Cortesie per l'ospite

di Dorabella27
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Una buona annata ***
Capitolo 2: *** 2 - Benvenuto, Lord Douglas Sholto! ***
Capitolo 3: *** 3 - Lord Henry tiene banco ***
Capitolo 4: *** 4 - Il Generale si confida ***
Capitolo 5: *** 5 - Un barbaro non privo d'ingegno ***
Capitolo 6: *** 6 - Un pomeriggio, all'ora del the ***
Capitolo 7: *** 7 - Una sera, alla fine del servizio ... ***
Capitolo 8: *** 8 - Confidenze ***
Capitolo 9: *** 9 - Pensieri e ricordi ***
Capitolo 10: *** 10- La locandiera ***
Capitolo 11: *** 11 - Notte di veglia - seduta di posa ***
Capitolo 12: *** 12 - Due concerti, una rapina, uno scasso ***
Capitolo 13: *** 13 - Un ricevimento elegante ***
Capitolo 14: *** 14 - Anche la piccola Rosalie... ***
Capitolo 15: *** 15 - Chiarimenti a Parigi ***
Capitolo 16: *** 16 - ... e alla fine arriva Oscar ***
Capitolo 17: *** 17- Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1. Una buona annata ***


  1. Una buona annata
 
1780. Un buon anno, pensava André Grandier, mentre il mese di novembre sfumava in un dicembre gelido e limpido. “Grata superveniet quae non sperabitur hora”, diceva il poeta; e André, cui il buonsenso di Orazio era sempre calzato a pennello (ché, Oscar, lei, preferiva i bellici furori dell’Eneide o addirittura della Farsaglia), avrebbe addirittura potuto correggere in “gratus superveniet annus”. L’anno tutto, in effetti, era trascorso senza scosse né avvenimenti di rilievo, come avrebbe sempre riflettuto André, guardando retrospettivamente, dopo molto tempo, a quei mesi dall’atmosfera sospesa: il Conte di Fersen era andato oltreoceano, per non guastare ulteriormente la già compromessa reputazione della regina e per coprirsi di gloria sul campo di battaglia, combattendo per la libertà delle tredici colonie; lo Scandalo della Collana non era ancora scoppiato, ed era anzi ben lontano dal profilarsi all’orizzonte, dato che la regina si limitava a comprare non massicci collier en esclavage con diamanti grossi come nocciole, ma cappellini, abiti di seta, cappe di volpe, e orecchini di rubini e smeraldi dal costo, tutto sommato, ancora, se non contenuto, almeno sostenibile per le già malmesse casse dello Stato; e Oscar, anche se, qualche volta, la mattina, appariva con gli occhi cerchiati, come se non avesse riposato bene la notte, o, addirittura, come se fosse stata sveglia per qualche lontana preoccupazione, di giorno era sempre sufficientemente di buonumore, e financo serena ... e se poi, nel corso della giornata, complice anche la noia dell’incarico di comandante delle Guardie Reali,  - e del dover aver a che fare con quello stoccafisso di Girodelle -, la malinconia montava, la sera c’era sempre modo di scacciarla con una buona sosta in una taverna: e Parigi pullulava di taverne da esplorare, piene di umanità brulicante su cui esprimere commenti, dignitosamente brilli, sulla via del ritorno a casa, mentre il sole faceva capolino all’orizzonte.
Sì, decisamente un buon anno, il 1780 ... e così, quando il Generale lo convocò nel suo studio insieme a Oscar, André ne fu assai stupito, - ché di solito, soltanto lei era convocata dal padre, per comunicazioni, ordini, e reprimende - quelle, ormai, in verità molto diradate. La curiosità, se non il senso di allarme, erano quindi già ben desti, alimentati dalla posa marziale con cui il Generale li aveva accolti.
“Oscar, André”; esordì, brusco come sempre, dando loro le spalle, in piedi dietro la scrivania, rivolto alla grande vetrata che dava sull’ingresso monumentale della proprietà avita, “vi ho convocato perché dopodomani, mercoledì, partirò con il mio reggimento per delle esercitazioni, raggiungendo l’esercito della Mosa. Una incombenza importante, cui non posso sottrarmi; tuttavia, giovedì dovrebbe arrivare a palazzo il figlio di un mio antico amico di gioventù .... e per un certo periodo, quando, nei brevi momenti di pace fra i contrasti che avevano contrapposto i nostri Paesi, anche compagno d’armi, Lord Douglas Sholto. Il ragazzo frequenterà per alcuni mesi dei corsi alla Sorbonne e sarà presentato a Corte con il nuovo anno. Tuo compito, Oscar, sarà quindi accogliere il giovane Lord con tutti gli onori che il suo titolo e la sua posizione meritano, valendoti della collaborazione e dell’aiuto di André, e anche, sino al mio ritorno, controllarlo discretamente, perché le seduzioni di Parigi non travino questo ragazzo così giovane e ancora tanto inesperto della vita”; e, voltandosi verso Oscar e André; il Generale indicò una lettera sulla sua scrivania.
 
“Che bellezza, Oscar! Adesso dovremo anche fare da balia asciutta a un ragazzino appena uscito da collegio!”, disse ridendo André, appena furono lontani di qualche passo dallo studio del Generale. “Magari si troverà bene con Rosalie ... potrebbero piangere un po’ insieme, e sollevarci dall’incarico!”, ridacchiò ancora André, riempiendo il silenzio di Oscar, ma subito rabbuiandosi, quando vide l’espressione seria di lei, intenta a  scorrere con lo sguardo corrucciato la lettera del tutore del giovane Lord, che il padre le aveva consegnato congedandola.
“André, questo ragazzo è rimasto orfano molto presto, e ha certo bisogno di comprensione e affetto. Vedi, non sono soltanto gli orfani del popolo ad aver bisogno di sostegno. Qualche volta, anche i giovani nobili possono essere profondamente soli”. Mentre Oscar pronunciava queste parole, i suoi occhi color fiordaliso si incupirono sino a prendere una sfumatura cobalto, e André, come tante volte quando Oscar parlava, si chiese se fosse consapevole che molto di quello che diceva poteva essere anche riferito a lei stessa. In ogni caso, André Grandier non era certo un uomo loquace, eppure riconobbe che c’erano molte occasioni in cui avrebbe fatto meglio a stare zitto, e se ne era appena lasciata sfuggire una.
“Il tutore del giovane Lord Douglas Sholto, Lord Henry Wotton”, continuò a leggere Oscar, una volta che si furono accomodati davanti al fuoco, su due poltrone divise solo dal basso tavolino che reggeva due bicchieri colmi di Armagnac, “dice che il suo protetto è molto giovane, molto sensibile, amante dell’arte e del bello”. Fece una pausa. “Non ho mai sentito di un tutore che abbia presentato il suo pupillo come un debosciato senza qualità”, aggiunse scettica, e fu solo per rispetto nei confronti di suo padre e della sua rete di relazioni amicali e mondane che si trattenne, André lo sapeva, dall’appallottolare la lettera e dal gettarla nel caminetto.
 

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Capitolo 2
*** 2 - Benvenuto, Lord Douglas Sholto! ***


2- Benvenuto, Lord Douglas Sholto!
2 -  Venne il mercoledì, e, con grande sorpresa, Oscar, al rientro dalla cavalcata mattutina, mentre saliva in camera per rinfrescarsi, seguita, sempre un passo dietro a lei, da André, incrociò il padre lungo lo scalone d’onore.
      “Padre, che piacevole sorpresa! Siete ancora a casa, dunque”. Come sempre, gli occhi di Oscar si illuminavano di una fiamma segreta quando incrociava il Generale, perché, nonostante gli innumerevoli scontri, le reprimende accompagnate da pesanti punizioni corporali per le sue ribellioni e colpi di testa, e l’educazione rigida e spartana impartitale, quella figlia adorava il padre, che rappresentava per lei un modello e cui, André se ne rendeva conto ogni giorno di più, somigliava moltissimo.
“Sì, Oscar. A causa del maltempo le esercitazioni militari sono state rimandate di un giorno, per cui potrò domani incontrare il giovane Lord Sholto: un vero piacere per me. Non mi sarei in fondo dato pace se non avessi almeno potuto dare un veloce saluto al figlio del mio antico amico”.
“Certo, Padre: ne convengo”. Il cenno del capo con cui Oscar annuiva alle parole del Generale, accompagnato da un lieve sorriso che pure l'aveva tutta illuminata, fu per André il momento apicale della giornata.
Il giorno dopo, dalla carrozza che, nel tardo pomeriggio, aveva varcato il vasto cancello di Palazzo Jarjayes, scese un giovane biondo, esile, dall’incarnato di rose e gigli, le guance fresche come quelle di un bambino e la bocca rossa e delicata come una fragola che invogli al morso. Vestiva un completo da viaggio di un sobrio color blu, che si intonava alla tonalità delle sue iridi, ombreggiate da ciglia folte e lunghe. Il ragazzo si diresse con un sorriso timido verso il Generale, che lo attendeva impettito a pochi passi dallo sportello della carrozza, e, inchinatosi con una grazia nativa, spontanea e irresistibile, salutò il suo anfitrione in un francese dove soltanto un lieve accento ricordava agli ascoltatori che chi parlava era nato dall’altra parte della Manica.
“Generale Jarjayes, è un autentico onore essere ospitato dall’antico amico di mio padre”.
“Lord Douglas Sholto, è un vero piacere accogliervi nel mio palazzo!”. Raramente la voce del Generale aveva avuto quel timbro di allegra esultanza. In un sussulto di espansività, non appena il ragazzo si fu rialzato dall’inchino, il Generale Jarjayes gli pose le mani sulle spalle, fissando negli occhi il giovane Lord.  E, subito dopo, ritrasse le mani, come se si fosse pentito di quel gesto espansivo così inconsueto per lui.
“Ma prego, venite, accomodatevi", continuò il Generale, facendo entrare l'ospite nel grande atrio, "Vi faccio strada, non prima di avervi presentato mio figlio, il Colonnello Oscar François, comandante delle Guardie Reali, e il suo attendente, André Grandier. In mia assenza, potrete fare riferimento a mio figlio, che vi farà da guida per il vostro soggiorno parigino e vi introdurrà a Corte”.
Il Generale era impallidito o era stata una impressione di Oscar? Eppure, anche ad André parve che avesse tolto le mani dalle spalle del giovane ospite un po’ troppo frettolosamente, e gli avesse volto le spalle per nascondergli una espressione lievemente rabbuiata. E quella ruga che si vedeva, chiarissima, alla base del naso, tra le sopracciglia, André lo sapeva bene, compariva solo nei momenti di forte preoccupazione.
Nel frattempo, dalla carrozza era sceso anche quello che doveva essere il tutore del giovane aristocratico, Lord Henry Wotton: una figura leggermente appesantita, ma che in gioventù doveva essere snella e insieme muscolosa, sobriamente abbigliata, con un completo da viaggio scuro, e che teneva davanti al naso una boccetta di profumo per difendersi, evidentemente, dai miasmi incontrati in quel lungo viaggio in carrozza. Lord Wotton si guardava attorno, con occhi attenti e insieme impenetrabili, sino a quando il Generale non si rivolse a lui, facendolo oggetto della sua accoglienza, e incaricando i due valletti accorsi in tutta fretta di scortare gli ospiti verso gli appartamenti che erano stati loro destinati.
“Ma, veramente …”, obiettò Lord Douglas Sholto, alzando, come dubbioso, la mano destra, il dito indice levato, quasi a sollecitare l’attenzione dell’anfitrione.
“Sì, Lord Sholto? Dite pure”, rispose il Generale, scioltamente, avendo recuperato la padronanza di sé che solo per una frazione di secondo si era incrinata.
“Generale Jarjayes, Vi chiederei che, insieme al piccolo baule con i miei effetti personali di uso più immediato, venga immediatamente portata nella stanza che mi è stata destinata anche questa”, e indicò, con gesto grazioso dell’indice sinistro, levato verso l’alto, una cassa di legno, lunga e piatta, che era stata fissata con ogni cura, sopra i bagagli più pesanti, sul tetto della carrozza.
“Ma certo, ma certo!”, rispose senza indugio il Generale, facendo un rapido cenno a Nanny, discretamente presente sui gradini dell’ingresso fin all’arrivo della carrozza degli ospiti, perché la governante andasse a richiamare altri due servitori per il trasporto. Quindi, si mosse, seguito dai due valletti che portavano il piccolo baule di Lord Sholto e la borsa da viaggio di Lord Wotton, ma ebbe la sorpresa, dopo pochi passi, di rendersi conto che né il giovane ospite né il suo tutore avevano mosso un passo, e che ancora si trovavano accanto alla carrozza.
Raramente il Generale Jarjayes lasciava trapelare la sua costernazione: ma questo era uno di quei casi.
“Vorrete scusare il mio giovane pupillo”, prese la parola Lord Henry, con fare leggero e mondano, “ma nella cassa vi è un ritratto di sua madre, morta nel darlo alla luce: è forse il solo ricordo che questo giovane dabbene possieda di chi gli ha dato la vita, ed egli, comprensibilmente, non se ne separa mai, né”,  aggiunse con sguardo diventato improvvisamente freddo e penetrante, rivolto ai due servitori che, chiamati da Nanny, stavano accorrendo, quasi ad avvertirli, “Lord Sholto apprezza che il quadro sia esposto alla luce del sole, ma gradisce che esso sia sempre protetto da questa cassa: sapete, venne dipinto niente di meno che da Sir Joshua Reynolds, e assomma in sé un grande valore affettivo, come vi ho detto, ma anche un enorme valore artistico, e i colori sono molto delicati, per cui potrebbero rovinarsi con l’esposizione ai raggi solari”.
“Naturalmente, naturalmente”, convenne il Generale, tornando sui suoi passi.
Poi, quando i due servitori ebbero recuperato la cassa, fece nuovamente strada al piccolo corteo che guadagnava l’ingresso di Palazzo Jarjayes, scusandosi, con i due illustri ospiti, per la sfortunata circostanza che gli imponeva di lasciare la tenuta prima di cena, per raggiungere il suo reggimento con cui sarebbe partito la mattina dopo da Parigi.
Mentre lasciava che gli ospiti salissero lo scalone d’onore, il Generale si rivolse brevemente a Nanny, al capocameriere sopraggiunto nel frattempo e ad André, poi, col suo attendente, che già aspettava accanto all’ingresso, si avviò verso le scuderie per predisporsi alla partenza.
“André, che cosa vi ha detto mio padre, prima di andarsene?”, chiese Oscar, salendo a sua volta le scale con André per prepararsi alla cena.
“Nulla di importante, Oscar. Soltanto, come sempre, tiene molto al buon nome del casato, e ci ha pregato, di fronte agli ospiti, di rivolgerci a te con il tuo titolo di Conte, e rigorosamente al maschile, come sempre fa lui”. Oscar sospirò: un sospiro lieve, che non alterò quasi il ritmo del suo respiro, ma che André, da sempre abituato a cogliere ogni minima variazione nei movimenti e nel tono di voce di lei, non poté non cogliere.

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Capitolo 3
*** 3 - Lord Henry tiene banco ***


 3 - Lord Henry tiene banco
3 -  A cena Lord Henry Wotton tenne banco senza che nessuno potesse resistere al fuoco di fila delle sue battute: la sua conversazione spumeggiante ricordava ad André, che, per singolare privilegio, era invitato alla tavola padronale, il getto di una fontana, che ora si innalza verso il cielo, ora, capriccioso, si abbassa, e sembra quasi spegnersi, per poi subito dopo rinvigorirsi, ancora più vivace di prima, e che poi, mentre torna a salire, baciato dai raggi del sole, si illumina, variopinto, riflettendo in sé un caleidoscopio di colori, come se contenesse un piccolo arcobaleno luminoso.
In confronto al suo tutore, il giovane Lord Douglas Sholto appariva timido e silenzioso, certo timoroso, data la sua giovane età, di apparire affatto privo di quello spirito che, invece, non faceva certo difetto a Lord Henry.
“Vi sono immensamente grato per quest’accoglienza tanto fastosa, Colonnello Jarjayes, e per questa squisita cena”, disse questi, con un cenno del capo grato a Oscar, seduta al lato opposto del lungo tavolo di noce.
“È un piacere, oltre che un dovere, Lord Wotton, accogliere un amico di mio padre e il suo tutore. Mi duole solo che il Generale mio padre non abbia potuto trattenersi per cena”.
“Ma che dite, Colonnello: non sapete che una cena al mese con i propri parenti è più che sufficiente?”
La sommessa risata di Oscar, risata genuina, quand’anche un poco scandalizzata, fu per Lord Henry un invito a continuare lungo la via per la quale si era appena inerpicato.
“Del resto, dopo una cena così squisita, si è disposti a perdonare chiunque: anche i propri parenti, non trovate? Voi avete qualcosa da perdonare a vostro padre, Colonnello?”
“Direi di no, Lord Henry! Ma raccontateci dell’Inghilterra”.
“Che dire, Colonnello Jarjayes? Di questi tempi, Londra è così noiosa  … Del resto, è risaputo, tutti gli inglesi, se si comportano bene nella loro vita, dopo la morte vanno a Parigi!”. La garbata risata della Contessa Marguerite, che sarebbe ripartita per Versailles solo di lì a due giorni, per riprendere, dopo un breve periodo di riposo, il suo impegno di dama di compagnia della Regina, incoraggiò Lord Henry a perseverare, non senza che egli avesse prima lanciato alla madre di Oscar uno sguardo cupido e furbo, mordendosi appena il lato del labbro inferiore con i denti, come se fosse stato un cacciatore che avesse scoperto come stanare la sua preda. E così Lord Wotton continuò, con gli occhi sfavillanti:
“No, no, davvero, Contessa, Colonnello, e anche voi, Monsieur Grandier, non potete immaginare la noia profonda della season a Londra. E certe dame londinesi, oh my God! Che dire?! Non sanno davvero vivere, e ignorano tutto della raffinatezza francese! Pensate: Una, con una ricca casa a Mayfair, credeva di aver aperto un salon, e invece si trattava di un saloon![1]”.
La risata della contessa Marguerite si fece ancora più franca e cordiale, seguita da quella di Oscar e, un attimo dopo, dal riso di André. Lord Douglas Sholto, da parte sua, continuava a tagliare silenziosamente la carne che aveva nel piatto, i begli occhi ombreggiati dalle lunghe ciglia abbassati con fare pudico e timido.
“Ma pensate poi che, sulla nave per Calais, ho ritrovato una nostra vecchia conoscenza, una vecchia baronessa, diretta a Parigi, avvilita per molti anni da un marito molto più vecchio di lei, malato, tetro e noioso. La poverina è rimasta vedova da poco. Ebbene, non ci crederete, ma, per la disperazione, i suoi capelli, da castani che erano, sono diventati completamente biondi!”. Altre risate salutarono la battuta mordace. Persino Midinette[2], la cameriera addetta quella sera al servizio alla tavola padronale, non poté trattenere una risatina, che soffocò tenendo le labbra serrate, mentre gli occhi le sfavillavano vispi.
“Siete sempre così pungente nei vostri aforismi, Lord Wotton?”, chiese Oscar, con fare disinvolto.
“Certo che no, Colonnello Jarjayes. Solitamente lo sono anche di più”, rispose, in tono allegro Lord Henry, portandosi subito dopo alla bocca, con un gesto goloso, la forchetta sui cui rebbi stava infilzato un boccone di pernice marinata.
“E comunque, Colonnello”, continuò Lord Henry, sempre più sicuro di sé, “personalmente, ho sempre pensato che l’aforisma, soprattutto se combinato con il paradosso, sia una comoda scorciatoia per condurre alla verità: non lo credete anche voi?”.
“Ebbene, Lord Wotton, io sono un militare, e il mio ruolo mi impone di badare alla concretezza dei fatti. Del resto, come direbbe qualcuno, quid est veritas? Che cosa è mai la Verità?”, rispose Oscar, con un sorriso, levando subito dopo il calice di champagne in direzione del suo ospite, quasi che stesse, finalmente, prendendo gusto a quella conversazione insolitamente scoppiettante.
“Pilatesca, come risposta, Colonnello; oltremodo pilatesca, se mi consentite questo aggettivo un poco papista”, disse Lord Henry, calcando con intenzione la voce sull’aggettivo “papista”, con il sorrisetto soddisfatto di un gatto che abbia stanato finalmente un topolino e che lo abbia indotto a giocare con lui. Poi, dopo un attimo di silenzio, Lord Henry alzò il tiro: “Colonnello Jarjayes, perdonate la domanda, forse un poco indiscreta, ma … come mai voi non avete ancora famiglia? In fondo, il Libro della Vita inizia con un uomo e una donna in un giardino, non ci avete mai pensato?”.
L’attimo di gelo che accolse quelle parole venne sciolto dal primo intervento di Lord Sholto, che sollevò il bel volto dal piatto e disse con tutta naturalezza: “Certo Lord Wotton, avete ragione: il libro della Vita inizia con un uomo e una donna in un giardino, … e finisce con l’Apocalisse!”.
Altre risate gioiose, e come liberatorie, di tutta la tavolata, accolsero quella prima battuta del giovane Lord Sholto, che aveva sollevato l’atmosfera e che era stata pronunciata con sguardo angelico e innocente, e con una luce bambinesca nei begli occhi blu, sgranati in direzione di Oscar.
“Del resto, avete ragione, Colonnello Jarjayes”, intervenne Lord Henry. “La sola attrattiva del matrimonio, per conto mio, è che rende necessaria da ambo le parti una vita di continue menzogne”. E questa ennesima arguzia fu il sigillo alla prima parte della serata, che finì con il congedo della Contessa Marguerite, decisa a ritirarsi presto nella sua stanza per recitare le sue orazioni prima di coricarsi. Gli altri commensali, invece, si radunarono nella biblioteca, dove venne servito il caffè, e dove il Colonnello Jarjayes mostrò con fierezza agli ospiti alcuni preziosi incunaboli e i pezzi di maggior pregio della collezione numismatica di famiglia.
 
[1] Leggero anacronismo, forse, ma Oscar (Wilde) sarebbe felice. Forse.
[2] L’abbiamo già incontrata nel “Trionfo della Boemia, ovvero la vera storia che nessuno ha mai osato raccontare. Versione alternativa”.

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Capitolo 4
*** 4 - Il Generale si confida ***


 
4 -  Il Generale si confida
 
La serata scivolò placidamente verso la conclusione, all’insegna delle esclamazioni di sincero e garbato stupore dei due ospiti di fronte alle meraviglie di casa Jarjayes, mostrate con competenza e senza alcuna iattanza da Oscar: incunaboli, cinquecentine, monete greche, romane, e persino spintrie[1]. Poi, mentre il quartetto assaporava il bicchiere della staffa in poltrona davanti al caminetto, prima di ritirarsi per la notte, Lord Henry, con la grazia più naturale del mondo, si levò in piedi, annunciando con una punta di impalpabile rammarico: “Ebbene, signori, essendo io il più vecchio della compagnia, mi pare giusto che sia anche il primo a ritirarmi”. Oscar si alzò a sua volta, da perfetto anfitrione quale era, seguita immediatamente da André, e gli rivolse poche, garbate parole: “Lord Wotton, vi chiedo di perdonarmi se vi ho trattenuto a lungo dopo il vostro viaggio, così lungo, impegnativo e faticoso. Del resto, per conto mio, anch’io ritengo che sia arrivato il momento di coricarmi”.
Lord Douglas Sholto, invece, restava tranquillamente accomodato nella morbida poltrona di velluto rosso, rigirando fra le mani il bicchiere in cui brillava ancora una stilla di cognac, mentre fissava con occhio vacuo il baluginìo delle fiamme, senza apparentemente degnare della minima attenzione i discorsi che si stavano tenendo attorno a lui.
“Lord Douglas”, lo sollecitò Lord Henry, chinandosi con fare gentile verso il suo pupillo, “potrei avere l’ardire di chiedervi di seguirmi brevemente negli appartamenti che mi sono stati assegnati per dirimere una questione finanziaria piuttosto importante?”. Il giovane, restando seduto, rivolse al suo tutore, da sotto in suo, uno sguardo interrogativo, come a chiedere di precisare meglio il motivo della richiesta.
“Ecco, Lord Douglas”, spiegò Lord Henry, “si tratta di alcuni documenti relativi alle vostre finanze e alle cedole dei rendimenti dei vostri investimenti nella Compagnia delle Indie Occidentali, e di altri ancora di cui desidererei caldamente parlarvi. Il viaggio, lo so, ci ha provati entrambi, ma domani, con le prime ore di quiete, vorrei studiare al meglio la vostra situazione finanziaria per pianificare quanto prima nuovi investimenti, e avere già chiare le vostre proposte e opinioni in ordine ai provvedimenti e alle disposizioni che intenderei prendere sarebbe per me un aiuto prezioso, perché mi faciliterebbe enormemente il lavoro”.
“Non c’è bisogno che io vi ripeta, Lord Wotton, quanto infinitamente apprezzi il vostro scrupolo e il senso di responsabilità che vi spinge a prodigarvi tanto per me; ritengo anzi che mio padre, Lord William, se fosse ancora vivo, vi sarebbe enormemente grato per tutte le energie che dispensate, con tale liberalità, per me, curando con tanta abnegazione i miei interessi; ma temo di essere molto, troppo stanco, e, a quest’ora, non avrei nemmeno la lucidità necessaria per comprendere pienamente i vostri piani finanziari”. Lord Douglas aveva parlato con l’aria più innocente del mondo: ma era dunque un lampo di furore a stento trattenuto quello che André aveva fuggevolmente colto negli occhi di Lord Henry?
“Se desiderate così, Lord Douglas…”, rispose Lord Wotton, con tono sottilmente piccato.
“Sì, ve ne prego, Lord Wotton”, rispose, con un sorriso dolcissimo, il giovane aristocratico. “Credo che resterò ancora un poco, sempre se il Colonnello Jarjayes me lo consente, a impigrirmi di fronte al camino, centellinando quanto resta di questo eccellente cognac, e a scoprire altre meraviglie di questa strabiliante biblioteca”.
“Ma certo, Lord Douglas: restate pure quanto volete”, disse Oscar, cortese. “Per quanto mi riguarda”, aggiunse dopo una breve pausa, in cui aveva rivolto uno sguardo fugace ad André, come a cercare il suo muto assenso, “dovendo essere alla Reggia domani mattina presto, insieme al mio attendente, credo che sia meglio che anch’io mi ritiri”. E così detto, imboccò la porta, seguita da André, e da Lord Wotton. Ad André parve che Lord Henry si attardasse, solo per un istante, sulla soglia, come se sperasse in un repentino cambiamento d’idea del suo giovane pupillo. Ma, poco dopo, uscito dalla biblioteca, superò velocemente Oscar e André, e si diresse verso la sua camera, a falcate insolitamente ampie ed energiche per un uomo che si era detto, poco prima, provato dalla stanchezza e dagli anni. Ed era proprio quello di una porta sbattuta con una certa veemenza il suono che André aveva udito in lontananza?
La mattina dopo, come sempre, André era sceso nelle cucine molto presto, prima di Oscar. L’aveva accolto sua nonna, che, con fare misterioso, aveva cavato dalla tasca del grembiule immacolato una busta.
“André, scusami, ma dovrei consegnarti questa da parte del Generale, con preghiera di non parlarne per nessuna ragione a Oscar”.
“ Che cos’è, nonna?”
“Non lo so, André. Ecco, ieri sera", raccontò Nanny aggiustandosi, perplessa, gli occhialetti sul naso, come sempre faceva le rare volte in cui non sapeva come interpretare un fatto, "il Generale, prima di partire, è rientrato a Palazzo, ed è venuto in cucina (Il Generale scendere in cucina?! André era incredulo), pregandomi di consegnarti questa solo dopo che fosse passata la nottata. E aggiungendo, in tono alquanto perentorio, di non dire assolutamente nulla a nessuno, nemmeno a Oscar”.
André, allarmato, aprì la lettera del padrone. C’erano vergate solo poche parole, scritte con una grafia più disordinata di quella consueta, elegante e controllatissima, del Generale Jarjayes.
“André, ti prego di farti trovare domani mattina, ovvero oggi, per te che leggerai questa mia lettera, alle dieci in punto nell’ufficio del Colonnello d’Agoult, alla Caserma della Compagnia B della Guardia Metropolitana di Parigi, in Rue de la Chaussée d'Antin 14. Vieni solo e non dire nulla a Oscar”. Le ultime parole erano sottolineate due volte, e con tanta forza da aver tagliato la carta.
Dunque, poco prima delle dieci, André varcava il portone d’ingresso della Caserma della Guardia Metropolitana; in accordo con Nanny, aveva imbastito a Oscar una scusa, affermando di dover eseguire una commissione bancaria di assoluto rilievo per l’anziana governante, affermando che sarebbe giunto al più tardi nel primo pomeriggio alla Reggia; né Oscar aveva avuto alcunché da obiettare.
Arrivato alla caserma della Compagnia B dei Soldati della Guardia, André aveva dapprima mostrato la lettera del Generale a un bestione con uno sfregio sulla guancia sinistra che montava la guardia all’entrata; era stato quindi indirizzato verso un edificio che stava dalla parte opposta della piazza d’armi, probabilmente solo in forza di istruzioni orali che erano state impartite a chi doveva presidiare l’ingresso - giacché quel brutto ceffo non aveva certo l’aria di saper leggere quanto riportato sulla missiva, ma si era limitato a osservare, come se lo riconoscesse, lo stemma del Generale impresso sul sigillo.
        Attraversando i corridoi spogli e disadorni, così diversi da quelli, dai pavimenti lustri e dagli intonaci perfetti, della caserma della Guardia Reale, André percepì un vago sentore di muffa, e, addirittura, in certi tratti un lezzo più deciso, come di urina; addirittura, vide dei topi,  dagli occhietti sfavillanti nel buio, appostati negli angoli, e a un tratto un sorcio, ben pasciuto, gli tagliò la strada. Quando incrociò un soldato, un marcantonio bruno con una sciarpa rossa incongruamente allacciata sul petto lasciato pressoché nudo  - dato che, in pieno dicembre, portava la divisa sbottonata - , André gli chiese, mostrandogli, con atto cortese, la lettera del Generale, se quella fosse la via giusta per l’ufficio del Colonnello d’Agoult; al che, il marcantonio, con una voce da far tremare le pareti, rispose, ridendo, in tono di scherno nemmeno troppo sottile, e facendo l’atto di rendere ad André, con quelle sue mani grandi come vanghe, la lettera: “Nah, amico, che te lo dico a fare[2]! Ti sembro il tipo che legge una lettera?! Se poi vuoi essere ricevuto dal Colonnello “Testa di Legno”, beh, sappi che lo fai a tuo rischio e pericolo!”. Poi, gli indicò una porta, a pochi passi di distanza, e si allontanò sghignazzando senza garbo e beneficiandolo di un “Buona fortuna, damerino!”, pronunciato a mo’ di saluto, con il suo vocione stentoreo.
Perplesso, André, bussò e, dopo aver udito un “Avanti!” in tono perentorio, espresso da una voce a lui ben nota, varcò la soglia, e si trovò di fronte al Generale Jarjayes. Il padre di Oscar stava in piedi accanto alla scrivania, accanto a un ufficiale alto e distinto, dall’aria rigida e un poco impettita, con tutta evidenza quel  Colonnello d’Agoult ribattezzato con un epiteto poco clemente dal soldataccio con la stazza di un armadio. I due ufficiali stavano, evidentemente, discorrendo fittamente, e l’arrivo di André li aveva interrotti; ma, non appena il giovane fu entrato nell’ufficio, il Colonnello d’Agoult, con un inchino e un “con il vostro permesso, Generale, mi ritiro a sbrigare alcune necessità burocratiche”, uscì dalla stanza.
Il Generale, a questo punto, si sedette alla scrivania, facendo cenno ad André accomodarsi di fronte a lui. Poi, appoggiando i gomiti sul ripiano di noce vecchiotto e pieno di segni del tempo – e dei tarli – e levando gli avanbracci sin quasi all’altezza del viso, e intrecciando le dita davanti a sé, iniziò a parlare.
“André, ti ho fatto venire qui, all’insaputa di Oscar, perché devo parlarti, di un argomento di estrema importanza e a proposito del quale ti prego di sospendere ogni incredulità e ogni domanda sino a quando non avrò terminato il mio racconto”. Una premessa di tale tipo, proferita con un volto che esprimeva tutto il turbamento che il Generale non aveva mai palesato nel corso dei molti anni in cui André aveva vissuto a Palazzo Jarjayes, fu sufficiente a mettere il giovane se non in allarme, di sicuro in attesa sollecita di una rivelazione di un certo qual peso. E, in effetti, le sue aspettative vennero, purtroppo, soddisfatte.
“André, ti chiedo, come prima cosa, di credere alle mie parole: mi conosci bene, credo, e sai che non sono un uomo emotivo, né facilmente suggestionabile; sono un militare, abituato a valutare gli uomini e le situazioni secondo verosimiglianza e plausibilità, e a non farmi trasportare dalle impressioni. Tuttavia, quello che mi accingo a raccontarti potrebbe, ne sono ben consapevole, suscitare il tuo scetticismo; eppure, ti giuro sul mio onore che quanto affermo corrisponde all’assoluta verità. Ebbene, molti anni fa, quando ero solo un giovane capitano di belle speranze e la guerra che contrappose il nostro Paese all’Inghilterra[3] doveva ancora scoppiare, ero un giovane ufficiale di belle speranze, specializzato in cartografia; e proprio in quanto esperto di tale disciplina, mi venne richiesto dai miei superiori di supervisionare la formazione di un giovane ufficiale inglese, che mi fu descritto come particolarmente abile, a dispetto dell’età ancor verde, in questa disciplina, e che desiderava migliorarne la conoscenza e la pratica con l’aiuto di un pari grado francese che già – non credo di peccare di vanità dicendoti questo – era già riconosciuto come assai versato in tale ambito. Sbarcò dunque in Francia Lord William Herbert Douglas Sholto, un giovane inglese biondo e dagli occhi blu, dall’aria fragile, ma che si rivelò, a dispetto della sua delicata bellezza, un soldato perfettamente addestrato e rotto a tutte le durezze della vita militare, di una resistenza indicibile nelle marce e negli esercizi fisici, e dotato di una intelligenza non comune. Nei mesi che Lord Douglas trascorse in Francia, avemmo modo di legare particolarmente, complici le lunghe escursioni per zone montuose e foreste allo scopo di redigere carte militari. Inoltre, Lord Douglas possedeva una erudizione meravigliosa, e conosceva la storia, di Francia e Inghilterra, con una accuratezza e una profondità tale da mettere in ombra persino il sapere dei più accreditati dottori della Sorbona, che, talvolta, ci recavamo ad ascoltare, quando eravamo a Parigi, e che, in un paio di occasioni, vennero messi in difficoltà dalle domande che Lord William poneva loro con la massima naturalezza. L’amicizia con Lord William era poi ulteriormente rafforzata dalla condivisione di passioni e passatempi, come il gioco degli scacchi, immersi nel quale passavamo lunghe ore durante le nostre serate, un poco come fate tu e Oscar”, e qui il Generale si illuminò di un lieve sorriso, un timido raggio di sole isolato su quel volto accigliato, che, subito dopo, riprese la sua espressione preoccupata.
“Lord William si dilettava anche di passatempi manuali come la miniatura, o l’intaglio di piccole sculture di legno. E fu dunque naturale per lui assommare questa sua passione con quella per gli scacchi, disponendosi a intagliare, per diporto, delle pedine per questo gioco. I neri sarebbero stati intagliati nell’ebano; e già Lord William aveva quasi concluso la realizzazione dei pedoni, quando, una sera, in caserma, mentre, davanti al grande camino della sala degli ufficiali, seduto accanto a me, si dilettava col suo passatempo, chiacchierando nel frattempo amabilmente con me e altri compagni d’arme, la sgorbia che utilizzava gli sfuggì di mano, e una scheggia di quel legno durissimo partì dal pedone semi-intagliato, colpendo Lord William nell’occhio destro, anzi, conficcandosi dentro a esso”.
Il generale fece una pausa, fissando André che lo guardava a sua volta senza aver sino a quel momento proferito parola, e sospirò. Poi continuò: “Inutile dire quale fu il nostro allarme: Lord William aveva coperto l’occhio offeso con la mano, ma fra le dita il sangue grondava, anzi, fiottava copioso; e, mentre il mio amico gemeva per il dolore, che doveva essere intensissimo, io e un altro ufficiale, sorreggendolo, lo scortammo in infermeria. Là, il Dottor de Treville, il medico del reggimento, fortunatamente un uomo maturo e dalla lunga esperienza, seppe mantenere il sangue freddo; tuttavia, la medicazione di quella tremenda ferita fu penosa, e io vi assistetti, tenendo fermo il mio giovane amico, le sue spalle nelle mie mani, mentre un altro medico gli bloccava la testa e il Dottor de Treville cercava, in un lago di sangue, di tamponare quell’orribile squarcio e di togliere la scheggia dall’occhio destro di Lord William, che emetteva gemiti raccapriccianti, come di bestia colpita a morte; poi, quando il medico, con le pinze, riuscì a estrarre quel micidiale corpo estraneo dall’occhio, Lord William lanciò un urlo che mi fece, te lo giuro André, rabbrividire come mai prima e mai dopo in vita mia.
Un attimo dopo, il mio giovane amico si accasciò, e perse i sensi: evidentemente, il dolore, quello della ferita prima, e poi quello procurato dai tentativi del medico di estrargli la scheggia dall’occhio, dovevano averlo sconvolto tanto da fargli perdere conoscenza. Mentre il dottore, aiutato dal suo assistente, bendava quello squarcio, che era veramente terribile a vedersi, io gli chiesi ansiosamente che genere di danno potesse avere riportato Lord William. Il Dottor de Treville, con un profondo sospiro, mentre concludeva la medicazione, e faceva cenno al suo assistente e a un soldato mandato a chiamare alla bisogna di far distendere il ferito su uno dei letti dell’infermeria, scosse la testa. Poi, lavandosi le mani in un catino, la cui acqua si tingeva orribilmente di rosso – mi pare di vedere ancora con tutta vividezza quella scena raccapricciante -, e mentre se le asciugava, mi mise di fronte a una sentenza terribile: “Capitano de Jarjayes, io temo, anzi, sono pressoché sicuro, che un incidente di questo tipo comporterà per il vostro giovane amico la perdita dell’occhio destro”. Di fronte alla mia esclamazione, di dolore, e, insieme, di stupore e di incredulità, il dottore continuò, pacato e realista come ogni uomo di scienza deve essere: “Ebbene, Capitano, sappiate che non vi dico questo per un facile catastrofismo, o per pessimismo inveterato. Voi stesso, che pure siete stato accanto a Lord Douglas Sholto in questi terribili momenti, non avete forse avuto la netta percezione di quanto sia stato devastante il trauma che ha subito il suo occhio destro? Vedete, Capitano de Jarjayes, la scheggia di ebano non si è limitata a incidere profondamente la sclerotica e l’iride, ma è penetrata fin dentro la pupilla e temo che abbia reciso il nervo ottico. Non posso ancora essere completamente sicuro di quanto vi dico, ma la mia non certo breve esperienza di medico militare mi ha portato ad aver purtroppo visto altre ferite simili, per quanto causate non da schegge di legno, ma da colpi di spada o baionetta, e in questi casi la ferita è invariabilmente o mortale, o tale da comportare la perdita dell’occhio offeso: non vorrei insultare, a questo proposito, la vostra notoriamente solida preparazione storica ricordandovi la fine del nostro antico sovrano Enrico II, ferito a morte durante un torneo dalla punta della lancia del suo avversario, che gli si conficcò nella celata e gli trapassò l’occhio. Direi, anzi, che Lord Douglas è stato molto fortunato a non perdere la vita con un incidente di questo genere. Mi spiace molto, e cercherò di essere io stesso presente, domani o quando che sia, al suo risveglio, per dargli questa pessima notizia”. Così il medico del reggimento concluse il suo discorso, e io passai due giorni di dolore, al pensiero del mio giovane amico, così prematuramente sfregiato, e non mentre cercava la gloria sul campo di battaglia, ma a causa di un banalissimo incidente occorsogli in un momento di riposo e tranquillità.
Ma quale non fu la mia sorpresa quando, due mattine dopo, mi vidi comparire davanti, alla tavola degli ufficiali, Lord William, in perfetta forma e sorridente, pronto a prendere la sua colazione con me!
“Lord … William!”, balbettai incredulo, levandomi in piedi.
“François, amico mio!”, gridò lui, e, in un empito di espansività e di entusiasmo, mi abbracciò. Frattanto, si erano radunati attorno a noi tutti gli altri ufficiali del reggimento: essi erano a conoscenza delle miserande condizioni in cui verteva il nostro amico inglese, e del fatto che il suo occhio destro potesse dirsi con quasi assoluta certezza perduto. E invece, ora ci trovavamo di fronte a un volto perfettamente sano e armonioso, senza alcuna fasciatura, e in cui, quale memoria del terribile incidente occorso pochi giorni prima, una sottile linea rossa attraversava la sclerotica e l’iride blu.
“Ma questo è un miracolo!”, esclamai, osservando Lord William, il quale, lungi dall’esibire sfregi alla sua bellezza, manteneva la fresca armonia di lineamenti di sempre.
“Vi prego, François!”, mi schernì sorridente quello, facendo un gesto con la mano aperta davanti al volto. “Voi cattolici siete sempre propensi a esagerare, e a vedere l’intervento di Santi e Madonne, là dove, direi, sono solo da ringraziare la mia gioventù e la mia robusta complessione, che mi hanno consentito un pronto recupero!”, esclamò allegro Lord William, prendendo posto di fronte a me, e facendo cenno a un cameriere della mensa degli ufficiali, perché venisse a prendere le sue ordinazioni. “Piuttosto, ho una fame da lupi: ho passato due giorni senza mangiare!”, disse, afferrando con entusiasmo una fetta di pane tostato dal cestino posto al centro del tavolo.
“Ma… il medico, il Dottor de Treville era sicurissimo che voi aveste perso l’occhio, Lord Sholto”, obiettò il giovane Maggiore de Carabas, che era stato assai impressionato dall’incidente occorso a Lord William.
“Via, Marchese de Carabas, sapete meglio di me che esiste sempre un margine di errore nel valutare la gravità delle ferite, soprattutto nel momento del primo soccorso, e specialmente quando un abbondante sanguinamento rende difficile comprendere la reale portata del trauma; senza contare che è esperienza comune quanto i medici preferiscano ostentare sempre un certo qual pessimismo, nelle loro diagnosi, vuoi per non illudere i pazienti, vuoi perché”, e qui Lord William accompagnò le sue parole con una risatina, “nel caso di completa guarigione del malato o del ferito il loro intervento possa sembrare ancor più determinante e risolutivo di quanto non sia veramente stato!”.
La mattinata trascorse normalmente, fra esercitazioni di tiro e studio di carte topografiche: la vista di Lord William sembrava non aver subito neppure la più piccola diminuzione, dopo l’incidente; e io mi sorpresi, in vari momenti della giornata, e anche di quelle successive, a fissare il mio giovane amico, quando egli distoglieva lo sguardo da me o era intento in qualche occupazione, quasi che volessi capacitarmi di quella guarigione incredibile.
Un pomeriggio, recatomi in infermeria per una emicrania talmente forte che, a mio avviso, avrebbe potuto richiedere un salasso per recedere, mi azzardai però a chiedere al Dottor de Treville lumi su quell’avvenimento straordinario.
“Capitano de Jarjayes”, mi rispose lui, mentre mi applicava le mignatte sul braccio, “la medicina, voi lo sapete, non è una scienza esatta, non è episteme, ma techne, scienza applicata, nella quale la consuetudine ha largo spazio. Sicuramente, se qualcuno mi avesse descritto, senza che la vedessi, una ferita come quella riportata da Lord Douglas Sholto, avrei indubitabilmente decretato che essa avrebbe comportato la perdita completa dell’occhio. E, del resto, mentre medicavo il vostro giovane amico, ho personalmente rilevato come la scheggia di ebano avesse orribilmente straziato sclerotica e iride, e avesse infine arrestato il suo corso conficcandosi nella pupilla: è stato dunque con mia somma sorpresa, mentre visitavo un malato che giaceva nel letto accanto a quello di Lord William, che ho visto il vostro amico, dopo due giorni trascorsi nell’incoscienza, fra gemiti e lamenti, alzarsi, la mattina del terzo dì dall’incidente, e sbendarsi, e rivolgermi uno sguardo limpido come l’acqua, con occhi che serbavano solo una minima, ancorché riconoscibilissima traccia dell’incidente occorsogli”.
Il Dottor de Treville non parlò più dell’incidente, che, nelle settimane successive, fu, almeno in apparenza, dimenticato. Da parte sua, nemmeno Lord William ne fece più menzione. Dopo due mesi, Lord Douglas Sholto riprese la via per l’Inghilterra, e non lo incontrai mai più: mantenemmo, certo, per alcuni anni un rapporto epistolare, sino a che non venni a sapere che era perito di febbre gialla mentre si era avventurato nientemeno che alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Ma ho sempre ricordato con affetto quel mio amico, e quando si è prospettata la possibilità di accogliere sotto il mio tetto il figlio, ne sono stato assai felice. Ora, però, arriva la parte più incredibile del mio racconto, e ti prego, André, di non pensare che sia completamente impazzito: quando mi sono trovato davanti al giovane Lord Douglas Sholto, sono rimasto positivamente impressionato dalla fortissima somiglianza con il padre; del resto, mi sono detto, anche Oscar,  nella sua persona, rivela una somiglianza assoluta con suo nonno, così come lo ricordo essere stato nella mia prima infanzia. E tuttavia, una volta avvicinatomi per porgere al giovane Lord Douglas il mio caloroso saluto, ho visto, oh, André, che Dio mi perdoni, ho visto quel segno che aveva lasciato quella scheggia di ebano nel suo occhio destro oltre trentacinque anni fa!”.
“Generale, nel suo occhio?”, chiese, perplesso, André, che si augurava di non aver ben compreso ciò cui voleva arrivare il Generale.
“Sì, nel suo occhio, nell’occhio di Lord William … perché Lord William è tornato!”.
“Ma come sarebbe a dire, Generale?”, domandò André, inquieto di fronte a quella prima, clamorosa dimostrazione di irrazionalità del Generale.
“Sarebbe a dire, André”, confermò il Generale, torcendosi le mani, “che l’individuo venuto a stabilirsi nella mia casa, sotto il mio tetto, non è Lord Dorian Douglas Sholto, il figlio di Lord William, ma Lord William stesso, che non è invecchiato di un giorno dal momento del suo congedo dalla Francia, oltre sette lustri fa!”.
“Generale…”, mormorò André.
“Lo so, lo so”, fece l’altro, interrompendo il giovane, con la mano sinistra alzata, il palmo rivolto verso l’interlocutore, “tu non mi credi, ma ti assicuro che, oltre a una somiglianza eccezionale, che però può sempre darsi fra padre e figlio, quel segno rosso nell’occhio destro, quella sottile linea che attraversa la sclerotica e la pupilla, è inconfondibile. Non vi è dubbio alcuno: Lord Dorian è Lord William, e ora si tratta solo di scoprire perché sia venuto a stabilirsi in Francia, e perché proprio nella mia dimora!”.
“Generale…”, tentò debolmente di obiettare André; ma il Conte de Jarjayes, levandosi, girò attorno alla scrivania, e si piantò davanti ad André, che ritenne opportuno alzarsi a sua volta. Quindi il Generale pose le mani sulle spalle di André, e gli disse, in tono accorato: “André, io so bene che il mio racconto ti sarà sembrato incredibile; ma ti assicuro che non sono pazzo e non vaneggio. E, poiché hai sempre vegliato con abnegazione eccellente su Oscar, ti chiedo di continuare a farlo, senza rivelare quanto ti ho detto a nessuno, sino a quando non ti sarà chiaro con quale scopo sia tornato in Francia quell’essere. Ti prego solo di essere guardingo, cauto, e di tenermi informato”.
E, detto, questo, lo congedò.
 
[1] Delle quali abbiamo già parlato: cfr. “il trionfo della Boemia”.
[2] Scusatemi, ma ho rivisto di recente “Donnie Brasco”.
[3] Mi riferisco alla Guerra dei Sette Anni.

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Capitolo 5
*** 5 - Un barbaro non privo d'ingegno ***


5 -  Un barbaro non privo d’ingegno
André, dopo quel colloquio, decise di non recarsi direttamente alla Reggia, ma di fare una tappa intermedia a Palazzo Jarjayes: aveva bisogno di riordinare le idee e di riflettere su quanto aveva udito. Così, egli percorse le poche miglia fra la Caserma della Guardia Metropolitana e Palazzo Jarjayes in preda a emozioni contrastanti: quello che gli aveva narrato il Generale era a dir poco incredibile; ma, del resto, il giovane conosceva il padre di Oscar per un uomo concreto, alieno da ogni fantasticheria, ancorato ai fatti e alla loro spesso brutale realtà; senza contare il rispetto istintivo che André aveva sempre nutrito per il Generale, il comportamento sempre così misurato, razionale e rigoroso, tenuto dal padre di Oscar sino al giorno prima, si può dire, faceva dubitare al giovane che quelle confidenze fossero frutto di una mente alterata, di sogni e vaneggiamenti, né, certamente, si poteva credere che si trattasse di uno scherzo dell’età, giacché non solo il Generale non era affatto anziano, ma aveva sempre dimostrato eccellente memoria e padronanza di sé, né si poteva pensare che tali prerogative fossero scomparse improvvisamente.
        Cavalcando verso casa, pertanto, André si risolse ad assumere una tale linea di condotta, da lui ritenuta la più cauta ed equilibrata: non rivelare ad anima viva quando riferitogli dal Generale, ma nemmeno credere acriticamente a quanto gli era stato raccontato: risolse, piuttosto, di stare in guardia, certo, con cautela, e in atteggiamento guardingo, giacché, anche a voler fare la tara alle rivelazioni del padre di Oscar, se esse avevano tanto sconvolto un uomo così quadrato e pragmatico, un qualche fondamento dovevano pur avere.
Con sua grande sorpresa, una volta rientrato a Palazzo, André scoprì che quel giorno Oscar non si era recata a Versailles.
“Tu sai perché?”, chiese alla nonna. “Forse non si sente bene?”
“Oh, beh, vedi, André, dato che oggi non erano in programma alla Guardia Reale altre attività che non fossero alcune esercitazioni delle reclute, Oscar ha pensato che, per una volta, potesse demandare tramite un messaggio fatto mandare alla Reggia questa responsabilità a Girodelle, e restare, da parte sua, a occuparsi dell’ospite, per conoscerlo meglio, e per farlo sentire maggiormente a suo agio dopo il lungo e spossante viaggio affrontato.
“Capisco. E ora, dove sono?”, domandò ancora André.
“Credo che siano nel salotto cinese, dove hanno chiesto di far servire loro un the”, rispose Nanny.
Arrivato al secondo piano, il giovane bussò alla porta del salottino cinese, una autentica delizia, tutto lacche e seta rossa, dragoni e fiori di loto, un ambiente all’ultima moda voluto dalla Contessa Marguerite e arredato sotto la sua attenta supervisione, una delle poche scelte, quella, su cui la dolce moglie del Generale aveva avuto piena autonomia di scelta nella lunga storia del suo matrimonio.
“Avanti!”, disse la voce di Oscar, colorata di una sfumatura allegra e spensierata che rallegrò, a sua volta, André.
Egli, entrato, la vide seduta al delizioso tavolino di legno di ciliegio intarsiato, con le gambe laccate a disegni di dragoni decorati di rosso e d’oro, davanti al giovane Lord Sholto. Oscar vestiva un giustacuore leggero, di velluto blu, su cui ricadevano, con mirabile contrasto, i suoi riccioli biondissimi, che, poggiando sulla stoffa scura, sembravano ancora più chiari e luminosi, vaporosi e aerei come quelli di una principessa delle favole. Di fronte a lei sedeva Lord Douglas, le mani incrociate sul petto, abbigliato di un gilet color avorio su una camicia di diversa, ma non minore bianchezza, la cui parte terminale delle maniche era un tripudio di pizzi e trasparenze. Egli aveva la bellezza placida e apparentemente inconsapevole di un cherubino, e un sorriso irresistibile, rivolto verso Oscar, la quale, a sua volta, teneva fra le mani un grosso volume - le opere complete di Shakspeare, parve di distinguere ad André dal dorso del libro, semicoperto dalle lunghe dita da musicista della giovane.
Appena André entrò, Oscar levò il capo e lo salutò sorridendo, come se stesse aspettando soltanto lui per potersi dire finalmente felice. “Eccoti qui, André! Sei tornato, finalmente! Siedi qui con noi”. E poi, subito dopo, rivolta a Lord Henry: “Bene, vediamo questa: "Se tutti i mendicanti venissero frustati, mi sceglierei il lavoro di chi frusta, e sarei occupatissimo".
"Facile, Colonnello Jarjayes: Pericle principe di Tiro, atto secondo, scena prima. Credo che a parlare sia il Secondo Pescatore: giusto?".
"Straordinario", disse Oscar in un soffio. E poi, subito dopo: "O effimero favore dei mortali, / di cui andiamo a caccia più che del favore / di Dio. Chi costruisce la sua speranza/ sull'aria dei vostri sguardi benigni, vive / come un marinaio ubriaco su un albero maestro, / pronto a precipitare a ogni cenno, /nelle viscere fredde degli abissi". E questo, chi è, Lord Douglas?"
Per un attimo, Lord Sholto corrugò la fronte, come a riflettere, poi rispose sicuro: "Riccardo III, Atto terzo, scena quarta; a parlare è Lord Hastings"
“Giusto, Lord Douglas! E questa? “O dèi, mi sono detto, qual bisogno mai abbiamo di amici, se non accada mai che abbiamo bisogno di loro? Sarebbero le creature più inutili del mondo, se noi non dovessimo mai…
Timone d’Atene”, la interruppe sicuro il giovane ospite, che aveva, evidentemente, già riconosciuto la battuta, “Atto primo, scena seconda: a parlare è Timone”.
"Esatta anche questa! Lord Sholto! Sono strabiliata! Quale memoria meravigliosa! E si direbbe che abbiate studiato Shakespeare per molti, molti anni! Sono ammirata!” esclamò Oscar. Poi, notando lo sguardo perplesso di André, gli chiese: "André, hai sentito anche tu, vero?!”.
Quel sorriso entusiasta sulle labbra di Oscar, suscitato da un altro, rivolto a un altro ... come l’aveva chiamato il Generale? A quell’essere. Che cosa prevaleva in lui? La gelosia (l'aveva mai guardato così, Oscar?), o il timore per la sua incolumità (che cosa voleva da lei Lord Sholto? Era davvero quella creatura di cui aveva parlato con allarme e angoscia il Generale, così insolitamente preoccupato)?
"Sì, Oscar. Ma temo forse di non aver ben capito a che genere di attività vi stiate dedicando…"
"Vedi, André, con Lord Douglas Sholto ... stavamo parlando di Shakespeare, e mi ha corretto una citazione. Tu sai quanto io ami Shakespeare: allora l'ho sfidato, e devo ammettere che non solo avevo torto, ma ho scoperto che, dai brani più famosi, dall'Inverno del nostro scontento al monologo di Amleto, sino alle virgole, conosce tutto, i sonetti, le tragedie e le commedie, persino le battute dei personaggi secondari e dei comprimari!"
"Oh, ma è davvero meraviglioso!", commentò André con un sorriso fasullo impresso sulle labbra. "Bisogna certo avere dedicato molto tempo a questo autore per poterne avere una conoscenza così approfondita", sfuggì detto al giovane, e subito si pentì di aver parlato, per quell'ambiguità latente nelle sue parole.
"Oh, vedete, André, durante l'infanzia ho passato molto tempo a letto, a causa di una lunga, ancorché non grave, malattia, e il mio affezionato padre, per non farmi annoiare e intrattenermi in modo piacevole e insieme istruttivo, leggeva sempre per me Shakespeare: e così mi sono appassionato alle sue opere, leggendo e rileggendo le quali mi sembra di risentire la voce del mio amato genitore recitare per me, per lunghe ore, quando era seduto al mio capezzale", rispose il giovane Lord, fissandolo, con sguardo innocente e profondo come l'acqua dell'oceano. E allora André non poté evitare di fissare a sua volta lo sguardo, come ipnotizzato, sulla sottile, ma ben distinguibile linea rossa che, tagliando trasversalmente la sclerotica dell’occhio destro di Lord Sholto, arrivava sino all’iride blu, blu come il mare profondo e placido nei giorni di bonaccia estiva.
E, sotto il peso di quello sguardo placidamente altero, André si sentì percorrere la schiena da un brivido.

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Capitolo 6
*** 6 - Un pomeriggio, all'ora del the ***


 6 – Un pomeriggio, all’ora del the
 
6 – Qualche giorno dopo, André stava portando il the in biblioteca per Lordo Sholto, quando, dal lato opposto del corridoio, vide una figura che avanzava nella sua direzione. Si fermò, fidando nel buio del lungo passaggio, e si nascose dietro la copia marmorea di una Amazzone di Fidia. Posò il vassoio sulla mensola di marmo rosso, nell’ombra, sperando che non fosse notato, e, dopo che Lord Henry ebbe varcato la soglia della biblioteca lasciando negligentemente accostata la porta, avanzò di due passi, per poter guardare senza essere visto.
Lord Sholto era seduto alla scrivania, le spalle alla porta, il volto rivolto alla grande vetrata, ma la posa del capo e delle braccia indicava che, nonostante le pile di libri che aveva accumulato davanti a sé, sul ripiano di legno di noce perfettamente lucido e laccato, non stava leggendo.
Lord Henry gli si avvicinò leggero, e senza dire nulla, restando dietro le sue spalle, gli mise una mano nei capelli, scompigliando quell’oro biondo, mentre il giovane si stirava come un gatto accarezzato dal padrone. A un tratto Lord Henry trasse dalla tasca interna della sua marsina qualcosa e lo avvicinò al volto del ragazzo: un pugnale brillò nella luce del tramonto.
André era impietrito.
 Poi, con fare sollecito, Lord Henry si chinò su Lord Sholto, e iniziò, con gesti rapidi e sicuri, a tagliare le pagine del libro che il ragazzo aveva davanti a sé.
“Così va meglio, no?”, gli disse con voce leggera e affettuosa, come di una madre previdente e attenta.
“Oh, sì, Henry. Grazie. Pensi sempre a tutto, tu”.
Il pugnale passò di mano, e mentre Lord Sholto continuava il lavoro sul libro nuovo, Lord Henry, in piedi dietro di lui, riprese a passargli la mano fra i capelli.
“Il tuo nuovo amico, il Colonnello Jarjayes, ti piace molto, non è vero?”
“Non lo posso negare”, rispose Lord Sholto, con una sfumatura di furberia infantile nella voce.
“Tanto da pensare ... di fermarti per sempre in Francia?”
“Per sempre, Henry ... che espressione tremenda!”.
“E fuori luogo, Dorian”.
“Sì, e fuori luogo”.
Lord Sholto, senza che il tutore lasciasse i suoi capelli, girò la testa, così da potergli rivolgere uno sguardo di sotto in su. Nel suo profilo squisito di ragazzo, pensò André, brillavano due occhi di ghiaccio, due occhi di vecchio dalla consapevolezza antica.
“Che cosa possiamo infatti dire che duri “per sempre”, eh, Henry? Te l’ho mai promesso, forse?”.
“No: in effetti, no”. La risposta di Lord Wotton era laconica, ma in quella stringatezza c’era molto di sottinteso.
“E non sei stato forse tu, Henry, a insegnarmi che bellezza e gioventù sono i soli beni veramente importanti?”
“Al punto da volermi gettare via come uno straccio vecchio quando io li avessi persi?” Il tono di Lord Henry ormai era apertamente sfidante. “Non erano questi i nostri accordi, Dorian”.
Le voci, in fitto dialogo, in un inglese dai toni sommessi, ma per André, che aveva studiato insieme a Oscar quella lingua quando erano ragazzi, ben chiaro, raccontavano di una storia dai lunghi, contorti, dolorosi retroscena: una vicenda in cui l’amore si intrecciava con il calcolo, l’interesse, il vantaggio materiale, il vincolo del segreto, sotto l’incombere del Tempo.
“Henry”, disse con un sospiro il ragazzo, alzandosi. “ti prego: non essere così ... tragico”. Ora fronteggiava il suo tutore, e il suo tono di voce era tranquillo, anche se tradiva un’ira a stento controllata, come la superficie del mare, liscia come l’olio, ma sotto la quale onde tempestose sono pronte a scatenarsi al minimo variare dei venti. “Non pensare a me come a un egoista, come a un ... profittatore di un qualche tipo. Pensa piuttosto che, ormai, in Inghilterra, potrebbe non essere più molto sicuro restare. Per me, di certo, non lo è più, visto che c’è sempre la possibilità che qualche anziano, lord, lady o scudiero, o cameriere, o taverniere, o che so io, ricordi di avermi visto tanti anni fa, nonostante la vita molto discreta e riparata che ho .... che abbiamo sempre condotto. E per te: non sarebbe bello, dopo tanti anni passati così legato e così vincolato a me, recuperare la tua libertà, in piena tranquillità e sicurezza? Senza che nessuno ti chieda conto di me?”.
“E noi? E noi due?”. Il tono di Lord Henry non poteva non toccare André. C’era in esso una costernazione che travalicava persino la giusta e giustificata ira.
“Ogni storia d’amore ha un inizio, un centro e una fine, Henry”, rispose, tranquillissimo, Lord Sholto, ricamando l’aria con la mano sinistra. “Non me l’hai forse insegnato tu?”
“Il Colonnello Jarjayes è stato informato delle tue intenzioni? Lo hai già messo a parte del tuo ... piccolo segreto?”, chiese con malevolenza Lord Henry, cambiando radicalmente tono e calcando sulle parole “intenzioni” e “piccolo segreto”.
“Non ancora, Henry, non ancora. Ma conto di farlo presto”.
“Buon per te, Dorian. Buon per te. Ma … attento a quel servitore ...”

“A chi?”
“Caro Lord Sholto”  - Lord Henry si stava ricomponendo, ma nel suo tono acido, che era passato al "voi", si avvertiva il pulsare delle spine che gli stavano trapassando l’anima, nonostante la calma che cercava di ostentare, “temo che la vostra pur lunga esperienza della vita e del mondo non vi abbia davvero ancora reso un buon osservatore, consentitemi l’ardire con cui ve lo faccio osservare, piuttosto sfacciatamente, lo so. Mi riferisco all’attendente del Colonnello Jarjayes, quell’André Grandier. Non so se sarà entusiasta dei piani che state elaborando sul suo padrone. Non avete mai visto con che occhi guarda il Colonnello de Jarjayes?”
“Pfui”. L’altro alzò le spalle con indifferenza. “Come se un attendente fosse mai stato un problema. Il vostro non lo fu, se la memoria non mi inganna”.
        La stoccata doveva avere colto nel segno, ma Lord Henry era un duellante tenace. “Sì, avete ragione Lord Sholto: in effetti, William fu una delusione, per certi versi. Lo credevo più fedele, più affezionato di quanto non fosse.
Ma questo André Grandier, invece, non mi sembra proprio il tipo che si accontenti di qualche ghinea, o meglio, di qualche luigi, e di un paio di puledri, o di una fattoria. Questo è un osso duro, credetemi. Potrei comunque sbagliarmi. Ora vi lascio ai vostri studi, però”. E con un inchino prese la direzione della porta. Dopo due passi, si fermò e si volse indietro. “Ah, dimenticavo, Lord Sholto. Vi ricordo che, essendo ancora voi in minore età, l’amministrazione e la tutela di tutti i vostri beni ricade sotto la mia responsabilità, in quanto tutore e amministratore unico ed esclusivo del vostro patrimonio, per volontà di ... vostro padre"- e qui a Lord Henry sfuggì una risatina. "Anche il vostro appannaggio mensile dipende da me. Tutto. E credo sia anche inutile ricordarvi che ogni decisione circa un avvicendamento di amministratori fiduciari, che siano essi inglesi, o francesi – e qui calcò la voce – deve essere registrata presso un notaio, approvata e controfirmata da me. Ora vi saluto davvero, Lord Sholto”.
E detto questo, uscì. In fondo al corridoio, incontrò André – che, nel frattempo, aveva ripreso fra le mani il vassoio, arretrando provvidenzialmente, quasi che fosse salito in quel momento per lo scalone d’onore-, rivolgendogli una occhiata di compatimento rabbioso, che il giovane ostentò di non notare.
Poi, André entrò in biblioteca.
“Lord Sholto, il vostro the”, disse, posando il vassoio davanti al ragazzo, senza aggiungere una parola.
"Grazie, André, lascialo pure qui", rispose quello, congedandolo sbrigativamente, senza nemmeno alzare gli occhi dal suo libro, come se fosse estremamente concentrato.
Quando André fu a metà corridoio, udì un terribile fracasso di ceramica infranta e di metallo, come se qualcuno avesse scaraventato a terra con violenza un vassoio con tazza, cucchiaino, teiera e zuccheriera. E, poco dopo, una voce adirata risuonò attraverso tra le pareti:
“DAMN’IT, HENRY! May the devil take you!”[1]
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"È divertente, il giovane Lord Sholto". Un colpo sparato alla cieca, mentre cavalcavano in direzione di Versailles, la mattina dopo. 
Ma André voleva vedere l'effetto della sua sortita.
"È giovane, André", puntualizzò Oscar, laconica. E poi: "Giovane, solo, senza obblighi, ricco e spensierato. È facile ispirare simpatia, in una simile condizione, non trovi?".
André sospirò. "E tu, Oscar, tu non sei mai stata spensierata?", si chiese.
In ogni caso, si sentì sollevato.
Ringrazio per la splendida fan art Alessandra DF3: ci ho messo un bel po’, lo so, ma ce l’ho fatta a giungere al dunque! Grazie anche per la pazienza!
 
[1] Trad.: “Maledizione, Henry! Che il diavolo ti porti!”
 

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Capitolo 7
*** 7 - Una sera, alla fine del servizio ... ***


7 - Una sera, alla fine del servizio …
7- "André, ti precedo a casa, oggi. Tu potresti aspettare il dispaccio settimanale da parte del Generale Bouillet e poi consegnarmelo? Non ti ci vorrà molto".
"Certo, Oscar, non preoccuparti".
Seguì perplesso César che si allontanava, sino a quando non fu più che una minuscola macchia all'orizzonte. Erano da poco passate le quattro del pomeriggio.
Oscar non era mai rientrata a Palazzo Jarjayes dopo di lui, anzi: molto spesso era accaduto esattamente il contrario, che gli dicesse di non aspettarla, perché avrebbe fatto tardi in ufficio, e di precederla a casa. Che cosa era accaduto?
Quasi due ore dopo la partenza di Oscar, giunse l'attendente del Generale Bouillet. Arrivò trafelato, e si batté i guanti impolverati sui talloni degli stivali, lanciando strali contro i nobili: "Generali e colonnelli, tutta una ghenga! Loro presto a casa al calduccio, e noi al freddo per le strade del mondo. Eh, amico mio", disse poi, rivolto ad André, "Che gran disgrazia non nascere nobili, nevvero?".
"Non sai quanto", pensava André, sconsolato.
E non pensava certamente alla possibilità, preclusagli dalla nascita plebea, di raggiungere gli alti gradi dell'esercito, e di ricoprire i ruoli da ufficiale.
Era già calata la sera, quando André si mise sulla strada di casa, e nel cielo buio e freddo di inizio dicembre occhieggiavano miriadi di stelle. Per un attimo, André aveva pensato di fermarsi a dormire a Versailles, nel piccolo appartamento che Oscar, come comandante della Guardia Reale, aveva il privilegio di trovarsi assegnato; ma volle illudersi che quel dispaccio, che aveva nella tasca interna della giubba e che sembrava scottargli sul cuore, fosse molto importante per Oscar. Gliel'avrebbe portato subito, e avrebbe visto i suoi occhi color fiordaliso illuminarsi; parca di parole come era sempre stata, non avrebbe detto molto di più che un "Grazie di cuore, André", o forse, magari, un "Sei molto caro, André"; e allora, nei sottotoni della sua voce, lui avrebbe sentito vibrare quel che nemmeno Oscar era consapevole di sentire, ma che lui vedeva, sentiva, percepiva da tanti anni, forse da sempre. Se solo avesse potuto emergere...in un altro tempo...in un altro mondo...la sua Oscar...la sua inestimabile Oscar...
Ma questa dolce fantasticheria venne interrotta dallo spettacolo cui André si trovò ad assistere una volta giunto a Palazzo Jarjayes. Salì sino agli appartamenti privati di Oscar, e depose il dispaccio sul tavolino davanti alla grande vetrata, stupito di non trovarla con il suo Virgilio fra le mani. Forse, pensò, era stata vinta dalla stanchezza della giornata, che anche per lei era stata insolitamente impegnativa, fin dal mattino. "Oscar, sei qui?", chiese battendo le nocche contro la porta della camera da letto, in cui, ormai, entrava solo raramente, e solo dopo averle chiesto esplicitamente il permesso. Silenzio. Non era nemmeno nella sala da musica, e neppure in biblioteca. Scese di nuovo le scale, e si guardò intorno, nel vasto atrio silenzioso. Poi, sentì un vociare proveniente dalle cucine: fra tutte, distingueva una voce, una sola, che avrebbe riconosciuto fra mille.
Si avviò a passi spediti e insieme circospetti, socchiuse l'uscio della vasta cucina, e li vide.
Oscar sedeva al vasto tavolo di legno grezzo, quello dove si accumulavano i piatti da portata e i vassoi per la tavola del padrone durante le cene di gala, quello a cui mangiava la servitù e a cui lui e Oscar avevano fatto tante volte merenda da bambini, e dove, seduti a un angolo, facevano ancora oggi colazione in fretta e senza formalità, ingollando velocemente un caffè nero e sgranocchiando una fetta di pane, quando dovevano partire all'alba per una missione che li avrebbe portati lontano, o prima di andare alle proprietà del generale ad Arras.
Ma questa volta, lei aveva davanti a sé una scodella da cui pescava, sorridente, con un cucchiaio una pietanza dall'aria scura, semisolida e poco invitante, mentre, in piedi alla sua destra, Lord Douglas Sholto, agitando le belle mani delicate, parlava accalorato di uvetta e farinata, di libbre e di accortezze da cuoco: filologia gastronomica di infimo ordine, pensò André; invece Nanny, in piedi alla sinistra di Oscar, aggiustandosi l'occhialetto, borbottava in tono critico: "Un Lord, un signore, che pretende di sporcarsi le mani in cucina! Non so proprio dove andremo a finire, di questo passo!".
"Oh, André", disse lei, intravedendolo sulla soglia al di là della porta semiaperta, e si illuminò tutta in sorriso che sapeva di sole e di azzurro. "Che ci fai lì impalato?! Vieni: Lord Sholto ha preparato per noi un dolce della tradizione inglese ... come avete detto che si chiama, Vostra Signoria?"
"Il plum pudding, Colonnello Jarjayes, un dolce tipico dell'Avvento e del Natale", completò lui, e con gesti meccanici e poco entusiasti servì anche ad André, che altrettanto meccanicamente mangiò la sua porzione con complimenti di maniera, al dolce e all'abilità di chi l'aveva preparato.
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Era suonata da poco mezzanotte, quando qualcuno bussò alla porta della camera di André. Si alzò, cauto. Aprì di poco la porta e nello spacco di luce vide balenare uno sguardo color fiordaliso appena illuminato dalla fiammella di una candela.
"Oscar! Ma che ci fai alzata a quest'..."
"Ssst, André. Zitto. Ti piace l'idea di una cavalcata sotto la Luna?".
Non era mai successo prima, e André se ne stupì, senza però darlo a vedere. L'aria gelida, la luce ovattata delle stelle nella tenebra del cielo, l'immensità della campagna addormentata... gli diedero una sensazione inebriante, e più ancora gliela infuse Oscar, che cavalcava con il capo abbassato, lanciandosi in avanti e spronando César sino al limite delle possibilità dell'animale.
Poi, quando ripresero ad avanzare al passo, affiancati, Oscar disse: "Sei stato molto gentile a seguirmi, stanotte. Sarai molto stanco".
"No, Oscar, tutt'altro".
Aspettò un attimo, quasi certo che sarebbe venuta, senza che lui la sollecitasse, una spiegazione per quello strano comportamento.
"Sai, André, mi sembra così affollata la nostra casa ultimamente! A volte mi pare di soffocare!"
André sentì un tuffo al cuore: Oscar aveva davvero detto "la nostra casa"? Possibile che non se fosse resa conto? Possibile? Aveva sentito bene? Cercò di dissimulare l'emozione, governando la voce con cui le rispose:
"Beh, Lord Sholto è sempre molto sollecito, con te: si vede che vuole dimostrare la sua gratitudine per l'ospitalità e le premure che riceve".
"Forse, André. Forse", disse meditabonda; poi, cambiando bruscamente espressione, disse, con un sorriso: "Che ne dici se, una volta a casa, ci facciamo il bicchiere della staffa? Per scaldarci un po' prima di andare a letto!".
"Certo, Oscar. Cointreau?"
"Leggerino. Come mai mi proponi queste bevande da signorina di buona famiglia?", rise lei.
"Allora...cognac?", propose lui.
"E cognac sia!".
Stava per spronare César, quando gli rivolse per un attimo uno sguardo tagliente che lo fece tremare nel profondo. "André, sii sincero ...", disse con tono esitante. E per un attimo lui si sentì mancare, e fu pronto a confessare la sua gelosia, la sua preoccupazione per quello strano essere da cui l'aveva messo in guardia il Generale, il timore che avrebbe potuto a breve accadere qualcosa di terribile e irreparabile, e anche l'amore che covava da sempre, da quando, bambini, lui e Oscar misuravano la loro altezza contro la parete delle scuderie, e gli capitava, per far contento quel cherubino biondo, di barare un po' e di tracciare il segno che doveva marcare la cima del suo capo un po' più su, per dare al “Contino Oscar” l’illusione di essere grande, di crescere più velocemente di quanto non accadesse in realtà. Invece, Oscar si limitò a dire, con un sorriso appena accennato: "André, sii sincero ... Come hai trovato il dolce di Lord Sholto?".
"Il plum pudding, dici?".
"Sì, quello".
"Orribile, Oscar, semplicemente orribile!", rise lui, suscitando una uguale risata di lei, una risata che la illuminò tutta, ricordandogli come, da bambina, ridesse sotto i suoi attacchi a base di solletico.
"Ah, ma allora non l'ho trovato terribile soltanto io!", esclamò lei, e poi, prima di filare via come una freccia, gli lanciò la sfida: "Chi arriva per ultimo mangia tutto il pudding avanzato!".
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Per quanto riguarda l'illustrazione, mi perdonerete, ma qui mi sono lanciata io, rielaborando, date le mie scarse capacità, un fotogramma a me molto caro.
 

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Capitolo 8
*** 8 - Confidenze ***


8 – Confidenze
8 - "La vostra cioccolata, Lord Wotton", disse André, entrando nell'orangerie con passo leggero,  ma con un pesante vassoio in mano.
"Grazie"; mormorò Lord Henry, contemplando, con apparente disinteresse, l'anello, adorno di un grande spinello color porpora che portava all'anulare sinistro.
 O forse si stava fissando il dorso della mano, solcato da un reticolo di vene azzurrine in rilievo e da qualche macchiolina giallognola?
"Chiedo scusa, Lord Wotton, ma avevo inteso che avrei dovuto servire la cioccolata per due", disse André, mentre disponeva la tazza e la zuccheriera davanti all'ospite.
"Sì, in effetti, avete ragione: ma Lord Douglas Sholto ha avuto un impegno improvviso che lo ha trattenuto a Parigi, ed è riuscito ad avvisarmi solo con molto ritardo".
"Capisco".
André manteneva lo sguardo fisso sul vassoio, ma con la coda dell'occhio non lasciava di osservare Lord Wotton: adesso sembrava interessatissimo alle sue unghie e ai polpastrelli.
"Non so come biasimarlo, del resto. Parigi è famosa per i divertimenti che offre, non è vero André?".
"Così si dice, Lord Wotton".
Il tintinnio del cucchiaino nella tazza sembrava assordante, mentre André ritirava il vassoio.
Era quasi arrivato alla soglia, quando Lord Wotton lo richiamò. "Fermatevi un attimo, André".
"Sì, Lord Wotton?".
"Venite un minuto. Non vorreste bere con me una tazza di cioccolata?".
Questa poi ...
"Ma certo, Lord Wotton". André poggiò nuovamente il vassoio sulla tavola e si sedette.
Sollevò la tazza di cioccolata sotto gli occhi indagatori di Lord Henry, che sembravano voler suggere la sua immagine attraverso le pupille.
Qualcosa non va? Avrebbe voluto chiedere André. Ma sapeva che non è bene che un servo prenda l'iniziativa, specialmente con domande che avrebbero potuto essere considerate impertinenti.
E poi, Lord Henry aveva tutta l'aria di voler parlare, e parlare a lungo.
Bastava solo attendere.
"Perdonate la domanda, André, ma quanti anni avete?".
"Ventisei compiuti ad agosto, Lord Henry".
"Ventisei. Siete molto giovane", meditò Lord Wotton, e, finito di osservarsi con una espressione schifata il dorso della mano, percorso da una miriade di venuzze gonfie e bluastre e costellato da tante minuscole chiazze giallognole, distolse lo sguardo e prese la tazza, portandosela alle labbra.
Ma, ancora prima di bere il primo sorso di cioccolata, posò la tazza sulla tavola.
"Io ne ho sessantadue, compiuti da un paio di settimane. Potrei dirmi vecchio", sussurrò.
André tacque. L'etichetta avrebbe voluto che protestasse garbatamente, contestando quell'affermazione, magari proferendo una sequela di no, non è affatto vero, ma che dite, e altre pietose e mondane bugie.
"Siete mai stato innamorato, André?". André si sentì venir meno di fronte a una domanda così diretta. "Ma innamorato davvero, André, innamorato da stare male, da sentirvi dentro un'arsura come sotto il sole estivo, un'arsura che non si acquieta mai, se non quando ... la persona che amate è accanto a voi?".
Lord Henry non attese la risposta, e continuò, cupo: "E poi … e poi… e poi, scoprire che avete dato il vostro cuore, e la vostra vita, che avete consacrato la vostra intera esistenza, a un ... a una persona che l'ha considerata come un grazioso fiore da appuntarsi all'occhiello, e da gettare via con noncuranza una volta che fosse sfiorito".
André non sapeva che dire: era una delle rare volte in cui lui, che aveva sempre la parola giusta per tutti, si trovava sguarnito e confuso.
"Il Colonnello Jarjayes è una persona molto importante per voi, non è vero?", chiese, in modo diretto, Lord Wotton, riprendendo in mano la tazza (Santo Dio! Ma quanto ci metteva a finire quella cioccolata e a porre termine a quell'imbarazzante agonia?)
"Siamo cresciuti insieme", disse André, cercando una risposta diplomatica, e non trovando altro da offrire a quell'interrogativo così diretto, e indiscreto.
"Certo, capisco", sussurrò vago Lord Wotton, guardando André da sopra la tazza ancora colma.
"E sarebbe quindi molto triste, per voi, se vi doveste separare, immagino", continuò, e poi si corresse: "Se qualcosa o qualcuno vi dovesse separare".
 André sollevò le sopracciglia.
"Non badate a me, André”, disse Lord Wotton, stirando le labbra in un sorriso amaro. “Divago, e vaneggio, come spesso succede ai vecchi. Ma vi ringrazio molto per la compagnia".
 E si alzò.
"Mi spiace di avervi recato disturbo, e di avere abusato del vostro tempo, André. Se avessi saputo che Lord Sholto era rimasto a Parigi, sarei restato anch’io nell’alloggio che ho affittato in città, e non sarei venuto a incomodarvi qui a Palazzo Jarjayes". Così detto, Lord Henry si alzò, e si avviò verso l'uscita della serra.
"Ma che dite, Lord Wotton; è stato un piacere", protestò debolmente il giovane.
"Non è vero, André, e lo so benissimo. Tuttavia, siete stato molto gentile". Poi, prima di scomparire oltre l'ingresso, aggiunse: "Vi prego: badate al Colonnello Jarjayes; ma questo, credo, non ve lo devo raccomandare. E poi, badate anche a voi, André".
Vagamente inquietato da quella conversazione, André attese il rientro di Oscar con ansia crescente.
Stava riattizzando le braci del camino nel salotto degli appartamenti idi lei, quando la porta si spalancò.
"Oscar!", esclamò. Ed era così sollevato vedendola che il suo primo impulso fu di abbracciarla, e si frenò a stento, più a stento del solito.
"André! Come mai tutto questo entusiasmo? Si direbbe che non ci vediamo da anni!", disse lei con un sorriso, e si sedette, con la sua eleganza noncurante, nella sua solita poltrona.
"Resti a farmi compagnia, André? Leggeresti qualcosa per me?".
"Volentieri, Oscar".
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Capitolo 9
*** 9 - Pensieri e ricordi ***


9 – Pensieri e ricordi
 
9  - Nel frattempo, rimasto solo con i suoi pensieri, Lord Henry rifletteva. Pensava al passato, e alla sua giovinezza; a quando, a Eton, era sempre stato il più piccolo, di tutti, proprio come in famiglia. E come in famiglia, anche in collegio nel suo piccolo gruppo, nella sua cricca di amici, che andava al di là delle divisioni per classe e per età, era vezzeggiato, coccolato, e, a volte, dileggiato, o, per meglio dire, era anche oggetto di qualche blanda derisione, di qualche battuta ironica, per la sua inesperienza, per le sue ingenuità, per le tante cose che non conosceva e non sapeva, non avendole mai provate prima; e proprio per questo era anche ricercato.
Ma, quando era tornato a casa, aveva incrociato lo sguardo di William, che poi gli era stato messo accanto da suo padre come attendente. E a quel punto era lui a essere più grande, più esperto; era lui a conoscere il mondo, a portare William in posti dove non era mai stato, e che non avrebbe nemmeno immaginato che potessero esistere.
Ricordava la prima volta in cui erano stati alle terme, a Bath: dal loro palco a teatro gli aveva indicato, uno per uno, i Pari del regno che erano presenti in quella sala, e aveva sorriso soddisfatto e fiero, vedendo l'espressione lusingata di William, quando aveva iniziato a cogliere gli sguardi di riconoscimento fra pari dei gentiluomini, che annuivano, ammirati dall'inimitabile eleganza dell’abbigliamento e del portamento di Lord Wotton.
        Pochi mesi dopo, lui e William avevano soggiornato a Spa, ospiti di Lord Lindon, ambasciatore di Sua Maestà Giorgio II presso molte piccole corti europee: avevano frequentato assiduamente il casinò, nonostante William si ribellasse ancora all'idea di "sprecare" (diceva proprio così: che tenerezza gli faceva!) troppo denaro al tavolo da gioco ("Henry, ma sono un sacco di soldi!", esclamava regolarmente, stupito e scandalizzato, commentando le sue puntate); e una sera, notati gli sguardi languidamente attoniti che la soave Lady Helen Lindon gli scoccava, durante una mano di faraone, gli aveva sussurrato all'orecchio un suggerimento.
"Henry! Che dici! Sei impazzito?!", aveva bisbigliato di rimando William, scandalizzato.
"Ma figurati! Prenditi questa soddisfazione! Quando altro mai potrai vantarti di avere baciato una Lady, moglie, nientemeno, di un Pari d’Inghilterra?", gli bisbigliò di rimando Henry, divertito.
E lo aveva visto, convinto eppure recalcitrante, avviarsi, lanciandogli uno sguardo timido e spaurito, verso la grande terrazza, dove avrebbe raggiunto Lady Lindon, che si era allontanata poco prima, dopo aver affettato un piccolo mancamento per il caldo soffocante della sala, e dopo aver lasciato le sue carte in custodia al cappellano di famiglia, che le faceva da mesto chaperon in quelle serate al casinò, perché Lord Lindon era troppo vecchio e troppo tormentato dalla gotta per uscire la sera.
Henry li aveva spiati, compiacendosi dello sguardo languido che Lady Helen Lindon, una delle donne più nobili e più soavemente belle d'Inghilterra, moglie di uno dei Pari del Regno più ricchi e più influenti, aveva scoccato al suo William, e del tremore che intuiva nei suoi passi, mentre si avvicinava timida a lui, e su quel terrazzo, che si affacciava sui giardini, e da cui occhieggiava la gigantesca luna piena, fulgida e perlacea nel buio notturno, e gli sfiorava le labbra, affascinata, e soggiogata, da quel giovane che non aveva una goccia di sangue nobile nelle vene, e pure aveva tanta nobiltà e distinzione nel tratto e nel portamento, e che era devoto a lui, solo a lui, il suo William. E lui, Henry, era così lusingato, e insuperbito, all'idea di possedere un tesoro prezioso, che persino una nobildonna come Lady Lindon gli invidiava.
E la mattina successiva, mentre, dall'alto del loggiato che dava sui giardini all'italiana delle terme, osservavano il pigro passeggiare delle coppie lungo i viali, o lo scivolare per i canali delle barchette occupate da dame indolenti e dai loro cicisbei, o da giovani signore annoiate con i loro bambini imbacuccati in trine e pizzi, Henry gliel'aveva chiesto, ridendo:
"E allora, William, sentiamo: com'è baciare una Lady?"
Sedevano a sulla balaustra, uno di fronte all'altro, una gamba penzoloni e l'altra saldamente puntata a terra, Henry dondolando il suo bastone da passeggio con il pomo incrostato di turchesi, lo sguardo rivolto verso William, che a sua volta gli offriva il profilo mentre guardava lo spettacolo quietamente mondano che si dispiegava sotto i suoi occhi.
"Com'è? Beh", rispose William, puntando gli occhi su Henry con una smorfia buffa: "Uno schifo!!! Lady Lindon ha un alito orribile! Sa di aglio e di cipolla! E di gin!". E scoppiò a ridere, contagiandolo con la sua allegria.
Avevano passato insieme molte giornate e molti mesi così. William era sempre stupito, e grato, quando lui gli faceva scoprire un posto nuovo, quando lo portava dal suo sarto, quando frequentavano i casinò.
Poi, era arrivato Dorian.
E William era stato come una candela accesa in una stanza dove entrava prepotente la luce del sole.
Non aveva avuto il coraggio di parlargli.
Era stato vigliacco.
Si era negato, rintanandosi nella sua stanza al club, quel club per gentiluomini di cui William non era socio e dove non poteva entrare se non invitato esplicitamente da Henry.
Ed Henry non l’aveva più invitato.
 Poi, ci aveva pensato Dorian, a parlargli, a offrirgli una cifra adeguata per sparire. E lui, Henry, aveva immaginato che William si fosse sentito abbandonato, certo risentito, offeso, forse disperato (gli piaceva crederlo, lo lusingava, tanto, immaginarlo così), e, infine rassegnato, costretto com'era ad accettare la realtà, e a fare di necessità virtù.  Ma, come gli aveva ricordato senza garbo Dorian qualche giorno prima, in fondo era bastata una manciata di ghinee per liquidarlo: tanto profondo il suo affetto non doveva poi essere.
"Tu lo sai, Dorian, che ne è stato, di William?", aveva chiesto, con apparente disinvoltura, una volta, una volta sola, dopo molto tempo, a Dorian.
Erano a Sorrento, seduti davanti al mare: l'isola di Capri si stagliava di fronte a loro, ed erano avvolti e circondati dal profumo dei limoni, e intenti a sorseggiare un bicchiere di quel liquore delizioso ottenuto proprio da quei frutti, mentre altri nobili e ricchi borghesi si attardavano ai tavolini all’aperto di quel caffé, a gustare sorbetti, cioccolata e altre prelibatezze nel tepore di quel sole primaverile già così caldo, già così colmo delle promesse dell’estate.
Lord Henry non aveva guardato in viso Dorian, che, parimenti, aveva continuato a guardare davanti a sé, rigirandosi fra le mani il bicchierino colmo di liquore giallo vivo. "Oh, sai, era un ragazzo sveglio, e di cavalli ne capiva davvero: credo che con la cifra che gli abbiamo dato abbia messo su un allevamento, e che ora abbia anche un discreto successo".
"Bene ...:", aveva mormorato Henry, come unica risposta, pensando, con amarezza, a quell'abbiamo dato, così palesemente falso, eppure così vero, dato che i soldi erano i suoi, anche se a consegnarli era stato Dorian, e chi sa che cosa aveva raccontato a William. Poi, aveva finito il suo limoncello, e si era perso per minuti infiniti a osservare il fondo del bicchiere, in cui le ultime gocce di liquore, di un giallo brillante, gareggiavano con il colore del sole.
“Metti sempre tutto a posto, tu ...”, aveva infine osservato Lord Wotton, fissando il suo compagno di viaggi con uno sguardo indefinibile.
“Oh, beh”, aveva declamato Dorian, in tono leggero, come se non avesse colto il sottinteso dell’amico, “Perché farsi il sangue amaro e tirare in lungo certe faccende?! Sai come si dice, no? Chi vuol esser lieto sia/ del doman non v’è certezza!”, aveva esclamato, in italiano, levando il suo calice, con il suo sorriso irresistibile, e calamitando gli applausi dei presenti, felici e orgogliosi del fatto che uno straniero, un inglese elegante e ricco come un principe, a giudicare dai suoi abiti, apprezzasse tanto l’Italia e la sua cultura. Poi, però, Dorian, avvicinando il suo viso a quello di Lord Henry, gli aveva sussurrato, in un orecchio, gli occhi per solito limpidissimi diventati blu cupo, in un soffio, così che solo il compagno potesse intenderlo: “And if you want to use me, I can be your puppet[1].
 "Ti aspetto: stasera la cena è alle nove", aveva quindi detto a Lord Henry, a voce un poco più alta, senza aggiungere altro, alzandosi e avviandosi verso il loro alloggio, oltre il giardino.
        Lord Henry Wotton aveva rivisto William poche settimane dopo, appena rientrati in Inghilterra, al Gran Premio. Era andato a scommettere, e, nella calca, aveva incrociato un uomo, vestito di scuro, come un borghese benestante; l'aveva quasi urtato, e si era toccato il tricorno piumato in segno di scusa, quando si era accorto che si trattava proprio di William, del suo antico attendente. Era invecchiato, i capelli ingrigiti, due rughe profonde ai lati della bocca; imbolsito, con una espressione irriconoscibile negli occhi infossati – aveva sempre avuto quello sguardo porcino? Come mai non l’aveva mai notato, prima? - sotto le palpebre cascanti. Accanto a lui, una donna grassa e dall'espressione malevola, vestita senza eleganza con un chiassoso abito di seta a fiori rosa vivo dall'aria costosa e un cappellino stravagante, di pessimo gusto, da contadina ripulita e arricchita, e due bambini brutti, la femmina con i capelli biondicci stopposi e la stessa aria porcina del padre, e il maschietto, coi capelli rossi, un'espressione vacua e il moccio al naso.
"Wi – Wi… William!", aveva balbettato Lord Wotton, incredulo, sentendosi improvvisamente le gambe molli. (“Cielo! Fa’ che non svenga qui, ora!”, aveva pensato, non sapendo valutare se sarebbe stato maggiormente increscioso svenire come una signorina di buona famiglia, o svenire davanti a William e alla sua famiglia, o attirare l’attenzione di Dorian)
"Oh, Lord Henry!", aveva salutato William, con un cenno in avanti del capo, e toccandosi il tricorno, affabile, ma con gli occhi freddi.
E poi, rivolto alla moglie: "Mary, ti presento Lord Henry Wotton: come ti raccontavo, quando decisi di mettermi in proprio ("decisi!", ripeté fra sé Henry, e sarebbe sobbalzato, se, fin da bambino, non avesse imparato l’autocontrollo a suon di nerbate), fu lui a prestarmi la cifra per impiantare il nostro allevamento di cavalli".
La donna si inchinò sfoderando il più amabile dei sorrisi, ed Henry si sentì in dovere di dire poche parole di maniera: "Ah, certo, certo, l'allevamento: e a proposito, come vanno gli affari, William?".
"Bene, bene, Lord Henry. Non abbiamo ancora potuto iscrivere un nostro cavallo al Gran Premio, ma ci arriveremo, ci arriveremo. E, oltre agli affari, ci sono state anche molte altre importanti novità. Vi presento mia moglie Mary, e i miei figli Eleanor e Paul". E mentre la bambina tentava una maldestra riverenza, il fratellino, più piccolo, si nascondeva dietro le gambe del padre, diffidente, e non c'era stato verso di farlo sorridere o di fargli salutare quell'estraneo vestito di azzurro.
"Via, Paul, saluta Lord Wotton, non essere scortese!", lo redarguiva la madre, tirandolo per un braccio, per farlo inchinare davanti a Henry; ma non ci era riuscita. "Dovete scusarlo: è timido", si era giustificata alla fine.
Qualche convenevole, e si erano allontanati.
Un incontro squallido, triste.
Era tornato al suo posto, sulle tribune, di malumore.
Dorian lo aspettava, e aveva certamente visto la scena: non gli sfuggiva mai nulla.
Ma non aveva sollevato l'argomento.
Erano rimasti seduti, l'uno accanto all'altro, durante la corsa, senza dire nulla. Henry aveva anche vinto una discreta sommetta, ma era a tal punto mal disposto, verso se stesso e verso il mondo, da non riuscire a rallegrarsi della sua puntata felice, e, nauseato all'idea di mescolarsi alla folla per andare a riscuotere la vincita, aveva fatto e pezzetti e gettato via la ricevuta della giocata.
"Hai fatto il tuo solito fiasco, eh?", aveva sorriso Dorian, più tardi, in carrozza, carezzando il pomo del suo bastone da passeggio, di avorio intarsiato di malachite, gemello di quello di Henry, solo impreziosito di una pietra diversa. "Sì, l'ennesimo", aveva tagliato corto lui, e, per tutto il tragitto, aveva guardato fuori dal finestrino, in ostinato silenzio.
 
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Ringrazio infinitamente Alessandra DF3 per la stupenda fan art, che, col suo tratto elegantissimo e preciso, fa rivivere una delle immagini più seducenti del mio film preferito, cui, avrete capito, faccio allusione nel capitolo.
 
[1] I Maneskin mi perdoneranno per la citazione!

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Capitolo 10
*** 10- La locandiera ***


 
10 – Castigat ridendo mores - La locandiera
1 - “Sarebbe interessante assistere a una rappresentazione teatrale a Parigi”, buttò là Lord Douglas Sholto, una sera a cena, con il tono al contempo interessato e timido di un ospite che si faccia riguardo a chiedere esplicitamente.
“La famiglia Jarjayes ha da sempre un palco alla Comédie Française”, sorrise Oscar, tamponandosi la bocca con il tovagliolo di fiandra candida, “Se volete, posso informarmi sulle rappresentazioni in cartellone in questa stagione…”
“Oh, Colonnello Jarjayes, sarei così felice!”, sorrise Lord Sholto, e Lord Henry Wotton, che gli sedeva di fronte, non poté, ancora una volta, pur se dopo tanti anni e dopo una così profonda conoscenza del suo pupillo, non restare affascinato da quell’espressione così maliardamente ingenua, così artefatta, con una simulazione così perfetta della sincerità. “La naturalezza non è che una posa, e la più difficile, perché richiede una continua dissimulazione”: così gli aveva detto Dorian, una sera, in una stanza in penombra del loro club, mentre contava con gusto felice le vincite a whist
Scosse la testa, Lord Wotton, riemergendo dai ricordi. “La Vostra Signoria è forse stata turbata da qualcosa?”, si informò la contessa Marguerite, mentre anche André, che serviva a tavola, si era bloccato, la bottiglia di Bordeaux a mezz’aria, avendo notato l’espressione assente di Lord Henry.
“Nulla, nulla”, minimizzò quello. “Lontani ricordi”.
“Ricordi piacevoli, spero”, sorrise Dorian.
“Piacevolissimi”, tagliò corto il suo tutore, concentrandosi sul piccione che aveva nel piatto.
Poi, si rese conto che, nel breve momento in cui si era estraniato dalla conversazione, il Colonnello Jarjayes doveva avere proposto a Dorian di condurlo ad assistere al Trionfo dell’Amore, di Marivaux. “Non una gran novità, certo”, commentò garbatamente la contessa Marguerite “ma in questo periodo dell’anno siamo tutti talmente occupati, e trafelati, che le compagnie preferiscono allestimenti sicuri, e non troppo impegnativi per il pubblico”.
“Oh ma sicuramente, Madame la Comtesse”, convenne Lord Sholto, “e poi Marivaux è una gloria del teatro francese, un classicus auctor, oserei dire, un classico irrinunciabile per le vostre patrie lettere, e credo che non possa dire di essere stati a Parigi senza aver visto rappresentata una delle sue commedie!”.
2 - Tanto entusiasmo e tanta buona disposizione d’animo vennero mantenuti dal giovane ospite della famiglia Jarjayes nel corso di tutta la rappresentazione teatrale, quando, due sere dopo, Oscar e André condussero il giovane, insieme con il suo tutore, alla Comédie Française: nell’ordine, Lord Sholto espresse sommi elogi per il teatro, per le sue decorazioni, per l’eleganza del palco della famiglia Jarjayes, per la scenografia, per l’interpretazione degli attori, per la loro dizione, per i costumi fastosi e tuttavia eleganti, per il testo di Marivaux e il suo genio teatrale, per la sua leggerezza e la sua amabilità. Un tale buonumore era a tal punto contagioso, da strappare una serie di sorrisi rilassati anche a Lord Wotton, che, nella penombra, durante la rappresentazione, mentre gli attori interpretavano l’amore nascente di Léonide, sotto mentite spoglie, per Agis, non poteva tuttavia non rivolgere sguardi intenti verso André, a sua volta calamitato dal profilo di Oscar, che sedeva davanti al suo attendente, un poco ruotata, proprio accanto a Lord Sholto.
La rappresentazione si concluse con scrosci di applausi, che accompagnarono il matrimonio di Agis e Léonide, e Dorian, mentre si levava dalla sua poltrona imbottita, esclamò con aria sognante: “Decisamente, in Francia si sa parlare d’amore come in Inghilterra lo possiamo solo immaginare!”.
Ma la sua esclamazione, proferita con tono tanto sospiroso, venne coperta dalla domanda di Lord Wotton, che, raggiunta Oscar sulla soglia del palco, le chiesto, con il suo consueto tono blasé: “Colonnello de Jarjayes, voi certo conoscete quale sia la prima causa del divorzio?”.
André lo fissò di sotto in su, come a chiedersi dove Lord Henry trovasse tanto ardire, ma Oscar, insolitamente lieta, piegò le labbra in un sorriso ironico, e con un guizzo color fiordaliso negli occhi, rispose: “Veramente, Lord Henry, non solo lo ignoro per motivi personali, ma credo che chiunque in Francia lo ignori…”
“Oh, già!”, ribatté quello con tono mondano, come se avesse dimenticato una ovvietà, e fu quell’intonazione leggera a far passare come un simpatico epiteto l’altrimenti sprezzante “papisti!”, che Lord Henry pronunciò sorridendo, ma mettendosi come in atteggiamento di lieve attesa.
Oscar, che quella sera, notò André, era davvero in stato di grazia (forse perché da qualche giorno il visconte di Girodelle era a letto con un brutto raffreddore ed ella era sola al comando della Guardia Reale?) rilanciò, chiedendogli: “E dunque, Lord Wotton, vi prego di appagare la mia ignoranza: quale sarebbe la prima causa del divorzio?”.
“Ma il matrimonio, naturalmente!”, sorrise Lord Henry, e la facezia fu accolta con risatine convulse dalle dame che nel ridotto avevano orecchiato la battuta. Anche Oscar rise, un riso sommesso, basso, di gola, spensierato, si sarebbe detto, che fece correre un brivido per la schiena ad André, e anche a Lord Douglas Sholto.
“Colonnello de Jarjayes, Colonnello de Jarjayes!”, esclamò il giovane, affrettandosi a coprire con due rapide falcate la poca distanza che lo separava da Oscar, la quale era andata avanti tra la folla degli spettatori che si accalcavano verso l’uscita, affiancata da Lord Henry. “Sì, Lord Douglas? Ditemi”, si volse lei, mentre André, sussurrando un “con permesso”, lasciava il teatro per andare a recuperare la carrozza. “Colonnello de Jarjayes”, esclamò Lord Sholto con le guance imporporate e gli occhi scintillanti, che dardeggiarono verso il suo tutore, quasi che in essi ardesse la fiamma di una strana, misteriosa competizione “non potremmo concludere la serata andando a bere qualcosa in una autentica taverna parigina? Vi supplico!”.
“E va bene”, acconsentì Oscar, mentre lo sguardo di Lord Henry si spostava dal suo pupillo al Colonnello. “Ma attendiamo solo che André ritorni, per dirgli di lasciare in custodia la carrozza presso l’Hôtel de Deauville, qui vicino, e avviarci a cavallo”.
“Ah, ma naturalmente, Colonnello, naturalmente”, rispose Lord Sholto, abbassando gli occhi a terra, in atteggiamento quasi mortificato, come se avesse dato per scontato che sarebbero andati a bere soltanto in tre, e gli venisse improvvisamente ricordata la necessaria presenza dell’attendente del suo anfitrione.
Oscar si attardò per un attimo a osservare, con una strana aria sottilmente perplessa il volto del giovane Lord, inconsapevole dello sguardo sarcastico e quasi trionfante che Lord Wotton, da dietro le spalle del Colonnello Jarjayes, aveva lanciato al suo protégé.
 
3 – L’entusiasmo di Lord Douglas Sholto quella sera aveva qualcosa di bambinesco, per non dire di francamente molesto: tutto gli sembrava eccellente, eccezionale, squisito, “così tipico”, come aveva ripetuto almeno una dozzina di volte entrando nella taverna, “Le coq vert”, popolare, ma non misera, scelta con attenzione da André, per riguardo nei confronti degli ospiti inglesi, che si sarebbero scandalizzati, forse, se fossero stati condotti in una delle bettole dove lui e Oscar a volte terminavano le loro giornate. Uguali entusiasmi avevano suscitato la choucroute della casa, il vino, rosso, robusto, invero non disdicevole, e la birra fresca e schiumosa, alla quale, in verità, anche il Colonnello, e il suo attendente, per non parlare di Lod Henry, avevano reso onore. Il taverniere, del resto, avendo intuito la condizione dei nuovi avventori, li aveva trattati con ogni riguardo, mandano loro le bottiglie più pregiate, la birra più costosa e più leggera, servendoli personalmente, o mandando al tavolo a servirli la sua stessa figlia, Marianne, una ragazza di forse sedici anni, castana dagli occhi d’ambra, che assommava una notevole bellezza con un atteggiamento modesto e garbato, tipico di quella taverna frequentata da studenti, praticanti avvocati, qualche gazzettiere, artigiani di un certo livello, a giudicare dall’abbigliamento. Lord Douglas sembrava davvero in estasi; a un tratto, si alzò per ammirare la collezione di bottiglie e botti che l’oste teneva dietro il bancone.
“Dovete scusarlo, Colonnello”, disse Lord Henry, levando il suo bicchierino di cognac, l’ennesimo, “i giovani, si sa, si entusiasmano facilmente!”.
“Oh, Lord Wotton, vi prego: è un piacere per me farvi conoscere Parigi e i suoi luoghi più tipici. Senza contare che”, affermò Oscar, levando a sua volta il boccale di birra, l’ennesimo, imitata da André, “questa birra strappa un elogio entusiastico anche a m…”. Ma non finì la frase, perché, dal bancone, si erano levate urla belluine.
“Mostro! MOSTRO! MOSTROOOO!!!”, urlava una donna anziana, che sarebbe sembrata una linda vecchina, se non fosse stato per la smorfia orribilmente rabbiosa che le stravolgeva i lineamenti.
“Lasciami, megera! Lasciami!”, esclamava Lord Sholto, agitando nevroticamente il braccio che la vecchia gli aveva abbrancato.
“Nonna! Nonna! Che fate!”. Marianne, la figlia del taverniere, insieme col padre, tirava dall’altra parte la vecchina, per staccarla dal braccio di Lord Douglas, ma quella, con un accanimento e una energia insospettabili in una donna tanto anziana e tanto minuta.
“ASSASSINO! PAGHERAI PER MIA SORELLA!”, continuava a gridare ora quella che doveva essere normalmente una fragile nonnina, ma che, al momento, sembrava una pericolosa arpia.
Oscar, André e Lord Henry accorsero, ma ormai il taverniere e la figlia erano riusciti a staccare la vecchietta dal braccio di Lord Sholto, che si massaggiava l’omero e osservava la manica del suo giustacuore di velluto blu, strappata dalla spalla: “Damned witch! Look what you have done!”, sibilò, il furore negli occhi,
“Nonna, che cosa ti è preso?!”, piangeva Marianne, abbracciando la vecchina, mentre quest’ultima era scoppiata a piangere, come crollata dopo lo sfogo di aggressività di poco prima, accasciandosi fra le braccia della ragazza e ripentendo: “Sybille! Oh, Sybille! Sorella mia!”. Nel frattempo, il taverniere, tutto rosso in viso, sia per lo sforzo compiuto, che l’aveva affaticato non poco, data la sua stazza non indifferente, sia per la pessima figura rimediata, iniziò, imbarazzato, a scusarsi, tormentandosi con le dita il grembiale nero e senza quasi riuscire a levare gli occhi per la vergogna.
“Signori, signori! Vi chiedo umilmente scusa!  Mia nonna, dalla quale la mia famiglia ha ereditato la taverna, non si è mai comportata così!”.
“Via, si sarà trattato di un moto … dovuto all’età”, abbozzò Oscar, cercando con gli occhi la comprensione in quelli dei suoi ospiti inglesi.
“No, no, vedete, mia nonna, nonostante abbia superato ormai i novant’anni, è sempre stata lucidissima e quieta, e anzi, con una salute e una padronanza di sé tali da scendere ancora, a volte, in taverna, a servire i clienti e soprattutto a intrattenerli, grazie alla sua memoria di ferro, con aneddoti dei tempi della Reggenza[1]. Non …  non so che cosa le sia preso… vi scongiuro di perdonarla…”
“Oh, sì, perdonate la mia bisnonna!”, implorò anche Marianne, senza smettere di cingere con le braccia la vecchina, che ancora smaniava all’indirizzo di Lord Douglas Sholto.
“Ma io dico! Prima la vostra dolce e lucidissima vecchina mi ha preso a tradimento per il collo e sembrava intenzionata a strangolarmi”, ribatté il ragazzo, sciogliendo il fazzoletto da collo e mostrando i lividi e i segni delle unghie che la nonna del taverniere gli aveva lasciato, pur attraverso il tessuto; “poi, quando mi sono divincolato una prima volta”, continuò Dorian, “mi ha afferrato per la manica e ha iniziato a strattonarmi, blaterando che dovevo pagare per una certa Sybille! Ma chi è questa Sybille? Una cliente che non ha pagato il conto? Era un conto sostanzioso?”, chiese, infine, facendo le viste di mettersi le mani in tasca. “Mostro!”, urlò la vecchia, di rimando, “Sai benissimo chi sia Sybille e che cosa abbia fatto!”, e mentre la bisnipote conduceva nel retrobottega la vecchietta, il taverniere spiegò, stringatamente: “Sybille era la sorella di mia nonna, la sorella maggiore. Oltre ottant’anni fa, quando mia nonna non era che una bambina, venne trovata impiccata nella sua camera da letto, con un biglietto …”, l’uomo, che un attimo prima aveva iniziato la sua spiegazione guardando dritti in faccia i quattro avventori, ora distolse lo sguardo, chiudendo gli occhi e unendo le dita tozze alla radice del naso. “Diceva che non poteva più vivere, dopo che il suo amore l’aveva sedotta e abbandonata per tornare in Inghilterra e che non poteva accettare di gettare il disonore sulla sua famiglia”.
“Una storia assai triste”, convenne Lord Henry, rompendo l’imbarazzo del momento.
Nel frattempo, gli altri avventori, che per qualche minuto avevano sospeso le loro chiacchiere e le loro bevute, calamitati dalle urla e dalla scenata, nella quale era coinvolto, a giudicare dalla sfolgorante uniforme rossa, anche un alto ufficiale di Sua Maestà, avevano ripreso a bere e ad attendere ai loro traffici, dato che il quintetto sembrava ora impegnato in una conversazione decisamente più pacata e meno ghiotta.
“Molto. Molto”, convenne l’oste. “Mia nonna non fu colei che trovò la sorella, ma per lei la morte della prozia Sybille fu comunque un dolore lancinante, che segnò tutta la sua vita. Quando suo padre morì, ed ella, in quanto unica figlia sopravvissuta, rilevò col marito, mio nonno, la taverna di famiglia, la vendette, per riaprirne una nuova, con un nuovo nome, ovvero questo locale, sulla sponda opposta della Senna, come a voler allontanare in ogni modo il ricordo di quella tragedia”.
“Terribile”, convenne Lord Sholto, il cui sguardo si era addolcito. “Ma io che c’entro, in tutto questo?”
“Oh, beh, l’uomo che sedusse la sorella di mia nonna, facendola impazzire per l’abbandono”, era un inglese”, rispose l’oste, imbarazzatissimo. Un inglese, mi raccontava spesso mia nonna, quando mi metteva a parte dei suoi ricordi d’infanzia, “bello come un principe, biondo, con gli occhi blu, sempre vestito di velluto blu, ricco e gentile, che le aveva promesso che l’avrebbe sposata”. Lord Henry, senza una parola, si precipitò a passi decisi nel retrobottega.
“Lord Wotton, dove andate?!”, chiese allarmata Oscar.
“Eccomi qui”, rispose quello, dopo pochi minuti, riemergendo dalla stanzetta avvolta nella penombra con una mano sulla spalla di Marianne, che, a sua volta, sosteneva per le spalle la bisnonna, che sembrava quieta, ma che non smetteva di guardare con odio e con ferocia Lord Sholto.
“Buona donna”, disse Lord Wotton, “ripetete anche a me quanto avete detto: in che anno è morta la vostra amata sorella?”.
“Nel 1699!”, gridò la donna.
“E vi pare che questo giovane possa essere il seduttore di vostra sorella, dato che doveva avere all’epoca almeno vent’anni, e da allora ne sono passati oltre ottanta? Guardatelo!”, disse Lord Henry indicando Dorian. “Vi pare forse che quest’uomo potesse avere vent’anni nel 1699?”.
La vecchina fissò Lord Sholto con espressione vacua e stralunate, poi, rendendosi conto di quanto le diceva il suo interlocutore, nel suo sguardo passò un lampo di vergogna, e poi gli occhi le si riempirono di lacrime, e cadde in ginocchio, articolando sillabe confuse, dalle quali si capiva soltanto che chiedeva perdono al giovane inglese, e invocava la sorella morta.
“Su, su, brava donna, alzatevi”, disse Dorian, imbarazzato, dopo essersi scambiato con il suo tutore un velocissimo sguardo d’intesa – che non sfuggì ad André - avvicinandosi alla vecchietta e aiutandola a rialzarsi, insieme con la bisnipote. “Su, su, non piangete. Ecco, io … mi duole per la vostra cara sorella”.
“Perdonateci, Monsieur! Vogliate perdonarci, Vostra Grazia!”, supplicarono all’unisono il taverniere e la figlia. Dorian rispose senza indugio: “Ma certo, certo…si capisce… ovviamente… non… nessun rancore… ecco, io….”, e cacciandosi una mano in tasca, ne tolse due ghinee d’oro, che mise sul bancone “ecco, credo che bastino, e … tenete pure il resto”. Poi chiese, con fare implorante a Lord Henry e ad Oscar: “Io … ora …vorrei tornare a casa”.
“Ma certo, Lord Douglas Sholto”, rispose Oscar, in tono premuroso.
Recuperati i cavalli, e tornati all’Hôtel de Deauville, i quattro rientrarono a Palazzo Jarjayes in carrozza, con André a cassetta, e Oscar che chiacchierava sussurrando con Lord Wotton, mentre Lord Sholto dormiva, stremato da quell’avventura notturna, o faceva le viste di dormire.
“Maledetta megera!”, pensava in realtà, sotto le sue delicate palpebre abbassate, il giovane Lord. “Ma chi poteva pensare che fosse ancora viva la sorellina di quella sciocchina?! E soprattutto, come potevo sapere che avevano cambiato locanda e nome del locale?! Damn, damn, damn!!!”
 
4 -  Il congedo e la buonanotte furono rapidi. Dorian insistette per ringraziare sino alla porta della sua camera il suo tutore. Una volta sicuro che nessuno li vedesse, sussurrò: “Thank you, Henry, for your promptness of spirit.  Thank you very much, for the umpteenth time”, e subito dopo posò di slancio sulle labbra di Lord Wotton un bacio.
Lo sconcerto che si dipinse sul volto di Dorian, vendendosi respinto, quando le labbra di Lord Henry si ritrassero e la sua mano lo allontanò da sé, era terribilmente sincera.
“Non voglio un ultimo contentino. E non voglio essere pagato per quello che ho fatto per tutta la vita con piacere”, disse, l’aria severa, guardando dritto negli occhi il suo pupillo.
“Perché vedi squallore e mercimonio dappertutto, Henry? Sei così prevedibile!”. Le parole di Dorian erano intrise di scherno: evidentemente, si era ripreso subito dallo smarrimento del sentirsi rifiutato, per la prima volta in vita sua.
“Perché tu non conosci altro modo di rapportarti ai tuoi simili”, soffiò il suo tutore.
“Come preferisci”, tagliò corto il giovane, “vuol dire che me ne vado con un bacio di meno! Ma tu sei sicuro che non lo rimpiangerai?”.
Quando la porta della camera di Lord Wotton si chiuse, e Lord Sholto si avviò verso la sua camera, André chiuse la minuscola finestrella che, dal passaggio che correva parallelo al camminamento del corridoio, dava proprio sull’ingresso della stanza riservata all’ospite inglese. Aveva sentito abbastanza.
 
5 -  Non appena si chiuse la porta dietro le spalle, Lord Wotton sentì che gli occhi si riempivano di lacrime. Inammissibile, per un lord.
Si dispose a ignorare la propria pena – non era questo, in fondo, il senso ultimo di tutta l’educazione da gentiluomo ricevuta? – e iniziò a compiere, misurato e preciso, i gesti necessari per mettersi sotto le coltri, senza però suonare il campanello per farsi aiutare dal valletto messogli a disposizione dal Colonnello Jarjayes: non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo di un estraneo che si posava su di lui, non in quel momento.
Cercò di dominare il tremito delle mani.
 Non ci riuscì.
Si sedette sul letto, anzi, ci si lasciò cadere.
Si toccò le labbra con le dita, sfiorandole là dove Dorian aveva posto la sua bocca.
Era stato uno sciocco? Sì. Uno sciocco, uno sciocco pieno di dignità, ma pur sempre uno sciocco.
Se Dorian gli mancava tanto, come l’acqua a un assetato, perché rifiutare quel bacio? Credeva forse che tutti gli altri, che si erano succeduti in tanti anni insieme, fossero stati motivati da affetto sincero … da amore? Rise: una risatina sommessa, disperata. Ma certo che no: Dorian non sapeva che cosa fosse l’amor. Poteva dubitarne?
Ricordò quando lo aveva raggiunto al club, dopo aver liquidato per conto suo William. Era entrato nella sua stanza con una espressione furba e insieme infantile, trionfante come quella di un gatto che ha rubato il lardo dalla cucina sotto gli occhi della cuoca.
“Fatto”, aveva detto, senza aggiungere altro, e gli aveva gettato le braccia al collo.
“Ora saremo solo noi due”, gli aveva sussurrato all’orecchio.
Che cretino era stato, a credergli. Solo loro due? Certo. Solo due, ma unicamente sino a quando a Dorian fosse tornato utile. Avrebbe dovuto prendersi quell’ultimo bacio, pensò Lord Henry, e anche di più, se solo non fosse stato vigliacco e remissivo come sempre; se solo avesse imparato da Dorian a prendere tutto quello che voleva e che gli serviva, senza riguardi.
Sospirò a fondo, Lord Henry, e, dopo essersi messo la camicia da notte ed essersi seppellito sotto le coltri morbide e calde, si addormentò in preda a un’amarezza che aveva raramente provato.
Nel frattempo, André si era rifugiato in biblioteca, colto com’era stato da un dubbio che gli artigliava l’anima. Se davvero Lord Sholto era stato responsabile della morte di quella povera ragazza, oltre ottant’anni prima, la sua permanenza, sotto altro nome, in Francia ai tempi della gioventù del Generale non era stato certo il primo soggiorno di quell’essere oltremanica.
Si diresse a passi sicuri, una lanterna cieca in mano, verso la sezione della biblioteca dove erano conservati i documenti storici della famiglia Jarjayes, i diari degli antenati del Generale, le raccolte di lettere dei membri del casato, le patenti di nobiltà, i contratti stipulati con gli architetti che avevano progettato il palazzo e i giardini, e con gli artisti che avevano, nei decenni, realizzato quadri e sculture per adornare la dimora.
Si dispose a consultare i pesanti volumi, ordinati per decenni, e prese con sé quello che recava, sulla costa di cuoio marrone, le date 1690-1705. Poi, silenzioso come era venuto, scivolò, attraverso un passaggio nella parete della biblioteca, verso la sua stanza.
 
[1] Si intende il periodo dal 1715 al 1723, quando, alla morte di Luigi XIV, la reggenza venne detenuta dal cugino del Re, Filippo d’Orléans, data la minore età di Luigi XV.

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Capitolo 11
*** 11 - Notte di veglia - seduta di posa ***


11- Notte di veglia – Seduta di posa
 
Girandosi e rigirandosi sotto il fastoso baldacchino della sua stanza, protetto dalle soffici coltri che lo difendevano dal freddo invernale, Lord Douglas Sholto non riusciva a prendere sonno. Le braci del camino stavano morendo lentamente, e illuminavano fioche, in un cerchio di luce sempre più ristretto, lo spazio circostante. Più lontano poteva indovinare, nel buio fitto, la sagoma, inconfondibile, della pesante cassa di legno in cui era riposto il quadro, come lo chiamava pudicamente fra sé e sé, non ammettendo più quasi nemmeno nel tribunale della sua coscienza che quella cosa fosse il suo ritratto. O lo fosse stata.
Sospirò, e si rigirò, sul fianco destro, il braccio sotto la testa. Gli sembrò di risentire nelle narici l’odore penetrante del myosotis e quello più dolce e inebriante delle rose che dal giardino, attraverso la porta lasciata aperta, entrava nella sala della posa, gentilmente concessa da Lord Boleyn per il figlio del suo socio in affari, nonché amico delle sue figlie, Mary e Anna, da poco tornate dalla Francia con, al seguito, un giovane e promettente pittore.
Il giovane Dorian Douglas, un importante proprietario terriero del Berkshire, ormai, aveva ventidue anni, ed era necessario che avesse anch’egli un ritratto di rappresentanza da esporre nella quadreria di famiglia, “o da inviare a una gentildonna lontana, con cui combinare un prestigioso matrimonio, perché la poverina possa accertarsi di non andare in sposa a un mostro grasso e peloso!”, aveva riso Ann, cui il soggiorno in Francia aveva regalato una nuova verve, e un nuovo brio nella conversazione, oltre che una solida fama di dama affascinante e non insensibile al fascino dei gentiluomini dalla nobile prosapia e dalla borsa piena.
“E voi, che cosa intendete fare, Mesdemoiselles?”, chiese il pittore con uno sguardo in tralice da sopra il cavalletto, reggendo la tavolozza con una mano e tenendo per un attimo sospeso il pennello, in attesa di dare l’ultimo ritocco alle labbra del giovane che stava prendendo vita e colore sulla tela. “Non pensate che sia ora di avere un bel ritratto che renda onore alle vostre beltà e al vostro fascino?”.
“Oh, Maître Le Chiphre, vi prego!”, si schermì Mary, riparandosi il viso con il braccio sinistro, levato all’altezza del gomito verso il naso, in un gesto di ritrosia quasi contadinesca che il soggiorno in Francia non aveva completamente cancellato. “Non siamo ancora dame così influenti da necessitare di un ritratto di un grande artista come voi!”
Maître Le Chiphre, da sopra la sua tavolozza, le rivolse un sorriso sghembo e malizioso.
“Ma che dite, Miss Boleyn, ma voi sarete presto un sole che illuminerà la corte inglese come già avete fatto con quella francese!”. La velata allusione alle prodezze di Mary in Francia, dove aveva dato prova di costumi graziosamente disinibiti, provocò un sorriso in tutti e tre i ragazzi, nelle due sorelle e nel giovane Lord che posava per il ritratto. Era il maggio dell’anno del Signore 1520, e una stagione splendente sembrava dischiudersi ai giovani presenti nella stanza.
Monsieur Douglas, sono sinceramente ammaliato dalla perfezione dei vostri lineamenti”, disse il pittore, rompendo il silenzio che si era creato dopo il breve scambio di battute sull’opportunità per le due figlie di Mr. Boleyn di farsi ritrarre.
“Via, Maître Le Chiphre, in terra francese avrete certo ritratto il fior fiore dei gentiluomini e delle gentildonne”, rispose, in un empito di modestia, il giovane Mr. Douglas.
“E non solo in Francia”, puntualizzò il pittore, lo sguardo concentrato sotto la fronte aggrondata, mentre dava dei tocchi di blu agli occhi, per riprodurne al meglio la luminosità cangiante, “Ma anche in Italia, in Lamagna, in Danimarca, nel regno di Navarra e di Castiglia, e persino in Portogallo e Grecia”.
“Ma quanto avete viaggiato?!”, esclamò, stupita, col suo bel sorriso aperto, Ann, e poi aggiunse: “Non si direbbe, data la vostra giovane età!”.
“Oh, Mademoiselle Anne, voi mi lusingate; ma credetemi: non sono poi giovane come sembro”, sorrise il pittore.
“Davvero? Eppure si direbbe che abbiate appena superato la trentina!”, trillò Ann Boleyn.
“Nonostante il vostro incredibile acume, Mademoiselle Anna, temo che stavolta vi sbagliate di grosso!”, rispose Maître Le Chiphre, blandendo e insieme smentendo la ragazza.
“Ma esiste un posto dove voi non siete stato, Maître Le Chiphre?”, chiese Mary, l’aria sognante, allungata su un basso divano, il mento appoggiato sulle mani giunte e appoggiate sul bracciolo.
“Non so, Mademoiselle Marie”, sorrise l’artista, chiamando le sue interlocutrici, come sempre faceva, con la versione francese del loro nome di battesimo, “forse potreste chiedermelo: nominatemi un luogo, e io vi risponderò se ci sono stato o no … Oh, no, Monsieur Douglas!”. Il tono cortese, ma insieme distratto, tipico di chi abbia imparato a conversare in tono mondano pur con la mente concentrata altrove, con cui il pittore aveva risposto a Mary Boleyn, aveva ceduto il posto a una esclamazione di sorpresa e dispetto.
“Che cosa ho fatto?”, chiese il soggetto del ritratto, con aria allarmata. “Ho sbagliato qualcosa?”.
“La vostra espressione … è cambiata”, gli rispose il pittore, “e vi è comparso un solco sopra il naso, fra le sopracciglia, e uno più lungo vi ha solcato la fronte. Stavate forse pensando a qualcosa?”
“Veramente, sì, Maître Le Chiphre”, rispose il giovane Mr. Douglas, mordendosi un labbro.
“Malissimo!”, lo redarguì il pittore, in quel suo strano tono, tale che non si capiva mai bene se stesse scherzando o facesse sul serio. “Non sapete che il pensiero è nemico della bellezza? Ogni volta che una persona si mette a pensare, le compaiono le rughe sulla fronte, gli occhi si incupiscono, diventa tutta naso, o tutta mento, o che so io! Guardate coloro che si sono fatti strada nelle arti liberali e in generale nella vita: fanno tutti spavento!  Eccetto, ovviamente, gli uomini di chiesa, ma questo è naturalissimo: un ecclesiastico, a settant’anni, non fa altro che ripetere a memoria quello che ha ripetuto a quindici, e conserva, di conseguenza, un aspetto piacevolissimo!”.
La battuta venne accolta da scoppi di risa dei tre ragazzi. Le due giovani, in particolare, si imporporarono, scandalizzate, o fingendosi tali: “Maître Le Chiphre! Non si dicono certe cose!”, esclamarono, senza tuttavia potersi esimere dal ridacchiare divertite.
“Ma è la verità!”, ribatté il pittore, serio in volto e quasi accigliato.
“E, sentiamo”, riprese dopo un attimo, rivolgendosi a Dorian, “che pensiero ha turbato il vostro bel volto, rendendo impossibile la prosecuzione del mio modesto lavoro?”. Aveva posato la tavolozza e si stava ripulendo le mani in un panno mentre il giovane, quasi vergognoso e confuso, mordendosi il labbro e torcendosi le mani, iniziava a parlare: “Ecco, Maître Le Chiphre, poco fa, sentendovi nominare tutti i posti meravigliosi e fantastici per cui avete viaggiato, mi sono detto che non mi sarebbe bastata la vita per visitarli tutti, e che, se anche fossi partito ora per un lungo viaggio, una volta che avessi toccato tutti i Paesi che avete nominato, conoscendoli almeno un poco, sarei diventato vecchio. Un vecchio che non potrebbe più godere di tutta la bellezza e le esperienze che avrebbe potuto fare con l’età e le energie della giovinezza. E mi sono reso conto che  … che… questa giornata, così perfetta, così splendida e luminosa, questo profumo inebriante che entra dalla porta, quei fiori che lo sprigionano, tutto è destinato a finire, a sparire, così in fretta….così in fretta!”. Ora Dorian aveva le mani aperte, appoggiate sulle ginocchia, i palmi rivolti verso l’alto, e una espressione afflitta che né Mary né Ann gli avevano mai visto. In altri tempi, da brave amiche d’infanzia quali erano, sarebbero accorse verso lo sgabello su cui Dorian posava, a rincuorarlo abbracciandogli le spalle, l’una alla destra, l’altra alla sinistra del giovane. Adesso, però, le due ragazze erano impietrite, l’una ancora allungata sul divano, Ann in piedi, in fondo alla stanza, le mani intrecciate davanti al grembo. Era come se un vento freddo fosse improvvisamente entrato nella stanza, raggelando il tepore primaverile di poco prima.
“Avete proprio ragione, Monsieur Douglas”, convenne l’artista, in tono insolitamente assorto, mentre dava alcuni tocchi allo sfondo, “giovinezza e bellezza sono tesori rari e fragili, da custodire con ogni cura. E tuttavia, per quanto accuratamente li si custodisce, la catastrofe è sempre in agguato. E se anche non avvenisse, beh, lo sapete benissimo anche voi, Monsieur Douglas, e voi, Mesdemoiselles, la sfida contro il tempo non contempla mai vittorie da parte di noi miseri mortali: al massimo si può negoziare una patta onorevole; ma anche questi sono casi rari”.
Il giovane Dorian deglutì, in preda a uno sgomento mai provato prima: in un attimo, intravide tutta a sua vita futura: prima, ancora qualche anno sentendosi giovane e forte, e venendo lodato per la perfezione dei suoi lineamenti e la freschezza del suo sorriso, avrebbe badato agli affari del padre e poi li avrebbe ereditati, si sarebbe sposato e avrebbe avuto un figlio, o due, in cui avrebbe rivisto la sua freschezza e la sua perfezione, la sua gioventù e il suo fisico snello e scattante; nel frattempo, a lui, a Dorian, i denti si sarebbero cariati e ingialliti, la schiena di sarebbe curvata e avrebbe finito per vedersi crescere attorno alla cintola una pancia monumentale come quella di suo padre; sarebbe presto diventato un vecchio gottoso, con la barba bianca, e il volto rugoso, si sarebbe ammalato di una qualche malattia che l’avrebbe reso debole e ripugnante, e poi, un giorno, sarebbe morto; l’avrebbero avvolto in un sudario di lino, messo in una cassa di legno, e poi, dopo una messa solenne dove i suoi amici e parenti avrebbero finto di piangere disperatamente – sapendo però benissimo che di lui si sarebbero dimenticati non appena usciti dalla chiesa – lo avrebbero messo sottoterra, e il suo corpo sarebbe marcito, preda dei vermi e dell’umidità. Fine della storia. Di lui sarebbe rimasto solo il ricordo, destinato a svanire presto, man mano che le persone che lo conoscevano fossero invecchiate e morte a loro volta. Il ritratto, forse, quel ritratto dipinto da un artista talentuoso e sconosciuto, arrivato casualmente dalla Francia insieme alle sorelle Boleyn, se avesse potuto sfidare i secoli, avrebbe testimoniato ai secoli futuri la sua bellezza: ma non era scontato che chi lo avrebbe guardato sapesse qualcosa della vita, del carattere, delle inclinazioni, dei gusti del giovane che vi era immortalato.
La desolazione era un mostro che gli agguantava il collo e gli toglieva l’aria.
“No!”, ebbe la forza di gridare, attirando lo sguardo di Maître Le Chiphre e delle sorelle Boleyn, “Non voglio! Non lo accetto!”.
“Che cosa non accettate, Mr. Douglas?”, chiese, premurosa e insieme allarmata Mary, mettendosi a sedere, rigida sul divano, le ginocchia unite, i palmi appoggiati alla seduta.
“Tutto… tutto questo!”, riuscì a rispondere Dorian.
“Che cosa, caro Mr. Douglas? Qualcosa vi contraria?”. Ann, più lesta della sorella, si era avvicinata a Dorian, e lo interrogava, stringendogli delicatamente l’omero destro, il volto inclinato verso di lui, perché il giovane la guardasse.
“Tutto! Tutto! Perdere la mia bellezza! Diventare un vecchio, un mostro bolso, rugoso, disgustoso! E poi morire! Tutto perduto! Tutto!”.
“Monsieur Douglas”, intervenne con tono grave Maître Le Chiphre, “mi duole infinitamente che le mie parole abbiano generato in voi queste riflessioni così tetre”.
“Ma”, intervenne, dolce e conciliante come sempre Mary, dopo aver raggiunto la sorella e il giovane amico al centro della stanza della posa, “Mr. Douglas, ragionate: invecchiare e morire è la sorte di tutti gli esseri umani! Invecchiare è un privilegio che non tutti hanno, non ci avete mai pensato?”.
“No! No! Non voglio! Non voglio! Non è giusto!”, ripeté Dorian, fuori di sé, piangendo disperato con il volto fra le mani.
“Via, Mr. Douglas”, intervenne Ann, con la consueta animosità, “Voi parlate come se doveste svegliarvi vecchio e morire fra una settimana, o domani stesso! Ma passeranno invece molti anni prima che vi ritroviate ridotto a un vegliardo pieno di rughe e con la pancia e la barba lunga e canuta!”.
“Molti anni!”, rispose sprezzante Dorian, scoprendosi il volto e rivolgendo uno sguardo pieno d’ira ad Ann. “Ma non capite, Ann?! Non lo capite davvero?! Per quanto a lungo possiamo vivere, fra cent’anni tutti noi saremo morti! E prima sperimenteremo la decadenza, la vecchiaia, la malattia! Perché? Perché?!”.
“Il Signore Iddio, nella sua infinita sapienza, ha disposto così”, interloquì severo Maître Le Chiphre, che aveva nel frattempo ricominciato a ritoccare, con pennellate minutissime, lo sfondo del quadro, “Chi siamo noi per contestare le sue scelte?”.
“Ebbene, io le contesto! Io mi ribello!”, gridò Dorian, balzando in piedi, stringendo i pugni, con il volto rosso per la rabbia di fronte all’ingiustizia di cui era vittima tutta l’umanità. “Ma non trovate terribile che questo quadro, fra cinquecento anni, sarà ancora bellissimo, e conserverà la bellezza del soggetto che ha posato, mentre io, che sono ritratto su questa tela, sarò ridotto a un mucchio di cenere e ossa, e prima sarò diventato, se sarò stato tanto fortunato da vivere una lunga esistenza, un vecchio dall’apparenza turpe e grottesca?! Ah, come vorrei che in vece mia potesse essere questo quadro a invecchiare e a subire l’onta del tempo!”. Detto questo, ricadde, stremato, sullo sgabello su cui aveva passato le due ore precedenti, impegnato nella lunga seduta di posa. Si coprì il volto con le mani, mentre nella stanza regnava il più assoluto silenzio. Poi, tolte le mani dal viso, e passatosi una mano sugli occhi, come a dissipare una lacrima che indugiava sulle ciglia, Mr. Douglas parve riprendere il controllo di sé.
“Perdonatemi, Maître Le Chiphre, e voi, Miss Boleyn e Miss Ann: non era mia intenzione dare spettacolo, né angustiarvi con quei miei sproloqui. In verità, non so davvero che cosa mi abbia preso”.
Monsieur Douglas, temo che sia tutta colpa mia”, obiettò, magnanimo, l’artista, riponendo i pennelli, “vi ho richiesto una seduta di posa molto lunga, e per esperienza dovrei avere appreso che posare è un’attività non solo faticosa, ma anche assai prostrante per lo spirito, che, nell’immobilità richiesta, diventa soggetto a riflessioni e fantasticherie inquietanti. Direi che per oggi possiamo considerare conclusa la nostra seduta”.
“Ma no, Maître Le Chiphre, che dite! Possiamo continuare, quel momentaneo obnubilamento del mio spirito è passato. E non sono affatto stanco!”, garantì Dorian.
Monsieur Douglas, vi ringrazio per la vostra buona volontà e per la generosità del vostro tempo, ma, se l’obnubilamento del vostro animo si è dissipato, non è così per quello del cielo: vedete quelle nubi che hanno oscurato il sole? Ecco, la luce è cambiata, e ora non è più ottimale per dipingere. Continueremo fra tre giorni, come convenuto: come vedete, il vostro ritratto è quasi terminato. Vi chiedo solo un po’ di pazienza”.
“Certo, Maître Le Chiphre, come volete voi. Ma vi ricordo che dobbiamo ancora fissare un prezzo per il vostro lavoro: non mi avete ancora detto quanto mi costerà questo splendido ritratto”, rispose Dorian.
“Oh, Monsieur Douglas! Non datevi pensiero”, rispose il pittore con un cenno della mano, quasi a scacciare una mosca molesta, “non sarà un prezzo troppo esoso, vedrete: soprattutto perché per un artista è un piacere trovare un soggetto così stimolante! Ma ne parleremo comunque a ritratto finito”.
               “E va bene, Maître Le Chiphre, va bene. Ci vedremo ancora fra tre giorni, come concordato?”.
“Ma certamente, Monsieur Douglas. E ora, arrivederci”, lo congedò l’artista, mentre le sorelle Boleyn accompagnavano il giovane ospite alla porta della loro dimora.
        Le giornate successive passarono senza che Dorian riuscisse a dissipare del tutto l’angoscia di quel pomeriggio; ma quando il ragazzo arrivò alla dimora dei Boleyn, Mary lo accolse con una espressione di disagio. “Mr. Douglas, vorrete certo perdonarmi, ma Maître Le Chiphre è partito”.
“Partito? E quando?!”.
“Ieri, in tutta fretta”. E mentre Dorian percorreva di corsa il lungo corridoio che conduceva alla stanza della posa, Mary gli tenne dietro dicendo: “Ha comunque finito il ritratto, e lasciato una lettera per voi!”. Mary raggiunse Dorian, che si era bloccato sulla soglia della stanza. Lì, faceva bella mostra di sé, al centro del vasto camerone, un quadro, poggiato ancora sul cavalletto, e coperto da un drappo. Appoggiato al cavalletto, un messaggio ripiegato e sigillato con ceralacca. Dorian lo afferrò e lo dissigillò, con mani avide, presagendo qualche gran novità.
Mio giovane e gentile Monsieur Douglas,
                                                                       per impegni improvvisi sono costretto a lasciare prima del previsto la deliziosa ospitalità di Mr. Boleyn e delle sue figlie. Tuttavia, non avrei potuto abbandonare l’Inghilterra senza aver terminato il Vostro ritratto: mancavano solo pochi tocchi, che mi sono permesso di dare alla tela senza incomodarVi, dato che le lunghe ore di posa mi hanno impresso in modo indelebile nella mente la Vostra nobile fisionomia. Non credo di esagerare affermando che si tratta del mio capolavoro, in cui ho riversato tutta la mia arte e il mio genio. Non Vi date pena per il pagamento: prima o poi, ci incontreremo nuovamente, e allora salderete senza problemi; ma Vi assicuro che non sono affatto esoso e che non ho mai richiesto a nessuno più di quanto non fosse disposto a pagare. Abbiate cura di questo ritratto, Monsieur Douglas: vi dovrà fare compagnia per molti, molti anni.
Con i miei più profondi ossequi, il Vostro devotissimo Louis Le Chifre”.
Dorian sollevò un lembo del telo e lo alzò di scatto, facendolo ricadere a terra: il quadro ne emerse in tutto il suo splendore, mozzandogli il fiato per la meraviglia. Dietro Dorian, Mary Boleyn, e Ann, che era sopraggiunta pochi attimi dopo la sorella, e che avevano percorso, mentre l’amico leggeva l’enigmatico messaggio del pittore, non poterono trattenere un’esclamazione di sorpresa.
“Mr. Douglas, è … semplicemente meraviglioso!”, gridò Ann, al colmo dello stupore!
“Sì, è … strepitoso!”, convenne Mary, “non ho mai visto un ritratto più bello, nemmeno fra quelli di proprietà del Re di Francia!”
Ma il cuore di Dorian, contrariamente a quello delle sorelle Boleyn, era pieno di inquietudine.
 La sera, dopo che il ritratto era stato portato nella tenuta paterna, prontamente incorniciato in una bella piattona dorata, acquistata per tempo da Dorian, e sistemato nella sua camera da letto, non senza essere stato prima a lungo rimirato ed elogiato da tutta la famiglia, il giovane si stava preparando per una sortita alla taverna, dove avrebbe potuto dissipare l’inquietudine che lo attanagliava: avrebbe indossato abiti di buona fattura, ma comodi, non eleganti e ricercati come quelli che portava di solito, e che lo facevano riconoscere a vista come membro di una famiglia ricca e in vista, come piaceva tanto a lui, unico figlio di un prospero proprietario terriero e mercante. Quella sera si sarebbe vestito di scuro: nessun colore sgargiante, solo fustagno di buona fattura, e un mantello di lana a proteggersi dall’umidità serale che ancora colpiva in quelle notti di maggio.
Poche ore dopo, Dorian rientrava a casa, ubriaco e pieno di lividi, reduce da una rissa sorta a proposito delle attenzioni di una belle cameriera, usa a rallegrare gli avventori non solo servendo loro abbondanti boccali di birra, ma anche con le proprie grazie: Dorian giurava e stragiurava di averle pagato quanto pattuito prima di salire in camera; la ragazza, evidentemente imbeccata dall’oste su come comportarsi, negava; il proprietario della taverna insisteva per essere pagato, ancora una volta, e se pure la cifra era tutto sommato trascurabile, e tale che il giovane avrebbe potuto pagare senza difficoltà, con il danaro che aveva in tasca, non due, ma dieci, venti, trenta volte le prestazioni di quella piccola sudicia imbrogliona dai capelli rossi, Dorian si era fatto un punto d’onore di vedere ristabilita la verità. Ne era nata una discussione, e poi, una rissa, sino a quando un tipaccio con uno sfregio sulla guancia, che si dichiarò come il fratello di Nelly, la cameriera all’origine della discussione e della zuffa, non aveva estratto dal farsetto una misericordia, avanzando minacciosamente verso Dorian. A sua volta, il ragazzo aveva estratto dal proprio farsetto un pugnale e i due avevano ingaggiato un rustico duello davanti al bancone dell’oste, mentre, intorno a loro, si era fatto il vuoto per consentire ai due contendenti di muoversi, circondati dagli avventori e dai sostenitori dell’uno o dell’altro dei duellanti. Quando il brutto ceffo era riuscito ad avanzare sino a Dorian, facendogli un taglio profondo sul dorso della mano sinistra, questi, a sua volta, in preda alla furia, aveva reagito e con un balzo aveva sfregiato l’altra guancia dell’avversario. E il duello sarebbe proseguito, se non fosse stato per Nelly, che si frappose, gettandosi fulminea tra le braccia del ceffo dalle guance sfregiate, gridando, fra le lacrime. “Oh, basta, basta! Ted, ti supplico, basta così! E voi signore”, esclamò, sollevando il volto dal petto del sedicente fratello, e rivolgendo in direzione di Dorian uno sguardo supplichevole, gli occhioni azzurri colmi di lacrime: “Abbiate pietà, signore! Mio fratello non voleva recarvi oltraggio! Prendetevela con me, signore, se ho mentito! Ma la povertà e la malattia di nostra madre mi hanno costretta a tanto!”.
Il tipaccio e Dorian abbassarono le mani armate di pugnale. Lo sfregiato si liberò dalla stretta della ragazza, spingendola via, e sputò a terra, con disprezzo.
“Vedi di ringraziare mia sorella Nelly, se per questa notte il solo sfregio che ti ritrovi è quello sulla tua delicata manina!”.
Dorian, per tutta risposta, dopo aver riposto il pugnale nella tasca interna del farsetto, con la mano sana cercò in tasca alcune monete e, afferratele a caso, le gettò con eguale, se non maggiore disprezzo, a terra, ai piedi di Nelly e del fratello, dicendo: “Ecco, tenete il guiderdone per la vostra miseranda esibizione! Ma vi consiglio di imbastire una storiella lacrimevole meno scontata, la prossima volta!”. E, detto questo, girò le spalle, e si avviò verso casa.
La mano sinistra gli doleva terribilmente, nonostante l’avesse fasciata alla buona con un fazzoletto: segno che il taglio era molto profondo. “Maledetto villano rifatto!”, pensò Dorian, reggendo a stento le briglie “che il diavolo ti porti!”. Pensò che il giorno dopo avrebbe dovuto tornare in città per farsi medicare come si deve dal chirurgo, Mr. Plymouth, e anche se lo consolava che il taglio fosse sul dorso della mano, e non avesse leso, nel palmo o sul polso, tendini o nervi, gli dava terribilmente ai nervi che, con ogni probabilità, gli sarebbe rimasta, a ricordo dell’avventura notturna, una brutta cicatrice: e così le sue belle mani bianche e immacolate non sarebbero state più tali! E tutto questo per una sguattera da taverna e pochi pence!
Rientrare a tarda notte dopo aver fatto le ore piccole in taverna non era una novità per Dorian, e il vecchio John, il suo fedele cameriere, lo accolse senza far motto, dopo averlo atteso alzato per ore, presumibilmente recitando le sue orazioni, dato che l’anziano servitore era molto devoto. Mentre, facendosi strada con una candela, riaccompagnava il padroncino verso la sua stanza, dopo averlo aiutato, senza una parola, a liberarsi dal pesante mantello, il vecchio John non poté non far cadere lo sguardo sulla mano sinistra di Dorian.
Il giovane minimizzò: “Oh, nulla di grave, John, non preoccuparti. Piccole discussioni da taverna”. Nonostante il chiarimento, il servitore scosse la testa, con aria rassegnata: quando il figlio del padrone avrebbe dunque imparato ad amministrare più saggiamente il suo tempo e la sua persona? Dorian lo congedò velocemente, dopo che il vecchio gli ebbe offerto di tenere la sua candela. “E tu?”, gli chiese il ragazzo, “come farai a tornare in camera tua?”.
“Oh, signorino Dorian, non preoccupatevi”, lo rassicurò John, “conosco questa casa a memoria, dopo tanti anni passati a servire vostro nonno prima, e poi vostro padre e voi. Posso facilmente tornare alla mia camera senza inciampare. Tenete voi la candela, ma ricordate di spegnerla non appena sentite arrivare il sonno, perché non vorrei che le cortine del vostro letto prendessero fuoco”.
“Ma certo John, certo, lo so: non sono più un bambino. Sta’ tranquillo!”, lo rassicurò Dorian. E già, mentre il vecchio servo si chiudeva la porta dietro le spalle, Dorian aveva iniziato a spogliarsi. Rimasto con addosso solo la camicia, prima di sfilarsela per indossare l’ampia veste da notte, sciolse il nodo al fazzoletto che gli proteggeva il taglio, e gettò il pezzo di tessuto, inzuppato di sangue, a terra: la ferita faceva spavento: profonda e pulsante. Dorian, con fatica, prese dalla cassapanca un altro paio di ampi fazzoletti e si fece una doppia fasciatura approssimativa, avvolgendo poi la mano in una vecchia camicia, in modo da non sgocciolare sulle coperte e sulle lenzuola durante la notte. Poi, reggendo la candela nella mano destra, si era avvicinato al ritratto, non ancora appeso, ma sistemato, con tanto di fastosa cornice, su un supporto, davanti al letto. Dorian avvicinò la fiamma alla tela: un piccolo cerchio di luce illuminò i lineamenti perfetti del ritratto; poi, il giovane abbassò la candela, a illuminare la mano sinistra, levata all’altezza del viso, in un grazioso gesto, il pollice e l’indice levati, le altre dita semipiegate, il dorso in bella vista: liscio, immacolato, perfetto, come non sarebbe mai più stato nella vita reale!
Represse un singhiozzo, e un moto di stizza, poi si impose di finire di prepararsi per la notte: posato sul comodino il portacandela dove la fiammella continuava ad ardere, si strappò quasi di dosso la camicia, madida di sudore, e si infilò la veste da notte. Si cacciò sotto le coperte, e, con un gesto veloce della destra, spense la candela. Poi, tenendo la mano destra fuori dalle coperte, appoggiata sul copriletto di lana fiorentina, si tirò il lenzuolo addosso, e si addormentò all’istante.
“Ben svegliato, Mr Douglas!”, esclamò Martha, la vecchia governante, pochi attimi dopo che il ragazzo aveva suonato il campanello. La donna, dall’andatura svelta e agile, nonostante la mole tondeggiante, aveva poggiato il vassoio con il pane, il latte, la composta di mele e il porridge d’avena della colazione sul basso cassettone posto davanti al letto, e stava aprendo gli scuri.
“Buongiorno, Martha. È molto tardi?”, chiese il ragazzo, stropicciandosi gli occhi, nei quali restava ancora qualche brandello dei sogni angosciosi e confusi che avevano popolato il suo sonno irrequieto.
Il padre di Dorian era particolarmente tollerante con i capricci e le passioncelle del figlio, ma su una cosa non transigeva: un buon proprietario terriero doveva svegliarsi per tempo, per sorvegliare con tutta l’attenzione l’inizio dei lavori nella sua tenuta.
“No, non direi, Mr. Douglas. Vostro padre, in ogni caso, non potrebbe rimproverarvi, dato che è partito prima dell’alba per concludere un affare importante verso … oh, cielo, non ricordo nemmeno più verso dove! Forse a York? O a Southampton?”, rispose Martha strizzando l’occhio al padroncino, che era il suo cocco da quando era nato.
“Eccovi la colazione”, continuò, garrula, ponendo il vassoio sulle ginocchia del padroncino. Poi, indicando con il mento la mano di Dorian, disse, preoccupata: “Oh, signorino Douglas, non dovreste mettervi così a rischio in taverne frequentate da tipi poco raccomandabili! Dovremo mandare a chiamare Mr. Plymouth nel pomeriggio?”.
“Martha, ti prego, non ingigantiamo un incidente da nulla”, minimizzò Dorian, imponendosi di mentire di fronte alla sua governante, “Andrò io stesso oggi, dal chirurgo in città. Ma ti assicuro che lo faccio per puro scrupolo, perché si tratta davvero di poco più di un graffio!”.
“E immagino che, dato che si tratta di poco più che un graffio, non vorrete farmelo vedere”, ribatté Martha, critica come una madre preoccupata per il figlio scapestrato.
“Esattamente, Martha, esattamente”, rispose Dorian, addentando una fetta di pane inzuppata nel latte.
“Esattamente”, sbuffò la brava donna, “Esattamente!”, ripeté, in tono critico, chinandosi e raccattando da terra la camicia indossata la notte prima dal padroncino, per portarla a lavare. Poi, rialzandosi, si trovò direttamente davanti agli occhi il ritratto, e si commosse, profondendosi in elogi: “Oh, signorino Douglas, ma questo ritratto è semplicemente  … divino! Siete bellissimo! Santa Vergine! Siete esattamente come nella realtà!”. Poi, aggrottando lievemente la fronte, e avvicinandosi al dipinto. “SANTO CIELO!”, esclamò allarmata, “Ma come è possibile? C’è già uno sbaffo sul vostro ritratto! Bisogna assolutamente che venga ritoccato mentre ancora la pittura è fresca!”.
“Ma che dici, Martha?!”, rispose Dorian, saltando giù dal letto, ugualmente allarmato: un brutto sbaffo rosso, come un taglio, solcava il dorso della mano sinistra del giovane ritratto nel dipinto.
“Guardate, guardate se non è vero!”, rispose la brava donna, indicando il segno rosso.
“Martha, ora ti prego di uscire; penserò più tardi a rimettere in sesto il quadro”, disse Dorian, mordendosi il labbro.
“Ma… ma …”, protestò debolmente la donna.
“Ci penseremo poi. Ora devo … ora devo scrivere delle lettere, delle lettere importanti!”, la congedò Dorian, in una maniera così insolitamente brusca da suscitare nella buona governante un’espressione più che perplessa, preoccupata. Quando la donna fu uscita, il ragazzo, che, dopo averla quasi fisicamente spinta verso la porta, tornò verso il ritratto, con una strana sensazione di paura che gli torceva lo stomaco: un sospetto terribile gli frullava nella mente, ma, fino a quando non avesse controllato, poteva illudersi che la sua fosse solo la fantasticheria di un ragazzo impressionabile, che la sera prima aveva preso una solenne sbronza. Sospirò. Poi, chiamato a raccolta tutto il suo coraggio, Dorian svolse la pesante fasciatura con cui aveva protetto la mano sinistra: il dorso era perfetto, immacolato, come se nessuna lama l’avesse mai offeso. Era chiaramente impossibile che in una sola notte il taglio si fosse rimarginato in modo così completo e perfetto. Dorian si ricordò di un forte calcio che la notte prima lo sfregiato gli aveva dato sulla spalla, e che gli doveva aver lasciato un bel livido. Aprì il laccio della camicia da notte e si scoprì la spalla e parte del petto: nulla.
Si avvicinò alla tela: la mano sinistra del giovane ritratto riportava esattamente lo sfregio con cui Dorian era tornato a casa la notte prima, gonfio, sanguinolento, spaventoso. Dorian singhiozzò, e cadde in ginocchio davanti al quadro: non era possibile, non era possibile. Andò a frugare nel farsetto indossato la mattina precedente, e ritrovò la lettera del misterioso artista francese, giunto da oltremanica e sparito senza nemmeno farsi pagare. Il primo istinto fu quello di strapparla in mille pezzi, ma poi si trattenne, riguardando il nome del pittore… Louis … Non ci aveva mai fatto caso: Louis Le Chifre, Louis Chifre, Lucifer… Oh, no! No, no, no e poi no: non poteva essere così scioccamente suggestionabile, così superstizioso, via! Cercò di riscuotersi, ma sentiva un rivolo di sudore corrergli giù dalla fronte, lungo le tempie, e uno strano brivido nella schiena. In preda al panico, tolse il lenzuolo dal letto e lo gettò sopra il quadro. Poi si rivestì, nel modo più accurato possibile, indossando anche un paio di guanti in pelle, un poco incongrui in quella mattina di maggio, e, una volta recatosi nelle cucine, annunciò a Martha, che stava dando istruzioni per i pasti da preparare nella giornata, che non sarebbe tornato a pranzo, e di non rimuovere il lenzuolo con cui aveva coperto il ritratto nella sua stanza: evidentemente i colori adoperati per dipingerlo erano difettosi e si guastavano al sole, dato che era bastata la poca luce entrata nella sua camera dopo che Martha aveva aperto gli scuri per farli deteriorare.
“Oh, signorino Dorian, dite davvero?”, chiese, mortificata, la poveretta, “Sono davvero desolata di essere la responsabile e…”
“Altolà, Martha”, la bloccò scherzosamente Dorian, protendendo in avanti la mano destra, “Tu non hai proprio nessuna colpa! Anzi, ti ringrazio davvero per avermi fatto notare questo difetto. E ora troveremo il modo di rendere il ritratto non più deperibile”, disse il giovane, sforzandosi di sorridere, e uscendo subito dopo dalla cucina.
“Tutti uguali, questi francesi”, borbottò la vecchia Mary, che aveva assistito a quello scambio di battute mentre era intenta a spennare un pollo, “sembra che sappiano tutto loro e che ci vendano la Luna, e poi, oplà, c’è sempre sotto la fregatura!”.
Arrivato in città, Dorian si precipitò all’indirizzo in cui Maître Le Chifre risiedeva e aveva lo studio; ma la porta era sbarrata e un carbonaio che aveva la bottega lì vicino gli disse che il pittore era partito due giorni prima in tutta fretta, senza salutare nessuno, “e senza nemmeno finire il ritratto a carboncino che stava facendo a tempo perso alla mia piccola Catherine!”.
“Ringraziate il cielo che non l’abbia terminato!”, ribatté Dorian, volgendo le spalle e lasciando il poveretto a bocca aperta.
Aveva bighellonato per la città per tutta la mattina, sapendo benissimo, in cuor suo, che non avrebbe trovato Maître Le Chifre, e anzi iniziando a sospettare il vero senso del suo messaggio. All’ora di pranzo, si era rifugiato in una bettola, senza avere fame, ma in preda a un’idea terribile e folgorante. Aveva ordinato un orciolo di vino; e non appena l’oste glielo ebbe portato, lo lasciò cadere a terra, insieme al bicchiere di coccio. Chinatosi, raccolse un frammento appuntito e si fece un taglio sulla guancia destra, non profondo, ma che sanguinò abbondantemente.
“Ma che fate, signore!”, esclamò l’oste.
“Nulla, nulla!”, gridò Dorian, saltando in piedi e correndo fuori, non senza aver lanciato una intera sterlina all’oste, e aggiungendo un “per il vostro disturbo, brav’uomo!”.
Recuperò il cavallo, tenendosi una mano sulla guancia, sentendo il sangue che scendeva copioso, e guardando, ogni tanto, il guanto inzuppato di rosso. Cavalcò a perdifiato verso casa, entrando come una furia e precipitandosi verso la sua camera. Sollevò, con mano tremante, il lenzuolo che riparava il quadro: sulla guancia destra, il giovane ritratto mostrava uno sfregio, mentre la guancia di Dorian aveva smesso di sanguinare e il taglio si era perfettamente rimarginato.
E così, ricordò Lord Douglas Sholto, mentre si rigirava nel morbido letto a baldacchino messogli a disposizione dal Colonnello de Jarjayes, era iniziata la sua dannazione: aveva iniziato a viaggiare, non senza aver prima fatto fabbricare “subito, subito, con la massima urgenza”, una cassa chiusa per custodire il ritratto, con una piccola apertura, uno sportellino da cui osservare, di tanto in tanto, l’inevitabile decadenza del giovane uomo rappresentato sulla tela, che, nei decenni, si era riempito di rughe, pustole da vaiolo, sfregi dovuti a duelli, segni delle malattie e degli stravizi che gi si erano impressi nel volto e nel corpo.
Dorian aveva inizialmente affermato che avrebbe portato a Londra il quadro, per mostrarlo a un restauratore di sua conoscenza, che avrebbe salvato il cospicuo investimento da lui fatto commissionandolo: una scusa giudiziosa, che anche suo padre aveva accettato di buon grado, quando il figlio l’aveva informato, per lettera, circa i motivi della sua repentina partenza; senza contare che Dorian, in una sorta di oscura preveggenza, non aveva detto al padre, ritornando a casa col ritratto, che le cinquanta sterline che il vecchio Douglas, largheggiando, gli aveva anticipato, per pagare il pittore, non erano state mai incassate, e adesso tintinnavano in una scarsella, dentro la tasca interna del farsetto di Dorian.
 Non era mai più tornato a casa, non fino a quando suo padre era rimasto in vita, ovvero per i successivi cinque anni. Da Londra, ora con una scusa, ora con l’altra, era passato per Parigi, e poi per l’Italia; infine, era tornato in Inghilterra, ereditando le sostanze paterne, e incrementandole, senza contare che era tornato a casa con una quantità di preziosi, di gemme e d’oro che fece a lungo favoleggiare i vicini. In Inghilterra, aveva assistito all’ascesa e alla caduta della bella e ambiziosa Ann Boleyn, che, all’apice della sua fortuna, lo aveva fatto nominare Lord.
Poi, dopo la morte di lei, era nuovamente partito, organizzando tutto quel che serviva per far credere che, nel corso di un viaggio in Spagna, fosse stato aggredito e ucciso dai briganti, ma lasciando titolo e sostanze al giovanissimo figlio nato nel frattempo da un repentino matrimonio contratto con una giovanissima e ricchissima dama straniera, o educata in convento e uscita solo per il rito nuziale, o custodita gelosamente da un padre o un tutore particolarmente severo, che fosse morta di parto.
Era vissuto così sino a quel momento, viaggiando, cambiando nome, spacciandosi per il figlio di se stesso, accrescendo vertiginosamente le sue sostanze, ereditando da se stesso, mentendo, nascondendosi, celandosi, fingendo e recitando, senza mai poter rivelare la verità, se non, episodicamente, a qualcuno di particolarmente fidato, che accettasse di sradicarsi dall’Inghilterra assumendo il compito di suo tutore in cambio di una esistenza di piaceri e di soggiorni nei luoghi più belli e lussuosi d’Europa. E adesso, pensava, adesso c’era il Colonnello de Jarjayes. Raramente qualcuno gli era tanto piaciuto, gli aveva a tal punto accesso lo spirito e i sensi. Già pregustava le meravigliose settimane che avrebbe potuto passare a Venezia, durante il Carnevale, con quel compagno dalla bellezza algida e straordinaria, già si figurava un’interminabile teoria di giornate trascorse cavalcando con lui nei verdi prati della sua sterminata tenuta in Irlanda; e perché no, avrebbero anche potuto stabilirsi in Italia, o in Russia… No davvero, non sarebbe bastato un Grandier qualsiasi, un servo, per quanto affezionato e fedele, a guastare i suoi piani per il futuro.
E così pensando, finalmente rinfrancato, Lord Sholto si assopì.
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Chi invece non poteva proprio dormire era André.
Chino alla piccola scrivania della sua stanza, sfogliava, alla luce di un doppiere, i pesanti volumi che si era portato in camera dalla biblioteca. Per prima cosa aveva trovato una lettera di Jacques François de Jarjayes, nonno del Generale e bisnonno di Oscar, capitano delle Guardie Reali che, il giorno 20 aprile dell’anno di grazia 1699, raccontava al figlio François Michel come il loro ospite e caro amico inglese, Lord Kenneth Douglas, si fosse gravemente ferito durante una caccia alla volpe guidata nientemeno che da Sua Grazia l’Eccellentissimo Duca d’Orléans, il futuro Reggete, cadendo malamente da cavallo e venendo travolto dall’animale; ma, insperatamente, la brutta ferita alla gamba, che lasciava sospettare una frattura che avrebbe potuto lasciare il giovane gentiluomo azzoppato per il resto della vita, si era risolta in due giorni, con un po’ di riposo a letto, e una medicazione da parte del chirurgo di sua Grazia il Duca.
Gemette, André. E poi continuò a leggere: e seppe delle confidenze del giovane amico d’Oltremanica, che al suo anfitrione francese aveva rivelato di aver avuto un “trascurabile momento di galanteria” – così scriveva Jacques François de Jarjayes, forse riportando le parole stesse del visitatore inglese -, con una giovane taverniera, tale Sybille, la quale, certo meno dotata di uso di mondo di quanto non lo fosse di bellezza, aveva concepito l’inaudita speranza di essere nientemeno che sposata da quel gentiluomo, e che orsa reclamava fortissimamente i suoi presunti diritti.
André deglutì.
Preso da un’angoscia che non sapeva ben definire, riportò in biblioteca il pesante faldone, e ne prese un altro, contenente lettere e documenti del periodo 1570-1600. E così, poté leggere, per mano del Cavaliere Hercule François de Jarjayes la cronaca del matrimonio di Enrico di Navarra con Marguerite de Valois, figlia di re Enrico II, prematuramente scomparso, e della regina Caterina de’ Medici, nonché sorella del re Carlo IX. L’antenato di Oscar e del Generale, che portava il solo titolo di Cavaliere, poiché la famiglia de Jarjayes non aveva ancora raggiunto la dignità comitale, si era divertito ad annotare scrupolosamente, con una certa qual felicità descrittiva, tutti i particolari relativi alla cerimonia, dal fasto esibito dalle dame di corte, adorne di gemme grosse come nocciole, al fiero cipiglio del principe di Condé, capo della fazione ugonotta, che si era distinta per la cupezza degli abiti invariabilmente neri e tetri indossati; dalla mise sconvolgentemente seducente della bella Margot, una visione in scarlatto e oro, allo sconcerto che aveva colto la famiglia reale, la Regina madre, il re Carlo IX e i suoi fratelli, i principi reali Enrico e Francesco Ercole, nonché il Duca Enrico di Guisa, notoriamente amante della sposa, quando quest’ultima, di fronte alla richiesta dell’officiante di pronunciare il brevissimo “volo”, lo voglio”, con cui avrebbe accettato di prendere come marito Enrico di Navarra, si era chiusa in un mutismo tanto insolito quando scandaloso, mentre i suoi familiari si lanciavano occhiate sconcertate che Hercule de Jarjayes aveva osservato, dalla sua posizione, in una navata laterale, abbastanza vicino all’altare, ridacchiando insieme con il suo ospite inglese “il giovane Lord Thomas Sholto”; l’antenato di Oscar aveva anche annotato come, essendo evidente che Marguerite de Valois non avrebbe mai accettato verbalmente di prendere come suo legittimo sposo il re di Navarra, re Luigi IX si era alzato di scatto dal suo seggio, collocato immediatamente dietro il banco cui erano inginocchiati gli sposi, e aveva fatto abbassare la testa alla sorella, consentendo così all’officiante di dichiarare la bella Margot ed Enrico di Navarra uniti in matrimonio.  Di fronte a questo gesto così poco ortodosso, Lord Sholto aveva ridacchiato, sussurrando all’orecchio all’amico francese che certo quello era un metodo spiccio, anche se il padre della loro regina, Enrico VIII, ne aveva di molto più pratici non solo per concludere, ma anche per troncare i matrimoni, “esattamente come per troncare le teste”, aveva  concluso con un sorriso il giovane inglese, intercettando coi suoi straordinari occhi blu lo sguardo malizioso e pieno di promesse di una dama dello “squadrone volante” della Regina Madre. André tornò indietro di qualche pagina, e poté leggere del primo incontro del Cavaliere de Jarjayes con il giovane Lord Thomas,  un cattolico dissidente costretto a espatriare nelle Fiandre, dove l’antenato di Oscar l’aveva incontrato, a causa della persecuzione religiosa cui la regina Elisabetta sottoponeva quanti rifiutavano di abiurare la vera fede. Il Cavalier de Jarjayes annotava quindi, in tono sdegnato e pieno di compatimento, come fosse un vero scandalo che un giovane dabbene, educato, bello come un cherubino, coi suoi occhi blu e i capelli biondi come l’oro, e dalle maniere distinte ed eleganti, come Lord Thomas, cui il Cavaliere si era legato presto da viva amicizia, fosse costretto, senza colpa alcuna, a vivere lontano dalla sua patria e dalla sua famiglia, serbando soltanto, quale unico ricordo della perduta felicità, un ritratto dei suoi genitori e dello zio, frate certosino messo a morte perché rifiutatosi di abiurare; un ritratto che il ragazzo portava sempre con sé, delicatamente protetto in una cassa di legno di grandi dimensioni, in quanto il povero Lord Thomas era terrorizzato all’idea che le intemperie patite durante i suoi frequenti spostamenti da una città all’altra potessero danneggiare il solo ricordo della sua famiglia che gli rimanesse, oltre, annotava minuziosamente il Cavaliere de Jarjayes, a una quantità inimmaginabile di gioielli, ereditati dalla famiglia materna, che egli era riuscito a portare con sé fuggendo dall’Inghilterra, e che, venduti solo in parte, gli avevano garantito una rendita principesca, pari a quella che gli avrebbero potuto dare i suoi possedimenti inglesi, espropriatigli dalla Corona.
André sentiva ormai una inquietudine crescente prendere possesso della sua mente e del suo cuore: dunque, quante altre volte quell’essere aveva frequentato gli Jarjayes? E ora, che intenzioni aveva?
Per lo stesso passaggio segreto, André riportò anche quel faldone in biblioteca, e poi, riguadagnata la sua camera, cercò di dormire: ma riuscì solo a rigirarsi inquietamente sotto le coltri.

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Capitolo 12
*** 12 - Due concerti, una rapina, uno scasso ***


 
12 – Due concerti, una rapina, uno scasso
        
Il giorno dopo, a cena, Lord Douglas Sholto espresse un garbato apprezzamento per le doti musicali del Colonnello de Jarjayes.
“Passando inavvertitamente davanti alla porta dei vostri appartamenti, ho udito una musica celestiale, Colonnello: qualcuno suonava il violino con tale perizia, e con tale sentimento ed espressività, che, ve lo confesso, non ho potuto trattenermi dal fermarmi ad ascoltare da dietro la porta. Eravate forse voi a suonare, Colonnello?”.
“Sì, Lord Douglas, ero io. Nel tempo libero mi diletto di musica, suonando il violino. Avreste dovuto bussare, Lord Douglas”, rispose Oscar, con un sorriso, “per ascoltarmi con maggior agio”.
“Anche il vostro attendente si diletta di musica, Colonnello?”, chiese con fare innocentemente distratto Lord Douglas, con gli occhi concentrati sull’arrosto che si stava tagliando nel piatto.
“No, in effetti no. Mia madre, però, è una grande virtuosa di arpa”, precisò Oscar, portandosi alle labbra il calice di Bordeaux.
“Ma nelle sere, che devono essere molte, in cui Vostra madre è trattenuta a Versailles dai suoi doveri di dama di compagnia della Regina, chi mai può condividere con voi le dolcezze della musica?”.
Lord Henry stava ascoltando attentissimo, anche se, apparentemente, era intento a servirsi una seconda volta di quell’eccellente arrosto di lombata e di carciofi annegati in una deliziosa salsa di panna, intuendo già dove volesse andare a parare Dorian.
“Se la proposta non vi pare sconveniente”, disse quest’ultimo, con quel fare timido ed esitante che lo rendeva tanto seducente “potremmo suonare insieme, dato che sono un discreto pianista”.
“Molto bene, Lord Douglas. Stasera è molto tardi, ma domani non è prevista la mia presenza a Versailles, e potremo suonare insieme con tutta calma”.
“Colonnello, vi ringrazio infinitamente: spero di essere all’altezza del vostro talento!”, rispose, animato e sorridente, il ragazzo.
“Potremmo incontrarci per le nove e trenta nei miei appartamenti? Vi sembra un’ora appropriata?”
“Naturalmente, Colonnello. Resta inteso per nove e trenta”.
La conclusione della cena fu gaia, e veloce. Dopo il caffé, che venne servito nel salottino cinese, gli ospiti si congedarono.
La mattina dopo, puntualissimo, alle nove e trenta precise, Lord Sholto si trovava davanti alla porta dell’appartamento di Oscar.  Non dovette che bussare una volta, e il Colonnello stesso gli venne ad aprire; il suo abbigliamento era quanto di più semplice e seducente si potesse immaginare: una semplice camicia bianca e pantaloni di fustagno marrone, con un gilet di un color fiordaliso come i suoi occhi. Accanto al pianoforte, su cui era posato il violino di Oscar, un leggìo con numerosi spartiti; sul divanetto accanto alla finestra, André leggeva, gli occhi concentrati sul libro che reggeva fra le mani.
“Vedo che avremo anche del pubblico!”, esclamò Lord Douglas, con un sorriso.
“Veramente, Lord Douglas”, prese la parola André, “stavo giusto attendendo il vostro arrivo per chiedervi se sia maggiormente di vostro gusto un caffè o una cioccolata, per dilettarvi durante questa sessione di esercizi musicali”.
“Cioccolata, grazie”, rispose senza indugio Lord Douglas, con una secchezza schioccante nella voce.
“Grazie, André”, gli rispose Oscar, sorridendo, ma con una luce di perplessità negli occhi, “ma se vuoi, puoi trattenerti con noi qui..:”
“Oscar, non preoccuparti: ho anche del lavoro da svolgere nelle scuderie”, rispose lieve André, uscendo, con un inchino di saluto rivolto più all’ospite che a lei.
Poco dopo, mentre Oscar e Lord Douglas avevano iniziato a suonare un duetto di Carl Philip Emanuel Bach, André rientrò, deponendo un vassoio con due tazze e cioccolatiera su un basso tavolino, ed uscendo subito dalla stanza, non senza essersi prodotto in un cenno rispettoso di saluto, seguito dagli occhi grati di Oscar, e da quelli vigili del giovane ospite.
Oscar e Dorian continuavano a suonare.
Il giovane Lord si era premurato di portare uno dei suoi spartiti preferiti: “Una sonata di Alessandro Stradella, se questo autore può compiacervi, Colonnello”.
“Effettivamente, Lord Douglas, è un compositore che conosco poco, ma mi fido del vostro gusto”, rispose Oscar con un grazioso cenno del capo.
“Insolito duetto”, osservò Oscar, mentre, archetto alla mano e mento sul violino, studiava lo spartito con la fronte aggrondata. “Veramente interessante, e assai pregevole, Lord Douglas: in verità, ammetto di conoscerlo affatto”.
“Si tratta di un duetto poco noto, in effetti, Conte de Jarjayes, ma immaginavo che il vostro gusto finissimo ne sarebbe stato dilettato”.
Mentre si produceva con Oscar nel duetto, Lord Douglas ricordava, con compiacimento, i giorni trascorsi a Genova con quel compositore così pieno di talento e amabilità, così simpatico e colto: sì, era stata una compagnia così piacevole, che Dorian aveva pensato di poter condividere vari anni di piacevoli viaggi con Alessandro Stradella. Ma, ahimé, fra le molte virtù di quel compositore di talento mancava la discrezione, e un triste giorno Dorian, tornando al suo alloggio prima del previsto, aveva scoperto Stradella nella sua stanza, davanti al ritratto, dopo che aveva forzato la cassa in cui era contenuto, e che giaceva, sfasciata, ai piedi del musicista, che era come paralizzato, mentre fissava il miserevole spettacolo di un vegliardo orribile, sul cui volto e nel cui corpo si leggevano i tributi pagati agli anni, agli stravizi, alla malvagità e alle malattie. Dorian si appiattò dietro il clavicembalo, osservando Stradella che usciva dall’appartamento di corsa. Poi, una volta vistolo dalla finestra imboccare in tutta fretta una stretta viuzza, lo seguì, avendo cura prima di coprire con un drappo pesantissimo il quadro, e poi chiudendo a doppia mandata la sua stanza, e la porta di casa, e mettendosi le chiavi in tasca.
Aveva seguito Stradella che, dopo un iniziale tratto di corsa, si era fermato, il braccio appoggiato a un muro, come a riprendere fiato, o come per ricredersi. Poi, aveva ripreso a camminare, malcerto, mentre Dorian, a falcate decise, ma inesorabili, e anche guardinghe, copriva la distanza che lo separava dal musicista. Quest’ultimo era entrato in una mescita, poco più che una bettola, e aveva detto non so che al taverniere, ricevendone una successione di bicchieri che aveva ingollato uno via l’altro, tutti d’un fiato.
Si era fatto buio, ormai, e la mescita si era riempita.
Le strade, oscure, pullulavano di borsaioli, meretrici, tagliagole, vagabondi; e Dorian attendeva, avvolto nel suo mantello, col bavero rialzato, fuori dalla mescita. Poi, quando Stradella era uscito, l’aveva seguito, tenendosi senza difficoltà a cinque o sei passi di distanza, come gli aveva insegnato tanti anni prima Maurepas, il sicario prediletto dalla regina Caterina de’ Medici.
La notte era senza stelle, i vicoli di Genova angusti, e Stradella aveva ecceduto con il vino: barcollava, e sembrava dover cadere lungo disteso a ogni passo; infine, una volta arrivato in Piazza Bianchi, la sua andatura si fece ancor più malcerta: la stanchezza, certo, si stava sommando agli effetti dell’abbondante bevuta. Dorian, accelerando il passo, lo raggiunse: poca gente circolava per la piazza, ma era comunque più sicuro atteggiarsi a soccorrevole passante, ben disposto verso un poveretto ubriaco.
Dorian fece passare un braccio attorno alla schiena di Stradella, sotto l’ascella destra: “Permettete, Maestro”, gli sussurrò. Stradella alzò gli occhi verso quel passante gentile, con un’espressione grata che diventò immediatamente di puro, raggelato terrore, quando, attraverso i fumi dell’ubriachezza, intravide e riconobbe i lineamenti di Dorian.
Forgive me, Alexander, but I really can't do otherwise[1], sussurrò Dorian, abbracciandolo stretto, mentre lo pugnalava alla base del collo, sostenendolo poi, anzi, trascinandolo, attraverso la piazza, sino al primo vicolo buio, dove lo adagiò, seduto contro un muro, e dove il grande compositore Alessandro Stradella sarebbe stato ritrovato di lì a qualche ora.
Era il 25 febbraio 1682; dell’omicidio sarebbe stato sospettato e accusato il nobile Giovan Battista Lomellini, sospettoso di una tresca fra la sorella e Stradella, che era il suo insegnante di musica; ma Lomellini sarebbe stato assolto per insufficienza di prove. Quanto al giovane allievo e amico inglese di Stradella, dopo aver pagato una sontuosa composizione floreale al funerale dello sfortunato compositore, si era imbarcato, chi diceva per Marsiglia, chi per la Sicilia, chi, addirittura, per l’India.
        Gli era sanguinato il cuore, davvero, ma non poteva fare altrimenti, pensava Lord Sholto, meditabondo, con i gomiti appoggiati al parapetto della nave che lasciava il porto di Genova, mentre la città rimpiccioliva velocemente sotto i suoi occhi. E poi, sospirando, Dorian era tornato alla sua cabina.
Ma per fortuna, pensò Lord Sholto, tornando al presente, mentre si produceva in un meraviglioso duetto con il Colonnello de Jarjayes, la musica di Stradella sarebbe vissuta per sempre, e adesso allietava quella mattinata fulgida passata con il suo straordinario anfitrione. Oh, il Colonnello de Jarjayes gli piaceva, gli piaceva sempre di più: quella scorza algida e severa sotto la quale doveva battere un cuore impetuoso e passionale, e coraggioso, quella bellezza angelica e glaciale; oh, sì, sì, avrebbero fatto un figurone alla corte della zarina, e avrebbero vissuto stagioni indimenticabili, insieme. Sarebbero stati felici, completamente felici, ebbri di gioia e giovinezza, vivendo come principi, senza l’assillo dei doveri e degli obblighi che rendono amara, molto spesso, anche la vita dei principi.
        Mentre le note si sgranavano veloci e leggiadre, André, rientrando nella sua stanza, aveva tirato un profondo respiro: nessuno nei dintorni. Era il momento. Prese una candela, la avvicinò a lungo al fuoco: la cera si afflosciò e ammorbidì, e André la strinse e schiacciò con forza tra le mani, sino a renderla morbida e plasmabile. Poi, reggendola nella mano sinistra, raggiunse, col suo passo come sempre elegante ed elastico, la porta che immetteva nella camera di Lord Sholto. Si guardò attorno: nessuno; il momento del cambio della biancheria era già passato e per i corridoi del piano nobile c’era una certa tranquillità. André dalla mano destra trasse una forcina, e la inserì nella serratura, che scattò senza difficoltà. Si mise la forcina tra le labbra ed entrò, guardandosi alle spalle, si richiuse la porta dietro alle spalle, senza far rumore. La stanza, fastosamente arredata, era perfettamente rigovernata, e dominata dalla mole della cassa, che celava il quadro. André si avvicinò al piccolo sportellino che si apriva in quella stranissima cassa e, con un gesto deciso, sovrappose la cera ancora malleabile e morbida che teneva nella mano sinistra alla serratura dello sportellino. Premette per bene, in profondità, sino a imprimere la forma della serratura nella cera, per poter eseguire una copia della chiave, quella maledetta chiave che Lord Sholto teneva nascosta chi sa dove. Guardò l’impronta: era sufficientemente nitida; il suo amico Jacquot, nella sua officina nel Marais, ne avrebbe ricavato una copia perfetta; del resto, gli doveva un favore, da quando André lo aveva difeso, in una taverna, da un malintenzionato che, avendo puntato il fabbro brillo e fuori di sé, si era fatto persuaso che sarebbe stato facile pugnalarlo, derubarlo e gettare il corpo nella Senna.
        Poi, André depose per un attimo il prezioso calco a terra, accanto a sé, dopo aver disteso sul pavimento di marmo rosa il suo fazzoletto di cotone bianco, e grattò via accuratamente, con le unghie e con il suo coltellino da tasca, i minuscoli residui di cera rimasti attaccati alla serratura. Quindi raccolse il calco, avvolto nel fazzoletto, e lo infilò nella tasca interna del giustacuore, trasse un panno per lucidare l’argenteria dall’altra tasca interna, per giustificare la sua presenza nella stanza o in quell’ala della casa, se qualcuno l’avesse visto uscire, aprì la porta e, messo il panno per lucidare sotto il braccio sinistro, sempre guardandosi intorno con circospezione, trasse dalla tasca dei calzoni la forcina e fece nuovamente scattare la serratura.
        Poi, preso un candeliere di quelli che adornavano il corridoio, tornò fischiettando nelle cucine, dove, mentre sua nonna impartiva indicazioni per la preparazione della galantina di pollo, iniziò a lucidare il candeliere, rimediando, una volta tanto, un elogio accorato da Nanny (“Oh, André! Per fortuna ho un nipote servizievole e attento come te! Mi chiedo come un ragazzo d’oro come te non abbia ancora trovato una brava ragazza per mettere su famiglia!”) e sguardi ammirati dalle cuoche e sguattere (“Ah! Che uomo attivo e servizievole! Oltre che bellissimo, s’intende! Sarebbe fantastico mettere su casa con lui! Sarebbe un marito meraviglioso, non come quei mozzi di stalla rozzi e pigri!”). Mentre lucidava le arzigogolate volute del candeliere, André fischiettava, e pensava: se la sarebbe dovuta vedere con lui, Lord Sholto! Oh, sì! E avrebbe capito che lui, André Grandier, era un osso molto duro.
        Quel pomeriggio, Lord Sholto era decisamente di buonumore, grazie agli esercizi di musica svolti in mattinata con il Colonnello de Jarjayes, finalmente senza la presenza di quell’intrigante del suo attendente, e poi grazie al pranzo luculliano consumato con una voracità che aveva lasciato strabiliati gli altri commensali: ah, come gli sarebbe mancata la cucina di Palazzo Jarjayes, una volta che fosse stato in Russia col Colonnello! Tuttavia, non c’era nemmeno da pensare di potersi portare appresso quella vecchina fragile che esercitava un magistero culinario così esperto: per prima cosa, non avrebbe retto alle fatiche dei lunghi trasferimenti per nave e in carrozza; e poi, insomma, quella vecchia governante, per quanto fosse depositaria di una perizia gastronomica davvero importante, doveva essere di una gravezza e di una pedanteria che lo avrebbe presto indotto a darle un gran calcione e spedirla nelle profondità del Mare del Nord, e questo avrebbe suscitato lo sdegno del Colonnello de Jarjayes, che, a quanto pare, era inspiegabilmente affezionata a quella vecchia. Un classico caso di serva che non sa stare al suo posto, pensò, stizzito. E, per sommo di sventura, quella donna era anche la nonna di Grandier, l’attendente di Oscar François de Jarjayes: e almeno un po’ di decoro Lord Douglas Sholto lo conservava, vivaddio!
 “A che cosa pensate, Lord Douglas?”, chiese Lord Henry, con fare suadente.
“A nulla di particolare, Lord Wotton. Come mai questa domanda? La gioventù, voi lo sapete bene, è poco propensa al pensiero e molto all’azione”
Oscar guardò il giovane Lord in tralice: l’accento inglese del suo ospite la stava ingannando o lo aveva sentito calcare la voce sulla parola “gioventù”?
“Certo, certo, Lord Douglas. Lo sappiamo bene, voi e io”, rispose Lord Henry, sorridente, ma gelido.
Il mattino dopo, Lord Douglas, assodato che il suo tutore si era volatilizzato molto presto, dopo aver fatto colazione con agio, e preparatosi con la solita, impeccabile cura, si avviò, con una delle carrozze della famiglia Jarjayes, caratterizzata dall’inconfondibile stemma - un leone rampante in campo azzurro che regge una spada – verso Parigi. Suo intento era acquistare un dono per il Colonnello, qualcosa di eccezionalmente raro e raffinato, che facesse comprendere al suo anfitrione l’ammirazione nutrita nei suoi confronti dall’ospite. Ecco, ancora non sapeva bene che cosa; una spilla per il jabot? Una chevalière con un topazio, che ricordasse la sfumatura calda del color grano dei suoi capelli? O con uno zaffiro, che ricordasse il color fiordaliso dei suoi occhi? Un candeliere d’argento finemente cesellato, che illuminasse le sue letture notturne? Ma sì, gli sarebbe venuto alla mente durante il percorso, anzi, ci avrebbe pensato durante la necessaria sosta in un caffé di cui molto aveva sentito parlare dagli inglesi di ritorno da Parigi, che avevano narrato meraviglie della scelta di miscele e di pasticceria che si accompagnava agli aromi del caffè.
Dice un proverbio turco che il caffé deve essere nero come la notte, caldo come l’inferno e amaro come la sconfitta: sui primi due punti, Dorian concordava pienamente; ma quanto al terzo, beh, la sua predilezione per le dolcezze di ogni tipo, per lo zucchero in ogni sua forma, era invincibile, né aveva mai avuto la necessità di limitarsi: che diamine, sorrideva, di fronte a chi aveva l’ardire di ammonirlo circa il fatto che tutto quello zucchero poteva nuocergli, “quando muoio voglio essere malato, non certo sano!”.
         Effettivamente, la sosta nel caffè gli aveva schiarito le idee, oltre a divertirlo, quando si era soffermato ad ascoltare dal tavolo vicino le chiacchiere di un tizio serio serio, esile, dall’aria ascetica, che doveva essere un avvocatino timido appena arrivato dalla provincia, in fitto dialogo con un altro tipo robusto e dall’aria sanguigna, che invece aveva trangugiato un intero bricco di caffé quasi da solo, alternando allo svuotamento delle tazzine lo svuotamento dei piattini colmi di biscotti al burro e di bigné alla crema di cioccolato, e che parlava, parlava, parlava a voce alta e tonante, riscuotendo il plauso degli avventori seduti ai tavoli vicini.
Bravò, Danton! Bravò!”
“Così si parla!”
“Le cose devono cambiare, prima o poi!”
Ma che cosa doveva mai cambiare? Il mondo poteva iniziare a girare al contrario, o diversamente da come era sempre andato? Così pensava Dorian, aggiungendo cucchiaini di zucchero su cucchiaini di zucchero al suo caffè, e scuotendo lievemente la testa, mentre gli aleggiava sulle labbra un sorriso che qualche ragazza sognante avrebbe definito seducente e angelico, ma che, a guardare meglio, era solo sottilmente beffardo. Nei decenni, e nei secoli, non aveva mai avuto modo di riscontrare una significativa variazione nelle condizioni di vita e in quelle morali dell’umanità; e per quanto lo riguardava, certo la sua vita, dopo quella brusca sterzata ai tempi del regno del buon Enrico VIII, non avrebbe più subito mutamenti, se non esteriori, relativi alla foggia dei suoi abiti, all’acconciatura dei suoi capelli, alla destinazione dei suoi viaggi e all’identità del suo accompagnatore. Eadem sunt omnia semper, sorrise fra sé: chi sa, forse anche quel poeta latino aveva sperimentato la sua condizione? Naaaaa, scosse la testa ridendo, sconsolato: figurarsi! Quello era il suo privilegio, e la sua dannazione. E a proposito di privilegi e di doni particolari, ecco che cosa avrebbe regalato al Colonnello de Jarjayes: un Lucrezio di fresca stampa! Naturalmente, si trattava di un libro all’Indice, ma con un po’ di buona volontà, a Parigi si potevano comunque trovare delle interessanti e raffinate edizioni stampate in Olanda. E il suo anfitrione, che, da quanto Lord Sholto aveva potuto capire, era un cultore di letteratura latina (quante volte l’aveva visto maneggiare Virgilio, Lucano e Cicerone, e anche quel noiosissimo Catone!) avrebbe apprezzato. Sì, decisamente, concluse Dorian, avrebbe omaggiato Oscar François de Jarjayes di un bellissimo Lucrezio; o forse di un Petronio? Uhm, scelta difficile, per quanto avesse il sentore che il tono satirico e irridente del Satyricon fosse assai poco in sintonia con l’intelligenza severa e con l’austerità di costumi del giovane conte de Jarjayes; ma, del resto, Lord Sholto aveva spesso avuto modo di constatare che sotto la scorza più dura e algida si potevano celare abissi di passionalità inespressa. Vedremo, vedremo, si stava dicendo Lord Sholto, mentre, uscito dal caffè, dopo aver congedato il cocchiere “per un paio d’ore, buon uomo, ma tornerò qui entro le quattro del pomeriggio”, si avviò a piedi verso una stamperia e libreria di sua conoscenza, di antica tradizione e di alto livello. Ma, improvvisamente, si vide circondato da monelli, autentici gamins parigini.
Monsieur, siete così benvestito e ricco: dateci qualcosa!”, esclamò quello che sembrava il capo della assai poco allegra brigata.
Dorian non aveva voglia né tempo di parlare con quei piccoli straccioni, ma non aveva nemmeno voglia di passare grane, e così, con un gesto noncurante, si cacciò la mano in tasca e ne trasse qualche moneta, spiccioli, si capisce, che gettò ai ragazzini. Questi, va da sé, si lanciarono sulle monete, contendendosele, ma due dei più grandicelli, e robusti, prossimi al salto di qualità da monello e occasionale scippatore a rapinatore adulto, disdegnando quella preda, considerata evidentemente troppo misera, lo fronteggiarono, con aria minacciosa.
“E così, pensi di poterci tenere buono con qualche spicciolo buttato come becchime ai polli? Mentre in tasca avrai chi sa quante monete d’oro?”, disse uno, sprezzante, concludendo la domanda con uno sputo a terra, che solo per un attimo non insozzò le scarpe ben lucide di Lord Sholto. L’altro, invece, più silenzioso, ma non meno truce, si limitò a trarre dalla tasca dei calzoni un coltello a serramanico.
“Indietro!”, disse Dorian, brandendo il bastone da passeggio.
“Ma senti senti!”- il secondo ragazzo finalmente aveva fatto sentire la sua voce, una voce aspra, tagliente, sguaiata eppure temibile, “il signorino vuole intimidirci! Hai visto, Jacquot?”, chiese, rivolto al compagno, “hai visto?! Vuole darci un colpo sulla zucca con questo bel bastone!”, e così dicendo ne afferrò la punta, con l’intento di cogliere alla sprovvista quello che riteneva la vittima ideale di una lucrosa rapina, e di avvicinarlo alla punta del suo coltello. Ma Dorian fece scattare il meccanismo nel pomolo, e una lama sbucò dalla punta del bastone da passeggio; al contempo, non oppose più resistenza, ma assecondò lo strattone del ragazzetto, andando nella sua direzione. Fu un attimo: la punta della lama si conficcò nel ventre del giovinastro, che sbarrò gli occhi, per il dolore, e la sorpresa di ritrovarsi vittima, nel momento in cui aveva presunto di mettere a segno un colpo cospicuo. Poi, Dorian estrasse la lama, e, mentre il ragazzo cadeva sulle ginocchia, emettendo dalle labbra solo un flebile lamento, come un gorgoglio sinistro, colpì, colpì, colpì ancora, al ventre, al petto, alla gola. Ora Dorian aveva perso la sua olimpica compostezza: gli occhi erano accesi, le guance arrossate, i capelli scarmigliati, e la catena che portava al collo era uscita in parte dal colletto della camicia, e occhieggiava sopra il jabot. I monelli che stavano raccogliendo le monetine lanciate a terra poco prima si defilarono, anzi, si volatilizzarono, terrorizzati, non senza aver raccolto tutto il piccolo tesoro gettato loro da Dorian, come uccellini che, prima che il falco cali in picchiata, riescano a beccare tutte le briciole sparse sul prato, mentre il secondo giovinastro era rimasto, per viltà e terrore, come pietrificato sul posto; poi, a un tratto, quando Dorian ebbe arrestato la sua furia, si lanciò su quello straniero così inaspettatamente reattivo e, in un impeto, forse venato anche da una punta di desiderio di vendetta per il compagno di tante avventure di strada, agguantando la sottile catena luccicante che sporgeva sulla camicia e strappandogliela prima di correre via, certo credendo di aver  rubato al volo, in quel gesto disperato, un piccolo orologio di valore, una miniatura incorniciata d’oro, o forse un ciondolo con incastonata una qualche pietra preziosa. Nella foga del ratto, e mentre scappava, riparandosi in un vicolo buio, con ancora nelle orecchie il ruggito del rapinato, il giovinastro non aveva avuto nemmeno il tempo di guardare quale minuscolo tesoro stringesse fra le mani: e la sua delusione fu enorme quando vide che si trattava di una chiave, nient’altro che una piccola chiave di ferro, malmessa e arrugginita, infilata in una sottile catena d’argento che, quella sì, doveva valere qualcosa. Poca roba, comunque: nulla di paragonabile a quello che si sarebbe aspettato. E così, nell’attesa di portare quel sottile filo d’argento strappato dal suo consueto ricettatore, il ragazzo gettò, con furia e disprezzo, la chiave nella Senna.
“Oh, Signore benedetto! Non si può davvero essere più sicuri da nessuna parte! Che mondo, Vergine santa, che mondo! Dove andremo a finire, di questo passo?!!!”
Nanny era costernata: Lord Douglas Sholto si era ripresentato a Palazzo Jarjayes con i vestiti strappati e in disordine, scarmigliato, e con il collo segnato da un brutto livido, esito del ratto della catena, che, diceva mesto quel bel giovane così distinto - mentre Nanny supervisionava l’opera della cameriera che gli spalmava un balsamo lenitivo – egli portava sempre a contatto con la pelle, perché potesse tenere sul cuore la miniatura col ritratto della madre, che gli era stato rubato insieme alla catenina stessa.
“Oh, povero ragazzo!”, pietiva senza sosta la vecchia governante (“vecchiaccia querula, perché non te ne torni in cucina a spennare capponi?”), “Arrivare così da lontano, da un paese barbaro e freddo (“come se Parigi godesse di un clima tropicale!”, sbuffava tra sé Lord Sholto), e venire derubati così, a rischio della vita! Oh, che mondo, che mondo! E quasi mi vergogno di essere francese!”
Certo, se la vecchina avesse conosciuto gli improperi che erano affiorati sulle labbra di Dorian quando si era reso conto di essere stato derubato della chiave dello sportello, che gli consentiva di aprire la cassa con il ritratto per controllarne lo stato, molto probabilmente non avrebbe avuto un concetto così lusinghiero del giovane e delicato ospite inglese.
        Per un breve tratto, dopo il furto Dorian, reggendo fra le mani il bastone da passeggio in orizzontale, aveva anche cercato di seguire le tracce del giovinastro che gli aveva strappato la catena e la chiave, maledicendo se stesso, la sua ingenuità, la chiusura della catena, troppo lenta e che aveva ceduto subito, il giovinastro, tutti i suoi antenati e i suoi eventuali discendenti; e fra maledizioni, bestemmie e improperi volgarissimi, con lo sguardo animato da una luce sinistra che lo rendeva molto diverso dal ragazzo dalla bellezza fragile e delicata che amava impersonare a beneficio del mondo, Dorian aveva vagato nel buio di quel pomeriggio invernale, che, negli stretti budelli della Parigi popolare, sembrava quasi notte. Poi, comprendendo che non avrebbe mai trovato il suo rapinatore, aveva ruggito la sua furia, e si era avviato nel luogo convenuto con il cocchiere della famiglia Jarjayes. Anche quest’ultimo, non appena vide l’ospite dei suoi padroni così malridotto e stravolto, era corso giù da cassetta per accertarsi delle sue condizioni, e del fatto che non avesse riportato ferite. Lord Douglas Sholto era ormai, da lungo tempo, avvezzo a recitare la parte del giovane e tenero virgulto, fragile e bisognoso di protezione, e non gli costò alcuna fatica rientrare in quel ruolo in cui si era accomodato piacevolmente, e che gli consentiva di assaporare il gusto sottile della simulazione; senza contare, poi, il delizioso pensiero, che lo accompagnò per tutto il viaggio di ritorno, rivolto al Colonnello de Jarjayes, e all’espressione costernata e preoccupata per la sua salute e la sua incolumità che avrebbe dimostrato, e alle delicate premure di cui l’avrebbe fatto oggetto per fargli dimenticare la brutta avventura, e, forse, in un impeto di orgoglio patriottico, anche per evitare che il giovane inglese tornasse al di là della Manica con un’impressione tutta negativa di Parigi e della Francia.
        Quanto alla chiave rubatagli, rifletteva Dorian, era certo una seccatura, ma non certo un danno irrimediabile: per prima cosa, la catena con la chiave non era in nessun modo riconducibile a lui, dato che su di essa non vi erano né incisioni, né nomi, né stemmi; non era, in fondo, che un’anonima chiave un poco arrugginita. Certo, essendo la sola copia esistente per la serratura dello sportello del ritratto, sarebbe stato necessario commissionarne una copia, facendo un calco della serratura; ma per l’uso che ne avrebbe fatto, e che aveva fatto, negli anni e nei lustri precedenti, di quella chiave che gli era stata sottratta, avrebbe potuto aspettare e commissionare con calma il lavoro a un artigiano scelto accuratamente, poco curioso e, soprattutto, che vivesse in una città da cui Lord Sholto avrebbe potuto partire entro pochissimo tempo, dopo avergli commissionato il lavoro. Senza contare, pensò a coronamento dei suoi pensieri Lord Douglas Sholto, che non potere controllare per qualche tempo lo stato del ritratto, forse, non era poi un grande male: certo, non lo faceva più ogni giorno, o più volte al giorno, come nei primi tempi, ma la tentazione di andare periodicamente – sempre troppo, troppo spesso! – a girare la minuscola chiave nella piccola serratura, per aprire quel dannato sportello sulla sua anima, e constatarne tutto il ripugnante sfacelo, era rimasta per Dorian una spina nel fianco; ora, se non altro, si sarebbe disintossicato forzatamente da quella perniciosa abitudine, che gli avvelenava le nottate e la vita. Non tutto il male veniva per nuocere, insomma.
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Certo, Lord Douglas non poteva nemmeno lontanamente immaginare che il duplicato della chiave che, qualche giorno dopo, egli sarebbe andato a commissionare a un fabbro – che avrebbe utilizzato esattamente lo stesso sistema messo in atto da André per prendere il calco della serratura – era già stato realizzato, per tutt’altro motivo, dall’attendente del Colonnello Jarjayes, che ora attendeva solo il momento giusto per intrufolarsi nella camera del misterioso ospite inglese per godere di una visione riservata del quadro nella cassa.
E così fu: poche sere dopo, dopo cena, mentre veniva servito il caffè, Lord Douglas Sholto manifestò il desiderio di suonare qualche passo dal Messiah di Haendel, il più classico degli oratori inglesi per il tempo d’Avvento, ahimé, aggiunse “così poco conosciuto in Francia”.
“Ma no, che dite mai?”, rispose, accondiscendendo graziosamente, il Colonnello Jarjayes, che, in quella serata di solstizio d’inverno, indossava una fiammante camicia di seta rosso fuoco, con un prezioso jabot di pizzo dello stesso colore, adorno di una spilla con un rubino, sopra dei pantaloni bianchissimi, che inguainavano le sue gambe lunghe e snelle. I suoi capelli d’oro ricadevano sulle spalle e lungo la schiena in anella più soffici del solito, e Lord Sholto dovette trattenersi dall’impulso di ficcarci dentro le dita e accarezzarli, sedotto da quel sorriso angelico fiorito su labbra di un rosso diverso, ma non meno vivo, di quello della sua camicia seta. “Si dà il caso che conosca alcune arie dal Messiah, aveva continuato nel frattempo il giovane conte de Jarjayes, “e se voi voleste farmi l’onore di unirvi a me, potreste intonare mentre mi vi accompagno al pianoforte … per esempio Every valley? Giusto? Mi sembrate un tenore naturale, se l’orecchio non mi inganna”.
“Avete un orecchio eccezionale, permettetemi di dirvelo, Colonnello Jarjayes”, rispose Lord Sholto chinando a sua volta graziosamente il capo in segno di assenso.
In altri tempi, Lord Henry avrebbe sottolineato con uno sbadiglio – naturalmente, alquanto grazioso, va da sé! – la stucchevolezza di quei tentativi così fanciulleschi, da parte di Dorian, di cattivarsi la simpatia del loro anfitrione; anzi, da tentativi di seduzione che ora gli apparivano per quel che erano, un teatrino prevedibile e senz’anima, ma che non dovevano poi essere tanto puerili se, tanti anni fa, avevano preso al laccio anche lui. Si ricordava benissimo quella festa da ballo in maschera organizzata dal Conte di Oxford, senza risparmio di danari, e con fiumi di vini francesi e italiani che scorrevano dalle bottiglie nelle coppe e poi nelle gole degli invitati. Si era fermato in un angolo, osservando il suo William, in abito da Arlecchino, danzare con una elegantissima dama abbigliata da Colombina, quando gli si era accostato un giovane snello, con la maschera di Alichino, da sotto la quale occhieggiava lo sguardo più incredibilmente blu che Henry avesse mai visto da molto tempo a quella parte. Lord Wotton aveva inarcato le sopracciglia – ma certo, sotto la sua maschera di seta nera, quella smorfia di stupore, complice anche la penombra della sala, non era facilmente individuabile -, meravigliato di fronte a quella scelta di un travestimento così sinistro e insieme così sofisticato: nientemeno che uno dei demoni dell’Inferno dantesco; davvero inusuale, specialmente in terra inglese. Per un po’, avevano taciuto, guardando entrambi fisso davanti a sé, concentrati entrambi, in apparenza, sul movimento delle coppie di ballerini.
“Le donne possono essere meravigliose, soprattutto se ricoperte da gioielli, non trovate?”, aveva poi detto Alichino, con limpida voce tenorile.
“Sì, effettivamente sì”, aveva convenuto Lord Henry, reggendo con una mano l’asticella cui era attaccata la sua maschera nera, e con l’altra posata sulla sciabola del suo abbigliamento da pirata.
“Tuttavia”, aveva continuato, con tono pensoso, il giovane demone dagli occhi blu, “la vera Bellezza, quella data dall’armonia dei tratti che riflettono la perfezione iperurania, mi pare che sia loro preclusa, e che possa essere solo maschile. Non ne convenite?”, gli aveva chiesto, piantandogli addosso gli occhi blu, nei quali sfavillava una muta, ma chiarissima richiesta.
Lord Henry si era sentito attraversare la schiena da un brivido. Quel ragazzo … chi era? Che cosa voleva? O meglio, come aveva potuto capire tutto? O forse lui e William erano stati poco accorti, poco discreti, avevano lasciato trapelare – un autentico peccato mortale, nell’alta società – i loro veri sentimenti, la verità del loro legame?
O forse…?
“Vi prego”, aveva continuato il giovane demone, “non pensate che io sia un importuno, o che voglia intrufolarmi nella vostra intimità. Ma è tanto bello trovare, a volte, per pura grazia del cielo, qualcuno di simile a noi, di assolutamente simile a noi, con cui condividere convinzioni e….”
Lord Henry aveva alzato la mano, togliendola dall’elsa della spada, come a dire: “Basta, ora basta!”, per far tacere quello sconosciuto la cui presenza lo stava inquietando sino alle radici del suo essere; ma a quel punto Alichino gli aveva già voltato le spalle, e si era avviato verso l’uscita che dava sui giardini del Conte di Oxford, assai rinomati per i giochi d’acqua e le fontane, quella sera eccezionalmente lasciate attive in occasione del ballo. Ed Henry, pur sapendo, nella sua testa, che quello era il gioco più vecchio e più trito del mondo, eppure sentendosi rimescolare le viscere e il ventre, e non riuscendo a resistere all’impulso di seguire il giovane demone, aveva affrettato il passo, facendosi largo con fatica tra le coppie che danzavano, urtando in William, che gli aveva lanciato un’occhiata interrogativa e preoccupata, alla quale aveva risposto fuggevolmente, con un gesto distratto. Non l’avrebbe mai più rivisto prima di quello squallido incontro alle corse.
        Oh, se le conosceva, Henry, le strategie di Dorian! Ma, se aveva ben capito, il Colonnello Jarjayes non le conosceva proprio, forse abituato a un contegno più devotamente lineare da parte del giovane Grandier: tanto peggio, concluse cinicamente fra sé Lord Wotton, tanto peggio, sia per il biondo colonnello, sempre così algido e sicuro di sé, sia per il suo attendente, che forse avrebbe trovato l’iniziativa per uscire da quella zona d’ombra nella quale gli sembrava tanto ben accomodato.
E così, mentre Lord Wotton, insieme a una Rosalie che cascava letteralmente dal sonno, ascoltava le celestiali arie di Haendel intonate da Dorian con l’accompagnamento del Colonnello Jarjayes, André Grandier, muovendosi, per l’appunto, nella zona d’ombra che gli era tanto congeniale, si era avviato verso gli appartamenti di Lord Douglas Sholto.
Camminava sciolto e disinvolto per i corridoi, con le mani in tasca, come da sempre tutti a Palazzo erano abituati a vederlo. In fondo, e in un certo senso, Palazzo Jarjayes era anche la sua casa, no? Poi, arrivato in prossimità della porta che immetteva sugli appartamenti del giovane Lord, il suo passo si fece più lento e guardingo. Si guardò attorno, a destra e a sinistra, e poi dietro le spalle, prima di chinarsi davanti alla maniglia della porta. E quasi cadde in avanti, dando una zuccata contro il legno smaltato di bianco e dai profili zecchinati, quando una voce nota lo fece trasalire.
“Siamo curiosi, André?”
Si volse, allarmato, rialzandosi, e cercando di racimolare un briciolo di sangue freddo e una scusa plausibile – per fortuna, realizzò, non aveva ancora tratto dalla tasca del giustacuore la forcina con cui avrebbe fatto scattare la serratura – e il suo sguardo incontrò gli occhi di un caldo color nocciola di Midinette, che era avanzata di qualche passo, rendendosi visibile, dal cono d’ombra creato, dalla grande statua di Minerva nella nicchia del corridoio, proprio davanti alla porta delle stanze del nobile ospite.
“Mi – Mi …. di … Midinette!”, esclamò André. “Tu?”
“Sì, io”, rispose la ragazza, fissandolo ironicamente.
“Ma che ci fai tu qui?”, chiese André, passandosi sui calzoni, all’altezza delle cosce, i palmi delle mani, bagnati come due trote appena pescate[2].
“Potrei chiedere io a te la stessa cosa, non trovi?”, rispose di rimando lei con un’altra domanda, mentre, tenendo le mani incrociate dietro la schiena, avanzava verso André, passettino dopo passettino, il volto appena inclinato verso destra, scrutando il ragazzo di sotto in su, con un’aria in cui si mescolavano sfida e timore.
Poi, quando fu a due passi da lui, con una sfrontatezza che nemmeno lei sapeva di possedere, e sperando che André non percepisse il battito impetuoso del cuore che sembrava volerle esplodere dal petto, e pensando insieme, “Mio Dio, com’è alto!”, la giovane cameriera alzò il viso verso il ragazzo e disse in un soffio: “È molto importante, questa cosa che vuoi fare?”.
“Molto”, sussurrò André, annuendo.
“Allora dammi un bacio”, sussurrò lei di rimando, alzandosi sulla punta dei piedi per dirgli quelle parole all’orecchio, più per timore di incrociare i suoi occhi, che per un tentativo di seduzione, nonostante lo sforzo per mantenere la voce ferma.
“Come?!”, si stranì André, arretrando e guardandola in pieno volto.
I doppieri che, posti a intervalli regolari sulle mensole di marmo, illuminavano debolmente il corridoio, producevano una luce soffusa, ma anche in quella penombra André poteva distinguere la fiamma negli occhi della ragazza.
“Un bacio, hai capito bene. Un bacio solo, e me ne vado. E non mi interesserà che cosa tu faccia, e non dirò a nessuno di questa nostra … conversazione”. Gli occhi di Midinette volevano essere furbi, ma erano solo teneri, e imploranti.
André pensò che non era davvero il caso di stare a discutere, non in quel momento e in quel contesto. Ma, soprattutto, l’ardire di quella ragazza solitamente così timida e riservata lo aveva intenerito.
Avanzò verso di lei, le mise le mani sulle spalle, e poi, chinandosi, pose le labbra sulle sue, dandole un bacio leggero, a labbra chiuse, che fece sospirare la ragazza.
Quando André si staccò da Midinette, la giovane restò un attimo con gli occhi a terra, mentre sulle labbra le aleggiava un sorriso leggero, un po’ timido, e un po’ malizioso, le dita a sfiorarsi la bocca. Poi, girò le spalle, e si avviò verso l’altro capo del corridoio, non senza aver prima detto ad André: “André, io[3]… non pensavo che l’avresti fatto, sul serio, intendo. Ma … comunque ... grazie … davvero … Allora… buona fortuna, per qualsiasi cosa tu debba fare, allora ... E … è fortunato il Colonnello Jarjayes, molto fortunato. Spero che lo scopra presto!”.
E lasciando André basito, si defilò.
Poi, ripreso dopo un attimo il dominio di sé, André trasse dalla tasca la forcina, e, con la sua piccola lanterna cieca in mano, entrò senza difficoltà nelle stanze di Lord Douglas Sholto. Lì, si precipitò verso la cassa, e, tratta da un’altra tasca la chiave realizzata dal suo amico fabbro, la girò nella serratura, aprendo lo sportellino di legno. Avvicinò la lanterna cieca e guardò dentro: fortunatamente, l’educazione impartitagli gli aveva insegnato a dominarsi, o avrebbe gridato. Così, soffocato l’urlo di orrore che gli stava salendo dalla gola, André, con una mano sulla bocca, fissò, orripilato e insieme affascinato, il volto che emergeva dal buio: altro che ritratto della madre di Lord Sholto! Quello era il ritratto di Lord Sholto stesso, come si poteva indovinare dai tratti che ricordavano quelli dell’ospite inglese, ma distorti, distrutti, resi ripugnanti dal tempo, dalla malattia, dai vizi, dalle ferite, dai segni innumerevoli sulla pelle, che lo riducevano a un ammasso semiputrescente di rughe, di pieghe della pelle, di tessuti flaccidi, le guance cascanti, il volto sfregiato, le labbra spaccate e aperte in un ghigno che faceva intravedere le gengive su cui rimanevano pochi denti marci e anneriti, la testa semicalva, con pochi capelli bisunti e radi che scendevano sul collo flaccido, a stento contenuto dal colletto della camicia. E sopra tutto, l’orrore di quegli occhi freddi, anzi, di quell’unico occhio di un blu freddo che lo fissava con espressione maligna sotto la palpebra semicascante, mentre l’altro occhio era morto, opaco, velato senza sguardo e senza pupilla[4].
        André non avrebbe saputo dire per quanto tempo fosse restato immobile a osservare quello spettacolo ripugnante e terribile: forse pochi secondi, che gli dovevano comunque essere sembrati una eternità. Poi, si era affrettato a richiudere lo sportello della cassa, riprendere la lanterna cieca, e uscire dalla stanza il più velocemente possibile.
        Un paio d’ore dopo, concluso il concerto domestico, e scambiata una calorosa buonanotte con il Colonnello Jarjayes, Lord Douglas Sholto si era azzardato a mettere piede in cucina, in cerca di qualcosa da sgranocchiare: cantare mette sempre un certo appetito, si sa. E chi sa se quella megera di governante aveva lasciato qualcosa di disponibile per gli spuntini notturni, pensava Dorian.
Quando entrò, però, vide André, i gomiti appoggiati al grande tavolo di legno al centro della stanza, il capo reclino sui gomiti, che dormiva. Davanti a sé aveva due bottiglie vuote e una svuotata per metà di Bordeaux, e un bicchiere mezzo pieno. L’ospite inglese si fermò a osservarlo: i lineamenti decisi, la bellezza virile, le spalle robuste che sussultavano nel sonno, la schiena ampia e muscolosa, tesa sotto il tessuto del giustacuore di fustagno marrone, i lunghi capelli corvini.
“Scommetto che ti stai chiedendo che cosa ci sia in quest’uomo che si possa amare”, disse una voce severa alle sue spalle.
Dorian si volse di scatto. “Henry!”, esclamò. “Accidenti! Mi hai fatto prendere un colpo!”.
“Una volta tanto”, rispose Lord Wotton, in tono piatto. E si appoggiò con le spalle allo stipite, una gamba davanti all’altra, i piedi incrociati, le braccia conserte.
“Che cosa c’è in quest’uomo che si può amare?”, chiese, questa volta con una domanda diretta, e con tono di scherno, Dorian, che si era subito ricomposto. “Io davvero non saprei, ma forse tu puoi illuminarmi: non eri tu a nutrire una certa qual attrazione per la manodopera?”.
“Dorian …”, lo ammonì severo Lord Henry.
“Non ti sto provocando, Henry”, disse il giovane. “Ti sto solo rispondendo”. Si volse verso André, profondamente addormentato nello stordimento propiziato dal vino, e, preso il bicchiere ancora mezzo pieno, lo svuotò d’un fiato, limitandosi a dire, mentre lo rimetteva davanti al giovane immerso nel sonno. “Questo solo posso amare, di lui. Questo solo. E ora scusami, ma domattina devo andare di buon’ora a Parigi”.
“Non ti voglio nemmeno chiedere il motivo, Dorian”.
“E fai benissimo, Henry. Non sei la mia balia, ricordatelo. E io faccio quello che voglio”.
“Come sempre”.
“Sì, Henry, come sempre; e come è giusto che sia”, ribatté il giovane, uscendo dalla cucina a passi decisi. Poco dopo, ne uscì, con andatura lenta e meditabonda, anche Lord Wotton.
 
 
[1] Trad: “Perdonami, Alessandro, ma davvero non posso fare altrimenti”
[2] Fa molto Fantozzi, eh? Una volta tanto, abbiamo messo in difficoltà anche l’immaginifico Grandier!
[3] Ma allora è un vizio delle abitanti di Palazzo Jarjayes!
[4] Ricordiamo la disavventura narrata dal Generale nel capitolo 4.

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Capitolo 13
*** 13 - Un ricevimento elegante ***


 
13 – Un ricevimento elegante
        13 - Due erano le tipologie di dame che, nel corso dei trattenimenti mondani, manifestavano interesse per André Grandier: c'erano quelle che volevano sapere tutto sul misterioso e affascinante Colonnello Oscar François de Jarjayes; e c'erano quelle che volevano sapere tutto sul silenzioso e affascinante André Grandier, che seguiva da sempre come un’ombra il Comandante delle Guardie Reali.
Per sfuggire le dame appartenenti all’una e all’altra tipologia, André, quella sera, si era rifugiato sulla grande terrazza dell'Hotel de Bramberry; di norma, poiché i balli della duchessa di Bramberry erano una gran noia, Oscar, che già di per sé non amava partecipare a quel tipo di eventi, se non strettamente necessari, declinava tutti gli inviti che riceveva.
Ma dal momento che quella sera sarebbero stati presenti la principessa di Lamballe, il Conte d'Artois,  Monsieur, ovvero il Conte di Provenza, e altri personaggi di spicco a Corte, Oscar aveva deciso di accettare l'invito, "così il giovane Lord Sholto, che ha ancora fatto il suo ingresso ufficiale a Versailles, potrà familiarizzare con alcuni aristocratici che certo gli sarà utile conoscere quando verrà presentato alle Loro Maestà". Aveva parlato con la sua consueta, tranquilla apoditticità, sorbendo il caffé bollente nell'orangerie con André, gli occhi chiusi mentre avvicinava la chicchera alle labbra, gli occhi chiusi, e le ciglia lunghissime a ombreggiarle gli zigomi. E, sfruttando il fatto non essere, per un attimo, visto, André, come sempre, si era incantato a osservarla, seguendo la linea del collo rigonfiarsi leggermente, a misura che Oscar inghiottiva le minuscole sorsate della bevanda bollente; e sognava di abbreviare quella distanza, di un piede, forse due, fra le sue labbra e il collo di lei.
"Indosserai l'alta uniforme?", chiese lui, in tono neutro, quel tono che avrebbe avuto un qualsiasi attendente di un qualsiasi colonnello, se avesse dovuto sapere se era necessario avvertire la guardarobiera.
"Santo cielo, no!", rise lei, posando la tazza, in tono neutro, ma ricordando, dentro di lei, la sola nottata in cui l'aveva indossata, per un groviglio di ragioni dolorose, ragioni d'amore, d'amicizia, di lealtà a un impegno preso da ragazza, "Sai bene che non ballo mai!".
"Benissimo, Oscar; vado a preparare la carrozza", aveva detto lui, e, posata la sua chicchera nel vassoio, aveva ritirato anche quella di lei, e si era allontanato, con in bilico sulle dita della mano destra il suo carico di porcellana.
        Appena arrivata al ballo, Oscar era diventata, come sempre accadeva, il centro di un capannello di dame, che volevano sapere tutto della vita del bellissimo comandante delle Guardie Reali, e alle quali non era sembrato vero di poter tempestare di domande anche il suo giovane ospite, il bel lord inglese che, si diceva, era colto, ricco, nobile, elegante, pieno di umorismo e di uso di mondo, e che a breve avrebbe fatto il suo ingresso a Corte. E mentre Oscar e Lord Douglas Sholto cercavano di tener dietro a quel fuoco di fila di interrogativi curiosi, André si era defilato. Per fortuna, aveva trovato deserta la grande terrazza su cui si affacciavano le sale del piano nobile affacciate sul lato est, sala da musica, biblioteca salotto privato della contessa, dove si ritirava a dipingere i suoi brutti quadri che, usciti da quelle mani nobili, erano contesi dalla Parigi che conta. La serata invernale era così limpida, e André, a dispetto delle ben più pressanti cure che dovevano animarlo, si sorprese a lasciar vagare il pensiero, fantasticando su un abbraccio che cingesse Oscar per la vita, i suoi capelli biondi sotto le sue labbra, la sua nuca sotto le sue dita, il suo profumo - rosa e mughetto, dolcezza languorosa venata di asprezza pungente - nelle narici, mentre riconoscevano le costellazioni, come da ragazzi, inframmezzando però questa volta nomi di dèi ed eroi a piccoli baci sospirosi....Perso in queste immagini deliziose, non si avvide, per un bel po', delle voci che provenivano dalla biblioteca: immersi nella penombra, due uomini stavano parlando. Il loro tono era tranquillo - la voce di quello più maturo con una nota vibrante, a tratti quasi addolorata sotto l'ironia che voleva ostentare, quella del giovane più squillante, impastata di noncuranza, e, talvolta, sferzante. André si allontanò dalla balaustra e si avvicinò alla vetrata oscurata da un fitto tendaggio. Un passo più in là, la porta finestra aperta sulla serata parigina, insolitamente tiepida a dispetto della stagione.
 "Questi due non possono stare lontani dalle biblioteche", pensò, sorridendo, incongruamente, ricordando la massima del loro precettore, Monsieur Bellevue ("E ricordate, les enfants: un uomo che legge molto non può essere davvero malvagio!". Come ti sbagliavi, povero Monsieur Bellevue, dai bel fazzoletto da collo tutto trine e pizzi!, disse fra sé André).
"Allora?"; chiese Lord Sholto, vagamente spazientito, "Perché mi hai fatto chiamare con questo biglietto? Che c'è adesso?".
"Perdonami: immagino che ti stessi molto divertendo, con il Colonnello Jarjayes, bello, biondo e di gentile aspetto, che ti stava presentando a tutte quelle vecchie cariatidi...", rispose Lord Wotton, prendendola larga.
"Sì, esattamente", puntualizzò il giovane, con tono antipatico. E poi aggiunse: "Sai com'è? Ho una autentica passione per le vecchie cariatidi: ma tu lo sai già per esperienza diretta, vero?".
Un silenzio. Che cosa darebbe, ora, André Granider, per vedere l'espressione di Lord Henry: invece, ne sentì solo un respiro profondo, quasi un sospiro, come se stesse cercando di riagguantare la calma prossima a sfuggirgli.
"Vedi, Dorian; ho trovato un libro molto interessante: Proverbi, detti e modi di dire Italiani, di tutte le regioni e di tutti i dialetti dell’Italia..."
"E hai mandato un valletto a chiamarmi con un biglietto "urgente", strappandomi al ballo, per dirmi ... questo?"
"Oh, ma ascolta un poco Dorian, ascolta. Alcuni di questi detti italiani sono... fantastici. Tutta l'Italia è meravigliosa, non trovi?", chiese, e nella sua voce risuonava un'eco di nostalgia.
"Tutta, hai ragione"; ammise il giovane, addolcito. "Ricordi Napoli? E Sorrento? "
"Quel viale fra i limoni, nel giardino di Palazzo Correale? Quel viale che terminava con una terrazza, con vista sull'isola di Capri?", mormorò quasi impercettibilmente l'uomo più vecchio.
"E gli scavi di Pompei...? Re Carlo III ci aveva fatto l'onore di assistere al dissotterramento di quel mosaico triclinare ... lo ricordi? Che meraviglia!", esclamò il giovane, gaiamente, con la sua voce delicata. E poi: "Devo tornarci, sì. Adesso la regina è la sorella di questa sciocchina, un po' meno sciocca, mi dicono. Devo proprio tornarci .... " , una breve sospensione, poi aggiunse, "con un compagno di viaggio giovane, un compagno cui non pesino le notti passate bevendo per i vicoli di Napoli, e le giornate trascorse sotto il sole a picco a emozionarsi per i reperti restituiti da sotto lo strato di ceneri e lapilli ...", soggiunse, maligno.
André avrebbe giurato di aver udito l'altro deglutire, sonoramente, con sforzo, inghiottire l'insulto, la delusione, l'allusione sferzante all'età non più verde; e si chiese come sarebbe stato, un giorno, essere messo da parte, senza tanti riguardi, dal sole attorno a cui era girato per una vita intera. Sudò freddo, nonostante il gelo serata invernale.
"Perché sei così cattivo, Dorian? Perché?", disse Lord Henry, lasciando cadere le parole una per una, lente, e sconsolate. Una pausa, e poi: "Quanto avrei voluto che tu non fossi così senza cuore, Dorian. Ti ha sempre nuociuto, e ti nuocerà sempre"[1], mormorò, come se facesse una considerazione fra sé, come se non fosse importante essere ascoltato dal suo giovane interlocutore.
"Ma non ti avevo chiamato per questo. Piuttosto, senti qua". Adesso il vecchio Lord Wotton aveva ripreso la calma. Leggeva, e sembrava quasi di cogliere, nella sua voce, un tono di feroce allegria.
"Non dire gatto se non l'hai nel sacco": bello, come modo di dire, no? "Detto a chi esulta troppo precocemente per un successo ancor di là da venire".
L'altro, il giovane, sbuffò di impazienza. André se lo immaginava: seduto con aria negligente, come spesso lo aveva sorpreso nella biblioteca di Palazzo Jarjayes, quando, da solo, Lord Douglas non doveva sostenere la recita del timido, giovane aristocratico solo al mondo e in una nazione straniera, stravaccato con la gamba destra appoggiata, poco sopra la caviglia, orizzontalmente, sul ginocchio sinistro, le calze bianche a fasciare i polpacci sottili, lo sguardo distratto - strafottente - che non si posava mai sul libro che teneva, inerte aperto in grembo, né che mai si fissava sull’interlocutore di classe inferiore, ma che si appuntava ora su una macchiolina di fango sulla vernice dello scarpino, ora sulle unghie, mentre a tratti il giovane toglieva dal taschino del panciotto la catena dell'orologio d’oro smaltato per fingere di controllare, accigliato, l'ora.
"E poi, aspetta ancora un minuto, leggi qui: "De' dialetti lombardi, et in ispecie delli possedimenti lombardi della Repubblica Veneta: Aspettare che arrivi "quel del formaggio": auspicio rivolto a persona arrogante, usa a compiere soperchierie, augurando che arrivi persona o che si verifichi situazione che gli farà abbassare la cresta". Il suono di un libro che si chiudeva, secco.
"E allora, Henry?", chiese, per l'ennesima volta, Dorian. "Che vuoi dirmi, una buona volta?".
Rumore di scarpini sul pavimento: Lord Sholto doveva essersi alzato e ora camminava nervosamente per la stanza.
"Voglio dire, Dorian, che lo so benissimo che tu credi di poter liquidare il tuo vecchio compagno di viaggi e di avventure e di sostituirlo, dopo più di trent'anni, con un altro. Ma, oltre alle obiezioni di cui ti avevo messo a parte ...:"
"Oh! Quell'André Grandier! Pfui!", lo interruppe Lord Sholto.
"Oltre all'ostacolo costituito dall'attendente del colonnello, "quell'André Grandier", come lo chiami tu"; continuò imperturbabile Lord Henry, "hai mai considerato che il Colonnello Jarjayes potrebbe non gradire la prospettiva di lasciare il suo incarico di prestigio a Corte, per seguirti nei tuoi pittoreschi e un po' inconcludenti viaggi?".
"A te non sono mai sembrati tanto inconcludenti", puntualizzò Lord Sholto, piccato. "O forse ricordo male".

"Sì, hai ragione. Ma io non ero il Comandante della Guardia Reale e la carriera militare mi ha sempre disgustato", rispose Lord Henry.
"Questione di gusti, appunto. E poi, a chi non piace l'Italia? Firenze, con il David, Roma, Napoli ... la Sicilia con le rovine dei grandi templi...", enumerò, lirico, Dorian.
"E se ti dicessi che il tuo caro Colonnello è una donna?", sparò brutalmente Lord Henry.
André trattenne a stento un sussulto. Come aveva fatto a ...?
"MA CHE STAI DICENDO?!". Lord Sholto aveva alzato la voce, adirato.
"Oh, sì, caro Dorian", rispose, mellifluo e compiaciuto, Lord Wotton. "Vedi, io te lo dicevo che avresti dovuto venire a Corte. A Versailles, sai, una chiacchiera tira l’altra, e, un pettegolezzo qua e uno là, si apprendono sempre tante cose, e tutte interessanti".
Rise. Ricordò quella mattina, mentre visitava le scuderie della Guardia Reale, scortato dal secondo del Colonnello De Jarjayes, il giovane Visconte de Girodelle, uno spilungone insipido, il cui unico tratto distintivo era una gran massa di lunghi capelli color biondo scuro di cui doveva andare molto fiero, dato che li teneva sciolti e non faceva che scuotere la testa come faceva la cavalla che montava da ragazzo, la sua vecchia e vanitosa Melody, sempre intenta ad agitare la sua bella criniera.
Così, mentre passavano in rassegna gli esemplari migliori delle Scuderie Reali, gli venne spontaneo dire al Maggiore Girodelle: "Che splendidi animali! Ma il più bello di tutti non è qui, sbaglio: il Colonnello Jarjayes non lascia mai alloggiato in questa scuderia il suo César, giusto?".
"No", rispose Girodelle "Madamigella Oscar arriva a Versailles ogni mattina e ne riparte in sella al suo stallone bianco: gli è molto legata". 
Al suono di quel "Madamigella" Lord Henry era sobbalzato. Ma, poiché il maggiore dai lunghi capelli sciolti gli dava le spalle, intento a carezzare il muso di un cavallo irrequieto, Lord Wotton non aveva dovuto faticare molto per nascondere la sua sorpresa.
Qualche giorno più tardi, brigando e intrigando, come sempre sans en avoir l'air, era riuscito a ottenere un invito per uno dei trattenimenti pomeridiani nel salotto della vecchia Marchesa de Sauvay, dove si riunivano tutte le vecchie cariatidi parigine, che sapevano ricostruire a memoria tutti gli alberi genealogici dei nobili più in vista di Versailles risalendo, di ascendente in ascendente, sino ai tempi di Francesco I. Mentre sorbiva l'eccellente cioccolata della marchesa - brutta come il peccato, o forse, come la Quaresima, e dotata di una voce da cornacchia, oltre che di una nipote baffuta, con il fisico di uno scaricatore di porto, che sognava già un romantico matrimonio con un misterioso e distinto nobiluomo inglese di mezza età - fece cadere, casualmente, il discorso, sul Generale Jarjayes, di cui era stato ospite un suo caro amico di gioventù, "il padre del giovane di cui sono tutore". La vecchia marchesa e le sue amiche sembrarono rianimarsi, e il crocchio di nobili signore fu percorso da un brusio paragonabile a quello di un alveare cui fosse stato avvicinato un gran cesto di fiori. Allora, mentre sorbiva quietamente la sua cioccolata, Lord Henry si era deliziato delle chiacchiere delle vecchie damazze, chiacchiere che avevano confermato la rivelazione avuta nelle scuderie della Reggia.
"Oh, il Generale Jarjayes! Che giovane avvenente era! Pensate che mia sorella Mathilde, in gioventù, ci aveva lasciato il cuore sui suoi occhi di ghiaccio..:" "E dire che la povera contessa Marguerite..."; "Una donna dolce, ma senza carattere, lasciatemelo dire.."; "In effetti, consentire al marito di fare questo..."; "Povero Generale, ma del resto, che cosa avrebbe dovuto fare? ... Un casato così nobile, destinato all'estinzione...!"; "Sì, ma una decisione così! Povera Madamigella Oscar!"; "Povera?! Ma che dite?! Vorrei avere avuto io la sua libertà! Andare e venire in ogni momento, senza dover chiedere permesso a nessuno! E cavalcare in pantaloni"; "Sì, ma essere stata allevata come un uomo..."; "Oh, beh, a me non sarebbe dispiaciuto!"; "Dite la verità, contessa: quello che a voi non sarebbe decisamente dispiaciuto sarebbe stato avere accanto l'attendente di Madamigella Oscar!"; "Intendete il giovane André Grandier? Oh, ma noooo, baronessa, ma che cosa ve lo fa credere?"; "Ahaahaha!"; "Comunque quel ragazzo è bello, ma troppo serio!"; "Sì, uno sguardo così malinconico!"; "Per forza, è innamorato di Madamigella Oscar!"; "Ma che dite, viscontessa?!"; "Ma come?! Ma se è evidente!"; "In ogni caso, anche se ciò fosse vero, Madamigella Oscar è una giovane troppo virtuosa per poter cedere all'amore di un servo!"; "Io lo troverei molto romanzesco, invece!"; "Via, duchessa, non dite sciocchezze: una nobildonna, con un servo!"; "Io, al contrario, trovo che sarebbe così...così... così  pittoresco! Un autentico triomphe de l’amour!"; “Suvvia, duchessa! Voi avete assistito a troppe rappresentazioni di Marivaux! Mio padre, lui sì che era un uomo attento alla moralità! Non per niente mi aveva proibito il teatro!”: “Ma poi, dopo il matrimonio, mia cara, mi pare che vi siate rifatta ampiamente! Col teatro e … con gli attori!”; “Oh, ma che screanzata! Se non fossimo tanto amiche e da tanto lunga data, avrei di che offendermi!”. E mentre le voci di quel crocchio di nobili pettegole si accavallavano, discutendo lo strano caso del Colonnello Oscar François de Jarjayes, Lord Henry sorrideva. Oh, sì, che bella sorpresa per Dorian....
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"Non è possibile! Non ci credo!". Lord Sholto stringeva i pugni, con rabbia: quella rivelazione aveva sparigliato tutti i suoi piani.
"Oh, beh, devi solo accertartene. Sono sicuro che troverai i mezzi per farlo. E ora scusami, mio caro, ma sono atteso a Palais Royal nel salotto del Duca d'Orléans e proprio non posso tardare!", disse alzandosi, con fare disinvolto e sorridente.
Dorian lo accompagnò con uno sguardo pieno di odio, sino a quando Henry non ebbe preso la porta.
Poi, cercò di far sbollire l'ira.
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Il giorno dopo, Dorian si svegliò tardi, di pessimo umore, ben dopo il mezzogiorno.
Dopo essersi preparato, senza che il malumore fosse sbollito, e dopo aver controllato, con il consueto sguardo schifato, lo stato del ritratto, custodito dentro la sua cassa di legno alta e sottile, si dispose a scendere lo scalone d’onore per cercare qualche attività che gli consentisse di passare il pomeriggio sino all’ora di cena. Le parole di Lord Wotton gli riecheggiavano ancora nell’animo, procurandogli una sorda voglia di fare a pezzi ogni vaso, cristallo, specchio o bicchiere che gli fosse capitato a tiro. Stava per uscire dalla sua camera, quando sentì delle voci e un suono metallico provenire dal giardino sul retro. Oscar e André si esercitavano alla spada.
Ebbe una intuizione, e scese le scale di buona lena.
Avevano appena fatto una pausa. Oscar si stava tergendo il sudore che le imperlava la fronte con la manica della camicia.
"Colonnello Jarjayes, vorreste darmi una lezione di spada?", chiese lui. "Vedete, è tanto che non mi esercito: mi sembra una vita!”.
André gli puntò addosso uno sguardo strano.
"Ma certo, Lord Sholto", rispose Oscar, la voce che si era fatta morbida e dolce. "André, cedigli la tua spada.... Non è troppo pesante per voi, vero, Lord Sholto?"
"No, certo che no, Colonnello Jarjayes: va benissimo", disse Dorian, soppesando l'arma, ruotando il polso e il braccio.
"Ottimamente, Lord Sholto. E ora...en garde!"
Ma a Dorian non interessava che fare pochi passi, e inciampare, malamente, nei suoi stessi piedi, cadendo in avanti, in direzione del Colonnello Jarjayes. Vedendolo barcollante e poi sbilanciato in avanti, Oscar aveva lasciato cadere la spada, e si era lanciata a sorreggerlo, impedendo che cadesse lungo disteso a terra. Il giovane affondò brevemente con il viso nel suo petto, abbracciandola stretta. Un attimo di imbarazzo, e poi il ragazzo si sciolse dall'abbraccio.
"Vi prego di perdonarmi, Colonnello: temo di essere ancor meno in forma di quanto credessi", dice Dorian. E, dopo un inchino frettoloso, si allontanò, e rientrò in casa.
Oscar raccolse la sua spada e quella di André, caduta dalle mani dell'ospite, e, poi, con uno sguardo perplesso negli occhi, osservò il suo giovane ospite allontanarsi. André, accanto a lei, taceva; poi, non poté fare a meno di chiederle: "Oscar, che c'è?".
"Vedi, André, io avrei proprio giurato che Lord Sholto avesse voluto...". Scosse la testa, energica, e scaccia via quel pensiero irrazionale.  "Sciocchezze!". Porse ad André la sua spada: "Ecco, tieni. Ricominciamo, André. E ti avviso: questa volta farò sul serio!":
"Come vuoi, Oscar!". E incrociarono le spade, in una danza costellata di ansiti e tintinnii di acciaio che batte l'acciaio, come ogni sera da anni e anni.
Dal piano di sopra, Lord Sholto li osservava, in preda al furore: dannazione a Henry e a tutte le volte che ha avuto ragione!
 
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[1] Come dirà Madame Merle a Osmond in “Ritratto di signora”(Jane Campion, 1995).

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Capitolo 14
*** 14 - Anche la piccola Rosalie... ***


14 - Anche la piccola Rosalie ….
1 - “E pertanto, dopo aver riconquistato Orléans, Giovanna venne tradita e consegnata agli inglesi, che la processarono e la arsero sul rogo come eretica”.
“Benissimo, Rosalie. In che anno?”. La voce di Oscar, bassa e suadente, rendeva piacevole persino l’interrogazione di storia cui stava sottoponendo la sua protetta, per verificare che avesse studiato con cura la lezione sulla Guerra dei Cent'Anni.
“Il 30 aprile 1431, Madamigella Oscar”, rispose sicura Rosalie.
“Quasi!”, sorrise Oscar “il 30 maggio. Devi essere più precisa nello studio, mi raccomando: anche le date hanno la loro importanza”:
“Sì, Madamigella Oscar”, chinò il capo, remissiva, Rosalie.
Ora era arrivato il turno di André, che avrebbe ripassato con la ragazza un po’ di italiano, con una veloce lettura di qualche ottava dell’Ariosto. Nel frattempo, Oscar si era alzata, e ora stava di fronte alla finestra, volgendo le spalle a Rosalie e ad André, una mano a stringere il pesante tendaggio di broccato di un caldo color oro, che richiamava il biondo dei suoi capelli.
Jeanne arsa per aver indossato abiti maschili, pensava André. Ancheper aver indossato abiti maschili, si corresse. E guardò Oscar. Ma Oscar, così compresa nel suo ruolo di educatrice e di maestra, non sembrava rendersi conto né degli occhi di André fissi su di lei, né dei risvolti di quanto aveva appena detto. E nemmeno Rosalie sembrava aver colto alcunché.
Meglio così, pensava lui. Per ora, meglio così.
2 - “Ma Oscar, che fai qui, dietro l’angolo?”.
SSSSSSST!”, gli intimò lei, un dito sulle labbra, per tutta risposta, facendogli segno, con l’altra mano, di guardare in una direzione precisa.
E nel giardino addormentato nel gelo invernale, André mise a fuoco, a passeggio tra gli scheletri dei cespugli di rose, Rosalie con Lord Sholto. A un certo punto si fermarono, vicino alla serra, al piccolo Jardin des Plantes messo su dalla Contessa Marguerite nei primi anni del suo matrimonio, fra una gravidanza e l’altra, fra una delusione e l’altra.
Lord Sholto, in piedi davanti alla giovinetta bionda, parlava, con fare sorridente e suadente, chinandosi verso di lei, tanto più piccola di lui, e intanto teneva un gomito appoggiato a uno spigolo della parete della serra, e il braccio accostato al volto, le nocche a lambire le labbra, in un gesto di sottile seduzione che sembrava confondere Rosalie, le cui guance erano appena imporporate. O forse era l’effetto del freddo?
André si sentì prima ghiacciare il sangue; poi, improvvisamente, il calore, dovuto all’ira, ricominciò a fluire nel suo corpo, sotto la pelle: quella serpe di Lord Sholto aveva forse messo gli occhi su Rosalie, sulla loro piccola Rosalie? Però, il fatto che Oscar se ne fosse resa conto, e lo esortasse a spiare senza farsi notare, significava che non era completamente sotto la malìa dell’ospite straniero, come invece André aveva tanto a lungo pensato e temuto.
3 - “Rosalie, il maestro di ballo non potrà venire domani a Palazzo per la consueta lezione”, annunciò Oscar a tavola durante la cena.
“Oh, quel dommage!”, scosse la testa Rosalie, con mestizia “Spero solo che la sua assenza non sia dovuta a una infreddatura: con questo inverno gelido, non me ne stupirei affatto”, considerò, con il suo consueto fare giudizioso.
Rosalie alzò di scatto il volto verso di lui, con una espressione indecifrabile. André, che sedeva, come spesso accadeva, a cena con Oscar e gli ospiti inglesi, quando a tavola c’era anche Rosalie, non riuscì a reggere il peso di quell’occhiata, e chinò il capo, dentro il piatto del consommé.
“Ma se volete”, s’intromise Lord Sholto, con suo consueto sorriso, disponibile e fanciullesco, “per un giorno potrei dare io lezioni di ballo alla vostra giovane protetta, Colonnello Jarjayes”.
“Lord Douglas, non credete di allargare un po’ troppo la sfera delle vostre competenze?”, chiese Lord Wotton, con fare sarcastico. “Va bene leggere i libri di quei pensatori egualitari, ma mettersi nei panni di un maestro di danza..”. Il tentativo di raddrizzare quella battuta storta, germinata da una intenzione caustica che Lord Henry non riusciva e non voleva più controllare, forse era stato anche peggiore delle prime parole che gli erano uscite di bocca: davvero, una toppa peggiore del buco che voleva coprire. Con quelle parole, Lord Henry era riuscito, certo involontariamente, a umiliare Rosalie e André, che gli rivolse uno sguardo dispiaciuto, e complice, come avendo capito la tensione interiore che aveva fatto esplodere un uomo altrimenti tanto controllato.
“Lord Wotton, vi prego! Non sono ancora un vecchio grasso e con la gotta”…. E qui la sua voce restò per un istante in sospeso, come se il giovane Lord avesse voluto aggiungere qualcosa, magari un IO, ben marcato, che sottolineasse la differenza fra se stesso e il suo tutore, ma poi si fosse trattenuto, ritenendo, forse, che una simile uscita l’avrebbe reso in tutto e per tutto simile a un uomo che avesse perso la pazienza; e lui, Dorian, la pazienza non la perdeva mai. O quasi.
4 – Il maestro di piano ingaggiato per le lezioni di musica e danza suonava con precisione e attenzione; Dorian e Rosalie si erano cimentati già con un paio di minuetti, due gavotte, tre sarabande e una contredanse, durante le quali l’ospite inglese aveva avuto modo di complimentare la giovinetta per la sua leggerezza, per le sue movenze aeree ed agili, per l’eleganza della postura.
Poi, mentre riprendevano fiato, Dorian chiese: “E se ora ci cimentassimo con un valzer, Mademoiselle Rosalie?”.
Il nuovo ballo, portato dall’Austria da Maria Antonietta e presto diventato do moda, nonostante i passi leggeri e aggraziati che richiedeva, era considerato molto audace, dato che le coppie danzavano, di fatto, in una posizione che simulava un abbraccio pronto a stringersi.
“Ma, veramente, io …”, balbettò Rosalie, imparpagliata.
“Vi tolgo io dagli impicci, Mademoiselle Rosalie”. Lord Henry era entrato nel salone delle danze con aria decisa, il passo elastico e con addosso una strabiliante camicia con uno jabot esagerato al collo, e maniche di pizzo dall’orlo esorbitante, e un gilet damascato in tutti i toni del rosso e del porpora.
“Volete concedermi questo valzer, Mademoiselle?”, chiese, con fare mondano e insieme deciso, scostando con elegante energia la mano destra di Rosalie da quella di Dorian, e stringendola a sua volta, mentre, con cenno da vero aristocratico chiedeva al suo pupillo: “Lord Douglas, credo che forse potreste far riposare un po’ il nostro buon pianista, e produrvi in un valzer o due”. E poi, rivolto a Rosalie: “Vedete, MademoiselleLamorlière, con un vecchio signore come me, potrete stringervi e ballare senza alcun rischio per la vostra reputazione e per il vostro affascinante candore”. Rosalie chinò gli occhi, con gratitudine e verecondia, mentre Dorian andava al piano, con dipinta sulla faccia una espressione che pareva dire, all’indirizzo del suo tutore: “Questa volta me la paghi!”.
Oscar e André assistevano alla lezione, seduti, in apparenza oziosamente, su due bergères imbottite e addossate alla parete. Poi, finalmente, dopo tre valzer, Lord Henry si scostò dalla giovane bionda e accaldata, chinandosi di fronte a lei, ed elogiandola per la sua abilità anche in quel ballo.
Poi, Lord Henry prese la porta, con decisione, a passo sostenuto, nonostante si fosse appena dichiarato stanco e affannato, “da bravo vecchio quale sono”, non senza aver scoccato un’occhiata pungente, guardando con intenzione Dorian, che gli dava in quel momento la schiena, e che non fece nemmeno il gesto di volgersi.
Da parte sua, non appena Lord Wotton ebbe lasciato la sala, Lord Sholto lo seguì, di volata, con una espressione indecifrabile in faccia, non senza aver raffazzonato all’indirizzo di Oscar una scusa evidentemente inventata lì per lì: “Vogliate scusarmi, Colonnello de Jarjayes, ma … la mia rendita … una procura urgente, perdonate … urge una firma da parte di Lord Wotton”. E poi, si fiondò fuori dalla sala da ballo, con un’ansia che Oscar e André non gli avevano mai visto palesare.
Rosalie, in piedi davanti al pianoforte, seguì con lo sguardo i due ospiti, scuotendo appena la testa.
“Madamigella Oscar”, chiese poi, “so bene che non spetta a me porre certe domande, perché nella vostra casa sono solo un’ospite”. E mentre Oscar stava per smentire, con la consueta, asciutta sollecitudine, quell’affermazione, Rosalie continuò: “Ma… non sapete forse quando i due ospiti inglesi lasceranno Palazzo Jarjayes? Ditemi che sarà presto, vi supplico”.
“Certo, Rosalie, sarà presto: te lo prometto”, rispose Oscar, alzandosi, e accarezzandole con tenerezza e comprensione i capelli. Poi, la giovinetta si allontanò, a testa bassa, lasciando Oscar pensosa e muta.
5 - E così, pensava André, non era il solo ad aver provato disagio di fronte alla strana coppia di visitatori. Anche Rosalie, la piccola Rosalie, del cui acume aveva dubitato, non si era fatta abbacinare dalla bellezza regale, dalle maniere apparentemente principesche dell’ospite, dal suo sorriso limpido da bambino felice, dalle sue guance fresche e rosee di gioventù e di innocenza. Anche Rosalie aveva colto una, o forse più di una, nota stonata. Chissà se erano state le stesse che aveva colto, o meglio, carpito lui, si chiese André.
Non sarebbe stato saggio indagare, forse. “Non approfondire”, si disse.
Ma era tuttavia consolante vedere che quella giovane donna, pur cresciuta nella povertà, e anzi, nella nera miseria, serbava un senso morale e una dirittura di spirito uniti a un’integrità che certo dovevano esserle consustanziali; ma che, forse, anche Oscar aveva contribuito a irrobustire.
E poi, pensò André, il cui ultimo pensiero, come il primo, era sempre per Oscar, nemmeno lei, nemmeno il Colonnello Jarjayes si era lasciata ingannare dalle belle maniere e dai troppi, riguardosi misteri, della vita e della persona di Lord Douglas. Anzi, forse era sempre stata in allarme; forse, sapeva persino dissimulare meglio di lui. Ma, ovviamente, questo André non gliel’avrebbe mai domandato.
Sorrise fra sé, parzialmente consolato, o meglio, con il senso d’allarme e di pericolo incombente che ormai da tempo lo sovrastava, parzialmente smussato, e andò ad attendere alle sue occupazioni quotidiane.

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Capitolo 15
*** 15 - Chiarimenti a Parigi ***


15 – Chiarimenti a Parigi.
 
15 -  "Ah, eccovi, André: siete arrivato, finalmente. Vi aspettavo ardentemente".
 Lord Sholto lo attendeva, impeccabile, tranquillo, in piedi, con le mani dietro la schiena, davanti alla grande vetrata della biblioteca della dimora parigina di Lord Wotton. Aveva fatto chiamare André con un biglietto recapitatogli in fretta e furia da un valletto assunto da Henry, indicandogli l’indirizzo, precisando che doveva comunicargli notizie importanti “sulla protetta del Colonnello Jarjayes”, e sottolineando due volte, fin quasi a tagliare la carta, le parole “quam celerrime[1].
"Voi aspettavate ardentemente me?", chiese André, scettico.
"Certo. Vi prego, accomodiamoci a parlare un momento, e gli indicò le due poltrone davanti alla sezione di letteratura italiana, una parete di volumi elegantemente rilegati in marocchino verde.
“Che cosa volevate dirmi di Rosalie?”, chiese André, senza por tempo in mezzo André, e senza sedersi
“Rosalie, Rosalie… oh, my God, che figura…  ora proprio non mi sovviene”, sorrise sornione Lord Sholto, ancora in piedi. Poi, con una smorfia noncurante, e un gesto della mano, come a scacciare una invisibile mosca, sorrise mellifluo: “Evidentemente, c’era qualcosa che mi sembrava urgentissimo e importantissimo quando vi ho scritto, ma che non lo era poi davvero: infatti, che volete, me lo sono scordato. Spero che non me ne vorrete, e, soprattutto, che non vorrete discutere per questo, Monsieur Grandier”.
"Lord Sholto", esclamò André, contenendosi a stento, "non c'è nulla da discutere. Se non avete nulla da comunicarvi su Mademoiselle Lamorlièere, come mi pare di capire, è evidente che non abbiamo nulla da dirci. Anzi, una cosa ve la dico io, ora, e non mi ripeterò: dovete andarvene da Palazzo Jarjayes. Subito. Lasciateci in pace".

"Laciateci in pace.  Senti senti. Noi chi, André?".
Lord Sholto nel frattempo si era comodamente seduto in poltrona, e, per nulla intimidito dal fatto che André, ancora in piedi, lo sovrastasse, iniziò il suo discorso, suadente, ma senza tanti giri di parole: "Davvero volete che me ne vada, André? Non preferireste lasciare con me Palazzo Jarjayes?"
"Ma che dite, Lord Sholto?!", rispose André, incredulo.
"André", e il tono della voce di Lord Sholto era tranquillo, pacato, di una freddezza e di una padronanza di sé raggelanti. Didattico, l'avrebbe definito Monsieur Bellevue, il loro antico precettore, pensò André, certo incongruamente, data la circostanza in cui riemergeva quel ricordo d'infanzia.
"André, rifletteteci. Io ho capito benissimo che voi volete restare qui per lei, per il vostro bel colonnello biondo. Ma è inutile, credetemi",
"Inutile?".
"Certo, inutile. Credete a me, che ho più esperienza del mondo di voi" - e a un osservatore esterno avrebbe fatto un certo effetto sentire quelle parole su labbra tanto giovani, rosse come fragole in un volto tanto fresco. "Voi consumerete la vostra intera esistenza per lei. E senza ricavarne nulla. Quelle belle labbra sono di ghiaccio, amico mio, sigillate per l'eternità. Inutilmente passerete lustri e decenni a farle da servo e da lacché, nella speranza di un suo sguardo d'amore. Non vi sentite avvilito?"
"Non posso sentirmi avvilito né umiliato dal compiere il mio dovere, Lord Sholto. Io sono l'attendente di Oscar, e questo è quello che sono e che so essere; ma non mi sento mortificato nel seguirla e proteggerla. Faccio per dovere ciò che farei comunque, e lo faccio con gioia", rispose con semplicità.
"Ma sentitelo", mormorò Lord Sholto, distogliendo lo sguardo, e concentrandosi su una scatola di cioccolatini presa dal tavolino accanto alla poltrona; e subito, valutato con occhio clinico un dolcetto con le nocciole e il cioccolato bianco, se lo mise in bocca con voracità - ché ingrassare, tanto sarebbe ingrassato il ritratto. Poi, mentre si passava la lingua rosa, da gatto giovane e spietato, sui denti e sulle labbra, e scrutava nella scatolina di cartoncino rosa alla ricerca di una nuova piccola, dolce preda, continuò a parlare, ripetendo per prima cosa, in tono di dileggio, le parole di André: "Faccio per dovere ciò che farei comunque, e lo faccio con gioia. Ah, André, André, io lo vedo come guardate il Colonnello Jarjayes; e per quello che so della vita, e da che mondo è mondo, quella donna non poserà mai su di voi uno sguardo che sia qualcosa di più di quello di una padrona tollerante nei confronti del suo servo, del servo con cui è cresciuta, cui è affezionata, per cui potrà anche avere delle premure, forse. Ma amore, quello, mai". Mise in bocca un bon bon tondo e liscio, e poi gli piantò gli occhi in faccia. "Non cambierà mai nulla, André. Nulla. Vivrete e morirete sperando. E per cosa? Per nulla. Nulla".
 
Una pausa.
 "Venite con me, André. Oh, non equivocate. So benissimo che non potreste sostituire completamente Lord Wotton. Ma ve lo dico ugualmente: venite con me. Pensateci", e si sporse in avanti sulla poltrona, le mani giunte fra le ginocchia aperte e divaricate.
Ora lo fissava negli occhi, con espressione intenta: "André, andiamocene insieme da Palazzo Jarjayes, e anche dalla Francia. Qui non c'è più niente per me, ma nemmeno per voi. Saremo amici, viaggeremo, andremo lontano; voi sarete formalmente il mio tutore, e avrete accesso indiscriminato alle mie ricchezze. A tutte le mie ricchezze: nemmeno vi immaginate quante siano, e quante ne abbia accumulate nella mia lunga vita. Oh, non vi preoccupate: io so essere un compagno di viaggio estremamente tollerante e generoso".
André lo fissava, muto, e gli occhi verdi sfavillavano nel volto immobile. Lord Sholto, immaginando certo di essere a buon punto con la sua opera di convincimento, continuò: "E pensateci, André: invece di quella donna che non vi degna di uno sguardo in più di quello che riserverebbe al suo cavallo, potreste avere tutte le donne del mondo. Donne belle, nobili e popolane, donne seducenti, eleganti, ammirate, donne desiderate da tanti uomini che non possono nemmeno sfiorarle, mentre voi...pensateci, André. E credetemi, io so come vanno le cose al mondo...se i primi tempi vi farà male, presto verrà un giorno in cui non ricorderete nemmeno il volto del Colonnello Jarjayes, nemmeno il suono della sua voce. Venite con me, André, venite!”, aveva terminato, protendendo la mano destra verso André e poi stringendo le dita nella propria direzione[2].
"Se solo il Generale...:"
"Il Generale!", sbottò Lord Sholto, interrompendolo. Ora si era alzato in piedi, e parlava lisciandosi le pieghe della marsina di velluto cremisi. "Il Generale! Io lo conosco bene, André, molto bene, fin da quando era un ragazzo. E sapete che cosa vi dico?"
"Che cosa, Lord Sholto?". Il tono di voce di André era quello di chi non crede a una sola parola di quanto dica l'interlocutore, ma tuttavia lo lascia parlare.
"Che voi sicuramente siete cresciuto vedendo nel Generale il vostro benefattore e padrone, il principio d'autorità della dimora in cui siete vissuto ... oh certo! Lo vedete come un uomo la cui volontà è salda come il marmo, e sicura e certa come la legge … ma io, io lo conosco bene, da molto prima di voi, e so come è fatto. Per cui, ve lo ripeto, e ve lo dico con assoluta certezza: un giorno il Generale cambierà idea, si renderà conto della pazzia commessa con la decisione di educare sua figlia come un uomo, e allora, con la stessa arcigna convinzione con cui l'ha fatta crescere fra sciabole e fioretti, deciderà che è venuto il momento di trovarle un marito del suo stesso rango. E le farà indossare crinolina e corsetto, e le farà percorrere la navata di una chiesa fino all'altare, dove la attenderà il marito che lui le ha scelto, e con cui il nostro bel colonnello produrrà alfine il tanto sospirato erede del casato, e tanti altri frugoletti biondi".
"Non sapete quel che dite: la mia Oscar non lo accetterebbe mai!"
"La vostra Oscar! Quella donna non è più vostra di quanto non sia mia, o della guardarobiera di Palazzo Jarjayes, credetemi", affermò Lord Sholto, con tono sicuro e con una risatina ironica. Poi continuò, cercando di toccare le corde della razionalità e forse anche dell'orgoglio del suo interlocutore: "Sentite, André: io capisco molto bene il vostro sdegno, ma so anche di avere ragione. Succederà, prima o poi. E allora voi, amico mio, voi che cosa farete? Osserverete il vostro amato Colonnello trasformata nella moglie di un conte o di un duca che la esibirà come una bestia rara nel suo salotto? "Guardate, cari i miei invitati, questa è la mia tenera mogliettina! Ma prima di essere venuta nel mio castello a scaldarmi il letto, tirava di scherma ed era nientemeno che comandante delle Guardie Reali!” Ah ah ah! Ve lo immaginate, André? E succederà! Oh, sì che succederà; eccome se succederà! Magari sarete invitato anche al matrimonio ... o al Battesimo del suo primogenito … ovviamente partecipando al rinfresco in cucina, con gli altri servi!" (André si sentì gelare il sangue immaginando Oscar in attesa del figlio ... di un altro, di uno sconosciuto qualsiasi, purché nobile). "E poi?", continuava Lord Sholto. "Ve lo dico io che cosa succederà, André: continuerete a soffrire.
 Io, invece, vi offro la libertà.  Tutta la libertà del mondo, e zero pensieri. Possiamo andare ovunque, André, ovunque: ditemi una meta, e noi ci andremo, e senza risparmio di mezzi, viaggiando come principi, vivendo come principi: la Russia, il grande Nord, l’Africa, l'Italia ... quello che volete. Siete giovane, siete bello, sapete conversare, e poi la vostra aria silenziosa e malinconica piace enormemente alle donne; ma questo lo sapete già, vero?”, aggiunse con un sorrisino malizioso. Poi continuò: "Pensate a quale vita piacevole vi stia offrendo, e in cambio vi domando solo … la vostra amicizia, la vostra discrezione e, periodicamente, una firma, in qualità di mio tutore, su qualche documento che autorizzi le mie operazioni finanziarie".
"Lord Sholto, ditemi: e in tutto questo, che cosa dirà Lord Wotton?”
“Oh! Ma come, André?! Non lo sapete? Ecco, Henry ... Lord Wotton due giorni fa ha avuto un incidente: davvero increscioso, non è vero? Può essere molto rischioso mettersi in viaggio con una carrozza con le ruote poco robuste. Un mozzo difettoso...ahimé...la carrozza di Lord Wotton si è rovesciata ed è finita in un canale. Che grande disgrazia: affogare in pochi palmi d’acqua! A volte la sorte è davvero beffarda! Ma il povero Lord Henry era così gonfio di laudano – sapete, la sua gotta, uno dei tanti mali dell’età – che doveva essersi assopito profondamente … e al momento dell’incidente è passato dal sonno alla morte, senza rendersene conto. La morte dei giusti, dice qualcuno … Mah! Chissà …”, e con atteggiamento pensoso Lord Sholto arraffò un altro bon bon e se lo mise in bocca. Poi, continuò: “La salma del mio sfortunato tutore è stata rimpatriata questa mattina per essere sepolta in Cornovaglia, nei possedimenti della famiglia. E ora il mio notaio è momentaneamente il mio tutore, in attesa di nominarne uno nuovo che si occupi stabilmente di me … sino alla mia maggiore età", concluse ridacchiando Lord Sholto.

"Siete un mostro! Tornatevene all'inferno!", esclamò André.

"Ognuno ha in sé il cielo e l'inferno, André", disse Dorian con enfasi, distogliendo lo sguardo da André e rivolgendolo verso un angolo della stanza, con un gesto della mano destra che voleva essere noncurante, e che invece sembrò solo, incongruamente, teatrale. E poi, coprendosi gli occhi con la stessa mano, e con un guizzo amaro, continuò: "L'Inferno! L'Inferno e i suoi diavoli! Ah! Vi assicuro, André, che per rendermi quello che sono non si è palesato nessun demone munito di zoccoli e di forcone, magari persino in una nube di zolfo, come piace tanto immaginare a tanti papisti superstiziosi come voi. Ho semplicemente espresso ad alta voce un mio desiderio, e, forse per la sincerità e l’intensità con cui mi sgorgava dal profondo dell’animo, esso si è avverato... Bisogna stare molto attenti a quel che si desidera, non lo sapevate?”, rise amaramente Lord Sholto, “Potrebbe sempre avverarsi!”.
 
 
 
[1] Lat. “il più velocemente possibile”,
[2] Manca solo che Dorian dica: “Passa anche tu al lato oscuro!”, e siamo a posto, lo so, lo so.

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Capitolo 16
*** 16 - ... e alla fine arriva Oscar ***


16 –  … e alla fine arriva Oscar
 “Non credete forse sarebbe stato bene consultare anche me, Lord Douglas, dato che avrei dovuto essere a vario titolo implicata nei vostri progetti?”. La voce di Oscar risuonò ferma e severa da oltre la porta accostata. Poi, con passi lenti e decisi, avanzò, nella stanza illuminata dal sole freddo dell’inverno, bellissima e marziale nella sua uniforme rossa, i ricci aerei appena domati dal peso del tricorno nero piumato.
“Eccola qui, la bella Madamigella dalle chiome d’oro! Bugiarda! Non siete che una donnetta debole e bugiarda! Una donnetta che gioca a fare il soldatino”, esclamò sprezzante Lord Douglas.
“Moderate i termini, Lord Douglas!”, tuonò lei.
“Oh, ma come siamo severi! Ma che paura che mi fate, Colonnello!”. Ora la voce di Lord Douglas, da carezzevole e giovane quale era sempre stata, era diventata una specie di squittìo maligno; e intanto, con un vigore e una forza assolutamente insospettabili in un fisico all’apparenza così esile, l’inglese aveva afferrato André da dietro, cogliendolo di sorpresa e passandogli il braccio sinistro sotto il collo, mentre col destro reggeva la pistola che aveva preso dal tavolino accanto alla poltrona.
“Lasciatelo subito e andatevene: o non risponderò delle mie azioni!”, esclamò Oscar, dura e minacciosa.
“Nemmeno io!”, rispose Lord Sholto: e dai suoi occhi era sparita la dolce ingenuità giovanile, lasciando il posto a una freddezza maligna.
“Che cosa volete fare al mio André?!”, gridò Oscar, e nella sua voce c’era un’angoscia mai udita prima, che André, nonostante il momento poco esaltante, non poté non cogliere.
"Oh no, nulla! Vedete, Colonnello, io non intendo fare del male a lui, ma a voi!", e così dicendo puntò la pistola su Oscar. Fu un attimo. E, dopo lo sparo, Dorian infilò la porta correndo via.
"NOOOOO! Oscar!", André si gettò su Oscar: la pallottola l'aveva colpita vicino alla spalla, poco sopra la clavicola.
"André, com'è la ferita?"
"Seria, ma non mortale: però stai perdendo molto sangue. Ma dovremmo comunque riuscire ad arrivare a Palazzo"
"Perché, André?".
"Fidati di me”.
"Ha troppo vantaggio", disse Oscar con una smorfia.
"Non è un gran cavaliere, lo sai, e se prenderà la carrozza, sarà rallentato. Andiamo, Oscar!". E così facendo, le infilò nella tasca della divisa un minuscolo sacchetto dove tintinnavano due oggettini metallici, mentre la sorreggeva scendendo insieme a lei le scale, per ritrovare le loro cavalcature.
Montare César da sola era fuori questione, e André la fece salire sul suo cavallo, sorreggendola, pur consapevole che questo li avrebbe rallentati.
Alle soglie di Parlazzo Jarjayes, la ferita era una sorgente inestinguibile, e Oscar, stretta fra la criniera di Alexandre e l’abbraccio di André, sembrava aver perso conoscenza.
"Dio! Fa' che arriviamo in tempo", pregava André, per la prima volta dopo molti anni.
Arrivarono davanti all'ingresso principale: il cavallo di Lord Sholto era già davanti ai gradini d'accesso, le briglie a terra, in apparenza quieto: nonostante le convinzioni che André aveva espresso a Oscar, Dorian aveva tralasciato di usare la carrozza, e aveva cavalcato a perdifiato verso Palazzo Jarjayes. André prese fra le braccia delicatamente Oscar e, dopo averle mormorato qualcosa all'orecchio, la depose con non minore delicatezza a terra, a lato del grande ingresso, ed entrò trafelato.
Il Palazzo era deserto: quel giorno cadeva il compleanno della Contessa Marguerite, e a tutta la servitù era stata concessa una vacanza, per solennizzare insieme alla padrona l’importante ricorrenza del suo cinquantesimo genetliaco. Così, la servitù si era riversata verso Parigi e i suoi divertimenti, verso le case degli amici, o dai parenti che vivevano in zona; persino Nanny, vincendo la sua abituale ritrosia a lasciare Palazzo Jarjayes, aveva seguito la Contessa in visita alla figlia maggiore, Joséphine, che aveva curato con tanto affetto quando era una bambina avvolta in fasce e trine.
André non ebbe bisogno di capire dove fosse Lord Sholto: dal fondo del corridoio al primo piano, si udiva tutto il trambusto che produceva, mentre stava prendendo a pugni e calci la porta chiusa della sua camera, frugando al contempo furiosamente in tutte le tasche del gilet, del giustacuore, delle coulottes.
"Cercavate per caso questa, Lord Sholto?", gridò sarcastico André dal fondo del grande scalone, agitando la chiave della stanza di Lord Douglas a Palazzo Jarjayes.
“Come hai fatto ad averla, sporco villano puzzolente di sterco di cavallo?”, tuonò dall’alto Lord Douglas, che era accorso trafelato, sino all’imboccatura dello scalone, sporgendosi dalla balaustra delicatamente decorata a volute floreali di ferro battuto.
“Non siete stato molto attento quando stamattina vi ho aiutato a montare a cavallo, milord!”, rise sprezzante André, ricordando quanto era stato facile, poche ore prima, infilare una mano, veloce e leggero, nella tasca del giustacuore di Lord Sholto e rubare la chiave delle sue stanze, ultimo tassello del suo piano per avere in pugno quell’ospite inquietante.
"Ridammela subito, lurido servo che non sei altro!", gridò Lord Sholto, precipitandosi giù dalle scale.
André con uno scatto filò via.
"Ah! Senti senti! Ora sono un lurido servo? Non sono più il vostro "caro amico" con cui viaggiare sino alla corte della Zarina?”, lo canzonò beffardamente André, mentre Lord Sholto sguainava la spada e si gettava all'inseguimento.
"Miserabile! Ti prenderò! E allora...", gridava Dorian, correndo per il parco.
"Dovrai raggiungermi, prima!", sibilò André, e si fermò, accanto alla grande quercia, sotto la quale tante volte aveva riposato e fatto merenda con Oscar da bambini. Cavò dal fianco un coltello a serramanico e si dispose in atteggiamento guardingo.
"Illuso! Credi poterti battere con quel coltellino? Arrenditi prima, e ti ammazzerò senza farti soffrire!", minacciò Lord Douglas.
"Ma quanto siamo generosi! Venite avanti, forza!", ribatté Andé, invitando l’avversario ad attaccare.
Mentre Lord Sholto e André si battevano, schivando ciascuno i fendenti dell’altro, nel parco raggelato dall’inverno, come in una fiaba crudele, Oscar, chiamando a raccolta le sue ultime forze, riuscì entrare dal grande portone, a salire lo scalone d’onore e ad arrivare sino alla porta della stanza di Lord Douglas Sholto. Lì, traendo dal sacchettino di pelle che André le aveva messo in tasca la chiave dei suoi appartamenti – giacché quella che il giovane aveva mostrato ingannevolmente all’ospite inglese era quella della propria stanza-, entrò senza sforzo nelle camere di Dorian. Arrancò sino alla cassa vicino al grande letto e, come le aveva sussurrato André poco prima, prese dal sacchettino la seconda chiave, quella della cassa chiusa, e aprì lo sportellino: il terrore, lo schifo, l’incredulità si dipinsero sul suo volto, dopo che ebbe visto l’ignobile sfacelo del ritratto, ma prese coraggio, e, facendo quel che André le aveva detto, sguainò la spada e la infilò nella tela, dritta alla base della gola del mostro che sembrava osservarla ghignando.
        In quello stesso istante, Lord Douglas, che stava tentando un affondo micidiale contro André, si arrestò urlando come un animale sgozzato, portandosi le mani al collo, come se avesse ricevuto un colpo mortale. Sotto gli occhi increduli di André, il giovane inglese dal fascino efebico si trasformò in un vecchio bolso, rugoso, flaccido e dall’apparenza orribile. André si era bloccato, di fronte a quel prodigio; poi mentre l’essere davanti a lui emetteva un mugolìo da bestia morente, André si riscosse e, avvicinatosi, gli inflisse un colpo al ventre col suo coltello a serramanico, estraendo la lama un attimo dopo aver assestato la ferita, e senza che la vittima sembrasse nemmeno rendersi conto di quanto il suo avversario aveva fatto. Lord Sholto, con una voce che sembrava provenire ormai da oltre l’Acheronte, mormorò: “Voi  … voi… mi avete   …. ucciso”, e cadde a terra. Un attimo dopo, iniziò a soffiare un forte vento, e il corpo di Lord Dorian Edward Douglas Sholto si disfece in una polvere fine, più sottile della sabbia delle spiagge del Mediterraneo che Dorian tanto aveva amato nelle sue peregrinazioni verso il sole, e che si disperse nell’aria. Restarono solo i suoi eleganti abiti, afflosciati e vuoti, e gli scarpini di seta, con le fibbie lucidissime sulle quali spiccava qualche granello superstite di quella povera polvere che era stata il loro padrone.
        André raccolse il coltello a serramanico, che gli era caduto di mano, e corse su per le scale, fino alla camera di Lord Douglas: là, vide Oscar, di spalle, seduta a terra, le gambe allargate sul pavimento, che si puntellava sui talloni e sulle mani. Di fronte a lei, i fasciami di una cassa di legno parzialmente aperta mostravano, attraverso lo sportello spalancato, il ritratto su tela di un giovane, affascinante gentiluomo, gli occhi straordinariamente blu e i capelli meravigliosamente biondi, che, abbigliato all’ultima moda del primo quarto del XVI secolo, sorrideva loro, una mano sul fianco, le spalle leggermente ruotate, tutto fiero della sua eleganza e con, nello sguardo, tutta la baldanza fiduciosa nel mondo e negli uomini, tipica della prima gioventù. Nella tela, all’altezza della gola, era conficcata la spada di Oscar, e un sottile rivolo di sangue scendeva dal collo e si spandeva sul farsetto celeste.
“Oscar! Oscar! Stai … stai bene?”, chiese André con la voce rotta per l’angoscia, più che per il duello e la corsa a perdifiato per il parco e poi su per lo scalone. E quasi aveva timore di porle la mano sulla spalla.
“André …”, sussurrò lei, stranita, pallidissima, indicando il quadro, “prima non era così”.
“Lo so, Oscar, lo so”. Poi, un attimo dopo: “Oscar, come  … Come ti senti?”
“Non capisco … non capisco”: adesso si era rialzata e, aperta la giacca dell’uniforme, in cui faceva bella mostra un foro di pallottola, e scostata la stoffa sbrindellata della camicia, pur imbrattate di sangue, del suo sangue, Oscar si tastava la pelle della clavicola, mostrandola anche ad André, immacolata e senza segni, come se non fosse stata mai colpita. “Eppure… lo sparo era reale, la pallottola era reale, la ferita era reale… il sangue era reale”, balbettò, confusa “e ora, ora è tutto sparito”.
“Non tutto”, aggiunse André, trattenendo a stento l’impulso, davvero irresistibile, di abbracciare Oscar, di stringerla forte al suo petto, con sollievo e passione, e non lasciarla più.
“Lord Wotton …”, mormorò Oscar, con un cenno di assenso, come a rimarcare l’ineluttabilità di almeno uno degli atti del loro ospite.
“Temo di no”, scosse la testa André, “per Lord Wotton non credo  che ci sia la possibilità di riavvolgere il filo degli avvenimenti”.
Una pausa. “Era molto infelice”, soggiunse André, non ottenendo da Oscar che un cenno di assenso.
“Vieni”, le disse subito dopo, facendole cenno di seguirlo giù per lo scalone e poi nel parco, sino agli abiti vestiti sino a poc’anzi da Lord Douglas, non prima che Oscar avesse estratto la spada dalla tela, e richiuso a chiave la cassa e la porta della camera.
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Voci diffuse per i salotti parigini parlarono della scomparsa del giovane, che sarebbe partito per un lungo viaggio, per lenire il dolore derivante dalla scomparsa del suo tutore, al quale lo legava un affetto particolarmente profondo e tenace, su cui qualche malalingua ebbe anche il cattivo gusto di diffondere pettegolezzi squallidi e di pessimo gusto. Qualcuno, una notte, vide anche, lasciato sul parapetto del Pont Neuf (chi sa da chi, poi?!), il suo tricorno piumato, il suo giustacuore di taglio impeccabile, di velluto cremisi, il suo orologio d’oro da taschino e il suo bastone da passeggio, dai preziosi, inconfondibili intarsi, abbandonati, come se il proprietario si fosse tuffato per cercare l’oblio dalle cure del presente nelle scure acque della Senna; prima, naturalmente, che la canaglia parigina arraffasse quei beni preziosi esposti alla mercé della sua avidità.
Da dietro l’angolo di un caseggiato, Oscar e André osservarono la scena che avevano predisposto, avvolti nell’oscurità della notte, sino a quando anche il tricorno di Lord Douglas Sholto non venne arraffato dalle mani avide di un disperato fra i tanti che abitavano la Suburra parigina.
Poi, si avviarono lentamente, per recuperare i cavalli, e per mettersi in viaggio verso Palazzo Jarjayes, senza dire nulla, ma ricordando silenziosamente, ciascuno nell’intimo del proprio spirito, che cosa, pochi giorni prima, era accaduto quando, il giorno stesso del duello e della scomparsa di Lord Douglas Sholto, dopo aver raccolto e nascosto nelle scuderie gli abiti dell’ospite, ne avevano riguadagnato la camera. Lì, Oscar e André avevano aperto nuovamente la cassa, e trattone il ritratto, liberandolo completamente dal legno che lo copriva, avevano, con inquietudine, scoperto la tela, davvero di gusto squisito, e realizzata con ogni maestria: poi dopo essersi scambiati, senza una parola, un cenno d’intesa, André aveva acceso un fuoco vivido e scoppiettante nel camino, e Oscar aveva tolto il quadro dalla cornice; quindi, l’aveva gettato tra le fiamme. Un lampo sulfureo si era levato dal fuoco, costringendo Oscar e André a schermarsi gli occhi col braccio: un attimo dopo, il fuoco si era spento, e del quadro non restava più che un mucchietto di cenere. André l’aveva raccolta in un sacchetto, e poi, la notte, accompagnato da Oscar, l’aveva sparsa sul terreno che circondava una chiesetta in rovina immersa nella campagna di Jossigny.
        Di Lord Dorian Edward Douglas Sholto nessuno avrebbe saputo più nulla.
"Oscar, posso chiederti una cosa?", chiese André, mentre cavalcavano al passo verso casa, sotto una stellata incredibile, come raramente se ne erano viste in quell’inverno pur gelido e limpidissimo.
"Certo, André, dimmi pure".
"Quanto della mia conversazione con Lord Douglas Sholto hai sentito prima di entrare in biblioteca?".
Oscar sorrise appena. "Poco, André. Solo le ultime battute", rispose con naturalezza.
André volse leggermente il capo verso di lei, senza dire nulla, per cercare di decifrare la sua espressione di sfinge bionda: gli occhi color fiordaliso sembravano sfavillare nel buio e, sotto la luna piena, i capelli di lei sembravano ancora più chiari, e soffici, come se appartenessero a una fata che, per un bizzarro scherzo del destino, indossava un mantello militare e degli stivali da cavaliere.
Scosse la testa, piano, e continuò a cavalcare sino a casa, accanto a Oscar, come sempre.

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Capitolo 17
*** 17- Epilogo ***


17 – Epilogo
Aprile 1781.
         Il cognac, caldo e profumato, allietava da qualche mezz’ora il pomeriggio di un giorno di licenza. Oscar stava rigirando il bicchiere fra le mani, mentre André, all’altro capo del tavolino, leggeva, con la sua bella voce calda ed espressiva, un numero della “Nouvelle Gazette de Paris”, che ancora, dopo settimane, tornava sul caso della sparizione di Lord Dorian Douglas Sholto, il misterioso e bellissimo nobiluomo inglese che, ospite della famiglia Jarjayes, pochi giorni prima della prevista presentazione ufficiale a Corte a sua Maestà Re Luigi XVI, era improvvisamente sparito.
“Molte e varie sono le voci circolate a proposito della sparizione di Lord Sholto: chi afferma di averlo visto nottetempo alla guida di un fastoso tiro a otto impennacchiato di nero, mentre conduceva con sé, lontano, per una fuga d’amore, una nobilissima, giovane e bellissima dama spagnola che viveva segregata nel suo palazzo parigino per volontà del suo avido tutore, desideroso di sposare la giovine per impadronirsi delle di lei ricchezze; chi sostiene, invece, di averlo visto, in atteggiamento meditabondo e grave, osservare le acque torbide della Senna dal Pont Neuf, e poi, deposti bastone e tricorno, giustacuore e orologio, scavalcare il parapetto e tuffarsi, certo per cercare nei flutti gelati del fiume la morte e l’oblio. Chi avversa la prima versione sostiene che, nelle sue settimane di permanenza in Francia, il giovane nobiluomo inglese non avesse frequentato se non per rari momenti la buona società parigina, né sarebbe chiara e nota l’identità della nobildonna spagnola con cui il gentiluomo d’Oltremanica sarebbe fuggito: una cosa impossibile nel bel mondo parigino, in cui le conoscenze e le amicizie sono tanto ramificate da non lasciare spazio all’ignoto. Chi, al contrario, si oppone alla seconda ipotesi, afferma, con raziocinio pari a quello dei critici della prima versione relativa alla sparizione di Lord Sholto, che i testimoni del presunto e insano gesto del nobiluomo non hanno mai palesato la loro identità, e, del resto, questa versione è assai fragile, dato che gli effetti personali di Lord Douglas Sholto non sono mai stati ritrovati. C’è chi afferma che essi siano stati rubati dall’avida canaglia che, ci duole dirlo, infesta le strade della nostra bella capitale: ma, in assenza di alcuna prova certa in materia, la questione resta velata di un fitto mistero, a tal punto che solo il Colonnello Oscar François de Jarjayes potrebbe  dirimerlo; ma, come suo solito, questa enigmatica donna, che da oltre dieci anni riveste il prestigioso e delicato ruolo di Comandante della Guardia Reale e che sembra godere della piena fiducia della Regina, mantiene un rigoroso silenzio, né ha mai lasciato trapelare le sue ragioni per accreditare l’una o l’altra versione dei fatti, limitandosi a mantenere serrate le sue algide e meravigliose labbra, quasi che possa avere ragioni personali per giudicare in materia. E se il Colonnello Oscar François de Jarjayes davvero ha le sue ragioni, certo nessuno le ha mai dissimulate meglio. Ci chiediamo dunque: dove si trova, attualmente, Lord Douglas Sholto? Quali misteri cela l’affascinante Mademoiselle Oscar François de Jarjayes? E per quale motivo la Corona non la sottopone, in quanto anfitrione del nobiluomo scomparso, a un serrato interrogatorio che possa dirimere un mistero potenzialmente nefasto per i rapporti diplomatici tra il nostro Paese e l’Inghilterra?”.
André lesse sino all’ultima parola, in tono crescentemente critico. Poi, ripiegò la Gazette, con i movimenti lenti e metodici, che gli erano abituali, ma nella cui sin troppo misurata calma Oscar lesse un fastidio e un nervosismo acuti.
“Devo dire che sono davvero disgustato dal livello delle insinuazioni di questi gazzettieri”, disse, scandendo le parole con una calma innaturale.
“Non ti preoccupare per me, Andrè”, rispose Oscar, continuando a fissare nel fondo del suo bicchiere di Armagnac. “Queste insinuazioni restano quel che sono: basse e triviali ipotesi escogitate al solo scopo di vendere qualche foglio imbrattato d’inchiostro in più. Spero solo”, aggiunse poi, Oscar, con sorriso velato di dispiacere, “che non vi saranno ulteriori insinuazioni sul contegno delle Loro Maestà”.
“Oscar, io…”, cercò di rispondere André, ma le sue parole vennero troncate sul nascere dall’ingresso di Nanny nel salottino privato dove i due stavano trascorrendo il pomeriggio.
“Madamigella Oscar, vi prego: Vostro padre, il Generale, chiede di voi per visionare il lavoro del suo ritrattista che sta concludendo l0opera commissionatagli”.
In effetti, da un paio di settimane Generale de Jarjayes, in uno dei rari e sempre più brevi periodi di tranquillità domestica lasciatigli dal suo ruolo, sta posando per un ritratto realizzato da Maître Armand, il Maestro prediletto dall’aristocrazia e dai ricchi banchieri e mercanti parigini.
Oscar e André si alzano senza indugio, ed escono dal salottino, avviandosi verso il salone della posa. Lì, insieme e Nanny assistono, rispettosamente ritti sulla soglia della stanza, illuminata dal primo sole primaverile, alla seduta, osservando il contegno, ancor più rigido e austero del solito, assunto dal Generale per venire immortalato dal pennello del grande artista.
André, impercettibilmente, si lascia sfuggire un sorriso, coprendo, per un attimo, la bocca con la mano: in fondo, è proprio quel contegno severo, che incarnava l’autorità e la paternità al massimo grado, che, da bambino, quando, piccolo orfano strappato al suo villaggio sperduto, era appena giunto a Palazzo Jarjayes, l’aveva al contempo intimidito, ma anche rassicurato.
La voce ammirata e insieme premurosa di Nanny rompe il filo dei suoi pensieri: "Madamigella Oscar, Maître Armand è veramente un grande artista: il ritratto di vostro padre promette davvero di riuscire un capolavoro! E voi, Madamigella, ecco, voi non avete mai pensato di farvi ritrarre?"
"NO!", rispondono, all'unisono Oscar e André, volgendosi verso la vecchina, con espressione stravolta e con gli occhi fuori dalle orbite.
FINE

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