Vind Flamme Regn

di Evali
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio di un viaggio ***
Capitolo 2: *** Soldati, nobili e pirati ***



Capitolo 1
*** L'inizio di un viaggio ***


La locanda pullulava di odori e di strane storie.
La donna dalla pelle scura si sedette sulla prima sedia che trovò libera, a pochi passi dal bancone.
Un odore di esotico surclassava tutti gli altri.
Era il porto più ad Est dell’Asia occidentale.
Lingue, accenti e cadenze diverse si mischiavano tra di loro, creando un caos a tratti gradevole, a tratti esageratamente chiassoso per la mente di chi era giunto lì solo per incontrare qualcuno; qualcuno che probabilmente non si sarebbe presentato.
La donna bevve dal suo boccale quel liquido che ricordava tremendamente il vino dei porti del suo continente natìo, provocandole un senso di nausea familiare a contatto con la lingua.
Nessuno avrebbe potuto riconoscerla, ormai si era fatta una corazza inscalfibile impossibile da penetrare.
Un tempo, nel proprio villaggio natìo, era definita “mostro”, “ceffo” o, come amavano dire più a sud, “megera”. Il villaggio in cui era cresciuta, dominato dai brutti, ma segretamente tenuto in piedi dai belli, coloro che reggevano le redini di ogni legge umana e morale, inconsapevolmente.
Non era mai uscita da quel villaggio. Quando era stata costretta a scappare via da quel luogo maledetto, e aveva avuto modo di mettere piede fuori di lì, seppur non avendolo mai desiderato, i suoi occhi si erano aperti: in fondo, coloro definiti “servi del Creatore” di Bliaint, di cui anche lei faceva parte, non erano poi così tanto orrendi se messi a confronto con altri.
Aveva scoperto di potersi permettere di non essere sempre considerata brutta, fuori da Bliaint, perché c’erano moltissime popolazioni, e centinaia di singoli individui in confronto a cui sarebbe stata definita persino bella.
Infondo, era discreta. Come tanti altri. Addirittura, con la crescita, o la vecchiaia (dipende dai punti di vista), il suo volto era diventato “caratteristico”, spesso apprezzato da chi era affascinato dal nuovo, dallo sconosciuto, dall’“esotico”, appunto. La sua statura era aumentata, le gambe si erano allungate, il corpo era stato sempre più scolpito dagli allenamenti corpo a corpo e con la spada, che l’avevano resa forte, forgiata, imponente, persino ammirevole. Era riuscita a dare una forma alla sua folta chioma di capelli ricci e increspati, relegandola spesso in una grossa e lunga treccia, o, in alternativa, in tante piccole treccine ai lati della testa, legate poi tutte insieme in una comoda acconciatura da combattimento. Tutto era stato plasmato secondo necessità, ai fini di comodità e praticità. Anche il suo abbigliamento era cambiato totalmente, in tal proposito: alti stivali che arrivavano fino al ginocchio, pantaloni in cuoio, pratici per agganciarci sopra cinture in cui depositare e nascondere le armi, giacche dello stesso materiale e maglie di tela.
Per finire, anche il suo viso “orrendo” non era più lo stesso. Anche quello si era allungato con gli anni, e per quanto i tratti fossero sempre sgradevoli, appariva interessante e accattivante per molti. Soprattutto grazie alla presenza delle cicatrici sulla fronte e accanto al mento. Detto ciò, di certo non si era risparmiata in quanto ad amanti, nel corso della sua vita.
Bevve ancora diversi sorsi, perdendosi ad ascoltare distrattamente le conversazioni (quelle comprensibili) di quella miriade di gente proveniente da tutto il mondo, mentre aspettava l’attesissimo destinatario del suo incontro.
Erano passati anni, dall’ultima volta che si erano visti.
“Hai sentito della festa che si terrà nel continente grigio?”
“Quella per festeggiare i quattordici anni della principessina?”
“È una contessina, idiota! Per gli dèi, pensa a quanti fiumi di gemme preziose scorreranno in quell’occasione! Quel tiranno di suo padre, quel dannato conte Agloveil, è sempre sin troppo sfarzoso in occasioni come queste! E sua moglie non è da meno!”
“E dimmi: questa contessina è bella quanto sua madre??”
“Scherzi?? Si dice che adombri notevolmente sua madre!! Si narra già della sua bellezza per i sette mari!”
“Considerando che è la figlia di un servo del Diavolo dell’estinto villaggio di Bliaint, non fatico a crederci! Insomma, lì non erano tutti bellissimi??”
“I servi del Diavolo lo erano. Belli quanto pericolosi! Spero che quella ragazzina abbia preso solo la bellezza da suo padre, e nient’altro. Si narra che egli fosse uno degli stregoni più potenti di Bliaint.”
La donna tremò nell’origliare tale conversazione.
“Beh, potrebbe comunque aver preso la pazzia da sua madre, invece. Insomma, non è del tutto sana di mente una donna che è talmente accanita sul nome che ha deciso per sua figlia, da scontrarsi col marito, fino ad arrivare al punto di dare a sua figlia due nomi! Ti rendi conto che quella ragazzina ha due accidenti di nomi perché i suoi genitori non sapevano decidersi?!”
I due conversanti scoppiarono in grasse risate, continuando a bere.
Se solo quei due avessero saputo che anche lei aveva due nomi, poiché anche lei era un’abitante dell’estinto Bliaint, ma facente parte della metà “sbagliata” del villaggio, gli sarebbe caduta la mandibola a terra a entrambi. La donna rise di quel pensiero.
- Intorno sembra tutto tranquillo – una voce giovane e maschile invase il suo campo uditivo, portandola a voltarsi verso il ragazzo in piedi vicino al suo tavolo.
- Da quanto tempo sei lì a fissarmi? – gli domandò lei, osservandolo per controllare che stesse bene. Non sia mai che nella sua breve perlustrazione della locanda qualcuno gli avesse fatto del male.
- Abbastanza da averti vista mentre ghignavi come una cretina, origliando la conversazione di quei due. Ridevi e, al contempo… - il ragazzino si bloccò, allungando un dito per asciugare la lacrima che aveva bagnato la guancia della donna. - … non ti avevo mai vista piangere. Va tutto bene?
La donna se ne accorse a sua volta e sfregò via ogni residuo di lacrime rudemente, con la manica della sua giacca. - Allora? Trovato nulla di interessante nella tua perlustrazione? – cambiò subito argomento.
Il ragazzino di fronte a lei era un vero segugio: silenzioso, in grado di passare inosservato, ma con una determinazione di ferro a soli quattordici anni. La sua pelle era marrone scura come la sua, il suo viso pulito, giovane, fresco, i suoi capelli corti e ricci, esattamente come quelli di lei; gli occhi due biglie color cacao grandi e brillanti. Indossava dei vestiti semplici da mozzo, ma che nascondevano armi e un grande potenziale nel combattimento corpo a corpo. Ed era alto, molto alto e ben formato fisicamente, per la sua età.
Prima che egli rispondesse alla domanda che gli aveva posto, la donna gliene porse un’altra: - Ci sono parecchie puttane in questa locanda. Qualcuna ti ha messo le mani addosso per rubarti qualcosa o per trascinarti con lei? – chiese seria.
- Parli seriamente…? Ho neanche quattordici anni, neanche li guardano i ragazzini come me.
- Sei un ragazzino ma sei di bell’aspetto. Le puttane sono capaci di tutto, lo sai bene. Guardati da loro – lo mise in guardia divertita, vedendolo sbuffare.
- Comunque – cominciò lui, rispondendole alla domanda di poco prima. – Nulla di interessante. Solo un ragazzo, che sembra parlare una lingua simile alla tua natìa. Forse è un abitante del tuo continente natìo, ma faceva parte di un altro villaggio – ipotizzò.
La donna vi pensò su. – Non sarebbe così strano. Come mai ha attirato la tua attenzione quel ragazzo?
- Non te lo so dire di preciso. Si vede che è un soldato. Ma è diverso da quelli che vedo solitamente. Sembra molto… gelido.
- Anche io sono gelida.
- Non quel tipo di “gelido”… mi ha dato l’impressione come se combattesse battaglie da quando è in fasce… oh, insomma, controlla tu stessa, forse potrebbe destare anche la tua attenzione. È seduto in fondo al bancone, con altri due uomini.
La donna spostò lo sguardo verso la direzione indicatale dal ragazzino e adocchiò la persona di cui egli parlava. Era un ragazzo più giovane di lei, forse di cinque anni, gli avrebbe dato ventisei o ventisette anni, non di più. Aveva dei folti capelli biondo cenere legati indietro, la pelle giovane e baciata dal sole puntellata di tante piccole cicatrici bianche, i lineamenti del suo viso erano complessi, ma palesemente armoniosi e raffinati, seppur il suo sguardo mostrasse una durezza e una freddezza senza pari. Dimostrava più della sua età solo per quello sguardo che era gelo puro. Capì per quale motivo Damyan avesse dato per scontato che fosse un soldato. C’erano tanti piccoli dettagli che lo rendevano palese, oltre alle cicatrici: per quanto il suo abbigliamento lo facesse somigliare più ad un pirata che ad un soldato, il suo corpo slanciato e ben scolpito mostrava fin da sotto i vestiti il tipo di addestramento forgiante e inumano destinato ai soldati; le sua mani vissute reggevano il boccale esattamente come avrebbe impugnato una spada, forza dell’abitudine: infine, dalla sua cintola di cuoio sbucavano più armi di quante ne potesse mai sognare lei.
Damyan aveva trovato il più aitante ragazzo presente in quella locanda, bene. Dunque? La donna non riusciva ancora a capire il motivo per cui quel tipo avrebbe dovuto attirare la sua attenzione, oltre che per recarle ampia gioia agli occhi.
Poi, il ragazzo si voltò casualmente verso la sua direzione, e la donna capì.
I suoi occhi erano il cielo. Sin da lontano, riusciva a notare il loro colore: un meraviglioso turchese, molto familiare. Ma non furono solo i suoi occhi familiari ad attirare l’attenzione della donna, bensì ciò che penzolava sul suo collo: un opale, una pietra sacra e bellissima color di luna, si stagliava sul suo petto coperto dal tessuto dei vestiti.
Un opale che era sempre stata abituata a vedere su un petto diverso. Erano passati quattordici anni ma lo ricordava ancora.
Un gioiello che non si sarebbe mai dimenticata, incastonato nella sua memoria sin dalle radici.
Non poteva essere un opale diverso, no, doveva essere lo stesso. Persino il cordoncino scuro era lo stesso.
La donna scattò in piedi all’improvviso per attirare la sua attenzione, ma finì solo per attirare l’attenzione di coloro che sedevano nei tavoli adiacenti al suo.
L’attenzione del soldato venne attirata da una prostituta, che gli poggiò sfacciatamente una mano sul petto, facendola vagare su tutto il busto. – Ehi, bel giovane. Cosa fai qui? – esordì lei con voce melliflua e una pronuncia pessima della lingua comune, era evidentemente una ragazza del luogo, una bellissima fanciulla dalla pelle più che olivastra. – Ti va di venire via con me? – insistette. Ma lui le scansò via la mano e si alzò in piedi.
- Ehi tu! – richiamò la sua attenzione la donna, a distanza, facendogli finalmente portare gli occhi su di lei.
Lui la osservò da lontano, contrariato.  
Esortò i suoi compagni a seguirlo e si diresse a grandi falcate verso l’uscita della locanda.
A ciò, la donna iniziò a rincorrerlo, a scavalcare incurante tutti i numerosi clienti abilmente, mettendo in atto le sue strabilianti doti da inseguitrice.
E lo avrebbe raggiunto, lo avrebbe sicuramente raggiunto se solo un'altra voce, nostalgica e familiare, nonché la voce dell’ospite che attendeva, non avesse attirato la sua attenzione.
- Hinedia. Geenie Hinedia – la richiamò l’uomo, usando entrambi i suoi nomi.
Per un attimo, la donna rimase a guardare il punto in cui la sagoma agile del soldato aveva varcato la porta d’uscita.
No. Non te ne andare…
E non sapeva se quella voce provenisse dal proprio cuore, o dal cuore di qualcun altro, sovrapposto al suo.
Con un lungo sospiro, si voltò verso l’uomo che l’aveva raggiunta: un lungo mantello e cappuccio nero a coprirlo, il viso marchiato di un uomo di quasi quarantacinque anni, la sofferenza che, seppur sepolta, non abbandonava mai il suo volto, un tempo gentile, il più gentile che Hinedia avesse mai visto.
Ora, quella gentilezza si era trasformata in indifferenza.
- Craig. Craig Daviston – salutò colui che un tempo era stato “padre Craig”, dopo tutti quegli anni di lontananza.
Gli andò incontro e lo vide osservarla, scrutarla da cima a fondo.
- Sei cambiata – fu la prima e unica cosa che disse, quell’uomo che aveva vissuto l’inferno sulla terra, e che aveva condiviso con lei più di quanto entrambi fossero disposti ad ammettere.
L’uno per l’altra, erano gli unici testimoni di un’altra vita.
Un’altra vita vissuta, estremamente diversa da quella che avevano imparato a vivere da quasi quindici anni, in seguito alla catastrofe che aveva spazzato via tutto ciò in cui credevano.
Ora erano persone differenti.
Ma quella vita li accumunava.
O meglio… due persone di quella vecchia vita, li accumunavano.
- Sono passati sette anni dall’ultima volta che ci siamo visti – gli rimembrò lei con un ghigno stanco, riprendendo posto alla sua sedia al tavolo, facendogli segno di sedersi accanto a lei. – Perdona la scelta del luogo, ma sono qui di passaggio. Ed è stato l’unico luogo che mi sembrava abbastanza discreto, dato che neanche un dieci percento dei presenti parla o capisce adeguatamente la nostra lingua natìa.
Craig annuì, capendo le sue motivazioni.
Si era fatto molto silenzioso, col passar degli anni.
Intanto, offeso dalla mancanza di presentazioni, anche il ragazzino, che era rimasto seduto tutto il tempo a quel tavolo, tossicchiò rumorosamente, attirando l’attenzione dei due.
Craig lo scrutò. – Chi è questo giovane? – domandò.
- Craig, ti presento mio figlio, Damyan.
L’uomo sgranò gli occhi dalla sorpresa, osservando le somiglianze tra i due, convenendo che ce ne fossero, ma non poi molte. – Come è possibile…? Sembra abbia quindici anni! Non dirmi che sei rimasta gravida prima che la catastrofe accadesse! Inoltre, sette anni fa, quando ci siamo rincontrati, non mi hai detto di avere un figlio!
- Abbassa la voce, accidenti! Credi davvero che egli sia un figlio puro di Bliaint come noi due?! Ma, soprattutto, credi davvero che allòra io avrei mai tradito il mio promesso sposo (per quanto lo odiassi) e fossi stata capace di giacere con qualcun altro?? Con tutto quello che stava succedendo al mio corpo, per lo più??
- Tutto può essere! Potrebbe essere stata colpa di Layla – azzardò l’ex prete.
- No. Ad ogni modo, Layla è dormiente, da anni, ormai.
Damyan li guardava come se stessero parlando una strana lingua sconosciuta e la curiosità ebbe la meglio.
Sapeva ci fossero molte cose che sua madre non gli aveva mai detto riguardo la sua vecchia vita a Bliaint, il suo leggendario villaggio di provenienza.
Giravano voci, parecchie voci su quel villaggio e sulla tremenda fine che aveva avuto. In particolare una, spaventosamente inquietante e affascinante, riguardo un Dio sanguinario, che aveva posto fine alla maledizione di Bliaint, trascinando tutti i suoi abitanti e tutti gli assalitori nel baratro della morte, risucchiandoli fino alle viscere della terra. Probabilmente quel Dio sanguinario era diventato un culto vero e proprio in diverse parti del mondo, Damyan non ne sarebbe stato sorpreso.
Era in assoluto l’argomento che riempiva le bocche dell’intero globo a qualche anno dall’estinzione di Bliaint.
Eppure, nonostante l’argomento fosse prettamente proibito, e sua madre avesse letteralmente fatto di tutto in quei quattordici anni per tenere nascosta la sua identità di unica abitante di Bliaint sopravvissuta all’estinzione, Damyan era sempre più curioso di sapere.
- Mi spiegate di cosa diavolo state parlando? Vi ricordo che ci sono anche io qui – pretese il ragazzo, attirando la loro attenzione.
 - Ti ho tenuta nascosta l’esistenza di Damyan sette anni fa, perché volevo proteggerlo. Ero ancora in parte molto colpita da ciò che accadde allòra e non volevo rischiare in alcun modo. Forse sono stata una madre sin troppo protettiva inizialmente – disse Hinedia sorridendo con un velo di rammarico, guardando suo figlio. – E poi… eri già sconvolto di sapermi ancora viva, così come io ero sconvolta di sapere te ancora vivo. Ed eri anche deluso da me… quando hai appreso che avevo deciso di non prendermi cura dei gemelli. Ho ceduto i figli della mia più cara amica a degli sconosciuti, sì, e quando te l’ho detto, i tuoi occhi si sono svuotati, Craig. Non hai mai compreso le mie ragioni.
A tali parole, Craig ammutolì, non mostrando alcuna reazione palese. Aveva imparato a tenersi tutto dentro e a non lasciar trasparire nulla, esattamente il contrario di ciò che faceva in giovinezza, nel tempo in cui ogni emozione era trasparente come l’acqua cristallina nel suo viso. Era cambiato, in tutto e per tutto.
- Vuoi sapere come è stato concepito? – riprese Hinedia, riferendosi a suo figlio. – Quando io e Quaglia siamo scappati dal villaggio prima che la terra risucchiasse tutto, ero morta nell’anima e avevo tra le braccia i tre gemelli neonati. Correvo a perdifiato ma non avevo la minima idea di cosa avrei fatto da lì in avanti. Tutto ciò che sapevo è che li avrei protetti con la mia stessa vita, perché erano l’unica cosa che mi restasse di lei.
Poi, come ben sai… Quaglia è… - la voce le si bloccò e Craig la interruppe:
- Ancora non vuoi dirmi come è morto. Dopo tutti questi anni – le disse, risentito. – Potrei iniziare a sospettare che non sia davvero morto.
- Posso assicurarti che lo è. Altrimenti avrei perso gli ultimi quattordici anni a cercare anche lui.
Ma non voglio parlare di come è morto.
Ad ogni modo… non sapevo dove dormire, i gemelli iniziavano ad avere fame e piangevano continuamente. Io avevo diciotto anni e non sapevo minimamente cosa fare.
Avevo bisogno di un posto sicuro e fisso dove passare la notte, almeno per qualche giorno, per capire cosa fare.
Trovai un uomo vedovo, che viveva da solo, in un villaggio poco distante. Mi offrì la sua casa e il suo cibo e mi disse che mi avrebbe aiutata a prendermi cura dei bambini. Così, accadde. Ci andai a letto, per ricambiare la sua gentilezza. Non era un uomo viscido, né un maniaco, tutt’ora ho una buona considerazione di lui. Era solo molto solo. Motivo per cui si accontentò di me, in quanto non poteva aspirare ad altro.
Fu la mia prima volta per me. Egli è il padre di Damyan.
Damyan conosceva a memoria quella storia, perciò non batté ciglio mentre la riascoltava.
- Il suo nome era Aws Kirkennet. Il caso volle che avesse la pelle scura quasi quanto la mia.
- Che fine fece l’uomo? – domandò Craig.
- Fui io ad andarmene. Avevo bisogno di abbandonare quel contenente e… di capire cosa avrei fatto con i gemelli. Dovevo lasciarmi tutto alle spalle. Compreso lui – disse secca.
- Damyan Kirkennet, dunque – disse Craig posando gli occhi sul ragazzo. – Nessun doppio nome, ma solo un nome e il cognome del padre.
- Esatto – confermò Hinedia. – Non ha neanche quattordici anni, ma ne dimostra di più. Nulla lo lega a Bliaint. Solo il suo sangue, per metà diviso con me. Null’altro. Somiglia persino più a suo padre che a me – disse la donna, rincuorata da quel pensiero.
- Ciò non significa che non sia per metà un servo del Creatore di Bliaint – precisò Craig, guadagnandosi un pugnale puntato al collo da Hinedia.
- Non osare – spirò lei. Tuttavia, entrambi sapevano che non l’avrebbe mai fatto. Non avrebbe mai fatto del male a quell’uomo.
Fu spontaneo, per Damyan, chiedersi come avesse fatto Craig, invece, a sopravvivere alla strage di Bliaint. Dalle informazioni che avevano, Craig e Hinedia erano gli unici due sopravvissuti alla furia del Dio sanguinario. Tuttavia, convenne che fosse meglio non domandarlo. Tempo al tempo. Eppure, un’altra domanda non riuscì proprio a trattenerla, in quanto era letteralmente il motivo per cui lui e sua madre si trovavano lì: – Perché abbandonasti i tre gemelli, invece che crescerli tu?
Hinedia si voltò di scatto verso suo figlio, a tale domanda. Abbassò la daga dal collo dell’ex prete, il quale era rimasto rilassato come una statua di sale, e riniziò a parlare. – Non li ho abbandonati, Yan – sussurrò. Il dolore represso era palese nel suo duro tono di voce. – Volevo solo il meglio per loro, e sapevo di non potermi prendere cura di tutti e tre. Tre bambini erano già impegnativi… ma quattro, con il tuo arrivo, lo sarebbero stati ancora di più. Non avevo un lavoro, non sapevo come guadagnarmi da vivere, ero una fuggitiva, ed ero spezzata dentro… nel cuore e nell’anima.
Codarda Codarda Codarda  non faceva altro che dire lo sguardo di Craig.
- Decisi di prendere la decisione migliore per loro: li donai ad una brava donna in una città molto a Nord del nostro continente natìo.
- Ad oggi, ti penti di non averli tenuti con te? – fu Damyan a domandarglielo.
- Non lo so. Dovrei prima conoscere come hanno vissuto finora. Se davvero hanno avuto la vita che avevo sperato per loro, e che io non avrei potuto garantirgli – fu sincera. – Non è stato facile celare le mie origini. Non oso immaginare se avessi dovuto celare anche le loro, di origini. Se fosse successo loro qualcosa sotto la mia tutela…
- Perché hai voluto vedermi qui, oggi, Hinedia? – la interruppe Craig, con voce ferma.
Damyan lo osservò. Anche lui doveva aver fatto molta fatica a rifarsi una vita dopo ciò che era accaduto. Forse, persino più di sua madre.
- Perché dobbiamo ritrovare quei gemelli, Craig.
Devi aiutarmi a ritrovare i figli di Judith – rispose senza filtri la donna, pronunciando finalmente il suo nome, facendo tremare Craig nel farlo.
- Che cosa...? Ti sei bevuta il cervello, per caso?
Damyan rise per l’ilarità e l’assurdità di quella situazione, smorzando il clima teso.
- No, affatto.
Devi aiutarmi a rintracciare quei ragazzi, Craig.
Dobbiamo scoprire che fine hanno fatto, dove sono, che aspetto hanno.
Sono tornata dalla donna a cui li ho affidati e lei mi ha detto di averli ceduti a qualcun altro quando erano ancora piccoli.
- Mi stai dicendo che potrebbero essere dovunque nel mondo?!?
Stiamo parlando di due ragazzine e un ragazzino di quattordici anni! Pensi sia così facile trovarli, dal nulla?? Potrebbero essere ovunque!
- Non ho perso tempo, li sto cercando da mesi, e con l’aiuto di Damyan ho trovato una pista bella e buona – annunciò Hinedia srotolando una cartina sul tavolo e poggiando il dito sul punto che Craig si aspettava meno di tutti.
- L’Asia?!
- Esatto.
- Sarei davvero curioso di sapere come sei arrivata a questa conclusione. Sarebbero stati cresciuti da una famiglia asiatica, dunque? La loro cultura è diversissima dalla nostra.
- Esatto anche questo. Ma dalle ricerche che abbiamo fatto, è probabile che abbiano lasciato la terra che li ha cresciuti, e che stiano navigando in acque non troppo lontane, ma neanche vicine.
- Questo vuol dire tutto e niente – affermò stanco l’ex prete.
- Sto cercando di dirti che, probabilmente, siamo vicini. Più vicini di quanto pensiamo – disse la donna, sorridendo determinata. – Allora? Mi aiuterai a trovarli?
- Voglio che prima tu mi dica per quale motivo vuoi cercarli proprio ora.
E voglio che tu sia sincera con me – la voce di Craig trasmetteva tutto il dolore e l’agonia nascosta di una persona che aveva impiegato secoli ad andare avanti, a lasciarsi indietro ciò che aveva vissuto a Bliaint.
Un dolore terribile e corrosivo emergeva dai suoi occhi.
Forse… quel dolore non lo aveva ancora superato. Brulicava in lui come un veleno, che avrebbe strappato via la sua vita prima del previsto.
Damyan non poté fare a meno di chiedersi se quel dolore insormontabile fosse provocato in particolare da qualcuno, una persona che l’ex prete si era lasciato indietro, a Bliaint.
Hinedia, inaspettatamente gli prese la mano e la strinse nella sua, entrambe ruvide, per motivi differenti.
- Quello che sto per dirti ti sembrerà assurdo, ma… credo che qualcuno che probabilmente non ti aspetteresti mai, abbia svelato il mistero della trasmutazione dei metalli e dell’anima.
 
 
Il capitano di una delle più temibili navi pirata dei mari asiatici fece il suo ingresso nella stiva, un luogo umido e dal pregnante odore di sangue.
I suoi occhi a mandorla, caratteristici dell’Asia orientale, si allungarono maggiormente nel momento in cui un ghigno apparve sul suo volto avvenente, mentre osservava i prigionieri che erano riusciti a catturare dall’ultimo saccheggio.
Non solo avevano la nave piena di ricchi tesori ora, ma erano riusciti anche a rapire diversi abitanti di quel luogo straniero su cui erano approdati: alcuni di loro avrebbero fornito informazioni preziose, altre sarebbero state utili in altri modi.
Si asciugò il sangue dalla fronte e si avvicinò alle decine di prigionieri inginocchiati e incatenati, osservandoli attentamente.
Tra loro c’erano diverse belle donne.
In particolare, una di loro attirò notevolmente la sua attenzione, tanto da fargli aprire e chiudere gli occhi un paio di volte, per accertarsi di star vedendo bene: la sua bellezza era a dir poco celestiale, i suoi lunghi e folti capelli rossi cremisi le coprivano il corpo inginocchiato; i suoi occhi, neri come la pece, grandi e da cerbiatta, pregni di sfida; la sua pelle chiara come il latte più incontaminato e vergineo; il volto quello di una dea del fuoco. C’era solo un unico problema: era una bambina. O per lo meno, il suo corpo sembrava procace, ma non dimostrava più di quattordici anni. Aveva dei cenci addosso, come se fosse stata fatta schiava già da prima di essere rapita. Accanto a lei, vi era una ragazzina della stessa età e dello stesso colore di capelli, ma meno bella di lei. Poi, lo sguardo dello spietato capitano si posò anche su un prigioniero che era vicino alle due, ma in disparte, esattamente al limite della fila, come per non farsi notare, per nascondersi ai suoi occhi.
Al capitano non piacevano gli scarafaggi che si nascondevano.
- Uomini, portatemi il ragazzino lì in disparte, subito – ordinò ai due membri della sua ciurma che gli erano accanto, i quali si apprestarono ad obbedire.
Presero il ragazzino di peso, e lo trascinarono davanti al capitano, senza incontrare nessuna resistenza da parte sua.
Solo le urla di quelle che dovevano essere le sue due sorelle, la dea dai capelli rossi e l’altra, si elevarono in protesta.
Il capitano gli prese i folti e lunghi capelli tra le mani e li tirò indietro senza grazia. – Tu, guardami!
Il ragazzino in questione aveva i capelli neri come l’ebano, più neri del cielo notturno; la sua pelle era bianca porcellana tra le sue mani, delicata e setosa come doveva essere anche quella della sorella, niente di meno; ma ciò che lo colpì maggiormente furono i suoi occhi. Nonostante l’aspetto cencioso da schiavo del ragazzino, il suo sguardo smarrito, come di un cucciolo ferito, e la sporcizia che lo copriva, i suoi occhi spiccavano come due diamanti bianchi e luminosi, quasi streganti. Erano grandi, contornati da lunghe ciglia nere, di un taglio ampio, e le sue iridi erano ghiaccio, talmente chiari da non averne mai visti di simili prima d’ora. Nessun colore emergeva in loro.
Solo il ghiaccio.
Per quanto non avesse mai prestato attenzione all’apparenza dei maschi, l’uomo dovette ammettere che quel ragazzino fosse bello almeno quanto sua sorella, se non di più.
Il ragazzino schiuse leggermente quei suoi occhi stregati, indicibilmente spaventato dall’uomo dinnanzi a sé.
Il suo atteggiamento così spaurito e servizievole lo facevano apparire non più grande di quattordici anni.
- Quanti anni hai? – gli domandò brusco.
- Quattordici.
- E le tue sorelle lì dietro?
- Non ho sorelle… - cercò inutilmente di nasconderlo, ma quel moccioso non era bravo a mentire, il capitano lo smascherò subito, tanto che rise.
- Siete gli unici tre occidentali in questo ammasso di prigionieri! Credi che io sia un idiota, ragazzo?! – si spazientì stringendogli maggiormente i capelli tra le mani, fino a far comparire una deliziosa smorfietta di dolore sul suo bel visino terrorizzato. – Inoltre… non vedevo dei volti così divini da un bel po’, sai? – gli sussurrò all’orecchio, guardando con la coda dell’occhio anche la scontrosa sorella, che li osservava a distanza.
- È pericoloso paragonare le divinità agli esseri umani, signore – rispose a mezza voce il ragazzino, facendo spalancare gli occhi del capitano, il quale lo lasciò andare con uno strattone.
A ciò, il ragazzo provò a strisciare nuovamente vicino alle sue sorelle, ma il capitano afferrò la catena che gli teneva legati i polsi e lo ritrascinò verso di sé. – Che fai, scappi via da me, principino? Avanti, vieni qui – lo incoraggiò ghignante, accovacciandosi e attendendo che l’animaletto spaurito si riavvicinasse.
- Cosa volete da me? – gli domandò docilmente il ragazzo, cercando di celare la paura.
- Dì un po’, che cosa ci fanno tre piccoli occidentali nella terra del re Yuan, il domatore di serpenti? E come fate a saper parlare così bene la nostra lingua?
- Il re Yuan ci ha presi come schiavi – rispose tremante.
- Dovete essere molto preziosi… quanto pagherebbe per riavervi?
- Qualsiasi cifra…
- Interessante.
- Ma voi … - trovò un pizzico di coraggio il ragazzino. – Voi gli avete rubato molto, non è così…?
- Oh sì, puoi giurarci! – esclamò tronfio e soddisfatto. – È stato un colpo da maestro. Tutte le sue riserve di gemme e di diamanti!
- E anche… anche quelle di vetro? Quello che chiamano “vetro indistruttibile”? Il re ne parlava sempre…
- Ah! Sei curioso, ragazzino, non è vero?! Ad ogni modo sì, anche quello! Ma non è stato affatto facile! Ho perso diversi uomini della ciurma a causa di quei dannati serpenti. Ma ne è valsa la pena. Quel vetro è frutto degli dèi e lo pagheranno profumatamente!
- Non riesco a crederci…
- Credici pure, ragazzo!
- E dove avete messo tutta quella roba?
- Ben nascosta sotto i nostri piedi – rispose nuovamente ghignando, per poi afferrare il mento del ragazzino tremante e portarlo vicino a sé, tanto da respirargli sul volto. – Ma ora basta domande. Dì un po’, il vostro re si offenderebbe se, prima di rivendervi a lui ad un buon prezzo, io mi diverta un po’ con voi tre?
- Diver…tirvi…? – domandò ancor più spaesato ed impaurito il ragazzo.
- Oh andiamo… sono certo che il vostro padrone vi faceva le stesse cose che voglio farvi io.
Ad esempio tua sorella… dimmi un po’… sembra morda da quanto è scontrosa. C’è un modo per scioglierla un po’? – domandò lascivo, guardando la ragazza a distanza.
- No, non c’è un modo. Ma se le darete un po’ delle gemme che avete rubato… si concederà a voi senza opporsi – rivelò il ragazzino.
- Ah, dici davvero? Bene, buono a sapersi. Vorrà dire che farò preparare una collana di diamanti per lei, ordunque. E tu, principino? Anche a te piacciono le cose luccicanti? – gli domandò, quasi come stesse parlando a un bambino, o a una verginea fanciulla.
- Vi ho appena detto come convincere mia sorella… ve l’ho ceduta. Non vi basta lei?
- Tu non hai ceduto proprio nulla a nessuno. Siete tutti  miei.
- Io non voglio. Vi prego… farò qualsiasi altra cosa.
A ciò, il capitano assunse una posa fintamente greve, come affaticata dal troppo ragionare. – Non mi piace violare i miei prigionieri. Non sono un barbaro io, sai? Facciamo così: io ora ti porterò un bell’anello, bello quanto la collana che porterò a tua sorella. Se ti piacerà abbastanza, accetterai anche tu di fare tutto ciò che voglio.
Il ragazzino non rispose, ma prima che potesse anche solo pensare di dire qualsiasi cosa, l’uomo chiamò uno dei suoi sottoposti. – Va’ a prendere un piccolo anello di diamanti dal copioso bottino di oggi.
A ciò, l’uomo si incamminò verso una direzione ben precisa: uscì dal corridoio e aprì una botola che lo avrebbe portato verso il basso, sulla destra.
Il ragazzino seguì attentamente tutti i suoi movimenti.
- Che c’è? – lo smascherò il capitano. – Vuoi scoprire dove tengo i miei tesori? – lo rimproverò bonariamente.
- No, non oserei mai… - rispose timidamente il ragazzino, il quale iniziò a puntare i suoi occhi incantatori fuori dall’oblò di tanto in tanto. Il capitano non diede peso alla cosa.  
Dopo qualche minuto, il sottoposto tornò, richiuse la botola e porse al suo capitano lo splendido anello di diamanti bianchi, brillanti come le stelle. – Ecco qua – disse il tronfio capitano, infilando l’anello sull’indice affusolato del ragazzino.
Egli osservò l’anello sul suo dito, sorpreso. – È bellissimo…
- Allora? Ti ho convinto?
Prima di rispondere, il ragazzo dagli occhi incantatori guardò per l’ultima volta fuori dall’oblò.
Poi, accadde una cosa che sconvolse indicibilmente il capitano: l’innocente e spaventato fanciullo palesò una fila di denti bianchissimi, in un sorriso diabolico da far accaponare la pelle.
Si voltò verso di lui e gli sorrise in quel modo, trionfante, furbo, come se avesse il mondo in mano.
Il suo aspetto era totalmente cambiato nel giro di qualche secondo: non più ricurvo e sottomesso, non più schivo e timoroso; bensì sicuro di sé, sorridente, schernente, più adulto, più consapevole e persino più virile.
- Spiacente. Magari con qualcun altro andrà meglio – commentò con una voce diversissima dalla precedente, più calda e decisa, alzandosi in piedi e sganciando un potentissimo calcio in faccia al capitano, in grado di rompergli una decina di denti e di fargli perdere conoscenza.
Intanto, rumori di assedio di una nave nemica fecero ben sperare tutti i prigionieri ancora incatenati.
I giovani pirati, tutti non più grandi di diciotto anni, piombarono come grilli anche nella stiva, disarmando e uccidendo i membri della ciurma nemica.
Il ragazzo dagli occhi di ghiaccio si voltò verso le due sorelle ancora incatenate. – Fe, Re, eccomi! - tolse le catene a tutte e due, mentre la meno avvenente rassicurava il resto dei prigionieri: - Non preoccupatevi, ora vi libereremo tutti quanti. Siamo pirati anche noi, ma non vi faremo del male!
- Il bottino rubato al re Yuan è in quella botola dietro al corridoio! – indicò il ragazzo ai primi membri della propria ciurma che vide accorrere verso di loro, in soccorso. – Non mettete a soqquadro la nave, ci fornirà dei buoni pezzi di ricambio, è di ottima fattura! – aggiunse.
- Uccidete tutti i membri della ciurma! – si unì agli ordini anche la bellissima sorella adocchiata dal capitano, con voce dura e determinata, mentre si ripuliva dalla sporcizia che si erano appositamente messi addosso per sembrare schiavi. – Tutte le volte c’è bisogno di questo teatrino, Vi? – domandò a suo fratello alzando un sopracciglio, mentre recuperava una spada nel trambusto.
- Questo “teatrino” ci ha permesso di scoprire che questi idioti hanno avuto successo nel rubare l’ambito bottino del re Yuan, così da evitarci rischi inutili – rispose lui.
- Ed era necessario che “mi cedessi” a lui? – domandò stizzita, come faceva ogni volta, iniziando a combattere a sua volta.
- Se non lo avessi fatto, non avrei mai saputo il punto esatto in cui nascondeva i suoi tesori. Credevo bastassi tu, invece ha insistito anche con me.
- Quel dannato schifoso! – commentò lei, mentre intanto un’altra orda di membri della giovane ciurma dei tre li raggiungeva, con il luccichìo di conquista che brillava nei loro occhi.
- Ehi! – fece il suo ingresso una giovane pirata dai tratti asiatici, bella e selvaggia.
- Ehi – ricambiò il ragazzo porgendole il gomito, accogliendola con il loro saluto caratteristico. – Ci avete messo un bel po’ ad arrivare.
- Abbiamo avuto dei rallentamenti, mi dispiace. Bell’anello comunque!
- Questo? – domandò il ragazzo guardandosi l’indice, già dimentico del gioiello nuovo che adornava il suo dito. – Me l’ha dato lui – disse con scherno, indicando il corpo del tronfio e stupido capitano della nave nemica, che giaceva a terra, rivelando la sua reale forma patetica. – È stato sin troppo facile e noioso farla franca con lui – aggiunse annoiato, per poi recuperare la spada portagli dalla pirata e annunciare: - Torniamo alla nostra nave.
- Agli ordini, Capitano.
 

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Capitolo 2
*** Soldati, nobili e pirati ***


Soldati, nobili e pirati


- Fissate le tende, ci accamperemo qui! – esclamò Ruben.
- Agli ordini!
- Ruben! – lo richiamò uno dei suoi compagni di viaggio ed ex compagno d’arme.
Il biondo si voltò verso di lui, in attesa di sentirsi porgere qualsiasi lamentela con cui lo stava tartassando da almeno due settimane.
- Non fare già quella faccia – lo supplicò l’altro, andandogli incontro. – Non voglio discutere di nuovo con te, sei sfinente.
- Parla, Valentin.
- Questa è una zona desertica. Non so se non te ne sei accorto – sottolineò sarcasticamente. – Non è il massimo dell’agio accamparci qui.
- Non siamo mai stati abituati a vivere al massimo dell’agio, Valentin. Non possiamo perdere tempo a cercare un’altra locanda.
- A proposito di locanda: chi era la donna che ti ha chiamato disperata, quasi come se ti conoscesse, in quella locanda ad Est settimane fa? E non mi riferisco ad una delle cinque puttane che hanno provato ad attirare la tua attenzione.
- Con una di quelle hai fatto faville per più di un’ora, mi pare – cambiò discorso Ruben.
- Avresti potuto farlo anche tu. Perché non vuoi divertirti mai, eh?
- Non si tratta di non voler divertirmi, Valentin, si tratta di decidere io quando farlo e quando non farlo.
- Non hai risposto alla mia domanda, comunque. Chi era la donna nera che ti ha chiamato e che ci stava per inseguire?
- Non ne ho la minima idea – rispose sinceramente Ruben, guardandosi intorno, approfittando per scrutare il territorio: erano approdati in quella terra dal suolo desertico da circa una settimana. Avevano sondato le zone circostanti, avevano iniziato le loro ricerche anche lì, cercando di non disturbare troppo le popolazioni locali con il loro passaggio, come al solito.
Si trovavano nel profondo sud dell’Asia centrale.
Avevano già soggiornato in zone desertiche, ma quel caldo torrido non l’avevano mai sperimentato prima. Era a dir poco soffocante.
Sapevano che in quelle terre, poco lontano dal deserto, vi era una florida popolazione mercantile. Una popolazione che adorava e idolatrava un “dio umano”.
Ruben non sapeva altro, ma sapeva per certo che quella fosse la volta buona: in quelle terre avrebbe trovato informazioni utili sulla scomparsa di suo padre.
Improvvisamente, una sagoma, una sorta di ombra nera dalle fattezze terribili gli apparve davanti agli occhi in lontananza.
No, non può essere
Chiuse le palpebre una volta e quando le riaprì la sagoma era scomparsa.
- Conosceva il tuo nome? – persistette Valentin, riportandolo alla realtà.
Il biondo si voltò verso di lui, tornando a prestargli attenzione.
Valentin era un giovane uomo di trentadue anni, alto e ben piazzato, con la struttura fisica del soldato “imbattibile”, come amava ripetere il loro vecchio generale. Teneva sempre i capelli scuri rasati molto corti, un leggero strato di barba scura copriva la sua mascella importante, ma i suoi occhi erano grandi e sembravano quasi trasmettere una strana dolcezza, a volte. Le sue iridi gialle come quelle dei gatti attiravano l’interesse di molte donne, almeno quanto il suo grande corpo statuario.
Nonostante avesse un corpo di tutto rispetto, Ruben spesso si sentiva piccolo e mingherlino in confronto a lui. Eppure, era lui quello ad avere affrontato quasi quindici anni di guerre e battaglie sanguinarie, a fini pressocché inutili.
Ruben si era arruolato a undici anni, quando era solo un bambino, e non aveva neanche avuto il tempo di abituarsi a quello stile di vita, che lui e le altre reclute erano state catapultate nel cuore dell’Asia orientale, nella parte più arcaica, selvaggia e pericolosa.
Era sopravvissuto a tutto, ed ora era lì, vivo e vegeto, ma con una consapevolezza negli occhi che neanche un uomo con il triplo della sua età avrebbe avuto.
Valentin, invece, si era arruolato tardi, all’età di vent’anni, quando Ruben ne aveva quindici.
Se lo era ritrovato come compagno di tenda e, benché litigassero sempre, avevano fatto subito amicizia.
Ed ora, Valentin era uno dei pochi fidati che lo seguiva ovunque, fino in capo al mondo, in quella impresa assurda e forse destinata a fallire: la ricerca di suo padre, nonché uno degli alchimisti più famosi dell’Occidente. Tutti lo credevano morto, motivo per cui la fama acquisita dal suo nome di famiglia sembrava essere morta con lui.
Il fatto che Ruben, il suo unico figlio, non avesse seguito le sue orme, non aveva poi aiutato a portare alto il nome dei “von Hohenheim”.
A Ruben non era mai interessata l’alchimia. A lui interessava più inseguire la morte, senza alcuno scopo logico.
- Non so se conoscesse il mio nome – rispose sinceramente. – In ogni caso, perché le stai attribuendo così tanta importanza?
I due vennero interrotti da un altro dei loro compagni: - Ruben! Valentin! Venite qui, presto! – esclamò il ragazzo in lontananza, facendo loro segno con il braccio.
I due si mossero all’unisono e corsero da lui, scoprendo che si trovava dentro un’umile casa fatta di argilla e paglia, come lo erano la maggior parte delle abitazioni di quella zona.
Piombarono dentro, venendo invasi da un tanfo di un odore non propriamente riconoscibile o per lo meno non accostabile a nulla di umano.
- Cos’è questa puzza?? – domandò contrariato Valentin, sguainando già la spada.
Ruben vi poggiò sopra la mano, facendogli intendere di rimanere calmo. – Non ce ne è bisogno. Guarda: sono tutti civili, non c’è alcun pericolo qui.
Valentin lo scrutò, indeciso se rinfoderare l’arma o no.
- In ogni caso… la magia non si sconfigge con le armi – aggiunse Ruben avanzando dentro la casa.
Davanti a loro c’era una famiglia di civili impauriti, con il classico abbigliamento tipico del luogo: lunghe tuniche e turbanti in testa. La loro pelle, come ci si aspettava, era di uno scuro olivastro, i loro occhi più scuri e grandi che mai.
La donna della casa strinse forte a sé i suoi figli e supplicò qualcosa nella propria lingua, incapace di parlarne e capirne altre.
- Non abbiamo un interprete in questo posto dimenticato da Dio – commentò frustrato Valentin.
- Ha chiesto di non fare del male ai suoi figli. E che farà tutto ciò che vorrete, purché non facciate del male ai suoi bambini – una voce sconosciuta, arrochita dall’età, fece il suo ingresso nella scena.
Si trattava di un vecchio, con turbante in testa, occhi vispi e la pelle stranamente chiara.
- Era lui che volevo mostrarvi – commentò Arne, il compagno d’arme che li aveva chiamati. – Dice di poterci aiutare.
Ruben lo squadrò, dubbioso e diffidente.
In tanti, durante i suoi anni di infiniti viaggi per il mondo, si erano spacciati per benefattori, rivelandosi poi velenose vipere.
Nessuno faceva nulla in cambio di nulla. E spesso il prezzo che chiedevano era infinitamente maggiore del servizio che offrivano.
Il vecchio vispo aveva gli occhi puntati solo su Ruben. A ciò, quest’ultimo si fece avanti, muovendo qualche passo verso l’uomo, continuando a squadrarlo con durezza.
A ciò, il vecchio deglutì e alzò le mani al cielo, come per dimostrargli maggiormente le sue buone intenzioni. - Volevo incontrarvi, Ruben von Hohenheim. Da più tempo di quanto pensate – disse improvvisamente, sorprendendo tutti.
- Come sapete il mio nome? – domandò il biondo, non tradendo alcuna reazione particolare.
- Il vostro cognome è piuttosto famoso tra chi pratica la magia – rispose il vecchio, dando conferma alle loro supposizioni.
- Conoscevate mio padre…? – domandò Ruben, trattenendo internamente il respiro senza darlo a vedere.
- No, purtroppo. Ma, forse, conosco un modo per trovarlo – disse ghignando.
Poteva essere un imbroglione o un mascalzone, poteva essere qualsiasi cosa.
Percepiva già l’esigenza di Valentin di intervenire e di farglielo notare in ogni modo possibile.
Tre due uno…
- Potrebbe star mentendo! – esclamò Valentin da dietro, puntualissimo come un orologio.
- L’ho trovato che praticava delle arti magiche per rintracciarci… - spiegò Arne.
- Perché volevate rintracciarci? – domandò Ruben sfoderando la spada con abilità strabiliante, come fosse una cosa normalissima, puntandola alla gola del vecchio.
A ciò, gli occhi dell’uomo virarono verso il petto del ragazzo, verso l’opale appeso al cordoncino.
- Quell’opale… dove l’avete preso? L’ho notato solo ora – la sua voce era più profonda, ora.
- Non vi riguarda. Rispondete alla mia domanda se non volete ritrovarvi sgozzato prima di aver esalato un’altra parola.
- Voglio trovare vostro padre quanto voi. Credete nelle arti magiche, Ruben? – rispose il vecchio, prendendosi tutto il suo tempo per studiare e osservare il giovane uomo dinnanzi a sé.
Ruben si sentì messo a nudo per la prima volta dopo tanto tempo, e non comprese per quale motivo quel vecchio lo stesse guardando in tal modo.
Sicuramente c’era qualcosa sotto.
Qualcosa che gli sfuggiva.
Ma non lo avrebbe mai scoperto se lo avesse ucciso, né tanto meno se non avesse accettato il suo aiuto.
- Credo nell’alchimia. E nella magia arcaica – gli rispose, dopo un lungo silenzio.
- Bene. Vostro padre praticava l’alchimia, mentre io sono padrone di arti magiche un po’ diverse, ma comunque non così distanti.
So che voi lo state cercando e che siete un ottimo segugio, oltre che un ottimo combattente.
- Come diavolo fa a sapere tutte queste cose su di te?? – domandò contrariato Valentin, avvicinandosi.
- Il vostro amico tiene molto a voi – commentò divertito il vecchio, portando gli occhi su Valentin alle spalle di Ruben, ma allontanando subito l’attenzione da lui, poco interessato.
Riportò subito lo sguardo sul biondo.
- Allora? Unirete le forze con me per trovarlo? Lo cercate da anni e non lo avete ancora trovato.
Tutti credono sia morto e quasi nessuno è disposto a dare credito alla vostra speranza.
Io potrei esservi molto utile a tal proposito.
- Se lo state cercando da anni anche voi e vi proclamate così abile, per quale motivo non lo avete trovato nemmeno voi? – replicò Ruben, rinforzando la presa sull’elsa della spada, la quale premette maggiormente sulla gola rugosa dell’uomo.
- Mi serviva il vostro aiuto così come a voi serve il mio.
- È un ciarlatano, Ru! – persistette Valentin, accanito nei confronti del vecchio.
Quell’uomo non gli ispirava un briciolo di fiducia, anzi, gli faceva ribollire le viscere di rabbia.
- Parlate egregiamente la lingua del mio continente natìo e avete la pelle chiara, come la nostra.
Cosa ci fate qui, in Asia?
- Mi piace questo posto – rispose semplicemente il vecchio, alzando le spalle infantilmente, ma non staccando mai gli occhi dal giovane di fronte a sé. – Vi immaginavo diverso, comunque. I von Hohenheim non hanno mai brillato particolarmente in bellezza… eppure, voi siete molto gradevole alla vista.
- Quest’uomo è folle – convenne anche Arne, il quale si avvicinò a Ruben, accostandosi al suo orecchio. – Mi spiace che sia stato un buco nell’acqua. Credevo ci potesse essere utile davvero – gli sussurrò.
Udendo le parole del ragazzo, il vecchio si giocò un’ultima carta: - Non vi sarei utile solo nel rintracciamento di vostro padre, ma vi farei anche da interprete. Non conoscete la complessa lingua di queste terre, mentre io sì. Vi garantisco che avrete bisogno di un interprete per proseguire su questa via.
Ruben gli donò un ultimo sguardo, poi si rimise in posizione eretta e rinfoderò la spada. – Prendiamolo con noi – decise, per poi avvicinarsi tanto al vecchio da far sfiorare i loro nasi. – Fate qualsiasi cosa che possa ledere lontanamente alla sicurezza e alla salute dei miei compagni e vi ritroverete senza testa in un battito di ciglia. Intesi?
 
 
I preparativi per la festa in occasione del compimento dei quattordici anni della contessina erano in atto da mesi ormai.
- Han?? Han, dove sei?? – la chiamò preoccupata la contessa, percorrendo le scale a chiocciola dell’imponente palazzo.
La giovane dama di compagnia, in punta di piedi e con la sottana tirata su, camminava silenziosamente sul pavimento marmoreo, raggiungendo la contessina nascosta dietro la pesante e altissima tenda.
- Lou! – la richiamò a bassa voce la contessina.
- Contessina! Sto arrivando, ma ho paura che vostra madre mi senta!
- Fa’ piano e non ti sentirà! – esclamò aprendo la tenda, afferrandole la mano e trascinandola dentro con sé con veemenza.
- Ah! Mi avete pestato un piede, contessina!
- Nel mondo ci sono cose peggiori di un piede pestato, Marie-Louise!
La contessina Lucrezia Hannover conosceva la sua dama di compagnia Marie-Louise sin da quando era in fasce. Quando la contessa Sybil aveva dato alla luce sua figlia, la sua serva più fidata era gravida di Marie-Louise.
Erano cresciute insieme, ed ora stavano sbocciando insieme, nelle gioie e nei deliri della campana di vetro in cui erano rinchiuse.
Ma fuori dal palazzo, nei mari e nei continenti lontani, era solo la bellezza della contessina ad essere ben nota e chiacchierata, non quella di Marie-Louise. Quest’ultima sapeva di essere carina, di avere delle fattezze graziose, ma non si illudeva certo di poter avvicinarsi all’accecante splendore della sua amica e padroncina.
E anche Hannover stessa era consapevole della propria bellezza. Eppure, ogniqualvolta ne aveva l’occasione, la contessina lodava l’aspetto della sua dama, per non farla sentire in nessun modo inferiore a lei.
Ed ora che entrambe si avvicinavano alla soglia dei quattordici anni, e che gli sguardi degli uomini a corte iniziavano a posarsi su di loro, la contessina Hannover minimizzava ogni attenzione maschile dedicatale, affermando invece che quegli sguardi fossero indirizzati alla sua dama di compagnia.
Ma Marie-Louise sapeva fosse una bugia, per farla felice.
Questi erano i motivi per cui, per quanto la contessina fosse viziata e possedesse un carattere alquanto difficile, teneva a lei più della sua stessa vita.
Marie-Louise era bassa, aveva il viso tondeggiante e una spruzzata di deliziose lentiggini aranciate su tutto il volto; i suoi occhi erano tondi e fianciulleschi, di un colore simile alla ruggine; la sua pelle lattea e i suoi capelli erano un voluminoso cespuglio di ricci color carota.
La contessina Hannover, invece, era più alta. Il suo viso aveva una forma più adulta, per quanto mantenesse l’innocenza di una quattordicenne; il suo seno era già bello sodo, benché il suo corpo fosse magro e longilineo come quello di una ninfa; la sua pelle lievemente ambrata, il naso graziosissimo e tendente all’insù; i suoi capelli erano una cascata di lucenti e folti fili castani tendenti al mogano; infine, i suoi occhi avevano un taglio più allungato e seducente, con delle iridi color verde giada che illuminavano ogni luogo in cui andava.
Si pestarono i piedi a vicenda, continuando a stare sulle punte, nonostante i piedi nudi. A forza di indossare scarpe scomode e col tacco in ogni momento della giornata, i loro piedi restavano più facilmente sulle punte, piuttosto che con la pianta a terra.
- Vuoi stare ferma??
- Scusate! Se ne è andata? Perché vi sta cercando, stavolta?
- Come perché? Per farmi fare il dodicesimo ritratto da esporre alla festa, ovviamente. O per farmi cucire addosso dalle sarte l’ennesimo vestito pomposo.
- Voi amate i bei vestiti.
- Sì, ma non amo che me li cuciano addosso, Lou.
La contessina restò affacciata ancora un po’, accertandosi che né sua madre, né nessun servo fossero presenti nel salone.
Suo padre, invece, il famoso conte Agloveil, non era mai nelle vicinanze.
Appurato che non ci fosse nessuno nei dintorni, le due uscirono allo scoperto.
Marie-Louise guardò fuori dalla finestra e si accorse che il sole stesse tramontando. – Contessina Han?
- Sì, che c’è?
- Si sta avvicinando la sera, è quasi il momento di sottoporvi al vostro solito rituale.
Hannover si voltò a sua volta per guardare il cielo tramontare. – Hai ragione.
- Avete paura, contessina Han?
- Del rituale? Mio padre me lo fa fare tutte le sere da due anni, Marie-Louise, oramai ci sono abituata.
- No, intendevo… - la ragazzina si bloccò. – Si mormora che vostro padre abbia deciso di darvi in sposa ad un regnante nord-orientale, che pagherà una grandissima somma per avervi in moglie. Non … avete paura?
- Degli uomini, Marie-Louise? Per quale motivo dovrei temere gli uomini? – rispose la reale con una certa spavalderia nella voce. Una blanda maschera di disprezzo che nascondeva una naturale e folle paura. La giovane dama di compagnia seppe riconoscerla subito.
- Se le voci fossero vere… vorrei poter venire con voi.
- Anche tu prima o poi sarai data in moglie ad un uomo, Marie-Louise. Non potremo rimanere insieme per sempre – c’era un velo di triste rassegnazione nel suo tono vizioso. – Ora andiamo nelle segrete.
- Ancora?? Lo sapete che è proibito! Vostro padre vi ucciderebbe se lo scoprisse! Oh, insomma, perché volete sempre andare a far visita al prigioniero che vive nelle segrete??
- Perché lui dice sempre cose interessanti, al contrario tuo, Marie-Louise! Ed ora vieni, sbrigati!
- Uff! – sbuffò la piccola dama, continuando a reggersi la sottana in alto e correndo furtivamente, per tenere il passo della sua padroncina.
“L’uomo delle segrete” aveva sempre tante cose da dire e la contessina le ascoltava tutte come fossero oro colato. Il fatto che fosse viziata non presupponeva che non sapesse ascoltare. Il conte Agloveil non voleva che nessuno parlasse con il suo prigioniero, eppure non era mai riuscito a scoprire che la sua figliastra sgattaiolasse quasi ogni giorno in quel luogo, per intrattenersi in lunghe conversazioni con il prigioniero.
Mentre pensava a tutto ciò e correva, Marie-Louise avvertì un improvviso dolore al basso ventre.
Era un dolore strano, mai percepito prima, e ripensò mentalmente a cosa avesse mangiato a pranzo, a quale pietanza potesse averle fatto fare indigestione.
Eppure, non sembrava indigestione. Il suo andamento rallentò, mentre il dolore si trasformava in acute fitte, tanto forti da toglierle quasi il respiro.
- Ah!
- Che ti succede, Lou…? – le domandò la contessina, accorgendosi del suo malessere e tornando indietro per accertarsi delle sue condizioni.
- Mi fa male la pancia!
- Questo succede perché ti ingozzi sempre di more e lamponi sciroppati!
- No! Non è la pancia, è… è più in basso! – si indicò più in basso e la contessina impietrì.
- Per caso qualcuno ha avuto l’indecenza di abusare di te e non mi hai detto niente???
- No!!
- E allora cos’è??
- È in mezzo! In mezzo tra la pancia e le mie zone intime…
- Ma non c’è niente lì in mezzo!
- Vi dico che è così! Mi fa male lì!
Marie-Louise non fece in tempo a emettere un altro gridolino di dolore che, improvvisamente, percepì le cosce bagnarsi di un liquido viscoso.
Gli occhi della piccola dama si spalancarono mentre stritolava le mani della sua padroncina. – Han…
- Che c’è ora? Il dolore è sparito?
- No. Guarda in basso, sotto le mie gambe. Io non ne ho il coraggio.
A ciò, la contessina fece come le era stato detto, abbassò gli occhi di giada verso il basso e li sgranò talmente tanto che Marie-Louise temette le sarebbero usciti fuori dalle orbite. Poi urlò. – Aaaaaaaaaaah!
- Che c’è?!?
- Sangue!
- Sangue??
- Stai sanguinando, Marie-Louise!!
- Sto sanguinando…? Cosa??? – Marie-Louise abbassò lo sguardo a sua volta e non appena vide una pozza di sangue sottostare alle sue gambe, urlò a squarciagola a sua volta. – Aaaaaaaaaaaah!
- Aaaaaaaah!
Urlarono entrambe, stringendosi le mani convulsamente, non sapendo che fare.
- Che mi succede???? – urlò Marie-Louise in lacrime.
- Io lo so che ti succede!!
- Davvero?? Che cosa?! Parlate!
- Mia madre me l’ha spiegato un giorno…! Succede quando-
- Quando cosa?!?
- Sta’ zitta e lasciami finire, Marie-Louise! È una cosa che succede a tutte le fanciulle che diventano signorine!!
- Io non ho mai sentito parlare di una cosa simile!
- Perché lo nascondono tutte! Quando iniziamo a sanguinare vuol dire che… - la contessina fece mente locale, nel panico. Quando sua madre le aveva blandamente spiegato “quella cosa”, lei non era neanche troppo concentrata ad ascoltarla. - … che siamo pronte a fare figli! O una cosa del genere!
- Ma a voi non è ancora successo! – Marie-Louise non sembrava affatto rassicurata.
- Beh, perché non succede a tutte alla stessa età! A me potrebbe capitare tra un anno o due!
Spero il più tardi possibile  pensò tra sé.
- E quindi ora che faccio?? Sanguinerò fino alla fine dei miei giorni??
- Oh Dio… questo non lo so!
- Aaaaaah
- Marie-Louise, sta’ calma! Rilassati!
- Non siete voi che state sanguinando!! Se vostro padre mi vedesse mi farebbe punire per aver sporcato tutto il pavimento!!
- No! Questo non lo permetterò! – esclamò la contessina, riacquistando la giusta lucidità che sarebbe servita per entrambe. – Vieni con me!! – le afferrò la mano e iniziò a correre portandosela dietro, lasciando scie di copioso sangue ovunque nel castello.
Corsero anche sulla scala a chiocciola, evitando miracolosamente la presenza di qualsiasi servo.
Ma, sfortunatamente, non riuscirono ad evitare anche di scontrarsi con la contessa Domitilla, una delle numerose sorelle del conte Agloveil.
- È colpa mia!! – mentì spudoratamente Hannover, per evitare che la sua amica e dama venisse punita. – Ho sporcato io, è tutta colpa mia, mia, solo mia!! Il sangue è mio!!
 
Era trascorsa un’ora dallo spiacevole indicente con Marie-Louise, e Hannover si trovava nella sua lussuosa camera, nella stanza più alta del castello, coccolata e pettinata abilmente dalla sua mamma.
Quello in cui si trovavano veniva chiamato il “Continente grigio” perché quasi ogni costruzione che lo componeva era fatta di metallo.
Lo stesso castello in cui viveva e aveva sempre vissuto la contessina era composto del più pregiato metallo esistente in circolazione.
Acciaio, ferro, persino piombo.
Era una volontà del conte Agloveil stesso, quella che la maggior parte delle abitazioni fossero erette in metallo. Egli andava pazzo per l’acciaio soprattutto. Questo era il motivo principale per cui il paesaggio del continente grigio era così uniforme e cupo, anche visto a distanza.
Il castello del conte era il più alto e il più fortificato di tutti.
Mai nessuno sarebbe riuscito a penetrarvi all’interno e a superare tutto quel metallo.
Così come nessuno sarebbe riuscito ad uscire.
La contessa Sybil pettinava i lunghissimi e lucenti capelli di sua figlia con ardore, ammirandoli con il sorriso a incresparle le belle labbra. – Ho sempre amato i tuoi capelli… - sussurrò.
- Madre? – le domandò Hannover guardandola dallo specchio dinnanzi a sé.
- Sì, cara?
- Succederà qualcosa a Marie-Louise? Per quello che è accaduto oggi pomeriggio? – le domandò incerta, cercando di nascondere la preoccupazione.
Sybil sorrise dolcemente in risposta. – No, tesoro, non le accadrà nulla. Ora sua mamma si sta prendendo cura di lei esattamente come io sto facendo con te. Questo è un giorno speciale per Marie-Louise, sai? Il giorno in cui si inizia a sanguinare per la prima volta è molto speciale per una donna. Anche mia madre lo disse a me.
La contessa Sybil non parlava mai della sua famiglia d’origine. E ogni volta Hannover aveva timore di chiederle qualcosa in più sui suoi nonni. L’unica cosa che la contessina era riuscita a scoprire, era che sua madre fosse stata rapita dal conte Agloveil, il quale l’aveva costretta a diventare sua moglie. Al tempo, Sybil era già incinta di lei, dunque, il conte non era il suo vero padre. Eppure, era l’unico che avesse e che poteva considerare tale. Inoltre, non ce l’aveva con lui per quello che aveva fatto a sua madre, in quanto neanche sua madre sembrava nutrire rancore nei suoi confronti.
- Hai un bel ricordo di tua madre, mamma? – ebbe il coraggio di domandarle.
Le mani di sua madre smisero di pettinarla. – Le tue domande sono audaci come sempre, bocciolo – la sua voce era calma, ma distante. – Vuoi sapere se l’amavo?
- Sì.
- L’ho amata. L’ho amata fino al momento in cui lei non ha provato ad uccidermi. Allora, l’ho uccisa io.
Hannover impietrì tra le sue mani, continuando a fissarla dallo specchio.
Sybil si avvicinò a sua figlia, affacciandosi con il volto alla sua spalla delicata. Sorrise, dolcemente incerta. - Quello che ti ho detto ti spaventa?
- No – mentì Hannover.
- Bene. Voglio che tu sappia che non succederà mai una cosa simile tra noi due.
Sono contenta di non doverti uccidere.
Malgrado fosse ancora scioccata, Hannover le credette. Credette alle sue parole, perché si fidava di lei e l’amava.
- Voglio che tu sappia… – continuò la donna, prendendole il viso delicato e bellissimo tra le mani e voltandolo verso di sé, per guardarla fissa negli occhi. - … che ti proteggerò sempre, a costo della mia stessa vita. Tu sei la cosa più bella e preziosa che ho. E finché sarai al mio fianco… non permetterò mai che ti accada nulla di male. Tanto è vero che ti chiami Lucrezia Hannover – le garantì, poggiando la fronte sulla sua.
- Mamma?
- Sì, bocciolo?
- Come ci si sente quando si inizia a sanguinare? Che sensazione è? – le domandò incuriosita e anche un po’ impaziente a dir la verità.
La domanda sembrò lasciare Sybil senza parole. – Non ti so descrivere la sensazione. Forse, in qualche modo, ci si sente potenti. Potenti, per avere un potere così grande tra le gambe. Un potere che gli uomini non hanno.
Hannover non comprese quella risposta, ma era certa che l’avrebbe capita quando sarebbe cresciuta.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta, interrompendole.
- Entrate – rispose sua madre.
La porta si aprì e rivelò la figura di una delle fedeli sorelle del conte Agloveil, dallo sguardo duro e intransigente. – È l’ora che la contessina Lucrezia si sottoponga al rituale serale.
Giusto. Lo aveva quasi dimenticato.
A ciò, Sybil fece coricare sua figlia nello spaziosissimo letto e le diede un dolce bacio in fronte. – Fate presto – disse laconica, senza neanche degnare di uno sguardo la donna che si stava avvicinando a sua figlia.
A ciò, come di consueto, Hannover, che indossava solo la sua vestaglia da notte, aprì le cosce, rivelando la propria rosea intimità.
La prima volta era stato doloroso, specialmente perché aveva dodici anni la prima volta che vi era stata sottoposta.
Ma ora aveva imparato a sopportare meglio il dolore, e non provava più niente.
Sua zia si sporse verso di lei con il piccolo iniettatore in mano.
Le infilò l’utensile di metallo dentro l’intimità e le iniettò dentro quello strano liquido caldo.
Hannover attese e si fece fare tutto, senza batter ciglio.
Per l’ennesima volta, curiosa, chiese a sua madre per quale motivo dovesse sottoporsi ogni sera a quella strana pratica.
- Non ti serve saperlo, cara – le rispose Sybil, cupa in volto.
Non ti serve saperlo.
 
 
 
Quel vetro colorato e resistentissimo venne toccato e saggiato da un dito scoperto per metà, la mano indossava un guanto di pelle a mezze dita. Il dito continuò a toccare curiosamente quella superficie straordinaria, premendovi sopra. - Questo vetro … è celestiale. Sappiamo in che modo è stato realizzato? - domandò il capitano.
- Dalle informazioni che abbiamo sembra che il re Yuan fosse l’unico a possederlo in questa zona – spiegò un membro della ciurma, srotolando l’immensa cartina piena di puntine sull’enorme tavolo della stanza del capitano.
- Dunque… questo significa che ora siamo noi gli unici possessori – affermò fieramente il braccio destro del capitano.
- Se non ce ne curiamo adeguatamente non lo saremo ancora nel mondo – la mise in guardia il capitano, continuando a saggiare il vetro con le dita. – Potremmo usarlo per costruire materiali ancor più resistenti, per evolverci ancora – aggiunse.
- Vi? – lo richiamò il suo braccio destro, avvicinandosi a lui con un’intimità che solo lei poteva permettersi. – Cosa ne facciamo dei due prigionieri che abbiamo preso dalla ciurma avversaria? Tua sorella è molto arrabbiata perché non li abbiamo uccisi tutti – gli fece presente, guardandolo dal basso.
Il capitano alzò gli occhi al cielo. – Lasciala sbollire, sai com’è fatta. Per quanto riguarda i due, portateli da me, cercherò di spillare loro informazioni – rispose, pragmatico come sempre.
A ciò, gli unici due superstiti della ciurma avversaria, lasciati in vita sotto sua specifica richiesta, gli furono portati dinnanzi, ben incatenati e tenuti fermi da altri due pirati. – Eccoli a voi, capitano! – vennero spinti malamente e costretti ad inginocchiarsi al cospetto del ragazzo.
- Ditemi un po’ … - cominciò il capitano, restando in piedi dinnanzi a loro. – Come avete fatto a superare la sicurezza e i rettili del re Yuan?
I capelli dei due prigionieri vennero strattonati indietro dai due pirati che li tenevano fermi, costretti a guardare in faccia il giovanissimo capitano della nave nemica.
Quel ragazzino occidentale aveva un aspetto totalmente diverso da come lo avevano visto conciato quando si fingeva con eccellente bravura un innocente schiavetto prigioniero nella loro nave.
La casacca cenciosa che indossava era stata sostituita da un completo interamente nero: pantaloni di cuoio squamati, alti stivali, una cintura colma di pistole e daghe di diverse misure, il busto snello e longilineo stretto in un gilet e in una giacca, di un materiale simile a quello dei pantaloni, guanti di pelle con le dita tagliate e, infine, la chioma di capelli d’ebano legata ordinatamente indietro.
Era alto per la sua età, aveva un portamento elegante e per nulla infantile, il suo sguardo trasmetteva forza e astuzia, era fiero, algido, sicuro di sé, intimorente.
Il suo aspetto era a metà tra un pirata e un nobile. Un capitano perfetto, in tutti i sensi, e per giunta molto diverso dai pirati orientali, e non solo per la sua fisicità più occidentale che mai; ma anche per i modi.
I due si domandarono che tipo di addestramento gli avessero dato per renderlo così, in grado di destreggiarsi egregiamente tra le complesse leggi che dominavano i mari asiatici. D’altronde, la sua ciurma sembrava composta interamente da ragazzi asiatici, eccetto che per lui stesso e le sue due sorelle.
Da dove accidenti sbucavano fuori quei tre?
- Dunque, tu saresti il tanto chiacchierato “Capitano dagli occhi di ghiaccio” – commentò uno dei due, osservando i due diamanti chiari quanto la superficie lunare incastonati nei suoi occhi, in grado di catalizzare tutta l’attenzione. – Si dice anche che non hai un nome… e chiunque debba indentificarti ti chiama “Capitano W.” - l’uomo parlava, ma cercava di celare l’affaticamento delle membra e il dolore provocato dalle dita del pirata dietro di sé che gli tirava i capelli indietro, era palese. – Mi aspettavo fossi più vecchio…
- Pss, che originalità – commentò il braccio destro del capitano, annoiata.
- Se avete intenzione di portarla per le lunghe, i miei ragazzi vi taglieranno un dito a testa e vi rinchiuderanno un’altra notte nella cella con i topi. Poi, domani vi riporgerò la stessa domanda, e ad ogni giorno in cui non risponderete, avrete un dito in meno.
- E quando saranno finite le dita?? Ci ucciderai, principino?? – lo schernì l’altro, decisamente più audace e meno furbo.
Il capitano si avvicinò a lui, facendo sbattere i propri stivali sul legno pregiato della propria nave.
- Stammi bene a sentire – cominciò con voce vellutata, accovacciandosi e puntando la canna della sua pistola sotto il mento del prigioniero maleducato. – Ci sono voluti quattro anni di navigazione per mare, in acque selvagge e inesplorate, in balìa di qualsiasi pericolo terreno e marino, per ottenere tutto ciò che ho ora. Ogni mia conquista me la sono sudata, con il sangue e con il sudore: la nave, la mia ciurma, la fiducia dei miei uomini, il copioso bottino di cui disponiamo. Personalmente, non me ne faccio nulla della fama, non mi serve un nomignolo con cui gli altri parlino di me e della mia ciurma. Forse vi sembrerò pretenzioso, considerando l’esiguo tempo in cui sono al mondo rispetto a voi, ma vi posso garantire che non è così. Ora, ve lo ripeto, di nuovo gentilmente: come avete fatto a rubare al re Yuan tutto ciò che aveva senza morire tutti? Perché ho tutta l’intenzione di tornare lì e trattare con quel “povero” sovrano derubato da degli “sporchi pirati”, e di offrirgli qualcosa in cambio di informazioni riguardo gli usi e la composizione di questo vetro speciale.
- Volete rivenderglielo…? – domandò l’altro prigioniero, attirando la sua attenzione.
- Mai.
- Se glielo rivendeste, potresti farci un mucchio di quattrini. Se lo vendeste a qualsiasi acquirente, ve lo pagherebbero tonnellate d’oro.
- Non ho la minima intenzione di rivenderlo. È mio ormai e mio rimarrà – commentò con convinzione il capitano, rinforzando la presa sulla pistola, in un chiaro segno di spazientimento.
- Abbiamo sguinzagliato un puma ben addestrato contro i serpenti… - si decise a parlare il prigioniero, deglutendo rumorosamente.
- Non ho visto nessun puma sulla vostra tremenda nave. Ti stai burlando di me?
- No! Lo giuro! Il puma è morto durante la missione, le guardie del re sono riuscite ad ucciderlo!
- Ma i serpenti sono tutti morti. Giusto?
- Non ne sono totalmente certo… Ad ogni modo, il sovrano non reagirà bene quando scoprirà il tuo intricato piano per far rubare ad altri quello che poi ti sei tenuto tu! Non negozierà mai con te.
Sarai anche arguto, ma non così tanto.
- Al mio piano d’azione ci penso io, tu pensa solo a fornirmi tutte le informazioni di cui ho bisogno e a fare compagnia ai ratti: a cosa è interessato il re Yuan, in quanto a compenso? Cosa potrebbe convincerlo a darmi tutte le informazioni di cui ho bisogno e a non ucciderci tutti?
- Gli piacciono le belle donne…
Il braccio destro del capitano fece roteare gli occhi al cielo, a tal rivelazione.
- Possiede centinaia di concubine e gestisce moltissimi mercati di schiave di qualsiasi età – continuò il prigioniero.
- Poi?
- Le pietre rare e introvabili – commentò l’altro. – Di oro ne ha già abbastanza, non è interessato alla ricchezza. Ma alla bellezza e alla rarità… sì, a quello è molto interessato.
- Vi ringrazio per la vostra loquacità – terminò il capitano rialzandosi in piedi e rinfoderando la pistola. - Ragazzi, rimetteteli in cella e date loro qualcosa da mangiare.
- Agli ordini!
- Reik, dove sono Re e Fe? – domandò il capitano al suo braccio destro.
- Fe è nella sua stanza, mentre Re… non ne ho idea – rispose la ragazza.
A ciò, il ragazzo corse fuori dalla sua stanza e si diresse verso la prua.
Il tempo in cielo non lasciava presagire nulla di buono.
Gli dèi non erano con loro, quel giorno.
Forse, era stata proprio Re, una delle sue due gemelle, a farli adirare.
- Re!! Dove sei?! – la chiamò a gran voce, non trovandola da nessuna parte.
Un sospetto, ben più che sospetto, ce l’aveva eccome. Il ragazzo si affacciò al bordo esterno della prua e guardò il mare intorno a sé, sondando le onde che si stavano alzando sempre più, con i suoi glaciali occhi lunari.
- Regn!!! – la chiamò a squarciagola, ascoltando i tuoni dell’imminente temporale divenire sempre più impetuosi e violenti.
Dopo qualche secondo, fuori dall’acqua sbucò quella che agli occhi dei più sarebbe sembrata una creatura acquatica, un delfino o una sirena: la ragazza nuotava come se l’acqua fosse il suo habitat naturale, percorrendo chilometri e chilometri senza neanche accorgersene.
Sbucò fuori dall’acqua, saltando come un aggraziato delfino, i lunghi capelli rossi intrecciati in una grossa treccia.
- Regn!! Regn, guardami!! – il ragazzo le parlò nella loro lingua natìa, una lingua nord-occidentale che gli altri membri della ciurma non riuscivano a comprendere.
Udendo la voce del fratello, la ragazza voltò subito lo sguardo verso la nave, a diversi metri da lei, ma discretamente vicina. Aguzzò gli occhi grigi e lo individuò sulla prua che si sgolava nel chiamarla.
- Vind!!! – gli rispose lei a distanza, agitando la mano per fargli capire che lo avesse udito.
Il ragazzo, aggrappato saldamente con le mani al bordo della nave, alzò gli occhi al cielo oramai divenuto quasi nero, avvertendo la preoccupazione risucchiarlo come un tornado. – Torna qui, Regn!!! Sta arrivando un nubifragio!! Fa’ presto!!! – le urlò a squarciagola.
A ciò, anche la ragazza finalmente alzò gli occhi al cielo scuro come l’acciaio fuso, paralizzandosi.
 
 
 
 

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