La Notte Eterna

di edoardo811
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un glorioso ritorno ***
Capitolo 2: *** Una vera sfida ***



Capitolo 1
*** Un glorioso ritorno ***


Questa storia fa parte di una serie. Prima di proseguire, consiglio a chi non l’ha fatto di leggere anche La Spada del Paradiso e L’Elisir di Lunga Vita in particolare, se volete capirci qualcosa, perché vi assicuro che se non l'avete fatto non capirete proprio nulla nemmeno delle prime cinque righe. Ve lo assicuro. Il Velo Invisibile non è importante per questa storia, mentre Demigod Diaries è giusto una cosa for fun che non ha molta importanza (e le cose importanti che ho scritto lì verranno ribadite qui) quindi potete evitare anche quella. A tutti gli altri, invece, auguro buona lettura!


 1

Un glorioso ritorno




Gli altri avevano ragione. D’autunno il Campo Mezzosangue era un mortorio. E ad Edward la tranquillità piaceva, però così era… troppo. 

Era per il suo lato semidivino, gli avevano detto. Era iperattivo, con disturbo del deficit dell’attenzione e bla bla bla. Non era una cosa che durante i suoi anni in fuga dai mostri e dalla polizia aveva notato – era un pelo occupato a non farsi fare la pelle, o sbattere in gabbia, per prestare caso al fatto che non riuscisse a leggere, o a stare fermo per troppo tempo. Anzi, era certo che, se non fosse stato per quello, non sarebbe mai riuscito a cavarsela fuori dal campo per così tanto tempo.

Negli ultimi mesi, però, aveva avuto modo di starsene fermo. La tranquillità che tanto aveva agognato, perché costretto a vivere perennemente con un occhio aperto e l’altro pure, si stava trasformando in una prigione. Non poteva andarsene per nessun motivo. Non poteva andare a trovare i suoi amici, né qualsiasi altra cosa. Se fosse uscito dal campo, si sarebbe ritrovato addosso tutti i mostri nel raggio di chilometri e chilometri.

«Vorrà dire che li ucciderò, proprio come ho sempre fatto!» aveva risposto una volta a Chirone, ottenendo uno sguardo di disappunto in ritorno.

«Non funziona così» l’aveva ammonito il centauro. «Le regole valgono per tutti.»

Dopo quella volta, Edward aveva deciso di non discutere più. Se le cose funzionavano in un certo modo, cercare di cambiarle era inutile, l’aveva capito molto bene. Al campo poteva avere quello che voleva, cibo, bevande, vestiti, eccetera, ma aveva tutto un sapore diverso, sia metaforico che letterale, e parlare con Tommy tramite messaggio Iride non era la stessa cosa. Gli mancava vederlo di persona, e gli mancavano anche Steph, Lisa, perfino Konnor.

Ma soprattutto, gli mancava un’altra persona, anche se cercava di non pensarci.

Un lungo sospiro gli scappò dalle labbra. Non aveva molta voglia di alzarsi, ma il soffitto della Capanna Sette stava cominciando a diventare uno spettacolo piuttosto noioso, oltre che ripetitivo.

Scostò la tendina che divideva il suo letto dagli altri. La cabina era deserta. La maggior parte dei suoi fratelli se n’era andata alla fine dell'estate, c'era chi andava a scuola, chi al conservatorio, ne erano rimasti giusto un paio, ma in quel momento erano tutti in giro per il campo a fare il loro meglio per combattere la noia.

Se non altro, nessuno voleva ucciderlo. Sollevò una mano e si concentrò per far comparire Ama no Murakumo, la spada divina che Amaterasu, la regina degli dei giapponesi in persona, gli aveva gentilmente sbolognato in modo da attirare tutti i malintenzionati su di lui per lasciare in pace lei. Ricordava ancora alla perfezione quando l’aveva sognata. La sua bellezza, la luce che emanava, la sua aura di potere. Aveva provato l’impulso di inchinarsi di fronte a lei anche se non l’aveva mai vista prima, cosa che con nessun altro dio era successa.

«Discuteremo ancora, in futuro» gli aveva detto. E da quel momento, nulla. Forse era anche quello a renderlo così teso. Tutto quel silenzio, tutta quella calma, parevano la quiete prima della tempesta. Se lo sentiva nelle viscere.

L’aria nel campo era fredda e uggiosa. Aveva vissuto per quasi tutta la vita nella costa ovest d’America, era nato e cresciuto in California e poi si era spostato in lungo e in largo per quelle parti, perciò non era affatto abituato al grigiore di New York. Era un figlio del dio del sole, aveva bisogno della luce, e del caldo. Anche la sua abbronzatura stava cominciando a risentirne. Perfino la capanna Sette, di solito splendente, ora sembrava pallida. Le piante sulla cabina di Demetra erano appassite, senza foglie, e la sfavillante capanna-casinò di Tyche era spenta. Tutta la luce, la gioia e la vitalità di quel luogo erano state risucchiate via dall’arrivo dell’autunno.

Incrociò alcuni ragazzi che conosceva e li salutò, ma non si fermò a parlare con nessuno di loro. Quasi tutti al campo lo rispettavano, ma erano pochi i suoi veri amici. Non aveva alcun legame particolare con la maggior parte dei semidei rimasti, inoltre a volte gli sembrava che tutti fossero cortesi soltanto perché era diventato il nuovo eroe. Un titolo che gli stava un po’ stretto, in realtà, ma non spettava a lui decidere. Aveva completato un’impresa, era stato scelto dagli dei, ed era l’unico motivo per cui non era scoppiata una guerra tra pantheon. “Eroe” era la parola che da quelle parti amavano lanciare in giro, e perciò era costretto a tenersela.

Il suo sguardo scivolò inevitabilmente verso l’arena. Quell’estate, avrebbe saputo chi ci avrebbe trovato se ci fosse entrato. Ma ora anche quello era cambiato. Mentre se ne stava seduto sugli spalti a osservare i pochi ragazzi che si allenavano, non fece altro che pensare ai momenti che aveva trascorso là dentro, e che non sarebbero mai più tornati.

«Model» lo chiamò una voce affannata all’improvviso. Solo in quel momento si accorse che gli allenamenti erano finiti e lui era rimasto seduto a fissare il nulla come un ebete.

Una ragazza lo stava scrutando dall’alto del suo metro e ottanta, con una punta di divertimento che luccicava tra gli occhi maliziosi. Alcune gocce di sudore le scivolavano dai capelli bronzei lungo le tempie rasate, altre invece le solcavano l’addome scoperto, al di sotto del top grigio scuro che indossava. Solamente una figlia di Ares come lei poteva avere una tartaruga come quella. E delle gambe così lunghe. E fianchi sodi. Edward si sforzò di tenere lo sguardo in alto, prima che la situazione si facesse imbarazzante. Dopotutto quella era Sophia Ferreira, la sorella di Konnor, nonché capocasa di Ares in sua assenza. Mica poteva farsi trovare a sbavare così per lei. «Ehm… sì?»

Sophia gli rivolse uno strano sorriso. «Vieni qui tutti i giorni, ma non ti alleni mai. Comincio a pensare che forse lo fai solo per la vista.»

Edward sbatté le palpebre un paio di volte, prima di accorgersi dell’espressione che la ragazza gli stava rivolgendo. L’odore del suo corpo sudato arrivava fino al suo naso. Il calore che emanava sembrava quello di un forno.

«Allora?» lo incalzò, chinandosi fino ad arrivare all’altezza del suo volto. Aveva le labbra carnose, lucide. Come faceva ad averle lucide? «È così?»

Edward adocchiò la scollatura del top, poi soffermò sui suoi fianchi stretti nei leggings neri che sembravano scolpiti nel marmo, proprio come quei deltoidi pronunciati. Infine, incrociò gli occhi di Sophia, e ricambiò il sorriso.

«Può darsi.»

 

***

 

«Ah!» Sophia rovesciò la testa all’indietro, mentre Edward premeva il corpo contro il suo. Una mano gli conficcava le unghie nella schiena, l’altra invece gli strofinava le dita tra i capelli. «A-Ah! M-Model!»

«Fai troppo rumore» l’ammonì lui, prima di rubarle un bacio. Al rumore delle labbra che si separavano seguì un filo di saliva. «Ci sentiranno.»

Sophia ridacchiò, strofinando la schiena contro la parete e assecondando i suoi movimenti decisi. Gli strofinò entrambi i pollici sulle guance e lo guardò dritto negli occhi. Quello sguardo poteva rivaleggiare con quello di Medusa. «E da quando ti preoccupano queste cose?»

Edward si fermò. «Che vuoi dire?»

«Niente.» In un istante, Edward si ritrovò schiacciato contro la parete, e la mano di Sophia si schiantò contro il muro proprio accanto alla sua testa. Era più alta di lui, il che aveva leggermente complicato le cose nei minuti precedenti, ma niente di irreparabile. Aveva anche i bicipiti più grossi dei suoi, constatò mentre gli sbarrava ogni possibile via di fuga. Non che lui volesse andare da nessuna parte.

Sophia gli infilò una mano sotto la maglietta del Campo Mezzosangue, per accarezzargli il petto col suo tocco deciso, suscitandogli una scarica di brividi lungo la spina dorsale. Con le labbra, invece, gli lasciò una scia di baci lungo il collo. Edward inarcò la testa e uno sbuffo soddisfatto gli scappò dalla bocca. Sophia s’inginocchiò di fronte alla sua vita. Dal basso gli rivolse di nuovo quel sorriso carico di malizia. «Non fare rumore, Model, o ci sentiranno.»

 

***

 

Quando si sedettero sul prato appena fuori dall’arena, Edward era sudato come se si fosse allenato per davvero.

«Dovremmo allenarci più spesso» disse Sophia stiracchiandosi. Sembrava soddisfatta.

Edward osservò il cielo grigio che si stagliava sul Campo Mezzosangue. Gli bastò solo quello per farlo tornare alla triste realtà di prima. Perfino la sensazione del corpo marmoreo di Sophia premuto contro il suo si affievolì di fronte al grigiore e all’aria ghiacciata del campo autunnale.

«Alla tua ragazza non piacerà» commentò ancora Sophia, dopo il silenzio di lui. La guardò mentre stendeva le gambe e si appoggiava coi palmi sull’erba umida di rugiada. Aveva ancora indosso il top sudato e gli addominali ambrati scoperti. Il profumo del suo corpo sembrava perfino più denso di prima, come due dita invisibili che lo afferravano per il naso.

Il figlio di Apollo sollevò le spalle. «Abbiamo una relazione aperta.»

Non era una bugia. Anzi, forse avrebbe dovuto dire che non c’era proprio più una relazione, ma non aveva voglia di spiegare il modo patetico con cui Natalie l’aveva scaricato. Qual era quel detto? La distanza rende il cuore più stronzo?

«Sì, ho notato» ridacchiò l’altra.

«Tu invece? Credevo che stessi con Derek» fece Edward, pensando a quando aveva visto il suo vecchio capocasa al capezzale di Sophia, quell’estate, quando lei era stata folgorata da una scarica elettrica, o qualcosa del genere. Una storia lunga, fatta di furti di bandiere finiti male e tentati omicidi, in quest’ordine.

Sophia si abbracciò le ginocchia. La sua espressione divenne di fastidio, misto a disgusto. «Tsk. Gli piacerebbe.»

«Perché? È un bravo ragazzo. Dovresti dargli una possibilità.»

Lei lo guardò come se fosse sceso da un altro pianeta. «Sei strano, lo sai?»

«Fa parte del mio fascino.»

Sophia gli sferrò un pugno alla spalla, ridendo. Poi, seria: «Allora, perché vieni sempre all’arena?»

«È… una lunga storia.»

«Mica dobbiamo andare da qualche parte.»

«È anche complicato.»

«Insomma, non vuoi parlarne.»

«No.»

Sophia sollevò le mani. «Va bene, va bene. Tanto non m’interessava davvero.»

Ora toccò ad Edward ridacchiare. Da quando era così semplice avere a che fare con le ragazze? Tutte le donne più importanti della sua vita fino a quel giorno l’avevano paccato una peggio dell’altra. Stephanie – con cui però rimaneva amico, e comunque dopo quello che aveva appena fatto, con Konnor aveva pareggiato i conti – Natalie, Amaterasu.

Rosa. 

Udì uno scalpiccio di zoccoli all’improvviso farsi sempre più forte. «Edward.»

Tutto a un tratto, il figlio di Apollo si sentì come se il mondo gli fosse svanito da sotto i piedi. Quella era la voce di Chirone. E lui non lo cercava mai soltanto per parlare del meteo. Il centauro si avvicinò trafilato ai due ragazzi. Guardandolo di sfuggita il suo viso sembrava quello di un uomo comune, con i capelli lunghi e la barba brizzolati, ma la realtà era ben diversa.

Edward non aveva mai avuto problemi a reggere lo sguardo degli adulti, ma con Chirone era molto più difficile. Era come se nei suoi occhi fosse racchiuso il peso di migliaia e migliaia di anni vissuti addestrando eroi, vederli crescere e anche morire. Un qualcosa di ben oltre la sua comprensione.

«Potresti venire con me? C’è qualcuno che vorrebbe incontrarti.»

Edward corrugò la fronte. Quell'estate erano arrivate al campo delle kunoichi, delle donne ninja, che l'avevano cercato probabilmente per scuoiarlo e mettere le mani sulla Spada del Paradiso. Per fortuna, erano riusciti a far credere loro che non avesse più la spada. Non ci teneva molto a ripetere quell'esperienza. «Di nuovo delle donne giapponesi armate e pericolose?» 

Chirone ridacchiò. «No. Questa volta sono amici.»

“Questo sarò io a valutarlo” pensò il ragazzo, che comunque non poteva fare altro che accettare. Se Chirone ti cercava, tu andavi, questo almeno l’aveva capito.

«Torna ad allenarti anche domani» gli disse Sophia, ammiccando senza nemmeno cercare di nascondere quello a cui stava alludendo. Tuttavia il centauro, se aveva notato qualcosa, non lo diede a vedere. O forse era davvero tanto ingenuo. Un’altra cosa che Edward aveva capito era che quel tizio non era molto ferrato con gli adolescenti e i loro ormoni.

L’accompagnò fino alla Casa Grande e per tutto il tempo Edward non fece che domandarsi chi ci fosse di così importante da guastargli quella splendida giornata. «Era da tanto che non venivano a trovarci» stava spiegando Chirone, sembrando perfino emozionato, come un bambino che incontrava il suo idolo. «Il loro è un grandissimo ritorno.»

Infine arrivarono a destinazione. Appoggiati al portico, ad attenderli, si trovavano due ragazzi. Parlavano fittamente tra di loro, ma si voltarono verso di lui non appena fu abbastanza vicino. Sentì la pelle arricciarsi. Erano sicuramente due semidei, e anche piuttosto forti a giudicare da come il suo corpo stesse reagendo. Ad Ama no Murakumo non piacevano molto i semidei potenti, era una cosa che aveva imparato a sue spese quando lui e Steph si erano quasi uccisi a vicenda.

Uno di loro era un gigante alto quasi due metri, scuro come l’ebano e con gli occhi che scintillavano come monete d’oro. Avrebbe potuto far fuggire in lacrime un mostro con un solo sguardo. Ma il pezzo forte non era lui. Tra i due, a emanare più energia era sicuramente la ragazza più bassa di almeno trenta centimetri che gli stava accanto. Riccioli biondi, occhi celesti, pallida e graziosa, con i lineamenti delicati e un po’ infantili. Sembrava uno di quegli angioletti nei dipinti ma a grandezza naturale.

Entrambi indossavano dei mantelli, la ragazza ne aveva uno rosso ed elegante, il ragazzo uno nero e sgualcito, e tutti e due avevano dei bustini d’armatura, color oro per lei e ossidiana per lui. Per tutto il tempo non gli staccarono gli occhi di dosso. La ragazza gli rivolse un sorriso che aveva un po’ di incuriosito, un po’ di divertito, mentre il gigante mantenne il proprio cipiglio, stoico come una montagna.

«Edward» esordi Chirone quando si trovarono di fronte a loro. «Vorrei presentarti…»

«Ashley Flare.» La ragazza tese la mano. «Figlia di Giove. Pretore del Campo Giove. Sono davvero onorata di conoscerti.»

Edward rimase immobile per qualche istante, sorpreso. Gli avevano parlato del Campo Giove. La casa delle loro controparti romane, un luogo dove disciplina e regole regnavano sovrane. In poche parole, carburante per gli incubi.

«Però Nuova Roma è molto bella!» aggiungevano sempre.

«Piacere mio» rispose, stringendo la mano di Ashley. Era fredda e piccola, ma con una presa di ferro.

Il suo sguardo scivolò sul gigante, che non si era ancora mosso. Sentì Ashley ridacchiare.

«Lui è Elias Crowe. È il mio collega, figlio di Plutone. Non è di molte parole, ma credimi, nel profondo è un gran tenerone.»

Elias grugnì. Edward lo prese come un: «No, non è vero. Ma posso comunque spezzarti la schiena.»

Quindi loro due erano i pretori. Quando aveva sentito che al Campo Giove non c’erano dei in castigo o centauri a comandare, bensì due semidei proprio come lui, aveva faticato a crederci. Trovandosi di fronte a quei due i suoi dubbi si erano dissipati. Qualcuno avrebbe potuto essere abbastanza stupido da sgarrare con uno come Elias, ma non sarebbe arrivato al giorno dopo sulle sue gambe. Ashley, invece, gli dava l’idea di una che ti sorrideva accomodante mentre sanciva la tua pena di morte.

«Abbiamo sentito molto parlare di te, Edward» proseguì Ashley, sempre con quel suo strano sorriso. «Sei arrivato da poco qui al Campo Mezzosangue, ma hai già impressionato molti.»

Edward sollevò le spalle, non sapendo bene come reagire. «Beh, che posso dire. La mia fama mi precede.»

«Sì, è vero.» Questa volta il tono della ragazza sembrò farsi più freddo. «Sappiamo che sei stato scelto dagli dei. Deve essere un grande onore per te.»

Sembrava risentita. Per quanto assurdo potesse sembrare. Ad Edward sfuggì una risatina nervosa. «Insomma. Me la sono vista brutta un paio di volte.»

Non voleva sembrare irrispettoso o chissà che, tuttavia, dopo tutto quello che gli era capitato, sentirsi dire che trovarsi in quello schifo di situazione fosse “un grande onore” gli sembrò così assurdo da essere divertente.

«Quindi non credi che lo sia?» domandò Ashley, il sorriso che svaniva dal suo volto alla rapidità della luce.

Il ragazzo venne colto in contropiede da quel cambio di atteggiamento. «Ehm, beh…» per un attimo cercò di trovare una risposta che facesse contenta quella stramba. Poi, però, si rese conto che invece non doveva fare proprio un bel niente.

«No, non penso che lo sia» replicò, reggendo lo sguardo della romana. «Rischiare di morire per qualcosa che non mi riguarda non è un onore. È solo stupido.»

Le nocche di Ashley sbiancarono da quanto forte si strinse gli avambracci. Elias rivolse uno sguardo verso la sua compagna. Per un secondo, parve angosciato. Forse fu solo la sua immaginazione, ma ad Edward sembrò anche di sentire il cielo che borbottava.

«Che significa che “non ti riguarda”?» gli chiese, gelida. «Sei un figlio di dei, Edward Model, proprio come noi. Tutto quello che riguarda gli dei riguarda anche noi.» Con il braccio accennò alla Casa Grande e al resto del Campo Mezzosangue. «È per questo che siamo qui. Io ed Elias siamo stati scelti quando avevamo soltanto undici anni per difendere il Campo Giove. Non sapevamo nemmeno chi fossero i nostri genitori, l’abbiamo scoperto dopo. L’avevano fatto per metterci alla prova. E dopo siamo diventati pretori. Eroi. Come te, Edward Model. Come puoi pensare che non ti riguardi?»

Edward avrebbe voluto risponderle tante cose. La prima, di smetterla di chiamarlo per nome e cognome come se fosse stata la sua insegnante. Era stanco dei megalomani che si comportavano come se ne sapessero di più di lui. La seconda, che tutto quello che gli aveva detto non aveva alcun senso. Soltanto perché era figlio di dei non significava che doveva essere lui a ripulire i loro casini. Non aveva chiesto lui di nascere loro figlio. Non aveva chiesto lui tutto quello, gli era stato imposto con la forza. Aveva accettato, suo malgrado, di fare quello che andava fatto per salvare i suoi amici, sua sorella, le persone a cui voleva bene, ma non significava che doveva essere felice di farlo, e soprattutto non significava che doveva essere grato agli dei, o pensare che fosse un onore morire per loro.

Si sfiorò il petto, dove Izanami l’aveva trafitto. Morire, letteralmente.

Avrebbe voluto dirle di prendere tutto quell’onore di cui tanto decantava e infilarselo da qualche altra parte, ma poi guardò Chirone, che non aveva più detto una parola. Il centauro sembrava invecchiato ancora di più, in una maniera che Edward non avrebbe mai potuto spiegarsi. Non si era intromesso nella discussione, ma al ragazzo fu chiaro quello che doveva fare. Scaldarsi per così poco era inutile, lo sapeva bene. Ed era anche un brutto vizio di cui avrebbe decisamente dovuto fare a meno.

L’ultima cosa che gli serviva, erano altri nemici.

«Sì… è vero» disse infine, abbassando le mani e sospirando profondamente. Sorrise di nuovo ad Ashley, e anche ad Elias. «Dovete perdonarmi. Quest’estate… mi ha scombussolato parecchio. Mia sorella è stata rapita, ho quasi perso i miei amici, ho rischiato di morire un bel po’ di volte e poi… beh, ecco… la mia ragazza mi ha scaricato. Eh, sono pur sempre umano per metà, no? Stavo decisamente con la luna storta. Scusate. Certo che penso che sia un onore.»

Anche i due romani si scambiarono un rapido sguardo. Dopodiché, Ashley tornò a sorridere. «Stai tranquillo, Edward. Ti capisco. Anche noi eravamo piuttosto sconvolti dopo la nostra prima impresa.»

«Sì, a tal proposito…» Edward riprese la parola. «… voi due siete piuttosto forti, mi pare di aver capito. Avete salvato il vostro campo e ora siete i capi di tutto.»

Ashley gonfiò il petto come una bambina a cui avevano detto che il suo vestitino da principessa era il più bello della festa di halloween. «“Capi di tutto” è un po’ eccessivo, ma sì, è così.»

Edward distese il sorriso. Fissò la ragazza dritta nelle sue iridi celesti, che sembravano essere state dipinte da delle mani esperte. Belle, fredde, e letali. «Allora perché quest’estate non siete venuti voi due a San Francisco?»

L’ossigenò sembrò smettere di arrivare al cervello di Miss Perfettina. Perfino il gigante muto s’irrigidì. Vi fu qualche istante di silenzio, mentre Ashley ponderava sulla risposta da dare. Alla fine, mandò giù il boccone amaro e disse: «È… per questo che siamo qui. Abbiamo saputo del tuo ruolo, della tregua tra gli dei, e volevamo garantire che da questo momento in poi il Campo Mezzosangue avrà il completo appoggio del Campo Giove. Se ci sarà una guerra, noi saremo pronti ad aiutarvi.»

«Mh-mh. Sapete, sono morte delle brave persone» proseguì Edward. «Alcune delle Cacciatrici di mia zia. Con l’aiuto di due eroi come voi forse non sarebbe morto nessuno.»

«Mi… dispiace molto» gracchiò Ashley. Edward era sicuro che i denti del giudizio le fossero usciti fuori più facilmente di quelle parole.

«Il Senato si era opposto a mandare i guerrieri più forti, pensavano che avreste potuto farcela da soli, e così è stato, ma ora sono qui per promettere che questo non si verificherà più. Tutte le vite sono importanti, e siamo tutti dalla stessa parte.»

Edward annuì. Non gli importava un accidente dell’aiuto dei romani. Aveva fatto a pezzi un intero esercito da solo e poi aveva sorriso in faccia alla morte. Non aveva paura, e di sicuro non gli serviva l’aiuto di quei palloni gonfiati. Ma mettere a disagio Ashley, quello sì che gli era piaciuto.

«Vi ringrazio molto. Sono sicuro che il vostro aiuto sarà fondamentale.»

Ashley sforzò un altro sorriso, ma sembrò più una smorfia di dolore. «Molto bene. Credo che per noi sia ora di andare.» Sollevò di nuovo la mano. «Ci dispiace non poterci trattenere di più ma…»

«Nessun problema.» Edward gliela strinse di nuovo, anche se questa volta fu un gesto più frettoloso e goffo rispetto a prima. «Tornate pure al vostro campo, di sicuro avrete molto da fare.»

I due romani salutarono anche Chirone, poi si allontanarono di qualche passo. Ashley posò lo sguardo un ultima volta su di Edward. «Spero di poter collaborare presto con te. Ricordati, c’è sempre bisogno di nuovi eroi.»

Pronunciò l’ultima frase con uno strano tono di voce. Sembrava un monito, una minaccia di qualche tipo. Elias gli rivolte un cenno della testa, poi entrambi sprofondarono nel terreno in un ammasso di melma nera. Un’immagine che evocò in Edward ricordi spiacevoli, ma sapeva che quella era anche una delle abilità dei figli di Ade, o Plutone che fosse.

All’uscita di scena dei due romani, calò un pesante silenzio. Solo in quel momento Edward realizzò quanto satura fosse l’aria. Ashley non doveva aver apprezzato i suoi ultimi commenti, ma non gli importava. Era soltanto una mocciosetta così abituata a sentirsi dire quanto bella e brava fosse da chiunque che ora non riusciva ad accettare più altro, e lui, forse un po’ infantilmente – anche senza il “forse” –   non avrebbe mai chiesto scusa a una persona del genere senza poi avere comunque l’ultima parola.

«Non avresti dovuto farlo, Edward» disse Chirone all’improvviso, con voce incolore. «Ashley Flare è molto influente al Campo Giove. Non devi provocarla in quel modo.»

Edward sollevò le spalle. «Se l’è meritato.»

Udì un sospiro provenire dal centauro. «Non riesci proprio a…»

Tacque all’improvviso, ma il figlio di Apollo aveva sentito abbastanza.

«Cosa?» domandò, fissandolo dritto negli occhi. «A fare cosa?»

Chirone assottigliò le labbra. Ora c’era qualcosa di diverso nel suo sguardo. Ricordava il suo primo giorno al campo, al modo in cui aveva guardato Stephanie. E anche quella sera alla Casa Grande, al modo in cui aveva guardato Tommy e Konnor. Perfino la sera del Consiglio, quando erano partiti per l’impresa. Ricordava quello sguardo orgoglioso che aveva rivolto a loro, ai suoi preziosi semidei, i suoi pupilli, i suoi figli. 

Non era lo sguardo che aveva in quel momento. Non c’erano né quell’orgoglio che aveva visto tanto tempo prima, né quel peso che aveva scorto giusto pocanzi. Solamente delusione.

 «Nulla. Non importa. Torna pure al campo.»

Gli diede le spalle senza aggiungere altro. E, per qualche motivo, Edward sentì il sangue ribollirgli nelle vene.

«Scusa se non sono come vorresti!» sbottò, mentre quell’altro gli sventolava il posteriore bianco davanti. «Scusa se non sono come tutti i tuoi preziosi eroi!»

Il centauro non gli prestò alcuna attenzione. Edward si passò una mano fra i capelli. All’improvviso si sentiva esausto. E arrabbiato. E triste. E deluso. Da cosa, non lo sapeva. Forse dal modo in cui si erano comportati o romani. O forse era deluso da se stesso, dal fatto che, nonostante tutto quello che aveva passato, ancora non riusciva a controllare le sue stupide emozioni.

Stupidi dei. Stupidi semidei.”

Fece comparire Ama no Murakumo e la fissò intensamente, avvertendo un brivido lungo la schiena.

Stupida spada.

La scaraventò via con un urlo frustrato. Sapeva che tanto sarebbe tornata da lui. Non poteva perderla. Era una spada appartenuta a Susanoo, Amaterasu e tutta la loro dinastia di imperatori, guerrieri e quant’altro. Ora era sua. Di un ragazzo testardo, solo e con problemi di gestione della rabbia. Che gran passo avanti.

Spostò lo sguardo sul Campo Mezzosangue, su tutte quelle case e quei ragazzi a cui in teoria spettava il compito di proteggere. C’era stato un momento in cui aveva davvero amato quel luogo, in cui davvero avrebbe fatto di tutto per proteggerlo. Ora, l’unica cosa che provava guardandolo era una fitta al cuore.

Lui non apparteneva al Campo Mezzosangue. Era più giapponese che greco, per via del suo legame con Ama no Murakumo e Amaterasu. Più passava il tempo e più se lo sentiva dentro. Forse anche Chirone lo sapeva, per questo l’aveva trattato in quel modo.

Doveva essere un ponte di congiunzione tra i due mondi, invece si sentiva di più una corda tesa, sul punto di strapparsi a metà. I suoi amici erano greci, ma più passava il tempo e più sentiva come se il suo cuore, la sua mente, non lo fossero più.

E poi, quali amici? Se n’erano andati, tutti. Tommy e Lisa erano felici e innamorati, e lo stesso valeva per Stephanie e Konnor. Non avevano bisogno di lui. Natalie? L’aveva scaricato. E Rosa? Sua sorella, la sua prima vera amica? Non avrebbe mai più rivisto nemmeno lei. C’era un futuro fatto di caccia e immortalità ad attenderla. Sarebbe stata una sciocca a non sceglierlo.

Gli occhi di Edward si volsero verso il cielo grigio.

«Cosa devo fare?» domandò, smorto. «Cosa… papà?»

Non si sorprese quando non ottenne alcun tipo di risposta. Sarebbe stato molto più sorprendente il contrario.

«Bella chiacchierata» concluse.

A testa bassa, con un umore perfino peggiore di prima, tornò verso il campo.






Sogno o son desto? Sono proprio io? Wow. Sì, sono proprio io. E non è che sono tornato col Velo Invisibile, nonono, troppo facile, sono tornato a peggiorarmi ancora di più la vita. Sì! Urrà per me! Ok, no, in realtà, non sono tornato. Se avete letto fino a qui, grazie, ma non sono tornato. Avevo questo capitolo pronto già da un eternità, più o meno da quando ho smesso di aggiornare il Velo, e mi son detto, perché no? Lo carico, che magari mi torna un po’ di voglia di scrivere. Sono successe molte cose durante la mia assenza, nella mia vita privata, ho deciso di intraprendere una strada difficile, ma che un giorno spero dia i suoi frutti. Magari ne parlerò più nel dettaglio in futuro. In realtà ho il capitolo del Velo quasi pronto, devo ancora dare le ultime sistemate (in realtà ho ancora almeno un quarto di capitolo da scrivere ma chiamiamole solo “le ultime sistemate”). Magari poi lavoro anche su quello e lo carico, tanto questa storia e il Velo accadono praticamente in concomitanza, e possono essere lette in maniera separata senza che una faccia spoiler sull’altra. Il Velo parla dei romani, questa parla dei greci, anche se abbiamo avuto un piccolo cross-over con Ashley ed Elias, giusto per. Spero che importi ancora a qualcuno, ma non dubiterei del contrario, alla fine sono svanito nel nulla. Ma come ho già detto, la vita privata ha avuto la meglio su di me. Adesso che ho un po’ di tempo libero magari continuerò in maniera più costante ma non faccio promesse. È anche colpa mia, che mi sono impelagato in questo progetto difficilissimo e lunghissimo. A chiunque legga dal day one, vi ringrazio di cuore. La vostra pazienza forse è un dono che non mi merito, ma che apprezzo moltissimo. 

Cazzarola, penso sia stata la nota di fondo capitolo più brutta di tutti i tempi. Oh, beh, immagino che si abbini alla bruttezza del capitolo. Lol. 

Grazie per aver letto e alla prossima!

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Capitolo 2
*** Una vera sfida ***


2

Una vera sfida



L’aria puzzava di chiuso e di zolfo, così tanto da far vomitare. Se avesse potuto muoversi, si sarebbe premuto il braccio davanti alla bocca. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva fatto un sogno come quello? Aveva dimenticato quanto odiasse non potersi muovere a proprio piacimento. 

La stanza si reggeva su delle spesse travi di legno, poste l’una di fronte all’altra a intervalli di diversi metri. Su ognuna di esse era appesa una lampada squadrata. Gettavano una luce cupa sui muri scrostati, che lasciavano intravedere i mattoni screpolati, e il soffitto sbiadito. Il pavimento di legno era coperto da uno spesso strato di polvere, nei punti dove i tappeti logori non lo coprivano. Anzi, non erano tappeti, ma tatami. Delle stuoie appoggiate sul suolo completamente rovinate, strappate in più punti e da cui fuoriusciva la paglia secca. 

Quindi era di nuovo in Giappone. O quello, oppure nella casa di qualche fanatico di architettura giapponese.

Una voce graffiante provenne dalle sue spalle: «Mio Re. È qui.»

Le finestre sulla parete di destra si spalancarono all’improvviso, lasciando entrare la luce del giorno, che per quanto flebile, sembrò abbagliante dopo l’oscurità a cui Edward si era abituato. La vista fuori dalle finestre era incredibile: poteva scrutare intere catene montuose, intervallate da colline e valli gigantesche. Non fosse stato per quel tristissimo cielo grigio, il panorama sarebbe stato stupefacente. 

Edward si rese conto di potersi di nuovo muovere. Si voltò in direzione della voce e rimase esterrefatto. Al fondo della sala, di fronte ad un ampio pannello scorrevole, si trovava uno dei mostri più assurdi che avesse mai visto. A stento faticò a capire che si trattava di una donna. Aveva i capelli lunghi e ingialliti, il viso era un ammasso di rughe dalla mascella pronunciata, gli occhi erano di due colori diversi, che sembravano mutare di continuo, e due corna le spuntavano dalla fronte, una delle quali assumeva la forma di una Y. Era anche truccata, constatò il ragazzo, un dettaglio di cui avrebbe preferito non accorgersi. 

A confermare il fatto che fossero in Giappone, c’erano per finire i vestiti di quella donna: un lunghissimo kimono blu, decorato da motivi floreali. 

«Tu chi sei?» riuscì a domandare, al che quella gli rivolse un sorriso così grottesco da rivaleggiare con quello di Campe, e quella sì che aveva un sorriso orrendo.

«Il mio nome è Ibaraki, Araldo di Amaterasu. Ma non è con me che devi parlare oggi.»

Un’altra voce si sollevò, dal timbro molto più pacato: «Edward Model.»

Edward si girò nuovamente. Qualcuno era apparso accanto al trono all’improvviso, girato di spalle. Da quella posizione, Edward poté soltanto vedere i suoi capelli neri, corti, e la pelle rossa del suo collo e delle sue mani intrecciate dietro la schiena. Indossava anche lui un kimono, nero e bianco, coperto di ghirigori dorati. Con uno sguardo, capì che era lui a comandare. Evidentemente il potere veniva misurato in base alla quantità di scarabocchi sui vestiti. 

«Lieto di fare la tua conoscenza.» Lo sconosciuto si voltò, rivelando un volto giovane, di un ragazzo che non poteva essere più grande di lui. Erano gli occhi gialli e le vene sporgenti sulle guance a tradire la sua natura di mostro. Quello, oltre che la pelle rossa come il sangue. 

«Lascia che mi presenti. Io sono il Re dei demoni. Il mio nome è…»

«No.»

Lo sconosciuto si fermò, stupito. Edward, sorpreso di essere riuscito a dire quello che pensava, scosse la testa. «No» ripeté. «Senti amico, conosco questa trafila. Adesso tu mi minaccerai, in maniera più o meno velata. Probabilmente vorrai la mia spada, o qualcosa del genere. E no, non sono proprio in vena. Fammi risvegliare e dimentichiamoci di questa discussione. Non ho proprio voglia di ucciderti.»

Faccia di Pomodoro lo guardò per qualche secondo, prima di rovesciare la testa all’indietro e ridacchiare. «Non riesco a crederci. Ibaraki, hai sentito anche tu?»

«Ho sentito, sire» annuì la donna mostruosa. «È proprio come lei».

Edward le rivolse un’occhiataccia. All’improvviso, aveva una terribile sensazione. «Come chi?»

«Come tua madre.»

Un forte brivido percorse la schiena del figlio di Apollo. Gli sembrò di aver appena ricevuto un’alitata di vento gelido in faccia. Si voltò, per poi trovarsi il volto dello sconosciuto a un palmo dal proprio. Se avesse potuto, avrebbe fatto un salto indietro. Si era spostato così velocemente che non se n’era nemmeno accorto.

«La stessa arroganza» gli disse, con un ghigno che gli deformò il viso. Gli occhi gli si iniettarono di sangue e le vene si gonfiarono. «La stessa presunzione. La stessa illusione.»

«Tu… cosa sai di mia madre?»

«So molte più cose di quante tu ne possa immaginare. Ma sei stato molto chiaro, Araldo di Amaterasu. Non hai intenzione di ascoltarmi. Perciò ti lascerò andare.»

«Ehi, n-no, un momento…»

«Ibaraki. Congeda il nostro ospite.»

«Sì, sire.»

Edward tentò di protestare, ma la bocca non rispondeva più ai comandi. Il Re gli diede le spalle e se ne tornò verso il suo trono, mentre Ibaraki si parava di fronte a lui. L’ultima cosa che il figlio di Apollo vide prima di svegliarsi, fu il taglio di una katana affilatissima.

 

***

 

Kevin si sedette di fronte a lui e gli allungò una lattina. «Hai un aspetto orribile.»

«Ma sta’ zitto» sbottò Edward, afferrandola. «Non sono in vena dei tuoi commenti sarcastici.»

«Non era sarcasmo. Hai davvero un aspetto orrendo.»

Edward decise di ignorarlo. Se avesse saputo che razza di sogno aveva fatto, si sarebbe risparmiato certe battute. Era tutto il giorno che ci pensava. Non aveva chiuso più occhio dopo essersi svegliato. Non riusciva a toglierselo dalla testa. Quel tizio aveva parlato di sua madre. Aveva detto di conoscerla. Ed era in Giappone, chiaramente. Quell’estate, Naito gli aveva detto che Kate era ancora viva, tenuta prigioniera da qualche parte in Giappone. Le possibilità che lei fosse incappata nel Re dei demoni, chiunque egli fosse, gli sembravano spaventosamente alte. Non aveva mai sentito parlare di lui. Aveva sempre creduto che Orochi fosse il “re” dei demoni in maniera non ufficiale, un mostro a cui tutti gli altri sottostavano.

Quindi chi diamine era quel tizio rosso? Un impostore? O qualcuno di perfino più pericoloso di Orochi? Gli sembrava assurdo, ma non poteva escludere nessuna opzione.

Forse avrebbe voluto domandarlo a Chirone, ma dubitava che il centauro ne sapesse qualcosa. E comunque, non gli andava proprio parlare con lui, né di quello, né di nient’altro. Quel tipo viveva greco, mangiava greco e andava al cesso greco. Più lo evitava e meglio era.

Di una cosa era sicuro, questo “Re” sarebbe tornato. Non avrebbe menzionato Kate, altrimenti. Gli aveva dondolato in faccia delle informazioni e poi l’aveva lasciato andare, sapendo che lui, invece, avrebbe voluto saperne di più. Stava tramando qualcosa e ad Edward non piaceva per niente quando tramavano cose alle sue spalle. Tutta quella situazione gli ricordava in maniera sgradevole la faccenda dell’estate prima.

Si dondolò sulla sedia, e si rilassò versandosi in bocca un sorso di birra. Ancora non si capacitava di come facesse il figlio di Efesto a procurarsela. Dall’ultima volta in cui era stato lì, solo un paio di giorni prima, il Bunker Nove sembrava essersi riempito di ancora più cianfrusaglie. C’erano progetti ovunque, pezzi metallici, attrezzi, viti, bulloni, sembrava l’officina di un accumulatore seriale con una condizione grave. Non aveva idea di come fosse il Bunker prima di Kevin, ma non credeva che potesse essere peggio di così.

Kevin appoggiò le gambe al tavolo e tirò la linguetta della sua birra. «Ehi, è vero che quei due stronzi del Campo Giove sono venuti a cercarti?»

Il figlio di Apollo sollevò un sopracciglio. Le voci correvano in fretta, specie quando non c’era niente da fare, o di cui parlare. Anche se non poté fare a meno di sorridere di fronte al classico tocco da elefante di Kevin. «Sì, è vero.»

«E cosa volevano?»

«La biondina ha blaterato qualcosa sul volerci aiutare in caso di guerra. Francamente, non pensavo che andasse messo agli atti in questo modo.»

«Che?»

«Non pensavo che fosse necessario venire a dirmelo di persona» spiegò Edward spazientito. «Apri un dizionario, ogni tanto.»

«E tu parla come mangi» borbottò Kevin. «Comunque, quei due non mi piacciono per niente.»

«A te non piace nessuno.»

«Beh, quei due in particolare non mi piacciono.»  

«Ah sì? E cosa li rende così diversi dagli altri?»

«Troppo potere rende brutte le persone.» Kevin accennò con la mano al prototipo che aveva costruito per la partita di Cattura la Bandiera, un sistema di tubi collegati a una tanica da nascondere sotto ai vestiti, con il quale poteva fingere di sapere sparare fuoco dalle mani. Edward pensava fosse una gran ficata, quelli che invece avevano rischiato di essere carbonizzati da Kevin invece no. «Io ho sparato fiamme per cinque minuti e mi sono sentito intoccabile. Come pensi che si senta una bambolina che può volare e sparare fulmini?» proseguì il figlio di Efesto.

Edward smise di dondolarsi. «Aspetta. Ashley può volare e sparare fulmini?»

Kevin posò la lattina sul tavolo, con un grugnito infastidito. «Assurdo, vero? Alcuni di noi nascono con poteri strafichi, altri invece sono soltanto umani che puzzano di barbecue per mostri.»

Edward si accasciò contro lo schienale della sedia. Si domandò a quale delle due categorie facesse parte. La Spada del Paradiso lo rendeva molto più forte di tanti semidei, ma senza perfino lui sarebbe stato solo uno spuntino per mostri. L’idea che, senza la spada, Ashley avrebbe potuto carbonizzarlo era piuttosto sgradevole.

«Beh, speriamo che se le cose si mettano male, faccia tutto lei» concluse. Il Re e la sua amichetta gli balenarono nella mente. Sarebbe stato bello rimanere in disparte a sorseggiare una lattina di birra mentre Ashley e il gigante muto si occupavano di loro. Volevano fare gli eroi? Potevano cominciare con l’occuparsi dei suoi problemi. Era molto felice di cederglieli.

«In ogni caso, so cosa può tirarti su di morale.» Kevin andò a rovistare in uno degli scatoli sparsi per il bunker, finché non tornò con tra le mani un lungo fagotto bianco. Lo posò sul tavolo e lo srotolò di fronte ad Edward fino a rivelare una figura lunga e sottile.

«Yellowboy» mormorò Edward, osservando il Winchester col caricatore a leva che Kevin gli aveva mostrato una volta.

Kevin annuì. «Avevamo deciso di custodirlo qui finché non sarebbe arrivato il momento di usarlo. Beh amico, credo che quel momento sia arrivato. Forza, prendilo e vieni con me.»

«Che diavolo hai in mente?» domandò il figlio di Apollo, mentre Kevin estraeva da un altro scatolone alcuni vecchi revolver Cattleman e il Mitra Tommy.

Una volta armato di tutto punto, il figlio di Efesto si voltò verso di lui con un sorrisetto compiaciuto. «Seguimi e lo scoprirai.»

 

***

 

Sembravano pronti per l’Apocalisse. Edward portava Yellowboy a tracolla, Kevin invece aveva i Cattleman in due fondine, Mitra Tommy tra le mani e uno zaino pieno di munizioni.

«Eccoci arrivati.» Kevin smise di camminare, proprio di fronte a una zona dove decine, centinaia di rottami erano stati buttati a casaccio, sparsi tra i cespugli e gli alberi. Sicuramente invenzioni difettose del figlio di Efesto. Lamiere, elettrodomestici convertiti in armi – ventilatori, frigoriferi, aspirapolveri, forni a microonde – da cui spuntavano una miriade di cavi, bulloni e lame affilatissime. C’era perfino un vecchio furgone arrugginito, con uno stampo sbiadito sulla fiancata.

«Ma dove siamo? In una discarica?» domandò Edward, sbalordito.

«Ma quale discarica! Questo è il “Deposito della roba di recupero di Kev… cioè, della Casa Nove”. Qui al campo non si butta via niente.»

«E Chirone sa di tutta questa robaccia?»

«Certo che lo sa. Tutta la roba usata e che non serve più viene portata qui, così che io possa riutilizzarla. Almeno così la smettevo di fregare il forno a microonde nella Casa Grande. Ecco, guarda.»

Kevin estrasse un Cattleman. «Mezzogiorno di fuoco!» Premette il dito sul grilletto e al boato dello sparo seguì quello di un forno a microonde che esplodeva in mille pezzi. «Boom! Centrato in pieno! Avanti, prova anche tu. È maledettamente rilassante.»

«Vieni spesso qui?» gridò Edward, per farsi sentire sopra le strilla di dolore dei poveri elettrodomestici che Kevin stava facendo saltare in aria. Non che gli servisse davvero una conferma, visti i fori di proiettile già presenti su buona parte di quei rottami.

«Più di quanto non vorrei ammettere!»

Osservando l’espressione folle di Kevin mentre crivellava un frigorifero con Mitra Tommy, Edward decise che, se non poteva batterli, doveva unirsi a loro. Sfilò Yellowboy da tracolla e lo impugnò. Non aveva mai tenuto in mano un’arma prima, benché meno sparato. E non era un qualcosa su cui i riflessi da semidio potessero aiutarlo. Quando prendeva in mano una spada, in un modo o nell’altro sapeva cosa fare. Con un fucile risalente a due secoli prima invece le cose erano molto diverse. Avrebbe potuto chiedere a Kevin qualche dritta, ma quello sembrava saperne tanto quanto lui. Tenendosi ad almeno cinque metri di distanza da quel pazzo, prese la mira, aiutandosi con quelle poche immagini che aveva visto in vecchi film. Appoggiò il calcio alla spalla e chiuse un occhio. Trattenne il respiro come faceva con l’arco, poi schiacciò il grilletto: una latta vuota compì dieci rotazioni in aria, con un foro proprio all’altezza del suo cuore di metallo. Il rinculo gli fece male alla spalla e l’odore di polvere da sparo gli arrivò al naso, dandogli un lieve senso di vertigine. Tuttavia, aveva centrato il bersaglio al primo colpo.

Una sensazione di appagamento gli percorse l’organismo. Infilò la mano nella leva e caricò il colpo successivo.

Bang. Bang. Bang. L’oblò di una lavatrice, un vecchio forno a microonde e un lampadario si frantumarono in un inferno di cristallo e vetro.

«Bella mira!» si complimentò Kevin.

Edward fece un sorrisetto. «Eh. Grazie.»

Non seppe per quanto tempo andarono avanti. Se c’erano delle driadi nei paraggi, decisero saggiamente di non farsi vedere. Gli spari, le piogge di vetro, lo stridio del metallo e le risate isteriche si moltiplicarono. Sembravano due amici che si conoscevano da tutta la vita. Dopotutto, soltanto con qualcuno di cui si ha un legame profondo si va a sparare nel bosco. O quello, oppure si è entrambi completamente fuori di testa. Una delle due.

Il casino che facevano era così tanto che ci misero diverso tempo per accorgersi dei tentativi di una terza persona di farsi sentire. Edward smise di sparare quando la udì. E diede anche un colpo al braccio di Kevin, per farlo smettere di impressionare un gangster degli anni 30. Una ragazza con lunghissimi capelli biondo platino e occhi cristallini si stava sbracciando. Il viso sembrava fatto di porcellana, candido come il latte, con delle sottili labbra rosse che spiccavano su di esso. Perfino i jeans stretti e la maglietta arancione del Campo Mezzosangue la facevano sembrare uno schianto.

Non che fosse importante, ma profumava anche come una rosa appena colta.

«Jane!» esclamò sorpreso. «Che ci fai qui?»

La figlia di Afrodite era sconvolta. «Ero qua vicino e ho sentito gli spari! Pensavo che fossimo sott’attacco!»

Edward aggrottò la fronte. «E quindi sei corsa fin qui anziché chiamare aiuto?»

«Perché? Avresti voluto che fossi arrivata qui con Chirone?» Jane pronunciò quella frase come se stesse parlando a due bambini che avevano appena combinato una marachella. Buffo, considerando che avevano in mano delle armi. Doveva essere la marachella più letale di sempre.

«Beh, no. Ma sei stata irresponsabile a correre verso gli spari.»

«Amico, tu parli di irresponsabilità?» s’intromise Kevin.

«Nessuno ti ha interpellato!» Edward si rivolse di nuovo a Jane. «Avresti potuto farti del male. O peggio, avremmo potuto essere davvero sotto attacco, e a quel punto che avresti fatto?»

Jane incrociò le braccia sotto al petto. Sembrava infastidita. «Pensi che in quel caso non avrei saputo difendermi? Guarda che anch’io ho cominciato ad allenarmi.»

«Certo, dopo anni e anni» borbottò ancora Kevin, questa volta venendo zittito da entrambi i ragazzi.

«Tu neanche ti alleni! Sei sempre chiuso in quel capannone a fumare e a progettare solo gli dei sanno cosa!» sibilò Jane irritata.

«Io non fumo proprio un bel niente! E comunque, sempre meglio che starmene seduto al sole a rimirarmi davanti allo specchio o…»

«Ehi, voi due!» Edward sollevò le mani, frapponendosi in mezzo ai due ragazzi. «Finitela di litigare! Pensavo che l’odio tra le vostre case fosse acqua sotto il ponte.»

«Ma quale acqua e quale ponte!» Kevin cominciò a frugare nel suo zainetto, gesticolando con una mano in direzione della figlia di Afrodite. «Finché quella non mi chiederà scusa non voglio averci niente a che fare.»

Jane fece una faccia allibita. «Scusa? E per cosa?»

«Per tutto quello che hai detto e fatto in questi anni!»

«Fai sul serio, Bolt?! Non mi pare che tu invece sia mai stato un angelo con me!»

Kevin saltò in piedi con un pugno di proiettili tra le dita. Una scena che aveva un che di bizzarro e di inquietante. «Si raccoglie ciò che si semina, bimba.»

«Bimba?!» La faccia di Jane si tinse di rosso. «Chi ti credi di essere, razza di ignorante cavernicolo e…»

«BASTA!» Edward avrebbe voluto rimettersi a sparare solo per non sentire più i piagnistei di quei due. «Dateci un taglio! Vi state comportando entrambi da poppanti. Forza, stringetevi la mano e fate pace.»

Entrambi lo fissarono come se fosse sceso da un altro pianeta.

«Non ci penso nemmeno!» sbottò Kevin.

«Io non lo tocco quello!» puntualizzò Jane.

«Oh, porca… fatelo e basta! Siamo rimasti in pochi al campo e non ho alcuna intenzione di sorbirmi altre ridicole faide tra case!»

Kevin e Jane si scambiarono uno sguardo. La figlia di Afrodite si strinse ancora più forte tra le spalle, ma alla fine sospirò e fece un passo in avanti. «Va bene Bolt. Mi dispiace per tutto quello che ho fatto.»

Gli tese una mano. Il ragazzo si grattò sotto al berretto a visiera, per poi grugnire a sua volta. «Ma sì. Chissenefrega. È acqua passata.»

«Ecco, visto» commentò Edward soddisfatto, mentre quei due stringevano meccanicamente le mani, uno più a disagio dell’altra. «Non è mica successo nulla di…»

La terra tremolò proprio in quel momento, interrompendolo. Uno stormo di uccelli si levò in cielo, accompagnato dal loro gracchiare spaventato e dal battito affannato delle ali.

«Cosa… cos’è stato?» domandò Jane, gli occhi spalancati per lo stupore.

Edward ne sapeva tanto quanto lei. «Io non…»

«Oh, no!» esclamò Kevin, cominciando a correre all’improvviso, lasciandosi dietro lo zaino e Mitra Tommy.

«Ehi, Kevin! Aspetta!»

Edward gli corse dietro. Non fu semplice, dato che era stato costretto a portarsi dietro anche la roba che il figlio di Efesto aveva scordato. Si accorse che anche Jane si stava affannando alle sue spalle. «Che… gli è preso?» annaspò, con le trecce dorate che sventolavano dietro di lei.

«Non ne ho idea… ma forse tu non dovresti venire. Potrebbe essere…»

«Oh, smettila di preoccuparti per me. Me la caverò.»

«Non mi sto preoccu…» I piedi di Edward sbatterono contro qualcosa, e l’aria svanì da sotto di lui all’improvviso. Il mondo si capovolse e sbatté il naso a terra. Una scia di puntini colorati gli apparve di fronte agli occhi.

«Edward!» Jane si inginocchiò accanto a lui e gli posò una mano sulla spalla, guardandolo angosciata. Aveva un tocco incredibilmente leggero, come quello di una piuma. «Stai bene?»

«Ah…» Il figlio di Apollo si sollevò col labbro che sanguinava. Non fosse stato in presenza di una donna, avrebbe fatto uso di una delle sue imprecazioni più colorite. Si ripulì alla bell’e meglio e distolse lo sguardo dalla ragazza, più per coprire la vergogna che per altro. «Sì, sì…»

Si voltò e vide la radice che spuntava dal terreno, colpevole di quella sua caduta imbarazzante. Di tutti i modi per farsi del male, considerando quello che aveva attraversato l’estate prima, quello gli sembrava il più stupido e assurdo di tutti. Jane tuttavia non sembrava trovare la cosa divertente. O forse non voleva ferire il suo orgoglio. Sollevò invece l’indice di fronte a sé. «Guarda! Si è fermato là!»

Kevin si trovava una decina di metri più avanti. Stava dando loro le spalle, lo sguardo chino verso il basso. Non appena lo raggiunsero, Edward spalancò gli occhi: un gigantesco cratere si apriva nel terreno di fronte a loro, profondo almeno due metri e largo tre o quattro. Sembrava che un meteorite fosse precipitato lì. C’erano ancora tracce di fumo e polvere che si sollevavano dal suolo.

Jane era atterrita. «Che è successo qui?»

«Una delle mie trappole è scattata» mugugnò Kevin.

«Una delle… trappole?» Edward osservò di nuovo quel cratere, convinto che la caduta di prima gli stesse dando le allucinazioni. «Una delle tue trappole ha fatto questo?!»

«E non è esplosa da sola» proseguì il figlio di Efesto. «Qualcuno l’ha fatta scattare.»

Edward non capì cosa intendesse dire finché non si accorse della polvere cosparsa lungo tutto il cratere, di colore dorato, simile a sabbia.

«Non… non è che è stata una ninfa? O un satiro?» domandò Edward, anche se i suoi stessi sensi gli stavano dicendo che non poteva essere possibile. Era passato qualcosa di pericoloso, lì. E forse non era ancora finita.

Kevin scosse la testa. «Queste erano tarate per azionarsi a una pressione di almeno 400 libbre. Soltanto un mostro o un ciccione può pesare così tanto. E i ciccioni non si lasciano dietro la polvere d’oro.»

«Ma… capita che i mostri superino i confini a volte, no? Voglio dire, il bosco è grande» mormorò Jane. «Forse questo era da solo e…»

Un fruscio tra la vegetazione catturò l’attenzione di Edward. Provò un lunghissimo brivido lungo la schiena. E poi, un’ombra piombò verso di loro. Ama no Murakumo si materializzò tra le sue mani, più veloce di un lampo. Riuscì a spostarsi di fronte ai suoi amici e a deviare con la spada una freccia gigantesca un istante prima che si abbattesse su di loro.

Kevin osservò sconvolto quella freccia enorme che rotolava lungo il cratere. Sembrava il dardo di una balista. «Ma… ma che ca…»

«Guardate!» esclamò Jane, zittendo Kevin.

Da dietro gli alberi cominciarono a spuntare diverse figure, e non solo da quelli di fronte a loro. Un ciclope, un lestrigone, una dracena, un’arpia appollaiata sopra un ramo, dei segugi infernali con la schiuma alla bocca, dei cinocefali. Nel giro di pochi istanti, li avevano circondati. Ma non erano i pesci piccoli a preoccupare Edward. A lui interessava chiunque avesse scagliato quel dardo enorme.

«Interessante. Un figlio di Efesto e uno di Apollo. Quando si dice l’ironia della sorte.» Una figura si fece largo tra la vegetazione, fino a stagliarsi dall’altra parte del cratere. Per un istante, a Edward sembrò un umano qualsiasi. Gli umani non erano così alti, però. E non avevano gli occhi fatti di bronzo, con delle pupille rosse che scintillavano al loro centro. «Sapete, conosco bene i vostri padri. E se non fosse stato per uno di loro, oggi non mi troverei qui.»

Pronunciò quell’ultima frase puntando il suo sguardo morto proprio su Edward.

Grazie tante papà” pensò il ragazzo con fastidio.

Il gigante fece un fischio, e un altro segugio infernale apparve accanto a lui con un salto. Era un pastore tedesco grosso almeno il doppio degli altri cani, col pelo nero e lucido come il cielo notturno, e occhi d’argento scintillanti. Cominciò a ringhiare come un pazzo non appena vide i semidei, piegato sulle zampe, pronto ad attaccare al segnale del padrone.

«Porca di quella gran bagascia di Gea» bisbigliò Kevin, pietrificato.

«Mia madre non c’entra nulla, figlio di Efesto.» Lo sconosciuto sollevò quell’arco largo tanto quanto Edward era alto. Sembrava la versione ancora più tecnologica di Veloce come il Vento dopo che Kevin ci aveva messo le mani sopra. Era coperto di metallo, la corda era un filo di bronzo, collegato a due carrucole, e un mirino telescopico spiccava al di sopra della fessura dove dovevano passare quelle specie di siluri che si portava nella faretra. «È stata mia zia a mandarmi qui.»

Jane deglutì. «Quello… quello è…»

«Lo so.» Edward passò Mitra Tommy a Kevin. Era arrivato il momento di fare pratica su bersagli mobili. Il suo sguardo si concentrò su quello diabolico del gigante. Strinse con forza il manico di Ama no Murakumo. «Quello è Orione.»

«Sono sorpreso, figlio di Apollo. Sei preparato» sogghignò il gigante.

Edward sollevò la spada. Non aveva idea di come quei tizi fossero arrivati fin lì, ma li avrebbe rispediti nel buco da cui erano usciti. «Io penso a lui. Voi sistemate quei mostri e avvisate Chirone» disse a Kevin e Jane.

Orione caricò l’arco. «Uccideteli!»

I mostri esplosero in un boato e partirono alla carica.

«Dite ciao al mio amico!» esclamò Kevin, sollevando Mitra Tommy e crivellando una prima fila di assalitori. Jane si tappò le orecchie e gridò, anche se Edward non seppe se fosse spaventata o se fosse solo adirata con il loro compagno.

Il figlio di Apollo deviò un’altra freccia di Orione e, aiutato da una corrente d’aria, arrivò dall’altra parte del cratere con un solo salto. Il cane del gigante gli fu subito addosso, ma Edward se ne sbarazzò con un solo fendente. Al guaito del gigantesco pastore tedesco seguì una pioggia di polvere dorata.

«Sirio! No!» gridò Orione, apparendo genuinamente scioccato. «Ma come… come hai fatto?!»

Edward sollevò un sopracciglio, anche se non riuscì a trattenere un ghigno. Sollevò Ama no Murakumo. «Fammi capire bene, questa zia ti ha spedito qui a combattere con me senza parlarti di questa?»

«Io… dovevo solo…» Orione strinse i denti e sollevò di nuovo l’arco. «Non importa. Ti ucciderò e…»

Un’altra sferzata, e l’arco si tagliò a metà fra le mani del gigante. Se gli occhi di bronzo avessero potuto spalancarsi, l’avrebbero fatto.

«Sai, per un attimo mi avevi impensierito» gracchiò Edward, avanzando verso il gigante. «Avevano detto che eri tanto spietato. Ma non sembri così pericoloso.»

Orione indietreggiò, come una preda messa all’angolo. Tuttavia, un sorriso divertito apparve sul suo volto. «Non hai considerato una cosa.»

«Ah sì? E quale?»

Fu un’altra esplosione a rispondere alla domanda di Edward. Il ragazzo sussultò e alzò gli occhi al cielo, dove alcune nubi nere si stavano sollevando in più direzioni. I mostri avevano trovato altri passaggi.

«Se non distruggerò io questo posto, lo faranno gli altri» proseguì Orione, con una risata. «In ogni caso, siete spacciati.»

Edward fletté le gambe. Era ora di chiudere quella faccenda. Fece per fiondarsi sul gigante e tagliargli la testa, ma i suoi sensi lo avvisarono di un movimento improvviso alle sue spalle. Si abbassò un istante prima che un proiettile scuro sfrecciasse sopra di lui, schiantandosi in pieno contro Orione. Il suo ululato di dolore si perse nel boato degli alberi contro cui precipitò.

Il figlio di Apollo osservò atterrito l’oggetto che si estendeva proprio sopra la sua testa e realizzò che non era stato un proiettile a colpire Orione, ma un bastone lunghissimo.

Il bastone cominciò ad accorciarsi, sempre sotto gli occhi increduli di Edward. Si voltò, per poi accorgersi che un altro individuo era apparso nel bosco. Lo sconosciuto roteò il bastone, ormai lungo come uno normale, e poi gli rivolse un sorriso. «Finalmente ti ho trovato, Araldo.»

Edward sbatté le palpebre, convinto di vederci male. Gli sembrava di aver appena visto una scimmia parlante. Che però stava dritta come un uomo. E indossava vestiti. Ed era in grado di sorridere.

Non sto sognando!” pensò Edward, senza parole.

Di fronte a lui c’era una scimmia alta almeno due metri, vestita con un kimono arancione e giallo, pantaloni lunghi e sandali. Aveva una obi stretta attorno alla vita, a cui era appesa una fiaschetta di ceramica. Si era rimessa il bastone a tracolla e lo scrutava divertita con le braccia conserte. Sulla testa portava una specie di corona dorata, sull’abito, invece, all’altezza del cuore era ricamato un pittogramma che Edward non riuscì a decifrare. Non era un kanji, altrimenti l’avrebbe riconosciuto subito, grazie alla spada.

«Ti ho cercato a lungo, sai?» proseguì la scimmia, ed Edward si rese conto che parlava in un giapponese risicato. «Ho sentito delle tue gesta. Hai affrontato Yamata no Orochi e il suo esercito tutto da solo, e sei sopravvissuto. Devi essere davvero forte!»

«Ma… ma cosa…» sussurrò Edward, prima che un grido furibondo provenisse da dietro di lui.

Orione si rialzò in piedi, con il volto che sanguinava. «Tu! Come hai osato…»

La scimmia fece uno strano verso e compì un balzo. Una nube bianca si formò sotto i suoi piedi a mezz’aria. Nel giro di un istante, passò sopra la testa di Edward e si fiondò sul gigante mulinando il bastone. Orione non vide nemmeno cosa lo colpì. Si ritrovò di nuovo steso per terra, con il volto viola, e questa volta non si sarebbe rialzato così presto.

«Molto bene! Adesso che questa seccatura è sistemata…» La scimmia indicò Edward. «… io ti sfido, Araldo di Amaterasu! Coraggio, battiti con me!»

Edward fece un passo indietro. Quel tizio aveva steso Orione come niente. Irradiava forza pura da ogni centimetro di quel corpo peloso. E conosceva Orochi.

«Chi sei?» riuscì a domandargli. «Ti ha mandato il re dei demoni?»

«Non sono stato mandato qui da nessuno. È stata una mia scelta. E quanto a chi sono…» Lo sconosciuto si puntò il pollice al petto, con un ghigno che mostrò i canini affilati. «… il mio nome è Sun Wukong. Sono il re delle scimmie. Dammi una vera sfida!»





Ehilà, salve. Penso che questa sia una delle cose più brutte che abbia mai scritto. Ho assassinato il personaggio di Orione, me ne rendo conto, e penso di aver reso una barzelletta l'incontro tra Edward e il Re dei demoni. A mia difesa, rischiava di diventare la copia sputata dei sogni con Edward e Orochi, quindi ho preferito scegliere un approccio diverso. E poi, finalmente qualcuno ha dato a Edward pan per focaccia. Ma so che non siete qui per questo, quindi parliamo del finale. Sì, gente, è proprio lui, Sun Wukong, ma forse voi lo conoscerete come Son Goku. Una volta mi chiesero perché non chiamai un personaggio scimmia "Son Goku" durante l'Elisir di Lunga Vita, beh, il motivo è questo. Son Goku non è un nome qualsiasi, è il nome giapponese di Sun Wukong, un mito cinese che però si è diffuso in tutto il mondo, ragion per cui ho deciso di inserirlo anche in questa storia (e motivo per cui parla giapponese risicato). La mia idea è che Wukong abbia viaggiato il mondo in cerca di una sfida degna di lui (sì, proprio come farebbe Goku) e finalmente l'ha trovata. Ma mi sono dilungato abbastanza. Il prossimo capitolo sarà su... Lisa! Lo so ora mi odierete. Mi dispiace! Ma ho tante belle idee per lei e per il caro Tommy. Grazie per aver letto e alla prossima!

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