Verderame di Mue (/viewuser.php?uid=79505)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
Prima di
iniziare, una premessa doverosa.
Avete letto bene i personaggi? Esatto, c'è scritto
"sorpresa", il che significa che se rimanete delusi perché
non c'era il vostro personaggio preferito o quello che vi aspettavate
sono affari puramente vostri. Una sorpresa è una sorpresa,
insomma u.u
In secundis, questa storia è stata scritta per il prompt Auto volante della tabella Seven for Side sui mezzi di trasporto magici, in collaborazione con Lady of Lorien e Calliope.
Detto questo, un grazie grande come un Ungaro Spinato -aculei compresi-
a whateverhappened che
ormai è la beta di fiducissima della sottoscritta e che si
è sobbarcata anche questa volta il grosso lavoro di
correzione e accendiamo i motori.
Si parte!
Disclaimer: I personaggi e gli elementi creati da J.K. Rowling presenti in questa fanfiction sono suoi e solamente suoi, il resto della storia è tutto una mia invenzione. Questa storia non è scritta a scopo di lucro.
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Capitolo I
Da qualche parte in
Scozia, 15 agosto
Il motore ruggiva come una Manticora affamata in gabbia.
Le gambe gli formicolavano e vampate di adrenalina gli risalivano
violentemente lungo la spina dorsale.
Era pronto.
La sua testa era svuotata di tutto, concentrata solo sullo strapiombo
che si apriva davanti a lui.
Laggiù, in fondo a duecento metri di vuoto, c’era
la foresta, una macchia di nero assoluto in quella buia notte di
tempesta.
In quel trionfo di tenebre persino i fanali delle auto in linea
sull’orlo del precipizio sembravano inglobati
nell’oscurità.
«Ehi, tu!»
Si voltò e vide un uomo che gli faceva gesti fuori dal
finestrino. Lo abbassò di una spanna.
«Che c’è?»
«Metà dei concorrenti si è ritirata. Ti
consiglio di fare lo stesso, se domani non vuoi ritrovarti in una
corsia del San Mungo con la testa aperta in due. Non si vede a un Lumos di
distanza.»
Lui si limitò a piegare la bocca in un ghigno.
«Non temere, se succedesse ti farei avere una cartolina via
gufo da Londra.»
L’uomo alzò gli occhi al cielo e
borbottò qualcosa, quindi si ritrasse e si
allontanò dalle auto di dieci passi. «Molto
bene!» ruggì dunque, la voce amplificata da un
Incanto Sonorus. «Siete ancora in quattro concorrenti in
gara, e le condizioni del tempo non accennano a migliorare. Ma chi
c’è, c’è, e ormai non
può più tirarsi indietro. Siete pronti?»
Lui seguì l’esempio delle altre tre auto in gara e
schiacciò il clacson per dare il suo assenso.
«Perfetto! E allora… tre, due, uno…
VIA!»
Mollò il freno tutto d’un colpo, e la macchina
scattò in avanti, dritta giù dal dirupo. Vide il
mondo inclinarsi di novanta gradi e la linea del precipizio assumere
un’apparenza orizzontale.
Stava precipitando.
La macchia nero inchiostro degli alberi di sotto si avvicinava
rapidamente. Molto rapidamente.
Sapeva perfettamente cosa doveva fare: serrò il volante in
una mano e premette con decisione un pulsante che recitava “Volo” sul
cruscotto.
La discesa rallentò, ma era ancora troppo veloce.
E non sarebbe stato certo lui a frenarla.
Pigiò l’acceleratore, e l’auto si
lanciò con un cigolio sinistro tra le fronde degli alberi,
raddrizzandosi di botto.
Il contraccolpo non lo prese di sorpresa: era abituato alla sua
antiquata Golf Cabrio e alle sue brusche riprese di quota; erano il
segreto che l’aveva portato, in quei quattro anni, in vetta
alle scommesse di corse clandestine di auto volanti babbane incantate.
E anche in cima alla lista delle persone sgradite al Ministero.
Uno schianto a pochi metri da lui lo informò che uno degli
altri concorrenti si era abbattuto contro un albero.
Meno uno, pensò soddisfatto.
Poi non pensò più, e rivolse occhi, sensi e mente
al labirinto di rami e tronchi davanti a lui. Niente di problematico:
ne aveva viste di peggio, giocando a Quidditch. Sebbene a Quidditch non
fosse mai stato assalito dalla sensazione di brivido e di esaltazione
che lo invadeva durante le corse di auto; era la sensazione del
rischio, la sensazione del proibito; e, Merlino!, quanto la
amava.
Poi accadde qualcosa.
Un lampo rosso in mezzo ai rami alla sua sinistra.
Si arrischiò a distogliere lo sguardo per mezzo secondo
dalla strada e li vide: uomini, molti uomini a cavallo di scope; e
avevano mantelli neri ben riconoscibili.
Dannazione.
Virò all’improvviso a destra e si gettò
in una macchia di abeti sperando di seminarli; spense i fanali: non ci
avrebbe visto nulla, ma almeno non si sarebbe fatto individuare da
decine di metri di distanza.
Auror.
Dovevano aver scoperto la corsa clandestina. Chissà chi
aveva fatto loro la soffiata.
Sbuffò, poi sogghignò di nuovo. Ora vediamo quanto siete bravi
su quelle scope da quattro soldi.
Si appiattì ancora di più al terreno,
rallentando, e premette il pulsante
dell’invisibilità. Ora volava rasoterra,
lentamente, guardandosi intorno circospetto.
Nessuno.
Forse li aveva…
Non finì di pensare che un lampo rosso saettò nel
buio della foresta e il finestrino posteriore dell’auto
s’infranse in mille schegge.
Irritato, fece accelerare di nuovo la macchina con un sobbalzo e
tornò a guizzare tra i rami. Non era facile guidare al buio,
ed era ancora meno facile quando avevi un Auror su una scopa che
persisteva a rimanere visibile nel tuo specchietto retrovisore.
Ma non si era ancora stancato di seguirlo?
Svoltò all’improvviso, poi ancora, e per un pelo
evitò un grosso ramo di quercia. Il successivo, invece, gli
portò via la parte superiore del tetto di tela.
E tanti saluti all’invisibilità.
Forse prima avrebbe dovuto spegnere la macchina:
l’Auror probabilmente l’aveva individuato per il
ronzio del motore e adesso non dava cenno di rinunciare alla sua preda.
Premette l’acceleratore a fondo e finalmente vide nello
specchietto l’inseguitore allontanarsi e poi sparire.
Soddisfatto, riportò lo sguardo davanti a sé.
Tutto ciò che vide fu solo una solida parete di roccia.
Poi nulla.
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Eccomi!
Ringrazio infinitamente chi ha recensito il primo capitolo; vi informo
-malvagiamente xD- che il personaggio della corsa in auto non
è in realtà la "sorpresa" che figura tra i
personaggi di questa storia, o, almeno, non la maggiore ;)
Chiedo perdono in anticipo per eventuali ritardi di aggiornamento, dato
che in questo periodo ho diversi impegni a tenermi lontana dal pc, ma
cercherò di non farvi aspettare troppo.
Vi ringrazio anche per la fiducia che mi accordate: questa storia
è la prima "non leggera" che scrivo, e spero che possa piacervi fino alla sua conclusione.
Buona lettura!
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Capitolo II
San Mungo, 26 agosto
«E’ lei il signor Roger Dominic
Davies?»
Roger Dominic Davies rispose senza aprire gli occhi.
«No.»
Silenzio.
Poi la stessa voce disse: «Signor Davies, la prego di non
fare lo spiritoso. La sua situazione è già
abbastanza difficile senza che lei cerchi di aggravarla
ulteriormente.»
«Io non faccio lo spiritoso. Mi ha fatto una domanda e io le
ho risposto» osservò tranquillo Roger, gli occhi
ancora chiusi.
«Signor Davies, se lei nega la propria identità
davanti a un legale e a un inviato ministeriale non fa altro che
aggiungere alla già cospicua lista dei suoi reati anche
l’accusa di falsa testimonianza.»
Roger si decise finalmente ad aprire uno degli occhi, e quello che vide
non gli piacque. In piedi di fianco alla sua branda
d’ospedale c’erano due uomini, uno giovane e uno
più anziano.
Il primo, quello che gli stava parlando, aveva capelli color sabbia, un
viso largo e squadrato e un mento dalla linea decisa. Gli sembrava di
averlo già visto da qualche parte.
«Signor inviato del Ministero, se lei chiede la mia
identità conoscendo già la risposta non fa altro
che creare perplessità sulla sua già dubbia
intelligenza.»
L’uomo strinse le labbra ma si
controllò. «L’inviato del Ministero non
sono io, signore, ma il signor Cattermole.»
L’uomo più anziano, che Roger suppose fosse il
signor Cattermole, si fece avanti. «Sono qui per sincerarmi
della sua salute, signor Davies. E per concludere un accordo tra il
Ministero e il suo avvocato.» E fece un cenno verso
l’individuo più giovane.
Roger stavolta aprì tutt’e due gli occhi e si fece
attento. «Il mio avvocato? Sarebbe lei?»
L’uomo più giovane annuì. «Mi
chiamo Finnigan. Sono stato ingaggiato da sua madre.»
Roger si tirò su a sedere, irritato. «Mi sembra di
avere superato la maggiore età da abbastanza anni per
scegliermi un legale da solo.»
«Sì, signore» rispose Finnigan,
irreprensibile. «Ma il fatto che lei sia stato in coma per
circa una settimana e mezza ha spinto sua madre a prendere
l’iniziativa. Se non l’avesse fatto, ora lei
sarebbe immediatamente convocato davanti al Wizengamot Minore senza
difesa.»
Roger inarcò le sopracciglia. «Mi sta forse
dicendo che invece non sarà così?»
«Esattamente, signore» intervenne il signor
Cattermole. «Grazie all’intermediazione del qui
presente signor Finnigan siamo giunti a un compromesso. Io sono qui
proprio per sincerarmi del fatto che lo accetterete. Dopotutto in
questo periodo il Ministero ha già parecchio da fare senza
processi per reati minori.»
Roger guardò da uno all’altro, sospettoso.
«Mi credete davvero tanto sprovveduto da credervi
così, sulla parola?»
Finnigan parve trovarla un’argomentazione sensata,
perché lanciò un’occhiata al signor
Cattermole e gli fece un cenno cortese verso la porta.
L’altro annuì. «La lascio solo con il
suo legale, signor Davies. E le consiglio vivamente di ascoltarlo,
perché è indubbiamente uno dei migliori avvocati
che Londra abbia mai conosciuto.»
Uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle.
Roger tornò a squadrare Finnigan, diffidente. «Uno
dei migliori, eh? Però non so ancora se migliore per i
clienti o se per il Wizengamot.»
«Dicono per entrambi» affermò
compostamente Finnigan.
«E’ un doppiogiochista?»
«Sono un avvocato, signore, che cerca di conciliare al meglio
le due parti nel modo che mi suggerisce la coscienza.»
«Allora è un idealista»
replicò Roger con un sorriso sprezzante. «Strano
come negli ultimi anni gli idealisti siano volati in alto. Prima della
Seconda Guerra Magica pareva che non fossero destinati a una fine
così lieta.»
C’era da dire in onore di Finnigan che aveva una pazienza
incrollabile. Infatti, invece di reagire o ribattere seccamente, prese
una sedia e la avvicinò al letto di Roger.
«Le dispiace se mi siedo? E’ tutto il mattino che
corro senza sosta, e sono piuttosto stanco.»
Roger non si degnò di rispondere, anche perché
intuì che Finnigan si sarebbe seduto pure senza il suo
permesso. «Sto cercando di capire dove l’ho
già vista» rivelò, studiandolo con
attenzione. «Era a Hogwarts, per caso?»
L’altro annuì. «Sì.
Grifondoro, stessa classe di Harry Potter.» Nessuno aveva
bisogno di altre spiegazioni.
Roger piegò la bocca in un ghigno. «Dovevo
immaginarlo.»
«Bene. E ora, signor Davies, possiamo finalmente venire al
dunque? Vorrei portare a termine il lavoro per cui sono qui.»
Roger appoggiò la schiena ai cuscini, rilassato.
«Prego, sono tutt’orecchi.»
Finnigan sospirò. «Lei è sospettato di
gravi infrazioni alle Leggi sull’Uso Improprio di Manufatti
Babbani e di partecipazione ad attività clandestine quali
corse su auto volanti, scommesse e gioco d’azzardo. Tuttavia
gli Auror non l’hanno mai arrestata per mancanza di prove,
fino alla notte del quindici agosto quando è stato colto in
flagranza di reato.»
Roger gli fece cenno di continuare.
«Tuttavia non ci sono prove né testimoni per tutti
gli altri sospetti su di lei. Il Ministero a questo punto sarebbe
costretto ad aprire un’indagine approfondita ma, come ha
detto Cattermole, hanno un bel da fare in questo periodo.
Perciò mi sono incaricato di fare una sorta di…
accordo.»
«Ha patteggiato con il Wizengamot?» chiese Roger,
divertito.
«Non è propriamente corretto. Diciamo che il
Ministero è disposto a lasciar cadere i sospetti e non
indagare oltre, accontentandosi di farle scontare solo la pena minore
per la corsa clandestina in cui è stato coinvolto il
quindici agosto.»
«E di cosa si tratterebbe? Un soggiorno mensile ad
Azkaban?»
«No. Sbatterla ad Azkaban richiederebbe un gran mucchio di
scartoffie che per essere compilate hanno bisogno di aprire
un’indagine, ed è proprio quello che vogliamo
evitare. Perciò per lei si è scelta
una… una sana attività di recupero.»
Roger staccò la schiena dai cuscini e si
raddrizzò, il sogghigno scomparso tutto d’un
colpo. «Che cosa?!»
Finnigan sorrise. «Attività di recupero. O
volontariato, se preferisce.»
Roger fece una smorfia. «Volontariato?
Signor Finnigan, le assicuro che non farei mai volontariamente niente
che…»
«Forse non mi sono spiegato bene» lo interruppe
pacatamente Finnigan. «Signor Davies, lei non deve fare nulla
volontariamente. Lei deve
farlo e basta. E’ l’unica
possibilità che ha se non vuole finire dritto per sei mesi
ad Azkaban, perché, glielo assicuro, se
costringerà il Ministero ad aprire un’indagine,
andranno fino in fondo. Non so di preciso cosa abbia fatto lei durante
la Seconda Guerra Magica, ma se dovessero scoprire anche solo qualcosa
di quel periodo, non saranno indulgenti. E’ una ferita ancora
troppo recente perché le venga perdonato tutto
così facilmente.»
Roger guardò negli occhi l’uomo che aveva davanti.
«Che cosa sa del mio passato?» chiese, atono.
Finnigan sostenne severamente il suo sguardo. «Sono il suo
avvocato, signore. Sapere è il mio mestiere. Dia retta a me:
accetti.»
Roger strinse i denti e rimase in silenzio per un lungo istante. Poi,
alla fine, con uno sforzo enorme annuì.
Finnigan parve sollevato. «Molto bene. Allora vado a chiamare
il signor Cattermole; è lui che deve informarvi sulla vostra
attività socialmente utile per i prossimi…
diciamo otto mesi.»
«Otto mesi?!»
Finnigan sorrise, per la verità con un’ombra di
sadismo nel volto, e gli diede le spalle per andare a riaprire la porta.
«Finnigan» lo bloccò Roger.
«Sì?»
«Lei era dell’ES, non è vero?
L’esercito clandestino di minorenni a Hogwarts.»
L’uomo annuì. «Sì, e con
questo?»
Roger fece un sorriso amareggiato. «E’ fortunato.
Era già dalla parte giusta: non ha avuto la
possibilità di sbagliare.»
L’altro inarcò un sopracciglio. «Lei
sì, invece?»
Lui ricambiò lo sguardo, serio. «Se non
l’avessi avuta, crede che sarei ridotto
così?»
Finnigan lo guardò.
Roger aveva gli stessi lineamenti attraenti che facevano andare in
estasi le ragazzine ai tempi di Hogwarts, ma la loro espressione era
molto diversa dalla serena compiacenza di quegli anni. Aveva lo stesso
corpo atletico e aitante, ma sotto il ginocchio destro non
c’era più una gamba di carne, ma una di acciaio e
ferro, saldata con la magia dieci giorni prima, dopo
l’incidente in cui l’aveva persa. Aveva gli stessi
occhi di quel grigio scuro tempestoso di una volta, ma la loro
vitalità sembrava solo un ricordo lontano.
«No, forse no.»
Roger fece un sorriso che non aveva nulla di divertito.
«Già. E ora è troppo tardi per
chiederne una seconda, vero?»
Finnigan non rispose, ma sapevano entrambi che la risposta era
affermativa.
Era troppo tardi, ora. O troppo presto. Forse un giorno il tempo
avrebbe cancellato le ferite di quella guerra.
Ma per il momento nessuno lo poteva ancora dire con certezza.
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Capitolo 3 *** Capitolo III ***
Eccomi
tornata!
Non mi soffermo troppo con le note dell'autore perché sono
reduce di un viaggio di quattro ore e temo di poter scrivere cose molto
incoerenti -sì, più del solito.-
Grazie come sempre a chi recensisce: i vostri commenti sono come dei
bellissimi regali di Natale in anticipo ;)
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Capitolo III
Ilkley Moor, 6 settembre
Ilkley Moor.
Un diavolo di posto fuori dal mondo. O, perlomeno, fuori dal mondo in
cui lui era sempre vissuto.
Rocce, sterpi e brughiera a non finire; ogni tanto capitava anche
qualche escursionista Babbano nelle vicinanze, ma non si avvicinavano
mai più di quanto lo permettessero gli incantesimi
protettivi.
E poi c’era il cielo, che lassù la faceva da
padrone.
Roger non ricordava di essersi mai accorto della sua
immensità in tutta la sua vita, nemmeno quel lontano giorno
in cui aveva gareggiato in una brughiera irlandese di Sligo.
Probabilmente perché, concentrato solo sul traguardo,
sull’auto e su se stesso, non ci aveva mai fatto caso.
Ora, però, seduto fuori da un grosso Magazzino di
Disincantamento e Smaltimento Magico ad aspettare il carico, aveva
tutto il tempo di badarci per bene. Dopotutto non c’erano
tante altre alternative per distrarsi dall’attesa e,
soprattutto, dalla sbobba terribile che gli avevano rifilato per pranzo
e che giaceva nel cartoccio sulle sue ginocchia.
«Ehi, Gambarossa, stai battendo la fiacca?»
ruggì qualcuno alle sue spalle, facendolo sobbalzare.
Roger si voltò. Dietro di lui c’era la porta di
legno scuro incassata nel costone della montagna che costituiva
l’ingresso del magazzino sotterraneo. E sulla porta
c’era uno degli uomini più minacciosi e nerboruti
che avesse mai avuto la sfortuna di conoscere.
«La mia pausa pranzo finisce tra dieci minuti,
Armstrong» rispose Roger con cautela. Aveva imparato in
fretta a non replicare con troppa supponenza a Ruben Armstrong, il capo
di quel posto dimenticato dagli dei.
«Porta avanti il tuo orologio. La tua pausa è
finita due minuti fa e giù di sotto c’è
un mucchio di rottami da smaltire. Fila, qui ci penso io.»
Roger riteneva il suo orologio più che efficiente, ma
obbedì immediatamente, gettando il resto del suo pranzo nel
prato e lasciando il suo posto di vedetta all’altro.
Non gli piaceva stare lì fuori all’aperto a
sentire il vento lambirgli seducente la pelle: gli ricordava le corse
nei prati, le gare clandestine e, ancor più, i voli sulle
scope; tutte cose che lui, ora, con una gamba artificiale,
l’espulsione dalla lega di Quidditch e il fiato del Ministero
sul collo avrebbe fatto meglio a dimenticare per un bel pezzo.
Otto maledetti,
miserabili mesi di nulla, ecco cosa mi aspetta,
pensò tra sé mentre varcava la soglia del
magazzino e un’ondata di vapori fluorescenti lo investiva con
violenza.
Si tappò la bocca, trattenendo un’imprecazione, e
si alzò la sciarpa fino al naso. Era una delle prime regole
che gli avevano insegnato appena entrato in quel posto da incubo.
«Se vuoi sopravvivere qui» aveva abbaiato Ruben il
primo giorno, «vedi di coprirti il naso e la bocca e
respirare meno che puoi. E non levarti gli occhiali. Se non obbedisci,
ti accechi e muori per i vapori tossici, oppure muori lo stesso
perché ti ho ammazzato io dopo averti trovato a faccia
scoperta. Tutto chiaro?»
Cristallino, a parere di Roger. D’altro canto non aveva
scelta: doveva passare in quel magazzino sepolto nel ventre di una
montagna i successivi otto mesi della sua vita, e per sopravvivere non
c’era da fare altro che obbedire.
Sospirò, si sistemò i grossi occhiali protettivi
e si inoltrò nel corridoio che portava dritto dentro il
magazzino.
O “inferno”, come lo chiamava lui.
Perché degli inferi quel posto aveva molto: a partire
dall’ingresso, un cunicolo buio scavato nel fianco della
montagna che portava dritto dritto al primo livello, una balconata
circolare che ti permetteva di affacciarti giù, verso il
secondo, più in basso di trenta metri.
Un elevatore faceva da tramite tra i due piani e permetteva di scendere
di sotto, dove c’era il vero cuore del magazzino.
Era lì, infatti, che venivano ammucchiate auto incantate,
utensili maledetti, meccanismi stregati, aggeggi Babbani di ogni tipo
impregnati di magia illegale e altro ancora. Ed era lì che,
grazie al Mastomantice, tutti quei mucchi di roba venivano lentamente
disincantati.
Prima di entrare lì dentro Roger non sapeva quanto fosse
complicato togliere incantesimi e fatture superiori allo standard
elementare dagli oggetti incantati. Soprattutto quelli clandestini,
spesso in origine semplici oggetti Babbani maledetti dai Mangiamorte e
dai seguaci di Colui-che-non-deve-essere-nominato.
Il primo giorno Ruben gli aveva fatto vedere il Mastomantice,
un’enorme caldaia di fuoco magico in cui, un po’
alla volta, gettavano auto, utensili e tutto il resto, che poi
bruciavano insieme alla magia di cui erano impregnati.
Era un processo che richiedeva un ammasso di sudore, di vapori
velenosi, di scintille pericolose e, soprattutto, un assordante pulsare
lento e continuo del mantice che comprendeva il corpo principale di
quell’enorme marchingegno.
Ruben era già stato così gentile da avvisare
Roger che probabilmente otto mesi sarebbero stati più che
sufficienti a renderlo se non rintronato, perlomeno mezzo sordo per il
resto della sua vita.
Che importa? Sono sette
anni che non ho un futuro davanti, quindi perché dovrei
preoccuparmi adesso di come sarò ridotto tra otto mesi?,
si disse Roger azionando l’elevatore per scendere al
Mastomantice a fare l’ingrato lavoro che gli era stato
assegnato. E chi mi
dice che dopo questi otto mesi non mi costringeranno a restarmene
rinchiuso qui altri otto? O per tutta la vita?
L’elevatore giunse al livello inferiore con un cigolio
sinistro e Roger uscì ancora immerso nei suoi pensieri.
Forse avrebbe dovuto rifiutare l’offerta di Finnigan e del
Ministero, e lasciare che aprissero un’indagine su di lui.
Ma, come aveva detto lo stesso Finnigan, la Seconda Guerra Magica era
una ferita ancora aperta, e non sarebbero stati indulgenti su certi
suoi trascorsi. No, piuttosto che un ergastolo esemplare ad Azkaban
preferiva un meno esemplare periodo indefinito di
“volontariato” in quel posto infernale.
«Attento al cavo» esclamò una voce
femminile, distogliendolo di colpo dalle sue meditazioni.
Roger scavalcò un lungo filo nero teso a mezz’aria
appena in tempo per evitare un clamoroso capitombolo con la faccia a
terra. Sorpreso, alzò lo sguardo e incrociò un
paio di occhi nascosti dietro grossi occhiali protettivi.
«Ah, sei tu» commentò lui, allargando la
faccia in un sorriso che rimase sotto la sciarpa. «Allora sai
anche parlare, eh?»
La persona che gli stava di fronte sbuffò.
Roger l’aveva conosciuta il primo giorno di lavoro: era
l’unica altra presenza umana là sotto oltre a
Ruben –se umano si potesse definire quel colosso nero- e ci
aveva messo qualche ora a capire che sotto la sua tuta da lavoro
c’era una ragazza. Non aveva idea di come si chiamasse
perché Ruben aveva il vizio di rinominare tutti con dei
nomignoli, lei compresa.
“Cub”, cucciolo,
così l’aveva battezzata, ma Roger non aveva ancora
capito se lo facesse perché era particolarmente minuta,
particolarmente giovane o altro ancora.
In effetti aveva davvero capito poco di lei: non l’aveva mai
vista in faccia perché aveva sempre una maledetta sciarpa
color rame tirata su fino al naso e non si erano nemmeno mai rivolti la
parola, nonostante lavorassero fianco a fianco da ormai una settimana.
Una volta aveva chiesto a Ruben come si chiamasse.
«Non provarci con lei, Gambarossa. Non voglio imbrogli
amorosi nel mio magazzino. E poi non hai speranze.»
Quella frase, unita al colore biondo scuro dei ricci della donna e
vaghe forme femminili sotto i suoi abiti che Roger aveva individuato
nella traballante luce rossa delle lampade del magazzino, era bastata a
instillargli una curiosità per nulla disinteressata.
«Ti è sparita di nuovo la lingua?»
insisté seguendo la donna che gli aveva voltato le spalle e
si stava dirigendo decisa verso il Mastomantice.
«Io per lavorare uso le braccia, Davies, non la lingua. E se
non vuoi che Ben cominci a perdere la pazienza, ti consiglio di fare
altrettanto.»
«Wow, siamo passati da tre parole a una frase
intera» replicò affabilmente Roger. «Di
questo passo rischiamo di uscire insieme domani o dopodomani.»
Lei non rispose, limitandosi a lanciargli un’occhiataccia.
Tutt’altro che scoraggiato, Roger continuò a
starle appiccicato anche mentre lei apriva lo sportello del
Mastomantice e buttava dentro un po’ di carbone per il Fuoco
Draconiano che bruciava dentro la fornace.
«Dai, non vuoi dirmi nemmeno il tuo nome?»
«Perché dovrei?»
«Perché tu conosci il mio»
replicò lui, facendosi serio. «E io invece no. Non
mi sembra molto equo.»
Lei parve disorientata per un attimo. «Come sai che conosco
il tuo nome?»
«Mi hai chiamato “Davies” due secondi
fa.»
Lei indietreggiò di un passo, cercando di mettere tra loro
una distanza che le concedesse di guardarlo negli occhi senza inclinare
indietro tutta la testa. La differenza di altezze tra loro era
piuttosto marcata.
«Ben ti ha chiamato così…»
«Armstrong non mi ha chiamato per nome nemmeno una
volta» la interruppe lui subito. «Da quando sono
qui si è rivolto a me sempre e solo con
“Gambarossa”» e fece una smorfia
accennando alla propria gamba metallica color bronzo.
«Comunque non dubito che tu l’abbia saputo da lui,
dato che è l’unico a conoscerlo nei dintorni. E
poiché non mi sembrava il tipo a cui piace chiacchierare dei
dati anagrafici dei suoi sottoposti», le si
avvicinò, studiandola, «significa che
t’interesso così tanto che glielo sei andata a
chiedere…»
«Io non gli ho chiesto proprio niente!»
esclamò lei, facendo un gesto stizzito con una mano.
«Non sono come te, Gambarossa: non ho bisogno che qualcuno ci
stia con me per dimostrare a me stessa e al mondo che anche se ho perso
una gamba non sono ancora un rottame da buttare via.»
Roger si pietrificò.
L’aveva detto. Quella donna aveva appena detto ad alta voce
ciò che da giorni e giorni Roger covava nel cuore;
ciò che non era ancora stato capace di ammettere con se
stesso: di essere, ora, nient’altro che un rottame; una
carcassa malconcia e incapace di volare, destinata solo ad arrugginire
e sbriciolarsi nel tempo; a diventare la polvere di ciò che
era un tempo.
La verità di quelle parole lo soverchiò; una
verità a cui non riusciva a rassegnarsi.
E’ veramente a
questo che sono arrivato? E’ tutto qui ciò che
sono diventato?
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Capitolo 4 *** Capitolo IV ***
Capitolo IV
Ilkley Moor, 6 settembre
«Non vuoi dirmi nemmeno il tuo nome?»
Lo conosci già, si ritrovò a pensare
con amarezza, le mani strette ai bordi del lavabo davanti a
sé, gli occhi fissi nel suo riflesso. Tu non lo ricordi, ma una volta
ero una delle molte ragazzine innamorate di te.
Era stato tanto tempo prima, il giorno stesso in cui si era distrutta
il futuro da sola, con le sue stesse mani.
Allora era ancora una ragazza come tante. Una studentessa di Hogwarts,
intelligente, carina, piena di amiche.
Serena. Felice.
Ricordava tuttora la lunga attesa davanti a quella porta di quercia,
preda dell’indecisione. Ricordava le proprie dita scivolare
nervose a distendere le pieghe della sua gonna. Una, due, mille volte.
I secondi che si trascinavano come gocce di pioggia che scivolano sul
vetro, restie a scorrere via.
Probabilmente, se lui non fosse stato lì proprio in quel
momento, lei l’avrebbe dimenticato, obliato tra le altre
cotte giovanili. Un po’ come aveva dimenticato il resto della
sua felicità perduta, quella felicità che dopo
quel giorno non era più tornata.
Ricordava di essere stata in piedi in quel corridoio così
tanto tempo da sentire le gambe formicolare. E poi, a un tratto, lui
era passato, solo. Si era voltato distrattamente a guardarla, senza
attenzione, però c’era qualcosa nel volto di lei
che l’aveva fatto fermare e gli aveva fatto dire qualcosa che
lei non aveva capito.
Poi se n’era andato.
Era stato l’ultimo a vederla in volto prima che la sua
condanna si adempisse, prima che la sua vita fosse marchiata per sempre.
E ritrovarselo davanti ora era come vedersi spalancare una porta su un
passato a cui non poteva tornare, come riaprire una ferita che si stava
rimarginando, un’ustione troppo profonda che ricominciava a
bruciare.
Respirò a fondo, cercando di pensare a qualcosa
d’altro, qualsiasi
cosa.
E fu in quel momento che sentì la porta dello stanzino
aprirsi violentemente dietro di lei.
«E’ andato. Puoi anche levarti la
sciarpa.»
Lei alzò gli occhi e nello specchio, alle sue spalle, vide
Ruben ricoperto di fuliggine e sudore che si toglieva la camicia e
recuperava dei vestiti puliti.
Lì al Magazzino non c’era abbastanza spazio da
creare spogliatoi o bagni divisi tra uomini e donne, e nessuno ne aveva
mai nemmeno sentito il bisogno. Ruben non si era mai fatto problemi a
cambiarsi di fronte a lei, né lei s’era mai
vergognata di farlo davanti a lui.
D’altronde Ruben Armstrong era colui che l’aveva
rivestita di dignità quando, tre anni prima, lei si era
strappata via ogni certezza, denudando la propria anima disperata. Che
cosa poteva contare il corpo se ormai l’aveva vista
così in profondità nel suo spirito?
Ma ora che era arrivato Davies… beh, ora era tutta
un’altra storia.
Ora non poteva più spogliarsi appena aveva finito di
lavorare. Non poteva più scoprirsi il volto appena si
lasciava i vapori tossici alle spalle. Non poteva più
lasciarsi vedere; non da chi poteva riconoscerla.
«E’ arrivato due ore fa un nuovo carico di auto.
Domani ci sarà da sgobbare» disse asciutto Ruben,
distogliendola dai suoi pensieri.
Lei non rispose, andando a sedersi sulla panca vicino a lui. Si tolse
la sciarpa lentamente e la posò sulle ginocchia, abbassando
gli occhi vacui sulla copia della Gazzetta del Profeta che Ruben aveva
abbandonato lì accanto.
“Nuove
ispezioni del Ministero per scovare gli artefatti oscuri”
lesse sulla prima pagina. Sul trafiletto di fianco c’era un
servizio sui nuovi prototipi di calderoni disponibili a Diagon Alley.
In un angolo una famosa cantante rock appena salita alla ribalta le
sorrideva da una foto.
Lei ricambiò lo sguardo, inespressiva.
Credi che basti un bel
viso per essere felice? Credi che basti una bella voce o buone
conoscenze per restare dove sei? Sciocca. Ti accorgerai anche tu prima
o poi che la vita si prende sempre più di ciò che
ti dà, fino a prosciugarti, riducendoti a
nient’altro che cenere.
Serrò la sciarpa tra i pugni, cercando si scacciare il senso
di oppressione che la stava per soffocare.
Una pacca dolorosa su una spalla la fece sussultare.
Sollevò il capo e si ritrovò a pochi centimetri
il torace robusto di Ruben.
«Allora, che fai lì impalata? Te ne torni a casa o
devo aspettare i tuoi comodi per chiudere la baracca?»
Lei si alzò di scatto e si affrettò a uscire.
Ruben la seguì, chiudendosi alle spalle prima la porta dello
stanzino che dava sul corridoio d’ingresso al magazzino e poi
il portone incassato nel costone di roccia.
«Ci vediamo domani» lo salutò atona lei.
Ruben grugnì in risposta, tirando il catenaccio per
assicurarsi che fosse chiuso.
Lei stava già per voltargli le spalle e incamminarsi, ma lui
la richiamò all’improvviso.
«Cub.»
«Sì?» fece lei, senza guardarlo in
faccia.
«Gambarossa ci ha provato con te, oggi?»
Lei soppresse a stento un moto di sorpresa.
«Perché?» chiese dopo un attimo di
esitazione.
«Perché se non fa come dico io, lo sbatto fuori
all’istante.»
Lei scosse il capo lentamente. «Non mi dà
fastidio. E’ solo un’idiota come un
altro.»
Silenzio.
Poi un odore penetrante le raggiunse le narici, e seppe che Ben
s’era acceso un sigaro.
«Invece mi sembrava un po’ diverso dagli altri. Per
te, almeno.»
Passarono diversi secondi prima che lei fosse in grado di rispondere.
«E’ un idiota come un altro. Cambia solo il fatto
che lo conoscevo in passato. Tutto qui.»
Ben non replicò e la oltrepassò, una rozza figura
nero carbone ritagliata contro il cielo plumbeo della sera.
«E’ questo che mi preoccupa» disse un
attimo prima di Smaterializzarsi. «Il tuo maledetto passato,
Cub.»
*
Era solo l’inizio di settembre e, nonostante la pioggia
caduta nella settimana precedente, non faceva ancora abbastanza freddo
da costringere gli abitanti di Silsden a chiudersi in casa e accendere
il riscaldamento –o, nel caso dei Maghi, il camino.-
Lei sedeva sui gradini di legno, fuori dalla porta d’ingresso.
La piccola casa dove abitava era circondata da prati fangosi e
costeggiata da un filare di olmi a est. Era proprio su quel lato che
dava l’ingresso, ed era anche il suo lato preferito: da
lì era possibile vedere innalzarsi la cima di Ilkley Moor.
Quella montagna non era solo lavoro, per lei, era anche tutto il resto.
Nel suo profilo tozzo trovava la forza di andare avanti, nelle sue
viscere ogni giorno si sentiva di nuovo viva, nel calore
dell’enorme fornace dentro di essa trovava lo scopo di vivere
e nel saluto di Ruben ogni mattina e ogni sera sentiva di avere ancora
un contatto, ancora una possibilità con il resto del mondo.
O forse era solo una sua illusione.
Forse non c’era nessun’altra possibilità.
Forse, anche se ora aveva cancellato il marchio della sua colpa, non
poteva ancora essere perdonata.
Avrebbe potuto scoprirlo in ogni momento, abbandonando quel posto e
tornando a vivere tra gli altri, tra la gente. Ma era una vigliacca, e
non aveva il coraggio di lasciare un nido sicuro per rincorrere quello
che poteva essere solo un folle miraggio.
La verità era che continuava a credere che la vergogna
l’avesse contaminata troppo nel profondo perché il
fuoco potesse averla di nuovo purificata.
Si passò una mano sul viso, sospirando.
Il fuoco. E quel dolore così forte che per un momento aveva
pensato di impazzire del tutto. Se non lo aveva già fatto.
No, probabilmente non era bastato nemmeno quello a cancellare il suo
crimine. E l’arrivo di Davies non faceva altro che
confermarle quanto la vita, schernendola, volesse ricordarle di essere
colpevole. Per sempre.
----------
Ed eccomi
di nuovo qui. Spero che questo capitolo sia stato piacevole, sebbene
piuttosto pesante dato che è quasi tutto basato sui pensieri
di un personaggio sconosciuto e -lo ammetto- particolarmente depresso.
Chi ha già indovinato chi è ha la mia stima
più viva e chi non lo sa ancora ha la mia comprensione:
considerato su quali personaggi scrivo di solito, è
difficile capire di chi si tratta anche quando chiarisco nome, cognome,
albero genealogico, indirizzo e numero di telefono XD
Come sempre, grazie a tutti i lettori *-*
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Capitolo 5 *** Capitolo V ***
Stasera sono di
nuovo di fretta; no, ecco, diciamo che ultimamente sono sempre di
fretta, ma non credo vi importi molto. Ringrazio al volo e con tutto il
calore che posso dare in questo gelo polare tutte le persone che hanno
letto e recensito.
Buona lettura!
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Capitolo V
Ilkley Moor, 24 settembre
I giorni sono come le foglie d’autunno: alcuni
muoiono languidamente, uno ad uno, depositandosi placidi ai piedi
dell’albero della vita, altri vengono strappati via con forza
dai loro rami e sospinti in luoghi lontani, impensabili.
Fino a quel momento Roger era stato sicuro di preferire i secondi. Il
rischio, l’imprevisto, l’ignoto, tutto
ciò che stava fuori dai limiti della massa comune, degli
altri: questo era ciò di cui lui era sempre vissuto e che
aveva sempre desiderato.
Un’esistenza comune, una lunga serie di giorni che si
rincorrono tutti uguali l’uno all’altro non gli si
addicevano.
Anche se fosse andata diversamente, anche se non fosse mai entrato nel
mondo della clandestinità, Roger era certo che non avrebbe
comunque mai accettato di vivere inerte, passivo.
Ora, però, era diverso.
Era sepolto vivo ormai da venti giorni in quell’inferno di
rottami, tenui luci rosse e scintille crepitanti. La mattina inseguiva
la sera e la sera la mattina in una frenesia senza tregue, e quando lo
realizzò, guardandosi il viso allo specchio quel mattino,
rimase sbalordito da come quell’unico mese che lo separava
dalla sua vita clandestina pareva essersi dilatato tanto da sembrare
un’eternità.
«E’ così che vivono tutti gli altri?
Tutti quelli che non hanno mai trasgredito? Che non hanno niente da
farsi perdonare?» si chiese ad alta voce, esplorando con lo
sguardo le rughe del suo riflesso. Rughe che un mese prima gli
sarebbero sembrate solo le tracce delle intemperie e della
sregolatezza, un marchio da esibire con orgoglio, ma in cui ora non
poteva fare altro che leggere gli insulti che il passato gli rivolgeva.
«Se tu fossi uno di coloro che non hanno niente da farsi
perdonare non saresti qui» gli rispose in un mormorio una
voce ovattata.
Roger spostò lo sguardo nello specchio e
individuò la figura dal volto coperto dalla sciarpa che era
entrata nello spogliatoio dietro di lui.
Le sorrise. «Questo è vero.» Si
voltò per guardarla di fronte. «E tu
cos’hai da farti perdonare per essere qui?»
Lei scrollò le spalle e si sedette su una panca per infilare
gli stivali da lavoro. Roger indugiò un attimo, poi si
sedette di fianco a lei raccogliendo una vecchia copia della Gazzetta del Profeta
da terra.
S’immerse in un articolo che narrava con minuzia di
particolari la caccia serrata del Ministero agli oggetti oscuri nelle
case delle ultime grandi famiglie Purosangue sospettate di essere state
in combutta con Colui-che-non-deve-essere-nominato durante la guerra e
rise tra sé del ridicolo di tutta quella faccenda.
Come se fosse stato solo lui la radice di quella guerra. Come se chi si
fosse unito a lui lo avesse fatto solo per il potere, solo per la
corruzione.
Menzogne, solo menzogne. Menzogne per dimenticare, per nascondere la
realtà e le sue vergogne; per nascondere che prima della
salita al potere di Colui-che-non-deve-essere-nominato, il Ministero
non era perfetto come si credeva e già allora
c’erano centinaia di maghi che trafficavano oggetti oscuri, e
altre centinaia che si dedicavano alle Arti Oscure, o al commercio
clandestino, o altro ancora.
E’ facile
addossare tutto a un solo capro espiatorio,
meditò, cupo. Una
volta eliminato, chi rimane a dimostrare che non tutte le colpe erano
sue? Chi rimane a testimoniare contro gli altri colpevoli ancora vivi e
assolti da ogni condanna?
«Scusa.»
Roger alzò lo sguardo, sorpreso. Cub lo stava fronteggiando.
«Come?»
«Scusa per quello che ti ho detto un po’ di giorni
fa sulla tua gamba. Non volevo essere così dura.»
Dire che Roger era sbigottito era un eufemismo. Di più, era
sconvolto: in quei giorni i loro rapporti erano leggermente migliorati
–inevitabile quando si lavora fianco a fianco con la stessa
persona per ore e ore sepolto sotto una montagna- ma non credeva tanto
da indurla a un gesto come quello.
Dato che non le rispose nulla, lei scosse il capo.
«Be’, se sei ancora offeso non posso farci
niente.»
«No, non sono offeso» la interruppe Roger,
alzandosi dalla panca con un sospiro. «Hai solo detto la
verità.»
«Io non intendevo…»
«Intendevi eccome, invece» ribatté lui.
«Dopotutto non credo che si possa mantenere a lungo qualsiasi
forma di tatto lavorando per tanto tempo con Ruben.»
Il sorriso di lei era nascosto sotto la sciarpa, ma Roger lo
avvertì lo stesso nella sua voce e nel modo in cui si
mossero le sue sopracciglia. «Dici?»
«Oh, sì. Credimi, persino un unicorno sotto la sua
influenza assumerebbe la grazia di uno Schiopodo Sparacoda.»
«Li avevo dimenticati, gli Schiopodi» fece lei,
lasciandosi sfuggire una risata cristallina.
Roger aggrottò le sopracciglia. «Allora
c’eri anche tu a Hogwarts quell’anno, eh?»
Lei smise di ridere di botto.
Roger le sorrise suadente. «Sentivo che non potevi avere
tanti anni meno o più di me.»
Lei alzò una mano tremante, come se lo volesse colpire. Poi
la riabbassò di colpo, gli diede le spalle e uscì
dalla stanza in fretta.
Roger rimase a fissare la porta per qualche secondo, poi
ripiombò pesantemente sulla panca.
Bene, perfetto.
Aveva appena scoperto che la ragazza era una sua potenziale vecchia
conoscenza scolastica; un’arma che poteva rivelarsi a doppio
taglio, per lui, sempre che avesse avuto l’occasione di
usarla per penetrare ancora di più nella cortina di mistero
che la avvolgeva; ora come ora non ne era così sicuro: anzi,
era più propenso a credere che sarebbe stato ancora
più difficile scoprire di più dopo averla
raggirata così facilmente.
Ma avrebbe insistito. Se c’era anche solo una cosa che gli
era rimasta del vecchio Davies, era la sua ostinazione. E quando
qualcosa lo intrigava, Roger sapeva essere davvero molto ostinato.
*
Il Fuoco Draconiano che alimentava il Mastomantice era
l’unico tipo di fiamma –oltre
all’Ardemonio, che però era illegale- in grado di
annientare qualsiasi tipo di magia o incantesimo ed era anche tanto
raro e difficile da creare che i suoi Artefici erano pagati a peso
d’oro. Per questo motivo i Magazzini di Disincantamento non
potevano permettersi di chiamarne uno ogni mattina per riaccendere la
fornace e dovevano tenere sempre accesa almeno una fiammella con cui
rimettere in funzione il Mastomantice ogni volta.
E sempre per questo motivo a Roger toccava l’ingrato compito
di scendere fino al Mastomantice ogni mattina, togliere lo
smorzacandele dalla fiamma custodita nel ventre della caldaia e
riaccendere il fuoco.
E ogni sera, sempre a Roger era affidato l’incarico di
raccogliere dal Fuoco Draconiano la fiamma per il giorno successivo,
spegnere la caldaia e ripulirla da cima a fondo.
Era un lavoro orribile da svolgere per il semplice fatto che quel
fuoco, oltre a emanare un calore infernale, aveva anche un odore che
sembrava un misto di zolfo e carbone bruciato che si appiccicava
addosso a chiunque e qualunque cosa nel raggio di dieci metri.
Quella mattina Roger aveva ancora meno voglia di attendere alla sua
ingrata mansione. Stava ancora sbadigliando frugandosi le tasche in
cerca delle chiavi per aprire lo sportello della caldaia quando
notò qualcosa di strano. Si chinò e
guardò meglio il catenaccio dello sportello che di solito
era lui a chiudere la sera. Era aperto.
Roger trattenne un’imprecazione a stento. Com’era
possibile? Era certo di aver chiuso bene, la sera prima.
Come se fosse in grado di leggerle nel pensiero, una voce disse:
«A Ruben non importerà sapere se sei sicuro o no.
Se lo verrà a sapere, ti staccherà la testa dal
collo a mani nude.»
Roger si voltò di scatto, furioso. «Sei stata
tu?!»
Lei lo fissò da dietro gli occhiali spessi. «Io? E
perché dovrei? Ho di meglio da fare che infastidire chi
lavora qui dentro.»
«Se lo hai fatto solo perché prima ti sei
offesa…»
«Io non ho fatto niente!» sbottò lei.
«Smettila di accusarmi di cose che non stanno né
in cielo né in terra. Ti sei semplicemente dimenticato di
chiudere ieri sera. E ora» aggiunse, spiccia, «ti
conviene accendere in fretta quella caldaia, prima che arrivi Ruben e
si accorga che l’hai lasciata aperta.»
Roger aggrottò la fronte. «Significa che non
glielo andrai a dire?»
«Te l’ho detto» rispose lei, voltandogli
le spalle. «Non sono come te.»
Ma qualcosa, nel tono in cui lo disse, gridò silenziosamente
che quella era solo una menzogna. Che erano molto più simili
di quanto entrambi avessero creduto.
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Capitolo 6 *** Capitolo VI ***
Buongiorno ^-^
Finalmente vi scrivo con più calma e posso dilungarmi in
dissertazioni inutili sul fatto che qui abbia piovuto e non ci sia
più neve, che sia già la Vigilia e come io non
avessi ancora nemmeno realizzato che fosse cominciato l'Avvento.
No, d'accordo, non vi annoierò. Però dato che
domani è Natale, siamo tutti più buoni e io non
ho niente da regalarvi tranne ciò che scrivo, oggi vi
rifilerò due
capitoli: offerta prendi due, paghi uno xD
E voi che siete più buoni e non avete mai parlato, avete
voglia di lasciarmi un commentino o siete troppo impegnati a riempirvi
di panettone e biscotti come farà domani la sottoscritta?
Nel primo caso, grazie veramente, nel secondo caso, buon appetito xD
E, ovviamente e con affetto, buon Natale!
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Capitolo
VI
Ilkley Moor, 30 settembre
«Battiamo la fiacca, eh?»
Lei trasalì e si alzò la sciarpa fino al naso in
un impulso spontaneo, schermandosi dalla luce del sole.
«Stavo pranzando» disse risentita, voltandosi a
fronteggiare Roger che le si era avvicinato da dietro di soppiatto.
«Che cosa vuoi?»
Lui alzò il cartoccio che teneva in una mano, serio.
«Ero venuto a farti compagnia durante il pranzo. Ma se ti
dà tanto fastidio, me ne torno dentro.»
Lei si morse un labbro, trattenendosi all’ultimo momento
dall’esclamare: “No, resta!”
«Non mi dai fastidio» disse invece, fredda.
«Tanto questo prato è di tutti.»
Roger sorrise e si sedette accanto a lei a gambe incrociate.
«Quando arriva il prossimo carico?»
«Tra mezz’ora, credo. Ruben arriverà tra
un’ora, quindi dovremo portarlo dentro noi.»
«Quindi ora siamo solo noi due?» fece Roger,
lanciandole un’occhiata maliziosa.
Lei si sentì rizzare i capelli sulla nuca: era da anni che
non vedeva più un’occhiata del genere, soprattutto
erano anni che non ne veniva rivolta una proprio a lei.
Roger non diede segno di essersi accorto di averla turbata:
aprì il cartoccio che aveva posato in grembo e fece una
smorfia così disgustata quando ne vide il contenuto che lei
non riuscì a non scoppiare a ridere.
«Ti assicuro che non c’è niente di
divertente» disse lui, serio. «Vuoi assaggiare
questo schifo?»
Lei si affrettò a scuotere il capo. «No, grazie,
non ho più fame.»
A Roger s’illuminarono gli occhi a
quell’affermazione.
Lei seguì il suo sguardo rapace e vide che stava fissando
avidamente l’incarto dei panini sulle proprie ginocchia.
«Me ne sono avanzati due. Ne vuoi…» Non
fece in tempo a concludere la frase che lui aveva già
accettato, allungando la mano.
La scena le evocò un ricordo lontano; un pomeriggio di sole
come quello, sulle rive del lago di Hogwarts verso la fine di maggio.
Un Roger giovane, aitante e nel pieno delle sue forze era seduto poco
lontano da lei e si lamentava di avere fame. Lei si era alzata, gli si
era avvicinata e gli aveva chiesto se volesse il suo panino
perché non aveva più fame. Il ragazzo aveva
accettato prima ancora che lei avesse formulato la domanda.
E se si ricordasse anche
lui?, si chiese improvvisamente, e la sua mano, che gli
stava già tendendo l’incarto, si ritrasse
istintivamente.
Roger fece un’espressione sorpresa. «Che
c’è, hai cambiato idea?»
«Ah… no, tieni, mangia.» Gli
passò i panini in malo modo e si alzò di scatto,
allontanandosi.
«Ehi, sei sicura di non volerne ancora?» le
urlò dietro lui.
«No!» rispose lei ad alta voce.
Stava per varcare l’ingresso del magazzino quando si
sentì tirare per una manica. Si girò e vide Roger
che l’aveva seguita con i panini in mano.
«Che cosa c’è?» chiese,
spaventata. Ti prego,
fa che non si sia ricordato. Che non si sia reso conto…
Roger le sorrise. «Grazie.»
E la lasciò lì, sulla porta, tornando nel prato.
E i ricordi si riversarono su di lei come cascate di luce che si
gettano in una notte grigia.
Roger nella sua divisa di Hogwarts che le sorride e le dice:
“Grazie.”
Lei che nei suoi ingenui quattordici anni non può che
perdersi nel sorriso di lui, nel suo modo di arricciare il naso quando
poi ride con i suoi amici, dimenticandosi subito di lei, troppo
popolare per prestarle ancora attenzione; troppo spensierato per
accorgersi dei suoi sentimenti; o forse troppo indifferente a lei.
Roger era ancora quello di una volta: sorrideva e rideva allo stesso
modo. E, allo stesso modo, faceva ancora parte di un mondo che lei non
avrebbe mai raggiunto.
*
«Perché prepari così tanti panini,
ultimamente?» chiese curiosa la sua amica.
Lei scrollò le spalle. «Ho molta fame.»
L’altra si accigliò, fissandola con uno sguardo
indagatore, come se dubitasse delle sue parole. «Non sei
incinta, vero?»
«Ma che diavolo stai dicendo?» sbottò
lei, irritata. «E di chi, secondo te?»
«Non so; forse Ruben. O quello che è arrivato al
Magazzino un mese fa; non me ne hai ancora parlato, tra
l’altro. Che tipo è?»
Lei rimase con la schiena rivolta all’amica, fingendo di
sistemare l’insalata dentro uno dei panini.
Si trovavano nella piccola cucina a Silsden, l’una seduta sul
divanetto, l’altra in piedi al bancone, intenta a incartare
il pranzo per il giorno successivo.
«Oh, niente di speciale» disse, cercando di
assumere un tono indifferente. «Un mezzo criminale come un
altro. Non vedo l’ora che finisca il suo periodo di
volontariato e se ne vada.»
«Chissà cosa spinge quella gente a fare la vita
che fanno…» si chiese l’altra ad alta
voce. «Correre su auto clandestine, rischiare ogni volta
l’osso del collo e guadagnare pochi soldi e sempre
più fama al Dipartimento degli Auror al
Ministero… chi vorrebbe una vita così?»
Lei non rispose. Si era spesso chiesta negli ultimi giorni come Roger
Davies avesse potuto ridursi a fare quello che faceva, ma non osava
chiederglielo di persona, e ora come ora non riusciva a immaginare
nessun motivo valido che potesse spingere un ragazzo di belle promesse
come lui alla clandestinità.
Sapeva che dopo essersi diplomato a Hogwarts aveva avuto diverse
offerte dalle squadre di Quidditch di tutto il paese. Possibile che le
avesse rifiutate tutte nel nome di una vita sì movimentata,
ma anche estremamente rischiosa –come dimostrava la gamba
metallica che ora si ritrovava al posto di quella normale-?
O forse c’era qualcosa che l’aveva spinto, volente
o nolente, su quella strada?
“E’
così che vivono tutti gli altri? Tutti quelli che non hanno
mai trasgredito? Che non hanno niente da farsi perdonare?”
Così gli aveva sentito dire. Parlava del fatto di essere
stato un pilota di corse clandestine o di qualcos’altro?
Qualcosa di cui davvero non voleva parlare con nessuno?
«Non lo so» mormorò, più
rivolta a se stessa che all’amica. «Non riesco a
capire.»
«Be’, non è che abbia molta importanza,
no? Tra qualche mese sparirà e ti lascerà di
nuovo in pace, a disgregarti in quel pozzo buio pieno di
veleno.»
La sua amica non aveva mai approvato il lavoro che faceva: odiava il
magazzino di Ilkley Moor e odiava il fatto che lei non volesse saperne
di andarsene da lì. E, ancora di più, la sua
amica –l’aveva capito, anche se non glielo aveva
mai confessato- odiava se stessa perché non era riuscita a
starle accanto quando era calata nel baratro più oscuro
della disperazione; perché non riusciva a farla rinascere, a
farla tornare a quella che lei chiamava “vita
normale”; e perché, nel profondo del suo cuore,
era ancora convinta che fosse colpa sua.
«Preferisco il veleno del fuoco che quello della
gente» rispose lei, indifferente. «E, che tu ci
creda o no, mi piace quel posto. Mi piace come danzano le scintille che
escono dalla caldaia, mi piacciono le fiamme e il calore che divampano
incessanti e potentissime, più forti di qualsiasi
sortilegio; e…»
«Sì, sì» disse la sua amica,
scettica. «Ci manca solo che mi dici che ti piacciono anche
Ruben e il criminale e siamo a posto.»
Lei non replicò. Ma dentro di sé una voce
dichiarò senza paura: “Sì, mi piacciono
anche loro.”
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Capitolo 7 *** Capitolo VII ***
Come promesso prima,
eccovi il secondo capitolo di oggi ^-^
Nelle note del capitolo precedente ho copiato parte della mia lettera a
Babbo Natale di quest'anno ("Caro Babbo Natale, vorrei qualche
recensione da chi non ho mai sentito..."), in quelle di questo devo
ringraziare chi mi ha fatto questo regalo in anticipo sul tempo *-*
Grazie a voi, soprattutto a voi, che trovate il tempo di cliccare su
quella ostica riga "Inserisci una recensione" e mi lasciate anche solo
due parole per dirmi che vi siete divertiti almeno un pochino a
leggerla; perché creare qualcosa da soli è
divertente ma condividerlo è meraviglioso. Perciò, semplicemente, grazie.
----------
Capitolo
VII
Ilkley Moor, 15 ottobre
Se Finnigan, quando lo aveva portato laggiù,
gli avesse detto quanto ci si sarebbe trovato bene nel giro di due
mesi, Roger gli avrebbe sputato in faccia.
Eppure era così: Ilkley Moor era diventato un luogo molto
più familiare di qualsiasi monolocale, stanza
d’albergo o villetta in cui era vissuto negli ultimi anni. E
Roger ci stava bene.
Ruben era minaccioso come sempre, ma ora le sue minacce avevano il
sapore d’insulti scherzosi tra vecchi amici piuttosto che
quello dei lividi su tutto il corpo. E sebbene Roger avesse trovato
altre due volte la caldaia lasciata aperta, riuscì, con la
complicità di Cub, a impedire che il loro capo nerboruto lo
venisse a sapere.
Già, anche con Cub aveva fatto qualche passo avanti. Non era
ancora riuscito a vederla in faccia, né a combinare niente
di concreto con lei, ma i pranzi passati a chiacchierare insieme in
attesa di carichi di oggetti da disincantare li avevano resi molto meno
ostili di quanto non fossero all’inizio.
Roger avrebbe azzardato addirittura a dire “amici”,
se non fosse stato che lei ancora sembrava completamente avversa
all’idea di rivelargli almeno come si chiamasse.
Qualche indizio Roger l’aveva colto dai suoi movimenti, dal
suo modo di parlare, tutte cose che gli sembravano familiari in qualche
modo ma che non riusciva ad attribuire a una figura precisa.
Poi, un venerdì pomeriggio, quel teatro di bucolica
serenità crollò.
Cominciò tutto dall’assenza di Ruben.
«Oggi starà al Ministero tutto il giorno.
C’è una specie di assemblea di tutti i
responsabili dei Magazzini di Disincantamento inglesi e irlandesi, e ne
avranno fino a sera» aveva spiegato Cub quel pomeriggio.
«E il carico di oggi?»
«Non ce ne saranno: anche i trasportatori saranno
all’assemblea. Dobbiamo solo finire di smaltire quello che ci
avanza dagli altri giorni.»
«Allora non avanza niente. Ho già buttato tutto in
caldaia stamattina, e mancano solo un paio di auto incantate a cui deve
pensare Ruben domani» rivelò Roger, contrariato.
Non aveva voglia di tornare a casa -un monolocale estremamente
squallido nella periferia di Glasgow in cui non aveva altro da fare che
fissare per tutto il week-end le mosche appese alla striscia adesiva
che pendeva dal soffitto sopra il letto.-
«Allora possiamo tornare a casa anche subito»
affermò lei, del tutto ignara dei desideri
dell’altro.
Roger si guardò intorno sbuffando. Il magazzino era buio e
particolarmente vuoto: il livello inferiore, quello in cui si trovavano
in quel momento, era del tutto sgombro e c’erano solo le due
auto per Ruben parcheggiate in un angolo.
«Se vuoi andare, penso io a spegnere il
Mastomantice» lo rassicurò lei.
Roger, come fulminato, le afferrò una spalla.
«Aspetta!»
Lei lo guardò, interrogativa.
«Che ne dici se, invece, non approfittassimo
dell’assenza di Ruben per fare qualcosa di
divertente?»
Lei gli scostò in fretta la mano dalla propria spalla e
indietreggiò, guardinga. «Che cosa vuoi
dire?»
Roger rise. «Niente di quello che hai appena pensato. Stavo
solo pensando di fare un giro su una di quelle.» E
indicò le due auto malconce.
Lei fece un moto di sorpresa. «Che cosa?»
«Ma sì!» disse lui, eccitato.
«Oggi c’è nebbia su tutta la zona, non
ci vedrà nessuno! Perché non
approfittarne?»
«Tu sei pazzo!»
Roger le si avvicinò e la guardò negli occhi,
serio. «Hai mai provato la sensazione di librarti in volo su
un’auto? Di sentire il motore rombare al tuo comando? Di
lanciarti nella corrente del vento e sentire l’acciaio delle
porte scricchiolare?»
Lei aveva gli occhi spalancati sotto gli occhiali e lo guardava come se
lo ritenesse pazzo. «Mi stai chiedendo se ho mai provato a
suicidarmi?»
«Non è suicidio» affermò lui,
sicuro di sé. «Anzi, il contrario,
fidati.»
«E’ proprio questo il problema: non mi fido affatto
di te.»
*
E tuttavia mezz’ora dopo erano entrambi a bordo della vecchia
Citroen SM color ocra dalle maniglie arrugginite e lo sterzo
capriccioso, nel prato in cima alla montagna.
«Non avrei dovuto accettare» bofonchiò
lei sotto la sciarpa.
«E’ troppo tardi per brontolare»
ridacchiò lui. «Pronta?»
«Posso essere sicura che alla fine della corsa non
avrò qualche arto metallico al posto
dell’originale?»
«Non preoccuparti» rispose lui, accendendo
l’auto, concentrato. «Non posso sbagliare due volte
di fila.»
Il motore fece un rumore che somigliava alla tosse di un vecchio
malato, poi ingranò e partì, rombando.
«Via» mormorò Roger in un sussurro
dolce, carezzevole, come quello di un
amante a una donna. E forse era proprio così: la macchina
era la sua donna, la sola che Roger voleva. L’unica.
Lei annuì, un groppo alla gola.
E partirono.
L’auto scattò in avanti lungo il prato della
montagna, sferragliando e inciampando nei sassi lungo il pendio.
Per un terribile istante lei credette che non sarebbero riusciti ad
alzarsi in volo. Poi Roger schiacciò un comando e
l’auto si alzò lentamente. E
all’improvviso furono in cielo e senza più terra
sotto i piedi.
I primi istanti non osò guardare giù, temendo di
non riuscire a trattenere il pranzo nello stomaco se l’avesse
fatto. Poi sentì una mano stringersi al suo polso.
Aprì gli occhi e trovò il sorriso di Roger.
«Avanti, guarda.»
Deglutì, poi obbedì e portò lo sguardo
davanti a sé.
Il mondo è
grigio, fu la prima cosa che pensò. Poi si rese
conto che avevano oltrepassato lo strato di foschia e che davanti a
loro si spalancava un universo di due colori: l’azzurro
intenso del cielo terso sopra e il grigio metallico della nebbia sotto.
Era entrata nell’universo di Roger Davies.
Sentì qualcosa dentro di lei tremare e cercò di
ricacciare le lacrime indietro. Che stupida che era! Perché
doveva piangere proprio in quel momento? Non c’era niente di
cui essere tristi, e nemmeno niente per abbastanza felici da piangere
di gioia.
Eppure non riusciva a trattenersi; perché quello che aveva
davanti era così bello che non poteva essere espresso a
parole: solo le lacrime potevano raccontare il fascino di quello
spettacolo, di quel momento.
«E’ bello, vero?»
Lei annuì.
«Ho cominciato a volare quand’ero molto
piccolo» continuò lui, fissando davanti a
sé l’orizzonte dei due colori che li circondavano.
«Sono sempre stato arrogante, fin da bambino. E nella mia
arroganza avevo deciso che avrei conquistato il cielo,
perché era ciò che di più grande
conoscevo.» Sorrise. «Di solito gli ambiziosi
puntano al potere sulla Terra; nessuno vuole comandare il cielo,
perché in cielo non c’è nulla che ti
obbedisca. Eppure io non riuscivo a rinunciare a quell’idea.
«Poi, ovviamente, sono cresciuto, ho lasciato perdere
l’idiozia del cielo e sono diventato una persona come le
altre. Ma m’è sempre rimasta appiccicata addosso
quella voglia pazza di volare, di gettarmi nel vuoto e sentire
l’aria entrarmi nei polmoni e accarezzarmi la
pelle.»
Lei si asciugò di nascosto gli occhi sotto le lenti scure
degli occhiali.
«Non ti bastava semplicemente respirarla?» disse
sarcastica, cercando di tenere un tono di voce che non tradisse
l’emozione che provava in quel momento.
Lui spostò lo sguardo dal parabrezza a lei. «No,
non mi bastava. L’ho detto, sono sempre stato arrogante. E
presuntuoso.»
Lei non disse nulla. Non c’era niente da dire,
lassù. C’era solo l’aria da respirare,
il cielo da sentire. E un senso di pace che entrambi avevano
dimenticato da troppo tempo.
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Capitolo 8 *** Capitolo VIII ***
Rieccomi!
Allora, prima di tutto, grazie per i regali di Babbo Natale, sono
felice di aver sentito qualcuno di voi. Vi siete abbuffati tutti per
bene ieri? State ancora smaltendo il tacchino e il panettone farcito?
Io sto scoppiando letteralmente di biscotti al cioccolato xD
Oggi vi posto un bel capitolo di svolta -sento eco di "finalmente"
là in fondo o sbaglio?- e non aggiungo altro, altrimenti mi
tolgo il gusto della sorpesa.
Buona lettura!
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Capitolo
VIII
Ilkley Moor, 15 ottobre
Nessuno dei due avrebbe voluto tornare a terra, ma la
benzina nel serbatoio finì fin troppo presto, e Roger,
mezz’ora dopo, guidò abilmente l’auto
dentro le porte del magazzino, fino al livello inferiore, al suo posto
nell’angolo buio.
Spense il motore e di colpo le loro vite e i loro passati,
così lontani e quasi dimenticati, tornarono a irretirli
nelle loro spire. Gli ultimi tentacoli di pace e di esaltazione di quel
volo scivolarono via da loro lentamente, e rimasero così, in
silenzio nella penombra illuminata solo dai fari dell’auto
ancora accesi.
«Roger?»
Lui si voltò a guardarla, sorpreso. «E’
la prima volta che ti sento chiamarmi per nome.»
Lei sospirò. «Non devo farlo?»
«Non ho detto questo.»
Lei lasciò passare un istante di silenzio prima di parlare
di nuovo. «Perché ti sei messo a guidare le auto?
Credevo che dopo Hogwarts ti saresti messo a giocare seriamente in
qualche squadra di Quidditch…»
Roger rimase muto per qualche minuto, e lei ebbe il timore che stesse
per insultarla o chiederle come sapesse così tante cose di
lui. Se in quel momento le avesse chiesto il suo nome, non era del
tutto certa di essere in grado di trattenersi ancora dal
dirglielo…
«Perché» mormorò alla fine,
così piano che lei stentò ad afferrare le sue
parole, «mi hanno espulso dalla Lega del Quidditch quando
è finita la guerra.»
Lei era sorpresa: non credeva che le avrebbe risposto davvero.
«Perché ti hanno espulso?»
«Per quello che ho fatto durante la guerra.» Roger
fece una pausa, inspirando profondamente. «Non credo che tu
lo voglia sapere.»
«E invece lo voglio sapere.»
«E’ una cosa che non sa quasi
nessuno…»
«Io non sono nessuno.»
Roger la guardò e sorrise nella penombra. «Come
preferisci, signorina Nessuno.» Si slacciò la
cintura e inclinò il sedile all’indietro,
mettendosi più comodo. «E’ successo dopo
un anno che ero nella Lega. Ero una riserva nei Tornados: una gran
bella posizione per uno appena uscito da Hogwarts con voti nemmeno
troppo brillanti. Credo che una buona percentuale di ciò che
influenzò gli allenatori a prendermi nei provini fu che
fossi figlio di uno dei capi del Dipartimento degli Sport e dei Giochi
Magici.»
«Vuoi dire…?» cominciò lei,
ma lui la interruppe subito.
«Mia madre; già allora era una figura di grande
rilievo al Ministero. Georgiana Taylor» aggiunse vedendo le
sopracciglia di lei inarcarsi, dubbiose.
«Cosa? Tu sei figlio di…» fece lei
sorpresa.
«Sì, sì» la interruppe lui,
scocciato. «Ecco, diciamo che la tua reazione è
quasi la stessa degli allenatori quando mi presentai ai provini. E
ovviamente mi presero.»
Sbuffò, lasciando cadere la testa all’indietro
–il poggiatesta del sedile mancava.-
«La mia carriera di giocatore cominciò come
sarebbe continuata e poi finita: priva del rispetto di tutti quelli che
erano arrivati alla squadra senza scorciatoie come si supponeva avessi
fatto io, e con il disprezzo di gran parte dei tifosi.
«L’unico a trattarmi con un riguardo quasi
amichevole era un ragazzo della mia età che non conoscevo,
Babbano di nascita. Si chiamava Trevis.»
Lei spalancò la bocca.
«Vedo che cominci a capire» disse lui con una
smorfia. «Trevis era pieno di talento: nemmeno se mi fossi
allenato per dodici ore al giorno avrei potuto raggiungere i suoi
livelli. Divenne titolare della squadra in pochissimi mesi. Sia lui che
io eravamo Cacciatori.»
Sospirò e chiuse gli occhi. «Poi arrivò
quella maledetta guerra e la caccia ai Mezzosangue. Verso il finire del
mio primo anno nella Lega il Ministero promulgò
l’editto che obbligava tutti i non Purosangue a presentare il
proprio albero genealogico e i propri documenti di nascita.
«Ovviamente gli allenatori falsificarono le carte di Trevis
pur di non perdere un giocatore con il suo talento; mia madre
aiutò a sbrigare le pratiche. Tutti rimasero zitti, e
finché fosse andata avanti così a Trevis non
sarebbe stato torto un capello.»
Si zittì, e la tensione nell’auto divenne
palpabile in quel silenzio.
«Puoi già immaginare cosa feci: Trevis era il mio
unico ostacolo al ruolo di Cacciatore titolare. Era un Mezzosangue, e a
me bastava lasciar trapelare per caso la verità a chi di
dovere per vedermelo tolto di mezzo e avere finalmente la strada
spianata.»
Si passò le mani sul viso. «E lo feci. Recitai la
parte della spia, e vennero a prenderlo per portarlo via. Non lo rividi
più e non so se sia ancora vivo o… o non lo sia
più.»
Smise di parlare, e l’oscurità attorno a loro
parve infittirsi, come se l’ombra della colpa di Roger si
fosse liberata e ora aleggiasse intorno a loro, densa, torbida.
«Alla fine della guerra mia madre mi fece espellere
perché se non fossi uscito subito, avrebbero fatto saltare
fuori la verità in un modo molto più spiacevole e
Azkaban non me l’avrebbe tolta nessuno. Dopo passai tre o
quattro mesi allo sbando, senza un lavoro e senza la
possibilità o le credenziali per procurarmene uno. Quando
qualcuno mi propose le gare clandestine, mi sembrò di vedere
uno spiraglio di luce nell’inferno in cui ero
finito.»
«E fu così, dopotutto» disse dolcemente
lei.
Lui si voltò, sorpreso. «Che cosa?»
«Per quanto sbagliato, ti ha dato la possibilità
di andare avanti, no? E anche di tornare a volare, in qualche modo. Ti
ha dato un futuro.»
Roger scrollò la testa. «Qualsiasi futuro possa
esserci davanti a me, continuerà a morire nel mio passato.
Non c’è via di fuga. Non c’è
perdono.»
«Non è vero» mormorò lei.
«Da qualche parte deve esserci. Il perdono,
intendo.»
Roger la guardò intensamente. «Tu credi?»
«Non lo so. Vorrei che fosse così,
ma…» Qualcosa di simile a una scheggia dolorosa le
strozzò la voce e le impedì di proseguire.
Sì, avrebbe voluto che fosse così, che ci fosse
qualche posto, in quel mondo, che lei avrebbe potuto sentire davvero come suo; sentirsi libera, innocente, senza colpa. Ma non l’aveva ancora
trovato. Persino laggiù, sepolta sotto una montagna, la vita
arrivava con il corpo e la voce di Roger a ricordarle che certe colpe
non potevano essere perdonate.
«Non lo so nemmeno io» disse Roger in un sussurro.
«E non mi interessa. Non ci penso mai.»
Lei lo guardò, fissa. «Preferisci dimenticare?
Preferisci l’oblio?»
«Sì» ammise lui, allungando una mano e
sfiorandole la fronte, l’unica parte del volto di lei
scoperta.
«Ma come fai a dimenticare? Io ci ho provato,
ma…» Il suo mormorio si perse negli occhi di lui.
Roger restò per un istante in silenzio a contemplarla. Poi
fece un mezzo sorriso. «In questo momento ho davanti a me un
ottimo deterrente per scordarmi tutto il resto.»
Lei trattenne il fiato mentre lui le prendeva gli occhiali e faceva per
sfilarglieli.
«No! Ti prego, non voglio… non farlo…
non voglio che guardi…»
Roger si ritrasse. «Non vuoi che lo faccia o non vuoi che ti
guardi?»
Lei non rispose. Si sporse verso di lui e raggiunse con una mano la
leva dei fari. Li spense, e l’oscurità
calò su di loro.
A Roger bastò come risposta: cercò a tentoni il
viso di lei e le sfilò gli occhiali e la sciarpa.
La sentì esitare e non si mosse: aspettò che
fosse lei a fare o a dire qualcosa.
E allora fu lei a muoversi, protendendosi verso di lui, in cerca delle
sue labbra. Roger la aspettava: la cinse tra le braccia e
inspirò l’odore acre dei suoi capelli dopo una
giornata di lavoro, il sapore amaro delle sue labbra e
l’aroma della sua pelle che scivolava sotto le sue dita.
Sono pazzo,
si disse. Non posso
farlo qui. Non posso farlo con lei: non so che faccia abbia, non so chi
sia. Non posso.
Ma non riusciva a fermarsi. C’era qualcosa che lo spingeva ad
andare avanti, ad andare a fondo, come quando con la sua auto si
lanciava da una rupe verso un baratro oscuro.
E stavolta non era solo il gusto del rischio, non era solo
l’urgenza del desiderio. Era qualcosa, nel modo in cui quella
ragazza si muoveva, nelle parole che gli rivolgeva, nel senso di
familiarità che emanava, qualcosa che gli diceva che loro
due condividevano il senso della colpa e del rimpianto, non importa
quanto in profondità lo celassero; che tutti e due avevano
bisogno del perdono ma non avevano la forza, il coraggio o
semplicemente l’umiltà di chiederlo.
E il mondo non aveva l’indulgenza di donarlo.
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Capitolo 9 *** Capitolo IX ***
Capitolo
IX
Ilkley Moor, notte del
15 ottobre
Roger se ne andò a casa senza provare a
guardarle il viso mentre lei fingeva di dormire accucciata in un angolo
del sedile posteriore dell’auto. Si era rivestito, aveva
lasciato le lampade e i fari dell’auto spenti e, al buio,
aveva pulito e chiuso diligentemente la caldaia e il Mastomantice prima
di uscire.
Lei non si era mossa dal suo posto finché non aveva sentito
il montacarichi raggiungere il livello superiore, scaricando il suo
passeggero. Anche allora non aveva provato ad alzarsi: si era messa a
contare i secondi che passavano per occupare la mente.
Non voleva pensare, in quel momento. Non voleva ricordare e nemmeno
azzardare ipotesi. Voleva restare concentrata sul tepore che la
avvolgeva, sul sedile cigolante su cui era rannicchiata, sul mantello
che Roger le aveva lasciato avvolto intorno al corpo.
Voleva continuare a vivere il piacere di quel momento rubato a una
realtà crudele e senza pietà; voleva continuare a
immaginare le braccia di Roger Davies che la sostenevano, come se la
volessero sollevare dal peso che si era portata in tutti quegli anni, e
quel corpo solido a cui si era aggrappata, un’ancora di
salvezza, e ai sussurri rochi che le aveva rivolto, dolci, che le erano
scivolati dentro l’anima.
Non voleva chiedersi se amava o no Roger Davies. Non voleva sapere se
lo aveva accettato per amore o per solitudine, se l’aveva
amato per passione o per disperazione. Temeva la risposta, ed evitava
la domanda.
Rimase lì, sola, per un tempo che le parve infinito, e forse
un paio di volte si addormentò.
Poi, dopo quelle che le parvero ore, sospirò, di un sospiro
profondo e spezzato, e si costrinse a rivestirsi e uscire
dall’auto.
S’incamminò debolmente verso il montacarichi, ma
qualcosa la fece fermare a metà del tragitto.
Una luce.
Si voltò verso la caldaia, nell’angolo opposto
della stanza: qualcosa ardeva al suo interno. Il Fuoco Draconiano.
Ma cosa…?
«Tu…» disse secca una voce alle sue
spalle.
Una voce che conosceva bene.
*
Roger si svegliò di soprassalto, grondante di sudore.
Ansimò pesantemente, prendendosi il viso tra le mani: aveva
sognato il viso di Trevis ridotto a una massa informe e macilenta, un
cadavere in decomposizione che lo chiamava da qualche luogo imprecisato
della sua incoscienza.
Si alzò in piedi, barcollante, e scostò le tende
oscuranti dell’unica finestra del suo monolocale. La luce
spenta e grigia di un mattino piovoso invase la stanza, rendendone
ancora più scialbo l’aspetto.
Che schifo di giornata,
pensò sfregandosi gli occhi stancamente. Aveva dormito
malissimo, perseguitato per tutta la notte da un incubo dopo
l’altro. Forse parlare del suo passato con la ragazza aveva
risvegliato i suoi ricordi peggiori; o forse erano i sensi di colpa per
quello che aveva fatto.
Me la sono fatta. Me la
sono fatta e nemmeno so chi è. Merlino, come sono potuto
cadere così in basso?
Eppure se pensava a quella sua pelle rovente dove si era perso, se
pensava a quella bocca dove ogni suo pensiero era scomparso, a quel
corpo che aveva annullato ogni altra sensazione che non fosse quel
desiderio e quella passione che li aveva bruciati…
E’
così sbagliato cercare di consolarsi in questo modo?
E’ così sbagliato voler affondare i propri sensi
in quelli di un’altra persona per dimenticare se stessi?
Ma la domanda ancora più bruciante era: la amava o aveva
solo cercato sul suo corpo la pace che in se stesso non riusciva a
trovare?
E ancora di più: lei lo amava? O era stata al suo stesso
gioco, anche lei in cerca di una distrazione dai propri sensi di colpa,
da quell’inadeguatezza che sembrava accomunarli?
Avrebbe potuto chiederglielo. Avrebbe potuto Smaterializzarsi in ogni
momento e andare da Ruben a chiedergli dove abitasse. Ma non lo fece.
«Da qualche
deve esserci. Il perdono, intendo.»
A Roger non importava del perdono. O, almeno, così aveva
pensato fino ad allora. Ma si era reso conto subito che la stessa
disperata ricerca di redenzione che c’era negli occhi di lei
doveva vivere anche in lui, sepolta in profondità.
Perché, altrimenti, Trevis tornava a tormentarlo nei suoi
sogni? Perché, per quanto si sforzasse di dimenticare, nella
sua testa rimaneva ancora quel malessere che non riusciva a scrollarsi
via?
Ma io non
potrò mai riscattarmi. Trevis è scomparso, e non
potrò mai chiedergli perdono per ciò che gli ho
fatto.
E proprio mentre l’ineluttabilità di questa
verità gli crollava addosso, crollarono anche le sue ultime,
traballanti certezze nel momento esatto in cui qualcuno si
Materializzò nella stanza all’improvviso.
CRACK!
Che…?
«E’ lui, fermatelo!»
Prima di rendersi conto che sei persone erano apparse nella sua stanza,
Roger si ritrovò steso a terra, sotto la morsa di due grossi
Auror in divisa nera.
«Ma che diavolo sta succedendo?!»
esclamò, la testa schiacciata contro il pavimento.
«Signor Davies» disse una voce severa di cui Roger,
nella posizione in cui si trovava, non riuscì a vedere il
proprietario, «lei è accusato di partecipazione
attiva a un pericoloso traffico clandestino di artefatti oscuri ed
è chiamato a testimoniare sulla scomparsa di due
persone.»
Roger serrò i pugni, e una domanda che da anni non faceva
che porsi ogni volta che aveva il coraggio di guardare in faccia
ciò che era diventato gli echeggiò nella mente,
senza risposta.
Perché?
----------
Okay,
lo so, non posso far finire un capitolo in questo modo, soprattutto se
è così tremendamente melodrammatico e pedante. Abbiate pazienza, prometto che dai prossimi capitoli cominceranno a
sciogliersi i nodi di questa vicenda, anche perché ci stiamo
avviando alla fine.
Vi ringrazio come sempre per il sostegno, anche perché sono
felice di accorgermi dai vostri commenti di essere riuscita a
trasmettervi quello che ho sentito scrivendo questa storia *-*
A domani per il prossimo aggiornamento!
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Capitolo 10 *** Capitolo X ***
Capitolo X
Ministero della Magia,
16 ottobre
Roger attese diverse ore nella stanza sotterranea accanto
alla sala del Wizengamot e le aule in cui venivano interrogati i
testimoni e gli accusati.
Lo avevano trascinato via di casa senza spiegazioni e lo avevano
scaricato in quella specie di cella umida e buia ad aspettare. Cosa,
non lo sapeva, così come non aveva idea di che diavolo
stesse succedendo.
Tutto ciò di cui si rendeva conto era che se per due volte
aveva evitato il processo per tutti i crimini che aveva commesso,
stavolta c'era praticamente dentro fino al collo per colpe di cui non
sapeva nulla.
Aveva chiesto spiegazioni agli uomini che lo avevano portato
lì, ma le sue proteste non erano valse a niente.
«La smetta di fare la vittima, signor Davies. Anche se non
è mai stato condannato, conosciamo tutta la sua lunga fedina
penale a menadito» gli ringhiò uno degli Auror
quando lo avevano lasciato in quella stanza. «Le consiglio di
tacere e tenere la bocca chiusa fino all’arrivo del suo
avvocato.» E si era sbattuto la porta alle spalle,
lasciandolo solo e non meno ignaro di quanto non lo fosse prima.
Poi, dopo un’attesa che Roger non era riuscito a calcolare,
era arrivato un altro uomo a chiedergli se aveva bisogno di qualcosa o
se dovesse andare a recuperargli i suoi effetti personali.
Roger non era riuscito a trattenersi: lo aveva mandato all'inferno
insieme a tutti gli altri e si era seduto sul pavimento, la schiena
appoggiata contro la parete e le braccia incrociate. E da lì
non si era più mosso.
Finché non era arrivata lei.
«Ciao, Roger» disse non appena la porta si
aprì ed entrò.
Lui alzò lo sguardo quel poco necessario per riconoscerla,
poi lo riabbassò senza una parola.
«Potresti anche mostrarti meno freddo nei confronti di tua
madre.»
«Quale madre?» rispose lui, sarcastico.
La donna fece un verso d'indignazione. «Vedo che non sei
cambiato. Sei sempre stato ingrato verso tutto quello che abbiamo fatto
io e Brian per te, e la vita da delinquente ti ha reso persino peggiore
di ciò che eri.»
«E
a te, mamma, la vita da Capodipartimento degli Sport e dei Giochi
Magici non ha mitigato la presunzione di essere la detentrice suprema
della Giustizia Divina.»
La donna tremò visibilmente: era chiaro che stava facendo
molta fatica per non gridargli qualcosa o tirargli un ceffone.
«Dobbiamo parlare, Roger.»
«Non abbiamo proprio niente da dirci, noi due.»
«Roger, non mi sono spiegata bene? Noi dobbiamo parlare.»
Roger alzò finalmente la testa e la fissò negli
occhi; quei maledetti occhi grigio tempesta che aveva ereditato da lei.
«Se hai qualcosa da dirmi, dilla subito, altrimenti vattene.
Non ti rendi conto di quanto la tua immagine possa essere danneggiata
dal restare qui in mia compagnia?»
La donna scosse i lunghi capelli corvini dietro la schiena in un gesto
di stizza. «E va bene.» Si guardò
intorno e, dato che la stanza era vuota e non c’erano sedie,
se ne fece portare una da un uomo che aspettava all’esterno.
Erano passati talmente tanti anni da quando lo aveva visto
l’ultima volta, che Roger faticò a riconoscervi
Brian, il suo patrigno che, quando lui aveva dodici anni, sua madre
aveva sposato dopo il divorzio da un padre che Roger non aveva
più rivisto.
«Che cosa vuoi?» chiese lui, dopo che lei si fu
accomodata sulla sedia. Brian era rimasto fuori, mostrando ancora una
volta che l’opinione che Roger aveva della sua vigliaccheria
non era del tutto ingiustificata: non aveva mai avuto il fegato di
confrontarsi con lui quando era un adolescente, figurarsi ora che erano
tutti e due uomini adulti.
«Che cos’è successo?»
domandò sua madre a bruciapelo.
«Se lo sapessi probabilmente non sarei qui, ma in viaggio in
qualche paese del sud molto caldo e soleggiato dove non possano
trovarmi» disse Roger, sarcastico.
La donna fece un sospiro d’insofferenza: non aveva mai
sopportato l’ironia graffiante di suo figlio.
«Seriamente, Roger, non vedo come…»
«Ho detto che non lo so, ma evidentemente il messaggio sotto
l’umorismo non è trapelato» la
interruppe lui, gelido.
Lei si accigliò. «Roger, forse non ti rendi conto
della situazione in cui ti trovi. Se insisti a non
dire…»
«DANNAZIONE, HO DETTO CHE NON SO NULLA!»
scattò in piedi lui, e sua madre trasalì
così violentemente che per poco non cadde dalla sedia. Roger
probabilmente l’avrebbe trovato molto divertente, se non
fosse stato tanto furioso.
«Vuoi dire che non sai perché ti hanno
arrestato?» chiese lei, stupita.
«Vuoi dire che hai bisogno che ti venga urlato qualcosa prima
che tu riesca ad afferrare il concetto?» ribatté
lui, aspro.
La donna cercò di ricomporsi. «Non
c’è bisogno che tu sia così scortese
con me. E comunque» aggiunse, prima che lui potesse
indirizzarle un’altra frecciata velenosa, «non
capisco come tu possa non saperlo. Insomma, non ti aspetterai certo che
il Ministero reputi il commercio clandestino di artefatti oscuri
attraverso un Magazzino di Disincantamento
un’attività lecita e
irreprensibile…»
«Che cosa?!» sbottò Roger, e lo
sbigottimento sul suo viso doveva essere così palese che sua
madre, per una volta, tentennò.
«Non lo sapevi davvero?»
«Quante volte hai bisogno che una persona ti dica
“no” prima che tu le creda?» rispose lui,
infastidito.
«Quando la persona davanti a me è il figlio che,
disinteressandosi dei genitori che l’hanno cresciuto, si
è dato alla macchia, nessun numero di volte sarà
sufficiente» rispose lei a tono.
Roger assunse un atteggiamento ostile. «Allora questa
discussione è del tutto inutile.»
«Roger, io…»
«Non ci provare. Sappiamo benissimo entrambi come stanno le
cose. Tu hai perso la tua credibilità verso di me preferendo
un uomo che ti fa da zerbino a mio padre, e io ho perso la mia
credibilità verso di te quando non sono diventato il figlio
irreprensibile che hai sempre desiderato.»
«Io non ho mai desiderato un figlio
irreprensibile…» cominciò lei.
«Oh, sì che l’hai fatto.
Inconsapevolmente, forse, ma lo hai fatto. Hai cercato di farmi
diventare ciò che era mio padre perché, se nella
tua presunzione non potevi accettare di avere accanto un uomo superiore
a te, potevi però crescerne uno con le tue mani e vantarti
della tua opera» Roger le diede le spalle, infilando le mani
nelle tasche dei pantaloni. «E tutto quello che mi rimane da
dirti a questo punto, è: scusa se non sono diventato
papà. Cerca il suo riflesso da qualche altra parte, ma non
aspettarti di farlo nascere in Brian.»
Il silenzio che seguì quell’affermazione fu
lunghissimo, quasi più dell’attesa che Roger aveva
passato in quella stanza prima dell’arrivo di sua madre. Un
silenzio caricò di verità scomode.
Poi sentì la donna alzarsi, spostare la sedia di lato e
uscire. Senza dire nulla.
Addio, mamma.
----------
Come promesso, eccomi qui ^-^
A quanto vedo avete per la maggior parte una teoria comune,
però io non confermo o smentisco ancora nulla. Se vi può consolare, comunque,
scoprirete se avete avuto ragione o no il prossimo capitolo, quindi pazientate ancora un
giorno.
Come sempre, grazie a tutti voi e a risentirci a domani.
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Capitolo 11 *** Capitolo XI ***
Capitolo
XI
Ministero della Magia,
16 ottobre
La seconda persona che irruppe nella solitudine della
stanza buia in cui Roger era confinato era un altro viso conosciuto. Un
viso di nome Seamus Finnigan, avvocato.
Roger stava già per cacciarlo via in malo modo, ma lui lo
precedette sul tempo.
«Non sono venuto per conto di sua madre.»
Sembrava quasi avergli letto nel pensiero. Roger richiuse la bocca
senza dire nulla e aspettò che si accomodasse
sull’unica sedia presente, restando in piedi a fronteggiarlo.
«Sono diventato erede di una montagna di Galeoni e non
l’ho saputo?» chiese cupamente.
Finnigan lo guardò perplesso. «Non che mi
risulti.»
«E allora per quale diabolica ragione si trova qui se non
posso pagarla per farmi da avvocato?»
Finnigan appoggiò i gomiti sulle ginocchia e sorrise.
«Mi sembra di averglielo già spiegato: seguo i
suggerimenti della mia coscienza.»
Roger lo squadrò, poi si decise finalmente a sedersi di
fronte a lui, per terra. «Suppongo che lei si debba sentire
in colpa per qualcosa, allora.»
«No, se escludiamo il senso d’ingiustizia che provo
quando una persona viene accusata senza prove tangibili della sua
colpevolezza.»
«Da quel poco che ho capito da quando sono comparsi a casa
mia e mi hanno trascinato qui, non ci sono prove, ma solo certezze
sulla mia colpevolezza» osservò lui sarcastico.
Finnigan lo fissò negli occhi. «Lei non conosce le
accuse che le sono state rivolte?»
«No.»
«Si ritiene innocente?»
«Nessuno è completamente innocente, a questo
mondo, io meno di tutti.»
Finnigan incrociò le braccia appoggiandosi allo schienale
della sedia senza smettere di studiarlo. «Lei è
una persona molto onesta, signor Davies.»
«Curioso, detto da un avvocato che in passato mi ha dato
l’impressione di sapere ogni singola riga che compone la mia
fedina penale.»
«L’onestà di cui parlo non ha niente a
che vedere con la sua rispettabilità. Lei non è
certo un individuo modello nella sua condotta, ma sono certo che non
esiste colpa che abbia commesso che lei negherebbe.»
«Vuole dire che sono sincero nella mia
disonestà?»
«Esattamente. Quindi, mi dica, Davies: lei è
complice di un’attività di commercio ed
eliminazione illegale di oggetti oscuri all’interno del
Magazzino in cui lavorava?»
Roger sospirò. «Se le dico che non so nemmeno di
cosa lei stia parlando mi crede?»
Finnigan ebbe solo un attimo di esitazione, prima di rispondere
risoluto: «Sì, le credo.»
«Allora non avrà niente in contrario a spiegarmi
cosa sta succedendo, vero?»
L’uomo annuì ed estrasse dalla borsa accanto alla
sedia un fascicolo verde smeraldo. «Prima di tutto lei
saprà che in questi mesi il Ministero e gli Auror sono
impegnatissimi in una caccia serrata a tutti gli artefatti e gli
oggetti oscuri in circolazione dopo la Seconda Guerra Magica.»
Roger annuì.
«Ebbene, una pista che da varie settimane stavano seguendo ha
portato gli Auror a supporre che alcuni possessori di tali artefatti,
impauriti dalle sanzioni e dal rischio di finire ad Azkaban se
scoperti, hanno allestito un traffico clandestino che porta ad alcuni
Magazzini di Disincantamento. Come lei sa, questi magazzini sono sotto
la tutela del ministero e gli oggetti ivi smaltiti sono sempre
controllati e catalogati uno per uno dall’Ufficio
dell’Uso Improprio della Magia prima di essere trasportati da
voi.» Fece una pausa. «Quindi per queste persone
era impossibile liberarsi di tali oggetti in altro modo se non quello
di infiltrarsi direttamente al Magazzino.»
Roger, che cominciava a capire, aveva ancora qualche dubbio.
«Non potevano semplicemente buttarli via?»
«No, perché con l’artefatto in mano si
può sempre cercare di risalire al proprietario precedente,
mentre se viene cancellato definitivamente non è possibile
farlo. Inoltre tanti oggetti oscuri sono incantati in modo tale che il
proprietario non possa liberarsene.»
Roger inarcò un sopracciglio, scettico. «E a che
scopo?»
«Perché sono estremamente preziosi, e in questo
modo il proprietario li può ritrovare anche se li perde o se
vengono rubati.»
Roger fece un fischio ammirato.
«Ovviamente a questo punto avrà capito che una
delle piste ha portato gli agenti proprio al Magazzino in cui lavorava.
Ha notato qualcosa di strano, negli ultimi tempi?»
Roger rifletté, e d’un tratto gli apparve
chiarissima la visione dello sportello della caldaia del Mastomantice
aperto, alcune mattine, quando lui la sera prima era stato certo di
averlo chiuso bene.
Possibile
che…?
Deglutì e lo disse a Finnnigan. «Era un fatto
così poco rilevante che non ci ho mai fatto davvero
caso» aggiunse dopo averglielo spiegato.
«Probabilmente chi si occupava di smaltire gli oggetti oscuri
non si è mai curato troppo di chiudere perché
sapeva che era una sua responsabilità, e quindi la colpa
sarebbe ricaduta su di lei, Davies.»
Roger non disse nulla, raggelato da un ricordo improvviso.
«A Ruben non
importerà sapere se sei sicuro o no. Se lo verrà
a sapere, ti staccherà la testa dal collo a mani
nude.»
«Sei stata
tu?!»
«Io? E
perché dovrei? Ho di meglio da fare che infastidire gli
altri che lavorano qui dentro.»
Non poteva essere.
Merlino, ti prego, non
può essere stata lei. Non lei.
«Finnigan» disse debolmente, «dove sono
le altre due persone che lavoravano con me?»
Finnigan si fece serio. «Sono sparite. Per questo
l’hanno arrestata così avventatamente. Temevano
che sarebbe fuggito anche lei.»
«Sono fuggite? Tutt’e due?»
«Ancora non lo sappiamo. Sappiamo solo che nessuno dei due
era in casa. E’ probabile che fossero d’accordo e
se la siano svignata con il ricavato dell’attività
illecita non appena hanno fiutato il pericolo di essere
scoperti.»
Roger strinse i pugni.
No, no, no!,
gridava qualcosa dentro di lui. Non
può essere stata lei. Non l’unica che, dopo aver
saputo ciò che ho fatto, ciò che sono stato e
sono ancora, non mi ha respinto; che non ha provato pietà di
me; che, anche quando le ho denudato le mie colpe, non si è
ritratta. E chi se ne importa se lo ha fatto per dimenticare se stessa.
Lo ha fatto, e basta.
Ma qualcos’altro dentro di lui, qualcosa di razionale, dal
sapore amaro della realtà urlava invece che era
così. Che lei dopo averlo sfruttato e usato per se stessa,
lo aveva gettato via per rincorrere uno spiraglio di luce, un altro
appiglio più concreto, che l’avrebbe davvero
portata fuori da quel vortice di non-ritorno.
«… dopotutto non c’è da
stupirsene. Non conosco bene Armstrong, ma quella donna ha tutti i
precedenti per far supporre che sia capace di una cosa del
genere», stava dicendo Finnigan.
Roger era sempre più sconvolto. Il suo viso doveva esprimere
chiaramente la domanda che gli ronzava in testa e gli faceva fischiare
le orecchie.
«Dovrebbe conoscerla anche lei, no? Era nella sua Casa,
all’epoca, anche se aveva un anno meno di lei.»
Roger scosse la testa, senza riuscire a parlare.
«Davvero non la ricorda?» fece Finnigan, sorpreso.
«Eppure dovrebbe essere facile riconoscerla. Dopotutto non ci
sono molte persone oltre a Marietta Edgecombe che portano scritto sul
viso “spia”…»
*
“Vuoi uscire con me, Chang?” aveva chiesto Roger
alla ragazza più carina del sesto anno un pomeriggio di
settembre.
“Non posso, mi dispiace” aveva risposto lei, severa.
“E perché, scusa?” aveva obiettato lui,
che non era abituato a ricevere rifiuti.
“Perché tu piaci a una mia amica, quindi non
voglio ferirla.”
Roger aveva sorriso. “Davvero? E com’è,
lei? Carina?”
“Sì, ma è troppo fragile”,
aveva risposto Cho Chang. “Se la trattassi male,
probabilmente non avrebbe più la forza di guardarti in
faccia.»
E se il mondo la trattasse male, non avrebbe
più la forza di mostrargli il proprio volto.
----------
Chi aveva indovinato? Quasi tutti, vero?
Be', dopotutto non era difficile da capire, dai -almeno credo, ma non
sono la persona nella posizione più indicata per dirlo dato
che l'ho sempre saputo xD
So che Marietta Edgecombe è un personaggio veramente
insopportabile per molti, che è stata vigliacca e,
soprattutto, una traditrice, ma io non posso fare a meno di trovarla
semplicemente una persona che ha dovuto affrontare qualcosa di troppo
grande per lei.
Dopotutto quanti, a quindici anni, tra i genitori che dicono una cosa e
un compagno di scuola che nemmeno conoscono bene e che è
etichettato da tutti come pazzo scatenato che ne
dice un'altra, crederebbero al secondo? Soprattutto se, per
seguire questo compagno di scuola in questione, facessero rischiare il
posto di lavoro alla madre?
Credo che Marietta, così come Draco Malfoy e altri
personaggi del libro, non abbia altra colpa che quella di una famiglia
dalla parte sbagliata. Non possono essere tutti Sirius e - troppo
tardi- Regulus Black dopotutto, no?
E ora che vi ho annoiati chiarendo come si deve il mio punto di vista,
vi ringrazio come sempre di leggere e di commentare e vi saluto.
A domani!
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Capitolo 12 *** Capitolo XII ***
E siamo
finalmente al terzultimo capitolo.
Sto tirando un sospiro di sollievo perché pubblicare un
nuovo capitolo per me è un'avventura: tutte le volte che
sono alle prese con l'impaginazione arriva puntualmente qualcuno o
qualcosa a interrompermi e perdo il filo di quello che stavo facendo.
Capita anche a voi? Dev'essere una qualche legge fisica non ancora
scoperta.
E ora che vi ho intrattenuti con le mie solite vane chiacchiere, vi
ringrazio -sto perdendo il conto di quante volte dico "grazie",
però non posso farne a meno- e vi saluto.
Buona lettura!
Da qualche parte, 16
ottobre
«Cos’è quella
faccia?»
Marietta Edgecombe altrimenti detta “Cub”
alzò il viso verso di lui e non rispose.
Ruben Armstrong sospirò e si sedette sul divano accanto a
lei. Erano in una stanza di un motel babbano in Francia, fuori dalla
giurisdizione magica britannica.
«Hai fatto tutto di nascosto…»
mormorò lei dopo qualche attimo di silenzio.
Lui scrollò le spalle in tutta risposta.
Era fatto così, Ruben: non parlava più di quanto
non fosse necessario, e non dava risposte se non gli venivano fatte
domande.
Era robusto, nerboruto e il suo volto era perennemente corrucciato in
un’espressione rabbiosa. Eppure non ne aveva mai avuto paura.
Mai, nemmeno la prima volta, quando s’era svegliata nella
casa di lui, allora un perfetto sconosciuto. Anche se, dopotutto,
all’epoca aveva ben poca ragione di aver paura di qualcosa:
era il tempo in cui era sprofondata nel baratro più nero
della sua vita.
La Seconda Guerra Magica era finita, Colui-che-non-deve-essere-nominato
era stato sconfitto e sua madre, come la maggior parte dei funzionari
ministeriali che erano stati mantenuti durante la dittatura dei
Mangiamorte, era stata licenziata. Non era riuscita a trovare nessun
altro lavoro. Né l’aveva trovato Marietta.
La madre non aveva mai accusato apertamente lei e la scritta
“spia” che le deturpava la faccia di essere la
causa delle loro sventure. Ma in ogni suo gesto, in ogni sua parola e
in ogni sua rinuncia per tirare avanti Marietta leggeva a chiare
lettera la propria colpa.
E la leggeva anche negli occhi di tutti coloro che scorgevano il suo
volto o venivano a conoscenza del suo nome. Ci leggeva il disprezzo e
il disgusto.
Aveva cominciato a sprofondare senza accorgersene.
Non riusciva più a guardarsi allo specchio,
perché anche quando le pustole erano scomparse, erano
rimaste le cicatrici: bianche, nitide, visibili.
E quando sua madre era scappata via di casa per fuggire da
sua figlia e dalla sua vergogna e non si era più fatta
sentire, era arrivata a credere che fosse tutta colpa di quel nome
impresso su di lei.
Curioso come una parola di quattro lettere possa distruggere la vita di
una persona.
Aveva cercato un modo per cancellarla, per eliminarla una volta e per
sempre da sé. Per eliminare il passato e ricominciare.
Niente aveva funzionato.
Poi aveva letto di quel fuoco che distruggeva qualsiasi tipo di
incantesimo. Quando era impazzita al punto da tentare un gesto
così estremo, non lo ricordava: sapeva solo che era riuscita
a infiltrarsi in un Magazzino abbastanza isolato da non attirare
l’attenzione e a raggiungere il Mastomantice e la caldaia.
Ricordava di aver aperto lo sportello, poi niente.
Si era svegliata a casa di Ruben, il responsabile di quel Magazzino.
Lui non le aveva chiesto niente: l’aveva ospitata
finché il volto non aveva smesso di bruciare e aveva potuto
togliersi le bende.
E quando Marietta si era guardata allo specchio e aveva visto che
l’ustione le aveva finalmente cancellato il marchio di spia,
era scoppiata a piangere dalla felicità e gli aveva
raccontato la sua storia.
E lui l’aveva ascoltata senza condannarla e senza compatirla.
«Non hai un posto dove andare?» le aveva chiesto
alla fine.
Marietta aveva scosso il capo.
«Allora lavora qui. A me non interessa che faccia abbiano le
persone, purché si diano da fare.»
Ruben era stato la sua salvezza. Una mano che si tendeva ad afferrarla
nell’oscurità. A lungo l’aveva creduto
il suo eroe. Ma ora…
«Ti sei venduto ai mercanti di oggetti oscuri» lo
accusò debolmente, la lacrime agli occhi.
Era esausta, ormai.
Da quasi due giorni fuggivano insieme, da quando, la notte in cui lui
l’aveva sorpresa alle spalle, lei aveva scoperto tutto: che
lo scorbutico, scontroso e solido Ruben non era quell’eroe
così onesto che pensava.
Quella notte lui le aveva spiegato tutto in poche, secche parole. Poi
era arrivato un Patronus argentato di una forma che Marietta, nello
stupore del momento, non aveva riconosciuto, e aveva avvisato Ruben che
stavano arrivando.
Lui non aveva esitato: l’aveva afferrata per un polso e
l’aveva trascinata con lui, Smaterializzandosi prima in casa
sua, a raccogliere le sue cose, poi in quella di lei e dopo ancora su
una strada babbana molto trafficata.
Avevano passato la notte in un motel, senza parlarsi, lei rannicchiata
su una poltrona e lui a sorvegliarla dal letto. Forse temeva che
sarebbe fuggita per raccontare tutto al Ministero, ma Marietta non
riusciva a capire come potesse credere che ne sarebbe stata capace: per
quanto disonesto, lui le aveva salvato la vita, un tempo, e il debito
non era ancora saldato.
Il giorno dopo l’aveva di nuovo Smaterializzata con
sé in un altro motel, e lì erano rimasti fino a
quel momento.
«Perché mi hai portata con te?»
Ruben alzò le spalle. «Perché ti
avrebbero accusata di essere mia complice.»
Silenzio.
«Perché sei entrato nel commercio
clandestino?»
Ruben, invece che rispondere, la fissò negli occhi, il viso
distorto in una maschera impassibile. «Perché hai
fatto l’amore con Davies?»
Quello era un colpo che lei non si aspettava. Aprì la bocca
per rispondere ma non riuscì a dire nulla.
Lui distolse lo sguardo e lo fissò in un punto vuoto davanti
a sé. «Se t’interessa saperlo, a
quest’ora gli Auror l’avranno arrestato.»
Lei saltò in piedi. «Cosa?»
Ruben la guardò, freddo. «Prima o poi doveva
pagare per le sue colpe, no? Vorrà dire che lo
farà stavolta, scontando al loro posto un crimine che non ha
commesso.»
Marietta si irrigidì.
«Perché?» chiese con voce tremante.
«Perché hai fatto tutto questo? Sapevi che
l’avrebbero preso al posto tuo e non provi nessun
rimorso…»
«Perché t’interessi tanto di
lui?» chiese lui di rimando, alzandosi in piedi a sua volta.
Marietta non rispose.
Non era in grado di spiegare l’irrazionalità di
quei momenti in cui lo aveva sentito così vicino, in cui
aveva visto riflesse in lui le proprie colpe, il proprio passato. O
forse sì, ma la sua mente si rifiutava di farlo. Di
riconoscere che aveva cercato così meschinamente in Roger un
modo per sentirsi meno sola, meno colpevole…
«Sono entrato nel commercio clandestino tre anni fa, dopo che
sei arrivata qui» disse Ruben a mezza voce, sorprendendola:
stava rispondendo alla sua domanda, il viso rivolto al muro bianco,
come se ci fosse qualcosa che solo lui poteva vedere. Un ricordo.
«Ero solo un responsabile di magazzino, e non avevo il potere
o i soldi per cambiare il mondo o costruire un futuro diverso. Mi ero
sempre accontentato di ciò che avevo, fino ad
allora.»
Marietta lo ascoltava, incantata. Non aveva mai sentito Ruben dire
tante parole di fila.
«Ma poi non ho voluto più accontentarmi. Volevo
qualcosa di migliore, anche se l’unico modo per cui avrei
potuto avere abbastanza denaro da assicurarmelo era illegale. Volevo un
futuro che nessun passato sarebbe stato in grado di
annientare.»
«Cosa vuoi dire?» chiese lei debolmente.
«Tu non hai un passato di colpe contro cui
combattere.»
Ruben volse il viso dall’altra parte, sottraendo dallo
sguardo di lei il proprio profilo. Marietta non poteva far altro che
fissare le sue spalle, larghe, robuste, solide come le certezze che non
aveva mai avuto.
«Ma tu sì. Quel futuro lo volevo insieme a
te.»
Marietta vacillò.
Fu come se improvvisamente un colpo di vento avesse spalancato tutte le
imposte della stanza buia dov’era vissuta tutto quel tempo e
lei scoprisse che non era una cella oscura e fredda, ma un salone caldo
e dorato. Un palazzo costruito attorno a lei senza che se ne
accorgesse; costruito da Ruben.
Realizzò ciò che legava lui a lei da tutti quegli
anni, realizzò che aveva passato tutto quel tempo cercando
di costruire qualcosa di meglio per
lei, e che non se n’era mai accorta. O non aveva
mai voluto guardare con attenzione.
E si sentì male, perché un sentimento
così fedele, incondizionato, un sentimento così
bello da parte di un uomo così discreto e generoso non
poteva essere rivolto a lei. Era sbagliato. Era terribile.
Ruben non poteva amare una creatura cieca e macchiata dalla vergogna
quale lei era. Non lo meritava. Lui
non meritava lei, ma qualcosa di immensamente maggiore.
Una donna senza colpe irredente, una donna senza occhi ciechi, che non
cercava di appigliarsi a un altro solo per disperazione e solitudine.
Una che non era lei.
Stordita, si rese conto solo allora di una figura argentata apparsa
nella stanza. Un cigno, messaggero dell’ultimo canto delle
vecchie certezze di Marietta che morivano.
«Hanno preso
Roger Davies» disse la familiare voce di Cho
Chang, la sua migliore amica. «Spero che tu abbia portato
Marietta al sicuro. Non te l’avrei mai affidata se non fossi
stata sicura che te ne saresti preso cura meglio di me, Armstrong.
Tienila lontana dai Magazzini di Smistamento, d’ora in
avanti, o non ti perdonerò mai.»
Poi il cigno si dissolse, e la stanza calò in un silenzio
interrotto solo dai singulti violenti del pianto di Marietta.
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Capitolo 13 *** Capitolo XIII ***
Capitolo
XIII
Da qualche parte, 16
ottobre
La libertà non è una condizione
fisica, sociale o morale. E’ qualcosa che risiede nel cuore.
Si può volare selvaggiamente su una Firebolt 3000 ed essere
nel contempo rinchiusi in solide gabbie create da se stessi. E si
può vivere lavorando ore e ore in una fornace sotterranea
tra fiamme incandescenti e sentirsi parte di una libertà
assoluta.
Ruben non si era mai sentito oppresso, nemmeno nel lavoro
più degradante che gli fosse capitato fare. E anche quando
si accasciava grondante di sudore al calore del Fuoco Draconiano nel
cuore della notte per smaltire artefatti oscuri, il suo cuore volava
libero in alto, fuori, nel cielo. Da lei.
L’aveva amata per tutto quel tempo, in silenzio,
discretamente. Si era dato al commercio clandestino per guadagnare
più soldi. Aveva lavorato tante notti, al buio, per
costruirle un futuro, indifferente ai giudizi della gente.
Quegli stessi giudizi a cui lei si era incatenata così
strenuamente, bloccata dalla paura di fare di nuovo una scelta
sbagliata, leggendo negli occhi degli altri lo stesso proprio disprezzo
di sé. Perché era di questo che lei era
prigioniera, più della sua stessa colpa.
Ma Ruben aveva aspettato, sperando che un giorno lei scoprisse che il
buio in cui le era stato fatto credere di vivere erano solo gli occhi
che le erano stati chiusi, e che le sarebbe bastato aprirli per vedere
la luce.
E quando quella notte l’aveva vista uscire da quella
macchina, da quell’angolo di oscurità che aveva
condiviso con Roger –perché Ruben glielo aveva
letto negli occhi: era stata con lui- per un attimo aveva temuto che
fosse stata tutta solo un’illusione.
Che lei si fosse davvero spezzata così in
profondità che, per quanto lui si sarebbe affacciato dentro
di lei, non sarebbe riuscito a raggiungere i frammenti della sua anima,
a ricomporli.
Avrebbe potuto salvare Roger Davies. Avrebbe potuto Smaterializzarsi a
casa sua e avvisarlo, farlo venire via con loro. Ma
nell’amarezza di quel momento l’invidia e la
gelosia per aver violato i limiti di lei che Ruben rispettava da anni
avevano preso il sopravvento, e si era detto, soddisfatto, che sarebbe
stato Roger Davies a pagare il prezzo del futuro che aveva distrutto.
Perché quel futuro, Ruben lo sapeva, gli era sfuggito nel
momento stesso in cui avrebbe dovuto realizzarsi. E non era stato solo
Davies a portarglielo via. Era stato, ancora una volta, il passato di
Cub, che lei non riusciva ancora a lasciarsi indietro, a perdonarsi.
Quel maledetto passato che la allontanava da lui.
E capì che non avrebbe mai potuto ottenere ciò
che voleva da lei finché non si sarebbe liberata da sola
della sua prigione di colpevolezza. Finché non avrebbe
ritrovato in sé la forza di tornare a guardare in faccia il
mondo senza vergognarsi. Senza paura.
E lo capì quando lei, dopo un pezzo che il cigno di Cho
Chang era scomparso, si rialzò da terra, dov’era
crollata, e aveva sussurrato: «Devo andare.»
Ruben sapeva dove: lei si riteneva colpevole. E non sarebbe stata in
pace con se stessa finché non sarebbe stata convinta di aver
scontato tutto, fino alla fine.
Si era diretta alla porta e si era fermata lì, dandogli le
spalle.
«Ruben» aveva mormorato, quasi inudibile.
«Se da qualche parte c’è davvero un
futuro, mi aspetterai lì?»
«Sì.»
Sono anni che ti
aspetto, e ti aspetterò ancora, fino a quando, finalmente,
mi raggiungerai.
*
«E’ pronto?»
Roger non disse niente. Non c’era proprio niente da dire: chi
sarebbe stato pronto a essere processato come unico imputato per un
crimine di cui non sapeva nulla fino a pochi giorni prima?
«Onestamente, Finnigan» disse invece che
rispondergli, «crede che abbia qualche possibilità
di tirarmene fuori?»
Finnigan esitò un momento, poi gli pose una mano sulla
spalla. «Io credo alla sua innocenza, Davies.»
Roger sorrise. Non l’avrebbe mai ammesso, ma quelle parole
furono più rinfrancanti di qualsiasi bugia avrebbero potuto
rifilargli sulla riuscita o meno della sua difesa.
E si sentiva bene con se stesso, per la prima volta dopo molto tempo.
Aveva riflettuto molto, dopo che Finnigan gli aveva comunicato che
sarebbe rimasto al suo fianco a difenderlo.
Per la prima volta dopo tutti quegli anni aveva trovato il tempo e,
soprattutto, il coraggio di fermarsi a pensare. Si era sempre rifiutato
di farlo, prima: temeva di andare alla deriva, fino agli angoli della
propria mente che cercava di tenere nascosti agli altri e a se stesso;
quegli angoli che la notte sussurravano voci e sensi di colpa nei suoi
sogni; in cui strisciavano cose antiche, che non voleva rievocare.
Ma poi era arrivata lei, Marietta, e se Roger aveva potuto continuare a
rifiutare di guardarsi dentro, non aveva potuto evitare di guardare
dentro di lei, e vederci il riflesso di se stesso. E in lei aveva visto
il bisogno di perdono che languiva anche in lui, sepolto sotto lo
strato di orgoglio e di rancore verso tutto e tutti.
Ma non era il genere di perdono che si era aspettato, e se
n’era reso conto solo in quella stanza, seduto sul pavimento
freddo, ad aspettare di sapere se il suo futuro sarebbe morto ancora
una volta prima che ne riuscisse a scorgere l’orizzonte.
Quella che era finalmente riuscito a dissotterrare era la
necessità di essere perdonato da se stesso:
perché colui che per primo l’aveva condannato, e
solo ora lo riconosceva, era il proprio cuore.
E quando Finnigan l’aveva guardato negli occhi, come ci si
guarda da pari a pari, e non da innocente a criminale, da superiore a
inferiore, da uomo a bestia, aveva realizzato di poter ricominciare.
Anzi, no, di poter continuare,
perché, per quanti errori avesse fatto, per quante volte
avesse preso la strada sbagliata, quella era la sua vita, ed era
libero di viverla senza lasciarne indietro nemmeno una briciola. Senza
rinnegarla e senza rimpiangerla.
Finnigan si schiarì la voce, distogliendolo dai suoi
pensieri all’improvviso. «Se non ha niente in
contrario, c’è una persona con cui dovrebbe
parlare prima del processo.»
Roger alzò gli occhi. «Se è per trovare
un compromesso anche stavolta, no. Sono stanco dei compromessi,
Finnigan.»
L’uomo di fronte a lui sorrise. «No, Davies. Le
assicuro che si tratta tutt’altro che di un
compromesso.»
Si diresse verso la porta della solita stanza in cui Roger, in attesa
del tribunale, era stato confinato e la aprì.
Non tornò dentro per accompagnare la persona che aveva
annunciato. Non ce n’era bisogno, perché quando
fece il suo ingresso, per quanto il suo volto fosse cambiato, Roger la
riconobbe subito.
«Cub.» Pronunciò quel nome lentamente.
«O forse dovrei chiamarti Marietta?»
Lei abbassò lo sguardo a terra. «Scusa,
Roger» mormorò in fretta. «Non sapevo
quello che Ruben stava facendo; non sapevo nemmeno che lo stesse
facendo per me e nemmeno quanto mi amasse.»
Roger fece per parlare, ma lei lo interruppe. «No, lasciami
spiegare. Ti prego.»
E iniziò a raccontargli tutto, sebbene in modo confuso, le
parole che inciampavano le une sulle altre, inframmezzate dai
singhiozzi quando, a un certo punto, parlando della confessione di
Ruben, le lacrime avevano cominciato a scenderle sulle guance.
Roger ascoltò stupito, e quando lei arrivò alla
fine ogni precedente sospetto che aveva covato nei suoi confronti era
sparito. A quel punto non riuscì più a
trattenersi e la abbracciò di slancio con un sospiro
spezzato.
Marietta cercò di respingerlo. «No, non devi. Ti
prego… E’ stato uno sbaglio che non avremmo dovuto
compiere… noi…»
«Non è stato uno sbaglio»
ribatté lui accarezzandole la testa.
«Ma io…»
«Non mi ami, lo so» la interruppe. «E io
non amo te. Ma in quel momento eravamo troppo soli, abbandonati da
tutti e in balia dei nostri incubi. Non potevamo fare altro: in quel
momento non poteva che andare così, capisci? Avevamo bisogno
l’uno dell’altra per capire noi stessi.»
Marietta alzò finalmente lo sguardo, gli occhi pieni di
lacrime. «Io… quando ho scoperto che Ruben mi
amava, nonostante… nonostante…»
«Nonostante tutto? Sì, lo so. Anch’io ho
scoperto un uomo che mi rispetta sebbene probabilmente sappia recitare
la mia fedina penale a memoria.» Sorrise. «Forse
abbiamo cercato per anni dalla parte sbagliata: credevamo di aver
bisogno del perdono degli altri, ma dovevamo solo trovare il
nostro.»
Marietta scosse il capo. «Ma io ora non voglio più
il perdono. Pensavo che mi sarebbe bastato, ma Ruben mi ha fatto capire
che c’è di più, che la vita
è molto più vasta
dell’innocenza.»
Roger annuì. «Sì»
mormorò. «E anche più della
colpevolezza. Siamo noi uomini a fermarci e a rimanere
indietro.»
«Ora però siamo andati avanti»
affermò Marietta. «Io e te. Ma gli altri? I
giudici, i testimoni, la gente che ci sarà al tribunale
oggi? A che punto saranno rimasti? Il mondo ha ancora il potere di
condannarci.»
«Non ha importanza» rispose lui. «Non
possono riportarci indietro, ora, indipendentemente da ciò
che ci faranno. Abbiamo superato la colpa, ormai. Insieme.»
Lei sorrise, e nonostante la devastazione di ustioni del suo volto, la
dolcezza della sua espressione cancellava ogni bruttezza da lei.
Non ci fu bisogno di altre parole, scuse o ringraziamenti.
Bastava la sola presenza di lei lì, con il volto finalmente
scoperto e l’intenzione di mostrarlo al mondo, accompagnando
Roger dentro il tribunale per condividere la condanna che li attendeva.
Avrebbero affrontato insieme il processo, senza più il
bisogno di cercare a tutti i costi il perdono. Per quanto li
riguardava, in cuor loro erano già in pace.
E quando avrebbero finito di scontare quel crimine che non avevano
commesso, sarebbero potuti andare avanti per la loro strada,
consapevoli finalmente che così come nessuno era davvero
innocente, non esisteva al mondo nemmeno chi era del tutto colpevole.
E non esisteva al mondo nessuno a cui la vita avrebbe negato un
po’ d’amore e di serenità: bastava solo
aprire gli occhi e le braccia, e lasciarsi avvolgere dalla luce senza
temere di non trovarla.
----------
Non ho
ancora deciso se questa storia è veramente mia o qualcuno si
è impossessato di me mentre ero al pc a scrivere.
Più vado avanti e più sembra troppo triste -per
non dire melodrammatica- perché sia una mia creazione. E dire
che non ho avuto periodi di depressione ultimamente che giustifichino
la tetraggine di questa vicenda.
Per fortuna siamo al penultimo capitolo, altrimenti avrei davvero
cominciato a meditare sulla possibilità di farmi vedere da
uno psichiatra.
Approfitto di questa occasione per augurarvi buon anno: spero che il
vostro 2010 sia luminoso e scoppiettante come un fuoco d'artificio.
Al prossimo anno!
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Capitolo 14 *** Capitolo XIV ***
In
estremo ritardo, lo so, ma ci sono.
Scusatemi se vi ho fatto aspettare tanto, ma non sono riuscita di
sottrarmi a un sequestro all'ultimo minuto per una gita in montagna,
perciò riesco a mettere le mani al pc e aggiornare solo oggi.
Rimando al fondo per i commenti finali e non vi faccio attendere oltre.
Buona lettura!
Capitolo
XIV
Silsden, diversi anni dopo
Cho Chang non era mai apparsa come qualcosa di diverso da
una moglie e una madre ordinaria, una persona tra tante.
Ed effettivamente lei stessa non si riteneva nulla di più.
Eppure la sera, quando i suoi bambini si riunivano attorno al camino e
suo marito sedeva nella poltrona davanti a lei mentre era intenta a
rammendare i pantaloni bucati di Robin, che se li strappava in
continuazione giocando a Quidditch, o smacchiare la camicia di Eric,
che amava rotolarsi nelle pozzanghere, emergeva il suo talento fuori
dal comune: raccontare storie.
E non storie qualunque, ma racconti che parlavano di avventure bizzarre
e strane: una ragazza e i suoi due pretendenti al ballo di Natale, un
bacio rubato all’eroe dagli occhi verdi, un’abile
Cercatrice a cavallo di una vecchia scopa che rifiutava di uscire con
il suo capitano per amore del ragazzo perduto.
Spesso i suoi figli, affascinati, le chiedevano se fossero vere.
Cho rideva e rispondeva che c’era ben poca verità
in esse, e quando loro insistevano per sapere cosa, tra tutto, fosse
attinente alla realtà, lei li lasciava provare a indovinare,
ma in qualche modo riusciva sempre a evitare di dare una risposta.
E il mistero rimaneva, irrisolvibile.
Poi, quando i bambini andavano a letto, suo marito le si sedeva di
fianco, la abbracciava e le chiedeva di raccontare qualcosa anche a lui.
E allora Cho smetteva di sorridere e tirava fuori altre storie, vicende
che i bambini non potevano ancora capire, piene di soprusi, di perdite,
di rimorso, di colpe senza perdono e amore non ricambiato. Vicende che
avevano il sapore amaro della realtà.
Raccontava di un uomo cupo e senza alcuna attrattiva che tuttavia sotto
l’aspetto rude conservava un amore puro e saldo come
diamante, e di come aveva aspettato la ragazza che amava per mesi e
mesi, fino a che, un giorno, i loro sentieri si erano uniti di nuovo.
E di un giovane troppo orgoglioso, cresciuto senza il padre e con una
madre troppo cieca per capire ciò di cui aveva bisogno, e
delle sue corse clandestine e di come aveva finalmente ritrovato quel
cielo tanto bramato dopo essere uscito di prigione, creando dal nulla
la più grande azienda al mondo di scope sportive.
Tutte quelle storie erano intrise di sensazioni, di suoni, di profumi.
E, soprattutto, di colori: il ramato, come la ruggine che increspa le
vecchie carrozzerie di auto disusate, e il verde, come l’erba
delle colline di campagna e dei prati dello Yorkshire.
Ogni volta, suo marito si chiedeva se qualcuno di quei racconti non
fosse poi così irreale, e se quei luoghi suggestivi non
fossero poi più vicini di quanto non sembrasse.
«Potrebbe essere successo a Ilkley Moor» diceva,
indicando la finestra, da cui si scorgeva nella notte la sagoma scura
della montagna contro le stelle.
Cho, a quel punto, fissava lo sguardo verso l’esterno e i
suoi occhi si perdevano in qualche posto che suo marito non poteva
vedere.
Anche lui fissava l’esterno, cercando di interrogare
l’ombra di Ilkley Moor.
Ma, come Cho, la montagna si teneva i suoi segreti.
«Si, potrebbe.»
Fine
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So che è un finale forse troppo velato e labile per trarre
davvero le conclusioni di una storia come Verderame e so che
ci sono molte cose in sospeso o non trattate al meglio –la madre di Roger e il loro rapporto, come Marietta si sia a sua volta innamorata di Ruben nel tempo, quanto Roger abbia sofferto la perdita della gamba sono solo alcuni dei tanti aspetti che ho tralasciato-, ma è
l’unico epilogo che mi sento di dare a questa vicenda.
Come ho detto all’inizio di questa storia, non sono abituata
a scrivere introspettive o a indagare la psicologia umana, ma ho voluto
provare.
E ho provato con questi due personaggi per due motivi principali. Il
primo è che da sempre sono convinta che Roger Davies sia
l’unico, genuino “bello e dannato” del
canon di Harry Potter. Il secondo è io preferisco il perdono
alla giustizia, e quando lessi, in un’intervista di J.K.
Rowling che Marietta avrebbe conservato tutta la vita le cicatrici
perché “odio i traditori” (cit. di J.K.
Rowling stessa), ho sentito il bisogno di darle una
possibilità non dico di rivalsa, ma almeno di conforto.
Inoltre sebbene questa vicenda possa benissimo essere orientata
all’angst, essendo io poco amante del senso di angoscia, ho
cercato di renderla piuttosto malinconica, umana e il più
delicata possibile; se sono riuscita nel mio intento, dovrete essere
voi a dirmelo.
Se siete arrivati qui, comunque, suppongo che questa storia non
debba esservi dispiaciuta, quindi mi ritengo soddisfatta di essere
almeno stata capace di trattenervi con me fino alla fine.
E ora vi ringrazio di aver letto, seguito o recensito e vi saluto,
sperando di ritrovarvi anche in futuro.
Arrivederci!
Credits:
Verderame è
un pigmento di un colore tra l'azzurro e il verde; Ilkley Moor e
Silsden sono posti realmente esistenti ma non essendoci mai stata, non
posso dire se il modo in cui li immagino è attinente o meno
alla realtà; i Magazzini di Disincantamento sono una
creazione ispirata alle comuni discariche di auto e rifiuti Babbane, e
la condanna di Roger a lavorarci è un parallelismo all'Inferno di Dante,
in cui a certo peccato corrisponde una pena inversa o estremizzata. La
frase “la montagna si teneva i suoi segreti”
è tratta e riadattata da un libro di Neil Gaiman, Il figlio del cimitero.
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