Dentro i tuoi silenzi

di Orchidea7
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 Carte in tavola ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Scott

Osservo la distesa di grattacieli che si ergono oltre la vetrata del mio ufficio, il sole del pomeriggio si insinua tra le loro ombre sferzando il cielo ricco di nuvoloni plumbei. Sospiro pregando che non finisca a piovere o il mio pomeriggio potrà considerarsi saltato.

Picchietto nervosamente l'indice sulla parete liscia della scrivania in vetro, mentre la tensione per l'imminente arrivo di quell'uomo, mi stringe la gola, sono pronto a scattare a ogni minimo rumore che percepisco.

L'attesa si impossessa dei miei muscoli, li stringe, li comprime, li avvolge in una spirale oscura che non mi permette di restare un minuto di più seduto su quel giaciglio comodo che è la sedia girevole del mio ufficio. I brividi percorrono ogni lembo di pelle, devo alzarmi: inizio a camminare senza una meta, mentre il macigno sul mio petto si appesantisce ogni minuto di più.

Alzo energicamente la manica della camicia, il mio vecchio Rolex dorato è sempre al suo posto, ma l'ora segnata dalla lancetta non lascia scampo a fraintendimenti: il mio ospite è in ritardo, in estremo ritardo. 

Gli ho dato appuntamento quasi venti minuti fa per approfittare della pausa pranzo e sperare che nessuno possa incrociarlo, la sua presenza non deve essere contemplata da nessuno. È il mio fantasma, il mio personale traghettatore per l'Inferno venuto a riscuotere il suo tributo.

Sistemo il colletto della camicia immacolata, con l'aiuto di due dita mi insinuo nella morsa ostile che stringe la mia trachea, è la rigidità del cotone che attenta alla mia stessa vita, provo a trovare sollievo dalla presa esercitata, ma l'azione porta ben pochi benefici e l'aria sembra mancarmi lo stesso.

Spazientito, afferro il cellulare pronto a chiamare nuovamente quel maledetto numero, ma prima che possa premere sullo schermo luminoso, un rumore metallico rimbalza tra le pareti degli uffici vuoti e attira la mia attenzione. La porta dell'ufficio si apre di scatto e non ci metto molto a capire chi sia il responsabile di tutto questo baccano: l'energumeno che entra ha i capelli scuri e unti, mi scruta, fa uno strano movimento con la bocca e poi si avvicina, chiudendo l'anta in mogano alle sue spalle con il movimento del tallone.

Il suo incedere pesante e lento, mi riporta alla prima volta in cui l'ho visto e un sapore amarognolo si fa spazio nella mia bocca, i ricordi si colorano di una sfumatura amara che sopporto a stento.

«Signor Miller, che piacere rivederla».

Appena apre la bocca, i denti gialli attirano la mia attenzione aumentando il senso di disgusto che fatico a ignorare. Continua a fissarmi con il suo ghigno disegnato, segno inequivocabile di quando la mia reazione lo diverta profondamente.

«Il nostro amico le manda questo. Spera che i suoi modi si dimostrino celeri come lo sono stati in passato.»

Posa una cartellina lucida sulla scrivania e la lascia scivolare sulla superficie. Per poco non finisce oltre il bordo, ma lo slancio fa fuoriuscire alcuni fogli e una foto. Mi avvicino con timore, afferro con la mano tremante quella figura rettangolare e chiudo gli occhi per qualche secondo: so bene che una volta che i miei occhi si saranno posati su quella documentazione, tutto cambierà, proprio come succede ogni volta. Faccio un respiro profondo, osservo quella figura e lascio che il  cuore rotoli per terra diviso in mille pezzi.

«Tutto bene, signor Miller?»

«Certamente – resto con la testa bassa per qualche minuto, il peso di quella rivelazione mi piomba sulle spalle, ma non posso mostrare nessun segno di cedimento al mio interlocutore. Così riprendo a respirare, spingo l'aria a fondo nello sterno, sento i polmoni aprirsi come girasoli alla luce dorata e alzo lo sguardo. Fisso le mie iridi glaciali su quell'uomo e, ricorrendo al mio finto  coraggio, gli rispondo scandendo bene le parole. – Farò tutto con estrema attenzione, come al solito.»

Eccolo là che mi sorride di nuovo, tira fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca, lo apre e ne afferra una con le labbra, nascoste dalla barba scura e irsuta. Sto per dire qualcosa, ma prima che possa aprire bocca, posiziona il cilindro bianco dietro l'orecchio sinistro e scosta i capelli che ricadono sulle spalle. Apre la porta, ripone le mani nelle tasche appena passato lo stipite e con il piede sinistro, lascia che la porta si richiuda alle sue spalle senza fiatare.

Nel momento in cui mi accorgo di essere finalmente solo, la tensione scivola via dal mio corpo, le gambe tremanti non reggono più la posizione eretta e sono costretto a poggiarmi alla sedia girevole. Piego lievemente il collo all'indietro, ma lancio delle occhiate saltuarie a quella maledetta cartellina che con le sue pagine aperte grossolanamente rappresenta la condanna a morte della mia anima. Avvicino la mano per cercare di chiuderla, nella vana speranza che oscurandola dai miei occhi, possa trovare pace, ma appena un raggio di sole colpisce le falangi, la vedo: la fede d'oro che ancora porto all'anulare.

Mi sorprendo ad accarezzarla delicatamente con l'altra mano.

Riesco solo a sussurrare un nome mentre afferro il bicchiere colmo di whisky che è rimasto inerme sulla scrivania da quasi un'ora. Faccio ondeggiare il liquido ambrato sul cristallo lucido e lo lascio scivolare nella gola, brucia leggermente, ma il calore che scaturisce nello sterno mi regala un po' di sollievo.

«Olivia...»E i miei pensieri si incatenano al suo ricordo.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 Carte in tavola ***


Hazel

Provo a schiarirmi la gola nella speranza di resistere fino al termine dell'intervento, voglio assolutamente finire di elencare i punti salienti su cui dobbiamo essere più performanti, ma non sembra funzionare. Samuel incrocia il mio sguardo dolorante e nota subito la mia difficoltà: prontamente afferra la brocca di cristallo ricolma d'acqua e ne versa un po' nel bicchiere davanti a me, ci metto solo qualche secondo a stringere il calice e deliziarmi con quel liquido rinfrescante che subito ritrovo il vigore che mi serve per dare la stoccata finale.

Dopo un breve intervallo di Albert in cui mostra le proiezioni del prossimo semestre, riprendo la parola. Mi muovo dalla mia postazione e lascio che le idee balzino fuori dalla mia mente come un fiume in piena, lascio perdere gli appunti che mi ero preparata, i tipici discorsi motivazionali che non sono altro che un ammasso di copia e incolla senza senso. Voglio che il mio team senta le mie parole che vibrano d'entusiasmo, voglio che assaporino il gusto dolceamaro dell'impegno e della passione che pizzicano i tendini stanchi delle nostre mani.

Lascio che le mie gambe si muovano attraverso la stanza, danzano al ritmo delle mie parole, volteggiano nell'aria a ogni mio sussulto; mi avvicino a tutti, incrocio i loro sguardi pieni della stessa voglia di andare avanti che mi accompagna da sempre e non posso che esserne orgogliosa.

Appena finito, torno al mio posto e concludo con la solita frase.

«Allora siamo tutti d'accordo? Facciamoci venire qualche nuova idea per la prossima settimana. Grazie a tutti!»

Il gruppo si alza e si appresta a uscire accompagnato dal solito brusio che anticipa l'inizio del pranzo, l'atmosfera goliardica che aleggia nella stanza mi rende sempre felice e non posso fare a meno di tenermi stretto quel sorriso felice che mi fiorisce sul volto. Prendi le mie cose, aggiusto il fiocco della camicetta stringendolo attorno al collo, mi sistemo i pantaloni scuri, passo la porta con la mia naturale disinvoltura, lascio che i capelli sciolti ondeggino sotto la spinta dei miei passi, morbidi e leggiadri come zucchero a velo.

Passeggio per i corridoi con un incedere rapido e sicuro, i tacchi che risuonano sul pavimento di marmo scandiscono il tempo che mi separa dalla mia meta, regalo un sorriso a tutti quelli che incontro, come sempre, e poi eccola lì, finalmente: la mia alcova. Il mio regno privato in cui mi rifugio appena possibile.

Tiro un respiro di sollievo, butto fuori tutto lo stress che mi procura stare in mezzo alla gente e poso la mano sulla maniglia di acciaio, pregustando la mia solitudine; ma, quando la luce troppo forte mi colpisce, il fastidio mi costringe a chiuderli di scatto, cercando di proteggermi con il palmo della mano sinistra, l'unica libera.

Non ricordavo proprio di aver lasciato le tende scostate e infatti, appena riesco a mettere a fuoco, la causa di quella luce si rivela essere davanti a me e di essere di ottimo umore: il suo sorriso genuino lascia poco spazio ai dubbi.

«Sai, dovresti aprirle più spesso queste tende! Guarda che panorama che c'è fuori!» Aaron mii parla premendo il dito sul vetro delle finestre, poi si volta, allarga le braccia e si prepara a cullarmi nella sua tenera morsa. Senza che me ne renda conto mi lascia un tenero bacio sulla guancia indugiando fin troppo le sue calde labbra sulla mia epidermide.

«Lo sai che non mi piace guardare fuori, sto bene così.» Cerco di sfoggiare un sorriso, ma non so se mi è venuto bene dato che la sua fronte si contorce in un'espressione pensierosa.

Mi avvicino alla scrivania e poso ordinatamente i fogli che ho in mano, accatasto tutto con rigore  gli angoli dei fogli combaciano gli uni agli altri e poi alzo lo sguardo, scostando via una ciocca di capelli dagli occhi.

«A cosa devo questa tua visita?»

«Il capo non può fare visita alla sua responsabile marketing?» si aggiusta i capelli corvini, portandoli all'indietro. La  barba appena accennata fa risaltare la forma arrotondata del suo volto perfettamente simmetrico, su cui spiccano due occhi verde smeraldo. Il modo di fare piuttosto affabile che ha sempre contraddistinto Aaron, mi ha sempre messo a mio agio e ciò ci ha portato, negli anni di collaborazione, a stringere un rapporto piuttosto intimo e affettuoso.

Arriccio le labbra  e lo guardo di traverso, alzo  le sopracciglia per enfatizzare maggiormente l'alone di incredulità, mentre lui sembra cedere subito. Scuote leggermente la testa, poi dà una rapida occhiata al cellulare e lo ripone subito nella tasca posteriore.

«Perché non andiamo a mangiare un boccone insieme? Hai qualche altro impegno?» Il ragazzo abbozza un sorriso, entusiasta, si avvicina, forse con troppo slancio, forse con un atteggiamento diverso, ma appena posa le sue mani sulle mie spalle uno strano calore si irradia attraverso il corpo. E so che anche lui lo ha sentito, lo vedo dalle iridi che mi osservano sorprese.

L'aria si esaurisce dai polmoni, le tempie pulsano, la stanza comincia a vorticare insistentemente attorno  e quella strana sensazione ritorna con la stessa impetuosità di un'onda. Le mani calde e gentili di Aaron mi donano qualcosa di più del solito affetto amichevole, il suo profumo dalle spiccate note aggrumate mi trasporta in un'alcova calda e rassicurante; sto quasi per lasciarmi andare quando i nostri corpi si avvicinano ma qualcosa blocca Aaron, che si ritrae  e si schiarisce la gola.

«Sarà meglio andare...»

Non ci metto molto a comprendere il suo desiderio di allontanarsi da me, di mettere una distanza che fino a poco prima non esisteva. Abbasso la testa e mi sistemo i capelli, provo a non focalizzarmi su quello che è appena successo, del resto, sono una maga in questo, una volta in più non sarà di certo un problema.

L'impeto dei miei passi mi fa sbattere contro l'appendiabiti in legno che cade rovinosamente a terra, e mi fa ritornare al presente, dove, la prima cosa di cui mi rendo conto sono le iridi verdeggianti di Aaron che mi osservano colme di sgomento.

«Va tutto bene? Che ti è preso?» Scuoto la testa mentre tento di rimettere in piedi la simpatica costruzione, avendo premura di appendere tutto al suo posto come era poco prima. Il ragazzo mi osserva immobile, con le mani nuovamente nelle tasche, forse aspettando un segnale che attesti la conclusione della mia crisi.

Appena rimesso tutto in ordine, faccio un bel respiro e cercando di ricacciare quelle oscure emozioni nel fondale della tua anima, e ti volti rifilando un sorriso affabile a quel povero ragazzo che ti asseconda sempre. Sei tu che ti avvicini a lui, accarezzi il suo avambraccio con la mano calda e gli parli dolcemente.

«È stata una giornata...lunga.» speri che questa spiegazione semplificata possa sembrargli sufficiente, del resto, sai bene che quando si avvicina quel momento dell'anno, i ricordi sembrano riaffiorare con maggiore veemenza, come se la tua mente si risvegliasse dal torpore del sonno, liberata dalle sbarre dorate di quella gabbia in cui l'hai segregata e precipitasse in un turbinio di sensazioni assurdamente rinvigorite.

Sembra farsi andare bene le mie parole, mi sorride mesto e si passa una mano tra i capelli corvini, portando i ciuffi indietro. «Andiamo da Norma?»

«Ho proprio voglia di fettuccine!» Unisco le mani, fingo un entusiasmo che non mi appartiene, il tuo sguardo appannato ne è la prova. Strizzi con forza le palpebre, passi il dorso della mano vicino alle palpebre inferiori, fai attenzione a non rovinare ulteriormente il trucco, poi mi volto con rapidità sfoggiando un sorriso da oscar.

Aaron non aggiunge altro, con il braccio destro mi indica la porta e attende fiducioso il mio passaggio. Ci metto poco a sistemarmi il cardigan sulle spalle, lo fermo all'altezza della vita con i due lacci e afferro la borsa; mentre gli passo davanti, scosto una ciocca di capelli con il movimento veloce della mano e lo sento trattenere il respiro. Eviti di dare troppa importanza ai suoi occhi che mi scrutano selvaggi e, dopo essere arrivata nel corridoio di marmo, mi volto verso lui. «Che aspetti?»

Farfuglia qualcosa, qualcosa che resta per me incomprensibile. Lo vedo solo chiudere la porta e passeggiarmi vicino per tutto il tragitto.

Meno di quaranta minuti dopo, siamo seduti al tavolo quadrato che attendiamo spazientiti le ordinazioni, uno davanti all'altro, che evitiamo di sfiorarci. Lui evita di avvicinarsi troppo a me ma ignoro il motivo di questo suo insoluto comportamento: di solito Aaron spicca per i suoi gesti affabili e affettuosi, ma oggi sembra un'altra persona.

Sento la venatura del legno del tavolo sotto i polpastrelli mentre gioco con le posate in acciaio, gli occhi di Aaron mi scrutano con intensità, li sento trafiggere la mia pelle come spilli appuntiti. Ho la sensazione che mi voglia dire qualcosa e questo clima di stallo fra noi mi porta a picchiettare nervosamente le dita sulla tovaglia in attesa che si decida. Apro la bocca ma il fiato viene stroncato appena Sandy, la ragazza che serve ai tavoli, ci porta i piatti fumanti e li posa sul tavolo, strappandomi un sorriso di circostanza.

Appena ci ritroviamo soli, nel momento in cui gli vedo affondare la forchetta nei tagliolini bagnati di sugo, decido di rischiarire quell'atmosfera colma di tensione.

«Cosa devi dirmi Aaron? Riconosco quando mi tieni nascoste le cose e, detto tra noi, non ci sei mai riuscito tanto bene»

Prima mi guarda con indigenza, poi scuote la testa e finalmente sembra rilassarsi. «Sempre dritta al sodo eh? Bene. Sputerò il rospo tutto in una volta, mi sembra la cosa migliore.»

Prende il bicchiere ricolmo di acqua e ne beve una sorsata piuttosto consistente, poi riprende a parlare.

«Immagino ricordi quando, anni fa, ho passato il mio periodo più buio, quando sono finito nella spirale della droga. Non ci conoscevamo ancora, ma credo possa immaginare che non sia stato facile per me venirne fuori. Ecco, in quei momenti non ero solo, c'era una persona con me, più precisamente una ragazza, si chiamava Joey»

«Avete avuto una storia?» chiedo mentre abbandono definitivamente le posate ai bordi del piatto.

«Si, molto travagliata. Il problema però è un altro: lei non si è mai totalmente ripulita, forse le mancava una vera spinta, qualcosa a cui aggrapparsi...sinceramente, non lo so e, a un certo punto, ho smesso anche di domandarmelo. – Fa una lunga pausa, socchiude gli occhi e prende di nuovo fiato- In questi anni non ha fatto altro che entrare e uscire da vari centri di recupero, prima statali e poi privati, centri anche molto costosi, nella speranza che le cure dessero i risultati sperati.»

«E la sua famiglia?»

«Non sono molto presenti. Sinceramente a ogni ricaduta si sono allontananti sempre di più.»

Appena prima che abbia il tempo per chiedere altre delucidazioni, arriva il cameriere, posa la bottiglia con l'acqua e quella scura del Merlot, lascia tutto in tavola perfettamente posizionato e se ne va. Vorrei continuare il discorso,  approfondire certi passaggi, ma il ragazzo si è già gettato sulla prelibatezza che fumica dal suo piatto e non sembra intenzionato a riprendere l'argomento; io, del resto, non so  mai fino a che punto possa forzarlo quando si chiude a riccio. Preferisco lasciar perdere, complice anche lo stomaco che continua a gorgogliare imperterrito e mi dedico anche io a quella prelibatezza che mi è davanti.

Il pranzo passa veloce anche se tra noi aleggia un'insolita aria tesah, in alcuni momenti ho timore anche nell'afferrare il calice e portarmi alla bocca l'aroma fruttato del vino, ma appena ordina due caffè, la lingua del ragazzo sembra sciogliersi di nuovo e ricomincia con la sua solita parlantina.

«Quindi mi permetti di zittirmi così? Non sei nemmeno un po' curiosa di sapere il motivo per cui ti ho messo al corrente di questa storia?»

Il suo sorriso sbilenco mi sorprende, fa quasi a cazzotti con l'espressione seria usata fino a quel momento, poi passa con delicatezza l'indice sul bordo del bicchiere e ne segue la forma.

«Vorrei andare a trovarla, El. In realtà ci vado spesso, ma questo fine settimana Lucas non può accompagnarmi, non ti andrebbe di farlo tu? Chiaramente non devi sentirti obbligata, io posso...»

Non lo faccio nemmeno finire di parlare che poso le mie mani fra le sue e lo guardo sorridendo.

«Ne sarei onorata»

Inizialmente sembra sorpreso dal mio gesto, poi vedo i suoi occhi verdi illuminarsi di una scintilla diversa, una scintilla che mi riscalda nel profondo e che mi permette di non ritrarre la mia mano. La tiene lì, immersa in mezzo alle sue e per un attimo mi dona un briciolo di speranza, una fiammella in quella distesa oscura che è diventata la mia vita.

«Hazel...ti vorrei chiedere di venire al Belstaf stasera, ma so che non ti entusiasmano queste cose e non voglio metterti in difficoltà...» farfuglia, è palesemente nervoso e so bene perché: in questi anni, ogni minima volta in cui si è esposto con me, non ho fatto altro che arrancare scuse, ho evitato di farlo avvicinare troppo restando palesemente sulle mie, ma in questo momento riesco a sentire qualcosa di diverso, riesco a sentire il muro di cemento sgretolarsi sotto il tocco caldo delle sue mani e il mio cuore sembra tornare a battere di nuovo.

A un tratto, tutti quegli anni passati a nascondermi, tutti gli strati di solitudine e silenzi che ho messo tra me e il mondo esterno mi sembrano così futili, così inutili che il ricordo delle motivazioni che mi hanno spinta in quella direzione sbiadiscono, i contorni si assottigliano, i colori si affievoliscono e io vacillo sempre di più. Il destino di solitudine e freddezza a cui sembravo destinata, cambia, rifiorisce insieme al mio desiderio di avere qualcuno vicino a me. E forse quel qualcuno potrebbe essere lui.

I miei pensieri galoppano con la stessa foga di un cavallo imbizzarrito, mi trasportano lontano dalle mie ombre e dalle mie cicatrici e finalmente riesco a fare quel passo in più e a lasciarmi andare.

«Facciamo che stasera ti accompagno solo se mi concedi la rivincita a biliardo, ok?»

Si illumina in volto al suono delle mie parole ed è palese che anche lui abbia capito.

«A cosa devo questo sorprendente cambiamento?»

«Forse... e dico forse, ho capito che anche io avevo bisogno di un cambiamento».

«Ti vengo a prendere alle 22, ok?» ormai il suo tono concitato è difficile da placare, si passa la mano fra i capelli, muove i piedi ritmicamente e si guarda intorno. Alza la mano per richiamare l'attenzione del cameriere e gli mostra la carta di credito, l'uomo non fa passare qualche minuto dal momento in cui è scomparso dietro il bancone, che torna con la ricevuta. Aaron, dal canto suo, si alza senza troppe cerimonie e si rimette il soprabito, mentre lo guardo ancora seduta sulla mia comodissima sedia.

«Hai fretta?»

«Si, ecco... - da un'occhiata al suo Apple watch e poi torna a parlare a me – ho un impegno nel pomeriggio e devo sbrigarmi, ti spiace se ci troviamo direttamente al pub stasera?» si rimangia quello che mi ha detto poco prima, ma nonostante non mi faccia molto piacere, cerco di non fissarmi troppo sui particolari.

«No, no, come ti torna meglio. Figurati.»

Mi alzo anche io cominciando a risistemare tutti i miei effetti nella borsa, controllo di aver preso tutto e seguo Aaron fuori dal ristorante. Mentre alterno i miei passi noto una strana mail con la richiesta di una telefonata urgente da una delle segretarie della W&B, una casa editrice con cui ci siamo scontrati spesso, ma per stasera decido di procrastinare tutto: anche se non è da me, ho proprio voglia di prendermi un pomeriggio di svago e non pensare al lavoro.

Qualche ora dopo, pulita e sistemata a dovere, stretta come una sardina nel mio abito blu notte, varco la porta altalenante del Belstaf con la giacca lasciata palesemente aperta senza curarmi dell'umidità ristagnante di New York. Il microclima caldo e soffocante mi investe senza troppe cerimonie peggiorando ancora di più la situazione dei miei capelli che si stanno gonfiando come se fossero cotonati. Mi guardo intorno mentre passo una mano fra le ciocche in un ultimo tentativo di tenere a bada quelle setole diaboliche e noto subito un gruppetto di uomini che parla a voce piuttosto alta. Non f
Ci metto molto a riconoscere la testa riccioluta di Aaron fra tutti e la figura di sua sorella Anna che si stringe al marito: è così bello vederli tutti insieme che si divertono che quasi mi dispiace disturbarli; faccio un passo indietro, tentenno sulle mie stesse gambe, sto quasi per voltarmi e uscire quando mi scontro con qualcosa, o meglio con qualcuno.

«Eri in procinto di fuggire? Ho rovinato la tua inutile fuga?»

Scott Miller, il CEO di una delle più grande industrie farmaceutiche del paese, mi squadra dall'alto del suo metro e ottanta con il suo solito sguardo glaciale e il suo sorriso beffardo.

«Non stavo fuggendo...» cerco di giustificarmi ma lo sappiamo entrambi che arranco scuse solo per non dargli soddisfazione. Lui mi lascia crogiolarmi nel mio brodo, poi si passa la mano fra i capelli e se la mette nella tasca sinistra arricciando lievemente la giacca.

«Non serve che ti giustifichi con me, Hazel, ma loro ci tengono – indica i ragazzi che brindano al tavolo nella sala più grande – e non si arrenderanno tanto facilmente. Quindi adesso andiamo, di certo Fuller ne sarà felice.»

Mi passa davanti e li raggiunge frettolosamente, si volta qualche volta durante la sua camminata forse per assicurarsi che ci sia ancora e io proprio non riesco a capire perché ogni volta che lo incontro il mio universo sembra collassare su se stesso e io resto interdetta come un paguro che arranca senza la sua conchiglia.

 

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