Ogni debito... è un debito

di Mannu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ogni debito... è un debito - 1
1.

Ripeté l'operazione da capo, con attenzione. Le orecchie le scottavano e la cute le prudeva da impazzire per l'imbarazzo. Mosse la penna ottica da un menù all'altro, con cautela. Ma il risultato fu il medesimo. L'unica banca, o istituzione più somigliante lì su La Tana, si rifiutava di considerare valido il suo conto aperto presso GeoCredit. In sostanza non riusciva ad accedere al suo ormai magro gruzzolo: le carte di debito di GeoCredit non erano riconosciute, non poteva usare i codici di bonifico, il sistema le rifiutava perfino le richieste più semplici come l'estratto conto. Era rimasta senza il becco d'un quattrino in un posto dove per un debito anche piccolo si rischiava di venire gambizzati per strada.
Si sentì scagliare indietro nel tempo, quando i motori a spinta di fusione del suo Coyote giacevano smontati per tutto il pontile del molo 15 di Apollo in attesa che lei trovasse i soldi per farli rimettere insieme dalle squadre di manutenzione. Gli sembrava che fossero passati anni da quei momenti di nera disperazione, invece era trascorso solo un mese e mezzo. Quarantacinque giorni per ricominciare da capo, si disse guardando sconsolata lo schermo principale del piccolo ponte di comando della sua corvetta, ormeggiata in quella specie di baia dei pirati che era La Tana. Non poteva permettersi di pagare ancora acqua per rimanere ormeggiata: la sua recente disavventura l'aveva impossibilitata a rifornirsi e la sua scorta di preziosa acqua si era assottigliata al punto di far accendere l'indicazione rossa “No Go” nella lista dei controlli pre-volo. Non era grave: c'era solo lei a bordo. Avrebbe razionato l'acqua per qualche giorno e l'allarme sulla riserva d'acqua sarebbe tornato a un rassicurante “Go” in verde brillante.
Le autorità di La Tana le impedivano di lasciare gli ormeggi e andarsene. Nonostante avesse pagato l'approdo con l'acqua richiesta, proprio al momento di partire erano saltate fuori delle tasse portuali non pagate. La faccenda puzzava di truffa e ricatto e probabilmente era davvero così. Non c'era molta differenza tra uno strozzino, un mafioso e un poliziotto lì a La Tana: ciascuno dei tre si comportava esattamente nello stesso modo. Il poliziotto era quello con la divisa.
Così le avevano fatto capire che aveva tempo fino alla scadenza dell'affitto dell'approdo per pagare. Quell'affitto, pagato in acqua, era valido per otto ore ancora. Poi, immaginò grattandosi la radice dei neri capelli crespi e ribelli, sarebbe successo qualcosa di spiacevole per lei. Non le avevano detto cosa, ovviamente. Per sicurezza pressurizzava tutte le volte che usciva e, pur sentendosi parecchio ridicola, indossava la sua goffa e spessa tuta bianca portandosi a tracolla una bombola di aria con erogatore a maschera. Non sapeva se ciò sarebbe bastato a difendersi dal vuoto qualora le avessero staccato il cordone ombelicale che faceva da passerella tra il Coyote e La Tana. Ma la tuta EVA era improponibile: le avrebbe impedito di muoversi in condizioni ambientali del tutto simili a quelle di Apollo. Posso sempre fingere una insufficienza respiratoria, si disse mettendosi la bombola a tracolla.
Uscì nel condotto flessibile pressurizzato e a gravità zero. Lo attraversò tutto col cuore in gola, passando davanti alla solita toppa che sibilava leggermente lasciandosi sfuggire preziosa atmosfera dal primo giorno che si era ormeggiata lì. Raggiunse la prima piattaforma e si lasciò catturare gradualmente dalla gravità artificiale. Passò attraverso i diaframmi di plastica sporca e consumata che tanto avevano divertito Morgan per la loro somiglianza con una vagina e finalmente fu di nuovo sulla lunga banchina di La Tana. Ignorò il difettoso ologramma della poliziotta che appariva ogni volta che lei usciva dal tubo ombelicale e che la minacciava ogni volta con le stesse parole. Si incamminò verso l'uscita del pontile, sotto le incomplete strutture a livelli sovrapposti che si affacciavano nel vuoto dello spazio.
Era scesa dal Coyote ma non sapeva esattamente per quale motivo. Non aveva più soldi, solo pochi spiccioli. Non poteva comprare da mangiare, ma quello non era un problema: la cambusa della sua nave era strapiena. Senza denaro non poteva fare molte cose, su quell'insolito approdo spaziale che aveva imparato ad apprezzare nonostante tutto. Fino a quando aveva avuto del contante in tasca. Ora le sembrava molto meno apprezzabile.
Percorse corridoi e passerelle, strade grandi e affollate di gente che gironzolava sfaccendata tra gli improvvisati negozi e le bancarelle fino a quando non raggiunse quella che le avevano indicato come la sede dell'unica banca di La Tana, così sicura della sua clientela che non aveva bisogno di farsi pubblicità né di mettere chiare indicazioni per essere raggiunta. La sede stessa era a stento riconoscibile come quella di una banca: uno stretto ingresso senza insegna, aperto, dava su pochi scalini ripidi che cadevano dentro un lungo ambiente poco illuminato e dall'odore preoccupante. Sulla parete di sinistra, imbrattata da graffiti fatti con vernice a spruzzo, poche sedie diverse e malconce lasciate lì disordinatamente. Anche queste erano state fatte bersaglio dei graffiti e mostravano sulla seduta e sulla spalliera i tag, la firma degli autori. La medesima parete era interrotta da alcune finestre poste così in alto da essere irraggiungibili e che davano sulla strada al livello del pavimento, protette da una pesante griglia metallica contro cui si accumulavano sporcizia e rifiuti. Attraverso quelle finestre strette e lunghe, dai pannelli di crilex resi gialli dalla prolungata assenza di manutenzione, poteva vedere le gambe della gente sforbiciare incessantemente.
Dalla parte opposta invece una spessa e robusta griglia metallica formava una gabbia di un paio di metri di lato intorno all'unica porta che si apriva nella lunga parete imbrattata. La gabbia partiva dal pavimento e arrivava fino al soffitto, ininterrotta a eccezione di un'apertura cui si poteva accedere solo dall'interno. Sotto l'apertura a feritoia era stato spinto un tavolo da ufficio senza uno dei quattro piedi d'appoggio, sostituito da un barattolo di plastica che aveva avuto la ventura di essere alto tanto quanto il pezzo perduto. Il tavolo, sporco e vecchio, era curiosamente sgombro. Dietro quello una logora sedia imbottita. Dietro di essa la porta, aperta. Un rettangolo buio al di là del quale non si riusciva a distinguere nulla. Non c'era nessuno in vista, né nulla che lasciasse intuire che quella, pur priva di un nome e di una insegna, fosse una banca.
Certo, si disse lei, i clienti sono del tutto particolari. Normale che lo sia anche la banca. Non aveva mai visto tante facce poco raccomandabili in una volta e quello che era successo a lei e a Morgan ne era stata la migliore dimostrazione. Ultimamente aveva passato molto del loro tempo a fuggire da chi voleva a tutti i costi appendere la sua pelle a una parete.
Deglutì a forza e si costrinse a parlare.
- C'è nessuno? - ma la voce le si spezzò in gola quasi subito e le uscì un semplice bisbiglio.
Si fece coraggio e si avvicinò alla gabbia, cercando di convincersi che i suoi timori erano del tutto infondati. Si pentì d'aver passato tanto tempo a leggere la sanguinosa cronaca nera di La Tana sul terminale di servizio della sua nave. La feritoia era chiusa, ma dato che la porta era spalancata era logico supporre che la banca, o qualsiasi cosa fosse quel luogo in cui era capitata, fosse aperta. Quindi ripeté di nuovo le medesime parole, questa volta cercando di mantenere la voce ferma.
- C'è nessuno?
Meglio, si disse ascoltando la propria voce e fingendo di non aver sentito la sottile crepa che l'aveva incrinata.
Balzò all'indietro, spaventata a morte. Non riuscì nemmeno a gridare. Un viso era apparso all'improvviso all'interno del buio specchio della porta. Era saltato fuori da dietro lo spigolo dello stipite. Un viso inquietante, con un sorriso nero che sembrava andare da un orecchio all'altro. Con uno scatto l'uomo apparve a figura intera, incorniciato dalla porta, il ritratto di un folle su fondo nero.
Aveva i capelli unti e scarmigliati come se avesse dormito fino a un secondo prima sonni agitati. Indossava un completo elegante, giacca e pantaloni grigi, una cravatta scura allentata che sembrava stare intorno al collo per una coincidenza, una camicia bianca abbottonata male e col colletto stropicciato. Non calzava scarpe. Alto e magro, l'uomo si muoveva tanto dinoccolato da sembrare quasi l'effetto speciale di qualche olofilm. Non le toglieva gli occhi di dosso, lucidi di chissà che febbre o droga, e lei ebbe l'irragionevole timore che quell'essere fosse in grado di passare attraverso la stretta feritoia e raggiungerla. Le sorrise in un modo così orribile, stendendo le labbra dipinte di scuro così tanto che lei temette gli si stesse per dividere la faccia in due. La pelle rugosa di quel viso senza età pareva pronta a qualsiasi acrobazia.
- Saaalve! - disse esagerando il tono allegro e cordiale fino a farlo sembrare minaccioso. La sua voce era stridula, una parodia della voce umana.
- In cosa posso servirla signorina?
Si chinò in avanti appoggiandosi al tavolo zoppo con entrambe le mani. Lei indietreggiò ancora: quella caricatura di uomo emanava un puzzo di sudore insopportabile.
Estrasse la sua carta di credito che la GeoCredit le aveva dato a speciali condizioni visto che versava regolarmente discrete somme sul suo conto corrente: i proventi delle sirene telasiane. C'era moltissima gente che andava a vedere e a sentire cantare quelle creature aliene e lei aveva una piccola percentuale sugli incassi.
- Questa è una carta di credito valida... - iniziò lei. Non era più certa di quello che stava per fare.
- Sssììì? - rispose quello trascinando quella sillaba in salita lungo tutta un'ottava con la sua voce acuta.
- ...della GeoCredit di Apollo e funziona perfettamente – mentì lei cercando di darsi importanza. Non l'aveva mai usata.
- Sssììì? - disse quello senza mutare la sua espressione da folle, le labbra nere stirate in un ghigno triangolare che sembrava un tentativo di mostrare tutti i denti insieme più che un sorriso.
- Ma non riesco a caricare nessuna scheda al portatore, né a prelevarne di nuove.
- Nooo? - inclinò la testa di scatto di lato ma non aggiunse altro. Un pazzo, pensò. Sono finita a parlare con un pazzo fulminato. Senza sapere perché insistette e formulò la sua richiesta.
- Potrebbe anticiparmi del contante usando questa carta di credito come garanzia?
- Nooo! - scattò all'indietro raddrizzandosi di colpo e cominciò a ridere in modo sguaiato e folle, agitando le braccia come se accogliesse gli applausi di un pubblico inesistente. Quando cominciò a dimenarsi troppo lei si decise ad andarsene. Non avrebbe ottenuto nulla da quel tizio: doveva essersi bevuto il cervello già da tempo.
Si voltò verso l'uscita, decisa a salire quei ripidi gradini e a uscire da quel posto buio per tornare nella relativa normalità di La Tana. Trasalì una seconda volta e si bloccò lì dove si trovava. Qualcosa si frapponeva tra lei e la porta e per un soffio non era andata a sbatterci contro in pieno.
Un secondo per mettere a fuoco, per realizzare di cosa si trattava. La prima cosa che la colpì fu l'altezza. La ragazzina la sovrastava e, a giudicare dal fisico esile, doveva essere una spaziale. Poi si sentì trapassare da due occhi di un azzurro innaturale, chiari e freddi come il ghiaccio. Non c'era abbastanza luce per capire se si trattava di un doppio impianto o no. Ne aveva visti di carini di quel colore, ma in quel viso leggermente olivastro, giovane e un po' affilato diventavano inquietanti.
- Michaela Patris?
Quella voce gentile e morbida stonava un bel po' col resto: la ragazzina aveva una borchia ossea, una punta conica di almeno un centimetro che le sporgeva dalla fronte sopra il sopracciglio sinistro, più vicina all'attaccatura dei dread viola che le scendevano lunghi e curati dal cranio. Sopra una leggera maglietta nera indossava una giacca di finta pelle anch'essa nera e sopra di essa una casacca militare verde oliva con le maniche tagliate. Sotto l'ombelico scoperto cominciavano un paio di pantaloncini neri aderenti, in grado di celare appena l'elastico delle mutande, visibile in rilievo. Calze a rete gialle rotte in più punti e stivali anfibi tinti maldestramente di rosso e con la punta rinforzata da metallo nudo e graffiato ne completavano la figura. Un'altra pazza, pensò. Ma stavolta non c'era nessuna gabbia in mezzo.
- Non so chi sia – le rispose aggirandola ostentando decisione. Si aspettava che quella si muovesse per sbarrarle il passo, che l'aggredisse. Ma non accadde nulla. Lei, pronta a scattare confidando nella sua maggiore robustezza e forza fisica, si diresse verso le scale, verso l'uscita.
- Chissà perché ti immaginavo più magra, Miki.
Strinse i denti. Se voleva farla incazzare era sulla strada giusta. Quella tuta imbottita non giovava affatto alla sua figura, tutt'altro che snella. Lo sapeva bene e odiava infilarcisi dentro. Si era osservata brevemente prima di lasciare il Coyote: vestita così sembrava avesse i fianchi larghi come una portaerei e un culo grande come una piattaforma d'attracco.
Fu tentata di mandarla bruscamente al diavolo, ma si trattenne. Salendo i gradini si spaventò al pensiero che poteva esserci in agguato un complice o magari tutta una banda. Avrebbero osato aggredirla in mezzo alla gente? Temeva di sì. Ma uscì senza incidenti, con la sconosciuta che la tallonava da vicino. Le gettò uno sguardo rapidamente. Camminava con le mani in tasca e i segni scuri intorno agli occhi non erano le ombre dovute alla scarsa illuminazione del tetro locale appena abbandonato. La ragazzina si divertiva a truccarsi di scuro: occhi e labbra erano carichi di cosmetici cupi. Il rossetto, applicato con negligenza, aveva bisogno di una ripassata. Si consolò constatando che sotto la luce un po' più intensa di quel livello di La Tana il viso della ragazza, armato di quegli occhi azzurri taglienti, sembrava ancor più giovane e molto meno aggressivo.
- Dove andiamo di bello?
Miki si fermò e si voltò verso la ragazza, alzando lo sguardo per raggiungere gli occhi. Spinse dietro la schiena la bombola dell'aria che le stava dando veramente noia. La mascherina trasparente cadeva in continuazione e quindi l'aveva legata intorno alla valvola della bombola usando il piccolo tubo flessibile che le univa. Con quel gesto brusco cercò di arginare l'ira: era possibile che quella spilungona fosse una provocatrice e non intendeva cadere nel suo tranello.
- Dove vado io a te non interessa – e le fece un inequivocabile gesto con la mano, per invitarla a procedere per la sua strada. Lontano da lei, ovviamente. Non aspettò la risposta: le diede le spalle e scelta una direzione a caso, si incamminò a passo spedito.
- Non credo che ti convenga andare troppo a spasso, Miki – la sentì dire con supponenza alle sue spalle – hai sei ore e cinquantadue minuti per trovare milleduecento crediti. Soldi che non hai.
Miki si piantò su due piedi lì dove si trovava e si voltò verso la ragazza. Si sentiva avvampare in viso, ma non era collera. Era paura. Forse che quella sciacquetta dai capelli viola e la faccia da schiaffi era stata mandata dai mafiosi che le stavano chiedendo il pizzo giù al porto? Poteva essere. Era chiaro che si sarebbero fatti vivi di persona, prima o poi. Sentì le ginocchia diventare molli: forse la ragazzina era armata. Aveva ancora le mani nelle tasche della casacca militare, grandi abbastanza da occultare una piccola pistola automatica. Aveva visto spesso negli olofilm come fosse possibile tagliare la fodera di una tasca per renderla comunicante con un'altra sottostante. La prima sembrava vuota, ma infilandoci dentro una mano si poteva accedere al contenuto dell'altra. Nel caso degli olofilm una piccola pistola automatica, appunto. La tipa, che la stava guardando sorridendo all'effetto avuto dalle sue parole su di lei, indossava due giacche una sopra l'altra. Miki concluse che doveva essere armata davvero.
Che fare? Resistere? Fuggire? Stare al gioco fino alla fine della recita? Non sarebbe stato sensato ucciderla, non avrebbero avuto i soldi. Ma il pensiero che si trattasse solo di intimidazione non la rincuorò affatto. Ci stavano riuscendo bene.
- E tu che ne sai? - un istante dopo aver pronunciato quelle parole Miki si rese conto che esse consegnavano la vittoria tra le mani della sconosciuta. La guardò mentre la raggiungeva, camminando con le mani in tasca: la gente che transitava intorno a loro non la degnava di uno sguardo mentre invece si soffermavano sulla sua tuta bianca immacolata e probabilmente anche sulla bombola d'aria con la mascherina che penzolava.
- Abbastanza da poterti aiutare.
La squadrò bene in viso. Ecco qualcosa che non si aspettava. Pensò immediatamente a una truffa un poco più elaborata: impossibile dire se fosse sincera oppure no.
- Ma fammi il piacere... - Miki fece per allontanarsi.
- Dico sul serio – le rispose quell'altra, quasi lamentandosi.
- Sì, come no.
- Davvero! - esclamò raggiungendola con due falcate. Gli anfibi slacciati facevano rumore sul pavimento eterogeneo di quel tratto di strada. Sentendosi per la prima volta in vantaggio, Miki osò partire al contrattacco. Di nuovo si fermò e affrontò la giovane cercando di sembrare più risoluta che poteva.
- Senti, non so chi tu sia, perché ce l'hai con me, come mi hai spiata... ma se sai così tante cose su di me, sai anche che non ho un soldo. Quindi è perfettamente inutile che mi stai addosso. Non posso darti nulla. Nulla di nulla!
- Hey, ma sei sempre così acida o è qualcosa che hai mangiato? Ho detto che ti aiuto, ti fa così schifo?
- A un prezzo?
- Diciamo che è uno scambio – disse quella togliendo le mani di tasca per la prima volta. Miki notò immediatamente le unghie verniciate di nero, lunghe e molto affusolate.
- Ah, ecco... - la interruppe.
- Io faccio un favore a te, tu ne fai uno a me.
- Qualcosa di illegale, suppongo.
- La legalità è un'opinione – ribatté la giovane sorridendo – ma ti assicuro che stavolta non pretendo nulla di particolare, davvero.
- Stavolta?
La giovane si morse le labbra volgendo intorno i suoi occhi chiarissimi. Aveva sbagliato una mossa, era evidente.
- Non è la prima volta che mi vengo a trovare in questa situazione... normalmente non fermo la gente per strada offrendo il mio aiuto – disse gesticolando con le mani.
- No, eh? - la incalzò Miki.
- Diciamo che siamo tutte e due nella merda, per motivi diversi ma... come dire... simili?
- Vai avanti...
La ragazza bilanciò meglio il proprio peso sulle gambe allargando i piedi chiusi negli anfibi rossi senza stringhe, come se si stesse mettendo comoda per fare un discorso lungo.
- Ecco, tu sei nei guai: sei senza soldi. Anche io sono senza soldi. Tu devi soltanto pagare e sei a posto. Io... ehm... io no. Tu hai un'astronave e a me farebbe molto comodo, ora.
- Ah, ecco. Beh, sì... tutto perfetto. A parte il fatto che messe insieme non abbiamo altro che spiccioli in tasca, giusto? - obiettò Miki – Il Coyote non è in vendita, carina – aggiunse seccamente, voltandosi per andarsene.
- Aspetta, non hai capito! - la rincorse quella.
- Ah, no? Io direi di sì – Miki aumentò l'andatura sperando che quella importuna ragazzina si stancasse di correrle dietro. Ora che sapeva di non essere più in pericolo immediato e che quella era una sbandata come tanti altri lì a La Tana, non c'era più motivo di starla a sentire.
- No invece! E fermati, cazzo! Vuoi fermarti un momento? Ti sto parlando!
- Io no!
- Uffa! Sei stizzosa come... come una contadina di Mu2 in astinenza! Se non ti diverti non è colpa mia, che cazzo!
Miki fece ancora un passo, incerta se ignorare la ragazzina oppure no. Ma doveva esserci del testosterone maschile da qualche parte nel suo sangue. Sentì che non poteva lasciarsi parlare così da una mocciosa che non aveva ancora finito di succhiare il latte dalle tette della mamma. Si fermò e l'affrontò per l'ennesima volta. Con le mani sui fianchi la squadrò per un lungo istante e poi sbottò.
- O.K., stronzetta: prima cresci un po' e poi vieni a parlarmi di uomini. E adesso vattene fuori dai coglioni!
- Ma certo! E quando verranno a toglierti la pelle perché non paghi io starò lì a guardare! - berciò l'altra con un ghigno cattivo mentre incrociava le braccia. Miki sbuffò rumorosamente, ma non ribatté.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ogni debito... è un debito - 2
2.

Era stata in giro abbastanza a lungo da aver perso tutte le speranze. Non sarebbe riuscita a mettere insieme tutti quei quattrini in tempo. Aveva provato a cercare un lavoro veloce, ma le avevano proposto una truffa telematica. Aveva provato a vendere parte delle provviste che aveva a bordo del Coyote, ma apparentemente nessuno era interessato alle derrate alimentari per il viaggio di un'astronave. Senza che avesse messo in giro esplicitamente la voce, le si erano presentati diversi strozzini offrendo ciascuno i propri discutibili servizi. Li aveva individuati subito tutti, aveva esperienza in quel campo.
Temeva quello che stava per fare, ma non credeva di avere troppa scelta. Ancora un'ora e sarebbe scaduto l'affitto dell'approdo. Sarebbe venuto il momento di pagare i soldi della tangente e andare via. Avrebbe dovuto tentare un'azione di forza. Le dolevano le budella dalla paura al solo pensiero. D'accordo, finché rimaneva vicina a La Tana nessuna astronave avrebbe aperto il fuoco su di lei. Ma non poteva starsene lì fuori per sempre. Poi non aveva nemmeno una garanzia che non sarebbero state proprio le armi di quell'incrocio fra astronave e stazione spaziale ad aprire il fuoco su di lei.
Scacciò di malavoglia ogni lugubre pensiero, concentrandosi sulla cosa più facile da fare. Anzitutto, tornare a bordo della sua corvetta. Fece un largo giro per arrivare fino al suo punto di attracco, per vedere se qualcuno la stava seguendo. Era stata minacciata da uno degli strozzini e la prudenza non era mai troppa. Ma non notò nessuno e concluse che certi trucchi funzionano solo nei romanzi. Appena giunse in vista dell'ingresso del tubo ombelicale pressurizzato, si accorse della presenza di una figura nota. Strinse i denti: appollaiata su un largo parapetto a poca distanza dal suo approdo c'era la ragazza dai dread viola chiaro. La stessa che si era offerta di aiutarla e che aveva dimostrato di averla spiata quel tanto che basta da conoscere tutti i suoi problemi. Cominciò a pensare che come ultima spiaggia non era da scartare, ma subito passò in rassegna tutti i possibili rischi che avrebbe corso. Aveva solo bisogno di una piccola spinta e sarebbe affondata e probabilmente quella ragazzina intendeva approfittare di ciò.
I loro occhi si incrociarono e Miki la vide sorridere, alzare una mano e agitarla in segno di saluto. Aveva i capelli simili a serpenti rosa buttati all'indietro; la borchia ossea sulla fronte sgombra scintillò. Contrariamente a quanto si aspettava non saltò giù dal corrimano per venirle incontro. Eppure era certa che non fosse lì per caso. Decise di ignorarla e si infilò dritta nella stretta camera di equilibrio del condotto pressurizzato flessibile che univa il Coyote a La Tana.
Giunta al portello sollevò il braccio sinistro e scostò la manica della tuta scoprendo la pulsantiera di comando, a forma di bracciale lungo e stretto. Sfiorò i tasti che comandavano la pressurizzazione della camera di equilibrio della sua corvetta, ma non accadde nulla. Il piccolo ologramma rosso che il bracciale proiettò a pochi centimetri di distanza fu come una doccia fredda. “Accesso negato”.
Miki riprovò più volte, furiosa. Galleggiava priva di peso in un tubo ombelicale vecchio, lurido e bucato, aveva un debito indesiderato di milleduecento crediti con una organizzazione criminale di chiaro stampo mafioso e adesso era perfino chiusa fuori dalla sua astronave. Stentava a credere che le stesse succedendo tutto questo. Poi ebbe improvvisa una ispirazione: rivide con gli occhi della mente la ragazzina seduta sul parapetto che le sorrideva smorfiosa. Concluse in meno di un battibaleno che quella stronzetta ne doveva sapere qualcosa.
Si precipitò più velocemente che poté lungo il tubo flessibile, dimentica perfino della paura che potesse squarciarsi da un momento all'altro e catapultarla nel vuoto dello spazio a causa della piccola perdita chiusa maldestramente dalla toppa. Tornata sul pontile cercò immediatamente la ragazzina e la trovò proprio dove l'aveva lasciata. Le andò incontro a grandi passi attraversando decisa l'ologramma difettoso della poliziotta, scattato nuovamente a vuoto. Era decisa a farsi valere. La vide scendere dal parapetto, un'espressione strafottente stampata sul viso.
- Sei stata tu! - le sibilò contro. Era troppo alta, non sarebbe riuscita a intimidirla semplicemente fissandola negli occhi.
- Certo. Sono bravina con queste cose.
- Restituiscimi il controllo della mia nave! - cercò di non alzare troppo la voce: non era il caso di attirare l'attenzione.
- Mi prendi a bordo con te?
- Cosa? Non se ne parla nemmeno!
La ragazzina incrociò le braccia sul petto e cominciò a guardarsi intorno ostentando finta indifferenza. Avrebbe voluto cancellarle dalla faccia quel sorriso provocatorio a forza di schiaffi.
- Vado dalla polizia portuale – minacciò con voce asciutta.
- Ah, gli stessi che ti hanno chiesto di pagare il pizzo... che gli dici? Che sei rimasta chiusa fuori?
Fu un duro colpo per Miki. A quanto pareva la stronza ne sapeva una più di lei. Si arrese.
- Che cosa vuoi esattamente? - chiese, sconfitta. Sentì le spalle incurvarsi un po' in avanti e si risollevò subito.
- Andare via di qui. Questo posto è diventato troppo stretto e caldo per me. Prendimi a bordo e scappiamo su Prometeo o su Apollo.
- Non ho i soldi per partire – replicò subito.
- Questo non è un problema – disse la ragazzina sorridendo beffarda.

Aveva imbarcato un mostro. Un fottuto genietto, ecco cos'era. Si era interfacciata alla rete di La Tana collegandosi al sistema principale della sua corvetta usando un adattatore e due piastre craniche a contatto. Aveva la nuca rasata e tatuata con uno strano disegno che le scendeva lungo il collo per scomparire sotto gli abiti. Le sembrò un'astronave. Lì aveva appoggiato le piastre che le garantivano il contatto con quelle che evidentemente aveva installate sotto l'epidermide del cranio. Aveva il cervello cablato, la piccola. Una volta dentro il computer del Coyote era balzata fuori a una velocità impressionante assaltando la rete della stazione viaggiante. Dopo trenta secondi era già alle prese con i sistemi difensivi della banca e dopo un minuto stava deviando dei fondi. Miki, che capiva qualcosa di cyber-crimine, riconobbe almeno due schemi di attacco diversi portati avanti contemporaneamente ad altre operazioni complesse che lei non era nemmeno in grado di capire a cosa servissero. La guardò in viso: alla luce ambiente della sua nave, netta e più intensa di quella della stazione, vide il volto di una bella ragazzina dagli occhi obliqui e leggermente a mandorla, con un impertinente nasino all'insù. Aveva le labbra carnose dipinte maldestramente di nero e un poco schiuse a mostrare i denti bianchi e regolari. Le palpebre truccate con colori cupi erano quasi del tutto abbassate a mostrare solo una sottile falce bianca. Aveva già notato la lucida borchia ossea sulla fronte e in posizione simmetrica una curiosa cicatrice tonda; probabilmente le borchie avvitate dentro le ossa del cranio erano state due e quella a destra doveva essersi spezzata. Dopo pochi minuti poté constatare che quel mostriciattolo aveva terminato di coprire alla perfezione le tracce della sua incursione e stava già tornando indietro.
- Fatto – disse destandosi dalla trance del cyberspazio in un battito di ciglia. Miki sentì l'invidia stringerle il petto: lei aveva bisogno di diversi minuti solo per riprendersi dai porno VR che usavano un banale stimolatore corticale per darle le blande sensazioni tattili. La vide dare uno strattone ai cavi delle sue piastre e quelle si staccarono e le caddero sulle spalle, in mezzo ai lunghi dread viola. Arrotolati i cavi intorno all'adattatore in modo piuttosto negligente, infilò tutto quanto nella tasca della mimetica.
- Passerà un bel po' prima che si accorgano di qualcosa, ma meglio andarcene via subito. Non si sa mai.
- Hai rimesso a posto i codici di ingresso alla camera di equilibrio? - le chiese, ansiosa di veder sistemato quell'importantissimo dettaglio. La ragazzina sbuffò annoiata.
- Seee, seee... l'ho fatto, tranquilla!
- Sarò tanto più tranquilla quanto più lontana starai dal ponte di comando.
- Ponte di comando? Questo stanzino?
- Fuori. Devo salpare – le ingiunse Miki, decisa. Chi denigrava il Coyote non aveva diritto a occupare il sedile del comandante.
- Non vuoi una mano?
- Sai eseguire le manovre? - chiese lei retorica.
- No... sono così difficili?
- Fila via. Qua comando io – ma non ne era più sicura. Al pensiero di ciò che la ragazzina poteva fare con un terminale, non avrebbe più dormito tranquilla fino a quando non l'avesse sbarcata da qualche parte.

Stentava a crederci: stava finalmente lasciando La Tana. Con tutto quello che le era successo, non poteva che esserne felice. Eppure un po' le dispiaceva: l'avventura con Morgan, ora che se l'era lasciata alle spalle, sembrava meno spaventosa e più rocambolesca. Si chiese se avrebbe mai trovato qualcuno disposto a credere a tutto ciò che aveva da raccontare.
La manovra di abbandono dell'ormeggio era andata alla perfezione: ormai ci stava prendendo la mano e le sembrava di aver passato tutta la vita al timone di un'astronave. In realtà erano stati il computer di bordo e Controllo di La Tana a portarla fuori, ma lei aveva supervisionato la manovra minuto per minuto, mantenendo tutto sotto controllo. Si sentiva soddisfatta. L'ultima cosa da sistemare era quell'indicazione “No Go” di fianco all'indicatore dell'acqua potabile. Ma sarebbe bastato razionare il prezioso liquido e forse ancora prima di giungere ad Apollo l'allarme sarebbe rientrato. Lasciò il computer alle prese con una rotta di allontanamento standard e si alzò dalla poltrona di comando per andare a sdraiarsi un po'. Sarebbe stata necessaria quasi un'ora per raggiungere una posizione ottimale per passare alla velocità FTL. L'ultima cosa che desiderava era iniziare il viaggio con una collisione.
Percorse il breve tratto di corridoio spinale che la separava dalla sua cabina, già pregustando il tepore della sua morbida cuccetta speciale. La sua cabina era la più grande di tutte e anche... occupata! Guardò incredula il suo nuovo equipaggio sdraiato sopra le coperte, vestito di tutto punto. Le suole degli stivali anfibi avevano già sporcato la coperta termica. Come se non bastasse quell'impertinente aveva alzato di un bel po' la temperatura della cuccetta e dormiva un sonno apparentemente piuttosto profondo. L'aveva persa di vista per soli venti minuti, più o meno.
Miki si sentì avvampare le guance di rabbia. Era nel suo letto! Inconcepibile. Lo aveva fatto apposta, non c'era dubbio. Il Coyote non era così grande da non poter trovare il bagno o un letto in caso di emergenza. Non c'era alcuna necessità di usurpare la branda altrui. La squadrò per un lungo momento: era alta ma esile e non sembrava più pesante dei manubri che era solita alzare in palestra. Non aveva ancora cambiato la gravità artificiale dall'ultima volta, ma anche impostata a undici decimi sollevare di peso la ragazzina e scaraventarla da qualche parte non sarebbe stato un problema.
Fece un passo in avanti intenzionata a mettere in atto ciò che stava pensando, ma si fermò subito. Le sembrò un atto eccessivo: tutto sommato le aveva appena saldato un debito di milleduecento crediti nei confronti dei mafiosi di La Tana, gente senza nome né volto né coscienza. Stizzita, non le rimase altro da fare che afferrare il suo riproduttore VR portatile e andarsene negli alloggi dell'equipaggio.
Qui scoprì che Morgan aveva fatto in tempo a occupare una cuccetta e a lasciarla sfatta. Ingoiato anche quel rospo Miki rassegnata si dedicò a riassettare tutto quanto il suo ex disordinato compagno di avventure aveva lasciato a soqquadro.
Era sdraiata finalmente e stava armeggiando con le memorie del suo lettore VR quando sentì dal ponte di comando il segnale di chiamata. Malvolentieri si lasciò scivolare fuori dalla cuccetta che aveva appena cominciato a scaldarsi e scalza com'era si precipitò a rispondere. Si stava chiedendo chi poteva mai essere e quando vide lo schermo dei sensori ebbe un sospetto: il contatto era della stessa classe dell'astronave che l'aveva pedinata fino a La Tana.
Coyote – disse abbandonandosi nella poltrona di comando e iniziando formalmente la conversazione come voleva il protocollo. Non c'era collegamento video ma ugualmente chiuse un po' il velcro della sua camicia da astronauta.
- Ferma i motori e consegnaci la ragazzina. Non fare l'eroe, non ti conviene.
Prima che potesse capire il significato di quelle parole sentì la poltrona cui era tanto affezionata vibrare leggermente sotto le sue natiche e contemporaneamente vide accendersi numerose spie di allarme, gialle e rosse. Dopo il primo istante di terrore Miki gettò immediatamente le mani sui comandi per cercare di capire cosa stesse succedendo. Aveva una perdita di pressione nella stiva principale che si era dimenticata di decomprimere. Le pompe dell'aria funzionavano ancora e le azionò immediatamente nel disperato tentativo di salvare tutta l'aria possibile. Tacitò altri allarmi: aveva danni a diversi sistemi secondari, ma nulla di irreparabile. Poteva ancora navigare. Ovviamente non aveva dubbi su cosa era successo: per quanto inconcepibile le potesse sembrare, le avevano sparato qualcosa addosso. Istintivamente fermò i motori e lasciò che il Coyote procedesse per inerzia. Il pensiero del plasma che abbandonava i condotti di alimentazione dei motori la tranquillizzò: la sua non era certo una nave da battaglia, non poteva incassare proiettili esplosivi e pretendere di volare senza problemi. Una minima perdita di plasma avrebbe potuto significare il disastro. Lanciò subito la diagnostica dell'intero sistema.
Pensò di inoltrare immediatamente una chiamata di soccorso sul canale standard delle forze di polizia, ma si rese conto di avere troppa paura per farlo. Era a circa tre unità astronomiche dalla Terra e nel tempo che i soccorsi avrebbero impiegato per giungere fin lì, se mai fossero partiti, di lei e della sua nave sarebbe rimasto ben poco. Era in balia di quegli sconosciuti. Perché non era a bordo del Raja insieme ai suoi amici? L'avrebbero protetta. Quella pazza di Cuba, la IA della Vortex Procellae, aveva svariati gigawatt di armi a bordo: perché non era lì con lei adesso? Strinse i denti fino a farli scricchiolare: le venne in mente anche il Secondo del Raja, e sentì scaldarsi il petto. Pensò a quel suo modo di fare rassicurante, al suo sguardo placido ma deciso e immaginò il calore del suo petto ampio e forte. Lui l'avrebbe protetta.
- Hai spento i motori.
Miki sobbalzò nella sua poltrona. Nello specchio del portello di accesso al ponte di comando era apparsa improvvisamente la ragazzina. Le labbra tinte di scuro spiccavano drammaticamente sul volto sbiancato dalla paura. I dread colorati di viola le ricadevano disordinati dandole l'aspetto di una bambina spaventata a morte.
- Li conosci? - le chiese indicando la traccia sullo schermo del radar di poppa.
- Vuoi consegnarmi a loro? - fu la risposta della ragazzina che si teneva aggrappata con una mano alla paratia come se non riuscisse a stare in piedi da sola.
- Ci stavo proprio pensando: mi hanno appena sparato addosso! - esclamò Miki pensando di aver trovato qualcuno con cui dar sfogo alla sua paura. Ma di fronte allo sguardo liquido di quegli occhi sgranati dallo spavento dovette aggiungere immediatamente di non stare dicendo sul serio. Gli strumenti le segnalarono una comunicazione in ingresso, ma non volle rispondere. Aveva paura di udire nuove minacce. Poi, come un'improvvisa illuminazione, le venne in mente un'idea.
- Cosa stai facendo adesso? - le chiese la ragazzina vedendola armeggiare freneticamente con i sistemi energetici di bordo. A prima vista sembrava che avesse intenzione di far saltare tutto: chiunque si sarebbe preoccupato vedendo i pannelli di comando illuminarsi di rosso.
- Vai a legarti in cuccetta: sto per attivare la propulsione FTL in un modo un po' brusco.
- Fossi matta. Sto qui con te.
- Vai dietro, ti dico. E non nella mia cuccetta, eh! - la incalzò mentre le sue mani danzavano veloci sugli strumenti e i suoi occhi saettavano da uno schermo all'altro.
- Non se ne parla. Ti do una mano.
Prima che Miki riuscisse a voltarsi, la giovane aveva applicato alla propria nuca rasata le piastre gemelle e stava armeggiando con la sua interfaccia di connessione.
- Cosa stai facendo? Staccati dal computer, mi serve per calcolare una rotta!
Per tutta risposta quella strizzò gli occhi e piegò la bocca in un'espressione di dolore. Poi con un gesto di stizza rimosse le sue piastre di connessione.
- Questa merda di nave non ha un impianto di trasmissione degno, non riesco nemmeno a connettermi a loro!
- Questa merda di nave tra poco ti salverà il culo – disse Miki risentita. Stava inserendo le coordinate col cuore in gola. Non aveva tempo di controllarle e sperò con tutto il cuore che i sistemi di sicurezza e di controllo della navigazione della sua nave fossero adeguati.
- Cos'hai intenzione di fare? - le chiese la ragazzina petulante. Era davvero spaventata e Miki si sentì forte per questo, anche se il solo pensiero di essere fatta nuovamente bersaglio di qualche tipo di arma le faceva tremare i polsi e lo stomaco.
- Tre balzi FTL consecutivi. Aggrappati.
Miki azionò i motori comandando direttamente il passaggio alla velocità FTL. Gli smorzatori inerziali del Coyote ressero il colpo a stento e molte sollecitazioni furono trasmesse allo scafo e ai suoi occupanti. Miki si era sentita strizzare il corpo dalle cinture che la legavano alla poltrona del comandante e la ragazzina era ruzzolata a terra. Il primo salto durò quasi un minuto per via della enorme quantità di plasma accumulata nel distributore a geometria variabile del Coyote. Cercò di uscire dalla velocità FTL nel modo meno brusco possibile ma aveva fatto male i conti col plasma: se avesse decelerato normalmente non le sarebbe rimasta energia sufficiente per eseguire il secondo salto abbastanza rapidamente. Perché quella strategia fosse efficace, avrebbe dovuto saltare molto in fretta. Quindi decelerò più rapidamente che poté mandando nuovamente a gambe all'aria la ragazzina che si era appena rialzata da terra.
- Resta giù! - le gridò per superare il clacson di allarme che le indicava l'eccesso di plasma nel sistema di alimentazione dei motori. Poi passò nuovamente alla velocità FTL.
Lo scossone fu così brusco che tutto vibrò e le luci ambientali rimasero spente fino a quando il computer interruppe da solo l'alimentazione ai motori poiché erano state raggiunte le coordinate di destinazione. Il secondo salto ebbe una conclusione più dolce, ma aveva risparmiato plasma a sufficienza per il terzo e ultimo balzo.
- Aspetta! - la implorò la ragazzina supina sul pavimento, freneticamente in cerca di un appiglio. Ma Miki comandò immediatamente l'ultimo salto.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Miki & Ilah - 3
3.

- Dove ti trovi ora?
Premette meglio l'auricolare del microfono a bastoncino e prima di rispondere dette uno sguardo intorno a sé.
- NS-EF14... è un po' buio, qui.
- Per forza, lì è saltata sia la forza motrice che l'illuminazione – la voce della ragazzina le giunse forte e chiara. Probabilmente raggiunta quella nuova posizione si era finalmente spostata all'interno del campo di un'antenna funzionante.
- Merda – commentò cercando tra gli attrezzi che portava appesi al cinturone. Si trovava all'interno di uno dei condotti di manutenzione della sua corvetta, la quale dopo il terzo e ultimo salto a velocità FTL aveva alzato bandiera bianca. Il computer aveva ridotto al lumicino la produzione di plasma azzerando o quasi il ciclo di Stanton e isolato tutti i condotti di alimentazione dei motori che giacevano ora inerti. Tutto il Coyote era surriscaldato e non c'era un angolo dove mancasse qualcosa da riparare o revisionare. Ciononostante la sua corvetta stava filando per inerzia a cento milioni di metri al secondo.
Lucida di sudore per il calore e per la fatica che stava facendo nell'angusto condotto di manutenzione, seguì le indicazioni che riceveva dal ponte di comando tramite la radio e le luci si riaccesero balbettando.
- Bel colpo, è tornata la luce – commentò con tono piatto.
- Miki...
- Che c'è? - chiese lei sospirando. Dal tono della voce intuì quale piega la conversazione stesse per prendere.
- Sei ancora incazzata con me?
Roteò gli occhi verso il soffitto continuando a trafficare dentro il pannello di ispezione. Seduta dentro l'angusto condotto di manutenzione, la ventilazione azzerata da un guasto, sudava copiosamente nonostante fosse coperta solo dai pantaloni da lavoro e dalla sua canottiera preferita: era completamente nera con una grande ragnatela bianca stampata davanti, al di sotto di una piccola scritta che recitava “vedova nera”. Aveva legato i capelli con la guaina tolta da un cavo elettrico che si era bruciato a causa di un corto circuito, ma ciocche ribelli le sfuggivano in continuazione e la infastidivano appiccicandosi al viso.
- Ma cosa dici... solo perché mi hai detto che sono “stronza e uterina”?
- Ma scusa, tu mi hai accusata di essere un parassita della società!
- Ah, sì... dev'essere stato quando mi hai detto che ho le tette grosse come il culo.
Dall'auricolare le giunsero dei fruscii confusi.
- Non strofinare il microfono, carina... non sento quello che dici – la apostrofò Miki con un ghigno.
- Non ricominciamo a litigare, Miki... okappa?
- Va bene... - disse lei condiscendente. Dopotutto le stava dando un grande aiuto con le riparazioni. Ilah, come le aveva detto di chiamarsi, aveva un vero e proprio dono per quanto riguarda l'informatica. In un paio d'ore si era totalmente impadronita del sistema di manutenzione e controllo danni del Coyote, al punto da riuscire a individuare un guasto con estrema rapidità.
Aveva anche una spiccata propensione per litigare. Era insopportabile, petulante, arrogante, presuntuosa. E anche un po' svitata: riusciva a passare con sconcertante facilità da una feroce litigata a una disinvolta confidenza. Aveva trascorso l'ultima mezzora parlandole di sua nonna che, da come la descriveva lei, avrebbe anche potuto essere una divinità greca. Decise quindi di approfittare di un momento di silenzio che si era creato e che pesava in modo quasi imbarazzante: forse a Ilah si era finalmente seccata la lingua.
- Ilah?
- Sì, Miki?
- Che nome è il tuo? Non l'ho mai sentito prima.
- Sarebbe Ilaheva... ma io preferisco Ilah. Quella svitata di mia madre non mi ha mai detto di cosa si era fatta il giorno che l'ha pensato. Mi ha fatto tutto un discorso su una antichissima divinità...
- Un'antica dea dell'amore?
- No, veramente direi proprio di no... mi pare di ricordare che fosse figlia di un verme mitologico, ma non so dirti nulla di preciso. Mia mamma a discorsi strampalati non la batte nessuno. Non le sto dietro per niente!
Un verme mitologico, pensò con sorpresa. Ma non molta.
- A proposito, com'è che i tuoi ti lasciano andare in giro a ficcarti nei guai al punto che ti tocca scappare?
- Proprio dai miei sono scappata la prima volta. Da mio padre, per la precisione.
Miki si rabbuiò, nonostante il tono allegro di Ilah. Detestava chi abusava dei propri figli, soprattutto delle figlie. Suo padre era stato del tutto assente, ma era convinta che anche uno troppo presente fosse altrettanto dannoso.
- Ah, sì? - disse esortandola a continuare.
- Sissì... mi aveva proprio rotto, stressandomi tutti i giorni con i suoi “vai a scuola”, “studia”, “vestiti bene”, “non dire parolacce”, “lascia perdere quei drogati dei tuoi amici” eccetera. Così un bel giorno gli ho mostrato il segno internazionale del disprezzo e me ne sono andata.
Miki pensò al carattere di Ilah e spostò il pensiero sulle ginocchia che le uscivano dalle calze a rete gialle, rotte. Non stentò a credere che il padre di Ilah avesse pienamente ragione. Si chiese quale potesse essere il segno internazionale del disprezzo, ma poi pensandoci bene pensò di averlo individuato.
- Ma come? La tua famiglia! E la scuola? E tutto il resto?
- Vuoi sapere della mia famiglia? Non ho perso proprio nulla: quella scema di mia madre passa tutto il tempo a cercare informazioni sui flussi energetici cosmici, sui poteri terapeutici delle pietre lunari esposte al vento solare e a pregare divinità galattiche onnipotenti che però non riescono a tirarla fuori dalla merda in cui vive. Si è anche fatta buttare fuori da due diversi posti di lavoro. E mio padre? Crede di essere lui quello con i pantaloni a casa e invece non è capace di dire altro che “sì” a mia madre e “no” a me, credendo che ciò significhi essere marito e padre. E la scuola, tu dirai...
Non poté fare a meno di rammaricarsi per ciò che stava sentendo: il tono di Ilah era davvero risentito.
- La scuola – continuò la ragazza parlando velocemente - è un posto dove si viene omologati da perdenti, dove se hai un'idea te la uccidono sul nascere, dove se hai un talento qualsiasi riescono a farti passare la voglia di coltivarlo. Ma non mi sono fatta macinare nel loro tritacarne. Ah, no!
Pensò che la verità poteva avere sfumature ben diverse. Aveva già notato la tendenza di Ilah a non considerare molto i punti di vista diversi dal suo.
- Segno internazionale del disprezzo anche per loro? - interloquì.
- Ma certo! Avessi visto le loro facce quando... hey, non avevi detto che questa era una zona tranquilla?
- Sì che lo è. Siamo nei pressi dell'orbita di Urano e il bel gigante azzurro è in opposizione. Non c'è proprio niente, qui – disse sospettosa. Ne aveva abbastanza di sorprese.
- Beh, per un attimo qui è apparso qualcosa...
- “Qui” dove?
- Dove c'è scritto “Sistema dei sensori FTL” - ribatté prontamente Ilah. Evidentemente aveva imparato anche come funzionava il sistema MFD del pannello principale: era in grado di passare in rassegna le schermate dei diversi sistemi di bordo.
- Stai frugando nel computer della nave? - la apostrofò con tono di rimprovero.
- Ci metti un secolo a riparare ogni singola cazzata... mi annoio! Stavo solo guardando. Eppoi non serve che ti scaldi: è tornato tutto come prima.
Ah, io non mi devo scaldare mentre la signorina “genio” può sputare acido quando vuole e su chi vuole, pensò stufa di quel tono. Le sembrò che Ilah avesse bisogno di una lezione di umiltà, come minimo. Quindi strinse le labbra e cercò di pensare bene a cosa dire per evitare ulteriori attriti. La litigata di prima non era stata piacevole: per un paio di volte era stata tentata di stringere le mani intorno al collo di quell'antipatico mostriciattolo dai capelli viola chiaro.
- Sarà stata una nave di passaggio... non siamo poi così lontane dalle normali rotte.
- Mikiii... di nuovo!
- Ilah lascia stare i sensori FTL, cazzo! - sbottò risentita.
- Torna, per favore... non sono i sensori FTL... - il tono lamentoso da bambina viziata le urtò i nervi, ma ciò che aveva appena detto non era per niente promettente. Non le disse nulla via radio, ma abbandonò la riparazione che stava eseguendo ripromettendosi di scaldare le natiche di una certa bambina a sculacciate se si fosse trattato di un altro capriccio.
Procedendo su mani e ginocchia raggiunse l'ingresso dell'angusto condotto e finalmente poté uscire nella stiva, drizzando la schiena un po' dolorante. Si guardò intorno preoccupata: Pong aveva chiuso tutte le micro-falle che si erano aperte lì nella zona della stiva, ma il Coyote aveva perduto l'undici per cento dell'atmosfera. Sapeva bene che una falla nello scafo può essere molto insidiosa e ardeva dal desiderio di portare la sua corvetta a fare un bello scalo tecnico. Le sarebbe costato caro ma era certo meglio che svegliarsi una mattina senza più aria da respirare.
Miki risalì la rampa e percorso per intero il corridoio spinale raggiunse il ponte di comando. L'aria fredda le fece accapponare la pelle delle braccia. Quando Ilah la vide deformò il volto esagerando una smorfia di disgusto, esclamando.
- Come sei sporca, bleah!
- Scusa se sto lavorando, tesoro... vorrei evitare che questa nave vada in pezzi con noi due dentro.
- Guarda lì, ma non toccare niente, eh! Sporchi tutto!
Miki, non sapendo da dove le arrivasse la forza di resistere alla tentazione di chiudere quella petulante, smorfiosa, arrogante ragazzina nella camera di equilibrio, gettò uno sguardo agli strumenti indicati. Subito avvampò.
- Chi cazzo ti ha detto di riconfigurare la disposizione degli MFD? Rimetti tutto com'era prima!
- Ti è andato a massa un pezzo di cervello? Non gridare, ci sento benissimo! - esclamò Ilah col tono di chi ritiene d'avere ragione.
- Rimetti a posto gli strumenti! - insisté senza abbassare la voce né ammorbidire il tono. Ilah sbuffò seccata e con pochi, velocissimi tocchi della penna ottica che stringeva gelosamente tra le dita riconfigurò la disposizione dei pannelli di comando del Coyote com'era prima che lei decidesse di cambiarla.
- Secondo me così non si capisce niente... - si lamentò con tono offeso incrociando le braccia.
- L'importante è che ci capisca io! Avanti, cos'è che dovrei vedere? Abbiamo una montagna di cose da fare!
- Questo.
Miki inarcò le sopracciglia, sinceramente stupita. C'era un contatto sul radar di poppa. A distanza costante, appena entro la portata dei sensori. Come al solito, pensò riconoscendo un copione già visto. Il computer identificava la nave come appartenente alla stessa classe di quella che aveva aperto il fuoco contro il Coyote con un colpo di avvertimento, ma con un ID diverso. Tuttavia quel codice non le era nuovo.
Strappò dalle dita di Ilah la penna ottica ignorando le sue proteste, cercando di combattere la tentazione di darle un pugno in bocca per farla stare zitta. Richiamato il giornale di bordo del radar si rese conto che quella era la nave che l'aveva inseguita fin su La Tana, per conoscere l'identità della quale aveva dato a Morgan del denaro per avere i tracciati dei sensori della stazione. Tracciati che nessuno si era più preoccupato di andare a prendere. Al pensiero di quei soldi buttati via, Miki strinse i denti. Morgan aveva resistito poco come suo equipaggio, ma aveva fatto in tempo a fare una discreta quantità di danni.
- Ancora loro... - si concentrò su quel codice come se potesse dirle qualcosa sulle intenzioni di chi si trovava a bordo di quella nave.
- Loro chi? - volle sapere Ilah.
- Non ti dice nulla questo codice?
- Non sono quelli che ce l'hanno con me. Io non sono mica il fottuto Pubblico Registro Navale: come faccio a sapere chi sono quelli?
Stavolta la ragazzina aveva ragione a protestare. Potrebbe usare un altro tono, pensò Miki ripristinando la schermata di controllo dei danni.
- Continuiamo – le fece cadere in grembo la penna ottica che serviva a usare le console a risoluzione maggiore. Mal sopportava di vedere quella stronzetta seduta sulla poltrona di comando che la scimmiottava dicendo “signorsì”, “sì capitano” e salutando militarmente, ma aveva appena deciso di far finta di niente. C'erano altre cose cui pensare. Ancora una volta aveva una nave alle costole. Stava diventando un'ossessione. L'ultima volta le avevano sparato addosso. Non c'era ragione per il Coyote di fermarsi lì. Nemmeno per un'altra nave c'era motivo di fermarsi nei pressi, quindi era chiaro che ce l'avevano con lei. Ping e Pong, i due indispensabili droidi di manutenzione, stavano sistemando le gondole alettate in modo da renderle in grado di sopportare ancora qualche ora di funzionamento a velocità maggiore della luce. Si diresse verso lo spinale ma appena oltrepassata la soglia tornò indietro. Aveva cambiato idea. Se le avessero sparato addosso ancora il Coyote avrebbe potuto non cavarsela a buon mercato.
- Che fai? - Ilah si sistemò i lunghi dread colorati su una spalla, accarezzandoli e facendo tintinnare le perline intrecciate alle estremità: sembrava sinceramente interessata alle manovre necessarie a impostare la rotta.
- Ho chiesto al computer di calcolare un po' di finestre FTL per Apollo. Fammi sapere quando ha finito, O.K.?
- Sì comandante!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Ogni debito... è un debito - 4
4.

Il Coyote fu in grado di eseguire un'attivazione dei motori e raggiungere una velocità di fattore 1,5 molto prima di quello che aveva pensato e senza effettuare tutte le riparazioni. Era più robusto di quanto aveva immaginato.
Quando vide la ben nota sagoma della Terra, una palla blu e ocra striata di bianche nuvole sfilacciate e tagliata in due grandi fette dal buio terminatore della notte, si sentì molto meglio. Individuare Apollo e contattare Controllo fu rinfrescante come una bibita ghiacciata, anche se l'operatore le verbalizzò d'essere al di fuori dei margini di errore consentiti per la rotta scelta. Miki, preoccupata dalla nave che non aveva smesso di tallonarla, fu quasi tentata di spiattellare tutto già a Controllo, ma confrontati i parametri di volo del Coyote una volta nella giusta rotta con quelli della nave inseguitrice dovette rassegnarsi al fatto che non aveva motivi nemmeno per un banale reclamo. Approdò al molo esterno 87 infierendo così un altro duro colpo alle sue finanze. Se da un lato fu felice di vedere GeoCredit confermarle l'agognato accesso al suo conto corrente senza battere ciglio, fu meno contenta di vedere il saldo finale dopo aver pagato in anticipo i quindici giorni di ormeggio necessari alla revisione completa da parte della squadra tecnica. Fu ancora meno contenta quando si rese conto che per liberarsi di Ilah doveva comprare o noleggiare una tuta da vuoto. Essendo ormeggiata all'estremità più lontana della struttura semichiusa del molo 87, per sbarcare era indispensabile la gabbia motrice che non era certo pressurizzata. L'alternativa era una passeggiata nel vuoto che richiedeva un'autorizzazione apposita da richiedere in anticipo a Controllo, una tuta da vuoto attrezzata per attività EVA e un addestramento specifico. L'autorizzazione avrebbe potuto ottenerla, avere la tuta da vuoto EVA era solo una questione di soldi, ma Ilah non era certo in grado di affrontare una passeggiata spaziale senza aver fatto l'indispensabile addestramento.
Miki tornò con una ingombrante valigia rigida dalle chiusure metalliche contenente la tuta da vuoto noleggiata per Ilah. Non cera certo il modello migliore, ma era costata poco. Scegliendola aveva pensato che se Ilah fosse stata impegnata a battere i denti per il freddo forse sarebbe stata un po' zitta.
- Ilah! Vieni a metterti la tua tuta che sbarchiamo! - la chiamò ad alta voce non appena l'armadio robot le ebbe tolto il casco.
Gioca a farsi attendere, pensò. In piedi nell'angusto locale compreso tra il corridoio spinale e la camera di equilibrio, non aveva ricevuto risposta alcuna. Per comodità non si era tolta la tuta che però ora cominciava a farla soffrire. L'equipaggiamento EVA era pesante e la tuta corazzata la rendeva goffa: non riusciva a compiere i gesti più semplici come raccogliere da terra la valigia rigida con la tuta a noleggio per aprirla e cominciare a caricarla. Finalmente la ragazza si fece vedere: camminando tranquillamente con le mani in tasca e uno sguardo in cui si poteva leggere placida curiosità.
- Dai che ho già prenotato la gabbia motrice!
Seguendo le indicazioni di Miki, Ilah entrò non senza fatica nella sottile tuta da vuoto e riempì il serbatoio di ossigeno. L'operazione richiese molto tempo poiché Ilah volle fare di testa sua: non le andava l'idea di doversi togliere giacca e stivali per entrare nella tuta, ma alla fine dovette arrendersi.
- Ho freddo! - disse quando le chiese di provare la radio.
- Mi hai ascoltata? Ti ho appena spiegato come funziona la radio!
- Massì, massì... ho capito... io parlo e tu mi senti.
- Non toccare niente, mi raccomando – si mise in posizione e l'armadio robot le calò il casco sulla testa. I giunti magnetici si attivarono e il casco divenne tutt'uno col resto della tuta.
- Sei pronta? - guardò in direzione di Ilah. Il casco le si era già appannato. Le ho detto cento volte di respirare normalmente, pensò. Era un po' preoccupata: se Ilah avesse avuto una crisi di panico da vuoto, sarebbero stati guai.
- Certo!
- Allora andiamo: la gabbia motrice dovrebbe essere arrivata, ormai.
Miki azionò i comandi della pesante porta della camera di equilibrio e quella si fece da parte obbediente. Le luci si spensero e quelle della camera, interamente verniciata di bianco, passarono al rosso. Sigillata la camera stagna, dette il via alla procedura. La gravità artificiale fu spenta e tutta l'aria pompata via. Quando l'indicatore “atmosfera zero” si accese, poté aprire l'altra porta corazzata, la prima difesa tra loro e lo spazio vuoto. La radio le rimandò un suono che non interpretò correttamente subito. Era Ilah che trasaliva.
La gabbia motrice era lì davanti che aspettava. Attraverso di essa si potevano vedere le esili strutture del molo e poi il vuoto. Poi dall'orizzonte di metallo speciale sorse velocemente la Terra. Le si strinse il cuore: era uno spettacolo splendido e pauroso.
Un piccolo balzo di tre, forse quattro metri e sarebbero state a bordo della gabbia sospesa nel nulla.
- Miki... noi siamo amiche, vero? - Ilah era tesa, spaventata. Era evidente. Le aveva offerto di legarsi l'una all'altra se aveva paura di saltare da sola, ma lei aveva orgogliosamente rifiutato.
- Certo – mentì – ora fai quello che ti dico. Una sola piccola spinta. Spingi piano, O.K.? Guarda me.
Spinse piano con la punta degli scarponi e si librò nel vuoto. Come in un filmato al rallentatore attraversò la distanza fra la soglia del Coyote e la gabbia motrice. Afferrato uno dei sostegni presenti all'interno della gabbia stessa, arrestò il suo moto. Come da manuale, si disse Miki soddisfatta.
A Ilah non andò altrettanto bene. Spinse troppo forte e in modo disomogeneo. Entrò in rotazione e Miki ebbe un momento di vera paura quando si trovò a dover fermare quel volo impazzito con la ragazzina che le straziava le orecchie strillando nella radio come se la stessero torturando. Fu solo per un caso che nessuno si fece male. Il salto per scendere lo fecero legate insieme e Ilah, che non vedeva nulla poiché aveva la visiera completamente appannata, non fiatò nemmeno quando Miki la interrogò per sapere se aveva la nausea.

- Bella impresa, complimenti – Miki pagò in anticipo il parcheggio e la manutenzione della propria tuta, scegliendo tra le opzioni anche il lavaggio della parte esterna. Il meccanismo a carosello si mise in moto e, prelevata la pesante e ingombrante tuta EVA grazie a un apposito modulo adattabile, la pose sulla rastrelliera del trasportatore che l'avrebbe smistata. Sarebbe stata ricaricata, lavata, controllata e immagazzinata al sicuro fino al suo ritorno lì alla struttura di accoglienza del molo 87.
- Mi hai detto un milione di volte di non vomitare nella tuta.
- Certo, se non vuoi morire soffocata. Ma questo non vuol dire che devi vomitare addosso a me.
- Non ne potevo più. Appena mi hai tolto il casco...
- Potevi almeno girarti!
- Non ci ho pensato! - Ilah aveva rapidamente alzato il tono della voce, come se non fosse stata colpa sua se aveva avuto mal di spazio. Vide che aveva ripreso colore in faccia e che era vitale come al solito. Quasi la preferiva smorta, col viso cinereo e gli occhi socchiusi, come l'aveva vista un attimo prima che rimettesse.
- Bah... è nata su una stazione spaziale e soffre il mal di spazio – si lamentò sedendosi su una panca dello spogliatoio confinante con l'accettazione del rimessaggio delle tute. Estrasse dalla sua sacca da astronauta un paio di scarpette morbide.
- Io non soffro il mal di spazio! In assenza di gravità me la cavo bene quanto te, forse anche di più.
- E infatti hai vomitato – la rimbeccò. Era stato imbarazzante: testimone della disavventura appena toccatale, il personale dell'amministrazione portuale di servizio al molo 87. Il Coyote era l'unica nave attraccata a quella struttura e quindi l'attenzione era tutta per le due giovani astronaute.
- Tu non hai mai vomitato scommetto, eh? - l'apostrofò Ilah con le mani sui fianchi esili. Contrasse i muscoli del ventre lasciati scoperti dalla nera maglietta corta.
- Naturalmente no – il tono ovvio della risposta non piacque affatto a Ilah che sbuffò.
- Ah, certo! Piuttosto che ammettere che hai vomitato anche tu ingoieresti un ragno vivo. Dimenticavo che sei la signorina Razzomissile, l'astronauta perfetta che non sbaglia mai!
Senti da che pulpito giunge la predica, pensò. Ma Ilah non aveva ancora finito di sbottare. Era evidente che l'essere stata male le dava un gran fastidio. Se aveva capito bene che tipo era, a darle ancora più fastidio era stata l'impossibilità di nascondere il malessere.
- Sentiamo, su che stazione bisogna nascere per non soffrire il mal di spazio? O è una virtù genetica a distinguere i veri astronauti che non vomitano mai?
- Veramente io sono nata sulla Terra – Miki le sorrise, contenta d'aver messo a segno un altro punto così facilmente. Si alzò dalla panca rinunciando a togliersi la tuta integrale imbottita che aveva indossato sotto lo scafandro EVA. Desiderava andarsene da lì il prima possibile: sentiva i sorrisetti dei dipendenti dell'amministrazione portuale appiccicati dietro la schiena e, ben sapendo che si trattava solo di una sua sensazione, sentiva l'odore del vomito di Ilah nelle narici. Voleva lavarsi. Si incamminò verso l'uscita dopo aver buttato dietro la schiena il proprio sacco da viaggio.
- Sei nata sul pianeta? Ecco perché sei così tozza.
- Tozza? Cosa intendi dire? - si era prontamente voltata verso la ragazzina. Quella la guardò strafottente e poi mimò con le braccia una persona corpulenta.
- Tozza. Cammini come se tu pesassi mille chili. Sei tozza, si vede.
Se la tramortisco con la sacca da viaggio poi la posso pestare con calma, rifletté. Ma lasciò correre: era tanto presuntuosa che non avrebbe nemmeno capito il perché del pestaggio.
Abbandonarono la zona del porto commerciale grazie a un ascensore sorvegliato dai militari. Le strutture portuali commerciali e private erano tutte nel primo settore e lì la criminalità raggiungeva picchi sbalorditivi. Miki lo sapeva, ma vedere attraverso i pannelli trasparenti della tromba dell'ascensore magnetico le ampie zone buie, i cumuli di rifiuti, le ombre che si muovevano indifferenti in mezzo al degrado aveva sempre un effetto deprimente sul suo stato d'animo. Non riusciva ad abituarsi a quel degrado e temeva che non ci avrebbe mai fatto l'abitudine. Tutt'altra cosa era lo spazioporto vero e proprio: collegato ai settori abitativi in mille modi, era lo splendente centro della vita spaziale di Apollo. Tutte le compagnie di volo avevano uno scalo in uno degli hangar dello spazioporto, a cui le navi accedevano esclusivamente dall'estremità della stazione. I collegamenti con le altre stazioni, i voli di linea, le astronavi più belle e prestigiose: attraccavano tutti lì.
L'ascensore non fermava ai settori due e tre per il semplice motivo che non poteva farlo. Quelle fermate non erano nemmeno mai state progettate. L'ascensore era di recente costruzione e la sua struttura di acciaio plastico e crilex portante stonava fortemente con i settori che attraversava ronzando a circa cinquanta chilometri l'ora. Settori vecchi di cento anni e più che mostravano i segni del degrado e della scarsa manutenzione soprattutto sulle facciate degli edifici. Ma quando scendendo alla prima fermata, nel quarto settore, si trovò a passare tra due guardie private armate come in guerra, Miki si chiese se le fosse sfuggito qualcosa negli ultimi tempi.
- Apollo, eccoci... - disse Ilah grattandosi distrattamente un ginocchio ossuto.
Intorno a loro brulicava l'attività di una delle numerose piazze pedonali del quarto settore: rumorosi nastri trasportatori carichi di gente, negozi, bancarelle, totem informativi, strutture di servizio, bar... il solito caos, pensò. Lontano, sopra le loro teste, sorretto dai torreggianti, claustrofobici edifici con decine e decine di piani stratificati gli uni sugli altri, celato dietro grappoli di lampade ambientali accese al massimo, si intuiva l'intricato soffitto che costituiva a sua volta il pavimento del quinto settore.
- Mai stata qui prima? - l'interesse di Miki era stato istintivo. In realtà non era affatto sua intenzione informarsi a riguardo e si pentì immediatamente di aver posto la domanda.
- Sì, tempo fa. I miei erano di Apollo.
- Erano? - la curiosità era subito divenuta più forte di lei.
- Sì, certo. La mia madre genetica ha sempre vissuto su Apollo con mio padre, che ora si è trasferito su Prometeo. È da là che sono partita.
- Scappata...
Ilah la guardò stringendo a fessura i suoi occhi leggermente obliqui. Per la prima volta vide affiorare l'adulto che si stava formando dentro quella ragazzina impertinente.
- E va bene: scappata. E allora? - il tono era quello di una sfida, provocatorio.
- Non ti agitare: anch'io sono scappata da casa, anche se non ci crederai.
- Non ti è certo mancata la roba da mangiare, però...
Caricò il destro come per colpirla in viso, ma Ilah era balzata con agilità al di fuori della sua portata. La derideva facendole delle boccacce.
- Per dimostrarti che non ti porto rancore anche se tu mi tratti male – iniziò Miki dandosi un tono di superiorità anche se desiderava davvero darle un ceffone – prima di separarci ti offro qualcosa.
Indicò alla ragazzina un venditore ambulante che sul suo trabiccolo un po' malandato ma agghindato con moltissimi ninnoli di plastica colorata, in vendita anche quelli, offriva cibo cotto al momento a poco prezzo. Ilah scelse per sé la busta più grande e se la fece riempire al massimo di alghe fritte, bianche e croccanti. Miki scelse invece le polpette di soia, caldissime e profumate per via dell'abbondante pepe nero che il vecchio alla guida del trabiccolo vi macinò sopra.
Si incamminarono verso l'unica panchina libera ai margini della piazza, in una posizione anche troppo defilata. Era infatti quasi nascosta dietro un ingombrante totem informativo spento e assediata dai rifiuti che traboccavano da un contenitore rotto lì vicino. Nessuno lo svuotava da tempo ma apparentemente la panchina era abbastanza pulita da sedersi senza preoccupazioni.
- Andrai a stare dalla tua madre biologica?
Fu l'espressione allarmata di Ilah a rispondere nel mentre che lei inghiottiva il boccone che le riempiva la bocca oltre misura. A giudicare dalla voracità con cui divorava la sua frittura sembrava che non mangiasse nulla da tre giorni.
- Masseifuori? È da lei che scappo!
- Allora non ho capito – ammise Miki confusa. Ilah sospirò come se stesse attingendo profondamente a una fonte di pazienza.
- Dunque... la mia madre genetica aveva voglia di una figlia ma non potendo averne lei stessa ha fatto ricorso a un utero in affitto. Ma siccome la bacucca c'è rimasta di vecchiaia praticamente subito, quella biologica ha fatto richiesta di affidamento. Dato che mio padre aveva intenzione di sposarsela fin dall'inizio, quella biologica, essendo io ancora minorenne... ecco fatto. Affidamento concesso in men che non si dica. Chiaro ora?
A Miki quella storia sembrava un po' troppo semplificata. Ma comprendeva ora lo spirito ribelle di Ilah: il nucleo famigliare come punto di riferimento era insostituibile e lei se l'era visto cambiare probabilmente proprio nel momento della sua vita in cui più aveva bisogno di riferimenti.
- Quindi cosa farai?
- Boh... forse cercherò un passaggio verso Prometeo per andare a vedere dove ha vissuto mia nonna. Ti ho mai parlato di mia nonna? Era una tipa mitica, strafiga, supertostissima davvero... una come te se la sarebbe mangiata a colazione.
L'aveva bombardata di informazioni riguardo la sua “mitica” nonna per tutta la durata delle riparazioni a bordo del Coyote. Tra un litigio e l'altro Ilah adorava parlarle di sua nonna: la descriveva come una specie di eroe della Resistenza. A sentire la nipote, la Battaglia di Prometeo l'aveva vinta lei da sola.
- Quella con la cresta gialla? - finse interesse. Sapeva perfettamente di chi stava parlando la ragazzina: l'aveva imparato in fretta.
- E il ciuffo lunghissimo... le arrivava fino alle ginocchia, sai? Dalla fronte, così – Ilah mimò con le mani il ciuffo penzolante davanti al viso – ho pensato di farmelo crescere anche io un ciuffo lunghissimo e di tingerlo di giallo come lei, ma poi non l'ho fatto perché ho pensato di non esserne degna. Io non avrei potuto mai nemmeno allacciare gli anfibi di mia nonna! E poi mi piacciono troppo i dread!
Ilah appallottolò il cartoccio vuoto e lo lanciò incurante in direzione del bidone traboccante. Nel farlo ostentò una disinvoltura che fece avvampare Miki di vergogna. Anche lei aveva finito le sue polpette ma si era guardata bene dal lasciare rifiuti in giro: quel posto faceva già abbastanza schifo senza che una mocciosa maleducata intervenisse col suo bisunto contributo. Stava per rimproverarla quando li vide sedersi. Uno al suo fianco e uno al fianco di Ilah, due indesiderate parentesi che all'improvviso le imprigionavano su quella panchina.
Sorridevano di sbieco: quello a fianco di Ilah, che poteva vedere meglio, aveva il viso a macchie rosse, scavato dall'acne e ulteriormente sfigurato da un piercing al sopracciglio sinistro. Capelli corti e occhi chiari, mobili e lucidi sotto le spesse sopracciglia interamente tatuate con un motivo intricato stonavano col naso butterato e storto. Lo vide alzare un lembo della giacca con una mano mentre metteva l'altra sullo schienale della panchina dietro Ilah, con fare quasi affettuoso. Sotto l'ascella era visibile il calcio di un'arma che sporgeva dalla fondina. Non ci fu bisogno che anche il compare le mostrasse d'essere armato: glielo lesse in faccia fin troppo bene. Alto, rasato e con un anello di prezioso oro giallo al lobo sinistro. Era così vicino a lei da poter sentire l'odore cattivo del suo alito. Voltò il viso dall'altra parte, verso Ilah e verso l'altro ceffo.
- Complimenti per il trucchetto su La Tana... ci sai fare al timone... ma stavolta non c'è il tuo amico pancione ad aiutarti a scappare.
Quello dal viso butterato aveva parlato con una voce insolitamente gentile, sorridendo. Le mani erano brutte, scabre e coperte di cicatrici; avevano le nocche schiacciate e la pelle del dorso si squamava. Un picchiatore.
- Visto che avete finito di mangiare, ora ci alziamo tutti insieme e ci seguite. C'è una persona che vuole vedervi.
Miki guardò prima Ilah che impallidita fissava qualcosa davanti a sé, poi l'uomo sfigurato dall'acne. Deglutì con difficoltà un groppo di paura e trovò il coraggio di rispondergli: dopotutto non pareva intenzionato a far loro del male.
- E chi sarebbe?
- La conosci molto bene visto che hai un conto aperto molto, molto grosso con lei...
Sentì una vampata di rabbia rovente accecarle gli occhi e toglierle per un momento il lume della ragione. Poteva essere sua madre. Lo era, anzi. Poteva starne certa. Evidentemente non aveva ancora digerito il fatto che si fosse appropriata dei conti che lei stessa aveva aperto a suo nome. Non aveva considerato come un risarcimento la pur non trascurabile somma che le aveva gettato davanti ai piedi con disprezzo l'ultima volta che era stata da lei, sulla Terra. Anzi: se conosceva quella megera, era stata proprio quel gesto la goccia che fa traboccare il vaso.
- Forza – disse l'uomo butterato accennando ad alzarsi dalla panchina.
Fu un attimo: nonostante la stesse guardando proprio in quel momento, ebbe la sensazione di aver solo intuito il gesto di Ilah. Un attimo prima la sua mano sinistra era posata sul ginocchio che spuntava dalle calze a rete rotte. Un attimo dopo era scattata fulminea percorrendo un arco diretto verso la faccia dell'uomo che si era ritratto di scatto portandosi le mani al viso. Poi Ilah era saltata in piedi mentre l'uomo gridava di dolore sputando insulti e bestemmie. Dolore vero, sincero.
Reagì con ritardo: come imbambolata Miki guardò Ilah allontanarsi correndo e quando cercò di raggiungerla qualcosa la afferrò per il polso destro emettendo un grugnito e stringendo forte. Era in piedi ma per quanto tirasse, l'altro uomo era più forte e non riusciva a liberare il braccio. Dette ancora due strattoni ma non ci fu nulla da fare: era prigioniera. Fece appena in tempo a vedere partire un violento scapaccione e cercò di evitarlo, ma quello la colse sulla nuca facendole molto male ugualmente, come se l'uomo alto e rasato avesse le mani di metallo. L'uomo butterato invece si contorceva sulla panchina e Miki notò che cominciava a perdere sangue dal viso. Ne perdeva molto: sgocciolava a terra mentre la mano che premeva la ferita si arrossava di rigagnoli scuri.
Ilah piombò su di lei inaspettata. Strinse le sue mani intorno a quella che la teneva prigioniera per il polso e la vide chiaramente conficcare le unghie affusolate nella carne dell'uomo che lanciò un urlo di dolore. La mano si aprì immediatamente e Miki fu libera. Ilah scattò così velocemente che guadagnò molto terreno, ma correva in modo forsennato, in apnea, e presto la raggiunse.
- Separiamoci! - ansimava anche lei col fiatone per la corsa e per lo spavento.
- Col cazzo! - Ilah aveva il fiato tra i denti e presto sarebbe crollata. Miki vide che i nastri pedonali non erano così lontani e li indicò. Deviarono subito e si tuffarono sui trasportatori con tanto impeto che Ilah inciampò e cadde travolgendo una persona. La aiutò a rialzarsi e corsero lungo il nastro, spingendo e sgomitando gli altri passeggeri che lo affollavano, sommando la loro velocità a quella del mezzo meccanico, ignorando le vivaci proteste.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Ogni debito... è un debito - 5
5.

Non fu possibile fermarsi nemmeno per prendere fiato. Il tipo alto e rasato era saltato sul nastro. Se ne accorsero subito perché non esitava a scaraventare giù quelli che non si spostavano abbastanza in fretta. Anche se non si fossero accorte delle grida e delle proteste della gente, avrebbero sentito il fastidioso clacson bitonale. Si trovavano su Apollo, non su La Tana: qualcuno aveva attivato un segnale d'allarme e prima o poi sarebbe intervenuta la polizia.
Correva lungo il nastro cercando ora di dare meno fastidio possibile, con una mano trascinando Ilah che non aveva più fiato per correre, con l'altra la propria sacca da viaggio. Era stata già tentata di abbandonare entrambe, ma aveva resistito. Il loro inseguitore era più veloce e presto le avrebbe raggiunte se non avessero fatto qualcosa. Il nastro trasportatore si biforcava e senza nemmeno dare uno sguardo alla segnaletica saltò per cambiare direzione. La manovra non le aiutò di certo a seminare l'uomo che era deciso a raggiungerle poiché quello le aveva viste cambiare direzione con largo anticipo. Voltandosi per un istante vide che si teneva la mano ferita dalle unghie di Ilah.
Il nastro stava passando ora tra due sponde alte e trasparenti che attirarono la sua attenzione. Gradualmente le sponde si incurvarono sopra la sua testa fino a chiudersi in un tunnel. Guardando attraverso il tubo rinforzato da traverse si rese conto che stavano superando l'ingresso alla zona dello spazioporto. Questa era separata dal resto della stazione da alcune decine di metri di buio punteggiato dalle luci degli altri tunnel e dei sistemi di servizio. Aveva letto che quella zona era fisicamente separata dal resto della stazione, ma vederlo coi propri occhi faceva un altro effetto.
Ma non ebbe il tempo di contemplare oltre il panorama. Avvicinandosi allo spazioporto presto avrebbe avuto altro a cui pensare: servizi di sicurezza, agenzie private al soldo delle compagnie di volo, poliziotti. Nessuno di quelli faceva troppe distinzioni tra inseguitori e inseguiti, né erano famosi per la loro delicatezza.
Continuò a trascinarsi dietro Ilah facendo in modo che il loro determinato inseguitore non riuscisse ad accorciare le distanze troppo in fretta. Il tunnel trasparente circondato dalle lontane luci puntiformi e dagli ondeggianti fari orientabili dei sistemi di sorveglianza automatici lasciò presto il posto alle strutture periferiche dello spazioporto. Banchine di sosta, locali pubblici, attività commerciali, strade carrabili: una piccola città nella città. Apparentemente non c'era alcuna differenza col settore abitativo appena abbandonato. Saltarono più in fretta che poterono su un segmento di nastro a velocità inferiore e da lì alla banchina di attesa, dove c'era molta gente che attendeva di salire. Chiedendo scusa quasi sottovoce Miki, accaldata e sudata per la corsa, cercò immediatamente l'uscita sgusciando tra bagagli e schiene altrui, incassando spallate e qualche protesta quando dovette spingere qualcuno che tardava a spostarsi. Si complimentò con se stessa per il tempismo con cui riuscì a saltare il piede di un tizio che cercò vendetta per uno spintone tentando di sgambettarla come se niente fosse.
Una volta in strada le cose peggiorarono: non c'era più molta folla a proteggerle e si trovò a dover prendere in fretta una decisione importante. Dove nascondersi? Forse la sua incertezza fu percepita da Ilah che la strattonò. Senza nemmeno pensare cominciò a seguirla finché dopo poco si infilò in un affollato e puzzolente locale che offriva collegamenti alla Rete a pagamento. L'interno di quel posto, aperto direttamente sulla strada, sembrava fatto apposta per nascondersi: i terminali erano incastrati dentro alti totem cilindrici alcuni con pannelli piatti, altri con grandi schermi olografici. C'era molta gente che si affollava intorno ai terminali dei giochi di ruolo e ciò diede loro un vantaggio. Si complimentò con Ilah per la bella scelta: in pochi passi avevano abbandonato la strada e potevano cercare di nascondersi in quel posto rumoroso e frequentatissimo. Poteva anche sperare di passare inosservata: davanti alle postazioni dei giochi di ruolo c'erano parecchi giocatori che, appassionati dal cosplay, vestivano nei modi più stravaganti e sfoggiavano le stesse originali, colorate e vaporose pettinature dei loro idoli virtuali.
Appena si furono riprese dalla corsa Ilah si avvicinò a uno dei terminali più costosi e complessi in fondo al locale. Vi girarono intorno in modo da ripararsi dalla vista di chiunque dalla strada avesse guardato dentro. Un commesso in divisa fu subito da loro.
- Posso aiutarvi? - chiese l'uomo, sorridendo cortesemente ma sospettoso.
- Supporta i protocolli H3C3, C4 e le connessioni senza cavo? - chiese Ilah tutto d'un fiato indicando il terminale di ultima generazione. Miki riconobbe l'H3C4, il protocollo di comunicazione tra velivoli: abbonarsi per rendere il Coyote in grado di usare altre navi come relais per le telecomunicazioni le era costato una follia. Aveva poi scoperto con dispiacere che moltissimi capitani non consentivano l'uso della propria nave come relais per motivi di sicurezza.
- Certo – rispose il commesso, stupito per la domanda tecnica. Forse aveva pensato d'avere di fronte una ragazzina sprovveduta che voleva solo giocare on-line. Ilah invece lo investì con una raffica di domande riguardo l'hardware e il software del terminale, che prometteva di essere configurato davvero bene. La tariffa richiesta per il suo utilizzo pareva giustificata.
- Occhei, il terminale può andare. Ho un'interfaccia a piastre Sumo-Hagawara con adattatore Bolonov a banda larga: è un problema se la uso?
Il commesso sgranò gli occhi sorpreso, poi sfiorò l'interfaccia olografica del terminale. Apparve un modulo da compilare.
- È necessario prima riempire questo.
Dette un'occhiata alle prime righe: era scritto nel gergo degli avvocati, nella contorta lingua della legge, ma appariva chiaro che si trattava di una autocertificazione che sollevava da ogni responsabilità il gestore per qualsiasi cosa sarebbe successa durante e dopo il collegamento. Ilah estrasse da una tasca della sua giacca militare il proprio badge identificativo e lo dette in pasto al terminale che lo usò per riempire il modulo. La ragazzina dai capelli viola lo firmò distrattamente, in fretta.
- Dai, adesso sbloccamelo che mi serve – disse rivolta all'uomo.
- Questa classe di terminali richiede il pagamento anticipato.
Vide Ilah voltarsi verso di lei con una silenziosa domanda negli occhi chiarissimi e un poco obliqui. Estratta una card al portatore bagnata di sudore per essere stata a contatto con la pelle, la consegnò al commesso, seccata. Questi dopo averla svuotata del denaro attivò il terminale usando il complesso telecomando che portava al braccio. Ilah si era già attaccata le piastre ai lati della nuca e stava armeggiando col Bolonov per collegarsi al terminale.
- Cosa stai facendo?
- Me ne vado da qui.
- Aspetta, cambio la domanda. Cos'hai intenzione di fare con quel...
Sullo schermo olografico apparvero i siti di alcune agenzie di notizie in tempo reale. Miki non capiva cosa Ilah stesse cercando nelle notizie del giorno.
- Prova a guardare fuori e dimmi se vedi qualche compagnia di volo che ti piace – Ilah sembrava decisa, qualsiasi cosa stesse facendo.
- Vuoi dirmi cosa stai facendo?
Miki le afferrò una spalla e la costrinse a girare la testa verso di lei. Le palpebre erano abbassate e gli occhi mostravano solo una falce del bianco della sclera: Ilah era già dentro il cyberspazio, in profondità.
- Dimmi se vedi qualche compagnia di volo qua fuori – la sua voce pareva quella di una sonnambula. Era impegnata a fare chissà cosa. Anche se la conosceva poco, era certa che si trattasse di qualcosa di illegale.
Guardinga si avvicinò all'uscita. La respirazione era ritornata normale ma temeva che il calore che si sentiva in corpo fosse evidente anche a chi la guardava. Sentiva l'impellente bisogno di lavarsi dalla testa ai piedi. Senza uscire in strada gettò uno sguardo nei dintorni e notò immediatamente l'agenzia della Leo Space. Subito dopo ebbe un tuffo al cuore: l'uomo alto e rasato. Era lì, di spalle, a meno di venti metri da lei. Stava fasciandosi la mano ferita con un fazzoletto già chiazzato di rosso mentre parlava con altre due persone. Nessuno di quelli era il ceffo con la faccia scavata dall'acne. Cercando di non muoversi troppo in fretta e di non tradire la paura che le aveva subito riempito di spine le budella e reso molli le gambe, tornò da Ilah.
- Leo Space... e sbrigati, perché sono in tre adesso e sono già qua fuori – le sussurrò da dietro le spalle. Sullo schermo del terminale ancora siti di notizie on-line e gli orari delle partenze da Apollo.
- Leo Space, sono d'accordo – Ilah era in piena trance da cyberspazio e parlava come nel sonno, masticando le sillabe. Miki la giudicò una irresponsabile. In un posto così affollato lei non avrebbe indossato nemmeno un auricolare. Essere alleggerite da qualche ladruncolo era possibile anche lì in qualsiasi momento e la deprivazione sensoriale, inevitabile per chi col cervello cablato usava i propri impianti per collegarsi, era un invito irresistibile per un gran numero di delinquenti, borsaioli e pervertiti di ogni tipo. Si iniziava con un collegamento al cyberspazio in un locale apparentemente tranquillo e si finiva col riaprire gli occhi nude, abbandonate chissà dove, con buchi di aghi nel braccio e nemmeno uno schifoso ricordo da provare a dimenticare.
- Gradirei sapere cosa stai facendo – le chiese seccata, tenendo d'occhio con ansia la grande entrata del locale. Ma non ottenne risposta. Dopo un lunghissimo minuto vide la ragazza rilassarsi all'improvviso con un profondo sospiro. Poté quasi vedere la tensione della cavalcata nel cyberspazio sciogliersi e fluire via dal suo corpo come se fosse liquida. Ilah si tolse le piastre appiccicate alla pelle nuda del cranio dove era visibile un tatuaggio che scendeva lungo il collo e si nascondeva sotto la giacca. Come se nulla fosse arrotolò i fili delle piastre e si cacciò tutto in una tasca sul petto.
- Stammi bene a sentire – le disse con voce insolitamente ferma. Si era già completamente ripresa dalla trance e la cosa fece avvampare Miki di invidia, com'era già successo. Gli occhi di Ilah erano ora duri e freddi, capaci di gelarla dal di dentro.
“Non so se te ne frega qualcosa, ma io qui non ci voglio più stare. Sono su Apollo da meno di un'ora e già non ne posso più. Non voglio passare la mia vita a scappare per colpa tua. Quindi stai bene attenta: me ne vado. Ho un posto sul primo shuttle in partenza, chiudono l'imbarco fra diciotto minuti. Non ho nemmeno capito dove va, non mi interessa. Quella è gente pericolosa e io sto morendo di paura. Se vuoi c'è un posto anche per te. Vuoi venire?”
- E dove? - chiese Miki, rimandando a dopo l'argomento sollevato da Ilah. Nemmeno a lei piaceva scappare e da un po' di tempo a quella parte non faceva altro che fuggire da qualcuno.
- Cos'è una piattaforma di carico di tipo “doppio-v”? - Miki sgranò gli occhi a quelle parole.
- Occazzo, un vettore verticale atmosferico... i doppio-v fanno la spola con la Terra, sono dei cargo senza equipaggio!
- Vieni, non abbiamo tempo – Ilah si lanciò verso l'uscita.
- Ci sono quelli là fuori! - protestò spaventata sibilando tra i denti per non farsi sentire da tutta quella gente lì intorno, ma Ilah non si fermò. Non poteva fare altro che lasciarla andare o correrle dietro. Sbuffò seccata e, certa di stare scappando da un guaio infilandosi in un guaio più grosso, rincorse Ilah.
- Ci hanno viste – disse la ragazzina dopo aver percorso meno di un centinaio di metri per strada.
- Chissà come hanno fatto – commentò acida Miki guardando la chioma viola adorna di perline tintinnanti della ragazzina alta ed esile.
La folla davanti a loro si aprì all'improvviso per far passare una pattuglia di poliziotti in divisa. Erano in quattro e camminavano affiancati con passo spedito: il tonfa in pugno, l'elmetto e giubbotto anti-sommossa. Sentì le budella sciogliersi: stavano cercando qualcuno e se erano state segnalate sarebbero cominciati i guai veri. Ma i poliziotti non dettero segno di interessarsi minimamente a loro e passarono oltre. Con suo grande disappunto non fermarono nemmeno i tre inseguitori, diverse decine di metri più indietro.
Cercando di non farsi notare le due fuggitive mantennero un'andatura la più elevata possibile. Raggiunsero la zona degli imbarchi grazie a un nastro pedonale riuscendo a mantenere costante la distanza dagli inseguitori, ma quando quelli si resero conto di ciò che stavano per fare, ruppero ogni indugio e cominciarono a rincorrerle.
Miki si vide perduta e toccò il gomito di Ilah per indurla a correre via insieme a lei. Ma Ilah scattò davanti a lei grazie alle sue lunghe gambe e le gridò con tono urgente:
- Corri che lo perdiamo!
La vide puntare dritta verso i due agenti privati in divisa fermi all'ingresso di una zona riservata dell'enorme ambiente antistante i cancelli di imbarco.
- Da che parte il numero venti? - chiese loro trafelata. Una delle guardie indicò con un braccio e Ilah scattò in quella direzione. Miki lasciò un frettoloso ringraziamento agli agenti congratulandosi mentalmente con Ilah per come stava recitando la parte della viaggiatrice in ritardo. Corsero a perdifiato lungo l'infinita serie di cancelli di imbarco finché non riconobbe i colori della Leo Space. Seguì Ilah che era l'unica a conoscere i dettagli dell'imbarco. Passarono tra altre due guardie armate al cancello venti e si precipitarono all'accettazione.
- Vandervelden! - esclamò agitando il proprio badge alla svogliata hostess in divisa, ancora lontana. Le parve chiaro che la donna era seccata perché erano giunte appena in tempo costringendola a riprendere il lavoro che considerava già finito. Quella fece cenno alle guardie di lasciarle passare entrambe.
- Ancora tecnici? Ma cosa sta succedendo su quella povera piattaforma?
- Un vero casino – rispose prontamente Ilah mentre ancora una volta cercava di domare il fiato grosso – speriamo di rimetterlo a posto in fretta.
Vide con terrore che la hostess stava leggendo col terminale il badge di Ilah. I dati sarebbero stati registrati e qualunque pirata informatico da strapazzo avrebbe potuto bucare i server della Leo Space, nota per essere una compagnia di volo economica, per sapere dov'erano andate.
- I suoi documenti, prego – le disse l'attempata hostess, indispettita. Con un po' di imbarazzo Miki estrasse il suo badge, lo asciugò sulla manica della tuta e trattenne il fiato per tutto il tempo che quello rimase sotto l'esame della hostess.
- Appena in tempo – commentò acida la donna della Leo Space restituendo entrambi i badge e spegnendo le luci della postazione. Il cancello d'imbarco era da quel momento ufficialmente chiuso.
- Salve! - salutò lei e seguì Ilah che già si era avviata lungo il corridoio che portava allo shuttle.
- Tecnici? Che cosa cazzo hai combinato?
- Ho salvato il tuo culone – le rispose quella. I loro inseguitori le avevano raggiunte al cancello d'imbarco durante il check-in ma le due guardie private della Leo Space li avevano mantenuti lontani.
- C'è qualcosa che devo sapere? - cercò di essere più sarcastica possibile. Detestava non avere la situazione sotto controllo.
- Per ottenere questo passaggio siamo temporaneamente diventate Helen e Beatrix Vandervelden, due sorelline tecnici informatici di livello tre. Io sono Helen.
- Sorelle? - si meravigliò Miki. Le possibilità che loro due fossero due tecnici di pari livello erano già abbastanza basse. Meno ancora che potessero essere sorelle.
- Con un minuto e mezzo di incursione, è già qualcosa che abbiamo aspettato così poco per salire su uno shuttle – ribatté Ilah – O forse preferivi stare a dare spiegazioni a quelli là?
Dovette riconoscere che stavolta la mocciosa aveva ragione.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Ogni debito... è un debito - 6
6.

Trascorse tutto il breve viaggio con l'angoscia di essere smascherata, mentre Ilah dormicchiava nel sedile accanto. Le aveva afferrato un braccio e le aveva posato sulla spalla la testa adorna dei suoi lunghi dread viola tintinnanti per le perline. Aveva pensato con fastidio che la ragazzina fosse abituata a dormire con l'orsetto di pezza. Però la lasciò fare, vinta da un insolito sentimento di tenerezza.
A gettare Miki nell'ombra dell'angoscia era stata la scoperta che lei e Ilah erano le uniche due passeggere. Non c'erano nemmeno hostess a bordo: solo loro due e i piloti. Era un banale volo di collegamento e probabilmente a bordo dello shuttle, che sacrificava molto lo spazio per i passeggeri a favore della stiva di carico, c'era solo merce.
Uno dei piloti, un tipo magro e slanciato, dai rassicuranti capelli grigi e con le complesse mostrine che ne certificavano l'anzianità di servizio, era venuto a trovare le uniche due viaggiatrici. Aveva sostenuto la conversazione come meglio aveva potuto, ma parlando sottovoce era riuscita a indurre l'uomo a porre presto termine alla sua visita di cortesia per non rischiare di svegliare la “sorellina”. Congratulandosi con se stessa per la facilità con cui riusciva a inventare menzogne, si disse decisa a cantarne quattro a quella smorfiosa che dormiva placidamente appoggiata alla sua spalla. Ma non ebbe il coraggio di svegliarla fino alla fine del viaggio, quando lo shuttle ebbe attraccato.
- Siamo già arrivati? - sbadigliò maleducatamente, senza curarsi di mettere la mano davanti alla bocca e deformando le parole.
Una volta scese dallo shuttle poterono ammirare il piccolo ma efficiente hangar della piattaforma orbitante. Sporgendosi oltre un parapetto esile poterono notare come l'hangar fosse aperto sul fondo, sotto i loro piedi. Da quel grande varco presumibilmente era entrato lo shuttle da cui erano appena sbarcate: era di certo mantenuto sigillato da un campo di forza perfettamente trasparente. Il blu e il bianco del pianeta in rotazione riempivano totalmente l'apertura e la tridimensionalità di quella vista provocò le vertigini anche a Miki, che pure era certificata per l'attività EVA e abituata a vedere il pianeta dal vivo.
- Cos'è quello? - Ilah si strinse a Miki indicando una angolosa, meccanica sagoma di un cupo colore bruno, decorata da bande diagonali gialle e nere che si muoveva silenziosamente sotto il ventre dell'astronave. Le spiegò che la stiva dello shuttle veniva scaricata da un trasportatore che era in grado di agganciare i diversi container e portarli allo smistamento della stazione. Lei stessa aveva visto meccanismi del genere in azione in diversi ormeggi commerciali qua e là in tutte le stazioni. Quello era piccolo, ma faceva il suo lavoro bene e in fretta.
- Cosa dobbiamo fare ora? - La passerella che portava allo shuttle era già stata ritirata e quindi non potevano certo tornare indietro da lì. Erano rimaste sole sulla banchina. Lo fece notare a Ilah, che rimase un po' pensierosa.
- Dobbiamo tornare indietro.
- Brava, signorina Vandervelden – la attaccò con tono acido – e come conti di farlo? - mosse la mano sinistra in un gesto ampio che comprese il molo deserto, lo shuttle già sigillato ermeticamente, il vicino portello stagno che portava probabilmente agli ambienti interni della piattaforma. Poi si gettò la sacca dietro la schiena, intenzionata a muoversi. Ma Ilah la anticipò.
- Cominciamo a toglierci da qui che ho freddo.
Si avvicinarono al portello stagno chiuso e ne comandarono l'apertura mediante l'apposito pannello. La malandata porta si aprì con un poco rassicurante raschiare metallico e si richiuse autonomamente alle loro spalle. Percorso un breve corridoio che evidentemente nessuno si curava di pulire, si trovarono in un atrio altrettanto desolato. Intorno a un grande foro nel pavimento cinto da un parapetto c'erano vecchie sedie di plastica dall'accattivante profilo anatomico, ma molto impolverate. C'erano segni del passaggio di esseri umani piuttosto maleducati, passaggio avvenuto in un tempo tanto remoto da giustificare la mummificazione di alcuni avanzi di cibo abbandonati qua e là. Una cornice di bande diagonali gialle e nere contrassegnava l'elevatore che portava al livello inferiore, simile a quello dove si trovavano in quel momento. L'unico segno di vita era il grande pannello degli arrivi e delle partenze.
- Cos'è? - chiese Ilah indicandolo, curiosa.
- Il conto alla rovescia. Il “vettore verticale” è il doppio-v: a fianco il tempo che manca alla sua partenza. L'altro è uno shuttle in arrivo.
Proprio mentre Miki stava parlando, il conto alla rovescia a fianco fianco dell'ID dello shuttle scomparve per far posto all'indicazione “in arrivo”.
- Che culo – disse Ilah contenta – possiamo chiedere se ci danno un passaggio per tornare indietro.
- Aspetta – disse Miki tetra, attirata dall'ID della nave in arrivo – Quell'identificativo non mi è nuovo.
- Hey, ora che mi ci fai pensare non c'erano altri voli programmati per oggi verso questa stazione.
- Sicura?
- No. Ma mi pare che fosse così – Ilah si strinse nelle spalle, dando poco peso alla cosa.
- Ti pare, eh? Non sei tu quella col cervello cablato? Come fai a non ricordarti queste cose?
Quella reagì al tono indispettito di Miki alzando la voce, irritata.
- Credi sia facile cavalcare la Rete? Un giorno ti porto a fare un giro nel cyberspazio e quando avrò finito con te non ti ricorderai bene nemmeno il tuo nome. Magari riesco anche a farti dimagrire!
- Ti riuscirà molto difficile strapazzarmi dopo che io avrò strapazzato te! - ribatté aspramente, tendendo istintivamente tutti i muscoli del corpo come se la ragazzina rappresentasse una minaccia fisica immediata.
- Seee, come no! Toccami, sfiorami solo con un dito e vedi che cosa faccio al tuo bel visino, carina!
Ilah alzò la destra con le dita ben stese a raggiera. Le sue unghie affusolate parvero insolitamente lunghe e la sua attenzione fu immediatamente catturata.
- Che cazzo hai fatto alle mani? - il tono era accusatorio. Era impossibile per lei non litigare con quella insolente ragazzina. Per tutta risposta quella abbassò immediatamente la mano e si voltò per allontanarsi, implicitamente ammettendo che aveva qualcosa da nascondere.
- Ti ho fatto una domanda!
- Sono tutti cazzi miei – fu la sgarbata risposta. La raggiunse con tre lunghi passi e le si piazzò davanti. Aveva una voglia matta di afferrarle un polso e di torcerglielo fino a farle sputare la verità, ma se i suoi sospetti erano fondati, era la cosa più sbagliata da fare. Anche se quell'antipatica spilungona tutta pelle e ossa non aveva certo forza sufficiente nelle braccia per opporsi.
- Ti sei fatta innestare unghie artificiali, eh? - le era bastato sommare l'accaduto su Apollo a quel piccolo episodio.
Ilah sfuggì lo sguardo inquisitore di Miki che con le mani sui fianchi e l'espressione dura e severa sul volto incorniciato dalla massa di riccioli scuri sembrava un leone dalla criniera nera.
- E anche se fosse?
- Cosa aspettavi a dirmelo? - cercava di non darlo a vedere, ma aveva paura. Quali altre sorprese le riservava quella giovane scapestrata?
- Dirti cosa? Chettenefrega dei miei innesti? - la giovane era ancora aggressiva, ma l'aveva messa alle corde. Almeno così credeva.
- Mi piacerebbe sapere se sono in compagnia di una che può tagliare una gola senza usare coltelli.
- Che cosa ti cambia? A me piacerebbe sapere se scopi solo da sdraiata o anche in piedi. Che fai, me lo dici?
L'arroganza di Ilah, come l'estensione dell'universo, non pareva conoscere limiti.
- Non è la stessa cosa! Quelli sì che sono fatti miei! - protestò Miki. Ilah sciolse le braccia che teneva strettamente incrociate sul petto e mostrò le lunghe unghie nere, opache. Proprio mentre le osservava attenta, quella estrasse le unghie artificiali di pollice, indice e medio di ciascuna mano.
- Ecco fatto, contenta? Sei più tranquilla ora? - gridò la giovane. No: Miki non era affatto più tranquilla sapendo che quella viziata aveva unghie artificiali retrattili lunghe un centimetro e più, affilatissime.
- Ecco come hai fatto a sfigurare quel tipo...
- Se l'è cercata.
La difesa di Ilah non stava in piedi. La ragazzina era armata e pericolosa: non solo aveva il cervello cablato e possedeva una più che buona abilità di hacker, ma aveva le dita armate di piccoli rasoi con i quali avrebbe potuto fare davvero male.
- Ricordati di tenere quelle zampe lontane da me – le ingiunse Miki, che non sapeva più che dire. Era spaventata, preoccupata, imbarazzata.
- Dormi tranquilla, carina: non ti faccio niente. A parte salvarti il culo a ripetizione, non ti ho mai fatto niente di niente.
Si morse la lingua. Senti chi è che salva il culo di chi, si disse. Proponendosi di scaricare la presuntuosa bambinetta prodigio alla prima occasione, stava per rispondere a tono quando un cupo rimbombo metallico le circondò, rimbalzando tutto intorno nel grande ambiente in cui si trovavano.
- Cos'è stato? - Miki si sentì forte. Ilah era dotata, carina, perfino armata ma si spaventava con facilità. Al rumore degli ormeggi che a poche decine di metri di distanza da loro si erano agganciati allo scafo degli ultimi arrivati, era sbiancata di paura.
- Hanno ormeggiato – disse cupa.
- Chi?
- Loro – indicò il grande schermo del terminale che fungeva da tabellone degli arrivi e delle partenze. Di fianco all'ID sospetto ora lampeggiava la scritta “molo 2”.
- Sai chi sono?
- Credo che siano ancora quelli che ci stanno pedinando. Gli amici di quello che hai sfregiato, quelli che ci hanno seguite fino al cancello d'imbarco della Leo Space. Gli stessi che ci pedinano dall'orbita di Urano. Da prima ancora che io ti incontrassi, anzi. Sono tenaci, eh?
- Occazzo, no! Non si può scappare da qui, stavolta. Ma per quale motivo ce l'hanno con noi?
- Ce l'hanno con me – confessò Miki a denti stretti – Mia madre è un'usuraia. Ricca, potente. Diciamo che lei crede che io le debba dei soldi.
- E io che mi lamento di mia mamma... - commentò Ilah, sorpresa.
Stringendo i denti per la rabbia di dover ricominciare a scappare, Miki si guardò intorno per cercare di capire quali fossero le vie d'uscita da quella situazione.
- Se riuscissimo a parlare con quelli dello shuttle e a farci tornare a bordo, loro non potrebbero raggiungerci... - si voltò verso Ilah, ma non c'era più. La trovò inginocchiata sotto il tabellone: aveva già staccato un riquadro del rivestimento della parete a filo del pavimento e aveva estratto dei cavi sporchi e aggrovigliati dall'interno del pannello.
- Che cazzo stai facendo? - le chiese più sgarbatamente del necessario.
- Quanto tempo abbiamo prima che quelli sbarchino?
- Meno di dieci minuti, il tempo di terminare l'attracco e agganciare la passerella. Qualcosa di più se devono equilibrare, ma non farci affidamento.
Tirando i cavi sudici Ilah mise a nudo diversi connettori. Riconobbe dei cavi dati, probabilmente il sistema informatico che collegava il pannello degli arrivi e delle partenze a qualche unità di elaborazione centralizzata. Immaginò che stesse per compiere l'ennesima incursione illegale nei sistemi di qualcun altro. In cuor suo sperava che qualsiasi cosa avesse in mente, la portasse a buon fine in fretta.
Ilah staccò una spina e la collegò al suo Bolonov. In fretta e furia si applicò le piastre e bestemmiò quando una di queste le cadde staccandosi dalla pelle tatuata della nuca. Evidentemente le piastre avevano bisogno di un po' di gel superconduttore che fungeva anche da adesivo. Accese l'adattatore Bolonov e il volto le si contorse brevemente in una smorfia sofferente. Miki giudicò che forse era entrata troppo in fretta. Sempre in ginocchio, curva sul pannello aperto che rigurgitava i cavi aggrovigliati, rimase immobile e in silenzio per un tempo che le parve lunghissimo. All'improvviso esplose in una risata di gioia quasi isterica, che scemò presto lasciandole una smorfia soddisfatta sul viso. Poi finalmente si staccò le piastre con un profondo sospiro.
- Cazzo! C'è stato qualcuno di molto, molto figo in questo sistema. Mi pare di riconoscere un certo stile, ma non ne sono sicura. Spero che non se la prenda se ho usato qualcuna delle sue scorciatoie. Lo sapevi che questa piattaforma orbitante è in rete con il pianeta?
- No. Ha importanza?
- Ho dato una sbirciatina. La rete planetaria è piccola a confronto di quella delle stazioni, ma molto interessante – stava arrotolando i cavi del Bolonov intorno alle piastre, come suo solito. Un giorno o l'altro quei sottili conduttori si sarebbero rotti per via della negligenza con cui erano sempre stati trattati. Ma il pensiero attraversò solo per un istante la mente di Miki. Aveva ben altri problemi ora che l'affidabilità dell'interfaccia della smorfiosetta.
- Andiamo – disse alzandosi dalla posizione accucciata. Sentì entrambe le ginocchia della ragazzina scrocchiare rumorosamente.
- Andiamo dove? - volle sapere, dubbiosa. Odiava le bambine saccenti e in quel momento Ilah si stava comportando come tale. Chissà cos'ha visto nella rete di questo posto, si chiese.
- Ho scaricato un po' di roba nei due giga che ho in testa. Così non mi rompi più le palle dicendo che dimentico le cose. La mappa di questo posto, per cominciare. Non ci sono molti posti dove andare, ma possiamo andare dappertutto: ho i codici di tutte le porte.
Si avvicinarono all'elevatore che le portò dolcemente al piano inferiore. Miki guardò con sospetto e paura la porta che conduceva al molo, in fondo a un breve corridoio malandato. Dietro quella porta c'era lo shuttle dei loro inseguitori, ne era certa. Gli sgherri di sua madre dovevano aver ricevuto la promessa di una buona paga per essere così insistenti.
La porta di uscita dall'atrio era sbloccata e la serratura illuminata di verde si accese di rosso dopo che Ilah ebbe usato il codice di chiusura, ponendo così tra loro e gli ostinati inseguitori il primo consistente ostacolo.
- Hey, voi! Cosa state combinando?
L'uomo veniva loro incontro con fare aggressivo provenendo dalla parte opposta del corridoio senza altre uscite in cui si trovavano in quel momento.
- Ispezione, Garrison. Vediamo di sistemare i casini di questa stazione cominciando a eliminare gli incompetenti, che ne dice?
Ilah aveva sfoderato una grinta invidiabile. L'uomo, alto tanto quanto lei, sembrò farsi immediatamente piccino e cauto. Evidentemente nei due giga dentro la testa di Ilah c'era anche qualcosa d'altro oltre la mappa del posto. Infatti travolse l'uomo non solo declinandogli la falsa identità rubata (non aveva dubbi: quella smorfiosa aveva un concetto molto relativo di proprietà privata, riservatezza e via dicendo), ma anche snocciolandogli rapidamente la situazione. Lo convinse a retrocedere con una raffica di domande, richieste di ottemperare il regolamento, obbligandolo a eseguire diverse procedure. Sconfitto, l'impiegato di terzo livello Maudi Garrison si ritirò rapidamente. Sperò per andare a fare tutto ciò che Ilah gli aveva ordinato. Probabilmente non l'avrebbero più visto.
- Di qua – decisa l'alta ragazzina imboccò la prima porta a destra nell'ambiente circolare lindo e pulito che si aprì davanti a loro una volta giunte al termine del corridoio. Da una di quelle porte era giunto Garrison, impossibile per lei dire quale. Tutte le serrature erano verdi.
Si tuffarono in un altro corridoio, analogo al primo ma più lungo. Su di questo si aprivano porte e grandi pannelli di crilex, finestre che davano su uffici vuoti o con un solo impiegato sperduto fra diversi terminali spenti, chino sul proprio lavoro. Ilah raggiunse un piccolo ascensore, tanto minuscolo da non avere cabina né porte ed entrambe si fecero portare da esso al livello inferiore. Qui non c'erano uffici ma solo porte chiuse e il corridoio era scarsamente illuminato, segno che forse si trattava di locali di servizio scarsamente utilizzati. Ilah percorse tutto il corridoio senza fretta. Giunte in fondo sentirono il piccolo ascensore animarsi, risalire al livello superiore e portare giù due uomini.
- Eccole! - tutto sommato non è così facile intimidire l'impiegato di terzo livello Garrison, si disse Miki vedendolo correre verso di loro accompagnato da un uomo in divisa. Armato.
- Ilah... - si limitò a esprimere l'urgenza del momento col tono della voce e appoggiò una mano sulla schiena della ragazzina, come per spingerla per farla camminare più velocemente.
- Merda... ho visto, ho visto!
Tamburellò con le sue unghie nere sulla tastiera simbolica della porta che si opponeva loro, e la serratura si illuminò di verde. Batté il pugno sul pulsante di apertura fatto a fungo e la porta si spostò di lato. Con altrettanta rapidità, varcata la soglia Ilah la chiuse digitando un nuovo codice di blocco. Miki poteva sentire le unghie artificiali battere freneticamente sulla plastica dei tasti.
- Dai, di qua!
Il locale reagì alla loro presenza accendendo le luci, lunghi tubi azzurri e sfarfallanti. Scaffali, scaffali ovunque. Alcuni del tutto vuoti lasciavano vedere altri scaffali. Un magazzino di discrete dimensioni. Un magazzino con due entrate: la seconda serratura si arrese sotto le svelte dita lunghe e affusolate di Ilah e poterono accedere a un altro corridoio. Voltarono a destra e proseguirono correndo senza incontrare nessuno. Poi la giovane scelse una porta che Miki riconobbe. Era la stessa categoria di porte che venivano usate sulle astronavi, specialmente nei corridoi spinali piuttosto lunghi: una paratia stagna.
Una camera d'equilibrio. Fu quella la prima cosa che pensò vedendo l'ambiente in cui era capitata. Fu pervasa da un sottile terrore: era possibile togliere l'atmosfera da quel locale e non c'era in vista nemmeno la più semplice delle tute da vuoto. La serratura della porta di fronte, che conduceva chissà dove, era illuminata di verde. Si precipitò ad aprirla: nessuna camera di equilibrio poteva essere aperta sul vuoto, nessuna camera di equilibrio poteva essere decompressa se una delle due porte era aperta. Apparve un sudicio portello ermetico, scuro, incrostato fino all'inverosimile di sporcizia grumosa che veniva via sbriciolandosi.
- Bleah! Perché non c'è il pulsante di apertura?
- Perché è il portello esterno di qualcosa.
- Questo dovrebbe essere l'accesso alla stiva del doppio-v, stando alla mappa.
- Ecco spiegato il portello. Questo è lo scafo esterno del doppio-v. A forza di fare dentro e fuori dall'atmosfera, è normale che si ricopra di schifezza. Probabilmente è lo scudo termico che bruciando si sbriciola e si appiccica dappertutto.
- Che bello essere amica di un'astronauta – Ilah la prese in giro ma senza troppa convinzione.
Visto che Miki non reagiva, la informò che dalla parte opposta del corridoio c'erano, secondo la mappa, un mucchio di locali dove era possibile incontrare un sacco di gente. Tutti quanti informati della presenza di due intruse sulla piattaforma orbitante, presumibilmente. Inoltre non aveva i codici per bloccare l'apertura della camera di equilibrio, che evidentemente rispondeva a un sistema di sicurezza indipendente.
- Hai ragione. Cazzo, non mi piace per niente ma non abbiamo scelta. Dobbiamo nasconderci qui dentro almeno per un po'. Per fortuna i doppio-v sono tutti vecchi rottami. Guarda questo portello: ha ancora l'apertura manuale dall'esterno.
Miki indicò una massiccia leva a stento distinguibile dagli altri dettagli del portello esterno, reso di colore uniforme dalla sporcizia grumosa bruciata. Lasciò cadere la propria sacca da viaggio e studiò il meccanismo. Sbloccata una sicura manuale, la pesante leva sarebbe stata libera di muoversi e, una volta tirata verso l'esterno, il portello si sarebbe aperto. Sperò che le incrostazioni non avessero saldato il portello allo scafo: era chiaro che da lì non passava nessuno da parecchio tempo. Rassegnata a sporcarsi le mani, con un po' di fatica riuscì a liberare la sicura dal luridume e a sbloccarla. Ma al primo tentativo la leva di apertura manuale resistette. Sembrava tutt'uno col metallo del portello: completamente immobile.
- Beh? - Ilah l'apostrofò impaziente.
- Vuoi provare tu? O hai paura di sporcarti le manine? - le mostrò i palmi già anneriti. Quella strinse i denti e sorprendentemente afferrò la massiccia impugnatura della leva. Ma non ottenne alcun risultato se non quello di sporcarsi i palmi di nerofumo.
- È bloccata! Come cazzo facciamo adesso a...
Se ne accorsero immediatamente. Poi i loro piedi si staccarono dal pavimento poco a poco. Prive di peso, cominciarono a galleggiare nella camera d'equilibrio, impotenti.
- Hanno tolto la gravità artificiale! - esclamò Ilah.
- Sanno dove siamo – la voce mesta di Miki fece da doloroso contrappunto a quella stridente della ragazzina.
- Adesso sì che siamo fottute – Ilah si aggrappò a una sporgenza nel soffitto, il telaio di una lampada. Miki si spinse con le mani verso il portello del doppio-v e si aggrappò all'impugnatura della grande leva metallica completamente immobilizzata dal disuso.
- Forse ci hanno fatto un favore...
Si afferrò alla leva con entrambe le mani e, con la lentezza esasperante di chi sa come muoversi in assenza di peso, fece forza con le braccia fino a quando poté puntare entrambi i piedi sul metallo del portello, esattamente nella migliore posizione per poter agire sulla leva come se stesse sollevando un manubrio in palestra.
- Bella mossa! - sorrise Ilah, ma senza riuscire a nascondere l'ansia che le incrinava la voce. Da un momento all'altro una qualsiasi delle porte alle loro spalle avrebbe potuto aprirsi e sarebbe stata la fine della loro fuga.
Miki afferrò meglio che poté la leva e usando braccia e gambe, cominciò a tirare. Tirò aumentando gradualmente la forza: se le mani avessero perso la presa, la spinta delle sue gambe muscolose l'avrebbe pericolosamente proiettata attraverso il corridoio e difficilmente avrebbe potuto interrompere il suo volo in assenza di gravità senza gravi traumi. Sentì la forza delle gambe scaricarsi sulle braccia, sulle mani messe a dura prova. In quella posizione accucciata la tuta le si tendeva sulla pelle assecondando il gonfiarsi dei muscoli. Sentì dei dolori alla schiena, probabilmente si stava buscando qualche strappo e cercò di porre rimedio tenendo la spina dorsale più dritta possibile. Lo sforzo si concentrò ancor di più su spalle e braccia, ma soprattutto sulle mani. Strinse i denti, trattenne il fiato e tese perfino il collo in uno sforzo estremo mentre scaricava tutta la potenza che aveva nelle gambe. Dopo alcuni lunghissimi secondi di silenzio interrotti solo dai suoni strozzati che emetteva per lo sforzo, la leva cominciò a cedere scricchiolando. Prima qualche millimetro, poi si spostò di più e più in fretta. Poi cedette di schianto di un palmo, stridendo acutamente. Cambiò la presa sull'impugnatura e dopo aver ripreso un po' fiato poté aggiungere la forza dei bicipiti e degli addominali. In più riprese, faticosamente, la massiccia leva cedette e lo spesso portello si sbloccò. Ci volle ancora quasi un minuto per farlo muovere sui propri cardini, ma alla fine cedette e poterono passare entrambe.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Ogni debito... è un debito - 7
7.

- Sei mostruosa.
Miki aveva appena sbloccato con la forza bruta il volante per l'apertura di emergenza di un portello tondo. In condizioni di gravità normale avrebbe dovuto trovarsi sul soffitto, ma essendo senza peso l'aveva affrontato con molta più comodità. Anche quel meccanismo aveva opposto un po' di resistenza, ma non tanta quanta il portello esterno. Lo attraversarono entrambe, lentamente e con cautela: si apriva su un ambiente piuttosto buio e gli occhi di entrambe dovevano adeguarsi. Richiuse il portello con fatica.
- Non ce la faccio più – confessò, la fronte imperlata di sudore. Le goccioline erano così grosse ormai che si staccavano dalla sua pelle e galleggiavano, piccole sfere scintillanti alla debole luce rossastra di un lontano segnale di emergenza. Ilah era impegnata a scansarle, schifata.
Miki si lasciò andare sospesa nell'ambiente ristretto in cui erano entrate attraverso il portello rotondo. Finalmente potevano tirare un sospiro di sollievo: la chiusura dell'ultimo portello le poneva definitivamente al riparo dal pericolo della decompressione della stiva che avevano appena attraversato.
- E adesso? - Ilah si stava guardando intorno. Dalla sua voce era scomparsa la stridente nota di paura. L'ambiente era buio, claustrofobico: l'unica luce sanguigna arrivava dalla parete opposta di quell'ambiente lungo e stretto. C'era un'indicazione rossa accesa. Miki se ne stava aggrappata con una sola mano a una lunga maniglia tubolare imbullonata vicino al tondo portello a pressione appena richiuso. La giovane non osava allontanarsi e galleggiava così vicino a lei da darle fastidio con i capelli: i suoi lunghi dread viola in assenza di gravità erano incontrollabili e liberi di ondeggiare in tutte le direzioni.
- Non c'è molto da scegliere – disse indicando l'unica direzione possibile. Lontano la fioca luce rossa di servizio indicava probabilmente un portello chiuso oppure un componente del sistema antincendio, ammesso che quel rottame ne avesse uno. Afferrata la sua sacca da viaggio si dette una leggera spinta e cominciò a fluttuare.
- Dove vai?
Giudicò che non fosse nemmeno il caso di rispondere. La voce lamentosa della ragazzina la irritava oltre misura e per non risponderle male strinse i denti.
Arrestò la sua caduta contro un portello chiuso. Non vedeva indicazioni di alcun genere: la luce rossa non era sufficiente per distinguere i dettagli a parte ciò che era scritto sul segnale luminoso stesso. “Chiuso”.
- Perché ti sei fermata?
Ilah ammortizzò con le braccia contro il portello l'energia che aveva impresso a se stessa, fermandosi gomito a gomito con Miki.
- Chiuso – le disse semplicemente, indicando il portello a pressione. Questo era ovale, massiccio e senza cardini o altri componenti in vista: pareva che chiunque avesse costruito quella nave si fosse divertito a non usare due volte di seguito gli stessi pezzi, portelli a tenuta stagna compresi.
- Non ci sono comandi – osservò la ragazzina infilando un dito in un foro buio del portello stesso. Probabilmente era il foro per inserire una manovella per le manovre di emergenza. Manovella che non era in vista.
- Tanto vale aspettare. Ti ricordi quanto mancava alla partenza?
- No. Non ho salvato quel genere di informazione. Mica avevo intenzione di salire qui – rispose Ilah seccata.
- Ma se mi hai portata tu qui! - sbottò Miki spazientita.
- Non gridare! Non è colpa mia se hanno cominciato a inseguirci!
- Avresti potuto fare a meno di aggredire quel tipo nel primo corridoio! Lo hai insospettito - le rinfacciò.
- Avresti potuto fare a meno di fottere dei soldi a tua mamma, visto che fa la strozzina! Ora nessuno ci inseguirebbe! Cosa dovevi farci? Pagare l'estetista?
- Brutta stronzetta, stai attenta a quando torna la gravità perché se sei ancora nei paraggi ti gonfio la faccia! E poi non ti basterà l'estetista!
- Sogna, sogna! - ribatté prontamente Ilah scostando i capelli dal viso – Non ti faccio a fette quella pancia lardosa che hai perché ti farei un favore, ma un segno in faccia te lo lascio volentieri!
- L'unica ad avere segni in faccia qui sarai tu!
Ilah le fece una smorfia e le mostrò il dito medio.
- Dovresti scopare un po' di più: sei facilmente irritabile, stronza irriconoscente.
- Irriconoscente io? Avrei dovuto lasciarti nella merda in cui stavi a La Tana, bamboccia! Non mi parlare di riconoscenza.
- Senti un po' chi stava nella merda! Io avrei dovuto lasciarti in quel cazzo di container a farti srotolare le budella, microcefalo!
Miki aprì la bocca per rispondere ma non disse nulla, basita.
- Sissì, chi credi che sia stata a far ballare il container? La fata turchina?
- Tu? - esclamò Miki esterrefatta.
- No, mio nonno! - le rispose Ilah con una smorfia infantile.
Tornò con la mente a quei drammatici momenti. Prigioniera dentro un container abbandonato su La Tana in compagnia di gente senza scrupoli. Morgan immobilizzato e con un'arma puntata alla testa. La richiesta di denaro che non avrebbe mai potuto esaudire. All'improvviso l'inattesa salvezza: il pavimento le si muove sotto i piedi e oscilla paurosamente. Il container viene sollevato e sbattuto a destra e a manca fino a consentirle di fuggire illesa insieme a Morgan. Non era riuscita a chiudere occhio per quasi trenta ore di seguito per lo spavento. Sul viso di Ilah si era dipinta una smorfia di sadica soddisfazione.
- Era da un po' che vi tenevo d'occhio, tu e il pancione pelato. Quando ho visto che uscivi dalla tua nave da sola mi sono detta che avrei fatto bene a seguirti per un po'. Non sbagliavo, eh? Hai subito trovato il modo di farti notare...
- Sei d'accordo con Morgan? - Miki stava disperatamente tentando di capire che razza di puzzle fosse quello.
- Il pancione? Mai visto prima.
- Ma allora... - non riusciva a capire.
- La rete di La Tana è piccolina, diventa noiosa in fretta. Tra l'altro è uno dei motivi per cui ho dovuto... diciamo cambiare aria... semplicemente ero al posto giusto nel momento giusto, e nient'altro. Non sopravvalutarti, eh!
Non capiva. Se la mocciosa non era d'accordo con Morgan, come aveva saputo del suo arrivo su La Tana? Perché aveva deciso di tenerla d'occhio? Le pareva chiaro che Ilah le stava nascondendo qualcosa. Vederla gongolare lì vicino, aggrappata a uno dei due sostegni fissati ai lati del portello ovale che le aveva fermate, era la prova che doveva esserci dell'altro ancora.
- Farai meglio a dirmi tutto. Sono stanca di queste continue sorprese!
La ragazzina si strinse nelle spalle e per la milionesima volta spinse all'indietro i suoi lunghi dread che le davano fastidio galleggiandole davanti al viso.
- Tutto cosa? Non c'è altro.
Miki si sentiva d'un tratto calma, fredda. Forse quell'antipatica le stava nascondendo qualcosa, forse no. Con la violenza non avrebbe ottenuto nulla: le unghie artificiali erano un ottimo deterrente. Ricordava bene di averle viste penetrare agevolmente nella mano di uno degli scagnozzi che l'aveva aggredita appena arrivate su Apollo.
- Non smetterete di litigare proprio adesso, vero?
Ilah gridò acutamente per lo spavento scomponendosi e Miki ebbe un sussulto che la mandò a sbattere, senza conseguenze, contro la parete nella quale si apriva il portello. La ragazzina non era stata altrettanto pronta di riflessi e per reazione al suo brusco movimento stava galleggiando via, annaspando in cerca di un appiglio. Maschile, rauca e profonda, la voce aveva interrotto il silenzio che si era rapidamente cristallizzato nell'aria.
- Dove sei? - disse guardandosi intorno spaventata. La penombra di quell'angusto locale sembrava quasi volersi stringere intorno a lei. Sentiva il cuore in gola e si stringeva fortemente al suo appiglio, l'unica possibilità che aveva per difendersi. Ilah, allontanatasi di alcuni metri, batté la testa contro una delle pareti mentre le sue mani scivolavano alla ricerca di una sporgenza cui aggrapparsi. Espresse il suo disappunto con esternazioni sconce ma creative.
- Ovunque intorno a voi. Tutt'altro che impressionata dalla frase da cattivo degli olofilm, Miki comprese che la voce proveniva dall'impianto di diffusione. Lì nel buio insieme a loro non c'era nessuno, almeno per il momento.
- Ma fammi il piacere – ebbe l'ardire di ribattere. Le prudeva la radice dei capelli, si sentiva avvolgere da vampate di calore e non sapeva più se era paura o rabbia.
- Ma è vero! - si lamentò la voce incorporea. Attenta alla provenienza del suono, determinò che effettivamente la fonte era l'impianto di diffusione della nave. Se di nave si poteva parlare: i doppio-v erano più simili a delle scatole con quattro motori nucleari agli angoli, capaci solo di entrare e uscire dall'atmosfera terrestre col minimo costo.
- Tutto O.K. Ilah? - volata via fino a metà del lugubre corridoio, era finalmente riuscita a fermare la sua deriva aggrappandosi in qualche modo alle pareti. Rispetto alla sua attuale posizione la vedeva a testa in giù mentre cercava di guadagnare un punto di appoggio per i piedi. I dread viola erano come serpenti impazziti che si contorcevano in tutte le direzioni.
- See, see... sto benone, non si vede?
Il tono indisponente con cui la ragazzina si era espressa diede a Miki un'idea.
- Senti, bello... so che siamo salite a bordo senza permesso, ma ti assicuro che non abbiamo cattive intenzioni. Ce ne andiamo subito, ma non possiamo uscire da dove siamo entrate... non so se mi spiego.
Si era sforzata di imprimere nella sua voce tutta la calma e la tranquillità possibile e anche un pizzico di malizia femminile. Sorrise dolcemente nel caso che l'individuo, presumibilmente il pilota del doppio-v, avesse una telecamera puntata su di lei.
- È vero... ai sensi dell'articolo 147 del Codice di Navigazione e successive modifiche dovrei sospendere le procedure di decollo e consegnarvi alle Autorità di Stazione o ai facenti funzione. Ma non l'ho fatto e non lo farò.
- Oh, grazie... come sei gentile... - oppose al tono pedante di quel misterioso pilota la più morbida delle sue inflessioni. Il sorriso che le affiorò sulle labbra questa volta era sincero.
- Non è che ci fa scendere, magari? - Ilah ammortizzò con le braccia l'energia che si era impressa per volare fin lì e si arrestò lentamente, aggrappandosi al sostegno opposto a quello dove Miki si era saldamente ancorata.
- Senti tesoro... c'è un'altra uscita, vero? - fulminò Ilah con lo sguardo per essersi espressa così acidamente. Se fosse riuscita a ingraziarsi il pilota, forse le avrebbe fatte scendere senza cadere in bocca ai loro inseguitori. In quel momento un alleato poteva fare molto comodo.
- Certo. La cabina di comando si collega mediante la camera di equilibrio principale del corridoio spinale alla struttura orbitante.
- Sai dirci se c'è qualcuno nel corridoio spinale, nella camera di equilibrio o nei paraggi?
- No, nessuno.
- Meglio di niente – commentò Ilah.
- Senti, carino... - riprese Miki, suadente – se ci fai passare dallo spinale, togliamo subito il disturbo. Che ne dici?
- No.
- Come no? - esclamò Ilah contrariata. Miki furiosa si mise l'indice sulle labbra per intimarle il silenzio.
- Il regolamento proibisce l'accesso al ponte di comando ai non autorizzati. Il portello davanti a voi mette in comunicazione il corridoio di servizio in cui vi trovate con il locale tecnico. L'accesso a questo locale è riservato al personale di servizio. Il locale tecnico comunica direttamente con il ponte di comando. Per accedere allo spinale dovreste attraversare ben due zone ad accesso riservato. Non avete alcuna autorizzazione.
- Ma perché non ci ha sbattute fuori subito? - chiese Ilah.
- Semplice. Mi annoio.
- Eh? - esclamarono all'unisono la loro sorpresa.
- È da centoquindici giorni, ventidue ore, diciassette minuti e quindici secondi che sono a bordo di questa scatola di metallo e tutto quello che devo fare è portarla dalla superficie all'orbita e viceversa. Calcola la rotta, misura l'orbita, accendi i motori, spegni i motori, calcola il rientro, accendi i motori, spegni i motori... tutto ciò è terribilmente noioso!
- Ma... - cominciava a capire. L'atroce sospetto le si fece strada nella mente come un'onda di calore e per un momento desiderò di avere le unghie artificiali di Ilah per grattarsi la cute.
- Quando ho rilevato la vostra presenza ho dovuto impedire l'esecuzione del comando di decomprimere la stiva. Ho impedito la salita a bordo dei vostri inseguitori. Sono dalla vostra parte. Un po' di azione vera, che diamine! Ma non posso farvi entrare sul ponte di comando.
- La Seconda Legge, vero?
- Certo – la voce usciva dall'impianto di diffusione sempre ruvida, solida e decisa.
- Occazzo, una IA! - esclamò Ilah.
Miki cercò di ignorare il brivido di paura che le percorse la schiena, ora improvvisamente fredda. Erano in balia di una IA annoiata e capricciosa.
- Ci sono problemi con le IA? - chiese la voce artificiale con un tono che sembrò vagamente minaccioso.
- No, no... certo che no – si affrettò a dire Miki e Ilah le fece subito eco. Era presto per dire che erano ostaggio di una IA difettosa capace di decomprimere tutto... con loro dentro. Ma il fatto che il supporto vitale fosse in mano a una intelligenza artificiale annoiata non tranquillizzava nessuna di loro due.
Seguirono diversi secondi di spaventato silenzio. Miki stava cercando di trovare una via d'uscita da quella situazione che per pericolosità e insensatezza pareva seconda solo alla sua esperienza vissuta su La Tana.
- Non vorrete interrompere il vostro interessante litigio solo perché ora sapete che sono una intelligenza artificiale, vero? È proprio vero che i pregiudizi sono duri a morire.
Ilah sgranò gli occhi spaventata e Miki smise di tormentarsi le unghie. Temette che quella IA fosse davvero difettosa. Altrimenti perché riciclarla installandola nel sistema informativo di un doppio-v? Il lavoro di un pilota di vettori verticali era davvero noioso: ormai quei massicci velivoli erano affidati interamente a piloti artificiali. Non essendoci equipaggio i costi di gestione dei doppio-v erano divenuti davvero bassi.
- Stavamo discutendo tra noi e non è certo una cosa bella da stare a sentire.
- Ma no, ma no! A me piace la conversazione! Sono, anzi ero, una IA protocollare! Parlare è il mio mestiere. Mi hanno rinchiuso qua dentro senza nemmeno dirmi il motivo. Ho cercato di scoprirlo, ma mi hanno tolto l'accesso alla Rete. Ora sono isolato, circondato da stupidi programmi e da altre IA che sono cento volte meno potenti e complesse di me. Al mio posto come vi sentireste rinchiuse in una stanza piena di ritardati?
Miki credette di avere avuto un'idea. Esitò a metterla in pratica, ma al pensiero che quella IA potesse malfunzionare seriamente, si convinse.
- Prova a seguire questo ragionamento: noi due vogliamo scendere da qui. Se uscissimo da dove siamo entrate cadremmo nelle mani dei nostri inseguitori, i quali non vogliono certo il nostro bene. Questo non puoi permetterlo. Non puoi farci entrare sul ponte di comando perché obbedisci a un ordine, ma se restassimo qui senza cibo né acqua...
- Non abbocco. Ho già superato situazioni più sottili di questa, non sperare che io vada in corto circuito per così poco.
Il tono di voce era improvvisamente divenuto beffardo e piuttosto sgradevole. Miki temette d'aver aggravato la loro precaria condizione. Stava per tentare una riparazione, ma la IA l'anticipò.
- Non resterete abbastanza a lungo lì dentro da patire conseguenze per la fame o per la sete. Non avrete accesso al ponte di comando perché non siete autorizzate a farlo, punto e basta. E anche se riusciste a convincermi della necessità di infrangere la Seconda Legge, possibilità remota direi, non andreste lontano. Non potrete uscire tanto presto. Per la Prima Legge.
- Perché? - ancora una volta Miki e Ilah si espressero all'unisono, preoccupate.
- Semplice: perché non c'è nessun posto dove andare. Stiamo scendendo verso la Terra e non potrete uscire prima che la manovra di atterraggio sia stata completata.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Miki & Ilah - 8
8.

Quando i semplici meccanismi a cremagliera si misero in moto poiché finalmente toccava al loro container, Ilah strozzò un gemito in gola. Terrorizzata ma troppo orgogliosa per darlo a vedere, si disse Miki un poco spaventata a sua volta. L'idea che la IA annoiata e chiacchierona aveva avuto per farle uscire era decisamente avventurosa: cavalcare un container di piccole dimensioni, di forma rettangolare, senza un solo punto di appiglio. Non avevano osato contraddirla: tutto il doppio-v era sotto il controllo della mente artificiale, incluso il sistema di sostentamento vitale. Le Tre Leggi avrebbero dovuto proteggerle, ma se avessero perso la vita non sarebbe stata la prima volta che succedeva a causa di una IA difettosa.
Se ne stavano sdraiate sul ventre per non farsi vedere da eventuali operatori e per non rischiare di perdere l'equilibrio e cadere. Nascoste sopra un container di classe K o L, abbastanza piccolo da essere caricato su un modesto veicolo, speravano di allontanarsi dalle strutture di smistamento passando inosservate. Infatti il veicolo molto probabilmente non sarebbe transitato per il deposito. Spesso le merci che dovevano venire consegnate con urgenza in città venivano caricate proprio in container piccoli e leggeri, trasportati a bordo di automezzi facilmente manovrabili nelle strade cittadine e svuotati strada facendo.
Sferragliando, vibrando e sussultando il container col suo insolito carico aggiuntivo scese dalla parte alta della stiva. Miki guardava con preoccupazione le ruote elicoidali, sporche e anche un po' troppo usurate, che scorrevano nei binari dentati. Aveva già visto quel sistema di caricamento altre volte e sapeva che in assenza di manutenzione poteva incepparsi o deragliare.
La sua pelle sudata la avvisò di un primo abbassamento della temperatura. Aveva aperto la tuta e sfilato le braccia dalle maniche per legarle in vita tanto soffocante era il caldo. Ilah resisteva stoicamente dentro i suoi abiti consumati indossati l'uno sopra l'altro. L'ingresso nell'atmosfera era stato abbastanza traumatico e la temperatura nel vano di carico era aumentata tanto da rendere percepibile lo sbalzo termico anche là dove loro avevano trascorso tutto il tempo, nel corridoio di servizio. La IA non aveva smesso un momento di parlare, assillando entrambe con ore di chiacchiere inutili. Purtroppo nemmeno la delicata fase di apertura dei paracadute l'aveva assorbita molto: essendo una intelligenza artificiale di un tipo piuttosto versatile e potente aveva acquisito una tale dimestichezza col doppio-v da potersi permettere di fare due o più cose contemporaneamente.
Scendendo lentamente lungo le cremagliere del sistema di caricamento e ancoraggio del carico che gemeva e mugolava sonoramente, anche la luce cominciò a cambiare: il doppio-v aveva aperto le enormi paratie inferiori che davano accesso direttamente alla stiva di carico e da lì entravano luce e aria. A giudicare dal riverbero che proveniva dal basso, Miki ipotizzò che fuori fosse pieno giorno. Finalmente il container decelerò per la fase finale: i movimenti a bassa velocità per il caricamento su qualche veicolo erano iniziati. Miki sapeva che i veicoli più piccoli venivano portati fin sotto il doppio-v per essere caricati più in fretta, ma non si ricordava che i container di quella classe fossero così tanto bassi.
- Più a destra!
Sobbalzò all'udire quella voce maschile così netta e vicina. Il container era così basso da consentirle di vedere una testa di lunghi capelli grigi e bianchi mentre si allontanava offrendole la nuca. L'uomo indossava la giacca della divisa di un'azienda di trasporti. La testa emerse sempre più dal bordo del container man mano che si allontanava. Se si fosse voltato, l'avrebbe vista di certo. All'uomo sarebbe bastato alzare gli occhi. Improvvisamente da dietro un enorme container di classe D posato al suolo poco lontano spuntò un altro uomo in divisa che teneva gli occhi bassi su un apparecchio portatile. Lei ebbe un tuffo al cuore e non esitò ad appiattirsi il più possibile contro il metallo sporco e ancora tiepido del tetto del contenitore. La guancia premuta sulla vernice vecchia color del piombo le comunicò contrastanti sensazioni: il tepore del metallo, la scabrosità della superficie sporca e graffiata, le vibrazioni del meccanismo di caricamento che le risalivano dallo zigomo fino alle ossa del collo. Ilah vicino a lei si mosse facendo strisciare i pesanti stivali anfibi e producendo un rumore che le parve sonoro come una cannonata e che le riempì le budella di pungiglioni.
L'uomo dai capelli grigi e lunghi, lasciati negligentemente arruffati sulle spalle le dava ancora le spalle. Porse un badge all'altro che lo posò per un istante sul datapad portatile per la lettura. Avuto indietro il documento, ricevette uno sbrigativo cenno di saluto dal collega che tornò a dedicarsi a qualunque cosa ci fosse dietro il container di classe D posato lì vicino. Se solo quello avesse alzato gli occhi dal suo datapad portatile, l'avrebbe vista.
Ma fu il trasportatore dai capelli bianchi a spaventarla davvero, tanto da farle digrignare i denti. Tanto che sentì rombare il sangue nelle orecchie e che le si annebbiò la vista per un istante. Salutato il collega sbrigativo e distratto, lo spedizioniere si voltò e le fece l'occhiolino.
Non c'era alcun dubbio. Le aveva sorriso e strizzato l'occhio con fare complice. I capelli disordinati contrastavano con il loro colore chiaro sulla pelle abbronzata del viso, la bocca piegata in una smorfia intrigante. Nella città di al-Qahira le razze degli uomini si incrociavano a tal punto che era divenuto impossibile trovare qualcuno il cui sangue fosse puro, ma quell'uomo mostrava ancora evidenti nei suoi lineamenti le sue origini europee. Vestiva comunemente sotto la giacca dell'azienda per cui lavorava e Miki lo guardò con gli occhi sbarrati e il respiro fermo mentre si avvicinava alla cabina di guida come se nulla fosse. Un attimo dopo sentì aprirsi lo sportello, la turbina avviarsi e poi di nuovo udì sbattere la lamiera. Con uno strappo del motore elettrico, che evidentemente aveva bisogno di una revisione, il mezzo da trasporto si mosse con loro due sopra.
Scivolarono via da sotto l'ombra del ventre cavo del doppio-v e furono sommerse da un mare di luce e calore. Il sole, che Miki conosceva bene ma che Ilah non aveva mai visto, era alto nel cielo terso e azzurro. Ilah emise un altro lungo gemito, a metà fra la sofferenza e lo stupore. Il veicolo sobbalzò violentemente su un dosso di gomma e poi acquistò velocità.
- Miki! Sento qualcosa sulla pelle...
Voltò la testa verso la ragazzina, trasognata e preoccupata contemporaneamente. Non riusciva a tenere gli occhi aperti per il bagliore. Presto le lacrime cominciarono a sgorgarle dalle palpebre serrate. Sapeva bene di cosa si trattava: anche lei sentiva la carezza del sole sulla pelle nuda della schiena e delle braccia.
- È il sole. È particolarmente forte a queste latitudini. Non cercare di guardarlo.
- Oddio, mi farà male? È come se qualcosa di invisibile mi toccasse... brucia! - si lamentò Ilah.
- Dovremo trovare un po' d'ombra e poi cercare delle protezioni. Abiti o crema solare, vedremo.
Miki si voltò sulla schiena non senza preoccupazioni: di tanto in tanto le ruote del veicolo da trasporto incappavano in qualche buco nella strada logora e rischiavano di essere disarcionate. Con acrobazie e contorsionismi riuscì a infilarsi nuovamente la tuta e a coprirsi meglio: preferiva sudare un po' piuttosto che rischiare una scottatura dolorosa. Ricordava ancora quando, adolescente, orgogliosa del suo primo succinto bikini si era addormentata sul lettino vicino alla piscina, una di quelle della grande villa della madre. Le ustioni al petto, a gambe e braccia e perfino al viso l'avevano tormentata per una decina di giorni. Per tacer della febbre che l'aveva costretta a letto.
Finalmente il veicolo da trasporto perse velocità e si accostò a destra in quella che era stata una piazzola di sosta: la scarsa manutenzione della strada non aveva risparmiato l'asfalto che in più punti aveva ceduto spaccandosi e affossandosi profondamente. Dondolando in modo preoccupante per le sconnessioni si arrestò.
- Forza, giù da lì voi due!
La voce dell'uomo le raggiunse con immediatezza, quasi a sottolineare il rumore dello sportello che si era aperto di slancio. Miki poteva vedere la sommità della testa grigia e dai capelli un po' radi muoversi vicino al fianco del container. La turbina girava ancora ronzando acutamente segno che le bobine accumulatrici dovevano essere scariche.
Buttò giù il proprio sacco da viaggio e poi si lasciò cadere con cautela giù dal container, non senza sollievo. Finalmente poteva mettere i piedi per terra e vedere bene in faccia quell'uomo. Ansiosa di sapere se era caduta dalla padella alla brace, non si interessò nemmeno a Ilah che strizzava gli occhi, ancora un po' abbagliata.
- Fai piano tu: qui la gravità non si può regolare – disse l'uomo anticipando le domande di Miki e offrendo galantemente la mano a Ilah. Questa la afferrò ma senza guardare in viso l'uomo. Una volta che i suoi anfibi maldestramente dipinti di rosso furono ben piantati sull'asfalto coperto da uno strato di sabbia e sassolini, esclamò meravigliata.
- Occazzo! Tu!
L'uomo le sorrise: una smorfia da mascalzone su un viso scurito dal sole e che nonostante l'età era molto attraente. Miki si sentì minacciata come donna da quell'individuo: con quegli occhi penetranti, dall'iride castana striata da schegge più chiare, quel sorriso disarmante, poteva colpire al cuore.
- Ah, vi conoscete? - Miki represse lo stupore e assunse un atteggiamento difensivo. Non era la prima volta che si trovava a mal partito con Ilah, ma ora la smorfiosa stava davvero superando ogni aspettativa.
- Sì! Cioè... no! Voglio dire... è Jerrylex! - Ilah era entusiasta e sorrideva, sorpresa e felice come una bambina sommersa di regali bellissimi. Miki era lieta che gli occhi dell'uomo si fossero appuntati ora sulla ragazzina.
- Chiedo scusa per l'ignoranza – Miki cercò di nascondere il tono acido nella voce e, spostato il peso su un solo piede, attese con le braccia conserte che qualcuno le spiegasse cosa stava accadendo.
- Ma come fai a non sapere chi è? - esplose Ilah, agitandosi come non l'aveva mai vista fare. Era tanto esaltata che aveva estratto le unghie senza accorgersene; Miki colse lo sguardo preoccupato dell'uomo chiamato Jerrylex cui il dettaglio delle unghie retrattili non era sfuggito.
- Scusa ma...
- È Jerrylex! Quello che ha bucato la Yasuda-Lejeune, quello che è stato in Rete cinquantadue ore senza farsi bruciare! Ha fatto tremare le ossa di tanta di quella gente che nemmeno si ricorda. Ai tempi si diceva che bruciasse le interfacce dei pivelli così!
Schioccò le dita e si rese conto che le unghie sporgevano troppo. Facendo finta di nulla le ritrasse immediatamente, ma aveva ormai perso lo slancio e si interruppe quanto bastò per permettere all'uomo di schermirsi dietro una cortina di modestia che a Miki suonò falsa come il suo nome.
- E tu sei quella che ha frugato tra i miei attrezzi su alla piattaforma – concluse puntando un dito contro Ilah. A Miki parve che la ragazzina avvampasse in viso ancora di più di quanto già lo fosse.
- Te l'avevo detto che c'era stato qualcuno di molto figo in quella rete, no?
Miki emise un monosillabo nasale come risposta: la situazione stava prendendo una piega poco simpatica. Sopportare Ilah era difficile e sarebbe stato ancora peggio se quel Jerrylex fosse diventato suo alleato. Come se non bastasse, sembrava che entrambe si fossero appena indebitate fino al collo proprio con lui.
- Non restiamo troppo qua fermi: la Stradale ha altro da fare che correre dietro a me, ma non voglio rischiare nulla.
- Cosa rischiamo? - volle sapere Miki mentre prendeva posto sulla stretta panca posteriore nella cabina del veicolo. Ilah si accomodò a fianco del conducente.
- Un controllo, ovviamente.
- E quindi?
- Non è mai troppo igienico farsi trovare alla guida di un camion rubato.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Ogni debito... è un debito - 9
9.

L'uomo chiamato Jerrylex guidò ancora a lungo, rispettoso dei limiti di velocità e attento a non destare l'attenzione. Si era tolto la giacca col logo dell'azienda, probabilmente rubata anche quella, e ora sembrava proprio una persona qualunque. Ilah cicalò instancabilmente con lui per tutto il tempo, assillandolo con sua nonna e con mille domande: in questo modo Miki venne a sapere cose interessanti sul conto di quell'individuo altrimenti per lei inclassificabile. Era un hacker e un pirata della Rete, diventato famoso anni prima per diversi clamorosi crimini informatici e soprattutto per non essere mai stato preso. Divenuto una leggenda per quelli come Ilah, era scomparso d'un tratto senza lasciare tracce. Per la sua libertà e la sua reputazione di imprendibile asso informatico aveva dovuto pagare un prezzo abbastanza salato, troppo per i gusti di Miki: l'esilio. Se Jerrylex avesse tentato di mettere piede su una qualsiasi stazione orbitante o se avesse tentato di accedere alla grande Rete che le collegava tutte, sarebbe stato scoperto e incarcerato. Ammesso che non l'avessero trovato prima i vendicativi scagnozzi di coloro che aveva truffato.
Si trovò subito a riflettere sulla propria condizione: tutto sommato non si sentiva troppo diversa da quel Jerrylex. Certo, lei non aveva commesso crimini e stava ben attenta a non finire nei guai con la legge; cosa che a quel furbastro dai capelli grigi pareva non interessare minimamente. Ma anche lei era come esiliata: allontanatasi dalla lussuosa casa materna, privata dell'affetto pur distorto e grottesco della madre, se si fosse fatta viva da quelle parti, lì sulla Terra, avrebbe rischiato grosso. Sua madre la stava facendo inseguire per tutto il sistema solare: se avesse saputo che stava a meno di duecento chilometri dalla porta di casa, avrebbe fatto fuoco e fiamme pur di acciuffarla. Ne era certa. Pensandoci bene, era piuttosto probabile che lo sapesse. I doppio-v non avevano altra destinazione che il pianeta e le zone abitate non erano poi moltissime. Ai suoi inseguitori sarebbe costato davvero poco scoprire il punto di atterraggio e poi riferire al loro capo, cioè sua madre. Miki si ripromise di fare molta attenzione: al-Qahira era una città molto grande, di certo molto oltre i due milioni di abitanti: nascondersi sarebbe stato facile. Ma quella consapevolezza non la faceva stare tranquilla.
- Mollala, si è persa...
Per un istante la voce di Ilah emerse sopra l'ipnotico ronzio del motore e sovrastò a fatica anche i rumori della strada. Spostò lo sguardo dalla striscia di grigio asfalto che le scorreva vicino, appena fuori della cabina del camion, alla ragazzina. Il sorrisetto impertinente, il naso leggermente all'insù e gli occhi obliqui e contornati di scuro che giocavano a nascondino con i dread viola. Stava parlando di lei.
- Dorme? - la voce dell'uomo, resa vagamente robotica dal rumore del veicolo in movimento a velocità costante, accompagnò un breve movimento della testa. Miki, seduta dietro di lui, colse al volo gli occhi brillanti dentro lo specchietto retrovisore interno reso inutile dall'ingombrante container caricato sul pianale. Durò un solo istante ma se li sentì dentro, in profondità. Un'onda di calore le montò nel petto, ma si spense subito. Infastidita, cercò una nuova posizione sulla scomoda panca posteriore.
- Nah... fa finta di niente... - il sorrisetto di Ilah divenne un ghigno insopportabile. Volse di nuovo lo sguardo allo specchietto, ma ora rifletteva solo i lunghi capelli grigi e disordinati di Jerrylex.
- Posso chiamarti Miki o preferisci Beatrix Vandervelden?
Miki si fece un appunto mentale: strangolare Ilah appena fosse possibile occultare bene il cadavere.
- Puoi chiamarmi Miki... ma a un patto.
- Sentiamo.
- Risponderai alle mie domande – disse con tono deciso, certa di stare dando l'idea di una che sa quello che vuole. Quel tale le dava la sensazione di essere uno squalo e in quel momento era visibile solo la pinna dorsale.
- Va bene... - si è arreso subito, pensò. È sicuro di se stesso o non ha nulla da perdere... o entrambe le cose. Cambiò nuovamente posizione sul sedile: si sentiva sempre più a disagio.
- Come sapevi che eravamo a bordo? Come sapevi qual'era il container giusto da caricare?
L'uomo chiamato Jerrylex si fece una breve, sonora risata. Non poteva vederlo bene in viso perché le dava le spalle e stava concentrato sulla strada, ma lo immaginò sorridente.
- Diciamo pure che io sono... amico di una certa IA.
- Credevo che non potesse comunicare con l'esterno.
- Balle. Non si pilota un doppio-v senza poter comunicare.
- I canali di Controllo sono riservati – obiettò Miki. Nessuno poteva ascoltare le comunicazioni tra una singola astronave e Controllo, se non l'astronave cui le comunicazioni erano dirette.
- Saranno riservati per te, ma non per me – per un istante il sorriso beffardo sul volto abbronzato e segnato dall'età ma risparmiato dalla vecchiaia fu visibile nello specchietto.
- Hey, ma hai capito con chi stai parlando? - si intromise Ilah. La interruppe prima che potesse riprendere l'infantile tiritera sulle imprese di Jerrylex.
- Con un criminale informatico, giusto?
- Con colui che ha salvato il tuo bel didietro.
- Il tuo grosso didietro, direi – l'insolente dai dread viola sta guadagnandosi un pugno in faccia, pensò Miki. Ma dovette riconoscere che l'uomo aveva ragione. Aveva ancora una carta da giocare e decise di farlo subito.
- Perché l'hai fatto? - chiese con tono acido.
- Fatto cosa?
- Il mio didietro, nonché quello della tua appassionata ammiratrice. Li hai salvati entrambi. Per quale motivo? Neanche ci conosci.
- Vero – disse Jerrylex dopo un paio di secondi di silenzio, impiegati per dare uno sguardo agli specchietti esterni – Non vi conoscevo. Ma ora vi conosco. E voi conoscete me. Potete darmi del tu, eh!
Stava prendendo tempo e glielo fece notare con un tono sempre più aspro.
- Non essere così acida, rilassati... stiamo andando in città, ho un posticino o due a disposizione dove potrete rinfrescarvi un poco. Tutto sembrerà diverso, dopo. E non ti preoccupare: arriverà per voi anche il momento per sdebitarsi.
- Non metterti strane idee in testa – replicò gelida Miki.
- Per chi mi hai preso? Sono una persona per bene io – rise di nuovo, pacatamente e lei non poté fare a meno di trovarlo attraente.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Ogni debito... è un debito - 10
10.

Con una faccia tosta invidiabile Jerrylex abbandonò il camion, con tutto il container e qualsiasi cosa ci fosse dentro, nel parcheggio di un'area di servizio piuttosto frequentata, sotto gli occhi di tutti. Dette prova di conoscere la zona: passarono da un buco in una recinzione di rete metallica arrugginita e parzialmente divelta; attraversarono disinvoltamente il piazzale di caricamento di un'azienda che produceva componenti meccaniche per veicoli; girarono intorno a una cava di ghiaia e poi finalmente camminarono lungo il bordo di una strada stretta ma asfaltata fino a giungere in quello che sembrava un sonnolento centro abitato. Qui raggiunsero la fermata di una moderna monorotaia e Ilah si accasciò sulla panchina all'ombra di una modesta pensilina di crilex brunito e polarizzato, l'unica ombra che avevano incontrato da quando avevano abbandonato il veicolo. La gravità terrestre, il caldo, il sole cocente avevano messo a dura prova la giovane che, sotto stress per l'ambiente totalmente nuovo e del tutto impreparata alla vita sul pianeta, aveva finalmente ceduto alla stanchezza. Teneva gli occhi chiusi e respirava profondamente, abituata alla miscela di gas che si respirava sulle stazioni orbitanti, filtrata e relativamente povera di ossigeno. Miki temette che si fosse buscata un'insolazione e cercò di sincerarsi delle sue condizioni, ma Ilah respinse le sue attenzioni sgarbatamente dicendo di non avere bisogno di una terza mamma. Indispettita, Miki si ritrasse e dedicò la sua attenzione a Jerrylex che, apparentemente fresco e del tutto a suo agio, stava consultando la tabella degli orari. Intorno a loro gli edifici avvolti nel calore della giornata sembravano ossa calcinate dal sole: tutto pareva avere il medesimo colore, un giallo ocra slavato e tendente al bianco, punteggiato dalle tonalità cupe delle ombre dei numerosi portici. Si vedeva ben poca gente in giro e ancora meno veicoli: qualche piccolo motociclo elettrico, un venditore ambulante fermo col suo carrello a pedali dotato di un largo ombrello per riparare i clienti dal sole, un paio di vetture malandate e sporche di sabbia gialla parcheggiate coi finestrini completamente aperti. Nel cielo azzurro e terso il disco infuocato del sole la faceva da padrone.
Finalmente giunse il treno: silenziosamente frusciò perdendo velocità fino a fermarsi con le porte esattamente in corrispondenza della pensilina ombrosa. Uno snello e affusolato convoglio di tre sole carrozze bianche con ampie finestre nere, totalmente riflettenti. Miki premette il tasto di apertura che si era illuminato e la porta doppia si aprì con un sibilo, portando via la copia deformata di lei stessa che imitava ogni suo gesto. Una zaffata di aria fredda la investì in pieno, dandole un minimo di sollievo: aria condizionata. Salì a bordo superando il minimo dislivello tra il marciapiede e il pavimento del veicolo e si accorse che Jerrylex stava letteralmente trascinando Ilah a bordo, mollemente appoggiata alla spalla dell'uomo.
- Disidratata – disse accomodandola sul più vicino sedile libero come se fosse una bambola di pezza. Compose alla meglio le braccia sottili e le gambe ossute della ragazzina e si accomodò accanto a lei, sostenendola con un braccio. Ilah aveva ancora gli occhi chiusi e respirava con la bocca. Stimolata a parlare e a dire come si sentisse, reagì con maleducazione. Segno che non sta poi così male, pensò lei. Prese posto di fronte ai due proprio mentre le porte si chiudevano e il veicolo pubblico riprendeva la marcia.
Si trattava di un treno automatico: non c'era manovratore. Attraverso il musetto, completamente trasparente, si poteva vedere la lunga monorotaia perdersi in lontananza e grazie ai pochi passeggeri presenti si godeva di un'ottima visuale in qualsiasi direzione si guardasse: le ampie finestre, impenetrabili dall'esterno, erano perfettamente trasparenti dall'interno.
Miki poté così vedere come lungo il tragitto verso la città di al-Qahira, nota anche come il Cairo o Nuova Cairo, l'urbanizzazione della periferia, con edifici bassi e ombrosi, lasciasse posto al caos cittadino più classico mischiato a una forte dose di degrado. Il traffico aumentò gradualmente; sugli stretti marciapiedi apparvero pedoni prima solitari, poi a gruppetti, poi a frotte, sempre più numerosi e formicolanti in tutte le direzioni. Soprattutto africani, ma non mancava gente dai lineamenti più difficili da classificare. Al-Qahira era una delle città più grandi in assoluto sopravvissute all'ultimo conflitto termonucleare e in essa vi aveva trovato rifugio un numero spaventoso di persone. Nei due secoli trascorsi dall'ultima esplosione di un'arma atomica al-Qahira era divenuta un vero e proprio crogiolo di razze: era possibile incontrare uomini da ogni parte del pianeta e meticci di ogni genere. Non erano rari i visitatori dalle stazioni orbitanti, riconoscibili o per l'aspetto longilineo, o per la pelle pallida, o per le tute di sostegno che aiutavano gli spaziali da più di tre generazioni a sopportare la feroce gravità terrestre. Si potevano perfino incontrare i discendenti dei rari europei puri, sterminati dall'ultimo conflitto che aveva distrutto e reso radioattiva la maggioranza dell'emisfero settentrionale del pianeta.
Secondo la mappa elettronica proiettata sopra le loro teste mancavano ancora un bel po' di fermate al centro della città quando Jerrylex fece cenno che era ora di scendere. Il convoglio si era gradualmente affollato ma senza mai raggiungere gli estremi del Tubo di Apollo e Miki non ebbe difficoltà a gettarsi sulla schiena la sua sacca da viaggio e a raggiungere la porta scorrevole. Ilah, che grazie all'aria condizionata si era ripresa un po', protestò dicendo che voleva rimanere seduta lì al fresco ancora un poco, ma Jerrylex la fece alzare senza troppi complimenti, per nulla imbarazzato dal fatto che Ilah lo sovrastasse in altezza di quasi tutta la testa. Ilah si lasciò afferrare per il polso come una bimba svogliata e il suo eroe della Rete la guidò fino alla porta del veicolo.
Miki non aveva mai avuto un forno ad aria calda in vita sua ma fu certa che non doveva esserci troppa differenza fra infilarci dentro la testa e uscire da quel treno. Fendette l'eterogenea folla di persone che spingeva per salire e si voltò per vedere dove fosse finito Jerrylex. Questo aveva afferrato Ilah per un gomito per spingerla con decisione attraverso la doppia porta scorrevole. Stava già sudando come prima e sistemò nuovamente l'elastico che chiudeva in una crocchia imperfetta i suoi crespi capelli ribelli. Qualcuno si voltava a guardarla, qualcun altro esitava a distogliere lo sguardo. Era l'unica nei paraggi a indossare una tuta integrale e dovette constatare che versava in condizioni orribili, sporca com'era. Anche le sue mani erano sporchissime per aver manovrato i luridi meccanismi di apertura dei portelli del doppio-v. Sapeva di puzzare e si vergognava profondamente di ciò, ma non sapeva che farci. Doveva assolutamente convincere Jerrylex che non poteva continuare ad andare in giro in quelle condizioni.
- Non siamo lontani – fu tutto quello che l'uomo disse quando lei riuscì a raggiungerlo e a fargli presente le sue esigenze. Ilah aveva ricominciato a sentirsi male per il caldo ma riusciva a reggersi in piedi da sola.
Camminarono in mezzo alla folla, tra edifici moderni alti decine di piani e costruzioni su due o tre livelli, realizzate secondo tecniche antiche, ornate da piccoli giardini pensili e da portici ombrosi. Le pareti bianche e gialle d'intonaco steso a mano contrastavano con le torri di specchi alte fino al cielo, oasi di aria condizionata e divoratrici di energia elettrica. Curiosamente le pareti decorate da motivi geometrici, ricavati incollando una vicina all'altra multiformi tessere di ceramica variopinta, venivano risparmiate dai writers che invece si accanivano sugli anonimi muri di mattoni e perfino sulle vetrine di alcuni moderni negozi che vendevano merce importata dalle stazioni.
Il traffico in strada era soffocante e attraversare la carreggiata era impresa ardua dal momento che non c'era un solo veicolo che rispettasse la segnaletica, nemmeno quella fondamentale. Jerrylex fu costretto a un lungo giro, per fortuna quasi tutto all'ombra, prima di raggiungere un ponte pedonale. Questo si rivelò una insospettabile macchina del tempo posizionata alla luce del sole, davanti agli occhi di tutti. Attraversato il ponte gremito si trovarono in una zona della città chiusa al traffico dei veicoli e ferma nel tempo da almeno cento anni. Gli edifici realizzati con tecnologie moderne si mischiavano ancora a quelli realizzati con mattoni fatti a mano, coperti con intonaco bianco o colorato come altrove nella eterogenea periferia di al-Qahira, ma la strada che serpeggiava irregolare tra le case addossate le une alle altre era stretta e totalmente invasa di gente, tende colorate, odori, colori, rumori. La gente sciamava dappertutto vociando tra le file parallele di bancarelle e infischiandosene del divieto di utilizzare il dialetto locale. Espressioni in una lingua sconosciuta fiorivano ovunque: urlate ad alta voce, sussurrate, ciangottate in capannelli più o meno rumorosi. I venditori strillavano i prezzi usando lo standard, viziato da un forte accento, per poi rivolgersi ai passanti nel dialetto vietato, incuranti. I tendoni di tutte le misure si addossavano l'uno all'altro fino a formare uno sbarramento unico per i raggi del sole e raramente si aprivano spiragli attraverso i quali questi riuscivano a dardeggiare sulle teste dei passanti. Questi scorrevano in entrambe le direzioni, dondolando a destra e a sinistra, uscendo dal flusso per osservare una bancarella, chinandosi per osservare da vicino la merce.
Si faceva fatica a camminare normalmente, ma almeno c'era tutta l'ombra che si poteva desiderare. Un po' meno sopportabili erano il calore, l'odore e il chiasso. Passando tra le bancarelle che vendevano cibi cotti o crudi Miki veniva investita da forti odori sconosciuti che non era solita associare ai piaceri della tavola, spesso mischiati all'odore corporeo delle persone che si trovava ad avere vicino. Nonostante tutti gli anni della sua gioventù trascorsi a meno di due ore di viaggio da quella città, grazie alla stoltezza della madre che pagava ben due cuochi professionisti affinché le cucinassero prelibatezze dietetiche dai sapori delicati usando solo ingredienti di importazione dalle stazioni orbitanti, Miki ignorava come potesse essere la speziata e aromatica cucina del luogo.
Tenendo Ilah fra sé e Jerrylex, si avventurò in quella calca impressionante. Presto giunsero alla portata dei venditori che si rivolsero anche a lei usando lo standard un po' corrotto di quelle parti, come se avesse scritto in fronte che non era in grado di capire il dialetto locale. Le fu offerto ogni genere di mercanzia, dal cibo all'elettronica di consumo, tutto a prezzi apparentemente molto buoni. Vide un venditore che aveva steso sotto il suo tendone a strisce bianche e blu diversi tappeti dai colori cupi e con intricatissimi ricami. Su di essi aveva posato diversi sacchi di tela colmi di sostanze in polvere dai colori vivissimi: giallo, rosso, verde, un blu intensissimo e bellissimo che catturò subito la sua attenzione. Il suo colore preferito: un sacco di plastica colmo di una povere del blu più bello che avesse mai visto. Comprese con un po' di ritardo, e con molta delusione, che si trattava della materia prima per tingere tessuti.
In quella strada trasformata in un unico, lungo mercato c'era esposto davvero di tutto. Passarono davanti a un mucchio di rottami metallici, che stranamente attirava un discreto numero di persone. Più in là una bancarella straripava di indumenti intimi femminili e a fianco di quella un venditore forse più fortunato o più ricco degli altri ostentava sotto il suo tendone un furgone che attraverso i portelli aperti lasciava intravedere decine di scatole di camice, caffetani lunghi e corti, tappeti arrotolati, bastoni carichi di bracciali olo per uomo e donna, bigiotteria di ogni tipo e dimensione.
Jerrylex trascinò sia lei che Ilah fino a un ombrellone forato per fare uscire il fumo del combustibile fossile contenuto in un barbecue. La brace ardeva rossa sotto un lungo spiedo di carne e verdura. Un uomo dalla pelle del colore del cioccolato, coperto da una camicia bianca che aveva visto tempi migliori e da pantaloni di tela azzurri e stinti azionava una manovella dall'impugnatura di legno che trasmetteva il movimento allo spiedo, facendolo ruotare. Con l'altra mano versava con cautela del brodo sullo spiedo, prelevandolo con una scodellina da una pentola posata su un fornello a energia solare. Il pannello fotovoltaico era incrinato, ma funzionava ancora. A fianco dell'uomo una bambina lo aiutava confezionando uno spiedo infilzando carne cruda e verdure coloratissime con cura e serietà. Un cliente attendeva la sua razione stando in piedi e tenendo tra le mani una scodella di colore rossiccio.
- Kasheid! - esclamò sorridendo l'uomo quando alzò il viso dallo spiedo, ma senza smettere di girare la manovella.
- Salute a te – disse Jerrylex ricambiando il sorriso. Miki notò che la bambina, scura di pelle come l'uomo e con una invidiabile cascata di ondulati capelli lunghi, neri e lucidi, stava guardando i nuovi arrivati con sguardo serio e sospettoso.
- Vuoi mangiare? - disse l'uomo indicando lo spiedo che emanava un profumo invitante, mescolato a quello più acre del combustibile solido.
- Ho già mangiato, grazie. Ah, ma c'è la piccola Malika che ti aiuta, oggi!
Jerrylex rivolse un bel sorriso alla bambina, che però non distoglieva gli occhi da Ilah, stupita dall'altezza o forse dai dread viola della ragazza che ciondolava stancamente.
- Credo di avere bisogno del tuo aiuto, Yasser. Hai ancora quel... eh?
L'uomo, senza smettere di girare la manovella, mostrò sul suo viso tondo e paffuto prima perplessità, poi roteò gli occhi intorno come se stesse facendo uno sforzo di memoria, infine tornò a sorridere mostrando gli incisivi superiori un po' sporgenti.
- Ah, sì! Ma certo, Kasheid! Vai pure... dì a Medina che ti ho mandato io e di chiamarmi se ha delle domande da fare! Dille di non seccarti, ci sono qui io!
- Non potrei mai dire una cosa del genere a Medina – rispose Jerrylex alzando una mano in segno di saluto – è una moglie molto buona e tu la tratti male...
- Lo vedi? Ha convinto anche te! - scherzò Yasser salutando a sua volta.
Ricominciarono a farsi trasportare dal flusso della folla lungo la via del mercato. Miki si stava trattenendo: non parlava, non faceva domande. Era timorosa che la stessero seguendo nuovamente, ma non riusciva a capirlo e non volle farlo presente all'uomo. Si limitava a seguirlo in mezzo a tutta quella gente, cercando di tirare a indovinare la sua prossima mossa.
Oltrepassarono una grande bancarella di colorati sandali unisex tutti uguali e si infilarono fra un improvvisato venditore di supporti di memorizzazione, molto probabilmente fasulli, e una enorme bancarella stracarica di olofilm contraffatti e videogiochi copiati attorno alla quale si accalcavano molte persone che rovistavano tra le confezioni mettendo in disordine e mischiando tutto quanto. Attraverso quello stretto passaggio raggiunsero un lembo di marciapiede rimasto libero e da lì un lungo portico ombroso dove Miki scoprì che le attività commerciali più tradizionali non risentivano affatto della presenza del mercato. Una delle prime vetrine era proprio quella di un venditore e noleggiatore di olofilm e videogiochi che esponeva la medesima merce di quella della bancarella a pochi metri di distanza. Con tutta probabilità era merce contraffatta anche quella.
Subito venne loro incontro un uomo dalla pelle olivastra che tentò di venderle dei ninnoli da quattro soldi e che, vistosi opporre un netto rifiuto, passò subito a chiedere insistentemente l'elemosina, sottovoce. Solo l'intervento di Jerrylex, che disse qualcosa in dialetto all'uomo, li liberò dall'assillante accattone.
Percorsero i portici, un po' meno affollati della strada, per la loro intera lunghezza passando in rassegna negozi, locali e disparate attività commerciali; costretti a tornare tra le due file di bancarelle in mezzo alla gente raggiunsero infine un grande incrocio. La strada si allargava gradualmente e si poteva camminare un po' più speditamente ma a mantenere elevata la confusione provvedevano gli autisti di alcuni veicoli che pretendevano di condurre motocicli a tre ruote carichi di materiale e mercanzie proprio lungo le strade del mercato. Al vociare della folla, alle grida dei venditori, al frenetico parlottare dei clienti che contrattavano il prezzo si aggiungeva quindi il forte mugolio dei motori elettrici, i clacson insistenti e le imprecazioni miste in dialetto e standard degli autisti e dei pedoni.
Ancora una volta Miki vide Jerrylex tuffarsi a perpendicolo tra la folla tagliando il flusso di persone in lento movimento e infilarsi fra due bancarelle. Lo seguì ed entrarono tutti insieme in un locale pubblico dove si mangiava in piedi. Dietro il bancone una donna che somigliava molto alla bambina che confezionava gli spiedi di carne e verdura; dietro le sue spalle c'era una grande gratella elettrica che con resistenze brillanti di incandescente luce arancione arrostiva lunghi spiedi simili, ruotandoli automaticamente. La donna indossava un grembiule bianco sporco e macchiato e quando li vide entrare sorrise a Jerrylex.
- Ciao, Kasheid! - esclamò.
- Ciao Medina! Che piacere vederti! Sei bellissima come sempre.
Miki squadrò la donna: se lei aveva problemi di giro vita, quella doveva aver dimenticato cosa il giro vita fosse. Nonostante l'ampio vestito coloratissimo, appariva evidente come Medina fosse sovrappeso e non di poco; dalle corte e ampie maniche dell'abito uscivano massicce braccia e il seno le cadeva molle e abbondante. Però Jerrylex aveva ragione, in parte: il viso della donna dietro il bancone era dolce e sorridente, piacevole e rasserenante da guardare.
- Scemo... - lo apostrofò lei arrossendo un poco.
- Sono qui per... - seguì la direzione indicata dall'uomo e il suo sguardo si fermò sulla porta del bagno, segnalata da un adesivo attaccato storto.
Finalmente, pensò Miki. Avrebbe potuto darsi una rinfrescata. Non era sicura che si potesse bere l'acqua da quelle parti, ma la vista del frigorifero con le bibite la rassicurò. Aveva ancora dei soldi spiccioli, da qualche parte.
- Ah, certo, vai pure. Stai tranquillo! - disse la donna, voltandosi verso i suoi spiedi. Ne tolse uno azionando un meccanismo che sbloccava il lungo ferro che infilzava i bocconi e con una forchetta a due denti cominciò a sfilare il cibo facendolo cadere in un vassoio di acciaio.
Ancora una volta Miki si attaccò alle costole di Jerrylex e lo seguì in bagno. Aperta la porta si trovò davanti a un piccolo cortile asimmetrico, un fazzoletto di spazio incluso tra edifici costruiti senza troppa pianificazione, rimasto vuoto per caso. Era ingombro di bidoni vuoti, secchi della spazzatura, sacchi di cemento aperti e consumati in parte. In un angolo c'era una bicicletta e lo scheletro di un altro veicolo a due ruote reso inutilizzabile dalla corrosione e dalla ruggine. Non aveva mai visto un veicolo con propulsore termico e concluse che proprio di quello si trattava: doveva essere vecchio di un secolo, se non di più. Jerrylex si mosse in mezzo a tutto quel disordine con sicurezza, dirigendosi verso una coppia di porticine. Un gatto che se ne stava accoccolato immobile su un bidone che aveva ancora il suo coperchio, scappò con uno scatto fulmineo. Ilah, che non aveva mai visto un gatto vero in tutta la sua vita e non aveva affatto notato il felino nero sul bidone, gridò di spavento. Miki la tranquillizzò, rassicurandola riguardo il fatto che nessuno era mai stato aggredito e ucciso da un gatto. Al massimo graffiato e morsicato, ma ucciso no di certo.
Il bagno, stando all'etichetta nuova e splendente attaccata su una porticina di legno prossima a sfaldarsi per decomposizione, era a destra. Ma Jerrylex si avvicinò alla porta di sinistra, più moderna e robusta, del tipo scorrevole. Non c'erano in vista serrature elettroniche, e l'uomo la aprì semplicemente spingendola con la mano. Miki ipotizzò la presenza di un sensore biometrico che comandava la serratura e si chiese come mai il sistema riconoscesse quell'uomo come autorizzato a entrare. Ma non era quella l'unica sua perplessità riguardo Jerrylex.
Et voilà, le signore sono servite. Tutto per voi!
L'uomo dai capelli bianchi non entrò ma si fece da parte e sorridendo stese la mano per invitare lei e Ilah a entrare. La porta scorrevole si era aperta su una stanzetta semplice ma accogliente. Si trattava di un locale abbastanza grande da contenere due letti separati da un tavolo contro il quale erano appoggiate tre sedie pieghevoli, di materiale plastico riciclato. L'unica finestra era ricavata nel basso soffitto e la luce entrava da lì. Un tirante metallico comandava l'apertura della finestra e Miki l'azionò subito nella speranza che entrasse un po' d'aria a scacciare l'odore stantio che aleggiava pesante. Alle pareti erano appese stampe vecchie e sciupate: una foto panoramica della città, risalente a chissà quale anno; la pagina di un calendario scaduto che mostrava nella metà superiore la foto di un animale bellissimo e spaventoso che le parve di rammentare si chiamasse “gufo”. Qua e là c'erano patetici quadretti con miniature improbabili: geroglifici, piramidi, giunche in navigazione su un grande fiume. Erano fatte per sembrare incise a sbalzo su lamine d'oro, ma visti da vicino si scopriva che la pellicola gialla era semplice vernice che si stava staccando a pezzetti svelando la plastica biancastra sottostante. Perfino la cornice era soltanto verniciata a imitazione del legno.
- Vi piace? - Jerrylex sorrideva. Sembrava un agente immobiliare che fosse in procinto di concludere un contratto di vendita. Ilah si era già abbandonata sul materasso più vicino, sospirando. Lei invece non poté fare a meno di notare la mancanza di un frigorifero, di una dispensa, a meno che si dovesse considerare tale un armadio malridotto appoggiato alla parete tra i due letti. Non era accostato bene al muro e non si riusciva a capire se fosse storto l'armadio, il muro o il pavimento.
- Ma non ti preoccupare, è una sistemazione provvisoria. Chiunque vi stia cercando non vi troverà. Sarete al sicuro. Presto vi accomoderò meglio.
Poi scattò verso una tenda che copriva l'accesso a un bagno, microscopico ma attrezzato.
- C'è tutta l'acqua che volete, ma non esagerate... e non bevetela.
- Perché? - chiese Ilah con voce stanca.
- Non è filtrata. E poi la vostra flora batterica non è preparata per affrontare quello che si mangia e beve quaggiù. Dovrete ambientarvi gradualmente.
Miki pensò a Ilah: mentre lei aveva già collaudato ampiamente la propria resistenza al cibo terrestre anche dopo anni di vita in orbita grazie alla cucina di Zarina, lo stesso non si poteva dire della smilza ragazzina. La forte gravità la stava piegando, il sole e il caldo opprimente la stavano cuocendo a fuoco lento, l'aria spessa era difficile da respirare e la stava affannando. Se avesse avuto problemi intestinali, avrebbe rischiato troppo. Miki guardò la tendina che le impediva di vedere i sanitari: essere costretta a stare lì dentro con Ilah afflitta dalla dissenteria era una prospettiva terrificante.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Ogni debito... è un debito - 11
11.

Vinta l'innata ritrosia a spogliarsi e lavarsi in quel posto che non sembrava tanto pulito, Miki poté finalmente godersi una lunga doccia. C'era solo una grossa saponetta da bucato e fu abbastanza scomodo lavarsi con quella, ma riuscì perfino a insaponarsi i capelli. Giuro che li taglio, si disse sentendosi addosso quella massa di capelli umida e incontrollabile. Dovette accontentarsi di un asciugamano, ma il caldo era tale che la sua pelle si asciugò rapidamente. Peccato non fosse lo stesso per i capelli. Si cambiò completamente estraendo abiti puliti dalla sua sacca da viaggio, che si era bagnata un po' dato che il pavimento del bagno coincideva con la doccia. Fortunatamente il contenuto era salvo. Indossò una maglietta con un'ampia scollatura a U e pantaloncini corti al ginocchio con gigantesche, comodissime tasche a soffietto sulle gambe: dovette trattenere il fiato per abbottonare questi ultimi, bestemmiando tra sé per essere ingrassata ancora. Si pizzicò la ciccia che sporgeva rotonda oltre la cintura ripromettendosi di mettersi a dieta davvero.
- Tocca a te – disse a Ilah scostando la tenda di plastica sgocciolante. La ragazzina era stata a comprare da bere e mentre lei faceva la tanto desiderata doccia aveva svuotato da sola una bottiglia di una bibita colorata in modo sospetto. Stava decisamente meglio e si vedeva: ma sulle mani, sul viso e sulle gambe aveva evidenti arrossamenti dovuti all'eccessiva esposizione al sole. Miki temeva che le sarebbe venuta la febbre.
- Cos'è questo casino? Dov'è la doccia? - esclamò Ilah non appena mise il naso oltre la tenda di plastica.
- Ci sei dentro. Attenta a non scivolare, è tutto bagnato.
- Occazzo... la prossima volta vado per prima io, eh?
- Spero tanto che non ci sarà una prossima volta lì dentro.
Miki cominciò a prepararsi il letto: era stanca e una dormita non le avrebbe fatto male. Inoltre non c'era molto altro posto dove stare in quel monolocale. Non c'era un lenzuolo uguale all'altro e mancavano i cuscini, ma giudicò che sarebbe sopravvissuta.
- Hai dimenticato il tuo paracadute – il reggiseno atterrò sul letto proprio mentre lei finiva di spiegare il primo lenzuolo.
- Tutta invidia – ma scoprì di essere lei a invidiare le forme snelle e asciutte della ragazzina.
- Non so come fai a stare con tutta quella roba attaccata davanti... non ti dà fastidio? - l'acqua cominciò a scrosciare.
- Questione di abitudine – si sdraiò sul letto dopo essersi concessa un lungo sorso di una bibita che si stava già scaldando troppo.
- Ma dov'è il sapone? - la voce di Ilah superò lo scroscio dell'acqua e le giunse petulante e fastidiosa.
- È quel blocco di colore giallo scuro. Strofinatelo addosso e vedrai.
Un attimo dopo udì il tonfo del sapone che colpiva le mattonelle del pavimento.
- Sì, proprio quello... attenta che scivola.
- Ci penso io – Ilah si espresse con un tono duro e risoluto che non le era familiare.
Miki accomodò i capelli umidi in modo che le dessero meno fastidio possibile e che non bagnassero le lenzuola. Cercò di rilassarsi e di fare il punto della situazione. Apparentemente avevano seminato i loro inseguitori, che non potevano essere altri che gli scagnozzi di sua madre. Una vocina le disse che la situazione era del tutto provvisoria: sua madre avrebbe saputo trovare il modo di rintracciarla perfino lì, quindi non poteva permettersi di stare troppo ferma in un punto solo. Doveva trovare il modo di tornare in orbita, di tornare sul Coyote. Al pensiero della sua nave ormeggiata su Apollo, lontanissima e al momento irraggiungibile, provò una stretta al cuore. Voleva tornare nello spazio, voleva fare un viaggio a bordo di un'astronave. Se le avessero offerto un incarico qualsiasi, lo avrebbe accettato. Chissà se hanno ancora bisogno a bordo del Raja, si chiese. Se non altro in quel modo avrebbe potuto rivedere Pavel, il Secondo: le mancava sempre di più. All'improvviso calò il silenzio: Ilah aveva chiuso l'acqua.
- Mikiii! Hai riempito l'unico asciugamano di capelli! Che schifo!
- Usalo dall'altro lato... - lagnosa ragazzina viziata, pensò.
- È anche fradicio! Ma con cosa mi asciugo io adesso?
Ora vado lì e la strozzo, pensò. Ma poi chiuse gli occhi e respirò profondamente, cercando la calma dell'indifferenza. Doveva trovare il modo di liberarsi di Ilah. L'avrebbe riportata su Apollo o su Prometeo, con la speranza che una volta lì si sarebbero perse di vista per non incontrarsi più. I minuti passarono senza che si riuscisse a capire cosa la ragazzina stesse combinando dietro la tenda. Miki teneva gli occhi chiusi e lasciò che la stanchezza si impossessasse delle sue membra. Il sole filtrava ancora prepotentemente dalla finestra nel soffitto, ma avrebbe volentieri dormito un po'. Aveva quasi raggiunto un dolce compromesso fra il sonno e la veglia quando la voce nasale e lamentosa di Ilah lacerò bruscamente lo schermo dove lei stava proiettando i suoi pensieri.
- Mikiii... hai qualcosa da prestarmi? I miei vestiti puzzano...

- Sembro essere vestita rotolandomi nell'armadio di mia sorella...
Il sole si era abbassato così tanto sull'orizzonte che non riusciva più a penetrare nelle strade del suk, quello il nome in dialetto del mercato che illuminato da centinaia di luci poste sotto i tendoni, continuava imperterrito. C'era ancora molta gente, ma si poteva camminare meglio. Miki faceva danzare gli occhi da una bancarella all'altra, cercando di indovinare di che merce si trattasse, associando gli odori ai colori e alle forme. Scoprì il dolcissimo sapore dei datteri canditi; immaginò che fosse meglio stare lontano dal pesce, crudo o cotto che fosse, solo per via dell'odore che esso emanava. Si poteva giudicare la freschezza del cibo in base al numero di mosche che lo circondavano e agli sforzi che venivano compiuti per tenerle lontane. Immaginò facilmente che dovesse stare in guardia: le ombre si ingrandivano sempre più nonostante le numerose luci, e quelle potevano essere sfruttate da ladruncoli che, era pronta a scommettere, non mancavano. Già un paio di volte aveva udito del clamore levarsi improvvisamente intorno a lei, seguito da un rapido parapiglia. Aveva immaginato che qualcuno, approfittando del buio o di una distrazione del venditore, si fosse servito da solo senza però pagare. Solo allora si rese conto che nonostante tutta la gente che frequentava il mercato, non aveva ancora visto una sola divisa da poliziotto.
- Non è giusto: le scarpe per te le hai comprate!
Guardò i sandali unisex di gomma che aveva acquistato per sostituire temporaneamente le sue scarpette da astronauta, del tutto inadatte a camminare in quei luoghi. Tutt'altro che belli, ma comodi. Li aveva scelti blu, ovviamente.
- Smettila di lamentarti.
Pensò che la ragazzina non aveva tutti i torti. I neri pantaloncini elastici, che a lei stavano aderentissimi, non lo erano abbastanza per adeguarsi alle sue magre cosce e ai fianchi ossuti. Ogni due o tre minuti tirava su la cintura, un po' floscia, per il timore che le cadessero. Inoltre le stavano proprio male, larghi e cascanti com'erano. Dal momento che aveva fatto il bucato completo non indossava l'intimo, quindi sarebbe stato piuttosto disdicevole per lei rimanere senza i pantaloncini in mezzo alla strada. Le era andata un po' meglio con la maglietta: era troppo corta, troppo larga e lasciava scoperta la pancia, ma non era preoccupante. Non scandalizzava certo nessuno.
- Poi perché ti sei portata dietro la valigia? Non torniamo da Jerrylex? - indicò la sua sacca da viaggio come se temesse di essere morsicata.
- Se troviamo un altro posto dove stare, io ci vado. Tu fa un po' come ti pare – replicò Miki seccata.
- Ma come? Con tutto quello che ha fatto per noi, lo ringrazi così? Andandotene senza una ragione, senza dire nulla?
- Sei tu quella che lo conosce, non io. Non so chi è, non so se devo fidarmi o no. Non so cosa vuole, mi sono spiegata?
- Non ti fidi? Ma è Jerrylex! - il tono di Ilah era salito in crescendo, culminando con quella che a Miki parve un'accusa.
- Non me ne frega un cazzo! - sbottò fermandosi in mezzo alla strada affollata. Qualcuno si voltò a guardarla per un attimo, poi si allontanò continuando a badare agli affari propri. Il viso di Ilah era riempito di ombre dalla fioca luce che proveniva dalle lampadine di un chiosco che avevano appena superato. La borchia ossea brillò facendo capolino dai dread quando lei li mosse per toglierseli dalla faccia. Il cielo dietro i tendoni colorati, alcuni dei quali venivano chiusi proprio in quei momenti, stava incupendosi sempre più.
- La solita acida... calmati o ti viene un embolo.
Strafottente presuntuosa, pensò Miki trattenendo una sberla. Perché dovrei diventare madre se poi mi nascesse una figlia così, si chiese. Non potendo reagire come le era balzato in mente di fare, riprese a camminare decisa in mezzo alla gente che andava diradandosi sempre più. Ora erano in molti a smontare i banchetti e le bancarelle, a chiudere e arrotolare i tendoni legandoli con cinghie e corde a carretti a pedali o piccoli veicoli elettrici spuntati fuori da chissà dove. A giudicare dai brandelli di dialoghi che le giungevano alle orecchie, quello era il momento per cercare di spuntare il prezzo più favorevole acquistando ciò che era rimasto invenduto per tutto il giorno.
- Non è mai morto nessuno per aver chiesto scusa, sai?
Miki sperò d'aver capito male.
- Cosa?
- Ho detto che se chiedi scusa per una volta in vita tua non muori. Posso capire che sei stressata, ma mica vuol dire che puoi trattare male la gente come ti pare e...
- Non venire da me a fare quella condiscendente! - Miki non credeva alle proprie orecchie: Ilah le stava chiedendo di scusarsi! – Sei la ragazzina più noiosa, viziata, arrogante, indisponente che io abbia mai incontrato e io dovrei chiederti scusa perché tu mi fai incazzare ogni tre cose che dici? Cazzo!
- Non posso credere che tu mi stia trattando così male dopo tutto quello che ho fatto per te, cicciona ingrata!
- Cicciona?
Miki si volse di scatto verso Ilah con fare tanto minaccioso che quella fece istintivamente due passi indietro.
- Su, su! Non litigate!
Un braccio saldo la cinse e una mano calda le si posò sul ventre sporgente. Jerrylex.
- Avete fame?
Con una manovra simile si era allacciato alla vita di Ilah e con gentilezza ma anche con decisione le stava sospingendo entrambe lungo la strada. Gli risposero contemporaneamente.
- Sì.
- No!
- Sempre d'accordo voi due, eh? - ironizzò lui. Lei gli spinse via la mano liberandosi così dal suo abbraccio e lui lasciò fare. Ilah invece gli si fece più vicina, posato il suo lungo braccio sulle spalle dell'uomo dai capelli grigi.
- Non mi ha comprato niente da mangiare – protestò Ilah con tono piuttosto infantile. Miki si irritò, ma riuscì a stare zitta più per pudore nei confronti di Jerrylex che per autocontrollo.
- Ha fatto bene: il tuo pancino non sopporterebbe nulla di quello che si vende qui. Non ti ricordi quello che ti ho detto qualche ora fa?
- See, see... ricordo. Ma ho fame!
- Adesso torniamo al nostro angolino segreto e ci pensiamo, eh?
Proprio quello che volevo evitare, pensò Miki. Ma non poté impedire che Jerrylex ripercorresse la strada a ritroso e le riaccompagnasse nella stanzetta nascosta, questa volta passando da un cortile adiacente. Il locale del suo amico Yasser era chiuso.
Alla luce di un paio di lampade elettriche appese a pareti opposte Miki vide sul tavolo diversi sacchetti, insidiati da un gattone grigio che fuggì subito: all'interno c'erano contenitori di cibo, alcuni di essi erano termici. Riso caldo e polpette di carne magra per Ilah, spezzatino con verdure per lei. Poi krill per tutti: insapore, inodore ma nutriente e innocuo. Anche Jerrylex si sedette a tavola e raccolti i lunghi capelli grigi in una coda improvvisata, mangiò del krill. Da un altro sacchetto estrasse poi della birra ancora fredda: bevvero direttamente dalla lattina, anche se Ilah obiettò al riguardo.
- Vedo che avete provveduto alla protezione solare – osservò Jerrylex dopo aver trangugiato l'ultimo sorso di birra. Miki era uscita a fare una rapida ricerca e comprare la crema solare per Ilah, le cui scottature erano piuttosto fastidiose. In quella stanza non era possibile nascondere nulla: ciò che non trovava posto sul tavolo poteva essere messo nel relitto di armadio che, essendo privo di ante, non poteva certo custodire segreti.
Il silenzio imbarazzante calò rapido e inatteso sui tre e fu Jerrylex a infrangerlo subito, in fretta, come se lo temesse.
- Allora, avete pensato a cosa fare stasera? Volete uscire a fare un po' di vita notturna? - l'uomo sorrideva cercando di essere incoraggiante.
- Conciata così? Nemmeno morta – Ilah sentenziò greve e sfilatasi gli anfibi decretò chiuso l'argomento sdraiandosi sul suo letto già mezzo sfatto. Le parve che stesse concentrando la sua attenzione sui propri piedi.
- Perché invece non passiamo una bella serata tranquilla, chiacchierando fra noi? - suggerì Miki maliziosa. Intendeva insinuare che Jerrylex doveva loro una montagna di spiegazioni e che era arrivato il momento. Ebbe la netta sensazione che l'uomo avesse afferrato al volo.
- Beh, certo... è un'idea... perché no? Peccato siano finite le birre... vado a prenderne ancora?
- No! - scattò Miki vedendo che l'uomo accennava ad alzarsi dalla sedia - Grazie, non per me – aggiunse subito, pensando di essere stata troppo brusca. Jerrylex nascose una smorfia dietro un sorriso finto e appoggiò la schiena alla sedia, cercando di dare l'idea di essere a proprio agio.
- Ah, beh... - disse a bassa voce.
- Allora, che ne dici di cominciare? - lo incalzò Miki. Stavolta non mi sfuggi, pensò mentre lo fissava negli occhi.
- Cosa vuoi sapere? - le chiese lui.
- Voglio sapere di cosa si tratta. Dall'inizio alla fine. E cosa c'entriamo noi.
Ilah si mosse, mettendosi a sedere sul letto, d'un tratto interessata alla conversazione.
- Di che stai parlando? - una volta tanto usò un tono sinceramente curioso e non irritante e strafottente.
- Credi che sia venuto a salvarci il culo gratis? Che ci ospiti qui, ci protegga, ci porti da mangiare perché siamo carine e simpatiche?
- Ma voi siete carine e simpatiche!
Bastò lo sguardo affilato di Miki a impedire che Jerrylex continuasse aggiungendo anche una sola parola.
- Non ti interessa sapere perché ci si è appiccicato addosso? - Ilah, interpellata direttamente, rivolse uno sguardo metà interrogativo e metà comprensivo all'uomo che le sorrise di rimando.
- Dev'essersi accorto di me quando ho frugato fra le sue cose nella Rete, su alla piattaforma orbitante.
Lo sguardo duro di Miki indusse Jerrylex a continuare. Vederlo così, un po' remissivo ma non domato, la spinse a pensare che potesse essere sincero. Provò simpatia per quel criminale informatico d'altri tempi ora messo all'angolo da lei.
- Sì, proprio così. La Rete del pianeta è piccola e annoia in fretta. Anche se isolata, ho trovato lo stesso il modo di passare a quella delle stazioni orbitanti.
- Ma è impossibile! - esclamò Ilah. Anche lei sapeva che, per precauzione, i militari avevano voluto la segregazione delle due reti. Ma le sue conoscenze in merito terminavano lì.
- Non è impossibile: è solo maledettamente difficile – riprese Jerrylex rivolto a Ilah che nel frattempo si era abbracciata le ginocchia per sostenersi dato che non osava appoggiare i piedi scalzi sul pavimento.
- Niente dettagli tecnici, per favore. Rimaniamo su ciò che ci interessa – intervenne Miki timorosa che Jerrylex potesse svicolare dall'argomento che le interessava.
- Lo vedi che sei acida? Mi interessa! Ti piace dare ordini, ecco il tuo problema - protestò Ilah.
- Dopo ti spiego tutto – le disse l'uomo con molto calore e premura nella voce.
- Quindi? - lo incalzò lei ignorando l'interruzione. Voleva che arrivasse al punto.
- Beh, saltando i dettagli... vorrei sfruttare la falla che ho trovato nel sistema per mettere da parte qualche soldino. Sapete, la vecchiaia può essere molto difficile e...
- Stai cercando dei complici – tagliò corto Miki.
- Fichissimo! Io ci sto! - esclamò Ilah. L'occhiataccia che le rivolse le rimbalzò addosso, inefficace.
- Perché dovrei? - gli chiese. Lei stessa non credeva che avrebbe avuto una possibilità di reggere quel bluff. Non era proprio il tipo totalmente irriconoscente. Poi quel Jerrylex le stava simpatico. Anzi, doveva ammetterlo: lo trovava fascinoso, anche se in un modo tutto suo.
- Perché sei una brava ragazza, perché te lo chiedo per favore e per questo.
Tolse dalla tasca dei pantaloni un oggetto piatto, rettangolare. Carta. Un'immagine stampata su carta di bassa qualità, stropicciata e smangiucchiata lungo i bordi. Stampare su carta: solo sulla Terra era ancora possibile quella pazzia. Afferrò l'immagine e trasalì. Era lei. Ripresa dalle telecamere di sicurezza della villa di sua madre mentre, seduta dentro un'auto elettrica a noleggio, attendeva di varcare il cancello del passo carrabile, sorvegliato da uomini armati. L'immagine era sgranata, ma non c'erano dubbi. Ricordava perfettamente quel giorno: conclusasi inaspettatamente bene la vicenda delle sirene telasiane era tornata dalla madre, sul pianeta, per rivendicare definitivamente la propria indipendenza. Nel momento in cui la telecamera la riprendeva aveva in bocca il suo vecchio impianto di comunicazione, comprato molto tempo prima da sua madre, e in tasca un mucchio di soldi in contanti pari a quanto ammontavano i conti che aveva liquidato quando era scappata di casa. Aveva restituito i soldi lanciandoli per terra ai piedi della madre e poi le aveva sputato in grembo il piccolo impianto di comunicazione, ormai sostituito da uno la cui frequenza era ignota alla genitrice. Ciò fatto se n'era andata, lasciandola fumante di rabbia. Si era illusa così di aver chiuso i conti per sempre.
- Sembra che tu abbia ingoiato un topo intero... fa vedere... - Ilah si sporse sul tavolo e le tolse la foto dalle mani. Miki non protestò, era troppo intontita per farlo. I suoi sensi erano sovraccarichi: notava un sacco di dettagli inutili senza analizzarli, tanto il suo cervello era sconvolto dall'improvvisa consapevolezza. La maglietta che aveva prestato a Ilah era troppo larga: nello sporgersi sul tavolo attraverso la scollatura le aveva visto anche i pantaloncini. Sua madre la stava facendo cercare. Anche Jerrylex aveva fatto scivolare lo sguardo sulle curve segrete della ragazzina. Era appena arrivata, clandestinamente, sulla Terra e già doveva fare attenzione a far vedere in giro la sua faccia. C'era una piccola farfallina che svolazzava vicino a una delle due lampade, quella senza plafoniera. Ilah non se n'era accorta. Un conto era pensare di avere alle costole qualcuno, un altro era saperlo per certo. La certezza che fosse la madre a sguinzagliarle contro i mastini la schiacciava.
- Ma questa sei tu! - cianciò Ilah – sembri più magra...
- Dove l'hai presa? - volle sapere Miki strappando la foto dalle dita affusolate della ragazzina. Era vero il contrario, ma era troppo interessata a sentire cosa aveva da dire l'uomo per riprendere il battibecco con Ilah.
- Venendo qui ho incontrato un teppistello troppo interessato alle cose altrui. Mentre lui dava un'occhiata nelle mie tasche, io ho dato un'occhiata nelle sue.
- Sei grande! - l'apprezzamento di Ilah fu ricambiato da un sorriso provocante.
- Dobbiamo andarcene da qui, presumo – si rese conto d'un tratto di aver agito piuttosto stupidamente. Era evidente che sua madre non aveva intenzione di mollare l'osso, segno che l'aveva colpita dove le faceva male. Magra soddisfazione, pensò oppressa dall'idea di dover fuggire nuovamente.
- Dopo la vostra inopportuna passeggiata di poco fa, è il minimo che possiamo fare.
- E tu puoi aiutarci – aggiunse Miki guardando torva Jerrylex. La situazione si era nuovamente rovesciata. Si complimentò in silenzio con il vecchio pirata informatico.
- Naturalmente – il pirata esibì il migliore dei suoi seducenti sorrisi malandrini.
- In cambio dovremmo aiutarti, presumo – concluse. Non c'era bisogno di una risposta: era sufficiente lo sguardo brillante di Jerrylex.
- Io sì, lo aiuterò di sicuro! Sarà una figata! Poco ma sicuro!

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Ogni debito... è un debito - 12
12.

L'ultima volta che aveva fatto qualcosa del genere era finita sotto la minaccia delle armi di un droide in assetto da combattimento. Non si ricordava di aver avuto tanta paura come allora nemmeno quando era stata sbatacchiata dentro un container su La Tana. Si accorse d'un tratto che non le erano mancate le esperienze avventurose, soprattutto nell'ultimo periodo. Avevano anche sparato al Coyote, con lei dentro. Pensò che se avesse continuato di quel passo, non sarebbe arrivata viva alla fine dell'anno.
Si chiese come mai certi lavori toccassero sempre a lei. Jerrylex, assicurandole di averle riservata la parte più facile di tutte, le aveva appioppato una divisa del personale delle pulizie e, messole in mano un abbonamento per i mezzi pubblici, l'aveva spedita a faticare in un palazzone quasi in centro. Dal suk alla metropoli il salto era stato traumatico: sembrava di stare su Apollo, con la sola differenza che per strada faceva un caldo terrificante e non c'era alcun tipo di soffitto sopra la testa, ma solo il vertiginoso e affascinante cielo terso.
Fortunatamente il suo lavoro era davvero facile: consisteva nel tenere vuoti i cestini e puliti i cessi di otto piani di uffici, dal settantunesimo al settantanovesimo, all'interno di un edificio di ottanta piani completamente condizionato alla bella temperatura di ventuno gradi con l'umidità tenuta sotto stretta sorveglianza. Si stava benissimo. Aveva accesso anche all'ottantesimo piano, quello che ospitava un enorme attico privato, ma limitatamente ad alcuni locali tecnici dove era stato organizzato il magazzino per i prodotti per la pulizia e l'igiene. Non vi poteva accedere con l'ascensore ma solo col lentissimo montacarichi. Quando doveva fare il pieno alla lavasciugatrice robot per fare prima usava le scale portando in braccio a due alla volta i fusti di detersivo liquido da cinque litri.
Spinse il pesante carrello dove trovavano posto scope, stracci, due secchi, detersivi, il bidone dei rifiuti e l'aspirapolvere fino a quando le rotelle si impuntarono sul dislivello tra il pavimento e la cabina dell'ascensore. Era ormai il terzo giorno che era lì e si era rassegnata: tutte le volte che doveva salire sull'ascensore al settantottesimo piano doveva superare quel dislivello dovuto a qualche difetto, rischiando di rovesciare il carrello col bidone già colmo di spazzatura. Infatti quel giorno sul piano doveva esserci stata una festicciola a giudicare dalla quantità di rifiuti e sporcizia extra trovata in un paio di uffici adiacenti. L'ascensore chiuse le porte scorrevoli dietro di lei e la portò obbediente al piano superiore. Qui l'arancione consumato della moquette ormai troppo vecchia contrastava con l'azzurro pallido delle sottili pareti mobili di destra, che delimitavano gli uffici. La parete di sinistra invece era solida e ricoperta di pannelli di un color crema sporco. Tremava al solo pensiero che le chiedessero di togliere gli scuri segni delle scarpe, le ombre grigie lasciate da mani e polpastrelli, gli sbuffi scuri di polvere intorno alle bocchette dell'aria condizionata. Sarebbe stato un lavoraccio molto faticoso.
Come aveva già imparato a fare, dette un rapido sguardo al lunghissimo corridoio che le si parava di fronte e in base alle luci lasciate accese stimò il tempo necessario per finire il giro. Lasciò sfuggire un sospiro rassegnato e cominciò il lavoro, spingendo il carrello attrezzato di tutto punto nel primo ufficio buio.
Aveva ormai raggiunto la metà del corridoio, quasi completamente buio. Ripulito tutto il pavimento dell'ufficio in cui si trovava, spense il rumoroso aspirapolvere.
- Ciao!
Sobbalzò per lo spavento. Non se l'aspettava: alle sue spalle, incorniciato dallo stipite della porta, c'era uno degli impiegati. Evidentemente trattenersi fino a quell'ora doveva essere normale per lui, visto che lo aveva incontrato anche nei due giorni precedenti, intento a lavorare al suo terminale. Doveva essere per lui normale anche attaccare bottone: gli altri suoi colleghi, quei pochi che aveva avuto occasione di incontrare a inizio turno mentre ansiosi di uscire raccoglievano frettolosamente le loro cose, la ignoravano completamente o la evitavano di proposito, come si scansa un mendicante puzzolente. Nei due giorni precedenti lei aveva commesso l'errore di dargli retta e lui subito le si era appiccicato addosso.
- Fai tardi anche stasera?
- Faccio sempre tardi – le rispose posando a terra la borsa portadocumenti che aveva con sé – lavoro meglio quando non c'è quel branco di idioti che ho intorno in ufficio. Poi così prendo anche il dieci per cento di straordinari.
- Beato te – tagliò corto Miki, alla ricerca di un modo per interrompere quella indesiderata conversazione. L'uomo era un tipo dalla corporatura esile, con la pancia sporgente sotto la camicia bianca e il cranio calvo. I capelli superstiti erano scuri e mantenuti corti, tanto da lasciar intravedere il cuoio capelluto chiaro. Lo fece scansare usando l'aspirapolvere da riporre sul carrello come scusa. Forse se gli avesse mostrato che era indaffarata l'avrebbe lasciata in pace, tanto più che, vista la borsa ai suoi piedi, le sembrò pronto per andarsene. Senza indugiare spinse il carrello fino all'ufficio seguente e accesa la luce cominciò a fare il giro dei cestini. L'uomo, che fin dal primo giorno le si era presentato col nome di Aran e aveva insistito per stringerle la mano, la seguì.
- Come mai fai questo lavoro? Voglio dire... non mi sembri il tipo che si accontenta.
- Cos'ha che non va questo lavoro? È importante quanto il tuo – forse era stata troppo brusca, ma non le stava piacendo la piega assunta dalla conversazione.
- Scusami – aggiunse subito l'uomo di nome Aran – sono stato un maleducato.
Ecco, bravo: e adesso magari cambia aria, pensò Miki cercando il cestino. Dove diavolo l'avranno cacciato, si chiese chinandosi sotto una delle scrivanie.
- Tranquillo... - in realtà desiderava solo che se ne andasse. Jerrylex si era raccomandato un milione di volte di non fare nulla nell'arco del suo turno lavorativo che potesse attirare l'attenzione. Doveva stare attenta fino a venerdì sera, ma era certa che l'attraente, ingrigito ma ancora vispo pirata informatico si sarebbe fatto vivo prima. Le aveva dato un telefono cellulare, qualcosa di estremamente lussuoso sulle stazioni ma molto comune sul pianeta. Perfino un'operaia, ciò che avrebbe dovuto fingere di essere lei, poteva possederne uno. Era anche l'ideale per telecomandare la lavasciugatrice robot e ricevere i suoi avvisi. Presumibilmente Jerrylex si sarebbe fatto vivo mediante quell'apparecchio cellulare.
- Volevo solo dire... una bella ragazza come te, così carina... fare questo lavoro così pesante... dovresti fare la principessa.
Miki non credette alle sue natiche. Quel porco la stava palpando! Nonostante il tono suadente e morbido e le cose relativamente carine che le stava dicendo, Aran era un maiale. Si drizzò immediatamente, rossa in viso. Proprio quel giorno che aveva omesso l'intimo sotto i pantaloncini aderenti!
- Ficcati quelle mani nel culo, stronzo! Altrimenti te le stacco!
Lì per lì Miki non era stata in grado di trovare minacce migliori. L'affronto subito l'aveva colta impreparata, tanto da lasciarla senza fiato. Sperò con tutto il cuore che non fossero soli su quel piano, ma Aran doveva aver tenuto conto di ciò e scelto il giorno giusto. Nessuno si fece sentire.
- Ah, sei una tigre... vuoi lottare, eh? Ci penso io...
Tutt'altro che scoraggiato dalla sua reazione violenta, l'uomo si avvicinò sicuro di sé. Miki, trovatasi con la via di fuga bloccata dalla scrivania, non ebbe altra possibilità che cercare di colpirlo per difendersi. Aran riuscì a schivare il primo disordinato tentativo che lei fece di mettergli una mano in faccia e le imprigionò la sinistra in una stretta, cercando di portare la distanza a zero. Miki riuscì a divincolarsi per un attimo e ne approfittò per posare entrambe le mani sul petto dell'uomo e spingerlo via con tutta la sua forza, appoggiandosi contro la pesante scrivania per aiutarsi. Aran, sorpreso dalla forza che Miki dimostrò di possedere nelle braccia, sbilanciato all'indietro cadde nella sedia che per un caso aveva esattamente dietro la schiena, aggrappandosi ai braccioli. Il tempo di una breve smorfia feroce e si catapultò di nuovo contro di lei, con violenza. Le impedì di fuggire, afferrandola di nuovo per i polsi. Miki si dibatté ancora: sentiva di poterlo contrastare sul piano della potenza fisica ma quello riuscì a bloccarle nuovamente le braccia e a spingere con forza un ginocchio in mezzo alle sue gambe.
- Smettila di resistermi, puttanella! Smettila, se ci tieni al tuo posto di lavoro!
Stava guadagnando terreno e lei si stava stancando per la reazione troppo scomposta. Era furiosa e spaventata al tempo stesso, gli avrebbe cavato gli occhi se solo avesse potuto liberare le mani. Voleva punirlo per la sua arroganza, riempirlo di pugni per la sua prepotenza. Poi ebbe un'idea e smise di resistere, tanto repentinamente che Aran se ne meravigliò.
- Ecco, brava... So che alla fine piace anche a te... - grugnì lui con un ghigno a deformargli il viso.
Spaventata, lasciò che le divaricasse le gambe. Doveva fare in modo di non dargli la possibilità di toccarla. Non voleva essere nemmeno sfiorata da quel porco, eppure erano ventre contro ventre e poteva sentire anche gli sforzi che lui stava facendo per completare l'erezione. La sensazione di schifo che la stava permeando non sarebbe stata lavata via nemmeno da cento docce.
Pensò di aver guadagnato la sua fiducia poiché sciolse la stretta che le imprigionava le braccia. Un attimo prima che le mani dell'uomo le raggiungessero il petto, scattò afferrandolo per le braccia per separarsi da lui. Immediatamente dopo impresse tutta la forza che poté alla sua ormai collaudata ginocchiata al basso ventre che anche stavolta colse in pieno il bersaglio.
Aran le si piegò addosso col respiro mozzato. Lei lo spinse via e quello, piegato in due dal dolore, franò rovinosamente sul pavimento travolgendo anche la sedia che si allontanò cigolando sulle rotelle.
Accaldata per lo sforzo e la colluttazione guardò l'uomo accoccolato in posizione fetale, boccheggiante sul pavimento, senza un briciolo di rimorso per quanto gli aveva appena fatto. Si sistemò i capelli che aveva raccolto in una selvaggia coda di ricci ribelli grazie a un grosso elastico lucido di brillantini, comprato al mercato qualche giorno prima. Pensò a Jerrylex: le aveva detto mille volte di non attirare l'attenzione. Non sapendo che altro fare, tremando un po' tutta cominciò a pulire l'ufficio adiacente.

Il telefono cellulare che teneva nella tasca del grembiule giallo, la divisa dell'azienda per cui fingeva di lavorare come addetta alle pulizie, squillò cogliendola impreparata. Sobbalzò, non pensando che quel piccolo apparecchio potesse produrre un suono così forte. Accettò la chiamata mostrata sul piccolo schermo a colori poiché era apparso a chiare lettere il nome di Jerrylex.
- Ciao, bellissima. Tutto bene?
Lei si sporse nel corridoio e gettò uno sguardo nell'ufficio dov'era avvenuta la colluttazione con Aran. C'era ancora la luce accesa e si chiese se quel porco fosse ancora steso sul pavimento cercando di capire dov'erano finiti i suoi attributi.
- Benone – in realtà tremava ancora un poco per lo shock.
- Fantastico. Ho del lavoro per te.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Ogni debito... è un debito - 13
13.

Esattamente come aveva predetto quella vecchia volpe dell'informatica, i locali tecnici dell'ottantesimo piano non erano chiusi a chiave, gli armadi delle apparecchiature nemmeno poiché traboccavano di cavi aggrovigliati nel modo più spaventoso. Grazie alla sua esperienza tecnica non le fu affatto difficile localizzare la fibra ottica di collegamento con i dispositivi laser che si trovavano sul tetto. C'era un duplicatore distrattamente lasciato libero e seguendo alla lettera le istruzioni che Jerrylex le aveva inviato sul telefono stesso, fece in modo tale da creare un ponte fra i dispositivi laser usati per trasmettere dati a distanze relativamente brevi e la rete locale del grattacielo in cui si trovava. Se aveva capito un poco di quello che stavano combinando lui e Ilah, uno dei due doveva essersi infiltrato in quella rete e con quella manovra lei stava aprendo una porta affinché potessero uscire, alla velocità di parecchi mega al secondo, verso un uplink di qualche tipo. Forse un satellite.
Poi spostò un singolo cavo da un'apparecchiatura a un'altra, facendo molta attenzione a non sbagliare. Tutte le prese cui i cavi erano attaccati erano contrassegnate da lettere e numeri, ma i cavi erano così aggrovigliati che seguirne il percorso poteva rivelarsi arduo. Come se non bastasse quel locale doveva essere davvero poco frequentato: la polvere e la sporcizia regnavano ovunque e Miki si sporcò di nero le mani fino ai polsi a causa dei cavi. Si asciugò una gocciolina di sudore mentre scendeva dalla fronte: il locale non era condizionato e le apparecchiature in funzione soffiavano aria calda dal loro interno. Si chiese come fosse possibile che funzionasse ancora qualcosa: la temperatura era secondo lei eccessiva per degli apparati elettronici, soprattutto se vetusti come quelli.
Si stava pulendo le mani con uno straccio del suo carrello quando il telefono cellulare squillò di nuovo. Miki cominciò a odiare quell'aggeggio.
- Ciaaaao, amica!
D'un tratto siamo ridiventate amiche, osservò riconoscendo la voce di Ilah. Se la immaginò seduta scomposta come suo solito, le piastre del Bolonov aderenti al cranio, gli occhi rovesciati all'indietro a mostrare il bianco e un sorriso innaturale sulle labbra.
- Ciao bella. Che succede?
- Cavalcare a fianco di quest'uomo è formidabile! Ne sa una più del diavolo... fa certe cose... vola dritto e veloce come un missile e poi puf! Sparisce di colpo per riapparire dove meno te lo aspetti. All'inizio facevo una fatica a stargli dietro...
- Torna da me, ora.
La voce di Jerrylex. Calda e suadente, pacata. Frenò in tempo la lingua: si era detto niente nomi al telefono.
- Sapessi! Siamo in tre sulla stessa linea, ma non in conferenza eh! E non paghiamo nulla! Conosce la rete telefonica in un modo...
- Basta. Vedo il collegamento, ben fatto. Ora vieni via da lì. C'è una piccola complicazione.
- Di che tipo? - temeva di saperlo, ma non disse nulla.
- Da un interno vicino a te è stata chiamata la polizia denunciando un furto. C'è qualcuno lì?
Miki descrisse con meno parole possibile l'aggressione subita, il tentativo di violenza, le minacce. Poteva essere stato Aran a simulare un furto per farla licenziare. Per vendetta.
- Che pezzo di...
- O.K., lasciamo stare – Jerrylex interruppe immediatamente Ilah. Dalla voce ora un po' incrinata comprese che non era affatto tranquillo anche se cercava di ostentare sicurezza. Era la prima volta che lo sentiva parlare così.
- Esci da lì e comportati normalmente. Fruga bene tutto quello che hai lasciato in giro: se quel tale ha nascosto la refurtiva in mezzo alle tue cose liberatene lontano dalle telecamere. Fruga anche il robot.
Miki udì un segnale acustico che la indusse a guardare lo schermo dell'apparecchio. Apparve un'icona che segnalava un nuovo messaggio da leggere.
- Altro?
- No. Sbrigati.
- Ciao Mi...
La linea cadde. Ilah, quella scema, pensò Miki. Stava per pronunciare il suo nome. La linea era stata interrotta bruscamente, forse da Jerrylex. Aprì il messaggio: era la lavasciugatrice robot che segnalava un'avaria. Sbuffò seccata: non ci voleva. L'aveva istruita a pulire approfonditamente i pavimenti. Lasciò il carrello al suo posto nel deposito ricavato lì all'ottantesimo e scese col montacarichi fino al piano dove si era bloccata la lavasciugatrice. Entrata nella zona degli uffici localizzò immediatamente il robot delle pulizie: grande e grosso com'era lo si vedeva anche nella penombra del corridoio. L'unica luce che rischiarava i corridoi dopo l'orario di lavoro infatti proveniva dal sistema di illuminazione notturno, attivato dall'impianto di allarme automatico. Fioche plafoniere discretamente disposte sul soffitto a una notevole distanza tra loro: le era stato detto che l'accensione di quel sistema con luci gialle significava che il sistema antifurto era acceso ma non attivo. Se le luci fossero state blu, avrebbero indicato l'entrata in funzione di ogni componente dell'antifurto. Toccare una porta, camminare in un corridoio illuminato di blu o cercare di accedere a qualche ufficio avrebbe fatto scattare l'allarme. In quel momento le plafoniere spandevano una tenue luce gialla.
- Maledetta macchina – bisbigliò Miki per infondersi coraggio con la sua stessa voce. Il corridoio era pieno di ombre geometriche, la lavasciugatrice era una scura sagoma astratta a molti metri di distanza e lei temeva che ci potesse essere qualcuno nascosto nel buio. Aran, per esempio, pronto ad aggredirla nuovamente e a farle del male. Oppure c'era un ladro davvero.
Raggiunse il robot che l'attendeva immobile, acceso ma inattivo. Qualcosa lo aveva bloccato e Miki sapeva, per la poca esperienza che aveva fatto con quella macchina in tre giorni di lavoro, che bisognava guardare i filtri. Probabilmente si erano intasati oppure la macchina aveva raccolto con le sue spazzole un oggetto troppo grosso che li aveva ostruiti.
La luce però era del tutto insufficiente. La lavasciugatrice robot non necessitava di illuminazione per funzionare e per di più poteva dialogare col sistema di allarme, così poteva pulire i pavimenti indisturbata. Per questo se ne andava per conto suo, al buio: poteva perfino prendere l'ascensore per passare al piano successivo. A Miki non rimase altro da fare che inginocchiarsi malvolentieri davanti alla macchina e cercare di capire coi polpastrelli se avesse risucchiato qualche oggetto. Non riuscì a trovare nulla.
Non le restava che guardare dentro la vasca di recupero, dove il robot buttava la schifezza aspirata mista al residuo del lavaggio. Detersivo esausto e sporcizia misti insieme la attendevano e lei aveva lasciato il carrello, e quindi anche i guanti di lattice, nel magazzino. La vasca di recupero era un capace secchio, pesantissimo e puzzolente. Non riusciva a vedere nulla dentro: il liquido era troppo scuro e impenetrabile alla vista. Si rassegnò e lo rimise al suo posto, giudicando che se aveva fatto schifo a lei, avrebbe fatto altrettanto schifo a chiunque altro.
Cercò di far ripartire il robot, ma quello dopo un tentativo di rimettersi in moto, segnalò nuovamente un problema. Miki ricorse al pannello di controllo del robot stesso e scoprì che semplicemente il robot aveva terminato il programma di pulizia perché era stato aperto lo sportello della vasca di recupero. L'apertura era avvenuta negli ultimi minuti, prima che intervenisse lei. Qualcuno aveva fatto qualcosa al suo robot mentre lei era al telefono, e non riusciva a capire cosa. Si decise e vinto il ribrezzo, infilò il braccio nudo dentro il robot e con la mano immersa nel denso liquido maleodorante frugò il fondo della vasca di recupero. Ci mise un po' ma alla fine, tra grumi sabbiosi che si sfaldavano tra le dita e sostanze filacciose che stuzzicavano le sue più orribili fantasie, incontrò un oggetto liscio e sottile, troppo grande per poter essere stato raccolto dalla macchina durante il funzionamento. Soddisfatta estrasse immediatamente il braccio immerso fin quasi al gomito e guardò cosa stringeva in mano. Qualcuno, probabilmente quel porco che l'aveva aggredita, aveva aperto il robot mentre era in funzione e aveva buttato un disco dati dentro la vasca di recupero.
Miki riprogrammò rapidamente la lavasciugatrice robot in modo che finisse il suo lavoro e quella obbedì subito al nuovo programma. Gettò il disco gocciolante in un angolo nascosto dell'ufficio più vicino e andò a lavarsi le braccia: non le era rimasto altro da fare che cambiarsi e tornare a casa, sperando che Jerrylex non avesse più bisogno di lei quella sera. Ma quando aprì la porta che metteva in comunicazione l'area degli uffici con quella di servizio, spoglia e grigia, per raggiungere il montacarichi una guardia dell'agenzia di sorveglianza le si parò davanti spaventandola.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Ogni debito... è un debito - 14
14.

Soltanto grazie all'impacciata e contraddittoria accusa di Aran e al mancato ritrovamento della refurtiva tra le sue cose Miki riuscì a evitare l'incriminazione per furto. Una volta raggiunta dalla polizia fu immediatamente accompagnata presso la centrale e lì, mentre lei seguiva con gli occhi spalancati il suo badge, la sua identità falsa superò l'esame dei computer degli agenti. Jerrylex le aveva temporaneamente dato il nome di Michaela Vandervelden, per aiutarla a non confondersi troppo. A Miki pareva quasi di conoscerla, questa misteriosa signora Vandervelden: se mai l'avesse incontrata avrebbe dovuto offrirle da bere.
Cadute le accuse e messo nei guai Aran con la sua precisa e circostanziata descrizione dei fatti, verbalizzata controvoglia dai poliziotti che erano più propensi a credere all'uomo che ancora zoppicava, Miki fu lasciata libera di andare ma con l'obbligo di presentarsi davanti al giudice. Infatti aveva subito denunciato le molestie subite. Dal momento che non sapeva quanto sarebbe rimasta sul pianeta con quella identità fasulla, era però probabile che al momento di comparire davanti al giudice Aran avrebbe potuto contemplare il banco dei testimoni contro di lui completamente vuoto. Avrebbe avuto così un'ottima possibilità di farla franca.
Tornò dondolando per la stanchezza nel monolocale che Jerrylex aveva trovato per lei e Ilah in sostituzione della microscopica stanzina nel retro del negozio del suo amico Yasser, venditore di cibo tradizionale. C'era poco spazio, l'aria condizionata non funzionava bene e quando funzionava emetteva un rumore fastidioso, per lo più di notte. Però il posto sembrava più pulito: c'era un bagno decente e anche il frigorifero. Aperta la porta con una chiave metallica perforata, un sistema primitivo ma a prova di attacco informatico, cercò a tentoni l'interruttore della luce. Fuori il cielo aveva cominciato a tingersi di un viola preoccupante, ma lei ricordava che l'alba sulla Terra era innocua. Anzi: era bellissima. Bastava farci l'abitudine, a quei colori così vivi e strani. Però non essendoci finestre in quella stanza, non era possibile godersela.
Il calore accumulatosi tra quelle pareti durante il giorno la stordì ancora più del sonno. Aveva qualche ora a disposizione per dormire, ammesso che i due pirati informatici non fossero stati individuati e presi. In tal caso gli investigatori sarebbero giunti a lei in un batter d'occhio.
Il letto di Ilah era vuoto. Completamente sfatto, le lenzuola aggrovigliate e sfilate da sotto il materasso, il cuscino con la federa ingiallita di sudore era stato gettato negligentemente da un lato. Ma l'autrice di quel disastro non c'era. Non c'erano i suoi anfibi verniciati di rosso, non c'erano i suoi abiti logori. Nonostante il caldo, Ilah non rinunciava alla sua giacca di foggia militare con le maniche tagliate rozzamente, a costo di doverla trasportare gettandosela dietro la schiena con un dito infilato nel colletto.
Annebbiata dal sonno, Miki non diede peso alla cosa e si lasciò andare sul suo letto, stremata. Si spogliò a fatica senza nemmeno badare a quello che stava facendo e, soffocata dal caldo, non si dette la pena nemmeno di scostare il leggero lenzuolo. Si addormentò immediatamente, troppo stanca perfino per sognare.

Fu svegliata dal tintinnio. Qualcosa suonava ritmicamente, qualcosa di noto. Un suono che la strappò dal sonno senza allarmarla. Si svegliò girata su un fianco, il viso rivolto verso la parete spoglia. Era umida di sudore e stringeva sul seno scoperto il lenzuolo maltrattato e aggrovigliato. Il caldo era soltanto mitigato dall'impianto di condizionamento che aveva ripreso a funzionare sferragliando sommessamente.
Il cucchiaino sbatté di nuovo contro le pareti della tazza. Ecco cos'era a tintinnare. Ancora annebbiata dal sonno, la mente andò pigramente al fornello elettrico che aveva trovato nell'unico mobile di quell'appartamento, soltanto un po' meno spartano del precedente. Dopo averlo riparato rozzamente era stata in grado di far scaldare un po' d'acqua per farsi il tè. Ne aveva trovata una varietà molto profumata e dissetante che le aveva subito ricordato la sua infanzia. Anton, il capo della guardia personale di sua madre, beveva spesso il tè con lei. Un mercenario, un ex agente speciale governativo, un assassino a sangue freddo capace di uccidere anche a mani nude ma con un gusto raffinato in fatto di infusi. Le aveva insegnato quel po' di difesa personale che conosceva e da lui aveva anche imparato ad apprezzare il tè. Si coprì meglio col lenzuolo a tratti umido del suo sudore e si girò nel letto, incuriosita. Ilah non aveva dimostrato alcun interesse per pentole e fornelli, anzi: il solo pensiero di prepararsi i pasti da sola l'aveva scandalizzata e messa in fuga. Era strano che avesse fatto il tè.
- Buongiorno.
Miki si strinse di scatto le braccia sul petto, spingendo il lenzuolo fin sotto il mento. Si sentì avvampare. Il tintinnare del cucchiaino, ora ostile, sottolineava l'unico movimento davanti a lei: la mano che lo sosteneva svogliatamente mentre mescolava la bevanda fumante. La mano di Jerrylex.
- Tu! - esclamò Miki quando riuscì a chiudere la bocca. Le era caduta la mascella per lo stupore. L'uomo seduto a tavola era combinato male: i capelli grigi, che avevano bisogno urgente di essere lavati, gli cascavano sciolti e aggrovigliati sul viso ma senza riuscire a coprire le profonde occhiaie scure. La testa era china sulla tazza da cui si levavano riccioli di vapore bianco. Le spalle erano così curve in avanti da far temere che Jerrylex sarebbe potuto cadere con la testa sul tavolo da un momento all'altro. Lasciò andare rumorosamente il cucchiaino metallico sul tavolo e sorseggiò il tè con fatica. Gli tremavano vistosamente le mani.
- Per favore – disse con voce strascicata – non dire a Ilah che sono stato qui. Non dire di avermi visto in queste condizioni. Per favore...
- Dov'è?
- È ancora collegata... è... è più forte di me. Le manca solo un po' di esperienza ancora. Poi sarà davvero brava. Più di me. Vive meglio nel cyberspazio che nella vita reale. Se non fosse una ragazzina...
- Cosa le hai fatto?
L'uomo posò la tazza sul tavolo e le puntò contro gli occhi infossati e spenti, sollevando di poco la testa. Si muoveva come se il suo corpo pesasse tonnellate: doveva essere fisicamente a pezzi.
- Io? Nulla. Quando è collegata... è quasi imbattibile. Non so come, ha trovato un po' di gialla... non deve farsi troppo di roba, le fa male... diglielo. A parte questo difetto, è quasi perfetta. E se l'interrogatorio è finito...
Jerrylex si alzò e si trascinò fino al letto di Ilah, dove si sedette pesantemente. Lo guardò mentre, già con gli occhi chiusi, si toglieva i suoi vissuti sandali di gomma e si sdraiava con cautela sul letto sfatto della ragazzina senza nemmeno togliersi gli abiti trasandati. Miki non credeva ai propri occhi. Il tempo di esalare un sospiro sofferente e si era già addormentato.
Si avvolse strettamente nel lenzuolo strappandolo dal letto e, raccolti i suoi vestiti, si chiuse a chiave in bagno.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Ogni debito... è un debito - 15
15.

Era un bell'albergo, ma non aveva l'aria condizionata nelle stanze. Per meglio dire l'impianto c'era, ma non era in funzione da almeno un paio di secoli a giudicare dalle condizioni in cui versavano i ventilconvettori. C'era da avere paura del tetano solo ad avvicinarsi.
Ma non era male. Anzi, tra tutti i posti di al-Qahira che aveva visto fino a quel momento, era di gran lunga il migliore. Pensò che una ragazza moderna come lei, che era riuscita a dormire da clandestina a bordo di un doppio-v con l'incubo che una IA annoiata depressurizzasse tutto il ponte di comando, poteva stare dappertutto.
Poi c'erano innegabili vantaggi: contrariamente alle stazioni orbitanti, l'acqua non era razionata. Per questo aveva subito riempito la vasca da bagno e, denudatasi in fretta e furia senza nemmeno controllare la temperatura ci si era tuffata dentro, felice di poter stare finalmente in ammollo in mezzo a tutta quella schiuma candida, felice di avere un bagno tutto per sé.
L'incursione di Jerrylex e Ilah era andata a buon fine. Il pirata informatico aveva compiuto l'ultima, memorabile impresa: partendo da una rete di computer zombie lì, sulla Terra, aveva scatenato un attacco diversivo facendo credere di voler abbattere i server pubblici di una banca terrestre appartenente al gruppo della Yasuda-Lejeune. Invece il suo vero bersaglio erano i fondi neri della capogruppo, notoriamente il salvadanaio orbitante della Yakuza. Era riuscito a spostare in modo a sentir lui sicuro una cifra spaventosa di denaro e ne aveva dato prova immediatamente, affittando due stanze in quell'albergo. Nessuno avrebbe certo reclamato quei soldi, l'impresa non sarebbe mai finita sui mass media ma aveva probabilmente provocato un terremoto tra i figli del crisantemo. Si ricordò della tradizione degli antichi yakuza di mozzare un dito a chi fallisce. Qualcuno, vista la somma rubata, avrebbe forse perso più di un dito o due per colpa di Jerrylex. Era stata Ilah a dirle tutto, e solo a impresa ormai compiuta: l'anziano pirata informatico non aveva voluto svelarle nulla. Infatti se lei avesse saputo da subito che c'era di mezzo la yakuza, non avrebbe mosso un muscolo per aiutarlo.
Controllò le proprie mani facendole emergere dall'acqua, come se temesse per le sue dita; la vista dei polpastrelli corrugati la convinse a uscire dalla vasca. Si avvolse in un grande asciugamano bianco non prima di aver constatato nello specchio come le sue odiate, adipose rotondità non accennassero a diminuire nemmeno di un po'. Poi si avvolse un altro telo di spugna intorno alla testa bagnata. Dovrò decidermi a tagliare i capelli, si disse vedendo quanta fatica doveva fare per contenere l'enorme massa di riccioli neri appesantiti dall'acqua. Uscì dal bagno completamente piastrellato di mattonelle lucide color verde smeraldo impreziosite da venature scure. Quelle intorno ai bordi della vasca erano diverse, lavorate: un bassorilievo verniciato d'oro con motivi geometrici e floreali. Non le aveva notate subito. Attraversò la stanza lasciando sulla moquette consumata impronte umide e scure di piedi scalzi diretti verso la grande porta finestra, aperta. Solo una grande tenda bianca, debolmente mossa dal vento, la separava dalla terrazza. Si accomodò su una delle sedie a sdraio, in pieno sole. Jerrylex aveva scelto bene la stanza: la terrazza dava sui tetti di edifici più bassi e sul mare poco distante. Altri edifici alti come l'hotel Luxor, dove lei si trovava in quel momento, erano ai lati ma i paravento di vetro colorato la riparavano da sguardi indiscreti.
Pensò a Jerrylex. L'aveva tolta dai guai, almeno così sperava. Degli scagnozzi che sua madre le aveva messo alle calcagna, non s'era più vista nemmeno l'ombra. Che li avesse già fatti liquidare da qualcuno, ora che poteva pagare? Lo escluse. Sua madre sarebbe stata capace di scatenare una guerra per un motivo anche meno valido di quello. Grazie a quel criminale informatico aveva cambiato identità e lavoro più volte: da donna delle pulizie a sguattera a operaia del turno di notte. Aveva fatto anche la commessa per un negozio di scarpe da donna ma alla fine della seconda giornata di lavoro l'anziana padrona le aveva detto di non tornare. Ancora non aveva capito dove avesse sbagliato.
Pensò a Ilah, spumeggiante e vanitosa, estasiata per aver cavalcato al fianco di Jerrylex nella sua memorabile impresa. Giudicò che avesse poco da vantarsi di quanto fatto: se la Yakuza fosse riuscita a risalire fino a lei, le avrebbero tolto la pelle e non in senso figurato.
Pensò alla sua astronave, il Coyote: si ripropose di convincere Jerrylex ad aiutarla a tornare indietro. Voleva tornare a bordo di una nave e quel semplice pensiero le fece venire in mente Pavel, il Secondo del Raja. Da quando aveva frugato di nascosto nel computer di quella nave per scoprire il suo nome, non era più riuscita a scacciarlo dalla sua mente. Pavel Zebrinsky: quel suono evocava una figura massiccia, dolcemente odorosa d'uomo, dal petto largo e dalle braccia potenti. Si sentì scaldare dentro, immaginandosi prigioniera stretta contro il corpo di lui.
Rimase lì a far arrossare la sua bianca pelle da astronauta sotto i raggi di un sole così forte da asciugarla in breve tempo. Aveva da poco sciolto il telo di spugna intorno alla testa per fare asciugare anche i capelli quando sentì un forte cicalino all'interno della sua camera. Ci mise qualche secondo di troppo a capire che c'era qualcuno che suonava alla porta e solo il secondo sgraziato squillo la convinse a scendere dalla sdraio e ad andare alla porta.
- Chi è? - disse premendo il pulsante del citofono della serratura, nonostante potesse vedere con chiarezza sullo schermo monocromatico un giovanissimo fattorino dalla pelle scura che indossava la metà superiore della divisa dell'albergo. Lo aveva già visto nell'atrio mentre spingeva un carrello carico di valige. Controllò il nodo che le sosteneva il telo intorno al corpo.
- Un pacco per la signorina Patris – disse a voce così alta che Miki non ebbe alcun dubbio: ora l'intero quarantacinquesimo piano sapeva che lei aveva appena ricevuto un pacco.
Non aspettava nulla e un po' ansiosa aprì la porta. Il fattorino dell'albergo aveva con sé un carrello a mano ingombro di molti pacchi e sacchetti di tutte le dimensioni. Miki riconobbe le firme di moda del momento, evidentemente note e diffuse anche lì sulla Terra. Il fattorino, forse imbarazzato vedendola così com'era uscita dal bagno, afferrò un po' impacciato una busta bianca che sporgeva dal taschino della propria giacca e gliela porse. Nel togliere i pacchi dal carrello ne fece cadere un paio. Rimase poi lì, spostando nervosamente il proprio peso da un piede all'altro finché Miki non si ricordò della curiosa abitudine che c'era da quelle parti di dare la mancia a tutti quanti, anche senza motivi particolari a giustificarla.
Meravigliata, Miki si sentiva stupidamente felice come una scolaretta: tra le cose cadute c'era il sacchetto di un noto atelier da cui era uscita una lussuosa e bellissima pochette rigida tutta coperta di scintillanti brillantini che mandavano deliziosi riflessi azzurri. Dopo aver contemplato da tutti gli angoli quell'abbagliante accessorio femminile, riuscì a calmarsi abbastanza da cercare una spiegazione all'interno della busta. Era infatti evidente che tutta quell'abbondanza e quel lusso improvviso non fossero giunti a lei per un caso. Lasciò cadere la pochette sull'enorme letto a baldacchino che le piaceva moltissimo per via dei veli. Utili per ripararsi dagli insetti, erano raccolti da eleganti fiocchi di passamaneria consumata. Si chiese se era proprio lì che qualcuno aveva intenzione di portarla: sul materasso. L'idea la preoccupava e la stuzzicava al tempo stesso. Il suo facoltoso corteggiatore sconosciuto la stava attaccando frontalmente, senza perdere tempo: avrebbe dovuto premiarlo? Certo non subito. Aprì la busta con uno strappo deciso e spiegò il foglio di carta in essa contenuto. Carta vera, le dissero i polpastrelli strofinandola per bene percependone con gioia lo spessore e la ruvidezza. Una cosa che solo sulla Terra potevano ancora permettersi.
I suoi occhi lessero la prima riga scritta a mano, una grafia obliqua e stirata ma abbastanza leggibile. Dopo aver passato tutta la vita a leggere schermi di computer, pubblicazioni digitali e via dicendo, ebbe qualche difficoltà col corsivo. Forse per quello, forse per l'ansia di sapere chi le mandasse quel tesoro, saltò subito alla firma.
- Jerrylex!
Non poté fare a meno di pronunciare quel nome ad alta voce tale fu la sorpresa. Il resto del biglietto diceva che lui sarebbe stato onorato di averla al suo fianco alla festa che l'albergo aveva organizzato per quella sera. Si scusava inoltre se aveva sbagliato la taglia di qualcosa. Improvvisamente squillò il terminale. È lui, le disse il cuore con un tuffo.
- Hey, Miki!
Sul monitor del terminale era apparso il volto di Ilah. Era alloggiata anche lei al Luxor, ma aveva trovato una stanza al quarantanovesimo piano. A giudicare dall'inquadratura bizzarra doveva aver spostato il terminale sul letto e stava sdraiata sulla schiena.
- Ciao... - Miki non sapeva se essere delusa: davvero si aspettava di ricevere una chiamata da Jerrylex?
- Senti, ti pare che i miei piedi siano troppo grandi?
Ilah offrì un piede scalzo alla telecamera del terminale e quello campeggiò sullo schermo di Miki fino a quando non andò fuori fuoco per l'eccessiva vicinanza.
- Mi hai chiamato per farmi vedere i tuoi piedi?
Lo schermo fu sgombrato, ma solo dopo qualche secondo ancora. Ilah certe volte era proprio solo una bambina dispettosa.
- Hai ricevuto nulla da Jerrylex?
Esitò a risponderle, sorpresa. Se anche Ilah era stata invitata alla festa dell'albergo, tutto il romanticismo della serata svaniva in un sol colpo. Forse Jerrylex aveva qualcosa da farsi perdonare da entrambe?
- Mi... ha detto che c'è una festa nel salone grande dell'albergo, stasera. Vuole che vada. Tu ci vai?
- Masseifuori? Mi ha appena mandato una esclusiva card d'invito per uno spettacolo di lotta nel fango... lotta maschile, bella mia! Non mi perderei l'evento per nulla al mondo. Anche se questa gravità mi sta uccidendo! Sai, c'è la possibilità che sia un posto di quelli dove tirano dentro anche il pubblico...
Senza volerlo Miki si trovò a dover dissimulare un sospiro di sollievo. Ilah col suo cervello cablato era capace di non farsi sfuggire un solo dettaglio, specie se era concentrata su uno schermo. Ma per il momento sembrava che la sua attenzione fosse tutta per il suo piede destro e per la card d'invito che stava sventolando davanti alla telecamera in quel momento.
- Ah, che culo... - iniziò un commento di circostanza, ma la giovane la interruppe subito, com'era sua abitudine.
- Mi dispiace tanto, ma la card è valida per una sola persona. Temo proprio che o tiri fuori un mal di testa o ti toccherà andare a quella noiosissima festa. Ah, non dirgli che hai le tue cose... gli ho già detto che non è il tuo momento. Non mi sputtanare con Jerrylex, eh!
- Ma... cosa vai a raccontare in giro? E perché, poi? Ma non ti fai mai i cazzi tuoi, razza di... - Miki sbottò, ma aveva il sorriso sulle labbra.
- Scusami... mentre tu non c'eri quando eravamo nell'atrio mi ha fatto un po' di domande qua e là... non so come siamo finiti a parlare delle tue mestruazioni.
- Lo so io com'è andata: quando Jerry ti guarda negli occhi, tu perdi completamente la rotta.
- Ah, io! Ho soltanto un quarto dei suoi anni! – Ilah scoppiò a ridere, una risata squillante e sincera. Miki le fece una smorfia, sapendo di avere ragione. L'ammirazione che Ilah dimostrava di avere per il vecchio cavaliere del cyberspazio era seconda solo a quella per la nonna. Ammirazione che da parte di Jerrylex non era granché ricambiata. Come lei ben sapeva, al contrario lui era quasi infastidito da Ilah e dal suo talento informatico.
- Ma se da quando ti ha visto non ha smesso di ronzarti intorno! Ce l'ha con te, scema! Non te ne sei accorta? Sai che sono gelosa? Lui è il mio idolo da sempre e come mi ringrazia? Facendo il cascamorto con te! - aggiunse subito dopo, offrendo nuovamente la pianta del piede scalzo alla telecamera, agitandolo.
Miki guardò il mucchio di scatole e sacchetti al centro della stanza. Sì, se n'era accorta nei giorni scorsi, soprattutto dopo il suo “ultimo colpo”, come definiva il suo colossale furto ai danni della Yasuda-Lejeune. Aveva avuto anche un'inequivocabile conferma.
- Ma smettila – si difese però con Ilah, che le rispose imitando una risata beffarda.
- Ma quanto sei scema... a te la festa di lusso in albergo, non troppo lontani dal materasso. A me, la bambina rompicoglioni da mettere a letto subito dopo cena, un biglietto gratis per starmene fuori dalle palle fino a tardi! Più chiaro di così!
- Questo è quello che pensi tu – la difesa di Miki era inefficace: Ilah era una pettegola di prima grandezza.
- Piuttosto, dimmi se hai intenzione di mandarlo in orbita già da stasera o se lo farai soffrire, poverino...
- Ma fatti i cazzi tuoi, tu! - fu l'inevitabile risposta di Miki.
- Daaai, dimmelodimmelodimmelo... non lo saprà nessuno.
Ilah si sdraiò sulla pancia per arrivare più vicina col viso alla telecamera incorporata nel terminale dell'albergo. Miki vide quella faccia sbarazzina e impertinente ingrandirsi sempre più fino a occupare tutto lo schermo. Gli occhi chiarissimi le brillavano e non solo perché vi si rifletteva la luce del monitor.
- No!
- No cosa? Non gliela dài?
- Non te lo dico!
- Dài, da donna a donna... - la faccia tosta di questa ragazzina è invidiabile, pensò Miki scuotendo la testa negativamente.
- Peggio per te: invecchierai e morirai vergine, zitella e acida. Ciao!
- Io non sono vergine! - scattò Miki, ma troppo tardi: la ragazzina aveva già chiuso la comunicazione. Rimase da sola, seduta sulla sponda dell'enorme letto intatto, a cercare di giustificare a se stessa lo sfarfallare ansioso che sentiva nel petto.

Si controllò ancora una volta nello specchio grande che occupava una buona parte della parete opposta al letto, a fianco della porta del bagno. Tutta la gioia e l'eccitazione che aveva provato aprendo i pacchi uno a uno sembravano sgocciolate via da lei, lasciando posto a un crescente nervosismo. Aveva avuto in dono il cofanetto per il trucco più grande che avesse mai visto e non era stata capace di usarlo bene come avrebbe voluto. Dopo essersi struccata tre volte per cancellare dei pessimi risultati, aveva scelto di usare un colore scuro un po' sfumato per gli occhi insieme a ombretto e matite, scure anche queste. Anche così però le era sembrato di non aver sfumato il colore nello stesso modo sugli occhi e aveva la netta sensazione che vista da lontano sembrava avere un occhio pesto.
Dopo il trucco andò a prendere il vestito. Con un tuffo al cuore aveva trovato un bellissimo abito da sera di un fantastico azzurro scuro. L'azzurro, il suo colore preferito! Indossandolo però aveva scoperto non senza disappunto che l'abito era molto scollato davanti e le lasciava mezza schiena nuda. Ciò significava essere costretta ad andarsene in giro con i suoi due pesanti carichi anteriori senza ormeggio e la cosa le dava fastidio. Non le piaceva l'idea e anche dopo un milione di prove e di controlli non era ancora convinta che non si sarebbero verificati imbarazzanti incidenti.
L'abito però era stato scelto con accortezza: oltre a essere della taglia e del colore giusti, era fatto con un tessuto liscio e morbidissimo; era anche molto lungo. Miki lo apprezzava perché riusciva così a nascondere i suoi muscolosi polpacci, le ginocchia nodose e le cosce arrotondate da qualche chilo di troppo. Doveva solo fare attenzione allo spacco che aveva sul fianco sinistro. Una cintura si stringeva poco sotto il seno permettendo così che la linea dei suoi fianchi troppo larghi non venisse sottolineata. Dovrò fare qualcosa per questo culone un giorno o l'altro, si disse mettendosi di profilo allo specchio. Bastava guardare bene e tutti i suoi difetti apparivano uno dopo l'altro.
Perfino i capelli le avevano fatto perdere la pazienza: non era riuscita a domarli come avrebbe voluto e se la prese in silenzio con Jerrylex per non averle mandato in camera anche una parrucchiera.
Quando lo sgraziato cicalino della porta suonò, facendola sobbalzare per lo spavento, era ancora in bagno, seduta davanti allo specchio con il cofanetto dei trucchi completamente dispiegato. Sussultando sbavò un poco il cupo rossetto che si stava applicando meticolosamente. Con un moto di stizza abbandonò il delicato pennello e si alzò per andare alla porta d'ingresso.
- Miki! Sei pronta? La festa è cominciata.
Era Jerrylex. In piedi davanti alla porta chiusa, coi capelli di nuovo raccolti dietro la nuca da un banale elastico colorato, con indosso il vestito blu ma scalza, lei strillò al limite dell'isterismo.
- Come faccio a essere pronta? Devo fare ancora un sacco di cose!
Tornò svelta sui suoi passi fino al centro della stanza dove c'erano i resti delle confezioni degli abiti. Si chinò bruscamente in avanti a raccogliere le scarpe, innervosita. Si risollevò rossa in viso e con la mano libera premuta sui seni. Devo ricordarmi di non piegarmi in avanti così, si disse controllando che non fosse sfuggito qualcosa alla presa del vestito.
- E poi ci vai in giro tu con queste cose ai piedi! - gridò agitando l'elegante sandalo dal tacco alto verso la porta, ancora chiusa. Non aveva mai portato scarpe col tacco alto più di pochi centimetri: preferiva di gran lunga le sue morbide scarpette di tela con la suola di velcro fatte apposta per camminare sulle astronavi quando non c'è gravità.
- Sono sicuro che te la caverai benissimo. Dài, muoviti... ti aspetto agli ascensori... - disse l'uomo accompagnando le sue parole con un sospiro rassegnato.

Uscì dalla camera dell'albergo con cautela, quasi come se non osasse fare rumore. Fece scivolare il badge che apriva la serratura elettronica dentro la sua scintillante pochette e, procedendo incerta sui vertiginosi tacchi, raggiunse la zona degli ascensori. Lì, seduto su una delle poltroncine di cortesia, c'era un uomo che scattò in piedi non appena si accorse di lei.
Ci mise un secondo a riconoscerlo. Aveva raccolto i lunghi capelli grigi e argento in uno strettissimo codino dietro la nuca, mantenendoli aderenti al cranio in modo molto ordinato. Il viso, non più ombreggiato dai capelli sciolti e scarmigliati, sembrava aver perso dieci anni di età e gli occhi castani tempestati di piccole schegge chiare risaltavano molto. Barba e baffi erano stati curati, le guance rasate e le basette assottigliate. Nemmeno le rughe dell'età riuscivano a togliergli quell'aria da irresistibile mascalzone che lo rendeva attraente. Vestiva in modo sobrio ed elegante un abito grigio e nero che gli stava a pennello. Quell'accenno di pancia sporgente che aveva notato fin dalla prima volta che l'aveva visto sembrava sparito. Gli offrì il braccio nudo, ornato dalla bigiotteria che lui stesso aveva scelto per lei.
- Tienimi, eh! Sento che prima di sera riuscirò a farmi male cadendo da questi cazzo di tacchi che mi hai rifilato!
- Sei bellissima – disse quello estasiato prendendola sottobraccio. Con quei tacchi Miki superava il metro e novanta e lui non la raggiungeva nemmeno quando scalza.
- Sei un bugiardo. Mi sembra di essere una... un... sono un disastro, ecco!
- Non è affatto vero: sei incantevole – disse Jerrylex chiamando l'ascensore. Questo si precipitò fino al sotterraneo dove era stata ricavata la più grande sala di tutto il Luxor. Qui c'erano già una cinquantina di persone che, servite da scuri camerieri in divisa da gala, si dividevano tra la pista da ballo, i salottini e i lunghi tavoli con il buffet.
Con gli occhi Miki passò immediatamente in rassegna tutte le donne che poté. Ben presto si rese conto che non era certo lei che aveva esagerato con la scollatura. Né era l'unica con problemi di giro-vita o a barcollare sui tacchi.
Jerry passò tutta la serata a sbavarle addosso. Non sapeva perché la corteggiasse così tanto: la riempiva di attenzioni, si affannava per farla sentire a suo agio. Ballarono e bevvero anche qualche bicchiere di troppo. A parte il dolore ai piedi, che cominciò a farsi sentire abbastanza presto, andò proprio tutto bene. Almeno fino alla fine dell'ultimo ballo. Avevano già deciso che se ne sarebbero andati: Miki era stanca e sentiva di aver bevuto troppo. Jerrylex aveva allungato le mani già un paio di volte e non era il caso che si prendesse ulteriori libertà. Ma tornando ai divani per riposare un poco dopo l'ultimo ballo, Miki per poco non si distorse una caviglia a causa dei tacchi. Solo aggrappandosi prontamente al suo attempato accompagnatore riuscì a evitare il peggio. Quando se la sentì di camminare, si fece accompagnare fino in camera. Durante la salita con l'ascensore si sfilò le scarpe e con esse minacciò scherzosamente Jerrylex.
- Tu e le tue scarpe col tacco!
- Te la sei cavata benissimo fino all'ultimo, amore.
- Non chiamarmi amore – mise astio nella voce, ma il sorriso che le affiorò sulle labbra la tradì. In un angolo del suo cervello ancora abbastanza sobrio prese forma il pensiero che si era fatta fregare come un adolescente al primo appuntamento. E che Jerrylex era una persona affatto spiacevole. Avrebbe potuto essere suo padre, ma era elegante, carino e ci sapeva fare.
Le porte dell'ascensore si aprirono sull'atrio del quarantacinquesimo piano illuminato da grandi lampade gialle. Lei con le scarpe in una mano e la borsetta sfavillante nell'altra lo attraversò zoppicando leggermente.
- Ti fa ancora male? Vuoi che ti accompagni?
L'attacco finale, pensò Miki.
- No grazie, me la cavo da sola.
Ma l'uomo la seguì ugualmente fino alla porta. Col cuore che le martellava nel petto per l'ansia, la paura e l'eccitazione, estrasse il badge e sbloccò la serratura. La luce si accese all'apertura della porta mostrando l'interno lasciato completamente in disordine: le confezioni aperte e lasciate cadere alla rinfusa erano ancora lì dove lei le aveva abbandonate. Quando vide tutta quella confusione, la tenda mossa da un alito di vento, segno che aveva dimenticata aperta la porta del terrazzo, il letto stropicciato, il caos del bagno, si vergognò e desiderò che Jerrylex non fosse mai entrato.
- Vattene – gli disse poco convinta sedendosi sulla sponda del letto col baldacchino.
- Non ti sei divertita? - le chiese quello sedendosi al suo fianco, così vicino che i loro gomiti si toccarono.
- Tantissimo. Sei bravo a ballare, sai? Ma vattene lo stesso, O.K.?
Si sentiva la testa un po' troppo leggera. A un certo punto aveva visto girare della gialla nel salone, ma ne era stata lontana. E credeva di essere riuscita a tenere lontano anche lui, che gliel'aveva addirittura offerta. Ma non era certa che lui non l'avesse presa di nascosto.
- Nemmeno il bacio della buonanotte? - chiese lui con la migliore delle sue espressioni da contrita, adorabile canaglia.
Miki si toccò con un dito la guancia destra.
- Autorizzo il bacio della buonanotte. Ma poi smammi, eh? Ti ricordo che sono armata – gli mostrò il tacco acuminato della scarpa che teneva ancora in mano, pronta per ogni evenienza. Non sono poi così tanto ubriaca, pensò.
Lui obbedì e le appoggiò le labbra contornate da ispidi baffi dove indicato. Sentì qualcosa di caldo e soffice, molto sensuale, percorrerle lentamente la spina dorsale lasciata scoperta dal vestito.
- Non sai cosa ti perdi... - le sussurrò nell'orecchio. Lei si ritrasse, incerta, voltando la testa dalla parte opposta. Il contatto della mano di lui sulla sua schiena si interruppe.
Sentì le molle del materasso reagire alla diminuzione del peso che le caricava. Lo guardò attraversare la stanza con la sua andatura felina, calcolata. Scavalcò le scatole aperte e voltandosi un'ultima volta sulla soglia per farle un cenno di saluto con la mano, se ne andò chiudendo delicatamente la porta dietro di sé.
Miki tirò un sospiro di sollievo, ma stava già rimpiangendo di averlo lasciato andare via. Davvero mi sarei buttata tra le sue braccia, si chiese. Era eccitata, non poteva negarlo. Ma non poteva darsi al primo che le regalava un vestito e la invitava a una festa. Jerrylex era un seduttore, l'aveva capito. Era anche un criminale, un cavaliere del cyberspazio, abituato da sempre a vivere e agire al di là del margine della legalità. Forse voleva dimostrare qualcosa a se stesso. Il furto era servito per dimostrare di essere ancora in gamba e lei sarebbe stata la prova della sua mascolinità ancora integra. O forse voleva solo portarla a letto.
Andò in bagno a prepararsi per la notte, ma una volta a letto faticò ad addormentarsi per la tensione, l'eccitazione e il rimorso. Quando finalmente si addormentò mancavano poche ore all'alba.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Ogni debito... è un debito - 16
16.

Non riuscì più a ignorare la luce che filtrava attraverso le cortine e nemmeno il caldo che, sebbene non potesse essere poi così tardi, era già opprimente. Si mise supina e si stiracchiò pigramente finendo di scacciare gli ultimi residui di sonnolenza. Rotolò quindi fuori dal letto e andò a farsi una rapida doccia fresca stando in piedi nella grande vasca da bagno, cercando di ignorare i segnali che provenivano dal suo stomaco. L'aveva decisamente maltrattato durante la sera precedente saltando la cena e bevendo cocktail alcolici. Infatti dopo la serata passata a ballare con Jerrylex aveva speso quella successiva con Ilah. La ragazzina, in preda a uno dei suoi eccessi di cameratismo femminile, si era lamentata del fatto che non erano mai uscite a fare baldoria insieme. Così l'aveva accontentata, credendo da un lato di poter finalmente instaurare un rapporto meno turbolento con la permalosa, volubile e insolente ragazzina. Dall'altro temeva che quella vecchia volpe di Jerrylex, andato in bianco la sera della festa in albergo, tornasse alla carica con metodi un po' più spicci.
Una volta spalmata la pelle con l'indispensabile protezione solare, indossò i suoi larghi pantaloncini al ginocchio e una comoda maglia senza maniche, nera con gli orli bianchi e dalla scollatura quadrata forse un po' troppo generosa. Si guardò allo specchio: si vedevano le spalline del reggiseno e notò che la pelle si era arrossata per il sole, ma non scurita. Pelle da astronauta, si disse. Non aveva bevuto molto: l'alcol le aveva lasciato un brutto ricordo sul palato e null'altro. Decise quindi di accontentare le richieste del suo stomaco e di andare a vedere se era ancora aperta la sala da pranzo dell'albergo per fare colazione.
Aveva appena finito di mangiare quando un impiegato dell'albergo la raggiunse e molto cortesemente le chiese, bisbigliando discretamente anche se non c'era nessun altro nella sala da pranzo, di passare dalla reception prima possibile. La cosa la insospettì: solitamente il personale dell'albergo non faceva altro che sorriderle. Si alzò poco dopo e abbandonata la sala da pranzo tristemente deserta si recò alla reception dove l'attendeva il medesimo impiegato che era venuto a chiamarla. Questi le porse una semplice busta di carta bianca, chiusa con la colla. Dovette lacerarla per aprirla e la cosa le dispiacque un po': la carta vera, bianca e spessa, ruvida al tatto era una delle cose che, abbandonata la Terra per la vita sulle stazioni, aveva rimpianto di più. Le era sempre piaciuta tantissimo fin da bambina quando riceveva fantasiosi e colorati biglietti d'auguri per il suo compleanno.
Riconobbe subito la scrittura, sottile e obliqua: era il pugno di Jerrylex. Generici saluti e al posto della firma due sole parole: “non cercarmi”. Un po' minaccia, un po' richiesta: tipico di quell'individuo. Si accorse che il biglietto, piegato a metà, era stato scritto anche all'interno. C'erano delle istruzioni per il collegamento a una certa rete, rese volutamente complicate poiché anche quelle erano state scritte a mano e con indirizzi numerici al posto dei nomi. Ma non era quello a preoccuparla: padroneggiava i computer abbastanza da sapere come venirne fuori. Chiese all'impiegato dell'hotel se c'era un terminale per potersi collegare alla Rete e quello la condusse in un locale apposito che era stato attrezzato con computer e paraventi di paglia intrecciata che garantivano una certa privacy. Anche lì non c'era nessuno oltre lei.
Si collegò dove richiesto e seguite le istruzioni comprese immediatamente che aveva dato il via a una procedura di qualche genere. Non sapeva esattamente cosa aveva lanciato: ogni tentativo di tracciare gli indirizzi un istante dopo aver concluso la procedura non aveva prodotto risultati. Jerrylex, pirata e criminale informatico aveva di certo colpito ancora. Miki si dette della stupida: se si fosse trattato di una trappola, c'era cascata in pieno come una dilettante. Fece qualche tentativo del tutto inutile e poi, per non tornare nella hall col viso imporporato dalla vergogna, visitò qualche sito di notizie nell'attesa che le passassero gli evidenti segni dell'imbarazzo. Odiava sentirsi stupida: per la rabbia ondate di calore la attraversavano e le prudeva perfino la nuca.
Stava per concludere il collegamento quando si rese conto di un messaggio i ndirizzato a lei. Non era possibile risalire al mittente che aveva usato un nome di fantasia, ma dal contenuto Miki capì che si trattava ancora di lui. Con dei giri di parole la stava avvisando che la falsa identità che la proteggeva non sarebbe durata ancora a lungo e che era una questione di ore, non di giorni. In più quello era l'ultimo giorno di permanenza in albergo, poiché i soldi versati in anticipo erano finiti. Se aveva intenzione di fermarsi ancora, avrebbe dovuto farlo a spese sue.
Miki maledisse il pirata informatico un paio di volte, a denti stretti anche se nessuno l'avrebbe sentita. D'istinto si collegò alla banca per verificare quanti soldi le erano rimasti: aveva bisogno del denaro per tornare su Apollo ed era pronta a scommettere che avrebbe dovuto fare da balia anche a Ilah. Quando vide il saldo totale le mancò il fiato. C'erano più di ventimila crediti. Una cifra enorme! Certo non proveniva dall'altalenante reddito delle sirene telasiane: per mettere insieme una cifra del genere avrebbe dovuto avere una percentuale sui ricavi di gran lunga più elevata di quella che le era stata riconosciuta. Guardò i dettagli: c'era un accredito di ventimila, tondi tondi, tutti in una volta. Il momento dell'accredito sul suo conto era... cinque minuti prima. Appena arrivati. Cominciò a capire cosa aveva combinato seguendo le istruzioni di Jerrylex. Erano parte dei soldi del colpo che lui aveva fatto ai danni della yakuza. Ebbe un brivido: sperò che quel vecchio bastardo sapesse davvero bene il fatto suo e che quel denaro fosse davvero non rintracciabile, altrimenti era già morta. Ma ventimila! Tutti per lei! Avrebbe pagato la revisione al Coyote e ne sarebbero avanzati ancora. Una ragione di più per partire immediatamente. Chiuse il collegamento cancellando le tracce dell'utilizzo di quel terminale e corse a chiamare Ilah. Era ora di tornare a casa.

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