dove solitamente dormiva suo fratello.
Qui il suo sguardo si posò immediatamente sul letto matrimoniale nel quale riuscì a scorgere due figure ancora addormentate sotto le coperte.
Il ragazzo si avvicinò e scorse Edward e Lucy, teneramente avvinghiati sotto le coperte, lui a torso nudo e lei pure.
Avvampò d’imbarazzo nello scorgere parte delle curve del seno della ragazza e indietreggiò, incerto, di qualche passo, urtando una sedia e rovesciandola, provocando abbastanza rumore da svegliarli entrambi.
- Mmmh... Al...? - mormorò Edward, assonnato, tirandosi a sedere sul letto, facendo cadere le coperte e rivelando il torso nudo.
Lucy si mise seduta a sua volta, osservando dall’altra parte del letto Alphonse che, tutto imbarazzato, cercava di rialzare la sedia e di raccogliere i vestiti che erano poggiati sopra ad essa, caduti assieme alla sedia.
Edward lo fissò, cercando di mettere a fuoco il mondo, ancora assonnato, finché la realtà non lo investì come una secchiata d’acqua gelida, risvegliandolo all’improvviso.
- AL! - urlò, facendo sobbalzare sia il fratello che la Diclonius.
- Guarda che ci sento benissimo! Che bisogno c’è di gridare così?! - lo rimbrottò Alphonse.
- Che-che cosa ci fai qui? - domandò Ed, incurante dell’osservazione del fratellino.
- Sono venuto a vedere che fine avevi fatto! Non ho visto coperte né nulla sul divano! - ribatté Al, indignato.
- Be’ io sono vivo e vegeto! Non devo certo rendere conto a te di cosa faccio! - replicò Edward.
Tutto quello strano fervore che l’animava, nasceva dal semplice fatto che si vergognava di essere stato scoperto da suo fratello lì, nello stesso letto di Lucy, a torso nudo per giunta.
- E comunque, Lucy... - disse Alphonse, senza voltarsi, gettando una maglia oltre la propria schiena - faresti meglio a metterti qualcosa addosso... Ed sta iniziando a sudare... - disse il ragazzo, prima di uscire dalla camera.
In effetti era vero: Edward avvertiva, in fondo allo stomaco, qualcosa che gli faceva sentire un caldo pazzesco.
Lucy afferrò la maglietta e si sedette sul bordo del letto, dando le spalle al biondo mentre se la metteva.
Una volta infilata, si alzò ed uscì dalla stanza, lasciando Edward da solo.
Quest’ultimo ricadde pesantemente sul cuscino, osservando il soffitto: aveva avuto il suo primo rapporto sessuale.
Non sapeva se esserne felice o dispiaciuto: in fondo in fondo si sentiva contento, però aveva anche l’impressione che fosse moralmente sbagliato.
Perché si sentiva così confuso? Era stato stupendo, aveva sentito il piacere, puro e genuino, fluirgli e rifluirgli nelle vene, irrorandolo fin nelle più piccole cellule del suo corpo.
Perché non riusciva ad accettarlo completamente, non riusciva a capirlo: forse alla sua età era prematuro... eppure quel desiderio sfrenato di passione era assopito dentro di lui da chissà quanto tempo e aveva aspettato Lucy per risvegliarsi.
Che stranezza...
Si alzò e si stiracchiò, facendo scricchiolare il braccio normale, prima di rivestirsi.
Uscì dalla camera e scese le scale stropicciandosi gli occhi per abituarli alla luce solare che entrava dalle numerose finestre, irradiando la casa.
- Ah, fratellone! Credevo che ti fossi perso! Sbrigati, altrimenti la colazione raffredda! - esclamò Alphonse, affacciandosi alla porta della cucina.
- Sì, arrivo...! - rispose il biondo.
Si avviò in cucina, dove trovò Lucy già seduta a far colazione, silenziosa, il cappello calcato sulla testa.
Si sedette accanto a lei e si mise a fare colazione in silenzio, gli occhi bassi, concentrati sul piatto che aveva dinanzi.
- Be’? Perché siete così silenziosi? - domandò Alphonse, squadrandoli dalla sua postazione vicino al lavello.
Li vedeva: erano palesemente in imbarazzo e, nonostante non sapesse il motivo preciso del rossore diffuso sulle loro guance, non poteva fare a meno di trattenersi dal ridere: erano così carini. Pensare che se suo fratello avesse scoperto la reale natura di Lucy l’avrebbe cacciata da casa seduta stante...
Però, in fondo, era meglio così: non l’aveva mai visto così calato nella parte del sedicenne in crisi ormonale, diviso tra istinto e ragione.
Appena finita la colazione, sempre seguiti da quello strano, imbarazzato silenzio, Edward e Lucy uscirono dalla cucina e da casa.
Alphonse sospirò, senza poter nascondere un sorriso.
- Mai visto Ed uscire mano nella mano con una ragazza... - mormorò, prima di iniziare a sistemare i piatti della colazione.

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Capitolo 10
*** Crepuscolo di sangue ***


10_Crepuscolo di sangue I giorni passavano, trasformandosi rapidamente in settimane.
Lucy si integrò ben presto nella sua nuova “famiglia”, anche se, ogni giorno che passava, iniziava a sentirsi sempre più strana, come se ci fosse qualcosa di anomalo dentro di lei, cosa della quale si accorsero anche Edward e Alphonse: improvvise voglie e nausee si susseguivano senza aver nessuna spiegazione, dando loro solo ulteriori motivi per preoccuparsi per lei.
A volte si rifiutava categoricamente di mangiare, altre volte aveva improvvisamente fame, altre ancora nausee e vomito, nonostante non avesse mangiato niente nella maggior parte dei casi.
E i due fratelli si preoccupavano sempre di più, non sapendo il motivo per cui si comportava così.

Erano oramai passate quasi tre settimane dalla notte che Edward e Lucy avevano passato insieme.
Quel giorno, lei aveva avuto solo un po’ di nausea alla mattina, ma poi altro e ora, assieme ad Alphonse, si apprestava a preparare la cena, mentre Edward oliava le giunture scricchiolanti degli auto-mail.
In lontananza, si scorgeva il sole che si preparava a sparire sotto l’orizzonte per dare spazio alla notte, che tingeva il cielo di meravigliose tonalità rosse-arance.
Lucy stava affettando le verdure, quando si udì distintamente rimbombare nell’aria un colpo d’arma da fuoco ed una colonna di fumo nero s’innalzò nel cielo oltre una collinetta vicina.
La Diclonius abbandonò ciò che stava facendo e si affacciò sull’uscio: ancora, un altro colpo, stavolta accompagnato da grida.
Non c’erano dubbi: erano loro.
Alphonse si sporse da dietro di lei e anche Edward arrivò in cucina.
- Che cos’è successo? - chiese.
Alphonse spostò il proprio sguardo su Lucy, incrociando quello della ragazza, improvvisamente serio.
Senza preavviso, corse fuori dalla porta, via, veloce, verso la colonna di fumo.
- LUCYYYYY! - gridò Edward, facendo per correrle dietro, ma suo fratello lo trattenne.
- No, fermati! Deve andare da sola! - esclamò Alphonse.
- COSA?! PERCHÉ? - sbraitò il biondo, cercando di divincolarsi dalla presa di suo fratello.
Quando i loro sguardi s’incrociarono, Edward notò nello sguardo di Alphonse una nota di pericolo, una specie di tacito avvertimento, misto ad un rimorso del quale non comprendeva il motivo.
- Lasciami! Devo andare da lei!! - esclamò.
- No. Tornerà - gli disse Al.
Ma Edward non gli credeva: era preoccupato, era spaventato e non voleva abbandonare Lucy.
Nel tentativo ultimo di liberarsi della presa del fratello, gli rifilò una gomitata nello stomaco tale da farlo cadere a terra, piegato in due, con un rivolino di sangue che trapelava dalle sue labbra semiaperte.
- Scusa - si affrettò a dire il biondo, prima di correre via.
- NO! FRATELLONE! - gli urlò dietro Alphonse, ma ormai non poteva più sentirlo.
Gli faceva male la pancia e riusciva a respirare a fatica. Dannazione, ma perché suo fratello era così cocciuto?! L’avrebbe vista trucidare quelle persone, l’avrebbe odiata per questo e... Lucy ne sarebbe stata distrutta.
No, non poteva permettergli di rovinare la vita né a se stesso né, tantomeno, a Lucy.
Con un notevole sforzo di volontà, nonostante il dolore all’addome, Alphonse si rimise in piedi e si ripulì il sangue sul dorso della mano, prima di uscire da casa, cercando di correre: non voleva che suo fratello scoprisse la vera natura di Lucy.
La Diclonius correva a perdifiato nell’aperta campagna, ignorando il dolore all’addome che aveva continuamente da quasi una settimana, ignorando Edward e il suo grido angosciante che ancora le riecheggiava nella testa. Potevano averla rincorsa per mezzo mondo, averla ripetutamente ferita, sia nel fisico che nel lato affettivo, ma non lì, non ora che finalmente aveva trovato qualcuno che l’amasse davvero, ignorando le sue dannatissime corna e il suo aspetto diverso.
No, non poteva permettere loro di rovinare tutto.
Doveva impedir loro di arrivare fino da Edward e Alphonse: se avessero scoperto che l’avevano ospitata, li avrebbero uccisi.
Non li aveva uccisi lei e nemmeno loro potevano permettersi di farlo.
Accelerò ancora la corsa, sentendo rifluire dentro di sé la rabbia che era rimasta sopita fino a quel momento, aspettando solo qualcuno su cui potersi sfogare.
Sì, cara. Devi ucciderli tutti. Hanno minacciato la tua famiglia.
Sì, aveva ragione. Era la Voce della Ragione.
Non farti scrupoli: uccidili tutti. Non lasciarne neanche un pezzettino...
No, non sarebbe rimasto neanche un vago ricordo della loro esistenza.
Sì, tu hai il potere di farlo. Uccidili tutti!
Li avrebbe sterminati tutti, per Edward, per Alphonse...
Ti hanno lasciata sola. Ripensa a Nana, a Mariko... loro sono morte a causa loro!
... per le sue adorate Silpelit.
Va’ ed uccidi!
Sì. Li avrebbe uccisi tutti quanti, quegli stupidi che ancora osavano resisterle.
- Eccola! FUOCO! -.
Rimase lì dov’era, perfettamente immobile, mentre i suoi vettori, potenti della rabbia che nuovamente le fluiva dentro, andavano e colpivano.
L’aria si riempì di incoerenti grida di dolore, insieme al sangue schizzato dagli arti mutilati, dai cadaveri esplosi, dai crani frantumati.
Il sangue della vendetta.
Sentiva il potere dentro di lei, la voglia di ucciderli tutti quanti.
- LUCYYY! LUCYYYYY! - gridò una voce così familiare che il suo cuore mancò un battito.
- NOOOO! EDWAAARD NOOOOO! - urlò.
Alle sue spalle comparve la figura del biondo.
Un proiettile fendette l’aria, partendo da dietro di lei e colpì Edward al fianco, ferendolo, scaraventandolo a terra.
Lei si girò di nuovo.
Lacrime di rabbia, frustrazione e odio, affiorarono nei suoi occhi.
Individuò immediatamente il responsabile dell’attacco, l’unico umano ancora in piedi.
Tutti i suoi vettori si accanirono contro il suo corpo.
Edward, ferito ma non per questo meno motivato a proteggere la sua Lucy, si puntellò sui gomiti e rivolse il suo sguardo verso di lei.
Qui, si fermò, quando notò migliaia di braccia invisibili, che lui riusciva a scorgere impercettibilmente nell’aria, si avvinghiarono attorno ad un uomo.
E quelle braccia, non c’erano dubbi, erano di Lucy.
- BASTARDO! - ringhiò la ragazza con rabbia e disprezzo nella voce.
L’uomo esplose in una pioggia di sangue.
Edward rimase scioccato, incredulo, gli occhi venati di terrore e di disgusto.
Che... che cosa era successo?

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Capitolo 11
*** Scoperta e addio ***


11_Scoperta e addio - Edward! - esclamò Lucy, vedendolo nello sforzo di mettersi seduto.
Si accostò al ragazzo, che però fece per allontanarsi da lei: nei suoi occhi, notò Lucy, c’era solo terrore.
- Che... che cosa significa? Quelle... quelle braccia erano... tue. Hai ucciso... quell’uomo. É... è esploso... - balbettò il biondo, incapace di esprimere il proprio stato d’animo.
Lucy chinò il capo.
- Edward. Io non sono umana. Le vedi queste? - si alzò appena il cappello per mostrargli un corno - Queste sono il segno della mia diversità. Io sono nata per uccidere il genere umano. Io... non volevo farti soffrire così. Non volevo che tu vedessi, perché ora sarò di nuovo sola... - spiegò.
Il biondo notò una lacrima rigarle il viso, solitaria.
Si rialzò e lo lasciò lì, a terra, sanguinante.
- Non sei ferito così gravemente. Alphonse starà arrivando. Digli che lo ringrazio per aver tenuto il segreto... addio -.
Come? Lui lo sapeva? E l’aveva accettata in casa ugualmente? Perché lui era sempre l’ultimo a sapere le cose?
Quell’improvvisa scoperta gli faceva male al cuore, molto più male del proiettile ancora conficcato nel suo fianco.
L’aveva amata così tanto e l’aver scoperto che in realtà lei era un’assassina per vocazione genetica lo stava dilaniando, come centinaia di aghi conficcati nel suo cuore addolorato.
Si stava allontanando ancora, stava marciando verso gli uomini che, sfocati, riusciva a distinguere in lontananza, davanti a lei.
Stava marciando dritta verso altri che sarebbero morti, come quelli prima di loro.
Edward, con un notevole sforzo di volontà, nonostante il dolore emotivo e fisico, cercò di rimettersi seduto, poi in piedi.
Sentiva il sangue bagnargli i vestiti, ma non gl’importava.
- Fratellone! Oddio sei ferito! - esclamò la familiare voce di Alphonse.
Il fratellino accorse da Edward e lo sorresse, mentre questo cercava di mettersi in piedi.
- Cosa ti è success...? -.
- TU LO SAPEVI?! -.
Il grido isterico di Edward lo colpì come uno schiaffo, seguito immediatamente da un pugno che lo mandò steso a terra.
- FRATELLONE MA CHE TI È PRESO?! -
- TU LO SAPEVI! SAPEVI COS’ERA LUCY E NON MI HAI DETTO NIENTE, NON È VERO?! -.
Fu peggio di qualsiasi reazione si potesse immaginare da parte di suo fratello: Edward era lì, tremante, che si reggeva in piedi a fatica, un fianco trapassato e sporco di sangue, il viso basso e lacrime, tante lacrime, che gli rigavano silenziose le guance sporche di fango, esprimendo meglio di qualsiasi parola tutto il suo dolore e la sua frustrazione.
Era penoso: come potevano esistere emozioni così forti da distruggere una persona fino a ridurla in quello stato?
Alphonse lo guardava dal basso, sorpreso da una reazione così profonda, così negativa: si era aspettato qualcosa di pessimo, ma non immaginava un dolore simile.
- Fratellone... se te l’avessi detto, tu l’avresti amata allo stesso modo o l’avresti trattata da emarginata quale era? Perché lei non è altro: è un’esclusa dal mondo, è braccata per la sua diversità. Tu cos’avresti fatto se avessi saputo cos’era davvero, fin dall’inizio? - gli domandò Alphonse, rialzandosi.
Edward era confuso, era distrutto, ma quelle parole riuscirono a riportare un barlume di luce nella sua mente.
Che cos’avrebbe fatto? Non poteva saperlo. E come poteva? Era così offuscato dal caos che si era d’improvviso impossessato di lui che non riusciva a pensare lucidamente.
Non riusciva a credere che lei fosse realmente un’assassina, nonostante avesse ammazzato un uomo lì, davanti ai suoi occhi, pochi istanti prima.
Non rispose: rimase in silenzio, lasciandosi trasportare sul fondo di un nero specchio lacustre con la speranza di non riuscirne mai più, perché lì fuori era vulnerabile al dolore.
Alphonse lo fissava, attendendo una risposta che non arrivò.
- Visto? Non sarebbe cambiato niente. Avrebbe subito il medesimo trattamento che tanti prima di te le avevano già inflitto - disse, con una punta di risentimento nella voce.
In lontananza, si sentirono riecheggiare grida convulse e nell’aria apparvero scie di sangue.
Poi, un grido che pareva più simile ad un gemito riecheggiò al di sopra degli altri e Edward lo riconobbe.
Come non riconoscerlo: Lucy.

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Capitolo 12
*** Oltre il vetro ***


12_Oltre il vetro Edward si volse di scatto: quella era la voce di Lucy, impossibile da non riconoscere per lui, che l’aveva udita così tanto e così a lungo.
Alphonse si girò assieme al fratello e ambedue corsero verso il luogo dello scontro, veloci, incuranti del dolore, preoccupati solo per la persona che aveva appena gridato.
Edward avvertiva il fianco mandargli acute fitte ad intermittenze frequenti, che gli offuscavano la vista per il  dolore, ma non gl’importava: era preoccupato per Lucy.
Era strano eppure, nonostante sapesse che era un’assassina, non poteva fare a meno di preoccuparsi per lei.
Non riusciva a farne a meno.
I due fratelli giunsero sul luogo e qui si fermarono: il campo di battaglia, un lago di sangue che bagnava l’erba, disegnandovi sopra tracce che si intrecciavano tra loro e, abbandonati sopra il prato, arti e cadaveri mutilati orribilmente.
A Edward prese d’improvviso una profonda nausea che ricacciò indietro con fatica, mentre scrutava il prato alla ricerca di Lucy.
Poi vide una capsula e, rinchiusa dentro, Lucy, rannicchiata sul pavimento, tremante, sofferente.
- LUCY! - gridò il biondo, correndo attraverso il sangue, fino a raggiungerla.
Quando le fu accanto, poté notare, vicino a lei, una chiazza che somigliava orribilmente a vomito.
No, che era inequivocabilmente vomito.
Si era sentita di nuovo male.
Una fitta acuta di preoccupazione lo trapassò.
Sfiorò il vetro che lo separava da lei, guardandola.
- Lucy... - mormorò ancora.
Lei socchiuse debolmente gli occhi e lo guardò: in quello sguardo, il ragazzo percepì un dolore così forte, così profondo che si sentì partecipe in prima persona di esso.
- Allontanati da lei, ragazzo. ORA! -.
Una voce attirò la sua attenzione, costringendo ad abbandonare il contatto visivo con Lucy per guardare un uomo che gli puntava contro una pistola.
- Che cosa vuole? - gli ringhiò contro il biondo.
- Lei non è umana. Potrebbe essere la fine per te se le stai così vicino. Vattene moccioso! -
- E chi è lei per dirmi di andarmene? Io rimango con Lucy! -.
L’uomo parve visibilmente scioccato.
- Come fai a conoscerla? PARLA! -
- Non sono affari che la riguardano! La liberi! ORA! - ribatté il biondo, visibilmente adirato.
- Non posso. Ucciderà tutti -
- Non lo vede che sta male?! Non ha neppure la forza di reggersi in...! -.
Il suo sguardo cadde su Lucy, che si era sollevata, tremante e si era appoggiata contro il vetro, guardandolo con occhi pieni di lacrime.
Il ragazzo si sentì trafiggere da quelle lacrime come da spunzoni roventi.
- Stai indietro - gli intimò di nuovo l’uomo, ma Edward lo ignorò.
- Lucy... non ti preoccupare, andrà tutto bene... ti farò uscire -.
Uno sparo.
Edward ebbe solo il tempo di avvertire il riecheggio del colpo nell’aria, prima che qualcosa lo spostasse di lato, facendolo cadere dietro la capsula di Lucy.
Steso a terra in quella posizione, riuscì a scorgere qualcosa che prima non aveva mai notato: Lucy aveva qualcosa, una specie di piccola protuberanza nella pancia e quel particolare gli aprì gli occhi.
Nausee e voglie improvvise e quella stranissima, per ora piccola protuberanza.
Il ragazzo ebbe un flash istantaneo: e se Lucy fosse...!
Edward si puntellò sui gomiti e si volse a guardare cos’era successo.
Il sangue gli si gelò nelle vene: a terra, sanguinante, ai suoi piedi, c’era Alphonse.
- AAAAAAAAAAAL! - gridò, arrancando come meglio poteva verso il fratello.
Non era morto, grazie al cielo, ma era stato colpito alla spalla, che sanguinava copiosamente.
- Questo era un avvertimento. La prossima volta mirerò al cuore. Andatevene! - ribadì l’uomo.
Edward lo squadrò con odio profondo: aveva rinchiuso la sua Lucy in quella dannatissima capsula quando aveva più bisogno di lui e aveva attentato alla vita di suo fratello.
- Basta - sussurrò.
Rapido, deciso, congiunse le mani e toccò la capsula.
Il vetro si sciolse in acqua e Lucy cadde fuori da essa, esanime, respirando a fatica.
Il biondo la prese dolcemente in grembo, mentre Alphonse si rialzava faticosamente, cercando di fermare l’emorragia.
- FERMI! - gridò l’uomo.
Uno, due, tre colpi.
Nessuno di loro fu preso, per fortuna.
Alphonse, nonostante la vista offuscata dal dolore e la consapevolezza del rischio che avrebbe corso, si fermò e si volse indietro, congiungendo a fatica le mani e puntandole a terra.
Dal contatto si sprigionò un’ondata di sfavillanti scintille azzurre e una scia di ghiaccio che raggiunse l’uomo, congelandogli le gambe.
- AL! - gridò Edward, preoccupato, girandosi indietro quando si accorse di suo fratello.
Alphonse riprese a correre dietro al biondo, ansimando per lo sforzo e il dolore causatogli dalla ferita.
- Fratellone... dobbiamo andarcene... - mormorò.
Edward abbassò lo sguardo su Lucy.
- Sì... lo so... -.

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Capitolo 13
*** Fuga ***


13_Fuga Edward e Alphonse, con Lucy, arrivarono finalmente a casa.
Qui, Alphonse andò di sopra a preparare le valigie, mentre Edward adagiava delicatamente la Diclonius sul divano.
Lei lo guardò.
- Edward... - sussurrò labilmente.
- Lucy... non so se già ne eri consapevole ma... tu sei incinta. E molto probabilmente, è colpa mia... - le disse il biondo con quanto più tatto riuscì a trovare.
Era così strano parlare di un argomento del genere con così tanta calma, come fosse una cosa di tutti i giorni.
Lei non mostrò il minimo accenno di sorpresa, si limitò solo a sorridergli labilmente.
- Non fartene una colpa... è bello. Avrò qualcuno da coccolare... non gli farò mancare nulla... - mormorò.
Era ammirevole, semplicemente ammirevole: nonostante fosse così giovane, aveva già un così spinto istinto materno.
E lui?
- Io starò accanto a te... - mormorò lui di gettò, dandole un caldo e innocente bacio sulla guancia.
Lei gli sorrise ancora, prima di chiudere gli occhi e cadere addormentata.
- Al! - chiamò Edward.
- Sì, fratellone, ho quasi fatto! - gli giunse la risposta del fratello dalle scale.
Lui si sedette accanto a Lucy, tenendole la mano, carezzandole la pelle.
Non riusciva a capire come avesse anche solo potuto immaginare di odiarla.
Io non sono umana...
E allora? Cosa gl’importava che non fosse umana? Era la ragazza più bella che avesse mai incontrato, era la più incredibile di tutte, nonostante fosse un’assassina per vocazione genetica.
Non riusciva a concepire l’odio nei suoi confronti, qualsiasi cosa potesse fare o dire.
Era semplicemente lei, perfetta in ogni sua più piccola parte.
Alphonse scese pochi istanti dopo trasportando due grosse valigie strapiene di roba.
- Fratellone, andiamo? - chiese.
Il biondo annuì e, delicatamente, prese Lucy in grembo, cercando di non svegliarla, calcandole bene il cappello in testa e avvolgendola in una coperta che suo fratello prese da una delle due valigie, poi, insieme, si avviarono verso l’uscita della casa.
Ancora non sapeva come avrebbero fatto ad andarsene da lì senza farsi vedere da nessuno, ma dovevano farlo: la meta era già stabilita e lì, senza tracce del loro arrivo né della presenza di Lucy, lei avrebbe potuto avere una gravidanza tranquilla e lui avrebbe potuto starle dietro senza preoccuparsi di essere scovati.
Sì, non c’era altra soluzione: dovevano fuggire.
Una nuova fitta al fianco gli ricordò del proiettile conficcato in esso e di quello nella spalla di suo fratello che, nonostante tutto, pareva essersene totalmente dimenticato.
Lucy dormiva, pallida, distrutta.
Non avrebbe permesso a nessuno di toccarla prima d’essere passato sul suo cadavere. L’avrebbe protetta a qualsiasi costo, avesse anche dovuto sacrificare la propria vita per lei, perché voleva dare alla luce bambini ai quali poter regalare l’affetto che lei non aveva mai ricevuto.
Non era un proposito sbagliato, affatto: era più che legittimo. Aveva sofferto per così tanto tempo, che un po’ di felicità la meritava anche lei, in fondo.
Edward e Alphonse arrancavano velocemente lungo il sentiero che conduceva verso la città.
Lo sapeva che lì non sarebbero passati inosservati, due ragazzi con una ragazza addormentata, però dovevano, se volevano raggiungere il prima possibile il loro nascondiglio.
 Alphonse iniziava a sentire nuovamente il dolore alla spalla, posta sotto uno sforzo ancora precoce per la portata della ferita, ma che era disposto a sopportare per Lucy e suo fratello: aveva visto il dolore negli occhi di Edward quando gli aveva parlato, aveva visto la preoccupazione deformargli il viso al grido di Lucy.
Lui l’amava ed era un amore che andava oltre le differenze di razza, le differenze di fisiologia, di poteri e di destino.
Era un amore incondizionato che lo univa indissolubilmente a lei, che l’avrebbe portato alla morte se solo fosse servito alla sua sopravvivenza.
E ora, per il suo amore verso la Diclonius, erano diventati ricercati anche loro, braccati dal mondo intero per averla fatta fuggire. Alphonse sorrise tra sé.
Se così doveva essere, che lo fosse: non si sarebbero certo fatti cogliere impreparati...

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Capitolo 14
*** Isolamento ***


14_Isolamento Edward e Alphonse, nel giro di un giorno, riuscirono a raggiungere la casa in montagna che di solito usavano per le vacanze, così isolata e piccola che nessuno avrebbe potuto rintracciarli, grazie anche al fatto che non avevano lasciato dietro di loro nessuna traccia che potesse ricondurre a quel luogo.
Lì, con un po’ di fatica da parte di entrambi, erano riusciti a sistemarsi e a fare in modo che Lucy non dovesse sforzarsi troppo.
I giorni iniziarono a scorrere, trasformandosi in settimane e, a poco a poco, in mesi.
La gravidanza avanzava e, più si avvicinava la scadenza dei nove mesi, più Edward iniziava a sentirsi strano, in qualche modo preoccupato: forse era l’ansia di diventare padre a soli sedici anni, nonostante non fossero sposati, forse era il senso di colpa, forse era lo stress delle lunghe giornate passate insieme a Lucy o forse era qualcos’altro.
Non era certo di niente, solo che di lì a qualche mese sarebbe diventato padre e suo fratello zio.
Chissà che cos’avrebbe fatto...
In tutto quel caos, tuttavia, di una cosa era assolutamente certo: non si sarebbe mai comportato come suo padre, non avrebbe mai abbandonato né Lucy né il figlio, per nessuna ragione al mondo.
Alphonse si curava spesso di scendere a vedere che aria tirasse e, nelle ultime settimane, le acque avevano iniziato ad inquietarsi di brutto: erano stati mobilitati tutti i corpi militari più potenti nelle più svariate parti del mondo al solo scopo di trovare Lucy.
Ma a nessuno era ancora venuto in mente di cercare su quella montagna, almeno, non fino a quella vertiginosa altitudine, fortunatamente.
E Alphonse contribuiva a rassicurare tutti e due, mettendo loro anche un po’ d’allegria, per cercare d’alleggerire la costante cappa oppressiva che conseguiva la reclusione dal mondo, l’isolamento totale.
Sapeva bene di sembrare assolutamente ridicolo, ma non voleva più vedere né Lucy né tantomeno suo fratello soffrire per la tristezza. Quella reclusione forzata non doveva obbligatoriamente essere intesa come limitatezza eterna senza possibilità d’uscita, bensì come la loro nuova casa, almeno, secondo il suo punto di vista.
I ricercatori non demordevano: persistevano nella ricerca della Diclonius ormai da mesi.
Non riusciva a comprendere il motivo per cui si accanivano così contro di lei e contro la sua razza che, ormai, era prossima all’estinzione. Forse era proprio per estinguere i Diclonius che la cercavano, ma dopo averla vista combattere, non credeva che sarebbero riusciti ad ucciderla senza essere uccisi a loro volta.
Era inevitabile: se qualche umano la voleva, doveva andare incontro a morte certa.
Eppure, Edward era l’eccezione: nonostante fosse umano, Lucy provava qualcosa di profondo verso di lui, un amore infinito e incondizionato che l’attirava a sé come un magnete.
I Diclonius non erano assassini votati in tutto e per tutto allo sterminio umano: erano esseri viventi anche loro e, in quanto tali, avevano un istinto alla sopravvivenza che li spingeva a sfruttare le risorse a loro disposizione per sopravvivere.
Il fattore genetico era solo secondario, in quanto acuiva il loro istinto di sopravvivenza e sopraffazione.
Lucy ne era una prova più che lampante: era divenuta un’assassina solo dopo aver patito innumerevoli sofferenze.
In quei mesi, durante tutte quelle giornate passate accanto a Edward, aveva raccontato un po’ del suo passato e da ciò che ne era uscito, era più che plausibile che nutrisse un profondo odio verso tutto il genere umano.
I mesi rimanenti prima della data fatale scivolavano lenti ed inesorabili, avvicinandoli sempre di più al momento in cui finalmente il figlio di Lucy avrebbe potuto vedere la luce.
In quegli ultimi tempi, in lei si era fatto sempre più forte il desiderio di farlo nascere, di poterlo stringere fra le braccia, di potergli regalare l’affetto che lei non aveva mai ricevuto fin dalla nascita.
- Sarà maschio o femmina? - domandava a volte, sorridendo.
E inevitabilmente quel sorriso pieno di speranza portava un briciolo d’allegria in casa.
Nonostante tutto, era felice.
Nonostante fosse braccata per essere uccisa, era contenta.
E questa sua felicità era dovuta a Edward, al loro incontro e alla loro relazione.
Ma era inevitabile che la caccia continuasse fino a che non l’avessero trovata e, purtroppo, uccisa. Nessuno si sarebbe mai dato pace finché non fosse morta.
Chi le dava la caccia per ordini, chi per provare il piacere della violenza, chi per puro istinto di sopravvivenza e chi, come Kurama, per vendetta.
Per vendicare qualche caro ucciso da Lucy o soppresso a causa sua.
Perché se non fosse mai esistita, i bambini non sarebbero mai nati Diclonius e Mariko sarebbe stata ancora in vita.
E Kurama questo lo sapeva e perciò non si dava per vinto.
Un uomo spinto dalla vendetta non si sarebbe mai potuto arrendere, perché oramai, non aveva nient’altro al mondo da poter perdere...

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Capitolo 15
*** Parto ***


15_Parto Quando Edward si risvegliò, sapeva già che la data prestabilita era ormai alle porte: mancavano solo tre giorni.
Lucy dormiva vicina a lui, tranquilla, almeno in quel momento.
Il biondo si portò un braccio a coprire gli occhi, sospirando: era stanco. Aveva passato gran parte della notte a vegliare, agitato e preoccupato, sulla ragazza, preda di atroci dolori. Era provato dalle notti in bianco passate al fianco di Lucy e le profonde occhiaie che gli circondavano gli occhi ne erano una prova più che lampante. Il suo corpo non riusciva più a reggere le lunghe attese spasmodiche e la mancanza di sonno.
- Fratellone... sei già sveglio? Dormi ancora un po’... ne hai bisogno... -.
Gli occhi del biondo saettarono alla porta, schiusa quel tanto che bastava a far trapelare lo sguardo di Alphonse, già sveglio per controllare che non arrivassero spiacevoli visite.
Edward mugolò e Al entrò.
- Sei stato in piedi fino a dopo mezzanotte per aiutare Lucy... non puoi pretendere che il tuo organismo segua un ritmo di dormi-veglia così estremo... sono solo le sei del mattino... dai, fratellone, dormi un po’... - gli disse il ragazzo, sedendosi su una sedia vicino al letto.
Il biondo sospirò.
- Cosa posso farci se non riesco a dormire? -
- Non è che non riesci a dormire... il problema è che sei troppo in ansia per lei... se ti rilassassi un poco... -
- Come faccio? Ogni momento potrebbe essere l’ultimo. Se ci scoprissero, non esiterebbero ad ucciderci tutti quanti e... non voglio vederla morire con un bambino in grembo... -
- Non accadrà... perché devi sempre essere così pessimista? -.
Edward sorrise amaramente.
- Sarà nella mia natura... ma non posso pensare di vederla morta. Ormai sono nove mesi che siamo qui e molto probabilmente sono quasi riusciti a localizzarci -
- Non dire sciocchezze! Se ci avessero già localizzati, a quest’ora saremmo tutti all’altro mondo! -.
Edward stava per replicare, quando il grido di dolore di Lucy attirò l’attenzione dei due ragazzi.
Il biondo s’inginocchiò rapidamente sul letto e prese fra le sue mani quella della ragazza.
- Lucy... cosa c’è? -.
Ma lei non riusciva a sentirlo: il dolore era troppo forte.
La Diclonius iniziò ad agitarsi nel letto e Alphonse, contro ogni previsione, si alzò e le corse appresso, agitato.
- Fratellone, credo che ci siamo! -
Edward parve visibilmente spiazzato.
- Come “ci siamo”? Ma la data stabilita era più... -.
- Fratellone, non si può cambiare quello che è! Se deve essere ora, sia! -
- Ma... io non sono pronto! Cosa devo fare?! -.
Edward era andato nel panico: Lucy doveva partorire di lì a pochi minuti e lui non era ancora pronto ad affrontare il momento! Che cosa doveva fare?
Alphonse sembrava avere tutta la situazione sotto controllo: calmo, freddo e calcolatore o almeno, così gli appariva, al contrario di sé, agitato e in preda al panico.
- Fratellone, ci servono dell’acqua calda e degli asciugamani puliti! - esclamò.
Edward uscì dalla camera correndo, cercando di mantenere il controllo, di ricacciare indietro il panico che l’aveva travolto all’improvviso con la forza d’un maremoto.
Quando tornò, aveva con sé una bacinella d’acqua calda e, ripiegati sul braccio, una decina di asciugamani puliti.
Lucy gridò ancora, facendo accapponare la pelle al biondo, che rimase perfettamente immobile a fissarla.
- Fratellone! Togliti! - gli ordinò Alphonse.
- S-sì... - balbettò lui.
Si spostò fino ai piedi del letto, senza staccare gli occhi da Lucy.
Altre grida di dolore si susseguirono nei dieci minuti successivi, mandandolo nel panico più assoluto.
Alphonse, afferratolo per le spalle, lo spinse fuori della camera.
- Fratellone, vai ad aspettare fuori! A vederti così agitato mi agito anch’io! - esclamò il fratellino, chiudendogli la porta in faccia.
Un istante di silenzio, prima che un altro grido di dolore irrompesse, lacerando quell’attimo di quiete.
Edward prese a camminare nervosamente avanti e indietro lungo il corridoio, guardando il pavimento, sperando che tutto andasse bene: suo fratello aveva studiato un po’ d’anatomia, ma non sapeva se e quanto se ne intendesse di parti.
Dopo un po’, si rannicchiò vicino alla porta e chiuse gli occhi, appoggiando la testa sulle ginocchia.
Dio, ma perché doveva preoccuparsi a quella maniera?
Il biondo, esasperato, perse ogni cognizione del trascorrere del tempo e, dopo quelle che gli parvero ore, la porta lo colpì in pieno viso, facendolo riemergere dalla trance nella quale era caduto durante l’attesa.
Alphonse si affacciò.
- Ah, fratellone sei qui! Vieni... - gli disse, sorridendo.
Il biondo si alzò meccanicamente ed entrò: Lucy era nel letto e teneva in braccio due fagotti.
Due?
- Sono gemelli... - gli disse il fratellino, intuendo il perché dell’espressione scioccata che si era dipinta sul viso del ragazzo - ... e neanche completamente Diclonius, se può farti piacere... - aggiunse Alphonse.
Edward si avvicinò velocemente alla ragazza, che gli sorrise, gli ancora occhi velati di sofferenza, mostrandogli i fagottini.
Rinvolti al loro interno, c’erano un maschietto e una femminuccia, che ridevano e, ad un primo sguardo, Edward notò che sul capo avevano minuscoli abbozzi di corna, appena percepibili.
- Non sono come me... sono mezzosangue... almeno, potranno avere una vita quantomeno normale... - mormorò Lucy.
Edward prese il maschietto fra le braccia: era carino, piccolo. Pareva aver bisogno solo di cure e gli sorrideva, contento, tendendo le manine verso di lui. Il ragazzo gli porse un dito e il piccolino lo strinse, forse troppo forte, ma era pur sempre in parte Diclonius.
- Ciao, piccolino... - gli sussurrò, dolcemente.
Alphonse sorrideva mentre osservava la giovane coppia gioire per i piccoli.
- Al... cosa ci stai a fare lì impalato?! Vieni... - lo ammonì Edward.
Alphonse si avvicinò al fratello e si sedette accanto a lui.
Il piccolino aprì gli occhi, dorati con lievi screziature rossastre lungo il contorno dell’iride, e spostò la propria attenzione da Edward ad Alphonse, ridacchiando.
Al gli tese un dito, che il piccolo strinse con forza.
Da dietro, la femmina afferrò un ciuffo di capelli della coda del ragazzo e iniziò a tirare, trascinandolo verso di sé.
- No, ahio! - esclamò Alphonse.
- È gelosa perché date attenzioni solo al maschietto... - disse Lucy, ironicamente - Vero Emily? -.
- Emily? - domandarono in coro Edward e Alphonse, visibilmente spiazzati.
- Dovranno pur avere un nome... no? - chiese la Diclonius, squadrandoli.
I due fratelli guardarono il piccolino fra le braccia del biondo.
- E... lui? - domandò Edward.
- Scegliete voi, così siamo pari... - esclamò Lucy.
- Roy... - sussurrò il biondo, osservandolo.
- Il colonnello...? - chiese Alphonse, perplesso e confuso.
- Ma no! Roy... lui! - disse il ragazzo, accennando con il capo al bambino.
- Lo stesso nome del colonnello... non mi sembra da te, fratellone... -
- Ce lo vedo... è sbagliato? -.
Il biondo fulminò il fratello con uno sguardo.
- No! - si affrettò a rispondere Al.
D’un tratto, dei rombi si sentirono riecheggiare in lontananza e Edward e Alphonse scattarono in piedi, ansiosi: li avevano trovati.

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Capitolo 16
*** Localizzati ***


16_Localizzati Edward rimase in ascolto, i nervi tesi, il piccolo ancora stretto fra le braccia.
Li avevano localizzati, dannazione, proprio ora che Lucy aveva partorito.
- Lasciateli a me. Non ne rimarrà niente, ve l’assicuro... -.
Al e Ed si voltarono verso Lucy che, posata la piccola sul letto, si stava alzando, negli occhi una scintilla d’aggressività che era rimasta sopita in lei fino a quel giorno, per nove mesi.
- Lucy, ma cosa stai dicendo? Hai appena partorito! Sei debole, non puoi farcela! - obiettò Alphonse, cercando di farla rimanere seduta, la lei lo scansò, rimettendosi in piedi.
- Noi Diclonius siamo più forti delle femmine umane. Sono più forte delle altre donne. Sto bene e... sono pronta a combattere. Porrò fine a questa fuga insensata. Il mondo scorderà cosa vuol dire essere Diclonius e i nostri bambini potranno giocare con gli altri senza timore d’essere presi e rinchiusi in qualche laboratorio! - esclamò Lucy, decisa, uscendo dalla camera.
- Tieni, Al! Devo andare con lei! - disse il biondo, mettendo fra le braccia del fratellino il piccolo Roy, che iniziò a strillare.
Corse poi fuori dalla stanza, giù per le scale, pregando che non fosse già troppo tardi: non voleva perderla di nuovo, come nove mesi prima, quando l’aveva osservata, impotente, dall’altra parte del vetro.
No, non avrebbe permesso a nessuno di strappargliela di nuovo, per nessuna ragione al mondo.
Finalmente sei di nuovo te!
Sì, la voce aveva ragione: era di nuovo lei, solo lei.
Devi proteggere ciò che è tuo. I tuoi bambini...
Sì, li avrebbe protetti, qualsiasi tortura potessero infliggerle, lei non li avrebbe abbandonati.
Uccidili, cara! Uccidili senza lasciarne traccia!
Li avrebbe sterminati tutti, senza lasciarne altro che qualche misero arto e chiazze rosse sulla neve.
Lo doveva a Edward, che era stato al suo fianco per tutto quel tempo, lo doveva ad Alphonse, che aveva protetto il suo segreto finché aveva potuto.
Gli baluginò alla mente il suo Ed, poco prima, il suo sguardo felice nonostante fosse stravolto dalle orribili occhiaie rimaste dalle lunghe nottate passate a vegliare su di lei.
Le lacrime le offuscarono appena la vista.
Non avrebbe permesso a nessuno di fargli del male.
Edward oltrepassò l’uscio e corse fuori, nella neve.
L’auto-mail non era portato per quel gelo, non avrebbe retto a lungo, ma quello che avrebbe potuto fare, l’avrebbe fatto.
Nonostante fosse perfettamente consapevole della natura non umana di Lucy, non riusciva a non correre in suo aiuto.
Che razza di uomo sarebbe stato se non fosse corso in aiuto della sua ragazza?
Aveva dei bambini da proteggere e non avrebbe permesso a Lucy di proteggerli da sola: anche lui ne era responsabile quanto lei.
Scorse una schiera di uomini in uniforme e, davanti a loro, Lucy.
Si sentì stringere dalla preoccupazione e accelerò la corsa: non voleva assolutamente lasciarla combattere da sola.
Poi, accadde.
Strappi e grida laceranti si susseguirono incoerentemente, riecheggiando nell’aria immobile, seguiti da schizzi di sangue ed arti.
Un uomo in particolare attirò l’attenzione del ragazzo, che ripescò quel profilo dai ricordi di nove mesi prima.
E quell’uomo stava puntando la pistola al cranio di Lucy.
Il biondo si gettò in avanti, congiungendo le mani, puntandole poi sulla neve, creando davanti a sé un muro contro il quale rimbalzarono diversi proiettili.
- Edward... - esclamò Lucy, visibilmente sorpresa.
- Tutto okay? - domandò lui, ansimando.
Lei annuì, voltandosi poi verso il muro, oltrepassandolo.
- Dove vai? Aspetta! -
- Edward... - la Diclonius si volse verso il ragazzo - ... ti fidi di me? - chiese.
Lui rimase spiazzato, visibilmente.
Tese una mano verso di lei, come a fermarla, ma la ragazza la prese tra le sue e lo guardò dolcemente.
- Ti fidi di me? - ripeté.
- Sì... -
- Allora... lasciami andare... - mormorò.
Si guardarono, scrutandosi vicendevolmente nel profondo delle iridi.
Nonostante tutto, nel suo io più profondo, Edward sapeva che lei era in grado di farcela, da sola.
La sua mano lasciò quella della Diclonius, che gli sorrise un’ultima volta, prima di sparire oltre il muro.

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Capitolo 17
*** Fine ***


17_Fine Edward, steso sulla neve dietro il muro, osservava il cielo: sperava di vedervi schizzare immediatamente il sangue di quell’uomo. Poco dopo, la sua Lucy sarebbe tornata da lui e, insieme, sarebbero tornati dai loro figli, rimasti al sicuro in casa con Alphonse.
Ma non vide niente né sentì niente.
Il freddo si stava lentamente impossessando dei suoi auto-mail e, da lì, sapeva che ben presto sarebbe passato ai suoi muscoli, congelandolo.
Ma non gl’importava: era lì per Lucy e nient’altro.
Al di là del muro, la Diclonius osservava trucemente l’uomo che per così tanto tempo aveva visto oltre il vetro di quel maledetto centro di ricerca, quella riproduzione dell’Inferno in Terra.
- Supervisore Kurama... ci si rincontra. Le è dispiaciuto per Mariko? - domandò Lucy.
Kurama impugnò più saldamente la pistola: non doveva provocarlo così.
- Tu, la colpa è solo tua! -
- Mia? E cosa ho fatto io per essere colpevole dell’uccisione di Mariko? Non era mia figlia... -.
Un colpo.
Uno dei vettori di Lucy parò prontamente il proiettile e lei strinse gli occhi.
- In fondo... - proseguì in tono provocatorio - ... eri tu il responsabile di noi Diclonius, giusto? Spettava a te il compito di eliminarci tutte... immagino quanto tu abbia sofferto quando hai dovuto sopprimerla... -.
- Se il virus vettore ha avuto modo di infettare mia moglie, la colpa è solamente tua... Lucy. Tu sei la causa della diffusione del virus e Mariko è stata uccisa a causa TUA! -.
Altri proiettili attraversarono l’aria e furono nuovamente fermati dalla ragazza.
Era stufa di giocare con quell’umano che non poteva reggere il confronto con lei, stufa di aspettare per eliminare l’unico ostacolo che la separava da una vita tranquilla, ma doveva saperlo, prima di ucciderlo.
- Quanto delle informazioni a mio riguardo hai reso pubbliche per catturarmi? -.
- Molto poco... creando il panico fra i civili, non avrei più trovato nessuno in grado di venire in cerca di te -.
Lucy sorrise di sghembo: era esattamente cosa voleva sentirsi dire. La mancata diffusione di ulteriori notizie sui Diclonius avrebbe permesso ai suoi figli di vivere un’esistenza serena.
- Questa sarà la tua tomba e... - uno scintillio accese il suo sguardo - ... nessuno si ricorderà neanche della tua esistenza. Kurama... - esordì in ultimo.
I vettori puntarono dritti contro il supervisore, raggiungendolo in pochi, brevissimi istanti, vincendo la resistenza delle ossa, afferrandolo, sollevandolo a mezz’aria.
- ... game over! - concluse, sorridendogli maliziosamente.
Hiromi... Mariko... finalmente, potremmo stare insieme.
Edward vide una scia di sangue allargarsi in cielo e cadere oltre, sulla neve. Cercò di rimettersi in piedi ed emise un gemito quando avvertì una piccola fitta partirgli dai muscoli cui erano attaccati gli auto-mail.
Il gelone, alla fine, era arrivato...
Lucy apparve da dietro il muro, sorridendogli.
- È finita - disse, tendendogli la mano.
Il biondo l’afferrò e, se pur con fatica, si rimise in piedi.
Si scrutarono vicendevolmente con affetto.
- Torniamo a casa...? - domandò esitante Edward.
- Emily e Roy aspettano... - rispose Lucy con un caldo sorriso.
Mano nella mano, l’alchimista e la Diclonius fecero ritorno a casa, dove Alphonse li aspettava, preoccupato, sull’uscio, con i due bambini in braccio.
Finalmente, Lucy aveva trovato il suo posto nel mondo: lì, al fianco di Edward e della sua famiglia.

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