Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Personaggi: Derek Hale, Stiles
Stilinski, Un po’ tutti
Pairing: DerekxStiles [Sterek]
Rating: Giallo
Genere: Angst, Sentimentale, Soprannaturale
Avviso: AU, Slash, Slow Burn
1° Capitolo
L’aria era fresca e sopportabile, gli
riempiva i polmoni come se volesse comunicargli che quello era realmente un
nuovo inizio. Che poteva finalmente provare a respirare senza trattenere il
fiato, lasciarsi gli incubi alle spalle e ricominciare qualcosa che gli aprisse
le porte per il futuro.
Il Michigan State University brillava al
sole che si estendeva sui suoi ettari ed ettari di terreno, il verde rigoglioso
era visibile ovunque posasse gli occhi, centinaia di alberi all’orizzonte,
studenti di tutte le età che lasciavano le loro orme sui sentieri d’asfalto di
cui era disseminato l’intero campus; chi correndo impacciato, disorientato e
con le valigie al seguito, mentre altri apparivano già di casa, sapendo
esattamente come muoversi.
Arrivò
all’accettazione con un sorriso enorme sul volto, l’entusiasmo e l’adrenalina
che sgorgavano a fiumi, propenso ad assorbire ogni informazione che gli
avrebbero fornito; i dépliant in mano insieme alla mappa, un cerchio rosso che
gli indicasse l’ubicazione del suo dormitorio e l’edificio del dipartimento da
lui scelto diversi anni antecedenti, il College of Social Science, con
l’intento di specializzarsi in criminologia.
Rimase
incantato dallo stile gotico quando arrivò davanti al Mayo
Hall,
i compagni di dormitorio che si affollavano per inoltrarsi all’entrata per
raggiungere le loro rispettive camere.
Quando
entrò dentro la stanza che probabilmente, e speranzosamente, l’avrebbe accolto
per i futuri quattro anni, incontrò un letto a castello libero, un divanetto
situato al di sotto e un letto singolo classico collocato sulla parete di
fronte. Purtroppo appariva già occupato.
Le
mani di Stiles tremarono, i polmoni si chiusero e il panico minacciò di
sgorgare, senza dargli minimamente il tempo di reagire e trovare una soluzione
alternativa. «Scusa… posso prenderlo io?» provò a chiedere al suo coinquilino
sconosciuto con la trachea asciutta, l’affanno che tentava di controllare, il
terrore che si impadroniva di lui. «Ho difficoltà a prendere sonno, devo sapere
di avere i piedi per terra».
Il
suo nuovo compagno di stanza fu richiamato all’attenzione, distogliendola dai
bagagli che si stava sbrigando a disfare. Lo guardò con i suoi occhi scuri,
l’impassibilità nei tratti asiatici, lo sguardo che cadeva sulle dita
affusolate del suo interlocutore che ancora erano attraversate da spasmi
agitati. «Nessun problema».
Quando
il figlio dello sceriffo vide gli oggetti del neo coinquilino spostarsi per
dirigersi al divanetto verde bosco, il sospiro di sollievo lo colse
nell’immediato e la tranquillità si espanse lentamente per tutto l’organismo.
«Grazie» disse sentitamente, la nuova tracolla in tela rossa e dai dettagli
bianchi, che il padre gli aveva regalato quando la lettera di accettazione era
arrivata, che adagiava sopra il materasso, piantando la valigia nel metro
quadro in cui si trovava. «Mi chiamo Stiles» si presentò subito dopo,
rendendosi conto di non aver iniziato proprio nel migliore dei modi.
«Jiang»
si limitò a mormorare l’altro, concludendo la conversazione e dedicandosi alle
faccende domestiche.
Stiles
si chiese se la sua assente buona stella gli avesse fatto incontrare un altro
silenzioso e burbero ragazzo.
Non
resistette e si avviò a girare ed ispezionare tutto quello che poteva nel breve
tempo che quella giornata gli concedeva. Stette mezzora davanti il grande
portone del College of Social Science,
chiedendosi se potesse già entrare, anche se le sue leziosi sarebbero iniziate
soltanto il giorno dopo, alle dieci del mattino.
Nella sua
indecisione, si studiò la mappa in cui erano segnati tutti i padiglioni che
contenevano ogni dipartimento e corso di studio che il Michigan State
University offriva, ammirando ancora una volta l’enorme varietà che
conteneva dentro di sé.
Prese a
camminare alla cieca, le pupille che leggevano il nome delle strade, i vari
chioschi e negozi di cui era pregno il campus, la mappa che metteva in
controluce strizzando gli occhi e tentando di carpire i suoi segreti con più
facilità. Un nuovo edificio gli si presentò davanti, gli studenti che entravano
ed uscivano, il nome di autori famosi che vibravano l’aria. Dalla vista
periferica adocchiò un College of Arts & Letters e lo sovrastò con la stilizzazione che trovò
sul dépliant.
Era tra i
padiglioni più vicini al suo, senza alcun collegamento a lui se non le virate
casuali agli incroci per cui aveva optato. Non gli catturava alcun interesse
tuttavia era lì davanti immobile, chiedendosi se all’interno potesse esserci
qualcuno che un giorno sarebbe entrato tra le sue conoscenze. Pensiero che
formulava su qualsiasi edificio su cui posasse lo sguardo.
Eppure, se
esisteva un luogo papabile che lui avrebbe potuto frequentare,
rientrando tra le sue preferenze, era proprio uno come quello.
Nell’immobilità
delle sue speculazioni senza fondamento si chiese se non fosse giunto il
momento di fare una capatina al punto Starbucks che distava diversi metri da lì
e rischiarirsi la mente.
Non arrivò
mai allo Starbucks da lui selezionato, ma la sua attenzione fu
catturata dal suo viaggio senza meta e senza consultare la mappa, che lo
condusse a una caffetteria dal nome esilarante: Crescent Moon.
Luna
crescente, la sua vita non smetteva di essere ironicamente
malevola.
Vi
entrò comunque, forse perché era più sadico di quel che credesse o forse perché
sperava in qualche sorta di esorcizzazione.
Era
riservato e curato, il simbolo dello spicchio di luna in un lilla pastello che
sferzava in angoli strategici, l’accoglienza calorosa del personale che lo
fecero accomodare ad uno dei tavolini colorati, portandogli il suo bicchierone
di caffè, addolcito dallo sciroppo ai frutti rossi. Si domandò se fosse molto
frequentato dal campus o se fosse un posticcino tranquillo per pochi eletti.
Stranamente, lo trovò un luogo confortante in cui tornare.
«Mangiamo
qualcosa insieme?» ma la giornata continuava ad avanzare e l’ora della cena,
insieme al suo stomaco brontolante, si affacciò e quando tornò in camera per
indossare qualcosa di più pesante, si lanciò in una proposta vagamente
invitante al suo coinquilino.
Jiang
lo guardò notevolmente colpito e sorpreso, il computer portatile ancora
accesso, seduto su quel divanetto verde di cui si era appropriato. «Mi
dispiace, ho già preso un impegno».
«Oh,
okay, mi sembra giusto» Jiang non gli chiese se volesse aggiungersi al suo
impegno precedentemente preso, supponendo fosse una cosa veritiera, e Stiles
non era mai stato troppo bravo a farsi degli amici. Perlopiù dei nemici.
L’unico
amico che avesse avuto fino ai suoi sedici anni era stato Scott e prima di lui
era sempre stato solo. Poi qualcosa era cambiato, Scott si era innamorato di
una bella brunetta appena trasferita nella loro città natale, Beacon Hills, e
le cose si erano fatte più complicate, complesse. Il loro duo si trasformò in
un trio e quello a sua volta si allargò, finché tutto non sembrò prendere le
sembianze di un branco.
Ma
il branco arrancò quando Allison Argent, il grande amore del suo migliore
amico, morì e le ferite non si erano ancora rimarginate. Soprattutto quelle di
Stiles.
«Possiamo
fare domani» gli propose Jiang, forse cogliendo la sua malinconia.
«Va
bene» ma Stiles era fuori nella notte da solo, le temperature che si
abbassavano notevolmente, totalmente diverse da quelle calorose della sua
California.
Ritornò
al Crescent
Moon. Gli
serviva un posto con cui avesse un minimo di familiarità, qualcosa che non lo
sballottasse troppo, incidendo sui suoi nervi.
Sperò che
quella notte non gli giocasse degli scherzetti.
Quando il
sole sorse e la sveglia sul cellulare prese a squillare, Stiles sbadigliò,
nascondendosi sul cuscino ed assottigliando gli occhi, ancora frastornato e
incerto su dove si trovasse. Impiegò qualche minuto a carburare e riconoscere
le tre finestre lunghe e strette che permettevano alla luce di entrare nella
camera senza alcun problema.
Istintivamente
si toccò le gambe, controllò in che posizione fossero le scarpe e buttò
un’occhiata al suo nuovo compagno di divisione di spazi, trovandolo tranquillo
e non per nulla indispettito da suoi improbabili comportamenti.
Il battito
del cuore accelerò e poi rallentò lentamente; non era successo niente, era
tutto al suo posto. Lo era anche lui. L’ansia preoccupata allentò la presa e
Stiles poteva iniziare ad affrontare la giornata che si prospettava piena di
esperienze mai sperimentate.
L’ora
successiva, dopo aver fatto colazione alla caffetteria più vicina al suo
dormitorio, il figlio dello sceriffo poté finalmente oltrepassare la soglia del
suo dipartimento e si immerse totalmente nell’immagazzinare tutto quello che
avrebbe appreso nelle lezioni che lo attendevano.
All’uscita, la
sua intenzione era quella di raggiungere nuovamente il Crescent Moon,
semplicemente perché non era in possesso della pazienza di sperimentare troppo
in una volta sola ed aveva continuamente bisogno di avere a che fare con
qualcosa che conosceva, anche se frammentariamente. Era consapevole di che cosa
lo attendesse nel tragitto che aveva imparato, il ritrovarsi ancora una volta
davanti al padiglione di letteratura. Continuava a non capire che cosa lo
conducesse da quelle parti, che cosa si aspettasse di vedere. Un volto amico?
Una vaga conoscenza? Stiles non conosceva nessuno in quei dintorni, una singola
persona in tutto il campus. Tuttavia il suo subconscio stava sviluppando
qualcosa.
«Mi
incontrerò con alcuni miei vecchi compagni del liceo, vuoi unirti?» Jiang
l’aveva sorpreso quando l’aveva invitato nel tardo pomeriggio, ad unirsi per la
cena insieme a lui e altri ragazzi che frequentavano lo stesso college. Non
sapeva dire perché l’avesse fatto, l’aveva visto girovagare tutto da solo? Non
sapeva nemmeno se fosse una proposta sincera, se si aspettasse che rifiutasse,
ma quando Stiles accettò, al suo coinquilino andò piuttosto bene.
Erano
andati dalla parte opposta al loro dormitorio, lasciandosi il fiume alle spalle
e raggiungendo i suddetti vecchi compagni in un punto ristoro che le sue
tasche potessero fortunatamente permettersi; il numero presente al campus non
era molto vasto.
«Da dove
vieni?» Donovan e Theo erano i loro nomi, il primo appariva troppo eccentrico,
tutto indirizzato su di sé, mentre il secondo non sapeva ben inquadrarlo; ad
una prima analisi sembrava accomodante, forse troppo compiacente con chi
interagiva con lui, come se volesse entrare tra le grazie del suo
interlocutore.E Stiles si chiese che
tipo di grazie si aspettasse da lui.
«Beacon
Hills» fu la sola risposta che diede. Anche se aveva un disperato bisogno di
far conoscenza e trovarsi degli amici, non era certo di volere quelli girargli
intorno.
«E dove si
trova?» Donovan appariva confuso, era una località che gli era totalmente
estranea.
«California»
non era mai stato di poche parole, ma si ritrovava a contarle con il
contagocce, senza avere davvero una motivazione. Ma d’altronde era mai riuscito
a socializzare in vita sua partendo dalle basi?
«Sei molto
lontano da casa» Theo lo disse con un’inclinazione speziata, che prese
coscienza nei brividi che gli attraversarono la colonna vertebrale.
«È questo lo
scopo del college, allontanarsi» disse semplicemente Jiang, come se non capisse
perché andasse sottolineato.
Ciò che
Stiles aveva appreso era che venissero tutti e tre da Alexandria, Virginia, e
che ognuno si stava specializzando in settori diversi. Il suo compagno di
stanza in economia, Donovan in psicologia – anche
se aveva la netta sensazione che fosse la facoltà sbagliata per uno come lui –
e scienze politiche per Theo. «I nostri dipartimenti si incrociano» disse
quest’ultimo con le iridi dell’azzurro più incredibile che Stiles avesse visto
e che vennero stuzzicate dalla notizia dei suoi studi criminologici. «Ho
intenzione di proseguire con legge successivamente, ci incontreremo di sicuro».
Stiles
ingoiò malamente il nodo di saliva che aveva incastrato in gola. Non era più
abituato a quegli approcci, in realtà non credeva che gli fosse davvero mai
capitato, si era trovato a ballare senza nemmeno accorgersene, trascinato dagli
altri. «Sì, è possibile».
«Hai vinto
una borsa di studio? Per cosa?» Donovan non apprezzava di passare in secondo
piano, era quasi certo che ci fosse una contesa in corso tra lui e Theo, il che
era lusinghiero, ma il figlio dello sceriffo non sapeva gestire bene la cosa.
«Per merito»
anche se la sua vita era stata un calvario, soprattutto al giungere dei sedici
anni, non si era mai permesso di far abbassare la sua media da continue e
costanti A. Era stato difficile, non aveva idea di come avesse fatto a non
cedere e lasciarsi inghiottire dall’oscurità che l’aveva continuamente avvolto,
ma aveva stretto i denti, ripetuto che quella era l’unica opportunità che aveva
per realizzare i suoi sogni, seguire la strada che aveva tracciato e
raggiungere il college in cui aveva sempre desiderato studiare. Allontanarsi da
Beacon Hills.
«Oltre che
carino, sei anche intelligente» ammiccò spudoratamente Theo, il commento che
non riuscì proprio a tenere per sé né ne aveva le intenzioni.
Stiles se
non avesse smesso di bere il suo bicchiere chi Coca-Cola un minuto prima, si
sarebbe sicuramente affogato, non aspettandosi minimamente quella presa di
posizione così palese.
Jiang scosse
la testa trattenendo un ridacchiare leggero, conoscitore che presto le doti da
seduttore del suo vecchio compagno di scuola si palesassero, completamente a
carte scoperte. Se Theo era intrigato da qualcuno, difficilmente lo nascondeva
e Stiles rientrava interamente tra i suoi interessi.
La matricola
di criminologia spostò leggermente lo sguardo verso il suo coinquilino che non
appariva per nulla disturbato dal teatrino che i suoi due amici avevano messo
in scena e si ritrovò a spostarlo sulle gemme di zaffiro, che colpivano in modo
preciso; il ghigno spezzante come tocco finale. Stiles non riusciva proprio ad
identificare che tipo di persona fosse, quanto stesse recitando per attirare i
suoi favori, ma se le sue percezioni erano infastidite da Donovan, non si
poteva dire lo stesso per Theo. Quegli occhi azzurri avevano un insolito
ascendente su di lui. Si domandò, per la prima volta, se non avesse una sorta
di preferenza per le iridi chiare.
Derek non
l’aveva sentito arrivare, non aveva percepito la sua scia in quei primi due
giorni del nuovo anno universitario autunnale, i primi per le matricole che
riempivano gli spazi con la loro effervescenza, l’eccitazione e l’agitazione,
l’ansia e la costante paura, appestando tutti gli ambienti e facendo impazzire
il suo olfatto.
Ma il suo
olfatto in quelle ore notturne del secondo giorno del suo terzo anno di
college, captò bene quell’odore frizzante e penetrante che avrebbe saputo
distinguere in qualsiasi situazione.
Quando uscì
per strada, abbandonando il suo appartamento privato, si inoltrò per le
numerose vie del campus, preoccupato di sentire la sua essenza ad un
orario così tardo, con le vie deserte e la maggior parte degli studenti a
ronfare nei propri letti.
Si ritrovò
nei pressi del fiume Red Cedar,
a pochi passi da uno dei ponti che lo attraversava e che collegava l’altra
parte del campus della Michigan State University, lì dov’era
collocato il suo dipartimento, a meno di venti minuti dalla sua abitazione. È
lì che sentì il suo odore farsi spaventosamente vicino, la sua presenza
farsi più palpabile, come se l’avesse sotto gli occhi e dovesse soltanto
strabuzzarli, dargli una forma.
Ma una forma
la prese ed era avvolta da un pigiama rosso, i piedi nudi e freddi che
camminavano alla cieca, senza minimante avere la percezione di cosa la
circondasse, le iridi di miele offuscate e vitree, così vuote che Derek si
spaventò. «Stiles» fu tutto quello che articolò, le lettere che
scivolavano dalla lingua, il suono che prendeva consistenza.
Lo
dividevano poche falciate e non riuscì a non notare quanto fosse cresciuto da
quando l’aveva visto l’ultima volta, due anni prima. I capelli si erano
allungati, l’altezza contava nuovi centimetri, i lineamenti del viso più
marcati, ma aveva ancora tutti i suoi nei al loro posto, la pelle diafana come
sempre, impossibilitata ad essere violata perfino dai raggi della calda
California, eppure sapeva che era tutto diverso, che qualcosa era mutato oltre
l’aspetto esteriore.
Il
figlio dello sceriffo non riusciva a vederlo, ad avvertire la sua presenza,
anche se era esattamente davanti a lui, a chiamare il suo nome per attirare la
sua attenzione. Perseverava a camminare nel buio senza una guida, i piedi
scalzi scorticati dal percorso intrapreso. «Stiles» chiamò di nuovo in allarme,
le mani che andarono a circondargli il viso gelido, fermando la sua avanzata.
Esigette che posasse gli occhi nei suoi, che prendesse consapevolezza di chi
avesse davanti, ma lo studente di criminologia non lo fece. «Che cosa
succede?».
«Sta
tornando» furono le prime parole di quello Stiles in catalessi, il fumo della
condensa fredda che usciva dalle labbra rosse. «Sento che sta tornando. Non mi
lascerà mai in pace».
«Chi?»
Derek contemplò la possibilità che Stiles avrebbe risposto a chiunque l’avrebbe
fermato, incontrandolo durante un episodio che decretò fosse probabilmente di
sonnambulismo. Ne aveva mai sofferto? Derek riusciva a sentire tutto il suo
dolore, l’affanno e la pena che stava provando in quel momento e non sapeva
minimamente da cosa fossero scaturiti.
«La
volpe oscura» rivelò in modo devastante, come unica verità, quella che non
smetteva di bersagliarlo e non gli permetteva mai di respirare davvero.
Le
gemme di smeraldo si spalancarono e Derek non credeva di aver capito bene. Di
aver capito davvero quello che Stiles intendesse. Un pollice gli accarezzò uno
zigomo e lo studente del terzo anno si rese conto di quanto la matricola fosse
completamente alla sua mercé e non c’era niente di più sbagliato di quello.
Appoggiò
la fronte contro la sua, il calore che sprigionava che invase i tessuti del
ragazzo che presto avrebbe compiuto diciannove anni, riscaldandoli e scacciando
il gelo di quelle iniziali notti di settembre. Sapeva che non fossero mai stati
così vicini, che non aveva mai permesso che accadesse, che sentire il suo fiato
sulla propria pelle avvalorasse la prova di quello che stava accadendo, ma
Stiles in quel momento aveva bisogno proprio di quello e non poteva
negarglielo, essere così negligente. «Andremo in un posto dove non potrà
trovarti. Va bene?».
Stiles
tacque per qualche attimo di troppo, tanto che Derek credette che si fosse
finalmente risvegliato, ma specchiandosi in quelle iridi d’ambrosia spente,
seppe che era molto lontano da quella consapevolezza di se
stesso. «Sì».
Condurlo
al suo appartamento, al 1855 Place, fu estremamente facile, talmente
tanto che Derek provava preoccupazione e rabbia al pensiero che Stiles avrebbe
potuto incontrare chiunque altro non fosse lui, essere introdotto in posti in
cui non sarebbe dovuto mai entrare, al cospetto di persone che avrebbero potuto
approfittare di quella momentanea fragilità.
Lo
accompagnò fino al letto a due piazze, gli scostò le coperte e lo coprì
malamente, impegnato com’era a curare le lacerazioni che la pianta dei piedi
riportava, togliendo e ripulendo ogni elemento estraneo che incontrava nel suo
percorso, dalla terra, all’erba ed ai piccoli sassolini del terreno e
dell’asfalto. Chissà per quanto tempo aveva camminato, chissà quanto lontano si
era spinto dal suo dormitorio, uscendone senza nemmeno essere notato, senza
notarlo lui stesso. Quanto ancora avrebbe proseguito prima che Derek lo
trovasse.
Quando
ripulì e rimediò ad ogni escoriazione, assorbendo un dolore che quello Stiles
sonnambulo non provava, ma che invece esisteva, Derek lo rimboccò per bene,
sistemandolo in modo da non interrompere quella fase REM precaria che poteva
causare maggiori danni. «Lei non ti troverà» ripeté con più
convinzione, la voce calda che l’accompagnava.
Stiles
sospirò di liberazione, abbracciando il cuscino su cui il padrone di casa
l’aveva adagiato e Derek seppe che stava finalmente dormendo come sarebbe
dovuto accadere fin dall’inizio.
Seduto
sul materasso in cui il figlio dello sceriffo stava riposando realmente, Derek
si prese il viso tra le mani, chiedendosi cosa si fosse perso in quei due anni,
lontano da Beacon Hills e da lui. Da quell’umano pittoresco che aveva
continuamente associato ad un’incantevole e astuta volpe dal manto infuocato.
Era
tutto grottescamente esilarante.
Anche
quella mattina Stiles fu svegliato dai raggi del sole che penetravano dalla
finestra, il tepore della coperta che l’avvolgeva e la sensazione di avere il
cuore più leggero. Ma fu solo un frammento del tempo che la sua mente impiegò
per rendersi conto che la parete su cui posava lo sguardo assonnato non era la
sua.
Era
piuttosto sicuro di non avere una finestra ai piedi del letto, da cui poi
partiva l’armadio aperto, pieno di roba non propria. In più era certo che di
finestre ce ne fossero tre e soltanto dove vi erano collocate le due scrivanie
su cui presto lui e Jiang avrebbero studiato.
Oltre
a quella serie di elementi piuttosto indicativi anche per la sua mente
annebbiata e ancora addormentata, vi era la concretezza che vi fosse un corpo
estremamente caldo dietro di sé, il respiro leggero e riposato che si scontrava
con il suo collo, solleticandolo.
Stiles
non condivideva il letto con qualcuno da diverso tempo, il fatto che non lo
trovasse disturbante lo preoccupava alquanto, perfino il fiato che lo
accarezzava era piacevole, eppure ne era terrorizzato allo stesso tempo perché
non ne aveva alcuna memoria.
Restò
immobile per attimi di troppo, spaventato da quello che avrebbe incontrato una
volta che avrebbe preso coscienza di sé, di quello che gli era capitato e con
chi fosse avvenuto.
Strizzò
gli occhi, la forza di volontà che lo spinse a girarsi una volta per tutte,
accartocciando le lenzuola con cui era evidente fosse stato rimboccato con cura
‒ un’attenzione che suscitò il suo stupore.
L’irrefrenabile
bisogno di mettersi ad urlare lo colse appena incontrò i tratti facciali del
ragazzo che era disteso al suo fianco, su quel materasso a due piazze che
sembrava più grande delle dimensioni a lui conosciute. Le labbra erano schiuse
e sgomente, ma colui che l’aveva ospitato teneva ancora le palpebre serenamente
serrate e non era ancora pronto per venire assordato dall’incredulità dello
studente di criminologia. «Derek» soffiò annichilito, le iridi del miele
sgranate ed incredule, l’impossibilità di quel nome che veniva pronunciato in
quel contesto, in quel luogo, dopo così tanto tempo dall’ultima volta che si
era permesso di farlo. Com’è che era solito dire? Era l’ultima persona che
si sarebbe aspettato di vedere? Sarebbe stato vero se Derek fosse
appartenuto ad una qualche lista ipotetica, ma Stiles non ne aveva nessuna in
cui figurava il suo nome. Non era mai esistita.
Le
iridi verdi del padrone di casa si mostrarono e Stiles si ritrovò a trattenere
il fiato, in apnea. Non erano assonnate come probabilmente apparivano le
proprie, erano semplicemente consapevoli di trovarsi al cospetto del figlio
dello sceriffo. «Sei davvero tu? Derek Hale?».
«Stiles»
fu tutto quello che Derek disse, a rispondere in modo nitido su chi fosse e
avesse perfettamente coscienza con chi avesse condiviso le lenzuola.
Era
anche la voce che ricordava, benché fosse leggermente rauca. Sicuramente era
dovuta alla chiarissima spiegazione che la matricola non si fosse mai
risvegliata accanto all’Hale, evento che l’avrebbe condotta direttamente alla
morte per le più svariate ragioni. «Ah» Stiles stava per essere sopraffatto da
un attacco di panico, diverso da quello che inizialmente lo minacciava,
terrorizzato dalla vaga consapevolezza con chi avrebbe potuto intrattenersi
nella notte, le figure di Donovan e Theo che non gli toglievano gli occhi di
dosso, chiaramente intenzionati a volerselo mangiare in ogni modo
inimmaginabile, approfittando della sua momentanea debolezza. «Cos’è successo?
Tu cosa ci fai qui? Dove siamo?» scattò a sedere, la spalla che colpì la parete
a cui il letto era accostato, le coperte che scivolarono, mettendo in mostra il
pigiama che indossava la sera prima. Sono vestito, fu l’unico pensiero
rassicurante che lo colse.
«Al
1855 Place»
rispose prontamente Derek, aspettandosi una reazione esagerata tipica dello
studente del primo anno.
«Al…
1855 Place» i gesti
avventati di Stiles si fermarono, disorientati. «Perché conosco
questo nome?» domandò più a se stesso che al suo
interlocutore, spremendosi le meningi e richiamando a sé ogni ricordo che gli
veniva alla mente, stupefatto della risposta che elaborò. «Siamo ancora dentro
il campus».
Derek
si limitò ad annuire, non scomponendosi in alcuna maniera e non abbandonando la
posizione da disteso che ancora teneva.
Apparentemente
i tessuti di Stiles si rilassarono, anche se non vi era alcuna ragione per cui
dovesse accadere. Si ritrovò a fissare Derek con più consapevolezza, il punto
interrogativo che si affacciava sul viso. «Perché sei qui?».
«Per
la tua stessa ragione, studio» Derek non si perse in spiegazioni, certamente
non si sarebbe prodigato per formulare qualcosa di più sostanzioso.
Stiles
non credette minimamente alle sue orecchie, dovevano essere ancora bloccate
alla fase onirica. «Studi qui? Proprio qui?» ma quante probabilità potevano
esserci?
«Questa
è casa mia, Stiles» oh, era tanto tempo che non sentiva il suo nome
essere usato come un rimprovero, Derek era un mago in quello. «Solo gli
studenti di questa università possono affittarla».
Sì.
«Io…» non riusciva ad esserne persuaso, non aveva abbastanza elementi ed era
confuso, provato, la presenza di Derek lo destabilizzava come mai aveva creduto
potesse accadere. La necessità di raggiungere la finestra, spostare la tenda
corta che ammorbidiva l’invadenza dell’Astro d’Apollo e guardare ciò che si
affacciava davanti a sé, era vitale, non riuscì a trattenersi.
Le
strade, gli edifici bassi, le strade larghe e affollate di studenti, i
negozietti appositi, che dovevano rispettare i loro orari mattutini già attivi.
Non era un paesaggio che conosceva, non era ancora stato da quella parte del
campus e non era certo che l’avrebbe riconosciuto dal punto di osservazione in
cui si trovava, sul letto di Derek Hale ancora caldo. «Che cosa studi?».
«Letteratura»
nessuna esitazione, ma un dato di fatto.
Stiles
sentì perfettamente la contorsione al petto da cui fu investito, la testa che
si voltava nuovamente verso Derek, gli occhi giganti che non smettevano di
essere increduli, impressionati. No, non poteva essere. Era quella la
ragione per cui veniva continuamente attirato dal College of Arts & Letters?
L’incoscienza che sapeva figurarsi fin troppo bene quali fossero le sue
preferenze, il luogo a cui sarebbe dovuto appartenere se si fosse concesso una
scelta. Era il suo viso che sperava di scorgere nella folla? Da quali problemi
era affetto il suo subconscio? «Come sono arrivato qui?» doveva spostare i
pensieri, cercare di metterli in ordine e svelare il mistero sul perché si
trovasse avvolto tra le coperte di Derek Hale. Tutto il resto era secondario. Ma
lo era davvero?
Derek
esitò, incerto su quanto potesse dire e se il figlio dello sceriffo gli avrebbe
creduto. «Ti ho trovato» non riusciva a togliersi dalla testa perché fosse
stato necessario un’azione come quella. «Era notte fonda, eri gelato e
girovagavi con solo il pigiama addosso» non era per niente l’abbigliamento
adatto e lo spessore degli indumenti era quasi nullo; irrisorio sotto coperte
adeguate ai primi giorni di settembre, ma deleterio nelle ore buie, con i gradi
che si abbassavano notevolmente.
Ti
ho trovato. Girovagavi
con solo il pigiama addosso, l’istinto di ispezionarsi, toccarsi
le gambe e controllarsi i piedi fu qualcosa che non poteva frenare. Era tutto
intero, nulla faceva presagire che avesse vagabondato nell’ora delle streghe,
eppure il trovarsi nell’appartamento privato di Derek raccontava un’altra
storia. «Come mi hai trovato?».
«Ho
seguito il tuo odore» nemmeno quello era un aspetto che avrebbe voluto
condividere, ma non poteva tenerlo per sé, non aveva alcun senso, Stiles lo
avrebbe soltanto sommerso di più domande.
Le
iridi d’ambrosia brillarono e si ingrandirono, espandendosi così tanto da
essere sopraffatte dal nero delle pupille. «Già, sei un lupo anche tu» i
ricordi fiorirono tutti insieme, non che potesse dimenticarlo. Sapeva soltanto
che non si sarebbe mai liberato di quella vita. A volte si chiedeva se lo
volesse davvero. «Conosci il mio odore?» era la prima domanda che gli era
affiorata tra i pensieri, per la meraviglia incredula, ma riconoscere la vera
natura di Derek era stato più immediato, più importante, ma si chiese se in
effetti lo fosse. Non capiva come potesse Derek aver immagazzinato così bene il
suo odore, soprattutto alla luce che si fosse costantemente tenuto alla larga
da lui. Da qualsiasi cosa lo riguardasse.
«Sì»
era inutile negare l’evidenza né alla creatura della notte piacesse
sottolineare l’ovvio, ma capiva perché quello stupisse Stiles, forse più di
tutto il resto. «Ho pensato fosse meglio portarti qui».
«Qui»
l’essere umano ebbe bisogno di guardarsi attorno, controllare in un’ispezione
maggiormente prolungata, posare gli occhi su tutto l’ambiente che portava
l’impronta di Derek. Era tutto ordinato e pulito, nessuna confusione in vista,
dei teli lunghi a tentare di coprire l’armadio aperto e la scrivania dov’erano
sistemati alcuni libri molto spessi. Stiles non riusciva a quantificare cosa
significasse davvero qui.
Derek
non aggiunse altro e non sapeva proprio spiegarsi cos’è che indispettisse
davvero Stiles. La sua natura da lupo mannaro o l’essere stato trovato da lui
in un momento di debolezza? Ma il fatto che non gli chiedesse cosa fosse
esattamente successo, perché camminasse senza meta per le strade del campus
nelle ore più gelide, lo mise in allarme, quasi come se per Stiles fosse
qualcosa di quotidiano, ripetuto nel tempo.
«Che
ore sono?» la matricola sembrò svegliarsi, prendere coscienza delle lancette
dell’orologio che ticchettavano, andando avanti senza di lei.
Il
licantropo non fu davvero sorpreso e adocchiò la sveglia digitale che sostava
sul comodino. «Le otto e mezza».
«Merda!»
imprecò a denti stretti, alzandosi e camminando sul materasso, azione non molto
carina considerando che non era il proprio. «Ho lezione tra un’ora» ma quando i
piedi toccarono il pavimento freddo, si rese conto di dover affrontare delle
complicazioni. L’agitazione si espanse a macchia d’olio.
«Stiles»
lo richiamò la creatura della notte, seguendolo a ruota, ponendosi proprio
davanti alla sua strada.
«Come
esco di qui?» la domanda era sincera, Stiles continuava ad inciampare nel
proprio panico, nell’essere bloccato da una situazione da cui non trovava
soluzione. Si indicò, il pigiama rosso a scacchi blu, i piedi completamente
scalzi e nulla che gli venisse in aiuto.
Tutto
quello che Derek sentì fu quanto Stiles fosse rotto dentro. «Non è successo
niente. Non ti è successo niente» fu guidato dall’avventatezza di catturargli
il viso tra le mani come aveva fatto soltanto alcune ore prima, fargli sentire
che il mondo girava ancora per il verso giusto. «Stai bene».
Il
figlio della massima autorità della loro città natale trattenne un singhiozzo,
ma il lupo lo udì lo stesso. «Vorrei fosse così» non riusciva a registrare
nulla di quello che gli stava accadendo in quegli istanti.
Stiles
era sempre stato sfuggente, ma mai ad una tale dimensione. «Usa la doccia»
accarezzargli le guance con i polpastrelli fu conseguenziale, calmarlo
nell’unico modo il cervello gli suggerisse. «Ti darò un cambio. Tutto quello
che ti servirà per andare dove devi».
Stiles
lo guardò come se fosse un alieno e Derek dovette farsi forza per separarsi da
lui, smettere di essere la sua colonna portante. Prese la prima maglietta e
paio di pantaloni che gli capitarono sotto tiro e glieli porse in mano. «Vai a
sinistra».
Lo
studente del primo anno non sapeva che pesci prendere, rimase titubante per una
decina di secondi, indeciso su come procedere. Ma c’erano altre scappatoie?
Prese i capi che il mannaro gli offrì, avviandosi verso la direzione che gli
aveva indicato, oltre la voce, con un gesto della mano, a chiarire che si
riferisse alla sua sinistra.
Stiles
individuò la porticina che stava a fianco alla porta principale, lasciata
socchiusa come a comunicargli che era lì il luogo in cui doveva entrare. Quando
l’aprì e attraversò l’uscio, si ritrovò all’interno di un bagno privato. Non
era enorme e aveva l’essenziale, ma era confortevole, racchiuso, la possibilità
di chiudersi dentro e scappare alle avversità che la vita continuava ad avere
in serbo per lui.
Vi
era una tenda da doccia chiusa malamente, a mostrare la vasca e anche le
tubature che potevano essere usate esclusivamente per la doccia se lo si
preferiva. La plastica era stranamente di colori allegri, caldi, opposti alla
personalità buia e fredda del lupo che attendeva oltre la parete. La tonalità
dominante era un arancione rosso, che sfumava al bianco, per concludere con una
punta di nero quasi impercettibile. Ricordava talmente tanto la pelliccia di
una volpe rossa da farlo stare male. Lo atterrava ancora di più la certezza che
fosse dipesa da una scelta volontaria di Derek.
Stiles
avrebbe voluto sigillare la porta, dare un colpo di chiave, ma essa non era
presente e non doveva stupirsene. A cosa serviva una chiave in una casa abitata
da una sola persona?
Appoggiò
i vestiti sul mobile bagno su cui era incastrato il lavello ed in cui erano
riposti tutti gli effetti personali della cura giornaliera del mannaro. Aveva
le vertigini, non riusciva a realizzare di essere tra le mura private di Derek
Hale, all’interno del suo bagno che avrebbe usato, indossando i suoi vestiti.
Una sorta di sconforto lo invase, per l’ilarità di quel frammento di vita che
gli era toccata. Non sapeva davvero contabilizzarla, catalogarla. Non riusciva
a dargli un senso. Che progetto era previsto per lui?
Quando
uscì fresco e pulito, vestito di tutto punto con qualche taglia in più rispetto
alla propria, il telo doccia bagnato che aveva scovato nel mobiletto
perfettamente piegato, insieme ad un asciugamano per tamponarsi i capelli –
c’era perfino un phone, Stiles sapeva di starsi allargando troppo –, l’umano
raggiunse il padrone di casa nell’ala più avanti, i piedi avvolti perfino
dentro dei calzini.
Derek
era vispo, indossava soltanto i pantaloni del pigiama e beveva il suo caffè
appena preparato davanti alla macchinetta per la tostatura, il sole che
irradiava dalla grande finestra che illuminava tutto il piccolo soggiorno con
annesso di cucina, un divano a tre posti collocato proprio al di sotto,
regalando l’illusione che fosse un ottimo punto in cui studiare. Quello che
però Stiles notò, fu che si rese conto di quanto Derek fosse ancora
dannatamente attraente. Forse perfino di più rispetto ai due anni precedenti.
Si sarebbe superato ancora? Non era un pensiero logico che avrebbe dovuto
formulare, considerando la situazione precaria in cui si trovavano, ma la sua
testa non gli dava mai particolarmente retta, soprattutto davanti l’ovvio. E
Stiles stava per compiere diciannove anni, sì, ma i suoi ormoni non si erano
ancora dati una calmata. Probabilmente non sarebbe mai accaduto.
«È
per te» si sentì dire probabilmente dopo che l’aveva squadrato un po’ troppo.
«Lasciali
lì» proseguì il mutaforma, riferendosi ai teli in
panno che aveva utilizzato per asciugarsi, indicandogli una sedia in cui
poggiarli.
Stiles
individuò anche un’altra cosa, una piccola lavapiatti e di fianco una porta,
che supponeva fosse il ripostiglio, ma se era in possesso di una lavastoviglie,
dubitava che quell’appartamento non fosse accessoriato anche di una lavatrice e
asciugatrice. Aveva voglia di sorpassare Derek, spalancare la porta e scoprire
se fosse una lavanderia a tutti gi effetti. Era bello essere ricchi e
permettersi certi lussi, ma Derek aveva pagato un prezzo enorme per avere
quell’autonomia.
C’era
anche da specificare che Derek non avrebbe avuto problemi nemmeno prima, che il
denaro scorreva a fiumi nella sua famiglia, fondatrice e protettrice di Beacon
Hills, ma tutta quella beltà era finita e divisa tra le mani di sole tre
persone. Non c’era nessun altro.
Il
lutto persistente del lupo Stiles lo conosceva come nessun altro, era l’unico
con cui il mannaro si era permesso di condividerlo. Era qualcosa che aveva
privato perfino a Laura. «Grazie» la sua voce che gli comunicava con il dolore
nel cuore li ho uccisi io, è colpa mia Stiles non era mai riuscito a
sradicarla, in un momento esclusivamente loro, dove non esisteva nessun altro.
Stiles non gli aveva creduto, non l’aveva fatto nemmeno quando Derek gli aveva
sputato addosso la verità di cui era l’unico conoscente, la colpa di cui si era
macchiato. Ma era soltanto quello, l’avventatezza di essersi fidato della
persona sbagliata. Stiles non aveva mai saputo se fosse riuscito a farglielo
capire, alleviare il suo tormento.
«Prendi
anche quelle» Derek ignorò il suo ringraziamento, nulla di nuovo per lo
studente di criminologia, ma quando la sua visione periferica fu catturata dal
punto che il mutaforma voleva che guardasse, Stiles si
irrigidì.
«Derek»
la negazione era udibile, il suo dissenso evidente.
«Ti
servono, non puoi ferirti di nuovo» difficilmente il mannaro accettava un
rifiuto e quell’occasione non rientrava tra le rarità, era fuori discussione.
Una
scossa gli attraversò vertebra per vertebra e seppe che la sua abitudine di
controllare le condizioni della pianta dei piedi non era tempo perso. «Mi hai
curato tu» lo sconcerto gli sfuggì senza rendersene conto. Perché non era
arrivato prima alla soluzione? Era impossibile che Derek l’avesse trovato
incolume, che i suoi piedi non avessero nemmeno un graffio. Stiles se li era
feriti tante e troppe volte, nessun lupo che potesse alleviare le sue
sofferenze. Nessuno a cui Stiles volesse rivelarlo.
«Prendile
e basta» lo studente di letteratura non si preoccupò di confermare le
rivelazioni di Stiles, non gli importava affatto.
Stiles
odiava quella situazione, essere così in svantaggio da non potersi opporre, ma
che soluzioni gli rimanevano? Le calze offerte dal licantropo non potevano fare
miracoli.
Stiles
terminò il suo caffè preparato appositamente per lui, come tutto quello che
Derek gli aveva fornito, indossando finalmente le scarpe che gli aveva
sistemato pronte per l’utilizzo. Non erano perfette, probabilmente di un numero
superiore al proprio, ma erano gestibili. «Grazie» lo ripeté, ma per quante
altre volte avrebbe dovuto dirglielo? Avrebbe dovuto ringraziarlo da quando
aveva aperto gli occhi quella mattina sano e salvo, al sicuro, ma invece
l’aveva attaccato e Derek l’aveva ignorato, come lo caratterizzava.
Eppure,
consapevole di quello, si defilò senza proferire parola aggiuntiva. Uscì
semplicemente dalla porta principale, percorse il condominio e scese le scale
in fretta, diretto verso il dormitorio per cambiarsi ancora una volta e
prendere i libri che gli occorrevano per la lezione che lo attendeva.
Si
ritrovò ad essere curioso di quanto lontano fosse andato, quanto avesse
camminato, in che punto Derek l’avesse trovato e fermato la sua avanzata.
Perché l’avesse trovato.
Ma
un altro interrogativo bersagliava la sua mente acuta, irrefrenabile, a cui
aveva tentato di togliere voce: come poteva Derek essere così certo del suo
odore? Riuscire a percepirlo ad una notevole distanza, isolarlo da tutti gli
altri e condurlo esattamente al punto preciso.
Inspiegabilmente mi ritrovo da
queste parti, a scrivere ancora di questi due, convinta di aver già detto
quello che c’era da dire, ma non è mai vero. Le idee su di loro non terminano
mai, una si concatena all’altra e va avanti all’infinito. Alcune storie
riescono a sopravvivere, altre rimangono solo pensieri non espressi.
Questa è una storia che voleva
essere racconta e che ha richiesto molto lavoro, quasi due anni, partita da una
mia stessa domanda banale e che magari rivelerò alla fine di questo percorso.
Non è stata betata
da nessuno eccetto che da me stessa, non il miglior occhio critico per refusi o
distrazioni.
Stiles
aveva una vaga idea della disposizione del campus, i vari edifici sparsi per tutta
la superficie, quindi sapeva di dover attraversare il fiume e percorrere un
lungo tratto di strada, ma sbagliò bivi diverse volte, non aveva il cellulare
con sé per controllare la mappa e dovette fermarsi a chiedere indicazioni.
Sulla
carta scoprì che la distanza tra l’appartamento di Derek ‒ in cui
credette di aver perfino adocchiato nel parcheggio la Camaro nera tanto amata
dal mannaro ‒ e il suo dormitorio era di soli quindici minuti a piedi, ma
dubitava che nella sua condizione di trance fosse proseguito per la direzione
giusta al primo colpo. Non riusciva a credere di aver vagabondato così tanto,
di aver perfino attraversato il corso d’acqua. Dov’era diretto prima che Derek
lo intercettasse?
Sentiva
il vuoto allo stomaco, la conoscenza di sapere che nemmeno in quella nuova vita
riusciva a liberarsi dei suoi demoni. Era costantemente in trappola.
Si
trovava davanti al padiglione di letteratura, la tracolla più pesante del
solito e la volontà di essere lì per una motivazione ben precisa. Osservava
piccoli gruppetti uscire ed entrare, parlucchiare tra loro, ridacchiare e
correre. Stiles aveva terminato le ore di lezione mattutina e aspettava
soltanto che il tempo trascorresse per seguire l’unica che gli era rimasta nel
pomeriggio. Ma era anche altro che stava aspettando.
«Stiles»
Derek apparve come se fosse una visione, molto più di come si era rivelata al
suo risveglio. Aveva percorso le scale del portone principale in discesa, con
la posa perfetta e senza sbavature, nessuna fretta. Non si era fermato stupito
di trovare il figlio dello sceriffo proprio lì, a pochi passi ad attenderlo;
tutto il contrario, sembrava sapere esattamente dove si trovasse e da quanto
tempo.
«Sei
davvero qui» Stiles non si era permesso di studiare tutte le variazioni fisiche
che erano toccate alla figura del mannaro. Erano trascorsi soltanto un paio
d’anni, ma apparivano come secoli, Stiles ne aveva passate troppe, si era
lacerato e aveva cercato di rincollare i pezzi da solo. Le memorie su Derek si
erano quasi cancellate, a volte si chiedeva se fosse esistito davvero, se in
qualche modo le loro vite si fossero incrociate, anche soltanto per pochi
momenti.
La
voce era sempre la stessa, ma gli zigomi erano più taglienti, lo sguardo
maggiormente severo, aveva più massa muscolare, dettaglio che Stiles trovava
piuttosto ingiusto ed irrealistico. Aveva anche una barba corta e nera, curata
e precisa, non vi era un solo pelo fuori posto. Era un elemento del tutto nuovo
e si chiese se fosse morbida al tatto o se gli avrebbe graffiato la pelle,
arrossandola.
«Non
sei ancora persuaso» la pacatezza di Derek era innegabile, ma Stiles riusciva a
sentire la leggera nota di burla nella sua direzione, come se ne fosse davvero
divertito.
C’era
un’altra cosa che non era cambiata, il modo intenso e disarmante con cui Derek
lo guardava. In qualsiasi circostanza, ma non c’era più nulla a celarlo,
adombrarlo. «Sto cercando di mettere insieme i pezzi. Di non essere impazzito»
ma impazzito lo era realmente.
Derek
lo osservò a lungo, nel silenzio che solo lui sapeva mantenere, ma non lo stava
giudicando, cosa che Stiles apprezzò. «Cos’altro ti serve?».
Il dolore attraversò le iridi di
smeraldo e Stiles si rese conto di essere stato più brutale di quanto avesse
pianificato nella testa. «È passato tanto tempo, Derek».
«Due
anni» specificò il lupo mannaro, era freddo, eppure sentì il sottofondo
dell’agonia che era rappresentata per lui, qualcosa che Stiles non sapeva
proprio spiegarsi. Insieme, però, suonava come se quel frammento di linea
temporale fosse una bazzecola.
«Sono
accadute molte cose dopo essertene andato» troppe. Stiles stentava a credere di
esserne uscito vivo, con ogni parte del corpo attaccato. Ma forse era
un’illusione della sua mente rotta.
«Lo
vedo» proferì serio il mutaforma, gli occhi boscosi
che percorrevano la figura dell’umano, i suoi vestiti che teneva ancora
addosso, memorando della notte agitata trascorsa, delle azioni che
obbligatoriamente si erano rese necessarie.
Gli
occhi di Stiles corsero alla maglia grigia e con un taschino all’altezza del
cuore che indossava, i pantaloni della tuta nera e morbidi che non aveva avuto
il tempo di togliersi e cambiarsi, ma qualcosa era riuscito a portarla a
termine. Dalla borsa regalata, uscì un sacchetto di carta senza marchio, in cui
erano contenute le scarpe sportive che Derek gli aveva intimato di prendere.
«Per ora ho soltanto queste da restituirti».
«Non
c’era fretta» Derek le accettò con riserva, non le controllò nemmeno.
«Mi
porto avanti» gli strizzò un occhio e uno dei suoi ghignetti tipici prese il
sopravvento.
La
creatura della notte non si fece scappare nulla e seguì ogni sua mossa con
parsimonia, era qualcosa che rendeva arida la bocca di Stiles. «Se non eri
sicuro, saresti rimasto ad aspettare all’infinito con le scarpe nella borsa?».
«Ah»
esclamò come preso in contropiede, le mani che andarono a toccare la lunga
tracolla sistemata sulla spalla, le dita che sfiorarono la sacca con
insicurezza. «In effetti, non credo di averci riflettuto attentamente».
«Ricordavo
fossi intelligente» la stangata arrivò dritta dritta,
insieme ad un angolo delle labbra che si alzò, in puro sarcasmo.
Il
figlio dello sceriffo si ritrovò spiazzato e punto sul vivo, irrigidendosi e
odiando perdere contro di lui. «Sei il solito Sourwolf».
Derek
rilasciò uno sbuffo di risa e Stiles aveva completamente rimosso come
risuonasse. Non era tornato indietro, era qualcosa di totalmente rinnovato.
«Ora devo andare».
Derek,
guardando il suo orologio da polso, aveva rotto la magia, anche se Stiles non
sapeva indicare esattamente di che magia si trattasse. «Sì, certo. Ciao,
Derek».
Derek
non proferì parola, si limitò ad un unico cenno del capo e si dileguò davanti
alle iridi caramellate confuse.
La
matricola rimase bloccata nel punto in cui il mannaro l’aveva lasciata, le
falangi che stringevano la cinghia della borsa e la difficoltà a metabolizzare
tutto quello che scorreva davanti a lei. Chi tra i due avesse più domande
Stiles proprio non lo sapeva individuarlo.
Derek
lo sentì più chiaramente rispetto alla notte precedente, la sua scia lo svegliò
dallo stato di dormiveglia in cui era immerso, ad un passo dallo sprofondare
nel regno di Morfeo.
Indossò
il primo capo che afferrò, una maglietta a maniche corte che a lui non
provocava nessun disagio, ma con le temperature che scendevano radicalmente
lontane dal sole, ne avrebbe provocati alla gente comune. Si fiondò sulla
strada, il naso come unica guida, che annusava e spingeva, attirando tutta
l’aria nei polmoni come se avesse potuto fare la differenza. Ma forse la fece,
perché Stiles era ancora sulla sponda opposta, lontano di qualche metro dal
ponte che univa i due fianchi.
Ma era inutile chiamarlo, il figlio
dello sceriffo era completamente sordo alla sua voce, probabilmente a tutte.
«Sta arrivando».
Derek si guardò intorno, una mano sul
braccio di Stiles ad arrestare la sua avanzata, a cercare ed individuare se una
minaccia si stesse avvicinando, ma non sentiva nulla, c’era soltanto il totale
silenzio e la brezza congelata che smuoveva le foglie degli alberi. «Non sta
arrivando nessuno».
«Sì»
Stiles scosse con forza la testa a negare e Derek credette che si sarebbe
finalmente svegliato, ma non c’era verso che ciò accadesse. «Il Nogitsune. È in
attesa. Tornerà per riprendermi. Non mi lascerà mai andare».
Derek
fu folgorato, le sue sinapsi si attivavano con fatica, a richiamare delle
conoscenze mai approfondite. Un nogitsune era uno spirito di una volpe oscura,
ma che correlazione aveva con Stiles? Che cosa era successo a Beacon Hills dopo
averla abbandonata? «Qui non c’è».
«No,
no» Stiles cominciò a dibattersi, ad alzare la voce e dimenarsi, scappare alla
presa di Derek e portare le mani alla testa, prendendola a scuotere e
conficcando le unghie con forza, come se potesse scavare e strapparsi il
cervello, disfarsi del suo problema. «Non si arrende mai. Non si arrenderà mai.
Mi intrappolerà e mi userà».
Era
una scena agghiacciante, Derek che era fatto di puro sangue caldo lo sentì
raffreddarsi tutto insieme, schegge che lo ferivano.
Sentì
il liquido plasmatico cominciare a scorrere, l’odore ferroso che gli appestò
l’olfatto, coprendo l’odore spumeggiante e frizzante di Stiles; correre a
bloccare i suoi gesti avventati e dannosi a se stesso
fu l’unica azione che si permise di portare a termine. «Va tutto bene. Non le
permetterò di trovarti» si macchiò del fiume vermiglio dell’umano, le dita che
teneva maldestramente tra le sue, bloccandole in aria, lontano dalle ferite
superficiali che si era infetto. «Resta con me, sarai al sicuro».
Stiles
scoppiò a piangere, scosso da singhiozzi silenziosi, ma nemmeno quello lo
svegliò e Derek se lo strinse tra le braccia, stretto al petto, protetto dal
freddo di cui era ricoperto il suo organismo vestito da un pigiama primaverile.
«Non ti farà del male».
Derek
era terrorizzato dalle circostanze, da ciò che non conosceva, dalle azioni
lesioniste di Stiles che prendevano il controllo quando lui era completamente
assente, ma non poteva permettersi di esserlo e condusse nuovamente la
matricola all’interno del suo appartamento, all’ultimo piano del 1855 Place,
sistemandolo sul divano e cominciando a ripulire tutto il sangue che risiedeva
su entrambi e sui piedi tagliati dal percorso; un asciugamano bianco che si
impregnò di cremisi, abbandonato sullo schienale di una sedia attorno al tavolo
da pranzo. Cicatrizzò le ferite a cui aveva assistito venir create, assorbendo
il dolore fisico di Stiles, le vene nere che si tingevano per privarlo di quel
fardello, ma non poteva fare niente per il dolore mentale ed era qualcosa che
lo faceva sentire completamente superfluo.
Lo portò di
peso sul letto, a scalciare malamente le coperte per distenderlo al meglio,
accomodandosi di fronte a lui, coprendolo con accuratezza e rimanendo a
fissarlo per qualche istante. Nel momento in cui Stiles aveva toccato il
materasso era sprofondato in un sonno autentico, che non aveva la pretesa di
distruggerlo o di tentare di esorcizzare i suoi demoni a modo proprio.
Il viso era
ancora rigato dalle lacrime e Derek le asciugò con le punta dei polpastrelli,
respirando pesantemente d’angoscia. Si inoltrò verso di lui, il fiato di
anidride carbonica su di sé, le braccia che lo strinsero leggermente a sé, con
la speranza che quello potesse evitare futuri attacchi ai danni di se stesso che Stiles poteva compiere in qualsiasi momento e
gli schioccò un bacio proprio al centro della fronte, in un gesto di
depurazione e conforto, accostando la propria alla sua, le iridi verdi incapaci
di separarsi dal viso dell’umano più forte che avesse mai incontrato.
Ma qualcosa
stava lacerando Stiles, così tanto da perdere il controllo quando era senza
barriere con cui difendersi. «Ti tengo al sicuro».
Non voleva
aprire le palpebre, affacciarsi al nuovo giorno, si sentiva talmente stanco,
come se avesse vissuto cento vite nella notte. Era anche sicuro di avvertire il
ricordo di un dolore che in quel momento non riusciva più a captare, i suoi
sogni non erano mai stati gentili con lui, somatizzava tutto quello che nella
linea vitale si era ritrovato ad affrontare, rielaborando ogni attimo,
bersagliando la mente al limite della sopportazione. Svegliarsi si collegava
automaticamente alla domanda che continuava a ripetersi, non certo di nulla:
era reale?
Il fruscio
accanto a sé lo scalfì e gli occhi si specchiarono in quelli di giada, attenti
e svegli. «No» proferì con orrore, la concretezza che gli veniva
gettata addosso, senza dargli l’illusione di poter fraintendere. «È successo
ancora» si nascose la testa tra le braccia che andarono a circondarla. Non ne
poteva più, non riusciva a liberarsi.
Derek
perdurò nel silenzio, fermo nella sua posa statuaria, la meditazione che si
prorogava. «Da quanto va avanti?».
Il
capo dell’umano scattò e gli arti superiori si scostarono appena, mostrando le
iridi del nettare degli dei. Apparvero interrogativi per un primo momento, ma
sapeva che quella domanda era dietro l’angolo, sopita, indecisa se prendere
vita. Il giorno prima Derek gli aveva mostrato un rispetto che nessuno gli
aveva mai dedicato, come tante cose che provenivano dalla sua direzione, eppure
per quanto tempo avrebbe potuto rimanere in silenzio e limitarsi a guardare?
«Sei mesi, perlopiù» era consapevole che il mannaro non fosse stupido o
sciocco, che avesse capito che Stiles fosse ben consapevole di che cosa fosse
accaduto nelle due notti trascorse, quale morbo lo stesse bersagliando. Fingere
era solo uno spreco di energie che non si poteva permettere.
«Chi
altri lo sa?» non si perse in giri di parole, non lo faceva mai e si ritrovò da
Stiles uno sguardo perplesso, di chi non capisse a cosa esattamente si
riferisse. «Ti conosco, i tuoi problemi li tieni per te».
Lo
conosceva? Stiles era piuttosto dubbioso di essere mai stato sotto il mirino
delle attenzioni di Derek. In realtà, il mannaro non ne aveva per nessuno, era
troppo chiuso in sé, nel cordoglio che portava avanti da solo. Nemmeno Laura
fin troppo spesso riusciva a scalfire la barriera che aveva istaurato. Era
amareggiata, cercava di dare il meglio di sé, scuotere il fratello minore
dall’oscurità in cui si era rinchiuso; finché erano rimasti a Beacon Hills non
aveva mai riscontrato dei risultati vincenti, ma era cambiato qualcosa
cambiando aria? «Soltanto mio padre» eppure Derek l’aveva descritto così
diligentemente, riassumendo un aspetto caratteriale che difficilmente altri
avevano notato, come il suo branco, che aveva dovuto sbatterci contro prima di
capire con che cosa avessero a che fare.
La
creatura della notte serrò le labbra, come se dovesse trattenere un commento
acido e di rimprovero che avrebbe espresso se non si fosse contenuto, Stiles
sapeva di meritarselo, ma era una sua scelta e non la voleva contestata. «Devo
uscire presto oggi» disse invece, rimandando la conversazione che Stiles sapeva
un giorno avrebbero intrapreso, ma non voleva che quell’occasione arrivasse
mai. «Prendi quello che ti serve» Derek si alzò immediatamente, il torace
scoperto ed i pantaloni sempre presenti.
Stiles
lo vide volatilizzarsi, con un cambio in mano, nella direzione della doccia e
senza aggiungere altro.
Rimase
allibito sul letto, il fiato trattenuto dentro la trachea e la pesantezza della
mente che non demordeva. Si nascose con tutta la testa sotto le coperte
confortevoli per un tempo riguardevole, ancora impregnate dal calore che lui e
Derek avevano creato.
«Non
posso credere che Derek ci abbia messo un’intera settimana per dirmi che eri
qui» Erica gli arrivò alle spalle, seduto ad uno dei tavoli dello Starbucks
principale del campus.
Si
accomodò davanti a lui, un libro di storia dell’arte a far presenza, i lunghi
boccoli dell’oro che oscillavano, insieme al rossetto rosso che immancabilmente
chiudeva il cerchio, rappresentandola. «Ci sei anche tu?» forse era stato
colpito da un ictus e non si era ancora svegliato.
«Certo»
affermò con ovvietà la bionda, sminuendo la situazione. «Non potevo lasciare
quel lupo musone da solo».
Già,
nemmeno Stiles l’avrebbe fatto se fosse stato in lei. «È bello vederti»
improvvisamente era lui a sentirsi meno solo.
«È
bello anche per me» Erica ammiccò spudoratamente e il figlio dello sceriffo non
ne fu per niente turbato.
Erica
non era di Beacon Hills, ma della città vicina. A tredici anni fu morsa da un
Alpha di un branco di passaggio che voleva soltanto divertirsi, sminuire la
fragilità umana, vedere se sarebbe sopravvissuta al morso, al veleno che le
avrebbe iniettato. Si fecero delle grasse risate mentre lei pativa atroci
sofferenze per vincere sul morso, controllare la trasformazione e avere la
meglio. Quando il morso attecchì, non si presero alcuna briga nei suoi
confronti e la abbandonarono a se stessa senza
insegnarle nulla, come sopravvivere in quel mondo di pazzi che li prendeva
continuamente di mira.
La
trovò Talia Hale soltanto giorni più tardi, mentre Erica cercava di portare
avanti la sua classica vita, non far preoccupare i genitori, inserendo problemi
su problemi.
Talia
la condusse all’interno del branco Hale, le insegnò tutto quello che le serviva
conoscere e divenne la sua Alpha. Aveva la stessa età di Derek e lo seguiva
ciecamente come se fosse lui il suo capo branco. Anche quando tutto era andato
in fumo, Erica non aveva abbandonato il lupo divenuto orfano. Stiles ne
riceveva una prova perfino in quel momento così distante dal tempo.
«Come
procede lì a Beacon Hills?» gli chiese la mannara, l’interesse che si faceva
strada.
«Per
adesso meglio» non voleva dilungarsi, dirle esattamente cosa fosse accaduto,
fin dove si fossero spinti.
Erica
lo scrutò svisceratamente, come se sapesse che non fosse affatto vero, che
qualcosa Derek doveva averle farfugliato. «È andata così male?».
«Sì»
la sopravvivenza era l’unica medaglia che avevano ottenuto e non tutti c’erano
riusciti.
«Mi
dispiace di non essere stata presente» lei lo disse con sincerità, c’era
rammarico e tristezza.
«Ognuno
doveva seguire il proprio branco» erano stati loro a suggerirgli di andare, di
riscostruirsi una vita lontano dalla cenere che non gli permetteva di
respirare, che se la sarebbero cavata alla grande e che non avevano più bisogno
dell’ala protettiva in cui li avevano messi.
«Sì,
e Derek è il mio» non c’erano mai stati dubbi su quello, tuttavia Stiles si era
sempre chiesto la motivazione. Era stata Laura ad ereditare gli occhi rossi del
potere, il ruolo da capo branco, ma non li aveva mai usati se non in situazioni
strettamente necessarie, come quando doveva insegnare a Scott a controllarsi
durante la luna piena o in attacchi d’ira improvvisi.
Erica
provava affetto e rispetto per la maggiore degli Hale, eppure non aveva seguito
lei.
«Ehy»
due nuove figure si presentarono accanto alla mannara, uno era un ragazzo
afroamericano molto massiccio e possente e l’altro era un ragazzo dalla
carnagione pallida che poteva fare a gara con la sua.
«Ciao»
li salutò Erica con affabilità, agitando una mano per rincarare la dose. «Oh,
questi sono Boyd e Isaac» li indicò diligentemente, come se non potesse non
presentarglieli. «E lui è Stiles».
«Stiles?»
ripeté interrogativo quello che la matricola individuò dalle indicazioni
gestuali della lupa come Isaac. Non era sorpreso che la gente trovasse strano
ed ostico il suo nome, non era lusinghiero, ma non l’avrebbe mai scambiato con
quello che era stato depositato all’anagrafe. «Quello Stiles?».
Sulla
bocca cremisi della mutaforma si dipinse una curva piena di sottintesi,
pericolosa fino al midollo. «Proprio lui».
Stiles
era sicuro di essersi perso qualche frammento per strada, soprattutto quando
Isaac e Boyd indirizzarono entrambi i loro sguardi sulla propria persona,
scrutandolo come se dovessero attingere a tutti i segreti che erano racchiusi
in lui. Non riusciva proprio a decifrare che tipo di interesse gli avesse
scatenato. «Ti prendiamo il caffè» annunciò Boyd nella sua pacatezza, tagliando
corto e trascinandosi l’altro ragazzo appresso. Erica li salutò con un ciao
ciao della mano.
«Sai,
Derek ha incontrato Malia» la creatura della notte se ne uscì con una bomba
pronta ad esplodere senza avvisare. Posò i suoi occhi castani su di lui e vi si
inchiodarono.
«Davvero?»
non sapeva perché ne fosse così sorpreso, doveva essere un’azione automatica
dopo che lui e Scott la trovarono nella foresta trasformata in coyote, forma
che mantenne per nove lunghissimi anni. Peter Hale l’aveva cercata per
diciassette interminabili anni, ma non era mai riuscito a scovarla da nessuna
parte, con i ricordi che gli erano stati strappati da Talia, senza lasciargli
un nome o un volto, anche soltanto un palliativo di un odore. Era una ricerca
cieca infruttuosa. Ma dopo averla ricondotta a lui e atteso che si
ristabilizzasse, Peter le aveva chiesto di seguirlo a New York, dove voleva
trasferirsi per ricongiungersi alle vicinanze di Laura.
Malia
aveva guardato proprio lui, Stiles, come se si aspettasse che avesse una
risposta per lei, che la incitasse o le chiedesse di rimanere, ma il figlio
dello sceriffo sapeva cosa fosse meglio per lei e le suggerì di andare. Non era
mai tornata sui suoi passi e quello che era iniziato tra loro sotto l’influenza
del Nogitsune svanì com’era cominciata. «E com’è andata?» chissà che cosa si
provava a scoprire di avere una cugina persa di cui non si conosceva
l’esistenza. Dava una sorta di sollievo sapere che il ramo Hale in qualche modo
era ancora in piedi, che non erano soltanto in tre in tutto il mondo, ma che
qualcuno di nuovo si fosse aggiunto?
«Mh, non troppo bene» rivelò accigliata, anche se in qualche
modo sembrava comprendere perché non funzionassero. «È successo soltanto una
volta, poco dopo essersi trasferita» erano passati diciotto mesi da quel
giorno.
«Perché?
Cos’è andato storto? Sono piuttosto simili» silenziosi e bruschi, ma poteva
davvero stupirsi? Derek era la persona meno socievole che conoscesse, capace di
incenerire con un solo sguardo e Malia era parecchio particolare, molto
istintiva e diretta, non aveva freni inibitori.
«Già»
Erica fissò un punto imprecisato sulla parete accanto a loro, una mano laccata
di rosso sotto il mento a sostenerlo. «Forse è questo il problema, sono troppo
simili».
La
matricola di criminologia avrebbe voluto indagare, scoprire quale fosse la
problematica che li rendeva incompatibili, ma la voce soffusa e piena di
conoscenza della lupa mannara, che lasciava sottotesti inespressi, la fece
desistere.
«Vuoi
sapere la novità, Erica?» domandò retoricamente Isaac, sedendosi accanto a lei,
mentre la lupa si scostava per fargli spazio, con l’euforia nella voce. «Hanno
appena nominato Derek come capitano».
«Ma
è grandioso» esclamò euforica la ragazza, afferrando il bicchierone che
l’afroamericano le porse. «Due su due».
«Ci
ucciderà» realizzò Boyd rassegnato sedendosi accanto allo studente del primo
anno, osservando l’email di conferma sul cellulare, i giocatori presi
all’interno della squadra ed i ruoli che gli erano stati assegnati. I provini
si erano svolti soltanto quattro giorni prima ed era evidente quando avessero
fretta di ricominciare ad allenarli, in tempo per il primo campionato che
sarebbe cominciato di lì ad un mese. Derek era piuttosto severo come capitano,
come lo era in ogni campo, ma sapeva sempre come portarli alla vittoria.
«Mi
aspetto una tripletta il prossimo anno» si sbilanciò Isaac, euforico come se il
titolo fosse andato anche a lui ed Erica sorrise in accordo.
«Capitano?»
si vide costretto a chiedere Stiles, completamente esclusivo dalla felicità
orgogliosa dei tre, credendo ciecamente al ruolo che era toccato a Derek.
«Capitano di cosa?».
«Basket»
sintetizzò in una sola parola Boyd, l’essenziale che aveva valenza.
Ed
in effetti ne aveva, a Stiles non serviva altro. «Certe cose non cambiano mai»
disse con un sottofondo di stupore, anche se non avrebbe affatto dovuto
provarlo. Stiles l’aveva osservato giocare per due anni, sugli spalti a non
perdersi una sola partita, osservandolo vincere senza fatica, l’esclusivo
protagonista indiscusso. Era l’unico scenario in cui lo vedeva davvero felice.
«No,
certe cose non cambiano mai» asserì la lupa, un sorso che prese dal suo
bicchiere fumante, le iridi scure che si posavano pensierose ed assolutistiche
su quelle di ambrosia, in una verità incontrovertibile. Ma Stiles avrebbe
voluto sapere di quale verità si trattasse.
All’età
di sedici anni Scott fu morso da un Alpha solitario ed abbandonato che con
disperazione cercava l’antico branco Hale, all’oscuro della loro dipartita.
Non
l’aveva trovato ed era riuscito a beccare un indifeso Scott mentre era in balia
di un attacco d’asma. Laura non avrebbe mai potuto prevederlo né impedirlo.
Laura
e Derek erano rinchiusi nel loro dolore, mezzi ciechi e non completamente in
totale accordo con la natura che li circondava; erano completamente
sopraffatti, anche se la nuova Alpha cercava di tenere intero ciò che era
rimasto, occuparsi della grande responsabilità che le era toccata.
Alcuni
mesi prima della fine del primo anno da liceale di Derek, quindici anni, la
tenuta Hale aveva preso fuoco. Undici persone erano morte.
Laura
era tornata da New York, in cui frequentava il secondo anno di college, ed era
rimasta per diventare la tutrice del fratello minore, abbandonando gli studi e
rimanendo a Beacon Hills, continuando a portare a compimento il compito che
generazioni di Hale si erano ritrovati sulle spalle, a sorvegliare la cittadina
di cui erano i fondatori e protettori. Laura aveva fatto molti sacrifici e
nessuno le aveva dato la colpa quando non era riuscita ad intercettare l’Alpha
che aveva trasformato Scott – non l’aveva nemmeno sentito arrivare –; si era
impegnata e prodigata per essere la migliore guida per il nuovo lupo mannaro,
eppure non gli aveva mai imposto di aggregarsi al suo branco e Scott,
inaspettatamente, ne aveva creato uno proprio, in cui Stiles figurava al suo
fianco, rivelandosi un maestro perfino migliore di Laura stessa. Lei ne era
rimasta stregata.
Chi
invece rimaneva sul bordo, nell’ombra, sordo ed infastidito dalla loro
presenza, era Derek stesso.
Non
li guardava, non voleva mai stare in loro presenza, non voleva che gli
parlassero e non era mai nei dintorni quando loro giravano intorno a sua
sorella maggiore. Si limitava, a volte, a lanciargli sguardi di sufficienza, ad
esprimere quanto fossero ridicoli e se Scott, magnanimo ed ingenuo lasciava
correre, Stiles non era dello stesso avviso, rispondendogli con tono mordace e
sarcasticamente pungente. Laura rideva saputa e Derek si imbronciava tradito
perfino da lei.
Ma
Derek era un fantasma, la profonda ferita che si portava dietro il figlio dello
sceriffo la vedeva benissimo, come se fosse la propria – e ne possedeva una
simile. Il lupo era solo una linea tratteggiata su un margine o quantomeno era
quello che voleva essere. Non era mai a loro disposizione, non accorreva mai in
aiuto e era sordo ad ogni loro richiesta ed in realtà non avevano alcuna
aspettativa in proposito.
«Perché
sei qui?» gli aveva chiesto una volta Derek a denti stretti, esasperato di
trovarlo dove non doveva essere, una palla da basket tra le mani, appena
afferrata dopo il suo ultimo perfetto canestro nella palestra della scuola.
Era
il suo ultimo anno, Stiles non l’avrebbe visto probabilmente mai più. «Mi piace
guardarti giocare» non credeva fosse un segreto, si era ritrovato a tifare per
la squadra di basket fin dal suo primo anno da liceale – molto di più di quanto
facesse con la propria di lacrosse – e non aveva desistito nel secondo, anche
dopo aver scoperto quanto Derek Hale fosse una persona scomoda. Sapeva
riconoscere il talento e adorava ammirarlo. «È il momento in cui sei più
felice».
Derek
era ammutolito, come se tutta la saliva nella bocca fosse evaporata e fosse
troppo secca per poter articolare qualsiasi cosa avesse voluto comunicare. Si
ripresentò uno di quei momenti in cui il mannaro lo guardava in quel modo
speciale, come se riuscisse a vederlo davvero, mentre persisteva a ribadire il
contrario. «E qual è il tuo momento?».
Oh,
Stiles si era ritrovato piacevolmente stupito e sbalordito, ricevendo per la
prima volta una domanda di interesse dal grande lupo cattivo solitario. «Te
l’ho detto, mi piace guardarti giocare, Sourwolf» ammiccò senza pudore, le
labbra che si distendevano in una curva sfacciata, le gemme d’ambra che
scintillavano fomentate, a manifestare quanto fosse una volpe astuta che
adorava dilettarsi. «Mette tutto in prospettiva vedere un lupo acido come te
accogliere la vita» anche se era evidente che la disprezzasse e rinnegasse, che
si limitasse a far trascorrere il tempo, senza sapere davvero cosa farsene, se
avesse dovuto investirlo e trasformarlo in qualcosa.
Derek
roteò gli occhi annoiato dalla scaltrezza sporca che Stiles aveva palesato,
stuzzicarlo come si permetteva di fare solo per risultargli scomodo. O per
riempire un vuoto incolmabile. «Sei fastidioso come pochi».
Stiles
gli riservò il suo sorriso compiaciuto, la vittoria che sapeva essere dalla sua
parte. «Più tardi saremo tutti a casa vostra».
«Non
ci sarò» rabbrividì al solo pensiero di ritrovarsi l’appartamento che
condivideva con la sorella invasa da sedicenni senza limiti, infrangendo ogni
spazio personale.
«Lo
so» la piega sul viso del figlio della massima autorità di Beacon Hills si fece
più morbida ed accondiscendente, consapevole che la creatura della notte
avrebbe preferito essere ovunque nel mondo che con loro. «Ti aspetteremo lo
stesso» Derek non si presentò né quel giorno né in quelli futuri, evidenziando
il suo malcontento, eppure Stiles non desistette mai e continuò ad attendere –
era, infine, arrivato al Michigan State University
il momento in cui Derek l’avrebbe finalmente raggiunto?
Mesi
dopo avevano detto a Laura che era giunto il giorno di lasciare Beacon Hills e
riprendere la vita che aveva messo in pausa tre anni prima, che erano capaci di
cavarsela da soli e che gli aveva insegnato tutto quello che serviva loro. Che
era sopraggiunto il loro turno di badare a quella cittadina particolarmente
turbolenta attorno al sovrannaturale. Che l’avrebbero contattata se avessero
avuto bisogno del suo aiuto, di qualche dritta.
Lei
era quasi scoppiata a piangere per il sollievo, l’enorme macigno sul petto che
non le dava tregua.
Si
era presa del tempo prima di decidere di preparare le valigie, lasciare la
città dopo che Derek si sarebbe finalmente diplomato, pronto per affrontare un
nuovo capitolo: il college.
Ma
le cose si erano messe tremendamente male quando i due Hale avevano lasciato
quella località dannata e concordarono che il momento di chiedere aiuto a Laura
non arrivasse mai.
Stiles
non si sorprendeva più di ridestarsi accanto a Derek Hale, nel suo letto e nel
calore che irradiava. Era l’ottava mattina, di seguito, non era confortante.
Voleva significare che il suo sonnambulismo non si era preso nemmeno un giorno
di ferie e quello preoccupava l’umano oltre ogni misura.
Una
volta aveva delle tregue, notti in cui suo padre non doveva uscire nel cuore
della notte o abbandonare il posto di lavoro per riportarlo in casa,
all’interno di quello che si riteneva essere un posto sicuro. Riprendere fiato
e illudersi che l’alta marea fosse passata. I cambiamenti che aveva affrontato
in quelle prime giornate universitarie erano stati talmente grandi e
destabilizzanti da mandarlo completamente fuori fase?
Quando
aprì le palpebre, Derek le teneva ancora serrate, come se si stesse godendo gli
ultimi istanti di quiete. Si chiese quanti fastidi gli arrecasse, in che stato
lo trovasse e quanto tempo gli occorresse per guadagnarsi la sua fiducia,
conducendolo nell’appartamento. «Ho saputo che ti hanno nominato capitano»
sapeva fosse sveglio, aspettava soltanto un cenno dal suo ospite improvvisato.
A volte si domandava se Derek dormisse mai davvero, se riposasse con lui
accanto a riempire le sue preoccupazioni, i sensi sempre in allerta per captare
tutto quello che li circondava. «Per la seconda volta».
Le
perle di giada si mostrarono, la tranquillità che si dissolveva; Stiles si
sentì un po’ in colpa. «Sì?».
Non
era una vera domanda, Derek gli stava soltanto dando corda, come se non gli
importasse affatto la carica che era riuscito a ricoprire, ma Stiles sapeva
quanto in realtà ci tenesse, quanto fosse portato per quel ruolo. «Me l’ha
detto Erica e… le sue guardie del corpo» non sapeva davvero in che altro modo
avrebbe dovuto classificarle.
Il
mannaro innalzò un sopracciglio con scetticismo e quella era l’unica risposta
che avrebbe avuto da lui. «L’hai incontrata».
«Sì»
continuava ad essere incredulo. «È così strano avervi qui».
Il
viso perfetto di Derek si increspò e la percezione cambiò. «Sento la paranoia
che avanza».
«Sono
solo i miei sensi che si attivano» Stiles abbozzò una piega ilare, il ghignetto
non davvero sentito che faticava a farsi strada. Lo destabilizzava realizzare
quanto il mutaforma fosse attento a lui, come
riuscisse ad identificare le sue particolarità e dargli un nome. «Sono successe
troppe cose per limitarmi a catalogarle come coincidenze, un mondo troppo
piccolo».
«Eppure
lo è» sentenziò la creatura leggendaria, imperturbabile.
Il
figlio dello sceriffo prese un lungo respiro, raccogliere le immagini che erano
rinchiuse in un cassetto speciale, uno che non doveva essere aperto. «Ti ho
parlato di questo posto soltanto una volta. Anzi, credo sia stata la nostra
prima ed unica vera conversazione».
«Magari
è l’unico college che mi abbia accettato» la voce era seria, eppure c’era una
nota di diletto nascosta sotto.
Stiles
sbuffò una mezza risata derisoria, non credendogli affatto. «Ritenta, sarai più
fortunato».
Derek
sembrò meditarci su per qualche secondo, ma era tutta una recita. «O mi hai
semplicemente ispirato».
La
trachea si svuotò e il fiato divenne rarefatto. C’era qualcosa che gli
sfuggiva, la riverenza con cui Derek gli sfiorava l’animo. «Non pensavo mi
vedessi in questo modo».
«E
come pensavi ti vedessi?» il mutaforma appariva
evidentemente interessato, in attesa. Stiles non sapeva proprio cosa si
aspettasse da lui.
«Non
mi vedessi affatto» lo sconforto e la stretta al petto che avvertì erano del
tutto inaspettate, non ne capiva minimamente la ragione, erano sfuggite al suo
controllo come tutto il resto di se stesso, incapace
di comprendersi. Continuava a perdersi, a non avere idea di chi fosse.
Un
pollice di Derek si avvicinò al setto nasale, poggiandolo all’altezza degli
occhi, a distendere delle pieghe contratte di cui era l’unico spettatore. Lo
stupore nella matricola fu grande, così come il beneficio di cui si appropriò.
Era mai stato toccato così? Le sue membra si rilassarono quasi immediatamente,
radicandosi in sé. Si rendeva conto che in quei giorni di convivenza forzata si
stava abituando troppo in fretta alle attenzioni che la creatura leggendaria
gli dedicava, si lasciava trasportare e ne traeva ogni vantaggio quasi il corpo
ne avesse accettato ogni contorno in una memoria che non gli apparteneva. Non
si poneva nemmeno più interrogativi su quanto fosse facile interagire in quel
modo tra loro due, perché non venisse colpito da un attacco di panico ogni
volta che veniva sfiorato dalla creatura della notte. «È necessario conoscere
la risposta?».
«Le
risposte sono importanti» essenziali, fin troppo spesso. Si accaniva a
discapito di sé per ottenerle, per trovarle e scovarle. «Mi aiutano a scoprire
il mondo, a svelarlo» a sapere cosa ci fosse in serbo per lui, da chi dovesse
guardarsi e chi trascinare con sé.
«A
volte, le risponde non sono la soluzione» il mannaro fu lapidario e c’era tanta
sofferenza in sé, l’incapacità di poter tornare indietro.
Stiles
si rimpicciolì sotto il suo tocco, alla consapevolezza che si accendeva
interamente in lui. A Derek non era servito conoscere perfettamente la risposta
del male che gli aveva sottratto la sua famiglia. Una verità che Derek
custodiva gelosamente dentro di sé, punendosi all’inverosimile e che, per
qualche stranissima ed improbabile ragione, aveva confidato soltanto a Stiles.
Erano i soli in tutto il mondo. «Derek».
L’afflizione
che fu rinchiusa nel pronunciare il nome del licantropo Derek la accolse e
scacciò via accarezzandogli una tempia stremata. «Non ho risposte, ma nessuno
sta complottando contro di te».
Stiles
aveva talmente tanti dubbi, che avrebbe voluto tormentarlo di domande, esigere
delle spiegazioni più approfondite, la sua paranoia aveva delle basi solide
dopo tutto quello che era accaduto, ma poi il mannaro gli avrebbe rivolto a sua
volta dei quesiti a cui non voleva rispondere. «Parlami degli energumeni che
seguono Erica» anche se definire Isaac in tale maniera era alquanto errata,
sembrava esile e altissimo, eppure dava la sensazione che potesse divenire
aggressivo in qualsiasi momento ‒ aveva afferrato che quest’ultimo
studiava veterinaria, mentre il colosso di muscoli medicina osteopatica. «Sono
dei lupi anche loro?».
Derek
persistette nel silenzio, era breve e calcolato, come se le sue sinapsi fossero
allenate a seguire il flusso di pensiero continuo della matricola nel caso
fosse stato necessario. «Sì» non sembrava preoccupato che la sua attenzione
fosse stata catalizzata da un’altra parte, era come se ci fosse un tacito
accordo, di non scoprire il vaso di Pandora. «Storia simile».
«Oh»
perché continuava a stupirsene? Di Alpha bravi ne esistevano davvero pochi e
lui lo sapeva fin troppo bene, oltre alla storia appresa su Erica e quella
vissuta sulla propria pelle attraverso Scott, si erano ritrovati ad affrontare
un branco di Alpha che voleva acquisire soltanto potere su potere, facendo del
male a tutti gli altri. Vite stroncate, vite distrutte. Era tutto sempre per
puro divertimento della fame di chi potesse permettersi di sentirsi superiore a
chi si aveva di fronte. «Per questo la seguono? Si sono trovati» anche se non
era di lei che avevano parlato per tutto il tempo che aveva trascorso con loro.
«Possibile»
il mannaro era distaccato com’era sua caratteristica, non c’era nulla che
potesse turbarlo. «Non mi pongo il problema».
No,
da Derek non si aspettava niente di diverso. A volte si chiedeva se ci fosse
qualcosa che potesse scuoterlo. «Sono stati loro ad informarci della tua
nomina» il cellulare in mano, a scorrere tutti i nomi appartenenti alla
squadra. A Stiles non era arrivata un’email del genere, dubitava gli sarebbe
mai giunta.
«Mh» mormorò Derek come se quello non avesse nessuna
importanza e gli scivolasse addosso, era catalizzato sullo studente di
criminologia, il polpastrello a sfiorargli quella tempia corrucciata. «Fanno
parte della squadra» non lo trovava insolito, come non lo erano i giochetti che
Stiles compieva per strappargli la verità.
Sì,
aveva senso. «Sono piuttosto orgogliosi di te» l’aveva notato subito, il
rispetto, l’entusiasmo, quella certezza cieca in cui confidavano.
«Sì?»
era un piccolo interrogativo, un desiderio di conoscenza che non aveva ancora
mostrato, le iridi verdi pizzicarono di blu e rosso e Stiles ne rimase
vivamente intricato, chiedendosi come potesse esistere un fenomeno come quello.
«Sì»
confermò con sincerità il figlio dello sceriffo, l’attendibilità della sua
capacità di osservare il prossimo. «Non è Erica che seguono. Seguono te».
Le
dita di Derek si fermarono e scivolarono tra le ciocche castane di Stiles,
immobili a trattenerle. Gli occhi erano più severi e non più permissivi, gli
intimarono di trattenere certe sciocchezze al suo interno. «Non sono un Alpha».
«Eppure
Erica ti vede così» a volte si era chiesto se lei riuscisse a sentire qualcosa
di particolare nel lupo tormentato, a cogliere qualcosa che agli altri non era
permesso ancora vedere.
«Erica
è invadente e non oggettiva» Derek in tutti quegli anni non se n’era ancora
fatto una ragione. «Soprattutto è inopportuna».
Inopportuna
perché in realtà quel ruolo lo ricopriva Laura? «Ti vuole bene» su quello c’era
poco da sindacare, Derek non avrebbe mai potuto negarlo o rinnegarlo. Stiles
aveva osservato spesso l’affetto che gli riservava, anche se normalmente la
cacciata via malamente. Penetrare quel cuore nero di pietra era una faticaccia
impari, ma la bionda rimaneva stabile nella sua posizione, a far sentire che
non l’avrebbe abbandonato mai.
«Così
sembrerebbe» lei c’era stata quando tutto era andato in malora, quando Derek
aveva perso ogni cosa, ogni parte di sé. Aveva rispettato il silenzio in cui si
era racchiuso, non permettendo mai che rimasse un solo spiraglio che concedesse
a qualcuno di insinuarsi. L’aveva seguito perfino lì, nella nuova vita che
tecnicamente avrebbe dovuto costruirsi.
Stiles
tacque per alcuni momenti, lo sguardo fisso in quello del mannaro a costatare
quanto potesse spingersi oltre. «Nemmeno a lei hai detto nulla?» era pericoloso
far prendere forma a quel quesito, ma della vita di Derek non sapeva niente da
quando aveva lasciato il suolo di Beacon Hills.
Le
labbra della creatura della notte si serrarono, in una linea sottile,
l’eloquenza nelle gemme di giada che si inasprirono. «No» tuttavia le sue
falangi erano ancora tra i capelli dell’umano, come incapaci di separarsene.
Stiles
si ritrovò ad annuire nella sua presa, aspettandosi esattamente quella
risposta. «Anch’io» non l’aveva mai ritenuta una cosa sana, ma era qualcosa che
apparteneva a Derek, al modo in cui si era aperto a lui, ritenendolo l’unico
meritevole a cui avrebbe potuto rivelarlo. «Ho mantenuto il segreto».
Il
pollice gli accarezzò il padiglione auricolare, con una tale delicatezza che
Stiles avrebbe potuto piangere. Delicatezza e Derek erano due
concetti che non potevano coesistere nella stessa frase, eppure Stiles ne stava
venendo ricoperto, come se fosse il solo catalizzatore su cui potessero
concretizzarsi. «Sei sempre stato bravo a custodirli».
Forse
lo era anche troppo, non sempre aveva giocato a suo favore, ma il segreto di
Derek era qualcosa che non poteva rubargli. «Sono ancora dell’idea che dovresti
dirle la verità» non stavano più parlando della bionda pericolosa che seguiva
il licantropo con fiducia, ma della Alpha che vegliava su di loro perfino a
chilometri di distanza.
La
mano di Derek questa volta si arrestò davvero e abbandonò la sua postazione,
lasciando la matricola completamente scoperta. «No» ribadì, scandendolo
chiaramente, l’incisività che prendeva piede. «Basti tu».
Non
sapeva bene come si sentisse al riguardo, oltre all’essere lusingato, l’eletto
che Derek aveva designato. Non era un segreto che potesse lacerarlo troppo, era
già rotto di suo, pezzo dopo pezzo aveva perso varie parti che lo costituivano,
ma era consapevole che invece quell’omissione avesse delle ripercussioni sul
ragazzo disteso accanto a lui, che ogni notte usciva dal caldo del suo
appartamento per trarlo in salvo dalle temperature rigide. «Va bene» spesso si
domandava se un giorno sarebbe arrivato a liberarsi da quell’enorme macigno che
lo studente di letteratura teneva per sé sulle spalle rigide da quattro
intramontabili anni.
Il
silenzio perdurò nell’ambiente circostante e Derek era ritornato nella sua
posizione impeccabile, a non invadere minimamente lo spazio personale
dell’umano; Stiles si ritrovò a realizzare che avvertisse in modo viscerale la
mancanza del calore del lupo invaderlo. Era ad un passo da lui, ma era come se
tra loro si intromettessero miglia e miglia di distanza. «Stavo pensando…»
Derek aggrottò le sopracciglia, a comunicargli che non si aspettasse niente di
particolarmente brillante dalla sua parte. «Non stai barando?» il licantropo
inarcò una delle suddette sopracciglia che lo invitava ad esplicitarsi e Stiles
sapeva bene che potevano intrattenere un’intera conversazione in quel modo. «A
Basket. Sei il capitano per il secondo anno di seguito e hai i migliori
risultati degli ultimi trent’anni. Sono sicuro che essere un lupo mannaro non
sia leale».
«Stiles,
non sto barando» si irritò la creatura leggendaria, un mezzo ringhio che chiuse
tra i denti, a trattenersi dal volerselo mangiare in un sol boccone.
«Come
no» la bocca scarlatta si curvò sardonicamente, l’ombra della volpe subdola e
attenta che si manifestava a sferrare il suo colpo. «Come fai a non farti
scoprire durante le analisi a cui siete obbligati a partecipare?» li scambiava
con qualcuno? Esisteva un trucco?
«Non
cercano variazioni genetiche» rivelò il mannaro, stranamente più propenso a
scambiare certe informazioni con lui. In realtà potevano ritrovarsi a parlare
di tutto e di niente, senza che gli sbalzi di umore intaccassero in qualche
modo la fluidità dei dialoghi continuamente modificati. «Ma anabolizzanti,
droghe e steroidi» qualcosa che Derek non avrebbe mai toccato nemmeno per
sbaglio e per cui provava disgusto, senza contare che non avrebbero avuto
nessun effetto su di sé. «E poi non si attivano, se non sono io a volerlo».
«Uao» esclamò Stiles stupefatto, la meraviglia che si
disegnava tutta sui suoi tratti facciali. «Siete delle creature incredibili,
tutto in voi è stato progettato per proteggervi» il che non era affatto un
male, con tutti le insidie che si ammassavano davanti al portone d’ingresso.
Avevano continuamente bisogno di essere tutelate e la natura e l’evoluzione
avevano fatto di tutto per tenerle al sicuro.
«Già»
proferì Derek con amarezza. Purtroppo c’erano dei difetti che non potevano
essere corretti, come il peccato di presunzione e il ritenersi invincibili,
inafferrabili, immuni a qualsiasi male. Ma il male esisteva ed era ovunque
intorno a loro, ad aspettare che abbassassero la guardia o facessero troppo i
gradassi. Derek quell’insidia malvagia la conosceva meglio di se stesso e gli aveva sottratto ogni affetto che avesse
conosciuto nella vita.
Stiles
scivolò verso il lupo che, al contrario suo, aveva l’abitudine di invadere lo
spazio altrui. Derek se lo ritrovò ad un soffio di distanza, il fiato bollente
che si mescolava. Le sue iridi cangianti risposero all’invadenza e Stiles
rilasciò il suo sorriso ammaliante, scacciando tutta l’oscurità che lo stava
prendendo di mira. «E dimmi, quanti di voi invadono i campi di gioco?».
Derek
ci impiegò qualche attimo a comprendere a cosa Stiles si stesse riferendo, a
quanto facile fosse perdere il filo del discorso per poi recuperarlo. «Molti
mutaforma giocano tra i professionisti».
«Questo
è davvero scorretto» Stiles si imbronciò come un bambino, le pieghe che si
disegnavano tutte sulla bocca carnosa.
«Pensi
davvero che tutti i mutaforma siano portati per lo sport?» Derek lo fissò con
sfida, l’intenzione che vibrava tra loro.
«No»
Stiles non dovette nemmeno pensarci più di tanto. Erano agevolati, ma il
talento e le capacità, il duro lavoro, erano tutto un altro discorso. «Tu sei
sempre stato bravo e guardarti mi piaceva tantissimo».
«Me
lo ricordo» nulla di nuovo sotto il cielo, ma aveva continuamente un certo
effetto sentirselo dire.
«E
anche come capitano sei strepitoso, il carisma non si apprende, lo si ha»
Stiles ammiccò impudico, come se avesse prove di quell’aspetto. In realtà
Stiles pensava che quella caratteristica carismatica e di perfetto capo Derek
l’avesse sempre avuta, ma che la celasse, tirandola fuori solo quando era
costretto. Nel basket non si era mai dovuto limitare, era libero di essere
esattamente chi era. «Anche tu ambisci a rafforzare le fila dei
professionisti?».
«Per
niente» l’aria accigliata che Derek assunse sembrava scaturita da un insulto.
«Oh,
questo è inaspettato» un po’ gli dispiaceva, ma evidentemente Derek aveva le
sue ragioni. «Certo, qualcuno potrebbe notare che non invecchi mai».
«I
lupi mannari non sono millenari, invecchiamo esattamente come te» Derek lo
riprese, perché non sopportava proprio le frivolezze che Stiles si lasciava
scappare, quando era ben consapevole che l’umano avesse fin troppo informazioni
sulla sua specie. «Stesso tempo vitale».
Chissà
come mai, ma aveva una certa impronta quella precisazione, il modo in cui Derek
l’aveva marcata. «Sì, certo, quelle sono le kitsune».
Gli
occhi di Derek si ingrandirono e il respiro divenne improvvisamente pesante,
come se qualcosa di troppo fosse stata rivelata inconsapevolmente. «Hai
incontrato una kitsune?».
«Due,
in realtà. Madre e figlia» meglio non specificare che la madre avesse cercato
di ucciderlo in ogni modo possibile e immaginabile, mentre la figlia le aveva
tenuto testa e avesse fatto di tutto per preservare la sua vita. Stiles
riteneva che il prezzo fosse stato comunque troppo alto, a volte si domandava
se fosse stato corretto pagarlo. «Scott e Kira, la ragazza, stanno insieme».
«Un
lupo e una volpe» la voce di Derek era immutabile, eppure l’entità con cui lo
disse Stiles la sentì perfettamente, quella cadenza incredula e anche
derisoria, ma non per i due citati, ma nei propri confronti.
«Sì»
Stiles purtroppo non era in grado di decifrare ciò che si stava creando nel
mannaro, ma era comunque troppo incentrato su di sé, alle memorie che gli
affioravano alla mente e che non gli davano tregua. Persino cambiare stato non
era servito a nulla.
«Non
era innamoratissimo della cacciatrice?» si vide costretto a chiedere il mutaforma. Gli mancavano dei tasselli, ma non credeva
così tanti.
«Ah»
in un certo qual modo quel innamoratissimo lo fece sorridere
internamente, non era per niente un termine che si sarebbe aspettato di udire
dall’insensibile Derek Hale dalle parole forbite e altolocate, ma immaginava
che volesse semplicemente sottolineare un concetto che entrambi conoscevano. In
più c’era quel dettaglio sulla figura della cacciatrice, quanto a Derek fosse
stretta e gli facesse male, considerando che fosse direttamente imparentata con
quella famiglia. Era una frase semplice, che non nascondeva niente, ma
era contenuta tutta la tragedia che Derek aveva affrontato e che ancora non
superava né mai ci sarebbe riuscito. «Allison. È morta» e Stiles aveva la sua
personalissima tragedia nel cuore.
Le
mani affusolate del figlio dello sceriffo tremarono, non riusciva a contenerle,
erano la rappresentazione di quanto sopraffatto fosse, quanto il suo corpo
reagisse immediatamente a ciò che lo faceva stare male.
Derek
lo guardò fisso al suono della sua voce sprezzata, mentre Stiles abbassava il
suo per fuggire da una verità che non avrebbe voluto rivelare, alle intuizioni
a cui il mannaro sarebbe potuto arrivare da sé, traendo le sue conclusioni.
Derek
quelle mani le fermò con le proprie, prendendole e tenendole, una poggiata sul
materasso e l’altra sul ventre dell’umano; gli spasmi non sparirono
all’istante, ma rallentarono progressivamente. «Basta» fu tutto quello che
disse, la voce imperiale e calda che si insinuava tra le sue membra esauste.
Era sbocciata la mattina, ma Stiles aveva già il fiato corto e non si era
ancora alzato dal letto.
Non
era un basta riferito alla situazione, ai
tremori che prendevano il predominio e manifestavano l’animo tormentato della
matricola, ma a ciò che Stiles era in grado di affrontare quel giorno, il suo
limite. Lo stanziò il lupo mannaro, non chiedendo minimamente spiegazioni,
quella parte di storia lunga due anni di cui era completamente all’oscuro. Gli
occhi d’ambra si aprirono e si ritrovarono a chiedersi chi fosse realmente
Derek Hale, il lupo con la morte nel cuore dai suoi quindici anni. «Der-»
Ma
non finì di pronunciare il suo nome, che il licantropo dinegò con il capo, a
spegnere qualsiasi parola. «Preparo la colazione».
Si
alzò soltanto quando i tremori alle mani terminarono, la calma che lentamente
serpeggiava dentro il figlio dello sceriffo a ridargli ossigeno.
Depositò
ai piedi del letto il cambio di abiti che l’essere umano avrebbe utilizzato e
che Stiles individuò come quelli che gli aveva riconsegnato soltanto due giorni
prima davanti al dipartimento di letteratura, sparendo subito dopo in direzione
della cucina nella sua grazia lupesca.
Stiles
era inebetito e non aveva mai provato quella sensazione di sollievo come in
quelle prime luci mattutine. La forma di rispetto e accuratezza che Derek gli
riservava, corrispondendo i suoi tempi e annullando l’invasività, era qualcosa
che colmava, tassello dopo tassello, il suo petto in tumulto e lacerato.
Stiles sapeva che era una pessima idea nel momento in cui
aveva accettato di seguirlo, ma era il suo compleanno, compieva diciannove anni,
continuava a svegliarsi nel letto di Derek Hale, segno che non vi era alcun
miglioramento in corso, e voleva semplicemente scaricare la frustrazione,
festeggiare in qualche modo.
Non era stato anticipato da chissà quale forma di
conteggiamento, Stiles sapeva di interessargli dal primo giorno in cui si erano
presentati ed avevano evitato di girarci attorno. Forse, se avesse preso tempo,
avrebbe scelto la persona che gli interessava di più, ma l’offerta che quel
giorno si era presentata era stata quella e si era accontentato.
Le spinte di Donovan e le penetrazioni erano state
brutali, senza alcuna grazia o attenzione nel farlo stare meglio; erano
istintive, guidate dal desiderio di raggiungere il piacere e trarre godimento
da quel corpo su cui aveva messo gli occhi quasi subito. Lo percorreva tutto
con le mani e con la lingua, gli addentava ogni parte di pelle a cui riuscisse
ad arrivare. Stiles l’aveva odiato. Aveva odiato ogni momento con lui. Non
aveva goduto nemmeno un secondo.
E pensare che quella giornata era iniziata in modo
particolare, imprevedibile, avrebbe osato dire. «Hai diciannove anni» l’aveva
accolto Derek, le membra che si ridestavano e gli occhi che sfarfallavano
ancora mezzi sopiti. Non permetteva mai che la matricola si svegliasse da sola,
anche quando era di fretta aspettava che fosse cosciente di cosa la circondasse
e del luogo in cui si trovasse. Con chi avesse trascorso la notte. Era una
delicatezza che le impedisse di andare in iperventilazione.
Stiles si era
ritrovato a guardarlo stupefatto, impreparato da una tale premura da parte sua.
«È vero» fu come se lo realizzasse in quel momento, comprendesse che giornata
fosse e data figurasse sul calendario, sfuggendogli completamente dalla memoria
che doveva ancora carburare. Ma quella di Derek non ne aveva bisogno e si vide
costretto a domandarsi quand’è che avesse appreso il giorno della sua nascita.
Si era sentito
contemplato, come se fosse un grande evento o fosse inimmaginabile essere
arrivato a quel traguardo ed in effetti per Stiles si era rivelato essere così,
ma cosa rappresentava per il licantropo?
Il lupo aveva
preparato una colazione da re, pancake a volontà impilati uno sull’altro,
sciroppo d’acero e uova con bacon, bottiglie di due tipologie di succo di
frutta e il caffè bollente già in tavola. Stiles l’aveva tradotto come il suo
modo personale di augurargli un buon compleanno.
Ma il calore
trattenuto che Derek gli dava senza pretendere nulla da lui, le imboscate
effervescenti di Erica che lo trovavano ovunque, erano offuscate dalla voglia
di unirsi a qualcuno che lo stava marchiando a fuoco, inabissandosi in lui e
tenendolo ben stretto, le bocche che si univano frementi ed affamate e il sesso
sporco che andò avanti più di quanto avesse preventivato. Non era quello che
cercava, non era ciò a cui ambiva e non era nel modo in cui piaceva a lui, ma
se lo prese comunque tutto.
Eppure si ridestò
tra le lenzuola del capitano della squadra di basket, lo sguardo smarrito ed
esausto. Le iridi boscose le riconobbe perfino nella foschia da cui non
riusciva a defilarsi, la testa inspiegabilmente pesante.
Stiles sconsolato
si coprì gli occhi con il dorso delle mani, la luce solare che lo inondava, la
schiena distesa sul materasso e gli arti che avevano bisogno di allungarsi.
«Credevo che almeno stavolta non sarebbe accaduto».
Derek tacque per
qualche secondo, il silenzio che si prodigava per il piccolo appartamento che
aveva preso in affitto. «Perché? Cosa è cambiato?».
«Evidentemente
niente» sorrise con amarezza, la tristezza che si espandeva in tutto
l’organismo. Si sentiva incatenato, non riusciva in alcun modo a serpeggiare
via. «Ho disperso le mie energie, le ho catalizzate. Di solito funziona» di
solito aveva anche esperienze migliori.
«Forse non è così
che funziona» decretò Derek diretto, il dubbio che diveniva concreto.
Lo studente del
primo anno scostò appena le dita dalle palpebre serrate, le gemme d’ambra che
si posavano sul suo interlocutore. Dove l’aveva trovato quella notte? Dopo
essere uscito dalla stanza di Donovan, svignandosela alla meno peggio,
percorrendo la lunga strada che lo conduceva al proprio dormitorio e
fiondandosi tra le docce comuni a togliersi tutte le impronte che aveva
lasciato su di sé, si era gettato sul letto, stringendosi alle coperte, la
mezzanotte del nuovo giorno scattata e l’addio a quello precedente, al primo
dei suoi diciannove anni. «Sembra così» ma non proseguì, non lasciò sfuggire la
domanda allora come funziona?, Derek di conseguenza gli avrebbe chiesto
da dove fosse partito tutto.
«Ti conviene
tornare a dormire» fu tutto quello che invece il lupo disse, disinteressato. «È
sabato, te lo puoi permettere».
Stiles socchiuse
gli occhi ancora addormentati, la pesantezza della testa non ne voleva sapere
di alleggerirsi ed era ancora intorpidito. «Sarebbe bello» ma quanto era
giusto? Quanto si poteva appropriare dei beni di Derek? Se fosse stato nel
proprio letto, al Mayo Hall, non ci avrebbe pensato due volte, ma era un
infiltrato che il mannaro doveva accorrere a soccorrere perché non riusciva a
svegliarsi. «E tu?» si voltò appena verso di lui, la mano che scorreva e
scopriva una singola iride ambrata, lo sbadiglio a mezza bocca. «Anche tu
dovresti seguire il tuo suggerimento. Non fai altro che inseguirmi, sarà
estenuante».
«Non lo è» ma le
labbra si chiusero per un attimo, come se esitassero, Stiles avrebbe voluto
sapere cos’è che non gli dicesse. «Soprattutto se stai bene».
Bene, chissà cosa
significasse davvero. «Sei più gentile di quanto ricordassi».
Derek irrigidì i
tratti, annoiato dalle sue considerazioni e Stiles si liberò nella sua smorfia
diabolica, le labbra arricciate e pericolose. «Dormi e basta, invece di dare
aria alla bocca».
L’umano si sciolse
un po’, i nervi che si rilassarono ed i muscoli che smettevano di essere in
tensione. C’era qualcosa di rassicurante nel notare quanto il suo interlocutore
non fosse minimamente cambiato, che ancora il suolo su cui camminava era
solido. Era una piccola prova, ma Stiles ormai aveva soltanto quelle e doveva
richiamarle con tutte le forze per non perdersi. «La Camaro parcheggiata qui
sotto è la tua?» era un tassello che ogni tanto gli pizzicava la corteccia
celebrale, ma non l’aveva ancora appianata. Si era ritrovato spesso di prima
mattina a cercarla in uno dei posti auto, ancora assonnato e sopraffatto dagli
eventi, come se bisognasse di qualcosa di aggiuntivo che gli lasciasse
intendere che effettivamente quello con cui aveva a che fare fosse realmente il
Derek Hale che conosceva.
«Sì» confermò il
capitano senza prestare attenzione alla sua curiosità viscerale.
«Perché è qui? A
cosa ti serve?» benché il campus della Michigan State fosse tempestato di parcheggi e strade asfaltate
facilmente percorribili, non intravedeva la necessità di possedere
un’automobile al suo interno con la facilità con cui ogni luogo nei dintorni
fosse facilmente raggiungibile. Diverso era se si preferiva frequentare luoghi
esterni, come il centro città, mete in cui arrivare. Derek non gli sembrava uno
che andasse molto in giro.
«Mi ha condotto
qui, come ogni anno» si limitò a spiegare il mannaro non dilungandosi.
Le pupille del
figlio della massima autorità di Beacon Hills si allargarono leggermente alla
nozione acquisita. Non era stupefacente che il lupo preferisse guidare la sua
preziosa auto invece di chiudersi dentro una scatoletta sospesa nel cielo ‒
che impiegava quasi un decimo del tempo ‒, ma se la memoria non lo
ingannava la distanza tra New Work e l’università del Michigan distava su ruote
di circa dieci ore, aggiungendo l’ipotetico traffico e gli imprevisti lungo la
strada, le pochissime pause che si conduceva perché non ne aveva strettamente
bisogno. Era davvero stupito di quella presa di posizione? Lui si sarebbe
comportato allo stesso modo con la sua Jeep azzurra se avesse potuto. «La mia
bambina invece l’ho lasciata a Scott. Chissà se la troverò ancora intera».
«Quella carcassa
non è mai stata intera» lo punzecchiò il padrone di casa senza lasciarsi
scappare l’occasione, un mezzo ghignetto sardonico in un angolo della bocca.
«Ehy» si imbronciò
con fervore Stiles, afferrando uno dei cuscini più vicini e tirandoglielo
addosso. «Sei un villano» ovviamente lo mancò, ma suscitò una parziale risata
in quella belva immonda ‒ probabilmente più per la scelta del vocabolo
che per l’azione in sé. Era contenuta, ma lasciò intendere che certe cose
sfuggissero al controllo del licantropo, per quella ragione si concesse di
studiarlo per qualche momento senza apparire fuori posto o insistente per
rinnovare le informazioni che aveva su di lui. «Era di mia madre» la voce si
affievolì e si rimpicciolì tra le coperte sentendosi esposto.
«Lo immaginavo»
rivelò la creatura notturna, il tono cadenzato. Si prolungò verso di lui e le
falangi si annodarono nella chioma castana, il polpastrello del primo dito che
gli sfiorava le radici a confine con la fronte. «Dormi adesso».
Era un
suggerimento che aveva intenzione di cogliere, maggiormente se accompagnato da
gestualità che lo scaldavano così tanto e lo avrebbero potuto fare scivolare
nella condizione di produrre delle fusa. «Resti con me?».
Nelle iridi verdi
si accesero quelle pagliuzze di zaffiro e rubino, ma il figlio dello sceriffo
continuava a non riuscire ad identificarle. «Finché ti sopporterò».
Le bocca di Stiles
si arcuò in una piega derisoria per entrambi e tornò a stendersi completamente
sulla schiena, la tenda che Derek tirò per impedire che l’Astro d’Apollo li
disturbasse troppo e la necessità di mettere a riposo quella continua energia
statica che gli scorreva dentro. La matricola non si accorse nemmeno che
impiegò soltanto qualche secondo per riaddormentarsi, il calore della creatura
della notte che gli invadeva i tessuti perfino quando non lo sfiorava nemmeno.
Riaprì gli occhi
tempo dopo, non sapendo che ore fossero e osservando il posto accanto al suo
vuoto, sentiva anche dei rumori casalinghi, oggetti spostati, sporteli
richiudersi insieme ai cassetti, i passi sul pavimento. Adocchiò la sveglia che
sostava sul comodino del mannaro, anonima e basica, le lancette arancioni che
scandivano la realtà del mezzogiorno passato da almeno trenta minuti. Sospirò,
si sentiva intontito, ma si sgranchì le ossa e balzò sul letto, infilandosi
dentro il bagno e schizzandosi la faccia d’acqua fresca che potesse ridestarlo
completamente. Prendere fiato e ricomporsi gli richiese del tempo.
Con ancora il
pigiama, si diresse verso la cucina, i piedi nudi sul freddo pavimento e la
seduzione del divano situato davanti la grande finestra luminosa che lo
richiamava a sé. Quasi gli si lanciò di sopra. «Buongiorno, Sourwolf».
«Giorno» lo
accolse Derek immutabile, non alzando nemmeno lo sguardo su di lui. «Ti ho
lasciato un cambio».
«Grazie» si
distese sui cuscini, le braccia che si tiravano per scrocchiare le ossa. Lo
aveva seguito quando era precipitato nuovamente nel regno di Morfeo o si era
alzato quasi subito, lascandolo alla solitudine? A volte faticava enormemente
ad inquadrare Derek, come riuscisse ad essere così paziente con lui, a non
sembrare mai disturbato da ciò che gli toccava fare e contemporaneamente
esasperato dalla sua persona, ma sapeva altresì essere costantemente
preoccupato, glielo leggeva ogni volta scritto sul volto statuario.
«Caffè?» domandò
la creatura leggendaria, la porta della lavanderia che veniva chiusa dopo aver
spento l’asciugatrice.
«Mh, non lo so. Ho fame» il suo stomaco brontolò come se
volesse sottolineare la situazione in cui l’essere umano si trovava e Stiles
una volta si sarebbe imbarazzato, ma dopo dodici giorni a svegliarsi nella
camera privata di Derek Hale aveva ben poco senso. «Forse dovrei sbrigarmi e
uscire a cacciarmi del cibo».
Derek il caffè
glielo preparò comunque e glielo consegnò in mano, in una tazza rossa
aranciata, la ceramica che gli riscaldò immediatamente le dita, costringendo la
matricola a sistemarsi meglio sulla seduta, appoggiandosi allo schienale per
non versare la bevanda. Stava cominciando a chiedersi se non fosse il colore
preferito del lupo, la tonalità perfetta del manto di una volpe infuocata. «Ho
il frigo pieno».
Stiles lo guardò
criptico, quell’indifferenza del capitano nel modo di porgersi non lo stupiva
affatto, era sempre stato freddo e disinteressato, eppure cominciava a notare
quanta cura gli dedicasse, quanto i suoi gesti fossero premurosi, ne era fin
troppo deliziato. «Non posso continuare a scroccarti tutto».
Il mutaforma lo
guardò come se lo stesse giudicando apertamente. «Non mi cambia niente».
Stiles tacque, non
aveva la più pallida idea di che cosa significasse quell’uscita. Davvero non
gli creava alcun disturbo condividere qualcosa con lui? Il Derek di due anni
prima era di un avviso ben diverso, odiava quando invadevano i suoi spazi e
andava lì dove era sicuro non lo avrebbero raggiunto, li guardava anche
piuttosto male quando se li ritrovava nel bilocale che Laura aveva comprato e
storceva il naso come se il loro odore lo trovasse disgustoso o semplicemente
invasivo, fastidioso. «Okay» Derek lo confondeva o forse era lui a confondere
il licantropo, non sapeva dirlo con certezza. Di una cosa, però, la certezza
l’aveva ed era quel liquido della temperatura perfetta che gli scivolava in
gola, la caffeina che gli svegliava il cervello in stasi e la nota di caramello
salato che accarezzava le papille gustative.
La prima volta era
rimasto sorpreso da quel connubio, la nota che Derek avesse aggiunto senza
rendersene conto e che avesse continuato a perpetrarlo in seguito poiché il
figlio dello sceriffo non l’aveva mai corretto. Aveva capito che era qualcosa
che piaceva molto al lupo e in qualche modo abbracciava la sua essenza, la
dolcezza dello zucchero che si scioglieva diventando uno sciroppo ambrato e il
tocco del sale che rendeva il gusto corposo, era un po’ come lo specchio di
quella vita che gli aveva dato tanto e tolto ancora di più. O semplicemente
aveva una predilezione per i sapori decisi e particolari. Stiles avrebbe
continuato ad usufruirne finché Derek avrebbe perseverato ad aggiungerlo
dappertutto.
Depositò la tazza
nel lavandino, i piedi sul tappeto che assorbiva l’acqua in accesso ed attutiva
i rumori, e si ritrovò davanti al padrone di casa senza un reale motivo,
l’osservava armonizzarsi in quell’appartamento che parlava in uno strano modo
di lui senza farlo davvero, perché Stiles si trovasse lì proprio non riusciva a
capirlo, quella confidenza che con Derek non aveva mai avuto e che il
licantropo non aveva mai permesso si realizzasse, eppure erano legati, ma non
riusciva ancora ad inquadrare in quale modo. Derek rispose alla sua occhiata
con un interrogativo ben stampato nei tratti facciali, ma Stiles non esternò i
suoi pensieri, come non esternava molte altre cose.
Si indirizzò
nell’angolo dedicato alla notte, il solo muro della cucina a differenziare gli
spazi che riusciva a creare la giusta intimità, anche se Stiles dubitava che a
Derek servisse essendo un’abitazione abitabile da una sola persona, tuttavia si
vedeva costretto a condividerla in qualche modo con il figlio dello sceriffo.
Individuò subito i vestiti che gli aveva anticipatamente depositato in un
angolo del letto, quello stesso che era stato monopolizzato dalla propria
persona, aggrovigliando le lenzuola. Come facesse Derek a sopportarlo era il
vero mistero di tutta quella atipica situazione.
Estrasse la maglia
del pigiama, trattenendola per la braccia, come se non sapesse esattamente come
procedere o se dovesse farlo; quante volte ancora si sarebbe trovato a rivivere
quella scena? In quante si sarebbe svegliato tra le coperte di Derek che lo
vegliava in allarme?
«Cos’è?» Stiles non
lo sentì arrivare dietro di lui, le gemme di giada che riuscivano a scrutare
ogni cosa anche a metri di distanza, le dita bronzee che gli sfiorarono un
punto sotto la spalla destra e la scapola, a tracciarne i contorni.
L’umano rabbrividì
e si scostò come se si fosse scottato, il capo che si voltava verso di lui e lo
fissava senza capire nulla, le iridi di miele giganti ed incredule. «Cosa?» ma
Derek continuava a non guardare lui, ma il punto che aveva sfiorato per capirne
la natura.
Non vedeva niente,
non era così contorsionista da riuscirsi, anche se aveva delle abilità motorie
che in genere i suoi partner apprezzavano; continuava ad alzarsi in punta di
piedi come se quello potesse aiutarlo.
Fu costretto a
sistemarsi davanti lo specchio posizionato nella piccola parete costituita dal
muro divisorio, la testa girata nell’angolazione migliore che gli permettesse
di osservarsi. «Quell’idiota» esclamò con fastidio, gli occhi che si scurirono,
costringendosi a voltarsi del tutto e contare i numerosi morsi che
costeggiavano buona parte del corpo. Uno faceva bella mostra di sé su una
clavicola e un altro alla base del collo, proprio lì dove la maglietta del
pigiama riusciva ancora a nasconderlo. «Grandissimo idiota» tutto il suo torace
ne era disseminato, come parte della schiena e la curiosità di controllarsi le
gambe e ben altre parti lo inondò, ma non gli parve l’opzione migliore
spogliarsi per assicurarsene davanti a Derek. Aveva voglia di far male a
qualcuno. «Voglio strappargli i denti».
Derek si silenziò
completamente, tanto che Stiles si dimenticò del suono della sua voce. «Non
apprezzi i morsi?».
«I morsi?» perché
gli appariva così anonimo il tono vocale che il mannaro stava utilizzando? «Non
ho detto questo. Non voglio i suoi» ah, ma che cosa stava farneticando?
«Generalmente li
vuoi?» era impassibile, ma la nota di interesse risuonò abbastanza forte.
«No. Sì. Dipende»
Stiles era piuttosto confuso, non sapeva con esattezza nemmeno più di cosa
stessero parlando.
«Dipende?» il tono
del lupo si fece più calzante e Stiles aveva giramenti di testa.
«Dalla persona»
non poteva credere che stessero davvero affrontando quell’argomento, che Derek
stesse tenendo in piedi quella conversazione che avrebbe dovuto concludersi con
l’arrabbiatura della matricola. «Perché stiamo parlando delle mie fantasie?».
Lo sguardo del
mannaro si fece alquanto scettico, come se interloquisse con qualcuno dotato di
poco intelletto. «Fanno parte delle tue fantasie?».
Stiles era sicuro
di voler sprofondare nel pavimento e arrivare fino al pian terreno, per
scendere ancora e giungere alle fauci dell’inferno. «No, io… non lo so. Non mi
ha morso molta gente. Ma di certo non volevo che lui mi lasciasse il calco
della sua dentatura».
Derek tacque e lo
vide quasi chiudersi, essere incredibilmente distante da sé. Che avesse detto
qualcosa di sbagliato? «Ti ha fatto male?».
«Sì» lo studente
di criminologia si stupì della domanda, la mano sull’orma dei denti che andava
a coprire per alleggerire il fastidio che gli procurava. Muoveva la pelle come
se sperasse che sparisse. «Aspetta, in che senso?» dalla postura assunta da Derek,
le spalle in tensione, lo sguardo assassino, si sentì chiamato ad approfondire
la questione.
«Ti ha fatto del
male?» scandì il mannaro a semplificarne il significato, le iridi di giada
affilate, quasi pronte ad entrare in azione. «Ti ha fatto qualcosa che non
volevi?».
Ah, quello metteva
tutto in un’altra prospettiva, soprattutto se Derek era in ansia e pronto a
passare all’azione, qualsiasi Stiles avesse bisognato. «Sei molto dolce, Der».
La creatura della
notte lo fissò come se vedesse un fantasma, qualcosa di non spiegabile e forse
Stiles aveva pronunciato qualcosa in cui il mannaro non si identificava, ma non
trovava un altro aggettivo con cui potesse descrivere ciò a cui Derek aveva dato
vita, tutta la premura e la gentilezza che gli era stata negata la sera prima,
ma anche in tantissime altre occasioni. Se Derek all’esterno apparisse come un
essere senza cuore capace di ottenere tutto quello che voleva senza alcun
riserbo, la realtà era ben diversa. Perché gliel’aveva nascosta talmente bene
da credere di trovarsi dinnanzi ad una delle sue allucinazioni? «È solo stato
brusco, per niente gentile. Si è rivelato molto egoista ed eccentrico, una
pessima scelta da parte mia» capiva perché il lupo avesse percepito il suo
dissenso come un torto che gli era stato arrecato, qualcosa che non voleva gli
venisse fatto, non si era espresso nel migliore dei modi ed il suo corpo aveva
comunicato in propria vece e Derek era troppo abituato a fidarsi delle emozioni
che le persone emettevano, che alle mezze verità a cui le parole davano una
struttura. «Il sesso è complicato» il dubbio era sempre dietro l’angolo, il
velo sottile che poteva essere frainteso.
«Sì, lo è»
l’insinuazione autentica era palpabile e Stiles non poteva ignorare il passato
di Derek, le mentite spoglie dei rapporti sessuali che aveva intrattenuto. Ma
per Derek non era mai stato esclusivamente sesso, successivamente era diventato
un incubo da cui non riusciva a svegliarsi.
«Se avessi
percepito qualcosa di diverso o anomalo, sarei andato via» chissà se gli
credeva, se la sua stoltezza fosse giustificabile.
Derek si limitò ad
annuire, senza bisogno di aggiungere altro. «La tua prima esperienza con un
ragazzo?» si vide costretto a chiedere il licantropo, i sensi attivi a captare
tutte le emozioni che l’umano emetteva e che potevano confermare o disfare
quello che era stato effettivamente detto.
«No, affatto»
avrebbe riso sguaiatamente di quell’ipotesi per niente fondata, anche il vice
sceriffo Parrish l’avrebbe fatto, molto più di lui.
«Di certo è tra le prime che rientrano tra le pessime» se la ricordava bene la
sua prima esperienza pessima, iniziata in modo insolito e stuzzicante, anche
totalmente inattesa, ma il problema si era presentato subito dopo, quando aveva
perso completamente se stesso. Cominciava a notare quanti elementi avesse in
comune con il lupo solitario.
Il silenzio cadde
così com’era stato rotto e l’immobilità si impadronì di loro. Era il caso che
Stiles si desse una mossa. «Vuoi che li cancelli?».
Stiles impallidì
al suono di quella proposta che al solito appariva contenuta, ma era del tutto
dedita a lui. «Lo faresti?».
«Non ho problemi»
dichiarò limpido lo studente di letteratura, a lasciarsi scivolare tutto
addosso senza esserne toccato.
«Sì» l’umano non
si trattenne, l’esigenza di vederli sparire dalla pelle era qualcosa che
scalciava, urlava e chiedeva giustizia. «Li odio».
Derek gli prese un
braccio trattenendolo tra le dita, le vene si colorarono di nero e l’inchiostro
si muoveva nella sua direzione, scorrendo sotto gli occhi attenti di Stiles che
non potevano credere che il lupo assorbisse quel dolore minimo soltanto per
fargli un favore ‒ e quell’evento lo faceva riflettere sulle abilità
pratiche di cui erano dotate quelle creature straordinarie, poter singolarmente
guarire parti specifiche di un corpo, quelle che richiedevano il loro
intervento senza toccare tutto il resto.
L’epidermide si
rigenerò, le tracce delle dentature sparirono e tutto appariva come se non
fosse stato toccato da qualcuno, come se la notte precedente non si fosse
arrotolato tra le lenzuola con un essere spregevole. Quando i vasi sanguigni
tornarono del loro colore naturale, Stiles alzò lo sguardo nel suo ed era della
stessa intensità speciale che riservava soltanto a lui. «Grazie, Derek».
Derek non aveva
nulla da aggiungere né Stiles si aspettasse qualcosa di diverso, eppure mentre
indossava una delle maglie basiche del mannaro, il dubbio si insinuò nella
mente rischiarata. «Sai riconoscere qualsiasi ferita, i morsi sono la tua
specialità» mimò i canini che uscivano fuori, la forza bruta dei lupi che
sapevano sempre come assestarli. Come usarli per trasformare qualcuno. «Perché
mi hai chiesto cosa fosse?».
Derek non si
pronunciò, rimase statuario com’era sua caratteristica, a decretare quanto
potesse spingersi oltre. «Ti fai del male» enunciò in un grande segreto
svelato, la serietà che si manifestava a indirizzare quanto lo fosse. «Quando
sei sonnambulo».
Stiles non
riusciva a credere alle sue orecchie, gli occhi si ingigantirono e divenne
anche un po’ sordo. «Che vuol dire che mi faccio del male?».
«Qualcosa di molto
simile all’autolesionismo» rivelarlo fu pesante, Derek se l’era tenuto per sé,
per una serie sconfinata di motivi, soprattutto con la necessità di comprendere
osservando.
«Autolesionismo?»
domandò in un coro senza consistenza, guardandosi le mani quasi potessero
comunicare con lui e rivelargli la verità. «Faccio una cosa simile?».
«Sì» si limitò a
confermare il mutaforma, severo ed autentico.
Stiles portò gli
occhi increduli nei suoi, totalmente attoniti ed intontiti. «Ma non lo farei
mai» arrecarsi del dolore fisico era un pensiero che non gli apparteneva,
infliggersi ferite, infierire su di sé.
«Il tuo cervello
ragiona in un modo» enunciò il padrone di casa, le parole ricercate e
meticolose, in un pensiero che si era già concretizzato. «Ma il tuo corpo
reagisce in un’altra maniera».
«Non ne avevo
idea» lo fissò come se non lo riconoscesse, come se non riconoscesse se stesso
e tutto quello che lo circondava. Suo padre si era imbattuto in quegli episodi?
«Quante volte è successo?».
«Qualche volta» ma
erano trascorsi soltanto dodici notti, non aveva idea di quante altre volte si
sarebbero potute ripetere.
«Ma non ho mai
fe-» ma si mutò e l’incredulità, insieme alla consapevolezza, si palesarono in
automatico. «Mi curi tutte le volte?».
«Non posso fare
altrimenti» non avrebbe nemmeno dovuto chiederglielo, Derek di certo non
l’avrebbe mai lasciato cosparso di sangue e ferite da ogni parte, il perpetuo
dolore che Stiles provava ogni singola volta.
L’umano si
abbandonò sul bordo del letto, le forze che gli venivano meno e gli occhi che
non riusciva a distogliere da quelle mani traditrici che agivano di propria
volontà. Era un incubo senza fine, continuava ad arrotolarsi intorno a sé in un
ciclo infinito. Quando avrebbe visto la luce del tunnel? La salvezza e la
libertà di cui aveva bisogno, invece di imprigionarsi autonomamente. «Non lo
sapevo» ma erano fin troppe le cose che non conosceva. «Stavi solo
controllando» come aveva reagito Derek quando aveva visto cosa accadeva? Cosa
aveva pensato e come aveva agito? Si era spaventato, era rimasto inorridito? In
che condizioni si riduceva per portare il mannaro a far sparire ogni forma di
autodistruzione che inconsapevolmente si arrecava? Non aveva nemmeno mai
trovato tracce di sangue da nessuna parte, si prodigava a pulirlo
diligentemente? Gli doveva così tanto e Derek non chiedeva niente in cambio,
non lo informava nemmeno di che cosa avvenisse, come se il suo contributo non
avesse alcun valore. «Arrecarmi dei danni fisici è qualcosa che disconosco».
Derek si accomodò
al suo fianco, il peso che prendeva consistenza facendo abbassare le molle, la
distanza di riserbo che in qualche modo continuava a dargli ed i movimenti
impercettibili che si aggiravano attorno a lui. «Sono stato testimone di
parecchie azioni suicide».
Stiles si voltò di
getto verso di lui, fulminandolo sul posto nel momento in cui afferrò la presa
in giro, sottoforma di mezzo rimprovero, che Derek gli assestò. Il suo tono era
sempre immutabile ed incolore, ma aveva quel retrogusto di leggerezza che stemperava
tutta lo scenario che li vedeva protagonisti. «Non è la stessa cosa, i miei
amici sono importanti, le persone lo sono. Salvarle è giusto».
«E tu, ti sei
salvato?» la ribeccata tagliente fuoriuscì dalla bocca serrata,
dall’impeccabilità del lupo che si limitava a mostrare soltanto quanto venisse
infastidito, ma lì c’era ben altro racchiuso.
Stiles si sentì
punto sul vivo, uno schiaffo d’aria che lo colpì in pieno viso, facendogli
arretrare la testa come se la collisione fosse realmente avvenuta. «No».
L’amarezza della
verità si propagò a tutto il monolocale e il senso di claustrofobia colpì la
matricola come se non se fosse mai andata via, insinuandosi nel cervello e
mettendo radici. Forse era qualcosa da cui non sarebbe mai potuta guarire.
Forse era stata danneggiata per sempre. «Forse una parte di me sta cercando di
liberarsi dall’involucro che la tiene prigioniera» la pelle che si lacera, il
liquido vermiglio che scorre, l’accanimento verso il proprio organismo che lo
tiene vivo. Ciò che lo teneva intero si stava disgregando.
«O forse sta solo
chiedendo aiuto» decretò il mannaro in una verità in cui era evidente credesse.
Glielo aveva
chiesto? Quello Stiles incosciente, che vagava nella notte gelida con soltanto
un pigiama leggero ed i piedi nudi, aveva mormorato qualcosa che avesse portato
la creatura della notte ad agire nella sua direzione? Aveva formulato una
richiesta che Stiles teneva radicata dentro di sé da tempo immemore, preferendo
soffrire in silenzio?
Ma il suo corpo,
il suo subconscio, avevano un’idea diversa e si prodigavano per far emergere
quei problemi che Stiles voleva bloccare in ogni modo permissibile. Che stolto
continuava a rivelarsi. «Riesci a sentirlo?».
Le iridi di
smeraldo si accentuarono in un cerchio cremisi, che dissipò nel blu marino.
Stiles ne fu risucchiato. «Sento tutto di te».
Stiles risultava
piuttosto distratto in aula, scriveva gli appunti senza ascoltare davvero le
parole del professore, aggiungendo considerazioni che avrebbe dovuto approfondire
in un secondo momento. Si rese conto che avrebbe dovuto fare un salto alla
biblioteca per consultare la lunga lista di libri da cui il docente estrapolava
le sue informazioni.
Derek si era fatto
più distante nelle mattinate in cui si svegliava di fianco a lui, non
conversavano più e si defilava in fretta, rimaneva al suo fianco nella quantità
temporale necessaria a comprendere che fosse al sicuro. Stiles non riusciva
proprio a viscerare la ragione. Che stesse diventando un fardello troppo grande
per il lupo? Un fastidio? Di certo aveva sempre saputo di esserlo, eppure il
mannaro non glielo aveva mai fatto pesare in alcun modo, non aveva proferito
parola in merito, ma Derek non era certo il miglior conversatore del mondo.
Se fosse diventato
un peso troppo grande per lui, senza nemmeno conoscere un quarto del bagaglio
opprimente che Stiles si portava dietro, avrebbe smesso di condurlo nel suo
monolocale dov’era certo potesse tenerlo d’occhio? O si sarebbe visto costretto
a continuare quell’azione da cavaliere impavido che doveva comunque
intervenire, perché non l’avrebbe fatto nessun altro?
Perché era
riuscito a mettere Derek in quella terribile situazione senza via d’uscita?
«Lavati e stirati»
disse Stiles con soddisfazione, tirando un sacchetto di carta in cui erano
sistemati un paio di magliette e pantaloni, consegnandolo tra le mani salde
della creatura della notte.
«Non era
necessario» proferì Derek non particolarmente colpito e annoiato, prendendo
anche il pacchetto che conteneva per l’ennesima volta le scarpe che diverse ore
precedenti gli aveva intimato di prendere.
«Stirarli?»
domandò confuso il figlio dello sceriffo, un sopracciglio innalzato e la fronte
corrucciata.
«Tutta questa
cerimonia» specifico spiccio il capitano della squadra di basket.
Le scale dietro di
loro si affollarono e Stiles rimaneva spesso stupito da quante persone ci
fossero al padiglione di arte e letteratura; quante ce ne fossero in generale
in tutto il campus, quella piccola cittadina dedicata esclusivamente agli
studenti. «Non posso certo riconsegnarteli tutti sgualciti, non sarebbe per
niente carino» non dopo tutto quello che faceva per lui, rimanendo in silenzio.
«Metà del tuo guardaroba lo dai a me».
Derek annuì
soltanto, unica risposta a quello sproloquio che l’umano avrebbe potuto
risparmiarsi e che non lo toccava minimamente. «Potresti cominciare a lasciare
qualcosa di tuo, se lo vedi tanto come un problema».
Stiles impallidì e
si fece quasi indietro. Resse il colpo malissimo e avvertì un cappio stringersi
attorno al collo. Il mutaforma lo sguardò stranito, gli occhi indagatori che
cercavano di guardare attraverso e leggere ciò che teneva radicato in sé. «Non
vuoi?».
«Non è quello»
sentiva la trachea chiudersi, l’ossigeno che faticava ad entrare e l’affanno
che cominciava a farsi sentire. Era tutto così difficile, così complicato.
«Sarebbe come se fosse definitivo».
«Non ho detto
questo» lo corresse Derek, smorzando le paranoie dello studente di
criminologia. «Noi non sappiamo cosa sia».
Stiles distolse lo
sguardo, voltando il capo di tre quarti e guardando da un’altra parte, quasi
sperasse che il lupo non potesse vederlo e celarsi a lui, anche il suo corpo lo
seguì in quell’angolatura, la strada per allontanarsi dal licantropo che si palesava
in tutta la sua bellezza. Era così ingiusto, così spregevole nei confronti
dell’unica persona che si stava occupando di lui in totale silenzio, senza
fargli gravare nulla.
«Stiles» le dita
bronzee e calde del lupo mannaro gli sfiorarono quelle pieghe crucciate che si
formavano un po’ troppo sulla sua fronte e prese e distenderle nella speranza
di farle scomparire. Sembrava proprio che non gli piacessero. «Non è una
cattiva idea essere preparati».
L’istinto
irrefrenabile di socchiudere gli occhi, seguirlo ed abbandonarsi a quel tocco
delicato era impressionantemente difficile da non assecondare. Non avrebbe mai
immaginato di essere toccato in quel modo da Derek, di essere toccato in
qualsiasi modo. «No» eppure la trovava comunque pessima.
Derek sembrò
essere soddisfatto delle linee d’espressione parzialmente scomparse, gli
appoggiò il polpastrello del pollice proprio al centro della fronte e
tamburellò due volte, in una sorta di purificazione, finché non risalì fino
alla radice del cuoio capelluto e dissolversi subito dopo. «Fai quello che è
meglio per te».
«Ci penserò» cosa
sarebbe accaduto se fosse diventato dipendente dal tocco liberatorio del
licantropo?
«Ragazzi!» un
uragano biondo si fiondò su di loro e circondò con le braccia Stiles da dietro,
stringendo forte.
«Erica» la salutò
con sorpresa evidente l’unico umano del trio, guardandola con fatica dalla
posizione di svantaggio in cui si trovava. Derek non le prestò particolare
attenzione, ma non c’era nulla di nuovo in quello.
«La mia mente ha
bisogno di carburante» disse la ragazza con trasporto evidente, la tracolla che
anche lei portava che premeva su un fianco di Stiles, a sottolineare che anche
la lupa avesse concluso con le lezioni per quel momento. Doveva essere appena uscita
dal College of Arts & Letters, lo stesso di Derek. «Mangiamo
qualcosa?».
«Okay» fu l’unica
parola che il mannaro pronunciò e Stiles ne fu davvero stupito, non perché non
fosse consapevole che anche i licantropi avessero la necessità di nutrirsi, ma
per l’essere incluso anche lui nell’invito di quel pacchetto. Ne ebbe la certezza
quando Erica lo trascinò con sé, a indicargli la direzione da prendere,
afferrandolo lievemente da un avambraccio.
Fu catapultato in
una tavola calda, molto lontana dai loro dipartimenti, occupando uno dei tavoli
più grandi e raggiunti minuti successivi da Isaac e Boyd.
Ognuno di loro
aveva davanti un hamburger gigante dall’aria invitante e strapieno di patatine
fritte, quelli dei licantropi avevano una cottura al sangue, cosa che non
doveva davvero incuriosirlo, ma il proprio aveva una cottura ben avviata – ben
cotto, ma non bruciato. C’erano degli aspetti nella sua vita che lo
invogliavano a voler vedere meno sangue possibile e soprattutto a sentirlo sul
palato, era stato parecchio categorico su quello. Derek l’aveva occhieggiato
appena a quella richiesta, le parole che teneva per sé; ancora una volta non
aveva commentato la sua insistenza.
«Accidenti»
esclamò sconsolato Isaac, la testa cigolante e il cellulare in mano a
controllare le notifiche. «Hanno appena anticipato l’allenamento. Tra due ore».
«Niente giorno
libero» sottolineo con dissenso Boyd, addentando con decisione una patatina, a
decapitarla nettamente.
«C’è il tuo zampino,
vero?» accusò Isaac, strizzando gli occhi azzurri e indicando Derek.
«No» negò con
semplicità, continuando a mangiare il suo panino con disinvoltura ed eleganza,
aspetti piuttosto insoliti da riuscire a tenere mentre si masticava un
hamburger gigante.
«Non ti credo» un
broncio evidente si formò sui tratti del licantropo riccioluto ed Erica ne
sorrise vivamente, come se la questione la divertisse, ammiccando trionfa con
le labbra rosse.
«È proprio un
capitano terribile» affermò l’afroamericano con dispiacere, ma in realtà Stiles
riusciva a sentire l’ammirazione che entrambi provavano per il lupo cattivo, si
stavano soltanto divertendo un po’ a sue spese.
«È uno
stacanovista» sintetizzò Erica con diletto, la parola che bisognava prendere
forma.
«È proprio da
Derek» l’umano scoppiò a ridere di cuore, qualcosa di totalmente inaspettato,
che colse impreparati i quattro ragazzi presenti al tavolo. «Questo Sourwolf si
impegna più di tutti, stremandosi; vuole che gli altri facciano altrettanto».
La lupa mannara
ammorbidì la curva affilata delle labbra e anche ai suoi occhi toccò la stessa
sorte, accomodata accanto a lui, collocazione che si era presa con la forza. «È
vero».
«Mi piacerebbe
tanto rivederlo giocare» era passato così tanto tempo, a volte credeva ne fosse
trascorso più di quanto effettivamente segnasse un calendario. Si erano
frapposti soltanto un paio d’anni, ma gli apparivano come ere intere, che non
avevano ancora raggiunto il loro picco. «Chissà che potenza sarai adesso. Posso
infiltrarmi tra gli allenamenti?» si rivolse direttamente a Derek, certo che
avesse bisogno della sua approvazione, gli occhi imploranti e da cucciolo
speranzoso.
«No» la risposta
del capitano della squadra di basket fu lapidaria e diretta, ammonendo
qualsiasi possibilità. «Sono a porte chiuse».
Stiles si
imbronciò tristemente, con il cuore spezzato ed Erica gli spettinò i capelli in
una carezza bonaria, di consolazione. «L’università è molto seria e severa,
diversa dal liceo» gli fece presente Isaac apparecchiandogli un quadro
totalmente diverso da quello che avevano conosciuto in precedenza. «I biglietti
per le partite si acquistano e non sono per niente economici» non che fosse un
aspetto che lo riguardava direttamente considerando fosse perennemente in
campo.
«Già, qualcosa che
non posso proprio permettermi» l’unico essere umano della cerchia sospirò
affranto, prima che incontrasse Derek non era qualcosa che lo interessasse
particolarmente, ma trovarsi lì entrambi, conoscere le sue abilità, sapere che
aveva ottenuto per la seconda volta di seguito il titolo di capitano, lo faceva
ammattire non poterlo osservare con i propri occhi. «Ehy, posso sempre forzare
le serrature, sono bravo» brillò, scuotendosi l’aria malinconica che soltanto
un secondo prima lo caratterizzava, riprendendo in mano la situazione ed
ammiccando pericoloso, la volpe furba e maliziosa che si palesava senza
riserve, senza considerare le conseguenze.
«Stiles» lo
riprese Derek tra i denti, ammonendolo immediatamente e tenendolo bloccato
sulla seduta in cui era con l’evidenza del suo sguardo severo.
Stiles sbuffò,
immune ai suoi rimproveri. «Non se ne accorgerebbe nessuno».
«Io sì» non
ammetteva repliche, il grande lupo cattivo era piuttosto chiaro su quel punto.
«Lo guardavi
giocare?» domandò invece il taciturno studente di medicina osteopatica,
interrompendo quel botta e risposta che dava la sensazione che sarebbe
continuata per un bel po’. «Alle partite?».
«Anche, sempre,
non ne ho mai persa una» il figlio dello sceriffo non si aspettava
quell’inaspettata voglia di conoscenza da parte dell’afroamericano, che
sembrava sempre disinteressato a tutto, tranne a quel gruppetto in cui la
matricola si era ritrovata per caso. «E assistevo a quanti più allenamenti
possibili».
«Perché?» si
ritrovò a dover sondare Isaac, era qualcosa che gli appariva fin troppo
anomala. «Non facevi parte della squadra, giusto?».
«No, certo che no»
Stiles ridacchiò in modo sardonico, trovava quello scenario delirante, al
limite dell’assurdo. «Nessuno mi ha mai fatto questa domanda» ma in effetti
c’era un motivo.
«Ah» Isaac tacque
e le iridi chiare si spostarono con circospezione verso il suo capitano che
appariva intoccabile, anche se era fin troppo consapevole di quanto non lo
fosse.
«Non devi
rispondere a noi» si intromise la mannara, cogliendo la difficoltà che si stava
insinuando, una che in qualche modo aveva conosciuto.
«Non è un segreto»
Stiles scacciò la proposta come se non fosse nulla, le dita che solleticavano
l’aria a cancellare quanto già accaduto. «Immagino fosse per non tornare in una
casa vuota».
Un attimo di
silenzio eterno si propagò, ma lo studente di criminologia non parve farci
caso. «Sì, è una buona motivazione» sopraggiunse Isaac, come se conoscesse a
menadito la situazione. In fondo, la conoscevano quasi tutti loro, in modi e
gravità diverse.
«È riduttivo,
detto così» si fece nuovamente sentire Stiles, la nostalgia che si faceva
sentire, tutte le memorie che scorrevano davanti ai suoi occhi. «Derek era
sempre lì, con la squadra o da solo, giocava finché poteva permetterselo,
finché non era soddisfatto di se stesso. Era uno spettacolo ricco di potenza,
bellissimo».
«Tu, invece, eri
fastidioso» lo riprese Derek, insensibile alle parole che venivano pronunciate
per lui.
«Non è vero, ero sempre
diligentemente silenzioso» ribeccò Stiles immediatamente, l’aureola finta sulla
testa.
«Silenzioso, tu?»
il mannaro strascicò le sillabe, come se fossero veleno, innaturale.
«Applaudivi tutto il tempo».
«Ero entusiasta»
puntualizzò l’umano stizzito, il naso che si arricciava e la combattività che
si accendeva tutta.
«Impara a
contenere il tuo entusiasmo» continuò la creatura leggendaria, il nervosismo
che sormontava velocemente.
«Sei così falso,
Der» lo prese in pugno il futuro detective, la ragione che prendeva il
sopravvento. «Se ti disturbavo talmente tanto, perché non mi buttavi fuori? Non
l’hai mai fatto».
«A cosa sarebbe
servito?» chiese retoricamente Derek, per niente turbato dalle manovre
manipolative della volpe acuta seduta di fronte a lui. «Non mi ascolti mai».
«Te ne do atto,
Sourwolf» il sorriso da Stregatto si manifestò in tutta la sua imprescindibile
vittoria e Derek roteò gli occhi come se non volesse sapere nient’altro,
afferrando il suo bicchiere e ingurgitando la bevanda zuccherata.
«Siete così
divertenti, mi siete proprio mancati» le labbra piene della lupa mannara si
curvarono totalmente deliziate, ghiotta del siparietto a cui aveva assistito.
Avrebbe volentieri richiesto un bis.
Stiles ammiccò
trionfante, Derek invece la incenerì nell’immediato e lei non si scompose
minimamente.
«Io mi preparerei
a vederlo sbucare in qualsiasi momento» prese coscienza Boyd, facendo tesoro di
ciò che aveva appena appreso. Erica riempì il locale con la sua risata corale,
Derek invece gli rifilò un’occhiata eloquente, in cui lo invitava a non incoraggiarlo.
«Che c’è? Se è come mi è stato descritto, è inevitabile» Boyd si sentiva
piuttosto pulito sotto quell’aspetto, il rimprovero dal suo capitano non
l’accettava affatto.
Stiles ammiccò
subito in modo spavaldo e malandrino, la piega pericolosa che si disegnava
sulle labbra abbondanti. «Parlate di me?».
«Hai continuato a
frequentare la palestra, anche dopo che Derek è andato via?» deviò abilmente
Isaac, decisamente disinteressato allo scontro a fuoco che si presentava dietro
l’angolo.
«Ah» il figlio
della massima autorità di Beacon Hills fu preso in contropiede, una bolla
d’ossigeno che si incastrò in mezzo alla trachea, indecisa. «Non ho più avuto
tempo» non aveva più avuto tempo per niente, anche se le mura domestiche che lo
circondavano continuavano ad essere vuote e la solitudine a volte si era
insediata ed espansa più di quanto ne avesse avvertito per sedici anni,
rivelando i diciassette come i più duri della sua vita; Stiles non aveva potuto
affievolire quelle sensazioni in alcun modo. «Comunque, senza Derek c’è poca
storia. Di Derek Hale ne esiste uno solo» sorrise in modo triste, appestando
l’olfatto di tutti i lupi mannari che lo accerchiavano.
Boyd e Isaac
spostarono i loro sguardi in modo piuttosto evidente sul loro capitano, mentre
Erica ebbe la lungimiranza di non provarci minimamente, Stiles, invece, non lo
comprese affatto e Derek li ignorò vistosamente, ma le spalle si irrigidirono.
L’umano non volle chiedere nulla, temeva che entrassero troppo nella sua sfera
personale e non voleva condividere gli anni che erano andati avanti senza lo
studente di letteratura nei dintorni. Non avrebbe comunque fatto la differenza.
Stiles per la
prima volta dopo settimane si affacciò al nuovo giorno in una camera ben
diversa da quella del lupo mannaro, ma piuttosto simile alla propria, nel
dormitorio a cui era stato assegnato. Ne ebbe la certezza quando notò il suo
compagno di stanza scendere dal suo letto, il pigiama sgualcito e gli occhi
ancora assonnati. Stiles non si era mai sentito più sveglio, più rilassato.
«Sei qui» registrò
Jiang enormemente sorpreso, come se apprendesse in quel momento che
effettivamente condividesse la camera con qualcuno ed esistesse un coinquilino.
«Sì» ah,
non riusciva ancora a crederci, si portò in posizione da seduta, a prendere più
coscienza con quello che lo accoglieva, toccando il materasso e le lenzuola in
cui si era risvegliato. «Buongiorno» lo era davvero.
La matricola di
economia esitò, le iridi scure che lo scrutavano attentamente. «Non voglio
essere indiscreto, ma ti frequenti con qualcuno?» ebbe la delicatezza di non
ricordargli che si scopasse i suoi amici.
In qualche modo
Stiles apprezzò, anche se lo avrebbe corretto, a sottolineare che fosse
accaduto soltanto una volta e con uno solo. Ma sarebbe stato ipocrita da parte
sua, aveva dell’interesse che lo conduceva a Theo, non poteva giurare che se ne
sarebbe tenuto alla larga né Theo sembrava volerlo; l’esatto contrario. «No,
nessuno» aveva storie di una notte, l’ultima era stata con Tracy, ragazza con
cui condivideva il percorso di studi – quella sì che si era rivelata appagante.
Non le definiva affatto relazioni. Non le cercava, non le voleva.
«Non ci sei mai al
risveglio. Quando torni, indossi vestiti di un paio di taglie più grandi»
l’asiatico non era particolarmente convinto, non erano nemmeno fatti suoi,
eppure non poteva esimersi dall’annotarlo.
Era stato beccato
con le dita nel barattolo della marmellata. «Ho problemi a dormire, ho bisogno
di uscire» era un eufemismo, avrebbe preferito legarsi al letto che affrontare
l’ignoto della notte, ma non voleva dilungarsi in spiegazioni né allarmare eccessivamente
il suo inquilino che non mostrava particolare simpatia nei suoi confronti; non
poteva fargliene torto.
Era evidente che
Jiang non fosse persuaso per nulla, la sua risposta colmava una sola lacuna,
non certo il fatto concreto che indossasse i panni di un altro ragazzo ad ogni
nuovo giorno – quindi, effettivamente, poteva far presagire che avesse una
relazione, una con Derek Hale. Irrealisticamente irrealistico.
Il coinquilino si
limitò ad annuire, facendo finta che gli bastasse, dirigendosi verso la porta,
azione che inevitabilmente l’avrebbe condotto al bagno comune che condividevano
con tutti gli studenti del loro piano. «Se posso fare qualcosa, chiedi» si interruppe
prima che facesse scattare la serratura, un cambio in mano ed i prodotti bagno
già preparati nell’apposito astuccio.
Stiles ne rimane
enormemente sbalordito, anche un po’ assordato. «Grazie, amico» anche se gliene
era vivamente grato, non avrebbe mai potuto chiedere a nessuno.
«Sono stupefatto»
lo studente di veterinaria era notevolmente sudato, accaldato e quasi esausto, fattori
molto atipici per dei lupi mannari o per la credenza che si aveva su di loro.
Boyd guardò nella
direzione che catturava l’interesse del suo compagno di squadra, individuando
nell’immediato l’anomalia. Ne sorrise senza vergogna. «Questa voglio proprio
godermela».
Derek gli lanciò
di proposito il pallone da basket dietro la schiena con l’intenzione di
punirlo, ma il colosso nero aveva dei sensi molto sviluppati che gli permisero
di afferrarlo e palleggiare in risposta, minimamente provato da quell’azione.
«Chi l’ha fatto
entrare?» domandò il coach a tutto l’ambiente che li circondava, osservando i
giocatori uno ad uno, incurante della fatica a cui li aveva sottoposti.
«Non è una
minaccia» si prodigò il capitano, i capelli scossi e pettinati dalle dita, ad
asciugare e mandare via il sudore, in un’azione inutile. Fece un unico cenno di
permesso all’allenatore, a rabbonirlo – era bravo –, avvicinandosi alla
panchina in cui erano stati accatastati gli asciugamani puliti e piegati
egregiamente, strofinandovi il viso ed avvolgendolo intorno al collo, in un
rito che gli permettesse di raccogliere i pensieri, non distogliendo gli occhi
dalla figura che sogghignava giocosa nella sua direzione, senza minimamente
nascondere le sue macchinazioni. «Cosa non hai afferrato di allenamento a
porte chiuse?» gli domandò quando percorse i gradini che lo conducevano al
settore che quella bestia di satana si era scelto, piazzandosi proprio davanti.
Stiles mostrò i
denti per quanto la curva della sua bocca fosse compiaciuta, tutti i tratti che
enfatizzavano il diletto di quel mammifero rosso che si prendeva tutto quello
che desiderava. «Mi intrigano i posti inaccessibili» era stretto in una delle
sue felpe, era blu e bianca, le temperature si stavano abbassando, mancava una
sola settimana all’entrata di ottobre, ma per lui più che essere accolto dal
tenue ed indefinito autunno, sentiva solo uno stringente inverno. Era tutta un
altro concetto rispetto all’eterno calore della California, si chiese se avesse
dovuto armarsi di qualcosa di più pesante per affrontare la rigidità della
stagione gelida che sulla carta era ancora lontana. «È stato anche fin troppo
facile».
«Stiles» lo
ribeccò il licantropo, pur sapendo di non ricavarne alcun effetto.
«Sei più bravo dei
miei ricordi» rivelò invece la matricola di criminologia, gli occhi ambrati che
non si scollavano dall’evidenza delle sue osservazioni. «Un altro livello»
odiava non aver potuto assaporare la crescita sportiva che il lupo aveva
intrapreso, non aver festeggiato anche privatamente i suoi miglioramenti, i
traguardi che aveva raggiunto. In effetti, era qualcosa con cui aveva fatto i
conti nel passato, ma apprendere la reale collocazione di Derek, il luogo che
un giorno Stiles aveva tutta l’intenzione di raggiungere, lo faceva sentire
come se gli fosse stato rubato qualcosa e gli scaturiva una certa rabbia che
non sapeva contenere. Ma era sempre arrabbiato, per qualsiasi cosa, non
riusciva a catalizzarla.
«Niente lusinghe»
ne era piuttosto immune, non si scomponeva mai.
«No, certo» il suo
sorriso triste e nostalgico, che stava stranamente diventando il suo marchio di
fabbrica, si palesò e non riuscì a cancellarlo.
Le iridi verdi lo
perforarono da parte a parte, Stiles sapeva che vi fosse una domanda
intrappolata e palese. «Mi sono svegliato nel mio letto» disse infinite, i
cuscinetti rossi che si ammorbidivano in qualcosa di più spensierato, tuttavia
rimaneva l’amarezza.
«Bravo» si
congratulò spicciolo ed intoccabile il capitano della squadra di basket che
continuava ad allenarsi alle sue spalle.
«Non credo ci sia
del merito in questo» ne avrebbe fatto volentieri a meno. Era sciocco
festeggiare una vittoria come quella, eppure si era ritrovato a volerla
condividere comunque con Derek nell’unico giorno in cui non si erano ancora
incontrati; non ve n’era motivo, nessun indumento da consegnare, niente scarpe
da riportare indietro. Non avrebbe mai voluto sottolineare una frase come
quella, comprensibile soltanto per le loro due figure. «In realtà, non so cosa
sia. Succede e basta» generalmente a casa gli accadeva più di frequente, ma da
quando si era risvegliato nel suo terzo giorno da matricola tra le coltri di
Derek Hale, non aveva avuto tregua.
«Una vittoria alla
volta, Stiles» gli fece ben presente la creatura della notte, la concretezza
che per lui prendeva forma.
«Sì» per l’umano
era impossibile classificarla come tale, si ritrovava in un circolo vizioso. Lo
sarebbe divenuta nel momento in cui si sarebbe sempre ridestato tra le proprie
lenzuola, senza conseguenze in mezzo.
Stiles non
l’avrebbe presa bene, la sua negatività atipica stava cominciando a
comprenderla.
Il periodo buono
dell’umano era durato appena due giorni, alla terza notte le orecchie si
rizzarono e Derek fu costretto nuovamente ad uscire con il cielo oscuro, le
stelle quasi inghiottite dall’inquinamento luminoso e la luna che brillava
incontrastata, perché nulla poteva adombrala, cancellarla, la fase di gibbosa
crescente prossima a passare a quella successiva, il plenilunio che attendeva
silenzioso dietro l’angolo. Ma per Derek non era mai silenzioso.
Il lupo percepì la
matricola nei dintorni del dormitorio, eppure non riusciva a trovarla; girando
e girando su se stesso i sensi erano in ansia perché lo conducevano alla parte
più pericolosa del campus, lì dov’era presente la Grand River Avenue,
trafficata di giorno, estremamente pericolosa di notte, con l’inesistenza del
rispetto per il codice stradale e il limite di velocità.
Raggiunse il bordo
della strada appena captò la direzione presa, il vento graffiante che non
cessava di rallentare, le auto che si lasciavano spostare dalle folate,
l’asfalto scuro che si perdeva nella notte. Non riusciva a vedere Stiles da
nessuna parte, avrebbe potuto percorrerla per ore senza riuscire a trovarlo,
chiedendosi se non fosse troppo tardi; il richiamo e l’esigenza di trasformarsi
erano lampanti, necessari, ma era troppo esposto, non poteva permettersi una
tale avventatezza così dal nulla. La precarietà della situazione e la
preoccupazione non gli rendevano lucida la mente, tutto il corpo fremeva per
trovare l’umano più disastroso in cui si fosse imbattuto.
Lo sentì quando i
suoi occhi si illuminarono del colore più improbabile, uno dei segreti che
custodiva gelosamente e di cui ne erano in possesso pochi eletti.
Il cuore quasi si
fermò quando lo vide sul limite della strada, i piedi completamente scalzi per
metà sull’asfalto e l’altra sulla ghiaia che lo facevano sanguinare, il suo
stupido pigiama di Star Wars – Il Ritorno dello Jedi che sventolava,
quasi volesse essere strappato via. «Stiles» era altro che voleva essere
strappato via.
Stiles non lo
sentì, non lo sentiva mai e nel silenzio Derek si avvicinò cauto, teso e
profondamente turbato. «Sta arrivando» disse al vuoto, all’unico interlocutore
che lo ascoltasse, al pericolo che si palesava sottoforma di fanalini accessi.
«Torna indietro» a
volte si era chiesto se gli parlasse perché lo interrogava, instaurava una
sorta di dialogo con lui, o se le parole che gli uscivano dalla bocca il figlio
dello sceriffo le formulasse a prescindere se fosse in compagnia o in
solitudine.
Stiles non tornò
affatto indietro ed i passi proseguirono in avanti, sulla linea che definiva l’inizio
della corsia, la pianta dei piedi completamente a contatto con il materiale
liscio di cui era composta la strada. «Lei è dentro di me. Nella mia testa. Mi
manipolerà. Farà tutto ciò che vuole».
Derek impallidì
quando lo vide avanzare, automobili sporadiche che li ignoravano al loro
passaggio, proseguendo la loro corsa ignari della tragedia annunciata a cui il
licantropo stava assistendo. «Fermati, Stiles» lo afferrò d’istinto, la mano
più vicina che si trasformava in una tenaglia, aggrappandosi al braccio della
matricola ed ancorandola a lui, bloccando ogni tentativo di andare oltre. «La
volpe non c’è».
«Sì, invece»
articolò con forza, le unghie che si conficcavano violentemente nei palmi delle
mani, sbiancandoli per l’interruzione del flusso sanguigno. Ma un altro flusso
ebbe inizio e dalle ferite cominciò a sgorgare quel liquido vermiglio che il
mutaforma vedeva manifestarsi in fin troppe notti. «Lei mi farà uccidere di
nuovo».
Derek lo guardò
incredulo, le iridi verdi giganti, sordo alle proprie orecchie dall’udito
eccellente, le vene che si ghiacciavano. Era la prima volta che veniva in
possesso di una tale verità, di ciò che logorava davvero l’umano straordinario
che si ridestava ogni mattina accanto a lui, eppure non era abbastanza per
legare tutti i pezzi di quel puzzle frammentato.
Ebbe quasi un
capogiro e si raggelò quando lo vide nuovamente mettere un piede dopo l’altro
per proseguire all’interno della carreggiata, gli anabbaglianti che si posavano
sul figlio dello sceriffo ad illuminarlo parzialmente, la stretta da cui si
stava liberando per procedere sul suo cammino. Derek fu quasi investito dalla
consapevolezza di non aver più un organo pulsante nel petto. Di nuovo.
Lo tirò indietro,
andando contro le sue proteste limitate da quel sonno continuo che prendeva
possesso del corpo, le azioni che sfuggivano al suo controllo e che non gli
permettevano un’autoconservazione. L’automobile li sfiorò con l’aria che
spostava, superandoli, i fanalini di dietro di un rosso accesso che li lasciava
ai loro drammi. «Non succederà» avrebbe voluto urlagli in faccia, scuoterlo,
svegliarlo, gridargli la sciocchezza che la sua mente offuscata stava mettendo
in atto, probabilmente senza nemmeno esserne pienamente cosciente, ma non
sarebbe valso a niente, Stiles non si lasciava mai svegliare e una sola parola
non gli arrivava. «Non permetterò che accada» quello che fece invece fu di
circondargli il viso con le dita, il calore corporeo che si prodigava dentro di
lui, la delicatezza del tocco che accompagnava i suoi tempi.
«Come?» gli occhi
del nettare degli dei erano sempre offuscati in quelle situazioni, ma le
risposte erano persistentemente la loro vera ricerca, concretezza e solidità
perfino quando era impossibile coglierle o essere fattibili. «Come farai,
Derek?».
Il mannaro stava
completamente perdendo la bussola, ancora una volta non riusciva a credere al
suo stesso apparato uditivo fornito di poteri incredibili. Non l’aveva mai
chiamato per nome, non aveva mai pronunciato alcun nome se non quello del
Nogitsune, era sicuro che Stiles non avesse alcuna coscienza con chi si
imbattesse in ogni episodio di sonnambulismo, che gli sarebbe andato bene
chiunque, che una voce valesse l’altra e non sapesse minimamente distinguerle,
ma se si fosse sbagliato? Se tutto quel tempo trascorso a rincorrerlo, a fargli
sentire la sua voce e presenza, si fossero aggrappati a lui, divenendo
un’impronta che potesse distinguere perfino in quegli scenari catastrofici? La
sua mente si stava affinando nella precarietà. «Troverò un modo. Fidati di me»
i polpastrelli dei pollici si piantarono sulle tempie, in cerchi concentrici
che alleviavano il tormento che viveva dentro lo studente del primo anno, la
fragilità della connessione che avevano creato, l’inestimabilità che Stiles
rappresentava per Derek.
Stiles si era
fidato.
Stiles non doveva
affatto stupirsi di essere avvolto tra le coperte di Derek con quest’ultimo al
suo fianco, ciò che lo incupiva era l’aria esausta che il lupo mostrava, gli
occhi coperti da un braccio che li celava alla luce, ma non sapeva se ne
fuggisse per una qualche ragione o se fosse solo un caso. «Der?» chiamò in una
domanda, il fruscio delle lenzuola che attivarono le orecchie del padrone di
casa che si fecero attente, segno fosse perfettamente sveglio.
«Ne dobbiamo
parlare» disse con un unico tono, la serietà rassegnata che si faceva strada.
Stiles si raggelò,
un unico blocco di ghiaccio che giaceva su un letto non suo. Non poteva essere
vero. «Cosa? No».
Derek scosse il
braccio, rimproverandolo alla vista e Stiles con orrore notò le occhiaie che
sporcavano il suo viso perfetto. I lupi potevano avere le occhiaie, quelle
ombre violacee che indicavano quanto il sonno fosse stato privato ad una
persona? «Sì, invece. Non puoi rimandare ancora».
«Io non sto
rimandando niente» l’umano scattò agitato, si liberò dalle coltri che lo
proteggevano dalle temperature differenti da quelle della sua città natale.
«Non dobbiamo parlare proprio di nulla».
«Da cosa stai
fuggendo?» si vide costretto il mannaro a chiedere, coscio di essersi fatto
scappare la domanda sbagliata.
«Fuggire, io?» una
risata sarcastica e derisoria sporcò la bocca di Stiles, insieme ad una
cattiveria che aspettava soltanto di balzare. «Che ipocrita. Chi è che fugge,
senza essere capace di dire la verità alla propria sorella? L’unica persona
cara che gli è rimasta».
La creatura della
notte si paralizzò, presa alla sprovvista e si dannò per quello, perché sapeva
che prima o poi la matricola l’avrebbe usato contro di lei. «Non stiamo
parlando di me».
«Non parliamo mai
di te, è tabù» un’altra risata satirica prese vita, l’esasperazione perfida che
non ammetteva una tale posizione da parte sua.
«Stiles» Derek era
veramente stanco, la perdita di tempo era qualcosa che detestava e lo sviamento
dell’argomento madre non era qualcosa che poteva permettersi, sentiva che in
qualche modo il tempo stava scorrendo nella direzione opposta alla loro e bisognava
prendere la situazione in mano. «Ogni notte è più difficile della precedente,
non hai idea del pericolo in cui ti cacci».
«Non ti ho mai
chiesto aiuto, non ti ho chiesto niente» il figlio dello sceriffo si diresse
verso il bordo del letto, scivolando e poggiando i piedi nudi sul pavimento;
ancora una volta erano puliti. Ancora una volta non vi era alcun graffio su di
loro né su alcuna parte di sé. Si sentiva braccato, bloccato, accerchiato da un
predatore che non gli dava via di scampo; doveva andarsene, fuggire, lasciarsi
dietro la sensazione della mancata capacità di respirare autonomamente. «Ti sei
presentato come un cavaliere senza macchia e senza paura e hai fatto tutto da
solo».
Derek lo seguì
furioso, le gambe avvolte dai pantaloni del pigiama che si alzavano
abbandonando il giaciglio, il torace possente ed allenato completamente privo
di veli, i lineamenti del viso taglienti e sciupati, l’aria di chi non avesse
mai raggiunto il regno del dio greco dei sogni. «Credi che non abbia paura?»
chiese retoricamente feroce, il tono vocale che prendeva valore. «Che non sia
terrorizzato dal tuo vagabondare senza meta e senza coscienza, dal male che
continui ad infliggerti senza che te renda conto?».
Le labbra carnose
dello studente di criminologia si serrarono malamente, schiuse a metà ed
indietreggiò come se fosse stato schiaffeggiato, colpito da un impatto che gli
arrecò dolore. Non voleva sentire, non voleva conoscere la verità. Non voleva
più essere salvato e salvare nessuno. «Dimenticati di me, Derek» era l’unica
soluzione, l’unica azione da compiere per non farlo affondare con lui più di
quanto non si fosse già condannato da sé. L’angoscia che Derek provava era
sempre sotto il suo sguardo, lo era perfino in quel momento, le forze in
esaurimento che gli chiedevano di trovare una soluzione all’assurdità del male
che la sua mente aveva creato. Era stato spregevole da parte sua sindacare su
ciò che il lupo provava davvero.
«Dimenticarmi di
te?» Derek avrebbe tanto voluto scoppiargli a ridere in faccia malamente e in
qualche modo lo fece, ma la drammaticità dei toni accusatori che utilizzavano,
rendevano lo scenario più inquietante di quanto si aspettassero. «Non è
qualcosa che posso fare».
Le mani di Stiles
presero a tremare, nell’avvisaglia del suo malessere, un peso estremo premeva
sul torace, pressando sui polmoni che non riuscivano a contrarsi e gonfiarsi,
prendere tutto lo spazio di cui necessitavano, l’affanno si fece preminente e
stava annaspando.
Derek si attivò in
allarme, riconoscendo subito i segnali e captando tutto quello che si stava scatenando
dentro Stiles, la dura lotta che si annidava al suo interno. «Hai un attacco di
panico».
Non era una
domanda né la conferma di ciò che stava accadendo, era semplicemente la
descrizione della sua fragilità e Stiles era stufo, sfinito e arrabbiato per
essere costantemente sul bordo di un precipizio. «Non toccarmi» esclamò
nell’immediato, allontanandosi nel secondo in cui vide il capitano avvicinarsi
alla sua sfera privata, protendere le mani, come se in qualche modo potesse
assorbire il suo dolore, ma Stiles ne provava eccessivamente per essere
risucchiato da vene che si tingevano di nero inchiostro.
Si chiuse in una
barriera, ricurvo su se stesso, una mano sul petto che faticava a tenere il
ritmo, oppresso dall’incudine che pressava e pressava. «È già successo» Stiles
avrebbe voluto gridare tutta la devastazione che avvertiva dentro di sé, che
aveva chiuso e sigillato in una parte recondita del suo essere, lontana da
qualsiasi fonte di luce, senza alcun amore verso la propria persona, facendola
crescere e crescere, diventare qualcosa di così enorme ed abissale da non
averne più il controllo. «È facile dimenticarsi di me» ma non era colpa sua,
non era colpa di nessuno, ma sapeva troppo bene quanto il mondo lo avesse
dimenticato, ben prima che la Caccia Selvaggia lo cancellasse realmente; non
era mai veramente riuscito a perdonare qualcuno. «Non hai alcun diritto di
chiedermi niente, Derek» di certo non sarebbe accaduto con Derek, consapevole
di quanto continuasse ad essere ingiusto, bestiale e crudele nei suoi
confronti. «Te ne sei andato».
Tutto il corpo
della creatura leggendaria si gessò e le gemme di giada risultarono incredule,
incapaci di credere a ciò che l’astiosità nefasta di Stiles avesse dato voce.
La volpe subdola che sapeva esattamente dove indirizzare i suoi colpi per
arrecare danno. «È questa la carta che ti stai giocando per tenermi fuori?».
«Non ti ho mai
invitato» sbottò l’essere umano, la presa che stava tentando di allentare, di
rilassare quel cervello avverso che combatteva contro di lui senza davvero
identificarne la ragione. Forse era vero ciò che Derek affermava, le azioni da
autolesionista che metteva in moto. In qualche modo ogni parte di sé voleva
sabotarlo. «Il tempo in cui ti volevo nella mia vita non è questo. Non puoi
scegliere tu, hai perso questo diritto».
«Sei sempre il
solito spietato, Stiles. A tenere la mossa decisiva per ultima» di cosa doveva
stupirsi? Chi impugnava l’arma vincente era l’umano che nascondeva la sua
natura malvagia in bella vista. «Sei stato tu a dirmi di andare via. Di
ricominciare da un’altra parte, esattamente come avresti voluto fare tu».
«Sì» asserì lo
studente di criminologia sputando veleno, gli girava la testa e vedeva tutto
sfocato, incapace di afferrare il concetto cardine che gli scappava dalla
periferia della mente. «Le nostre strade si sono interrotte. Le avevi
interrotte tu fin dall’inizio, camminiamo su binari separati sin da quando ci
siamo incontrati la prima volta. È stata una tua scelta, non c’è alcun motivo
per cui dobbiamo congiungerli. È la mia battaglia».
Derek era più
spento di quanto non fosse mai apparso, snaturato dai colpi bassi di quel
mammifero rosso astuto e perfido, estremamente pericoloso, ma i suoi occhi
boscosi sapevano ancora lanciare dei fendenti precisi. «La stai perdendo».
Il cellulare
squillò e Stiles non avrebbe voluto rispondere per nessuna ragione al mondo,
soprattutto quando sullo schermo lampeggiò la scritta papà. In quella giornata
non aveva proprio tregua. «Ehy, papà» l’aveva estratto dalla tasca e l’aveva
accostato all’orecchio, seduto su una delle panchine che davano su uno dei
laghetti del campus, totalmente distante da tutti i luoghi che Stiles
frequentava abitualmente, tutti quelli che suo malgrado lo rendevano
protagonista con Derek. Il mondo era grande, immenso, perfino quello
universitario, ma quello di Stiles si rilevava essere incredibilmente
microscopico ed angusto. Fissare la pozza acquatica in qualche modo gli regalava
l’illusione che potesse rilassarsi. Ma il suo intero universo era composto di
illusioni ed era quello il problema maggiore.
«Stiles» salutò
con calore lo sceriffo di Beacon Hills, l’affetto che sfociava anche a
chilometri e chilometri di distanza, interi stati che si frapponevano tra loro.
«Tutto bene?».
Ah, la domanda
fatidica. In un antico passato di cui Stiles cominciava a perdere la memoria,
era una sorta di rito, poche volte era realmente necessario conoscere e
preoccuparsi della risposta, indagare fino in fondo, ma ormai erano mesi che
quella domanda gli veniva posta quasi ogni giorno, anni, da quando uno spirito
millenario si era infiltrato dentro la sua psiche, controllando ogni passo,
manipolandolo in modo egregio. Suo padre aveva allentato la presa, si era fatto
meno invadente, ma da quando si era ritrovato a dover cercare il figlio
nell’oscurità della notte tra le strade della loro cittadina, non aveva mai
demorso, continuava a ripetergliela. «Sì, me la cavo».
«Sei sicuro?»
domandò con un’impronta diverta Noah, i sensi che si facevano più accentuati,
accesi. «Puoi sempre tornare».
«No!» Stiles non
voleva per niente considerare quella possibilità, aveva fatto di tutto per
scartarla. «Va tutto bene» non andava niente per il verso giusto.
La massima
autorità della loro città natale tacque per qualche secondo, le interferenze
che sfrigolavano dagli altoparlanti. «Sono ancora dell’idea di rimandare di un
anno».
«Sono qui, non c’è
alcun motivo di tornare indietro» se suo padre avesse saputo la verità, se lo
sarebbe venuto a prendere di peso.
«È trascorso
soltanto un mese» lo disse come se sulla carta non avesse nessuna valenza, che
poteva ancora ritornare sui propri passi.
Stiles non voleva
sentire ragioni. «Me la sto davvero cavando qui» se c’era riuscito, era
soltanto perché Derek era lì, una sfortuna nella fortuna, ma non era un fattore
su cui potesse più fare affidamento. Dubitava fortemente che il mannaro sarebbe
corso ancora in suo soccorso né Stiles lo pretendeva in alcun modo, ma era ben
consapevole di essere in una pessima situazione. La sua sicurezza di riuscire a
frequentare il primo anno di college indenne si era disfatta nel momento in cui
aveva compreso che risvegliarsi ogni singola e ripetuta mattina, una di seguito
all’altra, sul letto di Derek Hale gli prospettava una situazione tragica. Non
c’erano interruzioni, non erano occasioni sporadiche come invece si erano
presentate a Beacon Hills. Era tutto più incasinato e complicato, quasi la sua
mente stesse cedendo. «Se dovesse cambiare qualcosa, ti informerò» era fuggito
da Derek in pigiama, fregandosene altamente di come potesse apparire agli occhi
degli altri abitanti del campus, percorrendo in quelle condizioni la distanza
non trascurabile che separava le due ubicazioni, l’appartamento del lupo e il
dormitorio a cui Stiles era stato assegnato. Le scarpe le aveva indossate di
riflesso, probabilmente perché erano l’unico oggetto di cui avesse
necessariamente bisogno, sarebbe stato un disastro fargliele riavere indietro,
senza che buon sangue scorresse tra loro da quel momento in poi – ma era mai
stato differente? Derek non si era lamentato né l’aveva ripreso e Stiles era
uscito con i piedi al coperto senza porsi degli interrogativi che avrebbero
potuto suggerirgli di togliersele e lanciarle da qualche parte, probabilmente
proprio sul mutaforma, perché Stiles era un pessimo
soggetto. Il dolore che gli aveva arrecato, Stiles l’aveva indelebile sulle
retine.
«Non lo farai»
rivelò per lui il padre, mettendo in chiaro la sua conoscenza sulla mente e le
azioni del figlio. «Me ne accorgerò io».
Stiles purtroppo
era fin troppo conoscitore di quella verità; avrebbe voluto comunicargli che
non era solo, che quella sfida impossibile da vincere la stavano affrontando in
due, che era costantemente vigilato e protetto, non gli veniva permesso gli
accadesse qualcosa di brutto, che Derek Hale, il ragazzo tormentato ed
adombrato, con troppe morti nel cuore, non si scostava da lui e riusciva sempre
a trovarlo, ma non era qualcosa che poteva comunicargli, in nessuna circostanza
senza allarmarlo e ancora di più una volta che aveva tagliato ogni relazione
con il lupo. Stiles non si era mai sentito tanto in svantaggio come quel
giorno, in una resa dei conti completamente allo sbaraglio.
La palestra era
deserta, non vi era una sola ombra o un leggero tintinnio di una palla che
palleggiava, le luci erano spente e l’unica fonte luminosa era un quarto di
luna che era parcheggiata davanti alle grandi vetrate posizionate nella parte
più alta delle mura, tutto era avvolto nel silenzio e c’era un’aria solenne che
vibrava nello spazio che Stiles stava respirando. Aveva timore di spezzarla.
Derek era al
centro del campo, seduto sul parquet da cui era composto, la palla da basket
ferma ed immobile tra le mani, sopra le gambe perfettamente incrociate a
fissare il vuoto degli spalti ingrigiti e solitari. Era lì da ore ed aveva
impostato il cellullare sulla modalità silenziosa, disattivando perfino la
vibrazione, qualcosa che aveva smesso di fare dall’età di quindici anni.
Laura era in
ansia, tesa come una corda di violino, Stiles l’aveva vista agitata e scossa
quando lui e Scott si erano presentati da lei senza un reale perché se non
quello di essere invadenti perché era quello il loro modo di fare, incitarla
ancora una volta a togliere radici e allontanarsi da un luogo che la stava
risucchiando giorno dopo giorno, ma la lupa mannara non era spensierata e
pragmatica come in genere appariva e normalmente la mancanza di Derek tra
quelle pareti non era il segnale di qualche catastrofe che si stava abbattendo
dietro l’angolo, se non quello di mal sopportare la loro presenza, eppure aveva
subito captato che quell’occasione era diversa. «Non so dove sia andato, non lo
so mai» Laura non era invadente, rispettava gli spazi ed i tempi del fratello
minore, era un’Alpha incredibile e Stiles provava una tale stima per lei come
non ne aveva mai provato per nessuno, rimaneva in silenzio a guardare il dolore
in cui Derek si crogiolava, senza dare accesso a nessuno; se l’avesse forzato
avrebbe ricavato solo risultati negativi ed era qualcosa che non poteva
permettersi. La chiusura di Derek era travolgente e lesionante, eppure la
complicità tra i fratelli Hale era evidente e palpabile, il
mutaforma riuscita a respirare, ma non permetteva a nessuno, eccetto
lei, di avere un punto di osservazione.
«È oggi?» dopo
essersi defilati per non peggiorare l’umore di Laura e permetterle di
tranquillizzarsi lontano da sguardi invadenti, lui e Scott si erano diretti
alle rispettive dimore, peccato che Stiles avesse un altro piano, un tentativo
da compiere, principalmente perché non era affatto discreto.
Derek non si prese
la briga di voltarsi o occhieggiarlo in qualche modo, l’umano era sicuro di
essere stato udito chilometri più avanti, quando aveva posteggiato la Jeep
azzurra al parcheggio più vicino alla palestra. Così come non attendeva nessun
commento da lui.
Il figlio dello
sceriffo si piantò dov’era, vicino alla prima fila degli spalti da cui
generalmente si teneva alla larga, preferendo posti più alti, e si sistemò lì,
in attesa probabilmente di essere cacciato malamente.
«Sì» proferì
affermativamente la creatura della notte, secca, precisa, una conversazione
conclusa.
Stiles si sarebbe detto
sorpreso, ma non era vero, il lupo rispondeva sempre ad una domanda diretta se
riteneva fosse necessario, semplicemente evitava di trovarsi in quelle
situazioni. Evitava proprio di farsi trovare facilmente. «Anche quello di mia
madre ricade in questi giorni» soltanto sei giorni li dividevano ed era
qualcosa che avrebbe volentieri evitato di avere in comune con il capitano
della squadra di basket, ma in quei due anni aveva capito che i punti in grado
di renderli affini erano proprio le morti dei loro cari. Da nessuna delle due
parti era stata serena. «Lo vivo ogni anno in modo diverso» anniversario,
ricorrenza, Stiles non aveva mai apprezzato quei vocaboli, trovandoli
distorti e tendenziosi, facilmente fraintendibili affiancati al ricordare un
lutto, uno dei momenti più brutti della vita di una persona. Doveva esserci
gioia, ma non riusciva mai a provarla, c’erano solo rammarico, tristezza e
senso di colpa.
«Perché ogni anno
lo è» e Derek ne era distrutto ad ogni secondo, le macerie continuavano a
cadergli addosso, non riusciva a scrollarsi la cenere e mettere un piede dopo
l’altro risultava di una difficoltà immane.
Stiles lo fissò
attento, attraversato dalla strana sensazione che soltanto Derek fosse in grado
di riuscire a capirlo, senza realmente spiegarsi la motivazione. «Sì, è vero»
ma in realtà lo sapeva troppo bene, conosceva la storia delle mani che si erano
sporcate di sangue per risparmiare ulteriori sofferenze al primo amore del
lupo. Gli occhi da beta di un dorato brillante erano mutati in un blu
metallico, freddo. Derek non li aveva mai mostrati a nessuno, celati al mondo,
Stiles non li aveva mai visti e gli unici a conoscerli erano i membri della sua
famiglia, il branco che era stato raso al suolo. Erano rimasti solo Laura e
Peter e dubitava che Derek provasse particolare affetto per quell’ultimo.
Quindici anni e
Derek aveva già conosciuto il dolore della perdita per Paige, la prima ragazza
che avesse amato e di cui era stato maldestramente il carnefice, con obbiettivi
più longevi che avevano uno scopo completamente opposto. Il fato non era stato dalla
sua parte ed aveva infierito meschinamente qualche mese più tardi, come se non
l’avesse punito abbastanza, togliendogli quasi ogni affetto familiare.
Continuare a reggersi sulle proprie gambe era una tale azione titanica che
Stiles ne rimaneva completamente attonito.
«Avevi otto anni»
Derek entrò nella sua sfera uditiva, spezzando i pensieri infelici in cui si
era rinchiuso.
Le iridi d’ambra
si ingigantirono, uscendo quasi dalle orbite e direzionate totalmente verso il
capitano. «Come lo sai?».
«L’ho sentito»
rispose con semplicità il suo interlocutore, con nessuna valenza particolare.
«L’hai sentito» dove? Stiles
non ne parlava affatto, era un argomento che affrontava soltanto con suo padre,
nemmeno con Scott lo scalfiva mai né lui chiedeva qualcosa in merito. Super
poteri o meno, non riusciva proprio a collocare un momento in cui Derek avesse
potuto apprendere una tale informazione e cosa ancora più importante, dubitava
che potesse rimanergli impressa disinteressato com’era a chiunque non fosse se stesso e ancora meno ai ragazzini che avevano cominciato
ad appestargli l’appartamento che Laura aveva comprato per renderlo la loro
nuova casa, un tetto sicuro sopra la testa. «È vero anche questo, otto anni»
era quasi la metà degli anni in cui l’intera vita del mannaro cambiò.
Derek non commentò
né andò oltre, ma Stiles sentiva l’impulso, il bisogno di avvicinarsi; il lupo
mannaro aveva la capacità di sentirlo a qualsiasi distanza, ma per Stiles non
era lo stesso e interloquire mentre si estendevano metri tra un interlocutore e
l’altro non era un aspetto che otteneva il suo apprezzamento. «Aveva una
malattia al sistema nervoso. Demenza frontotemporale» la festa dei neuroni che
deteriorano. «È stato orrendo» si era alzato ed avviato senza minimamente
rendersene conto e si era avvicinato alla postazione in cui pernottava Derek,
senza dare l’impressione che volesse alzarsi e andare via.
Si era seduto
imitando la sua posa davanti gli occhi interrogativi e sgomenti di Derek, ma
non gli aveva intimato di allontanarsi o filare via; Stiles decretò che dovesse
andargli bene, che fosse quantomeno accettabile. «Non era più la stessa».
Derek stringe il
pallone tra le dita, la tensione che si stendeva per tutte le falangi per la
pressione emessa. «Ti ha fatto del male?».
Il figlio dello
sceriffo si stupì di una tale domanda e dell’intensità con cui gli fu posta, lo
sguardo verde ferreo su di lui, doveva aver captato qualcosa che gli era
sfuggito. «Sì» l’amarezza del suo dolore perenne. «Credeva fossi io a farne a
lei» quella credenza, quel senso di colpa, Stiles se li portava ancora addosso.
Il lupo sembrò
scorgere qualcosa di nuovo in lui, assimilarlo nel grande calderone in cui
gettava ogni aneddoto che apprendeva sulla sua persona, le gemme di giada che
si accendevano, quell’impercettibile bagliore anomalo blu e rosso che Stiles
non riusciva a non notare – anche gli altri riuscivano a vederlo? Era la sua
immaginazione incontrollabile?
Derek non chiese
altro, non proseguì in alcun modo quella conversazione che suscitava disagio in
Stiles, consapevole che certe ferite non si fossero ancora rimarginate.
«A volte vorrei
andare via» elargì il figlio dello sceriffo nel silenzio perpetuo e
restauratore che si era creato, un desiderio che difficilmente esternava, ma
che era sempre lì, presente nella testa. «Mi sento soffocare, le cose diventano
più pressanti. Ricominciare da un’altra parte».
Derek fece ruotale
il pallone da ottocento grammi tra i polpastrelli, precisi, chirurgici,
emettevano una sorta di risposta. «Avrai già una meta».
Stiles si scoprì
sorpreso di quell’affermazione così precisa, cadenzata, senza dubbi. «Dici?».
«Sì» affermò con
fermezza, privo di tentennamenti. «Ne sono sicuro».
Si chiese come
potesse il mannaro avere una tale sicurezza su di lui, nessun palliativo in
mezzo. «Ho un percorso che vorrei seguire, diventare un detective a tutti gli
effetti, davvero capace».
«Sei già una spina
nel fianco così, Stiles» rivelò con un sarcasmo stranamente sincero, senza
nessuna intenzione di redirlo, ma di giocarci su.
«Sei davvero il
lupo più acido che conosca» Stiles si imbronciò vistosamente, le guance che si
gonfiavano e la posa offesa, assestandogli un’occhiata della stessa intensità.
Derek rise di
gusto, una piccola risata circoscritta, ma Stiles non credette di averla mai
udita e allo stesso tempo era la più rumorosa che avesse toccato il suo
padiglione auricolare. «Ho detto soltanto la verità».
«Sì, beh, potevi
tenertela per te» l’oltraggio non riusciva proprio a toglierselo di dosso né
aveva realmente intenzione di farlo.
Derek rilasciò un
minuscolo sbuffo di risa e Stiles si chiese se fosse capitato in altre
circostanze che potesse osservarlo ridere, spezzando l’aria crucciata in cui
versava in ogni singolo giorno da quando lo conosceva. «Allora?».
«Ah, sì» ma di
cosa stessero discutendo il liceale del secondo anno ne aveva completamente
perso il filo. «Michigan
State University, voglio partire da lì. Il resto è un’incognita».
«Uno tra i migliori
college del paese» concretizzò la creatura della notte, afferrando il nome e la
fama che lo precedeva. «È molto lontano da qui».
Lontanissimo.
«Sì» forse era quello a stuzzicarlo maggiormente. «E ha uno dei migliori corsi
di criminologia» fondamentale.
«Ovviamente» Derek
lo bersagliò ancora con quell’ironia speziata, una smorfia arcuata sulle labbra
e Stiles gli soffiò contro come un gatto maltrattato, dettaglio che crebbe
l’ilarità nel diciottenne. «Ha anche delle temperature molto rigide, Stiles».
Non gli piacque
come scandì il suo nome, con la burla calzante e la sicurezza che fosse
talmente sbadato da non aver contemplato quel particolare. «Mi equipaggerò in
modo adeguato».
«Certamente» disse
sprezzante, non credendogli affatto e mostrando la dentatura bianca serrata.
Derek era un
bullo, Stiles l’aveva percepito nel passato, ma in quel momento ne era convinto
in ogni aspetto.
Si indispettì
talmente tanto che si tolse dal campo visivo del capitano della squadra di
basket, sistemandogli dietro la sua schiena e perseverando nella sua missione
da sostenuto. Il lupo non si scompose né lo cercò, non ne aveva bisogno, e
semplicemente si mutò, lasciando che i suoni venissero assorbiti fino a svanire
totalmente.
L’umano non
provava profonda simpatia per il silenzio, ma quello con Derek era differente
da tutti gli altri, era accomodante e prezioso, comunicava più di qualsiasi
agglomerato di lettere ed era confortante, necessario. Era un silenzio che
Stiles difficilmente avrebbe spezzato, sarebbe anche potuto durare delle ore.
«Se ti senti offeso, perché resti ancora qui?» ma era evidente che Derek avesse
dei piani diversi.
«Voglio restare
con te» il licantropo non credeva realmente che Stiles se la fosse presa
seriamente, avevano il loro pittoresco modo di giocare e le loro pochissime
interazioni erano scandite in quella modalità. Stiles non si sarebbe mai
arrabbiato con lui per così poco, ma voleva sentirlo parlare per un qualche
motivo. «Non voglio lasciarti da solo» Stiles sapeva perfettamente cosa
significasse e cosa provasse.
«Sono sempre solo»
dichiarò la creatura leggendaria, la voce precisa che dubitava avesse bisogno
di farglielo presente.
«Soltanto perché
tu vuoi che sia così» la sofferenza e la tristezza nel
mutaforma l’umano riusciva a percepirla comunque, anche se il suo tono
fermo tentava di celarli costantemente.
Il figlio dello
sceriffo non voleva infierire in alcun modo, non doveva dirgli lui come vivere
la sua vita, abbattere i muri che teneva alzati perfino con Laura ed Erica, le
uniche che continuavano a fiancheggiarlo anche se le rifiutava continuamente.
Derek rifiutava tutti, senza distinzioni, era arbitrario e non aveva
delicatezza per nessuno, a Stiles era servito del tempo per farselo entrare in
testa, che non ci fosse alcuna premeditazione nei suoi confronti, ma
provocargli dei fastidi non rientrava nel pacchetto. «Una volpe astuta come te
saprà cavarsela» e Derek se ne uscì con qualcosa di incredibilmente inaspettato
e disconnesso, forse un pensiero tra sé e sé.
«Una volpe?» gli
fece eco il sedicenne, incredulo ed attonito, incerto del reale significato che
le sue orecchie avevano registrato.
«Una volpe dal
manto infuocato» proferì con una cadenza ridondante, quasi in un sogno colmo di
afflizione.
La colonna
vertebrale dell’essere umano fu attraversata da una scossa non identificabile e
si stava perdendo del tutto, avrebbe voluto sporgersi e tornare sotto lo
sguardo vigile di Derek, quello così speciale nei suoi confronti, ma il suo
orgoglio glielo impedì ed in qualche modo si era creata una finestra
comunicativa che proprio non si aspettava. Si chiese anche se stesse realmente
parlando con lui, se i protagonisti fossero ancora loro, ed un malessere lo
colse quando la parola infuocato attecchì; tutti i suoi pensieri furono
deviati e non riuscirono più a tornare indietro, a quello a cui Derek tentava
di dare un senso.
«Non è un tabù»
proferì il capitano, i sensi che si attivarono intorno al rabbuiarsi delle
emozioni del ragazzo.
Stiles scattò
risvegliato, caduto nelle tenebre degli eventi che avevano toccato il
giocatore; una sola parola era pericolosa nel percorso incrinato, sottile ed
incerto in cui provavano a poggiare i loro piedi. «Con te, tutto sembra
esserlo».
Ancora una volta
Derek non aggiunse nulla, tutto si fermò esattamente lì, qualcosa di concluso
senza una continuazione. Erano lì per quello, un posto lontano dal clamore da
cui il lupo fuggiva, tormentarsi per le vite che non c’erano più nella
ricorrenza a loro dedicata; era la seconda a distanza di pochi mesi e da tre
anni Derek si ritrovava a riviverle: una per Paige, una per la sua famiglia.
Stiles era solo un intruso che conosceva parte del suo dolore, infiltrato e
fuori posto, sapeva che avrebbe dovuto lasciarlo a se
stesso, ma era qualcosa che gli risultava ostica. L’avrebbe fatto se gli fosse
stato chiesto, ma il mannaro non sembrava attraversato da quell’urgenza, in
qualche modo gli andava bene o qualsiasi cosa gli si avvicinasse.
«Non è il luogo in
cui sono più felice, al momento» Derek lo disse all’improvviso, cogliendo del
tutto impreparato il figlio dello sceriffo.
La voce atona del
lupo gli entrò nei timpani e Stiles non sapeva proprio cosa avesse dovuto dire,
che risposta si aspettasse da lui. «Quando giochi lo è» se ne aspettasse
effettivamente una. Stiles non aveva mai inquadrato il luogo, ma l’attimo.
Poteva accadere in qualsiasi posto nel mondo, l’importante era che Derek avesse
un pallone da basket con sé.
«Ero qui» rivelò
il capitano qualche secondo dopo, non facendo comprendere all’umano se avesse
afferrato la differenza di ciò che era in grado di individuare. «Quando è
successo».
Stiles non se
l’aspettava proprio, si irrigidì senza comprenderne davvero il perché. Aveva
letto il rapporto, aveva divorato gli articoli di giornale che descrivevano
passo per passo i movimenti della famiglia Hale, dai deceduti ai sopravvissuti
che casualmente, e fortunatamente, non si trovavano ancora all’interno della
dimora della famiglia più facoltosa della città. Stiles sapeva bene che la
creatura della notte era impegnata in uno degli allenamenti settimanali
programmati, il suo rientro in casa non era previsto nelle ore in cui il fuoco
aveva divorato ogni cosa.
«Li ho uccisi io,
è colpa mia» Derek lo disse e basta, sputò fuori la verità che lo annichiliva.
Stiles credette di
avere un serio problema di udito, di aver frainteso totalmente le sue parole.
«Non è affatto vero» si agitò sul posto, non riusciva proprio a capire cosa
intendesse.
«Lo è» il
playmaker avrebbe voluto ridere sguaiatamente e crudelmente della sua
ignoranza, quella di entrambi; non gli era permesso molto. «Avevo conosciuto
una ragazza dopo… Paige» Derek articolò una notizia inedita per Stiles. «Una
donna» l’umano non si proclamava il più grande conoscitore di Derek Hale e in
quegli anni non l’aveva nemmeno mai incontrato, non frequentavano alcun luogo
in comune e Stiles aveva soltanto tredici anni all’epoca, non c’era nulla che
potesse accomunarli, ma la gente parlava, il nome degli Hale e di Derek passava
di bocca in bocca. Non avevano smesso nemmeno in seguito, quando Stiles aveva
fatto il suo ingresso da liceale, ma non aveva mai sentito di una nuova ragazza
o donna dopo la morte prematura del primo amore del lupo. Se l’avesse udito da
qualche parte, campanelli d’allarme sarebbero risuonati alla parola donna. «Erano
trascorsi soltanto un paio di mesi ed ero già infatuato di un’altra» uno sbuffo
di risa derisoria gli sporcò la voce, c’era una tale amarezza in Derek che Stiles
ne fu colpito come se fosse stato attraversato da una freccia. «Poi innamorato,
è stato tutto molto veloce» troppo, avrebbe in seguito compreso Derek.
«Credevo di aver trovato la persona giusta» non proseguì, non specificò che
tipo di persona fosse, che cosa volesse ricevere da lei, ma Stiles comprese che
un seguito ci fosse, che le speranze ed i desideri del mannaro avevano cercato
di realizzarsi, soltanto che il figlio dello sceriffo non sapeva quali fossero.
«Ma lei aveva altri progetti, altre mire».
Stiles non era sicuro
di sentirsi bene, lì seduto a contatto con la schiena di Derek, totalmente
impossibilitati dal potersi osservare, il che forse era un bene in quella
circostanza. Ingoiò a vuoto, la gola che si faceva secca, arida, aveva la
brutta sensazione di capire dov’è che volesse andare a parare. «È stata lei?».
«Sì» la conferma
arrivò ad una velocità incalcolabile, ne fu travolto, si chiese se avvenne
anche al mutaforma. «Mi ha sedotto, stregato e legato
a lei. Quello che per me era stato confuso per amore era solo il frutto del suo
piano, istruito e ingannato con il sesso» Derek avrebbe voluto vomitare, dal
giorno dell’incendio, dal momento della realizzazione, non aveva provato altro,
eppure c’era riuscito soltanto una volta e non era stata sufficiente. «Riusciva
a farmi parlare di qualsiasi cosa, di certi aspetti di cui non sarebbe mai
dovuta entrare a conoscenza. Le riunioni tra i branchi, le difese della mia
casa, piccoli aneddoti non correlati tra loro, vuoti e vuoti a raggirarmi, con
l’illusione che non ci fosse niente di oscuro dietro, che la mia sicurezza non
sarebbe stata intaccata, perché stavo semplicemente conversando di tutto e di
niente con una persona che amavo».
Il silenzio cadde
nuovamente, Stiles avvertiva una nuova ferita che non pensava potesse
appartenergli. Un nuovo dolore. Ne aveva sempre provato uno di riflesso a
Derek, il mannaro non era mai riuscito a nasconderlo né ne aveva l’intenzione e
Stiles l’aveva percepito tutto come se lo stesse vivendo sulla propria stessa
pelle. Dalla prima volta che l’aveva incontrato dopo il morso di Scott, glielo
aveva letto negli occhi e credeva che Derek si tenesse alla larga da lui anche
per quell’aspetto, ma era evidente quanto non avesse, invece, capito nulla, che
la sofferenza affine era dovuta all’enorme senso di colpa che si portavano
entrambi dietro e che inizialmente aveva attribuito soltanto alla dipartita di
Paige. Non era mai stato tanto in errore. «Perché avrebbe dovuto?».
Derek sigillò la
bocca, si chiuse rigorosamente in se stesso e Stiles
lo percepì nell’immediato, le due schiene poggiate l’una sull’altra, i muscoli
che si contraevano, il peso che diveniva insopportabile. «Perché è quello che
fanno i cacciatori».
Stiles tremò in
ogni parte, le vene si raggelarono e si sentiva morire dentro. «Chi è la
cacciatrice?».
«Lo sai» fu tutto
quello che la creatura leggendaria disse, senza spingersi oltre.
Kate psicopatica
Argent, il mondo era un posto davvero orribile. «Chi altri lo sa?» non disse
il suo nome, non ne aveva il coraggio, non lo riteneva giusto, Derek non ci
aveva nemmeno provato e Stiles non le avrebbe permesso di avere altro potere su
di loro.
«Nessuno» dichiarò
lapidario il capitano della squadra di basket.
«Derek» il suo
nome fu detto in una forma di rimprovero, lo stava giudicando apertamente. Come
poteva celare un segreto come quello? Come poteva non dire di essere stato
adescato da una persona che aveva una decina di anni più di lui, un’adulta che
si era approfittata di un quindicenne con un dolore troppo grande da poter
gestire.
Stiles lo trovava
rivoltante, disgustoso, avrebbe voluto urlare tutto ciò che Derek celava dentro
di sé. Gli aveva tolto ogni cosa, ogni esperienza buona e pulita che nasceva
dall’attrazione e dall’unione di due corpi che si esplorano e si desiderano, crescendo
insieme, divenendo un tutt’uno. A amare e farsi amare, a sentirsi amato.
L’aveva sottratto della possibilità di piangere se
stesso, di riuscire a ricomporsi dopo essere stato, suo malgrado e
stupidamente, l’esecutore della morte di Paige; ricominciare a capire chi fosse
dopo che gli occhi da beta si erano tinti di blu. L’aveva privato del conforto
e dell’amore della sua famiglia, genuino ed incondizionato, che avrebbe sempre
lottato per lui. Gli aveva negato il cammino che un giorno l’avrebbe liberato
dai sensi di colpa che l’avevano cambiato, invece si ritrovava ad esserne
sommerso, schiacciato, a non riuscire nemmeno a guardarsi più in faccia, ad
affrontare ciò che era; erano triplicati, era condannato. Non sarebbe più stato
in grado di fidarsi di nessuno, di guardarsi da chiunque lo circondasse, dal
diffidare sopra ogni cosa delle persone che amava. L’aveva condannato a
respirare la cenere.
«Stiles, non deve
saperlo nessuno» marcò stretto il lupo mannaro, incisivo e spietato, non
avrebbe permesso niente di diverso.
«Allora sei tu che
devi saperlo» Stiles insistette, perché Derek doveva essere in grado di capire
quale differenza ci fosse. «Non sei tu l’artefice della morte della tua
famiglia. Lei ti ha usato per arrivare a loro. Ti sei fidato della persona
sbagliata».
«Non fa
distinzione» la rigirò il capitano, sordo ed insensibile a ciò che l’umano
tentava di fare. «È come se la scintilla che ha fatto divampare le fiamme
l’avessi accesa io».
Stiles realizzò
che cosa vivesse davvero in Derek, era lo stesso sentimento che provava anche
lui nei confronti di sua madre e non riusciva a vederci nessuna diversità.
Divenne una statua di pietra perché non era in grado di dire qualcosa che lo
confortasse, era svuotato. «Devi odiarci molto: me, Scott ed Allison» l’astio
che Derek aveva sempre mostrato per Allison, la riluttanza e l’avversione,
Stiles l’aveva imputata al suo essere una cacciatrice, appartenente ad una
delle famiglie più antiche di cacciatori, ma da quel momento in poi un altro
fattore più rumoroso e deleterio ne entrava a far parte ed era la parentela
stretta che la legava a Kate. Ritrovarsi riflesso in Scott, in quel circolo
vizioso che si ripeteva, lo aveva logorato più di quanto fosse percepibile.
Nessuno avrebbe potuto capirlo senza conoscere le sue ragioni e veniva
continuamente frainteso. Come dovevano apparirgli tutti loro? Il sentimento
romantico che Allison e Scott avevano istaurato e quello di amicizia che
stringeva con Stiles. Loro tre avevano fatto di tutto per non essere divisi,
trascinandosi dietro molte altre persone, allargando il loro seguito, con
Jackson e Lydia, rispettivamente lupo mannaro e banshee; sapeva che quel gruppo
ospitato da Laura a condividere tutte le sue conoscenze si sarebbe ampliato.
Era tutto l’opposto di ciò che era toccato a Derek.
«Non ti odio,
Stiles» dichiarò invece il lupo, scacciando fuori quella possibilità
inesistente; era ridicolo in partenza. «Non credo di essere in grado di provare
nulla».
Il sedicenne
avvertiva i dotti lacrimali pizzicare, era qualcosa di insopportabile, non
credeva nemmeno fosse giusto nei confronti di Derek versare quelle lacrime che
tratteneva con tutte le sue forze. Chissà se, invece, il mannaro fosse in grado
di versarle, se fosse riuscito a scaricarsi in qualche modo prima di diventare
apatico. «Devi andare via» sentiva il cuore pieno di tristezza. «Non c’è più
niente qui per te, Derek, se non un essere spregevole che vuole continuare a
torturarti».
«Niente» assimilò
il licantropo, facendo eco al figlio dello sceriffo. La stava gustando, le
stava dando un senso, trovava amaro anche quella. Era inesatto.
«Hai tutto il
mondo dove poter ricominciare, dove poter respirare» la voce di Stiles crebbe,
appassionata, credente, era lì la chiave di tutto. «Prendi Laura e va via, lei
si allontanerà soltanto se lo farai anche tu» il blocco di Laura consisteva
anche in quello, oltre al compito degli Hale di vigilare su Beacon Hills. Ma
bastava un branco, arrancato ed anomalo, ma era abbastanza e Stiles voleva
soltanto che loro due potessero riprendere la loro vita in mano. «È tempo»
qualunque essa fosse.
Non fu aggiunto
più nulla, il silenziò regnò sovrano e restarono in quella posizione per le ore
successive, schiena contro schiena, senza mai osare sbirciarsi; Stiles non era
sicuro di che cosa avrebbe trovato, su cosa Derek stesse riflettendo.
Il cielo si tinse
leggermente di rosa, la luna era ancora luminosa nel cielo, il sole era pronto
a nasconderla irradiandolo con la sua luce incontrastata. Fu a quel punto che
Derek si alzò e Stiles fu costretto di rimando, ma persisterono a non dirsi nulla.
La giornata scolastica di Stiles fu un disastro, non avendo mai chiuso occhio e
frastornato dalla verità che Derek gli aveva rivelato, consapevole e doveroso
di dover preservare il segreto.
Quando Derek
alcuni mesi dopo riuscì a diplomarsi con dei voti notevoli, il campionato di
basket ovviamente vinto, si volatilizzò insieme a tutti i suoi averi. Soltanto
Laura li salutò, una valigia alla mano, mentre tutti i pacchi con i loro
oggetti personali erano già stati spediti nella città che avevano scelto, il
luogo in cui lei aveva incominciato il suo viaggio in solitaria prima che la
tragedia la colpisse. New York era l’unica meta che gli fu comunicata,
non credeva ce ne fossero altre.
Avrebbe voluto
affermare di non essere stato turbato dal mancato ultimo incontro con lo stoico
capitano, di aspettarsi esattamente quello da lui, ma non era vero. Al di fuori
della verità che avevano condiviso, Derek era un pezzettino di lui e non l’avrebbe
rivisto mai più.
Non avrebbe
nemmeno più incontrato quello sguardo speciale ed indefinito che Derek gli
riservava e che, inconsciamente, Stiles si era ritrovato a ricercare nel
prossimo.
Insolitamente
Stiles aveva ordinato un cappuccino, una scelta che generalmente non rientrata
nel suo menù e di fatti se lo rigirava tra le mani, avendone bevuto solo un
sorso. Forse voleva soltanto provare spensieratezza osservando il disegno che i
baristi sperimentavano giocando con la schiuma. Era una foglia, bella, ma
insipida.
«Luna crescente»
proferì a voce moderata Erica, la porta che si chiudeva dietro di lei, il
campanello che tintinnava, la scritta Crescent Moon in quel lilla pastello rasserenanteche
figurava tra le pareti nel locale, oltre all’insegna appesa fuori
dall’edificio. «È
esilarante, divertente. Non credo di essere mai stata qui prima d’ora. A Derek
piacerebbe».
Stiles non afferrò
se fosse sarcastica o sincera, era sicuro che il lupo si sarebbe lasciato
scappare uno sbuffo esasperato, crudo. «La mia vita è esilarante».
«Vero» la mannara
approvò, mentre si accomodava al piccolo tavolino a due posti che l’umano aveva
scelto, non prima di aver ordinato un frappuccino al cioccolato ed un paio di
ciambelle dalla glassatura azzurra.
Rimasero in
rispettivo silenzio, la ragazza ad addentare il suo dolcetto e Stiles a giocare
ancora con la sua tazza piena, la schiuma stava svaporando, perdendo la
consistenza. «Avete litigato?» si vide costretta a chiedere, l’evidenza
fioccava.
«Se è così che
vuoi vederla» Stiles non aveva proprio idea di cosa fosse. Presupponeva che per
avere un alterco con qualcuno preesistesse una sorta di rapporto, che fosse
buono o pessimo, e che in seguito portasse a doversi chiarire e scusarsi, ma
lui e Derek erano indefiniti. Non c’era nulla prima e non ci sarebbe stato
altrettanto dopo.
«È più scontroso
del solito, quindi direi di sì» disse Erica incalzante, lasciava intendere
qualcosa che gli appariva estraneo.
«È una cosa
possibile?» la matricola soffiò un mezzo sorriso, divertito dall’assurdità di
quell’aspetto.
Erica sorseggiò la
sua bevanda, il portamento perfetto, l’impossibilità di sporcarsi anche con
quella vagonata di panna farcita di fondente. «Lo è, se si tratta di te».
Stiles fu
pizzicato dall’incredulità, il capo eretto, le pupille nere si rimpicciolirono
e le iridi di miele si fecero più evidenti. Erica l’aveva guardato solo per un
attimo con uno scintillio particolare negli occhi e poi era tornata
imperturbabile. Non riusciva a cogliere l’allusione che gli aveva gettato in
pasto; forse non aveva abbastanza elementi per arrivarci.
«Puoi
consegnargliele tu?» lo studente di criminologia lasciò correre, si concentrò
sull’afferrare la tracolla ed aprirla, estraendo il solito sacchetto ormai
designato a quel compito.
Erica osservò
l’involucro di carta contenere oggetti personali del nato lupo, accuratamente
riposti e conservati dall’essere umano. «Non vuoi proprio incontrarlo?».
«Meglio di no» non
gli passava per l’anticamera del cervello.
Erica indugiò, si
trovava in difficoltà e Stiles non se ne capacitava, temeva che l’ira del
playmaker si abbattesse su di lei? «Non credo si dispererà se per qualche
giorno rimarrà senza un paio di scarpe, nemmeno lo noterebbe».
Stiles aveva le
sue riserve su quell’aspetto. «È giusto così» non aveva intenzione di
trattenerle oltre, non era corretto, come non lo era pretendere e prendere
troppo da Derek. Al lupo non importava, se li lasciava scivolare addosso, ma a
Stiles non andava bene.
«Va bene» la lupa
mannara rassegnata afferrò il sacchetto di cellulosa da sotto il tavolo e lo
affiancò ai piedi della sedia. «Me ne occuperò io».
Con un singolo
cenno del capo il figlio dello sceriffo mimò un ringraziamento e tornarono a
godersi quello spuntino che spezzava la rigidità delle lezioni giornaliere.
Intavolarono conversazioni varie, mentre Erica gli offriva una delle ciambelle
colorate, ma non venne più fatto alcun riferimento al capitano della squadra di
basket.
Erica gli aveva
comunicato quanto Stiles fosse irrequieto quella sera, come mai le era capitato
di assistere, il che non era un gran metro di giudizio, perché erano passati
poco più di due anni da quando lo frequentava assiduamente, non poteva sapere
quanto fosse cambiato, aspetto che Derek invece aveva appreso. Era ancora
Stiles, ma era più rotto rispetto a come l’avessero lasciato, più appuntito.
Erica, tuttavia, aveva insistito, facendo emergere quanto fosse preoccupata.
«C’è la luna
piena, stanotte» aveva detto con lungimiranza, come se quello spiegasse ogni
cosa.
«Stiles è umano,
non ne viene influenzato» ed era un vantaggio, dopotutto. La lupa non avrebbe
dovuto farsi allarmare per qualcosa che in realtà non poteva toccarlo. Era ciò
che viveva dentro Stiles a dilaniarlo.
Aveva negato
fortemente con il capo, i boccoli dorati che oscillavano in ogni parte, le
iridi nocciola decise. «Lui non è come gli altri».
Era vero ed era
sempre stato quello il problema.
Il buio calò e il
satellite brillava nella sua totalità in mezzo all’oscurità, era lì, il
plenilunio; Derek lo sentiva in ogni cellula. Sentì anche i nuvoloni
assembrarsi, l’acqua cominciare a cadere, il vento irrigidirsi. Era una pessima
notte in cui girovagare, in cui perdersi. Ed ovviamente, all’una passata, Derek
lo percepì, ma non riusciva ad individuare il luogo.
Si precipitò per
le scale, il portone che sbatteva e la pioggia che si faceva sempre più fitta;
non riusciva a registrare nitidamente l’odore, le tracce erano state
completamente cancellate dall’acqua e Derek si ritrovava in svantaggio come
poche volte gli era capitato.
In mezzo alla
strada, i sensi attivi e l’essere completamente zuppo, attivare gli occhi da
lupo non gli bastava.
La trasformazione totale
fu la sua scelta, l’unica che avrebbe potuto intraprendere e mentre i vestiti
si laceravano e cadevano a pezzi, le zampe nere toccarono terra e presero il
volo, correndo a perdifiato ovunque gli venisse alla mente, seguendo quelle
poche tracce che da lupo completo era maggiormente in grado di captare.
La disperazione lo
colse dopo che trascorse mezzora a cercarlo, cambiando direzione continuamente,
battendo i luoghi più vicini al Mayo Hall e al suo appartamento,
percorrendo la Grand River Avenue più prossima al campus senza trovare
nulla. Ululò, quasi potesse ricevere aiuto da qualche parte, trasmettere la sua
frustrazione e preoccupazione.
Con l’acqua che
scorreva e continuava a cadere dal cielo, Derek fu trascinato verso il Red
Cedar River, il fiume che divideva l’immenso campus della Michigan State University, i ponti gli unici accessi che
permetteva di renderlo un unico ambiente impossibile da separare. In alcuni di
quei ponti spesso aveva trovato Stiles, in più occasioni la casualità o il suo
subconscio gli avevano fatto percorrere quello che l’avrebbe condotto al 1855
Place, da Derek. Ma quel giorno non sembrava che fosse quella la priorità,
il naso nero fiutava e fiutava, ma non otteneva risultati, di ponti ne aveva
già supervisionati diversi.
Le sue orecchie si
tesero quando sentì dei passi ovattati, piedi che scivolavano sul terreno,
sulle radici degli alberi che facevano da ostacolo, il liquido acquatico che
rendeva tutto scivoloso. Corse nella direzione del rumore, le zampe che quasi
fluttuavano per quanto andasse veloce, incurante di ciò che aveva intorno; non
doveva perdere la traccia, non poteva permettersi di rilassarsi.
Il panico e
l’orrore lo colse quando individuò Stiles sulla riva del fiume, nella parte più
selvaggia, in cui la civiltà aveva fatto del suo meglio per minimizzare il suo
zampino. Derek avrebbe quasi voluto che ci fosse una colata di cemento ovunque,
avrebbe reso l’impresa più facile.
Stiles non stava
rallentando, la violenza della pioggia lo spingeva in basso e lui non sembrava
intenzionato a risalire, quindi Derek scivolò, gli artigli sul terreno e sul
calcestruzzo, le iridi accese che fendevano l’oscurità.
Abbaiò, ma Stiles
non lo avvertì. Ringhiò, ma Stiles persisteva a scendere.
Riuscì a balzare,
la tormenta che voleva lasciar vincere la gravità, la violenza e la forza che
servirono a Derek per completare l’impresa. Gli addentò la maglia del pigiama
completamente inzuppata, i denti che affondavano e tiravano per allontanarlo
dal letto del fiume, ma lo studente del primo anno si ribellò e si divincolò,
la maglietta allargata, il tessuto che si lacerava e il lupo fu costretto ad
allentare la presa, temendo che la matricola potesse farsi ulteriormente del
male. Fu a quel punto che il figlio dello sceriffo si gettò nel corso d’acqua o
cadde, Derek non riuscì a definirlo, a trovare la verità.
La corrente della
tempesta lo trascinava via e il mannaro si tuffò, uggiolando per il dolore e il
terrore, spingendosi con violenza verso di lui, per riuscire ad acchiapparlo,
impedire che la corrente lo portasse via dove Derek non sarebbe stato in grado
di raggiungerlo. In tutto quell’affanno, la luna perseverava ad avere potere su
di lui e la creatura della notte annaspava, si dibatteva dentro di sé per
riuscire ad avere la meglio e mettere al primo posto lo studente di
criminologia. «Dannazione, Stiles» fu la mano umana a riuscire ad afferrarlo,
la trasformazione in lupo completo che si annullava, il braccio che si
avvolgeva intorno al corpo della matricola, stringendo mentre tentava di
nuotare controcorrente e spingersi verso la sponda più vicina.
«Svegliati» Stiles
continuava a dibattersi, a far violenza verso se
stesso e Derek, li trascinava verso il fondo come se fosse una cosa voluta.
«Stiles, svegliati» ma l’umano non si svegliava, nemmeno l’imbatto con l’acqua
ghiacciata riusciva a destarlo. Il sonno che lo imbrigliava era talmente
potente da non permettere che ne scappasse, Derek ne era inorridito più di
quanto non lo fosse stato in passato. Più passava il tempo più credeva di
averlo compreso, invece si ritrovava punto ed a capo. Gli ultimi due episodi si
stavano rivelando più tortuosi di quanto potesse immaginare e temeva soltanto
che la situazione potesse degenerare.
Con una fatica
immane ottenne il risultato di sospingerlo verso la riva, metterlo in
sicurezza, con il mannaro che lo seguì subito dopo, bisognoso di riprendere le
forze e rendersi conto di cosa fosse realmente accaduto, ma il figlio dello
sceriffo non aveva l’intenzione di permettergli di recuperare le energie e
riprese a muoversi in una direzione qualsiasi, opposta a quella in cui si
trovava lui. «Stiles, fermati» Derek era sfinito, ma non gli permise di
allontanarsi troppo da sé, intercettandolo e bloccando la sua avanzata,
afferrandolo per entrambe le braccia, scuotendolo in un'unica volta. «Basta».
Stiles tremava in
ogni parte, la pelle d’oca lo rivestiva in ogni lembo di epidermide, le gocce
che scivolavano insieme alla pioggia che invece di rallentare prese a cadere
più forte, senza fornirgli una tregua. Non c’era benevolenza per loro quella
notte, forse in nessuna. «Lei verrà a prendermi, è vicina, devo andarmene».
«Lei non è qui»
dissentì Derek, la voce alta che cercava di fendere il sovrastare dell’acqua.
Era ovunque, sotto di loro e sopra, ne erano circondati, bersagliati. «È molto
lontana da qui, non potrà mai raggiungerti».
Stiles lo guardò
crucciato, indifeso e intrappolato in qualcosa più grande di lui. «Come puoi
esserne sicuro?».
«Sono sicuro che
non le permetterò più di toccarti» non aveva la stessa sicurezza di riuscire a
tenere Stiles lontano dal male che lui stesso si procurava.
L’umano apparve
dubbioso, affranto, spezzato. Rimettere tutti quei pezzi al loro posto sarebbe
stata un’azione titanica e non c’era alcuna certezza che sarebbe riuscito
nell’impresa. «Derek».
Doveva davvero
sorprendersi? Era la seconda volta che lo chiamava per nome in quella sorta di
malia in cui si era rinchiuso, non riusciva ad identificare che cosa
significasse. Una mano risalì dal braccio fino ad una guancia, i capelli
scuriti e grondanti d’acqua vennero scostati dalle dita che emettevano calore e
si incastrarono esattamente lì, a fermare il tempo. La fronte si appoggiò alla
sua e per la prima volta sentì Stiles rilassarsi sotto di lui, socchiudere
appena le palpebre come se avesse ottenuto una sorta di liberazione. «Ci
riuscirò».
La prima cosa che
Derek fece quando rientrarono al monolocale, fu di riempire la vasca con
l’acqua calda, successivamente decise di mettersi qualcosa addosso che non
fossero residui di abiti strappati.
Condusse Stiles
con lentezza, i sussurri di rassicurazione che soffiava nelle orecchie,
liberandolo dal pigiama composto più da acqua che da fili di cotone,
invitandolo a immergersi con delicatezza.
La pelle era
ancora ghiacciata, le labbra si erano tinte di un blu preoccupante e Stiles non
accennava a volersi svegliare; stava cercando in tutti i modi di rispettare il
suo volere senza violarlo troppo. Riuscì a lavargli e togliergli ogni traccia
della notte spaventosa che avevano vissuto, assorbì ogni graffio e tentò di
riportarlo ad una temperatura corporea umana.
Quando lo fece
uscire, lo avvolse nel telo doccia più grande che avesse e asciugò ogni parte
che osò toccare, strizzando ogni stilla dai capelli puliti e nel momento in cui
raggiunsero il letto, si rese conto di non avere nulla di caldo e comodo che
Stiles avrebbe potuto indossare. Si ritrovò a fissare un indumento nel suo
armadio esposto e coperto solo da tende che non pensava avrebbe vai valutato
per un utilizzo, ma era l’unico vero pigiama che avesse, completo di ogni pezzo
e dalle maniche lunghe.
Con un nodo in
gola difficile da ingurgitare, si apprestò a farlo indossare al figlio dello
sceriffo, guidandolo tra le coperte e rimboccandolo in ogni centimetro. Come
ogni volta che toccava il materasso, le palpebre si serrarono e fu catturato
dentro un sonno che aveva davvero la briga di essere restauratore, tuttavia
tremava ancora e Derek non sapeva proprio cosa avrebbe dovuto fare per
fornirgli ulteriore calore.
Un pollice si
depositò al centro della fronte sfiorandola con tenerezza, le dita del resto
della mano gli scostavano i ciuffi ribelli ed ancora umidi dal viso, e fu
investito dall’irrefrenabilità delle labbra che si schioccarono su quel punto,
non riuscendo a mitigarla e ricevendo in cambio un mugolio di apprezzamento da
parte di Stiles. «Giochi sporco».
Lo lasciò alla sua
inconsapevolezza, la necessità di togliersi dalla pelle e dalla mente la
sensazione dell’episodio burrascoso vissuto soltanto meno di un’ora prima, la
sporcizia della sensazione che un altro maleficio gli avrebbe sottratto un
altro pezzo di sé.
Fu un’acqua
purificatrice a calare su di lui, togliere ogni residuo della freddezza della
pioggia e del fiume, avrebbe potuto chiudersi lì dentro per ore intere.
Nel momento in cui
si circondò di un asciugamano che aveva il compito di asciugarlo, legandolo
alla vita, si indirizzò verso il letto, a controllare che il suo ospite fosse
dove l’avesse lasciato. Stiles era ancora lì, un fagotto di coperte, ma i
brividi di freddo non cessavano e la temperatura saliva troppo lentamente, non
era per nulla un indice positivo. Migliorò quando si avvicinò a lui, a testare
le sue condizioni, ma non era sufficiente.
Sotto il suo collo
assunse la forma di lupo completo, il telo doccia non riusciva più ad
avvolgerlo e scivolò per terra, acciambellandosi contro di lui e depositando il
muso all’altezza del cuore, infondendogli tutto il calore che la sua pelliccia
fosse in grado di donare.
Ci vollero diversi
minuti prima che i tremori rallentassero e qualcuno in più per fermarsi
completamente. Stiles sospirò di piacere nell’attimo in cui la temperatura si
ristabilì e Derek si addormentò così, rilassandosi a contatto con le dita
affusolate che l’avevano cercato, intrecciate al manto inchiostrato.
Stiles quella
mattina non fu ridestato dal sole cocente che filtrava dalla finestra ai suoi piedi,
ma dalla pioggia battente, incessante e che oscurava completamente il cielo, le
nuvole grigie perseveravano a incutere timore, non garantendo che il tempo
climatico migliorasse.
Le dita furono
stuzzicate da qualcosa di morbido e peloso ed involontariamente stinse quella
consistenza sconosciuta, ma estremamente confortevole e calda che lo avvolgeva
completamente. Le palpebre si aprirono con sforzo, uno sguardo appannato al
vetro pieno di striature d’acqua, impossibili da focalizzare, stesso destino
toccò alla palla di pelliccia che respirava tranquillamente sotto il suo tocco.
La chiazza nera
riuscì a metterla a fuoco dopo qualche attimo, tra uno sbadiglio e l’altro,
riprendendo confidenza con l’ambiente che lo circondava e che riconobbe al
volo. Un lupo nero adulto riposava sul letto, il muso poggiato sul petto e il
corpo ricurvo su se stesso, era completamente appiccicato a lui.
Un mormorio di
stupore sfuggì dalla sua bocca e la mano risalì verso la testa, affondando nel
folto pelo, accarezzandolo dolcemente in mezzo alle orecchie. Non riusciva a
scorgere e sentire Derek da nessuna parte, ma non era difficile individuare chi
si nascondesse sotto la forma di lupo completo. «Sei davvero meraviglioso» non
riuscì a trattenere il sorriso felice ed ammaliato che si dipinse sul volto.
Le orecchie del
canide si rizzarono, muovendosi al suono della voce, godendosi passivamente
quella premura per qualche attimo prolungato, finché i suoi occhi non si
mostrarono, vigili e consapevoli, completamente svegli ed attenti.
Stiles lo scrutò
con sgomento, incontrando per la prima volta iridi di fuoco e mare,
perfettamente amalgamati tra loro, ma senza incrociarsi mai. Il cerchio esterno
era di quel blu metallico che aveva sempre pensato appartenergli e quello
interno, che toccava la pupilla scura, era del colore del comando, di un’Alpha.
Era qualcosa che non credeva potesse esistere ed a cui mai avrebbe immaginato
di essere spettatore; era quella la motivazione per cui si ostinava a non
mostrarli? «Derek» non era sicuro di che cosa fosse uscito fuori, un misto tra
un’espressione interrogativa ed esclamativa; non era in grado di cogliere cosa
predominasse.
Derek si disfò
della sua presa e si alzò sulle quattro zampe, rimanendo per qualche attimo a
squadrarlo con la sua profondità tipica che gli avrebbe impedito di scambiarlo
con chiunque altro, poi scese dal letto e si diresse verso la cucina, i rumori
degli artigli e dei cuscinetti che ammortizzavano il passo felpato si
tramutarono in passi di piedi umani nudi che aderivano al pavimento.
Avvertì la porta
della lavanderia aprirsi e uno sportello scattare, non sapeva identificare se
fosse quello della lavatrice o dell’asciugatrice. Lo sentì muoversi, il fruscio
dei vestiti a seguirlo, l’anta del frigorifero schiudersi, una bottiglia essere
estratta e un bicchiere di vetro essere riempito d’acqua.
Attese, il respiro
di Derek che si faceva più pesante, come affaticato. Poco dopo tornò in
versione umana con un bicchiere pieno quasi all’orlo, le sue capacità non gli
permettevano di far cadere una sola goccia di liquido trasparente e glielo
porse quando arrivò da lui, con Stiles che lo accettava leggermente riluttante
e più che altro confuso, portandosi in posizione da seduta. Fu soddisfacente
essere dissetato da acqua fresca. «Hai davvero ritenuto necessario vestirti di
là?».
«Sì» Derek
indossava soltanto dei pantaloni comodi, casalinghi, ma il petto era ancora
scoperto, come lo erano i suoi piedi. «Non volevo andassi in iperventilazione».
Le gote del figlio
dello sceriffo si surriscaldarono e distolse per un attimo gli occhi. «Dovresti
vestirti di più, allora» ma Derek aveva già quell’idea evidentemente, difatti
era rivolto verso l’armadio coperto impegnato ad afferrare una maglia qualsiasi.
Stiles poteva osservare i muscoli delle spalle contrarsi, insieme alla schiena
nuda che si allungava, il grande tatuaggio inchiostrato di nero flettersi,
indelebile sulla pelle leggermente bronzea. Erano anni che non vedeva quella
triscele figurare tra le sue scapole e di occasioni comunque ne erano esistite
poche, ma da quando era diventata una matricola universitaria poteva osservarla
ogni mattina da quasi un mese.
«Non mi pare ti
dispiaccia» affermò disinteressato, scostando la tenda aranciata per trovare
quello che stava cercando.
«Dio, Derek!»
perché doveva avere a che fare con un tale essere infame? «Odio questa cosa,
che puoi sentire le mie emozioni».
Il mannaro indossò
una maglietta grigia dalle maniche lunghe, voltandosi verso di lui con un
giudizio ben assestato. «Non sento soltanto le tue emozioni, sento tutto».
«Ecco, appunto»
sbuffò gonfiando le guance, profondamente offeso dalla precisazione. Era
imbarazzante e anche umiliante. Con Scott non c’erano problemi, non giudicava
mai le sue azioni o ciò che sentiva, era spensierato e anche molto distratto;
con Derek la situazione era ben diversa. «Sei troppo bello, è un’ingiustizia».
Derek arcuò un
folto sopracciglio, l’attenzione rivolta totalmente verso i suoi deliri.
«Dovrei chiedere scusa?».
«Sì» esclamò di
slancio Stiles, non pensando minimamente a quanto apparissero ridicole le sue
esternazioni.
Il licantropo
schioccò la lingua contro il palato, la mossa esasperata e dilettata
dall’essere pittoresco dell’umano.
Si accomodò sulla
sedia abbinata alla scrivania, scostandola leggermente e direzionandola verso
Stiles, mentre a disaggio lo studente di criminologia finiva di svuotare il
bicchiere.
C’era una strana tensione
elettrica e Stiles sapeva ci fosse qualcosa in agguato. «Sei un lupo completo».
«Acuta
osservazione» lo incalzò il mutaforma, la nota sarcastica evidente.
«Da quanto tempo
puoi assumere la forma completa?» Stiles era piuttosto sicuro che prima di
intraprendere la vita da universitario Derek non ne fosse in grado, al
contrario di Laura che ne era stata in grado nel momento in cui aveva ottenuto
il ruolo di Alpha. Ma cosa poteva affermare di sapere su di lui, se nemmeno
conosceva il reale colore dei suoi occhi.
«Un anno» fu tutto
quello che Derek gli concesse, secco e sbrigativo.
Un anno, Stiles non
sapeva come sentirsi a riguardo, non era stato il suo momento più florido
quello. O per meglio dire, non era proprio esistito, cancellato dalle memorie
del mondo. Mentre lui era stato dimenticato da chiunque, perfino dal suo stesso
padre, Derek doveva aver affrontato qualcosa che l’aveva fatto divenire un
tutt’uno con il suo lupo. Stiles era retrocesso, Derek evoluto.
«Voglio che passi
le notti qui» disse il licantropo, andando dritto al punto e aggirando
qualsiasi tentativo l’umano avrebbe tentato per scappare dalla questione
principale.
Le pupille della
matricola si ingrandirono e gli occhi sgranarono, si sentì spinta all’indietro.
«Non se ne parla».
«Se ne parla
eccome» dissentì asciutto Derek, le iridi di giada serve e non permissive. «Sta
degenerando, sta diventando troppo pericoloso per te. Non voglio più doverti
trascinare dall’autostrada mentre un’auto cerca di investirti o ripescarti dal
fiume in piena» Derek aveva mille esempi che avrebbe potuto esternare e far
presente, descrivendo ogni sensazione che l’avevano attraversato, il tormento
che non riusciva a scrollarsi di dosso. «Cosa capiterebbe se non riuscissi a
trovarti? Se non dovessi intervenire in tempo e strapparti dalla strada? O non
essere abbastanza veloce mentre la corrente ti porta via?».
«Cosa?» Stiles era
esterrefatto, incredulo, credeva di avere delle allucinazioni uditive. «Un
auto, il fiume?».
Derek lo vide
tremare, il bicchiere che teneva ancora in mano che oscillava, il viso che si
faceva completamente pallido. Si avvicinò con circospezione, il contenitore di
vetro che gli estraeva dalle dita e lo poggiava sul comodino, sistemandosi di
fronte a lui sul materasso. «Non ti sei svegliato. Ti sei gettato nel Red
Cedar River e hai continuato a farti trascinare dalla corrente, perfino
quando ti ho tirato fuori. Questa cosa mi terrorizza, devo sapere di trovati in
un luogo dove posso intervenire subito, senza cercarti in ogni centimetro del
campus».
Stiles lo guardò
affranto, distrutto, non era pensabile che nella sua incoscienza facesse delle
cose simili, che desse tutto quel lavoro a Derek per tenerlo vivo e incolume.
«Non volevo trascinarti in tutto questo».
«Lo so» proferì
Derek con certezza, conscio di ciò che vivesse dentro il figlio dello sceriffo.
«È qualcosa che devi accettare, preferisco averti qui, sotto il mio occhio
vigile. Questo non vuol dire che voglia controllarti».
«So che non vuoi
controllarmi» era incredibile, come le cose si stessero invertendo tra loro,
quanta passione e moderazione il capitano gli stesse dedicando. Fu a quel puntò
che cadde in picchiata sul letto, coprendosi fino alla testa con le coperte,
fuggendo nell’unico modo permessogli. Derek non commentò né si mosse, restò
esattamente come l’aveva lasciato. «Devo dirtelo, vero? Cosa è accaduto».
Derek perseverò
nel suo silenzio, l’impatto dell’importanza che rivendicava il suo spazio.
«Sarebbe d’aiuto».
Lo studente di
criminologia sospirò esausto e sconfitto, domandandosi quanto ancora potesse
andare avanti senza condividere nulla con lui. La sua attenzione cadde su un
piccolo spiraglio lasciato libero dalle lenzuola, la sveglia digitale di Derek
che scandiva il tempo. «Abbiamo perso le lezioni» realizzò senza davvero
comprendere cosa dovesse provare. Derek era rimasto con lui per tutto il tempo,
a discapito di se stesso e si chiese cosa avesse realmente affrontato quella
notte, quanto esausto fosse.
«Quelle mattutine,
sì» convenne con lui il padrone di casa, consapevole che l’orologio segnasse le
undici.
«Ne hai nel
pomeriggio?» chiese allora Stiles, sollecitato dalla precisazione del mannaro.
«Una» dichiarò con
semplicità, non turbato minimamente di non aver adempiuto al suo compito di
studente. «Tu?».
«Due» ah,
era una fatica realizzarlo. Era stanchissimo e la giornata non era nemmeno
cominciata, anzi era ben avviata senza che lui avesse fatto niente. Ma
evidentemente il suo corpo e la sua mente la pensavano in modo diverso, loro
avevano affrontato qualcosa di cui non era consapevole.
Derek decise di
sistemarsi meglio sul letto, distendendosi parzialmente, senza fare sentire
troppo la sua invadenza e Stiles uscì pigramente dal suo rifugio, guardandolo
come se si aspettasse qualcosa. «È il primo sorriso che ti ho visto fare» disse
invece, lasciando completamente di stucco Stiles e facendo comparire nei suoi
tratti facciali un interrogativo ben presente. «Al lupo».
«Oh» l’umano era
piuttosto combattuto e disorientato, era un appunto che non si aspettava di
udire da Derek. «Conti i miei sorrisi?» quell’ipotesi lo fece sorridere dentro
più di quanto potesse sospettare e le labbra si incurvarono all’insù in
automatico, senza controllo, incredibilmente deliziate e quel leggero sottotono
di ironia graffiante.
«Sì, se il numero
da tenere a mente è uno» proferì Derek, implacabile allo stuzzicare del suo
ospite.
«Se mi mostrerai
nuovamente quel bellissimo lupo, sorriderò di nuovo» lo invitò ed incitò, il
ghignetto di sfida che si palesava senza vergogna.
Derek roteò gli
occhi verso il cielo, per niente stupito di quanto facilmente la sua anima da
canaglia prendesse vigore. «Non mi trasformerò per te».
«Tecnicamente, è
quello che hai fatto» l’aveva cercato in quella forma? Com’era riuscito a
condurlo nel suo appartamento? Perché aveva avuto la necessità di vegliare su
di lui mantenendo la trasformazione, addormentandosi acciambellato al suo
fianco?
«Non mi
trasformerò per soddisfare i tuoi capricci» parò il tiro il capitano della
squadra di basket. Stiles era pericoloso continuamente, non si poteva mai
abbassare la guarda, la vittoria era sempre dalla sua parte.
«E così come farai
a vedermi sorridere?» ammiccò spudoratamente, lo scintillio nelle gemme
ambrate.
«Stiles, sono
serio» il tuono risuonò tra le quattro pareti e Stiles si ritrovò a guardarlo
bene, realizzò anche che le pagliuzze blu e rosse che vedeva emergere in
particolari circostanze nelle iridi verdi erano reali. «Non devi dirmi quello
che è successo adesso, puoi anche non farlo mai, ma credo sia importante
affrontare la questione».
Il figlio dello
sceriffo sospirò di nuovo, più sconfitto e avvilito di quanto non apparisse in
precedenza. Nascose parzialmente il viso sul cuscino e guardò dritto Derek che
non distoglieva l’attenzione da lui. «Non è questione di non volertelo dire,
semplicemente non so nemmeno da dove cominciare» si ammonì e socchiuse per
qualche attimo le palpebre; da digerire era qualcosa di insopportabile. «Sono
successe troppe cose e sono tutte intricare e collegate. Mi fa scoppiare il
cervello» ma in effetti era esploso davvero e la maggior parte dei tasselli li
aveva sistemati lui.
Una mano del
licantropo si poggiò su uno zigomo dell’umano, il lato lasciato libero dal
guanciale piumoso, e le dita serpeggiarono tra i capelli che lui stesso aveva
ripulito nella notte precedente e si legarono pigramente alle ciocche
scombinate. «Puoi partire da dove preferisci e andare con calma, ho tutto il
tempo del mondo».
Accidenti, continuava a
ritrovarsi a domandarsi se Derek l’avesse mai toccato in quel modo ed ogni
volta gli appariva più significativa di quella precedente, eppure perseverava a
non ricordarsi alcuna occasione in cui un’evenienza simile potesse essere
capitata, tutto il suo calore gli scorreva nell’epidermide e andava fino in
fondo, strato dopo strato. Era stordente. «Sai qualcosa sui Nogitsune?».
Derek non aveva
una linea guida su come sarebbe iniziato quel discorso, ma non si aspettava che
partisse proprio da quell’antefatto. «Sono degli spiriti millenari, di volpi
oscure».
«Sì, vero» il
respiro della matricola si appesantì e il tocco di Derek si fece più cadenzato,
più confortevole; Stiles avrebbe voluto serrare le palpebre e godersi la
sensazione invece di andare avanti. «Sono stato posseduto da uno Nogitsune, per
diverso tempo. Anche troppo».
Il licantropo
serrò le labbra, la notizia strisciò avvezza e si intrappolò dentro di lui;
qualcosa l’aveva decriptata nei deliri dell’umano, ma non andavano mai a fondo
e non aveva capito quanto tortuosa fosse stata. «Quando?».
«Al terzo anno,
quando abbiamo trovato Malia» se lo ricordava bene il momento in cui nei boschi
lui e Scott erano andati in giro per cercare quel coyote che ritenevano fosse
una ragazza, intrappolata nel corpo animale da nove anni, dopo l’incidente
stradale e la dipartita della sua famiglia adottiva. Stiles aveva bisogno di
mettere le cose a posto, scacciare gli incubi ed i tormenti che gli annidavano
la testa, chiudere quella porta oscura nel suo cuore che aveva dovuto aprire
per sconfiggere il Darach.
Quando una porta
non è una porta?,
era il quesito, Stiles aveva risposto quando è socchiusa. Ma lo era
rimasta per tutto il tempo, perché la volpe si era già insidiata ed aveva
soltanto nascosto le sue tracce, mascherandole. «Mi ha manipolato, messo in
testa pensieri terrificanti, i miei incubi ricorrenti. Ha usato il mio corpo e
le mie azioni a suo vantaggio, mi ha intrappolato dentro me stesso, da cui non
riuscivo ad uscire. Mi ha ingannato, riempito la testa di illusioni e ha usato
tutto quello che le serviva contro di me» si fermò, perché l’affanno stava
accelerando e gli opprimeva il petto.
Raccontarlo gli
faceva rivedere ogni secondo dell’agonia che aveva vissuto, quanto fosse
incapace di respirare. «Mi ha fatto credere che fossi affetto dalla stessa
malattia di mia madre» la voce si spezzò e faticò a riprendere il ritmo. Era
stato tra i colpi più bassi che potesse assestargli.
Le dita del lupo
si insinuarono ancora in profondità e la sua testa si sistemò sullo stesso
cuscino occupato dal figlio dello sceriffo. Erano occhi negli occhi e non c’era
nulla a mitigarli, a permettergli di celarsi almeno un po’. «L’ho odiato. Ho
odiato come conoscesse perfettamente la mia mente e riuscisse a usarla contro
di me. Ho pensato che lei avesse ragione, che l’avesse sempre avuta».
Stiles non si
spiegò, non rivelò la figura misteriosa che si nascondeva dietro lei, ma
in passato l’umano gli aveva fatto intendere a chi si riferisse, chi era la
persona che gli aveva arrecato più danno. «So quanto male ti abbia fatto» Derek
aveva vissuto un’esperienza piuttosto simile, seppur con modalità differenti.
«Non sai quello
che ho fatto» articolò lo studente di criminologia, le iridi d’ambrosia che si
scurirono. «Ho ucciso Allison» rivelò spietatamente, come se non dovesse in
alcun modo provare comprensione e compassione per lui. Nessuna possibilità di
redenzione. «Ho ucciso tantissime persone. Così tante, Derek, non riesco
nemmeno a contarle».
Derek si irrigidì
al nome della cacciatrice. Era già stato informato della sua dipartita
prematura, ma Stiles non aveva mai fatto cenno a cosa le fosse successo, benché
Derek avesse afferrato qualcosa dalla sua afflizione, dal patimento che provava
alla sua memoria. «Ho ucciso anch’io».
«Non è
paragonabile» tremò sotto i suoi polpastrelli, la vista che si riempiva di
liquido trasparente. «Tu l’hai fatto per amore, io per nutrice una volpe sadica
con il dolore».
«Amore?» ripeté
Derek accigliato, la fruizione del calore che si affievoliva leggermente per
via delle dita che si erano lievemente scostate dal viso del suo interlocutore.
«Non lo chiamerei così».
Il viso di Stiles
si increspò e gli occhi si sgranarono leggermente, colpito da una fitta nociva
al petto. «E come lo chiameresti?».
«Arroganza» disse
lapidario il mutaforma, in una sintesi perfetta.
Era stato ingenuo
nel farsi sedurre dai sussurri di Peter e sì, arrogante nel credere che una
vita da essere soprannaturale fosse la chiave di volta per chiunque, ciò a cui
tutti ambissero e senza nessuna controindicazione. La sua presunzione aveva
richiesto un prezzo molto difficile da pagare. Lo stava ancora scontando.
Una lacrima scappò
dalle ciglia dell’umano e Derek la asciugò con il pollice cancellandone le
tracce, evento che avvenne anche dall’altro lato, ma fu assorbita dal cuscino.
«Ehy» soffiò morbidamente il lupo mannaro, il viso che si avvicinava al suo, le
fronti che combaciavano lentamente. «Non sei stato tu, non hai nessuna colpa».
Avrebbe voluto
dirgli quelle esatte parole, ma la questione Paige era troppo complicata e
insidiosa. Ciò che Derek pensava di se stesso lo pensava anche Stiles, era
estremamente difficoltoso celarlo. «Vorrei fosse così» proferì Stiles agitato,
destabilizzato, non riusciva a togliersi la sensazione dalle viscere. «L’ho
avuta per mesi nella mia testa, a sussurrarmi, a pianificare le sue mosse e io
non l’ho capito subito. Quando ho cominciato a dubitare di me stesso, di tutto
quello che mi stava capitando, ho cercato di avvisare tutti, ma nessuno voleva
credermi» uno scoppio di risa amara gli scappò, la follia dell’assurdità e
altre lacrime non riuscì a serrarle. «Tutto quel dolore. È di questo che si
nutrono i Nogitsune: caos, confusione e dolore farcito con ancora più dolore.
Tutte quelle vite spezzate dalla mia incapacità di resistergli».
«È questo che
credi? Di essere stato incapace?» Derek lo guardò dritto nelle pupille, il
verde riflesso nell’ambrosia.
«Gli serviva il
mio consenso» annunciò la matricola, il tormento che si faceva sempre più
premente. «E io glielo concesso».
Derek non si tirò
indietro, non apparve nemmeno stupito di quella possibilità, rimase esattamente
piantato dov’era, a completo contatto con lui. «Hai detto che ha usato molti
escamotage contro di te, per controllarti; che cosa ha usato quella volta?».
Stiles non
riusciva a capire come Derek potesse essere tanto fiducioso su quell’aspetto,
quanto fosse proiettato oltre le sue parole. «Malia».
Parve evidente
come il mannaro assorbì il colpo, una conoscenza parziale che si ramificava.
«Non sei stato incapace, sei stato messo di fronte a una scelta impossibile e
hai agito al meglio delle tue possibilità» era chiaro che Stiles avrebbe voluto
salvare tutti, nessuno escluso, chi conosceva come le sue tasche e sconosciuti
che non aveva mai incontrato in vita sua. Scegliere tra una sola persona e
tutti gli altri era qualcosa di impensabile, gli faceva credere di aver preso
la decisione sbagliata. Faceva anche quello parte del gioco della volpe?
Stiles fu scosso
dai singhiozzi che tentava di soffocare e tutto il suo corpo vibrava contro
quello della creatura della notte che lo teneva saldo alla realtà. «Vorrei
riuscire a vederla come te».
Derek gli schioccò
un bacio su una tempia, mentre Stiles si aggrappava tremante a lui. «Un giorno
lo farai».
Mantenne le labbra
su quel punto finché l’umano non cominciò a calmarsi, i tremori a placarsi e
l’agitazione a togliere gli artigli su di lui. Ancora una volta Stiles non
registrò la naturalezza e libertà delle gestualità con cui il lupo completo lo
ricopriva, un bacio che in un’altra epoca non sarebbe mai esistito. Lo Stiles
del passato si sarebbe liquefatto a quel contatto, ma quello attuale era troppo
annichilito da tutto il resto per analizzare la situazione e decodificarla.
«Non è cambiato
niente dopo che si è separata da me» forse era stato perfino peggiore, perché
non poteva più provare a contrastarla.
Derek lo guardò
con un interrogativo ben presente, la barba curata e morbida che sfregava
contro di lui per il movimento, ma la bocca si separò e Stiles non avrebbe mai
creduto di non volere che accadesse, che l’istintività di Derek restasse
concentrata su di sé. «Trovarono il modo, Scott e tutti gli altri, credevamo
fosse una cosa che rientrata nei nostri desideri, invece era proprio quello che
il Nogitsune voleva. Ogni mossa, ogni scelta e ogni pensiero, l’aveva già
previsto ed eravamo tutti sue pedine» Stiles lo ricordava come se non fosse
trascorso un solo giorno. «Eravamo ancora collegati, ma mentre io mi
indebolivo, la volpe si rafforzava e diventava sempre più padrona del corpo che
si era costruita. Dovevano trovare il modo di imprigionarla per fermare tutto
il male che stava portando. Non puoi uccidere un Nogitsune, puoi solo
intrappolarlo».
«È questo che ti
spaventa? Che può essere liberato in qualsiasi momento?» domandò di seguito il
nato lupo, le parole vuote di uno Stiles inconsapevole che prendevano una
forma.
Stiles lo guardò
con occhi giganti, la testa che scattava all’insù e si disfò dal legame che il
licantropo aveva istaurato. «Credi che possa? L’abbiamo nascosto» anche se la
prima volta non aveva funzionato molto bene.
«Non conta quello
che credo io, ma quello in cui credi tu» lo Stiles vagante nella notte ne era
fin troppo sicuro, voleva scappare a tutti i costi e non riusciva ad inquadrare
il modo migliore per riuscire nell’impresa. A volte credeva che si fosse fissato
sull’azione peggiore da compiere, il punto di non ritorno, ma in realtà non gli
aveva mai dato l’impressione che fosse davvero quella la meta, ma solo il non
aver controllo di nulla. «È questo che ripeti tutte le volte in cui ti trovo:
la volpe sta tornando a prenderti».
«Ah» l’umano
sentiva che il materasso lo stava risucchiando al suo interno. «Quindi sapevi
della volpe?».
«Erano solo parole
sparse che dovevo collocare nel giusto ordine e con un senso logico» non era
stato facile e sentire tutta la storia da Stiles gli faceva capire quanto poco
avesse realmente compreso. «Il tuo tormento, dovevi esternarlo».
Stiles si alzò dal
letto irrequieto, i piedi nudi sul pavimento, l’indecisione di dove andare, la
sua mente macinava e macinava pensieri.
«Sei arrabbiato?»
domandò allora il padrone di casa, portandosi in posizione da seduta corretta,
osservando l’umano girare su se stesso.
«No» Stiles lo
guardò senza capire, non riuscendo a cogliere la sua preoccupazione moderata.
«Dovresti esserlo tu, perché non vi abbiamo chiamato» tanto aveva detto e
fatto, ma alla fine uno Stiles, lui, aveva comunque avuto il bisogno di
confidarsi con Derek.
«Era questo il
patto» disse allora la creatura della notte, riportando indietro parole che
erano state pronunciate per rassicurarli ed invitarli a mettere radici da
un’altra parte.
«Lo so bene»
Stiles ne era fin troppo consapevole, come lo era stato il suo branco. «Era la
nostra battaglia, voi avevate già affrontato le vostre. Abbiamo chiesto a Peter
e Malia di non dirvi nulla».
Il mannaro si
accigliò, aveva una mezza ramanzina da fare a qualcuno e se l’appuntò
mentalmente. «Vuoi fare sempre tutto da solo. Hai la pretesa di voler aiutare
chiunque, ma non può accadere lo stesso con te».
Stiles non
ribatté, non avrebbe avuto alcun senso negare l’evidenza. Se ci fosse riuscito,
non avrebbe mai coinvolto nessuno nei suoi problemi. Era quello che aveva
tentato di fare anche intestardendosi di frequentare l’università nelle
condizioni in cui si trovava. Senza Derek, dove si sarebbe ritrovato?E perché il lupo nero sembrava conoscerlo
così bene, aver compreso tutte le sue particolarità abilmente nascoste? Aveva
accusato Derek di non avergli permesso di far parte della sua vita, ma se
invece fosse accaduto senza che lui ne avesse preso coscienza?
Inavvertitamente e
probabilmente richiamato dal colore, la visione periferica fa cattura dalle
proprie braccia e individuò quella sfumatura particolare, rossa e arancione che
si fondevano insieme. Fu chiamato in allarme, le sue memorie non corrispondevano,
era quasi certo di aver indossato il suo pigiama preferito di Ritorno al
Futuro. Si diresse verso lo specchio, l’attenzione trattenuta di Derek su
di sé, lo vide anche sbiancare quando riuscì a riflettersi sulla superficie.
Stiles si ritrovò a trattenere il respiro.
Indossava un
completo di un pigiama autunnale, maniche e pantaloni lunghi, a occhio
decretava fosse di due taglie più grandi, come tutto quello che Derek gli
prestava. Le maniche erano di quell’arancione rossiccio che Stiles incontrava
in diversi oggetti personali di Derek, che inizialmente aveva identificato come
casuale; anche i pantaloni erano di quel colore, ma più chiaro e vi erano delle
piccole stampe ripetute, simili all’enorme che si trovava sulla maglietta, al
suo centro: una volpe rossa disegnata con tratti morbidi, allegra e vigorosa,
giocava con dei palloncini dello stesso colore del pigiama. Sui pantaloni
invece i disegni si alternavano, a volte la volpe era arrotolata su di sé e
dormiva, altre volte era nel bel mezzo di un salto, pensierosa in quella
successiva, entusiasta subito dopo, emozionata e pronta a prendere tutto dalla
vita nella stampa accanto. C’era tanta cura in ogni tratto, i colori vividi
alternati a quelli pastello, Stiles non riusciva a mettere in fila un pensiero.
«È molto carino» era la cosa più carina che avesse visto negli ultimi tempi,
c’era un mondo che si stava divertendo a sue spese.
«È un vecchio
pigiama» fu tutto quello che Derek riuscì ad articolare, la semplicità della
sua giustificazione.
Un sopracciglio
del figlio dello sceriffo si arcuò immediatamente ed ispezionò meglio la
fattura, gli occhi e il tatto che studiavano le cuciture. «Non sembra essere
stato usato» era immacolato, appena uscito dal negozio o dalla scatola che lo
conteneva.
«È così» confermò
la creatura leggendaria.
Stiles vedeva nei
lineamenti perfetti e controllati quanto Derek non fosse realmente sereno di
affrontare la questione. «Perché tenerlo, allora? Ti piacciono talmente tanto
le volpi?» ma sapeva essere crudelmente spietato senza alcuna ragione.
«Tu non hai
qualcosa che ti porti sempre dietro e che credi un giorno ti tornerà utile?»
Derek aveva estratto le unghie, dalla perfidia senza scopo di Stiles non si
faceva domare.
«Sì, certo»
soltanto che Derek proprio non sapeva cosa fosse un pigiama, la sua moda notte
si limitava a dei pantaloni, a volte pensava dovesse ringraziarlo per
quell’accortezza. «Quindi la volpe rientra nei tuoi gusti? Un lupo come te?» a
Stiles si arricciavano le dita dei piedi, era qualcosa di adorabile, fin troppo
tenero per legarsi al lupo cattivo per eccellenza a cui corrispondeva Derek
Hale. Faticava a trattenere il sorriso che voleva prendere predominio.
Derek lo guardò
piuttosto giudicante, come se non fosse sicuro di parlare con la persona
giusta. «La ragazza di Scott è una kitsune».
Derek apprendeva
in fretta le nozioni di cui era stato all’oscuro. «Scott non fa testo» rise un
po’, perché gli risultava incredibilmente assurdo avere una conversazione del
genere con il capitano della squadra di basket.
«Puoi cambiarti»
lo invitò il mutaforma, indicandogli l’armadio aperto coperto dalle tende
colorate, lì dove c’era una piccola pila dedicata ai vestiti che in genere gli
passava. Ne aveva creata una di proposito, l’andava aggiornando ogni volta che
glieli riconsegnava perfettamente puliti e pronti per essere riutilizzati,
anche se Stiles sperava sempre che sarebbe stato Derek a indossarli, avrebbe
significato che il suo problema di sonnambulismo fosse passato. «Ѐ il più
caldo che ho».
«No, va bene. Ti
ho detto che è carino, non sono così suscettibile» capiva perché il mannaro
volesse correre ai ripari. Indossare un indumento che raffigurava una
bellissima volpe giocherellona proprio da qualcuno che aveva patito per delle
sofferenze profonde scaturite da una sua simile, poteva far esplodere il
cervello; messo sempre che Stiles ne possedesse ancora uno. Ma poi fu
attraversato da un pensiero, dalla motivazione che aveva portato Derek a
doversi preoccupare di quell’aspetto, di cercare qualcosa che lo tenesse al
caldo. Era caduto dentro un fiume, sotto la pioggia e Derek era stato costretto
a seguirlo, a tirarlo fuori dalla sua trappola di correnti pericolose. Stiles
era pulito, perfettamente in ordine, non aveva un minimo livido, del fango tra
i capelli. Il suo cuore ebbe dei sussulti pericolosi.
«Non è successo
niente» Derek captò subito l’agitazione nel figlio dello sceriffo, i battiti
accelerati, il fiato che diveniva pesante. Si alzò dal letto per renderlo più
evidente, perché il suo affanno era diventato il proprio. «Non ti ho toccato».
Ah, Stiles pensava
di avere un mancamento per il solo fatto che Derek avesse concretizzato a
parole il suo disagio. «Non lo penso» perché avrebbe dovuto? In quella loro
convivenza erano entrambi tesi come corde di violino, che venivano scosse per
ogni paranoia. Stiles capiva la propria reticenza, l’essere completamente alla
mercé del lupo mannaro e inconsapevole di tutto quello che poteva accadergli o
fargli, ma di certo non metteva a fuoco la possibilità e ragione per cui Derek
potesse in qualche modo approfittarsi di lui. «È solo imbarazzante. Hai dovuto
occuparti anche di questo» spogliarlo, lavarlo e rivestirlo. Automaticamente
quello includeva la gestualità di essere stato toccato senza alcun velo a
frapporsi tra loro, totalmente nudo sotto i suoi occhi verdi scrutatori, ma con
l’unica finalità di riscaldarlo e togliergli lo sporco della sua avventura
acquatica notturna. «E so, so che non mi romperesti. Fai di tutto per tenermi
intero».
«Per me non è un
peso, né occuparmi di te né tenerti intero» Derek lo disse con convinzione
certa, una sorta di vocazione che a Stiles provocò leggera paura, ma non
riusciva ad identificare di che fattezza. «Farti del male, non è qualcosa che
farei coscienziosamente».
«Questo lo so» il
Derek che aveva davanti non aveva mai mostrato quella direzione, molto diverso
da quello diciottenne con cui si era imbattuto dopo che Scott era stato morso e
Laura li aveva accolti a braccia aperte. Non che intendesse che a quel tempo il
lupo volesse arrecargli danno, ma non si prodigava di certo verso la sua
figura. Forse, intrinsecamente, il rifiuto di Derek nei suoi confronti l’aveva
vissuto in quel modo, come un male subito. Era qualcosa di totalmente
irrazionale.
Stiles sentì il
bisogno di allontanarsi, di mettere della distanza per riprendere fiato, per
tutta quella parte di sé che aveva condiviso con il mannaro.
Si diresse in
cucina, aprendo il frigorifero e cercando qualcosa che gli desse le energie che
in quel momento il suo corpo esigeva. C’erano tre cartoni di succhi di frutta
da un litro e mezzo ciascuno: ace, pera e ananas. Stiles era piuttosto sicuro
di aver terminato il suo preferito due giorni prima.
I primi giorni in
cui si era ridestato catapultato nel monolocale del mutaforma, vi era soltanto
la confezione ace e non era nemmeno certo che Derek lo bevesse
spassionatamente. «È troppo aspro» si era lamentata la matricola, non perché
volesse gettare delle regole in una casa che non era la sua, ma semplicemente
perché aveva l'abitudine di esternare i pensieri ad alta voce.
Derek l’aveva
fissato giudicante mentre gli preparava il caffè con una macchinetta a cui
Stiles non avrebbe mai osato avvicinarsi, sia perché sembrava eccessivamente
complicata sia perché urlava costosa da ogni angolatura riflettente. «E
cosa preferiresti?».
«Qualcosa di
dolce» aveva dichiarato ovvio, accomodandosi su una sedia del tavolo mentre
aspettava la sua tazza.
Derek gliela
consegnò, l’odore di caffeina e caramello salato che gli solleticavano le
narici. «Ad esempio?».
«Pera» non gli
stava dettando un menù, non gli voleva stilare una lista della spesa, aveva
risposto perché era quello che ci si aspettava quando una domanda veniva posta;
era del tutto disinteressato.
Derek non lo era,
il giorno dopo all’interno del frigorifero vi era quel fantomatico succo di
frutta alla pera e quattro mattine successive quello all’ananas, che non era un
concentrato di zucchero come il primo, ma era una perfetta via di mezzo tra la
dolcezza e l’asprezza. Stiles si era un po’ innamorato di quel gusto e Derek
faceva in modo che non mancassero mai nella loro colazione insieme. Acquistava
anche le migliori marche, quelle dal prezzo più alto. Stiles non si meritava
una premura come quella, non se la meritava soprattutto dopo la discussione del
giorno prima, in cui esternava chiaramente di non volere il suo aiuto e che i
loro rapporti potessero concludersi in quel preciso momento, ma Derek aveva
comunque rifornito il frigo di ciò che l’umano preferiva.
Lo studente di
criminologia afferrò il contenitore ancora sigillato in cui era specificato pera
e si avvicinò allo stipetto in cui erano riposti i bicchieri in vetro,
prendendone uno e riempiendolo di succo di frutta quasi fino all’orlo, per poi
adagiare il cartone sul tavolo e sedersi sul divano.
La vetrata dietro
di lui era costellata di gocce d’acqua, la pioggia non cessava e all’interno
del soggiorno non entrava la solita luce che la caratterizzava sempre. Era
quasi sicuro che Derek avesse ispezionato ogni appartamento libero del palazzo
prima di decidere di affittare quello, l’ultimo piano laterale, in cui erano
presenti molte più finestre rispetto agli appartamenti interni o a quelli dei
piani inferiori. Derek voleva luminosità, così com’era nel bilocale che Laura
aveva comprato a Beacon Hill e com’era nella vecchia villa Hale. Stiles era un
po’ invaghito da quella personalità controversa di un autentico lupo solitario
e cupo.
Derek lo raggiunse
soltanto qualche minuto dopo, la macchina del caffè azionata a tostare il caffè
e il toppig al caramello salato estratto dallo sportello del frigorifero. Non
parlarono, il silenzio perdurò e Stiles poteva sentire soltanto i movimenti del
padrone di casa, mentre si gustava la sua bevanda zuccherata. «Come ha fatto il
Nogitsune ad arrivare a te?» domandò il mutaforma subito dopo aver versato la
bevanda alla caffeina nella sua tazza, spostando una sedia e prendendone
possesso. Sul tavolo vi erano fette biscottate e marmellata d’arancia, biscotti
al cioccolato e un pacco di fette di pane in bauletto che sarebbero state più
appetitose se tostate, ma era evidente che Derek non avesse intenzione di
accendere un solo fornello come non lo era Stiles stesso.
«Si è liberato»
semplificò il figlio dello sceriffo. Si aspettava che delle domande sarebbero
saltate fuori, ma ad alcune non voleva affatto rispondere.
«Da dove si è
liberato?» non era la risposta che si aspettava, non era per niente una
risposta.
«Dal sua prigione»
proferì Stiles nuovamente con ovvietà, accompagnando la risposta con un
movimento degli occhi che la sostenesse.
«Stiles» ruggì a
denti stretti. Sapeva che stava tergiversando, nel suo modo subdolo di giocare.
Che mistero c’era nella scelta di una volpe malvagia di possedere la mente di
un’altra volpe lungimirante ed astuta, condita di scaltrezza e doppie
manipolazioni? Stiles era la persona perfetta, non era nemmeno un quesito che
qualcuno avrebbe dovuto porsi, eppure i suoi amici non avevano compreso che si
celasse proprio dietro la figura di Stiles. Possibile che fosse l’unico, tra
tutti loro, a vederlo sotto quelle sembianze?
«Dal Nemeton» fu
costretto ad esternare, l’umore che cambiava e si incupiva. Dovette prendere
due sorsi del suo succo per andare avanti. «Il Nemeton si è risvegliato e di
conseguenza, anche la volpe. Era prigioniera lì».
«Il Nemeton si è
risvegliato?» chiese Derek incredulo alle proprie orecchie, lo guardò come se
non riuscisse a recepire il messaggio. «Com’è accaduto?».
«Non l’hai
percepito?» fu il turno di Stiles di apparire sorpreso, era qualcosa che non
aveva messo in conto.
«No, non faccio
più parte di un branco a Beacon Hills» spiegò semplicemente il capitano della
squadra di basket, incerto che fosse stato necessario. Stiles era il più
sveglio di tutti loro, aveva capito come funzionava quel mondo molto prima
degli esseri soprannaturali da cui si era circondato.
«Lo so, però…» si
fece pensieroso, non riusciva a capire un meccanismo che gli era parso chiaro
inizialmente, sostenuto delle molteplici prove che si era ritrovato dinnanzi.
Più che prove, cataclismi. «Da quando si è risvegliato, molte e troppe creature
ne sono stati attratti. Dobbiamo vigilarlo sempre e impedire che si approprino
del suo potere. Pensavo fossi riuscito a sentirlo anche tu».
«Non mi interessa
il suo potere» dichiarò spicciolo il licantropo, leggermente indispettito che
fosse categorizzato insieme alle altre creature che nel tempo Stiles si era
ritrovato a combattere.
Stiles sentì di
essere entrato in possesso di un nuovo tassello per quel regno sovrannaturale
in possesso di regole tutte sue e anche del fatto che Derek fosse ormai
completamente estraneo alla loro città natale. Magari l’albero sacro non voleva
prendere altro dal lupo completo.
«Com’è accaduto,
il risveglio?» riformulò il padrone di casa, il caffè che si stava lentamente
raffreddando, il cielo che perseverava a rimanere grigio.
«Lo abbiamo
risvegliato noi: io, Scott ed Allison. Abbiamo dovuto, per impedire che lo
facesse il Darach» non avrebbe voluto rivelare quelle informazioni così,
avrebbe dovuto partire dal principio ed essere più chiaro. «Il Darach era la
mia professoressa di letteratura, per essere precisi e prendeva potere dal
Nemeton molto prima del suo totale risveglio, non potevamo permettere che ne
avesse il completo controllo. Ne abbiamo deviato le intenzioni».
«Molto prima del
totale risveglio? Il Nemeton era morto» non c’erano dubbi su quello, il suo
tronco veniva utilizzato dai druidi per costruire oggetti speciali e intrisi di
potere rimanente. Se quella lavorazione fosse avvenuta nel pieno della sua
linfa vitale, sarebbe stato un sacrilegio.
Stiles tacque, si
portò il bicchiere alle labbra come se potesse impedirgli di aprirle e dargli
suono, una scusa che non poteva essere rettificata. Aveva fatto un’azzardata
scelta di parole e il suo malcontento si impresse nelle pareti che li
circondavano.
Derek lo fissò a
lungo, gli occhi che cercavano delle risposte che non arrivavano. Avrebbe
voluto sommergerlo di domande, scoprire tutto quello che era accaduto in quegli
anni, ma Stiles si stava chiudendo a riccio. «Non vuoi dirmelo?».
Le sue iridi
ambrate brillavano, il sussulto di una maschera che cadeva a terra. «No».
Derek non recepì
bene il colpo, non capiva perché ci fosse qualcosa che non potesse confidargli
dopo ciò che aveva compiuto sotto il volere del Nogitsune, poteva esserci
qualcosa di più grave? Non riusciva ad identificare quale potesse essere. «Hai
detto che gli episodi di sonnambulismo sono iniziati, ormai, sette mesi fa. Ma
dai giorni della volpe è trascorso molto più di un anno».
«È vero» si limitò
a confermare l’umano, ma non andò oltre.
«Che altro è
accaduto?» era evidente, Stiles aveva esternato fossero successe fin troppe
cose, tutte legate tra di loro, ma Derek ancora non riusciva ad individuare
quale fosse l’anello congiuntivo. Tutto quell’insieme non aveva fatto del bene
alla sua psiche.
Stiles lo fissò
penetrante e Derek individuò un’oscurità tutta nuova in lui, qualcosa che
sapeva fosse in grado di tirare fuori se l’occasione lo richiedeva, ma non era
mai stata così sporca e letale. «Sono stato dimenticato».
Stiles era andato
via prima di un’ora consona per il pranzo, indossando nuovamente i vestiti e le
scarpe di Derek che soltanto il pomeriggio prima aveva consegnato ad Erica come
intermediaria; era evidente che le avesse riportate al legittimo proprietario e
il loro tempismo era piuttosto d’impatto per una situazione di cui Stiles non
riusciva a distarsi.
Aveva mangiato da
solo, in uno dei locali affiliati ai buoni pasto che rientravano nella borsa di
studio, di corsa si era diretto verso la prima lezione pomeridiana ed a tentoni
e con troppi pensieri nella testa l’aveva seguita. Non ne aveva ricavato il miglior
risultato, ma nelle condizioni in cui era, non poteva trarre qualcosa di
diverso.
«Come te la passi,
amico?» la suoneria del suo telefono era stata l’unica compagnia di quella
giornata così devastante, la voce familiare e allegra che risuonava a
chilometri e chilometri di distanza.
«Ehy, Scott»
salutò distrattamente, sfinito. I suoi sforzi da studente quel giorno erano
stati minimi, ma il figlio dello sceriffo non riusciva ad alleggerirsi la
mente. Non era pentito di aver rivelato buona parte dei crucci che l’avevano
visto protagonista lontano dagli occhi di Derek, ma lo aveva privato di energie
che già gli mancavano per via della nottataccia che entrambi avevano
affrontato. Forse era anche esausto dalle parti che ancora voleva tenere per
sé; gli creava delle tensioni interne doverle tacere, non rivelare troppo.
«Come procede da
quelle parti?» chiese entusiasta il messicano, la spensieratezza tipica che lo
caratterizzava.
«Non demordo»
cercò di mitigare Stiles, la smorfia che sapeva essere percepibile da un capo
telefonico all’altro.
Seguì uno scambio
acceso tra i due, in cui si aggiornavano reciprocamente, raccontandosi quanto
le cose andassero bene. Scott esternava la verità, Stiles mentiva spudoratamente;
era un bene che i suoi super sensi non fossero troppo affinati tra
un’interferenza e l’altra. «Non crederai mai chi ho incontrato da queste parti»
disse allora, bisognoso di condividere qualcosa che non fosse un segreto.
«Erica».
«Erica?» ripeté in
una eco l’Alpha, le meningi che si spremevano per cogliere a tutto tondo la
figura a cui il suo migliore amico si riferiva. «Erica Reyes?».
«Proprio lei»
confermò con entusiasmo Stiles, felice che non l’avesse completamente rimossa
dalle sue memorie. «Frequenta il corso d’arte ed è nel dormitorio femminile».
«Che coincidenza»
esclamò vitale Scott, agitandosi sul posto come se potesse essere visto dagli
entrambi frequentatori della Michigan State University. «È bello trovare una faccia amica.
Lydia si lamenta sempre che all’IMT non conosce nessuno».
Già, coincidenza, Stiles non
riusciva a togliersi l’anomalia con cui risuonava quella parola. «Lydia
impiegherà cinque minuti a diventare la reginetta di quel posto».
«Assolutamente
vero» concordò senza fronzoli il Vero Alpha. «Tu, invece, hai fatto nuove
amicizie?».
Che terreno
insidioso quello. «Sì, Erica si è quasi creata un branco tutto suo, mi ha
presentato le sue persone preferite, Boyd ed Isaac. Isaac ti piacerebbe» non
sapeva dire il contrario. «Passo il mio tempo libero con loro, in genere».
«Altre creature
soprannaturali, Stiles?» chiese retoricamente il messicano, piuttosto
rassegnato a quella sua inconsueta caratteristica.
«Sono loro a
trovare me. Devo avere un sensore che si attiva, altrimenti non si spiega» era
stato divertente all’inizio, poi dannoso e nocivo. Era ancora innamorato di
quel mondo, lo sarebbe stato sempre, ma a volte voleva soltanto respirare
normalità, esseri umani banali come tutti gli altri. «Sono dei bravi lupi».
«Se a te sta bene,
non ci sono problemi» semplificò il messicano; lui di certo non ne aveva, ma la
sensazione che Stiles volesse allontanarsene l’aveva ben percepita quando la
lettera di accettazione della Michigan State University era arrivata, insieme all’aver
ottenuto una borsa di studio completa che gli garantiva una copertura totale e
un alloggio incluso. L’aveva quasi sentito liberarsi i polmoni per prendere una
nuova boccata d’ossigeno.
A volte si chiedeva se non fosse
quello che avesse sofferto di più tra tutti loro. Stiles teneva le sue
difficoltà per sé, l’aveva sempre fatto. Super sensi o meno, non era in grado
di leggergli nella mente, ma soltanto fiutare le sue emozioni e alcune sapeva
mitigarle piuttosto bene.
«C’è anche
un’altra persona» faticò a prendere fiato Stiles, in un primo momento aveva
pensato che quell’informazione se la sarebbe tenuta per sé, senza davvero
sapere perché nasconderla. Probabilmente perché avrebbe svelato più di se
stesso e della sua situazione che qualsiasi altro aspetto. «Derek».
La linea parve
essere caduta per quanto il silenzio si prorogò. «Derek chi?».
Stiles avrebbe
voluto tirargli il telefono in faccia, magari storcendogli ancora di più la
mascella. «Quanti Derek abbiamo in comune?».
«Derek Hale»
articolò in un’unica parola, segno che era ben consapevole di chi stessero
parlando.
«Sì, Derek Hale»
confermò lo studente di criminologia, non c’era nient’altro da aggiungere.
«Anche lui studia
lì?» si vide costretto a chiedere Scott, in una conferma.
«Sì, letteratura»
l’edificio incredibilmente vicino al suo, i due minuti che aveva cronometrato
personalmente.
«Questo spiega la
presenza di Erica» si illuminò Scott, come se dei pezzi di un puzzle appena
assemblato finalmente combaciassero.
Ma non spiegava
quella di Derek. «Sì, lo segue sempre dappertutto».
«Frequenti anche
lui?» domandò Scott d’istinto; era un’azione consequenziale farlo, se la lupa
mannara aveva una sorta di branco privato, era logico pensare che anche Derek
ne facesse parte, anche se non era scontato. Con Derek Hale nulla lo era.
«Diciamo di sì» si
trovava in svantaggio, Derek era la persona che frequentava più di tutte,
volente o meno. Stranamente era anche quella con cui si trovava meglio e
apprezzava maggiormente. «È sempre lo stesso, non farti grandissime
aspettative» ma era una menzogna anche quella.
«Ah, questa vorrei
proprio vederla» la risata di Scott lo contagiò e anche se si sentiva sporco
per le verità che non gli rivelava, il motivo per cui Derek e Stiles si fossero
incontrati e passassero fin troppo tempo insieme, si sentì comunque più in pace
con se stesso.
Derek percepì il
suo odore molto prima che raggiungesse la porta e iniziasse a bussare, quando
sentì l’impatto delle nocche sulla lastra di legno solida si chiese perché non
l’avesse aperta prima.
«Sembra non mi
aspettassi» disse Stiles, lo sguardo deciso, le intenzioni evidenti, un piccolo
borsone alla mano e un fagotto dentro una busta di stoffa.
Derek lo fece entrare
senza troppe cerimonie e Stiles andò avanti conoscendo bene l’ambiente. «Mi
sembravi restio» ma se l’umano portava con sé quell’agglomerato di stoffa che
aveva le fattezze del suo prezioso cuscino senza la quale non riusciva a
dormire e che conservava pienamente il suo odore, era un indizio promettente
che puntava in tutt’altra direzione.
«Lo sono ancora»
quando il figlio dello sceriffo aveva concluso la loro discussione con sono
stato dimenticato, non aveva accettato che Derek ponesse altre domande e
lui non ne aveva fatte; si erano limitati a spizzicare quella colazione tardiva
e Stiles si era preparato per tornare al dormitorio e risolvere tutte le
questioni in sospeso. Non si era deciso a preparare quella borsa dalle
dimensioni ridotte finché non era arrivata l’ora di cena, ancora una volta
consumata in solitaria. Aveva anche sperato che non arrivasse Jiang, non
avrebbe saputo come giustificare la sua assenza annunciata e non voleva dover
dare spiegazioni a nessuno. «Odio dipendere dagli altri, ma in questo momento
non sono in grado di occuparmi di me e tu sei l’unico che può e vuole proteggermi
da me stesso».
Stiles aveva
poggiato il borsone sulla scrivania del padrone di casa, sistemato il cuscino
sul materasso e si era buttato di peso sul letto, al tracollo delle sue forze.
Riuscire ad arrivare lì gliene aveva richieste ben troppe e non era ancora
riuscito a recuperare quelle che aveva perso. Dalla finestra, la visione a
testa in giù, la luna si mostrava fiera in uno scenario notturno, le nuvole
grigie erano ancora lì e la pioggia aveva concesso una tregua per un paio
d’ore. Minacciava di ripresentarsi presto. «Ho le scarpe» gli fece notare,
muovendo i piedi con le scarpe indosso per aria. Era una sorta di vittoria, in
qualche modo.
«Lo vedo» proferì
Derek, andandogli incontro. «Non devi pensare di essere un peso per me».
«Difficile farlo»
borbottò la matricola, il sospiro che gli sporcava la voce. Si portò in
posizione da seduto, il cruccio che distorceva i suoi lineamenti facciali. «Non
mi devi niente».
«È solo uno
scambio di favori che cerchi?» chiese di rimando il capitano della squadra di
basket, le braccia conserte e la stazza imponente.
«No» la
mortificazione affiorò, gli occhi bassi e la consapevolezza di far emergere la
parte peggiore di sé. Era sempre stato bravo in quello. «È solo che… mi sento
in difetto».
Derek lo guardò
per qualche secondo in silenzioso scrutamento e la mascella serrata si
ammorbidì. «Non è una situazione ottimale, ma io preferisco averti qui. Non ti
sei imposto, non ti sei autoinvitato, non hai invaso i miei spazi».
«Lo farò» Stiles
sorrise machiavellico, ma era timido e contenuto, come se non volesse
sbilanciarsi troppo.
«Ne prenderò atto»
Derek stette al gioco e gli dedicò un angolo della bocca a sostegno del loro
prendersi in giro.
Stiles si sentì
alleggerito e il peso che sentiva sul petto evaporò leggermente. «Vado a
cambiarmi» comunicò allora, alzandosi velocemente dal materasso e prendendo la
borsa al volo. Si rintanò dentro il bagno ed indossò direttamente il pigiama di
Star Wars, senza lavarsi o gingillarsi, se ne era già occupato nel suo
campus usando gli spazi comuni e non voleva prendere da Derek più di quanto non
gli offrisse già.
Uscì dandosi il
cambio con il lupo che non espresse alcun commento e Stiles avrebbe tanto
voluto gettarsi già tra le coperte e farsi catturare dalle braccia di Morfeo,
era esausto e voleva soltanto ricaricarsi, ma aveva ancora la decenza di
aspettare che fosse il padrone di casa ad aprire le danze.
Si rintanò in
cucina a bere un bicchiere d’acqua e ad osservare la vetrata essere toccata
nuovamente di gocce d’acqua. Era ben consapevole di quanta familiarità avesse
preso nell’appartamento di Derek, soltanto ventinove giorni, quanto ancora si
sarebbe allargata?
Derek uscì una
ventina di minuti dopo, la doccia fatta, il corpo umido, i pantaloni soliti
protagonisti sul mannaro, non c’era altro e Stiles si distese sul letto dopo di
lui, arrotolandosi tra le lenzuola; poteva chiudere gli occhi e farsi
trascinare. «Mio padre non voleva frequentassi il college quest’anno» rilevò
invece, spinto dal dover dare dei chiarimenti al ragazzo che si prodigava tanto
per lui. «Voleva che rimandassi di un anno, il tempo di riuscire a capire come
gestire le cose e trovare una soluzione, ma avrei perso la borsa di studio e
non volevo accadesse. Non volevo nemmeno rimandare, avevo davvero il bisogno di
cambiare aria» ricordava come si fosse opposto, quanto avesse cercato in tutti
i modi di far valere le sue ragioni. «Abbiamo fatto un patto, se le cose si
fossero fatte più complicate sarei tornato e avrei rimandato all’anno
successivo».
«Si aspettava
davvero lo rispettassi?» era evidente che Stiles non avesse chiamato lo
sceriffo e spiegato cosa stesse succedendo, quanto le cose fosse peggiorate.
«No, è un bravo
papà, fa finta di credere alle mie bugie» era ingiusto nei suoi confronti, come
lo era con tutta la sua cerchia. «Ma sono sicuro, che se recepisse qualcosa di
allarmante, mi verrebbe a prendere di peso».
«Quindi, adesso,
lo sceriffo conosce il nostro mondo?» nel silenzio riflessivo, il mannaro
chiese conferme. L’aveva già dato per scontato, il modo in cui Stiles parlava
del suo coinvolgimento con i suoi problemi legati alle disavventure
soprannaturali erano chiari.
«Sì» si voltò
lievemente verso il licantropo, lo sguardo già rivolto verso di lui. «Il Darach
aveva rapito mio padre, Melissa e Chris Argent, voleva sacrificarli, procedere
con il rituale che aveva iniziato con i sacrifici precedenti, per questo io,
Allison e Scott abbiamo preso il loro posto» si era spaventato come mai prima
di allora e aveva cercato di fare tutto quello che era in suo potere. «Siamo
morti per tre giorni e si è creata questa fessura nei nostri cuori, un legame
con l’oscurità» seppe che Derek gestì malamente il colpo alla parola morti,
ma non era qualcosa che poteva celargli, un sacrificio aveva un unico
significato. «Abbiamo cercato di sanarla successivamente, Scott ed Allison ci
sono riusciti; credevo di essermela cavata anch’io, era quello che la mia testa
mi aveva fatto credere, ma il Nogitsune l’ha usata a suo vantaggio. Ѐ
entrato» Stiles provava profonda rabbia per un’ingenuità che non gli
apparteneva, ma non avrebbe mai potuto credere che uno spirito malvagio
millenario fosse stato affascinato da lui. «È un bene che mio padre fosse stato
informato, non avrebbe capito, non sarebbe riuscito ad aiutarmi. La volpe ha
ingannato e usato anche lui» le urla nel cuore della notte, le sue sparizioni,
i sintomi della Demenza Frontotemporale che si palesavano ogni giorno di più,
simulati magnificamente studiate e la tac del suo cervello che risultava
pulita. Gli episodi di sonnambulismo che si erano palesati un anno dopo così
simili a quelli indotti dalla volpe.
«Sei morto»
proferì al vuoto il mannaro, le dita di una mano che prendevano confidenza con
il viso di Stiles, testandolo e acquisendo le nozioni fondamentali che gli
confermassero fosse esattamente lì, sotto i suoi polpastrelli. «E sarai legato
al Nemeton per sempre».
«Sì» Stiles sapeva
bene quanto fosse sbagliato, quanto facilmente si stesse lasciando assuefare
dal tocco di Derek. C’era una parte egoistica di lui che non voleva rimparare a
vivere senza.
Il lupo completo
non proseguì oltre, eppure sapeva quanto fosse assetato di conoscenza.
Probabilmente doveva incanalare ed elaborare tutto quello che Stiles gli aveva
confidato quel giorno; non poteva che comprenderlo. «È stato mio padre a
indicarci il percorso per trovare Malia» lo illuminò come se fosse un fatto
fondamentale e per Stiles lo era stato. Era cosciente di quanto Derek gli
stesse prestando attenzione, ma non sapeva quanta ne avesse nei riguardi di
lei. «Dopo aver scoperto del soprannaturale, ha voluto rianalizzare tutti i
suoi vecchi casi irrisolti e il suo è quello che gli è rimasto più impresso.
Noi non l’avremmo mai cercata».
«Nessuno la stava
cercando» forse soltanto Peter, con delle rimanenze di sensazioni che gli
comunicavano che esistesse una figlia da qualche parte. Sua madre, Talia Hale,
gli aveva estratto ogni ricordo su tutta la faccenda, compresa la Lupa del
Deserto. Trovarla era impensabile.
«Erica mi ha detto
che l’hai incontrata» provò a testare il terreno il figlio dello sceriffo.
Chissà cosa si provava ad entrare a conoscenza di un membro della propria
famiglia che era andata dispersa ancor prima di sapere che esistesse.
«Sì» si limitò a
confermare lo studente di letteratura, inflessibile come gli conferiva.
«Non ti è
piaciuta?» domandò Stiles con tutto il tatto di cui era pregno, ma in realtà
gli riuscì molto male, lui e Derek erano pessimi in quello.
Derek lo guardò
stralunato, come se l’avesse detta grossa. «Perché lo pensi?».
«L’hai incontrata
soltanto una volta» forse il lupo nero avrebbe dato una strigliata ad Erica
dopo quella rivelazione.
«Non c’è stata
altra occasione» si limitò a giustificarsi, senza scendere in particolari.
L’umano non se li
aspettava, ma gli risuonava comunque anomalo. Era vero che Derek vivesse per la
maggior parte dell’anno negli appartamenti privati del Michigan State, ma dubitava che non tornasse mai a
New York nei mesi di pausa, tra una festività e l’altra. Laura, Peter e Malia
erano tutti lì.
Stiles preferì non indagare
ulteriormente, non ne avrebbe ricavato nulla di utile. «Non ho mai visto
occhi come i tuoi» era riuscito a trattenere quel commento per tutto il giorno,
ma nel silenzio vuoto che li circondava non era riuscito a trattenersi. Anche
se, il silenzio serviva proprio per permettergli finalmente di addormentarsi, ma
era evidente che la sua mente non fosse pronta a smettere di elaborare.
«Credevo fossero blu».
«Lo sono» lo
corresse la creatura della notte. Stiles li aveva visti brillare quelle iridi
di giada, stuzzicate da un’osservazione che attendevano venisse esternata.
Derek aveva quasi trattenuto uno sbuffo rassegnato. «Lo erano».
«Da quanto tempo
li hai così?» non era sicuro di potergli porgere la domanda, nella retrovia
della sua perspicacia era quasi certo di conoscere la risposta.
«Dall’incendio»
dichiarò di conseguenza Derek, facendola risuonare come unico responso
esistente.
Li teneva nascosti
per quella ragione? «Sei un Alpha?».
«No» negò
vigorosamente il mutaforma, la mano che si separava totalmente da Stiles,
lasciandolo scoperto ‒ si stava abituando malamente. «Non sono niente».
Il mannaro era
pacato e mansueto, era quasi sicuro che non gli avrebbe negato niente se avesse
fatto la domanda giusta, ma alla formulazione Alpha si era alterato.
«Sei tu a non voler essere niente?».
«È soltanto un
potere annacquato» uno squarcio di risa derisoria ed amara gli uscì dalla bocca
ed a Stiles spezzò il cuore, perché si rendeva conto di quanto la sua vita si
ostinasse a bersagliarlo e punirlo.
Le falangi lunghe
e affusolate della matricola si prodigarono e sfiorarono le ciglia nere
inferiori, poggiando parte delle dita sull’epidermide al di sotto; con la
visione periferica colse il fiato trattenuto da parte di Derek. «Forse devi
scegliere chi vuoi essere, il ruolo più adatto a te».
Il modo con cui
Derek lo guardò gli prosciugò tutta la salivazione che aveva in bocca, le
pagliuzze zaffiro e rubino si accesero, ma non si mostrarono totalmente, lo
smeraldo le teneva ancora in riga. Quante volte aveva avuto la risposta davanti
a sé, ma non era riuscito a coglierla. «Laura è l’Alpha».
Quella fu la sola
risposta del licantropo e Stiles si chiedeva se non si stesse aggrappando alla
concretezza del ruolo che spettava alla sorella maggiore. «Puoi esserlo anche
tu, se è quello che vuoi» il modo in cui Erica, Boyd ed Isaac lo seguivano era indicativo
su che aura sprigionasse, che ne fosse cosciente o meno. «Non credo affatto che
ti ripudierebbe o lo riterrebbe una mancanza di rispetto. È la persona più
saggia e grandiosa che conosca» e lo amava con tutta se stessa.
«Sì, lo è» Derek
concordò con lui senza rimostranze e Stiles la decretò come una vittoria.
Abbozzò un
minuscolo sorriso e scivolò verso di lui, i polpastrelli ancora sul lato destro
del viso del capitano, sulle occhiaie fortunatamente inesistenti rispetto alla
mattina precedente. «I tuoi occhi, li trovo molto belli».
Derek emise un
soffio sarcastico, facendo risuonare le sue parole come se non avessero grande
rilevanza. «Trovi tutto bello, Stiles» era la parola che continuava a usare per
descrivere certi aspetti di sé.
Stiles non si
scoraggiò e non se la prese nemmeno troppo, era consapevole di essere
ripetitivo su determinate questioni, ma non riusciva a trovare dei sinonimi che
rendessero allo stesso modo. «Tutto di te, Derek, lo è».
Il trascorrere del
tempo fu come se si fosse arrestato e Stiles crebbe di essere all’interno di
una bolla che poteva esplodere da un momento all’altro, la facilità con cui
Derek gli toglieva il respiro era inspiegabile, così com’era indescrivibile la
profondità con cui lo guardava sempre.
Le iridi di giada
furono risucchiate dal colore dell’oceano e del fuoco e Stiles non riuscì a
trattenere quel sorriso di contentezza che si estese su ogni tratto del suo
viso.
«Due» soffiò Derek
alla vista, apprendendo immediatamente il numero che aumentava con una lentezza
snervante.
Stiles
si sciolse abbagliato dalla continua attenzione ed accuratezza che il lupo
completo gli dedicava anche in quei frangenti così atipici e le labbra si
curvarono di nuovo liete, felici, come non lo erano state da un infinito
trascorrere temporale. Tre.
Buona
parte delle verità di Stiles sono state rilevate e tutto ciò ci farà addentrare
in una convivenza definitiva forzata tra loro due per necessità.
Gli
eventi che noi tutti conosciamo canonici nella serie lo sono anche in questa
storia, tranne i fatti della quarta stagione che è praticamente inesistente (e
il film che non ho alcuna intenzione di vedere mai nella mia vita), quindi diciamo
che gli eventi dalla quinta stagione in poi vengono anticipati.
Lo
svolgimento di tali eventi si svolgono senza una presenza incisiva di Derek e
di suoi affini, più i vari personaggi che incontreremo capitolo dopo capitolo,
sostituiti ipoteticamente da qualcun altro che ha ricoperto i loro ruoli. Mi
limiterò a citarli o sintetizzarli in breve giusto per creare una cornice
quanto più chiara possibile, senza dover spenderci eccessivo tempo nel
raccontare qualcosa che effettivamente conosciamo.
Stiles mugugnò, lo
sbadiglio a bocca aperta che rilasciò e che con un secondo di ritardo coprì con
una mano, gli occhi che prendevano coscienza con l’ambiente ormai fin troppo
noto e le iridi boscose riposate che seguivano i suoi movimenti. Forse era la
prima volta che le trovava in quelle condizioni, non affaticate dal ritrovarlo
in giro per il campus di notte e riuscire ad escogitare un modo per ripotarlo
indietro. Era evidente che passare la notte insieme, senza troppe complicanze,
fosse un bene per entrambi. «Ehy, buongiorno».
Derek fissò lui e
poi la finestra che mostrava barlumi di raggi solari, l’impressione che le
nuvole si fossero dileguate. Borbottò qualcosa, un mormorio in risposta e
l’umano se lo fece bastare.
«È stato meno
traumatico di quanto credessi» osservò meglio intorno a sé, non c’era nulla di
diverso, non era cambiato niente, eppure sapeva che una variazione ci fosse
stata. «È bello svegliarsi in un letto in cui ci si è effettivamente
addormentati precedentemente» sorrise leggermente, niente camminante notturne,
niente sorprese.
Il lupo mannaro lo
scrutò, i lineamenti che sondavano. «È una tua paura?».
«Svegliarsi
accanto ad una persona mezza nuda senza sapere cos’hai effettivamente fatto o
cosa ti sia stato fatto? Sì» lo indicò con un braccio, a sottolineare la
condizione vestiaria con cui il mannaro lo accoglieva quotidianamente.
Derek roteò gli
occhi per nulla toccato, trovando quella frecciatina infondata ed esagerata.
«Ti è mai capitato?».
«Eccetto te?»
domandò retoricamente, gli occhi ambrati che scorrevano sulla sua figura
parzialmente coperta dalle lenzuola. «Fortunatamente no» era anche fortunato
sotto un altro punto di vista, il lupo completo si era sempre dimostrato
delicato sotto quel punto di vista, evitava che andasse in panico, aspettando
che le sue membra fossero completamente reattive e pronte a cogliere cosa fosse
variato, in che situazione scomoda si trovasse. «E comunque non è mia abitudine
rimanere in letti di estranei».
«Lo dici come se
frequentassi soltanto persone occasionali» rifletté a voce alta il padrone di
casa, la fronte crucciata incapace di identificarlo, di cacciare via l’idea che
aveva di lui.
Stiles non capiva
affatto quale potesse essere. «Principalmente è così. Di seria ho avuto… una
relazione e mezza?».
«È una domanda?»
chiese di rimando il capitano della squadra di basket, le sopracciglia
aggrottate.
«Non so
quantificarle» rivelò Stiles senza giri di parole, non appariva nemmeno
mortificato della situazione. «Qual è la tua abitudine, invece?» cambiò
completamente argomentazione, ribaltandola come se in realtà esistesse una
congiunzione tra l’una e l’altra.
Derek rimase in
silenzio nella caratteristica che lo contraddistingueva, ma Stiles avvertiva
una nota sinistra, lo fece sentire a disagio. «Non ho abitudini».
«Nel senso che non
hai regole?» domandò allora, il mistero che si accentuava. «Dipende dalla
persona?» chissà qual era il genere di persona che attirava Derek, oltre a
psicopatiche assassine manipolatrici.
«Non ho abitudini»
ripeté il licantropo e Stiles non aveva la minima idea di che cosa
significasse.
Il figlio dello
sceriffo avrebbe voluto indagare ancora, sfibrare il mistero e cogliere quali
fossero le sue reali intenzioni, il modo di fare, ma dall’ammonizione che
ricevette dal padrone di casa coglieva che era il caso evitare di farsi buttare
fuori a calci; non erano nemmeno affari suoi, soltanto una parte di sé
disturbata. «Non volevo dirti quelle cose l’altro giorno, non le penso davvero»
sapeva di essere in torto, era consapevole di essere stato ingiusto e di non
aspettarsi la mano che Derek continuava ad offrirgli; credeva realmente di
essere nei pasticci senza il suo intervenire, ma il mannaro non si tirava
indietro nemmeno davanti ai suoi tiri mancini.
«Le pensi eccome»
lo smentì il licantropo, le sopracciglia eloquenti, a sottintendere quanto
avesse ragione.
«Sì, beh, non
volevo essere così maligno» a volte si chiedeva se non fossero residui della
volpe oscura, ma era solo una scusa, un pretesto, lo era sempre stato; non
avere peli sulla lingua e un filtro a miticare i suoi pensieri erano la sua
forza e tallone d’Achille.
«Non importa» lo
liquidò la creatura della notte, inflessibile al battaglione a cui Stiles a
volte dava voce. «Conosco la tua lingua biforcuta».
«Non ti conviene
essere così accomodante, Sourwolf» lo mise sull’attenti la matricola, le labbra
che si disegnavano in un ghigno in procinto di addentrarsi in malefatte.
«Potrei approfittarne».
Derek ancora una
volta non si lasciò turbare, semplicemente tirò il lenzuolo sopra la testa di
Stiles a seppellirlo e quest’ultimo rilasciò una risata in una perfetta
combinazione tra l’offesa e il divertito.
Il figlio dello
sceriffo si liberò dopo una leggera lotta non molto impegnativa dalla parte del
mannaro, era evidente fosse una bazzecola per lui e Stiles ne stava traendo
ogni vantaggio nel suo essere in una posizione di svantaggio.
Quando il lenzuolo
di cotone cadde e lo studente di criminologia lo acchiappò tra le mani,
spingendolo verso il basso per liberarsi la vista, si soffermò meditativo sul
padrone di casa per qualche attimo, mentre Derek tratteneva un interrogativo
nello sguardo di giada. «Come mi sono comportato stanotte? Ho fatto nulla?».
«È un bene che io
possieda una vera serratura alla porta» affermò senza tergiversare, dando
subito una risposta che era evidente impensieriva il suo ospite. Si trovavano
in quella situazione proprio per le problematiche di Stiles, il resto era
contorno che gli permetteva di non soffocare. «E che tu non sappia dove tenga
le chiavi».
L’umano si chiuse
in un silenzio profondo, rinchiuso in dei pensieri che gli affollavano la mente
già bistrattata. «Sono davvero impegnativo».
Era scoraggiato e
triste, anche demoralizzato, Derek riusciva a capire il suo stato d’animo. «È
un enorme passo avanti, Stiles. Sono riuscito ad afferrarti subito».
Stiles avrebbe
preferito non fosse necessario, ma Derek era inquietantemente ottimista sotto
quel punto di vista e si domandava da quando era lui il catastrofista e il
mannaro l’ottimista.
«Ho una cosa per
te» disse invece Derek, lasciando di stucco lo studente del primo anno e
allontanandolo dalle sue macchinazioni cupe.
Il figlio dello
sceriffo lo vide ruotare verso il comodino e aprire il primo cassetto,
armeggiare un paio di secondi e voltarsi verso di lui, porgendogli una busta
bianca. «Per me?» ripeté in una domanda che risuonava come una eco,
l’incredulità dubbia che pizzicava le iridi ambrate e modificava i tratti
facciali.
Stiles la afferrò con indecisione,
confuso, guardando più Derek che l’oggetto che gli veniva passato tra le mani.
Rigirò l’incarto varie volte, in cerca di qualche scritta che gli dessero un
suggerimento, ma esso non c’era e attraverso la carta spessa e bianca non
intravedeva nulla, nemmeno nella controluce dei pochi raggi solari che
penetravano dalla finestra. La busta era aperta, ma era nuova ed immacolata.
Con tentennamento si approcciò a inserire
le dita e estrarre ciò che vi era conservato, sollecitato sia dalla propria
curiosità sia dall’aspettativa di Derek. Le falangi estrassero un rettandolo di
carta, il simbolo della Michigan State University sulla carta stampata: l’elmo degli spartani. «Derek»
un sorriso incredibile gli colorò il viso, uno pieno e spontaneo, esteso da
guancia e guancia. Fu annessa anche una risatina incredula e felice. Tra le
dita affusolate stringeva un biglietto per la partita di basket che si sarebbe
tenuta tre giorni dopo.
«Quattro» proferì soltanto Derek, un nuovo numero che
veniva sommato.
Stiles girò la testa verso di lui, il cuscino che si
plasmava sotto il suo peso, le iridi che brillavano e quel sorriso che perdurò,
affascinato e sorpreso. «Der, li conti davvero i miei sorrisi?».
«Fanno parte di te. Sei pieno di sfaccettature e anche
questa lo è» rivelò il lupo nero con autenticità, valido osservatore; non ci
vedeva nulla di strano.
«Credo siano molti di più» suppose certo lo studente
di criminologia, eppure la curva lieta sulle labbra non vacillò, rimase
stabile, intramontabile.
«Non quelli autentici» lo corresse la creatura della
notte, una mano che si posava a contatto con la mandibola, il pollice che
accarezzava uno dei nei più evidenti sul viso dell’umano, quello più vicino
alla bocca. «Mostri ghigni e smorfie malandrine, sono sempre deturpati da
qualcosa, ma questi sono realmente felici. Sono puri» sfiorò con il
polpastrello un angolo delle labbra, a sottolineare precisamente a quali si
riferisse. «Li reprimi e nascosti, ma adesso non puoi trattenerli».
Stiles era incantato, infatuato e il suo sorriso non
smorzava, rimaneva vivace sotto il tocco di Derek. «Sei troppo attento,
Sourwolf» non riusciva a quantificare il modo e il tempo in cui tutta quella
storia fosse diventata importante per il mannaro.
«È soltanto una partita di riscaldamento, puoi
contenerti» proferì Derek, a sforzare quanto detto.
«Non importa cosa sia, sono troppo eccitato» Cristo,
erano anni che non vedeva Derek nel suo elemento principale, non poteva credere
che sarebbe riuscito ad assistere ad una partita vera ed a non doversi
accontentare di sgattaiolare durante gli allenamenti della squadra.
«Sì, lo sento» gli fece ben notare, lievemente
annoiato dall’esagerazione.
Stiles lo spintonò e sbuffò sonoramente, ma era invaso
dalla contentezza, non riusciva e voleva dissiparla e Derek contò cinque,
sei, sette sapendosi rendere costantemente molesto anche nelle buone azioni
della sua inattesa gentilezza. Stiles abbracciò il biglietto come se fosse il
suo tesoro più prezioso e Derek rilasciò una mezza risata, divertita dal suo
essere ridicolo senza troppo sforzo. «Anch’io voglio vederti felice, Derek» lo
aveva voluto dal primo momento in cui accidentalmente l’aveva incontrato ed era
un desiderio che non aveva mai mollato la presa. Non credeva che quello stesso
pensiero fosse condiviso proprio con il fantomatico lupo cattivo.
«Devi applicarti di più» si burlò il capitano con
nessuna reticenza, il pollice che premeva ancora sul neo vicino alla bocca, in
una carezza solenne, eppure percepì dell’esitazione nelle sue parole.
Stiles afferrò il proprio prezioso cuscino che si
portava ovunque andasse e lo sbatté contro il viso di Derek, scaturendo della
disapprovazione da parte sua, anche se era perfettamente in grado di prevenire
e parare il colpo.
Nel risentimento reciproco fittizio, Stiles non ebbe
scampo e il suono delle sue risate riecheggiarono su tutte le pareti, su ogni
oggetto del mutaforma, assalto dopo assalto, rendendosi conto di non provare un
tale divertimento genuino da quando la volpe gliel’aveva sottratto. Sperava che
anche Derek stesse provando qualcosa di similare, anche soltanto piccoli
spazzi.
«L’abbiamo sentito ululare la scorsa notte» gli
comunicò Erica, seduta a mangiare un’insalata con lattuga, uova e carne appena
scottata, qualcosa che Stiles non avrebbe mai guardato in un menù.
Isaac annuì, un panino ripieno di polpette giganti
molte rossastre. «È stato abbastanza preoccupante».
Si erano ritrovati in una delle tavole calde che
rientrava nei locali che i suoi buoni pasto ricoprivano; Stiles li stava
provando tutti, in cerca di locali che potesse frequentare quotidianamente e
fornire una buona cucina, simili a quelli che Derek era in grado di scovare e
che Stiles si era appuntato, ma doveva spesso pagarli di tasca propria e il
portafoglio non apprezzava. In quell’occasione di ricerca, Erica si era unita a
lui, insieme ad Isaac e Boyd. Derek in quel momento era bloccato a lezione, in uno
dei suoi corsi extra fuori orario.
«Abbiamo cercato di raggiungervi» continuò Boyd,
provando l’ennesimo hamburger, doppio in quel pranzo. Stiles era invidioso del
loro stomaco di ferro, dubitava potessero avere delle intossicazioni o
ripercussioni di qualsiasi sorta. «Ma non vi abbiamo trovato, eravate già
andati via».
«Avevamo intasato il telefono di Derek di chiamate e
messaggi, soltanto più tardi ci ha rincuorato» Erica era pensierosa, affranta,
preoccupata, emise anche un sospiro stanco, Stiles non si era reso conto di
quanto la sua situazione si estendesse a terze persone.
«Stiamo bene» li tranquillizzò, anche se non sapeva su
quale aspetto dovesse farlo. «Lo avete già visto in forma da lupo completo?»
era davvero preoccupante che Derek avesse sentito il bisogno di ululare e
scaricare la sua frustrazione?
«Una volta» lo informò Isaac, i ricordi
che tornavano alla memoria. «Non si mostra granché. Come con l’ululare, è
accaduto soltanto un’altra volta».
Derek era sempre il solito sostenuto e
riservato. Non che pretendesse che andasse in giro per il campus ogni due
secondi nella sua forma completa, ma doveva essere difficile dover reprimere
quella parte di sé così invadente ed era evidente quanto fosse stato necessario
per lui doverla assumere per cercarlo nella notte di pioggia. «Mi ha detto che
l’ha ottenuta da un anno, ma non in che modo».
«Tipico» sbuffò evidentemente la
mutaforma, una nuova forchettata che imboccava e prendeva a masticare con
classe. «Ma nemmeno noi sappiamo precisamente come sia accaduto, non sono
neanche sicura se sia riuscito a capirlo lui. Una sera l’abbiamo sentito chiamarci
con un ululato nuovo e l’abbiamo trovato in quella forma. Un completo lupo
nero».
«Era abbastanza sconvolto quando è
riuscito a tornare in forma umana» rivelò Boyd, il pensiero che si incupiva a
tornare indietro con le memorie. Era fantascienza scuotere Derek, ma
addirittura incontrarlo sconvolto era fuori da ogni immaginario. «È riuscito a
padroneggiarla quasi subito».
«Stava soffrendo, però» lo delucidò lo
studente di veterinaria. Derek era entrato in possesso di un grande potere, ma
era stato scaturito da un impatto negativo che lo stava ferendo, lacerando.
Aveva visto bene il suo smarrimento nelle iridi boscose. «Era molto triste.
Aveva già cominciato a percepire qualcosa qualche ora prima».
Il ricciolino intercettò subito le iridi
scure del suo branco, il modo in cui lo stavano rimproverando silenziosamente,
ma rumorosamente, parlando troppo. Cercò di ricomporsi.
Derek aveva molti motivi per essere in una
costante nube di tristezza, ma ciò non l’aveva mai mutato, eppure doveva essere
qualcosa di enorme per aver innescato l’evoluzione che l’aveva toccato. Forse
era un altro indizio verso una strada che avrebbe dovuto intraprendere e la sua
natura soprannaturale gli stava fornendo ogni strumento per essere più forte,
per incitarlo in quella direzione. «E i suoi occhi? Avete visto anche quelli.
Lo seguite come se fosse un Alpha?».
«Derek non la vede in quel modo» proferì
Erica, ma era indignata ed anche annoiata dalla sua ottusità.
«Non ho chiesto come la pensi lui, ma cosa
pensate voi» aggiustò il tiro, focalizzandolo sul punto fondamentale, qualcosa
che aveva cominciato a capire perfino prima che Derek gli mostrasse le sue
bellissime iridi uniche e tormentate.
Esitarono tutti e tre per qualche secondo,
forse restii ad esprimersi in completa fiducia o forse bisognosi di dover
raccogliere le idee ed esternarle con le parole giuste. «Noi sentiamo il suo
potenziale» elargì l’afroamericano, la certezza nella sua voce. «Anche nella
pratica, riesce a farsi valere. A noi basta, a lui no».
«Sì, è un bravo Alpha anche con me» Stiles
non poteva affatto negarlo, l’aveva sentito serpeggiare dentro di sé e ne era
rimasto incantato.
Erica lo fissò attenta, i suoi occhi
nocciola luccicarono e si impressero il momento, a non lasciarselo sfuggire,
poi i suoi lineamenti si ammorbidirono. «Vorrei che se ne rendesse conto anche
lui».
Stiles era arrivato al campo di basket fin
troppo anticipatamente, gli spalti erano quasi vuoti e la squadra era nella
fase di riscaldamento. Aveva sorriso eccessivamente quando il codice a barre
del suo biglietto era stato scannerizzato dall’addetto all’entrata, emanando un
rumore positivo che accertava la validità ed autenticità di quel rettangolo di
cellulosa che Derek gli aveva regalato come se fosse un’inerzia, ma che per
Stiles rappresentava molto di più. L’aveva custodito gelosamente nella propria
camera nel dormitorio, all’interno di uno dei suoi libri di criminologia
preferiti, lontano da occhi indiscreti. Ma finalmente quel giorno era arrivato
e l’umano scalpitava, vedendo a poco a poco gli elementi del pubblico
raggiungerlo, occupare posto dopo posto.
«Sei fortunato» dichiarò Erica quando si
accomodò al suo fianco, il numero sul biglietto non era il suo corrispettivo,
ma a lei non sembrava importare, appariva sicura di non arrecare disturbo al
legittimo proprietario. «Derek non mi ha mai ceduto uno dei suoi biglietti».
Il figlio dello sceriffo la guardò
sbalordito ed anche un po’ incredulo. «E quale utilizzi?» anche se Erica amava
il suo strano branco, dubitava che potesse spendere del denaro per seguire le
partite di basket.
«Boyd ed Isaac fanno a turno, a seconda
della loro disponibilità. Sono soltanto due biglietti gratuiti a giocatore e
riescono sempre ad invitare qualcuno oltre a me» lo informò distrattamente,
ammiccando giocosamente.
Non erano i posti migliori e non erano
nemmeno i peggiori, era un settore stabilito verso la metà, a permettere ad
amici, famiglia ed interessi amorosi della squadra di assistere. «Anche Derek
invita qualcuno?».
«No, mai fatto» negò vistosamente la lupa
mannara, il capo che si scuoteva ad accompagnare la sua risposta. «A volte non
li ritira nemmeno».
Però in quell’occasione l’aveva fatto.
«Nemmeno Laura?».
«Per quanto le piacerebbe assistere, i
suoi impegni non coincidono mai e non può permettersi di passare da queste
parti così di frequente» Erica rilasciò un mezzo sospiro, era evidente che la
situazione non le piacesse particolarmente. «Hanno una specie di patto, se la
squadra riesce ad arrivare in finale, Laura si organizza di conseguenza per
essere ovunque verrà disputata; finora c’è sempre riuscita e acquista il
biglietto con il posto migliore. È piuttosto decisa su questo».
Stiles ridacchiò leggermente, era un
aspetto molto da Laura, sostenere e farsi sentire da suo fratello più che
poteva. «Quindi nemmeno Laura ne ha mai beneficiato».
«No, sei il primo» Erica fu distratta
dalla presentazione ed entrata in scena dei giocatori, il palazzetto che
cominciava ad animarsi, i vocii per le intonazioni delle due diverse squadre
che stavano scendendo in campo. «È proprio da Derek aspettare così tanto».
Stiles la fissò indecifrabile, la domanda
conseguenziale che rimbombava aspettare cosa? Ma non riuscì ad esternare
l’interrogativo ed i cori iniziarono, un spartani spartani
che riecheggiava ovunque e Derek che si piazzava nel suo ruolo da playmaker, i
gesti simbolici da capitano che indirizzava ai suoi compagni.
Il figlio della massima autorità di Beacon
Hills sorrise apertamente quando l’osservò occupare il suo posto sul parquet e
gli occhi di Derek individuarlo, accigliato come sua posa tipica. Stiles lo
salutò con un cenno della mano, la curva entusiasta sulla bocca che si
estendeva, la bolla che creò in cui gli unici abitanti erano soltanto loro due,
impossibilitati ad essere distratti dalla moltitudine di persone che copriva il
silenzio. Il lupo scosse impercettibilmente il capo rassegnato dalla personalità
di Stiles e abbozzò qualcosa che assomigliava spaventosamente ad un sorriso
misto a un grugnito, mentre la matricola saltellava sul posto elettrizzata.
Stiles invocò il suo nome per tutta la
durata della partita, urlando, incitandolo e acclamandolo, applaudendo
entusiasta ad ogni punto segnato e ottenendo nelle occasioni che riusciva a
ritagliarsi, tra una pausa o una sospensione, gli occhi di giada su di lui,
testimonianza di quanto il mannaro sapesse individuarlo ovunque si trovasse.
La partita si concluse a favore degli
spartani ‒ ovviamente ‒, gli spalti si svuotarono lentamente e le
squadre non erano più in campo, Stiles rimase al suo posto insieme ad Erica e
aspettarono non sapeva bene cosa, finché ad un certo punto lei non gli fece un
gesto che lo invitasse a seguirla, percorrendo i gradini e raggiungendo il
campo, da cui uscirono Boyd, Isaac e Derek, con un borsone ciascuno in mano,
già perfettamente lavati e cambiati. Più veloci della luce. «Sei stato
grandioso, Sourwolf» esultò Stiles, la frenesia dell’eccitazione che non dava
segnali di volersi placare, la dentatura completa che si mostrava splendente.
«Piano con le preferenze» lo additò Isaac,
fintamente risentito dall’accoglienza che l’umano riservava al playmaker.
«Siete stati bravi tutti» continuò il
figlio dello sceriffo, minimizzando l’accusa del mannaro e congratulandosi con
loro, rivolgendosi pienamente anche all’afroamericano, riservandogli un
arricciamento delle labbra complice. «Ma Derek è un vero fuoriclasse».
Isaac incassò il colpo ed annuì con il
capo, impossibilitato ad obbiettare. «Non è il nostro capitano per niente».
«Quello è perché ha l’attitudine da
leader, come un Alpha eccezionale» Stiles stava cominciando a pensarlo fin
troppo spesso, si rendeva conto di quanto fosse predisposto per quel ruolo, nel
modo in cui si comportava con il suo branco ufficioso e per quanto fosse
costantemente al suo fianco.
«È un bene che non si sia già montato la
testa» ammiccò spudoratamente la licantropa, il rossetto rosso che spiccava.
«Con tutti i vostri complimenti».
«Faremo tardi» informò Derek, ignorandoli
completamente e sordo alle felicitazioni dell’umano.
Stiles riportò l’attenzione su di lui,
inclinando il viso e squadrandolo per bene, a tentare di decifrare il suo
linguaggio criptico.
«È la prima partita della squadra, in
genere andiamo a festeggiare» completò per lui Boyd, abituato al vocabolario
limitato del capitano, illustrando le loro abitudini ad uno Stiles
completamente estraneo ai loro riti. «È tradizione».
«Oh, Sourwolf, sai anche festeggiare?
Divertirti?» il suo ghigno pericoloso mutò i lineamenti candidi e sporcò le
labbra carnose, il diletto che emanava da ogni poro.
Lo studente di letteratura roteò gli occhi
annoiato, pronto a ricevere l’ennesima stangata da parte della matricola. «Va a
mangiare, sono sicuro che nel correre qui tu non l’abbia fatto».
Il figlio dello sceriffo lo fissò a lungo,
sbalordito e incuriosito da una tale attenzione, gli ingranaggi nel suo
cervello che si mettevano in moto a tentare di far scattare qualcosa.
«Sì! Te l’ho tengo d’occhio io, Derek» si
unì Erica intrigata e contagiosamente divertita, aggrappandosi ad un braccio di
Stiles e tenendolo ben stretto, a sottolineare le sue intenzioni. «Potremmo
andare nel tuo locale preferito, Stiles, non ho cenato nemmeno io».
«Locale preferito?» indagò il lupo
completo, un sopracciglio che si inarcava lievemente.
«O sì» esclamò l’unica ragazza del gruppo,
il giubilo che cresceva ancora, strattonando l’umano. «Il Crescent Moon».
«Ma davvero?» lo sollecitò Derek, le iridi
di smeraldo puntate su quelle di caramello, l’interesse che si accendeva.
«Ho talento in queste cose» ma Stiles non
specificò esattamente in cosa consistesse.
«Sì, abbastanza» Derek invece sembrava
comprenderlo molto bene. «Ci vediamo più tardi».
«A più tardi» lo salutò Stiles, un sorriso
di incoraggiamento e lo sguardo che lo seguì finché non lo vide congedarsi.
Dovette ammettere a se stesso che Erica fu quasi costretta a trascinarlo di
peso dal metro quadrato su cui si era inchiodato.
Derek un paio di ore dopo gli inviò in
messaggio, in cui gli comunicava che si stava dirigendo verso l’appartamento.
«Hanno finito» disse alla lupa mannara che sorseggiava una cioccolata calda
alla menta.
Erica osservò l’orario sul display del
cellulare, la tazza che si svuotava di metà. «Ha fatto presto».
A Stiles risuonò sinistra quell’osservazione.
«Di solito torna più tardi?».
«Derek non ha uno schema» la lupa agitò
una mano in senso di diniego, a tranquillizzarlo, le unghie laccate di rosso
rubino. «Non è un tipo loquace, lo sai anche tu e ha un livello di
sopportazione minimo, agisce soltanto come si sente sul momento».
Stiles sapeva quanto la ragazza avesse
ragione, lei lo conosceva meglio di tutti, ma non riusciva a togliersi quella
pulce nell’orecchio che si era insidiata malignamente.
«Non angustiarti, Stiles» lo rassicurò,
percependo immediatamente il flusso delle sue emozioni. «Non dipende da te».
«Non puoi negare che ne sia influenzato»
era un fattore su cui non si poteva proprio sindacare, Stiles sapeva quanto
Derek fosse attento ai suoi bisogni, quanto procedesse con adagio. «È sempre
così vigile».
«Non limitare le sue azioni» lo riprese
Erica, sbrigliando la matassa d’ansia e oscura in cui si stava intrappolando.
«Derek fa soltanto quello che è meglio per lui».
Quando Stiles si presentò davanti la porta
del mannaro essa era già aperta, con il padrone di casa che attendeva dietro, a
facilitargli il passaggio nella sua solita mise e l’umano varcò l’uscio insieme
al borsone con il cambio abiti che preparava ogni giorno. Si gettò sul letto
quasi subito, il tempo di spogliarsi e indossare il pigiama; scivolò tra le
coperte come se non aspettasse altro.
«Ti sei divertito?» Derek lo seguì
successivamente, perdendo tempo a trafficare e sistemare qualcosa che non
rientrava nel campo visivo del figlio dello sceriffo.
Stiles lo occhieggiò appena nel momento in
cui il licantropo lo raggiunse, scuotendo le lenzuola e sistemandole meglio su
di loro. «Sì, tanto. Sei stato fantastico» soffocò uno sbadiglio sul cuscino,
il viso seminascosto sotto la coperta. «Mi era davvero mancato vederti
giocare».
«Sì, l’ho capito dal tuo tifo sfrenato»
alcune dita del mannaro si incastrarono tra i capelli castani, ad accarezzarli
e sistemarli con gentilezza.
Stiles si accoccolò meglio sotto il tocco
restauratore del lupo e ammiccò irriverente. «Vuoi ancora sostenere fosse
soltanto un riscaldamento?».
«Lo era, sei tu che esageri sempre» il
pollice scivolò e carezzò con leggerezza confortante una tempia.
Stiles si sarebbe potuto addormentare con
una facilità estrema. «Nemmeno tu ti sei risparmiato».
«Non fa parte di me» il suo tono era serio
e avvallava la tesi che si impegnasse in ogni cosa, a prescindere da quanto
fosse rilevante. «La prossima volta, chissà come reagirai ad una partita vera».
«La prossima volta?» gli fece eco, gli
occhi che si ingigantivano per lo stupore, il capo che si alzava di scatto per
guardarlo meglio ed accettarsi di aver udito perfettamente. «Ci sarà una
prossima volta?».
«Certo, perché non dovrebbe?» Derek lo
guardò criptico, indagatore, le iridi verdi che tentavano di decodificarlo.
«Puoi assistere a tutte le partite che vuoi».
«Tutte?» Stiles lo guardò con occhi
giganti, non riusciva a crederci.
«Tutte» confermò il licantropo senza
alcuno sforzo, veritiero. «Tutte quelle che si terranno qui. A meno che non
vuoi seguirmi anche in trasferta».
In trasferta, non l’aveva
realizzato, messo in conto che Derek non avrebbe giocato ogni partita dei vari
campionati alla Michigan
State University, ma che
molte si sarebbero tenute sparse per tutti gli Stati Uniti. «Lo farei, se
potessi permettermelo» Derek stava scherzando, non lo intendeva davvero, ma
Stiles lo avrebbe fatto, soprattutto se significava non essere sotto lo sguardo
vigile del mutaforma nelle notti tormentate. Poi l’umano lo fissò a lungo,
indeciso e frastornato, il tarlo che non smetteva di lasciare i suoi pensieri.
«Sei sicuro di non voler dare quei biglietti a qualcun altro?» Erica gli aveva
confidato di essere stato il primo a cui Derek aveva concesso quell’onore, che
nemmeno Laura, la sua preziosa sorella, ne aveva mai usufruito e Derek voleva
darli a lui, proprio a lui.
«Piuttosto sicuro» non c’erano
tentennamenti da parte del lupo mannaro, era serio ed irremovibile. «Non c’è
nessun altro a cui li consegnerei».
La matricola era lusingava, impressionata
ed una parte di lei stava saltellando per la contentezza. «In questo modo non
ti libererai mai di me, Der».
Le dita della creatura della notte si
inoltrarono e si poggiarono sull’attaccatura dei capelli, lì al centro della
fronte e Stiles si sentì liberato ed in pace. «Non ho mai detto di volerlo».
Le labbra dell’umano formarono una curva
piena e raggiante, mitigata da una leggera timidezza e nascose diagonalmente il
viso sul cuscino, pronto a godersi la sua notte di sonno lautamente guadagnata.
«Stai cercando un Alpha?» tuttavia Derek
non appariva di quell’avviso, la sua attenzione era già rivolta altrove.
Le pupille nere si dilatarono e il miele
delle iridi mitigò, Stiles si trovava in difficoltà. «Perché lo chiedi?».
«Ho avuto quest’impressione» Derek non
riusciva a dimenticare il modo in cui la matricola parlasse ed elogiasse un suo
essere un Alpha mancato.
«Ne ho già uno» credeva che il suo odore parlasse
per lui, che l’impronta fosse rimasta, anche se tra di loro si istaurassero
stati su stati.
«Sì, Scott» non era un segreto, non ne era
rimasto nemmeno stupito quando Malia lo confidò a Laura; un Vero Alpha. Il
messicano in qualche modo aveva sempre incarnato quel ruolo, anche quando era
un Beta inesperto, ma senza Stiles al suo fianco a spiegargli e sperimentare
con lui tutto quello che gli serviva per controllare se stesso, dubitava che
avrebbe ottenuto grandissimi risultati; anche se Laura era l’insegnante
migliore del mondo ed aveva fatto del suo meglio per venirgli incontro.
Tuttavia esisteva un grande problema alla
base, Stiles non si sentiva più in sintonia con il suo vecchio branco. Aveva
cominciato a vacillare dopo il Nogitsune, la conseguenziale morte di Allison;
le cose si erano aggravate con l’arrivo dei Dottori del Terrore e delle loro
chimere. Stiles stava cercando di metterlo al passo con tutto, di raccontargli
piccoli bocconi di lui, tutto quello che gli era accaduto dopo la sua partenza.
C’erano ancora degli aspetti che non gli
rilevava, il modo in cui il Nemeton si fosse attivato prima dell’arrivo del Darach, che cosa fosse accaduto dopo i Dottori del Terrore,
che cosa avesse scatenato i suoi episodi pericolosi di sonnambulismo, ma delle
chimere gli aveva raccontato eccome, di come fosse stato bersagliato in
particolare da una di loro, di come l’avesse inseguito in una strada senza
uscita con l’unico scopo di fargli del male, limitarsi apparentemente in teoria
a mangiargli le gambe per punire lo sceriffo Stilinski, ma Stiles era
spaventato, terrorizzato dall’accanimento che gli veniva gettato addosso, della
caccia spietata di cui era vittima, della concreta possibilità che la sua
carnefice non si limitasse a privarlo degli arti inferiori e gli strappasse
lembo dopo lembo di pelle, muscolo dopo muscolo, rinchiuso nella biblioteca
scolastica da cui non individuava il modo di scappare.
Si era difeso, aveva cercato di restare
intero e di rallentare la sua pedatrice, ma inevitabilmente nella disperazione
l’aveva uccisa per proteggere se stesso. I sensi di colpa non gli avevano dato
tregua, perché Stiles aveva l’anima più candida che avesse mai conosciuto,
anche se era stata macchiata e bersagliata con ogni tragedia possibile.
Quando Scott l’aveva scoperto, non glielo
aveva perdonato e l’aveva accusato. Stiles aveva sentito quanto il legame
fraterno e unico che li legava si stesse lacerando.
Anche nel momento della riappacificazione
avvenuta diverso tempo dopo, Stiles non aveva percepito che si fosse ricomposto
ed era lì, a tenere duro, ma il divario era divenuto troppo estremo e poi era
nato una sorta di risentimento che Stiles non avrebbe voluto provare, ma che
era lì e si ramificava; Derek non aveva ancora scoperto a cosa fosse dovuto.
Stiles si nascose tra le coperte, ma le
dita di Derek erano ancora su di lui e non avevano smesso di risollevarlo. «Non
so rispondere, non so cosa stia cercando, a parte me stesso».
Derek si inoltrò verso di lui, la testa
che si depositava sul cuscino prezioso del figlio dello sceriffo; erano
incredibilmente vicini, il respiro accarezzava la bocca e il calore corporeo
fluiva da uno all’altro. «Ehy, non ti sta inseguendo nessuno».
La matricola abbozzò un sorriso triste e
socchiuse appena le palpebre, a godersi la vicinanza e le premure che Derek
aveva per lei. «Tuttavia hai avuto l’impressione che ne stia cercando uno».
«Cosa ci sarebbe di male?» chiese il
licantropo interessato alla visione che Stiles aveva del loro mondo. «Nessun
branco resta immutabile per sempre. L’evoluzione, il cambiamento, fanno parte
dell’essere vivente e tu hai diritto di trovare un altro posto più congenito a
te, se è quello che vuoi. Hai anche il diritto di tornare indietro».
Stiles era visibilmente commosso e si
strinse istintivamente a lui, le due fronti che entravano in collisione e si
poggiavano l’una sull’altra, le falangi del mutaforma che accentuavano la presa
su di lui. «Saresti un grandioso Alpha, se solo te ne rendessi conto».
«Stiles» lo ammonì Derek, non volendo
tornare sulla discussione.
Stiles sorrise pigro contro di lui, il
naso che sfiorava il suo. «Ti avrei proposto la mia candidatura».
Derek depositò un bacio asciutto sulla
fronte, sul punto in cui partiva il setto nasale. «Dovresti proporla a qualcuno
di meritevole».
Stiles mugugnò di apprezzamento,
abbandonato completamente contro Derek, la barba morbida e curata che
accompagnava la carezza. «Tu lo sei, Der».
Derek tornò al suo posto, fronte contro
fronte, le iridi di smeraldo che si imprimevano ogni lineamento del ragazzo che
era pronto ad addormentarsi a contato con lui. «Non vincerai questa volta».
La bocca di Stiles si curvò ancora una
volta verso l’alto, le dita del lupo che si attorcigliavano morbidamente tra le
ciocche castane, le braccia del dio greco dei sogni che lo accoglieva
calorosamente. «Guardami mentre riuscirò a vincere».
Stiles era andato incontro a Derek subito
dopo che quest’ultimo aveva terminato l’ultima lezione del giorno, aspettava
davanti al College of Arts & Letters e non aveva individuato nessuna
faccia amica finché il licantropo non si era palesato. «Hai preso tutto?» gli
aveva chiesto il moro, l’evidenza di Stiles che possedeva soltanto la sua
fidata tracolla e nient’altro.
«No, devo passare dal dormitorio» non
aveva avuto il tempo materiale di preparare il borsone che utilizzava per
spostarsi nel monolocale del mutaforma.
«Fai strada» l’aveva incentivato lo
studente di letteratura, un unico segno del capo che indicava la direzione
corretta.
Stiles aveva abbozzato un sorriso e
l’aveva trascinato con sé.
«Mi hai mai trovato da queste parti?»
l’edificio caratteristico del Mayo Hall si parava ad ogni passo davanti
a loro, procedendo con adagio, nessuno dei due sembrava avere fretta.
«Poche volte» lo soddisfò Derek,
l’andatura al suo fianco che non cedeva di un centimetro. «Ti piace camminare».
Il che corrispondeva proprio al problema
principale, se Stiles fosse stato moderato e con un’area da ricoprire limitata,
Derek non avrebbe dovuto pescarlo da un fiume o da dovunque lo avesse scovato
in passato.
La matricola si fermò davanti l’ingresso
principale, alcune figure che vi uscirono e che squadrarono sia lui che Derek,
soffermandosi particolarmente sul lupo; Stiles non ne era stupito perciò
procedette verso il secondo piano, varcando la porta e trovando la stanza
occupata da Jiang intento a rilassarsi con la televisione accesa e un taccuino
su cui stava scarabocchiando senza troppa attenzione. «Ehy, Jiang» lo salutò
nell’immediato, dirigendosi verso la sua parte di armadio.
«Stiles» si limitò il compagno di stanza,
adocchiandolo appena.
Lo studente di criminologia afferrò la
borsa e cominciò a riempirla con i suoi oggetti personali, trafficando con la
biancheria, a trovare qualcosa che lo ispirasse da indossare il giorno dopo.
Percepì gli occhi orientali prementi del suo coinquilino su di lui, ma cercò di
non farsi distrarre; non era ancora mai capitato che Jiang lo beccasse in
flagrante a preparare i bagagli che testimoniavano nuovamente la sua assenza
per la notte nel dormitorio né gli aveva mai dato l’opportunità di chiedergli
dov’è che andasse. Era sicuro che ormai avesse le sue teorie, gli aveva già
chiesto in passato se si frequentasse con qualcuno ed era un’idea che
certamente non l’aveva abbandonato, dopo l’evidenza di essersi quasi
completamente trasferito per la notte altrove; sarebbe stato difficile fargli
credere che ciò che Stiles compieva era qualcosa di completamente innocente.
«Quello è Derek Hale? Il capitano della
squadra di basket?» lo studente di economia lo individuò con molto ritardo,
mettendolo a fuoco con difficoltà e registrando i lineamenti da comparare a
quelli di sua conoscenza, perché gli apparivano decisamente familiari.
Stiles fu risvegliato e bloccando le sue
movenze, girò il busto verso il licantropo, fermo sulla soglia della porta,
rispettando uno spazio non suo, gli occhi seri ed inflessibili. «Sourwolf,
dovresti presentarti».
Ma Derek non lo fece e Stiles rilasciò una
mezza risata divertita, prendendo una felpa verde e bianca e sistemandola
dentro il borsone, cercando un paio di jeans che non trovava e che la sua mente
gli ricordò fossero rimasti nell’appartamento di Derek, in cerca di un giro in
lavatrice. Avrebbe dovuto farne una molto presto. «Scusalo, Jiang. È stato
cresciuto dai lupi».
Il mannaro lo fissò in tralice, il
rimprovero ringhiante silenzioso. «Smuoviti, sei troppo lento».
Stiles rilasciò un risolino allietato, per
niente colpito dalla rudezza del capitano e con un unico gesto chiuse la
cerniera della borsa, issandola su una spalla. «E tu sei il solito impaziente e
fastidioso».
«Disse il logorroico iperattivo per
eccellenza» affermò con scherno la creatura della notte, apprestandosi a
scostarsi per far passare Stiles e chiudere la porta dietro di sé.
Jiang non riuscì a decifrare lo scambio
che avvenne e continuò lontano dalla sua portata d’orecchio, non capendo
affatto a cosa avesse assistito. Riuscì soltanto a metabolizzare che Derek
Hale, capitano della squadra di basket per il secondo anno consecutivo e
studente del terzo anno, si accompagnasse da una semplice matricola, seppur
tormentata e complicata.
Derek non aveva guardato l’orologio né gli
prestava mai particolare attenzione, gli allenamenti si erano protratti ben
oltre l’orario abituale e la sera era arrivata in fretta, ma quando risalì le
scale con il borsone pieno della biancheria da pulire e che attendevano
fremente un viaggio in lavatrice, trovò Stiles seduto accanto alla sua porta,
la schiena poggiata sul muro e la borsa da viaggio sulle gambe, a permettergli
di poggiare i gomiti per sorreggergli la testa. «Stiles».
Stiles lo individuò subito e lo salutò con
una mano, una curva lieta lievemente mortificata sulle labbra. «Scusa, devo
aver confuso gli orari».
Il lupo completo inserì la chiave apposita
nella serratura e la fece scattare due volte. «Da quanto stai aspettando?».
«Un’ora, circa» fu vago, alzandosi
immediatamente in piedi e grattandosi disordinatamente la testa.
«Potevi chiamarmi o mandarmi un messaggio»
Derek spintonò la porta e l’essere umano lo seguì a ruota, procedendo diretto e
sicuro verso l’ala dedicata alla camera da letto, poggiando il bagaglio su un
angolo della scrivania e adocchiando distrattamente il letto sistemato con
cura, in cui era custodito il suo prezioso cuscino, cuscino che Stiles aveva
lasciato lì fin dal primo giorno in cui aveva accettato l’invito di Derek di
trascorrere le notti con lui; non aveva alcun senso portarlo avanti ed indietro.
«Non era urgente, potevo aspettare»
rettificò il figlio dello sceriffo, dirigendosi verso il frigorifero e
prendendo una delle bottiglie di vetro in cui era contenuta acqua fresca,
riempiendo immediatamente uno dei bicchieri che aveva lavato quella stessa
mattina. Derek era un vero amante dell’ambiente, puliva e riciclava ogni cosa,
la plastica era un elemento che difficilmente si trovava in giro per il
monolocale, a meno che non vi era costrizione per mancanza di alternativa,
aspetto che lo indispettiva parecchio.
Derek lo fissò corrucciato, il mazzo di
chiavi poggiato momentaneamente al centro del tavolo. «Non devi aspettare
davanti la porta, ma trovare un’alternativa».
«Pensavo saresti tornato presto, ogni
volta prolungavo di cinque minuti. Non mi è pesato e alla fine sei arrivato»
Stiles si fece scivolare la faccenda addosso e si accomodò sul divano,
sbirciando prima attraverso la grande finestra e osservando gli altri studenti
che rincasavano o si apprestavano ad uscire per andare da qualche parte.
Derek sospirò, le difese di Stiles erano
sempre inespugnabili. «Hai mangiato?».
«No» era inutile mentire al lupo nero, non
ci avrebbe guadagnato nulla e Derek avrebbe comunque agitò di volontà propria.
Come volevasi dimostrare, il padrone di
casa si sistemò e subito dopo recuperò qualcosa dal frigo, prendendo una
padella per arrostire, versando una minuscola goccia di olio ‒ vero olio
d’oliva ‒ da cospargere con maestria per tutta la superficie ‒
aboliva il burro ovunque potesse ‒ e lasciare leggermente sfrigolare,
prima di poggiare con delicatezza due tagli pregiati di carne rossa: una era
una bistecca alta e con il grasso evidente, l’altra era più piccola e bassa,
dalla consistenza tenera e Stiles sapeva che era per lui, acquistata
appositamente soltanto il giorno prima. «Niente cottura al sangue».
«Lo so» gli fece ben presente Derek,
stando ben attendo a maneggiare tutto correttamente.
Il mannaro gli dava le spalle, occupato a
far sciogliere il grasso sulla superficie antiaderente. «Non riesco a
sopportarlo, il sangue» la matricola non aveva mai espresso chiaramente quale
tipo di disturbo gli scaturiva, perché fosse così fiscale a tal punto da farsi
chiudere lo stomaco. «Mi sembra di averne già fatto una scorpacciata senza
fine, lo sento sotto lingua» era metallico e dal retrogusto ferroso, quasi
arrugginito, sgorgava a cascate e non riusciva ad associare tutte le facce alle
persone a cui aveva sottratto la vita.
«Forse dovresti diventare vegetariano»
Derek era piuttosto attento a quello, se casualmente si occupava della sua cena
o uscivano insieme, sceglieva spesso un alimento o un posto in cui il menù
presentava una predominanza di scelta vegana o vegetariana. Stiles aveva
bisogno di ampia opportunità e non si risparmiava mai, anche se puntava sempre
sul piatto più economico. Le sue specifiche venivano scandite per bene e in
genere rispettate alla lettera, se vedeva qualcosa che non andava lo faceva
riportare indietro. Odiava gli sprechi o l’essere difficile, ma Stiles non
riusciva a soprassedere su certe cose.
«Sarebbe un’ottima idea, ma amo troppo la
carne» c’era un’infinità di cibarie sotto quella forma, che non mostravano il
sangue nemmeno per sbaglio e Stiles ne adorava il sapore, non era per niente
pronto a toglierli drasticamente dalla sua dieta.
«Sei più un tipo da carne bianca»
difficile non notarlo, a volte il mutaforma si era chiesto se anche quella
preferenza non fosse guidata dalla necessità del suo portafoglio limitato.
«Anche quella contiene sangue» Stiles
rabbrividì, non c’era una risoluzione per il suo problema che lo attanagliava.
«Sì, ma è severamente consigliata una
cottura prolungata» possibilità quasi nulla di ritrovarsi dei liquidi di rubino
sul piatto.
Stiles sbuffò, la vittoria dalla parte del
licantropo era evidente e l’osservò rigirare le due pietanze sulla padella
adatta, quella del lupo era quasi pronta, mentre quella destinata alla
matricola necessitava di una cura maggiore. «Hai una risposta per tutto».
Derek rallentò i suoi movimenti e lo
sbirciò con moderazione, trattenendo un sospiro che era visibile. «Studi
criminologia, Stiles. Incontri il sangue giornalmente e se proseguirai per
questa strada, sarà il tuo futuro».
«Questo non ha nessuna attinenza» lo
smentì pronto il figlio dello sceriffo, i lineamenti che si contraevano e le
iridi caramellate che si scurivano. «Non devo metterlo in bocca, non devo
ingoiarlo».
Derek non proseguì, abbassò la fiamma e si
limitò a prendere due piatti dal mobile apposito in cui li conservavano e
proseguì come se non fosse accaduto nulla.
La matricola impiegò qualche secondo per
calmarsi e altri per ragionare sul da farsi, con lentezza si sistemò vicino a
lui, prendendo l’occorrente per apparecchiare la tavola e alleviare quella
sensazione sbagliata che gli suggeriva quanto si approfittasse di Derek, anche
nelle piccole cose. «Non sei stato tu a fargli del male» lo intercettò Derek,
interrompendo il suo via vai da un punto all’altro. «Non sei stato tu a trarre
nutrimento da loro».
Stiles si paralizzò lì davanti al cassetto
delle posate, non erano molte ed avevano i manici di vari colori: gialli, blu e
verdi, per una persona sola erano anche troppe, ma per due erano abbastanza,
tuttavia per un numero superiore cominciavano ad arrancare. Stiles non aveva
mai capito se in quel monolocale Derek avesse mai invitato qualcuno oltre a
lui. «Sono state le mie mani, sono state le mie scelte».
Proprio le mani erano focali e quelle del
lupo completo andarono a circondare il viso di Stiles, a tenerlo fermo e
stretto. «Ne hai in qualche modo beneficiato?» gli domandò con conoscenza, le
iridi di smerando che lo guardavano con attenzione richiesta, affondando
completamente nelle sue. «Ci sono stati dei vantaggi per te?».
I grandi occhi di miele lo guardarono
scioccati, in completa apnea. Stiles non riusciva a far passare l’ossigeno
attraverso i polmoni e faticava a stare dietro all’urgenza del licantropo. «No,
solo dolore».
I pollici di Derek asciugarono quelle
lacrime che Stiles non si rendeva nemmeno conto di star versando, si bagnarono
e proseguivano in quella minuziosa accuratezza nei suoi riguardi. «Allora non
puoi aver preso nulla da loro» ma la volpe oscura sì, lei aveva preso ogni
cosa.
«Ma io lo sento» un singhiozzo gli scappò
dalla bocca che si andava ad inumidire e che diveniva più rossa sotto la sua
pelle diafana che si schiariva ancora di più. «Tutte quelle vite spezzate».
«Lo so che lo senti» la necessità di
dargli conforto e trasmettergli calore portò Derek a far congiungere le due
fronti, a respirare lo stesso ossigeno dalle rispettive labbra. «Ma non le hai
nemmeno sfiorate, non sei artefice delle azioni della volpe».
«È così che agisce una volpe, non si
sporca le mani» il Nogitsune era stato chiaro e meticoloso, nulla dei suoi
calcoli era stato sbagliato, era stato tutto perfetto.
«Nemmeno le tue lo sono» ribadì il lupo,
scandendo sillaba per sillaba, significato dopo significato.
«Lo sono, c’è troppo sangue. Anche quello
della chimera» ma si interruppe, non riuscì ad andare avanti ed ispirò con
violenza dal naso.
«Quello era necessario» gli fece ben
presente la creatura della notte, le dita che affondavano tra i capelli
castani.
«No» uggiolò con voce piccola, distrutta
ed affranta, non riusciva ad avere controllo su di sé. «Potevo trovare un altro
modo».
«Non c’era un altro modo» che cosa avrebbe
mai potuto fare? Era stato un incidente e Stiles aveva tentato soltanto di
rimanere vivo. «Non devi credere a ciò che ti ha detto Scott, lui non si è mai
trovato in queste situazioni. Qualcun altro ha sempre dovuto fare il lavoro
sporco al posto suo».
Stiles non riusciva a distogliere gli
occhi da lui, era totalmente calamitato e colpito dal mannaro, frastagliato
dalla voragine che lo divorava da dentro ed abbandonarsi a lui e farsi
risucchiare era l’atto più facile da cui farsi trasportare. Si ritrovò ad
accerchiarlo con un solo braccio, premuto sulla schiena.
Era accennato e non aveva il completo
coraggio di andare oltre, non sapeva se avesse quel lasciapassare e Derek
rispose in un solo modo, una mano che scivolava altrove svanendo, mentre il
pollice dell’altra perseverava a cancellare le scie acquatiche da un lato del
volto e le labbra che aderirono contro una delle tempie liberate, a schioccare
un bacio pulito e riparatore, confortante in ogni aspetto. «Ti serve soltanto
del tempo» proferì il lupo mannaro contro la sua epidermide, la barba morbida
che la solleticava. «Non posso prometterti che questa sensazione svanirà, ma
starai meglio».
Il corpo di Stiles tremò e la presa su
Derek si accentuò, sedotto e conquistato dal calore corporeo con cui lo
investiva, dalle vibrazioni positive che gli trasmetteva e che gli
accerchiavano il cuore. «Voglio stare meglio, Derek».
Derek
rispose con uno nuovo schiocco della bocca sul viso e Stiles commosso lo
abbracciò davvero, completamente.
Stiles cominciò a trafficare molto presto,
il suo corpo gli suggeriva di aver riposato abbastanza e l’impegno a mettersi davanti
ai fornelli urlava molto forte. Si muoveva dentro quella cucina come se fosse
la propria e il troppo tempo che passava con Derek dentro quelle mura e le
abitudini che si era preso, conoscendo l’esatto posizionamento di ogni oggetto
e come funzionassero pentole e padelle, erano piuttosto evidenti. Non sapeva
bene come dovesse classificarlo, ma in realtà non era per nulla preoccupato.
Derek lo raggiunse più tardi, l’evidenza
di quelle poche volte in cui l’umano riusciva a svegliarsi prima del padrone di
casa e non per via della conseguenza del suo sonnambulismo in cui il mannaro
doveva corrergli dietro.
Il lupo lo guardò per qualche attimo, la
familiarità nei movimenti, che oltre a indicare quanto Stiles sapesse usare
bene i suoi fornelli, c’era anche l’esperienza che si portava dietro da una
vita in cui aveva dovuto imparare ad occuparsi di se stesso e del proprio padre
troppo anticipatamente. «Non dovevi cucinare».
Stiles lo ignorò, perseverando nel suo
buono proposito e nel soddisfare lo stomaco di entrambi. «Non puoi sempre
occupartene tu».
«È casa mia» gli fece ben presente, come
se fosse stato in grado di dimenticarlo.
«Questo non vuol dire che devo stare
costantemente a guardarti, anch’io voglio fare la mia parte» ci passava fin
troppo tempo lì dentro, non voleva essere un ospite scroccone e basta, era una
cosa che detestava.
Derek rimase immobile per una manciata di
secondi e Stiles sentiva i suoi occhi su di sé, evidentemente propenso ad
aggiungere qualcosa e a comunicarle, ma non fiatò e tornò indietro a prendere
il borsone degli allenamenti, per poi giungere nuovamente in cucina e dirigersi
verso la lavanderia. Stiles lo sentì trafficare con gli indumenti, l’oblò che
veniva aperto e la biancheria interessata inserita all’interno
dell’elettrodomestico. «Devi aggiungere niente?» gli domandò la creatura della
notte, il flacone del detersivo già pronto per essere afferrato ed utilizzato.
«Sì, aspetta» abbassò la fiamma al minimo
e si inoltrò nella zona notte, acchiappando una manciata di abiti che aveva
utilizzato nei giorni precedenti e che corrispondessero alla lavata scura che
Derek aveva selezionato ‒ generalmente in quella colorata c’erano quasi
sempre esclusivamente capi di Stiles ‒; li dimenticava spesso nel
monolocale e ad entrambi veniva automatico usare la stessa lavatrice.
Glieli passò con cura e si direzionò
subito al lavello, sciacquandosi le mani, controllando la cottura delle sue
uova strapazzate e spegnendo il fornello. Si precipitò a servire tutto su due
piatti, il bacon croccante che ancora sfrigolava in mancanza di una fiamma
attiva e disponendo tutto sulla tavola che aveva precedentemente apparecchiato;
successivamente tornò nell’ala lavanderia, nell’attimo in cui Derek aveva già
azionato la lavatrice e si era spostato per lavarsi le mani, preparare ed
avviare la macchinetta del caffè, per poi sedersi davanti alla colazione ancora
fumante.
«Amo il tuo ammorbidente» dichiarò Stiles
innamorato nel momento in cui alzò il coperchio dell’asciugatrice e ne estrasse
una delle felpe variopinte che si strofinò sul viso per assaporarne la
sensazione e che aveva inserito la sera precedente, insieme ad altri componenti
del loro armadio. «Rende tutto così morbido».
«Questo spiega perché ne usi quintali» lo
sbeffeggiò Derek senza una vera intenzione, la forchetta che affondava nelle
uova.
«Non è vero» si imbronciò il figlio dello
sceriffo, massaggiando la felpa e sistemandola sopra una delle spalliere
libere, lontana da qualsiasi pietanza ci fosse disposta sul tavolo. «Derek, sei
davvero noioso».
Derek sorrise sotto i baffi, continuando a
svuotare il piatto e Stiles lo imitò senza tentennamenti. «Probabilmente farò
tardi anche oggi» lo informò il licantropo, sorseggiando la sua bevanda di
caffeina e caramello salato.
«Va bene» afferrò l’umano, la striscetta
di bacon che quasi si scioglieva in bocca. Amava anche la qualità superiore che
Derek riusciva a trovare in ogni venditore della zona. «Mi organizzerò di
conseguenza» il capitano della squadra si basket era stato piuttosto chiaro nei
due giorni precedenti su ciò che si aspettava da lui.
Stiles proseguì bevendo il suo caffè, ma
si alzò per aprire l’anta del frigo e afferrare il cartone che conteneva il
succo d’ananas, prendendo un nuovo bicchiere dalla credenza e ritornando comodo
al suo posto. Si ritrovò a fissare le pareti che lo circondavano assorto. «Hai
sempre vissuto in questo appartamento?».
Derek svuotò quasi del tutto il suo piatto
e lo guardò per qualche momento a decriptare cosa avesse sollecitato quella
curiosità. «Sì, ho firmato un contratto di quattro anni».
La matricola lo fissò sbalordito, gli
occhi grandi. «Piuttosto sicuro di te» non che augurasse un fallimento al
licantropo, ma poteva anche cambiare idea, sull’università, sui corsi da
seguire e su come avrebbe voluto vivere.
«Non volevo che qualcun altro gli mettesse
gli occhi addosso» Derek sapeva quello che voleva e si muoveva sempre per
riuscire ad ottenerla. «Quindi l’ho bloccato».
«Perché è il più luminoso?» doveva davvero
sorprendersi che il lupo si impegnasse così tanto?
«Sì» confermò Derek senza reticenze,
accompagnato dall’ultimo boccone della sua colazione.
Le labbra di Stiles si arricciarono verso
l’alto e non poteva negare quanto fosse folgorato ed intenerito da quella
particolarità che lo rendeva così Derek come pochi potevano conoscerlo.
«Ma immagino che il prossimo anno dovrò
rinnovarlo» aggiunse successivamente il licantropo sovrappensiero, come se
quella nota messa momentaneamente di lato fosse tornata a brillare e pretendere
la sua attenzione.
«Rinnovarlo? Il contratto?» Stiles era un
po’ confuso, possibile che avesse sbagliato i calcoli così platealmente?
«Perché?».
«Voglio prendere un master» elargì il lupo
mannaro, svelando un mistero che a lui appariva piuttosto scontato. «Quindi
dovrò prorogarlo di altri due anni».
«Un master» gli fece eco Stiles, un
sorriso intrigato ed incantato che si disegnava su ogni tratto. Aveva
cominciato a sorridere e ridere di più da quando c’era Derek nella sua vita, in
quella sorta di gioco in cui si appuntava ogni occasione in cui accadeva; era
elettrizzante e lo faceva sentire importante, apprezzato ed era troppo in
sintonia con il mannaro di quanto non lo fosse mai stato con qualcun altro.
«Hai già idea di quale?».
«Qualcuna» fu vago, la testa che oscillava
impercettibilmente. «Sicuramente qualcosa che si occupa di traduzioni».
«Perché sei bilingue?» sia Derek che Laura
avevano una conoscenza e padronanza dello spagnolo come se parlassero soltanto
quello tutto il giorno e Stiles poteva ascoltarli ininterrottamente passare da
una lingua all’altra come se niente fosse.
«Quello aiuta, sì» era un’eredità che
nessuno avrebbe mai potuto togliergli. «Ci sono molti testi che andrebbero
tradotti e vorrei farlo con la mia voce».
Stiles si sciolse completamente, infatuato
totalmente delle continue scoperte di cui entrava in possesso della personalità
inimmaginabile di Derek. «Già, il lupo taciturno che conosce e ama il reale
potenziale delle parole».
Stiles si sorprese molto quando si ritrovò
Derek davanti l’uscita del College of Social Science. Era la prima volta che accadeva, generalmente era
lui a raggiungere o passare dal suo dipartimento. «Ehy, Der» lo salutò,
fiondandosi verso di lui senza essere troppo frettoloso o preoccupato per
quella visita inaspettata.
«Stiles» lo accolse impassibile il lupo
completo, la figura statuaria.
Ci fu un mormorio distinto dietro di lui,
Stiles avrebbe voluto voltarsi ed individuare chi fosse l’artefice, a parte
tutti quelli che lo avevano anticipato e seguito in quella uscita dall’edificio
per il corso concluso. Riusciva a percepire con la coda dell’occhio gruppetti
parlottare tra loro e guardarli spudoratamente, qualcuno anche indicarli senza
nascondersi troppo; Stiles non individuava particolarmente la ragione, capiva
che non tutti fossero abituati ad avere a che fare con una celebrità come Derek
Hale, ma era poco lusinghiero essere etichettato come qualcuno che non si
sarebbe mai potuto avvicinare a lui. «Hai delle scarpe da rendermi?».
Stiles ammiccò spudoratamente e Derek si
limitò a roteare parzialmente gli occhi, ignorandolo. «È tuo».
Il figlio dello sceriffo dovette impiegare
diversi secondi per processare la scena che gli si parava dinnanzi, Derek che
lasciava dondolare delle dita un mazzo di chiavi, composto da soli due elementi
più il cerchietto metallico a spirale che li teneva insieme, impedendo che si
perdessero. Gli occhi di Stiles si ingigantirono, l’ambrato che brillava e le
pupille ridotte ad un punto di spillo per via dell’Astro di Apollo che
splendeva incontrastato nel cielo. «Sono le chiavi di casa tua?».
«Sì, le ho appena fatte fare» confermò
senza tentennamenti, afferrando la chiave più piccola. «Questa è per aprire il
portone principale e questa la porta» indicò la più lunga, i denti complessi di
ferro che si mostravano.
La matricola non sapeva bene dove
guardare. «Perché?».
«Stiles, devi essere autonomo» dichiarò
spicciolo Derek, spiccicando poche parole perché le riteneva superflue. «Non
devi aspettarmi o avere il timore di disturbarmi, puoi passare quando lo
ritieni più opportuno».
Stiles era incredulo, era una premura
enorme e la manifestazione di quanto Derek si fidasse di lui. «Sei sicuro? Io
non ho problemi a rispettare i tuoi orari».
«Nemmeno io ho problemi con questo»
avvicinò il mazzo maggiormente all’umano, chiaro segno che dovesse accettarlo.
Lo studente di criminologia lo guardò
ancora per qualche momento, sentiva ridondare dentro di sé l’importanza di quel
gesto, del simbolo che Derek gli stava donando. «Sai che è illegale fare le
copie delle chiavi di una proprietà privata?».
La bocca dell’umano era distesa in un
ghigno saputo e Derek lo fissò oblungo, giudicandolo. «Parli proprio tu di
illegalità di copie di chiavi? Avevi tutte quelle della città».
«Non esattamente tutte» mitigò il figlio
dello sceriffo, la malizia su ogni tratto facciale. Poi si concentrò nuovamente
sul giocatore, l’intensità del momento era palpabile e Stiles doveva soltanto
accettarlo. «Derek, grazie» afferrò le chiavi con mani tremanti, a formare una
coppa che le contenesse e che impedisse che potessero dispendersi. «Non potrai
più disfarti di me, Sourwolf».
Derek scosse le spalle, come se la
questione non lo toccasse minimamente. «Sono già pentito».
Stiles gli regalò uno dei suoi sorrisi più
belli, felice e malandrino, l’orma dell’astuzia della volpe rossa. «Pranziamo
insieme?».
«Sì» rispose affermativo la creatura della
notte, privo di alcun tentennamento.
Stiles strinse il nuovo mazzo di chiavi tra
le falangi, assaporandone la consistenza e il calore che sprigionavano,
cominciando a dirigersi verso la strada interna che conduceva nella parte del
campus più trafficata, lì dove si affollavano i locali e trascinandosi dietro
il mutaforma. «Offro io».
Derek non lo corresse né gli intimò di
lasciar perdere, era un gesto che difficilmente Stiles compieva e si poteva
permettere; aveva un valore molto più radicato. «Portami nel tuo locale
preferito».
Il figlio dello sceriffo voltò il capo
nella sua direzione, il passo che rallentava ma non si fermava, cercando di
comprendere se avesse udito correttamente. «È una caffetteria, non proprio il
luogo ideale».
«Non importa» lo tranquillizzò Derek, per
nulla turbato dalla specifica. «Andiamo lì».
La curva allietata sulle labbra di Stiles
si ripresentò, speciale come poche altre, e non tergiversò più per condurlo
esattamente nel luogo che aveva scelto.
Stiles rincasò molto tardi rispetto alle
sue abitudini e alla storia del proprio mazzo di chiavi non si era abituato, ma
Derek non gli aveva ancora aperto la porta e non aveva mai suonato al
campanello in cui figurava la scritta Hale; quindi decretò che il
capitano della squadra di basket non fosse ancora tornato e inserì la chiave
nella serratura, facendola scattare una sola volta, segno che in realtà il
padrone di casa fosse al suo interno. «Scusa, Derek, il gruppo di studio mi ha
preso più tempo del previsto» cosa che cominciava ad accadere più spesso,
indipendentemente dall’orario che sceglievano.
Quando Stiles entrò, non vide nessuno al
suo interno e dove l’occhio riusciva a percepire vi erano solo punti luce,
strategici, che si intravedevano per tutto il monolocale; la matricola non
riusciva proprio a capire. «Derek».
Proseguì di un passo indeciso se andare
avanti o tornare indietro, lasciare quella sorta di privacy al mannaro o se
dovesse cominciare a preoccuparsi, ma ad un certo punto sentì dei passi
ammortizzati, la durezza delle unghie che sbatteva contro le piastrelle del
pavimento ed un’accoglienza che proprio non si aspettava. «Chi abbiamo qui».
Derek era nella sua forma completa,
percorreva il corridoio andandogli incontro, un manto di inchiostro che
proseguiva nella penombra dell’appartamento e le iridi blu e rosse che lo
guardavano in attesa, spiccando nella parziale oscurità. «Ciao» gli disse
Stiles innamorato, un sorriso dipinto sul viso con lo stesso sentimento.
Chiuse la porta a doppia mandata e posò il
mazzo di chiavi in uno dei ripiani interni della scaffalatura all’ingresso, nel
punto in cui Derek aveva sistemato le sue cose ogni singolo giorno, in una
piccola ciotola di metallo aranciata e si diresse verso la zona notte
abbandonando la borsa e la tracolla sulla scrivania, mentre il lupo seguiva i
suoi passi in religioso silenzio.
Lanciandogli un’occhiata interrogativa
Stiles si avvicinò alla finestra e scrutò il cielo in cerca di una conferma: la
luna era soltanto a metà, il plenilunio era troppo lontano per avere un effetto
su Derek. Si ritrovò ad accarezzargli la testa con leggerezza di istinto, senza
nemmeno pensarci e ponderare se al lupo fosse stato indigesto, invogliato a
mordergli la mano per l’affronto, nota che Derek avrebbe sicuramente apprezzato
in molti contesti, ma il quadrupede non si lamentò né si scostò e Stiles proseguì
verso la cucina, a prendere il suo consueto bicchiere di acqua fresca ed
osservare in che condizioni fosse. «Hai mangiato?» era immacolata, non vi era
nulla fuori posto, se non il bicchiere che sicuramente il padrone di casa aveva
usato riposto vicino al lavandino. A Stiles venne il dubbio su cosa Derek
potesse aver fatto o non fatto. «Ti serve qualcosa?» ma Derek lo guardò
soltanto con quei bellissimi occhi del mare e del fuoco e si defilò, sparendo
completamente dalla visuale del figlio dello sceriffo.
Stiles rimase per qualche attimo immobile
e poi lavò il bicchiere di vetro di Derek, mentre il proprio lo abbandonava in
un angolo, un coperchio sopra per evitare che la polvere gli cadesse e potesse
usarlo in qualsiasi altro momento per il corso della notata.
Tornò nella frazione da camera da letto e
trovò il lupo disteso sul pavimento, vicinissimo al letto, il muso tra le
zampe, gli occhi che seguivano pigramente i suoi movimenti. «È così che ci
sentiamo questa sera?» domandò retoricamente con tono dolce, gli angoli della
bocca arricciati per la tenerezza incontrastata che gli suscitava, qualcosa di
anomalo da provare per uno dei predatori alla vetta della catena alimentare, ma
Stiles non ne poteva affatto farne a meno.
Derek lo ignorò, socchiudendo gli occhi ed
estraniandosi completamente e Stiles non ne risentì, afferrò soltanto la sua
tracolla da studio ed estrasse un paio di libri, insieme al raccoglitore in cui
erano contenuti tutti i suoi appunti ed osservazioni, il lungo lavoro che aveva
apportato nelle ore precedenti con il suo gruppo di studio. Si sistemò sul
parquet freddo, accanto al lupo, le spalle poggiate contro il letto a reggergli
la schiena e Derek spostò leggermente la testa verso la sua direzione, guardandolo
con dubbio. «Ho ancora qualcosa da studiare» si giustificò Stiles strizzandogli
un occhio di complicità, una penna alla mano e un astuccio in cui conteneva
tutti i suoi evidenziatori colorati.
Il lupo lo fissò, il tempo non sembrava
avanzare e Stiles gli dedicò un sorriso completamente infatuato di lui, la mano
occupata a tenere uno dei libri aperto che affondava nel folto manto
inchiostrato, facendo attenzione ed accarezzandolo con cura. «Cosa c’è?» ma
Derek non fiatò, né un latrato né un sibilo, ritornò con il muso tra le zampe e
non si mosse più.
Stiles non smise di accarezzarlo, le
falangi completamente risucchiate della pelliccia nera, scivolavano e
risalivano, nella morbidezza e nella confortanza che quei gesti e silenzio
pacifico riuscivano a creare. Perseverò per quasi un’ora, senza mai rallentare
o avvertire la stanchezza, continuando a scribacchiare e voltare pagine,
evidenziando qua e là frasi o parole che necessitavano della sua attenzione,
con Derek che respirava sotto le sue dita sereno, il pelo che si alzava ed
abbassava e Stiles sapeva che stava bene.
Nella beatitudine il lupo si alzò sulle
quattro zampe e gli si sedette davanti a scrutarlo con i suoi occhi unici.
«Vuoi dirmi qualcosa?» gli chiese l’umano, la testa rivola lievemente nella sua
direzione, mentre un occhio continuava a leggere il libro e la mano destra
impegnata a trascrivere.
Il predatore si avvicinò e cominciò a
muovere il naso ovunque, prima lentamente e poi sempre più velocemente, a
seguire qualcosa che riusciva a sentire soltanto lui sui vestiti e sulla pelle
del figlio dello sceriffo. «Derek, vacci piano» ma il lupo non lo fece e Stiles
si sentiva travolto dalla sua insistenza, il muso premuto contro la clavicola,
ad un passo dal collo. «Ho un odore che non ti piace?» si vide costretto a
chiedere, prendendogli la testa tra le mani per allontanarlo e non lasciarsi
sovrastare dall’animale evidentemente disturbato da qualcosa che non riusciva
più a sopportare.
Derek soffiò in risposta, un rumore minimo
e secco, le iridi di rubino e zaffiro che non demordevano. «Okay, d’accordo»
proferì la matricola, le dita che gli massaggiavano la congiunzione delle
orecchie per tranquillizzarlo. «Vado a farmi una doccia» aveva l’odore di
troppe persone su di sé? Qualcuno tra questi lo disturbava più degli altri?
Aveva resistito più che poteva a non comunicargli il suo fastidio?
Stiles si alzò spettinandogli la
pelliccia, posò i libri e il raccoglitore sulla scrivania, insieme alla
cancelleria e trafficò con l’armadio del padrone di casa, nell’ala in cui erano
state riposte alcune delle proprie cose e si diresse verso il bagno, chiudendosi
la porta dietro di lui.
Si prese il suo tempo e con i denti dal
retrogusto di menta, ritornò sui suoi passi, trovando il lupo disteso sul
letto, sistemato nella sua direzione ad attenderlo. «Sei troppo sensibile,
Sourwolf» gli disse privo di accusa, tamponandosi i capelli umidi con un
asciugamano, avvicinandosi a lui con adagio, ma Derek lo scrutò giudicandolo,
distorcendo l’espressione e Stiles non faticò a riconoscerla. «Mi sembra il
vestiario giusto» indicò il suo pigiama colorato, la stampa della volpe
giocherellona che faceva da protagonista, l’evidenza di aver rubato dal
vestiario del capitano della squadra di basket. «Tu lupo e io volpe».
Derek non sembrava minimamente entusiasta
della scelta e Stiles ridacchiò leggero, sistemando l’asciugamano sullo
schienale della sedia per permettergli di asciugarsi e si diresse completamente
verso il quadrupede, prendendogli il muso tra le mani e adagiandogli un bacio
tra le orecchie. «Ehy, va bene. A me piace» lo spelacchiò per bene, ridendo
sommessamente e si dedicò a spegnere quelle poche luci lasciate accese,
sistemandosi nel suo lato del letto, dove il muro limitava le sue movenze
incontrollate della notte. Si distese sotto le coperte, abbracciando il cuscino
e osservando Derek decidere cosa fare. Lo vide sistemarsi vicino a lui,
ispezionarlo con l’olfatto e incastrare il naso umido sotto il suo collo. «Sei
più contento adesso?» rise divertito, accarezzandogli la testa e non smettendo
di far sparire la curva lieta sulle labbra. «È complicato vivere con un lupo
mannaro. Scott non è così fiscale» nemmeno il segugio infernale con cui aveva
passato l’estate dei suoi diciassette a rotolarsi su ogni superficie a cui
avevano accesso.
Il lupo sbuffò offeso contro di lui, come
se gli avesse fatto il peggiore degli insulti e Stiles non riusciva a smettere
di essere incantato dal modo in cui Derek risultasse essere se stesso perfino
in quella forma. «Lui non è attento come te» gli confidò senza riserve, le dita
che giocherellavano con un orecchio peloso. «Tu sei connesso con tutto quello
che ti circonda, Scott invece è molto distratto».
Derek non commento in alcun modo, si
limitò a guardarlo, per poi accucciarsi meglio contro di lui e assaporare le
attenzioni delicate che Stiles aveva nei suoi riguardi, socchiudendo le
palpebre come se per quella giornata il sipario fosse calato.
L’umano lo seguì solo per qualche secondo,
senza smettere di accarezzarlo, sorpreso come non mai che Derek non foste
infastidito dal suo continuo toccarlo. Stiles non aveva avuto problemi in
quelle nove settimane a riceverlo dal licantropo, ma non era sicuro potesse
essere una cosa ricambiata; a parte rare eccezioni, non si era mai sbilanciato,
ma averlo nella sua forma completa lo portava ad agire in modo diverso ed era
qualcosa di irrinunciabile e avrebbe voluto capire cosa ne pensasse Derek.
Gli grattò un orecchio e ne assaggiò la
consistenza con i polpastrelli, il pezzo di lembo più delicato, la pelliccia
più morbida, finché il lupo aprì gli occhi a mostrare quel connubio di blu e
rosso, l’attenzione tutta rivolta verso Stiles. «Una volta mi hai definito unavolpe astuta dal manto infuocato» pronunciò lo studente di criminologia,
le parole che metteva con calma una dietro l’altra, come se avessero un certo
peso per lui. «È stato prima di tutto, prima dell’oscurità. Ci ho pensato
qualche volta, cercando di capire cosa volessi dire» rallentò, le dita invece
si intrecciavano alla pelliccia inchiostrata. «Quando il Nogitsune è arrivato
ho pensato ecco, Derek aveva ragione. Una perfetta previsione del
futuro, ma tu non l’avevi inteso come un fattore negativo e non sono riuscito a
capire cosa intendessi. Forse per te aveva un significato, ma io…» tentennò, la
difficoltà di trovare le parole giuste. «Non sono stato in grado di
attribuirglielo».
Il lupo si protese e senza che Stiles se
l’aspettasse, gli leccò il viso, scatenandogli di riflesso una risata sorpresa.
«Questo per cos’è?» gli domandò di conseguenza, un pio sorriso sulle labbra di
felicità e una mano che lo tratteneva sul muso. «Mi stai confortando o vuoi che
smetta di parlare?».
Derek in risposta oltrepassò le barriere e
affondò completamente la testa nel collo dell’umano, il naso bagnato
completamente a contatto con la pelle. Stiles ridacchiò ancora, totalmente
assuefatto e lo abbracciò di slancio, godendosi tutta la morbidezza e il calore
che era in grado di generare. «Ho pensato anche ad una cosa stupida» proferì
quasi sottovoce, allontanandosi quel tanto che bastava per poter incontrare i
suoi occhi bicolore. «Infuocato, era stata una strana scelta di parole,
infelice, ma allo stesso tempo precisa. Ho pensato e se lo stessi bruciando?
Ma non aveva alcun senso, che potere avevo io su di te?» nascose parzialmente
il viso sul cuscino, ma Derek lo sospinse e lo liberò, costringendolo ad
affrontarlo. «Anche adesso? Derek, ti sto bruciando?» l’aveva imprigionato con
quella storia di doverlo tenere sempre sotto controllo nella notte, quelle
paranoie si erano ramificate ed ampliate e quel senso Stiles l’aveva trovato.
Derek si alzò sulle zampe anteriori e
scosse le coperte contro le proteste della matricola, scoprendolo e
costringendolo a stendersi di schiena, adagiando un arto sopra la stampa della
volpe pastello. «Che vuoi dire?» Stiles era confuso, la comunicazione con Derek
non era stata mai tra le migliori, ma in versione lupo completo era ancora più
difficile da decifrare.
Il lupo si acciambellò all’altezza della
volpe felice con i suoi palloncini volanti e poggiò la testa proprio su di
essa, tranquillo e pacifico, l’inconfutabilità nelle iridi di rubino e zaffiro.
Stiles invece ebbe bisogno di più tempo per comprendere le sue certezze.
«Comincio a credere che le volpi ti piacciano davvero tanto» gli disse lo
studente del primo anno con tono soave, il sorriso di complicità che gli nacque
nell’immediato.
La creatura della notte lo ignorò, ma non
si scosse dalla sua posizione, intenzionata a soggiornarvi e il figlio dello
sceriffo la accarezzò innamorato perso, godendosi la sensazione della pelliccia
confortante sotto i polpastrelli. «Dovrai dirmelo, Der. Se ti sto bruciando. Se
ti sto ferendo».
Non fu aggiunto nient’altro e si
addormentarono così, con il lupo sul suo stomaco e Stiles per metà sprovvisto
di coperte, ma Derek era bollente e compensava la mancanza, non sentiva il
bisogno di scacciarlo via per arrotolarsi tra le lenzuola.
La mattina successiva si risvegliò
abbracciato al lupo, il viso immerso nell’inchiostro di pelo, la posizione
totalmente alterata rispetto a come si erano presentati al regno di Morfeo. Si
chiese se si fossero semplicemente mossi nella notte o se Derek fosse stato
costretto a riportarlo su quel materasso.
Dopo l’ennesimo gruppo di studio,
finalmente ebbe l’occasione di rimanere da solo con Theo, momento che aspettava
fremente da quando l’aveva incontrato quel secondo giorno da matricola grazie a
Jiang. Era consapevole di quanto anche Theo stesse attendendo che si
concretizzasse, ma era un evento che stranamente non raccoglieva favori dalla
casualità.
Jiang non avrebbe approvato, dopo
l’episodio spiacevole con Donovan che l’aveva portato ad evitarlo evidentemente e il continuo
flirtare con Theo, più la presenza di Derek Hale che considerava sospetta, il
suo coinquilino vedeva sempre meno di buon occhio quel suo girare attorno ai
suoi amici.
Stiles non poteva evitare di essere attratto dal
ragazzo dalle iridi azzurre, che lo incuriosiva e lo metteva sulle spine come
poche volte gli era capitato, molto diverso dal pericolo che aveva avvertito
con Donovan. E Theo non smetteva di mangiarselo con gli occhi.
Finirono nella camera dello studente di scienze
politiche, che aveva la fortuna di possedere una singola, e cominciarono a
sperimentare e fare conoscenza con il corpo dell’altro. Theo era possessivo ed
esperto, ma non lo fece mai sentire a disagio e godette piacevolmente, tutto il
contrario di come si era sentito con l’altro.
Era consapevole che gli stesse cospargendo il corpo di
succhiotti e morsi, ma Stiles non se ne preoccupò affatto, considerando che
stava agendo nella medesima maniera.
Andarono avanti per un po’, tra gemiti e orgasmi di
vario genere, le bocche che non riuscivano a staccarsi l’una dall’altra,
tuttavia ad un certo punto crollarono appagati e Stiles si vide costretto a
controllare l’orario sul cellulare. «Devo andare» gli disse, le tenaglie della
notte che si ergevano con la loro forza premendo, ricordandogli che non poteva
permettersi atteggiamenti stupidi.
Nell’affanno che tentava di riprendere fiato, Theo lo
guardò nella penombra, affascinato dal corpo di cui non era ancora sazio. «Puoi rimanere
qui, non crei disturbo a nessuno» gli fece ben presente, una panoramica
evidente sulla stanza privata. «E ho ancora voglia di te».
Stiles non se lo fece ripetere, le sue
energie erano impossibili da scaricare e possedeva ancora gli ormoni di un
adolescente che aveva appena compreso la sessualità. Ricominciarono a rotolarsi
tra le coperte numerose volte, una più soddisfacente dell’altra, i preservativi
usati che si accumulavano, ed ogni volta che pensava che fosse arrivata
l’ultima loro ricominciavano e la spossatezza e la sonnolenza lo esigevano.
«Devo davvero andare» proferì Stiles con
la voce roca, il fiatone che lentamente rallentava e gli dava tregua, ma la
luna alta nel cielo non era dello stesso avviso.
«Mi sembra che ti piaccia» obbiettò
confuso il suo amante, scostandogli i capelli dagli occhi, arruffati in ogni
direzione per via dell’inteso movimento che avevano affrontato. «Possiamo
continuare per tutta la notte e ricominciare domattina».
Il figlio dello sceriffo si tirò indietro,
cominciando a cercare per tutta la camera i propri vestiti ed indossandoli il
più velocemente possibile. «Per qualcuno potrebbe essere una prospettiva
interessante» per Stiles non lo era per niente. Piacevole o meno, aveva dei
limiti che non voleva oltrepassare con nessuno. «La notte non è mia amica» e
una parte di lui agiva in tal senso, come se dovesse scoraggiarlo. «È stato
divertente, grazie» niente alla prossima, niente ci vediamo,
Stiles si limitò a regalargli un ultimo bacio coinvolto sulla bocca arrossata e
gonfia, defilandosi subito dopo nel momento in cui chiuse la porta dietro di sé
e non permettendo a Theo di catturarlo per una nuova sessione o estendere
l’invito al futuro.
Vagabondò in giro per un po’, senza
contabilizzarlo e soltanto successivamente si diresse verso il proprio
dormitorio, usufruendo della doccia comune e togliendo ogni residuo e fluido
che lui e Theo avevano creato. Tergiversò ancora quando ebbe concluso,
indossando abiti comodi e gettandosi sul letto con tutto il peso; Jiang non era
ancora tornato, sperava che avesse avuto una serata positiva come la sua,
magari non sarebbe rincasato affatto. Stiles non sapeva nemmeno se fosse una
cosa abituale o tipica di lui, le volte in cui si era risvegliato nel proprio
letto si contavano appena sulle dita di una mano e nelle ultime settimane non
vi aveva messo piede, se non per studiare o prendere l’occorrente che gli
serviva per trascorrere la notte da Derek; era un pessimo coinquilino.
Tra le mani teneva il telefono, lo schermo
acceso ad indicare l’ora tarda, la sveglia già inserita; era consapevole di
quanto stesse tergiversando. Fece partire la chiamata, la scritta Sourwolf
che lampeggiava e il vivavoce inserito mentre lo ascoltava squillare. «Oggi non
verrò» gli disse quando lo sentì rispondere, anticipando qualsiasi sua domanda
e udendo appena il suo respiro che echeggiava dall’altoparlante.
Derek rimase per qualche secondo in
silenzio, probabilmente non aspettandosi quell’uscita. «Perché?».
«Potrò anche scegliere cosa fare» non
voleva risuonare irritato, ma è quello che avvenne.
«Ci stai ripensando?» gli domandò il
licantropo, il tono che ponderava la possibilità.
Derek gli risultava anormalmente calmo.
«No, è qualcosa che sto accettando».
Il mannaro respirò più intensamente tra le
interferenze, scuotendole. «Allora, quel è il problema?».
«Non è un vero problema» Stiles era in
difficoltà, si passò una mano sul viso a scacciare la tensione, mentre l’altra
teneva lo smartphone fermo. «Sono andato a letto con qualcuno».
«A cosa mi serve questa informazione?» la voce
del capitano della squadra di basket era immutabile, ma una nota perplessa si
prodigò.
Era già imbarazzante doverlo ammettere, ma
che dovesse anche spiegarsi era umiliante. «Sentirai il suo odore».
«Fatti una doccia» la semplificò ovvio
Derek, risuonando risentito da quella perdita di tempo.
«L’ho già fatta!» Stiles avrebbe
seriamente voluto sbattergli qualcosa in testa di massiccio, in grado di
fracassargliela. «Ma tu lo sentiresti ugualmente, non è vero? Non basta».
«Non fare il bambino» lo apostrofò la
creatura della notte, imponendosi. «Raggiungimi».
«Non sono un bambino e nemmeno il
ragazzino che hai lasciato» desiderava ardentemente chiudergli in faccia il
telefono e fregarsene totalmente della sua sensibilità olfattiva.
«Stai dimostrando l’esatto contrario» lo
ribeccò il lupo completo, sbeffeggiandosi con pacatezza di lui.
«Derek» brontolò e protestò Stiles,
odiando essere trattato in quel modo.
«Smuoviti» Stiles udì come l’ordine
suonasse come uno imposto da un Alpha. «Non è un aspetto di cui devi
preoccuparti».
L’umano con orrore assistette alla
chiamata che veniva interrotta, lo schermo luminoso che si spegneva in
automatico. Era tentato di richiamarlo per urlargliene di ogni, ma era sicuro
che il mutaforma non avrebbe risposto.
Sbuffando e sospirando si prodigò a
prendere quel poco che conteneva la borsa precedentemente preparata e il suo
armadio ormai offriva, rendendosi conto di quanto i suoi averi si fossero
magicamente trasferiti da Derek. Era un aspetto inevitabile in quel continuo
andare e tornare da una sponda all’altra, ma non poteva negare di risultarne
sorpreso.
Inizialmente aveva preso l’abitudine di
riportarsi tutto indietro, ma poi si era ritagliato un angolo dell’armadio del
lupo, approcciandosi ad occupandolo soltanto con i pigiami e successivamente
aveva cominciato a riempire la cesta con i panni sporchi, a mischiare tutto
insieme nella stessa lavatrice ed a lasciare ogni cosa esattamente dov’era per
comodità. I loro limiti si stavano assottigliando completamente.
Raggiunse il 1855 Place procedendo con adagio, non aveva
alcuna fretta di affrontare Derek, il campus era stranamente frequentato per
l’ora che indicava l’orologio e il palazzo sembrava buio. Tutti in festa?
Non attese che il mannaro gli aprisse attraverso il
citofono il portone principale che veniva dimenticato fin troppo spesso aperto
e di cui Derek si lamentava in continuazione, utilizzò direttamente la sua
chiave e si arrampicò per affrontare la scalinata. Derek lo stava già
attendendo con la porta aperta, giudicando severamente le sue azioni, anche se
Stiles non sapeva individuare esattamente quali; più che incitarlo ad entrare,
lo esortava a filare via e dubitava che quello fosse il suo intento, al contrario
se lo ritrovava ad accoglierlo perché voleva evitare un dietrofront.
«Sono qui» disse a sottolineare l’ovvietà,
il mazzo di chiavi ancora stretto tra le dita, la tracolla con i libri su una
spalla e l’altra che conteneva la borsa ormai semivuota. Nella sua camera al Mayo
Hall erano rimasti soltanto gli abiti leggeri, che dubitava avrebbe toccato
per mesi.
Derek lo fece entrare senza tergiversare e
Stiles abbandonò come di consueto tutto il suo bagaglio sulla scrivania, in cui
erano visibili dei libri aperti su cui era evidente il licantropo stesse
studiando. «Devo farmi un’altra doccia?» domandò con il sospiro trattenuto in
gola, l’agitazione che cresceva.
Derek lo guardò senza capire, arcuando le
sopracciglia. «Mi spieghi questa paranoia».
Non era una richiesta né un tentativo, il
capitano era visibilmente incuriosito e anche turbato dalla sua presa di
pozione. «Lo so che riesci a sentirlo. Tutto quello che ho addosso, a
prescindere da quanto mi lavi. Soprattutto quando si tratta di sesso».
«Non vedo il problema» lo liquidò il
padrone di casa, per niente turbato da quell’osservazione.
Stiles capì subito che non stava affatto
negando, il che gli scatenava dei malesseri vari. «Non lo trovo giusto».
Derek aggrottò la fronte, le iridi verdi
che lo scandivano strato dopo strato. «Continuo a non seguirti».
Stiles sospirò ancora una volta, era
frustrato. Lui e Derek in forma di lupo completo potevano conversare quasi
senza fraintendimenti, ma a voce non riuscivano seriamente a capirsi? «Dormo
accanto a te, non puoi evitare di percepire gli odori».
«Nessuno ti sta chiedendo di trattenerti o
limitarti, Stiles» argomentò Derek, avvicinandosi passivamente nella sua
direzione. «Puoi fare quello che vuoi, puoi andare a letto con tutte le persone
che desideri. Non ci sono dei divieti».
Le iridi ambrate erano giganti e turbate,
non riuscivano ad accettare l’indifferenza di Derek, ben sapendo che Stiles non
avesse dimostrato alcun rispetto per lui in quel frangente. «Come facciamo con
il tuo olfatto? Non voglio darti fastidi» più di quanto gliene desse già.
«Vuoi sapere se lo sento?» gli chiese con
profondità pericolosa, ricevendo un cenno vigile di assenso dall’umano. «Cosa
sento?» le dita affondarono tra le ciocche sbarazzine castane, entrando nel suo
spazio personale e sfiorandole con la punta del naso, ispirando rumorosamente e
scatenando dei brividi visibili nella matricola. «I tuoi capelli trattengono
ogni scia, ogni odore prodotto. Ti basterà lavare sempre anche quelli».
Stiles si scosse da lui e ne trattenne
qualche filo tra le falangi, individuandoli come traditori. «Davvero?
Basterà?».
«Sì» confermò la creatura della notte,
disegnandogli i contorni del padiglione auricolare con riverenza. «Basterà.
Finché non subentreranno i sentimenti».
Le pupille nere si rimpicciolirono, come se
una luce le avesse stuzzicate e vi era soltanto quell’oceano del nettare degli
dei. «Sentimenti?» a Stiles sembrava di ritrovarsi faccia a faccia con un
alieno.
«Sentimenti d’amore» chiarì il lupo
mannaro, il polpastrello più grande che premeva lievemente sull’orecchio.
«Ah» Stiles non apprezzò la parola e si
allontanò dal padrone di casa, prendendo velocemente il pigiama utilizzato la
scorsa notte. «L’amore non fa per me, puoi stare tranquillo» detto ciò si
precipitò verso il bagno.
«Cosa stai combinando?» Derek lo
intercettò prima che si chiudesse oltre l’uscio, l’affermazione certa di Stiles
gli risuonava ancora nei timpani.
«Mi lavo i capelli» dichiarò con ovvietà
il figlio dello sceriffo, posando il pigiama sul mobile del lavello e scostando
la tenda doccia. «Utilizzerò il tuo shampoo, ho finito il mio e non avevo in
programma di comprarlo oggi».
«Non è necessario» lo placò Derek,
intenzionato a mitigare le azioni avventate del suo ospite.
«Lo è, lascia fare» gli sbatté la porta in
faccia, chiudendo con due giri non necessari di serratura ‒ la cui chiave
era magicamente comparsa, probabilmente perché il lupo voleva istillargli una
parvenza di privacy in una casa in cui era impossibile averla ‒; non era
una barriera inviolabile per Derek, ma dubitava che l’avrebbe buttata giù
soltanto per una presa di posizione sul farsi uno shampoo di troppo o meno.
Stiles uscì diverso tempo dopo, i capelli
ancora umidi anche se si era avvalso del fon che tendeva più che altro a
prendere polvere. Sistemò i vestiti sullo schienale della sedia, rimandando di
piegarli al giorno seguente e incontrando Derek seduto sul letto, la schiena
poggiata al muro e un libro di letteratura tra le meni; non era propriamente
concentrato sulla lettura, ma era evidente che la sua attenzione fosse rivolta
alla matricola, un sopracciglio folto e scuro innalzato in una forma di
giudizio. «Sono bello pulito» disse Stiles con voce allegra, mostrando la sua
perfetta dentatura e non lasciandosi influenzare dalla negatività del
licantropo.
«Ti avevo detto che non era necessario» lo
riprese Derek, un mezzo rimprovero che non sapeva bene dove scemare.
Stiles non smorzò il suo sorriso, risalì
sul letto e si avvicinò a lui gattonando, portandosi in direzione del suo
olfatto. «Odorami».
«Stiles» ruggì a denti stretti il padrone
di casa, l’intolleranza che cresceva.
«Avanti» lo esortò il figlio dello
sceriffo, cadendogli quasi in braccio. «Sono come piaccio a te».
Era evidente che Derek avrebbe preferirlo
sbranarlo che dargliela vinta, ma con l’insistenza di Stiles c’era poco da
avere la supremazia e sbuffando sonoramente per far sentire il suo dissenso il
lupo si avvicinò leggermente, le dita che si inoltravano parzialmente nella
chioma castana e il naso che affondava completamente tra le ciocche, ispirando
a pieni polmoni tutta l’essenza dell’umano e facendo vibrare quest’ultimo. «Sì.
Sei tu. Hai il tuo odore».
«Con un po’ di te» Stiles era trionfante,
luminoso, la sua presenza era impossibile da ignorare.
«Sì» si allontanò e separò da lui con una
lentezza mai sperimentata, ma Stiles non sembrò notarlo.
«Ora sei più felice» Stiles mostrava quel
sorriso intramontabile, i cui degni erano davvero molto pochi e nelle ultime
tre settimane non lo tratteneva più.
«Sei davvero
avventato» proferì Derek con un groppo in gola, gli occhi seri che non
riuscivano a distogliersi da lui.
«Pensavo facesse parte del mio fascino»
ammiccò spudoratamente il figlio dello sceriffo, inclinando leggermente il viso
per avere un accesso diverso a quello del mannaro e cogliere la nota stonata
che in un primo momento non aveva categorizzato. «Lo dici per qualcosa in
particolare? Mi stai rimproverando?».
Derek negò con un singolo movimento del
capo, le dita che ancora trattenevano le punte dei capelli della matricola.
«No, era solo un pensiero a voce alta».
«Un pensiero a voce alta» gli fece eco lo
studente di criminologia, ancora troppo vicino al corpo del licantropo.
«Qualcosa che non fai mai».
«Me ne ricorderò per il futuro» lo schernì
Derek, i denti serrati in mostra.
«Dovresti farlo più spesso, invece»
ribatté Stiles, gli occhi spensierati. «Mi piace parlare con te, è stimolante».
Derek lo guardò in un primo attimo senza
parola, la profondità senza fine che seguì subito dopo. «Stimolante».
«Sì» convenne l’essere umano, il sorriso
malizioso a far da padrone.
Non smetteva mai di essere la volpe che
credeva fosse. «Questi li vuoi cancellati?» dirottò completamente
l’argomentazione Derek, sfiorando con il pollice che ancora lo vezzeggiava uno
dei succhiotti che spiccavano notevolmente sulla pelle diafana, accompagnati
dallo stampo preciso di una dentatura.
L’organismo dell’umano fu attraversato da
una scossa, il punto toccato da Derek prendeva quasi consistenza e gli occhi si
direzionarono su quel punto, a identificare cosa avesse catturato l’interesse
dell’altro. «Mh…» Theo era stato molto più cauto rispetto a Donovan, ma era
sicuro che ci fosse ogni traccia del suo passaggio su tutto il corpo, anche nei
posti più nascosti, in cui gli aveva permesso arrivare e dove l’aveva
ricambiato allo stesso modo. Non gli dispiaceva averli, gli avevano dato
sollievo in ogni modo possibile, ma era anche vero che non voleva marchi
prolungati su di sé, che lo legassero a qualcuno in modo evidente. «Sì,
cancellali».
Derek non perse tempo, non tardò nemmeno,
con le vene che si tinsero di nero ed assorbirono ogni ematoma dell’umano e
Stiles lo premiò con un nuovo sorriso luminoso, uno tutto per lui. «Ti fa
male?» gli chiese di seguito, la curiosità affamata.
«No» rispose con tranquillità il mannaro,
la pelle fresca di doccia sotto le sue dita. «È qualcosa di troppo effimero».
«Meglio così» proferì Stiles con il cuore
più leggero. «Mi sento meno in colpa. Lo fai ogni volta».
«È successo soltanto un paio volte» lo
corresse Derek, facendogli notare quanto fosse esagerato.
«Beh, sì, ma non saranno le uniche» lo
liquidò Stiles con leggerezza, come se non fosse nulla di che. «A questo
proposito, dovremmo avere delle regole».
«Regole?» Derek lo fissò come se fosse un
alieno.
«Su questa casa» fu più esaustivo il
figlio dello sceriffo, alzando un braccio in alto e mimando un arco che
racchiudesse lo spazio che li raggruppava. «Cosa bisogna fare quando si tocca
la sfera sessuale».
Derek arcuò un sopracciglio, ancora
convito di avere a che fare con un extraterrestre. «Mi pare ne avessimo già
istaurata una» era appena passato un minuto. «E non devi portare nessuno qui».
«Quella è compresa nel pacchetto, non
porterei mai qualcuno qui, non saprei come far sparire le tracce» Stiles rise e
Derek gli schioccò due dita sulla fronte, a punirlo e beccarlo. «Ma devi darmi
altre regole, indicazioni su cosa fare quando sarai tu nella situazione in cui
vorrai intrattenerti con qualcuno e ti servirà che io non sia qui a guastare la
festa».
«Qui non entra nessuno» disse tassativo il
lupo mannaro, divenendo serio e lapidario.
Stiles assistette immobile a tutto
l’assetto di Derek che cambiò, divenendo statuario e implacabile; gli sembrava
quasi di parlare con il vecchio Derek scontroso, non che quell’aspetto fosse
sparito, ma con lui era più morbido, più propenso verso la sua direzione.
«Okay. Allora sei tu che vai da loro» capiva quanto Derek fosse territoriale e
odiasse avere troppi odori in giro, magari affrontare situazioni spiacevoli in
una posizione che in realtà avrebbe dovuto essere comoda; se Stiles avesse
avuto una casa propria o una camera singola l’avrebbe ben utilizzata per quegli
scopi. «Non dovresti sentirti in dovere di tornare per forza a farmi da balia o
comunque possiamo trovare un compromesso».
«Non vado da nessuna parte» fu chiaro il
lupo, si stava anche irritando vistosamente e si adombrò tutto insieme.
«Io… sono confuso» le iridi caramellate
furono stuzzicate, le pupille si allargavano nella semioscurità strategica.
«Che significa?».
«Quello che hai capito» tagliò corto Derek
irritato, l’insistenza premente di Stiles non era ancora qualcosa a cui
riusciva ad essere indifferente.
«Perché?» Stiles non riusciva proprio a
capire, Derek gli era sempre sembrato interessato alla sfera sessuale,
irradiava sesso da ogni poro. «Sono piuttosto sicuro ci sia una fila
chilometrica di ragazze che smaniano per te» le aveva viste sospirare dietro a
Derek, sperare di essere notate anche solo per un secondo, ma Derek guardava
solo davanti a sé, non si lasciava incantare o catturare da figure meno o più
formose che ammiccavano indecentemente, promettendogli piaceri incalcolabili.
Stiles pensava fosse una facciata, ma a quel punto non ne era più molto certo.
«E altri generi di file».
«E con questo?» domandò retoricamente il
mutaforma, i tratti facciali che divenivano taglienti. «Non è
un’autorizzazione. E io non sono costretto a fare niente anche se c’è
disponibilità».
«Non intendevo…» ma invece forse lo
intendeva eccome. Era presuntuoso ed infantile dedurre cosa Derek volesse avere
oltre a quello che aveva già, quali fossero i suoi interessi, chi attirava la
sua attenzione, quali fossero i suoi gusti. Gli aveva detto non ho abitudini
e Stiles aveva creduto che variassero di volta in volta, di letto in letto,
invece era in tremendo errore. «Sei bloccato?» Derek il sesso l’aveva scoperto
soltanto a quindici anni, precocemente probabilmente e devastante; non credeva
fosse mai stato sano, bello come avrebbe dovuto essere. Era stato adescato e
raggirato, era stato usato come arma contro di lui e Stiles poteva essere molto
in sintonia con quell’aspetto, ma non aveva idea di come fosse stato dopo, se
si fosse riscoperto, se fosse riuscito a debellare l’impurità da cui era stato
avvelenato. «Per via di Kate».
«Stiles, non sono bloccato» strascicò le
parole Derek, gli occhi verdi delle saette.
«Scusa» chinò il capo, la necessità di
allontanarsi da lui, di mettere quanta più distanza dalla sua saccenteria.
Ma Derek non aveva quell’intenzione, al
contrario lo attirò a sé, le dita di nuovo affondate nella chioma sbarazzina
che si stava asciugando lentamente, il corpo di Stiles quasi sopra il suo, le
ginocchia poggiate sulle gambe del licantropo, la fronte a lambire la tempia di
Derek più vicina a lui. «Non sono bloccato, è una mia scelta».
Stiles annuì contro di lui, la testa che
si poggiava su quella di Derek; si sentiva in pace, anche se non avrebbe dovuto
esserlo.
Il trascorrere del tempo si dilatò, erano
inflessibili su un punto fisso e non andavano oltre, a Stiles andava bene, si
rilassava anche se in realtà non si sentiva ancora stanco, bisognoso di
ricaricare le energie, perfino dopo la lunga giornata che l’aveva visto
protagonista, con le ore passate sul letto di Theo.
«Cos’è questa storia, invece, di non
essere fatto per l’amore?» Derek lo chiese fin troppo in ritardo, avrebbe
esteso quella domanda nel momento in cui Stiles aveva tirato fuori l’argomento,
ma si era defilato con strategia.
«Ah, speravo ignorassi il mio commento»
l’umano soffiò contro di lui, arreso e latente, scostandosi dal capitano e
scivolando più lontano, a separarli completamente e indicare che non volesse
sbilanciarsi oltre. «È solo un dato di fatto».
Derek lo fissò con la fronte aggrottata
mentre la matricola si sistemava a qualche centimetro da lui, al centro del
materasso e con le gambe incrociate. «Avevi una certa ossessione per la
banshee. Un amore dall’età infantile».
Una risata soffocata prese vita dal figlio
dello sceriffo, vuota. «Forse era solo quello, un’ossessione» Derek lo guardò
in modo strano e Stiles non poteva che dargli ragione. «Mi sono innamorato di
lei all’età di otto anni, uno dei periodi più bui per me» non doveva
ricordargli che cosa fosse successo, quanto sua madre si fosse persa nella sua
mente e non potesse più tornare indietro. Poi era andata via completamente ed
aveva lasciato i due Stilinski da soli a leccarsi le ferite e tentare di essere
l’uno il sostegno dell’altro. «L’ho idealizzata troppo».
«È solo questo il problema?» la creatura
della notte non riusciva a seguire i suoi ragionamenti, il perché fosse così
tassativo su quell’aspetto che un tempo inseguiva con occhi sognanti e
speranzosi.
«Siamo stati insieme, per un po’» rivelò
lo studente di criminologia, andando al nocciolo della questione. «Non ha
funzionato. Lei ci credeva, io no» ammise come se quelle poche parole dovessero
svelare l’arcano. «Sono successe molte cose, io sono cambiato e l’ha fatto
anche lei. Lydia è arrivata ad un punto di autoconsapevolezza, io invece non
riuscivo a tenermi intero e non avevo alcun interesse per lei».
Derek era attento, le orecchie tese, gli
occhi di giada che non volevano scostarsi dall’umano. «Per via del Nogitsune?».
Era una domanda retorica, ma era corretta.
«Per la volpe, per I Dottori del Terrore e per…» si fermò, non aveva avuto
voglia di rivelarlo in passato e non ne aveva nemmeno in quel momento, ma Derek
aveva solo pezzi di puzzle sparsi e doveva metterli al loro posto con molta
fatica e soltanto perché glielo permetteva. «Per La Caccia Selvaggia».
«La Caccia Selvaggia?» Derek impallidì, lì
nel chiarore accennato della camera, con i suoi punti strategici per non dare
fastidio agli occhi.
«I Cavalieri Fantasma mi hanno preso» lo
dichiarò in modo che non ci fossero fraintendimenti, anche se non sapeva se
Derek sapesse cosa significasse, se avesse quella conoscenza. «Sono stato
dimenticato da tutti. Anche da mio padre».
Derek sentì il dolore calare su mio
padre, era qualcosa su cui non poteva sorvolare. «Ti hanno preso» mettere
in fila quelle parole gli arrecava una tortura fisica, il suo lupo stava
ululando a squarciagola dentro di lui, esattamente com’era accaduto un anno
prima quando l’aveva sentito per la prima volta.
«Sì» annuì Stiles, abbracciando le gambe
contro di lui, strette strette al suo petto. «Non so, non ha alcun senso ed è
ingiusto da parte mia, ma sono ancora arrabbiato con tutti loro per aver
permesso che si dimenticassero di me con una tale facilità. Scott, Lydia e mio
padre. Tutti gli altri» non lo faceva stare bene con se stesso, tutta la rabbia
accumulata in quegli anni, con tutte le sue disavventure e la vita che
l’avevano bersagliato, non riusciva più a catalizzarla, prendeva la supremazia
su di lui. «Non era colpa loro, non era colpa di nessuno, non si può battere un
potere come quello se nemmeno sai che esiste. Ma esiste e ha spazzato via tutto
e sono stato sostituito e nessuno sapeva che ero mai esistito» il nulla nel
nulla, eppure Stiles sapeva ancora chi fosse. «Mio padre ha addirittura
ricreato mia madre con il suo dolore, ha fatto tornare in vita qualcosa con il
suo aspetto, tutto pur di non percepire che non ci fossi più e ha combattuto
per lei e non per me» non era qualcosa che lucidamente riusciva a capire,
Stiles aveva sofferto per quella sovrapposizione e ancora di più quando l’aveva
affrontata e lei aveva dato voce a tutto quello che sua madre, annegata nella
malattia, pensava di lui. «Non riusciva a credere a nessuno, non voleva
perderla per un figlio che nemmeno sapeva di avere e Lydia ha insistito e
insistito, ma ci è voluto troppo tempo. Lei riusciva a percepire che qualcosa
non andasse, che le voci si stessero spegnendo in modo anomalo e cercava ogni
indizio ovunque potesse, ma non c’era niente, solo le sue sensazioni» il suo
nome che figurava nella sua mente e che lei tracciava ovunque potesse per
renderlo reale. «E Scott la seguiva, non dubitava mai di lei, al contrario di
come avesse fatto con me» il risentimento passato sfociò, era qualcosa di cui
dubitava si sarebbe mai liberato, Derek riusciva a vederlo. «Mi ha tirato lei
fuori da quella dimensione fantasma e Lydia era arrivata a questa grande
rivelazione in cui capiva finalmente di amarmi e io l’ho solo presa. Non ho
fatto domande, non mi sono interrogato su niente, ho solamente colto
l’occasione pensando finalmente. Mi sono semplicemente fatto trascinare,
come faccio sempre in queste situazioni».
«Non riesco…» Derek non riusciva in fin
troppe cose e l’avere lì Stiles gli faceva rendere conto di quanto fosse vero,
di quante cose si fosse perso e aveva faticato a ritrovare. Di quanto Stiles
avesse pagato il prezzo più alto di tutti. «Sei stato deluso da chi amavi,
posso capire che questo abbia dell’influenza su di te» Derek lo sapeva bene, il
tradimento l’aveva sperimentato sulla sua pelle, anche se erano state di due
entità completamente differenti.
«No, non è questo» dissentì Stiles, il
capo che si muoveva ripetutamente scompigliando i capelli. «È successo anche in
passato. Sono sempre stato convinto di non essere visto da nessuno, soprattutto
da chi attirava il mio interesse, poi è accaduto che persone ne hanno
dimostrato verso di me, persone che non avevo mai visto o con cui avevo parlato
mezza volta. Non mi sono domandato se mi piacessero, ero elettrizzato e
eccitato e chiunque andava bene. Mi sono lasciato trasportare, accoglievo
tutto. È successo anche con…» ma non finì, la voce sfumò.
«Malia» gli diede un nome Derek.
Gli occhi già grandi di Stiles si fecero
giganti e tutto in lui spiccava la sorpresa. «Lo sai?».
«Aveva il tuo odore» semplificò il lupo
mannaro, facendolo risuonare ovvio.
«Aveva ancora il mio odore?» chiese con
sgomento, le iridi ambrate luminose nell’oscurità. «Ma quando l’hai
incontrata?».
«Lei provava dei sentimenti per te, tu no»
chiarì Derek ripetendosi, per lui era inevitabile. «Te l’ho detto, l’amore non
si cancella».
«Io le voglio bene» si parò il figlio
dello sceriffo, non apprezzando il modo in cui Derek sminuiva quello che Stiles
aveva provato per sua cugina.
«Non lo metto in dubbio» scacciò via il
licantropo, imperturbabile. Se non fosse stato vero, Stiles non avrebbe mai
barattato la sua libertà con la prigionia del Nogitsune. «Ma ci sono modi
diversi di voler bene ad una persona».
«Sì» Stiles rallentò, non era sicuro di
quanto in là si potesse spingere né che volesse condividere quella parte di sé.
«Avevo questa stupida idea di dover perdere la verginità a tutti i costi» Derek
si irrigidì, ogni suo tratto era di pietra e Stiles lo allegò a quello che gli
era accaduto con Kate Argent. «Lei era carina, sapeva quello che voleva e io
avevo la testa completamente in confusione, c’era questa presenza dentro di me,
la volpe che sussurrava e io volevo liberarmene, essere normale almeno per qualche
momento. Ma il Nogitsune ha usato quella prima volta contro di me, come se lo
avesse programmato in anticipo e non c’era più modo di tornare indietro» la
vita di Malia era appesa ad un filo, dopo che aveva giaciuto e goduto con lei.
«Dopo la cattura della volpe abbiamo provato a costruire qualcosa, ma sapevo
che non era quello il suo posto, che Peter voleva portarla altrove, da Laura,
da te e l’ho lasciata andare» non era pentito, era la scelta più giusta da fare
e quella più corretta nei suoi confronti. «Ma poi le cose si sono fatte
confuse, non voglio dire che fossi bloccato, ma non avevo un bel ricordo del
sesso, di quello che era venuto dopo ed improvvisamente avevo troppi occhi su
di me e io ero curioso, volevo ricominciare, debellare un’esperienza bella che
la volpe mi aveva sottratto. Ho accettato tutte le avance che mi sono ritrovato
davanti, senza che riuscissi ad inquadrarne una sola. Ho realizzato che agli
occhi degli altri ero sbocciato all’età di diciassette anni».
«Non sei sbocciato a diciassette
anni» gli fece il verso Derek, disgustato dal pensiero errato.
«E tu che ne sai? Nemmeno c’eri» era la
risposta che Stiles si era dato, il motivo per cui improvvisamente era piacente
alle persone che lo corteggiavano senza che lui capisse che cosa si fosse perso
in mezzo. Era rimasto indietro, anche se era andato avanti.
«Non è successo a diciassette anni»
rincarò la dose il licantropo, assottigliando le labbra.
Stiles lo guardò in modo anomalo, non
comprendeva la battaglia di Derek. «Non credo abbia importanza, comunque» non
voleva soffermarsi su quello, non avrebbe nemmeno dovuto esternarlo ad alta
voce. «Quello che voglio dire è che ero inconsapevole, lo sono ancora adesso.
Non capisco quando piaccio a qualcuno, non percepisco il momento del
cambiamento, ma se mi viene detto in faccia lo accetto e basta, perché penso quando
mi ricapiterà?» sospirò esausto, era una rivelazione che aveva tenuto per
sé. «Non è un bel pensiero, non è corretto nei confronti di nessuno, ma a loro
non importa ed a me nemmeno, quindi mi faccio catturare da questo vortice in
cui prendo tutto, ma non do nulla di reale» con i rapporti casuali era facile,
con quelli più concreti molto più difficoltoso. «Con Lydia è accaduto lo
stesso, lei ha capito di amarmi quando io non ero nemmeno lì. Ha raggiunto la
sua illuminazione, ha camminato da sola e me l’ha sbattuta in faccia ed io
credevo di volerlo, che fosse finalmente arrivato il mio momento, che il mio
sogno fanciullesco si fosse finalmente realizzato, ma non era così. Non provavo
niente per lei, non provavo niente di niente» si mosse sul letto, un braccio
che cercava alla cieca dietro di lui, afferrando il suo cuscino speciale e
portandolo davanti a lui, affondandovi il viso e sprofondando. Realizzarlo non
era stato per niente facile. «Tutto di me si era rotto, non riuscivo a tenere i
miei pezzi uniti, non ero in grado di occuparmi di me stesso e ed ero inadatto
ad avere una relazione sentimentale con un’altra persona, chiunque fosse. Non
potevo concentrarmi su di me se buona parte delle mie energie dovevo darle a
lei» ci aveva provato, ma aveva fallito su tutta la linea. «Poi si sono
presentati gli episodi di sonnambulismo e ho capito che non potevo farcela, che
prima degli altri dovevo ritrovare me stesso. Lydia non è riuscita a capirlo,
insisteva e basta».
«Hai un limite anche tu, non è una colpa
se l’hai raggiunto» era impensabile che accadesse ad un tipo in costante
movimento e pieno di energie qual era Stiles, un ciclone inarrestabile, ma ne
aveva subite troppe ed incassate ancora di più, il cilindro si era inclinato e
la vitalità cadeva a gocce piccole e lente, cadendo nel vuoto. «E la banshee lo
capirà a tempo debito, magari quando ti deciderai a chiedere aiuto, invece di
isolarti».
«No, si illuderebbe» processò il figlio
dello sceriffo, negando ogni tentativo e poggiando parte del capo sul guanciale
piumato, liberando il campo visivo. «Non ho niente da offrile».
Derek non lo riconosceva affatto. «I tuoi
sentimenti per lei».
«Hai problemi di udito, Sourwolf?» lo
prese giocosamente in giro l’umano, le labbra che si distendevano sopraffine,
deliziate. «L’amore che avevo per lei non esiste più, siamo persone diverse e
non sono più il bambino ad un passo dal perdere la madre che stravedeva per
lei. Non è più il nostro tempo, forse non c’è mai stato».
Il mannaro tacque prolungatamente, il
silenzio appestava la camera e Stiles era indifeso davanti a lui nel suo
pigiama, tra le proprie coperte, tuttavia era ancora combattivo. «Potrebbe
esserci nel futuro».
«Forse» ponderò Stiles, il sorrisetto
saputello che macchiava le labbra indomite, le gambe che si seppellivano sotto
le lenzuola e la schiena che ricadeva sul materasso, portandosi dietro il
cuscino ed impossessandosene di uno di Derek. «Ma adesso non voglio una
relazione con nessuno, ho bisogno di concentrarmi soltanto su me stesso».
La creatura della notte lo seguì con
adagio, era evidente che Stiles non riusciva più a resistere al richiamo di
Morfeo e Derek decretava che la giornata si fosse estesa fin troppo. «Hai fatto
la scelta più giusta per te».
Le labbra di Stiles si allargarono
ampiamente, le iridi di miele tutte per il suo interlocutore. «Grazie per aver
capito» proferì con riconoscenza, l’attesa che si allungava. «Non avevo
calcolato che in questo percorso accidentato avrei incontrato te».
«Soltanto perché non vuoi dire al mondo
cosa ti accade» proferì Derek come voce della verità.
«Può essere» gli diede minima corda la
matricola, coprendosi con ritardo un mezzo sbadiglio. «Ma nessuno è come te».
Non venne aggiunto altro e Derek si
distese completamente, accanto a lui e su un fianco, nella sua direzione come
accadeva praticamente quotidianamente. «Io non ti ho dimenticato» soffiò nel
buio dopo aver spento l’abatjour sul comodino, il fiato che muoveva le ciocche
indomite dell’umano.
Stiles aveva gli occhi semichiusi, era più
che altro diretto verso il regno del dio greco dei sogni che in quello
terrestre. «Non puoi saperlo, non te ne saresti nemmeno accorto. Un momento
c’ero e quello dopo non più. E viceversa, come un qualsiasi pensiero».
Il mannaro era ad alcuni centimetri dal
cuscino su cui la matricola si era accomodata, riusciva a vedere ogni sfumatura
in lei. «È impossibile per me dimenticarti».
La sonnolenza aveva ancora una presa
ponderante su Stiles, uscire dalla foschia era un’azione inesistente, ma riuscì
a vedere Derek in modo diverso, a scrutarlo e carpire cosa volesse dire, che
cosa volesse comunicargli. Si avvicinò nel buio, strusciò la punta del naso
contro il suo, percorrendogli tutto il setto nasale. «Sarebbe bello se fosse
stato vero» ma era impraticabile, nessuno poteva aggirare il sistema della
Caccia Selvaggia, per quanto si cercasse di evitarlo con tutte le proprie forze
e ne fosse a conoscenza, Derek non aveva alcun motivo per impegnarsi talmente
tanto nei suoi confronti e non avrebbe mai preteso nulla di simile da lui. «Non
provo nessuna forma di rabbia nei tuoi confronti, Derek. Sei l’unico esente».
Il lupo interiore di Derek stava ululando straziato,
incompreso, esattamente come nell’anno precedente.
Derek rientrò a metà pomeriggio, i libri
sotto braccio e le chiavi in mano, era riuscito a sentire le movenze di Stiles
sin dalle scale, il modo in cui si muoveva familiare dentro la casa, i passi
certi e frettolosi, com’erano sempre le sue abitudini, impossibilitato a stare
fermo sul posto per più di un minuto e di sentire l’esigenza di correre e
correre, dando l’impressione che fosse inseguito costantemente da qualcosa. A
volte Derek aveva una vaga idea da cosa si sentisse braccato, altre volte era
soltanto il combattere contro il silenzio che avvertiva intorno. «Cosa hai
combinato?» chiese quando si chiuse la porta dietro di sé, il mazzo di chiavi
al solito posto, i tomi poggiati sulla scrivania lungo il percorso, entrando
dentro l’ala dedicata alla cucina e trovandola eccessivamente affollata, con
sacchetti brandizzati del supermercato che si collocava proprio sotto i loro
piedi, accanto allo Starbucks della zona, occupando ogni superficie visiva il
lupo riuscisse ad individuare.
«Ho fatto la spesa» Stiles fermò il suo
sistemare la dispensa al suono della domanda, individuando il capitano della
squadra di basket oltre lo sportello aperto.
«Lo vedo» affermò ovvio il padrone di
casa, sbirciando in uno dei sacchetti più vicini ed estraendo un cartone che
conteneva del succo all’ace; a Stiles proprio non andava giù, ma Derek lo
beveva piacevolmente, quindi era plateale che fosse stato comprato per lui.
«Non era necessario».
«Certo che lo è» dissentì Stiles,
chiudendo lo sportello che gli impediva di vedere il mannaro completamente,
prima di inserire l’ultimo articolo presente della busta della spesa. «Non puoi
sempre essere tu ad occupartene per entrambi».
«Sei mio ospite, non è un problema per me»
Derek aprì l’anta del frigorifero e inserì al suo interno il contenitore con il
succo acquistato dall’umano.
«Dio, Derek. Quale ospite» si impennò,
alterandosi leggermente per quel paraocchi che era evidente Derek indossasse.
«Praticamente ci vivo qui. E fai la spesa per entrambi continuamente».
«Ripeto: per me non è un problema» si
approcciò a richiudere il frigo, pescando alla cieca da uno dei sacchetti
ancora pieni.
Stiles si agitò, muovendo il capo da una
direzione all’altra per dissentire fortemente. «Non voglio essere uno
scroccone».
Il lupo mannaro si fermò, un pacco di
pasta secca tra le dita e nell’altra mano una confezione di hamburger vegani,
probabilmente di legumi; lo fissava contrariato. «Ti ho mai dato l’impressione
che pensassi questo?».
«Lo penso io» afflosciò le spalle, come se
il peso della verità l’avesse rilasciato. «Continuo a sentirmi in difetto».
Derek adagiò gli acquisti sulla tavola, un
passo più vicino a Stiles e le falangi che formicolavano per il desiderio di
toccarlo. «Ma non lo sei».
«Anche quando andiamo insieme a pranzare o
cenare, è così» il figlio dello sceriffo si scostò dalla temperatura corporea
del lupo che lo lambiva appena, erano ad un metro di distanza, ma non sembrava
esistere veramente. «Tu con il tuo branco, andiamo sempre in posti che siano
alla portata delle mie tasche o che accettino i miei buoni pasto. Difficilmente
andiamo altrove».
«Un posto vale l’altro» semplificò la
creatura della notte, sordo all’accusa con cui Stiles lo stava additando.
«No, no» negò ancora la matricola con più
vemenza, l’elettricità che gli scorreva in tutto l’organismo. «Potresti andare
ovunque, invece ti fai incastrare dalle mie esigenze».
«Stiles» lo riprese il
mutaforma, c’era della lieve insofferenza. «Sono tutti locali per
studenti, siamo in un campus, non c’è alcuna differenza».
«Non è vero. Esistono locali per studenti
ricchi» e indicò Derek, in una panoramica evidente. «E locali per studenti che
faticano ad arrivare a fine mese» e direzionò la stessa mano utilizzata per il
lupo mannaro nella propria direzione.
Derek si avvicinò con il suo passo felpato
inudibile, i movimenti invisibili, e prese il suo viso tra le dita, lo sguardo
che lo costringeva ad affrontarlo. «Non mi dispiacciono i posti in cui ci
ritroviamo, quello che conta è la qualità della cucina e ne abbiano trovati di
meritevoli, ne troveremo ancora. Non mi serve del cibo sofisticato e
strapagato».
Stiles sbuffò contro di lui piccato e
anche lievemente arreso, il ghignetto da volpe che si palesava con moderazione.
«Già, quello te lo cucini da solo».
«Saresti sorpreso» proferì Derek senza
andare avanti, la frase in sospeso e Stiles voleva sapere di cosa sarebbe stato
sorpreso: di quanto spendesse in realtà o di quanto fosse capace di trovare dei
prezzi ragionevoli?
«Devi permettermi di contribuire, Derek»
rincarò la dose con più controllo, guardandolo dritto negli occhi, incapace di
fuggire da lui per via della presa che li legava né ne aveva davvero
un’intenzione impellente. «Non posso competere con il tuo portafoglio, ma posso
fare la mia parte».
«Va bene» acconsentì il lupo nero senza
soffermarsi troppo a pensare, a trovare il modo di aggirare il patto tra loro e
Stiles sentiva di aver vinto quantomeno mezza battaglia. «Ma non svaligiare il
supermercato» concluse con il tocco finale, gli angoli della bocca arricciati
sardonicamente.
Stiles lo colpì ad un fianco con
risentimento, senza una vera forza nel gesto, azione del tutto insensata ed
inutile, e Derek rilasciò una bolla di risa sopra di lui, per poi ricevere un
bacio in mezzo agli occhi. «Non esagerare» disse il capitano in conclusione, a
conoscenza della sua predisposizione a strafare e Stiles dovette dargliene
adito, annuendo nella sua direzione ipnotizzato dal loro modo di muoversi
attorno all’altro.
«Dovresti cominciare ad indossare qualcosa
di più pesante di una felpa» lo riprese Derek quando se lo ritrovò davanti al College of Arts
& Letters con indosso la stessa tipologia di indumento,
soltanto che in quell’occasione era rossa, come gran parte del suo guardaroba. «Tipo il giubbotto
che ti ostini a lasciare appeso».
«Non so proprio di cosa tu stia parlando»
Stiles era duro d’orecchi soltanto quando faceva comodo a lui, quella era
proprio una di quelle occorrenze.
«Non siamo più in California, siamo molto
più in alto» gli fece ben presente, toccando lo spessore appena sufficiente
della felpa che l’umano si ostinava ad indossare senza nient’altro di
aggiuntivo. «Le temperature si stanno abbassando e tu sei cangevole».
«Non voglio sentire un discorso del genere
da un tizio che indossa soltanto una giacca di pelle nei mesi più freddi»
Stiles dinegò con la testa, sbattendo quasi i piedi a simulare un bambino e
Derek roteò gli occhi annoiato perché la matricola non stava dimostrando di
essere qualcosa di diverso.
«Non devo davvero ricordarti che non ne ho
bisogno» calcò la creatura leggendaria, le scintille blu e rosse che
solleticavano le iridi di giada.
Una volta Derek il particolare dei suoi
occhi che lo distingueva da tutti gli altri mutaforma
non l’avrebbe mostrato così platealmente, seppur con quella cura di non essere
visto da esterni ed essere scoperto; Stiles andava in fibrillazione per nulla.
«Così fortunato».
La voce acuta che allungava le lettere con
esasperazione non era gradita alle orecchie del lupo nero e gli rifilò
un’occhiata dura. «Stiles, domani lo indosserai, non voglio sentirti starnutire
tutta la notte».
«Sei noioso» strascicò le lettere con
intenzione, rafforzando l’astiosità di Derek e esibendosi nel suo miglior
broncio. A suo discapito era successo solo una volta, due giorni prima, aveva
tremato per tutto il tempo e Derek aveva percepito la sua temperatura alzarsi
eccessivamente rispetto ai suoi standard. Non gli serviva un termometro per
avere la certezza di avere la febbre, seppur leggera. Ciò che non riusciva a
svelare ufficialmente, era il mistero di essersi ridestato il giorno dopo senza
alcun malanno, a parte strascichi di raffreddore; non era difficile capire chi
avesse fatto sparire la sua influenza, ma Derek non si era palesato e Stiles
non aveva indagato. «Non sono passato per sentire le tue ramanzine» soprattutto
quando aveva ragione e allo studente del primo anno proprio non andava giù.
Derek lo fissò tagliente e Stiles gli
regalò il suo sorriso migliore da rubacuori ‒ sempre se ne possedesse
uno. «Ho trovato una ragazza bravissima nel campus che crea oggetti molto belli
con disegni carini» cominciò la sua arringa l’umano, trafficando con la sua
tracolla e cercando nei suoi averi. «L’ho contata e chiesto se poteva realizzarmi
qualcosa seguendo le mie richieste» il metallo delle chiavi dell’appartamento
di Derek sbattevano tra di loro, creando un suono e Stiles riuscì ad
intercettarle ed estrarle, mostrandole vittorioso. «Et voilà! È stata
fantastica, meglio del previsto».
Stiles trionfante esibiva il suo mazzo di
chiavi personale, agitando un portachiavi in acrilico che Derek non aveva mai
visto. Dentro uno strato di quello che il lupo identificava come resina
resistente, vi era raffigurato un lupetto nero, i tratti morbidi e arrotondati,
stilizzato con cura e carineria, mettendo in risalto un occhio blu a contrasto
con il secondo che si esibiva in uno rosso rubino. «Potevi investire meglio i
tuoi soldi».
«Mai fatto in modo migliore, l’arte si
paga» alla freddezza di Derek il ragazzo era quasi immune, non si lasciava
abbattere. Le sue labbra erano distese in un sorriso di contentezza, infatuato
del suo piccolo nuovo amico che gli avrebbe fatto compagnia da quel giorno in
poi. «Così saprò sempre che solo le tue chiavi» l’agitò con orgoglio, a
decantare la sua meraviglia.
Derek avrebbe dissentito sul definire
quella roba arte, inasprendo i lineamenti facciali, ma doveva seriamente
meravigliarsi dell’inclinazione di Stiles di innamorarsi delle piccole cose?
«Perché blu e rosso?».
L’attenzione di Stiles fu catapultata
tutta sul vero lupo e prese tra le mani il portachiavi prezioso. «Non sarai per
sempre entrambi, in questo stallo. Troverai il vero te. Quindi ho optato per
una distinzione netta».
Il mannaro si soffermò su di lui per un
tempo che andava dilatandosi, gli studenti che li aggiravano come se non
esistessero. «La prossima partita sarà in trasferta».
«Ah» Stiles impiegò diversi momenti per
afferrare cosa Derek gli avesse comunicato, decifrare il messaggio nascosto che
non era nemmeno tale. «Doveva succedere, prima o poi» anche se mentalmente era
consapevole ed era la prassi per un giocatore di qualsiasi sport, una parte di
sé aveva completamente accantonato la possibilità, come se non dovesse mai
arrivare quel momento. «Starai via molto?» la partita si sarebbe svolta
soltanto sei giorni dopo e secondo il calendario sarebbe ricaduta proprio per
la festività di Halloween.
«Una notte» rispose Derek pronto, le iridi
verdi che scandagliavano l’animosità dell’umano che andava scemando. «Se non
sorgeranno problemi».
«Problemi?» domandò in una eco, il viso
che si alzava nella sua direzione, nella speranza di essere illuminato, più
reattivo. «Che tipo di problemi?».
«Partite spostate o rinviate, prenotazioni
disdette, incomprensioni con gli organizzatori. Accade di tutto» elencò
sapientemente, in una sintesi perfetta.
Certo, Derek ne aveva viste tante in
quei due anni, anche ai tempi di Beacon Hills accadeva, ma rimaneva
circoscritto alla loro città e dintorni, non andava mai troppo lontano, ma il
college era diverso, i campionati universitari erano una cosa seria in
quell’ambito, non erano ammessi scherzi. «Giusto».
C’era dell’amaro nella vocalità del figlio
dello sceriffo, qualcosa che alle orecchie di Derek stonava. «Ti disturba?».
Stiles sbatté le palpebre più volte, non
aspettandosi una domanda tanto diretta e non era nemmeno certo di averla
incanalata dentro di sé, a dargli una definizione. «Mi sto solo rendendo conto
di quanto io stia diventando egoista» lo guardò, ma poi distolse lo sguardo e
le sue labbra si curvarono con un accenno di tristezza, sardoniche verso se stesse. «Vorrei che restassi con me».
«Non ti lascerò ai tuoi demoni» disse il
capitano seriamente, segno che ci avesse già riflettuto sopra e che non si
lasciasse cogliere impreparato. «Escogiteremo un modo per affrontare quella
notte» Derek aveva lasciato trascorrere un solo secondo, il tempo necessario
che le parole che Stiles aveva pronunciato attecchissero; le labbra avevano
tremato impercettibilmente, il piccolo foro tra loro di chi era stato colpito
in pieno, ma le teneva
talmente serrate che non era visibile ad
un occhio non attento.
Stiles non riusciva a staccare gli occhi
dai suoi, da quanto gli era dedito perfino in quella situazione in cui non avrebbe
mai dovuto essere una sua preoccupazione. «Sono certo che ci proverai, ci
proveremo, ma questo non fa altro che sottolineare quanto io stia diventando
sbagliato».
«Non è sbagliato chiedere aiuto, sapere
che ne hai bisogno» Derek non avrebbe mai cambiato idea su quell’argomento. «So
che sei spaventato, ansioso ed è giusto. Devi preoccuparti se qualcosa svia dai
tuoi binari, dalla quotidianità che stai costruendo, hai bisogno di certezze e
stiamo cercando di crearle».
Stiles avrebbe proprio voluto urlargli
quanto Derek incarnasse la figura di Alpha, quella che scartava con tutto se stesso; un potere annacquato definiva quelle iridi
che cercavano di comunicare con lui e rivelargli quanto potenziale avesse. «Mi
metterai un cane da guardia davanti la porta?» chissà quale porta, poi.
Derek assistette alle labbra da volpe
scaltra che si palesavano, quella giocherellona. «Qualcosa del genere, definirò
i dettagli».
Stiles ridacchiò alleggerito, divertito e
guardò il suo lupetto d’acrilico, accarezzandolo automaticamente; non gli aveva
ancora tolto la pellicola protettiva e non aveva nemmeno intenzione di farlo,
avrebbe aspettato che cadesse da sola. Quando alzò il capo per riprendere la
conversazione con il licantropo, l’attenzione di Derek era tutta da un’altra
parte, in un punto che non lo comprendeva minimamente oltre le sue spalle ed i
sui tratti erano in tensione, severi. Stiles si ritrovò stupito da un tale
cambiamento dei lineamenti facciali e si vide costretto a seguire lo sguardo
del mannaro, focalizzando due figure maschili che conosceva piuttosto bene,
intente a raggiungere un luogo a lui estraneo mentre si spalleggiavano, ma era
una scena al rallentatore, tutti e quattro erano diventati consapevoli gli uni
degli altri. «Oh» proferì il figlio dello sceriffo colto alla sprovvista. Era
inevitabile che prima o poi avrebbe incontrato casualmente per le vie del
campus Donovan e Theo, soltanto che sperava non accadesse mai nelle vicinanze
di Derek. «Devo andare in biblioteca a ritirare dei libri che avevo segnato, mi
accompagni e poi pranziamo insieme?» la matricola li ignorò completamente,
l’insistenza stupita degli occhi dei suoi amanti occasionali ‒
probabilmente data dall’incomprensibilità di trovarlo in compagnia e
familiarità del popolare Derek Hale e questo lo portava a credere che Jiang non
avesse fatto parola con loro dell’esistenza del capitano della squadra di
basket nella sua vita ‒ se la fece scivolare addosso e ritornò a guardare
soltanto Derek.
Il mannaro non sembrava ritornare sul
pianeta Terra. Non li fissava con ostilità, ma c’era qualcosa che Stiles non
riusciva proprio a definire. «Hai già un’idea?».
Lo studente di criminologia si rilassò
alla costatazione che il mutaforma gli prestasse
ancora il suo udito. «Forse ho trovato un posto carino nei dintorni».
La creatura leggendaria depositò le iridi
di giada in quelle di ambra e l’ambiente circostante non esisteva più. «Ti
seguo».
Stiles si sciolse in un sorriso di cuore,
depositando con cura il mazzo di chiavi con il lupacchiotto nero all’interno
della tasca interna della tracolla e saltellando sgraziatamente sul posto
accanto, ad avviare la sua camminata andando avanti e trascinarsi il licantropo
con lui.
Derek non si fece attendere.
«È stato imbarazzante» dichiarò Stiles con
le mani a coprirgli il viso, la brutta sensazione che ancora non si scrollava
di dosso anche se erano passate delle ore e si era separato dal capitano della
squadra di basket da altrettanto tempo.
«Stai esagerando, come al solito» lo
rassicurò con nessuna vera intenzione Erica, la bocca deliziata dalle sfortune
dell’umano.
«Per niente!» erano seduti sul prato
vicino al laghetto, lontani da qualsiasi edificio o negozio o locale che i loro
conoscenti frequentassero e, anche se il campus risultava enorme ma non
infinito, quello era uno dei posti preferiti dagli studenti quando volevano
rilassarsi. «Derek conosce i loro odori, li ha sentiti su di me» ah,
avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto urlare dal primo momento in cui aveva
costatato che Derek li aveva fiutati, individuati e successivamente associato i
loro visi. Si agitò, le braccia che si muovevano per aria in tutte le
direzioni, a enfatizzare le sue parole. «E adesso conosce anche le loro facce».
«E quindi? A lui non interessa» Erica era
talmente in giubilo, che si chiese come avesse fatto a sopravvivere alla noia
in quei due anni senza la vita catastrofica di Stiles a vivacizzarla.
«Ti ricordi che dormo accanto a lui tutte
le notti, vero?» la matricola si sentiva incompresa, non riusciva a capire
perché non venisse colto il suo dramma.
«Non credo che Derek disapprovi il tuo
stile di vita» era del tutto lecito che ne avesse uno. «Ma tu comunque vai in
paranoia».
«È diverso quando l’individuo non ha un
corpo, ma solo un odore» Stiles stava cercando di farle comprendere il punto,
quanto si fosse sentito a disagio in quella situazione e che fosse proseguita
anche successivamente, benché per Derek non sembrava essere accaduta. «È meno
reale».
«L’odore è molto reale» ribatté la
studentessa d’arte attenta, correggendolo. «Per noi lo è più di tutti voi».
Ecco che Stiles si sentiva nuovamente in
difetto, avendo calcolato erroneamente la portata delle loro capacità. «Quindi
non c’è speranza».
«Qual è esattamente il problema?» per
quanto Stiles lo divertisse, insieme al rapporto che aveva con Derek, le sue
difficoltà colpivano tutto il branco che si impegnava a seguire il capitano.
«Mi sembra scorretto nei suoi confronti»
anche se Derek gli aveva detto di non preoccuparsene, per il figlio dello
sceriffo era inammissibile. «Sto lì accanto a lui ed entrambi sappiamo che
soltanto un momento prima ero con un’altra persona, una persona che lascia le
sue tracce su di me e per quanto io mi possa impegnare a cancellarle, non ci
riesco davvero e lui le ha sotto il naso. Spesso anche sotto gli occhi».
Erica era affascinata da tanta passione,
ma non la reputava sana. «Derek ti ha detto qualcosa in proposito? Te l’ha
vietato?».
«No, figurati» non che avrebbe mai potuto
farlo, non glielo avrebbe nemmeno permesso, avrebbe preferito vagabondare in
eterno per le strade del campus completamente estraniato da se
stesso. «Derek non mi vieta proprio niente. Certe regole le ho pretese io, lui
non avrebbe mai detto nulla» ciò che lo disturbava era più facile che glielo
comunicasse sottoforma di lupo completo.
«Se Derek avesse dei problemi per qualcosa
che fai, te lo direbbe» era risaputo che lo studente di letteratura non si
esprimesse particolarmente, ma il suo malcontento lo dimostrava apertamente. «È
un tipo insofferente, non se lo terrebbe per sé».
«Derek tiene molte cose per sé» si lasciò
scappare distrattamente la matricola ed Erica la scrutò con perizia, gli occhi
leggermente assottigliati a scavare, a capire se si riferissero a qualcosa che
era loro comune.
«Vorresti ti limitasse?» chiese
chiaramente la lupa mannara, a tentare di decifrare che cosa si nascondesse
nelle congetture del diciannovenne.
«No» ma forse a volte avrebbe voluto, così
avrebbe capito fin dove si sarebbe potuto spingere, quale linea non avrebbe
dovuto sorpassare per rendere sopportabile quella convivenza forzata.
Erica sorrise intenerita all’affanno di
Stiles, alle sue difficoltà che quasi si imponeva, costruendole da solo, le
labbra rosse in evidenza. «Se vuoi frequentare qualcuno, sei liberissimo di
farlo. Anche se a Derek dovesse dare fastidio trovarsi l’odore di un’altra
persona nell’appartamento, non può importi dei veti e non devi preoccuparti di
indispettirlo. È territoriale, lo siamo tutti, ma non ti dovrà mai limitare».
Stiles sospirò, anche se comprendeva
l’intento di Erica, comunque non distendeva il malcontento che aveva dentro,
quella sensazione continua di fargli un torto continuo. «Davvero Derek non va a
letto con nessuno?» non voleva realmente chiederlo; in realtà sì, aveva quel
bisogno di appianare la propria curiosità da quando la questione era saltata
fuori.
La mutaforma aggrottò la fronte,
leggermente accigliata, sorpresa. «Ti ha detto questo?».
«Non esattamente con queste parole, ma è
stato piuttosto esplicito» ci aveva girato intorno, ma il significato era
chiaro.
«Sì, è vero» ammise la studentessa di belle
arti, la postura che cambiava per mettersi più comoda. «Sono sicura tu gli
abbia chiesto anche questo».
Stiles continuava a stupirsene, benché fosse
naturale che ognuno avesse il proprio modo di agire su quella sfera privata.
«Credevo fosse bloccato, quindi sì» non avrebbe comunque potuto dargli torto in
quel caso.
«Bloccato» ripeté la bionda con interesse,
assaporando la parola come se dandole un suono, potesse acquisire il mistero
che aveva portato Stiles a sopporlo e quest’ultimo reagì sgranando gli occhi,
la pelle che impallidiva, perché per l’ennesima volta era stato incauto e aveva
lasciato fuoriuscire qualcosa che nessun altro conosceva. Kate era un segreto
suo e di Derek, all’infuori di loro non poteva essere compresa le motivazioni
per cui Stiles l’avesse dato per scontato, errando. «Non è bloccato, di certo non
lo era fino al suo ultimo anno da liceale».
Ah, quindi le sue teorie si sbriciolavano
come castelli di sabbia. Da una parte era sollevato, ma dall’altra era ancora
più confuso di prima.
Erica rilasciò una risatina e il figlio
dello sceriffo la guardò disorientato, le iridi d’ambrosia brillanti e
stuzzicate; era completamente un pesce fuor d’acqua. «Derek è cambiato tanto
dopo Paige, ma dopo l’incendio è come se fosse morto anche lui. Quantomeno la
sua parte spensierata, quella in cui si fidava del prossimo e accoglieva ciò
che di nuovo il mondo aveva per lui» articolò con l’amaro in bocca. Erica aveva
partecipato al suo spegnimento, alla sua personalità che si oscurava, divenendo
l’opposto di ciò che era all’inizio. «Io e Laura non sapevamo proprio gestirlo,
è stato difficile, sfiancante. Non riuscivamo a capire come potessimo aiutarlo»
Stiles avrebbe voluto dirle che non avrebbero mai potuto accorrere in suo
soccorso perché Derek celava un segreto troppo grande dentro di sé, che lo
inibiva e lo avvelenava. Lo stava ancora divorando vivo. «Ma poi è cambiato
ancora. Non qualcosa di eclatante o rumoroso, non qualcosa di peggiore, ma
aveva subito un’altra variazione e all’improvviso io e Laura l’abbiamo visto
ricominciare a respirare. Ci ha dato speranza».
Stiles si sentiva risucchiato, ma Erica
non aveva ancora terminato. «Derek sta continuando a cambiare, proprio sotto ai
nostri occhi e sta ridefinendo se stesso» la lupa ci
credeva ciecamente, era così evidente, che non avrebbe mai potuto scambiarlo
per nient’altro. «Credi che Derek si muovi soltanto nella tua direzione, che
tutto quello che fa è per te, per venirti sempre incontro ed è così, è vero, ma
non è esclusivamente questo. Gli fa bene averti intorno, il modo in cui agisce
è anche per se stesso».
Il figlio dello sceriffo era piuttosto
frastornato, eppure coglieva esattamente l’essenza delle parole della sua
interlocutrice. «Pensi che cambierà ancora?» non aveva mai ipotizzato che
avesse delle influenze positive sul lupo nero, Stiles si ritrovava in quella
fase in cui credeva di essere solo un impiccio per chiunque. Una fase che in
realtà esisteva da quando era nato e che si era accentuata dopo la dipartita di
sua madre; continuava a ramificarsi. Si domandò se sarebbe mai stato in grado
di rompere quelle catene.
«Io ne sono sicura» affermò certa la
creatura della notte, la speranza era ben evidente negli occhi castani e niente
poteva privargliene. «Sappiamo entrambi cosa potrebbe diventare».
Sì, Stiles avrebbe tanto voluto assistere a
quell’evento, essere nel posto giusto al momento appropriato, essere testimone
dell’istante in cui le iridi eterocromi di Derek si sarebbero riempite di
esclusivo rosso cremisi. Sarebbero ancora stati insieme fino a quel giorno?
«Dovremmo rivederci» si approcciò Theo con
il sorriso provocatorio sulle labbra, l’aria a chi non poteva essere detto di
no.
Lo studente di scienze politiche l’aveva
intercettato subito dopo la sua ultima lezione pomeridiana, accorrendo nella
sua direzione dall’edificio opposto della sua facoltà, segno che l’avesse
raggiunto di proposito e non casualmente. «Lo facciamo già, abbiamo un gruppo
di studio in comune» in cui si era illecitamente aggiunto.
«Soltanto noi due» specificò il ragazzo
dagli occhi azzurri, la bocca curvata di malizia.
Stiles roteò gli occhi, disturbato da
quella presa di posizione. «Non sono interessato» pensava di essere stato
chiaro quando era sgattaiolato via dalla sua camera e non si era prorogato
nell’estendere l’invito nel futuro.
«Perché? Ci siamo divertiti» Theo non
aveva alcuna intenzione di demordere, la sua aura affascinante la stava
emanando tutta. «È stato piacevole» era stato tante cose, non voleva proprio
farne a meno.
«Lo è stato» confermò il figlio dello
sceriffo, i ricordi delle sensazioni che aveva provato quella notte. Si era
intrattenuto con lui anche fin troppo per i suoi standard. «Ma non ho
intenzione di ripetere l’esperienza».
Theo lo guardò confuso, le iridi di
zaffiro si spostarono dietro di lui, oltre la sua schiena, dove vi era un
gruppo di quattro persone che palesemente stavano aspettando qualcuno e quel
qualcuno era Stiles.
Buona parte dei titolari della squadra di
basket, compreso il capitano, insieme ad una ragazza bionda, erano poco
distanti dal punto in cui si trovavano e parlottavano tra loro, credendo di
apparire discreti, disinteressati, ma Theo li aveva intercettati ben prima che
riuscisse a raggiungere Stiles, anticipandoli. Derek Hale non parlava, non
sembrava nemmeno ascoltare o guardarsi intorno, ma Theo sapeva che non era
affatto vero. «Cosa te lo vieta?».
«Me stesso» rivelò lo studente di
criminologia, l’attenzione che catturava di nuovo su di sé. «È una mia regola,
non andare con la stessa persona per più di una volta».
Theo lo osservò a lungo, gli occhi che non
riusciva a distogliere da lui, il segreto che tentava di far emergere. «Cos’è
esattamente che non vuoi?».
«La ripetizione» semplificò il suo
interlocutore, le iridi d’ambrosia che lo seguivano passo passo.
«Creano un precedente, affidabilità, quotidianità».
«Non ti sto chiedendo di impegnarti con
me» Theo diede voce a cosa realmente Stiles rifugiasse, a quanto chiaro gli si
presentasse in quel momento. «Nessuna relazione, ma soltanto passare alcune ore
piacevoli».
«È un tipo di relazione anche quella»
dissentì il figlio della massima autorità di Beacon Hills, la chiarezza della
sua argomentazione che si palesava a concretizzare le sue convinzioni.
Il bruno invece di esserne risentita, mutò
i suoi tratti facciali in compiaciuti, ammirati e impressionati positivamente.
«È difficile spuntarla con te» e mentre nel viso di Stiles capeggiava un punto
interrogativo, Theo azzerò la distanza tra loro e fece congiungere le loro
bocche, impossessandosi cautamente delle sue labbra, con l’intenzione di farlo
durare il più a lungo possibile. Stiles a quel bacio rispose senza indugio. «Tu
mi piaci».
Oh, Stiles sapeva bene quanto gli
piacesse. «Questo è un problema» che avvallava la sua tesi.
Lo studente di scienze politiche non si
abbatté, al contrario era solo più intricato e si prodigò per baciarlo ancora,
a rimarcare la sua presenza su quelle labbra rosse e gonfie per quello che si
erano già scambiati. «Ciao, Theo» ma Stiles si allontanò, la bocca impudica che
aveva la meglio, ammiccando spudoratamente e una mano che sventolava un saluto
definitivo; non appariva turbato in alcuna maniera. A Theo non rimase che
guardarlo raggiungere il suo evidente gruppo.
«Ehy, ragazzi» Stiles corse da loro come
se non fosse accaduto nulla un momento prima, senza che le sue labbra pulsanti
potessero dare un indizio a delle creature attente e meticolose come loro. «Ho
una notizia».
«Stiles» lo salutò Erica con calore,
irradiandolo da ogni poro, anche se non poteva non notare un’occhiata assestata
e di rimprovero che aveva precedentemente rifilato a Derek. «Sei sceso a patti
con il bel ragazzo laggiù?» chiese cogliendo la palla al balzo, indicando con
fluidità e poca trasparenza l’individuò da cui si era defilato con maestria.
«Cosa? No. Ignoratelo» l’umano lo adocchiò
appena, consapevole di avere ancora le sue iridi blu su di sé. Non era un suo
problema. «Al Crescent
Moon
cercano personale in vista di Halloween e mi hanno preso».
Stiles era entusiasta, il suo
coinvolgimento trasbordava. «Prevedo un avvelenamento futuro» Derek sprezzante
diede voce ai suoi pensieri, senza scomporsi.
«Ehy» la matricola gli assestò un pugno su
un braccio, consapevole che non lo avrebbe scalfito affatto, ma doveva comunque
enfatizzare il suo risentimento. «Derek, sei il peggiore dei peggiori».
Il lupo nero non si fece scalfire e Stiles
sbuffò annoiato. «Siamo felici per te» disse invece Boyd, in contrapposizione
al loro capitano.
«Grazie» sorrise a trentadue denti lo
studente di criminologia, accogliendolo di buon grado. «Siete tutti i
benvenuti, tranne il Sourwolf».
«Ad essere sue cavie» tradusse Derek per
loro, riguadagnando una nuova gomitata dall’essere umano. «Sei sicuro di
farcela con i tempi?» tutto l’assetto intorno a loro cambiò e l’attenzione del
nato lupo era tutta su Stiles, con la preoccupazione ben evidente, ma soltanto
per le quattro persone che gli stavano intorno. «Sei pieno di corsi, più quelli
extra».
«Sì, abbiamo concordato gli orari» nel
campus era fatto tutto per coincidere con la vita frenetica degli studenti, non
era insolito che i locali presenti si avvalessero di manodopera studentesca.
«Voglio farlo».
Derek lo fissò a lungo, capiva perché
fosse indirizzato verso quella direzione, il desiderio di Stiles di essere più
autonomo, di avere delle entrate finanziare in più, di non doversi trovare a
contare i centesimi per arrivare a fine mese e gravare ancora di più sulle
tasche di suo padre. Anche se Stiles era riuscito ad ottenere clamorosamente
una borsa di studio completa, non poteva compensare tutto. «Se ci tieni così
tanto. Ma non devi sfinirti».
Stiles sorrise pienamente per il suo
appoggio e si godette tutto il momento in cui il lupo completo gli scompigliò i
capelli, a dimostrarli il suo supporto. Il loro pizzicarsi spariva
immediatamente.
«Questa, invece, da dove salta fuori?»
Erica prese una punta dell’indumento che aveva richiamato il suo interesse,
trattenendolo tra le dita e tirandolo leggermente per enfatizzare sul capo.
Stiles la guardò in un primo momento
interdetto, non capendo assolutissimamente a cosa si riferisse ed era maligno
da parte sua ma Isaac quasi si illuminò, come se non fosse più l’unico del
gruppo. «Chiedi a mamma chioccia» il dito indice si allungò nella direzione di
Derek e quest’ultimo ignorò completamente le sue lamentele non tanto
silenziose.
Stiles si era dovuto arrendere, quella
mattina aveva tirato fuori il suo giubbotto blu scuro molto poco usato e lo
aveva indossato con molto scontento. Derek lo aveva guardato per tutto il tempo
impassibile e poi si era avvicinato ad uno dei suoi ripiani, afferrando
qualcosa da un mucchio che generalmente non guardava nemmeno e raggiungendo
l’umano quando trovò quello che stava cercando. Gli avvolse attorno al collo
una sciarpa senza che Stiles se ne rendesse minimamente conto e la sistemò per
bene, sotto lo sconcerto del figlio dello sceriffo. «Non l’ho mai vista» fu
tutto ciò che riuscì a tirare fuori, osservando con sgomento e riluttanza
quella consistenza morbida e calda, di quel rosso aranciato che continuava a
spuntare in ogni dove. «Dove la tenevi nascosta?».
«Non mi risulta tu abbia sbirciato in
tutto il mio guardaroba» lo deviò il licantropo, la curva sarcastica sulle
labbra.
Stiles sbuffò risentito, come se fosse
stato beccato con le mani nel sacco. «Perché dovresti avere una sciarpa?» cosa
se ne faceva un lupo di un accessorio inutile come quello?
«Perché tu, invece, non ne hai?» lo
ribeccò la creatura della notte, gli occhi verdi che lo assestavano al suo
posto.
«Vivo in California, non mi serve» si
lamentò la matricola, la stoffa che prendeva tra le falangi con la voglia di
togliersela di dosso.
«Non vivi più in California, Stiles» Derek
fu diretto, lapidario, non c’erano vie di margine.
Stiles dovette incassare il colpo. Non era
un rimprovero il suo, semplicemente in nato lupo cercava di rendergli chiaro
quanto fosse distante da casa e le cose fossero diverse, le abitudini, i
comportamenti, il modo di sopravvivere a delle temperature rigide che Stiles
non aveva mai sperimentato. «Sì» soffiò, lo sguardo che incontrava dei nuovi
nuvoloni che minacciavano pioggia.
Derek gliel’aveva nuovamente riavvolta,
più sistemata e propensa a proteggerlo meglio. Stiles non era nemmeno sicuro se
i colori che indossava cozzassero tra loro. «Tienila».
Le iridi ambrate si incollarono a quelle
di giada e non gli permise di scappare da lui. «L’hai comprata per me, non è
vero?».
«Sono quasi sicuro sia il suo colore
preferito» disse Stiles al resto del branco, ammiccando villano verso il lupo
completo. Derek non aveva risposto nell’appartamento, si era semplicemente
diretto verso la porta ed aveva aspettato che l’umano lo seguisse.
Quando avevano raggiunto il portone e
sceso i gradini, Stiles fu subito colpito dal freddo pungente, che gli
schiaffeggiava il viso, quindi inevitabilmente affondò fino al naso in quella
sciarpa calda e provvidenziale, prendendo un respiro di sollievo, mentre le
gote di conseguenza si arrossavano per la temperatura glaciale. Derek aveva
mostrato una piega sulla bocca vittoriosa e Stiles molto maturamente aveva
risposto con una linguaccia.
Erica aveva ridacchiato, mentre Isaac e
Boyd annuivano invisibili, come se non volessero essere beccati dal grande lupo
cattivo. «È probabile di sì» aveva detto lei, ignorati totalmente dallo
studente di letteratura che appariva duro d’orecchi, ma che aveva comunque
roteato gli occhi piccato dall’insistenza della matricola. «Il tuo qual è?».
«Il rosso» dovette elaborarlo per qualche
secondo prima di dare una risposta, non se l’era mai chiesto realmente, era
soltanto accaduto che quel pigmento scegliesse lui.
La mannara ammiccò sapientemente deliziata
e addolcita. «Non saresti il nostro perfetto Cappuccetto Rosso».
«Già, nemmeno lei stava attenta ai
pericoli» proferì sarcasticamente il capitano della squadra di basket, la
frecciatina ben assestata.
«Penso proprio che aggiungerò dello
strozzalupo al tuo caffè» lo ribeccò lo studente del primo anno, la spavalderia
che lo caratterizzava.
Derek lo fulminò, a sottolineare quanto
stesse giocando con il fuoco, mentre Stiles sorrideva impavido con il ghignetto
da volpe scaltra che aveva battuto il lupo corrucciato. Tutti e cinque,
comunque, si rincontrarono alcune ore successive per cenare in reciproca
compagnia.
Era rimasto pietrificato per qualche
secondo quando aveva raggiunto il Crescent Moon in quel primo pomeriggio, trovandosi faccia a faccia
con Tracy, Tracy Stewart, nuova barista come lui, assunta in occasione della
festività del trentuno ottobre.
Doveva esserci una congiunzione astrale da qualche
parte di cui era all’oscuro, perché non era credibile che nella stessa settimana
stesse incontrando tutti i suoi ex partner sessuali.
Contro ogni sua previsione, si erano trovati bene a
lavorare insieme, nessuna frecciatina, nessun argomento controproducente, erano
lì per imparare e la ragazza era stata assunta due giorni prima di lui, quindi
risultava più pratica nel servire i clienti. Nelle retrovie c’era qualcuno che
vigilava costantemente su di loro, a spiegargli le basi che gli mancavano,
insieme alla proprietaria, la signora Freeman. Ogni tanto dalla cucina facevano
una capatina il marito e il nipote, addetti alla pasticceria. Stiles quelle ore
le aveva trovate divertenti.
«Ehy, Der» il lupo mannaro aveva varcato la soglia,
fatto suonare la campanella che avvertiva l’entrata di un nuovo cliente. Si era
fermato ad osservare la caffetteria solitamente dai colori pastello essere
invece piena di decorazioni per Halloween e che, amaramente, erano anche in
tema con il nome scelto per il locare; anche se c’erano ragnatele e streghette
appese con un po’ ovunque, c’era un’abbondanza di lupi mannari, insieme alla
stilizzazione di lupi completi in ombra. Stiles l’aveva adorato, Derek ne era
nauseato. «Pensavo ti saresti tenuto alla larga» stava ammiccando
spietatamente, ma era sorpreso e contento.
«Sono ancora di quell’idea» snocciolò il capitano,
interrotto da un secondo campanello che annunciava Erica subito dietro di sé,
accolta dall’entusiasmo dell’umano. «Il ragazzo che evita come la peste la mia
macchinetta del caffè».
«Ma questa è assicurata, mi sento meno in colpa. Alla
tua non oso nemmeno avvicinarmi» disse terrorizzato, come se fosse il peggiore
dei suoi incubi.
Derek lo fissò in modo criptico, a giudicare tutte le
sue scelte. «È questa la tua ritrosia? È assicurata anche la mia».
«Ah» non che cambiasse davvero i fatti, si sarebbe
sentito responsabile comunque.
«Desidero tanto un muffin» richiese Erica spigliata,
scavalcando il turno di Derek e sistemandosi al suo fianco sul bancone. «Al
cioccolato».
Stiles sorrise, avendo imparato preventivamente i suoi
gusti e precipitandosi a prendere il dolcetto nell’apposita teca, afferrando un
piattino e sistemato un tovagliolino brandizzato sul fondo in cui adagiò il
muffin. «Servita».
Erica uggiolò contenta e Stiles le regalò un altro
sorriso, prima di girarsi e trafficare con la macchina del caffè, tra tubicini
e tasti, prendendo una tazza di una dimensione e forma che mise in allarme il
licantropo. «Stiles, che stai combinando?».
«L’hai detto tu: siete le mie cavie» gli ritorse
contro il figlio dello sceriffo, le curva beffarda sulla sua bocca, mentre
trafficava con la schiuma.
«Non posso nemmeno scegliermi la bevanda?» domandò
retoricamente lo studente di letteratura, aggrottando la fronte e indurendo lo
sguardo.
«No» rispose prontamente la matricola, poggiando la
tazza fumante sul bancone di fronte al cliente scontento, prendendo il bricco
il cui era contenuto il latte. «Se non posso esercitarmi con voi, non posso
farlo con nessuno».
Derek rimase in silenzio a seguire ogni movimento
dell’umano con gli occhi, le movenze ancora acerbe che cercavano di dare il
risultato migliore. Era immerso ed impegnato Stiles, la lingua che si leccava
le labbra per la concentrazione. «Ecco a te».
«Un cuore?» non è che suonasse propriamente
inorridito, ma non era lusinghiero. Vi era un cuore creato dalla schiuma e dal
latte aggiunto su un cappuccino che non avrebbe mai ordinato in vita sua. Non
era perfetto, ma aveva il suo fascino.
«È il più facile» si giustificò Stiles, poggiando il
contenitore ormai vuoto di liquido bianco dal suo lato del bancone, aspettando
speranzoso che il mannaro bevesse ciò che gli aveva preparato. «Un giorno
riuscirò a creare una foglia».
Derek non fece domande, ma Stiles si prodigò a
poggiare davanti a lui un piattino con l’apposito tovagliolino, adagiando un
cookie alle nocciole. «Offre la casa» e si esibì in uno dei suoi sorrisi più
belli.
«Non penso ti possa permettere certe libertà» graffiò
la creatura della notte, tuttavia non era per niente stupito di come Stiles
fosse Stiles in ogni ambiente.
«E dai, Sourwolf, fammi felice» la matricola assunse
la posa da cucciolo supplicante, ma gli angoli della bocca erano curvati
all’insù e stava soltanto aspettando.
«È lo scopo della sua vita» dichiarò la studentessa
d’arte, mentre mordeva con eleganza il suo prezioso dolcetto al cioccolato.
Derek la trucidò con lo sguardo, ma né lei né Stiles
si scomposero, al contrario quest’ultimo continuava ad essere in fremente
attesa e il mutaforma si ritrovò a sospirare dentro di
sé, approcciandosi a sorseggiare il cappuccino. «Passabile».
Stiles sorrise come se fosse il sole e gli avesse
fatto un complimento enorme e Derek affondò nuovamente nella tazza.
«Lo voglio anch’io un cappuccino con il cuore» pretese
la lupa mannara con entusiasmo, battendo le dita sul banco a dettare il ritmo.
Stiles glielo preparò in poco tempo. «È buonissimo, Stiles» Stiles regalò anche
a lei un cookie classico come premio. Poi fu richiamato a servire altri
clienti.
«Lo farà fallire questo posto se continua a regalare
biscotti» proferì il capitano della squadra di basket quando il figlio dello
sceriffo si allontanò, osservandolo essere educato e servizievole con chiunque
richiedesse i suoi servigi.
«Andiamo, Stiles è attento a queste cose» lo rabbonì
Erica, godendosi il suo cookie faticosamente ottenuto. «Voleva essere gentile
con le sue persone preferite».
Derek meditò non convinto, ma la mannara era allietata
e quindi c’era poco da ribattere.
Un quarto d’ora dopo il lupo completo si presentò alla
cassa, richiamando l’attenzione di Stiles. Non attese nemmeno che gli
presentasse il conto irrisorio. «Derek» c’era un rimprovero ben udibile nel
nome a cui diede voce, fissandolo dritto nelle iridi boscose. «È troppo».
«Esiste la mancia» gli ricordò il licantropo, come se
ne avesse seriamente bisogno.
«È troppo anche per essere una mancia» Stiles teneva
le banconote in mano, era indeciso su cosa dovesse provare prima. «La mancia è generalmente
del venti percento e non ti ho nemmeno servito al tavolo».
«Sto pagando un servizio» disse Derek con precisione,
eloquente. «Questo è il valore che gli do».
Stiles rimase fermo a fissarlo, il tempo che
trascorreva, non gli interessava affatto se la fila degli ordini si allungava.
«Non posso accettarli» tra le dita scartò la maggior parte del denaro che Derek
gli aveva passato, trattenendo soltanto il prezzo del cappuccino che gli aveva
preparato, non permettendogli altra scelta. Depositò i dollari sull’incavò
apposito, spingendoli verso il mannaro.
Derek li riprese con sé e li osservò per qualche
momento. «Va bene» ma non li posò nel portafoglio in cui erano contenute tutte
le sue carte di credito, si diresse semplicemente nella direzione opposta,
raggiungendo l’altra barista. «Ciao».
«Ciao» Tracy fu presa alla sprovvista,
ritrovandosi qualcuno che non si aspettava affatto di incontrare ed interagire
con lei. Incespicò perfino nell’unica parola che era riuscita ad emettere.
«Questi sono per te, per il tuo impegno» proferì Derek
con disinvoltura, il suo fascino seduttivo che prendeva il sopravvento.
«Ah, grazie» era una specie di punto interrogativo,
Tracy si trovava in seria difficoltà e accettò il denaro che Derek Hale, il
famoso capitano della squadra di basket, le stava offrendo.
Stiles li guardò per tutto il tempo congelato, gli
occhi sgranati e sgomenti. «Cosa sta facendo?» domandò all’unica persona che
era rimasta nelle sue vicinanze.
«La persona civile» disse Erica con divertimento, la
bocca scarlatta che si godeva la scena.
«Quello non è essere civile» la contradisse il figlio
dello sceriffo, fissando ostentatamente Derek che consegnava la mancia
eccessiva tra le mani della sua collega. «Accidenti, si è appena presa una
cotta per lui» Stiles lo vide accadere davanti ai suoi occhi, il momento esatto
in cui Tracy impallidiva davanti a Derek e ne veniva conquistava subito dopo, a
quel gesto di carineria che non si era aspettata di assistere né tantomeno di
esserne la protagonista.
La mutaforma rise senza controllo, godendosi tutti gli
aspetti di quegli eventi inaspettati. «Cosa ti avevo detto su Derek?» riprese
il controllo, dirigendo tutta la sua saggezza verso la sua persona. «Avresti
dovuto accettarli. Non voleva farti la carità o offenderti, lui agisce così e
basta».
«Non sono offeso» il modo in cui agisce è anche per se stesso. «Continua a non sembrarmi corretto».
«Stiles» l’umano fu richiamato da Tracy
che si era precipitata a raggiungerlo nel momento in cui Derek si era
congedato, lasciando il Crescent
Moon
dietro di sé e interrompendo qualsiasi cosa Erica avesse voluto aggiungere. «Il
tuo ragazzo mi ha appena sommerso di una generosa mancia. Non l’ho servito
nemmeno io!» era attonita e l’esclamazione non era riuscita a trattenerla,
forse aveva seguito il Bianconiglio senza rendersene conto.
«Non è il mio ragazzo» articolò piccato Stiles. Era
una vera eresia. Cominciava a stancarsi della gente che credeva che tra lui e
Derek ci fosse qualcosa che andasse oltre un sano rapporto platonico. Un
rapporto che andasse oltre gli occhi di chi li guardava.
«Ah, davvero?» Tracy lo scrutò inebetita,
le palpebre che si abbassavano e aprivano più volte, incapace di credergli.
Osservò le banconote che teneva ancora in mano e la figura che si era defilata
con passo felpato, a non essere rintracciato o ricordato, ma era impossibile
dimenticarlo. «Interessante».
«Interessante?» c’erano degli
interrogativi che volteggiavano intorno a lui, poteva quasi vederli, come
percepiva del pericolo dietro l’angolo.
Tracy si sistemò nella tasca dei jeans la
mancia che il playmaker gli aveva lasciato, quasi ignorandolo. «Forse, invece,
lui vorrebbe esserlo».
La barista sganciò una bomba che mai
Stiles si sarebbe aspettato di udire. «Cosa?».
La studentessa di criminologia sparì dalla
sua vista, le labbra furbette ed Erica ridacchiò illuminata, protendendosi
verso l’umano sgomento ed atterrito e scioccandogli un bacio rumoroso sulla
guancia più vicina. «Buon lavoro, Cappuccetto».
Stiles rimase frastornato per un lasso di
tempo considerevole, interrogandosi sull’autenticità dei fatti accadutasi, in
dubbio se avesse assistito all’ennesima illusione manifestata dalla propria
mente.
Stiles era rientrato nell’appartamento di
Derek con il tintinnio delle chiavi che spezzavano il silenzio, lo spazio
davanti a sé completamente lasciato al buio, la necessità di dover chiudere a
doppia mandata la porta, perché non sarebbe rincasato nessun altro ed era
inutile lasciarla in un limbo. Quando accese la luce, l’interruttore più vicino
all’entrata, lo accolse il vuoto e procedendo avanti la sensazione si
ramificava.
Non c’era il mazzo di chiavi di Derek
nell’apposita ciotola, oggetto in cui depositò il suo, nel bagno mancavano
alcuni dei prodotti di igiene personale del lupo, più altri di uso giornaliero,
il letto era immacolato e le lenzuola erano state sistemate quella stessa
mattina, ma vi era un solco sul materasso, punto in cui probabilmente Derek
aveva poggiato o il borsone sportivo o il piccolo trolley che usava in quelle
occasioni. Le tende che coprivano e isolavano l’ala da notte con il guardaroba
non erano state tirate bene, alcune parti risultavano scoperte, segno che il
mannaro si fosse mosso in fretta e non avesse potuto dargli l’attenzione
maniacale che in genere lo caratterizzava.
Quando giunse in cucina Stiles sospirò, vi
era un solo bicchiere nel lavello, tutto il resto sembrava essere stato
sistemato negli appositi scompartimenti o dentro la lavapiatti che da quanto
aveva compreso, utilizzava molto di più da quando la sua presenza era entrata
nel quotidiano di Derek.
Stiles si cambiò, indossando qualcosa di
più confortevole, cercando di scrollarsi di dosso la stanchezza della giornata,
preparandosi di malavoglia un panino e accendendo la televisione a schermo
piatto che ogni stanza e appartamento del campus aveva in dotazione. Smanettò
con le varie applicazioni esterne, i servizi streaming che Derek aveva messo a
disposizione e di cui entrambi beneficiavano. Era una buona soluzione non dover
digitare la password ogni singola volta e ancora di più che non necessitasse del
licantropo per quel tipo di attività. Sarebbe stato un punto di non ritorno se
Derek gliele avesse comunicate per semplificargli il suo soggiorno lì e Stiles
era stato piuttosto severo sul non volerle scoprire da sé, com’era al contrario
sua abitudine.
Dopo aver scelto un film a caso senza
prestargli particolare attenzione, ma più propenso a volersi addormentare,
terminò di riempire la lavastoviglie e l’avviò, per poi dirigersi verso il
bagno dove si spogliò della stanchezza e malinconia, con l’acqua che scorreva a
cancellare ogni evento di quel giorno non diverso da tanti altri, ma che era
più pieno per via del suo part time alle prime armi. Si avvolse dentro il
pigiama e si rotolò tra le lenzuola, posizionandosi esattamente al centro del
materasso, a godersi la sensazione di averlo tutto per se
stesso.
«Ciao, Derek» il capitano lo chiamò
diversi minuti dopo, lo schermo luminoso che inquadrava Sourwolf,
l’icona dell’app che faceva capolinea, ad indicare una videochiamata imminente.
«Vi siete sistemati?» domandò mentre sbirciava attraverso la telecamera, in
cerca di indizi che gli suggerissero dove fosse.
«Adesso sì» Derek gli inquadrò velocemente
i piedi del letto e la scrivania posizionata ad un metro di distanza, lo
schermo spento piantato sul muro che si reggeva attraverso un supporto che
Stiles non riusciva a vedere, per poi ritornare su di sé. Indossava come
tradizione soltanto i pantaloni del pigiama, il petto rigorosamente scoperto ed
era ancora umido, per via della doccia in cui sicuramente si era rinchiuso
prima di chiamarlo. Era illegalmente attraente perfino attraverso una
fotocamera frontale, che di norma non era gentile con nessuno; lo trovava
infinitamente ingiusto. «Com’è andata la tua giornata?».
«Mi sono stancato» gli comunicò, uno
sbadiglio che tardò a coprire completamente, la luce soffusa sul comodino che
lo illuminava. «Che è esattamente quello che mi serviva».
«Non devi essere preoccupato» proferì
Derek a rasserenarlo, anche se l’umano tentava di non far notare quanto fosse
turbato. «Ho dato le chiavi ad Erica».
«Credo tu abbia fatto una pessima
valutazione» le labbra di Stiles si distesero in un sorriso ampio, era
intrigato. «Non te le ridarà mai».
«Cambierò la serratura» la risolse con
semplicità Derek, mentre si aggiustava uno dei tanti cuscini bianchi dietro la
testa. «L’ho già cambiata il primo giorno che sono arrivato qui. Bisogna sempre
cambiare la serratura di un locale, che sia in affitto o acquistato, non sai
chi potrebbe possederne le chiavi e ritrovarti in casa».
«Perché, puoi farlo?» le iridi mielate si
ingrandirono, disturbate da una nozione che contrastava quelle di cui era
precedentemente in possesso. Era una lezione interessante su cui non aveva mai
riflettuto, probabilmente perché era lui quello che generalmente aveva copie di
chiavi che non avrebbe dovuto avere.
«Se pago di tasca mia, posso fare tutto»
rispose schiettamente il lupo nero, a sottolineare che non esisteva qualcosa di
impossibile.
Beh, aveva un certo senso, in qualche modo.
La legge dei privilegiati contro tutti gli altri. «C’è scritto questo sul
contratto?» lo punzecchiò il figlio dello sceriffo.
«Pressappoco» snocciolò il suo
interlocutore, non lasciandosi sopraffare dalla volpe subdola che lo teneva
incollato al cellulare e Stiles ridacchiò di cuore, il viso che scacciava
quell’aria oscura che capeggiava su di sé.
«E cosa si fa con la vecchia serratura?»
era considerato vandalismo la sua sparizione?
«Si conserva e poi, prima di lasciare
l’abitazione, si rimette al suo posto» era facile, era un’accortezza
fondamentale.
«Dovrei ricordamelo per il futuro» il
figlio della massima autorità di Beacon Hills dubitava che quelle regole
valessero anche all’interno di un dormitorio, il che rendeva tutto molto
precario e poco sicuro. Doveva aggiungere anche quell’ulteriore senso di
protezione e sicurezza nell’essere, nolente, costretto a passare le notti
nell’appartamento a prova di irruzione del capitano.
«Stiles» lo articolò il mannaro nel
captare la direzione più nebulosa e afflitta in cui i suoi pensieri stavano
scivolando. «Funzionerà. Basta che lasci sempre la chiamata aperta».
La matricola si morse il labbro inferiore,
la punta di un canino che fuoriusciva agitato. «E se cadesse la linea? Si
scollegasse tutto?».
«Ti richiamerò» disse Derek pronto, la
soluzione ad un problema già concordato. «E continuerò a chiamarti finché non
risponderai. E se non dovessi mai risponde, butterò giù dal letto Erica».
«Mh» Stiles non
era particolarmente entusiasta di quell’idea, il coinvolgere altre persone nel
suo problema, nella soluzione che Derek si era rivelato per lui. Ma se il nato
lupo non era nemmeno nello stesso stato e li separava perfino un’ora di fuso
orario, non c’erano granché alternative e ne erano consapevoli entrambi.
Tuttavia, era qualcosa che non riusciva a digerire.
«Andrà bene» lo rincuorò il giocatore di
basket, la voce che si faceva più calda. «Sei migliorato molto».
Stiles avrebbe voluto ribattere con un
pensiero che lo angustiava, ma se lo tenne per sé e lo cacciò nelle retrovie
della mente. «Halloween è la tua festa preferita?» Stiles era un vero mago dal
passare da una conversazione all’altra e proprio per questa sua caratteristica
aveva dirottato su altro quasi immediatamente, immergendosi su qualsiasi tema
la sua mente fosse attraversata e Derek gli andava silenziosamente dietro ad
esortarlo, rispondendo e condividendo spazzi di vita, il minutaggio della videochiamata
andava ad assommarsi.
«Perché lo chiedi?» fu costretto il
playmaker a rigirare la domanda, a tentare di seguire le sue macchinazioni.
«Ho questo ricordo di te, in cui ti
aggiravi per la città disinteressato e non particolarmente coinvolto, ma ogni
volta che incontravi dei bambini con i loro costumini e il secchiello per i
dolci in cerca di altri, attirando la tua attenzione, tu li spaventavi in
qualche modo e gli scatenavi degli urletti tanto carini» snocciolò il figlio
dello sceriffo, l’aria sognante ed intenerita. «Scappavano ogni volta, ma erano
felici quando si rendevano conto di essere sopravvissuti alle tenaglie del
misterioso essere che avevano incontrato, pieni di adrenalina ed elettrizzati
per l’avventura appena vissuta. Gli davi ciò che desideravano e tu sorridevi
sempre» caratteristica che con il tempo era svanita fino a estinguersi,
soltanto nelle notti di Halloween Derek si lasciava andare. Era anche vero che
Stiles avesse notato come riuscisse a strappargli uno di quei sorrisi di tanto
in tanto. Erano perfino aumentati nei due mesi che avevano trascorso in
reciproca compagnia.
«Quando sarebbe successo?» domandò il
licantropo qualche attimo più tardi, ad assimilare la descrizione appena udita
e attribuirgli un contesto. Era in bilico.
«Sempre» proferì Stiles in una mezza
domanda e affermazione, non sapendo bene dove collocarla.
«Definisci sempre» esigette più
precisamente la creatura della notte.
«Ah» esclamò l’umano colpito, a mettere
insieme i tasselli. «Non sono entrato a conoscenza della tua persona a quindici
anni. Non passavi inosservato».
«Ma davvero» lo stuzzicò Derek, le iridi
di giada accese di interesse.
Stiles sbuffò piccato, il telefono che
veniva spostato di mano in mano per non gravare eccessivamente su una
specifica. «Io osservo» era l’unica spiegazione da dare.
«Lo so che osservi» concordò il nato lupo
con tono profondo, fin troppo conoscitore di quell’aspetto. «Altrimenti non
saresti così bravo a smascherare le persone».
Stiles si mutò e rimase ad osservarlo
attraverso lo schermo per qualche momento, non sapeva decifrare bene cosa Derek
gli stesse comunicando. Anche il mannaro era un abile osservatore, era una
caratteristica da non prendere sottogamba. «Allora, è la tua festa preferita?».
«Immagino lo sia, se hai necessità di
dargli una collocazione» la semplificò il mutaforma,
dando a Stiles ciò che agognava. «Posso essere chi sono davvero senza
nascondermi».
Era vero. Si rese conto che i piccoli di
Beacon Hills rientravano tra i pochi eletti a conoscere il reale colore degli
occhi di Derek, in qualche modo gli scaldava il petto. Era un segreto che non
avevano condiviso con nessuno. «Il lupo più bello del pianeta» dichiarò con
certezza, credendovi ciecamente. Derek lo fissò annoiato, ma Stiles non si
lasciò scoraggiare. «Sarebbe divertente se riuscissi a tornare in tempo,
domani. Potremmo andare in giro con te sottoforma di lupo e io con un bel
mantello rosso».
Stiles era in visibilio e Derek alquanto
contrariato. «Vuoi solo sfoggiarmi».
«Certo che sì» esclamò Stiles con enfasi,
illuminandosi tutto. «Chi non vorrebbe sfoggiare quel lupo bellissimo».
Derek soffocò un ringhio oltraggiato,
giudicandolo apertamente. «Non farò mai una cosa simile».
Le guance della matricola si gonfiarono e
gli occhi di inumidirono. «Sei un distruttore di sogni».
«Hai altre fantasie da condividere?»
ammiccò senza pietà il capitano della squadra di basket, immune al broncio
dell’umano.
«Non condividerò più nulla con te,
Sourwolf» si indispettì Stiles, l’offesa dipinta su ogni tratto del suo viso e
le labbra di Derek si arricciarono accennate di riflesso.
«Mio padre aveva ricominciato a guardarsi
in giro» ovviamente Stiles non era un tipo che riusciva a vincere una sfida al
gioco del silenzio e non impiegò molto a riprendere la parola, a dare voce a
tutto quello che aveva dentro la testa. «Si è anche tolto la fede. In un primo
momento avevo faticato a capire cosa fosse cambiato in lui, che fosse
finalmente arrivato alla conclusione che poteva andare avanti e ricominciare.
Il giorno prima indossava l’anello e il giorno dopo non c’era più» non gli
aveva mai chiesto se fosse stata una cosa graduale o se semplicemente suo padre
avesse fatto quella scelta ponderandola.
«Ti ha infastidito?» domandò Derek a
seguire la linea dei pensieri che si andava a formare.
«No. Insomma…» Stiles si trovava in
difficoltà, non sapeva argomentare esattamente ciò che aveva dentro. «Che senso
avrebbe avuto opporsi? Lei non era più con noi già da prima che ci lasciasse
definitivamente. È trascorso tantissimo tempo ed è giusto che vada oltre».
«Non importa quanto tempo si frapponga, tu
sei ancora ferito» la verità Derek la disse come se sgorgasse un fiume
impossibile da trattenere, a dispetto di quante dighe naturali o artificiali si
potessero creare.
«Non sono ferito da lui» proferì Stiles
con un sussurro, rotolandosi sul letto e cambiando posizione, il capo che
affondava meglio sul guanciale.
«Lo so» certi traumi non potevano essere
superati, il mannaro ne era un esperto ed entrambi portavano le loro cicatrici.
Stiles sospirò, il telefono che cercava di
incastrare su uno degli altri cuscini per far riposare le mani e usare come
leggio. Una leggera pausa scese a farli respirare, a far attecchire quei
pensieri che non ne volevano sapere di andare via. «Credo abbia smesso» rivelò
a continuare tutti quegli aneddoti di cui Derek era stato privato. «Dopo quella
brutta fotocopia di mia madre, ha subito una specie di battuta d’arresto. Non
lo so, forse anche lui è bloccato».
«Anche lui?» gli fece verso il licantropo,
la nota severa e di rimprovero che riecheggiò.
«Fa conto che non abbia detto niente» accidenti,
perché a volte si dimenticava di dover dosare bene le parole con Derek? Gli
veniva estremamente naturale parlare con lui, anche eccessivamente troppo.
«Quel pigiama, è quello che penso io?» il
playmaker non continuò a bersagliarlo, gli concesse una tregua e si concentrò
su altro, su qualcosa che aveva catturato la sua attenzione quasi subito, ma
che aveva tardato ad annotare.
La matricola direzionò leggermente la
testa verso il basso a rinfrescarsi la memoria. «Sì» spostò meglio il
ricevitore, la telecamera interna che inquadrava meglio il misfatto. «Mi ha
completamente rapito».
Infelice scelta di parole, avrebbe
esternato Stiles in sua vece. La piccola volpe estasiata dai suoi palloncini
che la tenevano sospesa nel vuoto troneggiava indisturbata nell’inquadratura
maldestra, con protagonismo. «Sei senza speranza» c’era un angolo sporco nella
sua bocca, arricciato verso l’alto.
Stiles sorrise apertamente al divertimento
nascosto del suo interlocutore, l’obiettivo che tornava a renderlo dominante.
«È come se fossi qui. Una parte di te, perlomeno».
Derek serrò la bocca, come se dovesse
assimilare ciò che Stiles aveva proferito, collocarlo da qualche parte, trovare
le parole con cui rispondere. «È così importante?» io lo sono?
«Sì» affermò con certezza il figlio dello
sceriffo, un arto superiore che andava ad abbracciare il cuscino prediletto,
portandolo a girarsi di conseguenza a pancia in giù. «È il modo in cui mi sento
più protetto. Sto reagendo, credo».
Derek non dissentì, non cercò neanche di
disilluderlo o fargli cambiare idea; se sulla psiche di Stiles aveva
quell’effetto, il lupo non gli avrebbe remato contro.
«Sai» continuò Stiles di punto in bianco,
perché rimanere con la bocca tappata per più di un minuto gli era
diagnosticamente impossibile. «Papà ha frequentato per un po’ la madre di
Lydia. Romanticamente» perché specificarlo era essenziale.
«Ah» Derek non riusciva a collocale la
notizia. «Questa non me l’aspettavo».
«Nemmeno noi» non li avevano minimamente
informati, non sapevano neanche avessero interagito in qualche occasione che
non fosse risalente al secondo anno, quando Lydia si era rivelata essere una
banshee. «Forse era un segnale sulla nostra incompatibilità futura».
«Credi a queste cose?» Derek ne era
alquanto sorpreso e non l’apprezzava particolarmente.
«Ho visto tante cose, assistito ad altre
ancora e ne sono stato il fulcro, non ci sarebbe nemmeno nulla di strano» non
era una nota positiva, non pensava ce ne fossero.
«Sei più cinico di quanto ricordarsi»
rivelò a voce alta la creatura leggendaria, il viso che si incupiva. «Una volta
eri più positivo, anche davanti alle avversità peggiori».
«La positività fatica ad emergere,
probabilmente si è armata di bagagli ed è fuggita nella notte» quell’idea così
strampalata e tipica di Stiles scatenò in entrambi dell’ilarità, in fondo il
suo sarcasmo non ne aveva risentito. «Chissà se mio padre ha mai realizzato ci
potessero essere delle conseguenze».
«Non stavate insieme» ragionò il capitano
della squadra di basket ad alta voce, ad esternare le sue macchinazioni.
Trovava anche difficile riuscire a collocare tutto nel corretto ordine
cronologico.
«No» confermò lo studente di criminologia,
le ipotesi che si affaccendavano davanti agli occhi. «Ma lui ha sempre saputo
quanto fossi innamorato di Lydia. Da quanto lo fossi. Perché fare una scelta
del genere? Mi aveva dato per spacciato?».
Stiles era agitato, anche leggermente
adirato perché non comprendeva cosa avesse spinto suo padre verso quella
direzione. «Lo eri».
«Ehy!» esclamò offeso il figlio dello
sceriffo, l’oltraggio evidente sui suoi tratti facciali. «Ho dimostrato il
contrario».
«Non sapevo fosse una sfida che dovevi
vincere» lo ribeccò con sarcasmo la creatura della notte.
«Ora mi stai attaccando» si imbronciò
l’umano, le guance gonfie per l’offesa.
«Probabilmente gli piaceva o pensava gli
piacesse, un’opportunità» deviò abilmente Derek, a tentare di far ampliare la
visione del suo interlocutore, disteso su quel letto gigante da solo. Un letto
che non era nemmeno il proprio. «D’altronde avevano molte cose in comune, non
credo che la lista da cui scegliere sia molto lunga».
«Due figli pazzi?» lanciò la domanda
retorica Stiles, la realtà che li schiaffeggiava.
«Non sei pazzo» negò immediatamente Derek,
il tono grave, la fronte contratta. Non gli piaceva dove stesse puntando la
conversazione, il modo in cui Stiles la stesse manipolando. «Non lo è nemmeno
lei».
«Buffo, non è quello che la gente pensa»
proferì Stiles con amarezza, le memorie che tornavano completamente indietro,
come se le stesse vivendo in quel momento. «È così che siamo stati trattati
all’Eichen House».
Stiles si era ricoverato volontariamente
dentro l’ospedale psichiatrico, ai tempi in cui non era sicuro di sé e la volpe
gli sussurrava nelle orecchie, avendo il controllo sul suo cervello e sul
corpo. Stava cercando di capire chi fosse, stava tentando di trovare una
soluzione da solo e svelare il mistero che si celava dentro quella mente che
giocava con lui. Lydia invece era stata rinchiusa per volere di sua madre, ai
tempi dei Dottori del Terrore, erano quasi arrivati ad un passo dal
lobotomizzarla. Era stato un incubo ad occhi aperti per entrambi, con
conseguenze che si portavano ancora dietro. «Quel posto è marcio, non dovresti
considerarlo. Mai».
Stiles affondò il viso sul cuscino,
scappando agli occhi attenti di Derek che combattevano le sue battaglie anche a
chilometri di distanza. Era faticoso, non lo voleva così lontano. «Le ho detto
di amarla» soffiò come se non credesse nemmeno lui che fosse stato possibile,
la bocca ovattata dal cotone, le iridi d’ambra che tornavano a scorgere il
lupo. «Quando ho capito che i Cacciatori Fantasma stavano venendo a prendermi,
che il processo era già iniziato. Non mi rimaneva più tempo, non sarebbe
rimasto niente di me. Ho pensato, creduto, che almeno quello sarebbe potuto
sopravvivere. Non è andata così».
Derek trattenne il respiro nei polmoni e
nello schermo si mostrò una notifica di un messaggio, ma la ignorò, come aveva
ignorato quelle precedenti e sicuramente successive. «Era vero?».
«Forse. Non lo so. È complicato» Stiles
sospirò di frustrazione, i piedi che si agitavano sul materasso. Si alzavano e
si abbassavano, in un ritmo tutto loro. «Lo era stato, credevo lo fosse anche in quel momento. Avevo bisogno che qualcosa
attecchisse, che non potesse essere cancellato. Un solo messaggio, uno
qualsiasi. Non so nemmeno se fosse rivolto a lei o se fosse rivolto a tutti.
Lei era l’unica che riuscisse ancora a ricordarsi di me e non vedesse uno
sconosciuto che farneticava» fece scemare la voce, quasi ad aver messo un punto
fermo. «Quindi è colpa mia?».
«Cosa è colpa tua?» Derek non riusciva più
a seguirlo, per quanto avesse compreso i suoi tormenti.
«Lydia ha ricambiato quell’amore che ho
costruito e serbato per circa dieci anni. L’ha fatto quando io non ero nemmeno
in questa dimensione» articolarlo era faticoso, argomentarlo e smontarlo gli
richiedeva energie. «Mi sono innervosito perché lei lo aveva dato per scontato.
Aveva dato me per scontato, quando non erano nemmeno riusciti a mantenere il
mio ricordo. Ha supposto fossi ancora il bambino di otto anni che stravedeva
per lei, il ragazzino e adolescente che sbandierava il suo amore per lei. Niente
cambiamenti, niente ripensamenti, per lei ero rimasto invariato. Quello che
provavo per lei era rimasto invariato. Ma non lo era; era, è, cambiato tutto.
Se mi soffermo a pensarci, provo una rabbia incontrollabile. Non voglio essere
un porto sicuro per chi ha dei ripensamenti o è improvvisamente consapevole di
chissà quale verità» si stava quasi sgolando, ma Stiles aveva bisogno di
esternare tutto il malessere che aveva all’interno e che lo bersagliava.
Respirare autonomamente non gli risultava sempre gratificante, a volte aveva
bisogno di ripeterselo nella mente. «Ma se lei mi avesse dato per scontato
perché le avevo confessato quelle parole? È qualcosa che ho scatenato io».
«Stiles, non è colpa tua se il tuo sogno
si è infranto» Derek lo annunciò quasi a rompere la barriera dietro cui Stiles
si era nascosto. La voce era avvolgente e la matricola poteva quasi illudersi
di averlo lì accanto a lei, tattile, pelle contro pelle, organismi che
percepivano la temperatura corporea dell’altro. «A volte i tempi non
coincidono, non si incastrano. Per quanto si voglia far funzionare le cose, non
è possibile. Questo è stato il tuo caso».
Stiles dovette aspirarle quelle parole e
successivamente espirarle, farle diventare ossigeno per il lasso temporale di
cui aveva bisogno per depurarsi. «Qual è il tuo caso, invece?».
Derek inclinò il viso per scrutarlo
meglio, imperturbato dalla sua invadenza. «Ora stai tergiversando».
Il figlio dello sceriffo mugugnò
contrariato, animato dal non voler essere smascherato. «Non è vero».
«È tardi» fece scoccare l’ora il mutaforma, l’orologio che parlava chiaro, insieme al
minutaggio che lo smartphone surriscaldato segnalava per quella videochiamata
interminabile. «Devi dormire».
«Non voglio farlo» si lagnò il
diciannovenne, sentiva una presa che si serrava intorno alla gola.
«Lo so» convenne Derek, conoscitore del
suo terrore. «Ma devi provarci».
«Rimarrai davvero tutta la notte con me?»
chiese in un ulteriore sicurezza. Anche se Derek aveva comunicato il suo piano
prima di procedere con il preparare i bagagli, Stiles non era comunque
tranquillo. Non vedeva come potesse andare tutto liscio.
«Sì» confermò il licantropo irremovibile,
lo smartphone che cambiava inquadratura. «Metti in carica il telefono dove
possa vederti».
«Ti ho già detto che è una cosa
inquietante da dire?» domandò retoricamente l’umano, mentre simulava un brivido
fasullo.
«Ogni volta» ma a Derek poco interessava
come potesse risuonare.
«Devi dormire anche tu» gli fece ben
presente lo studente di criminologia, anche se si era già mosso per prendere il
cavetto e collegarlo nell’apposita entrata. «Devi vincere la partita di
domani».
«Dormirò» lo rassicurò il mannaro con
leggerezza, piuttosto certo di aver ripetuto anche quello in varie occasioni.
«Principalmente devo avere gli strumenti per poterti sentire».
E poi controllare se qualcosa non gli
quadrava. «Questo non presagisce un sogno restauratore».
«Ho sempre i sensi attivi, Stiles» non era
nulla di nuovo per lui.
«Sì» che vita era quella di Derek Hale?
Braccato continuamente da minacce e dai fantasmi del passato. «Vincila davvero
questa partita, Der. Non farti suggestionare da me».
«Non ho intenzione di perdere» dichiarò il
giocatore testardo, irremovibile. Non era una preoccupazione che doveva
angustiare Stiles, Derek dava tutto se stesso in ogni
singola giocata. «Buonanotte, Stiles».
«Notte, Sourwolf» Stiles gli riservò un
sorriso intenerito pieno d’affetto e poi cercò di farsi catturare dalle grinfie
di Morfeo.
Stiles si svegliò di soprassalto, era
agitato ed affaticato, si sentiva esausto anche se tecnicamente aveva dormito
per tutto il tempo. Si tastò come per accettarsi che fosse tutto intero e
l’urgenza lo portò a cercare il telefono sull’unico comodino della zona notte.
L’abatjour era spento, lo smartphone non era più in carica e lo schermo era disattivato,
nessuna videochiamata in atto.
Si apprestò a prenderlo in mano,
costatando che fosse acceso, ma l’app per le videochiamate si era chiusa e
segnava tre chiamate senza risposta da parte di Derek. Non c’erano messaggi
aggiuntivi o altri segni particolari, sembrava tutto stranamente tranquillo e
gli venne il sospetto che il lupo fosse con lui da qualche parte, ma il letto
era vuoto, nessun segno di un’altra presenza, però ne avvertiva l’intrusione.
Ebbe bisogno di andare in bagno per darsi
una rinfrescata, risvegliare completamente le sinapsi che faticavano a
carburare, riprendere coscienza con il mondo, liberare gli occhi che sentiva
appiccicosi e secchi. Almeno lì si lasciò confortare da movimenti automatici e
quotidiani senza osservarsi troppo intorno.
Socchiuse piano la porta quando terminò,
lasciando un piccolo spiraglio consapevole che ci sarebbe tornato più tardi per
completare le sue abitudini mattutine, percorrendo con adagio il corridoio, ma
si pietrificò quando si avvicinò alla cucina. Il tavolo imbastito per la
colazione, il divanetto sotto la finestra era sgualcito e manteneva appena la
forma di una figura che vi aveva soggiornato sopra, insieme ad una coperta di
plaid con piccole stelle e fasi lunari su sfondo blu che era sicuro Derek non
avesse ancora tirato fuori dal suo armadio. C’era anche un bicchiere vicino al
piano cottura, con una bottiglia a temperatura ambiente fuori posto. Stiles non
sapeva come avrebbe dovuto reagire.
«Avevi ragione» il figlio dello sceriffo
sentì una voce femminile familiare oltre la porta d’ingresso, era ovattata e
con la vocalità bassa, presumibilmente con l’intenzione di non disturbare. «Si
fa del male» disse quando la serratura scattò e la porta si aprì, mostrando la
figura di Erica non esattamente al cento per certo del suo splendore
impeccabile, una busta di Starbucks tra le dita che non reggevano le chiavi e
l’altra mano che teneva il telefono incollato all’orecchio. «Mi ha spaventata.
Non l’avevo mai visto in queste condizioni».
Stiles la adocchiò subito fermo nel lungo
corridoio che collegava tutte le varie aree del monolocale, era immobile e
cencio, non riusciva a credere a cosa vedesse e la lupa si arrestò
nell’immediato. «Devo salutarti» annunciò al suo interlocutore telefonico,
mentre premeva sull’icona con la cornetta rossa. «Ciao, Stiles».
Lo studente del primo anno la vide
chiudere la porta e dirigersi verso di lui, direzionarsi verso la tavola ed
estrarre dalla busta di carta della caffetteria diversi muffin e dolciumi. Si
muoveva come se non fosse accaduto nulla, come se la sua presenza fosse sempre
nei paraggi, ma non era vero, Derek non permetteva l’accesso a nessuno. «Hai
dormito qui?» si vide costretto a chiedere, un dito che indicava il divanetto
scomposto, l’allusione alla chiamata che aveva udito. Era inevitabile
comprendere cosa fosse accaduto, a cosa la lupa mannara avesse assistito, come
Derek avesse dovuto contattarla, svegliandola, per urlarle di andarlo a
prendere ovunque si fosse cacciato e ripotarlo nell’appartamento.
«Sì. Ho preferito così» indorare la
pillola non aveva alcun senso con Stiles, le avrebbe comunque strappato la
verità ed era bravo nel farlo, come odiava chi la celava.
Il figlio dello sceriffo guardò lei e poi se stesso, gli arti superiori in cerca di tracce, notando
invece per la prima volta l’assenza delle volpacchiotte allegre nei pantaloni
del pigiama troppo lunghi. Erano stati cambiati nella sua ignoranza probabilmente
perché troppo infangati a causa della sua camminata senza meta. Aveva detto che
si era fatto del male, ma nemmeno quella volta trovava dei segni su di sé, da
nessuna parte; che Derek le avesse spiegato cosa fare? Come agire?
«Hai bisogno di mangiare» proferì la
bionda, aprendo lo sportello del frigo e incontrando tre varietà diverse di
succo di frutta. Rimase indecisa per qualche attimo e alla fine li estrasse
tutti. «Riprendere le energie».
Riprendere le energie era l’ultima cosa di
cui necessitava. «Potresti darmi un minuto?» domandò al vuoto, Stiles non era
minimamente lì con la mente.
«Sì, certo» ma lo studente di criminologia
non aveva atteso un suo responso, si era volatilizzato lentamente sotto il suo
sguardo, il passo incerto.
Stiles si sedette sul letto come se fosse
un automa e cercò alla ceca lo smartphone, digitando varie applicazioni ed
aprendo la chat che condivideva con Derek. Il nome Sourwolf faceva
capolinea in alto, l’icona con la sua immagine accanto: era la triscele tatuata
sulla sua schiena. Si era sempre chiesto chi gliel’avesse fotografata.
Non risultava online, non c’era l’orario
dell’ultimo accesso perché era la prima cosa che aveva disattivato quando aveva
cominciato a usare quel tipo di tecnologia; per Stiles era il tratto
indistinguibile della sua personalità riservata. Con le mani tremanti ed
impacciate digitò sulla tastiera touch, cancellando varie volte perché
continuava a sbagliare la composizione corretta delle parole. Sto bene,
gli inviò. Era di una banalità sconcertante, non era accettabile che avesse
impiegato tutto quel tempo e commesso quella serie interminabile di errori per
una cosa simile.
Lo smartphone gli vibrò in mano
esattamente trenta secondi dopo, lo schermo che si illuminava a segnare un
nuovo messaggio in entrata.
Stiles era agitato, il cuore batteva
all’impazzata e con le dita scoordinate sbloccò lo schermo e cliccò
sull’avviso, trasportandolo direttamente nella chat privata. Respira era
tutto ciò che Derek gli aveva inoltrato e Stiles si rese conto di quanto avesse
trattenuto il respiro, i polmoni che si agitavano e comprimevano per la
mancanza di ossigeno.
Tirò tutto fuori, si lasciò andare e
l’anidride carbonica si riversò nell’aria, mentre ciò che gli serviva per
vitalizzare gli organi rientrava in circolo. Si sentiva meglio, più leggero.
«Vorrei fossi qui» sussurrò al telefono mentre chinava il capo su di esso e vi
poggiava la fronte. Era il suo unico contatto con il licantropo. Era
incredibile quanto fosse capace di capire di cosa necessitasse anche a miglia e
miglia di distanza; avvertiva la necessità di piangere.
«Ehy, Stiles» si approcciò Erica,
sbirciando attraverso il muro divisorio, a costatare se fosse il caso di
invadere completamente il suo spazio. Lo trovò quasi rannicchiato sul
materasso, provato. «Vuoi che ti lasci da solo?».
L’umano si ridestò e le iridi caramellate
la cercarono cautamente, a disagio dalle emozioni che comunicavano per lui. «Ti
dispiace?» Stiles aveva davvero bisogno di rimanere in solitudine.
«No, certo che no» sparì dalla sua vista e
sentì la copia delle chiavi frizionare con il tavolo, poi tintinnare nella
presa della ragazza. «Riposati un po’, okay?» si raccomandò con affetto,
avvicinandosi per schioccargli un bacio su uno zigomo e scompigliargli subito
dopo i capelli sudati. «Andrà bene».
Quando Erica lo salutò e lasciò dietro di
sé la porta principale chiusa, Stiles decretò che non sarebbe affatto andata
bene se continuava ad essere incapace di occuparsi di se
stesso senza ricorrere ad un aiuto esterno. In quell’occasione ne erano stati
necessari ben due.
Con il cuore pesante e il morale a pezzi,
afferrò con una mano il cuscino personale di Derek e lo strinse forte forte a
sé, distendendosi completamente sul lato del letto del mannaro e affondando la
testa tra le morbide piume contenute nella federa in cui primeggiava l’odore
indiscusso del suo proprietario, terra e selvatico, sicurezza e familiarità.
Con un singhiozzo soffocato, si lasciò
sovrastare dalle avversità e crollò in una fase onirica priva di sogni.
Derek percepiva la presenza di Stiles
nell’appartamento dalle scale, ma non riusciva bene ad identificare in che
condizioni si trovasse né aveva elementi che gli dessero qualche indizio.
Fece scattare la serratura con
moderazione, un tocco delicato che non producesse troppo rumore, e si avviò
verso l’ala che fungeva da zona notte trovandovi l’umano disteso malamente ai
piedi del letto, la testa direzionata verso la finestra, uno dei suoi enormi
libri su argomentazioni spietate che gli era scivolato dalle mani, piegandosi
su stesso in bilico sul bordo.
Derek soffocò un sospiro di sollievo e
adagiò i suoi bagagli per terra, avviandosi per sistemare il volume mal
capitato, tentando di riordinare gli orecchioni che si erano formati e
soffermandosi per qualche momento sulla beltà che difficilmente incontrava sui
tratti di Stiles quando si addormentava.
Poggiò il libro sulla scrivania e estrasse
dall’armadio la coperta con le lune e le stelle che era evidente Stiles avesse
riposto accuratamente dopo l’utilizzo della notte precedente. La dispiegò del
tutto e vi ricoprì il figlio dello sceriffo con parsimonia, senza che quel
gesto potesse disturbare la sua quiete faticosamente ottenuta.
Gli fu difficile non notare come Stiles
ronfasse serenamente sul proprio cuscino personale, mentre sembrava snobbare
quello che si portava sempre dietro, di paese in paese, andando contro se stesso. Le punta delle dita non riuscirono a frenarsi e
gli sfiorarono come un petalo di rosa la fronte scoperta. Stiles emise un
singolo mormorio di apprezzamento.
Derek si vide costretto a tirarsi
indietro, riprendere in mano il borsone e avviarsi verso la lavanderia,
svuotare il contenuto e tentare di avviare una nuova lavata, ma era evidente
che il suo ospite avesse mandato avanti le faccende casalinghe; ciò che aveva
lasciato il giorno precedente in attesa del loro turno, era stato già lavato e
spostato nell’asciugatrice che doveva aver terminato mentre Stiles era stato
rapito da Morfeo.
Il mannaro decise di inserire tutto nel
cestello d’acciaio senza metterlo in funzione, rimandandolo al giorno seguente
come promemoria, ma si dedicò a sistemare e ripiegare gli indumenti che
profumavano di pulito.
La lavapiatti era stata svuotata e sul
lavandino non vi era nulla, se non una tazza e un cucchiaio a creargli degli
interrogativi pochi piacevoli.
Il
tempo scorreva, la sera si stava avvicinando ed era piuttosto sicuro che Stiles
dovesse correre al Crescent Moon prima delle dieci, per iniziare il
turno serale dedicato tutto a Halloween. Non sapeva esattamente come se la
fosse cavata nel poco tempo che era stato lontano, ma non credeva che facesse
una buona impressione arrivare in ritardo dopo pochissimi giorni l’essere stato
assunto.
Derek
vacillò per qualche attimo mentre osservava la bella volpe riprendersi quel
sonno meritato che continuava ad essergli rubato, tergiversando perché gli
appariva come un peccato mortale strapparla da qualcosa di cui necessitava. Con
fermezza pronunciò il suo nome, caldo e morbido, ma Stiles proseguì nella sua
attività restauratrice, costringendo il mutaforma ad
avvicinarsi e quasi sovrastarlo, a chiamarlo con più insistenza.
Stiles
mugugnò in dissenso, la testa che oscillava sul guanciale di Derek di cui si
era appropriato illecitamente, le palpebre che sfarfallavano di scontentezza e
il velo negli occhi che scivolava con fatica. «Derek» borbottò,
le iridi che brillarono quando si resero conto di chi avessero realmente
davanti, gli occhi che si ingrandivano per una maggior consapevolezza. «Sei
qui» il lupo provò a sottolineare l’ovvietà, ma Stiles allungò le braccia e lo
intrappolò, tirandoselo addosso e incastrando la testa tra l’incavo del collo e
la spalla, non avendo alcuna intenzione di allontanarsi da lì.
Il
capitano avvertì tutto il sollievo dell’umano, il suo dolore e stanchezza,
quanto a pezzi si sentisse e necessitasse della sua presenza, quanta solitudine
e smarrimento avesse sperimentato. Il cuore di Stiles era ferito e Derek poteva
quasi sentire le vene gonfiarsi e pulsare, chiamarlo in aiuto e rendergli conto
quanto fosse fondamentale per lui.
La
creatura della notte non riuscì a reagire in alcuna maniera.
Il
figlio dello sceriffo in una patina apatica serviva i clienti, la maggior parte
di loro indossavano travestimenti, vestiti di Halloween di ogni tipologia,
trucchi studiati e su cui avevano perso del tempo, ma c’era anche chi si era
limitato all’essenziale ‒ così com’era accaduto a lui, Tracy in agguato
all’inizio turno che, contro il suo volere, gli aveva disegnato con un eyeliner
nero in penna una ragnatela con annessi piccoli ragni sulla guancia destra,
poco sotto l’occhio ‒, eppure tutti erano su di giri, la musica risuonava
quasi in ogni punto del campus, da dormitorio a dormitorio, e la festa non
sembrava voler volgere al termine.
Stiles
un po’ li invidiava, darsi alla pazza gioia e dimenticare almeno per qualche
ora i problemi sarebbe stato miracoloso per la sua psiche compromessa, ma
preferiva investire quel tempo per sopperire al suo portafoglio tristemente
alleggerito, benché lo sarebbe stato di più se un certo licantropo non fosse
piombato nella sua vita.
Mostrava
il suo sorriso migliore, si impegnava a rendere il servizio impeccabile e li
invitava a tornare. In quella notte di follia, molti studenti erano passati più
volte e ordinato di tutto, soprattutto le bevande a tema create appositamente
per l’occasione ‒ se doveva essere onesto, avevano solo cambiato i nomi,
aggiunto qualche spezia e colorante alimentare.
Servì
un mietitore molto carino, un caffè-latte alla zucca e un biscotto al burro a
forma di fantasmino, e la coda sembrò sfoltirsi. «Come posso servirla?» ma il
suo sorriso affascinante si sgretolò davanti alla figura che si parò davanti al
bancone decorato per la festività. «Derek» l’aveva abbracciato così strettamente
appena il sollievo di vederlo tornare nel monolocale l’aveva colto, ma poi si
era rabbuiato tutto insieme odiando rendersi conto in che stato si trovasse.
Aveva controllato l’orario sul cellulare, che teneva sotto il cuscino del
mannaro, e si era preparato alla velocità della luce per raggiungere la
caffetteria. «Cosa posso servirti?».
Derek
lo scrutò impassibile, i tratti affilati e l’umano sapeva bene come riuscisse a
percepire perfettamente il vortice che lo teneva in ostaggio. «Non mi imporrai
nulla?».
«Ah»
le palpebre sbatterono più volte preso in contropiede e gli occhi si spostarono
da una parte all’altra come se cercasse dei suggerimenti. «Potresti cogliere
l’occasione» lo ricompensò ghignando affabile e, in tutta risposta, il lupo
inarcò le folte sopracciglia giudicandolo apertamente.
Stiles
ridacchiò, probabilmente l’ultima volta in cui era accaduto era durante la
videochiamata con il suo interlocutore la notte precedente, e si fiondò ad
armeggiare con gli ingredienti che più lo ispiravano. «Ecco a te, Sourwolf»
disse quando gli presentò un caffè nero lungo con caramello salato e zucca,
perché aveva deciso di aggiungerla ovunque.
Derek
storse il naso, disturbato dal continuo guanto di sfida che lo studente di
criminologia gli lanciava, eppure bevve il primo prolungato sorso davanti a
lui. «Non sei migliorato per nulla».
Stiles
rise lievemente e gli allungò un biscotto a forma di pipistrello che giurò
Derek avesse fulminato a vista. Lo divertì ancora di più. «Erica lo
mangerebbe».
«Non
sono Erica» lo ragguagliò il capitano della squadra di basket, le iridi che
lampeggiarono di rubino e zaffiro. Stiles le avrebbe ammirate tutto il giorno.
Senza
alcun amor proprio e tentando la sorte, Stiles spezzò un’ala e la masticò
davanti a lui con tutta la disinvoltura del mondo. «È buono, non sai cosa ti
perdi».
«Tratti
così tutti i tuoi clienti?» lo fulminò il grande lupo cattivo, rassegnato
nell’addentare il biscotto impostogli.
Il
figlio dello sceriffo ammiccò spudoratamente e distese le spalle. «Solo i miei
prediletti».
Derek
cadde nel silenzio con il caffè bollente in mano, le pupille che non si
lasciavano scappare nulla. «Non è così grave quello che è accaduto. Sappiamo
che ci vorrà del tempo».
Gli
occhi dell’umano si sgranarono e la schiena si irrigidì, mentre il suo corpo si
sbilanciava all’indietro, in un passo che lo allontanasse dalla fonte che lo
tormentava. «Non voglio parlarne adesso».
«Sei
scappato via, prima» gli fece ben presente l’altro, l’evidenza palpabile.
«Dovevo
correre qui, stava iniziando il mio turno» si giustificò lo studente del primo
anno.
«Ti
ho svegliato io, Stiles» lo smontò prontamente la creatura della notte.
«Avevo
impostato la sveglia» sentiva anche lui il suono delle unghie che stridevano
sullo specchio.
In
un contesto diverso sarebbe calato il silenzio, ma si trovavano dentro una
caffetteria, il rumore di tazze e piattini risuonavano in tutto l’ambiente,
insieme ai vocii dei clienti ai tavolini o quei pochi che venivano serviti
dagli altri due baristi, in una sorta di tregua dopo ore di non-stop. «Ti ho
detto che stai migliorando, non puoi aspettarti che tutto si risolvi con uno
schiocco di dita» Derek non credeva di averlo illuso in qualche modo.
«Non
sono così sciocco da pensarlo» Stiles si sentiva esausto. Avvertiva un peso
insormontabile sulle spalle ed era riuscito a distendersi lievemente grazie ai
battibecchi senza alcuna cattiveria che scambiava con il licantropo.
«Ci
riproveremo, non ti lascerò da solo» questo doveva essere chiaro, limpido, per
Stiles. Non dovevano esserci dubbi.
«E
se questo fosse un nuovo problema?» articolò con fatica la matricola, gli occhi
bassi e le meningi che la tormentavano. «Se stessi bene o quantomeno fosse
sopportabile soltanto perché tu sei accanto a me? Ci hai pensato? Hai pensato a
questo? Se non potessi più separarmi da te?».
«Non
è così» Stiles stava colpendo duro e Derek percepiva tutto il colpo, ma non
riusciva ad inquadrare a chi fosse rivolto. «Riuscirai nuovamente a camminare
con le tue gambe, ma non è questo il momento».
L’umano
sospirò sconfitto e anche adirato con se stesso. «Non
so nemmeno se ho più delle gambe» il che da parte sua era una scelta infelice
di parole dopo gli incidenti con il Nogitsune e una chimera.
Il
mannaro tenne il silenzio, le iridi verdi che gli leggevano dentro. Non avrebbe
dovuto ammetterlo, ma Stiles sapeva bene che effetto avessero su di lui.
Derek
armeggiò con la sua giacca di pelle, estraendo una busta sottile e
rettangolare, poggiandola sul bancone e Stiles lo fissò senza capire,
trattamento che riservò anche all’oggetto che catturava. Gli porse una domanda
muta e il lupo si limitò ad incitarlo nello spacchettare il suo regalo, le dita
di Stiles che si rigiravano la busta tra le dita, l’aspetto e forma familiari. Non
era sigillata e l’aprì con facilità, estraendo con delicatezza il biglietto per
la partita di basket che si sarebbe tenuta nelle due settimane successive.
Il
figlio dello sceriffo si sciolse e un sorriso felice sorse sul viso esausto
dalle brutte disavventure. «Uno» sentì pronunciare dal suo interlocutore, i
sensi attenti e meticolosi.
Lo
studente di criminologia alzò le iridi su di lui, la necessità di scrutarlo e
decriptarlo. «Li stai ancora contando?».
«Finché
non torneranno ad essere la norma» semplificò la creatura della notte.
Stiles
nascoste la curva della bocca lusingata dietro il biglietto, non aveva
serialmente voglia di dargliela vinta, ma tutta la devozione di Derek lo
stordiva. «Sai, non erano la norma nemmeno prima» era allegro e vibrante,
giocoso come pochi, ma era sempre circondato dal sarcasmo. Il suo tocco era ovunque,
anche nei sorrisi.
«Ma
erano nettamente di più» ribadì il mutaforma, non
lasciandosi abbattere da Stiles.
«Molte
cose lo erano, come altre lo sono adesso» si rabbuiò leggermente, ma il profumo
della carta aveva un effetto anestetico su di lui. «Quindi, come funziona?
Azzererai il tuo conto dei miei sorrisi ogni volta che avrò una brutta
giornata?».
«Qualcosa
del genere» proferì Derek senza remore, non lasciandosi sopraffare dello
tsunami diabolico che aveva dinnanzi.
La
matricola ammiccò deliberatamente, ma il locale si stava riempiendo nuovamente
e non poteva contare ancora su Tracy che gli copriva le spalle. «Ti accomodi?»
qualche tavolino era ancora libero, Derek avrebbe potuto occuparne uno senza
problemi.
Derek
notò il panico e anche il rimpianto che sporcarono le sue gemme ambrate, la
fila che cominciava a formarsi dietro di lui. «No, raggiungerò gli altri».
Il
barista suppose che con altri intendesse il branco non tanto silenzioso
che lo seguiva senza che Derek avesse approvato il suo stesso ruolo nel gruppo.
«Buon divertimento» se mai il lupo ne fosse capace.
Il
licantropo adagiò la carta di credito sul POS e il pagamento partì in
automatico, ma in aggiunta estrasse una manciata di banconote di grosso taglio
dal portafoglio e le indirizzò verso lo studente del primo anno.
«Derek»
lo rimproverò a denti stretti Stiles, lo sguardo tagliente che gli rivolse
contro.
«Se
non li accetterai tu, sono sicuro che i tuoi colleghi non faranno le stesse
storie» si destreggiò Derek con abilità, per nulla risentito dal comportamento
che Stiles gli riservava.
Le
pupille dell’umano si direzionavano verso gli altri baristi che si
affaccendavano per velocizzare il lavoro, servendo i clienti al meglio delle
loro possibilità. Successivamente si posarono sul mannaro, riflessive e restie
dall’accettare una mancia esagerata. «Sei insopportabile» afferrò la manciata
di banconote, inserendole all’interno della busta che custodiva il biglietto
per la futura partita di basket e conservò tutto nella tasca del grembiule,
indossando un broncio irrisolvibile di cui Derek rise con portamento, prima di
sparire dalla sua vista, svanendo nell’oscurità prodotta dalla notte delle
streghe con il suo caffè nero.
Il
figlio dello sceriffo era stremato, la notte non terminava mai, come quel turno
e il via vai degli studenti travestiti a far festa, i numerosi caffè, dolciumi
e bevande varie che aveva servito.
Sbadigliò
a bocca aperta mentre una mano tentava di coprirne almeno una parte, gli occhi
stanchi anche se si era addormentato nel mezzo dello studio prima di raggiungere
il locale. Era sicuro di non aver alcuna coperta con sé, di averla sistemata
accuratamente nella parte d’armadio riservata a Derek molte ore dopo
l’allontanamento di Erica, quindi era giusto presumere che fosse stato il bel
lupo tenebroso a provvedere. Chissà da quanto era rincasato, quanto era rimasto
ad ascoltarlo dormire e decretare quando fosse il momento più adeguato di
svegliarlo. «Buonanotte» sentì nella sua direzione da Tracy che si era
attardata quanto lui, mentre la signora Freeman iniziava a chiudere il locale.
«Buonanotte»
ricambiò con ritardo, la sciarpa rossa che avvolgeva maggiormente intorno alla
gola, stringendosi nel giubbotto caldo da cui ricadeva sulla schiena il
cappuccio di una delle sue felpe rubino.
Proseguendo
nelle temperature rigide, il cielo completamente scuro, le ombre che si
stanziavano per i raggi lunari, si soffiò sulle mani congelate, sfregandole tra
loro, maledicendosi di non essere provvisto anche di guanti. Si svegliò
totalmente quando notò una luce scarlatta nell’oscurità ai piedi di un albero
puntare nella propria direzione, attendendo silenziosa. «Derek» soffiò
estasiato e sgomento, il fumo che gli usciva dalla bocca e le iridi ambrate che
brillavano di meraviglia.
Inizialmente
si era spaventato, non riuscendo a capire cosa fosse quella sagoma minacciosa
che lo puntava; di esperienze negative ne aveva avute fin troppe e temere il
peggio faceva parte della sua natura, ma si era rilassato quando zampe nere
erano avanzate sotto la luce di un lampione, permettendo di distinguerlo più
facilmente.
Affrettò
il passo, quasi correndo per raggiungerlo, ammirarlo in tutto il suo splendore
e nel suo elemento naturale, portarsi ad un’altezza più congeniale per
entrambi. «Ciao» pronunciò morbido e totalmente innamorato. Non riusciva ad
essere diversamente, a trattenere tutto l’amore che traboccava quando si
trovava faccia a faccia con quell’animale incredibile.
Anche
se non era la prima volta che se lo trovava dinnanzi, in quelle singolari e
rarissime occasioni era come se lo fossero, soltanto che era decisamente più
coinvolto, perché capiva quanta fiducia Derek gli desse mostrandosi nella sua
forma completa e così celata, insieme a quegli inimitabili occhi vermigli e
zaffiro.
Dubbi
su chi fosse non ne aveva avuto alcuno.
Protese
una mano verso di lui e ne sfiorò la pelliccia, folta e meravigliosamente
morbida, immergendola completamente e venendo accolto senza riserve dal lupo.
Stiles lo accerchiò anche con l’altro arto e lo abbracciò fortemente,
travolgente, la testa premuta sotto un orecchio sempre alzato, a vigilare
perfino quando era rilassato. «Qualcuno ha appena realizzato un desiderio»
disse con calore, godendosi un evento così atipico e raro da poter essere una
delle sue allucinazioni.
Erano
all’aria aperta, dove chiunque avrebbe potuto vederli, spaventarsi ed urlare
nel ritrovarsi a fronteggiare un autentico lupo in libertà, ma quella era una
notte magica, probabilmente l’unica in tutto l’anno in cui Derek potesse
mostrarsi per quello che era realmente, senza suscitare orrore, ma meraviglia e
ricreazione.
Derek
sbuffò contro di lui, il muso che si muoveva appena, il dissenso che palesava
uditivo e l’umano lo abbracciò soltanto più forte, il divertimento che lo
attraversava da ogni parte e che gli faceva nascere dei risolini piacevoli.
Gli
adagiò un bacio sul collo e si sistemò davanti a lui, tirandosi sopra la testa
il cappuccio scarlatto che fuoriusciva dal giubbotto blu ed indicandosi
interamente. «Sono abbastanza rosso per te, lupo cattivo?».
Era
palese come il mutaforma lo stesso giudicando
severamente, digrignando appena i denti ed un singolo ringhio a rimproverarlo
per i suoi modi bambineschi e dall’umorismo spicciolo. Stiles, in tutta
risposta, ridacchiò con autentico diletto e tenne il muso della bestia più
bella che avesse incontrato tra le dita, regalandogli un nuovo schiocco sul
muso e poggiando la fronte contro la sua. «Grazie, Der» scandagliò con profondo
affetto, godendosi e prolungando quel momento soltanto loro. Un dono
estremamente prezioso.
Derek
non si agitò né fiatò, si limitò a premere ulteriormente contro la matricola
desiderosa di lui.
«Andiamo?»
chiese in un invito ultimo, dopo che il tempo si era prolungato enormemente.
«Dolcetto o scherzetto?».
Il
mannaro cancellò il ghigno sopraffino della volpe furba leccandogli con
dispetto una parte del viso e scappandogli dalle grinfie, per poi addentandogli
il cappuccio e tirandolo all’indietro, con l’intenzione di toglierglielo. «Ehy,
ehy» esclamò indignato Stiles mentre cercava di
ripulirsi dalla saliva e riprendere il controllo di sé. «Ho capito, ho capito» ma
quando si sistemò alla bene e meglio, con il pezzo di stoffa rossa in eccesso
che tratteneva ancora tra le dita tentando di dargli una forma dignitosa sulla
schiena, provò ad individuarlo invano perché il capitano era già lontano.
Lo
studente del primo anno si alzò in piedi e si voltò nella direzione presa dal
lupo completo, trovandolo a pochi passi da lui in attesa, i raggi di madreperla
illuminavano cautamente la pelliccia nera e gli donavano un’aria eterna, quasi
eterea, insieme al connubio di mare e fuoco che sprigionavano le sue iridi
indecise.
Stiles
si limitò ad ammirarlo per qualche momento privo di qualsiasi imbarazzo,
chiedendosi quanto Derek avrebbe preferito vivere nella natura selvaggia o se
quegli sprazzi gli bastassero per sentirla parte di sé, eppure il licantropo
non stava prestando attenzione a ciò che lo circondava, ma a ciò che aveva
appena lasciato. Quando il figlio dello sceriffo lo raggiunse non riuscì a
trattenersi dall’accarezzargli la testa e bearsi della sua temperatura
corporea. «Fai strada» e Derek lo fece.
«Stiles»
non passò molto tempo però quando vennero raggiunti da qualcuno di esterno,
interrompendoli e la matricola si chiese come fosse possibile che il mannaro
non avesse deciso di cambiare strada.
«Theo»
negli ultimi giorni era stato benedetto dalla fortuna non trovandoselo dietro
in ogni momento, ma a quanto pareva si era esaurita.
Lo
studente di scienze politiche sorrise affascinante, non mal celando minimamente
il suo entusiasmo di ritrovarselo proprio davanti. Era vestito completamente di
nero, abiti attillati che non lasciassero nulla all’immaginazione, enfatizzando
la sua muscolatura pronunciata ‒ ma nulla a che spartire con Derek
‒, il viso era truccato da un eccessivo uso di cerone, profonde occhiaie
nere e qualcosa che simulava le crepe sulla pelle, come se stesse svanendo o
spellando, a completare vi era un rossetto rosso acceso sulle labbra ancora
perfetto ‒ che non si fosse adescato ancora con qualcuno? O l’avesse
semplicemente riapplicato? ‒; sinceramente Stiles non riusciva a capire
cosa il suo costume dovesse rappresentare, una specie di morto vivente
vampirizzato? «È un lupo quello?».
Stiles
si era parzialmente dimenticato della forma assunta dal giocatore in quel
frangente, soprattutto era stupito che fosse rimasto nelle vicinanze davanti a
un estraneo. «Oh, lui» si voltò a guardarlo, le falangi che affondavano nel
pelo inchiostrato trattenendolo tra esse, assaporandone la consistenza. «È un
cane lupo» era normale che Theo chiedesse delucidazioni su un animale che
appariva pericoloso andare a spasso all’interno di un campus universitario come
se niente fosse, anzi era insolito che non si allontanasse alla sua vista.
Sperava anche che Derek non si indignasse per averlo retrocesso ad un
comunissimo cane.
Theo
lo fissò con i suoi intensi occhi azzurri che spiccavano ancora di più in mezzo
a quel bianco cadavere, spostandoli successivamente sul suo imprevedibile
compagno notturno. «A me sembra un lupo».
Stiles
roteò gli occhi, infastidito da tanta insistenza. «Hai mai visto un lupo vero
in vita tua?».
«No»
rispose sinceramente, non perdendosi minimamente come Stiles fosse del tutto a
suo agio con l’animale notturno. «Tu sì?» ora, se era possibile, era ancora più
interessato.
«Sì»
confessò direttamente, un’ombra che gli attraversava le iridi mielate. «Anche
troppi» si piegò sulle ginocchia richiamando l’attenzione del licantropo,
mentre Stiles lo accarezzava in mezzo alle orecchie e appoggiava la testa
contro un lato del muso.
«E
da dove saltate fuori?» la voce di un grosso animale dalla pelliccia scura che
si aggirava per le vie del campus universitario, saltando di festa in festa, si
sarebbe già prorogata, ma l’udito allenato di Theo non era stato scosso nemmeno
da un sussurro.
Stiles
si paralizzò impercettibilmente e le iridi ambrate guardavano con diffidenza il
suo interlocutore. Le labbra carnose sigillate, i pensieri visibili che gli
attraversavano gli occhi e l’indecisione di metterlo realmente a contatto di
un’altra parte della sua vita. «Ho concluso adesso il mio turno in
caffetteria».
«Caffetteria?»
domandò in una eco, non riuscendo a catalogare quell’informazione nel suo
archivio personale che portava l’orma di Stiles. «Lavori in una caffetteria?».
«Sì»
quanto si sarebbe pentito di essere stato così sincero? Ma quanto avrebbe
potuto tergiversare prima che sarebbe entrato in possesso di quella nozione
autonomamente?
«Quale?»
quella notizia era oro colato, Theo stava febbricitando.
L’espressione
facciale del figlio dello sceriffo si fece acerba. «Scoprilo da solo».
La
bocca dello studente di scienze politiche si arricciò eccitato dalla sfida che
gli era stata lanciata ed era sempre più entusiasta di quanto Stiles risultasse
perfetto per lui. «Quindi, Cappuccetto Rosso ha incontrato nel suo percorso il
lupo cattivo?» domandò con divertimento intrigato, indicando singolarmente ciò
che sembravano rappresentare in quella notte di costumi e recite, spezzando
quel quadretto privato in cui lo studente di criminologia si stava rifugiando,
escludendolo.
Quanto
fondo di verità c’era in quella descrizione approssimativa. «Ah, sì. Qualcosa
del genere» si era permesso si esprimere una fantasia infantile, un
divertimento a cui era sicuro Derek non avrebbe partecipato, ma avrebbe trovato
addirittura ridicolo, ritenendosi offeso personalmente, eppure il licantropo
era proprio lì, a permettergli di sognare ancora.
«Ed
è tuo?» Theo era ancora più affascinato, ma non sapeva ancora inquadrare in che
modo.
«No»
il figlio dello sceriffo ridacchiò per l’assurdità proferita, baciando il
profilo del naso peloso della creatura più stupefacente su cui avesse posato lo
sguardo e rimettendosi in piedi. «Questa meraviglia è soltanto in prestito».
Lo
studente di scienze politiche arcuò un sopracciglio, non seguendolo
minimamente. «Da chi?».
«Questa
non è soltanto la notte di Halloween, ma anche quella di Samhain»
si alzò il colletto del giubbotto, sistemandosi meglio la sciarpa aranciata che
Derek gli aveva avvolto al collo una settimana prima. «Il velo tra il nostro
mondo e quello degli spiri si assottiglia, l’uno può interagire con l’altro.
Puoi davvero essere sicuro da dove provenga questa magnifica creatura? Domani
non avrai nemmeno la certezza di averla vista».
Le
labbra di Theo si arcuarono all’insù e guardò il suo interlocutore con visione
rinnovata. «Hai uno strano modo di aggirare una domanda, ma sono queste le cose
che mi piacciono di te».
Stiles
indietreggiò con la testa come colpito, non aspettandosi minimamente quel
commento così diretto. «Non ricominciare» ma doveva davvero stupirsi?
«Perché
sei così schivo? Noi due stiamo bene insieme» lo incuriosiva seriamente. La
notte che avevano trascorso sotto le coperte era stata splendida, una delle
migliori, si erano spinti molto in là e avevano sperimentato appagandosi. Ma
non era solo il sesso ad essere grandioso, ma tutta l’alchimia che c’era tra
loro e il normale tempo che trascorrevano in reciproca compagnia, perfino dal
momento in cui Stiles aveva cominciato a tirarsi indietro. Lo divertiva, quel
rapporto era degno di dedicargli tutte le sue energie.
«Non
ho mai detto il contrario» non aveva senso negare una cosa che non era vera.
«E
allora cosa ti frena?» La matricola di scienze politiche era sorpresa dalla sua
presa di posizione, era convinta che avrebbe ribattuto l’opposto. «È per Hale?»
lo disse mentre una mano del ragazzo era tornata a solleticare la pelliccia
nera dell’animale più mansueto che avesse incontrato.
«Derek?»
gli occhi del figlio della massima autorità di Beacon Hills sgranarono e le
dita si fermarono, impossibilitato a credere a ciò che aveva udito. «Cosa
c’entra Derek?».
Lo
chiamava perfino per nome. «Siete sempre insieme».
«E
quindi?» c’era un’allusione che al giovane Stilinski proprio non piaceva.
«Mi
ha sorpreso» soprattutto l’aveva infastidito.
«Perché
uno come me è impensabile che passi il suo tempo con uno come lui» era una
domanda retorica velenosa, Stiles si stava alterando, i suoi tratti si erano
fatti affilati e le iridi d’ambrosia si erano scurite.
«Più
che altro, il contrario» Theo non aveva timore di esporre come la pensava né di
infastidire la matricola di criminologia. «Sembrate molti intimi».
«Non
sono affari tuoi con chi io sia o non sia in intimità» di certo odiava essere
osservato e studiato da lontano, soprattutto se non apprezzava le mire che gli
erano rivolte.
Theo
si era reso conto di aver fatto un passo falso, ma tirarsi indietro non lo
rispecchiava. «Da quanto tempo lo conosci?».
Stiles
aggrottò le sopracciglia, le palpebre che si assottigliavano. «Non mi hai per
caso sentito?» non credeva che il suo interlocutore avesse una tale voglia
suicida. «O vuoi soltanto constatare chi ha, cosa, la precedenza su di me?».
«Sono
soltanto incuriosito» si giustificò senza soffermarsi troppo a pensare. «Hale è
solitario e chiuso a qualsiasi stimolo, tu invece sei un concentrato di
vitalità».
«Tu
non sai niente di me e ancora meno di Derek» lo schiaffeggiò d’impatto con la
voce e l’attimo successivo Theo vide come il muso del lupo ‒ cane lupo
‒ premette su una coscia di Stiles, richiamando la sua attenzione e
catturandola completamente. Il ragazzo, a quel punto, mimò uno scusa
nella sua direzione ‒ ma per cosa doveva scusarsi? ‒ e prese a
giocherellare con un suo orecchio soffice, grattando leggermente, e Theo non
poteva ignorare quanto amore il figlio della massima autorità per Beacon Hills
provasse per quel misterioso canide.
«Hai
ragione» era innegabile quanto Stiles proteggesse se
stesso e con maggiore foga il capitano della squadra di basket. «Voglio,
appunto, conoscere quante più cose possibili su di te».
«Vuoi
sapere da quanto tempo lo conosco? Cosa vuoi, una data?» Stiles lo adocchiò,
accusatorio ed infastidito, ma lo stava anche studiando accuratamente. «Lo
conosco da quasi tutta la mia vita. Ecco la tua risposta» lo stava punendo.
Fu
il turno di Theo di strabuzzare gli occhi e non riuscire ad inquadrarlo. «Com’è
possibile?» più andava avanti e meno capiva, i conti non tornavano. Per lui era
stato un colpo quando li aveva visti la prima volta interagire insieme in
completa sintonia davanti al dipartimento di letteratura; quel giorno era in
compagnia di Donovan e si erano sentiti in qualche modo in svantaggio, perché
quello era il carismatico capitano della squadra di Basket, Derek Hale. Quello
scenario l’aveva visto ripetersi più volte e Stiles e Derek Hale sembravano
seriamente inseparabili, una sintonia che lo studente di criminologia non aveva
mai avuto con nessuno dei due.
«Stessa
piccola cittadina, medesimo liceo» stesso distretto di polizia in cui gli fu
comunicato di essere divenuto orfano dallo sceriffo in persona, Noah Stilinski.
«Ma non credo che Derek avesse coscienza di me prima del liceo, nota che non si
applica ad un ragazzino influenzabile come il sottoscritto».
Theo
si accorse come il lupo fosse attento al suono della voce di Stiles, reagendo a
seconda del tono e vocalità usata, di quanto fosse agitato e tranquillo,
tuttavia si dimostrò nettamente ancorato e coinvolto quando le ultime frasi
vennero pronunciate, senza che Stiles smettesse di dedicargli le piccole
attenzioni dei suoi polpastrelli. «Non sei per nulla influenzabile» lo corresse
la matricola di scienze politiche, fermandosi a pensarci per un lungo momento.
«Perché?»
lo studente di criminologia si rivelò stupito e preso alla sprovvista.
«Altrimenti sarei già caduto ai tuoi piedi?».
«Probabilmente
sì» il sorriso affascinante e leggermente timido, che faceva parte della sua
tecnica di annichilire Stiles, si palesò senza alcuna vergogna.
Stiles
produsse un colpo di risa sincero e rilassato, strappato senza alcun controllo,
nato del tutto spontaneamente e Theo approfittò di quel momento di benevolenza
nei propri confronti insinuandosi nel suo spazio personale, sfiorandogli la
bocca con la propria e intensificando il bacio a mano a mano che si rendeva
conto che il ragazzo non si stesse tirando indietro. «Ti piacciono proprio i
baci».
Il
figlio dello sceriffo soffiò contro di lui come un gatto pronto ad attaccare.
«Non tirare troppo la corda».
Lo
studente di scienze politiche gli prese il viso tra le mani e si concentrò ad
assaporare le labbra, approfondendo la morsa e prolungandola un po’ di più,
percependo la matricola sciogliersi sotto il suo tocco. «Lo sai che il mio
dormitorio è esattamente nella tua direzione opposta, vero?» Dio, non
avrebbe mai smesso di baciarlo.
«Non
ti seguirò» quante altre volte avrebbe dovuto ripeterlo? E quanto era credibile
mentre la bocca pulsava sotto la sua, probabilmente sporca del rossetto rosso
che l’altro indossava.
Theo
respirò tra le se labbra e schioccò un ultimo impercettibile bacio. «Non puoi
impedirmi di provarci. Non mi arrenderò con te».
«Sto
per aizzarti contro il cane» lo mise in guardia l’altro, scostandosi ed
allontanandosi, lasciando ben intendere che il loro siparietto fosse concluso.
Già,
il cane. Era stupito che non gli avesse strappato a morsi il collo nel
momento in cui si era avvicinato pericolosamente al figlio dello sceriffo.
«Buon Samhain» Theo si congedò sotto lo sguardo
profondo del ragazzo a cui aspirava.
«Ah»
sospirò e si lasciò andare Stiles quando l’imprevisto svoltò l’angolo,
piegandosi su se stesso e coprendosi il volto con le
mani. Era esausto e sollevato tutto insieme, le sue reazioni erano
costantemente contrastanti.
Il
lupo lo raggiunse dopo poco, dandogli alcuni secondi per sbollire, e lambì il
dorso di una mano con il naso nero bagnato, aspettando che gli desse accesso.
Stiles le scostò entrambe appena e la pelliccia morbidissima scivolò tra le
dita, prendendo più coraggio e permettendo il contatto visivo. «Mi dispiace che
tu abbia dovuto assistere a questo» si sentiva sporco e in colpa, era stato
patetico. «Questo sono io che mi lascio trascinare».
Derek
gli leccò parti delle falangi e Stiles si liberò in un sorriso addolcito. Gli
scompigliò il pelo tra le orecchie affettuosamente e riconoscente. «La prossima
volta aggira i miei ex partner, anche se fai finta di non sapere chi siano».
Le
iridi scintillanti e miscelate brillarono a fargli il verso e Stiles era troppo
innamorato di quello splendido lupo per rimproverarlo senza una vera ragione.
Stuzzicarsi a vicenda era il loro modo di fare. «Credi che troveremo qualcuno
che ci venda un po’ di pizza a quest’ora?».
Stiles
sbadigliò a bocca aperta senza emettere un suono, una tendina rossa ed
arancione più spessa della precedente era stata sistemata sopra la finestra che
si affacciava ai piedi del letto e limitava che la severità della palla di
fuoco alta nell’azzurro sconfinato gli bruciasse le retine appena affacciante
al nuovo giorno; li riparava anche da spifferi indesiderati dal momento che le
temperature si facevano più rigide. Non era sicuro che Derek avesse bisogno di
quell’accortezza, ma l’aveva tirata fuori da un angolo del suo armadio come se
l’avesse sempre avuta e Stiles non aveva voluto sottoporlo ad un interrogatorio.
Avvertiva
un profondo calore provenire dalla schiena, così come intorno al busto e la
matricola non doveva interrogarsi prolungatamente a cosa fosse dovuto. Nelle
pochissime occasioni in cui si svegliava prima di Derek, aveva notato come le
sue braccia lo avvolgessero, portandolo a domandarsi se quella stretta tra loro
perdurasse per tutta la notte.
Si
strinse nelle coperte per prolungare il momento, il respiro profondo della
creatura della notte che gli sfiorava la cute e la sensazione di benessere che
gli scorreva in ogni dove.
Con
la mente ripercorreva la notte precedente, di come avesse respirato a pieni
polmoni tra dormitori e padiglioni con a fianco un autentico lupo nella
festività di Halloween; era una cosa di cui entrambi avevano bisogno. E Derek
era stato così bravo da condurlo nell’unico locale che sfornasse ancora della
pizza nella zona, ma a quel punto, quando risalirono le scale verso l’ultimo
piano del 1855 Place, il padrone di casa riassunse le sembianze umane
mentre la matricola si impadroniva del divano e si fondava sulla scatola da cui
usciva del profumo coinvolgente. Derek l’aveva guardato con disapprovazione, le
sopracciglia contratte, ma si unì a lui, con il sottofondo leggero della
televisione accesa.
«Buongiorno,
Sourwolf» sentì dei leggeri movimenti dietro di sé che lo portarono a voltarsi
lievemente, incontrando le palpebre violentemente serrate del mannaro, con la
missione di voler ritardare il risveglio totale, nascondendo buona parte del
viso sul cuscino. Stiles ridacchiò illuminato, era estremamente raro vederlo in
atteggiamenti così umani da non credere che potesse essere realmente lui.
Si voltò
completamente nella sua direzione, le lenzuola che frusciavano, una delle
braccia di Derek che seguiva e combaciava i suoi movimenti per facilitargli lo
spostamento. Se lo godette per un solo attimo, prima di scivolare con il viso
verso il suo, a pochi centimetri l’uno dall’altro. La mancanza di spazio
personale, l’intimità che simboleggiava, erano
qualcosa che non avrebbe mai condiviso con nessuno, che aveva spesso rifiutato,
ma che con Derek risultavano estremamente naturali.
«Stai
bene?» chiese il lupo mannaro qualche attimo dopo, la voce arrocchita e ancora
distante, mentre le dita del braccio che lo ancorava a sé risalirono tra i
capelli castani, scostandoli e incastrandosi tra essi.
Ingoiare
il vuoto, la saliva, e togliere quel groppo in gola non risultava sempre
facile, soprattutto se si specchiava nelle iridi verdi del suo interlocutore,
l’estrema delicatezza che gli riservava quando lo toccava. «Bene, sì» il suo
sguardo vagò alla cieca, a perlustrare intorno a sé in cerca di qualcosa. «Ho
fatto qualcosa?» non lo chiedeva mai, ma il disagevole risveglio della mattina
precedente l’aveva scosso eccessivamente e l’aveva segnato per tutta la
giornata, facendo crescere evidentemente la preoccupazione in Derek sia quando
era a miglia di distanza sia mentre era a pochi centimetri da lui.
«No,
eri troppo esausto» rispose prontamente il licantropo, comprendendo al volo la
direzione dei pensieri dell’umano, il polpastrello del pollice che gli
massaggiava una tempia, scivolando aderendo perfettamente alla pelle.
«Ogni
tanto funziona» avrebbe giurato che in passato quel metodo avesse un riscontro
migliore, ma la sua vita al Michigan State University aveva piani
diversi.
«Sembrerebbe»
la voce fluì e riempì la camera. «Ma non devi stremarti di proposito».
Le
iridi mielate si rialzarono incontrandosi con quelle di giada, il leggero
rimprovero di preoccupazione che cominciava a impadronirsi spesso di Derek nei
suoi confronti. «Fa parte di me» era nella sua iperattività, ma a volte sapeva
di insistere eccessivamente. «Magari questo dimostra che fai realmente parte
del meccanismo».
«Stiles,
non stai sviluppando una dipendenza verso di me» il mannaro era intenzionato a
farglielo comprendere in ogni modo possibile. Le paure di Stiles le
comprendeva, come la dimostrazione di non essere indipendente come credeva, ma
non doveva aggrapparsi a quella disperazione. «Abbiamo fatto una prova, ne
faremo delle altre».
«Giusto,
altre» non poteva illudersi che quella partenza per Derek fosse un caso
anomalo, si sarebbero ripetute nelle settimane e nei mesi, finché avrebbe
continuato a guidare quella squadra così speciale e dannatamente eccelsa.
Il
respiro bollente del licantropo lo accarezzò e Stiles socchiuse le palpebre per
abbandonarsi un po’ a quelle attenzioni che il mutaforma
riservava soltanto a lui. Avvertì il capo del lupo accostarsi al proprio, le
labbra che schioccarono uno bacio tra gli occhi, esattamente all’attaccatura
del naso; Stiles non credeva che qualcosa di apparentemente effimero e semplice
come quello potesse avere un potere così grande dentro di sé, avvertire
l’interezza dell’affetto insospettabile che Derek provava verso di lui. Era
stupido desiderarne degli altri? «Mi abbracci sempre?».
Le
dita del capitano si fermarono e rimasero incastrate tra le ciocche castane, si
scostò da Stiles come se cercasse qualcosa che gli suggerisse cosa gli avesse
fatto partorire quell’idea. «Abbracciarti?».
«Durante
la notte» era stato troppo precipitoso? Aveva sbagliato?
«Ah»
la consapevolezza lo attraversò tutta insieme. «Ho maggior controllo, sono più
reattivo, intervengo subito se dovesse succederti qualcosa».
Tutto
quel lavoro per la sua stupidissima testa rotta. «Quindi, mi tieni fermo?» ancorato.
«Sì» le falangi bronzee solleticarono l’aria e
rimasero in sospeso. «Ti dà fastidio?».
«Affatto»
il che voleva dire molte cose su di lui. «Dovrebbe darne a te» tutto artigli e
ringhi.
«Non
mi dai fastidio, Stiles» la voce era così radicata che scosse l’interno
dell’umano, vuoto nei polmoni. A sottolineare le parole di Derek la mano tornò
a completo contatto con la matricola, che si permise di far nascere un piccolo
sorriso incoraggiato sul viso.
«È
stato un buon Halloween?» si permise di chiedere qualche momento dopo, memore
di quanto fosse la festività preferita del mannaro. Chissà se aveva avuto
l’opportunità di incontrare qualche bambino a cui giocare qualche scherzetto
che li avrebbe resi soltanto più felici.
«Interessante»
non si sbilanciò il padrone di casa, come Stiles si aspettava. Coglieva la
leggera nota di burla indirizzava nella sua direzione, tutto il siparietto con
Theo che avrebbe tanto voluto risparmiarsi, ma evidentemente Derek era di
un’idea differente e avrebbe desiderato essere capace di decifrarlo meglio. Si
chiedeva anche se quello fosse il primo Halloween che trascorreva nella sua
forma da lupo completo. Anche se Derek gli avesse rivelato di aver affrontato
la trasformazione nell’anno precedente, non era in possesso di una data.
Il
figlio dello sceriffo sbuffò oltraggiato, prima di sistemarsi meglio sotto le
coperte. «Altre festività in programma? Domani è il Día de los muertos».
Derek
lo guardò senza capire, smarrito e dubbioso. «Quindi?».
«Non
dovresti costruire un altare per l’ofrenda?»
si stava perdendo qualcosa? Non era così che funzionava?
«No»
lo sguardo di Derek si fece più distante e la carezza sul viso di Stiles si
stava eclissando. «Non avevamo questa tradizione. Non avevamo nessuna
tradizione» le loro radici erano impiantate a Beacon Hills, non c’era un prima
o un dopo. «Non umane, perlomeno».
«Oh»
Stiles aveva l’impressione che in realtà Derek non avesse nulla che lo legasse
al ricordo della famiglia che non aveva più, oltre al senso di colpa
impossibile da estirpare. «Cose lupesche. Se c’è da ululare alla luna, posso
farlo».
«Ne
sono certo» Derek soffocò una mezza risata e un sorriso pieno si aprì sul volto
di Stiles. «E per un’ofrenda servono delle
foto» continuò con estrema fatica, l’amaro che gli seccava la gola.
La
sua stupidità Stiles la stava dimostrando da tutta la mattina, non voleva
causare tutto quel dolore in Derek. Anche se non ne parlava mai e sembrava
stare meglio rispetto ai due anni antecedenti dal loro ultimo incontro, Derek
quel lutto non l’avrebbe mai superato. «Scusami, non volevo… non ci ho rifletto
abbastanza. Ho dato per scontato che Laura avesse qualcosa» l’incendio in villa
Hale si era portato via delle vite, ma anche tutto quello a cui erano legati.
Stiles, a differenza di Derek, aveva ancora diversi oggetti personali
appartenuti a sua madre, così come i luoghi della casa in cui era più spesso
trovarla.
Il
mannaro tacque per qualche secondo, i pensieri che si annidavano nella mente e
gli occhi che potevano quasi toccare l’afflizione dell’umano. «Lei ne conserva
qualcuna, sì. Credo anche Peter, ma non ho mai chiesto una copia. Comunque, non
siamo mai stati predisposti per la fotografia».
Perché
avrebbero dovuto? I lupi ricordano in modo diverso ed erano anche fisicamente
progettati per alterare qualsiasi mezzo a pellicola potesse immortalarli,
dovevano seriamente impegnarsi per non permettere che accadesse. E percepiva
fortemente quanto Derek non si sentisse degno di poter avere qualcosa di
concreto tra le mani a fargli da memore. «Forse ho qualcosa io per te».
Detto
ciò, Derek lo vide liberarsi dalle lenzuola, salire sul materasso e camminarci
sopra, per poi saltare sul pavimento sgraziatamente stretto ancora nel pigiama
con la volpe che giocava con i suoi palloncini, dirigendosi verso la scrivania
dov’erano impilati alcuni dei suoi libri universitari.
Ne
sfogliò un paio prima di emettere un’esclamazione trionfante, risalendo a
cavalcioni sul letto in un tornado qual era con il suo bottino in mano. Poi
rallentò e fissò il quadrato sottile e dalla dimensione di una decina di
centimetri per lato che aveva in mano, per poi spostare le iridi del nettare
degli dei su di lui, soppesando il da farsi. «Non so se vuoi averla».
Derek
lo fissò corrucciato, costringendolo a rispondere ai suoi movimenti, non
capendo minimamente che cosa gli passasse per la testa. Tutto il suo entusiasmo
iniziale stava evaporando. «Cos’è?».
Stiles
tratteneva il foglietto plastificato tra due dita, impedendogli di scorgerlo e
riuscire a individuare cosa fosse. Teneva gli occhi fissi su di lui e ogni
tanto li portava sull’oggetto in questione. Il lupo sentiva gli ingranaggi
scattare nel cranio della matricola. «Okay».
Con
tutta la delicatezza del mondo, come se gli stesse permettendo di toccare una
reliquia inestimabile, Stiles gli consegnò l’oggetto delle sue premure,
invitalo a cambiare tutta la sua postura.
Derek
non afferrò subito le sue ansie, tardò anche ad esaminare esattamente ciò che
teneva in mano, ma con lentezza rispettò il suo volere e con la stessa
delicatezza che Stiles gli aveva istillato, studiò il quadrato incontrando una
distesa bianca, finché non comprese che dovesse essere ruotato.
Il
capitano della squadra di basket trattenne il respiro, si condensò dentro di
lui e gli bruciava i polmoni. «Perché hai una mia fotografia?» in compagnia di
sua madre. Non l’aveva nemmeno mai vista.
«Sono
un tipo pieno di sorprese» sogghignò con strategia a stemperare l’aria tesa che
quel momento aveva creato.
«Eccessivamente»
la creatura della notte lo perforava con le gemme verdi, a voler estrapolare la
verità.
Stiles
tossicchiò, messo evidentemente alle strette. «Non ti arrabbiare» disse
anticipatamente, ben consapevole di quanto Derek fosse suscettibile,
soprattutto su cerci aspetti. Ricevette un eloquente movimento di sopracciglia
da parte sua. «Quando Scott è stato morso ho fatto innumerevoli ricerche,
cercavo di trovare una soluzione al suo problema» sperava che Derek digerisse
la definizione problema alla condizione lupesca. «Ho trovato questo
dottore, il dottor Conrad Fenris, e ho condotto
Scott da lui. Mentre affrontavamo la questione molto alla larga e lui ci
illustrava la sua ricerca su come poter guarire le persone attraverso certe
cellule ‒ derisa da tutto l’ordinamento medico ‒, sei saltato fuori
tu» Derek lo fissò sempre comprendere una sola parola di quello che stava
blaterando e Stiles avrebbe voluto che fosse più facile, che quella rivelazione
non arrivasse mai. «Ci ha raccontato di questo incontro incredibile con questa
donna e il suo bambino, di come li avesse visti coinvolti in qualcosa di
inspiegabile uscendone incolumi. Credo abbiano parlato un po’, lei lo ha in
qualche modo rassicurato, invitandolo a proseguire con i suoi studi e successivamente
il dottor Fenris ha scattato questa fotografia,
immagino come prova per se stesso».
«Io
e Laura non ti bastavamo? Hai dovuto cercare un esterno?» replicò il mannaro
con irritazione e delusione evidente.
«Lo
sai quanto adoro Laura ‒ tu un po’ meno ‒, ma voi non avevate tutte
le risposte e io volevo trovare ciò che Scott cercava: un modo per ritornare
umano» guardandosi indietro, sentiva in qualche modo di averli traditi. Laura
si era dimostrata la migliore guida che potessero avere in quel momento,
perfino con lo scarso contributo di Derek, non avrebbero mai potuto avere di
meglio in tutta quella devastazione, eppure Stiles aveva dimostrato quanto non
fosse sufficiente.
«Ritornare
umano…» il mannaro schioccò la lingua contro il palato con sdegno, Stiles
sapeva di non doverla prendere sul personale, che Derek non stava contestando
la precarietà della condizione umana come invece in passato aveva supposto. «È
un processo irreversibile» se fosse esistita una maniera per invertire la
trasformazione, Derek l’avrebbe sicuramente usata su Paige, invece di essere
costretto a sporcarsi del suo sangue per risparmiarle una sofferenza
inimmaginabile.
«Questo
lo so adesso» essere ripreso come se avesse peccato di superbia e dimostrasse
quanto in realtà fosse sciocco non gli piacque per nulla. «Scusami tanto se ho
coltivato un po’ di speranza. Volevo soltanto aiutare il mio migliore amico».
Le
labbra di Derek si serrarono in una linea sottile e gli occhi gli ricaddero
sulla foto che Stiles aveva conservato per tutto quel tempo, ritraeva
semplicemente due figure: sua madre e una versione di se
stesso all’età di nove o dieci anni in piedi, fissando un obbiettivo ‒
perché l’avrebbero fatto? «Di solito sei più attento, riflessivo. Non ti fidi
di una persona qualunque».
«Credi
che mi sia fidato? Ho soltanto sondato il terreno» esporsi non era una sua
caratteristica, prima doveva raccogliere ogni genere di prova. «Non posso
permettermi di fidarmi di qualcuno. Non posso nemmeno più permettermi di
fidarmi di me stesso».
Lo
sguardo verde si riposò sull’umano ed egli si fece più piccolo, indifeso.
Dovette prendere un profondo respiro, ingoiare il rospo. «Perché salta fuori
adesso?».
Stiles
si sorprese per il cambio di rotta, capì a cosa si riferisse quando Derek agitò
l’immagine. «L’ho ritrovata qualche settimana fa tra le mie vecchie cose e l’ho
spostata, non sapendo cosa avrei dovuto farci» indicò il libro di chimica che
non aveva proprio il suo benestare.
«Il
solito disordinato» particolarità che non stupiva affatto il licantropo. Era
evidente che Stiles avrebbe voluto ribattere, ma si astenne. «Così, hai deciso
di rubarla».
«Ah»
ecco, quella precisazione proprio non se l’aspettava. «Ho pensato che fosse la
cosa migliore, hai sempre ripetuto che il vostro segreto dovesse essere
custodito, nascosto, ed ero sicuro che avresti preferito che la facessi
sparire».
«Con
un gioco di prestigio» mimò un movimento fluido, dita e mani scattanti.
«Pittoresco per uno che professa di essere sul lato corretto della giustizia.
Sei proprio una volpe».
Oh,
c’era una nota inaspettatamente dolce sull’ultimo commento, un singolo colpo di
risa che investì totalmente Stiles. Derek aveva una tale concezione positiva il
suo paragonarlo alle caratteristiche tipiche di una volpe? Abili ladre, menti
piene di furberia e inganni, argute e pronte a rigirare tutto a proprio favore.
«Agire fuori dagli schemi è quasi fondamentale nella risoluzione di casi» era
anche la prima volta, dopo due anni, che Derek gli desse nuovamente
quell’appellativo, volpe.
«Dubito
che tuo padre abbia mai rubato qualcosa in vita sua» a differenza di Stiles, a
cui risultava estremamente semplice.
Le
guance della matricola si gonfiarono e soffiò offesa. «Non ho mai rubato
oggetti di valore, nemmeno un dollaro».
«Stai
camminando su uno strato sottile, Stiles» il divertimento ed il bacchettarlo in
Derek era evidente e Stiles era alquanto spiazzato, ma anche profondamente
risentito. «Hai preso la decisione giusta, comunque».
«Sì?»
Stiles si illuminò tutto, l’approvazione del ragazzo che in qualche modo
riconosceva come Alpha era fondamentale.
«Sì»
confermò la creatura leggendaria, dando un’ultima occhiata alla fotografia,
quasi immagazzinandola dentro la sua memoria celebrale e poggiandola con cura
sul comodino.
A
Stiles non sfuggì. «Mi dispiace di non avere altro da darti».
Derek
si alzò dal letto, rigettando le coperte indietro e poggiando i piedi nudi sul
pavimento; come di consueto indossava soltanto i pantaloni del pigiama. Sembrò
ripensare a qualcosa da quella rinnovata prospettiva e riprese l’immagine per
inserirla all’interno del libro da lettura personale di turno quella settimana,
sistemato rigorosamente sul mobile. «È più di quanto avessi prima» Stiles fu
stordito da quella confessione così sincera e quasi avvertì i timpani
esplodere.
Derek
si voltò nella sua direzione e l’osservò sul bordo del materasso, piegato sulle
ginocchia e con il pigiama troppo grande per lui, apparendo perfino smarrito,
ma con tutta l’intenzione di non farsi surclassare. «Non hai idea di quanto mi
dai».
Gli
occhi ambrati sgranarono ed era sicuro di essere realmente divenuto sordo. «Sei
sicuro di questa affermazione?».
«Sì»
confermò con certezza univoca il capitano, prendendogli il viso tra le mani e
costringendo Stiles a sostenersi sulle cosce per raggiungere la sua altezza.
«Tornerai ad avere fiducia in te stesso».
Le
iridi d’ambrosia si inumidirono e avrebbe voluto scacciarle indietro. Fino a
cinque minuti prima c’era un profondo astio tra di loro per via delle vedute
differenti, ma in quel momento Derek era proiettato unicamente verso di lui, a
sanare il suo cuore e spirito a pezzi. «Sì?».
«Sì»
asserì senza giri di parole, incatenandolo al suo sguardo, alla sua
concretezza. «Fino ad allora, continua a riporre la tua fiducia in me».
«In questo momento,
Derek, sei l’unica persona di cui mi fidi» e non c’era mai stata una verità più
vera di quella.
«Pensavo
avresti continuato a evitarmi» Stiles avrebbe mentito se non fosse stata quella
la sua idea. Per due giorni le aveva girato alla larga e affrontarla non era
tra le prime cose della sua lista.
«Mi
dispiace» era mortificato, ma era stato più forte di lui.
Lui
e Erica sedevano uno di fronte all’altra in una tavola calda, una che non
frequentavano quotidianamente. Confrontarsi con lei al Crescent Moon non
lo rassicurava, troppi sguardi indiscreti da quando ci lavorava a pieno ritmo,
quindi aveva deciso di optare per qualcosa di diverso.
Erica
gli dedicò un’occhiata attenta per qualche secondo, il capo dell’umano
leggermente inclinato a celare il suo viso, le spalle rigide e l’odore
dell’umiliazione che le appestava l’olfatto. Inserì il suo cucchiaio nella
zuppa di cipolle che aveva ordinato, per poi portarlo alla bocca senza nemmeno
soffiarci sopra. «Dispiace a me. Avrei dovuto essere più attenta, scegliere
parole migliori».
«Hai
solo descritto come ti sei sentita» Stiles non aveva idea di cosa accadesse
realmente quando il sonnambulismo aveva il sopravvento su di lui. Suo padre non
si era mai espresso e Derek era l’unico che gli avesse dato un quadro generale,
ma cosa si provava veramente a vederlo vagare nel cuore della notte incurante
di se stesso, perfino provocandosi volontariamente delle ferite?
«So
che questa situazione ti fa stare male, sei abituato a nascondere i tuoi
problemi, ad affrontarli da solo, ma è qualcosa di troppo grande, Stiles»
sospirò con dispiacere, il cruccio del figlio dello sceriffo lo avvertiva
ovunque. «Mi hai davvero spaventata. Derek aveva tentato di prepararmi, ma non
credevo fosse così grave».
Quindi
era grave, non poteva credere di non averne alcuna
consapevolezza. L’unico dato che aveva era la radicata preoccupazione che sia
suo padre sia Derek emanavano. «Non volevo mi vedessi così».
Già,
Stiles era inaspettatamente orgoglioso e riservato. Era capace di scovare ogni
segreto nella persona che aveva di fronte, invadente, ma non permetteva lo
stesso. «Forse siamo noi che abbiamo fatto troppo affidamento su di te, sei
sempre stato la nostra roccia» non credeva che nei due anni trascorsi separati
i fatti fossero cambiati. Stiles non l’aveva aggiornata molto su quegli aspetti
e Derek non era stato da meno, ma quando era stato necessario che lei, che
tutto il branco che seguiva il lupo dagli occhi rubino e zaffiro, sapessero
qualcosa di più per affrontare ciò che rendeva la vita di Stiles più
affaticata, intricata, avevano aggiornato blandamente le informazioni. «Ma,
adesso, sei tu ad aver bisogno di una roccia e quella roccia è Derek».
La
matricola si trovò ad annuire automaticamente senza volerlo davvero e si tuffò
sulla zuppa di funghi, calda e avvolgente, cosparsa di piccoli quadratini di
pane tostato che davano gioia al palato e all’organismo che necessitava di
qualcosa che lo riscaldasse tempestivamente. «Non avrei mai pensato che Derek
potesse essere così…» gli mancavano le parole per descriverlo nel modo più
corretto, che gli rendesse giustizia. «Una guida sicura. Sempre presente,
sempre pronto ad intervenire. Non ha tutte le risposte, ma si impegna a
trovarle. A trovare il modo giusto di agire e non ti lascia da solo. Prima non
ne voleva sapere niente di me, non mi voleva nemmeno nello stesso edificio» ed
invece in quello sprazzo della loro vita, condividevano perfino il letto. «Anche
se vorrei cavarmela da solo, non lo rifiuterei. Cristo, a volte sento
che lo seguirei in ogni angolo del globo».
La
mannara era elettrizzata e entusiasta delle parole del piccolo umano, della
speranza che sorgeva in lei. «Prima non voleva saperne di nessuno, non era un
fatto personale» era una realtà incontrovertibile. Derek aveva avuto
necessariamente bisogno di compiere un percorso e quello non si era ancora
concluso. «So come ti senti sul seguirlo, è una cosa che proviamo tutti noi».
E
come poteva essere diversamente? Erica l’aveva riconosciuto per prima e ciò si
era scatenato anche in Boyd ed Isaac. Stiles se ne sarebbe mai accorto prima?
Con gli strati di muro che Derek innalzava continuamente davanti a lui,
impedendogli perfino di sfiorarlo. «Credo che, se Derek dovesse mantenere la
sua indecisione o scegliere una strada diversa, a noi non apparirebbe in modo
differente».
Erica
gli prese la mano libera adagiata sulla tovaglietta a scacchiera,
intrappolandola tre le proprie. «Non posso sostituire Derek, ma ti prometto che
farò del mio meglio quando avrai bisogno di me».
Stiles
la fissò paralizzato e stupefatto, la coscienza che scivolava dentro di lui a
ricordargli che, effettivamente, il licantropo non sarebbe sempre stato al suo
fianco nei momenti di fragilità, la ribalta l’avrebbe richiamato. «Grazie» ma
era una magra consolazione.
Lately, we've been goin' through
Good times, bad times, guess we're human
Ancor
prima che Derek aprisse la porta, una voce canticchiava nel silenzio
dell’appartamento, nessun suono ad accompagnarla, ma seguiva un ritmo preciso,
come se conoscesse perfettamente la melodia.
Take me, save me, I don't want this burnin' out
Derek
si fermò con un affanno inspiegabile e dovette prendere il coraggio a due mani
prima che trovasse il modo di far scattare la serratura, far entrare insieme a
lui la spesa per cui aveva sforato la sua tabella di marcia.
Stiles
era seduto scompostamente sul divano, gli auricolari alle orecchie, attaccate
al portatile sistemato sulle ginocchia che bisognava di una fonte costante di
energia, mentre digitava qualcosa ‒ sicuramente una delle sue ricerche
universitarie ‒ completamente inconsapevole di cose accadesse nel
monolocale, senza neppure accorgersi dell’arrivo del padrone di casa.
Are we in Heaven?
Don't-don't it feel so good right now?
Il
mannaro poggiò i due enormi sacchetti riutilizzabili sulla tavola, richiamando
l’attenzione del figlio dello sceriffo per via dei movimenti che percepiva con
la coda dell’occhio, incollato com’era allo schermo.
Le
iridi ambrate si poggiarono sulla spesa e Stiles stoppò la musica, togliendosi
le cuffiette e spostando il computer, prima di saltare dal cuscino e cominciare
a frugare tra le buste. «Ottimo tempismo, Der, abbiamo la
dispensa vuota».
Era
allegro e di buon umore, aspetto piuttosto ottimo dopo giornate non
propriamente a suo favore, continuava a canticchiare senza pronunciare le
parole, ma riproducendo la melodia, le labbra curvate verso l’alto.
«Don't-don't it feel so good?»
mentre pasticciava con i viveri, li sistemava nei loro appositi angoli di
collocazione, esattamente come Derek li voleva, un ultimo verso gli scappò, per
poi continuare a mormorarne il ritmo. Il mannaro non aveva alcuna idea che
Stiles fosse quel tipo di persona, che perfino risultasse straordinariamente
intonato, l’esatto opposto di come generalmente appariva: un vero disastro di
scoordinamento.
Quando
si aggiunse anche lui a sistemare la spesa fatta, il mannaro lo sentì
ridacchiare pieno di dolcezza e contentezza, saltellando sul posto e tirando
fuori l’ultimo oggetto pagato. «È riservata a qualcosa
di speciale?».
La
matricola espose una piccola cornice fotografica in legno di qualità grezza,
quelle facilmente trovabili in un supermercato. Era rossa e sotto il vetro vi
era un foglio bianco e un’unica scritta di un grigio delicato, a simulare cosa
vi si potesse inserire all’interno: conserva qui i tuoi pensieri. «Non
saprei, l’ho presa senza rifletterci troppo».
«Ah,
un acquisto compulsivo. Per niente da te, Sourwolf» l’umano era genuinamente
divertito, ma anche intenerito, brillava come non accadeva da settimane, forse
perfino da quella prima sera di settembre in cui lo rincontrò dopo anni.
Accarezzò il legno colorato con i pollici e intuì tutto il potenziale che
Stiles gli stava riversando. «Ottima scelta» disse in conclusione, mentre la
sistemava sul tavolo, spalancando il suo supporto per reggerla e spiccare
incontrastata in tutte le sue possibilità future.
«Don't-don't it feel so good right now?»
cantò pimpante mentre si occupava di rifornire il frigorifero.
Derek
non riuscì a proferire una sola parola.
Ma
quella notte la lietezza di Stiles non si propagò.
L’umano
fu svegliato da movimenti agitati accanto a lui, il respiro pesante, insieme a
dei mormorii sofferenti.
Si
vide costretto a toccarsi, a comprendere cosa fosse reale, se potesse essere
qualcosa scaturito da lui o dall’esterno. Sbirciò dalla finestra coperta dalla
tenda leggera che gli permetteva di intravedere in che condizioni fosse il
cielo, scuro come se fosse ancora notte fonda.
Si
alzò a sedere per potersi muovere e capire cosa stesse accadendo, non vi era
nulla che rallentava i suoi movimenti e si voltò a cercare il licantropo. Aveva
i lineamenti contratti, gli occhi serrati ed era sudato su tutto il viso.
«Derek» lo chiamò con incertezza, un mezzo punto interrogativo e un vuoto che
si prodigava per tutto lo stomaco.
Lo
toccò su un pettorale scoperto, la pelle nuda che bruciava sotto le dita, e il
lupo mannaro si ridestò di soprassalto, in modalità difensiva.
Le
iridi verdi vacue si aprirono, i tratti facciali esausti e sporcati dagli aloni
di sudore, l’allerta evidentemente, mentre cercava il pericolo e tentava di
scacciare ciò che tormentava i suoi sogni.
«Derek»
riprovò ancora il figlio dello sceriffo, il nome pregno di preoccupazione e la
necessità di fargli capire che non ci fossero esterni attorno a loro.
«Stiles?»
domandò Derek al suono della sua voce, cominciando a guardarsi intorno e
apprestandosi a dargli la sua totale attenzione, scrutandolo totalmente.
Le
iridi d’ambrosia non erano assenti o spente, ma erano reattive e interagivano
completamente con ciò che le circondava, Stiles seguiva i suoi movimenti e
l’espressione facciale era leggermente alterata, l’apprensione evidente che
sfociava in ogni poro. «Stai bene?».
La
voce della creatura della notte era impastata di un sonno interrotto a metà,
aveva le occhiaie scure e le pieghe degli occhi segnate, era anche più pallida
di quanto l’avesse mai vista perfino nei suoi momenti peggiori, al limite del
pericolo. «Sì» Stiles non era nemmeno sicuro di aver mai visto Derek sudare,
anche mentre giocava per ore appariva come se non potesse accadere. «Tu,
invece?».
Derek
lo fissò quasi come se avesse utilizzato una lingua straniera e cambiò
l’angolazione della testa, a sondare un aspetto differente delle mura che li
conteneva. Con il torace che si abbassava e alzava dolorosamente, una nuova
consapevolezza serpeggiò nel suo sguardo di giada.
Il
licantropo scostò le coperte lievemente umide e scomposto si spostò verso il
bordo del letto, senza però oltrepassarlo, mentre si passava le mani tra i
capelli fradici, scompigliandoli in ogni direzione, a scacciare qualsiasi cosa
lo tormentasse. Prese uno, due e tre respiri profondi prima che l’indecisione
lo abbandonasse e si decidesse ad abbandonare le coltri.
Stiles
non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare, mentre i movimenti del
mutaforma erano insolitamente rallentati.
Il
capitano sparì dalla zona notte per dirigersi verso la cucina, impalandosi per
un tempo interminabile davanti il lavello e scrutandolo come se non sapesse a
cosa servisse. Aprì il rubinetto con dubbio e formò una conca con le mani,
permettendo che l’acqua gelata la riempisse, affondandovi il viso e
cospargendola in ogni centimetro, strisciando e tamponando con le dita. Ispirò
ed espirò un paio di volte, prima di ripetere l’operazione.
Con
un unico gesto abbassò la leva del rubinetto e il flusso d’acqua si arrestò, ma
non quella che gocciolava dal suo volto. Successivamente riempì un bicchiere
dello stesso liquido con una delle bottiglie che teneva rigorosamente in frigo,
prendendone inizialmente un sorso e scolandoselo tutto in un battito di ciglia.
Lo
posò accanto al lavabo e si prese tutto il suo tempo, nella solitudine della
notte, senza alcuna luce accesa. Dalla finestra principale entrava quella
prodotta dai lampioni, ma per le strade del campus non vi era anima viva.
Quando
decise di tornare a letto, Stiles lo aspettava in religioso silenzio e
rispettando i suoi spazi, facendosi violenza per non corrergli incontro o
nell’essersi privato di seguirlo. Si era avvicinato sul bordo del materasso e
si era alzato sulle ginocchia quando lo vide ritornare, strizzando gli occhi
per riuscire a distinguere la sua sagoma fra le ombre.
Era
impaziente ed evidentemente agitato, anche se tentava con tutto se stesso di
non inondarlo con le sue emozioni violente, protendendosi verso la sua presenza
ad ogni centimetro in cui avanzava, con l’illusione che potesse congiungersi a
lui prima del tempo. Derek gli si immobilizzò davanti e poté osservarlo dentro
il suo pigiama azzurro e blu. «Stai davvero bene?» gli domandò con serietà
quando gli prese il viso tra le mani, ispezionando personalmente ogni
centimetro del suo viso, ogni muscolo del suo corpo e qualsiasi forma di
agitazione fosse concentrata nel suo organismo.
«Sì»
rispose Stiles con sorpresa, il dubbio che dilagava nelle iridi di miele
brillante, tentando di interpretare le reali condizioni di Derek con gli
strumenti di cui era provvisto.
Il
capo della creatura leggendaria si chinò quanto bastasse, permettendo che le
due fronti si congiungessero, le punta dei nasi che si sfioravano, le palpebre
di Derek che si chiudevano. Stiles lo sentì respirare veramente soltanto in
quel momento, scrollarsi di dosso le orrende sensazioni che l’avevano
tormentato.
Fu
un momento prolungato nel tempo, esteso, in cui esistevano esclusivamente loro
due e nient’altro.
Finché
non arrivò l’attimo il cui fu spezzato. Con un segno, invitò l’umano a
scivolare dalla sua parte di letto, mentre lui si accomodava nella propria, ma
non tornarono alle rispettive posizioni. Stiles lo osservò dargli le spalle, la
schiena completamente scoperta in cui era evidente nella parte superiore la
triscele tatuata di nero.
Non
si riappropriò delle lenzuola, come invece lo studente di criminologia era
costretto e rimase semplicemente lì, a metri e forse chilometri lontano dalla
matricola, tagliandola completamente fuori.
Stiles
non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, se dovesse semplicemente tornare ad
addormentarsi e vedere come si sarebbe presentato il mattino successivo, ma il
bisogno di aggrapparsi a quel lupo meraviglioso era troppo forte, eppure
comprendeva che non era quello che Derek voleva.
Allungò
un braccio e con i polpastrelli lambì uno dei riccioli della triscele. Derek
non si scosse né reagì in alcun modo e lo registrò come un lasciapassare nel
modo in cui si era chiuso in se stesso.
Non
era sufficiente, ma era tutto quello che in quell’occasione gli venisse
concesso. Si addormentò così, con la temperatura corporea del licantropo che si
irradiava nelle sue dita distese.
«Ciao»
un giorno successe qualcosa che attirò l’interesse di Stiles mentre si
apprestava a prendere una comanda da una nuova cliente in cui era sicuro di non
essersi mai imbattuto prima di allora.
Non
si controllò quando l’adocchiò, salutandola con interesse nel momento in cui la
inquadrò per bene. Alta, bionda, molto chiara e dagli occhi verdi ‒ molto
diversi da quelli di Lydia o Derek.
«Ciao»
ricambiò affabile la ragazza, affrontando direttamente lo sguardo attento del
figlio dello sceriffo e sorridendogli con complicità.
«Come
posso servirti?» le implicazioni erano incontrovertibili e la studentessa rise
per il suo essere impacciatamente carino.
«Sono
Heather» si presentò quando la matricola di
criminologia le consegnò un latte schiumato alla cannella.
«Stiles»
rispose con qualche attimo di ritardo, non aspettandosi delle presentazioni
così tempestivamente.
«Insolito»
disse fra sé e sé la bionda, tentando di far armonizzare l’insieme delle
lettere appena udite. «Carino».
Si
volatilizzò raggiungendo un tavolino occupato da quelle che Stiles supponesse
essere sue amiche o compagne di corso. L’umano non sapeva bene a cosa fosse
attribuito il suo commento.
«Hai
appena fatto conquiste?» si intromise immediatamente Tracy, raggiungendolo alla
cassa e cogliendo le occhiate che la cliente gli stava lanciando senza
preoccuparsi di nasconderlo.
Stiles
quasi saltò in aria, la sua collega sapeva essere tremenda. «Mi sembra troppo
presto trarre delle conclusioni».
«Mh,
non sono di questa idea» prese una delle tazze sporche incustodite, separandola
dal piattino e dalla cannuccia in carta, sistemando tutto nel lavandino dietro
il bancone e buttando il resto nel cestino. «Ti sta puntando da un po’. Ha
perfino cambiato fila per farsi servire da te».
«Ah»
non si era minimamente accorto di niente. Direzionare lo sguardo verso la
citata fu automatico e trovò Heather a sorridergli caldamente. «Sei troppo
pettegola, Tracy».
«Ehy,
questo è un lavoro da sogno per imparare ad osservare gli altri» la barista non
lo negò minimamente, muovendo le braccia da una parte all’altra per
sottolinearne il concetto. «E, non te ne renderai conto, ma hai una vita
interessante».
«Come,
prego?» si indignò il figlio della massima autorità di Beacon Hills,
arricciando il naso per l’offesa.
Tracy
ridacchiò visibilmente divertita e in quell’attimo la campanella che segnava
l’arrivo di un nuovo cliente risuonò.
«Der»
lo accolse immediatamente Stiles, illuminandosi e aspettandolo al varco.
«Eccone
un altro» commentò Tracy alla sua presenza, curvando le labbra in modo
spudorato.
«Eccone
un altro, cosa?» esigette il ragazzo nella frazione di secondo in cui udì
la sua replica, peccato si fosse teletrasportata all’istante alla punta opposta
del bancone.
«Non
servirmi una delle tue solite brodaglie» lo preparò mentalmente il licantropo
quando si avvicinò al servizio, rendendogli piuttosto chiaro cosa ne pensasse
dei suoi giochetti.
«Mi
ferisci, Sourwolf» drammatizzò l’umano a quella frecciatina, portandosi
entrambe le mani all’altezza del cuore, a indicare il dolore che gli aveva
procurato.
Derek
rispose gettando gli occhi al cielo per la sua misera teatralità e Stiles rise
alleggerito mentre prendeva una tazza di vetro pulita, riscaldando il latte e
il caffè insieme, giocando successivamente con la schiuma, imbronciandosi
quando con i suoi movimenti studiati non ottenne il disegno che avrebbe voluto
realizzare. Arreso cercò di correggere il tiro e ottenere un qualcosa di
vagamente decente.
«Ancora
cuori?» domandò retoricamente il mannaro, posando gli occhi su quello che aveva
provato ad essere una sorta di foglia, ma che dovette battere in ritirata.
«Creo
degli ottimi cuori» ribatté ad un’accusa che non c’era, a Derek in realtà non
interessava affatto come gestiva la schiuma di un cappuccino che non avrebbe
mai ordinato se Stiles non facesse di testa sua. Voleva fare il salto, ma non
ci riusciva.
Derek
lo ignorò e si apprestò ad odorare la bevanda che gli era stata appena
consegnata, fumante e bollente. L’olfatto gli indicò gli ingredienti e il lupo
dovette testare con la propria bocca se avesse avuto ragione. «Niente
aggiunte?».
Una
smorfia birichina si dipinse sul viso della matricola e Derek temette il
peggio. «Ho una cosa per te».
Stiles
venne risucchiato dalla porta che conduceva alla cucina e ne uscì con una
piccola teglia coperta da carta stagnola. «Ho chiesto se potessero prepararli
ed eccoli qui» afferrò un piattino da dolce e con le pinze prese uno dei
brownie al cioccolato pretagliati, servendoli con un’aspettativa evidente. «Ho
atteso che passassi prima di esporli».
La
teglia effettivamente era ancora intonsa, eccetto per il pezzo che Stiles aveva
appena estratto. Era stato conservato con cura ed era lampante, così come
l’attesa di quello Stregatto diabolico. «Hai questo gran desiderio di
avvelenarmi?».
Un
broncio incancellabile affacciò sul viso falsamente intristito dello studente
di criminologia, scatenando l’ilarità nel mutaforma. «Puoi sempre cambiare
caffetteria se trovi il servizio così sgradevole».
Derek
rise sotto i baffi e si accomodò in uno dei pochi sgabelli presenti al bancone,
sistemandosi lì dove Stiles aveva allestito per lui.
Prese
un nuovo sorso di cappuccino stranamente dal sapore classico e con incertezza
spezzò un angolo del brownie, masticandolo lentamente e lasciando che si
sciogliesse a contatto con la lingua. Un’esplosione di cioccolato fondente e
nocciole tritate lo inondò, collimando con la perfezione del caramello salato
che veniva rilasciato all’ultimo.
«Allora,
com’è?» volle sapere incuriosita la matricola, i gomiti poggiati sul banco a
sorreggersi la testa non perdendosi una singola micro espressione del lupo
cattivo, il sorriso da volpe furba stampato in faccia.
Derek
si specchiò nelle iridi di ambrosia, così simile al suo ingrediente preferito.
«È buono».
Il
sorriso di Stiles si estese e tamburellò le dita in segno di felicità, come se
avesse tirato le somme. «Magari li aggiungeremo al menù» con la teglia in mano
e le pinze, si apprestò a sistemare i rimanenti brownie nella vetrina di
esposizione. Prese un cartellino bianco e con un pennarello verde scuro
scribacchiò brownie al caramello salato, sistemandolo davanti al vassoio
designato.
«Magari,
però, quello lo faremo stampare» si intromise Tracy con nonchalance, rubandogli
il colore dalle mani e aggiungendo delle righe sottostanti, come se avessero
bisogno di miglior spinta.
Stiles
soffiò profondamente offeso e la collega se lo godette tutto, così com’era
sicura facesse il capitano della squadra di basket. «In realtà, sono giorni che
Stiles implora i pasticceri di prepararli».
Stiles
le assestò un’occhiata fulminante, al contrario di Derek che si concentrò
interamente sul ragazzo con numerosi nei sul viso. «Perché?» in verità, Tracy
si stava abituando ad essere ignorata dal giocatore numero uno della squadra di
basket, soprattutto se nei dintorni vi era il figlio dello sceriffo.
«Così,
per provare qualcosa di nuovo» si strinse tra le spalle a simboleggiare che non
fosse niente di che. Aveva avuto delle brutte sensazioni dalla notte in cui
aveva dovuto svegliare forzatamente Derek per l’incubo che lo stava
bersagliando. Non ne avevano mai parlato, come se non fosse accaduto,
dimenticato, cancellato, ma Stiles non riusciva a depennare una cosa simile.
Una pulce si era attaccata al suo orecchio e grattando, gli suggeriva che
quello poteva non essere un episodio isolato. Ma come avrebbe fatto a scoprire
la verità se non era in grado di svegliarsi? Voleva fare di più per Derek, ma
non aveva alcun potere. «Tu adori il caramello salato e qui non abbiamo quasi
niente in menù. Dovremmo avere più cura dei nostri fedeli clienti, dargli qualcosa
per continuare a sceglierci».
«Non
hai bisogno di darmi qualcosa di nuovo, Stiles» lo sguardo di Derek si fece più
radicato e assoluto. «Sceglierei sempre te».
O-oh,
Tracy individuò quello che era a tutti gli effetti uno dei loro momenti. Le
dispiaceva doversi allontanare per fornirgli una parvenza di privacy e
limitarsi ad osservarli da lontano ogni singola volta, soprattutto perché la
sua postazione in cassa la richiamava.
Non
seppe mai come proseguì tra loro o scoprire quali sottotesti ci fossero, non
ebbe molte più occasioni di unirsi alla loro conversazione. Notò, però, come il
capitano si trattenne per una mezzoretta all’interno del locale, ordinando più
avanti un secondo brownie per la gioia di Stiles che non mitigò in alcun modo.
Stiles
sorrideva o rideva sempre quando Derek Hale era in zona, tra un battibecco e
l’altro, pizzicandosi a vicenda. Non aveva mai assistito ad un’armonia così
disarmonica e che raccogliesse un risultato tanto positivo.
Quando
il loro cliente favorito lasciò il Crescent Moon, come di consueto,
Stiles si lamentò della mancia esagerata che gli accreditava ad ogni scontrino
emesso.
Davanti
a quello scenario, Tracy si chiedeva se la ragazza bionda e dagli occhi chiari,
che era rimasta seduta al tavolino insieme alle sue amiche per lo stesso
identico arco temporale del giocatore di basket, si fosse resa conto di quanto
Stiles fosse difficilmente acchiappabile, soprattutto se si avevano delle
intenzioni più serie.
«Stai
seguendo le mie indicazioni, vero?» domandò con tono minaccioso, un occhio
strizzato e l’altro completamente aperto, capace di vedere anche dove non
poteva.
«Sento
il tuo fiato sul collo anche a miglia di distanza» proferì lo sceriffo con
fatica, esasperato dall’insistenza di suo figlio.
«Non
ti ha mai fermato dalle tue trasgressioni, nemmeno quando eravamo nella stessa
casa» gli disse con evidenza, a ricordargli che Stiles non dimenticava mai, per
niente impressionato dalla recita del padre o il suo falso malessere dato da
una dieta salutista.
«Sto
facendo il bravo» la chiuse Noah, non volendo continuare quella conversazione
di soli vegetali per sempre.
«Indagherò
attraverso le mie spie, non permetterò tu abbia un altro infarto» non si lasciò
circuire lo studente di criminologia, guardingo e con un piano B sempre a
portata di mano.
Chissà
chi erano le sue spie. «Perché, invece, non vieni a controllare di persona, se
è tanto importante?».
Le
labbra di Stiles si fermarono a metà, non riuscendo nemmeno a chiudersi e lo
sguardo si fece un po’ perso, era evidente perfino dalla webcam bistrattata del
portatile in pessime condizioni di suo figlio, la poca stabilità di un
materasso occupato. «Stiles, non ti devi preoccupare del denaro».
«Non
sono preoccupato» era una bugia, era sempre una bugia.
«I
conti sono in ordine» riprovò la massima autorità di Beacon Hills. Stiles era
troppo sensibile su particolari argomentazioni, ma su alcune molte di più. «Le
parcelle mediche sono state pagate, tutto bene».
«Le
tue o le mie?» marcò stretta la matricola, l’amarezza che gli scendeva in gola.
Lo
sceriffo sospirò internamente, le meningi che si facevano pesanti. Stiles aveva
il vizio di addossarsi sensi di colpa che non gli competevano, era successo
anche con l’avvento del Nogitsune, tutti gli accertamenti preventivi che
avevano dovuto eseguire per capire quale malessere lo affliggesse, se la
malattia letale della madre lo avesse infine raggiunto. A quello si era
aggiunto il suo soggiorno all’EichenHouse. Tutte quelle spese
erano state delle mazzate per l’esile conto in banca dello sceriffo, Stiles non
riusciva a perdonarsi. «Posso pagare un biglietto aereo per mio figlio» aver
ottenuto una borsa di studio completa era più di quanto lo sceriffo avrebbe mai
potuto offrirgli.
«Sarebbero
due» lo corresse Stiles per precisione, senza aggiungere anche il costo della
navetta che avrebbe dovuto trasportarlo dalla città vicina fino alla Natale. «E
posso pagarmi il viaggio da solo, ma per il Ringraziamento non riuscirò a
liberarmi» non ne aveva mai avuta l’intenzione.
«Come
puoi pagartelo da solo?» chiese perplesso Noah, privo di tasselli che lo
aiutassero a completare il quadro.
«Ho
trovato un part-time in una caffetteria qui al campus, da circa tre settimane»
le iridi ambrate si spostarono dallo schermo e seguirono qualcosa fuori campo,
impossibile per l’uomo riuscire ad individuare qualsiasi cosa avesse catturato
la sua attenzione. «E c’è questo cliente scontroso e musone che mi riempie di
mance esagerate» lo vide sorridere machiavellico all’oggetto fuori dalla
telecamera, ricevendo un grugnito fuoricampo in risposta.
Lo
sceriffo si sentiva alquanto smarrito, non seguiva il filo logico dei pensieri
di suo figlio. «È un nuovo metodo di corteggiamento?» era contento però che
Stiles riuscisse a riempirsi le giornate, stare fermo non era da lui e, a
differenza di Beacon Hills, non poteva infiltrarsi nel distretto di polizia e prendere
in prestito i fascicoli dei casi irrisolti per riempire la mente e affinare
le sue tecniche. Era più sano che passasse più tempo tra la gente viva che tra
i morti.
Stiles
sbatté le palpebre varie volte, guardando con dubbio il padre e permettendo che
l’idea attecchisse e familiarizzasse nel cervello. «Der, per caso, mi stai
corteggiando?» chiese alla persona che era evidente potesse vedere soltanto
lui; era incuriosito da quella nuova prospettiva, ma era anche evidente che si
stesse burlando del suo interlocutore.
«Per
niente» rispose secco lo sconosciuto ‒ forse troppo velocemente ‒,
non facendosi manipolare dalla volpe astuta che intratteneva una videochiamata
con il genitore.
Stiles
ridacchiò con divertimento e i suoi occhi allietati rimasero sul misterioso
individuo per qualche secondo. «Mi dispiace, papà, niente corteggiamento in
corso».
Forse
la massima autorità di Beacon Hills era ubriaca senza essersene accorta. «Chi
è, il tuo compagno di stanza?» non gli sembrava la sua voce, allo stesso tempo
però gli appariva familiare dal poco che aveva udito. Di certo, non l’avrebbe
mai chiamato Der.
«No,
è Derek» Stiles rise ancora di più dell’assurdità della cosa, scartandola con
una risposta che dovesse sottolineare l’ovvio.
Da
quanto tempo non sentiva ridere di gusto suo figlio? «Derek chi?».
«Non
credo ne abbiamo molti in comune» si imbronciò la matricola, come se fosse
stata offesa personalmente. «Derek, vieni a salutare lo sceriffo. Potrebbe
perseguirti».
«Non
sono più sotto la sua giurisdizione» lo contradisse lo sconosciuto annoiato,
dando evidenza di quanto fosse abituato a gestire le sue stravaganze.
«È
lo sceriffo, non lo provocare, potrebbe trovare degli scheletri indesiderati»
lo raggirò Stiles prontamente, con l’asso nella manica.
«Stiles,
sei tu ad avere la mania di cercare scheletri, anche dove non ci sono» proferì
disinteressato l’altro, rassegnato ad essere ragionevole con un tale
manipolatore.
«Li
trovo sempre, però» soffiò offeso lo studente del primo anno, a dimostrazione
di quanta ragione avesse dalla sua parte.
«Lo
so» c’era solo consapevolezza dalla sua parte, come se conoscesse a menadito
quella sua predisposizione.
Stiles
rimase in attesa a guardarlo, dando l’impressione che si aspettasse qualcosa da
lui, ma non accadde niente. «Stai di nuovo per uscire?» domandò poco dopo,
quando si accorse che Derek non si stava trattenendo.
«Sì,
sono passato solo per prendere il borsone» disse distrattamente il fantomatico Der,
trafficando con cerniere e fruscii vari.
«Giusto,
gli allenamenti» lo sguardo della matricola tornò verso lo schermo, ignorando
il padre in collegamento e guardando verso la sinistra specchiata, in basso, lì
dove lo sceriffo supponeva ci fosse l’orologio digitale. «Dovrebbe esserci
qualcosa che ti serve nell’asciugatrice».
«Okay»
fu tutto quello che proferì, i passi leggeri che si allontanavano.
Lo
sceriffo non sentì movimenti per una ventina di secondi, finché il rumore della
cerniera non si ripresentò.
«Ceniamo
insieme?» domandò Stiles quando il suo ospite ‒ inquilino? ‒
sembrò essere pronto per lasciare il nido.
«Sì,
dovrei farcela» altri fruscii di stoffa, le scarpe che battevano sul pavimento.
«Che cosa vuoi?».
«Cinese?»
propose retoricamente, gli occhi che si illuminavano di aspettativa. «No, no,
thailandese» scosse la testa come se ci avesse ripensato, ma non fosse
propriamente certo, contraendo parte dei tratti visivi.
Una
risata corta e vigorosa si espanse da dietro la telecamera e quello lo sceriffo
proprio non se l’aspettava. «Credo di conoscere un locale che le abbia
entrambe».
«Risolvi
sempre i dilemmi culinari» Stiles sorrise a mezza bocca, con una leggera nota
di presa in giro affettuosa, ma gli era evidentemente grato.
«Sono
qui da più tempo di te, Stiles» disse l’ospite per niente impressionato dal suo
modo di fare, ma era evidente che anche lui avesse le sue tecniche per
interagire con la matricola.
«Ma
se nemmeno sapevi dell’esistenza del Crescent Moon» lo additò con la
vittoria nelle sue mani, il ghigno malefico da volpe infuocata.
«Sei
tu che vieni attratto da queste cose» lo scandì chiaramente, a dovergli entrare
in testa una volta per tutte per quanto fosse rassegnato a quell’idea.
«Disse
il lupo mannaro» la maleficenza della sua furbizia di palesò senza pudore, le
punte della bocca in uno sogghigno pericoloso.
Alla
velocità della luce gli arrivò addosso un cuscino quadrato arancione che Stiles
intercettò al limite e la sua ilarità vibrò tra le mura del luogo in cui lo
studente di criminologia si trovava, ma anche quelle dello sceriffo subirono lo
stesso effetto ‒ stupefacente. Non sentiva e vedeva suo figlio
così felice da anni.
La
sua risata piena di vita riuscì a soffocarla con fatica e di slancio abbracciò
il cuscino che gli era stato lanciato per dispetto, punendo il suo sarcasmo
pungente. «E dai, Sourwolf, non mettermi il broncio» detto ciò, imitò la citata
smorfia, che su di lui aveva nelle connotazioni più dolci, da cucciolo a cui
tutto sarebbe stato concesso.
Alla
massima autorità di Beacon Hills stava andando in tilt il cervello. Un
campanello di allarme aveva cominciato a risuonare alle parole lupo mannaro,
affiancate a Derek, ma la comprensione totale era arrivata al Sourwolf.
Suo figlio aveva attribuito quel soprannome soltanto ad una persona.
«Sei
la solita volpe scaltra» dichiarò il lupo mannaro con coscienza, a sottolineare
una realtà che non potrà mai essere alterata.
Stiles
sorrise con la sua furbizia senza veli, ma c’era un affetto senza uguali che
non si impegnava affatto a celare. «Mi passi a prendere o ci incontriamo da
qualche parte?».
«Non
so dirtelo in questo momento» rumore di passi, l’indecisione e la fretta erano
presenti. Qualcosa di pesante fu alzato da terra e issato a fare da
contrappeso. «Ti invierò un messaggio».
«Ciao,
ciao, Sourwolf» la matricola di criminologia sventolò una mano ad accompagnare
il suo saluto, il mento sprofondato sul cuscino usato come arma del delitto.
Ci
fu un ciao di ricambio lontano e il tonfo di una porta pesante che si
chiudeva.
«Devi
dirmi qualcosa, Stiles?» domandò mezzo minuto dopo lo sceriffo, le sopracciglia
contratte e il tono indagatore.
Un
paio di battiti di ciglia a riprendere il cambio scena e Stiles era di nuovo in
direzione dello schermo del computer. «Dirti cosa?»
«O,
giusto due cosine» non doveva più sorprendersi, ma era di Stiles che si
parlava. «Derek Hale?».
«Mh,
sì» era tranquillo e per niente in difetto.
«Com’è
avvenuto questo incontro?» c’erano troppe cose che a Noah sfuggivano e che la
sua progenie si era premurata di non informarlo. «Dov’è esattamente che sei?»
non solo la camera in cui si trovava non gli era per nulla familiare rispetto a
quella del dormitorio, ma c’era passato sopra, perché Stiles l’aveva sempre
videochiamato in miliardi di luoghi diversi, ma in quel momento gli stonava la
presenza di Derek Hale negli stessi spazi comuni. Derek Hale che aveva lasciato
Beacon Hills due anni prima insieme alla sorella maggiore per non fare più
ritorno. Al tempo non sapeva che tutta la famiglia Hale fosse composta da
licantropi, che i due superstiti si erano impegnati ad istruire Scott e
compagnia; Stiles gli aveva propinato un riassunto abbastanza accurato perfino
con tutti i suoi pindarici giri di parole.
«Studia
qui, al Michigan State University» spiegò brevemente,
senza dilungarsi eccessivamente. Non c’era granché da raccontare, non fatti da
condividere con l’uomo a cui voleva nascondere i suoi problemi irrisolti. «E
sono nel suo appartamento».
«Studia
al tuo stesso college» ripeté risuonandogli sinistro, inverosimile. «E ti
lascia nel suo appartamento da solo?».
«Ogni
tanto, se non so dove studiare» non era nemmeno una vera bugia, Stiles aveva le
sue strategie, cambiava continuamente ambiente di studio, a seconda degli
stimoli e concentrazione che gli servivano.
Okay,
Noah Stilinski non credeva ad una sola sua parola. «State insieme?».
«Cosa?
No» si sarebbe soffocato con la sua stessa saliva per la visione
fantascientifica che suo padre aveva appena dipinto. «Perché dovremmo?».
L’espressione
dello sceriffo si fece piuttosto eloquente. «Ho un paio di idee».
Stiles
tossicchiò, sordo alle implicazioni sconvenienti espresse dal padre. «Non
stiamo insieme».
Era
abbastanza categorico e sicuro, non aveva dubbi al riguardo né ne appariva
dispiaciuto. In realtà, sembrava non averci mai riflettuto su ‒ o
ragionato. Eppure allo sceriffo i conti non tornavano, soprattutto per tutta
quella felicità e divertimento vivo che Derek Hale era riuscito a scatenare con
il nulla dopo anni di simil apatia. «Torna per Natale».
Stiles
si rifletté sullo schermo adagiato sul letto di Derek, ma anche
sull’espressione seria del genitore. «Sì, Natale» ma la matricola non voleva
che quel giorno arrivasse.
«Ciao,
Stiles» le sue orecchie vibrarono subito, non ebbe nemmeno il tempo di
presentarsi al nuovo cliente e offrirgli il suo servizio.
«Mi
hai trovato» disse quando degli occhi azzurri che cominciava a conoscere troppo
bene si palesarono davanti a lui.
La
bocca di Theo si curvò con malizia affascinante, l’attenzione tutta catapultata
sulla matricola di criminologia. «Crescent Moon, ti rispecchia molto».
Lo
sguardo della matricola di criminologia si fece interrogativo, non capendo
minimamente a cosa alludesse. «Dov’è il tuo lupo?» domandò senza tergiversare
il neo arrivato, il blu che scintillava di interesse giocoso.
Sperava
se lo fosse dimenticato. «Il cane lupo» lo corresse con prontezza, scandendo le
parole che dovevano entrargli in testa.
Theo
sorrise come se non potesse giostrarlo. «Allora, dov’è? Lo rincontrerò?».
Per
la tua salvezza, meglio di no. «È tornato dietro il
velo».
«Ah»
accentuò la piega allietata sulla bocca, l’eccitazione evidente che si
accentuava, scatenava. «Sei davvero interessante, Stiles».
Il
figlio dello sceriffo roteò gli occhi da una parte all’altra scocciato,
aspettando che quell’incontro terminasse in fretta. «Mi troverò alle calcagna
anche Donovan?».
Theo
sbatté le ciglia annoiato, cambiando totalmente la sua espressione, quasi ad
avergli fatto volontariamente un torto. «Non condivido le mie informazioni».
«Ahi»
esclamò Stiles con allegria pericolosa. «Non molto sportivo nei confronti del
tuo amico».
«Perché?»
se lo fece scivolare di dosso, come se non lo riguardasse affatto. «Lui non ha
suscitato il tuo interesse, non c’è una competizione in corso».
«Sono
piuttosto sicuro che non la veda così» non che gliene fregasse qualcosa, ma lo
sguardo di Donovan lo percepiva ancora su di sé quando lo incontrava per caso
al College of
Social Science o in compagnia fugace di Theo.
«Non
è un mio problema se non ha colto i tuoi segnali» si giustificò lo studente di
scienze politiche, evidentemente non interessato a quello che una volta si era
presentato come un rivale.
«E
tu, invece, li hai colti?» si fece tagliente e incisivo il futuro criminologo,
gli occhi assottigliati a giudicarlo.
Theo
sorrise ben conoscitore di se stesso. «Ho un’idea abbastanza chiara» il dito
indice andò a sfiorare alcune tra quelle poggiate da Stiles sul bancone in
attesa.
Stiles
né guardò né si scostò, lasciò la mano esattamente dov’era a permettere di
essere corteggiato. «Secondo me hai preso un abbaglio».
Il
ragazzo tenace non demorse e le sue labbra continuarono a restare curve
all’insù, ma con quell’accenno di timidezza studiata per un imbarazzo che
invece non provava. «Forse hai ragione tu».
Su
Stiles aveva costantemente un certo effetto ciò che il viso di Theo esprimeva e
non poteva negare che fosse stato attratto da lui fin dalla prima volta che
aveva posato gli occhi sulla sua figura. Non smetteva di bruciare. «Dovresti
ordinare qualcosa, sai».
«Giusto»
le iridi di zaffiro si innalzarono per leggere gli enormi cartelloni posti
dietro le spalle dei baristi e sopra la porta che conduceva alla cucina, vi
erano scritte ogni specialità, ogni bevanda o piatto ordinabile, tutti gli
ingredienti che potevano essere aggiunti. «Un caffè stretto, leggermente
macchiato, tre di zucchero».
Stiles
era un po’ sorpreso dall’eccessiva quantità di dolcificante, ma non era un suo
problema preoccuparsi del colesterolo degli altri, eccetto quello di suo padre.
Si limitò ad eseguirlo seguendo tutte le indicazioni, allungandogli il
bicchiere in cartone della dimensione più piccola che la caffetteria disponeva.
La mano di Theo si avvicinò nuovamente e sfiorò intenzionalmente quella del
barista, attardandosi più del necessario. «Quando finisci il turno?».
Stiles
non doveva seriamente sorprendersi dell’insistenza del ragazzo, ma in qualche modo
avvenne comunque, particolarità che invece di infastidirlo gli faceva soltanto
guadagnare punti. Agitò un dito indice in diniego, smontandolo sul posto per la
sua avventatezza. «Ti consiglio di ritentare. Sarai più fortunato».
Smorzare
il sorriso di Theo, invece, era impraticabile. «Sì, mi piaci proprio» pagò il
conto con lo smartphone, un’aggiunta del venti percento per la mancia
automaticamente accreditata al servizio alla cassa di Stiles ‒
imparagonabile a quella che regolarmente Derek gli versava, ma era lui ad
essere esageratamente esagerato ‒ e si liquidò con un mezzo inchino ed il
caffè fumante in una presa salda.
«Quello
è nuovo?» si insediò Tracy esattamente un secondo dopo la sua uscita, come se
non avesse aspettato altro.
«Non
proprio» ormai essere colti impreparati da lei era una faccenda quasi
archiviata.
«Che
effetto fai esattamente alle persone?» era impressionata, la capacità di
incantare di Stiles era fuori da ogni concezione logica. O semplicemente chi
attirava era estremamente temerario.
«Ne
so quanto te» il figlio dello sceriffo non le stava prestando particolare
attenzione, stava ancora fissando il punto in cui Theo fino alla fine aveva
flirtato con lui. «Potresti dirmelo tu» si ridestò quando si rese conto di
poter prendere la palla al balzo.
Tracy
ne fu colpita, non si aspettava che Stiles facesse un riferimento così chiaro
ai loro passati trascorsi. Stiles era piuttosto serio con il suo modo di
approcciarsi ai partner occasionali, non voleva repliche, a prescindere da come
si fossero svolte le cose tra loro. «Non cominciare a montarti la testa» lo
sbeffeggiò con amicizia. «Non sono ammaliata da te, ma dal tuo ragazzo».
Ovviamente,
come dimenticarlo. «Non è il mio ragazzo» si ritrovò
nuovamente a correggere Stiles, stanco di quella immotivata ripetitività.
«E
lui lo sa?» lo stuzzicò con audacia e spudorata la compagna di corso, ridendo
sguaiatamente.
«Sei
tremenda» ma davanti a quell’ennesimo equivoco, si domandò se lui e Derek
dessero quell’erronea impressione a chiunque posasse gli occhi su di loro.
Quanto
il suo turno si concluse e si velocizzò per cambiarsi, una volta sulla soglia
dell’uscita sul retro si accorse della pioggia fitta che impattava
sull’asfalto. Imprecò dentro di sé per aver dimenticato l’ombrello e sul non
aver mai riabbottonato il cappuccio removibile del giubbotto.
Affondò
il viso nella sciarpa calda di Derek e alzò la giacca imbottita sopra il limite
della testa, nella speranza di non bagnarsi eccessivamente, di riuscire a
percorrere i venti minuti di cui necessitava per raggiungere l’appartamento del
mannaro e cambiarsi senza incontrare troppi ostacoli.
«Sei
prevedibile» asserì la voce maschile che conosceva meglio di se stesso,
critica, ma anche sarcasticamente divertita.
Le
pupille scure si dilatarono nell’iride d’ambrosia, alzando la testa per
inquadrare meglio il suo interlocutore e notare che non gli cadesse più alcuna
goccia addosso. Derek lo fissava al riparo nel suo classicissimo e
inequivocabile ombrello nero, condiviso con la matricola leggermente inumidita
rispetto al cataclisma che aveva preventivato una volta abbandonato la
protezione del Crescent Moon. «Sei passato di proposito?».
«Sono
passato dal monolocale e ho notato questo» nella mano libera teneva un piccolo
ombrello da borsa ancora chiuso e asciutto. «Sapevo ti sarebbe servito, sento
quando il tempo sta per cambiare».
«Non
dovrò più seguire il meteo, allora» doveva averlo abbandonato sulla scrivania
del licantropo quando aveva preparato la tracolla la sera prima per la nuova
giornata universitaria. Non aveva ancora preso l’abitudine di doverselo portare
ovunque, benché di pioggia e tempeste ne avesse affrontate parecchie in quei
tre mesi, molto lontani dai temporali sopportabili della California di cui
Stiles si era sempre curato poco.
«Non
sai nemmeno cosa sia il meteo, Stiles» lo ribeccò la creatura della notte,
sorda alle sue arrampicate sugli specchi. Fece scattare l’apertura
dell’ombrello con un unico gesto, sprigionando una colata di colori
dell’arcobaleno e offrendolo al figlio dello sceriffo.
«Grazie»
disse Stiles con un po’ di titubanza nel vedere tutte quelle sfumature accese
accostate vicino al capitano della squadra di basket. Accettò l’oggetto e si
spostò sotto di esso, riuscì anche a ricomporsi un po’, ma non aveva molta
intenzione di togliere il muso dalla sciarpa, anche se avrebbe dovuto farla
asciugare una volta tornanti al caldo. «Non era necessario, ma grazie».
Le
dita libere del lupo si mossero fulminee ed erano già intrecciate ai capelli
dello studente di criminologia, rigirandoli e ispezionandoli. «Sei già
eccessivamente bagnato, credo proprio fosse necessario».
Stiles
sbuffò con offesa e contrariato, gli dava enormemente fastidio che Derek lo
considerasse cangevole, come se si ammalasse ad ogni alito di vento; non era
colpa sua se il suo corpo fosse impostato per sopravvivere ad un clima opposto.
«Mio padre ti adorerebbe» era il cane da guarda perfetto per lui, l’essere che
interveniva ogni volta che una situazione si presentava sgradevole o la
anticipava. Non era certo fosse il miglior complimento per un lupo mannaro
scontroso quanto Derek.
Contro
ogni sua aspettativa, lo sguardo del mannaro si fece più intenso ed era quasi
impossibilitato a distoglierlo. «Con te, ogni aiuto è necessario».
Stiles
lo fulminò e si imbronciò da diciannovenne maturo quale fosse, sorpassandolo e
spezzando ogni contatto tra loro, proseguendo per la sua direzione senza
voltarsi indietro. Al suo dispetto, sentì soltanto Derek ridacchiare
sommessamente. Non era mai prolungata e sonora, era sempre una risata
trattenuta, limitata, quasi avesse un timer che gli indicasse la durata e la
bloccasse superato il valore scelto, ma era più di quanto Stiles avesse sentito
nei due anni di liceo che avevano condiviso.
Qualche
secondo dopo, il licantropo era già di fianco a lui sotto la pioggia scoscesa.
«Dove andiamo?».
«Gli
altri hanno proposto pollo e tutta quella roba lì» non avevano un KFC nel
campus, ma non mancavano i punti di ristoro che proponevano le loro alternative
impanate e croccanti.
«O
sì!» Stiles si illuminò come se fosse un giorno di festa, facendo ruotare
l’ombrello per la sua felicità, creando vortici di luce colorata nell’oscurità
data dalla mancanza della luna, ricoperta dai nuvoloni minacciosi.
«Raggiungiamoli, ti prego. Adoro le cosce di pollo. Il petto di pollo. Le
crocchette di pollo».
«Strano
approccio per il ragazzo dei vegetali» lo schernì ironico il playmaker,
digitando la risposta sul telefono da inviare a quel branco mal assortito.
«Quelli
sono soprattutto per mio padre» quando non interferivano le sue paturnie.
Proseguì
un silenzio che poteva risultare anomalo, ad aver toccare un nervo scoperto.
«Quando hai iniziato?».
Il
figlio dello sceriffo sbatté le ciglia varie volte, gocce d’acqua vi erano
ancora incastrate e anche se cambiò la pendenza dell’ombrello, non riusciva a
vedere Derek perfettamente. Era concentrato nel continuare ad andare avanti.
«Ad occuparmi della dieta di mio padre?» domandò a completare il pensiero del
lupo, chiedendosi se fosse quello giusto. Ricevette un mormorio di assenzo da
parte del mutaforma. «Un anno dopo la morte di mia madre ebbe un infarto» non
era un argomento che affrontava spesso, lo ritirava fuori soltanto quando
rimproverava il genitore. «È stato devastante, ho temuto di perdere anche lui,
di rimanere da solo una volta per tutte» in realtà, le occasioni in cui sarebbe
potuto accadere avrebbero dovuto essere molte di più, ma Beacon Hills era
apparentemente stata tranquilla finché gli Hale ero in vita, soltanto che
nessuno di loro era a conoscenza della loro impronta. «La sua vita non è mai
stata troppo equilibrata, ma i pezzi hanno cominciato a disfarsi dopo
l’aggravarsi della malattia di mia madre. Il lavoro, la malattia, la sua morte,
i miei attacchi di panico continui… il suo cuore non ha retto» prese un
profondo respiro, i ricordi amari che tornavano in superficie. «Appena l’hanno
ritenuto fuori pericolo, ho cominciato a lavorare ad una tabella alimentare, a
programmare i suoi pasti ed a bandirne altri».
I
passi si fecero più lenti, l’acqua ghiacciata scorreva per i canali e non era
il caso che l’umano scivolasse tra i torrenti. «Avevi soltanto nove anni».
«Sì»
confermò, non seriamente stupito che Derek sapesse fare i conti, ma che si
ricordasse ogni avvenimento nel corretto ordine cronologico. «Ma che importanza
ha? Io voglio mio padre vivo. Lotterò sempre per lui».
Come
poteva essere diversamente? «Provi un grande amore per Scott e
il tuo branco, ma la persona che ami di più è tuo padre».
Stiles
si bloccò di botto, la pioggia che si faceva più violenta che picchiava sulla
stoffa, le gocce che lo separavano dalla creatura leggendaria. «L’ho quasi
perso di nuovo un anno fa, Derek. Un altro attacco cardiaco, un altro letto
d’ospedale e una sala d’attesa in cui aspettare. Un nuovo infarto perché
l’Alpha delle Chimere mi voleva con sé e doveva colpirmi nel modo più violento.
Non mi interessa se mio padre si è dimenticato di me per mesi, se non sapeva
nemmeno che esistessi, ma forse sarebbe stato più al sicuro. Lo sarebbe stato
ancora prima, quando l’anno precedente il Darach l’ha rapito per sacrificarlo
al Nemeton» Stiles le aveva contate tutte quelle brutali e pessime esperienze,
quando le sue azioni avevano avuto più ripercussioni del solito.
«Quale
pensi sarebbe il suo pensiero?» lo interrogò Derek con più durezza, statuario
davanti a lui, l’ombrello sollevato nella parte frontale a mostrare ogni sua
espressione facciale. «Baratterebbe la sua vita con un’altra? Rinuncerebbe a
te? Credo proprio tu abbia avuto la risposta a queste domande».
Stiles
si trovò con un groppo in gola, un magone che proprio non riusciva a mandare
giù. Sì che aveva avuto quella risposta: il dolore della perdita del proprio
figlio era stato così enorme e dilaniante, da riuscire a creare un essere che
potesse attenuarlo ‒ poco importava se fosse una copia distorta di sua
madre. «Mi spezza il cuore mentirgli sulle mie reali condizioni. Mentirgli ogni
singolo giorno, ma non posso dirgli la verità. Non voglio che lo veda con i
suoi occhi. Non voglio tornare per Natale».
Derek,
nella sua pacatezza, espirò profondamente. «Lo so».
Non
c’era nessuna forma di rimprovero da parte sua né lo stava giudicando
negativamente o in qualsiasi altro modo, avrebbe semplicemente rispettato le
sue decisioni.
L’umano
non aveva mai avuto un alleato migliore del lupo mannaro dalle iridi rubino e
zaffiro.
«Si
mangia!» esclamò con entusiasmo ghiotto Erica, le portate che venivano servite
su cestini di carta e le bevande zuccherate su ogni postazione. Non c’era mai
alcol sul loro tavolo anche se la maggior parte di loro aveva ventun anni, non
avendo alcun effetto sui mannari ne facevano a meno e Stiles lo evitava come la
peste, dopo aver avuto troppe brutte esperienze con sbronze, veleni
paralizzanti da kanima e droghe da banshee. Voleva il completo controllo su di
sé e certamente non avrebbe mai aiutato nella condizione in cui si trovava.
Erano
seduti tutti e cinque vicino alla grande finestra, sulle grandi panche
rivestite in tessuto omologate per tre, Boyd e Isaac ne avevano occupata una
per intera, mentre la mannara aveva cambiato posto appena Derek e Stiles li
avevano raggiunti; la pioggia era ben visibile per la sua violenza, illuminata
dai lampioni sparsi sulle strade, gli ombrelli erano tutti stati abbandonati
all’ingresso, negli appositi contenitori che erano stracolmi e l’umano si
chiedeva se sarebbero riusciti a trovarli nuovamente.
Stiles
accolse trepidante la sua porzione di cosce di pollo fritte, la pastella
croccante che emetteva un rumore divino nel momento in cui veniva addentata o
spezzata, aveva letteralmente l’acquolina in bocca e tra tutti loro c’era da
domandarsi chi fosse davvero l’animale. «Mi è passata la fame» disse invece con
infelicità, l’amarezza che gli avvelenava il palato e il disagio che lo
investiva a fiumi.
Derek
aveva a malapena addentato la sua pietanza, al contrario degli altri che
masticavano voraci, arricchito tutto da chiacchere, e la sua attenzione fu
subito catapultata sulla matricola, una coscia di pollo era stata spaccata a
metà, per via della maniacalità sviluppata di controllarne il contenuto, con
l’evidenza di un’errata cottura. La carne bianca, soprattutto quella attaccata
all’osso, era completamente cruda ed in alcuni punti perdeva anche liquido
scarlatto e violaceo che non otteneva la simpatia di Stiles. In realtà quella
di nessuno. «Lo facciamo sostituire».
Il
figlio dello sceriffo scosse la testa come unica risposta negativa, chiudendosi
a riccio, il viso sbiancato. «Detesto sprecare il cibo».
«Questo
è un errore grave, nessuno potrebbe mangiarlo» a meno che non si aspirasse ad
una morte certa.
«Tu
potresti» cosa potrebbe mai fare della carne bianca cruda ad un lupo mannaro,
era predisposto per staccarla viva a morsi e ingoiarla. «In realtà, tutti voi».
Isaac,
Boyd ed Erica si sentirono chiamati in causa, già concentrati sull’unico umano
della tavola, a cui era stato destinato un infausto scherzetto.
«Nessuno
di noi lo farà» dichiarò chiaro Derek, un ordine per tutti, a sottolineare che
se c’era un problema, andava affrontato. «Scusi» richiamò l’attenzione di una
delle cameriere, alzando il dito quando rientrò nel suo raggio d’azione. «Lo
porti via».
Stiles
si sentiva tramutato in una statua, non riusciva a muoversi e ad affrontare la
situazione, non era nemmeno lui il protagonista di quella spiacevole
situazione. Il suo problema con il cibo era più accentuato di quanto sembrasse
all’esterno, gli dispiaceva che dovessero raccoglierne i cocci, che Derek
dovesse sempre muoversi in sua vece perché in lui si creava un rifiuto totale
che lo annichiliva totalmente.
La
cameriera si avvicinò e osservò il cestino in cartone colorato, soprattutto
notò Derek e si fece subito più interessata, pronta a scattare e servire. Tanta
ilarità sul servire, Stiles sbuffò internamente, roteando gli occhi
contrariato e per niente sorpreso di avere a che fare con un altro essere
vivente che sbavava sul capitano della squadra di basket. «Lo sostituisco
subito».
«No»
dissentì immediatamente il playmaker, gli occhi verdi che si concentravano
interamente sulla disapprovazione dello studente di criminologia, sull’arrivo
di un messaggio differente. «Non ci serve altro».
La
donna esitò, stupita dalla risposta e tergiversò per qualche secondo, prima di
congedarsi. «Scusate per il disagio».
Ci
fu qualche attimo di silenzio sul tavolo, Stiles voleva soltanto andarsene via
e chiudere la serata, ma non era corretto nei loro confronti.
«Puoi
scegliere altro» si intromise Erica. Non le era capitato spesso di vivere
quelle spiacevoli situazioni con Stiles, solitamente lo sbaglio sulla cottura
lo innervosiva e lo rendeva più spietato, ma la sostituzione era garantita.
Stiles
si chiuse ancora di più in se stesso, il torto che sapeva appartenergli. «Non
insistere» disse invece Derek, invitandola espressamente a non pressarlo
eccessivamente, a lasciargli lo spazio di cui bisognava.
Erica
diresse la sua attenzione verso il ragazzo che seguiva da anni, l’indecisione
di aggiungere qualcosa e proporre un’alternativa, ma era consapevole che Derek
avesse vissuto episodi analoghi più di lei.
Il
branco tornò a cibarsi con più attenzione, rallentando i tempi, ma le voci ripreso
il loro corso. L’umano si afflosciò sul divanetto, abbandonandosi contro lo
schienale e rilasciando un respiro liberatorio, ad allentare il macigno che gli
gravava sul petto, districando i nodi nello stomaco.
Sentiva
l’occhio vigile di Derek su di sé, leggermente voltato verso di lui, e Stiles
si incatenò a quell’attenzione non invadente, ma che voleva soltanto accertarsi
che si fosse tranquillizzato. La matricola accennò una curva di gratitudine
sulle labbra e il lupo completo gli accarezzò con il dorso piegato di un dito
il centro della fronte, ad accentuare il suo stato d’animo più sereno.
Per
i successivi cinque giorni si avvalsero esclusivamente di cucina vegana.
Le
ciglia addormentate sfarfallarono, il disorientamento lo colse ed ebbe bisogno
di qualche attimo per comprendere dove si trovasse, cosa stesse accadendo.
Dalla
penombra, infranta dai raggi lunari, vi era la figura del licantropo seduto sul
bordo del letto, i piedi nudi sul pavimento, le lenzuola scomposte, il letto
sfatto, la schiena nuda da cui svezzava il grande tatuaggio nero; era piegata
in avanti, i muscoli contratti, la stanchezza evidente e un misto di emozioni
che Stiles non poteva percepire, ma notava come Derek si stesse tenendo la
testa tra le mani, impossibilitato a scacciare quello che lo angustiava.
«Derek?».
Il
lupo non apparve sorpreso di udire la sua voce, segno che lo avesse già sentito
muoversi o prendere coscienza del mondo della veglia. «Torna a dormire» lo
invitò, a permettergli di lasciarsi scivolare la situazione.
Era
stato un po’ brusco, ma doveva aspettarselo, era Derek, la gentilezza non era
la sua caratteristica principale, soprattutto nelle situazioni in cui si vedeva
in svantaggio, eppure difficilmente si rivolgeva a lui con quell’atteggiamento
da quando erano lontani da Beacon Hills.
Era
indeciso, non sapeva cosa fare, se potesse osare, ma non voleva che il lupo
completo si allontanasse nuovamente come la prima volta in cui l’aveva beccato.
Si alzò sulle ginocchia e scivolò sul materasso, avvicinandosi nella sua
incapacità di fare silenzio al mannaro. «È colpa mia? Ho fatto qualcosa?» era
difficile trovare il coraggio di chiederglielo, trovare le parole giuste che
indicassero tutte le pene e le affiliazioni di cui Derek si stava caricando per
colpa del cervello rotto che Stiles possedeva.
«No,
non hai fatto niente» rispose immediatamente, quasi si aspettasse che l’umano
gli ponesse la domanda da un momento all’altro, il che indicava quanto il
capitano fosse pronto verso la sua direzione, anche quando in crisi era lui
stesso.
Era
rincuorato da una parte, sapere che non gli occupasse tutto il tempo con le sue
problematiche distruttive, ma capiva anche se non era in grado di risolvere il
problema senza indagare.
Si
accucciò dietro la grande schiena del mutaforma, la testa che gli poggiava
contro poco sotto la spalla. Derek non si scosse né lo scacciò, era anche
troppo immobile per i suoi gusti. «Posso fare qualcosa?».
«No»
proferì monosillabico, lapidario.
Era
desolante e faceva male non potere aiutare qualcuno che si spendeva tanto per
lui, per la sua sicurezza e salute. Derek non era tipo da chiedere aiuto,
esattamente come lo era Stiles, ma perfino dopo tutto quello che avevano
condiviso il lupo era tanto ostile nei suoi confronti?
La
matricola respirò sulla sua pelle, il fiato che si infrangeva, il naso che lo
accarezzava labilmente. Gli schioccò un bacio di riflesso, un autonomismo
elementare a sottolineare quanto fosse l’unica cosa da compiere.
Derek
vibrò per un solo secondo a quel bacio sulla schiena e poi tutto entrò
nell’immobilismo.
Il
respiro della creatura della notte era pesante, stava cercando di riprenderne
il controllo, così come delle sue emozioni devastanti, il corpo era più caldo
del solito ed era evidente che avesse sudato di nuovo, ma Stiles non si
ritrasse, rimase dov’era a completo contatto, a vivere l’intero dolore di
Derek.
Si
chiese se fosse concentrato su Paige o sulla sua famiglia, o perfino su quello
che Katie gli aveva fatto; Derek aveva sofferto così tanto che si domandava se
riuscisse a vivere un dolore per volta o fosse tutto così tanto incatenato da
non essergli permesso, testimone di ogni suo piccolo errore portato dalla sua
ingenuità, da schiacciarlo e condannarlo, senza dargli tregua.
Trascorse
talmente tanto tempo da chiedersi se le ore si fossero dilatate. «Der, torna a
dormire con me» era privo di energie, ma avrebbe consumato perfino quelle che
non aveva se a Derek fossero servite.
«Ti
ho detto di andare» fu l’unica cosa che il capitano della squadra di basket
disse, asciutto e irritato.
«Non
farò niente senza di te» erano due testardi, averla vinta era una battaglia
persa in partenza.
Derek
sospirò con stanchezza, si passò le mani sul viso a scacciare tutto quello che
vi era impresso, prendendo nuovamente un respiro profondo, facendo muovere
l’umano con lui. Si scostò e voltò nella direzione del figlio dello sceriffo,
gli occhi negli occhi a scrutarsi reciprocamente in quel buio ingrigito. Stiles
non riusciva a scorgerlo come avrebbe voluto, ma la vista di Derek era
impeccabile, che fosse giorno o notte, lui vedeva tutto. «Che volpe diabolica».
Stiles
si stava a poco a poco abituando all’appellativo con cui Derek lo descriveva di
occasione in occasione, quasi fosse studiato o non fosse più necessario
trattenersi. «Puoi sempre imbrogliarmi».
«Imbrogliarti»
gli fece eco come se ci stesse meditando su, a comprendere il reale
significato. «La vittoria è sempre tua».
Stiles
accennò un sorriso malandrino e prese Derek per mano, conducendolo con la
giusta tempistica verso il suo lato del letto e costringendo entrambi a
distendersi, coprendosi con le coperte fino al collo. «Hai propriamente
ragione, Sourwolf».
Derek
sbuffò sul suo viso con disapprovazione e ribellione e Stiles rispose
inoltrandosi maggiormente verso di lui, un solo respiro a dividerli, ognuno al
limite della punta dei rispettivi cuscini, riflesso l’uno nell’altro. «Io ci
sono» disse la matricola con sincerità e serietà, totalmente prodigata verso il
licantropo, intrecciando le dita della stessa mano che aveva usato per
guidarlo.
«Lo
so» soffiò la creatura leggendaria, le iridi che brillarono di pagliuzze blu e
rosso. «Ci sei sempre».
Stiles
non aveva alcuna idea a cosa Derek si riferisse, ma era felice che potesse in
qualche modo bastargli, che al momento fosse tutto quello che gli era concesso
fare nei suoi confronti.
Socchiuse
le palpebre con delicatezza, sfiorando il naso del lupo, alleggerito rispetto
alla situazione precedente. Derek, a rispondergli, intensificò meglio la trama
delle loro dita e Stiles avvertì che si fece ancora più vicino.
Non
aveva né guarito né risolto le pene che affliggevano il mutaforma, ma non gli
avrebbe permesso di affrontare quella battaglia da solo, sarebbe intervenuto in
ogni occasione offertagli per ricordargli che erano diventati due.
Heather
quel pomeriggio lo osservava con dubbio, quasi incerta di cosa pensasse
realmente e con l’evidenza che volesse chiedere qualcosa, oltre alla comanda
che Stiles eseguì alla perfezione. Era il settimo giorno dalla prima volta che
l’aveva servita e avevano flirtato in ogni occasione presentata. «Il ragazzo
che viene sempre qui… state insieme?».
Alla
fine il quesito fu posto e Stiles avrebbe avuto il malsano istinto di chiedere
a quale ragazzo si riferisse, benché fosse ormai chiaro. «Affatto. Non c’è
niente tra noi».
La
bionda sospirò rassicurata, l’indecisione che evaporava. In fondo il figlio
dello sceriffo poteva capire che un numero discreto di persone avessero bisogno
di sapere di non intromettersi in relazioni avviate, a prescindere da che scopo
si volesse raggiungere. «Sono libero stasera, se ti interessa» la informò con
perizia, la proposta sottintesa di un proseguimento piuttosto interessante,
dedito alla scoperta reciproca e al piacere.
Heather
lo guardò intensamente per qualche attimo, a decriptare correttamente il suo
messaggio e rispondendo con un sorriso affilato.
Quella
sera Stiles fu costretto a inviare un messaggio a Derek, per informarlo di un
ritardo prolungato e di posticipare la loro videochiamata notturna.
«Ho
un ricordo chiaro in testa» disse Stiles con indosso il pigiama con le volpi
del mannaro, rotolandosi sul materasso e stringendo sotto al mento il proprio
cuscino. «Di te».
Il
capitano stava sistemando il suo borsone sportivo per la giornata successiva,
la partita prevista ad un orario proibitivo, per permettere alla squadra ospite
di ritornare in giornata al Michigan State University. «Cominciano
ad essere un po’ troppi».
Il
licantropo come di consueto era a torso nudo, muovendosi per la camera singola
di cui generalmente pagava la differenza di tasca propria, non volendo
condividerla con nessuno. A volte si chiedeva se avesse cominciato a
pretenderla da quando era entrato nella sua vita, dovendogli dedicare anche
quelle ore notturne distanti e senza provocare fastidi allo sfortunato con cui
avrebbe potuto coabitare. «Ti ripeto quella cosa in cui non sono entrato a
conoscenza di te a quindici anni?».
Derek
brontolò come se non avesse nessuna importanza. «Sentiamo» si sistemò sul
materasso, poggiando la schiena alla testata imbottita del letto, che Stiles
non trovava particolarmente igienica, ma ad un lupo mannaro come lui cosa
poteva importare, anche se era estremamente facoltoso.
Lo
studente del primo anno vedeva il pettorale scolpito del mutaforma anche a
stati di distanza, attraverso una microtelecamera presente nei loro smartphone;
i muscoli che si flettevano ad ogni suo movimento. Era sconveniente quanto
Stiles riuscisse ad essere costantemente in uno stato di bollore quando si
trattava di Derek persino attraverso una qualità dubbia, anche dopo aver appena
scaricato le sue voglie sulla partner designata in quell’occasione. «L’incontro
nel bosco, subito dopo che Scott è stato morso e noi cercavano delle risposte
per capirci qualcosa».
«Io
ricordo tu avessi capito perfettamente cosa fosse successo» lo interruppe il
licantropo incisivo, raccontando una storia diversa. «Era Scott a non aver
compreso nulla, a non crederci nemmeno».
«Credo
che la sua incredulità fosse una reazione più normale della mia» con una mente
diversa dalla sua, Stiles poteva comprendere le perplessità del suo migliore
amico.
«Certo,
ma era lui ad aver ottenuto il morso, tu non eri nemmeno lì» sottolineando
l’assurdità di come gli eventi si fossero sviluppati, di come qualcuno di
completamente esterno e non coinvolto avesse più risposte del diretto
interessato. «Per te l’impossibile è possibile».
«Non
sarebbe stato male se per una volta mi fossi sbagliato» si sarebbero
risparmiati molte difficoltà e tragedie.
Derek
si ammutolì, il silenzio era tutto ciò che era rimasto udibile. «Continua con
il tuo ricordo, Stiles».
«Beh,
ecco…» ora era in difficoltà, percepiva della contrarietà da parte della
creatura della notte e sotto sotto si sentiva alquanto sciocco a tirare fuori
quella storia. «Il primo ad essersi accorto di noi, a trovarci, sei stato tu.
Subito dopo hai condotto Laura da noi» molto strano per qualcuno che non ne
voleva proprio sapere di loro, che per tutta la durata di quell’anno si fosse
tenuto ai margini, senza voler interagire se non costretto. «È curioso».
Derek
lo guardò in modo anomalo, quasi avesse sopravvalutato la sua intelligenza.
«Non ho trovato voi. Ho trovato te» specificò a scandirlo, le parole che si
stampavano nel cervello di Stiles. «Ti ho già detto di conoscere il tuo odore».
«Sì»
che diavolo significava? «Lo conoscevi già allora?» il lupo ispessì le
sopracciglia a giudicarlo malamente. «Mi correggo: sapevi già distinguerlo?
Credevo avessi seguito l’odore di un lupo nuovo che non conoscevi e invadeva la
tua proprietà privata».
«Eri
un po’ difficile da ignorare quando ti ostinavi a seguire i nostri allenamenti,
a fare tutto quel baccano con i tuoi schiamazzi festosi» Stiles arrossì, perché
sapeva essere vero. Non si era mai controllato quando Derek era in campo a
mostrare le sue tecniche perfette, anche semplicemente durante un allenamento
di riscaldamento. Era sempre meglio che tornare in una casa deserta e nessuno
l’aveva mai esortato ad andarsene ‒ abituarvi al pubblico può solo
farvi bene, li spronava il coach. «E sì, sentivo il suo odore, ma era
troppo flebile. Il tuo, invece, era estremamente distinguibile».
Felice
di essere servito alla causa. «Grazie, avremmo continuato a brancolare nel
buio».
«Non
credo» dissentì il playmaker, con una visione totalmente diversa. «Saresti
riuscito a ottenere le tue risposte da solo e hai un modo tutto tuo di trovare
dei metodi funzionanti. Ve la stareste cavati».
Come
poteva non essersi mai accorto che Derek provasse una tale stima nei suoi
confronti? «Non sono comunque curioso di scoprirlo».
«Strano,
per una volpe in cerca di pericoli come te» Derek rilasciò una piccola risata
indistinguibile e Stiles avrebbe voluto trovare altri modi per scatenargliela
più di frequente.
«Don't-don't it feel so good right now?» intonò lo
studente di criminologia a voce soffusa qualche tempo dopo, il viso quasi del
tutto premuto sul cuscino e gli occhi leggermente socchiusi. Si muoveva a tempo
con lentezza, balbettando il don’t e soffermandosi scandendo sul right now, come Derek immagina richiedesse la
canzone.
«La
canti spesso» osservò il mannaro mentre andava avanti con qualche altro verso,
la stanchezza evidente che incombeva su Stiles.
«Davvero?
Non ci ho fatto caso» sbadigliò a bocca aperta sulla stoffa, il viso che si
spalmava meglio a cercare morbidezza. «Quando una canzone ti entra in testa è
difficile scacciarla via» abbozzò un’occhiata verso lo schermo del telefono, il
filo del caricabatteria già collegato. «L’hai mai ascoltata?».
«Soltanto
cantata da te» confessò la creatura della notte. Ne disconosceva perfino il
titolo.
Stiles
ridacchiò tra un misto di imbarazzo e allegria. «Non la migliore esperienza».
«Non
mi lamento» di voci gracchianti ne era stato pieno nella vita, il suo udito
spesso si spingeva troppo in là. «Hai un bel timbro».
La
matricola rise nuovamente e fu avvolta dal calore, anche senza che Derek fosse
lì in carne ossa ad emanarlo. «Stai flirtando con me?».
Derek
lo guardò senza un’inclinazione particolare, la perenne espressione controllata
che non lasciava trasparire nulla. «Ti do questa impressione?».
«Qualche
volta» ammise senza esitazione, il riverbero lontano di una risata lieta e
addolcita.
«Addirittura
qualche volta» il mutaforma scacciò
quell’assurdità con un unico gesto del capo, eppure era sempre statuario e
impeccabile, come se qualsiasi cosa Stiles gli dicesse non potesse piegarlo e
allo stesso tempo non si risparmiava di giocare con la piccola volpe al di là dello
schermo.
«Sì»
se Derek fosse stato lì, l’avrebbe toccato, sarebbero stati talmente vicini da
rendere difficoltoso trovare la fine di uno e l’inizio dell’altro. Fronte
contro fronte, i respiri che si miscelavano in uno solo e forse il lupo
completo gli avrebbe schioccato un bacio in un angolo del suo viso ‒
benché accadesse principalmente quando voleva consolarlo, confortarlo o fargli
sentire che era con lui.
Arrancava
davanti alla sua assenza, gli mancava come non credeva immaginabile, senza una
valida ragione.
«Com’è
andata la tua serata?» gli chiese invece Derek, andando avanti come se non
avessero parlato di niente.
Stiles
mugugnò contrariato, affondando il viso sul cuscino per nascondersi alla sua
vista con scarsi risultati. Non gli dispiaceva che Derek fosse diventato nei
suoi confronti umanamente accettabile, le domande di rito di una conversazione
quotidiana, ma era consapevole che il playmaker sapesse esattamente come avesse
trascorso quella sera. «Bene» non aveva nulla di cui lamentarsi, ma non voleva
nemmeno sbilanciarsi, raccontare il modo in cui si fosse intrattenuto con la
sua partner d’occasione.
«Da
ripetersi?» provò il mannaro, seguendo l’onda di piacevolezza che era evidente
Stiles avesse incontrato.
«Conosci
la risposta» perché chiederglielo quando era stato piuttosto chiaro. Sembrava
che a nessuno volesse entrare in testa. «Anche se fosse stata la mia migliore
esperienza, non permetterei che succedesse».
«Con
qualcuno vorresti» Derek lo disse senza girarsi attorno, gli occhi fermi e
troppo pieni di lui, conoscitore dei suoi segreti inespressi.
Ah, perché doveva
essere così cosciente di cosa vivesse in Stiles? Lo mandava ai matti. «Forse»
non bastava che Theo avesse colto la sua incertezza, per Derek, al contrario,
non esisteva. «Comunque sia, non era un lui» non vi era motivo per cui dovesse
essere così specifico, ma voleva evitare che ci fossero dubbi sulla sua
irremovibilità di riconcedersi alla stessa persona.
Il
licantropo non si pronunciò e il figlio dello sceriffo non sapeva se fosse il
caso di interrompere lì la conversazione. «Chi proteggi in questo modo? Loro o
te stesso?» era evidente che, invece, Derek avesse molto da dire; molto
insolito rispetto al vecchio Derek. Ma tutto lo era in confronto, probabilmente
perché non gli aveva mai permesso di avvicinarsi, interagire e conoscerlo.
«Potrei
rigirarti la domanda» l’umano non ritirava mai gli artigli, se doveva colpire,
colpiva, a prescindere quanto affetto e gratitudine provasse per quel
bellissimo lupo scorbutico.
La
creatura della notte lo fulminò con quelle incredibili iridi verdi, riuscivano
a spiccare in tutto il loro splendore anche attraverso una microscopica
telecamera in un ambiente in penombra; la matricola non riusciva proprio a
digerire l’ingiustizia.
«È
vero, non voglio che le persone si avvicinino troppo. Non voglio che nascano
situazioni complicate perché vengo frainteso o non diano peso alle mie parole,
archiviandole come sciocchezze dette tanto per essere dette e mettere le mani
avanti» in parte lo erano, lui era chiaro fin dal principio perché odiava le
scenate, ma con qualcuno non sembrava bastare mai. «Non ho detto nemmeno che
rinnego l’amore o che non possa succedere di innamorarmi in qualsiasi momento,
semplicemente non voglio creare di mia iniziativa un terreno in cui possa
germogliare finché non sarò in grado di badare anche un minimo a me stesso».
«Questo
è qualcosa che dovrebbe decidere la seconda persona coinvolta» disse
inaspettatamente il lupo mannaro, la voce profonda e penetrante che gli
affondava nei timpani.
«Che
cosa?» gli occhi ambrati erano attivi e circospetti, spalancati per lo stimolo
della sorpresa scioccante. «Di prendermi così come sono adesso?».
«Anche»
acconsentì all’ipotetica possibilità il capitano della squadra di basket, il
cellulare che cambiava inquadratura per la nuova posizione in cui si era
sistemato, distendendo i muscoli addormentati. «Adesso o dopo».
Stiles
era un po’ confuso, credeva di aver perso il nocciolo della questione o che
l’avessero persa entrambi. «Non mi chiuderò a riccio se avverrà un colpo di
fulmine, se è questo che ti preoccupa».
«Forse
no, ma comunque non ti sentiresti adeguato, giusto» la verità che Derek rivelò
a parole lasciò svuotato lo studente di criminologia di ogni particella
d’ossigeno.
«Avrei
torto in quel caso?» Derek non poteva proprio rimproverarlo per quello. «Quante
persone potrebbero accettare la mia storia? Imbarcarsi con le mie attuali
difficoltà?» Stiles in realtà non si era mai soffermato su quell’aspetto, era
troppo concentrato su se stesso per desiderare di far affondare qualcun altro
con sé, rimuginarsi su e fantasticarci. Aveva cercato di avere una relazione
quando era completamente a pezzi e non aveva minimamente funzionato, ma nella
via appena accennata per la guarigione come sarebbe andata? «C’è un solo nome
nella mia lista» cazzo, non avrebbe
mai dovuto farselo sfuggire.
C’era
un silenzio millenario intorno a loro, l’aria era immobile in modo anomalo
perfino all’interno di un appartamento. Era impressionante quanto fosse bravo a
scavarsi la fossa da solo anche quando la persona interessata non era nemmeno
nella stessa stanza. In quel caso specifico, nemmeno nel medesimo stato.
«Chi
sta flirtando, adesso?» lo stuzzicò bonariamente la creatura leggendaria,
spezzando la tensione che si stava radicando dentro l’essere umano.
Stiles
soffiò come un gatto offeso, indispettito e colto alla sprovvista. «Non voglio
parlarti più» si girò dall’altro lato per sfuggire al suo sguardo vigilante,
accompagnato dall’ennesimo sbadiglio che gli scappò a sottolineare quanto non
riuscisse più a stare sveglio ed a connettere il cervello con pensieri fluidi e
comprendibili.
Derek
rilasciò una risata più morbida e prolungata rispetto a quelle passate,
trattenendola di meno. «Stiles, non sto dicendo che stai agendo nel modo
sbagliato. È giusto che ti muovi nel modo in cui ritieni più opportuno e anche
di essere attualmente disinteressato a qualsiasi tipo di relazione che vada
oltre il colloquiale, ma non c’è bisogno che tu sia così severo. Se vuoi
rivedere qualcuno, fallo».
Con
il volto nuovamente diretto verso la fotocamera, il naso di Stiles si arricciò
a dissentire la sua visione, per niente persuaso a voler agire diversamente e
scatenando un’altra singola e secca risata nel mutaforma. «Buonanotte,
Sourwolf» voleva soltanto rivedere Derek, in tutta la sua presenza
materialistica, non attraverso un freddo schermo senza che potesse avvertire il
radiare della sua temperatura corporea incredibilmente alta o il suo odore
selvatico e completamente connesso alla natura che avevano il dono di farlo
sentire totalmente al sicuro.
Sfiorò
appena, distante da sé, il cuscino di Derek con le punta delle dita,
sprigionando la sua fragranza e Stiles sospirò di contentezza, ispirandola
tutta, anche se era un rachitico contentino. «Buonanotte, Stiles» proferì il
lupo nero con tutto il calore che poteva trasmettergli da quella distanza
insormontabile.
Lo
sfregare della padella lo svegliò, lo sfrigolare dolce e delicato, appena
accennato, insieme al profumo delizioso che gli riempiva le narici ad
annunciargli un lieto ben svegliato e
un pronostico migliore per iniziare la giornata universitaria.
Dalla
finestra proveniva luce aranciata per via della tenda che Derek aveva scelto,
propagando quel calore in tutto l’ambiente circostante, impedendo ai raggi
solari di invaderlo completamente e attutendo il suo potere, ma quel giorno
Stiles notò che era del tutto inutile quella premura, come nei giorni passati,
il mal tempo regnava sovrano, le nuvole difficilmente si dissolvevano e si
chiedeva se stava finalmente arrivando il tempo della prima nevicata.
Mettendosi
in posizione da seduto, la schiena contro i cuscini, gli occhi ancora appannati
e sporchi di sonno, non poté non notare quanto effettivamente fosse calda la
casa del mannaro, tutti quei rossi e aranci, singoli o miscelati insieme,
irradiavano appartenenza ovunque posasse lo sguardo, un abbraccio continuo,
totalmente opposto alla freddezza della sua camera nel bilocale a Beacon Hills
e nemmeno Laura a quel tempo si era dedicata molto a renderlo accogliente più
del necessario.
Era
qualcosa di stupefacente, Stiles l’aveva notato con tempi di ritardo, così
sopraffatto dalla realtà di quanto avesse bisogno che qualcuno si occupasse di
lui quando era un continuo pericolo per se stesso. Non gli aveva dato alcun
merito, ma Stiles non si era mai sentito fuori posto o al gelo, quel monolocale
lo chiamava, lo voleva al suo interno, esattamente come Derek esponeva
silenziosamente di volerlo con sé. Era tutto così diverso.
«Sta
diventando difficile» dichiarò l’umano quando lo raggiunse, i calzini
antiscivolo ai piedi e con le braccia che avvolgevano il torace nudo del
licantropo, aderendo alla schiena, la pelle contro la sua guancia premuta.
Voleva goderselo il più a lungo possibile, prorogare quel legame
indissolubilmente. Se Stiles aveva sviluppato una sorta di dipendenza, quella
era senz’altro la necessità di godere del calore di Derek.
«Cosa?»
Derek si destreggiava con i fornelli, una piccola pila di pancake fumanti che
si andavano ad impilare ad ogni gioco di padella, la tavola era già
apparecchiata e lo sciroppo d’acero in bella vista.
«Te
l’ho detto, sto diventando egoista» appoggiò le labbra sull’epidermide, ad un
soffio dalla spirale superiore della triscele tatuata, accarezzandola con il
fiato bollente. «Tutte queste notti senza di te» il mutaforma era rientrato
quando Stiles stava già dormendo e non si era accorto del suo ritorno, non si
era minimamente svegliato. Cosa sarebbe accaduto quando Derek si sarebbe
trattenuto più giorni lontano dal campus? Fu irrefrenabile il gesto di
scoccargli un bacio sulla pelle inchiostrata di nero.
Derek
non tremò in quell’occasione, ma rimase immobile come una statua, togliendo il
nuovo dischetto di farina dal fuoco e aggiungendo del nuovo impasto sulla
fiamma. «Cosa vuoi che faccia? Che inizi a perdere?» si girò nel suo abbraccio
e lo fronteggiò apertamente.
Stiles
lo adocchiò in un primo momento, prima di muovere una mano verso una confezione
di cioccolato vicino al piano cottura, cospargendo l’impasto del pancake con
alcune gocce sul lato ancora crudo, venendo assemblate con cura. «No, ovvio che
no. Non ti chiederei mai una cosa simile, non la chiederei mai a nessuno» non
era così egoista. Non era giusto nei
confronti di Derek né per i suoi compagni di squadra. Anche se ci avesse
pensato, anche se fosse stato tentato, Derek era troppo onesto. «Mi sto
soltanto lamentando. Posso lamentarmi e basta?».
«E
per questo che mi hai abbracciato tutta la notte?» domandò con leggero scherno
il capitano, un angolo della bocca arricciato verso l’alto. «Ti stavi
lamentando?».
Il
capo dello studente di criminologia fece uno scatto improvviso e le iridi
d’ambrosia si espansero. Che cosa stava farneticando? «Non so cosa faccio la
notte» il nocciolo della questione non era proprio quello? Se si trovavano in
quella situazione era proprio perché Stiles non aveva la minima idea di come si
comportasse mentre era in visita nel regno di Morfeo.
«A-ah,
certo» gli diede il contentino il padrone di casa, sbrigandosi a voltare la
frittella e lasciare che si cuocesse dall’altro lato per qualche attimo, prima
di provvedere a crearne una nuova. «Puoi lamentarti, Stiles» proferì
francamente, dandogli tutta la sua totale attenzione, prendendogli il viso in
una mano. «Ma le ultime volte sono andate meglio».
Non
si era più ritrovato Erica sul divano e questo era quanto dire, ma soltanto
perché un paio di volte si erano rivelate fortuite, non voleva dire che i suoi
problemi stessero scemando. «Questo lo dici tu, io non ne ho idea».
Lo
sospirò esausto sulle labbra del lupo completo e quest’ultimo gli lambì il
setto nasale con la punta del suo. «È così».
Stiles
lo assaporò pienamente, le palpebre socchiuse appena. «Davvero ti ho
abbracciato?» era una cosa così insolita, insospettata. Normalmente era Derek a
farlo, per quanto di normale non ci fosse proprio nulla, ma ormai era quella la
loro quotidianità.
«Sì»
confermò con tranquillità lo studente del terzo anno, osservando il cruccio
perplesso della volpe destabilizzata.
Stiles,
pensieroso, terminò di cucinare il pancake, sporgendosi dietro il licantropo e
guardandolo successivamente mentre gli porgeva un piatto in cui era stata
sistemata la sua porzione. «Forse non voglio condividerti con nessuno»
sopraggiunse meditativo, dirigendosi verso la tavola e sedendosi sulla sedia
che gli permetteva di guardare all’esterno. «O forse mi manchi più di quanto
immagino».
Derek
dietro di lui era in assoluto silenzio ed immobile, quasi Stiles fosse da solo
per l’intero monolocale, esattamente come quando il mannaro era in viaggio con
la squadra di basket; non era un bel pensiero, ne risentiva parecchio quando
accadeva e lo costrinse a girarsi verso di lui, ma Derek si era sistemato nel
posto davanti al suo, ottenendo una visuale in controluce che non gli
permetteva di delineare correttamente i lineamenti del suo volto. «Sono una tua
certezza, è normale».
Non
era sicuro che fosse semplicemente quello. «Attualmente, sei l’unica. O
quantomeno, sei ciò che gli si avvicina di più».
Derek
lo fissò con un punto interrogativo, ma non si prodigò a formulare una domanda
in proposito. «Anch’io sento la tua mancanza».
Improvvisamente
il figlio dello sceriffo credé di essere diventato improvvisamente sordo.
«Cavolo, vorrei tanto incontrare il Derek di due anni fa e sbatterglielo in
faccia».
Derek
quasi non si strozzò con il suo caffè bollente. «Ti avrei già divorato vivo».
Stiles
sbuffò profondamente offeso e si riempì con un’enorme forchettata della sua
pila di pancake. «Già, a volte sei pronto a farlo anche adesso».
«Allora
non dovresti provocarmi» gli fece ben notare, sottolineando l’ovvietà.
«Sourwolf,
non sarebbe divertente» Stiles ammiccò impudente del pericolo e Derek era
rassegnato, scuotendo il capo e limitandosi a concludere la colazione; con
l’umano nessuno poteva mai avere l’ultima parola.
«Merda»
esclamò lo studente di criminologia in un angolo lontano dal bancone, agitando
lo smartphone azzurro che aveva visto giorni migliori e pasticciando con la
tastiera touch senza ottenere risultati, ma aggravando la situazione.
«Che
succede?» gli chiese Tracy mentre sistemava alcune tazze appena uscite dalla
lavapiatti, ancora calde. Quella imprecazione attirò anche l’attenzione del
loro cliente più fedele.
Stiles
provò a chiudere tutto, ripristinare le applicazioni aperte insieme al motore
di ricerca, ma proprio non ne volevano sapere, gli stavano rendendo la vita
impossibile. «Non riesco a prenotarmi» sospirò sconfitto, gettando il telefono
sulla lastra di legno e necessario di prendere una boccata d’aria per calmarsi.
Dopo un respiro o due, gli occhi gli caddero sugli strumenti su cui quel giorno
il suo cliente preferito stava utilizzato per studiare, seduto come da prassi
su uno degli sgabelli del bancone, nella parte più estrema in cui difficilmente
avrebbero potuto disturbarlo, a meno che non si presentasse negli orari di
punta; in quei casi si appropriava di un tavolino. «Der, mi presti il tuo
iPad?» gli domandò con occhi supplicanti, il labbro inferiore che tremava e la
disperazione mista a speranza che prevaricavano. «Devo riuscire a iscrivermi ad
un nuovo corso e prenotarmi per una consulenza con un professore».
«Un
altro corso?» gli fece eco la creatura della notte, aggrottando le
sopracciglia, ma per nulla sorpresa. «Ti ricordi di essere soltanto una
matricola da appena tre mesi?» anche se aveva delle riserve, gli passò comunque
ciò che aveva richiesto.
Stiles
gli regalò il suo sorriso più luminoso e stracolmo di gratitudine, afferrando
con cautela la tavoletta elettronica e mettendo in sospensione l’app di lettura
che Derek stava utilizzando per mettersi in pari con i suoi studi, aprendo
invece il motore di ricerca in cui era salvato il sito internet
dell’università. «Inizia ad aprile, tranquillizzati, Sourwolf. Ma è troppo
richiesto, non voglio perdere l’occasione» inserì i suoi dati d’accesso e
smanettò con le varie icone, cercando quello di cui aveva bisogno. La
familiarità che aveva con quell’oggetto era evidente, lo si capiva anche da
quante cose di suo interesse fossero salvate al suo interno. Spesso aveva
dovuto prenderlo in prestito dal mannaro, decidendo successivamente di
concordare un codice comune ad entrambi per sbloccare lo schermo. Inizialmente
era stato un po’ mortificante per Stiles, ma come al solito Derek non gli
faceva mai pesare niente. Aveva molto senso dopo che gli dormiva con il viso
affondato nel petto ogni notte? «Sì» cantò quando la sua impresa sembrò essere
portata a termine, controllando tra le e-mail, l’indirizzo incolonnato sotto
quello di Derek, le password non salvate per avere ancora una parvenza di
privacy per tutti e due. «Grazie, mio grandioso Alpha» proferì con entusiasmo
una volta controllata la posta elettronica ed aver visualizzato la certezza
ultima, chiudendo tutto e restituendo l’iPad al legittimo proprietario.
Derek
roteò gli occhi immune a tutta quella teatralità. «Puoi contenere la sua
esagerazione» eppure dalla matricola ottenne il sorriso più caloroso,
accompagnato da un cupcake all’Oreo che gli allungò come premio ulteriore, come
se al lupo fosse realmente necessario.
«Alpha?
Cos’è, un gioco tra voi?» si vide costretta a chiedere Tracy non capendo quasi
mai la metà delle loro conversazioni.
Stiles
ammiccò spudoratamente e Derek avrebbe preferito uscire da lì prima di sentire
un’altra sua scemenza. «Vuol dire che lo seguirei in capo al mondo».
«Non
sei bene accetto» rigettò chiaramente il capitano della squadra di basket,
controllando l’orario sullo schermo della tavoletta elettronica e spegnendolo
successivamente. «Incartalo, invece di perdere tempo» gli indicò con un gesto
il dolce che si aveva messo sul piatto, insieme a quello terminato almeno
mezzora prima.
Non è vero,
mimò con le labbra il figlio dello sceriffo senza emettere suono nella
direzione della barista, scatenandole una piccola risata. Si affrettò a
prendere una piccola busta per il dolcetto, mentre Derek allungava il telefono
per pagare; Stiles non avrebbe dovuto più guardare a quanto corrispondesse
l’importo per la sua mancia, ma ogni volta si sorprendeva. Gli aggiunse anche
un paio di biscotti glassati mentre era distratto, con l’intento di scalarli
dalla sua paga. «Ecco a te, Sourwolf».
Derek
afferrò il pacchetto, lo smartphone in tasca e l’iPad a fare quasi da vassoio,
finché non fosse arrivato al 1855 Place per
prendere il borsone degli allenamenti e raggiungerli. «Ci
vediamo a cena?».
Stiles
dovette scuotere la testa in diniego, indicando con una mano la ragazza accanto
a sé. «Oggi gruppo di studio».
Tracy
allungò appena un braccio per identificarsi, con l’espressione colpevole come
se l’autrice del misfatto fosse proprio lei e fu attraversata dagli occhi di
smeraldo del capitano, quasi prendesse coscienza della sua presenza soltanto in
quel momento. Non molto lusinghiero, ma il suo batticuore non voleva sentire
ragione.
«Okay»
fu tutto quello che il licantropo proferì, inflessibile come sempre, eppure la
barista riuscì ad avvertire una nota impercettibile di scontentezza.
Stiles
lo salutò con il suo ghigno imperiale, i gomiti sul bancone e cinque dita che
sventolavano un ciao ciao mentre la
creatura leggendaria si defilava.
«Come
fai a resistergli?» domandò stupefatta ed incredula Tracy, lasciandosi scappare
un pensiero che aveva sempre avuto in testa da quando li aveva visti interagire
la prima volta meno di un mese prima.
Il
figlio della massima autorità di Beacon Hills la fissò in un primo momento
senza minimamente comprenderla. «Sei convinta non lo trovi attraente?».
In
quell’istante la studentessa di criminologia era ancora più stupita, forse si
era evidentemente persa qualcosa o aveva frainteso. «Non è così?».
Stiles
ridacchiò di cuore, soprattutto per la sua ingenuità. «No. Decisamente non è
così da quando avevo quindici anni, forse anche qualcosa in meno» soprattutto
se lo si vedeva ogni giorno mezzo nudo.
«Quindici-
cosa…» Tracy strabuzzò gli occhi, una nuova cliente entrò per ordinare una
fetta di Red Velvet e una spremuta d’arancia. Si concentrò a servirla per non
perdere il filo del discorso. «Com’è possibile? Pensavo vi foste conosciuti
qui» ma in effetti quello avrebbe spiegato le loro conversazioni, la loro
intesa.
La
cliente si allontanò soddisfatta, occupando uno dei pochi tavolini liberi e
Stiles si dedicò a sparecchiare e pulire la postazione in cui aveva soggiornato
il lupo nero per un’intera ora. «Provenivamo dalla stessa piccola città,
abbiamo frequentato lo stesso liceo».
Tracy
stentava a credere alle sue stesse orecchie, ma perché era così sorpresa? Non
aveva mai davvero indagato, nessuno aveva mai nominato la città dell’amato
capitano della squadra di basket e non si era curata di scoprire cosa
accomunasse davvero quei due. «Vi conoscete da così tanto tempo?».
«Quello
è un parolone» ridimensionò il figlio dello sceriffo. «Entrambi eravamo a
conoscenza dell’esistenza dell’altro, più o meno».
Non
era sicura di seguire il filo del discorso. «Quindi, non stavate insieme
nemmeno allora?».
Stiles
strabuzzò gli occhi e le pupille furono pizzicate. La fissò come se avesse a
che fare con una persona squilibrata. «Figurarsi» gli veniva da ridere al solo
pensiero, soprattutto se in mente aveva il Derek di due o tre anni prima.
«Perché avremmo dovuto?».
Tracy
aveva giusto un paio di argomentazioni in proposito, ma Stiles era troppo sordo
per sentirle o semplicemente ignaro. «È tutto qui? Prima vi ignoravate e adesso
avete un rapporto platonico?» relazione,
avrebbe corretto.
Il
ragazzo soppesò il significato di quell’espressione, la corretta collocazione
che dipingeva un quadro chiaro. «Se è così che vuoi definirlo».
E
in quale altro modo avrebbe dovuto definirlo? «Perché, allora, adesso state
sempre insieme?».
Le
labbra di Stiles si socchiusero, esitarono e le iridi girarono intorno come a
cercare qualcosa, la matassa dei suoi pensieri; Tracy credé di essere stata
troppo invasiva. «Le nostre vite si sono intrecciate» non proseguì e non
aggiunse nient’altro, rimase soltanto il fiato sospeso, quasi a dover essere
completato, ma lei non aveva gli elementi con cui farlo. Lei vedeva soltanto il
modo assoluto in cui Stiles e Derek Hale orbitassero l’uno sull’altro, come la
Terra e la luna. Ma chi era la luna? Se il fatto che Stiles etichettasse
scherzosamente Derek come un lupo acido avesse una qualche valenza, era
indubbio che la matricola fosse la luna per il capitano. «Non sapevo nemmeno
che Derek fosse qui».
Quella
nuova informazione la sorprese, ma aveva senso dopotutto, giusto? Se appena
erano consapevoli l’uno dell’altro, perché avrebbero dovuto conoscere i loro
spostamenti? «Dove credevi che dovesse essere?».
Uno
dei clienti ai tavolini tornò per una nuova dose di caffeina, ordinando anche
dei cookies alle nocciole per la sua compagna di studi che si teneva le mani
tra i capelli per la disperazione e Stiles lo servì impeccabilmente. «Non ne ho
idea, ero contento avesse trovato il modo di andar via» era onesto soltanto in
parte.
«Come
mai?» la studentessa di criminologia fu stuzzicata da quella nozione
disinteressata, le orecchie si fecero più attente. «Situazione difficile in
casa?».
Derek
una casa non l’aveva più. «Non lo sai» lo sguardo era sorpreso e quello in
risposta interrogativo, completamente ignaro. Stiles non l’aveva mai preso in
considerazione vista l’enorme ammirazione che la maggior parte del campus
provava per il nato lupo, ma stava diventato sempre più evidente che nessuno in
quell’ambiente fosse a conoscenza del suo passato. «Forse non è più tra le
principali» ragionò tra sé e sé. I risultati sportivi avevano surclassato tutto
il resto e l’interesse era soltanto superficiale? Stiles era vistosamente
sollevato.
Cos’è
che non sapeva? Cosa non era più tra le principali? Le notizie? I risultati su
internet? Era già pronta ad estendere una nuova domanda, ma il campanello che
annunciava l’arrivo di un nuovo cliente tintinnò e richiese la loro totale
attenzione. Qualche secondo dopo, risuonò nuovamente. «Beh, è innegabile che
qualcuno non vuole affatto un rapporto platonico» lo derise prontamente mentre
Stiles soffocava un’imprecazione alla vista di Heather e Theo una di seguito
all’altro, completamente all’oscuro del ruolo che avevano nella vita dello
studente di criminologia.
Quando
Tracy terminò il turno e ritornò nella sua camera nel dormitorio, fu difficile
togliersi le parole di Stiles dalla testa, quel mistero fitto sulla vita del
capitano.
Con
il telefono digitò le parole Derek Hale,
imbattendosi in un eccessivo numero di risultati. Dovette aggiungere ulteriori
parole chiave, cambiare più volte abbinamenti e decidere alla fine di includere
anche piccola cittadina o piccola città, finché una pagina di
cronaca nera spuntò come primo risultato, seguito da altre testate più piccole,
ribadendo fosse tuttora un caso irrisolto.
Le
venne il magone e le si chiusero le vie aeree quando lesse di un incendio
doloso spaventoso che inghiottì undici vite, tra cui alcuni bambini. A
sopravvivergli soltanto due membri della famiglia, ufficialmente orfani: Laura
e Derek Hale, di venti e quindici anni.
A
sovrintendere le indagini vi era lo sceriffo Noah Stilinski.
Ah, era davvero una
piccola città. Minuscola.
Stiles
era stravaccato malamente sul divano con un libro di difficile interpretazione
in mano, la stella principale del loro sistema solare era tramontata da ore e
le tenebre erano calate inesorabili, insieme al freddo che si intensificava di
giorno in giorno, Derek invece era immerso in una ricerca fondamentale che gli
richiedeva una quantità di tempo significativa, seduto davanti al tavolo, le
dita che scivolavano sulla tastiera del Mac e nell’intero monolocale quel
ticchettio era l’unico suono che albergava tra loro.
«Credi
che dovrei avvisarlo, mio padre?» domandò la matricola con la mente altrove,
evidentemente impossibilitata a concentrarsi sul testo che scorreva da alcuni
minuti senza risultato. «Per Natale».
Derek
si interruppe, sbirciandolo da sopra il portabile aperto. «Manca ancora un
mese».
Tantissimo
tempo, eppure centellinato. L’umano sospirò con frustrazione e sensi di colpa.
«Se
lo informarsi, cosa credi succederebbe?» gli domandò il licantropo con visione
lunga, costringendolo a valutare i vari scenari.
«Verrebbe
a prendermi di peso, esattamente come avrebbe voluto fare fin dal primo giorno
universitario» sarebbe andata esclusivamente in quel modo se Derek non fosse
stato una sorta di peloso e bellissimo angelo custode. Avrebbe anche
significato che non si sarebbero mai rincontrati.
Derek
non aggiunse nulla e Stiles sospirò amareggiato, socchiudendo il libro. «Sto
valutando, vigliaccamente, di aggiornarlo all’ultimo minuto, quando non
esisteranno alternative per risolvere la soluzione».
Il
mannaro digitò qualcosa sui tasti del portatile, il mouse touch che scorreva
tra i documenti di suo interesse. «Se ritieni sia la soluzione migliore».
Lo
stava giudicando? Non ne era sicuro, di certo non gli avrebbe fatto cambiare
idea. «A quel punto avrà chiara la situazione» ispirò grossolanamente, il peso
sul petto che non andava ad attenuarsi. «Tu, invece, che progetti hai?».
«Non
ci ho ancora pensato» disse distaccatamente, annotandosi qualcosa su un tomo
enorme poggiato alla sua destra.
Le
iridi d’ambrosia si posarono sentitamente sul suo interlocutore e il licantropo
non aveva molte scuse per ignorarle. «Stai considerando di rimanere con me?
Perché rimarrei da solo».
Era
un’accusa con della rabbia che faticava a trattenere. «Non ho ancora deciso
niente».
Stiles
si sciolse dalla sua posizione semisdraiata e si portò in quella da seduta.
«Derek, da quanto tempo non vedi Laura?».
«Da
quanto tempo non vedi tuo padre?» gli rigirò con prontezza, il tono eloquente
così com’erano gli occhi verde brillante.
«Touché» il figlio dello sceriffo si strinse
nelle spalle, rimpicciolendosi sotto lo sguardo del lupo. «Ma non devi rimanere
soltanto a causa mia».
«Cambieresti
i tuoi piani in base ai miei?» gli chiede direttamente, le folte sopracciglia
decise.
«No»
non avrebbe avuto alcun senso.
«Allora
non devi temere le mie decisioni» proferì con forza il capitano della squadra
di basket, portando a conclusione la discussione.
Stiles
abbattuto si abbandonò pesantemente sullo schienale del divano, prima di
alzarsi e raggiungere il mutaforma, prendendo una sedia e sistemandosi proprio
davanti a lui, le gambe che toccavano la sua coscia. «Sei sicuro che ti vada
bene restare con me?».
Stiles
non mollava proprio mai, era una lezione che Derek doveva continuamente
imparare. «Quante volte devo ripeterti che non ho preso una decisione in
merito?».
«Ma
l’hai presa, lo sappiamo entrambi» tergiversare non serviva alla causa.
«Quindi, Der, sei certo che rimanere con me sia quello che vuoi?».
«Tu
non sai cosa voglio» era una voce lapidaria, ma morbida, un connubio difficile
da spiegare, ma entrò dentro ogni vertebra dell’umano.
«Già,
è vero» poggiò la testa sconfitto contro la spalla della creatura della notte e
le mani all’altezza dello stomaco presero a tremare, ad enfatizzare le sue
insicurezze e colpe, i tormenti che non gli davano tregua.
Le
dita di Derek con delicatezza lo spostarono nell’incavo della spalla e Stiles
sprofondò completamente nel collo, accarezzandolo con il fiato caldo e
successivamente con le labbra. «Non mi pento mai del tempo che trascorro con
te, Stiles».
Lo
studente di criminologia sorrise contro di lui con pienezza, il cuore che
accelerava a quella devozione piena di affetto di cui Stiles era l’unico a
beneficiare. «Nemmeno io» la bocca scioccò un bacio inavvertibile
sull’epidermide, quasi fantasma, qualcosa che poteva non essere mai esistito e
le falangi del mannaro si intrecciarono alle ciocche castane in risposta.
Prendendo
un respiro pieno, Stiles notò che le mani si erano fermate e che la voragine
aveva smesso di risucchiarlo almeno per quell’occasione. Doveva arrendersi
all’innegabilità che Derek avesse il dono di calmarlo.
Gli
dedicò un sorriso tutto per lui quando si separò dalla nicchia confortevole,
incontrando la profondità sviscerante del suo sguardo, talmente stracolmo di
qualcosa che Stiles non era ancora in grado di interpretare. Quello non
smetteva di avere un effetto corroborante su di sé, soprattutto perché
sembravano estendersi per una quantità temporale infinita.
Ma
poi i suoi occhi furono catturati da qualcosa di bianco e arrotondato che
scendeva giù dalla finestra, seguito da altri batuffoli simili. Si voltò
immediatamente e si alzò dalla sedia per aguzzare la vista, avvicinandosi con
cautela alla piccola vetrata e sporgendosi da sopra il divano a tre posti. «Sta
nevicando» annunciò con tono l’inaspettato, la gioia che sormontava tutta
insieme. «Der, è neve».
Così
come lo esclamò, al pari di un bambino che vedeva realizzarsi il suo più grande
desiderio, Derek lo vide filare via con uno scatto mai visto ed invidiabile,
del tutto opposto alla sua incapacità di coordinazione, indossando saltellando
sul posto le scarpe e fiondandosi oltre la porta, precipitandosi per le scale a
due a due. «Stiles, rallenta» ma con chi parlava? Era un’impresa persa in
partenza.
Lo
trovò al centro del piazzale, al limite del bordo del marciapiede, le braccia
aperte a raccogliere i fiocchi candidi che gli ricadevano addosso e gli
rimanevano impigliati. Attorno a loro la gente reagiva in modi differenzi, chi
proseguiva ignorando il cambiamento con l’ombrello aperto, chi si rifugiava
sotto le tettoie in attesa che la nevicata rallentasse o si arrestasse,
qualcuno si fermava ad ammirarla, ma nessuno era così pieno di meraviglia e
contentezza come Stiles. E nessuno indossava soltanto una felpa che si andava
bagnando ad ogni secondo che trascorreva. «Indossa questi, subito».
Stiles
rise con il cuore pieno di gioia, il fiato che diventava visibile per via delle
temperature che scendevano oltre lo zero grado, permettendo al mannaro di
avvicinarsi per sopperire alle sue sregolatezze. «Sei un’incosciente» lo
riproverò Derek, la voce inflessibile, eppure era ben consapevole quanto
l’umano fosse completamente sordo a quelle ribeccate.
Gli
avvolse intorno al collo la sciarpa rossa, costringendolo ad indossare il
giubbotto, chiudendo la cerniera e bloccandola sotto alla fascia di lana
colorata. Si adoperò ad annodare la sciarpa rigidamente e a scacciare i
confetti bianchi dal volto arrossato di Stiles per via del freddo. Perché si
ritrovava ad avere a che fare con un bambino? «Indossa anche questo» gli ordinò
senza voler sentire ragioni, alzandogli sulla testa il cappuccio contornato da
un bordo di pelliccia finta bianco, nero e grigio. Le gote rosse emergevano
vistosamente in mezzo a quel contorno di blu e l’estensione della candidezza
del manto innevato, in pendant perfetto con il colore della sciarpa di cui
Derek gli aveva fatto dono.
«Dove
l’hai trovato? Pensavo di averlo perso» domandò la matricola con stupore
evidente, toccando alcune punte del pellicciotto che la incorniciava, così come
le giunture dei bottoni che permetteva ai due pezzi di separarsi o unirsi
all’occorrenza. «Non credevo nemmeno di averlo portato in casa tua».
«Sono
soltanto più bravo di te a trovare le cose» la fece semplice il lupo completo,
sistemando meglio il cappuccio sulla testa dell’umano che si arricchiva di
acqua cristallizzata.
«Certo»
sogghignò con la nozione fondamentale dalla sua parte. «Hai questo» con il
polpastrello dell’indice gli premette la punta del naso con il tocco di una
piuma.
«Sei
la volpe più impulsiva e irresponsabile che abbia mai conosciuto» rivelò Derek
qualche secondo dopo, faticando ad accettare che potesse esistere un tale
connubio in una mente sempre attiva e guardinga come quella di Stiles.
Il
figlio dello sceriffo gli scrostò la neve da uno dei sopraccigli neri, le dita
che lo accarezzavano con cura senza essere clementi. «Ne hai conosciute molte?»
lo provocò con accuratezza, le iridi d’ambrosia in quelle di smeraldo.
Derek
resse lo sguardo, ma non rispose né Stiles si aspettava qualcosa di diverso.
«Posso permettermelo se ho l’Alpha migliore del mondo ad occuparsi di me, delle
mie mancanze».
«Non
sono un Alpha, Stiles» scandì meticolosamente, tentando di farglielo entrare in
quella testa diabolica.
«Ah,
sei in errore» lo rabbonì il diciannovenne, una falange che si agitava davanti
i suoi occhi a negare le sue convinzioni sbagliate. «Devi soltanto arrivarci
anche tu, Sourwolf».
«Vuoi
saperne più di me su come mi senta?» gli domandò sprezzante e con una nota di
critica, le sopracciglia inspessite e giudicanti.
«Ovviamente
no» le gote erano più rosse, la pelle diafana sembrava ghiaccio e il fiato si
condensava in una nuvola fumosa che toccava il lupo e fili di pelliccia
sintetica morbida si muovevano ad ogni parola. «Ma non puoi credere davvero che
l’eredità secolare degli Hale, la tua eredità, possa aver commesso un errore
simile. Ha scelto Laura e ha scelto te» le dita gelate carezzarono le ciglia
del mannaro, le punta lambivano l’epidermide sottile della palpebra superiore.
«I tuoi bellissimi occhi sono soltanto un riflesso della tua totalità».
«Questo
è un modo molto elaborato di forzare una persona a far quello che tu vorresti» osservò
il capitano, ignorando volutamente l’attitudine dell’umano di elogiare il
prossimo.
«Ti
senti forzato nel dovermi costantemente inseguire? Come in questo caso» elaborò
Stiles in un moto di interesse, la gestualità che indicava se stesso e quel
giubbotto indossato in una rincorsa, la risposta già contenuta nella domanda.
Era minuziosa e studiata, assestata perfettamente.
Il
mannaro lo scrutò vigile, in sospensione. «No».
«Vedi?»
le labbra dello studente di criminologia si distesero in un sorriso composto di
soli denti, la vittoria in tasca. «Non puoi farne a meno».
Derek
sospirò internamente esaurito, la testa che scattava verso l’alto alla ricerca
di un nuovo respiro da prendere; vincere contro la curva machiavellica della
bocca di Stiles era un’impresa titanica che portava alla disfatta. «Vedo
soltanto una volpe molto scaltra» ispirando profondamente, la neve gli cadeva
addosso, ma con dolcezza si scioglieva appena entrava a contatto con lui, ad
evidenziare la differenza netta della sua temperatura corporea rispetto a tutti
quelli che li circondavano.
Di
sottecchi osservò la matricola mentre tra le falangi sottili e lunghe, che
l’avevano toccato pocanzi, si lasciava scivolare i batuffoli di acqua
solidificata; li sfiorava con i dorsi e giocava con loro, permettendo a
qualcuno di depositarsi sul palmo aperto, studiandoli con vivo interesse. «Non
ho mai visto la neve» proferì Stiles, come se in qualche modo sapesse di dover
dare delle spiegazioni per il suo entusiasmo fanciullesco. «Non quella reale»
sbirciò nella direzione di Derek attendendo qualche domanda, ma lui parlava con
l’espressione facciale e con il silenzio, aspettando che fosse lo studente di
criminologia a riempirlo. «Non so perché, il Nogitsune me la mostrò. Ma non
aveva alcun senso, non ha mai nevicato a Beacon Hills» poi tacque e il dubbio
che lo tormentava si palesò completamente. «È reale?».
«Supponi
non lo sia?» chiese il lupo completo con moderazione, gli occhi vigili.
«Perché?».
Stiles
lo guardò smarrito e un fiocco si sciolse sul monte di Venere. «Non l’ho mai
vista, non saprei riconoscere le differenze. Non sono capace neanche con ciò
che conosco» ammetterlo gli risuonava come una continua sconfitta. «A volte,
non so nemmeno se tu sia reale, se è tutto soltanto nella mia testa».
Derek
era frastornato dalla rivelazione di Stiles, dal panico che udiva nel
sottofondo della sua voce. «Io? Per quale ragione dovrei esserlo?».
Stiles
esitò, un nodo di saliva venne ingoiato, gli occhi saettarono da una parte
quasi a trovare coraggio o a sottrarsi completamente dal confessare la sua
verità. «Perché sei la cosa migliore che mi sia capitata negli ultimi anni».
Derek
trattenne il fiato, la sincerità di Stiles lo spiazzò. C’era anche un sorriso
triste a sporcargli la bocca e non era difficile comprendere per quale ragione.
«Credevo ti fidassi di me».
«È
così» le dita si tormentarono tra loro, il disagio e l’affanno sormontarono.
«Sono terrorizzato da quanto mi fidi di te, Derek. Ma se poi scoprissi che non
c’è nulla di vero? Che la mia testa sta nuovamente giocando con me? Per me è
così difficile capire cosa sia reale e cosa non lo sia».
«Non
sono nella tua testa» le mani di Derek gli circondarono il viso ghiacciato e
Stiles venne avvolto immediatamente dal suo calore, da come fluisse in lui
completamente, risollevandogli ogni osso. «Puoi sentirmi. Puoi toccarmi. Puoi
parlarmi. Sono reale».
Stiles
tremò vistosamente sotto il suo tocco, le iridi di miele si inumidirono e le
labbra tormentate dai denti che schiacciavano e si conficcavano nelle
pellicine. «Stiles, riesci a sentirmi?» gli domandò il lupo, il pollice che
asciugava le lacrime dalle ciglia chiare e la fronte poggiata contro la sua,
completamente a contatto.
Era
circondato, accerchiato da tutto quel calore corporeo che si insinuava sotto la
pelle, divenendo anche il suo. Da tutta l’essenza di Derek, onesta e dedita a
quella povera piccola volpe infreddolita ed impaurita quale era. Perché, perché
riusciva a vederlo soltanto Derek? «Sì» proferì senza voce, le corde vocali che
graffiavano, i suoni gracchianti che riproduceva.
Il
lupo lo avvicinò maggiormente a sé e se il suo intento era quello di
inglobarlo, Stiles non si sarebbe opposto. «Se hai bisogno di altre prove, di
altri fatti, li testeremo tutti, finché non sarai sicuro».
Stiles
voleva piangere, versare tutte le sue lacrime che si sarebbero condensate in
stille salate, sfogare tutto il malessere che si sovrapponeva strato dopo
strato dentro di sé, soffocandolo e che soltanto la cura e l’attenzione di
Derek riuscivano a scavare, creando un passaggio che gli permettesse di
respirare giorno dopo giorno. «Sì».
Il
capitano si allontanò appena, la distanza necessaria che gli permettesse di
poterlo guardare meglio nelle gemme caramellate appannate che non lo
focalizzavano perfettamente. Gli depositò un bacio caldo su un occhio che si
socchiuse al contatto ed un altro al centro della fronte. L’ultimo fu
schioccato sulla punta del naso rosso che scatenò ilarità in Stiles,
provocandogli una risatina divertita, sollevata e alleggerita.
Ricambiò
strusciando il naso contro il suo, sorridendogli con affettuoso diletto. «Der,
dovresti farmi un favore» gli disse con sottofondo diabolico, le iridi del
nettare degli dei che splendevano mentre si cancellava la patina di acqua
salata, separandosi dalle sue mani. «Indossa un cappotto. Congelo soltanto
guardandoti».
Tutta
la serietà di frazioni di secondi antecedenti era evaporata e Derek roteò gli
occhi esasperato da quanto riuscisse a metterlo sotto scacco continuamente,
anche nei suoi momenti di difficoltà. «Stai congelando perché hai tutti i
vestiti bagnati, sconsiderato come sei».
Il
figlio dello sceriffo scosse il capo con dissenso, a sottolineare che in torto
fosse proprio lui. «Sono sicuro sia anche colpa tua» ammiccò spudoratamente,
tornando la splendente e pericolosa volpe dal manto infuocato. «So che ami
questa giacca di pelle, sei incredibilmente sexy, ma forse dovresti essere più
discreto. Qualcuno potrebbe farsi sorgere qualche domanda vedendoti con solo
questa addosso per tutto l’inverno».
«Vivo
qui da due anni, Stiles. Se avessi destato dei sospetti, sarebbe piuttosto
inutile» e se ne sarebbe accorto. Non che a Derek importasse molto del parere
delle persone.
Sul
viso della matricola si dipinse quella curva affascinante che aveva un certo
effetto su chi lo guardava. «Avanti, fallo per me. Integriamoci nel mondo
reale».
«Cosa
non faccio per te» era una domanda retorica sospirata e anche esausta da
quell’uragano infiammato che lo trascinava a fondo con sé. «Vuoi restare ancora
qui?» gli chiese dopo averlo osservato per un po’ interagire ancora con la neve
che non smetteva di cadere dal cielo notturno. Stiles rispose con un chiaro
punto interrogativo sorpreso. «Per conoscerla».
Gli
occhi ambrati brillarono e la riconoscenza si espanse in ogni cellula. «Sì,
grazie».
Derek
si limitò ad annuire. «Resta qui» gli disse distrattamente, prima di sparire ed
entrare in uno dei negozi sulla strada.
Stiles
sbatté le palpebre varie volte, batuffoli impigliati davanti alla sua visuale.
Con cautela piroettò su se stesso, allargando le braccia e circondandosi, come
se stesse abbracciando la neve stessa. Rise con spensieratezza, anche se non
avvertiva più alcuna falange, completamente anestetizzate dal gelo.
«Tieni»
gli offrì la creatura della notte quindici minuti dopo, richiamando la sua
attenzione e costringendolo a voltarsi.
Derek
aveva un bicchiere di carta extralarge per ogni mano, il logo verde di
Starbucks che spiccava sul rivestimento bianco che non permetteva di scorgere
il contenuto. Non riuscì ad entrarne a conoscenza nemmeno quando gliene
depositò uno tra le dita, riscaldandole immediatamente, per via del tappo. «Sei
andato dalla concorrenza» lo ribeccò sarcasticamente, ma gli era segretamente
grato. «Potrei esserne infelicemente triste. E anche indignato».
«Vacci
piano, scotta» lo ignorò il mannaro per niente scalfito, senza dimenticarsi di
riprenderlo ed avvisarlo con il tono borioso che lo contraddistingueva.
Stiles
innalzò le sopracciglia con sfida, la curva arricciata sulle labbra della volpe
giocherellona. Tuttavia ci andò cauto, prese un piccolo sorso dalla cannuccia
in cartone e fu investito da un calore piacevole che gli scivolò in gola e in
ogni muscolo bisognoso, riscaldando ossa dopo ossa. Sulla lingua vi era
impresso il sapore zuccheroso della cioccolata al latte abbinata al caramello
dolce. Scostando con un accenno il coperchio, vi vide dei piccoli marshmallow
gialli e azzurri che galleggiavano colorati, infondendogli il buonumore.
Se
non ci avesse già pensato il cioccolato, quella delicata premura da parte del
lupo più scorbutico mai esistito avrebbe sciolto completamente la lastra di
ghiaccio che avvolgeva il suo cuore ed i polmoni. Che fosse una cosa voluta o
meno, Stiles dubitava che su quel pianeta ci fosse qualcuno che lo viziasse più
di Derek Hale. Che ci mettesse un tale impegno che non desse mai l’impressione
che fosse qualcosa di studiato a tavolino o estremamente complicato, ma la
semplicità più pura.
«Meglio?»
domandò la creatura leggendaria al secondo sorso di entrambi, più lungo e
goduto, una estemporanea del paradiso in quella nevicata da cui tutti
rifuggivano, ma di cui loro si beavano.
«Grazie»
si chiese se la cioccolata calda del suo restio meraviglioso Alpha fosse
fondente, miscelato all’adorato caramello salato. «È perfetto» tusei
perfetto.
«Don't-don't it feel so good right now?» cantò Stiles
a mezza voce, un sorriso morbido tra le labbra mentre assaporava il calore
della bevanda, guardando da sotto le ciglia il lupo nero che, circospetto, non
gli toglieva gli occhi perforanti di dosso.
Un
fiocco di neve birichino e silente si insinuò sotto il tappo sollevato,
depositandosi in mezzo ai piccoli cilindri di zucchero azzurri e gialli,
dissolvendosi senza essere notato.
Feels
so good di Bryn Christopher e Shane Codd è la canzone spesso
cantata da Stiles e che probabilmente incontreremo diverse volte tra questi
capitoli.
La
mia riproduzione casuale di Spotify senza vincoli l’ha trovata per me mentre
scrivevo i primi capitoli e da lì si è addentrata nella storia, divenendone
parte. Cercavo una canzone che potesse incanalare ciò che ricercavo e alla fine
è stata lei a trovare me.
Siamo
soltanto a metà storia, questi due complicati ragazzi hanno ancora tanto da raccontarci.
La
casa era silenziosa, non proveniva alcun suono da nessuna parte, nessuna
presenza sinistra incombeva su di lui, non vi era alcuna ragione perché dovesse
sentirsi a disagio o sormontato dalla preoccupazione, eppure Stiles si svegliò
nel cuore della notte, il letto sfatto e il lato accanto al suo vuoto.
Una
mano andò a toccare quella parte del materasso, trovandolo tiepido, segno che
Derek si fosse alzato da un po’ silenziosamente, senza provocargli fastidi.
Con
gli occhi estremamente addormentati e con una patina a ricoprirli, non
intravide alcuna forma di luce, né nell’ala dedicata alla notte né giungere dal
corridoio che collegava tutto. Non udiva nemmeno movimenti sospetti provenire
dal bagno.
Scostando
le lenzuola, indossò i calzini antiscivolo con dei lupetti neri su sfondo
rosso, e ciabattò verso la cucina, individuando Derek seduto al buio sul divano
a tre posti, l’unica sorgente luminosa era data dai lampioni sulla strada e
dalla luna che soggiornava dietro la sua schiena. Non si stava intrattenendo in
alcun modo, era soltanto crucciato su se stesso con lo
sguardo vuoto. «Non volevo svegliarti».
L’umano
si stropicciò gli occhi incrostati, soffocando uno sbadiglio. «Io ti sveglio
sempre» disse senza alcuna preoccupazione, scrollando le spalle e superando la
tavola da pranzo, scostando la coperta con le lune e le stelle abbandonata sul
cuscino vuoto, sempre a sua disposizione, avvolgendosi dentro e ricadendo sul
sofà, lasciando che una parte ricoprisse le gambe del mannaro benché era
evidente che l’avesse ignorata per tutto il tempo.
«Quasi
sempre» lo corresse il padrone di casa, spostando i piedi per fargli posto.
«Dimentichi
quel primo e divertentissimo mese in cui dovevi uscire ogni notte per andare a
riprendermi» riassunse con talento innato, abbandonando la testa contro la sua
spalla nuda e portandosi il plaid fino al mento, non lasciando che un solo
strato di pelle fosse scoperto.
«Torna
a letto» lo invitò il capitano della squadra di basket.
«Non
finché non lo farai anche tu» sbadigliò a bocca aperta, nascondendosi dentro la
coperta, a smentire malignamente le sue buone intenzioni. «Resto con te».
«Oppure
ti addormenterai su di me» lo prese sonoramente in giro, coprendogli meglio le
caviglie scoperte.
«Non
mi dispiace l’idea» l’umano si strofinò con intenzione contro l’incavo della
spalla che Derek abbassò volutamente per offrirgli una posizione più comoda,
affondando il naso contro la piega del collo.
Derek
sbuffò una risata con il capo voltato dal lato opposto, ma poi tutto tacque.
Per alcuni minuti esisterono soltanto i loro respiri.
Stiles
si mosse sulla spalla del licantropo e quest’ultimo avvertì la pesantezza che
si stagnava. «Sento il tuo sguardo su di me».
«Perché
non me l’hai detto?» gli domandò a bruciapelo il figlio dello sceriffo.
Il
corpo del mannaro si rizzò e la testa si voltò verso la matricola, lo sguardo
eloquente e consapevole. «Di non essere l’unico tra i due perseguitato dagli
incubi?».
«Sono
stato io?» volle sapere con turbamento, le iridi accese che sondavano. «Da
quando ti ho dato quella fotografia… sembra che ti tormentino» se lo era
chiesto fin dal primo episodio in cui aveva beccato l’altro. La foto era stata
protetta dentro la cornice comprata di impulso da Derek, ma non era mai stata
davvero esposta in un punto visibile del monolocale.
«No»
rise asetticamente, pugnalando il cuore di Stiles. «Vorrei aver perso il conto,
ma non posso».
Quando
erano iniziati? Dalla morte di Paige o della sua famiglia? Perché doveva
apparire così solo, racchiuso in se stesso, senza dare
un piccolo varco di accesso a qualcuno? «Avresti comunque potuto dirmelo. Temi
che non riesca a reggerlo? A comprenderti».
Derek
scosse il capo un’unica volta con un cenno preciso in diniego. «Sei la persona
più forte che conosca».
La
sorpresa non riuscì a celarla, ma non ne aveva nemmeno l’intenzione. «E allora
perché?».
Il
lupo serrò la bocca, un accenno di bianco degli incisivi superiori. La parte
del profilo accarezzato dalla luce della luna sembrava blu. «Ci sei anche tu».
Oh, quello gli tolse
tutto l’ossigeno.
Era
qualcosa di imprevedibile, inimmaginabile, ma quello avrebbe spiegato la
disperazione di Derek in quei frangenti, quando l’unica sua reale
preoccupazione era accettarsi che Stiles stesse bene.
Avrebbe
voluto chiedergli il perché, ma avrebbe avuto senso? Dopo tutto quello che gli
aveva raccontato, dopo tutte le notti che Derek l’aveva trovato a ferirsi e con
le mani sporche di sangue, le urla nelle orecchie, i suoi vaneggiamenti e la
paura di non trovarlo in tempo, non poteva aspettarsi che quel tormento non
influisse sulla psiche del lupo mannaro. Che non si aggiungesse al bagaglio dei
suoi incubi pregressi.
Le
dita calde di Derek gli scostarono i capelli impigliati tra le sopracciglia,
accarezzandole con leggerezza che lo fece vibrare per l’inaspettato, portandolo
di riflesso a scostarsi da lui. «Non chiuderti a riccio né colpevolizzarti» i
polpastrelli esitarono e poi si allontanarono restii. «È più complicato di
quello che pensi».
Complicato come?
Non tutti i tormenti potevano essere spiegati, giusto? «Non posso esserti di
aiuto?» perché le cose tra loro dovevano essere sempre unilaterali?
«No»
sospirò controvoglia, gettando indietro la testa contro lo schienale del
divano. «Devo solo accettarlo».
C’erano
tante cose da accettare, eventi che avevano segnano la vita di Derek come a
pochi altri era accaduto. Accettare la morte? Accettare il suo ruolo? Accettare
che non si poteva tornare indietro e agire in modo diverso?
«Hai
detto di non poterti permettere di fidarti di te stesso» pronunciò Derek
riflessivo, gli occhi che fissavano il tetto spruzzato da alcuni triangoli di
luce. «Nemmeno io posso farlo».
Stiles
saltò sull’attenti, la colonna vertebrale che frizzava. «Non dirlo. Non è vero»
cosa angustiava Derek l’umano l’aveva sempre saputo. All’inizio aveva piccoli
tasselli, una parte di verità, la concretezza che si portasse nel cuore la
morte del suo primo amore provocata da una valutazione erronea, da una forma di
egoismo adolescenziale che si era sviluppata nel modo peggiore e con
conseguenze drastiche. A quello era susseguito la cosa peggiore che potesse
accadere ad una persona, l’essere uno dei tre sopravvissuti della sua famiglia
aveva un certo peso, soprattutto se si aveva ancora un lutto recente da dover
superare. Stiles aveva pianto silenziosamente e segretamente per lui, andare
avanti senza cicatrici era impossibile, il radicale cambiamento di Derek era
consequenziale, giustificato. Ma a quel calderone di devastazione se ne era
aggiunto dell’altro nell’esatto momento in cui il lupo gli aveva fornito la
piena verità, i fatti concreti, cosa fosse stato mosso per tirare le fila. Come
si sopravviveva ad un senso di colpa come quello?
«Tutte
le mie decisioni hanno portato alla morte delle persone che amavo» lo disse
chiaramente, univocamente, senza che potesse essere contraddetto. Nero su
bianco.
«Questo
è sbagliato, profondamente sbagliato» ribatté il figlio dello sceriffo con la
voce che si alzava, muovendosi sconclusionatamente sul posto. «Hai riposto la
tua fiducia totale nelle persone che non volevano il tuo bene, ma avevi
quindici anni, non avresti mai potuto capirlo senza gli strumenti giusti» Peter
gli aveva suggerito l’idea sbagliata perché era una serpe in un branco di
giusti, voleva provocare scompiglio, allontanare Derek da una futura postazione
privilegiata di comando, sconvolgerlo abbastanza da retrocederlo in se stesso. Eppure Peter la sua risposta la ebbe su chi fosse
meritevole del potere da Alpha, dividendosi addirittura in due, ma non
sfiorandolo nemmeno. Stiles avrebbe voluto urlarlo a squarciagola a Derek per
farglielo capire. «E quello che Kate ti ha fatto è…» non riusciva a trovare
parole delicate che descrivessero esattamente cos’è che fosse realmente
accaduto. «Stupro».
La
pesantezza della parola appestò l’intero monolocale e a Derek ci volle qualche
secondo per comprenderla pienamente. «Che cosa?» lo guardò come se fosse un
alieno, l’espressione contratta e diretta verso di lui. «Ero consenziente».
«No,
non lo eri. Avevi quindici anni, cazzo! Come potevi essere consenziente con
un’adulta?» come faceva a non vedere la realtà? «Lei si è approfittata di te,
del tuo dolore e della tua inesperienza. Ti ha istruito a tenerla come un
segreto, ti ha plasmato a suo piacimento. Ti ha manipolato, raggirato e
sedotto» Stiles si stava agitando, ma non poteva più tenere quella concretezza
per sé. «Un’adulta consapevole di se stessa e del suo
ruolo dominante, dell’ascendente che aveva su di te, con un piano ben preciso
con fini letali, si è avvicinata ad un adolescente in difficoltà che aveva
perso se stesso, che probabilmente voleva riscattarsi e che è stato circuito
dall’idea che una donna fosse interessata a lui più che a chiunque altro. Che
avesse scelto proprio lui. Lei si è approfittata della sua posizione, ti ha
sporcato, ti ha usato, ha tratto tutto a vantaggio di se
stessa e ne ha riso. Si è sentita potente mentre ti distruggeva pezzo dopo
pezzo, brandello dopo brandello» prese un respiro prima che Derek potesse
interromperlo e ribattere, negare. «Si ha questa idea sbagliata che un
ragazzino debba sentirsi onorato di rientrare nell’interesse di una donna, di
essere un oggetto nelle sue mani. Appare irresistibile, ma è sbagliato. È
orribile. È la cosa più terribile che potesse farti» aveva le lacrime agli
occhi per la rabbia cieca. «Un adulto, uomo o donna, non dovrebbe mai
interessarsi ad un ragazzino in piena età adolescenziale. Non è formato
mentalmente, non ha i mezzi per contrastarli, per capire cos’è che sta
succedendo. Secondo la legge è stupro» la nausea lo colse e avrebbe voluto
vomitare invece di tentare di far capire a Derek quello che gli era sfuggito
per tutti quegli anni. «Lo è anche per me».
Derek
era surgelato sul posto, non riusciva a scostare gli occhi da Stiles, non si
muoveva nemmeno la polvere. «Non…» non
era quello che era accaduto? Era esattamente quello che era accaduto.
La
vedeva lì la piccolissima scintilla di consapevolezza che affiorava,
affacciarsi, prendere finalmente corpo e tentare di venire a patti con ciò che
era stato tirato fuori. Essere messo in relazione con tutto il resto, avere
finalmente un quadro completo. Erano state davvero sue le decisioni?
Stiles
non avrebbe voluto mettere altra carne sul fuoco, aggiungere nuova dannazione,
dargli le carte per affrontare un trauma che era rimasto inconscio,
assommandosi a tutti gli altri, ma Stiles non poteva più lasciare che un
dettaglio così vitale venisse schiacciato e non analizzato, soffocato, come se
non avesse avuto il suo ruolo. L’aveva avuto.Era stato scatenante. Ripugnante.
Lo
studente di criminologia si sedette sulle ginocchia, fronteggiandolo mentre la
coperta dal cielo stellato si spostava lasciandolo scoperto e il mannaro era
consapevole che quel pigiama sottile con la volpe insieme ai suoi palloncini
colorati non lo riscaldasse abbastanza. «Non ti sei permesso di analizzarlo.
Preservando il tuo segreto, non confidandoti con qualcuno, non hai potuto
confrontarti e decriptare la situazione. Una parte di te è ancora imprigionata
ai tuoi quindici anni, non riesci ancora a vederlo, a rendertene conto» ci
sarebbe mai riuscito? Le mani si strinsero intorno alle spalle nude, la pelle
trattenuta tra le dita che sbiancavano per l’intensità delle emozioni provate,
da quanto volesse scuotere il licantropo e svegliarlo. «Ti è stata fatta una
violenza. Ripetuta. Non potevi scappare alla sua perfidia, alla sua
depravazione. Alla sua follia. Non è colpa tua. Non sarà mai colpa tua» la voce
gracchiò in mezzo a un singhiozzo furioso e distrutto per un dolore non
proprio.
«Ehy»
soffiò la creatura della notte, i polpastrelli che sfiorarono la palpebra
inferiore e accarezzavano la pelle sottile delle occhiaie inesistenti, ma
presto si sarebbero arrossate. «Stiles».
«Sei
ancora annichilito da lei e dal senso di colpa. Sei bloccato. Arreso» tutto
quel dolore il figlio dello sceriffo riusciva a vederlo nelle sue iridi verdi,
intervallati da pagliuzze blu e rosse, ogni volta che il nome di quella bestia
di satana saltava fuori o qualsiasi cosa legato alla sua famiglia. «Dovresti
essere arrabbiato, in collera. Febbricitante. Prendere a pugni questo fottuto
pianeta».
«A
cosa servirebbe?» domandò retoricamente e moderatamente, picchiettando leggero
su uno dei nei sotto le ciglia. «Non mi riporterebbe nessuno indietro. Non
riporterebbe me indietro».
«No»
convenne la matricola, allentando la presa. «Ma forse ti renderebbe più libero.
Più consapevole di te stesso».
«Sono
arrabbiato, Stiles. Lo sono da tantissimo tempo» sentiva anche quella di
Stiles, sfociava da ogni poro quella notte da quando la confessione definitiva
fu fatta. Era viva, vibrava, poteva toccarla. «Ma a lungo andare, stanca.
Aggiungerne altra… sono esausto».
Stiles
esitò, le labbra che si sovrapponevano, l’indecisione quasi visibile, insieme
agli ingranaggi che si muovevano nel suo cranio. «Non riesco a lasciarla
scivolare» confessò con onestà, il dotto lacrimale che bruciava. «Quello che ti
ha fatto va oltre la crudeltà. Ti ha annientato ovunque potesse mettere le
mani. Tutto quello che ha toccato l’ha distrutto» l’aveva fatto anche con
Allison, ma era riuscita a serbarsi e sfuggire alle sue trame. A Derek non era
stato concesso quel lusso, non aveva nessuno dalla sua parte che potesse
smascherarla o vigilare, il lavoro di plagio era stato estremamente macchinoso.
La
mano scivolò oltre il viso dello studente del primo anno e si intersecarono tra
le ciocche castane sbarazzine. «Non ti chiedo di farlo» gli massaggiò una
tempia con il pollice in movimenti circolari. «Sto cercando di mettere un piede
dopo l’altro, lentamente. Accettarlo».
Accettarlo,
era l’unica risposta. Ma ci sarebbe riuscito finché non avrebbe confessato
quella verità a qualcuno di diverso da Stiles? «Lo vedo».
Derek
lo avvicinò maggiormente a sé, le ginocchia piegate erano quasi sulle gambe del
lupo, Stiles era male equilibrato, esposto e tutto ciò che gli impediva di
cadere sull’altro erano quelle prese leggere e gentili che mantenevano quel
minimo di spazio a tenerli separati. Le fronti si lambivano a malapena, aria
tra loro. «Stai combattendo le mie battaglie» dichiarò con certezza, una verità
ineluttabile. «Anche quelle che disconoscevo. Sono proprio uno sciocco. Un
ingenuo» non era cambiato niente dai suoi quindici anni. Era esattamente come
proferiva Stiles, ancora imprigionato. «Grazie».
«Certo
che le combatto, le combatterò tutte» ci poteva scommettere tutto il suo
patrimonio milionario. «Non ho intenzione di lasciarti da solo. Non devi mai
più stare da solo» si sporse eccessivamente per l’agitazione della sua
gestualità, l’attitudine a strafare, ma Derek era solido come una roccia, lo
reggeva senza fatica, corrispondendo ogni suo movimento brusco. «L’avrei fatto
anche prima, se tu non fossi così testardo».
«Lo
so» giocò con il lombo del suo orecchio, percorrendo tutto il padiglione
auricolare con il polpastrello del primo dito. «È una delle ragioni per cui ti
ho tenuto lontano».
«Ah»
bofonchiò stupito, le iridi d’ambrosia che si facevano più grandi. «E quali
sono le altre?» e perché?
Sulle
labbra di Derek si dipinse un minuscolo sorriso nostalgico e un po’ sofferto.
«Sei fastidioso. Petulante. E rumoroso».
«Ehy!»
esclamò indignato il figlio dello sceriffo, arricciando il naso e colpendolo ad
una spalla esposta senza ottenere alcun risultato.
Derek
rise vivo sul suo viso e gli scioccò un bacio sull’epidermide arricciata del
setto nasale.
Cazzo,
quanto era sleale. «Sei terribile» ma la matricola non si risparmiò di poggiare
il capo sul suo.
«Sì,
ma non ti dispiace» Stiles soffiò aggressivo dentro un suo orecchio, ma Derek
ne sorrise soltanto.
Non
smise di accarezzargli la cute e gli altri punti in cui poteva arrivare senza
sforzo, conducendolo verso le braccia di Morfeo. Quando il respiro si
appesantì, lo riportò in una posizione più consona senza scuoterlo e strapparlo
dal dormiveglia così piacevole per entrambi.
Si
addormentarono su quel divano a tre posti, troppo piccolo per contenerli per
quello scopo; la testa di Stiles abbandonata contro l’incavo del collo del lupo
che sopportava il peso, poco vicina alla sua poggiata sullo schienale, mentre
tratteneva tra gli arti superiori il braccio muscoloso e il plaid lunare li
avvolgeva totalmente.
Nessuno
si lamentò quando si svegliarono con le ossa scricchiolanti.
Sono esausto.
Stiles non riusciva a togliersele dalla testa, gli spezzava ancora di più il
cuore.
A
un certo punto la capacità di sopportazione, di reazione, subiva una partita di
arresto. Basta, non posso reggere altro
ed era quello che a Derek era accaduto. Si era chiuso, aveva tagliato ogni
cosa. Se sarebbero arrivati altri tiri mancini, difficoltà o dolore, Derek era
saturo, non l’avrebbe affrontata. Avrebbe permesso che scivolasse via, che
fosse soltanto accettato, come un
tappetino che assorbiva l’acqua in eccesso e lo conglomerava in sé. Era un dato
di fatto, fine della questione.
Non
riusciva a fare nulla per Derek, mentre lui invece gli dava tutto; era
esasperante ed ingiusto.
«Cosa
c’è?» gli domandò il lupo muovendosi nell’ala dedicata alla notte, frugando
nell’armadio esposto e scostando la tenda rigida.
«Niente»
rispose senza prestargli completamente ascolto, utilizzando una risposta
generale.
«Sei
più vigile e pensieroso del solito» gli fece notare, le sopracciglia
aggrottate, con le braccia ferme a mezz’aria.
«Mh»
era seduto a cavalcioni sulla sedia della scrivania, lo schienale davanti a sé
su cui aveva appoggiato malamente le mani mentre osservava pigramente il
licantropo vestirsi e armeggiare con ciò che gli sarebbe servito per quella
mattinata universitaria. «Mi sto ancora svegliando».
Non
seppe se Derek fiutò la bugia, generalmente le ignorava se non avevano una
rilevanza fondamentale. «Smuoviti, faremo tardi».
Il
solito galantuomo. «Non capita mai che coincidano i nostri orari».
«Fortunatamente»
sottolineò rincuorato il mannaro, dandogli le spalle. «Sono pentito di averti
aspettato».
«Ehy!»
protestò con ardore il figlio dello sceriffo, l’indignazione che sfociava.
«Cazzo» esclamò con sorpresa quando mise finalmente a fuoco Derek.
«Cosa?»
si accigliò il mutaforma reagendo circospetto alla
cambiamento d’umore, squadrandolo non appena si voltò una volta per tutte verso
di lui.
Stiles
lo fissava inebetito e stupefatto, le labbra schiuse ed era evidente che non
riuscisse a stare nella medesima posizione per troppo tempo, perché era in
piedi e sulla seduta vi era solo un ginocchio piegato su cui gravava parte del
suo intero peso. «C’è qualcosa che non ti stia bene? Questo è profondamente
ingiusto».
Derek
posò visibilmente annoiato gli occhi sull’umano poi su se
stesso, sul cappotto lungo e grigio chiaro che lo avvolgeva, slanciandolo,
uscito fuori da un angolo dimenticato dell’armadio, soltanto perché Stiles
aveva delle regole assurde su realtà da rispettare. E principalmente perché gli
piaceva giocare con Derek. «Non è un problema mio se sono il tuo tipo ideale».
Stiles
sbatté ripetutamente le palpebre, non certo di aver afferrato correttamente.
«Io non ho un tipo» smentì con vigore, applicando una pressione eccessiva sulla
parte superiore dello schienale. «Non credo di avere un tipo» fu attraversò da
un dubbio mai sondato, rimaneggiando su se stesso. «Ho
un tipo?».
Derek
avrebbe voluto scoppiargli a ridere in faccia per la scena surreale e ridicola
che aveva messo in piedi. «Lo chiedi a me?».
«Hai
tirato tu fuori l’argomento» lo accusò con prontezza, come se quel dilemma
esistenziale fosse causato dalle sue malefatte.
«E
tu stavi sbavando» lo punzecchiò il capitano della squadra di basket con
malizia subdola.
Stiles
istintivamente si portò le dita alla bocca, trovandola perfettamente asciutta,
forse bisognosa di un po’ di idratazione. «Che stronzo» si infervori quando
realizzò cosa fosse successo, quanto Derek se la stesse ridendo senza
contenersi.
La
matricola si concentrò testardamente a sistemare la sedia all’interno del
tavolo di studio, mentre il capitano si abbottonava il cappotto elegante con
l’ombra di un sorriso sul volto. «Forse l’ho un tipo» esternò qualche attimo
più tardi, quando ebbe sbollito abbastanza quella leggera umiliazione senza
cattiveria. Loro giocavano, giocavano sempre.
«Ah,
sì?» era un interesse moderato, per Derek la questione era chiusa, una
parentesi divertente dei loro scambi ambigui.
Stiles
prese la sciarpa rossa aranciata, uscita fresca fresca dall’asciugatrice dopo
averla azionata la sera precedente. Odorava di pulito con una leggera nota di
frutti di bosco ed era incredibilmente morbida. «Gli occhi chiari».
Derek
lo guardò per un momento lungo un’eternità, le iridi di quel verde incredibile
proiettate su di lui, e si limitò ad annuire, per quale ragione Stiles non
seppe stabilirlo, ma il mannaro era già diretto altrove, verso il corridoio che
li avrebbe condotti fuori.
«Ti
dà fastidio?» chiese il figlio dello sceriffo con un odioso nodo all’altezza
dello stomaco.
«Che
cosa?» Derek non lo seguiva affatto.
Stiles,
al centro dell’appartamento, si sentiva esposto, giocava nervosamente con la
sciarpa che ritardava ad indossare. «Che ti trovi attraente» non era un
argomento che avessero mai affrontato di petto, erano solo briciole che si
erano lasciati lungo la strada. Insinuazioni.
«Quale
sarebbe la novità?» domandò retoricamente il lupo, per niente turbato da
quell’affermazione.
«Oh»
si sentiva smascherato, anche se non avrebbe dovuto. «Sì, giusto» aveva
quindici anni quando aveva cominciato a girargli intorno, una vita prima che
entrasse a conoscenza dell’esistenza dei lupi mannari, del soprannaturale. E
Derek l’aveva fiutato ben prima che Stiles avesse le informazioni che ne fosse capace,
probabilmente perfino quando non era nemmeno in grado di capire cos’è che
provasse.
«Ti
vergogni delle tue emozioni?» si vide interessato il playmaker, curioso di come
funzionasse una mente caotica e senza filtri come la sua. Stiles non nascondeva
mai cosa gli piacesse.
«No»
rispose la matricola di getto, senza dimostrare di averci riflettuto sopra.
«Forse un po’. Insomma…» indicò con un dito il letto egregiamente rifatto.
«Dormo con te ogni notte» e sei sempre
mezzo nudo, ma quello era meglio censurarlo, anche se era piuttosto sicuro
che fosse chiaramente sottointeso.
«Infatti»
decretò il mutaforma concludendo quella fase di
imbarazzo da parte dello studente del primo anno. «Dormi».
Non
poteva essere più esaustivo di così su come stessero le cose tra loro. «Ho mai
fatto qualcosa?» lasciò la frase vaga, non aveva voglia di essere più esplicito
né di usare parole improprie da quando aveva avuto quella conversazione cruda
con Derek su che cosa Kate gli avesse effettivamente fatto. Oltre, certo, ad
averlo reso orfano.
«Ad
esempio? Saltarmi addosso?» era consapevole che Stiles fosse terrorizzato
dall’idea di non avere il controllo su di sé, che il suo corpo agisse di
propria iniziativa quando era nel regno onirico e che non ne conoscesse gli
effetti nemmeno quando si svegliava. Ma aveva paura anche di quello? Di un suo
improbabile momento imbarazzante? «No» di essere troppo invasivo ed invadente?
«È qualcosa che vorresti fare?».
Se
a quel no secco Stiles aveva tirato
un sospiro interno di sollievo, il momento successivo era in apnea, gli occhi
giganti e sgomenti. «Saltarti addosso?».
«Qualsiasi
cosa connessa» si dilungò il lupo completo, senza vederne la necessità.
«Vorresti che accadesse qualcosa tra noi?».
«In
questo momento vorrei saltarti addosso per strozzarti» si irrigidì l’umano,
sotto processo. Una domanda così diretta da parte sua non se la sarebbe mai
aspettata. «Non scarto nemmeno la possibilità di aggiungere un po’ di
strozzalupo alla tua miscela di caffè».
Derek
rise divertito e Stiles avvertì subito l’aria che si alleggeriva. Era una
continua partita a scacchi tra loro. «Non ne dubiterei» si avvicinò
prendendogli la sciarpa colorata dalle mani, avvolgendola intorno al suo collo
ed annodandola.
Forse
era troppo passivo quando permetteva a Derek di avvinarsi così tanto a lui, di
bearsi il più possibile del suo contatto e attenzioni. «Un tempo l’avrei
voluto» confessò infine, specchiandosi nelle sue iridi di giada, affrontandolo
direttamente. Certo che l’avrebbe voluto, era nel pieno dell’adolescenza e con
gli ormoni impazziti ‒ e ancora molto attivi ‒ e Derek era un
sogno. Lo era anche in quel preciso istante. «Ma adesso… non sarebbe la cosa
giusta da fare» c’erano un’infinità di motivazioni per cui sarebbe stata una
pessima idea abbandonarsi alla passione, lasciarsi trascinare, godersi appieno
il momento, coronare una fantasia durata anni. Ma sarebbe stato solo un
momento, cosa ne avrebbero ricavato? Stavano bene così com’erano e Stiles
doveva ammettere di essere abbastanza egoista da sapere di non potersi
permettere di mettere a repentaglio il suo rapporto con Derek in quella fase
travagliata ed insicura della sua vita.
«No,
non lo sarebbe» concordò Derek senza battere ciglio.
Era
rincuorante apprendere che il capitano la vedesse allo stesso modo e anche
deludente, ma in fondo era una tortura soltanto per Stiles. «Soltanto perché la
mente ne è convinta, non vuol dire che il corpo agisca allo stesso modo» e nel
suo caso era letteralmente letterale. «Non so cosa accada mentre sono
sonnambulo, se dovesse succedere qualcosa, se l’altro Stiles-»
«L’altro
Stiles?» lo interruppe ridendo il lupo nero, scuotendo la testa, prendendogli
il viso tra le mani e richiamando la sua attenzione. «Non hai episodi
dissociativi della personalità, sei sempre tu».
«Sempre
io?» domandò come se gli fosse artificioso credergli. In passato aveva sofferto
di episodi simili, una personalità che prendeva il sopravvento e agiva alle sue
spalle, credeva anche di essere affetto dalla stessa malattia della madre, ma
era evidente che la possessione di una volpe oscura non fosse paragonabile.
«Sì»
lo assicurò lo studente di letteratura, come se non esistesse un’altra realtà.
«Se, in quei casi, dovessi fare
qualcosa, ti fermerò» gli venne in contro, a testimoniare che era sempre dalla
sua parte e che per lui non fosse un reale problema.
Era
rassicurante che potesse fidarsi di Derek fino a quel punto, che per una
qualsiasi ragione non se ne sarebbe approfittato. «Molto gentile da parte tua,
Sourwolf» lo prese leggermente in giro, con quel sarcasmo tipico che non poteva
essere spento.
Derek
rilasciò una risata netta, le dita che premevano maggiormente sul viso mentre
si avvicinava, scostando le fronti e sfregando i nasi tra loro.
Quei
momenti erano così preziosi e si presentavano sempre più spesso, senza una
reale motivazione. Stiles non se ne sarebbe lamentato nemmeno sul letto di
morte. «Questa cosa che fai, non aiuta per niente».
«Non
devo aiutarti» gli percosse il setto nasale con la punta del suo, lentamente,
come se si stesse godendo la situazione, fino a depositargli un bacio di
velluto in mezzo alle sopracciglia.
«Questa
cosa ti diverte, non è così?» mandarlo in confusione, farlo fremere e
desiderare di più, mandargli il cervello in stasi. Ma non gli avrebbe mai chiesto
di smetterla.
«È
una possibilità» rispose Derek malandrino e criptico, un ghigno di puro
divertimento sul volto. «Tu non mi annoi mai».
Stiles
fu attraversato da una scarica elettrica e non riusciva a quantificare che cosa
dovesse indicare, perché quella frase di puro diletto gli sembrasse avere una
conformazione più grande.
Guardò
Derek con un’espressione interrogativa e curiosa, ma il mannaro gli aveva già
allungato il giubbotto imbottito e lo attendeva davanti la porta aperta.
Sconclusionatamente
e distrattamente, mentre afferrava la tracolla e il portachiavi del lupo nero dagli
occhi eterocromi, notò quanto Derek apparisse luminoso con quel cappotto dai
toni chiari, in contrasto con la luce che assorbiva nella maggior parte del
tempo.
Tracy
attaccò il suo turno mezzora prima della fine di quello del figlio dello
sceriffo, arrivando trafelata e un po’ spennacchiata, l’ombrello mezzo rotto
che tentava di chiudere bagnandosi tutta e tentando di gettarlo nella piccola
sala sul retro in cui si cambiavano e conservavano i loro averi.
«Brutta
giornata?» chiese Stiles in un saluto, mentre lei si allacciava il grembiule
verde pastello, trafficando con il barattolo dei cookies per prenderne uno al
triplo cioccolato.
«Non
me ne parlare» disse mentre strappava un morso al
biscotto, masticando nervosamente.
«Afferrato»
si salvò dall’impiccio il ragazzo, alzando le mani in segno di resa. Non voleva
essere investito dal suo nervosismo senza una buona motivazione.
Il
campanello tintinnò e Stiles si ritrovò davanti la biondina dagli occhi verdi
che non aveva molte intenzioni di demordere. Tracy ridacchiò delle sue
disgrazie migliorandole l’umore, cosa che trovò molto ingiusta. «Come posso
servirti?».
Heather
sbatté le ciglia un’unica volta, non molto a suo agio davanti alla
professionalità che Stiles indossava sempre quando era a lavoro. «Una
cioccolata alla nocciola. Con panna» tentennò all’aggiunta, fissando
circospetta intorno a sé con un groppo in gola. «E un appuntamento».
Stiles
rabbrividì e imprecò mentre preparava la cioccolata, osservando attentamente
che non si creassero dei grumi, la sua collega non trattenne la risata
goliardica che mascherò senza alcun risultato, nascondendosi dietro ad un altro
morso del suo dolcetto. «Heather, mi pare ne avessimo parlato. Sono stato
chiaro» quante volte doveva ripetersi in vita sua?
La
bionda guardò con dubbio il bicchiere di medie dimensioni, la panna che il
figlio dello sceriffo stava montando davanti a lei, inserendo la cannuccia di
carta che si chiudeva con una piccola conca che simulava un cucchiaino.
«Credevo fossimo stati bene».
Il solito ritornello.
«Lo siamo stati» ma non era un lasciapassare per un seguito, per allentare o
abbattere le sue regole. Perché sembrava essere diventato così difficile
ottenere una botta e via senza ripercussioni? Senza legami. Senza che il
partner esigesse una replica o un continuo di qualsiasi tipo?
«Allora
perché non puoi concedermi un appuntamento?» era una richiesta semplice, per
lei era una cosa naturale, consequenziale.
«Non
sono interessato» disse francamente lo studente di criminologia, allungandole
la cioccolata nella sua direzione.
«Perché?»
gli erano ostiche quelle parole, anche se Stiles le aveva già ripetute, a lei
non bastavano come spiegazione. «E per via del capitano?».
Le
iridi ambrate seguirono il punto indicato dalla ragazza, la fine nel bancone,
vicino alla cassa a cui generalmente Stiles era assegnato. Quel giorno il
mannaro non si era presentato, cosa insolita, ma non così tanto da farlo
allarmare. «No» era stanco di continuare a rispondere a quelle domande, di
dover negare che esistesse una qualche relazione romantica tra lui e Derek. Se
fosse mai esistita una realtà simile, anche soltanto una possibilità, Stiles
dubitava che avrebbe mai guardato qualcun altro. «Tu vuoi una relazione o
comunque vuoi provare a costruire delle basi. Io non sono interessato a
questo».
«Solo
sesso?» volle sapere con precisione la ragazza, le dita che si stringevano
attorno alla tazza in cartone.
«Solo
sesso» confermò irremovibile.
Quelle
iridi verdi lo fissarono meditative, erano più chiare, diverse da quella di
Lydia e ancora di più da quelle variopinte di Derek. Pagò il suo ordine con un
paio di banconote da un dollaro e qualche spicciolo, senza aggiungere alcuna
mancia, gesto che normalmente nessun studente si apprestava a fare, a meno che
non si era Derek Hale con la missione di irritarlo, né Stiles si aspettava
quello da lei in quella situazione.
«Quello
è lo sguardo di chi non si arrende» notò Tracy quando la bionda si volatilizzò
oltre la porta con l’ombrello che svolazzava, appoggiandosi con le braccia al
bancone godendosi tutta la scena e senza più un cookie da mangiare. «Chissà
cosa direbbe il tuo ragazzo per la strage di cuori di cui sei artefice».
«Non
è il mio ragazzo» la ignorò volutamente, sistemando la nuova sfornata di
cupcake all’interno della vetrina d’esposizione.
Tracy
rimase in silenzio per un minuto intero, gli occhi castani che gravavano sul
barista e che sentiva perfettamente su di sé. «Il caso è ancora aperto?».
Stiles
si irrigidì con la pinza per i dolci in mano, la schiena leggermente curva ed
esitante. «Quale caso?».
«Hale»
formulò tutto d’un fiato, prima che potesse pentirsi di aver avviato la
conversazione.
Ancora
una volta una parte del corpo indicò la postazione che generalmente Derek
occupava, come se fosse il suo marchio di fabbrica o semplicemente sottolineava
quanto fosse abituale. «L’hai scoperto».
«Ho
dovuto scavare un po’» aveva trovato anche altro, si era sentita in torto ad
entrare a conoscenza di un dolore simile come quello che non le apparteneva
nemmeno minimamente. «Il nostro capitano ha guadagnato trofei e prestigio.
Tutto il resto sembra dimenticato».
«Sì,
gli altri hanno dimenticato» confermò con ammarezza, gli occhi rivolti al
passato. «Ma lui no».
In
negozio si presentò un gruppo coeso di studenti rumorosi, con un elenco
infinito di preparazioni e richieste assurde. Alcuni si allontanarono per
recuperare dei tavolini e Tracy uscì dalla sua postazione per unire i tavoli e
radunare quante più sedie possibili. Stiles voleva soltanto che terminasse il
suo turno il più in fretta possibile.
«Quindi,
è ancora aperto?» riprovò la barista quando ebbe servito la sua parte di
ordinazioni e fissato l’orologio alla parete centrale. Il cambio per Stiles
sarebbe arrivato a breve, anche se il suo sostituto non si vedeva ancora
all’orizzonte.
«Ufficialmente
sì» si arrese Stiles, fornendole la risposta che era così desiderosa di
apprendere. «Sono passati sei anni, ormai è più che altro irrisolto, un caso
freddo e nessuno sta facendo pressioni sul fare andare avanti le indagini»
ognuno aveva le sue ragioni, Derek aveva i suoi segreti e traumi da proteggere,
Laura credeva che dietro ci fossero i cacciatori ‒ e non era nemmeno
lontana dalla realtà ‒ e che sarebbero rimasti impuniti come in ogni
indagine simile. Al mondo reale non poteva essere spiegato un crimine come il
loro e Laura non voleva attirare eccessivamente l’attenzione, affrontare anche
quella battaglia. Le era già impossibile tenere i pezzi uniti senza aggiungere
altro sale sulle ferite.
Una
volta Chris Argent aveva detto che loro non c’entravano niente con quella
storia e con amarezza Stiles era l’unico dell’intero gruppo a conoscere la
verità; non l’aveva smentito. Lui, effettivamente, non era coinvolto in niente.
Sua sorella sì.
Sei anni,
Tracy aveva soltanto tredici anni a quel tempo. Non poteva provare a
immedesimarsi, a concepire che cosa si provasse davanti ad una simile tragedia.
«Non può essere riportato all’attenzione?».
Il
ragazzo poggiò le pinze e chiuse gli sportelli dell’espositore, raddrizzando la
schiena e troneggiando su di lei. «E come vorresti farlo?».
Tracy
si sentì in difficoltà davanti ad una freddezza che Stiles non le aveva mai
mostrato. «Riesaminando il fascicolo, trovando nuovi elementi, qualcosa che è
sfuggito».
Era
un amore indotto e plagiato l’elemento sfuggito. «Mio padre lavora a quel caso»
disse a denti stretti, le iridi di miele si fecero più oscure. «Se ci fossero
dei nuovi elementi, li avrebbe trovati».
Forse
era stata troppo indelicata. «Sì, ho letto di tuo padre» si morse le labbra,
dondolando sui piedi. «Non sapevo fossi figlio di uno sceriffo».
«Derek
direbbe che sono un figlio d’arte» si ammorbidì a quell’eco del passato, perché
al mutaforma piacevano quelle definizioni.
Quanto
conflitto ci poteva essere tra quei due davanti ad una coincidenza così
atipica? «Hai mai letto il fascicolo?».
«Se
l’ho letto?» suo padre per mesi l’aveva poggiato sul comodino, consultato nelle
ore notturne sul tavolo da pranzo. Non aveva mai smesso di battere ogni pista
che gli venisse alla mente, purtroppo per il vecchio Stilinski c’era ben poco
che potesse scoprire se Derek persisteva a tenere la verità per sé. Una copia
del fascicolo era ancora in casa, in una cartella insieme a tutti gli altri
casi irrisolti; suo padre di tanto in tanto lo riprendeva ancora in mano.
«Certo che l’ho letto» a tredici anni, sotto il letto che era appartenuto ad
entrambi i suoi genitori.
Tracy
tergiversò, spostò l’intero peso sui talloni e estrasse dalla tasca del
grembiule un blocco di fogli spillati e piegati in quattro. Li spiegazzò e li
girò verso di lui.
Stiles
fu attraversato da una scossa spiacevole quando un’ipotesi lo colse, ma si
accentuò quando individuò le parole Hale
e numero deceduti: undici. «Dove
l’hai preso? Fallo sparire subito» con il terrore si voltò circospetto ad
ispezionare tutto il circondato, il viso di ogni cliente e le persone che
restavano fuori dal perimetro. Si concentrava per assicurarsi di non
intravedere il lupo completo avvinarsi nella direzione del Crescent Moon.
Era irrazionale, ma temeva che Derek fosse perfino in grado di fiutarli quei
fogli.
La
barista lo fissò sorpresa e ansiosa, non capendo la sua ritrosia e affanno.
«Siamo studenti di criminologia, possiamo richiedere questi dati» gli riportò
alla memoria i suoi diritti, non dovendosi scusare con nessuno.
«Questo
non vuol dire che devi farlo» merda,
perché non era rimasto zitto e continuato a fare idealizzare Derek come se
fosse il perfetto adone che appariva a tutti.
«Ma
tu non vuoi risolverlo?» si intestardì la sua compagna di corso, quasi in una
mezza supplica. «Per Derek?».
«È
proprio per Derek che non voglio risolverlo» ma perché non riusciva a capire?
«Cazzo, non me lo perdonerebbe mai».
Gli
occhi di Tracy erano smarriti e confusi, i fogli che stringeva gelosamente tra
le mani. «Perché? Non sarebbe la cosa più giusta da fare?».
«Soltanto
perché è giusta, non vuol dire che è la cosa migliore da fare» in che modo
l’avrebbe guardato Derek se avesse cominciato a scavare per trovare qualcosa
che conducesse al colpevole. Alla colpevole. «Prima vengono le persone».
«Anche
queste erano persone» un polpastrello della ragazza si pressò sull’undici, numero deceduti. Tra di loro emergevano
i bambini. Umani, avrebbe aggiunto
Stiles. «Non potresti chiedere, sondare il terreno, con la sorella? O con lo
zio?».
Ah, si era informata
proprio bene. «Peter eviterei di includerlo» benché avesse sofferto, aveva
comunque lenito Derek con la storia di Paige e chissà cosa si sarebbe inventato
in seguito se le cose fossero andate diversamente. L’arrivo di Malia nella sua
vita era riuscito a cambiarlo un po’. «E Laura… lei vuole principalmente il
bene di suo fratello e non ho nessuna intenzione di convincerla del contrario»
perché ci sarebbe riuscito. Derek avrebbe detto che era molesto fino
all’esasperazione. «La mia lealtà va a Derek».
La
studentessa di criminologia sfogliò alcuni fogli, Stiles immaginava ci fossero
anche le fotocopie delle foto della scena del crimine, i cadaveri
irriconoscibili. L’autentificazione era stata quasi inutile, ma il DNA anche se
alterato non mentiva. «Credo non si possa guarire da un dolore simile» disse la
ragazza con un mezzo sussurro. «Ha sofferto tanto, anche prima di tutto questo»
guardandolo non lo avrebbe mai detto. Sì, era chiuso, taciturno, infastidito da
tutto il genere umano, ma quando c’era Stiles in giro brillava di luce propria.
Forse cominciava finalmente a capire tutta quella moderazione che aveva nei
confronti del figlio dello sceriffo. «Ma non so se sia corretto mettere un
freno».
Anche prima di tutto questo.
«Ti riferisci a Paige?» era andata così a fondo?
«La
ragazza, sì» era rimasta sconvolta dall’apprendere di quell’incidente. Una
quindicenne morta attaccata da un animale feroce non identificato. In un
trafiletto era stato inserito il nome di Derek Hale, associato come interesse
amoroso, ma senza scendere in dettagli, qualora ce ne fossero stati.
Stiles
aveva letto anche quel fascicolo, ma oltre ad essere stato archiviato come
fatale incidente, non era stato segnalato nient’altro. Peccato che ci fosse
molto di più dietro, era solo la punta dell’iceberg. Nessuno avrebbe mai potuto
capire quanti sensi di colpa Derek portasse sotto quella maschera ostile, il
significato dei suoi occhi da lupo. «Lui… l’amava molto».
Come tutti i quindicenni avventati,
ma si limitò a pensarlo. «Sei sicuro di non volergli ridare un’occhiata?».
Tracy
gli allungò le pagine sgualcite, un ultimo tentativo. «Non mi serve, l’ho
memorizzato».
Gli
occhi castani si sorpresero e spostò l’attenzione al blocchetto di carta, prima
di ripiegarlo e inserirlo nuovamente nella tasca del grembiule. «Tu sai da dove
ricominciare a cercare, vero?».
Quelle
parole lo accompagnarono finché finalmente non varcò la soglia del monolocale.
Sì, aveva nuovi elementi per poter riportare il caso all’attenzione, ma quello
presumeva che Derek testimoniasse, rivelasse tutti i suoi segreti, le sue
angosce. Non era qualcosa che poteva chiedergli, non era qualcosa che Derek era
pronto a fare. E prima di tutta quella difficoltosa procedura, mettersi
completamente a nudo davanti a degli estranei che l’avrebbero giudicato,
additato, accompagnato dall’umiliazione di dover ammettere e ancora di più
accettare di essere stato vittima di uno stupro continuo ed infimo, avrebbe
dovuto rivelarlo a ciò che era rimasto della sua famiglia. A Laura, in
primis.
Sono esausto.
Sospirò
combattuto e con le ossa contratte quando riuscì ad aprire la porta
dell’appartamento, il sole era tramontato da un’ora e le luci erano
evidentemente accese, ma non proveniva alcun rumore dall’interno e non
intravedeva alcuna ombra muoversi.
Poggiò
il mazzo di chiavi sopra quello di Derek, si tolse le scarpe ed entrò dentro il
bagno, scostando la tenda doccia e aprendo con attenzione l’ombrello
completamente grondante d’acqua, lasciandolo sgocciolare nella vasca. «Derek»
chiamò sciacquandosi le mani, procedendo lungo il corridoio nello sfilarsi il
giubbotto e snodare la sciarpa, fermandosi di colpo davanti l’ala notturna.
«Ah, sei tu» disse con voce addolcita, gli occhi pieni di tenerezza.
Davanti
al comodino sul pavimento vi era la creatura che riempiva di gioia Stiles più
di qualsiasi altra esistente, era accucciata e raggomitolata su se stessa, riposava con occhi chiusi, ma le orecchie nere
erano tese e seguivano i suoi movimenti.
Il
figlio dello sceriffo sistemò gli indumenti sulla sedia e si avvicinò
cautamente al lupo, inginocchiandosi e accarezzandogli piacevolmente la testa,
gesti che l’animale si godette senza riserve, non muovendosi però dalla sua
posizione comoda. Stiles ridacchiò con sonorità e le iridi blu e rosse si
palesarono, le orecchie che reagivano al suono della sua voce. «Ehy, ciao»
disse con tutto l’amore che aveva nel cuore, il sorriso sciolto che gli si
dipingeva sul volto.
Il
lupo scivolò sotto le dita dell’umano, ricercandole, prolungando quella
piacevolezza apparentemente proibita e Stiles gli diede tutto, affondarono nel
pelo, alzandolo e abbassandolo, assaporandone la morbidezza e calore, la
lucentezza, accerchiandolo infine con le braccia e stringendolo fortemente a
sé, assaporando quel momento pienamente. «Sono così innamorato di te» proferì
ammaliato, divertito e commosso da come il lupo completo seguisse i movimenti
delle sue mani, si affidasse alle sue cure, fosse così incline a farsi
coccolare da lui. Era decisamente più propenso nei suoi confronti con
quell’aspetto, più accomodante. Poteva seriamente prendere in considerazione di
occuparsi del caso dell’incendio? Essere sedotto dall’idea? Derek, seriamente,
non l’avrebbe mai perdonato. «Dovresti assumere sempre questa forma».
Le
iridi bicolore lo giudicarono apertamente e Stiles rise di nuovo senza
vergogna, chinandosi su di lui per depositagli un bacio sulla pelliccia ed
intensificando l’abbraccio, accostando la testa alla sua senza che Derek
mostrasse segni di insofferenza. «Sì, questa è decisamente la mia forma
preferita».
Un
paio d’ore dopo la serratura scattò, il tintinnio delle chiavi risuonò
nell’appartamento e dei passi si mossero. Non era mai capitato che, con
entrambi all’interno, quella porta venisse aperta, ma il quadrupede non si
mosse, continuò a rimanere rilassato nella sua posizione e Stiles non si
preoccupò.
«Che
bel quadretto» disse Erica meravigliata e allietata quando li scorse, lo
studente del primo anno che studiava seduto sulle piastrelle, la schiena contro
il materasso, mentre accarezzava distrattamente il lupo nero che poggiava la
testa sulle sue gambe incrociate, privo di alcun pensiero. «Quindi, si fa
vedere da te» era un’osservazione evidente, l’aveva davanti gli occhi, come
Derek fosse un tutt’uno con l’essere umano.
«Hai
appena usato le chiavi? Derek te le requisirà» scherzò alla sua vista, ma era
comunque sorpreso. «Perché, è davvero così insolito?».
«Sì»
asserì con evidenza la bionda, osservando ammirata la naturalezza con cui quei
due interagivano. «Sei fortunato».
Stiles
giocò con il pelo delle orecchie, lì dov’era più morbido, percorrendone
l’intero perimetro. «Sì, a volte sento di esserlo» doveva davvero stupirsi che
Derek non volesse apparire più del necessario in forma animale davanti a
qualcuno? Non mostrava a priori i suoi occhi unici, l’intero assetto poteva
apparire come eresia, eppure era sicuro che il licantropo avesse sentito la
lupa sulle scale, destreggiarsi con la serrata e non si era né innervosito né
era corso ai ripari. Semplicemente era rimasto lì con lui, assuefatto alla
reciproca compagnia che si davano.
«Non
sapevo nemmeno assumesse questa forma» rivelò con sincerità la mannara, ma cosa
doveva aspettarsi di diverso? Derek non si apriva né raccontava troppo di sé,
di certo non li avrebbe informati che in privato si trasformasse in un lupo
completo.
«Sì,
l’assume quando ne sente la necessità» che non erano neanche così rare quelle
occasioni. Tra le mura private Derek era libero di essere chi era davvero e se
in un momento imprecisato della giornata esternava il bisogno di diventare un
lupo a tutti gli effetti, si materializzava subito. Per quella ragione avevano
sviluppato l’abitudine di lasciare le scarpe sporche dal mondo esterno
all’ingresso, era una questione di rispetto. Stiles si sentiva un privilegiato
ad aver ottenuto una tale fiducia da lui. «Ti serve qualcosa?» domandò quando
si rese conto dell’esitazione della ragazza, dell’incapacità di rimanere
immobile sul posto, non sapendo come affrontare la questione e cambiare
completamente l’argomento della loro conversazione confortevole.
«Devo
parlare con Derek» comunicò con delicatezza, muovendo nervosamente il suo mazzo
di chiavi personale, in cui erano presenti sia le chiavi del monolocale del mutaforma sia quelle del dormitorio di Erica.
«Oh»
si assentò e si chiese di cosa dovessero parlare, ma Stiles non era uno
sciocco, Derek sarebbe partito soltanto il giorno dopo e sarebbe mancato per
due notti e tre giorni, il tempo più lungo che avessero passato separati da
quando erano al college.
Il
lupo gli si mosse contro e Stiles posò gli occhi su di lui, trovandolo vigile e
attento, osservarlo di sottecchi.
Lo
studente di criminologia sospirò, concedendosi di massaggiargli un orecchio e
facendosi forza si alzò in piedi, cominciando ad agguantare la sciarpa
aranciata e il giubbotto. «Okay, tolgo il disturbo» non poteva rimanere lì
quando avrebbero parlato di come affrontare quel lungo periodo in cui il
capitano della squadra di basket non sarebbe stato nei dintorni.
Indossò
le scarpe ed estrasse le chiavi dalla piccola ciotola in cui le conservavano al
rientro. Sentì le unghie delle zampe echeggiare nel monolocale, segno che non
stesse usando un passo felpato, e Stiles sospirò di nuovo, voltandosi verso il
grande lupo che l’aveva seguito e che lo scrutava con attenzione profonda. «Sto
bene, Der. Tornerò più tardi» si congedò con un rapido movimento delle dita a
simulare un saluto veloce, ma la matricola non stava bene per niente.
Stiles
camminava senza una meta, tutto intorno a lui era bagnato dalla pioggia che si
era fermata clemente e si maledisse un po’ per non aver pensato di prendere
l’ombrello che asciugava dentro la vasca-doccia; non voleva nemmeno tornare
indietro per riprenderlo.
Chissà
se Derek avrebbe riassunto la forma umana davanti ad Erica, completamente nudo
e splendido come solo lui poteva essere o se avesse avuto la stessa accortezza
che usava con Stiles, chiudendosi in bagno. Era curioso, sì. Era nella sua
natura, soprattutto scoprire come il capitano si muovesse con gli altri, magari
scoprire anche le differenze che saltavano davanti agli occhi delle persone che
li guardavano.
Si
strinse nel giubbotto e osservò la luna quasi piena, ad un giorno di distanza
dal plenilunio, che brillava nel cielo notturno; si destreggiava tra le nuvole,
tentando di non farsi coprire.
La
nottata che li avrebbe attesi l’indomani sarebbe stata problematica sia per lui
che per Derek, benché il licantropo non avesse mai manifestato della difficoltà
evidenti, quello, però, non escludeva che fosse in difficoltà.
Respirò
a pieni polmoni sotto il satellite della Terra, immobile, lasciandosi
illuminare dei raggi argentei e poi rilasciò l’anidride carbonica, il fumo
vivido che usciva dalla bocca.
Non
era arrabbiato con Derek o con Erica, era soltanto abbattuto di quanto
dovessero faticare dietro di lui, per corrispondere alle sue esigenze, alle sue
problematiche, di quanto dovessero preoccuparsi per i possibili effetti dati
dalla prolungata lontananza dallo studente di letteratura.
Doveva
essere contento per Derek, rallegrarsi, perché il suo talento e capacità
ottenevano visibilità, erano riconosciuti. Quei viaggi sarebbero perdurati
finché il campionato e le varie attività legate non sarebbero terminati o
finché la sua squadra non avesse perso e, di certo, Stiles non desiderava che
Derek perdesse.
Il
campo di gioco era ancora il luogo in cui Derek era più felice. Era stato
durante un allenamento di quattro anni prima l’istante in cui l’aveva notato e
aveva continuato a scorgerlo, fino a divenire certezza, partita dopo partita e
Stiles si era sentito fremere da ogni parte, perché quel ragazzo tenebroso,
cupo e bersagliato dal fato avverso era ancora capace di permettersi di essere
felice, benvoluto dalla vita.
Soltanto,
il figlio dello sceriffo, odiava quanto si sentisse indebolito e precario
lontano dalla creatura della notte.
«Stiles»
una voce maschile lo chiamò e un’ombra si proiettò su di lui. «Stai andando
alla caffetteria?».
«No,
il mio turno è finito ore fa» Stiles non aveva bisogno di individuarlo, lo
aveva riconosciuto subito. In quella semioscurità le iridi azzurre spiccavano
senza fatica. «Avevo bisogno di camminare» aveva percorso tutta quella strada
fino ad arrivare nelle vicinanze del dormitorio dello studente di scienze
politiche? Se fosse inconsciamente o volutamente, non era sicuro della
risposta.
«Non
proprio il momento giusto» rifletté Theo, un ombrello chiuso in mano, ma da cui
sgocciolava una quantità notevole d’acqua, segno che forse lo studente di
criminologia era stato graziato in quella pausa dalle precipitazioni. «È
successo qualcosa?» domandò con dubbio, osservando uno Stiles che gli appariva
anonimo, distante e con qualche peso eccessivo sulle spalle.
«No,
niente di importante» non doveva esserlo, eppure sull’animo della matricola di
criminologia pesava enormemente. Si voltò completamente verso il suo
interlocutore, apprendendo della sua reale presenza in tutto e per tutto. «Sai
come smettere di essere egoista?».
Una
scintilla attraversò gli occhi di zaffiro e si fecero più intensi. «No».
Stiles
ridacchiò vuoto, tirandosi sulla testa il cappuccio del giubbotto che Derek aveva
riattaccato e che non era stato più staccato. Lentamente aveva ricominciato a
piovigginare. «Immaginavo».
Theo
aprì l’ombrello con l’unico tasto presente che lo fece scattare immediatamente,
nel momento in cui la pioggia si velocizzò e divenne più presente. Al rumore
dell’apertura metallica si sporse per baciargli la bocca, la pelliccia
sintetica che gli solleticava il viso e lo sgomento nel figlio della massima
autorità di Beacon Hills. «Hai chiesto alla persona sbagliata».
Si
separarono e il calore era ancora sulle labbra interdette di Stiles, come il
fiato che le lambiva volutamente.
Sbatté
le palpebre, la vista che si faceva più chiara e limpida, l’ombrello sopra le
loro teste, il fumo che usciva dalla bocca di entrambi e si miscelava insieme.
Stiles
gli agguantò il viso fulmineamente e ferocemente fece scontrare le loro bocche,
che presero a baciarsi voracemente e languidamente, attirandolo completamente
verso di sé, senza permettergli di sviarsi da lui.
«Andiamo
da me?» gli propose Theo sulle labbra, baciandole ad ogni parola, le iridi
brillanti e vogliose, eccitate.
Che
cosa avrebbe risposto se fosse stato qualcun altro? Se lì presente ci fosse
stata qualcuna come Heather? Se vuoi
rivedere qualcuno, fallo erano state le parole di Derek. «Sì» chi voleva
prendere in giro, Stiles avrebbe voluto rispondergli positivamente ad ogni
nuova offerta.
In
quel momento Stiles voleva essere posseduto, riempito. Un corpo possente e duro
contro il proprio. Era quello che più preferiva: essere dominato. Prendersi
tutto il piacere.
Quando
tornò oltre la mezzanotte nel monolocale, senza neppure aver cenato, Derek non
proferì parola, non gli domandò se volesse che gli cancellasse i succhiotti e
morsi che aveva su tutto il corpo, sui lembi di pelle visibili oltre il
pigiama, né Stiles ebbe il coraggio di chiedergli di farlo.
Si
addormentarono dandosi entrambi la schiena.
«Avevi
ragione» gli disse il lupo mannaro in videochiamata disteso sul letto
matrimoniale, il torace nudo che si alzava e abbassava.
«Su
cosa?» gli chiese distrattamente la matricola, coricata sullo stomaco,
indossando il pigiama della volpe di cui si avvaleva tutte le volte in cui
Derek non era al campus e che gli lasciava intravedere una delle clavicole per
via della sua taglia esagerata, su cui spiccava un livido roseo e fresco, accompagnato
a pochi altri più distanti, insieme ad uno collocato su un lato del collo.
Sembrava fosse stato ripassato più volte per non perdere colore. Stiles cercava
di non farli notare troppo, ma era una battaglia impari.
Era
tornato da Theo la notte precedente e anche quella stessa notte, prendendosi
tutto quello che poteva prendersi e dando quanto fosse disposto a dare. Erano
state ore piacevoli che avrebbe sicuramente voluto ripetere, ma anche se Derek
non era nei dintorni, aveva cercato di lavarsi meglio che poteva, per evitare
di portare odori pochi spiacevoli nell’appartamento che il lupo avrebbe
avvertito subito.
«Prima
del liceo, non avevo coscienza di te» rivelò la creatura leggendaria, come se
Stiles avesse dovuto stare attento a non perdere il filo del discorso.
Ah, Stiles dovette
tornare indietro di più di un mese con i pensieri, alla notte di Halloween. La
notte in cui, sottoforma di lupo completo, Derek aveva incontrato Theo faccia a
faccia ‒ muso a faccia? Muso a
muso? «Beh, perché avresti dovuto?» era una coincidenza che prendesse
quell’argomento dopo che Stiles aveva infine ceduto alle adulazioni dello
studente di scienze politiche, più volte?
«Tu
mi avevi già notato» dissentì il padrone di casa, come se dovesse essere in
qualche modo un’offesa per la persona di Stiles.
«Non
credo di poterci paragonare» nessuno di loro stava facendo riferimento a ciò
che aveva comportato l’incendio, la notizia ribalzata su tutti i giornali e
telegiornali locali, i sussurri di bocca in bocca che si erano sparsi per tutta
la cittadina. «Tu appartieni alla famiglia più facoltosa di Beacon Hills. I
tuoi antenati ne sono stati i fondatori, accidenti. Fidati, fa un certo effetto.
E poi sono la persona più curiosa del mondo, noto tutti».
«Sei
anche la più malfidente» aspetto che a Derek non sarebbe guastato un po’ avere
a quel tempo. Almeno una briciola.
«Fa
parte del pacchetto paranoici» lo
ragguagliò con divertimento bonario, strizzandogli un occhio giocoso.
Derek
emise una piccola risata e per Stiles era sempre una vittoria. «Il bambino che
rubava i fascicoli di casi di omicidio del padre».
«Beh,
forse quello ha influenzato» se si conosce il peggio del cuore delle persone,
non ci si aspetterebbe niente di diverso.
«Solo
di omicidio?» volle sapere attento il licantropo, gli occhi interessati.
«Mi
ci vedi a dare la caccia a un ladro d’auto?» arricciò il naso disgustato,
distorcendo la bocca.
«Se
fosse la tua, sì» lo corresse al volo il playmaker.
«La
mia bambina sa difendersi da sola» affermò fieramente, battendosi un colpo sul
petto.
«Certo»
confermò con convinzione Derek. «È una trappola mortale, non ne uscirebbero
vivi».
«Morditi
la lingua, essere indegno» lo additò con asprezza il figlio dello sceriffo,
assottigliando pericolosamente gli occhi.
Derek
produsse un colpo di risa e scosse il capo rassegnatamente divertito. «E i casi
di frode? Un abile falsario come te».
«Quelli
sono divertenti» ammise Stiles, annuendo con enfasi. «Adoro risolvere i puzzle»
trovare lo schema, smascherarlo, trovare l’errore. «Qualche volta, sono tutti
casi collegati. Bisogna trovare ciò che li lega» se avesse potuto, come avrebbe
fatto a trovare il collegamento tra Kate e l’incendio degli Hale? Come avrebbe
anche potuto collegarla a Derek? Era stata troppo brava a non lasciare tracce,
a tenere Derek tutto per sé. A non far trapelare avversioni particolari verso
gli Hale, come tutta la sua famiglia di psicopatici. A volte si chiedeva come
Chris Argent fosse riuscito ad essere l’unica persona onesta e leale in quella
gabbia di matti.
«Già,
è vero» concordò assente il capitano della squadra di basket.
L’umano
lo scrutò attraverso il piccolo schermo dello smartphone, non gli rendeva
minimamente giustizia, ma non ridimensionava minimamente il suo essere
glorioso. Era distante e chiuso nei suoi pensieri, completamente lontano dal
suo interlocutore, come se non avesse più coscienza che fosse lì con lui, a
collegarli una microtelecamera puntata addosso.
Erano
accompagnati dal silenzio e Stiles era indeciso su che cosa avrebbe dovuto fare
per romperlo. Se avesse dovuto osare.
Avrebbe
dovuto chiederglielo? Prendere l’argomento sull’incendio degli Hale? Cosa gli
avrebbe risposto? Sbadigliò incontrollatamente, le lacrime della sonnolenza che
fuoriuscivano senza controllo, premendo il viso istintivamente contro il
cuscino di Derek che abbracciava con tutte le forze.
«Stiles,
va a dormire» lo incitò il mutaforma, ritornato nel
mondo presente, di nuovo cosciente della matricola esausta dall’altro lato
dello schermo. «È tardi».
Due
ore di fuso orario li dividevano e quella sera Derek aveva giocato. La squadra
si era prorogata in un lungo festeggiamento per la vittoria, schiamazzi e
brindisi, urla, musica e confusione. C’erano questioni da cui un capitano non
poteva sottrarsi e quell’occasione vi rientrava.
Stiles
era tornato verso la mezzanotte, orario che rispettava sempre quando si
intratteneva in incontri infuocati, e l’aveva aspettato per i successivi
centoventi minuti, quando il mannaro era riuscito a togliere le tende ed
eclissarsi ‒ e si presumeva che ne fosse trascorsa un’altra di ora con la
loro conversazione, Stiles non guardava mai l’orologio. Era sicuro che il
restante dei giocatori non aveva alcuna voglia di spegnersi troppo presto.
«Voglio parlare con te» si imbronciò, le palpebre che rimanevano aperte con
fatica e la vista appannata che gli impediva di scorgere perfettamente i
lineamenti del suo viso.
«Tornerò
tra dodici ore, potrai parlarmi quanto vorrai» che non implicava affatto che il
playmaker fosse disposto ad ascoltare il suo sproloquio. Stiles era un flusso
di coscienza interminabile.
Il
figlio dello sceriffo era evidente non fosse persuaso, con il viso sprofondato
sul proprio guanciale per via delle forze che lo abbandonavano e l’ennesimo
sbadiglio che gli sfuggì senza nemmeno averne coscienza. Gli occhi rimanevano
comunque perforanti.
«Stiles»
lo chiamò con morbidezza, comprensivo e lungimirante. «Non accadrà nulla
stanotte».
Le
palpebre si chiusero una volta, dando via libera alle lacrime del sonno di
scivolare via. Sospirò affranto, stremato, le braccia che avvolgevano con più
forza il cuscino di Derek, mentre cercava di accomodarsi maggiormente nel
proprio e rallentare il battito affrettato del cuore. «Lo spero».
Theo
camminava per le vie notturne del campus senza una meta, uno scopo preciso. Si
stringeva nel cappotto nero e si lasciava guidare dalla luce dello spicchio di
luna che rimbalzava sulla neve fresca, caduta per tutto il giorno.
Non
era così presuntuoso da credere che Stiles sarebbe tornato da lui per una
quarta sera consecutiva, le nocche che bussavano alla sua porta. Aveva sentito
la necessità di alzarsi e allontanarsi dal dormitorio, proseguire per una
strada diversa, permettere a qualcos’altro, o qualcun altro, di distrarlo. Non
mentiva se confessava di conservare la speranza di imbattersi casualmente nella
persona più brillante e scostante che avesse incontrato in quel college,
esattamente com’era accaduto tre giorni prima sotto la pioggia. Quante
probabilità esistevano che accadesse e che lo studente di criminologia cedesse
nuovamente?
«Stiles»
mormorò con un punto interrogativo incerto, tentando di mettere a fuoco la
figura che passeggiava con passo tentennante e spaesato davanti a lui.
«Lei
lo sapeva» replicò sconclusionatamente il figlio dello sceriffo, le gote
arrossate, l’illuminazione dei lampioni distanziati che lo sfioravano appena,
un’agitazione anomale ben evidente.
Theo
sbatté le palpebre varie volte, non capendo minimamente con cosa avesse a che
fare e se fosse reale. Stiles indossava soltanto un pigiama primaverile, forse
leggermente felpato; vi era un volpacchiotto con dei palloncini in una zampa
anteriore che volava sospeso su un cielo abbellito di nuvolette dai colori
pastello, varie stampe simili erano raffigurate anche sui pantaloni ed i piedi
erano completamente scalzi, sprofondati nel gelido manto innevato. «C’è
qualcosa che non va?» era surreale e atipico, anche allarmante, Stiles non
sembrava sapere chi fosse, non avere alcuna coscienza di chi incontrasse e dove
si trovasse, aveva gli occhi vacui e distanti. Nemmeno il freddo pungente
appariva scalfirlo, benché fosse evidente che il suo corpo ne fosse bersagliato.
«Non
avvicinarti» ringhiò una voce a lui totalmente sconosciuta, minacciosa e
severa. «Non toccarlo».
Erano
ordini, non vi era alcun dubbio. «Tu puoi, invece?» lo sfidò aggressivamente,
la beffa serpeggiante e assottigliando gli occhi.
Derek
Hale lo fulminò a vista e se uno sguardo avesse avuto il potere di ucciderlo,
sarebbe stato propriamente quello. «Non puoi gestirlo».
Theo
si chiese se si riferisse a quel bizzarro momento o se vi fosse un aspetto più
grande. «Dimostramelo».
Le
iridi verdi non si sprecarono a perdere troppo tempo su di lui e Theo, invitato
malamente a rimanere immobile, vide il capitano della squadra di basket
precipitarsi con moderazione verso Stiles, entrare nella sua sfera personale,
poggiargli una mano su una spalla e l’altra sul viso. «Cazzo, sei ghiacciato»
osservò con preoccupazione al momento dell’impatto, cercando indizi tutto
intorno. «Da quanto tempo sei qui fuori?».
A
quella domanda si voltò verso il ragazzo spettatore, prendendolo in contropiede
per quel gesto puramente istintivo, e quest’ultimo scosse il capo non
sapendogli dare una risposta.
Lo
studente di scienze politiche notò come Derek non apparisse sorpreso di trovare
Stiles in quelle condizioni, senza nient’altro a vestirlo se non un pigiama
sottile, com’era evidente che il capitano indossasse soltanto una maglia con il
logo della squadra del Michigan State University. Che si
fosse messo ad inseguirlo e cercarlo nell’istante in cui aveva compreso che
Stiles non era dove doveva essere?
«Derek,
lei lo sapeva» Theo si sorprese quando sentì il nome del
mutaforma essere pronunciato, testimonianza che il figlio della massima
autorità di Beacon Hills fosse consapevole con chi interagisse, a differenza di
come aveva e continuava a dimostrare nei suoi confronti. «Sapeva di cosa sarei
stato capace».
«Non
è vero» dissentì fortemente il playmaker, sfregandogli entrambe le mani sulle
spalle in un tentativo di riscaldarlo, di salvarlo dall’ipotermia. Stiles
appariva cristallizzato per quanto il corpo si mostrasse pallido ai raggi di
madreperla, facilmente frangibile.
«Lei
l’aveva avvisato» Stiles si agitò implorante, a pregare di essere capito,
compreso. Di abbracciare la sua battaglia personale. «Continuava a
ripeterglielo. Del male che avrei fatto. Che le avrei fatto» le dita si
chiusero con violenza a pugno, le unghie che si conficcavano con violenza nei
palmi.
«Non
è così» ribatté controcorrente Derek con decisione, la presa che si faceva più
decisa sulle ossa infreddolite del futuro criminologo. Per via della grandezza
eccessiva della maglia del pigiama, evidentemente di un paio di taglie più
grandi, era chiaramente visibile uno dei succhiotti di cui Theo andava fiero,
proprio sull’incavo del collo su cui predominava; era passato un giorno intero,
ma era ancora principalmente tendente al rosso. «Non era più lei. Questo lo
sai» il tono era ragionevole, pragmatico, eppure era pieno di delicatezza. «Le
cose che disse, le sue accuse, erano soltanto frutto della sua malattia. Ti
aveva già lasciato».
«Ma
lei l’aveva predetto» dissentì testardamente Stiles, oscillando pericolosamente
per via della precarietà della situazione, le lacrime che cominciavano a
irrigargli il viso arrossato. «Del demone. Del male. Della volpe. L’avrei
uccisa. Avrei ucciso. L’ho uccisa» nel panico generale, Stiles recise
violentemente la carne interna delle mani, si divincolò dalla presa del mannaro
e le maniche troppo larghe volteggiarono nell’aria, lasciando scoperti i polsi
su cui si avventò con maggiore brutalità, cominciando a graffiare e infierire,
le unghie che tentavano di rompere i vasi sanguigni visibili, facendo sgorgare
liquido vermiglio.
«Basta»
ordinò con un urlo secco Derek, afferrandogli le mani e separandole tra loro,
impedendogli di avere accesso a qualsiasi parte del suo corpo su cui volesse
infierire. «Odio quando ti fai del male».
Stiles
lo guardò senza che riuscisse a decifrarlo, a svelare l’arcano dietro cui Derek
si fosse mobilitato per fermarlo. «Sarebbe più facile».
«Più
facile per chi?» lo chiese il lupo con dolore, i tratti del viso distorti dal
terrore e da una preoccupazione senza eguali. Le dita scesero verso i polsi,
sigillandosi sulle ferite aperte come a tamponarle, gocce cremisi caddero sulla
neve, macchiandola inesorabilmente. «Mi dispiace di aver fatto tardi» disse
affranto, distrutto, il senso di colpa che spintonava per primeggiare.
Theo
era pietrificato sul posto, inorridito e spiazzato da quello a cui stava
assistendo e che gli si mostrava senza il minimo senso. Che cosa incontravano i
suoi occhi? Quanto poteva essere utile la sua presenza lì?
«Anche
lui ha detto che era colpa mia» si fece nuovamente sentire lo studente di
criminologia, bisognoso di presentare una maggiore quantità di prove che gli
dessero ragione.
La
matricola di scienze politiche vide come Derek ebbe bisogno di qualche attimo
di tempo per processare quella nuova conversazione e decodificarla. C’era un
numero sproporzionato di pronomi indecifrabili, bisbigliati, a cui Theo non
aveva accesso, ma invece il capitano sapeva distinguerli tutti. «Non era reale,
era un’allucinazione» spiegò con quanta più veridicità ci fosse in lui, con la
speranza che gli credesse. «Lui non penserebbe mai una cosa simile. Sei tutto
ciò che di più importante ha».
«Aveva
cominciato a bere, tanto» rivelò Stiles con le lacrime agli occhi, arreso ed
apparendo più piccolo di quanto in realtà non fosse. «Io lo vedevo, ma non
sapevo cosa dovevo fare» tirò le braccia verso di sé, ma il capitano le teneva
saldamente dalle ferite macchiate di sangue. «Sono arrivati gli infarti,
l’ospedale. Le parcelle. Le loro. Le mie. Non c’è fine».
«Eri
soltanto un bambino. Senza più una madre» pronunciò la verità il lupo mannaro,
scandendo lettera per lettera. Una verità che dopo tutti quegli anni Stiles non
era ancora riuscito ad accettare. «Hai tenuto insieme quello che potevi».
«E
tu, Derek?» lo sguardo vuoto di Stiles si fece attento, riflessivo, diretto
interamente verso il suo interlocutore. «Tu sei rimasto senza nessuno».
«Ho
Laura» lo sentì dire Theo, senza che ci fossero dubbi su quello, era una realtà
inconfutabile. Le dita sfiorarono la vena che pulsava, direttamente collegata
al cuore del figlio dello sceriffo. «Ho te».
«Derek»
proferì completamente spezzato la matricola di criminologia, proseguendo nel
tracciato da cui non voleva separarsi, senza farsi distrarre. «Appartengo a
lei. Non sono più la tua volpe infuocata. Sono una volpe malvagia, crudele e
meschina, ormai. Proprio come lei».
Derek
impallidì a quelle parole, gli occhi sgranarono attoniti. «Sarai sempre la mia
volpe infuocata» proferì con la profondità della sua premura, investendo
chiunque fosse nei paraggi.
Una
mano risalì verso il viso di Stiles, sporcandolo inevitabilmente di tracce
scarlatte, che risaltavano attraverso la luce perlata della luna rinata. «Sei
la volpe più intelligente e astuta che abbia mai conosciuto. A volte
manipolatrice, ma per uno scopo più grande, per proteggere le persone che ami
di più, benché tu non venga ripagata allo stesso modo» il pollice gli accarezzò
uno zigomo con affetto sofferto, una scintilla di tenerezza nelle dure iridi di
giada. «Sei la volpe più fedele e leale che esita, la più giusta. La volpe dal
manto infuocato più splendente che ci sia».
Stiles
singhiozzò affranto, alcune lacrime vennero cancellate dal polpastrello
bollente del licantropo, unica fonte di calore in quello scorcio della sua vita
tormentata. «Ma tornerà a prendermi. Le appartengo» la vera disperazione
affiorò, così come un’interminabile stanchezza. «Tornerà a controllarmi».
«Appartieni
soltanto a te stesso» dissentì prontamente il lupo, negando ogni possibile
scenario opposto. «Ti ho fatto una promessa, Stiles» gli riportò alla mente con
intensità, senza che potesse anche soltanto farsi solleticare dalla possibilità
che si tirasse indietro. «Non le permetterò di trovarti» gli prese interamente
il viso tra le mani, scatenando un piccolo sospiro di sollievo nel figlio dello
sceriffo e Theo notò come non vi fosse più del sangue a scorrere dalle vene
torturate dei polsi o dai palmi. «Puoi fidarti, ancora una volta, di me?».
Le
iridi dello splendido nettare degli dei erano vuote, non scalfivano minimamente
la loro reale bellezza, eppure erano comunque dedite a Derek. Vive. «Der, sei
l’unica persona di cui mi fida» proferì con candore irriproducibile,
sconfinato.
Derek
gli respirò sul volto, gli occhi verdi che lo abbracciavano interamente,
accostandogli la fronte contro la sua ed ispirando a pieni polmoni la fragranza
energica, indomabile. Il tempo si dilatò. «Vale anche per me».
Le
labbra del figlio dello sceriffo si curvarono verso l’alto e quello era il
primo sorriso in quella lunga, disastrosa e spaventosa notte.
Derek
lo scorse di sottecchi, i tratti facciali si erano mossi sotto le sue dita. Gli
schioccò un bacio morbido e caldo proprio sul punto su cui si era appoggiato,
al centro. «Ti riporto a casa».
Stiles
annuì contro di lui e le falangi del lupo completo si scollarono dal viso,
intrecciandosi pigramente ai capelli scompigliati e gelati. Tutto in Stiles lo
era.
Gli
occhi di smeraldo severi si spostarono sullo spettatore discreto che aveva
assistito impotente e scombussolato senza emettere fiato. Erano affilati e
giudicanti, comunicavano un messaggio che Theo aveva già decifrato mesi prima.
«Good
times, bad times, guess we're human» provò a cantare la voce arrochita di
Stiles a causa della temperatura bassa, che andava oltre gli zero gradi,
incurante delle sue condizioni allarmanti. «Take me, save me, I don't want this
burnin' out» intonò la volpe infuocata, le corde vocali che si riscaldavano,
conferendogli una melodia piacevole.
Theo assistette
spiacevolmente alle dita del figlio dello sceriffo che si intrecciavano a
quelle del lupo mannaro, distante poco dietro di lui, quasi a fargli da scorta,
mentre lo conduceva sospingendolo nella direzione opposta al Mayo Hall.
Fu allora che Derek ricambiò la stretta in automatico, in una prassi casuale. «Don't-don't
it feel so good right now?» vocalizzò lo studente di criminologia, i piedi nudi
che lasciavano orme sulla neve soffice, tracce precise del suo intero percorso,
la direzione in cui stava procedendo con enorme difficoltà per giungere alla
salvezza.
Stiles
era certo che quella notte fosse andato a dormire con un pigiama diverso, con
quello di Derek con i volpacchiotti che amavano tanto, ma quella mattina
indosso ne aveva uno dei propri. Ritraeva la DeLorean
pronta per un altro viaggio, in procinto di andare nel futuro. O nel passato.
Non
era indice che qualcosa di positivo fosse accaduto quella notte.
Si
rigirò nel letto, trovandolo vuoto, le lenzuola completamente fredde; lenzuola
di flanella di cui Derek non se ne faceva nulla,
insieme ad altre tipologie, ma che era corso ai ripari per il benessere di
Stiles. L’occhio gli cadde sulla sveglia digitale ed imprecò, conscio di aver
saltato il suo turno alla caffetteria. Come avrebbe fatto a giustificarsi?
Perché aveva dormito così tanto? Chi aveva badato a lui? Ad una prima analisi
offuscata dagli occhi ancora insonnoliti, non era certo che Derek fosse ritornato.
Poggiò
i piedi sul pavimento e notò che erano già avvolti da un paio pulito dei suoi
calzini antiscivolo, un’accortezza insolita.
Scivolò
dal materasso e si spinse in piedi, procedendo a tentoni verso il bagno,
bisognoso di prendere maggiore coscienza di sé. Quando si fu alleggerito e
rinfrescato, si scrutò attentamente allo specchio, era completamente
disordinato e provato. Vi era una stanchezza che Stiles sinceramente non
riusciva a percepire.
Si
scrutò le mani, scoprì i polsi e trovò tutto immacolato. La vista scivolò sul
colletto della maglietta, non notando alcun livido rossastro o violaceo. Scostò
la stoffa e non vi trovò assolutamente nulla. Pelle candida e inviolata.
Si
agitò e alzò la maglia, non scorgendo alcun succhiotto che nelle sere
precedenti il suo corpo era stato disseminato. O aveva dormito più di qualche
ora di troppo o qualcuno aveva usato i suoi poteri lupeschi.
Si
affacciò oltre la porta del bagno e ciabattò verso la zona cottura, la
lavatrice accesa che persisteva a svolgere il suo compito. «Sei tornato» realizzò il figlio dello sceriffo quando
incontrò la figura di Derek seduto a capotavola, il Mac accesso e le dita che
digitavano spontaneamente.
Le
iridi di giada si poggiarono distrattamente su di lui, come a non voler rendere
quel rinnovato incontro speciale.
Stiles
si morse le labbra a disagio, stranamente fuori posto. Il ticchettio sulla
tastiera riprese e l’umano inghiottì un nodo di saliva a vuoto. Oltrepassò il
tavolo e si diresse verso la grande finestra, salendo con le ginocchia sul
divano. C’era neve dappertutto, scie di orme in ogni direzione, le strada
asfaltata liberata dallo spazzaneve. Anche le auto ne erano ricoperte, chissà
se Derek fosse già passato dal parcheggio incustodito per toglierla dal
tettuccio della preziosa Camaro. «Devo chiamare la caffetteria».
«Me
ne sono occupato io» disse il mutaforma come se non
gli avesse richiesto alcuna fatica. Prendere il telefono, cercare il numero sul
sito ufficiale e far partire la chiamata, spiegare perché il loro barista
logorroico ed iperattivo fosse indisposto. Tutta quella premura soltanto per
lui.
Derek
si alzò subito dopo e si diresse a sbirciare dentro il frigorifero rifornito.
«Vuoi mangiare?» gli chiese con evidenza.
Stiles
si voltò appena verso di lui, indeciso sulla prassi. Era quasi ora di pranzo,
aveva senso. Anche se era sicuro che la sua priorità dovesse essere un’altra.
Si limitò ad annuire.
Il
capitano estrasse una padella dal reparto stoviglie, insieme ad una pentola. La
riempi d’acqua e accese il fuoco, riponendole sopra il corretto coperchio,
accanto spinaci freschi direttamente dal reparto verdura. Sulla fiamma vi
depositò anche la padella vuota e lo vide trafficare alla ricerca di fette
spesse di pancarré. Le avrebbe tostate in mancanza di un tostapane apposito.
Stiles
tornò a guardare oltre la finestra, al freddo pungente che vi era oltre quel
monolocale che Derek teneva ad una temperatura adeguata a entrambi, ma
soprattutto per la matricola. Aveva camminato ignaro in mezzo a quel gelo?
Si
asciugò una lacrima di frustrazione e si alzò in piedi, sorpassando il mobilio
e avvolgendo le braccia intorno al mannaro, incastrando il viso nel suo collo.
Era al sicuro, era a casa.
«Ehy»
soffiò Derek contro di lui, sfiorandogli la nuca con le punta delle dita. «Va
tutto bene».
Adesso, adesso andava bene.
Stiles non ne volle sapere di separarsi dal giocatore, intensificando l’abbraccio
e prolungando quella pace momentanea. «Cos’è successo?».
Una
mano si intrufolò tra i capelli castani scompigliati, massaggiandogli
attentamente un punto delicato della testa. «Hai avuto una notte difficile,
complicata».
Così
complicata che aveva perfino dovuto cambiarlo. Il freddo aveva sicuramente
contribuito a quella decisione, ma il fatto che tutti i segni che Theo aveva
cosparso sul suo corpo fossero spariti, era una prova che Derek si era visto
costretto a curarlo totalmente.
Stiles
uscì allo scoperto, abbandonando il suo rifugio caldo, adocchiandolo
misuratamente. «Non accadeva da un po’» non in modo così catastrofico, per
quanto lui ne sapesse.
«Lo
so» convalidò il lupo completo, spegnendo per precauzione il fornello con la
padella. Era riuscito a tostare soltanto due fette di pane. «Mi dispiace di
aver ritardato».
«Non
è colpa tua» le iridi d’ambrosia brillavano nelle sue, stuzzicate da quelle
scuse non necessarie.
«Mi
dispiace comunque» insistette il licantropo, non convinto pienamente di
meritarsi la fiducia che Stiles, qualsiasi Stiles, gli desse.
«Mi
avevi avvisato in passato» senza nessun controllo da parte di Derek, per il
viaggio di rientro ne erano capitate una di seguito all’altra. Nomi che
mancavano nelle prenotazioni o errati, un ritardo clamoroso all’aeroporto, voli
cancellati e il traffico nella via che li avrebbe ricondotti al campus. Derek
aveva cercato di passare ogni singolo minuto possibile al telefono con lui.
«Sei qui, adesso».
«Oltre
le dodici ore promesse» rincarò la dose, un pollice che benevolmente gli
accarezzava ripetutamente un sopracciglio. «Avrei dovuto escogitare qualcosa.
Tenere Erica all’erta».
«Mi
hai trovato» si diede una spinta con la punta dei piedi e accostò la fronte
contro quella di Derek, senza alcuna intenzione di sciogliere il legame di arti
che li teneva uniti. «È ciò che conta».
Il
capitano della squadra di basket lo trattenne in quella posizione, una mano
ancorata al viso della matricola. Reciprocamente si avvalsero del calore
dell’altro e Derek strusciò delicatamente il naso contro il suo, sopra il
sorriso rilassato di Stiles. Gli schioccò le labbra in mezzo agli occhi che si
serrarono al contatto. «Raeken era lì».
Stiles
fu attraversato da una scossa spiacevole che lo allarmò. Si sentì anche in
dovere di sciogliere ogni presa dal lupo. «Theo?» chiese retoricamente, ma con
l’esigenza di averne la certezza.
«Sì»
confermò il licantropo, intrattenendosi con le punta dei suoi capelli. «È
giusto che tu lo sappia».
L’umano
lo guardò smarrito ed in svantaggio, sentiva che la situazione gli era sfuggita
di mano. «Quanto ha visto?».
«Ogni
cosa» fu sincero, accarezzandogli il padiglione auricolare con lentezza. «È
arrivato per primo».
Dubitava
ci fosse del merito o che lo stesse oggettivamente cercando per una qualche
forma di preoccupazione. Era stata una casualità e aveva assistito a qualcosa
di raccapricciante. «Non sarà una conversazione piacevole».
«Dubito
smetterà di avere interesse per te» se l’aveva inquadrato abbastanza bene,
l’avrebbe soltanto sollecitato.
Derek
doveva aver interpretato malamente il suo disagio. «Cavolo, credevo di aver
trovato la scusa perfetta».
La
creatura della notte rise divertita, ritornando a sperimentare con i fornelli,
aprendo un pacco nuovo di hamburger di lenticchie ed un pacco di verdure non
bene identificate ‒ e l’umano non era sicuro di volerle identificare
‒ e Stiles era più entusiasta di ottenere quel risultato che qualsiasi
altro.
Il
figlio dello sceriffo confuse la consultazione di uno dei suoi libri di testo e
gli cadde quello giusto nel momento in cui Jiang varcò la soglia della porta,
le sopracciglia innalzate e l’espressione giudicante che tipicamente gli
rivolgeva davanti all’ennesima rappresentazione della sua maldestra.
Stiles
aveva appena concluso una videochiamata con il padre, piuttosto difficile,
impegnato a non fargli capire quanto sfiancanti fossero stati gli ultimi
giorni. Salutò il compagno con un gesto della mano e tornò a immergersi nello
studio come da abitudine, le varie occasioni in cui si intratteneva nella sua stanza
nel dormitorio, soprattutto per non monopolizzare eccessivamente il monolocale
del lupo mannaro.
Ma
quel giorno lo sguardo di Jiang persisteva a stargli addosso, la porta che
tardava ad essere richiusa e il portatile che veniva accesso nella sua
postazione di studio. «Theo mi ha raccontato cosa è successo».
«Oh»
non sapeva dire se si aspettasse quella mossa o se sarebbe rimasto un aneddoto
tra loro tre.
Il
compagno di stanza si sedette davanti la scrivania e digitò la password che
Stiles faceva finta di non conoscere. «È una cosa seria?».
Chissà
cosa esattamente gli avesse raccontato o se avesse solo accennato che se ne
andasse in giro nel cuore della notte, con soltanto il pigiama addosso e
lesionandosi. «Soffro di sonnambulismo» rivelò per la prima volta a qualcuno
che non facesse parte di quella nicchia privata e piccolissima che si era
creata intorno a lui.
Jiang
annuì quasi ad aspettarselo e aprì uno dei suoi documenti di word su cui stava
trascrivendo qualche articolo interessante. «Capisco perché fossi schivo nel
parlarne» chi l’avrebbe fatto con un estraneo? Come biglietto da visita. «Non
so se posso esserti da aiuto, ma non voglio esimermi se hai bisogno».
Gli
occhi dello studente di criminologia si ingrandirono e il fiato fu trattenuto.
«Grazie».
Lo
studente di economia scosse le spalle come se quello non avesse nessun
significato particolare, ma per Stiles lo aveva. «Credevo che lo avresti
informato sulle mie notti fuori porta» se così avesse dovuto chiamarle.
Jiang
roteò sulla sedia meditativo, scrutandolo attentamente. «Non sono affari miei
come siete organizzati tu e il tuo ragazzo».
«Non
è il mio ragazzo» cominciava a credere che dovesse andare in giro con magliette
e capellini che ribadissero quanto Derek Hale non fosse il suo ragazzo.
«Qualsiasi
cosa siate o definiate» la semplificò l’asiatico, disinteressato. «Theo è una
persona che si ossessiona per chi ha interesse. Prima o poi capirà che tu non
sei interessato a lui quanto lui lo è di te».
Cos’è
esattamente che le persone pensassero di lui e Derek vedendoli? Che fossero una
coppia aperta? Se c’era una definizione che si opponesse completamente al
playmaker, era l’apertura. L’altra era la possessività tipica di un lupo
autentico come lui da cui non si lasciava dominare. «È tuo amico».
«E
tu sei il mio compagno di stanza. Che trova sollievo soltanto con lo studente
più popolare del Michigan State University»
fu piuttosto perentorio e annoiato di dover spiegare le sue ragioni che gli
impedissero di schierarsi da una parte o dall’altra. «So scegliermi le mie
battaglie, questa non mi appartiene».
La
conversazione apparve chiusa e ognuno tornò alle proprie occupazioni, come se
non avessero affrontato argomenti spinosi.
Stiles
si sentiva stranamente e piacevolmente rincuorato.
Quel
giorno gli era toccato il turno serale, con l’aggiunta di un’ora extra per
quello saltato, le altre le avrebbe recuperate durante il finesettimana. La
neve non accennava a diminuire e Stiles doveva stare doppiamente attento a non
scivolare, si era avvolto la sciarpa di Derek in ogni lembo di pelle copribile
e spesso teneva il cappuccio alzato per il terribile freddo che non gli dava
tregua.
Infilò
le mani in cerca di ulteriore calore nelle tasche, intenzionato a non uscirle
più, ma vi trovò un ingombro, qualcosa di caldo e morbido che diede sollievo
alle dita irrigidite. Estrasse l’oggetto estraneo da una tasca e vi trovò un
guanto nero con le punta rosse.
Con
stupore ripeté lo stesso gesto con l’altra, per trovarvi un guanto identico.
Non li aveva mai visti in vita sua ed era assolutamente certo che fosse stato lui
ad inserirli, era l’ennesima premura silenziosa di Derek. Semplicemente perché
Stiles era del tutto incapace di badare seriamente a se
stesso e aveva sottovalutato l’inverno lontano dalla California.
Si
ritrovò ad indossarli nell’immediato e avvertì un conforto insperato, le dita
che prendevano nuovamente a muoversi senza il dolore arrecato dal freddo.
Sorrise senza controllarsi per quella piccola goduria.
Sul
marciapiede, a pochi metri dall’ingresso al Crescent Moon Theo lo
stava aspettando, era infagottato come lui, ma possedeva più grazia.
Si
piantarono uno davanti all’altro e Stiles aveva il viso sprofondato nella
sciarpa fino al naso, desideroso soltanto di chiudersi dentro le mura
domestiche al calduccio. «Pensavo di non rivederti».
«Perché
mai?» chiese curioso e sorpreso lo studente di scienze politiche.
Il
figlio dello sceriffo lo guardò per qualche secondo, incerto. «Derek mi ha
detto che eri lì quella notte».
«Ah,
te l’ha detto» lo sguardo era sbalordito, così come la voce.
«Certo
che l’ha fatto» esclamò Stiles con ardore, indispettendosi.
«Non
me l’aspettavo» disse l’altro con sincerità, senza nascondersi. «È
iperprotettivo con te».
A
Stiles veniva da ridere schernente; certo che Derek era iperprotettivo, non
poteva essere da meno. Era nella sua natura di Alpha. Era nella natura di
Derek. «Non è iperprotettivo soltanto con me, ma con tutte le persone a cui
tiene» lo squadrò, le palpebre che si assottigliavano. «Pensi di averlo
inquadrato, senza minimamente conoscerlo».
«Non
agisci anche tu così?» lo beffò con un sorriso sardonico ma affascinante sulle
labbra.
«La
differenza sta nel fatto che io abbia ragione» lo graffiò il figlio dello
sceriffo, affondando ancora di più nella sciarpa per trovare maggiore riparo
dalla brezza tagliente che infieriva sul viso. Era profumata, fresca di bucato
e aveva l’odore dell’ammorbidente di Derek. Non era niente di esoso e invasivo,
ma aveva una lieve nota boscosa che lo rendeva riconoscibile.
«Difficilmente
sbaglio» asserì con convinzione il bruno.
Stiles
lo fulminò malamente con gli occhi, pugnali d’ambrosia, e Theo sorrise con
divertimento, misto ad infatuazione. Lo prese per un polso coperto dal guanto e
si avvicinò per assaporare le labbra rosse che spiccavano in mezzo al pallore
del suo viso.
Stiles
non fece quasi resistenza e ricambiò senza alcuna motivazione sul trattenersi.
Theo, sorridendo nel bacio, lo rinnovò. E rinnovò ancora.
La
matricola di criminologia non si pronunciò sulla proposta implicita, gli
permise di lasciarsi guidare.
«Quindi,
è per questo che non vuoi mai rimanere la notte» proferì Theo sulla sua pelle,
le coperte che li avvolgevano alla meno peggio nella camera singola, le labbra
che gli vezzeggiavano il collo dove soltanto qualche giorno prima c’era un suo
succhiotto; non ve n’era più traccia.
«Non
rimarrei comunque» si accertò di precisare, non volendo creare nessun tipo di
equivoco. «Ma forse non mi comporterei come Cenerentola».
Lo
studente di scienze politiche rise e gli baciò ancora quel punto tenero sul
collo, per risalire verso la mandibola.
Stiles
lo osservò di sottecchi, disteso sul letto, completamente nudo e dopo un
intenso amplesso prolungato; stava ancora ansimando. «Non sembri disturbato o,
non so, disgustato».
«Da
cosa?» si incuriosì, non seguendo la motivazione della sua visione. «Soffri di
sonnambulismo, questo è chiaro. Come è chiaro ti siano successe cose infelici.
Reagisci di conseguenza».
Era chiaro?
Era così semplice? «Sono un pericolo per me stesso».
«Sì»
confermò Theo, non potendo sostenere il contrario. «In modo estremo».
Il
figlio dello sceriffo non si controllò e le iridi di miele gli caddero su uno
dei polsi, sulle mani che non presentavano nemmeno un graffio, una cicatrice
lontana. «Può essere spaventoso».
Theo
si limitò a fissarlo dall’alto della sua posizione, seguendo la direzione del
suo sguardo. «Sono guarite bene» probabilmente troppo bene.
«Ah»
quindi si era ferito davvero. «Derek ha imparato a guarirle in modo
impeccabile» non era nemmeno una bugia.
«Il
grande Hale» c’era dell’ironia sardonica che a Stiles non piacque
particolarmente. «Stai da lui?».
Ecco,
quello era un territorio insidioso e non doveva nemmeno riguardarlo. «Le notti,
sì. Ho dovuto» non voleva giustificarsi, ma non voleva nemmeno che
interpretasse malamente la sua scelta di affidarsi ad un ragazzo. «Per un mese
è uscito ogni notte per venire a cercarmi. L’ho visto giorno dopo giorno
distruggersi per starmi dietro. Era evidente non ci fossero molte altre
alternative».
Lo
studente di scienze politiche tacque per qualche secondo, ponderando. «L’hai
fatto per te o per lui?».
«Per
entrambi» era una domanda strana o forse nemmeno più di tanto. La disperazione
di Derek l’aveva ancora stampata sulle retine, un torto inconsapevole con cui
continuava a bersagliarlo. Perseguire quella distruzione gli lacerava il cuore,
in più Stiles non aveva alcun desiderio di accanirsi così tanto contro se stesso. Derek aveva fiutato il pericolo e Stiles si era
fidato. «Sarei dovuto tornare a casa, altrimenti».
«E
non vuoi» ma forse sarebbe stato meglio?
«No»
nella maniera più assoluta.
Le
dita di Theo affondarono tra i capelli castani sconvolti, stranamente
concentrate. «Lo riconosci. Hale».
Stiles
sbatté le palpebre varie volte, incerto di aver compreso perfettamente cosa gli
comunicasse l’altro. «In che senso?».
«Sai
chi è, gli parli. Avete delle intere conversazioni compiute» comunicò come se
ci fosse qualcosa che andasse sottolineato. «Lo chiami per nome, lo identifichi»
poteva quasi giurare che lo vedesse per quello che era davvero, anche se gli
occhi erano vacui. «Non posso dire lo stesso di chi ti circonda».
Ah, quello era un
particolare di cui era completamente all’oscuro. Di che cosa parlavano? «È
rilevante?».
«È
interessante» convenne sovrappensiero, i polpastrelli che gli accarezzavano
l’attaccatura del cuoio capelluto. «Come reagisci tu, come lo fa lui. Il modo
in cui riesce a capire esattamente cosa intendi anche se farfugli. È sinonimo
di complicità, di conoscenza totale, perfino in quei momenti, in cui non sei
completamente te stesso».
«Dove
vuoi andare a parare?» si sentiva irritato ed a disagio per
quell’interrogatorio strategico.
«Ti
chiama volpe infuocata» disse come se
tutto prendesse una connotazione del tutto differente, illuminata. «Andavi in
giro con un pigiama in cui sfoggiavi una volpe».
Sfoggiare?
Era ancora più stizzito di prima. «È solo un gioco».
«Non
è nemmeno tuo» taglia troppo grande, lo lasciava completamente scoperto intorno
al collo, le maniche gli ricoprivano quasi del tutto le mani ed i pantaloni
strisciavano completamente a terra, rischiando di farlo inciampare. Non era
nemmeno sicuro che non fosse accaduto prima che lui e il capitano lo
trovassero.
«No»
gli occhi di ambrosia si fecero più taglienti ed era evidente quanto poco
apprezzasse il filo di pensieri che stava attraversando il suo interlocutore.
«Perché
hai scelto lui come tuo custode?» l’interesse si fece più pressante,
inevitabile.
«Chi
avrei dovuto scegliere? Te?» il sarcasmo pungete di Stiles arrivò spietato.
Theo
ricevette il colpo ed incassò malamente, colpito sul vivo. «Rispondi».
«Di
lui posso fidarmi, sempre» quasi lo gridò, a volerglielo piantare con violenza
nel cervello. «Non mi farebbe mai del male. Non se ne approfitterebbe in
nessuna circostanza».
«Di
te?» rise ilare Theo, finalmente con la verità espressa. «Mentre tutti gli
altri lo farebbero, giusto? Io lo farei».
«Non
ti conosco» scandì a chiare lettere il figlio dello sceriffo, accaldato per
quella conversazione inutile. «In quei momenti sono completamente vulnerabile.
Non posso proteggermi».
«Ti
protegge, si prende cura di te, è cristallino» eccessivamente, lo faceva
innervosire per quanta disparità ci fosse. «Ma sei davvero sicuro che non si
approfitterebbe della situazione?».
Stiles
scattò all’indietro come se fosse stato colpito da un proiettile. «Le tue
insinuazioni non mi piacciono per niente».
«Possono
non piacerti, ma hai il dubbio» pian piano era diventato lampante.
Stiles
scosse la testa, a smentirlo. «Non per come lo intendi tu».
Quindi,
anche se metteva la testa sotto la sabbia, ne era in qualche modo consapevole.
«Perché allora lo stai ignorando?».
«Perché
non ne sono sicuro» c’era troppa confusione della sua testa, a volte Stiles
aveva la sensazione che fosse pronta ad esplodere. Gli pizzicavano anche gli
occhi. «Perché non posso permettermi di perderlo. Non ora».
Theo
comprese per la prima volta quel dialogo di cui era parzialmente conscio. «Il
trovare un modo per smettere di essere egoisti, è per lui?».
Stiles
si sentì smascherato come mai gli era capitato. «È irrazionale» e davvero
insensibile. «Sento il bisogno di essere al primo posto».
«Sei
al primo posto» se lo non l’aveva ancora capito, doveva essere più cieco di
quanto avesse preventivato.
«Forse»
era così difficile dover mettere in fila tutte quelle parole che teneva dentro
di sé e tentava di non far sgorgare per non lasciarsi travolgere, inondare.
«Quando va via, anche soltanto per un giorno, mi uccide. Ma è importante che
lui lo faccia, che segua ciò che lo fa stare bene. Ciò che lo rende ancora
felice. Non posso, non voglio, impormi perché mi sento spaesato senza di lui.
Perché è chiaro che quando lui non c’è, sono più vulnerabile».
«E
prima di Hale?» c’era stato un prima? Theo non aveva nessuna informazione, non
sapeva quando né come o perché fosse cominciata quella problematica fisica e
psicologica.
«Mio
padre» aveva dovuto nuovamente istallare le telecamere in camera sua, le stesse
che aveva utilizzato quando il Nogitsune era dentro di lui, controllare la
videosorveglianza dal cellulare, attivare un allarme silenzioso che lo
avvisasse anche durante un turno notturno o si trovava in mezzo a una indagine.
«Ma non mi ha mai parlato di autolesionismo o incidenti vari. Questo presuppone
ci sia stato un peggioramento».
Se
non l’avesse visto con i suoi stessi occhi, Theo avrebbe potuto accusare il
capitano della squadra di basket di aver inventato una scusa di sana pianta per
legarlo a sé, ma era troppo devoto a Stiles per servirsi di un giochetto
simile.
Era
evidente che Stiles fosse schiacciato dalle sue emozioni, da quelle che
percepiva dal licantropo e dall’incertezza. Non era in grado di scindere i vari
aspetti, da cosa non lasciarsi sopraffare, ma sapeva che la sua incolumità era
la cosa più importante. Probabilmente non soltanto per il figlio dello
sceriffo.
Lo
studente di scienze politiche gli prese il viso tra le mani, le labbra ancora
pulsanti per via dei baci e del piacere reciproco che si erano dati. Lo baciò
sotto lo sconcerto di Stiles, l’incredulità. Le labbra schiuse ed invitanti.
«Continua a preferire me, finché non sarai sicuro» era categorico che, invece,
lui si stesse approfittando della situazione.
Nelle
successive ore, Theo banchettò con la volpe infuocata.
Derek
si svegliò di soprassalto, con il presentimento che qualcosa era in agguato,
qualcosa che gli ostruiva tutte le vie respiratorie. Aprì gli occhi come
strappato dal sogno tormentato, la sensazione di doversi guardare intorno,
allungare una mano per testare cosa ci fosse o no accanto a lui.
La
sensazione negativa era mordace e posare le iridi su Stiles essenziale,
bisognoso, ma l’umano stava ronfando profondamente aggrappato al cuscino, la
testa nella sua direzione e completamente avvolto dalle coperte fino alla punta
del naso. Derek non riuscì a trattenere il sospiro di sollievo, un peso al
petto che si alleggeriva, benché non ne volesse sapere di sloggiare.
Dovette
distendersi sulla schiena, prendere un respiro potente che gli riempisse
interamente i polmoni affaticati e coprirsi le palpebre per quanto risultasse
insolitamente stremato. Riprendere coscienza di se
stesso, di dove fosse ed a che punto della sua vita si trovasse.
Gli
servì più tempo di quanto preventivato, all’ennesimo respiro di assestamento,
il lupo controllò nuovamente la posizione della matricola, incontrando le perle
di ambrosia reattive e in attesa.
Vi
era un buio non indifferente, le stelle capeggiarono qui e lì, la luna
illuminava il corridoio dalla finestra in cucina, ma l’abilità notturna del
mannaro gli permetteva di vedere ogni particolarità in Stiles, come se fosse
pieno giorno.
«Un
altro brutto sogno?» domandò il figlio dello sceriffo con voce cavernosa, le
corde vocali ancora addormentate.
Derek
si sorprese, ma doveva ancora imparare che non avrebbe dovuto. Si limitò ad
annuire.
«Sono
aumentati, da quando ho affrontato la questione Kate?» domandò Stiles con un
tarlo in testa, le spalle che si stringevano sotto le lenzuola per
un’improvvisa brezza fredda.
«No,
non sono aumentati» sarebbe stato troppo logorante.
Stiles
si morse le labbra e stuzzicò una pellicina che si era spaccata. «Sono più
intensi?».
«Alcuni
lo sono» esisteva qualcuno che lo sapesse leggere meglio di quella volpe dal
manto infuocato?
Lo
studente di criminologia abbassò lo sguardo, le palpebre che calarono a coprire
ciò che Derek poteva intravedere. Meditava in silenzio, a mettere sottoprocesso
tutte le sue decisioni, le sue azioni ed avventatezze. «Non volevo darti più
tormenti» rivelò con pentimento, riportando l’attenzione sulla creatura
leggendaria. «Eppure era necessario che tu capissi la tua vera situazione».
«La
mia vera situazione» ripeté in una eco distante, la mente altrove. Era un
avvenimento, una scelta di parole, che avrebbe dovuto infuriarlo.
«So
di aver sbagliato» Stiles percepì del panico, le sue pupille di pece saettavano
da una parte all’altra.
«Non
hai sbagliato» non era lui ad aver commesso dei terribili errori. «Sto cercando
di mettermi in pari» alcune dita calarono nuovamente sugli occhi, a toccare e
spingere le palpebre. Le sfregò a sciogliere e alleggerire quei muscoli che si
irrigidivano giorno dopo giorno. «Di avere un quadro generale».
Stiles
rimase in silenzio a scrutarlo nel buio che gli permetteva soltanto di
intravedere alcuni lineamenti della sua fisionomia, eppure tutta la sua
stanchezza e rassegnazione riusciva comunque ad osservarli chiaramente. «Non
devi necessariamente farlo».
Derek
lo scrutò di sottecchi, la mano che si posava al centro del torace. «Sì, devo
farlo. È necessario».
Necessario a cosa?
A chiarirsi con se stesso? Stiles non sapeva
precisamente cosa significasse, che impatto avrebbe avuto su di lui.
Il
lupo mannaro si girò appena verso il figlio dello sceriffo, le coperte che si
scossero appena. «Torna a dormire, ne hai bisogno».
Molto
fastidioso sentirselo dire, implicava quel piccolo problema che Stiles aveva
quasi tutte le notti, l’essere stremato appena sveglio senza una vera
spiegazione, se soltanto non conoscesse la ragione. Il sonno non gli bastava
mai, anche se compensava con il suo essere iperattivo. «Non dire cose
spiacevoli».
Derek
accennò un sorriso all’arricciarsi indignato del naso del suo interlocutore.
«Una volta non ti saresti svegliato».
«È
una cosa che ti innervosisce?» scorretto da parte sua usare
quell’argomentazione, ma sapeva quanto fosse riservato e schivo, soprattutto
davanti al suo modo di indagare, di comprendere con una semplice occhiata.
«Forse
un po’» non era né turbato né attaccato dalla perfidia della matricola. Era
divertito. «Fai sempre domande. A qualsiasi ora».
Stiles
lo guardò in un primo momento con sconcerto, gli ingranaggi che si muovevano ed
erano visibili, e poi lo sdegno ed i tratti del viso stizziti si palesarono. In
agguato una pernacchia, ma si limitò a soffiargli addosso con compostezza, ma
gravante. «Mi pareva di aver capito ti piacesse la mia voce».
Derek
incassò il colpo e si limitò a far persistere il silenzio. Era diabolico in
qualsiasi circostanza.
«Dovresti
dormire anche tu» disse l’umano con conoscenza. Non era l’unico a sentire la
mancanza di privazione del sonno o di sonno agitato. Derek badava a lui da
oltre tre mesi, senza permettersi di poter allentare la presa o distrarsi.
L’unica volta in cui era accaduta una cosa simile, non se l’era ancora
perdonata. Quando a gennaio sarebbe tornato a viaggiare per giocare, si sarebbe
impegnato il triplo per trovare nuovi modi per averlo sempre sotto la sua
vigilanza costante.
«Ci
proverò» proferì senza convinzione, forse un contentino. Era risaputo che il
primo a crollare fosse proprio Stiles.
Le
iridi caramellate si fecero più reattive, attente, ponderate verso di lui. Le
lunghe dita affusolate gli circondarono il viso incorniciato dalla barba
curata, i polpastrelli che premevano con delicatezza. «Ti tengo».
Erano
l’eco delle sue parole dedite soltanto a Stiles, venivano plasmate e usate in
suo aiuto. «Rassicurante».
Le
labbra della matricola si arricciarono all’insù a quel sarcasmo e la testa si
avvicinò maggiormente verso quella del mutaforma, i
nasi che si sfioravano appena, ognuno fermo sul proprio cuscino, occhi negli
occhi, respiro nel respiro.
C’era
di nuovo armonia.
Le
posizioni rimasero le medesime. Stiles non tolse mai le mani da lui né Derek le
scacciò.
Si
addormentarono ad un soffio l’uno dall’altro.
Il
naso del lupo pizzicava fin dal portone, sulle scale aumentava ad ogni rampa e
una volta arrivato davanti la porta dell’appartamento era innegabile.
Si
tolse le scarpe, gettò le chiavi tra quelle di Stiles e lo sentì canticchiare a
bocca chiusa. Si muoveva veloce, lo sportello del forno scattò, segno che fosse
stato appena chiuso e il profumo di dolci si espandeva in tutte le mura.
Sistemò il cappotto nella piccola nicchia nel corridoio, appendendolo con cura sull’apposita
gruccia in legno, accanto alla porta del bagno in cui successivamente si lavò
le mani come sua abitudine; odiava portare la sporcizia in casa.
«Derek»
lo accolse con entusiasmo il figlio dello sceriffo, il sorriso a trentadue
denti stampato sulla faccia, le scintille eccitate che volteggiavano tutte
intorno a lui. Non diceva mai bentornato,
ma suonava allo stesso modo. Se non addirittura meglio.
«Stai
cucinando» disse invece il mannaro ovvio, qualche ciotola sparsa sporca,
l’impasto diviso in piccole palline da circa cinquanta grammi, il forno accesso
e una teglia già sfornata che si stava raffreddando mentre l’altra cucinava.
«Dei cookies».
«Assolutamente
sì» Stiles si era piegato davanti allo sportello trasparente
dell’elettrodomestico, osservando l’impasto che lentamente si scioglieva e
perdeva la sua forma tondeggiante.
«Lavori
in una caffetteria» non aveva alcun senso.
«Quindi?»
domandò retoricamente, fiero delle sue prodezze culinarie. «Oggi sono libero
dal lavoro. Non ho lezioni. Posso fare quello che voglio».
«Ripeto:
lavori in una caffetteria. Potevi prenderli lì» a volte portava in casa le
rimanenze che rischiavano di essere gettate, perché odiava lo spreco, era
qualcosa che proprio non riusciva a digerire. Erano pieni di dolci in ogni
angolo.
«Perché
farmi tutta quella strada quando posso prepararli io?» chiese con un
sopracciglio alzato, non appoggiando minimamente la logica del
mutaforma. «C’è un comodissimo supermercato qui sotto, non so se hai
presente».
«C’è
anche uno Starbucks» da cui di tanto in tanto attingevano quando volevano una
colazione più zuccherosa e meno impegnativa.
«Un
cookie costa tre dollari, ne voglio più di uno» era oltraggiato
dall’esorbitanza del prezzo, voleva soddisfare le sue voglie come riteneva più
opportuno.
«Devo
aumentare la mancia?» chiese il capitano con scetticismo, squadrandolo
approfonditamente.
La
testa dell’umano scattò immediatamente verso di lui, fulminandolo a vista. «Non
scherzarci su».
Derek
rise senza ritegno, scostando una sedia e poggiando il portatile e iPad
sull’unica striscia libera del tavolo. «Sei consapevole di venderli quasi allo
stesso prezzo?» li pagava Derek di tasca propria spesso, conosceva fin troppo
bene il listino prezzi del Crescent Moon.
«Non
è affar mio come gli altri spendono il loro denaro» il figlio dello sceriffo si
strofinò le mani tra loro mentre si alzava in piedi, togliendo i rimasugli di
burro e farina. «Ho una cosa per te» disse poi illuminandosi, come se l’avesse
appena ricordata.
Si
avvicinò alla teglia e ne estrasse un biscotto, spezzandolo in due. L’aroma
intorno a loro aumentò, la croccantezza insieme alla morbidezza del cuore del
dolce riecheggiò, rivelandosi ancora più invitante di come apparisse in
superficie. «Ho pasticciato un po’, non sono sicuro del risultato» rivelò con
leggerezza più a se stesso che al suo interlocutore,
allungandolo nella sua direzione. «Ho fatto una sfornata di prova. Sono al
caramello salato».
Derek
lo guardò senza fiatare, fermo al numero sempre eccessivo di parole che la
matricola usava e dei molteplici concetti che metteva dietro l’altro.
Tergiversò un momento prima di afferrare la sua metà. L’annusò con titubanza,
senza comprenderne il gesto.
«Prometto
non sia avvelenato» scherzò l’umano con il suo sarcasmo tipico, il ghigno
supremo sulle labbra. «Spero».
Il
licantropo indurì i tratti facciali, ma Stiles si limitò a ridacchiare.
Lo
addentò davanti agli occhi vigili ed elettrizzati del coinquilino, un
retrogusto tipico della sua ansia.
«Allora?»
chiese lo studente del primo anno con fermento mentre lo guardava masticare in
religioso silenzio.
«È
stranamente buono» fu accomodante il padrone di casa, il caramello che gli si
scioglieva in bocca, ingannandolo con la dolcezza iniziale che gli dava il
benvenuto, per poi arrivare la sapidità del sale che cambiava totalmente il
gusto e mandava in confusione le papille gustative. Qualcosa in cui Stiles
riusciva perfettamente, disorganizzare completamente il perfetto equilibrio dei
cinque sensi affinati.
Stiles
gioii e quasi saltellò compiaciuto sul posto, andando a dare un’occhiata ai
biscotti ancora in forno, mangiando finalmente la sua creazione
contemporaneamente.
Derek
scosse il capo rassegnato, allontanandosi verso la zona notte, in cui si cambiò
e sfogliò qualche pagina della materia che l’avrebbe atteso concluse le vacanze
natalizie. Il letto era come l’aveva lasciato quella mattina, ma era evidente
che Stiles si fosse addormentato inavvertitamente, stropicciando la coperta. La
matricola era una carica a molla appena alzata, ma il sonnambulismo, gli
incubi, la destabilizzavano più di quanto desse a vedere.
Quando
tornò in cucina, la seconda sfornata era in procinto di raffreddarsi e
compattarsi, la terza già in forno e Stiles stava già preparando la quarta. Su
ogni teglia ve ne erano otto. «Non avrai esagerato?».
«È
Natale» si giustificò l’umano, scrollando le spalle e lasciando scivolare tutto
addosso.
«Mancano
ancora cinque giorni» quello gli faceva ricordare che dovevano sbrigarsi a
riempire la dispensa con del cibo vero, prima che i supermercati venissero
saccheggiati. «E siamo soltanto in due» il campus si era già svuotato. Quasi
tutta la squadra di basket era tornata a casa per le festività, così come
Erica, Boyd e Isaac. Stessa sorte era toccata a Jiang e Tracy, offrendo a
Stiles l’opportunità di ricoprire i turni che non affrontavano generalmente
insieme, puntando a extra su extra, incapace di stare fermo troppo a lungo.
Stiles
si fermò dal suo armeggiare con i residui dell’impasto nei vari utensili, con
la missione di riempire anticipatamente la lavapiatti da avviare quella sera.
«Rimani davvero?» risuonò incredulo, ancora con un dubbio che non si
dissolveva.
Derek
lo fissò incerto. «Certo che rimango».
Le
iridi del nettare degli dei si posarono
distrattamente sulle teglie che andavano ad accumularsi. Gocce di cioccolato a
tempesta. «Forse dovrò farne altri al caramello salato».
Il
lupo completo aveva la sensazione di aver perso il filo del discorso ‒
che fosse il suo modo di premiarlo? Di ringraziarlo? Prese uno dei cookies
classici, un boccone che si godette in pace con i sensi precedentemente
scombussolati. Le papille gustative cantarono. «Vanno benissimo questi» Stiles
gli rivolse uno sguardo interrogativo e Derek sospirò dentro di sé. «Me ne
pentirò per tutta la vita» ammise senza che l’umano fosse ancora in grado di
seguirlo. «Sono più buoni del Crescent Moon».
«Stai
di nuovo flirtando con me, Der?» lo provocò affabile la matricola, il sogghigno
da volpe astuta che si palesava come in agguato.
«Sto
mangiando» dissentì disturbato dalle sue illazioni.
«Una
cosa non esclude l’altra» subentrò con la sua furbizia, rigirando la questione
a suo vantaggio, come ci riusciva sempre.
«Ignorerò
la tua allusione per niente sottile» Derek gli assestò un’occhiataccia
eloquente e Stiles ridacchiò, segno che si stesse divertendo un mondo.
Lo
studente del primo anno gli rubò un pezzo di cookie direttamente dalle mani,
gesto che ripeteva spesso nella loro quotidianità, perfino alla caffetteria.
«Buon Natale, Sourwolf».
«Quindi,
rimarrai per Natale» sintetizzò brevemente Theo, le lenzuola sgualcite a
coprire appena il corpo nudo sdraiato. «E lui resterà con te».
Stiles,
seduto sul bordo del materasso, era concentrato nell’indossare i calzini,
avendone in mano uno e individuato l’altro sotto i pantaloni della matricola di
scienze politiche sparsi per tutto il pavimento. Non aveva ancora scorto le
mutande da nessuna parte, al contrario dei preservativi usati disseminati
ovunque; non era per niente divertente. «Non glielo chiesto, ma è evidente che
non può lasciarmi da solo» quindi era stata una richiesta implicita?
«Non
l’ha una famiglia da cui tornare?» chiese con noia, indispettito dalla figura
da cavaliere senza macchia e senza paura del capitano.
Tasto
dolente. «Ha una sorella» a cui nascondeva i suoi segreti. «Uno zio
particolarmente fastidioso e una cugina che non conosce».
Non
rispondeva propriamente alla domanda, ma comprendeva meglio la frase che lo
Stiles sonnambulo aveva pronunciato: tu
sei rimasto senza nessuno. «Nessun altro?».
«No»
Stiles ebbe la decenza di afferrare la felpa che risedeva sotto il letto e
indossarla, allungandosi per recuperare il secondo calzino. «Non c’è più nessun
altro da tanto tempo».
Theo
rimaneva in silenzio a osservarlo rivestirsi, la schiena arrossata piena dei
suoi segni venne coperta. «È lui a rimane per te o tu per lui?».
Stiles
si voltò sorpreso, le iridi d’ambra brillarono nella penombra. «Se avesse
bisogno di me, lo farei».
«Ci
scommetto» sbuffò contrito lo studente di scienze politiche.
«Non
parleresti così, se conoscessi il suo dolore» Stiles si indispettì, crucciando
i lineamenti facciali.
«Tutti
abbiamo perso qualcuno, ognuno ha il suo dolore» disse Theo con un’evidenza
esperienza personale, lo sguardo lontano a richiamare dei ricordi. «Esattamente
com’è accaduto a te».
Stiles
non aveva fatto parola delle sue perdite né sentiva la necessità di metterlo al
corrente, ma doveva rassegnarsi che la notte in cui l’aveva trovato con il
pigiama di Derek addosso, i piedi scalzi nella neve, avesse detto qualcosa che
glielo lasciasse supporre. «Anche tu?».
«Mia
sorella maggiore» rivelò senza tergiversare, non aspettandosi una domanda
diretta da una persona che teneva i suoi segreti per sé. «Un difetto congenito
al cuore».
«Mi
dispiace» proferì sinceramente addolorato. La morte di persone care era
qualcosa che lo riguardava direttamente, conosceva perfettamente quel pugno
nello stomaco perenne.
«So
che ti dispiace» disse con sicurezza il bruno. «Sei quel tipo di persona».
Il
figlio dello sceriffo arcuò le sopracciglia. «Che tipo di persona?».
Le
dita di Theo si allungarono, sfiorando e allacciandosi a quelle dell’amante.
«Qualcuno che si danna per non essere riuscito ad aiutare il prossimo, a
prescindere da chi sia, a discapito di quanto l’impresa sia impossibile».
«Oh»
soffiò la matricola di criminologia senza parole. Era quello che vedevano le
persone in lui? Per te l’impossibile è
possibile, aveva detto Derek durante una delle loro videochiamate.
Theo
sorrise appena, tirandoselo su di sé dal legame che avevano creato, baciandolo
accuratamente. «Ti porti addosso il suo dolore e il tuo».
«Io
c’ero quando ha perso tutto» era il fardello dell’essere il figlio dello
sceriffo e della sua brutta abitudine ad immischiarsi in ogni caso, prestare
orecchio ai sussurri. Aveva anche assistito al funerale, contro il volere del
padre sbattendo i piedi, come buona parte della cittadina. Vi erano tre piccole
bare bianche che spiccavano tra le altre, l’agonia e il senso di colpa di Derek
erano ancora lì, a distanza di anni. «Mentre lui non aveva nessuna percezione
della mia esistenza».
«E
lui, c’era per te?» domandò Theo bevendosi ogni parola del suo ospite.
Non
avrebbe mai potuto, Stiles non l’avrebbe nemmeno mai voluto. «C’è adesso».
Theo
gli sfiorò una tempia con le dita, percorrendo parte della fronte,
soffermandosi sul punto in cui la bocca del capitano della squadra di basket si
era poggiata, regalando ristoro allo studente di criminologia con quell’unico
gesto. «Sei diventato il suo mondo» ho te,
erano state le parole di Derek Hale; inconfutabili.
Stiles
scattò all’indietro agitatamente, sfuggendo dalla sua presa. «No» gli occhi
sgranati, il fiato corto, il viso che impallidiva di secondo in secondo. «Non
è-» aveva le vertigini, la mente confusa esitante. «Hai frainteso».
Theo
si alzò a sedere, il lenzuolo cadde lasciandolo completamente con la pelle
esposta, intrappolandogli la testa tra le mani e sporgendosi per allacciarsi
alle labbra del ragazzo su cui ricadeva il suo desiderio. Come ogni singola
volta, non vi fu alcuna resistenza da parte sua; rispondeva con attimi di
ritardo. «Ti stai ancora imponendo di non accertartene».
Stiles
soffiò contro di lui con sfida, indurendo i lineamenti facciali. «Non stai
andando troppo contro te stesso?».
«No»
risponde candidamente la matricola di scienze politiche, baciandolo ancora una
volta. «Finché resterai confuso, sarai mio».
«Sei
troppo sicuro di te» obiettò il figlio della massima autorità di Beacon Hills,
agganciando le falangi ai suoi avambracci e facendo pressione per separarlo da
sé.
Theo
ammiccò impudico e con le labbra scese al collo candido dell’ospite,
cospargendo piccoli schiocchi calcolati che lo fecero tremare. «Resta ancora un
po’».
«Lo
sai che non posso» tuttavia inclinò il capo per dargli più accesso, sospirando
di piacere.
«Posso
vigilare io su di te» un braccio scivolo sotto la felpa di Stiles,
solleticandogli la schiena ed esponendola con lentezza studiata.
Stiles
ridacchiò con scherno. «Non credo proprio».
La
mano aperta si depositò con fermezza alla base della schiena, sfiorando con
alcune punte delle dita le natiche ancora nude. «Ti fidi davvero soltanto di
Hale».
«Sì»
non voleva farne un mistero.
La
testa di Theo sparì oltre il bordo della felpa, le labbra pizzicavano
l’epidermide dello stomaco, la lingua giocò con l’ombelico ed i gemiti di
Stiles si sparsero per la camera singola. «Mi stavo rivestendo» protestò il
figlio dello sceriffo senza troppa convinzione mentre l’indumento saliva sempre
di più.
«Puoi
tenere i calzini» soffiò Theo lussurioso catturandogli un capezzolo nella
bocca, scatenando un ridacchiare sospirato nell’amante, procedendo a estrargli
la felpa dalla testa e lasciandolo nuovamente nudo davanti ai suoi occhi, alla
mercé del suo corpo. «Domani partirò, vorrei ricevere il mio regalo di Natale anticipatamente».
«Ah,
vuoi scartarmi» proferì con il fuoco Stiles, ammiccando languido e sistemandosi
a cavalcioni sul ragazzo.
Erano
di nuovo pelle contro pelle, nessuna barriera tra di loro, ogni parte dei
reciproci corpi raccontava in cosa si fossero intrattenuti quella notte e
continuavano ad aspirare. «Concedimi ancora un’ora».
Stiles
non si lasciò pregare eccessivamente, si immerse completamente in Theo.
Il
telefono di Derek vibrò sul comodino, assordandolo e svegliandolo. Non inseriva
mai la suoneria di notte, la vibrazione era già insopportabile per i suoi
timpani e fin troppo esaustiva.
Artigliò
lo smartphone controvoglia alla cieca, allungando un braccio dietro di sé senza
che potesse perdere la posizione comoda in cui si trovava, con l’intenzione di
farlo placare il prima possibile, accettando l’arrivo della videochiamata senza
nemmeno vedere chi fosse il suo disturbatore, la luminosità dello schermo al
minimo.
«Auguri,
fratellino» gli diede il ben svegliato la ragazza dall’altro lato, pimpante e
con un sorriso ben stampato in viso.
«Abbassa
la voce» ringhiò a denti stretti il lupo mannaro, abbassando di conseguenza il
volume non potendosi fidare della sua interlocutrice. «La gente dorme».
«Oh»
i suoi occhi verdi, visibilmente simili a quelli del familiare, si
appallottolarono per l’errore commesso, cercando di sbirciare senza alcun
risultato oltre ciò che il display le mostrava. «Stiles dorme ancora?».
Derek
si stropicciò gli occhi risvegliati nel modo peggiore, inclinando lievemente il
capo verso l’oggetto del loro comune interesse per accettarsene, spostando di
conseguenza e distrattamente il dispositivo elettronico che lo fece rientrare
nell’obbiettivo. «Ne ha bisogno».
Stiles
ronfava spensierato contro il petto nudo del mannaro, quasi completamente
seppellito dalle coperte e in Derek, incurante di chiunque potesse scorgerlo.
«Privilegiata la piccola volpe».
Derek
le assestò uno sguardo eloquente e severo e Laura si limitò a battere le mani
come se la cosa non la riguardasse minimamente. Allontanò la telecamera
dall’umano, ma la lupa riuscì a catturare le dita libere del fratello che si
intrecciavano ad alcune ciocche castane. «Ti blocco».
Era
una minaccia che chiunque si sarebbe aspettato da un tipo solitario e riservato
come Derek, annoiato dal clamore delle persone, ma, in effetti, Laura rientrava
nei privilegi di cui beneficiava anche il figlio dello sceriffo. Non riuscì a
trattenersi dal ridere e questo indurì ancora di più i tratti del capitano
della squadra di basket. «Il sole splende».
«Sta
nevicando» la corresse Derek, rimettendola al suo posto.
«Anch’io
voglio un Natale sotto una nevicata» si imbronciò profondamente offesa con il
meteo.
«La
giornata è appena iniziata» non voleva essere scocciato con quelle fesserie,
anche se era sicuro che anche Stiles avrebbe amato l’idea.
«Stiles
ti ha ammorbidito, eh» commentò allieta Laura, deridendolo vigliaccamente.
Indorare la pillola non era qualcosa che li riguardava e meno che meno Derek,
riservarle una parvenza di speranza del tutto disinteressata e nemmeno sincera
era comunque un atteggiamento atipico da parte del lupo musone.
«Potrei
cliccare accidentalmente su quell’invitate icona rossa» le rispose con
prontezza, fulminandola a vista.
Il
sarcasmo non era estraneo a Derek, ma era sicura che la presenza di Stiles
nella sua vita lo avesse reso più propenso ad usarlo, a divenire uno strumento
quotidiano per tenergli testa. Se mai fosse possibile tenere testa al diabolico
Stiles Stilinski.
Laura
punzecchiò il fratello ancora per qualche minuto, finché non sentirono dei
mormorii infastiditi provenire dalla matricola, segno che l’avessero
inevitabilmente svegliata, benché avessero usato il tono di voce più basso che
gli era concesso.
«Der»
soffiò la voce impastata di Stiles, ancora ben lontano dal restarsi totalmente,
tentando di prendere coscienza con quello che lo circondava. La telecamera lo
riprendeva appena, un piccolo triangolo accennato del suo viso che spuntava da
sotto il collo del mannaro. Stiles lo cercò con movimenti pigri che Derek
corrispose andandogli incontro, i nasi si sfiorarono e accarezzarono con
dolcezza, salutandosi calorosamente, un piccolo sorriso sbocciava sulle labbra
del figlio dello sceriffo. «Buongiorno».
«’giorno
a te» rispose il lupo completo, il tono vocale lontano dall’ostilità che aveva
dedicato alla sorella maggiore. «Puoi tornare a dormire, c’è ancora tempo».
Stiles
mugugnò indecifrabilmente, stropicciandosi gli occhi e sbadigliando a bocca
aperta. «Sono sveglio».
«Ho
qualche riserva» proferì scettico il capitano, osservandolo mentre trascinava
il cuscino alla sua altezza per essere pari, mantenendo gli occhi socchiusi.
«Sto
carburando» si giustificò Stiles con la risposta pronta, scacciando malamente
con una mano le sue insinuazioni errate.
«Sì,
certo» c’era divertimento nella voce bassa e attenta di Derek, un ricciolo
sulle labbra che lo confermava.
Poi
rimasero per qualche attimo in quella posizione in silenzio, le punta dei nasi
a sfiorarsi, gli occhi chiusi di Stiles, mentre quelli di Derek lo
vezzeggiavano come se non ci fossero testimoni.
Quello
sguardo così dedito e profondo Laura non l’aveva incontrato spesso, era talmente
raro da apparire come un miraggio. Dopo Beacon Hills difficilmente vi si era
imbattuta, ma quando vi abitavano era decisamente più facile inquadrarlo,
soltanto che accadeva quando un certo umano logorroico ed iperattivo volgeva le
sue attenzioni da un’altra parte.
«Ciao,
Stiles» intervenne Laura, con tutta l’intenzione di farsi sentire e prendersi
un pezzo del tempo di Stiles.
«Chi
è?» farfugliò confusa la matricola, le palpebre sfarfallarono e richiese che la
sua materia celebrale si mettesse subito in moto, senza godersi quel piacevole
e lento risveglio confortevole. Da Derek ricevette un’occhiata assassina che
non si sarebbe dimenticata molto presto. «Laura!» esclamò quando il suono di
quella voce familiare rientrò nella decifrazione del suo elenco dei ricordi,
individuando il cellulare del licantropo che emetteva pochissima luce. «Buon
Natale».
«Buon
Natale anche a te» forse si sentiva un po’ in colpa ad aver spezzato la magia
tra suo fratello e la piccola volpe, ma non erano molte le occasioni che le
venivano offerti di poter scambiare qualche parola con quest’ultima dopo due
anni di silenzio e il ricongiungimento avvenuto al college tra quei due. «Tutto
mi sarei aspettata, ma non di vederti su un letto con mio fratello. Nudi».
«Derek
è nudo. È sempre nudo» si premurò di precisare lo studente del primo anno,
strofinandosi nuovamente un occhio. «Io sono nel mio bel pigiama. Ho anche i
calzini» fece scorrere le braccia interamente fuori dalla coperta, mostrando le
maniche lunghe e mosse anche i piedi sotto le lenzuola, come se Laura potesse
costatare di persona. Lei sentì soltanto il fruscio delle coperte.
«Non
sono nudo» disapprovò il playmaker per quella comune passione che avevano di
metterlo in ridicolo.
Stiles
rise nel suo orecchio e Laura ebbe l’impressione che Derek l’avesse già
perdonato, limitandosi a giocherellare con i suoi capelli spettinati.
«Stai
bene, Stiles?» chiese con interesse la mannara, vedendolo fresco e rilassato,
per niente provato, al contrario dei racconti che Derek centellinava,
descrivendole una situazione diversa. «Hai dormito bene?».
«Sì»
rispose con convinzione il diretto interessato, ma il padrone di casa emesse un
borbottio opposto, facendogli incrinare le certezze. «No?».
«È
stata una notte difficile» confessò Derek, per nulla intenzionato ad
aggiornarlo. Se avesse dovuto farlo, non avrebbe mai smesso. «Intensa».
«Sono
uscito?» domandò Stiles con turbamento, gettando un’occhiata oltre il
materasso, il breve percorso che lo divideva dal corridoio ricavato e che lo
conduceva tranquillamente alla porta d’ingresso.
«No»
lo tranquillizzò il lupo nero, percorrendogli con il pollice tutto il contorno
dell’orecchio. «È stato soltanto più complicato rimetterti a letto. A volte
succede».
Sapeva
che Derek non lo aggiornava quotidianamente sui suoi progressi o regressi, ma
voleva indicare che lo Stiles sonnambulo riusciva a trovare il modo di alzarsi
e magari vagabondare un po’ per l’appartamento. Forse sfuggiva per qualche
minuto all’attenzione maniacale del mutaforma o in
qualche modo gli dava il suo spazio perfino in quei momenti, finché non si
tranquillizzava e passava la crisi.
Stiles
si rabbuiò, non sapendo che parole trovare e Derek gli schioccò un bacio
conciliante sulla fronte. «Tutto bene».
Il
battito accelerato dell’umano fu captato subito dall’udito sopraffino di Laura,
così com’era sicura ne fosse in grado suo fratello; reagiva nell’immediato a
quelle attenzioni delicate ed esclusive che Derek gli rivolgeva, quell’intimità
che, prima di quel giorno festivo, Laura non credeva nemmeno esistesse tra
loro. Erano più sciolti, più consapevoli l’uno dell’altro, il cuore di Stiles
non mentiva, eppure non si sbilanciavano. «Vuoi una buona notizia, Stiles?» lo
tentò la donna, con il solo scopo di allietarlo un po’. «Sta nevicando».
Stiles
sbatté le palpebre varie volte, le parole che entravano nel suo timpano e le
sinapsi impegnate a trasmettere il giusto messaggio da decifrare. «Sta
nevicando? A Natale?» abbandonò subito le coltri calde e si fiondò alla
finestra, le ginocchia sul materasso, la tenda arancione e rossa che veniva
scostata, presentando un panorama completamente avvolto dal candore di
batuffoli che cadevano dal cielo senza rallentare.
«Non
dovevi dirglielo» la rimproverò il lupo completo, sbuffando sonoramente.
«Adesso uscirà in pigiama per vederla».
Dovevano
essere interessanti le loro giornate.
La
risata di Stiles riecheggiò per tutto il monolocale, a Laura sembrava di essere
lì con loro, le gemme ambrate brillavano sognanti. «La mia prima nevicata
natalizia».
Ci
fu del tentennamento nelle iridi di giada di Derek, completamente rivolte verso
Stiles. Laura si sentiva un po’ ignorata, ma in quel frangente non le
dispiaceva particolarmente. «Puoi uscire, se avrai il buon senso di vestirti».
Stiles
ridacchiò nuovamente, rivolgendogli un sorriso tutto per lui. «Sì?».
«Sì»
confermò il mutaforma senza ritrattare. «C’è ancora
tempo» non si sarebbe perso nulla anche se avesse fatto le cose per bene.
«Dobbiamo
andare entrambi» precisò il figlio dello sceriffo, intransigente.
«Perché
nessuno deve rimanere da solo a Natale?» a Derek non importava granché, nemmeno
della neve che sceglieva di mostrarsi indipendentemente del tipo di giornata
che andavano ad affrontare, che fosse speciale o meno. Ma forse gli importava
che fosse proprio Stiles a non trascorrere l’ennesimo Natale in solitudine, con
lo sceriffo spesso via; le festività erano sempre un periodo tremendo per le
forze dell’ordine.
«Anche»
rimase vaga la matricola, una piccola curva furba sul volto.
Derek
fu attraversato da un sospetto, i sensi attenti a captare l’anomalia.
«Portatemi
con voi» protestò Laura, tentando di farsi sentire e non escludere. «Voglio
vederla anch’io» il suo intervento cambiò tutto l’assetto dello scambio di
battute.
«Ciao,
Laura» la congedò senza alcuna pietà il fratello, interrompendo la
conversazione.
Derek
si limitò a poggiare il telefono con lo schermo spento sul comodino e Stiles lo
guardò intensamente per qualche attimo di troppo, a cui il lupo rispose con un’espressione
interrogativa. «Sei rimasto davvero. Con me».
«Ne
dubitavi?» Derek credeva di essere stato abbastanza chiaro fin dall’inizio sui
suoi progetti natalizi.
«Sei
sicuro che non avresti preferito far visita a Laura?» era la sua famiglia, ciò
che gli era rimasto. Era giusto.
«Le
farò visita presto, un giorno vale l’altro» scosse le spalle il mannaro a
scacciare che ci fosse un problema. «E non ho voglia di sopportare Peter».
Stiles
non trattenne la risata allietata e si diresse di nuovo verso i cuscini,
seppellendosi sotto le coperte.
«Hai
cambiato idea?» domandò circospetto il capitano, arcuando confuso un
sopracciglio.
«Voglio
godermi ancora un po’ il calduccio» spiegò semplicemente l’umano, affondando la
testa sul cuscino e ridacchiando di piacere ritrovato. «Il dolce far niente».
«Tu
non sai stare senza far niente» lo descrisse egregiamente il licantropo,
tentando di fiutare la menzogna.
La
bocca del figlio dello sceriffo si curvò timida, concentrata a godersi le
coperte ed a trarre tutto il conforto creato dal calore del lupo. «In questo
preciso momento sì».
«Mi
stai usando» rivelò il suo piano maldestro, corrugando le sopracciglia
giudicandolo apertamente.
Stiles
rise senza vergogna. «Sei caldissimo».
«Sei
tu ad essere un ghiacciolo» lo acquietò Derek, roteando gli occhi esasperato.
«Non mantieni la temperatura corporea».
«Tu
invece la mantieni fin troppo» ribatté prontamente Stiles, affondando senza
alcuna cura per se stesso sotto il mento, a completo
contatto con la gola. Aveva voglia di baciarla. «Puoi cedermene un pochino».
Il
mannaro sbuffò per la stanchezza già avvertita in quei pochi minuti da quando
si era ridestato. Stiles aveva il talento di sfinire chiunque, anche creature
soprannaturali.
Vennero
avvolti da un silenzio rigenerante, Stiles respirava rilassato sulla pelle
sottile del playmaker, sollecitato dalle dita di quest’ultimo che si
intrattenevano distrattamente con le punte dei suoi capelli. «Laura ha un
ragazzo» disse all’improvviso Derek, rompendo il momento di quiete.
Uscire
dal suo antro accogliente e adocchiarlo fu necessario. «Ah, davvero?» era
stupefacente per una serie di ragioni, soprattutto non credeva che sarebbe mai
successo nelle condizioni in cui li aveva lasciati. «E lui com’è?».
«Mh» la creatura della notte storse la bocca, non
pronunciandosi direttamente.
Stiles
si fece più attento a quel suono criptico, un po’ disturbato, studiando i suoi
tratti facciali. Rilasciò una piccola risata. «Ha risvegliato il fratello
iperprotettivo».
«Non
so cosa tu stia insinuando» si dissociò il lupo mannaro, diventando volutamente
sordo.
«Sì»
la voce ridacchiante dell’umano rimbombò in ogni parte. «E anche condito di un
po’ di gelosia».
Derek
si indurì, imbronciandosi ad occhi esperti, tagliandolo fuori e Stiles non
resistette dal continuare a ridere di divertimento puro, strusciando il viso
con un lato del suo. «Non può essere così male, se Laura l’ha scelto».
«Non
è troppo pessimo» concesse Derek con un grugnito, storcendo la bocca.
La
risata fu sollecitata a proseguire, ancora più ricca per la giocondità
familiare di cui erano protagonisti. «Sto realizzando che sei la persona che mi
fa ridere di più» dichiarò l’umano inaspettatamente, il sorriso ancora stampato
sulle labbra e la voce che tratteneva barlumi di allegria, la coscienza che
prendeva piede.
Derek
l’occhieggiò appena, prendendosi il tempo di imprimerselo nelle cornee. «Ah,
sì?».
«Sì»
confermò senza tentennamenti e contrattazioni, depositandogli un bacio asciutto
su una spalla. «La persona più insospettabile, anche la più scorbutica».
Alcune
dita si annodarono tra le ciocche castane, lo iridi di giada dirette verso
quelle d’ambra. «Ridi di me o con me?».
«Con
te» era innegabile, sapeva che anche Derek si divertiva; punzecchiarsi faceva
parte della loro sintonia e non c’era mai risentimento. «Prima di rincontrarti,
non accadeva più molto spesso» ed era anche evidente che Derek stesso ridesse
apertamente molto più frequentemente rispetto al passato. «Conti ancora i miei
sorrisi, Der?».
«Adesso
è difficile stargli dietro» fu sincero il playmaker, lambendogli tutto un
sopracciglio. «Ma so quando smetti di farli» e ricominciava a contarli ogni
singola volta.
Il
suo cuore era sempre impazzito quando si trattava di Derek, ma negli ultimi
tempi non riusciva a gestire le continue capriole in cui si esibiva. Era
costantemente senza fiato. «È positivo».
«Sì,
lo è» concordò la creatura leggendaria. Alla fine, era sempre stato quello il
suo vero scopo.
Stiles
si umettò le labbra e poi le richiuse, prorogando quell’istante infinito. «Buon
compleanno, Derek».
Le
falangi si bloccarono sulla cute dell’umano, sfiorandogliela appena. Lo sguardo
si fece più acceso. «Lo sai».
«Lo
so da anni» confessò il figlio dello sceriffo, senza doversi scusare. Se Derek
conosceva la sua data di nascita, Stiles era autorizzato a entrare in possesso
di quell’informazione. «È difficile dimenticare una data come la tua».
Come
tutte le date che lo riguardavano. «L’avresti ricordata comunque, non
dimentichi mai nulla».
«Generalmente
no» concordò Stiles senza prolungarsi. «Adesso hai ventuno anni».
Era
il verso a ciò che gli aveva detto quando Stiles ne aveva, invece, compiuti
diciannove. Quasi quattro mesi prima, proprio su quel letto. «È vero» non
cambiava molto quanti anni avesse, ma la consapevolezza del tempo in sé che
trascorreva aveva più rilevanza per lui.
Comprendeva
anche maggiormente perché Stiles avesse insistito per il suo rientro a New York
almeno per quella giornata festosa, ma a Derek non veniva in mente un modo
migliore di trascorrerla se non in reciproca compagnia. «Non c’è una torta da
qualche parte, vero?».
L’affronto
e il raccapriccio nei tratti facciali del capitano della squadra di basket
riaccesero l’ilarità nella matricola. «Non l’avresti fiutata con questo?»
chiese con un ghigno, toccandogli appositamente la punta del naso. «Abbiamo
tanti cookies, però. Non ho riempito la dispensa per niente».
Il
lupo gli tracciò i lineamenti del volto immagazzinandoli nella memoria,
accarezzandogli successivamente una tempia e concedendosi di tornare a
dilettarsi con i suoi ciuffi ribelli. «Nascondere le prove in bella vista. Sei
la solita volpe astuta».
«Sotto
il naso» lo corresse provocatoriamente Stiles, il sogghigno sopraffino che lo
contraddistingueva tra la folla.
Derek
lo azzannò il naso di quella creatura diabolica, per sottolineare un concetto e
la piccola volpe infuocata ridacchiò di delizia. «Abbiamo ancora tempo per
assistere alla nevicava?».
«Sì»
proferì con sicurezza la creatura della notte, schioccandogli un impercettibile
bacio proprio sul punto addentato scherzosamente, a mitigare il reato commesso,
ricevendo in dono uno dei sorrisi più calorosi e pieni dalla matricola. «C’è
ancora tempo».
Come
spesso accadeva il cellulare del figlio dello sceriffo prese a squillare,
cogliendolo comunque di sorpresa.
Tra
le mani avvolte dai guanti che Derek gli aveva segretamente procurato,
stringeva l’oggetto che continuava a vibrare e suonare, lampeggiava il nome del
suo migliore amico, qualcosa di abbastanza consueto, ma quella volta Stiles
aveva uno strano magone in gola che gli preannunciava qualcosa di diverso.
Fissò
il laghetto del campus, seduto sulla sua panchina preferita, stretto nel
giubbotto e protetto dalla sciarpa aranciata del capitano della squadra di
basket. «Scotty» lo salutò con entusiasmo, dopo aver sospirato titubante e
premuto sull’icona che accettava la chiamata. Ringraziò mentalmente
l’accortezza di Derek per aver individuato dei guanti che funzionassero con il
touchscreen; le sue dita erano già duramente provate.
Scott
ricambiò il saluto e per vaghi minuti parlarono di convenevoli, ignorando
volutamente la tensione che lo studente di criminologia sentiva nell’aria senza
una vera motivazione.
«Non
sei tornato a Natale» articolò il mutaforma, a
ribadire un concetto evidente e che era anche passato.
«Dovevo
lavorare» era la scusa che aveva propinato a tutti, qualcuno poteva provare a
crederci, altri non si sarebbero interrogati eccessivamente, ma era sicuro che
suo padre non se la fosse affatto bevuta. Non era nemmeno una vera bugia,
Stiles aveva lavorato davvero durante le vacanze invernali, perfino nel giorno
di Natale ‒ turno pomeridiano, Derek gli aveva fatto visita per la solita
oretta e Stiles era riuscito a rifilarsi un biscotto al burro glassato con la
scritta Buon Compleanno e un cupcake
Red Velvet con una candelina azzurra sopra, la piccola fiamma che li divideva. Esprimi un desiderio, l’aveva incitato
con una curva sulle labbra da volpe ingegnosa. Non ho desideri, aveva rigettato il capitano, indispettito dalle
celebrazioni non richieste della matricola. Ne
basta anche uno piccolissimo, non si arrese Stiles con determinazione
trepidante. Derek gettò gli occhi al cielo con esasperazione, soffiando di
netto sulla cera che andava sciogliendosi per mettere fine a quella
pagliacciata, consapevole che gli avrebbe dato il tormento e Stiles lo
ricompensò con un sorriso pieno, gli occhi ammiccanti, dividendo equamente il
dolcetto rosso.
«Ti
sento distante» disse il Vero Alpha, il tono grave e indagatore, quasi avesse
formulato una domanda chiara a cui doveva rispondere.
«Siamo
distanti, ci separano tre ore di fuso orario» proferì Stiles con nota
sarcastica, non seguendo minimamente il fiume dei pensieri dell’altro. Forse
nemmeno Scott gli aveva creduto, anche se non aveva protestato quando aveva
comunicato la sua assenza.
«Non
intendo fisicamente o mentalmente» indugiò sull’ultima parola, quasi in dubbio
e con una parte di coscienza che gli indicasse che esistesse anche quel
problema. «Dal branco».
«Ah»
la voce si attutì e le iridi ambrate scandagliavano a disagio lo specchio
d’acqua che avevano davanti a sé.
Scott
rimase in silenzio per qualche secondo, in attesa che l’amico aggiungesse
qualcosa. Magari a divenire consapevole entrambi o a smentire le paranoie del
lupo. «Hai trovato un altro Alpha?».
Stiles
era senza fiato, non credeva che quella domanda gli sarebbe mai stata posta,
soprattutto così direttamente. Scott aveva volutamente ignorato che Stiles si
sentisse meno partecipe con la vita da branco a Beacon Hills, che ne avesse
preso le distanze, sia fisicamente sia emotivamente, ma evidentemente era
accaduto qualcosa che aveva accresciuto quell’allontanamento e su cui il
mannaro non poteva soprassedere. «Sì».
La
sicurezza con cui Stiles lo pronunciò tolse tutta l’aria dai polmoni del capo
branco. Nessuna contrattazione, nessuna illusione. «Chi è?».
Aveva
necessariamente bisogno di saperlo? Poteva essere chiunque e non sarebbe
cambiato niente. «Derek» quello fu forse il primo momento in cui Stiles lo
realizzò concretamente. Ci aveva scherzato e girato intorno, aveva
coscienziosamente individuato Derek per quello che effettivamente era, ma non
l’aveva mai esternato chiaramente senza divagazioni. Senza che fosse una
leggerezza, anche se il suo cuore aveva già capito.
Scott
non lo riuscì a decodificare il significato delle sue parole. Singolarmente le
individuava, ma il senso completo gli sfuggiva completamente. «Derek è un
Alpha?» perché non l’aveva informato di una cosa simile?
«Sì»
nolente o meno, che lo riconoscesse o no, iridi rosse o blu, Derek era
esattamente quello. «È un Alpha».
«Perché
mi hai nascosto una cosa come questa?» Scott risuonava adirato e leggermente
tradito, anche burbero.
«Io
non ti ho nascosto proprio niente» si irrigidì Stiles, assottigliando
pericoloso le palpebre. La parola nascosto
riferita a Derek gli provocava il vomito, era qualcosa che non doveva mai
essere associata al lupo nero. Non erano affari suoi cosa Derek fosse o non
fosse, cosa celassero i suoi bellissimi occhi che aveva preservato per anni.
«Riguarda Derek, soltanto lui».
«Non
riguarda soltanto lui se sei coinvolto anche tu» si inasprì senza controllo.
Era accaduto davanti a lui e non l’aveva minimamente notato.
«Cosa
credi, che fosse premeditato? Che avessi già deciso di scegliere lui?» di
riconoscerlo.
Sceglierelui, era quella composizione di parole a
scombussolarlo. «L’hai scelto soltanto come Alpha?».
«Che
cazzo stai insinuando?» l’accusa che gli veniva rivolta lo faceva uscire fuori
dai gangheri. «Devo necessariamente provare dei sentimenti romantici per
scegliere un Alpha diverso da te?».
«Non
è così?» il licantropo si pentì di aver pronunciato quell’insieme di sillabe
appena avvenne, intrise di una nota di cattiveria. «Siamo fratelli».
«Cresci
un po’» la rabbia che confluiva tutta in Stiles diventava difficile da
deragliare, si accumulava e l’unico in grado di capirla era proprio il capitano.
«Qualsiasi tipo di sentimento possa o non possa nutrire per Derek, questo non
invaliderebbe le mie capacità di scelta» fece cadere la chiamata senza
permettergli di ribattere.
«Che
succede?» domandò Derek quando lo vide rincasare infuriato e fuori di sé.
Poteva quasi attestare di intravedere del fumo nero uscirgli dalle orecchie
arrossate dal freddo.
Stiles
si tolse le scarpe quasi lanciandole, si estrasse il giubbotto e la sciarpa
abbandonandole sulla sedia davanti la scrivania con nessuna voglia di sistemarle,
gettando i guanti dove capitava e filando in bagno per scrollarsi la leggera
ventata di neve che gli era ricaduta addosso, sciacquandosi il viso per
raffreddare la furia che si annidava. Derek si limitava a restare in silenzio,
guardandolo vagare da una parte all’altra del monolocale.
Anticipatamente
preparò un bicchiere d’acqua che l’umano ingurgitò come se avesse vagato per
quaranta giorni nel deserto. «Meglio?» chiese quando emise un mugugno
soddisfatto, placato.
Stiles
lo guardò per un lungo momento a viso aperto, per limitarsi ad annuire e
gettarsi sgraziatamente sul divano.
A
Derek non rimase che riporre il bicchiere al suo posto e ritornare a sedersi
davanti i libri depositati sulla tavola da pranzo su cui stava studiando,
fissando Stiles con cautela.
«Ho
discusso con Scott» lo informò diversi minuti dopo, gesticolando nervosamente
con le mani.
Derek
non era stupito che avesse avuto una discussione accesa con qualcuno, ma con le
tante personalità con cui poteva scoppiare era solo questione di tempo.
«Ha
detto che mi sente distante» rise con isteria, mimando un paradosso. «Dal
branco» ma la voce calò quando rivelò la causa scatenante di quell’invasione
ritardata.
«Lo
sei» concordò il lupo completo. Non era un mistero, Derek l’aveva avvertito
subito; era una cosa molto diversa di quando Stiles aveva sedici anni e credeva
ciecamente nel suo migliore amico.
«Certo
che sì» brontolò a sottolineare che non era quella la parte fondamentale. «Ha
impiegato più di un anno per capirlo» Dio,
che Alpha pessimo.
«Magari
sperava tornassi sui tuoi passi» era una possibilità per nulla da scartare.
«Questa
è una cosa così egoistica. Così boriosa» Stiles era stanco di essere dato per
scontato, come se lui non potesse trovare qualcosa di meglio, qualcuno che gli
desse più valore. «Non ha minimamente preso in considerazione che nella vita
arrivano altri fattori. Che è mutevole».
Derek
gli rivolse un’occhiata interrogativa e Stiles inghiottì malamente la saliva.
«Mi ha chiesto se avessi un altro Alpha. Gli ho risposto positivamente».
I
tratti del viso del licantropo si irrigidirono e gli occhi scurirono. «Stiles».
«Non
devi dire niente» mise le mani avanti il figlio dello sceriffo, anticipandolo.
«È una cosa mia».
«Non
lo è» denegò tassativa la creatura della notte. «Se l’Alpha in questione sono
io».
«Se?»
domandò in una eco dolorosa, pizzicata. «Hai voglia di scherzare».
Derek
sospirò con stanchezza, conscio di quanto l’avesse ferito. Si alzò per
raggiungerlo, ma una volta nelle sue vicinanze si rese conto di quanta distanza
l’umano volesse tessere tra loro in quel momento. Si sedette per terra, le
gambe incrociate, a pochi centimetri da lui. «Situazioni come queste hanno due
direzioni».
«Mi
stai rifiutando?» quella possibilità lo colse impreparato.
«No»
negò vigorosamente, togliendogli quell’idea dalla testa.
Le
iridi di miele lo osservarono sollecitate, un sospetto gravoso. «Non voglio
impormi su di te. Non voglio né costringerti né obbligarti ad una scelta» non
era qualcosa che nessuno di loro avesse intenzione di fare, né Isaac o Boyd,
nemmeno Erica. «Io non ho bisogno di un Alpha o di un branco» era umano, era
esente da quella follia soprannaturale. La sua attitudine era una cosa che
doveva comprendere una volta per tutte, capire che impatto avesse su di lui, di
cosa fosse capace, come lo vedesse. «Ma ho comunque scelto te».
La
bocca di Derek era distesa in una linea sottile, le labbra sigillate tra loro.
«Lo so che hai scelto me» rivelò lungimirante, la certezza dalla propria parte.
«Lo sento».
Stiles
rilasciò uno ridacchiare amaro e ilare. «Disse quello che afferma di non essere
un Alpha».
Le
dita di Derek si avvicinarono lentamente, sfiorando appena quelle della
matricola e annodandosi in modo impercettibile. Quando fu evidente che Stiles
si fosse leggermente placato e più propenso verso di lui, il mannaro lo tirò a
sé, conducendolo a sedersi sopra le sue gambe. «Non sono un Alpha vero».
Stiles
sbuffò volutamente contro il suo viso, il fiato che si infrangeva. «Non ne
voglio uno vero, io riconosco
soltanto te».
Le
falangi si aggrapparono distrattamente le une alle altre, giocando
nell’intermezzo. «Non vorresti qualcuno di più sicuro? Solido?».
«Più
sicuro? Solido?» le gemme ambrate si specchiarono in quelle di smeraldo, lo
scetticismo stampato. «Tu mi stai guarendo, questo non conta niente? Quanto
stia meglio dopo mesi. Anni, probabilmente».
«Sì»
affermò cordiale il mannaro, sfiorandogli il viso con il naso. «Ma è anche vero
che non l’hai mai informato dei tuoi problemi».
«Credi
che avrebbe fatto la differenza?» domandò retoricamente il figlio dello
sceriffo. «Lui non si è mai accorto di nulla, diversamente da te. Ha avuto mesi
per interrogarsi, sondare il terreno. A te sono serviti cinque minuti».
Derek
non proferì parola, rimase a fissarlo in silenzio e Stiles mal lo digeriva.
«Credi anche tu che non abbia giudizio nelle mie scelte?».
«No,
rimugini troppo. Su tutto» dissentì Derek, ben conoscendo la sua temperanza. «Sei
passionale, certo. Ma il tuo istinto non sbaglia».
«Allora
non dovresti fidarti del mio istinto passionale?» gli fece il verso Stiles, con
la punta di sarcasmo che non perdonava nessuno.
«Sono
incompleto» disse chiaramente il lupo, a indicare un problema fondamentale. «Ti
meriti una guida migliore».
«Incompleto?»
ripeté sbalordito, incapace di afferrare un significato estraneo a ciò che
aveva dinnanzi. «Credi che mi importi di quale colore siano i tuoi occhi? Rossi
o blu, sei perfetto così come sei».
Derek
lo fissò con stupore sofferto e Stiles sospirò dentro di sé, poggiando una mano
sul suo viso e accostando la fronte contro la sua. Si prese tutto il tempo di
cui bisognavano entrambi. «Ho scelto te, davvero non lo capisci?» perché non
riusciva a essere più chiaro? Non voleva qualcuno di diverso da lui. «Possiamo
essere completi insieme. Siamo già migliori così, lo diventeremo ancora di
più».
Un
braccio del licantropo lo circondò dalla vita, attirandolo maggiormente a sé e
Stiles si chiedeva come fosse possibile esserlo quando erano uno sull’altro,
senza centimetri a dividerli. «C’è di nuovo una nota ottimistica nella tua
voce».
Stiles
ridacchiò contro di lui, alleggerito dal masso che pressava sulla schiena. «Ero
sicuro ti piacesse la mia voce» lo stuzzicò con lieve burla, ma poi si rifletté
meglio sulle iridi di giada, serio. «Hai ancora dubbi sull’impronta positiva
che hai su di me?».
«Non
ho mai avuto dubbi su di te» era su di sé ad esserne schiacciato.
Stiles
si scostò appena, avendo bisogno di una visione totale su di lui. Non poteva
combattere tutte le battaglie in una volta sola. «Da quando lo senti?» di appartenere a te.
«Da
un po’» fu sincerò il lupo nero, accarezzandogli un fianco dalla presa con cui
lo teneva legato.
C’era
un momento specifico? Se Stiles lo aveva realizzato pienamente soltanto con la
chiamata con Scott, Derek da quando era in grado di percepirlo? Un tutt’uno con
quel branco che il lupo riconosceva soltanto in parte. «Allora perché mi
bacchetti?» c’era stato un momento preciso in cui era stato in grado di
individuarlo? Le iridi bicolore erano cambiate in quei mesi, spesso erano più
tendenti al rubino rispetto allo zaffiro; Stiles non riteneva che fosse un
caso.
«Vorrei
fossi sicuro» disse imperativo il licantropo, senza nessun altro scopo.
«Sono
sicuro, Derek» non lo era mai stato tanto in vita sua.
Non
aveva bisogno di sondare la veridicità delle sue affermazioni, ascoltare con
attenzione il battito del suo cuore che non si tradiva, per averne la certezza.
Afferrò il polso, le pulsazioni sotto i polpastrelli, scostando appena la mano
poggiata sul proprio viso, sospingendo Stiles contro di lui dalla presa intorno
al suo corpo. Erano di nuovo fronte contro fronte, a respirarsi reciprocamente.
«Sì».
Le
labbra dell’umano si incurvarono liete verso l’alto, una spruzzata di vittoria,
e Derek lo baciò su un neo sotto l’occhio. «Non è stato questo a farvi
arrabbiare» si allacciò nuovamente al discorso principale pochi attimi dopo, il
tempo di far assestare l’atmosfera intorno a loro. «Cos’altro c’è?».
Stiles
sbuffò sonoramente su di lui. «Non ti pare abbastanza, lasciare un Alpha per un
altro?».
«Ti
ha accusato di questo?» Derek, da quando erano al college, non l’aveva mai
sentito troppo legato al suo vecchio branco; era impensabile che Scott avesse
volutamente ignorato quel particolare.
«Mi
ha accusato di avergliela fatta sotto il naso» parafrasò scocciato lo studente
di criminologia, roteando gli occhi per esasperazione. «Probabilmente crede
anche tu mi abbia rubato a lui».
«Rubato?»
il mannaro lo guardò sconcertato, gli occhi sgranati e Stiles ridacchiò alla
vista, uno spettacolo a cui non aveva mai assistito.
Stiles
nascose il viso contro il suo, non volendo proseguire oltre. Le parole che
doveva liberare gli ostruivano lo stomaco, gli provocavano acido. «A sentirlo,
ti ho nascosto. Cosa sei davvero. Non gli ho dato gli strumenti per potersi
guardare circospetto, individuare un potenziale rivale» che grandissima
fesseria, Stiles era liberissimo di scegliere il nulla cosmico se fosse stato
quello che desiderava. Testimoniava ancora una volta quanto il suo migliore
amico non avesse preso in considerazione che avesse potuto incontrare qualcuno di
nuovo su cui confluire la sua fiducia. «Lui non ha nessun diritto di avere
alcuna informazione su di te, se non sei tu a volerle condividere».
«Conosco
la tua lealtà» proferì il capitano della squadra di basket, riportandolo sotto
la sua visione ottica.
«Non
ti nasconderei mai, Derek» ebbe bisogno di precisare il figlio dello sceriffo,
una lontana eco che riecheggiava nei suoi timpani. «Non nasconderei mai niente
di te» era così importante che Derek comprendesse il concetto, quanto
un’allusione falsa l’avesse fatto stare male. Derek non si meritava di essere
un segreto, doveva vivere alla luce del sole.
Il
lupo asciugò tempestivamente una lacrima che prese a fuggire dagli occhi umidi
di cui Stiles era completamente all’oscuro. «No, non lo faresti» ne asciugò
un’altra, carezzandogli uno zigomo contemporaneamente. «Preservi soltanto i
miei segreti».
Era
una differenza sottile, ma sostanziale, ostico individuarlo. Avere una tale
affinità mentale con qualcuno era qualcosa di inimmaginabile, un manufatto di
antiche leggende, ma Stiles l’aveva trovata con l’ostile e asociale Derek Hale.
«Tu proteggi me e io proteggo te» sentì la necessità di abbracciare il ragazzo
dinnanzi a sé, stringerlo forte e venire ricambiato l’istante successivo.
Stiles
non aveva alcuna intenzione di rinunciare a Derek, a prescindere da quante
proteste avrebbe potuto imbattersi in futuro. Davanti a qualsiasi accusa di
celarlo.
Avrebbe
urlato al mondo quanto fosse legato a quell’Alpha dalle iridi del mare e del
fuoco, anche a Derek stesso.
«Ciao»
Stiles fu accolto da quel saluto appena ebbe percorso le scale del College of Social Science in discesa,
allontanandosi dalle lezioni concluse e già consistenti nei primi giorni dopo
la fine delle vacanze natalizie.
«Ehy»
ricambiò il figlio dello sceriffo nel momento in cui lo ebbe individuato,
avvicinandosi lentamente, lasciando che la calca degli studenti di corsa si
defilasse senza esserne investito.
Theo
lo aspettava con le labbra curvate bonariamente. «Come sono state queste
vacanze?».
«Rilassanti»
un concetto molto in dissintonia con la sua indole iperattiva e il suo
frastagliato passato. Se al connubio si aggiungeva anche la presenza di Derek e
il lavoro al Crescent Moon, poco animato, si aveva una panoramica
completa su ciò che considerasse tale. «Le tue?».
«Qualcosa
di simile» lo informò cautamente, le iridi blu fisse attente su di lui. «Mi sei
mancato».
Stiles
contrasse lievemente le sopracciglia e arricciò il naso, l’espressione
eloquente. «Non perdi tempo».
Theo
si liberò in un colpo di risa, senza alcuna vergogna. «Perché dovrei? Non
nascondo quello che provo».
Era
una frecciatina indiretta verso persone assenti? «Direi di no».
Lo
studente di scienze politiche azzerò la distanza che intercorreva tra loro, i
visi vicini ma ancora equidistanti, le gemme di zaffiro lo studiavano con
accuratezza, concedendogli tutto il tempo per tirarsi indietro, i respiri a
lambirsi. L’aria era elettrica e ferma, le ore pomeridiane calde stavano per
concludersi.
Theo
lo baciò con adagio, comodamente, gustandosi il momento e venendo ricambiato nel
medesimo modo.
Gli
sorrise sulle labbra, ma Stiles non apprezzò la sosta e di prepotenza si prese
un bacio vorace e bagnato, lingue chilometriche e intrecciate.
«Ho
voglia di te, Stiles» soffiò Theo nella morsa appena conclusa, le bocche che
ancora si toccavano.
«Hai
sempre voglia» lo riprese sarcasticamente la matricola di criminologia,
sbuffandogli addosso.
Il
bruno gli accarezzò il setto nasale con il proprio, aspirando il suo odore e
scatenando brividi di eccitazione nell’amante. «Non mi pare ti dispiaccia» la
frenesia stava esplodendo. «Devi lavorare?».
«No»
la risposta fu immediata, nessun tentennamento o aspirazione a cercare una
scusa per inventare una bugia, materia in cui eccelleva.
Theo
si riappropriò delle sue labbra, entrambi disinteressati a chi li circondava e
poteva vederli. «Andiamo da me?».
Il
figlio dello sceriffo si scostò appena, ampliando la sua veduta e studiandolo
scrupolosamente. «Devi accertarti che nulla sia cambiato?».
La
matricola di scienze politiche denegò con il capo, togliendogli immediatamente
quell’idea dalla testa brillante che si ritrovava. «Sto pensando soltanto a te»
se qualcosa fosse cambiato, Stiles non avrebbe mai ricambiato alcun bacio.
Stiles
soppesò la risposta, gli occhi acuti che non si lasciavano scappare nulla,
nemmeno i pensieri privati. L’arco temporale si dilatò a dismisura. «Andiamo».
In
quell’occasione la sensazione d’inquietudine la sentiva in ogni muscolo, in
ogni nervo che l’attraversava. Incombeva malvagia su di lui, mettendo tutto in
discussione, l’ansia e il pericolo, di un pezzo fuori posto echeggiava e
troneggiava sopra di sé.
Le
palpebre erano pesanti e devastate dalla sua incapacità di portare a termine la
fase REM come da manuale, la testa volteggiava da ferma con l’unica intenzione
di non ridestarsi ed i suoi movimenti erano rallentati, ma i suoi sensi
fischiavano, gli urlavano nelle orecchie.
La
tenda aranciata era completamente illuminata dalla luna che mostrava una
piccola parte di sé dall’angolazione che le era permessa, il letto era vuoto e
scombinato.
Si
voltò dall’altra parte e una figura ombrata incombeva su di lui, ferma,
immobile, facendogli accelerare il cuore. Era esattamente davanti ai piedi del
letto, se la tenda avesse svolazzato probabilmente l’avrebbe sfiorata. Non
parlava, quasi non respirava, era una statua di malaugurio a fare da
promemoria.
Derek
si alzò con fatica, evidentemente più esausto di quanto avesse mai
preventivato, avvicinandosi circospetto all’anomalia che da ottobre era
diventata familiare. «Stiles».
Il
figlio dello sceriffo non reagì, sembrava non lo avesse minimamente udito, non
lo vedeva neanche; rimaneva statico nella sua posizione, forse in cerca di
qualcosa, forse fuggendo come il suo istinto cercava abitualmente di portare a
termine. «Non posso dirglielo».
In
una qualche maniera, il lupo non si era mai imbattuto in quella conversazione,
in quella agonia in cui Stiles sembrava essere caduto. «Che cosa?» gli poggiò
una mano su un avambraccio, mentre l’altra si aggrappava alle sue dita
abbandonate. Le controllò di istinto, tastandole, espandendo la sua capacità
olfattiva per ampliare il raggio, ma non avvertiva ferite né l’odore di ruggine
tipico del sangue versato.
Le
incredibili iridi d’ambra generalmente luminose erano vacue come in ogni
occasione come quella, in tutti gli episodi di sonnambulismo che la matricola
manifestava, ma allo stesso tempo gli sembravano più lontane, come le prime
notti in cui Derek era costretto ad uscire per cercarlo nell’oscurità e tentava
di raccapezzarci qualcosa. «Si sentirebbe ancora più in colpa».
Campanellini
indicativi d’allarme risuonavano minacciosamente nel suo timpano,
concretizzando qualcosa che in cuor suo sapeva essere in attesa di scatenarsi
da un momento all’altro. «Chi?».
«Derek»
disse con angoscia, la bocca che appariva quasi volesse punirsi per aver
pronunciato quel nome. Era una risposta alla sua domanda, non lo stava
chiamando, non lo stava riconoscendo. Al mannaro serpeggiò la sensazione che
fossero tornati indietro di mesi, privi di alcun miglioramento.
Così
come fu pervaso dalla certezza che effettivamente Stiles gli stesse volutamente
nascondendo qualcosa, che non tutta la sua storia gli fosse stata resa edita.
Si sentiva sopraffatto, tradito, soprattutto se era qualcosa che riguardava
direttamente lui.
«Derek»
articolò di nuovo lo studente del primo anno, risuonando in modo diverso, più
consapevole, familiare. I suoi occhi vuoti si colorarono appena, il capo si piegò
impercettibilmente a cercare un’inclinazione differente che lo aiutasse ad
inquadrarlo più facilmente, riconoscendolo. «Non è colpa tua».
Il
mutaforma avvertì quasi uno schiaffo impattare su
di lui, riscuoterlo. «Cosa non lo è?».
Stiles
sgranò gli occhi e scosse la testa violentemente, a sottrarsi.
Derek
sospirò di irritazione, ma si ritrovò a soffermarsi sulle falangi che si
chiudevano quasi intorno alle proprie, i polsi ancora illesi, la tranquillità
con cui si lasciava toccare. Non voleva compromettere il suo equilibrio.
Gli
prese il viso tra le mani, appoggiando la fronte contro la sua e limitandosi a
socchiudere gli occhi, respirare unicamente con Stiles e nient’altro. «Non
posso proteggerti se non mi dici la verità».
«Non
riguarda me» lo colse in fallo l’umano, togliendogli il fiato. «Riguarda te».
Il
tempo attorno a loro rallentò quasi a fermarsi e Derek avvertì un peso
ingrossarsi all’altezza del petto. I polpastrelli non si trattennero dall’accarezzargli
comunque l’epidermide a cui avevano accesso. «È una motivazione in più».
«No»
scosse più agitatamente la testa contro la sua, eppure non si scosse dal lupo
né quest’ultimo mollò la presa. «Anch’io voglio proteggerti. Per una volta».
Stille
d’acqua salata cominciarono a irrigargli il volto, scontrandosi con le mani del
mannaro su cui si infransero. Scintillavano sotto la luce argentata dell’unico
satellite della Terra. «Ehy» soffiò delicatamente e amorevolmente Derek su di
lui, il pollice che gli cancellava ogni lacrima che riusciva a catturare,
mentre gli baciava l’occhio opposto con il medesimo intento. «Lo fai già. Lo
fai da tanto tempo».
«Sei
troppo importante per me, Derek» ammise a gran voce Stiles, non mitigando in
alcun modo la sua realtà.
«Anche
tu sei importante per me» rivelò senza che potesse pentirsene, perfino in
quell’istante di panico. «Il più importante».
La
matricola tremò sotto il suo tocco, allungandosi nella sua direzione per avere
un maggior accesso al suo calore, alla sua vicinanza. Fondersi interamente. Una
volta per tutte. «Non voglio farti male. Almeno a te. Non a te».
C’era
una supplica ben distinta, il terrore e la preoccupazione, il pianto silenzioso
non cessava. Era già difficile gestire uno Stiles completamente in armonia con se stesso, ma quando gli appariva così fragile lo lacerava.
«Non mi farai del male».
Stiles
ispirò fortemente dal naso, scostandosi appena e Derek si premurò di avvolgerlo
con le braccia e stringerlo a sé con intensità, gesto che generalmente lo
calmava. Li calmava entrambi.
Il
sospirò di liberazione dell’umano rimbombò per tutte le pareti. «Non è colpa
tua» ripeté con la voce incrinata, ovattata dalla bocca premuta contro l’incavo
del collo della creatura della notte. «Né Paige. Né il Nemeton».
Scariche
elettriche attraversarono l’intero organismo del lupo nero, scosse che non
avevano intenzione di assestarsi e dargli tregua. Precipitò in una valle
oscura, a rendere conto a se stesso. A comprendere
quale potesse essere l’attinenza tra le due cose. Era quella la ragione per cui
Stiles non aveva mai voluto dirgli come il Nemeton si fosse risvegliato, dando
la possibilità al Nogitsune di liberarsi e di attirare successivamente ogni
nemico che si erano visti affrontare?
Paige,
il passato continuava a tornare a bussare alla sua porta.
Osservò
di sottecchi Stiles aggrappato a lui, così a suo agito e totalmente fiducioso,
benché fosse tormentato da una verità che non voleva minimamente rivelargli,
anche se una parte gli era incautamente sfuggita, ma quella era sempre stata
l’unica maniera di conoscere cosa vivesse nel figlio dello sceriffo da quando
erano entrambi al Michigan State University.
Affondò le
dita tra i suoi capelli scompigliati e perseverò ad aumentare la presa, quasi
con l’intenzione di inglobarlo. «Devi stare tranquillo» non doveva
preoccuparsi del passato quella notte, come in tutte le altre.
«Continua a seguirmi» rimetterlo a letto e offrirgli il sonno dei giusti era
l’unica cosa che gli premeva.
«Non
sei arrabbiato?» Stiles invece di far scivolare le sue preoccupazioni non ne
aveva affatto intenzione.
Derek
provava talmente tante cose da tramutarsi in nulla. «Mi fido di te».
Per
Stiles dovette rivelarsi abbastanza perché il licantropo riuscì a ricondurlo
tra le lenzuola e rimboccarlo, le braccia dello studente del primo anno
insolitamente accerchiate intorno a lui mentre finalmente raggiungeva realmente
il regno di Morfeo. Derek invece rimase a meditare, accarezzandogli i capelli
distrattamente per una quantità temporale notevole, depositandogli un bacio
sull’orecchio quando il respiro si fece profondo ed i tratti del viso
rasserenati.
O-oh.
Stiles avvertiva una sensazione spiacevole mentre si apprestava a percorrere
uno dei ponti che permetteva di attraversare il Red Cedar River
incolume.
Individuò
nella retrovia della visione periferica una capigliatura dorata familiare,
ondeggiata dal vento freddo di quei giorni, portandolo ad optare per una
ritirata strategica e molto codarda, mimetizzandosi tra un angolo di uno degli
edifici del campus e un grosso albero sempreverde, paralizzandosi.
Non
aveva alcuna intenzione di confrontarsi con Heather e doverle estendere ancora
una volta il suo rifiuto.
«Cosa
stai combinando?» gli chiese il suo attentatore non tanto misterioso, il tono
della voce giudicante.
«Derek»
disse quando trasalì per l’inaspettato agguato, voltandosi appena verso il
nuovo arrivato. «Abbi un po’ di rispetto per il mio cuore fragilmente umano».
Il
lupo mannaro grugnì appena per l’ennesima scena teatrale che la matricola mise
in piedi. «Tu, invece, per chi non hai rispetto?».
Colpito
nel segno. «Ogni tanto vorrei risparmiarmi qualche seccatura» il che
sottolineava quanto non fosse gentile in quel momento.
«La
ragazza?» furono accompagnati da qualche momento di silenzio ed immobilità,
prima che Derek estendesse la domanda.
C’erano
decine di persone che gironzolavano per le strade dell’università, chi per
raggiungere qualche lezione, chi un punto di ristoro o un angolo di pace per
studiare, eppure il capitano della squadra di basket aveva perfettamente
individuato chi Stiles stesse evitando, confermandogli che poteva tentare in
ogni modo di togliersi di dosso gli odori delle persone a loro estranee senza
raggiungere il risultato sperato. «Sì» ammise avvilito.
«Non
accetta il tuo rifiuto?» chiese genuinamente il licantropo, per niente
discreto.
«Un
eufemismo» sospirò esausto il figlio dello sceriffo, sperando che la fanciulla
si allontanasse quanto prima.
«Hai
un talento innato nell’attirare persone insistenti» lo derise Derek con classe,
non scomponendosi.
Si
stava divertendo, il bastardo. «Non chiedo il curriculum quando voglio fare
sesso».
«Già»
asserì il mannaro senza alcuna sorpresa. «Forse dovresti».
«Tu
sei un esperto, invece» merda, perché
non sapeva stare zitto.
Stiles
si voltò totalmente con circospezione verso il capitano, temendo di trovare una
situazione piuttosto chiara da affrontare, ma Derek era come sempre
inespressivo e statuario. Non migliorava la sua posizione. «Uscita infelice».
«Convieni?»
era una domanda retorica, entrambi conoscevano il responso.
Il
vento tagliente lo prese di mira e Stiles seppe di esserselo meritato, tuttavia
non si riservò di affondare comunque fino al naso nella sciarpa rossa della
creatura della notte per beneficiare di un calore che quasi simulava il suo.
«Anche
la tua collega ti dà gli stessi problemi?» chiese il mannaro a seguire e
compattare un argomento unico.
«Cosa?
Tracy? No. Siamo amici» la sua compagna di studi ne avrebbe riso sguaiatamente,
molto poco lusinghiero, ma comprensibile, soprattutto se confrontato al suo
fantasiosamente rivale. «E poi ha una cotta per te» nel caso non ne avesse
preso nota, al contrario di quanto sembrasse interessato e attento alla gente
con cui Stiles andava a letto. Non poteva credere che al suo radar non fosse
sfuggita nemmeno la stessa Tracy. «Come darle torto, dopotutto» con la pulce
nell’orecchio si apprestò a sbirciare nuovamente oltre l’albero, intravedendo
ancora Heather chiacchierare animatamente con le sue amiche. Quando sarebbe
terminata quell’agonia? Doveva correre alla caffetteria.
«La
barista?» la voce interrogativa e alienante del licantropo scosse in modo
negativo l’organismo della matricola.
La
testa scattò per una terza volta verso il suo interlocutore, gli occhi
ingranditi per la sorpresa. Davvero ne era completamente inconsapevole? «Terra
chiama Derek. Basta che entri in una stanza per mandare in brodo di giuggiole
le persone».
Derek
arcuò le folte sopracciglia a quell’uscita molto romanzata. «Le ho mai
parlato?».
«Sai
parlare?» lo punzecchiò con sarcasmo, il ghignetto da volpe doppiogiochista che
lo prendeva di mira. Derek lo fulminò con lo sguardo e Stiles ne rise senza
ritegno. «Non devi necessariamente parlare per far cadere la gente ai tuoi
piedi» una cosa molto superficiale, ma ehy, era nella natura umana innamorarsi a prima vista. «E le
hai dato la mancia, una volta» la convinzione di Tracy che per Derek non
esistesse minimamente era, dunque, vera?
«Ah»
la nebbia sembrava dissiparsi, ma oltre quel risultato minimo non si
proseguiva.
Povera
Tracy, non c’era mai stata chissà quale possibilità per lei per una personalità
chiusa e riservata come quella del lupo nero, rifiutando qualsiasi rapporto
interpersonale, ma quello era decisamente demotivante.
Stiles
gli diede un’ultima occhiata prima di spostarla verso la ragione per cui si
trovava in quella situazione imbarazzante e per niente compiacente.
«Con
Raeken» attaccò Derek, distraendolo una volta di troppo dalla sua impacciata
fuga non necessaria. «Hai avuto un atteggiamento diverso» lo disse per la prima
volta a voce alta, niente sguardi furtivi, niente parole non dette ma che
appesantivano i metri quadri in cui coabitavano. Stiles era ben consapevole che
il lupo sapesse.
L’umano
gli rivolse la sua attenzione stupefatta, preso in contropiede. Quella presa di
posizione non aveva mai preventivato potesse palesarsi. Non era una
conversazione che voleva affrontare con Derek. Non voleva affrontarla con
nessuno. «Non devo ripetermi con tutti quelli che tornano alla carica» sarebbe
scappato a gambe levate. Aspetto, che effettivamente, stava mettendo in pratica
con quella scelta infelice di evitare la sua spasimante. «Non mi piace essere
tallonato. Pressato».
«Se
non ti piace ricevere certe attenzioni, dovresti smetterla di comportarti come
una volpe seduttrice» la definizione prese vita bruscamente, l’aria graffiante
scosse il cappotto grigio del lupo ed erano di nuovo visibili ad occhi esterni.
«Cosa?»
lo sbalordimento lasciò Stiles interdetto, le iridi caramellate vagarono da una
parte all’altra del viso di Derek senza riuscire a inquadrarlo per quello che
era. «È questa l’opinione che hai di me?» da dove proveniva tutta quella rabbia
pregressa dal ragazzo che riconosceva come proprio Alpha? «Che me ne vada in
giro a sedurre intenzionalmente le persone?» Stiles non sapeva nemmeno come si
facesse, figurarsi se gli era mai passato per l’anticamera del cervello di
premeditarlo.
Derek
non si espose, rimase a comunicare in silenzio.
«Cazzo,
sei serio» era evidente che non avesse nessuna intenzione di scusarsi. Si stava
vendicando per la sua incapacità risaputa di trattenere le battute taglienti?
«Se avessi saputo di avere questo super potere, l’avrei usato per sedurre te»
il telefono vibrò nella tasca del giubbotto attirando la sua attenzione,
segnava un messaggio da parte di Tracy. L’avvisava di essere in spaventoso
ritardo e Stiles, stancamente, non poteva permettersi di crearsi quella fama.
Ripose
lo smartphone al suo posto, le dita avvolte dentro i guanti che si stava
abituando ad utilizzare. Il rosso spiccava benché fosse soltanto riservato ad
una piccola zona del tessuto totale. «Non mi vergogno di avere una vita
sessuale attiva» disse fronteggiando apertamente e amaramente il licantropo.
«Se questo ti indispettisce, non mi riguarda» se lo lasciò alle spalle,
proseguendo per la sua strada.
«Cos’è
quel muso lungo?» chiese la studentessa di criminologia un’ora e mezza dopo che
Stiles iniziasse il suo turno.
Non
si era espressa subito appena l’aveva visto arrivare, indispettito e con i
tratti aggrottati, era nel pieno di un servizio interminabile ed avevano
continuato così per quasi tutto il tempo. Si era limitata ad occhieggiarlo tra
un ordine e l’altro, studiandolo e accertandosi che il suo umore migliorasse o
modificasse. Non era accaduto.
Il
figlio dello sceriffo non parve udirla, prerogativa che accadeva quando era
immerso nei pensieri. Se avesse avuto una penna in mano l’avrebbe
mangiucchiata.
Tracy
gli scioccò le dita davanti gli occhi, indicando i lineamenti in tensione
quando l’ebbe risvegliato. «Hai il broncio, chi ti ha fatto innervosire?».
Stiles
sbatté varie volte le palpebre, in un risveglio lento. La guardò arreso,
disorientato, come se non capisse cosa ci facesse lì. «Occhi verdi, espressione
perennemente crucciata».
Non
poteva esistere descrizione più accurata. Quasi la barista si voltò verso la
porta a vetri, aspettando di vederlo entrare e reclamare il suo solito posto,
ma non ve n’era l’ombra. «Avete litigato?» guai
in paradiso?
«Non
so cosa sia successo» Stiles aveva avuto la sensazione di volteggiare sopra la
scena senza coscienza. «Mi ha accusato di essere una volpe seduttrice»
qualsiasi cosa significasse.
Le
palle degli occhi quasi non le uscirono dai bulbi oculari. «Lupo? Volpe?»
pronunciò quelle parole ad alta voce, per farle radicare dentro di sé e svelare
il mistero. «Ma certo. Non c’è descrizione migliore per voi due. Riesco a
inquadrarvi meglio» era un gioco simpatico, inaspettato dalla parte del
capitano della squadra di basket, ma non dal suo collega. «Il lupo tenebroso ed
acido e la volpe giocherellona e machiavellica».
«Infuocata»
la corresse Stiles d’istinto, senza una vera motivazione.
Tracy
rise, presa alla sprovvista. «Volpe infuocata» concordò con dolcezza, come se
fosse fondamentale l’aggiunta. «Per lui lo sei sicuramente».
Stiles
le rivolse un’occhiata stranita e Tracy si limitò a sorridere. «Perché volpe seduttrice? L’hai sedotto?».
«No»
rispose con ritardo, a rimettere insieme il giusto ordine dei suoi pensieri,
tentando di riportare alla mente i ricordi. «Non credo» il dubbio si insinuò.
«L’ho sedotto?» quando?
«Non
saprei dirlo con certezza» aveva qualche idea, le solleticavano
l’immaginazione. «Flirtate continuamente».
«Davvero?»
era stato quasi certo che fosse una sua impressione mal riposta.
«Sì»
era adorabile l’ingenuità bambinesca di Stiles.
«Non
sono due cose diverse, flirtare e sedurre?» era sicuro che ci fosse una
differenza, da qualche parte. «Non so nemmeno da dove si cominci nel sedurre
qualcuno».
«Non
sminuirti così» per Tracy era seriamente esilarante, puro giubilo. «Con me ci
sei riuscito».
«Non
ti ho sedotta» si incaponì Stiles, scacciando del tutto l’idea. «Ci siamo
visti, ci siamo piaciuti, fine» era tipo la storia della sua vita.
La
studentessa ridacchiò, dandogli tregua mentre si apprestava ad uscire dal
bancone per servire una fetta di cheesecake ai frutti di bosco alla cliente in
attesa al suo tavolino, due enormi tomi ad occuparlo. «Allora, com’è venuta
fuori questa storia?» domandò una volta tornata.
«Mh» il barista mugugnò contrariato, spettinandosi i capelli
con disperazione. «Heather era nei paraggi, non avevo voglia di incontrarla e
diciamo che mi sono nascosto» la ragazza inarcò un sopracciglio giudicante a
quell’uscita. «Derek è Derek, quindi spunta fuori come il predatore in agguato
qual è e iniziamo questa discussione. Che degenera».
«Ah,
la dolce Heather. Temeraria» non si era ancora arresa. Comprendeva perché
Stiles volesse un po’ di tregua di tanto in tanto. «Non mi dispiacerebbe un
tipo come lei. Sai se è interessata anche alle ragazze?».
Heather
era carina, ma troppo appiccicosa per i suoi gusti. Soprattutto se non si
condividevano gli stessi interessi. «Hai già rinunciato alla tua infatuazione
per Derek?».
«Il
tuo Derek è irraggiungibile» distrazione piacevole, batticuore a mille, ma
intoccabile.
Stiles
non poteva che trovarsi a concordare con lei.
«Allora?»
ritornò sui suoi passi la barista, calzante. «Heather? Magari te la distraggo
un po’».
Intento nobile, per niente
disinteressato, ironizzò mentalmente il figlio dello
sceriffo. «Non ne ho idea» non è che avessero conversato. «Non sono in grado di
individuare chi sia bisessuale o qualunque altro orientamento».
«Decisamente
no» concordò con convinzione la collega. «Altrimenti sapresti chi ti muore
dietro».
«A
chi ti riferisci?» ancora una volta Stiles la fissò senza riuscire a
interpretarla. «A Theo?».
Era
un mistero anche quello? Tracy ne dubitava. «Theo ti rinchiuderebbe in una
stanza e non ti farebbe più uscire».
«Vero»
anche troppo.
Ci
fu un silenzio significativo, le iridi castane di Tracy si piantarono sulla sua
nuca e Stiles fu costretto a lanciarle uno sguardo interrogativo. «Ci sei
tornato, con Theo».
Era
così evidente? «Sì».
«Per
quale ragione?» la testardaggine del figlio dello sceriffo era evidenze,
difficile averne la meglio.
«Scopa
bene» semplice, lineare. Stiles scosse le spalle, senza preoccupazione.
«Mi
pare un’ottima motivazione» scoppiò a ridere per la schiettezza del suo
collega. Faceva parte di Stiles, ma non si era ancora abituata. Se mai ci si
potesse abituare.
«Mi
fa piacere di avere la tua approvazione» non se ne faceva un granché, Stiles
non aveva bisogno di ricevere un permesso.
Il
sarcasmo di Stiles, il suo marchio distintivo. «È saltato fuori anche questo
nella tua discussione con Derek?».
«Sì»
perché negare? Era lampante. Il conflitto tra Derek e Theo era stato visibile
fin dall’inizio, ironico considerando che il lupo stesso lo avesse incitato a
offrire seconde opportunità.
Aveva
aggravato la situazione? «È un atteggiamento che ti stupisce?».
«Mi
stupiscono tante cose su Derek» troppe per poterle elencare. «A cominciare dal
fatto che per anni mi abbia ignorato e adesso…».
«Non
riesce più a farlo» concluse il pensiero Tracy, seguendo il filo del discorso.
«Non
lo so» proferì Stiles monocorde, stremato. «Ho questa convinzione che abbia dei
problemi con il sesso, magari gli dà soltanto fastidio» i suoi grattacapi, le
sue lamentele e giochi, assommati ai pessimi trascorsi del mannaro. Non doveva
essere piacevole assistere a tutto quel teatrino costante.
«È
una cosa possibile?» era la prima volta che sentiva una cosa simile riguardo al
capitano della squadra di basket, la lasciava interdetta.
«Lo
è» avrebbe dovuto tenerlo per sé? Faceva differenza?
«Gli
è successo qualcosa di brutto?» la tensione che avvertiva al petto non la
faceva respirare come aveva bisogno. Oltre a tutta la devastazione che era
evidente l’avesse preso di mira, c’era dell’altro?
Stiles
tacque, le labbra si serrarono tra loro. Si costrinse a guardare davanti a sé,
i vetri splendenti, la neve ghiacciata a ricoprire ogni cosa, il tramonto che
era stato quasi del tutto cancellato dal calar della sera. «Le peggiori».
La
ragazza provò ad articolare qualcosa, ma il campanello alla porta tintinnò,
segnalando come ogni singola volta l’arrivo di nuovi clienti, ma quando Tracy e
Stiles alzarono lo sguardo, vi erano Heather e Theo pronti a raggiungere la
cassa, direzionati verso il figlio della massima autorità di Beacon Hills per
ottenere il loro ordine e accaparrarsi il loro barista prediletto, l’una ignara
delle intenzioni dell’altro.
La
risata istericamente tremolante di Tracy colse entrambi impreparati, come uno
schiaffo, ancora radicati nella conversazione precedente. «È forse in arrivo
una nuova serie di risposte negative».
La
giornata non ne voleva sapere di concludersi in fretta, a risparmiarlo.
Stiles
trafficava nervosamente con le chiavi in mano, la porta ancora chiusa davanti a
sé e le tre rampe di scale alle spalle. Esitava, incerto di mettere nuovamente
piede nel monolocale di Derek, aveva ancora troppa rabbia dentro ed era estremamente
deluso, in più non sapeva cosa l’avrebbe atteso all’interno. Il lupo non si era
fatto vedere né sentire per tutto il giorno.
Aveva
rimandato quel momento per quanto avesse potuto, fino a far calare la notte,
intrattenendosi con Tracy una volta terminato il loro turno a godersi la
classica vita da universitari, vagabondando da un posto all’altro senza alcuna
meta.
Sospirò,
conscio di non avere troppe alternative. In passato, quando era fuggito da lui,
Derek era comunque dovuto andarlo a riprendere.
Una
volta entrato, come di rito, si estrasse le scarpe, ma non ebbe il coraggio di
posare le chiavi o di togliersi il giubbotto, tergiversò indeciso, finché non
sentì dei passi ammortizzati, il leggero sfregare delle unghie lunghe sul parquet,
ma non vide spuntare nessuno.
D’istinto
adagiò il mazzo di chiavi tra quello del mannaro, svestendosi in fretta e
appendendo tutto accanto al cappotto chiaro, procedendo incuriosito verso la
cucina.
Il
magnifico lupo nero era seduto ai piedi del divano a tre posti, le orecchie
teste e lo sguardo attento, prestava attenzione a tutto quello che lo
circondava.
Era
leggermente coperto dal tavolo e le sedie, ma quando il figlio dello sceriffo
lo raggiunse, ancora una volta notò quanto il rosso avesse inglobato il blu
delle iridi bicolore. Derek ne era al corrente? Era mai successo prima di quei
mesi? «Sei molto scorretto» articolò per niente colpito dalla sua bellezza
animale, anzi, ne era irritato. «Sono io a dover essere arrabbiato con te, non
il contrario. Non hai e non stai nemmeno provando a scusarti; al contrario, ti
sei mutato in modo tale da non dovermi affrontare».
Lo
sguardo del lupo restò impassibile, non toccato nella sua posa elegante.
«È
questa la tua risposta?» non si aspettava che la bufera passasse, ma nemmeno
che gli venisse negato il confronto. «Sei proprio uno stronzo» batté in
ritirata, valutando la possibilità di tornare nel proprio dormitorio per
passarci la notte, come avrebbe dovuto fare ogni singolo giorno.
Agguantò
il suo pigiama da battaglia ‒ con la locandina de Star Wars: La Vendetta dei Sith ‒, chiudendosi in bagno e
fissando furioso lo specchio. Che cazzo di problemi aveva quel lupo
masochista? Non riusciva a sbollire la rabbia.
Si
concesse una lunga doccia, sperando che potesse cancellare tutta la negatività
che gli viveva dentro, avvolgendosi in un grande asciugamano per asciugarsi,
tentando di godersi la coccola.
Indossò
il pigiama come se fosse un’armatura e si fiondò sul letto, spegnendo le luci e
sotterrandosi sotto le coperte, voltando la schiena a tutto quello che vi era
dietro di sé.
Per
un po’ non si udì alcun fruscio, Stiles era confortato dalla doccia fatta e il
tepore lo portava ad abbassare le armi e lasciarsi accogliere dalle braccia di
Morfeo, dimenticando tutto il resto e rimandandolo, ma quando la sonnolenza
ebbe il sopravvento, udì le zampe muoversi con morbidezza, senza nessuna
intenzione di celarsi, proseguire ad adagio e muoversi lungo il corridoio
ricavato dall’isolamento degli ambienti. Poi il materasso rispose al nuovo peso
che si aggiunse, abbassandosi e alzandosi a secondo del movimento, finché non
scavalcò il corpo della matricola e si frappose al muro, occupando quel poco
spazio che non era stato riempito.
«Vattene
via» lo intimò il figlio dello sceriffo immune alla conquista, le palpebre
serrate.
Ci
fu un uggiolio provenire dalla creatura completa che perforò le orecchie di
Stiles.
Gli
occhi d’ambra si aprirono nella semioscurità, ma le iridi brillanti di Derek
erano ben visibili. «Adesso vuoi le mie attenzioni?» domandò retoricamente, per
niente persuaso a cedere.
Il
lupo rimase fermo sorretto dalle quattro zampe, troneggiando su di lui. «Non mi
sposterò per farti spazio» sottolineo Stiles, avendo compreso le sue
intenzioni.
Il
mannaro lo fissò per qualche attimo in attesa, finché si distese per tutta la
sua lunghezza nella stretta striscia di lenzuola, incurante di sovrapporsi
all’umano.
Lo
studente di criminologia sbuffò seccato, ma non gliela diede vinta e rimase
esattamente dov’era. Serrò nuovamente gli occhi e strinse il cuscino tra le
braccia, volendo perseverare ad ignorarlo, mentre la testa del lupo si
sistemava sopra uno nei gomiti, nella nicchia creata vicino al viso dell’umano.
«Non
ti capisco proprio, Derek» proferì Stiles attimi successivi, quando comprese
che di dormire proprio non se ne parlava. «Qual è il problema?».
Il
quadrupede non mutò espressione e persistette a non volersi schiodare da lì.
«Perché
ti sei trasformato?» non poteva essere a causa della luna piena, era ancora
lontana e difficilmente si tramutava quando era in agguato.
Controvoglia,
ma nemmeno troppa, uscì un braccio dalle coperte e le dita affondarono
automaticamente nella morbida pelliccia inchiostrata della testa. «Sai quanto
ti ami in questa forma, non posso essere arrabbiato con te. È quasi un peccato
capitale» se lo avesse avuto in forma umana l’avrebbe imbottito di strozzalupo.
«L’hai fatto di proposito? O…» si fermò, le falangi immobili, non volendo
credere a ciò che la sua mente avesse appena partorito. «O non hai davvero
nessuna voglia di parlare con me?».
Il
capo del mannaro si inclinò, quasi a cercare le affettuose carezze del ragazzo.
Stiles non sapeva proprio cosa volesse comunicare.
Gonfiò
le guance e fece uscire una moltitudine d’aria, portandosi a sedere e
inevitabilmente lasciando più spazio al suo tormentatore. Con la schiena
poggiata contro i cuscini di entrambi, osservandosi in silenzio, non sapeva
proprio come dovesse comportarsi, che cosa si aspettasse o volesse Derek da
lui.
Sei diventato il suo mondo,
era un pensiero su cui non doveva minimamente soffermarsi, nemmeno scalfire.
«Ti sto bruciando?» chiese con turbamento, eco di una domanda di diversi mesi
prima a cui non era mai giunta una risposta, la mano a solleticare il pelo
delicato delle orecchie.
Il
lupo mosse la testa di scatto, sollevandosi sulle zampe e facendosi più vicino.
Si sedette proprio davanti a lui, scrutandolo attentamente.
«Se
stai comunicando con me telepaticamente, stai fallendo» riferì sarcasticamente,
l’espressione beffarda.
Stiles
notò il suo indispettirsi canino e si ritrovò a ridacchiare lievemente
intenerito. Si sporse per catturarlo tra le braccia e stringersi a lui,
assaporandone la morbidezza miscelata alle fattezze mastodontiche, alla
rappresentazione di forza. «Cazzo, stai davvero giocando sporco».
Lo
accarezzò per tutta la sua lunghezza per un tempo interminabile, la pelliccia
nera che ingoiava la pelle chiara, i muscoli massicci che rispondevano al suo
tocco. Era più rilassato, lo erano entrambi. Nessuna complicazione aggiuntiva.
Avrebbe voluto goderselo in quelle sembianze per un lasso temporale infinito,
benché comprendesse quanto fosse un desiderio egoistico da parte sua.
Fece
scorrere le mani aperte fino al muso, scostandosi appena per riuscire a
fronteggiarlo direttamente, trattenendolo con le dita. «Quello che hai detto…
tutta quella cattiveria, non è stata per niente giusta. Non me la merito» Perché allora lo stai ignorando? la voce
di Theo riecheggiava per la seconda volta nella mente. «Se qualcosa ti dà
fastidio, devi dirmelo. Prima di esplodere» disse categorico, senza giramenti
di parole. Era stanco di doversi ripetere, di dover procede in punta di piedi.
Derek
si limitava a guardarlo, nemmeno un mugolio a tradirlo, non sapeva nemmeno se
lo stesse ascoltando. Se lo facesse mai. «Mi stai mettendo alla prova?» domandò
il figlio dello sceriffo con dubbio. «Per la storia dell’Alpha» era stato un
errore così grosso? «Vuoi che smetta di seguirti? Di credere in te?» era
contorto, ma era uno stratagemma da Derek, doveva aspettarsi un contraccolpo.
«Stai perdendo il tuo tempo, io non demordo. Anche se sei un grandissimo
bastardo».
C’era
una scintilla di severità nelle gemme colorate nella perfetta posa statuaria
che assumeva il lupo, suscitando una piccola ilarità nell’umano. «Oppure, sei
già stanco di me?» porgli quella domanda gli provocò dolore fisico, perché era
un tormento che si portava dietro da mesi, probabilmente da anni.
L’insofferenza di Derek era legittima, ma averne la certezza gli avrebbe spezzato
il cuore.
Il
naso bagnato del lupo si poggiò contro il suo, ricevendo successivamente una
lunga leccata sul viso, lasciando Stiles interdetto. «Ah, a questo rispondi»
proferì ironicamente, osservandolo meticolosamente per avere la certezza delle
sue intenzioni, la profondità delle iridi rosse e blu lo lasciavano senza
fiato. Gli sorrise debolmente prima di appoggiarsi contro l’animale e
sciogliere l’ostruzione che percepiva al petto. «Che disonesto».
Il
lupo si acciambellò nella nicchia creata da Stiles, quest’ultimo scivolato in
buona parte e conseguentemente verso il lato del letto di Derek, abbracciato
parzialmente dal ragazzo, le dita che pigramente gli accarezzavano il folto
pelo, finché il sonno non prese il sopravvento, acchiappandoli e
immortalandoli.
Il
figlio dello sceriffo si ridestò preoccupato, non vi era alcuna presenza calda
nello spazio che aveva creato contro il proprio volere per il lupo completo, al
contrario, sembrava che su quel letto avesse dormito da solo. Si sfregò gli
occhi più volte per prendere coscienza dell’ambiente che lo circondava, per
accettarsi che quello che aveva vissuto il giorno prima non fosse frutto della
sua mente, come tanti fatti del passato.
Si
voltò circospetto, trovando Derek in forma umana seduto sulla sedia della
scrivania riversa nella sua direzione, indossava soltanto i pantaloni di una
tuta, forse segno che si fosse svegliato poco prima di lui. Era splendido come
sempre, ma Stiles poteva quasi ammettere che ai suoi occhi apparisse esserlo di
più. «Rivoglio il lupo» si lamentò l’umano, non avendo dimenticato affatto il
torto subito. «Non so cosa farmene di te».
«Sono
sempre io» gli ricordò freddamente il padrone di casa, senza scomporsi.
«Affatto»
si impuntò la matricola, sapendo di avere ragione. «Lui è molto più eloquente»
faceva molto ridere quella realtà strampalata. «E
affettuoso».
«È
l’affetto che vuoi?» lo pungolò abile, spietato.
Le
guance dell’umano si imporporarono, seppellendosi infantilmente sotto per
coperte. «Sei insopportabile».
Lo
sentì avvicinarsi al letto; di nuovo il materasso si mosse sotto il suo peso,
accogliendolo. Venne privato del suo rifugio con la forza, senza essere
violenta. «Davvero credi che mi sia stancato di te?».
Quindi l’ascoltava realmente.
Le iridi ambrate si rifletterono in quelle di giada, lontane dall’incontro
ravvicinato con il rubino e zaffiro della notte precedente. «Se non è quello,
deve esserci un altro problema. In effetti, una valga. Quindi è ragionevole ti
sia stancato di tutte le grane che ti procuro».
Lo
sguardo di Derek fu tra i più severi che gli avesse indirizzato. «Sei
impegnativo e fastidioso, certo. Ma questo non indica che sia stanco di te».
«Quanti
complimenti» rettificò con scherno lo studente del primo anno, dandogli
testardamente la schiena.
«Stiles»
lo richiamò spazientito il giocatore di basket.
«Niente
Stiles» mise il veto, ribellandosi. «L’arrabbiatura non mi è ancora passata».
Derek
si sedette sul letto, sospirando internamente. «Ho bisogno di parlare con te».
«Adesso
hai bisogno» sottolineò con il veleno
della voce. Si sentiva intrappolato lì dov’era, la necessità di abbandonare il
materasso, camminandoci sopra, fu troppo impellente. Come un tornado abbandonò
le coltri e raggiunse la piccola finestra con la tenda aranciata, poggiando i
piedi con i calzini sul parquet ‒ avrebbe dovuto cambiarli con quelli
antiscivolo. «Prima ti tramuti in un lupo per non affrontarmi e adesso hai bisogno di parlare. E non sento niente
di simile a delle scuse».
Derek
lo fermò agguantandolo per i polsi, bloccando la sua sfuriata, senza nemmeno
alzarsi dal letto. «Sono serio».
«Ti
sembra che stia scherzando?» chiese retoricamente con sarcasmo graffiante.
Il
mannaro esitò, i pollici premuti sulle vene a contare le pulsazioni agitate
della matricola. «Ho usato delle parole improprie».
«Questo
è il meglio che sai fare?» lo beffeggiò Stiles, la bocca affilata. «Tu le pensi
realmente quelle parole» sarebbe lui tra i due a sedurre l’altro, quando Derek
se ne andava in giro mezzo nudo per la maggior parte del tempo? Aveva voglia di
scoppiargli a ridere in faccia istericamente. «Per te, sono una volpe
seduttrice» una volpe dal manto infuocato
erano state le parole di Derek per descriverlo, come gli appariva, ma che cosa
indicavano precisamente? Rientrava nel pacchetto? «Cos’è esattamente che ti dà
così fastidio?» continuò mordace, agitandosi nella presa dal licantropo da cui
voleva liberarsi senza ottenere il risultato sperato. «Il mio, presunto, essere
disinibito? Il non riuscire a togliermi completamente l’odore degli altri o…» sei geloso? Si bloccò a quel pensiero
molesto. Pericoloso. Fatale. Scattò all’indietro con la testa come a volerne
scappare, a dover prendere aria e distanza dal licantropo. Le labbra schiuse,
gli occhi ambrati che lo guardavano attoniti, tentando di trovare prove che smentissero
quella fantasia messa in campo dalla sua mente iperattiva che da troppo tempo
lo irradiava.
Derek
non era sbiancato; no, ma era sull’attenti, percepiva il cambiamento, il
dubbio. Allentò lievemente la forza con cui lo teneva fermo.
Ti stai ancora imponendo di non accertartene,
tornò a bersagliarlo la voce di Theo, sussurrandogli seducente nel timpano.
Scacciarlo non era un’impresa facile, avere la sua voce o qualsiasi altra nella
testa mentre era con Derek era sempre stata una cosa sbagliata, inopportuna e
irrispettosa ‒ con gli altri, invece, la voce di Derek era sempre con
lui. Con chiunque fosse, qualsiasi cosa stesse facendo, non considerava
minimamente di assopirla ‒, ma in quel momento catastrofico lo era ancora
di più.
Lo
stava bruciando davvero, realizzò Stiles per la prima reale volta.
«Vorrei
soltanto che stessi più attento» prese la parola il capitano, tentando di
riprendere il controllo della situazione che stava degenerando.
«Più
attento?» domandò in una eco che bisognava di riprendere contatto con il mondo
circostante, di risvegliarsi. «Da chi? Da cosa? Io mi affido a te quando so di
essere esposto» si animò il figlio dello sceriffo, indurendo i tratti facciali.
«Non puoi accusarmi di non essere attento».
«Forse
non te ne rendi conto, ma abbassi la guarda in quelle occasioni» disse
risolutamente il padrone di casa, i ricordi che si proiettavano meccanicamente.
«In
quelle occasioni?» rise concitatamente il ragazzo umano, deridendolo. «Con il
sesso, intendi?» perché stava infierendo con tanta cattiveria? Derek era
divorato dalla gelosia e Stiles non la stava vivendo benissimo, per una serie
di motivazioni interminabili che si stavano annidando tutte insieme nel
cervello pronti a fargli esplodere la scatola cranica.
Derek
sembrò essere stato preso a schiaffi dalla sua irrisione, limitandosi ad
annuire con un cenno unico del capo.
«Derek,
ti stai proiettando su di me?» esprimerlo con un suono aveva una valenza
completamente diversa dal tenerlo radicato dentro di sé. Non poteva sostenere
di non essere in grado di capire quale preoccupazione attanagliasse il mannaro,
a cosa stesse facendo allusione trattenendo il dolore. Molti tipi di dolore, a
quanto poteva assistere.
«No»
disse preso alla sprovvista, rispondendo d’istinto, ma poi l’incertezza e la
confusione gli offuscarono le bellissime iridi verdi. «Lo persone sono
pericolose» proferì infine, non a confermare il pensiero di Stiles, ma nemmeno
lo negò.
«Sì,
lo sono» era il suo macabro motto. Infelice non potersi fidare. «Quindi, per
evitare che tu perda la testa, non dovrei nemmeno rivelarti che la mia prima
esperienza con un ragazzo è stata, invece, con un uomo» l’ultima infamata
Stiles la sganciò.
Le
dita intorno ai polsi dell’umano si fortificarono, gli occhi si sgranarono e
smisero di essere in grado di vederlo. La presa si disfò del tutto l’attimo
successivo. «Quando?».
Stiles
si massaggiò senza una vera necessità i punti da cui era stato tenuto fermo,
probabilmente per allontanarli dal suo interlocutore ed evitare che lo
acchiappasse nuovamente. «Cosa vuoi, un orario? Un periodo storico? Una
stagione? Perché siete tutti fissati con le date?».
«Per
come hai sottolineato il fatto, sai perfettamente cosa voglio sapere» lo
stroncò Derek senza pietà, stanco dei suoi giochetti.
Era
la ragione per cui non ne aveva mai voluto fare cenno. «Nell’estate dei miei
diciassette anni» per l’intera estate.
«Diamine,
Stiles. Che cosa hai in testa» non era una domanda, ma un’accusa ben precisa, a
sottolineare che doveva essere in grado di capire quanto fosse una cosa
sbagliata, soprattutto con le esperienze dirette di cui era a conoscenza.
«Non
stai davvero paragonando il te quindicenne con il me quasi maggiorenne, vero?»
si infervorò la matricola, fulminandolo sul posto.
«Hai
detto la parola chiave: quasi» lo riprese brutale Derek, lo sguardo severo.
«Fino all’ultimo secondo, eri minorenne».
«Non
devi farmi la paternale. Dopo tutto quello che ho passato in questi anni, sono
in grado di giudicare cosa posso o non posso fare e con chi, a prescindere
dall’età» cosa che Derek non era stato per niente in grado di fare, perché
aveva vissuto in una bolla protettiva e boriosa che gli forniva la certezza di
non essere mai sfiorato dal male. Che non lo riguardasse. Di essere superiore a
tutti, finché gli era stato dimostrato che era in errore. Ancora e ancora.
«Alquanto
ipocrita da parte tua» le sue belle parole sulla legge e la manipolazione.
«Tu
non sai un bel niente» lo apostrofò Stiles, agitandosi. «Io ho dei trascorsi
con questa persona, non sono andato con uno a caso. Lo conosco».
«Forse
non abbastanza se ha puntato un minorenne» la rabbia e il disgusto nel mannaro
erano evidenti da ogni poro. Sentiva anche il sottotesto nella voce di Stiles,
la frecciatina di non poter dire lo stesso di lui quando si condannò con Kate. «Chi
è?».
«Cosa
cambia sapere il suo nome? Non lo conosci nemmeno» ricevette un’occhiata
eloquente dal suo interlocutore, non propenso a sottostare alle sue perdite di
tempo. «Il segugio infernale» con un sospiro, fu tutto quello che si permise di
rivelare.
«Il
vicesceriffo» era talmente attonito che non riuscì a scongelare le sinapsi
negli istanti in cui riuscì a collegare le due figure in una sola. Non l’aveva
mai visto né sapeva nulla di lui, ma conosceva i racconti di Stiles e cosa
avesse fatto. «Un uomo di potere. Cristo, Stiles» un uomo che la legge doveva
farla rispettare. E che lavorava a stretto contatto con il suo stesso padre.
«Non
è per niente così drammatica come la descrivi» non lo era stato per lui o per
loro; era stato naturale, graduale. Quasi inevitabile. «Piene facoltà, totale
consenso. Tutto molto diverso dall’aver perso la verginità dentro un manicomio,
mentre un demone millenario mi manovrava, con tua cugina» lo studente di
criminologia non riuscì a non sferrare il suo ennesimo tiro mancino, a
descrivere una situazione ben diversa con cui era impossibile additarlo.
L’impatto
avvenne e Derek perse colore gradualmente. «È stato da irresponsabili anche
quello».
«Che
cosa?» era visibilmente incuriosito, anche avvelenato. «La situazione generale
o che sia accaduto con tua cugina?».
Derek
retrocedette a quella sottolineatura, le iridi di giada rivelarono una verità
che tolsero l’ossigeno all’umano.
Merda,
era quella la ragione per l’avversione di Derek nei confronti di Malia? Ma non
era possibile, non aveva alcun senso. «Le nostre storie non sono paragonabili».
«Affatto»
Derek si mosse infastidito, come se le mura fossero diventate troppo strette.
«Tu dovresti essere migliore, più risoluto. Evitare situazioni che ti mettano
con le spalle al muro».
«Ed
è esattamente così» Stiles apprezzava le lusinghe, si faceva trascinare, ma non
era uno sprovveduto. «Parrish faceva già parte del
branco di Scott, il mio vecchio branco. Se non posso fidarmi del mio branco,
allora di chi?».
Derek
si immobilizzò, attraversato inaspettatamente dalle sue parole, rivolgendogli
uno sguardo indifeso. «Il tuo vecchio branco».
Stiles
si sciolse come neve al sole al suo smarrimento. «Sei un vero stupido,
Sourwolf, se ancora te ne sorprendi» improvvisamente tutta la tensione e
l’attaccarsi erano evaporati.
«Sorprendermi
di cosa?» domandò più interessato, reattivo.
Il
figlio dello sceriffo si avvicinò maggiormente al bordo del letto, venendo
sfiorato dal calore del lupo. «Vuoi proprio sentirtelo dire».
«Non
ti seguo» recitò il ruolo di chi non sapesse, attirando l’essere umano da un
braccio e facendolo ricadere tra le lenzuola stropicciate, le ginocchia
poggiate.
Stiles
lo fissò per un lungo momento, con l’intensità di star giocando allo stesso
gioco. «Di aver scelto te» Derek lo attirò sopra di sé con adagio, in qualcosa
di naturale. «Anche adesso. Con queste discussioni inutili».
«Non
sono inutili» lo corresse la creatura della notte, poggiando una mano alla base
della schiena per tenerlo stabile, precario com’era. «Mi preoccupo per te».
Stiles
non l’avrebbe descritta in quella maniera. «Cosa posso dirti per
tranquillizzarti?».
Derek
indugiò, le iridi verdi riflesse in quelle d’ambra che lo sovrastavano. «Sei
stato bene?».
Doveva
aver cercato a lungo il corretto ordine di parole per esprimere un concetto che
non lo tradisse più di quanto avesse già fatto e che si sincerasse delle sue
condizioni, passate e presenti. «Sì, sono stato bene» gli rivolse un sorriso
addolcito e gli ultimi rimasugli di negatività si disintegrarono. «E tu?».
La
fronte del lupo si increspò, non aspettandosi quella domanda dopo tanto tempo.
«Credevo di sì» confessò tornando indietro, a ripercorrere degli eventi che
avrebbe voluto estirpare. «Quando ero con lei non vedevo difetti, non mi
interrogavo. Ma nei momenti in cui le ero lontano, mi sentivo a disagio e
inquieto, un malessere che serpeggiava lentamente» lo aveva ignorato per
un’infinità di volte, fino ad accettarlo e conviverci. «Appena tornavo da lei,
mi obbligavo a tacerlo. Non potevo confrontarlo con nulla, era tutto quello che
conoscevo».
Un
pezzettino del cuore di Stiles moriva ogni volta che si addentravano nella
passata relazione nociva con Kate Argent e quella rabbia accresceva. «È ancora
tutto quello che conosci?».
«No»
fu sincero Derek, accarezzandogli distrattamente parte della colonna
vertebrale. «Sono stato bene anch’io. La maggior parte delle volte».
Quindi
era vero, Derek non era bloccato sotto la sfera sessuale. O non lo era a quel
tempo, perlomeno. «Ti riferisci a pessime esperienze o a delusioni?
Incompatibilità?».
«Non
le abbiamo tutti, le delusioni per incompatibilità?» domandò retoricamente il
playmaker, rispondendogli indirettamente.
«Sì,
molti tipi di delusioni» Stiles fu attraversato dallo spiacevolissimo e
inopportuno interrogativo sulla possibile incompatibilità tra lui e Derek.
«Perché hai smesso, allora?».
«Ho
troppo in testa» il lupo si prese il suo tempo prima di argomentare la sua
affermazione, rilasciando un minuscolo respiro profondo. «Ho bisogno di
rimanere fedele a me stesso».
Aveva
effettivamente qualcosa in testa o qualcuno? Stiles fu attraversato da un
perfido sospetto, ma lo lasciò svolazzare via, lontano da loro.
Se
era quello ciò di cui aveva bisogno, il figlio dello sceriffo non avrebbe
investigato ulteriormente, ma si permise di gettargli le braccia al collo e
stringersi contro di lui, soffiandogli nell’orecchio sensibile una risata
stremata, la stanchezza per la giornata precedente e per quella mattinata piene
di fraintendimenti dettati a ferirli che gravavano sulle spalle. Derek tardò a
ricambiarlo, premendo più forte contro il punto già preso di mira.
L’umano
dilatò quel lasso temporale, aumentando l’intensità quando sentiva una
lontananza che invece non stava avvenendo. Avrebbe voluto perseverare in
quell’abbraccio per sempre, tenerlo con sé. Trarne beneficio per entrambi fino
in fondo. «Detesto arrendermi a te, la mia arrabbiatura è evaporata».
«Non
ti sei mai arreso a nessuno» fece sentire le sue ragioni con un tono più lieto
il mannaro.
«Invece
sì» era stato per il bene di Malia, non aveva avuto altra scelta. «È appena
successo».
Derek
si liberò in un piccolo ridacchiare direttamente nel suo timpano al suo
protestare indignato e Stiles vibrò tutto. Si approcciò a sbirciare lievemente.
«E la tua rabbia, invece?».
«Non
sono arrabbiato» la semplificò Derek, come se non lo riguardasse affatto.
In
effetti non era la terminologia corretta, ma era ciò che le si avvicinava di
più. Stiles interruppe l’abbraccio, ritornando a fronteggiarlo, ma non tolse le
mani dalle sue spalle che, contrariamente, si agganciarono. «No?».
«Non
con te» precisò Derek e la matricola era consapevole che avesse tante ragioni
per esserlo, ma dubitava che si stessero riferendo a qualcosa di più ampio. Ciò
non toglieva che si domandasse verso chi o cosa fosse rivolta. «E, a differenza
tua, io mi arrendo ripetutamente a te».
«Non
conta» volle fare sentire le sue ragioni Stiles, incaponendosi. «Tu l’hai
sempre fatto» fin dai primissimi giorni in cui si era imposto nella vita del
capitano liceale di basket.
«Sì,
è vero» confermò la creatura leggendaria, con una peculiarità che fece quasi
collassare gli organi vitali della matricola. «Sei la persona più molesta che
abbia mai incontrato».
Mentre
Derek se la rideva, Stiles fece apparire un broncio incancellabile, facendo
crescere l’ilarità nell’altro.
Fu
a quel punto che il lupo completo gli adagiò un piccolo bacio sulla punta del
naso, ottenendo di debellare la smorfia bambinesca come risultato ultimo.
Stiles invece sentiva il petto pronto ad esplodere. Ne voleva di più, li voleva
ovunque.
«Di
che cosa avevi bisogno di parlare?» gli occorsero diversi respiri profondi
interni prima di ripercorrere con la mente la loro accesa discussione ancora
fumante ed estrapolare ciò che era stato lasciato in sospeso.
Derek
mugugnò contrariato, i tratti che si fecero acerbi e in Stiles crebbe la
curiosità. «Cosa?».
La
presa del mannaro si accentuò, divenne più calda e si ampliò la sensazione che
non volesse che l’umano creasse le opportune distanze. Le iridi di smeraldo
indugiavano su di lui, quasi ispezionandolo. «Inizieremmo un’altra
discussione».
«Oh»
soffiò con sorpresa, colto impreparato. «Una brutta?».
«Probabilmente»
confermò il padrone di casa diretto.
Il
figlio dello sceriffo si pietrificò accomodato com’era sulle gambe di Derek,
eppure il suo calore non perdeva intensità, ansi, continuava a fluire. «Non
vuoi affrontarla adesso?» tutto quel tentennare e rimandare era chiaro. Non
riusciva ad individuare come lo facesse sentire, la necessità di Derek di avere
della tregua tra di loro, soprattutto dopo aver faticato per ottenerla.
«Ci
sto riflettendo» ammise Derek meditativo, ponderando la situazione.
Sarebbero
stati in grado di gestirla e venirne a capo? Non ne era sicuro essendo ancora
scossi e se ne avessero le energie. Sospirò interiormente, chinandosi il
necessario ed appoggiando la fronte contro quella del licantropo. «Sono qui».
Derek
rispose avvolgendogli la vita con un braccio, rendendo entrambi maggiormente
più stabili.
Rimasero
in quella posizione per un tempo interminabile, a trarre forza l’uno
dall’altro, a trovare la pace reciprocamente, finché non arrivò l’attimo in cui
Derek si scostò appena per scioccargli un bacio esattamente sul punto in cui
erano rimasti accostati. Stiles recepì il cambiamento.
«Quanti
segreti hai ancora per me?» chiese il mutaforma,
creando un nuovo contatto visivo con il suo ospite.
«Non
ho segreti» si allarmò Stiles, ritrovandosi a scavare nella mente per cercare a
quale si riferisse precisamente. «Non quanti non ne abbia anche tu» si corresse
all’occhiata eloquente del suo interlocutore.
«Credi
che abbia dei segreti con te?» cambiò la domanda il lupo, scrutandolo
attentamente a indagare.
«Qualcuno»
la prese alla larga lo studente di criminologia, lo sguardo appositamente
evasivo.
Derek,
nel silenzio rivelatore, non si permise di distogliere l’attenzione. «Ponimene
uno».
Stiles
si irrigidì colto impreparato, le dita che si allentavano appena sulle spalle
del mannaro. «Cosa hai in mente? Una verità per uno?».
«Qualcosa
del genere» convenne Derek, la tergiversazione azzerata.
L’agitazione
si mosse in modo sconclusionato e nauseante dentro l’umano, sentiva che stavano
procedendo per un percorso fraudolento. «Perché puoi trasformarti in un lupo
completo? La causa scatenante».
«La
tenevi in caldo» riassunse con eloquenza il licantropo, comprendendo da quanto
tempo Stiles stesse tenendo la questione per sé.
«Laura
ne è stata in grado dopo aver ereditato il potere degli Alpha, alla morte della
vostra famiglia» per Derek non era stato abbastanza? Aveva bisogno di qualcosa
ancora più forte? «Malia dopo aver inavvertitamente ucciso la sua famiglia
adottiva alla sua prima luna piena» una piccola coyote di soli nove anni
rimasta sola nel mondo. Aveva conservato la sua forma completa finché Scott non
l’aveva riportata indietro, all’umanità. «E tu?».
Il
capitano divenne una statua da cui era impossibile trarre informazioni di
qualsiasi tipo, ma anche in quella maniera stava comunicando con Stiles. «Stava
per essermi strappato qualcosa di molto importante per me. Il lupo è emerso per
preservarla».
Strappata,
era una cosa fisica o mentale? Dubita che ci fosse stata una battaglia nel
campus da scatenare una cosa simile e nessuno del branco ne aveva fatto cenno,
anzi sembrava che nessuno di loro sapesse cosa avesse realmente scatenato il
lupo a manifestarsi. Stava soffrendo,
erano state le parole di Isaac per descrivere il momento. Era molto triste. Aveva già cominciato a percepire qualcosa qualche ora
prima, percepire cosa? «Come avrebbe fatto?».
Derek
era evidente non si aspettasse quella domanda insolita. «La forma completa è la
più forte, era ciò che mi serviva».
Stiles
non era per nulla convinto, non c’era la trasparenza che Derek richiedeva da
parte sua. «Non ne saresti stato in grado senza?».
«No»
ammise con riluttanza, più prendendosela con se stesso
che con il suo interlocutore. «Stava svanendo ed ero impotente».
Svanendo,
un senso di vuoto lo attaccò allo stomaco e la testa si fece più leggera,
cominciando a girare. Non ti ho
dimenticato e è impossibile per me
dimenticarti gli aveva confessato Derek quando Stiles gli aveva raccontato
tutto sulla caccia selvaggia, sui suoi effetti. Derek era stato così sicuro, ma
Stiles non gli aveva dato alcun peso perché lo riteneva impossibile, il mannaro
non sarebbe stato nemmeno mai in grado di capire che l’umano fosse stato
cancellato dalla sua mente e riapparire come se nulla fosse, esattamente
com’era accaduto con tutti gli altri. Ma aveva sbagliato? Derek era un lupo
completo da più di un anno, esattamente il tempo che era trascorso da quel
maledetto giorno. «Cosa stava svanendo?» chi?
«È
il tuo turno» tagliò corto il playmaker, sentendo le emozioni in panico della
matricola, stringendola più forte nella sua presa, quasi a rispondergli
silenziosamente. A Stiles non faceva per niente bene.
Il
figlio dello sceriffo sbatté le palpebre varie volte, intontito, quasi non
riuscendo a capire dove si trovasse. «Okay. Ti ascolto».
«Devi
anche rispondere» si fece più furbo il mutaforma,
conoscendo l’astuzia dell’altro.
Stiles
sbuffò oltraggiato, le guance che si gonfiavano e riuscirono a strappare un
piccolo colpo di risa nel lupo cattivo. O in quello in cui si sarebbe
tramutato. «Vai».
«Paige»
fu tutto ciò che disse Derek, a sintetizzare un unico mastodontico concetto.
La
nausea che tormentava Stiles non ne voleva sapere di allentare la sua
influenza. «Cosa c’è da sapere?».
La
puzza di nervosismo appestò la stanza, benché Stiles avesse furbamente evitato
di iniziare con una bugia. Era sempre una volpe astuta in ogni situazione.
«Devi dirlo tu a me» non si aspettava una conversazione immediata, ma aveva
sperato di usare un numero di parole minore per arrivarci.
Il
disagio di Stiles trapelò in ogni poro, la sensazione che volesse allontanarsi
palese. «Non voglio intraprendere questa conversazione».
«Questo
è chiaro» disse Derek diplomatico, non aveva alcuna intenzione di agitarlo
ancora di più. «La rimandi da mesi».
«Non
la rimando…» Stiles indugiò, l’espressione indifesa e afflitta. «Non voglio
affatto tu lo sappia».
Derek
rimase surgelato, non sospettando minimamente che l’umano avesse un tale
pensiero radicale su quell’aspetto. «Dov’essere qualcosa di veramente orrendo».
«Non
è…» il figlio dello sceriffo non sapeva quali parole usare, come non mandarlo
fuori rotta. «Lo sarebbe per te. Perché conosco come ragioni».
Non è colpa tua
gli aveva detto disperatamente Stiles, scatenando l’ennesimo episodio di
sonnambulismo. Soltanto che quello era esclusivamente per Derek. «Dovrei
conoscere tutto quello che mi riguarda».
Le
labbra della matricola si aprirono e chiusero varie volte, tra prendere nuovi
respiri e il tentare di formulare un pensiero coerente. «Non ciò che non è
rilevante».
«Sei
una tale volpe testarda» gli prese il viso tra le mani e l’umano quasi sbiancò,
temendo di aver scatenato nuovamente la sua ira, ma Derek si limitò a far
congiungere come poco prima le teste tra loro, prendendo un respiro pulito e
cullandolo impercettibilmente. «Puoi dirmelo, non devi avere paura».
«Certo
che ho paura. Si tratta di te» la voce si incrinò e un singhiozzò si incastrò
nella laringe, impedendogli di andare oltre. Derek, in una risposta opposta, lo
circondò tra le braccia, in qualcosa di più ancorato dal precedente. «Cosa ho
detto?» si arrese Stiles, sospirando faticosamente e conscio da dove provenisse
quella fonte. Riusciva sempre a tradirsi da solo, che ne fosse cosciente o
meno.
«Hai
nominato Paige» e quello l’aveva fatto tornare indietro ad una ferita mai
rimarginata, assommata a tutte le altre. Lì dov’era iniziato tutto. «Il
Nemeton» erano, quindi, collegati? «Che non fosse
colpa mia».
«Non
è assolutamente e decisamente colpa tua» sottolineo con ardore la matricola,
scostandosi dal suo interlocutore senza però abbandonare la sua posizione
intrecciata a lui. «Ma è quello che penserai».
L’amarezza
addolorata si insinuò dentro Derek e finalmente capì perché non avesse mai
voluto farne parola.
«Quando
hai…» Stiles si fermò insicuro, non riuscendo a trovare delle definizioni
migliori con cui continuare. «Rispettato la volontà di Paige, hai
inesorabilmente versato il suo sangue. Sangue di vergine» la precisione era
essenziale, era un dettaglio che era stato ignorato per tanto tempo. Nessuno
l’aveva mai collegato a nulla, nessuno aveva pensato ci potesse essere
un’ulteriore ripercussione su un fatto così tragico, oltre a ciò che era
accaduto a Derek o alla famiglia della stessa Paige. Nemmeno la grande
onnisciente Talia Hale aveva capito la portata dell’evento, era soltanto
concentrata a far accettare la nuova parte di se
stesso al suo prezioso figlio, eppure aveva comunque distolto lo sguardo da
lui. «Tua madre ti ha sottratto i ricordi dell’ubicazione di quel luogo, ma
esso non ha dimenticato» se l’albero sacro, anche se morto, era così importante
da proteggere, perché era stata tanto incauta? «Il Nemeton ha interpretato il
tuo gesto come un sacrificio e si è risvegliato» dell’albero secolare vi erano
rimaste soltanto le radici e avevano ripreso vita come se fosse ancora intero.
«Il resto lo sai».
Un sacrificio di sangue con l’esclusivo
intento di riattivarlo, Derek non riusciva a respirare,
vedeva tutto nero. «Quindi, tutto quello che è accaduto da quel momento in poi
è davvero colpa mia. La mia famiglia. L’intera Beacon Hills» le iridi vitree
ripresero colore quando si forzarono a concentrarsi su Stiles. «Il Nogitsune,
tu».
«Ti
ho detto di no» marcò a gran voce Stiles, puntellandosi con le ginocchia sulle
cosce del mannaro. «È stata solo una sfortunata serie di eventi concatenati».
«Sfortunata
serie» Derek rise senza allegria. «Disse il ragazzo che non crede alle
coincidenze».
«Ma
questa lo è» affermò con convinzione l’umano. «Non puoi davvero credere che
fosse premeditato e da chi?».
«Premeditato
no» Peter era stato perfido a sussurrargli malignamente nell’orecchie idee
sbagliate, ma le azioni le aveva compiute Derek di suo pugno. Era sempre stato
così influenzabile e non riusciva ad inquadrarlo se non era Stiles a
mostrarglielo, perché si fidava del suo giudizio. «Ma gli effetti non si
possono ignorare».
«No,
purtroppo no» dovette concordare la matricola, benché avrebbe voluto non farlo,
ma come poteva se gli effetti vivevano ancora sulla loro pelle e Derek doveva
occuparsi di lui? «Ma non è minimamente colpa tua. Non puoi sapere se non
sarebbe accaduto comunque, a prescindere dalle tue scelte».
«Ma
non posso nemmeno sapere il contrario» puntualizzò Derek, non lasciandosi
raggirare dal fiume di parole confusionarie del diciannovenne.
«Ti
prego, non far ricadere tutto il peso su di te» lo supplicò Stiles ferito,
stringendolo forte sulle spalle e issandosi prepotente su di lui, facendo
congiungere le fronti dall’alto della posizione prevaricante in cui si trovava.
«Cedilo anche a me».
«Hai
già il tuo» quell’indole del senso di colpa era qualcosa che Derek non avrebbe
mai potuto cambiare, apparteneva ad una vita antecedente a lui e non era mai mutata,
si era intensificata. Benché Stiles la vivesse in modo differente dal
licantropo. «E lo hai già portato tu, al posto mio».
«Non
me ne pento» confessò il figlio dello sceriffo con vigore, una mano saliva
verso il collo del capitano, fermandosi a circondargli la mandibola. «Se questo
mi ha condotto da te, a me va benissimo».
«Non
lo pensi davvero» ma le pulsazioni di Stiles, il battito affaccendato del suo
cuore, l’odore delle sue emozioni, si sposavano perfettamente con ciò che aveva
rivelato.
«Sono
già sporco» proferì l’essere umano, non tirandosi in alcun modo indietro. Di
sangue innocente ne aveva versato più di Derek. Più di tutti. «Puoi sporcarmi
di più».
«Non
voglio sporcarti» la voce tremante del lupo nero riempì le pareti e l’abbraccio
si accentuò. «Sei troppo importante».
«Lo
sei anche tu» non sarebbe mai sceso a compromessi su quello, Derek doveva
accettarlo. «Puoi dividerlo con me, Der?» soffiò incantatrice la volpe
infuocata, sicura e indomabile, non si sarebbe fatta scoraggiare. «Non guarirà
mai completamente, ma possiamo conviverci. Insieme».
Derek
stava annaspando e affogando, non per la verità che Stiles gli aveva
opportunamente taciuto, ma per come si stava proponendo come sua forza. Una
forza condivisa per poter andare avanti, incespicando aggrappandosi l’uno
all’altro senza annegare. «Tu non mi ascolti mai, qualsiasi sia la mia
risposta».
Stiles
ridacchiò pieno di vita, scuotendo i corpi di entrambi per quanto fossero in
contatto. Era terapeutico. «Non posso smentirti».
Derek
lo tirò giù e lo tenne ancorato a sé più che poté. Se avesse premuto
maggiormente, avrebbe rischiato di rompergli le costole, ma Stiles non si
ribellò e lo ricambiò con la stessa intensità.
Se
era con quella volpe furba, Derek poteva accettare qualunque cosa.
Tracy
perlustrava con lo sguardo i tavoli occupati dai clienti, la fila interminabile
che si stava concludendo con il servizio di Stiles. Il capitano della squadra
di basket non si era ancora fatto vedere e passava soltanto quando il ragazzo
logorroico era di turno. «Non posso aver fatto a meno di notare che il tuo
rapporto con il capitano è un po’ allentato» forse? Non era sicura del termine
opportuno. «Rallentato» era trascorsa una settimana dalla loro discussione su
seduzioni varie ed era come se avessero tirato il freno di sicurezza.
«È
soltanto stabile» l’etichettò egregiamente Stiles, togliendo alcuni piattini
sporchi dal bancone, smistando alcune posate rimanenti, tutto pronto per essere
portato in cucina per il lavaggio.
Stabile,
poteva essere un compromesso. Lo vide sparire oltre la porta che conduceva sul
retro.
Così
come vide comparire Derek Hale davanti l’ingresso e aprirlo, facendo scampanare
l’allegro tintinnio di avviso. Lei si illuminò non potendo annullare gli
effetti positivi che quella figura avvolta da un cappotto lungo grigio chiaro
avesse sulle sue personali sinapsi.
«Der»
ma Stiles era raggiante quando tornò e se lo ritrovò al bancone.
Il
mannaro si limitò semplicemente ad un cenno con il capo, niente di più e niente
di meno.
Il
figlio dello sceriffo si affaccendò a preparare il suo ordine senza che il
nuovo arrivato avesse fiatato, segno che ancora una volta avrebbe fatto di
testa sua.
«È
una foglia, quella che vedo» era una mezza domanda retorica, nel momento in cui
Stiles gli consegnò un cappuccino classico fumante. C’era un velo di
incredulità, probabilmente perché non aveva grandi aspettative nelle doti
artistiche dell’umano.
«Sì»
esclamò entusiasta lo studente di criminologia, come se fosse riuscito
nell’intento più grande. «Hai visto? I miei sforzi sono stati ripagati».
Derek
non si congratulò più di tanto, si limitò ad un’occhiata accomodante che il
barista interpretò positivamente, accrescendo il suo momento di esaltazione e
poi il lupo si limitò ad un’attenzione veloce al disegno della foglia di schiuma.
Non era perfetta, sbavava un po’ nei bordi, ma era il capolavoro faticosamente
ottenuto con tentativi ed errori di Stiles.
Derek
iniziò a sorseggiare la bevanda calda con parsimonia, a rallentare il
dissolvimento dell’impresa.
«Stiles»
qualche secondo prima che il suo nome fosse pronunciato da una voce estranea ai
presenti nella caffetteria, le spalle del mannaro si erano irrigidite e si era
mosso come se prestasse orecchio. Stiles l’aveva visto perdere la sua
rilassatezza e si era concentrato interamente su di lui, senza prestare
attenzione a nient’altro. Finché l’inevitabile era accaduto.
Nell’istante
in cui il proprio nome gli perforò i timpani, le iridi ambrate sgranate ne
incontrarono di azzurre severe e deluse, fin troppo familiari. Gli riempivano
tutto il campo visivo. «Papà» merda,
lo sceriffo della loro città natia era davanti a lui, in borghese, ma con la
stessa austera presenza. Non si sarebbe fatto giostrare dal suo machiavellico
figlio.
«Questa è la mia
stanza» disse Stiles nell’attimo in cui aprì la porta della sua camera nel
dormitorio, facendo accomodare suo padre.
Era teso e
agitato, non sapeva come comportarsi, come tentare di non far capire che quell’improvvisata
da parte del padre lo mettesse in una situazione delicata.
Era felice di
vederlo, ovviamente, ma quello sottolineava quanto avesse fallito come figlio.
L’incontro al Crescent
Moon era stato inusuale, surreale. Nemmeno Derek sembrava sentirsi
particolarmente a suo agio di fronte l’uomo di legge e di ragioni ne esistevano
a bizzeffe, ma Stiles non avrebbe mai voluto che lui stesso ne rientrasse. Suo
padre gli aveva lanciato un’occhiata consapevole come saluto e Derek si era
limitato ad un cenno della testa, ma non si era volatilizzato, anche se era
evidente che volesse farlo; era rimasto con la matricola di criminologia per
tutto il tempo.
Sapevo dove trovarti erano state le parole della
massima autorità di Beacon Hills quando la sua progenie gli aveva domandato
come avesse fatto e sinceramente si chiedeva se non si fosse informato con
qualcuno lungo la strada.
Stiles era tornato
un po’ a respirare quando il padre gli aveva comunicato che avrebbe aspettato il
termine del suo turno, uscendo dalla caffetteria. A quel punto diresse il suo
sguardo colpevole verso il mannaro, non sapendo cosa avrebbe dovuto fare.
Distrarlo, era stata la risposta a cui il
diciannovenne era arrivato.
Lo sceriffo entrò
senza troppi convenevoli all’interno delle quattro mura, osservando uno spazio
comune leggermente disordinato, ma niente di incredibilmente catastrofico. Non
sembrava nemmeno vissuto eccessivamente da due persone che condividevano
un’unica piccola camera.
Vi era
un’occupante in quel momento della giornata, Jiang, il coinquilino di Stiles;
era seduto alla scrivania davanti una pila di libri per metà aperti, mentre
cercava degli approfondimenti al portatile. «Mio padre» sentì dire quando
l’asiatico gli diresse un’occhiata interrogativa.
«Piacere di
conoscerla, Jiang» si presentò educatamente il ragazzo.
Fece per alzarsi e
porgergli la mano, ma Noah lo fermò pacatamente, non volendo distrarlo troppo.
«Piacere mio».
Ma l’intermezzo
terminò e lo sceriffo riprese a guardarsi intorno, non notando troppi oggetti
personali di Stiles in giro e nemmeno riposti da qualche parte. Aprì l’armadio,
riconoscendo molto poco appartenente al figlio e tentato di controllare anche i
cassetti. Se soltanto fossero stati da soli, l’avrebbe fatto. «Un po’ vuoto»
commentò a voce alta, facendo intendere bene a cosa si riferisse.
«Molte cose sono
in lavanderia» si arrampicò sugli specchi Stiles, non sapendo cos’altro
inventarsi.
«Il resto è dal
suo ragazzo» gli comunicò Jiang spensieratamente e distrattamente, non capendo
quale fosse il problema e perché Stiles titubasse così tanto a dare una
giustificazione ad una camera che era evidente fosse principalmente abitata da
una sola persona. Poi lo vide sbiancare e capì di aver commesso un errore
basilare.
«Il tuo ragazzo»
ripeté lo sceriffo aggrottando le sopracciglia, giudicando apertamente e
severamente suo figlio. «Derek. Quindi state insieme».
Accidenti. «Non è il mio ragazzo» ripeté per la
millesima volta, fulminando lo studente di economia con gli occhi, sperando che
per una volta gli entrasse in testa. «Non stiamo insieme» rimarcò
direzionandosi verso l’uomo, agitando le mani in senso negativo, a sottolineare
il concetto. Che pessima, pessima situazione. «Se stessimo insieme, non credi
che te l’avrei detto? Insomma sono io» si indicò come se rappresentasse già a
priori un significato lampante che non doveva ulteriormente essere spiegato. «E
Derek. L’avrei urlato al mondo».
«Non mi interessa
se è stato il tuo risveglio sessuale» lo liquidò lo sceriffo, non volendo
essere raggirato dal fiume di parole che era in grado di emettere Stiles con le
migliori intenzioni di depistaggio.
«Non è stato-» okay, probabilmente lo era stato;
l’adolescenza era già imbarazzasse di suo e non era qualcosa di cui suo padre
doveva avere la certezza. «Non ti mentirei su Derek» anche se in realtà l’aveva
fatto, su tantissime cose. Principalmente per celare il segreto del licantropo.
«Ci sono molte
cose che tieni per te» gli fece ben presente il genitore, lo sguardo severo
giudicante, la certezza che lui sapesse cosa si celasse dietro.
«Non questo» non
gli aveva mai nascosto la presenza di Derek. L’aveva ritardata, certo, ma non
era stato nemmeno intenzionale. «Non avrei alcun motivo di nasconderti una cosa
simile. Al contrario, mi aiuterebbe» dal sopracciglio innalzato del padre,
seppe di essersi appena fregato con le sue stesse mani.
«Ti aiuterebbe»
ripeté incalzante Noah, ad assaporare la parola e affibbiargli il giusto
significato. «Quindi, è quasi tutto nell’appartamento?».
Jiang apprese che
il padre di Stiles non solo era a conoscenza della figura del capitano della
squadra di basket e che ruolo avesse nella vita di suo figlio, ma anche
dell’esistenza di una dimora fissa che fosse etichettabile come appartamento, elemento che invece Jiang
non aveva. E allora, qual era il problema?
«Sì» confermò
Stiles arreso, senza più alcun motivo di dover negare il visibile.
Gli occhi blu
caddero sulle lenzuola perfettamente riboccate, sistemate, senza nemmeno una
piega. Non appariva come se fosse stato usato recentemente. «Ed è lì che passi
le notti?».
Stiles si ghiacciò
e un nodo di saliva venne inghiottito con difficoltà. «Sì».
Dalla
disapprovazione delusa dell’uomo e dalla colpa stampata nei tratti facciali
della matricola di criminologia, Jiang capì in cosa consistesse la
disapprovazione.
«È qui che ti sei
rintanato» la voce di Derek abbracciò l’udito scoraggiato ed in allerta dello
studente del primo anno, cogliendolo comunque impreparato.
Stiles era seduto
a gambe incrociate su una delle panchine disposte intorno al laghetto del
campus, molto distante da qualsiasi loro meta giornaliera, dai padiglioni,
dalla caffetteria e dai loro edifici notturni. Era dalla parte opposta.
Difficilmente qualcuno lo cercava lì. «Gli ho detto che avevo lezione e sono
filato via».
Il lupo lo vide
tirarsi sulla testa il cappuccio con le mani guantate, la sciarpa che veniva
sistemata meglio intorno al collo e parte del viso per evitare porzioni di
pelle indesideratamente scoperta. «Non hai lezione oggi».
«Già» confermò
Stiles con un soffio, stridendo i denti. «Altra bugia da aggiungere».
Derek si limitò a
scorgere l’acqua cristallizzata, sistemandosi al suo fianco senza invaderlo o
occupare il posto accanto al suo. Rimasero semplicemente in silenzio a fissare
un vuoto azzurro.
«Sono nel panico»
ammise Stiles, non sapendo più a cosa aggrapparsi. «Non tornare, saltare anche
il Natale, deve essere stata l’ultima goccia per lui» era cosciente che quel
rimandare e inventarsi scuse non lo avesse aiutato, ma avrebbe soltanto fatto
insospettire di più il padre. «Non mi aspettavo che piombasse qui e mi tendesse
un agguato» perché non aveva vagliato quella possibilità? Si era sentito così
sicuro che non avrebbe abbandonato il posto di lavoro e speso quei soldi extra
soltanto per tirargli le orecchie.
«A volte, è
l’unico modo per prenderti» commentò con un pensiero espresso a voce alta il mutaforma.
L’umano,
destabilizzato, non comprese se stesse parlando con lui o se fosse diretto a
Derek stesso. «Non darmi scelta?».
«Hai fatto le tue
scelte» gli fece ben presente il mannaro, a descrivergli un quadro preciso. «E
tuo padre ha risposto a quelle scelte».
Se erano a quel
punto, era proprio per le sue azioni. «Non volevo portarlo a questo punto. Tra
noi non funziona così» comprensivo e sempre dalla sua parte, quello era suo
padre. Anche quando Stiles rimaneva in silenzio e si portava sulle spalle un
peso che non poteva comprendere, lo sceriffo capiva ugualmente. Era accaduto lo
stesso quando aveva accidentalmente ucciso la chimera per difendersi e si era
tenuto quel segreto per mesi, senza poterlo rivelare a nessuno. Suo padre gli
indizi li aveva trovati da solo e non l’aveva accusato come invece si era
comportato Scott.
«Tu sei per il
confronto» Stiles le incomprensioni e le mezze verità non le sopportava, i
fatti andavano affrontati. Derek l’aveva sperimentato sulla propria pelle,
perfino in tempi recenti, ma conosceva anche l’attitudine opposta.
E lui, andando
contro la propria conformazione, l’aveva negato. «Ormai è palese che ne abbia
la certezza» disse Stiles dopo qualche tempo, la voce in agonia. «Siamo stati
al dormitorio, mi ha smascherato subito».
Lo studente di
letteratura era sicuro che Stiles non avesse mai creduto di farla franca, ma
aveva provato ad essere il più onesto possibile nella sua condizione. Non
voleva far preoccupare nessuno né tornare a casa. Ottenere il miglior risultato
possibile senza ferire qualcuno era impossibile.
Derek si sedesse,
infine, accanto a lui. «Cosa pensi di fare?».
«Di certo non
tornerò a Beacon Hills» non avrebbe avuto alcun senso. Piuttosto, si sarebbe
fatto seppellire i piedi lì per non togliere radici. «E lui… non so,
cambierebbe qualcosa se vedesse come vivo le mie giornate?».
Il mannaro meditò
fra sé e sé, la brezza fredda che smuoveva le foglie degli alberi. Era
insolitamente una giornata calma per essere così emotivamente turbolenta. «Puoi
portarlo al monolocale» forse lo sceriffo si sarebbe tranquillizzato a saperlo
in un ambiente sicuro.
Stiles trasalì,
volgendosi verso di lui. «In casa?» non riusciva a decifrare correttamente cosa
gli stesse comunicando. «Ma tu odi avere persone e odori estranei in casa tua».
«Non è un
estraneo» la semplificò il mutaforma, non facendosi
toccare dallo sgomento dell’umano. «Hai sempre un po’ del suo odore addosso».
«Ah» quello non
credeva fosse una nota di eccellenza. «Non ti rende la mia vicinanza
fastidiosa?».
«Perché dovrebbe?»
chiese perplesso il playmaker, arcuando un sopracciglio.
«Beh…» brutte
argomentazioni in corso. «Mio padre non è esattamente simbolo di positività per
te».
«Sei convinto che
guardando te, ti ricolleghi a lui?» domandò di riflesso il lupo, tentando di
entrare in empatia con il suo interlocutore.
«Non ti è mai
successo?» rincarò la dose l’umano, i neuroni attivi che sprigionavano svariate
ipotesi. «Nemmeno una volta, di identificarmi come il figlio di quello sceriffo?».
Rispondere, era
difficile. Lo sceriffo che si era occupato di tutti i casi che giravano intorno
alla sua vita bersagliata dalla sua ingenuità. Dalla crudeltà della vita, l’avrebbe corretto Stiles. «Non mi sono
mai domandato se avesse un figlio o una famiglia. Non credo nemmeno di avergli
prestato troppa attenzione a quel tempo. Non ero arrabbiato o furioso con
qualcuno in particolare, ero soltanto svuotato» per un po’ era stato
esclusivamente quello: un guscio vuoto. «Anni dopo ho riconosciuto il suo odore
su di te, sì. Vi ho collegati, è vero. E sì, per un po’ non ho visto
nient’altro che il vostro legame familiare, ma sei andato oltre quello. Sei
diventato Stiles e basta».
Stiles lo guardò
strabiliato, non riuscendo quasi a cogliere il meccanico di pensieri che
avevano condotto Derek verso quella strada. Lui ci sarebbe riuscito? Stiles
tendeva a non dimenticare che ruolo avessero avuto le persone nella sua vita o
in quella degli altri e faceva in modo che non lo dimenticassero nemmeno loro.
Quand’era stato il
momento in cui era diventato soltanto Stiles? Cosa l’aveva fatto scattare?
«Non ho problemi
con tuo padre» continuò Derek, volendo essere più coinciso e chiaro, senza
fraintendimenti ulteriori. «È un uomo giusto. E
buono».
Le pupille si
rimpicciolirono e poi dilatarono nell’iride ambrata, successivamente si ritrovò
ad annuire. «Forse troppo» se non l’aveva ancora acchiappato per i capelli e
caricato sul primo volo.
«Stiles» lo chiamò
il capitano con sguardo accorto, ricevendo la sua attenzione. «Tu sei
fastidioso. L’unico fardello dello sceriffo è di aver generato uno tsunami».
Il figlio della
massima autorità di Beacon Hills gli assestò un colpo di protesta sul braccio,
gonfiando profondamente offeso le guance. «Che vile» Derek si limitò a ridere
da bastardo qual era.
«C’è un unico
problema nel tuo piano» insorse Stiles, affondando le mani nelle tasche.
«Noterà ci sia soltanto un letto. Dovrei dirgli che dormo sul divano?».
«Non ti farei mai
dormire sul divano» che problematica ridicola, Derek non se ne preoccupava
minimamente.
Né suo padre lo
crederebbe fattibile. «Erica lo usa».
«Molto raramente e
per un paio d’ore» per lei doveva essere intrigante entrare nella tana
dell’Alpha e fare un po’ come le piaceva. «Ed è una lupa mannara, nessuna
conseguenza».
Ahi, Stiles sentiva già i dolori fantasma al
collo in atto e Derek sogghignò con ragione a quel movimento simulato.
L’umano sbuffò e
il licantropo ponderò la sua preoccupazione apparentemente frivola. «Ti agita
così tanto?».
Non era questione
di agitazione, gli dava fastidio che lui e Derek venissero continuamente
fraintesi. Suo padre aveva già la sua opinione personale su come stessero le
cose tra loro. «Diciamo che è ben consapevole di quanto io non sia immune da
te. Trai le tue conclusioni».
Derek rise, perché
era qualcosa che lo divertiva estremamente. «Non credo sia mai stato un segreto
per qualcuno».
Ma Stiles il suo
segreto l’aveva. «Non infierire».
Il
mutaforma
ridacchiò ancora, in armonia completa con ciò che lo circondava. «Digli quello
che vuoi. Si divertirà ad osservarti andare in paranoia».
O sì, si sarebbero divertiti entrambi alle
spese di Stiles.
Il cellulare della
matricola di criminologia risuonò nella tasca del giubbotto, con le mani
inguantate faticò a tirarlo fuori. Bloccò il suo affaccendarsi quando lesse il
nome che lampeggiava sullo schermo. La suoneria si propagò per diversi secondi
senza che accettasse la chiamata.
«Pronto» iniziò
quando fece scorrere le dita nere sul touchscreen, perfettamente coperte dai
guanti recuperati da Derek e che permettessero una tale pratica senza doverseli
togliere.
«Ho appena saputo
che tuo padre ha preso un aereo stamattina, per venire da te. Ne ero
completamente all’oscuro» disse Scott precipitosamente e con mezzo affanno,
come se dovesse essere il più veloce possibile a consegnare la notizia.
Stiles sospirò
internamente. Non si sentivano da un paio di settimane, silenzio radio
completo. Nessuno dei due aveva anche soltanto provato a far partire una
chiamata per sbaglio o a mandare un messaggio di qualche tipo. In realtà,
Stiles avrebbe continuato per quella strada ancora per un po’. «Grazie per
averci provato».
«Ahi» gracchiò il
Vero Alpha, serrando gli occhi e storcendo la bocca. «È già arrivato?».
«Sì, da qualche
ora» le più lunghe della sua vita. «Dobbiamo rincontrarci tra poco».
Si istaurò un
silenzio imbarazzato, impossibile da essere riempito. Cos’altro avrebbero
dovuto dirsi? «La storia del Natale non deve essergli andata giù» vagliò il
lupo mannaro a miglia di distanza.
«Direi di no»
concordò a monosillabi il figlio dello sceriffo, annodandosi meglio la sciarpa
al collo, affrontando la leggera ondata di gelo che lo colpiva in viso tra le
strade del campus.
«Ci sono problemi
tra di voi?» azzardò con incertezza Scott, sbiascicando le parole.
«Non esattamente»
non lo definiva un problema, ma sicuramente era un’omissione. «È soltanto
un’apprensione paterna» definirla così era ingiusto, ma non era propenso a
voler rivelare di più. Se per quasi un anno aveva tenuto quella verità per sé,
non aveva alcuna intenzione di vuotare il sacco attraverso una conversazione
telefonica.
«Okay» si limitò a
proferire Scott, senza alcun elemento per poter indagare oltre o protrarre
quella telefonata. «Riguarda anche Derek?».
C’era stata una
certa titubanza nel dare voce a quel pensiero, l’aveva quasi ricacciato dentro,
piuttosto coscio di aver commesso un fallo. «Derek fa parte della mia vita,
quindi sì».
Scott non si
aspetta una confidenza così diretta, senza giri di parole o quella riservatezza
che spesso Stiles imponeva. Era evidentemente non propenso ai giochetti in quel
momento. «Devo chiedertelo» si approcciò con incertezza, attendendo che quello
che riteneva ancora il suo migliore amico interrompesse al volo la chiamata.
«Noi due siamo a posto? Mi dispiace per quell’uscita su Derek, ero più
sconvolto di quanto credessi, sono stato scorretto».
Stiles si ritrovò
a spostare il telefono dall’orecchio e portarlo sotto gli occhi, toccò lo
schermo per leggere meglio il nome del suo interlocutore, ma non lasciava adito
a dubbi. «Lo sei stato, sì» riportò l’oggetto all’altezza del timpano, il
microfono vicino alla bocca. «Ma anch’io ho fatto la mia parte».
«Se Derek è
l’Alpha che ritieni più giusto per te, l’accetterò» si costrinse ad aggiungere
il mannaro, per accettarsi che lo studente di criminologia comprendesse
esattamente la completezza del suo pensiero. «Noi siamo amici, è questo che
basta a legarci».
Stiles storse il
naso, non aveva bisogno del lasciapassare del suo ex Alpha, ma concordò con se stesso che dovesse essere più indulgente, scendere a
compromessi. «Concordo con te» convalidò con strascichi di silenzio, le labbra
che si curvavano lievemente verso l’alto. Dal ricevitore il respiro trattenuto
di Scott era percepibile, in apnea. «Siamo amici» l’alterco si era concluso.
La matricola fece
accomodare il padre all’interno del fantomatico appartamento, di cui conosceva
piccoli scorci individuati attraverso le varie videochiamate.
Aveva notato già
in precedenza quel portachiavi a forma di lupo nero quando aveva aperto la
camera nel dormitorio, ma, effettivamente, vi erano troppe chiavi incorporate
nel mazzo; avrebbe dovuto interrogarsi ben prima. Tre di esse erano soltanto
per il 1855 Place, compresa quella per la cassetta della posta che
Stiles aveva ispezionato prima di iniziare a percorrere le scale ‒ Derek dimentica sempre di controllare, aveva
esordito.
«Potresti
toglierti le scarpe?» lo aveva invitato Stiles con accortezza, indicando i
piedi.
Davanti a lui, il
ragazzo era soltanto con i calzini addosso, le scarpe in un angolo. Lo trovò
un’abitudine insolita, non tanto per la poca praticità, ma perché non aveva
avuto la stessa cautela al dormitorio. Era una regola di Hale? Senza porre la
domanda, se ne disfò.
Ottenne un sorriso
tremante dal figlio e cominciò a fargli strada, non prima di aver depositato il
mazzo di chiavi all’interno di una ciotola.
Non era un
monolocale enorme, ma era sicuro fosse più grande della maggior parte presenti
nella palazzina. Era luminoso e caldo, pulito e quasi privo di disordine. Vi
erano gli oggetti personali di entrambi su ogni angolo riuscisse a posare lo
sguardo. Quella piccola casa parlava di loro ovunque.
Ispezionò il bagno
senza una reale ragione se non quella di mettere in imbarazzo Stiles, trovando
tutto miscelato, non sapendo individuare cosa fosse di chi.
Proseguendo notò
un grande letto, non era stato rimboccato alla perfezione per via della vita
frenetica da universitari, ma poco importava. Vi erano libri di letteratura
sulla scrivania e una felpa di Stiles sullo schienale della sedia.
Andando avanti,
sulla tavola principale erano poggiati i portatili di entrambi, sul lavello vi
erano alcune posate, un paio di bicchieri e piatti. Una pentola coperta
risiedeva su un fornello spento.
«Vuoi del caffè?»
chiese Stiles preso da un’agitazione premente, muovendo nervosamente le gambe,
mentre le dita delle mani gli tremavano. «O dell’acqua? O altro»
nell’indecisione aprì lo sportello del frigo, tenendosi impegnato, trovandolo
pieno di ogni cosa gli venisse in mente. Leccornie preferite da Stiles e altre
che supponeva rientrassero nella dieta del lupo.
«Come funziona?»
fu tutto quello che Noah si permise di chiedere in quel momento.
La schiena di
Stiles si irrigidì e, con la bottiglia di acqua in mano, richiuse
l’elettrodomestico. «Come funziona cosa? Le spese? Le dividiamo».
«Tutte?» non gli
aveva mai chiesto un soldo extra e dubitava che il lavoro alla caffetteria
potesse permettergli di stare dietro al portafoglio illimitato di Derek Hale.
Stiles aprì lo
sportello dell’armadietto in cui erano conservati i bicchieri e ne prese uno al
volo, riempiendolo subito di liquido trasparente e cominciando a sorseggiarlo
velocemente. «Ovviamente no, non me lo permetterebbe mai» né poteva
permetterselo comunque. Forse, se avesse rinunciato al dormitorio la sua borsa
di studio sarebbe stata formulata in modo alternativo, ma nemmeno quello era
fattibile, era un rischio troppo grande, avventato. «La spesa alimentare è
l’unico vero compromesso che sono riuscito a strappargli. E
qualche altra fesseria».
Allo sceriffo non
importava molto quale contratto avessero stipulato tra loro, ma che
ripercussioni avesse su suo figlio. Stiles era orgoglioso, non elemosinava da
nessuna parte e meno che meno con il mannaro, quindi non prevedeva che fosse
stato semplice arrivare a quello stallo. «Ci vivi proprio qui».
«Ah, sì» il
genitore aveva archiviato l’argomento precedente per andare oltre, cogliendo
Stiles impreparato. Gli occhi azzurri scandagliavano ogni angolo del
monolocale, i piccoli tasselli che lo componevano. «Torno anche al dormitorio
di tanto in tanto, ma principalmente il tempo che ho a disposizione lo
trascorro qui. È stata una cosa graduale, sai. Non me ne sono nemmeno accorto»
che tutte le sue cose si fossero automaticamente trasferite, insieme a lui.
Quindi, da quanto
andava avanti quella storia? «Non vorrai farmi credere che dormi sul divano,
vero?».
«Ah» le iridi di
miele saettarono da una parte all’altra, individuando un sofà non progettato minimamente
per essere usato come letto. «Forse?».
L’ufficiale
percorse nuovamente il corridoio, fermandosi al centro, in corrispondenza del
materasso a due piazze. «Non è tuo quel pigiama che spunta da sotto il tuo
cuscino?».
La marcatura
consapevole di tuo rese chiaro che
era inutile intortare il familiare. «Sì» sospirò sconfitto. Sapeva di aver
perso nell’attimo in cui aveva individuato il padre all’interno del Crescent
Moon, ma quella conversazione era proprio una disfatta. «Ma posso
tranquillamente aver spostato tutto. Siamo ordinati».
Noah si addentrò
all’interno della zona notte ignorando il ragazzo e tentando di trovare qualche
altro indizio che smentisse l’arrampicarsi disperato di Stiles. Quello che
individuò fu invece una piccola cornice ad un angolo del comodino, ritraeva
Talia e Derek Hale in tempi migliori. Non era rivolta verso il letto in modo
tale che il padrone di casa potesse vederla da quell’angolazione, ma era
indirizzata verso la scrivania, da poter essere occhieggiata di tanto in tanto
tra una pausa studio e l’altra.
La serratura della
porta scattò come poco prima e un nuovo abitante fu all’interno. «Ehy, siete
qui».
«Da cinque minuti»
disse Stiles quando vide rientrare Derek. Non aveva bisogno di certezze, era
sicuro che il suo olfatto soprannaturale avesse rivelato la loro presenza fin
dall’atrio. «Devi prendere il borsone?».
Il mannaro annuì
in risposta, togliendosi come di rito le scarpe e proseguendo lungo il
corridoio. «Sceriffo» proferì in una sorta di saluto, senza sbilanciarsi, ma
con rispetto.
«Derek» ricambiò
con lo stesso tono l’uomo. Lo guardò per bene per la prima volta, cosa che non
era accaduta all’interno della caffetteria quando li aveva presi alla
sprovvista.Era, di certo, cresciuto,
molto lontano dal quindicenne distrutto dal dolore a cui aveva dovuto
comunicare le sorti dei suoi familiari.
Il licantropo si
addentrò per prendere il borsone sportivo mezzo vuoto, cominciando a
trafficarci dentro e spostandosi lontano dallo sguardo vigile dello sceriffo.
«Non abbiamo
svuotato l’asciugatrice» subentrò Stiles a cambiare l’assetto più rigido che
era calato nell’appartamento. «Forse c’è qualcosa che ti serve» non era sicuro
di che tipo di lavata avessero fatto, erano un po’ indietro e gli allenamenti
di Derek si accavallarono, riuscire ad avere un guardaroba sempre pulito a
volte gli appariva una missione impraticabile.
Stiles lo vide
sparire in cucina, in direzione della porta che separava l’ambiente della mini
lavanderia con tutto il resto della casa. Lo sentì trafficare con
l’asciugatrice e con la cerniera della borsa, per poi farsene carico. Il
ragazzo umano sbirciava dal corridoio in ansia e agitato, senza osare sparire
eccessivamente dalla vista del padre e nascondersi dove non poteva essere
osservato, trovando conforto nel playmaker. «Mio padre non crede che dorma sul
divano».
Si sentì una
risata distinta rimbombare tra le pareti, Noah l’aveva già sentita qualche
volta attraverso le videochiamate con il diciannovenne. «Chissà come mai» proferì
Derek con sarcasmo ammorbidito. Quello di Stiles era spinoso, quello di Derek
dolce.
Le guance di
Stiles si gonfiarono profondamente oltraggiato dal comportamento dello studente
di letteratura, mettendogli un broncio bambinesco. «Non dovresti sostenermi?».
«Ti sostengo»
confermò Derek quando lo raggiunse, sorridendogli divertito. Era così vicini da
non notare alcuno spazio divisorio tra loro. «Per ciò che è sensato, non per i
tuoi giochetti».
«Non era un
giochetto» soffiò accigliata la matricola, fulminandolo a vista. «Vi state
coalizzando contro di me?».
«Sai come la
penso» rimarcò Derek lasciandosi scivolare quell’accusa infondata addosso. «E
non ti farei mai dormire sul divano. Che sia questo o un altro».
«Nemmeno io» non
era sicuro che fosse chiaro dalla sua parte, non c’erano precedenti, ma sperava
che il lupo completo lo sapesse.
«Ecco, vedi» le
labbra del capitano si curvarono liete, scioccandogli un piccolo bacio sulla
fronte che Stiles accolse socchiudendo gli occhi, prorogando e traendo il
massimo da quel momento. Lo sceriffo non aveva una visuale completa, ma vide
abbastanza. «Non te la prendere».
«La fai troppo
facile tu» sbuffò lo studente del primo anno, volendo essere più ostile nei
suoi confronti, ma fallendo completamente.
Derek si limitò a
guardarlo per un lungo momento, convenendo con un singolo cenno della testa.
«Devo andare» gli annunciò quasi l’avesse dimenticato. Era il suo congedo. «Ci
vediamo più tardi».
«Sì» confermò la
matricola, a dissipare qualsiasi dubbio immotivato potesse sorgere.
«Sceriffo» rimarcò
Derek l’ultimo saluto quando raggiunse la metà del corridoio. Fu ricambiato da
un gesto silente del capo.
«Ehy, Der» Stiles
era immobile dove la creatura notturna l’aveva lasciato, con gli occhi un po’
persi in se stessi, in balia di ciò che gli capitava
intorno. Lo chiamò per rallentarlo quando si ridestò. «Cenerò sicuramente con
mio padre oggi. Ti… unisci a noi?» quell’esitazione gli sgraffiò la gola.
«Oggi penso mi
limiterò alla compagnia degli altri» lo tranquillizzò Derek, il borsone quasi
in spalla e le chiavi inserite all’interno di una tasca del cappotto. «Goditi
la tua cena, Stiles».
Gli altri
comprendevano la squadra o il branco? O entrambi? Non era sempre chiaro, ma non
voleva che Derek stesse da solo troppo a lungo, sentiva quasi fosse una propria
mancanza. «Anche tu» si limitò a proferire, corrispondendo al suo augurio.
Derek gli riservò
un ultimo saluto con le dita e Stiles rimase immobile a osservarlo andare via,
chiudersi la porta dietro la schiena. Continuò a fissare il punto in cui era
svanito con occhi struggenti e preoccupati; lo sceriffo non si permise di
distogliere l’attenzione da suo figlio e di colmare i pezzi mancanti di quel
quadro sempre più chiaro.
C’era del
croccante pollo fritto davanti a loro e qualche anello di cipolla che non
guastava mai, era sembrato il posto giusto in cui portare lo sceriffo. Terreno
neutrale.
Stiles fissava la
carne bianca con riluttanza, avrebbe voluto possedere l’abilità di guardarvi
attraverso e scorgere se la cottura fosse corretta. Dopo il brutto episodio di
mesi prima, generalmente Derek lo controllava anticipatamente al posto suo, per
evitare che saltasse nuovamente i pasti. L’umano aveva brontolato le prime
volte, non volendo essere trattato come un bambino, ma capiva e sotto sotto
apprezzava il gesto. Ma Derek non era lì e Stiles doveva ricominciare a
diventare autonomo.
Strappò con adagio
una parte della carne con la pastella, controllando fino alla fine dell’osso,
trovando tutto di suo gusto. Meno male,
sospirò internamente, non avrebbe sopportato un nuovo digiuno davanti al padre
già sul piede di guerra.
«Hai ancora
problemi con il cibo?» chiese l’uomo di conseguenza alla scena a cui aveva
assistito. Stiles era nervoso per la situazione che si era andata a creare da
quando era arrivato al college, se si fossero uniti altri fattori sarebbe
esploso.
«Sì» suo padre era
l’unico che sapesse della sua relativa reticenza con la carne o che quantomeno
l’avesse notato a Beacon Hills. Quell’angoscia era cresciuta con il tempo e
stava imparando a trovare una forma di serenità soltanto quando aveva
l’assoluto controllo.
«Potevamo andare
in un altro posto» non era la prima volta che Noah si ritrovava ad affrontare
quello scenario. Inizialmente l’aveva trovato anomalo, non avendo Stiles mai
manifestato una repulsione verso un alimento in particolare, ma episodio dopo
episodio aveva capito ed erano diventati entrambi selettivi quand’erano in
reciproca compagnia. Serviva il tipo di cucina giusto quand’erano lontani da
casa.
«No» altri
pensieri, altri grattacapi che stava dando a suo padre. Gli confermava che non
era cambiato niente da quando aveva lasciato il nido. «Questo è il nostro
piatto speciale. E possiamo fare finta che ti stai godendo le ferie in giro per
il mondo».
Lo sceriffo
rimasse a scrutarlo in silenzio, meditativo, prima di ricominciare a mangiare
senza troppi intoppi.
Stiles inghiottì
un nodo di saliva a vuoto e finalmente si concesse di addentare ciò che aveva
davanti.
«Per quanto tempo
vorrai rimandare?» domandò retoricamente Noah, quando decretò che i loro piatti
si fossero svuotati abbastanza da non diventare una cena indigesta.
Stiles lo guardò
smarrito, l’ossigeno che faticava a filtrare. Aveva di nuovo perso la fame.
«Dobbiamo proprio?».
«Credo proprio di
sì» affermò lo sceriffo con sicurezza, non desideroso di perdere altro tempo
utile. «Non sei mai voluto tornare, per evitare che io sapessi la verità. Sei
diventato solo più sospetto».
Stiles chinò il
capo colpevole, lo stomaco chiuso. «So di aver sbagliato, ma proprio non ci
riuscivo» nemmeno in quel momento ci riusciva.
L’uomo si poggiò
con tutto il suo peso contro lo schienale del divanetto in cui ristoravano,
trattenendo un sospiro. La natura di suo figlio la conosceva bene, farlo
parlare era sempre stato difficile se riguardavano problematiche che lo coinvolgevano
direttamente. «Puoi dirmi come stanno esattamente le cose? Niente giochetti»
domandò poco dopo, diretto.
La matricola si
morse le labbra, stuzzicando le pellicine e creandone delle nuove. «Non so da
dove cominciare».
Il dolore e il
senso di colpa di Stiles l’ufficiale era sempre stato in grado di individuarli,
tutta la sua fatica diventava automaticamente la propria e lo distruggeva che
non riuscisse a condividerla con lui, dimezzandone il peso. Ma forse, nei pochi
squarci a cui aveva assistito, Stiles aveva trovato qualcuno con cui divedere
il fardello. «Cominciamo da Derek. Come sei arrivato a lui».
Grandissima bella domanda. «È stato Derek
ad arrivare a me» era ancora incredulo a volte. «La seconda notte che ero qui» fornire
quei dati, comunicargli da quanto andasse avanti quella storia, lo lacerava. «Lui
è uscito per cercarmi e mi ha condotto all’appartamento».
«È uscito? Di
proposito?» non sapeva esattamente come doveva classificare l’informazione.
«Sì, di proposito»
quanta gratitudine poteva provare una persona? Stiles era andato ben oltre.
«Com’è possibile?»
gli stonava tutto in quella storia ed erano appena all’inizio.
«Grazie al suo
magico olfatto» lo studente rise con una mezza allegria, lo fece distrarre e
alleggerire tutto insieme. Riuscì a spizzicare un po’ del pollo avanzato.
Allo sceriffo, a
volte, quella storia del soprannaturale gli faceva ancora girare la testa e
tentava di restare al passo senza perdere pezzi, ma non era per nulla facile.
Di Derek Hale ne era entrato a conoscenza soltanto quando era già andato via,
seguendo la sorella maggiore e presumendo frequentando il college. E il college
lo stava frequentato realmente. «Così dal nulla? In un giorno qualsiasi ha
fiutato il tuo odore fin in casa sua mentre tu eri chissà dove. Ed era sicuro
fossi tu».
Sintesi perfetta
ed avvertiva benissimo lo scetticismo del padre. «Derek sapeva che desideravo
frequentare questo college, che lo puntavo. Avrà captato qualcosa di stonato e
unito i punti» tenuto il conto.
Lo sapeva? «Parlavate così tanto voi due?» non gli
era mai parso dalle loro interazioni ridotte ai minimi termini e da quello con
cui l’aveva aggiornato Stiles successivamente. Hale non era mai stato chissà
quanto presente nei suoi racconti. Laura sì, ma Derek no.
«Non proprio»
rispose il ragazzo senza soffermarsi troppo a trovare una risposta diversa.
Non era
l’affermazione negativa e netta che attendeva. «Ma di cose importanti sì».
«Non credo che il
nome di un college sia importante» per Stiles lo era di certo, ma erano
chiacchiere su chiacchiere, a riempire il silenzio intorno a loro.
«Se nella
moltitudine di scelte, lui è capitato proprio qui, sì, è importante» inquadrare
l’entità era un discorso a se stante. «Tu sapevi di
trovato qui?».
«No» la risposta
gli uscì ancora prima che potesse elaborarla mentalmente.
Tacquero entrambi
per qualche istante e gli ingranaggi dello sceriffo continuavano a muoversi.
«Lui ti ha parlato di cose importanti?».
Stiles sfregò le
labbra tra loro, completamente scoperto. Li ho uccisi io, è colpa mia.
«Sì».
Lo sguardo
penetrante e vagamente conscio, sospettoso, del genitore la matricola l’avvertì
tutto su di sé. «Dopo quella prima notte, cosa accadde?».
Lo sceriffo taglio
corto ed era evidente che volesse maggiormente conoscere la salute di Stiles
che gli aveva celato per mesi interi. «Ci sono state altre notti» tante e
troppe. «La situazione non migliorava e ne risentiva anche Derek» la stanchezza
distruttiva sul suo volto non era ancora in grado di dimenticarla, così come la
sua paura. Non riusciva a concepire di esserne lui l’artefice. «Mi ha chiesto
di passare le notti da lui per poter vigilare meglio».
Il silenzio cadde
completamente tra loro, perfino i mormorii intorno non avevano suono. «È
peggiorato» decretò lo sceriffo quasi fosse divenuto un guscio vuoto, non
avendo bisogno di altre narrazioni per trarre le sue conclusioni.
Stiles si torturò
inconsapevolmente le dita, agitandole nervosamente. «Sì» soffiò con un filo di
voce, a strapparselo di volontà propria. «Un po’. Ma ultimamente va meglio» si
precipitò ad aggiungere, per mettere un cerotto a quella ferita che andava ad
allargarsi sempre di più.
Lo sceriffo della
contea di Beacon Hills si irrigidì e gli occhi azzurri si fecero più severi.
«Voglio sapere in cosa è peggiorato. È più frequente?».
Stiles boccheggiò,
non sapendo affatto come procedere senza allarmare e infuriare il padre più di
quanto non lo fosse già. «Sì» ammise con ritrosia, sentendosi completamente in
difetto. «Il primo mese accadeva quasi ogni notte. Derek doveva sempre venirmi
a prendere» si fermò, indeciso se proseguire. «Stava diventando insostenibile
per lui. Non era nemmeno corretto nei suoi confronti. Non lo è neanche adesso».
L’aria abbattuta
nel diciannovenne si rifletté in ogni parte, la consapevolezza di essere un
peso per chi lo circondava. «E per te non lo è, insostenibile?».
«Io non ho
coscienza, non ho ripercussioni» gli accadevano cose terribili e lui ne era
completamente ignaro, incapace di difendersi. Non era cambiato niente da quando
era a Beacon Hills, ma forse suo padre credeva che l’aggravamento avesse
cambiato la percezione che aveva di sé? «Qualche volta mi sveglio esausto,
nient’altro».
Noah non apparve
sorpreso, ma non addolciva nemmeno un po’ i suoi lineamenti. «Che altro?».
Doveva necessariamente esserci dell’altro? Avrebbe
preferito che suo padre fosse meno propenso ad individuare i dettagli. «Mi sono
mai… ferito?» era una domanda che lo tormentava fin dalla prima volta in cui
Derek gli aveva rivelato quel dettaglio raccapricciante e angosciante.
Le palpebre
dell’uomo sbatterono varie volte, non riuscendo a decifrare la domanda. «Che
tipo di ferite?» se intendeva quelle delle piante dei piedi, conosceva la
risposta.
Stiles aveva
l’affanno, non voleva andare troppo oltre, sarebbe stato un punto di non
ritorno. «Di… autolesionismo».
Il padre sbiancò a
vista d’occhio, pietrificandosi sul posto. «È questo che succede? Ti ferisci
volontariamente?».
Il ragazzo annuì
con esitazione, senza riuscire a spiccicare una parola di supporto. «Mi fido di
Derek, con tutto me stesso, ma non riuscivo a crederlo possibile. Tu non me ne
avevi mai parlato» eppure nel suo scetticismo si era lasciato accudire dal lupo.
La preoccupazione di Derek era reale, non avrebbe mai potuto dubitarne
seriamente e per troppo tempo. «Però mi ha visto farlo anche qualcun altro, non
posso negare l’evidenza».
L’uomo non
riusciva a credere alle sue orecchie, per l’ennesima volta in suo figlio
accadeva qualcosa di più grande di lui, di loro, e l’aveva tenuto per sé,
affrontandolo a suo modo. «Avresti dovuto dirmelo».
«Mi avresti
riportato a casa» non voleva essere insensibile ma la sua volontà non era
cambiata, anche se sapeva di essere nel torto assoluto. «E saresti stato ancora
più preoccupato».
«Sono stato
preoccupato per tutto il tempo, sapevo mi stessi mentendo» andare alla città
vicina e prendere il primo volo era stato un impulso che l’aveva colto fin
dalle prime settimane e non era mai decelerato. I continui rimandi di Stiles
non avevano aiutato, però attraverso le videochiamate e chiamate, spesso con
Derek Hale in sottofondo, udiva e vedeva che suo figlio stava bene. In un certo
qual modo si era tranquillizzato, ma non era stato sufficiente all’ennesima
giocata di Stiles. «Sono preoccupato anche adesso» soprattutto adesso.
Stiles chinò il
capo con i tratti del senso di colpa che si prorogavano ovunque. «Mi dispiace».
«Lo sei, ma allo
stesso tempo no» una dualità che in Stiles coesistevano spesso. «Ti sei creato
la tua vita qui, il tuo posto sicuro. Non vuoi rinunciarci».
«Non credere che
la vita con Derek sia facile» si agitò Stiles, a tentare di disegnare come si
fossero svolti i fatti. «Non ho accettato subito la sua offerta, non mi sono
catapultato a trasferirmi da lui. Abbiamo discusso e discutiamo ancora adesso
di qualsiasi cosa. Non ho mai voluto complicare la vita agli altri e doverli
legare così a me. È qualcosa che non ho ancora accettato completamente e sì, ho
trovato qualcuno che riesce a non farmi sentire sbagliato tutto il tempo, ma
non mi fa comunque stare meglio con me stesso».
«È così che ti
senti? Sbagliato?» gli era sfuggita una cosa così lampante? Era stato troppo
pressante? Era il motivo per cui nello stato da sonnambulo tendeva a farsi del
male?
«Voglio soltanto
riprendermi la mia vita e devo scendere a compromessi. Sto cercando di non
affogare» ed effettivamente Derek l’aveva letteralmente salvato da quello.
«Devo scegliere tra te e questo posto».
«Non è una
questione di scelta, essere sincero sarebbe stato sufficiente» riportarlo a
casa senza dargli delle possibilità non era una volontà che voleva assecondare,
ma se avesse percepito che era troppo pericoloso, se avesse soltanto sospettato
quanto la situazione fosse peggiorata, non avrebbe potuto agire in maniera
differente. «Non sarebbe sparita la preoccupazione, ma avrebbe evitato di
essere alimentata dalle tue continue bugie».
La matricola
sprofondò sul divanetto, giocherellando nervosamente con il piatto. Sapeva di
essere in difetto, eppure non voleva scusarsi per aver messo se
stessa al primo posto per una volta. «Non prendertela con Derek per aver
mantenuto i miei segreti. Ha cercato, abbiamo cercato, di trovare la soluzione
più funzionale possibile».
Come tu mantieni i suoi? «Non toccava a
lui fornirmi la verità» ma di certo provava una sorta di gratitudine per tutta
quella dedizione che il solitario capitano indirizzava verso quel pericolo
pubblico che aveva concepito.
Stiles incassò
malamente il colpo, rimpicciolendosi sotto gli occhi del genitore. «Vuoi
riportarmi a casa?».
«No» rispose
nettamente lo sceriffo di Beacon Hills, prendendo un sorso dalla sua birra che
andava scaldandosi. Avrebbe voluto scolarsi bottiglie intere. «Voglio il meglio
per te e se credi che stare qui lo sia, allora lo accetterò. Ma voglio
sincerità da parte tua, voglio essere informato dei progressi e dei regressi,
dei problemi che stai affrontando».
Le palpebre dello
studente di criminologia sbatterono varie volte, incredulo a ciò che udiva,
sollevato dalle parole del padre, ma captando anche delle anomalie insidiose.
«Credi ci siano dei problemi? Altri?».
«Stiles» scandì il
suo nome lettera per lettera, a sottolineare la solennità della voce, di ciò
che stava per essere detto, lo sguardo eloquente. «Sei innamorato di lui».
«Ah, quello» si
sentì svuotato tutto insieme, non sapeva se fosse una sensazione positiva o
meno, ma non aveva una grande voglia di affrontarla particolarmente. Quasi
scosse le spalle come se non fosse niente di importante. Tutta la faccenda non
lo era.
«Sì, quello» disse
lo sceriffo con tono marcato, a non dover distogliere l’attenzione, era
fondamentale con Stiles. Era fondamentale che capisse cosa significasse. Aveva
impresso indelebile sulle retine gli occhi persi e afflitti del ragazzo mentre
vedeva il capitano della squadra di basket allontanarsi da lui, gli spasmi alle
mani che avrebbero voluto rincorrerlo per coinvolgerlo ancora di più nella sua
vita. A formarne una sola.
«Non è un vero
problema» Stiles non l’aveva etichettato in nessun modo, ma di certo non lo riteneva
un problema.
«Lo sarà nel
momento in cui si metterà tra voi» gli fece una sintesi profetica il padre,
vedendo più lontano di lui.
«Perché dovrebbe?»
Stiles era piuttosto sordo sull’argomento. L’aveva ignorato nei mesi in cui era
affiorato dentro di sé, finché non era sbocciato completamente. Lo annientava come
suo padre ci avesse impiegato un paio di minuti per svelare l’arcano mentre
Stiles fatica ancora a dargli una forma concreta, a focalizzare un preciso
punto nel tempo.
«Sei dipendente da
lui» non voleva che suonasse in modo sinistro e con un retrogusto amaro, ma il
significato era comunque chiaro. «Con il tuo sonnambulismo, Derek è tutto
quello che ti impedisce di sprofondare. Probabilmente ha anche degli effetti
positivi su di te, ma se le cose tra voi si complicassero, cosa succederà?».
«Derek non mi
abbandonerebbe mai» Stiles aveva le prove di quello, di quante volte si fossero
urlati addosso e sputato le parole peggiori. Derek non si era tirato indietro,
aveva messo le loro disfunzionalità da parte e si era concentrato soltanto sul
bene dell’umano. «A prescindere da quante incomprensioni ci siano tra noi».
«È una cosa che
avete affrontato?» gli occhi blu dubbiosi non si lasciavano distrarre.
«Dio, no» il
diciannovenne scacciò le immagini di una settimana prima, quando un dubbio
atroce e malsano l’aveva investito. L’aveva messo da parte per non soccombere.
«Non ho alcuna intenzione di dirgli niente. Mai».
«Ha bisogno di
sentirselo dire?» non era un esperto di lupi mannari, ma aveva più o meno
inquadrato come funzionassero da quando Stiles era stato costretto a informarlo
su ogni avvenimento soprannaturale.
Stiles, con
orrore, vide il padre indicarsi il naso, chiaro riferimento all’olfatto iper
sviluppato dei licantropi. «Probabilmente no» purtroppo dovette concordare su
quell’aspetto odioso, ma era anche ciò che l’aveva tenuto in vita in quel primo
anno universitario. «Ma senza parole, non c’è conferma».
Lo sceriffo aveva
i suoi dubbi, ma non voleva infierire su ciò a cui suo figlio si aggrappava.
«Parlami di tutto, Stiles. Sempre. Qualsiasi cosa accadrà, di qualsiasi genere
ed entità. Sei tutto ciò che di più prezioso ho su questa terra».
E Stiles gli parlò
di tutto.
Raggiungere
la porta d’ingresso non fu per niente un’impresa di poco conto. Si trascinò per
le scale e fece scattare la serratura quasi con difficoltà, disfacendosi di
tutto quello che di extra aveva addosso in ogni angolo si ricordasse andassero
collocati.
Con
solo i calzini ai piedi si diresse verso la zona notte, trovando già parzialmente
seduto Derek sul letto con i pantaloni del pigiama, l’ennesimo libro a cui si
stava dedicando, sprofondando completamente e lasciandosi tutto ciò che lo
circondava distante da sé. «È andata così male?» ma per Stiles si ridestava
nell’immediato.
L’umano
restò impalato in mezzo alla stanza, gli occhi gli pizzicavano, ma non per la
ragione che il mannaro immaginava. «Sono stremato».
Le
iridi verdi si alzarono totalmente verso la direzione della matricola,
inserendo il segnalibro tra le pagine consultate e chiudendo il volume in un
tonfo secco, poggiandolo sul lato del materasso completamente vuoto.
Stiles
avrebbe voluto realmente piangere per quell’accortezza, ma ispirò fortemente
dal naso e con adagio, senza dare l’impressione che stesse scalpitando, si
avvicinò al padrone di casa, scalando il letto e circondandolo con le braccia,
affondando la testa contro il suo petto nudo e venendo accolto immediatamente.
Quant’era patetico.
«Adesso
hai bisogno di affetto» disse con ironia il capitano, quella bolla leggera che
smorzava la pesantezza che premeva sulle spalle dell’umano.
«Conforto»
lo corresse Stiles, evidenziando la differenza, e soffiando sull’epidermide
definita fintamente offeso dalla battuta.
Le
labbra di Derek si curvarono appena e le dita di una mano andarono ad
intrecciarsi ai capelli scompigliati ad arte dello studente del primo anno. «Hai
scelto proprio la persona giusta» l’ironia trapelò senza confini.
«Ti
sorprenderesti» gli era bastato toccare Derek ed entrare in contatto con il suo
calore per sentirsi liberato dall’agonia che l’affliggeva. Si sentiva
ricaricato, come se ne stesse traendo nutrimento, senza intaccare la sua fonte.
Le
falangi gli massaggiarono la nuca per diverso tempo nel silenzio confortevole
che si erano ritagliati. «Allora, com’è andata?».
«Bene»
dovette ammettere stridendo i denti. «Ho il papà migliore del mondo».
«Ah,
è quello il problema» Derek lo realizzò appena udì quelle parole, il profondo
senso di colpa con cui erano farcite.
Stiles
riemerse dalla nicchia in cui si era andato a nascondere, poggiando la testa
sulla spalla di Derek e ottenendo quelle gemme di smeraldo su di sé. «Mi fa
stare peggio» il cuore gli martellava nel petto e la testa girava in ogni
direzione. «Tutta quella comprensione quando sono consapevole di quanto sia in
difetto».
«Avresti
voluto una reazione diversa? Una più dura» avrebbe attenuato il radicale senso
di colpa che lo investiva in ogni centimetro, ma dubitava fosse quello che
avrebbe voluto.
«Non
lo so» lo rammaricava non avere una risposta. «Avrei trovato sbagliata
qualsiasi reazione» se ci fosse stata della rabbia da entrambe le parti l’avrebbe
fatto sentire meglio, ma suo padre non era quel tipo di uomo. «Non è stato per
niente facile affrontarlo, vedere tutta quella delusione e sapere di
meritarmela» riviveva ogni attimo dell’espressione e della profondità degli
occhi del padre, così vividi come se l’avesse ancora davanti. «È arrabbiato,
ovviamente, ma non ha urlato, non mi ha dato degli ultimatum. Non l’ha mai
fatto. Rispetta le mie scelte, anche se non le appoggia. Mi fa sentire un
pessimo figlio, più di quanto avessi preventivato».
«Mi
sono sentito anch’io così dopo Paige» proferì Derek con voce arrochita,
ritornando indietro con le memorie che non erano mai state cancellate. Al
contrario, quello stato si era insidiato ancora di più dopo l’incendio,
avvertiva il sangue di tutti i suoi familiari scorrergli tra le mani
esattamente com’era accaduto con la violoncellista. «Mia madre aveva una
visione diversa. I tuoi occhi sono sempre
bellissimi, furono le sue parole quando mi trovò con lei».
Era
evidente che Derek non la pensasse minimamente come sua madre, né allora né nei
suoi attuali ventuno anni. «Concordo con lei» l’aveva ripetuto spesso in quei
mesi, non aveva intenzione di fare marcia indietro.
Il
lupo gli soffiò sul viso appositamente, con un mezzo sorrisino convenevole. «Tu
non fai testo».
«Potrei
offendermi» l’umano si imbronciò immancabilmente, le labbra sporgenti. «La mia
opinione vale così poco?».
«Non
intendevo questo» ribatté il lupo senza che quello sguardo da cucciolo
bastonato avesse effetto su di sé.
E cosa intendevi? «Com’era lei, tua
madre?» era una domanda che gli era costantemente rimbombata nella testa. Non
conosceva praticamente nulla di Talia Hale. Laura la decantava, come una figlia
orgogliosa e orfana poteva fare, ma dalla parte di Derek non aveva mai sentito
granché.
«Mh» il mannaro si fece meditativo, quasi cercando nelle
iridi del nettare degli dei la risposta giusta. «Magnanima, ispiratrice.
Un’ottima oratrice».
«Ah,
non puoi essere suo figlio. Sei tremendo in questo» lo sbeffeggiò con ironia
addolcita la matricola, ricevendo un’occhiata gelata dal suo interlocutore.
Rise senza vergogna. «Parli di lei come di una leader, non come madre».
«Principalmente
era quello in quasi tutte le dinamiche: una guida» lo era stata per tutti
quelli che l’avevano incontrata sul loro cammino, abbagliati e ammaliati. Derek
stesso l’aveva sempre guardata con quegli occhi. «Era una buona madre, ma prima
di tutto era un’Alpha. Affrontava tutto con quel ruolo, perché era nata per
incarnarlo».
Che
tipo di infanzia era stata quella di Derek? Tanta filosofia altruistica e
regole vigili da seguire? Tenere unito il branco e quelli a cui erano
affiliati. «Anche le questioni familiari?».
«Sì»
confermò Derek senza giri di parole o ripensamenti. Poi un paio di dita presero
a dispiegare le pieghe che si erano formate sulla fronte di Stiles,
nell’abitudine che aveva cominciato a sviluppare da quando si erano incontrati
in quei primi giorni di università. «Non crucciarti. Era una madre presente».
Stiles
aveva cominciato ad avere dei dubbi in proposito negli anni, c’erano troppe
falle nei racconti di Derek e spesso anche in quelli di Laura. Derek era stato
istruito e seguito da Peter, il fratello della madre, e trascorrevano la
maggior parte del tempo insieme. Spesso si chiedeva chi avesse realmente
cresciuto il lupo completo, ma non voleva addentrarsi in un discorso tanto
complicato e complesso che avrebbe scatenato delle divergenze e malumori. «Di
certo ti ha insegnato ad essere un ottimo lupo».
C’era
una nota spinosa nella voce controllata del figlio dello sceriffo. Derek non
doveva volare troppo con la fantasia per comprenderla. «Ma una persona
tremenda».
«Sei
una persona meravigliosa» dissentì Stiles con convinzione, il tono carico di
affetto. Derek era chiuso e borioso, spesso spaccone ed a volte risultava un
po’ troppo viziato, ma, contro ogni aspettativa, provava un’empatia
ineguagliabile. Conosceva e comprendeva ogni emozione umana, sapeva esattamente
come corrisponderla. Forse in modo un po’ impacciato e artificioso, ma perché
mancava di praticità.
Derek
rimase in silenzio per qualche attimo prolungato, scandagliando ogni centimetro
del viso dell’essere umano. «Sei l’unico a pensarlo».
C’era
tanto di Derek in quell’affermazione così radicata. «Allora resterò nella tua
vita finché non lo penserai anche tu».
Un
pollice gli accarezzò un sopracciglio, mentre il resto della mano si chiudeva
intorno all’orecchio, solleticandolo lievemente. «Resterai davvero?».
«Sì»
non aveva intenzione di andare da nessuna parte, avrebbe combattuto con i denti
per evitare che la situazione cambiasse. «Abbiamo parlato tanto io e mio padre.
Ha voluto sapere tutto».
«Tutto?»
indagò il licantropo con un’attenzione particolare.
«Tutto»
più di quanto Stiles avesse mai voluto ammettere con qualcuno. Perfino con se stesso. Si era sentito esposto, ma suo padre non l’aveva
giudicato, era soltanto impensierito. «Sono sfinito».
«Qualcosa
ci riesce» la battuta partì in automatico e Derek rise sonoramente.
Stiles
lo spintonò senza scuoterlo minimamente e non riuscendo nemmeno a sgretolare la
presa che avevano l’uno sull’altro. Non che ne avesse alcuna intenzione. «Te ne
farò pentire».
Il
capitano ridacchiò non temendo la minaccia, accostando la fronte contro la sua
e annullando completamente la lieve distanza che intervallava tra loro. «Sì» voglio proprio vedere.
Quant’era
scorretto. E quanto era pazzo di Derek. Tutta quella situazione era altamente
sconveniente, eppure si godette quel lunghissimo momento fino all’ultimo
secondo. «Vorrei togliermi l’intera giornata di dosso».
«E
cosa te lo impedisce?» lo interrogò la creatura della notte incuriosita.
«Non
ho più energie nemmeno per trascinarmi dentro la vasca» ah, che sogno concedersi una lunga doccia per potersi restaurare.
Tornare nuovo. «E sto cadendo in uno stato di sonnolenza. Sprigioni troppo
calore, è rasserenante».
«Affermò
il ragazzo in cerca di conforto» recitò con diletto il
mutaforma, lambendogli il lobo dell’orecchio con le falangi. «Basterebbe
allontanarti».
Stiles
mugugnò contrariato, arricciando le labbra. «Non è trattabile. Potrei non
muovermi mai più per questa notte».
«Non
ho niente da obiettare» se Stiles voleva addormentarsi completamente
spaparanzato addosso a lui, intrecciati in mille modi, Derek non avrebbe
dissentito.
Se
quel bellissimo lupo inchiostrato di nero voleva ucciderlo, ci stava riuscendo
meravigliosamente bene. «Sono combattuto. Voglio il mio pigiama».
«Stai
diventando piagnucoloso» era divertente. Molto.
Stiles
gli soffiò risentito e Derek ne rise soltanto. «Okay» l’umano non capì
minimamente quell’uscita, finché il capitano non lo prese di peso scatenandogli
degli urletti per niente virili e carici di sbalordimenti, completamente
confusi, mentre riusciva a intravedere con la visione periferica afferrare il
decantato pigiama sotto il cuscino, mettendosi immediatamente dopo in piedi e
procedendo verso il bagno.
«Che
stai facendo?» la singolarità della situazione tolse il fiato al figlio dello
sceriffo, aggrappandosi istintivamente a lui.
«Risolvo
la situazione» comunicò senza cerimonie, aprendo e varcando la porta del bagno,
accendendo la luce e adagiando Stiles all’interno della vasca vuota.
La
matricola lo fissò confusa, prendendo lentamente coscienza di dove si trovasse.
«Vuoi unirti a me?».
«Non
mi tentare» quell’affermazione scatenò qualcosa di incontenibile dentro Stiles,
non sapeva affatto come nasconderlo. «Potrei affogarti» disse Derek con
scherno, facendo scorrere a tradimento l’acqua dal soffione.
Era
gelata. Ci avrebbe messo qualche secondo ad essere sostituita da quella
riscaldata dallo scaldabagno. Stiles si trovò fradicio in un attimo con ancora
tutti i vestiti addosso. Si era decisamente svegliato. «Sei spregevole».
La
bocca del mannaro si tramutò in un sogghigno, allontanandosi quando bastava e
appendendo i due pezzi del pigiama nei pochi ganci presenti sul muro dietro la
porta. «Ti aspetto» sparì chiudendosela alle spalle.
Incattivito
Stiles puntò per qualche secondo lo sguardo nell’angolo in cui il mannaro era
sparito, l’acqua intiepidita continuava a scorrere, bagnando maggiormente gli
abiti. Digrignando i denti si apprestò a togliersi indumento su indumento,
stando attento a non scivolare nella vasca e dover anche essere soccorso da
quell’infame scorretto. Dovette anche disfarsi dei calzini. Gettò tutto sul
pavimento non avendo alcuna intenzione di volersene occupare successivamente,
Derek doveva cominciare ad affrontare le conseguenze delle sue azioni.
Tirando
la tenda doccia, registrò che anche i capelli fossero ormai fradici,
costringendolo ad occuparsi anche di quelli. Si concesse, con rassegnazione,
una lunga lavata restauratrice, cancellando dalla pelle ogni attimo della
giornata che stava andando a concludersi.
Quando
uscì dal bagno, asciutto, stretto nel suo pigiama e profumato, Derek era
nuovamente sul letto immerso nella lettura, come se non fosse stato strappato a
quella pratica soltanto mezzora prima. Stiles non lo degnò di alcuno sguardo
quando salì sul materasso per raggiungere il proprio cuscino, infilandosi sotto
le lenzuola di flanella quasi non esistesse un secondo occupante.
«Sei
più contento?» lo punzecchiò il capitano della squadra di basket, sfogliando
una nuova pagina.
Il
frusciò entrò dentro il timpano e l’umano si avvolse maggiormente nel suo
involucro protettivo, dandogli irreprensibile la schiena, facendo il sostenuto.
Dal
silenzio dietro di sé, i movimenti pacati, quasi riusciva a sentire Derek
sorridere, l’avvertiva nell’aria senza aver bisogno di vederlo o sbirciarlo;
era una cosa che lo faceva infuriare, ma allo stesso tempo gli riempiva il
petto.
Alla
sua mancata risposta, la luce del paralume fu spenta, il libro posato sul
comodino e le coperte si mossero per accogliere il loro padrone. «Mi terrai il
muso ancora a lungo?».
Il
lupo glielo sussurrò direttamente sull’epidermide, arrivandogli alle spalle
senza produrre un solo suono. Tutto in Stiles vibrò. «Non ci parlo con te».
Derek
rise nel suo orecchio, le labbra che lo lambivano con maestria e un braccio gli
circondò il torace, facendolo aderire a lui. Se quelle erano le razioni che
suscitava nel mannaro, Stiles era disposto a rendersi ridicolo tutta la vita.
«Era quello che volevi».
«Potevi
essere più delicato» ribatté offesa la matricola, arrancando a rimanergli
immune.
«La
delicatezza non è qualcosa che mi appartiene» c’era una punta di ironia e
amarezza nella voce, eppure, in contraddizione, gli depositò un bacio
invisibile dietro il padiglione auricolare.
«Non
è vero» gli andrò contro Stiles, voltando scomodamente la testa nella sua
direzione, finché dovete cedere e far roteare leggermente tutto il corpo. «Sai
essere molto delicato, quando lo ritieni opportuno».
Derek
meditò a quell’affermazione, scrutando il volto perentorio della volpe
infuocata. «Forse, se si tratta di te».
Stiles
non era sicuro di essere pronto ad interpretare correttamente
quell’affermazione. «Mi ritieni così fragile?».
«Non
è questione di fragilità» smentì le paranoie combattive dell’umano ancora prima
che la scintilla si scatenasse. «Non voglio toccarti in un modo diverso».
Il
lupo gli accarezzò una tempia con la punta delle dita ed a Stiles parve
l’espediente più esplicito per far intendere quale fosse la maniera che
riteneva più opportuna; in realtà era solo la propensione di Derek di toccarlo
in ogni occasione possibile, senza nessun significato aggiuntivo. «Non posso
affrontare sia mio padre sia te nella stessa giornata» si sentiva sopraffatto,
stava cedendo.
Le
sopracciglia del licantropo si aggrottarono, le pupille saettavano da una parte
all’altra sul viso di Stiles. «Cosa c’è da affrontare?».
Stiles
soffiò dispettosamente e significativamente sul viso di Derek, ritornando nella
posizione iniziare e sprofondando nel cuscino, mettendo un punto a quelle
interminabili ore.
Derek
rimase ancora per qualche minuto ad osservarlo dall’alto della sua posizione,
le palpebre serrate e il solo desiderio di essere accolto nel regno di Morfeo.
Decise
di lasciar perdere, rioccupando la precedente postazione, assestandosi seguendo
tutta la lunghezza della matricola, affondando il viso nel suo orecchio. Stiles
si mosse quasi di riflesso, per andargli incontro e il
mutaforma accentuò la stretta con cui avvolgeva il suo corpo.
Stiles
si domandò se, con la pesantezza degli eventi recenti, anche quella notte
sarebbe stato tormentato dagli incubi che si tramutavano in sonnambulismo,
rendendoli concreti o se l’ancorato caldo abbraccio di Derek li avrebbe
scacciati una volta per tutte. Almeno per una volta.