Verderame

di Mue
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Prima di iniziare, una premessa doverosa.
Avete letto bene i personaggi? Esatto, c'è scritto "sorpresa", il che significa che se rimanete delusi perché non c'era il vostro personaggio preferito o quello che vi aspettavate sono affari puramente vostri. Una sorpresa è una sorpresa, insomma u.u
In secundis, questa storia è stata scritta per il prompt Auto volante della tabella Seven for Side sui mezzi di trasporto magici, in collaborazione con Lady of Lorien e Calliope.
Detto questo, un grazie grande come un Ungaro Spinato -aculei compresi- a
whateverhappened che ormai è la beta di fiducissima della sottoscritta e che si è sobbarcata anche questa volta il grosso lavoro di correzione e accendiamo i motori.
Si parte!
Disclaimer: I personaggi e gli elementi creati da J.K. Rowling presenti in questa fanfiction sono suoi e solamente suoi, il resto della storia è tutto una mia invenzione. Questa storia non è scritta a scopo di lucro.

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Capitolo I







Da qualche parte in Scozia, 15 agosto

Il motore ruggiva come una Manticora affamata in gabbia.
Le gambe gli formicolavano e vampate di adrenalina gli risalivano violentemente lungo la spina dorsale.
Era pronto.
La sua testa era svuotata di tutto, concentrata solo sullo strapiombo che si apriva davanti a lui.
Laggiù, in fondo a duecento metri di vuoto, c’era la foresta, una macchia di nero assoluto in quella buia notte di tempesta.
In quel trionfo di tenebre persino i fanali delle auto in linea sull’orlo del precipizio sembravano inglobati nell’oscurità.
«Ehi, tu!»
Si voltò e vide un uomo che gli faceva gesti fuori dal finestrino. Lo abbassò di una spanna.
«Che c’è?»
«Metà dei concorrenti si è ritirata. Ti consiglio di fare lo stesso, se domani non vuoi ritrovarti in una corsia del San Mungo con la testa aperta in due. Non si vede a un Lumos di distanza.»
Lui si limitò a piegare la bocca in un ghigno. «Non temere, se succedesse ti farei avere una cartolina via gufo da Londra.»
L’uomo alzò gli occhi al cielo e borbottò qualcosa, quindi si ritrasse e si allontanò dalle auto di dieci passi. «Molto bene!» ruggì dunque, la voce amplificata da un Incanto Sonorus. «Siete ancora in quattro concorrenti in gara, e le condizioni del tempo non accennano a migliorare. Ma chi c’è, c’è, e ormai non può più tirarsi indietro. Siete pronti?»
Lui seguì l’esempio delle altre tre auto in gara e schiacciò il clacson per dare il suo assenso.
«Perfetto! E allora… tre, due, uno… VIA!»
Mollò il freno tutto d’un colpo, e la macchina scattò in avanti, dritta giù dal dirupo. Vide il mondo inclinarsi di novanta gradi e la linea del precipizio assumere un’apparenza orizzontale.
Stava precipitando.
La macchia nero inchiostro degli alberi di sotto si avvicinava rapidamente. Molto rapidamente.
Sapeva perfettamente cosa doveva fare: serrò il volante in una mano e premette con decisione un pulsante che recitava “Volo” sul cruscotto.
La discesa rallentò, ma era ancora troppo veloce.
E non sarebbe stato certo lui a frenarla.
Pigiò l’acceleratore, e l’auto si lanciò con un cigolio sinistro tra le fronde degli alberi, raddrizzandosi di botto.
Il contraccolpo non lo prese di sorpresa: era abituato alla sua antiquata Golf Cabrio e alle sue brusche riprese di quota; erano il segreto che l’aveva portato, in quei quattro anni, in vetta alle scommesse di corse clandestine di auto volanti babbane incantate. E anche in cima alla lista delle persone sgradite al Ministero.
Uno schianto a pochi metri da lui lo informò che uno degli altri concorrenti si era abbattuto contro un albero.
Meno uno, pensò soddisfatto.
Poi non pensò più, e rivolse occhi, sensi e mente al labirinto di rami e tronchi davanti a lui. Niente di problematico: ne aveva viste di peggio, giocando a Quidditch. Sebbene a Quidditch non fosse mai stato assalito dalla sensazione di brivido e di esaltazione che lo invadeva durante le corse di auto; era la sensazione del rischio, la sensazione del proibito; e, Merlino!, quanto la amava.
Poi accadde qualcosa.
Un lampo rosso in mezzo ai rami alla sua sinistra.
Si arrischiò a distogliere lo sguardo per mezzo secondo dalla strada e li vide: uomini, molti uomini a cavallo di scope; e avevano mantelli neri ben riconoscibili.
Dannazione.
Virò all’improvviso a destra e si gettò in una macchia di abeti sperando di seminarli; spense i fanali: non ci avrebbe visto nulla, ma almeno non si sarebbe fatto individuare da decine di metri di distanza.
Auror.
Dovevano aver scoperto la corsa clandestina. Chissà chi aveva fatto loro la soffiata.
Sbuffò, poi sogghignò di nuovo. Ora vediamo quanto siete bravi su quelle scope da quattro soldi.
Si appiattì ancora di più al terreno, rallentando, e premette il pulsante dell’invisibilità. Ora volava rasoterra, lentamente, guardandosi intorno circospetto.
Nessuno.
Forse li aveva…
Non finì di pensare che un lampo rosso saettò nel buio della foresta e il finestrino posteriore dell’auto s’infranse in mille schegge.
Irritato, fece accelerare di nuovo la macchina con un sobbalzo e tornò a guizzare tra i rami. Non era facile guidare al buio, ed era ancora meno facile quando avevi un Auror su una scopa che persisteva a rimanere visibile nel tuo specchietto retrovisore.
Ma non si era ancora stancato di seguirlo?
Svoltò all’improvviso, poi ancora, e per un pelo evitò un grosso ramo di quercia. Il successivo, invece, gli portò via la parte superiore del tetto di tela.
E tanti saluti all’invisibilità.
 Forse prima avrebbe dovuto spegnere la macchina: l’Auror probabilmente l’aveva individuato per il ronzio del motore e adesso non dava cenno di rinunciare alla sua preda.
Premette l’acceleratore a fondo e finalmente vide nello specchietto l’inseguitore allontanarsi e poi sparire. Soddisfatto, riportò lo sguardo davanti a sé.
Tutto ciò che vide fu solo una solida parete di roccia.
Poi nulla.



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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Eccomi!
Ringrazio infinitamente chi ha recensito il primo capitolo; vi informo -malvagiamente xD- che il personaggio della corsa in auto non è in realtà la "sorpresa" che figura tra i personaggi di questa storia, o, almeno, non la maggiore ;)
Chiedo perdono in anticipo per eventuali ritardi di aggiornamento, dato che in questo periodo ho diversi impegni a tenermi lontana dal pc, ma cercherò di non farvi aspettare troppo.
Vi ringrazio anche per la fiducia che mi accordate: questa storia è la prima "non leggera" che scrivo, e spero che possa piacervi fino alla sua conclusione.
Buona lettura!
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Capitolo II





San Mungo, 26 agosto

«E’ lei il signor Roger Dominic Davies?»
Roger Dominic Davies rispose senza aprire gli occhi. «No.»
Silenzio.
Poi la stessa voce disse: «Signor Davies, la prego di non fare lo spiritoso. La sua situazione è già abbastanza difficile senza che lei cerchi di aggravarla ulteriormente.»
«Io non faccio lo spiritoso. Mi ha fatto una domanda e io le ho risposto» osservò tranquillo Roger, gli occhi ancora chiusi.
«Signor Davies, se lei nega la propria identità davanti a un legale e a un inviato ministeriale non fa altro che aggiungere alla già cospicua lista dei suoi reati anche l’accusa di falsa testimonianza.»
Roger si decise finalmente ad aprire uno degli occhi, e quello che vide non gli piacque. In piedi di fianco alla sua branda d’ospedale c’erano due uomini, uno giovane e uno più anziano.
Il primo, quello che gli stava parlando, aveva capelli color sabbia, un viso largo e squadrato e un mento dalla linea decisa. Gli sembrava di averlo già visto da qualche parte.
«Signor inviato del Ministero, se lei chiede la mia identità conoscendo già la risposta non fa altro che creare perplessità sulla sua già dubbia intelligenza.»
 L’uomo strinse le labbra ma si controllò. «L’inviato del Ministero non sono io, signore, ma il signor Cattermole.»
L’uomo più anziano, che Roger suppose fosse il signor Cattermole, si fece avanti. «Sono qui per sincerarmi della sua salute, signor Davies. E per concludere un accordo tra il Ministero e il suo avvocato.» E fece un cenno verso l’individuo più giovane.
Roger stavolta aprì tutt’e due gli occhi e si fece attento. «Il mio avvocato? Sarebbe lei?»
L’uomo più giovane annuì. «Mi chiamo Finnigan. Sono stato ingaggiato da sua madre.»
Roger si tirò su a sedere, irritato. «Mi sembra di avere superato la maggiore età da abbastanza anni per scegliermi un legale da solo.»
«Sì, signore» rispose Finnigan, irreprensibile. «Ma il fatto che lei sia stato in coma per circa una settimana e mezza ha spinto sua madre a prendere l’iniziativa. Se non l’avesse fatto, ora lei sarebbe immediatamente convocato davanti al Wizengamot Minore senza difesa.»
Roger inarcò le sopracciglia. «Mi sta forse dicendo che invece non sarà così?»
«Esattamente, signore» intervenne il signor Cattermole. «Grazie all’intermediazione del qui presente signor Finnigan siamo giunti a un compromesso. Io sono qui proprio per sincerarmi del fatto che lo accetterete. Dopotutto in questo periodo il Ministero ha già parecchio da fare senza processi per reati minori.»
Roger guardò da uno all’altro, sospettoso. «Mi credete davvero tanto sprovveduto da credervi così, sulla parola?»
Finnigan parve trovarla un’argomentazione sensata, perché lanciò un’occhiata al signor Cattermole e gli fece un cenno cortese verso la porta.
L’altro annuì. «La lascio solo con il suo legale, signor Davies. E le consiglio vivamente di ascoltarlo, perché è indubbiamente uno dei migliori avvocati che Londra abbia mai conosciuto.»
Uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle.
Roger tornò a squadrare Finnigan, diffidente. «Uno dei migliori, eh? Però non so ancora se migliore per i clienti o se per il Wizengamot.»
«Dicono per entrambi» affermò compostamente Finnigan.
«E’ un doppiogiochista?»
«Sono un avvocato, signore, che cerca di conciliare al meglio le due parti nel modo che mi suggerisce la coscienza.»
«Allora è un idealista» replicò Roger con un sorriso sprezzante. «Strano come negli ultimi anni gli idealisti siano volati in alto. Prima della Seconda Guerra Magica pareva che non fossero destinati a una fine così lieta.»
C’era da dire in onore di Finnigan che aveva una pazienza incrollabile. Infatti, invece di reagire o ribattere seccamente, prese una sedia e la avvicinò al letto di Roger.
«Le dispiace se mi siedo? E’ tutto il mattino che corro senza sosta, e sono piuttosto stanco.»
Roger non si degnò di rispondere, anche perché intuì che Finnigan si sarebbe seduto pure senza il suo permesso. «Sto cercando di capire dove l’ho già vista» rivelò, studiandolo con attenzione. «Era a Hogwarts, per caso?»
L’altro annuì. «Sì. Grifondoro, stessa classe di Harry Potter.» Nessuno aveva bisogno di altre spiegazioni.
Roger piegò la bocca in un ghigno. «Dovevo immaginarlo.»
«Bene. E ora, signor Davies, possiamo finalmente venire al dunque? Vorrei portare a termine il lavoro per cui sono qui.»
Roger appoggiò la schiena ai cuscini, rilassato. «Prego, sono tutt’orecchi.»
Finnigan sospirò. «Lei è sospettato di gravi infrazioni alle Leggi sull’Uso Improprio di Manufatti Babbani e di partecipazione ad attività clandestine quali corse su auto volanti, scommesse e gioco d’azzardo. Tuttavia gli Auror non l’hanno mai arrestata per mancanza di prove, fino alla notte del quindici agosto quando è stato colto in flagranza di reato.»
Roger gli fece cenno di continuare.
«Tuttavia non ci sono prove né testimoni per tutti gli altri sospetti su di lei. Il Ministero a questo punto sarebbe costretto ad aprire un’indagine approfondita ma, come ha detto Cattermole, hanno un bel da fare in questo periodo. Perciò mi sono incaricato di fare una sorta di… accordo.»
«Ha patteggiato con il Wizengamot?» chiese Roger, divertito.
«Non è propriamente corretto. Diciamo che il Ministero è disposto a lasciar cadere i sospetti e non indagare oltre, accontentandosi di farle scontare solo la pena minore per la corsa clandestina in cui è stato coinvolto il quindici agosto.»
«E di cosa si tratterebbe? Un soggiorno mensile ad Azkaban?»
«No. Sbatterla ad Azkaban richiederebbe un gran mucchio di scartoffie che per essere compilate hanno bisogno di aprire un’indagine, ed è proprio quello che vogliamo evitare. Perciò per lei si è scelta una… una sana attività di recupero.»
Roger staccò la schiena dai cuscini e si raddrizzò, il sogghigno scomparso tutto d’un colpo. «Che cosa?!»
Finnigan sorrise. «Attività di recupero. O volontariato, se preferisce.»
Roger fece una smorfia. «Volontariato? Signor Finnigan, le assicuro che non farei mai volontariamente niente che…»
«Forse non mi sono spiegato bene» lo interruppe pacatamente Finnigan. «Signor Davies, lei non deve fare nulla volontariamente. Lei deve farlo e basta. E’ l’unica possibilità che ha se non vuole finire dritto per sei mesi ad Azkaban, perché, glielo assicuro, se costringerà il Ministero ad aprire un’indagine, andranno fino in fondo. Non so di preciso cosa abbia fatto lei durante la Seconda Guerra Magica, ma se dovessero scoprire anche solo qualcosa di quel periodo, non saranno indulgenti. E’ una ferita ancora troppo recente perché le venga perdonato tutto così facilmente.»
Roger guardò negli occhi l’uomo che aveva davanti. «Che cosa sa del mio passato?» chiese, atono.
Finnigan sostenne severamente il suo sguardo. «Sono il suo avvocato, signore. Sapere è il mio mestiere. Dia retta a me: accetti.»
Roger strinse i denti e rimase in silenzio per un lungo istante. Poi, alla fine, con uno sforzo enorme annuì.
Finnigan parve sollevato. «Molto bene. Allora vado a chiamare il signor Cattermole; è lui che deve informarvi sulla vostra attività socialmente utile per i prossimi… diciamo otto mesi.»
«Otto mesi?!»
Finnigan sorrise, per la verità con un’ombra di sadismo nel volto, e gli diede le spalle per andare a riaprire la porta.
«Finnigan» lo bloccò Roger.
«Sì?»
«Lei era dell’ES, non è vero? L’esercito clandestino di minorenni a Hogwarts.»
L’uomo annuì. «Sì, e con questo?»
Roger fece un sorriso amareggiato. «E’ fortunato. Era già dalla parte giusta: non ha avuto la possibilità di sbagliare.»
L’altro inarcò un sopracciglio. «Lei sì, invece?»
Lui ricambiò lo sguardo, serio. «Se non l’avessi avuta, crede che sarei ridotto così?»
Finnigan lo guardò.
Roger aveva gli stessi lineamenti attraenti che facevano andare in estasi le ragazzine ai tempi di Hogwarts, ma la loro espressione era molto diversa dalla serena compiacenza di quegli anni. Aveva lo stesso corpo atletico e aitante, ma sotto il ginocchio destro non c’era più una gamba di carne, ma una di acciaio e ferro, saldata con la magia dieci giorni prima, dopo l’incidente in cui l’aveva persa. Aveva gli stessi occhi di quel grigio scuro tempestoso di una volta, ma la loro vitalità sembrava solo un ricordo lontano.
«No, forse no.»
Roger fece un sorriso che non aveva nulla di divertito. «Già. E ora è troppo tardi per chiederne una seconda, vero?»
Finnigan non rispose, ma sapevano entrambi che la risposta era affermativa.
Era troppo tardi, ora. O troppo presto. Forse un giorno il tempo avrebbe cancellato le ferite di quella guerra.
Ma per il momento nessuno lo poteva ancora dire con certezza.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Eccomi tornata!
Non mi soffermo troppo con le note dell'autore perché sono reduce di un viaggio di quattro ore e temo di poter scrivere cose molto incoerenti -sì, più del solito.-
Grazie come sempre a chi recensisce: i vostri commenti sono come dei bellissimi regali di Natale in anticipo ;)
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Capitolo III







Ilkley Moor, 6 settembre

Ilkley Moor.
Un diavolo di posto fuori dal mondo. O, perlomeno, fuori dal mondo in cui lui era sempre vissuto.
Rocce, sterpi e brughiera a non finire; ogni tanto capitava anche qualche escursionista Babbano nelle vicinanze, ma non si avvicinavano mai più di quanto lo permettessero gli incantesimi protettivi.
E poi c’era il cielo, che lassù la faceva da padrone.
Roger non ricordava di essersi mai accorto della sua immensità in tutta la sua vita, nemmeno quel lontano giorno in cui aveva gareggiato in una brughiera irlandese di Sligo. Probabilmente perché, concentrato solo sul traguardo, sull’auto e su se stesso, non ci aveva mai fatto caso.
Ora, però, seduto fuori da un grosso Magazzino di Disincantamento e Smaltimento Magico ad aspettare il carico, aveva tutto il tempo di badarci per bene. Dopotutto non c’erano tante altre alternative per distrarsi dall’attesa e, soprattutto, dalla sbobba terribile che gli avevano rifilato per pranzo e che giaceva nel cartoccio sulle sue ginocchia.
«Ehi, Gambarossa, stai battendo la fiacca?» ruggì qualcuno alle sue spalle, facendolo sobbalzare.
Roger si voltò. Dietro di lui c’era la porta di legno scuro incassata nel costone della montagna che costituiva l’ingresso del magazzino sotterraneo. E sulla porta c’era uno degli uomini più minacciosi e nerboruti che avesse mai avuto la sfortuna di conoscere.
«La mia pausa pranzo finisce tra dieci minuti, Armstrong» rispose Roger con cautela. Aveva imparato in fretta a non replicare con troppa supponenza a Ruben Armstrong, il capo di quel posto dimenticato dagli dei.
«Porta avanti il tuo orologio. La tua pausa è finita due minuti fa e giù di sotto c’è un mucchio di rottami da smaltire. Fila, qui ci penso io.»
Roger riteneva il suo orologio più che efficiente, ma obbedì immediatamente, gettando il resto del suo pranzo nel prato e lasciando il suo posto di vedetta all’altro.
Non gli piaceva stare lì fuori all’aperto a sentire il vento lambirgli seducente la pelle: gli ricordava le corse nei prati, le gare clandestine e, ancor più, i voli sulle scope; tutte cose che lui, ora, con una gamba artificiale, l’espulsione dalla lega di Quidditch e il fiato del Ministero sul collo avrebbe fatto meglio a dimenticare per un bel pezzo.
Otto maledetti, miserabili mesi di nulla, ecco cosa mi aspetta, pensò tra sé mentre varcava la soglia del magazzino e un’ondata di vapori fluorescenti lo investiva con violenza.
Si tappò la bocca, trattenendo un’imprecazione, e si alzò la sciarpa fino al naso. Era una delle prime regole che gli avevano insegnato appena entrato in quel posto da incubo.
«Se vuoi sopravvivere qui» aveva abbaiato Ruben il primo giorno, «vedi di coprirti il naso e la bocca e respirare meno che puoi. E non levarti gli occhiali. Se non obbedisci, ti accechi e muori per i vapori tossici, oppure muori lo stesso perché ti ho ammazzato io dopo averti trovato a faccia scoperta. Tutto chiaro?»
Cristallino, a parere di Roger. D’altro canto non aveva scelta: doveva passare in quel magazzino sepolto nel ventre di una montagna i successivi otto mesi della sua vita, e per sopravvivere non c’era da fare altro che obbedire.
Sospirò, si sistemò i grossi occhiali protettivi e si inoltrò nel corridoio che portava dritto dentro il magazzino.
O “inferno”, come lo chiamava lui.
Perché degli inferi quel posto aveva molto: a partire dall’ingresso, un cunicolo buio scavato nel fianco della montagna che portava dritto dritto al primo livello, una balconata circolare che ti permetteva di affacciarti giù, verso il secondo, più in basso di trenta metri.
Un elevatore faceva da tramite tra i due piani e permetteva di scendere di sotto, dove c’era il vero cuore del magazzino.
Era lì, infatti, che venivano ammucchiate auto incantate, utensili maledetti, meccanismi stregati, aggeggi Babbani di ogni tipo impregnati di magia illegale e altro ancora. Ed era lì che, grazie al Mastomantice, tutti quei mucchi di roba venivano lentamente disincantati.
Prima di entrare lì dentro Roger non sapeva quanto fosse complicato togliere incantesimi e fatture superiori allo standard elementare dagli oggetti incantati. Soprattutto quelli clandestini, spesso in origine semplici oggetti Babbani maledetti dai Mangiamorte e dai seguaci di Colui-che-non-deve-essere-nominato.
Il primo giorno Ruben gli aveva fatto vedere il Mastomantice, un’enorme caldaia di fuoco magico in cui, un po’ alla volta, gettavano auto, utensili e tutto il resto, che poi bruciavano insieme alla magia di cui erano impregnati.
Era un processo che richiedeva un ammasso di sudore, di vapori velenosi, di scintille pericolose e, soprattutto, un assordante pulsare lento e continuo del mantice che comprendeva il corpo principale di quell’enorme marchingegno.
Ruben era già stato così gentile da avvisare Roger che probabilmente otto mesi sarebbero stati più che sufficienti a renderlo se non rintronato, perlomeno mezzo sordo per il resto della sua vita.
Che importa? Sono sette anni che non ho un futuro davanti, quindi perché dovrei preoccuparmi adesso di come sarò ridotto tra otto mesi?, si disse Roger azionando l’elevatore per scendere al Mastomantice a fare l’ingrato lavoro che gli era stato assegnato. E chi mi dice che dopo questi otto mesi non mi costringeranno a restarmene rinchiuso qui altri otto? O per tutta la vita?
L’elevatore giunse al livello inferiore con un cigolio sinistro e Roger uscì ancora immerso nei suoi pensieri.
Forse avrebbe dovuto rifiutare l’offerta di Finnigan e del Ministero, e lasciare che aprissero un’indagine su di lui. Ma, come aveva detto lo stesso Finnigan, la Seconda Guerra Magica era una ferita ancora aperta, e non sarebbero stati indulgenti su certi suoi trascorsi. No, piuttosto che un ergastolo esemplare ad Azkaban preferiva un meno esemplare periodo indefinito di “volontariato” in quel posto infernale.
«Attento al cavo» esclamò una voce femminile, distogliendolo di colpo dalle sue meditazioni.
Roger scavalcò un lungo filo nero teso a mezz’aria appena in tempo per evitare un clamoroso capitombolo con la faccia a terra. Sorpreso, alzò lo sguardo e incrociò un paio di occhi nascosti dietro grossi occhiali protettivi.
«Ah, sei tu» commentò lui, allargando la faccia in un sorriso che rimase sotto la sciarpa. «Allora sai anche parlare, eh?»
La persona che gli stava di fronte sbuffò.
Roger l’aveva conosciuta il primo giorno di lavoro: era l’unica altra presenza umana là sotto oltre a Ruben –se umano si potesse definire quel colosso nero- e ci aveva messo qualche ora a capire che sotto la sua tuta da lavoro c’era una ragazza. Non aveva idea di come si chiamasse perché Ruben aveva il vizio di rinominare tutti con dei nomignoli, lei compresa.
“Cub”, cucciolo, così l’aveva battezzata, ma Roger non aveva ancora capito se lo facesse perché era particolarmente minuta, particolarmente giovane o altro ancora.
In effetti aveva davvero capito poco di lei: non l’aveva mai vista in faccia perché aveva sempre una maledetta sciarpa color rame tirata su fino al naso e non si erano nemmeno mai rivolti la parola, nonostante lavorassero fianco a fianco da ormai una settimana.
Una volta aveva chiesto a Ruben come si chiamasse.
«Non provarci con lei, Gambarossa. Non voglio imbrogli amorosi nel mio magazzino. E poi non hai speranze.»
Quella frase, unita al colore biondo scuro dei ricci della donna e vaghe forme femminili sotto i suoi abiti che Roger aveva individuato nella traballante luce rossa delle lampade del magazzino, era bastata a instillargli una curiosità per nulla disinteressata.
«Ti è sparita di nuovo la lingua?» insisté seguendo la donna che gli aveva voltato le spalle e si stava dirigendo decisa verso il Mastomantice.
«Io per lavorare uso le braccia, Davies, non la lingua. E se non vuoi che Ben cominci a perdere la pazienza, ti consiglio di fare altrettanto.»
«Wow, siamo passati da tre parole a una frase intera» replicò affabilmente Roger. «Di questo passo rischiamo di uscire insieme domani o dopodomani.»
Lei non rispose, limitandosi a lanciargli un’occhiataccia.
Tutt’altro che scoraggiato, Roger continuò a starle appiccicato anche mentre lei apriva lo sportello del Mastomantice e buttava dentro un po’ di carbone per il Fuoco Draconiano che bruciava dentro la fornace.
«Dai, non vuoi dirmi nemmeno il tuo nome?»
«Perché dovrei?»
«Perché tu conosci il mio» replicò lui, facendosi serio. «E io invece no. Non mi sembra molto equo.»
Lei parve disorientata per un attimo. «Come sai che conosco il tuo nome?»
«Mi hai chiamato “Davies” due secondi fa.»
Lei indietreggiò di un passo, cercando di mettere tra loro una distanza che le concedesse di guardarlo negli occhi senza inclinare indietro tutta la testa. La differenza di altezze tra loro era piuttosto marcata.
«Ben ti ha chiamato così…»
«Armstrong non mi ha chiamato per nome nemmeno una volta» la interruppe lui subito. «Da quando sono qui si è rivolto a me sempre e solo con “Gambarossa”» e fece una smorfia accennando alla propria gamba metallica color bronzo. «Comunque non dubito che tu l’abbia saputo da lui, dato che è l’unico a conoscerlo nei dintorni. E poiché non mi sembrava il tipo a cui piace chiacchierare dei dati anagrafici dei suoi sottoposti», le si avvicinò, studiandola, «significa che t’interesso così tanto che glielo sei andata a chiedere…»
«Io non gli ho chiesto proprio niente!» esclamò lei, facendo un gesto stizzito con una mano. «Non sono come te, Gambarossa: non ho bisogno che qualcuno ci stia con me per dimostrare a me stessa e al mondo che anche se ho perso una gamba non sono ancora un rottame da buttare via.»
Roger si pietrificò.
L’aveva detto. Quella donna aveva appena detto ad alta voce ciò che da giorni e giorni Roger covava nel cuore; ciò che non era ancora stato capace di ammettere con se stesso: di essere, ora, nient’altro che un rottame; una carcassa malconcia e incapace di volare, destinata solo ad arrugginire e sbriciolarsi nel tempo; a diventare la polvere di ciò che era un tempo.
La verità di quelle parole lo soverchiò; una verità a cui non riusciva a rassegnarsi.
E’ veramente a questo che sono arrivato? E’ tutto qui ciò che sono diventato?

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV




Ilkley Moor, 6 settembre

«Non vuoi dirmi nemmeno il tuo nome?»
Lo conosci già
, si ritrovò a pensare con amarezza, le mani strette ai bordi del lavabo davanti a sé, gli occhi fissi nel suo riflesso. Tu non lo ricordi, ma una volta ero una delle molte ragazzine innamorate di te.
Era stato tanto tempo prima, il giorno stesso in cui si era distrutta il futuro da sola, con le sue stesse mani.
Allora era ancora una ragazza come tante. Una studentessa di Hogwarts, intelligente, carina, piena di amiche.
Serena. Felice.
Ricordava tuttora la lunga attesa davanti a quella porta di quercia, preda dell’indecisione. Ricordava le proprie dita scivolare nervose a distendere le pieghe della sua gonna. Una, due, mille volte. I secondi che si trascinavano come gocce di pioggia che scivolano sul vetro, restie a scorrere via.
Probabilmente, se lui non fosse stato lì proprio in quel momento, lei l’avrebbe dimenticato, obliato tra le altre cotte giovanili. Un po’ come aveva dimenticato il resto della sua felicità perduta, quella felicità che dopo quel giorno non era più tornata.
Ricordava di essere stata in piedi in quel corridoio così tanto tempo da sentire le gambe formicolare. E poi, a un tratto, lui era passato, solo. Si era voltato distrattamente a guardarla, senza attenzione, però c’era qualcosa nel volto di lei che l’aveva fatto fermare e gli aveva fatto dire qualcosa che lei non aveva capito.
Poi se n’era andato.
Era stato l’ultimo a vederla in volto prima che la sua condanna si adempisse, prima che la sua vita fosse marchiata per sempre.
E ritrovarselo davanti ora era come vedersi spalancare una porta su un passato a cui non poteva tornare, come riaprire una ferita che si stava rimarginando, un’ustione troppo profonda che ricominciava a bruciare.
Respirò a fondo, cercando di pensare a qualcosa d’altro, qualsiasi cosa.
E fu in quel momento che sentì la porta dello stanzino aprirsi violentemente dietro di lei.
«E’ andato. Puoi anche levarti la sciarpa.»
Lei alzò gli occhi e nello specchio, alle sue spalle, vide Ruben ricoperto di fuliggine e sudore che si toglieva la camicia e recuperava dei vestiti puliti.
Lì al Magazzino non c’era abbastanza spazio da creare spogliatoi o bagni divisi tra uomini e donne, e nessuno ne aveva mai nemmeno sentito il bisogno. Ruben non si era mai fatto problemi a cambiarsi di fronte a lei, né lei s’era mai vergognata di farlo davanti a lui.
D’altronde Ruben Armstrong era colui che l’aveva rivestita di dignità quando, tre anni prima, lei si era strappata via ogni certezza, denudando la propria anima disperata. Che cosa poteva contare il corpo se ormai l’aveva vista così in profondità nel suo spirito?
Ma ora che era arrivato Davies… beh, ora era tutta un’altra storia.
Ora non poteva più spogliarsi appena aveva finito di lavorare. Non poteva più scoprirsi il volto appena si lasciava i vapori tossici alle spalle. Non poteva più lasciarsi vedere; non da chi poteva riconoscerla.
«E’ arrivato due ore fa un nuovo carico di auto. Domani ci sarà da sgobbare» disse asciutto Ruben, distogliendola dai suoi pensieri.
Lei non rispose, andando a sedersi sulla panca vicino a lui. Si tolse la sciarpa lentamente e la posò sulle ginocchia, abbassando gli occhi vacui sulla copia della Gazzetta del Profeta che Ruben aveva abbandonato lì accanto.
Nuove ispezioni del Ministero per scovare gli artefatti oscuri” lesse sulla prima pagina. Sul trafiletto di fianco c’era un servizio sui nuovi prototipi di calderoni disponibili a Diagon Alley. In un angolo una famosa cantante rock appena salita alla ribalta le sorrideva da una foto.
Lei ricambiò lo sguardo, inespressiva.
Credi che basti un bel viso per essere felice? Credi che basti una bella voce o buone conoscenze per restare dove sei? Sciocca. Ti accorgerai anche tu prima o poi che la vita si prende sempre più di ciò che ti dà, fino a prosciugarti, riducendoti a nient’altro che cenere.
Serrò la sciarpa tra i pugni, cercando si scacciare il senso di oppressione che la stava per soffocare.
Una pacca dolorosa su una spalla la fece sussultare.
Sollevò il capo e si ritrovò a pochi centimetri il torace robusto di Ruben.
«Allora, che fai lì impalata? Te ne torni a casa o devo aspettare i tuoi comodi per chiudere la baracca?»
Lei si alzò di scatto e si affrettò a uscire. Ruben la seguì, chiudendosi alle spalle prima la porta dello stanzino che dava sul corridoio d’ingresso al magazzino e poi il portone incassato nel costone di roccia.
«Ci vediamo domani» lo salutò atona lei.
Ruben grugnì in risposta, tirando il catenaccio per assicurarsi che fosse chiuso.
Lei stava già per voltargli le spalle e incamminarsi, ma lui la richiamò all’improvviso.
«Cub.»
«Sì?» fece lei, senza guardarlo in faccia.
«Gambarossa ci ha provato con te, oggi?»
Lei soppresse a stento un moto di sorpresa. «Perché?» chiese dopo un attimo di esitazione.
«Perché se non fa come dico io, lo sbatto fuori all’istante.»
Lei scosse il capo lentamente. «Non mi dà fastidio. E’ solo un’idiota come un altro.»
Silenzio.
Poi un odore penetrante le raggiunse le narici, e seppe che Ben s’era acceso un sigaro.
«Invece mi sembrava un po’ diverso dagli altri. Per te, almeno.»
Passarono diversi secondi prima che lei fosse in grado di rispondere. «E’ un idiota come un altro. Cambia solo il fatto che lo conoscevo in passato. Tutto qui.»
Ben non replicò e la oltrepassò, una rozza figura nero carbone ritagliata contro il cielo plumbeo della sera.
«E’ questo che mi preoccupa» disse un attimo prima di Smaterializzarsi. «Il tuo maledetto passato, Cub.»

*

Era solo l’inizio di settembre e, nonostante la pioggia caduta nella settimana precedente, non faceva ancora abbastanza freddo da costringere gli abitanti di Silsden a chiudersi in casa e accendere il riscaldamento –o, nel caso dei Maghi, il camino.-
Lei sedeva sui gradini di legno, fuori dalla porta d’ingresso.
La piccola casa dove abitava era circondata da prati fangosi e costeggiata da un filare di olmi a est. Era proprio su quel lato che dava l’ingresso, ed era anche il suo lato preferito: da lì era possibile vedere innalzarsi la cima di Ilkley Moor.
Quella montagna non era solo lavoro, per lei, era anche tutto il resto.
Nel suo profilo tozzo trovava la forza di andare avanti, nelle sue viscere ogni giorno si sentiva di nuovo viva, nel calore dell’enorme fornace dentro di essa trovava lo scopo di vivere e nel saluto di Ruben ogni mattina e ogni sera sentiva di avere ancora un contatto, ancora una possibilità con il resto del mondo.
O forse era solo una sua illusione.
Forse non c’era nessun’altra possibilità.
Forse, anche se ora aveva cancellato il marchio della sua colpa, non poteva ancora essere perdonata.
Avrebbe potuto scoprirlo in ogni momento, abbandonando quel posto e tornando a vivere tra gli altri, tra la gente. Ma era una vigliacca, e non aveva il coraggio di lasciare un nido sicuro per rincorrere quello che poteva essere solo un folle miraggio.
La verità era che continuava a credere che la vergogna l’avesse contaminata troppo nel profondo perché il fuoco potesse averla di nuovo purificata.
Si passò una mano sul viso, sospirando.
Il fuoco. E quel dolore così forte che per un momento aveva pensato di impazzire del tutto. Se non lo aveva già fatto.
No, probabilmente non era bastato nemmeno quello a cancellare il suo crimine. E l’arrivo di Davies non faceva altro che confermarle quanto la vita, schernendola, volesse ricordarle di essere colpevole. Per sempre.



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Ed eccomi di nuovo qui. Spero che questo capitolo sia stato piacevole, sebbene piuttosto pesante dato che è quasi tutto basato sui pensieri di un personaggio sconosciuto e -lo ammetto- particolarmente depresso. Chi ha già indovinato chi è ha la mia stima più viva e chi non lo sa ancora ha la mia comprensione: considerato su quali personaggi scrivo di solito, è difficile capire di chi si tratta anche quando chiarisco nome, cognome, albero genealogico, indirizzo e numero di telefono XD
Come sempre, grazie a tutti i lettori *-*

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Stasera sono di nuovo di fretta; no, ecco, diciamo che ultimamente sono sempre di fretta, ma non credo vi importi molto. Ringrazio al volo e con tutto il calore che posso dare in questo gelo polare tutte le persone che hanno letto e recensito.
Buona lettura!
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Capitolo V




Ilkley Moor, 24 settembre

I giorni sono come le foglie d’autunno: alcuni muoiono languidamente, uno ad uno, depositandosi placidi ai piedi dell’albero della vita, altri vengono strappati via con forza dai loro rami e sospinti in luoghi lontani, impensabili.
Fino a quel momento Roger era stato sicuro di preferire i secondi. Il rischio, l’imprevisto, l’ignoto, tutto ciò che stava fuori dai limiti della massa comune, degli altri: questo era ciò di cui lui era sempre vissuto e che aveva sempre desiderato.
Un’esistenza comune, una lunga serie di giorni che si rincorrono tutti uguali l’uno all’altro non gli si addicevano.
Anche se fosse andata diversamente, anche se non fosse mai entrato nel mondo della clandestinità, Roger era certo che non avrebbe comunque mai accettato di vivere inerte, passivo.

Ora, però, era diverso.
Era sepolto vivo ormai da venti giorni in quell’inferno di rottami, tenui luci rosse e scintille crepitanti. La mattina inseguiva la sera e la sera la mattina in una frenesia senza tregue, e quando lo realizzò, guardandosi il viso allo specchio quel mattino, rimase sbalordito da come quell’unico mese che lo separava dalla sua vita clandestina pareva essersi dilatato tanto da sembrare un’eternità.
«E’ così che vivono tutti gli altri? Tutti quelli che non hanno mai trasgredito? Che non hanno niente da farsi perdonare?» si chiese ad alta voce, esplorando con lo sguardo le rughe del suo riflesso. Rughe che un mese prima gli sarebbero sembrate solo le tracce delle intemperie e della sregolatezza, un marchio da esibire con orgoglio, ma in cui ora non poteva fare altro che leggere gli insulti che il passato gli rivolgeva.
«Se tu fossi uno di coloro che non hanno niente da farsi perdonare non saresti qui» gli rispose in un mormorio una voce ovattata.
Roger spostò lo sguardo nello specchio e individuò la figura dal volto coperto dalla sciarpa che era entrata nello spogliatoio dietro di lui.
Le sorrise. «Questo è vero.» Si voltò per guardarla di fronte. «E tu cos’hai da farti perdonare per essere qui?»
Lei scrollò le spalle e si sedette su una panca per infilare gli stivali da lavoro. Roger indugiò un attimo, poi si sedette di fianco a lei raccogliendo una vecchia copia della Gazzetta del Profeta da terra.
S’immerse in un articolo che narrava con minuzia di particolari la caccia serrata del Ministero agli oggetti oscuri nelle case delle ultime grandi famiglie Purosangue sospettate di essere state in combutta con Colui-che-non-deve-essere-nominato durante la guerra e rise tra sé del ridicolo di tutta quella faccenda.
Come se fosse stato solo lui la radice di quella guerra. Come se chi si fosse unito a lui lo avesse fatto solo per il potere, solo per la corruzione.
Menzogne, solo menzogne. Menzogne per dimenticare, per nascondere la realtà e le sue vergogne; per nascondere che prima della salita al potere di Colui-che-non-deve-essere-nominato, il Ministero non era perfetto come si credeva e già allora c’erano centinaia di maghi che trafficavano oggetti oscuri, e altre centinaia che si dedicavano alle Arti Oscure, o al commercio clandestino, o altro ancora.
E’ facile addossare tutto a un solo capro espiatorio, meditò, cupo. Una volta eliminato, chi rimane a dimostrare che non tutte le colpe erano sue? Chi rimane a testimoniare contro gli altri colpevoli ancora vivi e assolti da ogni condanna?
«Scusa.»
Roger alzò lo sguardo, sorpreso. Cub lo stava fronteggiando.
«Come?»
«Scusa per quello che ti ho detto un po’ di giorni fa sulla tua gamba. Non volevo essere così dura.»
Dire che Roger era sbigottito era un eufemismo. Di più, era sconvolto: in quei giorni i loro rapporti erano leggermente migliorati –inevitabile quando si lavora fianco a fianco con la stessa persona per ore e ore sepolto sotto una montagna- ma non credeva tanto da indurla a un gesto come quello.
Dato che non le rispose nulla, lei scosse il capo. «Be’, se sei ancora offeso non posso farci niente.»
«No, non sono offeso» la interruppe Roger, alzandosi dalla panca con un sospiro. «Hai solo detto la verità.»
«Io non intendevo…»
«Intendevi eccome, invece» ribatté lui. «Dopotutto non credo che si possa mantenere a lungo qualsiasi forma di tatto lavorando per tanto tempo con Ruben.»
Il sorriso di lei era nascosto sotto la sciarpa, ma Roger lo avvertì lo stesso nella sua voce e nel modo in cui si mossero le sue sopracciglia. «Dici?»
«Oh, sì. Credimi, persino un unicorno sotto la sua influenza assumerebbe la grazia di uno Schiopodo Sparacoda.»
«Li avevo dimenticati, gli Schiopodi» fece lei, lasciandosi sfuggire una risata cristallina.
Roger aggrottò le sopracciglia. «Allora c’eri anche tu a Hogwarts quell’anno, eh?»
Lei smise di ridere di botto.
Roger le sorrise suadente. «Sentivo che non potevi avere tanti anni meno o più di me.»
Lei alzò una mano tremante, come se lo volesse colpire. Poi la riabbassò di colpo, gli diede le spalle e uscì dalla stanza in fretta.
Roger rimase a fissare la porta per qualche secondo, poi ripiombò pesantemente sulla panca.
Bene, perfetto.
Aveva appena scoperto che la ragazza era una sua potenziale vecchia conoscenza scolastica; un’arma che poteva rivelarsi a doppio taglio, per lui, sempre che avesse avuto l’occasione di usarla per penetrare ancora di più nella cortina di mistero che la avvolgeva; ora come ora non ne era così sicuro: anzi, era più propenso a credere che sarebbe stato ancora più difficile scoprire di più dopo averla raggirata così facilmente.
Ma avrebbe insistito. Se c’era anche solo una cosa che gli era rimasta del vecchio Davies, era la sua ostinazione. E quando qualcosa lo intrigava, Roger sapeva essere davvero molto ostinato.

*

Il Fuoco Draconiano che alimentava il Mastomantice era l’unico tipo di fiamma –oltre all’Ardemonio, che però era illegale- in grado di annientare qualsiasi tipo di magia o incantesimo ed era anche tanto raro e difficile da creare che i suoi Artefici erano pagati a peso d’oro. Per questo motivo i Magazzini di Disincantamento non potevano permettersi di chiamarne uno ogni mattina per riaccendere la fornace e dovevano tenere sempre accesa almeno una fiammella con cui rimettere in funzione il Mastomantice ogni volta.
E sempre per questo motivo a Roger toccava l’ingrato compito di scendere fino al Mastomantice ogni mattina, togliere lo smorzacandele dalla fiamma custodita nel ventre della caldaia e riaccendere il fuoco.
E ogni sera, sempre a Roger era affidato l’incarico di raccogliere dal Fuoco Draconiano la fiamma per il giorno successivo, spegnere la caldaia e ripulirla da cima a fondo.
Era un lavoro orribile da svolgere per il semplice fatto che quel fuoco, oltre a emanare un calore infernale, aveva anche un odore che sembrava un misto di zolfo e carbone bruciato che si appiccicava addosso a chiunque e qualunque cosa nel raggio di dieci metri.
Quella mattina Roger aveva ancora meno voglia di attendere alla sua ingrata mansione. Stava ancora sbadigliando frugandosi le tasche in cerca delle chiavi per aprire lo sportello della caldaia quando notò qualcosa di strano. Si chinò e guardò meglio il catenaccio dello sportello che di solito era lui a chiudere la sera. Era aperto.
Roger trattenne un’imprecazione a stento. Com’era possibile? Era certo di aver chiuso bene, la sera prima.
Come se fosse in grado di leggerle nel pensiero, una voce disse: «A Ruben non importerà sapere se sei sicuro o no. Se lo verrà a sapere, ti staccherà la testa dal collo a mani nude.»
Roger si voltò di scatto, furioso. «Sei stata tu?!»
Lei lo fissò da dietro gli occhiali spessi. «Io? E perché dovrei? Ho di meglio da fare che infastidire chi lavora qui dentro.»
«Se lo hai fatto solo perché prima ti sei offesa…»
«Io non ho fatto niente!» sbottò lei. «Smettila di accusarmi di cose che non stanno né in cielo né in terra. Ti sei semplicemente dimenticato di chiudere ieri sera. E ora» aggiunse, spiccia, «ti conviene accendere in fretta quella caldaia, prima che arrivi Ruben e si accorga che l’hai lasciata aperta.»
Roger aggrottò la fronte. «Significa che non glielo andrai a dire?»
«Te l’ho detto» rispose lei, voltandogli le spalle. «Non sono come te.»
Ma qualcosa, nel tono in cui lo disse, gridò silenziosamente che quella era solo una menzogna. Che erano molto più simili di quanto entrambi avessero creduto.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Buongiorno ^-^
Finalmente vi scrivo con più calma e posso dilungarmi in dissertazioni inutili sul fatto che qui abbia piovuto e non ci sia più neve, che sia già la Vigilia e come io non avessi ancora nemmeno realizzato che fosse cominciato l'Avvento.
No, d'accordo, non vi annoierò. Però dato che domani è Natale, siamo tutti più buoni e io non ho niente da regalarvi tranne ciò che scrivo, oggi vi rifilerò due capitoli: offerta prendi due, paghi uno xD
E voi che siete più buoni e non avete mai parlato, avete voglia di lasciarmi un commentino o siete troppo impegnati a riempirvi di panettone e biscotti come farà domani la sottoscritta?
Nel primo caso, grazie veramente, nel secondo caso, buon appetito xD
E, ovviamente e con affetto, buon Natale!
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Capitolo VI




Ilkley Moor, 30 settembre

«Battiamo la fiacca, eh?»
Lei trasalì e si alzò la sciarpa fino al naso in un impulso spontaneo, schermandosi dalla luce del sole.
«Stavo pranzando» disse risentita, voltandosi a fronteggiare Roger che le si era avvicinato da dietro di soppiatto. «Che cosa vuoi?»
Lui alzò il cartoccio che teneva in una mano, serio. «Ero venuto a farti compagnia durante il pranzo. Ma se ti dà tanto fastidio, me ne torno dentro.»
Lei si morse un labbro, trattenendosi all’ultimo momento dall’esclamare: “No, resta!”
«Non mi dai fastidio» disse invece, fredda. «Tanto questo prato è di tutti.»
Roger sorrise e si sedette accanto a lei a gambe incrociate. «Quando arriva il prossimo carico?»
«Tra mezz’ora, credo. Ruben arriverà tra un’ora, quindi dovremo portarlo dentro noi.»
«Quindi ora siamo solo noi due?» fece Roger, lanciandole un’occhiata maliziosa.
Lei si sentì rizzare i capelli sulla nuca: era da anni che non vedeva più un’occhiata del genere, soprattutto erano anni che non ne veniva rivolta una proprio a lei.
Roger non diede segno di essersi accorto di averla turbata: aprì il cartoccio che aveva posato in grembo e fece una smorfia così disgustata quando ne vide il contenuto che lei non riuscì a non scoppiare a ridere.
«Ti assicuro che non c’è niente di divertente» disse lui, serio. «Vuoi assaggiare questo schifo?»
Lei si affrettò a scuotere il capo. «No, grazie, non ho più fame.»
A Roger s’illuminarono gli occhi a quell’affermazione.
Lei seguì il suo sguardo rapace e vide che stava fissando avidamente l’incarto dei panini sulle proprie ginocchia.
«Me ne sono avanzati due. Ne vuoi…» Non fece in tempo a concludere la frase che lui aveva già accettato, allungando la mano.
La scena le evocò un ricordo lontano; un pomeriggio di sole come quello, sulle rive del lago di Hogwarts verso la fine di maggio. Un Roger giovane, aitante e nel pieno delle sue forze era seduto poco lontano da lei e si lamentava di avere fame. Lei si era alzata, gli si era avvicinata e gli aveva chiesto se volesse il suo panino perché non aveva più fame. Il ragazzo aveva accettato prima ancora che lei avesse formulato la domanda.
E se si ricordasse anche lui?, si chiese improvvisamente, e la sua mano, che gli stava già tendendo l’incarto, si ritrasse istintivamente.
Roger fece un’espressione sorpresa. «Che c’è, hai cambiato idea?»
«Ah… no, tieni, mangia.» Gli passò i panini in malo modo e si alzò di scatto, allontanandosi.
«Ehi, sei sicura di non volerne ancora?» le urlò dietro lui.
«No!» rispose lei ad alta voce.
Stava per varcare l’ingresso del magazzino quando si sentì tirare per una manica. Si girò e vide Roger che l’aveva seguita con i panini in mano.
«Che cosa c’è?» chiese, spaventata. Ti prego, fa che non si sia ricordato. Che non si sia reso conto…
Roger le sorrise. «Grazie.»
E la lasciò lì, sulla porta, tornando nel prato.
E i ricordi si riversarono su di lei come cascate di luce che si gettano in una notte grigia.
Roger nella sua divisa di Hogwarts che le sorride e le dice: “Grazie.”
Lei che nei suoi ingenui quattordici anni non può che perdersi nel sorriso di lui, nel suo modo di arricciare il naso quando poi ride con i suoi amici, dimenticandosi subito di lei, troppo popolare per prestarle ancora attenzione; troppo spensierato per accorgersi dei suoi sentimenti; o forse troppo indifferente a lei.
Roger era ancora quello di una volta: sorrideva e rideva allo stesso modo. E, allo stesso modo, faceva ancora parte di un mondo che lei non avrebbe mai raggiunto.

*

«Perché prepari così tanti panini, ultimamente?» chiese curiosa la sua amica.
Lei scrollò le spalle. «Ho molta fame.»
L’altra si accigliò, fissandola con uno sguardo indagatore, come se dubitasse delle sue parole. «Non sei incinta, vero?»
«Ma che diavolo stai dicendo?» sbottò lei, irritata. «E di chi, secondo te?»
«Non so; forse Ruben. O quello che è arrivato al Magazzino un mese fa; non me ne hai ancora parlato, tra l’altro. Che tipo è?»
Lei rimase con la schiena rivolta all’amica, fingendo di sistemare l’insalata dentro uno dei panini.
Si trovavano nella piccola cucina a Silsden, l’una seduta sul divanetto, l’altra in piedi al bancone, intenta a incartare il pranzo per il giorno successivo.
«Oh, niente di speciale» disse, cercando di assumere un tono indifferente. «Un mezzo criminale come un altro. Non vedo l’ora che finisca il suo periodo di volontariato e se ne vada.»
«Chissà cosa spinge quella gente a fare la vita che fanno…» si chiese l’altra ad alta voce. «Correre su auto clandestine, rischiare ogni volta l’osso del collo e guadagnare pochi soldi e sempre più fama al Dipartimento degli Auror al Ministero… chi vorrebbe una vita così?»
Lei non rispose. Si era spesso chiesta negli ultimi giorni come Roger Davies avesse potuto ridursi a fare quello che faceva, ma non osava chiederglielo di persona, e ora come ora non riusciva a immaginare nessun motivo valido che potesse spingere un ragazzo di belle promesse come lui alla clandestinità.
Sapeva che dopo essersi diplomato a Hogwarts aveva avuto diverse offerte dalle squadre di Quidditch di tutto il paese. Possibile che le avesse rifiutate tutte nel nome di una vita sì movimentata, ma anche estremamente rischiosa –come dimostrava la gamba metallica che ora si ritrovava al posto di quella normale-?
O forse c’era qualcosa che l’aveva spinto, volente o nolente, su quella strada?
“E’ così che vivono tutti gli altri? Tutti quelli che non hanno mai trasgredito? Che non hanno niente da farsi perdonare?”
Così gli aveva sentito dire. Parlava del fatto di essere stato un pilota di corse clandestine o di qualcos’altro? Qualcosa di cui davvero non voleva parlare con nessuno?
«Non lo so» mormorò, più rivolta a se stessa che all’amica. «Non riesco a capire.»
«Be’, non è che abbia molta importanza, no? Tra qualche mese sparirà e ti lascerà di nuovo in pace, a disgregarti in quel pozzo buio pieno di veleno.»
La sua amica non aveva mai approvato il lavoro che faceva: odiava il magazzino di Ilkley Moor e odiava il fatto che lei non volesse saperne di andarsene da lì. E, ancora di più, la sua amica –l’aveva capito, anche se non glielo aveva mai confessato- odiava se stessa perché non era riuscita a starle accanto quando era calata nel baratro più oscuro della disperazione; perché non riusciva a farla rinascere, a farla tornare a quella che lei chiamava “vita normale”; e perché, nel profondo del suo cuore, era ancora convinta che fosse colpa sua.
«Preferisco il veleno del fuoco che quello della gente» rispose lei, indifferente. «E, che tu ci creda o no, mi piace quel posto. Mi piace come danzano le scintille che escono dalla caldaia, mi piacciono le fiamme e il calore che divampano incessanti e potentissime, più forti di qualsiasi sortilegio; e…»
«Sì, sì» disse la sua amica, scettica. «Ci manca solo che mi dici che ti piacciono anche Ruben e il criminale e siamo a posto.»
Lei non replicò. Ma dentro di sé una voce dichiarò senza paura: “Sì, mi piacciono anche loro.”

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Come promesso prima, eccovi il secondo capitolo di oggi ^-^
Nelle note del capitolo precedente ho copiato parte della mia lettera a Babbo Natale di quest'anno ("Caro Babbo Natale, vorrei qualche recensione da chi non ho mai sentito..."), in quelle di questo devo ringraziare chi mi ha fatto questo regalo in anticipo sul tempo *-* Grazie a voi, soprattutto a voi, che trovate il tempo di cliccare su quella ostica riga "Inserisci una recensione" e mi lasciate anche solo due parole per dirmi che vi siete divertiti almeno un pochino a leggerla; perché creare qualcosa da soli è divertente ma condividerlo è meraviglioso.
Perciò, semplicemente, grazie.
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Capitolo VII




Ilkley Moor, 15 ottobre

Se Finnigan, quando lo aveva portato laggiù, gli avesse detto quanto ci si sarebbe trovato bene nel giro di due mesi, Roger gli avrebbe sputato in faccia.
Eppure era così: Ilkley Moor era diventato un luogo molto più familiare di qualsiasi monolocale, stanza d’albergo o villetta in cui era vissuto negli ultimi anni. E Roger ci stava bene.
Ruben era minaccioso come sempre, ma ora le sue minacce avevano il sapore d’insulti scherzosi tra vecchi amici piuttosto che quello dei lividi su tutto il corpo. E sebbene Roger avesse trovato altre due volte la caldaia lasciata aperta, riuscì, con la complicità di Cub, a impedire che il loro capo nerboruto lo venisse a sapere.
Già, anche con Cub aveva fatto qualche passo avanti. Non era ancora riuscito a vederla in faccia, né a combinare niente di concreto con lei, ma i pranzi passati a chiacchierare insieme in attesa di carichi di oggetti da disincantare li avevano resi molto meno ostili di quanto non fossero all’inizio.
Roger avrebbe azzardato addirittura a dire “amici”, se non fosse stato che lei ancora sembrava completamente avversa all’idea di rivelargli almeno come si chiamasse.
Qualche indizio Roger l’aveva colto dai suoi movimenti, dal suo modo di parlare, tutte cose che gli sembravano familiari in qualche modo ma che non riusciva ad attribuire a una figura precisa.
Poi, un venerdì pomeriggio, quel teatro di bucolica serenità crollò.
Cominciò tutto dall’assenza di Ruben.
«Oggi starà al Ministero tutto il giorno. C’è una specie di assemblea di tutti i responsabili dei Magazzini di Disincantamento inglesi e irlandesi, e ne avranno fino a sera» aveva spiegato Cub quel pomeriggio.
«E il carico di oggi?»
«Non ce ne saranno: anche i trasportatori saranno all’assemblea. Dobbiamo solo finire di smaltire quello che ci avanza dagli altri giorni.»
«Allora non avanza niente. Ho già buttato tutto in caldaia stamattina, e mancano solo un paio di auto incantate a cui deve pensare Ruben domani» rivelò Roger, contrariato. Non aveva voglia di tornare a casa -un monolocale estremamente squallido nella periferia di Glasgow in cui non aveva altro da fare che fissare per tutto il week-end le mosche appese alla striscia adesiva che pendeva dal soffitto sopra il letto.-
«Allora possiamo tornare a casa anche subito» affermò lei, del tutto ignara dei desideri dell’altro.
Roger si guardò intorno sbuffando. Il magazzino era buio e particolarmente vuoto: il livello inferiore, quello in cui si trovavano in quel momento, era del tutto sgombro e c’erano solo le due auto per Ruben parcheggiate in un angolo.
«Se vuoi andare, penso io a spegnere il Mastomantice» lo rassicurò lei.
Roger, come fulminato, le afferrò una spalla. «Aspetta!»
Lei lo guardò, interrogativa.
«Che ne dici se, invece, non approfittassimo dell’assenza di Ruben per fare qualcosa di divertente?»
Lei gli scostò in fretta la mano dalla propria spalla e indietreggiò, guardinga. «Che cosa vuoi dire?»
Roger rise. «Niente di quello che hai appena pensato. Stavo solo pensando di fare un giro su una di quelle.» E indicò le due auto malconce.
Lei fece un moto di sorpresa. «Che cosa?»
«Ma sì!» disse lui, eccitato. «Oggi c’è nebbia su tutta la zona, non ci vedrà nessuno! Perché non approfittarne?»
«Tu sei pazzo!»
Roger le si avvicinò e la guardò negli occhi, serio. «Hai mai provato la sensazione di librarti in volo su un’auto? Di sentire il motore rombare al tuo comando? Di lanciarti nella corrente del vento e sentire l’acciaio delle porte scricchiolare?»
Lei aveva gli occhi spalancati sotto gli occhiali e lo guardava come se lo ritenesse pazzo. «Mi stai chiedendo se ho mai provato a suicidarmi?»
«Non è suicidio» affermò lui, sicuro di sé. «Anzi, il contrario, fidati.»
«E’ proprio questo il problema: non mi fido affatto di te.»

*

E tuttavia mezz’ora dopo erano entrambi a bordo della vecchia Citroen SM color ocra dalle maniglie arrugginite e lo sterzo capriccioso, nel prato in cima alla montagna.
«Non avrei dovuto accettare» bofonchiò lei sotto la sciarpa.
«E’ troppo tardi per brontolare» ridacchiò lui. «Pronta?»
«Posso essere sicura che alla fine della corsa non avrò qualche arto metallico al posto dell’originale?»
«Non preoccuparti» rispose lui, accendendo l’auto, concentrato. «Non posso sbagliare due volte di fila.»
Il motore fece un rumore che somigliava alla tosse di un vecchio malato, poi ingranò e partì, rombando.
«Via» mormorò Roger in un sussurro dolce, carezzevole, come quello di un amante a una donna. E forse era proprio così: la macchina era la sua donna, la sola che Roger voleva. L’unica.
Lei annuì, un groppo alla gola.
E partirono.
L’auto scattò in avanti lungo il prato della montagna, sferragliando e inciampando nei sassi lungo il pendio.
Per un terribile istante lei credette che non sarebbero riusciti ad alzarsi in volo. Poi Roger schiacciò un comando e l’auto si alzò lentamente. E all’improvviso furono in cielo e senza più terra sotto i piedi.
I primi istanti non osò guardare giù, temendo di non riuscire a trattenere il pranzo nello stomaco se l’avesse fatto. Poi sentì una mano stringersi al suo polso. Aprì gli occhi e trovò il sorriso di Roger.
«Avanti, guarda.»
Deglutì, poi obbedì e portò lo sguardo davanti a sé.
Il mondo è grigio, fu la prima cosa che pensò. Poi si rese conto che avevano oltrepassato lo strato di foschia e che davanti a loro si spalancava un universo di due colori: l’azzurro intenso del cielo terso sopra e il grigio metallico della nebbia sotto.
Era entrata nell’universo di Roger Davies.
Sentì qualcosa dentro di lei tremare e cercò di ricacciare le lacrime indietro. Che stupida che era! Perché doveva piangere proprio in quel momento? Non c’era niente di cui essere tristi, e nemmeno niente per abbastanza felici da piangere di gioia.
Eppure non riusciva a trattenersi; perché quello che aveva davanti era così bello che non poteva essere espresso a parole: solo le lacrime potevano raccontare il fascino di quello spettacolo, di quel momento.
«E’ bello, vero?»
Lei annuì.
«Ho cominciato a volare quand’ero molto piccolo» continuò lui, fissando davanti a sé l’orizzonte dei due colori che li circondavano. «Sono sempre stato arrogante, fin da bambino. E nella mia arroganza avevo deciso che avrei conquistato il cielo, perché era ciò che di più grande conoscevo.» Sorrise. «Di solito gli ambiziosi puntano al potere sulla Terra; nessuno vuole comandare il cielo, perché in cielo non c’è nulla che ti obbedisca. Eppure io non riuscivo a rinunciare a quell’idea.
«Poi, ovviamente, sono cresciuto, ho lasciato perdere l’idiozia del cielo e sono diventato una persona come le altre. Ma m’è sempre rimasta appiccicata addosso quella voglia pazza di volare, di gettarmi nel vuoto e sentire l’aria entrarmi nei polmoni e accarezzarmi la pelle.»
Lei si asciugò di nascosto gli occhi sotto le lenti scure degli occhiali.
«Non ti bastava semplicemente respirarla?» disse sarcastica, cercando di tenere un tono di voce che non tradisse l’emozione che provava in quel momento.
Lui spostò lo sguardo dal parabrezza a lei. «No, non mi bastava. L’ho detto, sono sempre stato arrogante. E presuntuoso.»
Lei non disse nulla. Non c’era niente da dire, lassù. C’era solo l’aria da respirare, il cielo da sentire. E un senso di pace che entrambi avevano dimenticato da troppo tempo.

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Rieccomi!
Allora, prima di tutto, grazie per i regali di Babbo Natale, sono felice di aver sentito qualcuno di voi. Vi siete abbuffati tutti per bene ieri? State ancora smaltendo il tacchino e il panettone farcito? Io sto scoppiando letteralmente di biscotti al cioccolato xD
Oggi vi posto un bel capitolo di svolta -sento eco di "finalmente" là in fondo o sbaglio?- e non aggiungo altro, altrimenti mi tolgo il gusto della sorpesa.
Buona lettura!
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Capitolo VIII




Ilkley Moor, 15 ottobre

Nessuno dei due avrebbe voluto tornare a terra, ma la benzina nel serbatoio finì fin troppo presto, e Roger, mezz’ora dopo, guidò abilmente l’auto dentro le porte del magazzino, fino al livello inferiore, al suo posto nell’angolo buio.
Spense il motore e di colpo le loro vite e i loro passati, così lontani e quasi dimenticati, tornarono a irretirli nelle loro spire. Gli ultimi tentacoli di pace e di esaltazione di quel volo scivolarono via da loro lentamente, e rimasero così, in silenzio nella penombra illuminata solo dai fari dell’auto ancora accesi.
«Roger?»
Lui si voltò a guardarla, sorpreso. «E’ la prima volta che ti sento chiamarmi per nome.»
Lei sospirò. «Non devo farlo?»
«Non ho detto questo.»
Lei lasciò passare un istante di silenzio prima di parlare di nuovo. «Perché ti sei messo a guidare le auto? Credevo che dopo Hogwarts ti saresti messo a giocare seriamente in qualche squadra di Quidditch…»
Roger rimase muto per qualche minuto, e lei ebbe il timore che stesse per insultarla o chiederle come sapesse così tante cose di lui. Se in quel momento le avesse chiesto il suo nome, non era del tutto certa di essere in grado di trattenersi ancora dal dirglielo…
«Perché» mormorò alla fine, così piano che lei stentò ad afferrare le sue parole, «mi hanno espulso dalla Lega del Quidditch quando è finita la guerra.»
Lei era sorpresa: non credeva che le avrebbe risposto davvero.
«Perché ti hanno espulso?»
«Per quello che ho fatto durante la guerra.» Roger fece una pausa, inspirando profondamente. «Non credo che tu lo voglia sapere.»
«E invece lo voglio sapere.»
«E’ una cosa che non sa quasi nessuno…»
«Io non sono nessuno.»
Roger la guardò e sorrise nella penombra. «Come preferisci, signorina Nessuno.» Si slacciò la cintura e inclinò il sedile all’indietro, mettendosi più comodo. «E’ successo dopo un anno che ero nella Lega. Ero una riserva nei Tornados: una gran bella posizione per uno appena uscito da Hogwarts con voti nemmeno troppo brillanti. Credo che una buona percentuale di ciò che influenzò gli allenatori a prendermi nei provini fu che fossi figlio di uno dei capi del Dipartimento degli Sport e dei Giochi Magici.»
«Vuoi dire…?» cominciò lei, ma lui la interruppe subito.
«Mia madre; già allora era una figura di grande rilievo al Ministero. Georgiana Taylor» aggiunse vedendo le sopracciglia di lei inarcarsi, dubbiose.
«Cosa? Tu sei figlio di…» fece lei sorpresa.
«Sì, sì» la interruppe lui, scocciato. «Ecco, diciamo che la tua reazione è quasi la stessa degli allenatori quando mi presentai ai provini. E ovviamente mi presero.»
Sbuffò, lasciando cadere la testa all’indietro –il poggiatesta del sedile mancava.-
«La mia carriera di giocatore cominciò come sarebbe continuata e poi finita: priva del rispetto di tutti quelli che erano arrivati alla squadra senza scorciatoie come si supponeva avessi fatto io, e con il disprezzo di gran parte dei tifosi.
«L’unico a trattarmi con un riguardo quasi amichevole era un ragazzo della mia età che non conoscevo, Babbano di nascita. Si chiamava Trevis.»
Lei spalancò la bocca.
«Vedo che cominci a capire» disse lui con una smorfia. «Trevis era pieno di talento: nemmeno se mi fossi allenato per dodici ore al giorno avrei potuto raggiungere i suoi livelli. Divenne titolare della squadra in pochissimi mesi. Sia lui che io eravamo Cacciatori.»
Sospirò e chiuse gli occhi. «Poi arrivò quella maledetta guerra e la caccia ai Mezzosangue. Verso il finire del mio primo anno nella Lega il Ministero promulgò l’editto che obbligava tutti i non Purosangue a presentare il proprio albero genealogico e i propri documenti di nascita.
«Ovviamente gli allenatori falsificarono le carte di Trevis pur di non perdere un giocatore con il suo talento; mia madre aiutò a sbrigare le pratiche. Tutti rimasero zitti, e finché fosse andata avanti così a Trevis non sarebbe stato torto un capello.»
Si zittì, e la tensione nell’auto divenne palpabile in quel silenzio.
«Puoi già immaginare cosa feci: Trevis era il mio unico ostacolo al ruolo di Cacciatore titolare. Era un Mezzosangue, e a me bastava lasciar trapelare per caso la verità a chi di dovere per vedermelo tolto di mezzo e avere finalmente la strada spianata.»
Si passò le mani sul viso. «E lo feci. Recitai la parte della spia, e vennero a prenderlo per portarlo via. Non lo rividi più e non so se sia ancora vivo o… o non lo sia più.»
Smise di parlare, e l’oscurità attorno a loro parve infittirsi, come se l’ombra della colpa di Roger si fosse liberata e ora aleggiasse intorno a loro, densa, torbida.
«Alla fine della guerra mia madre mi fece espellere perché se non fossi uscito subito, avrebbero fatto saltare fuori la verità in un modo molto più spiacevole e Azkaban non me l’avrebbe tolta nessuno. Dopo passai tre o quattro mesi allo sbando, senza un lavoro e senza la possibilità o le credenziali per procurarmene uno. Quando qualcuno mi propose le gare clandestine, mi sembrò di vedere uno spiraglio di luce nell’inferno in cui ero finito.»
«E fu così, dopotutto» disse dolcemente lei.
Lui si voltò, sorpreso. «Che cosa?»
«Per quanto sbagliato, ti ha dato la possibilità di andare avanti, no? E anche di tornare a volare, in qualche modo. Ti ha dato un futuro.»
Roger scrollò la testa. «Qualsiasi futuro possa esserci davanti a me, continuerà a morire nel mio passato. Non c’è via di fuga. Non c’è perdono.»
«Non è vero» mormorò lei. «Da qualche parte deve esserci. Il perdono, intendo.»
Roger la guardò intensamente. «Tu credi?»
«Non lo so. Vorrei che fosse così, ma…» Qualcosa di simile a una scheggia dolorosa le strozzò la voce e le impedì di proseguire.
Sì, avrebbe voluto che fosse così, che ci fosse qualche posto, in quel mondo, che lei avrebbe potuto sentire davvero come suo; sentirsi libera, innocente, senza colpa. Ma non l’aveva ancora trovato. Persino laggiù, sepolta sotto una montagna, la vita arrivava con il corpo e la voce di Roger a ricordarle che certe colpe non potevano essere perdonate.
«Non lo so nemmeno io» disse Roger in un sussurro. «E non mi interessa. Non ci penso mai.»
Lei lo guardò, fissa. «Preferisci dimenticare? Preferisci l’oblio?»
«Sì» ammise lui, allungando una mano e sfiorandole la fronte, l’unica parte del volto di lei scoperta.
«Ma come fai a dimenticare? Io ci ho provato, ma…» Il suo mormorio si perse negli occhi di lui.
Roger restò per un istante in silenzio a contemplarla. Poi fece un mezzo sorriso. «In questo momento ho davanti a me un ottimo deterrente per scordarmi tutto il resto.»
Lei trattenne il fiato mentre lui le prendeva gli occhiali e faceva per sfilarglieli.
«No! Ti prego, non voglio… non farlo… non voglio che guardi…»
Roger si ritrasse. «Non vuoi che lo faccia o non vuoi che ti guardi?»
Lei non rispose. Si sporse verso di lui e raggiunse con una mano la leva dei fari. Li spense, e l’oscurità calò su di loro.
A Roger bastò come risposta: cercò a tentoni il viso di lei e le sfilò gli occhiali e la sciarpa.
La sentì esitare e non si mosse: aspettò che fosse lei a fare o a dire qualcosa.
E allora fu lei a muoversi, protendendosi verso di lui, in cerca delle sue labbra. Roger la aspettava: la cinse tra le braccia e inspirò l’odore acre dei suoi capelli dopo una giornata di lavoro, il sapore amaro delle sue labbra e l’aroma della sua pelle che scivolava sotto le sue dita.
Sono pazzo, si disse. Non posso farlo qui. Non posso farlo con lei: non so che faccia abbia, non so chi sia. Non posso.
Ma non riusciva a fermarsi. C’era qualcosa che lo spingeva ad andare avanti, ad andare a fondo, come quando con la sua auto si lanciava da una rupe verso un baratro oscuro.
E stavolta non era solo il gusto del rischio, non era solo l’urgenza del desiderio. Era qualcosa, nel modo in cui quella ragazza si muoveva, nelle parole che gli rivolgeva, nel senso di familiarità che emanava, qualcosa che gli diceva che loro due condividevano il senso della colpa e del rimpianto, non importa quanto in profondità lo celassero; che tutti e due avevano bisogno del perdono ma non avevano la forza, il coraggio o semplicemente l’umiltà di chiederlo.
E il mondo non aveva l’indulgenza di donarlo.

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***



Capitolo IX




Ilkley Moor, notte del 15 ottobre

Roger se ne andò a casa senza provare a guardarle il viso mentre lei fingeva di dormire accucciata in un angolo del sedile posteriore dell’auto. Si era rivestito, aveva lasciato le lampade e i fari dell’auto spenti e, al buio, aveva pulito e chiuso diligentemente la caldaia e il Mastomantice prima di uscire.
Lei non si era mossa dal suo posto finché non aveva sentito il montacarichi raggiungere il livello superiore, scaricando il suo passeggero. Anche allora non aveva provato ad alzarsi: si era messa a contare i secondi che passavano per occupare la mente.
Non voleva pensare, in quel momento. Non voleva ricordare e nemmeno azzardare ipotesi. Voleva restare concentrata sul tepore che la avvolgeva, sul sedile cigolante su cui era rannicchiata, sul mantello che Roger le aveva lasciato avvolto intorno al corpo.
Voleva continuare a vivere il piacere di quel momento rubato a una realtà crudele e senza pietà; voleva continuare a immaginare le braccia di Roger Davies che la sostenevano, come se la volessero sollevare dal peso che si era portata in tutti quegli anni, e quel corpo solido a cui si era aggrappata, un’ancora di salvezza, e ai sussurri rochi che le aveva rivolto, dolci, che le erano scivolati dentro l’anima.
Non voleva chiedersi se amava o no Roger Davies. Non voleva sapere se lo aveva accettato per amore o per solitudine, se l’aveva amato per passione o per disperazione. Temeva la risposta, ed evitava la domanda.
Rimase lì, sola, per un tempo che le parve infinito, e forse un paio di volte si addormentò.
Poi, dopo quelle che le parvero ore, sospirò, di un sospiro profondo e spezzato, e si costrinse a rivestirsi e uscire dall’auto.
S’incamminò debolmente verso il montacarichi, ma qualcosa la fece fermare a metà del tragitto.
Una luce.
Si voltò verso la caldaia, nell’angolo opposto della stanza: qualcosa ardeva al suo interno. Il Fuoco Draconiano.
Ma cosa…?
«Tu…» disse secca una voce alle sue spalle.
Una voce che conosceva bene.

*

Roger si svegliò di soprassalto, grondante di sudore. Ansimò pesantemente, prendendosi il viso tra le mani: aveva sognato il viso di Trevis ridotto a una massa informe e macilenta, un cadavere in decomposizione che lo chiamava da qualche luogo imprecisato della sua incoscienza.
Si alzò in piedi, barcollante, e scostò le tende oscuranti dell’unica finestra del suo monolocale. La luce spenta e grigia di un mattino piovoso invase la stanza, rendendone ancora più scialbo l’aspetto.
Che schifo di giornata, pensò sfregandosi gli occhi stancamente. Aveva dormito malissimo, perseguitato per tutta la notte da un incubo dopo l’altro. Forse parlare del suo passato con la ragazza aveva risvegliato i suoi ricordi peggiori; o forse erano i sensi di colpa per quello che aveva fatto.
Me la sono fatta. Me la sono fatta e nemmeno so chi è. Merlino, come sono potuto cadere così in basso?
Eppure se pensava a quella sua pelle rovente dove si era perso, se pensava a quella bocca dove ogni suo pensiero era scomparso, a quel corpo che aveva annullato ogni altra sensazione che non fosse quel desiderio e quella passione che li aveva bruciati…
E’ così sbagliato cercare di consolarsi in questo modo? E’ così sbagliato voler affondare i propri sensi in quelli di un’altra persona per dimenticare se stessi?
Ma la domanda ancora più bruciante era: la amava o aveva solo cercato sul suo corpo la pace che in se stesso non riusciva a trovare?
E ancora di più: lei lo amava? O era stata al suo stesso gioco, anche lei in cerca di una distrazione dai propri sensi di colpa, da quell’inadeguatezza che sembrava accomunarli?
Avrebbe potuto chiederglielo. Avrebbe potuto Smaterializzarsi in ogni momento e andare da Ruben a chiedergli dove abitasse. Ma non lo fece.
«Da qualche deve esserci. Il perdono, intendo.»
A Roger non importava del perdono. O, almeno, così aveva pensato fino ad allora. Ma si era reso conto subito che la stessa disperata ricerca di redenzione che c’era negli occhi di lei doveva vivere anche in lui, sepolta in profondità. Perché, altrimenti, Trevis tornava a tormentarlo nei suoi sogni? Perché, per quanto si sforzasse di dimenticare, nella sua testa rimaneva ancora quel malessere che non riusciva a scrollarsi via?
Ma io non potrò mai riscattarmi. Trevis è scomparso, e non potrò mai chiedergli perdono per ciò che gli ho fatto.
E proprio mentre l’ineluttabilità di questa verità gli crollava addosso, crollarono anche le sue ultime, traballanti certezze nel momento esatto in cui qualcuno si Materializzò nella stanza all’improvviso.
CRACK!
Che…?
«E’ lui, fermatelo!»
Prima di rendersi conto che sei persone erano apparse nella sua stanza, Roger si ritrovò steso a terra, sotto la morsa di due grossi Auror in divisa nera.
«Ma che diavolo sta succedendo?!» esclamò, la testa schiacciata contro il pavimento.
«Signor Davies» disse una voce severa di cui Roger, nella posizione in cui si trovava, non riuscì a vedere il proprietario, «lei è accusato di partecipazione attiva a un pericoloso traffico clandestino di artefatti oscuri ed è chiamato a testimoniare sulla scomparsa di due persone.»
Roger serrò i pugni, e una domanda che da anni non faceva che porsi ogni volta che aveva il coraggio di guardare in faccia ciò che era diventato gli echeggiò nella mente, senza risposta.
Perché?


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Okay, lo so, non posso far finire un capitolo in questo modo, soprattutto se è così tremendamente melodrammatico e pedante. Abbiate pazienza, prometto che dai prossimi capitoli cominceranno a sciogliersi i nodi di questa vicenda, anche perché ci stiamo avviando alla fine.
Vi ringrazio come sempre per il sostegno, anche perché sono felice di accorgermi dai vostri commenti di essere riuscita a trasmettervi quello che ho sentito scrivendo questa storia *-*
A domani per il prossimo aggiornamento!

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***



Capitolo X




Ministero della Magia, 16 ottobre

Roger attese diverse ore nella stanza sotterranea accanto alla sala del Wizengamot e le aule in cui venivano interrogati i testimoni e gli accusati.
Lo avevano trascinato via di casa senza spiegazioni e lo avevano scaricato in quella specie di cella umida e buia ad aspettare. Cosa, non lo sapeva, così come non aveva idea di che diavolo stesse succedendo.
Tutto ciò di cui si rendeva conto era che se per due volte aveva evitato il processo per tutti i crimini che aveva commesso, stavolta c'era praticamente dentro fino al collo per colpe di cui non sapeva nulla.
Aveva chiesto spiegazioni agli uomini che lo avevano portato lì, ma le sue proteste non erano valse a niente.
«La smetta di fare la vittima, signor Davies. Anche se non è mai stato condannato, conosciamo tutta la sua lunga fedina penale a menadito» gli ringhiò uno degli Auror quando lo avevano lasciato in quella stanza. «Le consiglio di tacere e tenere la bocca chiusa fino all’arrivo del suo avvocato.» E si era sbattuto la porta alle spalle, lasciandolo solo e non meno ignaro di quanto non lo fosse prima.
Poi, dopo un’attesa che Roger non era riuscito a calcolare, era arrivato un altro uomo a chiedergli se aveva bisogno di qualcosa o se dovesse andare a recuperargli i suoi effetti personali.
Roger non era riuscito a trattenersi: lo aveva mandato all'inferno insieme a tutti gli altri e si era seduto sul pavimento, la schiena appoggiata contro la parete e le braccia incrociate. E da lì non si era più mosso.
Finché non era arrivata lei.
«Ciao, Roger» disse non appena la porta si aprì ed entrò.
Lui alzò lo sguardo quel poco necessario per riconoscerla, poi lo riabbassò senza una parola.
«Potresti anche mostrarti meno freddo nei confronti di tua madre.»
«Quale madre?» rispose lui, sarcastico.
La donna fece un verso d'indignazione. «Vedo che non sei cambiato. Sei sempre stato ingrato verso tutto quello che abbiamo fatto io e Brian per te, e la vita da delinquente ti ha reso persino peggiore di ciò che eri.»
«E a te, mamma, la vita da Capodipartimento degli Sport e dei Giochi Magici non ha mitigato la presunzione di essere la detentrice suprema della Giustizia Divina.»
La donna tremò visibilmente: era chiaro che stava facendo molta fatica per non gridargli qualcosa o tirargli un ceffone.
«Dobbiamo parlare, Roger.»
«Non abbiamo proprio niente da dirci, noi due.»
«Roger, non mi sono spiegata bene? Noi dobbiamo parlare
Roger alzò finalmente la testa e la fissò negli occhi; quei maledetti occhi grigio tempesta che aveva ereditato da lei. «Se hai qualcosa da dirmi, dilla subito, altrimenti vattene. Non ti rendi conto di quanto la tua immagine possa essere danneggiata dal restare qui in mia compagnia?»
La donna scosse i lunghi capelli corvini dietro la schiena in un gesto di stizza. «E va bene.» Si guardò intorno e, dato che la stanza era vuota e non c’erano sedie, se ne fece portare una da un uomo che aspettava all’esterno. Erano passati talmente tanti anni da quando lo aveva visto l’ultima volta, che Roger faticò a riconoscervi Brian, il suo patrigno che, quando lui aveva dodici anni, sua madre aveva sposato dopo il divorzio da un padre che Roger non aveva più rivisto.
«Che cosa vuoi?» chiese lui, dopo che lei si fu accomodata sulla sedia. Brian era rimasto fuori, mostrando ancora una volta che l’opinione che Roger aveva della sua vigliaccheria non era del tutto ingiustificata: non aveva mai avuto il fegato di confrontarsi con lui quando era un adolescente, figurarsi ora che erano tutti e due uomini adulti.
«Che cos’è successo?» domandò sua madre a bruciapelo.
«Se lo sapessi probabilmente non sarei qui, ma in viaggio in qualche paese del sud molto caldo e soleggiato dove non possano trovarmi» disse Roger, sarcastico.
La donna fece un sospiro d’insofferenza: non aveva mai sopportato l’ironia graffiante di suo figlio. «Seriamente, Roger, non vedo come…»
«Ho detto che non lo so, ma evidentemente il messaggio sotto l’umorismo non è trapelato» la interruppe lui, gelido.
Lei si accigliò. «Roger, forse non ti rendi conto della situazione in cui ti trovi. Se insisti a non dire…»
«DANNAZIONE, HO DETTO CHE NON SO NULLA!» scattò in piedi lui, e sua madre trasalì così violentemente che per poco non cadde dalla sedia. Roger probabilmente l’avrebbe trovato molto divertente, se non fosse stato tanto furioso.
«Vuoi dire che non sai perché ti hanno arrestato?» chiese lei, stupita.
«Vuoi dire che hai bisogno che ti venga urlato qualcosa prima che tu riesca ad afferrare il concetto?» ribatté lui, aspro.
La donna cercò di ricomporsi. «Non c’è bisogno che tu sia così scortese con me. E comunque» aggiunse, prima che lui potesse indirizzarle un’altra frecciata velenosa, «non capisco come tu possa non saperlo. Insomma, non ti aspetterai certo che il Ministero reputi il commercio clandestino di artefatti oscuri attraverso un Magazzino di Disincantamento un’attività lecita e irreprensibile…»
«Che cosa?!» sbottò Roger, e lo sbigottimento sul suo viso doveva essere così palese che sua madre, per una volta, tentennò.
«Non lo sapevi davvero?»
«Quante volte hai bisogno che una persona ti dica “no” prima che tu le creda?» rispose lui, infastidito.
«Quando la persona davanti a me è il figlio che, disinteressandosi dei genitori che l’hanno cresciuto, si è dato alla macchia, nessun numero di volte sarà sufficiente» rispose lei a tono.
Roger assunse un atteggiamento ostile. «Allora questa discussione è del tutto inutile.»
«Roger, io…»
«Non ci provare. Sappiamo benissimo entrambi come stanno le cose. Tu hai perso la tua credibilità verso di me preferendo un uomo che ti fa da zerbino a mio padre, e io ho perso la mia credibilità verso di te quando non sono diventato il figlio irreprensibile che hai sempre desiderato.»
«Io non ho mai desiderato un figlio irreprensibile…» cominciò lei.
«Oh, sì che l’hai fatto. Inconsapevolmente, forse, ma lo hai fatto. Hai cercato di farmi diventare ciò che era mio padre perché, se nella tua presunzione non potevi accettare di avere accanto un uomo superiore a te, potevi però crescerne uno con le tue mani e vantarti della tua opera» Roger le diede le spalle, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. «E tutto quello che mi rimane da dirti a questo punto, è: scusa se non sono diventato papà. Cerca il suo riflesso da qualche altra parte, ma non aspettarti di farlo nascere in Brian.»
Il silenzio che seguì quell’affermazione fu lunghissimo, quasi più dell’attesa che Roger aveva passato in quella stanza prima dell’arrivo di sua madre. Un silenzio caricò di verità scomode.
Poi sentì la donna alzarsi, spostare la sedia di lato e uscire. Senza dire nulla.
Addio, mamma.



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Come promesso, eccomi qui ^-^
A quanto vedo avete per la maggior parte una teoria comune, però io non confermo o smentisco ancora nulla. Se vi può consolare, comunque, scoprirete se avete avuto ragione o no il prossimo capitolo, quindi pazientate ancora un giorno.
Come sempre, grazie a tutti voi e a risentirci a domani.


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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***



Capitolo XI




Ministero della Magia, 16 ottobre

La seconda persona che irruppe nella solitudine della stanza buia in cui Roger era confinato era un altro viso conosciuto. Un viso di nome Seamus Finnigan, avvocato.
Roger stava già per cacciarlo via in malo modo, ma lui lo precedette sul tempo.
«Non sono venuto per conto di sua madre.»
Sembrava quasi avergli letto nel pensiero. Roger richiuse la bocca senza dire nulla e aspettò che si accomodasse sull’unica sedia presente, restando in piedi a fronteggiarlo.
«Sono diventato erede di una montagna di Galeoni e non l’ho saputo?» chiese cupamente.
Finnigan lo guardò perplesso. «Non che mi risulti.»
«E allora per quale diabolica ragione si trova qui se non posso pagarla per farmi da avvocato?»
Finnigan appoggiò i gomiti sulle ginocchia e sorrise. «Mi sembra di averglielo già spiegato: seguo i suggerimenti della mia coscienza.»
Roger lo squadrò, poi si decise finalmente a sedersi di fronte a lui, per terra. «Suppongo che lei si debba sentire in colpa per qualcosa, allora.»
«No, se escludiamo il senso d’ingiustizia che provo quando una persona viene accusata senza prove tangibili della sua colpevolezza.»
«Da quel poco che ho capito da quando sono comparsi a casa mia e mi hanno trascinato qui, non ci sono prove, ma solo certezze sulla mia colpevolezza» osservò lui sarcastico.
Finnigan lo fissò negli occhi. «Lei non conosce le accuse che le sono state rivolte?»
«No.»
«Si ritiene innocente?»
«Nessuno è completamente innocente, a questo mondo, io meno di tutti.»
Finnigan incrociò le braccia appoggiandosi allo schienale della sedia senza smettere di studiarlo. «Lei è una persona molto onesta, signor Davies.»
«Curioso, detto da un avvocato che in passato mi ha dato l’impressione di sapere ogni singola riga che compone la mia fedina penale.»
«L’onestà di cui parlo non ha niente a che vedere con la sua rispettabilità. Lei non è certo un individuo modello nella sua condotta, ma sono certo che non esiste colpa che abbia commesso che lei negherebbe.»
«Vuole dire che sono sincero nella mia disonestà?»
«Esattamente. Quindi, mi dica, Davies: lei è complice di un’attività di commercio ed eliminazione illegale di oggetti oscuri all’interno del Magazzino in cui lavorava?»
Roger sospirò. «Se le dico che non so nemmeno di cosa lei stia parlando mi crede?»
Finnigan ebbe solo un attimo di esitazione, prima di rispondere risoluto: «Sì, le credo.»
«Allora non avrà niente in contrario a spiegarmi cosa sta succedendo, vero?»
L’uomo annuì ed estrasse dalla borsa accanto alla sedia un fascicolo verde smeraldo. «Prima di tutto lei saprà che in questi mesi il Ministero e gli Auror sono impegnatissimi in una caccia serrata a tutti gli artefatti e gli oggetti oscuri in circolazione dopo la Seconda Guerra Magica.»
Roger annuì.
«Ebbene, una pista che da varie settimane stavano seguendo ha portato gli Auror a supporre che alcuni possessori di tali artefatti, impauriti dalle sanzioni e dal rischio di finire ad Azkaban se scoperti, hanno allestito un traffico clandestino che porta ad alcuni Magazzini di Disincantamento. Come lei sa, questi magazzini sono sotto la tutela del ministero e gli oggetti ivi smaltiti sono sempre controllati e catalogati uno per uno dall’Ufficio dell’Uso Improprio della Magia prima di essere trasportati da voi.» Fece una pausa. «Quindi per queste persone era impossibile liberarsi di tali oggetti in altro modo se non quello di infiltrarsi direttamente al Magazzino.»
Roger, che cominciava a capire, aveva ancora qualche dubbio. «Non potevano semplicemente buttarli via?»
«No, perché con l’artefatto in mano si può sempre cercare di risalire al proprietario precedente, mentre se viene cancellato definitivamente non è possibile farlo. Inoltre tanti oggetti oscuri sono incantati in modo tale che il proprietario non possa liberarsene.»
Roger inarcò un sopracciglio, scettico. «E a che scopo?»
«Perché sono estremamente preziosi, e in questo modo il proprietario li può ritrovare anche se li perde o se vengono rubati.»
Roger fece un fischio ammirato.
«Ovviamente a questo punto avrà capito che una delle piste ha portato gli agenti proprio al Magazzino in cui lavorava. Ha notato qualcosa di strano, negli ultimi tempi?»
Roger rifletté, e d’un tratto gli apparve chiarissima la visione dello sportello della caldaia del Mastomantice aperto, alcune mattine, quando lui la sera prima era stato certo di averlo chiuso bene.
Possibile che…?
Deglutì e lo disse a Finnnigan. «Era un fatto così poco rilevante che non ci ho mai fatto davvero caso» aggiunse dopo averglielo spiegato.
«Probabilmente chi si occupava di smaltire gli oggetti oscuri non si è mai curato troppo di chiudere perché sapeva che era una sua responsabilità, e quindi la colpa sarebbe ricaduta su di lei, Davies.»
Roger non disse nulla, raggelato da un ricordo improvviso.
«A Ruben non importerà sapere se sei sicuro o no. Se lo verrà a sapere, ti staccherà la testa dal collo a mani nude.»
«Sei stata tu?!»
«Io? E perché dovrei? Ho di meglio da fare che infastidire gli altri che lavorano qui dentro.»
Non poteva essere.
Merlino, ti prego, non può essere stata lei. Non lei.
«Finnigan» disse debolmente, «dove sono le altre due persone che lavoravano con me?»
Finnigan si fece serio. «Sono sparite. Per questo l’hanno arrestata così avventatamente. Temevano che sarebbe fuggito anche lei.»
«Sono fuggite? Tutt’e due?»
«Ancora non lo sappiamo. Sappiamo solo che nessuno dei due era in casa. E’ probabile che fossero d’accordo e se la siano svignata con il ricavato dell’attività illecita non appena hanno fiutato il pericolo di essere scoperti.»
Roger strinse i pugni.
No, no, no!, gridava qualcosa dentro di lui. Non può essere stata lei. Non l’unica che, dopo aver saputo ciò che ho fatto, ciò che sono stato e sono ancora, non mi ha respinto; che non ha provato pietà di me; che, anche quando le ho denudato le mie colpe, non si è ritratta. E chi se ne importa se lo ha fatto per dimenticare se stessa. Lo ha fatto, e basta.
Ma qualcos’altro dentro di lui, qualcosa di razionale, dal sapore amaro della realtà urlava invece che era così. Che lei dopo averlo sfruttato e usato per se stessa, lo aveva gettato via per rincorrere uno spiraglio di luce, un altro appiglio più concreto, che l’avrebbe davvero portata fuori da quel vortice di non-ritorno.
«… dopotutto non c’è da stupirsene. Non conosco bene Armstrong, ma quella donna ha tutti i precedenti per far supporre che sia capace di una cosa del genere», stava dicendo Finnigan.
Roger era sempre più sconvolto. Il suo viso doveva esprimere chiaramente la domanda che gli ronzava in testa e gli faceva fischiare le orecchie.
«Dovrebbe conoscerla anche lei, no? Era nella sua Casa, all’epoca, anche se aveva un anno meno di lei.»
Roger scosse la testa, senza riuscire a parlare.
«Davvero non la ricorda?» fece Finnigan, sorpreso. «Eppure dovrebbe essere facile riconoscerla. Dopotutto non ci sono molte persone oltre a Marietta Edgecombe che portano scritto sul viso “spia”…»

*

“Vuoi uscire con me, Chang?” aveva chiesto Roger alla ragazza più carina del sesto anno un pomeriggio di settembre.
“Non posso, mi dispiace” aveva risposto lei, severa.
“E perché, scusa?” aveva obiettato lui, che non era abituato a ricevere rifiuti.
“Perché tu piaci a una mia amica, quindi non voglio ferirla.”
Roger aveva sorriso. “Davvero? E com’è, lei? Carina?”
“Sì, ma è troppo fragile”, aveva risposto Cho Chang. “Se la trattassi male, probabilmente non avrebbe più la forza di guardarti in faccia.»
E se il mondo la trattasse male, non avrebbe più la forza di mostrargli il proprio volto.



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Chi aveva indovinato? Quasi tutti, vero?
Be', dopotutto non era difficile da capire, dai -almeno credo, ma non sono la persona nella posizione più indicata per dirlo dato che l'ho sempre saputo xD
So che Marietta Edgecombe è un personaggio veramente insopportabile per molti, che è stata vigliacca e, soprattutto, una traditrice, ma io non posso fare a meno di trovarla semplicemente una persona che ha dovuto affrontare qualcosa di troppo grande per lei.
Dopotutto quanti, a quindici anni, tra i genitori che dicono una cosa e un compagno di scuola che nemmeno conoscono bene e che è etichettato da tutti come pazzo scatenato che ne dice un'altra, crederebbero al secondo? Soprattutto se, per seguire questo compagno di scuola in questione, facessero rischiare il posto di lavoro alla madre?
Credo che Marietta, così come Draco Malfoy e altri personaggi del libro, non abbia altra colpa che quella di una famiglia dalla parte sbagliata. Non possono essere tutti Sirius e - troppo tardi- Regulus Black dopotutto, no?
E ora che vi ho annoiati chiarendo come si deve il mio punto di vista, vi ringrazio come sempre di leggere e di commentare e vi saluto.
A domani!

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


E siamo finalmente al terzultimo capitolo.
Sto tirando un sospiro di sollievo perché pubblicare un nuovo capitolo per me è un'avventura: tutte le volte che sono alle prese con l'impaginazione arriva puntualmente qualcuno o qualcosa a interrompermi e perdo il filo di quello che stavo facendo. Capita anche a voi? Dev'essere una qualche legge fisica non ancora scoperta.
E ora che vi ho intrattenuti con le mie solite vane chiacchiere, vi ringrazio -sto perdendo il conto di quante volte dico "grazie", però non posso farne a meno- e vi saluto.
Buona lettura!
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Capitolo XII




Da qualche parte, 16 ottobre

«Cos’è quella faccia?»
Marietta Edgecombe altrimenti detta “Cub” alzò il viso verso di lui e non rispose.
Ruben Armstrong sospirò e si sedette sul divano accanto a lei. Erano in una stanza di un motel babbano in Francia, fuori dalla giurisdizione magica britannica.
«Hai fatto tutto di nascosto…» mormorò lei dopo qualche attimo di silenzio.
Lui scrollò le spalle in tutta risposta.
Era fatto così, Ruben: non parlava più di quanto non fosse necessario, e non dava risposte se non gli venivano fatte domande.
Era robusto, nerboruto e il suo volto era perennemente corrucciato in un’espressione rabbiosa. Eppure non ne aveva mai avuto paura. Mai, nemmeno la prima volta, quando s’era svegliata nella casa di lui, allora un perfetto sconosciuto. Anche se, dopotutto, all’epoca aveva ben poca ragione di aver paura di qualcosa: era il tempo in cui era sprofondata nel baratro più nero della sua vita.
La Seconda Guerra Magica era finita, Colui-che-non-deve-essere-nominato era stato sconfitto e sua madre, come la maggior parte dei funzionari ministeriali che erano stati mantenuti durante la dittatura dei Mangiamorte, era stata licenziata. Non era riuscita a trovare nessun altro lavoro. Né l’aveva trovato Marietta.
La madre non aveva mai accusato apertamente lei e la scritta “spia” che le deturpava la faccia di essere la causa delle loro sventure. Ma in ogni suo gesto, in ogni sua parola e in ogni sua rinuncia per tirare avanti Marietta leggeva a chiare lettera la propria colpa.
E la leggeva anche negli occhi di tutti coloro che scorgevano il suo volto o venivano a conoscenza del suo nome. Ci leggeva il disprezzo e il disgusto.
Aveva cominciato a sprofondare senza accorgersene.
Non riusciva più a guardarsi allo specchio, perché anche quando le pustole erano scomparse, erano rimaste le cicatrici: bianche, nitide, visibili.
 E quando sua madre era scappata via di casa per fuggire da sua figlia e dalla sua vergogna e non si era più fatta sentire, era arrivata a credere che fosse tutta colpa di quel nome impresso su di lei.
Curioso come una parola di quattro lettere possa distruggere la vita di una persona.
Aveva cercato un modo per cancellarla, per eliminarla una volta e per sempre da sé. Per eliminare il passato e ricominciare.
Niente aveva funzionato.
Poi aveva letto di quel fuoco che distruggeva qualsiasi tipo di incantesimo. Quando era impazzita al punto da tentare un gesto così estremo, non lo ricordava: sapeva solo che era riuscita a infiltrarsi in un Magazzino abbastanza isolato da non attirare l’attenzione e a raggiungere il Mastomantice e la caldaia. Ricordava di aver aperto lo sportello, poi niente.
Si era svegliata a casa di Ruben, il responsabile di quel Magazzino. Lui non le aveva chiesto niente: l’aveva ospitata finché il volto non aveva smesso di bruciare e aveva potuto togliersi le bende.
E quando Marietta si era guardata allo specchio e aveva visto che l’ustione le aveva finalmente cancellato il marchio di spia, era scoppiata a piangere dalla felicità e gli aveva raccontato la sua storia.
E lui l’aveva ascoltata senza condannarla e senza compatirla.
«Non hai un posto dove andare?» le aveva chiesto alla fine.
Marietta aveva scosso il capo.
«Allora lavora qui. A me non interessa che faccia abbiano le persone, purché si diano da fare.»
Ruben era stato la sua salvezza. Una mano che si tendeva ad afferrarla nell’oscurità. A lungo l’aveva creduto il suo eroe. Ma ora…
«Ti sei venduto ai mercanti di oggetti oscuri» lo accusò debolmente, la lacrime agli occhi.
Era esausta, ormai.
Da quasi due giorni fuggivano insieme, da quando, la notte in cui lui l’aveva sorpresa alle spalle, lei aveva scoperto tutto: che lo scorbutico, scontroso e solido Ruben non era quell’eroe così onesto che pensava.
Quella notte lui le aveva spiegato tutto in poche, secche parole. Poi era arrivato un Patronus argentato di una forma che Marietta, nello stupore del momento, non aveva riconosciuto, e aveva avvisato Ruben che stavano arrivando.
Lui non aveva esitato: l’aveva afferrata per un polso e l’aveva trascinata con lui, Smaterializzandosi prima in casa sua, a raccogliere le sue cose, poi in quella di lei e dopo ancora su una strada babbana molto trafficata.
Avevano passato la notte in un motel, senza parlarsi, lei rannicchiata su una poltrona e lui a sorvegliarla dal letto. Forse temeva che sarebbe fuggita per raccontare tutto al Ministero, ma Marietta non riusciva a capire come potesse credere che ne sarebbe stata capace: per quanto disonesto, lui le aveva salvato la vita, un tempo, e il debito non era ancora saldato.
Il giorno dopo l’aveva di nuovo Smaterializzata con sé in un altro motel, e lì erano rimasti fino a quel momento.
«Perché mi hai portata con te?»
Ruben alzò le spalle. «Perché ti avrebbero accusata di essere mia complice.»
Silenzio.
«Perché sei entrato nel commercio clandestino?»
Ruben, invece che rispondere, la fissò negli occhi, il viso distorto in una maschera impassibile. «Perché hai fatto l’amore con Davies?»
Quello era un colpo che lei non si aspettava. Aprì la bocca per rispondere ma non riuscì a dire nulla.
Lui distolse lo sguardo e lo fissò in un punto vuoto davanti a sé. «Se t’interessa saperlo, a quest’ora gli Auror l’avranno arrestato.»
Lei saltò in piedi. «Cosa?»
Ruben la guardò, freddo. «Prima o poi doveva pagare per le sue colpe, no? Vorrà dire che lo farà stavolta, scontando al loro posto un crimine che non ha commesso.»
Marietta si irrigidì. «Perché?» chiese con voce tremante. «Perché hai fatto tutto questo? Sapevi che l’avrebbero preso al posto tuo e non provi nessun rimorso…»
«Perché t’interessi tanto di lui?» chiese lui di rimando, alzandosi in piedi a sua volta.
Marietta non rispose.
Non era in grado di spiegare l’irrazionalità di quei momenti in cui lo aveva sentito così vicino, in cui aveva visto riflesse in lui le proprie colpe, il proprio passato. O forse sì, ma la sua mente si rifiutava di farlo. Di riconoscere che aveva cercato così meschinamente in Roger un modo per sentirsi meno sola, meno colpevole…
«Sono entrato nel commercio clandestino tre anni fa, dopo che sei arrivata qui» disse Ruben a mezza voce, sorprendendola: stava rispondendo alla sua domanda, il viso rivolto al muro bianco, come se ci fosse qualcosa che solo lui poteva vedere. Un ricordo. «Ero solo un responsabile di magazzino, e non avevo il potere o i soldi per cambiare il mondo o costruire un futuro diverso. Mi ero sempre accontentato di ciò che avevo, fino ad allora.»
Marietta lo ascoltava, incantata. Non aveva mai sentito Ruben dire tante parole di fila.
«Ma poi non ho voluto più accontentarmi. Volevo qualcosa di migliore, anche se l’unico modo per cui avrei potuto avere abbastanza denaro da assicurarmelo era illegale. Volevo un futuro che nessun passato sarebbe stato in grado di annientare.»
«Cosa vuoi dire?» chiese lei debolmente. «Tu non hai un passato di colpe contro cui combattere.»
Ruben volse il viso dall’altra parte, sottraendo dallo sguardo di lei il proprio profilo. Marietta non poteva far altro che fissare le sue spalle, larghe, robuste, solide come le certezze che non aveva mai avuto.
«Ma tu sì. Quel futuro lo volevo insieme a te.»
Marietta vacillò.
Fu come se improvvisamente un colpo di vento avesse spalancato tutte le imposte della stanza buia dov’era vissuta tutto quel tempo e lei scoprisse che non era una cella oscura e fredda, ma un salone caldo e dorato. Un palazzo costruito attorno a lei senza che se ne accorgesse; costruito da Ruben.
Realizzò ciò che legava lui a lei da tutti quegli anni, realizzò che aveva passato tutto quel tempo cercando di costruire qualcosa di meglio per lei, e che non se n’era mai accorta. O non aveva mai voluto guardare con attenzione.
E si sentì male, perché un sentimento così fedele, incondizionato, un sentimento così bello da parte di un uomo così discreto e generoso non poteva essere rivolto a lei. Era sbagliato. Era terribile.
Ruben non poteva amare una creatura cieca e macchiata dalla vergogna quale lei era. Non lo meritava. Lui non meritava lei, ma qualcosa di immensamente maggiore.
Una donna senza colpe irredente, una donna senza occhi ciechi, che non cercava di appigliarsi a un altro solo per disperazione e solitudine.
Una che non era lei.
Stordita, si rese conto solo allora di una figura argentata apparsa nella stanza. Un cigno, messaggero dell’ultimo canto delle vecchie certezze di Marietta che morivano.
«Hanno preso Roger Davies» disse la familiare voce di Cho Chang, la sua migliore amica. «Spero che tu abbia portato Marietta al sicuro. Non te l’avrei mai affidata se non fossi stata sicura che te ne saresti preso cura meglio di me, Armstrong. Tienila lontana dai Magazzini di Smistamento, d’ora in avanti, o non ti perdonerò mai.»
Poi il cigno si dissolse, e la stanza calò in un silenzio interrotto solo dai singulti violenti del pianto di Marietta.



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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***



Capitolo XIII




Da qualche parte, 16 ottobre

La libertà non è una condizione fisica, sociale o morale. E’ qualcosa che risiede nel cuore.
Si può volare selvaggiamente su una Firebolt 3000 ed essere nel contempo rinchiusi in solide gabbie create da se stessi. E si può vivere lavorando ore e ore in una fornace sotterranea tra fiamme incandescenti e sentirsi parte di una libertà assoluta.
Ruben non si era mai sentito oppresso, nemmeno nel lavoro più degradante che gli fosse capitato fare. E anche quando si accasciava grondante di sudore al calore del Fuoco Draconiano nel cuore della notte per smaltire artefatti oscuri, il suo cuore volava libero in alto, fuori, nel cielo. Da lei.
L’aveva amata per tutto quel tempo, in silenzio, discretamente. Si era dato al commercio clandestino per guadagnare più soldi. Aveva lavorato tante notti, al buio, per costruirle un futuro, indifferente ai giudizi della gente.
Quegli stessi giudizi a cui lei si era incatenata così strenuamente, bloccata dalla paura di fare di nuovo una scelta sbagliata, leggendo negli occhi degli altri lo stesso proprio disprezzo di sé. Perché era di questo che lei era prigioniera, più della sua stessa colpa.
Ma Ruben aveva aspettato, sperando che un giorno lei scoprisse che il buio in cui le era stato fatto credere di vivere erano solo gli occhi che le erano stati chiusi, e che le sarebbe bastato aprirli per vedere la luce.
E quando quella notte l’aveva vista uscire da quella macchina, da quell’angolo di oscurità che aveva condiviso con Roger –perché Ruben glielo aveva letto negli occhi: era stata con lui- per un attimo aveva temuto che fosse stata tutta solo un’illusione.
Che lei si fosse davvero spezzata così in profondità che, per quanto lui si sarebbe affacciato dentro di lei, non sarebbe riuscito a raggiungere i frammenti della sua anima, a ricomporli.
Avrebbe potuto salvare Roger Davies. Avrebbe potuto Smaterializzarsi a casa sua e avvisarlo, farlo venire via con loro. Ma nell’amarezza di quel momento l’invidia e la gelosia per aver violato i limiti di lei che Ruben rispettava da anni avevano preso il sopravvento, e si era detto, soddisfatto, che sarebbe stato Roger Davies a pagare il prezzo del futuro che aveva distrutto.
Perché quel futuro, Ruben lo sapeva, gli era sfuggito nel momento stesso in cui avrebbe dovuto realizzarsi. E non era stato solo Davies a portarglielo via. Era stato, ancora una volta, il passato di Cub, che lei non riusciva ancora a lasciarsi indietro, a perdonarsi. Quel maledetto passato che la allontanava da lui.
E capì che non avrebbe mai potuto ottenere ciò che voleva da lei finché non si sarebbe liberata da sola della sua prigione di colpevolezza. Finché non avrebbe ritrovato in sé la forza di tornare a guardare in faccia il mondo senza vergognarsi. Senza paura.
E lo capì quando lei, dopo un pezzo che il cigno di Cho Chang era scomparso, si rialzò da terra, dov’era crollata, e aveva sussurrato: «Devo andare.»
Ruben sapeva dove: lei si riteneva colpevole. E non sarebbe stata in pace con se stessa finché non sarebbe stata convinta di aver scontato tutto, fino alla fine.
Si era diretta alla porta e si era fermata lì, dandogli le spalle.
«Ruben» aveva mormorato, quasi inudibile. «Se da qualche parte c’è davvero un futuro, mi aspetterai lì?»
«Sì.»
Sono anni che ti aspetto, e ti aspetterò ancora, fino a quando, finalmente, mi raggiungerai.

*

«E’ pronto?»
Roger non disse niente. Non c’era proprio niente da dire: chi sarebbe stato pronto a essere processato come unico imputato per un crimine di cui non sapeva nulla fino a pochi giorni prima?
«Onestamente, Finnigan» disse invece che rispondergli, «crede che abbia qualche possibilità di tirarmene fuori?»
Finnigan esitò un momento, poi gli pose una mano sulla spalla. «Io credo alla sua innocenza, Davies.»
Roger sorrise. Non l’avrebbe mai ammesso, ma quelle parole furono più rinfrancanti di qualsiasi bugia avrebbero potuto rifilargli sulla riuscita o meno della sua difesa.
E si sentiva bene con se stesso, per la prima volta dopo molto tempo.
Aveva riflettuto molto, dopo che Finnigan gli aveva comunicato che sarebbe rimasto al suo fianco a difenderlo.
Per la prima volta dopo tutti quegli anni aveva trovato il tempo e, soprattutto, il coraggio di fermarsi a pensare. Si era sempre rifiutato di farlo, prima: temeva di andare alla deriva, fino agli angoli della propria mente che cercava di tenere nascosti agli altri e a se stesso; quegli angoli che la notte sussurravano voci e sensi di colpa nei suoi sogni; in cui strisciavano cose antiche, che non voleva rievocare.
Ma poi era arrivata lei, Marietta, e se Roger aveva potuto continuare a rifiutare di guardarsi dentro, non aveva potuto evitare di guardare dentro di lei, e vederci il riflesso di se stesso. E in lei aveva visto il bisogno di perdono che languiva anche in lui, sepolto sotto lo strato di orgoglio e di rancore verso tutto e tutti.
Ma non era il genere di perdono che si era aspettato, e se n’era reso conto solo in quella stanza, seduto sul pavimento freddo, ad aspettare di sapere se il suo futuro sarebbe morto ancora una volta prima che ne riuscisse a scorgere l’orizzonte.
Quella che era finalmente riuscito a dissotterrare era la necessità di essere perdonato da se stesso: perché colui che per primo l’aveva condannato, e solo ora lo riconosceva, era il proprio  cuore.
E quando Finnigan l’aveva guardato negli occhi, come ci si guarda da pari a pari, e non da innocente a criminale, da superiore a inferiore, da uomo a bestia, aveva realizzato di poter ricominciare. Anzi, no, di poter continuare, perché, per quanti errori avesse fatto, per quante volte avesse preso la strada sbagliata, quella era la sua vita, ed era libero di viverla senza lasciarne indietro nemmeno una briciola. Senza rinnegarla e senza rimpiangerla.
Finnigan si schiarì la voce, distogliendolo dai suoi pensieri all’improvviso. «Se non ha niente in contrario, c’è una persona con cui dovrebbe parlare prima del processo.»
Roger alzò gli occhi. «Se è per trovare un compromesso anche stavolta, no. Sono stanco dei compromessi, Finnigan.»
L’uomo di fronte a lui sorrise. «No, Davies. Le assicuro che si tratta tutt’altro che di un compromesso.»
Si diresse verso la porta della solita stanza in cui Roger, in attesa del tribunale, era stato confinato e la aprì.
Non tornò dentro per accompagnare la persona che aveva annunciato. Non ce n’era bisogno, perché quando fece il suo ingresso, per quanto il suo volto fosse cambiato, Roger la riconobbe subito.
«Cub.» Pronunciò quel nome lentamente. «O forse dovrei chiamarti Marietta?»
Lei abbassò lo sguardo a terra. «Scusa, Roger» mormorò in fretta. «Non sapevo quello che Ruben stava facendo; non sapevo nemmeno che lo stesse facendo per me e nemmeno quanto mi amasse.»
Roger fece per parlare, ma lei lo interruppe. «No, lasciami spiegare. Ti prego.»
E iniziò a raccontargli tutto, sebbene in modo confuso, le parole che inciampavano le une sulle altre, inframmezzate dai singhiozzi quando, a un certo punto, parlando della confessione di Ruben, le lacrime avevano cominciato a scenderle sulle guance.
Roger ascoltò stupito, e quando lei arrivò alla fine ogni precedente sospetto che aveva covato nei suoi confronti era sparito. A quel punto non riuscì più a trattenersi e la abbracciò di slancio con un sospiro spezzato.
Marietta cercò di respingerlo. «No, non devi. Ti prego… E’ stato uno sbaglio che non avremmo dovuto compiere… noi…»
«Non è stato uno sbaglio» ribatté lui accarezzandole la testa.
«Ma io…»
«Non mi ami, lo so» la interruppe. «E io non amo te. Ma in quel momento eravamo troppo soli, abbandonati da tutti e in balia dei nostri incubi. Non potevamo fare altro: in quel momento non poteva che andare così, capisci? Avevamo bisogno l’uno dell’altra per capire noi stessi.»
Marietta alzò finalmente lo sguardo, gli occhi pieni di lacrime. «Io… quando ho scoperto che Ruben mi amava, nonostante… nonostante…»
«Nonostante tutto? Sì, lo so. Anch’io ho scoperto un uomo che mi rispetta sebbene probabilmente sappia recitare la mia fedina penale a memoria.» Sorrise. «Forse abbiamo cercato per anni dalla parte sbagliata: credevamo di aver bisogno del perdono degli altri, ma dovevamo solo trovare il nostro.»
Marietta scosse il capo. «Ma io ora non voglio più il perdono. Pensavo che mi sarebbe bastato, ma Ruben mi ha fatto capire che c’è di più, che la vita è molto più vasta dell’innocenza.»
Roger annuì. «Sì» mormorò. «E anche più della colpevolezza. Siamo noi uomini a fermarci e a rimanere indietro.»
«Ora però siamo andati avanti» affermò Marietta. «Io e te. Ma gli altri? I giudici, i testimoni, la gente che ci sarà al tribunale oggi? A che punto saranno rimasti? Il mondo ha ancora il potere di condannarci.»
«Non ha importanza» rispose lui. «Non possono riportarci indietro, ora, indipendentemente da ciò che ci faranno. Abbiamo superato la colpa, ormai. Insieme.»
Lei sorrise, e nonostante la devastazione di ustioni del suo volto, la dolcezza della sua espressione cancellava ogni bruttezza da lei.
Non ci fu bisogno di altre parole, scuse o ringraziamenti.
Bastava la sola presenza di lei lì, con il volto finalmente scoperto e l’intenzione di mostrarlo al mondo, accompagnando Roger dentro il tribunale per condividere la condanna che li attendeva.
Avrebbero affrontato insieme il processo, senza più il bisogno di cercare a tutti i costi il perdono. Per quanto li riguardava, in cuor loro erano già in pace.
E quando avrebbero finito di scontare quel crimine che non avevano commesso, sarebbero potuti andare avanti per la loro strada, consapevoli finalmente che così come nessuno era davvero innocente, non esisteva al mondo nemmeno chi era del tutto colpevole.
E non esisteva al mondo nessuno a cui la vita avrebbe negato un po’ d’amore e di serenità: bastava solo aprire gli occhi e le braccia, e lasciarsi avvolgere dalla luce senza temere di non trovarla.



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Non ho ancora deciso se questa storia è veramente mia o qualcuno si è impossessato di me mentre ero al pc a scrivere.
Più vado avanti e più sembra troppo triste -per non dire melodrammatica- perché sia una mia creazione. E dire che non ho avuto periodi di depressione ultimamente che giustifichino la tetraggine di questa vicenda.
Per fortuna siamo al penultimo capitolo, altrimenti avrei davvero cominciato a meditare sulla possibilità di farmi vedere da uno psichiatra.
Approfitto di questa occasione per augurarvi buon anno: spero che il vostro 2010 sia luminoso e scoppiettante come un fuoco d'artificio.
Al prossimo anno!



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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


In estremo ritardo, lo so, ma ci sono.
Scusatemi se vi ho fatto aspettare tanto, ma non sono riuscita di sottrarmi a un sequestro all'ultimo minuto per una gita in montagna, perciò riesco a mettere le mani al pc e aggiornare solo oggi.
Rimando al fondo per i commenti finali e non vi faccio attendere oltre.
Buona lettura!


 
Capitolo XIV



Silsden, diversi anni dopo

Cho Chang non era mai apparsa come qualcosa di diverso da una moglie e una madre ordinaria, una persona tra tante.
Ed effettivamente lei stessa non si riteneva nulla di più.
Eppure la sera, quando i suoi bambini si riunivano attorno al camino e suo marito sedeva nella poltrona davanti a lei mentre era intenta a rammendare i pantaloni bucati di Robin, che se li strappava in continuazione giocando a Quidditch, o smacchiare la camicia di Eric, che amava rotolarsi nelle pozzanghere, emergeva il suo talento fuori dal comune: raccontare storie.
E non storie qualunque, ma racconti che parlavano di avventure bizzarre e strane: una ragazza e i suoi due pretendenti al ballo di Natale, un bacio rubato all’eroe dagli occhi verdi, un’abile Cercatrice a cavallo di una vecchia scopa che rifiutava di uscire con il suo capitano per amore del ragazzo perduto.
Spesso i suoi figli, affascinati, le chiedevano se fossero vere.
Cho rideva e rispondeva che c’era ben poca verità in esse, e quando loro insistevano per sapere cosa, tra tutto, fosse attinente alla realtà, lei li lasciava provare a indovinare, ma in qualche modo riusciva sempre a evitare di dare una risposta.
E il mistero rimaneva, irrisolvibile.
Poi, quando i bambini andavano a letto, suo marito le si sedeva di fianco, la abbracciava e le chiedeva di raccontare qualcosa anche a lui.
E allora Cho smetteva di sorridere e tirava fuori altre storie, vicende che i bambini non potevano ancora capire, piene di soprusi, di perdite, di rimorso, di colpe senza perdono e amore non ricambiato. Vicende che avevano il sapore amaro della realtà.
Raccontava di un uomo cupo e senza alcuna attrattiva che tuttavia sotto l’aspetto rude conservava un amore puro e saldo come diamante, e di come aveva aspettato la ragazza che amava per mesi e mesi, fino a che, un giorno, i loro sentieri si erano uniti di nuovo.
E di un giovane troppo orgoglioso, cresciuto senza il padre e con una madre troppo cieca per capire ciò di cui aveva bisogno, e delle sue corse clandestine e di come aveva finalmente ritrovato quel cielo tanto bramato dopo essere uscito di prigione, creando dal nulla la più grande azienda al mondo di scope sportive.
Tutte quelle storie erano intrise di sensazioni, di suoni, di profumi. E, soprattutto, di colori: il ramato, come la ruggine che increspa le vecchie carrozzerie di auto disusate, e il verde, come l’erba delle colline di campagna e dei prati dello Yorkshire.
Ogni volta, suo marito si chiedeva se qualcuno di quei racconti non fosse poi così irreale, e se quei luoghi suggestivi non fossero poi più vicini di quanto non sembrasse.
«Potrebbe essere successo a Ilkley Moor» diceva, indicando la finestra, da cui si scorgeva nella notte la sagoma scura della montagna contro le stelle.
Cho, a quel punto, fissava lo sguardo verso l’esterno e i suoi occhi si perdevano in qualche posto che suo marito non poteva vedere.
Anche lui fissava l’esterno, cercando di interrogare l’ombra di Ilkley Moor.
Ma, come Cho, la montagna si teneva i suoi segreti.
«Si, potrebbe.»

Fine



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So che è un finale forse troppo velato e labile per trarre davvero le conclusioni di una storia come Verderame e so che ci sono molte cose in sospeso o non trattate al meglio –la madre di Roger e il loro rapporto, come Marietta si sia a sua volta innamorata di Ruben nel tempo, quanto Roger abbia sofferto la perdita della gamba sono solo alcuni dei tanti aspetti che ho tralasciato-, ma è l’unico epilogo che mi sento di dare a questa vicenda.
Come ho detto all’inizio di questa storia, non sono abituata a scrivere introspettive o a indagare la psicologia umana, ma ho voluto provare.
E ho provato con questi due personaggi per due motivi principali. Il primo è che da sempre sono convinta che Roger Davies sia l’unico, genuino “bello e dannato” del canon di Harry Potter. Il secondo è io preferisco il perdono alla giustizia, e quando lessi, in un’intervista di J.K. Rowling che Marietta avrebbe conservato tutta la vita le cicatrici perché “odio i traditori” (cit. di J.K. Rowling stessa), ho sentito il bisogno di darle una possibilità non dico di rivalsa, ma almeno di conforto.
Inoltre sebbene questa vicenda possa benissimo essere orientata all’angst, essendo io poco amante del senso di angoscia, ho cercato di renderla piuttosto malinconica, umana e il più delicata possibile; se sono riuscita nel mio intento, dovrete essere voi a dirmelo.
Se siete arrivati qui, comunque, suppongo che questa storia non debba esservi dispiaciuta, quindi mi ritengo soddisfatta di essere almeno stata capace di trattenervi con me fino alla fine.
E ora vi ringrazio di aver letto, seguito o recensito e vi saluto, sperando di ritrovarvi anche in futuro.
Arrivederci!

Credits:
Verderame è un pigmento di un colore tra l'azzurro e il verde; Ilkley Moor e Silsden sono posti realmente esistenti ma non essendoci mai stata, non posso dire se il modo in cui li immagino è attinente o meno alla realtà; i Magazzini di Disincantamento sono una creazione ispirata alle comuni discariche di auto e rifiuti Babbane, e la condanna di Roger a lavorarci è un parallelismo all'Inferno di Dante, in cui a certo peccato corrisponde una pena inversa o estremizzata. La frase “la montagna si teneva i suoi segreti” è tratta e riadattata da un libro di Neil Gaiman, Il figlio del cimitero.
 




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