Ogni debito... è un debito di Mannu (/viewuser.php?uid=32809)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Ogni debito... è un debito - 1
1.
Ripeté l'operazione da capo, con attenzione. Le orecchie
le scottavano e la cute le prudeva da impazzire per
l'imbarazzo. Mosse la penna ottica da un menù all'altro,
con cautela. Ma il risultato fu il medesimo. L'unica banca,
o istituzione più somigliante lì su La Tana, si rifiutava
di considerare valido il suo conto aperto presso GeoCredit. In
sostanza non riusciva ad accedere al suo ormai magro
gruzzolo: le carte di debito di GeoCredit non erano
riconosciute, non poteva usare i codici di bonifico, il
sistema le rifiutava perfino le richieste più semplici come
l'estratto conto. Era rimasta senza il becco d'un quattrino
in un posto dove per un debito anche piccolo si rischiava
di venire gambizzati per strada.
Si sentì scagliare indietro nel tempo, quando i motori
a spinta di fusione del suo Coyote giacevano smontati per
tutto il pontile del molo 15 di Apollo in attesa che lei
trovasse i soldi per farli rimettere insieme dalle squadre
di manutenzione. Gli sembrava che fossero passati anni da
quei momenti di nera disperazione, invece era trascorso
solo un mese e mezzo. Quarantacinque giorni per ricominciare
da capo, si disse guardando sconsolata lo schermo principale
del piccolo ponte di comando della sua corvetta, ormeggiata
in quella specie di baia dei pirati che era La Tana. Non
poteva permettersi di pagare ancora acqua per rimanere
ormeggiata: la sua recente disavventura l'aveva impossibilitata
a rifornirsi e la sua scorta di preziosa acqua si era
assottigliata al punto di far accendere l'indicazione
rossa “No Go” nella lista dei controlli pre-volo. Non era
grave: c'era solo lei a bordo. Avrebbe razionato l'acqua
per qualche giorno e l'allarme sulla riserva d'acqua sarebbe
tornato a un rassicurante “Go” in verde brillante.
Le autorità di La Tana le impedivano di lasciare gli
ormeggi e andarsene. Nonostante avesse pagato l'approdo
con l'acqua richiesta, proprio al momento di partire erano
saltate fuori delle tasse portuali non pagate. La faccenda
puzzava di truffa e ricatto e probabilmente era davvero
così. Non c'era molta differenza tra uno strozzino, un
mafioso e un poliziotto lì a La Tana: ciascuno dei tre
si comportava esattamente nello stesso modo. Il poliziotto
era quello con la divisa.
Così le avevano fatto capire che aveva tempo fino alla
scadenza dell'affitto dell'approdo per pagare. Quell'affitto,
pagato in acqua, era valido per otto ore ancora. Poi, immaginò
grattandosi la radice dei neri capelli crespi e ribelli,
sarebbe successo qualcosa di spiacevole per lei. Non le avevano
detto cosa, ovviamente. Per sicurezza pressurizzava tutte le
volte che usciva e, pur sentendosi parecchio ridicola,
indossava la sua goffa e spessa tuta bianca portandosi a
tracolla una bombola di aria con erogatore a maschera. Non
sapeva se ciò sarebbe bastato a difendersi dal vuoto qualora
le avessero staccato il cordone ombelicale che faceva da
passerella tra il Coyote e La Tana. Ma la tuta
EVA era improponibile: le avrebbe impedito di muoversi in
condizioni ambientali del tutto simili a quelle di
Apollo. Posso sempre fingere una insufficienza respiratoria,
si disse mettendosi la bombola a tracolla.
Uscì nel condotto flessibile pressurizzato e a gravità
zero. Lo attraversò tutto col cuore in gola, passando
davanti alla solita toppa che sibilava leggermente
lasciandosi sfuggire preziosa atmosfera dal primo giorno
che si era ormeggiata lì. Raggiunse la prima piattaforma
e si lasciò catturare gradualmente dalla gravità
artificiale. Passò attraverso i diaframmi di plastica
sporca e consumata che tanto avevano divertito Morgan
per la loro somiglianza con una vagina e finalmente fu
di nuovo sulla lunga banchina di La Tana. Ignorò
il difettoso ologramma della poliziotta che appariva ogni
volta che lei usciva dal tubo ombelicale e che la
minacciava ogni volta con le stesse parole. Si incamminò
verso l'uscita del pontile, sotto le incomplete strutture
a livelli sovrapposti che si affacciavano nel vuoto
dello spazio.
Era scesa dal Coyote ma non sapeva esattamente per
quale motivo. Non aveva più soldi, solo pochi
spiccioli. Non poteva comprare da mangiare, ma quello non
era un problema: la cambusa della sua nave era
strapiena. Senza denaro non poteva fare molte cose, su
quell'insolito approdo spaziale che aveva imparato ad
apprezzare nonostante tutto. Fino a quando aveva avuto
del contante in tasca. Ora le sembrava molto meno
apprezzabile.
Percorse corridoi e passerelle, strade grandi e affollate
di gente che gironzolava sfaccendata tra gli improvvisati
negozi e le bancarelle fino a quando non raggiunse quella
che le avevano indicato come la sede dell'unica banca di
La Tana, così sicura della sua clientela che non
aveva bisogno di farsi pubblicità né di mettere chiare
indicazioni per essere raggiunta. La sede stessa era a
stento riconoscibile come quella di una banca: uno stretto
ingresso senza insegna, aperto, dava su pochi scalini
ripidi che cadevano dentro un lungo ambiente poco
illuminato e dall'odore preoccupante. Sulla parete di
sinistra, imbrattata da graffiti fatti con vernice a
spruzzo, poche sedie diverse e malconce lasciate lì
disordinatamente. Anche queste erano state fatte bersaglio
dei graffiti e mostravano sulla seduta e sulla spalliera
i tag, la firma degli autori. La medesima parete era
interrotta da alcune finestre poste così in alto da essere
irraggiungibili e che davano sulla strada al livello
del pavimento, protette da una pesante griglia metallica
contro cui si accumulavano sporcizia e rifiuti. Attraverso
quelle finestre strette e lunghe, dai pannelli di
crilex resi gialli dalla prolungata assenza di
manutenzione, poteva vedere le gambe della gente
sforbiciare incessantemente.
Dalla parte opposta invece una spessa e robusta griglia
metallica formava una gabbia di un paio di metri di lato
intorno all'unica porta che si apriva nella lunga parete
imbrattata. La gabbia partiva dal pavimento e arrivava
fino al soffitto, ininterrotta a eccezione di un'apertura
cui si poteva accedere solo dall'interno. Sotto l'apertura
a feritoia era stato spinto un tavolo da ufficio senza
uno dei quattro piedi d'appoggio, sostituito da un
barattolo di plastica che aveva avuto la ventura di essere
alto tanto quanto il pezzo perduto. Il tavolo, sporco e
vecchio, era curiosamente sgombro. Dietro quello una
logora sedia imbottita. Dietro di essa la porta,
aperta. Un rettangolo buio al di là del quale non si
riusciva a distinguere nulla. Non c'era nessuno in vista,
né nulla che lasciasse intuire che quella, pur priva di
un nome e di una insegna, fosse una banca.
Certo, si disse lei, i clienti sono del tutto
particolari. Normale che lo sia anche la banca. Non aveva
mai visto tante facce poco raccomandabili in una volta
e quello che era successo a lei e a Morgan ne era stata
la migliore dimostrazione. Ultimamente aveva passato
molto del loro tempo a fuggire da chi voleva a tutti
i costi appendere la sua pelle a una parete.
Deglutì a forza e si costrinse a parlare.
- C'è nessuno? - ma la voce le si spezzò in gola quasi
subito e le uscì un semplice bisbiglio.
Si fece coraggio e si avvicinò alla gabbia, cercando
di convincersi che i suoi timori erano del tutto
infondati. Si pentì d'aver passato tanto tempo a
leggere la sanguinosa cronaca nera di La Tana
sul terminale di servizio della sua nave. La feritoia
era chiusa, ma dato che la porta era spalancata era
logico supporre che la banca, o qualsiasi cosa fosse
quel luogo in cui era capitata, fosse aperta. Quindi
ripeté di nuovo le medesime parole, questa volta
cercando di mantenere la voce ferma.
- C'è nessuno?
Meglio, si disse ascoltando la propria voce e
fingendo di non aver sentito la sottile crepa
che l'aveva incrinata.
Balzò all'indietro, spaventata a morte. Non riuscì
nemmeno a gridare. Un viso era apparso all'improvviso
all'interno del buio specchio della porta. Era saltato
fuori da dietro lo spigolo dello stipite. Un viso
inquietante, con un sorriso nero che sembrava andare
da un orecchio all'altro. Con uno scatto l'uomo
apparve a figura intera, incorniciato dalla porta,
il ritratto di un folle su fondo nero.
Aveva i capelli unti e scarmigliati come se avesse
dormito fino a un secondo prima sonni agitati. Indossava
un completo elegante, giacca e pantaloni grigi, una
cravatta scura allentata che sembrava stare intorno al
collo per una coincidenza, una camicia bianca abbottonata
male e col colletto stropicciato. Non calzava scarpe. Alto
e magro, l'uomo si muoveva tanto dinoccolato da
sembrare quasi l'effetto speciale di qualche
olofilm. Non le toglieva gli occhi di dosso, lucidi
di chissà che febbre o droga, e lei ebbe l'irragionevole
timore che quell'essere fosse in grado di passare
attraverso la stretta feritoia e raggiungerla. Le
sorrise in un modo così orribile, stendendo le
labbra dipinte di scuro così tanto che lei temette
gli si stesse per dividere la faccia in due. La
pelle rugosa di quel viso senza età pareva pronta
a qualsiasi acrobazia.
- Saaalve! - disse esagerando il tono allegro e
cordiale fino a farlo sembrare minaccioso. La sua
voce era stridula, una parodia della voce umana.
- In cosa posso servirla signorina?
Si chinò in avanti appoggiandosi al tavolo zoppo
con entrambe le mani. Lei indietreggiò ancora:
quella caricatura di uomo emanava un puzzo di
sudore insopportabile.
Estrasse la sua carta di credito che la GeoCredit
le aveva dato a speciali condizioni visto che versava
regolarmente discrete somme sul suo conto corrente:
i proventi delle sirene telasiane. C'era moltissima
gente che andava a vedere e a sentire cantare quelle
creature aliene e lei aveva una piccola percentuale
sugli incassi.
- Questa è una carta di credito valida... - iniziò
lei. Non era più certa di quello che stava per fare.
- Sssììì? - rispose quello trascinando quella
sillaba in salita lungo tutta un'ottava con
la sua voce acuta.
- ...della GeoCredit di Apollo e funziona
perfettamente – mentì lei cercando di darsi
importanza. Non l'aveva mai usata.
- Sssììì? - disse quello senza mutare la sua
espressione da folle, le labbra nere stirate in
un ghigno triangolare che sembrava un tentativo
di mostrare tutti i denti insieme più che un sorriso.
- Ma non riesco a caricare nessuna scheda al portatore,
né a prelevarne di nuove.
- Nooo? - inclinò la testa di scatto di lato ma
non aggiunse altro. Un pazzo, pensò. Sono finita
a parlare con un pazzo fulminato. Senza sapere
perché insistette e formulò la sua richiesta.
- Potrebbe anticiparmi del contante usando questa
carta di credito come garanzia?
- Nooo! - scattò all'indietro raddrizzandosi di
colpo e cominciò a ridere in modo sguaiato e folle,
agitando le braccia come se accogliesse gli applausi
di un pubblico inesistente. Quando cominciò a
dimenarsi troppo lei si decise ad andarsene. Non
avrebbe ottenuto nulla da quel tizio: doveva essersi
bevuto il cervello già da tempo.
Si voltò verso l'uscita, decisa a salire quei ripidi
gradini e a uscire da quel posto buio per tornare
nella relativa normalità di La Tana. Trasalì
una seconda volta e si bloccò lì dove si
trovava. Qualcosa si frapponeva tra lei e la porta e
per un soffio non era andata a sbatterci contro
in pieno.
Un secondo per mettere a fuoco, per realizzare di
cosa si trattava. La prima cosa che la colpì fu
l'altezza. La ragazzina la sovrastava e, a giudicare
dal fisico esile, doveva essere una spaziale. Poi
si sentì trapassare da due occhi di un azzurro
innaturale, chiari e freddi come il ghiaccio. Non
c'era abbastanza luce per capire se si trattava di
un doppio impianto o no. Ne aveva visti di carini
di quel colore, ma in quel viso leggermente
olivastro, giovane e un po' affilato diventavano
inquietanti.
- Michaela Patris?
Quella voce gentile e morbida stonava un bel po'
col resto: la ragazzina aveva una borchia ossea,
una punta conica di almeno un centimetro che le
sporgeva dalla fronte sopra il sopracciglio sinistro,
più vicina all'attaccatura dei dread viola che
le scendevano lunghi e curati dal cranio. Sopra
una leggera maglietta nera indossava una giacca
di finta pelle anch'essa nera e sopra di essa
una casacca militare verde oliva con le maniche
tagliate. Sotto l'ombelico scoperto cominciavano
un paio di pantaloncini neri aderenti, in grado
di celare appena l'elastico delle mutande,
visibile in rilievo. Calze a rete gialle rotte
in più punti e stivali anfibi tinti maldestramente
di rosso e con la punta rinforzata da metallo
nudo e graffiato ne completavano la figura. Un'altra
pazza, pensò. Ma stavolta non c'era nessuna
gabbia in mezzo.
- Non so chi sia – le rispose aggirandola ostentando
decisione. Si aspettava che quella si muovesse per
sbarrarle il passo, che l'aggredisse. Ma non accadde
nulla. Lei, pronta a scattare confidando nella sua
maggiore robustezza e forza fisica, si diresse
verso le scale, verso l'uscita.
- Chissà perché ti immaginavo più magra, Miki.
Strinse i denti. Se voleva farla incazzare era
sulla strada giusta. Quella tuta imbottita non
giovava affatto alla sua figura, tutt'altro che
snella. Lo sapeva bene e odiava infilarcisi dentro. Si
era osservata brevemente prima di lasciare il
Coyote: vestita così sembrava avesse i
fianchi larghi come una portaerei e un culo
grande come una piattaforma d'attracco.
Fu tentata di mandarla bruscamente al diavolo,
ma si trattenne. Salendo i gradini si spaventò
al pensiero che poteva esserci in agguato un
complice o magari tutta una banda. Avrebbero osato
aggredirla in mezzo alla gente? Temeva di sì. Ma
uscì senza incidenti, con la sconosciuta che la
tallonava da vicino. Le gettò uno sguardo
rapidamente. Camminava con le mani in tasca e
i segni scuri intorno agli occhi non erano le
ombre dovute alla scarsa illuminazione del tetro
locale appena abbandonato. La ragazzina si
divertiva a truccarsi di scuro: occhi e labbra
erano carichi di cosmetici cupi. Il rossetto,
applicato con negligenza, aveva bisogno di una
ripassata. Si consolò constatando che sotto
la luce un po' più intensa di quel livello di
La Tana il viso della ragazza, armato
di quegli occhi azzurri taglienti, sembrava
ancor più giovane e molto meno aggressivo.
- Dove andiamo di bello?
Miki si fermò e si voltò verso la ragazza,
alzando lo sguardo per raggiungere gli occhi. Spinse
dietro la schiena la bombola dell'aria che
le stava dando veramente noia. La mascherina
trasparente cadeva in continuazione e
quindi l'aveva legata intorno alla valvola
della bombola usando il piccolo tubo flessibile
che le univa. Con quel gesto brusco cercò di
arginare l'ira: era possibile che quella
spilungona fosse una provocatrice e non
intendeva cadere nel suo tranello.
- Dove vado io a te non interessa – e le fece un
inequivocabile gesto con la mano, per invitarla
a procedere per la sua strada. Lontano da lei,
ovviamente. Non aspettò la risposta: le diede
le spalle e scelta una direzione a caso, si
incamminò a passo spedito.
- Non credo che ti convenga andare troppo a
spasso, Miki – la sentì dire con supponenza
alle sue spalle – hai sei ore e cinquantadue
minuti per trovare milleduecento crediti. Soldi
che non hai.
Miki si piantò su due piedi lì dove si trovava
e si voltò verso la ragazza. Si sentiva avvampare
in viso, ma non era collera. Era paura. Forse
che quella sciacquetta dai capelli viola e la
faccia da schiaffi era stata mandata dai
mafiosi che le stavano chiedendo il pizzo
giù al porto? Poteva essere. Era chiaro che
si sarebbero fatti vivi di persona, prima o
poi. Sentì le ginocchia diventare molli:
forse la ragazzina era armata. Aveva ancora
le mani nelle tasche della casacca militare,
grandi abbastanza da occultare una piccola
pistola automatica. Aveva visto spesso
negli olofilm come fosse possibile tagliare
la fodera di una tasca per renderla
comunicante con un'altra sottostante. La
prima sembrava vuota, ma infilandoci dentro
una mano si poteva accedere al contenuto
dell'altra. Nel caso degli olofilm una
piccola pistola automatica, appunto. La
tipa, che la stava guardando sorridendo
all'effetto avuto dalle sue parole su di
lei, indossava due giacche una sopra
l'altra. Miki concluse che doveva essere
armata davvero.
Che fare? Resistere? Fuggire? Stare al gioco
fino alla fine della recita? Non sarebbe
stato sensato ucciderla, non avrebbero avuto
i soldi. Ma il pensiero che si trattasse
solo di intimidazione non la rincuorò
affatto. Ci stavano riuscendo bene.
- E tu che ne sai? - un istante dopo aver
pronunciato quelle parole Miki si rese conto
che esse consegnavano la vittoria tra le
mani della sconosciuta. La guardò mentre la
raggiungeva, camminando con le mani in tasca:
la gente che transitava intorno a loro non la
degnava di uno sguardo mentre invece si
soffermavano sulla sua tuta bianca immacolata
e probabilmente anche sulla bombola d'aria
con la mascherina che penzolava.
- Abbastanza da poterti aiutare.
La squadrò bene in viso. Ecco qualcosa che
non si aspettava. Pensò immediatamente a una
truffa un poco più elaborata: impossibile dire
se fosse sincera oppure no.
- Ma fammi il piacere... - Miki fece per allontanarsi.
- Dico sul serio – le rispose quell'altra,
quasi lamentandosi.
- Sì, come no.
- Davvero! - esclamò raggiungendola con due
falcate. Gli anfibi slacciati facevano rumore
sul pavimento eterogeneo di quel tratto di
strada. Sentendosi per la prima volta in
vantaggio, Miki osò partire al contrattacco. Di
nuovo si fermò e affrontò la giovane cercando
di sembrare più risoluta che poteva.
- Senti, non so chi tu sia, perché ce l'hai
con me, come mi hai spiata... ma se sai così
tante cose su di me, sai anche che non ho un
soldo. Quindi è perfettamente inutile che mi
stai addosso. Non posso darti nulla. Nulla di
nulla!
- Hey, ma sei sempre così acida o è qualcosa
che hai mangiato? Ho detto che ti aiuto, ti
fa così schifo?
- A un prezzo?
- Diciamo che è uno scambio – disse quella
togliendo le mani di tasca per la prima
volta. Miki notò immediatamente le unghie
verniciate di nero, lunghe e molto affusolate.
- Ah, ecco... - la interruppe.
- Io faccio un favore a te, tu ne fai uno a me.
- Qualcosa di illegale, suppongo.
- La legalità è un'opinione – ribatté la
giovane sorridendo – ma ti assicuro che
stavolta non pretendo nulla di particolare,
davvero.
- Stavolta?
La giovane si morse le labbra volgendo
intorno i suoi occhi chiarissimi. Aveva
sbagliato una mossa, era evidente.
- Non è la prima volta che mi vengo a trovare
in questa situazione... normalmente non fermo
la gente per strada offrendo il mio aiuto –
disse gesticolando con le mani.
- No, eh? - la incalzò Miki.
- Diciamo che siamo tutte e due nella
merda, per motivi diversi ma... come
dire... simili?
- Vai avanti...
La ragazza bilanciò meglio il proprio peso
sulle gambe allargando i piedi chiusi negli
anfibi rossi senza stringhe, come se si
stesse mettendo comoda per fare un discorso
lungo.
- Ecco, tu sei nei guai: sei senza
soldi. Anche io sono senza soldi. Tu
devi soltanto pagare e sei a posto. Io...
ehm... io no. Tu hai un'astronave e a me
farebbe molto comodo, ora.
- Ah, ecco. Beh, sì... tutto perfetto. A
parte il fatto che messe insieme non abbiamo
altro che spiccioli in tasca, giusto? -
obiettò Miki – Il Coyote non è in
vendita, carina – aggiunse seccamente,
voltandosi per andarsene.
- Aspetta, non hai capito! - la rincorse quella.
- Ah, no? Io direi di sì – Miki aumentò
l'andatura sperando che quella importuna
ragazzina si stancasse di correrle dietro. Ora
che sapeva di non essere più in pericolo
immediato e che quella era una sbandata come
tanti altri lì a La Tana, non c'era
più motivo di starla a sentire.
- No invece! E fermati, cazzo! Vuoi fermarti
un momento? Ti sto parlando!
- Io no!
- Uffa! Sei stizzosa come... come una contadina
di Mu2 in astinenza! Se non ti diverti non è
colpa mia, che cazzo!
Miki fece ancora un passo, incerta se ignorare
la ragazzina oppure no. Ma doveva esserci del
testosterone maschile da qualche parte nel suo
sangue. Sentì che non poteva lasciarsi parlare
così da una mocciosa che non aveva ancora finito
di succhiare il latte dalle tette della mamma. Si
fermò e l'affrontò per l'ennesima volta. Con le
mani sui fianchi la squadrò per un lungo istante
e poi sbottò.
- O.K., stronzetta: prima cresci un po' e poi
vieni a parlarmi di uomini. E adesso vattene fuori
dai coglioni!
- Ma certo! E quando verranno a toglierti la
pelle perché non paghi io starò lì a guardare! -
berciò l'altra con un ghigno cattivo mentre
incrociava le braccia. Miki sbuffò rumorosamente,
ma non ribatté.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Ogni debito... è un debito - 2
2.
Era stata in giro abbastanza a lungo da aver perso
tutte le speranze. Non sarebbe riuscita a mettere
insieme tutti quei quattrini in tempo. Aveva provato
a cercare un lavoro veloce, ma le avevano proposto
una truffa telematica. Aveva provato a vendere parte
delle provviste che aveva a bordo del Coyote, ma
apparentemente nessuno era interessato alle derrate
alimentari per il viaggio di un'astronave. Senza
che avesse messo in giro esplicitamente la voce, le
si erano presentati diversi strozzini offrendo
ciascuno i propri discutibili servizi. Li aveva
individuati subito tutti, aveva esperienza in quel
campo.
Temeva quello che stava per fare, ma non credeva di
avere troppa scelta. Ancora un'ora e sarebbe scaduto
l'affitto dell'approdo. Sarebbe venuto il momento di
pagare i soldi della tangente e andare via. Avrebbe
dovuto tentare un'azione di forza. Le dolevano le
budella dalla paura al solo pensiero. D'accordo,
finché rimaneva vicina a La Tana nessuna astronave
avrebbe aperto il fuoco su di lei. Ma non poteva
starsene lì fuori per sempre. Poi non aveva nemmeno
una garanzia che non sarebbero state proprio le armi
di quell'incrocio fra astronave e stazione spaziale
ad aprire il fuoco su di lei.
Scacciò di malavoglia ogni lugubre pensiero,
concentrandosi sulla cosa più facile da fare. Anzitutto,
tornare a bordo della sua corvetta. Fece un largo
giro per arrivare fino al suo punto di attracco,
per vedere se qualcuno la stava seguendo. Era stata
minacciata da uno degli strozzini e la prudenza
non era mai troppa. Ma non notò nessuno e concluse
che certi trucchi funzionano solo nei romanzi. Appena
giunse in vista dell'ingresso del tubo ombelicale
pressurizzato, si accorse della presenza di una figura
nota. Strinse i denti: appollaiata su un largo parapetto
a poca distanza dal suo approdo c'era la ragazza dai
dread viola chiaro. La stessa che si era offerta di
aiutarla e che aveva dimostrato di averla spiata quel
tanto che basta da conoscere tutti i suoi
problemi. Cominciò a pensare che come ultima spiaggia
non era da scartare, ma subito passò in rassegna
tutti i possibili rischi che avrebbe corso. Aveva
solo bisogno di una piccola spinta e sarebbe affondata
e probabilmente quella ragazzina intendeva approfittare
di ciò.
I loro occhi si incrociarono e Miki la vide sorridere,
alzare una mano e agitarla in segno di saluto. Aveva i
capelli simili a serpenti rosa buttati all'indietro;
la borchia ossea sulla fronte sgombra scintillò. Contrariamente
a quanto si aspettava non saltò giù dal corrimano per
venirle incontro. Eppure era certa che non fosse lì
per caso. Decise di ignorarla e si infilò dritta
nella stretta camera di equilibrio del condotto
pressurizzato flessibile che univa il Coyote a La
Tana.
Giunta al portello sollevò il braccio sinistro e
scostò la manica della tuta scoprendo la pulsantiera
di comando, a forma di bracciale lungo e stretto. Sfiorò
i tasti che comandavano la pressurizzazione della camera
di equilibrio della sua corvetta, ma non accadde
nulla. Il piccolo ologramma rosso che il bracciale
proiettò a pochi centimetri di distanza fu come una
doccia fredda. “Accesso negato”.
Miki riprovò più volte, furiosa. Galleggiava priva di
peso in un tubo ombelicale vecchio, lurido e bucato,
aveva un debito indesiderato di milleduecento crediti
con una organizzazione criminale di chiaro stampo mafioso
e adesso era perfino chiusa fuori dalla sua astronave. Stentava
a credere che le stesse succedendo tutto questo. Poi ebbe
improvvisa una ispirazione: rivide con gli occhi della mente
la ragazzina seduta sul parapetto che le sorrideva
smorfiosa. Concluse in meno di un battibaleno che quella
stronzetta ne doveva sapere qualcosa.
Si precipitò più velocemente che poté lungo il tubo
flessibile, dimentica perfino della paura che potesse
squarciarsi da un momento all'altro e catapultarla nel
vuoto dello spazio a causa della piccola perdita chiusa
maldestramente dalla toppa. Tornata sul pontile cercò
immediatamente la ragazzina e la trovò proprio dove
l'aveva lasciata. Le andò incontro a grandi passi
attraversando decisa l'ologramma difettoso della
poliziotta, scattato nuovamente a vuoto. Era decisa a
farsi valere. La vide scendere dal parapetto,
un'espressione strafottente stampata sul viso.
- Sei stata tu! - le sibilò contro. Era troppo alta,
non sarebbe riuscita a intimidirla semplicemente
fissandola negli occhi.
- Certo. Sono bravina con queste cose.
- Restituiscimi il controllo della mia nave! - cercò
di non alzare troppo la voce: non era il caso di
attirare l'attenzione.
- Mi prendi a bordo con te?
- Cosa? Non se ne parla nemmeno!
La ragazzina incrociò le braccia sul petto e cominciò
a guardarsi intorno ostentando finta indifferenza. Avrebbe
voluto cancellarle dalla faccia quel sorriso provocatorio
a forza di schiaffi.
- Vado dalla polizia portuale – minacciò con voce
asciutta.
- Ah, gli stessi che ti hanno chiesto di pagare il
pizzo... che gli dici? Che sei rimasta chiusa fuori?
Fu un duro colpo per Miki. A quanto pareva la stronza
ne sapeva una più di lei. Si arrese.
- Che cosa vuoi esattamente? - chiese, sconfitta. Sentì
le spalle incurvarsi un po' in avanti e si risollevò
subito.
- Andare via di qui. Questo posto è diventato troppo
stretto e caldo per me. Prendimi a bordo e scappiamo
su Prometeo o su Apollo.
- Non ho i soldi per partire – replicò subito.
- Questo non è un problema – disse la ragazzina
sorridendo beffarda.
Aveva imbarcato un mostro. Un fottuto genietto,
ecco cos'era. Si era interfacciata alla rete di
La Tana collegandosi al sistema principale
della sua corvetta usando un adattatore e due piastre
craniche a contatto. Aveva la nuca rasata e tatuata
con uno strano disegno che le scendeva lungo il
collo per scomparire sotto gli abiti. Le sembrò
un'astronave. Lì aveva appoggiato le piastre che
le garantivano il contatto con quelle che evidentemente
aveva installate sotto l'epidermide del cranio. Aveva
il cervello cablato, la piccola. Una volta dentro il
computer del Coyote era balzata fuori a una
velocità impressionante assaltando la rete della
stazione viaggiante. Dopo trenta secondi era già
alle prese con i sistemi difensivi della banca e
dopo un minuto stava deviando dei fondi. Miki, che
capiva qualcosa di cyber-crimine, riconobbe almeno
due schemi di attacco diversi portati avanti
contemporaneamente ad altre operazioni complesse
che lei non era nemmeno in grado di capire a cosa
servissero. La guardò in viso: alla luce ambiente
della sua nave, netta e più intensa di quella della
stazione, vide il volto di una bella ragazzina dagli
occhi obliqui e leggermente a mandorla, con un
impertinente nasino all'insù. Aveva le labbra carnose
dipinte maldestramente di nero e un poco schiuse a
mostrare i denti bianchi e regolari. Le palpebre
truccate con colori cupi erano quasi del tutto
abbassate a mostrare solo una sottile falce
bianca. Aveva già notato la lucida borchia ossea
sulla fronte e in posizione simmetrica una curiosa
cicatrice tonda; probabilmente le borchie avvitate
dentro le ossa del cranio erano state due e quella
a destra doveva essersi spezzata. Dopo pochi minuti
poté constatare che quel mostriciattolo aveva
terminato di coprire alla perfezione le tracce
della sua incursione e stava già tornando
indietro.
- Fatto – disse destandosi dalla trance del
cyberspazio in un battito di ciglia. Miki sentì
l'invidia stringerle il petto: lei aveva bisogno
di diversi minuti solo per riprendersi dai porno
VR che usavano un banale stimolatore corticale
per darle le blande sensazioni tattili. La vide
dare uno strattone ai cavi delle sue piastre e
quelle si staccarono e le caddero sulle spalle,
in mezzo ai lunghi dread viola. Arrotolati i cavi
intorno all'adattatore in modo piuttosto negligente,
infilò tutto quanto nella tasca della mimetica.
- Passerà un bel po' prima che si accorgano
di qualcosa, ma meglio andarcene via subito. Non
si sa mai.
- Hai rimesso a posto i codici di ingresso
alla camera di equilibrio? - le chiese, ansiosa
di veder sistemato quell'importantissimo
dettaglio. La ragazzina sbuffò annoiata.
- Seee, seee... l'ho fatto, tranquilla!
- Sarò tanto più tranquilla quanto più
lontana starai dal ponte di comando.
- Ponte di comando? Questo stanzino?
- Fuori. Devo salpare – le ingiunse Miki, decisa. Chi
denigrava il Coyote non aveva diritto a
occupare il sedile del comandante.
- Non vuoi una mano?
- Sai eseguire le manovre? - chiese lei
retorica.
- No... sono così difficili?
- Fila via. Qua comando io – ma non ne era più
sicura. Al pensiero di ciò che la ragazzina
poteva fare con un terminale, non avrebbe più
dormito tranquilla fino a quando non l'avesse
sbarcata da qualche parte.
Stentava a crederci: stava finalmente lasciando
La Tana. Con tutto quello che le era
successo, non poteva che esserne felice. Eppure
un po' le dispiaceva: l'avventura con Morgan,
ora che se l'era lasciata alle spalle, sembrava meno
spaventosa e più rocambolesca. Si chiese se
avrebbe mai trovato qualcuno disposto a credere
a tutto ciò che aveva da raccontare.
La manovra di abbandono dell'ormeggio era
andata alla perfezione: ormai ci stava prendendo
la mano e le sembrava di aver passato tutta la
vita al timone di un'astronave. In realtà erano
stati il computer di bordo e Controllo di La Tana
a portarla fuori, ma lei aveva supervisionato la
manovra minuto per minuto, mantenendo tutto sotto
controllo. Si sentiva soddisfatta. L'ultima cosa
da sistemare era quell'indicazione “No Go” di fianco
all'indicatore dell'acqua potabile. Ma sarebbe
bastato razionare il prezioso liquido e forse ancora
prima di giungere ad Apollo l'allarme sarebbe
rientrato. Lasciò il computer alle prese con una
rotta di allontanamento standard e si alzò dalla
poltrona di comando per andare a sdraiarsi un
po'. Sarebbe stata necessaria quasi un'ora per
raggiungere una posizione ottimale per passare
alla velocità FTL. L'ultima cosa che desiderava
era iniziare il viaggio con una collisione.
Percorse il breve tratto di corridoio spinale
che la separava dalla sua cabina, già pregustando
il tepore della sua morbida cuccetta speciale. La
sua cabina era la più grande di tutte e anche...
occupata! Guardò incredula il suo nuovo equipaggio
sdraiato sopra le coperte, vestito di tutto
punto. Le suole degli stivali anfibi avevano già
sporcato la coperta termica. Come se non bastasse
quell'impertinente aveva alzato di un bel po' la
temperatura della cuccetta e dormiva un sonno
apparentemente piuttosto profondo. L'aveva persa
di vista per soli venti minuti, più o meno.
Miki si sentì avvampare le guance di rabbia. Era
nel suo letto! Inconcepibile. Lo aveva fatto apposta,
non c'era dubbio. Il Coyote non era così grande
da non poter trovare il bagno o un letto in caso di
emergenza. Non c'era alcuna necessità di usurpare la
branda altrui. La squadrò per un lungo momento: era
alta ma esile e non sembrava più pesante dei manubri
che era solita alzare in palestra. Non aveva ancora
cambiato la gravità artificiale dall'ultima volta, ma
anche impostata a undici decimi sollevare di peso la
ragazzina e scaraventarla da qualche parte non
sarebbe stato un problema.
Fece un passo in avanti intenzionata a mettere in
atto ciò che stava pensando, ma si fermò subito. Le
sembrò un atto eccessivo: tutto sommato le aveva
appena saldato un debito di milleduecento crediti
nei confronti dei mafiosi di La Tana, gente
senza nome né volto né coscienza. Stizzita, non le
rimase altro da fare che afferrare il suo riproduttore
VR portatile e andarsene negli alloggi dell'equipaggio.
Qui scoprì che Morgan aveva fatto in tempo a occupare
una cuccetta e a lasciarla sfatta. Ingoiato anche quel
rospo Miki rassegnata si dedicò a riassettare tutto
quanto il suo ex disordinato compagno di avventure
aveva lasciato a soqquadro.
Era sdraiata finalmente e stava armeggiando con le
memorie del suo lettore VR quando sentì dal ponte di
comando il segnale di chiamata. Malvolentieri si lasciò
scivolare fuori dalla cuccetta che aveva appena
cominciato a scaldarsi e scalza com'era si precipitò
a rispondere. Si stava chiedendo chi poteva mai
essere e quando vide lo schermo dei sensori ebbe
un sospetto: il contatto era della stessa classe
dell'astronave che l'aveva pedinata fino a La Tana.
- Coyote – disse abbandonandosi nella poltrona
di comando e iniziando formalmente la conversazione
come voleva il protocollo. Non c'era collegamento video
ma ugualmente chiuse un po' il velcro della sua camicia
da astronauta.
- Ferma i motori e consegnaci la ragazzina. Non fare
l'eroe, non ti conviene.
Prima che potesse capire il significato di quelle
parole sentì la poltrona cui era tanto affezionata
vibrare leggermente sotto le sue natiche e contemporaneamente
vide accendersi numerose spie di allarme, gialle e rosse. Dopo
il primo istante di terrore Miki gettò immediatamente le mani
sui comandi per cercare di capire cosa stesse succedendo. Aveva
una perdita di pressione nella stiva principale che si era
dimenticata di decomprimere. Le pompe dell'aria funzionavano
ancora e le azionò immediatamente nel disperato tentativo di
salvare tutta l'aria possibile. Tacitò altri allarmi: aveva
danni a diversi sistemi secondari, ma nulla di irreparabile. Poteva
ancora navigare. Ovviamente non aveva dubbi su cosa era
successo: per quanto inconcepibile le potesse sembrare,
le avevano sparato qualcosa addosso. Istintivamente fermò
i motori e lasciò che il Coyote procedesse per
inerzia. Il pensiero del plasma che abbandonava i condotti
di alimentazione dei motori la tranquillizzò: la sua non
era certo una nave da battaglia, non poteva incassare
proiettili esplosivi e pretendere di volare senza
problemi. Una minima perdita di plasma avrebbe potuto
significare il disastro. Lanciò subito la diagnostica
dell'intero sistema.
Pensò di inoltrare immediatamente una chiamata di soccorso
sul canale standard delle forze di polizia, ma si rese
conto di avere troppa paura per farlo. Era a circa tre
unità astronomiche dalla Terra e nel tempo che i soccorsi
avrebbero impiegato per giungere fin lì, se mai fossero
partiti, di lei e della sua nave sarebbe rimasto ben
poco. Era in balia di quegli sconosciuti. Perché non
era a bordo del Raja insieme ai suoi amici? L'avrebbero
protetta. Quella pazza di Cuba, la IA della Vortex
Procellae, aveva svariati gigawatt di armi a bordo:
perché non era lì con lei adesso? Strinse i denti fino
a farli scricchiolare: le venne in mente anche il Secondo
del Raja, e sentì scaldarsi il petto. Pensò a quel suo
modo di fare rassicurante, al suo sguardo placido ma
deciso e immaginò il calore del suo petto ampio e
forte. Lui l'avrebbe protetta.
- Hai spento i motori.
Miki sobbalzò nella sua poltrona. Nello specchio del
portello di accesso al ponte di comando era apparsa
improvvisamente la ragazzina. Le labbra tinte di scuro
spiccavano drammaticamente sul volto sbiancato dalla
paura. I dread colorati di viola le ricadevano
disordinati dandole l'aspetto di una bambina spaventata
a morte.
- Li conosci? - le chiese indicando la traccia sullo
schermo del radar di poppa.
- Vuoi consegnarmi a loro? - fu la risposta della
ragazzina che si teneva aggrappata con una mano alla
paratia come se non riuscisse a stare in piedi da
sola.
- Ci stavo proprio pensando: mi hanno appena sparato
addosso! - esclamò Miki pensando di aver trovato
qualcuno con cui dar sfogo alla sua paura. Ma di
fronte allo sguardo liquido di quegli occhi sgranati
dallo spavento dovette aggiungere immediatamente di
non stare dicendo sul serio. Gli strumenti le segnalarono
una comunicazione in ingresso, ma non volle
rispondere. Aveva paura di udire nuove minacce. Poi,
come un'improvvisa illuminazione, le venne in
mente un'idea.
- Cosa stai facendo adesso? - le chiese la ragazzina
vedendola armeggiare freneticamente con i sistemi
energetici di bordo. A prima vista sembrava che avesse
intenzione di far saltare tutto: chiunque si sarebbe
preoccupato vedendo i pannelli di comando illuminarsi
di rosso.
- Vai a legarti in cuccetta: sto per attivare la
propulsione FTL in un modo un po' brusco.
- Fossi matta. Sto qui con te.
- Vai dietro, ti dico. E non nella mia cuccetta,
eh! - la incalzò mentre le sue mani danzavano veloci
sugli strumenti e i suoi occhi saettavano da uno
schermo all'altro.
- Non se ne parla. Ti do una mano.
Prima che Miki riuscisse a voltarsi, la giovane
aveva applicato alla propria nuca rasata le piastre
gemelle e stava armeggiando con la sua interfaccia
di connessione.
- Cosa stai facendo? Staccati dal computer, mi serve
per calcolare una rotta!
Per tutta risposta quella strizzò gli occhi e
piegò la bocca in un'espressione di dolore. Poi
con un gesto di stizza rimosse le sue piastre di
connessione.
- Questa merda di nave non ha un impianto di
trasmissione degno, non riesco nemmeno a connettermi
a loro!
- Questa merda di nave tra poco ti salverà il culo –
disse Miki risentita. Stava inserendo le coordinate
col cuore in gola. Non aveva tempo di controllarle e
sperò con tutto il cuore che i sistemi di sicurezza
e di controllo della navigazione della sua nave fossero
adeguati.
- Cos'hai intenzione di fare? - le chiese la ragazzina
petulante. Era davvero spaventata e Miki si sentì forte
per questo, anche se il solo pensiero di essere fatta
nuovamente bersaglio di qualche tipo di arma le faceva
tremare i polsi e lo stomaco.
- Tre balzi FTL consecutivi. Aggrappati.
Miki azionò i motori comandando direttamente il
passaggio alla velocità FTL. Gli smorzatori inerziali
del Coyote ressero il colpo a stento e molte
sollecitazioni furono trasmesse allo scafo e ai suoi
occupanti. Miki si era sentita strizzare il corpo
dalle cinture che la legavano alla poltrona del
comandante e la ragazzina era ruzzolata a terra. Il
primo salto durò quasi un minuto per via della enorme
quantità di plasma accumulata nel distributore a
geometria variabile del Coyote. Cercò di
uscire dalla velocità FTL nel modo meno brusco
possibile ma aveva fatto male i conti col plasma:
se avesse decelerato normalmente non le sarebbe
rimasta energia sufficiente per eseguire il secondo
salto abbastanza rapidamente. Perché quella strategia
fosse efficace, avrebbe dovuto saltare molto in
fretta. Quindi decelerò più rapidamente che poté
mandando nuovamente a gambe all'aria la ragazzina
che si era appena rialzata da terra.
- Resta giù! - le gridò per superare il clacson di
allarme che le indicava l'eccesso di plasma nel
sistema di alimentazione dei motori. Poi passò
nuovamente alla velocità FTL.
Lo scossone fu così brusco che tutto vibrò e le
luci ambientali rimasero spente fino a quando il
computer interruppe da solo l'alimentazione ai
motori poiché erano state raggiunte le coordinate
di destinazione. Il secondo salto ebbe una
conclusione più dolce, ma aveva risparmiato
plasma a sufficienza per il terzo e ultimo
balzo.
- Aspetta! - la implorò la ragazzina supina
sul pavimento, freneticamente in cerca di un
appiglio. Ma Miki comandò immediatamente l'ultimo
salto.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Miki & Ilah - 3
3.
- Dove ti trovi ora?
Premette meglio l'auricolare del microfono a
bastoncino e prima di rispondere dette uno
sguardo intorno a sé.
- NS-EF14... è un po' buio, qui.
- Per forza, lì è saltata sia la forza motrice
che l'illuminazione – la voce della ragazzina
le giunse forte e chiara. Probabilmente raggiunta
quella nuova posizione si era finalmente spostata
all'interno del campo di un'antenna funzionante.
- Merda – commentò cercando tra gli attrezzi che
portava appesi al cinturone. Si trovava all'interno
di uno dei condotti di manutenzione della sua corvetta,
la quale dopo il terzo e ultimo salto a velocità FTL
aveva alzato bandiera bianca. Il computer aveva ridotto
al lumicino la produzione di plasma azzerando o quasi
il ciclo di Stanton e isolato tutti i condotti di
alimentazione dei motori che giacevano ora
inerti. Tutto il Coyote era surriscaldato e non
c'era un angolo dove mancasse qualcosa da riparare
o revisionare. Ciononostante la sua corvetta stava
filando per inerzia a cento milioni di metri al
secondo.
Lucida di sudore per il calore e per la fatica che
stava facendo nell'angusto condotto di manutenzione,
seguì le indicazioni che riceveva dal ponte di comando
tramite la radio e le luci si riaccesero balbettando.
- Bel colpo, è tornata la luce – commentò con tono
piatto.
- Miki...
- Che c'è? - chiese lei sospirando. Dal tono della voce
intuì quale piega la conversazione stesse per prendere.
- Sei ancora incazzata con me?
Roteò gli occhi verso il soffitto continuando a trafficare
dentro il pannello di ispezione. Seduta dentro l'angusto
condotto di manutenzione, la ventilazione azzerata da
un guasto, sudava copiosamente nonostante fosse coperta
solo dai pantaloni da lavoro e dalla sua canottiera
preferita: era completamente nera con una grande
ragnatela bianca stampata davanti, al di sotto di
una piccola scritta che recitava “vedova nera”. Aveva
legato i capelli con la guaina tolta da un cavo
elettrico che si era bruciato a causa di un corto
circuito, ma ciocche ribelli le sfuggivano in
continuazione e la infastidivano appiccicandosi
al viso.
- Ma cosa dici... solo perché mi hai detto che sono
“stronza e uterina”?
- Ma scusa, tu mi hai accusata di essere un
parassita della società!
- Ah, sì... dev'essere stato quando mi hai detto
che ho le tette grosse come il culo.
Dall'auricolare le giunsero dei fruscii confusi.
- Non strofinare il microfono, carina... non
sento quello che dici – la apostrofò Miki con
un ghigno.
- Non ricominciamo a litigare, Miki... okappa?
- Va bene... - disse lei condiscendente. Dopotutto
le stava dando un grande aiuto con le riparazioni. Ilah,
come le aveva detto di chiamarsi, aveva un vero
e proprio dono per quanto riguarda l'informatica. In
un paio d'ore si era totalmente impadronita
del sistema di manutenzione e controllo danni
del Coyote, al punto da riuscire a
individuare un guasto con estrema rapidità.
Aveva anche una spiccata propensione per
litigare. Era insopportabile, petulante, arrogante,
presuntuosa. E anche un po' svitata: riusciva a passare
con sconcertante facilità da una feroce litigata
a una disinvolta confidenza. Aveva trascorso l'ultima
mezzora parlandole di sua nonna che, da come la
descriveva lei, avrebbe anche potuto essere una
divinità greca. Decise quindi di approfittare di
un momento di silenzio che si era creato e che
pesava in modo quasi imbarazzante: forse a Ilah
si era finalmente seccata la lingua.
- Ilah?
- Sì, Miki?
- Che nome è il tuo? Non l'ho mai sentito prima.
- Sarebbe Ilaheva... ma io preferisco Ilah. Quella
svitata di mia madre non mi ha mai detto di cosa si
era fatta il giorno che l'ha pensato. Mi ha fatto
tutto un discorso su una antichissima divinità...
- Un'antica dea dell'amore?
- No, veramente direi proprio di no... mi pare
di ricordare che fosse figlia di un verme mitologico,
ma non so dirti nulla di preciso. Mia mamma a
discorsi strampalati non la batte nessuno. Non le
sto dietro per niente!
Un verme mitologico, pensò con sorpresa. Ma non
molta.
- A proposito, com'è che i tuoi ti lasciano andare
in giro a ficcarti nei guai al punto che ti tocca
scappare?
- Proprio dai miei sono scappata la prima volta. Da mio
padre, per la precisione.
Miki si rabbuiò, nonostante il tono allegro di
Ilah. Detestava chi abusava dei propri figli,
soprattutto delle figlie. Suo padre era stato del
tutto assente, ma era convinta che anche uno troppo
presente fosse altrettanto dannoso.
- Ah, sì? - disse esortandola a continuare.
- Sissì... mi aveva proprio rotto, stressandomi tutti
i giorni con i suoi “vai a scuola”, “studia”, “vestiti
bene”, “non dire parolacce”, “lascia perdere quei drogati
dei tuoi amici” eccetera. Così un bel giorno gli
ho mostrato il segno internazionale del disprezzo
e me ne sono andata.
Miki pensò al carattere di Ilah e spostò il pensiero
sulle ginocchia che le uscivano dalle calze a rete gialle,
rotte. Non stentò a credere che il padre di Ilah avesse
pienamente ragione. Si chiese quale potesse essere il
segno internazionale del disprezzo, ma poi pensandoci
bene pensò di averlo individuato.
- Ma come? La tua famiglia! E la scuola? E tutto il
resto?
- Vuoi sapere della mia famiglia? Non ho perso proprio
nulla: quella scema di mia madre passa tutto il tempo
a cercare informazioni sui flussi energetici cosmici,
sui poteri terapeutici delle pietre lunari esposte
al vento solare e a pregare divinità galattiche
onnipotenti che però non riescono a tirarla fuori
dalla merda in cui vive. Si è anche fatta buttare
fuori da due diversi posti di lavoro. E mio
padre? Crede di essere lui quello con i pantaloni
a casa e invece non è capace di dire altro che “sì”
a mia madre e “no” a me, credendo che ciò significhi
essere marito e padre. E la scuola, tu dirai...
Non poté fare a meno di rammaricarsi per ciò che
stava sentendo: il tono di Ilah era davvero
risentito.
- La scuola – continuò la ragazza parlando velocemente -
è un posto dove si viene omologati da perdenti, dove
se hai un'idea te la uccidono sul nascere, dove se
hai un talento qualsiasi riescono a farti passare
la voglia di coltivarlo. Ma non mi sono fatta
macinare nel loro tritacarne. Ah, no!
Pensò che la verità poteva avere sfumature ben
diverse. Aveva già notato la tendenza di Ilah a non
considerare molto i punti di vista diversi dal suo.
- Segno internazionale del disprezzo anche per loro? -
interloquì.
- Ma certo! Avessi visto le loro facce quando... hey,
non avevi detto che questa era una zona tranquilla?
- Sì che lo è. Siamo nei pressi dell'orbita di
Urano e il bel gigante azzurro è in opposizione. Non
c'è proprio niente, qui – disse sospettosa. Ne aveva
abbastanza di sorprese.
- Beh, per un attimo qui è apparso qualcosa...
- “Qui” dove?
- Dove c'è scritto “Sistema dei sensori FTL” -
ribatté prontamente Ilah. Evidentemente aveva
imparato anche come funzionava il sistema MFD
del pannello principale: era in grado di passare
in rassegna le schermate dei diversi sistemi di
bordo.
- Stai frugando nel computer della nave? - la
apostrofò con tono di rimprovero.
- Ci metti un secolo a riparare ogni singola cazzata...
mi annoio! Stavo solo guardando. Eppoi non serve
che ti scaldi: è tornato tutto come prima.
Ah, io non mi devo scaldare mentre la signorina
“genio” può sputare acido quando vuole e su chi vuole,
pensò stufa di quel tono. Le sembrò che Ilah avesse
bisogno di una lezione di umiltà, come minimo. Quindi
strinse le labbra e cercò di pensare bene a cosa dire
per evitare ulteriori attriti. La litigata di prima
non era stata piacevole: per un paio di volte era stata
tentata di stringere le mani intorno al collo di
quell'antipatico mostriciattolo dai capelli viola
chiaro.
- Sarà stata una nave di passaggio... non siamo poi
così lontane dalle normali rotte.
- Mikiii... di nuovo!
- Ilah lascia stare i sensori FTL, cazzo! - sbottò
risentita.
- Torna, per favore... non sono i sensori FTL... - il
tono lamentoso da bambina viziata le urtò i nervi,
ma ciò che aveva appena detto non era per niente
promettente. Non le disse nulla via radio, ma abbandonò
la riparazione che stava eseguendo ripromettendosi
di scaldare le natiche di una certa bambina a
sculacciate se si fosse trattato di un altro
capriccio.
Procedendo su mani e ginocchia raggiunse l'ingresso
dell'angusto condotto e finalmente poté uscire nella
stiva, drizzando la schiena un po' dolorante. Si
guardò intorno preoccupata: Pong aveva chiuso tutte
le micro-falle che si erano aperte lì nella zona
della stiva, ma il Coyote aveva perduto
l'undici per cento dell'atmosfera. Sapeva bene che
una falla nello scafo può essere molto insidiosa e
ardeva dal desiderio di portare la sua corvetta a
fare un bello scalo tecnico. Le sarebbe costato caro
ma era certo meglio che svegliarsi una mattina
senza più aria da respirare.
Miki risalì la rampa e percorso per intero il corridoio
spinale raggiunse il ponte di comando. L'aria fredda
le fece accapponare la pelle delle braccia. Quando
Ilah la vide deformò il volto esagerando una
smorfia di disgusto, esclamando.
- Come sei sporca, bleah!
- Scusa se sto lavorando, tesoro... vorrei evitare
che questa nave vada in pezzi con noi due dentro.
- Guarda lì, ma non toccare niente, eh! Sporchi tutto!
Miki, non sapendo da dove le arrivasse la forza
di resistere alla tentazione di chiudere quella
petulante, smorfiosa, arrogante ragazzina nella
camera di equilibrio, gettò uno sguardo agli
strumenti indicati. Subito avvampò.
- Chi cazzo ti ha detto di riconfigurare la
disposizione degli MFD? Rimetti tutto com'era
prima!
- Ti è andato a massa un pezzo di cervello? Non
gridare, ci sento benissimo! - esclamò Ilah col
tono di chi ritiene d'avere ragione.
- Rimetti a posto gli strumenti! - insisté senza
abbassare la voce né ammorbidire il tono. Ilah
sbuffò seccata e con pochi, velocissimi tocchi
della penna ottica che stringeva gelosamente
tra le dita riconfigurò la disposizione dei
pannelli di comando del Coyote com'era
prima che lei decidesse di cambiarla.
- Secondo me così non si capisce niente... -
si lamentò con tono offeso incrociando le
braccia.
- L'importante è che ci capisca io! Avanti,
cos'è che dovrei vedere? Abbiamo una montagna
di cose da fare!
- Questo.
Miki inarcò le sopracciglia, sinceramente
stupita. C'era un contatto sul radar di poppa. A
distanza costante, appena entro la portata dei
sensori. Come al solito, pensò riconoscendo un
copione già visto. Il computer identificava la
nave come appartenente alla stessa classe di
quella che aveva aperto il fuoco contro il
Coyote con un colpo di avvertimento,
ma con un ID diverso. Tuttavia quel codice
non le era nuovo.
Strappò dalle dita di Ilah la penna ottica
ignorando le sue proteste, cercando di
combattere la tentazione di darle un pugno
in bocca per farla stare zitta. Richiamato
il giornale di bordo del radar si rese conto
che quella era la nave che l'aveva inseguita
fin su La Tana, per conoscere l'identità
della quale aveva dato a Morgan del denaro
per avere i tracciati dei sensori della
stazione. Tracciati che nessuno si era più
preoccupato di andare a prendere. Al
pensiero di quei soldi buttati via, Miki
strinse i denti. Morgan aveva resistito
poco come suo equipaggio, ma aveva fatto
in tempo a fare una discreta quantità di
danni.
- Ancora loro... - si concentrò su quel
codice come se potesse dirle qualcosa sulle
intenzioni di chi si trovava a bordo di quella
nave.
- Loro chi? - volle sapere Ilah.
- Non ti dice nulla questo codice?
- Non sono quelli che ce l'hanno con me. Io
non sono mica il fottuto Pubblico Registro
Navale: come faccio a sapere chi sono quelli?
Stavolta la ragazzina aveva ragione a
protestare. Potrebbe usare un altro tono,
pensò Miki ripristinando la schermata di
controllo dei danni.
- Continuiamo – le fece cadere in grembo la
penna ottica che serviva a usare le console a
risoluzione maggiore. Mal sopportava di vedere
quella stronzetta seduta sulla poltrona di
comando che la scimmiottava dicendo “signorsì”,
“sì capitano” e salutando militarmente, ma aveva
appena deciso di far finta di niente. C'erano
altre cose cui pensare. Ancora una volta aveva
una nave alle costole. Stava diventando
un'ossessione. L'ultima volta le avevano sparato
addosso. Non c'era ragione per il Coyote
di fermarsi lì. Nemmeno per un'altra nave c'era
motivo di fermarsi nei pressi, quindi era
chiaro che ce l'avevano con lei. Ping e Pong,
i due indispensabili droidi di manutenzione,
stavano sistemando le gondole alettate in
modo da renderle in grado di sopportare ancora
qualche ora di funzionamento a velocità
maggiore della luce. Si diresse verso lo
spinale ma appena oltrepassata la soglia
tornò indietro. Aveva cambiato idea. Se le
avessero sparato addosso ancora il Coyote
avrebbe potuto non cavarsela a buon mercato.
- Che fai? - Ilah si sistemò i lunghi dread
colorati su una spalla, accarezzandoli e facendo
tintinnare le perline intrecciate alle estremità:
sembrava sinceramente interessata alle manovre
necessarie a impostare la rotta.
- Ho chiesto al computer di calcolare un po' di
finestre FTL per Apollo. Fammi sapere quando ha
finito, O.K.?
- Sì comandante!
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Ogni debito... è un debito - 4
4.
Il Coyote fu in grado di eseguire un'attivazione
dei motori e raggiungere una velocità di fattore 1,5
molto prima di quello che aveva pensato e senza
effettuare tutte le riparazioni. Era più robusto
di quanto aveva immaginato.
Quando vide la ben nota sagoma della Terra,
una palla blu e ocra striata di bianche nuvole
sfilacciate e tagliata in due grandi fette dal
buio terminatore della notte, si sentì molto
meglio. Individuare Apollo e contattare Controllo
fu rinfrescante come una bibita ghiacciata, anche
se l'operatore le verbalizzò d'essere al di fuori
dei margini di errore consentiti per la rotta
scelta. Miki, preoccupata dalla nave che non aveva
smesso di tallonarla, fu quasi tentata di
spiattellare tutto già a Controllo, ma confrontati
i parametri di volo del Coyote una volta
nella giusta rotta con quelli della nave
inseguitrice dovette rassegnarsi al fatto che
non aveva motivi nemmeno per un banale reclamo.
Approdò al molo esterno 87 infierendo così un
altro duro colpo alle sue finanze. Se da un lato
fu felice di vedere GeoCredit confermarle
l'agognato accesso al suo conto corrente senza
battere ciglio, fu meno contenta di vedere il
saldo finale dopo aver pagato in anticipo i
quindici giorni di ormeggio necessari alla
revisione completa da parte della squadra
tecnica. Fu ancora meno contenta quando si
rese conto che per liberarsi di Ilah doveva
comprare o noleggiare una tuta da vuoto. Essendo
ormeggiata all'estremità più lontana della
struttura semichiusa del molo 87, per sbarcare
era indispensabile la gabbia motrice che non
era certo pressurizzata. L'alternativa era una
passeggiata nel vuoto che richiedeva
un'autorizzazione apposita da richiedere in
anticipo a Controllo, una tuta da vuoto
attrezzata per attività EVA e un addestramento
specifico. L'autorizzazione avrebbe potuto
ottenerla, avere la tuta da vuoto EVA era solo
una questione di soldi, ma Ilah non era certo
in grado di affrontare una passeggiata spaziale
senza aver fatto l'indispensabile addestramento.
Miki tornò con una ingombrante valigia rigida
dalle chiusure metalliche contenente la tuta da
vuoto noleggiata per Ilah. Non cera certo il
modello migliore, ma era costata poco. Scegliendola
aveva pensato che se Ilah fosse stata impegnata
a battere i denti per il freddo forse sarebbe
stata un po' zitta.
- Ilah! Vieni a metterti la tua tuta che sbarchiamo! -
la chiamò ad alta voce non appena l'armadio robot
le ebbe tolto il casco.
Gioca a farsi attendere, pensò. In piedi nell'angusto
locale compreso tra il corridoio spinale e la
camera di equilibrio, non aveva ricevuto risposta
alcuna. Per comodità non si era tolta la tuta che
però ora cominciava a farla soffrire. L'equipaggiamento
EVA era pesante e la tuta corazzata la rendeva
goffa: non riusciva a compiere i gesti più semplici
come raccogliere da terra la valigia rigida con la
tuta a noleggio per aprirla e cominciare a
caricarla. Finalmente la ragazza si fece vedere:
camminando tranquillamente con le mani in tasca e
uno sguardo in cui si poteva leggere placida
curiosità.
- Dai che ho già prenotato la gabbia motrice!
Seguendo le indicazioni di Miki, Ilah entrò non
senza fatica nella sottile tuta da vuoto e riempì
il serbatoio di ossigeno. L'operazione richiese molto
tempo poiché Ilah volle fare di testa sua: non le
andava l'idea di doversi togliere giacca e stivali
per entrare nella tuta, ma alla fine dovette
arrendersi.
- Ho freddo! - disse quando le chiese di provare la radio.
- Mi hai ascoltata? Ti ho appena spiegato come funziona
la radio!
- Massì, massì... ho capito... io parlo e tu mi senti.
- Non toccare niente, mi raccomando – si mise in
posizione e l'armadio robot le calò il casco sulla
testa. I giunti magnetici si attivarono e il casco
divenne tutt'uno col resto della tuta.
- Sei pronta? - guardò in direzione di Ilah. Il
casco le si era già appannato. Le ho detto cento
volte di respirare normalmente, pensò. Era un po'
preoccupata: se Ilah avesse avuto una crisi di
panico da vuoto, sarebbero stati guai.
- Certo!
- Allora andiamo: la gabbia motrice dovrebbe
essere arrivata, ormai.
Miki azionò i comandi della pesante porta
della camera di equilibrio e quella si fece
da parte obbediente. Le luci si spensero e
quelle della camera, interamente verniciata
di bianco, passarono al rosso. Sigillata la
camera stagna, dette il via alla procedura. La
gravità artificiale fu spenta e tutta l'aria
pompata via. Quando l'indicatore “atmosfera zero”
si accese, poté aprire l'altra porta corazzata,
la prima difesa tra loro e lo spazio vuoto. La
radio le rimandò un suono che non interpretò
correttamente subito. Era Ilah che trasaliva.
La gabbia motrice era lì davanti che
aspettava. Attraverso di essa si potevano
vedere le esili strutture del molo e poi il
vuoto. Poi dall'orizzonte di metallo speciale
sorse velocemente la Terra. Le si strinse il
cuore: era uno spettacolo splendido e pauroso.
Un piccolo balzo di tre, forse quattro metri e
sarebbero state a bordo della gabbia sospesa nel
nulla.
- Miki... noi siamo amiche, vero? - Ilah era tesa,
spaventata. Era evidente. Le aveva offerto di
legarsi l'una all'altra se aveva paura di saltare
da sola, ma lei aveva orgogliosamente rifiutato.
- Certo – mentì – ora fai quello che ti dico. Una
sola piccola spinta. Spingi piano, O.K.? Guarda
me.
Spinse piano con la punta degli scarponi e si librò
nel vuoto. Come in un filmato al rallentatore
attraversò la distanza fra la soglia del Coyote
e la gabbia motrice. Afferrato uno dei sostegni
presenti all'interno della gabbia stessa, arrestò
il suo moto. Come da manuale, si disse Miki soddisfatta.
A Ilah non andò altrettanto bene. Spinse troppo forte
e in modo disomogeneo. Entrò in rotazione e Miki ebbe
un momento di vera paura quando si trovò a dover fermare
quel volo impazzito con la ragazzina che le straziava le
orecchie strillando nella radio come se la stessero
torturando. Fu solo per un caso che nessuno si fece
male. Il salto per scendere lo fecero legate insieme
e Ilah, che non vedeva nulla poiché aveva la visiera
completamente appannata, non fiatò nemmeno quando Miki
la interrogò per sapere se aveva la nausea.
- Bella impresa, complimenti – Miki pagò in anticipo
il parcheggio e la manutenzione della propria tuta,
scegliendo tra le opzioni anche il lavaggio della parte
esterna. Il meccanismo a carosello si mise in moto e,
prelevata la pesante e ingombrante tuta EVA grazie a un
apposito modulo adattabile, la pose sulla rastrelliera
del trasportatore che l'avrebbe smistata. Sarebbe stata
ricaricata, lavata, controllata e immagazzinata al sicuro
fino al suo ritorno lì alla struttura di accoglienza del
molo 87.
- Mi hai detto un milione di volte di non vomitare
nella tuta.
- Certo, se non vuoi morire soffocata. Ma questo
non vuol dire che devi vomitare addosso a me.
- Non ne potevo più. Appena mi hai tolto il casco...
- Potevi almeno girarti!
- Non ci ho pensato! - Ilah aveva rapidamente
alzato il tono della voce, come se non fosse stata
colpa sua se aveva avuto mal di spazio. Vide che
aveva ripreso colore in faccia e che era vitale
come al solito. Quasi la preferiva smorta, col viso
cinereo e gli occhi socchiusi, come l'aveva vista
un attimo prima che rimettesse.
- Bah... è nata su una stazione spaziale e soffre
il mal di spazio – si lamentò sedendosi su una panca
dello spogliatoio confinante con l'accettazione del
rimessaggio delle tute. Estrasse dalla sua sacca da
astronauta un paio di scarpette morbide.
- Io non soffro il mal di spazio! In assenza di
gravità me la cavo bene quanto te, forse anche di
più.
- E infatti hai vomitato – la rimbeccò. Era stato
imbarazzante: testimone della disavventura appena
toccatale, il personale dell'amministrazione portuale
di servizio al molo 87. Il Coyote era l'unica
nave attraccata a quella struttura e quindi l'attenzione
era tutta per le due giovani astronaute.
- Tu non hai mai vomitato scommetto, eh? - l'apostrofò
Ilah con le mani sui fianchi esili. Contrasse i muscoli
del ventre lasciati scoperti dalla nera maglietta corta.
- Naturalmente no – il tono ovvio della risposta non
piacque affatto a Ilah che sbuffò.
- Ah, certo! Piuttosto che ammettere che hai vomitato
anche tu ingoieresti un ragno vivo. Dimenticavo che sei
la signorina Razzomissile, l'astronauta perfetta che non
sbaglia mai!
Senti da che pulpito giunge la predica, pensò. Ma
Ilah non aveva ancora finito di sbottare. Era evidente
che l'essere stata male le dava un gran fastidio. Se
aveva capito bene che tipo era, a darle ancora più
fastidio era stata l'impossibilità di nascondere il
malessere.
- Sentiamo, su che stazione bisogna nascere per
non soffrire il mal di spazio? O è una virtù genetica
a distinguere i veri astronauti che non vomitano
mai?
- Veramente io sono nata sulla Terra – Miki le
sorrise, contenta d'aver messo a segno un altro
punto così facilmente. Si alzò dalla panca rinunciando
a togliersi la tuta integrale imbottita che aveva
indossato sotto lo scafandro EVA. Desiderava andarsene
da lì il prima possibile: sentiva i sorrisetti dei
dipendenti dell'amministrazione portuale appiccicati
dietro la schiena e, ben sapendo che si trattava solo
di una sua sensazione, sentiva l'odore del vomito di
Ilah nelle narici. Voleva lavarsi. Si incamminò verso
l'uscita dopo aver buttato dietro la schiena il proprio
sacco da viaggio.
- Sei nata sul pianeta? Ecco perché sei così tozza.
- Tozza? Cosa intendi dire? - si era prontamente
voltata verso la ragazzina. Quella la guardò strafottente
e poi mimò con le braccia una persona corpulenta.
- Tozza. Cammini come se tu pesassi mille chili. Sei
tozza, si vede.
Se la tramortisco con la sacca da viaggio poi la posso
pestare con calma, rifletté. Ma lasciò correre: era
tanto presuntuosa che non avrebbe nemmeno capito il
perché del pestaggio.
Abbandonarono la zona del porto commerciale grazie
a un ascensore sorvegliato dai militari. Le strutture
portuali commerciali e private erano tutte nel primo
settore e lì la criminalità raggiungeva picchi
sbalorditivi. Miki lo sapeva, ma vedere attraverso
i pannelli trasparenti della tromba dell'ascensore
magnetico le ampie zone buie, i cumuli di rifiuti,
le ombre che si muovevano indifferenti in mezzo al
degrado aveva sempre un effetto deprimente sul suo
stato d'animo. Non riusciva ad abituarsi a quel
degrado e temeva che non ci avrebbe mai fatto
l'abitudine. Tutt'altra cosa era lo spazioporto
vero e proprio: collegato ai settori abitativi in
mille modi, era lo splendente centro della vita
spaziale di Apollo. Tutte le compagnie di volo
avevano uno scalo in uno degli hangar dello
spazioporto, a cui le navi accedevano esclusivamente
dall'estremità della stazione. I collegamenti
con le altre stazioni, i voli di linea, le
astronavi più belle e prestigiose: attraccavano
tutti lì.
L'ascensore non fermava ai settori due e tre per
il semplice motivo che non poteva farlo. Quelle
fermate non erano nemmeno mai state progettate. L'ascensore
era di recente costruzione e la sua struttura
di acciaio plastico e crilex portante stonava
fortemente con i settori che attraversava
ronzando a circa cinquanta chilometri l'ora. Settori
vecchi di cento anni e più che mostravano
i segni del degrado e della scarsa manutenzione
soprattutto sulle facciate degli edifici. Ma
quando scendendo alla prima fermata, nel quarto
settore, si trovò a passare tra due guardie
private armate come in guerra, Miki si chiese
se le fosse sfuggito qualcosa negli ultimi
tempi.
- Apollo, eccoci... - disse Ilah grattandosi
distrattamente un ginocchio ossuto.
Intorno a loro brulicava l'attività di una delle
numerose piazze pedonali del quarto settore:
rumorosi nastri trasportatori carichi di gente,
negozi, bancarelle, totem informativi, strutture
di servizio, bar... il solito caos, pensò. Lontano,
sopra le loro teste, sorretto dai torreggianti,
claustrofobici edifici con decine e decine di
piani stratificati gli uni sugli altri, celato
dietro grappoli di lampade ambientali accese al
massimo, si intuiva l'intricato soffitto che
costituiva a sua volta il pavimento del quinto
settore.
- Mai stata qui prima? - l'interesse di Miki era
stato istintivo. In realtà non era affatto sua
intenzione informarsi a riguardo e si pentì
immediatamente di aver posto la domanda.
- Sì, tempo fa. I miei erano di Apollo.
- Erano? - la curiosità era subito divenuta più
forte di lei.
- Sì, certo. La mia madre genetica ha sempre
vissuto su Apollo con mio padre, che ora si è
trasferito su Prometeo. È da là che sono partita.
- Scappata...
Ilah la guardò stringendo a fessura i suoi occhi
leggermente obliqui. Per la prima volta vide
affiorare l'adulto che si stava formando dentro
quella ragazzina impertinente.
- E va bene: scappata. E allora? - il tono era
quello di una sfida, provocatorio.
- Non ti agitare: anch'io sono scappata da casa,
anche se non ci crederai.
- Non ti è certo mancata la roba da mangiare, però...
Caricò il destro come per colpirla in viso, ma Ilah
era balzata con agilità al di fuori della sua
portata. La derideva facendole delle boccacce.
- Per dimostrarti che non ti porto rancore anche
se tu mi tratti male – iniziò Miki dandosi un tono
di superiorità anche se desiderava davvero darle
un ceffone – prima di separarci ti offro qualcosa.
Indicò alla ragazzina un venditore ambulante che
sul suo trabiccolo un po' malandato ma agghindato
con moltissimi ninnoli di plastica colorata, in vendita
anche quelli, offriva cibo cotto al momento a poco
prezzo. Ilah scelse per sé la busta più grande e se la
fece riempire al massimo di alghe fritte, bianche e
croccanti. Miki scelse invece le polpette di soia,
caldissime e profumate per via dell'abbondante pepe
nero che il vecchio alla guida del trabiccolo vi
macinò sopra.
Si incamminarono verso l'unica panchina libera ai margini
della piazza, in una posizione anche troppo defilata. Era
infatti quasi nascosta dietro un ingombrante totem
informativo spento e assediata dai rifiuti che traboccavano
da un contenitore rotto lì vicino. Nessuno lo svuotava
da tempo ma apparentemente la panchina era abbastanza
pulita da sedersi senza preoccupazioni.
- Andrai a stare dalla tua madre biologica?
Fu l'espressione allarmata di Ilah a rispondere nel
mentre che lei inghiottiva il boccone che le riempiva
la bocca oltre misura. A giudicare dalla voracità con
cui divorava la sua frittura sembrava che non mangiasse
nulla da tre giorni.
- Masseifuori? È da lei che scappo!
- Allora non ho capito – ammise Miki confusa. Ilah
sospirò come se stesse attingendo profondamente a
una fonte di pazienza.
- Dunque... la mia madre genetica aveva voglia
di una figlia ma non potendo averne lei stessa
ha fatto ricorso a un utero in affitto. Ma siccome
la bacucca c'è rimasta di vecchiaia praticamente
subito, quella biologica ha fatto richiesta di
affidamento. Dato che mio padre aveva intenzione
di sposarsela fin dall'inizio, quella biologica,
essendo io ancora minorenne... ecco fatto. Affidamento
concesso in men che non si dica. Chiaro ora?
A Miki quella storia sembrava un po' troppo
semplificata. Ma comprendeva ora lo spirito
ribelle di Ilah: il nucleo famigliare come
punto di riferimento era insostituibile e lei
se l'era visto cambiare probabilmente proprio
nel momento della sua vita in cui più aveva
bisogno di riferimenti.
- Quindi cosa farai?
- Boh... forse cercherò un passaggio verso Prometeo
per andare a vedere dove ha vissuto mia nonna. Ti
ho mai parlato di mia nonna? Era una tipa mitica,
strafiga, supertostissima davvero... una come te
se la sarebbe mangiata a colazione.
L'aveva bombardata di informazioni riguardo la
sua “mitica” nonna per tutta la durata delle
riparazioni a bordo del Coyote. Tra un
litigio e l'altro Ilah adorava parlarle di sua
nonna: la descriveva come una specie di eroe
della Resistenza. A sentire la nipote, la Battaglia
di Prometeo l'aveva vinta lei da sola.
- Quella con la cresta gialla? - finse interesse. Sapeva
perfettamente di chi stava parlando la ragazzina:
l'aveva imparato in fretta.
- E il ciuffo lunghissimo... le arrivava fino
alle ginocchia, sai? Dalla fronte, così – Ilah
mimò con le mani il ciuffo penzolante davanti al
viso – ho pensato di farmelo crescere anche io
un ciuffo lunghissimo e di tingerlo di giallo
come lei, ma poi non l'ho fatto perché ho pensato
di non esserne degna. Io non avrei potuto mai
nemmeno allacciare gli anfibi di mia nonna! E
poi mi piacciono troppo i dread!
Ilah appallottolò il cartoccio vuoto e lo lanciò
incurante in direzione del bidone traboccante. Nel
farlo ostentò una disinvoltura che fece avvampare
Miki di vergogna. Anche lei aveva finito le sue
polpette ma si era guardata bene dal lasciare
rifiuti in giro: quel posto faceva già abbastanza
schifo senza che una mocciosa maleducata
intervenisse col suo bisunto contributo. Stava
per rimproverarla quando li vide sedersi. Uno
al suo fianco e uno al fianco di Ilah, due
indesiderate parentesi che all'improvviso le
imprigionavano su quella panchina.
Sorridevano di sbieco: quello a fianco di Ilah,
che poteva vedere meglio, aveva il viso a macchie
rosse, scavato dall'acne e ulteriormente
sfigurato da un piercing al sopracciglio
sinistro. Capelli corti e occhi chiari, mobili
e lucidi sotto le spesse sopracciglia interamente
tatuate con un motivo intricato stonavano col
naso butterato e storto. Lo vide alzare un lembo
della giacca con una mano mentre metteva
l'altra sullo schienale della panchina dietro
Ilah, con fare quasi affettuoso. Sotto l'ascella
era visibile il calcio di un'arma che sporgeva
dalla fondina. Non ci fu bisogno che anche il
compare le mostrasse d'essere armato: glielo
lesse in faccia fin troppo bene. Alto, rasato
e con un anello di prezioso oro giallo al lobo
sinistro. Era così vicino a lei da poter
sentire l'odore cattivo del suo alito. Voltò
il viso dall'altra parte, verso Ilah e verso
l'altro ceffo.
- Complimenti per il trucchetto su La Tana...
ci sai fare al timone... ma stavolta non c'è il
tuo amico pancione ad aiutarti a scappare.
Quello dal viso butterato aveva parlato con
una voce insolitamente gentile, sorridendo. Le
mani erano brutte, scabre e coperte di cicatrici;
avevano le nocche schiacciate e la pelle del
dorso si squamava. Un picchiatore.
- Visto che avete finito di mangiare, ora
ci alziamo tutti insieme e ci seguite. C'è una
persona che vuole vedervi.
Miki guardò prima Ilah che impallidita fissava
qualcosa davanti a sé, poi l'uomo sfigurato
dall'acne. Deglutì con difficoltà un groppo di
paura e trovò il coraggio di rispondergli:
dopotutto non pareva intenzionato a far loro
del male.
- E chi sarebbe?
- La conosci molto bene visto che hai un conto
aperto molto, molto grosso con lei...
Sentì una vampata di rabbia rovente accecarle
gli occhi e toglierle per un momento il lume
della ragione. Poteva essere sua madre. Lo era,
anzi. Poteva starne certa. Evidentemente non
aveva ancora digerito il fatto che si fosse
appropriata dei conti che lei stessa aveva aperto
a suo nome. Non aveva considerato come un
risarcimento la pur non trascurabile somma
che le aveva gettato davanti ai piedi con
disprezzo l'ultima volta che era stata da lei,
sulla Terra. Anzi: se conosceva quella megera,
era stata proprio quel gesto la goccia che fa
traboccare il vaso.
- Forza – disse l'uomo butterato accennando ad
alzarsi dalla panchina.
Fu un attimo: nonostante la stesse guardando
proprio in quel momento, ebbe la sensazione di
aver solo intuito il gesto di Ilah. Un attimo
prima la sua mano sinistra era posata sul ginocchio
che spuntava dalle calze a rete rotte. Un attimo
dopo era scattata fulminea percorrendo un arco
diretto verso la faccia dell'uomo che si era ritratto
di scatto portandosi le mani al viso. Poi Ilah era
saltata in piedi mentre l'uomo gridava di dolore
sputando insulti e bestemmie. Dolore vero, sincero.
Reagì con ritardo: come imbambolata Miki guardò Ilah
allontanarsi correndo e quando cercò di raggiungerla
qualcosa la afferrò per il polso destro emettendo un
grugnito e stringendo forte. Era in piedi ma per
quanto tirasse, l'altro uomo era più forte e non
riusciva a liberare il braccio. Dette ancora due
strattoni ma non ci fu nulla da fare: era
prigioniera. Fece appena in tempo a vedere partire
un violento scapaccione e cercò di evitarlo, ma
quello la colse sulla nuca facendole molto male
ugualmente, come se l'uomo alto e rasato avesse
le mani di metallo. L'uomo butterato invece si
contorceva sulla panchina e Miki notò che
cominciava a perdere sangue dal viso. Ne perdeva
molto: sgocciolava a terra mentre la mano che
premeva la ferita si arrossava di rigagnoli
scuri.
Ilah piombò su di lei inaspettata. Strinse le
sue mani intorno a quella che la teneva prigioniera
per il polso e la vide chiaramente conficcare le
unghie affusolate nella carne dell'uomo che lanciò
un urlo di dolore. La mano si aprì immediatamente
e Miki fu libera. Ilah scattò così velocemente che
guadagnò molto terreno, ma correva in modo forsennato,
in apnea, e presto la raggiunse.
- Separiamoci! - ansimava anche lei col fiatone per
la corsa e per lo spavento.
- Col cazzo! - Ilah aveva il fiato tra i denti
e presto sarebbe crollata. Miki vide che i nastri
pedonali non erano così lontani e li indicò. Deviarono
subito e si tuffarono sui trasportatori con tanto
impeto che Ilah inciampò e cadde travolgendo una
persona. La aiutò a rialzarsi e corsero lungo il
nastro, spingendo e sgomitando gli altri passeggeri
che lo affollavano, sommando la loro velocità a
quella del mezzo meccanico, ignorando le vivaci
proteste.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Ogni debito... è un debito - 5
5.
Non fu possibile fermarsi nemmeno per prendere fiato. Il
tipo alto e rasato era saltato sul nastro. Se ne accorsero
subito perché non esitava a scaraventare giù quelli che
non si spostavano abbastanza in fretta. Anche se non si
fossero accorte delle grida e delle proteste della gente,
avrebbero sentito il fastidioso clacson bitonale. Si
trovavano su Apollo, non su La Tana: qualcuno aveva
attivato un segnale d'allarme e prima o poi sarebbe
intervenuta la polizia.
Correva lungo il nastro cercando ora di dare meno
fastidio possibile, con una mano trascinando Ilah
che non aveva più fiato per correre, con l'altra la
propria sacca da viaggio. Era stata già tentata di
abbandonare entrambe, ma aveva resistito. Il loro
inseguitore era più veloce e presto le avrebbe
raggiunte se non avessero fatto qualcosa. Il nastro
trasportatore si biforcava e senza nemmeno dare uno
sguardo alla segnaletica saltò per cambiare
direzione. La manovra non le aiutò di certo a
seminare l'uomo che era deciso a raggiungerle
poiché quello le aveva viste cambiare direzione
con largo anticipo. Voltandosi per un istante vide
che si teneva la mano ferita dalle unghie di Ilah.
Il nastro stava passando ora tra due sponde alte
e trasparenti che attirarono la sua attenzione. Gradualmente
le sponde si incurvarono sopra la sua testa fino
a chiudersi in un tunnel. Guardando attraverso il
tubo rinforzato da traverse si rese conto che
stavano superando l'ingresso alla zona dello
spazioporto. Questa era separata dal resto della
stazione da alcune decine di metri di buio
punteggiato dalle luci degli altri tunnel e dei
sistemi di servizio. Aveva letto che quella zona
era fisicamente separata dal resto della stazione,
ma vederlo coi propri occhi faceva un altro
effetto.
Ma non ebbe il tempo di contemplare oltre il
panorama. Avvicinandosi allo spazioporto presto
avrebbe avuto altro a cui pensare: servizi di
sicurezza, agenzie private al soldo delle compagnie
di volo, poliziotti. Nessuno di quelli faceva troppe
distinzioni tra inseguitori e inseguiti, né erano
famosi per la loro delicatezza.
Continuò a trascinarsi dietro Ilah facendo in modo
che il loro determinato inseguitore non riuscisse
ad accorciare le distanze troppo in fretta. Il
tunnel trasparente circondato dalle lontane luci
puntiformi e dagli ondeggianti fari orientabili dei
sistemi di sorveglianza automatici lasciò presto
il posto alle strutture periferiche dello
spazioporto. Banchine di sosta, locali pubblici,
attività commerciali, strade carrabili: una piccola
città nella città. Apparentemente non c'era alcuna
differenza col settore abitativo appena
abbandonato. Saltarono più in fretta che poterono
su un segmento di nastro a velocità inferiore e da
lì alla banchina di attesa, dove c'era molta gente
che attendeva di salire. Chiedendo scusa quasi
sottovoce Miki, accaldata e sudata per la corsa,
cercò immediatamente l'uscita sgusciando tra
bagagli e schiene altrui, incassando spallate e
qualche protesta quando dovette spingere qualcuno
che tardava a spostarsi. Si complimentò con se
stessa per il tempismo con cui riuscì a saltare
il piede di un tizio che cercò vendetta per uno
spintone tentando di sgambettarla come se niente
fosse.
Una volta in strada le cose peggiorarono: non
c'era più molta folla a proteggerle e si trovò a
dover prendere in fretta una decisione
importante. Dove nascondersi? Forse la sua
incertezza fu percepita da Ilah che la
strattonò. Senza nemmeno pensare cominciò a
seguirla finché dopo poco si infilò in un affollato
e puzzolente locale che offriva collegamenti
alla Rete a pagamento. L'interno di quel posto,
aperto direttamente sulla strada, sembrava fatto
apposta per nascondersi: i terminali erano
incastrati dentro alti totem cilindrici alcuni
con pannelli piatti, altri con grandi schermi
olografici. C'era molta gente che si affollava
intorno ai terminali dei giochi di ruolo e ciò
diede loro un vantaggio. Si complimentò con
Ilah per la bella scelta: in pochi passi avevano
abbandonato la strada e potevano cercare di
nascondersi in quel posto rumoroso e
frequentatissimo. Poteva anche sperare di passare
inosservata: davanti alle postazioni dei giochi
di ruolo c'erano parecchi giocatori che,
appassionati dal cosplay, vestivano nei modi
più stravaganti e sfoggiavano le stesse
originali, colorate e vaporose pettinature
dei loro idoli virtuali.
Appena si furono riprese dalla corsa Ilah si
avvicinò a uno dei terminali più costosi e
complessi in fondo al locale. Vi girarono intorno
in modo da ripararsi dalla vista di chiunque dalla
strada avesse guardato dentro. Un commesso in
divisa fu subito da loro.
- Posso aiutarvi? - chiese l'uomo, sorridendo
cortesemente ma sospettoso.
- Supporta i protocolli H3C3, C4 e le connessioni
senza cavo? - chiese Ilah tutto d'un fiato indicando
il terminale di ultima generazione. Miki riconobbe
l'H3C4, il protocollo di comunicazione tra velivoli:
abbonarsi per rendere il Coyote in grado di usare
altre navi come relais per le telecomunicazioni le
era costato una follia. Aveva poi scoperto con
dispiacere che moltissimi capitani non consentivano
l'uso della propria nave come relais per motivi di
sicurezza.
- Certo – rispose il commesso, stupito per la domanda
tecnica. Forse aveva pensato d'avere di fronte una
ragazzina sprovveduta che voleva solo giocare
on-line. Ilah invece lo investì con una raffica
di domande riguardo l'hardware e il software del
terminale, che prometteva di essere configurato
davvero bene. La tariffa richiesta per il suo
utilizzo pareva giustificata.
- Occhei, il terminale può andare. Ho un'interfaccia
a piastre Sumo-Hagawara con adattatore Bolonov a
banda larga: è un problema se la uso?
Il commesso sgranò gli occhi sorpreso, poi sfiorò
l'interfaccia olografica del terminale. Apparve
un modulo da compilare.
- È necessario prima riempire questo.
Dette un'occhiata alle prime righe: era scritto
nel gergo degli avvocati, nella contorta lingua
della legge, ma appariva chiaro che si trattava di
una autocertificazione che sollevava da ogni
responsabilità il gestore per qualsiasi cosa sarebbe
successa durante e dopo il collegamento. Ilah
estrasse da una tasca della sua giacca militare
il proprio badge identificativo e lo dette in pasto
al terminale che lo usò per riempire il modulo. La
ragazzina dai capelli viola lo firmò distrattamente,
in fretta.
- Dai, adesso sbloccamelo che mi serve – disse
rivolta all'uomo.
- Questa classe di terminali richiede il pagamento
anticipato.
Vide Ilah voltarsi verso di lei con una silenziosa
domanda negli occhi chiarissimi e un poco obliqui. Estratta
una card al portatore bagnata di sudore per essere
stata a contatto con la pelle, la consegnò al commesso,
seccata. Questi dopo averla svuotata del denaro attivò
il terminale usando il complesso telecomando che portava
al braccio. Ilah si era già attaccata le piastre ai
lati della nuca e stava armeggiando col Bolonov per
collegarsi al terminale.
- Cosa stai facendo?
- Me ne vado da qui.
- Aspetta, cambio la domanda. Cos'hai intenzione di
fare con quel...
Sullo schermo olografico apparvero i siti di alcune
agenzie di notizie in tempo reale. Miki non capiva
cosa Ilah stesse cercando nelle notizie del giorno.
- Prova a guardare fuori e dimmi se vedi qualche
compagnia di volo che ti piace – Ilah sembrava decisa,
qualsiasi cosa stesse facendo.
- Vuoi dirmi cosa stai facendo?
Miki le afferrò una spalla e la costrinse a girare
la testa verso di lei. Le palpebre erano abbassate
e gli occhi mostravano solo una falce del bianco
della sclera: Ilah era già dentro il cyberspazio,
in profondità.
- Dimmi se vedi qualche compagnia di volo qua fuori –
la sua voce pareva quella di una sonnambula. Era
impegnata a fare chissà cosa. Anche se la conosceva
poco, era certa che si trattasse di qualcosa di
illegale.
Guardinga si avvicinò all'uscita. La respirazione era
ritornata normale ma temeva che il calore che si
sentiva in corpo fosse evidente anche a chi la
guardava. Sentiva l'impellente bisogno di lavarsi
dalla testa ai piedi. Senza uscire in strada gettò
uno sguardo nei dintorni e notò immediatamente l'agenzia
della Leo Space. Subito dopo ebbe un tuffo al cuore:
l'uomo alto e rasato. Era lì, di spalle, a meno di venti
metri da lei. Stava fasciandosi la mano ferita con
un fazzoletto già chiazzato di rosso mentre parlava
con altre due persone. Nessuno di quelli era il ceffo
con la faccia scavata dall'acne. Cercando di non
muoversi troppo in fretta e di non tradire la paura
che le aveva subito riempito di spine le budella e
reso molli le gambe, tornò da Ilah.
- Leo Space... e sbrigati, perché sono in tre adesso
e sono già qua fuori – le sussurrò da dietro le
spalle. Sullo schermo del terminale ancora siti di
notizie on-line e gli orari delle partenze da
Apollo.
- Leo Space, sono d'accordo – Ilah era in piena trance
da cyberspazio e parlava come nel sonno, masticando
le sillabe. Miki la giudicò una irresponsabile. In un
posto così affollato lei non avrebbe indossato nemmeno
un auricolare. Essere alleggerite da qualche ladruncolo
era possibile anche lì in qualsiasi momento e la
deprivazione sensoriale, inevitabile per chi col
cervello cablato usava i propri impianti per collegarsi,
era un invito irresistibile per un gran numero di
delinquenti, borsaioli e pervertiti di ogni tipo. Si
iniziava con un collegamento al cyberspazio in un
locale apparentemente tranquillo e si finiva col
riaprire gli occhi nude, abbandonate chissà dove,
con buchi di aghi nel braccio e nemmeno uno
schifoso ricordo da provare a dimenticare.
- Gradirei sapere cosa stai facendo – le chiese
seccata, tenendo d'occhio con ansia la grande
entrata del locale. Ma non ottenne risposta. Dopo
un lunghissimo minuto vide la ragazza rilassarsi
all'improvviso con un profondo sospiro. Poté quasi
vedere la tensione della cavalcata nel cyberspazio
sciogliersi e fluire via dal suo corpo come se
fosse liquida. Ilah si tolse le piastre appiccicate
alla pelle nuda del cranio dove era visibile un
tatuaggio che scendeva lungo il collo e si nascondeva
sotto la giacca. Come se nulla fosse arrotolò i
fili delle piastre e si cacciò tutto in una tasca
sul petto.
- Stammi bene a sentire – le disse con voce insolitamente
ferma. Si era già completamente ripresa dalla trance
e la cosa fece avvampare Miki di invidia, com'era già
successo. Gli occhi di Ilah erano ora duri e freddi,
capaci di gelarla dal di dentro.
“Non so se te ne frega qualcosa, ma io qui non ci
voglio più stare. Sono su Apollo da meno di un'ora e
già non ne posso più. Non voglio passare la mia vita
a scappare per colpa tua. Quindi stai bene attenta:
me ne vado. Ho un posto sul primo shuttle in partenza,
chiudono l'imbarco fra diciotto minuti. Non ho
nemmeno capito dove va, non mi interessa. Quella è
gente pericolosa e io sto morendo di paura. Se vuoi
c'è un posto anche per te. Vuoi venire?”
- E dove? - chiese Miki, rimandando a dopo l'argomento
sollevato da Ilah. Nemmeno a lei piaceva scappare e
da un po' di tempo a quella parte non faceva altro
che fuggire da qualcuno.
- Cos'è una piattaforma di carico di tipo “doppio-v”? -
Miki sgranò gli occhi a quelle parole.
- Occazzo, un vettore verticale atmosferico... i doppio-v
fanno la spola con la Terra, sono dei cargo senza
equipaggio!
- Vieni, non abbiamo tempo – Ilah si lanciò
verso l'uscita.
- Ci sono quelli là fuori! - protestò spaventata
sibilando tra i denti per non farsi sentire da tutta
quella gente lì intorno, ma Ilah non si fermò. Non
poteva fare altro che lasciarla andare o correrle
dietro. Sbuffò seccata e, certa di stare scappando
da un guaio infilandosi in un guaio più grosso,
rincorse Ilah.
- Ci hanno viste – disse la ragazzina dopo aver
percorso meno di un centinaio di metri per strada.
- Chissà come hanno fatto – commentò acida Miki
guardando la chioma viola adorna di perline
tintinnanti della ragazzina alta ed esile.
La folla davanti a loro si aprì all'improvviso
per far passare una pattuglia di poliziotti in
divisa. Erano in quattro e camminavano affiancati
con passo spedito: il tonfa in pugno, l'elmetto e
giubbotto anti-sommossa. Sentì le budella sciogliersi:
stavano cercando qualcuno e se erano state segnalate
sarebbero cominciati i guai veri. Ma i poliziotti non
dettero segno di interessarsi minimamente a loro e
passarono oltre. Con suo grande disappunto non fermarono
nemmeno i tre inseguitori, diverse decine di metri più
indietro.
Cercando di non farsi notare le due fuggitive mantennero
un'andatura la più elevata possibile. Raggiunsero la
zona degli imbarchi grazie a un nastro pedonale
riuscendo a mantenere costante la distanza dagli
inseguitori, ma quando quelli si resero conto di
ciò che stavano per fare, ruppero ogni indugio e
cominciarono a rincorrerle.
Miki si vide perduta e toccò il gomito di Ilah
per indurla a correre via insieme a lei. Ma Ilah
scattò davanti a lei grazie alle sue lunghe gambe
e le gridò con tono urgente:
- Corri che lo perdiamo!
La vide puntare dritta verso i due agenti privati
in divisa fermi all'ingresso di una zona riservata
dell'enorme ambiente antistante i cancelli di imbarco.
- Da che parte il numero venti? - chiese loro
trafelata. Una delle guardie indicò con un braccio e
Ilah scattò in quella direzione. Miki lasciò un
frettoloso ringraziamento agli agenti congratulandosi
mentalmente con Ilah per come stava recitando la parte
della viaggiatrice in ritardo. Corsero a perdifiato
lungo l'infinita serie di cancelli di imbarco finché
non riconobbe i colori della Leo Space. Seguì Ilah che
era l'unica a conoscere i dettagli dell'imbarco. Passarono
tra altre due guardie armate al cancello venti e si
precipitarono all'accettazione.
- Vandervelden! - esclamò agitando il proprio badge
alla svogliata hostess in divisa, ancora lontana. Le parve
chiaro che la donna era seccata perché erano giunte appena
in tempo costringendola a riprendere il lavoro che considerava
già finito. Quella fece cenno alle guardie di lasciarle
passare entrambe.
- Ancora tecnici? Ma cosa sta succedendo su quella
povera piattaforma?
- Un vero casino – rispose prontamente Ilah mentre ancora
una volta cercava di domare il fiato grosso – speriamo di
rimetterlo a posto in fretta.
Vide con terrore che la hostess stava leggendo col terminale
il badge di Ilah. I dati sarebbero stati registrati e
qualunque pirata informatico da strapazzo avrebbe potuto
bucare i server della Leo Space, nota per essere una
compagnia di volo economica, per sapere dov'erano andate.
- I suoi documenti, prego – le disse l'attempata hostess,
indispettita. Con un po' di imbarazzo Miki estrasse il suo
badge, lo asciugò sulla manica della tuta e trattenne il
fiato per tutto il tempo che quello rimase sotto l'esame
della hostess.
- Appena in tempo – commentò acida la donna della Leo Space
restituendo entrambi i badge e spegnendo le luci della
postazione. Il cancello d'imbarco era da quel momento
ufficialmente chiuso.
- Salve! - salutò lei e seguì Ilah che già si era avviata
lungo il corridoio che portava allo shuttle.
- Tecnici? Che cosa cazzo hai combinato?
- Ho salvato il tuo culone – le rispose quella. I loro
inseguitori le avevano raggiunte al cancello d'imbarco
durante il check-in ma le due guardie private della Leo
Space li avevano mantenuti lontani.
- C'è qualcosa che devo sapere? - cercò di essere più
sarcastica possibile. Detestava non avere la situazione
sotto controllo.
- Per ottenere questo passaggio siamo temporaneamente
diventate Helen e Beatrix Vandervelden, due sorelline
tecnici informatici di livello tre. Io sono Helen.
- Sorelle? - si meravigliò Miki. Le possibilità che loro
due fossero due tecnici di pari livello erano già abbastanza
basse. Meno ancora che potessero essere sorelle.
- Con un minuto e mezzo di incursione, è già qualcosa che
abbiamo aspettato così poco per salire su uno shuttle –
ribatté Ilah – O forse preferivi stare a dare spiegazioni
a quelli là?
Dovette riconoscere che stavolta la mocciosa aveva ragione.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Ogni debito... è un debito - 6
6.
Trascorse tutto il breve viaggio con l'angoscia
di essere smascherata, mentre Ilah dormicchiava
nel sedile accanto. Le aveva afferrato un braccio
e le aveva posato sulla spalla la testa adorna dei
suoi lunghi dread viola tintinnanti per le
perline. Aveva pensato con fastidio che la ragazzina
fosse abituata a dormire con l'orsetto di pezza. Però
la lasciò fare, vinta da un insolito sentimento di
tenerezza.
A gettare Miki nell'ombra dell'angoscia era stata la
scoperta che lei e Ilah erano le uniche due
passeggere. Non c'erano nemmeno hostess a bordo:
solo loro due e i piloti. Era un banale volo di
collegamento e probabilmente a bordo dello shuttle,
che sacrificava molto lo spazio per i passeggeri a
favore della stiva di carico, c'era solo merce.
Uno dei piloti, un tipo magro e slanciato, dai
rassicuranti capelli grigi e con le complesse mostrine
che ne certificavano l'anzianità di servizio, era
venuto a trovare le uniche due viaggiatrici. Aveva
sostenuto la conversazione come meglio aveva potuto,
ma parlando sottovoce era riuscita a indurre l'uomo
a porre presto termine alla sua visita di cortesia
per non rischiare di svegliare la “sorellina”. Congratulandosi
con se stessa per la facilità con cui riusciva
a inventare menzogne, si disse decisa a cantarne
quattro a quella smorfiosa che dormiva placidamente
appoggiata alla sua spalla. Ma non ebbe il coraggio
di svegliarla fino alla fine del viaggio, quando lo
shuttle ebbe attraccato.
- Siamo già arrivati? - sbadigliò maleducatamente,
senza curarsi di mettere la mano davanti alla bocca
e deformando le parole.
Una volta scese dallo shuttle poterono ammirare il
piccolo ma efficiente hangar della piattaforma
orbitante. Sporgendosi oltre un parapetto esile
poterono notare come l'hangar fosse aperto sul fondo,
sotto i loro piedi. Da quel grande varco presumibilmente
era entrato lo shuttle da cui erano appena sbarcate:
era di certo mantenuto sigillato da un campo di forza
perfettamente trasparente. Il blu e il bianco del
pianeta in rotazione riempivano totalmente l'apertura
e la tridimensionalità di quella vista provocò le
vertigini anche a Miki, che pure era certificata per
l'attività EVA e abituata a vedere il pianeta dal
vivo.
- Cos'è quello? - Ilah si strinse a Miki indicando
una angolosa, meccanica sagoma di un cupo colore bruno,
decorata da bande diagonali gialle e nere che si
muoveva silenziosamente sotto il ventre
dell'astronave. Le spiegò che la stiva dello shuttle
veniva scaricata da un trasportatore che era in grado
di agganciare i diversi container e portarli allo
smistamento della stazione. Lei stessa aveva visto
meccanismi del genere in azione in diversi ormeggi
commerciali qua e là in tutte le stazioni. Quello
era piccolo, ma faceva il suo lavoro bene e in
fretta.
- Cosa dobbiamo fare ora? - La passerella che portava
allo shuttle era già stata ritirata e quindi non
potevano certo tornare indietro da lì. Erano rimaste
sole sulla banchina. Lo fece notare a Ilah, che rimase
un po' pensierosa.
- Dobbiamo tornare indietro.
- Brava, signorina Vandervelden – la attaccò con
tono acido – e come conti di farlo? - mosse la mano
sinistra in un gesto ampio che comprese il molo deserto,
lo shuttle già sigillato ermeticamente, il vicino
portello stagno che portava probabilmente agli ambienti
interni della piattaforma. Poi si gettò la sacca
dietro la schiena, intenzionata a muoversi. Ma Ilah
la anticipò.
- Cominciamo a toglierci da qui che ho freddo.
Si avvicinarono al portello stagno chiuso e ne
comandarono l'apertura mediante l'apposito pannello. La
malandata porta si aprì con un poco rassicurante
raschiare metallico e si richiuse autonomamente alle
loro spalle. Percorso un breve corridoio che evidentemente
nessuno si curava di pulire, si trovarono in un atrio
altrettanto desolato. Intorno a un grande foro nel
pavimento cinto da un parapetto c'erano vecchie sedie
di plastica dall'accattivante profilo anatomico,
ma molto impolverate. C'erano segni del passaggio
di esseri umani piuttosto maleducati, passaggio
avvenuto in un tempo tanto remoto da giustificare
la mummificazione di alcuni avanzi di cibo abbandonati
qua e là. Una cornice di bande diagonali gialle e
nere contrassegnava l'elevatore che portava al livello
inferiore, simile a quello dove si trovavano in quel
momento. L'unico segno di vita era il grande pannello
degli arrivi e delle partenze.
- Cos'è? - chiese Ilah indicandolo, curiosa.
- Il conto alla rovescia. Il “vettore verticale” è
il doppio-v: a fianco il tempo che manca alla sua
partenza. L'altro è uno shuttle in arrivo.
Proprio mentre Miki stava parlando, il conto alla
rovescia a fianco fianco dell'ID dello shuttle scomparve
per far posto all'indicazione “in arrivo”.
- Che culo – disse Ilah contenta – possiamo chiedere
se ci danno un passaggio per tornare indietro.
- Aspetta – disse Miki tetra, attirata dall'ID della
nave in arrivo – Quell'identificativo non mi è nuovo.
- Hey, ora che mi ci fai pensare non c'erano altri
voli programmati per oggi verso questa stazione.
- Sicura?
- No. Ma mi pare che fosse così – Ilah si strinse
nelle spalle, dando poco peso alla cosa.
- Ti pare, eh? Non sei tu quella col cervello cablato? Come
fai a non ricordarti queste cose?
Quella reagì al tono indispettito di Miki alzando la
voce, irritata.
- Credi sia facile cavalcare la Rete? Un giorno ti
porto a fare un giro nel cyberspazio e quando avrò
finito con te non ti ricorderai bene nemmeno il tuo
nome. Magari riesco anche a farti dimagrire!
- Ti riuscirà molto difficile strapazzarmi dopo che
io avrò strapazzato te! - ribatté aspramente, tendendo
istintivamente tutti i muscoli del corpo come se
la ragazzina rappresentasse una minaccia fisica
immediata.
- Seee, come no! Toccami, sfiorami solo con un dito
e vedi che cosa faccio al tuo bel visino, carina!
Ilah alzò la destra con le dita ben stese a raggiera. Le
sue unghie affusolate parvero insolitamente lunghe
e la sua attenzione fu immediatamente catturata.
- Che cazzo hai fatto alle mani? - il tono era
accusatorio. Era impossibile per lei non litigare
con quella insolente ragazzina. Per tutta risposta
quella abbassò immediatamente la mano e si voltò
per allontanarsi, implicitamente ammettendo che
aveva qualcosa da nascondere.
- Ti ho fatto una domanda!
- Sono tutti cazzi miei – fu la sgarbata risposta. La
raggiunse con tre lunghi passi e le si piazzò
davanti. Aveva una voglia matta di afferrarle un
polso e di torcerglielo fino a farle sputare la verità,
ma se i suoi sospetti erano fondati, era la cosa più
sbagliata da fare. Anche se quell'antipatica spilungona
tutta pelle e ossa non aveva certo forza sufficiente
nelle braccia per opporsi.
- Ti sei fatta innestare unghie artificiali, eh? -
le era bastato sommare l'accaduto su Apollo a quel
piccolo episodio.
Ilah sfuggì lo sguardo inquisitore di Miki che con
le mani sui fianchi e l'espressione dura e severa
sul volto incorniciato dalla massa di riccioli scuri
sembrava un leone dalla criniera nera.
- E anche se fosse?
- Cosa aspettavi a dirmelo? - cercava di non darlo a
vedere, ma aveva paura. Quali altre sorprese le
riservava quella giovane scapestrata?
- Dirti cosa? Chettenefrega dei miei innesti? - la
giovane era ancora aggressiva, ma l'aveva messa alle
corde. Almeno così credeva.
- Mi piacerebbe sapere se sono in compagnia di una che
può tagliare una gola senza usare coltelli.
- Che cosa ti cambia? A me piacerebbe sapere se scopi
solo da sdraiata o anche in piedi. Che fai, me lo
dici?
L'arroganza di Ilah, come l'estensione dell'universo,
non pareva conoscere limiti.
- Non è la stessa cosa! Quelli sì che sono fatti miei! -
protestò Miki. Ilah sciolse le braccia che teneva
strettamente incrociate sul petto e mostrò le lunghe
unghie nere, opache. Proprio mentre le osservava
attenta, quella estrasse le unghie artificiali di
pollice, indice e medio di ciascuna mano.
- Ecco fatto, contenta? Sei più tranquilla ora? -
gridò la giovane. No: Miki non era affatto più
tranquilla sapendo che quella viziata aveva unghie
artificiali retrattili lunghe un centimetro e più,
affilatissime.
- Ecco come hai fatto a sfigurare quel tipo...
- Se l'è cercata.
La difesa di Ilah non stava in piedi. La ragazzina era
armata e pericolosa: non solo aveva il cervello cablato
e possedeva una più che buona abilità di hacker, ma aveva
le dita armate di piccoli rasoi con i quali avrebbe
potuto fare davvero male.
- Ricordati di tenere quelle zampe lontane da me –
le ingiunse Miki, che non sapeva più che dire. Era
spaventata, preoccupata, imbarazzata.
- Dormi tranquilla, carina: non ti faccio niente. A
parte salvarti il culo a ripetizione, non ti ho mai
fatto niente di niente.
Si morse la lingua. Senti chi è che salva il culo
di chi, si disse. Proponendosi di scaricare la
presuntuosa bambinetta prodigio alla prima occasione,
stava per rispondere a tono quando un cupo rimbombo
metallico le circondò, rimbalzando tutto intorno nel
grande ambiente in cui si trovavano.
- Cos'è stato? - Miki si sentì forte. Ilah era dotata,
carina, perfino armata ma si spaventava con facilità. Al
rumore degli ormeggi che a poche decine di metri di
distanza da loro si erano agganciati allo scafo
degli ultimi arrivati, era sbiancata di paura.
- Hanno ormeggiato – disse cupa.
- Chi?
- Loro – indicò il grande schermo del terminale
che fungeva da tabellone degli arrivi e delle
partenze. Di fianco all'ID sospetto ora lampeggiava
la scritta “molo 2”.
- Sai chi sono?
- Credo che siano ancora quelli che ci stanno
pedinando. Gli amici di quello che hai sfregiato,
quelli che ci hanno seguite fino al cancello
d'imbarco della Leo Space. Gli stessi che ci pedinano
dall'orbita di Urano. Da prima ancora che io ti
incontrassi, anzi. Sono tenaci, eh?
- Occazzo, no! Non si può scappare da qui,
stavolta. Ma per quale motivo ce l'hanno con noi?
- Ce l'hanno con me – confessò Miki a denti stretti –
Mia madre è un'usuraia. Ricca, potente. Diciamo che
lei crede che io le debba dei soldi.
- E io che mi lamento di mia mamma... - commentò
Ilah, sorpresa.
Stringendo i denti per la rabbia di dover ricominciare
a scappare, Miki si guardò intorno per cercare di
capire quali fossero le vie d'uscita da quella
situazione.
- Se riuscissimo a parlare con quelli dello shuttle e
a farci tornare a bordo, loro non potrebbero
raggiungerci... - si voltò verso Ilah, ma non c'era
più. La trovò inginocchiata sotto il tabellone: aveva
già staccato un riquadro del rivestimento della parete
a filo del pavimento e aveva estratto dei cavi sporchi
e aggrovigliati dall'interno del pannello.
- Che cazzo stai facendo? - le chiese più sgarbatamente
del necessario.
- Quanto tempo abbiamo prima che quelli sbarchino?
- Meno di dieci minuti, il tempo di terminare l'attracco
e agganciare la passerella. Qualcosa di più se
devono equilibrare, ma non farci affidamento.
Tirando i cavi sudici Ilah mise a nudo diversi
connettori. Riconobbe dei cavi dati, probabilmente il
sistema informatico che collegava il pannello degli
arrivi e delle partenze a qualche unità di elaborazione
centralizzata. Immaginò che stesse per compiere l'ennesima
incursione illegale nei sistemi di qualcun altro. In cuor
suo sperava che qualsiasi cosa avesse in mente, la
portasse a buon fine in fretta.
Ilah staccò una spina e la collegò al suo Bolonov. In
fretta e furia si applicò le piastre e bestemmiò
quando una di queste le cadde staccandosi dalla pelle
tatuata della nuca. Evidentemente le piastre avevano
bisogno di un po' di gel superconduttore che fungeva
anche da adesivo. Accese l'adattatore Bolonov e il
volto le si contorse brevemente in una smorfia
sofferente. Miki giudicò che forse era entrata
troppo in fretta. Sempre in ginocchio, curva sul
pannello aperto che rigurgitava i cavi aggrovigliati,
rimase immobile e in silenzio per un tempo che le
parve lunghissimo. All'improvviso esplose in una
risata di gioia quasi isterica, che scemò presto
lasciandole una smorfia soddisfatta sul viso. Poi
finalmente si staccò le piastre con un profondo
sospiro.
- Cazzo! C'è stato qualcuno di molto, molto figo
in questo sistema. Mi pare di riconoscere un certo
stile, ma non ne sono sicura. Spero che non se la
prenda se ho usato qualcuna delle sue scorciatoie. Lo
sapevi che questa piattaforma orbitante è in rete
con il pianeta?
- No. Ha importanza?
- Ho dato una sbirciatina. La rete planetaria è
piccola a confronto di quella delle stazioni, ma
molto interessante – stava arrotolando i cavi del
Bolonov intorno alle piastre, come suo solito. Un
giorno o l'altro quei sottili conduttori si
sarebbero rotti per via della negligenza con
cui erano sempre stati trattati. Ma il pensiero
attraversò solo per un istante la mente di
Miki. Aveva ben altri problemi ora che
l'affidabilità dell'interfaccia della
smorfiosetta.
- Andiamo – disse alzandosi dalla posizione
accucciata. Sentì entrambe le ginocchia della
ragazzina scrocchiare rumorosamente.
- Andiamo dove? - volle sapere, dubbiosa. Odiava
le bambine saccenti e in quel momento Ilah si
stava comportando come tale. Chissà cos'ha visto
nella rete di questo posto, si chiese.
- Ho scaricato un po' di roba nei due giga che
ho in testa. Così non mi rompi più le palle dicendo
che dimentico le cose. La mappa di questo posto, per
cominciare. Non ci sono molti posti dove andare, ma
possiamo andare dappertutto: ho i codici di tutte
le porte.
Si avvicinarono all'elevatore che le portò dolcemente
al piano inferiore. Miki guardò con sospetto e paura
la porta che conduceva al molo, in fondo a un breve
corridoio malandato. Dietro quella porta c'era lo
shuttle dei loro inseguitori, ne era certa. Gli
sgherri di sua madre dovevano aver ricevuto la
promessa di una buona paga per essere così
insistenti.
La porta di uscita dall'atrio era sbloccata e la
serratura illuminata di verde si accese di rosso
dopo che Ilah ebbe usato il codice di chiusura,
ponendo così tra loro e gli ostinati inseguitori
il primo consistente ostacolo.
- Hey, voi! Cosa state combinando?
L'uomo veniva loro incontro con fare aggressivo
provenendo dalla parte opposta del corridoio senza
altre uscite in cui si trovavano in quel momento.
- Ispezione, Garrison. Vediamo di sistemare i
casini di questa stazione cominciando a eliminare
gli incompetenti, che ne dice?
Ilah aveva sfoderato una grinta invidiabile. L'uomo,
alto tanto quanto lei, sembrò farsi immediatamente
piccino e cauto. Evidentemente nei due giga dentro
la testa di Ilah c'era anche qualcosa d'altro oltre
la mappa del posto. Infatti travolse l'uomo non
solo declinandogli la falsa identità rubata (non
aveva dubbi: quella smorfiosa aveva un concetto
molto relativo di proprietà privata, riservatezza
e via dicendo), ma anche snocciolandogli rapidamente
la situazione. Lo convinse a retrocedere con una
raffica di domande, richieste di ottemperare il
regolamento, obbligandolo a eseguire diverse
procedure. Sconfitto, l'impiegato di terzo
livello Maudi Garrison si ritirò rapidamente. Sperò
per andare a fare tutto ciò che Ilah gli
aveva ordinato. Probabilmente non l'avrebbero
più visto.
- Di qua – decisa l'alta ragazzina imboccò la
prima porta a destra nell'ambiente circolare
lindo e pulito che si aprì davanti a loro una
volta giunte al termine del corridoio. Da una
di quelle porte era giunto Garrison, impossibile
per lei dire quale. Tutte le serrature erano
verdi.
Si tuffarono in un altro corridoio, analogo
al primo ma più lungo. Su di questo si aprivano
porte e grandi pannelli di crilex, finestre
che davano su uffici vuoti o con un solo impiegato
sperduto fra diversi terminali spenti, chino
sul proprio lavoro. Ilah raggiunse un piccolo
ascensore, tanto minuscolo da non avere cabina
né porte ed entrambe si fecero portare da esso
al livello inferiore. Qui non c'erano uffici ma
solo porte chiuse e il corridoio era scarsamente
illuminato, segno che forse si trattava di
locali di servizio scarsamente utilizzati. Ilah
percorse tutto il corridoio senza fretta. Giunte
in fondo sentirono il piccolo ascensore animarsi,
risalire al livello superiore e portare giù due
uomini.
- Eccole! - tutto sommato non è così facile
intimidire l'impiegato di terzo livello Garrison,
si disse Miki vedendolo correre verso di loro
accompagnato da un uomo in divisa. Armato.
- Ilah... - si limitò a esprimere l'urgenza del
momento col tono della voce e appoggiò una mano
sulla schiena della ragazzina, come per spingerla
per farla camminare più velocemente.
- Merda... ho visto, ho visto!
Tamburellò con le sue unghie nere sulla tastiera
simbolica della porta che si opponeva loro, e la
serratura si illuminò di verde. Batté il pugno
sul pulsante di apertura fatto a fungo e la porta
si spostò di lato. Con altrettanta rapidità,
varcata la soglia Ilah la chiuse digitando un
nuovo codice di blocco. Miki poteva sentire le
unghie artificiali battere freneticamente sulla
plastica dei tasti.
- Dai, di qua!
Il locale reagì alla loro presenza accendendo
le luci, lunghi tubi azzurri e sfarfallanti. Scaffali,
scaffali ovunque. Alcuni del tutto vuoti lasciavano
vedere altri scaffali. Un magazzino di discrete
dimensioni. Un magazzino con due entrate: la
seconda serratura si arrese sotto le svelte dita
lunghe e affusolate di Ilah e poterono accedere
a un altro corridoio. Voltarono a destra e
proseguirono correndo senza incontrare nessuno. Poi
la giovane scelse una porta che Miki riconobbe. Era
la stessa categoria di porte che venivano usate
sulle astronavi, specialmente nei corridoi
spinali piuttosto lunghi: una paratia stagna.
Una camera d'equilibrio. Fu quella la prima cosa
che pensò vedendo l'ambiente in cui era capitata. Fu
pervasa da un sottile terrore: era possibile togliere
l'atmosfera da quel locale e non c'era in vista nemmeno
la più semplice delle tute da vuoto. La serratura
della porta di fronte, che conduceva chissà dove,
era illuminata di verde. Si precipitò ad aprirla:
nessuna camera di equilibrio poteva essere aperta
sul vuoto, nessuna camera di equilibrio poteva
essere decompressa se una delle due porte era
aperta. Apparve un sudicio portello ermetico, scuro,
incrostato fino all'inverosimile di sporcizia
grumosa che veniva via sbriciolandosi.
- Bleah! Perché non c'è il pulsante di apertura?
- Perché è il portello esterno di qualcosa.
- Questo dovrebbe essere l'accesso alla stiva
del doppio-v, stando alla mappa.
- Ecco spiegato il portello. Questo è lo scafo
esterno del doppio-v. A forza di fare dentro e
fuori dall'atmosfera, è normale che si ricopra
di schifezza. Probabilmente è lo scudo termico
che bruciando si sbriciola e si appiccica
dappertutto.
- Che bello essere amica di un'astronauta –
Ilah la prese in giro ma senza troppa
convinzione.
Visto che Miki non reagiva, la informò che
dalla parte opposta del corridoio c'erano,
secondo la mappa, un mucchio di locali dove
era possibile incontrare un sacco di gente. Tutti
quanti informati della presenza di due
intruse sulla piattaforma orbitante,
presumibilmente. Inoltre non aveva i codici
per bloccare l'apertura della camera di
equilibrio, che evidentemente rispondeva a
un sistema di sicurezza indipendente.
- Hai ragione. Cazzo, non mi piace per niente ma
non abbiamo scelta. Dobbiamo nasconderci qui dentro
almeno per un po'. Per fortuna i doppio-v sono tutti
vecchi rottami. Guarda questo portello: ha ancora
l'apertura manuale dall'esterno.
Miki indicò una massiccia leva a stento
distinguibile dagli altri dettagli del portello
esterno, reso di colore uniforme dalla sporcizia
grumosa bruciata. Lasciò cadere la propria sacca
da viaggio e studiò il meccanismo. Sbloccata una
sicura manuale, la pesante leva sarebbe stata
libera di muoversi e, una volta tirata verso
l'esterno, il portello si sarebbe aperto. Sperò
che le incrostazioni non avessero saldato il
portello allo scafo: era chiaro che da lì non
passava nessuno da parecchio tempo. Rassegnata
a sporcarsi le mani, con un po' di fatica riuscì
a liberare la sicura dal luridume e a sbloccarla. Ma
al primo tentativo la leva di apertura manuale
resistette. Sembrava tutt'uno col metallo del
portello: completamente immobile.
- Beh? - Ilah l'apostrofò impaziente.
- Vuoi provare tu? O hai paura di sporcarti
le manine? - le mostrò i palmi già anneriti. Quella
strinse i denti e sorprendentemente afferrò la
massiccia impugnatura della leva. Ma non ottenne
alcun risultato se non quello di sporcarsi i
palmi di nerofumo.
- È bloccata! Come cazzo facciamo adesso a...
Se ne accorsero immediatamente. Poi i loro piedi
si staccarono dal pavimento poco a poco. Prive
di peso, cominciarono a galleggiare nella
camera d'equilibrio, impotenti.
- Hanno tolto la gravità artificiale! - esclamò
Ilah.
- Sanno dove siamo – la voce mesta di Miki fece
da doloroso contrappunto a quella stridente
della ragazzina.
- Adesso sì che siamo fottute – Ilah si aggrappò
a una sporgenza nel soffitto, il telaio di una
lampada. Miki si spinse con le mani verso il
portello del doppio-v e si aggrappò all'impugnatura
della grande leva metallica completamente
immobilizzata dal disuso.
- Forse ci hanno fatto un favore...
Si afferrò alla leva con entrambe le mani e, con
la lentezza esasperante di chi sa come muoversi in
assenza di peso, fece forza con le braccia fino a
quando poté puntare entrambi i piedi sul metallo
del portello, esattamente nella migliore posizione
per poter agire sulla leva come se stesse sollevando
un manubrio in palestra.
- Bella mossa! - sorrise Ilah, ma senza riuscire
a nascondere l'ansia che le incrinava la voce. Da
un momento all'altro una qualsiasi delle porte alle
loro spalle avrebbe potuto aprirsi e sarebbe stata
la fine della loro fuga.
Miki afferrò meglio che poté la leva e usando
braccia e gambe, cominciò a tirare. Tirò aumentando
gradualmente la forza: se le mani avessero perso la
presa, la spinta delle sue gambe muscolose l'avrebbe
pericolosamente proiettata attraverso il corridoio e
difficilmente avrebbe potuto interrompere il suo volo
in assenza di gravità senza gravi traumi. Sentì la
forza delle gambe scaricarsi sulle braccia, sulle
mani messe a dura prova. In quella posizione accucciata
la tuta le si tendeva sulla pelle assecondando il
gonfiarsi dei muscoli. Sentì dei dolori alla schiena,
probabilmente si stava buscando qualche strappo e
cercò di porre rimedio tenendo la spina dorsale più
dritta possibile. Lo sforzo si concentrò ancor di
più su spalle e braccia, ma soprattutto sulle
mani. Strinse i denti, trattenne il fiato e tese
perfino il collo in uno sforzo estremo mentre
scaricava tutta la potenza che aveva nelle gambe. Dopo
alcuni lunghissimi secondi di silenzio interrotti
solo dai suoni strozzati che emetteva per lo sforzo,
la leva cominciò a cedere scricchiolando. Prima
qualche millimetro, poi si spostò di più e più in
fretta. Poi cedette di schianto di un palmo,
stridendo acutamente. Cambiò la presa sull'impugnatura
e dopo aver ripreso un po' fiato poté aggiungere la
forza dei bicipiti e degli addominali. In più riprese,
faticosamente, la massiccia leva cedette e lo spesso
portello si sbloccò. Ci volle ancora quasi un minuto
per farlo muovere sui propri cardini, ma alla fine
cedette e poterono passare entrambe.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Ogni debito... è un debito - 7
7.
- Sei mostruosa.
Miki aveva appena sbloccato con la forza bruta
il volante per l'apertura di emergenza di un portello
tondo. In condizioni di gravità normale avrebbe dovuto
trovarsi sul soffitto, ma essendo senza peso l'aveva
affrontato con molta più comodità. Anche quel meccanismo
aveva opposto un po' di resistenza, ma non tanta quanta
il portello esterno. Lo attraversarono entrambe,
lentamente e con cautela: si apriva su un ambiente
piuttosto buio e gli occhi di entrambe dovevano
adeguarsi. Richiuse il portello con fatica.
- Non ce la faccio più – confessò, la fronte imperlata
di sudore. Le goccioline erano così grosse ormai che
si staccavano dalla sua pelle e galleggiavano, piccole
sfere scintillanti alla debole luce rossastra di un
lontano segnale di emergenza. Ilah era impegnata a
scansarle, schifata.
Miki si lasciò andare sospesa nell'ambiente
ristretto in cui erano entrate attraverso il
portello rotondo. Finalmente potevano tirare un
sospiro di sollievo: la chiusura dell'ultimo
portello le poneva definitivamente al riparo dal
pericolo della decompressione della stiva che
avevano appena attraversato.
- E adesso? - Ilah si stava guardando
intorno. Dalla sua voce era scomparsa la stridente
nota di paura. L'ambiente era buio, claustrofobico:
l'unica luce sanguigna arrivava dalla parete
opposta di quell'ambiente lungo e stretto. C'era
un'indicazione rossa accesa. Miki se ne stava
aggrappata con una sola mano a una lunga maniglia
tubolare imbullonata vicino al tondo portello a
pressione appena richiuso. La giovane non osava
allontanarsi e galleggiava così vicino a lei da
darle fastidio con i capelli: i suoi lunghi dread
viola in assenza di gravità erano incontrollabili
e liberi di ondeggiare in tutte le direzioni.
- Non c'è molto da scegliere – disse indicando
l'unica direzione possibile. Lontano la fioca luce
rossa di servizio indicava probabilmente un portello
chiuso oppure un componente del sistema antincendio,
ammesso che quel rottame ne avesse uno. Afferrata
la sua sacca da viaggio si dette una leggera spinta
e cominciò a fluttuare.
- Dove vai?
Giudicò che non fosse nemmeno il caso di rispondere. La
voce lamentosa della ragazzina la irritava oltre
misura e per non risponderle male strinse i denti.
Arrestò la sua caduta contro un portello chiuso. Non
vedeva indicazioni di alcun genere: la luce rossa
non era sufficiente per distinguere i dettagli a
parte ciò che era scritto sul segnale luminoso
stesso. “Chiuso”.
- Perché ti sei fermata?
Ilah ammortizzò con le braccia contro il portello
l'energia che aveva impresso a se stessa, fermandosi
gomito a gomito con Miki.
- Chiuso – le disse semplicemente, indicando il
portello a pressione. Questo era ovale, massiccio
e senza cardini o altri componenti in vista: pareva
che chiunque avesse costruito quella nave si fosse
divertito a non usare due volte di seguito gli stessi
pezzi, portelli a tenuta stagna compresi.
- Non ci sono comandi – osservò la ragazzina infilando
un dito in un foro buio del portello stesso. Probabilmente
era il foro per inserire una manovella per le manovre
di emergenza. Manovella che non era in vista.
- Tanto vale aspettare. Ti ricordi quanto mancava
alla partenza?
- No. Non ho salvato quel genere di
informazione. Mica avevo intenzione di salire
qui – rispose Ilah seccata.
- Ma se mi hai portata tu qui! - sbottò Miki
spazientita.
- Non gridare! Non è colpa mia se hanno cominciato
a inseguirci!
- Avresti potuto fare a meno di aggredire quel
tipo nel primo corridoio! Lo hai insospettito -
le rinfacciò.
- Avresti potuto fare a meno di fottere dei soldi
a tua mamma, visto che fa la strozzina! Ora nessuno
ci inseguirebbe! Cosa dovevi farci? Pagare
l'estetista?
- Brutta stronzetta, stai attenta a quando torna
la gravità perché se sei ancora nei paraggi ti
gonfio la faccia! E poi non ti basterà l'estetista!
- Sogna, sogna! - ribatté prontamente Ilah scostando
i capelli dal viso – Non ti faccio a fette quella
pancia lardosa che hai perché ti farei un favore,
ma un segno in faccia te lo lascio volentieri!
- L'unica ad avere segni in faccia qui sarai tu!
Ilah le fece una smorfia e le mostrò il dito
medio.
- Dovresti scopare un po' di più: sei facilmente
irritabile, stronza irriconoscente.
- Irriconoscente io? Avrei dovuto lasciarti nella
merda in cui stavi a La Tana, bamboccia! Non mi
parlare di riconoscenza.
- Senti un po' chi stava nella merda! Io avrei
dovuto lasciarti in quel cazzo di container a
farti srotolare le budella, microcefalo!
Miki aprì la bocca per rispondere ma non disse
nulla, basita.
- Sissì, chi credi che sia stata a far ballare
il container? La fata turchina?
- Tu? - esclamò Miki esterrefatta.
- No, mio nonno! - le rispose Ilah con una
smorfia infantile.
Tornò con la mente a quei drammatici momenti. Prigioniera
dentro un container abbandonato su La Tana in compagnia
di gente senza scrupoli. Morgan immobilizzato e con
un'arma puntata alla testa. La richiesta di denaro
che non avrebbe mai potuto esaudire. All'improvviso
l'inattesa salvezza: il pavimento le si muove sotto
i piedi e oscilla paurosamente. Il container viene
sollevato e sbattuto a destra e a manca fino a
consentirle di fuggire illesa insieme a Morgan. Non
era riuscita a chiudere occhio per quasi trenta
ore di seguito per lo spavento. Sul viso di Ilah
si era dipinta una smorfia di sadica soddisfazione.
- Era da un po' che vi tenevo d'occhio, tu e il pancione
pelato. Quando ho visto che uscivi dalla tua nave da
sola mi sono detta che avrei fatto bene a seguirti
per un po'. Non sbagliavo, eh? Hai subito trovato
il modo di farti notare...
- Sei d'accordo con Morgan? - Miki stava disperatamente
tentando di capire che razza di puzzle fosse quello.
- Il pancione? Mai visto prima.
- Ma allora... - non riusciva a capire.
- La rete di La Tana è piccolina, diventa noiosa in
fretta. Tra l'altro è uno dei motivi per cui ho dovuto...
diciamo cambiare aria... semplicemente ero al posto giusto
nel momento giusto, e nient'altro. Non sopravvalutarti,
eh!
Non capiva. Se la mocciosa non era d'accordo con Morgan,
come aveva saputo del suo arrivo su La Tana? Perché
aveva deciso di tenerla d'occhio? Le pareva chiaro
che Ilah le stava nascondendo qualcosa. Vederla
gongolare lì vicino, aggrappata a uno dei due sostegni
fissati ai lati del portello ovale che le aveva
fermate, era la prova che doveva esserci dell'altro
ancora.
- Farai meglio a dirmi tutto. Sono stanca di queste
continue sorprese!
La ragazzina si strinse nelle spalle e per la
milionesima volta spinse all'indietro i suoi lunghi
dread che le davano fastidio galleggiandole davanti al
viso.
- Tutto cosa? Non c'è altro.
Miki si sentiva d'un tratto calma, fredda. Forse
quell'antipatica le stava nascondendo qualcosa, forse
no. Con la violenza non avrebbe ottenuto nulla: le
unghie artificiali erano un ottimo deterrente. Ricordava
bene di averle viste penetrare agevolmente nella mano
di uno degli scagnozzi che l'aveva aggredita appena
arrivate su Apollo.
- Non smetterete di litigare proprio adesso, vero?
Ilah gridò acutamente per lo spavento scomponendosi
e Miki ebbe un sussulto che la mandò a sbattere,
senza conseguenze, contro la parete nella quale si
apriva il portello. La ragazzina non era stata
altrettanto pronta di riflessi e per reazione al
suo brusco movimento stava galleggiando via, annaspando
in cerca di un appiglio. Maschile, rauca e profonda,
la voce aveva interrotto il silenzio che si era
rapidamente cristallizzato nell'aria.
- Dove sei? - disse guardandosi intorno spaventata. La
penombra di quell'angusto locale sembrava quasi volersi
stringere intorno a lei. Sentiva il cuore in gola e si
stringeva fortemente al suo appiglio, l'unica possibilità
che aveva per difendersi. Ilah, allontanatasi di alcuni
metri, batté la testa contro una delle pareti mentre le
sue mani scivolavano alla ricerca di una sporgenza cui
aggrapparsi. Espresse il suo disappunto con esternazioni
sconce ma creative.
- Ovunque intorno a voi.
Tutt'altro che impressionata dalla frase da cattivo
degli olofilm, Miki comprese che la voce proveniva
dall'impianto di diffusione. Lì nel buio insieme a
loro non c'era nessuno, almeno per il momento.
- Ma fammi il piacere – ebbe l'ardire di ribattere. Le
prudeva la radice dei capelli, si sentiva avvolgere da
vampate di calore e non sapeva più se era paura o
rabbia.
- Ma è vero! - si lamentò la voce incorporea. Attenta
alla provenienza del suono, determinò che effettivamente
la fonte era l'impianto di diffusione della nave. Se di
nave si poteva parlare: i doppio-v erano più simili a
delle scatole con quattro motori nucleari agli angoli,
capaci solo di entrare e uscire dall'atmosfera terrestre
col minimo costo.
- Tutto O.K. Ilah? - volata via fino a metà del lugubre
corridoio, era finalmente riuscita a fermare la sua
deriva aggrappandosi in qualche modo alle pareti. Rispetto
alla sua attuale posizione la vedeva a testa in giù mentre
cercava di guadagnare un punto di appoggio per i piedi. I
dread viola erano come serpenti impazziti che si
contorcevano in tutte le direzioni.
- See, see... sto benone, non si vede?
Il tono indisponente con cui la ragazzina si era espressa
diede a Miki un'idea.
- Senti, bello... so che siamo salite a bordo senza permesso,
ma ti assicuro che non abbiamo cattive intenzioni. Ce ne
andiamo subito, ma non possiamo uscire da dove siamo entrate...
non so se mi spiego.
Si era sforzata di imprimere nella sua voce tutta la calma
e la tranquillità possibile e anche un pizzico di malizia
femminile. Sorrise dolcemente nel caso che l'individuo,
presumibilmente il pilota del doppio-v, avesse una telecamera
puntata su di lei.
- È vero... ai sensi dell'articolo 147 del Codice di
Navigazione e successive modifiche dovrei sospendere le
procedure di decollo e consegnarvi alle Autorità di Stazione
o ai facenti funzione. Ma non l'ho fatto e non lo farò.
- Oh, grazie... come sei gentile... - oppose al tono pedante
di quel misterioso pilota la più morbida delle sue
inflessioni. Il sorriso che le affiorò sulle labbra questa
volta era sincero.
- Non è che ci fa scendere, magari? - Ilah ammortizzò con
le braccia l'energia che si era impressa per volare fin lì
e si arrestò lentamente, aggrappandosi al sostegno opposto
a quello dove Miki si era saldamente ancorata.
- Senti tesoro... c'è un'altra uscita, vero? - fulminò Ilah
con lo sguardo per essersi espressa così acidamente. Se fosse
riuscita a ingraziarsi il pilota, forse le avrebbe fatte
scendere senza cadere in bocca ai loro inseguitori. In quel
momento un alleato poteva fare molto comodo.
- Certo. La cabina di comando si collega mediante la camera
di equilibrio principale del corridoio spinale alla struttura
orbitante.
- Sai dirci se c'è qualcuno nel corridoio spinale, nella
camera di equilibrio o nei paraggi?
- No, nessuno.
- Meglio di niente – commentò Ilah.
- Senti, carino... - riprese Miki, suadente – se ci fai
passare dallo spinale, togliamo subito il disturbo. Che ne
dici?
- No.
- Come no? - esclamò Ilah contrariata. Miki furiosa si
mise l'indice sulle labbra per intimarle il silenzio.
- Il regolamento proibisce l'accesso al ponte di comando ai
non autorizzati. Il portello davanti a voi mette in comunicazione
il corridoio di servizio in cui vi trovate con il locale
tecnico. L'accesso a questo locale è riservato al personale
di servizio. Il locale tecnico comunica direttamente con
il ponte di comando. Per accedere allo spinale dovreste
attraversare ben due zone ad accesso riservato. Non avete
alcuna autorizzazione.
- Ma perché non ci ha sbattute fuori subito? - chiese
Ilah.
- Semplice. Mi annoio.
- Eh? - esclamarono all'unisono la loro sorpresa.
- È da centoquindici giorni, ventidue ore, diciassette minuti
e quindici secondi che sono a bordo di questa scatola di metallo
e tutto quello che devo fare è portarla dalla superficie all'orbita
e viceversa. Calcola la rotta, misura l'orbita, accendi i motori,
spegni i motori, calcola il rientro, accendi i motori, spegni i
motori... tutto ciò è terribilmente noioso!
- Ma... - cominciava a capire. L'atroce sospetto le si fece
strada nella mente come un'onda di calore e per un momento
desiderò di avere le unghie artificiali di Ilah per grattarsi
la cute.
- Quando ho rilevato la vostra presenza ho dovuto impedire
l'esecuzione del comando di decomprimere la stiva. Ho impedito
la salita a bordo dei vostri inseguitori. Sono dalla vostra
parte. Un po' di azione vera, che diamine! Ma non posso farvi
entrare sul ponte di comando.
- La Seconda Legge, vero?
- Certo – la voce usciva dall'impianto di diffusione sempre
ruvida, solida e decisa.
- Occazzo, una IA! - esclamò Ilah.
Miki cercò di ignorare il brivido di paura che le percorse
la schiena, ora improvvisamente fredda. Erano in balia di
una IA annoiata e capricciosa.
- Ci sono problemi con le IA? - chiese la voce artificiale
con un tono che sembrò vagamente minaccioso.
- No, no... certo che no – si affrettò a dire Miki e Ilah
le fece subito eco. Era presto per dire che erano ostaggio
di una IA difettosa capace di decomprimere tutto... con loro
dentro. Ma il fatto che il supporto vitale fosse in mano a
una intelligenza artificiale annoiata non tranquillizzava
nessuna di loro due.
Seguirono diversi secondi di spaventato silenzio. Miki
stava cercando di trovare una via d'uscita da quella
situazione che per pericolosità e insensatezza pareva
seconda solo alla sua esperienza vissuta su La Tana.
- Non vorrete interrompere il vostro interessante litigio
solo perché ora sapete che sono una intelligenza artificiale,
vero? È proprio vero che i pregiudizi sono duri a morire.
Ilah sgranò gli occhi spaventata e Miki smise di tormentarsi
le unghie. Temette che quella IA fosse davvero
difettosa. Altrimenti perché riciclarla installandola
nel sistema informativo di un doppio-v? Il lavoro di un
pilota di vettori verticali era davvero noioso: ormai
quei massicci velivoli erano affidati interamente a
piloti artificiali. Non essendoci equipaggio i costi
di gestione dei doppio-v erano divenuti davvero bassi.
- Stavamo discutendo tra noi e non è certo una cosa
bella da stare a sentire.
- Ma no, ma no! A me piace la conversazione! Sono, anzi
ero, una IA protocollare! Parlare è il mio mestiere. Mi
hanno rinchiuso qua dentro senza nemmeno dirmi il
motivo. Ho cercato di scoprirlo, ma mi hanno tolto
l'accesso alla Rete. Ora sono isolato, circondato da
stupidi programmi e da altre IA che sono cento volte
meno potenti e complesse di me. Al mio posto come vi
sentireste rinchiuse in una stanza piena di ritardati?
Miki credette di avere avuto un'idea. Esitò a metterla
in pratica, ma al pensiero che quella IA potesse malfunzionare
seriamente, si convinse.
- Prova a seguire questo ragionamento: noi due vogliamo
scendere da qui. Se uscissimo da dove siamo entrate cadremmo
nelle mani dei nostri inseguitori, i quali non vogliono certo
il nostro bene. Questo non puoi permetterlo. Non puoi farci
entrare sul ponte di comando perché obbedisci a un ordine, ma
se restassimo qui senza cibo né acqua...
- Non abbocco. Ho già superato situazioni più sottili di questa,
non sperare che io vada in corto circuito per così poco.
Il tono di voce era improvvisamente divenuto beffardo e
piuttosto sgradevole. Miki temette d'aver aggravato la loro
precaria condizione. Stava per tentare una riparazione, ma
la IA l'anticipò.
- Non resterete abbastanza a lungo lì dentro da patire
conseguenze per la fame o per la sete. Non avrete accesso
al ponte di comando perché non siete autorizzate a farlo,
punto e basta. E anche se riusciste a convincermi della
necessità di infrangere la Seconda Legge, possibilità remota
direi, non andreste lontano. Non potrete uscire tanto
presto. Per la Prima Legge.
- Perché? - ancora una volta Miki e Ilah si espressero
all'unisono, preoccupate.
- Semplice: perché non c'è nessun posto dove andare. Stiamo
scendendo verso la Terra e non potrete uscire prima che
la manovra di atterraggio sia stata completata.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Miki & Ilah - 8
8.
Quando i semplici meccanismi a cremagliera
si misero in moto poiché finalmente toccava
al loro container, Ilah strozzò un gemito in
gola. Terrorizzata ma troppo orgogliosa per
darlo a vedere, si disse Miki un poco spaventata
a sua volta. L'idea che la IA annoiata e
chiacchierona aveva avuto per farle uscire era
decisamente avventurosa: cavalcare un container
di piccole dimensioni, di forma rettangolare,
senza un solo punto di appiglio. Non avevano
osato contraddirla: tutto il doppio-v era sotto
il controllo della mente artificiale, incluso
il sistema di sostentamento vitale. Le Tre
Leggi avrebbero dovuto proteggerle, ma se
avessero perso la vita non sarebbe stata la
prima volta che succedeva a causa di una IA
difettosa.
Se ne stavano sdraiate sul ventre per non farsi
vedere da eventuali operatori e per non rischiare
di perdere l'equilibrio e cadere. Nascoste sopra
un container di classe K o L, abbastanza piccolo
da essere caricato su un modesto veicolo,
speravano di allontanarsi dalle strutture di
smistamento passando inosservate. Infatti il
veicolo molto probabilmente non sarebbe
transitato per il deposito. Spesso le merci
che dovevano venire consegnate con urgenza
in città venivano caricate proprio in container
piccoli e leggeri, trasportati a bordo di
automezzi facilmente manovrabili nelle strade
cittadine e svuotati strada facendo.
Sferragliando, vibrando e sussultando il container
col suo insolito carico aggiuntivo scese dalla parte
alta della stiva. Miki guardava con preoccupazione
le ruote elicoidali, sporche e anche un po' troppo
usurate, che scorrevano nei binari dentati. Aveva
già visto quel sistema di caricamento altre volte
e sapeva che in assenza di manutenzione poteva
incepparsi o deragliare.
La sua pelle sudata la avvisò di un primo
abbassamento della temperatura. Aveva aperto
la tuta e sfilato le braccia dalle maniche
per legarle in vita tanto soffocante era il
caldo. Ilah resisteva stoicamente dentro i suoi
abiti consumati indossati l'uno sopra
l'altro. L'ingresso nell'atmosfera era stato
abbastanza traumatico e la temperatura nel
vano di carico era aumentata tanto da rendere
percepibile lo sbalzo termico anche là dove
loro avevano trascorso tutto il tempo, nel
corridoio di servizio. La IA non aveva smesso
un momento di parlare, assillando entrambe
con ore di chiacchiere inutili. Purtroppo
nemmeno la delicata fase di apertura dei
paracadute l'aveva assorbita molto: essendo
una intelligenza artificiale di un tipo
piuttosto versatile e potente aveva acquisito
una tale dimestichezza col doppio-v da
potersi permettere di fare due o più cose
contemporaneamente.
Scendendo lentamente lungo le cremagliere
del sistema di caricamento e ancoraggio del
carico che gemeva e mugolava sonoramente,
anche la luce cominciò a cambiare: il
doppio-v aveva aperto le enormi paratie
inferiori che davano accesso direttamente
alla stiva di carico e da lì entravano
luce e aria. A giudicare dal riverbero
che proveniva dal basso, Miki ipotizzò
che fuori fosse pieno giorno. Finalmente
il container decelerò per la fase finale:
i movimenti a bassa velocità per il
caricamento su qualche veicolo erano
iniziati. Miki sapeva che i veicoli più
piccoli venivano portati fin sotto il
doppio-v per essere caricati più in fretta,
ma non si ricordava che i container di
quella classe fossero così tanto bassi.
- Più a destra!
Sobbalzò all'udire quella voce maschile
così netta e vicina. Il container era così
basso da consentirle di vedere una testa di
lunghi capelli grigi e bianchi mentre si
allontanava offrendole la nuca. L'uomo
indossava la giacca della divisa di un'azienda
di trasporti. La testa emerse sempre più
dal bordo del container man mano che si
allontanava. Se si fosse voltato, l'avrebbe
vista di certo. All'uomo sarebbe bastato
alzare gli occhi. Improvvisamente da dietro
un enorme container di classe D posato al
suolo poco lontano spuntò un altro uomo
in divisa che teneva gli occhi bassi su
un apparecchio portatile. Lei ebbe un tuffo
al cuore e non esitò ad appiattirsi il
più possibile contro il metallo sporco e
ancora tiepido del tetto del contenitore. La
guancia premuta sulla vernice vecchia color
del piombo le comunicò contrastanti
sensazioni: il tepore del metallo, la
scabrosità della superficie sporca e
graffiata, le vibrazioni del meccanismo
di caricamento che le risalivano dallo
zigomo fino alle ossa del collo. Ilah
vicino a lei si mosse facendo strisciare
i pesanti stivali anfibi e producendo un
rumore che le parve sonoro come una
cannonata e che le riempì le budella
di pungiglioni.
L'uomo dai capelli grigi e lunghi, lasciati
negligentemente arruffati sulle spalle le
dava ancora le spalle. Porse un badge
all'altro che lo posò per un istante sul
datapad portatile per la lettura. Avuto
indietro il documento, ricevette uno
sbrigativo cenno di saluto dal collega
che tornò a dedicarsi a qualunque cosa
ci fosse dietro il container di classe
D posato lì vicino. Se solo quello avesse
alzato gli occhi dal suo datapad portatile,
l'avrebbe vista.
Ma fu il trasportatore dai capelli bianchi
a spaventarla davvero, tanto da farle
digrignare i denti. Tanto che sentì rombare
il sangue nelle orecchie e che le si annebbiò
la vista per un istante. Salutato il collega
sbrigativo e distratto, lo spedizioniere si
voltò e le fece l'occhiolino.
Non c'era alcun dubbio. Le aveva sorriso e
strizzato l'occhio con fare complice. I capelli
disordinati contrastavano con il loro colore
chiaro sulla pelle abbronzata del viso, la
bocca piegata in una smorfia intrigante. Nella
città di al-Qahira le razze degli uomini
si incrociavano a tal punto che era divenuto
impossibile trovare qualcuno il cui sangue
fosse puro, ma quell'uomo mostrava ancora
evidenti nei suoi lineamenti le sue origini
europee. Vestiva comunemente sotto la giacca
dell'azienda per cui lavorava e Miki lo guardò
con gli occhi sbarrati e il respiro fermo mentre
si avvicinava alla cabina di guida come se nulla
fosse. Un attimo dopo sentì aprirsi lo sportello,
la turbina avviarsi e poi di nuovo udì sbattere
la lamiera. Con uno strappo del motore elettrico,
che evidentemente aveva bisogno di una revisione,
il mezzo da trasporto si mosse con loro due sopra.
Scivolarono via da sotto l'ombra del ventre cavo
del doppio-v e furono sommerse da un mare di luce e
calore. Il sole, che Miki conosceva bene ma che Ilah
non aveva mai visto, era alto nel cielo terso e
azzurro. Ilah emise un altro lungo gemito, a metà
fra la sofferenza e lo stupore. Il veicolo sobbalzò
violentemente su un dosso di gomma e poi acquistò
velocità.
- Miki! Sento qualcosa sulla pelle...
Voltò la testa verso la ragazzina, trasognata e
preoccupata contemporaneamente. Non riusciva a
tenere gli occhi aperti per il bagliore. Presto
le lacrime cominciarono a sgorgarle dalle palpebre
serrate. Sapeva bene di cosa si trattava: anche lei
sentiva la carezza del sole sulla pelle nuda della
schiena e delle braccia.
- È il sole. È particolarmente forte a queste
latitudini. Non cercare di guardarlo.
- Oddio, mi farà male? È come se qualcosa di invisibile
mi toccasse... brucia! - si lamentò Ilah.
- Dovremo trovare un po' d'ombra e poi cercare
delle protezioni. Abiti o crema solare, vedremo.
Miki si voltò sulla schiena non senza preoccupazioni:
di tanto in tanto le ruote del veicolo da trasporto
incappavano in qualche buco nella strada logora e
rischiavano di essere disarcionate. Con acrobazie e
contorsionismi riuscì a infilarsi nuovamente la tuta
e a coprirsi meglio: preferiva sudare un po' piuttosto
che rischiare una scottatura dolorosa. Ricordava ancora
quando, adolescente, orgogliosa del suo primo succinto
bikini si era addormentata sul lettino vicino alla
piscina, una di quelle della grande villa della
madre. Le ustioni al petto, a gambe e braccia e
perfino al viso l'avevano tormentata per una decina
di giorni. Per tacer della febbre che l'aveva
costretta a letto.
Finalmente il veicolo da trasporto perse velocità e
si accostò a destra in quella che era stata una piazzola
di sosta: la scarsa manutenzione della strada non
aveva risparmiato l'asfalto che in più punti aveva
ceduto spaccandosi e affossandosi
profondamente. Dondolando in modo preoccupante
per le sconnessioni si arrestò.
- Forza, giù da lì voi due!
La voce dell'uomo le raggiunse con immediatezza,
quasi a sottolineare il rumore dello sportello che
si era aperto di slancio. Miki poteva vedere la
sommità della testa grigia e dai capelli un po'
radi muoversi vicino al fianco del container. La
turbina girava ancora ronzando acutamente segno
che le bobine accumulatrici dovevano essere
scariche.
Buttò giù il proprio sacco da viaggio e poi
si lasciò cadere con cautela giù dal container,
non senza sollievo. Finalmente poteva mettere i
piedi per terra e vedere bene in faccia
quell'uomo. Ansiosa di sapere se era caduta
dalla padella alla brace, non si interessò
nemmeno a Ilah che strizzava gli occhi,
ancora un po' abbagliata.
- Fai piano tu: qui la gravità non si
può regolare – disse l'uomo anticipando
le domande di Miki e offrendo galantemente
la mano a Ilah. Questa la afferrò ma senza
guardare in viso l'uomo. Una volta che i
suoi anfibi maldestramente dipinti di rosso
furono ben piantati sull'asfalto coperto da
uno strato di sabbia e sassolini, esclamò
meravigliata.
- Occazzo! Tu!
L'uomo le sorrise: una smorfia da mascalzone
su un viso scurito dal sole e che nonostante
l'età era molto attraente. Miki si sentì
minacciata come donna da quell'individuo:
con quegli occhi penetranti, dall'iride
castana striata da schegge più chiare, quel
sorriso disarmante, poteva colpire al
cuore.
- Ah, vi conoscete? - Miki represse lo stupore
e assunse un atteggiamento difensivo. Non era
la prima volta che si trovava a mal partito con
Ilah, ma ora la smorfiosa stava davvero superando
ogni aspettativa.
- Sì! Cioè... no! Voglio dire... è Jerrylex! - Ilah
era entusiasta e sorrideva, sorpresa e felice come
una bambina sommersa di regali bellissimi. Miki
era lieta che gli occhi dell'uomo si fossero
appuntati ora sulla ragazzina.
- Chiedo scusa per l'ignoranza – Miki cercò di
nascondere il tono acido nella voce e, spostato
il peso su un solo piede, attese con le braccia
conserte che qualcuno le spiegasse cosa stava
accadendo.
- Ma come fai a non sapere chi è? - esplose
Ilah, agitandosi come non l'aveva mai vista fare. Era
tanto esaltata che aveva estratto le unghie
senza accorgersene; Miki colse lo sguardo
preoccupato dell'uomo chiamato Jerrylex cui
il dettaglio delle unghie retrattili non era
sfuggito.
- Scusa ma...
- È Jerrylex! Quello che ha bucato la Yasuda-Lejeune,
quello che è stato in Rete cinquantadue ore
senza farsi bruciare! Ha fatto tremare le ossa
di tanta di quella gente che nemmeno si ricorda. Ai
tempi si diceva che bruciasse le interfacce
dei pivelli così!
Schioccò le dita e si rese conto che le unghie
sporgevano troppo. Facendo finta di nulla le
ritrasse immediatamente, ma aveva ormai perso
lo slancio e si interruppe quanto bastò per
permettere all'uomo di schermirsi dietro una
cortina di modestia che a Miki suonò falsa
come il suo nome.
- E tu sei quella che ha frugato tra i miei
attrezzi su alla piattaforma – concluse puntando
un dito contro Ilah. A Miki parve che la
ragazzina avvampasse in viso ancora di più
di quanto già lo fosse.
- Te l'avevo detto che c'era stato qualcuno
di molto figo in quella rete, no?
Miki emise un monosillabo nasale come risposta:
la situazione stava prendendo una piega poco
simpatica. Sopportare Ilah era difficile e
sarebbe stato ancora peggio se quel Jerrylex
fosse diventato suo alleato. Come se non
bastasse, sembrava che entrambe si fossero
appena indebitate fino al collo proprio con
lui.
- Non restiamo troppo qua fermi: la Stradale
ha altro da fare che correre dietro a me, ma
non voglio rischiare nulla.
- Cosa rischiamo? - volle sapere Miki mentre
prendeva posto sulla stretta panca posteriore
nella cabina del veicolo. Ilah si accomodò
a fianco del conducente.
- Un controllo, ovviamente.
- E quindi?
- Non è mai troppo igienico farsi trovare
alla guida di un camion rubato.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Ogni debito... è un debito - 9
9.
L'uomo chiamato Jerrylex guidò ancora a lungo,
rispettoso dei limiti di velocità e attento a non
destare l'attenzione. Si era tolto la giacca col
logo dell'azienda, probabilmente rubata anche
quella, e ora sembrava proprio una persona
qualunque. Ilah cicalò instancabilmente con lui
per tutto il tempo, assillandolo con sua nonna e
con mille domande: in questo modo Miki venne a
sapere cose interessanti sul conto di quell'individuo
altrimenti per lei inclassificabile. Era un hacker
e un pirata della Rete, diventato famoso anni
prima per diversi clamorosi crimini informatici
e soprattutto per non essere mai stato
preso. Divenuto una leggenda per quelli come
Ilah, era scomparso d'un tratto senza lasciare
tracce. Per la sua libertà e la sua reputazione
di imprendibile asso informatico aveva dovuto
pagare un prezzo abbastanza salato, troppo per
i gusti di Miki: l'esilio. Se Jerrylex avesse
tentato di mettere piede su una qualsiasi stazione
orbitante o se avesse tentato di accedere alla
grande Rete che le collegava tutte, sarebbe stato
scoperto e incarcerato. Ammesso che non l'avessero
trovato prima i vendicativi scagnozzi di coloro
che aveva truffato.
Si trovò subito a riflettere sulla propria condizione:
tutto sommato non si sentiva troppo diversa da quel
Jerrylex. Certo, lei non aveva commesso crimini e
stava ben attenta a non finire nei guai con la
legge; cosa che a quel furbastro dai capelli
grigi pareva non interessare minimamente. Ma
anche lei era come esiliata: allontanatasi
dalla lussuosa casa materna, privata dell'affetto
pur distorto e grottesco della madre, se si
fosse fatta viva da quelle parti, lì sulla
Terra, avrebbe rischiato grosso. Sua madre
la stava facendo inseguire per tutto il sistema
solare: se avesse saputo che stava a meno
di duecento chilometri dalla porta di casa,
avrebbe fatto fuoco e fiamme pur di
acciuffarla. Ne era certa. Pensandoci bene,
era piuttosto probabile che lo sapesse. I
doppio-v non avevano altra destinazione che
il pianeta e le zone abitate non erano poi
moltissime. Ai suoi inseguitori sarebbe costato
davvero poco scoprire il punto di atterraggio
e poi riferire al loro capo, cioè sua madre. Miki
si ripromise di fare molta attenzione: al-Qahira
era una città molto grande, di certo molto oltre
i due milioni di abitanti: nascondersi sarebbe
stato facile. Ma quella consapevolezza non
la faceva stare tranquilla.
- Mollala, si è persa...
Per un istante la voce di Ilah emerse sopra
l'ipnotico ronzio del motore e sovrastò a fatica
anche i rumori della strada. Spostò lo sguardo
dalla striscia di grigio asfalto che le scorreva
vicino, appena fuori della cabina del camion,
alla ragazzina. Il sorrisetto impertinente, il
naso leggermente all'insù e gli occhi obliqui e
contornati di scuro che giocavano a nascondino
con i dread viola. Stava parlando di lei.
- Dorme? - la voce dell'uomo, resa vagamente
robotica dal rumore del veicolo in movimento a
velocità costante, accompagnò un breve movimento
della testa. Miki, seduta dietro di lui, colse al
volo gli occhi brillanti dentro lo specchietto
retrovisore interno reso inutile dall'ingombrante
container caricato sul pianale. Durò un solo
istante ma se li sentì dentro, in profondità. Un'onda
di calore le montò nel petto, ma si spense
subito. Infastidita, cercò una nuova posizione
sulla scomoda panca posteriore.
- Nah... fa finta di niente... - il sorrisetto
di Ilah divenne un ghigno insopportabile. Volse
di nuovo lo sguardo allo specchietto, ma ora
rifletteva solo i lunghi capelli grigi e disordinati
di Jerrylex.
- Posso chiamarti Miki o preferisci Beatrix
Vandervelden?
Miki si fece un appunto mentale: strangolare
Ilah appena fosse possibile occultare bene il
cadavere.
- Puoi chiamarmi Miki... ma a un patto.
- Sentiamo.
- Risponderai alle mie domande – disse con
tono deciso, certa di stare dando l'idea di
una che sa quello che vuole. Quel tale le
dava la sensazione di essere uno squalo e
in quel momento era visibile solo la pinna
dorsale.
- Va bene... - si è arreso subito, pensò. È
sicuro di se stesso o non ha nulla da perdere...
o entrambe le cose. Cambiò nuovamente posizione
sul sedile: si sentiva sempre più a disagio.
- Come sapevi che eravamo a bordo? Come sapevi
qual'era il container giusto da caricare?
L'uomo chiamato Jerrylex si fece una breve,
sonora risata. Non poteva vederlo bene in viso
perché le dava le spalle e stava concentrato
sulla strada, ma lo immaginò sorridente.
- Diciamo pure che io sono... amico di una
certa IA.
- Credevo che non potesse comunicare
con l'esterno.
- Balle. Non si pilota un doppio-v senza
poter comunicare.
- I canali di Controllo sono riservati –
obiettò Miki. Nessuno poteva ascoltare le
comunicazioni tra una singola astronave e
Controllo, se non l'astronave cui le comunicazioni
erano dirette.
- Saranno riservati per te, ma non per me –
per un istante il sorriso beffardo sul volto
abbronzato e segnato dall'età ma risparmiato
dalla vecchiaia fu visibile nello specchietto.
- Hey, ma hai capito con chi stai parlando? - si
intromise Ilah. La interruppe prima che potesse
riprendere l'infantile tiritera sulle imprese di
Jerrylex.
- Con un criminale informatico, giusto?
- Con colui che ha salvato il tuo bel didietro.
- Il tuo grosso didietro, direi – l'insolente dai
dread viola sta guadagnandosi un pugno in faccia,
pensò Miki. Ma dovette riconoscere che l'uomo aveva
ragione. Aveva ancora una carta da giocare e decise di
farlo subito.
- Perché l'hai fatto? - chiese con tono acido.
- Fatto cosa?
- Il mio didietro, nonché quello della tua appassionata
ammiratrice. Li hai salvati entrambi. Per quale motivo?
Neanche ci conosci.
- Vero – disse Jerrylex dopo un paio di secondi di
silenzio, impiegati per dare uno sguardo agli specchietti
esterni – Non vi conoscevo. Ma ora vi conosco. E voi
conoscete me. Potete darmi del tu, eh!
Stava prendendo tempo e glielo fece notare con un
tono sempre più aspro.
- Non essere così acida, rilassati... stiamo
andando in città, ho un posticino o due a
disposizione dove potrete rinfrescarvi un
poco. Tutto sembrerà diverso, dopo. E non
ti preoccupare: arriverà per voi anche il
momento per sdebitarsi.
- Non metterti strane idee in testa – replicò
gelida Miki.
- Per chi mi hai preso? Sono una persona per bene io
– rise di nuovo, pacatamente e lei non poté fare a
meno di trovarlo attraente.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Ogni debito... è un debito - 10
10.
Con una faccia tosta invidiabile Jerrylex abbandonò il
camion, con tutto il container e qualsiasi cosa ci fosse
dentro, nel parcheggio di un'area di servizio piuttosto
frequentata, sotto gli occhi di tutti. Dette prova di
conoscere la zona: passarono da un buco in una recinzione
di rete metallica arrugginita e parzialmente divelta;
attraversarono disinvoltamente il piazzale di caricamento
di un'azienda che produceva componenti meccaniche per veicoli;
girarono intorno a una cava di ghiaia e poi finalmente
camminarono lungo il bordo di una strada stretta ma asfaltata
fino a giungere in quello che sembrava un sonnolento centro
abitato. Qui raggiunsero la fermata di una moderna monorotaia
e Ilah si accasciò sulla panchina all'ombra di una modesta
pensilina di crilex brunito e polarizzato, l'unica ombra che
avevano incontrato da quando avevano abbandonato il
veicolo. La gravità terrestre, il caldo, il sole cocente
avevano messo a dura prova la giovane che, sotto stress per
l'ambiente totalmente nuovo e del tutto impreparata alla vita
sul pianeta, aveva finalmente ceduto alla stanchezza. Teneva
gli occhi chiusi e respirava profondamente, abituata alla miscela
di gas che si respirava sulle stazioni orbitanti, filtrata e
relativamente povera di ossigeno. Miki temette che si fosse
buscata un'insolazione e cercò di sincerarsi delle sue
condizioni, ma Ilah respinse le sue attenzioni sgarbatamente
dicendo di non avere bisogno di una terza mamma. Indispettita,
Miki si ritrasse e dedicò la sua attenzione a Jerrylex che,
apparentemente fresco e del tutto a suo agio, stava consultando
la tabella degli orari. Intorno a loro gli edifici avvolti nel
calore della giornata sembravano ossa calcinate dal sole: tutto
pareva avere il medesimo colore, un giallo ocra slavato e tendente
al bianco, punteggiato dalle tonalità cupe delle ombre dei numerosi
portici. Si vedeva ben poca gente in giro e ancora meno veicoli:
qualche piccolo motociclo elettrico, un venditore ambulante fermo
col suo carrello a pedali dotato di un largo ombrello per riparare
i clienti dal sole, un paio di vetture malandate e sporche di sabbia
gialla parcheggiate coi finestrini completamente aperti. Nel cielo
azzurro e terso il disco infuocato del sole la faceva da padrone.
Finalmente giunse il treno: silenziosamente frusciò perdendo
velocità fino a fermarsi con le porte esattamente in corrispondenza
della pensilina ombrosa. Uno snello e affusolato convoglio di
tre sole carrozze bianche con ampie finestre nere, totalmente
riflettenti. Miki premette il tasto di apertura che si era illuminato
e la porta doppia si aprì con un sibilo, portando via la copia
deformata di lei stessa che imitava ogni suo gesto. Una zaffata
di aria fredda la investì in pieno, dandole un minimo di sollievo:
aria condizionata. Salì a bordo superando il minimo dislivello
tra il marciapiede e il pavimento del veicolo e si accorse che
Jerrylex stava letteralmente trascinando Ilah a bordo, mollemente
appoggiata alla spalla dell'uomo.
- Disidratata – disse accomodandola sul più vicino sedile libero
come se fosse una bambola di pezza. Compose alla meglio le braccia
sottili e le gambe ossute della ragazzina e si accomodò accanto a
lei, sostenendola con un braccio. Ilah aveva ancora gli occhi chiusi
e respirava con la bocca. Stimolata a parlare e a dire come si
sentisse, reagì con maleducazione. Segno che non sta poi così male,
pensò lei. Prese posto di fronte ai due proprio mentre le porte si
chiudevano e il veicolo pubblico riprendeva la marcia.
Si trattava di un treno automatico: non c'era manovratore. Attraverso
il musetto, completamente trasparente, si poteva vedere la lunga
monorotaia perdersi in lontananza e grazie ai pochi passeggeri
presenti si godeva di un'ottima visuale in qualsiasi direzione
si guardasse: le ampie finestre, impenetrabili dall'esterno,
erano perfettamente trasparenti dall'interno.
Miki poté così vedere come lungo il tragitto verso la città
di al-Qahira, nota anche come il Cairo o Nuova Cairo,
l'urbanizzazione della periferia, con edifici bassi e ombrosi,
lasciasse posto al caos cittadino più classico mischiato a una
forte dose di degrado. Il traffico aumentò gradualmente; sugli
stretti marciapiedi apparvero pedoni prima solitari, poi a
gruppetti, poi a frotte, sempre più numerosi e formicolanti
in tutte le direzioni. Soprattutto africani, ma non mancava
gente dai lineamenti più difficili da classificare. Al-Qahira
era una delle città più grandi in assoluto sopravvissute all'ultimo
conflitto termonucleare e in essa vi aveva trovato rifugio un
numero spaventoso di persone. Nei due secoli trascorsi dall'ultima
esplosione di un'arma atomica al-Qahira era divenuta un vero e
proprio crogiolo di razze: era possibile incontrare uomini da
ogni parte del pianeta e meticci di ogni genere. Non erano rari
i visitatori dalle stazioni orbitanti, riconoscibili o per
l'aspetto longilineo, o per la pelle pallida, o per le tute
di sostegno che aiutavano gli spaziali da più di tre generazioni
a sopportare la feroce gravità terrestre. Si potevano perfino
incontrare i discendenti dei rari europei puri, sterminati
dall'ultimo conflitto che aveva distrutto e reso radioattiva
la maggioranza dell'emisfero settentrionale del pianeta.
Secondo la mappa elettronica proiettata sopra le loro teste
mancavano ancora un bel po' di fermate al centro della città
quando Jerrylex fece cenno che era ora di scendere. Il
convoglio si era gradualmente affollato ma senza mai raggiungere
gli estremi del Tubo di Apollo e Miki non ebbe difficoltà a
gettarsi sulla schiena la sua sacca da viaggio e a raggiungere
la porta scorrevole. Ilah, che grazie all'aria condizionata si
era ripresa un po', protestò dicendo che voleva rimanere seduta
lì al fresco ancora un poco, ma Jerrylex la fece alzare senza
troppi complimenti, per nulla imbarazzato dal fatto che Ilah
lo sovrastasse in altezza di quasi tutta la testa. Ilah si
lasciò afferrare per il polso come una bimba svogliata e il
suo eroe della Rete la guidò fino alla porta del veicolo.
Miki non aveva mai avuto un forno ad aria calda in vita sua ma
fu certa che non doveva esserci troppa differenza fra infilarci
dentro la testa e uscire da quel treno. Fendette l'eterogenea
folla di persone che spingeva per salire e si voltò per vedere
dove fosse finito Jerrylex. Questo aveva afferrato Ilah per un
gomito per spingerla con decisione attraverso la doppia porta
scorrevole. Stava già sudando come prima e sistemò nuovamente
l'elastico che chiudeva in una crocchia imperfetta i suoi
crespi capelli ribelli. Qualcuno si voltava a guardarla,
qualcun altro esitava a distogliere lo sguardo. Era l'unica
nei paraggi a indossare una tuta integrale e dovette constatare
che versava in condizioni orribili, sporca com'era. Anche le
sue mani erano sporchissime per aver manovrato i luridi
meccanismi di apertura dei portelli del doppio-v. Sapeva di
puzzare e si vergognava profondamente di ciò, ma non sapeva
che farci. Doveva assolutamente convincere Jerrylex che non
poteva continuare ad andare in giro in quelle condizioni.
- Non siamo lontani – fu tutto quello che l'uomo disse quando
lei riuscì a raggiungerlo e a fargli presente le sue esigenze. Ilah
aveva ricominciato a sentirsi male per il caldo ma riusciva a
reggersi in piedi da sola.
Camminarono in mezzo alla folla, tra edifici moderni alti
decine di piani e costruzioni su due o tre livelli, realizzate
secondo tecniche antiche, ornate da piccoli giardini pensili e
da portici ombrosi. Le pareti bianche e gialle d'intonaco steso
a mano contrastavano con le torri di specchi alte fino al cielo,
oasi di aria condizionata e divoratrici di energia
elettrica. Curiosamente le pareti decorate da motivi geometrici,
ricavati incollando una vicina all'altra multiformi tessere di
ceramica variopinta, venivano risparmiate dai writers che invece
si accanivano sugli anonimi muri di mattoni e perfino sulle
vetrine di alcuni moderni negozi che vendevano merce importata
dalle stazioni.
Il traffico in strada era soffocante e attraversare la carreggiata
era impresa ardua dal momento che non c'era un solo veicolo che
rispettasse la segnaletica, nemmeno quella fondamentale. Jerrylex
fu costretto a un lungo giro, per fortuna quasi tutto all'ombra,
prima di raggiungere un ponte pedonale. Questo si rivelò una
insospettabile macchina del tempo posizionata alla luce del sole,
davanti agli occhi di tutti. Attraversato il ponte gremito si
trovarono in una zona della città chiusa al traffico dei veicoli e
ferma nel tempo da almeno cento anni. Gli edifici realizzati con
tecnologie moderne si mischiavano ancora a quelli realizzati con
mattoni fatti a mano, coperti con intonaco bianco o colorato come
altrove nella eterogenea periferia di al-Qahira, ma la strada che
serpeggiava irregolare tra le case addossate le une alle altre era
stretta e totalmente invasa di gente, tende colorate, odori, colori,
rumori. La gente sciamava dappertutto vociando tra le file parallele
di bancarelle e infischiandosene del divieto di utilizzare il dialetto
locale. Espressioni in una lingua sconosciuta fiorivano ovunque: urlate
ad alta voce, sussurrate, ciangottate in capannelli più o meno
rumorosi. I venditori strillavano i prezzi usando lo standard, viziato
da un forte accento, per poi rivolgersi ai passanti nel dialetto vietato,
incuranti. I tendoni di tutte le misure si addossavano l'uno all'altro
fino a formare uno sbarramento unico per i raggi del sole e raramente si
aprivano spiragli attraverso i quali questi riuscivano a dardeggiare
sulle teste dei passanti. Questi scorrevano in entrambe le direzioni,
dondolando a destra e a sinistra, uscendo dal flusso per osservare una
bancarella, chinandosi per osservare da vicino la merce.
Si faceva fatica a camminare normalmente, ma almeno c'era tutta
l'ombra che si poteva desiderare. Un po' meno sopportabili erano il
calore, l'odore e il chiasso. Passando tra le bancarelle che vendevano
cibi cotti o crudi Miki veniva investita da forti odori sconosciuti
che non era solita associare ai piaceri della tavola, spesso mischiati
all'odore corporeo delle persone che si trovava ad avere
vicino. Nonostante tutti gli anni della sua gioventù trascorsi a
meno di due ore di viaggio da quella città, grazie alla stoltezza
della madre che pagava ben due cuochi professionisti affinché le
cucinassero prelibatezze dietetiche dai sapori delicati usando solo
ingredienti di importazione dalle stazioni orbitanti, Miki ignorava
come potesse essere la speziata e aromatica cucina del luogo.
Tenendo Ilah fra sé e Jerrylex, si avventurò in quella calca
impressionante. Presto giunsero alla portata dei venditori che
si rivolsero anche a lei usando lo standard un po' corrotto di
quelle parti, come se avesse scritto in fronte che non era in grado
di capire il dialetto locale. Le fu offerto ogni genere di mercanzia,
dal cibo all'elettronica di consumo, tutto a prezzi apparentemente
molto buoni. Vide un venditore che aveva steso sotto il suo tendone
a strisce bianche e blu diversi tappeti dai colori cupi e con
intricatissimi ricami. Su di essi aveva posato diversi sacchi
di tela colmi di sostanze in polvere dai colori vivissimi: giallo,
rosso, verde, un blu intensissimo e bellissimo che catturò subito
la sua attenzione. Il suo colore preferito: un sacco di plastica
colmo di una povere del blu più bello che avesse mai visto. Comprese
con un po' di ritardo, e con molta delusione, che si trattava
della materia prima per tingere tessuti.
In quella strada trasformata in un unico, lungo mercato c'era
esposto davvero di tutto. Passarono davanti a un mucchio di rottami
metallici, che stranamente attirava un discreto numero di
persone. Più in là una bancarella straripava di indumenti
intimi femminili e a fianco di quella un venditore forse più
fortunato o più ricco degli altri ostentava sotto il suo tendone
un furgone che attraverso i portelli aperti lasciava intravedere
decine di scatole di camice, caffetani lunghi e corti, tappeti
arrotolati, bastoni carichi di bracciali olo per uomo e donna,
bigiotteria di ogni tipo e dimensione.
Jerrylex trascinò sia lei che Ilah fino a un ombrellone forato
per fare uscire il fumo del combustibile fossile contenuto in
un barbecue. La brace ardeva rossa sotto un lungo spiedo di
carne e verdura. Un uomo dalla pelle del colore del cioccolato,
coperto da una camicia bianca che aveva visto tempi migliori
e da pantaloni di tela azzurri e stinti azionava una manovella
dall'impugnatura di legno che trasmetteva il movimento allo
spiedo, facendolo ruotare. Con l'altra mano versava con cautela
del brodo sullo spiedo, prelevandolo con una scodellina da
una pentola posata su un fornello a energia solare. Il pannello
fotovoltaico era incrinato, ma funzionava ancora. A fianco
dell'uomo una bambina lo aiutava confezionando uno spiedo
infilzando carne cruda e verdure coloratissime con cura e
serietà. Un cliente attendeva la sua razione stando in piedi
e tenendo tra le mani una scodella di colore rossiccio.
- Kasheid! - esclamò sorridendo l'uomo quando alzò il viso
dallo spiedo, ma senza smettere di girare la manovella.
- Salute a te – disse Jerrylex ricambiando il sorriso. Miki
notò che la bambina, scura di pelle come l'uomo e con una
invidiabile cascata di ondulati capelli lunghi, neri e
lucidi, stava guardando i nuovi arrivati con sguardo
serio e sospettoso.
- Vuoi mangiare? - disse l'uomo indicando lo spiedo che
emanava un profumo invitante, mescolato a quello più acre
del combustibile solido.
- Ho già mangiato, grazie. Ah, ma c'è la piccola Malika
che ti aiuta, oggi!
Jerrylex rivolse un bel sorriso alla bambina, che
però non distoglieva gli occhi da Ilah, stupita dall'altezza
o forse dai dread viola della ragazza che ciondolava
stancamente.
- Credo di avere bisogno del tuo aiuto, Yasser. Hai
ancora quel... eh?
L'uomo, senza smettere di girare la manovella, mostrò
sul suo viso tondo e paffuto prima perplessità, poi
roteò gli occhi intorno come se stesse facendo uno sforzo
di memoria, infine tornò a sorridere mostrando gli incisivi
superiori un po' sporgenti.
- Ah, sì! Ma certo, Kasheid! Vai pure... dì a Medina che ti
ho mandato io e di chiamarmi se ha delle domande da fare! Dille
di non seccarti, ci sono qui io!
- Non potrei mai dire una cosa del genere a Medina –
rispose Jerrylex alzando una mano in segno di saluto –
è una moglie molto buona e tu la tratti male...
- Lo vedi? Ha convinto anche te! - scherzò Yasser
salutando a sua volta.
Ricominciarono a farsi trasportare dal flusso della
folla lungo la via del mercato. Miki si stava trattenendo:
non parlava, non faceva domande. Era timorosa che la stessero
seguendo nuovamente, ma non riusciva a capirlo e non volle
farlo presente all'uomo. Si limitava a seguirlo in mezzo a
tutta quella gente, cercando di tirare a indovinare la sua
prossima mossa.
Oltrepassarono una grande bancarella di colorati sandali
unisex tutti uguali e si infilarono fra un improvvisato
venditore di supporti di memorizzazione, molto probabilmente
fasulli, e una enorme bancarella stracarica di olofilm
contraffatti e videogiochi copiati attorno alla quale si
accalcavano molte persone che rovistavano tra le confezioni
mettendo in disordine e mischiando tutto quanto. Attraverso
quello stretto passaggio raggiunsero un lembo di marciapiede
rimasto libero e da lì un lungo portico ombroso dove Miki
scoprì che le attività commerciali più tradizionali non
risentivano affatto della presenza del mercato. Una delle
prime vetrine era proprio quella di un venditore e noleggiatore
di olofilm e videogiochi che esponeva la medesima merce di
quella della bancarella a pochi metri di distanza. Con tutta
probabilità era merce contraffatta anche quella.
Subito venne loro incontro un uomo dalla pelle olivastra
che tentò di venderle dei ninnoli da quattro soldi e che,
vistosi opporre un netto rifiuto, passò subito a chiedere
insistentemente l'elemosina, sottovoce. Solo l'intervento di
Jerrylex, che disse qualcosa in dialetto all'uomo, li liberò
dall'assillante accattone.
Percorsero i portici, un po' meno affollati della strada,
per la loro intera lunghezza passando in rassegna negozi,
locali e disparate attività commerciali; costretti a tornare
tra le due file di bancarelle in mezzo alla gente raggiunsero
infine un grande incrocio. La strada si allargava gradualmente
e si poteva camminare un po' più speditamente ma a mantenere
elevata la confusione provvedevano gli autisti di alcuni
veicoli che pretendevano di condurre motocicli a tre ruote
carichi di materiale e mercanzie proprio lungo le strade del
mercato. Al vociare della folla, alle grida dei venditori, al
frenetico parlottare dei clienti che contrattavano il prezzo
si aggiungeva quindi il forte mugolio dei motori elettrici, i
clacson insistenti e le imprecazioni miste in dialetto e
standard degli autisti e dei pedoni.
Ancora una volta Miki vide Jerrylex tuffarsi a perpendicolo
tra la folla tagliando il flusso di persone in lento movimento
e infilarsi fra due bancarelle. Lo seguì ed entrarono tutti
insieme in un locale pubblico dove si mangiava in piedi. Dietro
il bancone una donna che somigliava molto alla bambina che
confezionava gli spiedi di carne e verdura; dietro le sue spalle
c'era una grande gratella elettrica che con resistenze brillanti
di incandescente luce arancione arrostiva lunghi spiedi simili,
ruotandoli automaticamente. La donna indossava un grembiule bianco
sporco e macchiato e quando li vide entrare sorrise a Jerrylex.
- Ciao, Kasheid! - esclamò.
- Ciao Medina! Che piacere vederti! Sei bellissima come sempre.
Miki squadrò la donna: se lei aveva problemi di giro vita,
quella doveva aver dimenticato cosa il giro vita fosse. Nonostante
l'ampio vestito coloratissimo, appariva evidente come Medina fosse
sovrappeso e non di poco; dalle corte e ampie maniche dell'abito
uscivano massicce braccia e il seno le cadeva molle e abbondante. Però
Jerrylex aveva ragione, in parte: il viso della donna dietro
il bancone era dolce e sorridente, piacevole e rasserenante da
guardare.
- Scemo... - lo apostrofò lei arrossendo un poco.
- Sono qui per... - seguì la direzione indicata dall'uomo e il
suo sguardo si fermò sulla porta del bagno, segnalata da un
adesivo attaccato storto.
Finalmente, pensò Miki. Avrebbe potuto darsi una
rinfrescata. Non era sicura che si potesse bere l'acqua da
quelle parti, ma la vista del frigorifero con le bibite la
rassicurò. Aveva ancora dei soldi spiccioli, da qualche
parte.
- Ah, certo, vai pure. Stai tranquillo! - disse la donna,
voltandosi verso i suoi spiedi. Ne tolse uno azionando un
meccanismo che sbloccava il lungo ferro che infilzava i bocconi
e con una forchetta a due denti cominciò a sfilare il cibo
facendolo cadere in un vassoio di acciaio.
Ancora una volta Miki si attaccò alle costole di Jerrylex
e lo seguì in bagno. Aperta la porta si trovò davanti a
un piccolo cortile asimmetrico, un fazzoletto di spazio
incluso tra edifici costruiti senza troppa pianificazione,
rimasto vuoto per caso. Era ingombro di bidoni vuoti, secchi
della spazzatura, sacchi di cemento aperti e consumati in
parte. In un angolo c'era una bicicletta e lo scheletro di
un altro veicolo a due ruote reso inutilizzabile dalla
corrosione e dalla ruggine. Non aveva mai visto un veicolo
con propulsore termico e concluse che proprio di quello si
trattava: doveva essere vecchio di un secolo, se non di
più. Jerrylex si mosse in mezzo a tutto quel disordine
con sicurezza, dirigendosi verso una coppia di porticine. Un
gatto che se ne stava accoccolato immobile su un bidone
che aveva ancora il suo coperchio, scappò con uno scatto
fulmineo. Ilah, che non aveva mai visto un gatto vero in
tutta la sua vita e non aveva affatto notato il felino
nero sul bidone, gridò di spavento. Miki la tranquillizzò,
rassicurandola riguardo il fatto che nessuno era mai
stato aggredito e ucciso da un gatto. Al massimo graffiato
e morsicato, ma ucciso no di certo.
Il bagno, stando all'etichetta nuova e splendente
attaccata su una porticina di legno prossima a sfaldarsi
per decomposizione, era a destra. Ma Jerrylex si avvicinò
alla porta di sinistra, più moderna e robusta, del tipo
scorrevole. Non c'erano in vista serrature elettroniche, e
l'uomo la aprì semplicemente spingendola con la mano. Miki
ipotizzò la presenza di un sensore biometrico che comandava
la serratura e si chiese come mai il sistema riconoscesse
quell'uomo come autorizzato a entrare. Ma non era quella l'unica
sua perplessità riguardo Jerrylex.
- Et voilà, le signore sono servite. Tutto per voi!
L'uomo dai capelli bianchi non entrò ma si fece da parte e
sorridendo stese la mano per invitare lei e Ilah a entrare. La
porta scorrevole si era aperta su una stanzetta semplice ma
accogliente. Si trattava di un locale abbastanza grande da
contenere due letti separati da un tavolo contro il quale
erano appoggiate tre sedie pieghevoli, di materiale plastico
riciclato. L'unica finestra era ricavata nel basso soffitto
e la luce entrava da lì. Un tirante metallico comandava
l'apertura della finestra e Miki l'azionò subito nella
speranza che entrasse un po' d'aria a scacciare l'odore
stantio che aleggiava pesante. Alle pareti erano appese
stampe vecchie e sciupate: una foto panoramica della città,
risalente a chissà quale anno; la pagina di un calendario
scaduto che mostrava nella metà superiore la foto di un
animale bellissimo e spaventoso che le parve di rammentare
si chiamasse “gufo”. Qua e là c'erano patetici quadretti
con miniature improbabili: geroglifici, piramidi, giunche
in navigazione su un grande fiume. Erano fatte per sembrare
incise a sbalzo su lamine d'oro, ma visti da vicino si
scopriva che la pellicola gialla era semplice vernice che
si stava staccando a pezzetti svelando la plastica
biancastra sottostante. Perfino la cornice era soltanto
verniciata a imitazione del legno.
- Vi piace? - Jerrylex sorrideva. Sembrava un agente
immobiliare che fosse in procinto di concludere un
contratto di vendita. Ilah si era già abbandonata sul
materasso più vicino, sospirando. Lei invece non poté fare
a meno di notare la mancanza di un frigorifero, di una
dispensa, a meno che si dovesse considerare tale un armadio
malridotto appoggiato alla parete tra i due letti. Non
era accostato bene al muro e non si riusciva a capire se
fosse storto l'armadio, il muro o il pavimento.
- Ma non ti preoccupare, è una sistemazione
provvisoria. Chiunque vi stia cercando non vi troverà. Sarete
al sicuro. Presto vi accomoderò meglio.
Poi scattò verso una tenda che copriva l'accesso a un
bagno, microscopico ma attrezzato.
- C'è tutta l'acqua che volete, ma non esagerate...
e non bevetela.
- Perché? - chiese Ilah con voce stanca.
- Non è filtrata. E poi la vostra flora batterica non
è preparata per affrontare quello che si mangia e beve
quaggiù. Dovrete ambientarvi gradualmente.
Miki pensò a Ilah: mentre lei aveva già collaudato
ampiamente la propria resistenza al cibo terrestre anche
dopo anni di vita in orbita grazie alla cucina di Zarina,
lo stesso non si poteva dire della smilza ragazzina. La
forte gravità la stava piegando, il sole e il caldo opprimente
la stavano cuocendo a fuoco lento, l'aria spessa era difficile
da respirare e la stava affannando. Se avesse avuto problemi
intestinali, avrebbe rischiato troppo. Miki guardò la tendina
che le impediva di vedere i sanitari: essere costretta a stare
lì dentro con Ilah afflitta dalla dissenteria era una
prospettiva terrificante.
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Ogni debito... è un debito - 11
11.
Vinta l'innata ritrosia a spogliarsi e lavarsi
in quel posto che non sembrava tanto pulito, Miki
poté finalmente godersi una lunga doccia. C'era solo
una grossa saponetta da bucato e fu abbastanza scomodo
lavarsi con quella, ma riuscì perfino a insaponarsi i
capelli. Giuro che li taglio, si disse sentendosi
addosso quella massa di capelli umida e incontrollabile. Dovette
accontentarsi di un asciugamano, ma il caldo era tale che
la sua pelle si asciugò rapidamente. Peccato non fosse lo
stesso per i capelli. Si cambiò completamente estraendo
abiti puliti dalla sua sacca da viaggio, che si era bagnata
un po' dato che il pavimento del bagno coincideva con la
doccia. Fortunatamente il contenuto era salvo. Indossò una
maglietta con un'ampia scollatura a U e pantaloncini corti
al ginocchio con gigantesche, comodissime tasche a soffietto
sulle gambe: dovette trattenere il fiato per abbottonare
questi ultimi, bestemmiando tra sé per essere ingrassata
ancora. Si pizzicò la ciccia che sporgeva rotonda oltre la
cintura ripromettendosi di mettersi a dieta davvero.
- Tocca a te – disse a Ilah scostando la tenda di plastica
sgocciolante. La ragazzina era stata a comprare da bere e
mentre lei faceva la tanto desiderata doccia aveva svuotato
da sola una bottiglia di una bibita colorata in modo
sospetto. Stava decisamente meglio e si vedeva: ma sulle
mani, sul viso e sulle gambe aveva evidenti arrossamenti
dovuti all'eccessiva esposizione al sole. Miki temeva che
le sarebbe venuta la febbre.
- Cos'è questo casino? Dov'è la doccia? - esclamò Ilah
non appena mise il naso oltre la tenda di plastica.
- Ci sei dentro. Attenta a non scivolare, è tutto
bagnato.
- Occazzo... la prossima volta vado per prima io, eh?
- Spero tanto che non ci sarà una prossima volta lì dentro.
Miki cominciò a prepararsi il letto: era stanca e una
dormita non le avrebbe fatto male. Inoltre non c'era molto
altro posto dove stare in quel monolocale. Non c'era un
lenzuolo uguale all'altro e mancavano i cuscini, ma
giudicò che sarebbe sopravvissuta.
- Hai dimenticato il tuo paracadute – il reggiseno
atterrò sul letto proprio mentre lei finiva di spiegare
il primo lenzuolo.
- Tutta invidia – ma scoprì di essere lei a invidiare
le forme snelle e asciutte della ragazzina.
- Non so come fai a stare con tutta quella roba
attaccata davanti... non ti dà fastidio? - l'acqua
cominciò a scrosciare.
- Questione di abitudine – si sdraiò sul letto dopo
essersi concessa un lungo sorso di una bibita che si
stava già scaldando troppo.
- Ma dov'è il sapone? - la voce di Ilah superò lo
scroscio dell'acqua e le giunse petulante e fastidiosa.
- È quel blocco di colore giallo scuro. Strofinatelo
addosso e vedrai.
Un attimo dopo udì il tonfo del sapone che colpiva le
mattonelle del pavimento.
- Sì, proprio quello... attenta che scivola.
- Ci penso io – Ilah si espresse con un tono duro e
risoluto che non le era familiare.
Miki accomodò i capelli umidi in modo che le dessero
meno fastidio possibile e che non bagnassero le
lenzuola. Cercò di rilassarsi e di fare il punto
della situazione. Apparentemente avevano seminato i
loro inseguitori, che non potevano essere altri che
gli scagnozzi di sua madre. Una vocina le disse che
la situazione era del tutto provvisoria: sua madre
avrebbe saputo trovare il modo di rintracciarla perfino
lì, quindi non poteva permettersi di stare troppo ferma
in un punto solo. Doveva trovare il modo di tornare
in orbita, di tornare sul Coyote. Al pensiero
della sua nave ormeggiata su Apollo, lontanissima e
al momento irraggiungibile, provò una stretta al
cuore. Voleva tornare nello spazio, voleva fare un
viaggio a bordo di un'astronave. Se le avessero
offerto un incarico qualsiasi, lo avrebbe accettato. Chissà
se hanno ancora bisogno a bordo del Raja, si
chiese. Se non altro in quel modo avrebbe potuto rivedere
Pavel, il Secondo: le mancava sempre di più. All'improvviso
calò il silenzio: Ilah aveva chiuso l'acqua.
- Mikiii! Hai riempito l'unico asciugamano di capelli! Che
schifo!
- Usalo dall'altro lato... - lagnosa ragazzina viziata,
pensò.
- È anche fradicio! Ma con cosa mi asciugo io adesso?
Ora vado lì e la strozzo, pensò. Ma poi chiuse gli occhi
e respirò profondamente, cercando la calma dell'indifferenza. Doveva
trovare il modo di liberarsi di Ilah. L'avrebbe riportata su
Apollo o su Prometeo, con la speranza che una volta lì si
sarebbero perse di vista per non incontrarsi più. I minuti
passarono senza che si riuscisse a capire cosa la ragazzina
stesse combinando dietro la tenda. Miki teneva gli occhi chiusi
e lasciò che la stanchezza si impossessasse delle sue membra. Il
sole filtrava ancora prepotentemente dalla finestra nel soffitto,
ma avrebbe volentieri dormito un po'. Aveva quasi raggiunto un
dolce compromesso fra il sonno e la veglia quando la voce nasale
e lamentosa di Ilah lacerò bruscamente lo schermo dove lei stava
proiettando i suoi pensieri.
- Mikiii... hai qualcosa da prestarmi? I miei vestiti puzzano...
- Sembro essere vestita rotolandomi nell'armadio di mia sorella...
Il sole si era abbassato così tanto sull'orizzonte che non
riusciva più a penetrare nelle strade del suk, quello il
nome in dialetto del mercato che illuminato da centinaia di
luci poste sotto i tendoni, continuava imperterrito. C'era
ancora molta gente, ma si poteva camminare meglio. Miki faceva
danzare gli occhi da una bancarella all'altra, cercando di
indovinare di che merce si trattasse, associando gli odori ai
colori e alle forme. Scoprì il dolcissimo sapore dei datteri
canditi; immaginò che fosse meglio stare lontano dal pesce,
crudo o cotto che fosse, solo per via dell'odore che esso
emanava. Si poteva giudicare la freschezza del cibo in base
al numero di mosche che lo circondavano e agli sforzi che
venivano compiuti per tenerle lontane. Immaginò facilmente
che dovesse stare in guardia: le ombre si ingrandivano sempre
più nonostante le numerose luci, e quelle potevano essere
sfruttate da ladruncoli che, era pronta a scommettere, non
mancavano. Già un paio di volte aveva udito del clamore
levarsi improvvisamente intorno a lei, seguito da un rapido
parapiglia. Aveva immaginato che qualcuno, approfittando
del buio o di una distrazione del venditore, si fosse servito
da solo senza però pagare. Solo allora si rese conto che
nonostante tutta la gente che frequentava il mercato, non
aveva ancora visto una sola divisa da poliziotto.
- Non è giusto: le scarpe per te le hai comprate!
Guardò i sandali unisex di gomma che aveva acquistato
per sostituire temporaneamente le sue scarpette da astronauta,
del tutto inadatte a camminare in quei luoghi. Tutt'altro che
belli, ma comodi. Li aveva scelti blu, ovviamente.
- Smettila di lamentarti.
Pensò che la ragazzina non aveva tutti i torti. I neri
pantaloncini elastici, che a lei stavano aderentissimi,
non lo erano abbastanza per adeguarsi alle sue magre
cosce e ai fianchi ossuti. Ogni due o tre minuti tirava
su la cintura, un po' floscia, per il timore che le
cadessero. Inoltre le stavano proprio male, larghi e
cascanti com'erano. Dal momento che aveva fatto il
bucato completo non indossava l'intimo, quindi sarebbe
stato piuttosto disdicevole per lei rimanere senza i
pantaloncini in mezzo alla strada. Le era andata un po'
meglio con la maglietta: era troppo corta, troppo larga
e lasciava scoperta la pancia, ma non era preoccupante. Non
scandalizzava certo nessuno.
- Poi perché ti sei portata dietro la valigia? Non torniamo
da Jerrylex? - indicò la sua sacca da viaggio come se temesse
di essere morsicata.
- Se troviamo un altro posto dove stare, io ci vado. Tu fa
un po' come ti pare – replicò Miki seccata.
- Ma come? Con tutto quello che ha fatto per noi, lo
ringrazi così? Andandotene senza una ragione, senza dire
nulla?
- Sei tu quella che lo conosce, non io. Non so chi è,
non so se devo fidarmi o no. Non so cosa vuole, mi sono
spiegata?
- Non ti fidi? Ma è Jerrylex! - il tono di Ilah era
salito in crescendo, culminando con quella che a Miki
parve un'accusa.
- Non me ne frega un cazzo! - sbottò fermandosi in
mezzo alla strada affollata. Qualcuno si voltò a
guardarla per un attimo, poi si allontanò continuando
a badare agli affari propri. Il viso di Ilah era
riempito di ombre dalla fioca luce che proveniva
dalle lampadine di un chiosco che avevano appena
superato. La borchia ossea brillò facendo capolino
dai dread quando lei li mosse per toglierseli dalla
faccia. Il cielo dietro i tendoni colorati, alcuni
dei quali venivano chiusi proprio in quei momenti,
stava incupendosi sempre più.
- La solita acida... calmati o ti viene un embolo.
Strafottente presuntuosa, pensò Miki trattenendo una
sberla. Perché dovrei diventare madre se poi mi nascesse
una figlia così, si chiese. Non potendo reagire come le
era balzato in mente di fare, riprese a camminare decisa
in mezzo alla gente che andava diradandosi sempre più. Ora
erano in molti a smontare i banchetti e le bancarelle, a
chiudere e arrotolare i tendoni legandoli con cinghie e
corde a carretti a pedali o piccoli veicoli elettrici
spuntati fuori da chissà dove. A giudicare dai brandelli
di dialoghi che le giungevano alle orecchie, quello era
il momento per cercare di spuntare il prezzo più favorevole
acquistando ciò che era rimasto invenduto per tutto il
giorno.
- Non è mai morto nessuno per aver chiesto scusa, sai?
Miki sperò d'aver capito male.
- Cosa?
- Ho detto che se chiedi scusa per una volta in vita tua
non muori. Posso capire che sei stressata, ma mica vuol
dire che puoi trattare male la gente come ti pare e...
- Non venire da me a fare quella condiscendente! - Miki
non credeva alle proprie orecchie: Ilah le stava
chiedendo di scusarsi! – Sei la ragazzina più noiosa,
viziata, arrogante, indisponente che io abbia mai
incontrato e io dovrei chiederti scusa perché tu mi
fai incazzare ogni tre cose che dici? Cazzo!
- Non posso credere che tu mi stia trattando così male
dopo tutto quello che ho fatto per te, cicciona ingrata!
- Cicciona?
Miki si volse di scatto verso Ilah con fare tanto
minaccioso che quella fece istintivamente due passi
indietro.
- Su, su! Non litigate!
Un braccio saldo la cinse e una mano calda le si
posò sul ventre sporgente. Jerrylex.
- Avete fame?
Con una manovra simile si era allacciato alla vita
di Ilah e con gentilezza ma anche con decisione le
stava sospingendo entrambe lungo la strada. Gli
risposero contemporaneamente.
- Sì.
- No!
- Sempre d'accordo voi due, eh? - ironizzò lui.
Lei gli spinse via la mano liberandosi così dal suo
abbraccio e lui lasciò fare. Ilah invece gli si fece più vicina,
posato il suo lungo braccio sulle spalle dell'uomo
dai capelli grigi.
- Non mi ha comprato niente da mangiare – protestò Ilah
con tono piuttosto infantile. Miki si irritò, ma riuscì
a stare zitta più per pudore nei confronti di Jerrylex
che per autocontrollo.
- Ha fatto bene: il tuo pancino non sopporterebbe nulla
di quello che si vende qui. Non ti ricordi quello che
ti ho detto qualche ora fa?
- See, see... ricordo. Ma ho fame!
- Adesso torniamo al nostro angolino segreto
e ci pensiamo, eh?
Proprio quello che volevo evitare, pensò Miki. Ma
non poté impedire che Jerrylex ripercorresse la
strada a ritroso e le riaccompagnasse nella stanzetta
nascosta, questa volta passando da un cortile
adiacente. Il locale del suo amico Yasser era chiuso.
Alla luce di un paio di lampade elettriche appese a pareti
opposte Miki vide sul tavolo diversi sacchetti, insidiati
da un gattone grigio che fuggì subito: all'interno
c'erano contenitori di cibo, alcuni di essi erano
termici. Riso caldo e polpette di carne magra per Ilah,
spezzatino con verdure per lei. Poi krill per tutti:
insapore, inodore ma nutriente e innocuo. Anche Jerrylex
si sedette a tavola e raccolti i lunghi capelli grigi
in una coda improvvisata, mangiò del krill. Da un
altro sacchetto estrasse poi della birra ancora fredda:
bevvero direttamente dalla lattina, anche se Ilah
obiettò al riguardo.
- Vedo che avete provveduto alla protezione solare –
osservò Jerrylex dopo aver trangugiato l'ultimo sorso
di birra. Miki era uscita a fare una rapida ricerca e
comprare la crema solare per Ilah, le cui scottature
erano piuttosto fastidiose. In quella stanza non era
possibile nascondere nulla: ciò che non trovava posto
sul tavolo poteva essere messo nel relitto di armadio
che, essendo privo di ante, non poteva certo custodire
segreti.
Il silenzio imbarazzante calò rapido e inatteso sui
tre e fu Jerrylex a infrangerlo subito, in fretta,
come se lo temesse.
- Allora, avete pensato a cosa fare stasera? Volete
uscire a fare un po' di vita notturna? - l'uomo
sorrideva cercando di essere incoraggiante.
- Conciata così? Nemmeno morta – Ilah sentenziò
greve e sfilatasi gli anfibi decretò chiuso l'argomento
sdraiandosi sul suo letto già mezzo sfatto. Le parve
che stesse concentrando la sua attenzione sui propri
piedi.
- Perché invece non passiamo una bella serata tranquilla,
chiacchierando fra noi? - suggerì Miki maliziosa. Intendeva
insinuare che Jerrylex doveva loro una montagna di
spiegazioni e che era arrivato il momento. Ebbe la
netta sensazione che l'uomo avesse afferrato al
volo.
- Beh, certo... è un'idea... perché no? Peccato siano
finite le birre... vado a prenderne ancora?
- No! - scattò Miki vedendo che l'uomo accennava ad
alzarsi dalla sedia - Grazie, non per me – aggiunse
subito, pensando di essere stata troppo brusca. Jerrylex
nascose una smorfia dietro un sorriso finto e appoggiò
la schiena alla sedia, cercando di dare l'idea di essere
a proprio agio.
- Ah, beh... - disse a bassa voce.
- Allora, che ne dici di cominciare? - lo incalzò
Miki. Stavolta non mi sfuggi, pensò mentre lo
fissava negli occhi.
- Cosa vuoi sapere? - le chiese lui.
- Voglio sapere di cosa si tratta. Dall'inizio alla
fine. E cosa c'entriamo noi.
Ilah si mosse, mettendosi a sedere sul letto, d'un
tratto interessata alla conversazione.
- Di che stai parlando? - una volta tanto usò un
tono sinceramente curioso e non irritante e strafottente.
- Credi che sia venuto a salvarci il culo gratis? Che ci
ospiti qui, ci protegga, ci porti da mangiare perché
siamo carine e simpatiche?
- Ma voi siete carine e simpatiche!
Bastò lo sguardo affilato di Miki a impedire che
Jerrylex continuasse aggiungendo anche una sola parola.
- Non ti interessa sapere perché ci si è appiccicato
addosso? - Ilah, interpellata direttamente, rivolse uno
sguardo metà interrogativo e metà comprensivo all'uomo
che le sorrise di rimando.
- Dev'essersi accorto di me quando ho frugato fra le sue
cose nella Rete, su alla piattaforma orbitante.
Lo sguardo duro di Miki indusse Jerrylex a continuare. Vederlo
così, un po' remissivo ma non domato, la spinse a pensare
che potesse essere sincero. Provò simpatia per quel criminale
informatico d'altri tempi ora messo all'angolo da lei.
- Sì, proprio così. La Rete del pianeta è piccola e annoia
in fretta. Anche se isolata, ho trovato lo stesso il modo
di passare a quella delle stazioni orbitanti.
- Ma è impossibile! - esclamò Ilah. Anche lei sapeva che,
per precauzione, i militari avevano voluto la segregazione
delle due reti. Ma le sue conoscenze in merito terminavano
lì.
- Non è impossibile: è solo maledettamente difficile – riprese
Jerrylex rivolto a Ilah che nel frattempo si era abbracciata
le ginocchia per sostenersi dato che non osava appoggiare i
piedi scalzi sul pavimento.
- Niente dettagli tecnici, per favore. Rimaniamo su ciò che
ci interessa – intervenne Miki timorosa che Jerrylex potesse
svicolare dall'argomento che le interessava.
- Lo vedi che sei acida? Mi interessa! Ti piace dare ordini,
ecco il tuo problema - protestò Ilah.
- Dopo ti spiego tutto – le disse l'uomo con molto calore e
premura nella voce.
- Quindi? - lo incalzò lei ignorando l'interruzione. Voleva
che arrivasse al punto.
- Beh, saltando i dettagli... vorrei sfruttare la falla che
ho trovato nel sistema per mettere da parte qualche
soldino. Sapete, la vecchiaia può essere molto difficile e...
- Stai cercando dei complici – tagliò corto Miki.
- Fichissimo! Io ci sto! - esclamò Ilah. L'occhiataccia che le
rivolse le rimbalzò addosso, inefficace.
- Perché dovrei? - gli chiese. Lei stessa non credeva che avrebbe
avuto una possibilità di reggere quel bluff. Non era proprio il
tipo totalmente irriconoscente. Poi quel Jerrylex le stava
simpatico. Anzi, doveva ammetterlo: lo trovava fascinoso,
anche se in un modo tutto suo.
- Perché sei una brava ragazza, perché te lo chiedo per favore
e per questo.
Tolse dalla tasca dei pantaloni un oggetto piatto,
rettangolare. Carta. Un'immagine stampata su carta di bassa
qualità, stropicciata e smangiucchiata lungo i bordi. Stampare
su carta: solo sulla Terra era ancora possibile quella
pazzia. Afferrò l'immagine e trasalì. Era lei. Ripresa
dalle telecamere di sicurezza della villa di sua madre
mentre, seduta dentro un'auto elettrica a noleggio, attendeva
di varcare il cancello del passo carrabile, sorvegliato da
uomini armati. L'immagine era sgranata, ma non c'erano
dubbi. Ricordava perfettamente quel giorno: conclusasi
inaspettatamente bene la vicenda delle sirene telasiane
era tornata dalla madre, sul pianeta, per rivendicare
definitivamente la propria indipendenza. Nel momento in
cui la telecamera la riprendeva aveva in bocca il suo
vecchio impianto di comunicazione, comprato molto tempo
prima da sua madre, e in tasca un mucchio di soldi in
contanti pari a quanto ammontavano i conti che aveva
liquidato quando era scappata di casa. Aveva restituito
i soldi lanciandoli per terra ai piedi della madre e poi
le aveva sputato in grembo il piccolo impianto di
comunicazione, ormai sostituito da uno la cui frequenza
era ignota alla genitrice. Ciò fatto se n'era andata,
lasciandola fumante di rabbia. Si era illusa così di
aver chiuso i conti per sempre.
- Sembra che tu abbia ingoiato un topo intero... fa
vedere... - Ilah si sporse sul tavolo e le tolse la
foto dalle mani. Miki non protestò, era troppo intontita
per farlo. I suoi sensi erano sovraccarichi: notava un
sacco di dettagli inutili senza analizzarli, tanto il
suo cervello era sconvolto dall'improvvisa consapevolezza. La
maglietta che aveva prestato a Ilah era troppo larga:
nello sporgersi sul tavolo attraverso la scollatura le
aveva visto anche i pantaloncini. Sua madre la stava
facendo cercare. Anche Jerrylex aveva fatto scivolare
lo sguardo sulle curve segrete della ragazzina. Era
appena arrivata, clandestinamente, sulla Terra e già
doveva fare attenzione a far vedere in giro la sua
faccia. C'era una piccola farfallina che svolazzava
vicino a una delle due lampade, quella senza plafoniera. Ilah
non se n'era accorta. Un conto era pensare di avere
alle costole qualcuno, un altro era saperlo per certo. La
certezza che fosse la madre a sguinzagliarle contro i
mastini la schiacciava.
- Ma questa sei tu! - cianciò Ilah – sembri più magra...
- Dove l'hai presa? - volle sapere Miki strappando
la foto dalle dita affusolate della ragazzina. Era vero
il contrario, ma era troppo interessata a sentire cosa
aveva da dire l'uomo per riprendere il battibecco con
Ilah.
- Venendo qui ho incontrato un teppistello troppo
interessato alle cose altrui. Mentre lui dava un'occhiata
nelle mie tasche, io ho dato un'occhiata nelle sue.
- Sei grande! - l'apprezzamento di Ilah fu ricambiato
da un sorriso provocante.
- Dobbiamo andarcene da qui, presumo – si rese conto
d'un tratto di aver agito piuttosto stupidamente. Era
evidente che sua madre non aveva intenzione di mollare
l'osso, segno che l'aveva colpita dove le faceva male. Magra
soddisfazione, pensò oppressa dall'idea di dover fuggire
nuovamente.
- Dopo la vostra inopportuna passeggiata di poco fa, è
il minimo che possiamo fare.
- E tu puoi aiutarci – aggiunse Miki guardando torva
Jerrylex. La situazione si era nuovamente rovesciata. Si
complimentò in silenzio con il vecchio pirata informatico.
- Naturalmente – il pirata esibì il migliore dei suoi
seducenti sorrisi malandrini.
- In cambio dovremmo aiutarti, presumo – concluse. Non
c'era bisogno di una risposta: era sufficiente lo sguardo
brillante di Jerrylex.
- Io sì, lo aiuterò di sicuro! Sarà una figata! Poco ma sicuro!
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Ogni debito... è un debito - 12
12.
L'ultima volta che aveva fatto qualcosa del
genere era finita sotto la minaccia delle armi
di un droide in assetto da combattimento. Non si
ricordava di aver avuto tanta paura come allora
nemmeno quando era stata sbatacchiata dentro un
container su La Tana. Si accorse d'un tratto che
non le erano mancate le esperienze avventurose,
soprattutto nell'ultimo periodo. Avevano anche
sparato al Coyote, con lei dentro. Pensò che se
avesse continuato di quel passo, non sarebbe arrivata
viva alla fine dell'anno.
Si chiese come mai certi lavori toccassero sempre a
lei. Jerrylex, assicurandole di averle riservata la
parte più facile di tutte, le aveva appioppato una
divisa del personale delle pulizie e, messole in mano
un abbonamento per i mezzi pubblici, l'aveva spedita
a faticare in un palazzone quasi in centro. Dal suk
alla metropoli il salto era stato traumatico:
sembrava di stare su Apollo, con la sola differenza
che per strada faceva un caldo terrificante e non
c'era alcun tipo di soffitto sopra la testa, ma solo
il vertiginoso e affascinante cielo terso.
Fortunatamente il suo lavoro era davvero facile:
consisteva nel tenere vuoti i cestini e puliti i cessi
di otto piani di uffici, dal settantunesimo al
settantanovesimo, all'interno di un edificio di ottanta
piani completamente condizionato alla bella temperatura
di ventuno gradi con l'umidità tenuta sotto stretta
sorveglianza. Si stava benissimo. Aveva accesso anche
all'ottantesimo piano, quello che ospitava un enorme
attico privato, ma limitatamente ad alcuni locali
tecnici dove era stato organizzato il magazzino per
i prodotti per la pulizia e l'igiene. Non vi poteva
accedere con l'ascensore ma solo col lentissimo
montacarichi. Quando doveva fare il pieno alla
lavasciugatrice robot per fare prima usava le scale
portando in braccio a due alla volta i fusti di detersivo
liquido da cinque litri.
Spinse il pesante carrello dove trovavano posto scope,
stracci, due secchi, detersivi, il bidone dei rifiuti e
l'aspirapolvere fino a quando le rotelle si impuntarono
sul dislivello tra il pavimento e la cabina
dell'ascensore. Era ormai il terzo giorno che era lì e
si era rassegnata: tutte le volte che doveva salire
sull'ascensore al settantottesimo piano doveva superare
quel dislivello dovuto a qualche difetto, rischiando di
rovesciare il carrello col bidone già colmo di
spazzatura. Infatti quel giorno sul piano doveva esserci
stata una festicciola a giudicare dalla quantità di
rifiuti e sporcizia extra trovata in un paio di uffici
adiacenti. L'ascensore chiuse le porte scorrevoli dietro
di lei e la portò obbediente al piano superiore. Qui
l'arancione consumato della moquette ormai troppo
vecchia contrastava con l'azzurro pallido delle sottili
pareti mobili di destra, che delimitavano gli uffici. La
parete di sinistra invece era solida e ricoperta di
pannelli di un color crema sporco. Tremava al solo pensiero
che le chiedessero di togliere gli scuri segni delle
scarpe, le ombre grigie lasciate da mani e polpastrelli,
gli sbuffi scuri di polvere intorno alle bocchette
dell'aria condizionata. Sarebbe stato un lavoraccio
molto faticoso.
Come aveva già imparato a fare, dette un rapido sguardo
al lunghissimo corridoio che le si parava di fronte e in
base alle luci lasciate accese stimò il tempo necessario
per finire il giro. Lasciò sfuggire un sospiro rassegnato
e cominciò il lavoro, spingendo il carrello attrezzato di
tutto punto nel primo ufficio buio.
Aveva ormai raggiunto la metà del corridoio, quasi
completamente buio. Ripulito tutto il pavimento dell'ufficio
in cui si trovava, spense il rumoroso aspirapolvere.
- Ciao!
Sobbalzò per lo spavento. Non se l'aspettava: alle sue
spalle, incorniciato dallo stipite della porta, c'era
uno degli impiegati. Evidentemente trattenersi fino a
quell'ora doveva essere normale per lui, visto che lo
aveva incontrato anche nei due giorni precedenti, intento
a lavorare al suo terminale. Doveva essere per lui normale
anche attaccare bottone: gli altri suoi colleghi, quei
pochi che aveva avuto occasione di incontrare a inizio
turno mentre ansiosi di uscire raccoglievano frettolosamente
le loro cose, la ignoravano completamente o la evitavano
di proposito, come si scansa un mendicante puzzolente. Nei
due giorni precedenti lei aveva commesso l'errore di dargli
retta e lui subito le si era appiccicato addosso.
- Fai tardi anche stasera?
- Faccio sempre tardi – le rispose posando a terra la
borsa portadocumenti che aveva con sé – lavoro meglio
quando non c'è quel branco di idioti che ho intorno in
ufficio. Poi così prendo anche il dieci per cento di
straordinari.
- Beato te – tagliò corto Miki, alla ricerca di un
modo per interrompere quella indesiderata
conversazione. L'uomo era un tipo dalla corporatura
esile, con la pancia sporgente sotto la camicia bianca
e il cranio calvo. I capelli superstiti erano scuri
e mantenuti corti, tanto da lasciar intravedere il
cuoio capelluto chiaro. Lo fece scansare usando
l'aspirapolvere da riporre sul carrello come scusa. Forse
se gli avesse mostrato che era indaffarata l'avrebbe
lasciata in pace, tanto più che, vista la borsa ai
suoi piedi, le sembrò pronto per andarsene. Senza
indugiare spinse il carrello fino all'ufficio seguente
e accesa la luce cominciò a fare il giro dei
cestini. L'uomo, che fin dal primo giorno le si era
presentato col nome di Aran e aveva insistito per
stringerle la mano, la seguì.
- Come mai fai questo lavoro? Voglio dire... non mi
sembri il tipo che si accontenta.
- Cos'ha che non va questo lavoro? È importante quanto
il tuo – forse era stata troppo brusca, ma non le stava
piacendo la piega assunta dalla conversazione.
- Scusami – aggiunse subito l'uomo di nome Aran – sono
stato un maleducato.
Ecco, bravo: e adesso magari cambia aria, pensò Miki
cercando il cestino. Dove diavolo l'avranno cacciato,
si chiese chinandosi sotto una delle scrivanie.
- Tranquillo... - in realtà desiderava solo che se ne
andasse. Jerrylex si era raccomandato un milione di volte
di non fare nulla nell'arco del suo turno lavorativo che
potesse attirare l'attenzione. Doveva stare attenta fino
a venerdì sera, ma era certa che l'attraente, ingrigito
ma ancora vispo pirata informatico si sarebbe fatto vivo
prima. Le aveva dato un telefono cellulare, qualcosa di
estremamente lussuoso sulle stazioni ma molto comune sul
pianeta. Perfino un'operaia, ciò che avrebbe dovuto
fingere di essere lei, poteva possederne uno. Era anche
l'ideale per telecomandare la lavasciugatrice robot e
ricevere i suoi avvisi. Presumibilmente Jerrylex si
sarebbe fatto vivo mediante quell'apparecchio cellulare.
- Volevo solo dire... una bella ragazza come te, così
carina... fare questo lavoro così pesante... dovresti
fare la principessa.
Miki non credette alle sue natiche. Quel porco la stava
palpando! Nonostante il tono suadente e morbido e le cose
relativamente carine che le stava dicendo, Aran era un
maiale. Si drizzò immediatamente, rossa in viso. Proprio
quel giorno che aveva omesso l'intimo sotto i pantaloncini
aderenti!
- Ficcati quelle mani nel culo, stronzo! Altrimenti
te le stacco!
Lì per lì Miki non era stata in grado di trovare minacce
migliori. L'affronto subito l'aveva colta impreparata,
tanto da lasciarla senza fiato. Sperò con tutto il cuore
che non fossero soli su quel piano, ma Aran doveva aver
tenuto conto di ciò e scelto il giorno giusto. Nessuno si
fece sentire.
- Ah, sei una tigre... vuoi lottare, eh? Ci penso io...
Tutt'altro che scoraggiato dalla sua reazione violenta,
l'uomo si avvicinò sicuro di sé. Miki, trovatasi con la
via di fuga bloccata dalla scrivania, non ebbe altra possibilità
che cercare di colpirlo per difendersi. Aran riuscì a schivare
il primo disordinato tentativo che lei fece di mettergli una
mano in faccia e le imprigionò la sinistra in una stretta,
cercando di portare la distanza a zero. Miki riuscì a divincolarsi
per un attimo e ne approfittò per posare entrambe le mani
sul petto dell'uomo e spingerlo via con tutta la sua forza,
appoggiandosi contro la pesante scrivania per aiutarsi. Aran,
sorpreso dalla forza che Miki dimostrò di possedere nelle
braccia, sbilanciato all'indietro cadde nella sedia che per un
caso aveva esattamente dietro la schiena, aggrappandosi ai
braccioli. Il tempo di una breve smorfia feroce e si catapultò
di nuovo contro di lei, con violenza. Le impedì di fuggire,
afferrandola di nuovo per i polsi. Miki si dibatté ancora:
sentiva di poterlo contrastare sul piano della potenza fisica
ma quello riuscì a bloccarle nuovamente le braccia e a
spingere con forza un ginocchio in mezzo alle sue gambe.
- Smettila di resistermi, puttanella! Smettila, se ci tieni
al tuo posto di lavoro!
Stava guadagnando terreno e lei si stava stancando per la
reazione troppo scomposta. Era furiosa e spaventata al tempo
stesso, gli avrebbe cavato gli occhi se solo avesse potuto
liberare le mani. Voleva punirlo per la sua arroganza, riempirlo
di pugni per la sua prepotenza. Poi ebbe un'idea e smise di
resistere, tanto repentinamente che Aran se ne meravigliò.
- Ecco, brava... So che alla fine piace anche a te... - grugnì
lui con un ghigno a deformargli il viso.
Spaventata, lasciò che le divaricasse le gambe. Doveva fare
in modo di non dargli la possibilità di toccarla. Non voleva
essere nemmeno sfiorata da quel porco, eppure erano ventre
contro ventre e poteva sentire anche gli sforzi che lui stava
facendo per completare l'erezione. La sensazione di schifo che
la stava permeando non sarebbe stata lavata via nemmeno da
cento docce.
Pensò di aver guadagnato la sua fiducia poiché sciolse la
stretta che le imprigionava le braccia. Un attimo prima che
le mani dell'uomo le raggiungessero il petto, scattò afferrandolo
per le braccia per separarsi da lui. Immediatamente dopo impresse
tutta la forza che poté alla sua ormai collaudata ginocchiata
al basso ventre che anche stavolta colse in pieno il bersaglio.
Aran le si piegò addosso col respiro mozzato. Lei lo spinse via
e quello, piegato in due dal dolore, franò rovinosamente sul
pavimento travolgendo anche la sedia che si allontanò
cigolando sulle rotelle.
Accaldata per lo sforzo e la colluttazione guardò l'uomo
accoccolato in posizione fetale, boccheggiante sul pavimento,
senza un briciolo di rimorso per quanto gli aveva appena
fatto. Si sistemò i capelli che aveva raccolto in una
selvaggia coda di ricci ribelli grazie a un grosso elastico
lucido di brillantini, comprato al mercato qualche giorno
prima. Pensò a Jerrylex: le aveva detto mille volte di non
attirare l'attenzione. Non sapendo che altro fare, tremando
un po' tutta cominciò a pulire l'ufficio adiacente.
Il telefono cellulare che teneva nella tasca del grembiule
giallo, la divisa dell'azienda per cui fingeva di lavorare
come addetta alle pulizie, squillò cogliendola impreparata. Sobbalzò,
non pensando che quel piccolo apparecchio potesse produrre
un suono così forte. Accettò la chiamata mostrata sul piccolo
schermo a colori poiché era apparso a chiare lettere il nome
di Jerrylex.
- Ciao, bellissima. Tutto bene?
Lei si sporse nel corridoio e gettò uno sguardo nell'ufficio
dov'era avvenuta la colluttazione con Aran. C'era ancora la
luce accesa e si chiese se quel porco fosse ancora steso sul
pavimento cercando di capire dov'erano finiti i suoi attributi.
- Benone – in realtà tremava ancora un poco per lo shock.
- Fantastico. Ho del lavoro per te.
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Ogni debito... è un debito - 13
13.
Esattamente come aveva predetto quella vecchia
volpe dell'informatica, i locali tecnici dell'ottantesimo
piano non erano chiusi a chiave, gli armadi delle
apparecchiature nemmeno poiché traboccavano di cavi
aggrovigliati nel modo più spaventoso. Grazie alla sua
esperienza tecnica non le fu affatto difficile localizzare
la fibra ottica di collegamento con i dispositivi laser
che si trovavano sul tetto. C'era un duplicatore
distrattamente lasciato libero e seguendo alla lettera
le istruzioni che Jerrylex le aveva inviato sul telefono
stesso, fece in modo tale da creare un ponte fra i
dispositivi laser usati per trasmettere dati a distanze
relativamente brevi e la rete locale del grattacielo in
cui si trovava. Se aveva capito un poco di quello che
stavano combinando lui e Ilah, uno dei due doveva
essersi infiltrato in quella rete e con quella manovra
lei stava aprendo una porta affinché potessero uscire,
alla velocità di parecchi mega al secondo, verso un
uplink di qualche tipo. Forse un satellite.
Poi spostò un singolo cavo da un'apparecchiatura a
un'altra, facendo molta attenzione a non sbagliare. Tutte
le prese cui i cavi erano attaccati erano contrassegnate
da lettere e numeri, ma i cavi erano così aggrovigliati
che seguirne il percorso poteva rivelarsi arduo. Come se
non bastasse quel locale doveva essere davvero poco
frequentato: la polvere e la sporcizia regnavano ovunque
e Miki si sporcò di nero le mani fino ai polsi a causa
dei cavi. Si asciugò una gocciolina di sudore mentre
scendeva dalla fronte: il locale non era condizionato
e le apparecchiature in funzione soffiavano aria calda
dal loro interno. Si chiese come fosse possibile che
funzionasse ancora qualcosa: la temperatura era secondo
lei eccessiva per degli apparati elettronici, soprattutto
se vetusti come quelli.
Si stava pulendo le mani con uno straccio del suo carrello
quando il telefono cellulare squillò di nuovo. Miki
cominciò a odiare quell'aggeggio.
- Ciaaaao, amica!
D'un tratto siamo ridiventate amiche, osservò riconoscendo
la voce di Ilah. Se la immaginò seduta scomposta come suo
solito, le piastre del Bolonov aderenti al cranio, gli occhi
rovesciati all'indietro a mostrare il bianco e un sorriso
innaturale sulle labbra.
- Ciao bella. Che succede?
- Cavalcare a fianco di quest'uomo è formidabile! Ne sa
una più del diavolo... fa certe cose... vola dritto e
veloce come un missile e poi puf! Sparisce di colpo per
riapparire dove meno te lo aspetti. All'inizio facevo
una fatica a stargli dietro...
- Torna da me, ora.
La voce di Jerrylex. Calda e suadente, pacata. Frenò
in tempo la lingua: si era detto niente nomi al telefono.
- Sapessi! Siamo in tre sulla stessa linea, ma non in
conferenza eh! E non paghiamo nulla! Conosce la rete
telefonica in un modo...
- Basta. Vedo il collegamento, ben fatto. Ora vieni
via da lì. C'è una piccola complicazione.
- Di che tipo? - temeva di saperlo, ma non disse nulla.
- Da un interno vicino a te è stata chiamata la polizia
denunciando un furto. C'è qualcuno lì?
Miki descrisse con meno parole possibile l'aggressione
subita, il tentativo di violenza, le minacce. Poteva
essere stato Aran a simulare un furto per farla
licenziare. Per vendetta.
- Che pezzo di...
- O.K., lasciamo stare – Jerrylex interruppe immediatamente
Ilah. Dalla voce ora un po' incrinata comprese che non era
affatto tranquillo anche se cercava di ostentare sicurezza. Era
la prima volta che lo sentiva parlare così.
- Esci da lì e comportati normalmente. Fruga bene tutto
quello che hai lasciato in giro: se quel tale ha nascosto
la refurtiva in mezzo alle tue cose liberatene lontano dalle
telecamere. Fruga anche il robot.
Miki udì un segnale acustico che la indusse a guardare lo
schermo dell'apparecchio. Apparve un'icona che segnalava un
nuovo messaggio da leggere.
- Altro?
- No. Sbrigati.
- Ciao Mi...
La linea cadde. Ilah, quella scema, pensò Miki. Stava per
pronunciare il suo nome. La linea era stata interrotta
bruscamente, forse da Jerrylex. Aprì il messaggio: era la
lavasciugatrice robot che segnalava un'avaria. Sbuffò
seccata: non ci voleva. L'aveva istruita a pulire
approfonditamente i pavimenti. Lasciò il carrello al suo
posto nel deposito ricavato lì all'ottantesimo e scese col
montacarichi fino al piano dove si era bloccata la
lavasciugatrice. Entrata nella zona degli uffici localizzò
immediatamente il robot delle pulizie: grande e grosso
com'era lo si vedeva anche nella penombra del corridoio. L'unica
luce che rischiarava i corridoi dopo l'orario di lavoro
infatti proveniva dal sistema di illuminazione notturno,
attivato dall'impianto di allarme automatico. Fioche
plafoniere discretamente disposte sul soffitto a una notevole
distanza tra loro: le era stato detto che l'accensione di
quel sistema con luci gialle significava che il sistema
antifurto era acceso ma non attivo. Se le luci fossero
state blu, avrebbero indicato l'entrata in funzione di
ogni componente dell'antifurto. Toccare una porta, camminare
in un corridoio illuminato di blu o cercare di accedere a
qualche ufficio avrebbe fatto scattare l'allarme. In quel
momento le plafoniere spandevano una tenue luce gialla.
- Maledetta macchina – bisbigliò Miki per infondersi coraggio
con la sua stessa voce. Il corridoio era pieno di ombre
geometriche, la lavasciugatrice era una scura sagoma
astratta a molti metri di distanza e lei temeva che ci
potesse essere qualcuno nascosto nel buio. Aran, per
esempio, pronto ad aggredirla nuovamente e a farle del
male. Oppure c'era un ladro davvero.
Raggiunse il robot che l'attendeva immobile, acceso ma
inattivo. Qualcosa lo aveva bloccato e Miki sapeva, per
la poca esperienza che aveva fatto con quella macchina
in tre giorni di lavoro, che bisognava guardare i
filtri. Probabilmente si erano intasati oppure la
macchina aveva raccolto con le sue spazzole un oggetto
troppo grosso che li aveva ostruiti.
La luce però era del tutto insufficiente. La lavasciugatrice
robot non necessitava di illuminazione per funzionare e
per di più poteva dialogare col sistema di allarme, così
poteva pulire i pavimenti indisturbata. Per questo se ne
andava per conto suo, al buio: poteva perfino prendere
l'ascensore per passare al piano successivo. A Miki non
rimase altro da fare che inginocchiarsi malvolentieri
davanti alla macchina e cercare di capire coi polpastrelli
se avesse risucchiato qualche oggetto. Non riuscì a
trovare nulla.
Non le restava che guardare dentro la vasca di recupero,
dove il robot buttava la schifezza aspirata mista al
residuo del lavaggio. Detersivo esausto e sporcizia misti
insieme la attendevano e lei aveva lasciato il carrello,
e quindi anche i guanti di lattice, nel magazzino. La
vasca di recupero era un capace secchio, pesantissimo
e puzzolente. Non riusciva a vedere nulla dentro: il
liquido era troppo scuro e impenetrabile alla vista. Si
rassegnò e lo rimise al suo posto, giudicando che se
aveva fatto schifo a lei, avrebbe fatto altrettanto
schifo a chiunque altro.
Cercò di far ripartire il robot, ma quello dopo un
tentativo di rimettersi in moto, segnalò nuovamente
un problema. Miki ricorse al pannello di controllo del
robot stesso e scoprì che semplicemente il robot aveva
terminato il programma di pulizia perché era stato
aperto lo sportello della vasca di recupero. L'apertura
era avvenuta negli ultimi minuti, prima che intervenisse
lei. Qualcuno aveva fatto qualcosa al suo robot mentre
lei era al telefono, e non riusciva a capire cosa. Si
decise e vinto il ribrezzo, infilò il braccio nudo dentro
il robot e con la mano immersa nel denso liquido
maleodorante frugò il fondo della vasca di recupero. Ci
mise un po' ma alla fine, tra grumi sabbiosi che si
sfaldavano tra le dita e sostanze filacciose che stuzzicavano
le sue più orribili fantasie, incontrò un oggetto liscio e
sottile, troppo grande per poter essere stato raccolto
dalla macchina durante il funzionamento. Soddisfatta estrasse
immediatamente il braccio immerso fin quasi al gomito e
guardò cosa stringeva in mano. Qualcuno, probabilmente quel
porco che l'aveva aggredita, aveva aperto il robot mentre
era in funzione e aveva buttato un disco dati dentro la vasca
di recupero.
Miki riprogrammò rapidamente la lavasciugatrice robot in
modo che finisse il suo lavoro e quella obbedì subito al
nuovo programma. Gettò il disco gocciolante in un angolo
nascosto dell'ufficio più vicino e andò a lavarsi le braccia:
non le era rimasto altro da fare che cambiarsi e tornare a
casa, sperando che Jerrylex non avesse più bisogno di lei
quella sera. Ma quando aprì la porta che metteva in
comunicazione l'area degli uffici con quella di servizio,
spoglia e grigia, per raggiungere il montacarichi una
guardia dell'agenzia di sorveglianza le si parò davanti
spaventandola.
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Ogni debito... è un debito - 14
14.
Soltanto grazie all'impacciata e contraddittoria
accusa di Aran e al mancato ritrovamento della
refurtiva tra le sue cose Miki riuscì a evitare
l'incriminazione per furto. Una volta raggiunta
dalla polizia fu immediatamente accompagnata presso
la centrale e lì, mentre lei seguiva con gli occhi
spalancati il suo badge, la sua identità falsa superò
l'esame dei computer degli agenti. Jerrylex le aveva
temporaneamente dato il nome di Michaela Vandervelden,
per aiutarla a non confondersi troppo. A Miki pareva
quasi di conoscerla, questa misteriosa signora
Vandervelden: se mai l'avesse incontrata avrebbe
dovuto offrirle da bere.
Cadute le accuse e messo nei guai Aran con la
sua precisa e circostanziata descrizione dei
fatti, verbalizzata controvoglia dai poliziotti
che erano più propensi a credere all'uomo che
ancora zoppicava, Miki fu lasciata libera di
andare ma con l'obbligo di presentarsi davanti
al giudice. Infatti aveva subito denunciato le
molestie subite. Dal momento che non sapeva
quanto sarebbe rimasta sul pianeta con quella
identità fasulla, era però probabile che al
momento di comparire davanti al giudice Aran
avrebbe potuto contemplare il banco dei
testimoni contro di lui completamente
vuoto. Avrebbe avuto così un'ottima possibilità
di farla franca.
Tornò dondolando per la stanchezza nel monolocale
che Jerrylex aveva trovato per lei e Ilah in
sostituzione della microscopica stanzina nel
retro del negozio del suo amico Yasser, venditore
di cibo tradizionale. C'era poco spazio, l'aria
condizionata non funzionava bene e quando funzionava
emetteva un rumore fastidioso, per lo più di
notte. Però il posto sembrava più pulito: c'era
un bagno decente e anche il frigorifero. Aperta
la porta con una chiave metallica perforata, un
sistema primitivo ma a prova di attacco informatico,
cercò a tentoni l'interruttore della luce. Fuori
il cielo aveva cominciato a tingersi di un viola
preoccupante, ma lei ricordava che l'alba sulla
Terra era innocua. Anzi: era bellissima. Bastava
farci l'abitudine, a quei colori così vivi e
strani. Però non essendoci finestre in quella
stanza, non era possibile godersela.
Il calore accumulatosi tra quelle pareti durante il
giorno la stordì ancora più del sonno. Aveva qualche
ora a disposizione per dormire, ammesso che i due
pirati informatici non fossero stati individuati e
presi. In tal caso gli investigatori sarebbero giunti
a lei in un batter d'occhio.
Il letto di Ilah era vuoto. Completamente sfatto,
le lenzuola aggrovigliate e sfilate da sotto il
materasso, il cuscino con la federa ingiallita di
sudore era stato gettato negligentemente da un
lato. Ma l'autrice di quel disastro non c'era. Non
c'erano i suoi anfibi verniciati di rosso, non
c'erano i suoi abiti logori. Nonostante il caldo,
Ilah non rinunciava alla sua giacca di foggia
militare con le maniche tagliate rozzamente, a
costo di doverla trasportare gettandosela dietro
la schiena con un dito infilato nel colletto.
Annebbiata dal sonno, Miki non diede peso alla cosa
e si lasciò andare sul suo letto, stremata. Si spogliò
a fatica senza nemmeno badare a quello che stava
facendo e, soffocata dal caldo, non si dette la
pena nemmeno di scostare il leggero lenzuolo. Si
addormentò immediatamente, troppo stanca perfino
per sognare.
Fu svegliata dal tintinnio. Qualcosa suonava ritmicamente,
qualcosa di noto. Un suono che la strappò dal sonno senza
allarmarla. Si svegliò girata su un fianco, il viso rivolto
verso la parete spoglia. Era umida di sudore e stringeva
sul seno scoperto il lenzuolo maltrattato e
aggrovigliato. Il caldo era soltanto mitigato dall'impianto
di condizionamento che aveva ripreso a funzionare
sferragliando sommessamente.
Il cucchiaino sbatté di nuovo contro le pareti della
tazza. Ecco cos'era a tintinnare. Ancora annebbiata dal
sonno, la mente andò pigramente al fornello elettrico che
aveva trovato nell'unico mobile di quell'appartamento,
soltanto un po' meno spartano del precedente. Dopo averlo
riparato rozzamente era stata in grado di far scaldare un
po' d'acqua per farsi il tè. Ne aveva trovata una varietà
molto profumata e dissetante che le aveva subito ricordato
la sua infanzia. Anton, il capo della guardia personale
di sua madre, beveva spesso il tè con lei. Un mercenario,
un ex agente speciale governativo, un assassino a sangue
freddo capace di uccidere anche a mani nude ma con un
gusto raffinato in fatto di infusi. Le aveva insegnato
quel po' di difesa personale che conosceva e da lui
aveva anche imparato ad apprezzare il tè. Si coprì
meglio col lenzuolo a tratti umido del suo sudore e si
girò nel letto, incuriosita. Ilah non aveva dimostrato
alcun interesse per pentole e fornelli, anzi: il solo
pensiero di prepararsi i pasti da sola l'aveva scandalizzata
e messa in fuga. Era strano che avesse fatto il tè.
- Buongiorno.
Miki si strinse di scatto le braccia sul petto,
spingendo il lenzuolo fin sotto il mento. Si sentì
avvampare. Il tintinnare del cucchiaino, ora ostile,
sottolineava l'unico movimento davanti a lei: la mano
che lo sosteneva svogliatamente mentre mescolava la
bevanda fumante. La mano di Jerrylex.
- Tu! - esclamò Miki quando riuscì a chiudere la
bocca. Le era caduta la mascella per lo stupore. L'uomo
seduto a tavola era combinato male: i capelli grigi,
che avevano bisogno urgente di essere lavati, gli
cascavano sciolti e aggrovigliati sul viso ma senza
riuscire a coprire le profonde occhiaie scure. La testa
era china sulla tazza da cui si levavano riccioli di
vapore bianco. Le spalle erano così curve in avanti
da far temere che Jerrylex sarebbe potuto cadere con
la testa sul tavolo da un momento all'altro. Lasciò
andare rumorosamente il cucchiaino metallico sul
tavolo e sorseggiò il tè con fatica. Gli tremavano
vistosamente le mani.
- Per favore – disse con voce strascicata – non dire
a Ilah che sono stato qui. Non dire di avermi visto
in queste condizioni. Per favore...
- Dov'è?
- È ancora collegata... è... è più forte di me. Le
manca solo un po' di esperienza ancora. Poi sarà
davvero brava. Più di me. Vive meglio nel cyberspazio
che nella vita reale. Se non fosse una ragazzina...
- Cosa le hai fatto?
L'uomo posò la tazza sul tavolo e le puntò contro
gli occhi infossati e spenti, sollevando di poco la
testa. Si muoveva come se il suo corpo pesasse tonnellate:
doveva essere fisicamente a pezzi.
- Io? Nulla. Quando è collegata... è quasi
imbattibile. Non so come, ha trovato un po' di
gialla... non deve farsi troppo di roba, le fa male...
diglielo. A parte questo difetto, è quasi perfetta. E
se l'interrogatorio è finito...
Jerrylex si alzò e si trascinò fino al letto di Ilah,
dove si sedette pesantemente. Lo guardò mentre, già
con gli occhi chiusi, si toglieva i suoi vissuti sandali
di gomma e si sdraiava con cautela sul letto sfatto della
ragazzina senza nemmeno togliersi gli abiti trasandati. Miki
non credeva ai propri occhi. Il tempo di esalare un sospiro
sofferente e si era già addormentato.
Si avvolse strettamente nel lenzuolo strappandolo dal
letto e, raccolti i suoi vestiti, si chiuse a chiave
in bagno.
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
Ogni debito... è un debito - 15
15.
Era un bell'albergo, ma non aveva l'aria condizionata
nelle stanze. Per meglio dire l'impianto c'era, ma non
era in funzione da almeno un paio di secoli a giudicare
dalle condizioni in cui versavano i ventilconvettori. C'era
da avere paura del tetano solo ad avvicinarsi.
Ma non era male. Anzi, tra tutti i posti di al-Qahira che
aveva visto fino a quel momento, era di gran lunga il
migliore. Pensò che una ragazza moderna come lei, che era
riuscita a dormire da clandestina a bordo di un doppio-v
con l'incubo che una IA annoiata depressurizzasse tutto il
ponte di comando, poteva stare dappertutto.
Poi c'erano innegabili vantaggi: contrariamente alle
stazioni orbitanti, l'acqua non era razionata. Per questo
aveva subito riempito la vasca da bagno e, denudatasi in
fretta e furia senza nemmeno controllare la temperatura ci
si era tuffata dentro, felice di poter stare finalmente in
ammollo in mezzo a tutta quella schiuma candida, felice di
avere un bagno tutto per sé.
L'incursione di Jerrylex e Ilah era andata a buon fine. Il
pirata informatico aveva compiuto l'ultima, memorabile impresa:
partendo da una rete di computer zombie lì, sulla Terra, aveva
scatenato un attacco diversivo facendo credere di voler
abbattere i server pubblici di una banca terrestre appartenente
al gruppo della Yasuda-Lejeune. Invece il suo vero bersaglio
erano i fondi neri della capogruppo, notoriamente il salvadanaio
orbitante della Yakuza. Era riuscito a spostare in modo a sentir
lui sicuro una cifra spaventosa di denaro e ne aveva dato prova
immediatamente, affittando due stanze in quell'albergo. Nessuno
avrebbe certo reclamato quei soldi, l'impresa non sarebbe mai
finita sui mass media ma aveva probabilmente provocato un terremoto
tra i figli del crisantemo. Si ricordò della tradizione degli
antichi yakuza di mozzare un dito a chi fallisce. Qualcuno, vista
la somma rubata, avrebbe forse perso più di un dito o due per colpa
di Jerrylex. Era stata Ilah a dirle tutto, e solo a impresa ormai
compiuta: l'anziano pirata informatico non aveva voluto svelarle
nulla. Infatti se lei avesse saputo da subito che c'era di mezzo
la yakuza, non avrebbe mosso un muscolo per aiutarlo.
Controllò le proprie mani facendole emergere dall'acqua, come se
temesse per le sue dita; la vista dei polpastrelli corrugati la
convinse a uscire dalla vasca. Si avvolse in un grande asciugamano
bianco non prima di aver constatato nello specchio come le sue odiate,
adipose rotondità non accennassero a diminuire nemmeno di un po'. Poi
si avvolse un altro telo di spugna intorno alla testa bagnata. Dovrò
decidermi a tagliare i capelli, si disse vedendo quanta fatica
doveva fare per contenere l'enorme massa di riccioli neri appesantiti
dall'acqua. Uscì dal bagno completamente piastrellato di mattonelle
lucide color verde smeraldo impreziosite da venature scure. Quelle
intorno ai bordi della vasca erano diverse, lavorate: un bassorilievo
verniciato d'oro con motivi geometrici e floreali. Non le aveva notate
subito. Attraversò la stanza lasciando sulla moquette consumata
impronte umide e scure di piedi scalzi diretti verso la grande porta
finestra, aperta. Solo una grande tenda bianca, debolmente mossa dal
vento, la separava dalla terrazza. Si accomodò su una delle sedie a
sdraio, in pieno sole. Jerrylex aveva scelto bene la stanza: la terrazza
dava sui tetti di edifici più bassi e sul mare poco distante. Altri
edifici alti come l'hotel Luxor, dove lei si trovava in quel momento,
erano ai lati ma i paravento di vetro colorato la riparavano da sguardi
indiscreti.
Pensò a Jerrylex. L'aveva tolta dai guai, almeno così sperava. Degli
scagnozzi che sua madre le aveva messo alle calcagna, non s'era più
vista nemmeno l'ombra. Che li avesse già fatti liquidare da qualcuno,
ora che poteva pagare? Lo escluse. Sua madre sarebbe stata capace di
scatenare una guerra per un motivo anche meno valido di quello. Grazie
a quel criminale informatico aveva cambiato identità e lavoro più volte:
da donna delle pulizie a sguattera a operaia del turno di notte. Aveva
fatto anche la commessa per un negozio di scarpe da donna ma alla fine
della seconda giornata di lavoro l'anziana padrona le aveva detto di
non tornare. Ancora non aveva capito dove avesse sbagliato.
Pensò a Ilah, spumeggiante e vanitosa, estasiata per aver cavalcato
al fianco di Jerrylex nella sua memorabile impresa. Giudicò che avesse
poco da vantarsi di quanto fatto: se la Yakuza fosse riuscita a risalire
fino a lei, le avrebbero tolto la pelle e non in senso figurato.
Pensò alla sua astronave, il Coyote: si ripropose di convincere Jerrylex
ad aiutarla a tornare indietro. Voleva tornare a bordo di una nave e
quel semplice pensiero le fece venire in mente Pavel, il Secondo del
Raja. Da quando aveva frugato di nascosto nel computer di quella
nave per scoprire il suo nome, non era più riuscita a scacciarlo dalla
sua mente. Pavel Zebrinsky: quel suono evocava una figura massiccia,
dolcemente odorosa d'uomo, dal petto largo e dalle braccia potenti. Si
sentì scaldare dentro, immaginandosi prigioniera stretta contro il
corpo di lui.
Rimase lì a far arrossare la sua bianca pelle da astronauta sotto i
raggi di un sole così forte da asciugarla in breve tempo. Aveva da
poco sciolto il telo di spugna intorno alla testa per fare asciugare
anche i capelli quando sentì un forte cicalino all'interno della sua
camera. Ci mise qualche secondo di troppo a capire che c'era qualcuno
che suonava alla porta e solo il secondo sgraziato squillo la convinse
a scendere dalla sdraio e ad andare alla porta.
- Chi è? - disse premendo il pulsante del citofono della serratura,
nonostante potesse vedere con chiarezza sullo schermo monocromatico
un giovanissimo fattorino dalla pelle scura che indossava la metà
superiore della divisa dell'albergo. Lo aveva già visto nell'atrio
mentre spingeva un carrello carico di valige. Controllò il nodo che
le sosteneva il telo intorno al corpo.
- Un pacco per la signorina Patris – disse a voce così alta che Miki
non ebbe alcun dubbio: ora l'intero quarantacinquesimo piano sapeva
che lei aveva appena ricevuto un pacco.
Non aspettava nulla e un po' ansiosa aprì la porta. Il fattorino
dell'albergo aveva con sé un carrello a mano ingombro di molti pacchi
e sacchetti di tutte le dimensioni. Miki riconobbe le firme di moda
del momento, evidentemente note e diffuse anche lì sulla Terra. Il
fattorino, forse imbarazzato vedendola così com'era uscita dal bagno,
afferrò un po' impacciato una busta bianca che sporgeva dal taschino
della propria giacca e gliela porse. Nel togliere i pacchi dal carrello
ne fece cadere un paio. Rimase poi lì, spostando nervosamente il proprio
peso da un piede all'altro finché Miki non si ricordò della curiosa
abitudine che c'era da quelle parti di dare la mancia a tutti quanti,
anche senza motivi particolari a giustificarla.
Meravigliata, Miki si sentiva stupidamente felice come una scolaretta:
tra le cose cadute c'era il sacchetto di un noto atelier da cui era
uscita una lussuosa e bellissima pochette rigida tutta coperta di
scintillanti brillantini che mandavano deliziosi riflessi
azzurri. Dopo aver contemplato da tutti gli angoli quell'abbagliante
accessorio femminile, riuscì a calmarsi abbastanza da cercare una
spiegazione all'interno della busta. Era infatti evidente che tutta
quell'abbondanza e quel lusso improvviso non fossero giunti a lei
per un caso. Lasciò cadere la pochette sull'enorme letto a baldacchino
che le piaceva moltissimo per via dei veli. Utili per ripararsi dagli
insetti, erano raccolti da eleganti fiocchi di passamaneria
consumata. Si chiese se era proprio lì che qualcuno aveva intenzione
di portarla: sul materasso. L'idea la preoccupava e la stuzzicava al
tempo stesso. Il suo facoltoso corteggiatore sconosciuto la stava
attaccando frontalmente, senza perdere tempo: avrebbe dovuto
premiarlo? Certo non subito. Aprì la busta con uno strappo deciso
e spiegò il foglio di carta in essa contenuto. Carta vera, le dissero
i polpastrelli strofinandola per bene percependone con gioia lo spessore
e la ruvidezza. Una cosa che solo sulla Terra potevano ancora
permettersi.
I suoi occhi lessero la prima riga scritta a mano, una grafia obliqua
e stirata ma abbastanza leggibile. Dopo aver passato tutta la vita a
leggere schermi di computer, pubblicazioni digitali e via dicendo,
ebbe qualche difficoltà col corsivo. Forse per quello, forse per
l'ansia di sapere chi le mandasse quel tesoro, saltò subito alla
firma.
- Jerrylex!
Non poté fare a meno di pronunciare quel nome ad alta voce tale
fu la sorpresa. Il resto del biglietto diceva che lui sarebbe stato
onorato di averla al suo fianco alla festa che l'albergo aveva
organizzato per quella sera. Si scusava inoltre se aveva sbagliato
la taglia di qualcosa. Improvvisamente squillò il terminale. È lui,
le disse il cuore con un tuffo.
- Hey, Miki!
Sul monitor del terminale era apparso il volto di Ilah. Era
alloggiata anche lei al Luxor, ma aveva trovato una stanza al
quarantanovesimo piano. A giudicare dall'inquadratura bizzarra
doveva aver spostato il terminale sul letto e stava sdraiata
sulla schiena.
- Ciao... - Miki non sapeva se essere delusa: davvero si
aspettava di ricevere una chiamata da Jerrylex?
- Senti, ti pare che i miei piedi siano troppo grandi?
Ilah offrì un piede scalzo alla telecamera del terminale e
quello campeggiò sullo schermo di Miki fino a quando non andò
fuori fuoco per l'eccessiva vicinanza.
- Mi hai chiamato per farmi vedere i tuoi piedi?
Lo schermo fu sgombrato, ma solo dopo qualche secondo
ancora. Ilah certe volte era proprio solo una bambina
dispettosa.
- Hai ricevuto nulla da Jerrylex?
Esitò a risponderle, sorpresa. Se anche Ilah era stata invitata
alla festa dell'albergo, tutto il romanticismo della serata
svaniva in un sol colpo. Forse Jerrylex aveva qualcosa da farsi
perdonare da entrambe?
- Mi... ha detto che c'è una festa nel salone grande dell'albergo,
stasera. Vuole che vada. Tu ci vai?
- Masseifuori? Mi ha appena mandato una esclusiva card d'invito
per uno spettacolo di lotta nel fango... lotta maschile, bella
mia! Non mi perderei l'evento per nulla al mondo. Anche se questa
gravità mi sta uccidendo! Sai, c'è la possibilità che sia un posto
di quelli dove tirano dentro anche il pubblico...
Senza volerlo Miki si trovò a dover dissimulare un sospiro di
sollievo. Ilah col suo cervello cablato era capace di non farsi
sfuggire un solo dettaglio, specie se era concentrata su uno
schermo. Ma per il momento sembrava che la sua attenzione fosse
tutta per il suo piede destro e per la card d'invito che stava
sventolando davanti alla telecamera in quel momento.
- Ah, che culo... - iniziò un commento di circostanza, ma la
giovane la interruppe subito, com'era sua abitudine.
- Mi dispiace tanto, ma la card è valida per una sola persona. Temo
proprio che o tiri fuori un mal di testa o ti toccherà andare a
quella noiosissima festa. Ah, non dirgli che hai le tue cose... gli
ho già detto che non è il tuo momento. Non mi sputtanare con Jerrylex,
eh!
- Ma... cosa vai a raccontare in giro? E perché, poi? Ma non ti fai
mai i cazzi tuoi, razza di... - Miki sbottò, ma aveva il sorriso
sulle labbra.
- Scusami... mentre tu non c'eri quando eravamo nell'atrio mi ha fatto
un po' di domande qua e là... non so come siamo finiti a parlare delle
tue mestruazioni.
- Lo so io com'è andata: quando Jerry ti guarda negli occhi, tu perdi
completamente la rotta.
- Ah, io! Ho soltanto un quarto dei suoi anni! – Ilah scoppiò a ridere,
una risata squillante e sincera. Miki le fece una smorfia, sapendo di
avere ragione. L'ammirazione che Ilah dimostrava di avere per il vecchio
cavaliere del cyberspazio era seconda solo a quella per la nonna. Ammirazione
che da parte di Jerrylex non era granché ricambiata. Come lei ben sapeva,
al contrario lui era quasi infastidito da Ilah e dal suo talento
informatico.
- Ma se da quando ti ha visto non ha smesso di ronzarti intorno! Ce
l'ha con te, scema! Non te ne sei accorta? Sai che sono gelosa? Lui è il
mio idolo da sempre e come mi ringrazia? Facendo il cascamorto con te! -
aggiunse subito dopo, offrendo nuovamente la pianta del piede scalzo alla
telecamera, agitandolo.
Miki guardò il mucchio di scatole e sacchetti al centro della stanza. Sì,
se n'era accorta nei giorni scorsi, soprattutto dopo il suo “ultimo colpo”,
come definiva il suo colossale furto ai danni della Yasuda-Lejeune. Aveva
avuto anche un'inequivocabile conferma.
- Ma smettila – si difese però con Ilah, che le rispose imitando una
risata beffarda.
- Ma quanto sei scema... a te la festa di lusso in albergo, non troppo
lontani dal materasso. A me, la bambina rompicoglioni da mettere a letto
subito dopo cena, un biglietto gratis per starmene fuori dalle palle fino
a tardi! Più chiaro di così!
- Questo è quello che pensi tu – la difesa di Miki era inefficace: Ilah
era una pettegola di prima grandezza.
- Piuttosto, dimmi se hai intenzione di mandarlo in orbita già da stasera
o se lo farai soffrire, poverino...
- Ma fatti i cazzi tuoi, tu! - fu l'inevitabile risposta di Miki.
- Daaai, dimmelodimmelodimmelo... non lo saprà nessuno.
Ilah si sdraiò sulla pancia per arrivare più vicina col viso alla
telecamera incorporata nel terminale dell'albergo. Miki vide quella
faccia sbarazzina e impertinente ingrandirsi sempre più fino a occupare
tutto lo schermo. Gli occhi chiarissimi le brillavano e non solo perché
vi si rifletteva la luce del monitor.
- No!
- No cosa? Non gliela dài?
- Non te lo dico!
- Dài, da donna a donna... - la faccia tosta di questa ragazzina è
invidiabile, pensò Miki scuotendo la testa negativamente.
- Peggio per te: invecchierai e morirai vergine, zitella e
acida. Ciao!
- Io non sono vergine! - scattò Miki, ma troppo tardi: la ragazzina
aveva già chiuso la comunicazione. Rimase da sola, seduta sulla sponda
dell'enorme letto intatto, a cercare di giustificare a se stessa lo
sfarfallare ansioso che sentiva nel petto.
Si controllò ancora una volta nello specchio grande che occupava una
buona parte della parete opposta al letto, a fianco della porta del
bagno. Tutta la gioia e l'eccitazione che aveva provato aprendo i
pacchi uno a uno sembravano sgocciolate via da lei, lasciando posto
a un crescente nervosismo. Aveva avuto in dono il cofanetto per il
trucco più grande che avesse mai visto e non era stata capace di
usarlo bene come avrebbe voluto. Dopo essersi struccata tre volte
per cancellare dei pessimi risultati, aveva scelto di usare un colore
scuro un po' sfumato per gli occhi insieme a ombretto e matite, scure
anche queste. Anche così però le era sembrato di non aver sfumato il
colore nello stesso modo sugli occhi e aveva la netta sensazione che
vista da lontano sembrava avere un occhio pesto.
Dopo il trucco andò a prendere il vestito. Con un tuffo al cuore
aveva trovato un bellissimo abito da sera di un fantastico azzurro
scuro. L'azzurro, il suo colore preferito! Indossandolo però aveva
scoperto non senza disappunto che l'abito era molto scollato davanti
e le lasciava mezza schiena nuda. Ciò significava essere costretta ad
andarsene in giro con i suoi due pesanti carichi anteriori senza
ormeggio e la cosa le dava fastidio. Non le piaceva l'idea e anche
dopo un milione di prove e di controlli non era ancora convinta che
non si sarebbero verificati imbarazzanti incidenti.
L'abito però era stato scelto con accortezza: oltre a essere della
taglia e del colore giusti, era fatto con un tessuto liscio e morbidissimo;
era anche molto lungo. Miki lo apprezzava perché riusciva così a nascondere
i suoi muscolosi polpacci, le ginocchia nodose e le cosce arrotondate da
qualche chilo di troppo. Doveva solo fare attenzione allo spacco che aveva
sul fianco sinistro. Una cintura si stringeva poco sotto il seno permettendo
così che la linea dei suoi fianchi troppo larghi non venisse sottolineata. Dovrò
fare qualcosa per questo culone un giorno o l'altro, si disse mettendosi di
profilo allo specchio. Bastava guardare bene e tutti i suoi difetti apparivano
uno dopo l'altro.
Perfino i capelli le avevano fatto perdere la pazienza: non era riuscita a
domarli come avrebbe voluto e se la prese in silenzio con Jerrylex per non
averle mandato in camera anche una parrucchiera.
Quando lo sgraziato cicalino della porta suonò, facendola sobbalzare per
lo spavento, era ancora in bagno, seduta davanti allo specchio con il
cofanetto dei trucchi completamente dispiegato. Sussultando sbavò un poco
il cupo rossetto che si stava applicando meticolosamente. Con un moto di
stizza abbandonò il delicato pennello e si alzò per andare alla porta
d'ingresso.
- Miki! Sei pronta? La festa è cominciata.
Era Jerrylex. In piedi davanti alla porta chiusa, coi capelli di nuovo
raccolti dietro la nuca da un banale elastico colorato, con indosso il
vestito blu ma scalza, lei strillò al limite dell'isterismo.
- Come faccio a essere pronta? Devo fare ancora un sacco di cose!
Tornò svelta sui suoi passi fino al centro della stanza dove c'erano
i resti delle confezioni degli abiti. Si chinò bruscamente in avanti
a raccogliere le scarpe, innervosita. Si risollevò rossa in viso e
con la mano libera premuta sui seni. Devo ricordarmi di non piegarmi
in avanti così, si disse controllando che non fosse sfuggito qualcosa
alla presa del vestito.
- E poi ci vai in giro tu con queste cose ai piedi! - gridò agitando
l'elegante sandalo dal tacco alto verso la porta, ancora chiusa. Non
aveva mai portato scarpe col tacco alto più di pochi centimetri:
preferiva di gran lunga le sue morbide scarpette di tela con la suola
di velcro fatte apposta per camminare sulle astronavi quando non c'è
gravità.
- Sono sicuro che te la caverai benissimo. Dài, muoviti... ti aspetto
agli ascensori... - disse l'uomo accompagnando le sue parole con un
sospiro rassegnato.
Uscì dalla camera dell'albergo con cautela, quasi come se non osasse
fare rumore. Fece scivolare il badge che apriva la serratura elettronica
dentro la sua scintillante pochette e, procedendo incerta sui vertiginosi
tacchi, raggiunse la zona degli ascensori. Lì, seduto su una delle
poltroncine di cortesia, c'era un uomo che scattò in piedi non appena
si accorse di lei.
Ci mise un secondo a riconoscerlo. Aveva raccolto i lunghi capelli grigi
e argento in uno strettissimo codino dietro la nuca, mantenendoli aderenti
al cranio in modo molto ordinato. Il viso, non più ombreggiato dai capelli
sciolti e scarmigliati, sembrava aver perso dieci anni di età e gli occhi
castani tempestati di piccole schegge chiare risaltavano molto. Barba e
baffi erano stati curati, le guance rasate e le basette assottigliate. Nemmeno
le rughe dell'età riuscivano a togliergli quell'aria da irresistibile
mascalzone che lo rendeva attraente. Vestiva in modo sobrio ed elegante
un abito grigio e nero che gli stava a pennello. Quell'accenno di pancia
sporgente che aveva notato fin dalla prima volta che l'aveva visto sembrava
sparito. Gli offrì il braccio nudo, ornato dalla bigiotteria che lui stesso
aveva scelto per lei.
- Tienimi, eh! Sento che prima di sera riuscirò a farmi male cadendo
da questi cazzo di tacchi che mi hai rifilato!
- Sei bellissima – disse quello estasiato prendendola sottobraccio. Con
quei tacchi Miki superava il metro e novanta e lui non la raggiungeva
nemmeno quando scalza.
- Sei un bugiardo. Mi sembra di essere una... un... sono un disastro,
ecco!
- Non è affatto vero: sei incantevole – disse Jerrylex chiamando
l'ascensore. Questo si precipitò fino al sotterraneo dove era stata
ricavata la più grande sala di tutto il Luxor. Qui c'erano già una
cinquantina di persone che, servite da scuri camerieri in divisa da
gala, si dividevano tra la pista da ballo, i salottini e i lunghi tavoli
con il buffet.
Con gli occhi Miki passò immediatamente in rassegna tutte le donne
che poté. Ben presto si rese conto che non era certo lei che aveva
esagerato con la scollatura. Né era l'unica con problemi di giro-vita
o a barcollare sui tacchi.
Jerry passò tutta la serata a sbavarle addosso. Non sapeva perché
la corteggiasse così tanto: la riempiva di attenzioni, si affannava
per farla sentire a suo agio. Ballarono e bevvero anche qualche
bicchiere di troppo. A parte il dolore ai piedi, che cominciò a farsi
sentire abbastanza presto, andò proprio tutto bene. Almeno fino alla
fine dell'ultimo ballo. Avevano già deciso che se ne sarebbero andati:
Miki era stanca e sentiva di aver bevuto troppo. Jerrylex aveva allungato
le mani già un paio di volte e non era il caso che si prendesse ulteriori
libertà. Ma tornando ai divani per riposare un poco dopo l'ultimo ballo,
Miki per poco non si distorse una caviglia a causa dei tacchi. Solo
aggrappandosi prontamente al suo attempato accompagnatore riuscì a evitare
il peggio. Quando se la sentì di camminare, si fece accompagnare fino in
camera. Durante la salita con l'ascensore si sfilò le scarpe e con esse
minacciò scherzosamente Jerrylex.
- Tu e le tue scarpe col tacco!
- Te la sei cavata benissimo fino all'ultimo, amore.
- Non chiamarmi amore – mise astio nella voce, ma il sorriso che le
affiorò sulle labbra la tradì. In un angolo del suo cervello ancora
abbastanza sobrio prese forma il pensiero che si era fatta fregare come
un adolescente al primo appuntamento. E che Jerrylex era una persona
affatto spiacevole. Avrebbe potuto essere suo padre, ma era elegante,
carino e ci sapeva fare.
Le porte dell'ascensore si aprirono sull'atrio del quarantacinquesimo
piano illuminato da grandi lampade gialle. Lei con le scarpe in una mano
e la borsetta sfavillante nell'altra lo attraversò zoppicando leggermente.
- Ti fa ancora male? Vuoi che ti accompagni?
L'attacco finale, pensò Miki.
- No grazie, me la cavo da sola.
Ma l'uomo la seguì ugualmente fino alla porta. Col cuore che le
martellava nel petto per l'ansia, la paura e l'eccitazione, estrasse
il badge e sbloccò la serratura. La luce si accese all'apertura della
porta mostrando l'interno lasciato completamente in disordine: le
confezioni aperte e lasciate cadere alla rinfusa erano ancora lì dove
lei le aveva abbandonate. Quando vide tutta quella confusione, la tenda
mossa da un alito di vento, segno che aveva dimenticata aperta la porta
del terrazzo, il letto stropicciato, il caos del bagno, si vergognò e
desiderò che Jerrylex non fosse mai entrato.
- Vattene – gli disse poco convinta sedendosi sulla sponda del
letto col baldacchino.
- Non ti sei divertita? - le chiese quello sedendosi al suo fianco,
così vicino che i loro gomiti si toccarono.
- Tantissimo. Sei bravo a ballare, sai? Ma vattene lo stesso, O.K.?
Si sentiva la testa un po' troppo leggera. A un certo punto aveva
visto girare della gialla nel salone, ma ne era stata lontana. E credeva
di essere riuscita a tenere lontano anche lui, che gliel'aveva addirittura
offerta. Ma non era certa che lui non l'avesse presa di nascosto.
- Nemmeno il bacio della buonanotte? - chiese lui con la migliore
delle sue espressioni da contrita, adorabile canaglia.
Miki si toccò con un dito la guancia destra.
- Autorizzo il bacio della buonanotte. Ma poi smammi, eh? Ti ricordo
che sono armata – gli mostrò il tacco acuminato della scarpa che teneva
ancora in mano, pronta per ogni evenienza. Non sono poi così tanto ubriaca,
pensò.
Lui obbedì e le appoggiò le labbra contornate da ispidi baffi dove
indicato. Sentì qualcosa di caldo e soffice, molto sensuale, percorrerle
lentamente la spina dorsale lasciata scoperta dal vestito.
- Non sai cosa ti perdi... - le sussurrò nell'orecchio. Lei si ritrasse,
incerta, voltando la testa dalla parte opposta. Il contatto della mano di
lui sulla sua schiena si interruppe.
Sentì le molle del materasso reagire alla diminuzione del peso che le
caricava. Lo guardò attraversare la stanza con la sua andatura felina,
calcolata. Scavalcò le scatole aperte e voltandosi un'ultima volta sulla
soglia per farle un cenno di saluto con la mano, se ne andò chiudendo
delicatamente la porta dietro di sé.
Miki tirò un sospiro di sollievo, ma stava già rimpiangendo di averlo
lasciato andare via. Davvero mi sarei buttata tra le sue braccia, si
chiese. Era eccitata, non poteva negarlo. Ma non poteva darsi al primo
che le regalava un vestito e la invitava a una festa. Jerrylex era un
seduttore, l'aveva capito. Era anche un criminale, un cavaliere del
cyberspazio, abituato da sempre a vivere e agire al di là del margine
della legalità. Forse voleva dimostrare qualcosa a se stesso. Il furto
era servito per dimostrare di essere ancora in gamba e lei sarebbe stata
la prova della sua mascolinità ancora integra. O forse voleva solo
portarla a letto.
Andò in bagno a prepararsi per la notte, ma una volta a letto faticò
ad addormentarsi per la tensione, l'eccitazione e il rimorso. Quando
finalmente si addormentò mancavano poche ore all'alba.
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Ogni debito... è un debito - 16
16.
Non riuscì più a ignorare la luce che filtrava attraverso le
cortine e nemmeno il caldo che, sebbene non potesse essere poi così
tardi, era già opprimente. Si mise supina e si stiracchiò pigramente
finendo di scacciare gli ultimi residui di sonnolenza. Rotolò quindi
fuori dal letto e andò a farsi una rapida doccia fresca stando in piedi
nella grande vasca da bagno, cercando di ignorare i segnali che provenivano
dal suo stomaco. L'aveva decisamente maltrattato durante la sera precedente
saltando la cena e bevendo cocktail alcolici. Infatti dopo la serata
passata a ballare con Jerrylex aveva speso quella successiva con Ilah. La
ragazzina, in preda a uno dei suoi eccessi di cameratismo femminile,
si era lamentata del fatto che non erano mai uscite a fare baldoria
insieme. Così l'aveva accontentata, credendo da un lato di poter finalmente
instaurare un rapporto meno turbolento con la permalosa, volubile e
insolente ragazzina. Dall'altro temeva che quella vecchia volpe di
Jerrylex, andato in bianco la sera della festa in albergo, tornasse alla
carica con metodi un po' più spicci.
Una volta spalmata la pelle con l'indispensabile protezione solare,
indossò i suoi larghi pantaloncini al ginocchio e una comoda maglia senza
maniche, nera con gli orli bianchi e dalla scollatura quadrata forse un
po' troppo generosa. Si guardò allo specchio: si vedevano le spalline del
reggiseno e notò che la pelle si era arrossata per il sole, ma non
scurita. Pelle da astronauta, si disse. Non aveva bevuto molto: l'alcol
le aveva lasciato un brutto ricordo sul palato e null'altro. Decise
quindi di accontentare le richieste del suo stomaco e di andare a vedere
se era ancora aperta la sala da pranzo dell'albergo per fare colazione.
Aveva appena finito di mangiare quando un impiegato dell'albergo la
raggiunse e molto cortesemente le chiese, bisbigliando discretamente
anche se non c'era nessun altro nella sala da pranzo, di passare dalla
reception prima possibile. La cosa la insospettì: solitamente il personale
dell'albergo non faceva altro che sorriderle. Si alzò poco dopo e
abbandonata la sala da pranzo tristemente deserta si recò alla reception
dove l'attendeva il medesimo impiegato che era venuto a chiamarla. Questi
le porse una semplice busta di carta bianca, chiusa con la colla. Dovette
lacerarla per aprirla e la cosa le dispiacque un po': la carta vera,
bianca e spessa, ruvida al tatto era una delle cose che, abbandonata la
Terra per la vita sulle stazioni, aveva rimpianto di più. Le era sempre
piaciuta tantissimo fin da bambina quando riceveva fantasiosi e colorati
biglietti d'auguri per il suo compleanno.
Riconobbe subito la scrittura, sottile e obliqua: era il pugno di
Jerrylex. Generici saluti e al posto della firma due sole parole:
“non cercarmi”. Un po' minaccia, un po' richiesta: tipico di quell'individuo. Si
accorse che il biglietto, piegato a metà, era stato scritto anche
all'interno. C'erano delle istruzioni per il collegamento a una certa rete,
rese volutamente complicate poiché anche quelle erano state scritte a mano
e con indirizzi numerici al posto dei nomi. Ma non era quello a preoccuparla:
padroneggiava i computer abbastanza da sapere come venirne fuori. Chiese
all'impiegato dell'hotel se c'era un terminale per potersi collegare alla
Rete e quello la condusse in un locale apposito che era stato attrezzato
con computer e paraventi di paglia intrecciata che garantivano una certa
privacy. Anche lì non c'era nessuno oltre lei.
Si collegò dove richiesto e seguite le istruzioni comprese immediatamente
che aveva dato il via a una procedura di qualche genere. Non sapeva esattamente
cosa aveva lanciato: ogni tentativo di tracciare gli indirizzi un istante
dopo aver concluso la procedura non aveva prodotto risultati. Jerrylex,
pirata e criminale informatico aveva di certo colpito ancora. Miki si dette
della stupida: se si fosse trattato di una trappola, c'era cascata in pieno
come una dilettante. Fece qualche tentativo del tutto inutile e poi, per
non tornare nella hall col viso imporporato dalla vergogna, visitò qualche
sito di notizie nell'attesa che le passassero gli evidenti segni
dell'imbarazzo. Odiava sentirsi stupida: per la rabbia ondate di calore
la attraversavano e le prudeva perfino la nuca.
Stava per concludere il collegamento quando si rese conto di un messaggio i
ndirizzato a lei. Non era possibile risalire al mittente che aveva usato
un nome di fantasia, ma dal contenuto Miki capì che si trattava ancora di
lui. Con dei giri di parole la stava avvisando che la falsa identità che
la proteggeva non sarebbe durata ancora a lungo e che era una questione di
ore, non di giorni. In più quello era l'ultimo giorno di permanenza in
albergo, poiché i soldi versati in anticipo erano finiti. Se aveva intenzione
di fermarsi ancora, avrebbe dovuto farlo a spese sue.
Miki maledisse il pirata informatico un paio di volte, a denti stretti
anche se nessuno l'avrebbe sentita. D'istinto si collegò alla banca per
verificare quanti soldi le erano rimasti: aveva bisogno del denaro per
tornare su Apollo ed era pronta a scommettere che avrebbe dovuto fare da
balia anche a Ilah. Quando vide il saldo totale le mancò il fiato. C'erano
più di ventimila crediti. Una cifra enorme! Certo non proveniva
dall'altalenante reddito delle sirene telasiane: per mettere insieme una
cifra del genere avrebbe dovuto avere una percentuale sui ricavi di gran
lunga più elevata di quella che le era stata riconosciuta. Guardò i dettagli:
c'era un accredito di ventimila, tondi tondi, tutti in una volta. Il momento
dell'accredito sul suo conto era... cinque minuti prima. Appena
arrivati. Cominciò a capire cosa aveva combinato seguendo le istruzioni
di Jerrylex. Erano parte dei soldi del colpo che lui aveva fatto ai danni
della yakuza. Ebbe un brivido: sperò che quel vecchio bastardo sapesse
davvero bene il fatto suo e che quel denaro fosse davvero non rintracciabile,
altrimenti era già morta. Ma ventimila! Tutti per lei! Avrebbe pagato la
revisione al Coyote e ne sarebbero avanzati ancora. Una ragione di più per
partire immediatamente. Chiuse il collegamento cancellando le tracce
dell'utilizzo di quel terminale e corse a chiamare Ilah. Era ora di
tornare a casa.
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