I Cercatori di Mondi

di EveMiller
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Positivo.
Osservavo quelle lineette confusa. Non potevo crederci, quello che era nato come gioco si era trasformato in qualcos’altro. Mi sforzavo di riflettere, di pensare a qualcosa di utile, invece, riuscivo solo a fissare quel risultato sperando in una sorta di errore. Forse avevo sbagliato qualcosa nella procedura? Era difettoso? Poteva capitare. Sì, avevo sentito che poteva succedere. Da chi l’avevo sentito? No, era la mia mente confusa che voleva crederlo.
Avevo preso una decisione sbagliata. Questa era la verità.
«Non sei stata prudente», avrebbe detto Estelle, mia madre, in tono di rimprovero. La prudenza prima di ogni altra cosa. Mi accasciai sul pavimento, la schiena appoggiata alle piastrelle.
No. Non è possibile. Non è vero.
«Che cosa succede? Perché sei seduta per terra?», domandò Estelle con uno sguardo vagamente contrariato.
Una novità per lei, visto che non si scomponeva mai. Non l’avevo sentita arrivare, né mi ero preoccupata di chiudere la porta. Per una volta ringraziai il suo passo felpato: un minuto ancora da sola e sarei impazzita.
«Cos’è?» Si avvicinò e vidi la sua espressione irrigidirsi. «Dove l’hai trovato?»
Non volevo piangere, non era da me, però avvertivo le lacrime spingere. Farsi strada agli angoli degli occhi.
«Porgimelo subito.» Mi prese il tampone dalle mani e si incupì. «Cosa significa? È uno scherzo?»
Non riuscivo a parlare e scrollai la testa. Restammo in silenzio.
«Riprova», disse in modo autoritario.
«Non si può», mormorai tentando di non far tremare la voce.
Avrei voluto sparire all’istante, così non avrei dovuto subire le conseguenze della mia imprudenza. Mi rimproveravo per aver dato retta agli altri. Ma lo avevano fatto tutti, o quasi, nella mia scuola e io, per una volta, volevo essere come loro. Volevo integrarmi.
All’improvviso, dopo un paio di secondi, lei schiantò il tampone sul pavimento, fu un gesto tanto violento da rompere l’oggetto.
«Mi denuncerai, vero?»
Pareva sul punto di esplodere, i pugni stretti, la mascella contratta. Trattenni il respiro.
«Non mi hai lasciato altra scelta, tesoro.»
Tesoro. Pronunciò quella parola con una certa carica di stizza.
Ero sicura che sarebbe andata in questo modo se Estelle mi avesse trovata con un tampone per l’NH-50 in mano (a parte la scena in cui avrebbe buttato il tampone a terra e mi avrebbe chiamata tesoro… avevo esagerato un po’ con l’immaginazione! Mi capitava, di tanto in tanto).
Mi alzai in fretta e chiusi la porta prima che ciò potesse accadere. Mi sedetti di nuovo e rimasi a fissare il vuoto.
«Voix.»
Chiamai l’intelligente artificiale installata in casa. Una voce femminile, simile a quella di un essere umano, mi rispose. Avevo scelto quella voce tra le tante disponibili perché si addiceva di più all’idea di madre che avevo in mente: calda e rassicurante, sempre con inflessioni comprensive.
«In che cosa posso aiutarti?»
«Quali sono i sintomi dell’NH-50?»
Dopo una frazione di secondo, la voce disse: «Febbre alta, mal di gola, problemi respiratori…»
«Febbre? Cosa significa?»
«Un alzamento della temperatura corporea al di sopra della norma. Per valori ritenuti nella norma si intendono 36,5-37 gradi. Devo essere più specifica?»
«No, grazie. Ho capito», risposi toccandomi la fronte accaldata.
Era più calda? Tastai la gola, percepivo un lieve bruciore.  Mi stavo suggestionando?
«Desideri che prosegua?»
«Quanti casi ci sono nel nostro Paese?»
«Sospetti o accertati?»
«Accertati.»
Ci fu silenzio, infine, la voce tornò a riempire la stanza.
«Zero.»
«Dov’è nato?»
«Le fonti più accreditate riferiscono Corea del Nord.»
«Come avviene il contagio?»
«Per contatto, non è escluso per via respiratoria.»
Avevo prestato poca attenzione a quella situazione che invece aveva riguardato il resto del pianeta. Non sapevo granché, anche perché non giravano molte notizie a riguardo. Nel nostro Paese non se ne parlava e, di conseguenza, noi non ne parlavamo. Vivevamo tranquilli le nostre vite, come sempre. Conoscevo il nome del virus perché qualcuno a scuola si era interessato, sapevo che c’erano molti contagiati. Avrei dovuto chiedere a Voix la percentuale di mortalità, ma non volevo ascoltare. Non potevo gestire la cosa da sola però non potevo nemmeno dirlo ai miei genitori. Per la prima volta nella vita mi sentivo impotente. Non avevo idea di cosa si provasse ad avere febbre, mal di gola o problemi respiratori. L’idea di sperimentare un dolore ignoto mi spaventava e incuriosiva. Il genere umano aveva sconfitto da tempo le malattie, non esistevano più i centri per il controllo delle malattie infettive o le strutture sanitarie.
Nascosi nella tasca della giacchetta il tampone, infilai gli scarponi neri sopra le calze lunghe fin sopra al ginocchio (avevano dei buchi e mi piacevano proprio per quello), lo zaino sbrindellato in spalla e uscii. Misi il berretto al contrario, come avevo visto in alcune vecchie fotografie. A quanto pare era “figo”. Tirai fuori dalla tasca quelli che chiamavano occhiali da sole e li indossai. Non avevo bisogno di schermarmi gli occhi, avevo già lenti a contatto che servivano al compito, però mi piaceva nascondermi dagli sguardi estranei. A volte non sopportavo la disapprovazione della gente. Mia madre non approvava il mio taglio di capelli lunghi e scalati. Era più pratico portarli corti, non necessariamente come gli uomini; per le donne erano graditi fino alle spalle, lisci sarebbe stato ideale. Pratico e igienico, diceva mia madre. Io rispondevo: monotono e noioso. Che poi sono sinonimi, cosa che mi faceva notare. Più di ogni altra cosa era stata contraria all’eyeliner bianco tatuato che mi affilava e illuminava gli occhi, un dettaglio semplice ma che mi rendeva unica. Estelle non gradiva l’unicità.
Camminai a lungo osservando le piante, i fiori e gli alberi che si integravano con gli alti palazzi diventando un tutt’uno. La tecnologia che era in assoluta armonia con la natura. Pensai alle città grigie del passato e provai a immaginare come doveva essere stato vivere lì. Giunsi alla “zona proibita” della città, la definivamo così noi ragazzi; non era veramente proibita, più desolata e sporca. Era il luogo di ritrovo per i “terrestri”. Ero sempre stata affascinata dal passato e dalla storia di un’esistenza lontana e diversa dalla realtà attuale, ero una di quelle che ora chiamavano “terrestre”. C’erano cose che appartenevano al mondo precedente che mi attiravano, non perché fossero migliori, la società in cui vivevo era equilibrata ed equa – per usare i nostri termini – ma non utopica. Creare un mondo utopico, sarebbe come portare caos mascherato. Slogan che avevano usato e usavano ancora i politici. Da amante di una realtà che ci eravamo lasciati alle spalle anni e anni fa, mi procuravo sottobanco oggetti e vestiti. Ai miei genitori non piaceva e non era vista di buon occhio nemmeno dalla società, ma non era vietato. L’omologazione era la scelta più consigliata e apprezzata, tuttavia chi era al potere sapeva bene che proibire e rendere illegale qualcosa non avrebbe fatto altro che incentivarla. Era un concetto non semplice, ma era stato sufficiente analizzare ciò che era avvenuto legalizzando le sostanze stupefacenti – ovviamente con le dovute precauzioni: una mossa che avrebbe potuto distruggere la società si era rivelata vincente. Inoltre, essendo questo gruppo di nostalgici ristretto, veniva tollerato e considerato un rischio accettabile. Grazie alla mia indole ribelle avrei quindi potuto procurarmi ciò che mi serviva per avvalorare o smentire il risultato del test.
Al di là del muro lindo e pulito, l’altra parte, piena di murales e manifesti, si affacciava su un pezzo di terra dimenticata dalla società. O lasciata per i reietti. Scavalcai e mi ritrovai a casa: lì giravano persone simili a me, trasgressivi e anarchici. E anche fannulloni. Feci qualche cenno di saluto mentre incrociavo gente, senza soffermarmi a parlare. Non ero di compagnia, in special modo quel giorno. Nella “zona proibita” c’era poco e niente, qualche vecchio vagone di metropolitana, autobus e sgangherati edifici, il tutto condito dalla polvere e dall’impietoso trascorrere degli anni. L’autobus era il luogo di smercio degli oggetti del passato e mi diressi lì, da Jim.
«I tuoi andranno fuori di testa se passi tutto il tempo nella zona rossa, Hel.»
Zona rossa. Zona proibita. Ognuno la chiamava nel modo che preferiva.
«Pensa un po’, Estelle crede che sia io quella fuori di testa», replicai sorridendo a Jim. «Anche se lei non userebbe mai termini così volgari.»
Jim aveva la barba e i capelli lunghi, e i peli sulle braccia. Certamente non pratico ed igienico. Non mi dispiacevano, e non mi dispiaceva neanche il suo linguaggio.  
«Un po’ lo sei, bambina. E mi piace. Mi piace un sacco. Cosa ti porta qui?»
«Cerco un oggetto che si usava per misurare la febbre.»
Jim inarcò un sopracciglio. Era un uomo burbero con gli estranei, ma affabile e giocherellone con gli amici. Di sicuro era la persona più volubile e insolita che conoscessi.
«Un termometro? È questa la nuova moda di voi giovani? Prima il tampone NH-50 e ora i termometri? La noia vi gioca brutti scherzi.»
«Ce l’hai?»
«Ti ho mai delusa?»
Era infastidito come tutte le volte che mettevo in dubbio che non possedesse quello che cercavo.
«Ce l’hai qui o devi reperirlo?»
«Ce l’ho pronto all’uso. Sai come funziona?», domandò trafficando sotto al bancone per tirar fuori un panno, all’interno c’era un contenitore con un tappo verde. «Devi tirar giù il mercurio, la linea blu all’interno, con uno scossone, poi metterlo sotto l’ascella o in bocca e aspettare almeno cinque minuti.»
«Lo so.»
Lui mi guardò perplesso.
«Cosa ci devi fare?»
Mi spostai appena per indicai il cartello dietro di lui che recitava in lettere rosse: “Astenersi ficcanaso e perditempo
«Invoco la legge sacra del cartello», dissi tentando di essere divertente.
Questo aspetto lo stavo imparando da lui e da chi viveva nella zona rossa, ma avevo l’impressione di non essere spontanea come loro. Al di fuori, non era comune fare battute spiritose.
«Comincio a pentirmi di averlo appeso.»
«Me lo vendi oppure no?»
«È tuo.»
«Grazie. Stasera ti scarico il “ricordo”.»
Ogni transazione di compravendita avveniva tramite il pagamento di ciò che definivamo “ricordo”, il denaro del nuovo mondo.
Me lo porse riavvolgendolo nello straccio e raccomandandosi di fare attenzione a non romperlo. Lo ringraziai e me ne andai spingendomi nella “zona proibita” più in là di quanto avessi mai fatto. Avevo bisogno di allontanarmi. Poi, mi risvegliai dal mio turbinio di pensieri, trovandomi in mezzo a una distesa di erba secca. Mi sedetti e presi il termometro: feci quello che aveva detto Jim. Furono i cinque minuti più lunghi della mia vita. Attesi ispezionando il cielo in cerca di nuvole: il cielo era vasto e vuoto.

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


Il calore stava bruciando la tuta protettiva di una donna. Le piccole squame bordeaux del tessuto che le aderiva al corpo stavano venendo divorate lasciando intravvedere la pelle. Strinse gli occhi cercando di scorgere l’uscita di quel posto infernale, ma sapeva che non poteva attardarsi oltre. Fece appena in tempo a tornare indietro e ad accasciarsi a terra, fumante, che le porte si chiusero alle sue spalle. Gli allarmi cominciarono a lampeggiare ed emettere un suono intermittente. Le pareti si accesero di arancio, decine di ombre si mossero fra il fumo che aveva invaso la stanza. Uomini in divisa nera la accerchiarono; alcuni avevano in mano fucili, altri bombole di metallo da cui si propagò una schiuma azzurra. Lei si tolse in fretta i guanti e il tessuto che le fasciava il capo come un velo, ma tutto ciò che indossava era composto da un materiale estremamente resistente ma duttile.
Intanto, un uomo avanzò nel fumo che stava venendo aspirato dalle ventole di sicurezza e fece un gesto agli uomini di fermarsi.
«È già la terza volta in questo mese, stai cercando di ammazzarci?»
La voce impietosa maschile sovrastò la cacofonia di rumori risuonando nell’ambiente come il ruggito di una bestia feroce. Ma la gola della donna era in fiamme e non riuscì a rispondere.
«Recati in infermeria. Poi ti voglio nel mio ufficio», disse severo l’uomo, Hale, e se ne andò senza aggiungere altro.
Lei si alzò con fatica e zoppicò verso il reparto infermeria, accompagnata dall’odore nauseante della sua carne bruciata. Poteva sentire il sangue caldo scenderle da un orecchio, il mondo intorno a lei si era fatta silenzioso. Sperò che il timpano non si fosse danneggiato, era facile ferirsi in maniera grave in quel tipo di missioni. All’improvviso, però, si bloccò, stranita per quello che le sembrava di udire con l’orecchio sano: gli altoparlanti trasmettevano musica. Era la prima volta che accadeva alla base. Sembrava la sola stranezza in quella realtà che si svolgeva come di consueto.
«Cosa sta succedendo?», domandò a una guardia che passava.
L’altro la guardò: portava una maschera che gli copriva naso e bocca. Non era quella in dotazione alle guardie ma era la maschera che portavano loro. La donna sbarrò gli occhi e l’uomo la spinse contro un muro, nell’unica parte in cui le lampade erano bruciate. Lei percepì qualcosa di tagliente, la lama rudimentale di un coltello, contro lo stomaco.
«Perché eri in isolamento la scorsa settimana?»
«Che cosa?»
«Ti ho vista.»
Provò a scorgere il viso dell’aggressore ma il buio e la maschera lo nascondevano.
«Portaci via da qui. Portaci via tutti da qui», ripeté con più fermezza, mantenendo un tono basso.
«Non posso.»
«E invece puoi. Puoi farlo. Devi.» Premette la punta dell’arma contro il corpo della donna. «Una persona disperata può fare le cose più inimmaginabili, dovresti saperlo bene.»
«Tu non capisci.»
D’un tratto, lui sgranò gli occhi vedendo un puntino rosso sulla fronte di lei. Dietro di loro c’erano quattro guardie che lo tenevano sotto tiro, una di loro lo disarmò e gli scoprì il viso per identificarlo.
È solo un ragazzo, pensò stupita mentre lo osservava ribellarsi.
Alla fine smise di dimenarsi e la fissò da sotto i suoi capelli scuri, indomabili, inchiodandola con iridi nocciola. Erano occhi espressivi, contornati da ciglia e sopracciglia folte e nere, che lanciavano giudizi e risentimento. Fu portato via e poco dopo anche la musica cessò e la base tornò quieta. Lei restò ferma incapace di realizzare quanto era appena accaduto: il primo tentativo di fuga dopo anni. Si domandò come avesse fatto quel ragazzo a evadere dal suo blocco e a procurarsi un’arma. La sua mente non aveva ancora finito di formulare quelle domande quando si accorse di altri occhi che la stavano studiando, i loro occhi. Non li aveva nemmeno sentiti avvicinarsi a causa dell’orecchio menomato. Erano in tre e pure loro avevano il marchio delle maschere. Lei sapeva cosa volevano, la stessa cosa che desiderava il ragazzo. Gli allarmi suonarono. Le telecamere si muovevano seguendo ogni movimento dei ribelli che la stavano conducendo nella sala principale dove c’erano altre persone ad attenderla. L’unico che aveva il fucile, un vecchio modello che oramai non era più in produzione da anni, la spinse in mezzo.
«Adesso ci devi portare via.»
Nella confusione che regnava la donna sentiva la sua voce a tratti.
«L’ho già detto al vostro diversivo, non posso.»
«Sì, che puoi. Stanno arrivando! Portaci via», gridò agitato.
«Perché nessuno di voi vuole capire che non ne sono in grado!»
«Noi possiamo offrirti…»
Gli spararono in fronte e il suo cadavere si riversò sul pavimento. Gli uomini della base si posizionarono in cerchio, al piano superiore, mirando ai fuggitivi che iniziarono a supplicare e a piangere.
«Per favore.»
Riuscì soltanto a dire qualcuno prima che la carneficina iniziasse. Una pioggia di proiettili lampeggiò nella sala uccidendo i presenti, tranne lei. Quando calò il silenzio, riaprì gli occhi fissando un punto indefinito. Non voleva guardare e rimpianse di non essere morta laggiù, in missione, almeno tutto quello sarebbe finito. Hale richiamò la sua attenzione battendo una mano contro il metallo di una ringhiera.
«Giornata movimentata oggi! Non sarebbe meglio togliersi quell’aria da ribelle che hai? Magari così faresti ammazzare meno gente.»
Lei alzò lo sguardo e lo vide là in alto. Era stato lui a dare il comando. In un’altra occasione gli avrebbe tenuto testa, ma ora voleva solo andarsene da quel luogo di morte.
«Il comandante mi ha detto che ti devi recare in infermeria. Scortata, stavolta.»
Lei accennò un involontario movimento della testa; udiva un ronzio distorto, lontano. Ebbe la forza di fare due passi poi perse conoscenza.
Si svegliò che era attaccata a un macchinario e il suo corpo era stato medicato e fasciato. Era buio, ma dove si trovava lei il mondo era avvolto da una costante penombra. Il tempo non esisteva: non c’erano finestre né orologi, soltanto corridoi anonimi, stanze gelide e metalliche e cuori di ghiaccio, come il suo. La gente sapeva che il tempo inevitabilmente scorreva ma non se ne rendeva conto. Lei per fortuna aveva la possibilità di uscire, ogni tanto, per cui ricordava ancora la carezza del vento o il freddo della neve. Il ricordo piacevole del mondo all’esterno fu spazzato via quando le si presentò l’immagine del sangue di quelle persone. Avrebbe potuto piangere per loro ma le lacrime non avevano mai risolto nulla; soprattutto se la stavano controllando. Tuttavia, doveva parlare con quel ragazzo il più presto possibile perché dopo averlo torturato lo avrebbero giustiziato.
Più tardi, disubbidì all’ordine di non lasciare l’infermeria e scese nei piani sotterranei, là dove si celavano gli orrori peggiori, e dove era stato imprigionato il ragazzo.
«Voglio parlare con il prigioniero», disse alle due guardie che sorvegliavano una porta.
«Lei non è autorizzata.»
«Sono io quella che stava per essere rapita, ho il diritto di avere spiegazioni.»
«Senza autorizzazione nessuno può comunicare con il prigioniero, ordini del comandante.»
Non capiva perché stesse rischiando ma sapeva che doveva tentare. Salì fino all’ultimo piano dell’enorme edificio circolare, uno dei pochi che aveva le finestre, e si presentò nella stanza riservata al Comandante.
«Comandante, ho bisogno di parlare con il detenuto.»
«Hera. Ti vedo meglio. Perché vorresti parlargli?»
«Voglio sapere perché io
«È una domanda che ci siamo posti in molti, in tutta sincerità. Comunque, lo sai bene che non puoi interagire con i prigionieri. Recati in infermeria per il controllo e vieni da me, parleremo del tuo futuro.»
Futuro. Pronunciando quella parola aveva sentenziato la sua condanna. O forse era lei che aspettava la fine a ogni angolo?
«Dimenticavo: i prigionieri non possono interagire con altri prigionieri. Sì, signore.»
Pronunciare quelle due semplici parole – Sì, signore – era il modo migliore per sopravvivere.
Uscendo, la porta si chiuse con un fruscio alle sue spalle, quasi fosse un sussurro della morte. Ritornò nei sotterranei con il volto pallido, segnato dalla paura. Si fermò alla porta di quel ragazzo e sbirciò dalla finestrella di forma esagonale: lui era accasciato su se stesso, sanguinante. Finché non avesse rivelato i suoi complici lo avrebbero torturato. Presto o tardi, avrebbe ceduto come tutti quelli prima di lui. Il ragazzo alzò lo sguardo, come se avesse avvertito la sua presenza.
«Non può stare qui», l’avvertì per l’ennesima volta la guardia, seccata.
Lei guardò per l’ultima volta il piccolo esagono e vide la mano di lui sporca di sangue appoggiata al vetro, la mosse imbrattando la superficie, infine scrisse un nome che lei conosceva bene. L’unica persona al mondo che le avrebbe conferito la forza per scappare da lì.
«Ora basta», mormorò stringendo i pugni.
Era stanca di essere usata, di essere controllata e manipolata. La rabbia che aveva tenuto repressa per anni le esplose dentro come un fuoco incontrollabile. Si girò verso la guardia e in un attimo si impadronì della pistola che teneva nella fondina e gli sparò. Subito dopo prese dalla cintura dell’uomo una sfera che lanciò a terra e da cui fuoriuscì un fumo verdastro, acre. Gli allarmi emisero un suono prolungato e potente. Luci rosse infuocavano i corridoi. Una voce dura ripeteva all’altoparlante: «Codice 0088. Aria contaminata.»
 Hera sottrasse al cadavere una carta magnetica nera, dai bordi bianchi, che utilizzò per liberare il ragazzo.
«Cosa sai di lei?»
«Te lo dirò quando saremo fuori da questo posto. Io e gli altri.»
La risposta non le piaceva ma non aveva alternative. Il ragazzo prese un fucile, una pistola e due coltelli e la seguì sforzandosi di tenere il passo.
«Portare via tutti quanti è impossibile. Decidi un settore», ordinò lei accelerando.
«Tutti. Non posso trattare su questo punto.»
«Tra poco si innescheranno le misure di sicurezza e non avremo scampo. Un solo settore.»
«14 e 15», disse lui con durezza poi si sforzò di essere gentile. «Almeno due. Ti prego.»
«Io mi occupo del 15. Pensi di farcela?»
Senza rispondere lui imboccò il corridoio che portava all’area 14, chiamata “Il blocco cenere”. Una volta arrivato usò il tesserino dell’altro soldato per aprire il portone del suo blocco. Il salone principale aveva una pianta a decagono, all’interno c’era un recinto con il filo spinato. Lo spazio che avanzava serviva alle guardie per circondarli in caso di ribellione o quando veniva indetta un’assemblea. Si precipitò al cancello e urlò di uscire al più presto. Ci fu un breve ma denso silenzio. I ragazzi, tutti maschi e con la stessa maschera che copriva parte del loro viso, fecero come aveva detto.
Uno di loro, Ethan, diede una pacca al ragazzo, esclamando: «Ci sei riuscito!»
«Esulteremo quando saremo fuori.»
Il pavimento iniziò a tremare e per qualche secondo l’intera struttura sembrò essere in balia di un terremoto. I due si scambiarono un’occhiata seria. Il ragazzo gli consegnò la pistola rubata e il gruppo si ricongiunse a Hera che nel frattempo aveva liberato la gente del blocco 15.
«Dobbiamo muoverci», ordinò Hera, affannata.
Il ragazzo stava scrutando in giro preoccupato.
«Dove sono gli altri? Il blocco 15 non è completo.»
«Non posso fare da balia a tutti. Chi rimane indietro è perduto.» Il ragazzo era sul punto di ribattere ma lei affermò con chiarezza: «Dobbiamo andare adesso
Il gruppo, quieto e agile, si spostava attento ad ogni movimento sospetto e quando si imbattevano in alcune guardie morte per via del gas, rubavano loro le armi e quello che poteva risultare utile.
«Quanto manca?», domandò lui.
«Non avere fretta.»
«L’avresti anche tu se fossi rinchiusa da dieci anni.»
«Manca poco.»
«Sì, ma devi portarci via davvero», le ricordò afferrandole con decisione l’avambraccio.
«L’ho già fatto.»
Quando arrivarono all’uscita principale Hale li attendeva, attorno a lui c’erano soldati morti. I ragazzi armati avanzarono.
«Hale, facci passare», strillò Hera.
«Vi sto forse trattenendo?», disse dando una veloce occhiata ai cadaveri che lo circondavano. La donna si accorse che non era morti perché non riuscivano a respirare, ma presentavano tagli sul corpo. «Hai attirato così tanto l’attenzione su di te che non hanno fatto caso a noi altri. Grazie.»
 Hale si voltò e spalancò il pesante portone. La luce inondò i ragazzi che si coprirono gli occhi. Blake fece qualche passo in avanti, un paio di ragazze protesero le mani come per afferrare i raggi solari.
«Quelle maschere non vi servono più», annunciò Hera.
Il ragazzo asserì: «Raven è…»
Il sangue uscì a fiotti dalla fronte di Hera; Blake vide la sua espressione di puro terrore e smarrimento. I soldati erano dietro di loro.
«Correte!», ordinò scattando verso la libertà.
I proiettili schizzavano ovunque conficcandosi nelle lamiere del pavimento, nelle gambe e nelle braccia dei ragazzi. Molti caddero sotto il suono della sirena, altri riuscirono a uscire. Fuori il cielo era azzurro chiaro, privo di nubi. La luce del sole era molto più opaca di quanto si erano aspettati, quasi stagnante. Tutto quel verde li disorientava. Da tempo nessuno di loro correva anche perché non avevano spazi per farlo, eppure non si fermarono. Fermarsi significava morire, o peggio, tornare lì.
Per un attimo si voltò a guardare l’imponente edificio circolare che incombeva ancora su di loro e si chiese se, ai piani alti, oltre le scure finestre che si intervallavano, li stessero osservando.
«Blake, dove andiamo?», domandò Ethan, distogliendolo dai pensieri.
«Non lo so. Lontano da qui», disse sbarazzandosi della maschera che aveva portato per anni.
Respirare aria pulita senza quel peso era qualcosa che Blake aveva solo sognato. Quelli rimasti vicini a lui lo imitarono provando la stessa gioia, qualcuno esultò scaraventando la trappola sull’erba. Tutti avevano impressi segni profondi sulla pelle. Cicatrici che avrebbero impiegato molto tempo per guarire.
«Riconoscete la zona?»
Gli alberi si erano fatti più radi, infatti raggiunsero la fine della zona protetta dalle piante. Per chilometri si estendeva erba appassita che non forniva alcun riparo.
Prima che il panico dilagasse intervenne una ragazza dai capelli lunghi e ricci: «Io so dove siamo.»
«Perché non l’hai detto prima?»
«Non ne ero sicura, ma adesso sì. C’è un condotto qui a sinistra: possiamo camminare sotto, nei tunnel.»
La ragazza guidò i ragazzi sopravvissuti a un tombino nascosto sotto foglie e terra che conduceva a delle gallerie.
«Aria di casa», ironizzò Blake.
«Non si vede niente», mormorò qualcuno.
Una debole fiamma rischiarò appena l’ambiente. La ragazza teneva in mano un accendino che aveva rubato a una guardia. Ethan e due ragazzi tornarono velocemente in superficie e raccolsero dei rami da usare come torce. Il fuoco svelò dei binari che correvano per il tragitto, alle pareti c’erano murales rovinati, nascosti da radici e piante. Il terreno, da cui spuntavano erbacce e fiori, era disseminato di oggetti rotti.
Come al solito lui aveva pensato troppo in grande e agito in modo avventato. I piani a lungo termine non erano il suo forte; dopotutto non era colpa sua, il progetto originale era quello di liberare tutti i settori, o almeno la metà. A lui spettava l’azione, il resto sarebbe stato compito di altri. Erano da anni che macchinavano la fuga ma non era stato semplice tenere le comunicazioni con i vari leader dei blocchi. Blake era stato uno dei pochi volontari che si erano offerti per convincere Hera ad aiutarli; da almeno dieci anni – da quando era arrivato – si parlava di un’ipotetica fuga.
«Dove ci stai portando?»
«Nella mia vecchia città. Non so se esiste ancora, ma vale la pena tentare.»
Dopo ore di viaggio si imbatterono in un vagone abbandonato di quello che un tempo era stato un treno; Blake disse che potevano riposare per mezz’ora prima di ripartire. Qualcuno rimase fuori a controllare mentre gli altri cercavano di sistemarsi come meglio potevano sui sedili dei vagoni. C’era chi si alzava di soprassalto terrorizzato all’idea di essere catturato, chi temeva di non poter respirare senza la maschera e chi piangeva per coloro che erano morti o che erano ancora in quei corridoi. Blake lottava per restare sveglio. Il sangue delle ferite si era rappreso però il dolore era l’unica cosa che gli impediva di dormire. Alla fine cedette e si addormentò, uno scossone lo risvegliò dopo qualche minuto.
«Tutto bene?», chiese Ethan scrutandolo con i suoi occhi verdi in contrasto con la pelle ambrata.
«Sì, sono sveglio», disse lui d’istinto.
Ethan gli comunicò che stavano per ripartire, lui annuì e si passò una mano sul viso stravolto. Aveva gli occhi gonfi di stanchezza.
«Le ragazze hanno avuto l’idea di aprire le radici più grandi per vedere se c’era acqua. Ce n’è un sorso, meglio di niente.»
L’acqua era tiepida e sapeva di terra, ma a Blake non importava. Non era diversa da quella putrida che per anni era stato costretto a bere.
Dopo essersi accertati che in superficie non vi fosse nessuno, non potendo prendere la strada sotterranea che era sbarrata da macerie, risalirono e continuarono a camminare nella radura. Una nuova consapevolezza risiedeva nei loro cuori: erano liberi.

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