Into Hope

di crazyfred
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAMBIAMENTI ***
Capitolo 2: *** UN RITORNO INASPETTATO ***
Capitolo 3: *** IL MATTINO HA L'ORO IN BOCCA ***
Capitolo 4: *** NON LO SO SE MI FA BENE, SE IL TUO RUMORE MI CONVIENE ***
Capitolo 5: *** MESSI ALLA PROVA ***
Capitolo 6: *** PROVARCI ***
Capitolo 7: *** ALBA ***
Capitolo 8: *** POI SIAMO FINITI DENTRO IL VORTICE, FELICI ***



Capitolo 1
*** CAMBIAMENTI ***


 
1. CAMBIAMENTI



Un'altra giornata di lavoro era finita. Il Vice Questore Aggiunto Vincenzo Nappi era grato che, per una volta, a San Candido il crimine sembrava essere andato in vacanza; forse era l'inizio della brutta stagione: con il freddo, la pioggia e presto anche la neve, i criminali sembravano in procinto di migrare verso climi più temperati, o forse doveva stare semplicemente zitto perché ogni volta riusciva a tirarsela in maniera incredibile. Doveva chiudere il becco e sbrigarsi a tornare a casa, prima che qualcuno ci ripensasse a chiamarlo in azione: da quando la sua compagna, Eva, gli aveva dato la bella notizia, passava le giornate pensando al momento in cui sarebbe tornato a casa, si sarebbe messo in pantofole e, seduto sul divano, avrebbe trascorso la serata a parlare con quel pancino che cresceva ogni giorno un po' di più. Dicono che i padri non si rendono conto realmente di ciò che sta accadendo nelle loro vite fino al parto ma lui se ne rendeva conto fin troppo: gli sembrava costantemente di toccare il cielo con un dito.
Spense la luce nell'ufficio, chiuse la porta a chiave e si precipitò fuori dalla centrale di polizia, salutando tutti velocemente. Sul piccolo pianerottolo esterno, uscendo con la testa tra le nuvole, inciampò in un paio di scatole in cartone e una di tessuto, di quelle per il cambio stagione, e per poco non ruzzolò giù per le scale. “Ma che sfaccimm...chi ha lasciato queste scatole qui?” borbottò, contrariato, verso i suoi sottoposti. 
“Scusa Vincenzo” dal parcheggio, la voce del capo della forestale salì verso il commissario (non era la sua qualifica, ma tutti lo chiamavano più comodamente così) mentre chiudeva il portellone del suo fuoristrada aiutato da una ragazza dai capelli biondo caramello - Emma il suo nome, così gli pareva di ricordare - che aveva tra le braccia un altro paio di box “portiamo tutto dentro subito” “Che state facendo?” “Mi dispiace commissario” esclamò la giovane donna - Vincenzo non le dava più 32 anni , salendo le scale con un leggero sorrisetto sarcastico sulle labbra “ma da oggi il comandante sarà qui h24” “Emma quante volte devo dirti che puoi darmi del tu?”
Non aveva una grande confidenza con la giovane etologa che andava e veniva dalla caserma dei forestali come fosse parte della squadra: certo l'aveva aiutata in più di un'occasione, com'era prevedibile quando bazzichi con un ficcanaso come l'Ispettore Capo Francesco Neri, ma al di fuori di situazioni lavorative non avevano avuto granché modo di socializzare. Sapeva solo che - e questo sarebbe stato evidente anche ad un cieco - che era un'amica di Francesco, forse qualcosa di più … non aveva mai indagato più di tanto anche se ammetteva che sarebbero stati una bellissima coppia ... e questo bastava per essere anche una sua amica nel suo personale libretto di istruzioni sociali.
“Che ti chiamo Vincenzo o commissario la situazione non cambia: Francesco si trasferisce” “Vieni a stare in foresteria?” domandò al collega. “L'ho convinto dopo una dura lotta, questo testone” intervenne però la ragazza. “Diciamo che mi ha obbligato” “Dettagli … e insomma, prima di partire dovevo accertarmi che lo facesse davvero” “Parti?” “Sì, l'università mi ha chiamata per tenere dei corsi e poi d'inverno il mio lavoro qui è abbastanza inutile visto che non posso andare in quota”
Una volta Francesco si era confidato sui problemi di salute della ragazza, per un consiglio sul da farsi più che altro: correre il rischio di farla star male ma permetterle di continuare con il suo sogno o seguire le regole e spezzarle il cuore...oltre a spezzare il proprio, ma questo il forestale non lo avrebbe mai ammesso, forse nemmeno a sé stesso, orgoglioso com'era. Vincenzo gli aveva consigliato semplicemente di fare quello che sentiva più giusto per Emma e alla fine Francesco le aveva permesso di restare a condizione che non si avventurasse troppo in giro da sola e in condizioni difficili.
“Spero di riuscire a tornare in primavera” esclamò e un velo di tristezza le coprì gli occhi, di solito brillanti e vivi; con Emma, ogni volta le parole avevano più livelli di lettura, con cui provava a nascondere le sue paure, ma a chi sapeva della sua condizione non riusciva a nasconderle. 
Francesco le passò un braccio sulle spalle, scuotendola un po'. “Sei mesi passano in fretta e se l'inverno sarà caldo come prevedono ...anche prima” la incoraggiò, provando a distoglierla da cattivi pensieri che tutti e tre sapevano star attraversando la sua mente. Non erano una coppia, altrimenti quel pettegolo dell'agente Huber avrebbe già messo i manifesti per tutta la valle, però di fatto si comportavano come tale, nei gesti, nelle attenzioni: non mancava nulla a parte un'etichetta e forse una vita … intima, per così dire. E vederli così un po' faceva rabbia perché se era vero anche un cieco avrebbe visto quanto stavano bene insieme, loro invece sembravano gli unici a non riuscirci.  
“E insomma, questo trasloco” si intromise il commissario, facendo anche lui la sua parte “come lo hai convinto?” Francesco, come si poteva cogliere facilmente dall'espressione del suo viso, gli era grato per quel diversivo. “Come mi ha obbligato piuttosto...” “Oh senti” lo zittì presto Emma “anche se a te piace fare Rambo non è che puoi vivere come un eremita o un monaco tibetano senza i basilari servizi di cui ha bisogno una casa in inverno! D'estate passi pure perché fa caldo, ma d'inverno...” “Emma tiene ragione France' però...eh!” “Va beh, ho capito, c'è un complotto contro di me” “Ma quale complotto?! Dai portiamo le scatole su...” disse Emma, a cui il morale era cambiato completamente e ora, rasserenata e determinata, prese due scatole e a grandi falcate si dirigeva verso le scale per il piano di sopra. “Fammi andare...” “Non fartela scappare France'!” 
Vincenzo si pentì un po' di quel commento che gli era uscito completamente inaspettato, sia perché Francesco era abbottonatissimo sulle questioni personali sia per la questione di Livia, sua moglie, che era scomparsa da poco e tragicamente, però la relazione tra i due coniugi era stata complicata e da un pezzo i sentimenti tra loro non avevano più nulla a che fare con quello che c'era invece con l'etologa. Lo aveva capito persino lui che nelle faccende amorose era imbranatissimo.
Francesco non rispose, si gettò a capofitto sulle altre scatole che ingombravano l'ingresso e Vincenzo avrebbe giurato di averlo visto scuotere la testa sparendo anche lui dentro la caserma, senza dire una parola.

“Non fartela scappare” gli aveva detto Vincenzo. Dentro di sé urlava tutti gli improperi noti all'uomo ma non era stato in grado di proferire parola, tanto per cambiare. 
L'unica con cui le parole uscivano era proprio quella persona che non si doveva far scappare ma sarebbe partita di lì a pochi giorni. No, non ci pensava proprio a lasciarsela scappare, ma come? Era stata lei a dirgli che doveva prendersi tempo, prendersi cura di sé stesso prima di tutto; che poi aveva ragione: non si può stare con una persona quando non si sa stare nemmeno con sé stessi. Per mesi, anni, si era afflitto con un senso di colpa che non gli spettava e scrostarlo via non era facile, gli aveva corroso tutto dentro proprio come fa il calcare e non era sicuro di riuscire a starle accanto come meritava. 
Lei, così giovane e bella, viveva una corsa contro il tempo mentre lui di tempo ne aveva fin troppo, immeritatamente, strappato a tutti quelli se n'erano andati: suo figlio Marco, il suo miglior amico Walter, in ultimo persino Livia … li aveva dovuti salutare tutti e la gente gli diceva di farsi forza, di andare avanti anche per loro; ma si sentiva solo circondato di fantasmi che riempivano i suoi sogni, o per meglio dire i suoi incubi notturni. Ci provava a vivere, come aveva visto fare lei, ma sentiva nella sua testa i rintocchi ineluttabili di una maledizione che sembrava essergli stata cucita addosso: chissà quale grave pena non aveva scontato nella vita precedente per avere quella specie di purgatorio in terra nella vita che stava vivendo ora. Tutti quelli che amo muoiono, era il pensiero fisso che gli affollava la mente. Non voleva piangere più, tanto meno per la persona a cui teneva più di tutte e che sembrava condannata a condividere quella sorte. Gli era sembrato, in fin dei conti, che tenerla vicina e lontana allo stesso tempo fosse la soluzione migliore, così che quando fosse successo l'ineluttabile non sarebbe stato legato abbastanza...ma chi voleva prendere in giro?! Era la prima persona a cui pensava al mattino e l'ultima alla sera, se non si faceva sentire le riempiva il registro chiamate di telefonate e la chat di messaggi e come ultima risorsa andava a cercarla: lo aveva fatto già in passato, nei momenti e nei posti più impensabili al punto che, ormai, vedendolo arrivare, lei non era più nemmeno sorpresa. Tutt'altro. Per loro, era diventato quasi un gioco: lui arrivava e lei controllava il telefono per capire se fosse spento o non prendesse, prendendola con rassegnata filosofia.
Fare quel passo avanti mancante, però, era fuori discussione. Averla vicina e non poterla sentirla completamente sua lo faceva morire, ma non riusciva compiere quell'ultimo passo. Erano due parole banali ma non riusciva a farle uscire, così come le sue mani si bloccavano quando una vocina che veniva dal cuore bisbigliava nella sua testa l'idea di andare oltre all'abbraccio innocuo o ad una carezza innocente.
“Quindi tu mi stai dicendo che avevi questo a disposizione e hai preferito vivere come un clochard fino ad oggi?” domandò Emma, vedendolo entrare nella sala comune della foresteria. 
“Cos'hai da dire contro la palafitta?” ribatté lui, poggiando sul lungo tavolo in legno le scatole con i suoi libri “non offenderla!” La palafitta era la casetta sul lago che aveva in un certo senso ereditato dal precedente Comandante della Forestale e dove si era sistemato quano era arrivato tra quelle montagne meno di un anno prima. Era più che spartana, viverci sarebbe costato grandi sacrifici a chiunque, ma non a lui, che grazie alla vita sotto le armi era abituato ad una vita d'accampamento. “Adesso tu offendi me, lo sai che amo quel posto...ma era praticamente inabitabile fino a pochi mesi fa, e se non fosse stato per me staresti ancora dormendo su un vecchio materasso per terra”
Francesco non rispose. Game. Set. Match. Emma gli attribuiva troppo spesso il merito di essersi preso cura di lei quando era stata male e non c'era nessuno, ma la realtà era un'altra, anche se lei non lo avrebbe mai ammesso: lei nel modo più discreto e silenzioso aveva fatto molto di più, entrando nella sua vita, e con pazienza e tanta fatica stava provando a farlo uscire dalle sabbie mobili in cui si era impantanato. Si erano fatti così bene a vicenda, che considerarsi qualcosa di diverso da un noi era impossibile, non era mai stato possibile a dire il vero.
“Comunque ti avverto...” riprese Emma, gongolando per aver colpito nel segno “prova a tornartene in palafitta quando sono via e torno apposta per tirarti le orecchie e riportarti qui” “Agli ordini comandante” rispose lui ironicamente, facendole un saluto militare “anzi forse lo faccio, così ho la scusa per riportarti qui prima che arrivi la primavera”
Fallo, ti prego. Emma sentiva queste parole urlare nella sua testa e combatteva con tutte le sue forze per non farle uscire dalle labbra. Francesco sapeva tutto quello che c'era da sapere: che lo amava e che lo avrebbe aspettato tutto il tempo che fosse stato necessario. Reiterare il concetto, ora, sarebbe stato inutile e patetico; stargli accanto da amica era quanto per ora potesse concederle e lo aveva accettato serenamente, anche perché voleva al suo fianco una persona che potesse ricambiarla totalmente, come lei lo amava, non un amore a mezzo servizio, azzoppato dai fantasmi del passato. Questo però non significava che fosse meno difficile: ogni giorno che passava, che vedeva quanto lui si stesse impegnando a trovare un nuovo equilibrio, obbligarsi a lasciargli i suoi spazi e a dargli tempo, quando lei non ne aveva, era troppo doloroso; ma glielo doveva e avrebbe stretto i denti.
Quella separazione avrebbe fatto bene ad entrambi: e chissà che la distanza non avrebbe schiarito le idee a Francesco. Sperava solo – pregava per questo ogni giorno – che la primavera non fosse troppo in là per loro, che potesse fare ritorno in quel posto che ormai le era entrato nell'anima e prendersi quella vita insieme che sognava dall'estate, quando per un po' aveva creduto che il caldo le avesse dato alla testa, facendole assaporare qualcosa che in realtà esisteva solo nei suoi sogni. La realtà invece era che, per il momento, erano solo due anime ammaccate che si stavano sorreggendo a vicenda, tentando di rimettere insieme i pezzi, e non potevano darsi altro. Se lo doveva far bastare.
Messo tutto a posto fuori era ormai notte inoltrata, ed erano a malapena le sei, segno che l'inverno era davvero davvero vicino. La neve era già scesa sulle cime e presto quell'aria frizzantina che si respirava l'avrebbe portata anche più giù, sul lago e in paese, però lei non ci sarebbe stata per vederla: lui le aveva promesso video e foto, non non sarebbe mai stata la stessa cosa.
Francesco si era messo ai fornelli con quel po' che c'era in dispensa nella foresteria: da quando gli agenti della forestale che l'abitavano si erano sistemati in paese, era rimasta vuota e i suoi uomini la usavano solo per tenere in frigo le bevande o riscaldare il pranzo portato da casa; di tanto in tanto, in qualche occasione speciale, si concedevano di cucinare e mangiare insieme, ma con Neri come comandante doveva essere davvero qualcosa di molto simile ad un giorno segnato di rosso sul calendario.
Mentre si dedicava ai maccheroni alla Roccia, ricetta imparata dal suo ex-vice, il sovrintendente Scotton (Roccia era il suo soprannome), il forestale aveva lasciato ad Emma il compito di tagliare dello speck e del formaggio di malga da accompagnare allo schüttelbrot, il pane di segale schiacciato e croccante che non manca mai nelle case altoatesine ma nemmeno nella caserma, dove i contadini e i cacciatori spesso portavano qualche dono in natura ai forestali nonostante Herr Kommandant, come lo chiamavano gli abitanti del posto, fosse tassativo sulle regalie, ma alla fine aveva dovuto cedere anche lui alla tradizione.
“Dello Schiava...ci trattiamo bene, eh Comandante?” lo canzonò Emma; Francesco si voltò e vide che Emma aveva in mano una bottiglia del vino che qualche giorno prima un produttore locale aveva portato per ringraziare di essere stato liberato dai gatti selvatici nelle sue vigne. “Cosa dice il medico riguardo al bere, Emma?” “Che non posso farlo...ma non ha mai detto nulla a proposito dei brindisi” rispose la ragazza per le rime.
Dalla credenza prese due bicchieri per accompagnare perfettamente l'aperitivo: due dita di vino rosso per sé, un po' di più per Francesco che come al solito aveva da ridere sui suoi metodi poco ortodossi ma alla fine gliela dava sempre vinta. La ragazza gli porse un bicchiere, facendolo tintinnare col suo per provare a strappargli un sorriso: aveva imparato che non riusciva a tenerle il broncio troppo a lungo.
“Scherzi a parte...seriamente, Francesco, prenditi cura di te mentre sono via, perché ti conosco” Sì lo conosceva. L'aveva visto passare notti intere senza dormire per starle accanto, perdere l'appetito appresso al lavoro e dannarsi l'anima per tenerla sotto controllo, che non le era poi così difficile immaginarlo smettere di funzionare senza che lei gli ricordasse di soddisfare i propri bisogni primari. “Io e Argo ce la caveremo benissimo, stai tranquilla” “Sì, con le razioni militari, cibo in scatola freddo e immangiabile” “E sentiamo” indagò il forestale “chi è stato qui a darti lezioni di cucina? Chi deve preoccuparsi tra i due qui non sei certo tu ...” Touché. L'ultimo tentativo di fare la pasta al forno si era rivelato un timballo di pasta carbonizzato, ma se non altro era finita tra le risate di Roccia che era accorso con un estintore in cucina, convinto ci fosse un incendio in corso, e l'invito di Francesco a mangiar fuori, un evento più unico che raro. “Vorrà dire che chiederò a Roccia e a sua sorella di invitarti di tanto in tanto” 
Dopo il pensionamento, Scotton aveva deciso di trasformare la sua malga, ormai vuota dopo che anche Emma se ne sarebbe andata, da semplice affittacamere a vera e propria pensione, e sua sorella Assunta 
aveva deciso di tornare per occuparsi della cucina: la donna, dai modi più militareschi di quelli del fratello, aveva dichiarato che, senza di lei, la pensione sarebbe fallita in un paio di settimane. “Ah beh, il loro invito lo accetto volentieri, mi fai solo un favore. Basta che non mi metti Huber di guardia!”
A fine serata, Francesco riaccompagnò Emma al maso di Roccia. Fermi nella Jeep, le uniche luci accese quelle del cruscotto e il bagliore della tv che arrivava dal salotto della casa, era arrivato il momento dei saluti. Nessuno dei due era bravo a farne ed entrambi avevano trovato una scusa per restare occupati nei giorni successivi, tanto che sarebbe stato il forestale in pensione ad accompagnare Emma in stazione. “Speriamo Roccia mi lasci una stanza quando avrà finito i lavori, mi piace stare qui da lui” “Male che va c'è sempre la foresteria...una scusa per ospitarti la trovo con il comando provinciale” 
Il cuore di Francesco avrebbe voluto proporre la palafitta, ma il grillo parlante nella sua testa gli fece tenere la bocca chiusa; era stufo di quella ragione che lo paralizzava in ogni scelta, in ogni tentativo di provare a rimettere in piedi la sua vita fallito per la paura di sbagliare, di non essere all'altezza, di ripetere gli stessi errori e fallire come in passato, ma non riusciva a fare altrimenti, per quanto ardentemente lo volesse. “Sempre che mi autorizzino a tornare dall'università” “Stai tranquilla che ti rimandano sicuro. Il lavoro di ricerca che hai svolto è ottimo, per quanto possa contare il giudizio di un militare in prestito alla forestale, insomma”
“Volevo...volevo darti una cosa” disse Emma, cambiando argomento. La sua voce era tremula, le parole uscivano a stento e se le luci dell'auto fossero state accese forse le sue guance Francesco avrebbe potuto vedere le sue guance arrossire mentre rovistava nella borsa e distogliere lo sguardo dall'uomo. “Dovevo dartela prima, a cena, ma l'ho dimenticato” disse, ma non era vero, in realtà non aveva trovato il momento più adatto: il buio dell'auto invece ora stava aiutando a semplificare la faccenda. Tirò fuori un biglietto, e lo porse all'uomo che, per leggerlo, fu costretto ad accendere la luce del fuoristrada. “Cos'è?” “Una lista … la lista di cose che vorrei fare prima di... di...sì insomma lo sai” Non mancava nulla: l'alba dalla Croda del Becco, cucinare, fare il bagno nell'oceano, ballare un valzer, imparare a ricucire i bottoni, vedere i lupi...qualcosa l'aveva già spuntata, altre erano ancora da fare. “E la dai a me?” “Beh sì” annuì “ci sono ancora tante cose che dobbiamo fare insieme. Il curling per esempio … o camminare sul lago ghiacciato”
Voleva tornare e quella lista le sembrava l'ancora perfetta per tenersi stretti quei posti: no, non era perfetta, ma era l'unica che aveva in quel momento. Ce ne sarebbe stata un'altra, ma non dipendeva da lei e, doveva dargliene atto, nemmeno totalmente da lui.
“Non perderla, in primavera ci servirà” “La imparo a memoria se serve, ma tu fai la brava, segui tutte le indicazioni dei medici e non strafare come al tuo solito” “Casa di mia zia è a Porta Genova, lì non si scalano montagne né si ricercano lupi o tigri nei boschi e l'unica cosa cavalcabile è una bici, non un cavallo” “Tu pensa a tornare qui...”
Emma non poteva prometterglielo e chiuse la questione lasciandogli un bacio che bruciò sulla guancia dell'uomo e sulle sue labbra come fosse un ferro rovente. La sua buonanotte, sussurrata prima di lasciare l'auto, sembrò quasi un sogno per entrambe, incerti se fosse stata pronunciata o meno.

 

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Capitolo 2
*** UN RITORNO INASPETTATO ***



2. UN RITORNO INASPETTATO
 
 
“Sei stato un angelo a mettere a disposizione la tua auto” “Figurati, per così poco! E poi deve essere un segnale per chi vuole ancora fare lo spiritoso: le istituzioni sono dalla vostra parte”
Le istituzioni sarebbero state sempre dalla parte del più debole, Francesco di questo ne era profondamente convinto: anche se a volte era difficile mettere in pratica questo principio, a capo della piccola stazione della Forestale del luogo non si tirava mai indietro dal fare la sua parte. E lo aveva fatto anche quella mattina, quando il Centro di Accoglienza Migranti si era trovato con il furgone messo KO da qualche simpaticone che avrebbe voluto gli ospiti del centro lontani dalla loro tranquilla e a loro dire rispettabile vita di provincia: a fine turno, si era precipitato nell'ostello dismesso messo a disposizione dal comune e aveva fatto salire Adriana, una dei responsabili, e i suoi bambini, come li chiamava lei, per accompagnargli ad un controllo pediatrico di routine.
“Ho trovato una barca per quel progetto che avevo in mente” decretò la donna, soddisfatta “è da rimettere un po' in sesto, ma finché galleggia a me va bene! E poi la regalano” Il forestale si lasciò andare ad una risatina ironica “Quindi va benissimo...se hai bisogno di una mano per prenderla e portarla al lago basta che me lo dici” “Ti ringrazio” “Allora, hai parlato con tua figlia?”
Francesco aveva conosciuto Adriana in un pomeriggio di fine estate, nella caserma che pullulava di adepti di Deva, la setta che lui stesso aveva contribuito a smantellare e che dovevano essere sentiti dopo l'arresto del loro "Maestro", Albert Kroess. Lei era una delle nuun, le donne a cui venivano affidati i bambini e i ragazzi per crescerli secondo i valori della comunità; che nella sua vita prima di Deva fosse un'insegnante era stata una coincidenza fortunata e le aveva permesso di non separarsi da sua figlia, Isabella. I due erano legati dal ricordo di Livia, che era caduta vittima della setta quanto Adriana, e poco alla volta era nata una sincera amicizia tra i due. Per entrambi era un'affinità provvidenziale: lui aveva trovato una specie di famiglia nella donna e sua figlia, specialmente da quando Emma era partita, e per lei il forestale rappresentava un ottimo appoggio per tornare alla vita civile, uno scudo dagli sguardi diffidenti e le chiacchiere della gente del paese.
“No, non ancora” “Devi farlo, non puoi nasconderle che...anche perché non potrai farlo ancora a lungo, no?” Non voleva essere crudele e cinico, lo era spesso con sé stesso ma mai con gli altri, però Adriana non poteva negare che una chemioterapia, con i suoi effetti collaterali, non si può celare a chi condivide lo stesso tetto sopra la testa.
Quella diagnosi era arrivata come un fulmine a ciel sereno, con una tosse che non voleva saperne di andare via: ma prima di operare, bisognava provare a circoscrivere la zona su cui intervenire. “Sì, lo farò, te lo prometto, ma non è facile. A scuola le cose non vanno tanto bene e non vorrei caricarla anche di quest'altro peso” “Isabella è forte e magari questa cosa la aiuterà anche a mettere in prospettiva i problemi scolastici” Era una bugia a cui non credeva nemmeno lui, ma non poteva restare in silenzio.
Fermi ad uno stop, Francesco accese la radio, per provare a rallegrare l'atmosfera per i bambini e alleggerire la tensione che si era creata con Adriana. Alzando lo sguardo, un fuoristrada compatto gli passò davanti, svoltando a sinistra. Emma. Per un attimo restò confuso, perché la somiglianza non poteva essere così grande ed essere una coincidenza. Doveva essere lei, per forza. Aveva ricambiato il suo sguardo, per giunta, con lo stesso stupore e forse un pizzico di imbarazzo; ma non era sola, al suo fianco c'era un uomo che non aveva mai visto.
Il forestale proseguì prima che le auto in coda dietro la sua iniziassero a suonare, ma con lo sguardo si mise alla ricerca di un larghetto, un piazzale...un posto qualsiasi dove poter fare inversione. “Che succede?” “No ... niente, credo di aver visto una persona” “Chi?” “Emma...te la ricordi?” Individuata la piazzola, Francesco accostò e azionò la freccia. “Ok, ma che vuoi fare? Inseguirla? Francesco … il pediatra”
Già ... i bambini ... la visita. Non poteva mollare tutti per strada e rincorrere Emma – se fosse stata davvero lei – in giro per San Candido, per quanto piccolo potesse essere il paese. Se fosse davvero tornata, bastava tenere gli occhi aperti e l'avrebbe vista spuntare da dietro l'angolo in qualsiasi momento. Se fosse tornata davvero … mi avrebbe chiamato, no? Perché non l'ha fatto?
 
A sera, Francesco aveva invitato Vincenzo per una birra in palafitta. Era stata una piccola abitudine invernale, quella di invitare il collega a fermarsi in foresteria per un bicchiere dopo il lavoro e, ora che era tornato nella casa sul lago, non voleva perdere quella che era diventata ormai una vera e propria tradizione.
“Hai fatto proprio un bel lavoro qui, Francé” si complimentò il commissario con l'amico, guardandosi attorno “quasi non sembra lo stesso posto” “Grazie. Gli spazi sono quelli che sono, ma almeno è più vivibile”
Un paio di mesi di fin autunno in foresteria erano bastati per farlo arrendere all'idea che, se avesse voluto continuare a vivere in quella casa sul lago, avrebbe dovuto dotarla dei servizi base: una doccia, una cucina e una lava-asciuga; ai più sarebbero sembrate cose scontante, ma non lo erano in una cabina di legno su un lago, senza tubature né scarichi. Emma, alla fine, aveva avuto ragione. Già...Emma. Non riusciva a pensare ad altro da quando nel pomeriggio aveva incrociato quell'auto blu. Quell'incontro non poteva essere stato un abbaglio o un'allucinazione, doveva essere lei. Era passato qualche mese, aveva cambiato pettinatura, ma era ancora in grado di distinguerla in mezzo ad una folla di persone.
“Oggi ho visto Emma” confessò all'amico, tutto d'un fiato, sorprendendo anche sé stesso. “Emma? Emma Emma?” “Ero in paese, eravamo tutti e due in auto. Mi ha visto ma non si è fermata” “Ma sei sicuro fosse lei?” “Sicurissimo, mi è passata di fianco ad un incrocio, l'ho vista benissimo” “Eh beh allora ti resta solo una cosa da fare per dissipare ogni dubbio...” “Cosa?” “C'è questo sistema che hanno inventato... guarda te lo consiglio perché è infallibile, ce l'abbiamo in dotazione pure noi della polizia” fece il commissario, serissimo “na specie di macchinetta elettronica satellitare con i numeri da 0 a 9 … si chiama telefono, France', usalo!” E Francesco sorrise, seppur sommessamente, di più non riusciva proprio a concedersi.
Con la scusa di dover versare dell'altra birra nel boccale, Francesco diede le spalle all'amico. “È facile...o no?”chiese Nappi. No, non lo era: dopo Natale, poco alla volta, le comunicazioni si erano interrotte, l'ultimo messaggio era stato un mese prima più o meno, casualmente poco prima di San Valentino; aveva provato a chiamarla ma qualcosa lo frenava, ogni volta, come se ci fosse una voce interiore a dirgli lasciala perdere, falla andare avanti per la sua strada, sta meglio senza di te, se non ti chiama avrà le sue ragioni per non volerti sentire più.
Annuì senza dire niente, affogando i suoi pensieri nella birra. “I lavori a casa tua come vanno, invece?” “Non vanno...eh ma sono stato io lo scemo che si è andato a fidare di Huber. Se chiamavo a te, già avevi finito da un pezzo, sicuro. Ma ti pare normale che quelli parlano solo con lui ed Eva perché loro sono del posto e non con me? Morale della favola dicono che manca poco da almeno un mese e hanno pure la faccia tosta di dire che se lasciassimo la casa per un po' finirebbero prima, ma con i soldi spesi nella ristrutturazione non ci possiamo permettere pure un affitto” “Venite in foresteria...” “Come?” “In foresteria. I lavori più grandi li ho finiti, posso stare qui mentre faccio le ultime rifiniture” propose al commissario.
Ai due, dopo la normale diffidenza iniziale, era bastano poco meno di un anno e un freddo inverno lavorativamente tedioso a farli diventare amici fraterni: ad accomunarli, essere pesci fuor d'acqua all'interno della comunità montana, anche se Francesco aveva dimostrato fin da subito di essere ben più conciliante e disposto all'adattamento rispetto al poliziotto. “C'è un'unica cosa...finalmente mi mandano rinforzi da Bolzano e dovrete condividere gli spazi comuni” Erano sotto organico da ottobre, e se in primavera avesse dovuto ancora costringere i suoi uomini agli straordinari e avesse ancora dovuto chiudere gli uffici al pubblico per poter fare pattugliamento dei boschi, lui e la sua squadra sarebbero andati al Comando Provinciale a Bolzano con i forconi. “Ma non ti preoccupare” aggiunse “è una ragazza, sarà sicuramente una coinquilina tranquilla” “Figurati, e poi siamo noi a non dover abusare della vostra ospitalità, sarà per poco. Se Eva è d'accordo possiamo approfittarne dopo il parto, così ce l'ho vicina anche quando sono a lavoro” “Allora è deciso” Il forestale tese la mano al commissario che la strinse, entrambi soddisfatti per la soluzione che avevano trovato. “Vado a dirlo a Eva! Tu però chiama Emma...non ti mangia via telefono”
 
Neanche il tempo per Vincenzo di chiudere la porta alle sue spalle, che Francesco aveva già il telefono tra le mani e scorreva i nomi nella rubrica; non ce n'erano molti, arrivò in men che non si dica alla E. Per qualche secondo rimuginò ancora sull'opportunità di chiamarla: e se non fosse stata lei? Se davvero avesse preso un abbaglio, che figura avrebbe fatto? Quella di un povero disperato che ormai aveva le allucinazioni, di sicuro. Però non poteva rimanere con il dubbio, e poi mal che andava le avrebbe chiesto perché non si era fatta sentire per un mese intero: di certo l'università la impegnava, ma 5 minuti a fine giornata era tutto quello che le chiedeva. Fece partire la chiamata: ormai era fatta, non si tornava indietro, se non avesse risposto il telefono le avrebbe comunque segnalato la chiamata persa.
“Pronto?” la sua voce era inconfondibile. Lei diceva che era orribile, ma per lui era musica: calda, allegra, tenace quando lo rimetteva al suo posto, ma anche vibrante quando sussurrava. “Emma!” quel nome venne fuori con un suono acuto, stridulo e ridicolo alle sue orecchie e avrebbe voluto sotterrarsi per la vergogna. “Ciao Francesco!” “È da tanto che non ci sentiamo, come stai?” “Bene...tutto sommato, tu?” Il forestale non notava nessun particolare nel suo tono di voce, non sembrava stupita, ma nemmeno felice di ricevere quella telefonata. “Bene! Sono in palafitta, ci sono tornato da qualche giorno...dovresti vederla, stenteresti a riconoscerla” spalle al lago, appoggiato al parapetto della terrazza, ammirava quello che considerava il suo piccolo capolavoro. Ne era sicuro, l'avrebbe adorata. “A proposito...ma sei qui? … mi è … mi è sembrato di vederti oggi” “Sì...sì sono qui” rispose lei, farfugliando leggermente. “Ma come? … Torni e non mi dici nulla?” “Non sono a San Candido in realtà...sono in una frazione di Rio di Pusteria ...Valles, hai presente? Ci sono stati degli avvistamenti di lupi in alpeggio e stiamo cercando di capire se spostare qui il campo base per le ricerche quest'estate. Sono scesa a San Candido solo per delle robe burocratiche agli uffici del Parco Nazionale” “Capito...beh avresti potuto dirmelo lo stesso, ci potevamo vedere per un caffè, cinque minuti...” “Ero solo di passaggio... eravamo di fretta” “Ma fino a quando ti trattieni? Potrei venire io, mi organizzo con i turni” “No, tranquillo, lascia stare. La sera sono sfinita e poi comunque tra pochi giorni torniamo a Milano” troncò Emma, dall'altro capo del telefono: sembrava quasi scocciata dalla sua insistenza. Poi c'era quel plurale che continuava a venire fuori, che chiariva che non era da sola, e questo Francesco lo aveva sospettato. “Quando torno definitivamente ci vediamo, però, te lo prometto” ribatté lei, quasi mortificata per quel due di picche o forse era solo una speranza, vana, del forestale “sarai il primo a saperlo” “Però non fare che fino ad allora non ti fai sentire” e il riferimento all'ultimo periodo era così evidente che Emma non poté non coglierlo. “Hai ragione, sono stata impegnata con la sessione invernale. Scusami ma devo andare, lo sai come sono gli alberghi da queste parti, si cena con le galline e guai a fare ritardo. Ciao!” Francesco fece a malapena in tempo a salutarla prima che Emma chiudesse la chiamata.
La telefonata gli aveva lasciato una sensazione dolce e amara allo stesso tempo: aver risentito quella voce gli fece realizzare fino a che punto le fosse mancata, poi c'era il sollievo di sapere che stava bene, al punto da riuscire a tornare in Alto Adige con il suo progetto; però il tarlo di quel plurale usato in più di un'occasione nel corso della conversazione ormai gli era entrato in testa e non sarebbe uscito facilmente. Non era sola, c'era qualcuno con lei...come poteva anche solo pensare di restare nella sua mente e nel suo cuore per sei mesi mentre lei andava avanti con la vita a Milano, tra la bella vita di città e i suoi coetanei e i colleghi...serate, cene, riunioni...prima o poi quello giusto che gli avrebbe fatto dimenticare un forestale misantropo e brontolone sarebbe saltato fuori. E la colpa era solo sua che non si era fatto avanti quando ne aveva la possibilità e quando ancora aveva la precedenza nel cuore della ragazza.

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Capitolo 3
*** IL MATTINO HA L'ORO IN BOCCA ***



3. IL MATTINO HA L'ORO IN BOCCA

 
 
Il comandante entrò in caserma con fare distratto, assonnato. La notte, per lui, non era mai un buon momento: gli incubi si susseguivano regolari, sempre gli stessi, lasciandogli poco spazio per il riposo. C'era stata una piccola, parentesi, l'estate precedente, in cui gli era stata concessa una tregua e quando erano tornati, poco alla volta ma sempre più prepotenti, aveva capito quasi immediatamente cosa, o meglio dire chi aveva catalizzato quell'insperato momento di quiete.
Nei locali della caserma, però, c'era un'aria frizzante quella mattina, che non avrebbe aiutato per nulla ad alleviare la sua spossatezza: da un lato la segnalazione dell'avvelenamento di un cane nel centro di accoglienza, che aveva messo in agitazione tutti i responsabili per quell'ennesimo anello alla catena intimidatoria che erano costretti a subire da quando avevano aperto i battenti; dall'altro Nappi che, chiuso nel suo stanzino, sbracciava contro qualcuno che non riusciva a vedere e quando Huber aprì la porta per chiamarlo, anche le urla si propagarono.
“Francesco? Francesco!” “Che c'è?” “Ma perché non tieni sotto controllo i tuoi...uomini, diciamo” sbraitò, uscendo di corsa con Huber e un altro poliziotto. Dall'ufficio del commissario spuntò anche una ragazza mora dai capelli ricci e corti, in divisa da forestale, con un sorrisetto imbarazzato sì, ma nemmeno troppo.
“Martino...per cortesia, riusciresti a farmi una camomilla, non riesco nemmeno a muovermi questa mattina” chiese, massaggiando le tempie: persino gli occhi sembravano in procinto di esplodere. “Subito...ma non sarebbe meglio qualcosa di più forte?” “Per adesso va bene così, poi vediamo...grazie” la giornata era lunga, poteva succedere di tutto.
Fece cenno alla giovane forestale di avvicinarsi; notò le tre qualifiche sulle controspalline della camicia: sovrintendente, inferiore solo a lui in grado nella loro caserma. “Valeria Ferrante, giusto?” “Affermativo!” rispose, formale, la donna, tendendo al superiore una cartellina di presentazione “Chiedo scusa per poco fa, ma volevo prendere servizio subito e la foresteria era chiusa a chiave. Non ricordavo che qui ci fosse anche la polizia” “Sì, è una delle tante cose a cui dovrai abituarti”
La forestale spiegò che mancava da 10 anni dal paese e che, anche se tutto da fuori sembrava identico, faticava a riconoscere il posto in cui era nata.
“Ferrante...non proprio un cognome da Innichner” commentò Francesco mentre, seduto alla sua scrivania, leggeva il curriculum della nuova arrivata, cercando di restare impassibile di fronte a quel cognome che lui già conosceva. “Mio nonno è venuto qui dal sud negli anni '60 a fare il carabiniere e ha sposato mia nonna contro il volere di mezzo paese” spiegò, mostrando con una smorfia il suo disappunto per un fatto accaduto prima ancora che suo padre nascesse. “Un po' come il nostro Commissario...con cui le presentazioni sono state già fatte” “Avrei preferito diversamente” “Queste sono le chiavi della foresteria” disse Francesco, prendendole da un cassetto “così non succederanno altri incidenti simili...anche se a breve ci dovrai convivere per un po' col dottor Nappi, ma non ti preoccupare, è una brava persona, solo che a volte ha una mentalità un po' chiusa” “Vedremo di aprirgliela un po'” “Non esagerare, Ferrante, sei appena arrivata” “Scusi, comandante” Martino tornò con la tisana: il forestale ne bevve un lungo sorso, nonostante fosse ancora fumante. “Chiamami, Francesco...sei il mio vice” “Solo se lei mi chiama Valeria” “Affare fatto”
Il comandante domandò al fidato agente di accompagnare Valeria a fare un giro veloce della caserma e poi di andare insieme al centro accoglienza per il caso di avvelenamento. Tornò alla sua tisana, accendendo riluttante il computer per delle incombenze burocratiche: il lavoro da ufficio non faceva proprio per lui ma era una delle mansioni ingrate che competeva al suo grado.
“Comandante Neri!” Francesco si girò di scatto, attirato da quella voce femminile che sembrava richiamarlo all'attenti. La riconobbe in un nanosecondo, prima ancora che i suoi occhi mettessero a fuoco la figura alta e longilinea che se ne stava ferma davanti alla porta.
“Emma!” Con un giacchino blu e una sciarpa rosa velata attorno al collo, stringendo con una mano la borsa di pelle marroncina che portava a spalla, sembrava piuttosto un'apparizione della sua etologa preferita, complice anche il sole che alle sue spalle puntava verso l'ingresso dell'edificio, lasciandole un alone tutt'attorno. Era la sua versione di città, più alla moda e meno sportiva, ma era sempre inconfondibilmente lei. La ragazza si aprì in un sorriso brillante o almeno così era sembrato al forestale che ogni volta che la vedeva temeva di avere una delle sue visioni, il tempo e lo spazio sembravano intrappolati in una bolla, trattenendo fuori tutto e tutti tranne loro due.
“Sei tornata?” avvicinandosi, stupidamente ebbe bisogno di toccarle fugacemente il braccio. A lei sarà sembrata una cosa da niente, il contatto amichevole di due persone che non si vedono da un po', ma per lui era tutto, era il prendere coscienza che non fosse uno di quei fantasmi che talvolta si animano davanti a lui quando svolge le sue indagini. Era vera, era in carne ed ossa, il profumo che non riusciva a definire invadeva le sue narici e gli riempiva la testa, ma anziché stordirlo lo faceva sentire a casa. Se avesse avuto ancora più bisogno di prove, uno dei suoi uomini la salutò per nome, confermandogli di non essere il solo a vederla. “Te l'avevo promesso, no? Saresti stato il primo a saperlo a questo giro” Erano passate due settimane dalla loro telefonata e Francesco quasi non ci aveva creduto a quella promessa: sperato, di sicuro, ma come si spera in tutte le frasi che si dicono per cortesia nei riguardi di qualcuno.
“In tutta onestà anche questa volta toccata e fuga, ma almeno sono a San Candido, non sperduta in qualche frazione senza neanche un minimarket” “Ma come sei venuta qui? Potevi chiamarmi, sarei venuto a prenderti in stazione...” “Ho un auto a noleggio” lo tranquillizzò. “Allora...questo progetto, quando parte?” Francesco pensò che fosse meglio andare al dunque, non voleva fare la figura del disperato più di quanto non l'avesse già fatto chiamandola quella sera di due settimane prima “Roccia scalpita di riaverti con lui, ha detto di avere lasciato una stanza della sua pensione pronto esclusivamente per te!” 
Ogni volta che l'ex sovrintendente capo Scotton lo invitava a cena, non faceva altro che parlare di Emma, per lui ormai era diventata una seconda figlia, visto che né sua figlia Chiara, né suo genero Karl condividevano particolarmente con lui la passione per la montagna e gli animali. “Eeeeh … è un po' complicata la storia, vieni che ti spiego”
Gli cinse le spalle, invitandolo a seguirla fuori. In fondo alla scalinata, nello spiazzo davanti all'edificio ad attenderli c'era un tizio; Francesco non poteva esserne sicuro al 100% ma sembrava lo stesso che era in macchina di fianco ad Emma il giorno che l'aveva incrociata in auto: moro, con un filo di barba leggerissimo da ragazzino, la faccia di chi non vede il sole dalla gita del quinto superiore e passa tutto il giorno sui libri. “Lui è Giorgio, un mio collega dell'università. È al primo anno di dottorato e stiamo cercando di portarlo un po' sul campo” Gli fa bene, pensò il forestale, che gli strinse la mano cordialmente ma più forte del necessario e vide il ragazzo soffocare una smorfia di fastidio. Avesse potuto, Francesco avrebbe tirato un sospiro di sollievo platealmente, perché non ce la vedeva proprio Emma con uno così, ma sembravano affiatati e la vita è strana forte. “Insomma che mi devi dire?” 
Emma gli spiegò che alcuni lupi del branco che aveva seguito a San Candido si erano spostati, spingendosi addirittura fino ai boschi intorno a Livigno, in Valtellina. “È qualcosa che vorrei studiare ma mi manca il dono dell'ubiquità. Quindi qualcuno deve controllare i nostri lupi, e Giorgio potrebbe essere la persona giusta” “Sai andare a cavallo Giorgio?” lo mise alla prova il forestale “perché qui oltre una certa altitudine è difficile usare le auto” “Ho fatto dressage da ragazzo” Dressage, ma ca... Francesco faticò a trattenersi dal ridere. Sport da figli di papà, ovviamente; sarà stato pure un buon ricercatore ma non cominciava con le migliori premesse. “E in montagna di notte c'hai mai dormito?” “All'aperto? No mai, solo in rifugio”
Emma capì il giochetto di Francesco, e lo trascinò in disparte verso le scuderie, scusandosi con il collega.
“Che stai facendo?” Francesco non rispose, fingendo di non capire. “Perché lo devi sminuire?” “Non lo sto sminuendo, mi sto solo accertando che sia andato al tipo di ricerca che hai fatto tu. E mi pare evidente che non lo sia” “Non pensare a me, io ho i miei momenti di follia, e infatti mi sono cacciata in un sacco di guai...” 
In quelli, a discolpa della giovane, spesso ci finiva anche per colpa sua, pensò il forestale, perché di norma un etologo non è la prima persona a cui un criminale punta una pistola alla tempia “A lui non chiederei mai di seguire i lupi fuori dai sentieri battuti, tra rocce e boschi” “Ma proprio non puoi mandare lui a Livigno?” indagò l'uomo.
Quella domanda spiazzò Emma, che non se l'aspettava proprio da Francesco. Lui era quello che raramente diceva quello che pensava e per farlo bisognava stimolarlo a lungo e conquistare la sua fiducia con molta fatica. Allora decise di stuzzicarlo un po', perché doveva capire: forse, in fondo, dietro la corazza, c'era ancora quella persona che la supplicava di tornare. “Tu che dici?” Francesco, in silenzio, entrò nella stalla, verso il box di Oliver. Prese la sella, poggiata sulla staccionata e la passò sul dorso del cavallo, allacciando con cautela le cinghie al suo ventre; poi passò alle briglie. Emma rimase a guardare, incantata dai quei gesti lenti e delicati che le sue mani grandi ed energiche erano capaci di dedicare all'animale, tranquillizzandolo con delle carezze attente sulla fronte. Erano la situazione più pura del mondo e pure nella sua mente in pensieri diventarono incandescenti, perturbata dal fatto che riuscisse ad accenderla come un cerino dopo mesi di lontananza e senza fare alcunché, come mai era riuscito ad anima viva prima di lui. “Fai come meglio credi” sentenziò lui, montando in groppa “è la tua strada, non sta a me decidere”
Quella frase ferì Emma più di qualsiasi altra cosa avesse potuto dirle; non perché non avesse ragione, ne aveva da vendere, del resto era la vita, ma per i modi che aveva usato: era come se quella decisione non lo riguardasse, come se per lui non cambiasse nulla. E quella possibilità, benché purtroppo l'avesse messa in conto, le faceva male perché per lei, Francesco Neri, comandante della forestale di San Candido in provincia di Bolzano, uomo coraggioso, giusto e buono, contava ancora tantissimo.
Emma però non poteva nemmeno immaginare, invece, quanto anche su di lui, quella conversazione fosse pesata come un macigno legato ai piedi e gettato nelle acque del lago, mandandolo a fondo. Stava chiedendo a lui cosa pensasse di Livigno...proprio a lui, che conservava quel foglietto di carta con la famosa lista come fosse una reliquia. E poi sembrava già cosa fatta nel modo in cui ne parlava, ma se da lui cercava approvazione non ne avrebbe trovata, per quanto riconoscesse l'importanza e la bontà del progetto. Spronò Oliver ad andare più veloce e allontanarsi il più possibile: aveva bisogno di perdersi nei prati verdi brillanti che la primavera stava riscoprendo a poco a poco sotto la neve, nell'odore dell'erba bagnata e dei primi fiori sbocciati a valle, in quella montagna che stava riprendendo vita dopo l'inverno, nella speranza che ne infondesse un po' anche a lui.

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Capitolo 4
*** NON LO SO SE MI FA BENE, SE IL TUO RUMORE MI CONVIENE ***



4. NON LO SO SE MI FA BENE, SE IL TUO RUMORE MI CONVIENE

 




Dopo l'ennesima notte insonne, Francesco provò a stemperare la tensione che aveva addosso con una corsetta mattutina, lasciandosi guidare da Argo che, fedele, non solo lo seguiva ma spesso lo precedeva attirato dagli odori del bosco. Qua e là c'era ancora la neve, laddove i raggi del sole non riuscivano a filtrare tra i rami e doveva stare attento ai rigagnoli d'acqua che il disgelo formava spontaneamente rendendo il terreno sdrucciolevole. Finì, senza che lo avesse pianificato, nel piccolo specchio d'acqua nascosto tra gli alberi dove aveva insegnato ad Emma a nuotare, dove lei gli aveva rubato un bacio ed era l'unico posto che potessero dire veramente loro, più della palafitta, più del lago, più delle montagne.  A volte si fermava a pensare come sarebbero andate le cose se si fossero incontrati per la prima volta formalmente, in caserma, come sarebbe stato logico. Ma il destino, per loro aveva avuto altri piani e certe domande erano superflue ormai.
 
La giornata non era particolarmente serena. L'umidità della notte si stava alzando dal lago e la temperatura era ancora rigida, ma non lo sarebbe rimasta ancora a lungo. Si era concesso un giro del lago di corsa - l'unico modo per riscaldarsi del resto. Nonostante il cielo grigio, il verde petrolio dei larici e le sfumature tra il grigio, l'argento e il bianco delle montagne si riflettevano perfettamente, quasi fosse uno specchio, sulle acque del lago. Terminata la prima ricognizione di corsa, venne incuriosito da quella palafitta che, poco timidamente, si apriva sul lago; l'aveva vista il giorno prima ed era stato amore a prima vista. Attraversato il ponticello per raggiungerla, si accorse, come non aveva fatto passandoci di corsa poco prima, che era ridotta in condizioni penose, in stato di abbandono: un paio di barchette di legno galleggiavano sotto i pali della piccola casa e a causa dell'alto livello dell'acqua quasi toccavano la banchina, travi di legno e assi erano state lasciate qua e là alla rinfusa e il tetto era sfondato in diversi punti, sicuramente dalla neve e dall'incuria di un inverno intero senza manutenzione.
Non era chiusa a chiave, una catena serrava l'ingresso ma niente lucchetto. Era come se lo stesse invitando ad entrare e Argo sembrava essere della stessa opinione perché, appena aprì la porta, quasi letteralmente fece gli onori di casa. La sua era solo una vaga idea, balenata quando Roccia gli aveva detto che apparteneva alla forestale, ma il cagnolone senza neanche sentirla, l'aveva abbracciata immediatamente.
Sulla terrazza, la situazione non era tanto migliore. Probabilmente non era solo una rimessa delle barche come aveva creduto all'inizio, ma un vero e proprio magazzino. Il forestale sbirciò da una finestrella il cui vetro era rotto e si rese conto che in realtà un tempo doveva aver ospitato qualcuno: lì dentro infatti c'erano un materasso arrotolato, una vecchia stufa a legna e un cucinino da campeggio, oltre a un marasma di roba accatastata che nella penombra e nella sporcizia non riusciva a distinguere.
"AIUTO!"
Si voltò di scatto. In mezzo al lago, ad un paio di metri dalla spiaggia, una donna tentava di restare a galla, annaspando, continuando a cercare aiuto. Più cercava aiuto, più faticava; più faticava, più avrebbe avuto fame d'aria e il lago l'avrebbe tirata giù. La spiaggia era vuota, nessuno che potesse correrle in aiuto ed era ancora presto perché in caserma ci fosse qualcuno in servizio. Bisognava fare in fretta. Francesco si liberò in men che non si dica della felpa e delle scarpette e senza perdere tempo usò un varco nel parapetto della terrazza come trampolino per tuffarsi; era ancora accaldato e sudato per la corsa e quasi di sicuro quel tuffo gli avrebbe fatto più male che bene, ma non avevo molta scelta. O uno shock termico per lui, o una persona morta affogata nel lago. Non sotto i suoi occhi, pensò, mai più.
L'acqua era ghiacciata, ma non come l'acqua del mare di mattina presto d'estate. Era come se tanti piccoli spilli si conficcassero nel corpo ad ogni singola bracciata ed entrassero in profondità, nei muscoli, nelle ossa, fino ai polmoni. Immettere aria tra una bracciata e l'altra gli stava costando una fatica enorme, e neanche il movimento riusciva ad acclimatare il corpo a quella temperatura. Come poteva del resto, se fino a poche settimane prima il lago era probabilmente ricoperto completamente da una lastra di ghiaccio? L'uomo, per quanto gli fosse possibile, teneva sotto controllo la donna che per qualche miracolo riusciva ancora a tenersi su, seppur a fatica. Quando finalmente si avvicinò e la prese per la vita era ormai allo stremo delle forze e c'era mancato veramente poco che andasse giù. La portò a riva, tenendola con cura in superficie, assicurandosi che potesse respirare quanto più possibile. Non aveva forze per camminare e uscire dal lago con le sue mani, ma riuscì a dirglielo solo a gesti, legando le sue mani attorno alle spalle del suo salvatore: il resto era solo respiro ansante e agitato per lo spavento; così la tirò fuori di peso, portandola in braccio e appoggiandola sulla spiaggia, su un asciugamano, vicino ad uno zaino e alcuni vestiti lasciati alla rinfusa, certamente suoi. Non c'era nessun altro, nei paraggi, da essere così pazzo da tuffarsi in primavera in un lago alpino.
"Va tutto bene" le disse, per cercare di rassicurarla, accovacciato al suo fianco.
Francesco si accorse, finalmente, guardandola bene in volto, che era solo una ragazza. Non poteva avere più di trent'anni. La pelle era bianchissima, ma aveva poco a che fare con lo shock, e i capelli lunghissimi. Il respiro era ancora irregolare. Ancora incredula, portò una mano sulla fronte. L'uomo avrebbe voluto non notare la scollatura generosa, ma i polmoni che cercavano aria spasmodicamente mandavano il suo sterno su e giù in maniera troppo pericolosa e dovette imporsi di guardare altrove per non fare brutte figure. Sei un totale idiota, ripeteva tra sé e sé, come ti possono venire in mente certi pensieri in un momento così?
"Stai bene?" le chiese. Meglio guardarla negli occhi, dei bellissimi occhi nocciola impreziositi da pagliuzze dorate. Neanche quella si rivelò una brillante idea. Uno sguardo puro e innocente che riusciva a bucare punti dell'anima che l'uomo non sapeva o non ricordava di avere. "Sì. Grazie" rispose, iniziando poco alla volta a calmare il suo respiro.
"Vuoi che chiami qualcuno?" "No grazie" "Sicura?"
Annuì lei, mettendosi in piedi. Solo in quel momento Francesco si rese effettivamente conto di quanto fosse alta, poco meno di lui che non era un gigante ma sicuramente al di sopra della media. E le forme erano tutte al posto giusto, sembrava provenire da un altro pianeta. Un'aliena. Una dea. O forse una creatura magica del lago, visto che era da lì che l'aveva raccolta. "Ti sei sentita male?" domandò, cercando di darsi un contegno, ricordandosi di essere un quarantenne e non un adolescente. "No … no in realtà … non so nuotare" confessò la ragazza, ridendo tra l'imbarazzato e il divertito. La sua bocca si aprì in un sorriso candido e luminoso come la neve in una giornata di sole.
Roba da non credere: è arcinoto che se non sai nuotare il lago è l'ultimo posto dove imparare da autodidatti. Era completamente da pazzi. Eppure c'era una luce, una serenità in lei, che sconvolgeva Francesco a tal punto da non notare nemmeno che nel frattempo era uscito il sole e le gocce di acqua fredda che aveva ancora addosso e cadevano dai capelli fradici non erano più così insopportabili. Era come se tutta la luce che vedeva e lo accecava non venisse dal sole o fosse riflessa dal lago ma fosse emanata da lei. Da quella sconosciuta che aveva di fronte, di cui non sapeva il nome, ma che gli aveva sconvolto totalmente la giornata.
"E allora perché ti sei buttata?"
Era un'esplosione di energia ma anche di dolcezza, lo spiazzava totalmente. "Volevo provare" ammise, ridacchiando. Ok, era confermato, era completamente folle, ma l'uomo percepiva una follia sana che in qualche modo era riuscita a contagiarlo perché non riusciva a rimproverarla come probabilmente avrebbe fatto con chiunque altro. Rimase lì, senza parole, emettendo un flebile "Ah!" da perfetto idiota quando lei mise addosso una camicia azzurra che si bagnò immediatamente aderendo alle sue forme statuarie eppure morbide mentre raccattava le sue cose. "Va beh … grazie eh" gli disse e Francesco come uno stupido riuscì a dire solo "Prego" "A buon rendere!"
Se ne andò, lasciandolo solo su quella spiaggia, imbambolato come uno stoccafisso. Senza sapere il suo nome, senza dirle il mio. Si girò per un istante e questo gli permise di vedere il suo viso e il suo sorriso per un'ultima volta. Le aveva salvato la vita e probabilmente non l'avrebbe rivista più.
 
L'aveva rivista, l'aveva rivista eccome. Tutto quello che avevano vissuto insieme quell'estate non sarebbe bastata una vita intera per farlo accadere ad altri. Eppure per lui non era stato abbastanza, non poteva essere abbastanza quando si aveva accanto una persona speciale come Emma. Ora invece stava succedendo di tutto affinché ciò non si ripetesse ed entrambi stavano dando una grossa mano al destino, purtroppo. Uscito dal bosco, trovò sul telefono la notifica di una chiamata persa, era Adriana. Tra la sua malattia e i continui problemi al Centro di Accoglienza, poteva essere successo di tutto: la richiamò immediatamente.
“Adriana? Mi hai chiamato?” “Hai fatto venire apposta mia sorella a lavorare qui, vero?” urlò la donna dall'altro capo del telefono, infuriata “come ti sei permesso?” Non c'erano dubbi su quale fosse il problema: quando Valeria e Martino erano andati al Centro Migranti, Adriana aveva incontrato la sorella. Francesco non sapeva molto dei trascorsi tra le due, solo che erano 10 anni che non si parlavano e che doveva essere successo qualcosa di grave che aveva costretto la più giovane delle sorelle addirittura a lasciare San Candido. 
“Sai benissimo perché l'ho fatto, Valeria potrebbe aiutarti” “Non stava a te farlo, Francesco!” “E a chi allora, Adriana? Glielo hai detto o no a tua figlia della malattia?” Ma a quella domanda ottenne solo silenzio “Prima o poi dovrai parlarle e avere qualcuno vicino può essere importante. Non puoi fare tutto da sola” “Non ho bisogno di nessuno...specialmente di quella lì”
L'amica gli chiuse in faccia il telefono lasciandolo con un palmo di naso. Provò a ricontattarla ma senza successo: ad ogni tentativo, Adriana faceva cadere la chiamata. Le sarebbe passata, forse, ma Francesco non avrebbe cambiato idea: non poteva affrontare la malattia e il percorso di cura da sola, con un'adolescente ignara in casa a cui nascondere l'ineluttabile risposta del suo corpo ai chemioterapici. Essere riuscito a portare Valeria a San Candido era la cosa migliore che avesse potuto fare, ne era più che convinto.
  
A sera, Francesco se ne stava sul terrazzo della palafitta a fare alcuni lavori, aiutato da una lampada da campeggio che aveva acceso per poter restare ancora un po' fuori a lavorare quando il sole era ormai sceso dietro i monti: aveva portato l'elettricità alla casa sul lago con un generatore, ora doveva sistemare l'illuminazione esterna in vista dei mesi estivi, quando la terrazza sarebbe diventata il luogo più frequentato. 
“Si può?” Era Vincenzo, con sé aveva due bottiglie di birra e un sacchetto di un panificio. “Ma certo vieni pure” “Ho portato birra e bretzel per festeggiare, che non si dica che non mi sono adeguato al posto”
Francesco sorrise e lo fece accomodare in casa, conoscendo l'avversione dell’amico per il minimo spiffero freddo; la notizia della nascita alquanto rocambolesca dell'erede di casa Nappi era arrivata fino a lui che di solito non si lasciava trascinare ai pettegolezzi: correva voce che mentre Eva portava da sola la borsa per il ricovero, Vincenzo metteva piede in Pronto Soccorso con la sedia a rotelle. Non sapeva se le cose fossero andate davvero così o fosse solo una diceria infame di qualche infermiera acida che ce l'aveva con il poliziotto venuto dal sud, ma decise che per una volta non avrebbe approfondito: era un'immagine che, onestamente, divertiva pure lui. “Come va il bernoccolo?” domandò, sarcastico, mentre in bagno si lavava le mani. “Che fai, sfotti?” lo riprese l'amico “Mi trincero dietro un sonoro no comment” “A proposito...tanti auguri papà!” si felicitò, tornando dall'amico che gli porse la birra. “Grazie!” rispose Vincenzo, facendo tintinnare la sua bottiglia su quella dell'amico, lo sguardo pieno di orgoglio per quella creaturina capellona che in quel momento dormiva pacifica nella nursery dell'ospedale. Il cuore però, oltre che pieno di gioia, era anche colmo di inquietudine.
Mentre sul cellulare l'amico gli mostrava le foto della piccola Nina, questo il nome scelto che era un giusto compromesso tra modernità e tradizione, Francesco non poté fare a meno di notare lo sguardo strano, quasi incupito del Commissario.
“Che c'è?” gli domandò “Non sei contento?” “Come no?! Contentissimo!” si riprese Vincenzo “solo che...so' spaventato France', c'ho paura di fare solo sbagli con questa bambina” “Ah beh ma nessuno può insegnarti a fare il padre” chiarì. Non voleva spaventarlo, ma era la cruda realtà dei fatti “Si impara...col tempo...e con gli errori.”
Non poté in quell'istante fare a meno di pensare al suo bambino, quel bambino che non sarebbe mai diventato un ragazzo, né tanto meno uomo, di cui non poteva più vedere il sorriso davanti ai suoi occhi o di cui non avrebbe più sentito la voce chiamarlo papà. “Quando Marco era piccolo” prese a raccontare, sommessamente, addossato al mobile della cucina, giocherellando col collo della bottiglia pur di non incrociare lo sguardo dell'amico per pudore “mentre dormiva io gli mettevo una mano sul petto e ascoltavo il suo respiro. E forse...forse questo è un padre: un uomo che nonostante i suoi errori … prova a proteggere quel respiro.”
Lui non ci era riuscito, ma c'aveva provato con tutto sé stesso a proteggerlo. Si sentiva padre ancora, a tutti gli effetti, anche se a differenza degli altri padri suo figlio lui non poteva stringerlo più: nessuno poteva capire quel dolore o quel senso di vuoto che si può provare. Un'esperienza tanto totalizzante come la paternità ti cambia la vita e non sei più lo stesso.
“Tu non dovevi fare il forestale” commentò il poliziotto, cercando di stemperare gli animi “dovevi fare il filosofo!” Sì, meditò Francesco, un filosofo che aiutava gli altri ma non era in grado di aiutare sé stesso, proprio un bell'affare.
“Uh!” proruppe il commissario, cambiando discorso “Ma non mi avevi mica detto che è tornata Emma. L'ho vista ieri sera mentre cercavo parcheggio dopo aver portato Eva in ospedale” “Sì … sì è tornata” “E che 're tutto questo entusiasmo, France'?” ironizzò nei confronti dell'amico che perseverava con la sua solita espressione da cane bastonato “Un po' di contegno!” “È tornata ma non resterà” “Ah...e non si può fare niente?” “Cosa vuoi che ti dica...” disse, facendo spallucce “l'unica cosa che si può fare non credo stia a me farla” “E perché?” “Perché non voglio che metta la vita privata davanti alla carriera.”  “Ah France'?! Ma che stai dicenn'? A me era sembrato che tra te e lei …” Era sembrato anche a lui, ma entrambi, evidentemente, avevano preso un abbaglio. “Non voglio si senta obbligata a stare qui per me” “E t'agge capite a te, va'” esclamò Vincenzo, alzando gli occhi al cielo “ascoltami bene: se dovesse decidere di restare qui per te invece che andare altrove, sarà una sua libera scelta e non l'avrai obbligata. E se vorrà lavorare altrove, chi ve lo impedisce di volervi bene comunque?!”
Chi glielo impediva? Sé stesso, ecco chi. Il Comandante Neri era scettico su molte cose, si fidava solo di ciò che i suoi sensi potevano percepire, ma una cosa che categoricamente rifiutava erano le relazioni a distanza: stare con una persona con cui si condividono le giornate era di per sé complesso, figurarsi stare fisicamente lontani per settimane. E poi aveva sperimentato la distanza da Emma in quei mesi: anche se erano in un limbo tra amicizia e qualcosa in più, la lontananza aveva fatto loro solo del male. “Ah … a proposito” continuò Vincenzo “io per non saper né leggere e né scrivere le ho detto di venire a parlarti” “Che hai fatto?” “Ma sì … almeno mettete in chiaro tutto quello che c'è da mettere in chiaro e non avrete rimpianti, che quella guarda che è la cosa peggiore”
Emma non era tipa da farsi dire cosa fare, Francesco ne era sicuro: forse si sarebbe risparmiato quel confronto da cui, ne era sicuro, se ci fosse stato sarebbe stato lui ad uscirne con le ossa rotte.
 
 
"Tu non chiudi mai la porta qui?" Francesco, che era di spalle impegnato a tostare un po' di pane per un panino al volo per pranzo, non si era accorto della porta che si apriva, né dei passi sul legno. "Emma! Entra pure" si scambiarono un bacio formale, come tra due conoscenti che non si vedono da un po' e hanno perso tutta la confidenza che avevano acquisito, cordiali ma freddi. "Sei da sola oggi, niente amico?" "Giorgio è solo un collega, siamo solo amici" "E io che ho detto?” Era quello che aveva detto, ma il sottinteso parlava chiaro. “Accomodati, ti faccio un caffè" le disse, invitandola a sedere al piccolo salottino che aveva creato di fronte al nuovo finestrone fronte lago che aveva installato. Impacciato, non sapeva come comportarsi; era eccitato all’idea di averla lì, davanti a sé, tutta per sé, ma al contempo era agitato, con una tremenda paura di fare o dire la cosa sbagliata. Solo lei riusciva a renderlo un perfetto idiota, lo aveva quasi dimenticato. "Grazie" rispose Emma, timidamente: avrebbe voluto andare via, avrebbe voluto dire di no ma non ci riusciva, era come se fosse attratta magneticamente da quel posto. E poi comunque era inutile nasconderselo: sapeva perfettamente di tenere ancora troppo a Francesco per ferirlo in quel modo. Ci aveva già giocato troppo quando era tornata qualche settimana prima senza dirgli nulla ed evitandolo, non se lo meritava. Mentre Francesco preparava il caffè, Argo, che fino a quel momento era rimasto defilato, nel suo angolino sotto la tettoia, le si avvicinò e lei prese a coccolarlo; le era mancato quel cucciolone fin troppo cresciuto. Rialzandosi si concesse di guardare un po’ intorno, sbirciando nella casa: non poté fare a meno di notare che, rispetto all’ultima volta che era stata in quel posto, c’era stato ben più di un cambiamento. Mentre si perdeva nel verde smeraldo delle acque, in terrazza, Francesco arrivò con i caffè, ed Emma si accorse che persino le tazzine erano nuove.
"Hai cambiato un po' di cose da quando sono stata qui l'ultima volta" "Te l'avevo detto mi pare, no? C'è stato un lungo e freddo inverno di mezzo, ho dovuto renderla vivibile per forza se voglio evitare di trasferirmi di nuovo in foresteria a fine estate" Emma rise ricordandosi quando l'aveva aiutato a fare quel piccolo trasloco stagionale. "Come biasimarti … non ci si stanca mai a guardare questo spettacolo" gli disse, gli occhi fissi sul lago mentre beveva il caffè "sei fortunato"
Se solo avesse voluto avrebbe potuto renderla una fortuna anche sua, pensò il forestale, ed Emma avrebbe dovuto saperlo. La ragazza, si morse la lingua per quel commento fatto ad alta voce, ma Francesco non disse una parola, limitandosi a sorridere sommessamente, persino eludendo il suo sguardo e concentrandosi sulla tazzina del caffè.
“Ti trovo bene, sono contento” Ma il viso di Emma si aprì in una smorfia amara, portando una ciocca di capelli dietro alle orecchie e scuotendo il capo “Bene è un concetto abbastanza relativo con me...” Francesco avrebbe voluto scomparire in quel momento: era così bella, così viva nei suoi modi di fare, che era facile dimenticare quella bomba ad orologeria che aveva nella testa. “Scusami, sono stato indelicato” “Ma figurati, lo sai che sono la prima a scherzarci su, non possono fare altrimenti” sdrammatizzò, sorridendo e il forestale annuì, rapito da quel sorriso che si apriva sul viso della ragazza e che, forse complice il sole di quel pomeriggio che si rifletteva sulle acque cristalline del lago, sembrava farla brillare. “Meglio così...anche perché sei così bella quando sorridi”
Emma aveva sperato che non tirasse fuori frasi ad effetto come quella, buone solo a confonderle le idee: non sapeva come prendere il comportamento di Francesco, che era sinceramente dispiaciuto di vederla partire in autunno, si era allontanato durante l'inverno e ora, al suo ritorno, alternava momenti di euforia a momenti di menefreghismo. Sapeva che personcina complicata fosse, ma non era sicura di poter portare così tanta pazienza.
“E quindi hanno lasciato a te la patata bollente” disse l'uomo per uscire da quel momento di imbarazzo che si era creato tra loro e Emma capì immediatamente a cosa Francesco si riferisse. “Per forza: a seconda della mia scelta, la ricerca avrà un tenore diverso: se torno sarà più esaustiva ma descrittiva, se vado in Valtellina invece sarà meno completa ma comparativa” “Una bella rogna di scelta” “Puoi dirlo forte …”
"Che succede, Emma?" domandò l'uomo, notandola distante “sei strana”. Quando l'aveva lasciata andare aveva temuto che la distanza potesse rimuovere la familiarità e la facilità di stare insieme e il suo peggior incubo si era avverato. "Ma no, niente...” minimizzò Emma “non sono più abituata a queste altitudini, mi stanco più facilmente” “E poi hai fatto le ore piccole ieri …” commentò lui, poggiando la tazza sul tavolo di maniera decisa, guardandola dritta negli occhi stavolta “me lo ha detto Vincenzo che ti ha vista uscire da un pub ieri notte con il tuo amico" "Lo so, mi ha minacciata" disse Emma, mimando le virgolette, provando a fingere nonchalance "di dirti tutto se non fossi venuta di mia spontanea volontà, ma sapevo benissimo che te lo avrebbe detto comunque.” 
Forse aveva sbagliato ad usare quelle parole, perché sembrava che in quel momento fosse lì solo perché era stata obbligata. Lei invece non voleva solo rivederlo con tutta sé stessa, ma passare del tempo sola con lui. Ma non avrebbe dovuto … il che era una cosa ben diversa. “Che io sia stata fuori fino a tardi sono fatti miei comunque … non ho 15 anni e non devo rendere conto a te o al tuo compare...” “Vorrei solo che parlassi chiaramente” “Sarebbe a dire?” "Vorrei soltanto capire … torni in Alto Adige senza dirmi niente, ti vedo e mi eviti e poi vieni a dirmi che non sai se resti. A che gioco stai giocando Emma?” “Io? Io starei giocando? Anch’io vorrei capire perché non ti sei fatto più sentire. Forse me lo sono sognata … non lo so … ma mi pare di ricordare che prima di partire per Milano i programmi fossero ben diversi. Poi ti ho invitato a passare il Natale con me e hai rifiutato, e ora che ti chiedo cosa vorresti che io facessi, e tu cosa mi rispondi? Vai tranquilla per la tua strada. Dopo tutte le promesse che ci eravamo fatti. Non mi sembra che ci sia altro da aggiungere” Non poteva farle la paternale su scelte che non lo riguardavano più, non doveva permettersi di fare la morale a lei dopo tutto il tempo che aveva lasciato passare. 
“Non mi permetterei mai di interferire nella tua carriera, Emma! Non devi rinunciare a nulla per me.” “Però non ti sei fatto più sentire. Te ne sei fregato. Quindi spiegami che diritto hai ora tu di dirmi cosa posso o non posso fare” “Non me ne sono fregato, dovresti sapere però quanto è difficile per me…e il Natale per me è il momento peggiore, non puoi capire...” “Forse non posso capire, ma posso provarci se mi spieghi. E invece tu hai deciso di andare avanti da solo, quindi io ho il diritto di fare la stessa cosa, non ci vedo niente di male.” Di male c'è che io non sono affatto andato avanti da solo. 
Senza di lei al suo fianco, tutto era più tremendamente difficile: voleva provare a superare quel dolore, e farlo con lei al suo fianco avrebbe sicuramente avuto un sapore più dolce, ma aveva una paura folle di lasciarsi andare, amare follemente e soffrire da morire un'altra volta. E poi c'era quella maledetta convinzione di non meritarsi alcunché di buono che non l'abbandonava.
“Io non so quanto tempo ho...” continuò Emma “mesi…magari sono fortunata e sono anni, magari non lo sono e ho i giorni contati...e quindi non ho il lusso del tempo indeterminato, quella lista che ti ho dato ha una data di scadenza. Perciò ti chiedo: vuoi o non vuoi fare parte della mia vita? Perché io lo vorrei ancora…ma non posso concedermi il lusso di aspettarti in eterno” “Cosa vuoi da me?” “Chiedimi di restare qui” “Non posso farlo...non ci riesco”
Proprio perché aveva i giorni contati non poteva mettersi tra lei e i suoi sogni e Francesco sentiva di non essere la persona giusta con cui realizzarli. Se tra i due c'era qualcuno con una condanna, non era certo Emma: lui la vedeva tutti i giorni davanti ai suoi occhi, ci conviveva ogni giorno ed aveva la forma di tutti quelli che avevano lasciato questo mondo troppo presto per colpa sua.
Emma si alzò dal tavolo e senza dire una parola di più se ne andò, ferita: Francesco non aveva capito niente di lei, per l'ennesima volta. Aveva persino preferito credere che potesse esserci qualcun altro invece che credere in quello che c'era tra loro.
Era sparita dai radar, è vero; ma dopo sei lunghi mesi senza fare un passo avanti aveva sentito il bisogno di staccarsi, persino dal ricordo di uno dei periodi più belli e intensi della sua vita: per sé stessa, perché la sua situazione era già abbastanza complicata e precaria di suo e non era cambiata di un millimetro, e anche per lui, perché nonostante tutto, sentiva ancora forte l'istinto di proteggerlo dall'ennesima batosta e dall'ennesimo dolore che si stava infliggendo tenendola lontana. Era arrivata alla soluzione che doveva prendere quella decisione per entrambi.
Lui rimase impietrito. Incapace di correrle dietro per chiederle scusa e incapace anche di tirarsi uno schiaffo che avrebbe meritato. Ancora una volta Livia aveva fatto quello che sapeva fare meglio: mettersi contro di lui. Era solo un fantasma ed era riuscita comunque a rovinargli la vita, ancora una volta: non era più sua moglie da due anni e gli ultimi mesi di vita li aveva trascorsi a mettere i bastoni tra le ruote della sua felicità. Ci aveva provato a tirarsi su, a scrollarsi di dosso la colpa per la morte di suo figlio e lei era tornata ad accusarlo e a negargli un perdono di cui non aveva bisogno ma che lui cercava disperatamente. E in quel baratro in cui era scivolato si era dimenticato dell'unica persona che contava davvero e che invece era viva quanto lui.
 

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Capitolo 5
*** MESSI ALLA PROVA ***



5. MESSI ALLA PROVA

 
 
Adriana e sua figlia Isabella non avevano molto. Deva, con le sue regole e la sua “filosofia” di vita aveva strappato loro tutto ciò che di materiale possedevano: qualche gioiello, i risparmi, la casa dei nonni materni. Forse, a fine processo, avrebbero ottenuto un risarcimento per i danni subiti, ma la strada era troppo lunga e loro, quando la setta aveva chiuso i battenti, si erano ritrovate a doversi reinserire nella società senza una famiglia che le riaccogliesse o delle risorse con cui ricominciare d'accapo.
Erano state fortunate a trovare sulla loro strada il Comandante Neri che aveva aiutato Adriana a trovare un impiego, seppur dal compenso modesto: le due però, che avevano trascorso i cinque anni precedenti in una comunità spirituale dallo stile di vita spartano, vivevano frugalmente e non avevano bisogno di molto; poi c'erano gli alimenti che il padre di Isabella doveva versare ogni mese e la vecchia casa coniugale che era dell'ex marito di Adriana e di cui, per fortuna, Kroess non aveva potuto impossessarsi. Ernst, scalatore professionista, viveva per la montagna, che chiamava sua in qualunque posto del mondo si trovasse e non aveva avuto problemi a lasciare loro la vecchia casa dei suoi genitori visto che lui a San Candido ci metteva piede un paio di volte l'anno se andava bene.
Isabella, che era cresciuta senza legami e senza passato dentro Deva, adorava quella piccola casetta ai margini del bosco: anche se di parenti stretti non era rimasto più nessuno, per lei era come averli vicini, nelle foto ancora appese alle pareti, in qualche ricordo passato indenne dalla cernita di Deva, come le lenzuola che la nonna Ruthi si era ricamata da sola per le nozze e ancora riempivano i cassettoni di legno protetti dalla naftalina.
Un mondo di ricordi riportati a galla e altri creati ex novo che se ne era andato nel giro di mezzora, nel cuore della notte, con le fiamme che avevano avvolto la baita rivestita di legno, bella e caratterista quanto fragile.
La telefonata alla polizia era arrivata dai Vigili del Fuoco Volontari che si erano attivati rapidamente ad intervenire e a mettere in sicurezza il bosco vicino che per loro era letteralmente il giardino di casa. Alle prime luci dell'alba, anche la forestale era accorsa per aiutare la polizia a scandagliare il bosco per ogni minimo indizio o traccia che potesse portare al responsabile di quell'attacco ignobile. Perché di incendio doloso si trattava: approfittando del buio e della tarda ora, la casa era stata cosparsa di cherosene e frecce incendiarie avevano appiccato il fuoco, da lontano. Vista la dinamica, con la baita che si era presto trasformata in un cerino, era un miracolo che mamma e figlia ne fossero uscite di fatto illese.
 
Seduta sul prato davanti alla casa, avvolta in una coperta e provata dalla notte insonne, Adriana provava a ricostruire l'accaduto davanti al commissario. “Ha visto una macchina? Una persona?” “No, come le ho già detto ho solo visto delle frecce che arrivavano dal bosco”.
Dalla finestra della cucina, dove era andata a bere un sorso d'acqua prima di andare a dormire, aveva visto come una palla infuocata volare verso di lei per posarsi sulla parete esterna; a distanza di pochi secondi l'uno dall'altro erano seguiti un altro paio di lampi accompagnati da colpi secchi all'esterno dell'edificio, come martellate alle pareti o grandine che cade. Alla fine, un rumore di vetri rotti e subito le grida strazianti avevano attirato Adriana nella cameretta di sua figlia, che si era svegliata di soprassalto, trovando una freccia infuocata sul pavimento di legno. Presto, le fiamme si erano estese lungo il perimetro dell'abitazione e, complice il panico, uscire di casa si era dimostrata un'impresa.  
“Magari adesso farete qualcosa per fermarli...” commentò sprezzante un uomo sulla quarantina che era stato tra i primi ad accorrere ed era rimasto accanto alle due donne tutto il tempo, portando loro qualche genere di conforto e le coperte con cui erano avvolte. “Lei chi è scusi?” domandò Vincenzo, tentando di contenere la riprovazione per quel commento fuori luogo e irrispettoso nei suoi confronti. “Carlo Casarin, sono il direttore del Centro di Accoglienza” “E secondo lei, Casarin, chi è che dovremmo fermare?” “Chi non lo so ma a me sembra evidente che qualcuno ce l'ha con Adriana per il suo impegno verso i migranti. Può chiedere al suo collega della forestale … lì … ci hanno avvelenato il cane della pet therapy e non è l'unico attacco intimidatorio che abbiamo ricevuto negli ultimi mesi”
Francesco era rimasto a debita distanza, occupandosi dei rilevamenti nel bosco in prima persona. Non c'era stato ancora il tempo di appianare le divergenze con Adriana e la donna non sembrava interessata a farlo nemmeno in quella circostanza, girando la testa verso la casa appena vide l'uomo avvicinarsi, approfittando di essere stato interpellato.
“Te lo confermo, un'escalation in piena regola” disse “prima erano piccole cose ma via via è andata sempre peggio” In ultimo, il giardino era stato disseminato di veleno, causando la morte del pastore maremmano che era un sostegno psicologico incredibile per gli ospiti del centro, soprattutto per i bambini. “Abbiamo fatto la bonifica non più tardi di due giorni fa”
Vincenzo domandò perché non avessero denunciato, gettando un'occhiataccia al collega della forestale con la passione per le indagini: a forza di voler fare l'eroe, succedevano casini come quello; ma Adriana fu laconica e sarcastica: “E cosa avremmo dovuto denunciare? Un vetro rotto? Delle gomme bucate?” Purtroppo doveva ammettere che aveva ragione da vendere, e probabilmente anche lui avrebbe sorvolato su quelle che, ad una prima occhiata, potevano sembrare delle bravate di ragazzini annoiati o gente ignorante ma in fondo innocua.
“Cercheremo di fare il possibile per individuare i responsabili, glielo assicuro” Erano belle parole e Vincenzo le diceva così bene che finiva per crederci anche lui, ma non era mica così semplice. “Voi...avete trovato qualcosa?” domandò al comandante della forestale che era andato in perlustrazione per il boschi attorno alla casa con la sua vice, che se ne stava in disparte a parlare con i vigili del fuoco.
“Ritengo che il piromane abbia tirato le frecce da laggiù” disse Francesco, indicando un luogo non troppo distante dalla strada, punto strategico per agire lontani dagli occhi indiscreti e poi darsi alla macchia velocemente “ma purtroppo non ci sono tracce, non ci sono impronte...niente”
 
Quando tutte le forze dell'ordine avevano levato le tende, solo Francesco, Valeria e Martino erano rimasti, offrendosi di aiutare a radunare le poche cose che erano scampate alle fiamme. Anche se riluttante, Adriana accettò; nonostante tutto il suo orgoglio, davvero non era un lavoro che poteva fare da sola ed entrare nella casa, con ancora il fumo impregnato nelle pareti, nelle sue condizioni non era fattibile.
“Vuoi una mano?” chiese Valeria ma Adriana scosse la testa, continuando a rovistare tra alcune delle cose che erano state portate fuori: pochi oggetti della loro vita di prima erano conservati in quella casa, perderli sarebbe stato strapparle un'altra volta a dei ricordi che da poco avevano imparato ad accettare dopo che il Maestro aveva imposto loro di rimuoverli anche dalla memoria.
“Senti, stavo pensando” continuò la forestale, imperterrita e incurante del rifiuto della sorella maggiore “se non avete un posto dove stare, potreste venire in foresteria. Non è molto grande ma vi lascerei la mia stanza, io posso stare tranquillamente in divano...tanto soffro d'insonnia, lo sai” “Abbiamo già un posto dove andare, grazie” troncò subito Adriana. “Guarda che ho parlato con Francesco, per lui non c'è nessun problema” “Senti, forse non hai capito” gli occhi della donna, incupiti dal disastro, divennero ancora più neri, proprio come pece “tu per me sei morta. Non voglio vederti mai più...ah, e mi fai anche il favore di dire al tuo comandante di non permettersi mai più di intromettersi in cose private che non lo riguardano”
Valeria non capiva: sapeva dell'impegno della forestale verso i migranti e Francesco fin da subito gli era sembrato una persona ragionevole e aperta. “Ma lui voleva essere solo gentile, dovresti essergli grata per l'offerta” “Ma lo sono...è l'averti portata qui di proposito che mi urta.” “Ma cosa...?” “Ah perché pensi sia una coincidenza il trasferimento a San Candido pochi mesi dopo la chiusura di Deva?”
Adriana si allontanò per chiedere al suo collega di portare via sua figlia: alla ragazzina, ancora comprensibilmente scossa, avrebbe fatto bene una doccia calda, un po' di latte e una bella dormita. In tutto quel trambusto, Valeria non aveva avuto modo di avvicinare ad Isabella: l'aveva solo intravista da lontano e non poteva credere ai suoi occhi. L'aveva lasciata bambina ai primi giorni di scuola e la ritrovava ragazza, quasi donna. 10 anni erano volati via in fretta ma solo adesso si rendeva conto che erano un'enormità e quanto avesse lasciato alle sue spalle. Un senso di vertigine e un vuoto dentro come un pugno violento la colpì nel petto; chiese a Martino di riaccompagnarla in caserma ma in auto, in men che non si dica, vide salire il suo comandante anziché il giovanissimo collega.
“Cos'hai? Ti senti poco bene?” “Forse il fumo...” si limitò a mormorare, indecisa se affrontare l'argomento o meno. “Adesso vai a stenderti un po'” si raccomandò Francesco “ma se non passa chiama il medico”
A metà strada verso la caserma, però, Valeria non riuscì a resistere “Cos'è questa storia?” “Quale storia?” “Adriana insinua che il mio trasferimento qui non sia casuale”
Francesco non rispose, restando concentrato sulla strada, ma Valeria stessa non gli concesse molto tempo per farlo. “Perché mi hai fatta venire qui?” “Ti ho fatta venire qui perché sei brava, il tuo dossier parla da solo” “Dì la verità” lo incalzò “mi avresti scelta lo stesso se non fossi stata la sorella di Adriana?”
Francesco rimase per un po' in silenzio, sebbene fosse consapevole che questa cosa avrebbe peggiorato la sua posizione. “Senti non sta a me parlarti di certe cose” esordì, prendendo un gran respiro “ma tua sorella e tua nipote non hanno nessuno e hanno un grande bisogno di te. Quando ci siamo conosciuti mi ha detto di avere una sorella ma non avevo idea che fossi in forestale. Poi il tuo predecessore è andato in pensione e ho visto il tuo nome tra quello dei papabili sostituti: ho fatto qualche ricerca e mosso qualche pedina, ma i tuoi meriti rimangono!” Su quello non aveva motivi per mentire, il suo fascicolo di presentazione era impeccabile.
“Che significa che non puoi parlarmi di certe cose?” gli domandò, sorvolando completamente gli attestati di fiducia del suo superiore. “Che ci sono delle cose che non sai ma che non sta a me dirti, ma questo non mi impedisce di fare il possibile affinché Adriana abbia accanto qualcuno di cui si possa fidare” “Beh... mi dispiace ma quella persona non sono io” “Che è successo tra di voi?” Adriana era sempre stata vaga sull'argomento: diceva che non si parlavano da anni e che l'aveva fatta talmente soffrire da considerarla un capitolo chiuso, ma non era mai entrata nel dettaglio e lui non aveva mai approfondito né insistito; però ora che le conosceva entrambe e non riusciva a comprendere cosa potesse essere andato storto tra loro. “Su una cosa siamo d'accordo io e mia sorella” disse Valeria, tirando fuori gli occhiali da sole dalla giacca e indossandoli “non sono cose che ti riguardano” Era il suo modo per dire a Francesco di far cadere la conversazione lì e in quel momento, nonostante avessero ancora della strada da fare; l'uomo recepì l'antifona e stette in silenzio fino al ritorno in caserma. Quando tornarono in caserma, tuttavia, non riuscì a trattenersi. “Quello che ti ho detto è vero” le disse, serio, guardandola dritta negli occhi, una volta scesi dall'auto “ti ho scelto perché sei brava” Valeria però non voleva sentire ragioni: salì di corsa le scale sparendo in foresteria per il resto della giornata.
 
Come nei giorni precedenti, Vincenzo aveva approfittato della pausa pranzo per andare in ospedale a trovare compagna e figlia: il ricovero di Eva si era prolungato giorno in più per via di alcuni valori delle analisi da tenere sotto controllo, ma a parte l'iniziale ansia del commissario, era stato un toccasana per preparare il trasferimento in foresteria della nuova famigliola.
Al suo rientro in ufficio, fu unanime il pensiero che qualcosa non andava: non salutò nessuno, neanche Francesco che era seduto alla scrivania e si diresse nell'area break come uno zombie, intontito: l'amico, vedendolo in bambola, lo seguì, anche perché sapeva che in quell'angolino della caserma, dove Vincenzo non andava mai solitamente, era nascosto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere prima di fine giornata.
“E chest che 're?” domandò il commissario, turbato, di fronte ad una carrozzina per neonati rossa, con i palloncini rosa legati al maniglione. “Un'idea di Huber ... visto che stasera Eva e Nina tornano a casa, ha pensato di decorare il carrozzino. Ma io non ti ho detto niente...voleva farti una sorpresa”
Francesco vide l'amico stringere forte la maniglia del passeggino con uno sguardo basso e malinconico, la bocca serrata; lui era un pessimista di natura, e tutto ciò che gli era successo nella vita non lo aiutava a vedere le cose in positivo, ma certo non poteva fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa che non andava con la bambina e lo stesse tenendo nascosto. “Tutto bene?”
Il commissario ricambiò il suo sguardo per qualche secondo, e gli bastò un cenno col capo per invitarlo a spostarsi con lui nel suo ufficio. Era serio, fin troppo per i suoi standard, scuro in volto ma soprattutto silenzioso, cosa rarissima per Vincenzo, una persona tutto sommato affabile e loquace per natura: tra i due, era sempre lui quello che spronava il forestale ad aprirsi e a distendersi.
“Allora, si può sapere che succede?” insistette Francesco. Vincenzo chiuse la porta e si sedette di fianco all'uomo, senza prendere posto alla sua poltrona. “Eva se n'è andata” “Come...come se n'è andata? Che significa?” “Quello che ti ho detto, né più, né meno” chiosò “quando sono andato in ospedale ho trovato il letto vuoto, una richiesta di dimissioni volontarie presentata al primario e un biglietto dove diceva che...che lei non se la sente di fare la mamma”
Quella sera, invece che portare in foresteria la sua compagna e sua figlia, sarebbe andato a prendere la bambina al nido del reparto da solo, affrontando la prima notte non con la gioia e la speranza che di solito accompagna tutte le nuove famiglie, ma con il cuore spezzato di chi si trova da solo nel momento più bello ma anche più difficile della propria vita.
Lo sguardo del poliziotto correva nel vuoto, quasi vergognandosi di raccontare quanto accaduto, come se non credesse che Eva quelle cose potesse averle pensate prima ancora che fatte; la sua voce poi tremava e a malapena riusciva a scandire le parole che pronunciava: si fermavano in gola e gli toglievano il fiato.
“È colpa mia...sono stato io a insistere per avere un figlio, lei non voleva. Eva era spaventata, si vedeva, avrei dovuto darle retta e invece … ero convinto che tutto si sarebbe risolto con la nascita della bambina...che l'avrebbe presa in braccio le sarebbe passato tutto, capito? L'odore, il calore avrebbe spazzato ogni dubbio, ogni paura” 
Ora che ci pensava, ogni nodo veniva al pettine, ogni prova si presentava davanti ai suoi occhi severa come uno schiaffo: anche il nome lo aveva fatto scegliere a lui, cedendo presto alla sua richiesta di un nome tradizionale anziché qualcosa di più moderno o che richiamasse anche le sue origini spagnole.
“E pensare che viene sempre detto che questi dubbi ce li hanno gli uomini” pensò Francesco ad alta voce “ci illudiamo che le madri siano delle specie di Madonne, perfette, inarrestabili … ma non è così, hanno anche loro le loro preoccupazioni.”
“Ma guarda...per quanto mi riguarda va bene così: è tutto apposto, tutto sotto controllo” si sbrigò a chiuderla lì Vincenzo, alzandosi e ricomponendosi: aveva provato a nasconderlo, ma una lacrima era uscita e a Francesco non era sfuggito. “Se lei crede che questo sia il modo per risolvere i problemi è letteralmente un problema suo” “Però non essere così definitivo, magari è una fase, un momento...” Francesco voleva accertarsi semplicemente che non facesse una cazzata, che per sembrare forte e duro non finisse per affrontare da macho una situazione delicata che richiedeva comprensione e sensibilità da parte sua, anziché un pugno duro. “Forse non mi sono spiegato. Il problema non è che possa aver avuto un momento di debolezza” chiarì Vincenzo “il problema è che oltre a non sentirsela di fare la madre, è evidente che nemmeno se la sente di fare la compagna perché questa è una cosa che potevamo risolvere insieme” “Potete ancora farlo...”
Ma Vincenzo non stette a sentirlo. Una volta tornato alla sua poltrona tornò anche nei panni del commissario in servizio, dimenticando ogni guaio e lasciandoli fuori da quell'ufficio, senza che Francesco poté dire più una parola e la conversazione si spostò sul caso del giorno che i due condividevano.




 
Angolo dell'autrice

Salve a tutt*, se siete arrivati fin qui significa che avete resistito anche a queso capitolo senza Emma, un applauso ve lo meritate proprio ahahah! Ad ogni modo questo è il primo "Angolo dell'autrice" di questa storia, di cui mi avvarrò per darvi qualche spiegazione. Come avete notato, qualche nome l'ho cambiato rispetto all'originale. Il padre di Isabella, che nella serie si chiamava Ezio, qui diventa Ersnt: l'intento è quello di renderlo più altoatesino; non ho mai capito, né tantomeno approvato l'italianizzazione di una regione e che è di fatto al confine con l'Austria. E siccome è una località che conosco bene volevo renderle giustizia. Poi, e questa è la più evidente, Mela è diventata Nina. Forse non approverete questa scelta, ma Carmela/Mela oggettivamente non si poteva sentire: ma non vi preoccupate, qualche sketch divertente tra papà e figlia ci sarà di sicuro.

 

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Capitolo 6
*** PROVARCI ***



6. PROVARCI

 
 
Quando Adriana l'aveva chiamato per una cena riappacificatrice, qualche giorno dopo, Francesco era stato più che contento e aveva accettato subito. Non si erano salutati bene dopo l'incendio, e smaniava per trovare un modo di riavvicinarsi all'amica in un momento tanto difficile per lei. L'unica condizione che aveva posto, tuttavia, era di poter di offrire lui la cena: dopo quello che le era successo, non era giusto che Adriana pagasse per entrambi. Per restare in un ambiente familiare Francesco aveva scelto la pensione di Roccia, che per fare esperienza apriva la sua locanda anche alla gente del posto ora che di turisti non ce n'erano ancora molti in giro.
“Ricapitolando” disse Assunta, prendendo le ordinazioni “späztle al formaggio per te, zuppa alle erbe per questa bella signora e un arrosto del contadino da dividere in due con contorni” “Esatto Assunta, ma non insinuare” la riprese Francesco, vedendo la donna intenta a scrutare per bene la sua compagna di tavolo. “Io? Per carità, cosa dovrei insinuare...?” Francesco la guardò in minacciosamente, sperando comprendesse l'antifona: li aveva persino fatti accomodare vicino alla finestra, perché a suo dire c'era una vista romantica del paese. Se non fosse stato indaffarato con la brace nel retrobottega, suo fratello Felice le avrebbe fatto una gran lavata di capo, di questo Francesco ne era certo.
“Isabella?” domandò ad Adriana, finalmente rimasti soli. “Pare sia a cena da una amica, ma non so se fidarmi” “Perché?” Perché per via del suo lavoro con i migranti e il passato in Deva, Isabella e sua madre non erano ben viste a San Candido: i ragazzini, che quando vogliono sanno essere crudeli, escludevano e affibbiavano alla ragazzina nomignoli ed epiteti poco lusinghieri; ecco perché quando aveva detto a sua madre di essersi avvicinata ad una compagna di scuola, di punto in bianco, ad Adriana era sembrato strano. “Sono ragazzi, è normale che siano volubili, tranquilla...” “Temo ci sia di mezzo un ragazzo...” “E allora? È ancora più normale alla sua età...”
Adriana continuava però a non fidarsi, ancora meno si fidava del ragazzo che aveva visto bazzicare attorno casa sua, Klaus Moser. “Moser? Quelli dell'allevamento di cavalli che ha appena aperto?”
La famiglia si era trasferita da poco dalla Germania, di loro non si sapeva granché se non che venivano dalla campagna a nord di Berlino, non parlavano una parola di italiano e non avevano molti contatti con la gente del posto, tolta la messa domenicale e il mercato settimanale, ma per essere nella valle da pochi mesi era perfettamente comprensibile.
“Proprio loro” “Bah a me sembrano gente per bene. Il padre è venuto in caserma per permessi e certificazioni … robe così … ed è veramente quel che si dice un tedesco. Ligio al dovere e precisissimo, anche per gli standard locali” “Invece a me sembrano strani...” continuò Adriana, che non sembrava affatto convinta dal ritratto che ne stava facendo Francesco “...lo sai che non hanno iscritto i figli a scuola per educarli in casa?” 
Francesco non si stupì più di tanto: non era nuovo a queste derive poco ortodosse: dai nostalgici e reazionari agli hippie ecologisti che vivono tutt'uno con la natura, era ormai preparato a non stupirsi più di niente. “La legge non glielo vieta, Adriana. Se hanno avuto il permesso e possono provare di saperlo fare, non c'è niente di male, che approviamo o meno” La donna era ancora sommersa di dubbi, ma la sua argomentazione era troppo flebile per Francesco, il quale preferì chiuderla lì e cambiare argomento.
“Sono contento che mi hai chiamato, spero che la storia dell'altro giorno sia acqua passata...” Francesco era invece sempre granitico nella sua posizione ed era certo che avrebbe persuaso anche Adriana, prima o poi. “Non mi è passata, ma ho capito che non avevi cattive intenzioni. E poi sei il mio migliore amico e ho bisogno di sfogarmi con qualcuno” “Non che non mi faccia piacere, ma sai bene che c'è anche qualcun altro che sarebbe contento di poter prendere questo ruolo” 
Adriana, però, fece finta di non aver sentito quel riferimento a sua sorella; in quel momento, del resto, aveva altre preoccupazioni. “Ho parlato con l'oncologo...e non è sicuro che chemio e operazione basteranno a fermare il cancro” confessò “sono preoccupata, Francesco...non per me, sia chiaro, ma per Isabella. Non abbiamo più una casa, soldi non ne abbiamo al di fuori del mio stipendio...che farà?” “Shhh” la quietò, prendendola per mano “non rimarrà da sola, tu ce la farai” 
Cercando di dominare lo sconforto che quella notizia gli aveva messo addosso, Francesco credeva davvero a quello che le aveva detto; Adriana era una leonessa: con grande forza di volontà era riuscita a venir fuori da Deva e rifarsi una vita, e per questo l'ammirava immensamente. In quei mesi, da quando si erano conosciuti, si erano avvicinati tanto e nonostante le chiacchiere di paese era andato avanti per la sua strada, perché per lui era realmente come la sorella che non aveva mai avuto. “Me lo hai detto tu quando hai iniziato la terapia, ricordi?”
“Seh” mugugnò Adriana, ma solo per farlo contento; l'ultima cosa di cui aveva bisogno erano discorsi motivazionali, ma non poteva incolpare Francesco per quello: cosa dire del resto ad una persona che vede la morte in faccia?! 
“Ma...Emma?” provò a sviare la conversazione “C'hai parlato?” 
Francesco le aveva parlato così spesso di Emma, nei mesi in cui era stata lontana, che ad Adriana sembrava di conoscerla profondamente, e non solo superficialmente come era successo quando la ragazza bazzicava Deva. “Sì, c'ho parlato, ma...” “Se te la lasci scappare sei un cretino” chiosò la donna. “Ma io...” “Niente ma...io lo so perché fai così! Non vuoi fare nulla per non rischiare di farti male...ma nella vita le cose accadono e non possiamo fare niente per evitarle, non è colpa di nessuno” Lei si era sentita così in colpa quando aveva ricevuto la sua diagnosi: se non fosse andata a rinchiudersi a Deva, se avesse fatto prima le analisi, se da ragazza non avesse fumato...se...se...ma non funziona così. “Non pensare di non averli protetti...tuo figlio, Livia, persino Emma” continuò “lei cerca di sopravvivere, fallo anche tu. Anzi...vivi, vivete insieme finché potete perché il rimpianto è peggiore del rimorso. Promettimi che lo farai”
Francesco avrebbe tanto voluto prometterglielo, prima di tutto per sé stesso, perché avrebbe significato avere Emma nella sua vita, e poi perché aveva davvero voglia di una vita che potesse dire normale: avere qualcuno con cui svegliarsi al suo fianco, con cui fare compere e sbuffare perché ci mette tempo, con cui concedersi di passare un'intera giornata sul divano solo perché piove o prendere un giorno di ferie per andare via nel weekend; ci aveva pensato spesso, prima dell'ultimo inverno, quando Emma si stava preparando a tornare a Milano, perché alcune di quelle cose le avevano fatte insieme ed era stato bellissimo per lui che quella vita non l'aveva mai fatta, nemmeno da sposato.
“Ti prometto che ci provo” disse, non garantendo nella riuscita: si conosceva, quello era il massimo che poteva concedere “ma solo a patto che anche tu mi prometti che ci provi con tua sorella”
Adriana gli scoccò un bacio sulla guancia, divertita “Certo che sei testardo!” Francesco sorrise, soddisfatto di quel compromesso siglato, giusto in tempo perché Assunta portasse loro i primi e non vedesse quel bacio innocente e tornasse ai suoi sospetti.

Nel corso della serata, la voce di Roccia riecheggiò nel corridoio d'ingresso della malga fino alla sala da pranzo, pronunciando un nome familiare. “Emma! Quanto tempo! Ben trovata!”
Francesco capì in quel frangente perché il detto vuole che la fortuna sia ceca: perché se c'era un ente, un dio, una creatura magica a districare la matassa del destino, con lui puntualmente complicava inutilmente le cose; ma perché, di tutte le circostanze in cui poter incontrare Emma dopo il loro litigio, aveva dovuto proprio ritrovarla lì, mentre cenava con Adriana?! Non che ci fosse alcunché da spiegare, ma già loro non si trovavano, dover dare spiegazioni era un'inutile complicazione che avrebbe evitato 
volentieri. 
Q
uello che non aveva previsto, però, e avrebbe dovuto, era che nemmeno Emma era sola: con lei, a cena, manco a dirlo, il suo collega dell'università. Più lo vedeva, più lo riteneva innocuo, ma bastava la sua presenza ad innervosirlo; in quel momento, poteva concedersi con Emma cose che lui non poteva: prendere la sua giacca, spostarle la sedia, stare seduto di fronte a lei, vedere i suoi occhi e il suo sorriso da vicino...cazzate, in fin dei conti, ma erano le cose più piccole a mancargli, ora se ne rendeva conto.
“Che coincidenza, Emma, guarda chi c'è qui a cena stasera?” sentì dire dal suo ex vice. La giovane si guardò intorno e non ci mise molto a riconoscere Francesco Neri, l'uomo che la sua testa odiava e tanto quanto il suo cuore batteva fortissimo solo a vederlo o a riconoscere quel maglione blu che le piaceva tanto e che portava quando se l'era trovato davanti, bellissimo, al suo risveglio in ospedale. Ti odio Neri, ti vorrei odiare ma non ci riesco. Come se non bastasse, con lui c'era una donna, che lì per lì le sembrò di conoscere ma non riusciva a ricordare, anche perché era abbastanza sicura che fosse la stessa che aveva con lui in auto poche settimane prima e questo dettaglio la faceva ribollire dentro. 
​Quando però 
vide Francesco scattare dalla sedia non appena lei mise piede nel salone, nel petto il cuore perse un battito. Ti odio Neri, ti vorrei odiare ma non ci riesco. “Emma!” “Buonasera!” detestava essere così formale, ma era un obbligo che aveva più per amor proprio, in vista di quel distacco che ci sarebbe stato a breve, che per un risentimento vero e proprio “Anche tu qui stasera?” le chiese lui, cortese e quasi intimorito di approcciarla. Quella conversazione era una fiera delle banalità, ma era inevitabile nella loro situazione. “Domani ripartiamo e non potevo non venire a salutare Roccia” “Hai fatto bene! E poi Assunta, vedessi che cuoca...” “Immagino! Ma…non ti trattengo oltre, vedo che sei in compagnia...” “Ah sì, perdonami...ti ricordi di Adriana Ferrante? L'hai conosciuta anche tu”
Fu allora che come un flash, Emma si ricordò dei bambini di Deva e delle lezioni che aveva fatto: Adriana era una delle donne a cui era affidata la loro istruzione e ora ricordava anche che, dopo Deva, era stata una delle primissime persone a voler togliersi di dosso quella tara inevitabile, chiedendo aiuto a Francesco. All'epoca gliene aveva parlato, ma non aveva idea fossero diventati tanto intimi.
La donna però sembrava felice di vederla: “Piacere di rivederti Emma. E forse non ci crederai ma stavamo proprio parlando di te...a dirla tutta Francesco non fa altro che parlare di te” Il forestale arrossì visibilmente, anche sotto il filo di barba; in effetti l'argomento Emma era uscito spesso, forse anche troppo, senza volerlo, con Adriana. Chissà quanto doveva essere risultato pesante e disperato agli occhi dell'amica. “Spero bene” ribatté Emma, in imbarazzo. “Naturalmente” “Sono contenta che tu sia qui” chiuse Emma, rivolgendosi all'uomo “almeno così poi ci salutiamo per bene...adesso però, davvero, vi lascio cenare, buona serata!”
Non era vero, non era contenta per niente: non amava gli addii, figurarsi dire addio a Francesco in quel momento e in quel modo. Inoltre, la presenza di quella Adriana complicava tutto: più l'occhio le cadeva sul quel tavolo, più le ritornavano in mente ricordi della comunità e di come fosse stata lei stessa ad incoraggiare Francesco ad aiutare i “superstiti”. Lui, come tanti altri in paese, non riusciva non guardarli con diffidenza, come fossero fuori di testa: lei l'aveva spinto a guardare oltre, ad osservarli meglio, magari anche ad ascoltare le loro storie, spesso piene di dolore, che per quell'imbonitore di Kroess erano state il perno perfetto su cui fare leva. E ora, meno di un anno dopo, erano così intimi al punto che i due erano a cena fuori, e tutti sapevano che normalmente solo due cose potevano far uscire il Comandante dalla sua tana sul lago: temperature drasticamente sotto lo zero o un caso di cronaca su cui indagare.
“È proprio strano quel forestale” esclamò Giorgio. “Perché?” “Da quel poco che ho visto in questi giorni è sempre sulle sue, scontroso. Mi chiedo cosa ci troviate voi donne in lui” Beh basta avere degli occhi per capirlo, avrebbe voluto rispondere Emma, ma non era il caso. “Voglio dire, sarà pure un bell'uomo ma non mi sembra un tipo con cui avere delle lunghe conversazioni” “Eppure credimi non è così” disse Emma, accorgendosi di aver alzato la voce più del dovuto e irrigidendosi al suo posto “innanzi tutto ha vissuto delle robe incredibili nell'esercito e se volesse raccontarle ci impiegherebbe giorni e poi è una persona molto sensibile, che sa ascoltare” “Si direbbe che lo conosci bene, non me lo avevi detto” “Mah...sì...cioè... abbiamo passato tanto tempo insieme al campo base, alla fine vuoi o non vuoi finisci per fare conversazione” inventò Emma, trovandosi spalle al muro; era così gelosa di quell'estate passata in montagna che non riusciva a parlarne con nessuno neanche velatamente. “E ti piace pure” suggerì il ragazzo, guardando con la coda dell'occhio il tavolo con il comandante della forestale sentendosi osservato: forse, pensò, la cosa era persino reciproca. “Adesso non esagerare, non ci conosciamo abbastanza per parlare di certe cose” “Lo prenderò come un sì” Emma, a disagio, andò a chiamare Roccia per toglierla da quella empasse e prendere le ordinazioni.
Quello che Emma non sapeva, però, era che nemmeno all'altro tavolo la situazione era tanto semplice: appena si accorgeva di non essere visto, Francesco buttava un occhio verso Emma, per capire – o meglio rassicurarsi – che tra lei e il colleguccio non ci fosse nessun feeling oltre quello meramente professionale. Più li vedeva e più se ne convinceva, ma a volte la convinzione è solo frutto di ciò che vogliamo vedere e si rischia di prendere un abbaglio.
“Se la guardi ancora un po' la sciupi...” lo prese in giro Adriana, ridacchiando. “È così evidente?” “Solo un cieco non lo vedrebbe, ma anche lì ho qualche dubbio...” commentò l'amica “approfittane, quale migliore occasione” “Sì ma non è sola... e poi hai sentito, ha detto che parte domani...”
Adriana scosse la testa: era consapevole che gli uomini fossero delle cause perse, duri di comprendonio e lenti a mettere a fuoco, lo aveva scoperto a sue spese, ma Francesco era un caso veramente al di fuori di ogni grazia. “Sentimi bene: Heute muss dem Morgen nichts borgen” “L'oggi non deve prestare nulla al domani, giusto?” “Esattamente. Non perdere questa opportunità, potrebbe non capitare di nuovo” “Sì ma cosa le dico?” “E io che ne so? Non sono io ad esserne innamorata” sussurrò la donna, strizzando l'occhio all'amico.
Quella parola, che nessuno aveva avuto il coraggio di pronunciare da tempo con lui lo colpì come un muro preso a 100 all'ora. Innamorato. Sì, lo era, come non gli capitava da tempo; forse, anche se gli restava difficilissimo da ammettere, come non gli era capitato mai prima di allora: quell'amore che sovrasta ogni pensiero, ogni priorità, che ti toglie la fame come agli adolescenti ma riesce anche a tenerti con i piedi per terra con la sicurezza che solo un amore lungo una vita sa dare. E forse, se Emma avesse provato 
per lui ancora la stessa cosa, la distanza avrebbe potuto non essere un ostacolo in fin dei conti: non sarebbe stato facile, ma quale relazione lo è. E forse, insieme, sarebbe stato più facile superare le paure che da solo gli sembravano insopportabili: quei mesi che avevano trascorso insieme erano stati così belli ed erano corsi via così veloci che ora solo riusciva a prenderne coscienza; ora che ci pensava, anche i suoi incubi e le notti insonni gli avevano dato una tregua sapendo che al mattino l'avrebbe rivista.
Adriana e Francesco avevano terminato la cena prima di Emma e Giorgio, e Adriana convinse Francesco che non sarebbe morto nessuno se avesse preso un taxi per tornare a casa, lasciandogli un momento di privacy con Emma. Ora, però bisognava solo trovare il modo di restare soli.
Si avvicinò lentamente, impacciato, anche se Emma si era già accorta di lui appena i due amici si erano alzati dal tavolo. “Allora...” esordì, stando in piedi davanti a quel tavolo da due, le mani strette in due pugni così compressi per la tensione che erano diventate quasi livide e gli facevano male “...dobbiamo salutarci qui?” “Direi di sì” “A che ora parti domani?” la incalzò “magari hai tempo per un caffè in palafitta”
Stava improvvisando, non gli andava di dirle addio in quel momento, né poteva dirle quello che avrebbe voluto in una sala da pranzo di un'osteria contadina, con tanto di pubblico pagante. “No, guarda, ti ringrazio...ma devo ancora fare le valigie e non credo di riuscire a farlo stasera. E poi domani Giorgio ha un impegno alle 18, quindi non possiamo partire più tardi delle 10.30”
Emma tergiversava: non poteva assolutamente permettersi di passare ancora del tempo con lui: lo conosceva fin troppo bene ormai da sapere che avrebbe di nuovo accampato scuse, fatto la vittima di tutti i mali del mondo, le avrebbe chiesto del tempo e lei avrebbe provato pietà perché era fatta così ma non sarebbe cambiato nulla, avrebbe solo rinvigorito una speranza che a tempo debito sarebbe stata di nuovo disattesa. Ed era stanca di illudersi, stanca di credere che un giorno avrebbero avuto una possibilità, stanca di immaginarsi felici insieme.
“Capisco...” a Francesco quel rifiuto palese fece male ma, in fondo, pensò di meritarselo, perché era stato un cretino ad aspettare troppo tempo. Aveva sentito dire da Huber una volta che finché l'organo suona la messa non è finita, ma qui dell'organo non era rimasto nemmeno l'eco dell'ultimo brano. “Almeno” continuò “prometti di non cancellare il mio numero di telefono, così mi fai vedere Livigno e i lupi che ci sono lì” “Ma va figurati...poi vado in Valtellina, mica sulle Ande...se vuoi in mezza giornata sei lì e puoi venire a controllarli di persona” Promesse e progetti che entrambi sapevano non sarebbero mai stati rispettati; ma andava bene così, faceva parte di quello sporco gioco che entrambi avevano giocato troppo a lungo e il detto aveva ragione: il gioco è  bello solo quando dura poco.
“Allora ciao Emma!” “Ciao Francesco, alla prossima!” Senza riflettere, Emma si alzò leggermente sulle punte per scoccare un bacio sulla guancia dell'uomo: la guancia, rigata da una barba di tre giorni fintamente incolta, profumava di fresco bergamotto ma anche del caldo legno della casa sul lago quando la stufa è accesa e c'è il caffè in caldo. Non si sarebbe mai staccata da lì, ma doveva farlo prima che la cosa diventasse imbarazzante: a lei quel bacio, seppur innocuo, sembrava essere durato un'eternità, ma nessuno attorno si era scomposto, al di fuori di Francesco, i cui occhi si erano posati su di lei come se avessero avuto una visione delle sue; presto ne capì il motivo: con le mani si era ancorata alle sue braccia, stringendo quel maglione che era da sempre il suo preferito, che sul suo incarnato olivastro faceva miracoli, come se ne avesse bisogno.
“È...è meglio che vada” “Sì, sarà meglio...”
Francesco si sentiva uno stupido per non aver insistito ancora, di più, ma temeva di subire l'effetto opposto a quello desiderato. Ci pensò in auto, mentre tornava a casa e ci pensò ancora bevendo una tazza di caffè solubile che ancora si ostinava a preparare sulla stufa e bere a piccoli sorsi, lentamente tanto era bollente, in terrazza mentre provava ad interrogare le stelle. Ma le stelle non avrebbero potuto dirgli nulla su di sé e su Emma che non sapeva già. Sporto sul parapetto della terrazza gli tornò in mente di quando le aveva permesso di restare a San Candido nonostante i suoi problemi di salute; lei gli aveva detto, scherzando, che era non era come mamma aquila, che depone le uova separatamente per permettere al più grande dei piccoli di sopravvivere cibandosi del più piccolo in caso di necessità: lui avrebbe covato le uova insieme, avrebbe provato a fare sempre la cosa giusta, anche se non era la più semplice. Ci doveva provare.
“Emma ti disturbo? So che è tardi, perdonami” Gli era venuta questa idea aguzzando la vista nel buio pesto del lago notturno, quando solo le stelle offrono un piccolo sprazzo di luce, delineando il profilo dei monti circostanti; prese il telefono senza nemmeno controllare l'orario: solo dopo si rese conto che forse era stato un tantino avventato. “No, ma quale tardi, tranquillo” non era più tardi delle 11 ma ormai i suoi ritmi erano settati con quelli del posto che erano ben più nordeuropei di quelli di una ragazza di città “sono appena tornata in albergo...ma è successo qualcosa?” “No, tranquilla...è solo che ...mi è venuta in mente una cosa e volevo proportela” “Sarebbe a dire?” “Hai con te le scarpe da trekking?” “Certo, perché?” “Fai le valigie ora e domani vieni qui per le 4” Emma domandò se per caso stesse scherzando ma era evidente che fosse serissimo. “Le 4? Ma sei serio?” Non lo era mai stato così tanto in vita sua. “Ti ricordo che Giorgio...” “Ti prometto che partirai in tempo...e se non sarà così ti porto io stesso a Milano ma dobbiamo fare questa cosa” “Cosa?” “Fidati di me. Ci sarai?”
Bella domanda. Esserci significava fidarsi, fidarsi significava far cadere quell'armatura che stava faticosamente costruendo attorno a sé e rischiare di farsi ferire da lui. “Ci proverò” rispose, dopo un lungo respiro “ma non ti garantisco nulla”

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Capitolo 7
*** ALBA ***



7. ALBA

 
 
Stava facendo una cazzata. Immane, colossale. Aveva continuato a ripeterselo lungo la strada che portava fuori dal paese e quella che saliva su verso il lago. Avrebbe voluto trovare una scusa per non andare, dire che non si era svegliata o che non poteva prendere l'auto, ma persino Giorgio l'aveva spronata, rassicurandola che avrebbe trovato il modo di andare a prendere l'auto se non fossero tornati in tempo. Che poi, messa così ci sarebbe stato anche di che preoccuparsi, realisticamente, però si fidava ciecamente di Francesco e questo era l'inghippo di tutta la faccenda.
“Francesco!” chiamò, arrivata all'edificio in legno e pietra che affacciava sul lago. Tutto era ancora buio e in silenzio, temeva che fosse stato lui a darle buca e a farle fare la figura dell'idiota ingenua che crede ad ogni esca che le viene tesa. “Sssh!” una voce alle sue spalle, proveniente dalle stalle le intimò il silenzio. Francesco le veniva incontro a piedi, tirando per le redini il sauro Oliver, il cavallo che più preferiva tra quelli della scuderia della forestale e che aveva affardellato per quella avventura di cui lei restava completamente all'oscuro. “Fai piano che c'è una neonata che dorme al piano di sopra”. Indicò le finestre quella foresteria, dove da poco il pianto della piccola Nina si era placato e le luci erano state spente. “Ops!” sussurrò Emma, facendo spallucce “Allora, vestiti comodi e termici li ho messi, le scarpe da trekking ci sono. Si può sapere dove mi porti? Non dire che devo fidarmi” “Posso dire almeno che è una sorpresa?” chiese Francesco prima di montare a cavallo; una volta in groppa, le tese una mano per aiutarla a salire. Emma però era riluttante: uno alla volta, stava rimuovendo ogni mattone del muro che aveva messo tra sé e l'uomo ed era più facile cadere in quella che, se non nelle intenzioni, nell'atto pratico era una trappola per lei. “Anche perché” disse il forestale con una punta di sarcasmo “se sei qui ti sei già fidata”. 
Su quello, purtroppo, non aveva nulla da controbattere, poteva solo afferrare la sua mano, salire in groppa e lasciarsi guidare, abbracciata al giaccone verde militare dell'uomo; non lo avrebbe lasciato facilmente: era quasi aprile e per i suoi standard faceva freddo ancora durante il giorno, figurarsi di notte. Andarono in direzione sud, ma era troppo buio perché potesse leggere i cartelli di legno che segnavano i sentieri. Oliver si inerpicava sicuro su per le vie rocciose, talvolta rallentando laddove la strada sterrata si restringeva o forniva degli scalini di legno artificiali, che riemergevano umidi e scivolosi dalla ghiacciatura notturna.
Per distrarsi da quell'arrampicata quasi a tentoni con una torcia che permetteva solo a Francesco e a Oliver di indovinare la strada, Emma provava a fantasticare sulla destinazione: c'erano due opzioni nella sua immaginazione ed entrambe le stringevano un nodo in gola. Allora si stringeva ancora più stretta al forestale e il suo profumo dalle note fresche e legnose, discreto ma virile, le riempiva le narici. Se non fosse stato per la curiosità e la tensione della salita ripida si sarebbe concessa un pisolino da quelle braccia in cui si sentiva in fin dei conti al sicuro, perché la notte l'aveva trascorsa in sostanza senza dormire per paura di non svegliarsi e arrivare tardi all'appuntamento.
Mentre continuavano la salita l'ora blu che precede l'alba lasciava intravedere le nuvole basse che, alle loro spalle, avvolgevano la valle; tutto era assopito, l'unico rumore era provocato dagli zoccoli del cavallo che scalpitavano sulla roccia prima e poi poco alla volta, ma sempre più distintamente affondavano nella neve, non più profonda ma ancora ma ancora presente. Ben presto, dopo poche centinaia di metri, vennero fuori da quel mare bianco che fluttuava tra le cime trovando un velo di stelle che trapuntava il cielo sopra di loro: il paesaggio era quasi lunare, completamente bianco al di fuori di piccoli punti che durante la giornata dovevano essere esposti al sole in cui la neve si era già sciolta o dove l'uomo era intervenuto costruendo un rifugio, ancora chiuso, un bivacco o una piccola edicola devozionale. Francesco la invitò presto a scendere da cavallo ed Emma sbirciò l'orologio che aveva al polso e che segnava le cinque del mattino. “Da qui ci tocca andare a piedi” esclamò l'uomo, indicando la croce di vetta e passando lo zaino dal dorso del cavallo alla sua schiena. Era freddo, ma del resto avevano di sicuro superato i 3000 metri di altitudine e il sole non era ancora sorto: il buio della notte aveva però appena concesso il passo a colori rosati e ad est le primissime luci fendevano le nuvole; presto il sole avrebbe fatto capolino sopra di esse permettendogli di riscaldare il suo corpo infreddolito.
“Siamo sulla Croda del Becco, vero?” domandò, una volta in cima, appoggiata all'alta croce. “Avevi ragione” dichiarò Francesco “la tua lista non può aspettare oltre” Senza aspettare una sua risposta, che si sarebbe fatta attendere visto come l'aveva presa contropiede, Francesco iniziò a mostrarle le cime intorno, che si coloravano di rosa aranciato man mano che i raggi del sole le raggiungevano: il Picco del Vallandro, le Tre Cime, le Tofane e tante altre vette che i vecchi forestali Pietro e Roccia le avevano già elencato tante volte nei loro racconti. Era l'enrosadira, un fenomeno unico, che varia di giorno in giorno, di cui aveva sentito parlare ma che non aveva mai visto con i suoi occhi così da vicino: da togliere il fiato. Seduta a terra, incurante della neve gelata sotto di lei, con una tazza smaltata di caffè fumante che Francesco aveva portato su con un thermos, guardava con lo stupore di un bambino e la commozione di un anziano quello spettacolo della natura che quella mattina sentiva solo suo: davvero non c'era cosa più bella. Di fronte alla maestosità delle montagne, o alla bellezza mozzafiato del lago che, lontano a valle, si scorgeva tra le nuvole che si diradavano, non si sentiva piccola: si sentiva eterna, potente, in un modo che a lei, nella sua condizione, non sarebbe stato naturalmente concesso.
Mentre Emma si beava di quella vista e quel momento, Francesco prese un libro nascosto in una specie di buca delle lettere alla base della croce. “È il libro di vetta” spiegò “tutti quelli che arrivano qui in cima possono lasciare un messaggio”
“Perché mi hai portata qui?” gli domandò, provando a riprendersi e asciugando la lacrima che, rigandole il viso, le gelava una guancia. “Perché non potevi andare via senza aver visto l'alba da quassù. Era un tuo desiderio, dovevamo farlo insieme, no?” “Sì...” “Vorrei farne tante altre di cose insieme a te, Emma” disse l'uomo, andando a sederle accanto. L'alba, alta in cielo, baciava anche i loro visi e quello di Francesco lo rendeva terribilmente vulnerabile ai suoi occhi, marcando ogni linea che il tempo e le tragedie avevano solcato sul suo volto. “Allora sai cosa devi fare...chiedimi di restare” “Non lo farò”  

Dopo una notte in giro per sentieri e rocce, completamente alla cieca perché poteva essere letteralmente ovunque, Francesco riuscì nella sua impresa che il sole era già alzato discretamente in cielo. Era stato folle mettersi anche a cercarla con il buio pesto, nemmeno i soccorritori più esperti e con le migliori attrezzature lo farebbero, ma quando Roccia gli aveva detto che non rispondeva e aveva preso imbracatura, corde, chiodi e moschettoni non c'aveva visto più. Non sapeva neanche lui dove cercarla, e andare a tentativi era davvero l'unica strada percorribile: era salito prima sulla Croda del Becco, di lui spesso aveva parlato, ma non l'aveva trovata lì.  Un po' per caso, un po' per fortuna, si ricordò di averle parlato qualche tempo prima, di voler provare a percorrere la via ferrata del Monte Paterno, per arrivare a vedere le Tre Cime da una posizione meno turistica. E lei, che non le aveva ancora viste da vicino, salvo il comodo belvedere a valle, dalle parti del lago di Dobbiaco, era probabile che avesse avuto la malsana idea di arrivarci da sola. 
Lì la trovò. O meglio...trovo una corda appesa alla parete, spezzata, che penzolava. Il suo cuore smise di battere finché non la vide, tra le rocce, ancora tutta intera. Era però a terra, con una gamba distesa, probabilmente ferita. Discese lungo la parete rocciosa, assicurando gli attacchi e le corde al meglio in previsione della risalita se fosse stato necessario portarla a spalle. Conoscendola, tutte le eventualità andavano calcolate.
“Si è spezzata la corda, ho preso una storta...niente di grave, credo” sdrammatizzò Emma, quando lui si accovacciò al suo fianco per soccorrerla. Era provata da una notte all'addiaccio, ma non sembrava sollevata di vederlo e questo lo stranì: non avevano avuto molto tempo e opportunità per parlare da quando lei era tornata da Roma, ma soprattutto sua moglie era tornata nella sua vita e temeva che le due cose potessero avere una correlazione.
“Ma sei impazzita?” la rimproverò. Era Emma, era una cosa da lei, ma se da sconosciuti la bravata del lago l'aveva trovata eccentrica anche se folle, ora che la conosceva a fondo non poteva permetterle di mettere a rischio la sua vita così, a maggior ragione visto che lo era già di suo ogni giorno “Pensi sia un gioco?” Ma la giovane scosse la testa, minimizzando quella predica “No. Ma tanto...se devo morire … voglio morire facendo qualcosa di bello. Qualcosa che amo” sottolineo, guardando Francesco dritto negli occhi. Quello sguardo trafisse il cuore dell'uomo da parte a parte, togliendogli il respiro. Era difficile fingere che non fosse un messaggio diretto a lui. Ma non poteva permetterle di sprecare la sua vita così, per lui che era peggio di un giocattolo rotto: e poi, indipendentemente da quello, c'era ancora Livia e voleva provare a rimettere in piedi il suo matrimonio. No, non voleva: doveva. Emma invece doveva vivere, godersi quei giorni che la sua malattia le concedeva, magari anche per lui; non certo andando in giro di notte per le montagne senza attrezzature né la preparazione adeguata. “Questa è una cazzata!” rimbeccò perentorio e severo.
“Sì...” ammise “sì, adesso lo so”
Non poteva nascondere più la verità, quella voce che le rimbombava nella testa da settimane e che aveva taciuto da quando era tornata tra quelle montagne spingeva ora per uscire, prepotente. E se il cuore era dalla sua, la testa, che conservava un minimo di lucidità e aveva calcolato ogni danno collaterale, le aveva mandato quel provvidenziale attacco di panico per provare a dissuaderla. Ormai, però, era troppo tardi. Con Francesco seduto al suo fianco, quel marcato profumo legnoso e muschiato, fresco e caldo al tempo stesso, passato indenne anche allo sforzo fisico, ogni barriera era caduta. Aveva un leggero affanno nella sua voce ma ormai le parole sembravano uscire da sole.
“Se devo morire io … io voglio morire accanto a CHI amo” 
Era stato bello vedere i due vecchietti nel villaggio abbandonato, in cui resistevano solo loro, la loro mucca e l'orticello dietro la casa in legno che lui aveva costruito anni addietro, per le loro nozze. Vederli ancora, dopo tutti questi anni, camminare fianco a fianco, le aveva dato la speranza o forse l'illusione che credere nell'amore fosse possibile anche nelle sue condizioni. Che non importava il tempo che le restava, importava solo come lo avrebbe speso.
“E io amo TE” “Emma...” Doveva fermarla, non aveva una risposta a quelle parole ma non poteva dirle, non a lui. Lui non poteva sentirle. Era andato lì per vivere una vita semplice, senza complicazioni, dove dimenticare ed essere dimenticato e invece ora si trovava in un casino che nemmeno sapeva come ci era finito. Sapeva che sarebbe finita così, che stavano entrambi giocando con il fuoco, ma non era stato capace di smettere prima che entrambi si bruciassero. Ora non restava altro che medicare quella ferita e sperare che il tutto fosse il più indolore possibile. Ma Emma glielo rese impossibile.
“No, ti prego, fammi parlare!” I suoi occhi brillavano e quel sorriso timido, spaventato, con cui aveva pronunciato le tre parole più difficili della sua vita ora si era tramutato in sicuro e anche commosso, come se dire le cose come stavano la stesse liberando da un peso più opprimente di un eventuale rifiuto “io ho provato ad andarmene, a scappare … ma non è servito a niente! Non ci riesco! So che adesso c'è tua moglie … ma … scegli me! Scegli me”



Emma allora si alzò di scatto “E allora a cosa è servito tutto questo? Per sentirmi dire cose che hai già detto?” “Aspetta!” esclamò lui, prendendola per un braccio “non voglio chiederti di restare perché non ho bisogno che tu sia qui per amarti” Era per quello che l'aveva portata di lì, per dimostrarle che anche lontani, si poteva essere vicini e visibili se il cuore lo desidera, come quelle cime così distanti ma così limpide. Emma avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma l'unica cosa che uscì fu un singulto. Aveva sperato tante volte di sentire quelle parole che ormai aveva perso ogni speranza. “Voglio starti accanto sempre” continuò lui “che tu sia qui, a Milano, a Livigno, sull'Everest … perché io ti amo”
Lo aveva detto. Con un sussurro, certo, ma nel silenzio di quella cima in cui c'era posto solo per loro due, era risuonato chiaro e distinto. L'amava e voleva starle accanto; non voleva provarci, voleva riuscirci, scrollandosi di dosso ogni paura, ogni remora. “Io ti amo e non ho bisogno di chiederti di restare qui. Ho solo bisogno che tu voglia condividere quello che provo per te, perché detto fra noi è un anno che me lo tengo dentro e non ce la faccio più a stare senza di te” Francesco azzerò la distanza tra loro poggiando la sua fronte su quella della ragazza e intrecciando le loro mani. “Ti amo” ripeté, ancora più a bassa voce, disperatamente, come se fosse un segreto prezioso che nemmeno le rocce dovevano ascoltare “ti amo, ti amo”
Le loro labbra si rincorsero per qualche secondo, come avessero bisogno di trovarsi, di studiarsi, incontrandosi lentamente, poco alla volta, quasi non fossero sicure che fosse arrivato il loro momento. Emma sentì le labbra dell'uomo sfiorare quasi impercettibilmente le sue ma invece che braccarlo a sé lo lasciava fare, un po' impietrita dall'emozione, un po' infiammata da quel gioco di seduzione che le faceva battere il cuore a mille: erano lente, al contatto con le sue, morbide e umide e la barba pizzicava leggermente sulla sua pelle, quel poco che bastava a non infastidirla ma a farle correre un brivido lungo la schiena. Non sentiva più freddo, né la stanchezza per la notte senza sonno o la fatica della scalata; anche per l'affanno, era ormai sicura non fosse più dovuto alla quota. Poi, d'improvviso, Francesco prese sicurezza, forse coraggio, e la sua lingua si fece strada tra le labbra di Emma: quello era il segnale che le serviva per osare di più, per prendere coscienza che non era solo un sogno ad occhi aperti e stava succedendo davvero. Sciolse la presa dalle mani di lui e con le sue corse al suo viso come se volesse sentire quel bacio anche con il tatto. Gli occhi chiusi, sentiva le mani di lui correre alla sua schiena, tirandola più stretta a sé.
Niente a che vedere con quel bacio che gli aveva rubato un anno prima, quando si era tirato indietro dopo l'iniziale trasporto: stavolta ci stava mettendo davvero tutta la passione, la volontà e l'insistenza di cui era capace. E ad Emma venne da ridere, quel riso un po' sciocco che ti prende quando sei così felice da toccare il cielo con un dito: e lì, sulla cima di quella montagna, sarebbe bastato davvero poco per farlo.
“Che c'è?” domandò lui, staccandosi per guardarla negli occhi. Le sue guance erano porpora e gli occhi in fiamme; ma quello che più colpì Emma fu il suo sorriso, bello e innocente come non l'aveva mai visto, ed era tutto per merito suo, tanto che anche le sue labbra si aprirono in un sorriso estatico. “Tu mi ami, ma io ti odio” lo punzecchiò, disse correndo a baciarlo ancora, mordicchiandolo giocosamente, cosa lo fece arrossire ancora di più “ora mi toccherà trovare un modo per non partire più”
Francesco la strinse a sé, risalendo con le braccia lungo la sua schiena ma invece di sentirsi braccata, Emma si sentiva protetta. Erano a 3000 metri, all'aperto, ma sembrava di stare in una stanza tutta per loro. All'inizio la bocca di Emma aveva un sapore che era il proprio – di vaniglia, di menta, e del caffè che avevano preso poco prima – poi però quel sapore era diventato anche il suo e nel bacio erano diventati una cosa sola. Difficile dire quanto tempo fossero rimasti lì, ma sicuramente abbastanza perché il sole salisse deciso e le montagne attorno riacquistassero il colore diurno più vivace e intenso che a tutti era concesso di vedere.

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Capitolo 8
*** POI SIAMO FINITI DENTRO IL VORTICE, FELICI ***



8. POI SIAMO FINITI DENTRO IL VORTICE, FELICI

 
 
“Vuoi che ti accompagni?” “Non ti preoccupare, è meglio se questa cosa la faccio da sola”
Francesco aveva seguito Emma con la sua auto fino al garni in centro dove alloggiava con Giorgio. Erano scesi in tempo perché potesse tornare indietro a portargli la macchina, ma non sarebbe tornata a Milano insieme a lui: era una mossa avventata, razionalmente lo sapeva anche lei, ma il suo cuore, dopo mesi di pene e di distanza, non ce la faceva proprio a lasciare andare Francesco proprio quando che si erano ritrovati. A Milano, certo, ci sarebbe dovuta tornare, ma con calma, e con un piano ben elaborato perché quella cosa che era appena nata tra loro potesse funzionare al meglio.
Entrò nella piccola hall dell'alberghetto mentre il telefono le vibrava in tasca. “Giorgio, sei in camera?” “No, sono qui” alle sue spalle, il giovane usciva dalla sala lettura, dove aveva portato già le valigie in attesa del ritorno della collega “stavo iniziando a temere di dover farmi accompagnare a prendere l'auto al lago...dai, cambiati, vai a prendere le tue cose che partiamo subito!” “Aehm...veramente io resto qua” disse Emma, tendendogli le chiavi dell'auto che avevano noleggiato. “Come resti qua. E io a quelli dell'università che dico?” “Dì...dì che voglio fare alcuni rilevamenti ulteriori, e di non preoccuparsi che è tutto a mie spese” inventò, così come aveva pianificato per strada. “E il project assessment?” “Sarà sulla scrivania del direttore di dipartimento lunedì, come previsto” rispose prontamente, vedendo il ragazzo investito dall'ansia di dover riportare la notizia in ateneo “è solo un weekend, Giorgio, è tutto sotto controllo” “Forse per te...e si può sapere che rilevamenti vuoi fare che non abbiamo già fatto?”
Ecco, questo era il dettaglio che aveva dimenticato di considerare quando aveva messo in piedi quella piccola grande bugia bianca “Non è niente di che, ma mi voglio togliere un dubbio e capire quanto margine ho per seguire tutti i filoni di ricerca contemporaneamente” “E non puoi farlo da Milano? O c'è altro?” “Un novellino non dovrebbe mettere in discussione una ricercatrice con maggiore esperienza...” lo rimproverò bonariamente, ma non aveva tutti i torti ad essere sospettoso: fino al giorno prima era sicura e determinata a voler andare in Valtellina e ora aveva bisogno di capire. Chiunque avrebbe intuito che la telefonata con il forestale e la levataccia di quella mattina avevano a che fare con quel cambio di programma. “Va beh...”
Giorgio radunò le sue cose e si avviò verso l'uscita; mentre Emma aspettava l'ascensore per salire in camera, il ragazzo tornò sui suoi passi. “Posso salutare il comandante Neri o devo fare finta che non sia nel parcheggio ad aspettarti?” domandò, sagace, lasciando Emma sbalordita e imbarazzata “Ci vediamo a Milano”
In effetti, sbirciando dall'ingresso, vide Francesco fuori dall'auto, appoggiato al suo fuoristrada con le gambe incrociate mentre parlava al telefono. Non ci riusciva proprio a fare quello che gli si chiedeva, nemmeno con lei e nemmeno ora; non era per vergogna, ma dover spiegare che voleva restare per lui non era facile né la poneva in una bella luce di fronte ai colleghi e all'ateneo se si fosse saputo.

“Comandante Neri!” “Ciao Giorgio! Buon viaggio e a presto!” Il forestale salutò l'etologo collega di Emma in maniera affabile forse per la prima volta da quando lo aveva conosciuto. “Non so se ci rivedremo” ammise il ragazzo, ma Francesco non poteva mostrare quanto questa eventualità lo avrebbe reso felice, liquidandolo con pochi convenevoli di circostanza; del resto, in quel momento la sua priorità era assicurarsi di poter trascorrere con Emma quei pochi giorni a disposizione prima che fosse costretta dal suo lavoro a tornare a Milano. Chiamò in caserma, informando che avrebbe preso un paio di giorni di permesso: dal tono di voce di Martino, Valeria non aveva ancora smaltito la rabbia dalla loro ultima discussione e non aveva gradito questa sorpresa improvvisa, a differenza del resto della ciurma che considerava le assenze dell'Ispettore Capo come festa grande; ecco perché, oltre ad annunciare la sua assenza, aveva lasciato a Martino istruzioni che sarebbero bastate per una settimana invece che pochi giorni.
Quando Emma lasciò l'albergo, Francesco le corse incontro per aiutarla con i bagagli: non era molto carica, entrambi condividevano una certa frugalità, ma l'impostazione militare imponeva all'uomo la sollecitudine per certe attenzioni e certi dettagli che, in fin, dei conti, ad Emma non dispiacevano, soprattutto da lui.
“Non hai resistito proprio a pavoneggiarti con Giorgio” disse, affidandogli il borsone “non capisco cosa ti abbia fatto di male, è dal primo giorno...” “A parte che non mi ero neanche accorto di lui, ero al telefono” ci provava con tutte le sue forze a dissimulare al meglio che poteva, aveva un orgoglio da mantenere, ma era anche perfettamente consapevole che Emma non ci sarebbe mai cascata “ma poi perché dovrei vergognarmi di essere il tuo...oddio non so come dire” “Basta che togli l'articolo...” sussurrò Emma al suo orecchio, appoggiando le mani sul suo torace “sei semplicemente mio” Quelle tre lettere, semplicissime all'apparenza, infiammarono l'uomo come i falò del Sacro Cuore che incendiavano di disegni i crinali delle montagne nella notte della festa. La tirò a sé con uno sguardo seduttore, baciandola lievemente senza nemmeno darle il tempo di adattarsi a quella novità – non che le servisse, ma era un lato di Francesco che non conosceva “Lo so e mi fa impazzire questa cosa”
Emma era abituata all'uomo che viveva costantemente con il freno a mano tirato, che contava fino ad un milione e poi ricominciava anche da capo pur di sopprimere le proprie emozioni: era convinta che ci fosse, da qualche parte in lui, un Francesco più sciolto, più disponibile a lasciarsi andare, ma non era sicura che sarebbe mai venuto fuori e vederlo così ora, oltre a piacerle da morire, la meravigliava immensamente. Con un sorrisetto compiaciuto, consapevole che quel cambiamento fosse anche un po' merito suo, che aveva qualcosa in lui che aveva avuto paura di perderla, tornò a prendersi quelle labbra che per mesi aveva sperato potessero posarsi sulle sue con la libertà e la leggerezza con cui lo facevano adesso.
“Cosa facciamo ora?” domandò, staccandosi di malavoglia, quando un gruppo di ragazzine li fischiò passando in bici davanti al parcheggio. Se c'era una cosa che Emma non si sarebbe mai aspettata, era di dare spettacolo in pubblico. Il forestale le sgridò con una frase in tedesco di cui Emma non capì che poche parole, ma il tono non lasciava dubbi sul significato. “Comunque possiamo fare quello che vuoi...ho preso qualche giorno dal lavoro. Intanto andiamo a casa”
Francesco posò il borsone e il trolley di Emma nel bagagliaio, mentre Emma portò con sé, nell'abitacolo, la valigetta con il computer. “Dici sul serio?” gli domandò, stupita. “Cosa?” “Che hai preso dei giorni di ferie” “Sì, perché? Ne avevo diversi arretrati e poi si tratta solo di un paio di giorni...” “No, niente...è solo che...non è da te avere altre priorità oltre al lavoro” “Sei tu la mia priorità adesso, pensavo fosse abbastanza chiaro il concetto dopo questa mattina”
Anche se credeva di non meritarselo, non significava che non desiderasse per sé stesso di poter avere altro nella vita oltre il lavoro, di concedersi dei momenti di svago, ritagliandosi del tempo per non fare … anche niente, se gli andava così. E ora gli andava tantissimo.
“Chiarissimo, è solo che non ci sono abituata. Andiamo!”

Percorrere il pontile che portava alla palafitta dava ad Emma una strana sensazione di dejà vu: non poi così strana a dire il vero, visto che si era già trovata in quella situazione. Come allora, stava scappando da Milano, da quella città dove aveva la sua carriera ma non il suo cuore, custodito gelosamente dalle acque del lago: chissà che non glielo avesse rubato proprio quel giorno che si era tuffata avventatamente. A differenza della prima volta in cui Francesco l'aveva ospitata, ora la percorrevano mano nella mano, entrambi con una strana elettricità addosso, di chi sapeva che stava accadendo qualcosa di speciale. “Benvenuta!” esclamò l'uomo, guardandola fiero. “Non è la prima volta che vengo qui” “Come mia compagna sì” La parola compagna era uscita da sé, di giustezza, senza alcun impaccio. “Ti prenderei in braccio ma ho le mani occupate” si scusò buttando uno sguardo ai bagagli di Emma. “Non ti preoccupare...è ancora presto per quello”  Emma strizzò l'occhio, sorniona, mentre lui le lasciava la porta aperta per entrare “non ti facevo così romantico”
Sembrava una fatina o una ninfa delle acque: leggiadra e sfuggente, tranne per lui; gli teneva la mano, non smettendo di guardarlo negli occhi e per farlo camminava all'indietro, divertita, concedendosi una risata solare e sincera delle sue. Era tanto che avrebbe voluto vederla così tutta per sé e Francesco si chiese persino come avesse potuto credere di poterne fare a meno: forse non la meritava una tale felicità, ma pazienza, avrebbe espiato in un'altra vita se fosse stato necessario.
“Non lo sono, di norma” confessò “sei tu che tiri fuori la parte migliore di me. Anzi, sei tu la parte migliore di me”
Emma avrebbe voluto controbattere che non era così, che c'aveva messo anche del suo perché il cambiamento non ci può essere senza volerlo, ma era talmente sopra una nuvola che l'unica cosa che fu in grado di fare, prima che gli occhi le si riempissero di lacrime di gioia, fu quasi saltargli addosso, prendendo il suo viso tra le mani e baciarlo tenendolo più stretto a sé che poteva. Alla loro gioia si unì anche Argo, il Leonberger dormiglione e flemmatico che condivideva la palafitta con il forestale. “Argo, guarda chi c'è!” esclamò Francesco, anche se il povero cagnolone non poteva sentirlo. Emma però sapeva come farsi notare dal povero cane che aveva perso l'udito a causa delle bombe in una missione con l'esercito: si inginocchiò e iniziò a battere sulle assi di legno della terrazza; il cane, attirato dalle vibrazioni, si avvicinò e lasciò che Emma lo coccolasse per bene, accarezzando il suo mantello fulvo e morbido.
“Ti va di fare colazione?” le domandò Francesco “non ti garantisco una colazione da hotel, ma qualcosa ce la possiamo inventare”. Erano passate le 11 e caffè e gallette in quota a parte, per entrambi la cena della sera prima era l'ultima cosa decente che avevano messo sotto i denti: con tutto il trambusto di quella mattina, mangiare non era esattamente tra i primi pensieri, ma ora che ci pensavano i morsi della fame si facevano sentire. “Sì...sì mi va, grazie”
Mentre attrezzava la colazione come meglio poteva, Francesco invitò Emma a mettersi comoda. Tante cose erano cambiate in palafitta, gli spazi completamente ripensati facendola sembrare più grande di quanto la ricordasse; forse erano solo i mobili e le pareti chiare, forse aveva alzato il tetto e rosicchiato qualche centimetro alla terrazza, ma ora davvero sembrava un loft a bordo lago, con un bagno con tutti i crismi, una piccola lavasciuga e cassettiere strategiche ovunque per sfruttare al massimo lo spazio. Se non l'avesse vista con i suoi occhi com'era prima, non c'avrebbe mai creduto che fosse lo stesso posto. “Mi manca ancora un tavolo, ma d'estate si può stare comodamente fuori” spiegò Francesco, indugiando sui piani per l'inverno, su come avrebbe spostato il divano in modo da averlo di fronte alla stufa anziché di fronte alla finestra, guadagnando dello spazio per un tavolino e due sedie, senza molte pretese.
Per ora, quindi, il terrazzo, con la sua bella tettoia nuova di zecca, era un'ottima opzione per i pasti, in tutta comodità e privacy; sebbene le temperature non fossero ancora totalmente gradevoli, una coperta avrebbe fatto al caso loro. Emma ci si vedeva proprio a passare lì le serate, a vedere il sole scomparire dietro i monti e l'oscurità ingoiare tutto il paesaggio, lei e Francesco se ne stavano seduti su una panca, abbracciati, magari anche avvolti da un plaid nelle serate più frizzantine.
Intanto, contribuiva alla colazione: se non ai fornelli, almeno in tavola; trovò in uno dei cassetti delle tovagliette all'americana corredate con il proprio tovagliolo che la fecero tanto sorridere, benché Francesco giurasse che fossero solo un regalo di Adriana e che non le avesse mai usate. “Ma hai anche posate e piatti coordinati?!!!” “Un regalo dei miei uomini e quelli della polizia...e poi sono semplici piatti bianchi, niente di trascendentale” “Per te che mangiavi nella gavetta in alluminio lo è” Francesco rise, sotto i baffi: gli erano mancate quelle stilettate tra di loro, i botta e risposta in cui Emma aveva sempre la meglio e lui finiva per guardarla come un cretino, estasiato e, ora lo sapeva, innamorato.
“Meno male che non garantivi una colazione da hotel! Guarda che roba!” In tavola, quando anche Francesco si accomodò, accanto a lei, c'era ogni sorta di ben di Dio: caffè, succo di mela, pane in cassetta tostato, l'immancabile speck, burro e marmellata; avesse saputo che erano le sole cose che aveva in credenza, Emma avrebbe storto il naso, probabilmente. “Domani mattina scendo in paese e prendo del pane fresco, te lo prometto” “Non c'è bisogno di mettermi all'ingrasso...” dichiarò, fiondandosi a preparare un toast con burro e marmellata: la montagna le aveva messo decisamente appetito “altrimenti Oliver si rifiuta di portarmi in groppa!” 
Risero entrambi e Francesco avvolse con il suo braccio le spalle di Emma che si addossò leggermente all'uomo così da approfittare al massimo del calore naturale che emanava, poggiando la testa sulla sua spalla. Francesco notò che la giovane era rimasta in silenzio per un po', nonostante il suo sorriso placido 
“Che c'è?” Osservava il lago, mangiucchiando il suo toast, concentratissima sul quello specchio d'acqua ancora coperto da uno strato, ormai fragilissimo, di ghiaccio “Pensavo solo che abbiamo meno di tre giorni per recuperare mesi...” “Abbiamo tutto il tempo che vogliamo”
Il che, fu costretto ad ammettere Francesco, non era propriamente vero e si dannò per averlo detto: avevano tutto il tempo che la malattia le avrebbe concesso, e pregava ardentemente che fosse più di quanto il destino avrebbe dato a lui. “Voglio dire” si corresse “ora che siamo insieme anche la distanza peserà di meno, e sarà anche più bello rivedersi” “Lo so...” Per fortuna quella sembrava una di quelle giornate talmente belle che nulla avrebbe potuto portare via da loro il buon umore né la speranza: anche Emma sembrava disposta a credere, per una volta, che le cose potevano volgere al meglio anche per lei.
Francesco prese il mento della donna tra il pollice e l'indice, mentre con l'altra mano, scesa dalle spalle fino in vita, la attirò ancora più a sé, baciandola delicatamente, brevemente, per poter guardarla negli occhi e vedere i suoi riflessi in quelli di lei, in quegli occhi color cioccolato che, quando sorridevano letteralmente insieme a tutto il resto del corpo, si ravvivano e brillavano, quasi ingigantendo le piccole pagliuzze dorate che li impreziosivano. I piccoli baci iniziali diventarono sempre più lunghi e intensi, non assomigliando per nulla a quelli che si erano scambiati all'alba in cime al monte: questa volta, la passione e la voglia di esplorarsi più fisicamente si stava insinuando tra loro come una fiamma che prende forza dall'ossigeno che brucia intorno a sé.
E l'ossigeno per il loro fuoco erano i baci e le loro mani, che frenetiche correvano lungo il corpo e iniziavano ad insinuarsi, lente ma decise, sotto i vestiti. “Forse ... è il caso che ...” sussurrò Francesco, staccando le labbra da quelle di Emma quanto bastava per poter pronunciare quella frase. “sì...non qui” Emma capì immediatamente dove volesse andare a parare. Controvoglia si alzarono dalla panca, ma al contempo frenetici continuare al chiuso quello avevano iniziato, al punto da andare a sbattere al finestrone d'ingresso, non riuscendo a guardare altro al di fuori di loro stessi. Emma riuscì, una volta all'interno, a togliere velocemente la maglia a Francesco, lasciandolo davanti a lei a petto nudo. Non aveva mai badato a certi dettagli ma non poteva far finta di ignorare quel fisico prestante e robusto come le montagne di cui era il custode. Si ritrovò a mordersi il labbro inferiore alla prospettiva che quel ben di Dio ... perché solo così riusciva a definirlo ... fosse sua prerogativa esclusiva. Francesco la tirò su e la mise a sedere sullo schienale della poltrona e da lì, più comodamente, le slacciò i jeans, facendoli cadere a terra. Risalì su per le gambe posando una scia di baci, fino alle cosce candide come una statua di Canova. Emma, con le mani tra i capelli del suo uomo, sentiva il cuore batterle forte e per un attimo ebbe paura che potesse scoppiarle: sarebbe stato il modo migliore per andarsene, non c'erano dubbi.
Non era la prima volta che si trovavano così vicini senza vestiti, si erano conosciuti così, in effetti, e quella volta in cui Emma lo aveva aiutato ad asciugarsi dopo un acquazzone che lo aveva colto all'improvviso era rimasta stampata nella testa di entrambi, ma in quel frangente compresero perché era stato così difficile ma altrettanto importante tenere a bada gli istinti più terreni quando avevano vissuto insieme: perché ora, connessi totalmente, sarebbe stato ancora più bello.

Silenzio. C'era solo silenzio attorno. Niente sciabordio dell'acqua sotto i piloni della palafitta, ancora cristallizzata dal gelo dell'inverno, niente versi di animali notturni. Solo un silenzio pacifico, accogliente. Era calata la notte sul lago e non se n'era nemmeno accorta. L'unica cosa che i sensi di Emma percepivano, in quel momento, era il profumo del suo uomo che l'avvolgeva totalmente. Lo aveva avuto tante volte al suo fianco, così pericolosamente vicino, quando avrebbero voluto ma non potevano, qualsiasi fosse la ragione, che pensava ormai di esserne immune, ma niente l'avrebbe mai potuta preparare ad essere tra le sue braccia e lui tra le sue. Una cosa sola, alla fine.
Non aveva idea se ci fosse qualcosa dopo questa vita, anche se ci voleva credere, ma quella notte appena trascorsa era la sua versione di paradiso, la palafitta la sua nuvola e Francesco la sua beatitudine.
"Ti amo" le aveva detto. Lo aveva detto quasi in un soffio, ma lo aveva sentito, ne era sicurissima. E l'aveva baciata. Aveva preso il viso dell'uomo tra le mani per accertarsi che fosse tutto vero mentre le labbra dell'uomo premevano sulle sue. Erano a 3000 metri, ma sembrava davvero di essere ancora più in alto, sull'Everest, toccando il cielo con un dito, senza alcuna paura di cadere perché per la prima volta erano insieme davvero, l'uno era lì per l'altro.
L'amava e non voleva solo provarci, voleva riuscirci. C'era stato un periodo in cui si era dovuta imporre di non credergli, che alle parole non sarebbero seguiti fatti ma i suoi occhi li aveva visti bene a questo giro: brillavano, pieni di speranza e fiducia, avidi di vita e di amore. E tutto questo per lei.
In certi casi il buon senso imporrebbe modestia, non me lo merito, ma sentiva di meritarlo, perché nella vita non aveva avuto molte cose belle e il suo futuro di certo non era particolarmente roseo … si poteva dire che un futuro non ce l'aveva, ma almeno un po' di felicità con l'uomo che amava sentiva di meritarla.
Francesco si era alzato. Girata verso la finestra percepiva il bagliore di una luce accesa e sentiva armeggiare in cucina … aprire qualche sportello, rovistare tra le posate; sebbene avessero interrotto la colazione in tarda mattinata sul più bello non aveva fame, né tanto meno sonno.
Lo sentì tornare a letto, poggiando qualcosa sul comodino, probabilmente un piatto. Lei era rimasta immobile nella posizione in cui si era svegliata, comoda, ad osservare la luce rossastra del lampione esterno che illuminava la terrazza e in parte anche la casa.
"Dormi?" le chiese, ed Emma lo sentì dapprima sfiorare la sua schiena con il naso, dalla nuca a scendere - mentre un brivido risaliva invece la sua schiena - fino a posare un bacio tra le fossette di Venere. "Nn nn" mugugnò lei. La risposta era scontata quanto la domanda, ma faceva parte del gioco, così come era parte del gioco il sua rimanere allungata sulla pancia, continuando a guardare fuori dalla finestra anziché lui. "Tutto bene?" domandò allora Francesco, allungandosi sopra di lei, cauto, delicato, scostandole i capelli per lasciare un bacio sul collo e forse sbirciare anche la sua espressione, incomprensibile dalla voce vagamente sonnacchiosa. Emma tentava di rimanere seria il più possibile, le piaceva stuzzicarlo un po' … lui l'aveva fatta così penare.
"Sto pensando …" "A cosa?" lo sentì irrigidirsi e anche la voce era tremante. Emma avrebbe potuto giurare di averlo sentito deglutire, come per mandar via un nodo dalla gola. Alla fine si girò verso di lui, che si scansò leggermente per non pesarle addosso. Francesco era intento a guardare, anzi no, a contemplare il corpo nudo della donna sotto di lui, ma non c'era imbarazzo da parte di Emma: non si era mai reputata bella, ma non aveva mai avuto problemi con il suo corpo. Quel modo di guardarla però, come se non l'avesse mai vista prima, stupore misto a commozione, come se non potesse credere di essere lì con lei, di avere le mani sul suo corpo nudo, la faceva sentire forte, potente, addirittura. "Che non avrei mai creduto di poter essere così felice"
Era serio, ma una scintilla si accese nelle iridi scure, già dilatate alla penombra della stanza. Gli piaceva quello che sentiva, gli piaceva lei. Portò una mano sul suo collo e da lì risalì fino al volto, per accarezzarla. L'altra invece era impegnata tracciare il suo profilo, lenta, provocante, determinata a reclamare la proprietà esclusiva di quella pelle bianca come il latte, di quelle curve morbide come la seta e generose il dolce della domenica. Emma era sicura di aver sentito il crepitio della legna nella stufa e di aver intravisto il bagliore rossastro delle fiamme, eppure la sua pelle si aggricciò a causa di quelle dita che scorrevano lungo il seno e le sfiorarono, pericolose, il capezzolo. Erano mani lavoratrici, tozze, ruvide anche e c'erano anche dei piccoli taglietti - forse si era fatto male maneggiando la legna, forse semplicemente non si curava troppo di idratarle e il freddo faceva il resto - ma erano grandi e calde ed erano il suo porto sicuro. Emma afferrò quella che si era soffermata sul suo viso, la girò leggermente e ne baciò il palmo. "E poi" aggiunse, accennando un sorriso malizioso, di chi stava perdendo la battaglia contro sé stessa per restare concentrata sulla conversazione "che ho trovato un regalo perfetto per la casa, visto che a quanto pare sono l'unica a non averlo fatto....queste tende sono brutte, ma proprio brutte! Possiamo cambiarle?"
Anche Francesco a quella battuta si rilassò. "Questa è anche casa tua Emma … puoi fare tutto quello che vuoi" Erano delle parole semplicissime, e forse neanche così strane, ma dette in quel momento le scaldarono il cuore. Era così che si sentiva: a casa. Solo in quel momento, si era finalmente resa conto che quei luoghi le erano mancati; non solo, avevo rischiato di perderli per sempre. E sì, probabilmente non era tanto il luogo a fare la differenza, ma la persona con cui viverli. Con Francesco accanto a lei, anche un deserto o uno squallido appartamento di città sarebbero stati accoglienti.
Con le mani sul suo viso, Emma gli si lanciò quasi addosso per baciarlo, portandosi sopra di lui. Era ancora strano essere così vicini quando fino a poche ore prima era convinti, ma non pronti, a dirsi addio. I seni schiacciati contro il petto di lui, il piacere per quell'incontro ravvicinato che lui non riusciva proprio a nascondere, erano una novità che entrambi facevano fatica a processare ma a cui nessuno dei due si sarebbe opposto. Le labbra dell'uomo si aprirono in un sorriso per quanto potevano, pressate dalle quelle di Emma che lo sentiva ridacchiare forse per la prima volta senza neanche un velo di malinconia, com'era invece consuetudine: un riso gutturale, estremamente sensuale...o forse era solo la situazione che le faceva sembrare tutto più eccitante; al di là di tutte le considerazioni che poteva fare, adorava sentirlo e vederlo così libero per la prima volta da quando lo conosceva, senza pesi, senza sensi di colpa che gli impedivano di godersi anche solo qualche istante di serenità. 
“Altro round?” propose, anche se ad essere completamente onesta con sé stessa, non c'erano round da contare, solo una lunga e perfetta giornata passata ad amarsi, come nessuno dei due non aveva mai fatto prima con nessun altro: se serviva un indizio ulteriore che tra loro c'era qualcosa di diverso, quella per lei era la prova perfetta. “Non prima di un piccolo spuntino” rispose Francesco, sornione, prendendo il piatto dal comodino: aveva preparato dei tramezzini e portato anche della birra. Un po' grossolano come spuntino, ma non erano tipi da sottilizzarsi su certi dettagli e poi avevano letteralmente perso il senso del tempo che con ogni probabilità era anche ora di cena ed era il cibo più appropriato. “Ah!Ah!Ah!” lo frenò però Emma, prendendogli il piatto dalle mani. “Che c'è?” “Non si mangia nel letto” “Non abbiamo 5 anni, penso che siamo entrambi capaci di mangiare senza sporcare” 
Ma Emma non ne volle sapere; si alzò, borbottando qualcosa a proposito del fatto che gli uomini saranno sempre bambini, non importa quanti anni abbiano. Posò il piatto sul piccolo tavolino da té vicino al divano e andò in bagno a darsi una rinfrescata, portando con sé la maglia che aveva tolto a Francesco ore prima. “E io cosa dovrei mettere? I tuoi vestiti?” domandò l'uomo, disorientato ma divertito. “Siamo a casa tua, una maglietta ce l'avrai da qualche parte” sentì Emma rispondergli dal bagno. La risposta era ovvia, ma Francesco a tutto questo non era abituato, nemmeno con Livia nei tempi migliori e più felici del loro matrimonio: un po' era colpa sua e della sua rigida educazione militare, un po' anche lei precisina e con delle barriere che forse, col senno di poi, non erano proprio normali tra marito e moglie.
“Comunque siamo anche a casa tua” precisò, quando Emma tornò in fretta a sedergli di fianco sul divano, a gambe incrociate, passandole la birra “vorrei che questo fosse chiaro. Ero serissimo prima” “Lo so” rispose Emma, sorridendogli sommessamente “e ti ringrazio. Ma non sarebbe meglio rodarci un po'?” “E perché? Se non sarai qui tutto il tempo, quando stiamo insieme dobbiamo recuperare, non credi?” “Poi ci pensiamo...” Emma non era sicura che avrebbe ottenuto dall'università il permesso di allargare il progetto come avrebbe voluto, trascorrendo più tempo in Alto Adige che altrove, era invece sicura del contrario, che avrebbero contestato il budget e limitato il suo raggio d'azione; ma in quel momento non ci voleva pensare, voleva solo godersi quelle ore che avevano prima che il treno la riportasse a Milano. Senza bisogno di ulteriori spiegazioni, Francesco comprese quell'incertezza, però era talmente positivo in quel momento che anche l'incertezza poteva trasformarsi in possibilità. “Un brindisi a noi?” propose. “E alla palafitta...è rinata dalle ceneri come una fenice” rispose Emma, scacciando presto ogni malumore e tornando a sorridere, tintinnando la sua bottiglia con quella di Francesco. “E non sai la novità...” “Quale?” “L'ho comprata...” “Cosa?” Le migliorie che aveva apportato non sarebbero mai state approvate dal Comando Provinciale, spiegò, e siccome era determinato a non lasciare quel posto, si propose direttamente come compratore: con i tempi che corrono, la sua proposta venne accettata in un battito di ciglia. Sarà stata pure una stupidaggine ma per Emma era una notizia bellissima: da che lo conosceva, aveva sempre associato Francesco al lago e a quella casetta che non era più sgangherata; sapere che questo vincolo si era consolidato la rassicurava, infondendole speranza che anche i suoi progetti sarebbero potuti diventare qualcosa di più che un buon auspicio.

Emma aveva la sensazione di essersi svegliata dopo un sonno lungo mesi, tanto profondamente aveva dormito: sarà stato il tepore del piumone, la spossatezza di tutta quell'attività fisica che non faceva da tempo, il calo della tensione dopo le forti emozioni, il profumo di Francesco che dormiva al suo fianco proprio come lo aveva immaginato tante volte...tutte ipotesi plausibilissime. Aveva sentito Francesco alzarsi prima di lei e farfugliare qualcosa al suo orecchio mentre era ancora assonnata quindi non aveva capito molto, solo qualche minuto più tardi si era accorta che era uscito, quando il letto aveva perso il suo tepore nel lato lasciato vuoto e sulla casa era calato il silenzio. Così si alzò: era sufficientemente riposata e aveva bisogno di una doccia. Dopo aver preso il necessario dal suo borsone, poggiato ai piedi del letto, notò un bigliettino sul frigo, di fianco alla porta del bagno: Non sono sicuro che tu mi abbia capito, dormigliona...sono sceso in paese a fare la spesa, il frigo è vuoto. Ti amo, Francesco. Dopo un sussulto al cuore per quel “ti amo” su carta e penna, Emma aprì l'elettrodomestico e in effetti, birra a parte, le sue scorte erano insufficienti, della marmellata, del burro e dello speck mangiati il giorno prima non erano rimasti che rimasugli; nemmeno il resto dei pensili della cucina se la passava tanto meglio, pressoché vuoti al di fuori di una confezione aperta di pane in cassetta, uno di pasta – anche questo smezzato, del cibo in scatola, caffè, zucchero e sale. Alzò gli occhi al cielo e scosse la testa: poteva aver messo un bell'abito alla palafitta, ma le vecchie abitudini erano rimaste intatte.
Mentre era in bagno, sentì dei passi percorrere il pontile e la terrazza, per poi aprire la porta a vetri dell'ingresso. “Emma?!” “Sotto la doccia!” Si aspettava – o forse sperava – di vederlo entrare da un momento all'altro, ma la giovane convenne che per Francesco probabilmente era davvero troppo, non doveva pretendere da lui che si sciogliesse tutto in una volta.
“Ne hai ancora per molto? Posso fare il caffè?” le domandò l'uomo, mentre sistemava la spesa nei ripiani: era la prima volta, da quando si era ritrasferito, che faceva una spesa decente, che anche la cassiera del supermercato, a vederlo con il carrello pieno, era rimasta di stucco. Gli piaceva cucinare e mangiare bene, ma vivendo da solo si trovava spesso a non avere appetito e a mangiare quello che capitava, senza gusto o inventiva, giusto per nutrirsi. Appena la giovane gli diede il via libera per far partire la moca si attivò per preparare la colazione. “Questa mattina abbiamo il pane fresco e persino yogurt e burro da un pastore che li porta in paese tutte le settimane dalla sua malga” disse, ma le parole gli morirono in bocca quando vide Emma uscire dal bagno; si sentì stupido a quella reazione, perché razionalmente sapeva che era lì e altrettanto razionalmente aveva passato le ultime 20 ore in un letto con lei, entrambi ben più svestiti, ma trovarsela di fronte avvolta dal un telo e un turbante in testa, la pelle ancora leggermente umida, mandò in tilt il suo sistema nervoso...e forse pure qualcos'altro.
“Buongiorno!” lo salutò Emma, posandogli un bacio leggero sulle sue labbra. Era un bacio davvero innocente, ma per Francesco era sempre terribilmente sensuale...a breve avrebbe avuto bisogno lui di una doccia, preferibilmente a due. “Buongiorno! Che buon profumo...” la lusingò, scendendo a baciarle la spalla nuda e imperlata da qualche gocciolina d'acqua che ancora scendeva dalla nuca e dai capelli raccolti nel turbante. “Per forza, io non uso prodotti scrausi come qualcun altro...” rimbeccò Emma con un tono fintamente polemico “mi sa che oltre alla lista delle cose da fare insieme devo fare una lista di cose da migliorare nella tua vita” Non che non avesse un ottimo profumo addosso, ma in doccia aveva trovato – e nemmeno quello la stupiva più di tanto – un doccia shampoo, tipico degli uomini.
“Non ce n'è più bisogno...tutto quello che mi serviva ce l'ho qui davanti a me” dichiarò, rubandole l'ennesimo bacio con quella frase ad effetto: si lamentava sempre di non riuscire ad esprimere quello che sentiva, di non essere bravo con le parole, ma Emma notava che con lei, solo con lei, era estremamente capace. Emma sentì le mani di Francesco sulla schiena e manovrare come poteva, mentre era ad occhi chiusi e con la faccia stampata sulla sua, con l'asciugamano. “Non ci provare!” lo sgridò, ridendo, staccandosi e sistemando di nuovo il telo. “Ma tanto nevischia, non possiamo fare altro oggi” “Ti ricordo che ho vissuto per 6 mesi in montagna, so benissimo che il tempo cambia in fretta”
Ed era vero. Quando si era alzata, quella mattina, era una giornata serena, con qualche nuvola ma niente che lasciasse presagire l'acquazzone misto a neve che si stava abbattendo sul lago e aveva persino fatto rifugiare Argo, che non schiodava mai dalla sua cuccia all'esterno, all'interno; era sicura, quindi che, tempo di terminare la colazione, il sole sarebbe spuntato di nuovo e avrebbero potuto passare del tempo all'aperto. “Che vuoi fare?” “Pensavo ad una passeggiata nei dintorni così poi nel pomeriggio mi rimetto a lavorare” “Nn nn...non se ne parla” “Se ne parla eccome, lunedì devo presentare la mia relazione al dipartimento e non posso tardare...anzi, devo anche prendere i biglietti per il treno” “Ti porto io, facciamo prima” Ma Emma non voleva: c'era il rischio che non le avrebbero approvato il piano di ricerca o lo avrebbero approvato solo in parte, non gli avrebbe consentito di sprecare permessi e ferie che potevano tornare loro utili in un altro momento, magari per andare a farle visita in qualche altra località di montagna che non fosse l'Alta Pusteria. Francesco accettò la sconfitta, ma solo perché di fronte al buon senso di Emma non si poteva controbattere alcunché.
Fecero colazione e come Emma aveva previsto, il sole era tornato a rispendere sul lago e sulle montagne e poterono uscire a passeggiare, percorrendo il sentiero che costeggiava il corso del Rio Braies, il fiumiciattolo che dal lago scendeva verso valle a confluire nel Rienza, l'inizio di una lunga strada che avrebbe portato quelle acque a sfociare nel Mediterraneo. Emma rimaneva sempre affascinata da quelle informazioni, piccole ma straordinarie. “Se tutti le conoscessero” disse a Francesco mentre gliele raccontava “forse vivremmo in un mondo più umile”
Mentre percorrevano il sentiero, Francesco prese la mano di Emma per aiutarla ad affrontare un tratto leggermente dissestato, senza lasciarla più: i due si guardarono, complici, consapevoli che quello che stavano vivendo, pur nella sua semplicità, aveva del miracoloso. Tutto aveva provato a mettersi contro di loro perché l'inevitabile non accadesse, e ad un certo punto si erano convinti anche loro che fosse giusto così, che non doveva accadere e pazienza. Ma alla fine, con un colpo di mano, avevano ribaltato la situazione, e permesso all'inevitabile di compiersi, finalmente.
Arrivati alle porte della valle, in una piccola frazione con poche case e l'immancabile chiesa dall'inconfondibile tetto rosso, era ora di fare dietro front per mettere qualcosa sotto i denti dopo la lunga camminata. “Ma qui non c'è quel ristorante...come si chiamava?” domandò Emma, guardandosi intorno “Dolomiten o qualcosa di simile...” In mezzo alle poche case non doveva essere difficile individuarla: certo erano tutte uguali, bianche e marroni, con il legno brunito dal tempo e dalle intemperie, i fiori piantati di nuovo alle fioriere dei balconi e le scritte murali che ne indicavano la proprietà o l'uso, ma non erano molte, avrebbe trovato in fretta quella che cercava. E infatti eccola lì, quasi riversa sul letto del fiume la Gasthof Dolomiten, la trattoria che avevano frequentato spesso (con Francesco, un paio di volte corrispondevano già al concetto di spesso) prima della sua partenza; tornarci, finalmente da coppia, sarebbe stato bello ma sicuramente strano.
“Ma è la signorina Emma?” domandò l'oste, vedendoli entrare mano nella mano. Toni era un omaccione nerboruto di mezza età ma a cui lo strabismo toglieva tutto il vigore e rendeva un po' macchietta, specialmente quando si avventurava a parlare italiano con quel suo marcato e inconfondibile accento altoatesino. Emma, vergognandosi molto, doveva sforzarsi di restare seria: era un brav'uomo, un ottimo cuoco e voleva a tutti un gran bene alla faccia di chi dice che in Alto Adige la gente è acida e inospitale. “Eh già” sospirò la giovane, facendo spallucce. “Io dicefo sempre: ma qvanto si tecitono qvesti due a mettersi insieme?! Es war so klar!”
Francesco allora si chinò leggermente verso Emma per chiederle, ironicamente, se ci fosse qualcuno in quell'angolo delle Alpi che non si fosse accorto di loro. “Tu mio caro” rispose lei, poco ironicamente “solo tu”
Era il caso di dirlo: colpito e affondato.

Dopo aver fatto il pieno di energie con i manicaretti di Toni, salutarono l'oste assicurando che non avrebbero fatto passare un altro anno prima di tornare a trovarlo. All'uscita, prima di riprendere il cammino in salita verso il lago, si fermarono a riempire le loro borracce ad una fontanella del piccolo parco giochi della frazione. In quel momento, una gocciolina di pioggia si andò a posare proprio sul viso di Emma, e poi un cristallo di neve colpì la mano di Francesco, e poi un altro e un altro ancora, finché quel gocciolio si tramutò di nuovo in un forte acquazzone misto a neve. Fortuna che avevano con sé le giacche a vento, che Francesco, previdente e apprensivo, aveva portato nonostante le rimostranze di Emma. A metà strada la neve prese a scendere più copiosa rispetto alla pioggia, rallentandoli. Lasciarono i sentieri non battuti alle loro spalle, preferendo la strada asfaltata nella speranza di poter fermare qualcuno che li portasse su in autostop, ma nessuno – ammesso che con quel tempo qualche anima pia fosse passata per quelle strade – avrebbe preso in auto due passanti bagnati come pulcini.
“In cosa consiste questa relazione?” domandò Francesco, che aveva radunato i loro vestiti bagnati per metterli in lavasciuga, una volta tornati  a casa. Emma non aveva perso tempo: messi dei panni asciutti, si sistemò in men che non si dica sul divano, concentratissima sul portatile. “È una valutazione di ciò che c'è da fare, perché, come, un bilancio preventivo, rapporto costi/benefici...” “Una noia mortale, insomma” da comandante della stazione forestale, quel genere di incombenze doveva sbrigarle anche lui, ma ne avrebbe fatto volentieri a meno. “Già” sbuffò Emma, stiracchiandosi un po' “ma indispensabile per approvare la ricerca”
Di ritorno dal bagno, Francesco si accomodò di fianco a lei, con un libro in mano, ma seppe resistere davvero poco concentrato e in silenzio. Approfittando delle gambe di Emma poggiate sulle sue, iniziò ad accarezzarle con nonchalance, fingendo di essere ancora assorto nella lettura, e poi risalì le gambe con le mani e le labbra. “Che fai?! Basta” lo esortò, quando ormai era a passato a baciarle braccia e collo, finendo inesorabilmente col distrarla. “Sto cercando di aiutarti rendendo la cosa più divertente...” “Se proprio...se proprio vuoi darmi una mano” disse, spingendo via il compagno faticosamente “aiutami a trovare un modo per poter stare qui seguendo anche i lupi che si sono dispersi dall'Alto Adige”
Sulla carta, il modo c'era: avvalersi di più ricercatori, e di tanta tecnologia; ma c'era un budget che l'università aveva stabilito e conoscendo i suoi superiori erano ben più propensi ad approvare progetti che avrebbero speso meno; era stata una fortuna che Carlo l'estate prima l'aveva messa in contatto con degli sponsor per i suoi progetti pressoché a scatola chiusa, ma secondo i suoi calcoli non sarebbero bastati. “Fammi vedere un po'” furono le ultime parole che Emma sentì rivolgersi da Francesco per le seguenti 2 ore, trascorse immerso nella lettura del progetto, per passare poi al suo computer e infine, attaccandosi al telefono che sembrava un operatore di telemarketing. “Habemus papam” dichiarò, dopo l'ennesima telefonata. “Sarebbe a dire?” “Mi sono ricordato di avere qualche conoscenza nella polizia cantonale della val Monastero dai tempi delle forze speciali e mi hanno indirizzato ai forestali e ai guardiacaccia del posto” “La Val Monastero?” “O Val Mustair, è praticamente ai confini con Livigno e Bormio” “Sì lo so questo...studio le mappe da mesi” disse Emma, guardandolo in tralice “ma non capisco come possano esserci d'aiuto” “Un lupo non sta fermo in solo posto, dovresti saperlo. È anche nel loro interesse tenerli sotto controllo...possibilmente entro i nostri confini...e per farlo ti darebbero mezzi e uomini completamente gratis. Tu e Giorgio dovreste solo andare da loro di tanto in tanto per coordinare le attività” “Non ci credo...sei serio?” chiese, faticando a contenere la sua gioia. “Serissimo...se ti approvano il progetto bisognerà solo contattare i carabinieri forestali di zona e informarli” Francesco non aveva dubbi che le avrebbero dato una mano e non solo perché c'era lui di mezzo, ma anche perché nei posti di confine, come da loro, collaborare con i colleghi d'oltre confine era una prassi consolidata. “Ma accettano così...a scatola chiusa?” “Beh no...aspettano la relazione appena l'avrai finita ma è praticamente un pro forma”
Emma si buttò al collo di Francesco che stava in piedi vicino alla finestra per coprirgli la faccia di baci ma, perdendo entrambi l'equilibrio, finirono sul letto. “Ma tu non avevi una relazione da finire?” le domandò sarcastico e gli occhi di Emma sembrarono letteralmente prendere fuoco “Va beh, una piccola pausa me la merito anche io dopo 2 ore...”

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