Tra Istinto e Amore di Fiamma Drakon (/viewuser.php?uid=64926)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pensieri in solitudine ***
Capitolo 2: *** Incontro col Destino ***
Capitolo 3: *** Conoscenza ***
Capitolo 4: *** Confessioni ***
Capitolo 5: *** Riflessioni ***
Capitolo 6: *** Passeggiata tra Diclonius e Alchimista ***
Capitolo 7: *** Tracce ***
Capitolo 8: *** Notte per due ***
Capitolo 9: *** Amore ***
Capitolo 10: *** Crepuscolo di sangue ***
Capitolo 11: *** Scoperta e addio ***
Capitolo 12: *** Oltre il vetro ***
Capitolo 13: *** Fuga ***
Capitolo 14: *** Isolamento ***
Capitolo 15: *** Parto ***
Capitolo 16: *** Localizzati ***
Capitolo 17: *** Fine ***
Capitolo 1 *** Pensieri in solitudine ***
1_Pensieri in solitudine
Era tornata di nuovo lì.
Il rumore dell’acqua che
cadeva, insinuandosi fra gli speroni di roccia del dirupo, la calmava
molto più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Le piaceva starsene in solitudine a
riflettere di tanto in tanto, isolarsi volontariamente da quel mondo
dal quale già era emarginata per le sue corna, per il suo
diverso DNA.
Strinse più forte le braccia
attorno alle gambe e poggiò il viso sulle ginocchia, osservando
tristemente la cristallina superficie del laghetto nel quale terminava
la cascata.
Era sola.
Anche l’ultima Silpelit era
morta ed era rimasta solo lei, l’unica Diclonius superstite in un
mondo dominato dalla razza umana.
Le avevano uccise tutte, una dopo
l’altra, le sue adorate Silpelit, le sue compagne, le uniche
capaci di poterla realmente capire.
Ed ora che era l’unico
Diclonius rimasto, cos’avrebbe fatto? Gli umani l’avrebbero
rintracciata e, volente o nolente, l’avrebbero costretta a
seguirli o sarebbe stata soppressa.
Il suo sguardo si soffermò
sulla sua mano, che voltò in modo da poterne vedere chiaramente
il palmo: chiazze di sangue.
Il suo era un passato intriso di
sangue, di morti e massacri, per la sopravvivenza: fin dalla tenera
età era stata emarginata e disprezzata per le sue corna,
finché dentro di sé non aveva trovato il potere
necessario a far emergere i suoi vettori.
Da quel momento, aveva vissuto senza provare terrore verso niente e nessuno: erano gli umani a doverla temere, non il contrario.
Era lei ad avere il potere, ad
essere superiore a tutti gli altri umani, non viceversa. Finalmente
aveva avuto la sua vendetta per tutto il male subito da piccola, per
tutto il disprezzo nutrito dai suoi compagni dell’orfanotrofio
nei suoi confronti.
Finalmente aveva avuto il controllo
della sua vita, almeno, finché non era stata rinchiusa in
quell’orribile laboratorio di ricerche sulla futura razza umana.
E lì aveva avuto la certezza
di non essere sola al mondo, perché lì c’erano
altre come lei, altre emarginate, sole e sofferenti, trattate come
pezzi di carne su cui gli scienziati umani si divertivano a
sperimentare i loro giochetti. Non le riservarono trattamenti di
favore: solo dolore.
Dolore fisico, psicologico, emotivo, ma pur sempre dolore.
Solo mesi dopo il suo internamento aveva capito che quello non era un laboratorio: era la porta per l’Inferno.
E lei l’aveva patito, l’Inferno, per anni, senza poter far altro che sperare.
Sperare e sperare.
Poi la sua fuga e di nuovo la libertà.
Una libertà che, fino a poco
tempo fa, sapeva davvero di libertà, ma che aveva assunto un
retrogusto amaro dopo l’uccisione dell’ultima Silpelit.
Ora non era più libera: era braccata.
Nonostante fosse lei la
cacciatrice, era divenuta preda, la più ambita preda degli
stupidi esseri umani che si divertivano a torturare quelli diversi da
loro.
Stupidi. Incoscienti.
Non sapevano con chi avevano a che fare: lei non si sarebbe certo fermata solo perché erano fragili esseri umani.
No, affatto: avevano sterminato le sue Silpelit, le sue fidate compagne senza farsi il minimo scrupolo.
Lei non sarebbe stata da meno: li
avrebbe massacrati tutti, dal primo all’ultimo che avesse osato
incrociare la sua strada.
Quegli stupidi, inutili umani...
Sospirò ancora, riportando tutta la sua attenzione al luogo dove era.
Percepiva qualcosa di diverso
nell’aria attorno a sé, qualcosa di diverso dal sottile
fetore ferroso del sangue rappreso sulle rocce dietro di sé.
Somigliava ad un fruscio, un impercettibile movimento d’aria alle sue spalle, qualche metro più indietro.
I suoi occhi si ridussero a due
fessure che emanavano rossastri bagliori pericolosi: chiunque fosse,
non gli avrebbe dato il tempo d’avvertire i compagni.
L’avrebbe ucciso subito.
Si volse a fissare il punto della
boscaglia dal quale sapeva sarebbe presto uscito il suo nuovo nemico.
Non aveva affatto fretta: se ne stava lì, in piedi,
completamente immobile a fissare le piante con disprezzo e
superiorità. Nei suoi occhi c’era solo rabbia.
Una rabbia che a stento riusciva ancora a trattenere.
Una rabbia distruttrice che avrebbe vendicato tutte le sue compagne uccise.
Avvertì il consueto
formicolio dei vettori che, impazienti, aspettavano di poter uscire e
colpire, distruggere, squartare.
Quello era il suo potere.
Quella era la sua rabbia... la rabbia dei Diclonius.
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Capitolo 2 *** Incontro col Destino ***
2_Incontro col Destino
Quel singolare fruscio
divenne sempre più presente, sempre più vicino,
tant’è che il suo fine udito riuscì a captare
persino un respiro, regolare, sereno.
Ancora per poco.
Non si mosse, rimase ad attendere:
mancavano solo pochi metri, poi sarebbe stata la fine per quello
stupido umano che aveva osato raggiungerla fin lì.
I suoi vettori erano in spasmodica
attesa: un ordine e sarebbero volati a sbriciolare qualsiasi bersaglio
si fossero trovati dinanzi.
Erano le armi per eccellenza,
ciò che ogni umano coscienzioso eviterebbe vita natural durante.
Erano l’arma dei Diclonius, la forza sovrumana della razza che
verrà.
Lucy rimase in attesa finché ecco arrivare a pochi passi di distanza il fruscio, seguito da quel respiro.
Le piante vennero spostate di lato per far passare un umano.
Lucy rimase ad osservare la bassa
figura che si era appena materializzata davanti a lei senza riuscire a
nascondere un po’ di scetticismo: era solo un bambino.
Era terribilmente basso, avrà avuto si e no dodici anni...
Aveva i capelli lunghi e biondi
legati insieme da una treccia poggiata sulla sua spalla sinistra, con
due grossi ciuffi che gli coprivano i lati del viso, espressivi occhi
dalle iridi dorate, labbra semidischiuse in un’espressione di
palese curiosità.
- Cosa ci fai qui? - domandò
il ragazzo con voce molto più adulta di quella che si sarebbe
aspettata da un umano di quell’età.
- Non dovresti essere qui... non
sei un po’ troppo piccolo per andartene in giro da solo? -
rispose Lucy in tono diffidente, rivolgendogli uno sguardo tagliente.
Il ragazzino assunse all’improvviso un cipiglio iroso e la fissò truce.
- IO NON SONO PICCOLO!!! - le urlò contro.
Forse non era il caso di ucciderlo: era solo un ragazzetto. Un po’ irritante, ma pur sempre un ragazzetto.
- Comunque non hai risposto alla mia domanda... - riprese il biondino, tornando a fissarla intensamente, impassibile.
Lucy si sentì come
scannerizzata da quegli occhi perforanti. Era una sensazione
spiacevole, terribilmente spiacevole, eppure c’era qualcosa di
strano che la teneva invischiata in quello sguardo, impigliata a quella
presenza. Era un qualcosa che non aveva mai sentito prima
d’allora e che la spingeva verso quel ragazzo, inesorabilmente.
Aveva un desiderio nei confronti di
quell’umano, un desiderio perverso, malsano, ma pur sempre un
desiderio. Le nasceva da dentro, nel profondo. Che fosse il suo istinto
di Diclonius regina? Non ne era assolutamente certa, ma lo sentiva. Era
nuovo, totalmente fuori del mondo, ma non la metteva a disagio: se
quello era il suo istinto alla riproduzione, allora non era totalmente
fuori luogo, dato che per far prosperare la stirpe dei Diclonius
avrebbe obbligatoriamente dovuto accoppiarsi con un umano.
Che fosse il Destino? Che strano
modo di presentarsi: lei aveva sempre creduto che si sarebbe
manifestato con un po’ più di solennità.
Chi poteva immaginare che il
Destino fosse basso, biondo e indossasse vestiti che sarebbero stati
molto più appropriati in un negozio d’abbigliamento
d’antiquariato?
Eppure lui era lì e continuava a fissarla senza la minima paura né il minimo disprezzo.
- Sono... stavo pensando... - mormorò lei in risposta, abbassando gli occhi.
- E vieni fino a qui per pensare? Non ti sembra un po’... lontano? - chiese ancora il biondo.
Lei scosse la testa: ora si sentiva terribilmente a disagio.
- Ooooh... - lo sentì esclamare.
Alzò gli occhi, sconsolata:
quell’esclamazione di sorpresa l’aveva sentita tante di
quelle volte in vita sua che oramai ne aveva abbastanza. Poi, dalla
sorpresa sarebbe passato al terrore, lo sapeva: era facile intuirne il
motivo. L’avrebbe abbandonata, per sempre e sarebbe di nuovo
rimasta sola.
- Quelle lì sono corna vere? - chiese, facendo un timido passo avanti.
- Sì... ce le ho dalla
nascita... - spiegò lei in risposta: se doveva lasciarla, tanto
valeva dirglielo. Se la notizia fosse trapelata altrove, non sarebbe
più stata in grado di ucciderlo.
Si sorprese dell’improvvisa
umanità di quel suo gesto: anche se era umano, non voleva
ucciderlo. Voleva semplicemente lasciarlo andare.
Non aveva la benché minima
idea del perché di un tale gesto: forse il suo istinto? O forse
perché, in fondo, anche lei era capace di provare emozioni che
non fossero solo odio, rancore e disprezzo?
Il biondo rimase estasiato a contemplare le sue corna per quelli che le parvero minuti interminabili.
- Belle... - esclamò.
Nei suoi occhi Lucy percepì qualcosa di simile alla venerazione.
- Che cosa sei venuto a fare qui? - chiese lei.
- Io abito qui vicino... ogni tanto vengo a fare una passeggiata... e tu dov’è che vivi? - domandò lui.
La Diclonius abbassò lo sguardo.
- Da nessuna parte... - rispose.
- Oooh... be’, se non hai un posto dove stare, puoi venire da noi! - propose il biondo, sorridendole.
Quel sorriso le scatenò
dentro un tumulto di emozioni fra le quali riuscì a percepire
una preponderante nostalgia: la nostalgia di qualcuno con cui parlare,
confidarsi, qualcuno che non giudicasse solo dall’aspetto
esteriore.
Abbassò di nuovo gli occhi:
si stava facendo trascinare dalle emozioni e stava perdendo di vista
l’obiettivo principale per cui i Diclonius erano nati.
Doveva distruggere la razza umana.
Però, essendo sola, aveva meno probabilità di riuscita, senza contare che era braccata dai ricercatori.
No, da sola non ce l’avrebbe mai fatta.
- Va bene... - rispose, palesemente a disagio.
Di nuovo, i suoi occhi incrociarono
quelli del biondo e in essi trovarono una serenità che non
riusciva a capire, ma che non le dispiaceva affatto.
- Comunque, io mi chiamo Edward... Edward Elric - si presentò lui.
- Io sono Lucy... solo Lucy - si presentò a sua volta lei con una nota di tristezza nella voce.
Lui la guardò ancora per
qualche istante, perplesso, prima di scorgere il sangue sulle rocce e
la sottile ma visibile strisciolina di sangue che le correva lungo il
polpaccio.
- Ma sei ferita! - esclamò lui, allarmato.
- Uhm? -.
Abbassò lo sguardo: non si era accorta che era lei a perdere sangue. Non le faceva affatto male.
- È solo un taglio... - disse.
- Come solo un taglio?! Guarda come
sta sanguinando!!! - esclamò Edward allarmato, chinandosi ad
osservarle il polpaccio - Andiamo a casa! Dobbiamo fasciarti! -
proseguì il biondo, rialzandosi, prendendola per il polso.
Lucy avvertì una vampata di
emozioni susseguirsi confusamente dentro di sé, senza darle
tempo di identificarle: sapeva solo che quel ragazzo non la disprezzava
perché era diversa e la sua stretta, salda e delicata al tempo
stesso, le trasmetteva uno strano senso di protezione.
I Diclonius non avrebbero dovuto
sentirsi protetti dagli umani: avrebbero dovuto avvertire la minaccia
della loro presenza. Ma quell’umano non sembrava rappresentare
nessuna minaccia: sembrava essere solo molto preoccupato per la sua
ferita.
A quel pensiero, la Diclonius sentì una vampata di calore invaderle il viso.
Non oppose resistenza: non voleva opporne.
Si scoprì desiderosa di
pace, nonostante il profondo odio che provava verso gli umani, voleva
solo un posto dove poter stare tranquilla, senza il timore di essere
disprezzata né braccata.
Lo seguì, piena di speranza.
Ogni passo che metteva avanti, ne era sempre più convinta: quello era il Destino.
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Capitolo 3 *** Conoscenza ***
3_Conoscenza
Edward la condusse
attraverso il fitto sottobosco con decisione, fretta, voltandosi
sovente a lanciarle occhiate cariche di struggente apprensione: era
preoccupatissimo per lei.
Non sapeva né perché
né da quanto fosse lì, da sola, né perché
gli sembrasse così diffidente eppure tanto simile. L’unica
cosa di cui era certo era che quella ragazza, Lucy, aveva bisogno di
essere medicata.
Si volse di nuovo a guardarla: nei
suoi occhi rossi scorse qualcosa che non riuscì a comprendere,
qualcosa di completamente diverso dallo sguardo tagliente che gli aveva
rivolto inizialmente. Affrettò il passo, tenendo salda la presa
sul suo esile polso, sperando che l’auto-mail non le desse troppo
fastidio.
Lucy iniziò ad avvertire la
pelle della mano che Edward le teneva stretta attorno al polso
più fredda, più dura. Provò a girarlo lentamente
ed ebbe come l’impressione che qualcosa di più duro della
semplice stretta le tenesse bloccato il polso in quella presa.
Non vi badò più di
tanto, concentrata com’era ad osservare il profilo del ragazzo
che la conduceva sapientemente avanti, fuori da quel bosco fitto e
intricato.
Più lo osservava, più si sentiva attratta da lui.
Era strano, ma terribilmente piacevole.
Era l’unico umano che
riusciva a darle una così piacevole sensazione d’agio, la
sensazione che non era nata solo per sterminare la razza umana, ma
anche per avere una vita normale, come tutte le persone. Non aveva mai
provato sentimenti tanto positivi.
Si sentì come una persona
normale, nonostante ogni volta osservasse la sua immagine, le sue corna
le ricordassero la sua missione, ciò che era scritto nel suo
DNA: portare la fine della razza umana.
No, non voleva ucciderlo. Era
l’unico ad averla vista come una persona qualunque, una qualunque
ragazza come se ne vedono tante in giro.
Ma lei era sola in un mondo
dominato dagli uomini e non era come le altre. Lei era la regina dei
Diclonius, l’unica Diclonius capace di riprodursi come le femmine
umane.
Non era auto-discriminazione, solo
la pura, semplice verità: non avrebbe mai potuto avere una vita
normale. Lei e i suoi figli sarebbero stati braccati e in fuga in un
mondo dove solo loro, con le loro forze, avrebbero potuto crearsi un
posto in cui vivere in pace.
Perché la sua vita doveva essere così dura?
- Lucy... perché stai piangendo? -.
La voce di Edward interruppe il
triste flusso di pensieri di Lucy, costringendola a tornare alla
realtà: erano fermi al limitare del bosco e Edward la fissava,
apprensivo, la mano ancora sigillata attorno al suo polso.
Lei non rispose, si limitò
solo ad abbassare il capo in modo che i ciuffi di capelli sulla sua
fronte le coprissero in parte anche il viso.
- Ti fa male la ferita? - le domandò lui, scostandole i capelli dagli occhi.
Lucy avvertì un improvviso,
intenso imbarazzo, mentre la mano del ragazzo vagava sul suo viso,
scostandole i ciuffi in modo da lasciar vedere il volto.
Le sorrise e lei ricambiò con un flebile cenno.
Ripresero a camminare.
Attraversarono l’aperta
campagna che s’estendeva per chilometri davanti a loro,
circondati da uno strano silenzio carico d’imbarazzo.
- Siamo quasi arrivati... - le disse Edward.
Avevano camminato a lungo fuori del bosco, attraverso i campi, sotto lo splendente sole mattutino.
In cuor suo, Lucy avrebbe tanto voluto prolungare quel cammino.
- AAAAAAAAAL! - chiamò il biondo.
Solo in quel momento la Diclonius
s’accorse della casupola che si scorgeva sull’altura
dinanzi a loro, non troppo lontano dal punto dove si trovavano.
Da dietro il piccolo muretto di
pietre si erse una figura che salutò Edward con energia. Li
osservò per qualche istante, prima di correr loro incontro.
S’incrociarono quando ormai solo pochi metri li separavano dal muretto.
Era un ragazzo un poco più
alto di Edward, con lunghi capelli castani raccolti in una coda di
cavallo alla base della testa. Avrà avuto tredici anni circa.
- Fratellone, che è successo? - domandò, rivolto a Edward.
- L’ho trovata da sola vicino alla cascata. È ferita - spiegò rapidamente il biondo.
Al la fissò per qualche istante, prima di prenderla per l’altro braccio e sospingerla verso la casa.
- Fratellone, possibile che combini sempre qualche guaio? - lo rimproverò il ragazzo.
- Non sono stato io! Perché deve sempre essere colpa mia?! - si difese il biondo, indignato.
- No... ha ragione. Sono stata io... - intervenne Lucy, pacata.
In realtà non era stata proprio colpa sua: l’avevano colpita di striscio con un proiettile mentre fuggiva.
I due fratelli si zittirono e l’accompagnarono alla casupola in silenzio.
Era piuttosto piccola come casa: un
piccolo soggiorno dal quale si accedeva alla cucina, a giudicare dallo
scorcio che Lucy riuscì ad intravedere, più
un’altra porta.
- Vado a prendere le fasce... - disse Edward, congedandosi rapidamente dai due.
Al si sedette sulla poltrona. Lucy rimase in piedi a guardarsi intorno, confusa e imbarazzata.
- Puoi anche sederti... - le disse il ragazzo, indicandole con un cenno il divano dietro di lei.
Si sedette timorosamente, osservandosi il polpaccio sanguinante.
- Mi spiace crearvi problemi... - disse.
In effetti era vero: non voleva disturbare nessuno.
Era una Diclonius e avrebbe dovuto badare da sola a se stessa, invece di farsi aiutare dagli umani.
- Non c’è motivo di
scusarsi... sei ferita - le rispose cordialmente Al - Comunque, poco fa
mi sono dimenticato di presentarmi... piacere, io sono Alphonse -
proseguì.
- Lucy - si limitò a dire lei.
- Sei stata fortunata ad imbatterti
in mio fratello... anche se non è difficile trovarlo a
gironzolare per il bosco... - disse lui.
Lucy si limitò ad abbassare
lo sguardo: forse avrebbe fatto meglio a rifiutarsi di seguire Edward.
Non avrebbe dovuto essere lì in quel momento, bensì in
fuga da tutto e tutti.
- Quelle corna sono fissate al tuo cranio, dico bene? Sei la Diclonius... -.
Quelle parole fecero sobbalzare Lucy: lo sapevano. Sapevano cos’era, sapevano che era la ricercata, l’assassina.
Si alzò di scatto e
avvertì un’improvvisa fitta alla gamba ferita: strano, non
le aveva provocato dolore fino a quel momento.
Alphonse notò una stilla di
paura nelle sue pupille seminascoste dall’ombra proiettata sul
suo viso dai ciuffi di capelli sulla sua fronte.
- Sta’ tranquilla... mio
fratello non sa nulla e non ho intenzione di farti del male né
di denunciarti. La mia è solo semplice curiosità. Sei tu
la Diclonius a cui sta dando la caccia mezzo mondo, dico bene? - disse
il ragazzo.
Lucy fece un breve cenno col capo.
- Interessante... non fraintendermi, ma ero in un certo senso curioso di sapere che aspetto avevi... - esclamò Alphonse.
La Diclonius notò nel suo sguardo qualcosa di anomalo, un interesse strano verso di lei.
- Siediti, tranquilla... non dirò a nessuno quello che so... -.
La sua espressione mutò
radicalmente in un istante: tornò allegro, senza la minima
traccia di quel malsano interesse.
- Edward... poco fa l’hai
chiamato “fratellone”... ma è veramente più
grande di te? - domandò la Diclonius, cercando di sviare il
discorso su un argomento più piacevole.
- Sì. Tutti ci confondono
sempre, ma è lui quello più grande. Ha già sedici
anni... io ne ho solo quattordici... - le spiegò Alphonse.
Sedici anni? Lei l’aveva
scambiato per un dodicenne! Possibile che fosse così basso e
avesse già sedici anni?
- L’avevi scambiato per un
bambino, vero? A primo impatto può dare quest’impressione,
però quando lo conosci meglio poi scopri che è molto
più maturo... - le disse Al.
Lucy sorrise timidamente.
- Eccomi! Scusa se ti ho fatto aspettare ma non trovavo le fasce... - esclamò Edward, entrando nella stanza.
Si sedette accanto a lei e le prese delicatamente la gamba, ponendola sulle proprie.
Ancora una volta, Lucy
percepì la differente temperatura fra la propria pelle e quella
della mano destra del biondo, ma non si sottrasse al contatto: lo
trovava delicato, piacevole.
Edward le ripulì
pazientemente la ferita e le bendò il polpaccio, cercando di
essere il più delicato e discreto possibile: si sentiva un
po’ a disagio perché era la prima ragazza con la quale
interagiva in modo così premuroso e, in un certo senso, intimo.
Non era certamente da lui, eppure
avvertiva qualcosa dentro di sé, una specie di dovere protettivo
nei suoi confronti. Le scoccò un’occhiata di sottecchi:
nonostante gli sembrasse tanto forte e indipendente, non riusciva a non
pensare che avesse bisogno di protezione.
Che stupido.
- Ecco fatto! - esclamò, poggiandole di nuovo la gamba a terra.
Lucy mosse la gamba per vedere se riusciva a camminare senza impedimenti, prima di riportare il proprio sguardo su Edward.
Repentina, gli afferrò il
braccio destro e lo tastò: era molto più duro di
qualsiasi altro braccio avesse mai toccato.
- Cosa...? - mormorò,
sorpresa, lasciando la presa sul braccio e guardando Edward: il biondo
aveva abbassato lo sguardo, improvvisamente triste.
- Ho... ho sbagliato? - chiese lei
con quanto più tatto aveva: si sentiva colpevole, in un certo
senso, anche se non sapeva di cosa.
- No... sono io quello che ha
sbagliato... - mormorò lui, mentre calde lacrime iniziavano ad
affiorargli ai lati degli occhi, bagnandogli alcuni ciuffi di capelli.
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Capitolo 4 *** Confessioni ***
4_Confessioni
Lucy lo guardava, confusa
e atterrita al tempo stesso: come “aveva sbagliato”? E
dove? Perché? Lei non c’entrava le aveva detto, eppure le
sembrava di essere l’unica colpevole di quell’improvviso
cambiamento d’atmosfera in casa.
Con la coda dell’occhio, la Diclonius notò che anche Alphonse si era d’un tratto adombrato.
Abbassò gli occhi: forse era
meglio se toglieva il disturbo. Aveva causato un guaio al quale non
sapeva come porre rimedio.
Edward si tolse il guanto destro e
Lucy poté vedere cosa c’era in realtà sotto:
metallo, molto probabilmente acciaio, modellato e articolato in modo
tale che sostituisse il suo arto.
- E... e la tua mano dov’è? - domandò, quasi timorosamente, a Edward.
Questo rimase in silenzio per alcuni istanti, prima di rispondere: - Non c’è più... -.
Lucy era sempre più confusa:
che gliel’avesse strappata via un Diclonius? Se fosse stato
così l’avrebbe riconosciuta immediatamente,
l’avrebbe allontanata subito e suo fratello l’avrebbe
denunciata appena fosse entrata nel suo raggio visivo.
No, forse i Diclonius in tutto
ciò non rientravano minimamente... ma che altro poteva esistere
in grado di strappare arti alle persone e distruggerli?
Edward parve riprendersi un pochino
e alzò gli occhi a guardarla: nelle sue iridi, il biondo
percepì confusione, rimorso, dolore.
Le sorrise amaramente.
- Dov’è andata la tua mano allora? Chi te l’ha portata via? - chiese Lucy.
Alphonse riuscì a capire
dalle sue parole ciò che sembrava opprimerle l’animo:
credeva che la mano e il resto del braccio destro di suo fratello gli
fosse stato portato via da un Diclonius.
- Non è come pensi tu... - le disse lui, squadrandola profondamente.
Lei si volse a guardarlo istantaneamente, prima di riportare la propria attenzione su Edward.
Quest’ultimo inspirò profondamente, prima di parlare:
- È successo quando eravamo
ancora bambini... abbiamo provato a riportare in vita nostra madre con
una trasmutazione umana e... - il biondo s’interruppe, abbassando
gli occhi.
Lucy continuò a guardarlo,
profondamente scossa: anche alcune Silpelit avevano imparato
l’Alchimia per cercare di riportare in vita qualche umano al
quale si erano particolarmente affezionate, ma ne erano uscite
distrutte fisicamente e psicologicamente, gusci vuoti senza la minima
volontà di vivere, infatti erano morte poco dopo aver tentato la
trasmutazione.
Edward però non le sembrava
del tutto privo della volontà d’esistere: se non glielo
avesse detto, avrebbe creduto che a mozzargli il braccio fosse stato un
Diclonius.
Il biondo coprì di nuovo il
braccio e alzò il viso verso Lucy: come Alphonse poco prima,
aveva repentinamente cambiato espressione. Sembrava allegro, senza
alcun pensiero.
Si alzò e la guardò
di nuovo: non sapeva come spiegarselo eppure la trovava davvero bella e
quelle corna le davano un aspetto così incredibilmente
esotico... davvero unico.
Un attutito brontolio
sostituì il silenzio che era calato nella stanza, attirando
l’attenzione dei due ragazzi su Lucy, che guardava il pavimento,
rossa per l’imbarazzo.
Edward rise.
- Immagino tu abbia fame... vado a prepararti qualcosa... - disse, avviandosi verso la cucina.
- Intanto che aspetti forse è meglio se ti troviamo qualcosa di meno... strappato da mettere... - le disse Al, alzandosi.
Ed, rimasto sull’uscio, si
voltò a guardarla: non ci aveva fatto caso, ma i suoi vestiti
erano a brandelli. Avrebbe tanto voluto essere stato più accorto
e averlo notato lui, non Alphonse: avrebbe potuto starle vicino ancora
un po’...
- Fratellone, che c’è? - gli giunse la domanda di Al.
Il biondo scosse la testa, liberandosi di quei pensieri.
- Niente! Vado... - rispose.
No, invece. Voleva stare con Lucy, da solo, ancora, come nel bosco.
Si mise ai fornelli, pensando costantemente a lei: avrebbe voluto poterle stare ancora accanto, loro due da soli.
Avvampò d’imbarazzo
quando nella sua mente si affacciò quel pensiero assai
imbarazzante sul quale non si era mai soffermato a riflettere.
Scosse il capo e cercò di
concentrarsi sul pranzo, cosa che gli riuscì molto difficile
proprio per l’insistenza di certi pensieri nella sua testa.
Lucy era così...
particolare. Non voleva dire che era un po’ strana, né
diversa: gli suonava come un’offesa. Era solo... bellissima.
Mancò poco che si affettasse
una mano quando quella parola gli risuonò forte nella testa: ma
perché pensava a certe cose mentre cucinava?!
Perché non riusciva a concentrarsi su quel che faceva invece di pensare ad altro?
Secondo te? Io credo che tu sia cotto...
Nella sua testa riecheggiò
una vocina impertinente che lo costrinse nuovamente a spostare la
propria attenzione dalla cucina ai propri pensieri.
Non è vero! Io non sono cotto...
Noooo, ma come
è potuta passarmi per la testa un’idea simile... sveglia,
Ed! Si vede lontano chilometri che sei stracotto!
Edward arrossì: era davvero tanto evidente?
E... e tu come fai a saperlo?
Perché io sono la tua Coscienza. Io so sempre tutto.
Ehi, non fare tanto l’aria da saputella con me! Tu non sai proprio un bel niente!
E invece
sì caro mio! Io so cosa pensi quando la guardi, cosa provi, cosa
desideri e ti posso assicurare che non sono così scema, come una
certa persona, da non accorgermi che sei innamorato pazzo di lei.
L’hai detto tu stesso, no? Hai detto che è bellissima,
esotica e unica. È una prova più che sufficiente!
Ora si stava davvero stufando: possibile che non potesse avere un po’ di privacy nemmeno nei suoi pensieri?!
Ti spiacerebbe andartene a spiare i pensieri di qualcun altro? Mi stai scocciando...
Me ne vado se vuoi, ma sarò sempre qui dentro, ricordatelo.
Te ne vai sì o no?!
La sua coscienza non rispose
più e Edward le fu grato di ciò, anche se trovava
palesemente strano il fatto che avesse appena intavolato una
discussione con la propria coscienza.
Riprese a cucinare, cercando un
equilibrio psicologico che gli permettesse di cucinare senza il rischio
di tagliarsi per sbaglio l’unica sua vera mano rimasta.
- Fratellone... cosa te ne pare? -
domandò la voce di Alphonse dalla porta dopo quasi
mezz’ora da quanto erano saliti a cercare qualcosa per Lucy.
Calmati e rimani concentrato... calmo... calmo...
Edward si volse verso la porta della cucina, cercando di mantenere i nervi saldi: era solo una ragazza.
Il suo sguardo incrociò la
figura di suo fratello Alphonse, raggiante sull’uscio, dietro al
quale stava lei, palesemente imbarazzata.
Sul suo snello fisico slanciato
indossava una canotta nera che le stava piuttosto stretta e
sottolineava in modo marcato le aggraziate curve del suo corpo. Al di
sotto, indossava un paio di pantaloncini neri aderenti che spuntavano a
malapena da sotto l’orlo della canotta.
Il biondo ebbe un moto di
gratitudine improvviso verso Alphonse: le aveva dato una delle sue
canotte e un paio dei suoi pantaloncini e le stavano un incanto.
- Le mie camicie le andavano un
po’ larghe... ma direi che le tue canotte vanno bene. Cosa ne
dici? - gli chiese Al, passando lo sguardo da Lucy a Edward.
- Eh... sì... bella... - si
limitò a dire il biondo: ma perché non riusciva a mettere
in fila parole che formassero una frase di senso compiuto?!
Lucy lo guardò, sistemandosi
una ciocca fastidiosa dietro l’orecchio: era, in un certo senso,
carino. I suoi occhi dorati la squadravano con un misto di adorazione e
sorpresa che lei ricambiava implicitamente.
Quella sensazione di desiderio nei
suoi confronti ritornò più pressante e più intensa
in lei, costringendola ad un notevole sforzo di volontà per
resistergli: sapeva che il suo istinto di Diclonius era troppo
violento, troppo sconsiderato e non voleva causargli dolore. Il suo era
un istinto troppo cruento perché potesse lasciarsi trascinare da
esso e lo sapeva: era istintivamente portata allo sterminio della razza
umana, al sangue, ai massacri.
Non poteva lasciarsi dominare da
esso: avrebbe distrutto tutto e tutti indistintamente. Ma i Diclonius
non erano solo esseri votati alla distruzione: erano dotati di un
intelletto e lei sapeva che la razionalità poteva battere il suo
istinto.
- Lucy è pronto! -.
La voce di Alphonse la distrasse dai suoi pensieri, facendola ritornare alla realtà.
Si guardò intorno: gli occhi dei due fratelli erano puntati su di lei, perplessi.
- Ah... - mormorò, imbarazzata.
Si sedette accanto a Edward e iniziò a mangiare.
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Capitolo 5 *** Riflessioni ***
5_Riflessioni
Edward continuava a
scoccarle occhiate di sottecchi, cercando di non essere visto, non
riuscendo a starle così vicino senza guadarla: era letteralmente
ammaliato dalla sua bellezza esotica e straordinaria.
Stava seduta impettita, osservando
il piatto, senza alzare gli occhi da questo. In essi, Edward percepiva
qualcosa di profondo, come intrinseche emozioni delle quali cercava
disperatamente di cogliere la natura: voleva sapere tutto di lei. I
suoi occhi parevano emanare una forte energia mistica che lo attraeva
irresistibilmente a lei, come un magnete.
Avrebbe tanto voluto averla.
Ma cosa vado a pensare?! Ho solo sedici anni e lei come minimo ne avrà diciotto... uffa...
Non voleva essere allontanato da
lei da uno stupido divario d’età. Era stupido ostinarsi a
mentire con se stesso: gli piaceva. Forse troppo.
Odiava ammettere di essere vittima
delle emozioni adolescenziali come un qualsiasi altro sedicenne, ma era
masochistico da parte sua continuare a negarlo e, nonostante cercasse
di nasconderlo, gli faceva male.
Lei era così perfetta,
così bella, così irresistibilmente attraente. Lui era
solo un peccatore, una bestia senza Dio che aveva tentato
d’invadere il suo territorio fregandosene delle regole e dei
rischi che sia lui che suo fratello avrebbero corso.
Si sentiva sporco dentro e così terribilmente diverso da lei...
Chinò lo sguardo e,
avvilito, si concesse senza opporre resistenza alla depressione che
minacciava di travolgerlo e che lo travolse senza pietà,
trascinandolo sul fondo dell’immenso, nero specchio lacustre
della sua struggente inquietudine.
Lucy non riusciva a capire perché il Destino fosse tanto gentile con lei: era una Diclonius in fin dei conti.
Era la nemica per eccellenza degli
umani, che rappresentavano l’unico male da cui il mondo era
afflitto. In quel preciso istante, i ricercatori del laboratorio,
aiutati dal resto del mondo, le stavano davano la caccia, mentre lei
mangiava assieme a quei due strani ragazzi.
Perché improvvisamente le
sembrava di essere trattata diversamente da come doveva essere?
Perché non riusciva ad essere felice di aver trovato qualcuno
che l’accettasse pur sapendo cos’era?
Le sue Silpelit erano tutte state
uccise senza pietà, massacrate senza aver mai potuto assaporare
la felicità. Tutte loro erano state brutalmente trattate fin
dall’infanzia, condotte alla pazzia e costrette da essa alla
morte come unica via di salvezza da quell’esistenza condannata al
dolore.
Gli umani si divertivano davvero così tanto a tormentare i Diclonius?
Non riusciva a capire cosa ci fosse
di così esaltante nel torturare altri esseri senza alcun motivo,
fino a spingerli alla morte. Non ne capiva il motivo.
Lei ne aveva uccisi così tanti per rabbia, per vendetta, che oramai aveva perso il conto.
Aveva versato tanto di quel sangue che ormai niente riusciva più ad intaccare il suo spirito.
Ogni gesto commesso contro gli
umani, ogni arto strappato, ogni cadavere mutilato, l’aveva fatto
per vendicare le sue Silpelit: era la regina dei Diclonius e, in quanto
tale, si sentiva in un certo senso responsabile dell’orribile
fine che avevano fatto le sue compagne.
E per quello non riusciva a smettere di massacrare gli umani che la cacciavano come un branco di lupi con le pecore.
Ma i Diclonius non erano prede: erano predatori e questo, gli umani, non l’avevano ancora capito.
Ecco perché si ostinavano a
darle la caccia: erano ciechi. Non riuscivano a vedere
l’effettivo divario che separava la razza umana dai Diclonius:
troppo ampio e profondo per poterlo colmare con la sola tecnologia.
Il loro era un divario dettato
dall’evoluzione. Era selezione naturale: i Diclonius erano nati
per sterminare gli umani e dare origine ad una nuova razza.
Ora era lei la sola capace di portare quel fardello, perché era la sola rimasta.
Il suo sguardo si staccò dal
piatto e si posò su Edward: pareva concentrato su chissà
quali pensieri, pensieri che lei avrebbe tanto voluto conoscere.
Di nuovo si rafforzò in lei il desiderio di averlo e di nuovo lei lo frenò.
Con profondo rammarico
constatò che erano troppo diversi per poter essere una cosa
sola: nel suo DNA era inciso l’imperioso ordine di sterminio
degli umani e lui era solo un innocente coinvolto nel suo scabroso
compito per puro caso.
Eppure erano anche simili, molto simili, sotto alcuni aspetti: avevano ambedue un torbido passato pieno di dolore.
Ambedue avevano perso qualcosa: lui un arto, lei ogni stilla di emozione umana che aveva.
Erano ambedue provati da quel mondo che sembrava aver preso a funzionare al contrario, dominato solo da egoismo e violenza.
Che cos’altro poteva fare lei, se non adattarsi per sopravvivere?
Non aveva altra scelta se non quella di lottare per la sopravvivenza della sua specie.
Nessun’altra scelta.
Venne stretta da
un’improvvisa morsa di tristezza: perché i Diclonius non
potevano avere scelte alternative a quella dello sterminio?
Perché non potevano avere una vita pacifica, come tutti gli
umani? Perché erano trattati come feccia, come emarginati, fin
dall’infanzia?
E quella morsa di tristezza di trasformò in una morsa di pura rabbia che rifluiva in lei come fiele.
Perché gli umani si
credevano tanto superiori e invece erano solo bestie prive di scrupoli
che si divertivano a giocare con la vita e i sentimenti altrui. Erano
un male che andava eliminato per sempre dalla faccia della terra.
Non doveva rimanerne neanche uno.
Il suo sguardo si posò di nuovo su Edward: era un umano.
Altra differenza. Sostanziale.
Eppure, lui non era come gli altri
umani: non riusciva, per quanto fosse arrabbiata con tutti loro, a
vederlo come un effettivo nemico...
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Capitolo 6 *** Passeggiata tra Diclonius e Alchimista ***
6_Passeggiata tra Diclonius e Alchimista
Il pranzo fu consumato in assoluto silenzio.
Edward fu il primo ad alzarsi e,
cercando di mascherare al meglio ciò che provava, si
voltò verso Lucy, la quale gli rivolse uno sguardo a metà
tra il perplesso e il curioso.
- Ehm... - s’interruppe, a
disagio: dannazione, ma perché non riusciva a dirle qualcosa di
sensato?! - ... h-hai voglia di... fare una... passeggiata? -
domandò.
Alphonse riusciva a stento a
trattenere le risate: probabilmente suo fratello non se ne era accorto,
ma era gradualmente passato dal rosa al rosso acceso.
Lucy rimase spiazzata dalla
richiesta del biondo e, al contempo, sorpresa: non si aspettava una
cosa simile proprio in quel momento.
Annuì e si alzò, facendo per seguirlo.
- Aspetta! - la fermò Alphonse.
Lei si volse, confusa, a guardarlo: per quale motivo si era intromesso nel momento che aveva tanto atteso?
- Le corna... vanno coperte. Non
vogliamo certo che qualcuno inizi a parlar male di lei, non è
vero fratellone...? - domandò Al, inarcando un sopracciglio in
modo assai eloquente, rivolgendosi a Edward, che abbassò il
proprio sguardo, palesemente imbarazzato.
Di nuovo era stato Al ad aver
premura di lei, molto più di lui: non riusciva a badare a niente
che non fosse il suo viso angelico, puro e innocente. Non voleva che
Alphonse s’intromettesse troppo, rovinando ogni sua
possibilità di riuscire nell’impresa più ardua che
si fosse mai trovato ad affrontare: cercare di conquistare una ragazza.
Lucy rimase dov’era: non ci aveva pensato! Che stupida...
Le sarebbe piaciuto però che fosse stato Edward ad accorgersi della sua sbadataggine...
Al sparì oltre la soglia
della cucina e riapparve poco dopo con un cappello che posò
delicatamente sulla testa di Lucy, la quale lo calcò meglio sul
capo. Era nero e ricordava vagamente le orecchie di un coniglio dal
pelo nero con due pon pon bianchi appesi in fondo. Davvero troppo femminile.
- Eh... scusa. È il primo
che mi è capitato alla mano... spero ti piaccia... -
esclamò Alphonse a mo’ di scusa.
Lucy lo guardò, perplessa,
troppo occupata ad osservarlo imbarazzata per notare il rapido
cambiamento di Edward, che era passato dallo speranzoso spinto a
strapparsi i capelli per quella che era senz’ombra di dubbio
vergogna allo stato puro: quello era il cappello che si metteva sempre
quando faceva terribilmente freddo, cosa che succedeva assai di rado in
aperta campagna. Era così terribilmente imbarazzante...
- Fratellone... che ti succede? - chiese Alphonse, osservando stranito suo fratello, appena dietro Lucy.
Anche lei si volse a guardarlo.
Edward si calmò di botto e assunse una parvenza di comportamento normale.
- Niente... niente! - disse, cercando di dissimulare. - Eh-eh... Lucy, andiamo? - chiese, rivolto alla ragazza.
- Va bene... - rispose lei.
Uscirono da una porta sul retro e
s’incamminarono giù lungo il pendio della collinetta sulla
sommità della quale era la casupola dei due fratelli.
Edward continuava a scoccarle
occhiate inquiete: avrebbe avuto di certo caldo con quel cappello in
testa, soprattutto in una giornata afosa come quella...
Lucy osservava il selciato sotto i
suoi piedi: era davvero singolare la sensazione di pace interiore che
stava provando in quel momento. Era così surreale che si domandò se fosse realtà o finzione... magari un sogno troppo vivido.
Edward le camminava al fianco,
silenzioso: era semplicemente incantevole, troppo per essere vero.
Eppure era reale e lui ne era così felice...
Il biondo continuava ad
arrovellarsi il cervello con pensieri banali sui quali era meglio che
non si soffermasse troppo, ma ne era troppo preso per porsi in modo
obiettivo dinanzi a certe questioni decisamente troppo materialiste per
il suo essere.
- Err... -.
Non si rese neanche conto di aver parlato ad alta voce: se ne accorse solo quando vide Lucy guardarlo interrogativa.
- Sì...? - chiese lei a bassa voce.
Era così imbarazzato... possibile gli fosse tanto difficile parlare con lei?! Ma perché si faceva tutti quei complessi?!
Una parola gli riecheggiò nella testa: infatuazione.
Chissà, forse era una specie
di vendetta della sua cara coscienza, eppure provò una strana
sensazione a quella parola, una sensazione piacevole.
- Non... non hai caldo con quello in testa? - le chiese di getto.
Idiota, pensò fra sé
e sé, di tutte le cose che poteva dirle, perché aveva
scelto la più idiota di tutte?!
Lucy alzò gli occhi a guardare il cappello, calcandolo meglio sulla testa.
- No, affatto... si sta bene ed è pure carino... - disse.
Shock! Quello fu uno shock nel vero
senso della parola: le piaceva?! Era il cappello più
orribilmente femminile che avesse mai visto, nonostante lo tenesse
caldo durante le giornate fredde. Già, che stupido: lei era una femmina...
E che femmina!
Waah! Ma a che razza di cose
pensava?! Non era certo uscito a fare una passeggiata con lei per
guardare quanto fosse femminile e attraente il suo corpo... no, doveva
levarselo dal cervello, scordarselo totalmente.
Era lì per stare in sua compagnia, punto e basta.
Niente desideri sessuali di nessun tipo: non era quel genere di ragazzo e non era intenzionato a diventarlo proprio ora.
- Tutto bene? Mi sembri strano... -.
La voce di Lucy lo riportò
bruscamente alla realtà e il suo sguardo cadde nelle iridi rosse
di lei, che lo scrutavano piene di curiosità.
- No, no! Niente... hai visto che
bella giornata? - chiese lui a sua volta, cercando di cambiare
argomento: essere al centro della sua attenzione lo metteva
terribilmente a disagio.
La Diclonius alzò gli occhi al cielo: il sole sfavillava alto nella volta celeste senza nuvole, irradiando calore e luce.
- Sì... è stupenda...
- mormorò lei con una nota di palese malinconia nella voce: le
belle giornate come quella la facevano sentire estranea a tutto e a
tutti.
La facevano sentire come la sporca
assassina che era e che sarebbe stata ancora per molto tempo,
finché la razza umana non si fosse totalmente estinta.
I suoi occhi velati di un’impercettibile tristezza si posarono sulla mano d’acciaio di Edward.
- Tu la usi più l’Alchimia...? - domandò di getto, senza riflettere.
Si poggiò le dita sulle
labbra, in una posizione che esprimeva perfettamente, molto meglio
delle parole, il rammarico per ciò che aveva appena detto.
Erano arrivati ai piedi di una
grossa quercia dai rami frondosi che gettava nella loro direzione la
sua grande ombra, quasi a volerli proteggere.
Edward si fermò e Lucy accanto a lui.
Il biondo la osservò con meraviglia crescente: era così tragicamente bella in quella posizione di dolore.
Così terribilmente attraente.
Prima di riuscire a capire qualcosa
di ciò che gli stava succedendo, le sue mani circondarono quelle
di lei e la mano d’acciaio si poggiò delicatamente su
quella che Lucy teneva vicina alle labbra.
- Lucy... - mormorò lui.
La Diclonius avvertì un moto
interiore che la attraeva inesorabilmente a lui, come se umani e
Diclonius fossero poli opposti elettricamente carichi.
E si sa, le cariche opposte si attraggono.
La voce con cui aveva pronunciato
il suo nome era intrisa d’affetto ed ogni singola lettera era
stata detta con tono così garbato e sensuale che la Diclonius ne
era rimasta affascinata.
Si avvicinarono ancora un poco l’un l’altra, sfiorandosi timidamente le mani.
Non le importava affatto se
l’acciaio della sua mano era freddo: le ricordava il suo stesso
cuore. La sua insensibilità verso gli umani.
Ma quella mano d’acciaio era il simbolo del passato travagliato del ragazzo che aveva dinanzi.
Era il simbolo della loro somiglianza.
Sfuggì alla sua delicata
presa metallica per prendergli la mano e carezzare amorevolmente il
freddo acciaio, nonostante sapesse che quella mano non avrebbe potuto
trasmettergli alcun senso.
- Edward... -.
Il suo nome scivolò fuori dalle sue labbra richiamato dalla carica che l’attraeva verso di lui.
Sentiva il suo seno premuto contro il duro petto del ragazzo e quel contatto era piacevole.
Assai piacevole.
In quell’istante non le
importava più che lui fosse un umano e lei l’essere che
avrebbe dovuto eliminarlo per sempre.
Non le importava più della missione incisa fin dalla nascita nel suo DNA.
Non le importava più della vendetta per la morte delle sue compagne.
L’unica cosa che per lei era veramente importante in quel momento erano loro due e nient’altro.
Con un movimento fluido e sincronico, le loro labbra si sfiorarono timidamente e si trovarono.
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Capitolo 7 *** Tracce ***
7_Tracce
Erano quasi le sette di
sera, ma non poteva assolutamente andarsene da lì: erano
così vicini a rintracciarla che rimandare il tutto
all’indomani sarebbe stata una vera stupidaggine.
Avevano di nuovo chiesto la collaborazione del SAT1,
il quale aveva dato la propria piena adesione alla ricerca dopo esser
stato messo al corrente della situazione: se l’avessero lasciata
a piede libero, avrebbe cancellato dalla faccia della Terra tutti gli
esseri umani. Lo sapeva, ne era certo: era nelle sue
possibilità. Era la regina e come tale aveva una forza di molto
superiore a quella degli altri esemplari della sua specie. Forse
proprio perché era la più forte di tutti aveva resistito
tanto a lungo alla caccia a livello globale contro di lei e le sue
simili.
Ed era rimasta solo lei,
l’ultimo esemplare di Diclonius, l’ultima
possibilità per la nuova umanità di nascere.
Proprio per quello, era ancora
più pericolosa: avrebbe massacrato tutti coloro che avrebbero
incrociato il suo cammino non solo per vocazione genetica, ma
soprattutto per vendetta.
Dovevano agire in fretta,
catturarla e riportarla nel centro di ricerche: in gioco c’era il
destino dell’umanità intera. Se il virus vettore si fosse
sparso a macchia d’olio a causa sua e dei suoi massacri, ben
presto avrebbe avuto altre Silpelit a darle man forte.
E per l’umanità, sarebbe stata la fine.
I Diclonius, gli esseri superiori
scelti per rimpiazzare la razza umana, erano del tutto privi di
scrupoli: fin dall’età di tre anni mostravano di avere
comportamenti innaturalmente violenti ed un piacere perverso
nell’uccidere le persone come fossero semplici animali,
pupazzetti ai quali strappare parti del corpo.
Erano un male che doveva essere estirpato a qualsiasi costo.
E lui era l’unico in grado di poter arrivare a ciò.
- Direttore Kurama, in linea la squadra 7 - esclamò uno degli addetti ai computer, senza voltarsi.
- Passala in vivavoce - ordinò Kurama freddamente.
- Direttore Kurama, abbiamo
individuato una scia di sangue che porta nell’aperta campagna
fuori della capitale. Ci sono stati molte sparizioni negli ultimi
giorni - comunicò la voce dall’altoparlante.
Kurama fissò gli occhi sullo schermo del computer dinanzi a sé.
È lei...
- Molto bene, mandiamo rinforzi. Non proseguite la ricerca finché non saranno arrivati - ordinò Kurama.
- Sì! - rispose l’uomo dall’altoparlante.
La comunicazione si chiuse.
E così si era diretta in
campagna... sperava forse che i suoi omicidi passassero inosservati
sparendo dalla circolazione, ritirandosi dove nessuno avrebbe mai
pensato di cercarla?
Stupida... ora avrebbe fatto i
conti con lui: se la sua Mariko era nata Diclonius, la colpa era
soltanto sua e della sua razza. Se non fossero esistiti i Diclonius,
sua moglie sarebbe stata ancora in vita e la sua Mariko una bambina
normale, con una vita normale, priva di dolore.
Ma ormai non c’era
più: era stata soppressa, assieme alle altre Diclonius del
centro. Erano diventate troppo instabili, troppo violente per poter
rimanere in vita.
Con l’uccisione di sua
figlia, aveva perso ogni briciolo di umanità che aveva e ora
viveva spinto solo dalla vendetta, dal desiderio di uccidere Lucy, la
regina, la maggiore responsabile della diffusione su grande scala del
virus vettore e della nascita di Mariko come Silpelit votata allo
sterminio della razza umana.
Non avrebbe mai potuto dimenticare
ciò che aveva provato quando aveva visto il cranio di Mariko, le
sue corna, il simbolo della sua diversità, della sua non
appartenenza alla specie umana.
Aveva provato l’orribile
sensazione di chi ha perso tutte le speranze ancor prima di averne, di
chi ha avuto una figlia e sapeva già di doversene separare,
senza neanche averle dato un nome, averla abbracciata, coccolata,
cresciuta.
Solo per le sue dannate corna, per il suo DNA sbagliato.
Lui odiava
i Diclonius: a causa loro, sua moglie, la sua amata era morta. Aveva
dato alla luce Mariko e dopo poco era morta, distrutta dalla fatica,
dall’angoscia, dalla sofferenza patita per la sua piccola che non
avrebbe mai potuto vivere una vita normale, come tutte le altre bambine.
Avrebbe preso Lucy: lo doveva alla sua Mariko, a sua moglie e all’umanità.
Non le avrebbe mai permesso di
sopraffare totalmente il genere umano, perché era suo dovere,
perché i Diclonius erano troppo violenti, troppo instabili per
poter governare il mondo e... perché era la sua vendetta.
Lucy, la regina, l’ultima superstite di quella stirpe votata alla distruzione, non l’avrebbe avuta vinta.
No, mai.
Non gliel’avrebbe permesso, anche a costo della sua stessa vita.
Lo doveva alla sua Mariko...
SAT1: Special Assault Team (Squadra Speciale d’Assalto).
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Capitolo 8 *** Notte per due ***
8_Notte per due
Erano già le
sette, ancora nessun segno di Edward e Lucy e lui si stava irritando
alquanto: aveva preparato la cena con ogni minima cura, ma loro non si
erano ancora fatti vivi e odiava vedere il lavoro dell’ultima
ora andare in fumo a quella maniera.
Ma che cosa stavano facendo quei
due fuori fino a quell’ora?! Se Lucy fosse stata avvistata e
riconosciuta, i militari e i ricercatori che le davano la caccia
sarebbero stati avvisati e in men che non si dica le sarebbero piombati
addosso e lei avrebbe dovuto reagire... davanti a Edward.
Alphonse sapeva fin troppo bene
cosa riusciva a suscitare le più profonde emozioni del fratello
e vedere la gente uccisa ed orribilmente mutilata da una persona come
Lucy era senz’altro una di quelle.
Edward odiava gli assassini, ma era
palese l’attrazione che provava nei confronti di Lucy e non
voleva assolutamente vedere suo fratello piegato alla tremenda
realtà che si sarebbe trovato ad affrontare in un caso simile,
all’inevitabile nuova concezione che avrebbe dovuto farsi di lei:
un’assassina per vocazione genetica.
Lo sbattere della porta principale distrasse Alphonse dai propri pensieri.
Il ragazzo si voltò e vide arrivare sull’uscio un Edward decisamente scarmigliato e una Lucy piuttosto arrossata.
- È successo qualcosa?
Perché siete arrivati così tardi? - li aggredì
Alphonse, senza nascondere una certa ansia e indignazione.
- No, niente! Ci siamo un po’
trattenuti e non ci siamo accorti di che ore erano... - tentò di
giustificarsi il biondo.
Al scosse il capo, esasperato: comportamento alla Ed, tipico.
- Ah, hai già preparato la
cena? Meno male... ho una fame... - esclamò il biondo, prendendo
rapidamente posto a tavola, senza degnare di altre attenzioni il
fratellino.
Se solo Alphonse avesse prestato un
po’ più d’attenzione al fratello, certamente avrebbe
scorto un velo d’imbarazzo sul suo viso.
Il biondo sapeva di non farci una
gran figura a comportarsi in quel modo, ma non voleva assolutamente che
Al partisse con il solito terzo grado che gli faceva ogni volta che
arrivava tardi, soprattutto perché non aveva intenzione di
parlare con nessuno di ciò che era successo fuori.
- Tu non hai fame? - domandò Alphonse a Lucy.
Quest’ultima sobbalzò sul posto e si avvicinò al tavolo, sedendosi vicina a Edward e iniziando a mangiare.
Il ragazzo le scoccò un’occhiata di sbieco, avvampando ancora un po’: si erano baciati.
E che bacio!
Era la prima volta che baciava una ragazza e aveva trovato l’esperienza davvero piacevole: Lucy era così dolce...
Si ritrovò a pensare al suo letto al piano di sopra e scacciò il pensiero: no, non era ancora una relazione così forte, ma sotto sotto avrebbe tanto voluto che lo fosse.
E chissà com’era carina Lucy...
- Fratellone, guarda che non
c’è bisogno di ingozzarsi così! Mica scappa la
cena! - lo richiamò Alphonse, distogliendolo da quel pericoloso
flusso di pensieri.
In cuor suo, Edward
ringraziò il suo fratellino per averlo salvato dal gorgo che lo
stava lentamente trascinando sul fondo del mare.
Sbatté le palpebre, come
abbagliato, e si guardò intorno: suo fratello lo fissava a
metà tra l’esasperato spinto e l’arrabbiato, mentre
Lucy, seduta accanto a lui, mangiava a capo chino, senza alzare gli
occhi dal piatto, ancora evidentemente scossa per il bacio.
- Scusa... sono stanco - disse, riprendendo a mangiare con più calma.
Menzogna che non stava né in
cielo né in terra, ma cosa poteva dirgli altrimenti? Mangiava di
fretta perché pensava e ripensava ad un molto probabile rapporto
sessuale con Lucy? Alphonse come minimo gli avrebbe staccato la testa.
L’unica cosa che gli rimaneva da fare era mentire, anche se non gli piaceva affatto dire bugie a suo fratello.
Quando la cena fu finita, mentre
Alphonse lavava i piatti, Edward richiamò con un cenno
l’attenzione di Lucy, concentrata sulle ombre che
s’intravedevano dalla finestra.
- Vieni ti... - s’interruppe,
scacciando con veemenza il tumulto di pensieri che gli si affacciarono
alla mente al pensiero di ciò che stava per dire - ... ti faccio
vedere dove dormirai... - disse.
- Come? Io non posso dormire qui... vi ho già recato abbastanza disturbo... - esclamò.
- Quand’è che la
finirai con questa solfa? Non ci dai alcun fastidio, anzi, è
carino avere qualcun altro a far compagnia in casa! - s’intromise
Alphonse, senza smettere di lavare i piatti.
Lei si alzò e seguì Edward senza aggiungere altro.
Quando ebbe varcato la porta della
cucina, Al si volse per metà e sorrise di sghembo: era come una
pecora smarrita, senza un posto dove andare, anche se, parlando di
Diclonius, analogie del genere non si dovrebbero fare. Eppure non
sembrava essere così cattiva come la descrivevano, forse
semplicemente perché c’era qualcosa tra lei e Ed.
Sorrise tra sé e sé,
riprendendo a lavare i piatti: forse suo fratello, da bravo gentiluomo,
le avrebbe evitato di dormire sul divano...
Al piano di sopra, intanto, Edward aveva condotto Lucy lungo il breve corridoio dal quale si accedeva ad altre tre stanze.
- Non abbiamo molte camere, perciò ti cederò quella dove dormo io... - le disse Edward, aprendo la porta a destra.
Lucy riuscì ad intravedervi all’interno un letto matrimoniale.
Fece qualche passo incerto nella stanza, osservandola quasi con curiosità.
- Ma... tu dove dormirai? - domandò, voltandosi verso il biondo, ancora fermo sull’uscio.
- Giù, sul divano... - rispose con semplicità.
- E perché non fai dormire me sul divano? - chiese lei.
In poche, rapidissime falcate, Edward le fu dinanzi.
- Perché tu sei un’ospite... - disse, quasi trapassandola con lo sguardo.
Lucy indietreggiò di qualche
passo e si sedette sul bordo del letto, guardando il pavimento, per poi
alzare nuovamente gli occhi su Edward.
- Ti... ti dispiacerebbe dormire con me? - domandò.
Era riuscita a chiederglielo! Era riuscita a trovare il coraggio per chiederglielo!
Edward si sentiva istintivamente
sospinto ad accettare l’offerta, mosso anche da certi vividi
pensieri che non riusciva in alcun modo a scacciare, ma riuscì a
far prevalere la ragione.
Abbassò gli occhi.
- Forse... forse è meglio se dormi da sola... - disse a bassa voce.
Lucy parve sinceramente dispiaciuta
e si tolse il cappello, che poggiò sul comodino vicino a
sé, per poi infilarsi sotto le coperte.
Non riusciva, per quanto si
sforzasse, a distogliere lo sguardo da lei: era più forte di
lui, della sua volontà di sopraffare il suo emergente istinto di
maschio.
Fece qualche passo verso il letto.
- Ripensandoci... mi piacerebbe - si sentì dire.
Gli sembrava di essere in un corpo
che non fosse il proprio, ma il contatto attraverso la coperta
con il corpo di Lucy era fin troppo concreto.
Camminò carponi sulla coperta, togliendosi il giubbino, gli stivaletti e i pantaloni.
Nell’oscurità che
trapelava dalle finestre, scorse lo sguardo di Lucy: lo guardava,
scioccata, eppure piacevolmente sorpresa.
Le strisciò accanto, sotto
le coperte, tirando indietro i fastidiosi ciuffi ribelli che scappavano
dalla treccia, passandole il braccio destro sul petto.
Lei lo afferrò prontamente e lo portò a cavallo del seno, voltandosi poi verso di lui.
Il biondo tracciò con il dito i contorni dei suoi seni, delicatamente, con la mano in auto-mail.
La sentì rabbrividire al contatto.
- Perdona il freddo acciaio... - sussurrò il biondo, lasciandole un caldo, affettuoso bacio sulle labbra.
Lei si puntellò su un gomito in modo da poterlo guardare bene e, piano, scivolò a cavallo del suo bacino.
Edward avvertì
un’ondata di piacere diffondersi dal punto di contatto fino ad
ogni sua più piccola terminazione nervosa. Era così
intenso... così piacevole e coinvolgente.
Lucy gli si spalmò letteralmente sul petto, mordicchiandogli il labbro con fare provocatorio.
Edward sentì il suo seno
premuto contro il suo petto, il suo ventre caldo a contatto con la sua
pelle fredda, il freddo acciaio del suo auto-mail sulla schiena calda
di lei.
Fu un istante e la situazione si
ribaltò: Lucy sotto e Edward a cavallo del suo bacino perfetto,
mentre osservava le meravigliose curve del suo corpo in ombra. Si
chinò in avanti e la baciò appassionatamente, ritrovando
in lei il medesimo fervore.
Si guardarono per lunghi istanti.
Poi, tutto fu confuso da un turbinio di passione travolgente...
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Capitolo 9 *** Amore ***
9_Amore
Il cielo era già
rischiarato dalla luce solare, quando Alphonse, ancora mezzo assonnato,
scese le scale per andare a preparare la colazione e, passando davanti
al divano, lo trovò vuoto, del tutto privo dei segni che
avrebbero potuto dargli ad intendere che qualcuno aveva dormito
lì quella notte.
Si stropicciò gli occhi e
risalì le scale, attento a non cader per sbaglio ed entrò
nella stanza dove solitamente dormiva suo fratello.
Qui il suo sguardo si posò
immediatamente sul letto matrimoniale nel quale riuscì a
scorgere due figure ancora addormentate sotto le coperte.
Il ragazzo si avvicinò e scorse Edward e Lucy, teneramente avvinghiati sotto le coperte, lui a torso nudo e lei pure.
Avvampò d’imbarazzo
nello scorgere parte delle curve del seno della ragazza e
indietreggiò, incerto, di qualche passo, urtando una sedia e
rovesciandola, provocando abbastanza rumore da svegliarli entrambi.
- Mmmh... Al...? - mormorò
Edward, assonnato, tirandosi a sedere sul letto, facendo cadere le
coperte e rivelando il torso nudo.
Lucy si mise seduta a sua volta,
osservando dall’altra parte del letto Alphonse che, tutto
imbarazzato, cercava di rialzare la sedia e di raccogliere i vestiti
che erano poggiati sopra ad essa, caduti assieme alla sedia.
Edward lo fissò, cercando di
mettere a fuoco il mondo, ancora assonnato, finché la
realtà non lo investì come una secchiata d’acqua
gelida, risvegliandolo all’improvviso.
- AL! - urlò, facendo sobbalzare sia il fratello che la Diclonius.
- Guarda che ci sento benissimo! Che bisogno c’è di gridare così?! - lo rimbrottò Alphonse.
- Che-che cosa ci fai qui? - domandò Ed, incurante dell’osservazione del fratellino.
- Sono venuto a vedere che fine avevi fatto! Non ho visto coperte né nulla sul divano! - ribatté Al, indignato.
- Be’ io sono vivo e vegeto! Non devo certo rendere conto a te di cosa faccio! - replicò Edward.
Tutto quello strano fervore che
l’animava, nasceva dal semplice fatto che si vergognava di essere
stato scoperto da suo fratello lì, nello stesso letto di Lucy, a
torso nudo per giunta.
- E comunque, Lucy... - disse
Alphonse, senza voltarsi, gettando una maglia oltre la propria schiena
- faresti meglio a metterti qualcosa addosso... Ed sta iniziando a
sudare... - disse il ragazzo, prima di uscire dalla camera.
In effetti era vero: Edward avvertiva, in fondo allo stomaco, qualcosa che gli faceva sentire un caldo pazzesco.
Lucy afferrò la maglietta e si sedette sul bordo del letto, dando le spalle al biondo mentre se la metteva.
Una volta infilata, si alzò ed uscì dalla stanza, lasciando Edward da solo.
Quest’ultimo ricadde pesantemente sul cuscino, osservando il soffitto: aveva avuto il suo primo rapporto sessuale.
Non sapeva se esserne felice o
dispiaciuto: in fondo in fondo si sentiva contento, però aveva
anche l’impressione che fosse moralmente sbagliato.
Perché si sentiva
così confuso? Era stato stupendo, aveva sentito il piacere, puro
e genuino, fluirgli e rifluirgli nelle vene, irrorandolo fin nelle
più piccole cellule del suo corpo.
Perché non riusciva ad
accettarlo completamente, non riusciva a capirlo: forse alla sua
età era prematuro... eppure quel desiderio sfrenato di passione
era assopito dentro di lui da chissà quanto tempo e aveva
aspettato Lucy per risvegliarsi.
Che stranezza...
Si alzò e si stiracchiò, facendo scricchiolare il braccio normale, prima di rivestirsi.
Uscì dalla camera e scese le
scale stropicciandosi gli occhi per abituarli alla luce solare che
entrava dalle numerose finestre, irradiando la casa.
- Ah, fratellone! Credevo che ti
fossi perso! Sbrigati, altrimenti la colazione raffredda! -
esclamò Alphonse, affacciandosi alla porta della cucina.
- Sì, arrivo...! - rispose il biondo.
Si avviò in cucina, dove
trovò Lucy già seduta a far colazione, silenziosa, il
cappello calcato sulla testa.
Si sedette accanto a lei e si mise a fare colazione in silenzio, gli occhi bassi, concentrati sul piatto che aveva dinanzi.
- Be’? Perché siete
così silenziosi? - domandò Alphonse, squadrandoli dalla
sua postazione vicino al lavello.
Li vedeva: erano palesemente in
imbarazzo e, nonostante non sapesse il motivo preciso del rossore
diffuso sulle loro guance, non poteva fare a meno di trattenersi dal
ridere: erano così carini. Pensare che se suo fratello avesse
scoperto la reale natura di Lucy l’avrebbe cacciata da casa
seduta stante...
Però, in fondo, era meglio
così: non l’aveva mai visto così calato nella parte
del sedicenne in crisi ormonale, diviso tra istinto e ragione.
Appena finita la colazione, sempre
seguiti da quello strano, imbarazzato silenzio, Edward e Lucy uscirono
dalla cucina e da casa.
Alphonse sospirò, senza poter nascondere un sorriso.
- Mai visto Ed uscire mano nella mano con una ragazza... - mormorò, prima di iniziare a sistemare i piatti della colazione.
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Capitolo 10 *** Crepuscolo di sangue ***
10_Crepuscolo di sangue
I giorni passavano, trasformandosi rapidamente in settimane.
Lucy si integrò ben presto
nella sua nuova “famiglia”, anche se, ogni giorno che
passava, iniziava a sentirsi sempre più strana, come se ci fosse
qualcosa di anomalo dentro di lei, cosa della quale si accorsero anche
Edward e Alphonse: improvvise voglie e nausee si susseguivano senza
aver nessuna spiegazione, dando loro solo ulteriori motivi per
preoccuparsi per lei.
A volte si rifiutava
categoricamente di mangiare, altre volte aveva improvvisamente fame,
altre ancora nausee e vomito, nonostante non avesse mangiato niente
nella maggior parte dei casi.
E i due fratelli si preoccupavano sempre di più, non sapendo il motivo per cui si comportava così.
Erano oramai passate quasi tre settimane dalla notte che Edward e Lucy avevano passato insieme.
Quel giorno, lei aveva avuto solo
un po’ di nausea alla mattina, ma poi altro e ora, assieme ad
Alphonse, si apprestava a preparare la cena, mentre Edward oliava le
giunture scricchiolanti degli auto-mail.
In lontananza, si scorgeva il sole
che si preparava a sparire sotto l’orizzonte per dare spazio alla
notte, che tingeva il cielo di meravigliose tonalità
rosse-arance.
Lucy stava affettando le verdure,
quando si udì distintamente rimbombare nell’aria un colpo
d’arma da fuoco ed una colonna di fumo nero
s’innalzò nel cielo oltre una collinetta vicina.
La Diclonius abbandonò
ciò che stava facendo e si affacciò sull’uscio:
ancora, un altro colpo, stavolta accompagnato da grida.
Non c’erano dubbi: erano loro.
Alphonse si sporse da dietro di lei e anche Edward arrivò in cucina.
- Che cos’è successo? - chiese.
Alphonse spostò il proprio sguardo su Lucy, incrociando quello della ragazza, improvvisamente serio.
Senza preavviso, corse fuori dalla porta, via, veloce, verso la colonna di fumo.
- LUCYYYYY! - gridò Edward, facendo per correrle dietro, ma suo fratello lo trattenne.
- No, fermati! Deve andare da sola! - esclamò Alphonse.
- COSA?! PERCHÉ? - sbraitò il biondo, cercando di divincolarsi dalla presa di suo fratello.
Quando i loro sguardi
s’incrociarono, Edward notò nello sguardo di Alphonse una
nota di pericolo, una specie di tacito avvertimento, misto ad un
rimorso del quale non comprendeva il motivo.
- Lasciami! Devo andare da lei!! - esclamò.
- No. Tornerà - gli disse Al.
Ma Edward non gli credeva: era preoccupato, era spaventato e non voleva abbandonare Lucy.
Nel tentativo ultimo di liberarsi
della presa del fratello, gli rifilò una gomitata nello stomaco
tale da farlo cadere a terra, piegato in due, con un rivolino di sangue
che trapelava dalle sue labbra semiaperte.
- Scusa - si affrettò a dire il biondo, prima di correre via.
- NO! FRATELLONE! - gli urlò dietro Alphonse, ma ormai non poteva più sentirlo.
Gli faceva male la pancia e
riusciva a respirare a fatica. Dannazione, ma perché suo
fratello era così cocciuto?! L’avrebbe vista trucidare
quelle persone, l’avrebbe odiata per questo e... Lucy ne sarebbe
stata distrutta.
No, non poteva permettergli di rovinare la vita né a se stesso né, tantomeno, a Lucy.
Con un notevole sforzo di
volontà, nonostante il dolore all’addome, Alphonse si
rimise in piedi e si ripulì il sangue sul dorso della mano,
prima di uscire da casa, cercando di correre: non voleva che suo
fratello scoprisse la vera natura di Lucy.
La Diclonius correva a perdifiato
nell’aperta campagna, ignorando il dolore all’addome che
aveva continuamente da quasi una settimana, ignorando Edward e il suo
grido angosciante che ancora le riecheggiava nella testa. Potevano
averla rincorsa per mezzo mondo, averla ripetutamente ferita, sia nel
fisico che nel lato affettivo, ma non lì, non ora che finalmente
aveva trovato qualcuno che l’amasse davvero, ignorando le sue
dannatissime corna e il suo aspetto diverso.
No, non poteva permettere loro di rovinare tutto.
Doveva impedir loro di arrivare
fino da Edward e Alphonse: se avessero scoperto che l’avevano
ospitata, li avrebbero uccisi.
Non li aveva uccisi lei e nemmeno loro potevano permettersi di farlo.
Accelerò ancora la corsa,
sentendo rifluire dentro di sé la rabbia che era rimasta sopita
fino a quel momento, aspettando solo qualcuno su cui potersi sfogare.
Sì, cara. Devi ucciderli tutti. Hanno minacciato la tua famiglia.
Sì, aveva ragione. Era la Voce della Ragione.
Non farti scrupoli: uccidili tutti. Non lasciarne neanche un pezzettino...
No, non sarebbe rimasto neanche un vago ricordo della loro esistenza.
Sì, tu hai il potere di farlo. Uccidili tutti!
Li avrebbe sterminati tutti, per Edward, per Alphonse...
Ti hanno lasciata sola. Ripensa a Nana, a Mariko... loro sono morte a causa loro!
... per le sue adorate Silpelit.
Va’ ed uccidi!
Sì. Li avrebbe uccisi tutti quanti, quegli stupidi che ancora osavano resisterle.
- Eccola! FUOCO! -.
Rimase lì dov’era,
perfettamente immobile, mentre i suoi vettori, potenti della rabbia che
nuovamente le fluiva dentro, andavano e colpivano.
L’aria si riempì di
incoerenti grida di dolore, insieme al sangue schizzato dagli arti
mutilati, dai cadaveri esplosi, dai crani frantumati.
Il sangue della vendetta.
Sentiva il potere dentro di lei, la voglia di ucciderli tutti quanti.
- LUCYYY! LUCYYYYY! - gridò una voce così familiare che il suo cuore mancò un battito.
- NOOOO! EDWAAARD NOOOOO! - urlò.
Alle sue spalle comparve la figura del biondo.
Un proiettile fendette
l’aria, partendo da dietro di lei e colpì Edward al
fianco, ferendolo, scaraventandolo a terra.
Lei si girò di nuovo.
Lacrime di rabbia, frustrazione e odio, affiorarono nei suoi occhi.
Individuò immediatamente il responsabile dell’attacco, l’unico umano ancora in piedi.
Tutti i suoi vettori si accanirono contro il suo corpo.
Edward, ferito ma non per questo
meno motivato a proteggere la sua Lucy, si puntellò sui gomiti e
rivolse il suo sguardo verso di lei.
Qui, si fermò, quando
notò migliaia di braccia invisibili, che lui riusciva a scorgere
impercettibilmente nell’aria, si avvinghiarono attorno ad un uomo.
E quelle braccia, non c’erano dubbi, erano di Lucy.
- BASTARDO! - ringhiò la ragazza con rabbia e disprezzo nella voce.
L’uomo esplose in una pioggia di sangue.
Edward rimase scioccato, incredulo, gli occhi venati di terrore e di disgusto.
Che... che cosa era successo?
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Capitolo 11 *** Scoperta e addio ***
11_Scoperta e addio
- Edward! - esclamò Lucy, vedendolo nello sforzo di mettersi seduto.
Si accostò al ragazzo, che
però fece per allontanarsi da lei: nei suoi occhi, notò
Lucy, c’era solo terrore.
- Che... che cosa significa?
Quelle... quelle braccia erano... tue. Hai ucciso... quell’uomo.
É... è esploso... - balbettò il biondo, incapace
di esprimere il proprio stato d’animo.
Lucy chinò il capo.
- Edward. Io non sono umana.
Le vedi queste? - si alzò appena il cappello per mostrargli un
corno - Queste sono il segno della mia diversità. Io sono nata
per uccidere il genere umano. Io... non volevo farti soffrire
così. Non volevo che tu vedessi, perché ora sarò
di nuovo sola... - spiegò.
Il biondo notò una lacrima rigarle il viso, solitaria.
Si rialzò e lo lasciò lì, a terra, sanguinante.
- Non sei ferito così
gravemente. Alphonse starà arrivando. Digli che lo ringrazio per
aver tenuto il segreto... addio -.
Come? Lui lo sapeva? E l’aveva accettata in casa ugualmente? Perché lui era sempre l’ultimo a sapere le cose?
Quell’improvvisa scoperta gli faceva male al cuore, molto più male del proiettile ancora conficcato nel suo fianco.
L’aveva amata così
tanto e l’aver scoperto che in realtà lei era
un’assassina per vocazione genetica lo stava dilaniando, come
centinaia di aghi conficcati nel suo cuore addolorato.
Si stava allontanando ancora, stava
marciando verso gli uomini che, sfocati, riusciva a distinguere in
lontananza, davanti a lei.
Stava marciando dritta verso altri che sarebbero morti, come quelli prima di loro.
Edward, con un notevole sforzo di
volontà, nonostante il dolore emotivo e fisico, cercò di
rimettersi seduto, poi in piedi.
Sentiva il sangue bagnargli i vestiti, ma non gl’importava.
- Fratellone! Oddio sei ferito! - esclamò la familiare voce di Alphonse.
Il fratellino accorse da Edward e lo sorresse, mentre questo cercava di mettersi in piedi.
- Cosa ti è success...? -.
- TU LO SAPEVI?! -.
Il grido isterico di Edward lo
colpì come uno schiaffo, seguito immediatamente da un pugno che
lo mandò steso a terra.
- FRATELLONE MA CHE TI È PRESO?! -
- TU LO SAPEVI! SAPEVI COS’ERA LUCY E NON MI HAI DETTO NIENTE, NON È VERO?! -.
Fu peggio di qualsiasi reazione si
potesse immaginare da parte di suo fratello: Edward era lì,
tremante, che si reggeva in piedi a fatica, un fianco trapassato e
sporco di sangue, il viso basso e lacrime, tante lacrime, che gli
rigavano silenziose le guance sporche di fango, esprimendo meglio di
qualsiasi parola tutto il suo dolore e la sua frustrazione.
Era penoso: come potevano esistere emozioni così forti da distruggere una persona fino a ridurla in quello stato?
Alphonse lo guardava dal basso,
sorpreso da una reazione così profonda, così negativa: si
era aspettato qualcosa di pessimo, ma non immaginava un dolore simile.
- Fratellone... se te
l’avessi detto, tu l’avresti amata allo stesso modo o
l’avresti trattata da emarginata quale era? Perché lei non
è altro: è un’esclusa dal mondo, è braccata
per la sua diversità. Tu cos’avresti fatto se avessi
saputo cos’era davvero, fin dall’inizio? - gli
domandò Alphonse, rialzandosi.
Edward era confuso, era distrutto, ma quelle parole riuscirono a riportare un barlume di luce nella sua mente.
Che cos’avrebbe fatto? Non
poteva saperlo. E come poteva? Era così offuscato dal caos che
si era d’improvviso impossessato di lui che non riusciva a
pensare lucidamente.
Non riusciva a credere che lei
fosse realmente un’assassina, nonostante avesse ammazzato un uomo
lì, davanti ai suoi occhi, pochi istanti prima.
Non rispose: rimase in silenzio,
lasciandosi trasportare sul fondo di un nero specchio lacustre con la
speranza di non riuscirne mai più, perché lì fuori
era vulnerabile al dolore.
Alphonse lo fissava, attendendo una risposta che non arrivò.
- Visto? Non sarebbe cambiato
niente. Avrebbe subito il medesimo trattamento che tanti prima di te le
avevano già inflitto - disse, con una punta di risentimento
nella voce.
In lontananza, si sentirono riecheggiare grida convulse e nell’aria apparvero scie di sangue.
Poi, un grido che pareva più simile ad un gemito riecheggiò al di sopra degli altri e Edward lo riconobbe.
Come non riconoscerlo: Lucy.
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Capitolo 12 *** Oltre il vetro ***
12_Oltre il vetro
Edward si volse di
scatto: quella era la voce di Lucy, impossibile da non riconoscere per
lui, che l’aveva udita così tanto e così a lungo.
Alphonse si girò assieme al
fratello e ambedue corsero verso il luogo dello scontro, veloci,
incuranti del dolore, preoccupati solo per la persona che aveva appena
gridato.
Edward avvertiva il fianco
mandargli acute fitte ad intermittenze frequenti, che gli offuscavano
la vista per il dolore, ma non gl’importava: era
preoccupato per Lucy.
Era strano eppure, nonostante sapesse che era un’assassina, non poteva fare a meno di preoccuparsi per lei.
Non riusciva a farne a meno.
I due fratelli giunsero sul luogo e
qui si fermarono: il campo di battaglia, un lago di sangue che bagnava
l’erba, disegnandovi sopra tracce che si intrecciavano tra loro
e, abbandonati sopra il prato, arti e cadaveri mutilati orribilmente.
A Edward prese d’improvviso
una profonda nausea che ricacciò indietro con fatica, mentre
scrutava il prato alla ricerca di Lucy.
Poi vide una capsula e, rinchiusa dentro, Lucy, rannicchiata sul pavimento, tremante, sofferente.
- LUCY! - gridò il biondo, correndo attraverso il sangue, fino a raggiungerla.
Quando le fu accanto, poté notare, vicino a lei, una chiazza che somigliava orribilmente a vomito.
No, che era inequivocabilmente vomito.
Si era sentita di nuovo male.
Una fitta acuta di preoccupazione lo trapassò.
Sfiorò il vetro che lo separava da lei, guardandola.
- Lucy... - mormorò ancora.
Lei socchiuse debolmente gli occhi
e lo guardò: in quello sguardo, il ragazzo percepì un
dolore così forte, così profondo che si sentì
partecipe in prima persona di esso.
- Allontanati da lei, ragazzo. ORA! -.
Una voce attirò la sua
attenzione, costringendo ad abbandonare il contatto visivo con Lucy per
guardare un uomo che gli puntava contro una pistola.
- Che cosa vuole? - gli ringhiò contro il biondo.
- Lei non è umana. Potrebbe essere la fine per te se le stai così vicino. Vattene moccioso! -
- E chi è lei per dirmi di andarmene? Io rimango con Lucy! -.
L’uomo parve visibilmente scioccato.
- Come fai a conoscerla? PARLA! -
- Non sono affari che la riguardano! La liberi! ORA! - ribatté il biondo, visibilmente adirato.
- Non posso. Ucciderà tutti -
- Non lo vede che sta male?! Non ha neppure la forza di reggersi in...! -.
Il suo sguardo cadde su Lucy, che
si era sollevata, tremante e si era appoggiata contro il vetro,
guardandolo con occhi pieni di lacrime.
Il ragazzo si sentì trafiggere da quelle lacrime come da spunzoni roventi.
- Stai indietro - gli intimò di nuovo l’uomo, ma Edward lo ignorò.
- Lucy... non ti preoccupare, andrà tutto bene... ti farò uscire -.
Uno sparo.
Edward ebbe solo il tempo di
avvertire il riecheggio del colpo nell’aria, prima che qualcosa
lo spostasse di lato, facendolo cadere dietro la capsula di Lucy.
Steso a terra in quella posizione,
riuscì a scorgere qualcosa che prima non aveva mai notato: Lucy
aveva qualcosa, una specie di piccola protuberanza nella pancia e quel
particolare gli aprì gli occhi.
Nausee e voglie improvvise e quella stranissima, per ora piccola protuberanza.
Il ragazzo ebbe un flash istantaneo: e se Lucy fosse...!
Edward si puntellò sui gomiti e si volse a guardare cos’era successo.
Il sangue gli si gelò nelle vene: a terra, sanguinante, ai suoi piedi, c’era Alphonse.
- AAAAAAAAAAAL! - gridò, arrancando come meglio poteva verso il fratello.
Non era morto, grazie al cielo, ma era stato colpito alla spalla, che sanguinava copiosamente.
- Questo era un avvertimento. La prossima volta mirerò al cuore. Andatevene! - ribadì l’uomo.
Edward lo squadrò con odio
profondo: aveva rinchiuso la sua Lucy in quella dannatissima capsula
quando aveva più bisogno di lui e aveva attentato alla vita di
suo fratello.
- Basta - sussurrò.
Rapido, deciso, congiunse le mani e toccò la capsula.
Il vetro si sciolse in acqua e Lucy cadde fuori da essa, esanime, respirando a fatica.
Il biondo la prese dolcemente in grembo, mentre Alphonse si rialzava faticosamente, cercando di fermare l’emorragia.
- FERMI! - gridò l’uomo.
Uno, due, tre colpi.
Nessuno di loro fu preso, per fortuna.
Alphonse, nonostante la vista
offuscata dal dolore e la consapevolezza del rischio che avrebbe corso,
si fermò e si volse indietro, congiungendo a fatica le mani e
puntandole a terra.
Dal contatto si sprigionò
un’ondata di sfavillanti scintille azzurre e una scia di ghiaccio
che raggiunse l’uomo, congelandogli le gambe.
- AL! - gridò Edward, preoccupato, girandosi indietro quando si accorse di suo fratello.
Alphonse riprese a correre dietro al biondo, ansimando per lo sforzo e il dolore causatogli dalla ferita.
- Fratellone... dobbiamo andarcene... - mormorò.
Edward abbassò lo sguardo su Lucy.
- Sì... lo so... -.
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Capitolo 13 *** Fuga ***
13_Fuga
Edward e Alphonse, con Lucy, arrivarono finalmente a casa.
Qui, Alphonse andò di sopra a preparare le valigie, mentre Edward adagiava delicatamente la Diclonius sul divano.
Lei lo guardò.
- Edward... - sussurrò labilmente.
- Lucy... non so se già ne
eri consapevole ma... tu sei incinta. E molto probabilmente, è
colpa mia... - le disse il biondo con quanto più tatto
riuscì a trovare.
Era così strano parlare di un argomento del genere con così tanta calma, come fosse una cosa di tutti i giorni.
Lei non mostrò il minimo accenno di sorpresa, si limitò solo a sorridergli labilmente.
- Non fartene una colpa... è
bello. Avrò qualcuno da coccolare... non gli farò mancare
nulla... - mormorò.
Era ammirevole, semplicemente
ammirevole: nonostante fosse così giovane, aveva già un
così spinto istinto materno.
E lui?
- Io starò accanto a te... - mormorò lui di gettò, dandole un caldo e innocente bacio sulla guancia.
Lei gli sorrise ancora, prima di chiudere gli occhi e cadere addormentata.
- Al! - chiamò Edward.
- Sì, fratellone, ho quasi fatto! - gli giunse la risposta del fratello dalle scale.
Lui si sedette accanto a Lucy, tenendole la mano, carezzandole la pelle.
Non riusciva a capire come avesse anche solo potuto immaginare di odiarla.
Io non sono umana...
E allora? Cosa gl’importava
che non fosse umana? Era la ragazza più bella che avesse mai
incontrato, era la più incredibile di tutte, nonostante fosse
un’assassina per vocazione genetica.
Non riusciva a concepire l’odio nei suoi confronti, qualsiasi cosa potesse fare o dire.
Era semplicemente lei, perfetta in ogni sua più piccola parte.
Alphonse scese pochi istanti dopo trasportando due grosse valigie strapiene di roba.
- Fratellone, andiamo? - chiese.
Il biondo annuì e,
delicatamente, prese Lucy in grembo, cercando di non svegliarla,
calcandole bene il cappello in testa e avvolgendola in una coperta che
suo fratello prese da una delle due valigie, poi, insieme, si avviarono
verso l’uscita della casa.
Ancora non sapeva come avrebbero
fatto ad andarsene da lì senza farsi vedere da nessuno, ma
dovevano farlo: la meta era già stabilita e lì, senza
tracce del loro arrivo né della presenza di Lucy, lei avrebbe
potuto avere una gravidanza tranquilla e lui avrebbe potuto starle
dietro senza preoccuparsi di essere scovati.
Sì, non c’era altra soluzione: dovevano fuggire.
Una nuova fitta al fianco gli
ricordò del proiettile conficcato in esso e di quello nella
spalla di suo fratello che, nonostante tutto, pareva essersene
totalmente dimenticato.
Lucy dormiva, pallida, distrutta.
Non avrebbe permesso a nessuno di
toccarla prima d’essere passato sul suo cadavere. L’avrebbe
protetta a qualsiasi costo, avesse anche dovuto sacrificare la propria
vita per lei, perché voleva dare alla luce bambini ai quali
poter regalare l’affetto che lei non aveva mai ricevuto.
Non era un proposito sbagliato,
affatto: era più che legittimo. Aveva sofferto per così
tanto tempo, che un po’ di felicità la meritava anche lei,
in fondo.
Edward e Alphonse arrancavano velocemente lungo il sentiero che conduceva verso la città.
Lo sapeva che lì non
sarebbero passati inosservati, due ragazzi con una ragazza
addormentata, però dovevano, se volevano raggiungere il prima
possibile il loro nascondiglio.
Alphonse iniziava a sentire
nuovamente il dolore alla spalla, posta sotto uno sforzo ancora precoce
per la portata della ferita, ma che era disposto a sopportare per Lucy
e suo fratello: aveva visto il dolore negli occhi di Edward quando gli
aveva parlato, aveva visto la preoccupazione deformargli il viso al
grido di Lucy.
Lui l’amava ed era un amore che andava oltre le differenze di razza, le differenze di fisiologia, di poteri e di destino.
Era un amore incondizionato che lo
univa indissolubilmente a lei, che l’avrebbe portato alla morte
se solo fosse servito alla sua sopravvivenza.
E ora, per il suo amore verso la
Diclonius, erano diventati ricercati anche loro, braccati dal mondo
intero per averla fatta fuggire. Alphonse sorrise tra sé.
Se così doveva essere, che lo fosse: non si sarebbero certo fatti cogliere impreparati...
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Capitolo 14 *** Isolamento ***
14_Isolamento
Edward e Alphonse, nel
giro di un giorno, riuscirono a raggiungere la casa in montagna che di
solito usavano per le vacanze, così isolata e piccola che
nessuno avrebbe potuto rintracciarli, grazie anche al fatto che non
avevano lasciato dietro di loro nessuna traccia che potesse ricondurre
a quel luogo.
Lì, con un po’ di
fatica da parte di entrambi, erano riusciti a sistemarsi e a fare in
modo che Lucy non dovesse sforzarsi troppo.
I giorni iniziarono a scorrere, trasformandosi in settimane e, a poco a poco, in mesi.
La gravidanza avanzava e,
più si avvicinava la scadenza dei nove mesi, più Edward
iniziava a sentirsi strano, in qualche modo preoccupato: forse era
l’ansia di diventare padre a soli sedici anni, nonostante non
fossero sposati, forse era il senso di colpa, forse era lo stress delle
lunghe giornate passate insieme a Lucy o forse era qualcos’altro.
Non era certo di niente, solo che di lì a qualche mese sarebbe diventato padre e suo fratello zio.
Chissà che cos’avrebbe fatto...
In tutto quel caos, tuttavia, di una cosa era assolutamente certo: non si sarebbe mai comportato come suo padre, non avrebbe mai abbandonato né Lucy né il figlio, per nessuna ragione al mondo.
Alphonse si curava spesso di
scendere a vedere che aria tirasse e, nelle ultime settimane, le acque
avevano iniziato ad inquietarsi di brutto: erano stati mobilitati tutti
i corpi militari più potenti nelle più svariate parti del
mondo al solo scopo di trovare Lucy.
Ma a nessuno era ancora venuto in
mente di cercare su quella montagna, almeno, non fino a quella
vertiginosa altitudine, fortunatamente.
E Alphonse contribuiva a
rassicurare tutti e due, mettendo loro anche un po’
d’allegria, per cercare d’alleggerire la costante cappa
oppressiva che conseguiva la reclusione dal mondo, l’isolamento
totale.
Sapeva bene di sembrare
assolutamente ridicolo, ma non voleva più vedere né Lucy
né tantomeno suo fratello soffrire per la tristezza. Quella
reclusione forzata non doveva obbligatoriamente essere intesa come
limitatezza eterna senza possibilità d’uscita,
bensì come la loro nuova casa, almeno, secondo il suo punto di
vista.
I ricercatori non demordevano: persistevano nella ricerca della Diclonius ormai da mesi.
Non riusciva a comprendere il
motivo per cui si accanivano così contro di lei e contro la sua
razza che, ormai, era prossima all’estinzione. Forse era proprio
per estinguere i Diclonius che la cercavano, ma dopo averla vista
combattere, non credeva che sarebbero riusciti ad ucciderla senza
essere uccisi a loro volta.
Era inevitabile: se qualche umano la voleva, doveva andare incontro a morte certa.
Eppure, Edward era
l’eccezione: nonostante fosse umano, Lucy provava qualcosa di
profondo verso di lui, un amore infinito e incondizionato che
l’attirava a sé come un magnete.
I Diclonius non erano assassini
votati in tutto e per tutto allo sterminio umano: erano esseri viventi
anche loro e, in quanto tali, avevano un istinto alla sopravvivenza che
li spingeva a sfruttare le risorse a loro disposizione per sopravvivere.
Il fattore genetico era solo secondario, in quanto acuiva il loro istinto di sopravvivenza e sopraffazione.
Lucy ne era una prova più che lampante: era divenuta un’assassina solo dopo aver patito innumerevoli sofferenze.
In quei mesi, durante tutte quelle
giornate passate accanto a Edward, aveva raccontato un po’ del
suo passato e da ciò che ne era uscito, era più che
plausibile che nutrisse un profondo odio verso tutto il genere umano.
I mesi rimanenti prima della data
fatale scivolavano lenti ed inesorabili, avvicinandoli sempre di
più al momento in cui finalmente il figlio di Lucy avrebbe
potuto vedere la luce.
In quegli ultimi tempi, in lei si
era fatto sempre più forte il desiderio di farlo nascere, di
poterlo stringere fra le braccia, di potergli regalare l’affetto
che lei non aveva mai ricevuto fin dalla nascita.
- Sarà maschio o femmina? - domandava a volte, sorridendo.
E inevitabilmente quel sorriso pieno di speranza portava un briciolo d’allegria in casa.
Nonostante tutto, era felice.
Nonostante fosse braccata per essere uccisa, era contenta.
E questa sua felicità era dovuta a Edward, al loro incontro e alla loro relazione.
Ma era inevitabile che la caccia
continuasse fino a che non l’avessero trovata e, purtroppo,
uccisa. Nessuno si sarebbe mai dato pace finché non fosse morta.
Chi le dava la caccia per ordini,
chi per provare il piacere della violenza, chi per puro istinto di
sopravvivenza e chi, come Kurama, per vendetta.
Per vendicare qualche caro ucciso da Lucy o soppresso a causa sua.
Perché se non fosse mai esistita, i bambini non sarebbero mai nati Diclonius e Mariko sarebbe stata ancora in vita.
E Kurama questo lo sapeva e perciò non si dava per vinto.
Un uomo spinto dalla vendetta non
si sarebbe mai potuto arrendere, perché oramai, non aveva
nient’altro al mondo da poter perdere...
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Capitolo 15 *** Parto ***
15_Parto
Quando Edward si risvegliò, sapeva già che la data prestabilita era ormai alle porte: mancavano solo tre giorni.
Lucy dormiva vicina a lui, tranquilla, almeno in quel momento.
Il biondo si portò un
braccio a coprire gli occhi, sospirando: era stanco. Aveva passato gran
parte della notte a vegliare, agitato e preoccupato, sulla ragazza,
preda di atroci dolori. Era provato dalle notti in bianco passate al
fianco di Lucy e le profonde occhiaie che gli circondavano gli occhi ne
erano una prova più che lampante. Il suo corpo non riusciva
più a reggere le lunghe attese spasmodiche e la mancanza di
sonno.
- Fratellone... sei già sveglio? Dormi ancora un po’... ne hai bisogno... -.
Gli occhi del biondo saettarono
alla porta, schiusa quel tanto che bastava a far trapelare lo sguardo
di Alphonse, già sveglio per controllare che non arrivassero
spiacevoli visite.
Edward mugolò e Al entrò.
- Sei stato in piedi fino a dopo
mezzanotte per aiutare Lucy... non puoi pretendere che il tuo organismo
segua un ritmo di dormi-veglia così estremo... sono solo le sei
del mattino... dai, fratellone, dormi un po’... - gli disse il
ragazzo, sedendosi su una sedia vicino al letto.
Il biondo sospirò.
- Cosa posso farci se non riesco a dormire? -
- Non è che non riesci a dormire... il problema è che sei troppo in ansia per lei... se ti rilassassi un poco... -
- Come faccio? Ogni momento
potrebbe essere l’ultimo. Se ci scoprissero, non esiterebbero ad
ucciderci tutti quanti e... non voglio vederla morire con un bambino in
grembo... -
- Non accadrà... perché devi sempre essere così pessimista? -.
Edward sorrise amaramente.
- Sarà nella mia natura...
ma non posso pensare di vederla morta. Ormai sono nove mesi che siamo
qui e molto probabilmente sono quasi riusciti a localizzarci -
- Non dire sciocchezze! Se ci avessero già localizzati, a quest’ora saremmo tutti all’altro mondo! -.
Edward stava per replicare, quando il grido di dolore di Lucy attirò l’attenzione dei due ragazzi.
Il biondo s’inginocchiò rapidamente sul letto e prese fra le sue mani quella della ragazza.
- Lucy... cosa c’è? -.
Ma lei non riusciva a sentirlo: il dolore era troppo forte.
La Diclonius iniziò ad
agitarsi nel letto e Alphonse, contro ogni previsione, si alzò e
le corse appresso, agitato.
- Fratellone, credo che ci siamo! -
Edward parve visibilmente spiazzato.
- Come “ci siamo”? Ma la data stabilita era più... -.
- Fratellone, non si può cambiare quello che è! Se deve essere ora, sia! -
- Ma... io non sono pronto! Cosa devo fare?! -.
Edward era andato nel panico: Lucy
doveva partorire di lì a pochi minuti e lui non era ancora
pronto ad affrontare il momento! Che cosa doveva fare?
Alphonse sembrava avere tutta la
situazione sotto controllo: calmo, freddo e calcolatore o almeno,
così gli appariva, al contrario di sé, agitato e in preda
al panico.
- Fratellone, ci servono dell’acqua calda e degli asciugamani puliti! - esclamò.
Edward uscì dalla camera
correndo, cercando di mantenere il controllo, di ricacciare indietro il
panico che l’aveva travolto all’improvviso con la forza
d’un maremoto.
Quando tornò, aveva con
sé una bacinella d’acqua calda e, ripiegati sul braccio,
una decina di asciugamani puliti.
Lucy gridò ancora, facendo accapponare la pelle al biondo, che rimase perfettamente immobile a fissarla.
- Fratellone! Togliti! - gli ordinò Alphonse.
- S-sì... - balbettò lui.
Si spostò fino ai piedi del letto, senza staccare gli occhi da Lucy.
Altre grida di dolore si susseguirono nei dieci minuti successivi, mandandolo nel panico più assoluto.
Alphonse, afferratolo per le spalle, lo spinse fuori della camera.
- Fratellone, vai ad aspettare
fuori! A vederti così agitato mi agito anch’io! -
esclamò il fratellino, chiudendogli la porta in faccia.
Un istante di silenzio, prima che un altro grido di dolore irrompesse, lacerando quell’attimo di quiete.
Edward prese a camminare
nervosamente avanti e indietro lungo il corridoio, guardando il
pavimento, sperando che tutto andasse bene: suo fratello aveva studiato
un po’ d’anatomia, ma non sapeva se e quanto se ne
intendesse di parti.
Dopo un po’, si rannicchiò vicino alla porta e chiuse gli occhi, appoggiando la testa sulle ginocchia.
Dio, ma perché doveva preoccuparsi a quella maniera?
Il biondo, esasperato, perse ogni
cognizione del trascorrere del tempo e, dopo quelle che gli parvero
ore, la porta lo colpì in pieno viso, facendolo riemergere dalla
trance nella quale era caduto durante l’attesa.
Alphonse si affacciò.
- Ah, fratellone sei qui! Vieni... - gli disse, sorridendo.
Il biondo si alzò meccanicamente ed entrò: Lucy era nel letto e teneva in braccio due fagotti.
Due?
- Sono gemelli... - gli disse il
fratellino, intuendo il perché dell’espressione scioccata
che si era dipinta sul viso del ragazzo - ... e neanche completamente
Diclonius, se può farti piacere... - aggiunse Alphonse.
Edward si avvicinò
velocemente alla ragazza, che gli sorrise, gli ancora occhi velati di
sofferenza, mostrandogli i fagottini.
Rinvolti al loro interno,
c’erano un maschietto e una femminuccia, che ridevano e, ad un
primo sguardo, Edward notò che sul capo avevano minuscoli
abbozzi di corna, appena percepibili.
- Non sono come me... sono mezzosangue... almeno, potranno avere una vita quantomeno normale... - mormorò Lucy.
Edward prese il maschietto fra le
braccia: era carino, piccolo. Pareva aver bisogno solo di cure e gli
sorrideva, contento, tendendo le manine verso di lui. Il ragazzo gli
porse un dito e il piccolino lo strinse, forse troppo forte, ma era pur
sempre in parte Diclonius.
- Ciao, piccolino... - gli sussurrò, dolcemente.
Alphonse sorrideva mentre osservava la giovane coppia gioire per i piccoli.
- Al... cosa ci stai a fare lì impalato?! Vieni... - lo ammonì Edward.
Alphonse si avvicinò al fratello e si sedette accanto a lui.
Il piccolino aprì gli occhi,
dorati con lievi screziature rossastre lungo il contorno
dell’iride, e spostò la propria attenzione da Edward ad
Alphonse, ridacchiando.
Al gli tese un dito, che il piccolo strinse con forza.
Da dietro, la femmina
afferrò un ciuffo di capelli della coda del ragazzo e
iniziò a tirare, trascinandolo verso di sé.
- No, ahio! - esclamò Alphonse.
- È gelosa perché date attenzioni solo al maschietto... - disse Lucy, ironicamente - Vero Emily? -.
- Emily? - domandarono in coro Edward e Alphonse, visibilmente spiazzati.
- Dovranno pur avere un nome... no? - chiese la Diclonius, squadrandoli.
I due fratelli guardarono il piccolino fra le braccia del biondo.
- E... lui? - domandò Edward.
- Scegliete voi, così siamo pari... - esclamò Lucy.
- Roy... - sussurrò il biondo, osservandolo.
- Il colonnello...? - chiese Alphonse, perplesso e confuso.
- Ma no! Roy... lui! - disse il ragazzo, accennando con il capo al bambino.
- Lo stesso nome del colonnello... non mi sembra da te, fratellone... -
- Ce lo vedo... è sbagliato? -.
Il biondo fulminò il fratello con uno sguardo.
- No! - si affrettò a rispondere Al.
D’un tratto, dei rombi si
sentirono riecheggiare in lontananza e Edward e Alphonse scattarono in
piedi, ansiosi: li avevano trovati.
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Capitolo 16 *** Localizzati ***
16_Localizzati
Edward rimase in ascolto, i nervi tesi, il piccolo ancora stretto fra le braccia.
Li avevano localizzati, dannazione, proprio ora che Lucy aveva partorito.
- Lasciateli a me. Non ne rimarrà niente, ve l’assicuro... -.
Al e Ed si voltarono verso Lucy
che, posata la piccola sul letto, si stava alzando, negli occhi una
scintilla d’aggressività che era rimasta sopita in lei
fino a quel giorno, per nove mesi.
- Lucy, ma cosa stai dicendo? Hai
appena partorito! Sei debole, non puoi farcela! - obiettò
Alphonse, cercando di farla rimanere seduta, la lei lo scansò,
rimettendosi in piedi.
- Noi Diclonius siamo più
forti delle femmine umane. Sono più forte delle altre donne. Sto
bene e... sono pronta a combattere. Porrò fine a questa fuga
insensata. Il mondo scorderà cosa vuol dire essere Diclonius e i
nostri bambini potranno giocare con gli altri senza timore
d’essere presi e rinchiusi in qualche laboratorio! -
esclamò Lucy, decisa, uscendo dalla camera.
- Tieni, Al! Devo andare con lei! -
disse il biondo, mettendo fra le braccia del fratellino il piccolo Roy,
che iniziò a strillare.
Corse poi fuori dalla stanza,
giù per le scale, pregando che non fosse già troppo
tardi: non voleva perderla di nuovo, come nove mesi prima, quando
l’aveva osservata, impotente, dall’altra parte del vetro.
No, non avrebbe permesso a nessuno di strappargliela di nuovo, per nessuna ragione al mondo.
Finalmente sei di nuovo te!
Sì, la voce aveva ragione: era di nuovo lei, solo lei.
Devi proteggere ciò che è tuo. I tuoi bambini...
Sì, li avrebbe protetti, qualsiasi tortura potessero infliggerle, lei non li avrebbe abbandonati.
Uccidili, cara! Uccidili senza lasciarne traccia!
Li avrebbe sterminati tutti, senza lasciarne altro che qualche misero arto e chiazze rosse sulla neve.
Lo doveva a Edward, che era stato
al suo fianco per tutto quel tempo, lo doveva ad Alphonse, che aveva
protetto il suo segreto finché aveva potuto.
Gli baluginò alla mente il
suo Ed, poco prima, il suo sguardo felice nonostante fosse stravolto
dalle orribili occhiaie rimaste dalle lunghe nottate passate a vegliare
su di lei.
Le lacrime le offuscarono appena la vista.
Non avrebbe permesso a nessuno di fargli del male.
Edward oltrepassò l’uscio e corse fuori, nella neve.
L’auto-mail non era portato
per quel gelo, non avrebbe retto a lungo, ma quello che avrebbe potuto
fare, l’avrebbe fatto.
Nonostante fosse perfettamente consapevole della natura non umana di Lucy, non riusciva a non correre in suo aiuto.
Che razza di uomo sarebbe stato se non fosse corso in aiuto della sua ragazza?
Aveva dei bambini da proteggere e non avrebbe permesso a Lucy di proteggerli da sola: anche lui ne era responsabile quanto lei.
Scorse una schiera di uomini in uniforme e, davanti a loro, Lucy.
Si sentì stringere dalla
preoccupazione e accelerò la corsa: non voleva assolutamente
lasciarla combattere da sola.
Poi, accadde.
Strappi e grida laceranti si
susseguirono incoerentemente, riecheggiando nell’aria immobile,
seguiti da schizzi di sangue ed arti.
Un uomo in particolare
attirò l’attenzione del ragazzo, che ripescò quel
profilo dai ricordi di nove mesi prima.
E quell’uomo stava puntando la pistola al cranio di Lucy.
Il biondo si gettò in
avanti, congiungendo le mani, puntandole poi sulla neve, creando
davanti a sé un muro contro il quale rimbalzarono diversi
proiettili.
- Edward... - esclamò Lucy, visibilmente sorpresa.
- Tutto okay? - domandò lui, ansimando.
Lei annuì, voltandosi poi verso il muro, oltrepassandolo.
- Dove vai? Aspetta! -
- Edward... - la Diclonius si volse verso il ragazzo - ... ti fidi di me? - chiese.
Lui rimase spiazzato, visibilmente.
Tese una mano verso di lei, come a fermarla, ma la ragazza la prese tra le sue e lo guardò dolcemente.
- Ti fidi di me? - ripeté.
- Sì... -
- Allora... lasciami andare... - mormorò.
Si guardarono, scrutandosi vicendevolmente nel profondo delle iridi.
Nonostante tutto, nel suo io più profondo, Edward sapeva che lei era in grado di farcela, da sola.
La sua mano lasciò quella della Diclonius, che gli sorrise un’ultima volta, prima di sparire oltre il muro.
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Capitolo 17 *** Fine ***
17_Fine
Edward, steso sulla neve
dietro il muro, osservava il cielo: sperava di vedervi schizzare
immediatamente il sangue di quell’uomo. Poco dopo, la sua Lucy
sarebbe tornata da lui e, insieme, sarebbero tornati dai loro figli,
rimasti al sicuro in casa con Alphonse.
Ma non vide niente né sentì niente.
Il freddo si stava lentamente
impossessando dei suoi auto-mail e, da lì, sapeva che ben presto
sarebbe passato ai suoi muscoli, congelandolo.
Ma non gl’importava: era lì per Lucy e nient’altro.
Al di là del muro, la
Diclonius osservava trucemente l’uomo che per così tanto
tempo aveva visto oltre il vetro di quel maledetto centro di ricerca,
quella riproduzione dell’Inferno in Terra.
- Supervisore Kurama... ci si rincontra. Le è dispiaciuto per Mariko? - domandò Lucy.
Kurama impugnò più saldamente la pistola: non doveva provocarlo così.
- Tu, la colpa è solo tua! -
- Mia? E cosa ho fatto io per essere colpevole dell’uccisione di Mariko? Non era mia figlia... -.
Un colpo.
Uno dei vettori di Lucy parò prontamente il proiettile e lei strinse gli occhi.
- In fondo... - proseguì in
tono provocatorio - ... eri tu il responsabile di noi Diclonius,
giusto? Spettava a te il compito di eliminarci tutte... immagino quanto
tu abbia sofferto quando hai dovuto sopprimerla... -.
- Se il virus vettore ha avuto modo
di infettare mia moglie, la colpa è solamente tua... Lucy. Tu
sei la causa della diffusione del virus e Mariko è stata uccisa
a causa TUA! -.
Altri proiettili attraversarono l’aria e furono nuovamente fermati dalla ragazza.
Era stufa di giocare con
quell’umano che non poteva reggere il confronto con lei, stufa di
aspettare per eliminare l’unico ostacolo che la separava da una
vita tranquilla, ma doveva saperlo, prima di ucciderlo.
- Quanto delle informazioni a mio riguardo hai reso pubbliche per catturarmi? -.
- Molto poco... creando il panico fra i civili, non avrei più trovato nessuno in grado di venire in cerca di te -.
Lucy sorrise di sghembo: era esattamente
cosa voleva sentirsi dire. La mancata diffusione di ulteriori notizie
sui Diclonius avrebbe permesso ai suoi figli di vivere
un’esistenza serena.
- Questa sarà la tua tomba
e... - uno scintillio accese il suo sguardo - ... nessuno si
ricorderà neanche della tua esistenza. Kurama... - esordì
in ultimo.
I vettori puntarono dritti contro
il supervisore, raggiungendolo in pochi, brevissimi istanti, vincendo
la resistenza delle ossa, afferrandolo, sollevandolo a mezz’aria.
- ... game over! - concluse, sorridendogli maliziosamente.
Hiromi... Mariko... finalmente, potremmo stare insieme.
Edward vide una scia di sangue
allargarsi in cielo e cadere oltre, sulla neve. Cercò di
rimettersi in piedi ed emise un gemito quando avvertì una
piccola fitta partirgli dai muscoli cui erano attaccati gli auto-mail.
Il gelone, alla fine, era arrivato...
Lucy apparve da dietro il muro, sorridendogli.
- È finita - disse, tendendogli la mano.
Il biondo l’afferrò e, se pur con fatica, si rimise in piedi.
Si scrutarono vicendevolmente con affetto.
- Torniamo a casa...? - domandò esitante Edward.
- Emily e Roy aspettano... - rispose Lucy con un caldo sorriso.
Mano nella mano, l’alchimista
e la Diclonius fecero ritorno a casa, dove Alphonse li aspettava,
preoccupato, sull’uscio, con i due bambini in braccio.
Finalmente, Lucy aveva trovato il suo posto nel mondo: lì, al fianco di Edward e della sua famiglia.
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