Under The Stars

di Puffola_Lily
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


La vita toglie, la vita dà.

Era una frase che mi era stata rivolta parecchi anni prima ma, nonostante fossi solo una bambina quando l’avevo sentita, non l’avevo mai dimenticata. Non ricordavo né il nome né tantomeno la faccia della persona che l’aveva pronunciata eppure quella frase aleggiava nella mia mente in maniera perenne e talvolta tornava a galla.

In tutti quegli anni, complice la rabbia, mi ero sempre detta che non era vero. La vita toglie soltanto, e a me aveva tolto tutto. Tutto.

L’avevo pensata così per più di dieci anni. E non pensavo avrei mai cambiato idea perché io, nel bene e nel male, ero sempre stata così: cocciuta, irrimediabilmente cocciuta.

Eppure mi ero dovuta ricredere. 

La vita dà. Quel qualcuno aveva ragione. C’erano voluti anni e anni, ma era successo.

Forse se quell’11 Dicembre di quindici anni prima non fosse successo niente, di sicuro oggi non sarei dove sono.

Rimpiango sempre quel giorno ma nonostante mi fosse stato tolto tutto, adesso la vita mi stava ricompensando.

Vi ringrazio per essere arrivat* fino a qui! Spero che vi abbia intrigato, è la prima volta che mi cimento a pubblicare una storia con più capitoli.
Se vi va, lasciate una recensione, anche le critiche costruttive sono ben accette. 
Vi lascio al primo capitolo!
Puffola_Lily

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 

«Se è una battuta non fa ridere, Cam.»

«Non scherzo mai quando si parla di lavoro, Cipollina.» Cam si sporse sulla scrivania di mogano, posandovi i gomiti e intrecciando le mani, lo sguardo serio. «Dovresti saperlo bene.»
Sì, lo sapevo. E la cosa mi rendeva ancora più nervosa. Avrei preferito che fosse uno scherzo, che comparisse qualcuno con un bel «È una Candid Camera! Te l’abbiamo fatta!»

«Okay» sospirai, sforzandomi di silenziare il fischio che mi assordava. «Dimmelo di nuovo.»

«Ho un lavoro per te. Uno vero e solo per te, senza supervisione.»

Lo fermai con un gesto della mano. «Non… questo era chiaro, grazie. È la seconda parte che credo di non aver afferrato…» Che spero di non aver afferrato.

«Cosa? Che c’è un biglietto a tuo nome per il primo Gran Premio di Formula 1 della stagione?»

Avevo sperato che fosse stato solo frutto della mia immaginazione, e invece no.

«Già» dissi lapidaria.

Era reale, molto reale.

«Non vedo cosa ci sia di difficile da capire, o forse sto parlando un’altra lingua senza rendermene conto?» Mi canzonò. Lo ignorai, non avevo molta voglia di scherzare.

Mi correggo, non avevo alcuna voglia di scherzare

Non potevo credere che proprio lui, che mi conosceva bene come le sue tasche, che mi aveva  vista nascere e che mi aveva cresciuta, potesse chiedermi una cosa simile.

Cameron McKinnon poteva anche essere il mio padrino ma qui in redazione lui era il capo, io la novellina. Avevo anche insistito parecchio, anzi no, lo avevo proprio preteso, quando devo accettato il lavoro al McKinnon&Black Publishing. L’unica clausola era stata questa: non ci sarebbe stato alcun favoritismo nei miei confronti. Quindi, che mi piacesse o meno, quello era un ordine e avrei dovuto eseguirlo.

Aprii la bocca per parlare e la richiusi un momento dopo, non riuscendo a far uscire le parole, un paio di volte. 

«Qualcosa da obiettare?»

Diamine sì.

Ma non lo avrei pronunciato ad alta voce. Come dice il proverbio: ‘hai voluto la bicicletta? Ora pedala.’ Che mi andasse bene o no, dovevo pedalare, non avevo scelta. 

«Izzy, può solo farti bene, credimi. Abbi un po’ di fiducia, io ce l’ho» aggiunse, con un tono dolce e paterno.

Come avrebbe mai potuto farmi bene?

Avrei voluto chiedere a Cam se per caso non avesse esagerato con il suo whisky preferito questa mattina, ma mi sembrò troppo poco cortese. E considerato che mi stava mandando dritta verso il mio più grande incubo, non mi sembrò il caso di stuzzicare il can che dorme, facendogli venire idee peggiori di questa.

«D’accordo» dissi, accettando anche se controvoglia. «Giusto per essere chiari, esattamente cosa dovrei fare a Sakhir a parte guardare dei drogati di adrenalina correre a trecento chilometri orari?»

Non potevo sottrarmi a un compito assegnatomi, ma la confidenza che avevo con Cam mi dava la libertà di usare un tono sarcastico e frasi piccate.

Il mio padrino mi lanciò un’occhiata ammonitrice. «L’entourage di Jay Thompson, dopo parecchia ricerca, ha assegnato a noi l’incarico di scrivere la sua autobiografia quindi…»
«Di chi?»

«Uno dei più grandi campioni del mondo di Formula 1 dei nostri anni» disse con ovvietà. Come se avessi potuto o dovuto saperlo.

«Ah, sì, certo.» Alzai gli occhi al cielo e sbuffai piano, concentrandomi sull’ultima parte della frase. «Lo sai che non sono portata per le autobiografie, il mio punto forte sono i gialli.»
«Non hai mai scritto un autobiografia, Izzy.»

«Sì, be’, comunque non so se ne sono capace.»
«È proprio per questo che l’ho assegnato a te.»
«Perché sai che non ne sono capace?!»

«No. L’ho fatto perché so che ne sei in grado. Secondo poi, una sfida del genere può solo farti bene. E… aspetta non mi interrompere…» alzò l’indice per tacitarmi. «Terzo, sei stata tu a dirmi che non vuoi favoritismi e ti sto trattando come chiunque altro qui dentro.»

Mi morsi il labbro. Cavolo se aveva ragione. E io non avevo nulla con cui poter obiettare.

«Il tema sarà ‘l’uomo dietro al pilota’.»

«Originale» bofonchiai.

Cam, invece di prendersela, ridacchiò. «Non mi farai cambiare idea in nessun modo, Cipollina. E avrai anche tanto da studiare, prima di incontrare Thompson» disse con tono divertito.

«Grazie. No, sì, non esitare a ricordarmelo» dissi sarcastica.

Lui mi ignorò. Batté le mani tra loro e si mise comodo sulla sedia. «Bene! Se non hai altre domande, puoi andare. Ricorda che devi preparare le valigie, parti dopodomani. Claire ti manderà i biglietti per email» disse sganciando l’ennesima bomba dell’ultima mezz’ora. 

Sgranai gli occhi, così presto? Credevo di avere più tempo per prepararmi, psicologicamente, in particolare. Cam approfittò del mio sbigottimento per accompagnarmi alla porta e congedarmi.

Passai il resto del pomeriggio - dopo aver finito di correggere delle bozze che avevo messo in stand-by per l’incontro con Cam - su Google cercando di carpire più informazioni possibili su quello sport che conoscevo solo per sentito dire e sull’uomo protagonista della biografia.

Fu solo il passaggio di Janice alla scrivania a ricordarmi che era ora di andare, che la giornata lavorativa era finita, quella in ufficio almeno. Mi trovò con la testa tra le mani, nella speranza che questo aiutasse a mettere in ordine i pensieri. Con pochissimi risultati. 

Quando spensi il computer per andare a casa, avevo la testa piena di informazioni che non avevano un ordine, che vorticavano senza senso. E soprattutto, c’era una domanda che campeggiava a caratteri cubitali nella mia mente.

Come diavolo avrei fatto a diventare un’esperta di Formula 1 in soli due giorni?

Proprio io, che odiavo la velocità, e possedevo una repulsione per ogni tipo di auto esistente sul pianeta?

 

«E tu che ci fai qui?»
«Ciao sorellina, anch’io sono contento di vederti.» Ian mi dondolò una busta di carta davanti al viso. «Porto doni.» Mi superò, entrò in casa e si diresse nel piccolo salotto per adagiare la suddetta busta sul tavolino davanti il divano, che emanava un odorino sfizioso, e che immaginai contenesse i panini che mi piacevano tanto.
Alzai gli occhi al cielo. «Bando ai convenevoli, Ian, che vuoi?» dissi secca. «E no, non mi faccio abbindolare dai panini di Supreme Burger» aggiunsi vedendo che stava distribuendo il cibo sul tavolino; scartò il suo panino e lo addentò.

«Passare del tempo con la mia adorabile sorellina, mi sembra ovvio» rispose con la bocca piena.
«Sei veramente un… Aspetta!» Un lampo m’illuminò la mente, chiusi la porta con un tonfo. «Ti ha mandato Cam?»
Ian mi ignorò, prese una patatina fritta dalla confezione con la mano libera dal panino. E io ebbi conferma dalla sua non-risposta. «Ti ha mandato Cam! Oh cielo. Quando smetterete di farmi da balia, voi due?»
«Nessuno ti fa da balia, Izzy.»
«No, certo. E tu, casualmente, dopo quanto? Due, no… tre, tre settimane che non ci vediamo sbuchi qui all’improvviso, proprio quando Cam mi ha affidato un lavoro che, per realizzarlo, sono costretta a lasciare l’America.» Avevo lo stomaco chiuso da quando avevo lasciato l’ufficio di Cam, e anche se il profumo invitante dei panini aveva risvegliato l’appetito - ero digiuna dalla colazione - non avrei ceduto. Rimasi ferma a pochi passi dalla porta con le braccia incrociate, decisa a non arrendermi. Finché non avessi avuto delle risposte, almeno.
«Eri scossa e hai ricordato tu a Cam che non hai mai lasciato la città.»
«Allora ci hai parlato con Cam!»

«Merda» borbottò, colto in fallo. Mollò con malagrazia il panino sulla carta che lo aveva avvolto, macchiando il tavolino bianco di salsa, cercai di non pensarci. «Senti, Izzy, siamo preoccuparti per te. Devi lasciare la città, girare per mesi in Stati e Continenti diversi, senza considerare di cosa tratterà il lavoro. Voglio solo darti una mano, sorellina. E, sì, non mi dispiacerebbe poter seguire l’intero Campionato dal vivo

«Non capisco come possa piacerti quella roba» borbottai sprezzante. 

«Cosa, i piloti super sexy? Non mi avevi mai detto che il fatto che fossi gay ti creasse problemi.» Divorò l’ultimo pezzo di panino e si leccò le dita dopo aver deglutito.
«Non sviare il discorso, Ian, lo sai che non è a quello a cui mi riferisco. Parlo delle… corse.» Sputai fuori l’ultima parola con tutto il disgusto che possedevo.

«Izzy» si sporse in avanti, abbandonando il suo solito fare canzonatorio e rilassato «Le corse non c’entrano nulla con quello che…»
Lo fulminai con lo sguardo.

Non doveva sollevare l’argomento, lo sapeva. Lui sapeva più di tutti quanto odiassi parlarne.

«Quello che voglio dire è che posso aiutarti. Cam ti ha incaricato questo lavoro, no? Be’, io sono un esperto in materia mentre tu non ne sai nulla. Sono la tua àncora di salvataggio» disse, stravaccandosi sul mio divano, pulendosi le mani su un tovagliolo striminzito

«Sarà complicato affrontare questa cosa, hai ragione - e non sai quanto mi costi dire queste due parole - ma devo e, soprattutto, voglio farlo da sola. Ho opposto un po’ di resistenza davanti a Cam, lo so, lui però ha detto che posso. Ci ho riflettuto, e sai cosa? Sono d’accordo, posso affrontarlo sono… Togli quei piedi dal mio tavolino!… Sono più forte di quello che voi crediate.»

«Sorellina, sappiamo entrambi che sei forte. Lo sappiamo bene, non dubitarne. Cam non te lo avrebbe affidato altrimenti, solo che ti ha visto un po’ sconvolta quando sei uscita dal suo ufficio, per questo mi ha chiamato.» 

«Ah certo, per questo. Non perché siete due vecchie pettegole.»

Batté la mano sul cuscino, invitandomi a sedermi con lui. «Io davvero voglio cogliere quest’occasione più unica che rara. Seguire tutte le tappe del GP, con hotel e viaggi all inclusive. Lasciami venire con te e non fare la stronzetta.» Sorrise amabilmente. 

Alzai le sopracciglia, senza muovermi.

«Ti starò tra i piedi il meno possibile, a meno che tu non lo voglia, naturalmente, e… io sono un esperto di Formula 1» ribadì, come se potessi dimenticarlo. Per la prima volta in vita mia mi pentii di averlo ignorato e aver cambiato discorso tutte le volte che lui voleva parlare della sua passione.

«E di Jay Thompson» aggiunse con malizia.

Avevo fatto ricerche per tutto il pomeriggio e davvero non capivo cosa avesse di speciale quel tipo, internet impazzava di articoli su di lui - sebbene tutti sempre le stesse informazioni  - e ognuno di essi trasudava ammirazione. 

«Sei un cavernicolo» dissi, riferendomi al modo in cui mangiava, anche se aveva già finito. Era una scusa per ignorare deliberatamente il fulcro della conversazione e prendere tempo.

Accettare che mi accompagnasse era la scelta giusta?
Negare che fossi terrorizzata era impossibile, oltre che inutile. E nasconderlo a Ian era un’impresa complessa pari allo scalare una montagna; eravamo talmente tanto legati che bastava uno sguardo per capire lo stato d’animo all’altro. Ma una parte di me, molto piccola, desiderava davvero intraprendere quell’avventura da sola; anche solo per dimostrare a me stessa che potevo farcela.

Tuttavia, negare che il suo aiuto mi sarebbe stato prezioso sarebbe stato da stupidi.

Sospirai, sciolsi la posa ingessata e lo raggiunsi sul divano, presi il panino che mi spettava e, dopo aver assicurato un tovagliolo sul tavolo per essere certa che non si sporcasse, ulteriormente quantomeno, lo addentai. Con la coda dell’occhio vidi un sorrisetto solcare le labbra di Ian, che si sporse per recuperare il telecomando e accendere la tivù.

Non erano necessarie parole, Ian sapeva benissimo cosa significava l’aver accettato quel panino ed essermi seduta al suo fianco: avevo appena accettato il suo aiuto.




Vi ringrazio per essere arrivat* fino a qui!
Ecco concluso il primo capitolo, che ve ne pare?
I primi sono capitoli un po' introduttivi
Fatemi sapere, se vi va, cosa ne pensate!
Puffola_Lily
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2


«Ricapitoliamo: quanti piloti ci sono in una stagione?»

«Venti piloti. Due piloti per ogni scuderia.» Pronunciai quell’ultima parola con tono a metà tra l’interrogativo e il sospettoso.

«Esatto.»

«Non ti fa strano che si chiami proprio ‘scuderia’? Mica ci sono dei cavalli! Non si possono chiamare Case Automobilistiche? Sarebbe più logico.»

Stava per rispondere ma lo anticipai. «Che stupida» mi diedi teatralmente una manata in fronte. «Come faccio a pensare alla logica dal momento che stiamo parlando di pazzi che corrono, letteralmente, incontro alla morte.»

Ian mi guardò storto. «Non hai affatto dei pregiudizi» disse sarcastico. «E comunque al giorno d’oggi è tutto molto meno pericoloso che in passato.»

Scossi la testa, alzando gli occhi al cielo. 

«Se ti aiuta prova pensare ai cavalli delle auto, ti sembrerà meno strano. E poi è solo questione di farci l’abitudine» disse tornando al fulcro del discorso.

Ian mi stava aiutando a memorizzare e dare ordine alle tante informazioni che avevo immagazzinato nelle ultime ore.

Annuii, un po’ più collaborativa. Realisticamente opporre resistenza aveva poco senso, il lavoro dovevo svolgerlo e meno mi impegnavo, più tempo avrei impiegato per concluderlo e più a lungo si sarebbe protratta la mia agonia. «Ci proverò. Che altro c’è?»
«I circuiti, le penalità, i nomi. I nomi di tutte le scuderie e di tutti i piloti. Questa è solo la base.»

Mi coprii il viso con le mani. Era tutto più difficile di quanto avessi immaginato. «È un dannato sport, perché deve essere così complicato?» Mi lamentai, interrompendo il suo conteggio, bloccandosi con l’indice premuto sul mignolo opposto. «E poi, non devo scrivere mica un trattato sulla Formula 1, ma un’autobiografia» aggiunsi borbottando.

«No, è vero, ma quando scrivi un libro e delinei i personaggi tutte le informazioni su di loro le vai poi a mettere per iscritto? No, ci sono cose che rimangono solo a te ma che sono necessarie per lo sviluppo del personaggio, per farlo parlare coerentemente. Le cose che ho elencato sono né più né meno che questo.»

Incrociai le braccia e mi stravaccai, la testa buttata indietro sullo schienale del divano. «Mi esasperi! D’accordo, d’accordo.»

«E, stavo dicendo, cosa più importante in assoluto: vita, morte e miracoli di Thompson. Il lavoro migliore, a mio avviso.» Ian mi strizzò l’occhio. «Da quale vuoi cominciare? Io propenderei per Thompson» disse malizioso.

Alzai gli occhi al cielo e misi due mani davanti al viso. «No, stop. Pausa. Per stasera ho dato, è tardi. Fammi metabolizzare questo, domani riprendiamo.» Mi alzai e iniziai a ripulire il tavolino e il disastro che era riuscito a combinare mio fratello nell’arco di qualche ora.

«Okay.» Ian si alzò e stiracchiò rumorosamente. Mi spostai in cucina per gettare le carte sporche nel cestino. Dal salotto mi arrivò la sua voce. «Vuoi che resti a dormire?»

Mi affacciai. «Perché dovresti? Sto bene.»

«Sicura, Izzy? Non mi stupirei se…»
«Sto bene» ripetei, dura. 

Ian alzò le mani in segno di resa. «Okay.» Si avvicinò e si chinò per baciarmi delicatamente la fronte. «‘Notte sorellina. Se hai bisogno, batti un colpo.»

Sorrisi e annuii. Lo guardai chiudersi la porta dietro prima di lasciarmi cadere di nuovo sul divano, mentalmente esausta. 

 

Diverse auto correvano ad alta velocità nella mia direzione, una di queste stava per schiantarsi e travolgermi quando il rumore fisso di qualcosa che batteva mi riscosse dall’incubo.

Aprii gli occhi e la prima cosa che percepii, oltre il continuo bussare alla porta, furono i dolori muscolari, la tachicardia e l’affanno. Misi a fuoco il salotto e mi accorsi di essermi addormentata sul divano vestita, la sera prima. Mi stropicciai il volto con le mani, spalmandomi sul il viso il residuo di trucco rimasto e mi alzai per aprire la porta, solo per far sì che smettesse quel rumore fastidioso.

Il sorriso canzonatorio di Ian si spense un po’ non appena mi vide. «Ehi, tutto okay?»

«Sì, sì, certo. Stavo vedendo una serie tv ieri sera e mi sono addormentata sul divano» mentii.

Ian non se l’era bevuta ma non lo diede a vedere. «Sono qui per riprendere le nostre lezioni e per approfittare dei tuoi pancake. Io ti acculturo e tu mi nutri, mi sembra un pagamento equo, non ti pare?» 

«Credevo che il pagamento fosse che il fatto che ti lascio venire con me. All inclusive, ricordi?»

«Oh no, quello fa parte del mio contratto. Io ti servo, sorellina.»
«A cosa? Oltre a impartirmi quattro regole di uno sport assurdo, ovvio.» Soppesai le sue parole e una lampeggiò nella mente. «Aspetta, hai detto contratto? Di che diavolo stai parlando?»

«Sarò il fotografo ufficiale.»

«‘Fotografo ufficiale’ di che?»

«Per la copertina fighissima che avrà il libro» disse tutto contento.

«E da quando?»
Ian guardò l’orologio al polso, che era stato di papà. «Da circa mezzora. Trentadue minuti per essere precisi. Oh dai, non mi guardare così.»

«Com’è che ti starei guadando?» Chiesi fintamente ingenua. Sapevo benissimo come lo stavo guardando.

«Come se volessi fulminarmi qui sul posto.»
«E perché mai dovrei? Ah sì,» finsi di avere un’illuminazione. «Perché ti sei sempre rifiutato ogni qual volta Cam te lo ha proposto, e solo lui sa quante volte è successo. E tu no, volevi essere libero, fare il freelance e adesso, proprio adesso, hai casualmente accettato un incarico… Brutto disgraziato non lo hai accettato! Tu hai chiesto a Cam di affidarti l’incarico!» Lo colpii al braccio.

«‘Disgraziato’, chi sei, la nonna?»

«Non osare prendermi in giro.»
«Andiamo Izzy, smettila con questa commedia. Lo sappiamo tutti e due che ti fa piacere - in fondo forse - e anche comodo che sarò con te.»

«In futuro non lo so, in questo preciso istante vorrei solo strangolarti.»
Probabilmente l’irritazione per l’incubo, l’aver dormito poco e il dover fare qualcosa che non mi andava, accentuava il fastidio. E molto probabilmente aveva ragione, ma non lo avrei ammesso neanche sotto tortura.

Come se lo avessi appena ringraziato ed eretto a mio salvatore, mi abbracciò stretto e mi baciò la cima della testa.

«Invece di fare il ruffiano ti conviene girare largo, ce l’ho ancora con te.»

Sparì in cucina ma lo sentii mormorare: «Bugiarda.»

Sospirai e scossi la testa, seguendolo.

 

«Adesso passiamo al mio argomento preferito: Jay Thompson.» Finì il suo succo d’arancia, prese il cellulare e digitò a velocità qualcosa. 

Dopo una doccia rigenerante avevo accontentato Ian e avevo preparato i pancake, che io stavo mangiando e che Ian aveva divorato in tempo record. Quel ragazzo mangiava come un lupo. 

«Quando il tuo argomento preferito non è un ragazzo, ricordamelo?» Lo guardai con il mento poggiato sulla mano, nella quale ancora tenevo la forchetta, e dei finti occhi dolci. «Abbiamo superato l’adolescenza da parecchi anni ormai, tu soprattutto, ma queste cose non cambiano.»

«E mai cambieranno» ribatté lapidario, con un sorriso.

Scoppiai a ridere e lui mi imitò, prima di tornare serio. «Jay Thompson» ripetè, sbattendomi sotto gli occhi il suo cellulare. La foto di un ragazzo con una tuta integrale blu notte, anche se l’immagine inquadrava il ragazzo per intero, i suoi occhi chiari spiccavano nella foto. Distolsi lo sguardo per un momento, quando tornai a guardare lo schermo Ian aveva scorso le immagini di Google, adesso Thompson fissava la fotocamera in primo piano, i capelli biondo scuro pettinati ‘all’indietro’ e quegli occhi di un colore cangiante azzurro-verde brillavano, ancora; adesso era coricato a petto nudo su una barca; adesso dentro l’auto monoposto con il casco integrale indossato e la visiera alzata; adesso…

«Okay, ho capito» dissi spingendo il cellulare nella sua direzione. «È un bel ragazzo, e ti piace.»
«Un bel ragazzo? Sorellina, gli occhi li hai al posto giusto? Io sono un bel ragazzo.»

«Però, che modestia» borbottai ma lui non sembrò sentirmi, o se lo fece mi ignorò.

«Jay Thompson è un figo

«E sembra anche tanto stronzo.»

«Dalla foto? Vedi tutto questo solo da una foto?» Guardò a sua volta l’immagine che ancora campeggiava sullo schermo dell’iPhone, cercando di vederci gli arcani segreti che credeva vedessi io. «Sei una maga e non lo sapevo, wow.»

«No, Ian. Non sono sprovveduta come credi. Avevo già iniziato a fare le mie ricerche ieri, prima che ti precipitassi qui. Ed è chiaro che tipo sia Thompson. Conosco bene i tipi come lui, ho avuto a che fare con parecchi di loro. Per non parlare del fatto che è un raccomandato.»
«Raccomandato? Suo padre sarà pure il proprietario e Team Principal della Scuderia, ma in pista la raccomandazione vale molto poco. È il più grande pilota degli ultimi tempi. Tre volte campione del mondo, campione in carica.» Enfatizzò l’ultima frase come se mi cambiasse qualcosa. «Me la tirerei pure io.»

Alzai le spalle. «Be’, io no. E potrà anche essere il vincitore di un Premio Nobel, questo non toglie il fatto che sia borioso e supponente, ho visto delle sue interviste.»

«Non prenderlo in antipatia come fai sempre, Izzy. Non lo conosci, non sapevi neanche chi fosse fino a ieri.»
«Io non…»

«Sì, Izzy. Lo fai. Lo fai sempre, vedi qualcuno e ti fa antipatia a pelle. E quante volte ti sei sbagliata?»

«Non troppe da giustificare questa tua paternale. Al contrario, buona parte delle volte avevo ragione: si rivelavano persone odiose e approfittartici.»

«Isabella Marie Price, non essere prevenuta. Devi scrivere la sua autobiografia, devi essere imparziale e non giudicante.»

«Quand’è che sei diventato un esperto di ghostwriting? Queste parole non sono farina del tuo sacco.»

Abbassò lo sguardo, fingendosi impegnato a fare altro, come faceva sempre quando veniva scoperto. «Ieri quando sono tornato a casa potrei aver letto qualche articolo.»

«Appunto.»
«C’è da dire che questo è un genere che non hai mai affrontato.»

Non farmici pensare, Ian.

«D’accordo, proverò a non essere prevenuta. Contento? Ma smetti di chiamarmi con il nome intero, sembri il nonno» dissi tornando al discorso principale.

«Credo di non poter chiedere di più, sbaglio?» chiese incrociando le braccia e lasciandosi andare contro lo schienale della sedia.

Scossi la testa. «Non sbagli.»
Studiammo ancora un po’, mi illustrò a grandi linee il funzionamento di una gara, dei due giorni che l’anticipavano e delle regole di cui era costituita.

A pomeriggio inoltrato mi salutò, non senza le sue solite raccomandazioni, tra cui ricordarmi che saremmo partiti l’indomani, lasciandomi finalmente di nuovo sola. Mi spostai in camera e mi gettai sul letto supina.

C’era un’altra sfida da affrontare: preparare una valigia per il Bahrain, per un solo weekend. Non sarebbe stata una cosa facile.

Dopo circa cinque ore e mezza finii e chiusi la valigia, con difficoltà visto che era più piena di quanta roba potesse contenere, e sfiancata mi lasciai cadere sul letto a fissare il soffitto.

Ero pronta a partire e ad affrontare tutto quello?

Dio, no.

L’avrei fatto comunque?
Sì, perché non potevo, ma neanche volevo, tirarmi indietro. Volevo affrontare quella cosa, uscire dalla mia confort-zone. E anche perché, seppur Cam non l’avesse detto con chiarezza, da quell’incarico ne andava della mia intera carriera; che non avevo, non ancora, ma se non avessi adempiuto a questo compito non sarebbe mai esistita.

Ciao! Eccoci al secondo capitolo, e abbiamo dato il benveuto a Ian. Adoro il suo personaggio e adoro scrivere di lui, spero sia piaciuto anche a voi perché sarà parecchio presente nella storia :)
Come sempre, se vi fa piacere fatemi sapere cosa ne pensate della storia e del capitolo!
Vi lascio al prossimo!
Puffola_Lily

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 

Misi fuori il naso dall’aereo, l’aria calda di Sakhir mi investì e divenne tutto ancora più concreto, soffocante, e il caldo non era l’unico responsabile.

Il volo era andato meglio di quanto avessi immaginato. Certo, il calmante che avevo preso prima di partire aveva aiutato. E per quanto non volessi ammetterlo, avere Ian al mio fianco aveva reso il viaggio meno terrificante.

«Andiamo direttamente al paddock?» chiese Ian, elettrizzato come quando a dieci anni aveva ricevuto la sua prima macchina elettrica per il compleanno e voleva provarla subito.

Lo guardai dal mio metro e sessantacinque. «Hai trent’anni o tre?»

Mi beccai una linguaccia in risposta.

«Tre, decisamente tre.»

Con la risata di Ian nelle orecchie uscimmo dall’aeroporto.

Dopo aver sistemato le valigie in camera, esserci rinfrescati e aver superato i controlli all’ingesso dell’autodromo, ci spostammo sul famoso Paddock, che altro non era che l’area dell’autodromo dove stazionano le auto delle scuderie e dove si svolgono le attività di manutenzione delle vetture. Fosse stato per me mi sarei seduta su uno degli spalti, il taccuino tra le mani, e avrei preso appunti ma, come mi aveva ricordato Ian, non dovevo scrivere una storia ambientata nel mondo della Formula 1, dovevo parlare di quel mondo in prima persona, come se lo conoscessi, come se lo vivessi e per farlo dovevo viverlo, almeno un po’. Per quanto non mi piacesse affatto avrei fatto quello che dovevo, era il mio lavoro, per quello mi trovavo a girare tra i box delle Scuderie a guardare scatole chiamate auto che raggiungono i 300km/h.

Mentre le osservavo mi dissi - mentalmente - che l’unica cosa che mi sarei categoricamente rifiutata di fare sarebbe stato entrare in una di quelle.

In contrapposizione alla mia faccia perplessa, c’era quella di Ian i cui occhi brillavano.

Era venerdì e da quello che avevo appreso quello era il giorno dedicato alle Prove Libere che sarebbero iniziate da un paio d’ore a quella parte. Eravamo piuttosto in anticipo, e ciò significava che i piloti gironzolavano lì intorno. La Scuderia di Thompson era una delle ultime e quando la raggiungemmo trovammo Thompson davanti al box circondato da giornalisti, paparazzi e una mezza dozzine di ragazze che gli orbitavano attorno. Si pavoneggiava con tutti loro, neanche fosse Dio sceso in terra. Odiavo le persone così, odiavo la presunzione in generale.

Mi voltai verso mio fratello per condividere con un lui un commento acido, peccato che trovai solo un altro fan adorante. Roteai gli occhi.

Thompson aveva un sorriso smagliante, si destreggiava tra foto e autografi, tenendo sotto braccio due ragazze. Fece una battuta, che non riuscii a sentire, e tutti scoppiarono a ridere, anche i giornalisti sembravano adorarlo.

«Vieni, dobbiamo presentarci.» Ian mi tirò per il gomito.

Puntai i piedi. «Dobbiamo? Ricordami, in quale parte del contratto è presente il tuo nome?»
Il disagio e l’ansia mi facevano diventare irritabile e le rispostacce avevano la meglio anche quando non erano necessarie.

«Sono il fotografo, ricordi? E poi devi, dobbiamo, fa’ lo stesso.» Mosse la mano. «La differenza sostanziale sta nel fatto che tu devi io invece lo voglio. Conoscere e parlare davvero con con Jay Thompson, un sogno che si avvera.» Roteai gli occhi, di nuovo. Pensai che se avessi iniziato a contare le volte, avrebbero raggiunto la doppia cifra. E solo nell’arco di una giornata.

«Sembri una dodicenne davanti a Harry Styles.»

«Si sono allontanati, dài, vieni!» Ian stavolta mi tirò con più forza e all’improvviso tanto che non riuscii a oppormi. Mi trascinò e quando ci trovammo davanti a Thompson, iniziò a parlare a macchinetta, si presentò e sembrò dimenticare la mia presenza.

«Oh, sì, certo. Mi hanno accennato della cosa del ghostwriter, sei tu?» disse Thompson ravvivandosi i capelli con la mano.
Battei le palpebre diverse volte. La cosa? Certo che dava un gran valore a un libro che avrebbe raccontato della sua vita e fatto guadagnare milioni. Che arrogante! 

«No» intervenni, dura, parlando per la prima volta. «Veramente sarei io, la ghostwriter. Anche se comprendo che il maschilismo vi porti a pensare che sia l’uomo a fare il vero lavoro e le donne solo delle accompagnatrici, dopotutto è quello che questo sport incentiva da sempre, no?»

Non avrei saputo dire perché mi desse così tanto fastidio ma ogni parola che usciva dalla sua bocca, ogni suo ravviarsi i capelli, mi urtava come una zanzara che ronza vicino all’orecchio quando cerchi di dormire.

Thompson per tutta risposta rise.

«Mi fa piacere che la cosa ti diverta.»
«Mi fa ridere il pensiero che stiamo proprio cominciando con il piede giusto. Se questi sono i presupposti… direi che passare i prossimi mesi insieme, preannunciano un lavoro che sarà una passeggiata» disse ironico.
«Non che tu sembri molto più benintenzionato.»

«Solo perché ho confuso chi dei due era incaricato del lavoro?» Ridacchiò ancora.

Sbuffai. «No, perché sei snob, borioso, arrogante, vanaglorioso e tronfio.»

«Sei tu la scrittrice, a quanto pare… ma l’ultima volta che ho controllato il dizionario, questi erano tutti sinonimi.»
«Oh, sai anche leggere, quindi. Non ti occupi solo di dare festini e spassartela con le modelle?»

Sbuffò una risata amara, prima di guardarsi intorno, passare una mano tra i capelli e tornare a stamparsi un sorriso sulle labbra. «Tu non sai quello che dici» sussurrò.

Non compresi il motivo del cambio di tono e lo ignorai.
«Ah no?» lo sfidai, pronta a tirar fuori l’arsenale, che altro non erano che le centinaia di articoli che parlavano di lui.

«Tu non mi conosci» disse sempre sussurrando. «Perché ti sei proposta per il lavoro se è evidente che non ti piaccio?» Parlava con me, il suo tono era duro, ma la sua espressione facciale non corrispondeva affatto al suo stato d’animo. Esternamente sembrava rilassato, quasi divertito. Era davvero bravo a mentire.

Mi chiesi per quale motivo dovesse fingere così.

«Non l’ho voluto io.»

«Be’, sai cosa? Neanche io!» Stavo processando l’ultima frase: ma se lui non voleva quella autobiografia, che motivo c’era di scriverla?

Salutò con la mano qualcuno alle mie spalle, io rimasi imbambolata persa nei miei pensieri. Mi riscossi quando un ragazzo con una camicia bianca, che faceva risaltare la sua pelle abbronzata, e gli occhi di un blu profondo lo affiancò. Gli mise una mano sulla spalla, in modo confidenziale, dovevano essere colleghi o amici.

«Jay, devi rientrare ai box. C’è Holm che ti cerca.»

Thompson annuì, il nuovo arrivato si accorse della mia presenza e mi sorrise, un sorriso abbagliante. «Simon, Personal Trainer di Jay» si presentò tendendomi la mano.

«Isabella Price. ‘Personal Trainer di Jay’ è il tuo cognome? Tutto gira solo intorno a te?» Ricambiai la stretta.

Thompson mi ignorò mentre Simone scoppiò a ridere. «Quasi» disse stando allo scherzo. «Tu invece sei…?»

Spesso, quasi sempre, il fatto che il libro fosse scritto da un ghostwriter non si doveva sapere. Si firmava una sorta di accordo di riservatezza, perciò tacqui. Quella domanda mi fece sorgere un’altra domanda, una cosa che non avevo messo in conto: avrei orbitato intorno a Thompson per parecchio tempo e alla stampa - lui che aveva perennemente i riflettori puntati su di sé - la cosa sarebbe potuta passare inosservata per una, massimo due settimane, alla terza volta che mi avrebbero visto lì si sarebbero chiesti quale fosse il mio ruolo; quindi, che balla avremmo dovuto propinare? Dovevo tenerlo a mente e discuterne con Thompson il prima possibile. 

«È la ghostwriter per il libro» rispose Thompson al posto mio.

«Aahh, piacere di conoscerti. Quindi sarai tu la ragazza a vivere a stretto contatto con noi. Buona fortuna» scherzò.

Sorrisi. Tanto quanto Thompson mi faceva antipatia a pelle, quel Simon, mi ispirava fiducia e simpatia. Avevo dimenticato la presenza di Ian fino a quando Simon non si presentò anche a lui.

«Io mi occuperò delle foto per la copertina e il resto. E sono suo fratello» aggiunse. Seppi benissimo perché lo aveva fatto. Mi stupii che insieme al nome non avesse aggiunto anche ‘Single’.

Guardai Ian, aveva perso la testa, potevo leggerglielo nello sguardo. Eravamo lì da neanche sei ore, avevamo conosciuto quel Simon tre minuti prima e già si era invaghito.

Simon, ben più affabile del suo cliente, disse: «Scusate ma noi dobbiamo proprio rientrare adesso. Ci vediamo al box più tardi?»

«Certo!» Ian mi anticipò nella risposta. Si dileguarono, noi prima di raggiungere il box della Thompson Motori GP passeggiammo ancora un po’.

«Chi disprezza compra, sorellina» disse quando iniziammo a camminare. 

Stava commentando lo scambio di battute mio e di Thompson, che si era chiaramente goduto divertendosi, e anche parecchio, com’era evidente dal suo sorrisetto irritante.

«Io e quello lì?» Indicai l’interno del box. «Ma per favore! Siamo i due esseri più in antitesi che esistano sulla terra, anzi no, nell’intera galassia. Tipo Dio e il Diavolo.»

«Da quando sei credente?» Tratteneva il divertimento a stento.

Gli lanciai un’occhiataccia. 

Non resistette più e scoppiò a ridere fragorosamente. «E chi dei due sarebbe il Diavolo e chi Dio?»

Alzai gli occhi al cielo. «Era per dire, Ian. Sai cos’è una metafora?»

«Ricorda le mie parole. Chi disprezza compra.»
«Ti sai ripetendo. Piuttosto, vogliamo parlare di te e Simon

«L’hai notato anche tu, eh?»
«Che ti si è fuso il cervello appena lo hai visto? Sì, era impossibile non notarlo. ‘Sono suo fratello. Mi chiamo Ian e sono più libero dell’aria’» lo scimmiottai, aggiungendo delle moine che in effetti non c’erano state, ma che erano nel sottotesto.

«Sei una pessima imitatrice, sorellina. E no, non mi riferivo a quello, ma da come mi guardava.»

«Io ho visto solo come tu guardavi lui e la bava che ti colava dalla bocca.»

Alzò gli occhi al cielo, gesto che avevamo in comune. «Vorrei vedere! No, dico, lo hai visto? Be’, sì, lo hai visto bene, visto che anche tu hai iniziato a fare la civetta.»
«Io non ho fatto la civetta!» ribattei.

«Ceeerto, e io sono il vergine. Mi dispiace deluderti, sorellina, lui aveva occhi solo per me.» Sollevò il braccio, spostando una ciocca di capelli invisibile. Ne approfittai e gli spinsi il gomito. «Ma fammi il favore! Credo che l’entusiasmo per essere qui ti abbia dato al cervello e che ti abbia fatto venire le visioni. Siamo stati qui fin troppo, troviamoci un posto, devo prendere appunti.»

Trovammo un tavolo nell’area ristoro e, mentre Ian era al bancone per ordinare per entrambi, io ne approfittai per scribacchiare velocemente sul mio bloc-notes.
Spocchioso, arrogante, playboy, snervante, odioso, sfacciato, sbruffone, più fastidioso di una zanzara nell’orecchio… In sole due parole? Jay Thompson. 

Dopo averlo riletto tirai una linea su tutta la riga. Per quanto mi sarebbe piaciuto, non poteva certo essere la prefazione della sua autobiografia.

Peccato.

Ciao!
Stiamo entrando nel vivo della storia, abbiamo fatto conoscenza dell'altro protagonista, insieme a Izzy, Jay e del suo migliore amico Simon.
Izzy e Jay non vanno prorpio d'amore e d'accordo come avete potuto vedere!
Tra qualche giorno arriverà il prossimo capitolo!

Come sempre, se vi fa piacere, nell'attesa fatemi sapere cosa ne pensate della storia e del capitolo!
Puffola_Lily

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Eravamo ospiti ai box della Thompson Motors GP, e lo saremmo stati per i mesi a venire. La cosa rendeva Ian al settimo cielo e angosciava me. Non potevo sentirmi in quel modo per quasi un anno, avrei dovuto abituarmi al più presto a quel mondo, anche se non sarebbe stato affatto facile. A mente fredda e senza orgoglio ferito, dovevo ammettere che davvero sembrava lui il ghostwriter interessato a captare più informazioni e seguire più possibile Thompson e il suo staff.

Ian mi aveva fatto ingoiare quasi per intero il muffin che avevo ordinato, perché sosteneva che altrimenti avremmo fatto tardi, quando invece eravamo arrivati più che in anticipo per l’inizio delle Prove Libere. All’interno del box regnava il caos, o così appariva a un primo sguardo. C’era un capannello di persone che si affannavano ma in realtà ognuno di loro aveva un ruolo, sapeva esattamente cosa fare e dove trovarsi, così più che confusione, era solo una catena di montaggio ben oliata.

Scelsi una sedia, un po’ defilata, e per farlo dovetti passare al fianco della macchina e notai che era molto molto più grande di quanto apparisse nelle foto, era imponente.

Tirai fuori il blocco per gli appunti e iniziai a segnare tutto ciò che sarebbe potuto essere utile per l’autobiografia di Thompson. Evitai accuratamente, anche se con parecchia difficoltà, i commenti con sentimenti personali.

Seguii con lo sguardo in direzione di Thompson, indossava una tuta blu notte, ed era intento a mettersi una sorta di cappuccio nero che lasciava scoperti solo gli occhi e il naso, per poi calarsi sulla testa il casco integrale. Prima di infilarsi in quella scatola che chiamavano macchina e sulla quale investivano milioni di dollari, solo per accontentare dei malati di adrenalina e i loro fan, altrettanto sadici nel vedere degli uomini rischiare continuamente la vita.

Mio fratello compreso, ovvio.

Inaspettatamente, incrociai lo sguardo di Thompson appena un attimo prima che abbassasse la visiera. Per qualche motivo mi colpì in pieno stomaco, quello sguardo. Lo ignorai, e tentai di dimenticarlo, cercando Ian che trovai in prima fila davanti allo schermo, che mandava le immagini di altre monoposto già in pista, circondato dal personale della Scuderia.

Non potei far a meno di riscontrare quanto lui fosse a suo agio in quel mondo, tanto quanto io mi sentissi a disagio.

 

Le Prove di erano concluse da una ventina di minuti, sedevo tranquilla, per i fatti miei, su una sorta di bancone quando un tipo dello staff di Thompson mi avvicinò e chiese di seguirlo; mi guidò fino a una delle tante stanze microscopiche.

A quanto pareva, il signor Thompson voleva vedermi e se il signor Thompson chiede, gli altri obbediscono.

Lo conoscevo da quanto? Sette o otto ore (se non si considerano le ore perse a carpire informazione su internet) e mi dava sui nervi sempre di più.

Quando entrai, Thompson era lì, i capelli chiaramente freschi di doccia, stravaccato sul divano con la caviglia sul ginocchio opposto e tra le mani il suo iPhone. Il tonfo della porta che si chiudeva attirò la sua attenzione, e per un momento, solo per un momento, quando posò su di me quei due fari che spacciava per occhi, mi inchiodai sul posto. Tornai padrona delle mie facoltà mentali velocemente, per fortuna.

Thompson, dopo aver registrato la mia presenza, tornò a digitare sull’iPhone.

«Abbiamo un problema» esordì, senza alzare lo sguardo dal telefono. Lo guardai con tanto d’occhi, e non perché avevo un ‘possibile’ idolo davanti. Il modo in cui si era presentato mi aveva lasciata senza parole… anzi, forse anche troppe. 

Dovevo scegliere se dire quello che pensavo e giocarmi il lavoro in tempo record - cosa che non mi sarebbe poi dispiaciuta, a dirla tutta, ma Cam non ne sarebbe stato contento - o se essere gentile e fingere che il suo atteggiamento da spaccone non mi avesse infastidita.

«Già» dissi incrociando le braccia.

Stavolta toccò a lui restare ‘allibito’, tant’è che finalmente mise via lo smartphone, adagiandolo sul bracciolo del divano, e si rizzò a sedere. Evidentemente si aspettava un commento gentile, una pacca sulla spalla, un ‘ma no ‘sta tranquillo.’

Be’ aveva trovato la persona sbagliata.

«Bene, abbiamo chiarito questo punto. Anche se dubito che il problema al quale ci riferiamo sia lo stesso» disse. 

«No? Spero di sì, sarebbe un peccato altrimenti.»

«Visto che ci tieni tanto alla parità dei sessi, se non ti dispiace, inizierei io.»

«Mi dispiace, in realtà. E non per la questione del ‘prima le donne’. Ma perché credo che dovresti scusarti.»

«Scusarmi? E per quale motivo, di grazia?»

«Devo recuperare l’elenco?»

«Se ben ricordo la prima ad attaccare sei stata tu. Mi sono soltanto difeso dalle accuse che mi hai mosso. Infondate, per di più.»

«Infondate? Hai provato a cercare il tuo nome online?»

«Hai intenzione di ripetere le mie parole e andare avanti a domande?»

«Ripeter—» mi schiarii la voce, colta in fallo. Non mi ero accorta di farlo.

Riprese a parlare, prima che potessi dire altro. «Questo colloquio si protrarrà per ben più tempo di quanto avessi immaginato. Ti ricordo che alle 16:30 ho altre Prove, pensi che riusciamo finire prima di quell’ora?»

Sbuffai. Mi aveva infastidito il suo atteggiamento? Sì.

Non aveva poi del tutto torto, prima iniziavamo, prima finivamo. Incrociai le braccia al petto. «Bene» sputai. «Per quale motivo ‘abbiamo un problema’? A parte l’ovvio, è chiaro.»

«A parte l’ovvio, certo» mi fece eco, con il divertimento nella voce. Si sfregò la barba corta con la mano. Io sempre in piedi e lui comodamente seduto sul divanetto. «Partirei proprio dall’ovvio. Come potresti scrivere un’autobiografia se in ogni tuo atteggiamento e parola traspare il fastidio nei miei confronti?»

«Sono una brava professionista» ribattei, acida. Era vero che ero una brava professionista ma lo avevo detto solo perché non avevo una risposta convincente a quella domanda. Non avevo mai scritto una autobiografia e sarei riuscita a mettermi nei panni di Thompson e far sembrare davvero che fosse lui ha parlare. Temporeggiai, per qualche secondo, lanciando uno sguardo veloce alla stanza: era minimale e piccola, tanto piccola da poterla scoprire tutta con un solo sguardo e piccola, soffocante, con lui all’interno. «L’’ovvio’ non è un problema» aggiunsi poco dopo.

Prese un respiro. «Scusa.»

Sgranai gli occhi. Quello sì che mi aveva lasciata senza parole. Non era una domanda, non era neanche sarcastico. Si stava davvero scusando. La morsa delle braccia si sciolse un po’, ma le tenni sempre ferme al petto.

«Quello non è il mio solito atteggiamento, ma hai iniziato tu. Ho solo reagito al tuo essere indisponente. Ma torniamo su quello o vero non ne usciamo più» frenò la mia obiezione. «Il punto sta proprio qui.»

«Qui, dove?» chiesi, non afferrando il punto.

«Accomodati» disse. Stava temporeggiando, era palese, ma capii anche che se non avessi accettato l’invito non avrei avuto risposte, così mi sedetti, la parte bassa della schiena incollata al bracciolo.

Si passò una mano tra i capelli. «Hai detto che il web è pieno di informazioni su di me. Lo so, e so anche bene cosa dicono. Ma…» tornò di nuovo a torturare i capelli. «Non ho chiesto io questa cosa, questo libro, è stato il mio entourage» digredì.

«Perché mi stai dicendo questo?» La curiosità, mio malgrado, aveva rubato il posto all’astio.

Sorrise, senza allegria, massaggiandosi di nuovo la barba, doveva essere un ‘tic’, immaginai che tendesse a farlo quando era a disagio.

Se voleva essere un modo per avere tutta la mia attenzione era riuscito nell’intento. Avrei voluto di sommergerlo di domande, spingerlo a parlare, ma non l’avrei fatto, non mi sarei esposta così.

«Non sempre tutto ciò leggi e vedi corrisponde alla realtà. A volte le apparenze ingannano» disse sibillino e sembrò stanco.

«E questo che diavolo vorrebbe dire?» lo interruppi.

«Non dovrei dirti quanto sto per fare, è contro contratto. Ma in questo caso devo infrangerlo perché se questo libro si deve fare, e a quanto pare non è negoziabile, deve essere alle mie condizioni. Anche se nessuno deve saperne niente, fino alla pubblicazione.»

Socchiusi gli occhi, soppesandolo, non capivo.

Sapere, cosa?

Stava parlando con me, ma era più come se parlasse tra sé e sé. Si sporse, i gomiti sulle ginocchia e le mani giunte tra le gambe aperte. Sospirò, aveva l’aria di uno costretto a rivelare il suo più grande segreto.

«Se vuoi che capisca, dovrai spiegarti un po’ meglio» dissi, non ne potevo più di quel temporeggiare. Insopportabile era insopportabile, ma aveva attirato la mia attenzione e soprattutto stimolato la mia curiosità, adesso dovevo sapere.

«Tutto questo mistero non mi sta incuriosendo, come forse accade di solito con quelle che rimorchi,  ma piuttosto irritando» mentii. Bugiarda, grandissima bugiarda.

Sorrise, divertito da qualcosa che solo lui poteva capire. «A proposito di questo, non sono vere.»

«Cosa?»

«Quelle ragazze.»
«Nel senso che sono rifatte?»

«Cosa? No! Cioè, non lo so.»
«Non ti stai spiegando.»

Sbuffò, si passò le mani tra i capelli e si lasciò andare contro lo schienale; sembrava voler rimettere in ordine le idee. «La storia venduta al pubblico. Tutto quello che credi di sapere su di me, che tutti credono di sapere è tutto… è solo una balla.»

«Ah.» Era la seconda volta che mi lasciava senza parole, non era una cosa che succedeva di frequente, fino a quel momento c’erano riusciti solo Ian e Cam. Mi riscossi sufficientemente in fretta. «Cioè, vuoi dirmi che non sei circondato da topmodel, cambiando donna più spesso delle mutande, e sempre in compagnia a far festa?»

«No, non lo sono. Nella mia vita c’è una sola e unica donna, ed è la stessa dalle superiori, il resto è tutto… marketing» sputò quella parola come se fosse un insulto. «Mio padre ha voluto, fin dall’inizio, cucirmi addosso questa immagine perché convinto che venda di più e che mi procuri più tifosi e di conseguenza più sponsor» concluse alzando le spalle.

Io ero senza parole. Di nuovo. Non potevo andare avanti così, che cavolo!

«In quanti ne sono a conoscenza?» chiesi quando ritrovai la voce e un minimo di pensiero razionale.

«I miei genitori, Chloe, la mia ragazza, Simon… e adesso tu.»

«Ah.» Ti stai ripetendo, donna.
Ero allibita.

«Ti ho davvero ammutolita? Non credevo fosse possibile» disse divertito.

«Non sei divertente, Thompson.» Stavo per aggiungere una battuta piccata ma il bussare alla porta mi interruppe con le labbra aperte, nell’intento di parlare. 

Il ragazzo che sembrava seguirlo come un’ombra, restò sull’uscio. «Scusate l’interruzione, Jay ti aspettano di là per le analisi di queste prime prove.»

«Grazie Simon, arrivo, tanto qui abbiamo finito.» Si voltò verso di me mentre si metteva in piedi, aspettò che facessi lo stesso e quando fummo uno di fronte all’altro. «Signorina Price, ci vediamo in giro.» Gli strinsi la mano che mi porgeva e ricambiai il saluto, mi stava accomiatando senza che avessi scelta. Avevo tante altre domande che mi frullavano in testa, ora che avevo ripreso del tutto le facoltà mentali ma mi aveva sbattuta fuori. Avrei dovuto aspettare il prossimo colloquio per fugarle, ma di una cosa Thompson poteva stare certo, il prossimo colloquio l’avrei richiesto io e anche molto presto. Mi dissi che l’unica ragione era dovuta al fatto che senza quelle informazioni non avrei potuto lavorare, ma era una bugia. La verità era che per la prima volta da quando Cam mi aveva affidato l’incarico volevo sapere qualcosa. Era la curiosità a spingermi.

Ripercorsi la strada al contrario, ritrovandomi nella confusione del Paddock. Confusione che sembrava rispecchiare quella nella mia testa.







Buonasera! 
Come promesso ecco il nuovo capitolo! Per il momento posso andare abbastanza veloce perché questi capitoli erano già pronti e aspettavano il momento di essere pubblicati :)
Il primo vero faccia a faccia tra Jay e Izzy è arrivato, che ve ne pare di questi due?
Se vi fa ditemelo in una recensione ;)
I prossimi capitoli arriveranno la prossima settimana, ringrazio sempre chi è arrivato fino a qui.
A presto!
Puffola_Lily

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5


Ian mi raggiunse non appena mi vide. «Wow, Izzy, è la cosa più bella che abbia mai visto in vita mia! È già stato emozionante oggi, pensa come sarà vedere la gara da qui. Ricordami di ringraziare Cam per averti assegnato questo lavoro. Devo fargli una statua!»
Annuii, ancora stordita da quanto avevo appreso poco prima.

Mi convinsi che pure se l’immagine che vendeva di sé non corrispondeva alla realtà, non importava. Poteva anche essere meno arrogante e non un playboy, ma si lasciava manovrare e accettava quella situazione; i suoi tifosi lo veneravano, lo acclamavano e adulavano, ma adulavano una persona che di fatto non esisteva.

Tutto questo se possibile m’irritò ancora di più.

«Ah, ho un’altra novità. Ho parlato con alcuni dello staff e ho ottenuto l’autorizzazione a effettuare degli scatti a Thompson.»
«Bene, bene.»
«Izzy, è tutto okay?»
«Certo, tutto okay.» Dubitavo di poter rivelare a Ian il segreto di Thompson, anche se ero certa che lui non lo avrebbe detto a nessuno. «Se ho capito bene prima delle quattro e mezza non c’è granché da fare, dico bene?»

«Sì, ma questo» indicò il pass che ci era stato consegnato all’ingresso, che ci identificava come ospiti fissi della Thompson Motors GP. «Ci dà la possibilità di seguire i briefing e tutto quello che accade nei box. Seguire l’intero dietro le quinte, capisci? Dio, devo fare una statua a Cam, l’ho già detto? Oh, guarda chi c’è» mi voltai seguendo lo sguardo di Ian, che si allontanò senza un’altra parola, andando incontro a Simon. Ero indecisa se raggiungerli o meno, ma l’altra opzione era di rimanere in mezzo al via vai di gente, come uno stoccafisso.

Da come mi guardò Simon capii che sapeva che sapevo.

«E quindi, tu sei il PT di Thompson.»

«Sì. Anche se a dire la verità sono più il ‘tuttofare’ di Jay» disse ridendo. 

«Come chi si occupa di impianti idraulici?» Scherzai. Quel ragazzo era una bocca d’aria fresca. Aveva un’innata capacità - della quale non ero neanche certa che fosse consapevole - di trasmettermi serenità all’istante. Era come un tranquillante personificato.

«No, non proprio. Anche se me la cavo anche con l’idraulica.»

«In cosa consiste il tuo ruolo con esattezza?» chiesi con tono più professionale.

«Sono principalmente il suo PT e Fisioterapista. Ma mi occupo anche di tutti quegli aspetti necessari prima, durante e dopo la gara. In più siamo anche molto amici, perciò» alzò le spalle lasciando in sospeso la frase.

«Venite, possiamo accomodarci dentro, così ti inizio a dare qualche informazione sul tipo di allenamento a cui si sottopone un pilota.»

 

Simon mi aveva fatto una panoramica del lavoro dietro le quinte al quale Thompson si sottoponeva tra una gara e l’altra e anche poco prima di queste. Ci eravamo accomodati in una sorta di area relax, con delle poltroncine e un tavolino. Mi ero appuntata qualche parola chiave e quando Simon aveva concluso il suo ‘racconto’, Ian - che da logorroico qual era, aveva resistito al silenzio per un tempo record per lui - aveva preso le redini della conversazione. Avevo capito che mio fratello avesse tutte le intenzioni di tentare di rimorchiare il Personal Trainer di Thompson e lo lasciai fare; colsi al balzo l’occasione e m’immersi nei miei appunti, dando alle parole chiave una descrizione più accurata così da ricordarle in futuro e valutare poi come poter utilizzare quelle informazioni.

Captai una parte della conversazione, tornando sensibile ai suoni esterni, Ian si stava prodigando nelle sue balle da rimorchio, dicendo che era un appassionato di sport. Evitai accuratamente di non roteare gli occhi al cielo, non avevo intenzione di interferire e sminuirlo. Sì, aveva un fisico asciutto, dovuto anche al fattore altezza, ma lo era di costituzione. Non gli avevo mai visto muovere un dito, figurarsi andare in palestra, piuttosto preferiva una bella colazione da Starbucks.

Mi estraniai di nuovo e questa volta la mente mi riportò al discorso di Thompson.

Era tutta una finzione.

Mi chiesi come si potesse vivere in quel modo, la parte più maligna di me diede la risposta: con tutto quello che guadagnava poteva dispiacersi, ammesso che gli dispiacesse, in tre o quattro case diverse.

Come il famoso detto: ‘parli del diavolo e spuntano le corna’ adattabile in questo a ‘pensi al diavolo e spuntano le corna’, Thompson comparve. Batté una mano sulla spalla dell’amico prima di accomodarsi al suo fianco. «Sono dieci minuti che ti cerco» disse stravaccandosi sul divanetto.

«Tutto fatto?» chiese Simon.

Lui annuì. «Che fate qua?»

«Stavo chiacchierando con Ian e sua sorella.» Ero diventata la sorella di Ian, molto bene. Ian aveva ragione, il suo gay-radar non sbagliava mai, era chiaramente interessato a mio fratello. Si accorse della ‘gaffe’, forse per lo sguardo divertito che aveva Thompson, e si schiarì la gola prima di correggersi. «…E Izzy. Le stavo illustrando il nostro programma di allenamento.»

Io, dal canto mio, lanciai un’occhiata a Ian, notando che aveva un’espressione compiaciuta. Mi dispiacque per Simon, non era sfuggita a nessuno la sua frase.

Vidi con la coda dell’occhio Ian che si sporgeva verso il ragazzo e dire qualcosa che non sentii perché nel frattempo avevo aperto bocca anch’io. Certamente per via di quello che mi aveva confessato, Thompson mi guardava con sfida. Come a dire «Ora che insulti vorresti affibbiarmi? Tutte le tue certezze sono cadute nel vuoto.»
La parte razionale del cervello mi diceva di comportarmi educatamente e usare come argomento quanto avevo appena scoperto sugli allenamenti - che non avrei mai immaginato fossero così intensivi - ma l’istinto ebbe la meglio. Risalì a galla la curiosità, con tutte le sue domande.

«Perché—?»
«Non qui.» Tagliò il discorso lui, forse comprendendo dove volevo andare a parare.

Mi guardai intorno e registrai la presenza di tutta la gente che affollava il box e della cui esistenza me ne ero quasi dimenticata.

«Sembra un posto appartato, ma qua anche i muri hanno le orecchie.»

Annuii, controvoglia. «Bene. Passiamo a un discorso meno scottante. Molto presto la stampa e i media si accorgeranno della mia presenza, dobbiamo trovare una copertura credibile. Non che abbia tutto questo piacere di essere notata ma credo che sia inevitabile, visto l’aura mediatica che ti gira intorno.»

«Per questo hai scelto il ghostwriting, per restare nascosta?»

Assottigliai lo sguardo e non risposi. Rifiutavo di farlo e scoprire il fianco. Non è perché si era confessato allora non eravamo più in guerra. Non l’avevo mai pensata in quel modo, fino a quel momento, ma era la realtà. Io e lui eravamo in guerra, due fazioni opposte, in contrapposizione.

Si massaggiò la barba corta. «Sì, ci ho pensato anch’io» disse tornando alla mia domanda. «Potremmo dire che sei una parente lontana.»
«Che ha sviluppato un’ossessione nei tuoi confronti. Visto che dovrò seguirti ovunque e sempre. Passerei per una psicopatica. No, grazie.»

«Perché non lo sei?» mi provocò, con palese divertimento.

«È una battuta tanto squallida che non merita neanche una controbattuta.»

«Una groupie?» disse, provocandomi, ancora. 

«Una pessima groupie. Non mi troverei assaltata dall’orda di galline pazze… scusa, ragazze che ti vengono dietro?»

«Se hai un’idea migliore, prego, accomodati pure.» Mi porse il palmo, invitandomi a tirar fuori una proposta.

Ci riflettei su. Avevo criticamente scartato le sue opzioni, come avevo fatto con le mie, che avevo valutato precedentemente. Per non fare la figura dell’idiota dovevo tirar fuori un’idea buona, valida e realistica.

«Ian mi ha detto che è stato autorizzato a farti da fotografo» buttai lì, cercando un ragionamento che mi portasse alla soluzione.

«Sì, affiancherà Tony, l’attuale fotografo ‘ufficiale’» rispose, con perplessità. Probabilmente si domandava dove volessi arrivare. Me lo chiedevo anch’io.

Giochicchiai con la penna, sbattendola ritmicamente sul bloc-notes, pensando.

«Potrei—» iniziai, ma venni interrotta subito.

«L’opzione della groupie è la più valida, vero?»

«No.» Avrei tirato fuori una possibilità migliore di quella, anche solo per non dargliela vinta. «Pensavo più a una del team Social Media Manager. La mia faccia e il mio nome possono anche non comparire, ma nel contempo la mia presenza è giustificata.» Mi lasciai andare contro lo schienale, soddisfatta. Dopotutto sotto pressione non rendevo così male.

Si passò una mano tra i capelli chiari. «Sì, penso che possa funzionare» borbottò.

«Non ho capito» dissi, fingendo di non aver sentito. Invece avevo sentito più che bene, ma era la mia vittoria e volevo godermela.

«Penso che possa funzionare» ripetè a voce più alta. 

«Bene, e questa è sistemata.»

Era solo sulle centomila cose. Ma era pur sempre un inizio.

 

Quando Thompson e Simon si dileguarono per l’inizio della seconda sessione di Prove, mi rivolsi a Ian che, per tutto il tempo in cui i due erano stati seduti con noi, non aveva fatto altro che parlare - come sua abitudine - e fissare e rivolgersi a Simon. «Ricordi ancora della mia esistenza e del resto del mondo oppure nella tua testa esiste solo una certa persona?»

«Ah ah, simpatica. Piuttosto, ho visto che tu e Jay siete riusciti a parlare senza scannarvi a vicenda. Un bel passo avanti rispetto a stamattina.»
«No, no, mio caro. Tu adori parlare di te, non puoi svicolare proprio adesso.»
«Sei tu che stai svicolando
«Sono stata io a introdurre il discorso, quindi parliamo di te.»
«E d’accordo, parliamo di me. Poi però non dire che sono egocentrico e logorroico.»
«Logorroico lo sei e se ne sono accorti anche gli altri» lo canzonai.

Per tutta risposta mi fece una linguaccia. «Te l’avevo detto che non mi sbagliavo su Simon» mi strizzò l’occhio.

Sorrisi. «Buon per te, è un gran bel ragazzo e mi sembra anche carino e gentile.»

«Non ti ci mettere pure tu a correre.»
«Pure io? E chi altri?»

«Io» rise. «Non puoi capire, sono già partito con i film mentali, Izzy» disse trasognante.

Ian e io avevamo molti tratti in comune, sia fisici che caratteriali, ma una cosa che proprio non avevamo in comune erano l’istintività e il partire il quarta. Io ero molto, forse troppo, riflessiva; tutto era ragionato e vivevo con i piedi ben piantati per terra. Lui invece era fuoco puro, si lanciava a capofitto senza pensare, solo perché la pancia gli diceva di farlo e da una foglia ci vedeva un intero bosco. Era così in tutto, dalle relazioni, al lavoro, agli hobby. «Del tipo, che stai già pensando a cosa indosserai quando lo raggiungerai all’altare?»

«Sì, qualcosa del genere.»

Spesso il suo essere così precipitoso spaventava i ragazzi che frequentava e lui puntualmente ci soffriva. «Sembra un bravo ragazzo. Non dico di non essere te stesso, ma invece di guardare sempre avanti, prova a goderti il momento. Non dimenticarti che lo conosci da mezza giornata.»

«Sei troppo cinica, sorellina.»
«E tu troppo ‘facilone’. Ricordo bene in che condizioni sei dopo una rottura.»
«È la vita, Izzy, la nostra vita. Che ci stiamo a fare qui se non la viviamo?»
Roteai gli occhi. «Sai chi sembri? Un filosofo da quattro soldi, o uno di quelli in tv che si spacciano tali. In ogni caso è una predica che puoi evitarti, anzi che vorrei evitassi di farmi perché non ne ho bisogno, grazie.»

«Credo proprio che sia il contrario. Illuminami un po’, com’è che ti godi la vita?»
«Mmm, fammi pensare» misi una mano sotto il mente. «Oh, ma guarda un po’!» Finsi di essere illuminata dalla risposta. «Non sono affari tuoi. Piuttosto… Tu. Casa e palestra, e da quando? Ma se abiti al secondo piano e per salire a casa prendi l’ascensore? Non sei credibile, fratello.»

«Puoi abbassare la voce? Potrebbe sentirci» disse, gettando un’occhiata alle mie spalle, dove immaginai avesse individuato Simon. «Lo sappiamo solo tu ed io. Lui non lo sa e non lo verrà a sapere se non lo urli ai cinque venti.»

«Quattro.»

«Scusa?» chiese, staccando finalmente gli occhi dal Personal Trainer di Thompson.

«I venti sono quattro. Ma hai studiato?! Tanti quanti i punti cardinali. Sai almeno cosa sono i punti cardinali, vero? Sai, est, ovest, nord…»

«A differenza di qualcuno, io coglievo l’occasione anche per guardarmi intorno e fare conoscenze invece di stare solo sui libri. E sappi che quando fai la saputella sei insopportabile. Poi quello supponente è—»

«È una cosa completamente diversa!»

«Ne sei sicura, Izzy, ne sei sicura?» Aveva questa odiosa abitudine, questa cadenza di ripetere la stessa domanda intercalata dal nome, per farmi dubitare non solo di quanto detto ma anche dei miei pensieri. Non lo sopportavo. Soprattutto perché la maggior parte delle volte, in passato, aveva avuto ragione da vendere.

Ma non questa volta, oh no, questa volta si sbagliava di grosso e ne ero più che certa.

«Sì» sibilai a denti stretti.

«Bene, adesso che abbiamo parlato di me, torniamo a te.»
«Non c’è niente da dire, in questo caso.»

«Ah no? Sei sicura, Izz—»
«Non rifarlo, sei odioso quando lo fai.»

«Dici così perché sai che ho ragione.»
«Ma ragione su cosa? Non ci siamo scannati, okay, e quindi? Ci hai visto mica disegnare cuoricini sulla spiaggia? Non mi pare. È stata una conversazione parzialmente civile, tutto qui.»

«Mi chiedo solo com’è possibile un cambio così radicale in sole così poche ore. Forse dopotutto non serve conoscere qualcuno da tanto tempo per cambiare idea su quella persona, diventarle amica o anche qualcos’altro.»

«Ehi, fermo un po’! Amica è esagerato, e non ho minimamente cambiato idea su di lui.» Ian mi guardò storto. «Okay, forse in piccolissima parte, così piccola che è del tutto irrilevante.»
«Stai facendo tutto tu.» Scoppiò a ridere. «Io parlavo di me, ma evidentemente nascondi qualcosa, vista la tua reazione.»
«Cosa ti ha detto quando prima vi siete incontrati?»

Alzai le spalle, prima di voltarmi a osservare il movimento che si infervorava dietro di noi. «Era solo un colloquio. Credo che si stiano preparando per l—»

Riuscii nel mio intento di distrarlo. «Sì, hai ragione. Avviciniamoci.» Si alzò, fece qualche passo prima di tornare indietro. «Sappi che il discorso è solo rimandato. E ora che ho capito che c’è qualcosa sotto ti torturerò, come so fare io, finché non me lo dirai.» Mi baciò la guancia e si allontanò.

Era sorto un nuovo problema.




Buonasera! 
Ecco a voi il nuovo capitolo! 
Grazie sempre a chi legge questa storia e a chi arriva fino a qui. 
Tra qualche giorno arriverà il prossimo
Mi piacerebbe leggere cosa ne pensate, quindi se vi lasciate una recensione; naturalmente sono ben accette anche le critiche :)
A presto!
Puffola_Lily 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6 


Alla conclusione della prima giornata avevo capito che se volevo davvero fare il mio lavoro, dimostrare che potevo riuscirci e, quindi, farmi affidare il mio primo libro giallo, non potevo starmene defilata in un angolo. Dovevo - purtroppo - diventare l’ombra di Thompson.

Alla conclusione della seconda, avevo avuto più una conferma che una scoperta: in quel posto erano tutti pazzi!

Queste erano le considerazioni che avevo esplicato a Ian mentre ci preparavamo per affrontare l’ultima delle tre giornate. 

Era dal giorno precedente che evadevo la domanda che Ian insisteva a pormi, ossia sapere cosa mi avesse detto Thompson durante il primo colloquio. Avevo provato a propinargli qualche cavolata ma non c’era cascato. Così a intervalli più o meno regolari insisteva.

Stavo per perdere la pazienza. Che era già poca di suo, soprattutto negli ultimi giorni.

«Se te lo dico la smetti di torturarmi?»

«Dipende da quello che mi dici.»

Ci fermammo, lo presi in disparte e controllai che non passasse nessuno. «Mi devi giurare, su quello che hai di più caro, che non parlerai mai quello che ti dirò. Con nessuno, mai.»
«Uuhh si fa interessante!»

Ian era fidato, lo sapevo, ma stavo comunque confessando il segreto di qualcun altro e non mi sembrava giusto.
«Thompson non è davvero ciò che appare»
«Cioè?» chiese curioso.

Sospirai. «La sua immagine è tutta una farsa. Ma Ian, mi raccomando, lo sappiamo solo in quattro o cinque persone» sussurrai. «Chiudi la bocca o ci entreranno i moscerini.»

«Jay Thompson… quindi lo stronzo, antipatico e festaiolo Jay Thompson non è davvero così

«Allora lo ammetti che si comporta da stronzo!»

«Come pilota, dicevo. Quindi è tipo un santarellino?»

«Già, dice che sta con la stessa ragazza dal liceo.»

«Non l’avrei mai detto. La copertura gli dona molto.»
«Cosa ci vedi nei ragazzacci lo sai solo tu.»
«E un altro milione di persone» borbottò lui. «Avanti, andiamo o faremo tardi.»

Mi prese per un braccio ma opposi resistenza. «Hai giurato, neanche una parola. Con. Nessuno.»
«Giuro. Simon lo sa?»
«Sì, ma non deve sapere che lo sai. Altrimenti Thompson in tempo record verrebbe a sapere che tu sai e che quindi io ho cantato, chiaro?»
«È contorto ma sì, ho capito.»

Entrammo nell’area dei box, Ian sparì dalla mia vista, probabilmente si era affrettato a raggiungere Simon, ovunque fosse, mentre io mi diressi verso un bancone che si trovava vicino agli schermi dai quali era possibile seguire ciò che accadeva in pista. La sala, a parte gli ingegneri era quasi vuota, i meccanici non erano ancora rientrati. Individuai Ian che in disparte chiacchierava con Simon a pochi centimetri dal suo viso, e, mio malgrado, anche Thompson, che stava discutendo con quello che immaginavo fosse il suo ingegnere - da quello che mi aveva spiegato Ian ogni pilota aveva il suo personale -, scostai lo sguardo da lui e notai due donne sedute su degli sgabelli vicino a me. Neanche al ballo di fine anno, al quale ero andata da sola visto che il ragazzo dell’epoca mi aveva mollata il giorno prima, mi ero sentita così tanto a disagio.

La tentazione di raggiungere Ian e Simon era tanta, ma stavano palesemente flirtando e non mi sembrava il caso di disturbarli. Le due donne che avevo notato quando entrata, parlavano amichevolmente ed era chiaro che fossero molto in confidenza. Una delle due doveva avere più o meno la mia età, mentre l’altra donna era più grande, ma portava bene i suoi anni. Quest’ultima aveva un’aria familiare, ma non riuscivo a ricordare dove potessi averla vista. Quando mi sedetti su uno sgabello libero, tirai fuori il mio taccuino e iniziai a rileggere quanto avevo scritto, più per tenermi impegnata che per reale necessità - quel lavoro avrei potuto farlo anche più tardi o l’indomani - la conversazione s’interruppe di colpo. Nello stesso momento, la stanza iniziò a riempirsi, i meccanici stavano facendo ritorno e tutti stavano prendendo posto.

«Scusa, ci conosciamo?»
Il viso della donna più giovane comparve a lato del mio, inaspettatamente.

Scossi la testa, sorridendo educatamente.

«Sicura? Hai un viso familiare.»

«Forse ci siamo incontrate in giro per il paddock» tentai. Io davvero non l’avevo mai vista.

«Oh, sì. Ora ricordo» disse, lo sguardo illuminato dall’improvvisa intuizione, prima di presentarsi con voce squillante. «Io sono Chloe.» Mi tese la mano, che strinsi.

Chloe… quindi era lei la famosa - in realtà per niente - fidanzata di Thompson.

«Sei la nuova ragazza di André, allora?» urlò al mio orecchio cercando di sovrastare il rumore delle auto in accelerazione, che proveniva da poco distante e del vociare nel box.

«Cosa? No, no. Sono Isabella, Izzy. Sono…» era arrivato il momento di usare la mia copertura. «Sono la nuova assistente della Social Media Manager.»

Chloe annuì, convinta. Mi rilassai un po’. Quella micro-conversazione mi aveva distratta dal luogo in cui mi trovavo, ora che non ero più ‘distratta’, di colpo i suoni mi piombarono addosso come un’improvvisa doccia fredda. La gara stava per cominciare, le auto erano già uscite dai box e completato il giro di formazione, adesso erano solo in attesa che i cinque semafori si spegnessero. L’attenzione di tutti era calamitata dal maxi-schermo che riempiva una delle pareti. Mi sentivo fuori luogo, le persone intorno a me erano elettrizzate, trepidanti, io invece avevo la sensazione che quelle quattro pareti mi si chiudessero addosso. Per distrarmi, scostai lo sguardo dal monitor e lo fissai sull’unico membro della famiglia che mi fosse rimasto e che antiteticamente sembrava al settimo cielo all’idea di trovarsi lì.

 

Quando la gara finalmente finì tirai un sospiro di sollievo, anche se il senso di nausea non mi abbandonava. Thompson aveva vinto - a quanto pareva era una costante - ma il mio sollievo era dovuto al fatto che non ci fosse stato nessun incidente di rilievo. Il box era in festa, tutti urlavano e si abbracciavano. Approfittai per svignarmela prima che l’aria diventasse del tutto irrespirabile. L’immobilità aveva messo alla prova il mio ginocchio, così faticai un po’ di più a farmi largo senza zoppicare troppo evidentemente; cercavo di nascondere quanto più possibile questo mio ‘deficit’.

Respirai con la bocca aperta, tentando di incamerare più aria possibile e allo stesso tempo di rallentare il battito e restare nel qui e ora. Sapevo cosa stesse per succedere ma non volevo succedesse.

Eppure le immagini di quelle auto che sfrecciavano si sovrapponevano ad altre, in cui dei fari accecanti si avvicinavano a velocità e al successivo boato.

Una mano si posò sulla spalla, sussultai. Mi voltai e trovai il viso e trovai quei due pozzi cioccolato che sapevano come calmarmi. Mi concentrai sulla sua pupilla, sulla sua iride così scura da essere difficile definirne il contorno, tutto pur di restare lucida e presente.

«Izzy, è tutto okay.» La sua mano mi stringeva la spalla, con forza senza tuttavia procurarmi davvero dolore, sapeva che ne avevo bisogno per non lasciarmi andare agli incubi, ai ricordi. «Respira. Dentro. Fuori.»

Senza chiudere gli occhi, ma anzi concentrandoli ancora di più nei suoi, seguii il ritmo del suo respiro e pian piano il formicolio alle mani si attenuò, come rallentarono i battiti e il respiro si regolarizzò.

«A posto?» 

Annuii. Parlare era la cosa più difficile da fare, in quei momenti.
«Rispondimi Izzy.»

«Sì» dissi flebilmente.

Vidi buttar fuori un sospiro anche a lui. «Sono stato un coglione, scusami. Ti sarei dovuto stare accanto, invece mi sono lasciato prendere dall’euforia.»
«È tutto okay» risposi, sempre con un filo di voce.

«Chiedo a Simon se puoi sederti un po’ in una delle stanzette, così stai lontana dalla confusione.» Si voltò, già pronto ad allontanarsi. Lo fermai prendendogli la mano.
«No» mi schiarii la gola. «Non serve, solo… allontaniamoci da qua, se è possibile. Aiutami a trovare un posto a sedere.»
«Era quello che volevo fare Izzy.»
«Non voglio che mi vedano così… sconvolta. Non sarebbe professionale.»
«D’accordo, appoggiati a me. Ti fa male il ginocchio?»
Annuii. Stranamente durante quegli attacchi mi formicolava tutto il corpo e perdevo la sensibilità, tranne che al ginocchio sinistro, quello come fosse un monito, faceva più male del solito.

Trovammo un posto nell’area ristoro lì vicino e Ian mi procurò un bicchiere di succo di frutta.

Pensai distrattamente che avevo dimenticato il taccuino nel motorhome. Chiesi a Ian di andarlo a prendere, tentando, invano, di convincerlo che stavo meglio, ma lui non mi mollò un attimo. Continuando a chiedermi a intervalli regolari come stessi. Smise solo quando tornammo in hotel e mi vide distendere sul letto, a quel punto si premurò solo di rimboccarmi le coperte e di chiamare la reception chiedendo una proroga per il check-out, che percepii con la semi incoscienza, prima di cedere alla stanchezza. Avevo chiesto troppo alla mia mente, in quel weekend, ma mi sarei dovuta abituare presto. O reagire così a ogni weekend mi avrebbe portato alla pazzia. 



Buongiorno! 
Rieccomi :)
La scorsa settimana non sono riuscita a pubblicare, gli impegni mi hanno spraffatta purtroppo. 
Ma eccomi qui adesso con un nuovo capitolo , se riesco mi piacerebbe nel fine settimana pubblicarne un altro.
Come sempre vi ringrazio per essere arrivat* fino a qui, spero vi sia piaciuto
Se vi va di lasciarmi un commento ne sarei contenta
A presto!
Puffola_Lily

P.S. La storia la trovate anche su Wattpad ;) lì mi chiamo PennyLewis7  

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

 

Sul volo di ritorno avevo scoperto, con mio sommo sollievo, che tra un weekend di gara e l’altro si intervallava talvolta una settimana, più raramente anche due.

La fortuna girava dalla mia parte, così avevo una decina di giorni di tranquillità, per riprendermi del tutto giusto in tempo per la prossima gara.

Il lunedì mattina mi diedi malata, avevo necessità di recuperare le forze, di riordinare le idee e soprattutto non ero psicologicamente ed emotivamente pronta ad affrontare un Cam entusiasta e fiero di me. Io non lo ero. Non sapevo bene il perché ma non ero affatto soddisfatta.

Ancora in pigiama, nonostante fossero le undici passate, mi passai una mano sulla faccia, pensando alle occhiaie che dovevo avere ma senza il coraggio di guardami allo specchio. Misi nel lavello la tazza della colazione e dopo aver recuperato dallo zaino - che non avevo avuto la forza di disfare - il taccuino e preso il computer, mi misi a lavorare sulle prime informazioni che avevo ottenuto.

Aprii il programma di scrittura e in grassetto e al centro scrissi ‘L’uomo dietro il pilota’, andai a capo e… mi fermai lì; con quella stanghetta lampeggiante che sembrava mi giudicasse, iniziai a riflettere.

A riflettere sull’immagine di Thompson, quella creata, fittizia, quella conoscevano tutti e visibile sui tabloid di tutto il mondo; e a quella vera, della quale sapevo ben poco, in realtà.

Era quella la distinzione tra uomo e pilota? 

Scossi la testa, non era il momento di porsi quella domanda. Piuttosto, sì, mi aveva detto che aveva una fidanzata ‘fissa’ ma a parte quello cosa mi aveva detto davvero? D’accordo, non cambiava donna ogni sera, ma non sapevo quale altra differenza ci fosse tra il ‘vero’ Thompson e quello che conosceva il pubblico. Chi era veramente?

Potevo pure a iniziare a mettere per iscritto su un documento Word gli appunti presi in quei giorni ma al momento potevo farci poco, molto poco.

Appuntai su un angolo del bloc-notes un promemoria: parlare seriamente con Thompson.

Con il pc ancora davanti e quella stanghetta che mi ricordava di scrivere qualcosa, mi focalizzai sul taccuino, decisa a metter per iscritto tutte le domande che avrei dovuto porgli e che mi avrebbero permesso di avere una visione più d’insieme, così da poter iniziare a lavorare sulla prima stesura del libro. Perché in quel momento, non avevo in mano abbastanza per iniziare a farlo.

Quando finii di scrivere, ben due pagine intere di quesiti, decisi che era il momento di una doccia rigenerante e l’occasione per mettere da parte Jay Thompson, che aveva occupato i miei pensieri già abbastanza.

 

Rinfrescata ma non rigenerata come speravo, indossai qualcosa di comodo e uscii a fare una passeggiata. Aprii la porta di casa mentre finivo di indossare il cappotto e saltai in aria dallo spavento quando trovai una figura sull’uscio di casa con la mano alzata chiusa a pugno.

«Ian! Ma che cavolo…?

«Cosa? Sei tu che non mi hai dato il tempo di bussare. Stavi uscendo?»
«No, di solito mi metto il cappotto e apro la porta per fare entrare un po’ d’aria» risposi, sarcastica.

«Ah ah ah, che divertente che sei. Dove stavi andando?»
«Tu, piuttosto, che ci fai qui? Siamo stati insieme fino a ieri, credo che sia da quando hai compiuto quindici anni che non passiamo più tutto questo tempo insieme.»
«Dove andavi?» Chiese ignorando la mia domanda e il commento.
«Sei petulante, te lo hanno mai detto?»
«Sì, un sacco di volte. Ora che ci penso il più delle volte sei stata tu a dirlo. Dunque, dov’è che stavi andando?»
«A fare una passeggiata. Ho bisogno d’aria» risposi, per esasperazione.

«Va tutto bene?» chiese, con tono improvvisamente serio.

«Sì» dissi annuendo.

Mi scrutò ancora per qualche secondo per accertarsi della veridicità della mia risposta.

«Okay. Possiamo fare una passeggiata insieme, allora.»
«Veramente volevo camminare in silenzio.»
«Possiamo farlo.»
«Davvero, Ian, ne saresti capace?»

Mi beccai una linguaccia in risposta che mi fece sorridere. «Magari non saprò stare in silenzio ma ti posso promettere che non si parlerà di tu-sai-chi e di tu-sai-cosa.»
«Non ho alcun problema con Voldermort.»
«Non stavo…» sospirò. «Intendevo… be’ lo sai.»
«Ian, puoi chiamarlo per nome. Non mi verrà un attacco di panico solo perché lo nomini.»
«Sicura?» Annuii. «Non parleremo né di Thompson né di Formula 1, parola di scout.»

«Tu non hai fatto gli scout.»
«Come sei pignola.» Alzò gli occhi al cielo. «Promesso e basta, ti va bene?»

Annuii. «Dai, andiamo, ti offro un cappuccino» dissi, invitandolo a spostarsi per permettermi di uscire.

«E una ciambella, anzi no, due. Non saprei decidere tra crema e marmellata.»

«Certo signor casa e palestra.» Scoppiai a ridere. Lui mi diede una spintarella, ridendo anche lui.

 

«Posso venire a stare da te?»

Quella domanda mi prese alla sprovvista e mi irritò anche. Gesù, non avevo bisogno della balia!

«Cos’ha la tua che non va?» borbottai, acida.

«Mah, forse il fatto che non ne abbia più una.»

Mi sentii uno schifo. Così concertata su di me e sui miei problemi che non mi ero curata di Ian. «Come?»

Alzò le spalle. «Il lavoro di fotografo non sta andando bene come speravo, anzi peggio di come avrei mai potuto immaginare. Ormai con l’era degli smartphone le persone credono che basti usare la fotocamera di un telefono per fissare un ricordo e che sia uno spreco di soldi investirli in un fotografo così… be’, non ho pagato un paio di mensilità e il padrone di casa mi ha cacciato.»
«Un paio?»

«Quattro o cinque.»
«Perché non me lo hai detto?»
«Non sei la sola ad avere un orgoglio, sorellina. E poi credevo sempre che sarebbe andata meglio, che sarebbe arrivato l’ingaggio giusto e che avrei risolto.»

«Ian…»
«È tutto okay. Be’, lo sarà se mi permetterai di venire a stare da te» scherzò. «Altrimenti devo andare a chiederlo a Cam e quello sì che ferirebbe a sangue il mio ego.»

«Certo che puoi, che domande!»
«All’inizio non mi sembravi così ben predisposta.»
«Solo perché pensavo che lo stessi facendo per tenermi sotto controllo, dicendo implicitamente che dubiti che possa farcela e che, invece, credi che possa crollare da un momento all’altro.»
«Sorellina, l’unica che nutre dei dubbi sei tu. Io, anzi, noi, tiro in ballo anche Cam, siamo certi che tu possa farcela. Sei molto più forte di quanto credi, anche se a volte lo dimentichi.»

Al sentir quelle parole, complice la sensibilità di quei giorni, gli occhi mi si riempirono di lacrime.

Ian mi venne vicino e mi abbracciò forte. Una volta tanto senza parlare.

«Grazie» mormorai con le lacrime che scendevano silenziose.

«Sei la mia sorellina» disse solo, ma sapevo che sotto c’era tanto altro.

Mi diede un bacio sulla cima della testa e si scostò, ma senza tornare al suo posto, di fronte a me.

«Sei pronta ad avermi h24 in mezzo ai piedi?»
Sorrisi, tamponando le lacrime e soffiando il naso. «So che me ne pentirò in due minuti appena» scherzai. Mi diede una spallata prima di chiedere il conto.

«Quando devi lasciare la casa?» chiesi mentre passeggiavamo.

«Mmh, tipo entro oggi?»

Spalancai la bocca, sbalordita. Lo presi per il braccio, fermandolo.

«E se per un qualsiasi disparato motivo avessi dovuto dirti di no cosa avresti fatto?»
«Non mi avresti mai detto di no.» Mi fece l’occhiolino.

«E se invece l’avessi fatto?»
Alzò le spalle. «Sarei andato a chiedere asilo allo zio Cam.»

Scossi la testa. «Sei sempre il solito incorreggibile. Dai, ho la giornata libera, se vuoi ti aiuto a impacchettare e traslocare.»

«Izzy, sei consapevole che non posso fare un trasloco a piedi, vero? A proposito, ho la macchina posteggiata proprio lì.»

«Esistono gli autobus»
«Izzy…»
«No, scordatelo.»

«Vado piano.»
«No.»
«Sorellina, sii ragionevole. Non possiamo arrivare a casa mia a piedi e tornare, sempre a piedi, con scatole e scatoloni.»
«Tu prendi pure la macchina, io inizio a fare strada. Ci vediamo a casa tua. Ti aiuto a impacchettare e mentre porti la roba da me, io faccio la strada al contrario.»
«Ti ascolti? Ti rendi conto che è una cosa assurda, vero?»

«Su quella cosa non ci salgo.»
«Sono solo un paio di isolati, c’è pure traffico, si camminerà a passo d’uomo. Izzy, per favore.»
Andò avanti per diversi minuti, pregandomi prima e rimproverandomi dopo. Fino a che non fui costretta a cedere e a salire su quel trabiccolo. Contro ogni mia volontà. Cosa che volli ripetergli più volte, in modo che fosse chiaro il concetto che se fosse stato per me non sarei mai salita su quell’auto se non mi avesse costretto.

«Ho capito, ho capito. Sei qui contro ogni tua volontà, sei stata più che chiara.»

 

Tre ore dopo eravamo ancora intenti a sistemare e disfare qualcuno degli scatoloni di Ian a casa mia. Stavamo intonando, anzi stonando, il ritornello di una canzone che suonava dalla cassa bluetooth. Il viaggio in auto, era stato terribile come sempre, nonostante fosse stato breve dal punto di vista della distanza perché come previsto da Ian c’era traffico. 

«Izzy.»

«Mmh?»

«Quando prima dicevi che possiamo parlare di Thompson… dicevi sul serio?»

Annuii, liberando un cassettone.

«Sicura, sicura?»

«Sì, Ian» risposi esasperata. 

«Okay, quindi… possiamo parlare della bomba che hai sganciato e della quale non abbiamo potuto parlare?»

«Quell’assurda cosa che la sua immagine di pilota non corrisponde a quello che dice di essere davvero?»

«Proprio quello, anche se l’avrei detto in modo diverso, ma sì. Voglio sapere: cosa ti ha detto nello specifico? Anche da stronzo è attraente e interessante, ma pensa se invece per davvero è tipo un orsacchiotto? Oh, potrei innamorarmi davvero!»
«E il tuo Simon dove lo mettiamo?»
«Che c’entra! Quello per Jay è un amore platonico, quello per Simon è fisico, molto fisico, se capisci cosa intendo.»
«Capisco bene, grazie, e farei anche a meno dei dettagli della tua vita sessuale.»

«Tornando a Thompson… racconta.»

Alzai le spalle. «Cosa vuoi sapere?»

«Cosa ti ha detto esattamente?»

Alzai di nuovo le spalle. «Ha detto che era tutta una finzione, che la sera non frequenta alcun festino, che ha una ragazza dal liceo - questo te l’avevo già detto - e non ha mai avuto nessun’altra relazione, e che è stato suo padre a imporgli quest’immagine.»

«Uuhh, e come si chiama?» chiese sprizzando curiosità da tutti i pori.

«Suo padre? Boh, che ne so, non ho chiesto.»
Roteò gli occhi. «Suo padre si chiama Patrick, comunque, ma non intendevo lui. Parlavo della fantomatica ragazza.»

«Ma che ti importa?»
«Be’, pensavo di sapere tutto sulla sua vita e invece ho scoperto di non sapere nulla, quindi sono curioso. Voglio sapere tutto

«Chloe, mi pare.»

Ian inizio a straparlare, ma non lo sentii. Un vuoto allo stomaco mi sorprese. Mi stupii che ricordassi quel particolare, ma attribuii la cosa al fatto che era un’informazione importante per il libro, solo per quello.

Era così, vero?

 

Buon pomeriggio!

Non credevo di farcela questa settimana tra i mille impegni e invece ecco qui il capitolo!

Grazie a tutt* voi, a chi è arrivat* fino a qui e ai lettori silenziosi 

Se si va di farmi sapere la vostra opinione, a me farebbe molto piacere sentirla, o meglio leggerla :)

Alla prossima ;)

Puffola_Lily

 

P.s. La storia è presente anche su Wattpad!

 

 

 

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