Phenomenology of a Kidou (o, gli anni formativi in casa Kidou)

di Yssis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un bravo figlio ***
Capitolo 2: *** Scaccomatto ***
Capitolo 3: *** Capitano ***
Capitolo 4: *** 14 aprile ***
Capitolo 5: *** Una mamma ***
Capitolo 6: *** Genou ***
Capitolo 7: *** America ***
Capitolo 8: *** La cotta ***
Capitolo 9: *** Imoto ***
Capitolo 10: *** Trio ***
Capitolo 11: *** Requiem ***
Capitolo 12: *** Nuovi inizi ***



Capitolo 1
*** Un bravo figlio ***


Tutti conoscono il grande Kidou Yuuto, abile calciatore e gamemarker della Teikoku Gakuen, eccellente stratega, vincitore di numerose competizioni giovanili. Fra i membri dell’alta società è conosciuto come un ragazzo educato, obbediente, rispettoso dell’autorità, ma socievole, disinibito, vivace conversatore, veloce nel pensiero e dedito agli impegni scolastici. Una persona brillante, per nulla timida, fiera e disinvolta, che sa dare ordini e sa quando chinare il capo: un figlio modello, di cui essere orgogliosi, un erede impeccabile per la grande e prospera attività di famiglia condotta da generazioni prima di lui.

Nessuno, conoscendolo, dubiterebbe delle sue attitudini caratteriali, perfettamente in linea con le aspettative riposte in lui. Nessuno penserebbe che non sia un Kidou fatto e finito: tuttavia non è sempre stato così. Yuuto in particolare non ha sempre avuto la certezza di potersi definire a tutti gli effetti un membro della famiglia e godere di quella tranquillità tipica di chi sa da dove viene e qual è il suo posto. Nel corso degli anni ha dovuto continuamente dimostrare di essere all’altezza della scelta che era stata fatta, di accoglierlo in famiglia e di educarlo come erede, ha dovuto costantemente confermare quell’aspettativa, che ha sempre pesato sulla sua testa come una minaccia, più che come un conforto e una tutela. A volte, in effetti, dubita ancora adesso e nel silenzio della propria camera, svegliandosi con il batticuore, ha paura di venir diseredato a causa di qualche sua mancanza. Futili motivi, ma se è in gioco la propria vita, anche il più futile dei motivi assume di colpo un’importanza decisiva.

Era categorico vincere, era prioritario primeggiare, per poter confermare la sua presenza in quella casa. L’ossessione per la vittoria, l’ambizione all’eccellenza, furono pensieri che si introdussero nella sua mente di bambino molto presto, sin da quando dall’orfanotrofio si trasferì nella residenza dei Kidou. Si rese conto ben presto delle aspettative riposte in lui, del significato strategico ed egoista della sua adozione. Suo padre, il signor Kidou, doveva sfoggiare quel figlio che non aveva mai avuto e di cui aveva, quasi politicamente, bisogno. L’unico che davvero aveva a cuore il suo futuro e si interessava a lui era il signor Kageyama. Era stato lui a raccomandarlo ai Kidou e a insistere perché venisse iscritto alla scuola di cui era dirigente. Yuuto adorava il signor Kageyama, quell’uomo si era interessato a lui guardandolo giocare e fin da subito gli aveva fatto molti complimenti. A Yuuto piaceva giocare a calcio e Kageyama lo incoraggiava a fare ciò che gli piaceva, non come suo padre, che pretendeva che facesse cose che Yuuto non conosceva e in cui non era molto abile. Anzi, Kageyama lo aiutava a rispondere positivamente alle aspettative che i Kidou riponevano in lui, gli dava dritte di ogni tipo, dagli allenamenti per migliorare la calligrafia agli ammonimenti di buona educazione a tavola. Kageyama era un vincente e Yuuto aveva bisogno di diventare proprio come lui, così suo padre sarebbe stato fiero di lui e non l’avrebbe riportato in orfanotrofio: doveva diventare grande, potente, intelligente e sapere tante cose, proprio come il signor Kageyama. Seguendo il suo esempio e le sue indicazioni, ci sarebbe senz’altro riuscito.

I primi tempi a scuola non erano stati per niente semplici per lui. Tutti i bambini in quell’aula già si conoscevano fra loro e Yuuto veniva guardato male, sistematicamente escluso. Di suo non era mai stato molto abile a socializzare, in orfanotrofio aveva sua sorella da proteggere e aveva sempre avuto attorno bambini che erano una minaccia, dei veri nemici: competitori agguerriti, nell’infausto e miserevole compito di corteggiare i visitatori dell’orfanotrofio, di rendersi piacenti agli occhi di potenziali nuovi genitori. Yuuto non era abituato a non temere sgambetti e cattiverie, non era familiare all’idea di fare amicizia, di socializzare con altri bambini; d’altro canto, i suoi compagni alla Teikoku erano figli di famiglie abbienti, di natura sospettosi e ostili verso chi proviene dall’esterno della loro ristretta cerchia di conoscenze. Passava il suo tempo chino sul banco, obbediente dei regolamenti affissi alle pareti, e tornava subito a casa dopo le lezioni; se suo padre era impegnato a lavoro, Yuuto passava in presidenza le ore del doposcuola, seduto su un banchetto che Kageyama aveva provveduto a sistemare per lui, in un angolo dove non desse fastidio a potenziali visitatori del suo ufficio. Silenzioso, svolgeva i compiti assegnati dai vari docenti ed era Kageyama che ogni tanto andava a controllare se stesse bene: l’aveva beccato un paio di volte a fare dei disegni per sua sorella, che aveva prontamente provveduto a far sparire, e altre volte a riprodurre su carta gli schemi di gioco delle partite viste in televisione. Il preside non faceva mistero della fascinazione che provava per questa innata propensione di Yuuto e faceva sì che la sviluppasse il più possibile, proponendogli situazioni di gioco a cui doveva controbattere con strategie vincenti. Per il giovane Kidou era un gioco, per Kageyama un vero investimento.

Erano passati solo alcuni mesi dal suo ingresso in quel nuovo mondo, quando a scuola vennero consegnati dei moduli da compilare inerenti alcune attività formative extracurriculari. La maggioranza dei suoi compagni, già informata di questo, compilò il foglio e lo consegnò direttamente al coordinatore di classe. Anche a Kidou era stato detto che in quei giorni avrebbe dovuto compilare certi documenti per le attività scolastiche e avrebbe voluto comportarsi esattamente come gli altri suoi compagni di classe. Disgraziatamente si accorse che, fra i campi da compilare, era presente anche la dicitura dell’indirizzo di residenza, che lui proprio non riusciva a ricordare. Sicuramente gliel’avevano detto, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a portare alla mente quell’informazione. Così chiese il permesso al docente di portare a casa il modulo e consegnarlo l’indomani mattina, permesso che gli venne concesso. Yuuto era tranquillo: nel doposcuola l’avrebbe domandato al signor Kageyama, per evitare di fare una brutta figura con suo padre, e avrebbe così risolto il proprio problema. Malauguratamente realizzò che Kageyama era impegnato in alcune riunioni importanti e non poteva tenerlo in presidenza con sé quel pomeriggio: il suo autista lo venne a prendere sotto scuola e lo portò a casa.

Yuuto a quel punto era molto agitato: suo padre sarebbe rientrato da un momento all’altro e gli sembrava parecchio inappropriato chiedergli quale fosse l’indirizzo della casa dove abitava ormai da tante settimane. Ci pensò su, aveva urgentemente bisogno di trovare una soluzione, i documenti andavano consegnati l’indomani mattina e Kageyama era irreperibile. D’altro canto, non poteva uscire di casa per controllare il nome della via e il numero civico, sarebbe stato davvero sconveniente da parte sua. Come un’illuminazione, lo colse un pensiero: nel documento di identità era riportato l’indirizzo di residenza. Poteva leggerlo e copiarlo da lì, bastava solo recuperare il documento, il proprio o quello del padre. Entrambi erano conservati nel portafoglio di suo padre. Contento di aver trovato una soluzione, Yuuto non perse altro tempo: così venne colto con le mani nel portafoglio dal signor Kidou, che rimase pietrificato sul posto.

Chissà cosa passò per la testa dell’uomo in quel momento: non lo disse mai a suo figlio, né tantomeno raccontò l’incidente a qualcuno nei giorni seguenti. Era fonte di imbarazzo sociale avere in casa un bambino così poco educato da rovistare nel portafoglio di un adulto senza permesso. Forse si pentì di aver seguito il suggerimento di Kageyama, accogliendo in casa un orfano sconosciuto: forse, seguendo un inconscio pregiudizio dissacrante nei confronti dei più sfortunati, si chiese che razza di sangue di ladro e criminale avesse quel bambino nelle vene. Forse valutò seriamente l’ipotesi di cacciarlo di casa, in modo da evitare altri incidenti di quel tipo. Forse, più semplicemente, non sapendo cosa pensare, si lasciò solo prendere dall’ira e dalla delusione.

Ciò che accadde fu che richiamò Yuuto vicino a sé e, quando lo ebbe a portata di mano, gli afferrò il portafoglio e lo strattonò bruscamente. Gli occhi grandi del bambino erano ricolmi di spavento e mortificazione per essere stato beccato in flagrante: non aveva mai visto suo padre arrabbiarsi e non avrebbe mai voluto vederlo. Venne ricacciato in camera sua, Yuuto si precipitò su dalle scale come fosse inseguito.

La sua mente correva a mille all’ora, rincorsa dal panico. A che prezzo aveva pagato la lettura di quell’indirizzo, in che razza di guaio si era cacciato! Era stato così attento in tutti quei mesi, si era impegnato tantissimo, seguendo alla perfezione tutte le istruzioni che aveva ricevuto e facendo sì che suo padre venisse sempre lodato per la sua accurata scelta, dai docenti a scuola ai conoscenti, dai colleghi ai vicini di casa… Ora si vergognava tantissimo del suo avventato comportamento e temeva le conseguenze di quella rabbia che aveva letto negli occhi del genitore adottivo. Se avesse cambiato idea e l’avesse riportato all’orfanotrofio? Avrebbe rivisto Haruna e ne sarebbe stato contentissimo, ma era estremamente difficile già di per sé trovare una famiglia adottiva, se fosse stato riportato indietro per maleducazione e negligenza nei confronti dei doveri familiari, nessuna famiglia l’avrebbe voluto con sé una seconda volta. Sarebbe rimasto completamente solo e senza risorse, non avrebbe più avuto nessuna speranza di rivedere sua sorella e avrebbe passato seri guai anche dentro l’orfanotrofio.

Provava infinita vergogna e temeva già di dover abbandonare la sua stanza: con orrore, guardandosi attorno, realizzò che, se l’avessero riportato indietro, non avrebbe potuto portare con sé niente di quelle che definiva le sue cose. Tutto quello che era presente in quella camera, dal suo peluche di cucciolo di pinguino dalle ali super morbide alle scarpe sportive, dai quaderni di scuola al letto tutto per sé, erano cose che gli avevano dato con l’adozione e che potevano togliergli insieme al nome. Spaventatissimo, pieno di sgomento, si rannicchiò nel letto, stringendo a sé il peluche. Dopo un tempo che non riuscì in nessun modo a quantificare, sentì la porta della sua camera aprirsi e balzò subito a sedere, gli occhi sbarrati e piccoli dal terrore. Non era il signor Kidou, come aveva temuto, bensì Kageyama. Si vergognava molto di quello che aveva fatto e il pensiero che il signor Kageyama ne fosse già informato non gli rendeva la situazione più semplice da gestire.

-Kidou.–, lo chiamò subito l’adulto, procedendo nella direzione del suo letto. Yuuto tremò sentendolo appellarsi a lui ancora con quel nome, non sapendo come interpretare il fatto. Sgusciò giù dal letto tenendo gli occhi bassi, pieno di mortificazione. Cercò di parlare, di dire qualcosa, ma sentiva un nodo stretto alla gola e gli occhi bruciare: riuscì solo a sussurrare il nome di Kageyama in modo strizzato e patetico, così prossimo al pianto da risultare quasi incomprensibile. Lo sguardo del suo allenatore era rigido e fermo su di lui, attraverso quelle lenti scure sembrava scrutargli l’anima, senza giudicarlo neanche meritevole di uno sguardo diretto.

-Dopo tutta la fiducia che ho riposto in te, dopo tutto quello che tuo padre ti ha offerto, così ti comporti? Tuo padre se lo merita?-

In preda a puro terrore il bambino scoppiò a piangere, singhiozzando confusamente delle scuse. Le parole di Kageyama avevano smosso quella stretta che sentiva in fondo alla gola e non era più riuscito a contenere il pianto. Kageyama lo ammonì duramente di non piangere: -Peggiora solo la tua condizione, già critica. Smettila immediatamente.-

Yuuto si sentì ancora più mortificato e patetico. Il suo protettore, la persona che per prima aveva scommesso su di lui, che aveva visto qualcosa in lui meritevole di un futuro, ora gli parlava con tanta durezza da fargli paura. Ingoiò i singhiozzi, obbedendo, completamente preso dal panico e bisognoso che gli dicesse come comportarsi. Kageyama rimase a guardarlo, senza commentare i patetici tentativi del bambino di calmarsi, mentre i singhiozzi gli mozzavano il respiro e lo facevano sussultare. Asciugandosi il viso con il palmo della mano, Yuuto chiese con voce rotta se suo padre aveva intenzione di riportarlo in orfanotrofio. Kageyama lesse il terrore in quello sguardo vermiglio brillante e umido di pianto: era evidente che il bambino temesse quell’eventualità più di ogni altra. La peggior punizione non era il sequestro di un gioco o il divieto di svolgere una qualsiasi attività ludica: quelle erano punizioni frequenti e comuni per i bambini. Ma Yuuto era diverso, lui temeva che venisse messo in discussione qualcosa di molto più importante… Il suo timore era fondato. A qualsiasi altro bambino non sarebbe mai venuto un simile dubbio, mentre nel giovane Kidou il terrore dell’abbandono era un seme che era già germogliato. Si trattava solo di fertilizzare con cura il terreno. 

-Ho parlato con tuo padre, è molto arrabbiato, ma posso convincerlo a far sì che continui a tenerti con sé.– fece una pausa, notando come il bambino alzasse subito lo sguardo su di lui, pieno di ammirazione e rispetto. La sua potenza esercitava sul piccolo un fascino non indifferente e ne era consapevole –Però devi dirmi per quale motivo hai preso il portafoglio di tuo padre senza permesso.-

Yuuto si sentì trafiggere sul posto e arretrò appena. Fortemente a disagio abbassò lo sguardo, tenendo le labbra serrate. Si vergognava del ragionamento impulsivo che aveva fatto e soprattutto si imbarazzava ad ammettere di non ricordarsi l’indirizzo di casa, motivo scatenante di tutto quel disastro. Notando come il bambino rimanesse in silenzio, Kageyama si adirò, considerandolo un atteggiamento di sfida totalmente sconsiderato, vista la situazione in cui si ritrovava. Alzando la voce, gli si rivolse in modo brusco: -Complimenti, Kidou! Se il tuo obiettivo è rimanere di nuovo senza famiglia e smettere di seguire le lezioni a scuola, ti stai proprio comportando in maniera impeccabile.-

Yuuto scoppiò nuovamente a piangere, spaventato dal tono di voce alto e rabbioso dell’adulto di fronte a lui. Kageyama sentì salirgli i nervi a fior di pelle, gli scoppi emotivi di quel bambino erano totalmente ingestibili per lui e immotivati, dal suo punto di vista. Doveva agire in maniera più razionale e comportarsi in modo tale da meritare il perdono, non piagnucolare come un perdente. "Solo i perdenti piangono e vengono umiliati e disprezzati", per Yuuto aveva scelto un futuro diverso. La sorte l’aveva reso orfano molto giovane, impedendogli di vivere la frustrazione di essere figlio di un atleta fallito, il quale aveva dovuto abbandonare le competizioni internazionali a causa di un infortunio, che gli era costato la carriera e la reputazione. Dove altri avevano visto una grande sfortuna, Kageyama aveva visto una salvezza, addirittura una benedizione: Yuuto avrebbe potuto sviluppare le sue doti calcistiche senza l’ombra del fallimento paterno, avrebbe potuto vincere e avrebbe vinto sempre. Per farlo doveva essere un Kidou, la sua famiglia gli garantiva la sicurezza economica e sociale necessaria per dedicarsi a tempo pieno allo sport per cui era molto portato. Avrebbe fatto di quel bimbetto timido e impacciato un atleta vincente: certo non avrebbe permesso ad uno stupido incidente di rovinare il futuro che aveva scelto per lui.

-Kidou, io mi fido di te.– attirò la sua attenzione, facendosi più vicino a lui, senza chinarsi. - So che sei un bravo bambino, obbediente, intelligente, non faresti mai qualcosa di così stupido senza un motivo.- Yuuto ingoiò di nuovo un singhiozzo, annuendo con il volto paonazzo e strofinandosi gli occhi, per smettere il più velocemente possibile di piangere. Kageyama continuò: -A me puoi parlare, dimmi cos’è successo. Poi una soluzione con il tuo papà la troviamo.-

Il piccolo Kidou annuì ancora, rassicurato dal tuo tono di voce, molto più calmo e controllato adesso. Il signor Kageyama era davvero buono con lui, lo teneva in grande considerazione e lo aiutava anche quando avrebbe potuto ignorarlo. Fidandosi di lui sarebbe sempre stato al sicuro, tutto in lui era grande e forte, poteva proteggerlo dai suoi stessi errori e aiutarlo a non compierli più. Con un sussurro cominciò a raccontare quello che era successo a scuola, gli mostrò il documento che teneva in tasca e gli spiegò i suoi ragionamenti e i suoi timori, che l’avevano portato ad agire in quella maniera sconsiderata. Kageyama si accorse di quanto si vergognasse, ma la sua attenzione venne catturata soprattutto dalla fragilità che mostrava il bambino in quel momento: era decisamente terrorizzato all’idea di deludere il proprio genitore mostrando una mancanza, un difetto. Questa consapevolezza gli procurò un lieve bruciore all’altezza dello stomaco e un’indistinta sensazione di soddisfazione e potenza. Senza commentare in alcun modo la confessione o proporgli rassicurazioni di qualche tipo, lasciò la stanza. Il bambino, scosso e disorientato, si ritrovò di nuovo da solo e tornò istintivamente sul letto ad abbracciare il proprio peluche, con il cuore che gli batteva violentemente nel petto.

Dopo un altro tempo che parve infinito e brevissimo al contempo, Yuuto sentì di nuovo la porta aprirsi e questa volta Kageyama era in compagnia di suo padre. Saltò giù dal letto, lasciando a malincuore il pinguino sulle coperte, e tenne lo sguardo in alto, non sapendo chi dei due guardare. Kageyama era imperscrutabile come suo solito, il signor Kidou era molto serioso, a Yuuto faceva ancora paura.

-Se quello che dice il signor Kageyama è vero, non solo hai fatto una cosa molto grave, ma sei stato anche molto sciocco.-

Umiliato, Yuuto barcollò, sentendo il petto gonfio di mortificazione. Il tempo che aveva passato da solo gli era servito per calmarsi e recuperare un tono di voce più fermo, nonostante lo spavento: pronunciò chiaramente parole di scuse, assicurando che non voleva in nessun modo deluderlo e che non avrebbe mai più fatto qualcosa di simile.

-Quanti soldi ci sono nel portafoglio?–

Arrivò secca e diretta, come domanda, da parte di suo padre. Yuuto inclinò per un momento il capo, colto di sorpresa. Era stato interrotto nelle sue scuse per un’interrogazione del genere? Non aveva guardato nel portafoglio per prendere i soldi, assicurò ancora, con un tono di voce leggermente più basso, non aveva idea di quanto denaro potesse esserci. Era la verità, non aveva affatto pensato ai soldi, sapeva che gli bastava chiedere e subito si provvedeva ai suoi bisogni. Perché avrebbe dovuto derubare suo padre? Ma le sue argomentazioni caddero nel vuoto: il signor Kidou, prima di commentare in qualsiasi modo, rivolse lo sguardo a Kageyama, quest’ultimo rimase con lo sguardo fisso rivolto sul bambino. Piegò lievemente un angolo delle labbra, Yuuto avvertì l’incoraggiamento: “So che sai fare di meglio. Sii un vincente, spiegami perché dovrei fidarmi”.

Allora il giovane Kidou strizzò un poco gli occhi, cercando di riflettere velocemente. Si sentiva sotto esame, era probabile che la sua risposta a quella domanda avrebbe condizionato in maniera significativa la decisione di suo padre di tenerlo con sé o di rispedirlo in orfanotrofio. Kageyama si fidava di lui e gli aveva dato la possibilità di dimostrare a suo padre che valeva. Ora non poteva sbagliare. Si concentrò, cercando di ricordare le occasioni in cui in sua presenza suo padre aveva completato un acquisto. Facendosi forza e scommettendo tutto su quella possibilità, proferì con tono di voce più alto e sicuro di sé.

-Non ho preso il portafoglio per sottrarti dei soldi, papà, non ho neanche guardato. Ma quando siamo in giro a fare acquisti paghi sempre con la carta di credito e l’altro giorno con il signor Igorashi hai commentato la notizia di alcuni furti nel quartiere vicino, criticando la scelta di certe famiglie di tenere tanto contante in casa. Per cui, a ben pensarci, non credo affatto che ci sia denaro in quel portafoglio.-

Il signor Kidou si illuminò sentendo la risposta del figlio, ne parve molto rassicurato. Confermò la versione di Yuuto e, facendosi più vicino, gli disse che poteva non pensarci più, però la prossima volta che aveva bisogno di qualcosa, doveva chiedere a lui, al personale di casa o al signor Kageyama, senza agire di testa propria, perché “certe avventatezze possono essere molto compromettenti e sconvenienti”.

Yuuto chiese ancora scusa, chinando più volte il capo come gli era stato insegnato, e promise di comportarsi meglio in futuro. Mentre parlavano così, Kageyama lasciò la stanza: prima di ritirarsi, depose sulla scrivania all’angolo il modulo compilato con tutti i dati che Yuuto aveva lasciato in bianco.

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Salve a tutti <3
Per chi avesse seguito la prima parte della serie (Come un sogno d'amore preadolescenziale può avverarsi), ben ritrovati. Qui troverete un po' di approfondimenti sull'infanzia di Yuuto, che sono stati o saranno sviluppati in futuro.
Per chi fosse arrivato adesso, niente paura, si può leggere in modo perfettamente indipendente!
Non posso garantire gioia per Kidou, ma cercherò di fare in modo che la lettura sia divertente quantomeno per voi.
Grazie a chiunque legga e a presto :)

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Capitolo 2
*** Scaccomatto ***


Kidou Honzo sapeva di non essere una persona particolarmente intelligente.

Era dotato nella media, non aveva nessuna predilezione specifica per un ambito di studio, né passioni che gli infiammassero particolarmente l’animo. Non aveva un aspetto distintamente pericoloso o ingannevole, la sua faccia non metteva a disagio le persone né le intimoriva: sembrava un ragazzo piuttosto tranquillo, per non dire inoffensivo. Aveva un modo bonario di porsi e una parlantina sciolta, amichevole. Rideva di pancia e amava i pettegolezzi.

In realtà, aveva una dote di cui era estremamente consapevole e che imparò ad usare a proprio vantaggio sin da giovanissimo: aveva avuto sempre molto occhio per i dettagli e ancora di più per le persone.

Il suo modo di porsi, molto mite, gli permetteva di allacciare legami con persone dai più svariati caratteri, attitudini e interessi: così si informava sulle tendenze del momento, rimaneva aggiornato su cosa succedeva a scuola, nel suo quartiere, e da più grande in città, senza mettersi mai di traverso a nessuno e avendo la simpatia di tutti. Già durante le scuole medie e superiori affinò queste doti sociali, che gli permisero di arrivare, durante gli anni dell’università, ad essere una delle persone più popolari e influenti fra i suoi coetanei: era invitato a qualunque festa contasse, conosceva tutti e aveva qualche aneddoto spicy o sconvolgente su chiunque. A vent’anni aveva già la stoffa di uno che avrebbe fatto successo nella vita, era unanimemente riconosciuto che, sotto quei baffetti scuri – vezzo dell’età –, si celasse un sorriso di chi ha in mano il mondo e sa già come vuole ribaltarlo. A suo padre, persona stimata e conosciuta, i conoscenti e colleghi dicevano che sapeva il fatto suo, non c’era di che preoccuparsi.

Eppure, Honzo un poco si preoccupava: sapeva di avere il posto nell’azienda di suo padre, quando si sarebbe ritirato ne sarebbe diventato il direttore, per cui era necessario che concludesse i suoi studi e basta, non doveva per forza ambire ad essere il primo della sua classe in tutti i corsi. Tuttavia, quell’anno c’era una novità fra i banchi delle aule universitarie, un elemento anomalo che destava la sua curiosità e presto attirò la sua attenzione. Si chiamava Kageyama Reiji e per Kidou era un enigma non di poco conto… Nessuno sapeva chi fosse, da dove venisse, non aveva frequentato istituti della zona, sembrava essere spuntato dal nulla… Eppure, doveva essere ricco, per potersi permettere la loro retta.  Ed era bravo, incredibilmente bravo. Troppo bravo, rischiava di farlo sfigurare. Non che a Honzo premesse particolarmente l’essere primo, avrebbe accettato serenamente la superiorità, in termini di voti, di persone da lui conosciute, perché appunto all’occorrenza sapeva di poterle chiamare e contare sulla loro competenza. Kageyama Reiji invece era il jolly, la carta imprevedibile del mazzo: e lui disapprovava la presenza di un elemento così poco controllabile durante la partita. Oltretutto, la cosa che davvero gli mandava in cortocircuito la mente era il fatto che quello spilungone taciturno e ombroso non sembrasse in alcun modo intenzionato a farsi degli amici, instaurare legami con lui o qualcun altro della ristretta cerchia di rampolli di famiglie che contavano, in città. Dove pensava di andare, senza gli agganci giusti? Pensava davvero che la sola bravura gli sarebbe bastata? Era un atteggiamento alquanto curioso.

Eppure, era bravo, doveva riconoscerlo. E lo riconosceva senza difficoltà. Più lo osservava in aula, più il mistero che portava il nome di Kageyama Reiji lo incuriosiva. Genda Toshio sosteneva che fosse uno sbruffone arrogante, avrebbero dovuto dargli una lezione di umiltà fuori dalle aule. Kidou gli chiese di avere pazienza, voleva prima parlargli con le buone. 

Tè nero bollente, macchiato con latte alla vaniglia. Era la sua ordinazione tipica al bar dell’università, a prescindere dall’ora del giorno e dalla temperatura esterna. Un bel giorno, deciso a parlare con lui, Kidou si avvicinò al bancone del bar e ordinò per entrambi, prima che potesse parlare:

-Tè nero. Bollente mi raccomando. E se può, cortesemente, preparare a parte del latte aromatizzato alla vaniglia. Per due, grazie.-

-Eh? Ma ce l’hai con me?- Il ragazzo, occhi piccoli e neri, come pietre vulcaniche, gli sbuffò addosso, indispettito dall’atteggiamento incomprensibile del coetaneo. Kidou schioccò la lingua contro il palato e appoggiò le braccia al bancone, sostenendo il contatto visivo con evidente curiosità e un sorriso amabile, garbatissimo.

-Buongiorno. Mi chiamo Kidou Honzo, siamo nello stesso corso di lingua inglese. Se non sei di fretta, avrei piacere a scambiare due parole con te.-

-… Tsk. – Reiji lo squadrò da capo a piedi, conosceva quel ragazzo. La sua era una delle famiglie più ricche della città, avevano agganci in politica e i loro commerci si estendevano ben oltre il Giappone. Soprattutto, sembrava la persona più ebete che avesse mai visto. -Okay, Kidou. Sono Kageyama Reiji, ma, a quanto pare, sai già un sacco di cose di me. Ti dico subito però che accetto in amicizia, non sono gay.-

Kidou rise, compiaciuto. Kageyama si sentì stranito, era la prima volta che sedeva con qualcuno al tavolino del bar dell’università. Cosa mai poteva volere uno come Kidou Honzo da lui?

Quando si salutarono, Reiji considerò con una certa confusione che avevano parlato quasi esclusivamente di lezioni universitarie e di come l’aggiunta del latte nel tè, all’inglese, cambiasse il gusto della bevanda. Kidou sosteneva che smorzare le tipiche note acri e pungenti del tè, per renderne più morbido e rotondo il sapore, fosse un vezzo occidentale da veri intenditori. Kageyama aveva convenuto che fosse una questione di gusti, lui durante le scuole superiori aveva passato qualche tempo in Sud America e lì proprio non se ne intendevano di infusi, invece il viaggio in Inghilterra, che l’aveva così aiutato nella costruzione della pronuncia che tanto gli ammiravano in aula, gli aveva permesso di sviluppare l’abitudine di macchiare il tè con il latte che gli era rimasta. Il gusto puro e la forte intensità del tè erano un’esperienza che non era più riuscito ad avere allo stesso modo. A quel punto della conversazione erano arrivati altri suoi conoscenti e Kidou l’aveva cortesemente salutato, lasciandolo proseguire da solo la pausa fra una lezione e l’altra. Kageyama non era per niente sicuro che l’avrebbe rivisto, né che senso avesse avuto quell’incontro.

Eppure, nelle settimane successive numerose furono le occasioni di incontro e nessuno dei due privò l’altro di un saluto, di un cenno, seppur rapido, fra i corridoi. Kageyama d’indole era scostante e taciturno, se ne stava beatamente per le sue senza attorno persone rumorose e Kidou dava l’idea di essere una persona parecchio rumorosa. D’altronde sapeva bene quanto fosse influente e popolare, forse avrebbe potuto rivelarsi un aggancio interessante da coltivare, a livello lavorativo primariamente… Reiji sapeva bene di essere solo e un amico del genere avrebbe potuto risolvergli, a monte, tante grane. Ma di avvicinarlo non se ne parlava nemmeno, aveva sempre decisamente troppe persone attorno e lui non puntava certo a fare il cortigiano di qualche imbecille figlio di papà. Lui aveva talento e se ne sarebbero accorti: a quel punto sarebbero stati loro a venire da lui, implorando di avere la sua amicizia. Decisamente, non sarebbe stato lui ad elemosinare delle attenzioni. Kidou, dal suo canto, era molto incuriosito dall’atteggiamento di Kageyama: era indubbiamente portato e talentuoso, i voti erano pubblici e il suo curriculum scolastico svettava fra i migliori; tuttavia, non aveva frequentato istituti di scuole medie o superiori conosciuti, che spiegassero quella preparazione… Era decisamente ricco, ma sembrava un figlio di nessuno, che avesse vinto una borsa di studio? Da dove diamine veniva? Perché non sembrava intenzionato ad allacciare legami con qualcuno? Lui aveva fatto il primo passo, rivolgendogli la parola al bar, perché ora non si faceva avanti e non cercava di entrare nelle sue grazie? Kageyama Reiji era un mistero vivente e Kidou decise che l’avrebbe risolto. Aveva le risorse per farlo e tutta l’intenzione di fargli capire come ci si comportava in quegli ambienti: invero sembrava che quel ragazzo non ne avesse idea. Davvero molto curioso.

Ebbero entrambi l’occasione che aspettavano durante il torneo universitario di scacchi che prese avvio in quel periodo. Honzo deteneva un primato in quel genere di competizioni fra studenti: era un asso dei puzzle, dei giochi di logica e strategici, aveva vinto anche tornei nazionali da più giovane e in università era riconosciuto come un’autorità, unanimemente. Seguì con curiosità anche le sfide fra gli altri partecipanti, ma sapeva decretare con una certa sicurezza come si sarebbero posizionati i suoi conoscenti… Kageyama fu, anche in quel frangente, l’elemento che portava caos. Pareva agire mosso da puro istinto, senza conoscere davvero le regole del gioco a cui si stava giocando in quell’università: usciti da lì, sarebbero stati i giovani uomini più influenti della città e avrebbero avuto molte strade aperte per il successo. Davvero Kageyama pensava di cavarsela da solo? Era oltremodo strano, per non dire ingenuo, da parte sua.

Mentre lo osservava avanzare nel torneo, battendo implacabilmente persone abili, di attestata bravura, Kidou sentì mutare la propria curiosità in interesse: Kageyama non era semplicemente un ragazzo ostile e intelligente, come gli era parso in prima battuta. Attraverso il gioco degli scacchi, dimostrò di avere una mente strategica, di possedere freddezza e lucidità di pensiero, nonché una notevole resistenza allo stress prolungato. A Honzo ciò che vedeva adesso gli piaceva e, ancor prima di trovarsi a fronteggiarlo, sapeva già che voleva lavorare con lui: aveva vinto.

In finale si trovarono uno contro l’altro. Giocarono per dieci ore, fu una partita durissima. Vinse Kageyama. Appagato dal trionfo, ma esausto per l’elevato tasso di concentrazione che aveva richiesto, Reiji si ritirò spintonando tra la folla di curiosi e appassionati che avevano assistito al loro incontro. Non si fermò neanche per le foto e il giorno successivo, nel giornalino universitario, era riportato l’articolo che raccontava la partita che avevano disputato, recante solo la foto della coppa, senza il vincitore. (C’era però l’intervista che aveva rilasciato Kidou, il re degli scacchi destituito dal suo trono, e il titolo riportava una frase che aveva pronunciato “ Ho imparato più dalla sconfitta di oggi che dalle scorse dieci vittorie ”) Reiji era andato a ritirare il proprio premio di nascosto, settimane dopo, quando nessuno ci pensava più. Ma quel giorno aveva fatto in tempo a cercare per un momento lo sguardo del suo sfidante: aveva immaginato di vedere grande afflizione, disperazione totale sul suo volto - lui che era stato privato, dopo tanto tempo, del titolo di campione di scacchi dell’università. Invece Honzo aveva sulle labbra quell’incomprensibile, ridicolo, sorriso deficiente. Era decisamente uno sciocco.

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Honzo non era il genere di persona che si preoccupava troppo di quello che pensava la gente di lui: anzi, spesso, il fatto che lo sottovalutassero, che lo ritenessero un soggetto innocuo, non particolarmente intelligente, andava infine a suo vantaggio. Invero sapeva di non essere molto dotato, conosceva gente molto più abile di lui in svariati campi, e quella era la sua vera forza: conosceva tante persone, il patrimonio di contatti da cui poteva attingere era ampio e sapeva accrescerlo, coltivarlo con cura. Conosceva tutti, quantomeno tutti quelli che contavano, e dispensava favori, intrecciando legami personali, che all’occorrenza gli sarebbero stati utili. Fu per questo motivo che la sconfitta al torneo di scacchi non lo colse affatto impreparato né lo turbò in modo specifico: aveva percepito che Kageyama Reiji fosse una persona interessante da avere attorno a sé e quell’incontro ne fu la prova inconfutabile. Decise di rendere più chiara ancora la situazione a Kageyama, cominciando ad invitarlo ad eventi sociali di loro coetanei, a coinvolgerlo in attività lì in università, presentargli gente, trattenerlo attorno a sé.

Reiji era disorientato ed intimorito, quel Kidou gli sembrava un idiota: era contento di aver perso contro di lui? Forse finalmente aveva riconosciuto il suo talento e cominciava a trattarlo come meritava… Sì, poteva essere… Però Kageyama era abituato a sentirsi minacciato e difficilmente si fidava, quel Kidou si comportava in maniera piuttosto strana… Tanto fece Kidou, intenzionato ad averlo nella sua cerchia di persone fidate, da vincere infine le sue riserve: accarezzando l’ego di Kageyama Reiji, lo introdusse nel suo mondo e, quando si laurearono – Kageyama con voti decisamente più alti di Kidou – Reiji aveva già intessuto tutta una serie di contatti e conoscenze in ambito politico, che gli valsero dei favoritismi quando iniziò a farsi strada nel mondo adulto della loro città. Indubbiamente Kageyama era bravo, molto bravo, i suoi meriti vennero riconosciuti rapidamente: altrettanto indubbiamente però l’investimento che Kidou fece su Kageyama si rivelò vincente, dai tempi dell’università si era convinto che scommettere su di lui fosse una mossa valida e il tempo gli diede ragione. Kidou poteva vantare di avere fra i suoi collaboratori e uomini più fidati il nome di Kageyama, al contempo Kageyama sapeva che aveva le spalle protette dal nome dei Kidou.

Honzo sentiva che Reiji teneva per sé molti segreti in merito al suo passato, c’era qualcosa in lui di estremamente ferito, che lo rendeva infantile ed impulsivo: sapeva che non era granché abile nei rapporti umani e che senza di lui non avrebbe fatto tutta quella strada, ma andava fiero dell’investimento che aveva fatto, raccomandandolo alle persone giuste, e tutto sommato sotto sotto la sua emotività gli faceva pietà in certi momenti. Kageyama, nonostante passassero gli anni, continuava a credere che Kidou fosse un idiota, ma molto influente, e riconosceva la sua intelligenza nel circondarsi di persone giuste. Gli generava collera pensare che il suo privilegio gli permettesse di usare quelle doti senza doversi curare d’altro e in cuor suo, rabbiosamente, pensava di essere molto meglio di quel figlio di papà con quel sorriso idiota e l’aria perennemente distratta: erano nella stessa posizione solo perché Honzo era nato nella famiglia giusta, ma se fosse stato al suo posto non avrebbe fatto tutta quella strada, no di certo. Non era così intelligente da cavarsela… Malgrado ciò, a Reiji metteva talvolta anche soggezione: con gli anni si era accorto che, al momento giusto, Kidou era in grado di tirare fuori dal cilindro il coniglio cattivo, come per magia, conservando un’espressione gaia, benevola, del tutto incapace di nuocere. Nondimeno, aveva visto quanto sapesse nuocere, altroché: era un bene che Kidou avesse deciso di essere suo amico e non suo nemico, la sua influenza sugli altri aveva un che di insensibile, di imperturbabile, che Kageyama rispettava. E, al contempo, in fondo al suo cuore, là dove non accedeva nessuno, nemmeno se stesso, quell’aspetto del carattere del suo amico un po’ lo spaventava, un po’ era motivo di invidia. Fra loro c’era stima reciproca e ammirazione formale: anche negli anni successivi all’università si frequentarono molto, principalmente per lavoro.

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Fin dai tempi dell’università, Kidou era emotivamente e romanticamente alle prese con Sachi Mori, una giovane bella, ben proporzionata, ma piccola, così piccola, da sembrare disegnata. Suonava il pianoforte, studiava poesia, amava fare lunghissime passeggiate in riva al mare e aveva una voce d’angelo. Kageyama aveva una sopportazione ridicola per le chiacchiere fine a se stesse, ma quelle che vertevano sul cantare le virtù femminili erano in assoluto le più insignificanti e snervanti, per lui. Nonostante ciò, passò anni a sentire i discorsi infiammati di passione di Kidou, di come intendeva corteggiarla, farle regali costosi, essere gentile e piacente nei confronti della sua famiglia, così da poterla un giorno portare all’altare. A Kageyama – e pure ad altri conoscenti di Kidou, è doveroso ammetterlo – certi atteggiamenti di lei suonavano come un campanello di allarme già durante il fidanzamento, ma sembrava che Honzo avesse messo su dei paraocchi e non volesse accorgersi di alcuni dettagli alquanto sospetti… Il giorno del fatidico “sì” arrivò e Kageyama lo visse come l’ennesima penosa prova che la vita gli riservava, ma il gioco ne valeva la candela: Kidou aveva quello stesso mese esercitato la propria influenza politica, in quanto primo finanziatore dell’istituto, affinché Kageyama ricevesse l’incarico di dirigente della Teikoku Gakuen. Accettare di essere presente al suo matrimonio era il minimo che potesse fare e, mentre alla lussuosa festa che avevano allestito dopo la cerimonia osservava i vari commensali danzare, pensò di essersi finalmente liberato di quella fastidiosa spina nel fianco che erano le conversazioni su Sachi.

Così chiaramente non fu, anzi iniziarono i guai. Lui non aveva mai visto di buon occhio quella ragazza, così magrolina e bassina che, rimanendo in piedi, sfidava le leggi della gravità, aveva sempre visto qualcosa di civettuolo e interessato nel modo che aveva di farsi corteggiare da un ragazzo influente e ricco come Kidou, ma il suo amico non aveva dato ascolto alle sue raccomandazioni e Kageyama se l’era guardata bene dall’insistere. “In fondo a me cosa importa se Honzo intende rovinarsi con un matrimonio infelice, in cui sarà cornuto a vita? Non sono certo fatti miei”. Nonostante tutto però, Kageyama era una persona d’indole molto impulsiva e si infiammava facilmente; così, dopo essersi sorbito per un tempo non quantificabile sproloqui di lodi e lodi sulla fanciulla in questione, non mancava mai, con un commento acido e disilluso, di fargli notare quanto fosse ambiguo e sospetto un certo suo comportamento, piuttosto che una frase di lei che l’amico gli aveva riportato.

Infine, il fatto: Honzo colse in flagranza di adulterio Sachi e il suo amante. Ferito vivamente, scosso nel profondo, intimò ad entrambi di uscire dalla sua casa e il giorno dopo avviò con l’avvocato le pratiche per il divorzio. Il suo cuore era a pezzi e Kageyama, per quanto intimamente soddisfatto di aver avuto ragione, gli stette accanto: provava molta pena per quell’uomo che si fatto fregare come un pollo, oltretutto venne fuori che insieme all’amante gli avevano clonato la carta di credito e svuotato un conto che suo padre gli aveva aperto dopo il matrimonio, apposta per provvedere alla nuova famiglia che avrebbero formato lui e Sachi. Insieme. Fuor di dubbio, lei era stata una stronza. E Kidou un idiota. Nel complesso era una batosta considerevole. Quello, in sintesi, era il pensiero di Kageyama, che in quel periodo si poté fregiare del titolo di “migliore amico e fidato confidente”. Sempre più patetico e sciocco, quel Kidou.   

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Come un fulmine a ciel sereno, senza che fosse da nulla preannunciato, il pensiero della necessità politica e sociale di un erede a cui lasciare l’attività irruppe nella mente di Kidou. Era un pensiero scomodo, perché significava rimettersi in gioco nel cercare di formare una famiglia, perché richiedeva impegno, non solo emotivo: era un pensiero spaventoso, che gli toglieva energie. E che, purtroppo, si faceva sempre più ingombrante nella sua mente. Kidou per sua natura si divertiva così tanto a lavorare, che aveva fatto del suo lavoro la sua prima e principale fonte di vita sociale: questo fatto rendeva ai più estremamente faticoso capire chi considerasse amico davvero e fino a che punto si stesse divertendo o stesse invece “solo” lavorando. Si può dire che Kidou Honzo lavorasse e basta, oppure che non prendesse mai sul serio il lavoro, né qualsiasi altra cosa facesse per rilassarsi, semmai sapesse effettivamente come rilassarsi. Era molto enigmatico il suo modo di fare e persino il personale domestico, che aveva a che fare con lui quotidianamente, faticava a districarsi fra i suoi sorrisi piacenti e i suoi modi di fare sempre così cortesi.

A onor del vero, non confidò mai quel turbamento che aveva iniziato ad annerirgli le giornate: fu Kageyama che, con calcolata naturalezza e una spontaneità che sfiorò il magico in quanto a tempismo, avviò per lui la ricerca che, da solo, avrebbe faticato a condurre, in quanto avrebbe dovuto spendere tempo ed energie mentali ed emotive che, in quel periodo, proprio non aveva. Kageyama in qualche modo lo sapeva, perciò provvedeva in autonomia, con professionalità e riservatezza: qualità che gli aveva sempre riconosciuto e che, anche in quel caso, non mancò di dimostrare. Aveva la sua piena fiducia e tanto bastava ad entrambi: Reiji procedeva concedendosi ampie libertà, perché consapevole di avere carta bianca nelle decisioni e Honzo, a fine giornata, distendendosi nel letto, sentiva la mente alleggerirsi al pensiero che, presto, ci sarebbe stato qualcuno in quella casa, che l’avrebbe chiamato “papà” e sarebbe stato contento di essere lì.

Iniziò, quasi per gioco, a figurarsi quel bambino, ma non nell’aspetto, quello davvero non gli importava, bensì in cose molto più fuggevoli: lo scalpiccio dei passi che avrebbe prodotto su per le scale, il movimento delle mani con cui avrebbe imparato a maneggiare le posate europee per mangiare a tavola, il modo in cui avrebbe pronunciato il proprio nome – il suo nome, che avrebbe condiviso con quel bambino, il quale, crescendo, lo avrebbe portato avanti, con tutti gli onori e oneri. Sarebbe andato tutto per il meglio, avrebbero avuto tutto il tempo: quel bambino per imparare e lui per insegnargli. Il bambino avrebbe ricevuto la migliore istruzione, a partire dalla Teikoku Gakuen, diretta magistralmente da Kageyama… La sua azienda e i suoi profitti sarebbero stati al sicuro. Lui sarebbe stato al sicuro. Cercare di riallacciare un legame con una donna avrebbe comportato un investimento emotivo troppo oneroso, era fuori discussione: invece, da una creatura così piccola, bisognosa e fragile come solo un orfano può essere, poteva aspettarsi solo gratitudine e felicità per essere stato condotto in un ambiente come quello che gli offriva. Non gli avrebbe fatto mancare niente, lo avrebbe cresciuto nell’agio e in salute, insegnandogli ad accontentarsi solo del meglio, e avrebbe ottenuto in cambio lealtà e riconoscenza. Sarebbe stato attento alle fasi del suo sviluppo, l’avrebbe accompagnato e condotto lungo strade ben tracciate e sicure, l’avrebbe protetto. A dire la verità, Kidou Honzo non era del tutto sicuro di sapere quali fossero gli step da seguire, il programma era poco definito per quanto riguardava i primi anni di formazione e preparazione di quel bimbo in arrivo. Lui se lo figurava già, adulto e responsabile, a discorrere di affari con i suoi colleghi indossando un bel completo scuro: sarebbe stato disinvolto e sicuro di sé, veloce nel pensiero e capace di quella velata malizia che era uno strumento indispensabile per sopravvivere nel nido di serpi in cui avrebbe lavorato quotidianamente. Però chiaramente quell’uomo non esisteva ancora, l’avrebbe affinato a dovere con il tempo: per i primi anni, in cuor suo sapeva di volersi affidare a Kageyama e sembrava che il suo amico non fosse in disaccordo in merito a quella prospettiva, anzi malcelava un certo soddisfatto entusiasmo ogni volta che raccontava qualcosa. Era un valido insegnante e senz’altro era più abituato di lui ad avere a che fare con bambini e ragazzi in età scolare: Honzo alla sola idea si sentiva alquanto disorientato. Che cosa avrebbe dovuto dire, per metterlo a suo agio? Che cosa avrebbe dovuto fare, per rassicurarlo e tranquillizzarlo? Necessitava di ogni tipo di cure, un piccolo individuo come quello che si figurava: abbastanza grande da essere autosufficiente in certe dinamiche fisiologiche, ma abbastanza piccolo da essere educato secondo certi parametri e aspettative. Decisamente, Kageyama avrebbe saputo come aiutarlo. E poi, a tempo debito, lui stesso si sarebbe occupato in prima persona della preparazione effettiva del suo erede al lavoro in azienda. Nel frattempo, si sarebbero già creati spontaneamente quei legami emotivi che soggiacciono alle relazioni padre-figlio, almeno così pensava. In fondo, dopo tanti anni di convivenza, non c’era modo per cui non si volessero bene e non si fossero conosciuti a dovere: era naturale e rassicurante , per una persona come lui che - avendo sigillato il proprio cuore ad ogni possibile nuovo fendente da parte di avventrici interessate solo al guadagno - si dedicava esclusivamente e soltanto al lavoro. Curava i propri affari come se ne andasse della sua vita, ampliando il proprio patrimonio e coltivando grandi aspettative nei confronti dell’erede che, da lì a poco, avrebbe iniziato a educare per sedere, un giorno, alla scrivania che adesso occupava lui.

Com’era nei piani, la procedura di adozione fu rapida da sbrigare. Kageyama, con la sua delega, si occupò pressoché di tutto e lui si trovò ad apporre le firme necessarie a concludere la pratica il giorno stesso in cui portò a casa Yuuto. Kageyama gli aveva promesso un fanciullo intelligente ed educato, di principio dotato di tutta una serie di attitudini che, con il tempo e l’educazione, sarebbero state fortificate al meglio. Così fu, in effetti: Yuuto era parecchio rapido nei ragionamenti, imparava velocemente e aveva un certo intuito per le situazioni in cui si poteva arrischiare e quelle per cui invece era necessario che rimanesse al suo posto. Nonostante le condizioni di degrado in cui aveva vissuto per i primi anni, dimostrò una propensione innata per le buone maniere e la sua condotta impeccabile fu sempre motivo di lode da parte di insegnanti e conoscenti. Si dedicò fin dalle elementari con costanza allo studio, portando eccellenti risultati, e nello sport, fatto che Kageyama apprezzava profondamente senza farne mistero: affermava che fosse importante per lo sviluppo psico-fisico di un leader rispettabile e il signor Kidou si fidava, non aveva motivo di dubitarne d’altro canto. Avrebbe preferito che il ragazzo si dedicasse alla musica e in effetti cercò per qualche tempo di impartirgli delle lezioni di violino da un maestro, ma era evidente quanto Yuuto fremesse per il pallone e, nonostante il suo lieve scetticismo per i tanti vantaggi che avrebbe comportato l’inzaccherarsi di polvere su un campo di gioco e sudare tanto per correre dietro ad una palla, alla fine si fece convincere e lasciò che il ragazzino si dedicasse alle competizioni scolastiche. Male non potevano fare e c’era sempre Kageyama a badare a lui, non era preoccupato.

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I primi tre anni che Yuuto passò a casa Kidou furono anni in cui padre e figlio ebbero poche occasioni per passare del tempo insieme. Il bambino era molto intimidito e impacciato, aveva bisogno di una guida costante anche per le cose più banali e a lui provvedevano Kageyama e il personale di casa. In particolare, il signor Kidou aveva assegnato a uno dei suoi più fidati maggiordomi, il signor Hakamada, il compito di vegliare sul bambino e provvedere a tutte le sue necessità, comprese quelle di spostamento. Fuori casa, contava sull’intervento e l’occhio vigile di Kageyama, che in effetti era molto presente e affidabile: si offrì persino di portarlo qualche mese con sé in giro per l’Europa. Anche lui avrebbe passato gran parte di quell’anno all’estero ma, diversamente dal professore, avrebbe avuto difficoltà ad avere con sé il bambino e il suo aiuto in quel frangente si rivelò provvidenziale. Così, per i primi anni, Honzo si premurò di tenersi estremamente aggiornato su tutto quello che riguardava la vita di suo figlio, ma rare furono le occasioni di incontro diretto fra i due.

Quando l’insegnante a scuola diede come compito in classe il tema “illustra la tua famiglia”, il disegno di Yuuto fu al centro di un dibattito interessato che coinvolse numerosi insegnanti e che arrivò persino sulla scrivania del preside – da dove scomparve prontamente, senza lasciare traccia. Il foglio in questione era diviso in tre parti, mediante delle righe verticali disegnate con precisione: nella parte destra c’era disegnato un uomo alto, vestito di scuro, che guardava correre un bambino fra dei birilli e al lato, sul fondo, c’era una cesta di palloni di calcio. Nella parte sinistra c’era un uomo con la barba e la cravatta rossa che, seduto alla scrivania, scriveva su alcuni fogli. Sulla scrivania c’era anche una tazza di tè fumante e un computer. Alla parete c’erano appesi dei quadri molto colorati. Infine, nella parte centrale, c’erano due bambini che si tenevano per mano, lei aveva gli occhi blu come il cielo, lui portava i pantaloncini e in mano aveva un giornalino. Sopra di loro splendeva un sole sorridente con i raggi leggermente obliqui. Honzo non lo vide mai.

Terminato quel soggiorno prolungato all’estero, tornò a casa e ci trovò un bambino molto cresciuto, cambiato in meglio per tanti versi. Si atteggiava con più confidenza, parlava con disinvoltura ed era un vero damerino durante le occasioni sociali. Mostrava però di essere ancora alquanto intimorito dalla grande casa in cui abitava e Honzo sentì che, in quanto padre, doveva intervenire. Non poteva chiedere a Kageyama di occuparsi anche di quello, faceva già moltissimo e gli era riconoscente, ma quella casa era il suo orgoglio e, visto che anche Yuuto lo sarebbe stato, era necessario che si sentisse a casa, sotto quel tetto. Invero, non era pronto a ridurre drasticamente i suoi impegni lavorativi, c’erano ancora molte cose di cui doveva occuparsi - Yuuto era piccolo d’altronde – ma decise che il tempo che avrebbero trascorso insieme, per quanto poco, sarebbe stato un tempo in cui si sarebbe messo a disposizione del bambino per accrescere la sua confidenza in casa. All’inizio non fu semplice, perché Yuuto sembrava intimorito dalla presenza paterna, voleva renderlo orgoglioso ed era evidentemente molto impegnato a fare bella figura, a splendere davanti ai suoi occhi. Questo dava grande soddisfazione e appagamento all’adulto, ma a volte la fragilità che dimostrava quel bambino lo turbava. Yuuto sembrava accordare a chiunque il potere di cambiarlo: in meglio o in peggio non faceva differenza, a patto che si prendessero cura di lui.

Un giorno di festa, all’improvviso, nel pomeriggio aveva iniziato a nevicare: Yuuto aveva domandato il permesso per uscire a giocare a Hakamada, ma il suo maggiordomo gli aveva risposto che doveva ottenere l’autorizzazione del padre, il quale era rimasto lungamente chiuso nel suo ufficio per una chiamata importante. Yuuto aveva atteso pazientemente, con il nasino incollato alla finestra, a guardare i grossi fiocchi di neve che imbiancavano il suo giardino e il cancello. Quando finalmente suo padre era uscito dall’ufficio – zona lavoro inaccessibile per il piccolo – e aveva capito quanto a lungo lo avesse aspettato, senza fare i capricci o lamentarsi in qualsiasi modo, colto da un moto di orgoglio e affetto aveva deciso che l’avrebbe accompagnato lui stesso per una passeggiata di fuori, sotto la neve, e avrebbero preso una cioccolata calda in pasticceria, se a Yuuto piaceva l’idea. -Eccome se mi piace! Grazie papà.-, aveva risposto, contento di poter indossare i guanti colorati e super morbidi che avevano comprato proprio in vista delle nevicate di quell’anno.

Di ritorno da quello strano, ma piacevole e distensivo pomeriggio, Honzo aveva deciso di allungare leggermente la strada, per mostrare al figlio la scuola dove, tanti anni prima, aveva frequentato le elementari. Yuuto aveva mostrato molta curiosità per il racconto e aveva azzardato qualche domanda, ma, quando si era accorto della strada in salita che avrebbero dovuto percorrere per tornare alla loro abitazione, si era fatto silenzioso e aveva iniziato a prendere per bene fiato, come gli aveva insegnato il suo allenatore. Quando, salendo lungo la via di casa, avevano iniziato a intuirsi le lunghe pale di legno del cimitero buddista lì vicino, il bambino si era accostato al corpo dell'adulto. Era abituato alle storie di fantasmi, come lo sono tutti i bambini, ma il cimitero lo terrorizzava, era evidente. L'uomo aveva osservato la sua espressione impaurita, non aveva detto nulla - non aveva saputo cosa dire né come dirla - gli aveva sfiorato la mano con la propria. Aveva avvertito in quel momento l'immensa angoscia del bambino - era tanto piccolo e magrolino da potergli sentire il batticuore anche a quella distanza. Aveva provato una vertigine di inadeguatezza che aveva ricacciato in fretta, prima che gli invadesse la mente. Preso un respiro profondo, senza darsi il tempo di pensare, aveva allungato le dita e gli aveva afferrato il polso. Aveva stretto forte la mano del bambino dentro la sua. Era rimasto in apnea e aveva sentito distintamente Yuuto trasalire: era la prima volta che suo padre lo prendeva per mano in quel modo. Era… piacevole. Senza guardarsi, avevano continuato la salita ed erano infine rientrati in casa, lasciandosi la città imbiancata alle spalle.

*

C’era un ampio salone al piano terra, in casa Kidou, che Yuuto considerava “zona da adulti”, perciò off-limits. In effetti nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere, anzi il personale domestico era fin da subito stato molto accogliente e tutti avevano cercato di renderlo confidente nel muoversi in casa, che era la sua casa, adesso. Ciò nonostante, quella era una zona che suo padre frequentava quando invitava qualcuno a casa – e ciò accadeva spesso, molto spesso. In effetti suo padre c’era, ma era come se non ci fosse mai: quando tornava dall’ufficio spesso già era in compagnia di colleghi, si chiudevano in quell’ampio salone e discorrevano per ore, si facevano servire il tè o alcolici, a seconda dell’orario. Spesso da quella stanza Yuuto sentiva provenire della musica: in un primo momento aveva ritenuto davvero possibile che ci fosse un’orchestra dal vivo che suonava per gli ospiti di suo padre, poi un giorno aveva esposto quella sua convinzione a Hakamada, il quale, professionalmente, senza scomporsi, gli aveva spiegato che si trattava di un grammofono d’epoca. Di fronte all’espressione più confusa di prima del bambino, l’aveva accompagnato nel salone e gli aveva mostrato di cosa si trattasse in realtà. A Yuuto non era stato distrutto nessun sogno: quello strano aggeggio che emetteva musica era ancora più affascinante del pensiero di un’intera orchestra che suo padre magicamente tirava fuori dal cassetto all’occorrenza. Era anche più estetico e comodo da pulire. Hakamada, a sentire quelle osservazioni, dovette mordersi un labbro per non sorridere vistosamente.

In ogni modo, musica a parte, quel salone era sempre frequentato dagli adulti e Yuuto difficilmente ci metteva piede, quando aveva bisogno di qualcosa si rivolgeva ad Hakamada e poi c’era sempre Kageyama a scuola. Una sera, tuttavia, si era già fatto tardi e a quell’ora il personale di casa si era ritirato, Yuuto era alle prese con una forte emicrania e proprio non riusciva a prendere sonno. Si preoccupò di rivestirsi, per non farsi vedere dai colleghi di suo padre in pigiama, rischiando di fargli fare brutta figura, e scese le scale facendo ben attenzione a dove metteva i piedi. Di fronte alla porta della stanza prese un respiro profondo, davvero non sapeva come fare con quel mal di testa, e si decise a bussare. La sorpresa di Honzo fu grande quando, accogliendo la richiesta di ingresso, si vide spuntare la testolina di dreads sciolti di suo figlio, con ancora su una polo e dei pantaloncini, e gli occhietti stretti stretti, evidentemente doloranti.

-Yuuto – lo chiamò subito, alzandosi dal divano. Il bambino notò come tutto intorno nella stanza fosse calato il silenzio e si chinò immediatamente, per salutare i presenti: -Buonasera a tutti. Scusate il disturbo.-

Si sollevò un coro di saluti per quel bimbo, molti lo vedevano per la prima volta, e Honzo constatò compiaciuto che sicuramente Hakamada l’aveva messo a letto in pigiama, ma per venirgli a parlare Yuuto aveva avuto l’accortezza di rendersi di nuovo presentabile. Davvero bravo. Gli andò vicino, evidentemente non era sceso per salutare i suoi colleghi. Yuuto infatti lo stava richiamando: - Scusa, papà, posso chiederti una cosa, per favore?- Nel mentre che suo padre gli si avvicinava, Yuuto notò che, davanti a lui, c’era un tavolino su cui era esposto uno spettacolare puzzle tridimensionale rappresentante la Torre di Porcellana cinese. I suoi occhi si illuminarono tanto da rendere fisicamente impossibile per suo padre non notarlo: si volse appena di spalle, per capire cosa avesse tanto animato il suo sguardo, e sorrise. – Ti piace il puzzle della padoga di Nanchino? Me l’ha regalata un mio amico: sai, ha fatto una grande donazione alla città e con quei soldi la ricostruiranno. La vera Torre di Porcellana, ovviamente. Ci vorrà qualche anno, ma quando saranno ultimati i lavori potremmo andare a vederla insieme: se ti fa questo effetto il modellino…- Yuuto chiese il permesso di potersi avvicinare per vederla meglio e suo padre lo lasciò passare. Il bambino aveva tutti gli sguardi dei presenti in sala su di sé, per cui fece ben attenzione a camminare dritto e non inciampare nel pesante tappeto, ma quel modellino era davvero affascinante. Si affiancò al tavolino e fissò con occhi grandi tutti i dettagli: era impressionante.

-E’ bellissimo – proferì – Saranno cinquecento pezzi!-

-Trecento in realtà, ma ci sei andato vicino. – In quel momento parve ricordarsi che in effetti il bambino sarebbe già dovuto essere a letto a quell’ora e lo richiamò: -Cosa mi dovevi chiedere, Yuuto?-

Venne fuori che il forte mal di testa che provava era uno scoppio di febbre alta: domandando scusa per l’inconveniente, il signor Kidou congedò i suoi ospiti e si occupò di mettere a letto il figlio con un antipiretico e del ghiaccio sulla fronte. Erano in piena stagione delle piogge e Yuuto non aveva una costituzione particolarmente forte, a quanto pareva. La mattina seguente Honzo aggiornò il personale domestico della situazione e si raccomandò di avvisare la scuola: finché non si fosse ripreso, Yuuto sarebbe rimasto a casa. A maggior ragione quella mattina che fosse lasciato riposare: dopodiché si recò a lavoro, ma continuò ad avere sotto gli occhi lo sguardo affascinato del bambino di fronte al puzzle dell’antico edificio cinese. Decise che, tornato a casa, avrebbe fatto un tentativo. In effetti, perché non ci aveva ancora pensato?

Fu a casa già per pranzo: trovò Yuuto nelle sue stanze, sonnecchiante sul divano, che sfogliava alcuni giornalini. Il bambino gli andò subito vicino per salutarlo e dal suo atteggiamento parve preoccupato. Aveva timore che suo padre fosse in collera con lui, per averlo disturbato la sera prima, invece lo trovò di buon umore. Raramente pranzavano insieme e, nonostante la febbre non fosse ancora bassa, Yuuto volle scendere di sotto con suo padre. Bevve del latte caldo, spiando l’espressione del padre di sottecchi, come se temesse da un momento all’altro un rimprovero. All'opposto, Honzo mangiò con appetito, dopodiché gli chiese come si sentisse e se avesse voglia di salire di sopra con lui. “ Ti voglio mostrare una cosa, credo proprio che ti piacerà ”: così gli disse e quelle parole a Yuuto sembrarono una promessa di cura e amore.

Gli batteva forte il cuore, quel giorno quando per la prima volta suo padre gli diede accesso alle sue stanze private, al piano superiore: erano camere speculari a quelle di Yuuto, ma il bambino non ci era mai entrato, fino a quel momento. Tendenzialmente suo padre ci si ritirava quando lavorava in casa e non aveva ospiti, il che succedeva di rado, e in quelle occasioni difficilmente anche il personale domestico lo disturbava, Yuuto non si era mai permesso. La prima stanza era una zona giorno simile a quella che avevano allestito per lui: scrivania, libreria, divano, tappeto, quadri alle pareti… C’era anche un mappamondo e una bellissima lampada a terra di vetro soffiato, coloratissimo nonostante la giornata grigia e la poca luce che passava dalle finestre. Yuuto individuò una porta, che sicuramente portava alla zona notte, dunque alla camera da letto e al bagno. Cosa doveva mostrargli suo padre?

Honzo, intuendo la sua curiosità da come si guardava attorno, si avvicinò alla libreria e gli fece cenno di fare lo stesso. Il bambino lo imitò e, seguendo il cenno di suo padre, cercò di sollevare dallo scaffale il libro che gli indicava. La sua sorpresa fu grande quando si accorse che si trattava di un interruttore e, come nei film, si aprì un passaggio nel muro. Emise uno squittio di sorpresa, questo davvero non se lo aspettava: suo padre sembrava gongolare, si era forse addormentato prima di pranzo e stava sognando? Curioso di capire come sarebbe proseguito quel sogno, seguì il padre nel passaggio magico nella libreria. Si ritrovò in una stanza semplice e sorprendente al tempo stesso: c’erano delle finestre, innanzitutto, e una porta; dunque, forse non era una camera poi così segreta… L’entusiasmo di Yuuto però non venne smorzato da quella consapevolezza, perché ciò che era presente nella stanza era davvero elettrizzante: tavoli e tavoli, di diverse altezze e lunghezze, pieni di puzzle ancora da completare. Alcuni erano quasi conclusi, altri appena imbastiti, alcuni rappresentavano paesaggi naturali, altri proprio non avrebbe saputo dirlo, alcuni sembravano addirittura delle mappe. I più erano tradizionali, in due dimensioni, alcuni più piccoli erano tridimensionali e avevano delle strutture di supporto che favorivano l’assemblaggio dei pezzi. Alcuni puzzle già completi addobbavano le pareti, incorniciati. E poi ancora tavoli da gioco, ce n’erano di tutti i tipi: dama, scacchi, Catan, Schyte, Risiko e ancora rompicapi in legno, solitari in tessere o in carte, enigmi da montare, mahjong e tanti altri. Yuuto si sentì sopraffatto dalla sorpresa, quella stanza era una vera palestra per il cervello!

-Quando ho visto che espressione deliziata hai fatto, notando il puzzle 3d, l’altra sera, ho pensato che dovessi mostrarti questo posto. Ti piace? – Yuuto annuì e cominciò a girare per la sala, sotto lo sguardo vigile dell’adulto. All’ennesimo tavolo rimasto in piedi grazie al miracoloso, perché tempestivo, intervento di Honzo, un attimo prima che si ribaltasse, dato che Yuuto si aggrappava con le mani al bordo per sollevarsi e vedere cosa c’era sopra, decise che era quantomeno urgente procurarsi uno sgabello per il bambino, in modo che avesse accesso ai tavoli da gioco e di lavoro ai puzzle, senza che ogni volta si dovesse sventare un disastro. Dato che, a giudicare dalle gote rosse del bambino, pareva che la febbre si fosse alzata, optarono per un semplice memory, tanto per cominciare.

Seduto a gambe incrociate di fronte a suo padre, Yuuto sperimentò un nuovo tipo di entusiasmo: comportava, così come gli allenamenti di calcio con il Comandante, una sensazione costante di ansia performativa, una perenne convinzione di avere uno sguardo giudicante addosso, pronto a sgridarlo per ogni minimo errore, ma anche a lodarlo per ogni corretta azione svolta. Lo volevano brillante e deciso, intelligente e veloce, consapevole e risoluto. A volte Yuuto aveva la sensazione che fossero la stessa persona in corpi diversi.

*

Kidou Honzo era tutto fuorché uno stupido, invero notava moltissime cose: semplicemente, non ne dava prova fino al momento opportuno. Aveva limpidamente preso consapevolezza di quanto Yuuto si fosse legato a Kageyama, di quanto lo adorasse e stimasse e cercasse costantemente la sua approvazione. In prima battuta il signor Kidou era stato favorevole a questa dinamica, non era mai stata sua intenzione occuparsi di un bambino e quello che, tre anni prima, aveva portato a casa era solo un bambino, nulla di più, nulla di meno. Ma quel bambino era la sua scommessa più grande: formare un erede per il suo impero aziendale senza dover ricorrere a investimenti emotivi intensi come formare una famiglia e contrarre nuovamente matrimonio. Kageyama, nell’occuparsi dei primi anni di formazione di quell’erede, non poteva permettersi di perdere di vista l’obiettivo; che se ne occupasse dunque, che passasse pure tanto tempo con Yuuto, ma a patto di avere ben chiaro che stava lavorando ad un suo progetto.

Così pensava Honzo mentre, nei giorni di convalescenza di suo figlio, lo intratteneva in casa con i puzzle e i giochi di strategia: d’altronde di fare sport non se ne parlava nemmeno. Ne ammirava il pensiero veloce e la propensione al problem solving, seppur talvolta alquanto fantasiosa, ma sempre sorprendente, considerata poi la giovane età. Si applicava con una costanza e dedizione notevoli e mostrava una smania tutta particolare per il completamento degli enigmi: come se, intimamente, volesse far ordine nel mondo intricato e grande che un giorno gli si era parato davanti agli occhi, senza preavviso. I puzzle invece lo rilassavano: cercava l’armonia delle linee e dei colori, sperimentava le combinazioni possibili dei pezzi che gli scivolavano fra le dita sottili, ma qualcosa si faceva più sfumato nel suo sguardo quando trovava il giusto incastro.

Il signor Kidou lo osservava con attenzione e Yuuto mostrava di essersi abituato a essere guardato con spirito indagatore: erano anni ormai che Yuuto sperimentava su di sé lo sguardo di chi faceva delle valutazioni sulle sue prestazioni e caratteristiche. Tuttavia Honzo non aveva una propensione affettiva così elevata da condurlo su quel tipo di considerazioni e valutò solamente quanto potenziale ci fosse nel modo che possedeva il bambino di condurre il proprio pensiero.

Un tardo pomeriggio, mentre erano così assorti nei loro giochi, ricevettero in casa la visita di Kageyama. Voleva sapere come stesse il bambino, dato che era da parecchi giorni che non si presentava a scuola. Quando Yuuto se lo trovò sulla porta della stanza dei puzzle di suo padre, esitò un momento prima di alzarsi e salutarlo: stavano giocando a dama con suo padre e toccava a lui muovere, non avrebbe dovuto distrarsi. Kageyama notò la sua esitazione, durata solo pochi secondi e spezzata dall’iniziativa di Honzo, il quale per primo si alzò dalla postazione, interrompendo il gioco per accogliere l’amico. Il piccolo Kidou, rassicurato, si avvicinò così a sua volta all’allenatore, contento e ossequioso. Kageyama si sentì pervaso da una sensazione di sollievo che al contempo provocò in lui del turbamento: come se avesse avuto un braccio stretto dentro una pressa e avesse sentito la pressione allentarsi e in quel momento avesse realizzato quanto fosse stato fino ad allora in tensione. Non si occupò di trovare un nome all’emozione che stava provando e accettò con pacatezza le rassicurazioni del genitore sullo stato di salute del figlio. Lo sguardo di Yuuto gli dava le vertigini. Così, come in trance, ascoltò il bambino raccontargli di tutti i nuovi giochi che suo padre gli aveva mostrato e le idee che ne aveva tratto per alcuni schemi di gioco. Chiese il permesso a suo padre di andare un momento in camera sua a recuperare il quaderno di appunti e Honzo glielo concesse con un gesto vago, poco interessato.

Kageyama, dal modo in cui si sentiva guardato dal signor Kidou, percepì che voleva parlargli e sentì di nuovo uno strano formicolio di distensione – come in seguito a una pressione intensa e prolungata – quando Yuuto gli chiese se volesse accompagnarlo e cercò di prenderlo per mano. Naturalmente non afferrò quelle dita nelle proprie, ma lo anticipò fuori dalla stanza e Yuuto attraversò il corridoio della propria casa, nel tratto che separava le sue stanze da quelle di suo padre, accompagnato da una figura conosciuta che – realizzava in quel momento per la prima volta – accedeva anche al piano superiore. Dovevano tenersi reciprocamente in grande considerazione, il suo papà e il suo allenatore. Era contento che fosse venuto a vedere come stava, significava che era preoccupato per lui: temeva che dicendoglielo sarebbe sembrato debole – eccessivamente emotivo - e tutto sommato Kageyama voleva vedere i nuovi schemi di gioco a cui aveva pensato, non doveva farsi distrarre da pensieri di altro tipo.

D’altronde Kageyama era sollevato dal constatare che Yuuto stesse, tutto sommato, piuttosto bene e avrebbe voluto già dal giorno dopo vederlo tornare sul campo da gioco: aveva la strana sensazione che Honzo glielo stesse tenendo lontano. Non fu però così incauto da lasciarlo intendere, né a lui né al bambino. Sarebbe stato oltremodo sconveniente.

Quando tornarono nell’altra stanza, dove li aspettava il padrone di casa, trovarono quest’ultimo vicino alla postazione della scacchiera: ne aveva allestita sul tavolo da gioco una davvero preziosa, che Yuuto non aveva ancora mai visto. Era una scacchiera professionale con pezzi intarsiati, decorati in modo molto piacevole alla vista e al tatto. Le pedine in legno avevano un’anima piombata e un rivestimento di velluto sul fondo. Sembrava molto costosa. Yuuto sbarrò gli occhi dalla sorpresa e si avvicinò subito al tavolo da gioco, senza osare toccare le pedine per paura di farle cadere: il suo sguardo parlava da solo del fascino che esercitava su di lui ciò che vedeva. Anche Kageyama parve sorpreso, ma mantenne il solito contegno e si avvicinò alla postazione da gioco. Conosceva bene quella scacchiera, l’aveva regalata lui a Kidou in occasione della laurea. Kageyama muoveva il nero, Kidou pertanto mosse per primo.

Fu una sfida lunga: dopo quattro ore, Kageyama fu condotto alla resa. Yuuto era ancora giovane e inesperto delle tattiche di gioco degli scacchi, per cui non lo notò ma, fin dalle mosse di avvio, era chiaro che Kageyama giocasse ambendo a pareggiare, non certo a vincere. Nonostante il nero fosse notoriamente il “fortunato”, lasciar avviare il gioco al bianco dava vantaggi considerevoli: entrambi ne erano consapevoli e Kidou muoveva le proprie pedine sapendo di star chiudendo a Kageyama ogni varco. Yuuto si spostava da un lato all’altro del tavolo da gioco, sporgendosi per guardare i due adulti e spiare i loro ragionamenti attraverso i loro sguardi. Suo padre era molto più loquace del suo allenatore, lo faceva stare sulle sue ginocchia e gli spiegava la logica dietro agli spostamenti dei singoli pezzi. Kageyama stava in silenzio, piegava le dita lunghe e ossute e sembrava che il suo cervello andasse a mille all’ora: Kidou ammirava quella velocità, ma sapeva di non riuscire ancora a starci dietro. Magari un giorno, quando sarebbe stato grande anche lui…

In definitiva, Yuuto era convinto al cento per cento che sarebbe stato Kageyama a vincere quella sfida. Era l’uomo più intelligente che conosceva, le sue strategie erano assolutamente perfette e non sbagliava mai. No, Kageyama non sbagliava mai. Né perdeva mai. Non avrebbe potuto perdere neanche contro suo padre. Tuttavia, su quella scacchiera, ancora una volta, come sempre d’altronde quando si trovavano l’uno di fronte all’altro, la posta in gioco fra Kageyama e Kidou non era semplicemente la buona riuscita di una strategia né tantomeno intendevano passare qualche ora in dilettevole e amichevole attività di svago... Si giocavano la visibilità, il grado di autorevolezza di fronte a quegli occhi grandi e attenti del bambino che era entrato in punta di piedi nelle loro vite, ambito e desiderato trofeo che entrambi avevano intenzione di ostentare.

Kidou accettò di buon grado il patteggiamento e la resa dello sfidante, con quel suo sorriso cordiale e pasciuto gli strinse la mano e lo ringraziò per la stimolante partita. Era tanto intimamente gongolante ed esteriormente placido da dare la nausea a Kageyama, che si rivide davanti, adesso epifanica, la scena di tanti anni prima: lui che, seppur vincendo, scappava dalla folla, come un ladro, un impostore e Kidou che, seppur perdendo, rimaneva a farsi acclamare e intervistare, come un re, un protagonista. Ai tempi dell’università, Reiji era rimasto stranito dalla sua reazione, quel giorno: era stato così pacato, così sportivamente ineccepibile, così… Così superiore . E adesso, dopo tanti anni, l’aveva chiuso in trappola come un topo, per di più di fronte a Yuuto.  Kageyama si sentì rodere dentro dal desiderio di rivincita, dall’ustionante sensazione di disfatta che lo pervase togliendogli per un momento il respiro.

Yuuto era visibilmente entusiasta e domandò se potevano spiegargli le strategie che avevano attuato. Con un sorriso brillante, che sapeva umiliare, Kidou propose che fosse Kageyama a spiegare al più piccolo il loro gioco e ricreare qualche passaggio, mentre lui scendeva di sotto a dare istruzioni per la cena. Kageyama si sarebbe fermato con loro, naturalmente? E Kageyama conosceva Kidou da parecchi anni, sapeva che quella non era sul serio una domanda: così lasciò che il bambino si sedesse davanti alla scacchiera e, mettendosi di fronte a lui, cominciò a illustrargli il modo in cui suo padre l’aveva battuto. Il colpo di grazia glielo inflisse poco dopo, quando, ritornando nella sala e trovandoli intenti nel gioco, lo sentì commentare, rivolto al bambino: -Hai visto, Yuuto? Il tuo allenatore è una mente decisamente brillante, una delle persone migliori che io conosca nel gioco degli scacchi. Dato che c’eri tu a guardare, non poteva certo far sfigurare il tuo papà… Conosce perfettamente il mio modo di giocare, lo sa ricreare anche senza che ci sia io a muovere le pedine.- C’erano così tante cose sottese e implicite… Kageyama avrebbe voluto ringhiare. Invero il suo cuore si fece pesante vedendo come gli occhi di Yuuto brillarono in direzione del padre.

Cenarono discorrendo con cordialità: mentre i due adulti rimanevano a tavola a parlare, Yuuto si mise a lato e si appisolò su una poltrona. Non sentì cosa i due si dissero, ma anche li avesse ascoltati, non avrebbe percepito tensione né accese discussioni: la sfida a scacchi era stata più che eloquente, per entrambi. Quel bambino sarebbe diventato un Kidou, stavano collaborando a quel fine comune e per farlo avrebbero investito le loro maggiori risorse.

Yuuto sognò se stesso: stava facendo i compiti in presidenza, alla Teikoku, nel banco che Kageyama aveva allestito vicino alla propria scrivania. Sollevando lo sguardo dal foglio, si accorse che Kageyama aveva un volto molto provato, segnato dalla stanchezza. Tuttavia non disse nulla. Quando però l'adulto si addormentò in poltrona, evidentemente nell'attesa che lui finisse i compiti, il piccolo Kidou non lo svegliò. Rimase invece a guardarlo, in silenzio, dalla sedia: notò sul viso del suo allenatore, in quella posa abbandonata, che non aveva mai visto prima, qualcosa che lo riempì di un sentimento che non capiva. Avrebbe voluto liberarsi di quel pensiero, oppure svegliarlo e confidarsi, raccontargli tutto. Farsi spiegare. Kageyama aveva una spiegazione per tutto. Eppure si trattenne e rimase fermo al banco, la matita sospesa in aria. I capelli di Kageyama erano sfuggiti alla presa dell’elastico e cadevano, scuri e disordinati, sulle sue spalle. Yuuto abbassò gli occhi sul quaderno e seppe in quel momento che ciò che provava era tristezza. Una tristezza così gigantesca da proiettargli un'ombra tutto intorno a lui. Vedeva tutto buio.

Quando si svegliò, Hakamada l’aveva messo a letto, Kageyama era già andato via e suo padre si era ritirato per la notte. Gli occhi lucidi del bambino vagarono per la grande stanza, lungo i muri spogli, e si arrampicarono su per il camino. Per un momento desiderò forte che Kageyama scendesse giù da lì e gli spiegasse tutto. Innanzitutto perché non l’aveva adottato lui, anziché quel Kidou. E se era vero che, come aveva suggerito suo padre, si era fatto battere di proposito. Perché lo aveva fatto? Oppure era una bugia, e suo padre era davvero più bravo a Kageyama, nel gioco degli scacchi?

Stringendo il proprio peluche di pinguino al petto, Kidou Yuuto decise che sarebbe diventato bravo, molto bravo a quel gioco e, una volta adulto, avrebbe lanciato una sfida sia a suo padre, sia al signor Kageyama. Li avrebbe battuti entrambi e li avrebbe costretti ad essere sinceri, a dirgli come stavano le cose davvero.

author's corner
Purtroppo il canon non ha dotato il padre di Yuuto di un nome, quindi mi sono presa l'onore di battezzarlo.
Presento a tutti Kidou Honzo!
Non sono gay. VI ASSICURO che non sono gay. Honzo e Reiji NON hanno mai avuto una relazione sentimentale o sessuale. CREDETEMI
Anche perché in realtà Honzo non ha sentimenti, quindi non è difficile crederlo eheh
Yuuto meritava così tanti bacini da star male, ma fra due papà non ne ha uno buono

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Capitolo 3
*** Capitano ***


Quando fui iscritto alla Teikoku Gakuen, essa era una scuola prestigiosa, sia per i programmi formativi offerti, sia per il rendimento scolastico della sua popolazione studentesca, sia per la sua squadra di calcio, imbattuta da parecchi decenni. La fama, il successo che garantiva era indiscusso e mio padre era uno dei primi finanziatori, nonché amico intimo del dirigente. Era inevitabile che frequentassi quegli ambienti fin dalle elementari: i primi anni furono strani, penso di poterli definire così.

In effetti, per quanto assurdo possa sembrare, non conducevo una vita molto diversa da quella di prima, quando ero in orfanotrofio. Certo, ero inserito all’interno di un ambiente benestante, avevo abiti sempre puliti e della misura corretta, seguivo una dieta alimentare mirata a rinforzare il mio fisico, piuttosto cagionevole e debilitato dalla malnutrizione degli anni precedenti, avevo molte cose mie , personali, tra cui una camera tutta per me… Naturalmente avevo il calcio, ma a conti fatti ero solo, anzi ancora più solo di prima. Mia sorella mi era stata tolta con la forza della burocrazia: avevo avuto soltanto lei al mio fianco nei primi anni di vita, ora invece mi ritrovavo di colpo figlio unico, in un ambiente sconosciuto, se non apertamente ostile, difficilmente accessibile, perché di sua natura elitario.

A scuola tutti i miei compagni appartenevano, chi più chi meno, alle famiglie abbienti, che componevano la crème dell’alta società: dirigenti di multinazionali e di banche, impresari, uomini d’affari e di successo, persone influenti a livello nazionale e pure internazionale, in certi casi. Il mio cognome mi dava accesso diretto a quel mondo, ma io ero davvero un pesce fuor d’acqua e i primi anni non sapevo neanche come nasconderlo. Di conseguenza, nessuno mi parlava: i miei docenti erano stati avvisati della situazione e non ci furono mai situazioni di aperta ostilità nei miei confronti, semplicemente tutti tendevano ad ignorarmi. Io per conto mio non sapevo socializzare con quei bambini, tutti così ben vestiti, che parlavano scimmiottando espressioni e movimenti degli adulti: così stavo per conto mio.

Mi impegnavo molto nello studio, mi allenavo da solo nel calcio sotto la supervisione di Kageyama… Per i miei primi anni di scuola, riesco a evocare solo l’immagine del silenzio e di un vacuo vociare indistinto tutto intorno a me. Come ho detto, non molto diverso dagli anni dell’orfanotrofio e quelli precedenti: l’unica differenza, non c’era Haruna. E mi mancava tantissimo.

Era inammissibile che il futuro dirigente dei Kidou fosse così poco socializzato: mio padre e Kageyama, di comune accordo, decisero di mandarmi all’estero per qualche tempo, in modo da migliorare le mie competenze linguistiche e relazionali. Questo avvenne l’ultimo anno delle elementari, che passai principalmente in Inghilterra: naturalmente non potevo stare da solo, così Kageyama si assunse la responsabilità di tenermi presso di sé. Alloggiavamo in alberghi e altre strutture, che in effetti cambiavamo spesso: girammo gran parte dell’Europa in quell’anno, seguendo i suoi impegni di lavoro, che ovviamente a quell’età ignoravo del tutto. Quando non era impegnato, stava con me e mi faceva studiare, in modo che non rimanessi indietro con i programmi scolastici: quando ero da solo mi dava delle commissioni da fare fuori casa. Vidi un sacco di posti stupendi e provai molti cibi, io che ero parecchio schizzinoso con il cibo da piccolo, in quella che fu una lunghissima vacanza, scoprii letteralmente il mondo che c’era al di là del quartiere dove avevo sempre vissuto.

Kageyama era la mia persona preferita, sapeva tutto: era un allenatore eccezionale, parlava più lingue con una scioltezza invidiabile, conosceva ogni cosa che vedevamo, mi illustrava le arti e le scienze, la poesia e la geometria. Ovviamente andammo in vari stadi a vedere disputare partite di squadra straniere, io mi appuntavo i nomi dei calciatori più forti su taccuini che mi portavo appresso sempre, lui mi diceva a cosa fare attenzione durante le azioni di gioco. Ero una spugna e il mondo l’acqua di cui mi imbeveva. Fece di me letteralmente quello che voleva, seguivo ogni suo passo e ammiravo ogni sua azione, ogni sua parola. Desideravo ardentemente che mi volesse come figlio, che ci fosse ancora un modo per cambiare le carte e far sì che acquisissi il suo cognome: chiamarlo “papà”, ammetto, fu il mio sogno segreto e indicibile di quegli anni.

Non successe niente di tutto quello che speravo e a conti fatti oggi posso dire che fu meglio così: ciò che effettivamente successe è che mi trasformò. Da bambino insicuro e schivo, intimidito e alquanto impacciato, acquisii una certa personalità eccentrica: cominciai a voler tenere la mantella rossa sulle spalle e a parlare in maniera più forbita e snob. Kageyama mi insegnò l’etichetta a tavola e nella conversazione, camminavo in maniera più composta e sicura di me, imparai quel modo cortese e distaccato di manifestare emozioni e stati d’animo, di non parlarne... Quando tornai, mi atteggiavo alla perfezione, ero un vero soldatino. Il mio maestro era fiero di me, mio padre mi portava entusiasta ad ogni occasione sociale, come a sfoggiare la mia compostezza ed eleganza, ero proprio il figlio che aveva sognato e il merito era di Kageyama. A dirlo adesso mette i brividi, lo so, ma assicuro che a quel tempo mi sentivo al settimo cielo: i miei adulti di riferimento mi guardavano con orgoglio, ero riuscito a soddisfare le loro aspettative e se avessi continuato a comportarmi così avrei avuto una bella vita. Era rassicurante.

Ma torniamo al calcio. All’inizio di ogni anno scolastico, in vista dell’avvio del torneo nazionale, Kageyama stabiliva la formazione titolare e le riserve della squadra che avrebbe partecipato all’edizione del Football Frontiere fra i ragazzi delle medie superiori, mentre per quelli delle medie inferiori c’era la possibilità di ambire alla squadra di riserva, che avrebbe svolto solo partite amichevoli e avrebbe aiutato negli allenamenti la squadra titolare. Insomma, i raccattapalle: era molto onorevole fare i raccattapalle alla Teikoku in realtà, perché, se ci fossimo fatti notare e in quei tre anni avessimo dimostrato le nostre abilità, a tempo debito avremmo raggiunto la posizione di titolari. Era una cosa seria e c’erano parecchi candidati, nonostante, a conti fatti, anche se si fosse stati scelti, non si avrebbe avuto la possibilità di competere ufficialmente proprio da nessuna parte. Quello che conta è che, a chi piaceva il calcio, poter aiutare negli allenamenti la squadra titolare era un vero sogno di gloria. Così, quando, compiuti i miei nove anni e iscritto ufficialmente al primo anno di medie inferiori, Kageyama stabilì per la squadra di riserva la mia leadership, io ero decisamente contento: vedevo la strada ben spianata, nessun ostacolo si sovrapponeva fra me e il successo… Ma non avevo fatto i conti con quelli che sarebbero diventati i miei migliori amici, ma che, al tempo, non erano affatto miei amici, anzi, da quel momento preciso diventarono i miei bulli.

*

Ero molto frustrato, le cose non andavano proprio come avevo previsto e Kageyama non mi aiutava in nessun modo. Mi aveva fatto dono degli occhialini sportivi per giocare al meglio, ora che facevo parte di un team, e contava su di me per dirigere quelli che erano diventati i miei compagni di squadra. Avevamo a disposizione un campo, un vero campo di allenamento e, prima e dopo gli allenamenti dei titolari, avevamo il permesso di fare qualche passaggio, qualche tiro in porta, insomma di giocare fra di noi. Io volevo mettere in pratica tutto quello che avevo imparato, avevo molte idee e i ragazzi che erano stati scelti con me erano parecchio bravi: tuttavia, disgraziatamente, mi odiavano.

Quando parlavo mi ignoravano, quando giocavamo non mi passavano mai la palla, escludendomi anche dagli allenamenti di coppia e durante il riscaldamento. Era così frustrante. Oltretutto il mio fisico era migliorato in quegli anni e riuscivo a correre molto meglio di prima; tuttavia, loro già si conoscevano e avevano disputato delle partite amichevoli alle elementari, invece io non avevo mai giocato in una vera squadra prima di quel momento. Avevo molto da imparare e nessuno aveva intenzione di aiutarmi, così rimanevo da solo e finivo a sedermi in panchina: con il mio taccuino alla mano, scrivevo strategie di gioco, modulavo azioni, annotando le loro caratteristiche, punti di forza e di debolezza che avrei saputo orchestrare, se solo mi avessero prestato attenzione.

Loro avevano già eletto il loro capitano: Genda Koujirou, il portiere. Era un ragazzino molto alto rispetto a noi altri e si faceva grosso di questo, aveva una voce forte fin da piccolo e quando lo sentivi alle tue spalle faceva parecchia paura. Suo padre era un ricchissimo impresario, sua madre non aveva origini giapponesi, era più giovane del marito, biondissima e portava sempre luccicanti gioielli. Sembravano una coppia da copertina e in effetti lo erano: Genda aveva due sorelle gemelle maggiori, già grandi, che studiavano in una prestigiosa università straniera ed erano il vero orgoglio della famiglia. Lui – adesso lo so, ma a quel tempo proprio lo ignoravo – sentiva molta pressione e voleva primeggiare su tutti. Era facile ma, a confronto con me, era facilissimo . Genda doveva essere il capitano, era lui quello rispettato e temuto, il giocatore indiscutibilmente più forte, quello che dava gli ordini alla squadra… Sentendomi nominare capitano, mi avvertì come un suo nemico e si comportò con me di conseguenza. Io in realtà proprio non volevo essere la nemesi di nessuno, figuriamoci di un tipo forte, alto e spaventoso come Genda. Io volevo solo giocare a calcio in una squadra vera… E non ero un portiere, quindi credevo che io e Genda avremmo potuto collaborare, almeno in campo. Mi sbagliavo di grosso. 

In campo imponeva che nessuno mi ascoltasse, a volte avevo quasi il dubbio che mi vedessero. In aula faceva sempre in modo che rimanessi da solo a fare i lavori di gruppo, cercava di farmi fare brutta figura davanti ai docenti, mi tirava per il mantello, mi faceva gli sgambetti… Era una situazione disastrosa, gli altri compagni di squadra ridevano quando mi umiliava e lui rideva più forte di tutti. Ero disperato e, quando ne parlavo con Kageyama, lui liquidava il problema dicendomi di farmi furbo e di ripagarlo con la stessa moneta. Inutile sottolineare che Genda aveva parecchi centimetri di vantaggio su di me e una personalità molto più carismatica. Io ero quello sfigato, il secchione e il cocco del coach, quello che era diventato capitano solo per raccomandazione, era Genda quello che meritava la fascetta e loro non mi davano modo di dimostrare il contrario. Avevo quasi paura di entrare in classe e sognavo di notte quali altre cattiverie si sarebbe inventato Genda per rendermi la vita un inferno: alla Teikoku vigeva la mentalità per cui “il più forte ha ragione” e Genda era decisamente più forte di me.

*

Il primo membro della squadra che mi rivolse la parola fu Doumen, un tipetto bassino e magro con una voce acuta e un’aria da folletto cattivo dei boschi: nonostante a conti fatti non ci fossimo mai rivolti la parola, ci conoscevamo già da tempo, eravamo stati in classe insieme anche alle elementari, e in squadra era stato scelto con il ruolo di centrocampista, come me. Lo avevo visto allenarsi spesso, aveva uno straordinario equilibrio e i suoi giochi di gambe erano uno spettacolo per gli occhi, sembrava avere una palla stregata fra i piedi. Sospettavo che avesse come antenato una qualche sorta di creatura magica silvana, ma ovviamente non potevo dirglielo, lui era sempre vicino a Genda e io cercavo di stare il più lontano possibile da Genda. Un giorno mi si avvicinò, da solo, mentre camminavo per i corridoi. Con il volto all’insù mi squadrò e mi chiese, diretto e schietto, senza preamboli: -Perché indossi quel mantello da sfigato? Se sei un supereroe non sei uno sfigato, ma devi indossare il costume tutto intero. Poi, quando lo togli, toglilo tutto e vestiti normalmente. Fidati, è meglio.-

Non faceva una piega come ragionamento e seguii il suo consiglio, evitando il mantello quando avevo l’uniforme scolastica e indossavo “abiti civili”: la mia tenuta da supereroe sarebbe stata la divisa della squadra. Quando, nelle settimane seguenti, notò questo cambiamento, cominciò ad annuire con approvazione e lanciarmi ogni tanto delle ammiccate un po’ strane. Era stato proprio strano come primo discorso, ma avrei imparato che Doumen era tutto strano. In ogni caso, non ero sicuro di aver trovato un amico, ma senz’altro non era un mio nemico. Potevo già considerarlo un successo.

Con Narukami ebbi una conversazione più normale, dovevamo consegnare un progetto in coppia alla professoressa di musica e, senza l’aura minacciosa di Genda attorno a noi, ci ritrovammo a parlare, scoprendo di ascoltare gli stessi artisti in voga fra i giovani del momento. Mi prestò alcuni dei suoi dischi e mi consigliò delle cuffie per ascoltare le partite alla televisione, quando era molto tardi la notte e non dovevo fare rumore. Il giorno prima della consegna del progetto scolastico, mentre stavamo lavorando agli ultimi dettagli, sollevò i suoi occhi azzurri su di me e mi disse: -Sei un tipo forte, Kidou.- Era un complimento, ne fui intimamente molto felice.

Tuttavia, sia lui sia Doumen, quando erano con gli altri membri della squadra non mi davano alcun segno di intesa, rimanevano barricati dietro gli schiamazzi collettivi e i cori “sfigato-sfigato” che intonava Genda. Non sarei mai riuscito ad affermare la mia leadership in quel modo, dovevo dimostrare al portiere quanto valevo. Era più facile a dirsi che a farsi, chiaramente.

Con Sakuma fu fin da subito molto diverso: era lui a venirmi a cercare per primo, ad assicurarsi che non fossi sempre seduto da solo in pausa pranzo, a chiedermi se avessi visto quella o quell’altra partita la scorsa domenica e ogni tanto voleva copiare i compiti, accampando sempre qualche scusa strana per spiegarmi perché non era riuscito a completarli a casa. Io lo lasciavo sbirciare dal mio quaderno e mi lusingava quando mi accorgevo che cercava di imitare la mia calligrafia – Kageyama era veramente ossessionato e fin dalle elementari mi aveva fatto esercitare molto, a quell’età eccellevo nei compiti di calligrafia e nei tornei scolastici che ogni tanto venivano indetti risultavo sempre tra i migliori. Insomma, Sakuma mi lusingava e al contempo con lui potevo condividere certe perplessità che sorgevano in me e che invece sembravano non turbare altri nostri compagni: la famiglia di Sakuma, pur essendo molto benestante, non era ricca da generazioni, i suoi nonni erano persone semplici con una casetta graziosa in campagna, fuori città. Mi aveva mostrato alcune foto, con un certo iniziale imbarazzo, che si era subito sciolto notando quanto mi entusiasmasse ciò che mi mostrava e le domande che gli ponevo. La mia curiosità e schiettezza, unite a certe stramberie che ogni tanto ancora mi sfuggivano dalla bocca nonostante gli ammonimenti di Kageyama, suscitò la simpatia del bambino dai lunghi capelli turchesi, che un giorno, quasi per caso, senza darci peso, mi definì “suo amico”, parlando con un vicino di casa incontrato per strada, mentre uscivamo da scuola. Mi sentii avvampare quel giorno, era la prima volta che qualcuno usava quella parola per riferirsi a me: non so se gliel’ho mai detto, ma quel gesto è stato davvero importante per me.

Ora, va detto che, mentre accadeva tutto questo, Genda non era affatto cieco, né sordo. Vedeva e sentiva benissimo come, nonostante i suoi sforzi di rendermi lo zimbello della squadra – sforzi che stavano dando risultati eccellenti a mio dire, considerando che andavo direttamente a sedermi in panchina, senza cambiarmi neanche nello spogliatoio, per il timore che mi avessero riempito di dentifricio la sacca delle scarpe o sporcato con gli evidenziatori i quaderni delle strategie di gioco – nonostante tutto questo, Genda vedeva come stessi in qualche modo intaccando la sua autorità. I suoi compagni non ridevano più subito e così forte quando mi canzonava passando per i corridoi e ogni tanto entravo persino in classe chiacchierando con Sakuma, Narukami mi passava dei bigliettini con scritti alcuni titoli di canzoni da ascoltare all’intervallo con il suo mp3, scendendo in mensa Doumen mi faceva ciao con la mano mentre loro erano già in fila con il loro vassoio… A me non sembrava una situazione pericolosa, circa la leadership e l’autorità di Genda, che mi sembrava comunque ben solida e affermata, ma lui era un bambino a sua volta e la sua competitività aggressiva nei miei confronti era al massimo.

Successe così che una mattina, prima delle lezioni, quando già i corridoi si erano riempiti di studenti che stavano dirigendosi ognuno nelle proprie aule, mi accerchiò, insieme a Jimon Daiki e un altro paio di ragazzi più grossi e intimidatori. Eravamo in cima ad una rampa di scale, io cercai di svincolarmi, dicendo che non volevo fare tardi a lezione a causa loro e che avremmo potuto parlare dopo, ma Genda si fece grosso, gonfiò il petto nella mia direzione e disse qualcosa che non ricordo. Dovetti sostenere il suo sguardo o dire qualcosa che lo irritò: lo feci sentire minacciato, forse avvertì che intorno a lui i ragazzi non erano così convinti di volermi intimidire e che era meglio andare in aula come suggerivo… Fatto sta che mi diede un paio di colpi, con i palmi aperti, sulle spalle: erano fra un colpetto amichevole e un avvertimento, ma, disgraziatamente, era molto più alto e forte di me e io molto agitato. Lui non controllò la propria forza, io non me l’aspettai: persi l’equilibrio e caddi rovinosamente dalle scale, rotolando per la prima e pure per la seconda rompa.

Scoppiò un putiferio: ricordo come fosse ora i docenti che uscivano da tutte le aule, richiamati dal gran vociare che subito dilagò per i corridoi. Urlavano: -Kidou è caduto dalle scale! L’ha spinto Genda! Non si rialza! Si è fatto male!-

Non mi ero fatto male, anzi a dire il vero mi rimisi subito in piedi, cercai di rassicurare i presenti, di dire che era stato un incidente. Da dove ero non riuscivo a vederlo, ma ricordavo bene l’espressione pallida e preoccupata che noi bambini facevamo quando, dopo esserci azzuffati, la maestra all’orfanotrofio veniva a sgridarci ed ero convinto che anche Genda avesse quell’espressione sul volto. Era un bel problema far intervenire gli adulti, significava sempre guai seri, perciò preferivo evitarlo sia per me sia per Genda.

Nessuno sentì ragioni: ricordo che persino Kageyama uscì dal suo ufficio e, senza neanche degnarmi di uno sguardo, chiamò personalmente l’ambulanza, su cui fui portato di peso. Smisi di protestare e lasciai che mi facessero tutti i controlli necessari: arrivò mio padre e i genitori di Genda… Fu un vero disastro. Io in cuor mio speravo che tutti si sarebbero resi conto che non era successo niente di grave: stavo bene, nel rotolare ero riuscito a tenermi la testa fra le braccia e, al di là di qualche livido, ne ero uscito illeso. Le mie certezze di bambino crollarono di fronte alla decisione che venne presa seduta stante, il giorno stesso: Genda sarebbe stato espulso dalla squadra di calcio e avrebbe ripetuto l’anno scolastico.

*

Occorre fare una precisazione: io vissi personalmente con molto shock quella decisione e tutte le conseguenze e le reazioni che comportò quell’azione avventata da parte del mio compagno di squadra. Il mio sbigottimento era derivato dal fatto che venivo da un ambiente, quello dell’orfanotrofio cittadino, dove i bambini erano tutti in competizione fra loro - per fare bella figura di fronte ai visitatori, potenziali nuovi mamma e papà – ma dove al contempo vigeva un codice d’onore non scritto di collaborazione fra i bambini stessi. In particolare, ci si copriva nelle birichinate e marachelle, fra cui le zuffe, che puntualmente accadevano per i più svariati motivi: nessuno voleva andare in punizione, per cui si evitava quanto più possibile di coinvolgere gli adulti. E fare la spia era fra le cose più gravi in assoluto.

Fatta questa doverosa premessa, sarà facile capire il mio totale smarrimento quando, tornato a scuola, fui accolto come un eroe, un figo, “quello che aveva fatto espellere Genda”. Epiteto curioso, visto che non avevo fatto proprio nulla, a parte rotolare da un paio di rampe di scale e non volontariamente. Le voci volarono fra le aule e la dinamica assunse tinte sempre più assurde: in una versione dei fatti avevo aizzato Genda, sbeffeggiandolo e sfidandolo a colpirmi, in una versione addirittura non mi aveva nemmeno spinto e io avevo fatto finta di essere stato colpito… Insomma, più il tempo passava, più agli occhi della Teikoku io ero diventato il più forte, perché il più furbo: avevo con l’inganno e l’astuzia portato Genda, molto più forte di me, a soccombere e ora era stato cacciato. Avevo sconfitto il mio bullo, dimostrando di essere molto più forte di lui, secondo quell’enigmatico – per me – meccanismo di associazione per cui il più forte, alla Teikoku, non era necessariamente il più grosso, bensì quello che imponeva la propria volontà con maggiore abilità e strategia, senza lasciar prove. Insomma, non contava chi dei due avesse avuto torto o ragione, in quello scontro: importava chi dei due si fosse fatto beccare e Genda, da rinomato e autorevole, era finito in fondo alla catena alimentare. Io non mi ci raccapezzavo proprio.

Kageyama mi aveva insegnato tante cose, ma non era riuscito a mettermi in testa uno dei principi basilari della Teikoku, che avrei imparato poi osservando i miei compagni di squadra: il godimento da provare di fronte all’umiliazione dell’avversario, che soccombe nella sua inferiorità ai piedi del vincente. Genda non mi sembrava affatto inferiore a me, nonostante quello che era successo: era stato lui a spingermi, ero io quello che era rotolato giù dalle scale, in modo alquanto patetico e ben poco “da vincitore”. Ma quello non contava più, ormai: ciò che contava era che Genda non avrebbe dovuto agire in quel modo, in nessun caso. E non perché in sé la violenza o l’intimidazione alla Teikoku fossero bandite, anzi erano addirittura premiate e incoraggiate, ma perché Genda aveva agito impulsivamente, “in maniera sciocca e sconsiderata”, volendo darmi una lezione e finendo per essere indifendibile.

-La lezione da imparare è: usa la violenza se serve a raggiungere i tuoi scopi, ma devi essere inattaccabile, non devono avere prove per dimostrare che sei stato tu. Allora sei forte e meriti rispetto.- mi spiegò Sakuma, di fronte al mio sguardo perplesso di bambino. Crebbi così, non posso negarlo in nessun modo, quelli erano i discorsi che serpeggiavano nelle nostre case, che i bambini ascoltavano e che ripetevano a scuola.

A proposito della scuola, Genda per i primi giorni successivi al fatto non si fece vedere. Circolò una voce per cui si era recato in presidenza a lamentarsi del trattamento subito, ostentando il nome della propria famiglia per cercare un qualche tipo di trattamento speciale: Kageyama l’avrebbe denigrato, affermando senza esitazioni che “aveva dimostrato di essere l’anello debole, la pecora nera, il più imbecille della sua famiglia”. Genda, umiliato, si era ritirato e i suoi genitori per qualche tempo non l’avevano mandato a scuola: non so se sia vero, Kageyama non me l’hai mai raccontato e Genda non l’hai mai confermato.

Io, d’altro canto, in quei giorni avevo ben altro a cui pensare: fisicamente stavo bene, non mi ero fatto male - come cercavo pateticamente di sottolineare ogni volta, come se questo potesse in qualche modo salvare Genda dalla propria infamia – emotivamente ero sotto shock. Non mi riuscivo a capacitare del cambio di atteggiamento dei miei compagni di squadra e in generale degli studenti della Teikoku nei miei confronti: fino a qualche giorno prima ero lo sfigato, il secchione strambo, quello da ignorare e che i ragazzi più alti bullizzavano. Di colpo ero stato accettato fra i più fighi, tutti mi salutavano per i corridoi e ammiccavano con sguardi di ammirazione e rispetto, vedendomi passare si scambiavano commenti del tipo “lui è Kidou Yuuto, quello che ha sconfitto Genda”: dal mio punto di vista non l’avevo affatto sconfitto ed ero dispiaciuto che non potesse più allenarsi, perché era il mio bullo, è vero, ma era davvero un ottimo giocatore e la squadra di riserva non aveva un altro portiere. Avrei voluto giocare con lui e provare a fare goal avendolo di fronte…

La cosa ancora più sconvolgente era che sembrava mancare più a me che ai suoi amici: Jimon Daiki, Sakiyama Shuuji, Henmi Wataru, membri della squadra che non mi avevano mai rivolto la parola, di colpo mi ronzavano attorno come farfalle sul miele, mi facevano sedere con loro in mensa, mi spalleggiavano formando una strana corte di cui io ero divenuto il principe d’elezione. Doumen, sempre con quel suo modo strano e alquanto dissacrante, sembrava avermi preso in simpatia e mi dava consigli non richiesti: Narukami e Sakuma mi rassicuravano e mi lusingavano… In pochi giorni tutta la squadra mi parlava, mi chiedeva consigli sull’allenamento da seguire, dicevo qualcosa e tutti ascoltavano, persino i docenti mi rivolgevano sguardi di deferenza. 

Per me era una situazione al limite dell’incredibile, ma non avevo ancora visto niente. Dopo qualche tempo infatti la situazione sembrava essersi assestata e io, ancora leggermente confuso, mi ero appena abituato al mio cambio di status, quando Genda tornò a scuola.

Vissi la notizia del rientro di Genda come l’avvento di un qualcosa di inevitabile, tragico e rassicurante insieme: quell’apostrofo rosa di serenità era finito, Genda sarebbe tornato e avrebbe ripreso il suo posto sul trono che gli spettava di diritto, io sarei tornato ad essere lo sfigato e si sarebbe riequilibrato il mondo che conoscevo. Invece avevo torto, perdutamente torto.

Quando Genda riapparve nei corridoi, tornarono i cori “sfigato-sfigato”, ma erano diretti a lui, questa volta. Io assistevo, completamente incredulo e assalito da una morsa allo stomaco di disagio e dispiacere, a come Daiki, Sakiyama e altri sbeffeggiassero impunemente l’ex portiere della nostra squadra. Ero alle loro spalle, ero dalla parte dei bulli questa volta, stretto nel mio mantello rosso e nei miei dubbi: Sakuma era al mio fianco e guardava con occhi di ghiaccio quello che a lungo aveva definito il suo migliore amico. Mi veniva da piangere ad assistere alla scena, che reputavo incomprensibile: cercavo di contenere la loro cattiveria, di soffocare i loro cori e riportarli in aula. Sentivo gli occhi di Genda su di me e sfuggivo al suo sguardo, senza sapere come comportarmi.

Un giorno, accerchiato e canzonato come al solito, Genda non riuscì a trattenere un sussulto del mento: le sue labbra erano tutte contorte in un ghigno con cui cercava di nascondere il pianto, ma i suoi tentativi furono vani e quei grandi occhi grigi si riempirono di lacrime. Scoppiarono risa di scherno e cori ancora più umilianti -Genda piange come una femminuccia!-: io feci per avvicinarmi a lui, ma mi trattennero per un braccio e Koujirou scappò via. Decisi in quel momento che gli sarei andato a parlare: chi meglio di lui, che era stato il capo dei bulli, poteva aiutarmi a gestirli?

Alla fine delle lezioni dissi ai miei compagni che dovevo trattenermi in presidenza e loro mi lasciarono solo. Il nome di Kageyama metteva soggezione fra tutti i bambini e anche fra parecchi docenti; non lo usavo a sproposito, ma a volte era davvero comodo per evitare scocciature. Cercai Genda e lo seguii per un pezzo di strada senza farmi notare, in modo che non ci avvicinassero altri studenti: non volevo farlo sentire minacciato, dentro di me temevo che mi avrebbe di nuovo picchiato o deriso se mi avesse trovato da solo… Ma non avevo modo di parlargli, se ero con qualcun altro: dovevo riuscirci in quel momento. Lo chiamai e lui di spalle si voltò subito: sul suo volto lessi sospetto e un certo stupore.

-Genda! Stai andando a casa? Posso accompagnarti, ti dispiace?- mossi qualche passo nella sua direzione, sorridendo cautamente.

-Che vuoi, Kidou? Non è di qua, casa tua.- soffiò, sulla difensiva. Il mio sorriso traballò, ma non cedetti.

-Lo so, ma volevo parlarti, se ti va.-

Con un lieve cenno del capo si voltò e riprese a camminare. Lo interpretai come un sì e mi misi al suo fianco: era davvero alto rispetto a me, era una sensazione strana.

-Ascolta, Genda. Mi dispiace davvero per quello che è successo. Non volevo che fossi estromesso dalla squadra… Sei un portiere davvero in gamba e gli altri non si allenano bene da quando non ci sei.-

Lo vidi sussultare, ma non accennò a parlare, così continuai. Mi ero ripetuto il discorso in testa una marea di volte in quella mattinata. – Io ci tenevo tanto a giocare con un campione forte come te. –

Questa volta voltò il capo verso di me e mi vide sorridere, leggermente intimorito dalla situazione, ma sincero: -Ma dico, sei fuori?- commentò, inarcando un sopracciglio, aveva un volto estremamente espressivo e comunicava tutto il suo disappunto e la sua perplessità. -Perché diamine mi parli così da lecchino? Sei tu il capitano, adesso.-

Avvertii l’amarezza con cui sputava fuori l’ultima frase e mi feci avanti, per quanto molto più piccolo di lui: - E’ vero, sono il capitano, ma quelli sono i tuoi amici e quella rimane la tua squadra. Non possono giocare senza di te… Io non posso essere il capitano di questa squadra, se non ho te che mi copri le spalle, Genda.-

Qualcosa nel mio tono doveva averlo convinto, forse lusingato, perché accennò un sorriso strano, come uno sbuffo di riso: - Sei davvero strambo, Kidou. Che discorsi fai? Io non ti ho mai coperto le spalle… Come fai a sapere di non poter giocare, se non ci sono io in porta?-

-Perché sei tu il re del campo, con quella criniera che ti ritrovi.-

Era una battuta, la prima battuta che facevo a Genda. Avevo imitato quel tono beffardo e intimidatorio che avevo sentito usare da lui e da molti altri di cui si era circondato. Ero ad un bivio: o si metteva un sacco a ridere e apprezzava o mi odiava e mi prendeva a calci. Non vedevo altri scenari possibili e avevo deciso di scommettere, d’altro canto non avevo avuto idee migliori: lui mi squadrò un momento, come preso alla sprovvista, poi mi diede un leggero e amichevole pugnetto in testa e scoppiò a ridere di gusto.

-Sei veramente un pazzo, ma d’accordo, Kidou! Sarai il mio capitano, se continuerai a chiamarmi re.-

-Ci sto, Genou!- ci scambiammo una stretta di mano, i suoi occhi erano stupiti e commossi.

-Genou? Sì, mi piace.-

Era un discorso completamente assurdo, lo so, ma avremmo compiuto da lì a qualche mese dieci anni ed eravamo entrambi molto spaventati, in fin dei conti.

*

Da quel momento presi l’abitudine di accompagnare a casa Genou sempre più spesso. I primi tempi non mi facevo vedere dagli altri compagni, ci davamo appuntamento in certi punti della strada e chiacchieravamo del più e del meno: lui era stranito dal modo in cui vedevo le cose e da come mi stupivo di certe dinamiche a scuola. In effetti, mi continuava a canzonare, ma c’era del rispetto nel suo tono di voce adesso: mi ammirava, si fidava di me. Fu lui a darmi le dritte migliori su come gestire certi membri della squadra, su come farmi rispettare: mi insegnò a dare ordini, letteralmente. La fiducia e la stima erano reciproche, si mise poco ad accorgersi che ero dispiaciuto quasi più di lui per quello che era successo, che appena avessi avuto modo avrei fatto di tutto per farlo riammettere e che non portavo rancore: non era esattamente una virtù alla Teikoku, ma era una caratteristica che ci accomunava e in breve ci scoprimmo più che amici, alleati.

A scuola, nei corridoi, grazie ai suoi consigli riuscivo a far rigare dritta tutta la squadra e a difendere anche Genda: ci volle tutto l’anno, ma smisero i cori di scherno nei suoi confronti e la considerai la mia prima grande vittoria in quella scuola. Avevo guadagnato uno status encomiabile e anche Kageyama era particolarmente ammirato della direzione della squadra, nonostante non facesse domande specifiche si era accorto che ero riuscito a imporre la mia autorità e intimamente ne ero molto appagato. Mi lasciava pressoché carta bianca, a patto che rispettassimo gli impegni presi con la squadra titolare e non facessimo danni all’attrezzatura: già nel corso di quell’anno portai Genda al campo di allenamento, anche se non avrebbe avuto il permesso per esserci, forte del titolo di capitano e regista che Kageyama mi aveva assegnato.

L’anno seguente Genda fu riammesso alla squadra di riserva, ma ci allenavamo già insieme da parecchio tempo in maniera ufficiosa: non avevo avuto torto, Genda era davvero il cuore pompante della squadra, la sua energia passionale muoveva tutti e ispirava l’autorevolezza necessaria, che alla mia figura mingherlina mancava. Grazie alla sua sola presenza, il gruppo era più compatto e sicuro di sé: Genou parava ogni colpo e passava la palla a me, stabilendo con quel suo tono forte e combattivo “di seguire gli ordini di Kidou”.

A quel punto, ero davvero diventato il capitano della Teikoku Gakuen.

author's corner
Questo è un capitolo che racchiude moltissimi dei miei headcanon più cari che spero siano apprezzati.
Sinceramente mi sono sempre chiesta come abbia potuto Kidou imporre la sua leadership sulla Teikoku senza... qualcosa (?)... in mezzo.
Genda è il best boy ever <3
Grazie a tutti e spero che vi sia piaciuto!

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Capitolo 4
*** 14 aprile ***


-Kidou! Eccoti qua, ti cercavo. Allora, che si fa? Hai presente che è fra una settimana, il nostro compleanno?

-Il … nostro compleanno?-

Quella conversazione (avvenuta salendo le scale in direzione delle aule, con annessa spallata da parte di Genou, che, per amore di cronaca, non aveva perduto il suo potenziale di annientamento nei miei confronti) fu un altro fondamentale turning point nella storia del consolidamento della nostra amicizia. Si tratta di un aneddoto divertente, che va spiegato dall’inizio.

Ebbene, chiariamolo fin da subito: io e Genda siamo nati lo stesso giorno dello stesso mese dello stesso anno, in altre parole condividiamo il giorno del compleanno. Curioso, direte voi, e carino: due amici e compagni di squadra che fanno gli anni lo stesso giorno. Quante probabilità ci sono che succeda? Alte, in realtà: secondo il cosiddetto paradosso del compleanno, per quanto possa sembrare incredibile, in un gruppo di 57 persone, le probabilità che due siano nate lo stesso giorno supera il 98%. Vi dirò di più: in un gruppo di 23 persone, com’era il gruppo classe all’epoca, la probabilità che due abbiano lo stesso compleanno si aggira intorno al 51%... La teoria della probabilità e i suoi paradossi mi hanno affascinato fin da piccolo e vi illustrerei volentieri il grafico che dimostra questi numeri, ma cercherei di non perdere il focus del discorso, per il momento. Se vi interessa ci torniamo più tardi!

Vorrei chiarire, anche se forse è una specificazione superflua, che, quando realizzai questo fatto, non il paradosso del compleanno, ma il fatto che io e Genda compivamo gli anni lo stesso giorno, non ne rimasi particolarmente scosso. A dire il vero, nei miei ricordi di bambino, non ricordavo festeggiamenti in occasione del mio compleanno: quando vivevo ancora con i miei genitori non so (ahimé ero troppo piccolo per conservare ricordi di qualche tipo) e quando ero in orfanotrofio non era prassi festeggiare ogni singolo compleanno di ogni bambino, le maestre procedevano diversamente, ovvero periodicamente veniva organizzato un pomeriggio di giochi speciali e di festa, veniva cucinato del cibo che non veniva servito di solito alla nostra mensa, e si festeggiava il compleanno di tutti i bambini che avevano compiuto gli anni in quel periodo. La vita era all’insegna del collettivo, nell’istituto, e io a lungo conservai quell’approccio, pur essendo diventato un Kidou.

Il primo compleanno festeggiato a casa Kidou fu una giornata incredibile, la ricordo come fosse ieri. Naturalmente conoscevo la mia data di nascita, ma nei giorni precedenti ero stato timoroso all’idea di comunicarlo al mio genitore e al personale di casa. Mi ero interrogato, fra me e me, sulle modalità più congeniali per informare gli adulti attorno a me di questo imminente evento, qualora non ne fossero già al corrente. Non sapevo se potevo darlo per scontato o meno: insomma, quel signore mi intimava con gentilezza di chiamarlo “papà” e provvedeva alle mie necessità, ma sapeva qual era il giorno del mio compleanno? Glielo dovevo forse ricordare io? Nessuno diceva nulla e io ero davvero confuso a riguardo.

Naturalmente desideravo avere Haruna al mio fianco, lei sicuramente si ricordava che era il compleanno del suo fratellone e avrebbe senz’altro preparato un bel disegno e mi avrebbe cantato una canzoncina appena sveglio... Invece Haruna non c’era e io quel giorno mi svegliai in quell’immenso letto a baldacchino, con la luce del giorno che filtrava dalle tende e quel piacevole profumo di primavera nell’aria che si sente sempre in aprile. Scesi come al solito per fare colazione e mi ritrovai l’ampia sala da pranzo addobbata in maniera curiosa: un grande palloncino tutto blu appeso alla mia sedia, con scritto “buon compleanno”, la tavola apparecchiata con leccornie speciali per l’occasione… Ricordo mio padre, che mi raggiunge da dietro, mi accarezza sul capo e mi intima di sedermi. Raramente facevamo colazione insieme, spesso mi svegliavo e mi preparavo per andare a scuola con solo il personale di casa presente, lui era già uscito per andare a lavoro. Invece quel giorno era con me e io ero senza parole dalla sorpresa.

I primi compleanni a casa Kidou vennero condotti in solitaria, c’era il personale di casa che addobbava sempre la mia stanza e la sala da pranzo, preparavano i miei piatti preferiti, e naturalmente c’erano i regali. Papà non badava a spese e io, che avevo passato anni a non possedere nulla di mio, scoprivo la fascinazione del veder esaudito ogni desiderio. Beh, non proprio ogni desiderio, in realtà. Forse fu la mia ostinazione nel chiedere ogni anno, con risolutezza e persistenza, di mia sorella, a convincere mio padre e Kageyama a stilare il patto: già alle elementari imparai che avere a disposizione tanti soldi non è sufficiente a sentirsi felici, amati e protetti. Forse per dissuadermi da quello che sembrava il mio pensiero fisso, in occasione del compleanno, un bel giorno, quando ero tornato dal lungo viaggio in Europa ed ero iscritto al primo anno di scuole medie inferiori, mio padre mi disse: -Perché non inviti i tuoi amichetti di scuola, prossima settimana? Possiamo fare una festa qui per il tuo compleanno.-

Ora, immaginate lo scenario più catastrofico, deprimente, mortificante e scoraggiante che riuscite. E moltiplicatelo per nove, ovvero gli anni che avevo vissuto fino a quel momento e che mi pentii di aver vissuto.

Mettetevi nei miei panni: avevo una spasmodica necessità di farmi bello agli occhi del mio genitore adottivo, sapevo che Kageyama evitava ogni possibile attrito mettendoci di tanto in tanto buone parole – nonostante il suo comportamento nei miei confronti fosse ambivalente e oscuro per il me bambino di quegli anni, che passava dal sentirsi venerato, al centro del mondo, meritevole di attenzioni e un trattamento speciale, a venire sistematicamente escluso, ignorato e maltrattato. A livello verbale sia chiaro, nessuno mi ha mai picchiato in quella casa, papà non era tipo da alzare le mani e il Comandante al massimo alzava la voce (e fidatevi se vi dico che faceva paura, avrei preferito uno schiaffo a volte). In ogni caso, non volevo far sfigurare papà e raccontargli che venivo bullizzato a scuola: non era esattamente un grande biglietto da visita da offrirgli, per presentarmi come candidato perfetto al ruolo di futuro dirigente aziendale della sua attività. Dovevo essere molto meglio di così e ci stavo lavorando, sul serio: come ho avuto già modo di raccontare, Kageyama purtroppo in quella fase mi aiutava poco e Genda era un avversario temibile. Già non mi apprezzava a livello personale - chissà perché poi -, aveva sviluppato una forte avversione nei miei confronti a livello calcistico - ero molto orgoglioso del ruolo di capitano che Kageyama mi aveva assegnato, le sue lodi erano così rassicuranti alle mie orecchie di bambino, però non si può dire che Genda condividesse la mia gioia - e quella faccenda del compleanno lo stesso suo giorno non era esattamente l’ideale per farmelo amico. O per farmi degli amici, più in generale.

Ero consapevole che la situazione fosse disperata, ma non potevo certo andare da mio padre a dirgli: -Guarda, il compleanno con gli amici non si può fare, perché in effetti non ho amici, a scuola tutti mi bullizzano, generalmente sono odiato, guardato di sbieco, anche se al momento non ho ancora capito perché, e nel migliore dei casi non mi parlano. Per cui, grazie per il pensiero, come avessi accettato, ma davvero, lasciamo perdere, festeggiamo qua in casa come abbiamo sempre fatto fra di noi, anzi, perché non ne approfittiamo per cercare di incontrare mia sorella? Forse la sua famiglia adottiva non è distante e sarebbe bello passare la giornata tutti insieme-. Era fuori discussione, era un discorso da debole, da persona senza spina dorsale e io ero un Kidou, decisamente dovevo agire diversamente. Così, mi consultai con il mio maggiordomo Hakamada per i dettagli tecnici su come si invita degli amici a casa per una festa di compleanno e tentai quell’impresa che, a posteriori, non esito a definire patetica ed estrema, davvero disperata. Fu un fiasco totale, come facilmente avete potuto immaginare da questi preamboli.

Provo imbarazzo e vergogna anche semplicemente a rievocare il ricordo di quel pomeriggio, con la sala addobbata con i festoni, tutti i palloncini che affollavano il pavimento rendendo la scena ancora più vuota e silenziosa, la tavola apparecchiata con molto cibo che non avrebbe mangiato nessuno, i segnaposto con i nomi delle persone che non si erano presentate… Una scena davvero straziante, ne converrete. Fortunatamente mio padre non era in casa ad assistere a quella patetica ammissione del mio fallimento in termini di vita sociale: io mi sentivo ugualmente come se avessi avuto gli occhi di tutti puntati addosso, proprio perché non c’era nessuno. Anche Genda faceva una festa e naturalmente erano andati tutti da lui. E io non ero stato invitato. Triste? Oltremodo. Avevo ancora molto da imparare e in quel momento, di fronte a quella festa a cui non si era presentato nessuno, dubitai delle mie capacità di condurre quel genere di vita, forse Kageyama si era sbagliato e quella raccomandazione per la famiglia Kidou si sarebbe rivelato un fiasco totale.

Mentre ero perso in quel tipo di riflessioni, calciavo senza grande trasporto un palloncino contro il muro, in modo che rimbalzando mi tornasse vicino. Era un movimento che facevo quasi di riflesso, senza intenzione, ma con un colpo troppo forte direzionai il palloncino altrove e lo persi di vista – gli occhialini, pur permettendomi di concentrare lo sguardo sul gioco davanti a me, non garantivano una vista periferica eccellente. Così, non mi accorsi di Hakamada, che raccolse il palloncino e lo direzionò con un lancio verso di me: me lo rividi di fronte, con grazia aveva disegnato un arco sopra di me e mi cadeva ai piedi.

Raccolsi il palloncino fra le mani e mi voltai, insicuro: il maggiordomo si era avvicinato e stava davanti a me, conservando quella disinvoltura da maitre, ma qualcosa nella sua postura si era fatta più sciolta, disinibita, anche se non riuscivo esattamente a capire cosa fosse cambiato. La sua espressione era sempre alquanto indecifrabile e quel monocolo che indossava era talmente tanto antiquato, anacronistico perfino, da risultarmi simpatico: aveva senz’altro personalità e senso dell’umorismo, ma con mio padre era sempre molto rispettoso e serio, non riuscivo a capire come collocare quel suo eccentrico accessorio antidiluviano. Aveva folte sopracciglia cespugliose che gli coprivano per gran parte lo sguardo, nel complesso era un soggetto molto misterioso nella mia vita, ma c’era stato fin dal primo giorno e ritenevo di potermi fidare, aveva sempre provveduto a me con alacrità e premura.

Trovarmelo vicino mi mise di buon umore, nonostante la desolazione della situazione, e osai rilanciargli il palloncino, quella volta con intenzione, guardandolo negli occhi. Lui fece un leggero saltello e afferrò al volo il palloncino, ricadendo sui tacchetti delle scarpe che indossava tutto il personale domestico. Sorrisi, contento e stupito, e lui ricambiò con una lieve e affettuosa distensione delle labbra. Un altro maggiordomo, coetaneo di Hakamada o forse un poco più grande, raccolse un palloncino da terra e senza essere visto glielo tirò in testa. Ricordo il modo in cui rimbalzò sulla sua fronte, scompigliandogli alcuni ciuffi, e l’indefessa espressione di calma con cui si voltò in direzione del suo avversario, raccogliendo le braccia dietro la schiena. Io mi stavo piegando in due per non scoppiare a ridere, era davvero buffo il modo in cui gonfiava le guance quando si innervosiva.

Guerra di palloncini fu, molto rapidamente per giunta; per quanto, con la lucidità di adesso, mi rendo conto che quell’atmosfera fu creata per me, per stemperare la tensione del momento, non ebbi la sensazione che si sforzassero troppo. Non fu costruito, come momento, anzi, furono molto giocosi: probabilmente, se ci fosse stato mio padre in casa sarebbe stato diverso, ma a conti fatti quel pomeriggio in casa c’era solo un bambino mortificato, la cui festa di compleanno era stata un fiasco e che doveva ispirare una certa tenerezza, se non pietà. Quelle persone mi avevano visto entrare nella famiglia Kidou e fin dal primo giorno avevano potuto osservare le difficoltà che vivevo e gli sforzi a cui mi sottoponevo per essere all’altezza delle aspettative. Probabilmente lanciarsi i palloncini fra loro, mangiare con me la torta che era stata ordinata dal miglior pasticcere della città, aiutarmi a montare la pista di automobili per farle correre sul tappeto fu un modo per dimostrarmi la loro vicinanza e farmi sentire a casa. Ci riuscirono: nonostante il grande imbarazzo e mortificazione di quel giorno, l’espressione di Hakamada mentre gli rimbalza il palloncino giallo in faccia mi è rimasta impressa e mi fa ridere ancora adesso.

In ogni caso, avevo deciso che con i compleanni avevo chiuso. Era decisamente troppo complicato e, finché la situazione in merito alla mia vita sociale non fosse migliorata in maniera significativa, non avrei rischiato di trovarmi in un’altra situazione altrettanto mortificante. Poi passò il primo anno di scuole medie inferiori, in cui vissi una vera rivoluzione dal punto di vista delle amicizie. Con tutto quello che era successo, in classe e in merito al club di calcio, non avevo certo più pensato all’incresciosa dinamica del compleanno condiviso con Genda: così, la sorpresa fu enorme quando mi sentii rivolgere quello che sembrava un invito a festeggiare insieme, io e lui.

-Kidou-kun! Eccoti qua, ti cercavo. Allora, che si fa? Hai presente che è fra una settimana, il nostro compleanno?

-Il … nostro compleanno?-

-Ascolta: patti chiari, amicizia lunga. Non ha senso continuare a litigarci così le cose: la posizione in classe, la fascetta da capitano… persino il compleanno mi vuoi rubare?-

Dovevo essere sbiancato di paura a quelle parole, perché mi fissò per un lungo momento e poi scoppiò a ridere di gusto. Io, senza idee, emisi un risolino di compiacenza, sentendo brividi lungo la schiena. Era terrificante non sapere se mi avrebbe preso a calci o se voleva solo burlarsi di me.

-A quanto pare ti piace avere più cose possibili in comunione con me, e lo posso capire, in effetti è comprensibile che tu mi prenda come modello.- alzò il mento con alterigia, appoggiando le mani sui fianchi e gonfiando il petto. Sembrava uno di quei grossi felini della savana, ma evitai di farglielo notare, non avevo ancora capito esattamente dove volesse andare a parare con quel suo strano discorso. Avrei voluto avere il suo ego.

-Ma capisci che la situazione sta cominciando a farsi problematica, non possiamo fare il compleanno seriamente lo stesso giorno.–, mi fissò con quei suoi occhi grigi così affilati e nel suo sguardo incisivo colsi qualcosa.

Finalmente, dall’inizio di quella conversazione, intuii le sue reali intenzioni: fino all’anno precedente era convinto di potermi battere facilmente e in effetti così era stato, aveva aizzato lungamente il bullismo nei miei confronti e aveva reso la mia festa di compleanno un trauma indicibile… Ma adesso era diverso. Adesso rischiava di essere lui, quello che si ritrovava senza invitati alla sua festa, perché tutti avevano preferito andare da un’altra parte. Non avevo considerato la dinamica da quel punto di vista: per un momento, scoprendo l’ansia nei suoi occhi, sentii il mio ego accarezzato da ciò.

Detto questo, con un’altezzosa scrollata di spalle, impersonai il capitano della Teikoku con disinvoltura e proferii: -Hai ragione, è oltremodo sconveniente contenderci la festa di compleanno, mettiamo in imbarazzo la squadra. E poi, non vorrai mica non venire alla mia festa, Genda-kun.- sibilai e vidi una luce bella, amichevole nei suoi occhi. Era grato della complicità che gli stavo offrendo, senza dover aggiungere nulla.

Concordammo giocosamente i dettagli e quello fu il primo anno di festeggiamenti condivisi: il 14 aprile divenne il “nostro” compleanno , mio e di Genda, e fu sempre una festa indimenticabile.

author's corner
Da quando ho scoperto che Kidou e Genda compivano gli anni lo stesso giorno sapevo che avrei dovuto scrivere qualcosa a riguardo.
Grazie a tutti e a presto <3

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Capitolo 5
*** Una mamma ***


 

-Ehi Kidou! Dato che oggi pomeriggio non abbiamo allenamenti, ti va di passare da me? Facciamo i compiti insieme e poi merenda, mamma fa dei biscotti super, li devi provare!

Forse anche Sakuma ricordava quel giorno, anche se non ci avrebbe scommesso. Sicuramente, però, per lui quel ricordo non era così significativo ed intenso come lo era per Kidou. Rievocava ancora senza sforzo quella sottile e avvolgente euforia mista ad ansia che l’aveva subito fatto annuire: sorpresa e contentezza muovevano il suo spirito di fanciullo che, inesperto di simili esperienze di condivisione fra pari, si ritrovava per la prima volta ad aver ricevuto un invito a casa di un amico. Era un evento tutt’affatto che raro o sbalorditivo in realtà, perciò cercò quanto più possibile di dissimulare la forte emozione che provava: non dovette essere un tentativo molto riuscito, perché Sakuma ridacchiò, guardandolo gongolare sul posto e riflettere ad alta voce che doveva subito chiedere il permesso a suo padre. L’amico gli aveva detto che non c’era fretta, poteva benissimo chiederlo quando fosse tornato a casa – a volte Kidou era proprio strano… Ma il coetaneo era già scappato via, in direzione della presidenza: anche lì ricevette lo stesso consiglio, avrebbe potuto parlarne a casa con suo padre. Così, Yuuto attese particolarmente emozionato la conclusione di quella mattinata di lezioni.

Tornato alla propria abitazione, annunciò trionfante l’invito ricevuto, di fronte allo sguardo impietosito dell’adulto. Quel bimbetto figlio di immigrati, orfano e gracile, nonostante tutto l’impegno e le lezioni sue e del signor Kageyama, manteneva un’indole che ispirava commozione… per non dire compassione. Stava invero dimostrando ottime attitudini, avrebbe ottenuto la migliore educazione e sarebbe stato inserito nell’ambiente più consono alle sue capacità - ambiente che non avrebbe mai raggiunto se non fosse stato per il loro intervento. Era quasi toccante.

Concesse il permesso a suo figlio di recarsi a casa della famiglia Sakuma quel pomeriggio e ne approfittò per alcune raccomandazioni doverose: vestirsi bene, portare un presente per ringraziare dell’ospitalità, salutare i genitori del suo amico, rispondere in maniera educata alle domande che gli venivano rivolte, non interrompere, non creare disturbo o disordine e convenientemente ritirarsi all’orario pattuito con l’autista senza farlo aspettare oltre. Yuuto trotterellò contento in camera sua, aprì il suo armadio e indossò il suo maglioncino preferito – rosso, con delle bordature blu sulle maniche e sul colletto. Preparò la cartella e tutto l’occorrente per fare i compiti lontano dalla propria stanza: chissà se anche Sakuma aveva tutte le penne colorate e con che colore preferiva scrivere. Si ritrovò a fantasticare e porsi domande a cui non vedeva l’ora di trovare una risposta, circa la stanzetta e la postazione di studio del suo amico. In effetti non aveva mai visto un’altra stanza, al di là della propria, e l’attesa andava fomentando l’aspettativa.

Scese dall’auto tutto contento, cerimonioso quasi: all’autista di casa, nel vederlo, parve quantomeno insolito un tale entusiasmo, ma non commentò, aiutandolo a scendere e salutandolo. Il bambino ringraziò con grande deferenza e rivolse lo sguardo alla casa di fronte a sé. Era una villetta indipendente di dimensioni molto più contenute di quella dove abitava lui, ma il giardino fuori era grazioso e ordinato, sul fondo si intravedeva anche uno scivolo su cui avrebbe volentieri giocato, se non avesse avuto troppa paura di sporcare i vestiti nuovi. Stringendo a sé il pacchetto che suo padre gli aveva dato come presente per i suoi ospiti, colto da un improvviso timore per l’ambiente sconosciuto dove andava introducendosi, Yuuto si alzò in punta di piedi e suonò al campanello di casa. Sarebbe stato sconveniente mostrarsi esitanti a quel punto, tuttavia realizzò che avrebbe potuto aprire chiunque la porta e lui, oltre a Jirou, non conosceva nessuno. I suoi timori si alleviarono vedendo spuntare sull’uscio proprio il compagno di classe, che agitò la mano in alto, in segno di saluto. Gli aprì il cancello e gli andò incontro: Kidou si introdusse nel giardino con le spalle chine, leggermente circospetto, guardandosi attorno pieno di curiosità, pronto a carpire ogni dettaglio.

Da quella prima volta, Kidou sarebbe entrato tantissime altre volte a casa di Sakuma, ma non avrebbe mai abbandonato quell’atteggiamento indiscreto, non avrebbe mai smesso di alzare di qua e di là gli occhi, affamati e ingordi di informazioni, anche semplici, banali, prevedibili, che accendevano qualcosa nel suo sguardo. Era come se fiutasse nell’ambiente domestico caratteristiche, storie, impressioni di chi lo abitava. Quel suo atteggiamento indagatore e incuriosito era qualcosa che sarebbe rimasto, anche a distanza di anni. Forse faceva parte del suo modo per adattarsi ad un ambiente dapprima sconosciuto e poi comunque estraneo alla sua quotidianità: forse erano proprio le altrui quotidianità ad attrarlo, come se potesse ammirare la possibilità che quella casa, in cui era ospite, fosse la sua. Forse, più semplicemente, da quando era rimasto orfano e aveva abbandonato la casa natia, era condannato a sentirsi ospite dappertutto.

Non che Sakuma elaborasse pensieri così complessi, vedendo il suo amico finalmente giungere in casa sua. Semplicemente era contento che fosse venuto. Lo fece accomodare, spiegandogli che suo padre era a lavoro e in casa c’era solo la sua mamma, che era curiosa di conoscerlo. Yuuto si impettì: non aveva mai parlato con una mamma. Si chiamava Mio ed era in cucina, in quel momento, a preparare il vassoio della loro merenda. Non era molto alta, aveva lunghi capelli lisci, chiari e raccolti in uno chignon, e indossava un grembiule bianco. Nei ricordi di Kidou avrebbe sempre profumato di lievito e bacche di vaniglia, come in quel loro primo incontro. Sakuma si era allontanato per far uscire il cane, in modo che non spaventasse Kidou: era un simpatico e ormai vecchio cagnolone con la lingua sempre penzoloni, ma sua mamma tutte le volte gli rammentava che le persone estranee potevano non essere abituate alla presenza di un animale in casa e doveva sempre fare in modo di mettere a loro agio gli ospiti. Yuuto, nel frattempo, si era doverosamente inchinato per salutare la padrona di casa, tutto rigido nelle sue spalle magroline.

La mamma di Jirou gli aveva sorriso con calore, dicendogli di alzare il capo: poteva chiamarla semplicemente Mio, non c’era bisogno di tante formalità, anche se era davvero educato e aveva fatto un inchino alla perfezione. Yuuto era arrossito per i complimenti ricevuti da una persona sconosciuta, dentro di lui batteva ancora il cuore dell’orfano speranzoso all’orfanotrofio: aveva porto in avanti il presente, specificando che lo mandava suo padre con grandi ringraziamenti per averlo invitato. Mio, per tutta risposta, aveva preso dal vassoio che aveva appena finito di sistemare un biscotto con una spolverata abbondante di zucchero a velo e con un occhiolino lo aveva offerto al bambino:

-Ti piacciono i biscotti, Yuuto-kun?-

Kidou annuì con foga e gli occhi brillanti, accogliendo fra le mani il dolcetto. Ringraziò a voce alta e lo portò alle labbra senza indugi: lo zucchero a velo gli sporcò il naso e lo fece starnutire in una maniera che la donna trovò adorabile. Con un fazzoletto si chinò a pulirgli il nasino, pensando che era davvero un bambino molto sfortunato, ad aver già perso i genitori a quella giovane età. Tuttavia, nella disgrazia, era stato adottato da una famiglia davvero prestigiosa, che gli avrebbe garantito un futuro splendido. Sperava soltanto che non fosse troppo difficile per lui, suo figlio gli aveva raccontato quello che era successo tempo addietro con il figlio minore dei Genda e che solo recentemente si stava facendo degli amici. Era stata lei a consigliare Jirou di invitarlo a casa per fare i compiti insieme e suo figlio non se l’era fatto ripetere.

-Sono contenta che tu sia qui, Yuuto. Vai da Jirou adesso, non ti preoccupare, grazie per essere passato a salutare. Quando è tutto pronto vi porto di sopra la merenda.-

-Grazie signora Mio, ci vediamo dopo allora!- salutò Kidou tutto contento, leccandosi appena le labbra per togliere i residui di zucchero. Era il biscotto più buono che avesse mai mangiato.

*

I pomeriggi a casa Sakuma divennero presto un’abitudine consolidata per il giovane Kidou, che per un periodo passò quasi più tempo a casa dell’amichetto che non nella propria. Adorava stare lì e, vinte le iniziali timidezze, dimostrava una confidenza con gli ambienti che faceva bene al cuore a guardarlo. Con Jirou e con gli altri compagni che talvolta si aggiungevano, formavano un gruppetto caotico e giocoso: studiavano rotolandosi sul tappeto, litigavano per il controller della console di gioco, rincorrevano il pallone in giardino inseguiti dal cane scodinzolante, che per primo andava a riposarsi all’ombra e che spesso veniva imitato.

Kidou sembrava molto a suo agio in un ambiente con tanti bambini attorno e anche i compagni di suo figlio sembravano alla donna cambiati, da quando c’era lui: era come se avessero acquisito un affiatamento diverso, una certa intesa e unione attorno a quel bambino che non si era mai visto e che recentemente era stato riconosciuto come membro del gruppo. Non che avesse doti da leader innate, ma qualcosa nel suo atteggiamento li faceva ridere e al contempo ispirava di novità e curiosità: diventarono più complici, fra loro non facevano più la spia, anzi cercavano di coprirsi a vicenda nelle marachelle che si inventavano, ringalluzziti dai permessi che Kidou otteneva prima di tutti gli altri. Lo seguivano a ruota, adoravano i suoi giocattoli: aveva i modelli più recenti e costosi e dimostrava una propensione innata alla condivisione, che certo non gli aveva insegnato la famiglia adottiva, ma gli apparteneva da prima. I bambini erano affascinati dal fatto che avesse una macchina che lo andava e veniva a prendere quando voleva, fra le altre cose, e di fronte a certe sue stranezze lo prendevano in giro, ma erano pronti a fargli da scudo tutt’attorno quando a scuola tirava una brutta aria.

Ma non era solo quel piccolo Kidou ad aver influenzato gli amichetti di Sakuma, anche loro gli stavano insegnando delle cose. Di giorno in giorno, il nuovo capitano, che quando giocava indossava quella vivace mantella rossa, assumeva sempre più una posa carismatica, quasi da diva: la sua figura sprizzava sicurezza goliardica, vedendoli insieme era evidente come cercasse di imitare il tono dei suoi compagni, quel modo di tenere il petto all’infuori e di stringere i pugni per destare paura e soggezione negli altri. Imparava a ostentare ciò che aveva, a sentirsi confidente con il suo nome e con l’ambiente che frequentava, in cui era sempre più inserito. La casa di Sakuma era la sua alcova di benessere e la sua palestra sociale: sembrava rilassato all’idea di trovarsi lì, al contempo la viveva come il momento delle prove sul palco, precedente allo spettacolo vero e proprio.

-Sai, Sakuma.– gli disse una volta, mentre erano loro due soli, seduti sul tappeto della camera da letto del celeste e sfogliavano dei giornalini: –Tua mamma è proprio bella.-

Era disteso supino, con i gomiti appoggiati a terra su cui faceva leva per sollevare il busto. Aveva alzato lo sguardo dalla rivista e teneva gli occhi su uno scaffale della libreria, su cui erano posizionate alcune foto incorniciate della loro famiglia: mamma e papà seduti sulla spiaggia e fra loro un piccolo Jirou di due anni, una un poco mossa dove di spalle si vedeva suo padre che camminava tenendo Jirou sulla schiena, la sua mamma sdraiata sul tappeto, con i capelli tutti in disordine che rideva abbracciando il suo cane, Jirou in groppa al cane… Erano foto domestiche o di vacanze, che trasmettevano pace nell’animo di Yuuto e un pizzico di invidia. Erano proprio felici e sembrava che sarebbe stato così per sempre. Avrebbe voluto anche lui avere delle foto così con sua sorella e i suoi genitori.

-Beh sì… Immagino di sì…-, aveva risposto intanto Jirou, un poco perplesso e inquietato dal commento del coetaneo. Avevano dieci anni e, insomma, era strano che un suo compagno di squadra facesse degli apprezzamenti su sua madre. –E’ mia madre…- ripeté, come se ciò bastasse a liquidare la riflessione che aveva suscitato in Yuuto la necessità di fare quel commento proprio strano.

Non che in Kidou ci fosse malizia di qualsiasi tipo, ma non fece mai mistero del fascino di quell’ambiente e di quella figura nella sua vita. Mio invero gli si era affezionata, lo accoglieva sempre con piacere in casa, preparandogli i piatti che sapeva gli piacevano di più; lo stava effettivamente vedendo crescere. I commenti provocanti e maliziosi nella squadra, all’ingresso delle loro medie superiori, si infittirono, divennero letteralmente un tormentone delle loro giornate.

*

-Devo sperare che venga Kidou a casa mia: se non c’è lui, mamma mica li prepara i biscotti e le torte buone!-

Si stava lamentando Sakuma con Genda, mentre finivano di farsi la doccia, dopo gli allenamenti. Il portiere si tamponava i capelli, ascoltando il compagno parlare con occhi divertiti. 

-Pensavo, essendo figlio unico, di essere scampato a certi paragoni: invece, da quando viene Kidou a casa mia, i miei sono sempre lì a dirmi “perché non studi come Yuuto, perché non prendi i voti alti di Kidou-kun?”: è la mia rovina!- e ancora… -Mi ha persino chiesto se poteva chiederle il numero di telefono!-

-Kidou ha il numero di telefono di tua madre?!- Genda non si trattenne più e scoppiò a ridere di gusto. –Cazzo, Sakuma, è una cosa seria. Kidou si fa tua madre .-

-Non dirlo manco per scherzo! Maddai, è mia madre !- piagnucolò il celeste, avvolgendosi i capelli in un turbante per asciugarsi il corpo. -Si può sapere cosa diamine ha in testa?-

-Evidentemente, le tette di tua madre.-, lo punzecchiò ancora, dandogli una spallata. Sakuma perse l’equilibrio, appoggiando il piede in un punto del pavimento bagnato, e rischiò un capitombolo a terra: Genda prontamente lo afferrò per le spalle e lo portò a sedersi, sventando il pericolo.

-Eh no, col cazzo, un’altra sospensione non me la prendo.– proferì e Sakuma gli tirò un bel calcio nel culo.

-Te lo meriti. E smettila di dire parolacce, rischi di essere sospeso anche per quelle se ti sente il preside o qualche docente particolarmente in vena.–

-Che noia ‘sta scuola, non vedo l’ora che finisca.– borbottò il portiere, riprendendo ad asciugarsi.

-Dai, un paio di mesi e poi è finita.-

-Chissà d’estate come farà Kidou a incontrarsi con tua madre…- tornò alla carica il rosso, gongolante al pensiero di comunicare il sugoso gossip anche agli altri.

-Piantala! E’ inquietante-

-Chi, il capitano o l’idea del capitano con tua madre?-

-Genda Koujirou, se non la smetti con questa storia te ne faccio pentire.-

-Oooh Sakuma ti prego, non farmi male, sto morendo di paura. - ghignò perfidamente, chinandosi su di lui. Sakuma gli tirò un pizzicotto fra il naso e la guancia, facendolo squittire di dolore.

In quel momento passò per gli spogliatoi Kidou, che appunto era al telefono.

-Sì, abbiamo finito adesso in effetti. Davvero, possiamo? Sarebbe splendido, allora a dopo!- chiuse la chiamata e, sollevando gli occhi sorridenti, incontrò lo sguardo paonazzo di imbarazzo di Sakuma e l’espressione sogghignante e sognante di Genda.

-Che avete da guardarmi così?-

-Con chi eri al telefono, Kidou-kun?- gongolò Genda andandogli incontro: Sakuma avrebbe voluto sprofondare, Genda stava per scatenare il caos.

Kidou fece spallucce: -Con la mamma di Sakuma, dice che possiamo passare a casa prima di cena, così guardiamo lì tutti insieme la partita dell’altra semifinale.-

Genda aveva smesso di ascoltare a metà della frase e le sue grasse risate avevano attratto gli altri loro compagni, ancora nelle docce o già di fuori, che si stavano ritirando: spuntarono, affacciandosi sulla porta degli spogliatoi, con sguardi famelici di curiosità.

-Che avete tanto da ridere?– chiese infatti Jimon, avvicinandosi a Genda che aveva giocosamente preso per le spalle Kidou e gli stava strofinando il capo, sfilandogli i rasta dalla coda. Yuuto non capiva che diamine avesse da sghignazzare con tanta soddisfazione.

-Eh eh il nostro capitano è il più sveglio di tutti, ragazzi. Noi qui a dire cazzate e lui già fa strage di cuori! Ha persino conquistato Mio.- gongolò trionfante, mentre Kidou si dimenava senza successo, cercando di scrollarselo di dosso.

Narukami si avvicinò a Sakuma con aria perplessa:

-Kidou ti ruba la mamma, Sakuma-kun?-

Il celeste era paonazzo dall’imbarazzo e avrebbe volentieri preso a pugni il loro portiere. Per fortuna Kidou, con una scrollata di spalle e con quel tono serio, che non ammetteva repliche e che aveva imparato dal comandante, liquidò la cosa.

-Genda, per favore, non dire stupidaggini.-

Ma il portiere era troppo divertito da quella dinamica per farsi inibire subito e provò a ribattere: -Perché allora andiamo sempre da Sakuma a vedere le partite? Potremmo venire tutti da te, c’è anche più spazio.-

-E’ vero.– riconobbe Kidou, per poi sfoggiare un sorriso pacato e tanto lieve da sembrare quasi dipinto. -Se volete possiamo stare da me, per le prossime volte. Ma quella di Sakuma è una proprio una bella casa .– si interruppe un momento, come se avesse detto qualcosa di importante, eppure non lo capì nessuno, nemmeno lui, così continuò: -E comunque ho già detto a Mio che andiamo, per cui adesso preparatevi che la partita inizia fra un’ora.-

La discussione languì così, a casa di Sakuma si stava effettivamente bene: Kidou fece attenzione in seguito a fare meno commenti a riguardo, ma il tormentone aveva preso avvio e lui lo sopportava con una pacatezza d’animo che Jirou trovava inspiegabile. Era arci-sicuro che, a discapito dei risolini di Jimon e Genda, non ci fosse niente fra sua madre e il suo migliore amico, e indubbiamente casa Kidou era più grande e bella… Eppure a Yuuto piaceva stare a casa di Sakuma e quei biscotti alla vaniglia con la nevicata di zucchero sopra erano la sua merenda del cuore.

-Signora Mio, ha visto!? Abbiamo vinto, abbiamo vinto il football frontier! Siamo i campioni!-

-STAI SCHERZANDO, KIDOU?! Magari volevo chiamarla io, mia madre!!-

-Arrenditi Sakuma, il capitano ti ha proprio rubato la mamma.-

author's corner
Nella vita di Kidou c'è un surplus di papà, ma una evidente carenza di mamme. Così ho provato a porre rimedio :)

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Capitolo 6
*** Genou ***


Si prospettava un’altra giornata tranquilla alla Teikoku Gakuen, come al solito d’altronde.

Al mattino avrebbero frequentato le loro lezioni, si sarebbero incontrati in mensa commentando come, per l’ennesima volta, Kidou si fosse trattenuto in qualche aula per concludere l’elaborazione dei nuovi schemi di gioco; sarebbero andati a cercarlo, girovagando per tutta la scuola, atteggiandosi a padroni quali erano di diritto, alla luce del lustro che portavano a tutta la comunità studentesca con le loro schiaccianti vittorie. Si sarebbero bisticciati l’uno con l’altro le responsabilità di controllare dove andasse tutte le volte il capitano, quanto e dove mangiava, non poteva fare sempre come voleva; si sarebbero infine trascinati a furia di pacche sulle spalle – oppure spinte – fino al campo da gioco, dove avrebbero trovato Kidou già cambiato, con addosso il suo inconfondibile mantello scarlatto e le scarpette violette ai piedi, con quel suo sorrisetto divertito, a dir loro “Ma dove vi eravate cacciati? Saranno almeno venti minuti che vi aspetto! … Come punizione, venti giri di campo, tanto per cominciare!” E, come sempre, si sarebbe seduto da un lato, a osservarli mentre loro faticavano. Tsk, bella la vita del principino . Eppure provavano un profondo senso di stima verso Kidou e, al di fuori della loro ristretta cerchia di compagni di squadra, nessuno si doveva permettere di torcergli neanche un capello. Era una sorta di patto non scritto fra loro: fra i denti gli lanciavano maledizioni di ogni tipo e negli spogliatoi gliel’avrebbero fatta pagare - mentre è in doccia gli riempiamo le scarpe di shampoo! Nah facciamo di balsamo, è più scivoloso eheh - ma nessun altro doveva permettersi di dire o fare qualcosa contro quella bestiolina saccente e altezzosa che avevano eletto a loro leader. Kidou sapeva di avere le spalle coperte e accettava di buon grado quel trattamento speciale, a metà fra il bullismo affettuoso e l’istinto protettivo un poco manesco, che gli riservavano i suoi amici.

Al termine degli allenamenti la giornata non era ancora conclusa: lavati e cambiati, si trasferivano tutti a casa Kidou, dove prendevano possesso delle stanze del loro capitano. Guardavano filmati di partite famose del passato – Kidou da qualche tempo si era messo in testa di studiare la storia del calcio e propinava loro dei video vecchissimi di squadre leggendarie – giocavano alla lotta sul tappeto, sfogliavano insieme i giornaletti spinti che nascondevano nelle cartelle di scuola o dietro ai vasi – e quante volte Yuuto aveva rifatto il giro delle proprie stanze, quando i suoi amici se n’erano andati e prima di far entrare i domestici per le pulizie, con il terrore che ne avessero nascosto qualcuno che gli causasse dei guai – e, naturalmente, studiavano.

Soprattutto quando si avvicinava il periodo di esami, per l’ennesima volta era il loro capitano a prendere le redini del gioco e scimmiottava ordini e schemi d’azione, per orchestrare lo studio di gruppo. Ridevano tutti, ma, finito il tempo degli scherzi, si aiutavano l’uno con l’altro nello svolgimento degli esercizi di matematica e geometria, nelle analisi dei testi poetici e nel ripasso delle formule scientifiche. Kidou, come sempre, era fra i migliori dell’istituto, ma nessuno poteva permettersi di sfigurare nei test e avevano imparato velocemente quanti vantaggi potevano trarre dall’avere nel proprio gruppo un secchione di quel calibro: aveva spiegazioni, riassunti e mappe concettuali per tutte le materie e li dispensava con la generosità che l’aveva sempre contraddistinto. Invero l’avevano istruito a farsi furbo e a scuola in effetti li vendeva, contrattando sulla base di un tariffario di conoscenze, clientelismo e contraccambio di favori estremamente vincolante. Chiaramente, fra i suoi compagni di squadra circolava tutto quel materiale gratuito, ma stavano ben attenti a giocare al rialzo fra i loro colleghi a scuola: era un vero business e si divertivano da impazzire. 

Genda, in particolare, traeva molto beneficio da quelle sedute di studio di gruppo: all’inizio, quando più che amicizia il loro era un legame di prevaricazione fra bullo e vittima, Kidou era forzato con l’intimidazione a fargli copiare i compiti e si vedeva sottratti dai quaderni schemi riassuntivi e altri strumenti di studio, di cui Genda beneficiava senza il suo consenso. Con il tempo la loro amicizia si era consolidata, ma continuava a sussistere un tacito accordo per cui Yuuto a volte trascriveva direttamente i compiti in due copie, per sé e per il portiere della sua squadra, e, entrato in classe, faceva scivolare con discrezione nella cartella di Genda le mappe concettuali per le prossime materie che sarebbero state verificate. Genda ne era sinceramente lusingato, stimava la riservatezza con cui Kidou continuava ad aiutarlo, era davvero un amico e si poteva fidare.

-I tuoi voti sono notevolmente migliorati da quando studi e non copi e basta, neh Genou?- stava ammiccando Kidou, guardando con un sorrisetto soddisfatto gli esiti appesi in bacheca dell’ultima prova che avevano sostenuto. Koujirou gli assestò una gomitata di riconoscenza, ma, essendo il capitano molto più basso di lui, lo prese in pieno in testa, facendolo gemere indispettito.

-Sarà il bernoccolo più bello della tua vita, Kidou-kun, dovresti andarne fiero.- ridacchiò il portiere di rimando, dandogli un buffetto con falsa delicatezza. –Comunque potresti crescere ancora un po’!-

Arrivarono gli altri loro compagni, accalcandosi contro la bacheca per guardare per bene tutti i voti. Kidou e Genda si fecero da parte, rapidamente raggiunti da Sakuma.

-Ciao Sakuma-kun.- sorrise Yuuto, ricambiato dal celeste. –Hai visto, sono usciti i risultati dei test!-

-Ho visto.- commentò l’altro, con un cenno del capo un poco assorto: –Il Comandante ha fatto un investimento incredibile su tutta la squadra, facendoti capitano: non solo una vittoria dietro l’altra, ma persino i risultati scolastici non sono mai stati così brillanti. Seriamente, quando mai Jimon ha preso più della sufficienza in lingue straniere?-

Kidou ridacchiò, con quel suo modo modesto, quasi timido, ma intimamente molto soddisfatto delle lodi che gli venivano rivolte. Sì, stava facendo un bel lavoro con quei ragazzi, anche Kageyama lo riconosceva, pur non facendogli spesso i complimenti si vedeva che era soddisfatto del modo in cui procedeva il loro percorso scolastico e calcistico. Sarebbe andato tutto bene, doveva continuare così per altri due anni e poi…  

-Puoi dirlo forte! In casa mia non c’è verso di concentrarsi, ma pure a casa tua, Sakuma, le distrazioni non mancano…–, il portiere strizzò l’occhio in direzione del compagno, che gli assestò un calcio negli stinchi. Kidou, nel frattempo, stava pensando a quanto aveva detto Genda… In effetti già in passato glielo aveva detto: -A casa mia non riesco a concentrarmi, posso venire da te a studiare?-; naturalmente per Yuuto non era un problema, anzi, gli piaceva avere compagnia in quella casa tanto grande, ma era davvero strano che non ci fosse verso di studiare, nemmeno una volta, per conto proprio. Così un giorno, preso da una smania vorace di capire quale fosse il motivo di tanta difficoltà, era riuscito a strappare un invito in quella casa. Gli era bastato un giretto di ricognizione di un pomeriggio per inquadrare la situazione e -Sì,- aveva riconosciuto quando si erano salutati, -è meglio che vieni da me a studiare, c’è sempre spazio e se non ci sono tutti, io ci sono sicuramente. Ti aiuto io, Koujirou, non ti preoccupare.-

I coniugi Genda non erano esattamente persone di basso profilo, né si impegnavano particolarmente per creare un clima sereno, conciliante per lo studio e la concentrazione. Suo padre, Genda Toshio, era proprietario e CEO di una ricchissima società nell’e-commerce, inoltre viveva di rendite dalle tante proprietà ereditate dalla sua famiglia da generazioni: amante del buon cibo, della buona compagnia e del lusso, faceva sì che la sua assenza o presenza in casa si notasse. Quando c’era, la sua voce e la sua figura troneggiavano su tutto con prepotenza, sembrava un leone sulla sua rupe regale; quando non c’era, si stava in agguato, la sua mancanza era percepita come una situazione temporanea che si poteva interrompere in qualsiasi momento. Non bisognava mai farsi vedere sottotono, in quelli che erano i suoi possedimenti: poteva diventare molto violento verso quelle situazioni e persone che interrompevano il suo ritmo trionfante… Tutto intorno a lui doveva risplendere, quello era il suo motto. Chi più di tutti aveva afferrato il concetto era sua moglie, la signora Daryna, molto più giovane del consorte, sembrava letteralmente riflettere la luce dei molti gioielli che le impreziosivano il decolté e i lunghi capelli biondi. Erano una coppia da copertina, lui brizzolato e dal fisico prestante, alla guida di costose e fiammanti auto europee, lei magra e slanciata, sempre su tacchi vertiginosi, a ridere incurante di tutto all’infuori della loro bellissima vita. A Kidou non sembrava proprio una mamma, con quel suo sguardo un poco assorto, un poco assente, inebriato dallo champagne, con quella risata lieve, tintinnante, che sapeva di soldi. Non ce la vedeva, a cuocere torte e preparare gli onigiri al salmone, eppure non solo era la mamma del suo amico Genda, aveva avuto anche due figlie: due gemelle, Kameko e Kamiko, dalla bellezza caucasica mozzafiato, due principesse, come amava definirle il loro padre. Avevano dodici anni più di Koujirou ed erano due gioielli splendenti, da come ne parlavano i loro familiari: bellissime e talentuose, una studiava legge a livello internazionale, l’altra era già una famosa ricercatrice in non si era capito che ramo scientifico. Sembravano due divinità, eccellenti in tutto quello in cui si applicavano, dotate di qualsiasi virtù desiderabile da giovani donne quali erano.

Koujirou descriveva la sua famiglia come un vortice: se riusciva a rimanere fermo nel centro, poteva sperare di sopravvivere, ma, semmai avesse perso stabilità, anche solo per un momento, ne sarebbe rimasto travolto. Yuuto poteva capire la pressione a cui era sottoposto, la necessità assoluta, vitale , di dimostrare il proprio valore di fronte ad aspettative di tal calibro e in silenzio gli aveva garantito il suo sostegno, la sua vicinanza. Avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere per aiutarlo, per quanto riguardava lo studio, a ottenere dei buoni risultati, a rendere fiera la propria famiglia. Naturalmente, le gemelle prima di lui avevano studiato alla Teikoku, diplomandosi con il massimo dei voti, e molti docenti si rivolgevano a Genda paragonandolo con le sue sorelle e chiedendo di loro, del loro percorso accademico. Il ragazzo reggeva gli urti come poteva: non era certo dotato come le sorelle che l’avevano preceduto in quelle aule, suo padre lo sapeva e non mancava di sottolinearlo, tollerava a stento la sua passione per il calcio nella misura in cui quantomeno vinceva, dimostrando che -Almeno qualcosa la sai fare bene!-

-Sentite, ragazzi.– esordì Genda dopo un lieve colpo di tosse, per attirare l’attenzione di Kidou e Sakuma al suo fianco: -Fra due settimane mia sorella Kamiko si sposa e hanno organizzato una mega celebrazione in pompa magna, roba grossa okay, e io mi stringerei le palle in una ganascia piuttosto che andare, ma mi obbligano, per cui… Venite a farmi compagnia?-

Kidou corrucciò la fronte, preso di sprovvista, Sakuma sghignazzò come una puttana: -Di’ un po’, Genda-kun, mica ti faranno vestire da pinguino?

-Farfallino e tutto il resto.–, gemette debolmente il portiere, con un’espressione scocciata e affranta al solo pensiero: -Voglio morire, ve ne prego, almeno voi dovete esserci.-

-Vuoi proprio che Kidou continui ad avere materiale con cui ricattarti per il resto della tua vita, eh?-

-Se si tratta di Kidou, può avere tutte le foto umilianti che vuole.- asserì con decisione, con quel tono in bilico fra l’assoluta serietà e la beffa che Yuuto aveva imparato a leggere. Quest’ultimo annuì, con aria seriosa. –Va bene, Koujirou, io verrò.-

-Grande! Contate su di me, ragazzi, non mi perderei questa storia per nulla al mondo.-

-Solo…- li interruppe un momento Kidou, allentando la stretta con cui si stringeva le braccia al petto –Non sono mai stato ad una festa di un matrimonio, c’è un dress code specifico o qualcosa che dovrei…?- Genda lo interruppe, prendendolo amichevolmente per le spalle e sollevandolo da terra. –Diamine Kidou, sei un caso perso! A volte dimentico quanto sei disagiato, ti dobbiamo insegnare proprio tutto… Non ce l’hai una famiglia?-

-Io…!-

-A malapena ha un padre!-

-Taci tu, che se non fai attenzione ti ritrovi senza madre!-

-… Ragazzi?!-

-Ah! Perché non gli dai la tua?!-

-Se la vuole gliela cedo oggi stesso!-

-Ragazzi! Ehi! Sono ancora qui!-

-Ah sì… Ehm…! Eh-eh dicevamo?-

-Dicevamo…– tornò in posa Kidou, aggiustandosi il colletto dell’uniforme scolastica –Che sono un disagiato e che senza voi a permettermi di fare queste esperienze rimarrei un babbeo.-

-Ben detto!– ruggì Genda soddisfatto della risoluzione della conversazione -Come faresti senza di noi? Allora è fatta, verrai alla festa, e pure tu, Sakuma. Vedilo come un favore personale che ti faccio, Kidou.-

-Sono in debito.– ridacchiò l’altro, dandogli le spalle e salutandolo con un lieve cenno della mano, mentre si allontanava.

-… Non sono finite le lezioni per oggi? Dove sta andando adesso?-

-Forse al laboratorio di chimica? Aveva parlato di un’esercitazione, lo diceva a casa tua…-

-Diamine, allora lo sa anche mia madre! Meglio che vada a farla anch’io! Kidou, aspettami!- Genda ridacchiò di gusto, guardando come il celeste scapicollava giù dalle scale diretto ai laboratori di scienze, inseguendo il loro capitano.

*

Nonostante gli amichevoli sfottò ai danni di Kidou, a conti fatti nessuno di loro aveva mai assistito a numerose celebrazioni. Oltretutto per la sua princess il padre di Genda non aveva davvero badato a spese: i due sposi avrebbero pronunciato il fatidico sì a bordo di uno yacht in una splendida laguna notturna. Gli amici di Genda si prepararono a dovere per l’evento, sia negli abiti sia nel bon ton, dovevano far fare bella figura al loro compagno, ma erano sinceramente incuriositi e divertiti da quell’invito così fuori dal comune. Nemmeno Sakuma aveva abiti adatti ad un’occasione del genere e i due ragazzini chiesero consiglio al signor Kidou, il quale li accompagnò personalmente a procurarsi l’abito opportuno, reso contento dal sapere che suo figlio stava allacciando legami di amicizia con persone così facoltose. Mentre si avvicinava la data dei festeggiamenti, tutta la squadra era in fermento e non vedeva l’ora di mettere le mani su foto irripetibili e gustosi aneddoti della serata.

Arrivati al punto di ritrovo, i due si guardavano attorno leggermente spersi: Sakuma era impacciato nel suo completo grigio e in quel farfallino chiaro che gli dava la sensazione di soffocarlo ad ogni movimento del capo. Kidou aveva per l’occasione dismesso gli occhialini sportivi e il suo sguardo si accendeva ad ogni nuovo dettaglio che carpiva di quell’ambiente sconosciuto e brillante. Si sentivano due pesci fuor d’acqua, fra tutti quegli abiti da sera scintillanti e fiori e calici frizzanti dappertutto: istintivamente si presero per mano e, scambiandosi uno sguardo di intesa, si diressero in avanti, in esplorazione dell’ambiente in cui erano finiti per amore del loro compagno di squadra.

Genda non tardò molto a trovarli, era vestito davvero bene, un perfetto damerino, aveva persino un fiore appuntato nel fazzoletto nel taschino, abbinato al bouquet della sposa, come tutti gli altri membri della famiglia. Così vestito di scuro sembrava ancora più alto e adulto. Andò loro incontro con un’espressione di esaurimento malcelata in una paralisi del sorriso che andava già squagliandosi sul suo viso. A Sakuma venne troppo da ridere a vederlo così conciato, si salvò solo all’ultimo grazie a un pizzicotto tattico di Kidou, che tratteneva il labbro superiore fra le labbra per contenere a sua volta smorfie fuori luogo. Era davvero buffo, non poteva negarlo. Genda non negò nulla, ma li ringraziò ancora per essere venuti, aveva davvero bisogno di un diversivo, loro erano una perfetta scusa per scappare e ne avrebbe approfittato senza indugi. Prima li accompagnò a fare bene il giro dello yacht e, naturalmente, al buffet.

Kidou era stato istruito riguardo al come e quanto mangiare a quel genere di eventi sociali, aveva già accompagnato suo padre in altre occasioni, per cui si limitò a seguire i consigli ricevuti e assaggiare con moderazione: oltretutto non aveva granché fame, tutta quella gente e il gran rumore che producevano lo faceva sentire sotto pressione. Per un poco furono tranquilli loro tre soli, poi furono raggiunti dalla sposa e dalla famiglia di lei al seguito.

-Così siete voi gli amichetti di mio fratello, benvenuti e grazie per essere venuti.-

-Buonasera! Grazie a voi per l’invito. Io sono Kidou Yuuto.-

-Sì, grazie… E’ bellissimo essere qui. Sakuma Jirou, salve, salve a tutti!-

-E così sei tu, il ragazzino che hanno adottato i Kidou!-

Yuuto si impettì, annuendo e ripetendo l’inchino di saluto. Era sicurissimo di aver già visto la mamma di Genda in almeno un paio di occasioni, ma la donna lo guardava dall’alto dei suoi tacchi scintillanti e della sua ricchissima acconciatura come se lo vedesse per la prima volta, come se non si fossero ancora incontrati. Era… Quantomeno strano. Avrebbe tanto voluto sapere cosa ne pensava il suo Comandante di quella donna, sicuramente la conosceva: chissà se, di lui, lei si ricordava o tutte le volte era come la prima volta. Gli venne da ridere al pensiero, ma si trattenne mordendosi ancora il labbro superiore. Gesto che non sfuggì al padre di Genda, il giovane Kidou sentì il suo sguardo scuro perforarlo, pieno di giudizio e commiserazione. La sposa si chinò a dare un buffetto a mo’ di saluto per entrambi i ragazzini, poi sfilò dal proprio bouquet due roselline blu che appuntò alle loro giacche. Sakuma si sentì venire addosso il suo profumo, molto intenso, e ne rimase inebriato.

-Questi sono per voi, Sakuma e Kidou. Se siete amici così cari di mio fratello, lo siete anche per me. Divertitevi stasera.– con passo lento e fiabesco, la sposa si allontanò in una nuvola di veli e merletti, richiamata dall’arrivo di altri invitati.

A Kidou rimasero tante domande, quella sera. Possibile che le parole di quella bellissima ragazza vestita di bianco fossero sincere? O era l’ennesima posa, l’ennesima formula di cortesia da dire che aveva imparato, lei, come sua sorella, come suo fratello, come la loro madre, come tutti quelli che dovevano orbitare intorno a quell’uomo così prepotente e potente? Se Kamiko avesse dovuto usare un’immagine per descrivere la propria famiglia, anche lei avrebbe detto che era come un vortice? Genda era a disagio da tutta la vita a causa sua, soffriva il confronto con la sua vita perfetta, con il suo fidanzamento facoltoso, con i suoi eccellenti voti scolastici, con le sue formidabili prestazioni nella danza da piccola… Ma lei, lei cosa provava per suo fratello? Si erano mai parlati, davvero? L’avrebbero fatto, ora che lei andava a vivere per conto proprio e si faceva una sua famiglia all’estero con il suo sposo? Probabilmente no e Koujirou ne sembrava molto sollevato.

In mezzo a tutta quella gente che festeggiava e beveva e ballava sotto la luce delle luna riflessa nelle acque blu, il giovane Kidou guardò i suoi amici e si sentì colto da una vertigine: non sapeva cosa pensare, gli rodeva nella pancia una sensazione di ingiustizia inspiegabile e di nostalgia per qualcosa di sconosciuto. Da sotto un tavolo di lato Genda fece scivolare un pallone e richiamò entrambi gli amici con un cenno della mano e un sorrisetto trionfante. Il volto di Sakuma si illuminò e cercò l’approvazione di Kidou con gli occhi: Yuuto sapeva bene che non avrebbero dovuto allontanarsi… Ma in fondo erano su uno yacht in mezzo al mare, decisamente non sarebbero andati lontano.

Così annuì e passarono il resto della serata nascosti dalla pista da ballo, le giacche dei completi appoggiate su una cassa poco distante, a fare passaggi fra loro e improvvisare qualche tiro, che immancabilmente Genda parava, evitando sconvenienti tuffi notturni. A fine serata, conclusero che Genda Koujirou era il portiere più forte del Giappone, non c’erano dubbi, e che, se era riuscito a parare le loro conclusioni per tutta la serata in camicia, avrebbero senz’altro vinto il campionato con la porta inviolata. Genda era contento di avere al fianco amici del genere e Sakuma riuscì a scattargli a tradimento una foto mentre saltava a parare un tiro di Kidou,  con la camicia che si sollevava mostrando il suo addominale scolpito. Per molto tempo quella fu l’immagine della loro chat di gruppo.

author's corner
Questi bimbi stanno crescendo, ma alla fine sono tutti delle piccole pulci
Il mio amore per Genda traspare da questi capitoli, è un personaggio che mi è sempre piaciuto molto e per cui ho elaborato moltissimi headcanon. Oltre ad essere stata innamorata di lui da bambina.
Tutte le informazioni sulla sua famiglia sono miei headcanon, ma mi sembravano calzanti dato il personaggio.

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Capitolo 7
*** America ***


-Il calcio fa la sua comparsa negli Stati Uniti con l'Oneida Football Club, fondato a Boston nel 1862 da Gerritt Smith Miller e sostenuto dalla locale comunità inglese. Sembrerebbe l'atto di nascita di uno sport destinato a un enorme successo… Invece il soccer assumerà nel Paese un ruolo di secondo piano. Se, nel 1874, sfidando la McGill University di Montreal, i giocatori di Harvard non si fossero lasciati persuadere a usare la palla ovale anziché quella rotonda, forse le cose sarebbero andate diversamente: infatti, quando il rugby fa la sua comparsa, il calcio, benché già diffuso in tutte le maggiori università dell'East Coast, ne viene soppiantato e rimane circoscritto alle numerose comunità di immigrati. -

Doumen diede una spallata a Sakiyama, mentre il loro allenatore continuava a parlare dal microfono interno del pullman: nessuno sembrava avere particolare intenzione di ascoltarlo. Pareva invece straordinariamente avvincente notare come Genou si fosse addormentato, tutto stravaccato negli ultimi posti in fondo al pullman, seminascosto dalle giacche di tutti. Sakiyama sogghignò perfidamente e, con l’ausilio di un elastico, improvvisò una fionda con due dita e gli tirò in faccia una gomma da masticare, che aveva avuto in bocca fino a pochi secondi prima. Genda sbadigliò, ma l’intruso sul suo volto non lo destò affatto: con un gesto involontario, se lo cacciò via dalla faccia, come fosse stato un molesto insetto, e riprese a dormire. Lo sgradevole “pensierino” finì sulla giacca di Jimon, che, sicuramente, appena se ne fosse accorto, avrebbe imprecato come i peggiori scaricatori di porto di Ehime. Scambiandosi una rapida occhiata corrucciata per l’occasione di svago sprecata, entrambi tornarono a guardare in avanti, fingendo di prestare attenzione al barboso discorso sulla storia del calcio americano che stava propinando loro l’allenatore.

-Più che una vacanza premio, sembra una punizione.-, sospirò Doumen.

-Un vero calvario-, rincarò Sakiyama, appoggiando la testa al vetro dell’autobus.

-Ovviamente il principino, in prima fila, non si perde una parola.- Sussurrò malevolmente Henmi, indicando il loro capitano.

-Ma gliene fregherà davvero qualcosa?- intervenne Narukami, avendoli sentiti parlottare fra loro.

-Bah… Chi lo capisce, quello là.-

-La nascita di una American Football Association, nel 1884, non è sufficiente a dissolvere la miriade di associazioni regionali intorno alle quali di fatto si concentra e disperde l'attività calcistica. L'American Football Association viene sostituita nel 1913 dall'American Amateur Football Association, sotto l'egida della United States Football Association, che sarà più tardi denominata United States Soccer Federation. Nello stesso anno la FIFA decide di affiliare il nuovo organismo, il cui primo significativo atto è l'organizzazione di un torneo su base nazionale, la National Open Challenge, che nel 1924 sarà affiancata dalla National Amateur Cup. Gli eventi formativi per il calcio statunitense, nei due decenni successivi, sono la qualificazione alle semifinali dei Mondiali in Uruguay nel 1930 e il clamoroso successo sull'Inghilterra in quelli del 1950, dove l'unico decisivo gol agli inglesi fa tanto scalpore che il primo dispaccio di agenzia, "England-USA 0-1", è ritenuto un errore di stampa, corretto in 10-1 e poi smentito. -

Sakuma, in prima fila al fianco di Kidou, senza girare il capo, riservò un’occhiata al suo capitano. Era esattamente tutto ciò che ci si aspettava da un ragazzo della sua età: educato, diligente, orgoglioso ma obbediente, studioso e capace di ottenere eccellenti risultati, atletico e vincente, sempre con la risposta pronta pur non essendo una testa calda… In una parola, era perfetto. Coerentemente con ciò, era molto ammirato e rispettato fra i suoi pari, lodato dagli insegnanti e apprezzato da suo padre. Tutti erano benevolenti con lui, riceveva continue conferme del suo alto valore e non perdeva occasione per mostrare le sue abilità: brillante come una stella nel firmamento, accecava chiunque gli stesse intorno, oscurandolo.

Sakuma si sentiva così alle volte e non riusciva a raccapezzarsi di come fosse possibile… Fino a pochi anni addietro, Kidou Yuuto era un bambino impacciato e imbarazzante, del tutto impreparato a gestire le occasioni di socializzazione dell’alta società. Si comportava spesso in maniera inopportuna e diceva cose senza senso, non capiva perché i loro compagni dicessero o facessero certe cose e veniva spesso isolato, per non dire bullizzato… Aveva uno strano attaccamento nei confronti del preside Kageyama e si comportava come se le sue cose non appartenessero davvero a lui. Molto strano. Sakuma era stato contento di fare amicizia con lui, insieme si erano spalleggiati in quel mondo di bambini ricchi e si erano guadagnati un posto nella squadra dei titolari. All’inizio era stato semplice, perché Kidou non sapeva nulla e aveva bisogno di aiuto e a lui aveva fatto piacere poterlo aiutare. Era un bambino buono e molto generoso. Non tirava i capelli per fare i dispetti e lo faceva ridere. Però poi era andato via e, quando era tornato, per l’inizio delle scuole medie, Sakuma aveva capito subito che le cose erano cambiate. Kidou era stato fatto capitano e, dopo i primi attriti con la squadra, aveva capito come imporre la propria autorità. Era da qualche tempo ormai che Sakuma avvertiva con chiarezza che non erano più sullo stesso piano: chissà come, chissà perché, Kidou era riuscito a fare quel passo in avanti… Senza di lui. L’aveva superato e Sakuma non si dava pace. Tradito e sbigottito, rimaneva al suo fianco, continuando a ripetersi che erano amici come sempre e che quel bambino con cui era cresciuto non l’avrebbe lasciato indietro.

La voce di Kageyama nel frattempo continuava ad illustrare, anche se forse l’unico ad ascoltarlo era davvero Kidou:

-Nel 1968 si forma la North American Soccer League, detta NASL, la lega professionistica. La creazione della NASL, modellata sulle leghe del football americano e del baseball, costituisce un vero salto di qualità e crea molte aspettative. Tuttavia, il calcio è ancora poco radicato nel tessuto sociale e non ha una base popolare sufficientemente ampia. L'attenzione scema, i campioni tornano a casa, e la NASL nel 1984 fallisce. Il progetto più ambizioso riguarda però la realizzazione di una Federazione vera e propria, la Major League Soccer, che gli Stati Uniti si impegnano a costituire purché vengano loro assegnati i Mondiali del 1994. È questo un evento cruciale, non solo per la nazionale statunitense, ma anche per l'organizzazione calcistica mondiale. Sull'onda dell'entusiasmo e degli stadi pieni, la FIFA conta di aprire definitivamente gli Stati Uniti al calcio e al calcio un nuovo mercato. Tuttavia, essa rimane a lungo un progetto sulla carta e, di rinvio in rinvio, il suo varo slitta sino alla primavera del 1996, quando l'effetto traino dei Mondiali si è già esaurito. La nuova lega è suddivisa in tre gruppi: Eastern, Central, Western Conference, ciascuno di quattro squadre, dai quali si accede ai play-off. Le prime due edizioni vengono vinte dal club di Washington, i DC United, che nel 1998 cedono ai Chicago Fire, per poi riprendersi il titolo l'anno successivo. Nel 2000 tocca ai Kansas City Wizard. Intanto il soccer raggiunge livelli di eccellenza grazie alla nazionale femminile (campione del Mondo nel 1991 e nel 1999). Quella maschile si è comunque guadagnata l'accesso ai quarti di finale nei Mondiali di Giappone e Corea 2002.-.

Quando ebbe finito di parlare, l’autista approfittò dello stesso microfono per annunciare che mancava poco all’arrivo all’albergo dove avrebbero alloggiato. Il pullmino sobbalzò al grido di entusiasmo collettivo dei ragazzi, ma, fra tutti, il più sollevato parve proprio Kageyama. Kidou gli chiese conferma con lo sguardo per procedere e il professore acconsentì con un gesto della mano, sprofondando nel proprio sedile e socchiudendo gli occhi. La luce era accecante, quel viaggio non gli era mai sembrato tanto lungo… Stava proprio invecchiando.

Kidou, tutto baldanzoso, si fece accendere il microfono dalla propria postazione e declamò, sotto gli occhi stupefatti e invidiosi di Sakuma: -Ragazzi, dato l’imminente arrivo, ci tengo innanzitutto a ringraziare il professor Kageyama che ci ha così brillantemente illustrato la storia del calcio professionistico degli USA. Siamo qui, in visita di Los Angeles, perché ci siamo imposti come i campioni del Giappone!-

Un urlo di esclamazioni esaltate fece sobbalzare per la seconda volta il pullman e Kageyama per un momento pensò di domandare all’autista di aprire la portiera per lasciarlo scendere: avrebbe avuto maggiori possibilità di raggiungere incolume la loro residenza camminando sul ciglio della strada rispetto al continuare a rimanere su quel trabiccolo. Disgraziamente, dovette costringersi all’autocontrollo e rimase seduto, sperando che il discorso di Kidou finisse in fretta.

-Vorrei dirvi, come capitano e regista della squadra, che sono fiero di voi. Sono fiero di avervi potuto guidare, di aver potuto sollevare con voi la coppa e…-

-Capitano!- ruggì dal fondo del pullman Genou, essendosi risvegliato con tutto quel trambusto. - Il discorso strappalacrime l’hai già fatto sulla tua barca! Oppure eri tanto ubriaco da essertelo scordato? - sghignazzò malevolo, ma un altro colpo di fionda partì nella sua direzione e questa volta Sakiyama non mancò il bersaglio. Seguirono una serie confusa di urla, esclamazioni rabbiose e minacce di morte. La parte posteriore del pullman sarebbe velocemente diventata la sede di una rissa con i fiocchi, se Kidou non avesse ripreso abilmente in mano la situazione con un paio di colpi di tosse sapientemente battuti sul microfono.

-Vi lascio volentieri ai vostri affari, prima però forse vi piacerà sapere che mi sono occupato della spartizione delle camere…- un ghigno assolutamente trionfante apparve sul suo volto. Seguirono una manciata di secondi di silenzio. Poi, immancabilmente e inesorabilmente, scoppiò l’inferno.

Kageyama, immancabilmente e inesorabilmente, si chiese perché aveva accettato di portare una squadra di calcio di dodicenni a Los Angeles per una settimana. Tutti gli anni si riprometteva di farlo per l'ultima volta: tutti gli anni ci ricascava.

*

Fu una settimana memorabile. I ragazzi se ne resero conto nell’attimo, mentre succedeva, il che è raro per i ragazzi della loro età.

Soprattutto Genda se ne rese conto e spinse continuamente giù il boccone amaro che gli risaliva in gola ogni volta che vedeva Kidou atteggiarsi a principino, con quel modo viziato che aveva di occupare lo spazio quando erano tutti insieme. Sapeva che contro Kidou spingevano tantissime forze e lui si teneva in piedi perché aveva trovato un equilibrio fra tutte quelle spinte. A volte avrebbe voluto essere come lui: se ci fosse riuscito, forse suo padre avrebbe cambiato opinione su di lui, l’avrebbe considerato capace in qualcosa… Per il momento avevano portato a casa la coppa di un torneo nazionale, avrebbe dovuto essere abbastanza, giusto? Eppure non lo era stato: ricordava le chiamate al telefono entusiaste che avevano fatto i suoi compagni negli spogliatoi ai loro genitori, la festa che aveva organizzato la signora Mio a casa di Sakuma, con tutti quei biscotti e quei succhi così dolci, il regalo che il papà di Kidou aveva fatto a suo figlio per quell’occasione, una barca tutta per lui su cui avevano festeggiato tutti insieme…

Ricordava altrettanto bene cos’era successo quando era tornato a casa lui: sua mamma che si controllava l’acconciatura allo specchio prima di uscire, gli lasciava un bacio unto di rossetto sulla guancia e lo salutava mentre barcollava sui tacchi, entrando in macchina diretta ad una festa. Suo padre che la raggiungeva subito dopo: indossava una fragranza che aveva commissionato per sé da un famoso profumiere svizzero. Riempiva tutta la stanza con la sua presenza, con il suo solo odore. L’aveva squadrato dall’alto in basso e, di fronte al racconto stringato del figlio, ancora con il borsone della squadra a tracolla, gli aveva detto: -Hai fatto solo il tuo dovere. La vostra squadra è imbattuta da decenni, il minimo che potete fare è dimostrarvi all’altezza dell’onorevole nome che portate. Bada bene a non essere l’anello debole, Koujirou.-. Dopodiché era salito in macchina e insieme alla moglie si era recato alla festa. Koujirou era rimasto da solo, si era cotto un piatto di riso e pollo al curry ed era andato a letto, fantasticando su quali domande i giornalisti nei giorni seguenti gli avrebbero posto. A lui, al portiere della fortissima Teikoku Gakuen.

Come premio per la vittoria, il preside li aveva portati negli Stati Uniti, in particolare a Los Angeles: fra spiagge luccicanti, enormi centri commerciali, spropositate ville dei divi del cinema e festosi luna park, era esattamente come essere su un set cinematografico.

-Ehi capitano, siamo proprio i protagonisti di un film americano adesso, eh?-.

-Ah sì? E cosa facciamo in questo film?-.

-Eheh, io un’idea ce l’ho!-

-E cioè?-

-Giochiamo a calcio, ovviamente! E vinciamo!-

-Aaah! Che barba! E io che speravo in una sparatoria con inseguimento d’auto! Oppure una love story con una bagnina sexy, oppure…-

-Che razza di film guardi tu!? Guarda che ti sei confuso, non è il cinema di Hollywood quello di cui parli, è Pornhub!-

-Ma cosa dici! Tu non te ne capisci niente di cinema!-

-Ah, ha parlato l’esperto!-

L’attenzione generale venne completamente catturata da uno store che vendeva coloratissimi e giganteschi donuts: Kidou, addentando il suo dolce, incontrò per un momento lo sguardo di Genou e gli sorrise. Quest’ultimo ricambiò lo sguardo, ma non sentì una forte intesa: erano passati i tempi d’oro, per cui tutti avevano paura di lui e Yuuto veniva bullizzato senza difficoltà. Adesso, senza il nullaosta di quel ragazzo, non avrebbe avuto neanche una squadra a cui appartenere. E, senza di loro, non sarebbe riuscito neanche a diplomarsi. Genda ne era consapevole e il fuoco dell’impotenza lo mangiava da dentro.

*

Kageyama teneva con concentrazione gli occhi fissi sullo schermo del computer portatile da cui stava lavorando. Il suo diretto superiore, nonché benefattore di gioventù, gli aveva scritto una mail a proposito di un nuovo progetto da testare su alcuni promettenti elementi, inteso primariamente per scopi bellici e militari, ma non solo. In particolare, gli chiedeva di selezionare per lui alcuni individui ben dotati, su cui avviare le prime fasi della sperimentazione. "Specimen" era la parola utilizzata da Garshield e Kageyama, rigirandosi in bocca quella parola, ne sentì tutta l’oscura fascinazione e problematicità. Sì, non stavano parlando di bambini, in effetti.

Il magnate sudamericano concludeva la propria mail elogiando la sua ragguardevole condotta nella direzione del campionato giapponese giovanile. L’invito era, benché sotteso, piuttosto esplicito: “i titolari della Teikoku Gakuen, essendo i vincitori, sono i soggetti ideali per portare avanti questo progetto”. Inoltre, dato che li allenava lui in persona ed era preside della scuola che frequentavano, sarebbe stato semplicissimo, un gioco da ragazzi.

Kageyama trattenne il respiro per non sospirare: stava per prendere in considerazione quel pensiero e chissà che cosa avrebbe fatto, forse avrebbe ceduto all’abitudine della sottomissione e avrebbe accettato senza discutere, forse avrebbe preso tempo e chiesto più informazioni sul progetto per capire quanto in là potesse spingersi… Nessuno lo seppe mai, perché provvidenzialmente Kidou apparve al suo fianco, con un’espressione quieta sul volto ancora infantile, porgendogli un alto bicchiere di tè nero, macchiato con una crema di latte e una spolverata di vaniglia. Kageyama sussultò e lo fissò corrucciato da dietro le spesse lenti scure, rimanendo in silenzio. Il giovane capitano, non vedendo reazioni, allungò di poco il braccio per enfatizzare il suo gesto: -Comandante, scusi se l’ho disturbata. Ho pensato che le avrebbe fatto bene bere qualcosa, fa caldo oggi pomeriggio. – Sorrideva adesso, timidamente, come se stesse cercando di scacciare un eventuale rimprovero.

I suoi compagni trovavano misterioso il suo rapporto con il loro allenatore, persona universalmente riconosciuta come burbera, austera, solitaria, ostile e inquietante. Kidou motteggiava la loro confusione non facendo nulla per risolverla: era evidentemente il beniamino del Comandante e sembrava molto geloso del loro rapporto,  era parco di spiegazioni e, se messo all’angolo – ma ciò accadeva molto di rado, perché Kageyama incuteva timore e soggezione al solo nominarlo –, si limitava a qualche vaga spiegazione molto fumosa, che sarebbe potuta andar bene per spiegare qualsiasi rapporto fra qualsiasi giocatore e qualsiasi allenatore. C’era altro evidentemente sotto, ma i giocatori della Teikoku, giovanissimi in un mondo di soldi e di raccomandazioni, non sapevano come esplorare tali profondità, per cui osservavano, tenendosi a dovuta distanza di sicurezza.

Invero Kidou aveva raggiunto da solo il loro allenatore: ora, avendo rotto la bolla di solitudine e silenzio in cui si era racchiuso già da diverse ore, lo guardava aspettando una reazione che riconfermasse il fatto che lui non era un ragazzino qualunque e che, se da altri non avrebbe mai accettato, forse dalla sua mano avrebbe preso la bevanda fresca.

-Lasciala qui. – concesse infatti l’uomo e Kidou si trattenne magistralmente dal sorridere. Suo padre beveva caffè e ne offriva lautamente agli ospiti, ma a Kageyama veniva sempre servito tè nero e latte e vaniglia, lo vedeva fin da quando era un bambino. A Kageyama pareva fosse ancora in tutto e per tutto un bambino, ma dal suo punto di vista ormai era grande e voleva dimostrarglielo. L’uomo aggiunse, dopo una manciata di secondi di silenzio: - Torna dai tuoi compagni, ti staranno aspettando. Siete qui per festeggiare. - A giudicare dal livello di polvere che gli imbrattava le scarpe, stavano giocando fino a poco prima.

Kidou annuì con doveroso rispetto, ma indugiò un momento sul posto, dondolando sui talloni.

-C’è altro? – chiese l’adulto, con il tono più monocorde che riuscì a impostare. In effetti, aveva la gola secca. D’altronde, finché non si fosse allontanato, non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederlo bere la sua bevanda preferita che era riuscito a ordinare in chissà quale commerciale starbucks o simili. In ogni caso, sembrava buona.

-Sono qui per festeggiare... Anche con lei. Mi ha insegnato tante cose, Comandante, e mi ha dato fiducia. Senza di lei non avrei mai saputo portare la squadra alla vittoria, in questo campionato. Le sono molto grato.-

Kageyama venne investito dal ricordo del pomeriggio prima della finale, qualche settimana addietro. Yuuto era in preda all’ansia e aveva continuato ad allenarsi, a porte chiuse, finché anche l’ultimo degli inservienti dell’istituto scolastico aveva lasciato l’edificio. Era stata appunto una donna di mezza età, che lavorava lì da molti anni, a passare nel suo ufficio a dirgli che era tutto in ordine, ma un ragazzino era ancora in campo. Kageyama aveva raccolto le sue cose e, recandosi al campo di allenamento dei titolari, aveva colto Kidou di spalle.

-Hai intenzione di infortunarti e sabotare la finale, dopo tutti gli sforzi per arrivare fino a qui, capitano? –

Kidou aveva fatto un salto dalla sorpresa, non l’aveva sentito arrivare. Sentendosi rivolgere in quel modo duro dal suo allenatore, gli aveva rivolto un inchino di saluto con molta riverenza, serrando i pugni delle mani per indursi all’autocontrollo.

-Darò tutto me stesso in quest’ultima partita, Comandante.- aveva proferito, inghiottendo un singhiozzo, motivato più dalla paura che dalla preoccupazione. –Renderla fiero di me è il mio più grande desiderio. –

Kageyama moriva dalla voglia di urlargli addosso che non doveva pensare a lui, che a tempo debito l’avrebbe lasciato solo, esattamente come chiunque altro, che avrebbe dovuto impegnarsi per essere autonomo e curarsi solo di se stesso, dei propri interessi, solo così non sarebbe stato sopraffatto, nella vita adulta. Inghiottendo con più abilità di Yuuto un gemito a sua volta, tenendo le labbra strettissime e i denti serrati, gli aveva fatto cenno di seguirlo fuori dal campo e il ragazzino, obbediente, lo aveva assecondato. Kageyama gli aveva dato il tempo di cambiarsi e lo aveva accompagnato in auto fino a casa. Durante il tragitto, Kidou aveva preso di nuovo parola.

-Sa, Comandante, quando ero piccolo non avrei mai pensato che sarei arrivato, come capitano, a disputare una finale di un campionato nazionale di calcio.-

-Non pensare al passato, ragazzo. Impegnati affinché i tuoi obiettivi futuri vengano raggiunti. Devi pensare solo a vincere, adesso, quello che è stato non ha importanza.-

Per il giovanissimo Kidou, però, il passato e il futuro coincidevano: erano una casa, una famiglia e Haruna al suo fianco. Non glielo disse: Kageyama vide solo la determinazione accendergli le gote pallide e ne sorrise soddisfatto.

La Teikoku aveva vinto quella finale e, come da regolamento, ai vincitori era stata offerta la possibilità di passare una settimana in America. Naturalmente erano partiti tutti e Kageyama li aveva accompagnati. A sei anni dalla sua adozione, Kidou poteva già vantare il titolo di titolare e capitano della squadra giovanile più forte della nazione: scoppiava di orgoglio, il suo portamento non nascondeva nulla della fierezza che gorgogliava nel suo giovane petto. Nonostante questo, parlava di gratitudine all’uomo che aveva di fronte. Kageyama appoggiò il mento ai palmi delle mani, rivolgendo il suo sguardo enigmatico al più giovane:

-Devi essere grato solo a te stesso, hai svolto un lavoro eccellente durante questo campionato. I tuoi compagni ti rispettano e i tuoi avversari hanno dovuto soccombere di fronte alle tue abilità strategiche. Questo è quanto.-

-E’ vero, ma lei…-

-Niente ma, Kidou. Mi aspetto grandi cose, nel prossimo torneo. Per cui adesso riposati e festeggia con la tua squadra: il vostro affiatamento e la vostra concentrazione dovranno essere ai massimi livelli, quando torneremo a casa ricomincerete subito gli allenamenti. Risponderai personalmente di ogni cosa.-

-Signorsì, Comandante. –Un esitante momento di silenzio. Un arricciamento di labbra.  - Non c’è nulla che posso fare per includerla nei festeggiamenti? –

Kageyama strizzò le labbra in un sorriso sghembo: quel ragazzino era testardo. – Il tè è più che sufficiente. Per il resto, limitati a obbedire e fidarti di me come hai fatto fin ora.-

Il suo sguardo serio e scuro incontrò quello leale e cristallino del ragazzo, che prontamente si inchinò, a ribadire la propria devozione. –E’ un onore.-

Kageyama osservò il mantello rosso svolazzare alle sue spalle mentre si allontanava, tornando dai propri coetanei. Stava proprio diventando grande: due anni ancora e gli studi superiori l’avrebbero condotto fuori dalla sua scuola. Kageyama Reiji non era certo una persona sentimentale, non avrebbe indugiato a lungo su pensieri affettuosi o nostalgici di qualche tipo, tuttavia il peso della realtà che gli piombò addosso, ritrovando con gli occhi la mail di Garshield, gli fece dolore il petto. Rilesse velocemente quelle frasi e poi, come ne fosse inseguito, afferrò il bicchiere di plastica e bevve un ampio sorso di tè. Il sapore zuccherino e vanigliato del latte gli avvolse il palato. La disturbante immagine di Kidou che si inchinava con tanta affettuosa riverenza davanti a Garshield gli mozzò il fiato e prese a tossire con forza.

Rispose senza indugi: “While it is an interesting project, it also requires that we handle it with proper care. The team I train is the best in Japan, as of now, but I can set up a separate team, outside of the Teikoku Gakuen. They will become the next champions, and I will personally make sure they are adequate specimens. 

I’d rather form a brand new team, a blank slate we can shape and work on, instead of dealing with the potential setbacks coming from a parental intervention. 

As you know, Teikoku Gakuen is a prestigious military academy, and the parents who send their kids to this school are not only rich and influential, but oftentimes rather traditional in their approach to teaching and training, they may not appreciate this kind of overhaul in the training regime: a different team will do nicely.”

Da quel momento iniziarono i preparativi per quello che avrebbe portato il nome di progetto Z, un progetto di miglioramento delle doti atletiche di alcuni ragazzini accuratamente selezionati da Kageyama in persona. Un progetto da cui la Teikoku venne sistematicamente esclusa.

author's corner
Siamo a metà del percorso ormai... spero che vi stiate divertendo! :)
Questo viaggio in America è menzionato di sfuggita nell'anime e ha sempre destato in me una forte curiosità, così ho dovuto approfondire questo scenario. In più, iniziano ad apparire hints dello sviluppo dei personaggi. Ci avviciniamo sempre di più al periodo canon.
A presto e grazie a tutti <3

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Capitolo 8
*** La cotta ***


La prima volta che Kidou aveva visto Gouenji Shuuya era stato durante la fase regionale del suo primo Football Frontier. Aveva dodici anni ed era capitano della Teikoku Gakuen: i suoi compagni contavano su di lui, il signor Kageyama gli aveva affidato l’intera responsabilità delle azioni della squadra e aveva stabilito con suo padre l’accordo che sarebbe stato il principale pensiero nella sua mente per i due anni a venire.

Col senno di poi, era naturale che all’inizio non si fosse reso conto di nulla. Energia ansiosa animava il suo corpo di giorno e di notte, per portare avanti i ritmi insostenibili che la stagione calcistica gli aveva imposto. Sia i suoi voti che la sua prestazione in campo dovevano rimanere eccellenti, ora che aveva addosso tutti i riflettori più che mai. Il peso delle aspettative degli adulti e dei suoi coetanei si mescolava con l’onore di portare avanti la nomea di una squadra imbattuta per quarant’anni e con l’entusiasmo di poter calcare il campo di una competizione ufficiale per la prima volta nella sua vita. Aveva naturalmente iniziato a studiare le squadre del girone regionale dal momento in cui le qualificazioni erano cominciate, impiegando ore di sonno per scrivere e riscrivere schemi. Teneva le luci del salotto accese per evitare di addormentarsi e si massaggiava gli occhi quando bruciavano per il sonno e per la luce artificiale della televisione accesa. Durante la loro prima partita del girone regionale aveva avuto la nausea per tutto il primo tempo, dal terrore che nel suo schema ci fosse qualche errore di cui non aveva tenuto conto. Avevano vinto, ma la momentanea gratificazione era servita solo a rinforzare la convinzione di dover mantenere quei ritmi serrati.

Così Kidou studiava le materie scolastiche e si allenava e poi studiava ancora, le partite degli avversari questa volta. Si era imbattuto in una partita della Kidokawa Jr. High una notte in cui l’orologio aveva superato da tempo le due e il suo corpo non ne voleva sapere di crollare fra le coperte. Con il cuore che batteva troppo forte era tornato in salotto, ma i suoi occhi stanchi si incrociavano sugli appunti pieni di cancellature sparsi sul tavolino. Si era lasciato scivolare a sedere sul tappeto: era troppo stanco per pensare e le strategie per la loro prossima partita erano pronte ed erano perfette, perfette. Il suo corpo era comunque teso e in fibrillazione come se avessero dovuto giocare da lì a poche ore. Doveva fare qualcosa, doveva assicurarsi che fosse abbastanza. Non c’era margine neanche per il più piccolo errore. Se intanto non riusciva ad addormentarsi, non poteva permettersi di sprecare quelle ore.

Aveva iniziato a scorrere fra le registrazioni che, in un altro momento di picco ansioso, aveva raccolto. Si stava concentrando principalmente sulle squadre del suo girone regionale, ma dopo li avrebbe aspettati quello nazionale e c’erano così tante scuole. Non avevano modo di sapere quali avrebbero affrontato, quindi Kidou aveva iniziato a raccogliere informazioni su tutte quante. Una quantità di dati così grande era francamente terrificante. Aveva suddiviso meticolosamente le scuole per tornei vinti e goal segnati, incrociando le classifiche regionali, per darsi l’impressione di una mole di lavoro meno mastodontica. Quando era troppo stanco per produrre schemi di gioco guardava registrazioni delle partite degli avversari e ripeteva fra i denti i nomi dei giocatori più rilevanti. Si era rassegnato quella notte ad impiegare così il tempo finché non fosse crollato addormentato.

La Kidokawa era una squadra con una reputazione piuttosto buona, anche se non arrivavano al girone nazionale da qualche anno. Kidou aveva letto che era una delle favorite in questa stagione, grazie ad un nuovo attaccante. La registrazione che aveva veniva da un canale televisivo regionale: le inquadrature che cambiavano frequentemente e che seguivano le azioni da vicino non erano ottime per dedurre gli schemi di gioco, ma era il meglio che fosse riuscito a trovare. Forse avrebbe dovuto cercare ancora. Si era sciolto i capelli abbandonando l’elastico sul divano e aveva iniziato a massaggiarsi distrattamente la base del collo, cercando di scacciare la stanchezza di piombo che sentiva arrampicarsi sulla schiena.

Quelle inquadrature ravvicinate e scenografiche, a dire la verità, si rilevarono provvidenziali. Fu la prima volta che vide da vicino il volto di Gouenji, sempre così serio per nascondere l’agitazione delle sue prime partite ufficiali. Grazie al lavoro di quei cameraman, riuscì a seguire passo per passo come Gouenji segnò il primo goal di quella partita, con la sua corsa veloce e i suoi movimenti precisi, con il suo salto scattante e le sue fiamme. Erano le prime volte che eseguiva quello che sarebbe diventato il suo tiro distintivo e la sua rovesciata in aria era ancora un po’ grezza e sbilanciata. Non atterrò benissimo e dovette attutire la caduta con le mani per non farsi male alle caviglie. Il portiere avversario non ebbe speranze contro la sua potenza. Kidou trattenne il fiato per tutta la durata dell’azione e memorizzò all’istante il nome di Gouenji Shuuya, il suo anno di nascita e il nome della sua tecnica di tiro. Quello sì che era un avversario temibile.

*

La situazione peggiorò drasticamente durante la cerimonia d’apertura della fase interregionale del torneo. Kidou aveva sfilato in testa alla sua squadra, affiancato dalla figura imponente di Genda. Avevano dormito tutti a casa sua quella notte, troppo euforici di essere arrivati fino a quel punto insieme per separarsi ognuno nella sua abitazione, e si erano talmente fomentati a vicenda da arrivare nello spogliatoio dello stadio della cerimonia con una ridarella collettiva incontenibile. Yuuto aveva dovuto rifilare al portiere una gomitata nelle costole per farlo smettere di ridacchiare quando il loro nome era stato chiamato e le telecamere erano state puntate su di loro.

La Kidokawa era stata chiamata subito dopo di loro. Gouenji Shuuya, primo anno e sensazionale bomber, era stato nominato capitano nel corso stesso del torneo; dunque, era in prima fila come Kidou, appena dietro alla sbandieratrice, e si era posizionato proprio al suo fianco, a un paio di metri di distanza. Kidou non poteva immaginarlo, ma Gouenji era terrorizzato durante quella parata: timido fin dalla più tenera infanzia, era a disagio in quel ruolo di capitano ed era così nervoso nel rappresentare la sua squadra da non vedere l’ora che tutta quella cerimonia finisse.

L’unica cosa che Yuuto vide, però, fu l’espressione dura e concentrata dell’attaccante, che non piegò mai il viso neanche di qualche centimetro verso di loro. La Teikoku Gakuen era conosciuta in tutta la nazione e tutti ne erano intimoriti, tutti tranne Gouenji: lui stava fiero e coraggioso come un combattente, nella sua divisa rossa e nera, le guance leggermente arrossate per il sole prepotente sulle loro teste e una singola gocciolina di sudore in bilico sull’attaccatura dei capelli. Era bellissimo. Kidou aveva il batticuore e maledisse gli occhialini che non gli permettevano di sbirciare discretamente il biondo: doveva per forza girare la testa per osservarlo e Genda, notandolo, aveva già cominciato a gettargli qualche occhiata incuriosita.

Passò l’intero Football Frontier a pensare a quel ragazzo. Mise le mani tutti i filmati di allenamenti della Kidokawa che riuscì a incontrare, amatoriali, male girati, spesso da altre squadre che non disponevano di strumenti di spionaggio migliori dei propri cellulari. Senza rendersene conto, si ritrovò a parlare di lui in continuazione ai suoi compagni di squadra: l’avversario più temibile del torneo, un vero prodigio della loro leva, un attaccante senza pari, un futuro goleador di alto livello… La Kidokawa era poco più che mediocre, era lui la punta di diamante che rendeva prezioso l’intero assetto.

Daiki l’aveva presa a male, ad un certo punto, come fosse un attacco personale al suo ruolo di attaccante. Aveva sbottato che, se voleva fargli la corte, avrebbe dovuto andare a fargli una serenata sotto casa, non rompere le scatole a loro, ed era uscito dallo spogliatoio su tutte le furie. Genda, mezzo sdraiato sulle scomode panchine di legno, stanco e sudato dopo l’allenamento, aveva emesso un fischio basso e divertito e aveva urlato all’altro di smettere di fare la fighetta. Kidou aveva fatto spallucce e aveva sistemato i suoi appunti ordinatamente un’ultima volta.

-Però ne parli tanto, in effetti, capitano.-, aveva aggiunto Koujirou dopo qualche momento di silenzio.

-Dobbiamo essere pronti, quando lo sfideremo. Tutto qui.-

Un sorriso smagliante gli si era aperto inconsapevolmente sulle labbra alla prospettiva di incontrare di nuovo Gouenji, questa volta per ben novanta minuti, sul campo da calcio. Genda non capiva cosa ci trovasse di così tanto entusiasmante: aveva un bel tiro, d’accordo, ma con lui in porta non era così pericoloso e Kidou lo sapeva. Chissà cosa gli stava prendendo.

*

Gouenji non si era presentato alla partita della finale.

Kidou non riuscì a spiegare a sé stesso il peso di piombo nel suo stomaco, quando l’arbitro fischiò l’inizio e non c’era traccia del bomber di fuoco. Era delusione, nervosismo e smania insaziata: sgradevole e sconosciuto, mai provato prima.

Vinsero, ovviamente. La squadra non valeva molto senza il loro capitano e attaccante di punta, avevano fatto affidamento sulla sua presenza per l’intero torneo e avevano pochi altri assi nella manica. Fu una partita semplice e l’euforia di aver vinto il loro primo Football Frontier trascinò via l’amarezza dal suo stomaco.

Per tutta l’estate, ogni tanto, andò a riguardare i video degli allenamenti della Kidokawa: lo faceva di nascosto, con un lieve retrogusto di vergogna, attento a non farsi beccare dai camerieri di casa. Moriva dalla voglia di rivederlo e quando venne a sapere, all’avvicinarsi della nuova stagione calcistica, che non era più nella rosa della Kidokawa, la sua fissa tornò con molta più prepotenza di prima. Alla fine, sbucò il nome della Raimon Jr. E questa volta Kidou avrebbe fatto tutto quello che doveva per giocare contro a quel prodigio.

*

Gouenji era molto più che un giocatore sensazionale e un volto bellissimo. Era gentile e accorto. Intelligente e perspicace, anche se non era uno studente troppo brillante. Era un buon amico e un ottimo ascoltatore, con la rara dote di sapere sempre vedere un poco oltre alle parole. Era incredibilmente timido e riservato e, a meno che non fosse su un campo da calcio, parlava sempre a voce bassa, quasi stesse attento che nessuno oltre al suo interlocutore lo sentisse. E la metà della popolazione femminile della scuola aveva una cotta per lui.

Kidou aveva scoperto tutto questo nelle poche settimane in cui si era trasferito alla Raimon. Era stato un cambiamento drastico rispetto a tutto ciò a cui era abituato e non era andato sempre tutto liscio: i ragazzi della Raimon avevano fatto qualche resistenza e non erano stati subito entusiasti di accoglierlo e lui aveva sentito da impazzire la mancanza della Teikoku, della loro fiducia, della loro intesa, e più di una volta aveva stretto i pugni pensando che avrebbe voluto combattere quelle partite insieme a loro. D’altra parte, era incuriosito dai modi di fare della Raimon e spesso si era ritrovato impacciato nel replicarli. Erano sempre così informali, non avevano orari fissi di allenamento, ogni riunione o esercizio avveniva perché un paio di giocatori cominciavano a ritrovarsi nel campo della scuola o al fiume e, secondo dinamiche incomprensibili a Kidou, tutti quanti ad uno ad uno apparivano. Si trattava di un gruppo di amici, prima che di una squadra di calcio, e l’ultimo arrivato non veniva incluso con così tanta naturalezza – a maggior ragione perché l’ultimo arrivato era l’ex capitano della Teikoku, con la sua puzza sotto al naso, i suoi modi da damerino e il suo modo di parlare forbito e controllato.

In tutto ciò, con lui c’era sempre stato Gouenji. L’attaccante godeva di un rispetto e di una stima incondizionata da parte di tutti i membri della squadra. Si poteva dire che lo adorassero e, in tutta onestà, Kidou poteva capirli. Come si poteva non adorare una presenza così rassicurante, salda e carismatica? Comunque, Shuuya era stato il suo lasciapassare per tutte quelle spigolose prime settimane. Sempre al suo fianco, silenzioso e tranquillo, Gouenji lo invitava a tutti quei ritrovi, gli spiegava a cosa gli altri si riferivano quando le conversazioni sviavano su argomenti a lui ignoti, alcune volte erano addirittura stati loro due i primi sul campo intorno a cui si riunivano gli altri membri della squadra. Endou era con loro la maggioranza delle volte, a dire il vero; ma Kidou aveva sempre la bizzarra sensazione che fossero loro due e poi Endou, come se Gouenji fosse lì proprio per lui.

I segnali erano evidenti, ma passò ancora quasi un anno prima che Kidou capisse di che natura fossero l’affetto e l’adorazione che provava per il biondo. Ad onore del vero, a casa sua e alla Teikoku non erano mai stati fatti discorsi di inclusività e nessuno gli aveva mai fatto notare sul serio quanto fosse bizzarro il suo comportamento: nessuno l’aveva mai preso da parte e gli aveva detto che non era proprio comune avere il batticuore quando si incontra per caso un proprio amico, neanche un amico molto caro, che si stima molto. Così Kidou aveva proceduto per tutto il Football Frontier completamente inconsapevole della natura della sua attrazione.

C’era stata una sola occasione strana. Yuuto faceva in modo di non ripensarci mai, anzi, l’aveva alacremente fatta sparire dalla sua memoria con un’interessante forza di autoconvincimento, ma era stato un momento incredibilmente imbarazzante.

Avevano vinto la semifinale contro la Kidokawa ed erano tutti affollati nello spogliatoio. Era stata una delle partite più combattute del torneo per la Raimon, il punteggio di 3-2 era stato strappato dalle mani della Kidokawa e l’entusiasmo della vittoria andava già a mescolarsi con l’ansia per l’imminente partita contro la Zeus. Persino Endou era parso un po’ cupo, meno pronto a godersi la gioia del fine partita. Gouenji, al contrario, era entrato negli spogliatoi con i lineamenti distesi e un umore scherzoso, che era raro tirasse fuori davanti a tutta la squadra. Si era trattenuto con i suoi ex compagni a parlare e il suo vecchio allenatore l’aveva preso da parte; Kidou non aveva sentito quella conversazione, ma, a giudicare dall’espressione dell’attaccante, doveva essere andata molto bene. Sembrava che un peso si fosse sollevato dalle sue spalle.

Gouenji non era una persona particolarmente pudica, altra piccola contraddizione rispetto al suo carattere riservato e timido; non era mai stato quel tipo di ragazzo che ci pensa due volte a spogliarsi davanti ai suoi compagni. Di solito, tuttavia, dopo le partite si lavava in fretta e senza bagnarsi i capelli, probabilmente poco a suo agio nelle docce pubbliche degli spogliatoi. Quel dopo partita, invece, era molto di buon umore e in vena di divertirsi.

Someoka, Shorin e Kurimatsu avevano portato di nascosto un pallone sotto alla doccia e se lo stavano passando da un piatto all’altro, schiamazzando allegramente. Kazemaru aveva provato ad avvisarli che fosse alquanto pericoloso, ci mancava solo che scivolassero e si facessero male appena prima della finale, ma i tre avevano ignorato l’avvertimento. Gouenji era entrato nella doccia per ultimo, era straordinariamente lento in questo tipo di cose, e non ci era voluto molto perché il pallone, bagnato e inzaccherato di polvere e terra dal campo, gli finisse addosso. Qualche schiamazzo particolarmente forte aveva raggiunto il resto della squadra, già intenta a rivestirsi, e poi Shorin e Kurimatsu erano usciti dalla sala docce strillando e ridendo. Someoka era arrivato subito dopo, coprendosi la testa come se schivasse proiettili. Gouenji li aveva raggiunti a ruota, i piedi scalzi che facevano rumore sul pavimento, e aveva assestato una bella pallonata sul sedere di Someoka, il colpevole di averlo disturbato, a quanto pareva.

-Ben ti sta, idiota.-, lo aveva preso in giro con una gran risata sulle labbra, di quelle piene e rare. Poi aveva scrollato i capelli biondi, facendo cadere goccioline da tutte le parti. La palla che gli era finita addosso doveva averlo spinto sotto al getto della doccia, facendo sciogliere la lacca e il gel: ora le ciocche bionde gli cadevano sulle spalle e sul volto, disordinate e bagnate. Era la prima volta che Kidou lo vedeva così. Indossava ancora il suo ciondolo argento, non lo aveva tolto dopo la partita. Il metallo umido luccicava contro alla sua pelle olivastra, proprio in mezzo al suo petto dove si accennava qualche traccia di peluria bionda, un singolo dozzinale gioiello su tutto il suo corpo nudo.

Kidou aveva ringraziato il cielo di essere già vestito. Se fosse stato anche lui ancora nudo, sarebbe stato molto difficile spiegare la sua reazione ai suoi compagni di squadra. Si era defilato quasi di corsa, non notato dagli altri ragazzi, che ridevano alle spese di Someoka, e si era seduto per primo in pullman. Quando gli altri lo avevano raggiunto, per fortuna il batticuore e le guance scarlatte erano già passate e nessuno aveva fatto caso a lui.

Fece fatica a guardare Gouenji negli occhi il giorno successivo, poi si convinse con tutta la propria forza che era capitato per caso e che non voleva dire proprio nulla. Proprio nulla. Non ci pensò fino all’anno dopo, nella calura di Okinawa, quando gli piovve di colpo addosso la realizzazione che invece voleva dire qualcosa di molto preciso.

*

Il cielo di Okinawa era carico di stelle. L’aria frizzante della sera era pregna dell’odore di legna bruciata e brace, i resti del loro falò. Kidou aveva passato tutta la sera a parlare con Otomura. Si era a stento reso conto del tempo che passava, incuriosito e attirato dalla voce suadente dell’altro ragazzo. Intorno a loro, la Raimon e la Oumihara ridevano e scherzavano in un piacevole brusio di sottofondo, di cui Otomura gli indicava come seguire le risonanze e le andature. Era più grande di lui e aveva occhi sottili e svegli dietro alle lenti fini degli occhiali, luccicanti come vetrini di mare, acuti. A Kidou piaceva ascoltarlo. Era affascinante e brillante e la sera gli era scivolata via dalle dita momento dopo momento.

Il ceppo di legno scuro su cui erano seduti era scomodo sotto di lui, dopo tante ore nella stessa posizione. Molti membri della Raimon erano già tornati al loro pullman, esausti dopo la partita e dopo un’intera giornata passata sotto il sole spossante del mare. I ragazzi della Oumihara erano decisamente più abituati e continuavano a fare baldoria. La maggioranza di loro si era allontanata dalle ceneri quasi spente del falò, per fumare senza essere disturbati una manciata di canne che Tsunami aveva tirato fuori dalla borsa prima, perfettamente rollate. Otomura aveva declinato l’invito dei suoi compagni ad unirsi a loro, dicendo di non avere voglia di fumare, e Kidou, intimidito, aveva affermato lo stesso. Non aveva mai toccato una sigaretta, figuriamoci una canna… E, a dire la verità, più semplicemente, non aveva molta voglia di allontanarsi da Otomura. Se poteva ritagliare qualche momento in più di conversazione da solo con lui, l’avrebbe colta. Tsunami era crollato a terra dall’altro lato del falò rispetto a loro due e stava dormendo alla grande, così venne lasciato indietro.

Otomura canticchiava a labbra strette guardando in aria. Il silenzio era surreale e bizzarro, si sentiva in lontananza la risacca del mare: sembrava di essere dentro ad un film. Kidou era imbarazzato tutto d’un tratto, senza che sapesse indicare precisamente il motivo. Non sapeva dove guardare e un lieve nervosismo gli stava tastando la bocca dello stomaco.

-Ti sei scottato.- Affermò all’improvviso Otomura, i suoi occhi svelti posati su di lui.

-Uhm?-

-Il viso. Ti sei scottato. Non ti sei portato della crema?-

Kidou sentì le guance diventare più calde di colpo e dubitava fosse per la scottatura. Scrollò le spalle. -N-Non è così grave.-, biascicò, schermendosi.

Un sorriso lieve si affacciò sulle labbra di Otomura e, con nonchalance, allungò una mano per accarezzare la guancia arrossata di Kidou. Si era fatto più vicino, le loro spalle si toccavano ora. Lo guardava attentamente, con occhi profondi e spudorati, analizzando le sue reazioni con curiosa concentrazione – col senno di poi, cercava qualche segnale che Yuuto non fosse consapevole o d’accordo con quello che stava succedendo.

Invece Kidou, innocente Kidou, quasi febbricitante per l’emozione e per il colpo di sole, aveva affermato che in effetti forse, forse sì, faceva un po’ male, giusto un po’, si scottava sempre facilmente, ma non ci aveva proprio pensato, e intanto che parole imbarazzate uscivano dalla sua bocca l’istinto gli muoveva il corpo verso quello di Otomura. Il più grande aveva iniziato a sorridere e aveva trasformato quel tocco in un buffetto, un gesto affettuoso così naturale che Yuuto sentì il fiato tirato via dai polmoni. Quella piccola danza impacciata li tirò vicini come due magneti di cariche opposte e le loro labbra si incontrarono a metà strada.

Otomura baciava bene, con scioltezza e sicurezza. Kidou si ricordò a stento di respirare e mosse impacciato la lingua, senza sapere dove metterla, senza riuscire a trovare il filo conduttore nel ritmo dell’altro – e dire che avevano parlato di questo praticamente tutta la sera. Il suo cervello era in cortocircuito. Era il suo primo bacio. Era il suo primo bacio e quello davanti a lui era un ragazzo.

A dire la verità, Kidou non aveva mai pensato molto alle ragazze. Aveva sempre supposto che alcune di loro fossero carine e che avrebbe potuto valere la pena uscirci per un appuntamento, chiacchierare, magari tenersi per mano. Aveva ascoltato i suoi compagni della Teikoku, nei loro primi anni di scuole medie, cominciare a parlare di ragazze continuamente; non era un argomento che lo coinvolgeva più di tanto e non capiva molto quella smania di discuterne ininterrottamente, così stava in silenzio e li lasciava sfogarsi. Quando Genda si era preso una vera sbandata per quella biondina del primo anno, Yuuto aveva pensato che fosse una cosa molto carina e che gli sarebbe piaciuto sentirsi così. Per tutti gli anni che riusciva a ricordare, tuttavia, c’era sempre e solo stata una singola ragazza nella sua testa: Haruna, sua sorella, e il disperato desiderio che aveva di rivederla. Non riusciva a pensare molto a lungo a qualche altra ragazza e non si era granché posto il problema. Poi era arrivato alla Raimon e aveva riabbracciato Haruna, aveva fatto amicizia con la squadra e aveva cominciato a passare sempre più tempo con Gouenji, e il fatto di dover pensare alle ragazze gli era completamente passato di mente.

Con la bocca di Otomura sulla sua, ora Kidou riusciva a intuirne il motivo.

Si baciarono ancora un po’ sotto alle stelle, abbastanza perché Yuuto avesse bene impresso l’odore di sale della sua pelle e la consistenza dei suoi capelli fra le dita, poi li raggiunse il vociare sgraziato dei giocatori della Oumihara che tornavano verso il falò. Kidou si tirò indietro in uno scatto pudico, imbarazzato all’idea di farsi trovare così, e Otomura lo lasciò andare; mise la mano sulla sua per un momento, stringendola, e si scambiarono un sorriso complice.

Quella notte, Yuuto non chiuse occhio. Otomura non sapeva che turbine avesse aperto nella mente dell’altro ragazzo. Non aveva mai neanche pensato che i ragazzi fossero una possibilità. Tutti avevano sempre e solo parlato di baciare delle femmine e lui—lui non aveva mai capito perché qualcuno dovesse volerlo così tanto. Ora lo capiva. Con il viso rosso di vergogna e il cuore nella gola, nel silenzio pieno di cicale della notte, lo capiva bene.

Ci volle del tempo per scendere a patti con quella realizzazione e digerire l’intera novità che comportava. Ci volle ancora più tempo per dirlo a suo padre e ai suoi amici e per smettere di sentirsi così a disagio nel pensarlo e nell’affermarlo ad alta voce. Quella notte, però, Kidou per la prima volta lo disse a sé stesso: Sono omosessuale. Mi piacciono i maschi. Non ho mai pensato alle ragazze perché non è da loro che sono attratto .

Pochi giorni dopo, arrivò il momento di sfidare nuovamente la Epsilon; nel pieno della fatica e della tensione, proprio quando si stavano chiedendo come avrebbero fatto a vincere, proprio mentre si stavano chiedendo se i loro sforzi fossero stati abbastanza, tornò Gouenji. Tutti gli animi si risollevarono, Kabeyama si mise a piangere, Endou aspettò a stento che la partita si interrompesse per saltare al collo del suo migliore amico. Tante cose potevano cambiare, ma l’effetto che Shuuya faceva sulla squadra era sempre lo stesso.

Mangiarono tutti insieme quella sera e, con una naturalezza strabiliante, Kidou e Gouenji si sedettero vicini. Lo facevano sempre, quando giocavano nella vecchia squadra della Raimon, un loro piccolo accordo non detto. Yuuto non si aspettava che sarebbero tornati a farlo subito, ma poi si erano avvicinati al tavolo insieme e Gouenji aveva tirato indietro la sedia accanto alla sua e in un attimo erano tornati ad un anno prima, come se non fosse mai passato un giorno di lontananza. Era così contento e felice che avrebbe potuto canticchiare.

Kogure aveva preparato il suo trucchetto con il peperoncino, un regalo di benvenuto verso questo nuovo arrivato di cui aveva sentito tanto parlare. Stava già sghignazzando e Kidou aveva pensato per un momento di avvisare Gouenji del rischio, ma con stupore l’aveva visto scambiare con nonchalance il suo piatto con quello dell’altro, approfittando di un momento di distrazione. Kogure stava parlando con Megane, facendo il solito chiasso, e non si era accorto di nulla. Così Kidou era stato zitto e si era goduto l’aria non impressionata di Gouenji quando Kogure era stato ripagato con la sua stessa moneta.

E in quel momento, così mondano, così sciocco, mentre Gouenji si portava un boccone di riso al curry alla bocca dopo aver battuto in astuzia quello sciocco di Kogure, Kidou aveva pensato cazzo. Tutti i pezzi erano caduti al loro posto, come una coltre di nuvole che si apre all’improvviso. Ogni cosa aveva improvvisamente senso. Gouenji era il suo migliore amico, certo, ma Kidou aveva una maledetta cotta per lui. Aveva una cotta per lui fin dalla prima media e non era diminuita neanche di una singola virgola con il tempo, anzi. Più passava tempo in sua compagnia, più gli piaceva. Non era semplicemente contento di rivederlo, avrebbe voluto abbracciarlo e prendergli la mano da sotto al tavolo. E c’era un motivo ben chiaro perché aveva sempre voluto stargli intorno, fin dal primo momento in cui l’aveva visto.

Paradossalmente, dopo qualche giornata passata ad autocommiserarsi e a ricordare tutti i momenti imbarazzanti, riconoscendoli per quello che erano, Kidou si mise il cuore in pace. Ci provò, almeno. Gouenji era eterosessuale, era chiaro come il sole e tutti quanti lo sapevano: se ricordava bene – e chi voleva prendere in giro, certo che lo ricordava bene – Gouenji aveva persino lasciato una fidanzatina alla Raimon quando erano partiti per quel lungo viaggio. Era una causa persa.

Shuuya era il suo migliore amico e sarebbe rimasto tale. Avrebbe dovuto accontentarsi.

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Finalmente siamo arrivati al canon!
E, signori, ci tengo a specificare che si siedono davvero vicini appena Gouenji ritorna in squadra. E davvero si mettevano sempre vicini anche prima. E' tutto canon, io ci ho solo ricamato un poco sopra :D
Kidou vive circondato da sparkles di amore e io gli voglio bene. Ci ha messo una pietra sopra dopotutto. Lol.

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Capitolo 9
*** Imoto ***


“Neanche per un momento. Non ti ho dimenticata neanche per un momento.”

Nonostante per la legge non sussistesse più alcun legame fra loro, Yuuto fin da bambino tenne ben a mente il suo essere fratello di Haruna

-Kidou, stiamo aspettando le tue istruzioni! Si può sapere cosa ti prende oggi?-

-Pensi di starti comportando bene nei confronti di tuo padre? Continuando a parlare di quella bambina, lo offendi profondamente e rinneghi l’appartenenza alla tua famiglia, dovresti vergognarti.-

-No, Yuuto, non puoi tenere metà del dolce per tua sorella. Mangialo tutto che dobbiamo andare, è già arrivata l’auto.-

La nominava tutti i giorni. Ogni cibo buono che assaggiava per la prima volta, si chiedeva se anche Haruna lo avesse già mangiato e se le piacesse… Ogni esperienza nuova, domandava il permesso di tornarci con Haruna. Era nei suoi pensieri di bambino costantemente, erano stati insieme i loro primi anni di vita condividendo tutto. Ora, trovandosi da solo, non rinunciava all’idea di lei. 

 -Capitano, cosa hai? Sei distratto oggi!-

-Dove pensi di andare da solo? … “In orfanotrofio da tua sorella”? Non provare a dirlo mai più, se qualcuno ti sentisse? Che figura pessima fai fare a tuo padre?-

-Non possiamo andare in orfanotrofio a incontrare tua sorella, Yuuto, non oggi. Chissà, magari più avanti, se ti comporterai bene…-

Tutti intorno a lui la rinnegavano, insistevano perché quella parte di lui, il suo essere il fratellone di Haruna, sparisse. Ma lui non demordeva e continuava a fare il suo nome, ovunque, in ogni situazione, con una caparbietà che solo la giovane età gli concedeva.

-Bah, è da stamattina che il capitano è strano…-

-E così pretendi di vederla? E dimmi, da quando tu pretendi? Impara ad essere grato per quello che hai e ti viene dato.-

-Finché non finisci tutti i compiti non hai il permesso di uscire, non mi interessa se è urgente.-

Con gli anni si fece sempre più difficile. Era complesso spiegare ai propri compagni di squadra che aveva una sorella con cui non viveva, di cui non conosceva il cognome né la residenza… Già era considerato un ragazzino “strano”, se avesse tirato fuori anche quella storia avrebbe solo rischiato fraintendimenti e domande a cui non sapeva rispondere… Ma con suo padre e Kageyama insisteva, ricevendo sempre porte in faccia e false speranze puntualmente disattese.

-Che fai, capitano, scrivi una lettera d’amore alla tua fidanzatina?-

-Non hai più una sorella, toglitelo dalla testa e concentrati su cosa puoi fare per la tua famiglia.-

-Haruna è stata adottata da un’altra famiglia, se nei test finali di questo mese otterrai i punteggi massimi vedremo cosa si può fare per incontrarsi.-

Per neanche un momento l’aveva rinnegata, ma era sparito per anni. Per neanche un giorno aveva smesso di pensarla, ma non aveva più avuto il permesso di mettersi in contatto con lei. Per neanche un compleanno aveva mancato di scriverle un biglietto di auguri, ma non era mai riuscito a farglieli recapitare. Per neanche un secondo non l’avrebbe voluta al suo fianco, ma non c’era più stato un abbraccio o una confidenza fra loro.

Poi, l’ultimo anno delle medie inferiori, siglò il patto con suo padre che gli avrebbe consentito di tornare a vivere con sua sorella: l’impegno era vincere tre tornei nazionali consecutivi ed eccellere a scuola, sempre sotto la supervisione di Kageyama. Era un impegno folle per un ragazzino di quell’età, che richiedeva una concentrazione irremovibile e una performance encomiabile, costantemente. Non era ammissibile un singolo errore, una mancanza, un momento di debolezza o di esitazione. Ma se ci fosse riuscito, se il suo corpo e la sua mente avessero retto quel carico di stress per tutti quei mesi, alla fine avrebbe ottenuto di nuovo la presenza di sua sorella al suo fianco.

Si buttò a capofitto nello studio e nell’analisi delle strategie di gioco: Kageyama, garantendogli la vittoria, teneva lontani gli spettri del fallimento che di notte gli calavano sugli occhi, togliendogli il sonno. Era terrorizzato all’idea di non riuscire più a riconoscere sua sorella, si crogiolava nell’ansia di sapere quanto fosse cambiata e si sentiva stringere le viscere nello sforzo di ricordare il suono della sua voce di bambina, che nei suoi ricordi diventava sfuggente e vacua. I volti dei suoi genitori erano già svaporati dalla sua mente, ma Haruna… Con Haruna sarebbe stato diverso, con lei avrebbe vissuto di nuovo, avrebbero condiviso tutto, come fanno i veri fratelli, e sarebbe tornato tutto come doveva essere, com’era stato prima dell’incidente che li aveva resi orfani. Doveva solo… Vincere…

Il suo amore per il calcio – quello stesso calcio che aveva conosciuto in orfanotrofio, quando calciava il pallone e aveva la sensazione di sentire il rumore dei passi di suo padre al suo fianco, quello stesso calcio che aveva portato gli occhi di Kageyama a posarsi su di lui, fra tutti gli altri bambini – per quel calcio Kidou disattese il patto, disobbedendo agli ordini di Kageyama e perdendo per due volte consecutive.

Ma non fu vera sconfitta, perché con quel gesto, grazie a quella decisione, conobbe il sorriso radioso di Endou, l’energia contagiosa della Raimon, la forza scoppiettante di Gouenji e, soprattutto, l’abbraccio emozionato di sua sorella. Non avrebbe più dovuto vincere per forza, sarebbe stato possibile anche per lui giocare a calcio : giocare, quella parola così infantile che prometteva divertimento, emozioni positive, sorrisi e strette di mano, non paura e pressione costante. Lasciò la sua scuola, cambiò divisa e anche il suo sorriso, da cupo e sprezzante, si fece più gentile ed entusiasta. Non era stata una scelta avventata, ci aveva riflettuto molto ed era convinto che fosse per il suo bene: per una volta agiva pensando a sé, non per compiacere gli altri.

Era passato poco tempo dal suo trasferimento, si stava ancora abituando alla nuova scuola e soprattutto alle condizioni in cui versava il suo nuovo club di calcio – alla Teikoku erano un’istituzione, avevano più campi di allenamento, spogliatoi all’avanguardia, attrezzature di allenamento sofisticate, squadre di riserva e anche permessi speciali per esoneri mattutini dalle lezioni e punteggi bonus sui rendimenti scolastici. Alla Raimon avevano a malapena un campo, uno spogliatoio disordinato, privo di servizi igienici, che fungeva anche da generico luogo di ritrovo e archivio per la documentazione sia burocratica sia strategica, ciò che chiamavano “attrezzatura da allenamento” erano vecchi pneumatici impilati alla rinfusa contro gli angoli della stanza e alcuni, neanche tanti, palloni da calcio.

Kidou si chiedeva seriamente come avessero superato la fase regionale del torneo, in quelle disastrose condizioni. Ma il loro entusiasmo suppliva ogni genere di difficoltà, sembrava che con la sola forza della determinazione e molto impegno avrebbero sconfitto tutte le squadre del Paese. Kidou aveva deciso di fidarsi di quel sorriso e stava al gioco, letteralmente, offrendo il suo contributo strategico alle loro azioni, coordinando i vari membri della squadra grazie al suo occhio e alla sua esperienza, concedendosi il lusso di sorridere per una palla caduta nel fiume, mentre il sole tramontava fra i grattacieli della città. Gouenji, dopo l’ennesima piroetta infuocata in aria, gli scambiava uno sguardo di intesa, Endou alle sue spalle faceva rumore in quel suo modo energico e vivace, esortandoli a continuare a impegnarsi, Haruna filmava le loro azioni di gioco e Natsumi sistemava le bevande del post-allenamento. Era sinceramente felice, anche se leggermente disorientato.

Un giorno, prima delle lezioni, venne fermato in corridoio da Aki, che sfilò dalla cartella una busta e gliela porse. Kidou, confuso, la prese in mano e aspettò che si spiegasse. La ragazza sembrava di fretta, si trattenne di fronte a lui solo per sussurrargli un veloce: -Fra qualche giorno è il compleanno di Haruna e, visto che è così coinvolta nella squadra, pensavamo di organizzare una festa a sorpresa per lei! Lo sto dicendo a tutti, tu vieni, vero? Ti ho scritto nella busta il mio indirizzo di casa, la facciamo lì!-

Senza neanche aspettare una risposta, Aki si allontanò, sorridente come al solito. Kidou rimase per qualche secondo a sbattere le palpebre da solo, di fronte al nulla: che cosa era appena successo? Natsumi, vedendolo impalato da solo vicino alla porta della loro aula, lo richiamò e il rasta subito lo seguì dentro, per la lezione. La ragazza notò come, appena fu seduto, rilesse l’indirizzo nella busta e la richiuse, riponendola con cura in un fascicolo di fogli, perché non si rovinasse. Sulle sue labbra si era dipinto un sorriso davvero emozionato, Natsumi non aveva mai visto nulla del genere sul suo volto.

Tornato a casa, dopo le lezioni, Yuuto aveva letteralmente la testa fra le nuvole. Non ci poteva credere, era stato tutto così… Spontaneo, normale, semplice. “Tu vieni, vero?” Certo, ovvio che veniva alla festa di compleanno di sua sorella. Poteva andare, era chiaro, ci andava tutta la squadra, lui era un membro della squadra… Niente più gli impediva di frequentare sua sorella, conoscevano i rispettivi indirizzi di casa, andavano alla stessa scuola, si vedevano tutti i giorni per gli allenamenti… Era così naturale, così semplice, non c’era nessun ricatto dietro, nessun vincolo… Poteva andare alla festa di compleanno di sua sorella .

Si buttò nel letto, incapace di gestire la forte emozione di contentezza che gli bruciava nel petto in quel momento. Si scoprì a canticchiare un motivetto festoso a bassa voce, così, per il gusto di farlo, perché era felice.

*

Passò i giorni successivi a prepararsi per la festa: andò a comprare dei vestiti nuovi per l’occasione, si offrì di andare a comprare l’occorrente per decorare la casa, festoni, palloncini, una coroncina per la festeggiata, i cappellini colorati per tutti gli ospiti, fece girare dei questionari nelle classi dei suoi compagni (facendo ben attenzione che Haruna non se ne accorgesse) per sapere quali fossero le loro bevande e snacks preferiti, in modo da comprarli per tempo… Aki era incredula di fronte all’entusiasmo e la vivacità infantile che Kidou, il grande stratega Kidou Yuuto, orgoglioso capitano della Teikoku Gakuen, quel Kidou dimostrava di fronte ai preparativi per una festa di compleanno in casa. Ma Aki, avendo raccolto le confidenze di Endou sulla situazione dei due fratelli, era sinceramente contenta di vederlo così coinvolto e gli lasciò ampio spazio di manovra. Kidou era genuinamente orgoglioso della propria organizzazione e lo rendeva felice fare qualcosa per sua sorella.

Gouenji osservava tutto da lontano: essendo presente, con quel suo modo partecipativo e silenzioso, non gli sfuggì il potenziale d’ansia che Kidou cercava di controllare disperatamente. Era evidente come fosse entusiasta, ma sotto quell’iperattività gaia c’era qualcosa… Kidou aveva paura. Gouenji non sapeva molto del perché il legame fra i due fratelli fosse stato reciso, ma sapeva che Kageyama aveva avuto molta influenza nella vita di Kidou e questo bastava a spiegare perché Yuuto fosse così intimidito e al contempo felice di stare insieme ad Haruna, adesso che si era liberato della sua presenza oscura.

Haruna non sospettava nulla della festa a sorpresa, Aki l’aveva invitata a casa sua quel pomeriggio per festeggiare e lei, com’era ovvio, aveva capito che sarebbe stato un party tutto femminile e aveva proposto di farsi le unghie con il nuovo macchinario che sua mamma aveva comprato di recente. Qualsiasi fosse il suo trascorso con Kidou, era evidente che non pensava a lui, come primo compagno per festeggiare il suo compleanno… Ma Gouenji dubitava seriamente del fatto che non l’avrebbe voluto. Forse Kidou temeva che sua sorella in fin dei conti non lo volesse alla sua festa?

Shuuya ci rifletté su per un po’, poi prese una decisione: non era nel cervello né di Kidou né di Haruna, ma era chiaro come il sole che Yuuto sarebbe stato contentissimo di festeggiare con la sorella il compleanno di lei e, per quel che conosceva Haruna, Gouenji era sicuro che anche lei sarebbe stata entusiasta di averlo fra i partecipanti al party.

Per scongiurare il pericolo che Yuuto all’ultimo non si presentasse, pensò di parlargli dopo la lezione, ma quello scappò, sembrava di fretta e Shuuya non era uno di quelli che rincorre. Se ne andò per le sue e dopo aver pranzato gli scrisse un messaggio: “Anche per me è la prima volta che vado a casa di Aki Kino. Andiamo insieme, se ti va.” In quel modo avrebbe anche evitato la sgradevole sensazione di entrare da solo in una casa addobbata a festa, già piena di gente, con tanto rumore e probabilmente la musica.

Dopo qualche minuto, il messaggio di risposta da parte di Kidou. “Okay, Gouenji. Passo a prenderti in macchina alle 15.”

*

Prima delle 16 non suonarono al campanello di casa Kino.

Kidou si era assicurato contattando Aki che la casa fosse tutta sistemata e addobbata e i regali concordati con gli altri ragazzi della squadra fossero già stati recapitati. Aveva un pacchettino da parte sua - una collanina d’argento con l’iniziale del nome di sua sorella, si ricordava che la loro mamma ne portava al collo una simile e aveva sempre pensato che ad Haruna sarebbe stata benissimo. A furia di tenere in mano il pacchetto e stringerlo aveva sgualcito il fiocco. Gouenji, con pazienza, senza commentare, l’aveva invitato a entrare in casa e l’aveva sostituito. Kidou aveva osservato, con le mani strette a pugno nelle tasche, come quelle di Gouenji si muovessero con agio fra nastri rosa e fiocchetti da pacco. Era… Non era riuscito a trovare le parole per descriverlo, ma era qualcosa di bello, qualcosa che gli ricordava le illustrazioni dei libri per bambini sull’essere fratelli maggiori. Qualcosa che forse lui aveva perso o non aveva mai avuto. Gouenji gli ridiede il pacchetto sistemato e gli dedicò un sorriso tenue, incoraggiante, pieno di calore. A Kidou venne da piangere, ma si fece forza e aspettò che il biondo si finisse di preparare. Preferiva arrivare in ritardo, ma con qualcuno, anziché in anticipo, ma da solo.

Nel frattempo alla festa erano già arrivati tutti e, quando Aki sentì suonare alla porta, chiese ad Haruna di andare lei ad aprire. La blu, nel suo vestitino azzurro primaverile, già ubriaca di contentezza per la sorpresa della festa, si trovò di fronte suo fratello e, dietro a lui, Gouenji. Con un sorriso sprizzante di gioia e un urletto di sorpresa gli lanciò le braccia al collo, stringendosi nel loro abbraccio che tanto le era mancato. Gouenji da dietro osservò come Kidou ricambiasse con dolcezza la stretta, cingendole la vita in modo premuroso.

“Buon compleanno, Haruna. Sono venuto anch’io.”

author's corner
Come poteva mancare un capitolo dedicati a questi due sfortunati fratellini!
Dato che in questa storia ho voluto raccontare una serie di episodi formativi su Kidou, era naturale dare spazio anche ad Haruna.
Spero che vi sia piaciuto, a presto <3

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Capitolo 10
*** Trio ***


Negli anni della loro amicizia, non c’era mai stato qualcosa di cui non parlare. Genda alzò gli occhi su Sakuma e Kidou: erano sdraiati sul tappeto della cameretta di Jirou e stavano giocando a carte. La signora Mio aveva appena lasciato un vassoio di biscotti, come sempre i preferiti di Yuuto. Niente sembrava fuori posto. Aveva dato per scontato fino a quel momento che le cose, fra di loro, sarebbero sempre rimaste limpide e quotidiane.

-Non è giusto… Stai barando, non è possibile!-

Sakuma abbandonò la sua mano sul tappeto in gesto di resa, completamente stracciato dall’amico, che sorrideva lusingato e soddisfatto. Kidou non era mai stato il tipo da sbattere una vittoria in faccia, lo faceva sempre timidamente, con discrezione. Ed era stato proprio quello il problema, non è vero? Lo rendeva furibondo.

Genda stava per compiere quattordici anni e sentiva di aver già perso tutto. La Teikoku Gakuen aveva perso contro la Zeus Gakuen: non solo aveva perso, era stata completamente umiliata. La lunga permanenza in ospedale, quantomeno, gli aveva permesso di evitare di ascoltare tutti i giorni i commenti di suo padre. Era venuta solo sua mamma, un paio di volte, e non si era neanche seduta accanto al suo letto: era rimasta lì in piedi, in bilico, con uno sperso volto da bambina, pallida e vecchia sotto le luci bianchissime della stanza. Non sapeva che dire. Koujirou aveva girato la faccia dall’altra parte, sul cuscino scomodo, finché non se n’era andata.

In ospedale tutti i giorni erano uguali. Di notte, spesso Sakuma piangeva. Genda non sapeva che farsene di quel segreto in quel momento, vedendolo addentare un biscotto e insistere bonariamente che Kidou fosse troppo bravo rispetto a lui, che giocare non fosse neppure divertente con un divario così grande. Yuuto, per sempre quello strano bambino impacciato delle elementari, si schermiva e insisteva a sua volta che giocassero ancora.

Erano stati in cortile fino a poco prima, ma un acquazzone li aveva sorpresi, costringendoli ad abbandonare il pallone bagnato e sporco di terra sotto al portico e a rifugiarsi in casa. Mio aveva preparato la merenda per consolarli e Sakuma aveva tirato fuori uno dei suoi stupidi giochi di carte. Kidou era spettacolare in ogni gioco di logica, specialmente giochi da tavolo, e nessuno della squadra lo aveva mai battuto se non per sfacciata fortuna da principianti. Quella identica scena era avvenuta così tante volte…

-Genou, vieni a darmi una mano? In due magari riusciamo a distruggerlo!- Lo richiamò Sakuma.

Un’ondata di pelle d’oca gli coprì le braccia. L’amico lo stava guardando sorridente e complice. Era intollerabile, perché Genda lo aveva sentito piangere e lo aveva visto contorcersi dal dolore in campo, lo aveva sorretto e lo aveva chiamato quando aveva perso i sensi e le ambulanze non potevano raggiungerli, e ora? Kidou si puliva le labbra dallo zucchero a velo e mischiava nuovamente il mazzo di carte, tranquillo come un angioletto.

Genda strinse i denti e buttò fuori un: -Non ne ho voglia.-.

-Oh su, non fare la palla. Ho bisogno di te per…-

-Ho detto che non ne ho voglia!- Genda si alzò di scatto, con un po’ troppo impeto. I due amici, a terra, lo guardarono perplessi. Kidou aveva la fronte corrucciata. Diavolo, che situazione.

Un disagio rampicante gli salì sulla spina dorsale. Lo guardavano come se dovesse loro una spiegazione, così bofonchiò che sarebbe tornato a casa e sbatté la porta della camera di Sakuma, per buona misura.

-Chissà che cosa gli è preso…-

-Conosci Genou. A volte fa la testa calda.- Le sue rassicurazioni caddero nel vuoto, così Sakuma rincarò la dose con una certa stilla canzonatoria nella voce: -Magari ha il ciclo…-

Sghignazzò da solo per la sua stessa battuta, anche se Kidou non ne rise. Guardava la porta chiusa pensosamente: era chiaro ad entrambi il filo che i suoi pensieri stavano seguendo. Gettò uno sguardo al suo migliore amico d’infanzia, ma Sakuma, il peso appoggiato alle braccia e il busto reclinato indietro, era il ritratto della rilassatezza e dell’innocenza.

Erano passati solo pochi mesi dalla Shin Teikoku Gakuen.

Dopo l’esplosione del sottomarino, Sakuma e Genda erano tornati in ospedale: la conclusione di quella storia aveva un che di ironico che, quando ci pensava, metteva i brividi a Yuuto. A forza di non pensarci, erano arrivati alla prima sfida con la Diamond Dust e non era più riuscito a seppellire l’impellente bisogno di tornare alla sua vecchia scuola, dai suoi vecchi compagni. Era entrato in punta di piedi in quel posto che era stato la sua casa, sentendosi un ladro, un senso di colpa schiacciante sulle spalle magre. Lì aveva rivisto tutta la sua squadra, i suoi primi amici, quelli che, con le loro angherie e il loro bizzarro affetto, erano stati il primo posto a cui aveva sentito di appartenere: per il tempo di un allenamento tutto il male era stato dimenticato. 

Genda stava già meglio e aveva giocato con loro. Non aveva parlato molto con Kidou, a dire la verità, e lui era stato troppo in soggezione per dirgli qualcosa. Narukami aveva raccontato a Yuuto, mesi dopo, che i genitori di Genda lo avevano affidato alle cure dei migliori medici del Paese, per pulire il suo corpo dalle sostanze tossiche della pietra di Alius; alcuni vociferavano addirittura di una struttura di disintossicazione privata e che Genda Toshio avesse picchiato suo figlio al suo ritorno a casa.

Sakuma se l’era vista peggio e le lacrime di Mio, a modo loro, avevano peggiorato la situazione. Zoppicò per mesi e, per tutto il resto delle scuole medie, tornò spesso in ospedale; aveva accusato peggio dell’amico l’effetto delle sostanze e, probabilmente, avrebbe subito serie conseguenze a lungo termine. Se questo lo faceva sentire più debole di Genda, non lo diede a vedere. Tuttavia, durante quell’allenamento, con Yuuto era stato dolce. Non aveva parlato di quello che era successo poche settimane prima e Kidou, in imbarazzo e bisognoso di assoluzione, si era vergognato troppo per introdurre l’argomento.

Così, l’amicizia nel trio era stata reistituita. Non si vedevano spesso come prima: Kidou aveva nuovi amici con cui allenarsi e con cui bighellonare. Genda non sembrava geloso. Sakuma era imperscrutabile. I loro pomeriggi insieme erano sempre più spesso pieni di momenti imbarazzanti o tesi e Kidou non sapeva come intaccare quel vetro di non detto e di vergogna.

-Magari dovremmo seguirlo e parlargli?- Ipotizzò, parlando più a se stesso che a Sakuma. Il turchese comunque gli rispose:

-Non servirebbe a nulla. Deve solo imparare quando è il caso di farsela passare.-

-Farsela passare?-

Sakuma scrollò le spalle. -Dico, in generale.- Ci fu un momento di silenzio. Erano solo due ragazzini, con i visi ancora morbidi e i corpi mingherlini, e non c’era modo di parlare di qualcosa di così tanto più grande di loro.

Così Kidou annuì a labbra strette e distribuì le carte. Fuori aveva smesso di piovere, ma nessuno dei due propose di tornare a giocare a calcio.

*

Genda si presentò a casa di Kidou i primi giorni di marzo, a cavallo con l’inizio degli esami finali dell’anno scolastico. Dal fatidico incidente delle scale, che aveva segnato l’inizio della loro amicizia, Genda non era più stato in classe con quelli del suo anno; tuttavia, era stato il trasferimento di Kidou alla Raimon ciò che aveva reso impossibile continuare a studiare insieme. Faceva ancora freddo e Genda aveva il  naso rosso, aveva camminato a lungo all’aperto per arrivare a casa dell’amico. Kidou se lo trovò sulla soglia che molleggiava sulle gambe, troppo alto per la sua età, bizzarramente impacciato.

-Inglese.-, fu la prima parola che gli disse. -E’ impossibile. Fammi i compiti.-

Era quasi intimidatorio, ma i suoi occhi grigi erano limpidi e vulnerabili e sembrava che gli stesse chiedendo aiuto. A Kidou venne quasi da ridere.

-Entra, Genou.-

Sembrava passata una vita dall’ultima volta in cui si erano accomodati insieme sul tappeto del suo salotto, con un paio di libri aperti davanti. La grafia pessima di Genda, mai migliorata dai tempi delle elementari, era rassicurante. Ultimamente, Kidou aveva cominciato a fare la conta delle cose che non sarebbero cambiate mai: avrebbe potuto aggiungerci quello.

Come ai vecchi tempi della Teikoku Gakuen, più che aiutarlo a studiare, Yuuto finì per svolgere i compiti al posto di Koujirou. Il leggero disagio del più grande, vedendo con quanta agilità svolgesse esercizi per lui insormontabili, aveva sempre dato a Kidou soddisfazione. Si vergognò di provare ancora quell’identica emozione, mentre, allo stesso tempo, si compiaceva di essere ancora migliore di Genda. Impossibile capire se il portiere immaginasse il suo stato d’animo.

Ad un certo punto, Koujirou incrociò le braccia dietro alla testa e sbadigliò: -Sei sempre il solito secchione, capitano.-, gli disse. Il cuore di Kidou sobbalzò, sentendosi chiamare così. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma il portiere non glielo lasciò fare.

-Inizierà il Football Frontier International fra un paio di mesi, l’hai sentito?- Commentò. Abbandonò la testa contro il divano e distese le gambe, mettendosi comodo; sgualcì la copertina di un libro di scuola, così facendo. -Hai vinto due Football Frontier, chi più di te avrebbe diritto di essere selezionato. Nevvero?-

Il suo tono era difficile da collocare, così Kidou si limitò a scrollare le spalle. -Non so come funzionino le convocazioni.-

Genda gli fece il verso. -Tu sai sempre tutto, non fare il fighetto.-, fece un piccolo sorriso sghembo e cercò di mettergli un piede in faccia, allungando la gamba.

-Ma che… Basta, che schifo!-

Il portiere sembrava intenzionato ad infastidirlo allo stremo, così non demorse. Rise un po’ e poi disse, -Sei pronto a tornare a giocare in squadra con me?-, che fece bloccare Yuuto sul posto.

Effettivamente l’amico riuscì a piantargli le dita del piede nella guancia, ma Kidou stava sorridendo e non gli diede soddisfazione. -Mi manca.-, ammise.

Genda smise di disturbarlo e abbassò la gamba, facendosi un poco scuro in volto. La vulnerabilità non era mai stata il suo forte e per un attimo sembrò non sapere che farsene di quella confidenza; poi ne sembrò irritato e, alzando il volto, l’ombra nei suoi occhi assomigliò un po’ troppo a quella di qualche mese prima.

Avrebbe potuto dire qualcosa, qualsiasi cosa. Invece ci fu qualche istante di silenzio e poi annunciò: -Ci sono ancora tre pagine da fare, datti una mossa.- Kidou pensò di insistere, ma l’imbarazzo era troppo e la scappatoia era troppo facile.

Genda non venne convocato per le qualificazioni del Football Frontier International.

Quando fu il momento di partire per il Liocott Island, Kidou e Sakuma ricevettero le congratulazioni da tutti i loro amici. Il portiere guardò solo Sakuma negli occhi, in un modo complice e intimo. Kidou si sentì escluso e ferito, ma non disse nulla; la consapevolezza di averli abbandonati a loro stessi era un mostro, ingordo delle sue viscere, con cui conviveva pietosamente.

La lista delle cose che non sarebbero cambiate mai, di anno in anno, si faceva sempre più scarna. Kidou aveva imparato quella lezione presto, quando un aereo era precipitato, portandosi via i suoi genitori e la sua infanzia, e quando la forza della burocrazia e dell’indifferenza gli avevano strappato sua sorella dalle braccia. Genda, invece, lo imparò quando, al termine della competizione mondiale da cui era stato escluso, vide Kidou e Sakuma scendere dall’aereo insieme a Fudou Akio. Genda non smise mai di odiarlo, ma non disse nulla. C’erano ormai tantissime cose di cui non poteva parlare.

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Provo un profondo senso di vuoto e tristezza. Già.
Ho guardato gli episodi della Shin Teikoku un miliardo di volte e ho sempre trovato interessante la mancanza di approfondimento sul dopo, su che cosa ne potesse essere stato del loro rapporto. Questa è la mia interpretazione di quel vuoto.
Grazie a chi legge, a presto!

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Capitolo 11
*** Requiem ***


Quella sera Kidou si sdraiò a letto e passò un tempo interminabile, vuoto, sospeso, a guardare il soffitto, senza riuscire a prendere sonno.

Non c’era modo di stare tranquillo: la vicinanza dei suoi compagni di squadra non gli bastava, il sorriso di Endou gli appariva più mesto del solito, nemmeno le chiacchiere incoraggianti di sua sorella lo destavano dal torpore emotivo in cui era sprofondato.

Il cuore gli batteva violentemente in petto, come se stesse ancora correndo su quel campo. Riusciva a sentire il vociare rumoroso dagli spalti, il sudore sulla fronte e sulle mani, quello sguardo, lo sguardo del Comandante , su di lui, sul suo gioco, su ogni suo passo. Come era stato fin da quando era bambino, come era stato da sempre… Fino ad ora.

La realizzazione dell’inevitabile cambiamento pesava su Kidou, rendendolo inquieto e spossato.

Ora non l'avrebbe più guardato… lodato… redarguito… minacciato. Nulla, non avrebbe più fatto nulla.

Ricordi piacevoli e negativi, rassicuranti e angoscianti si rincorrevano nella sua testa in una corsa sfrenata, in una nebbia di nostalgia e parole non dette, in cui si dibatteva e annaspava ogni volta che rimaneva da solo con i suoi pensieri.

Con sgomento, Kidou si era scoperto orfano per la seconda volta, con ancora più intensità rispetto a quando era bambino. Kageyama non era propriamente suo padre, in effetti, ma era stato con lui in anni cruciali della sua crescita e gli aveva insegnato molte cose del suo modo di comportarsi, oltre al calcio naturalmente. Kageyama era quello che poteva definire un maestro, un modello, da cui a lungo andare si era distaccato... Ma era indiscutibilmente il suo punto di partenza e, in fin dei conti, ora poteva riconoscerlo, il suo punto di arrivo. Ambiva alla sua approvazione, alla sua lode: voleva superarlo, voleva dimostrargli che era bravo, che poteva farcela anche da solo. Voleva che lo guardasse, ancora una volta, sempre.

Invece non sarebbe più successo, Kageyama era morto all’improvviso e lui, come tempo addietro, al sopraggiungere della morte dei suoi genitori, aveva sentito cadergli addosso la spessa coltre della solitudine e dell’impotenza.

Quando giocava alla Teikoku… Poi nel momento in cui se n’era andato, disobbedendo agli ordini del Comandante… Per tutto il tempo in cui aveva giocato nella Raimon… Sapeva che lui era lì e vedeva e sapeva tutto. Poteva incolparlo delle malefatte che avvenivano intorno a loro, poteva pensare di parlare con lui, poteva proporsi di sfidarlo e batterlo una volta per tutte… Poteva contare su di lui, anche se non combattevano più dalla stessa parte... Kageyama c'era e, per quanto il pensiero fosse spaventoso, era pur sempre qualcosa che conosceva, che sapeva gestire; qualcosa di rassicurante, che faceva parte dell'equilibrio in cui viveva.

Quell'equilibrio ora si era rotto. Kageyama non c'era più.

Non ci sarebbe mai più stato un suo sabotaggio, un suo sorrisetto nell'ombra, una sua frase enigmatica, una sua lode, un suo rimprovero... Niente di niente. Stranamente, quella consapevolezza non lo rassicurava affatto. 

Quante cose ancora da dire... Quante cose ancora da ascoltare... Possibile che fosse finita così? Quella era stata la sua ultima partita, il suo ultimo giorno di vita? Lo sapeva? Perché non aveva detto qualcosa? Perché non aveva detto di più ? Su quel campo, vedendo come dava indicazioni alla sua squadra… non la Teikoku, ma la nazionale italiana… Kidou aveva realizzato con chiarezza quanto anelasse ancora una parola dal suo allenatore, un incoraggiamento, una lode, un suggerimento. Quanto anelasse su di sé lo sguardo che Kageyama aveva rivolto a Fideo. Ancora una volta.

Come tutte le altre volte da quella fatidica partita, dopo il pareggio con la Orfeo, Kidou realizzò di trovarsi sul ciglio del campo di allenamento in piena notte, con l’aria fredda e salata proveniente dal mare a pizzicargli le guance. Non voleva giocare, non ne aveva la forza, però non riusciva nemmeno a stare in camera. Come tutte le altre volte era solo… Almeno così credeva.

-Non riesci a dormire neanche tu, eh?-

Appoggiato al tronco di un albero, poco distante, Fudou Akio. Sembrava ancora più pallido, illuminato solo dai mesti raggi lunari. A Kidou parve un fantasma inizialmente e si rizzò dallo spavento. Fudou sghignazzò, ma qualcosa nel suo tono non era affatto divertito, per quanto emulasse molto bene.

-Vieni, Kidou-kun, facciamo una passeggiata.-

Kidou pensò di seguirlo: non voleva stare da solo. In effetti, camminare al fianco di Fudou Akio nel boschetto che costeggiava la loro residenza sull’isola, in direzione del mare, con tutto il silenzio attorno, gli sembrava il modo migliore di passare l’ennesima notte insonne.

Non sapeva di cosa parlare... Se doveva parlare.

Fudou non era Endou, né Gouenji, né tantomeno Sakuma. Non era abituato a stare in silenzio con lui. Eppure le parole, per qualche ragione, non gli uscivano di bocca. Camminava e basta, considerava il modo in cui i piedi di Fudou lasciavano impronte sul terreno. Fudou appariva così… Vulnerabile e forte al contempo. Non gli era mai sembrato tanto irraggiungibile quanto vicino. Era assurdo, stava evidentemente perdendo la ragione.

-Non puoi continuare a dormire così poco.-, gli stava dicendo. -Durante gli allenamenti non sei concentrato, la squadra ha bisogno di te. Tsk, non vorrai mica, adesso che manca così poco al tetto del mondo, tirarti indietro e lasciare a me la direzione del gioco!-

Era il suo modo per dirgli che era preoccupato per lui, a quanto sembrava. Irritante, certo, ma pur sempre premuroso, a suo modo. Le scorse sere si erano già incontrati? Gli aveva già rivolto quelle parole? Da quanto tempo non si addormentava, la notte? Kidou continuava a camminare, in silenzio: aveva un disperato bisogno che Fudou continuasse a parlare, a punzecchiarlo, a sgridarlo, a fare qualsiasi cosa , purché lo tenesse ancorato al momento presente.

Raggiunsero il mare. Insieme, nel buio, aspettarono che facesse l'alba. Il sole sarebbe sorto ancora, in un mondo in cui adesso erano soli per davvero.

Kidou era sicuro che nessuno dei suoi compagni potesse capirlo. E non perché fosse l’unico ad aver perso una persona importante nella sua vita, quella purtroppo era una disgrazia che era toccata a molti suoi compagni. Ma perché in lui si agitavano pensieri ed emozioni così contrastanti nei confronti di Kageyama Reiji, da risultare incomprensibili anche a lui stesso. Kidou odiava i metodi di Kageyama. Kageyama odiava la nazionale giapponese. Kidou apparteneva alla nazionale giapponese. Per diretta conseguenza, dovevano odiarsi reciprocamente. Eppure, per qualche oscura ragione, durante la partita contro la Orfeo non aveva affatto sentito di odiare il suo ex allenatore, né tantomeno aveva percepito che quest’ultimo lo disprezzasse.

-Grazie, Fideo. E grazie anche a te, Kidou.-

Gli sembrava di trovarsi al centro di un mulinello che l’avrebbe condotto sul fondo senza possibilità di risalita: perciò, appena sentì Fudou distendersi sulla sabbia scura e umida del mattino, rivolse a lui la sua piena attenzione. Lo stava implorando con gli occhi di porgergli un braccio e tirarlo fuori dall’inferno che stava diventando la sua mente.

-Penso che la sensazione in assoluto peggiore che si possa vivere sia quella che si prova quando si vorrebbe piangere e non si riesce a farlo.– Stava dicendo Fudou, come se gli avesse scrutato l’anima, -Senti un peso sul petto insostenibile, hai l’impressione di soffocare, prendi aria a vuoto, annaspi, boccheggi, e intorno a te è tutto silenzio.-

Kidou buttò fuori un gemito roco, a metà fra un colpo di tosse e un singhiozzo. -È così evidente?–, articolò con lentezza, prendendo generose boccate d’aria nella brezza del mattino.

Fudou gli fece cenno di sedersi al suo fianco, lì sulla sabbia; Kidou non si fece pregare, aveva la sensazione che avrebbe avuto meno freddo, avendo Fudou vicino. Era un pensiero stupido e infantile, ma era contento che il suo compagno fosse lì con lui. Non lo disse, temendo che quest’ultimo lo prendesse in giro; forse non l’avrebbe fatto, ma Kidou non volle rischiare.

-Ho paura che questa sensazione passerà, che tutto passerà, che dimenticherò anche il peso sul petto che sento adesso, che mi ci abituerò... Mi abituerò al fatto che non c’è più. E andrà bene così.-

Ascoltò la propria voce mentre confessava quel timore come se si trovasse al di fuori del proprio corpo e vedesse la scena da distante. Fudou, disteso sulla spiaggia, con tutti i granelli di sabbia sulle spalle e fra i capelli, e lui seduto al suo fianco, con le mani appoggiate sulle ginocchia, stretto in una posa contrita, pensierosa e spaventata. Era tutto così patetico e desolante . Ma il sole che sorgeva davanti a loro era bellissimo.

Le parole continuarono ad uscirgli di bocca, senza che fossero in suo controllo: -È che è così sbagliato… È che non dovrebbe morire, una persona adulta che ti vuole bene e a cui vuoi bene. Non dovrebbe succedere che un giorno c'è, è lì vicino a me, ci posso parlare, e il giorno dopo non c'è più. E non ci sarà mai più. E-ei-io potrò cercarla in ogni luogo che visiterò, in ogni persona che incontrerò, e non la troverò mai. Non dovrebbe succedere… Invece a me è già successo tante volte.-

Stava singhiozzando. Inevitabile. Comunque, cos’altro si aspettava? Provava pena per se stesso.

Fudou ruppe quel monologo straziato come se fosse suo dovere farlo. Come se fosse doveroso, da parte sua, dire qualcosa. Kidou non si chiese se il compagno di squadra provasse pena per lui, non avrebbe sopportato la risposta. Preferí non pensarci e illudersi che Fudou, in qualche bizzarro modo, potesse capirlo.

-È così per forza. Sarebbe peggio il contrario.-

-Sei un egoista, pensi solo a te stesso.-

-E tu pensi troppo a compiacere gli altri.-

Non era sicuro che fosse possibile definire salvifico o rassicurante quel dialogo: ma il solo fatto di essere riuscito ad articolare un botta e risposta con un proprio compagno di squadra, dopo giorni che non biascicava parola, era di per sé già un successo. Non ci aveva mai pensato, ma, a ben guardare, gli occhi grigi di Fudou avevano lo stesso colore della luna, vista dalla spiaggia di quell’isola. Glielo disse, così, con nonchalance, come se fosse il commento più appropriato da fare in quel contesto; Fudou rise, a metà fra il lusingato e il commiserante.

-Devi andare avanti, non puoi rimanere sempre sepolto nel passato.-

-Questa me l’hai già detta.– sbuffò Yuuto, come se fosse nella condizione di ribattere. Akio non glielo fece notare, un eccesso di premura nei suoi confronti, che gli costò un’occhiata che non seppe gestire. Kidou aveva tolto gli occhialini, mentre lui non stava guardando, e ora i suoi occhi cremisi lucidi e gonfi di pianto gli stavano addosso, pietosissimi. Fudou distolse lo sguardo, Kidou avrebbe voluto andarsene lontano.

Lasciò cadere gli occhialini sulla sabbia con un gesto molle della mano: osservò come nella montatura si insinuassero granelli di sabbia che avrebbe poi dovuto togliere con estrema pazienza e movimenti finissimi delle dita, per non danneggiare le lenti.

-Perché non smetti di usarli?-

-Perché me li ha regalati il signor Kageyama.- sbuffò ancora Kidou, come se, di nuovo, andasse bene una risposta del genere da parte sua. Mai come in quel momento non sapeva che farsene del futuro. Era come gli avessero tirato via le radici da sotto i piedi, si sentiva privo di stabilità. Non sarebbe durato. Forse avrebbe dovuto ritirarsi dalla nazionale e tornare a casa, da suo padre. Forse…

-Sai cos’altro ha fatto il signor Kageyama?- chiese Fudou a bruciapelo, guardando il mare.

Kidou guardò l’orizzonte oltre la sua spalla, come se quell’intralcio visivo fosse il suo salvagente: sarebbe annegato, senza punti di riferimento stabili, come era in quel momento la spalla di Fudou davanti a lui. In realtà temeva che il suo compagno dicesse qualche cattiveria rispetto alle passate malefatte del suo ex allenatore: avrebbe avuto ragione e lui non era di certo intenzionato a fare un’apologia dei suoi crimini… Tuttavia, no, non poteva sentire adesso Fudou sputare veleno su quell’uomo. Cercò di dire qualcosa, di fermarlo, ma Fudou fu più veloce di lui e proseguì:

-Ti ha insegnato a giocare a calcio. Il suo calcio, il calcio di suo padre, il calcio che amava. Ora quel calcio è il tuo, è quello che hai sviluppato con gli anni passati alla Teikoku e che hai espresso al meglio qui, con la Inazuma. So che stai accarezzando l’idea di fare le valigie e portare il tuo culo su un aereo per tornare in Giappone, ma lascia che ti dica una cosa, Kidou: sarebbe una grande cazzata. Lui ti manca, non è vero? È normale, ti ha cresciuto. Ora ti senti abbandonato, ma lui ti ha lasciato il tuo modo di giocare a calcio e la voglia di vincere. Perché, anche se adesso ti senti confuso, so che hai voglia di vincere, come tutti noi del resto. Allora tirati in piedi, calcia quel dannatissimo pallone come ti ha insegnato a fare, e vinci , vinci finché non arriverai in finale e vinci anche la finale. Lui voleva che vincessi, no? Tu puoi farlo, con tutti noi. È un modo per tenerlo vicino... Per non lasciarlo andare. Per dire che c'è stato un uomo che hai chiamato maestro e che ci sarà sempre, ogni volta che farai un passaggio o una finta, sul campo di calcio.-

Kidou era letteralmente rimasto senza parole. Fudou, come un fiume in piena, l’aveva investito con il suo discorso carico, appassionato, pieno di furore. I suoi occhi erano in fiamme. Il rasta gemette ancora, trattenendo un singhiozzo, completamente incapace di dire alcunché; allora Akio con un movimento brusco lo prese per la nuca e gli fece appoggiare il capo sulla sua spalla. Kidou scoppiò a piangere come un bambino, fremendo e tremando, con il volto rigato da velocissime lacrime calde, completamente abbandonato su Fudou. Quest’ultimo rimase zitto e fermo, rispettoso di quel momento che si consumava in un’alba pallida e rosata. Non voleva che Kidou se ne andasse dalla squadra, non avrebbe permesso a Kageyama di fargli quell’ultimo sgarbo.

Passarono alcuni minuti e Kidou si calmò, cullato dal rumore del mare e dal respiro di Fudou. Lentamente, senza dire nulla, allungò una mano sulla sabbia e raggiunse quella del compagno. Intrecciò le sue dita alle proprie e subito sentì l’altro stringere la presa. Rimasero così a lungo, persi nei rispettivi pensieri, ma vicini in un modo che li faceva sentire al sicuro. Più tardi sarebbero tornati al cottage per fare colazione e avrebbero lavorato insieme agli schemi di gioco per la semifinale. Ce l’avrebbero fatta, avrebbero vinto ancora. Avrebbero vinto insieme.

*

-Ehi Kidou, al telefono! Una chiamata per te, è tuo padre!-

-Mh? Mio padre?-

.

- Ciao, Yuuto.-

-Buongiorno, papà! È successo qualcosa? Come stai?-

-No, ecco…- Una lieve esitazione, come se si stesse mordendo un labbro mentre parlava . O forse stava semplicemente sorseggiando del caffè. -Mi chiedevo… Come stai tu.-

-Grazie, papà, io sto bene. Qui ci alleniamo sempre molto, ma sto studiando e…-

-Ho visto la partita. L’ultima che avete giocato.- Un’altra pausa, come se stesse prendendo un altro sorso dalla tazza… Come se volesse aggiungere ancora qualcosa… Come se volesse spiegarsi meglio.

- Abbiamo pareggiato purtroppo, ma siamo riusciti a qualificarci comunque! Continueremo a…-

-Stai bene, Yuuto?-

Fu il turno dell’esitazione per il ragazzo. Dall’altra parte del telefono solo un lievissimo ronzio. Quanto pesava il silenzio fra loro, quell’incapacità che avevano sempre avuto di parlarsi, per cui serviva la mediazione di…

-Yuuto, sei ancora lì?-

-Sì, sì, papà, sono qui.-, annuì, anche se non serviva a nulla: suo padre non poteva vederlo. La notizia doveva essere arrivata anche in Giappone, suo padre l’aveva chiamato per… -Sto bene, non ti preoccupare. È tutto a posto. Noi… Abbiamo parlato. Sì, insomma, ci siamo incontrati, prima che… E… È tutto a posto.-

-Meno male, sono contento.- Era così assurdo… Kidou realizzò che quella poteva essere l’ultima volta che parlava di Kageyama con suo padre. Sentì come una vertigine e appoggiò una mano al muro. – Ti voleva bene.- Fu come ricevere un pugno in pieno stomaco, gli mozzò il fiato. Ringraziò il cielo di star avendo quella conversazione a distanza. –Allora non ti rubo altro tempo, buona giornata e buon allenamento. A…-

-Papà? -, lo trattenne d’istinto, come se ne andasse della sua vita. Pensò di chiedergli perché l’avesse adottato, perché avesse scelto proprio lui… Solo per sentirsi dire “perché me l’ha consigliato il signor Kageyama”, realizzó. Un sorrisetto amaro gli si dipinse sulle labbra. Era… tutto così assurdo.

-Sì, Yuuto?-

-No, nulla… Volevo dirti che tornerò con la coppa.-

Una risata lieve, di approvazione dall’altra parte del telefono. –Ma certo. A presto, ciao!-

La comunicazione si interruppe e Kidou emise un verso tremulo, un miagolio, riagganciando il ricevitore del telefono.

“Siamo rimasti io e te, papà. Kageyama non c’è più, ma in effetti noi siamo sempre padre e figlio. È strano che debba a lui la possibilità di chiamarti così, adesso che non c’è più è ancora più strano. Ma grazie per la chiamata, papà, mi ha reso felice.”

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L'improvvisa dipartita di Kageyama non poteva mancare in questa rassegna di episodi coffcoff traumi coffcoff esperienze formative per Yuuto <3 Sorry not sorry, questa non potevo proprio evitargliela: però gli ho dato l'amore di Fudou.
Cameo di Honzo perché lo amo.

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Capitolo 12
*** Nuovi inizi ***


Kidou, in boxer di fronte allo specchio della propria stanza, lanciò un’occhiata affascinata alla divisa del liceo che aveva appena ricevuto da Hakamada, linda e tirata a lucido.

Era passato solo un anno dall’avventura mondiale, eppure così tante cose erano cambiate… Lui, come tutti i suoi compagni di squadra del resto, aveva passato metà anno scolastico impegnato con il Football Frontier International. Tornati con la coppa, si erano dedicati intensamente allo studio per i restanti mesi, quello autunnale e invernale, così da riuscire ad accedere al diploma. Non avrebbe mai osato chiedere a suo padre di presenziare all’evento, temeva quasi un rimprovero per aver abbandonato la Teikoku Gakuen; invece, con sua grande sorpresa, non solo suo padre era venuto alla cerimonia del diploma, ma anche i suoi amici della Teikoku erano accorsi, per poter festeggiare tutti insieme quella giornata memorabile. Dopodiché, era iniziata una nuova avventura, chiamata scuole superiori.

Se glielo avessero chiesto, avrebbe risposto senza esitazioni che il primo giorno di scuola non sarebbe affatto stato un problema: fino a qualche mese prima aveva calcato campi giganteschi, condividendo con avversari e compagni ansia pre partita, adrenalina e endorfina in quantità notevoli... Insomma, era stato titolare della squadra di calcio giovanile giapponese che aveva appena vinto una competizione mondiale, che cosa poteva mai essere, a confronto, un primo giorno di scuola? Invece, naturalmente, quando si trovò di fronte a quell’edificio imponente, al cortile gremito di sconosciuti e nessun amico a fiancheggiarlo, si sentì improvvisamente solo e alquanto a disagio.

Da lieve, il suo passo si interruppe bruscamente: mentre si dirigeva nell’aula indicata per gli iscritti al primo anno di corsi, scorse Fudou Akio, appoggiato al muro, con il naso per aria e la sua stessa divisa addosso. Vibrò interiormente di gioia e gli si affiancò in un attimo. Akio si accorse di lui ma, quando notò che era intenzionato a parlargli, si fece un poco più rigido. Gli occhi sorridenti di Kidou sembravano quelli di una fata.

-Fudou-kun! Tu, qui?-

Il moro lo squadrò, constatando fra sé e sé l’ovvio, ovvero che avevano la stessa divisa addosso e si trovavano nello stesso edificio scolastico alla stessa ora. Interiormente ne trasse rassicurazione, ma cercò di mascherarlo al meglio che poté: -In realtà no, sono solo un’allucinazione. A quanto pare sei troppo spaventato, senza i tuoi amichetti, e così la tua mente ha creato un’immagine per te rassicurante e…- Rendendosi conto che stava ammettendo di considerarsi a sua volta un suo amico, si ingarbugliò e sbuffò, creando un cerchio con le labbra: -Quanto sei sfigato per pensare a me come amico immaginario?-

Con aria perplessa e divertita, Kidou si sistemò la montatura di occhiali sul naso: da quando aveva dismesso gli occhialini sportivi, lo faceva di continuo, era più forte di lui. Suo malgrado, Fudou lo trovò delizioso. Poi, con tono scherzoso, Kidou gli tirò un pizzicotto sulla fronte ed esclamò: -Magari sono io l’amico immaginario di cui tu hai bisogno! Escludi questa ipotesi?-

Akio fece spallucce, volgendo il capo dall’altra parte: -La escludo completamente!-

Kidou ridacchiò e gli fece cenno di seguirlo: -Okay! Vieni, amico immaginario, ho proprio bisogno di sostegno emotivo e una faccia amica per entrare in quella sala!-

Quel primo giorno di scuola entrarono uno al fianco dell’altro all’incontro delle matricole. E, per tutti i giorni che seguirono, si sedettero vicini nelle diverse aule che frequentavano.

Durante i vari corsi, Kidou incontrò e conobbe tanti ragazzi e ragazze, figli o nipoti di colleghi e conoscenti di suo padre. Invero, non ebbe difficoltà a fare amicizia con nuovi coetanei, ma fece attenzione che Fudou non si isolasse mai: se lo teneva al fianco, facendo le dovute presentazioni e dentro di sé sentiva un gradevolissimo formicolio, battiti d’ali di cento farfalle, ogni volta che si accorgeva del sollievo di Akio.

Passando le settimane, divennero sempre più intimi e scoprirono molte cose l’uno dell’altro: senza i loro compagni della nazionale, circondato da estranei che non avevano un forte pregiudizio nei suoi confronti, emerse un lato del suo carattere estroverso, quasi disinvolto, per non dire provocante. Fudou Akio aveva in sé una latente e tirannica insicurezza, qualcosa di subdolo che usava per farsi notare, per non rimanere nell’ombra. Kidou si convinse che avesse paura del buio e non sbagliò. Fudou, d’altro canto, era meravigliato che Kidou non lo lasciasse indietro: non tradì mai le sue origini, economicamente poco dignitose, alludendo alla borsa di studio con cui aveva avuto accesso a quella scuola e, prima, al diploma alla Teikoku Gakuen. Kidou, paradossalmente, si era infine diplomato in una scuola meno prestigiosa ma, grazie alla sua mente brillante e la sua elevata preparazione, si fece subito notare fra studenti e insegnanti. Fudou invero non sfigurava al suo fianco, anzi, si contendevano il titolo del più bravo della classe, come mesi prima si erano contesi il titolo di regista titolare della squadra. I docenti cercavano di fomentare la competitività fra loro, ma i due ne ridevano e studiavano insieme, come in passato avevano collaborato agli schemi e alle tattiche di gioco. Era finito il tempo della guerra: avevano capito che si vince insieme, così colmarono le rispettive solitudini e paure.

Quando il suo compagno di classe prese la patente della moto, Kidou gli regalò un casco spettacolare, con dei motivi colorati molto aggressivi e brillanti. Fudou, lusingato dal regalo, orgoglioso di aver conquistato quel piccolo pezzo di indipendenza e fuori di sé dalla gioia di avere qualcuno con cui condividere quel momento, ficcò in testa di Yuuto il proprio casco e guidò fino ad Hayama. Sulla spiaggia di Morito mangiarono dorayaki e bevvero acqua frizzante al mango; Yuuto era euforico e Akio sentiva la testa leggera come mai era successo in vita sua. Era una pazzia, ma l’avevano fatta insieme. Quando fu l’ora di rientrare, si riavvicinarono al parcheggio dove avevano lasciato la moto e Fudou si accese una sigaretta. Kidou lo osservava con quei suoi occhi grandi e brillanti e Fudou pensò: “Ora o mai più”. Quando aprì bocca per confessargli i suoi sentimenti però gli mancò il coraggio, così gli porse solo il pacchetto. Yuuto esitò un momento, come se neanche lui si aspettasse quello: ciò nonostante, si fece insegnare dall’amico come accendere e tirò la sua prima sigaretta. Tossì per dieci minuti buoni, ma poi la fumò tutta: -Mica male.-, fu il suo commento e Akio la poté comunque considerare una vittoria.

Venne l’estate e il mister Kudou, insieme al signor Hibiki, organizzarono un raduno della Inazuma Japan: il torneo scolastico nazionale era quasi finito e alcuni giornalisti avevano chiesto il permesso di intervistare i campioni mondiali, per chiedere loro alcune impressioni sulle squadre e fare pronostici sul prossimo vincitore. A Fudou non era parsa una grande idea, avrebbe preferito concentrarsi e studiare per i test di settembre, ma Kidou lo convinse a partecipare.

Così tornarono alla Raimon Jr High. Fudou era nervoso all’idea di rivedere tutte quelle persone, che non erano state né gentili né accoglienti in passato con lui: aveva sperato fino all’ultimo che, alla luce di quello che stavano condividendo, Kidou gli sarebbe rimasto al fianco e l’avrebbe aiutato a stemperare la tensione. Invece, volente o nolente, appena arrivato Kidou si vide saltare al collo quell’esaltato di Endou e Fudou poté dire addio alle sue speranze di pace.

Endou si trascinava naturalmente appresso tutta la combriccola; Gouenji Shuuya, sempre perfetto e biondissimo, lasciava dietro di sé una lunga scia di cuori infranti di fans, essendo in partenza per la Germania… Kazemaru Ichirouta, il quale si era iscritto in un buon istituto superiore, stava rivalutando gli allenamenti di atletica e si era portato appresso la fidanzatina, Michi-Qualcosa, una ragazza slanciata dai lunghi capelli castani e gli occhi dalla intensa sfumatura violacea: un vero sogno… Naturalmente Fudou si impegnò a dimenticare all’istante il suo nome e la sua esistenza. Seguivano Fubuki e Someoka, che fortunatamente si compensavano reciprocamente nel rumore e nel fastidio che riuscivano a produrre…. Tsunami e Hijikata affermavano di essersi messi in attività come proprietari e soci di un locale vicino ad una certa spiaggia, nell’isola di Okinawa. Fudou pensò di chieder loro, con un certo tono allusivo e provocatorio, che tipo di locale fosse, giusto per metterli a disagio, ma subito cambiò idea, valutando che non fossero in grado di capire l’offesa… Sakuma, subito agganciato a Kidou, sembrava aver recuperato di colpo punti personalità e carisma, ma a Fudou di nuovo mancò il coraggio di farlo notare, questa volta a causa del bel sorriso sul volto di Yuuto, essendosi ricongiunto con il suo amico d’infanzia… Restava Tobitaka, il quale gli era sempre stato profondamente antipatico: si trattava di una sorta di antipatia istintiva, di cui Fudou si fidava molto… Così, semplicemente, ignorò la sua esistenza, d’altronde non era complicato. Molto defilati dalla scena, perché silenziosi e in un certo senso mansueti, erano Kiyama e Midorikawa: a osservare il modo in cui si guardavano attorno e rimanevano ai margini delle conversazioni dei loro ex compagni di squadra, Fudou li paragonò ad animali lasciati improvvisamente all’esterno dopo tanta cattività. Il loro disorientamento era palpabile, osservando i loro occhi, però in pochi li guardavano così attentamente e Akio per sicurezza stette in silenzio: non aveva bisogno di un ulteriore carico di inquietudine da gestire.

I più giovani erano davvero i più scalmanati: il Football Frontier di quell’anno li aveva visti compagni e avversari, così raccontavano senza fermarsi ai loro senpai le azioni più importanti delle partite che avevano disputato, mentre, con toni entusiastici o sorrisi accondiscendenti, i maggiori assicuravano che non si erano persi una partita. Fudou si chiedeva se fossero seri oppure no: possibile che, realmente, avessero guardato tutte le partite del torneo delle scuole medie? Certo, quelli della Raimon erano parecchio svitati, oltreché decisamente affiatati, per cui… Forse… Beh, senz’altro lui non l’aveva fatto ed era abbastanza convinto che anche Kidou si fosse perso numerose partite, per non dire tutte. Ciò nonostante, Kidou, al fianco di Endou, Someoka, Gouenji e tutti gli altri, era perfettamente integrato: sembrava addirittura contento di essere lì.

Mentre cominciavano le interviste e alcuni improvvisavano qualche azione di gioco, per ingannare l’attesa, Fudou si mise da parte, sulla panchina. Non aveva nessuna intenzione di socializzare più del necessario, era già stanco e voleva tornare a casa a studiare. Con sua grande sorpresa, lo salvò la più insospettabile fra le persone: Otonashi Haruna, la sorella minore di Kidou.

-Fudou-senpai!- lo salutò con tono vivace -Ti ho visto arrivare in moto, hai preso la patente?-

Lui, malgrado tutto, sorrise del suo entusiasmo. -E’ così, in effetti. Perché ti sorprendi, pensavi che non ne fossi in grado?-

-Ma no!- rise lei, sedendosi al suo fianco sulla panchina. -Sei fortissimo, anzi, ti stimo un sacco! Vorrei farlo anch’io.-

-Fallo allora. - propose lui, alzando le sopracciglia in tono di sfida.

-Mh…- la ragazza si fece pensierosa, poi sollevò l’indice in segno di sfida: -Va bene, allora scommettiamo!-

-Che cosa?-

-Sì, scommettiamo! Se non riesco a prendere la patente della moto, ti offro il gelato per tutta l’estate!-

Fudou gongolò. - Interessante… E se ci dovessi riuscire, cosa dovrei fare?-

-Regalarmi un casco bello come quello che hai lì!- Fudou sobbalzò, vedendo che la ragazza indicava quello che gli aveva regalato Yuuto. Lei aggiunse: -E’ bellissimo.-

-Sì, lo penso anch’io. E’ un regalo, in realtà.- Lo sguardo di Akio cadde involontariamente su Yuuto, il quale, dall’altra parte del campo, chiacchierava con Utsunomiya e Kurimatsu. Lei naturalmente non si perse il sorriso che colorò il volto del ragazzo, accorgendosi che suo fratello, incrociando lo sguardo del compagno, lo richiamava vicino a sé. Akio balzò subito in piedi; l’attenzione tutta su Kidou, senza che cercasse più di nasconderlo.

Haruna increspò le labbra, divertita oltremisura: -Allora, punk, scommettiamo?-

-Scommettiamo.- accettò lui, annuendo e tornando a rivolgerle lo sguardo. -Ora devo andare, forse è il mio turno per queste noiosissime interviste.-

-Forse mio fratello vuole farsi intervistare con te.- suggerì lei, dandogli una lieve spinta con le spalle. Lui oscillò sul posto, presto alla sprovvista.

-... Mi pare strano.-

-E perchè mai? Eravate i due registi della nazionale… E poi ti stima molto, penso che ti trovi una compagnia simpatica e stimolante.-

-Lo pensi?-

Haruna cinguettò con tono affermativo e Fudou si sentì più leggero. Fece per dirle qualcosa, ma lei lo precedette.

-Lui lo sa?- Sogghignava, la birbante.

-Che cosa?- si schermì subito.

-Okay okay!- fece spallucce lei con aria maliziosa e ritrosa, un sorriso da gatta sulle labbra. -Ho capito tutto, stai tranquillo. Il tuo segreto è al sicuro con me.-

-Ma che segreto?! Cosa ti sei messa in testa!?-

-Shhh! - lo spinse lei con poca grazia in avanti, verso il campo. -Ora va’, che vi devono intervistare! A Yuuto fra un po’ cascano le braccia!-

Fudou non ebbe bisogno di altro convincimento, attraversò di corsa il campo e con suo grande stupore scoprì che la manager aveva ragione, Kidou aveva concordato con il giornalista di rispondere insieme alle domande. Fin troppo sorridente, si sedette allora al suo fianco e si lasciò intervistare: passando accanto a Sakuma, si sentì accerchiare da una nube di perplessità, ma lasciò che evaporasse, senza badarci troppo.

*

Passò anche l’estate, ognuno tornò alle proprie faccende e impegni scolastici. Dopo quel raduno ne organizzarono altri, più informali, dove capitava di vedersi, andare insieme allo stadio per poi finire, come sempre, al campetto al fiume per due tiri. Kidou riusciva a tenere separate le sue compagnie, gli amici della Raimon e quelli della Teikoku, e Fudou poteva capire il perché: quello che non capiva era invece perché lo coinvolgesse in entrambi i gruppi. Di fatto, per mesi, tutte le volte che Kidou usciva con i suoi amici, Fudou era sempre lì, con lui.

Akio era incuriosito, Yuuto era gentile e divertente, aveva un modo accomodante di creare spazio anche laddove non sembrava ce ne fosse, per lui e per nessun altro.

Di natura, aveva un’indole cauta, derivata dalle sue precedenti esperienze di delusione, ma i suoi istinti di conservazione si abbassavano quando si trattava di Yuuto. Poi un giorno, durante un’assemblea scolastica, trovò la risposta a tutte le sue domande.

Erano seduti un po’ defilati, in fondo ad un’aula magna dove stava venendo proiettato un film per un qualche tipo di ricorrenza. Una noia mortale: di solito Kidou era più ligio e concentrato di lui, ma quel giorno era curiosamente distratto. Gli chiese se poteva accompagnarlo un momento in bagno e Akio, temendo che non si sentisse bene, acconsentì.

Fu lui a sentirsi cedere le gambe, quando Yuuto, arrivati in bagno, violò la distanza consentita tra due amici e, guardandolo negli occhi, gli baciò tutto tremante le labbra. Fudou sbarrò gli occhi, incredulo, ma rimase dov’era: nemmeno nei suoi sogni più audaci era Kidou a fare la prima mossa.

Era arrossito, maledizione: aveva preso l’iniziativa di baciarlo e ora, in piedi di fronte a lui, ancora così dannatamente vicino, Yuuto era arrossito e lo guardava, implorando una reazione. Disgraziatamente, però, era la prima volta che qualcuno lo baciava e Akio non sapeva proprio come si dovesse reagire.

-Come sono andato?- domandò, cercando di usare un tono spavaldo che in quel momento sentiva estraneo. Si sentiva le ginocchia tremare, ma doveva assolutamente rimanere in piedi, ne andava del suo onore.

Kidou, ancora rosso in viso, si avvicinò ulteriormente, fino a far sfiorare le loro fronti, senza parlare. Fudou trattenne il fiato, gonfiando le guance, e chiuse gli occhi: le sgonfiò appoggiando le sue labbra a quelle di Kidou, il quale non si allontanò, anzi, dischiuse la bocca.

Fudou pensò di volare e quel giorno benedì quella noiosissima assemblea scolastica.

*

Kidou, deliziato, volle dare la notizia prima ai suoi amici della Teikoku, rispetto ai ragazzi della Raimon. A Fudou non parve troppo strano, in fondo erano amici da più tempo, e, per quanto lo riguardava, si trattava di scegliere fra il marcio e la muffa: quantomeno quelli della Teikoku avevano un’energia violenta, ma rispettabile… Quelli della Raimon erano di una caoticità sconvolgente, Fudou faticava a tenere il passo.

Dunque, il primo verdetto venne riservato a Genda, Sakuma e annessa compagnia di bulli vestiti griffati. Tutto sommato andò bene, si era conquistato una certa stima fra quei ragazzi e le loro battute omofobe non erano poi molto serie. Forse. Kidou ne rideva e glissava, per cui Fudou decise di soprassedere: il fatto che, dopo tanti tentennamenti ed esitazioni, fosse stato Yuuto a fare il primo passo e dichiararsi, bastava e avanzava per renderlo felicissimo e noncurante di ogni problema.

Iniziò l’autunno e anche la loro relazione adolescenziale: per quei mesi, ad Akio parve che il sole brillasse un po’ di più e i colori, nonostante l’inverno, fossero più accesi.

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Eccoci arrivati alla fine di questo viaggio!
Un ringraziamento a tutte le persone che hanno letto e apprezzato.
Questa storia si può leggere in maniera indipendente, ma, se siete curiosi di quello che succede dopo, potete sbirciare "Come un sogno d'amore preadolescenziale può avverarsi (Nonostante tutto)" :)
<3 <3

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