Brevi racconti occulti

di _the_unforgiven_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Breve racconto arcadico ***
Capitolo 2: *** Breve racconto gotico ***



Capitolo 1
*** Breve racconto arcadico ***


 

Breve racconto arcadico

 

 

L'implacabile calore dell'estate va finalmente cedendo il passo alle prime avvisaglie d'autunno.

L'aria violetta del mattino risuona del richiamo delle rondini prossime a partire; i cortili sono pieni del profumo verde e pungente dei fichi maturi.

Ma dentro le case, i grandi telai e la lana da filare giacciono abbandonati nelle stanze ombrose; nessuna voce si ode cantare oltre i muri dei giardini; deserti i templi e i cortili del passo leggero di fanciulle e spose.

Le donne di Tebe non hanno ancora fatto ritorno.

Dicono che un dio tiene corte fra i boschi, sul monte.

Dicono che Dioniso stesso abbia acceso la pazzia nelle donne della città, per punire chi dubitava della sua ascendenza divina; che chiunque sale la montagna cade preda del suo potere, e abbandona il mondo degli uomini per vivere fra le belve.

Dicono tutto questo; e intanto restano qui, intimoriti e stupidi come un gregge che spera di avere indietro le pecore prese dal lupo.

Gemono che è stato un dio a volerli punire; così non devono vergognarsi di restare qui, tremanti nelle loro case vuote.

Si danno per sconfitti, e inventano qualcosa di più grande di loro, per poter dire che solo pregando si può affrontare la sventura.

Dicono tutto questo, e io non credo a una parola.

Quel che ha rapito da Tebe le fanciulle e le madri può essere solo ottenebramento, o errore; o forse, se mai, uno spirito malvagio, che le tiene prigioniere come uccelli in una rete.

Nessuno lo saprà, se nessuno proverà a scoprirlo.

Ecco perché questa mattina sto salendo da solo sulla montagna.

Prima che sorgesse il sole sono uscito dalla città; prima che qualcuno potesse fermarmi, prima che i miei capelli rossi mi tradissero e qualcuno mi riconoscesse; perché un figlio di re non rischi di finire in pasto ai lupi o fatto a pezzi dalle menadi.

E forse sarà quello che accadrà; nessuno sa cosa tiene il Fato in serbo per me.
Ma certo non mi troverà inerme, a farmi piccolo di vigliaccheria e superstizione.

Gli altri si affidino pure agli dei e alle preghiere.

Io, io voglio risposte.

Ti sento.

Ho avvertito il tuo passo nervoso dal momento in cui hai cominciato a salire il sentiero sul fianco del monte.

Il profumo della tua irruenza tinge l'aria come vino nell'acqua, il sudore che cola sulla tua schiena brilla nel sole come oro.

Ti sento. Ti aspetto.

Quando i primi raggi del sole mi toccano le spalle, mi trovo ormai sulle pendici della montagna. 

Un alito lieve di brezza spira dal fondo del bosco; il suo fresco sussurro è un sollievo sulla pelle accaldata.

Mi fermo e respiro a fondo, per rallentare il cuore messo alla prova dalla salita, per contare i miei nervi tesi, che fremono nonostante tutto.

Il vento che mi solletica la nuca si porta dietro un profumo di resina e l'odore asciutto dell'erba ingiallita. 

L'ombra del bosco non mi è mai apparsa più invitante.

C'è qualcosa di diverso, nella luce, quando passa attraverso i rami.

Anziché effondersi in modo semplice e uguale, come sui tetti delle case di Tebe, si spezza in una raggiera di frecce, si riversa a macchie sul tappeto di aghi di pino, sui cespugli di mirto, sulle bacche rosse del lentisco.

Anche i suoni sono diversi, sotto l'alta cupola dei pini; il frinire delle cicale copre ogni cosa al punto da diventare un doppio silenzio; quasi non sento il rumore dei miei passi, mi muovo come in sogno nell'aria odorosa di corteccia.

Eppure sento che qualcosa mi ascolta; mi osserva mentre mi inoltro sempre più nel cuore del bosco.

Non sono un guerriero; ma so difendermi.
Ho legato al fianco il coltello da caccia; la mia fedele fionda di corda.
Ma qualcosa bisbiglia al mio orecchio che non sono queste le armi che mi proteggeranno dal pericolo che abita la montagna.

Finalmente un suono attira la mia attenzione, un crosciare che fa eco a quello delle cicale; il benedetto mormorio dell'acqua.
Mi accorgo di avere terribilmente sete; seguo il rumore a lunghi passi, fin dove rocce inghirlandate di edera svettano fra la boscaglia; quando emergo dalla macchia, però, quasi trasalisco per la sorpresa.

La sorgente che sgorga dalla roccia si raccoglie in una conca trasparente; tre fanciulle sono intente a bere, chine sul bordo e col viso che sfiora l'acqua.
Al mio apparire non si muovono; sollevano appena lo sguardo, continuando ad abbeverarsi come leonesse.

Sono scarmigliate e seminude, i capelli cinti di fiori e pampini; quando la prima si alza, asciugandosi il mento con un lungo gesto del polso, il seno bianco lampeggia fra riccioli neri.

Le altre due la imitano; si bisbigliano qualcosa l'un l'altra, lanciandomi sardoniche occhiate oblique; poi scoprono i denti in un ringhio infantile e corrono via, ridendo, nel fitto del bosco.

Stai attento, mio diletto; quello in cui cammini non è il regno degli uomini.

Fai attenzione, che il tuo coltello e la tua forza virile non ti tradiscano, davanti al riso sfrontato delle menadi.

Bada che il cacciatore non diventi preda; che non ti prendano, non ti consumino, non ti divorino brano a brano.
So che lo farebbero; affonderebbero le unghie e i denti nella tua carne, prenderebbero tutto quello che scorre nelle tue vene azzurre e lo trasformerebbero in rosso corallo; ti strapperebbero il respiro e la vita e berrebbero il tuo sangue a larghi sorsi estatici.

Ma io non ho voglia di cederti a loro.

Non senti il mio respiro nel soffio di vento che ti sfiora il collo?
Non senti come il mio desiderio dà un peso all'aria che respiri, non lo senti brillare nel gelo dell'acqua che ti scorre in gola?

Ho continuato a vagare nel bosco per il resto del giorno, a metà sperando e a metà temendo un nuovo incontro come quello alla sorgente; ma non ho più visto nessuno.

Che io abbia scelto una direzione sbagliata, o che mi stiano evitando di proposito, non saprei dirlo; ma a tratti mi sembra di udire il suono di risa mescolarsi al canto delle cicale, di scorgere il biancheggiare di uno sguardo nell'intrico dei rovi.

A tal punto perdo la cognizione del tempo, che quando il sole si avvia al tramonto ho l'impressione di trovarmi sulla montagna da appena un'ora.

Non voglio passare la notte nel bosco.

Cerco una via d'uscita, con un'ansia sottile che cresce man mano che la luce cala; le prime stelle sono già fuori quando finalmente raggiungo una radura, un'apertura fra gli alberi che mi permette almeno di respirare, di vedere il cielo.

Sono esausto.

Appena il tempo di estrarre dalla mia bisaccia un boccone di pane, un pezzetto di formaggio; e presto sono riverso sull'erba secca e ancora tiepida, a lasciarmi cadere nel sonno e dentro un cielo stranamente vicino.

(...Non trovo ad attendermi un riposo tranquillo.

Per tutta la notte scivolo da un sogno all'altro; frammenti indistinti che mi lasciano madido di sudore, sospeso fra il sonno e la veglia, con il cuore in tumulto e il respiro affannato come da una lotta.

Mi resta la sensazione di un peso caldo e vivo sopra il mio petto, di una pressione soffice e invincibile a bloccarmi i fianchi, i polsi; di una irresistibile debolezza che mi apre le labbra, trasforma in liquida brace il nerbo della mia schiena, delle mie braccia.

Ricordo solo l'ultimo frammento prima del mio risveglio: io che mi strappo al micidiale languore, che con uno scatto finisco per incombere sulla figura ora rovesciata sotto di me, bianca e arrendevole come i mucchi di lana da filare; io che ora ne serro i polsi e finalmente ne incontro gli occhi, torbidi come vino, chiari come spuma di mare, io che mi sveglio di colpo prima di poter chiedere "chi sei?")

Povero mio diletto, non ho resistito a insidiare il tuo sonno.

Sono entrato con facilità nei tuoi sogni, anima curiosa, ricettiva come un fiore fecondo.

Questa mattina, disteso sulla nuda terra, hai già il pallore di un amante disfatto; questa notte ho avuto un assaggio di quanto mi inebrii la tua resistenza, di quanto piccante sia la tua resa, quanto dolce il tuo respiro nel mio.

Quasi temo che la realtà possa sbiadire al confronto; che non possa superare l'incanto di questa passione immaginata.

Ma sono curioso anch'io, mio diletto.
Curioso, e avido, e rapace.

Il profumo dell'uva fragola satura l'aria, dolce e fresco e così denso che quasi lo sento premermi addosso, anticipare la sodezza scivolosa dei suoi grappoli.

Mi protendo a coglierli, e a terra rimbalzano più acini di quanti ne riesca a trattenere fra le mani, macchiandomi le dita, lasciandole così appiccicose che devo leccare via il succo zuccherino dai polsi, dalle braccia.

Assorto nel saccheggio dei grappoli, non bado a dove metto i piedi; quando mi accorgo di avere disturbato una vespa intenta al mio stesso banchetto, è troppo tardi; un dolore acerbo mi trafigge il piede.

La sorpresa mi fa balzare indietro, cado a sedere sull'erba mentre una pulsazione bruciante si irradia dalle dita fino al calcagno.

Solo allora mi accorgo di lui.

Quando alzo lo sguardo, trovo il suo già fisso nel mio da lunga distanza.

Esce dall'ombra del bosco; cammina verso di me senza fretta ma senza indugio, con un sorriso luminoso e occhi grandi e infidi come quelli degli idoli.

Il battito del cuore risuona come un tamburo nei miei timpani. Mi dice di scappare; con una certezza senza spiegazione mi grida di sottrarmi a quello sguardo ipnotico.

Ma un tremore terribile mi ha preso, mi immobilizza come il topo nelle spire del serpente.

Tremo, ma il destino non mi coglierà alle spalle.
Non fuggirò.

...certo, ora non potrei nemmeno se lo volessi. Ma almeno, rinunciando ad alzarmi su gambe che non mi rispondono, mi puntello sui gomiti, sollevo il mento per guardare in faccia ciò che sta per accadere.

Lui è ormai così vicino che posso distinguere il colore cangiante delle sue iridi; ha qualcosa di infantile nella curva del naso, nei riccioli di lunare biondezza; ha qualcosa di mostruoso nella fissità dello sguardo, nel biancore del sorriso.

Quando mi è di fronte, si china lentamente su un ginocchio; lascia scorrere su di me gli occhi verdazzurri, l'ombra di lunghe ciglia.
Poi tende la mano verso il mio piede, lo solleva reggendone il tallone; e reclinando il capo preme le labbra fresche sulle mie dita doloranti.

Ti sento tremare; sento il tuo sangue correre mentre quasi soccombe al timore, il tuo respiro veloce, dolce come il profumo dell'uva; ma sento anche il fuoco dei tuoi occhi, la forza nervosa delle tue mani che artigliano l'erba arida.

La tua pelle che scotta sulle mie labbra è una tentazione squisita; potrei, oh forse potrei averti subito, qui, sotto il manto ombroso della vite, piegarti sulla terra indurita dal sole e raccogliere dalla tua gola singulti piccoli e dolci come i chicchi dell'uva.

Ma non voglio sciupare questo piacere.

Con un poco di riluttanza lascio dunque andare la tua caviglia, che invece mi sarebbe piaciuto accarezzare, per scivolare senza fretta lungo le tue gambe di gazzella, farle fremere di baci.

Invece mi alzo; passo oltre, e spero che l'orlo della mia veste sfiorandoti ti accarezzi per me.

Ho fatto appena qualche passo quando odo la tua voce alle mie spalle.

"Già che c'eri," risuona roca, "avresti potuto far svanire il veleno dal mio piede."

Mi volto, e ti sei girato a guardarmi, ancora a terra come sei, torcendo il collo per non togliermi di dosso quegli occhi di fiamma

Se sapessi come mi riempiono di delizia il tuo rossore, il tuo respiro travagliato, il modo in cui tenti di nasconderli digrignando i denti.

Mi fai venire voglia di prenderti il volto fra le mani, di assaporare dalla tua bocca la tua impertinenza ribelle.

Ma mi domino; ti mostro benevolenza paziente: "Per questo, dovrai pregare la vespa," rispondo, prima di allontanarmi.

Faccio in tempo a udire uno sbuffo di riso incredulo mescolato a offesa, e non posso impedirmi di sorridere fra me.

No: prenderti non potrebbe bastare a farmi felice.

Solo quando verrai a cercarmi il mio desiderio sarà appagato.

La mia ombra che va allungandosi nel sole sembra faticare a starmi dietro, mentre misuro la radura a grandi passi, stringendo i denti e i pugni ma senza ancora sapermi risolvere.

Per tutto il pomeriggio non ho fatto altro che camminare avanti e indietro al margine del bosco, senza osare entrare, ma senza decidermi a voltare la schiena e fuggire; e ora che un altro giorno si avvia alla fine, sento la mia stessa irrisolutezza pesarmi alle caviglie come una zavorra.

Non posso dimenticare.
Ora che ti ho visto, non posso fingere che i sogni di questa notte fossero soltanto sogni; ora che mi hai toccato, non posso credere che tu non sia fatto di carne e sangue come me.

Se ti colpissi, sanguineresti?

Se affondassi il mio coltello nella tua carne, arriverebbe a mordere il tuo cuore?

...E se lo facessi, senza prima averti chiesto il perché di tutto questo, me lo perdonerei?

Con un ruggito di rabbia mi lascio cadere sull'erba arida.

Che cosa cerchi?
Che cosa vuoi, da noi, da me?
Chi sei?

Più di un uomo, per entrare da padrone nel mio sonno, scardinare il mio riserbo e il mio controllo e lasciarmi al mattino con un un languore struggente nei lombi e un vuoto rabbioso nel petto; eppure meno di un dio, per sentire una mancanza, qualsiasi cosa sia che vai cercando da noi mortali; davvero ci conduci qui solo per farci impazzire, morire di spasimo?

Ho la gola inaridita e un tremore che va dalle mani fino alle spalle, quando finalmente prendo una decisione.

Sono salito qui per salvare la città, forse; ma soprattutto, sono salito qui per capire.

Voglio una risposta alla mia domanda; e ho un modo soltanto per averla.

Tutto il bosco si lascia andare ad un sospiro, quando fai ritorno.

Ci sei mancato, mio diletto; avevamo già nostalgia delle tue lentiggini, della grazia acerba delle tue spalle, del colore dei tuoi capelli; del tuo ardimento, della scia di fuoco della tua volontà impetuosa.

Hai torto, diletto mio, se credi che con malizia abbia irretito le donne di Tebe. Quando mi hanno sentito, quando hanno sentito la voce della montagna chiamare insieme al vento del mattino, hanno saputo di non tollerare più una vita costretta nel piccolo recinto dei cortili; di non essere più pronte a chinare la testa per padri e consorti, di volersela piuttosto incoronare di edera e di mirto.
Hanno avuto fame di ogni godimento che la breve vita potesse donare loro, come i grappoli umidi e dolci dell'uva. Hanno passato troppo tempo a negarseli; come biasimarle, se ora non sanno più distinguere sulle loro dita le macchie di sangue dal succo delle more, se nella frenesia di godere di tutto, prima che sia loro tolto, prima che sia troppo tardi, ora tutto bramano?

Ma hai anche ragione, mio amato; c'è qualcosa che mi manca, che mi fa sentire vuoto come la luna calante; che mi lascia anelante e derelitto come una nave infranta sugli scogli.

È un vuoto che non c'era, solo due giorni fa.

La tua ferita me l'hai già inferta, senza coltello e senza lotta; e tu solo hai il potere di guarirla.

Cala il buio.

Il bosco è un sottile intrico nero contro l'azzurro cupo del cielo; mi muovo lentamente; mi affido, più che ai miei occhi, a presentimenti.

Nel folto, in lontananza, giurerei di scorgere una luce; un bagliore danzante di fiamma, la promessa di un falò acceso.

Mi avvicino scivolando con cautela, con l'impressione bizzarra di essere io l'estraneo, la fiera che dal bosco striscia ad insidiare il fuoco acceso dagli uomini.
Nella destra stringo il coltello sguainato, fra dita così rigide che cominciano a dolermi.

Ho paura; ho paura più di quanta ne abbia provata mai, ho paura eppure non posso fermarmi; non me ne andrò senza avere capito; e i miei piedi avanzano da soli.

È davvero un fuoco, quello che vedo sempre più distintamente fra i tronchi neri dei pini; un falò odoroso di resina e di brace.
Le ombre intorno ondeggiano appena al guizzare della fiamma. Non scorgo figure umane.

Finalmente, i miei passi esitanti mi portano fin dove gli alberi si diradano ai piedi di una breve parete di roccia.
Al centro della radura brucia quieto il falò; e tutto attorno, l'una addossata all'altra come cuccioli, giacciono donne addormentate.

Dormono così profondamente, raggomitolate nelle lunghe chiome sciolte o abbracciate l'una all'altra, che nessuna sembra accorgersi di me.

Solo uno sguardo subito si fissa nel mio, appena alzo gli occhi, ed è uno sguardo trasparente e quasi nero nella luce delle fiamme.

Siedi ai piedi della rupe come un re in trono; il tuo scettro una coppa di vino, la tua corona edera scura.

Siedi nella luce rossastra come una femmina dissoluta; la tua pelle fiore di magnolia, le tue spalle, i tuoi fianchi invitanti come i bracci curvi di una lira.

Giungo di fronte a te e nella destra stringo il mio coltello; il mio cuore un prigioniero furioso che batte alle sbarre delle mie costole.

Se sapessi come sei bello, mentre esci dalla tenebra guardingo come il lupo, cauto come il serpente.

Non mi sazio di guardarti, di guardare le ombre scabre intagliarsi nelle tue membra, guardare la linea sottile delle tue labbra e i lunghi muscoli delle tue braccia contratti fino allo spasimo, guardare il riflesso delle fiamme nei tuoi riccioli fulvi, nei tuoi occhi come miele di bosco.

Ti guardo avanzare lentamente; sento il tremore delle tue gambe, il tuo respiro frenato, la presa dolorosa della tua mano sul tuo coltello, e ti aspetto; ti aspetto, finché arrivi fino a un passo da me.

Sento il tuo bisogno come fosse il mio; sento la domanda premerti sulla lingua e sui denti sfilacciando sempre più la tua paura, ed è un sollievo anche per me quando finalmente, come un boccone amaro, sputi la domanda che ti brucia le viscere:

"Chi sei?"

Sospiro, perché la tua audacia è più stordente del vino; la tua bellezza più tormentosa della sete; e un languore bianco mi scioglie il sangue mentre ti tendo la coppa, rispondo "Lascia che te lo mostri."

Cade a terra il tuo coltello.

Tremano le tue mani mentre afferri la coppa di lucido argento, bevi un lungo sorso che ti rovescia il capo e offre la tua gola alla luce radente.

Quando lasci cadere anche la coppa per immergere nei miei i tuoi occhi d'ambra, so che mi appartieni.

Quando con impeto mi afferri e mi baci, e sento dalle tue labbra fluire caldo un sorso dolce di vino, so di appartenerti.

 

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Capitolo 2
*** Breve racconto gotico ***


 

Breve racconto gotico

 

 

Questa prigione che mi ha tolto gli anni, che mi ha tolto gli occhi, le mani, la lingua e i denti; questa lunga notte di falangi ficcate nella carne, di costole gelate contro i muri, questa notte marcia di pianto e rabbiosa di pioggia; questa prigione io abito, qui riverso la mia amarezza come sangue, qui il rancore mio percorre i corridoi come un animale in gabbia.

L'ho odiata, centimetro per centimetro, ne ho roso ogni palmo consumandola come un tarlo; sono diventato carne di questa carne di calcinacci e vetri rotti, i miei singhiozzi sono nei gradini spezzati, il mio respiro nelle mattonelle in briciole negli angoli vuoti; la polvere che impasta le ragnatele e il chiaro di luna è fatta dei miei pensieri, sono mie le parole che non riescono a uscire dal buio del caminetto.

Adesso che non distinguo più le mie mani dal brancolare dei ragni, la mia voce dal gemere delle serrature guaste, adesso mi è più che mai cara; la cella che mi ha infradiciato l'anima con l'acqua ferma nella grondaia, che mi ha schiacciato il petto dietro le persiane luride; adesso io sono lei e lei è me, le sue viscere sono le mie, i miei occhi sono nelle orbite vuote delle sue finestre.

Qui sono e qui sono rimasto, qui resterò, sempre, per sempre, insieme al disfacimento solenne delle tende, alla cieca voracità dei topi, a divorare ed essere divorato, eterno cannibale di me stesso, a strapparmi la carne delle braccia e l'ultimo filo di voce.
 


Prendo il Libro dalla tasca del mio abito, lo pongo davanti a me sul tavolino; prendo anche il rosario, la bottiglia con il tappo d'argento, il mio fedele taccuino con il mozzicone di matita.
Li poso in bell'ordine uno accanto all'altro, un piccolo plotone schierato. Sono il mio baluardo.

"Padre, è certo che non ci sia altro che posso fare per lei?"

Sollevo lo sguardo; è ferma sulla porta, già quasi oltre la soglia, come se i piedi la volessero suo malgrado condurre via.

"Sarà sufficiente che stasera mi ricordi nelle tue preghiere, figliola."
Sembra già essersi pentita, forse pensa che questa vecchia casa non valga tanta pena.
Esita, tormenta la cinghia della borsa; quando è venuta a cercarmi indugiava nello stesso gesto, con nervosismo a malapena celato.
Poi stringe le labbra. "Sarò di nuovo qui domattina." ripete, per la terza volta. "Ma se avesse qualunque necessità, padre, per qualsiasi cosa..."

"C'è un telefono al piano di sotto."

Annuisce, gli occhi rivolti al pavimento.
Ha esaurito le scuse per rimanere qui; stringe le dita attorno alla cinghia e raddrizza la schiena, preparandosi a prendere congedo.
Lo spettro di un dubbio le attraversa il viso.

"...lei mi crede, padre. Vero..?"

Non posso impedirmi di sorridere, mentre prendo posto nella vecchia poltrona con il rosario fra le dita.
"Ti credo, figlia mia. Per questo ti chiedo di pregare anche per me."

Spesso, la cosa più difficile è semplicemente restare svegli.

Siedo nella decrepita stanza da letto da quando la mia committente si è allontanata; sprofondato nella vecchia bergére che quasi mostra le molle, sgrano il rosario, e aspetto.
Spesso c'è qualcuno con cui scambiare qualche parola, con me. La persona che mi ha affidato il lavoro; un familiare scettico; qualche volta perfino un dilettante entusiasta con strumenti di misurazione elettronici, thermos di caffè e molta parlantina.
Spesso ci si addormenta ben prima che spunti l'alba.

Spesso, l'unica infestazione di cui la casa è vittima sono gli scarafaggi, e non c'è un vero motivo per coinvolgere un esorcista.

E' scomodo passare la notte in vecchi edifici umidi, ad ascoltare l'andirivieni dei ratti sotto le assi del pavimento, assediati da un odore di muffa talmente forte da dare il mal di testa.
Ma anche rasserenare le persone angosciate è opera del Signore; spesso non hanno bisogno di altro che di rassicurazioni, della conferma che nessun rancore, nessuna invincibile tristezza avvelenano le fondamenta del posto dove vivono, della casa che hanno ereditato, o che vorrebbero acquistare.
Spesso ci si saluta affabilmente il mattino dopo, davanti a una tazza di caffè; e già nella prima luce del sole la casa assume un altro aspetto.

Spesso, una vecchia casa non è niente di più che una vecchia casa.

E poi, e poi ci sono case come questa.



 

L'attesa mangia; l'attesa corrode.

Mi sono consumato aspettando, come una candela che si strugge; ma la mia forma non è più una che il tempo possa opprimere. Si spande come olio, fluttua come fumo, si scioglie in un presente sfuggente come acqua.

Della stessa materia sgusciante di cui è fatto il fondo dell'acquitrino, scivolo, senza tensione, senza direzione, perché nulla più può essere, perché sono nell'attimo prima di ogni cosa, per sempre nell'annullarsi della gravità all'estrema oscillazione del pendolo.



Forse mi sono assopito.
E' difficile capirlo quando si è soli in una stanza silenziosa; seduti, abbiamo il rosario ancora fra le dita, ma il nostro bisbigliare si è fatto incoerente, ci accorgiamo che la mente vaga.

La lampada sul comò è accesa; fortunatamente, la casa non è priva di elettricità.
Nella fioca luce gialla vedo i mobili dalle volute incise, il letto a baldacchino con le sue tende mangiate dalle tarme.

Eppure per qualche momento ho avuto l'impressione di trovarmi altrove; ho avvertito l'odore umido di tappeti di viole, il profumo livido di gigli e mughetti; nell'aria un sentore di limo, e di pietra muschiosa, e di foglie morte.

E poi su questo odore freddo e vegetale una nota estranea, calda e improvvisa come uno schizzo di sangue: un odore acre come carne e sudore, come fiato caldo sul viso, così vicino che è quasi un contatto tumido e caldo. Ed è qui che mi sono accorto di avere gli occhi chiusi, perché li ho riaperti di colpo e mi sono trovato nella vecchia casa, con il capo ciondoloni e le mani abbandonate in grembo.

Ho raccolto il rosario e mi sono rimesso a pregare.



Un prigioniero divenuto la propria prigione, é ancora prigioniero? Cosa nasce quando la porta della vergine di ferro si chiude su di noi?

Ouroboros.

Il serpente divora se stesso. Via via più fiocamente, vertigine fa eco a vertigine; la ruota diventa sempre più pesante, affaticata e lenta - finché non si ferma, in oblio e silenzio, finché la polvere finalmente posa.

Allora posso dormire.

Ma basta un passo - una vibrazione di vita sulle corde della ragnatela - e la fame cieca spalanca le fauci, il vuoto urlante risucchia ogni cosa e mi acceca di sangue, mutilato, straziato - finché non è di nuovo stasi, e silenzio, e sonno.



Sfoglio il libro di preghiere.
So che per restare svegli sarebbe meglio altro; magari un racconto, un romanzo. Qualcosa di frivolo, che desti la mia attenzione e faccia scorrere le ore più veloci.
Ma questa notte non devo distrarmi. Non devo lasciare cadere l'attenzione; devo invece rinverdire la mia fede infiacchita, rafforzarla nella possibilità di una prova.
Sfoglio le pagine e cerco di restare vigile. Leggo a mezza voce. Sono brani che conosco a memoria, ed è quasi un conforto, quasi come leggere in coro con me stesso.

"Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?"

Proprio così... Anche se in questa casa è buio e freddo, fuori certamente brilla una notte stellata. E chissà, forse gli odori di poco fa vengono da un pascolo sotto la luna...

"Nella destra teneva sette stelle, dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio e il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza."

Le stelle nelle mani, il sole nel volto e una spada a doppio taglio... Come la bellezza sublime è sempre mescolata al pericolo mortale.

"In quei giorni gli uomini cercheranno la morte, ma non la troveranno; desidereranno morire, ma la morte sfuggirà loro."

Mi coglie un moto di confusione; perché sto leggendo questo versetto?
Cerco con gli occhi sulla pagina; non è questo il passo che ho davanti.
Forse sono stanco; mi stropiccio gli occhi gonfi di sonno.

Alle mie spalle risuona un colpo.

Attutito, come giunto attraverso la parete.
Sono già balzato a voltarmi, prima ancora di rendermene conto; ma non c'è nulla dietro di me...
Naturalmente.

Mio malgrado, un brivido gelido mi percorre la schiena.

Nessun altro suono, dopo il primo; un solo colpo, isolato, sordo, dalla stanza vicina.

Potrebbe essere stato un topo. Potrebbe essere stato un topo ad aver fatto cadere il libro che stava rosicchiando.
O forse è stato il vento a far sbattere una vecchia imposta.
Potrebbe anche essersi introdotto in casa qualcuno, un ladro, o un senzatetto in cerca di riparo.
Potrebbe essere una qualsiasi di queste cose.

Decido di non andare a scoprirlo.
Con la bocca improvvisamente asciutta, riprendo a recitare una preghiera.

Ma ecco, sono sicuro di udire, sotto la mia voce e appena percettibile attraverso la parete, un'altra voce che non è la mia.
Se mi fermo, tace.

Riprendo meccanicamente a pregare, mentre con tutte le mie forze cerco di carpire le parole soffocate che fanno eco alle mie; ma per quanto tenda l'orecchio, per quanto tenti disperatamente di escludere il suono della mia preghiera, non riesco a distinguerne neppure una.
Solo l'inflessione dolente, quasi di pianto, di qualcuno che sembra supplicare da dietro la porta.

Rinuncio ad ascoltare, perché alle voci, la mia e quella che mia non è, si sovrappone adesso a tonfi grossi il battito del mio cuore.
"Kíríe eleison, Signore Dio nostro, sovrano dei secoli, onnipotente e onnipossente..."

Questa volta il suono giunge da dentro la stanza.
E' un riso delicato, un educato risolino a bocca chiusa.

Trattengo il fiato.

La risatina si esaurisce in un sospiro divertito.
Qualunque cosa sia, si è fatta più vicina.

"...tu che a Babilonia hai trasformato in rugiada la fiamma della fornace..."

Come trema la mia voce! Nessuna meraviglia, mi trovo a pensare pazzamente, che susciti riso anziché timore.

Ma non ho tempo di abbandonarmi a questi pensieri, perché ecco un fruscio e un rumore di passi - alle mie spalle, sempre felpati alle mie spalle; e vicino, vicinissimo al mio orecchio, sento ora singhiozzare - lo stesso pianto che poco fa risuonava al di là della parete; un pianto terribilmente solitario, come acqua che goccia a goccia cada da una gronda.

Resto immobile. Per il terrore, i peli sul collo si sono rizzati come la criniera di un animale; ma non oso voltare la testa. Continuo con un resto di voce la mia preghiera, spasmodicamente in ascolto.
Ascolto finché il pianto non si esaurisce, finché non resta che un lungo sospiro doloroso, freddo e sepolcrale, così vicino al mio orecchio che posso avvertire lo spostamento d'aria.

Un sospiro; dopo un poco, ne segue un altro.
E poi ancora un terzo. Ed un quarto; ciascuno appena più molle del precedente.
Dietro di me, proprio vicino alla mia spalla, i sospiri diventano pian piano più lievi, quasi languidi.

Finché nel mio orecchio si versa un ansito effuso di calore, da una gola che palpita vicina, vicinissima alla mia, e che bisbiglia qualcosa che suona in modo seducente come il mio nome.

Sussulto riscuotendomi d'improvviso, mi strappo dalla bergére facendo un mezzo giro su me stesso; inutile, perché non c'è nessuno oltre a me nella stanza deserta.

Con il cuore in tumulto mi faccio il segno della croce, afferro l'acqua benedetta e cado in ginocchio a pregare ad alta voce.



Quanto feroce odio per la mia prigione, quanto orrore per il corpo che mi teneva legato ad essa!
Gli ho strappato le unghie con i denti, mi sono morso la lingua per dissanguarlo, l'ho piegato con la sete e con la fame.

Ho udito ogni genere di lodi rivolte a quel corpo miserabile; la sua giovinezza non è servita ad altro che a prolungare la mia reclusione, la sua tenacia a rendermi più ardua la fine.
Ma la sua bellezza, quella l'ho odiata al di sopra di ogni altra cosa.

Sfavillante come la cappa degli ipocriti della sesta bolgia, e altrettanto pesante; impugnata come una condanna da chi mi ha calpestato, umiliato, imprigionato, eppure inutile per trattenere chi mi ha abbandonato.

La mia prigione ha cominciato a essermi cara quando ho iniziato ad assomigliarle, nella scabra geometria delle mie ossa, nel pallore marmoreo della mia carne, nell'insensato ripetersi e intrecciarsi dei corridoi e delle anticamere e delle scalinate come pensieri ciechi e senza finestre.



Inginocchiato, ad occhi chiusi, prego.
Mi aggrappo al pavimento freddo e duro sotto le ginocchia, alla gravità che pesa sul mio povero corpo dolorante.
Cerco di concentrarmi su quella sensazione, di placare il tumulto del cuore; ma so che sono prossimo a sentirmi mancare.

Il pensiero è un nastro buio che si avvolge e si tende trascinandomi con sé - scivolo, incespico, non so dove mi porta; mi copre gli occhi e mi soggioga come una bestia condotta via.

Precipito, febbrile, forse sono malato, forse è febbre - febbre, febbre, accelerazione battito irregolare - un fiume di associazioni senza connessione apparente - i gigli - febbre febbre frullio d'ali, vertigine - l'orgasmo di quella voce come uno spandersi di latte e miele, febbre, febbre, mi sento bruciare come se sotto di me si fosse spalancata la bocca dell'inferno; brucio, brucio e sono scosso da brividi -

- un tocco leggero al centro del labbro inferiore, fresco e lieve come il petalo di un fiore.

Riverbera in tutto il mio corpo, come una singola goccia su uno specchio d'acqua ferma.

Rabbrividendo, mi trovo pieno di stupore a trattenere il respiro.
Non è mai accaduto.
Rumori, voci, anche visioni mi si sono presentati in passato; e ormai so riconoscere i luoghi in cui me li posso aspettare.
Ma questo, questo è nuovo.

La pressione sul mio labbro cresce impercettibile, abbastanza da sfiorarmi gli incisivi, e il tocco è gelido al punto da farmi dolere i denti fino alla radice.

Ma poi qualcosa come la vampata di una fornace mi avvolge, mi afferra serrandomi in una stretta che mi preclude ogni movimento.

E so che non c'è nessun altro nella stanza, lo so, eppure potrei giurare che un corpo sia stretto al mio con un calore di brace, si aggrappi alle mie scapole premendomi sul viso un petto greve di sospiri, scosso da un cuore in subbuglio quanto il mio .
Le membra legate, senza essere neppure più padrone della mia lingua, cerco invano di dire qualcosa; una preghiera, un'invocazione, le semplici parole "chi sei?"

...ma chiunque sia, io so che è la voce singhiozzante di prima, lo so dallo spasimo con cui si afferra a me, dalla pressione di lunghe dita trascinate fra i miei capelli, sul mio viso.
Che sia viva, non lo posso dubitare, per il bruciante calore e il battito pesante del cuore che avverto quasi sulle guance, sulle labbra.

Sento fremere nelle mani il desiderio di afferrare il corpo che è così vicino al mio, di scoprirne il volto, ma nel mio cuore resta gelata una lama di paura, come un pugno di ghiaccio gettato nel fuoco.
Le mani che si aggrappano così disperatamente alle mie spalle e ai miei capelli, lo fanno per essere tratte in salvo o per trascinarmi con loro?

 


Non sono certo di quanto tempo ho trascorso prostrato a terra, di quanto è durato il misterioso rapimento; ma ora si è dissolto, improvvisamente come si dissolve un sogno.
Sento mordere sotto le ginocchia il pavimento gelato, sento un velo di sudore raffreddarsi sotto gli abiti e sopra la pelle; vedo la stanza, vedo le mie mani, anche se nel frattempo la luce si è spenta e solo i raggi di luna entrano dalle finestre impolverate.

Mi sento in petto il languore largo che segue le lunghe corse, che segue il pianto; e comincio a credere che trovarmi qui questa notte sia un grave errore, un pericolo troppo grave che non ho saputo prevedere.

Dio mio, non abbandonarmi, sussurro fra le labbra screpolate, ma è proprio in quel momento che la vedo.

Dove la luce delle finestre si raccoglie ai piedi del letto, si erge una figura fatta della stessa diafana materia del chiaro di luna.
Ha una veste fatta di tele di ragno e mussola corrosa, ha le spalle nude che nella luce azzurra paiono alabastro. Ha i capelli rossi come il peccato e il volto immerso nelle ombre; ma non dubito neppure un istante che stia guardando me.

"Dio mio, dio mio," riesco appena a sussurrare, e sento che i miei occhi si stanno colmando di lacrime; mi si offusca la vista, e un attimo dopo è così vicino, mi sfiora il viso, lunghe dita come stalattiti di ghiaccio, mi solleva il mento e ora vedo, vedo occhi giallo zolfo e labbra rosse su denti affilati, vedo un sorriso atroce e uno spasmo di dolore sulla fronte bianca, e sono pazzo di terrore e dell'impeto con cui spalanco le mie braccia-

- e del sapore di quel bacio, testimoni sono solo gli angeli caduti.


 

 

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