Il giovane Indiana Jones ed il segreto dell'ultimo imperatore.

di Yanez76
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il castello dell'imperatrice del Messico ***
Capitolo 3: *** La lettera di Zita ***
Capitolo 4: *** Schultz ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


È passato ormai qualche anno da quando ho scritto la mia prima fanfiction su Indy, si trattava di un breve raccontino, nato quasi per caso dopo aver rivisto il dvd dell’Ultima crociata.
Sono state le parole di apprezzamento di IndianaJones25 ad indurmi a dare un seguito alla storia, inserendola in un racconto più complesso per il quale ho anche creato i personaggi dei genitori di Elsa. Inizialmente, avevo pensato a questi personaggi come semplici espedienti narrativi per spigare il carattere e la psicologia poi sviluppati dalla protagonista. È stato sempre IndianaJones25, commentando il primo capitolo della mia storia, a dirmi che sperava di vederli ritornare in seguito.
Ho così iniziato a pensare ad un modo per rimettere in gioco Hans e Lotte; ma, un po’ per pigrizia e un po’ perché non trovavo l’ispirazione adatta, avevo poi lasciato la cosa in sospeso.
Adesso, nell’imminenza dell’uscita nelle sale del quinto capitolo della saga, mi sono finalmente deciso a dar corpo anche a questo progetto ispirandomi alla puntata “Austria, marzo 1917” della serie televisiva “Le avventure del giovane Indiana Jones” ed alla novellizzazione “La pace segreta” di William McCay.
La dedica è ovviamente per Alessandro “IndianaJones25” che mi farebbe veramente moltissimo piacere poter risentire per riprendere le nostre chiacchierate su Indy.

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Capitolo 2
*** Il castello dell'imperatrice del Messico ***


Castello di Bouchout, Meise, Belgio, 7 giugno 1916.
 
L’imperatrice alzò gli occhi dall’acquerello che stava ultimando, rivolgendo al cielo uno sguardo incuriosito e leggermente preoccupato.
«E quello cosa sarebbe?!» esclamò la donna stupefatta nello scorgere il biplano che sorvolava rombando il ridente prato, prospicente il limpido laghetto in cui si specchiava il bianco castello di Bouchout, dove era stato fissato il suo cavalletto per dipingere.
«È un areoplano, vostra maestà.», si affrettò ad informarla la dama di compagnia.
«Un aero… cosa?»
«Un aeroplano, un apparecchio per volare.»
«Ma…e come fa a stare in aria? Non vedo il pallone…»
«Non c’è alcun pallone, vostra maestà», spiegò la ragazza, «Si tratta di un nuovo apparecchio che vola solo grazie alle ali e ad un’elica. L’hanno inventato due americani qualche anno fa…»
«Oh, capisco… Devo assolutamente scriverlo a Max… Sì, Max deve assolutamente saperlo… Lui si interessa molto alle scoperte scientifiche… Sta facendo del nostro Messico un paese molto avanzato… È tanto buono il mio Max, lo amano tutti… Sono sicura che quando lo saprà manderà uno di quelli a prendermi per portarmi da lui a Chapultepec…»
«S…sì certo, vostra maestà…”, fece la fanciulla abbassando gli occhi e inghiottendo un moto di commozione.
Una guardia dall’uniforme sgargiante si avvicinò alla sovrana, irrigidendosi sull’attenti.
«Vostra maestà, una delegazione austriaca chiede di essere ricevuta.»
«Sono molto occupata.”, disse la donna indicando l’acquerello che stava dipingendo, «ma mi sa che il momento giusto è ormai passato e non c’è più la luce adatta: lo finirò domani. Fateli passare.»
Ad un cenno della guardia, i domestici si affrettarono a portar via il dipinto, reggendolo con cura, mentre due giovani che vestivano uniformi da ufficiali dell’imperialregio esercito austro-ungarico avanzarono reggendo un’elaborata composizione floreale, che le porsero con un impeccabile inchino.
«L’imperatore Franz Josef desidera porgere i suoi omaggi a vostra maestà in occasione del vostro augusto genetliaco.»
«Oh, mio cognato si è ricordato del mio compleanno… Ditemi come sta il caro Franz…»
«Sua maestà imperiale e regia gode di ottima salute, vostra altezza.»
«E sua moglie, come sta? E i miei nipotini? Gisella, il piccolo Rudolf?»
«Ehm, ecco, veramente…”, farfugliò l’ufficiale, messo a disagio dalla domanda.
La guardia, evidentemente abituata a tali evenienze, con una voce che solo l’ufficiale poté udire gli sussurrò: “Sua maestà oggi sembra non ricordare. Vi prego di non turbarla…».
«Oh, capisco, perdonatemi se vi ho messo in difficoltà…», continuò l’imperatrice, ridacchiando divertita, credendo di indovinare il motivo dell’imbarazzo dell’ufficiale.
«Dovevo immaginarlo: la vostra sovrana sarà sicuramente in giro per uno dei suoi soliti viaggi! Intendiamoci, non che ci sia qualcosa di male a voler conoscere un po’ il mondo: anche il mio caro Max dice sempre che bisogna vedere paesi nuovi… Sapete, lui ha fatto anche il giro del mondo con la fregata Novara! Ma, benedetta figliola, a tutto c’è un limite! Dovrebbe capirlo anche lei che il posto di una moglie è al fianco di suo marito! Mi ricordo di quando passava a trovarci a Miramare: sempre inquieta, sempre in cerca di qualcosa… Sapete, Max la trova molto simpatica, gli piace parlare con lei di viaggi e di terre lontane… Oh, non crediate che io sia gelosa, in fondo la capisco, poverina, a lei è toccato solo il trono d’Austria: un paese così all’antica, con quella corte ingessata nel cerimoniale spagnolo, quell’etichetta così rigida… Max ed io invece abbiamo avuto davvero fortuna: a pochissime persone capita il privilegio di fondare una dinastia, di dar vita ad un paese completamente nuovo, immenso, pieno di prospettive, destinato ad un radioso avvenire come l’Impero Messicano! Già, l’impero Messicano… il nostro Impero Messicano…»
La donna non proferì più parola mentre un sorriso indefinibile saliva ad incresparle le labbra e il suo sguardo si fissava sull’orizzonte a rimirare qualcosa che lei sola vedeva.
La guardia fece un cenno ai due ufficiali che si affrettarono a prendere congedo, rivolgendo un cerimonioso quanto inutile saluto all’infelice sovrana, la quale, ormai rapita in un sogno o in un ricordo, non mostrò neppure di udirli o di avvertire la loro presenza.
«Povera donna», mormorò uno degli ufficiali rivolto al compagno, mentre si avviavano all’uscita del castello, “nonostante tutti gli anni che sono passati, non ha mai recuperato la ragione…»
«Non lo so Frederick, » rispose l’altro, “a volte mi viene da chiedermi se, in realtà, non sia invece lei la più sana di mente tra tutti noi… Guardati attorno: ormai dalle Alpi svizzere fino alla Manica corre un fronte ininterrotto, un’unica mostruosa trincea lunga quattrocento chilometri che ha già inghiottito milioni di soldati. A metterli in fila, ci si potrebbe cingere il globo facendo il giro dell’Equatore… Siamo decisamente più pazzi noi a dedicarci con tanta sollecitudine a distruggerci a vicenda che non lei, che continua solo a sognare di ritrovare il suo perduto amore, chiusa nel suo Castello di Atlante…»
«Atlante?», fece Frederick stupito, “il titano che regge il mondo sulle spalle?»
«No, un mago saraceno che amava come un figlio un paladino di nome Ruggero e che, per timore che egli morisse in guerra, lo rinchiuse con altri paladini in un palazzo fatato dove ognuno credeva di vedere ciò che più desiderava, così da tenerli occupati e lontani dai campi di battaglia», disse Hans socchiudendo gli occhi e prendendo a recitare a memoria i versi.
 
Una voce medesma, una persona
che paruta era Angelica ad Orlando,
parve a Ruggier la donna di Dordona,
che lo tenea di sé medesmo in bando.
Se con Gradasso o con alcun ragiona
di quei ch'andavan nel palazzo errando,
a tutti par che quella cosa sia,
che più ciascun per sé brama e desia.
Questo era un nuovo e disusato incanto
ch'avea composto Atlante di Carena,
perché Ruggier fosse occupato tanto
in quel travaglio, in quella dolce pena,[1]
 
«Certo che tu non cambi mai, Hans: neppure questa guerra riesce a farti dimenticare quelle tue fantasticherie di dame e cavalieri… Ah, ah, magari fosse qui quel mago! Intanto, che ne dici di cercare qualche localino dove scolarci una bella birra e cercare la compagnia di qualche signorina dai facili costumi? Così magari anche noi riusciremo a dimenticare questa dannata guerra almeno per un po’.»
«Per la birra, ti faccio compagnia più che volentieri, Frederick; ma le signorine le lascio tutte a te: sai, non mi va di fare questo Lotte…»
«Bah, come vuoi, amico. Per fortuna io non sono ammogliato… »
I due avevano raggiunto il cancello che segnava il confine della tenuta e, quasi riluttanti ad abbandonare quell’oasi di pace, che pareva come sospesa in una bolla fuori dal tempo, si volsero un’ultima volta a rimirare il castello.
«Hai visto Hans? Hanno inalberato la nostra bandiera...», fece Frederick, indicando il vessillo absburgico che garriva alla serena brezza, sopra una delle bianche torri del maniero.»
«Sopravvivenza», fece Hans indicandogli il cartello posto sul cancello d’ingresso della tenuta.
 
Questa tenuta, proprietà della Corona del Belgio, è occupata da Sua Maestà l'Imperatrice del Messico, l'Arciduchessa Carlotta d'Austria, cognata dell'Imperatore Francesco Giuseppe, nostro illustre alleato. Ordino ai soldati tedeschi che passano di qui di non suonare il campanello e di lasciare il luogo intatto.
Generale Moritz von Bissing
 
«Sembra ci sia ancora qualcosa per cui i nostri alleati tedeschi mostrino un briciolo di rispetto», fece sarcastico Hans.
«Già, con alleati come quelli,” mugugnò Frederick, “chi ha bisogno di nemici?»
Hans stava per rispondere con una battuta, quando l’attenzione dei due uomini fu attratta da un disperato grido d’aiuto.
Una giovane ragazza di circa vent’anni correva verso il castello, inseguita da due tipi dall’aspetto decisamente patibolare. Il primo, che la incalzava da presso, più che ad un essere umano, faceva pensare ad un gigantesco quadrumane calzato e vestito; mentre il secondo, nonostante la ridente giornata ormai quasi estiva, vestiva un lungo soprabito nero di pelle da cui spuntava un collo taurino, sormontato da una testa completamente calva la cui cute, unta e sudaticcia, sfavillava sotto i raggi del sole come il monocolo che l’uomo portava.
«Prendila Mabuse!», fu il comando che uscì dalla bocca porcina dell’uomo col soprabito, il quale evidentemente doveva essere il capo.
Sul ceffo sproporzionato e deforme dell’energumeno, si allargò un sorriso crudele mentre, con un balzo scimmiesco, si avventava sulla giovane, ghermendola e costringendola a terra emettendo un grugnito compiaciuto.
«Lasciatemi! Vi prego, non ho fatto nulla!», implorò a ragazza.
Mabuse, con un ghigno diabolico, le lacerò la camicetta e l’uomo con l’impermeabile, sopraggiunto in quel momento, si affrettò a strapparle brutalmente il ciondolo argentato che ella portava al collo, facendola singhiozzare di dolore e paura.
«Credevi forse di fregarmi, rifugiandoti da quella pazza? Ormai sei finita: questa è la prova che sei una spia!», le urlò l’uomo aprendo il medaglione con una sinistra risata.
“Ridatemelo! È solo la foto di mio fratello, l’unico ricordo che ho di lui, non lo vedo da quando si è imbarcato per il Messico anni fa…»
«Stupida! Chi credi di prendere in giro? Quest’uomo è della “Dama bianca”, un maledetto bandito, colpevole di aggressioni contro le gloriose armate germaniche.»
«Oh, vi aspettavate forse che i Belgi vi ringraziassero dopo che avete invaso e messo a ferro e a fuoco il loro pacifico paese neutrale?», risuonò una voce sarcastica alle spalle dei due tedeschi.
L’uomo con il monocolo, il suo scagnozzo e la ragazza si volsero verso i due austriaci alla cui presenza, nella concitazione, non avevano neppure fatto caso.
«Guarda, guarda. Sembra che abbiamo qui due ufficialetti austriaci che non vogliono farsi i fatti propri… Sono il conte von Büler della polizia segreta tedesca e questa donna è una spia nemica; quindi sparite e lasciateci fare il nostro lavoro!»
«Una spia, dite? E quali sarebbero le prove? Il fatto che voglia bene a suo fratello al punto da portare con sé la sua fotografia?»
«Suo fratello è la nota spia belga Remy Baudouin: il contatto delle spie francesi con la “Dama Bianca”, quei dannati belgi che ancora osano resistere all’invincibile esercito tedesco. E adesso lei tentava di raggiungere quel castello: un covo di spie, pieno di rifugiati belgi che approfittano indegnamente della generosità che il nostro Kaiser ha accordato a quella pazza e che sappiamo essere spesso visitato da emissari dell’ambasciata americana!»
«Sua Maestà l’Imperatrice Carlotta gradiva del pane bianco che, a causa dell’invasione del Belgio ordinata dal vostro “generoso” Kaiser non si trovava più. Abbiamo quindi dovuto rivolgerci all’ambasciatore Brand Withlock che ci ha cortesemente fornito il pane per Sua Maestà. Mi risulta che gli Stati Uniti non siano ancora in guerra con noi, almeno finché voi non li costringerete a dichiararla, continuando ad attaccare le loro pacifiche navi civili, come avete fatto con il Lusitania…»
«Questi non sono affari che vi riguardano! L’Austria è un paese debole e decadente che ha inquinato la superiore stirpe germanica con stirpi inferiori: ungheresi, slavi, italiani… Non sono certo tenuto a discutere la nostra strategia militare con ufficiali di un imperatore decrepito che non ha saputo neppure mettere in riga sua moglie!», ruggì il tedesco fremendo di rabbia.  
«Oh, la cosa mi riguarda invece: come ufficiale di Sua Maestà, ho giurato di difendere l’onore della famiglia imperiale che voi avete appena insultato!», fece Hans.
«Ti avviso per l’ultima volta, tenentino, ti conviene sparire: non hai idea di chi hai di fronte!»
«Oh, lo so perfettamente, invece: ho di fronte un vigliacco che fa la guerra a donne indifese.»
«L’hai voluto tu, imbecille… Vai Mabuse!», abbaiò l’agente tedesco.
Lo scagnozzo stava attendendo con impazienza l’ordine di von Büler scrocchiandosi le dita e balzò immediatamente verso Hans il quale, però, scartò all’ultimo istante e, approfittando dello slancio di Mabuse, lo mandò a gambe all’aria con un abile sgambetto.
L’energumeno fu rapido a rialzarsi e caricò subito l’ufficiale a testa bassa; ma neppure stavolta Hans si fece cogliere impreparato: schivato l’attacco di Mabuse, gli assestò un potente gancio alla bocca dello stomaco che gli mozzò il fiato per poi rispedirlo a terra con un formidabile diretto in piena faccia.
«Più grossi sono e più rumore fanno quando cadono…»
«Ti ammazzo, maledetto!», urlò Mabuse impazzito di rabbia, estraendo un coltellaccio ed avventandosi su Hans con occhi da folle, iniettati di sangue.
Con un gesto rapidissimo, Hans estrasse la sciabola e gli vibrò un fendente con tale forza da staccargli un orecchio.
Mabuse mandò un urlo che aveva poco di umano portandosi le mani al collo dove si apriva una lunga ferita, mentre Hans con una piattonata faceva volare la Mauser dalla mano di von Büler.
«Non si va con una pistola ad uno scontro all’arma bianca, dovreste saperlo signor conte… E non si rubano neppure i medaglioni alle ragazze…»
Con una smorfia furente, von Büler lanciò a terra il medaglione.
«E adesso sparite! O le prossime a volare saranno quelle vostre due teste da porci!», intimò loro Hans.
«Non finisce qui! Ti pentirai di esserti messo sulla strada del conte von Büler!», minacciò il tedesco mentre si affrettava ad allontanarsi assieme al suo scagnozzo che si tamponava la ferita con un fazzoletto intriso di sangue.
«Se volete soddisfazione, conte, il tenente Hans Schneider è a vostra disposizione. Non avete che da scegliere l’arma…», disse ridendo l’austriaco.
«Stai in guardia, Hans, è un uomo cattivo, tenterà di vendicarsi…»
“Bah, non oserà denunciarmi: ha aggredito a tradimento un ufficiale di un esercito alleato e se vuole battersi sarò felice di dargli una lezione…», fece Hans, scrollando le spalle.
«Dannazione, Hans, lo vuoi capire che qui non sei in uno di quei tuoi romanzi cavallereschi dove i cattivi si possono affrontare con lancia in resta. Quello non è stupido, non sfiderà mai in campo aperto il miglior schermidore e tiratore dell’esercito austriaco; ma la polizia segreta tedesca può essere molto pericolosa…»
«Bah, ormai è fatta e poi ne valeva la pena.», fece mentre aiutava la ragazza belga ad alzarsi.
«Credo questo vi appartenga, mademoiselle.», le disse porgendole il ciondolo che von Büler aveva lasciato cadere.
«Grazie.», fece la donna ancora incredula di essere stata salvata dopo essersi creduta ormai perduta, «Ma… voi siete… un nemico. Perché mi avete aiutata?»
Il tenete Schneider infilò la mano nel colletto della divisa, traendone un medaglione del tutto simile a quello della ragazza.
«Anche se i nostri due paesi adesso sono nemici c’è qualcosa di più importante che ci unisce…», disse aprendo il suo medaglione che conteneva le foto di una giovane donna e di una bambina, entrambe bionde e sorridenti.
La ragazza sorrise, tergendosi le lacrime che ancora le rigavano il volto.
«Vostra moglie? È molto bella e la bambina è…»
«Mia figlia, si chiama Elsa.»
 

[1] Orlando Furioso, XII, 20

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Capitolo 3
*** La lettera di Zita ***


Vienna, febbraio 1917
 
Il volto di Frederick si aprì in un sorriso di felicità al vedere la ragazzona bionda e prosperosa che riempiva i bicchieri.
«Finalmente un Cognac come si deve, proprio quello che ci vuole con questo tempaccio! Con questa maledetta guerra temevo non ce ne fosse rimasto più in giro.»
«Si vede che qui ne hanno conservato qualche bottiglia e la kellerina ha avuto compassione di due poveri soldati in licenza…»
«Altro che compassione, Hans. Non hai visto che ci ha fatto l’occhiolino? E hai visto come esibiva la scollatura mentre versava?! Amico, quella ci sta, te lo dico io! E sembra proprio ben messa… Ah, ah, mi sa che siamo riusciti a reperire un altro bene di prima necessità!»
«Frederick, Frederick… Certo che tu non cambi proprio mai, sempre a rincorrere le gonnelle, eh?», commentò Hans con un sorriso, sollevando lo sguardo al soffitto annerito dal fumo.
«Beh, siamo in licenza, no? Tra qualche giorno ci toccherà tornare al fronte e, se proprio devo schiattare, prima voglio almeno spassarmela un po’… Dai Hans, magari le chiediamo se ha un’amica…»
«Non sono scapolo come te, Frederick, e si dà il caso che ami mia moglie…»
«Già, dimenticavo: Hans, il marito modello… Eppure non me la racconti: ho visto la sbirciata che le hai dato…»
«Beh, anche quando si è a dieta, non è poi vietato dare un’occhiata al menù…», ridacchiò Hans, «Devo dire che hai buon gusto, Frederick, è davvero una bella ragazza. Mi ricorda un po’…».
«Chi?» chiese Frederick, incuriosito.
«Nulla, nulla, non ha importanza…»
“Ah, ah, andiamo amico, svuota il sacco!»
«Beh, mi ricorda un po’ una segretaria piuttosto carina che avevo tempo fa…»
«Ah, ah, vecchio filibustiere! E dimmi, te la sei…?», fece Frederick con un sorrisetto sornione.
«Ma no! Te l’ho detto che amo mia moglie! Non avrei mai potuto, tantopiù che in quel periodo Lotte era incinta.»
«Ma almeno un pensierino l’avrai pur fatto, no?»
«Beh, come ti dicevo, era una vera sventola coi fiocchi e, anche se amo mia moglie, ciò non significa che io sia fatto di pietra…»
«E come si chiamava la sventola?»
«Si chiamava… Ehm… Elsa.», biascicò Hans.
«Elsa? Vuoi dire che hai dato a tua figlia il nome della tua segretaria sexy?!»
«Beh, sai, con Lotte si stava parlando dei nomi e… non l’avevo mica programmato, non so neanch’io come mi sia venuto in mente… e poi non c’è nulla di male in fondo…»
«E Lotte lo sa?»
«Ovviamente no! Bada, Frederick, non devi farti sfuggire neppure una parola!»
«Ah, ah, non temere amico, sarò una tomba! Certo che questa storia sarebbe proprio pane per i denti di quello strizzacervelli della Berggasse: se andassi da lui, ti direbbe che, siccome la volevi e ti sentivi in colpa, hai dato il suo nome a tua figlia così da potertela sbaciucchiare impunemente…»
«Oh, ma che sciocchezze! Cosa vai a pensare…»
«Ah, ah, invece è proprio come dico io: dovresti leggere anche tu i libri di quel Freud.»
Hans stava per ribattere quando, all’improvviso, i due si accorsero di essere stati silenziosamente circondati da dei tizi in impermeabile scuro, che adesso incombevano tutt’attorno a loro. All’arrivo di quegli individui, facilmente riconoscibili per agenti della polizia segreta, l’atmosfera allegra del locale si era bruscamente incupita e gli altri avventori si stavano affrettando a pagare le loro consumazioni e ad andarsene al più presto.
«Il tenente Hans Schneider?», chiese una voce fredda ed inespressiva.
«Per servirvi. Con chi ho l’onore?»
«Ci segua, prego.», ordinò seccamente l’uomo in impermeabile.
Hans prese con calma il bicchiere del cognac e lo vuotò d’un sorso, alzandosi poi senza fretta e portando la mano alla tasca. Le mani degli agenti si diressero istintivamente verso le pesanti pistole che portavano sotto gli impermeabili; ma Hans finse di non accorgersene, mentre toglieva dal portafogli e sistemava sul tavolo il prezzo della consumazione a cui aveva aggiunto una generosa mancia per la kellerina.
Frederick, preso alla sprovvista, fece per alzarsi anche lui, cercando le parole per protestare; ma la mano pesante di un agente gli si posò sulla spalla costringendolo a sedersi di nuovo, mentre un cenno di Hans gli suggerì di lasciar perdere. Gli agenti erano sicuramente armati e decisamente troppo numerosi: in quel momento, qualsiasi tentativo di fuga o di reazione non sarebbe stato altro che uno stupido suicidio.
«Va tutto bene, Frederick. Io non ho nulla da rimproverarmi», disse calmo, «e queste provano la mia fedeltà all’Imperatore e alla Patria.», aggiunse Hans, sfiorando le medaglie appuntate sulla divisa.
«Sono sicuro che ci rivedremo presto così mi racconti com’è andata con la kellerina…», concluse con una strizzatina d’occhio, tentando di alleggerire la tensione. Poi uscì, seguito dagli agenti, lasciando il locale in un silenzio angosciato.
Senza dire un’altra parola, gli uomini in impermeabile lo condussero ad una limousine nera, parcheggiata poco distante, che aveva decisamente visto tempi migliori; ma che, un tempo, doveva essere stata una vettura lussuosa. Hans riuscì a sogghignare tra sé: chissà perché aveva sempre immaginato che gli agenti segreti girassero su macchine di gran lusso, evidentemente quelli erano tempi duri per tutti…
Fu fatto sedere sul cuoio logoro del sedile posteriore, poi lo sportello fu sbattuto con forza e la macchina partì rombando.
Hans tentò di sbirciare fuori per capire dove lo stessero conducendo; ma i finestrini ed il lunotto erano stati oscurati con vernice nera. Si chiese se quei tizi intendessero sottoporlo ad un interrogatorio o lo stessero semplicemente portando in qualche luogo appartato per eliminarlo e far sparire il corpo. Al fronte aveva visto la morte in faccia troppe volte per avere paura; ma, all’idea di non rivedere più Lotte e la piccola Elsa, sentì un nodo serrargli la gola e una lacrima gli inumidì le ciglia. Già, ma perché ce l’avevano proprio lui? Eppure lui aveva sempre fatto il suo dovere di soldato… All’improvviso, gli si ripresentò alla mente il viso repellente di von Büler.
Forse, per vendicarsi, quella dannata spia tedesca lo aveva denunciato come un traditore che aveva aiutato una nemica che faceva parte della resistenza belga. Possibile che i loro tentacoli arrivassero fino a Vienna?
Anche se tutti pensavano che amasse vivere un po’ fuori dalla realtà, Hans non era uno sprovveduto: sapeva che ormai anche in Austria le redini del potere erano sempre più saldamente in mano ai militari e che i militaristi più fanatici i quali, sempre pronti ad invocare il pugno di ferro, non avevano mai accettato di buon grado il governo civile e il sistema democratico, erano ferventi ammiratori del Secondo Reich che vedevano come un’invincibile macchina da guerra.
Sorrise amaramente, canticchiando mentalmente tra sé l’inno nazionale.
Serbi Dio l'Austriaco Regno,
Guardi il nostro Imperator…

Già, forse solo un Dio pietoso poteva adesso salvare quell’Impero, ultimo vestigio del glorioso Sacro Romano Impero di Carlomagno, per cui si erano battuti i paladini e si era sacrificato Orlando a Roncisvalle…
Un tempo, Hans aveva sperato davvero che quei tempi potessero miracolosamente risorgere, che gli Asburgo fossero destinati a far convivere pacificamente vari popoli d’Europa.

Bella gerant alii, tu felix Austria nube
Nam quae Mars aliis, dat tibi diva Venus[1]
Se l’Austria avesse veramente preso questa strada, se fosse divenuta una sorta di grande Svizzera, avrebbe potuto fungere da modello per gli altri paesi, spingendoli ad unirsi in una pacifica confederazione che avrebbe messo per sempre al bando la guerra.
Ma, se tanto dolce era stato il sogno, tanto più duro era stato il risveglio per il tenente Schneider. Dopo tre anni passati nell’orrore delle trincee, ormai vedeva chiaramente come di tutta quella secolare gloria non rimanesse ormai che un pallido rimasuglio cadente, ostaggio di generali senza scrupoli e mercanti di cannoni…
Ma, in fondo, perché si stupiva? Non avrebbe già dovuto dirgli tutto Sir Thomas Mallory? Quello è il destino ultimo di tutti regni, anche dei migliori. Persino il più saggio e valoroso dei re, Artù, si era lasciato sedurre dalla sorellastra Morgause, generando il malvagio Mordred e determinando così la rovina del suo regno.
Aveva decisamente ragione Frederick: se tutto era destinato a perire, tanto valeva non pensarci più e scordare allegramente i propri guai tra il cognac e le grazie di una bella kellerina…
Le dita del tenente, ormai preda dello sconforto, sfiorarono il medaglione che portava al collo e, come per incanto, gli parve di vedere il visino biondo di sua figlia che, con la serietà e compunzione che solo i bambini sanno mostrare in certe occasioni, alzava il ditino e gli diceva che non bisognava scoraggiarsi ma andare avanti perché solo così si sarebbe potuto, alla fine, trovare il Graal.
Già il Graal… l’emblema per eccellenza della speranza nella possibilità di salvezza della razza umana, della ricerca spirituale, dell’anelito verso tutto ciò che è bello, vero e giusto. Un qualcosa di metafisico eppure reale, che un cavaliere non può smettere di cercare pur sapendo che nessuno lo possiederà mai. Gli tornò alla mente l’ultimo libro che aveva letto, un bellissimo saggio sulle tradizioni arturiane scritto dal massimo specialista in materia: un grande studioso americano di nome Jones. Quell’uomo era decisamente un genio, gli sarebbe piaciuto incontrarlo un giorno ed era sicuro che anche Elsa ne sarebbe stata entusiasta…
L’auto si fermò, richiamandolo bruscamente alla realtà. Guardando attraverso il pannello di vetro che lo separava dal conducente, vide un possente portone metallico che si aprì rumorosamente su di un oscuro cortile di pietra, circondato da alte mura.
«Ci siamo…», mugugnò tra sé, preparandosi ad ogni evenienza.
Lo sportello venne aperto e Hans scese nel cortile spoglio, trovandosi circondato da una minacciosa fila di guardie con i fucili puntati, vestite di lunghi mantelli scuri ed elmetti metallici, lucidi come argento.
«Bah, non si va così eleganti ad una fucilazione», si disse, cercando di farsi coraggio e abbozzando un sorriso all’indirizzo del tizio in impermeabile, il quale però non modificò la sua maschera dura ed impassibile. L’agente gli indicò una piccola porta in legno massiccio, rinforzato da sbarre di ferro che si apriva nel cortile e conduceva ad un angusto budello dal soffitto basso e dalle pareti muscose e trasudanti di umidità.
Nonostante il suo coraggio, Hans non poté impedire ad una grossa goccia di sudore di solcargli il viso al sentire il rimbombo dei suoi passi mentre scendeva nelle viscere della fortezza attraverso quell’oscuro passaggio. Dopo un tempo che al tenente parve infinito, giunsero finalmente ad un punto dove lo stretto corridoio si allegrava un poco terminando poi bruscamente con un pesante portone di rovere con infissi due grossi anelli di ferro.
Gli uomini della scorta, sbatterono i tacchi irrigidendosi nel saluto militare davanti ad un uomo alto, vestito anche lui con un impermeabile piuttosto logoro, che sembrava aspettarli.
«Il tenente Hans Schneider, immagino.».
«In carne ed ossa. Posso sapere con chi ho il piacere di parlare?»
«Potete chiamarmi Max», fece l’uomo porgendogli la mano che, con un cauto sollievo, Hans si affrettò a stringere.
«Bene, herr Max adesso potrebbe cortesemente dirmi a cosa devo l’ospitalità dell’Evidenzbureau[2]
«Vede, sembra che il suo “scambio di vedute” con un alto ufficiale tedesco in Belgio non sia passato inosservato…»
«Quell’uomo è un criminale!», sbottò Hans, «Lei non ha idea di cosa i nostri alleati stiano facendo alla popolazione belga: è orribile, qualcosa di contrario a tutte le leggi di guerra, al senso di umanità, all’onore di un soldato…»
«Uhm, davvero ammirevole… Non pensavo che dopo tre anni di questa guerra ci fosse ancora qualcuno disposto a credere che cose come legge, umanità od onore abbiano qualche senso… Crede che i nostri si siano comportati tanto meglio in Galizia nel ’14?», fece Max, con un ghigno disilluso e sarcastico.
«Certo…la guerra è una cosa orribile; ma… anche tra avversari esistono delle regole: in fondo anche se combattiamo per paesi nemici, siamo tutti esseri umani non potrò mai abituarmi a tanta barbarie…», biascicò Hans.
«Oh, ma sono certo che non sapete ancora il meglio: sembra che i nostri amici tedeschi abbiano messo in piedi un “ministero per la sovversione”, un ufficio creato per fomentare disordini con l‘intendimento di indebolire il fronte interno del nemico e abbiamo appreso da fonte sicura che il Barone von Wangenheim, l’ex ambasciatore tedesco a Costantinopoli, oltre ad aver dato il via libera ai Turchi per sterminare gli Armeni e aver indotto il Sultano a proclamare la jihad contro le potenze dell’intesa, ha preso contatto con un certo Parvus[3], un marxista estremista. Così adesso l’Alto Comando tedesco sta trattando con un certo Ulianov, un capo bolscevico russo attualmente in esilio a Zurigo, per fargli prendere il potere in cambio dell’uscita della Russia dall’Intesa.»
«Certo, il governo dello Zar è dispotico: un sovrano dovrebbe essere un padre che guida con saggezza, non un padrone che si fa obbedire con la frusta. Ma il Kaiser che porta al potere i comunisti?!! Questo mi sembra troppo anche per loro: non posso credere che l’antica nobiltà tedesca…», ribatté incredulo il tenente Schneider.
«Bah, il vecchio Guglielmone ormai conta solo in apparenza: il vero potere è in mano ai militari e ai fabbricanti d’armi… Il trono dei Romanov sta franando; ma se lo zar venisse sostituito da una monarchia costituzionale o da una repubblica democratica, il nuovo governo terrebbe fede all’alleanza con le democrazie occidentali. I comunisti invece hanno promesso di portare la Russia fuori dal conflitto e i generali tedeschi credono che, chiudendo il fronte orientale e riversando tutte le loro truppe a occidente, schiacceranno facilmente Francesi, Inglesi, Belgi e Italiani prima che gli Americani si decidano ad intervenire…»
«Ma è una follia! I comunisti stermineranno senza pietà i borghesi e gli aristocratici, instaureranno una dittatura, un regno del terrore da far impallidire quello di Robespierre…»
«Conoscete la favola dell’apprendista stregone? I Tedeschi pensano che, una volta vinta la guerra, saranno i padroni onnipotenti del mondo: perciò non temono più nulla…»
«Ma… sarebbe la fine della nostra Civiltà, del diritto, di tutti i nostri valori! Ci sarà pur rimasto a corte un uomo che…»
Max sorrise sornione: «Mah, forse qualcuno c’è, anche se non un uomo…»
«Non capisco…», fece Hans sempre più confuso.
Ad un cenno di Max, la pesante porta si aprì lentamente cigolando orribilmente, come non fosse stata usata da anni.
Hans distolse per un attimo lo sguardo, credendo di star per vedere una cella od una camera per gli interrogatori; ma, quando rialzò gli occhi, ormai assuefatti al buio, essi rimasero letteralmente abbacinati dal brillio proveniente da sfavillanti candelabri d’oro e da candelabri di cristallo. Il tenente mosse un passo esitante sullo splendido tappeto orientale che ricopriva il pavimento, mentre il suo sguardo si posava stupefatto sui meravigliosi e variopinti arazzi appesi alle pareti, sui mobili lignei dalle preziose essenze, finemente intarsiati e sui suntuosi broccati.
Ad un lugo tavolo, ricoperto da una finissima tovaglia ricamata di candido lino, stava seduta una giovane donna dai capelli neri, elegantemente raccolti dietro la nuca, che fissava su di lui uno sguardo fiero anche se venato da una sottile melanconia.
Il tenente Schneider si affrettò ad inchinarsi, riconoscendo in lei Zita di Borbone-Parma, l’Imperatrice d’Austria.
«Tenente Schneider, grazie al cielo siete arrivato, forse c’è ancora una speranza…», fece la donna, alzandosi ed avanzando verso di lui con portamento regale per porgergli il dorso della mano, perché lo sfiorasse con le labbra.
«Ma, dove ci troviamo, Maestà? Non mi sembra la reggia di Schönbrunn…»
«Siamo al Castello di Laxenburg. Vi prego di perdonarmi per il modo in cui vi ho fatto condurre qui; ma si tratta di una questione da cui dipende la sopravvivenza stessa del nostro paese ed era necessaria la massima segretezza: lo stesso palazzo imperiale ormai pullula di spie. Sono venuta a sapere di come avete difeso quella ragazza belga ed ho sentito di potermi fidare di voi.»
«Maestà, la mia vita è al vostro servizio…»
«Sapete, tenente, quando mio marito, l’Imperatore Carlo, ed io ci siamo sposati, pensavamo che avremmo trascorso una vita serena, tranquilla ed appartata alla corte imperiale; ma poi l’erede al trono, Francesco Ferdinando, è stato assassinato da quel terrorista serbo ed è iniziata tutta questa spaventosa follia… Mio Dio, quante giovani vite sono state schiacciate senza pietà, quante vedove, quanti orfani… e tutto per un colpo di pistola esploso da un pazzo estremista: sembra impossibile quanto facilmente tutto quello su cui fondiamo le nostre certezze e le nostre speranze possa essere spazzato via. Tutta questa situazione dimostra il totale fallimento della politica seguita finora quindi, se vogliamo avere qualche speranza di salvare la monarchia e tutto ciò in cui crediamo, dobbiamo seguire una politica liberale: dare l’autonomia ai nostri popoli, stipulare la pace con le potenze dell’Intesa e porre fine alla nostra alleanza con la Germania.»
Zita sedette ad uno scrittoio di radica, tirato perfettamente a lucido, traendo da un cassetto due fogli, due buste ed una penna. Con la sua grafia elegante, scrisse una lettera, ripiegandola poi accuratamente per chiuderla nella prima busta; poi scrisse la seconda e la chiuse, assieme alla prima busta, nella seconda busta che porse infine ad Hans.
Era indirizzata a Maria Antonia di Braganza, presso il Castello di Wartegg, in Svizzera.
«Questa busta è indirizzata a mia madre. Vi prego di consegnarla direttamente nelle sue mani. Ma badate, non dovrete consegnarla a nessun altro, per nessun motivo: all’interno vi è una seconda lettera indirizzata ai miei fratelli, Sixtus e Xavier, attualmente ufficiali dell’esercito belga. Desidero convocarli a Vienna perché possano mediare un trattato di pace; ma se dovesse cadere nelle mani sbagliate, o se i tedeschi dovessero aver sentore delle nostre intenzioni, io e mio marito verremmo accusati di alto tradimento. Il destino del nostro Impero è ora nelle vostre mani, tenente Schneider, assieme a quello di milioni di soldati. Andate e che Dio vi assista.»
«Compirò la missione affidatami da Vostra Maestà o morirò nel tentativo.» dichiarò Hans, inchinandosi profondamente per prendere congedo dalla sua sovrana.
Mentre lasciava il castello di Laxenburg, il tenente Schneider sentiva rinascere in sé un filo di speranza e sorrise tra sé, pensando che aveva proprio ragione sua moglie: era davvero il caso di dare il diritto di voto alle donne, visto che di politica ne capivano decisamente più degli uomini.
 

[1] Facciano gli altri le guerre, tu, Austria fortunata, sposati. Infatti, ciò che agli altri dà Marte, a te lo dà la dea Venere. Distico attribuito a Mattia Corvino, re d'Ungheria (1458-1490) che allude alla politica degli Asburgo di allargare i loro domini tramite matrimoni dinastici piuttosto che guerre.
 
[2] Servizio segreto militare austro-ungarico.
[3] Aleksandr Gelfand (1867-1924)

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Capitolo 4
*** Schultz ***


Svizzera/Austria, marzo 1917
 
 
Seduto nello stretto scompartimento del treno che avanzava sbuffando tra le spettacolari montagne biancheggianti di neve, Indy continuava a rigirare tra le dita la sottile funicella, intrecciandola abilmente in complicate figure che si affrettava a disfare un attimo dopo. Concentrandosi sul gioco del ripiglino, sperava di riuscire a rilassarsi e a farsi così passare il nervoso che gli ispiravano i due bizzarri personaggi seduti accanto a lui.
Portavano abiti all’ultima moda, confezionati su misura nei materiali più pregiati: giacche di cachemire, morbidi cappelli di feltro, scarpe lucidissime fatte a mano, camicie candide dagli alti colletti, chiusi da cravatte a farfalla, leggermente flosce come amavano portare i più raffinati dandy dell’epoca. Trovandosi a passare presso Gstaaad, i due avevano preso a conversare amabilmente della stagione invernale che avevano passato così piacevolmente in quella località, ricordando divertiti tutti i pettegolezzi che erano corsi su un certo duca e una certa duchessa e su altri personaggi aristocratici di loro conoscenza.
Avvolto nella sua pesante giacca di tweed, con i suoi calzoni di lana grossa e gli scarponi che, assieme al suo inseparabile cappello portafortuna, costituivano il suo abbigliamento, Indy continuava ad ingarbugliare la funicella, scuotendo la testa al pensiero che il maggiore Delon aveva raccomandato degli abiti civili poco appariscenti per quella missione segreta.
Indy chiuse gli occhi e lasciò per un attimo vagare i propri pensieri; con una punta di tristezza, ricordò che, solo pochi giorni prima, aveva appreso dell’arresto per spionaggio di quella danzatrice dal nome esotico: Mata Hari, quella donna dal sorriso indefinibile che l’anno scorso aveva conosciuto a Parigi, e della quale si era infatuato, lasciandosi iniziare ai misteri dell’amore. Gliel’aveva presentata un amico di suo padre, il prof. Jacques Levi, il quale gli aveva anche letto una lettera in cui il suo vecchio tentava di convincerlo a smettere di combattere e tornare in America.
Erano anni che non lo sentiva. Del resto, era esattamente quello che si meritava quella cariatide che lo aveva letteralmente torturato durante tutta l’infanzia. Quale padre, di fronte al suo bambino emozionato per il primo giorno di scuola, anziché rassicurarlo, lo terrorizza costringendolo a declamare poemi epici di secoli fa, declinazioni latine, classificazioni zoologiche e lettere in greco antico, riempiendolo di sculaccioni ad ogni minimo errore? Solo per un attimo di confusione tra Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo?
Da un padre del genere, per il quale gente morta e sepolta da secoli sembrava contare molto più del proprio figlio, si poteva solo fuggire a gambe levate! E poi, che cosa mai sperava di concludere quel vecchiaccio fuggendo la realtà, seppellendosi tra tomi polverosi? Credeva forse che sarebbe arrivato Re Artù a impedire che l’Europa finisse sotto il tallone tedesco? Certo, anche per Indy la guerra era una follia; ma almeno lui stava tentando di fare qualcosa per farla finalmente cessare!
Dopo essersi dato un nome falso, Henry Défense, per arruolarsi tra le fila dell’esercito del Belgio, quando quel pacifico paese neutrale era stato brutalmente invaso dall’esercito tedesco; dopo aver combattuto nelle trincee, conoscendo tutto l’orrore senza nome della Somme e di Verdun, dopo essere fuggito dal campo di prigionia di Ingolstadt, dopo aver combattuto in Congo e incontrato il dott. Schweitzer, Indy era tornato in Europa con un obiettivo preciso: far terminare una buona volta quella carneficina che aveva già inghiottito milioni e milioni di giovani vite e pensava che il modo migliore per farlo fosse arruolarsi nel servizio segreto. Convinto che nei servizi belgi avrebbe combinato poco o nulla, aveva optato per i meglio organizzati servizi francesi, il Deuxième Bureau, e così eccolo catapultato nell’ennesima avventura: doveva scortare a Vienna due principi, fratelli dell’imperatrice d’Austria, per trattare con l’imperatore Carlo la pace separata.
Un lavoretto facile… pensò con il ghigno sarcastico che, ormai sempre più spesso, faceva la sua comparsa sul suo volto.
Una volta passata la frontiera austriaca, grazie ai documenti falsi che erano stati loro forniti, avrebbero dovuto mettersi in contatto con un certo Schultz per avere ulteriori istruzioni. Già ma come trovare quel Schultz? Non aveva la minima idea di che aspetto avesse o di come individuarlo…
«Sarà Schultz a trovare voi… », gli aveva detto il suo superiore, il maggiore Delon con un sorrisetto sibillino.
Sempre che non ci trovino prima gli agenti tedeschi, pensò Indy mentre un brivido gli correva lungo la schiena, quelli non si farebbero certo scrupoli ad eliminarci dopo averci sottoposti alle peggiori torture per farsi raccontare ogni dettaglio della nostra missione
Ma i due nobiluomini che lo accompagnavano non sembravano invece preoccuparsene minimamente, continuando a scherzare e a parlottare come due giovani sfaccendati in vacanza.
«Ma ci pensi Xavier? Siamo in missione segreta! Tra poco questa guerra sarà finita e sarà solo merito nostro! Saremo considerati degli eroi, si parlerà di noi nei libri di storia, ci saranno monumenti, vie piazze che porteranno i nostri nomi tramandandoli nei secoli futuri...»
«Già, Sixtus, e immagina quando lo racconteremo alle ragazze al club!»
«Dannazione!», sbottò finalmente Indy, «Non vi sembra che sia il caso di pensare prima a compiere la nostra missione riportando possibilmente a casa la pelle, prima di pensare a far colpo sulle ragazze con il racconto delle vostre avventure?!»
«Ma, capitano Défense, che modi…», obiettarono i due.
«Aprite bene le orecchie voi due: sui nostri documenti c’è scritto che siamo dei comuni civili. Quindi, se qualcuno vi sente parlare di vacanze in località di lusso, duchi e duchesse, la nostra copertura va a farsi benedire e verremo arrestati.»
«Arrestarci? Ma non hanno prove contro di noi…», fecero i due interdetti.
«Le prove servono in un processo regolare e quelli non perdono tempo con simili formalità!», fece Indy sarcastico, «In tempo di guerra comandano i militari, e ormai l’Austria è sotto il controllo dei generali agli ordini di Berlino. Quindi, se ci catturano, prima ci appendono per le… finché non avremo confessato e poi ci piantano una pallottola nella zucca. Sono stato abbastanza chiaro?»
«Ch… chiarissimo!», biascicarono i due aristocratici, impallidendo vivamente.
«Bene, e adesso sarà meglio cercare di riposare un po’. Avremo presto bisogno di tutte le nostre energie.»
I tre chiusero gli occhi e si misero a sonnecchiare finché il treno si fermò e la porta dello scompartimento venne aperta dall’estero. 
«Siamo arrivati alla frontiera, meine Herren, vi prego di seguirmi.»
Obbedendo al soldato svizzero, i tre scesero dal treno e, dopo essersi separati, fingendo di non conoscersi, si misero pazientemente in fila con gli altri passeggeri per il controllo dei documenti; mentre il treno vuoto passava lentamente dall’altra parte del confine, dove una pattuglia di guardie austriache si affrettò a salire per perquisirlo minuziosamente.
La fila dei passeggeri avanzava lentamente nell’oscurità della notte, squarciata dalla luce accecante dei fari che illuminavano ora il treno ora i reticolati sormontati da un groviglio di filo spinato che segnavano il confine tra i due paesi: tra la pacifica Svizzera e l’Austria in guerra.
Un grasso sergente austriaco dal cipiglio severo e dal grosso naso rubizzo, che testimoniava della sua dedizione alla birra, esaminava i passaporti. Indy passò per primo poi si volse e vide con sollievo Xavier passare il controllo, infine fu la volta di Sixtus.
«Sono i suoi documenti, Herr?», chiese il sergente rivolgendogli uno sguardo inquisitorio.
«Na…naturalmente…Vi assicuro che sono in regola… Adesso se volete lasciarmi passare…»
Ad un cenno del sergente, alcuni individui che vestivano lunghi impermeabili scuri, comparvero come dal nulla intimando al principe di seguirli.
Polizia segreta austriaca, brutta storia… pensò Indy tra sé, senza tuttavia permettere al suo volto di tradire la minima emozione. Spostò gli occhi su Xavier che assisteva sconvolto alla scena e, per fortuna, riuscì ad artigliargli un braccio prima che il giovane potesse accorrere in soccorso del fratello.
«Non possiamo fare più nulla per lui… Se quelli appena sospettano che lo conosciamo, vengono a prendere anche noi!», gli sussurrò, spingendolo a bordo del treno sul quale, terminata la perquisizione dei militari austriaci, i passeggeri stavano ormai risalendo.
«Mio Dio! Mio Dio! Povero Sixtus! Non possiamo rimanercene così, con le mani in mano! Dobbiamo fare qualcosa!», balbettò il principe, cadendo pesantemente sul sedile prendendosi il viso tra le mani.
«L’unica cosa che potremmo sperare di ottenere sarebbe di farci ammazzare con lui… Invece dobbiamo compiere la nostra missione: solo così il suo sacrificio non sarà stato inutile…»
«Ma…è…è troppo orribile. Come potrò dirlo a nostra sorella, a nostra madre?!», singhiozzò Xavier.
«Bah, puoi dirle che un sergente ubriacone mi ha scambiato per un altro…», risuonò una voce, coprendo lo stridio della portiera dello scompartimento che si apriva.
«Sixtus! Grazie a Dio sei vivo!»
«Sì, grazie al capitano Défense! Me la sono vista davvero brutta e se, perquisendomi, avessero trovato la lettera di nostra sorella, sarei stato fritto! Per fortuna, il capitano me l’aveva fatta bruciare…».
«Grazie capitano!», fece Sixtus volgendosi a Indy, «Con la vostra astuzia siete riuscito a farci passare indenni! Ah, ah, gliel’abbiamo proprio fatta sotto il naso a quegli imbecilli!», ridacchiò il principe, sollevato.
Indy si risedette, scuotendo la testa. Poi riprese a parlare, quasi riflettendo tra sé: «Perché fermare una sospetta spia alla frontiera, quando si può pedinarla e così scoprire tutti i suoi complici?»
«Pe…pensate ci stiano alle costole?», chiesero i due aristocratici, con un leggero tremolio nella voce.
Sentendo il portello dello scompartimento stridere di nuovo, Indy impose il silenzio con un gesto.
«Guten Abend»
I tre videro entrare una donna di corporatura piuttosto minuta, con i capelli completamente bianchi che vestiva un loden verde piuttosto consunto e dalla foggia antiquata. La faccia rugosa contrastava singolarmente con due occhi azzurri vivissimi, mentre dalle falde aperte del mantello di lana faceva capolino il musetto vivace di un bassotto dagli occhi nerissimi.
«Guten Abend», risposero i tre.
La donna si sedette accanto ad Indy e il cane si affrettò a fiutarlo con aria sospettosa.
«Buono Schatze!», ordinò la padrona, traendo poi fuori dalla borsetta due lunghi e acuminati ferri da calza ed un lavoro a maglia che Indy non riuscì ad associare ad alcun capo di vestiario.
Nello scompartimento nessuno fiatò più; in fondo, quella donna poteva benissimo essere una spia e quei ferri da calza potevano in un attimo diventare un’arma micidiale. Tuttavia, come aveva dedotto Indy, per ora non avevano nulla da temere: se veramente la polizia segreta era sulle loro tracce, per il momento si sarebbero limitati a pedinarli in attesa di coglierli con le mani nel sacco a Vienna.
Il suono monotono, prodotto dal lavoro a maglia della donna, conciliava il sonno e i tre reclinarono la testa per riprendere il pisolino che avevano dovuto interrompere alla frontiera e, ben presto, nello scompartimento silenzioso, l’unico rumore che restò fu il ticchettio metallico dei ferri da calza che sferruzzavano ad incredibile velocità.


 
***
 
«Amstetten! Amstetten!», gridava la voce dell’uomo sulla banchina della stazione, resa lucida dalla recente pioggia.
Indy e i principi riaprirono gli occhi e si guardarono attorno: l’anziana signora era scomparsa.
Istintivamente, si tastarono le tasche per vedere se mancasse qualcosa ma tutto sembrava in ordine.
«Sbrighiamoci a scendere: è la nostra stazione.», ordinò Indy.
I tre rimasero a fissare il treno che ripartiva avvolto dalla sottile nebbiolina che si levava nella luce pallida del mattino.
«E adesso che facciamo? Sapete come possiamo trovare il nostro contatto?», chiesero i due principi con un’aria da turisti spaesati che chiedano notizie del loro albergo.
«Non ne ho idea: il maggiore mi ha solo detto che il nostro uomo si chiama Schultz e che sarebbe stato lui a trovarci.»
«Sappiamo almeno com’è fatto questo Schultz?»
Indy scosse la testa.
La discussione fu interrotta dall’improvviso abbaiare di un cane, seguito da una voce che risuonò alle loro spalle.
«Sono io Schultz.»
I tre si voltarono, rimanendo a bocca aperta nel rivedere la vecchia del treno con al fianco il bassotto.
«Forza, non c’è tempo da perdere: seguitemi!», intimò loro la donna, avviandosi poi con un passo svelto e deciso che mal si accordava con l’aspetto di una fragile vecchietta.
Stupefatti, i tre uomini la seguirono fuori dalla stazione di Amstetten dove il loro stupore aumentò nel vederla raggiungere un’automobile parcheggiata poco distante e salire al posto di guida.
«Svelti, salite! Dobbiamo filare in fretta, prima di attirare l’attenzione di qualche ficcanaso.»
La macchina partì rombando con i quattro a bordo, giungendo in breve ad una graziosa villetta di campagna.
Dopo averli fatti entrare ed accomodare nel soggiorno, la donna attizzò il fuoco in un bel caminetto di mattoni rossi.
«Datemi i vostri documenti falsi.»
Avuti i documenti, la donna si affrettò a gettarli tra le fiamme.
«Ecco fatto: ora i tre signori che viaggiavano sul treno non esistono più. Da adesso, siete tre giovani ufficiali austriaci in licenza, ricordatevelo bene. In quella stanza potrete cambiarvi d’abito: nell’armadio troverete tre divise della vostra taglia e nel cassetto della credenza troverete i vostri nuovi documenti.», fece, indicando loro una porta.
Indy e i due principi si affrettarono ad obbedire; ma, quando rientrarono nel soggiorno con indosso le loro fiammanti uniformi, non trovarono più traccia della vecchia. Davanti a loro c’era invece una giovane e bella donna con gli stessi occhi azzurri e luminosi, ma con una pelle liscia e florida e una cascata di capelli biondi come l’oro. Sul tavolo del soggiorno, erano appoggiate una parrucca bianca ed una maschera.
Indy, non certo insensibile alla bellezza femminile, non poté trattenere un sorrisetto compiaciuto nel constatare quell’inopinata trasformazione.
«Sono senza parole, signora…», le disse, avvicinandosi per un galante baciamano.
«Oh, potete chiamarmi Lotte.»

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