Eros e Psyche

di trullitrulli
(/viewuser.php?uid=46671)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***
Capitolo 4: *** Ultima parte ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


 Eros e Psyche

 

Il mio nome è Psiche, la mortale. Sono figlia minore di un re e di una regina. Oltre a me, i miei buoni genitori hanno due figlie dall'aspetto leggiadro e belle come due rose.
Ma per quanto siano graziose la loro bellezza potrà sempre essere interpretata con parole mortali.
I forestieri in viaggio potranno descriverla ad altri forestieri lungo il loro cammino, che a loro volta racconteranno la loro fama agli abitanti delle proprie patrie.
Ma non c’è stato ancora complimento o descrizione che non siano sembrati smunti al confronto con la vista della mia bellezza, che dicono -e lo riconosco con un po’ di timore quando vedo emergere la mia immagine nello specchio- talmente radiosa, talmente delicata e così superiore a qualsiasi lode da rivaleggiare con Afrodite, la divina regina dell'amore, al cui passaggio leggero e invisibile i fiori e le rose sbocciano in suo onore…


Nessuno andò più ai templi a rendere omaggio alla legittima dea: non toccarono più gli altari, non bruciarono più ghirlande o uccisero agnelli, poiché gli uomini erano convinti di avere Afrodite in mezzo a loro.
La mia fama mi precedeva ovunque andassi.
Nel regno dei miei genitori al mio passo intimorito la gente per strada mi ricopriva di petali e fiori, sciolti o legati in mazzi, e mi vedevo rivolte preghiere ed offerti i sacrifici della dea.
Non volevo che gli immortali credessero che con la mia bellezza avanzassi delle pretese di divinità.
Pensavo che dividere con Afrodite la sua fama mi avrebbe attirato l’ira della dea, e così mi schermavo sempre, impaurita come una creatura del bosco, respingevo dolcemente le preghiere e i doni votivi, e io stessa, intimidita, supplicavo i supplici che non si prostrassero davanti a me e non si umiliassero ad abbracciarmi le ginocchia e a coprire di baci i miei piedi.
Nonostante la mia bellezza avesse la fama di essere divina, era sterile ed infeconda, e mi aveva lasciata in una desolata solitudine.
Le mie sorelle, avvenenti, ma di bellezza più modesta, si erano felicemente sposate ed avevano unito la nostra famiglia con quelle di due re. 
Nessuno, invece, osava avanzare proposte nuziali per me, che ero ammirata ovunque, ma con l’ammirazione per le statue che, per quanto siano perfette, rimangono solo delle immagini di beltà. Per i mortali io ero un simulacro prima di essere una donna. Nessuno nei miti e nella storia amò mai una statua o volle vivere e morire per un simulacro.
Credevo che, se fossi stata solo graziosa come una mortale, qualcuno avrebbe avuto il coraggio di sposarmi, e finii per detestare quella bellezza che mi restituiva lo specchio e che piaceva tanto a tutti.
Mi tormentavo i capelli e piangevo, e quando ero esausta e senza forze mi alzavo e camminavo intorno con sobbalzi di pianto, talmente triste e debole che sentivo la mia testa come una bolla d'aria.
Disperata, credevo di esser tormentata dall’odio di Afrodite per aver osato essere bella come lei. Un giorno mi gettai in ginocchio davanti a mio padre e piagnucolai, supplicandolo di andare a chiedere all’oracolo di Mileto se avrei mai avuto uno sposo. Mio padre mi accontentò, ma quando ritornò aveva una faccia più contrita e disperata della mia.
Il responso del dio era stato:

“Sopra un'alta montagna lascia, o re, la fanciulla ornata per le nozze di abiti funerei. Non aspettarti un genero nato da stirpe mortale, ma un crudele, un feroce, un mostro viperino, che volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con ferro e con fuoco distrugge ogni cosa; che lo stesso Zeus teme, di cui gli dei hanno il terrore e anche i fiumi infernali e le tenebre dello Stige”*

La sorpresa fu violenta e improvvisa come una bastonata a tradimento sulla nuca. 
Cosa aveva una forza talmente virulenta? Cos'era talmente aggressivo e invincibile da essere temuto dalle creature che vivevano nelle gole dei luoghi della morte e dagli dei, che pure erano supremi, austeri e potenti?
I miei genitori non avrebbero mai osato non obbedire al responso e da parte mia non feci mai nulla per impedirglielo, approvandolo fin dall'inizio con un po’ di paura.
Al mio matrimonio non suonarono il flauto nuziale, ma la nenia di morte della Lidia, mentre io, sulla rupe indicata, piangevo nei veli matrimoniali.
Tutta la città si era unita al dolore dei miei buoni genitori e celebrava insieme a loro le esequie della figlia viva.
Rimanevo elevata sopra la folla, sulla rupe dove ero stata deposta alla fine della processione, ad assistere alla vista del mio corteo funebre.
Ed ecco il risultato di possedere una rara bellezza, pensavo, e di essere chiamata in coro dai popoli “nuova Afrodite”.
Avevo le guance bagnate e rosse e le spalle scosse dai singhiozzi. Tremavo come se la terra sotto di me fosse terremotata.
Mia madre e mio padre si arrampicarono sulla mia rupe e mi strinsero entrambi in un commosso abbraccio che mi ridiede il coraggio e la forza di un uomo. Così, infine, per un po' fui io a confortare loro, spingendoli verso quel misfatto.
Li amavo troppo per fare qualcosa per impedirglielo.
Sentivo che se le loro braccia non mi avessero tenuta tutta insieme sarei caduta a pezzi, e quando mi abbandonarono rimasi ad osservarli allontanarsi insieme agli altri, con le ginocchia tremanti.
Il pianto nella mia voce era diventato talmente dirotto che non riuscivo neppure a salutarli da lontano ma, quando la processione sparì tra le rocce, all'improvviso sentii l’aria, finora senza forze, vorticare attorno a me, e le nubi abbassarsi sulla mia testa.
L’orlo del mio peplo cominciò a svolazzare sulle mie caviglie ed un mulinello furioso di foglie secche e polverone si scatenò travolgendomi in pieno e trascinando i miei capelli e i veli nuziali.
Mi sentii sollevare dal vento per le braccia e poi da sotto le ascelle e  per le gambe, quasi che l’aria fosse di materia palpabile e avvolgibile attorno al corpo.
Il vortice d’aria catturò delle nubi e mi avvolse attorno una nebbia divina, affinché nessuno potesse vedermi, o sentirmi, o toccarmi mentre scendevo dolcemente verso il pendio e venivo risucchiata sempre più infondo dal candore della foschia.
La meraviglia e lo spavento lottavano per prevalere l’una sull’altro mentre il pendio roccioso e acuminato finiva sulla collina in un prato verde, apparso dietro la nebbia che si diradava. Lo Zefiro mi conduceva leggiadro, tra veli aleggianti e soffi leggeri, su un letto di fiori dove era ammucchiata un po’ di paglia.
Cullandomi dolcemente, quasi in un grembo materno, l’aria calda mi depose per terra. Smettendo di vorticare sotto di me, la corrente si spostò e prese a girare su se stessa, trascinando polvere, foschia e foglie secche. Con queste cose simulò l’immagine di un uomo divino (a vederlo un meraviglioso prodigio) che camminava senza suono di passi sull’erba, coinvolgendo altri rametti dentro il suo corpo di nuvole e polvere.
Col palmo rivolto al cielo, vicino alla bocca, mi soffiò addosso un profumo penetrante di vino.
Sentendomi sopraffare dalla stanchezza che veniva dallo sfogo delle lacrime e dall’aria intossicante, che saliva fino alla mente pungendomi nel naso e provocandomi la sensazione di una sbornia spaventosa, cedetti e dormii pacificamente nel fieno, finché l’incantesimo di Zefiro non si diradò nell’aria attorno…


Il risveglio fu un lento spalancarsi d'azzurro davanti ai miei occhi.
Mi ero svegliata al suono del corso ridente di una sorgente d’acqua dalla purissima trasparenza e dai bei scintilli, con un mal di testa pulsante dietro agli occhi.
Visto che dal tramonto del giorno prima il sole ora splendeva a metà del compimento del suo percorso, nel pieno del cielo d'un azzurro così profondo da rasentare le tinte viola, capii di aver dormito tutta la notte prima e buona parte del giorno.
Mi rigirai ed affondai nel mio giaciglio di fieno. Con le braccia intorpidite feci forza sui gomiti per alzarmi un po’, attorno a me c’era l’atmosfera eterea ed idilliaca dei capi Elisi.
Avevo dormito in un piccolo spiazzo del bosco, a cielo aperto.
Mi alzai pulendomi il fieno dal peplo e osservando il bozzetto idilliaco.
Tutto il giardino era pervaso di lucore: attorno a me, dopo la bellissima fonte dalle onde tranquille che la facevano luccicare al sole, c’erano un boschetto di alberi alti e grandi abbastanza da ricoprire l’orizzonte.
A sua volta circondato dal boschetto, come la radura, c’era un palazzo che sovrastava tutto, e sembrava alzarsi fino a voler raggiungere il cielo, nella sua parte più alta e inaccessibile, dove non c’era l’aria.
Attraversai la bella corrente domandandomi in che mare finisse e se seguisse la strada di casa.
All’entrata si capiva con certezza di trovarsi in una dimora degli immortali.
I soffitti erano alti, intagliati in legno di cedro, oppure fatti in marmo, e le colonne erano grandi quanto grossi tronchi d’albero.
I muri e i pavimenti erano d’oro cesellato pieno di figure in rilievo che sembravano voler uscire dalle pareti dov’erano scolpiti.
Neppure tutto l’oro e l’argento di ogni tempio sarebbero bastati a raggiungere la ricchezza del bel castello.
Ogni opera aveva una gran finezza artistica che poteva venire solo dalle mani degli dei e tutto era talmente bello e dorato che il palazzo era di per se stesso luminoso anche senza il sole.
Dove le superfici non riflettevano la luce in sfolgorii infuocati o argentati ogni cosa era del bianco soffuso del marmo.
Il prezioso palazzo si estendeva in mille stanze in lungo e in largo e la curiosità aveva la meglio sul senso di smarrimento.
Ma non ero indifferente al fatto che qualcuno mi avesse rapita e che non potessi tornare da dove il Zefiro mi aveva portata via.
Chissà se i miei genitori mi sarebbero tornati a cercare o se invecchiavano nel lutto con rassegnazione.
Mai un mortale aveva avuto tanta abbondanza e aveva passeggiato sull’oro e su gemme come quelle. Ma il miracolo di quel luogo era che niente era sotto custodia, nonostante l’avidità di tanti uomini potesse essere attirata a rubarli, tutto era senza catene e senza lucchetti.
Sentii un moto d’aria come per lo spostamento di un fantasma e poi delle voci incorporee.
“Perché ti stupisci che non sia protetto nulla quando la padrona è a casa?”
Non ebbi il coraggio di rispondere alle voci che mi giravano intorno né di contraddirle o di respirare.
“Tutto quello che ti circonda è tuo, anche noi che siamo ancelle.
Il tuo sposo ci ha ordinato di accontentarti in tutto, e ha rimesso a noi le tue sorti.
Se desideri riposarti, avrai un bel letto, quando lo vorrai potrai chiedere l’acqua per il bagno, con dei vestiti puliti. E se hai fame non ci vorrà più di un istante per trovare la tavola pronta…”
Dopo un lungo silenzio in cui attesero che reagissi decisi di mettere alla prova tutto ciò che mi dicevano.
Chiesi di poter mangiare e si allontanarono dicendomi di seguire i loro canti, mi orientai cercando di capire dove fossero fuggite dalla provenienza della loro voce, e così mi condussero in una stanza più alta che ampia dov’era imbandita una cena da regina su una tavola semicircolare.
Chiesi un'orchestra e un suono senza sorgente si propagò insieme ad un armonia di voci, e benché non si vedesse nessuno era chiaro che c’era un coro in quella stanza.
Domandai se potessero scaldarmi e il fuoco si accese da solo sulle fiaccole fisse al muro, annerite dall’ultima volta che si era spento.
Con grande meraviglia, e confortata da presenze tanto servizievoli, mi feci accompagnare alla stanza destinata.
Il castello era talmente solitario ed ampio che sentivo l’eco dei miei passi e di quelle voci degli spiriti che mi obbedivano.
Mi mostrarono la mia bella stanza, buia e grande, che dava su un ampia finestra e non aveva lumi.
Nel semibuio del tramonto pregai le ancelle aeree di trattenersi, parlarmi, confortarmi un po’ grazie alle loro voci, di raccontarmi delle storie o di chi fosse quel castello.
Ma presto capii che le loro erano parole prive di pensieri, date alla casa e all’aria, che potevano solo ricevere ordini e ripetere le frasi che avevano imparato grazie agli incantesimi di un dio.
La casa divina, dunque, era capace di parlare poche parole con tante voci di ancelle, ascoltare, obbedire, ma per un vano incantesimo, non per vere presenze e vere anime.
Diedi tutti gli ordini che mi vennero in mente per costringere le voci della casa a non abbandonarmi.
Le chiesi di cantare, di rassettare, di mostrarmi dove tenere i vestiti, di aprire la finestra, di accendere un lume, ma qui mi dissero che non potevano obbedire.
Battei i piedi, agitai i pugni, pregai, mi infuriai, ma mi risposero con le stesse parole di non poter obbedire, sicché non ci fu più ordine che mi venne in mente per non sentirmi sola e le voci cantarono allontanandosi col vento.
Nel buio tesi le braccia davanti a me alla ricerca del letto e mi sistemai tra le coperte vestita, un po’ impaurita dalla sorte del giorno dopo, di quello dopo ancora e di quello seguente.
Mi prese un' ansia indifesa del futuro. Anche una gabbia preziosa e dorata era sempre una prigione.
Pensai a una solitaria vita d’abbondanza, di false presenze, di ordini che potevo dare al vento ogni volta che volevo un po’ d’aria. Era la vita da dei che poteva condurre una mortale, pensai, e d'improvviso ero molto irritata con quelle voci finte.
Il buio era fitto e senza trame e non riuscivo a vedere la stanza attorno a me.
Tra le mie coperte non mi addormentavo: mi sentivo sveglia grazie a un istinto che mi diceva di diffidare di tutto e di aspettarmi cose brutte nascoste. Queste sensazioni mi tenevano in guardia perché in tutta quella bellezza e quella ricchezza avevo già scoperto le prime venature imperfette e inattese. Qualcosa mi faceva pensare che tutto fosse una falsa apparenza e che un terribile pericolo stesse in agguato.
Nel silenzio disteso sentii un battito d'ali potente, come il suono di un uccello gigantesco che atterra, e da come si era fatto più buio capii che qualcuno si era stagliato davanti alla finestra.
Avevo gli occhi sgranati, con tutti i sensi tesi a cogliere qualunque indizio o rumore minaccioso, mentre, in preda ad una vertigine di terrore, pensavo con ansia al responso dell'oracolo.

"…Non aspettarti un genero nato da stirpe mortale, ma un crudele, un feroce, un mostro viperino, che volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con ferro e con fuoco distrugge ogni cosa…"

Girai piano piano la testa, sperando che i miei movimenti rigidi, da preda braccata, non fossero visibili al buio. Ma, come non riuscivo a vedermi le braccia o le mani, non riuscivo a vedere più in là.
Capii che qualcuno scendeva dal davanzale dal calpestio limaccioso di piedi nudi sul pavimento, e udii che gettava da parte con malagrazia qualcosa che sferragliò in un angolo.
Poi si mosse con passo cauto e in silenzio, chiusi gli occhi e mi finsi addormentata, provando a mettere le coperte come ultima difesa tra me e lui.
Era qualcuno che si stava avvicinando al talamo, e si era fermato davanti a me. Sperai di convincerlo e di sembrare abbastanza innocente e immobile. Mi sentivo paralizzata e trattenevo il fiato dall’ansia.  
Sentivo i suoi occhi mettermi in esame percorrendo tutte le coperte.
Era da un po' di tempo che ero allerta, nel completo silenzio, quando sentii un sbuffo di stanchezza e un battito d'ali spazientito.
La paura mi tradì completamente perché sobbalzai un po’. Il mio ospite se ne accorse e rise.
-I-io...io- alzai il viso dal cuscino, impaurita.
Mi misi in ginocchio sul talamo e nel buio vidi il bianco di un sorriso birbante.
-I-io, sono Psiche- blaterai guardando confusa il sorriso addolcirsi
al suono della mia voce -L-le ancelle mi hanno ordinato di restare al buio in questa stanza...- e la sua voce approvò quel che dicevo con un mormorio. Era completamente fermo, non spostava neanche il peso da una gamba all'altra, e dopo un minuto di silenzio assorto che sembrò durare un giorno intero lo sentii sospirare di soddisfazione, come al raggiungimento di uno scopo che si era prefissato, e poi colsi il fruscio di vestiti sfilati.
Senza una parola, all’improvviso, lo sentii chinarsi davanti a me, talmente vicino alla mia faccia da vedere il bianco dei suoi occhi luccicare, e per istinto balzai dall'altra parte del letto. Ero senza fiato.
Appena si accorse che gli ero scappata gli sfuggì un basso ringhio stizzito e le ali sbatterono due volte imperiose, facendo volare le lenzuola.
Era spazientito perché si stava accostando a me ed io avevo respinto il suo gesto.
Lo sentii reprimere l’irritazione con un respiro profondo e salire sul letto per raggiungermi. Capivo dove si spostava dallo strusciare delle lenzuola e dal modo in cui il letto affondava sotto il suo peso, ma ad un tratto non sentii più i suoi movimenti. Tutto era talmente silenzioso fa farmi pensare di essere sola.
Senza osare respirare solo un po' più forte mi guardavo attorno nel buio impenetrabile, cercando di capire da che direzione sarebbe piombato, quando sentii che due ali piumate e morbide si chiudevano dietro di me avvolgendomi con dolcezza.
Provai a fuggire di nuovo cercando di dividere le ali, ma appena tentai di ribellarmi lo sconosciuto (se era un uomo) mi afferrò le mani e mi ritrovai ancora più velocemente sul suo petto.
Colse il momento per circondarmi con le braccia. Era un vero e proprio assedio.
Spiegò le ali e le sbatté per la vittoria mentre opponevo debolmente resistenza.
I suoi sospiri felici erano modulati come le fusa di un gatto e ,con me costretta vicino a lui, quell'essere sembrò placato e pacifico. 
Non mi ero dimenticata che era mio sposo, ma non avevo neppure scordato che era anche il mio rapitore.
Avrà pensato che rapendomi, riflettei, avrei avuto tanta paura di trovarmi lì, tutta sola - dov'era pieno di incantesimi e di dei dal volto fatto di vento e nebbia come il buon Zefiro - che sarei dovuta ricorrere per forza a lui, il viso che mi sembrava (o che piuttosto potevo immaginare) più umano.
Mi fece sedere in grembo e mi poggiò il mento sulla testa, con le ali gentilmente ripiegate su se stesse per non ingombrare il talamo.
Sussurrava qualcosa a mezze labbra tra i miei capelli.
Ero circondata da lui in ogni direzione
“Accendi un lume” mormorai ora che mi ero arresa e mi abbandonavo alle carezze. L'uomo grugnì come un bambino che non voleva fare quel che gli si diceva e nascose il viso nell’incavo del mio collo. Iniziò a frugarmi sotto la veste, mi ignorava sfacciatamente e cercava di fare solo quello che voleva il suo sangue.
“Chi sei? Se non posso vederti...” trattenni il fiato quando prese a mordicchiarmi un tenero lobo “...almeno fatti riconoscere dalla tua voce, se no, ti prego, accendi un lume per me”
Lo sconosciuto si fermò, si staccava di poco da me e mi osservava. Capì che vedeva anche al buio ogni fremito delle mie ciglia, ma io potevo solo vedere il bianco dei suoi denti.
“Non posso”. Oh che gioia sentire che parlava e con una voce così profonda e così bella!
“Perché no?”
Sospirò e ritirò le mani da sotto la mia veste, mi prese per le spalle insistendo con la presa delle mani.
“Non dovrai, mai, mai vedermi o sapere chi io sia. Accadranno cose spaventose se disobbedirai, ed io non potrò mai più tornare da te...” lo disse esitando e capii che per lui sarebbe stato terribile.
Sentii anche che costui non era solo violentemente incapricciato di me, ma che era veramente uno degli dei colpito dall'incantesimo virulento delle frecce di Eros. 
Perciò non protestai più e, ricambiandolo, mi lasciai stendere sulle lenzuola. Per tutta la notte, mentre sfogava il suo amore su di me, mi avvinghiai forte a lui come se avessi voluto spezzargli il collo.
Il mattino dopo se ne era già andato senza una parola.
Le ancelle aeree avevano imparato parole nuove apposta per il mattino dopo -sicuramente perché era stato il mio visitatore a insegnargliele- e per tutta la mattina non fecero altro che restare vigili e, se mancavo di ordinare loro qualcosa per troppo tempo o se capivano che ero trasognata, non risparmiavano la voce per confortarmi.
“Tornerà ogni notte, così non ti mancherà mai” e il misterioso sposo tornò ancora, ogni notte, come aveva promesso. Io lo aspettavo con gioia raggiante d’amore. Questa consuetudine ripetuta assiduamente rinnovava sempre un gran piacere e felicità. Traevo un gran conforto, se non dalla vista del suo volto, dalla sua voce. 
Perché, sebbene invisibile, lui esisteva davvero e potevo sentirlo, toccarlo e parlare con lui. Non come le vane voci che risuonavano e obbedivano per la casa... 

 

  

Continua...

 

*da "Le metamorfosi" o "L'asino d'oro"  di Apuleio

Siccome da un po’ di tempo mi sta venendo una stramba ossessione per gli dei Greci (anche grazie alla bella storia di flyvy) ho deciso di riprendere uno dei miei miti preferiti, raccontato già da Apuleio, Amore e Psiche, e di riscriverlo secondo me
Penso si protrarrà per tre capitoli con un eventuale postfazione che nella mia testa propende per non essere inserita. 
Non mi faccio scoraggiare, perciò siate crudeli, cinici, spietati, siate proprio stronzi quanto volete, sbudellate e distruggete e triturate e fate flambé l’ego di autrice che c’è in me.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte seconda ***


 Eros e Psyche


La mia gioia raggiante durò molto a lungo. Era una gioia che mi scaldava dentro come il sole mi scaldava la pelle. Sentivo una grande frenesia di vivere e di cantare all’Amore e volteggiare danzando per tutto il bosco, ma ero chiusa in una casa vuota dove non vedevo mai nessuno e non parlavo mai con nessuno, sebbene il mio sposo mi lasciasse tante consolazioni materiali e doni d’oro. 
Ogni volta che veniva c’era un oggetto nuovo, alcuni sembravano di provenienza assai remota, e avevano i colori e il profumo dell’Oriente. 
Non ero mai stata abituata a vivere lussuosamente e, seppur fossi grata di tutto, me ne disinteressavo completamente. Dopo tutto quel tempo conobbi ormai a memoria ogni corridoio e avrei saputo descrivere con precisione millimetrica ogni statua o mosaico o ampio soffitto decorato.
“Che assurdità” pensavo “proprio quando la vita mi si apre davanti vengo chiusa qui dentro, e queste ricchezze per me non sono nulla…non sono buone conversatrici, ne mi consolano per l'assenza del mio amato più di quanto facciano le voci aree...”
Una notte il mio sposo venne a trovarmi e, come tante volte aveva fatto già prima di quella, abbandonò pesantemente il suo carico sferragliante ai suoi piedi e mi si avvicinò.
Io balzai su dal letto e a tentoni, con le mani tese, lo cercai nella stanza buia.
Il mio amore si divertì a sfuggirmi costringendomi a seguire le sue risatine scherzose.
Alla fine mi acchiappò lui.
Prima di andarsene, quando l’alba ormai si avvicinava in punta di piedi schiarendo le montagne ad Oriente e tingendo le nuvole di un rosa soffuso, mi disse molto seriamente
-Anima mia, ascoltami attentamente- mi prese il viso in una mano vedendo che mi si chiudevano gli occhi dal sonno –un orribile destino minaccia la tua vita. Le tue sorelle non credono alla notizia che tu sia morta e tuttavia temono di sbagliarsi, perciò ti stanno cercando e ben presto arriveranno anche alla rupe da dove sei giunta tu. Se mai sentirai i loro pianti giungerti attraverso il vento del buon Zefiro tu non rispondere. Anzi, non preoccuparti affatto di vederle. Se mi disobbedirai per me sarà un grande dolore e per te la rovina-
Il sonno sparì dai miei occhi, li spalancai per lo stupore e il dispiacere, guardandolo come una bambina che ha appena ricevuto uno schiaffo e non sa nemmeno lei per quale ragione.
-No! Permettimi di vederle, ti prego! Non può far nulla, non cambierà niente se arrivano qui. Che rovina potrebbero essere per me le mie sorelle?!-
-No Psiche, adesso dormi-
L’alba cominciava ad illuminare ogni cosa. Mio marito si staccò velocemente da me. Io feci appena in tempo a vedere la sua ombra che si proiettava sul pavimento contro la luce del sole che era già sparito dalle mie braccia.
Trascorsi il giorno tra lo scoramento, mentre le voci attorno a me, in ogni momento di maggior sconforto, mi sussurravano attorno ripetendo che ogni cosa era fatta per il mio bene.
Per tutto il pomeriggio continuai a ripetermi che ora veramente mi sentivo finita, affondando in un abisso sempre più profondo e buio di malinconia.
Piansi e mi lamentai; non potevo neanche confortare le mie sorelle, anzi, non potevo neppure vederle. Le mie sorelle! Le mie amate sorelle.
Tra gli strascichi sgualciti del peplo mi trascinai verso la mia stanza, sbattei la porta e strillai alle voci di stare zitte.
Mi gettai sul letto tra i cuscini. Oh mi sentivo davvero finita e seppellita dentro quel palazzo! Volevo uscirne! Non avrei potuto rimanere là senza anima viva, io non ero una bestia tenuta in gabbia per il divertimento di nessuno! Perché forse era questo che il mio sposo voleva da me!
Scacciai quel pensiero e scoppiai in lacrime nuovamente, ma per il rimorso: che il mio sposo mi amasse non c’era nessun dubbio, e il mio cuore si stava stringendo di più per essermi permessa di pensare una cosa simile di lui.
Ma se lui era divino, io ero umana, mortale, limitata, e non avevo bisogno solo di me stessa e di lui, ma anche della mia famiglia, delle mie sorelle.
Mi addormentai e venni svegliata a notte fatta dal mio amato. Da come mi rimproverò capii che doveva avere una faccia molto scura e delusa.
-Psyche, non ostinarti, non è possibile che tu pianga così. Non ti basta già tutto quello che hai? Vuoi davvero non rivedermi più solo perché hai voluto vedere le tue sorelle?-
Diedi una scossa alla testa per dire no.
-Vorrei morire mille volte piuttosto che questo! Ma capisci che per me tutto quello che c’è in questa casa non è importante. Non è nemmeno mio. E quindi non ho nulla! A parte te. Permettimi di vederle- supplicai ed esagerando per convincerlo lo minacciai con voce scorata che sarei morta se non mi avesse accontentato.
-Allora fa il tuo male, Psyche, ti ricorderai del mio serio avvertimento solo quando sarà tardi!- si arrese torvo.
-Se fossi un mortale capiresti ciò che ti lega ai parenti, amore- dissi piano e con dolcezza, come quando si accarezza un gatto.
-Sei tu che a causa della tua semplicità e del tuo buon cuore sei affezionata a loro e ai tuoi genitori, ma bada che dovrai pentirti di questa tua gentilezza. Loro non lo farebbero per te-
-Non dire sciocchezze!-
Con mille scuse e parole amorevoli lo supplicai di perdonarmi questo dolore e gli assicurai che non sarebbe successo nulla.
-Ci saranno pessime conseguenze- disse affatto convinto.
Alcuni giorni dopo, come previsto, mi arrivarono alle orecchie i pianti delle mie sorelle: si erano gettare sul bordo della rupe e piangevano e si battevano il petto e invocavano gli dei di aiutarmi ovunque io fossi.
Ero talmente commossa che mi sembrò di avere un grande cuore, tanto da poter dare amore a tutto il mondo, e volli riversarlo tutto sulle mie amate sorelle.
Tutto si sarebbero aspettate tranne che alle loro invocazioni per la sorella Psyche qualcuno rispondesse –eccomi!-
Stupite e ancora in lacrime, si guardarono intorno.
-Sentite anche voi che sono viva e che vi sto rispondendo. Perciò non piangete come se fossi morta-
-Dove sei?- rispose la mia sorella più grande asciugandosi gli occhi con i veli.
-Voi non riuscite a vedere il palazzo, agli occhi degli uomini si confonde con la collina sotto questa rupe, ma tra poco ci riabbracceremo, forza asciugatevi le lacrime-
L’altra mia sorella strillò quando il vento forte la spinse verso la rupe e la sollevò come con me molto tempo fa.
-È Zefiro, non siate allarmate-
Le fece volteggiare verso quella discesa che finiva nella collina verde coperta di un letto di fiori.
Ordinai alla casa –Fatti vedere dagli altri mortali!- e questa apparì come il palazzo d’oro che era.
Le mie sorelle rimasero con la bocca aperta ancor più a vedermi venirle in contro che all’apparizione del palazzo.
-Scusate se Zefiro è stato un po’ brusco, di solito è un vento gentile e caldo nei giorni di primavera, è un buon dio- dissi affrettando il passo.
Abbracciai la prima sorella, rimasta impietrita ed in lacrime, ma la seconda mi restituì l’abbraccio saltellando sul posto.
Mi feci seguire dalle due, tutte eccitate da quelle ricchezze che avevano davanti ai loro occhi.
La prima delle mie sorelle era educata, manierosa e sempre composta, matura e piena di tatto fin dall’infanzia, ma a volte si avvertiva in lei una certa secchezza.
L’altra invece aveva un carattere ridanciano e allegro, piuttosto frivolo, ma chi non ne conosceva i difetti, come la vanità, poteva dire di lei che era solo un'innocua farfalla che rallegrava il mondo.
-Questa è casa mia- dissi timidamente –potrete tornare quando vorrete, mi alleviereste solo molta solitudine- sorrisi brillando di gioia, e così dicendo le accompagnai per tutto il palazzo.
Non si stancavano mai di meravigliarsi di tutto: feci risuonare le voci alle loro orecchie, le ristorai con un bagno delizioso e con una mensa degna di tre dee.
Ma quando si furono saziate di quella abbondanza, non mi accorsi che cominciarono segretamente a covare un senso di invidia.
Ma era come se nella mia anima fosse in corso una festa e si elevassero canti.
Da allora mi domandarono tutto con un tono meno entusiastico ed estasiato.
Mi chiesero di mio marito, ma io fui ben attenta a non farmi sfuggire proprio nulla, e come avrei potuto!, non l’avevo mai visto!
Dissi che era un bellissimo giovane, che di solito era occupato a cacciare. Per timore di lasciarmi sfuggire qualcosa le mandai via troppo in fretta, forse con l’aria un po’ troppo evidente di aver qualcosa da nasconderle, e per farmi perdonare le ricolmai di regali d’oro. 
Le affidai a Zefiro, invitandole a tornare al più presto, ma non risposero al saluto.

 

 
-Come stanno i nostri genitori?- chiesi con la voce piena di riguardo, perché mi dispiaceva che fino ad allora non avessero saputo che ero viva.
Eravamo in un salottino, sedute a chiacchierare.
Gli occhi della seconda sorella cadevano continuamente su una statua di marmo di Zeus che teneva in mano, come per scagliarlo, un fulmine d’oro.
Non potevo certo sapere che nemmeno loro avevano fatto sapere nulla di me ai nostri genitori.
-Oh davvero meglio, gli ha fatto tanto piacere sapere che sei viva. Come piangevano di gioia! D’altronde chi ti conosce non può volerti che bene- disse la maggiore.
-Sono stati in uno stato pietoso da quando ti hanno abbandonata sulla rupe. Di cent’anni più vecchi! Ringraziamo gli dei che non siano morti di crepacuore- trillò l’altra.
-Sono contenta- risposi.
-Però- la maggiore prese un gran respiro come per prendere coraggio ed introdurre un argomento triste –quando ci hanno chiesto di tuo marito non abbiamo potuto raccontargli molto-
Sentì un brivido freddo tra i capelli e a stento mi trattenni per non mostrare la mia paura improvvisa.
Presi a raccontare, sciogliendomi man mano che sciorinavo un'altra storiella, completamente diversa dalla prima, che nella mia semplicità avevo dimenticato: mio marito era un ricco mercante, di mezza età, già un po’ brizzolato, ed era piuttosto impegnato in viaggi, per cui non lo vedevo spesso.
Le ringraziai, ma le mandai via di fretta, sempre piene di regali d’oro, e con l’aiuto del solito vento risalirono la rupe e tornarono alle loro case.

 

 
Un giorno le vidi scendere dalla parete di roccia vertiginosamente verticale per trovarle in lacrime.
-Psyche!- mi abbracciarono, angosciate come se mi fossi appena salvata per miracolo da un pericolo mortale –Psiche! Noi già avevamo capito da un pezzo quello che stavi passando, ma temevamo di dirtelo per non guastare la tua felicità! Ci dava tanta gioia vederti allegra e serena come non eri mai stata!-
Confusa e atterrita, mi allontanai dai loro abbracci, invitandole con più calma possibile a entrare.
Loro mi camminavano dietro continuando a spremersi a forza le lacrime dagli occhi.
Le feci accomodare su due seggiole.
A quanto pare ero minacciata da qualche cosa. Lo sapevano loro, ma non lo sapevo io!
Angosciata chiesi loro di spiegarmi che sventura mi stesse puntando il dito contro, pronta a colpirmi.
-Avevamo già capito, noi- ripeté la seconda –lo sapevamo dalle storie sconnesse che raccontavi su tuo marito, un uomo prima giovane, appena uscito dall’adolescenza, come dicevi, che poi in una seconda versione è invecchiato velocemente fino ad essere già brizzolato!...Oh no, non essere dispiaciuta, o spaventata, non ti portiamo rancore, sorella-
Tirai un sospiro, le spalle mi si rilassarono sentendo che le veniva sollevato di dosso quel fardello.
-Sapevamo che i casi erano due- continuò la maggiore –Il primo era che tu fossi una bugiarda che si inventava una storia sull’altra. Ma non abbiamo neppure pensato di accusarti di questo, perché conosciamo, come sorelle, la tua bontà- le scoppiò un singhiozzò in mezzo al discorso in modo un po’ teatrale.
-L’unica ragione rimasta per spiegare le tue bugie era che non avessi mai visto il volto di tuo marito, è così?-
Io chinai il capo annuendo.
-È vero- mormorai –ma, non ha mai voluto!- mi difesi.
-Lo immaginavamo- continuò con ansia- e abbiamo scoperto perché. Ti ha colpito un orribile sciagura! La verità è che fai l’amore con un orribile mostro!-
In silenzio, allibita, con gli occhi un po’ più grandi dallo stupore, le fissai con molta paura.
Le sorelle allora videro il varco aperto nel mio animo, e ne approfittarono per insinuarmi dentro ancora più a fondo il terribile dubbio.
Mentre parlavano mi dimenticai a poco a poco di tutte le promesse fatte al mio sposo e dell’amore che provavo per lui, accantonato subito in un angolo dal terrore.
-È un serpente terribile, con la gola spalancata che cola di veleno mortale, e che si avvolge in cento spire, ma che al tuo tocco ha le sembianze di un uomo- disse la prima -Ricordati ciò che aveva predetto l’oracolo: che eri destinata ad un mostro crudele! Molte persone hanno detto di averlo visto aggirarsi in cerca di creature da divorare; animali, uomini, bambini. Altre ci hanno raccontato di averlo visto fare il bagno nel fiume qui vicino!-
-Vieni a vivere con noi, senza pericolo- la interruppe la seconda –non restare in questo deserto, tutte le notti in compagnia di quel drago velenoso!-
-Sorelle, io non so che dire, ma siete proprio sicure!? Non pensate che quella gente abbia mentito? Che questa storia sia solo una favola che è stata raccontata loro da bambini? Io..io amavo sinceramente mio marito…-
-Dovrà ben conoscere l’arte dell’inganno quel serpente!- disse la seconda con una voce che sembrava piena d’odio –non è una storia! Perché altrimenti non farsi vedere e non volere che tu esca? Non ci sono pericoli o bestie feroci in giro, tranne lui-
Mio marito diceva sempre che ero semplice, tenera ed ingenua nel mio animo, e forse era fin troppo vera e grave questa mia ingenuità.
Che stupida che ero stata!
Un mostro, era! Un serpente, che con la sua voce incantatrice mi aveva cantato tante belle cose, a cui, senza dubbi, io avevo sempre creduto.
Ormai ero completamente convinta.
-Cosa devo fare?- le supplicai. La mia testa era una tempesta di panico, vergogna e voglia di piangere.
-Ci abbiamo pensato a lungo- disse la prima – e siamo arrivate a questa soluzione…-
Si alzò dalla sedia, si avvicinò, mi prese per le spalle, in atto di grande serietà, e facendomi coraggio disse:- Nascondi sotto il letto un rasoio- affilò lo sguardo per controllare se esitassi al pensiero di ucciderlo, ed esitai -…no, non essere impaurita, non è un assassinio a sangue freddo come pensi tu, che sei tanto dolce e non faresti male neppure ad una zanzara, se ti infastidisse- mi carezzò la guancia – è solo difesa, legittima difesa-
Diedi una scossa alla testa per dire di si: stavo per scoppiare a piangere senza freni.
-Lasciami finire- disse riafferrandomi a due mani –poi devi mettere una lucerna piena d’olio in un contenitore ben chiuso, in modo che la luce non si veda. Dopo che ogni cosa sarà pronta aspetta che quello si sia trascinato sul letto, muovendosi sulle sue spire, come fa sempre, ed aspetta ancora, fino a che non si sarà profondamente addormentato. Poi muovendoti piano, tira fuori il rasoio e con l’aiuto della luce della lucerna, che rivelerà l’inganno tenuto sempre nascosto dal buio, prendi la mira per colpirlo tra capo e collo-

 

Era buio nella stanza, aprii la porta producendo un lieve cigolio.
Mi insultai mentalmente mentre introducevo il corpo nel poco spazio della porta aperta e tastai intorno per cercare la sponda del letto.
Sentivo un respiro pesante, un po’ roco, segno che il mio sposo, non trovandomi, si era addormentato attendendomi.
Sempre a tentoni, cercai nel buio ancora più impenetrabile che c’era sotto il letto, tra le lenzuola cadute per terra, il rasoio e la scatola con dentro la lucerna.
In ginocchio, le tirai fuori cercando, nelle tenebre, di non affettarmi la mano da sola con la lama affilatissima.
Molto cautamente aprii il coperchio della scatola con dentro la lucerna accesa, e subito un fascio di luce tremolante apparì sul muro e sul pavimento alle mie spalle, con la mia ombra stagliata contro.
Potei impugnare meglio il rasoio e mi preparai a compiere il delitto.
Presi la lucerna dal contenitore, la sollevai alta per avere una vista chiara su tutta la stanza e mi guardai intorno.
Il letto era rimasto nel semibuio, ma quando alzai il lume sul mio sposo per vedere che razza di dio o mostro fosse mi si mozzò il fiato per un secondo.
Avevo avuto un soprassalto e la lucerna mi era tremata in mano fin quasi a rovesciarsi.
Avevo trovato il mostro più mite e dolce di tutte le bestie: Eros, la divinità che presiedeva al sentimento stesso che io avevo infranto, osando pensare di uccidere il mio sposo.
Atterrita, abbandonai la presa sulla lama, che cadde ai miei piedi, nel buio.
Ero spaventata dal mio piano e, afferrandomi i capelli con la mano libera, cercavo di capire quali sentimenti deliranti e stupidi, insieme alle mie sorelle, avessero cercato di farmi uccidere il mio amore!
Presa da terrore isterico, mi abbassai a cercare la lama per piantarmela nel cuore dalla vergogna, ma era finita più lontano di quel che pensavo, e avevo una mano impegnata a reggere la lucerna.
Ma ecco che, disperata, guardando la bellezza del divino Eros, riprendevo sempre più animo.
Aveva i capelli biondi, che alla lucerna si infuocavano, umidi di ambrosia. Tutto il suo corpo era bianco, di latte, ed era nudo sul letto. Sulla schiena, piegate e rilassate c’erano le ali bianche e le piumette che stavano alle estremità tremolavano scherzosamente senza posa.
Il cuore mi si gonfiò a dismisura di amore.
Accanto al letto, con la coda dell’occhio, vidi i suoi infallibili strumenti, quelli che gettava da parte quando entrava ogni volta.
L’arco, la faretra e le frecce.
Per una curiosità insaziabile, che il mio sposo mi aveva sempre rimproverato come il mio peggior difetto, le presi in una mano, osservandole, prima l’arco, poi la faretra.
A quel punto estrassi una freccia e toccandola con la punta dell’indice per vedere quanto fosse appuntita mi ferì piuttosto profondamente, nonostante l’avessi appena sfiorata.
La cosa strana fu che mi sembrò di aver ricevuto una puntura anche al cuore.
Succhiando la ferita per alleviare il dolore alzai gli occhi su Eros e subito toccai la vetta più vertiginosa dell’amore: lo smodato delirio della passione.
Oh, era talmente bello che appena l’avevo illuminato anche la fiamma era sembrata rallegrarsi alla sua vista, e balenare più splendente!
Lo accarezzai su una guancia, lo volevo accarezzare tanto da spellarlo, e mi avvicinai per baciarlo.
Ma la lucerna che mi aveva aiutato a vederlo, traditrice, schizzò dalla punta della sua fiamma una goccia di olio bollente, che cadde sulla spalla del mio amore.
Il dio sentendosi scottare spalancò gli occhi e balzò in piedi, vide confuso l’oltraggio di ogni promessa di fedeltà della sua Psyche, e quando capì, lanciatomi appena un occhiata, senza rivestirsi prese di fretta il volo.
Ma io, prima che fuggisse del tutto, mi appesi alle sue gambe abbracciandogli le ginocchia.
Sollevandosi sempre di più mi fece scivolare verso le caviglie e, quando ormai eravamo già per le vie buie e nuvolose del cielo, mi reggevo ai suoi piedi, uno per mano, come una miserabile appendice.
Eros diede forti scossoni alle gambe per liberarsi di me, ma io non cedetti, almeno finché le forze delle braccia non mi abbandonarono.
Mi abbattei al suolo, facendo una caduta dall’altezza che era poco meno di quella di un albero.
Ma il mio sposo, gentile, non mi lasciò così buttata per terra. Si appollaiò sul ramo di un cipresso là vicino e dall’alto mi osservò con un viso commosso e insieme tristemente rassegnato.
Dopo aver piagnucolato per un po’ con la faccia a terra, mi puntellai faticosamente  sui gomiti.
-Non volevo!- singhiozzai –Mi hanno ingannata! Raggirata! Mi avevano convinta che eri una serpe dalle cento spire, non te ne andare, ti supplico, non te ne andare! Non te ne andare!!- strillai trascinando quelle ultime parole in un grido piagnucoloso.
La puntura della freccia ora mi confondeva il cervello e mi rendeva isterica.
Eros mi guardò commosso e impietosito dall’effetto che una punta magica aveva scatenato.
La passione per il dio della passione, provocata dalla punta della freccia, si congiungeva all'amore per lui già presente dentro di me, facendomi impazzire, come un largo affluente che si getta in un fiume quasi in piena e lo fa straripare, distruggendo tutto intorno.
-Proprio io- sospirò lui appoggiandosi al tronco e alzando gli occhi alle nuvole –io che dovevo punirti, sono volato da te e sono diventato tuo marito!-
-Punirmi!!- strillai farneticando, fuori dai gangheri –non sono già stata punita abbastanza?!-
-Non era questo il modo né il momento in cui mia madre avrebbe voluto punirti- disse tentando un sorriso birbante, in un modo che sembrava dire "io so, e tu no, ma proprio questo tenerti sulle spine mi da gusto!".
Poi sospirò di nuovo, parlando pazientemente al cielo –Voleva che con le miei frecce scatenassi in te la più violenta e cocente passione per l’uomo più brutto e sfortunato del mondo, in questo modo nessun uomo degno avrebbe goduto della tua bellezza e tu e la tua famiglia sareste stati disonorati e svergognati. Voleva punirti per il motivo che avevi sempre temuto. Non per causa tua, ma perché gli uomini hanno creduto che tu fossi bella come lei.-
I miei occhi allucinati si accesero di furia. Mai prima di allora ero stata pazza d’odio per gli dei!
-Perché non mi hai piantato quella maledettissima freccia nella schiena e non l’hai fatta finita abbandonandomi per sempre!- urlai prostrata a terra.
-Ho agito con leggerezza!- rise di sé -Sono stato incauto: proprio io, il famoso arciere, ho fatto cadere per sbaglio una freccia che mi ha ferito il piede, e mi sono perdutamente innamorato di te-
Si voltò verso di me con occhi amorevoli –Solo due cose ti avevo chiesto: di non vedermi mai, altrimenti sarei stato costretto ad andarmene, e di non incontrare le tue sorelle. Hai disobbedito e tentato di tagliarmi il capo. Proprio quello di un dio! Proprio il capo che porta gli occhi innamorati di te!-
Io ero ancora stesa sull’erba a pancia in giù, con la bocca spalancata e la faccia congestionata di pianto e isteria.
-Ma cosa volete voi dei da me!- singhiozzai poggiando spossata la fronte a terra e battendo prima forte, poi debolmente, il pugno contro l’erba –Cosa ho fatto!!? Ma perché non ho un aspetto umano! Non è colpa mia! Afrodite! Mi hai dato in dono la grazia solo per tormentare una tua figlia della bellezza?!-
Battei forte la fronte contro la terra, poi la sollevai un po’ e mi rivolsi a Eros, mio marito, guardandolo con odio -Ecco come provvedete voi odiosi dei agli uomini! So che godete a vederci distrutti, nel fango, come vermi! Ammettetelo! Eh!!? Ditelo!! Non sono una donna, non sono neanche viva, se sto mentendo!- strillai e tornai a sbattere la fronte contro la terra.
-Sei il dio dell’amore! Aiutami! Sono innamorata di Eros, della passione, di Amore! Aiutami! Non lasciarmi qui! Non dovrei esserti invisa, amore mio-
-Dì grazie alle tue egregie consigliere, che hanno tramato, invidiose di te, per ridurti nel fango e senza sposo. Loro saranno punite presto con un castigo terribile, tu te la caverai soltanto con la mia fuga-
Detto questo si sollevò rapidamente in aria sulle sue grandi ali piumate.
Mi sollevai sui gomiti, alzando faticosamente il capo per seguire il suo volo finché le ali non lo portarono abbastanza lontano da farlo perdere nel cielo e nelle nuvole e renderlo invisibile.
E mentre cercavo ancora quel punto, tra i miei pensieri dissennati e labili passò la folgore dell’ispirazione.
La freccia mi aveva istillato una vena di follia sufficiente per permettermi di tornare sull’idea del suicidio.
Quello di cui avevo bisogno era un fiume profondo, buttarmici e annegare: e voltandomi intorno notai che ne avevo uno proprio a un passo.

 

Continua…

Michelegiolo: Questa storia è in un ritardo indecente, purtroppo la passione nello scriverla languiva ed io non trovavo la voglia di scrivere, più che il tempo materiale.
Spero che questo capitolo sia di tuo gradimento.

 
Owarinai yume: Sono contenta che le descrizioni ti piacciano, la descrizione del castello, lo ammetto (per purissima onestà), è in larga parte attinta dall’opera di Apuleio, il resto è mio, e me ne prendo il merito con tutti i diritti (nessuno lo aveva mai messo in dubbio nd tutti) (uffi, noiosi nd io).

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte terza ***


Eros e Psyche

-La morte, la morte! Tutto è meglio di questo, anche la morte! Morirò e scenderò nelle ombre e non sentirò più… nulla! Ah, meraviglioso! Tutta la vita mi sembrerà un sogno confuso. Scambio volentieri una sofferenza per un’altra, se so che quella che avrò non sarà tanto terribile quanto la prima. Spero che i pesci non lasceranno nulla della sventurata Psiche! Nessuno mi deve trovare! Che nessuno mi ricordi! Solo il mio amore, pensi sempre a me come a un tesoro, e possa morire, anche se divino, per la disperazione della mia perdita. Ecco il fiume! Fiume, eccoti la morta!-
Mi abbandonai a faccia in giù nel fiume.
Mi lasciai affondare, aspettando di finire l’aria e di soffocare.
Ma la corrente del fiume non mi risucchiava affatto sul fondo. Anzi, grossi pesci mi spingevano a galla e l’acqua torbida diventava cristallina dove cercavo di nuotare.
I miei sforzi per annegare vennero totalmente respinti da tutto il fiume e dai suoi abitanti, e la corrente mi trasportò, viva, sull’altra riva.
Dopo aver tossito, pianto, singhiozzato e rantolato ed essermi artigliata i capelli con le unghie ed essermi graffiata le guance e aver scosso la testa per molto tempo come impazzita, i miei gemiti cominciarono a farsi più fievoli, i singhiozzi meno violenti e il sonno mi scese sugli occhi.
Senza che me ne accorgessi, mi addormentai e abbandonai il viso pieno di lacrime nel fango.
Al mattino per poco non trasalii dalla sorpresa quando mi svegliai fuori dal mio letto.
Ero così confusa di trovarmi all’aperto, che mi sollevai barcollando e mi guardai intorno per ricordare come fossi giunta lì. Volando? Correndo? A nuoto?
Appena ricordai ogni cosa mi sentii un nodo alla gola, gli occhi lacrimavano e feci per sciogliermi e piangermi addosso. Ma subito sentii qualcosa che aveva il potere di risollevare il mio animo da terra: il canto di una ninfa.
Le ninfe cantavano meravigliosamente, con tenori stupendi.
Feci qualche passo in direzione della voce semidivina e vidi il rustico dio delle montagne, Pan, che teneva sulle ginocchia la ninfa Eco.
Suonava il suo flauto e la ninfa ripeteva con la sua voce le ultime note.
-Oh, bellissima mortale- disse Pan rivolgendosi a me.
-rtale..ale..ale..le- cantò di rimando Eco, guardandomi incuriosita.
-Ben svegliata, hai pianto così tanto ieri sera che hai fatto piangere anche tutti noi- borbottò
Eco fece sì con la testa e sorrise radiosa. Non era un mistero perché Era la odiasse e le avesse tolto la voce, lasciandogliela solo per rispondere alle frasi degli altri con le ultime sillabe che aveva sentito.
Io non dissi nulla. Pensai solo che gli immortali erano tanto invidiosi dei mortali e semidei da punirli per il mero piacere di sopraffarli.
Pan fece scendere Eco dalle sue ginocchia e le disse di andare, di correre a spiare Narciso nella foresta.
Il sorriso della ninfa divenne ancora più largo. Fece sì con la testa e rispose felice e tenera
-iso…iso..so-
Quando la ninfa fu corsa via, Pan mi guardò malamente.
-Stupidina, Cupido deve averti scelta solo perché sei bella, visto che non hai dato una gran prova della tua acutezza ieri sera-
Mi offesi immediatamente e aprii la bocca per rispondere.
-Non parlare, ho ragione io. Tutte le creature del bosco sono state in pena per te ieri sera; non credere che ti abbiano ritenuta stupida quando ti buttasti nel fiume. Loro hanno badato più che altro a quanto fosse romantica la vicenda: una fanciulla, quasi una bambina, impazzita d’amore fino a uccidersi. Li ha commossi infinitamente la tua disperazione- fece con un tono di sufficienza -Ma gli spiritelli che abitano i fiori e le piante sono troppo romantici e poco furbi. Avrebbero dovuto chiedersi perché non sei annegata-
Inasprita da tutte quelle critiche, sbottai –Anche io mi aspettavo un miglior risultato-
-Non fare la stupida, piccola bambina ingrata! Dovresti prostrarti mille volte davanti a tutte le statue degli dei ogni volta che ne incontri una; perché ti hanno reso bella e vergognosamente fortunata! Solo stamattina ci è giunta voce della tua storia. E allora io compresi perché il fiume ti aveva risparmiata con tanta premura. Devi sapere che non esiste nessuno, infima creatura, mortale o austero dio che non tema Eros. Se perfino i fiumi infernali lo temono dovevi aspettarti che anche un fiume qualsiasi avesse paura di far del male alla sua amata!-
-Eppure mi ha abbandonata…- dissi tentando di non avere una voce collassata.
-È ancora un bambino per molti versi, ha paura dell’ira di sua madre…Oh beh, veramente lui le ride in faccia quando vuole e per dispetto la punge con le sue frecce per farla innamorale dei mortali…ma stavolta non potrà scamparla. Le ha fatto l’affronto peggiore di tutti! Non c’è cosa al mondo che lei odi più di te, a parte, forse, Castità-
-Sono perduta…- dissi con una vocina soave, ma tremante, afflosciandomi dalla paura.
-Allora non farti scoraggiare da ciò che sto per dirti. Tornato Eros, lei è subito venuta a sapere dell’accaduto e ha quasi tolto al suo dolce figlio ali e frecce, minacciando di darle a un umilissimo paggetto per umiliarlo di fronte a tutti gli dei. Poi però ha prevalso l’odio verso di te. Ha inviato Mercurio sulla terra, a bandire un annuncio per tutti i mortali. Chi ti consegnerà nelle sue mani viva riceverà da lei sei baci sulla bocca, più uno molto meno dolce, con la lingua-
Ero mortalmente pallida. Alla notizia della caccia che Afrodite aveva bandito contro di me sentii il fiato morirmi in gola e le ginocchia piegarmisi sotto.
-Non farti prendere dal panico. Povera creatura, povera creatura. Ma hai fatto molto male a gettarti in quel fiume. Ne sono ancora convinto. E ferma! Non tentare di ributtartici perché ti sputerà fuori con uno spruzzo! No..no..non pian…-
-Sono perduta! Sono finita!- piansi fuori di me, con la testa tra le mani.
-Non sei perduta. E ora siediti. Da brava. Ecco. Tutta questa agitazione ti farà male. Hai la faccia di una a cui sono saltati tutti i nervi. Povera cara. Per quanto Afrodite possa essere altera e vanitosa, Eros è più potente di lei. Perché è il suo araldo. Si sporca lui le mani e la coscienza con le tragedie d’amore dei mortali, mentre lei resta a guardare. Pregalo e propiziatelo con teneri doni. Perché lui è un giovanotto buono e sensibile all’amore. Cercare di morire è un azione molto stupida quando si può recuperare ciò che si è perso. Volevi morire perché credevi che Eros ti avesse abbandonata? Ma come può essere così? Come può non amarti più se tutte le creature della natura ti onorano come sua sposa e ti proteggono? Persino io non oserei alzare un dito su di te. Persino io temo più l’ira che avrebbe Eros verso di me se ti facessi del male, piuttosto che l’ira di Afrodite, se scoprisse che ti sto aiutando, che ti consiglio, che ti avviso del pericolo!-
Dopo averlo ascoltato senza guardarlo, mi asciugai le lacrime e mormorai -Grazie di aver avuto pietà del mio delirio e di avermi riempito di buoni consigli, rustico Pan-
-Farai come ti ho consigliato? Cercherai di propiziarti Eros?-
-Ogni volta che potrò, quando mi fermerò lungo il cammino per raggiungere il monte Olimpo-
-Cosa vuoi fare all’Olimpo?!! Afrodite non dovrebbe guardare lontano per cercarti!-
-Andrò a consegnarmi, in qualunque città andrò, tanto, mi riconoscerebbero. E debole come sono mi catturerebbero, forse mi malmenerebbero per far piacere ad Afrodite, e poi mi consegnerebbero comunque. Ma prima di andare voglio passare a trovare le mie sorelle, per dirle della mia disgrazia…è la stagione in cui vanno in campagna coi loro mariti, per sopportare il caldo-
-Si condivide ogni problema con le sorelle! Brava! Ottima idea andare a dire addio ai famigliari!-

 
Bussai mestamente alla porta della mia prima sorella. Quando aprì e mi vide i suoi occhi brillarono di cattiveria.
-Allora? Che hai fatto? Ci sei riuscita?- chiese impaziente.
-No, io…io…si è svegliato prima…- dissi ingoiando le lacrime.
Il mio balbettio non destò sospetti, era comprensibile che fossi sconvolta.
-Cosa è successo sorellina adorata? Non piangere, raccontami tutto-
-Io…- tirai su col naso e mi sfuggì un singhiozzo –io…io…mi sono avvicinata…avevo il pugnale, la candela…ma mentre stavo per…- singhiozzando mimai convulsamente un colpo di pugnale –l’olio del lume, è caduto sulla spalla e..e- per un attimo mi sentii completamente soffocata e piansi senza ritegno.
-E poi!!?-
-E poi si è svegliato- tentai di riprendere, mentre mia sorella stava col fiato sospeso -Non era come avevate detto voi. Mio marito era il bellissimo Eros dalle frecce fatali, che..che infine è fuggito e..e volando…e volando… mi ha urlato che ero…che ero…una sposa terribile e indegna!- strillai piangendo.
Naturalmente mia sorella aveva completamente frainteso il motivo per cui stessi piangendo, ora non mi restava altro che raccontarle il finale di ciò che avevo escogitato, con un’astuzia e una crudeltà che non sapevo di possedere.
-Oh Psiche!- esclamò tentando di abbracciarmi. Io mi ritrassi.
-Non è tutto, sorella. Ha…ha detto anche che si sarebbe cercato una sposa più degna e più bella di me…e…e..ingiuriandomi per la mia azione, ha detto che aveva già scelto te e mi ha…- mia sorella saltò su dalla sedia emozionatissima.
-Ha detto così?!- strillò.
-Si- mormorai asciugandomi gli occhi -ha detto che prenderai tu il mio posto- lei a stento si tratteneva dal saltellare per l’eccitazione.
-Un dio mi ama!!- gridò. In fretta e furia scrisse un biglietto al marito "I miei genitori sono morti in un tragico incendio, vado a dargli l’estremo saluto" e corse fuori casa con tutt’altro umore di una donna che deve andare a un funerale.
Era giunto il momento di far visita anche all’altra mia sorella.
Quando arrivai piangevo ancora. Lei tentò di abbracciarmi, ma io la evitai. Invece mi abbandonai sulla sedia con il viso tra le mani.
-Cosa è successo?!-
-Lui…- e le raccontai la stessa storia che avevo riferito alla prima sorella.
Quando arrivai a dirle che Eros aveva scelto lei come sua nuova sposa mi interruppe gridando di gioia.
-Io??!!- strillò saltando in piedi sulla sedia e fissandomi raggiante -Dillo ancora! Ti prego! Dillo!- mi ordinò
-Ha scelto te come sposa- dissi tirando su col naso e asciugandomi le lacrime.
-Aaaaahhhh! Lo sapevo! Lo sapevo! Lo sapevo! L’ho sempre saputo di essere più bella io di te! Lo sapevo che eri un indegna! Che non ti meritavi niente! NIENTE!-
Scese dalla sedia, corse come una furia nella sua stanza e tornò con bellissimo vestito.
-Evviva! Evviva! Vado a buttarmi nelle braccia del mio divino sposo! E certamente renderà anche me una dea! Aaahhh! Sono così emozionata! Sono così eccitata!- esclamava raccattando in una borsa le cose che trovava in giro e ignorandomi completamente.
Ad un tratto, mentre stava per mettere nella sacca una sua sciarpa di seta, la buttò a terra, poi capovolse la borsa, rovesciandone tutto il contenuto, e gettò via anche quella.
-Ma a che mi serve tutta questa roba! Io sono la sposa di un dio! Iiiiiih! Che bello! È stupendo! Sono divina anche io! Vado ad abitare in un palazzo fantastico! Che bisogno avrò mai di questa roba! Psiche, stupida mortale, dì tu a mio marito che lo lascio, d’accordo?! D’accordo! Evviva!- e corse fuori casa a passo di danza.
Le corsi dietro.
Quando arrivò alla rupe senza fiato –Eccomi Amore mio adorato!!- chiamò tutta eccitata e zuccherosa, poi, ricordandosi che io avevo potuto dare ordini al vento, ringhiò –Tu, vento, servo, alzami! Sono la tua signora! Portami nella mia dimora!-
Sentendo che Zefiro non soffiava per nulla, prese la rincorsa e saltò nel vuoto.
Gridò felice, sicurissima che il vento l’avrebbe retta in volo un attimo prima di toccare terra.
Quando sentii l’eco di un grido tremendo, corsi spaventata verso la rupe e guardai sul fondo.
Mia sorella rotolava per le rocce affilate e si schiantava.
Un po’ più in alto da dove era finita la mia seconda sorella, c’era la mia sorella maggiore, che precipitando era caduta in tal modo da andare a infilzarsi su un uno spuntone di roccia particolarmente acuminato.
Rimasi turbata dalla vista dei cadaveri, ma non piansi minimamente per loro, non tornai dai miei genitori e non parlai mai con nessuno di cosa che era successo. Solo gli dei sapevano quello che avevo fatto.

 
Era notte.
Scalai il monte. Le nuvole basse e piene di pioggia coprivano il mondo come un coperchio. Con le ginocchia sbucciate e il peplo pieno di sporcizia scalai l’ultima pietra che mi separava dal palazzo di Venere, che in fondo non era il più alto di tutto l’Olimpo.
Mi fermai, piegata sulle ginocchia, per riprendere fiato. Ero davanti al ponte che mi separava dalla dimora sacra della dea.
Esitai, mi sentivo il cuore sospeso nel terrore.
Nonostante tutto attraversai il ponte, guardandomi in giro.
Mi tormentava la paura che sapessero del mio arrivo e mi avessero teso qualche trabocchetto. Mi sentivo strana, un po’ in ansia per il buio, avevo continuamente l’impressione che qualcosa si fosse nascosto a guardarmi, o che mi stesse già accanto, col fiato sul collo e una mano tesa nel buio.
Arrivai sull’altro lato senza incidenti, senza che il ponte cedesse minimamente e senza che degli avvoltoi mi piombassero addosso dal cielo, mi rapissero, scarnificassero e lasciassero le mie ossa a sbiancare su un altare di Afrodite.
All’ingresso c’era una bella ancella, Consuetudine, che aspettava, con le mani in mano, fischiettando.
Ma quando mi vide si mise a urlare con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
-Ahhh! Eccoti! Finalmente hai capito che hai una padrona! Ma adesso che ti ho in mano è come se fossi caduta nelle mani dell’Orco! Vedrai!- mi prese per i capelli e mi strascinò senza che opponessi resistenza: sembrava graziosissima e fragile, ma aveva più forza di un gigante
–Ti porto da tua suocera! Tz! E bada di fare e farti fare quello che più le va! Se non vuoi peggiorare le cose!-
Si fermò davanti a una porta bianca, la aprì e, quasi sollevandomi per i capelli, mi ci gettò dentro. La richiuse subito, come per trattenere dentro un esplosione.
Caddi battendo il mento, il colpo mi aveva fatto sbattere le mascelle tanto forte da tagliarmi il labbro con i denti.
-Ma ti pare! Brutta baldracca! Sporcare di sangue il mio tappeto!- urlò una voce divina nella stanza vuota.
In qualche modo strisciai indietro, proteggendomi la testa con le braccia, aspettandomi che Afrodite cominciasse a frustarmi o a lanciarmi oggetti, nascosta in qualche punto della stanza.
-Ma guarda, ti agiti come un verme! Mi pare anche che tu ti sia appena pisciata addosso!-
L’aveva detto per provocarmi, ma mi sentivo davvero sul punto di farmela sotto davanti a lei.
All’improvviso, davanti a me che ero sdraiata e rannicchiata, pronta per ricevere botte, svolazzarono delle scintille, che si unirono tutte davanti a me a formare una figura alta, in piedi.
Il mio viso era proprio a portata del piede bianco di Afrodite.
Aspettandomi che mi allungasse un sonoro calcio strisciai lontano dai suoi sandali.
Però, quasi in contemporanea, lei mi prese per un braccio e con una strattonata che mi strappò un grido mi sollevò in piedi e mi schiaffeggiò finché le guance non mi divennero viola.
Mi spinse e caddi di sedere. A quel punto cominciò a prendermi a calci, soprattutto sul seno e sull’inguine.
I suoi colpi mi avevano spedito vicino a una finestra. Cercai di coprirmi il viso con una tenda e scoppiai a piangere.
-Oh! Adesso vuole farmi commuovere!- stracciò la tenda e mi sollevò di nuovo.
Mi consegnò nelle braccia di due sue ancelle sghignazzanti: Tristezza e Angoscia, e ordinò loro di torturarmi, mentre lei si faceva pettinare dalle Grazie.
In sua presenza, Angoscia e Tristezza iniziarono a frustarmi senza pietà.
Rivolta allo specchio, Afrodite si faceva pettinare dalle Grazie e mi guardava attraverso il riflesso.
Provai ad alzare la testa, ma una sferzata al collo mi fece piegare di nuovo.
Afrodite era troppo simile al figlio. Aveva capelli biondi e lucidi come uno specchio, li portava dietro lunghi come uno strascico, in una complicata acconciatura di trecce.
La bocca era perfetta, e gli uomini avrebbero fatto follie per catturarmi e poter ricevere il premio di un suo bacio.
Gli occhi erano del mare da cui era nata: le acque da cui era emersa vi avevano lasciato dentro il loro profondo e bellissimo colore. La pupilla era cerchiata d’oro per l’ambrosia, come quella di tutti gli dei.
La pelle era bianchissima e le guance rosse, senza traccia di trucco sulla sua bellezza stupefacente.
Quando caddi a terra sfinita e sanguinante, le sue belle sopracciglia bionde si aggrottarono per la scontentezza. Sbuffando mandò via le Grazie e mi gettò un pezzo di pane che aveva in una ciotola.
-Mi sembri una schiava talmente brutta da poterti guadagnare il favore dei tuoi padroni solo con dei lavoretti. Perciò domani all’alba ti sottoporrò una prova, e se sopravvivrai te ne darò quante altre mi sembrerà giusto dartene…-
Detto questo si alzò dal suo sedile, scosse i capelli in un gesto di vanità superiore e se ne andò senza degnarmi di un occhiata, sbattendo la porta e sbraitando a Tristezza e ad Angoscia di controllarmi. 

Continua...

Adesso manca solo il capitolo finale, quello delle prove che Afrodite darà a Psyche e del salvataggio in extremis di Eros, che si sveglia finalmente e va a salvare la sua amata dalle grinfie della sua suocera.


Sachi Mitsuki: Grazie sono contenta che ti piaccia ^^.

Norine: Grazie, che ho fatto un sacco di plagi dal testo originale del mito per i dialoghi. Anche a me piace la storia di Orfeo e Euridice, ma Orfeo come personaggio mitico mi sta un po' sulle palle, non lo so perchè, forse l'ho sempre immaginato come un tizio piuttosto melodrammatico, ho forse ho letto delle fan fic che me l'hanno fatto vedere così...bah.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ultima parte ***


Eros e Psyche


Passai la notte in un angolo della stanza.
Le ancelle sediziose mi schermivano continuamente, mi minacciavano, mi facevano smorfie, ed io, ancora più spaventata nel mio animo già spaventato, mi raggomitolavo nel mio cantuccio, immobile, se non che tremavo per i singhiozzi.
Lentamente cominciò a pesar loro la stanchezza di quella giornata. Si accoccolarono insieme sul divanetto, abbracciate con la famigliarità di due sorelle, e si addormentarono pacificamente.
Assonnata, mi stavo assopendo quando sentii la porta sbattere.
Sussultai e mi guardai intorno in quel buio da cantina.
Nell’oscurità c’era un ombra ancora più scura, si diresse verso la finestra e scostò quel che restava delle pesanti tende per lasciar passare un po’ di luce.
Apparve l’immagine di Cupido, che si voltò verso di me con un viso sereno.
Si avvicinò e ad ogni passo quel viso diventava lentamente una smorfia beffarda e violenta.
Lo guardai spaventata. Cercai di fuggire, ma qualcosa mi distruggeva la libertà dei movimenti.
Mi afferrò per le braccia, mi costrinse ad alzarmi, ma solo per gettarmi a terra di nuovo.
Mi picchiò, mi pestò sotto ai piedi, mi frustò, mi sollevò strillante per i capelli e mi schiaffeggiò, poi mi gettò ancora a terra e riprese da capo. Mentre infieriva sul mio corpo con pestoni violenti i suoi capelli dorati diventavano lunghi e boccolosi, gli cresceva un seno grande e morbido, il corpo gli si snelliva in vita, si allargava lungo i fianchi e le sue labbra da donna strillavano volgarità adatte solo a uno scaricatore del Pireo*.
Mi prese un tremito nervoso e mi svegliai.
Irrigidita, dolorante, spaventata dal sogno, mi sollevai faticosamente e subito mi accorsi di essere sul pavimento e di essere stata svegliata da urla angoscianti.
Ricordai immediatamente la situazione. L’urlo proveniva da dietro un muro della stanza su cui era stato appeso un arazzo intessuto delle scene della nascita di Afrodite.
Le urla peggiorarono.
Mi domandai se non ci fosse qualche altro sventurato, oltre a me, che Afrodite aveva rinchiuso qui dentro, e mentre me lo chiedevo da dietro la parete sentii urlare il mio nome.
-Psiche! Psiche! Psiche!- urlava la voce.
-Sono qui!- picchiai sul muro con il pugno –Sono qui!- mi misi a picchiare con entrambi i pugni –Aiutami! Aiutami! Mi senti?! Per gli dei!! Se mi conosci, aiutami!-
Le mie urla e quelle dello sventurato svegliarono Tristezza, che a sua volta svegliò Angoscia con uno scossone.
Mentre cercavo di farmi rispondere da quella voce disperata le sentii afferrarmi per le spalle e trascinarmi via.
-Zitta! Zitta! Brutta puttana! Fa silenzio!- disse Angoscia tirandomi via dal muro con uno strattone più deciso, mentre continuavo a urlare –Per gli dei! Per gli dei! Costui mi conosce! Sa chi sono! Chi c’è la?! Chi nasconde Afrodite??! No! Lasciami! Lasciami! No! No!- (Angoscia, con una mano sulla mia testa, mi costrinse a inginocchiarmi. Mi alzò il peplo tra i miei disperati “No! No!” fino a scoprirmi la schiena, in modo che Tristezza potesse sferzare a segno le verga) No! No!!- le mie grida salirono alle stelle quando sentii arrivare il primo colpo, seguito da molti altri.
Durò finché le ancelle non sentirono ritornare il sonno.
Mi lasciarono dove mi avevano torturato e se ne tornarono a dormire.

Il giorno dopo, appena albeggiava, Afrodite entrò a piccoli passi.
Le ancelle stavano rassettando tutto in previsione del suo arrivo.
Io me ne stavo tutta in un gomitolo lì dove ero stata frustata, con i capelli sparsi per terra.
Afrodite ordinò alle due ancelle di svegliarmi e loro mi svegliarono con un sacco di ceffoni.
Quando mi risentii per il dolore delle sberle, non capendo, balzai a sedere tentando si schermirmi dai colpi con le braccia.
-Adesso basta- disse Afrodite, trattenendo le serve.
Poi fisso il suo sguardo su di me, misera, più terrorizzata e imbarazzata di prima.
-Zeus! Fai schifo!- disse mentre un tremito di pianto mi assaliva tutto il viso -È inutile che fai tremare quel labbro di sotto, non tentare di muovermi a compassione!–
-Io? Io signora? N-non sto tentando di mu-muoverla a com…mi vien da piangere solo per il bruciore delle piaghe sulla schiena. Io…- piagnucolai.
-Risparmiami i tuoi piagnistei- si diresse verso un mobiletto dove era posato un vaso di terracotta decorata, con dei bellissimi gigli bianchi dentro.
Venere sollevò il vaso e rovesciò l’acqua e i fiori per terra.
Schioccò le dita e tre servitori portarono diversi sacchi di grano.
Venere prese da ogni sacco un pugno di grano di genere diverso e lo mise nel vaso. Lo mescolò con le dita e poi me lo porse.
-To’. Ecco il tuo primo servizio in questa casa. Se mio figlio vuole una sposa, ebbene, questa deve essere abile e paziente. Separa il grano di ciascuna specie e raccoglilo in mucchietti. Fammi trovare tutto fatto prima di sera. Voi due (si rivolse alle ancelle) prendetevi una pausa. Chiudetele la porta a chiave…ah si, anche la finestra. Non deve assolutamente suicidarsi. Io intanto me ne vado a un pranzo di nozze. Oggi sono allegra, ho deciso che il matrimonio sarà un successo, e anche unione dei due sposi. Ah come mi sento allegra- e la sua figura seducente veleggiò fuori dalla stanza accompagnata dalle soddisfatte ancelle.
Rimasta sola, non ebbi neppure il coraggio di mettere le mani in quel mucchietto di semi e rimasi lì come una scema.
Mi accorsi che per la camera passeggiava una piccola formichina. La formichina si arrampicò sul vasetto fino ad arrivare in cima, dove strabordavano i semi. Rimase un attimo ferma, muovendo apparentemente senza senso le sue antennuccie piccole piccole.
Ad un tratto, dal piccolo spazio tra la finestra e il pavimento, sbucò un esercito di formichine che avanzavano in tante file indiane.
Il pavimento era talmente fitto di insetti da non riuscire più a vedere le trame del marmo.
Le formichine arrivavano vicino a me, si arrampicavano sul vaso, lottando tra loro per farsi strada, e ognuna prendeva su di se un seme e lo depositava accanto al vaso, chi in un posto chi in un altro.
Dopo la prima sorpresa mi accorsi che stavano formando un mucchietto per ogni specie di grano.
Il vasetto a poco a poco divenne vuoto. Io ero stupita e gratissima.
Volevo ringraziarle ma non riuscivo a dir nulla.
Quando si avvicinava il tramonto le formichine avevano appena finito e come erano venute si ritiravano.
Sulla cima del vasetto era rimasta una sola formichina. Le sorrisi.
Evidentemente era il miglior ringraziamento che la formichina potesse desiderare perché agitò le antenne e se ne andò.
Venere non sarebbe tornata subito.
Allora mi appressai al muro dell’arazzo di Venere per capire chi fosse il prigioniero che conosceva il mio nome.
Bussai leggermente.
Silenzio.
Bussai un po’ più forte e chiamai –C’è nessuno che sente?- per un po' nessuno mi rispose e dovetti urlare per molto tempo prima di ottenere una reazione.
-Chi è là?- rispose una voce maschile, sorpresa.
-Una prigioniera. Sono Psiche!-
-Psiche!? Proprio Psiche!?- da come parlava sembrava gli battesse forte il cuore.
-Si. Non ci sono motivi per cui dovrei fingere di essere Psiche! Sono Psiche davvero! Chi sei?-
-Sono Eros! Sono nell’altra stanza!-
Sentii un tuffo al cuore ed una nuova gioia euforica nel sentire quella voce.
-Eros! Amore! Amore! Sei qui!- dissi facendo vagare freneticamente le mani sulla superfice del muro, forse in cerca di un buco o di un tranello che aprisse un passaggio.
-Shhhh, zitta, tutte le ancelle di mia madre hanno una stanza ad appena due porte dalla tua!-
-Ti tiene chiuso là dentro per forza?- bisbigliai, ancora emozionata.
-No, ci devo stare per guarire dalla piaga di quello sciagurato schizzo di cera, Psiche- disse con una sfumatura di
rimprovero.
-Mi dispiace, mi dispiace, non credere che non mi dispiaccia. Io non…-
-Lo so Psiche, so bene che è stato più forte di te. Sei una sciocca curiosona- continuò ora con comprensione ora con tenerezza.
-Io non posso uscire da qui! Cosa è successo ieri notte? Perché urlavi?-
-Urlavo? Ieri notte io dormivo molto profondamente, sogni agitati, per via del dolore-
-Allora urlavi! Mi hai svegliato! Urlavi il mio nome con voce deformata dalla disperazione!-
-Ero nel delirio, forse. Avevi delle carceriere? Le ho svegliate?-
-No. Io mi sono messa a urlare e a cercare di farmi rispondere da te battendo i pugni sulla parete, e così le ho svegliate io-
-E che ti hanno fatto?-
-Mi hanno frustato-
Eros rimase in silenzio, poi nella stanza si sentirono dei rumori, come se qualcosa stesse sbattendo da tutte le parti.
-Ma che fai?!-
-Cerco di raggiungere la porta-
-Ma no! Sei malato! Resta a letto. Si sente che continui a perdere l’equilibrio e a rovesciare oggetti-
Eros, rassegnato, sbuffò e si sedette con un tonfo di materasso.
-Appena guarisco ti porto via da lì-
Mentre parlava improvvisamente sentii il rumore delle chiavi che giravano due volte nella serratura della porta. Spaventata mi affrettai ad assumere l’aria più innocente possibile.
Afrodite entrò barcollando, inciampò nello strascico del suo vestito, ma si mantenne in equilibrio appoggiandosi con tutto il peso alla maniglia.
Aveva un aria terribile: le guance rosse, le labbra umide, occhi mobili e allegri come il vino che aveva buttato giù, i cui fumi le erano abbondantemente saliti alla testa.
Nonostante fosse ubriaca, incoronata di rose e coperta di ghirlande un po’ stracciate sul collo, sul petto, attorno alle braccia e alle gambe, appena mi vide si ricordò subito della mia prova e cercò in giro per vedere se avessi finito.
Appena vide il grano diviso diligentemente in mucchietti, per quell’umore incostante che hanno gli ubriachi, si infuriò subito e, prendendo a calci il vasetto e i mucchietti, sparse tutto il lavoro delle formiche sul pavimento.
-Bestia! Vermetto che non sei altro! Questa non è mica opera delle tue mani! Che ti credi? Di darmela a bere così!- si avvicinò a me, che ero in piedi vicino all’arazzo, terrorizzata. Con uno spintone mi mise con le spalle al muro, mi afferrò per il collo del vestito, mi sollevò da terra e mi premette contro la parete.
-Qui c’è entrato di sicuro quello a cui tu sei piaciuta! Per la vostra rovina! Dico…dico…Giusto?! Che figlio mi è toccato! Che razza di… che razza di...! Imbrogliona-che-non-sei-altro!-
Vaneggiava e ad ogni parola mi sbatteva contro il muro come se volesse farlo crollare.
Dopo un po' mi lasciò a terra, con l’impressione di essermi rotta qualche costola.
Afrodite non riusciva neanche a parlare senza che la lingua la tradisse per via dell’ubriachezza, così, infuriata, si tirò fuori un avanzo di pane che le era rimasto nel vestito e me lo getto sgarbatamente contro.
-Mangia! Domani avrai una prova due volte più difficile!-

Appena l’aurora si spinse innanzi con il suo cocchio Afrodite entrò nella mia stanza.
Scacciò fuori Angoscia e Tristezza, che mi avevano controllato anche quella notte, si diresse verso la finestra e la spalancò.
Poi venne nella mia direzione, mi afferrò per un braccio e mi trascinò verso la finestra col piglio di una che mi volesse buttare giù.
Invece mi mise, spaventata e tremante, davanti alla vista di un’immensità di alberi stesa su tutte le colline all’orizzonte.
-Distingui in questa distesa il limitare della foresta? Laggiù, lo vedi quel lago?-
Ero sul punto di sciogliermi in suppliche e grida, ma quando sentii la forzata gentilezza di quella domanda mi rilassai un poco e feci cenno di si.
-In quel punto pascolano delle splendide pecore, che hanno la lana d’oro. Voglio che tu mi porti da là al più presto, in qualunque modo tu riesca a procurartelo, ammazzandoti, se è necessario, un fiocco di lana di quel prezioso vello. È tutto chiaro come il sole?-
-Si- pronunciai flebilmente.


Ero scesa dalle rocce dell’Olimpo. Naturalmente Afrodite non mi aveva portato nel bosco sollevandomi col vento, ma avevo dovuto scarpinare un bel po’ per la montagna e la foresta.
Avevo acconsentito a scendere non perché mi ci avessero costretta, ma perché ardivo di porre fine alle mie sofferenze gettandomi al più presto nel lago.
Era mezzodì, il sole era cocente, sotto il peplo ero tutta sudata.
Mi trovavo sull’altra sponda del lago rispetto a dove pascolavano le pecore d’oro.
Avevo sentito parlare di quelle pecore: avevano corna molto appuntite, fronti dure come le pietre, e persino morsi avvelenati. Attaccavano qualunque creatura umana vedessero.
C’era una tratto melmoso della riva, pieno di canne, suonatrici delle melodie del vento: dovevo superarlo per gettarmi nella zona più profonda del lago e annegare.
Mi misi a spostare le canne con le braccia.
Ad un tratto un soffio lieve le fece suonare a lungo e dolcemente e nella loro melodia distinsi una voce più sottile di quella del vento.
-Nooooooooooo- cantavano tranquillamente.
-Psichheeeeeee, noooooooo. Nooooon esseeeere scioooooooca. Peeeeer prendeeeeere laaa laaaaanaaaaaa aspettaaaaaa laaaaa seeera, quaaaaando le peeeeeercoooooooreeeeeeee saaaaaraaaanoooo andaaate viiiiaaaaa, trooooooooveraaaaaai batuffooooooli doooooratiiiiiii traaaaa iiiii raaaaaaaamiiiiiiii eeeee iiiii cespuuuuuuugliiiiii-
Ascoltai ciò che capii dai lunghi mormorii delle canne, e mi misi all’ombra di un platano ad aspettare la sera.
Quando le pecore se ne furono andate mi misi a cercare tra i bassi rami, come mi avevano suggerito le canne, e trovai molti fiocchi morbidi e dorati. Li raccolsi tutti nel vestito e mi rimisi sulla strada dell’Olimpo.


-Imbrogliona! Anche di quest’opera prodigiosa io so chi è l’autore segreto! C’è sempre lo zampino di quel mio figlio indegno! Sto seriamente pensando di diseredarlo! Niente più poteri! Niente più alucce per andare in giro per il mondo a innamorarsi di insipide e insignificanti fanciulle! Ma dove ha gli occhi quel mio figlio!-
Avevo ancora in mano i fiocchi vaporosi mentre Afrodite si era completamente dimenticata di me e andava parlando a se stessa degli errori che aveva fatto crescendo il suo figliolo, e di quanto lo avesse viziato, e di quanto lei lo avesse sempre accontentato, e dei suoi dispetti e della sua ingratitudine…
-Ah! Mi fa sempre perdere il filo! Quel brigante! Ecco! Torniamo a te!- disse come ricadendo nella realtà.
-È il tramonto, è vero, ma per una maga come te non sarà difficile portare a termine anche questa prova. Voglio sapere se sei davvero dotata di animo audace e di straordinaria prudenza-
Mi ricondusse strattonandomi alla finestra.
-
Vedi la cima di quell’erto monte, che sovrasta quella montagna altissima e dirupata- mi additò, non troppo lontano, un monte scosceso fin quasi ad apparire verticale -Da quella cima scaturiscono le acque oscure di una nera sorgente, e raccogliendosi in fondo alla valle vicina, scendono a irrigare la palude Stigia e ad alimentare la cupa corrente di Cocito. Tu devi salire fino al punto dove la sorgente scaturisce freddissima dalla terra e riportarmi questa piccola urna piena di quell’acqua-
Mi porse un vasetto di cristallo colorato aggiungendo –Vedremo, vedremo. Non osare tornare con questo vasetto vuoto!- nei suoi occhi passò un lampo maligno e sanguinario e i lati della bocca si tirarono su in un sorriso orribile.

Quando giunsi nelle vicinanze della cima, subito mi accorsi della mortale difficoltà dell’impresa.
Infatti una rupe altissima, scoscesa e inaccessibile rovesciava dal mezzo di una spaccatura quell’acqua spaventosa che, penetrando per certi passaggi stretti e angusti, si precipitava fuori per le fenditure e scorreva giù lungo il declivio, cadendo invisibile nella valle vicina.
Accanto ad essa, a destra e a sinistra, le facevano la guardia dei terribile draghi che strisciavano e tendevano il collo negli anfratti della roccia, con gli occhi sempre aperti e le pupille eternamente intente alla luce.
Sentii quelle acque, che avevano il dono della parola urlarmi “Vattene!” “Stai attenta” “Non avvicinarti”.
Dentro di me sentii l’eco della minaccia “Farai una brutta fine”, che mi continuavo a ripetere da quando mi ero messa in cammino.
Pietrificata davanti a tante difficoltà, atterrita dalla mole di un impresa così impossibile, ero lì presente col corpo, ma non con la mente, che delirava spaventata, combattuta tra la paura per i draghi e quella per Afrodite.
Dovevo decidere in che direzione procedere, se tornare indietro e morire frustata a sangue o andare avanti e morire in un boccone per i draghi.
Ogni volta che pensavo ad una delle minacce questa mi sembrava la più terribile ed ero pronta a decidermi di affrontare l’altra, ma quando il pensiero si soffermava sull’altra ne era spaventatissimo e ritornava sulla decisione di affrontare la prima, che aveva appena scartato.
Ero persino priva dell’unico sollievo che mi dava piangere.
Ma la sventura della mia anima innocente non sfuggì agli occhi profondi della Provvidenza.
Sopra di me sentii il verso dell’uccello regale del sommo Zeus, l’aquila.
Alzai il viso e la vidi planare su di me ad ali spiegate.
Mi atterrò davanti, puntando quella sua testa bianca e quei suoi occhi acuti su di me, così che non c’erano dubbi su chi il fato volesse aiutare.
Era quasi un miracolo che le aquile si avvicinassero ai comuni mortali.
Se lo facevano, si avvicinavano solo a gente cara agli dei, e a quelli che visitavano portavano l’auspicio del favore di Zeus.
-Son qui per onorare la potenza di Eros aiutando te- disse l’aquila dignitosamente; era un uccello enorme e maestoso anche quando non volava –ricordo bene che Eros scelse me per rapire per conto di Zeus il coppiere Frigio, di cui si era innamorato. Aimè! Hai un impresa ardua bella Psiche. Purtroppo sei ingenua e ignara di queste cose. Quell’acqua è spaventosa e tremenda, non potresti neppure toccarla con le dita. Non ricordi che queste sono le acque temute dagli dei? Non hai mai sentito che, come voi giurate sugli dei, gli dei giurano sulle acque dello Stige, che vengono da questa sorgente? Dammi un po’ quella brocca-
Ero rimasta ad ascoltarla senza parlare e dunque le porsi il vasetto di cristallo.
L’aquila lo prese nel becco e volò in alto, scomparendo.
La aspettai per pochi minuti, poi essa ritornò con il vaso colorato pieno.
-Sei un essere meraviglioso! Stupendo! Come hai fatto!??- gridai prendendo il vasetto e tentando di abbracciare l’aquila per la felicità.
L’aquila si scostò dignitosamente, sbattendo le ali per scacciare i miei abbracci.
-I draghi hanno tentato attaccarmi, ma a io mi sono scostato, poi li ho beccati e gli ho detto, col vasetto nel becco, che ero stato mandato ad attingere acqua da Afrodite. Loro, con la soggezione che hanno degli dei, non hanno fatto una piega, ed io mi sono potuto avvicinare all’acqua-
-Grazie! Grazie! Grazie! Non so davvero come ringraziarti! Sarai l’uccello che venererò più di tutti. Farò sempre sacrifici in nome di Zeus e delle sue aquile!- dissi e la leggerezza che mi sentivo addosso per essere stata sollevata da un compito tanto titanico mi rendeva euforica.


Neppure quell’acqua riuscì a soddisfare la dea.
-Mi resta solo da credere- disse ironicamente –che tu sei una strega capace di vere magie! Dunque tu superi ogni ostacolo con la stessa facilita con cui scavalchi un muricciolo. Bene. Posso allora assegnarti l’ultima prova, bamboletta mia-
Prese il vaso che le avevo portato con l'acqua dello Stige, lo scoperchiò e versò l’acqua nel vaso di alcune rose, che appassirono immediatamente.
Dunque mi porse l'oggetto.
-Va all’Inferno, domani- disse –e dì a Persefone: “Afrodite ti prega di mandarle un poco della tua bellezza, almeno quanta ne serve per una sola breve giornata. Perché quella che aveva l’ha tutta consumata e finita per curare il figlio ammalato”. E vedi di spicciarti perché devo spalmarmela prima di andare al consiglio degli dei. Non permetterò mica che tu e il mio figliolo mi facciate apparire più brutta tormentandomi con le vostre ragazzate!-

Capii di essere arrivata all’estremo della sfortuna.
Afrodite voleva che mi andassi a gettare direttamente nelle bracci della morte; era questo il significato della prova ingrata che mi aveva assegnato.
Non sapevo come arrivare all’Inferno, l’unico modo che conoscevo era morire, ed Afrodite probabilmente lo sapeva.
Nessuna formichina, nessuna canna di fiume, ne una maestosa aquila avrebbero potuto aiutarmi di nuovo.
Così andai su una rupe altissima, volevo tentare di suicidarmi di nuovo, sperando che questa fosse la volta buona, quando la rupe cominciò a parlare.
-Disgraziata! Perché vuoi ammazzarti buttandoti giù? Perché senza reagire ti lasci sopraffare da questa terribile ma anche ultima prova?-
Comprensibilmente la mia bellezza e la mia triste sorte impietosivano tutti, e tutti mi aiutavano, persino un’inanimata Rupe.
-Che dovrei fare! Le entrate del Tartaro io non le conosco!- urlai al vento.
-Oh, ma dai! È solo una scusa per buttarti e farla finita! Sai benissimo che quando, con la morte, la tua anima si sarà separata dal corpo affonderai negli infermi e non potrai più tornare indietro. I tuoi tormenti non avranno sollievo così, Psiche! Ascolta bene come entrare nell’Inferno…-


La Rupe aveva parlato a Bora, e gli aveva detto di sollevarmi per portarmi ad una città non lontana da lì, Sparta.
Bora mi abbandonò all’entrata della città.
Mi ero accorta di avere delle monetine in una tasca della veste; dovevano essere rimaste per caso durante tutte le mie avventure, dalla notte che Eros era scappato fino a quel momento.
Potei comprare quel che mi serviva per il viaggio agli inferi: due focacce d’orzo impastate con vino e miele e un sacca per mettere dentro queste e il vasetto vuoto di Afrodite. Mi rimanevano alcune monetine.
Al confine di Sparta cercai, come mi aveva suggerito la Rupe, un promontorio di nome Tenaro, in un luogo fuori mano e ben nascosto.
Li, secondo le sue istruzioni, si sarebbe dovuta intravvedere una spaccatura profonda nella terra, da cui sarebbero dovuti salire fumi e puzza di zolfo.
La trovai. Cercando di non mettere i piedi in fallo, riuscii a calarmi giù, con quei goffi movimenti che mi permetteva il lungo peplo stracciato.
Calandomi per le pareti diseguali di quella spaccatura, ad un tratto sotto il piede sentii qualcosa di simile a un pavimento roccioso.
Poggiai anche l’altro piede su quella base solida, mi voltai e vidi la porta degli inferi, un arco basso e nero come l’ossidiana.
Dietro l’entrata c’era una strada impraticabile piena di rovi spinosi e ragnatele.
Mi infilai due monetine in bocca, come mi aveva suggerito la voce della Rupe, poi mi incamminai per quella strada destinata ai morti.
Le spine mi graffiavano le cavigie e dalle ferite mi sgocciolava del sangue. Alcuni morti saltavano fuori dai rovi per leccare le misere gocce rosse dal sentiero.
Dopo un po’ di camminare incontrai il fiume infernale il cui traghettatore era Caronte, l’esattore dell’Inferno, un dio che non fa nulla per nulla.
Persino i poveri che non possedevano niente se non le loro ossa dovevano provvedersi dei soldi per il viaggio all’Inferno.
“Infatti anche all’Inferno è viva l’avarizia!"
aveva borbottato sinistramente la Rupe, mentre mi spiegava come attraversare il fiume "Se le anime non si presentano con i soldi in bocca non gli danno neppure il permesso di crepare”
-Caronte! Caronte! Ci sono delle anime quaggiù!- dissi sventolando un braccio nella sua direzione.
Caronte, evidentemente abituato al silenzio e al lamento dei morti, si voltò subito, sorpreso da quelle parole urlate e di senso compiuto.
Si avvicinò con la sua barcaccia, era un vecchio magro e alto, col viso magro di teschio coperto da un cappuccio.
Quando la barca fu a riva si chinò su di me (aveva la bocca simile a una caverna da quanto era sdentata) e mi sorrise di un sorriso orribile.
-Non mi importa se sei viva o se sei morta- disse –Ma se vuoi traghettare devi avere qualcosa per me, ragazzina- e tese la mano col palmo all’insù.
Io mi infilai le dita in bocca, presi una delle due monetine da sotto la lingua e gliela misi nel palmo della mano.
Non persi tempo a salire sulla sua barca, adeguandomi al silenzio dei morti.
Portati da una lenta corrente vidi nel fiume galleggiare un vecchio, che mi chiese mormorando e tendendomi le braccia di accoglierlo nella barca.
La Rupe mi aveva avvisato che questo era un tranello di Afrodite, perciò ignorai il vecchio, per quanto pietoso.
I morti infatti non parlano se il sangue non gli ha infuso un po’ di vita.
Caronte riversò brutalmente le anime sulla riva opposta, io scesi dopo di loro, attenta a non bagnarmi con le acque infernali.
Camminando per un breve tratto incontrai un enorme cane con tre teste tutte identiche e di proporzioni più grosse rispetto al corpo, la cui bava colante allagava il terreno sotto di lui.
Con i suoi latrati assordanti rintronava le orecchie dei morti, terrorizzandoli, ma non potendo fargli nulla poiché erano incorporei. In tal modo faceva la guardia alla soglia del nero atrio di Persefone.
Mi avvicinai a lui con le mani sulle orecchie, e a debita distanza gli gettai una delle due focacce. Il mostruoso e informe cane si placò subito e, impegnato a divorare la focaccia, mi lasciò passare.
Feci tutto con estrema sicurezza perché seguivo alla lettera le istruzioni della Rupe e mi fidavo ciecamente delle sue parole.
Nell’atrio c’erano i troni di pietra di Ade e Persefone.
Colsi la pensosa Persefone in un momento in cui era senza il suo sposo, seduta su uno dei troni gemelli, con le braccia stese sui braccioli.
Mi era stato detto che mi avrebbe accolto con molta urbanità. I re dei morti accolgono chiunque nella loro casa infernale. Chi, chiedo, è più ospitale della morte?
Chi accoglie chiunque nella propria casa?
-Cara fanciulla, ma tu sei una viva!- disse Persefone, alzandosi tutta agitata dal suo scranno –cosa ci fai qui? Porti un po’ della bellezza di quel mondo in questa valle di rovi, di lacrime e di morti che non cercano altro che il sangue, pallido ricordo della vita? Ti invito a parlare- disse Persefone, dalle lunghe chiome nere e dagli occhi dolci di pietà per tutto ciò che aveva visto in quel luogo cavernoso.
-Regina- dissi inginocchiandomi, con le mani unite e il capo chinato –T-ti…prego, non farmi alcun male. Vengo qui per conto di Afrodite, che ti porta i suoi omaggi e mi manda a chiederti un favore, perché solo tu sei…sei…in grado…- dissi con la voce che cominciava a spezzarsi e la sicurezza che vacillava.
-Non temere, bel fiore della terra di mia madre Cerere, parla liberamente- disse con gran gentilezza la Regina degli Inferi.
-Sono qui perché Afrodite ti chiede di prestarle un po’ della tua bellezza, giusto quella che serve per il resto di questa breve giornata sulla terra. T-ti prego…- in mezzo alla frase mi sfuggì un singhiozzo al pensiero di quel che mi avrebbe fatto Afrodite –mi…mi punirà se…se…-
-Oh, no, non piangere, su, su. Dolce umana, non è necessario che tu mi preghi o mi impietosisca…io…te ne darò un po’ sicuramente- scese i gradini del suo trono e fece per cingermi in un abbraccio, ma la Rupe mi aveva raccomandato di non farmi toccare, così mi scostai.
-Vuoi…vuoi…mangiare qualcosa?- chiese con tono incerto. Era la domanda traditrice da cui la Rupe mi aveva detto di guardarmi. Chi mangia il cibo dell’Inferno resta là per sempre.
Non era colpa di Persefone, non era sua intenzione trattenermi là; erano semplicemente gli ordini del suo sovrano, una legge applicata con tutti. Stava a me evitarla. Era nella natura di quel luogo cercare di trattenere ogni cosa che entrasse e di non farla più uscire.
-No, no, non voglio nulla, ho le mie focacce- dissi e dalla sacca tirai fuori il vasetto e glielo porsi –Vi prego, potreste mettere la vostra bellezza qui dentro?- chiesi.
-Certo- disse e sorrise dolcemente, osservandomi distratta.
Prese il vasetto ed uscì dalla stanza.
Ritornò col vasetto chiuso.
-Tu mi hai ricordato la mia casa natia, ti ringrazio sentitamente- fece di nuovo per allungarmi una carezza, ma io mi ritrassi umilmente, lei ritirò tacitamente la mano e continuò -Purtroppo in questo periodo abito in questa dimora, ormai è già autunno cara, e io sto qui, con Ade…- fece un breve sorriso –Ti auguro buona fortuna-
-Grazie-
-Mi raccomando!- disse severamente –Non aprire mai, mai, mai quel vasetto di bellezza. Fidati della mia parola, e non aprirlo. Ora va. Hai tutto quel che ti serve per tornare?-
-Si- dissi, mi inchinai e mi avviai per la soglia.
Risalii tutta la strada, placai il cane tricefalo con la seconda focaccia, ignorai i richiami di ogni morto che tendeva la mano per cercare aiuto e pagai l’avaro traghettatore con la seconda moneta che avevo in bocca.
Attraversai la soglia del mondo dei vivi, accompagnata dalle urla di invidia e disperazione dei morti che mi videro uscire.
Risalii la spaccatura della terra.
Finalmente rividi la luce, talmente intensa che mi fece male agli occhi.
Dalla gioia di essere tornata dall’Inferno sentii un incredibile, rinnovata felicità di vivere
L’Olimpo non era lontano, potevo raggiungerlo entro fine giornata, ma durante la strada, sebbene avessi fretta e fossi contenta di concludere il mio mandato, fui presa da una temeraria curiosità.
Tirai fuori il vasetto dalla sacca, lo guardavo come se potessi vederci dentro senza aprirlo.
“Come potrei non servirmi almeno un pochino di bellezza divina?” pensai “Sarei più bella agli occhi dei mio amato Eros. Perché dovrebbe sprecarla Afrodite, che è già bellissima? Sicuramente non si accorgerà se…” questa curiosità mi assillò per tutto il viaggio. Quando riuscivo a scacciarla lei ritornava dopo un po’, con nuovi argomenti a suo favore, e ogni volte io ero sempre più tentata di assecondarla.
Alla fine il desiderio fu irresistibile e la resistenza troppo debole per frenarmi.
Aprii il piccolo coperchio e sbirciai nel vasetto per vedere che forma dovesse avere la bellezza.
Mi accorsi che dentro non c’era proprio niente, solo del sonno, un sonno infernale proveniente dallo Stige.
Da un vasetto che sembrava vuoto cominciò ad uscire del fumo, come da una pentola che bolle di cose disgustose. Il fumo formò una nebbia attorno a me e mi sentii stanca come se dovessi recuperare il sonno di mille anni.
Mi scordai chi ero, e che cosa stavo facendo. Mi limitai a cercare un giaciglio e a poggiare il vasetto accanto a me (avevo come il nebuloso presentimento che fosse importante!). Mi addormentai di colpo, di un sonno profondo in cui cadono solo i cadaveri.

Sentii il sonno sparire lentamente dal mio corpo come al risveglio da una lunga notte.
Quando aprii gli occhi vidi le foglie che avevo usato come guanciale.
Mi rigirai nel mio giaciglio e vidi una figura d’uomo, molto giovane, che fendeva la nebbia con le braccia per scacciarla da me.
Non so come riuscì ad acchiapparla tutta e a rimetterla nel contenitore da cui io l’avevo tirata fuori.
Quando l’ uomo si girò e lo guardai bene in viso mi svegliai completamente come se mi avessero gettato dell’acqua fredda in faccia.
Basita non riuscii a dire o a fare niente, se non a provare un profondo stupore e una profonda dolcezza, mentre Eros mi si avvicinava con in mano il vasetto di Afrodite.
-Ah Psiche!- disse lui esasperato con quella sua solita voce un po’ di rimprovero e un po’ di scherzo che amavo tanto –Sei di nuovo caduta vittima della curiosità! Speriamo che questa seconda volta ti serva di lezione più della prima- si abbassò alla mia altezza e mi baciò la bocca.
-Vedi che sono guarito dalla mia piaga? Mi sento incredibilmente bene. Ma ora va a finire la prova che ti ha dato mia madre. Io penso a supplicare Zeus-
-Supplicare….Zeus…- feci eco, ancora un po’ frastornata dalla nebbia soporifera.
-Tu aspetta un oretta o due e vedrai cosa un dio riesce a fare in questo breve tempo- mi porse il vasetto, si alzò, spiegò le ali rinvigorite dal riposo e spiccò il volo più veloce e meraviglioso che mai.



Mi sembrava di essere ritornata ai primi tempi in cui Eros mi aveva accolto nel suo palazzo divino, tanto alte erano le vette della mia felicità.
Ogni volta che pensavo che lui era guarito e che mi aveva salvata avevo voglia di gridare di gioia, di correre, di cantare, di mettere la forza inesauribile del mio amore in qualche attività.
Scalai di nuovo l’Olimpo.
Quando incontrai di nuovo un’Afrodite sbigottita sulla soglia le schiaffai in faccia un gran sorriso e le porsi il dono di Persefone.
Afrodite somigliava così tanto a suo figlio che quasi quasi sentii amore anche per lei.
All’improvviso squillarono le trombe del cielo, che ci distolsero da un momento di imbarazzante silenzio in cui Afrodite stava elaborando qualcosa da dire.
Dalla vetta dell'Olimpo scese Hermes, il messaggero dai piedi alati, il più intelligente degli dei, il furbo, il viaggiatore, il ladro.
Atterrò davanti ad Afrodite e le porse un rotolo.
-Afrodite! Bellezza degli dei! Porto un messaggio da Zeus, è molto urgente. Chi non si radunerà sul punto più alto del monte Olimpo prima di sera riceverà una salatissima multa. E chi è costei che è tanto bella da esser degna di un dio? Forse le Grazie non sono tre, ma quattro?-
Come in ogni momento di imbarazzo mi ritrovai a fissare il pavimento e a lambiccarmi il cervello per rispondere.
-Oh! Ho capito! È lei! L’amante di Eros! Fortunato! Anche tu devi presentarti. Si parlerà di te- aggiunse Hermes.
-Che ha a che fare lei col nostro concilio?- chiese indispettita Afrodite.
Hermes fece un sorriso veloce e furbesco, un sorriso che lasciava intendere di sapere molte cose, ma di non voler dire di più.
Spiccò il volo con i suoi calzari alati verso la cima del monte.

Afrodite chiamò Bora e Bora ci sollevò fino alla dimora di Zeus.
Atterrammo in una sala ampia e circolare con uno sbuffo di vento, al centro della quale c’era il trono del Padre di tutti gli dei.
Attorno allo scranno del grande signore dei cieli c’erano quelli di tutti gli altri dei.
Afrodite occupò il suo posto, lasciandomi sola in mezzo alla sala, proprio davanti al seggio di Zeus.
Alla destra di Zeus c’era Eros, che mi indicava al potente dio e confabulava con lui mentre tutti gli altri dei arrivavano da ogni parte della Grecia e si sedevano ai loro posti.
Quando Zeus smise di parlare con Eros e tutta la sala fu piena, il capo degli dei mi fece cenno con la mano di avvicinarmi e disse con la voce profonda del tuono –Vieni-
Le viscere mi si liquefecero a quel comando secco.
Esitante mi avvicinai al dio, tentando di ignorare che, se avesse voluto, avrebbe potuto incenerirmi con la forza di uno sguardo bieco.
Quando gli fui abbastanza vicino mi guardò con piglio severo ed io mi inginocchiai in segno di rispetto.
-Non inginocchiarti!-
Balzai subito in piedi. Tutto il teatro delle riunioni del cielo era pieno e stava assistendo alla mia vergogna.
-Eros è lei? La riconosci?-
Eros sorrise –Non c’è nessuno, né sull’Olimpo, né sulla terra, che le assomigli!-
-Bene, allora non possiamo sbagliare. Tutti gli dei facciano attenzione! Ho qualcosa da dire per conto del mio signor figlio Eros!- disse con tono un po’ scherzoso e un po’ minaccioso.
Si schiarì la voce e parlò:- O dei, coscritti nell’albo delle Muse, tutti sapete che questo ragazzo- e additò Eros –è cresciuto praticamente nelle mie mani. Ormai costui si è scelto una sposa, chiaramente dopo aver ben soddisfatto tutti i suoi ardori giovanili, ma questo fu un altro tempo, un'altra era. Come ho già detto e ribadisco egli si è già scelta la sua ragazza, e l’ha anche privata della verginità: se la tenga, se la sposi, e tra le braccia di Psiche goda eternamente l’amore. Non accetterò nessuna protesta!- poi si rivolse ad Afrodite, la quale era diventata rossa come una fragola ed era stata
esattamente sul punto si esplodere in proteste.
-Zitta figlia! Capisco il tuo dispiacere! Tu non vuoi che il matrimonio si celebri tra persone di diverso rango. Un dio e un mortale! Ma certo! Hai ragione! Nemmeno io mi sognerei una cosa simile! Ed ecco perché…- in quel momento entrò un coppiere un una coppa così colma di ambrosia che il liquido divino sgocciolava dall’orlo –provvediamo immantinente a rendere questa bellissima fanciulla immortale-
Eros sbatte le ali per l’entusiasmo e fece un gran sorriso nella mia direzione.
Per la sala del concilio si diffuse un brusio di approvazione.
Io spalancai gli occhi per la sorpresa e fissai la coppa come se al posto suo sul vassoio ci fosse uno strumento chirurgico con cui mi avrebbero asportato qualche cosa.
Io, immortale...
Io era una ragazza semplice, modesta. Non avevo mai nutrito sogni tanto rosei.
Mi era sempre sembrato assurdo persino immaginare una cosa simile, e dunque non ci sono parole umane per descrivere l’incredibile paura e l’incredibile gioia che provai nel vedermi offrire quella coppa.
Eros scese dallo scranno ci Zeus, mi si mise accanto e mi prese la mano per farmi coraggio.
-Come hai fatto?- domandai
Eros si avvicinò al mio orecchio e bisbigliò –
Vedi…gli ho spiegato la situazione, l’ho pregato, gli ho raccontato tutto ciò che avevi passato affinché stessimo insieme e lui ha detto, cito a memoria: “In considerazione del fatto che ti ho cresciuto io, e per non venir meno alla mia nota bontà, farò tutto quello che mi hai chiesto tu. Ma in cambio, se ci fosse qualche fanciulla particolarmente bella sulla terra, sai bene qual è il tuo dovere: portarmela qui in cambio del piacere che ti faccio!”-
Scoppiai a ridere e lo baciai sulle labbra.
Zeus prese la coppa dal vassoio del coppiere, scese dal suo scranno e si diresse verso di noi.
Mi porse la coppa con quelle sue grandi mani e tuonò allegro –Bevi, Psiche, e sii immortale! Eros non sarà mai sciolto dal vincolo che lo unisce a te, e mi par di capire- diede un occhiata agli occhi innamorati con cui Eros mi guardava –che lui nemmeno lo voglia. Da oggi voi due siete sposi per tutta l’eternità!-

Subito dopo venne servito un ricco pranzo di nozze. Lo sposo era posto sul seggio più alto, e tra le sue braccia teneva Psiche.
Poi veniva Giove con la sua Giunone, e poi di seguito, in ordine, tutti gli altri dei.
Fu offerto il nettare, che è il vino degli dei: a Giove lo serviva quel pastore fanciullo, suo coppiere, agli altri Bacco. Vulcano cuoceva il pranzo, le Ore spandevano tutt’intorno una pioggia di rose e di altri fiori colorati, le Grazie spandevano profumi e le Muse facevano risuonare i loro canti armoniosi. Poi Apollo cantò accompagnandosi con la cetra, Venere danzò graziosamente in una danza leggiadra: si era formata come un’orchestra, dove le Muse cantavano in coro e suonavano i flauti, mentre Satiro e Panisco soffiavano nella zampogna.
Così Psiche divenne sposa di Amore secondo le prescrizioni del rito, e quando il tempo per il parto fu terminato nacque loro una figlia che noi chiamiamo Voluttà.*

…Fine.

*Il Pireo è il porto di Atene, questà città è celebre per la sua potenza navale e le sue mura, che vennero distrutte alla fine della guerra del Peloponneso, quando vinsero gli Spartani.

*Da “Le metamorfosi” o “L’asino d’oro” di Lucio Apuleio.

Non ho parole per scusarmi di tutte le battute che ho preso dal testo originale di “Amore e Psiche”. Naturalmente la maggior parte sono di mia invenzione, diciamo che 1/8 delle frasi dette dai personaggi le ho prese dalla nota opera.
Scusatemi anche per il capitolo infinito. Ho fatto di tutto per mettere quello che restava da raccontare in un solo capitolo. Altrimenti avrei dovuto farne cinque e avevo già promesso che Eros avrebbe salvato Psiche in questo capitolo. Non potevo rimangiarmelo.
Sentite, lo so che il capitolo è lungo, ma potreste recensire, almeno.

Ringrazio sentitamente

- ilary_chan (che ha messo la storia tra i preferiti)
-MissProngs (che ha messo la storia tra quelle da ricordare)

e...

 - Michelegiolo 
 - Sachi Mitsuki

 - Selhin 
 - simplyunica 
- uranian7

( che hanno messo la storia tra le seguite)

Ecco, ho finito. Tutto è stato detto, tutto è stato fatto, non mi pare ci sia più nulla da spiegare.
Vi saluto. Resto in ansiosa attesa che la mia dea Ispirazione venga a sussurrarmi all’orecchio qualche altra idea. Tremate, tremate!

Bye Bye

trullitrulli.

Sachi Mitsuki:
Eco e Pan erano già presenti nel mito originale. Naturalmente ne ho dovuti togliere altri, come Giunone e Demetra. Nel mito Psiche si recava prima nel santuario di Cerere e poi nel santuario di Era per chiedere ospitalità e aiuto. Le due dee, per non attirarsi l'ira di Afrodite, le rifiutano ogni aiuto. Questa parte mi è sembrata superflua e l'ho tolta, dando spazio al dialogo con Pan.
Grazie dei complimenti, sono contenta che ti sia piaciuta le fic.

Norine:
Strano che Eco faccia a tutti tenerezza, non avevo pensato che potesse dare una qualche impressione, l'avevmo messa così, era appena una comparsa, perchè Pan doveva fare qualcosa quando incontrava Psiche. Si forse ho esagerato a far predere a calci Psiche, ma in questo capitolo ho fatto di peggio, con le frustate e gli schiaffi e Afrodite che la solleva per il collo del peplo e la sballotta da tutte le parti. Insomma, diciamo che Afrodite non gliel'ha lasciata superare gratis. Grazie anche a te per la recensione.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=425313