Quattro storie per convincervi a raggiungerci

di ifearthereaper
(/viewuser.php?uid=1170230)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** SADIE: Lotta libera con uno scoiattolo: trofeo in palio, un paio di mutande da uomo ***
Capitolo 2: *** CARTER: Notte da sballo al Monastero Rosso con il signore delle tempeste ***



Capitolo 1
*** SADIE: Lotta libera con uno scoiattolo: trofeo in palio, un paio di mutande da uomo ***


ATTENZIONE!
 
Il testo che state per leggere è la trascrizione di una registrazione digitale… Ma io non sono Rick Riordan. E infatti non vi sto parlando dalle pagine di un tomo voluminoso pubblicato da una prestigiosa casa editrice, ma da un sito di fanfiction. Già, sono sorpresa quanto voi, ma quando mi sono ritrovata sulla porta un pacco con un mangianastri non immaginavo certo che fosse da parte dei fratelli Kane. In effetti, il mio primo pensiero è stato qualcosa tipo Hannah Baker io ti denuncio. Ora, io non voglio sapere se Carter e Sadie hanno litigato con zio Rick per la divisione delle royalties o se è successo qualcosa di più allarmante che li ha costretti a cambiare destinatario, ma ad ascolto finito mi sono ritrovata in mano un bel po’ di materiale interessante. Sfortunatamente, come ho già chiarito, non solo non sono il Sommo, ma non possiedo nemmeno le sue capacità di scrittore allenato a sbobinare registrazioni (e non sono manco studentessa di medicina, insomma, uno sfacelo); peggio ancora, Carter e Sadie discorrono nella lingua della perfida Albione, e io manco di traduttori abbastanza discreti e che lavorino per cifre modiche – cioè gratis, date le mie precarie finanze.

Insomma, il risultato che potrete leggere in queste pagine è una traduzione raffazzonata e alla buona della roba che Carter e Sadie (o due attori molto convincenti) hanno registrato – colluttazioni, colpi e imprecazioni a parte, as usual. Senza indugio, quindi, vi lascio al testo: buona lettura.
 
P. S. Per quelli di voi che non hanno voglia di leggersi un mattonazzo sghembo e maldestramente tradotto dalla sottoscritta, tranquilli: il mondo questa volta non sta finendo, e le cassette contengono dei resoconti delle avventure dei nostri fratelli preferiti pre-esplosione del British Museum. Vi ricordate lo scoiattolo che cita Sadie? Eccolo qua. Assieme alle avventure di Carter e suo padre in giro per le tombe egizie, i boxer del povero Dylan Quinn e qualche altra chicca.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
SADIE

Lotta libera con uno scoiattolo: trofeo in palio,
un paio di mutande da uomo



 
Qui Sadie Kane. Se questo nome non ti fa suonare almeno qualche campanello in testa, possibilmente accompagnato da una scritta che recita PERICOLO a luci fosforescenti, spegni subito il registratore e porta le cassette alla biblioteca della tua città, lì sapranno cosa fare.
Se invece ti sono venute in mente cose tipo dèi egizi, una maga straordinaria e incredibilmente coraggiosa e un ragazzo dalla testa di cane molto sexy, beh, sei la persona giusta a cui mandare questo pacco. [Carter, è inutile che alzi gli occhi al cielo, non è colpa mia se fai schifo a morra cinese e ho in mano io il microfono.]

Niente panico, il mondo non sta per essere inghiottito dalle spire di un enorme serpente mangia-soli… Almeno non questa volta. Lo so, lo so, non è più così emozionante ascoltare una tizia che ti parla di mitologia egizia quando dalle sue parole non dipende il destino della civiltà umana: è praticamente quello che fa Carter tutti i sabati pomeriggio per rilassarsi. Giuro, non capisco come documentari dal titolo Mito e archeologia: un’analisi delle scritture geroglifiche degli ultimi secoli della civiltà egizia possano suonare come un buon investimento del proprio tempo, ma ehi, a ciascuno il suo, immagino. [Ahi! D’accordo, arrivo al punto, non c’è bisogno di pizzicarmi il braccio, sai. Incivile.]

Insomma, qui alla Brooklyn House stiamo ancora insegnando ai nostri giovani discepoli come praticare la magia senza farsi accidentalmente esplodere mentre si tenta di cucinare una tortilla, ma sappiamo che non abbiamo reclutato tutti i ragazzi con sangue di faraone là fuori. Un conto è leggere qualche storia su gente che salva il mondo, un altro è rendersi conto di fare parte di quel genere di persone che può schioccare le dita ed evocare tigri, spostare palazzi e convincere i pinguini ad obbedire ai tuoi ordini (in ordine di difficoltà). Ma da grandi poteri deriva soprattutto un grande pericolo: se puoi diventare un mago, rischi di attirare l’attenzione di gente intenzionata a distruggerti, e ogni minuto che passi senza essere addestrato è un minuto in più in cui rischi grosso.

E qui entriamo in gioco noi: in questa registrazione parleremo di tutto quello che ci è successo prima – prima del British Museum, di Set e dell’arrivo di Apophis. I maghi attirano problemi e stranezze di ogni genere, e se qualcosa di quello che è successo a noi ti suona familiare, sbrigati a raggiungerci, perché la Brooklyn House ha le porte spalancate ed è pronta ad accoglierti.

La prima storia è la mia, e posso dirti senza falsa modestia che è senz’altro la più emozionante: sicuro, le tombe egizie sono uno spasso, se sei un nerd a cui piace sfogliare libri di mitologia per hobby, ma quello che davvero piace a tutti sono le storie di spionaggio.
Storia che inizia con la mia amica Emma che tira la madre di tutti gli starnuti proprio sulla mia felpa.

— Cavolo, che schifo! — protestai energicamente, per poi spostare il braccio sinistro in un disperato tentativo di riguadagnarne la sensibilità. Il mio gomito urtò contro qualcosa di tenero e soffice.

— Ahia! — La voce di Liz mi sfregò il timpano destro come unghie su una lavagna di gesso. — Era la mia guancia, quella…

— Sssh! Afht intenfhione di farfhi senfhire da Moffhiolo? — Emma voleva probabilmente usare un tono esasperato, ma tra il buio pesto del ripostiglio e il fatto che aveva il viso spiaccicato contro la mia felpa era difficile capire che diamine stesse dicendo.

Mi spostai all’indietro, sfregando contro il muro dello stanzino, quanto bastava per liberare la mano sinistra e sfilare il mio cellulare nuovo fiammante dalla tasca dei jeans. Il display segnava le cinque e cinquantasette del pomeriggio. Via libera, probabilmente, considerando che il custode Mocciolo (non fate domande, è abbastanza ovvio) staccava volentieri una buona mezz’ora prima del previsto dal giro di routine delle aule della Nottingham High.

Mi piegai il più possibile per avvicinarmi allo zaino schiacciato tra il mio piede e una cassa di legno e infilai il braccio destro all’interno. Torcia, torcia, torcia… Beccata. La tirai fuori e la puntai verso il soffitto prima di premere il pulsante di accensione. Il ripostiglio si illuminò quanto bastava per vedere le mie amiche: Emma aveva ancora la faccia affondata nella mia sciarpa, mentre Liz si stava sfregando la guancia con aria indignata con un braccio infilato sotto la mia schiena e una gamba in precario equilibrio sopra una pila di scatole di detersivi e pacchi di carta igienica.

— Mocciolo sarà già sulla sua bicicletta scalcinata a quest’ora — Alzai il telefono e mostrai alle mie amiche il display. — Forza, usciamo da questa gabbia puzzolente e iniziamo a cercare.

— Non capisco perché abbiamo pensato che nasconderci qui dentro fosse una buona idea — piagnucolò Liz, per poi allungare il braccio libero verso la maniglia della porta, che si piegò con uno scricchiolio. La mia povera amica rotolò fuori dalla porta aperta e si chinò sulle ginocchia a respirare la prima aria che non era stata già del tutto trasformata in anidride carbonica da quasi due ore a questa parte. Si sfilò la giacca in tutta fretta e si passò una mano sulla fronte con aria disgustata: — Credo di aver toccato un topo, là dentro… Era tutto peloso e ispido, che schifo! —

— Ehi, eri tu la mano sui miei capelli, allora! — Emma si pulì gli occhiali sulla felpa rosa shocking e si aggiustò le calze e la gonna. Eravamo un po’ stropicciate e Liz aveva perso uno dei suoi orecchini per colpa di una mia manata, ma nel complesso la prima parte del piano era filata piuttosto liscia. Mi sistemai meglio lo zaino sulle spalle e mi girai verso di lei.

— Chiavi? — chiesi, tendendole la mano, e lei fece un gran sorriso nonostante la faccia paonazza per l’umidità dello stanzino. Si infilò una mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un mazzo di chiavi che mi porse con un inchino. — Et voilà! Stamattina nessuno si è accorto di nulla giù in bidelleria, è stato un lavoro da maestro.

Sorrisi e afferrai il mazzo. Ve l’avevo detto, no, che le mie amiche sono non sono delle smidollate? Se per vincere una scommessa avremmo dovuto intrufolarci nella scuola oltre l’orario consentito rubando un mazzo di chiavi di scorta, l’avremmo fatto, senza tante storie. Anche se la scommessa comportava anche entrare nello spogliatoio maschile per recuperare i boxer del battitore più figo della scuola.

— Continuo a pensare che non sia una grande idea — borbottò Emma con le braccia conserte. — Insomma, solo perché Julie ti dice che non hai il coraggio di fare una cosa non significa che devi farla.

— Non è per lei — mentii spudoratamente, cosa che di solito mi riusciva piuttosto bene. —È solo che ormai quei boxer sono una leggenda, e lei spergiurava di averli visti incastrati nella ventola quando è entrata di nascosto a dare un’occhiata… Se davvero riusciamo a recuperarli sarà la storia più emozionante dell’intero anno scolastico. E poi cinque sterline fanno sempre comodo.

Okay, alla luce degli anni passati che mi hanno conferito una certa maturità, mi sento di dire che in effetti lo stavo facendo anche per dimostrare a Julie che sì, ero io la più tosta delle ragazze undicenni della scuola, ma di sicuro non era perché erano tre mesi che non riuscivamo a battere la sua classe a palla prigioniera. [Carter, ti vedo che sogghigni, e sappi che ho sulla punta delle dita un bel ha-di.] In ogni caso, quei boxer erano oggetto di leggende straordinarie e infiniti aneddoti negli spogliatoi femminili, e noi dovevamo averli. Possibilmente senza nessuno tra i piedi a gridarci cose noiosamente istituzionali, tipo “che diavolo ci fate nello spogliatoio maschile?” o “perché diamine avete in mano un paio di mutande?”, motivo per cui ci eravamo attardate a scuola un po’ oltre l’orario normale.

— Diamo il via all’Operazione Mutandoni! — annunciai con un dito puntato verso il corridoio, e giusto per sottolineare quanto fossi tosta e assolutamente non desiderosa di provare nulla a Julie Roberts mi infilai il cappuccio della felpa in testa. Lanciai la torcia a Liz, che la afferrò al volo molto meglio di come non facesse con i palloni durante l’ora di educazione fisica, e iniziai ad avviarmi verso la rampa di scale che portava al primo piano: Liz mi trotterellò dietro ad un’andatura un po’ meno baldanzosa, mentre Emma sospirò e si avviò strisciando i piedi nella nostra stessa direzione. Le luci a led sul soffitto erano spente, e siccome eravamo ai primi di novembre era già calato il buio, quindi i corridoi erano piuttosto scuri, luce della torcia a parte. Le aule erano tutte chiuse, cortesia di Mocciolo e della sua ronda, ma a noi interessava solo una porta.

Rabbrividii e mi sfregai le mani gelate. Il riscaldamento era spento da almeno due ore e il freddo iniziava a farsi sentire. Liz si rimise la giacca bianca con un brivido, guardandosi intorno con aria preoccupata. In effetti tra i corridoi deserti, la temperatura gelida e il vento che aveva iniziato ad ululare fuori sembrava di stare in un film horror. L’idea non mi spaventava, d’accordo (dopotutto ero la quasi-dodicenne più tosta della scuola), ma non ero intenzionata a passare tra le mura scolastiche più tempo dello stretto necessario.

Arrivammo alla fine del corridoio del secondo piano e iniziammo a scendere giù per le scale. I nostri passi ticchettavano nel silenzio tombale della scuola in maniera un po’ troppo inquietante per i miei gusti, ma presi a fischiettare un motivetto per rilassarmi un po’. Cercare mutande da uomo nello spogliatoio della propria scuola media, un’altra giornata normale da adolescente normale. Liz scendeva i gradini a due a due, abbracciandosi la giacca con le mani mentre batteva i denti.

— Fa un freddo cane… Vi prego, muoviamoci, sto congelando! —

— Ma se fino a cinque minuti fa ti lamentavi del caldo soffocante nel ripostiglio — la rimbeccò Emma, prima di tirarsi su gli occhiali ancora del tutto appannati. — È mai possibile che non riesca a… Aaaaaaaah! —

Per poco non scivolai giù dall’ultimo gradino, ma dovetti afferrare Liz per un braccio per impedirle di sfracellarsi sulle mattonelle della Nottingham High. Mi girai verso Emma, che era, beh, non esattamente pallida come uno spettro, data la sua carnagione in condizioni normali, ma aveva di sicuro l’aria abbastanza sconvolta.

— Ho visto qualcosa muoversi su per le scale… Sembrava un animale grosso, come un gatto enorme — Rabbrividì e si strinse le spalle. — O forse era un uomo accucciato? —

Sospirai e rimisi in piedi Liz, che si sistemò la giacca stropicciata e tirò un’occhiataccia ad Emma. — Bello scherzo, davvero. Se credi che cascherò ancora nei tuoi trucchetti dopo quel cinghiale rabbioso alla festa di Amir all’acquapark stai fresca.

Emma pestò un piede sul pavimento. — Ho visto davvero qualcuno! Se Mocciolo fosse tornato indietro per recuperare qualcosa dal suo stanzino? O se… — Rabbrividì e si strinse le spalle. — Se fosse entrato un ladro?

— Già, chi non si intrufolerebbe a scuola per rubare la preziosa lavagna di ardesia che decora la classe di Mr. Wilson — Alzai un sopracciglio. — Oltretutto, se ci fosse qualcuno saprebbe sicuramente che siamo qui anche noi, dopo l’urlo che hai cacciato. Andiamo, avrai visto una finestra sbattere o qualcosa del genere.

D’accordo, in quel momento suonavo come una di quelle ragazze che vengono uccise a colpi di ascia dai pazzi maniaci degli horror che guardavo di nascosto dai nonni, ma l’unica cosa che poteva essere a scuola in quel momento a parte noi erano gli scarafaggi che proliferavano nei bagni delle ragazze (vedere per credere). Liz puntò la torcia verso i gradini che avevamo appena sceso, rivelando un sacchetto di patatine sfuggito alla pulizia meno che maniacale di Mocciolo; Emma diede un’ultima occhiata nervosa in direzione del fascio di luce e poi ci superò con due rapidi saltelli in direzione della palestra.

— Va bene, ma sbrighiamoci… Non voglio passare in questa scuola un minuto di più.

In cuor mio iniziavo a concordare con lei, anche perché le dita delle mani stavano perdendo la sensibilità al tatto… Perché cavolo in Inghilterra all’inizio di novembre dovevano esserci la bellezza di tre gradi sopra lo zero? Era in momenti come questo che invidiavo Carter in giro tra le bancarelle del Cairo con papà. Cioè, non solo in questi momenti, ma insomma. Mi infilai le mani in tasca per non perdere qualche dito e cercai di non pensare a cose poco piacevoli. Dopotutto ci eravamo sentiti per telefono solo qualche giorno fa… Certo, aveva dovuto farmi chiamare dalla segreteria della scuola per farsi dare il mio nuovo numero perché il nonno gli aveva sbattuto la cornetta in faccia, ma sarebbe potuta andare peggio.

Girammo l’angolo alla fine del corridoio dei laboratori di scienze naturali e ci trovammo la porta della palestra sulla sinistra, con tanto di cartello per chi avesse difficoltà ad orientarsi. Sfilai il mazzo di chiavi dalla tasca della felpa e iniziai a far passare tutte le targhette delle chiavi: aula A-1, aula A-2, laboratorio di fisica… Eccola! La infilai nella serratura e spinsi la porta, che si aprì sulla palestra con uno scricchiolio. Da vuota appariva persino più grande del solito, e i canestri da basket appena visibili nel buio sembravano dei totem devoti a qualche strana divinità.

Mi diressi in tutta fretta verso la porta degli spogliatoi maschili, tallonata da Liz e da Emma. I miei anfibi avrebbero probabilmente lasciato qualche traccia di fango sul pavimento lucido, ma non puoi fare una frittata senza rompere qualche uovo, giusto?

Davanti alla porta degli spogliatoi impugnai la chiave con la targhetta “Sp. ♂”. Scoccai un’occhiata a Liz ed Emma.

— Pronte a fare la storia della Nottingham High? — Senza aspettare la loro risposta infilai la chiave nella serratura e mi trovai davanti lo spogliatoio maschile in tutto il suo splendore. Era parecchio più grosso di quello femminile, con almeno tre file di armadietti, quattro cubicoli per i bagni e un sacco di panche e ganci per appendere le sacche da allenamento. Alzai gli occhi al soffitto, li strizzai per vedere meglio nell’oscurità e… bingo! A tre metri dalla mia faccia c’era una ventola spenta di un colore che qualche decade fa probabilmente corrispondeva al bianco. Nello spogliatoio femminile avevamo qualche luce in più, ma solo un minuscolo ventilatore per aerare la stanza, cosa che a fine giugno risultava alquanto sgradevole, credetemi.

— Non so se sono pronta a toccare quell’agglomerato di polvere e insetti morti — tossicchiò Liz, che mi era scivolata davanti per sbirciare gli armadietti. — Ehi, anche gli armadietti sono più belli dei nostri!

— Non sarà necessario — Buttai su una panca il mio zainetto tempestato di sticker e iniziai a frugarci dentro. Libri di scuola inutili, una caricatura di Ms. Strawson con sei lingue biforcute e quattro occhietti porcini (avevo appena preso un’insufficienza parecchio grave in francese, va bene?) e un ombrello mezzo rotto finirono in successione sul pavimento, ma finalmente tastai il pezzo forte: tirai fuori dallo zaino il retino telescopico che usava il nonno in gioventù per la sua collezione di farfalle [Lo so, lo so, fratellone, anch’io non potevo crederci quando l’ho scoperto.].

— Grazie a questo tecnologico reperto degli anni Trenta non dovremo prenderci una brutta malattia per sfilare il nostro tesoro dalla ventola più sporca di Londra. Avrò solo bisogno di qualcuno che mi faccia da scala…

Emma mi fece un okay con il pollice, probabilmente più per velocizzare l’operazione di recupero che per reale entusiasmo, e si chinò per prendermi sulle spalle. Salii sulla panca più vicina e mi issai con qualche difficoltà sulle sue spalle, con i piedi a penzoloni lungo i suoi fianchi.

— Ci sei?
Le diedi una pacca sul collo. — Al galoppo!

Emma sbuffò e si sistemò appena sotto la ventola. Liz puntò la torcia verso le pale, che illuminate apparivano persino più sporche del previsto. Sul serio, c’erano cicche che dovevano risalire all’anteguerra, per non parlare della quantità di insetti morti che mi guardai bene dal fissare a lungo. Allungai il retino al massimo e lo infilai nel buco tra una pala e l’altra, tastando l’interno. Sentii che stavo urtando qualcosa di morbido e sfregai con il retino per spostarla.

— Trovati? — chiese Liz saltellando da un piede all’altro. Le sue lentiggini erano scomparse sotto il colore paonazzo della sua faccia, e si stava ancora sfregando le mani l’una contro l’altra nonostante stesse indossando un paio di guanti.

— Ancora — sbuffai mentre avvicinavo la cosa soffice al bordo della pala — un — diedi una spinta secca con il retino — momento…

I presunti boxer caddero dritti nel retino. Alzai il braccio libero in segno di vittoria e feci scivolare il contenuto dritto nella mia mano. Be’, erano decisamente dei boxer. Dei boxer con dei piccoli cuoricini rossi ricamati sopra, ciascuno infilzato da una freccia che presumevo essere quella di Cupido. Sull’elastico c’era scritto “MOMMY’S GOOD BOY”.

Sogghignai e li sollevai con la mano sinistra in modo che il disegno fosse visibile anche a Liz, che si piegò in due tendendosi la pancia con due mani.
— Non posso credere che… che — Alla luce della torcia la sua faccia era di un rosso paonazzo. — Dylan Q–Quinn — Non riuscì a finire la frase e crollò su una delle panche che costeggiavano gli armadietti.

— Ehi, che razza di boxer sono? Fa’ vedere! — Emma mi tirò per una manica della felpa.

Iniziai ad allungare in basso il braccio sinistro quando un’ombra gigantesca balenò sugli armadietti. La risata convulsa di Liz divenne uno strillo di sorpresa, mentre Emma si voltò di scatto, quasi mandandomi a sbattere contro una delle pale della ventola.

Davanti a noi si parò la più spaventosa delle creature della natura, il predatore alfa di qualsiasi catena alimentare, il non plus ultra del regno animale: uno scoiattolo grigio, intento a sfregarsi la faccia con le zampine.

Sospirai di sollievo (errore), mentre Emma fece un piccolo risolino isterico e si chinò per farmi scendere (secondo errore).
— Chissà come ha fatto ad entrare qua questo scoiatt…

Sulla mia faccia si spiaccicò qualcosa di soffice e peloso. Aprii la bocca per urlare, ma riuscii solo ad ingoiare una considerevole quantità di peli prima di sentirmi cadere all’indietro per la forza dell’impatto. Mi schiantai sul pavimento di testa, e per qualche secondo mi si appannò la vista. Distinsi un paio di occhietti maligni al centro del mio campo visivo, finché un cilindro nero non mi passò davanti alla faccia, sfiorandomi appena la punta del naso.

— Brutto ratto troppo cresciuto, se TI PREND… ARGH!

Mi puntellai sui gomiti nonostante il ronzio insistente che mi punzecchiava un orecchio e vidi il retino appena di fianco a me. Lo strinsi di scatto, mentre una massa grigiastra mi sfiorò il gomito. Alzai la testa e mi trovai davanti Liz china su di me, con una mano premuta sul naso e l’altra tesa verso di me.

Guel ratto mi ha borso il daso — Afferrai la mano di Liz e saltai in piedi, mentre il mio cranio si preparava a coltivare un bel bernoccolo proprio in cima, a giudicare dal pulsare ritmico che mi stava scavando il cervello.

La scena che mi si parò davanti agli occhi sarà probabilmente per sempre impressa sulle mie retine. Non sto scherzando, scommetto che quando avrò novant’anni e l’Alzheimer galoppante sarà questa l’unica storia che racconterò ai miei nipoti, altro che l’arrivo di Apophis. [No, Carter, non sto esagerando. Tu non eri lì, non puoi capire.]

La luce della torcia per terra illuminava Emma, premuta contro la porta chiusa dello spogliatoio, tra le mani una mazza da baseball e a penzoloni per un orecchio i suoi enormi occhiali, con una stanghetta piegata in una posizione strana e una lente mancante. La furia omicida nei suoi occhi era impossibile da fraintendere: quello scoiattolo era un roditore morto.

Il peggio è che non era nemmeno lei la cosa più spaventosa in quello spogliatoio. Di fronte a lei si ergeva lo scoiattolo grigio più terrificante concepito da madre natura: grosso almeno il doppio di uno scoiattolo normale, con il pelo ritto e una luce crudele negli occhi… Nonché con un paio di boxer a cuoricini tra le zampe. Sicuro, potete pure pensare che io la stia facendo un po’ drammatica, ma vi ricordo che me la sono vista con Faccia d’Orrore, e non sono così sicura di chi vorrei riaffrontare, col senno di poi.

Tirai su la torcia da terra e la puntai contro il roditore malefico mentre nascondevo il retino dietro la schiena. La diplomazia non è mai stata il mio forte, ma dovevo tentare.

— Ehi, piccolino… — La bestiola si girò verso di me e scoprì i dentini in un ghigno crudele, come a dire “ehi-sorella-tu-sei-la-prossima”. Mi acquattai sulle ginocchia e feci la faccia più invitante che riuscii a spalmarmi sul viso dopo essere stata centrata da uno scoiattolo assassino in piena faccia. — Perché non posi quelle mutande a terra, che ne dici? Non preferiresti invece una succulenta, uhm, pigna tutta per te? —

Non ero esattamente aggiornata sull’alimentazione degli scoiattoli grigi americani e avevo la sensazione che lui l’avesse capito piuttosto bene. Strinse più forte i boxer nelle sue zampette pelose e fiutò l’aria, come a cercare di capire l’entità della minaccia che tre ragazzine dodicenni potessero rappresentare per l’equivalente londinese di una tigre dai denti a sciabola.

Qualsiasi punteggio avessimo ottenuto in quegli attimi era destinato a salire di almeno qualche tacca quando Emma cercò di sferrargli una mazzata in pieno cranio. Lo scoiattolo rotolò di lato e si infilò tra le gambe aperte di Liz, che con una mano ancora premuta sul naso tirò la sua miglior impressione di un calcio rotante. Non sarà stato incredibile a vedersi, ma di sicuro lo scoiattolo fece un volo di almeno mezzo metro prima di schiantarsi contro la fila degli armadietti di destra, i boxer ancora ben stretti tra gli artigli.

— Prendete quel — Emma sciorinò una serie di imprecazioni che avrebbero fatto arrossire il più navigato degli scaricatori di porto. — Voglio la sua testa! —

Quel [epiteti irripetibili] si era nel frattempo arrampicato sopra gli armadietti, una zampetta appoggiata sopra quella che sembrava essere una teca di vetro. La luce della torcia illuminò i suoi occhietti maligni che mi fissavano con l’aria di chi ha scoperto che il Natale degli scoiattoli quest’anno si celebra una volta al mese. Puntai gli occhi sul cerchio di luce che illuminava la teca di vetro e la mia bocca si aprì in un “oh”.

L’allarme antincendio.

— Ma non può sapere che… — Liz spalancò gli occhi e fece un mezzo passo indietro.

In quel momento ero certa che quel dannato scoiattolo aveva capito benissimo in che razza di guaio ci avrebbe cacciate se avesse premuto quel pulsante. Perciò, feci l’unica cosa che potevo fare in queste circostanze: mi trasformai in un ninja.

Alzai lentamente il braccio con in mano il retino e sbarrai gli occhi verso Emma, cercando di comunicare che distrazione, mi serve una distrazione. Non ero sicura che avesse capito che cosa volessi dire o se fosse semplicemente in berserk, fatto sta che la mia amica iniziò a sbattere la mazza da baseball in mano e ringhiò allo scoiattolo con le sopracciglia aggrottate e i denti scoperti. — Brutto bastardo!

Lo scoiattolo concentrò la sua attenzione su di lei per una frazione di secondo, che era tutto quello che mi serviva. Piegai all’indietro il braccio, tirai un urlo da guerriera e lanciai il retino verso il roditore. Il retino descrisse un perfetto semicerchio prima di calare attorno allo scoiattolo, che annaspò e perse la presa sulle mutande di Dylan Quinn.

Alzai il pugno in segno di vittoria, giusto in tempo per vedere una zampina grigia che si allungava e colpiva il pulsante il rosso prima di crollare sugli armadietti.

Un suono lacerante iniziò a risuonarci nelle orecchie. Liz si mise le mani sulle orecchie, mentre Emma lasciò cadere a terra la mazza da baseball e si guardò attorno con gli occhi sgranati. — E ora che facciamo?

Ricordandomi del malefico roditore mi affrettai verso gli armadietti ed estrassi il retino contenente la pelosa calamità che scalciava e si dibatteva. Avrei potuto farmi prendere dalla compassione e liberarlo, ma quando tentò di affondare i dentini nel mio indice sinistro l’impulso evaporò: aprii l’armadietto più vicino e ce lo ficcai dentro, sbattendogli la porta sul muso. Non era chiuso a chiave, ma almeno l’avrebbe trattenuto per un po’.

NEE-NOO, NEE-NOO! L’allarme antincendio non sembrava interessato a darci tregua.

Liz iniziò a raccogliere la roba che avevo estratto dal mio zaino. — Dobbiamo muoverci o qualcuno verrà a controllare che cavolo è successo!

Afferrai il mio zainetto e iniziai anch’io a buttarci dentro la roba estratta prima. Libro di storia, libro di chimica, libro di non-so-che-diamine-sto-studiando… C’era tutto! Allungai una mano verso i boxer e li infilai nella tasca davanti, premuti contro il mio astuccio preferito (sigh). Mi sistemai lo zaino sulle spalle mentre cercavo di non pensare alla sirena che stava trapanando il mio cervello.

— Forza, sbrighiamoci! — Emma era già sulla porta, gli occhiali tra i capelli e l’aria di chi avrebbe preferito trovarsi nel bel mezzo di un test di geometria avanzata piuttosto che in quello spogliatoio.

Mi fermai a valutare la situazione (lo so, lo so, incredibile ma vero). Avremmo dovuto scendere di un piano a piedi e uscire dall’ingresso principale senza farci vedere, possibilità che diminuiva ad ogni secondo che passavamo nello spogliatoio a fissarci. D’altra parte, se avessimo avuto una via di fuga alternativa… Passai in rassegna le file di armadietti, le panche e il soffitto lurido finché il mio sguardo non si posò sulla finestra.

Emma doveva aver intercettato il mio pensiero prima ancora che potessi dire “buttiamoci dal primo piano della nostra scuola media”, perché incrociò le braccia e mi fissò con aria severa. — As-so-lu-ta-men-te n…

Mi portai una mano al polso e picchiettai un orologio invisibile. — O saltiamo da qua e ce ne torniamo a casa in tempo per cena o dovremo spiegare ad una squadra di pompieri che cosa ci facciamo nell’edificio scolastico dopo la chiusura e perché abbiamo intrappolato uno scoiattolo negli armadietti dello spogliatoio maschile. — Mi avvicinai alla finestra, spalancai l’anta sinistra e saltai sul davanzale. L’aria gelida di novembre mi sferzò la faccia mentre fissavo l’erba del cortile un piano sotto di me.

Mi voltai verso Liz e Emma e feci una V di vittoria con la mano destra. — O la va o la spacca — dissi, e poi mi buttai.

Naturalmente quello che avrebbe dovuto essere il momento più fico della mia carriera da teppistella dodicenne venne rovinato dal fatto che il peso dello zaino mi fece atterrare con la faccia dritta nell’erba. Con gli occhi ancora pesti per l’impatto, alzai la testa e mi passai una mano sul naso, che stava iniziando a pulsare di dolore, prima di sputacchiare due o tre fili d’erba sul prato.

Due tonfi in rapida successione mi segnalarono che anche le mie amiche avevano deciso che il cortile della Nottingham High sembrava un luogo più sicuro del suo piano terra. Mi puntellai sulle mani e iniziai a rialzarmi.

— Uuuuuuf! — Liz era supina, le mani premute sul retro della testa dove si stava probabilmente formando un bel bernoccolo. Emma si spolverò via del terriccio dalle ginocchia, si sistemò gli occhiali rotti sulla testa e mi puntò contro un dito accusatore.

— Promettimi che non faremo mai più una cosa del genere.

Alzai le mani in segno di resa: effettivamente avevamo esagerato, persino per i nostri standard di generica insofferenza nei confronti dell’autorità. Nel frattempo il costante fischio dell’allarme mi stava ancora penetrando il cranio con una certa precisione, ricordandomi che avremmo fatto meglio a trovarci quanto più lontano dalla scuola possibile quando qualcuno sarebbe venuto a controllare la presunta emergenza.

— Forza, andiamo — Allungai una mano verso Liz, che la afferrò tenendosi la testa con l’altra e si tirò su in piedi con un gemito. — È il momento di sparire nella notte con il nostro tesoro.

Iniziammo ad allontanarci a passo deciso verso la ringhiera del cortile. Nella penombra Liz continuò a gemere mentre si sfregava la testa e il naso ferito, che aveva probabilmente raggiunto lo stesso colore di una mela ben matura. Lanciai qualche occhiata furtiva alle nostre spalle, ma sembrava che ancora nessuna macchina stesse parcheggiando nelle vicinanze. Le mie spalle si rilassarono e feci un bel respiro, che creò una piccola nuvoletta di vapore attorno alla mia faccia.

Era fatta: avevamo i leggendari boxer e domani mattina avremmo potuto raccontare una storia che sarebbe rimasta sulla bocca di tutti per mesi. E Julie mi avrebbe persino pagato cinque sterline, che dato lo stato disastroso della mia paghetta settimanale (sospesa da tre mesi per, ehm, un accumulo di infrazioni) mi avrebbero di sicuro fatto comodo.

Nemmeno il dolore sordo proveniente dalla mia faccia acciaccata poteva rovinare questo momento… Ma naturalmente, il mio destino cosmico prese questa considerazione sul personale.

— Sadie Kane.

Per vostra informazione, quando si sta scappando dalla propria scuola per un cortile buio e deserto in una sera con poca luna, sentire una voce inquietante che chiama il tuo nome a pochi metri di distanza non è un’esperienza che consiglio. Anzi, se potete, evitate di trovarvi in questa situazione, perché farete per forza una figura da idioti.

La mia personale figura da idiota fu lo squittio che mi uscì dalla bocca, accompagnato da un saltino che mi mandò a sbattere contro la povera Liz appena dietro di me, che si affrettò ad accendere la torcia e a puntarla davanti a sé.
Un tizio in pigiama era in piedi di fronte a noi, una mano alzata a schermarsi la faccia dalla luce improvvisa e l’altra che sorreggeva un lungo bastone piantato a terra. Appena sotto la spalla penzolava un marsupio di fibre intrecciate che sembrava sul punto di straripare, e al collo portava una collana con incastonato un simbolo irriconoscibile – sembrava un po’ uno di quegli strani geroglifici che papà mi indicava nei musei, incastonato in un rettangolo. L’effetto complessivo era quello di un Gandalf apprendista biondo e muscoloso.

Biondo e muscoloso… Le rotelline del mio cervello iniziarono a girare. Quel tizio non era un matto qualsiasi intrufolatosi in un edificio scolastico, era Dylan Quinn!

La mia intuizione venne confermata non appena il ragazzo abbassò la mano e mi fissò dritta negli occhi. Non solo era davvero il battitore quindicenne (aveva ripetuto un paio d’anni, pare) più popolare della scuola, ma non sembrava affatto sorpreso di vederci qui. Anzi, se avessi dovuto descrivere la sua espressione in quel momento mi sarei affidata alle parole “puro disgusto”.

— Ehm… Perché sei in pigiama?

Col senno di poi, non era la domanda più pressante che avrei potuto fare in quel momento. Ma eravamo appena scampate ad uno scoiattolo assassino e ad un salto dal primo piano della scuola, quindi il mio cervello aveva chiare difficoltà ad interpretare tutto quello che ci stava capitando.

Quinn arricciò le labbra come se avesse appena visto uno scarafaggio particolarmente grande e si rimboccò la manica sinistra di quella che sembrava sempre di più una camicia da notte per vecchie signore single.

— Molto divertente. Vedo che siete persino riuscite a sbarazzarvi di Sir Marcus… Sei davvero forte come dicono, Sadie Kane. Ma adesso… — Quinn allungò la mano libera verso di me e mi inchiodò con uno sguardo gelido. — Voglio ciò che vi siete prese.

Oh, cavolo. Gli ingranaggi del mio cervello avevano messo la quarta. Quinn sapeva della nostra mission impossible, e di sicuro non sembrava contento all’idea che i suoi imbarazzanti mutandoni diventassero un trofeo da esibire in pubblico. Non che potessi biasimarlo, ma perché mai tenderci un’imboscata vestito da elfo dei boschi? E chi diamine avrebbe dovuto essere sir Marcus? Sperai ardentemente che non fosse un compagno di giochi di ruolo appostato qua vicino.

Emma mi lanciò uno sguardo allarmato e io mi decisi a tentare la via della diplomazia. Non potevo lasciarmi scappare l’unica occasione per entrare nella leggenda della Nottingham High!

— Senti, Quinn, non so che cosa ci fai qui a quest’ora, ma noi siamo appena tornate da, ehm, un progetto scolastico. Molto importante e molto, uhm, serio. Quindi, se vuoi scusarci, ce ne andremmo per la nostra strada.

Okay, fu un tentativo patetico. Ma tra la mia testa che pulsava ancora al ritmo dell’allarme antincendio e le mie mani congelate sentivo crescere in me il bisogno di una cioccolata calda e un letto, di sicuro non di un acceso dibattito sulle motivazioni della nostra gita fuoriporta.

Quinn si irrigidì, riuscendo nell’impresa di sembrare persino più grosso di prima, nonché più spazientito. — Non ho intenzione di farmi prendere in giro da te, Kane. So benissimo perché eravate a scuola a quest’ora della notte e non ho nessuna intenzione di farvela passare liscia!

Ebbi la sensazione che in bocca a lui il mio cognome dovesse suonare come un insulto e incassai le spalle. Iniziavo ad essere un po’ seccata con questo gorilla in tenuta da cosplayer, eppure un insolito campanello d’allarme in testa mi suggeriva di andarci piano.

Certo, Dylan era alto il doppio di me e largo forse tre volte tanto, ma non era solo quello a preoccuparmi. Sembrava, ecco, potente. Nonostante il pigiama e il marsupio da ottantenne, il bastone che impugnava non sembrava solo quello che Bruce Lee dava in testa ai cattivi per buona parte dei suoi film. [Senti, Carter, la cosa più magica che avevo visto fino a quel momento era stata la ciabatta della nonna, quindi non avevo chissà che termini di paragone.]

— Davvero, Quinn, non so di che cosa stai parlando. — Allungai le mani aperte davanti a me e feci l’espressione più innocente che riuscì ai miei muscoli facciali ancora tumefatti. — Ascolta, la verità è che eravamo dentro senza permesso. Avevamo fatto una scommessa stupida con Julie su chi avrebbe avuto il coraggio di rimanere a scuola dopo l’orario scolastico. Solo per vedere chi era la più tosta delle ragazze.

Sentii Liz fare dei suoni di assenso molto vigorosi appena di fianco a me. — Ma ci siamo spaventate e nel buio abbiamo urtato l’allarme antincendio. — Indicai in direzione della sirena che non accennava a zittirsi. — Quindi ora vorremmo andarcene prima che qualcuno venga a controllare che cosa è successo – non so che cosa ci fai qua e non so che cosa ti hanno detto, ma che ne dici di metterci una pietra sopra e salutarci?

Per un microsecondo mi convinsi di averlo fregato. Poi Quinn alzò le sopracciglia e mi fece un sorriso a trentadue denti del leone che ha avvistato la gazzella più succulenta del branco.

— Se credi davvero che mi farò fregare dalle tue scuse sei più stupida di quello che credevo. Ti ho vista parlare al telefono con tuo padre a scuola, sai? L’irreprensibile dottor Julius Kane. So benissimo che razza di gente siete e che cosa ti ha chiesto di fare — Dylan tirò su col naso, le sopracciglia aggrottate in una maschera di rabbia. — L’hai nascosto a scuola, eh? Proprio sotto il mio naso… Ma ora rivoglio quello che ci avete rubato!

Liz si schiarì la gola. — Sadie, che cavolo sta dicendo?

Mi rendo conto che a questo punto avrei dovuto fare un passo indietro e riconsiderare la situazione con calma e compostezza. Forse avrei dovuto chiedere a Quinn perché mai avesse tirato in ballo la mia famiglia, o cosa intendesse con quel “ci”, o forse avrei dovuto semplicemente lanciargli i boxer e mettermi a correre nella direzione opposta.

Ma nessuno, e intendo dire nessuno, insulta mio padre e mio fratello e la passa liscia. Nessuno.

Strinsi i pugni, mandai al diavolo la vocina nella mia testa che strillava pericolo! pericolo!, e feci un passo avanti. Avevo già deciso che Quinn sarebbe uscito da questo cortile con almeno un occhio nero, a costo di farmi ricoverare in ospedale.

— Che c’è, Kane, vuoi sfidarmi? — Quinn sembrava divertito a vedermi fumare di rabbia. Aveva quello sguardo che avevo visto spesso ai bulletti al parco giochi di quando ero piccola, appena prima che gli arrivasse la mia scarpa dritta sul muso. — Spero per te che tu sia già ben addestrata!

Mi aspettavo che avrebbe mollato il bastone per tirarmi un pugno, invece lo strinse con entrambe le mani e si mise in una posa da karateka. Alzò il bastone in aria e improvvisamente uno zaino si spiaccicò sulla sua faccia.

— Ma cosa…

Alla luce della torcia distinsi Emma in piedi di fianco a lui, nonché sette chili di zaino che si ritraevano dal suo viso. — Non azzardarti — ringhiò prima di tirargli un calcio — ad insultare — altro calcio — la MIA AMICA! — Sferrò un ultimo colpo che probabilmente fece più male a lei che a quelle tre tonnellate di muscoli che colpì e cercò di ritrarsi.

Ma Quinn, pur essendo ginocchia a terra e con l’aria di chi si è visto piombare addosso un tifone, era tutt’altro che KO. Con uno scatto serpentino avvinghiò entrambe le mani alla caviglia di Emma e la tirò verso di sé, lasciando cadere il bastone a terra. Emma lanciò uno strillo e scalciò all’indietro mancandolo di un soffio.

Quinn allungò una mano verso il cappuccio della felpa di Emma e io caricai a testa bassa. Non ero sicura di che cosa avrei potuto fare contro un quindicenne dall’aspetto di un gorilla di taglia media, ma di sicuro non sarei rimasta a guardare mentre rompeva l’osso del collo alla mia amica.

Chiusi gli occhi un millisecondo prima dell’impatto e aspettai il conk della mia testa contro quella di Quinn… Ma anziché sentire il cranio che mi si spezzettava in tre punti diversi venni spinta all’indietro con violenza. Sentii l’aria crepitare, come se attorno a me stessero bruciando qualche decina di bastoncini di incenso, e spalancai gli occhi mentre cadevo.

Atterrai col sedere in mezzo all’erba bagnata, ma come cercai di riprendermi distinsi solo qualche lucina fluttuante ai lati del mio campo visivo. Socchiusi gli occhi, il trapanare distante dell’allarme ancora pulsante in testa, e distinsi a diversi metri da me una sagoma distesa nell’erba con la testa tra le mani.

— Sadie! Stai bene? — Una chioma rossa mi si parò davanti e mi offrì una mano. — Forza, dobbiamo andare!

Afferrai la mano di Liz, mi rimisi in piedi e ciondolai verso la ringhiera alla massima velocità con cui le mie gambe di budino me lo consentirono. Emma era già dall’altra parte, le mani premute sulle sbarre e un’espressione terrorizzata sul viso.

Liz mi passò la torcia e risalì le sbarre con una velocità sorprendente. Non appena la vidi gettare la gamba oltre il limite infilai la torcia tra le sbarre, aspettai che Emma la recuperasse e mi tirai su fino al punto più alto. Alzai la gamba sinistra per scavalcare e sentii un laccio annodarsi attorno alla mia caviglia. Gettai un’occhiata verso il basso e distinsi dei rovi aggrovigliati attorno al mio anfibio. Diedi uno strattone senza successo, poi un altro, e iniziai a sudare freddo. Che razza di scuola lascia delle erbacce lunghe sei metri nel suo cortile?

— Non provarci nemmeno!

Quinn si stava rialzando in piedi, una mano stretta attorno al bastone. I rovi sembrarono stringersi ancora più saldi attorno al mio piede. Con un ringhio ferino lanciai la mia gamba dall’altro lato della ringhiera, conficcandomi almeno due o tre spine nella caviglia nel processo. Saltai giù giusto in tempo per vedere il battitore-gorilla che si slanciava verso le sbarre della ringhiera per afferrarmi.

Liz, Emma ed io ci scapicollammo giù per la strada. I lampioni illuminavano la via piuttosto bene e sapevo che nessuna di noi viveva a più di dieci minuti dalla scuola, ma dovevamo allontanarci in fretta. In lontananza il rombo di un’automobile segnalò che qualcuno aveva finalmente deciso che quel fischio martellante meritava un’indagine approfondita – avremmo avuto giusto il tempo di sparire dietro l’angolo per non farci scoprire da chiunque fosse nei paraggi.
— Quinn è f–fuori di testa! — sbuffò Liz mentre mulinava le braccia, la faccia ormai simile ad un pomodoro maturo. — Rischiava di ammazzarci per un p–paio di mutande!

— Hai visto com’era vestito? Probabilmente fa rievocazioni di guerra nel tempo libero — Emma cercò di ruotare gli occhi al cielo, ma vista l’andatura a cui stavamo correndo le uscì uno sguardo a metà tra l’assatanato e lo strabico. — Dobbiamo considerarci fortunate se…

Piantai i piedi a terra e frenai, alzando le braccia per fermare anche le mie amiche. Davanti a noi c’era, naturalmente, Dylan Quinn. Bastone alla mano e con la camicia da notte ricoperta di fango ed erbacce riusciva comunque a sembrare terrificante, se non altro perché se avesse potuto il suo sguardo mi avrebbe carbonizzato sul posto.

Liz mi strinse il braccio con entrambe le mani e sentii il gelo di novembre scavarmi un po’ più a fondo nelle ossa. Dietro di noi sentivo già un vociare confuso e qualcuno che strillava: non avevamo possibilità di tornare indietro senza farci scoprire – ma l’alternativa era prendersi un bastone in faccia da un fanatico dei giochi di ruolo medievali.

Emma si schiarì la gola, probabilmente per dirgli qualcosa come grazie molto gentile ecco i suoi boxer a cuoricini ora noi ce ne andiamo, quando un miagolio stridulo risuonò ad un passo da Quinn. Dylan girò la testa di scatto e una palla di pelo gli si schiantò sulla faccia.

Quinn lanciò un urlo soffocato e mollò il bastone per tentare di prendersi la faccia con le mani, ma tutto quello che riuscì a fare fu affondare le mani in una pelliccia giallognola e ispida da piccolo giaguaro.

— Muffin! — Non potevo credere che la mia gattina mi avesse seguito fin qui. Per tutta risposta mi giunse un basso gnaulio, prima che Muffin riprendesse ad affondare i suoi artigli nella faccia di Quinn.

Liz era già in fondo alla strada e stava agitando le mani come a dirigere il traffico londinese nell’ora di punta. Emma mi strattonò una manica della felpa. — Sadie, dobbiamo andare!

— Ma Muffin… — iniziai a protestare, ma la mia gattina scelse proprio quel momento per emettere uno strillo che suonava come un andatevene, ci penso io a questo teppista troppo cresciuto (o qualcosa del genere, immagino).
Mi girai verso Emma e misi il turbo: in quattro falcate eravamo all’angolo della strada, e qualche minuto dopo ci ritrovammo appena sotto casa di Liz, una villetta ben illuminata dai lampioni abbastanza lontano dalla Nottingham High e da potenziali battitori assassini.

Le prime parole di Emma non furono quelle che ci si aspetterebbe da una ragazza appena passata attraverso il nostro battesimo del fuoco. — Ve l’avevo detto che avevo visto l’ombra di un gatto!

Le battei una mano sulla spalla. — D’accordo, d’accordo, avevi ragione. Non posso credere che Muffin ci abbia davvero seguite fino a scuola! È sempre stata una gatta tanto pigra… Chissà che cosa le è preso.

— Con… siderando che ci ha s–salvato la vita, non mi… la–lamenterei troppo. — fece Liz, aggrappata al lampione più vicino nel tentativo di recuperare il fiato. — Ma S–sadie, come diamine hai fa… fatto… a…

Di fronte al mio sguardo perplesso Emma, un po’ meno affannata, le venne in soccorso. — Quando Quinn mi ha afferrata e tu gli sei corsa contro… Beh, ha fatto un volo di almeno due metri. Sembrava che tu non l’avessi nemmeno toccato.

Emma mi fissava con aspettativa, ma io mi ricordavo a malapena che cosa fosse successo a me. Avevo solo sentito una spinta fortissima, come se avessi liberato in aria un mucchio di energia, e poi ero caduta nell’erba – non sapevo davvero spiegare cosa avessi provato appena prima dell’impatto.

Scrollai le spalle. — Immagino che l’adrenalina mi abbia fatto tirare fuori una forza che non sapevo di avere. Spero solo che mi capiti anche la prossima volta che dobbiamo lanciare il peso a ginnastica! — Sorrisi e cercai di mascherare il disagio con un pollice in su. Non mi piaceva che le mie amiche si preoccupassero per me.

Emma non aveva l’aria convinta, e sapevo che avrebbe voluto parlarmi di quello che Quinn aveva detto su mio padre, ma sia lei che Liz sembravano sfinite – decisi di soprassedere sui dubbi che stavano iniziando a rigirarsi nella mia testa ancora dolorante. Però, dopo esserci salutate con la promessa di non scambiare una parola con nessuno di quella vicenda, sul vialetto da percorrere verso casa dei nonni ero ancora inquieta.

D’accordo, magari Quinn era solo un bulletto con una strana passione per la ricostruzione storica, però sembrava davvero fuori di sé per un paio di boxer. E perché mai aveva spiato la mia conversazione con papà a scuola? Non mi piaceva affatto essere tenuta all’oscuro sul suo lavoro, ma dalle conversazioni che ero riuscita ad origliare tra i nonni sapevo benissimo che papà non era solo un archeologo. Aveva appuntamenti con gente losca, spariva per settimane, correva da uno Stato all’altro… Non sapevo che cosa facesse, ma di sicuro non era solo interpretazione di vecchi manoscritti polverosi.

E se fosse stato invischiato in una setta, di quelle che si vestono in modo strano, fanno sacrifici umani e ballano durante le notti di luna piena? Rabbrividii e sentii l’impulso di girarmi per vedere se qualcuno mi stesse seguendo. In qualunque cosa fosse coinvolto Quinn, ero abbastanza sicura che c’entrassero i Kane. O forse mi stavo solo inventando una cospirazione segreta per trovare qualcosa che mi legasse a papà.

Tirai un calcio alla lattina di fronte a casa con più violenza del necessario e centrai in pieno la buca delle lettere. Non ero così brava a gestire i sentimenti quando si trattava di papà, di Carter, o della mia famiglia in generale [Carter, ti vedo. Piantala.].

D’altra parte, ero ufficialmente la ragazza undicenne più tosta della scuola. Non pensavo davvero che ci sarebbero stati ostacoli oltre le mie possibilità, giusto? Per non parlare del fatto che ero amica delle ragazze più forti che conoscevo. Qualunque cosa sarebbe successa nei prossimi mesi, l’avrei affrontata e basta.

Sfilai le chiavi di casa dallo zaino e mi preparai a ricevere la madre di tutte le lavate di capo dalla nonna. Quasi quasi iniziavo a rimpiangere lo scoiattolo assassino.
 

***
 

Non che avessi idea di che razza di problemi mi sarebbero capitati di lì ad un anno e mezzo, ovviamente. In ogni caso Quinn venne ritirato dalla scuola il giorno dopo dai suoi “genitori preoccupati” (nonché punito per il suo errore da scemo, immagino… Come se una ragazzina delle medie potesse rubare qualcosa alla Per Ankh) e io ottenni cinque sterline da Julie – prontamente sequestrate dai nonni per il mio ritardo imperdonabile. Mi ritengo ancora molto fortunata per essere scampata all’incontro con un mago della Casa della Vita con la faccia ammaccata ma gli arti ancora tutti al loro posto… Sì, anche contro uno con una strana passione per i famigli scoiattoli. E posso annerire l’ennesima casellina sulla mia Lista delle Volte in cui Bast ha Salvato il Posteriore alla Famiglia Kane.

Va bene, Carter, va bene, ora ti passo il microfono. Lo so che non vedi l’ora di raccontare la tua storia…

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** CARTER: Notte da sballo al Monastero Rosso con il signore delle tempeste ***


CARTER

Notte da sballo al Monastero Rosso
con il signore delle tempeste


 

Qui Carter. Nonostante le continue interruzioni dovute a Miss-devo-pomiciare-con-i-miei-due-ragazzi-in-un-solo-corpo [Stavo scherzando, Sadie, metti giù quel pinguino!], è arrivato il momento di parlarti delle mie avventure.

So che in queste registrazioni ho sempre sottolineato quanto fossimo sempre in viaggio e che vita strana vivessimo io e papà anche prima di ospitare degli dèi egizi nella nostra testa, ma la verità è che la maggior parte delle difficoltà che abbiamo avuto sono sempre state molto ordinarie. Documenti mancanti, corse per l’aereo, rapine in vicoli bui, uno o due allarmi bomba… Okay, forse non così ordinarie, ma di sicuro niente di soprannaturale.

Papà è sempre stato piuttosto bravo a proteggermi da quello che aveva a che fare con il mondo dei maghi e delle divinità, almeno finché non ha fatto esplodere il British Museum – o forse io ho sempre evitato di farmi troppe domande su che cosa facesse davvero.

Però qualche volta in cui il mondo dei maghi è riuscito a penetrare persino la corazza protettiva del professor Julius Kane c’è stata. Magari potreste pensare che si sia trattato di qualcosa di innocuo e divertente, come uno shabti a passeggio per il Cairo o un ippopotamo che ingoia un amuleto del Formaggio… Ma ehi, ormai ci conoscete, giusto? Naturalmente fu un incubo.

Il viaggio era partito abbastanza bene, in realtà. Certo, papà e io eravamo a bordo di una Jeep nella quale scoprivo ogni cinque minuti nuovi mucchietti di sabbia, c’erano la bellezza di quarantatré gradi all’ombra ed ero abbastanza sicuro che il cibo mangiato a pranzo ad uno dei bar di Sohag stesse tentando di farmi sprofondare in un coma profondo, ma avevamo viaggiato in condizioni peggiori.

L’autista era persino cordiale e disponibile e continuava ad indicarci entusiasta ogni singolo campo a cui passavamo di fianco. Papà annuiva e replicava con qualche frase in arabo inframezzata ogni tanto da un oui oui charmant (o qualcosa del genere: non so una parola di francese). Mi sistemai il cappello dei Lakers e cercai di concentrarmi di nuovo sul libro che avevo tra le mani, ma tra il rumore dell’auto e le chiacchiere della nostra guida riuscii solo a leggere qualche frase prima di riporlo nel mio borsello. [Sì, papà mi faceva portare dietro un borsello, va bene? Non c’è bisogno di scompisciarsi così.]

Eravamo reduci da un viaggio in aereo di quasi quarantott’ore, scalo più scalo meno, delle quali solo cinque passate a sonnecchiare tra un aeroporto e l’altro, quindi già essere sveglio e conscio dell’ambiente intorno a me era un gran traguardo. Eravamo partiti in tutta fretta, con pochi bagagli e papà che fremeva per l’“occasione d’oro” che ci era capitata.

— Tutto bene, Carter? — Papà mi fissava da dietro gli occhiali da lettura con un sorriso un po’ stanco. — So che tre aerei di fila non sono divertenti per nessuno, ma siamo quasi arrivati al monastero.

Annuii e raddrizzai subito la schiena per non sembrare troppo assonnato. Non volevo dare a papà l’idea di essere stanco prima ancora di aver cominciato il nostro giro.

— Quindi davvero potrai intervistare i monaci della chiesa? — buttai lì per fare un po’ di conversazione. Sapevo che papà non vedeva l’ora di esaminare il Monastero Rosso e fare qualche domanda ai monaci copti che ci vivevano, ma non avevo idea di che cosa sperasse di trovarci dentro o del perché fosse così ansioso di arrivare.

A papà si illuminarono gli occhi. — Ma certo! Vivono in una struttura tremendamente misteriosa: gran parte della sua storia è sconosciuta a chiunque. L’unica cosa che davvero…

Mi sforzai di tenere gli occhi aperti e annuire ogni tanto, ma la voce di papà divenne presto un ronzio indistinto che si confondeva con le ruote della macchina. Sentivo ogni singola gocciolina di sudore che mi scivolava sulla fronte, visto che il sole non accennava a smettere di picchiare sulle nostre teste già accaldate, e mi calai la visiera fin sulla faccia per non scottarmi la punta del naso.

— … quando è stato fondato nel quarto secolo dopo Cristo…

Drizzai le orecchie. — Quindi non è una struttura che risale all’antico Egitto? — Mi resi conto di aver fatto un passo falso quando papà mi guardò con aria incredula.

— Non mi hai sentito prima? Si tratta di un monastero cristiano, non ha nulla a che vedere con i faraoni — Papà ridacchiò e si tirò gli occhiali su per il naso. — Non hai visto le foto? Non c’entra nulla con l’architettura della civiltà egizia!

Arrossii nonostante la stanchezza. Non avevo visto una singola immagine del Monastero Rosso né letto nulla sull’argomento, nonostante papà ci tenesse che io arrivassi preparato sui siti dove lavorava. Però…

— Come mai ti interessa tanto, allora? La tua specialità è proprio l’antico Egitto — Era raro che papà accettasse progetti che non c’entravano nulla con l’Egittologia, anche se qualche volta ci toccava: le spese per i viaggi erano tante e gli studiosi universitari non erano pagati granché.

— Si tratta di una bella occasione — Papà tamburellò le dita sul finestrino della Jeep, un po’ a disagio. — L’Università del Michigan mi sta pagando tutte le spese del viaggio, a patto che io collabori con altri professori per scrivere un libro sulla storia dei due Monasteri. Si tratta solo di fare qualche intervista, scattare delle foto e recuperare più fonti possibile in loco.

Scrollò le spalle e mi sorrise. — Non dovrebbe interferire con gli altri scavi a cui potremo partecipare nei prossimi tempi, comunque: è solo una toccata e fuga.

Annuii e guardai fuori dal finestrino. Papà era sembrato molto più entusiasta fino ad un attimo fa, ma decisi di non insistere: a Julius Kane non piaceva affatto che qualcuno gli facesse troppe domande sui perché del suo lavoro – in ogni caso, mi sentivo ancora in colpa per non essermi preparato meglio durante il volo.

I campi continuavano a scorrermi davanti agli occhi e percepii un nuovo principio di abbiocco. Socchiusi gli occhi e posai la testa sul finestrino, lottando contro uno sbadiglio.

Nous sommes arrivé!

Mi sentii scuotere per le spalle. Aprii gli occhi di scatto e lanciai un’occhiata fuori: eravamo in un parcheggio al limitare di una serie di tendoni e insegne colorate, che sembrava avviluppare tutta la zona circostante.

— Forza, qualche minuto a piedi e saremo arrivati — mi incoraggiò papà mentre apriva la portiera. Mi passai una mano sulla faccia per assumere un aspetto appena più consono, slacciai la cintura e scesi giù dall’auto.

Mentre papà contava le sterline per l’autista, che nel frattempo lo inondava di commenti entusiasti accompagnati da vigorosi gesti delle braccia, diedi un’occhiata oltre il parcheggio, verso il viavai di gente per la strada. Tutti sembravano avere una fretta tremenda, e tra il passo frenetico e il vociare che proveniva dalla strada mi sentii girare la testa: non ero un grande fan dei posti affollati – quando si vive per una parte significativa dell’anno a bordo di cuccette, auto e aerei si impara a non dare per scontato lo spazio personale.

Papà mi fece segno di seguirlo. Agitai la mano verso il nostro autista, che rispose con due pollici alzati e un sorriso a trentadue denti, e mi infilai tra la folla.

Citrons! Citrons! Citrons frais!

— … et puis je lui ai dit que…

Mi sentivo come una sardina strizzata nella sua scatoletta, ma scivolai a destra e a sinistra tra le persone che mi venivano incontro dall’altra parte della strada senza troppa difficoltà. La fedora nera di papà era inconfondibile tra la folla piena di turbanti e cappelli da baseball, quindi feci in modo di avvicinarmi il più possibile.

Kun hadhiran!

Sgusciai via con un mezzo inchino di scusa dal piccolo signore con una valigia alta il doppio di lui contro cui mi ero schiantato e mi accostai a papà. — Il monastero non è lontano, vero?

Papà alzò un braccio dritto davanti a sé. — Eccolo là!

Mi fermai sul ciglio della via, che si allargava verso una struttura compatta, composta solo di mattoni rossicci. Non appena ci avvicinammo mi resi conto che si trattava delle mura del monastero, ancora in ottime condizioni: avevo sentito papà citare un qualche incendio che aveva distrutto altre zone del Monastero durante il viaggio in macchina, ma non ero riuscito a sentire molto altro tra un colpo di sonno e l’altro.

Ci approcciammo all’entrata delle mura. Davanti a noi c’era l’entrata della chiesa, squadrata e pesante, fiancheggiata da due colonne e due porticine più piccole. Quella a sinistra si aprì e ne uscì un anziano incappucciato, che ci scrutò da dietro gli occhiali e proseguì nella direzione opposta alla nostra: uno dei monaci della chiesa, evidentemente.

Papà si diresse a grandi falcate verso l’entrata, mentre la mia attenzione venne catturata da un piccolo leggio pieno di dépliant appena di fianco.

— Aspettami pure fuori: ci vorrà giusto una mezz’oretta, il tempo di farti un giro qua intorno e fare un po’ di conversazione.

Annuii: papà adorava spingermi a “fare conversazione”, anche quando gli unici interlocutori possibili erano monaci centenari che non parlavano una parola di inglese. Mi avvicinai allo stand di brochure, ne sfilai una e la aprii completamente: UN PELLEGRINAGGIO PER VERI DEVOTI, recitava la scritta rosa fluo su sfondo beige, di fianco a qualche foto dell’interno del monastero. Di sicuro chiunque avesse elaborato la brochure non aveva passato più di qualche minuto su Photoshop in tutta la sua vita.

Fissai ancora qualche attimo le foto. L’idea del pellegrinaggio mi lasciava sempre un po’ a disagio: non ero cresciuto con un’educazione religiosa e papà non parlava mai di questioni spirituali – ogni tanto mi raccontava qualche mito egizio per farmi addormentare, ed erano gli unici momenti in cui gli occhi sembravano brillargli di fede autentica.

— Che ci fai qui, ragazzino?

Il dépliant mi venne strappato via dalle mani. Alzai gli occhi e mi ritrovai faccia a faccia con un paio di occhiali da sole verde bottiglia e una smorfia dietro cui brillava (almeno) un dente d’oro.

— Allora, che vuoi? Non ho da perdere tutta la giornata — fece Occhiali da Sole in un inglese cadenzato. Aveva la pelle color caffelatte, almeno una dozzina di anelli alle mani e una camicia aperta sul petto, sul quale brillava un ciondolo dalla forma strana. Ruminò un paio di volte la cicca tra i denti e mi squadrò come se avessi addosso una maglietta con su scritto SONO QUA PER CAUSARE PROBLEMI ENORMI, SÌ, PROPRIO A TE.

— I-io… Sono con Julius Kane — balbettai prima di fare un passo indietro. Questo tizio sembrava tutto tranne che un pacifico monaco intento a salire la scala del suo percorso spirituale.

Occhiali da Sole fece schioccare la lingua. — Ah, ma sei il figlio del dottore! Sicuro, ti ha menzionato quando ci siamo sentiti al telefono. — Mi prese la mano destra e mi infilò la brochure tra pollice e indice. — Ehi, bello, fatti un giro, qua è roba forte.

Mi tirò una pacca sulla schiena che mi fece barcollare, e con un sorriso da squalo mi passò di fronte verso la direzione opposta all’entrata della chiesa. Mi sfregai la giuntura dolorante e lo fissai ancora per qualche attimo: nonostante avessi visto un mucchio di gente inquietante nei miei viaggi, ero sicuro che Occhiali da Sole fosse schizzato ai primi posti della classifica delle persone con cui non volevo trovarmi da solo per più di cinque minuti.

Infilai il dépliant nella tasca posteriore dei miei khaki ed entrai in tutta fretta all’interno della chiesa principale.

L’interno era poco spazioso, una pianta quadrata piccola con al centro un altare abbastanza basso, ma le pareti e le colonne erano cariche di decorazioni di ogni genere. Spirali, rampicanti, forme geometriche… Ciascun motivo si avviluppava su quello vicino, creando un intrico di colori che mi costrinse a distogliere lo sguardo dalle pareti.

Feci un paio di passi in avanti e mi ritrovai sotto lo sguardo severo di una serie di vecchietti che spuntavano dalle pareti, incorniciati dai motivi che ricoprivano il resto della chiesa. Il tempo aveva lasciato i suoi segni, considerando che qualcuno di quei signori sembrava essersi appena svegliato dopo un pranzo all’all-you-can-eat a nove dollari (bevande incluse: non volete davvero sapere che cosa c’è dentro quella roba) più che assorto in una qualche contemplazione mistica.

Un’eco di passi risuonò al di là della porta più a sinistra di fronte a me. Mi avvicinai cercando di fare meno rumore possibile – sembrava innaturale disturbare chiunque fosse all’interno della chiesa con suoni non necessari.

— Sono solo felice di poterla incontrare, mi creda.

Sembrava proprio la voce di papà. Probabilmente aveva iniziato ad intervistare qualche monaco volonteroso sulla sua vita all’interno del monastero. Un monaco che sapeva l’inglese doveva essere piuttosto raro, però: tesi l’orecchio per sentire il resto della conversazione.

— Un viaggio tranquillo, sì, nulla di eccezionale — La voce stentorea di papà superò senza difficoltà il legno della porta, ma mi arrivò solo un borbottio da parte del suo interlocutore.

— Confido che si tratti di un incontro davvero privato.

Alzai entrambe le sopracciglia. Perché mai papà avrebbe dovuto richiedere un incontro privato con un monaco del monastero per un’intervista? Forse non potevano essere visti da troppe persone, o avevano degli orari da rispettare per il pubblico.

O forse mio padre era invischiato in un altro dei suoi strani progetti. Progetti sui quali non avevo nessun diritto di fare domande, figuriamoci immischiarmi attivamente…

Appoggiai entrambe le mani alla superficie della porta e avvicinai l’orecchio al legno. [Andiamo, Sadie, è inutile che fai quella faccia scandalizzata, come se tu non avessi mai origliato da una porta.]

— … Dedicato a San Pfui, dico bene?

Okay, non credo che mio padre avesse appena detto San Pfui, ma tra la porta chiusa e il tono di voce sempre più basso capii a malapena il resto della frase. Arrivato in albergo avrei dato un’occhiata ai santi coinvolti nella costruzione del monastero, ma in quel momento non mi sembrava una questione così pressante.

— Sono sicuro che possiamo arrivare ad un accordo, ma la cifra che mi propone è semplicemente ridicola — Papà abbassò ancora la voce e dovetti premere l’orecchio contro la porta. — Si tratta di un semplice prestito, nulla di più.

Un prestito? Era capitato che ci tenessimo degli artefatti per qualche mese o che ci regalassero pezzi non abbastanza interessanti per occupare spazio nei musei, ma che papà si dimostrasse così interessato ad averne uno era un evento più unico che raro.

— Credo che anche per voi sia un affare conveniente, tutto qui.

Papà ormai stava sussurrando, ma persino così riconoscevo che voce stava usando. Era la stessa voce che usava quando chiamava i nonni Kane al telefono per chiedere quando Sadie avrebbe avuto un giorno libero sotto Natale e se per favore potevano richiamarlo per fargli sapere; la voce di quando devi stringere i denti e fare buon viso a cattivo gioco perché non hai alternative.

Allontanai l’orecchio dalla porta e il resto della conversazione divenne un mormorio indistinto. Non avevo idea di che cosa papà volesse da quest’uomo né per quale motivo ne avesse così tanto bisogno da sbatterci su un aereo in tutta fretta per arrivare ad un monastero cristiano abitato da qualche monaco scostante, ma non ero più così sicuro di volerlo sapere.

Niente domande, fai buona impressione, non guardare nella borsa: avevo solo tre regole ed ero appena riuscito ad infrangerne un paio nell’arco di dieci minuti. Feci un passo indietro e mi sentii le guance bruciare. Avevo origliato un paio di volte in tutti i miei dieci anni e mezzo di vita, e mai conversazioni in cui partecipava anche papà. [Va bene, va bene, sono un bravo ragazzo fino al midollo. Contenta adesso?]

Mi avvicinai al piccolo altare al centro della stanza e tamburellai le dita sul legno per ignorare il mio stomaco aggrovigliato. Dalla porta mi arrivavano ancora stralci di conversazione, ma mi misi a canticchiare un motivetto stupido per non sentire. Dum-dum-DUM, dum-du-du-DUM, dum-du-dum-du-du-du-DUM…

Non sapevo quanto tempo fosse passato, ma il motivetto si era trasformato in una versione sincopata di YMCA quando il cigolio della porta mi fece voltare di scatto; urtai con il gomito contro una delle candele appoggiate sull’altare. La afferrai appena prima che scivolasse giù dal bordo, ma il portacandele colpì il pavimento con un suono che rimbombò per tutta la chiesa.

— Carter! — Papà mi lanciò uno sguardo severo. — Ti avevo detto che potevi aspettarmi fuori, ci avrei messo un attimo.

Mi sentii arrossire di nuovo e raccolsi il portacandele in tutta fretta. — Ehm, ero curioso di vedere l’interno della chiesa. Ci sono dei bellissimi affreschi, uh, qui intorno.

Agitai la mano destra verso la parete più vicina e abbozzai un’espressione innocente, ma papà sembrava più stanco che irritato. Di fianco a lui una figura incappucciata gli porse la mano e mi fece un cenno, a cui risposi allo stesso modo. Era molto anziano, curvo e appoggiato ad un bastone, ma non assomigliava affatto a quei simpatici vecchietti che ti fanno giocare con il loro cane al parco e ti danno la mancia per il gelato. In effetti, non somigliava nemmeno a un monaco.

Papà gli strinse la mano con un sorrisetto tirato, ma aveva l’aria di voler uscire in tutta fretta.

— È stato un piacere, ci ha fornito davvero tante informazioni utili — disse mentre si congedava. — Contiamo di tornare anche da semplici turisti, una volta o l’altra.

Papà allungò il braccio, mi afferrò la mano sinistra e iniziò a tirarmi verso l’uscita in tutta fretta. Allungai il passo per stargli dietro, ma tenni gli occhi bassi per tutta la camminata fino alla macchina e risposi a monosillabi ai tentativi di fare conversazione mentre tornavamo verso Sohag. Non vedevo l’ora di buttarmi sul letto dell’hotel Osiris, dormire otto ore filate e di dimenticarmi di quello che avevo sentito al Monastero.

E figuriamoci se qualche dio ha mai ascoltato un mio desiderio…

 
***
 

— Carter… Carter!

Alzai il viso dal labrador che stavo accarezzando e mi guardai intorno. L’erba si estendeva a perdita d’occhio, fino alle colline da cui soffiava una brezza lieve e piacevole che mi scompigliava i capelli, e non c’era anima viva che potesse disturbarmi.

— Su, in piedi — La voce era concitata, ma sembrava provenire da un lungo tubo ovattato. — È ora di andare!

Socchiusi gli occhi per cercare di concentrarmi sul venticello che mi solleticava la faccia. Il pelo del labrador scorreva soffice sotto le mie dita e il suo ronfare ritmico mi conciliava il sonno. Calma e pace, calma e pace, calma e–

— Carter! — Mi sentii cadere all’indietro, e il labrador ora aveva il muso di uno sciacallo, le zampe premute sul mio torace e gli occhi gialli e furenti. Aprì le fauci e mi strillò in faccia:

— Svegliati, accidenti!

Spalancai gli occhi nel buio più totale, una mano che mi scrollava una spalla. Una figura alta e squadrata si chinò su di me: papà, con le labbra strette e le sopracciglia aggrottate.

— Che– che c’è? Dove… — Mi sfregai gli occhi con la mano non avviluppata nelle coperte e lanciai uno sguardo alla sveglia sul comodino di fianco a me: i led segnavano le due e cinquantasette del mattino. — Dov’è il mio cane?

Papà scivolò giù dal fianco del letto e fece qualche passo verso la porta. — Vestiti, dobbiamo andare.

Mi passai una mano sulla faccia: avevo la bocca impastata, gli occhi gonfi di sonno e mi sentivo come se mi fosse passato sopra uno schiacciasassi. — Andare? Andare dove?

— Dobbiamo lasciare l’albergo. Prendi zaino e cellulare, ma fai in fretta, dobbiamo essere giù nella hall tra cinque minuti.

Trattenni uno sbadiglio e mi sedetti sul letto; cercai di riordinare i pensieri che mi si stavano accavallando nel cervello. — Ma– ma che succede?

Liberai la gamba sinistra dal groviglio di lenzuola che si era formato durante la notte. — Dove dobbiamo andare? Sono le due di notte e io–

Incontrai lo sguardo di papà e mi bloccai. La sua giacca, di solito impeccabile, era stropicciata e piena di pieghe, aveva la camicia allacciata per metà e gli occhiali infilati di traverso sul naso. Non riuscivo a distinguere bene che espressione avesse nella penombra, ma quando appoggiò una mano sulla maniglia sembrava che tremasse.

Deglutii e mi alzai in piedi tirandomi su per la vita i pantaloni del pigiama. Era già successo che dovessimo lasciare alberghi in tutta fretta ad orari improbabili, ma papà era sempre rimasto tranquillo, come se fosse tutto programmato, una gita di mezzanotte per fare un po’ di moto; in quel momento era teso come una corda di violino, le spalle rigide e il respiro affannato.

Papà sostenne il mio sguardo ancora per un momento e poi aprì la porta, mi fece un cenno col capo e la richiuse dietro di sé. Barcollai verso l’armadio prima di ritrovare l’equilibrio, spalancai le ante e sfilai l’unica giacca che mi ero portato per il viaggio dal suo appendino. Me la buttai sulle spalle e mi chinai per prendere lo zaino abbandonato in un angolo, il borsello che sporgeva da una tasca, e issarmelo sulla schiena.

Non perdere tempo a vestirti, ricordati lo zaino, niente luci, niente rumore: in testa mi martellavano tutte le regole per le emergenze notturne. Afferrai le scarpe da ginnastica (ancora allacciate, maledizione) ai piedi del letto e me le infilai ai piedi; per poco non mi schiantai di faccia sul parquet della stanza, ma dopo trenta secondi buoni di lotta contro le stringhe mi ritrovai in piedi davanti alla porta.

Lanciai un’ultima occhiata al letto sfatto e alla sveglia – due e cinquantanove, dovevo sbrigarmi – e mi passai una mano sul collo, cercando con le dita il metallo della collana. Sfiorai il ciondolo infilato sotto la maglietta del pigiama: era ancora lì, non mi si era sfilato durante la notte.

Porta l’occhio di Horus sempre con te.

Aprii la porta e uscii nel corridoio dell’albergo. Tastai il muro più vicino per cercare un interruttore, ma senza successo (no, no, niente luci), e iniziai a camminare a grandi falcate verso le scale. Con la coda nell’occhio mi sembrò di vedere delle linee strane sulla porta, come a formare un simbolo familiare, ma quando mi voltai per controllare erano già state inghiottite dal buio.

Feci gli ultimi metri praticamente correndo e mi slanciai giù per le scale a tutta velocità. Per poco non rotolai giù dalla prima rampa, ma ero troppo concentrato sul rumore che faceva il mio cuore sbattendo contro la cassa toracica per preoccuparmi di dove stavo andando. Tum-tum-tum, tum-tum-tum.

L’ultima serie di scale dava sulla hall ben illuminata. Papà era già lì, ventiquattrore in mano, la borsa a tracolla e il cappello ben calato sulla fronte: sotto le luci al neon della sala aveva un aspetto persino peggiore di quando mi aveva svegliato, con un paio di occhiaie nere che gli appesantivano gli occhi e rughe di preoccupazione sulla fronte.

Non appena mi vide mi fece cenno di sbrigarmi. — Hai la collana con te?

La presi tra pollice e indice e la inclinai per mostrargliela alla luce. Papà fece un “hmm” di approvazione e si diresse verso le porte scorrevoli. L’unica altra persona nella hall era il portiere mezzo assopito vicino al registro dell’albergo, che non ci salutò nemmeno quando le porte si richiusero dietro di noi.

Una goccia d’acqua mi colpì la punta del naso. Alzai lo sguardo e vidi un’enorme nuvola nera giganteggiare proprio sopra di noi, carica di pioggia. Un temporale-lampo, in questo periodo dell’anno? Quando un’altra goccia mi centrò in pieno il sopracciglio sinistro mi decisi a correre verso papà, che stava gesticolando chinato sul finestrino di un taxi.

— … plutôt urgent… deux passagers… — La voce di papà venne affogata dal rumore della pioggia sempre più insistente. Infilai le braccia nelle maniche della giacca, sentendomi sempre più ridicolo nel mio pigiama a pois in mezzo alla strada – per non parlare del fatto che mi stavo iniziando a bagnare sul serio. Non vedevo nemmeno un passante per strada, ma avevo comunque la sensazione di essere osservato.

— Salta dentro, ci può dare un passaggio — urlò papà per sovrastare il rumore del temporale, un piede già all’interno del taxi. — Pochi minuti e saremo a destinazione!

Corsi fino all’auto, le mani sopra la testa per evitare che i capelli si inzuppassero completamente, e mi lasciai cadere sul sedile posteriore con un sospiro. Avevo una spalla dolorante a causa del letto duro dell’hotel, le scarpe piene d’acqua e cinque ore di sonno in totale negli ultimi due giorni, ma nessuna voglia di dormire.

Il tassista imboccò la strada principale, ma quando papà gli toccò la spalla sterzò di colpo in una via secondaria. Papà appoggiò la schiena al sedile e tamburellò le dita sul finestrino rigato dalle gocce di pioggia; si morse il labbro e si passò una mano sul volto con un sospiro.

— Papà — Tenni la testa bassa per non incrociare il suo sguardo, ma il mio tono lamentoso doveva essere arrivato chiaramente alle sue orecchie. — Dove stiamo andando?

Sentii una mano che mi si appoggiava sulla spalla, solida e rassicurante. Ma quando alzai gli occhi papà aveva ancora uno sguardo assente e le rughe sulla fronte erano più profonde che mai. — Mi dispiace, Carter… È un’altra di quelle volte. Dobbiamo solo attraversare il fiume e poi potremo trovare un altro albergo per passare la notte.

Mi rannicchiai sul sedile, appoggiando le suole sporche sulla tappezzeria, ma papà non disse nulla; appoggiò una mano sulla borsa che portava a tracolla, come a tastarne il contenuto, e mi passò l’altra tra i capelli umidi. Tirai su col naso – altra cosa vietata – e fissai fuori dal finestrino. Le gocce sparse si erano trasformate in una pioggia insistente che rendeva difficile vedere la strada, e qualche tuono in lontananza sembrava presagire un temporale coi fiocchi.

Era già la seconda volta negli ultimi tre mesi che lasciavamo un albergo nel cuore della notte, e nemmeno quella volta papà aveva voluto dare spiegazioni. Si era limitato a dire che non era una “bella zona” e che c’erano stati dei “problemi con i locali”, ma erano scuse talmente stupide che nemmeno lui si aspettava che ci credessi.

Sapevo che dovevo fidarmi di lui, e sapevo che lo stava facendo per il mio bene, ma non sapere nemmeno se eravamo davvero in pericolo mi terrorizzava molto di più che scoprire da che cosa stessimo scappando davvero. Avevo una lista infinita di regole e un mucchio di libri su Ra, Horus e Iside, ma nemmeno un ricordo di un pomeriggio al cinema o di un viaggio in cui non ci fossimo infilati in una tomba o che non si fosse concluso con una rapida ritirata su un aereo. Ero stanco di fuggire.

Uno stridio di gomme sull’asfalto mi fece voltare di scatto. Dal finestrino posteriore c’era troppo buio per distinguere alcunché, ma in lontananza mi sembrò di scorgere un luccichio, come luce riflessa su un parabrezza.

Strinsi gli occhi e mi attaccai al finestrino laterale per vedere meglio. Passammo di fianco ad un lampione, e non appena ci allontanammo dalla luce per un momento illuminò un’automobile color pece, con i fari spenti e il parabrezza oscurato. Ci stavano seguendo.

Mi voltai verso papà, che sembrava immerso in una trance, una mano sul viso e l’altra premuta contro la sua borsa mentre borbottava qualcosa. Non dava segno di essersi accorto di nulla, così come il nostro autista, che aveva iniziato a fischiettare un motivetto allegro.

Gli tirai la manica della giacca, ma non ottenni nessuna reazione. — Papà!

Papà sbatté le palpebre un paio di volte e mugugnò qualcosa di incomprensibile. Si girò verso di me con aria interrogativa mentre si risistemava gli occhiali sul naso.

— Ci stanno seguendo — sussurrai con una mano davanti alla bocca.

Papà lanciò un’occhiata alla strada buia dal suo finestrino. — Non preoccuparti. Siamo al sicuro qui.

Aprii la bocca per ribattere, ma poi mi sporsi verso il retro della macchina: dell’automobile nera non vedevo più nemmeno il riflesso del parabrezza. La strada dietro di noi sembrava essere precipitata nell’oscurità più totale, e dei pochi lampioni che avevamo passato non c’era più traccia. Mi girai nella direzione in cui stavamo procedendo, ma non sembrava esserci nulla di diverso: i lampioni davanti a noi, anche se radi, illuminavano la strada quanto bastava per permettere al tassista di non farci schiantare contro qualcosa.

Mi accoccolai di nuovo sul sedile, lanciando ogni tanto qualche rapido sguardo all’indietro, ma era come se la strada dietro di noi sparisse man mano che la percorrevamo. Rabbrividii e mi strinsi le ginocchia al petto: nonostante mi fossi quasi del tutto asciugato, avevo un freddo terribile che sentivo penetrare fin nelle ossa.

Non ero sicuro di quanto tempo fossimo rimasti nel taxi, ma ad un certo punto l’autista frenò di colpo. — Et voilà, nous sommes à la rivière.

Merci beaucoup, je suis très obligé — Papà sfilò dal portafoglio una manciata di banconote e gliele porse. — Scendiamo qua.

Scesi dal taxi e mi tirai la giacca fin sopra la testa. Pioveva a dirotto e le mie scarpe da ginnastica avevano già ricominciato ad inondarsi, per non parlare dei poveri pantaloni del pigiama. Con la coda dell’occhio notai papà trafficare con qualcosa che non riuscii a vedere, e quando feci il giro dell’auto per raggiungerlo mi porse un ombrello (quando l’aveva preso? Non mi ricordavo proprio).

Iniziammo ad avanzare a passo spedito verso il Nilo. La superficie dell’acqua era agitata e aveva iniziato a soffiare un vento deciso, che mi ingarbugliava i capelli e mi spruzzava gocce di pioggia dritte in faccia, ma non potevo fermarmi per sistemarmi: papà era così veloce che a tratti correva e anche mano nella mano faticavo a stargli dietro.

Ci fermammo appena sotto ad una tettoia di tela e papà mi fece cenno di rimanere lì prima di allontanarsi di qualche metro e bussare ad una delle porte delle case vicine. Uno spioncino si aprì proprio nel mezzo e sentii un suono di riconoscimento prima che il chiavistello iniziasse a girare. La porta cigolò e si aprì una fessura da cui spuntò fuori una faccia barbuta. — Julius Kane, eh?

Papà si premette un dito sulle labbra e si chinò verso di lui. Parlavano in inglese, ma tra la pioggia e il vento sempre più forte riuscivo a malapena a vederli, figuriamoci capire che cosa stessero dicendo. La faccia barbuta sembrava sempre più esasperata, ma papà non mollava, anche se la sua solita espressione imperturbabile era indurita in una maschera di preoccupazione.

— Pensi che ti lasceranno andare così… quello che hai acquistato… una mossa sconsiderata… — Aguzzai le orecchie per sentire qualcosa di più, ma la pioggia prese a scrosciare ancora più forte, come se l’avesse presa sul personale, e non capii più nulla.

— Fa’ come ti pare, ma non sono responsabile di quello che ti succede — tuonò alla fine Barba Ispida sopra il vento ululante. — Prenditi la barca, ma sbrigati, ti sono alle calcagna.
Un tintinnio di chiavi risuonò per un attimo per la via deserta, e poi la porta sbatté con violenza. Papà si infilò le chiavi in tasca e tornò verso di me.

Non riuscii a trattenermi. — Chi era quello?

— Solo un collega che può darci una mano — Papà sorrise e mi diede la mano. — Devo averlo svegliato in una giornata no… Forza, siamo quasi arrivati.

Facemmo pochi metri girando attorno alla casa e ci ritrovammo sulla riva del fiume – le mie scarpe ormai imbarcavano acqua peggio del Titanic e il pigiama era uno straccetto bagnato che mi si arrotolava attorno alle gambe, ma mi sforzai di stare dietro a papà. C’erano un mucchio di barche ormeggiate sulla riva, ma papà si diresse a colpo sicuro verso una in particolare; non appena capii di quale si trattasse spalancai gli occhi.

Era una barca nel senso di “lunga struttura che si guida con dei remi”, d’accordo – ma non assomigliava a nessun’altra imbarcazione lì intorno. Sembrava proprio una di quelle barche egizie che avevo visto tante volte sui libri di papà, ma era decisamente più piccola e costruita con altri materiali, e quando mi avvicinai di più per stare dietro a papà notai che era ricoperta su tutta la superficie da simboli dorati che brillavano sulla superficie. Geroglifici: ne riconobbi alcuni, ma la maggior parte mi erano sconosciuti.

— Noi egittologi siamo un po’ matti, vero? — ridacchiò papà mentre apriva il lucchetto della catena arrotolata attorno alla prua della barca. — Decorare un’intera barca con dei geroglifici non l’avrei fatto nemmeno io.

Diede una pacca sul lato destro dell’imbarcazione. — Tutti a bordo!

Lo fissai dritto negli occhi. Il cappello gli penzolava floscio sulle orecchie, gli occhiali appannati gli cascavano giù per il naso e la bocca era incurvata in un sorriso stentato.

— Papà, dove stiamo andando? — Feci un respiro profondo e tirai di nuovo su col naso. — Pensavo che stessimo andando in albergo… Perché dobbiamo salire su una barca? Che cosa succede?

Papà si passò una mano sulla fronte e abbassò la testa. — Carter, lo so che è una situazione… Difficile. Non possiamo più andare in un altro albergo, ma ti prometto che una volta saliti andrà tutto bene. Dobbiamo solo seguire la corrente per un po’ e poi andrà tutto bene.

— Ma… Ma perché? — Strinsi i pugni e abbassai il capo. — Perché non vuoi dirmi che cosa succede?

Avrei voluto urlare, pestare i piedi e sedermi in mezzo alla pioggia ad aspettare delle risposte. Avrei voluto rifiutarmi di fare un passo in più finché qualcuno non mi avesse detto che cosa ci facevamo alle tre del mattino sulla riva del Nilo a cercare una barca che nessuno dei due avrebbe saputo governare. Ma poi alzai la testa e vidi la disperazione negli occhi di papà.

Non era irritazione, non era stanchezza, non era preoccupazione: papà era terrorizzato. Dovevamo salire su quella dannata barca e dovevamo farlo ora, o sarebbe successo qualcosa di terribile.

Corsi verso l’imbarcazione e ci saltai dentro con tutta la forza che mi rimaneva. Mi rannicchiai con le ginocchia vicine al mento, la superficie ruvida del legno che mi sfregava la mano aggrappata al lato sinistro dell’imbarcazione, mentre papà la spingeva verso l’acqua. La barca scivolò nel Nilo come se fosse imbevuta di olio e papà ci si buttò dentro appena prima che si staccasse completamente dalla riva.

Mi sentii sballottare a destra e a sinistra, ma l’imbarcazione non sembrava intenzionata a ribaltarsi. Starnutii e strinsi più forte il manico dell’ombrello, che stava diventando ogni secondo più inutile: il vento era talmente forte che le gocce mi arrivavano dritte in faccia in ogni caso. Papà aveva la schiena rivolta verso di me, le spalle chinate e una mano premuta contro l’interno della barca.

Un lampo squarciò il cielo, seguito pochi secondi dopo da un tuono che mi fece portare le mani alle orecchie. Strinsi gli occhi e cercai di fermare i denti che battevano per il freddo senza successo: ero inzuppato da capo a piedi, un gelo che mi avvolgeva come una coperta ghiacciata. Avrei voluto accoccolarmi all’interno della barca e chiudere gli occhi, ma…

Una luce si fece strada all’interno della coltre di pioggia; era flebile e si vedeva appena, ma ad ogni secondo appariva più brillante. Andavamo sempre più veloci, ma la luce non accennava ad allontanarsi: anzi, sembrava avvicinarsi sempre di più. Appena dietro di lei si delineavano i contorni di un’imbarcazione, più grossa della nostra e probabilmente molto più veloce.

Papà alzò la testa di scatto e capii che anche lui l’aveva vista. Strinse con la mano libera la sua borsa degli attrezzi e girò la testa verso di me. — Non preoccuparti. Tra poco saremo al sicuro.

Al sicuro… Anche intontito dal freddo e dalla pioggia battente ero abbastanza sicuro che essere sul Nilo durante una tempesta inseguiti da una barca non fosse definibile da nessuno una situazione “sicura”, ma come cercai di urlarglielo sopra il vento mi sentii stranamente calmo.

La pioggia si riversava ancora nel fiume come prima, il vento ululava con altrettanta forza, ma tutto sembrava più ovattato, come se stessi vedendo il mondo attraverso un pannello di plexiglass. Aprii la bocca per borbottare qualcosa e faticai a schiudere le labbra: muovere i muscoli sembrava un’impresa titanica, anche solo ricordarmi come avevo fatto a saltare fin sulla barca sembrava assurdo. Era molto meglio chiudere gli occhi, sì, abbassare le palpebre e farsi un bel sonnellino.

Oh, dio, sto andando in ipotermia, ipotizzò la parte meno addormentata del mio cervello. Ma era assurdo, eravamo in Egitto, mica in Antartide: anche nel bel mezzo di un temporale non poteva fare così freddo.

Sentivo un canto ritmico provenire da lontano, una litania che mi conciliava il sonno. Lottai per tenere gli occhi aperti: davanti a me baluginava confusamente la luce di prima, sempre più grossa e brillante, appoggiata sulla prua di una barca. Ma i contorni delle cose sfumavano sempre di più, l’acqua del fiume si rimescolava con il cielo buio sopra di noi e la melodia era sempre più forte, come se qualcuno me la stesse sussurrando all’orecchio.

La sagoma di papà era proprio al centro del mio campo visivo: mi sforzai di allungare la mano destra verso di lui, ma i miei muscoli non rispondevano più ai comandi e il mio braccio ricadde inerte lungo il fianco. Sbattei le palpebre e sbadigliai – faceva sempre più caldo, il gelo dei vestiti bagnati appiccicati al corpo un lontano ricordo, poi sentii una mano che mi si posava sulla testa; distinsi il viso di papà vicino al mio, le labbra dischiuse per formare delle parole che sentii a malapena:

— Dormi, Carter — Sbadigliai ancora e premetti la testa sulle ginocchia. — Stiamo per arrivare…

La spalla sbatté sul lato della barca, catapultandomi a gambe all’aria. La musica che avevo nelle orecchie cessò di botto, e mi sentii ricadere addosso tutto il freddo e l’umidità dell’acqua che avevo preso fino a quel momento. Spalancai gli occhi e mi tirai su con entrambe le braccia, l’ombrello sparito chissà dove.

Papà era riverso davanti a me, una mano ancora appoggiata sulla sua borsa e la faccia premuta contro il fondo dell’imbarcazione. Davanti a me si stagliava un motoscafo, inclinato di traverso a toccare la prua della nostra barca, con un uomo sporto ad afferrarla, un piede già premuto contro un lato ricoperto di geroglifici. Mi fece un ghigno da squalo, e anche alla luce del faro i denti brillarono di un bagliore dorato: era Occhiali da Sole.

— Dammi la tavoletta, ragazzino — Occhiali da Sole si allungò ancora verso di me, una mano premuta contro il bordo a tirare indietro la barca con tutte le sue forze. — Dammi la tavola o qualcuno si farà molto male!

Alzò la mano ancora libera e vidi che impugnava un lungo bastone. Goccioline di sudore gli rigavano la fronte, ma non sembrava intenzionato a mollare la presa. Un angolino del mio cervello cercava insistentemente di ricordarmi che non sentivo più né la pioggia né il vento nonostante stesse diluviando a dirotto, ma i miei occhi erano fissi sul bastone che svettava minaccioso sopra la sua testa.

— Io– io non so di che cosa stai parlando — strillai, cercando di non far cadere il mio sguardo sulla borsa. — Lasciaci andare!

Ero sicuro che la tavola che cercava Occhiali da Sole fosse nella borsa di papà. L’aveva tenuta stretta tutto il viaggio, senza smettere di guardarla un secondo, e sapevo che era l’artefatto per cui aveva contrattato al Monastero; non potevo darglielo, non dopo tutto quello che papà aveva passato per farci scappare!

— Stupido… bambino… — Occhiali da Sole aveva il respiro sempre più affannato, i denti digrignati in una smorfia luccicante, ma si chinò su papà. — Dammela immediatamente e forse vi lascerò andare. Non vedi che non hai scelta?

Abbassai la testa verso papà, ma la sua sagoma rimase inerte sul fondo della barca. Ero da solo, in balia di un gangster psicopatico che sembrava intenzionato a buttarmi fuoribordo nel bel mezzo di una tempesta – a meno che non gli cedessi ciò per cui eravamo venuti qui. Avevo una sola opzione, e non mi piaceva nemmeno un po’.

— Conterò fino a tre, e poi tuo padre si ritroverà in una situazione alquanto sgradevole, capito?

Nemmeno…

— Due…

… un…

— Uno–

… pochino.

Alzai le braccia in segno di resa e feci un passo verso Occhiali da Sole. — D–devo aprire la borsa se vuoi riavere la tavola. Ma devi promettermi che– che ci lascerai andare, capito?

Non fu affatto difficile simulare il tremito nella mia voce mentre mi chinai verso papà. Spostai la mano ancora avvinghiata alla borsa, svolsi i lacci che la tenevano chiusa e… aprii la borsa. [Chiudi la bocca, Sadie, o entreranno le mosche. Okay, ho aperto una volta nella vita la borsa di papà, non c’è bisogno di sorprendersi tanto.]

Come infilai la mano all’interno sentii una superficie dura e liscia al tatto. Spalancai la borsa e afferrai una tavoletta, poco più grande del palmo della mia mano, ricoperta di geroglifici e disegni che brillavano di un bagliore rossastro. Al tatto era bollente, come se fosse stata immersa in un calderone fumante, e come la toccai sentii un tuono rimbombarmi dritto nelle orecchie; mi affrettai a richiudere la borsa e a rialzarmi in piedi.

— Sì, bravissimo — Occhiali da Sole allungò una mano ingioiellata verso di me. — Riporta Ba’aal ai suoi veri padroni!

Deglutii e feci un altro passo verso di lui. Gli occhi gli brillavano con un luccichio febbrile, le narici dilatate come ad annusare il profumo della sua preda: se gli avessi consegnato la tavola non avrei avuto alcuna possibilità di uscirne vivo. Appena dietro di lui, sul motoscafo, intravidi una sagoma curva ad osservare lo scambio.

Allungai il braccio, appena al di fuori della portata di Occhiali da Sole, che si piegò ancora in avanti per afferrare la tavola. Feci un respiro profondo, contai fino a tre, e poi gli lanciai la tavoletta dritta in faccia.

Sentii il crack degli occhiali che si spaccavano appena prima di vedere Occhiali da Sole lasciare la presa sulla barca e cadere dritto in acqua con un urlo feroce assieme alla tavola.

A quel punto successero un mucchio di cose tutte assieme. Primo, la strana figura sul motoscafo alzò le braccia e gridò qualcosa in una lingua incomprensibile. Secondo, vidi il braccio di papà muoversi appena, e improvvisamente mi sentii di nuovo accaldato. Terzo, la cantilena che mi aveva accompagnato fino a poco fa riprese ad invadermi le orecchie, sempre più forte e sempre più rapida.

Ah, e quarto: il paesaggio attorno a me assunse la consistenza di una Jell-O.

Socchiusi gli occhi e cercai di mettere a fuoco qualcosa, ma caddi in ginocchio, tutti i muscoli che si rifiutavano di obbedirmi. Il buio della notte era sempre meno reale, sostituito da una patina dorata e da un vento caldo che mi soffiava in faccia – in mezzo a quella foschia mi sembrò di distinguere una lunga strada fiancheggiata da palazzi, un edificio largo e squadrato con un simbolo rosso sulla porta, ma in quel momento il mio cervello decise che era il momento di chiudere i battenti, e persi i sensi.

 
***

 
Sbattei le palpebre e misi a fuoco un paio di occhiali rosa shocking. Gli occhioni neri dietro le lenti si spalancarono. — Signor Kane, si è svegliato!

Una testa scura entrò nel mio campo visivo. Sentivo la testa ronzare come se avessi un alveare pieno d’api annidato nel cranio e avevo gli occhi impastati, ma mi sforzai di tirarmi su e appoggiai la schiena contro il muro dietro di me.

Strizzai gli occhi mentre qualcuno mi passava una mano tra i capelli. Ero in un letto bianco, circondato da pareti di un verde pallido e un cavo che mi penzolava dal braccio – come lo seguii con lo sguardo mi resi conto che era attaccato ad una flebo. Mi trovavo in una stanza d’ospedale.

Papà era seduto su una sedia al mio fianco, la faccia tirata per la preoccupazione. Le occhiaie gli segnavano ancora lo sguardo, ma la stretta sulla mia spalla era forte e sicura.

— Finalmente sei sveglio.

— Che– cosa… Che cosa succede? — Il déjà-vu di papà chino su di me mi fece balzare alla mente l’ultima cosa che ricordavo. — Che fine ha fatto Occhiali da Sole?

— Gli occhiali da sole? Poverino, deve aver passato un febbrone da cavallo — commentò con un lieve accento la signora con gli occhiali rosa accanto a papà; indossava un camice e un cartellino con su scritto un nome che non riuscii a leggere. — Avete avuto davvero sfortuna a beccare un acquazzone in questa stagione… Nel bel mezzo di una battuta di pesca, per di più!

Aggrottò la fronte. — Dove ha detto che eravate, signor Kane?

— Credo che Carter abbia bisogno di riposare, adesso — Papà sfoderò un sorriso affascinante e strinse la presa sulla mia spalla. — Ha ancora qualche linea di febbre e penso che sarebbe meglio che dormisse ancora un po’.

— Certo, naturalmente. Più tardi vi manderò qualcuno per confermare le dimissioni, se il ragazzo rimane stabile.

L’infermiera si affrettò ad uscire dalla stanza, l’espressione curiosamente vacua e inebetita, come se non si ricordasse più perché era entrata.

Papà incrociò il mio sguardo interrogativo. — Siamo in ospedale al Cairo: hai avuto una febbre tremenda. Non mi sorprende, vista l’acqua che hai preso!

Ricordavo tutto: la fuga in taxi, noi due sulla barca, Occhiali da Sole che cadeva fuoribordo… — Ma eravamo sul Nilo! Ho sentito della musica, c’era della nebbia dorata e poi — Già, e poi? Aggrottai le sopracciglia e mi fermai.

Papà mi guardò con aria preoccupata. — Eravamo nel bel mezzo della tempesta quando hai perso i sensi – ho tirato la barca a riva e ho fatto l’autostop fino a qua. Hai avuto la febbre alta per ore, non facevi che rigirarti nel letto e borbottare… Non mi sorprende che tu sia un po’ confuso.

Mi guardò dritto negli occhi e abbassò la voce. — Dopo che hai buttato Rafi nel fiume la corrente ci ha trascinati via per un bel pezzo.

Aveva la voce tesa, come se avesse voluto dirmi qualcosa di più, ma in quel momento mi ricordai della cosa più importante. — La tavola! Dov’è la tavola?

— A quest’ora? Probabilmente sul fondo del Nilo — Papà aveva il viso chinato e una mano sulla fronte. — È caduta nel fiume assieme a Rafi.

Tutta l’aria che avevo nei polmoni uscì come se qualcuno mi avesse tirato un pugno. Avevo origliato le conversazioni di papà, guardato dentro la sua borsa e perso la cosa per cui avevamo rischiato di morire – avevo ignorato tutte le sue regole e non era servito a nulla. Mi si inondarono gli occhi di lacrime. — Papà, mi disp–

— Carter — Alzai la testa verso papà. Aveva gli occhi lucidi e il labbro tremante. — Mi dispiace così tanto.

Una lacrima gli scivolò giù per la guancia. — Ti ho costretto a correre per Sohag con dei predoni alle calcagna, ti ho scaricato su una barca nel bel mezzo di una tempesta, tutto per uno stupido pezzo di argilla… Sono davvero un idiota.

Sentii le sue braccia che mi stringevano in un abbraccio e posai la testa sulla sua spalla. — Non sei arrabbiato?

— Arrabbiato? — Papà azzardò una risata. — Tu dovresti essere arrabbiato! Sono io che ti ho trascinato in una corsa disperata senza dirti nulla per una notte intera. Mi dispiace che tu abbia dovuto vedere la gente con cui sono costretto a trattare per avere dei reperti.

Papà scivolò via dall’abbraccio che era diventato più umido del previsto [Sì, sono anche un piagnone, come se non lo sapessi già.] quel tanto che bastava a fissarmi negli occhi.

— Mi dispiace di averti trascinato in questa storia. Ti prometto che non dovrai mai più fare una cosa del genere. Non finché ci sarò io.

Papà si raddrizzò e mi diede una pacca sulla spalla. — Carter, sei stato così coraggioso… Non posso credere che tu abbia davvero tirato la tavola di Ba’aal, signore delle tempeste, in faccia a quel criminale.

Ero sicuro che la mia faccia avesse il colore di un lampone bello maturo, perché mi sentivo le guance in fiamme (e no, non era per la febbre). Azzardai un sorriso e cercai di raddrizzare la schiena, ma ricaddi sul cuscino con uno sbuffo: avevo le giunture pesanti come il piombo e i muscoli doloranti.

— Non azzardarti a fare un altro passo fuori dal letto, capito? — Papà mosse l’indice con aria minacciosa e si alzò in piedi. — Passerai tutto il giorno qui a letto finché non starai meglio.

Sfilò dalla tasca il suo portafogli in pelle. — E credo proprio che tu ti sia guadagnato una scorta del tuo gelato preferito per un mese intero, che ne dici?

Mi accoccolai sotto le coperte mentre sentii la porta della stanza sbattere e chiusi gli occhi. Sapevo che non sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo trovati in situazioni pericolose, e sapevo che papà non mi avrebbe mai detto perché gli interessava quella tavola. E sì, sapevo anche che non mi sarebbe andato bene vivere così per sempre, tra un viaggio in aereo e un taxi all’una di notte per fuggire da chissà cosa.

Ma in quel momento volevo solo godermi un meritato sonnellino, un chilo di gelato al pistacchio e la sicurezza di aver fatto la cosa giusta.



 
NOTA IMPORTANTE: per cause di forza maggiore che non è il caso di rivelare, la trascrizione delle registrazioni è momentaneamente in pausa. Spero che queste due storie possano essere sufficienti affinché i maghi che si ritrovano a leggere colgano l'imbeccata, ma confido che prima o poi tutte e quattro saranno riscritte come quelle già leggibili.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4071172