Pretty girls make graves

di blackjessamine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** – Perle ***
Capitolo 2: *** – Avgolemono ***
Capitolo 3: *** – Mappa ***
Capitolo 4: *** – Vetro ***
Capitolo 5: *** – Grappolo ***
Capitolo 6: *** – Antidoto ***



Capitolo 1
*** – Perle ***


Prompt 11: perle





 

È inevitabile: il sospiro sfugge alle sue labbra socchiuse, e Pamela si ritrova ad ascoltare il suo sconforto farsi suono. l’Armeria della Casa Lethe è sempre stata una costellazione di difetti, oggetti malfunzionanti o pericolosi o troppo distanti dal loro scopo originario, non c’è nessuno che lo sappia meglio di lei. Lei, che si è ridotta gli occhi a fessure aride trascorrendo troppe ore a rivedere e correggere un catalogo di cui nessun Oculus si è mai davvero interessato – lei che si è disperatamente aggrappata alla possibilità di riempire giorni e sere e notti con qualsiasi cosa le impedisse di sentire i propri pensieri. Lei che, forse, un oggetto malfunzionante ci si è sempre sentita.

Eppure, la consapevolezza di aver perso l’ennesimo manufatto le stringe il petto in una morsa dolorosa – l’ennesimo macigno che le chiude la gola e affatica il respiro. E non può fare a meno di avvertire, in fondo al cuore, un assaggio di irritazione nei confronti di Alex, che quei manufatti li macina come ghiaia sotto i piedi, pronta com’è a seminare rovina ovunque vada.

Del collare di perle di sale di Emilia Benotti non resta che un filo d’argento reciso: l’ennesimo tributo alla violenza che la Casa Lethe ha dovuto pagare per proteggere i suoi membri (o forse Alex ha solo provato a difendersi dalla Lethe, Pamela non lo sa più e la sola idea di provare a mettere ordine nell’assenza di forma della sua morale le fa venir voglia di vomitare in un cassetto dell’Armeria). Nel cassetto invece ci ripone quel che resta del collare di perle, cercando di trattenere l’ennesimo sospiro e di non pensare ai demoni che quelle perle di sale hanno contribuito a tenere a bada.

 

“Non dirmi che stai davvero piangendo per questa roba infernale”.

Pamela sussulta, il cassetto le scivola dalle mani e si chiude con uno scatto così secco che Il Bastone sussulta con lei. Sulla soglia dell’Armeria, il detective Turner la fissa con le braccia conserte e un cipiglio adirato.

È elegante anche indossando degli abiti che sono letteralmente andati all’Inferno e sono tornati per raccontarlo.

“Non sto piangendo”, mormora Pamela, e la sua voce è così sottile da sembrare il patetico pigolio di un animale in difficoltà.

Un animale che sta per scoppiare in lacrime.

Turner scrolla le spalle, del tutto indifferente, e Pamela sa al detective davvero non importa.

“Davvero, Dawes, perché ti importa così tanto di questa merda?”
“Sono l’Oculus, è il mio lavoro”.

“Questa è un’altra stronzata, Dawes. A questa roba tu ci tieni davvero”.

Gli occhi di Turner non smettono un istante di vagare per la stanza, scivolando da un cassetto all’altro, da una teca a uno scaffale, e ad ogni cartiglio la sua fronte si aggrotta sempre di più.

E poi gli occhi del detective si fermano su di lei, e sono occhi gelidi. Arrabbiati.

“Ti ricordi cosa mi ha promesso la Stern?”
Pamela si morde il labbro, pensando al castello di promesse e bugie e debiti che Alex Stern tenta disperatamente di tenere in piedi da quando ha messo piede a Yale.

“Il plastico, Dawes”, incalza Turner.

“Quel cazzo di plastico. Mi ha promesso che l’avremmo fatto a pezzi”.

Pamela affonda ancora di più gli incisivi nel labbro, tentando invano di combattere la tentazione di strappare le pellicine e trovare il sapore rassicurante del proprio sangue.

Anche quel plastico fa parte di quel bagaglio di interrogativi etici che non può affrontare.

“Se c’è una cosa  che so”, continua Turner, “è che ho intenzione di vivere abbastanza a lungo per vedere quella merda ridotta in polvere. E voglio che ci sia anche tu, quando lo distruggeremo. Me lo devi”.






 

 


 

Note:

Un paio di brevissime precisazioni: non ho idea della direzione che prenderà questa raccolta: tendenzialmente saranno flash indipendenti l’una dall’altra, probabilmente gireranno attorno a Turner e alla Dawes (non per forza come coppia, anche se mi piacerebbe approfondirli in questo senso), ma magari mi dedicherò anche ad altri personaggi. 

Probabilmente molti dettagli del canon saranno confusi, perché non ho letto i libri un numero sufficiente di volte fa sentirmi sicura nello scrivere qualcosa di strutturato e coerente, ma il writober serve anche per scrollarsi di dosso un po’ di paranoie e scrivere e basta, no?

Il titolo, ovviamente, arriva dall’omonima canzone di Morrissey, perché ormai nella mia testa non c’è Dawes senza di lui (che nemmeno mi piace, ma oh, non si può avere tutto dalla vita). 

 

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Capitolo 2
*** – Avgolemono ***


Prompt 12: cucchiaio





 

Avgolemono


 

Il cucchiaio affonda nella zuppa: un composto compatto e cremoso, dove l’uovo si è addensato abbastanza da offrire alle posate una resistenza soddisfacente.
Turner ha sempre detestato le brodaglie liquide, ma quella zuppa ha la consistenza di una crema, il profumo di una vacanza nel cuore del Mediterraneo e il sapore dell’abbraccio di una madre.

Il sapore fresco del limone riesce nell’unica magia che non lo disgusti: lo riscalda come credeva di non essere più in grado di scaldarsi, seda il terrore, allontana per un istante l’orrore dell’Inferno e restituisce conforto nella sua forma più semplice.

Davanti a lui, la Dawes affonda nel piatto solo la punta del cucchiaio, mescola la zuppa, porta alle labbra bocconi che poi non mangia: Turner credeva di aver visto abbastanza cose prive di senso in quella casa, ma ignorare quella zuppa è la più folle di tutto.

“Mangia, Dawes. La mamma non ti ha insegnato che è un peccato sprecare il cibo?”
O forse è solo l’ennesima stronzata della Lethe: il cuoco non mangerà ciò che ha preparato, indipendentemente dal sapore divino del suo piatto.

Turner compensa lo scarso appetito della Dawes con altre due cucchiaiate colme, mentre la donna scivola sul proprio piatto come a volerci annegare dentro.

“Era… è il piatto preferito di Darlington”.

La voce della Dawes è solo un sussurro, ma ha il potere di mutare zuppa di limone in cenere.






 

 


 

Note:

Il mio guilty nontroppoguilty pleasure è Turner che non sa spiegarsi perché ha voglia di rompere qualcosa ogni volta che la Dawes parla di Darlington? CERTO.

Scriverò mai delle conseguenze di tutto questo? Chissà.

Intanto, come sempre, mi scuso: non so se nella cronologia canonica abbia senso una scena come questa, ma la coerenza in questa raccolta non è contemplata, occhei?

 

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Capitolo 3
*** – Mappa ***


Prompt 15: mappa






 

A Pamela tremano le mani.

Non è una novità, ma questa volta il tremito non le viene dalla consapevolezza di essere perennemente inadatta ad affrontare la situazione sociale fuori alla porta.

Questa volta il tremito è dato dal contatto dei palmi col freddo della spranga di ferro che stringe fra le mani, e dal gelo dello sguardo del detective Turner che sembra seguire ogni suo respiro.

E poi c’è New Haven sotto di lei, dispiegata nella sua immobilità di pietra: una mappa che brilla di orrore e sangue.

Una mappa che è un reperto storico, un manufatto antico e prezioso, che l’Oculus dovrebbe proteggere.

Turner non parla, ma il suo sguardo la penetra come una spada: quella mappa è un agglomerato di privilegi e soprusi, è il simbolo dell’oppressione, e forse è giusto che sia Turner a colpire per primo. Ma Pamela non può chiederlo, perché sa benissimo che una domanda del genere suonerebbe come il suo ennesimo tentativo di lavarsene le mani.

Allora rinsalda la presa sulla spranga – è una spranga, non un busto di marmo, ma quel plastico d’ametista sembra improvvisamente fatto dello stesso male di cui era composto Blake Keeley – lascia andare un respiro incerto, solleva la spranga sopra la testa e colpisce.

Colpisce proprio lì, in Orange Street.
Dove ha usato un busto di marmo per uccidere l’incarnazione di privilegi e soprusi. 

Dove ha imparato che un omicidio resta un omicidio, anche quando salva altre vite.

Colpisce più forte che può, gemendo per il dolore del contraccolpo: la spranga le scivola dalle mani, cadendo a terra con un clangore assordante. L’ammaccatura sul plastico è quasi impercettibile, ma è sufficiente a eliminare per sempre la perfezione di quell’oggetto.

 

“Cazzo, Dawes, dovresti passare qualche ora in meno sui libri e un po’ più di tempo nella palestra di Darlington”, ringhia Turner, che con un gesto atletico ha recuperato la spranga. Il suo sguardo non è più gelido: ogni fibra del detective sembra incendiata da una rabbia indomabile, ma Pamela avverte un cambiamento. Turner è arrabbiato, sì, ma la sua rabbia ora scavalca Pamela e si riversa solo sul plastico.

 

Il clangore del metallo contro la pietra è assordante.

È l’urlo di ogni disperato, di ogni schiavo ucciso, di ogni minoranza schiacciata sotto le scarpe dei potenti, ma Turner continua a colpire, metodico.

La sua non è una rabbia cieca, è piuttosto un sordo pulsare determinato: Pamela sa che non si fermerà fino a quando di quel plastico non resteranno che schegge acuminate e irriconoscibili in mezzo alla polvere di ametista. Non si fermerà quando le mani cominceranno a sanguinare, non si fermerà quando i suoi muscoli grideranno di dolore. E lei resterà a guardare quella distruzione fino alla fine, e poi aiuterà Turner a ripulire quel casino – la loro vita si è trasformata solo una serie infinita di casini da sistemare alla meno peggio – e poi, forse, torneranno insieme al Bastone. E forse Turner le permetterà di estrarre con cura ogni scheggia conficcata nelle sue mani, e poi forse berranno fino a svenire sul tappeto del salotto.






 

 


 

Note:

Sì, lo so che con ogni probabilità, se mai qualcuno dovesse voler davvero distruggere questo plastico, questo qualcuno sarebbe Alex, MA io credo che Turner si meriti davvero un momento come questo. E sì, probabilmente la Dawes non dovrebbe azzeccarci nulla in questa scena, ma il writober non è fatto per decisioni sensate, giusto?

 

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Capitolo 4
*** – Vetro ***


 

Prompt 16: vetro




 

Il bruciore del disinfettante è un dolore freddo, asettico.

Quasi catartico, dopo tutto il male che Turner ha avuto la sensazione di rivivere mentre distruggeva il plastico nascosto nei sotterranei della biblioteca. Non sa se si sia trattato solo di suggestione o se quella cazzo di magia perversa sia in grado di fare anche questo, ma ad ogni colpo di spranga ha avuto la sensazione di morire. Impiccato, picchiato a morte, strangolato da mani crudeli, lasciato a morire di fame e stenti, roso da malattie e parassiti, con il cuore aperto da un proiettile, con il cranio spaccato. Queste morti e tutte quelle che può solo immaginare, tutto il dolore che la sua gente ha immagazzinato nel corpo e tramandato come un gene silenzioso, risvegliatosi solo sotto i colpi della sua spranga.

Ogni colpo di spranga l’ha ucciso in modo diverso, ma lui ha continuato a colpire fino a quando le sue mani non si sono trasformate in un ammasso sanguinolento e del plastico non è rimasto che una distesa di sale d’ametista.

Avrebbe voluto chiedere alla Dawes se fosse normale sentire la morte di ogni schiavo del Connecticut, ma ha preferito tacere. La Dawes comunque non potrebbe capire, lei con la sua pelle di luna malata e i suoi capelli rossi e la sua famiglia con una bella casa in una bella strada. Non è colpa sua, ma non potrebbe comunque capire.

Ha però lasciato che lei lo aiutasse a spazzar via i resti del plastico, le ha lasciato guidare la sua auto fino al parcheggio davanti a una farmacia, è rimasto in auto mentre lei, con movimenti terrorizzati, scendeva a comprare disinfettante e garze, e poi si è fatto accompagnare al Bastone.

 

E ora è seduto sul water di quella villa piena di scricchiolii e borbottii, perché paradossalmente il bagno è il posto più luminoso della casa, e la Dawes è inginocchiata davanti a lui, tutta concentrata a disinfettargli le mani e a estrarre schegge d’ambra e ripetere l’operazione ancora e ancora. Ha visto quelle mani pallide preparare tazze di tempesta grazie a colini magici. Ha visto le mani della Dawes rimestare calderoni pieni di latte di capra in grado di curare le ossa rotte della Stern, le ha viste armeggiare attorno allo stesso calderone per regalargli lo spirito di una quercia di sale. 

Ora sono solo dita strette attorno a una pinzetta, agili e determinate: mentre estrae una scheggia dopo l’altra, non c’è traccia del terrore che la pervade anche quando prova solo a respirare. Non c’è traccia di stregoneria nei movimenti precisi con cui versa del disinfettante sull’ennesimo batuffolo di cotone.

Turner chiude gli occhi, e un sospiro gli sfugge dalle labbra.

“Coraggio, abbiamo quasi finito. Ancora un po’ di pazienza, detective”.

“Tutta la pazienza del mondo, Dawes, ma pretendo qualcosa di forte, dopo”.





 

 


 

Note:

Possiamo far finta che delle schegge di ametista siano come delle schegge di vetro, per amor di writober? No, eh? Pazienza, ormai ci teniamo la storia com’è. Tanto per amor di trama dobbiamo anche fingere che un enorme blocco di ametista si possa polverizzare con una spranga di ferro (si può? Non ne ho idea, ma di nuovo, per scrivere cose coerenti ho bisogno di ben più di ventiquattr’ore).

In questo caso, la storia è il seguito diretto della precedente, ma spero che almeno questo fosse chiaro.

 

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Capitolo 5
*** – Grappolo ***


 

Prompt 18: grappolo




 

Pensieri a grappolo.

Pamela non ne ha mai parlato a nessuno, ma tra sé li ha sempre definiti così. 

Arrivano all’improvviso, e si moltiplicano, ancora e ancora e ancora, ingrossandosi come un grappolo d’uva che marcisce prima che possa essere colto. Si gonfiano e si allargano e le riempiono la mente, prendendosi ogni cosa. Si prendono i respiri, invadono ogni spazio, lasciano dita tremanti aggrappate invano a foglietti per gli appunti.

Pensieri a grappolo, come acini d’uva in fondo alla gola a zittire ogni parola.

Pamela li sente arrivare come fossero l’alta marea.

 

Annega.






 

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Capitolo 6
*** – Antidoto ***



 

Prompt 22: antidoto




 

“È… cardamomo?”

La Dawes scuote la testa, e Turner è pronto a giurare che ci sia un sorriso divertito sul suo viso. Il che di per sé è già una specie di miracolo, visto che la Dawes sembra per sua propria natura incapace di divertimento.

Un altro viaggio della forchetta fra il piatto e la bocca di Turner, e le sue papille gustative sono di nuovo coccolate da un calore speziato che non sa definire.

“Coriandolo?”
Altro cenno di diniego della Dawes, questa volta accompagnato da una vera e propria risatina.

La Stern, seduta all’altro capo del tavolo, si caccia in bocca molta più carne di quanto un essere umano delle sue ridotte dimensioni potrebbe mai ragionevolmente ingerire, ma riesce comunque a bofonchiare:
“Cazzo, Turner, stai davvero andando in ordine alfabetico? Cos’è, sul tuo quadernino da detective ti sei fatto un elenco ordinato delle spezie sospettate e ora le stai escludendo una per una?”
Turner la ignora.

Fissa l’espressione soddisfatta della Dawes, le sue guance per una volta accese di un calore che non ha niente a che fare con il suo solito colorito da ricotta dimenticata fuori dal frigorifero, e si concentra.

Quelle cene sono diventate un’abitudine: nate dal bisogno di scrollarsi di dosso il gelo causato dal fuoco dell’Inferno, nessuno di loro ha saputo rinunciarvi.

Forse perché vogliono essere pronti: assumere regolari dosi di calore, cibo come antidoto all’orrore che li aspetta.

E quel gioco, quelle spezie che la Dawes inserisce a tradimento nei suoi piatti per costringere poi Turner a indovinare sono forse la componente più importante di quell’antidoto.

“Spara, Dawes. Voglio sapere cosa mi hai dato da mangiare prima di arrivare al dolce”.

Quando la Dawes impugna un cucchiaio da cucina sembra sempre una strega, ma Turner ha smesso di avere paura delle sue ricette.

Cacao”, bisbiglia lei, e Turner non riesce a trattenersi dal colpire la tavola con il pugno.

“Ma non  è una spezia! Non vale!”
La Dawes si stringe nelle spalle, ma non arrossisce, né si ingobbisce nel suo solito tentativo di fuggire al mondo.

“Io non ti ho mai detto che doveva trattarsi di una spezia, hai fatto tutto tu”.

 

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