Like a sunrise

di LyannaAnomis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Feels like drowning ***
Capitolo 2: *** Back to the light ***



Capitolo 1
*** Feels like drowning ***


Capitolo1

1. Feels like drowning

Era una giornata maledettamente troppo calda per essere solo metà marzo, anche considerando che erano le tre e mezza del pomeriggio. Ginevra si spostò una ciocca di capelli umidi di sudore dalla fronte e, imprecando a mezza voce contro il sole cocente, si sbottonò la giacca che era decisamente troppo imbottita per quella giornata. Aggiustò la presa sullo zaino che sembrava essere diventata una zavorra nel mentre e fece un balzo indietro quando una signora che spingeva un carrozzino le corse davanti, cercando in tutta fretta di raggiungere la fermata prima che arrivasse l’autobus.



Ginevra borbottò ancora, poi tirò fuori il cellulare dalla tasca per controllare l’ora: tra dieci minuti partiva il loro autobus, dovevano fare ancora un quarto d’ora di camminata per raggiungere la loro fermata e Giulia non si era ancora fatta viva.

Non che fosse una novità il suo ritardo, infatti ormai Ginevra non ci faceva neanche più caso, e non poteva nemmeno biasimarla: Giulia era una donna sola che lavorava e già solo che riuscisse ad arrivare abbastanza puntualmente a scuola era un segno di quanto importante fosse per lei.

A Ginevra non dava fastidio, davvero, anche perché poteva anche lei uscire più tardi di casa di qualche minuto se avesse voluto non aspettare, non che lo avrebbe mai fatto a meno che non fosse stata costretta, il problema era il caldo.

Non lo aveva mai sopportato, la faceva sentire stanca e pesante, oltre a farla diventare disgustosa a causa del sudore. Aveva sempre preferito il fresco inverno, perché, come ripeteva sempre a chi glielo chiedeva, anche con il freddo potevi coprirti abbastanza da riscaldarti. Ma non importava quanto spoglia fossi, rischiavi sempre di scioglierti con il caldo in estate.

Scrollò la testa, infastidita, scostando con il dorso della mano i capelli che le si erano appiccicati sulla fronte. Li sentì ruvidi e stopposi, come se fossero sporchi, ed emise un gemito disgustato alla sensazione.

Un uomo le lanciò un'occhiata incuriosita prima di spostare lo sguardo verso la chiesa alle spalle di Ginevra e farsi frettolosamente il segno della croce. Ginevra fece un passo indietro per far passare due ragazzi che camminavano nella direzione opposta e si appoggiò al muro della chiesa, chiudendo gli occhi e sospirando.

Per qualcuno che non se li lavava regolarmente come avrebbe dovuto, Ginevra odiava la sensazione di avere i capelli sporchi. I suoi poi erano particolarmente sfibrati e rovinati a causa delle costanti tinte a cui li sottoponeva e anche se faceva attenzione a comprare i prodotti migliori per curarli non sempre trovava la forza per lavarli.

Oggi però era stato un buon giorno, se li era lavati e spazzolati e i suoi capelli, ora tinti in un rosso cupo, le erano sembrati brillanti, morbidi e profumati. Per quanto poco importante fosse sembrato, l'aveva resa particolarmente felice.

Ora invece erano appiccicaticci a causa del sudore e il suo umore stava precipitando. Odiava il modo in cui la più piccola sciocchezza la faceva intristire, ma oramai, dopo anni, ci si era abituata e riusciva a tenere sotto controllo i suoi pensieri.

Scosse la testa per rischiarirsi le idee e si frugò in tasca per recuperare il cellulare e ricontrollare l'ora, quando con la coda dell’occhio vide una donna dai lunghi capelli castani raccolti in una coda alzare verso di lei una mano in segno di saluto. Giulia.



Ginevra si sforzò di sorridere e ricambiò il cenno e strinse la presa su una bretella dello zaino con l’altra mano. Giulia si fermò ansimante davanti a lei, con le mani poggiate sulle ginocchia, lo zaino che le ricadeva dalla spalla. Era evidente che doveva aver corso nel tentativo di arrivare in orario. Lanciò a Ginevra uno sguardo pieno di scuse.

«Scusami tanto, ho fatto il prima possibile»

«Non preoccuparti, tutto bene a casa?»

«Sì, questa mattina ho visto mio padre, sai? Poi la spesa, la casa…» iniziò a raccontare Giulia.

Ginevra sorrise, questa volta per davvero, e annuì ascoltando il racconto dell’amica.

Le piaceva, Giulia. Probabilmente era l’unica vera amica che avesse ed era contenta di averla incontrata, due anni fa, quando aveva iniziato la scuola. Si sentiva a suo agio con lei, come se davvero fosse accettata e non parlava con lei solo perché compativa la strana donna silenziosa e timida che non apriva bocca con nessuno.

Giulia aveva trent’anni, era single ed era una maniaca del controllo quando si trattava della pulizia della sua casa, la maggior parte delle volte faceva ritardo proprio per questo, oltre che al lavoro.

Camminarono a passo svelto verso la loro fermata, tagliando attraverso il parco pullulante di gente anche a quell’ora, passando il tempo o chiacchierando o in un silenzio che Ginevra temeva fosse imbarazzante. Aveva sempre avuto il terrore di sembrare noiosa, una compagnia sgradevole, ma tentò di ricordarsi che se Giulia era lì con lei in quel momento, se aveva scelto di prendere l’autobus insieme invece che da sola, voleva dire che apprezzava la sua presenza.

Ginevra prese un respiro tremolante e sorrise debolmente alla sua amica che lo prese come un invito a ricominciare a parlare.

«Come va con disegno? Io ho quasi finito l’ultimo, quasi non riesco a crederci, mi sembravano infiniti!» disse scuotendo la testa e facendo ondeggiare la lunga coda castana di capelli. Quando le ricaddero sulla spalla, li scostò con un gesto secco della mano.

« Io devo ancora fare i plat e colorare tutti i figurini. Sono esausta e devo studiare anche le altre materie, non so come fare » sospirò Ginevra. La morsa dell’ansia tornò prepotentemente a stringerle lo stomaco, questa volta alimentata dallo stress. Si sentì nauseata e si porto una mano sullo stomaco come se potesse migliorare le cose solo con un tocco.

« Ma smettila, sei bravissima in tutto, persino disegno, anche se non vuoi ammetterlo » ribatté Giulia appurando con una veloce occhiata che l’autobus fermo alla fermata, la Navetta B, fosse il loro prima di salire sul mezzo e andando a sedersi ai loro soliti posti. A quell’ora la navetta era quasi sempre deserta e le due donne potevano sedersi dove si sedevano sempre, una davanti all’altra.

Ginevra si accomodò e appoggiò la testa contro il vetro, lo sguardo perso a guardare l’edificio grigio scuro davanti al bus. Sapeva, razionalmente, che era dannatamente brava negli studi, si sforzava sempre di dare il massimo e i buoni voti che otteneva erano la prova dei suoi sforzi. Solo che la parte irrazionale continuava a dirle che niente di quello che faceva fosse mai abbastanza e che doveva sempre sforzarsi un po’ di più di essere perfetta. Che era mancante in così tante cose che doveva controbilanciare quantomeno negli studi.

Sobbalzò quando una mano apparve nel suo campo visivo, sventolando con forza.

Ginevra spostò lo sguardo su Giulia, inebetita, e vide la sua amica ridacchiare di gusto. Arrossì violentemente nell’accorgersi come si fosse completamente estraniata, perdendo il contatto con la realtà e ignorando Giulia, anche se la donna non sembrava essersela presa.

« Tu ti lamenti con disegno quando almeno un sette o sette e mezzo lo prendi, mentre io sto impazzendo con matematica. Ancora non ci posso credere che ci è capitata come esterno quest’anno. Proprio a noi! » Giulia fece una smorfia disgustata e finse un brivido che le fece tremare tutto il corpo.

Ginevra sorrise sinceramente divertita; a lei la matematica piaceva ed era anche la migliore della classe in quella materia. Il professore poi era fantastico, aveva un modo di spiegare incredibile ed era molto divertente.

Però capiva il punto di vista di Giulia che aveva iniziato il corso di fashion design, per quello che pensava fosse essenzialmente taglio e cucito, e si era ritrovata con la geometria analitica.







L’autobus finalmente partì ma le due donne quasi non se ne accorsero per quanto erano assorte nelle loro lamentele nei confronti della scuola. Il mezzo scivolò sull’asfalto lungo il lungomare di Bari, e anche da lì dentro Ginevra riusciva a sentire l’odore salato del mare. Era il suo odore preferito e per un momento smise di parlare con Giulia per rubare un’occhiata al mare, quel giorno calmo e di un profondo blu. Amava il mare, guardarlo le dava sempre una sensazione di tranquillità, soprattutto quando non era agitato ma piatto come oggi. Per quanto Ginevra odiasse il caldo, trovava accettabile l'estate per l'unica ragione di poter andare a immergersi nelle acque che amava tanto.

«Fermata!» strillò all'improvviso Giulia, che come lei stava guardando fuori dal finestrino, ma dalla parte giusta, quando notò che si stavano avvicinando dove dovevano scendere.

Giulia si alzò di scatto e, dopo essersi scontrata con alcune persone che era salite durante la corsa, si avventò sul pulsante di prenotazione della fermata, premendolo con più forza del necessario.

Ginevra balzò in piedi per seguire l'amica e imprecò nel vedere che erano così vicine alla loro fermata che probabilmente l'autobus non avrebbe potuto frenare in tempo.

«Qui?» chiese l'autista all'improvviso cercando di farsi sentire al di sopra del rumore provocato dal mezzo e dal chiacchiericcio delle altre persone.

«CHE?» urlò Giulia di tutta risposta facendo scattare la testa verso di lui.

«DEVE SCENDERE QUI, SIGNORA?» ripeté l'uomo indicando con un dito la fermata.

«Sì, grazie!»

L'autobus si fermò di scatto, decisamente in modo troppo brusco anche a giudicare gli insulti che volarono verso l'autista, ma Ginevra e Giulia sospirarono di sollievo mentre mettevano piede sul marciapiede.



Il Santarella era una struttura imponente, almeno lo era per Ginevra. Togliendo il muro imbrattato dai graffiti, ma quale scuola non li aveva?, era situata davanti a un parchetto che Ginevra attraversava ogni giorno per arrivare a scuola e si trovava a pochi passi dalla spiaggia di Pane e Pomodoro. Infatti quando era andata a iscriversi quasi due anni prima ne aveva approfittato per andare a fare un tuffo, tanto erano vicine. La spiaggia non era il massimo, per tanti motivi, oramai lo sapeva ma aveva anche tanti benefici come la vicinanza o gli addetti di pulizia che la rastrellavano ogni giorno nel mese estivo. Ma, soprattutto, era stata la sua infanzia, da piccola i suoi genitori l'avevano sempre portata lì e oramai, a ventiquattro anni suonati, ci era affezionata.

La scuola, il primo giorno in avrebbe dovuto attendere, le era sembrata spaventosa. Una specie di mostro che l'avrebbe divorata appena ci avesse messo piede dentro e la sua ansia era stata così forte che quasi era scappata a casa. Aveva aspettato sul ciglio del portone e solo dopo aver visto altre ragazze entrare aveva fatto lo stesso. Nell'atrio si era bloccata nuovamente, indecisa e allo stesso tempo rapita da un display alla sua sinistra che mostrava ammiccante foto di passate sfilate con abiti cuciti a mano dalle studentesse della scuola.

"Potrò farlo anche io, un giorno?" si chiese con una lieve eccitazione mentre sullo schermo appariva una tuta lamé aderente con le gambe svasate. Raffaella Carrà, pensò ottenebrata per un secondo hanno ricreato un vestito di Raffaella Carrà.

Alzò lo sguardo, staccando controvoglia gli occhi dai capi che sullo schermo sembravano perfetti, solo per posarlo su un nuovo vestito, questa volta dal vivo.

L'abito era rinchiuso in una teca di vetro, in esposizione. Sembrava antico, di un viola chiaro e a balze bianche sul davanti. Era bellissimo.

Scuotendo lievemente la testa, Ginevra ritornò al presente. Lanciò un'occhiata fugace al vestito che aveva imparato fosse una replica di quello famoso di Lina Cavalieri. Lo trovò magnifico come la prima volta che l'aveva visto.

«Buonasera!» salutò Giulia e Ginevra le fece subito eco.

Mario, il proprietario del piccolo bar interno alla scuola, e Annalisa, una delle collaboratrici scolastiche, risposero al saluto con un sorriso frettoloso prima di tornare a guardare alcuni fogli su cui erano chinati.

Le due donne svoltarono a sinistra e raggiunsero la loro aula. All'interno alcune ragazze erano già sedute al banco e chiacchieravano tra loro; Sara, la più giovane tra loro a sedici anni e la più brava a disegnare, aveva tra le mani un gessetto e stava tratteggiando un cuore spaventosamente realistico sulla lavagna.

La prof non era ancora arrivata, quindi Ginevra e Giulia si sedettero con calma al loro posto e salutarono le loro compagne. Silvia, la più grande della classe con i suoi sessanta anni, le salutò con affetto e offrì loro di prendere un caffè.

«Dopo, magari. Ne ho già preso uno prima di venire qui» disse Giulia sventolandosi con una mano.

Silvia guardò Ginevra con gentile pazienza in attesa di una sua risposta.

«No, grazie. Fa troppo caldo per il caffè» rispose Ginevra con voce timida.

Le piaceva Silvia, era bello poter parlare con qualcuno che non fosse solamente Giulia, e anche se non la considerava propriamente amica le piaceva come Silvia la trattava, non con condiscendenza o compassione, ma come si trattano normalmente due persone che si conoscono. Non che Ginevra venisse trattata con condiscendenza spesso, era solo quello che la sua mente pensava ogni volta che qualcuno le rivolgeva la parola. O almeno sperava.

Il suo cervello, velenoso, le ricordò che Silvia la trattava bene solo per tenersela buona visto che copiava da lei matematica e inglese. Ginevra scosse la testa, non poteva, non doveva pensare sempre al peggio. Doveva ricordare di essere positiva a volte.

Non aveva bisogno di un caffè, ma di un buon tè, per rilassarsi.

Il pensiero del tè le ricordo che il giorno dopo, che era sabato, avrebbe dovuto lavorare tutto il giorno. Con un gemito addolorato batté la fronte sul banco producendo un rumore sordo che richiamò l'attenzione di Giulia e Silvia, impegnate a parlottare, che si girarono e la guardarono come se fosse pazza.

Che diamine.

Proprio quando Giulia stava per chiederle spiegazioni la professoressa entrò richiamando l'ordine.



Le ore passarono in fretta tra interrogazioni e spiegazioni, Ginevra stessa venne interrogata in storia prendendo un buon voto anche se, come sempre, non si sentiva pienamente soddisfatta della sua "performance". Come sempre aveva finito per balbettare o mangiarsi le parole, non dando il massimo. Lei sapeva che poteva fare di meglio ma l'angoscia si impadroniva di lei e la lasciava, letteralmente senza parole. L'unica cosa che poteva consolarla era che i professori ormai avessero compreso il suo problema e le mettevano un buon voto quasi sulla fiducia e su quel poco che carpivano dalle sue parole.

Ma anche questo era macchiato da qualche pensiero oscuro che le ricordava che ogni voto decente preso era non meritato.

Scosse la testa, pensare a certe cose non le faceva bene. E poi, come le diceva sempre la sua psicologa, doveva pensare positivo, vedere la luce in fondo al tunnel. Non doveva lasciarsi schiacciare dal pessimismo. Aveva studiato duramente per ottenere quei voti, se li era meritati e al diavolo la sua depressione.

Ritornando alla realtà, iniziò a sentire Giulia e Silvia chiacchierare mentre preparavano la loro roba per tornare a casa. Diede uno sguardo al resto della classe e notò che molte erano andate via o erano in procinto di farlo. Si alzò lentamente dal suo posto e rimise le sue cose nello zaino, quando ritornava alla realtà da una dei suoi momenti "no" si sentiva sempre un po' spaesata. Ginevra le chiamava le sue "turbe mentali" anche se era abbastanza sicura che non avrebbe dovuto chiamarle in quel modo e che le sue dottoresse si sarebbero quasi certamente arrabbiate.

Giulia le diede di gomito così improvvisamente che Ginevra sobbalzò, tanto era ancora persa nei suoi pensieri. Giulia ridacchiò alla reazione e le indicò la porta con un cenno della mano.

«Che dici andiamo? L'autobus non ci aspetterà mica»

Ginevra annuì con un risolino imbarazzato e la seguì fuori dalla scuola.

Doveva ritornare con la mente al presente, subito, o come minimo si sarebbe fatta investire da una macchina.

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Capitolo 2
*** Back to the light ***


capitolo 2

2. Back to the light

Era un giorno no.

Ginevra era nel suo letto, avvolta tra le lenzuola che la ricoprivano come un bozzolo protettivo, nonostante il caldo. Le finestre erano chiuse, le tende tirate e Ginevra era immersa nella più completa oscurità. Le lenzuola erano umidicce dal sudore e spiacevoli al tatto, eppure le teneva strette a sé, come se fossero uno scudo contro quello che le stava accadendo.

Si sentiva spenta, scarica, come se tutte le ore della notte precedente non le avesse passate dormendo, ma completamente sveglia a fare il più faticoso dei lavori che le aveva prosciugato le energie.

Si rendeva perfettamente conto che doveva alzarsi e iniziare a prepararsi per andare a lavoro, ma il solo pensiero le faceva venire la nausea. Il pensiero di dover fare colazione le faceva venire la nausea, ma sapeva che avrebbe dovuto mangiare qualcosa per poter prendere le sue medicine.

Sapeva molte cose in quel momento, la cosa più importante era che avrebbe dovuto prevedere questo momento visto i continui pensieri negativi del giorno precedente.

Ciò che non sapeva era il perché.

Sapeva che doveva esserci un motivo, che qualcosa era successo per farla sentire in quel modo, ma per quanto ci provasse non riusciva a capire. Il fatto che il suo cervello sembrasse avvolto nella melassa e fosse totalmente incapace di pensare razionalmente non aiutava.

Avrebbe voluto chiamare la dottoressa Tullio e spiegarle cose le stava succedendo, ma era troppo presto e comunque avrebbe dovuto passare l'intera giornata a lavorare, quindi non aveva materialmente il tempo per farlo.

Alcune lacrime le scesero lungo le guance, lentamente, quasi in segno di sconfitta e fu proprio quello a farle salire un moto di rabbia.

Rabbia verso sé stessa, verso la situazione in cui si trovava e verso l'ingiustizia del mondo che l'aveva afflitta con quella specie di cervello marcio che si ritrovava.

Se nessuno le dava forza, si sarebbe fatta forza da sola.

Proprio in quel momento sentì un leggero bussare, poi la porta si aprì. Il viso di suo fratello fece capolino dalla porta con un'espressione corrucciata e preoccupata.

«Gwynna? Non lavori oggi?» chiese piano, la voce bassa per non disturbare il silenzio che permeava la stanza.

La domanda aleggiò nella stanza per qualche minuto, senza risposta.

Ginevra sapeva che aveva ormai due possibilità: lasciare in sospeso quello che ormai entrambi sapevano stesse accadendo e fare finta che andasse tutto bene o lasciargli sapere la verità.

Quello era Marco, però. Una delle poche persone che il suo cervello accettava come "sicura". Sapeva qual'era la sua scelta.

Un piccolo singhiozzo, a stento trattenuto, ruppe quello che ormai sembrava divenuto un muro insormontabile.

«Cristo, Ginevra» disse Marco richiudendo la porta dietro di sé e con grandi falcate la raggiunse, sedendosi sul bordo del letto, al suo fianco.

Le districò dal lenzuolo liberandole il viso e prese ad accarezzarle piano i capelli, arrotolandosi qualche ciocca intorno al dito. Ginevra singhiozzò più forte e si aggrappò alla sua coscia con forza, come una bambina che si rannicchia sul grembo materno.

«Non lo so» bisbigliò anticipando la domanda del fratello «Non so perché sto così oggi»

Marco sospirò passandosi una mano tra i corti capelli castani e rimase in silenzio per qualche momento, strofinandosi il mento dove cresceva una rada barba. Poi con un gesto brusco le strappò le lenzuola di dosso.

«Forza, vai a prepararti o farai tardi» disse ignorando i deboli lamenti della sorella e afferrandola per un braccio nel tentativo di farla alzare.

«Non ci riesco» gemette Ginevra tentando di lottare debolmente contro di lui, fallendo miseramente. Non poteva vincere contro di lui, era troppo più forte di lei, ma questo non le avrebbe impedito di provarci.

Sembrando seccato da quella stupida scaramuccia Marco si piazzò davanti a lei a gambe larghe e braccia incrociate, sbuffando in un modo esagerato che avrebbe voluto farla sorridere.

Ginevra strinse le labbra e lo imitò alzandosi a sedere e stringendo le braccia al petto in modo protettivo.

Si guardarono in silenzio per un lungo momento prima che Marco sbottò dicendo: «Cosa vuoi fare, marcire in questo letto? Almeno a lavoro potrai distrarti, vedrai che ti sentirai meglio»

Ginevra rimase cocciutamente al proprio posto per qualche altro istante prima di sospirare e scendere dal letto, lentamente, spostando una gamba alla volta, nel tentativo inutile di non far vincere Marco.

Cosa completamente inutile perché negli occhi marroni, così simili a quelli di lei, di Marco si accese subito una scintilla di vittoria, consapevole di esser riuscito a disinnescare la "bomba". Per il momento.

Ginevra non stava ancora bene, non lo sarebbe stata per un po', ma almeno poteva provare a far finta di starci, ora.

Marco si diresse verso la porta, esitò un momento e si girò all'ultimo con un sorrisetto idiota sul viso.

«Bello il pigiama di Naruto, comunque»

«Esci subito dalla mia stanza»





Sciacquare. Strofinare. Risciacquare.

Ginevra si sentiva ancora la mente annebbiata ma i gesti che erano ormai diventati automatici la tenevano ancorata alla realtà.

Erano passate ormai delle ore da quando aveva cominciato a lavorare e oramai aveva perso il conto di quanti ordini aveva preso e quanti bicchieri aveva lavato. Allungò una mano per prendere il prossimo ma incontrò solo aria. Quello che aveva messo a posto era l'ultimo, allora.

Sospirando si passò il dorso della mano sulla fronte e si girò ad affrontare il negozio. Il locale, vuoto in quel momento eccetto per Ginevra ed Elisa, era piccolo ma molto accogliente. C'era un solo tavolino con due poltroncine all'angolo della vetrata vicino l'ingresso e all'interno poteva ospitare solo cinque o sei persone al banco. Le mura erano dipinte di color lavanda e su uno dei muri c'era una collezione di foto dei clienti sorridenti con i loro Bubble Tea in mano.

Per un attimo fu accecata dal sole del mezzogiorno che proveniva dalla grande vetrata frontale e un rapida sbirciata all'orologio del cellulare mostrò che erano arrivate l'una meno venti.

Lo sgabello su cui era seduta Elisa emanò un rumore stridulo raschiando contro il pavimento quando la donna si spostò indietro per alzarsi.

«Ti dispiace se mi vado a prendere qualcosa da mangiare? Appena torno puoi andare a casa» disse a Ginevra con solo una leggera inflessione nel suo perfetto italiano.

Elisa era una donna bassa, magra, dai lunghi capelli corvini raccolti in una treccia e gli occhi scuri incorniciati da un paio di occhiali. Era originaria di Taiwan, ma aveva raccontato a Ginevra di come da piccola era arrivata in Italia e da allora aveva vissuto lì. Aveva adottato Elisa come suo nome italiano, anche se con chi parlava cinese aveva ovviamente mantenuto il suo vero nome.

Era sposata con un uomo Taiwanese, trasferitosi in Italia solo da qualche anno, Diego, che parlava poco l'italiano e per questo si occupava di gestire le merci e di preparare i tè.

Ginevra annuì alla richiesta di Elisa e la donna si sgranchì le braccia verso l'alto prima di aprire la porticina che divideva il bancone dal resto del negozio, ma prima di uscire si girò verso Ginevra.

«Controlla se ci sono tutti gli sciroppi e se...»

«Se nelle vaschette ci sono abbastanza boba?»

Elisa annuì con un sorriso compiaciuto e aggiunse «Cercherò di sbrigarmi» poi uscì dal negozio facendo suonare la campanella posta sopra alla porta che indicava l'arrivo dei clienti.

Ginevra si rimboccò le maniche e iniziò a scuotere i contenitori di sciroppo, cercando di capire se fossero troppo vuoti. Quassi tutti sembravano abbastanza pieni, tranne quelli al gusto mango, litchi e pesca che erano i favoriti. Si annotò mentalmente di andarli a prendere di sotto, nel magazzino, e si diresse verso il bancone dove in esposizione c'erano i vari gusti di bolle e rifornì le vaschette più vuote. Per scrupolo controllò anche le polveri che servivano per creare i tè al latte. Tutto sembrava pronto e al suo posto e Ginevra annuì con un sorriso soddisfatto, lanciò un'occhiata alla strada e quando si assicurò che nessuno sarebbe entrato nell'immediato si diresse nella stanza dietro il negozio. Era un piccolo disimpegno, a destra si trovava il bagno e verso sinistra c'era la scalinata che scendeva verso il magazzino.

Stava per mettere piede sul primo scalino quando sentì il famigliare tintinnio del campanello. Deglutì un'imprecazione, magari era solo Elisa che era tornata prima del previsto, e tornò indietro riaffacciandosi nel negozio; stampandosi sul viso un sorrisetto di cortesia per dare il benvenuto al nuovo arrivato.

La prima cosa che vide furono lunghi capelli di un biondo molto chiaro che coprivano il viso della donna con la testa china sul cellulare che aveva tra le mani.

Ginevra sentì il viso distendersi immediatamente in un vero sorriso e, per la prima volta dal giorno prima, sentì una punta di felicità farsi strada nel petto.

«Buongiorno» sussurrò timida e subito si maledisse per il tono della sua voce. Avrebbe voluto che fosse squillante, per dimostrare che era felice di vederla, elettrizzata anche, non un mormorio appena percettibile.

Lidia alzò subito la testa appena sentì il saluto e sorrise quel suo grande sorriso che le dedicava ogni volta. Che dedicava a tutti, probabilmente. Ma Ginevra si sentì comunque abbagliata da calore che emanava, come se stesse nuovamente guardando il sole.

Per Ginevra, Lidia era bellissima. Non solo per Ginevra, probabilmente, considerate le forme delicate del viso, i grandi occhi castani segnati dall'eyeliner e le labbra sottili velate sempre da del rossetto rosa.

Aveva un viso bellissimo e supponeva che anche il corpo lo fosse, almeno lei invidiava come fosse magra, con gambe lunghe e, da donna poteva ammetterlo almeno a se stessa, un gran bel sedere.

Soprattutto quando indossava i jeans aderenti.

Ginevra si rese conto di fissarla in modo vagamente inquietante e si costrinse a ritornare alla realtà; fermandosi dal scuotere la testa per liberare la mente dai pensieri per non sembrare matta, visto che nessuna delle due aveva detto qualcosa per intimare quella reazione.

Lidia socchiuse le labbra per parlare ma il suo cellulare prese a squillare e alzò una mano in segno di scusa mentre rispondeva.

Ginevra la osservò e si sentì meglio quando Lidia iniziò a fare smorfie esagerate e a lanciarle occhiate imploranti mentre parlava, in un tentativo di renderla partecipe di una telefonata che sembrava essere ridicola.

Non doveva essersi accorta di come l'aveva squadrata prima, fortunatamente, ma si chiese per quanto ancora sarebbe riuscita a evitare di essere scoperta.

Non era la prima volta che le succedeva di perdersi nel guardarla.

E si sentiva dannatamente in colpa ogni volta, era ovviamente gelosa di Lidia, di come fosse bella, magra, di come si teneva in forma e fosse attraente.

Ma Lidia non era stata altro che gentile con lei, sin dalla prima volta che era venuta al negozio. Era divertente, spiritosa e probabilmente la miglior cliente che Ginevra aveva servito.

E lei la trattava come se fosse un pezzo di carne al macello, invece di qualcuno che le faceva sempre tornare il buon umore.

Per un momento tutti i brutti pensieri che era riuscita ad allontanare grazie al lavoro, Marco aveva avuto ragione, ritornarono in piena forza facendola sentire la persona peggiore del mondo.

«Bella maglietta, padawan» ridacchiò Lidia rimettendo in tasca il cellulare.

Ginevra sbatté le palpebre un paio di volte e abbassò lo sguardo sulla sua maglietta, sorridendo nervosamente e arrossendo. Quel giorno indossava una maglietta che aveva comprato da poco, era semplicemente una t-shirt grigia con su scritto Star Wars in blu, niente di troppo appariscente come altre magliette che aveva.

Di solito non metteva niente che apparteneva a un fandom a lavoro, si vergognava e aveva paura che qualcuno la giudicasse per i suoi gusti, ma quella mattina aveva preso i primi indumenti puliti che le erano capitati.

«Non sapevo che ti piacesse Star Wars, sorella» continuò divertita Lidia con un ghigno infilando i quaderni che aveva in mano nella grossa borsa che le pendeva da un braccio.

Non la stava giudicando, si disse Ginevra impallidendo, non è da Lidia.

Non lo era? Era solo una cliente del negozio, non la conosceva, infondo. Doveva cambiare argomento.

«Cosa ti preparo oggi?» chiese con voce tremante e gli occhi che le bruciavano.

Si sentiva umiliata ma non si sarebbe messa a piangere, non davanti a lei.

«Il solito. Ma va tutto bene?» sembrava preoccupata ora, i grandi occhi marroni sembravano improvvisamente tristi.

«Taro e tapioca, giusto? Caldo o freddo?» professionale, ecco come doveva essere Ginevra.

«Freddo. Senti se ho detto qualcosa che ti ha offeso...»

Ginevra batté lo scontrino e si girò di spalle per iniziare a preparare il tè. Si rendeva conto che molto probabilmente stava esagerando e che Lidia non aveva detto niente se non notare la sua maglia, ma a lei Lidia era sempre piaciuta e il pensiero di essere presa in giro proprio da lei la faceva stare male.

Si prese il suo tempo nel preparare la bevando, mescolando con cura prima di aggiungere il ghiaccio e mettere il bicchiere nello shaker. Versò le perle di tapioca nel bicchierone di plastica e ci versò in fine il tè prima di sigillarlo. Trasse un respiro profondo prima di girarsi verso Lidia, che nel frattempo non aveva più aperto bocca, e porgerle il suo bubble tea.

Lidia aveva un'espressione corrucciata sul viso e si mordeva il labbro inferiore con forza, quasi a sangue.

Ginevra rimase atterrita a quella vista e appoggiò il tè sul bancone prima di farlo cadere, la mani che le tremavano. Era stata colpa sua, aveva reagito male e ora Lidia probabilmente si dava la colpa per qualcosa che non aveva fatto.

«Mi dispiace» sussurrò Ginevra riprendendo il tè e passandolo a Lidia.

La donna sobbalzò come se non avesse fatto caso che Ginevra le si era parata davanti e alzò la testa di scatto sembrando sbalordita per un momento.

Si ricompose subito, però, e accennò un sorriso mentre prendeva il suo tè e faceva qualche passo indietro.

«Anche a me piace Star Wars» disse con voce più normale di quello che Ginevra si sarebbe aspettata considerato ciò a cui aveva assistito «Volevo solo... È una bella maglietta»

Ginevra arrossì profondamente, vergognandosi come non aveva mai fatto prima. Aveva frainteso tutto, nel modo peggiore, e aveva fatto sentire male qualcun'altro nel mentre.

Si era sempre ripromessa di non ferire mai nessuno, non importa quanto orribilmente si sentiva.

«Hai visto Ahsoka?» disse di getto, come se stesse vomitando parole più che parlando.

Per un attimo pensò che Lidia se ne sarebbe andata senza degnarla dii un altro sguardo, e cazzo se non se lo sarebbe meritato. Lidia però indugiò per qualche momento, stringendo tra le mani il suo bicchiere e guardandola titubante per qualche secondo.

«Quando ho saputo che c'era Hayden Christensen, sono stata costretta. Non potevo non vedere Skycoso e Furbetta di nuovo insieme» Lidia sembrava più rilassata e fece qualche passo verso Ginevra sorridendo in modo più naturale.

Ginevra annuì con trasporto, senza fingere, perché anche lei era stata eccitata per lo stesso motivo. Rifletté su cosa dire dopo, sia perché puntava ancora a farsi perdonare sia perché era la prima conversazione seria che avevano e voleva sapere di più su Lidia.

«Hai visto Kenobi?» chiese Lidia piano, come se stesse pensando a qualcosa oltre la domanda.

«Non ancora, non ho avuto tempo e ci sono così tante cose da vedere»

Lidia annuì un paio di volte, come per farsi forza, e prese un respiro profondo prima di dire: «Neanche io... Cioè anche io, voglio dire.... Ti va di...» sembrava tremasse e Ginevra fece per uscire dal bancone e andare da lei, chiederle se voleva un po' d'acqua, quando all'improvviso tutto si fermò.

Lidia fece un ultimo respiro profondo, poi il suo corpo sembrò rilassarsi di colpo e fece un sorriso malizioso, gli occhi divertiti.

«Ti va di guardarlo insieme? Magari quando esci dal lavoro?»

Ginevra rimase a bocca aperta, senza parole, senza capire. Poi qualcosa si accese in lei e per la prima volta dopo tanto tempo si sentì coraggiosa.

«Mi piacerebbe» rispose in un tono di voce più sicuro di quanto si sarebbe aspettata da sé stessa.

«Fantastico! Dimmi il tuo numero, così possiamo scriverci quando siamo libere!»

«Ok»

«Ok!» ridacchiò Lidia riprendendo in mano il suo cellulare.

Anche Ginevra ridacchiò, quasi su di giri per tutto ciò che era accaduto in così breve tempo. Si sentiva elettrizzata, aveva avuto una ricaduta ma era riuscita a riprendere il controllo, forse, ad avere una nuova amica.

Sperava che le sue dottoresse sarebbero stata fiere di lei, quando glielo avrebbe detto.



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