Martino di francy91 (/viewuser.php?uid=10566)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cesare Beccaria ***
Capitolo 2: *** Arancione ***
Capitolo 3: *** Venti personaggi in cerca di un senso ***
Capitolo 4: *** La nottola diurna ***
Capitolo 5: *** Cenere ***
Capitolo 6: *** Poison de Garce ***
Capitolo 7: *** Unghie e mandarini ***
Capitolo 8: *** Brina fra i capelli, vento sotto i piedi ***
Capitolo 9: *** Su e giù ***
Capitolo 1 *** Cesare Beccaria ***
Senza nome 1
Salve. Avrei fatto
volentieri a meno di metacomunicazione - introduzioni e commenti dispersivi –
ma, in questo caso, mi sembra strettamente necessario per un semplice motivo,
che noterete sicuramente durante la lettura di questo capitolo e dei seguenti.
Il protagonista di questa storia parla in prima persona e, dunque, molti
pensieri che chiunque tacerebbe per rispetto altrui sono espressi in modo forse
violento, brutale e, a volte, anche offensivo e, soprattutto, che riguardano
tutti voi che leggete. Vorrei specificare che io e il mio personaggio
condividiamo alcune idee, ma il suo pensiero è un’estrmizzazione distopistica,
forse, delle mie concezioni. Dunque, dopo la lettura – se la completerete – non
mi aspetto che voi scriviate commenti offensivi contro di me a causa di ciò che
ho espresso in queste righe, perché io NON penso ciò che crede il mio
personaggio, anche perché sarebbe una feroce e cattiva autocritica. Spero che
abbiate capito, vi auguro una buona lettura.
1.
Cesare Beccaria
Spensi la
TV prima che un cantilenante jingle pubblicitario rovinasse quel silenzio.
Uno
scatto: una scintilla rossa alla base del televisore tramontò.
Quel
silenzio. Quel silenzio fatto di piatti sbattuti e porte serrate, passi
strascicati in strada, filastrocche infernali, girotondi sull’asfalto, fra
clacson e abbaglianti.
“Sincempompli, pololì, pololà…”
Silenzio.
Mattonelle
grigie, pareti bianche.
Silenzio,
nella mia stanza.
“…Sincempompli, pololììì, pololààà…”
Unf-unf-unf-unf…
Il basso
di un’autoradio ansimava sotto casa, proprio accanto al cassonetto.
“…Accademi
sol fa mi, sol fa mi…”
I vetri
vibravano, scevri di consistenza.
Muggiva la
finestra al ritmo ispanico di Pitbull.
“I know you want me, you know I want ya...”
Ma perchè
non abbassava il volume di quello schifo di canzone?
“Pliff!”
Graffiai
il copriletto per la rabbia e i fili sporgenti mi si impigliarono fra le unghie,
come siringhe nella pelle.
“Pluff!”
Non
riuscivo a pensare ad altro o, meglio, non riuscivo a
pensare. L’automobile che percuoteva i
vetri ripartì a volume ancora maggiore e violò con un fischio nasale la stretta
barriera delle bambine che recitavano la filastrocca.
Manca il “plaff!”. Sì, hanno dimenticato di dire “plaff!”, perché è così che
finisce.
Silenzio,
di nuovo.
Era
possibile che, in un momento del genere, il primo pensiero sensato che mi
frusciasse di sinapsi in sinapsi fosse quello?
Light.
Oh, be’,
almeno era il mio secondo pensiero, non c’era da lamentarsi.
Light era
morto. Carne umidiccia e flaccida inchiodata precariamente a qualche gruccia
d’avorio – ossa flosce –, unghie opache, pelle grassa e oleosa, vescica
svuotata, cosce bagnate e fetide, bocca asciutta e accartocciata. Come tutti,
insomma.
In una
frazione di istante compresi cosa volesse dire Platone con il gioco di parole
sema/soma – l’avevo sentito giocando a
Age of Mythology e non ci avevo fatto molto caso –: il corpo era una
tomba, ma non nel senso in cui la intendeva il filosofo greco. Su un cuscino
rivestito di seta rossa, in una bara di carne gonfia o secca, a seconda dei
vermi che vi dimoravano, giacevano cadaveri di ideali, valori, ipotesi e sogni,
maestosi parassiti che pendevano come fili scuciti da un grembiule lacerato,
costretti alla vita e alla morte.
Perché Dio, pur essendolo, può morire.
Non
pensavo che Light fosse Dio; tutto sommato, Near aveva ragione: era solo un
assassino psicopatico che si credeva padrone del mondo. Ma Dio… il Dio creatore,
intendevo, poteva morire per mano del creato, come quegli enzimi che
contribuivano a produrre gli inibitori che frenavano la loro attività.
Quello che
mi preoccupava davvero e mi induceva a tacere era…
“Marti’,
te l’ho detto l’altro giorno: quando fai le tue porcherie in bagno, almeno
pulisci!”
La figura
bassa e tozza di mia madre sorse e calò quasi nello stesso momento da uno
stipite all’altro della porta della mia camera, sfrecciando nel corridoio via
dal bagno.
Avrei
dovuto dirle che avevo sentito attraverso la porta chiusa
Hey hey, ningen sucker, ah ningen ningen
fucker e avevo dovuto interrompere l’operazione per stendermi di fianco sul
letto e assistere alle ultime tre puntate di
Death Note?
Ma no, non
era una giustificazione valida, per lei; anzi, avrebbe ronzato e borbottato
schegge taglienti di pregiudizio contro gli anime (“Ancora quella robaccia?
Marti’, devi crescere! Prenditi le tue responsabilità, ma insomma!”). Un giorno
mi avrebbe spiegato la relazione esistente fra seguire una serie animata e
caricarsi di responsabilità.
Tacqui e
lei bofonchiò qualche parola sconcertata e offesa.
Stupido megalomane.
In realtà, la rovina di Light non dipendeva unicamente dall’eccessivo zelo di
Mikami – o disobbedienza? –, bensì da molti altri fattori: innanzi tutto, era
stato tradito dal suo sporco e criminale desiderio di diventare un
padrone, un
dio. Stupido megalomane. Ma
che cazzo fai? Padrone di un nuovo mondo? Chi, tu? E perché, poi? Perché l’hai
creato tu, sacrificando te stesso? Allora tu non cerchi la pace, il benessere
comune, l’utopia. Il potere, ecco cosa bramava. Potere pulito, giustificato
da un’onesta causa, proprio come un tiranno.
Accesi il
monitor con un movimento sicuro.
Tu non ti accontenti di ciò che fai, pretendi di meritare qualcosa. Se proprio
esistesse un dio, non sarebbe certamente come te. Patti, compromessi taciuti…
La popolazione mondiale aveva bisogno di modelli, di minacce e di libertà, non
di rispettare un sovrano assoluto, seppur latore di giustizia.
Cliccai
due volte sull’icona a forma di testa di asino accanto all’orario, in basso a
destra, sulla barra delle applicazioni: il downloading di alcuni file era quasi
completo. Ridussi a icona e aprii una pagina di Mozilla Firefox.
Proteggere una persona è un atto volontario, di cui si devono accettare le
conseguenze e di cui non ci si deve vantare, altrimenti si cade
nell’opportunismo; a maggior ragione, lo è proteggere sei miliardi di anime.
In effetti, era proprio questo il difetto più evidente – e controproducente – di
Light: la vanità.
Digitai
“f” e dal browser scivolò un elenco di suggerimenti. Scelsi “www.facebook.com/home.php” e attesi che la pagina si caricasse,
sollevando e abbassando con il medio gli occhiali sul dorso del naso.
Desideri solo l’adorazione, alla fine persino Mikami sembra più interessato di
te alla realizzazione di un mondo privo di mele marce.
Per la prima volta, Light mi fece seriamente schifo.
La pagina
iniziale era affollata di messaggi firmati
Mariagrazia Cozzaglia e Susanna
Faretra.
SuSaNnA
fArEtRa
liiiiiiiiiiiiiiiiiiiiight! U.U il mio light… l’hanno ucciso… V.V bastardi… è_é
…grrr… >:(
Mariagrazia Cozzaglia
Ahahah, fatto bene! È
una degna fine per l’assassino di L… Il mio piccolo, povero L… MORTE AGLI
ASSASSINI, MWUAHAHAH! XD
SuSaNnA
fArEtRa
zitta, infedele! di’
grazie che light è morto, altrimenti ora ti rimarrebbero solo 40 secondi…
Mariagrazia Cozzaglia Tsk, come se quel
bidone di Light mi facesse paura… XD
SuSaNnA
fArEtRa domani a scuola ti
massacro… preparati!!! lol
Non che la
vanità non tentasse. Hai cancellato le
guerre e la criminalità, il che è certamente un gran merito, ma niente è più
ingannevole di una ricompensa: in primis, non è mai quella che ci si aspetta e,
inoltre, pare quasi che siano i compensi a pretendere le gesta.
Sbirciai
un rettangolino rosso in basso a destra contenente il numero
3 in bianco e vi posi la freccia, che subito si tramutò in una
manina (un messaggio subliminale a favore del suicidio, secondo me).
A ben pensarci, Light ha tanti buoni propositi, certo, ma non sa un granché di
politica.
Come la maggior parte della popolazione, era convinto che la guerra fosse un
male, la causa principale di milioni di morti, ma non capiva che rappresentava
anche il più efficiente sostenitore di equilibrio fra gli Stati?
Lessi,
disinteressato, le notifiche: un invito a Pet Society, una nuova attività di
LivingSocial e 1 dei vostri amici hanno
compleanni imminenti, compreso Ilaria Lumara, in italiano più che
improbabile. Sbuffai. Mi ero ripromesso di non scrivere più alcun commento o
post su Facebook, giacché era diventato ormai più frivolo di un festino di
Capodanno organizzato da tredicenni isteriche in calore. Il mio principio era
quello cantato dai Sonata Arctica:
I promise you: I won’t
write again
‘til the sun sets behind you grave
Sono di certo il primo che dedica una canzone a Facebook,
borbottai con orrore senza un filo di voce.
Chiusi gli occhi per fuggire il bianco cangiante dello schermo e cercai di
ricordare a cosa stessi pensando. Quando li riaprii, ormai rassegnato a
quell’oblio fastidioso e aggressivo, il mio sguardo fu risucchiato dall’ombra
cartacea e piatta del sorriso sbieco di Light sul muro, lucido e plastificato.
I am justice, recitava appena sotto
quel mento appuntito e quei denti bestiali.
La guerra,
rammentai sobbalzando. Già, stavo pensando alla guerra, alle sue capacità
risolutive e livellatrici: tutto ciò che eccede e avanza viene investito nei
conflitti, in modo da equilibrare le entrate e le uscite, il guadagno e la spesa
di ogni cittadino e dello Stato, eliminando le barriere divisorie fra una classe
e l’altra, le pareti economico-sociali che rendono a un proletario più
auspicabile soverchiare l’imprenditore che lo soggioga. Era una questione
meramente teorica che pochissimi comprendevano, tantomeno i giovani che vedevano
nel ’68 un modello di cultura e comportamento: pace e amore, come no.
La guerra è pace, o almeno questo
avevo appreso da 1984: in fondo, il
conflitto incrementava il sentimento d’amor patrio che induceva i popoli a
inorgoglirsi per la vittoria e a non abbattersi per la sconfitta, acuiva la
produzione agricola e industriale e la solidarietà fra i cittadini.
È risaputo: le emergenze uniscono, come le disgrazie e molto più di una
statica floridezza, terreno fertile per la criminalità.
Sorrisi:
adoravo sentirmi capace di pensare in modo diverso e indipendente dagli altri,
come gettarsi da una finestra e precipitare in cielo, morire soffocato dalle
nuvole, annegato nella pioggia, carbonizzato dall’atmosfera. Mi beavo di quella
solitaria personalità e dei miei ragionamenti incomprensibili; per questi stessi
motivi, combattevo strenuamente affinchè rimanessero lisci e inascoltati – non
che la battaglia fosse così ardua: l’istinto era di tacere.
Aprii
ancora una volta l’icona a forma di testa d’asino e notai che il livello di
scaricamento di cinque file era fermo al 100,0 %: si trattava di
alcuni brani di Yngwie Malmsteen, un Pay
Per View della WWE di cui avevo letto su
www.welovewrestling.com e il calendario di Belen Rodriguez.
Non sono i criminali le mele marce, perché, in fondo, hanno sempre un motivo per
rubare, uccidere, massacrare, stuprare e questo motivo è sempre maledettamente
valido e inconfutabile.
Povertà, frustrazione,
rabbia, maltrattamenti, legittima difesa, licenziamento, pazzia. Gli stupidi, i
calunniatori, i crudeli, gli insipidi, gli insensibili, i giudici senza toga e
senza martelletto, i vuoti, gli ingordi…
devono essere eliminati. Ecco chi doveva essere annientato. Ripetei quel
pensiero ancora nella mia mente e me ne spaventai. Mi affrettai a imbottirmi la
testa di bolle scoppiate, corde cigolanti ed echi urlati:
Yngwie Malmsteen – Evil Eye.
Domani il sito di EFP si riempirà di stupide fan fiction sconclusionate: i
pensieri di Light prima della morte, migliaia di storie tutte uguali… E Misa!
Chissà quante schifose poltiglie patetiche si accumuleranno su quelle già
esistenti? Per non parlare di Mikami, e ancora il solito paragone con la Bibbia:
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E come potrebbero mancare le Matt/Near/Mello? Altri mènages à trois ridicoli e
perversi alimentati dalla morte del più inutile e del più sessualmente ambiguo
dei tre. Takada sarà così pietosa da sfiorare l’isteria di una vedova siciliana
nella mente di quelle fan writer coglione.
Nonostante
la chitarra di Malmsteen fosse sempre risultata letale per i miei ragionamenti,
l’istinto omicida, sottoforma di mano artigliata, salì dal basso intestino
attraverso lo stomaco e l’esofago, fino a diramare le sue dita nel cervello,
innestarle rigidamente e con un certo compiacimento in quella fanghiglia cinerea
e fertile.
Alzai gli
occhi al soffitto alto: due impulsi feroci nell’arco di pochi minuti, quello sì
che era un record. Di solito non me ne permettevo due in un giorno solo. Sbuffai
e selezionai EFP :: Il tuo sito di fan
fiction! nell’elenco dei preferiti.
In fondo,
quelle ragazzine frustrate e complessate mi incuriosivano.
Sì, come quei bonobo che scopano dietro la
rete protettiva dello zoo di Rigantello, osservai; ed era vero, perché
leggevo i loro profili falsamente autoironici e presuntuosi fino a sfiorare
l’esasperazione, le storie insulse e scialbe, le recensioni acritiche e
inespressive, le perversioni che qualsiasi individuo rispettoso avrebbe serbato
fra le proprie intime fantasie sessuali, invece di dar loro titoli completi di
stelline e cuoricini, introduzioni ipocrite, personaggi improbabili e commenti
maliziosi.
Ma sì,
quelle ragazze – e quei ragazzi, addirittura – catturavano la mia attenzione,
come Alessandro; quel viso stanco, cianotico, spento e abbagliante nello stesso
momento, non mi aveva ancora suggerito come si potessero organizzare e
coordinare i propri tratti facciali ogni singolo secondo in maniera così
artificiosa e precisa: occhi bassi, sguardo perso, sopracciglia contratte in una
posa plastica e sofferente, labbra sporgenti, angoli della bocca nettamente
tendenti verso il basso, piega fra bocca e mento ombrosa e pronunciata.
Effettuai il log-in.
Nickname: god_of_war92
Password: ••••••
Truccarsi ogni mattina, poi. Ci vuole molta forza di volontà anche per essere
ciò che si vuole.
Era il minimo.
Mi
divertiva da pazzi guardare mio fratello spalmarsi le guance, il mento, il collo
e l’unico minuscolo spicchio di fronte immune dalla frangia con una spugnetta
rosa impregnata del fondotinta Vichy di nostra madre, calcare il profilo delle
palpebre con una matita nera dall’impronta spessa e corposa e, con lo stesso
strumento, marcare il profilo delle labbra, come un clown disgraziato, quelli
delle maschere veneziane. Il rimmel abbondante e il rossetto viola erano
facoltativi: la loro presenza variava a seconda del ciclo. O, almeno, così
bollavo fra me e me i periodi più negativi e disperati in cui incorreva sempre
più spesso Alessandro. Ridacchiai con un grugnito.
Controllai
se l’unica storia che seguivo fosse stata aggiornata.
Anime & Manga… Vediamo… Dove cazzo è
Death Note? Ah, eccolo.
The Electric Metempsychosis
era ferma al terzo dei
suoi brevi capitoli, incastonata fra una yaoi Light/L e una volgare “intervista”
ai personaggi della serie. Era ancora presto per la cena, quindi rilessi uno dei
passaggi più interessanti della fan fiction, appartenente al primo capitolo:
Coloro che chiedevano aiuto non venivano più assistiti, come durante il regno di
Kira I, bensì abbandonati a sé stessi, ché i più forti sarebbero dovuti
sopravvivere. I malati furono reclusi in distretti specializzati nel risolvere
il problema del sovraffollamento, vere e proprie città fantasma, lazzaretti
contaminati dalla carne sfilacciata che si staccava dalle ossa, dalle piaghe
infiammate, dai suicidi disperati, dalle sedie a rotelle arruginite e dalle
protesi corrose. In pochi decenni, ovverosia dall’ascesa di Kira III
all’abdicazione di Kira V, la Terra abortì circa quattro miliardi e 800 milioni
di individui, morti rivendicate dalla giustizia e dalla selezione artificiale;
se le donne sopravvissero ai Grandi Giudizi del 2014, del 2023 e del 2039,
nonché alla Purga Kiriana, ogni settimana, esse trovarono il proprio
annientamento durante le deportazioni in tali città fantasma, essendo esse più
cagionevoli di salute a causa dei parti, che, secondo la legge 485 comma D,
promulgata da Kira IV, non dovevano essere meno di quattro ogni cinque anni, in
modo da compensare lo spopolamento dovuto ai Grandi Giudizi e alle Deportazioni
Lenitive.
Il terrore e il fanatismo non si affievolirono neanche quando MIsa VIII fece
giustiziare il marito, Kira VI, a causa della sua relazione con il giovane Boia
Karol Czesach. A quel punto, la regina assunse il potere assoluto di Dikaia, il
Regno di Kira, e proclamò sua figlia Kiyoshiko Boia Regale, destinata all’uso
del quaderno – che ai sovrani era proibito sin da Kira II, per far sì che essi
amministrassero il Paradiso alla loro morte – per l’eliminazione dei neonati e
dei bambini malati, malformazioni della razza umana e veri e propri parassiti
della società. In seguito, si propose – e venne approvata – persino la
Deportazione delle coppie responsabili della nascita di tali abomini.
La morte periva ogni giorno sotto i tratti di una penna, di una mano di un Boia
nato per uccidere, nato per il vuoto. “Nulla in vita e nulla in morte”, avrebbe
commentato Bukowski. E la nostra storia si inarcherà proprio sulle dita di una
giovane Boia, madre di morte eppur sterile, la seconda del regno di Kira VIII:
Dana Ørssen. Chi ha mai detto che il sangue raggrumato non può uccidere?
Come
ogniqualvolta leggevo quel passo, mi inebriai della frizzantezza apocalittica di
un seguito, di una degenerazione del già corrotto pensiero di Kira: era tutto
così plausibile. Pareva quasi una fusione fra nazismo e Socing, il socialismo
inglese di 1984, la sua ambigua
duplicità e la sua brutalità osannata e giustificata.
Godetti di
quella sensazione, come bollicine di una bevanda gassata versata sulla pelle.
B-brividi… incontrollabili. Piacere perverso e puro.
“Marti’,
per favore, fa’ uno squillo a tuo fratello. Sono le undici e mezza e ancora non
si ritira, mamma ha cucinato, porco demonio!”, sbraitò mio padre dalla cucina.
Istinto
omicida. Un’altra volta?! Ma era dettato dal fastidio, non c’era da
preoccuparsi.
“Sììì.”,
sospirai urlando.
E in quel
momento, mentre selezionavo Alex-emo –
avevo scoperto che essere preso in giro rimuoveva per un attimo la sua patina di
apatia, il che era uno spasso totale – e premevo il pulsante verde
giocherellando con gli occhiali, quello stesso ansimante istinto omicida mi
contrasse fra le sue zampe artigliate e selvagge.
Light ha massacrato il mondo e il mondo ha massacrato Light.
Gli
individui erano abbastanza potenti da resistere, proprio come le grandi
congreghe.
Ma le
piccole società?Quelle sono impotenti,
ibride e fragili.
Dallo
sguardo spietato di Light colava sangue.
Sembrava
volermi concedere un nullaosta.
Pronti?
Partenza…
Via.
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Capitolo 2 *** Arancione ***
Senza nome 1
Per la seconda volta,
salve, lettori. Sono lietissima di aver ricevuto commenti intelligenti e
analitici, ma, soprattutto, di aver cambiato qualcosa, benché minuscola, nella
vostra giornata. Felice di avervi incontrati sul mio cammino virtuale, senza
dubbio. Spero, dunque, che la lettura del capitolo precedente non sia stato per
voi totalmente inutile; mi piacerebbe se avesse mosso qualcosa, o, almeno, se
l’avesse fatta solo vibrare. Mmh, ringrazio i due gentili recensori: a Bael
rispondo che tali sbalzi di ritmo – studiati o meno che siano XD – derivano
spesso dal mio stesso ritmo respiratorio, che si rilassa o si elettrizza a
seconda del coinvolgimento emotivo della sottoscritta. Davvero, non sto
scherzando! Tendo a inserire molto di mio nelle mie storie, anche in questo
senso. Insicurezza? Mancanza di creatività? Egocentrismo? A te l’ardua sentenza.
Per quanto concerne
Fissie: sono onorata di questa tua considerazione del primo capitolo e,
soprattutto, mi entusiasma immensamente il fatto che tu abbia compreso ciò che
intendevo trasmettere: angoscia, paura, alienazione, ma allo stesso tempo
immedesimazione. Come succede con Light, alla fine. Spero di incontrarti ancora
su questa pagina, nonostante i pregi e i difetti della storia.
Infine, specifico che il
libro L’eleganza del riccio, qui
citato, esiste davvero, ma per ora non approfondirò a riguardo: in seguito
tornerà nella storia. La canzone che ascolta Martino, inoltre, s’intitola
Mr. Crowley, di Ozzy Osbourne, ma io
preferisco quella interpretata da Yngwie Malmsteen e qualche altro dato
anagrafico impronunciabile che mi sfugge, perdonatemi.
Buona lettura.
1.
Arancione
L’eleganza del riccio.
Avevo
letto questo titolo su un’anonima copertina di cartone e l’avevo trovato
essenzialmente ridicolo. Cercai di ricordare quando fosse successo,
Mi pare che sia stato ad aprile, quando ho
accompagnato Aldo a Bari per comprare quegli orribili occhiali da sole.
Eravamo passati da La Terza per dare un’occhiata alle novità librarie – Aldo,
naturalmente, si era fermato a sbavare sulla copertina equivoca e poco discreta
di Diario di una ninfomane. Cercavo
La storia infinita da qualche
settimana, quindi camminavo ingobbito per poter leggere i titoli di ogni
copertina da circa mezz’ora.
L’eleganza del riccio.
Ecco,
m’imbattei proprio in quel libro. Che
titolo idiota. Ormai l’arte del sunto – compendiata nel titolo, appunto –
era diventata un’asettica e frenetica prassi del marketing: surroga un
dizionario e ottieni un libro, surroga un libro e ottieni una quarta di
copertina, surroga una quarta di copertina e ottieni un titolo – che fosse
bizzarro, ma nel limite della neutralità, era chiaro. Scopo di coloro che, nel
temibile arsenale delle case editrici, guadagnavano più di un minatore che
rischiava la vita ogni secondo era sottoporre all’occhio borghese del lettore un
titolo serico ma incline all’assurdo, provvisto di termini setosi e riferimenti
brutali, ossimori commercializzati in tot virgola novantanove centesimi di euro
e codici a barre, accostamenti tendenti al baroccheggiante sfrontato e perverso.
Ebbene,
quel titolo poteva essere perfettamente scomposto secondo tali criteri:
eleganza - riccio, poesia e bruttezza, nobiltà e volgo, finezza e
rusticità. Non che l’accorgimento semantico non fosse apprezzato, ma era del
tutto privo di significato, come una campagna pubblicitaria da novecentomila
euro per un pacchetto di chewing gum da cinquanta centesimi. Vuoto, uno spreco.
Mentre
guardavo Alessandro coprire con sensibile successo la pelle unta e olivastra con
il fondotinta, benché fosse già in ritardo di dieci minuti per la seconda
campanella scolastica, si risvegliò in me il rimorso provato solo pochi mesi
prima.
Che titolo idiota,
avevo continuato a ripetermi, come un lamento puerile, come quando era
sufficiente schiacciare i miei genitori a colpi di parole reiterate
all’infinito, imperniando la mia ribellione sulla loro limitata pazienza, solo
per ottenere sberle o vittoria, ma fuga in entrambi i casi.
Che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che
titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che…
Un
autoconvincimento sotto il giogo dell’autosoddisfazione. Un circolo vizioso, preludio dello squilibrio.
Era stato
guardando le auto rimbalzare e galoppare sulle buche della statale 98
Bari-Rotunno che l’autosoddisfazione
si era tramutata in autoironia: quel
titolo era perfettamente sensato. Non logico, ma sensato.
L’eleganza del riccio.
Mi ero
vergognato di non aver compreso la sottigliezza di quella metafora, ma le auto
avevano continuato a trotterellare riflettendo la luce del sole come flash di
una macchina fotografica. Non era la fine del mondo.
Frush…
flash!
La bellezza si nasconde dovunque.
La bellezza è dovunque, intendendo
è sia come predicato verbale che come copula.
Era questo
il semplice significato nascosto – e, per questo, bello – del titolo e io
l’avevo compreso troppo tardi.
Frush
flash!
Ricordavo
un’auto più veloce.
Mentre mi
infilavo le scarpe senza allacciarle, ignorando il nodo ormai allentatosi, mi
sovvenne un altro stralcio di ciò che avevo pensato allora:
In effetti, i ricci appaiono brutti e
irregolari, mentre sono gli esseri più completi e criptici del mondo animale.
Frush
flash frush flash!
Anche la vecchia che spazza la strada sotto casa rovesciando secchi di acqua e
detersivo sull’asfalto potrebbe risultare bella, in qualche modo.
Quella speranza era stata un habitué della mia mente per qualche settimana, per
poi isterilirsi, come qualsiasi aspettativa non adeguatamente nutrita.
Basta distaccarli dal loro rifugio e i ricci mostrano l’altro lato della loro
esistenza, l’interno, la bellezza. La parte commestibile.
Già,
schiodarli e aprirli. Attenzione alle
spine, mi raccomando! Sembrava una squallida televendita di apri-ricci in
plastica di bassa qualità – sempreché esistessero gli apri-ricci.
Bastava
separare le persone dal loro ambiente naturale e queste diventavano belle,
immaginai.
Bastava
aprirle con le parole.
Proprio
come i ricci.
Se stacchi i ricci da uno scoglio, dopo un po’ muoiono.
Bastava…
ucciderle.
No, quel
pensiero non apparteneva alle riflessioni di due mesi prima. Scacciai quel
mormorio disobbediente, senza compiacermi, stranamente, delle mie riflessioni
scombinate e devianti, e cominciai a giocherellare con gli occhiali, sentendo la
nuca come strofinata da cartavetrata. Dei ringhi sommessi, una belva mal
ammansita, catene… cigolano.
Scaraventai il diario, una penna, l’ottavo volume di
Death Note, la PSP e il lettore MP3
nel mio logoro zaino Seven nero e celeste e, senza salutare mia madre che
gridava contro mio fratello già alle otto e dieci di mattina, mi avviai verso
l’istituto tecnico commerciale “Cesare Beccaria”, la mia fatiscente scuola
arancione.
Attraversai la strada fra il cofano di un’Ape verdognola e la ruota anteriore di
un motorino giallo, immobili per il traffico, e continuai a camminare
placidamente per due isolati.
Godetti
del suono dei clacson, tutti diversi, urlanti come ragazzine straziate… O
entusiaste alla vista di occhiali da sole con la montatura rosa e lilla, fiere
del proprio buon gusto e consapevoli del proprio fascino. Il mio piacere cessò
quasi subito quando mi accorsi che, effettivamente, fra le pernacchie, i fischi
e le grida nasali dei clacson, il normale limite dei decibel sopportabili da un
comune essere umano era violato da urletti e risolini acutissimi, laceranti.
“Ilariaaa!
Zaaao!”, gridò una voce femminile e infantile sul marciapiede opposto al mio.
Non ci si poteva sbagliare: tono suadente e carezzevole,
z al posto della
c e della
g dolci – dislessia? Malformazioni
gutturali? Danni permanenti alla sezione della corteccia cerebrale adibita al
linguaggio? O, semplicemente, desiderio patologico di apparire piccola, indifesa
e vulnerabile per suscitare tenerezza, attrarre la propria preda e distruggerla?
–, s morbosamente sibilante – idem –,
emicrania imminente. Sì, si trattava proprio di Costanza, alias Cosssty. Sbuffai
e mi ficcai bene le auricolari nelle orecchie per coprire il suo ciarlare finchè
non sentii i timpani vibrare in modo decisamente malsano.
MISTER CROWLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEY!, ululò il
lettore MP3 con mio immenso sollievo; l’intro musicale mi riportò a un’atmosfera
da Arancia meccanica: ultraviolenza,
molova milk bar, raffinatezza, musica classica, contorsione...
Statue di donne inginocchiate che versano latte + dalle tette,
rammentai sognante. Per qualche secondo, il tempo di calpestare le strisce
pedonali e scostare il cancello grigio scuro della scuola – ruggine o tinta
naturale del ferro sporco di escrementi di piccione? Comunque fosse, faceva
pendant con la strada macchiata di benzina – mi sentii come Alex DeLarge, alias
655321, che divorava con il suo sguardo bramoso e nevrotico Cosssty e Ilaria, le
mie compagne di classe così graziose e
insopportabili, mentre si abbracciavano e si baciavano sulle guance in modo da
non toccarsi, per non rovinare il fondotinta roseo e stampare un paio di labbra
vermiglie sul viso dell’altra. Mi vidi camminare languidamente, attraversare la
strada con gli occhi chiari e spalancati di Alex, dissanguarle con un solo
sorriso, circondare loro le spalle con le braccia e sussurrare: “Dolcezze,
venite con lo zio Marty, vi divertirete!”. Le avrei portate nel sottoscale del
mio condominio, nella stanza in fondo, quella in cui tutti gli inquilini
conservavano le biciclette, le avrei stuprate allegramente, goduto dei loro
strilletti patetici… Sì, le avrei ammirate, tremanti per il dolore, la paura e
il freddo, il sangue che faceva bruciare loro gli occhi, il sangue annacquato
dal sudore, il sangue assorbito dalla pietra porosa del pavimento… Avrei riso
dei loro spasmi, della loro nauseante nudità, del loro cupo pallore. Sarei
scoppiato a ridere sfigurandomi il volto, proprio come Light – o, magari, in
modo leggermente più discreto, tanto per non essere sentito anche al quarto
piano. Avrei inspirato l’odore acre della terra bagnata, della lordura liquida,
del metallo, del colpo di grazia: le avrei annegate nella benzina, gliel’avrei
fatta bere a sorsate dalle lattine da dieci litri sparse sulla pietra polverosa,
gliel’avrei sparsa sulle ferite, come ne Le Iene di Quentin Tarantino, e poi… Poi avrei dato loro fuoco sul
viso. Forse così avrebbero smesso di emettere quei risolini penosi.
Burn your face upon the chrome!, avrei urlato sulla
loro pelle imbrunita e lucida imitando alla perfezione James Hetfield. Quasi
sbavai per l’estasi.
A
risvegliarmi fu un evento sinistro, quasi un presagio: un raggio di sole
seghettato, filtrato attraverso le sbarre del cancello, m’infiammò a strisce la
pelle del viso, bollente come non avrei mai immaginato: nonostante fosse il 10
giugno, il clima era squisitamente primaverile, sembrava marzo. Quasi per
confermare le mie percezioni, la luce s’ingrigì sempre di più, impallidì fino a
incupirsi in uno sbilenco riflesso lattiginoso.
Come fuoco che muta in cenere.
Nel
piccolo piazzale asfaltato, che fungeva da vassoio sudicio e pericolante al
bignè all’arancia candita marcia che era la mia scuola, fra gli scooter usati
degli studenti, il SUV bordeaux del preside e le automobili bisunte dei
professori, scorsi circa tre centinaia di ragazzi e ragazze sedute sugli
scalini, nelle rientranze del muro esterno, in piedi in cima alla rampa per i
disabili, ciondolanti davanti alle porte d’entrata ingombre di avvisi scritti a
mano su fogli A4. Almeno la metà fumava e gesticolava con ira, scherno,
tenerezza o tutte e tre le cose contemporaneamente; alcuni ragazzoni portavano
sulle spalle corpi puerili con vestitini che, piuttosto, parevano T-shirt un po’
troppo lunghe del normale, reggiseni frivoli resi magistralmente visibili dalla
scollatura corrompente, con voci che strillavano: “Vaffanculo! Mettimi giù!”, ma
con le gambe ben strette attorno alla vita dell’altro, in modo da incollare
tutto l’incollabile alla sua schiena; infine, notai, procedendo verso l’entrata,
che la maggior parte dei presenti esibiva un nutrito arsenale di bottiglie di
plastica vuote. I gavettoni, riuscii a
pensare senza vomitare la crostata alle ciliegie quietamente sbocconcellata a
colazione.
Chi diceva
che i riti non esistevano più? Anzi, erano anche troppi. L’ultimo giorno di
scuola si doveva tornare a casa necessariamente fradici. Sbuffai freneticamente
appena percepii le voci di Cosssty e Ilaria alle mie spalle.
“Zoè, ma
hai visssto Franzesssco e Zovanni con tutte quelle bottiglie?! Zoè, mica ho
intenzione di tornare a casssa tutta bagnata…”
“Infatti!
Mi sa che mi firmo una giustifica falsa e esco alla seconda…”
Non era
difficile immaginarle entrambe nel bagno delle ragazze mentre riempivano
febbrilmente dieci damigiane da venti litri durante la ricreazione: era una
ricostruzione più che veritiera, considerati i precedenti.
“Zao…”, mi
salutò con voce distaccata e nasale Cosssty.
“Ciao.”,
mormorò diffidente Ilaria, fingendosi spontanea, con una smorfia da scimmia
quasi totalmente nascosta dalla kefiah. Mi passarono accanto descrivendo una
curva abbastanza larga da evitare il contatto anche con l’aria che respiravo. Il
ticchettio dei tacchi sull’asfalto mi parve quasi assordante e, per un istante,
la visione dei loro due scheletri bruciacchiati e incastrati fra i cassettoni di
un enorme armadio decrepito nel sottoscale mi tentò in modo quasi perverso.
Cercai di
controllarmi, di interrompere definitivamente quella serie sempre più selvaggia
e animalesca di… orgasmi… istantanei: mi resi appena conto di quanto fosse
difficile arginare quei pensieri, quei colori così limpidi e luminosi, quei
suoni esilaranti ed euforici, il sapore amaro e balsamico della cenere, la sua
tonalità spenta e brillante, la sua fragranza rivoltante e soporifera…
Come smettere di ascoltare una musica infernale, bella.
MISTER CROWLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEY! mi proibì di
origliare il mio stesso pensiero attraverso le corde e le urla del cantante:
Ma che cazzo mi succede oggi?
“Ciao.”,
masticai con la bocca impastata, ma Cosssty e Ilaria erano già a diaci metri da
me, si separarono con un gesto quasi studiato, armonioso e affascinante, di cui,
ovviamente, nessuno, men che meno esse stesse, si accorse; salutarono poche
ragazze e una trentina di ragazzi dallo stile completamente opposto, ma
accomunati dalla finzione, da un incartamento floreale e setoso e un nastrino
liscio che ne assicurava la ferrea stabilità.
Le vidi
fumare, sculettare e saltellare, meritarsi pacche sul sedere, lamentarsene e
compiacersene nello stesso momento, fingersi stupide e diventarlo, imbronciarsi
per essere consolate, incaponirsi per capricci infantili e ricompensare con
premi che con il mondo bambinesco non avevano nulla in comune. Le vidi rendermi
immensamente triste e imbarazzato al loro posto.
Sospirai:
Provare pena per la gente serve solo a
inorgoglirsi di sé stessi; che facciano le troie, è una loro scelta.
Raggiunsi
la porta marrone di compensato della III D: era socchiusa, quindi la scostai e
scaraventai lo zaino sul banco verde scuro; mi sfilai le auricolari e le
scagliai con il lettore MP3 nella tasca anteriore della cartella. Infine,
mugugnai un debole “Ciao” senza aspettarmi una risposta. Mi sedetti su una sedia
dondolante e ipnotica, al primo banco laterale, proprio di fronte alla soglia e
a ridosso del muro, ogni giorno più rigato da crepe mal celate dal
reimbiancamento annuale. L’odore di varechina era insopportabile, benché
mitigato da quello di polvere depositata da settimane sulla superficie di legno
sotto il banco.
Davanti
alla finestra, sulla parete opposta a quella a cui si poggiava il mio banco, si
ergeva un’eterea barriera perforata in mille punti, una nube a tratti livida e
cinerea: polvere di gesso emanata dal cassino e fumo proveniente dalle sigarette
che alcuni ragazzi consumavano sul davanzale della piccola finestra, accalcati
come numerosi criceti che cercano di uscire da un’apertura minuscola della
gabbia. Quella nuvola brizzolata faceva apparire il cielo bigio persino più
sporco di quanto fosse; mi pulii gli occhiali unti all’orlo della maglietta e mi
guardai intorno.
Susanna
Faretra (o, meglio, SuSaNnA fArErRa) torreggiava nella nebbiolina color pioggia
acida come un obelisco egizio, con la sua stessa snellezza oblunga e
dinoccolata; teneva una mano poggiata alla cornice lignea della lavagna,
dondolandola lievemente, sovrappensiero: rimirava, con la schiena leggermente
inarcata nella zona lombare, il disegno appena ricalcato con un minuscolo
gessetto sulla superficie opaca, chiazzata da polverose macchie pallide. Finsi
di fissare i faggi fuori dalla finestra e mi concentrai meglio per decifrare
quella che, da lontano, sembrava un’indistinta nebulosa sulla lavagna. Pareva…
un volto, forse. Mi alzai, dirigendomi verso la finestra semiaperta posta
proprio accanto alla lavagna; il fumo mi faceva lacrimare gli occhi, come anche
la polvere di gesso, a cui ero lievemente allergico. Mi grattai distrattamente
il labbro superiore e sollevai gli occhiali sul dorso del naso con fare
noncurante. Se avessi fischiettato con gli occhi per aria, forse, sarei stato
anche più convincente. Sbuffai.
Quando fui
abbastanza vicino alla lavagna da leggerne le curve ritratte, mi soffermai per
un istante poggiando morbidamente il piede a terra e, dopo quell’attimo,
procedetti al raggiungimento della finestra stranamente deserta e senza più
aloni del solito.
Quasi
magicamente, mi ritrovai a pensare, le particelle di gesso, da un caos
atavico, erano state… scosse da un ordinato Big Bang, le nebulose vacue
si erano disgregate per ricombinarsi in tratti precisi e perfettamente sensati:
un viso, un naso appuntito e ombreggiato al lato, una forma raffinata e fresca,
occhi semichiusi, espressione affranta e rassegnata.
Light.
Avrei
dovuto immaginarlo – e intuirlo – dalla faccia imbronciata e pallida di Susanna
– o, almeno, più del solito.
Voltai le
spalle alla finestra e alle tapparelle storte e poggiai i gomiti sul davanzale,
fingendo di tenere d’occhio la porta. Roteai lo sguardo verso la lavagna: il
volto disegnatovi galleggiò quasi tremolante – ma, forse, era solo l’effetto del
gesso – sulla superficie, con qualche imperfezione nella distribuzione dei
capelli sulla fronte di Light, appesantita dal poderoso fardello della vittoria
incompresa.
Era
semplicemente… un dio moribondo ed esausto. Come Prometeo, come Gesù Cristo.
Come Bukowski e Giovanna D’Arco.
Susanna si
stropicciò gli occhi con le mani ceree, ricordandosi troppo tardi del mascara;
sbuffò: una nuvola di gesso si attorcigliò a spirale librandosi dalla lavagna,
come foglie secche al vento d’autunno.
La
maledissi mentalmente e tossii per via della polvere, ma, per fortuna, non ci
fece caso e continuo a perfezionare il disegno con aria smarrita.
Boku ga shinsekai no kami da,
tratteggiò lentamente sotto il mento sottile di Light.
Strinsi il
lobo dell’orecchio fra pollice e indice e riflettei sul probabile significato di
quella frase, improvvisamente interessato. Boku ga
vuol dire io, se non sbaglio. Ma
certo, se Boku ga Kira da stava per
Io sono Kira, era logico.
Da era il verbo
essere, quindi: Io sono.
Sebbene mi sforzassi di recuperare altre frasi ascoltate negli stralci di
puntate di Death Note visionate in
lingua originale, oppure nelle mie brevi e noiose sessioni di gioco di
FInal Fantasy, non fui capace di
continuare.
Notai
ancora alcuni piccoli caratteri accanto alla guancia destra di Light:
キラは正義た.
Riconobbi quasi subito i primi due ideogrammi, zpesso riproposti nei volumi del
manga: Ki-ra.
Kira.
Distinsi anche l’ultimo carattere:
da. Verbo
essere.
Kira è,
annotai mentalmente.
Gli altri due, escludendo la
posposizione ga che determinava il
soggetto della frase e, quindi, seguiva direttamente
Kira, mi erano del tutto estranei; del
resto, la mia conoscenza del giapponese si limitava, oltre a
Death Note e a
Final Fantasy, solo alle conferenze
della Sony su Eyepet e
God of War III e altri videogiochi
provenienti dal Paese del Sol Levante, in cui i rappresentanti della società
illustravano le caratteristiche dei loro prodotti in lingua originale.
Susanna si scosse la folta
capigliatura riccia con una mano totalmente ricoperta di gesso e imprecò a bassa
voce per essersi sporcata i capelli; in effetti, il risultato fu parecchio
divertente: una ciocca che le ricadeva sulla fronte sembrava proveniente dalla
barba di Silente. Immaginai l’incrocio genetico e grugnii ridendo.
Il lato posteriore della lavagna era
affollato di frasi di polvere, lettere grandi e disordinate che si
rimpicciolivano e accavallavano in modo sempre più frenetico verso i bordi e la
sezione inferiore della superficie oscura.
Kimotsukete kami-sama
wa miteru
Kurai yomichi wa te o tsunaide kudasai
Hitori de tooku ni ite mo
Itsumo mitsukedashite kureru
Shitteru koto wa
Zenbu oshiete kureru
Watashi ga oboete nakute mo
Nando de mo oshiete kureru
Demo zenbu wakatte shimattara
Dou sureba ii no?
Oh, Cristo. Patetico!
Mi affrettai ad allontanarmi e a
ritornare alla mia sedia a pendolo – come la chiamavo, per via del movimento
oscillatorio – liquidando quel momento d’interesse con un sospiro.
Calma, non è il caso di infuriarsi per questo, mi sforzai di
generare quel pensiero vibrante nella mia mente, come costringere i poli uguali
di due calamite a toccarsi.
Scorsi Francesco e Giovanni entrare
con zaini colmi di bottiglie – evidentemente chiuse alla bell’e meglio, visti
gli aloni scuri che rendevano il tessuto rosso bordeaux – e osservai Khadija
legarsi i capelli scurissimi – o, almeno, così apparivano controluce – nella
fila centrale, attenta a non impigliare l’elastico ricoperto di sottili piume
celesti e arancioni fra le mezzelune pendenti dalle orecchie, che sfioravano
persino le sue spalle calde e nude. Sì, calde: quel colore ligneo riluceva di un
calore genuino sulla sua pelle, simile ad una larga e soffice distesa di campi
arati sotto un tiepido sole o al deserto marocchino all’imbrunire, proprio
quello da cui proveniva Khadija, a quanto pareva.
SI voltò intercettando il mio
sguardo con i suoi occhi della stessa tonalità della pelle, legno nudo della
corteccia arrostito dal sole.
Gli occhi più belli che avessi mai
visto: quelli di una traditrice, una corruttrice, una sporca provocatrice. Non
mi sarei stupito di vederla inginocchiata sotto una cattedra con la testa
ondeggiante solo per intascare un voto elevato da esibire ai genitori, o
semplicemente per orgoglio personale. Ghignai a quel pensiero maligno e scostai
il mio sguardo micidiale dal suo viso, che, in quel momento, mi parve lurido e
imperfetto.
Quasi profeticamente, in quel
momento giunse Aldo e poggiò le bottiglie poco discretamente cullate fra le
braccia nude sul banco accanto al mio.
Ecco, appunto,
pensai così violentemente che temetti di averlo borbottato.
“Ciao, Marti’!”, mi salutò con la
sua grande mano affusolata.
“Ehi.”, mi limitai a ricambiare,
quasi un sospiro, in realtà.
Volse il viso verso Khadija, come
ogni mattina, che, intenta a prelevare dall’astuccio e selezionare o scartare i
ventisette bracciali che avrebbe abbinato alle braccia color sabbia bagnata quel
giorno, lo ignorò, compiaciuta. E, sempre come ogni mattina, Aldo virò verso la
propria sedia, più stabile della mia, ma con la base pericolosamente concava
verso il basso.
“Allora, quest’anno ci onorerai
della tua presenza?”, domandò palesemente infastidito dalla frangia unta che gli
pungeva le palpebre. Notai che il suo entusiasmo era precipitato, ma non me ne
preoccupai, sorvolando su quel ridicolo
pluralis maiestatis.
“Eh?”
“I gavettoni.”, m’informò. “Esci
sempre dall’uscita secondaria della palestra ogni anno! Non credere che non me
ne accorga.”, aggiunse facendo mostra di una spiccata varietà lessicale.
Almeno i congiuntivi sono sopravvissuti al
naufragio, pensai. Prepariamoci a
commemorare i defunti.
“Direi di no. Se li ho evitati ogni
anno, non vedo perché non dovrei farlo ora.”
“Perché è l’ultimo giorno di
scuola!”, sgranò gli occhi grigi – lenti a contatto colorate usa e getta,
complimenti – sinceramente sconcertato.
Sbuffai: odiavo discutere le mie
decisioni.
“Lo era anche l’anno scorso e due
anni fa. Senti, non mi piace questo genere di divertimenti, OK?”, chiarii,
purtroppo consapevole che non sarebbe servito a niente.
“Tu non capisci.”. Si fermò per
ammiccare a Cosssty, che trotterellava con le braccia stese in avanti come una
sonnambula – la migliore delle ipotesi era che stesse facendo asciugare lo
smalto rosa confetto sulle unghie. La ragazza gli sorrise mostrando un canino
sfumato di rosso – la peggiore delle ipotesi per lei, in questo caso, era che si
fosse sporcata con il rossetto e che, incredibilmente, il dettaglio le fosse
sfuggito.
“Anch’io ero come te: non uscivo mai
e mi rifugiavo nella vita virtuale e nei videogiochi, ma ora sono cambiato! Sono
diverso e mi sento meglio!”, riprese Aldo con slancio, percorrendo il seno – per
giunta esiguo – di Cosssty con gli occhi, producendo un buffo effetto pendolo,
mentre le iridi grigie aderivano sempre più strette alla curva nera che le
delimitava, come l’eclissi di un sole di fumo.
“Io non mi rifugio proprio da
nessuna parte. Non mi piacciono questi giochetti coglioni e basta.”, sbottai
esasperato e sfogliando il mio volume di
Death Note.
“Che cazzo dici? Vedi che ora ti
stai rifugiando in un manga stupido e infantile? E poi dici che…”.
Decisi di non ascoltarlo più. In
realtà, mi sembrava più che sorprendente, dato che Aldo – Aldo De Pucci,
quell’Aldo De Pucci, l’unico che, solo
un anno prima, era riconosciuto come mio migliore amico, benché le
classificazioni di quel tipo non mi si confacessero - disprezzasse non solo i
manga – che aveva collezionato fin dalle elementari –, bensì persino
Death Note, che mi aveva consigliato
personalmente quasi con le lacrime agli occhi per l’ammirazione. Ma, ormai, non
mi meravigliavo più del dovuto nei suoi riguardi: era la prova deambulante e –
si presumeva – pensante che i cambiamenti radicali non erano solo fantasie di
pubblicità di pillole dimagranti o serie TV basate su psicologi fasulli.
Purtroppo, quanto ad Aldo, il mutamento era scivolato nel vuoto più abietto.
Ricominciai a giocherellare
nervosamente con gli occhiali.
***
“Se ti ferma qualcuno all’entrata,
digli che ti ho accompagnato io.”
Dopo una curva, che, sicuramente,
aveva lasciato sulla strada le impronte scure e seghettate degli pneumatici, e
qualche scossone, la Fiat Brava azzurra di suo padre si fermò vibrando nel
cortile asfaltato della scuola.
“Mah, non credo che l’ultimo giorno
di scuola segnino anche solo due minuti di ritardo.”, constatò Mariagrazia
osservando i ragazzi che indugiavano a varcare la soglia dell’edificio.
A malapena lo fanno durante il resto dell’anno scolastico, pensò con
amarezza e gratitudine.
“E poi”, aggiunse aprendo la
portella con uno scatto anomalo, “ho fatto ritardi peggiori. I professori mi
conoscono.”, sorrise.
“Ciao, Pino!”, lo salutò.
“Ciao, pigna.”. Gli occhi di
Giuseppe Cozzaglia si sollevarono verso lo specchietto retrovisore e le sue mani
callose e abbronzate si posarono l’una sul volante, l’altra sul cambio dalla
testa consunta e umidiccia.
Dopo due tentativi falliti, la
portella, finalmente, si richiuse.
Tanto aspetterà che io entri e poi farà retromarcia, rimuginò
Mariagrazia mentre si avviava verso il lato aperto delle porte.
Mentre si affrettava meccanicamente
sulla rampa per i disabili, quasi scivolando sulla superficie liscia e
ascendente che, a ben pensarci, sarebbe risultata più fatale di una serie di
scalini senza strisce antiscivolo per qualsiasi individuo sulla sedia a rotelle,
notò il professor Recchia proprio appoggiato al lato chiuso della porta, contro
i fogli colmi di avvisi scritti a mano dal segretario.
“Buongiorno.”, lo salutò con un
sorriso imbarazzato.
Il docente abbassò lo sguardo per
individuare la sorgente di quel mormorio e allontanò dalle labbra sottili un
bicchierino di carta colmo di caffè, per quanto si potesse notare dall’ombra
nerastra sul fianco curvo della stoviglia improvvisata.
“Mariagra’, anche l’ultimo giorno di
scuola sei in ritardo? Entra in classe prima che arrivi io, muoviti.”. Tossì con
enfasi e ricominciò a bere mordendo rumorosamente il bordo del bicchiere.
“Grazie!”, rispose Mariagrazia
sistemando più in basso l’orlo inferiore della maglietta sulla schiena. Emise un
ridicolo risolino di gratitudine e sfrecciò via, accorgendosi appena dell’auto
azzurra che sostava ancora nel parcheggio e che, proprio in quel momento, si
mosse sinuosamente verso l’uscita.
Attraversò il corridoio di corsa,
benché sapesse che Recchia sarebbe entrato solo quando fosse stato sicuro che
lei fosse già in aula. Adoro quell’uomo!
e lo ringrazio ancora una volta mentalmente.
In fondo al corridoio, la porta
della III D era ancora aperta e, dallo squarcio rettangolare che offriva
sull’aula, individuò la testa di Martino Manonera china su un volume dalla
copertina morbida, di cartone sottile; scorse la sua espressione seria e
contrariata, per qualche motivo, e sorrise:
Come fa ad avere sempre quella faccia? Non
si arrabbia mai? Non trova niente di divertente da nessuna parte? Certo che
organizzare i propri tratti facciali in modo così litico e preciso dev’essere
proprio faticoso…, rifletté come ogni mattina. In tre anni di scuola
trascorsi nella stessa classe, l’aveva visto poche volte ridere e sorridere, ma
non se n’era mai preoccupata: era un ragazzo silenzioso e riservato, sicuramente
troppo timido e insicuro per esprimere tutto il piacere che provava a contatto
con gli altri, soprattutto con la sua classe.
Sì, doveva essere così.
E, infatti, lo capiva perfettamente,
perché anche lei si riteneva introversa e piuttosto schiva e comprendeva che le
forzature e la compassione altrui non facevano
che acuire il suo imbarazzo.
Varcò l’uscio e voltò la testa a
destra: era sicura di trovare Susanna davanti alla lavagna e, infatti, la
individuò proprio lì.
***
Istinto omicida, un’altra volta. Sì,
proprio come quella puntata di Death Note.
Rabbrividii di rabbia. Più del solito.
Cazzo,
pensai.
Già, cazzo! Cosa mi stava accadendo?
Avevo sopportato così bene i miei intollerabili compagni di classe per tre anni,
non avrei potuto distruggere tutto in un giorno.
Tutta colpa di Aldo.
Continuai a sfogliare il volume del
manga con nonchalance e placidità, mentre la testa mi girava per la furia che
minacciava di strapparmi via gli organi dall’interno. Mi ritrovai a pensare che
avrei dovuto ucciderli tutti con un qualche cazzo di quaderno magico, se fosse
esistito.
Deglutii mordendomi la punta della
lingua.
Per fortuna, non esisteva nulla del
genere.
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Capitolo 3 *** Venti personaggi in cerca di un senso ***
Senza nome 1
Salve a tutti i lettori, taciturni o recensori! E un
saluto particolare a Bael, alla cui recensione rispondo subito. Innanzi tutto,
l’allitterazione della f non è casuale
come potrebbe sembrare. Insomma, non si tratta di una semplice
sega retorica, come, secondo me, la chiamerebbe Martino (mi avvalgo
della facoltà di citarlo XD): rimanda al futuro (ma neanche tanto) fastidio che
porterà il personaggio sull’orlo di una nevrosi, quel brusio non dolce e
accomodante, ma violento e brutale, che ti trascina nei suoi sprizzi e spruzzi
(???) di isteria. Secondo me, questa sensazione quasi… claustrofobica, ecco, è
ben incarnata dalla lettera f (sarà
per questo che mi chiamo Francesca?).
Inoltre, immaginavo che avresti gradito quella parte; in
effetti, mi sono divertita molto nello scriverla. Inoltre, temevo che i
personaggi inseriti fossero eccessivamente fumettistici e archetipici: l’amico
sedotto, le frivole, la falsa, l’infame, gli immaturi etc. Spero che non sia
insorte anche in te quest’impressione (deduco di no, da ciò che hai scritto).
Sono sempre molto soddisfatta delle tue recensioni e ti ringrazio con sincerità.
Buona lettura a tutti i lettori, taciturni e… Be’,
lasciamo perdere.
3. Venti personaggi in cerca di un senso
Un missile?! Hanno caricato il quaderno su un missile?!
Chiusi il volume imprigionando fra
le pagine il volto sbigottito di Light e il ghigno divertito di Ryuk.
Un piacevole brusio ronzava in
classe come una vespa: un sussurro farfugliato e, un attimo dopo, un boato
infernale. In quel momento, forse, era l’unico dettaglio piacevole.
Mi carezzai distrattamente la barba
corta e appuntita, percependo solo il vago solletico sul palmo e un gradevole
bruciore sulla pelle. Mi piaceva molto la confusione ovattata dei luoghi
affollati: conferiva alla vita un senso di perfetta inutilità, favorendo il
ragionamento.
Bene.
Tentavo di non concentrarmi sulle
singole voci per non forzare il bozzolo che mi emarginava, quella placenta
invisibile e fredda che mi sfiorava la pelle. O, forse, era solo merito
dell’umidità che rendeva i vetri opachi non solo per il gesso e gli aloni, ma
anche per le particelle d’acqua condensatevi.
Due voci urlanti e dal timbro
femminile vanificarono il mio tentativo di annullare i belati individuali e
rifugiarmi in quel ronzio anonimo.
“… E non pensi all’altra gente? A
tutte quelle persone che hanno trovato vantaggioso il piano di Light? L’hai
ascoltato ieri sera, vero? Hai sentito cos’ha detto a proposito di suo padre e
del fatto che gli onesti muoiono proprio per colpa dei…”
“Ma quella era solo una scusa! Light
sapeva bene che non era necessaria la morte di suo padre, ma l’ha ucciso lo
stesso! Ha ucciso un innocente, capisci? Uno dei miliardi di persone che
dichiarava di proteggere. E non ti sembra una contraddizione questa?”
“Al contrario: questo dimostra che
Light si è sacrificato fino a provocare la morte di Soichiro per il bene comune.
Ma sai cos’è la ragion di Stato? Ne hai mai sentito parlare, eh? Le regole del
governo sono diverse da quelle umane. La morale non esiste nello Stato!”
“Stai scherzando?!”
“Nessuno può capirlo quanto lo
capisco io. Light ha ragione ed è morto proprio per l’ottusa moralità della
polizia e del governo.”
“Tu sei pazza!”, boccheggiò
Mariagrazia ridendo nervosamente.
Mi voltai: lo sguardo di Susanna era
duro e distaccato, sembrava fissasse i balconi del palazzo di fronte alla
finestra.
Nonostante tutta la classe le
fissasse, sputando commenti maligni e divertiti, Susanna e Mariagrazia non
abbassarono il tono di voce.
“Sono davvero inopportune.”, sentii
sussurrare alle mie spalle ormai fradice di risolini.
Frasi di assenso ed espressioni
irritate.
“Pensa a come sarebbe la nostra
classe se Light eliminasse tutti gli elementi di disturbo che contiene. Pensaci,
pensaci!”, aggiunse Susanna, vedendo l’amica pronta a ribattere.
Nessuno si accorse di
quell’affermazione evidentemente provocatoria: dimentichi dell’episodio, erano
tornati tutti a dissertare sulle novità del gossip scolastico, sui fantomatici
gavettoni e, naturalmente, sulle vacanze programmate (di cui solo lo 0,3%, per
dirla alla L, si sarebbe effettivamente concretizzato).
“Ne abbiamo già parlato.”,
puntualizzò, irritata, Mariagrazia.
“Ma certo, secondo te questa classe
è perfetta! Margie, tutto questo… non ha senso e non so come tu faccia a
pensarlo! Tu vedi? Senti quello che dicono?”
“Stai esagerando. Non ho mai pensato
che la nostra classe fosse perfetta, però, vedi, io noto nella gente cose che tu
non immagini e non riesco a capire come tu, che io reputo la persona più
intelligente che conosca, faccia a non vedere ciò che vedo io. Tutti devono
avere la possibilità di vivere per dare al mondo ciò che di buono ha. Perché
non…?”
“Margie, tu sei inge…”
All’improvviso, il sibilo di Susanna
venne sovrastato da una canzone, probabilmente proveniente da un cellulare, che
si rincorreva da sola, si affrettava sulle poche note alternate che stendeva e
sollevava; impiegai un secondo per riconoscerla: era l’ultima hit di cui erano
stati pubblicati migliaia di video su YouTube con una dozzina di ragazze che si
esibivano nel ballo di gruppo inventato sulla base di quella musica – se così
poteva essere indicata –, meritandosi anche un servizio su Studio Aperto.
Il fenomeno del momento, la litania di
ogni discoteca italiana… Si prevede che sarà il tormentone di questa estate
2009… Si balla dappertutto, dalle scuole agli uffici, dalle strade agli
stabilimenti balneari che, nonostante le condizioni atmosferiche inclementi, si
sono riempiti sin dai primi di giugno…
Sbuffai.
Sbuffai.
Sbuffai.
Sbuffai. Sbuffai. Sbuffai.
Era incontrollabile, non riuscivo a
fermarmi e le orecchie rombavano come un motorino in curva. Mi sfilai
definitivamente le auricolari, rassegnato al limite di decibel delle cuffie
giapponesi.
Sospirai. E sbuffai. Un’altra volta.
Ronzii dappertutto.
Mi guardai intorno per passare il
tempo – erano le otto e mezza e il professore non era ancora entrato in classe,
essere naturali era ancora più difficile in quei casi –: Cosssty e Claudia erano
sedute in braccio a Fabio e Francesco, che coglievano l’occasione per palparle e
ricevere patetici pugnetti sulle spalle e pigolii come reazione; Luigi e
Michele, ululando euforicamente, ballavano tecktonik con movimenti scoordinati e
maldestri persino per quella danza; Giovanni, Daniele e Savino ripetevano a
memoria una poesia di Pietro Aretino barrendo dalle risate ad ogni
potta o
bischero, sfogliando stancamente il registro quando mancavano
riferimenti espliciti nel componimento, immaginai dai loro visi muti e insipidi;
Ilaria, ben visibile dalla mia posizione, ascoltava la musica con un paio di
cuffie enormi – i capelli tinti di nero melanzana abbandonati dietro le spalle,
china sul banco, il piccolo seno che ricadeva sul quaderno che stava
scarabocchiando – dimenava la testa come in preda alle convulsioni e muggiva
qualcosa in spagnolo. All’improvviso, forse per osservare l’opera terminata sul
foglio, sollevò il busto in posizione quasi eretta e notai, sotto la kefiah che
le camuffava il viso, una maglietta nera con la scritta
Infernum e qualche parola in tedesco, immaginai, stampata in rosso
con il carattere Old English Text MT,
come tracciata con una bomboletta spray su una parete annerita e ruvida.
Ma la kefiah è il simbolo del comunismo per eccellenza. Fino a questo punto
Ilaria…?
Sbarrai gli occhi, perplesso, senza
accorgermi che, effettivamente, qualcosa aveva attratto la mia attenzione in
quel brusio strascicato, un sussurro in confronto alla musica metallica
proveniente da un cellulare anonimo.
Mi alzai facendo strofinare la sedia
sul pavimento. Ssstriiidette.
L’incoerenza di Ilaria era risaputa:
mutava stile e genere musicale quasi ogni giorno, sfoggiando un trucco da
Jeffrey Star per uns sera e atteggiandosi a goth qualche ora dopo; ma queste
erano solo due delle migliaia di alternative… forzatamente
alternative di cui si copriva, si
vestiva, si copriva e si vestiva senza spogliarsi: essere tutti – e nessuno –
nello stesso momento, farsi notare da chiunque, essere particolare ma non
diversa. C’era chi lo avrebbe trovato curioso.
Gente con diecimila lauree studiavano tipi
come lei, li hanno impacchettati e ci hanno messo una bella etichetta:
SCHIZOFRENIA.
Io lo trovavo semplicemente stupido.
In quel momento, il professor
Recchia sbattè rumorosamente il volume di economia aziendale sulla cattedra per
segnalare la propria presenza. Non che mi dispiacesse, ma l’uso della parola era
sconosciuto a tutti?
Accanto al professore, che intanto
urlava per reclamare il silenzio, notai Enrico Bossoli e i suoi sottili baffi da
gatto.
“Ma quello non è Enrico della quinta
D? Che cazzo di capelli si è fatto?! Stava meglio quando li portava come
Riccardo Scamarcio…”
Dopo aver discusso qualche attimo
con il professore, Enrico si voltò per uscire dall’aula ed entrare nella sua
classe e, in quel momento, notai una stampa familiare.
Ah, già: Mussolini.
Il duce
di Alessandro Bruschetti, per la precisione. L’avevo vista sul libro d’italiano
del biennio, sì, nella sezione dedicata al maschilismo e al femminismo.
“Quello è un fascista di merda! Mi
fa schifo, cazzo! FASCISTA, SEGUACE, DI MUSSOLINI, TANTO, SAI FARE, SOLO POM…”,
cominciò a starnazzare Ilaria con ritmo da marcia militare, sventolando la
kefiah.
Enrico la fissò per un attimo e si
mosse per andarsene, ma io lo chiamai a bassa voce, felice che il professore
avesse distratto tutta la classe con una battuta demenziale.
“Ehi, Marti’”, mi si avvicinò
Enrico. “Senti, per quanto riguarda i libri del quarto, quest’anno potrei anche
farti uno sconto del 50%, ma il libro di diritto non posso vendertelo, visto che
servirà a mia sorella che sta al biennio. Però per il resto non c’è problema,
potrei darteli anche ora, tanto per gli esami non mi servono a un cazzo.
Quindi…”
Lo interruppi, sempre a bassa voce.
“No, va be’, non è questo…”, esitai
fissandogli la cintura di pelle bruna, tanto per posare lo sguardo su qualcosa.
Di solito compravo i libri di scuola da Enrico a giugno, avrei già dovuto
contattarlo prima.
“Senti, gli Infernum che genere di
musica fanno?”, chiesi con naturalezza.
Non ci pensò nemmeno. “Nazi metal”,
sbottò incrociando le braccia al petto e accarezzandosi i bicipiti villosi.
Ah, ecco.
“Mmh, ho capito. Era solo per
conferma.”, spiegai sul punto di congedarlo.
“Quando guardo certe persone mi
chiedo perché dovrei lottare anche per loro”. Tirò su col naso raffreddato e si
passò una mano sulla nuca.
Percependo che il discorso sarebbe
morto lì, mi affrettai a salutarlo, prima che si cristallizzasse il silenzio.
“Be’, allora ciao. Ti faccio sapere per i libri, tanto il tuo numero ce l’ho.”
“Sì, sì. Ci vediamo”, mi guardò
un’ultima volta, sempre con quegli occhi massacranti e impietositi, come un
messia, e se ne andò accostando la porta dalla serratura difettosa.
Light mi fissava contrito,
imprigionato in un riquadro caotico del manga.
I neon mi facevano venire il mal di
testa e, per di più, mi stavo annoiando. Non che fossero novità, mi succedeva
automaticamente nove mesi all’anno.
“Manonera, devi giustificare le
assenze dal quattro al nove giugno”, mi informò il professore mordendo il tappo
della penna.
“Ah, sì…”, mormorai esitando. “Ho
dimenticato il libretto delle assenze”. La bocca impastata e la voce roca davano
l’impressione che mi fossi appena svegliato.
Tutti frinivano, i banchi frinivano,
frinivano le sedie, frinivano i fogli. Persino i neon frinivano, se mi
concentravo meglio. E l’occhio destro mi pulsava.
“E quando me la vuoi portare ‘sta
giustifica, Marti’?! A settembre? Ma tu vedi un po’…”, cominciò a borbottare il
professore giocherellando con la cravatta.
Mello sgranocchiava cioccolato e
ghignava.
Aldo iniziò a mugugnare.
“Mmmmm.”
Forse due, forse cento persone
cominciarono ad imitarlo. L’aula sembrava un tempio induista. Ancora quel gioco
idiota.
E il mio mal di testa aumentava.
E Khadija provocava Aldo. Lo
derideva.
E Ilaria squittiva.
E tutti ronzavano.
E il vento soffiava.
E… e che altro?
Ah, sì: e il mio mal di testa
aumentava.
No, non questo. Ah, ecco.
E volevo ucciderli tutti. Tutti
quanti.
E mi venivano le lacrime agli occhi
per l’emicrania.
E li amm…
“Ragazzi, in quest’ora andiamo nel
laboratorio d’informatica!”, tossì Recchia.
Alleluia.
Come tori, come capre si
precipitarono tutti verso la porta, mentre io avevo già superato la soglia per
arrivare prima in sala computer e occupare la postazione elettronica migliore,
la numero quattordici. Sempre meglio di
restare in classe a sopportare l’intermittenza dei neon. Come se il problema
fossero i neon.
Avrei controllato se l’autore avesse
aggiornato The Electric Metempsychosis.
Ormai era diventato un pensiero fisso: era la prima fanfiction che mi
entusiasmava in quel modo, non avevo mai atteso con tanta impazienza un
aggiornamento. Rabbrividii senza un motivo preciso.
“Vuoi?”. Aldo mi porse una bustina
di patatine, mentre cercava di sgranocchiarne una manciata consistente senza
apparire ridicolo. Invano, forse, ma non ero del tutto oggettivo nei miei
giudizi ultimamente.
Mormorai un ringraziamento ed
estrassi dal sacchetto una patatina ghiacciata e ondulata.
Silenzio.
Continuammo a camminare nel
corridoio; le mie scarpe da ginnastica cigolavano e fischiavano. Dietro di noi
il professore ringhiava e schiamazzava paradossalmente contro i ringhi e gli
schiamazzi del resto della classe, sempre più somigliante a delle bestie
accecate dall’improvvisa libertà.
Silenzio, fra me e Aldo.
“Ah, ehm…”. Lo sfrigolio delle
patatine fra le sue mandibole funse da intercalare alla frase. “Eh, sai che
forse organizzano una pizza di fine anno? Con tutta la classe e forse qualche
professore.”. Rise. “Speriamo di farcela quest’anno… Cioè, sai che gli anni
scorsi o se ne sono dimenticati, o ci sono venute solo due o tre persone, oppure
si sono messi a litigare per il posto e il giorno.”. Tirò su col naso e spostò
una ciocca scura e sporca di capelli dalla fronte. “Ma quest’anno la facciamo
sicuramente, cazzo! La nostra è una classe fantastica, non possiamo non
festeggiarla!”.
Deputai al retrogusto delle patatine
il sapore amaro che mi balenò sulla lingua.
“Mmh.”, annuii.
Silenzio.
Intravidi la porta del laboratorio,
spalancata e ingombra dei soliti avvisi, questa volta, almeno per coerenza,
scritti a macchina.
“E poi Khadija forse ver…”
“Senti, sai a che ora si esce
oggi?”, lo interruppi. Immersi le dita nel pacchetto impiastricciato di olio e
ne cavai un’altra patatina gelida, per via del distributore che conteneva anche
le barrette di cioccolato; questa volta ne scelsi una più grande, per lenire il
retrogusto amaro in bocca.
Era più salata.
“Ah, boh… Mi sa che facciamo cinque
ore invece di sei, ma non so se saranno tutte di lezione. Forse dopo la
ricreazione andiamo in palestra per il discorso del preside, boh.”
“Ah, OK.”
Varcando la soglia, percepii l’odore
distinto e asettico delle ventole dei computer. Sospirai: quella fragranza così
surreale mi rendeva sempre soddisfatto, come i neon candidi e potenti della
stanza, che non mi causavano mai mal di testa, e le tapparelle che lasciavano
filtrare solo un lascivo flutto d’aria.
Finalmente a casa,
mi ritrovai a pensare e subito scagliai via quella frase da fumetto.
Ma l’amaro sulle labbra e sulla
lingua, posatosi così dolcemente, non accennava a neutralizzarsi.
Accarezzai il case della postazione
quattordici, poroso, gelido, metallico. Lo grattai con le mie unghie corte e
sfrangiate: la superficie nera frinì. Vi posai il palmo e godetti del passaggio
di calore dalla mia mano al piano quasi tiepido. Sorrisi felice.
OK, ora controlliamo su EFP. Se non ha aggiornato la ammazzo quella troia di
Headache… Non si può non postare un capitolo dopo una settimana intera, cazzo!
Il mouse era leggermente viscido e
più caldo del case. Sbuffai.
D’accordo, se non ha aggiornato me ne torno in classe, non voglio stare qui ad
ascoltare questi coglioni che mettono musica house su Youtube e vanno su
Facebook a frignare, cazzo santo!
Risi a bassa voce: non comprendevo
il compiacimento che mi percuoteva appena pronunciavo una parolaccia pesante o
formulavo una riflessione profonda e deviante, ma mi intrigava fino al
malessere.
Mi carezzai le palpebre, infilando
le dita fra gli occhi e le lenti, sfiorandomi le ciglia e muovendo le pupille
come avevo imparato a fare da Gregory House. Diagonale-destra-in
basso-diagonale-destra-sinistra.
Il tepore meccanico del computer,
come un cagnolino fedele, mi sbavava sulle mani, mi imbeveva le dita e le
scaldava fra le sue zampe sporche e tristi. Forse fuori pioveva: sentivo le
gocce sibilare sulle tapparelle, sussurrare e sputare. Così vivida e umida, la
pioggia. Mi sembrava di affogarci, di piombare nelle profondità ovattate di un
oceano, di un prato di neve.
Troppo vivida.
Non mi spaventai nemmeno quando
sentii le narici infiammate dall’acqua e i capelli vibrare come alghe, verdi,
scure, molli, filiformi, dita di sguattera, dita di pianista, dita di puttana,
ghirlande di Natale…
Listen, listen
“Margie, senti che carina ‘sta
canzone.”
“Sei lunatica fino alla paranoia!
Due secondi fa mi stavi per sbranare viva e adesso mi parli così?! Susa’, fai
proprio paura.”
“Ma smettila, ché qui la paranoica
sei tu! È bella, vero? È degli Evanescence, si chiama
Listen to the rain.”
Listen, listen
Listen, listen
Listen to each drop of rain
“Stupenda… Me la devi passare! Che
cazzo di gruppo sono gli Evanescence… Sono proprio bravi, a parte
All that I living for.”
“Ancora con questo fatto? Basta! Sei
tu che non capisci niente!”. Risa.
“Ma dài, la cantante sembra
un’assatanata tipo borderline quando canta quel pezzo!”
“Ma tu che ne puoi sapere, povera
Margie, che sei figlia di un povero commerciante di articoli per la casa… Che
triste triste condizione la tua!”. Altre risa, tante, cristalline.
“Ma smettila! Razzista di merda!”
“Dài, ché scherzo!”
Listen, listen
Finsi comunque che fosse la pioggia
a frusciare e ad appannare i vetri e non qualche megabyte su un lettore MP3.
Ecco, ecco la storia!
C’è scritto: [Capitoli: 4] Ha
aggiornato!
Listen, listen
Desintonizzai i suoni del
laboratorio, a parte il ronzio della ventola, il suo odore elettrico. E il
fruscio… No, il fruscio non riuscivo ad eliminarlo.
Listen, listen
Pazienza, non era così sgradevole,
anzi.
Ultimo capitolo.
Bene, cliccai sul link.
Listen, listen
Listen, listen
Listen, listen
Aghi di pino fra le cosce. Fu quella
la sensazione. Il cuore si liquefece, gocciolò copiosamente per un istante.
Goccia…
Listen, listen
… a…
Listen, listen
… goccia.
Listen, listen
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Capitolo 4 *** La nottola diurna ***
Senza nome 1
Salve. Specifico solo che la
malattia citata in questo capitolo, la FFI, esiste davvero e comporta
l’impossibilità di dormire per lunghi periodi (fino ai sei mesi) e porta
inevitabilmente alla morte. Il soggetto affetto da questa patologia vive di
allucinazioni, spossatezza lacerante e continua, ma non può dormire – esperienza
che non augurerei a nessuno (o forse a qualcuno sì).
Buona lettura.
La nottola diurna
Non è una malattia, le dissero. Certo, certo che non lo era: era morta prima
ancora di nascere.
Dana era stata scelta a caso fra i bambini che sarebbero nati nel 2087 – non che
ne fossero rimasti molti, per la maggior parte erano stati macellati dai morbi
diffusi dalle multinazionali farmaceutiche, dai virus-insetti creati da Lev
Cvotyshova e dai ricercatori finanziati dal Ministero della Sanità ucraino,
sotto l’ordine di Utako Kejimoto, ministro degli affari esteri di Dikaia. In
verità, dire che Dana fu scelta a caso è un errore di lacerante profondità: le
schede cliniche di ognuno dei genitori dei candidati e delle loro rispettive
famiglie furono accuratamente esaminate dalla squadra dell’NRO statunitense,
che, come si è detto, soffocò parzialmente il patriottismo con cui gli Dèi
giapponesi (da Kira I all’attuale Kira IX) avevano promosso non nei confronti di
Dikaia, bensì dell’antico Impero del Giappone, indifferentemente debole e
arrendevole come prima della rivoluzione di Kira.
Dana fu l’unico feto considerato totalmente sano, senza alcun pericolo di
contrarre malattie genetiche in una terra che per i malati riservava un ricovero
eterno su un letto di cadaveri. Fu questa, dunque, la sua sfortuna: era ancora
un’informe gelatina nel suo fragile mondo di placenta quando fu deciso che
sarebbe diventata Boia.
Non sapeva che i lisosomi stavano ponendo la croce sulla sua tomba, divorando le
membrane interdigitali di quei pochi centimetri di vita, di suoni taciuti, di
occhi chiusi e ignoranti, di piedini zuppi di umori fecondi. Era quella Dana: un
viso fluorescente sullo schermo di un ufficio dell’Ospedale di Stato di Kakyo.
E ora, signori miei, che testimoniate questa mia confessione rea e rancorosa,
entra in scena colui che vi parla, che ascoltate con insaziabile sete, che vi
tiene in braccio e vi fa un po’ male con le sue mani ossute, ma non importa,
perché voi state bene fra le mie braccia. Voi mi volete bene, lo so, e io vi
odio. Vi odio perché state bevendo da me tutto ciò che so, mi salassate senza
pietà, attendete che io termini il mio racconto per poi dar fuoco alla mia
lingua. Per voi sarà tutto come prima, mentre io sentirò il sapore amaro di
bruciato sulle papille gustative.
D’accordo, inchioderò il camice al muro, impiccherò lo stetoscopio, amputerò le
siringhe, perché non sono quelle le mie armi. Io non sparo, non soffoco, non
avveleno. Io penso, dunque uccido.
La prima volta che incontrai Dana ero un grasso genetista, laureato in
psicologia infantile nel tempo libero. Un grasso genetista e un grasso
psicologo, insomma, mentre lei pullulava di corpuscoli in un utero umidiccio e
unto. Il mio singolare modo di salutarla fu aprire uno spiraglio gelido e
accecante nel suo buio e cocente letto di carne, trasferendola in provetta.
Eccola lì, mentre si riproduce nel tepore di un tubo, eccola mentre muove una
manina forse ancora palmata…
Mese per mese, la nutrii come un criceto e fui tentato di effettuare qualche
esperimento sulla possibilità di anticipare il periodo di fecondità dell’utero
femminile, fino a renderlo fertile non dalla nascita, bensì anche da prima, dal
periodo fetale! Quanta esaltazione provai e fui costretto a reprimere in quei
macabri mesi di piastrelle bianche, di leninismo intellettuale, di notti
quotidianemante abbaglianti, di ronzii e cifre sonnolenti.
Fu in prossimità del settimo mese che utilizzai le cellule staminali.
Dopo aver modificato il loro materiale genetico, sostituendo un allele recessivo
di un particolare gene con uno dominante, misi tali cellule in contatto con il
corpo gommoso ed etereo della piccola Dana sfruttando in senso inverso le
proprietà delle staminali: come si era venuti a conoscenza già agli inizi del
XXI secolo, esse, in prossimità di un particolare tessuto, si mutavano nello
stesso. Dunque, come ho accennato, io invertii tale proprietà delle cellule
staminali, in modo che qualsiasi tessuto, in contatto con loro, avrebbe assunto
la loro stessa natura.
Il primo gene che modificai fu quello che determinava la Fatal Familial Insomnia
(FFI) e, successivamente, imposi all’argenteo corpicino, che, cieco, mi fissava,
una costante introduzione di ormoni potenzianti l’attività mentale e fisica, in
modo da anticipare la sua nascita e da non causarle la morte per FFI.
Quando Dana fu cotta a puntino nella provetta, il suo capo era perfettamente
liscio e glabro. Appena “nacque”, ricordo, le sfiorai la fontanella, soffice e
fatale, le premetti le dita su quella anteriore, la più grande, mentre Dana
apriva gli occhietti marroni.
No, non fraintendete: non fu tenerezza, né senso paterno. Fu clemenza,
consapevolezza del mio potere. Il regno di Kira non era mai stato governato dai
politici, dai giornalisti, dagli imprenditori. No. Il regno di Kira era degli
scienziati e degli Dèi. Kira era stato l’unico, sì, l’unico in assoluto a
coniugare definitivamente scienza e dio; Kira non era solo un giustiziere, un
abile statista, uno straordinario prodigio. Kira era… giusto. Semplicemente.
Gli effetti della FFI su Dana furono immediati e, l’11 Novembre del 2087, nacque
la seconda Boia del governo di Kira VIII, colei che nei registri di Dikaia
assunse il nome di
Esperimento Lithium4-0103-5728-2092-8483-7381-92,
ma sull’etichetta della sua provetta avevo scarabocchiato DANA
e l’avrei chiamata sempre così. Dana Ørssen.
°°°
Dana Ørssen. Fu così che venni chiamata per i miei undici anni di vita da Ivano
Glissani.
Non so nient’altro, a parte qualche miliardo di nomi e di visi.
Una sola voce, a parte la mia.
E poi… Poi non so nient’altro.
Ah, no: qualcos’altro c’è. So che Ivano mi ha cresciuta e che lui fa cose
diverse rispetto a me. Lui dorme, per esempio.
Poi, so che gli scienziati cercano di sfruttare le malattie in modo intelligente
e parsimonioso; io non sono malata, mi hanno detto. Ops, mi
ha detto. No, non sono malata, perché
Ivano dorme e io no. Il mio è un vantaggio, perché, mi dice, il resto degli
uomini passa quasi un terzo della propria vita dormendo. Io no: io non spreco
nemmeno un’ora, dice lui, e senza rischi, perché le vitamine e gli ormoni che
assumo mi riabilitano all’istante. Una volta gli ho chiesto: “E nel resto della
loro vita, cosa fanno?”. Non mi ha risposto, mi ha solo detto che ognuno nasce
per qualcosa: lui, ad esempio, è nato per fare ricerche e per farmi nascere. Non
capivo.
Poi mi ha spiegato che anch’io sono nata per qualcosa, il che mi ha sbalordita.
“Tu”, ha esclamato poggiandomi una mano rugosa sulla spalla, “sei nata per
scrivere. Capisci?”. Capivo.
Questo significava che scrivere era una mia specialità e che gli altri non lo
facevano. Io scrivevo, scrivevo da quando… Da quanto? Non ricordo. Ivano mi ha
detto che chi nasce per fare qualcosa, la fa da sempre e per sempre. Io scrivo
da quando sono nata, mi ha spiegato. Non avevo ben chiaro come sentirmi, quindi
continuai a scrivere, a guardare lo schermo e scrivere, a fissare Ivano e
scrivere, ad ascoltare la sua voce e scrivere, a lamentarmi del mal di schiena e
scrivere, a prendere pastiglie e scrivere.
Non sapevo cosa fossi, come fossi, benché Ivano mi indicasse i capelli asserendo
che fossero corti e castani. “Corti? Che significa?”, gli aveva chiesto. “Che…
che non sono lunghi”, aveva esitato. “Cioè?”. Avevo commesso l’errore di
poggiare la penna sul foglio e di stiracchiarmi. Mi bastò un suo sguardo gelido
per riprendere subito a guardare lo schermo e scrivere, fissare Ivano e
scrivere, ad ascoltare la sua voce e scrivere… sempre.
Potevo fare tutto ciò che volevo, mi aveva spiegato molto tempo prima, a patto
che continuassi a scrivere.
“Io ho i capelli corti, per esempio. Ma i miei sono grigi, mentre i tuoi sono
del colore di… di questo tavolo”, affermò poggiando il palmo sul piano, accanto
al Quaderno e alla mia mano, piccola e sudata. Annuii.
Donnie Rotten, Emilia Pennetta, Jakobo Unkani, Nicholas Coupliniatos, Moriko
Kinoshiyo, Rafael De Fiona, Frie Suchtze, Ina Axhosa, Vincent Fleur…
Frie Suchtze, nella foto, aveva i capelli lunghi, notai. Ivano annuì. “I suoi
capelli sono biondi; i tuoi sono come quelli di Vincent Fleur.”
“Sono belli”, sorrisi.
Spesso gli avevo chiesto perché dovessi scrivere: sì, ero nata per quello, ma
perché?
“Ne abbiamo bisogno. Il mondo… No, cioè, noi due ne abbiamo bisogno, perché ci
sono persone nate per fare del male e noi dobbiamo eliminarle. E sai perché?
Perché siamo nati anche per questo. È semplice”. No, non mi convinceva affatto,
ma non mi potevo permettere di non credere a Ivano.
“Vedi, ci sono persone che impediscono alle altre di fare ciò per cui sono nati.
Non lo fanno per loro volontà… Ecco, questi individui lo fanno perché sono nati
così, insomma. È un dovere. Tu devi scrivere, io devo educarti, loro devono
distruggere i nostri propositi, noi, insieme, dobbiamo eliminarli.”
“E questo cosa c’entra con il fatto che io debba scrivere i loro nomi
guardandoli in faccia?”. La mia voce trillò fra le pareti e mi si aggrappò sulle
spalle, arrampicandosi timidamente.
“Non lo so”, rispose. Scoppiai quasi a ridere scagliando via la penna. Ivano
rispondeva sempre alle mie domande, non era mai schivo ed evasivo. Rispondeva
sempre, sebbene le sue repliche fossero assurde e io me ne accorgevo, pur non
sapendo.
Non lo sapevo, non sapevo cosa c’entrassi io in tutto quel piano di eliminazioni
e predestinazioni e, sinceramente, non mi importava: mi andava bene anche solo
scrivere, guardare lo schermo e scrivere, fissare Ivano e scrivere, ascoltare la
sua voce e scrivere, lamentarmi del mal di schiena e scrivere, prendere
pastiglie e scrivere.
Scrivere.
Ultimamente le nostre giornate erano silenziose e lugubri: Ivano sonnecchiava
guardando la penna muoversi, preparandosi a porgermene un'altra in caso che la
mia terminasse. Un attimo di pausa, impercettibile e stridulo. A tre anni dalla
mia nascita avevo già capito che il suo scopo era rendermi occulto il riposo, in
modo che la mia autocoscienza non urtasse contro lo specchio. Scrivere, scrivere
e nient’altro.
“Da quanto tempo sei vivo?”, gli avevo domandato quando ancora non riuscivo a
tenere bene la penna in mano. “Quarantasei anni.”
“È tanto?”. Avevo sgranato gli occhi per la curiosità e i pixel dello schermo si
erano sciolti insieme, fusi nella mia cornea. “I tuoi anni per ventitré”. Le mie
pupille, se possibile, si restrinsero. Sentii quasi dolore. “E io vivrò così
tanto?”.
“No”.
Rimasi sconvolta da quella risposta e non gli posi più domande di quel tipo. Ero
avvezza alle diversità fra me e Ivano, ma quella… proprio non riuscivo a
sopportarla.
Che vita era quella? Non sapevo dove mi trovassi, cosa fossi, chi fosse Ivano
per me, come avessi fatto a trascorrere undici anni nutrendomi di pastiglie,
mentre lui sbucciava pesche, disossava polli, soffiava su risotti bollenti,
spolpava lische di pesce. E io masticavo dischetti amari e plastici. Perché? No,
quello lo sapevo. “Tu non capisci che sei fortunata: la gente sa tutto su sé
stessa, a parte il motivo per cui è al mondo. Muore per saperlo, fino a perdere
quel minimo di consapevolezza che ha. Tu sei qui e ora per salvare te e me, non
la gente. Mettila su questo piano: se tu non scrivessi centinaia di nomi al
giorno, io non sarei con te. Non saremmo insieme.”
E quello, giuro, mi atterriva a morte. Benché le sue affermazioni fossero
minimizzazioni riduttive – i nomi che annotavo erano migliaia – no, io non
potevo lasciarlo. Ivano… Ivano era mio padre, il mio maestro, la mia finestra,
le mie scale – sebbene non sapessi bene cosa fossero questi ultimi due oggetti,
dato che non li avevo mai visti –, il mio specchio rotto – altrettanto
sconosciuto ai miei occhi. Ivano mi aveva acquietata in quell’anno fra quelli
che lui aveva chiamato menarca e menopausa. Mi aveva abbracciata stringendomi le
spalle ricurve, mentre scrivevo e morivo, lì, sotto i pantaloni. Mi bruciava, mi
premeva… Era orribile. E lui mi faceva delle cose… Che non ha più fatto.
“Stai meglio?”, mi chiedeva ogni volta che sentivo, sentivo quelle bizzarre e
sofferenti vibrazioni. Avevo quattro anni, ricordo. Contavo le pagine del
quaderno da quando Ivano si svegliava al momento in cui si addormentava con la
testa poggiata al tavolo. Era quello che Ivano chiamava giorno, supponevo. Ogni
giorno occupava circa quattrocentocinquantadue pagine.
Non ricordo, sinceramente, un attimo della mia vita in cui Ivano si fosse
allontanato da me; certo, dormiva, ma controllava sempre che scrivessi almeno
duecento pagine durante quelle pause. Mentre la sue testa grigia posava sulle
braccia incrociate, io scrivevo e lo guardavo. Una volta gli accarezzai una
tempia. Fu meraviglioso.
E, sì, mi sentivo meglio quando mi sfiorava quella specie di botte che mi
sosteneva il collo, quella parte morbida sotto la pancia, quella curvetta
compressa fra le cosce molli e flosce. E non riuscivo a scrivere con chiarezza,
mi si appannava lo sguardo, ma non m’importava, continuavo a registrare volti e
trascrivere nomi: non volevo che smettesse per rimproverarmi. Non volevo che
smettesse.
°°°
Non doveva smettere.
Ero orgoglioso di Dana, della sua pazienza e del suo coraggio; non faceva troppe
domande, soprattutto negli ultimi tempi, e aveva sopportato bene le dosi di
ormoni somministratele per anticipare il menarca e la menopausa, in modo che non
intaccassero il suo corpo nel periodo adolescenziale, quando il progesterone
avrebbe potuto reagire contro gli ormoni che assumeva. La sua breve pubertà non
le aveva cambiato l’aspetto in maniera drastica: a quattro anni il seno crebbe
poco, mentre il resto del corpo ingrassò, soprattutto in prossimità dei fianchi
e dell’interno coscia. Il sangue mestruale fu il problema principale,
all’inizio, ma il dottor Xavier Surinho, con cui ero sempre stato in contatto
mediante le fibre ottiche, mi consigliò di utilizzare lo stesso sistema creato
per raccogliere l’urina: una lavanda turbinante estremamente potente e precisa
che risucchiava il liquido denso in modo esaurientemente efficiente.
Sapevo che sarebbe comparso l’impulso sessuale, che l’avrebbe distratta.
Signori, non datemi del perverso, non mi sembra il caso. Dovevo curarla in tal
modo, in quanto gli inibitori dell’istinto sessuale erano ancora sotto
sperimentazione e i risultati ottenuti non erano esaustivi. Il periodo di
fertilità sarebbe durato un solo anno e toccarla non mi dispiaceva: era bella,
pallida e malaticcia, flaccida e… tutta pelle. Era una bimba intelligente,
adulta, moderata, che sapeva quando reprimersi e fermarsi, ma il sesso non
rientrava nelle coercizioni umane. Non ancora, almeno.
Avvolgerle la vita era come governare Dikaia: ero un privilegiato e, signori, ne
godevo fino all’osso. Inoltre, nonostante avessi condotto decine di esperimenti
su esseri umani totalmente isolati dalla società sin dalla nascita, per
comprendere quale fosse effettivamente l’origine dei comportamenti devianti e
correggerli, Dana stimolava continuamente il mio desiderio di forzare le pareti,
elasticizzarle e perforarle: di varcare i limiti della conoscenza, nonché di
collaborare per cancellare quel mondo brulicante di individui latori delle
peggiori intenzioni, stolti, maliziosi, ipocriti, passivi, vanitosi, eccessivi
sia nelle attività corporali che in quelle cerebrali, presuntuosi e arroganti.
O, almeno, il mio obiettivo era rettificare tali naturali deviazioni.
Poggiai la fronte al palmo della mano e strinsi l’apparecchio delle fibre
ottiche in tasca, premendo il secondo tasto della quarta colonna.
“Sono le: quindici e trentanove minuti”, recitò la solita, accomodante voce
femminile. Premetti il tasto successivo.
“Ti trovi a: Giappone, regione di Kyushu, prefettura di Okinawa, città di Naha,
coordinate:
26°12′″di latitudine Nord,
127°40′″ di
longitudine Est; superficie di 39,23 kilometri quadrati, popolazione di 532
individui.
Sede del Ministero della Giustizia,
piano sotterraneo meno otto, reparto cinque, corridoio ventiquattro, stanza uno.
Se si desidera conoscere le condizioni atmosferiche, premere il tasto viola.”
“Piogge diffuse su tutto il territorio di Naha, con improbabili schiarite.
Innalzamento delle temperature. Percentuale di umidità nell’aria: 91%. Press…”
Spensi l’apparecchio. Era quello che mi interessava sapere.
Le condizioni atmosferiche erano ideali per il mio progetto: il virus si sarebbe
diffuso in maniera sistematica, attaccando il talamo e l’ipotalamo sottoforma di
vaccino per qualche malattia stagionale. Il fago XD-360 sarebbe penetrato nel
tessuto cerebrale attraverso il DNA e, se l’esperimento fosse riuscito, i Boia
non sarebbero più serviti a nulla: la stoltezza, la stupidità, il crimine
avrebbero abbattuto coloro che ne erano gli artefici. Autocombustione.
No, signori, no! So cosa state pensando – altrimenti i miei sette anni di corsi
e specializzazioni in psicologia sarebbero stati vani. No, ascoltatemi bene: la
vita di Dana mi era cara, ma non è per proteggerla che ho creato il suddetto
virus. Non date sfogo – vi prego – ai vostri animi romantici e passionali ora.
Naturalmente, l’aiuto di Xavier si era rivelato fondamentale per lo studio della
diffusione delle comuni patologie virali e io mi ero sempre premurato di
farglielo notare, benché il progetto fosse ancora in fase di preparazione. Ma,
ormai, era questione di settimane.
Mi sfilai l’auricolare dall’orecchio per un attimo, osservando Dana e i suoi
unti capelli appiccicati alla fronte e al collo. Avrei dovuto tagliarglieli.
E lei? Cos’avrebbe fatto Dana? Se si fosse verificato un problema la cui
risoluzione esigesse la mia presenza, io cos’avrei fatto? L’avrei lasciata…
sola? Seppur per poche ore? Il suo corpicino dolce e stantio inchiodato a quella
sedia… solo. La sola immaginazione della scena mi avviluppò nel suo nastro di
terrore e delirio. Mai. Mai l’avevo abbandonata e mai l’avrei fatto, a costo… a
costo di… sacrificare tutti i miei sforzi? No, quello era troppo.
L’avrei uccisa.
Liberata e uccisa, in modo che conoscesse almeno ciò che l’aveva incatenata per
undici anni. L’avrei sollevata, le avrei insegnato a camminare come lei, da me,
aveva imparato a parlare e a scrivere. Scrivere.
Non avrebbe più scritto, solo per qualche giorno. Poi, sarebbe morta. Uccisa.
Purtroppo, per via della patologia che io stesso le avevo iniettato, avrebbe
sofferto, perché non sarebbe morta nel sonno. Forse… un gas? Ma sì, poteva andar
bene. Come lo chiamavano lì in Dikaia? Ah, seppuku.
Ucciderò gli stolti che le hanno fatto questo. Ucciderò gli stolti, non per la
giustizia, non per misurare la mia genialità, non per vendetta, non per essere
il dio di un nuovo mondo. Perché non volevo più registrare le loro figure al mio
passaggio, perché non volevo più vederli, perché preferivo che non fossero mai
nati.
Perché non potevano vivere.
E dovevano morire.
Perché non potevano vivere.
E dovevano morire.
Perché non volevo più vederli… Le
loro figure… Ucciderò gli stolti che le… Al mio passaggio… Perché preferivo che
non fossero mai nati… Ucciderò gli stolti.
Oh, sì che lo farò.
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Capitolo 5 *** Cenere ***
Salve. Vi avverto: tutte le
scorrettezze grammaticali e le aberrazioni linguistiche (compresi gli errori di
battitura), se scritte in caratteri diversi da quelli normalmente utilizzati
nella narrazione, sono volontari (o frutto di uno spietato autolesionismo).
Inoltre, devo delle spiegazioni al
mio caro (e unico, ma, come vedrete, non lo dico mariagrazianamente) recensore,
Bael: innanzi tutto, la mia concezione di metafora è sfasata e incoerente, ma io
uso questo accorgimento proprio per distrarre o, meglio, per deviare il continuo
(e forse anche monotono) svolgimento narrativo, per “staccare”, insomma. Spero
che Susanna e Mariagrazia ti piacciano anche in questo capitolo, benché la loro
amicizia non sia molto manifesta, almeno qui. Vedrai, ma ti prego di non
fraintendere: il loro non è un rapporto casuale o di convenienza; si chiarirà
con il tempo. Ti ringrazio per le tue recensioni, sono davvero piacevoli,
complete e divertenti!
Poi, dal prossimo capitolo credo di
schiacciare l’interruttore “Azione”, sul cui tasto fino ad ora si è posato uno
spesso velo di polvere. Le incoerenze narrative sono delle brutte belve!
Infine, due precisazioni: capirete
leggendo che il titolo del capitolo era alquanto scontato (nonché nauseante, se
riuscirete ad arrivare al termine della pagina senza maturare un intenso istinto
omicida di martiniana memoria XD); inoltre, la frase citata nel capitolo,
riportata a penna su una sedia, proviene da
Mama dei My Chemical Romance.
Buona lettura.
Cenere
Non riuscii proprio a ricordarmi
come fossi arrivato in bagno.
E da quant’è che mi sto facendo una sega?
Sentivo la fronte gelida,
cristallizzata in un limpido torpore.
Liscio…
Le mattonelle.
Il bagno.
La porta difettosa.
La luc…
Cazzo, la porta!
Quel sottile rettangolo verde opaco
era socchiuso.
Cazzo cazzo cazzo cazzo!
Per fortuna i corridoi erano
deserti.
Nessuno aspettava che si liberasse
una cabina.
Nessuno si lavava le mani con il
sapone annacquato della scuola.
Come ero potuto rimanere mezzo nudo
con la porta semichiusa?
Senza staccare la fronte dalla
mattonella celeste, afferrai la maniglia e feci schioccare la porta sullo
stipite, come una frusta. Continuai a stringere la gelida maniglia.
Leccai languidamente con lo sguardo
il cerchietto metallico dello scarico, le scritte sulla superficie ruvida della
porta:
Sukkiamelooo!
laura c. è una
troia by robertok
ANTIFA FINO ALLA MORTE
Caterina 6
bona
09/04/06
rossella, io + te = 3msc
CHIAMAMI TI
FARO’ UN POMPINO GRATIS 3412526335
Inter merdaaa!!!!!!!!!! by zebra 94xxx
Vendo kitarra akustika usata buone kondizioni 130 euro no skerzo kiamami
3379679584
Cominciai ad ansimare prima di
iniziare, come facevo sempre.
Il pavimento bagnato tramontò sotto
le mie palpebre. Polvere e vento. O polvere al vento?
Ah.
Frammenti di foglie, forse. Foglie
cadute. Ma è quasi estate, non cadono le
foglie! Qualcosa doveva essere: la polvere non nasce così, all’improvviso.
Peli, piccoli gomitoli di peli, di
gatti e di cani, di pubi e capelli. No, no, no, nononono,
Non va!
Ah…
Il rumore mi disgustava, ma era
meraviglioso solo perché lo producevo io.
Sangue, sangue,
sangue che si muove. Scorre, fruscia, fluisce, mesce, scande, scende,
scivola, scia… Scia di polvere sul pavimento pisciato.
Polvere, ancora polvere?
Di che cazzo è fatta la polvere? ‘Fanculo alle mie domande del cazzo.
Polline. Api. Friniscono, frullano,
vibraaa…no. Polline, fiori, petali tremano al vento e… Cazzo!
Ah!
È il vento che porta la polvere? No,
polvere e vento. La congiura delle polveri, come
V per vendetta. Polvere e vento. E
fuoco nel Parlamento. Urla, urla ridicole. Lagne. E fuoco dappertutto. Legna
bagnata che brucia. E fuoco sulla polvere. E polvere sul fuoco e vento infuocato
e polvere di vento e fuoco ventoso e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e
fuoco e fuoco e fuoco…
Aaah…
E polvere bagnata e acqua in
polvere! E pioggia di vento e vento liquido! Liquido… Fuoco liquido, spugnoso,
denso e spumeggiante, dolce fuoco effervescente, corposo e leeento, magma
amalgamato, torrente di crema… Infuocata. E… E… E no, nonono, acqua no… E
polvere di fuoco. È polvere di fuoco. È polvere. È fuoco.
È cenere.
AAAAAAAAAH!
Rauco, come se avessi ingoiato
sacchi di polvere. Cenere bollente.
Cenere!
Ecco, cenere. Polvere di fuoco:
cenere.
Ecco. E-ecco, sì.
Riaprii gli occhi e strinsi di più
la maniglia, sibilando.
Espirai pesantemente.
Percepii il sudore sulla fronte solo
quando la sentii tesa per l’attrito contro la parete. Incastrai l’unghia
dell’indice nella fessura fra una piastrella umida e ghiacciata e l’altra e
grattai via lo sporco.
Stridette.
Mi dolevano le orecchie e i tendini
dell’avambraccio destro sussultavano appena stendevo il braccio.
Mi accovacciai poggiando la parte
superiore della testa e i palmi sudati sulle piastrelle, cercando di asciugarmi
le mani sulla parete bagnata.
Richiusi gli occhi.
Cenere.
Mi sentivo come drogato, allucinato:
colori abbaglianti, sensazioni amplificate, urla metalliche, narici infiammate,
come se respirassi cenere.
Non riuscii a calcolare quanto tempo
trascorse prima che mi sollevassi e capissi. Come le campane, superai il mio
stesso pensiero, concentrandomi su quello successivo prima ancora di aver
formulato il precedente. Può succedere,
può succedere che non esistano più! La fan fiction, il capitolo quattro… Senza
manie di grandezza, posso eliminarli tutti. Non si tratta di fingere che non
esistano, io posso ELIMINARLI.
Non avrebbero avuto più nome, viso,
voce, vista, appartenenza, azione, storia, sensazione… Neanche la più elementare
intuizione.
Senza geni, senza rivalità
megalomani, nessuna vendetta, nessun piano narcisistico.
Eliminarli.
Non vederli mai più, non ascoltare
le loro lagne sullo sfondo di cieli color cenere, il suono dei tacchi
sull’asfalto, i risolini, pareti brulicanti di aspiranti parassiti, soffocamenti
di finestre chiuse, arie fumose e vetri appannati, sbarre, sbarre alle finestre,
alle sedie, ai banchi, alla lavagna… Silenzio.
Un nuovo mondo, piccolo ma nuovo.
Ma quale nuovo mondo!
No, d’accordo: non era una
spedizione punitiva contro le folle di giovani diversi da me che si accalcavano
nei loro accampamenti, come tanti leziosi Hänsel
e Gretel che leccano pomelli e appendiabiti.
Non era la pace umana universale che
cercavo: era la mia; il mio piacere. Spingerli uno per uno dal punto più alto
dei binari delle montagne russe, ognuno nel suo carrellino, verso un tunnel,
magari verso un forno crematorio. Risi.
No, neanche questo era esatto: non
era il gesto soddisfacente, ma il risultato: morti, spenti, mai esistiti. Chi
avrebbe mai potuto asserire che, una volta, molto o poco tempo prima, fossero
vissuti? Prove non ce ne sarebbero state. No no, tutto pulito.
La cerniera dei jeans fluì
tranquillamente e la cintura scorse flessuosa fra i passanti. La fibbia era
ghiacciata e mi gelava la pancia; puzzava di sangue.
Sarà l’odore del metallo.
Mi riordinai i capelli canticchiando
a bocca chiusa una strana melodia che, mi accorsi in seguito, altro non era che
Unforgiven II dei Metallica.
Come lay beside me
This won’t hurt I swear
She loves me not
She loves me still
But she’ll never love again
Tutto fottutamente pulito e non li
avrei più visti, mai più. Mai più. Sembrava una frase da Ugo Foscolo:
Ne più mai toccherò le sacre sponde… O era
“Né mai più”? Oppure Primo Levi, Se
questo è un uomo. Non bastava lavorare nel fango, collezionare vermi e
sporcizia, uccidere per un pezzo di pane, non scaldarsi davanti al focolare
domestico, darsi al martirio perenne per dubitare se questo o quello fosse un
uomo: la dignità era cenere in un setaccio dai buchi troppo larghi.
She lay beside me
But she’ll be there when I’m gone
Black heart starring darker still
But she’ll be there when I’m gone
Yes she’ll be there when I’m gone
Dead sure she’ll be there!
La dignità sfuma di botto, come porte pesanti. Sbattono e lo schiocco implode.
“Voi non avete capito niente!
Ragazzi, regolatevi, fra dieci giorni avete gli esami e io non voglio fare
figure portandovi con il sei quando la sufficienza vi repelle completamente!”
Che dignità può avere una ragazza che si svende per evitare la demolizione?
“Prof, per favore, non mi mandi
fuori… Dài, prof, veramente! E che cazzo, però… Stavano parlando tutti, perché
punite solo me?”
Che dignità può avere un ragazzo che strascica i piedi nella melma per vedere
quanto si sporcano?
“Raga’, queste patatine sanno di
merda… Ma che cazzo ci mettono nel distributore, gli avanzi di tre anni fa?!”
La dignità è usare bene sé stessi.
“Ora pure le femmine hanno il
pisello? Com’è che il bagno delle ragazze è tutto pisciato?! Ma tutto in questa
scuola capita, io non lo so…”
Il proprio corpo, la propria mente. Usarsi in modo intelligente e utile.
“Sono tutti occupati i bagni?”
Utili a sé stessi, perché, in fondo, viviamo per quello.
“Penso di sì… Forse quello è
libero.”
Spinsi definitivamente via la porta
solo quando mi resi conto che aveva strillato la campanelle e le urla si
accavallavano, una in groppa all’altra, galoppavano, frenetiche, di classe in
classe, di corridoio in corridoio, di gola in gola.
Io… io non ce la faccio. Non riesco a vivere sapendo che sono vivi, che la loro
pelle potrebbe sfiorarmi, le nostre ceneri mischiarsi, i nostri capelli
annodarsi insieme, gli uni agli altri.
Non avevo mai inteso così
profondamente il mio odio nei loro confronti: ovattato, pacato, monotono, come
attutito da un cuscino, come se ci fossimo trovati in un letto enorme, l’uno
sopra l’altro, raggomitolati, rotolanti su migliaia di cuscini e materassi, uno
sopra l’altro. Come cadaveri.
Tanto fra un po’ mi passa.
E poi era l’ultimo giorno di scuola: non li avrei visti per tre mesi, sarei
dovuto essere felice.
Ma no, no, no, no! Perché mi
illudevo? Non era questione di vicinanza o lontananza: si trattava della
semplice esistenza.
Mi sarebbe passato comunque
quell’entusiasmo: era troppo, non riuscivo a sopportare quella mancanza di
apatia. Sì, magari dopo mi sfogo un po’
giocando alla Play Station 3, magari a… Anzi, no! Ho portato la PSP.
Quando tornai in classe, mi accorsi
che l’aula era ancora vuota: probabilmente erano ancora tutti in laboratorio.
Un’atmosfera surreale mi strappò via dal mondo, luce su luce, grigio su grigio,
notte su notte. È così bella un’aula
vuota. Provavo la stessa sensazione che infonde un teatro deserto, un palco
ticchettante di piedi invisibili, rombante di canti muti, cangiante di colori
insipidi; una sala di danza, il parquet ammaccato da scarpette vaghe, le pareti
specchiate che riflettono sé stesse all’infinito… e altro, la frenesia dell’eco
di una radio spenta all’improvviso o di un CD che sta per girare nel lettore… Un
letto sfatto impregnato di saliva, sudore, capelli, unghie e fantasie, le piaghe
grinzose delle lenzuola accoccolate sulla sagoma di un corpo in un materasso.
Sarebbe bello se rimanesse tutto così.
Carte sui banchi, legno colorato,
ferro, cemente, mattonelle e nostalgia. No, non nostalgia: non mi mancava nulla
di passato, semmai ero lieto che fosse trascorso. Cos’era? Malinconia? No, non
mi ero addormentato in mare – era questa la sensazione che mi allagava il
cervello quando pensavo alla malinconia. E
non si tratta di questo.
Camminai lentamente fra i banchi,
osservai i bicchierini di caffè dal fondo bruno per i residui di bevanda
rimasti, la striscia nera del banco impiastricciata di bianchetto; decifrai un
Camilla in caratteri gotici e, su un
altro banco, L, nella calligrafia
speciale del manga, seguito da IGHT.
Mi concentrai sulla superficie marroncino della sedia incastrata fra le gambe
del banco e notai un tratto fino sullo schienale:
Well, Mother, what the war did to my legs and to my
tongue
You should’ve raised a baby girl
I should’ve been a better son
Un diario spalancato su un banco, il
segno tenuto da una penna; schiacciai le pagine che si aprivano a ventaglio per
leggere una scritta che avevo intravisto attraverso la coda di pavone della
carta: Oggi, un’altra affollata solitudine
di scuola: l’ultima. E penso a quando mi riporterà la scarpetta quel principe
bastardo contro cui l’ho scagliata. Riccioli intrecciati con un pennarello
doppio e arancione.
Boccette e giornali di moda su un
altro sottobanco rivestito di chewing-gum. Mi morsi un polpastrello e raccolsi
una bottiglietta di profumo a forma di spirale che confluiva in una sfera
dentata blu cobalto, facendola scivolare sulla superficie liscia del banco.
Frusciò nel silenzio cimiteriale della classe.
I resti di corpi mai esistiti
(mai esistiti mai esistiti mai esistiti mai esistiti)
rendevano quell’arido squallore una
viscida fanghiglia, appiccicosa e umana:
auricolari imbrigliate, incisioni nel legno, libri spiegazzati, astucci
rovesciati, sciarpe esanimi, gocce e aloni, puzza di disinfettante.
Passai il dito su un’iscrizione di
chissà quale epoca, seguendone i contorni distrattamente, senza accorgermi di
cosa fosse. Grattai via i trucioli di gomma imprigionativi con l’unghia.
y – y0 = m (x – xo)
decifrai alla fine.
Tante gracili grucce spoglie, magari
qualcuna era protetta da un velo di plastica trasparente, ma era evidente che
anche quelle erano nude; ossa, ossa gettate su marciapiedi umidi, coperti di
gomme da masticare indurite.
Non c’erano più.
Non esistevano.
E, sì, era splendido.
Era come respirare polvere
soporifera o cocaina: era tutto perfetto e se fosse rimasto così…?
Tremai.
Era come...
Chiusi gli occhi.
Come se…
Come se fossi su uno scolapasta gigante,
in altomare, e vedessi da lontano L’isola che non c’è, il punto più alto
dell’isola… E ci sto arrivando, cazzo, ci sto arrivando, remo con le mani, ma ci
arrivo. E gli squali non mi prenderanno, non esisteranno perché io vorrò così.
Era un’idea pazzesca: ucciderli
tutti? Tutta la classe? Tranne me, ovviamente: e i sospetti piomberanno su di
me. Come, poi? Come ucciderli? Prenderli uno per uno, sottoporli ad una tortura
diversa e straziante, facendomi chiamare The Punisher…?
No, eliminarli.
Non sarebbero più esistiti.
La sofferenza era sempre un
sensazione che faceva capo all’esistenza e, no, no no no, non l’avrebbero avuta.
Annullamente.
Le vostre tracce non incresperanno l’acqua.
Che pensiero assurdo. Eppure sorrisi
per averlo formulato.
Azzeramento.
Niente, il nulla. Il Mu, avrebbe
commentato Ryuk.
Oh, ma certo! Voglio uccidere ventitré tizi e non ho nessun dio dalla mia parte…
Non ce l’avrebbe fatta Light, figuriamoci io.
La solita crisi, sempre la solita
crisi: pensare rendeva incoerenti, l’avevo sempre sostenuto.
No, l’avrei fatto: senza alibi,
senza dèi, senza genialità li uccido.
Li uccido tutti quanti insieme,
avvelenandoli come parassiti con… con… con diserbanti o… che ne so…?
Lasciai perdere: non avevo bisogno
di ufficializzare nulla, né di spiegare la mia decisione: l’avrei fatto e basta,
a costo di ammuffire in una cella umida e ghiacciata. Mi bastava che morissero,
che i loro germi andassero in malora con loro.
Urtai l’angolo di un banco con la
coscia.
“Good morning!... Ehi, Blackhand,
dov’è il resto della classe?”. Sussultai.
Solo la professoressa d’inglese
storpiava il mio cognome in quel modo: la Rosangeli posò la cartella di pelle
bruna sulla cattedra e infranse in mille pezzi quella rabbiosa, indomita
malinconia. Non la odiai per questo, come non sia odia la propria mamma per
averci vomitati in quel deserto gremito che è il mondo.
“Oh, ehm…”, esitai spaesato. “Sono
nel laboratorio d’informatica col professor Recchia, ma penso che torneranno
presto, perché…”
“Okay. È che devo interrogare ancora
tre persone, ti rendi conto? E poi devo definire il voto ad altri”, sbuffò
aprendo la cartella con uno scatto. Il viso rugoso coperto dai capelli biondi
sembrava quasi piacevole – o forse era la suggestione del mio umore
particolarmente positivo.
“A proposito, tu sei preparato per
oggi?”
“Eh?”, biascicai con voce roca. Mi
schiarii la gola e feci per continuare.
“Hai un sei e mezzo, un otto e un
sei più e, sinceramente, vorrei metterti proprio otto ai quadri, però devi
venire all’interrogazione”. Scorreva il registro con una matita consumata e
dalla punta quasi piatta.
“No, meglio di no. Cioè… Non ho
studiato”, sbottai; riposi la boccetta di profumo dove si trovava prima e mi
avviai verso il mio banco, scavalcando zaini tristemente bivaccati sul pavimento
come cadaveri.
“E allora ti metto sette ai quadri,
non posso mica inventarmi i voti, eh, sorry”, esclamò come se fosse stata offesa
nella sua intima dignità di essere umano.
Mi strinsi nelle spalle con
un’espressione sarcastica, augurandomi che non mi stesse guardando; mi sedetti
trascinando la sedia.
Light, di profilo, ghignava
esultante e beffardo su un quadrato d’inchiostro.
Non mi serve un Death Note per impazzire.
Sì, era tutto pazzesco e folle,
un’idea matta, inaudita.
Fenomenale e prodigiosa.
Straordinaria.
E confortante.
Non m’importa, non m’importa niente! Vi fotterò tutti, renderò la mia vita
migliore. E la vostra sarà un effimero cumulo di ceneri.
***
La cenere della sigaretta di
Raffaele cadde sulla tastiera nera e si accumulò fra
Invio e
ò.
Era lui?
No, non era lui.
Non ha il segno del tacco. Anzi, no, della punta: non mi sognerei mai di
indossare scarpe col tacco!
Ma figuriamoci se poteva essere il
tecnico del laboratorio d’informatica. Sospirai e fissai la mano di Susanna sul
mouse.
“Raga’, muovetevi, se no la
Rosangeli s’incazza, su!”, sbraitò Recchia. Lo ignorammo tutti.
Oh, Dio! Lo sapevo, questo è uno di quei giorni in
cui rivedo Notting Hill e Romeo +
Giulietta fino alla nausea! No, in realtà non mi dispiaceva
naufragar in questo mare, era
dolce. Così dolce… Ah, già, avrei
anche sfogliato il libro d’italiano di mio fratello cercando la voce di
Leopardi.
Ho sbagliato epoca.
Sarei stata un’ottima Silvia per lui, una sanguinaria Fanny all’occorrenza; gli
avrei circondato le spalle mentre si dedicava al suo studio
matto e disperatissimo, avrei raccolto le sue
sudate carte, l’avrei difeso dalla madre bigotta, aiutato a fuggire
dalla stantia Recanati, saremmo corsi via insieme in una brumosa notte di
novembre, lontano, lontano… Ci avrebbero maledetti e, cazzo, avrebbero avuto
ragione! Gli avrei strappato la penna di mano e l’avrei stretto a me, lo avrei
ispirato e irritato stropicciandogli le poesie, gettandolo fra i rovi,
baciandolo fra spighe di grano che si sarebbero chiuse su di noi…
E tutti giorni sarà attesa per il seguente, perché ci sembrerà migliore,
anche se non lo sarà; non ci saranno sere del dì di festa,
solo sabati, sabati, migliaia e migliaia di sabati! Sabbatiche malinconie
reciproche, capricciose e belle, e le colombe di Saffo sorveglieranno i nostri
corpi avvinghiati e disperati.
Mmm, magari avrei potuto usare
quelle immagini per una fanfiction. Sbuffai.
Quando la smetterò di cercare uno spasimante in ogni individuo che mi si
presenti davanti? Ora mi interesso anche ai morti, e brava alla necrofila!
Ritornai a ripetere la lezione
d’inglese.
The sole
trader, as known as proprietorship, is a type of business owned and run by one
individual and doesn’t imply legal distinction between the owner and the
business; it’s called sole because the owner…
Se ora fossi in un liceo classico starei ripetendo Shakespeare, non questa merda,
pensai amaramente appena mi accorsi di leggere solo per inerzia. Sbuffai: non
avevo il coraggio di chiudere il libro e lasciar semplicemente perdere.
“Sempre a sospirare oggi?”, si
lamentò Susanna. La ignorai: detestavo la sua lunatica incostanza.
Insomma, o mi mandi a fare in culo una volta per tutte, o accetti le mie
idee. Mi innervosiva.
Sorrise.
Ecco, appunto.
“Che c’è?”, indagò distrattamente.
Fissai i contorni dei suoi occhi
truccati e mi vergognai di invidiarla, mi vergognai fino ad arrossire,
probabilmente.
“Hai una nuova recensione,
comunque.”
“Davvero?”. La schermata di EFP mi
accecò; sbattei gli occhi e mi avvicinai al monitor facendo scricchiolare la
sedia.
Susanna si protese verso di me
fissandomi intensamente – non la guardavo, ma mi sentivo rivestita della sua
attenzione; non era una sensazione piacevole, in effetti – e sussurrò con
evidente sarcasmo.
“Sai cosa dice quella grande saggia
di mia madre? Sospir cuor mio, ragion tu hai: aver l’amante e non vederlo mai.
Proprio patetica, ma è una frase che ti si addice in questo caso, no?”.
In quel momento la odiavo, la odiavo
come un corpo estraneo penetrato nel mio sangue… Mi dava fastidio.
Che cazzo vuole? Prima mi offende dicendo che sono ingenua, si illude di
essere uno schifo di serial killer, e poi fa la simpaticona, come se potesse
spazzar via tutto così. Ma vaffanculo!
“Che intendi dire?”. Sorrisi,
nonostante i miei pensieri: meglio non discutere troppo con lei, precipitare
sembrava così semplice.
“So cosa stai pensando.”
Grazie, ora sì che mi illumini.
La sua voce solenne mi spaventò
impercettibilmente; cominciai a disegnare stelline e occhi in stile manga fra un
paragrafo e l’altro del libro d’inglese.
“Sospiri perché ti piace Recchia,
vero? Eh, lo so, anch’io ho avuto una cotta per lui al pri…”
“Ma sta’ zitta! Sembra Babbo Natale
versione barbone-della-stazione!”.
Sospirai, ma stavolta mentalmente:
sì, sorrisi al suo sorriso e la fisai ancora, la dimenticai e la recuperai in un
secondo; pensai a quanto la detestavo.
Come cazzo farei senza Susanna?
Il mio sorriso si spalancò e non
capivo se fosse dettato da una prudente ipocrisia oppure dalla sincera
sconsideratezza.
“Ti adoro quando fai così”, le
confessai seria.
“Solo quando faccio così?!”. Si
finse offesa e altezzosa.
Solo quando non fai il serial killer giustiziere.
“Ma no, ti adoro sempre!”. Poggiai
la testa sulla sue spalla e lessi la recensione che mi indicò.
Recensioni per “Dead boy’s
poem – Light’s prayer”
Recensione di Samyra [Contatta]
del 09/06/09 – 00:42PM al capitolo 1: Dead boy’s
poem – Light’s prayer – Firmata
Wow, bella songfic, davvero ^^ appena ho finito di leggere la tua longfic mi
sono subito gettata sulle oneshot… Dopo tante ficcy su L, finalmente una sul
dio… XD Va bè sono di parte, ke ci vuoi fare! Cmq, la scelta della canzone dei
Nightwish come putno di partenza è geniale, soprattutto il pezzo: “created a
kingdom, reached for the wisdom, failed in becoming a God”… *_____________* che
pena x Light, è stato orribile… soprattutto la puntata di ieri sera, ma non
usciamo dall’argomento, se no le amministratrici mi eliminano la recensione come
hanno fatto l’altra votla, grrr… è_é dicevo, la ficcy è molto struggente, mi ha
colpito molto… quasi quasi mi mettevo a piangere!!! va bè lascia stare, sono
melodrammatica (o mello-drammatica in questo caso! XD) (suicidati! Ndte) (eh,
hai ragione… sarebbe un bene x la società! ndLight)… Va bè, spero di leggere
presto qualche altra cosa di tuo… chao chao ^^
“Ma chi è ‘sta cogliona?”, mormorò
Susanna soffocando una risata in un grugnito.
La colpii lievemente alla spalla. “E
dài, quanto sei cattiva! È stata molto sincera…”
Sei recensioni in meno di dodici ore, che bello!
“Be’, su questo non ho dubbi, però…
Insomma, questi fenomeni da baraccone mi stanno un po’ sul cazzo”, soffiò
Susanna. “Ma almeno danno un po’ di vita ad EFP.”
Ridemmo insieme.
“Figurati, tanto non me ne frega
niente delle recensioni. Sai che per me l’importante è scrivere”, esclamai.
Sei recensioni! Dovrei scrivere un’altra long-fic. Qualcosa m’inventerò,
l’importante è avere i lettori in pugno.
“Fai bene. È difficile trovare dei
recensori veramente bravi.”
E pensare che alla prima oneshot che ho scritto hanno recensito solo due persone
in due anni e mezzo.
“E tu che mi dici?”, le chiesi.
Mi fissò: la pelle bianca delle
guance era solleticata da qualche ricciolo floscio e sensuale, il mento poggiava
sulle nocche della mano destra, gesto che rendeva la sua posizione elegante e
superba. Aggrottò la fronte, come per domandarmi cosa intendessi dire.
“Le recensioni, intendo. Cioè…
Qualcuno ti ha lasciato qualche commento all’ultimo capitolo della storia?”,
chiarii.
Il professor Recchia si stava
avvicinando alla nostra postazione elettronica con aria minacciosa; mi guardai
intorno: solo io e Susanna eravamo ancora sedute, gli altri si avviavano verso
il corridoio stiracchiandosi e schiamazzando. Grattai il pavimento con la sedia
e raccolsi il libro d’inglese. Speriamo di
farcela a ripetere in classe prima che arrivi la Rosangeli.
Imitandomi, Susanna fece schioccare
le dita indolenzite.
“The
Electric Metempsychosis, dici?”
|
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Capitolo 6 *** Poison de Garce ***
Senza nome 1
Un salve particolarmente lieto oggi, visto che questa fanfiction svetta fra le
storie scelte di questa sezione insieme, fra le altre, a
Prometheus di Bael, che ho letto con immenso piacere e ansia.
Dunque, ringrazio coloro che hanno reso possibile tale evento, ossia Mote_Ely e
Bael.
Sono lieta che Atari sia così attratta dalla mia storia e, soprattutto, che si
immedesimi in Martino, perché è proprio questo che mi preme, ossia: io desidero
davvero che lo capiate, che non crediate precipitoso il suo giudizio –
l’immedesimazione è qualcosa di diverso e ambiguo, merita altri tipi di
trattazione.
Rivolgo la stessa gratitudine a Mote_Ely, con l’aggiunta di qualche dettaglio:
mi rallegra che la mia storia accenda in te questo tipo di suggestioni, però ti
consiglio di non fare troppo affidamento su questa fonte. Intendo dire che una
storia può, sì, avere un’utilità ed è compito del lettore cercarla – se c’è – o
desumerla in qualche modo; la mia storia ti ispira e mi fa piacere, lo ripeto,
però sarei felice se ti piacesse solo perché… è lei, per la vicenda in sé, per
la sua identità di storia. Non so se sono stata chiara, ma, comunque, tu sola
sai in che modo ti aggrada questa storia e io ne accetto qualsiasi variante,
quindi ti ringrazio. Quanto a Bael, sì, Martino è davvero buffo, un po’
disadattato anche lui, in realtà. Insomma, non solo i tipi seriosi e
lungimiranti come Light possono spassarsela, no? XD Mi dispiace che Mariagrazia
non ti sia piaciuta: vedi, in seguito si capirà che non è solo una ragazza
depressa, ipocrita e rancorosa. Emergerà sicuramente un suo lato differente
(neanch’io sono di parte). Infine, Susanna è adorabile, lo so bene –
capricciosità a parte XD.
Buona lettura.
Poison de Garce
Era viola e rettangolare, scivolò
sul banco come su una lastra di ghiaccio.
Comincia ad aspettare cn me il giorno +
importante della mia vita… Festeggiamo insieme il mio 17esimo compleanno! 19
giugno, ore 22, discoteca Poison De Garce, via Carlo Cattaneo 11/c, privet n° 2…
Ci divertiremo… Ilaria (:
Come se tutti i compleanni
precedenti, compreso quello, fossero stati festeggiati in funzione del
diciottesimo. Oh, Dio.
Stropicciai il più possibile il
cartoncino e me lo ficcai in tasca.
“Ehi, Ilaria ti ha dato l’invito?”,
mi domandò ansioso Aldo.
Annuii.
Mille irritanti pulsazioni al
diaframma mi avvertirono che ero agitato.
“E ci verrai al suo compleanno? La
discoteca è bellissima, è vicina alla Foresta di Mercadante, quindi è un po’
lontana, verso Bari, ma il padre di Ilaria è un autista di pullman, quindi
potrebbe anche…”
Te l’ho chiesto?!
“Il venti Alessandro ha la prova
scritta d’inglese e io devo accompagnarlo, non posso ritirarmi tardi.” Non avevo
affatto voglia di discutere, quindi utilizzai mio fratello come scusa: in
effetti, gli scritti degli esami di terza media sarebbero terminati il
diciannove, ma Aldo non avrebbe mai potuto saperlo.
“No, Marti’, devi venire
assolutamente!”. Francesco si materializzò alle mie spalle – me ne accorsi prima
con l’olfatto che con il resto dei sensi: l’odore di patatine marce mi fece
arricciare le labbra.
No.
Aspetta, no! Ti prego, non lo dire…
“Perché?”, domandò Aldo fingendosi
confuso e ridendo con le narici da toro.
No! No, è finita.
“Aldo, mi deludi! Perché… No
Martino, no party!”.
Oh mio Dio.
Fui assordato da un boato di risate,
che culminò in una bonaria manata di Francesco sulla mia spalla ricurva. Questa
trita battuta circolava dal primo anno delle superiori e mi perseguitava alla
vigilia di ogni ricorrenza, festa, sciopero, manifestazione e Santo Patrono di
Rotunno che fosse. A che serve ridere?
Tanto morirete tutti.
Fu folle pensarlo e, ciononostante,
ne fui estasiato. Risi a bocca chiusa, ma in modo sorprendentemente naturale.
Aldo mi fissava e rideva, per la
battuta di Francesco, supposi.
Io fissavo Aldo e ridevo, perché
sarebbe morto.
Altro che pullman e feste e
bicchierini di carta e pizzette e nubi di fumo e luci brillanti e malizia e
sesso mascherato da ingenuità.
Magari proprio lì morirai, mentre Khadija, per pietà, ti avrà consentito di
toccarle il culo, o mentre ti divertirai con Francesco nella gara di rutti o di
chi viene per ultimo durante una sega di gruppo, oppure mentre ti fai fare le
peggiori porcate nel pullman da…
Sì.
Sì sì sì!
Sì.
Sì, era perfetto:
Li uccido tutti insieme, autista compreso – tanto è il padre di Ilaria,
faccio un favore ai compagni di scuola dei suoi eventuali rampolli.
Ma sì, non è affatto male come idea: li prenderò tutti insieme, come polli. Sì.
Mentre la voce di Mariagrazia –
ipotizzai – squillava per l’aula, caricando e sparando duecento parole al
secondo, come una mitragliatrice di Call
of Duty, inceppandosi molto spesso, inspirai.
Non mi accorsi delle pozzanghere
tenebrose che ingrigivano l’asfalto, i coperchi dei tombini e le griglie della
fognatura, né dei flotti d’acqua ingurgitati dai canali di scolo sotto i
marciapiedi, ma di una cosa mi resi conto: ero pazzo a voler uccidere tutti i
miei compagni di classe. Pazzo e giusto.
***
Era viola e rettangolare, scivolò
sul mio banco come un insetto e mi colpì il mignolo con l’angolo appuntito.
Spiegazzai l’invito e lo scagliai
nell’astuccio.
“Che palle, un altro schifo di
festa”, sputai con una smorfia.
Mi guardai intorno: la professoressa
Rosangeli stava per interrogarmi, Ilaria saltellava di banco in banco per
distribuire gli inviti; il color prugna dell’extension che le pendeva dalla
tempia destra mi incantò.
“A-ah, infatti”, mormorò Khadija in
tono indolente.
“Ah, senti: se sono in difficoltà e
non hai niente da fare, potresti suggerirmi?”, le chiesi guardandola speranzosa.
I neon le schiarivano la pelle della fronte, mentre il collo sembrava di cuoio,
sfiorato appena dagli orecchini a mezzaluna che riflettevano l’ambiente
grigiastro.
“Sì sì, tranquilla”, sorrise.
“Ah, Khady, questo è per te!”,
squittì Ilaria sventolando un altro invito e mettendo in mostra il polsino rosso
con il disegno di una foglia di marijuana; si curvò sul banco di Khadija: fui
ipnotizzata dall’oscillare di una croce argentata e cosparsa di strass pendente
dal suo collo abbronzato.
“Grazie, tesoro!”, pigolò Khadija
con voce innaturalmente acuta. Si abbracciarono brevemente, sempre sorridenti, e
Ilaria tornò alla sua attività di distribuzione.
Khadija stracciò il bigliettino di
cartone e ne gettò i brandelli in cartella.
Mi venne voglia di dondolare con la
schiena avanti e indietro, come i pazzi di quel documentario sui manicomi che
avevamo visto durante un’assemblea di classe sotto costrizione della Gerardi.
Noia e monotonia intervallate da
guizzi istantanei, come spifferi d’aria, come spruzzi d’acqua salata, come
granelli di polvere in un occhio.
Ho diciassette anni e non ho ancora baciato nessuno e ogni secondo sento la
possibilità che ciò avvenga sfilare via, come in processione, e posso contare i
secondi che trapassano fra le mie dita e mi sembra che quelle degli altri siano
ricoperte di colla, perché per loro il tempo non passa mai, i secondi cadono
frusciando solo quando sono secchi e inservibili.
I miei precipitavano vergini,
tintinnavano come monete in un pozzo asciutto.
Fissai Khadija attraverso la mano
aperta a ventaglio: stava guardando verso la fila destra della classe, dove Aldo
stava salendo in piedi sulla sedia e Martino sfogliava, svogliato, un libro.
“Però potrei andare al compleanno di
Ilaria, solo per divertirmi con Aldo”, sussurrò Khadija senza voltarsi verso di
me, ma focalizzandosi sulla copertina del libro d’inglese.
“Per provocarlo?”. Risi a bassa voce
– non che le sue aspettative fossero così divertenti.
Non rispose: era ovvio.
Che domanda stupida.
Mi accarezzai il ciuffo di capelli
imprigionato dietro l’orecchio e sentii il viso caldo.
Potrei essere io, potrei essere io Aldo. Non è che ci sia poi tutta questa
differenza. Non posso permetterle di trattarlo così.
Già, sarei potuta essere io Aldo: il
solito pensiero insulso, perché mi sentivo in colpa, perché, se qualcuno mi
avesse provocata e presa in giro come Khadija faceva con Aldo, io sarei
impazzita di rabbia. E dovevo fare qualcosa, questo pensavo; ma no, non avrei
fatto nulla, semplicemente nulla.
Tacemmo.
“Be’, Mary Grace, forza! Facciamo
questa interrogazione”. La Rosangeli si sedette sull’angolo della cattedra.
“Ragazzi, silenzio! Altrimenti vi
faccio passare tutta l’estate qua a scuola a studiare diritto
nippo-giamaicano!”. Quella battuta durava ormai da tre anni: tutti la
ignorarono.
La professoressa sospirò e il mento
le si divise in due palline ossute.
“So, talk
about the types of business and their features, okay?
Raga’, shut up, please! Vi boccio
tutti agli scrutini se non abbassate quelle voci starnazzanti che vi ritrovate!
E su, Aldo, stai seduto garbatamente, insomma!”
Urla, urla e battiti. Chiusi gli
occhi e sbuffai; l’aria calda appannò le lenti doppie degli occhiali.
“La vostra compagna è
all’interrogazione, state zitti o almeno prendete il materiale per la lezione…
Martino, dov’è il tuo libro d’inglese? Su, sveglia!”
***
Mi spaventai quando fui sicuro di
aver pronunciato ciò che stavo pensando.
Che cazzo vuoi, vecchia troia succhiacazzi?
Niente sguardi imbarazzati, niente
silenzio tombale, niente risolini timidi.
D’accordo, l’avevo solo pensato.
Il pullman.
Sì, il pullman: avevo deciso di
dargli fuoco, visto che le mie conoscenze quanto alla meccanica erano piuttosto
scarse – quindi manometterne i freni sarebbe risultato estremamente rischioso.
Quando?
Prima della festa, magari. Durante il tragitto.
Oppure no.
Sbuffai, ma ero felice.
Magari muoiono davvero.
Mi sarebbe passata, ne ero certo.
Anzi, meglio non fare nulla per
arginare quell’improvviso entusiasmo: avrebbe potuto generare uno scompiglio più
devastante – non che avessi una così alta considerazione della mia potenza. Ecco
un altro motivo per invidiare Light; sbuffai ancora, ma ero contento. Sì,
contento: non mi fidavo mai dei modelli, che fossero Gesù Cristo o Robin Hood,
erano tutti falsi, nessuno avrebbe potuto vivere senza trucidare il proprio
traditore o prelevare un bel gruzzoletto dal bottino per sistemarsi, comprarsi
un’armatura nuova o un cavallo più lucido e veloce, magari.
Light non era mai stato un esempio
per me – Dio, non sono mica diventato uno
“studente modello” da quando lo conosco. Era solo un personaggio
estremamente umano, con le sue ipocrisie e le sue esaltazioni, con qualche
vizietto, forse (megalomania a parte) e qualche ideale molto singolare. E
impulsivo.
Per attuare ciò che agognavo non era
sufficiente pensare come lui, né agire come lui, perché persino Light avrebbe
considerato incosciente e sbagliato sterminare la propria classe perché
fastidiosa e non fare assolutamente
nulla per non essere scoperto. Be’, espresso in quei termini sembrava davvero
insensato – e magari lo era – e lo sapevo – o forse no. Non aveva alcuna
importanza.
Mi sarebbe sicuramente passata.
Basta aspettare.
Intanto avrei dovuto informarmi
meglio sul luogo della festa e annotare tutti i passeggeri del pullman. Oh, a
proposito: e se non vi avessero partecipato tutti?
Quello sì che era un problema.
Potrei ucciderli uno alla volta, tipo
Saw – l’enigmista, in qualche modo… Magari
procurarsi una pistola non è così difficile. Che follia! No, non avrei fatto
altro che offrire alla polizia, o a chiunque avesse indagato sul caso, il mio
nome scritto in bella grafia sul registro degli indiziati.
No, niente scenario da film
psico-horror, con motoseghe, vergini di ferro, torchi e crocifissioni.
E, no, neanche impalamenti, chiarii.
Avrei potuto eliminare separatamente
coloro che non vi avrebbero partecipato.
Ah, no! Pessima idea, forse anche peggiore dell’altra. Ero confuso: fissai
una vignetta del mio diario senza leggerne il contenuto, mi carezzai la cima
della testa, tastando i miei corti capelli appuntiti e sondandone la
consistenza.
Cercare di imitare Light non mi
sarebbe servito a nulla: Sono più
insensato, motivato e stupido di lui, il confronto non regge. Devo pensare con
la mia testa. Cercai di ingoiare i cliché, i corpi estranei, i demoni, le
simulazioni, le voci, i mormormormormormormormorii…
D’accordo: con la mia testa.
Che cazzo faccio?
Ucciderli separatamente no, abbiamo detto… E neanche uno per uno. Ammettiamo
che… No, dunque… Chi potrebbe mancare?
Non impiegai molto a rifletterci.
Vidi la penna rotolare verso il
bordo del banco e la bloccai con una mano; iniziai a riempire i quadretti del
diario alternando, in modo da scarabocchiare una rozza scacchiera.
Sicuramente Susanna, Mariagrazia e
Pierpaolo non avrebbero partecipato alla festa – non l’avevano mai fatto e,
inoltre, ricordavo a fatica l’ultima occasione in cui avessi scorto Pierpaolo
fra i banchi di scuola, o in qualsiasi altro posto.
D’accordo, solo loro?
Forse Khadija, ma… Sarebbe disposta a
sprecare un pretesto per giocare con Aldo? Si trattava pur sempre di una
discoteca e, a quanto ricordavo, Khadija aveva sempre preso parte a quel tipo di
ricorrenze, almeno durante il biennio. Sì, ricordavo bene i suoi abiti stretti e
quell’aria da richiamo sessuale, come in un documentario di pessimo gusto, con
quegli odori così… così… nauseanti, se non si era fra le prede-pretendenti; non
che questo atteggiamento fosse una sua prerogativa: spesso io e Aldo avevamo
condiviso quelle cacce al tesoro che chiamavano
festicciole solo per prenderli tutti in giro sgranocchiando rustici
e salatini, seduti su sgabelli di plastica bianca accanto a tavoli imbanditi.
Deridevamo il loro bisogno di subordinarsi e arrogarsi il diritto di comandare,
i sorrisi di convenienza e gli occhi arrossati per un’umiliazione volontaria, le
litigiose scorribande notturne verso ciò che di più rivoltante c’era nella
perdizione; e le cosce nude fra i cuscini dei divanetti, le caviglie pelose, il
trucco sbavato, il sudore sotto le ascelle, l’incoscienza indotta, i litri di
alcool spavaldamente ingollati, le pasticche nascoste da unghie colorate e
scagliate sotto la lingua. E, oh, le lingue, tutte così profumate e disgustose.
Oleosi tovaglioli sulle tavole e bicchieri appiccicosi. Io e Aldo li deridevamo
tutti, tutti quanti: quelle erano le uniche feste che mi lasciassero totalmente
soddisfatto.
Già, al biennio.
Aldo.
Trascorsero parecchi secondi prima
che riuscissi a ricordare il soggetto vero
dei miei pensieri.
Ah, Susanna, Mariagrazia e l’Uomo Invisibile.
Era molto facile enumerare cosa non
potessi fare, ma non riuscivo a trovare, a capire a cosa mi potesse portare quel
ragionamento.
D’accordo, ammettiamo che sia sicuro che quei tre non vengano. Andiamo per
gradi: non partecipano, non muoiono.
Mi dispiaceva giungere a quella
conclusione: desideravo rimanere l’unico, veder morire anche loro tre, benché
non fossero ben integrati nella sporcizia dell’ambiente – non ancora e non
esageratamente, almeno.
Susanna e Mariagrazia erano stupide,
frivole e maliziose, donnette da nulla, né pericolose, né lodevoli. Non che
fosse un demerito – l’ignavia era anche una mia pecca e la riconoscevo, ma
individuarla negli altri mi seccava.
Pierpaolo… Mmh.
Chi cazzo è? Ricordavo solo che un cappello con la visiera gli
schiacciava sempre la fronte grassoccia, come se ne nascondesse i rotoli di
ciccia sotto il tessuto; durante il primo anno lo prendevano tutti in giro per i
suoi lobi enormi e pieni, per i foruncoli sulle tempie e sul collo – accadeva a
tutti di essere derisi per i motivi più improponibili, se la classe ne aveva
voglia. E ne aveva sempre. Frequentava le lezioni molto raramente – mi chiedevo
perché non l’avessero ancora bocciato – e ci eravamo rivolti la parola solo una
volta, quando ci incontrammo alla Fiera del Levante, nella Galleria delle
Nazioni. Mi aveva salutato con la manina grassottella e un insipido
Ehi, mentre un bimbo alle mie spalle mi spingeva rischiando di far
scoppiare il suo palloncino blu pieno di sabbia, che frusciava a tintinnava ad
ogni sballottamento.
OK, allora che ci faccio con questi tre?
Su Pierpaolo non avrei potuto
contare, decisamente: contattarlo era impossibile e inoltre… No, sarebbe stato
imbarazzante interpellarlo solo per
quello.
Sbuffai: avrei anche potuto…
Ma certo!
Sì, uniamo l’utile al dilettevole.
Era mio padre che esclamava sempre
quella frase? Pensarlo mi impressionò, chissà perché.
Non mi sarebbe dispiaciuto
poi così tanto lasciarle in vita.
Mi avrebbero aiutato; allora sì che
sarebbe stato tutto più semplice.
Sì.
Le avrei strattonate, spinte a forza
dalla mia parte, avrebbero collaborato con me – ero sicuro che lo volessero.
Sicurissimo.
E poi?
Tirai su col naso impercettibilmente
e cancellai i quadratini riempiti d’inchiostro con il bianchetto. Uno ad uno…
Anzi, tutti insieme, con una lunga striscia spezzata. Li spazzai via.
Come se non fossero mai esistiti.
Ucciderle a parte sarebbe sembrato
sospetto e, se avessero vissuto dopo la macellazione – aveva cominciato a
piacermi quella definizione –, forse mi avrebbero denunciato.
Avevano bisogno di una pesante dose
di violenza psicologica – non che io fossi particolarmente abile in quest’arte.
Ci avrei provato, quantomeno.
Voltai la testa verso Susanna e, un
banco più indietro, Mariagrazia.
Certo che è un bel rischio.
Susanna giocherellava con una gomma
squadrata e una matita consumatissima, immergendone la punta nella superficie
grigiastra della gomma; Mariagrazia spiegazzava la copertina del libro d’inglese
incespicando nelle proprie parole, roteando freneticamente lo sguardo e
dondolandosi lievemente sulla sedia. Ghignai.
Magari ucciderle non sarebbe così rischioso.
***
Era viola e rettangolare, scivolò
sul banco come uno schizzo di smalto, quello che colorava le mie unghie quel
giorno.
L’ultimo giorno di scuola.
Che palle, un po’ ero triste: mi
sarebbe mancato il casino durante le ore di lezione, il cazzeggio tutti insieme,
le ricreazioni passate a rincorrere Valerio Torzetti di quinta B e a scrivere in
bagno
Vale ti lovvooo!!!! Ti voglio scopare, ti amo ti amo ti amo
ti amoooooooo!
E tutte le mattinate passate a
cantare Per te quel che wale è tutto quel
che wale, per me quel che wale è quel che non sei Wale! Come cazzo avrei
fatto??? Proprio ora che Valerio mi aveva notata…
Sì, all’assemblea d’istituto, quando
abbiamo fatto il gioco della bottiglia in palestra, che Giovanni ha gonfiato un
preservativo e ci stavano giocando tutti, poi mi è andato sui capelli e mi sono
incazzata di brutto e Valerio ha detto che tanto ci stava bene sulla mia testa
di cazzo…
Che bella la camicia che aveva,
quella con le cuciture di fuori e le maniche a tre quarti… Era un po’ corta
dietro – o forse i pantaloni erano a vita bassa – e ogni volta che si sedeva si
vedeva tutto un pezzo di schiena, bella abbronzata…
Che cazzo, però, proprio ora doveva
finire la scuola?! Quanto ci siamo
divertiti quest’anno! Quando abbiamo fatto incazzare la Gerardi, che ci ha
mandati tutti dal preside? Bellissimo! E poi Claudia che, per far ingelosire
Vale, mi si strusciava contro insieme a Michele… Meno male che ne avremmo avuti
ancora due di anni così!
Sobbalzai quando sentii il cellulare
vibrare sotto il banco.
amò,stai sentendo la cozza?fra poko
skoppia!!! XD
Lessi il mittente: Alessia; era
seduta proprio dietro Mariagrazia Cozzaglia, o la cozza, come la chiamavamo noi.
Non avevo fatto caso al suo balbettante scroscio di parole.
Che cazzo, calmati un po’, se no ti viene un infarto!
sì,fra un pò skoppierà…xk è 1
skoppiata!!!ahahah :)
Premetti il pulsante centrale e
inviai il messaggio.
Non mi ero mai chiesta come fosse
trascorso l’anno per lei e Susanna: non me ne fregava niente. Insomma, avevano
scelto loro di vivere da emarginate, noi non avevamo fatto mica nulla: se
avessero voluto cambiare vita, l’avrebbero fatto, come Aldo.
Va be’, quello è solo un coglione che cerca di imitarci e non ci riesce…
E poi è orribile! Almeno prima aveva il fascino del complessato, ma ora neanche
quello!
Stavolta non sussultai quando vibrò
il telefonino.
XD XD XD ti lovvo trp! <3 prima qnd
sn andata in bagno ho visto valeee!stava poggiato alla porta della bidelleria e
parlava cn il rappr d’istituto,il fascista…kiedi a klaudia,lei ha sentito qll k
dicevano :P
Aaaah! Valerio era fuori dalla sua
classe! Avrei dovuto approfittare di quell’ultimo giorno, non sapevo se sarei
andata alla festa di Patrizia di quinta B… E se lui non fosse venuto? E se non
l’avessi visto per tutta l’estate? Scoppiai quasi a ridere:
Com’è strano fingere anche nella mia
mente…
“Prof, posso andare in bagno?”,
urlai per coprire i farfuglii di cozza. La Rosangeli indicò la porta appena con
un cenno e io mi alzai, facendo svolazzare la camicetta sui fianchi e
insinuandomi fra i banchi.
“Mariatere’, che vai a pisciare? Mi
prendi i taralli dal distributore? Quelli alla cipolla!”, mi strillò Francesco
nella confusione generale.
“No, devo andare a trovare
Valerio!”, esclamai. Scartai rapidamente il suo banco, sfiorandogli lievemente
le costole con i fianchi, come se fosse un gesto spontaneo. La sua manata fra le
gambe non fu affatto inaspettata.
“Vaffanculo! Perché non fai un po’
la troia con me invece che con quel ricchione?”, piagnucolò Francesco
gesticolando; la Rosangeli non ci ascoltava – o forse fingeva – ed era intenta a
prestare attenzione a Mariagrazia – o forse… fingeva.
Simulai sdegno e continuai ad
attraversare l’aula, veloce e impettita. Quasi giunta all’uscio, incrociai lo
sguardo di Martino e, cazzo, ero sicura di volergli rovesciare il banco e la
sedia e prenderlo a pugni. Non lo
sopporto, porca puttana! No, non mi aveva fatto alcun torto, però… Quella
sua pacatezza, quella sua barbetta che mi pungeva solo a guardarla, quelle sue
spalle curve e quella schiena inarcata…
Che nervi! Sembrava rovinare il paesaggio, come una merda di cane alle
Hawaii. Saremmo stati una classe perfetta senza di lui e senza quelle due
coglione.
Sulla porta mi voltai verso
Francesco e gli feci una linguaccia. “Valerio è molto più vinile di te!”,
strillai.
***
Forse, un giorno, Mariateresa
avrebbe capito che vinile non
significava mascolino; semmai virile.
Mi accorsi della pioggia solo quando
Savino sbraitò:
“Raga’, mi sa che i gavettoni vanno
a puttane!”
L’aria, prima stantia e pesante,
precipitò come piume di un cuscino scoppiato. Ne percepii quasi lo spostamento,
la caduta delicata e soffice.
Avevo impiegato il tempo necessario
per trasformare una pagina di diario in una scacchiera e poi imbiancarla
completamente solo per decidere se ammazzarle o no.
Il verdetto propendeva per il no, in
realtà: la loro utilità non era di secondaria importanza per la macellazione –
fui pervaso da mille ventose che mi risucchiavano l’aria dall’interno, come per
lasciare gli organi interni sottovuoto. Avrei pensato al modo in cui attrarle
verso di me.
Il mio unico problema, in quel
momento, era assistere all’ultima campanella senza prematuri spargimenti di
sangue.
|
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Capitolo 7 *** Unghie e mandarini ***
Senza nome 1
Salve. Ringrazio Mote_Ely per la recensione: sono contenta che Mariagrazia ti
piaccia, tengo molto a questo personaggio.
Buona lettura.
Unghie e mandarini
Da piccolo sorridevo sempre: non ero
uno di quei bimbi capricciosi che fanno smorfie assurde nelle foto e tirano gli
orecchini alla mamma quando si annoiano. Ero sempre sorridente, non ero mai
stato un genio incompreso, maturo prima del tempo, precoce e perspicace.
E nemmeno un serioso bambino
prodigio.
Nelle cornici di DAS poste a
semicerchio sulla scrivania dell’ingresso, come un pubblico che, disinteressato
allo spettacolo, si chiude su sé stesso, sfilavo trionfante – non per un motivo
preciso, in realtà –: a tre anni nella vasca da bagno, guardavo un angolo
lontano con la bocca spalancata piena di schiuma; a sei, eccomi – i capelli a
caschetto schiariti dal sole, stile
Piccola peste – con Alessandro in braccio alla mamma; a nove anni, su un
altare spoglio e buio, abbracciato teneramente da don Antonio, una Bibbia fra le
mani e un sorriso di convenienza – quello era evidente – sul viso tondo; e le
gite, quella alla Reggia di Caserta e a Monticchio, gli amici di Alessandro in
bicicletta accanto al portone del condominio, zuppi di sudore e di sole.
Effettivamente, erano poche le foto
in cui io non comparissi, con o senza barbetta, gli occhi castani inquadrati o
meno nella cornice trasparente degli occhiali, le mani grassottelle o secche, a
seconda della pinguedine infantile.
E il sorriso, quel sorriso a labbra
strette, il più largo possibile, che mi conferiva un’aria da invasato, ma sempre
così normale, naturale, spontanea.
Sorridevo persino nelle fotografie scattate il Natale del 2007, quello di Lucia.
Risi.
Avevo dimenticato di asciugarmi i
piedi sulle tre tappe zerbiniche, come le chiamavo io: il tappetino sfilacciato
al lato del portone, quello steso alla base della prima rampa di scale e il
terzo, il più ruvido, davanti alla terza porta del secondo piano, su cui era
inchiodata la targhetta sbiadita T.
MANONERA.
Avevo percepito con gioia un intenso
odore di arrosto e patatine al forno, di rosmarino e di altre erbe aromatiche, e
speravo che si sprigionasse dal mio appartamento.
E, adesso, le cornici mi ignoravano
con diffidenza sulla scrivania, appollaiate sui loro centrini sfilati e
ingialliti.
“Che mangiamo?”. Gettai lo zaino
sulla sedia accanto alla scrivania.
“Buongiorno, eh? Come stai, mamma?
Bene, Martino, ti ringrazio! Grazie, mamma, per avermi preparato il pranzo anche
oggi, te ne sarò grato per tutta la vita! E, per favore, potresti dirmi cos’hai
cucinato di buono oggi?”, urlò mia madre, nascosta dall’anta di legno del
frigorifero. In televisione un medico veniva intervistato sulle modalità di
prevenzine della calvizie.
Sbuffai.
“E dài, non è che stai meglio se te
lo chiedo”, esclamai afferrando una bottiglia d’acqua e accingendomi a
tracannarla direttamente; era umida – l’etichetta sbiadita si incollava alle
dita – e la plastica trasparente quasi mi scivolò dalla mano.
“Marti’, e no, dài! Non vedi che il
tuo bicchiere sta già sulla tavola?”
L’acqua fredda mi fece rabbrividire;
strizzai gli occhi e li spalancai.
Scostai la tenda della finestra
accanto alla TV e sospirai.
Pioveva ancora.
Il balcone rifletteva l’ombra del
palazzo addossato al mio condominio e i ghirigori geometrici della ringhiera
diffondevano un riverbero opaco, fosco; alcune paia di jeans e di calzini
grondavano pioggia, gocciolando nel loro piccolo cielo, scurendosi man mano che
assorbivano acqua. Sembravano palloncini raggrinziti.
“Aiutami ad apparecchiare la
tavola”, vociò con vigore mia madre, per sovrastare il fracasso della TV.
Ecco, vediamo se gli anime sono così immaginifici come pensa quella scema di
mamma.
Con Light funzionava, chissà se per
merito della sua intelligenza che traspariva da ogni molecola di dopobarba che
si spalmava sulle guance. O forse Sachiko era proprio cogliona.
“Mamma…”, cominciai. Sbucò dal
frigorifero con viso interessato e curioso: effettivamente, non l’avevo mai
chiamata mamma. Era imbarazzante.
Esitai. “… Perché dovrei preparare
io la tavola? Voglio dire, tu lo fai così bene. Cioè, sei una casalinga così
brava che, insomma, il mio aiuto guasterebbe il tuo lavoro, eh.”
Mi fissò con in mano un triangolino
di parmigiano da grattugiare; le occhiaie violacee si approfondirono.
“Da quand’è che te n’esci co’ ‘ste
cazzate? Apparecchia la tavola, chè fra poco viene papà.”
Ecco, appunto.
Perché certe cose accadevano solo
nelle storie?
Sospirai e raccolsi quattro
forchette umide dal lavello e le poggiai accanto ad altrettanti piatti, sul
tavolo illuminato dal bagliore grigio-azzurrognolo della televisione.
Durante il tragitto verso casa avevo
cercato di riflettere, così profondamente da centrare un paio di pozzanghere,
sul ruolo che avrebbero dovuto ricoprire Susanna e Mariagrazia nella
macellazione – piuttosto patetico chiamare il piano in quel modo, in realtà.
Avevo concluso che, se le avessi
usate – e, quindi, messe al corrente del piano – entrambe, si sarebbero potute
“alleare” per opporsi alla riuscita delle mie aspettative, o avrebbero avvisato
gli altri. No, avevo bisogno di un... di una…
Cosa più intima, diciamo.
Scartai a priori l’idea di un
rapporto sullo stampo Misa-Light: ero sicuro che nessuna delle due fosse
disposta a fare il kamikaze per me e, soprattutto, che il loro interesse nei
miei confronti fosse pari – se non minore – al mio nei loro. Non che mi
dispiacesse, tutt’altro.
Dunque, ne avrei usufruito
singolarmente, oppure solo di una delle due.
L’altra la uccido insieme al resto della
classe.
E Pierpaolo?
Chi se ne fotte di Pierpaolo, tanto, o c’è, o non c’è, non cambia nulla.
Il problema era…
“Com’è andata a scuola?”, interloquì
mia madre ruotando il tappo sulla bocca della bottiglia di plastica.
“Mmh? Bene”. Sfilai la confezione
dei tovaglioli dall’incastro in cui si trovava, spostando la bottiglietta di
aceto di mele e rischiando di far precipitare le scatole di cereali e riso che
vi si poggiavano; la gettai sul tavolo con un soffice tonfo.
Il problema…
“Be’? E solo questo mi dici?”
Sbuffai.
“Hanno detto che i quadri usciranno
il quattordici e buone vacanze e blablabla… Che altro vuoi sapere? Quante volte
sono andato a pisciare?”
Mia madre alzò gli occhi al cielo.
“Mi raccomando, sempre elegante, tu!”, gracchiò.
Il problema era, dunque: quale
scegliere?
Susanna o Mariagrazia?
Sembrava uno di quei giochetti
idioti delle elementari: Se ti trovassi su
una torre con X e Y e sotto ci fossero due letti, il Letto dell’Amore, con
lenzuola calde di seta, e il Letto del Dolore, pieno di chiodi e pezzi di vetro,
chi butteresti su uno e chi sull’altro? Sì, quel tipo di puttanate che le
bambine della classe si sussurravano arrossendo.
Nel mio caso, le alternative erano
il Letto di Casa Loro e il Letto della Morte Alias Bara.
C’era una bella differenza.
***
C’era qualcosa che Ivano chiamava dio.
“È solo una copertura, una messinscena a scopo benefico, per giustificare questo
fratricidio.”
Ero confusa: quale fratricidio? E che cos’era un fratricidio? “Uccidere un
proprio compagno o tradirlo: questo è fratricidio”, Aveva socchiuso gli occhi e
sbadigliato: le guance gli si gonfiarono innaturalmente.
“Comunque, dio non esiste. Esiste Kira, che ci aiuta e ci protegge, ma dio no,
non c’è. O, almeno, non esiste un dio creatore: chi avrebbe mai potuto
realizzare tutta questa merda?”, concluse con enfasi.
Lo schermo era più abbagliante del solito quel giorno.
“E poi”, riprese con voce sonnolenta, “anche se un individuo del genere
esistesse, non starei qui a venerarlo e reverirlo.”
Mi aveva raccontato che in Italia, una regione di Dikaia da cui proveniva Ivano,
c’era stata, moltissimi anni prima, una setta che adorava un dio terribile e
misericordioso, clemente e onnipotente: aveva creato tutto il creabile e
distrutto tutto ciò che meritava distruzione; i rituali e le liturgie si
dilungavano di anno in anno, accalappiando anche i fedeli – ormai numerosissimi
– di Kira, che, proprio in quel periodo, preparava i Grandi Giudizi. Erano i
funerali di Misa I, assassinata in un agguato dall’SPK, nota organizzazione
criminale anti-Kira: Kira I, gli aveva raccontato zia Giuseppina, aveva indetto
un periodo di lutto universale della durata di un anno intero, mentre i
notiziari di TeleCassandra trasmisero la notizia – l’ultima – più pericolosa e
diffamante per Kira I: era stato lui, secondo il politologo e giornalista Italo
Lollini, ad ammazzare la propria consorte, proprio Kira I, il Kami. Fu l’ultima
notizia trasmessa liberamente da un telegiornale: la censura, lenta e languida,
si era posata sulle bocche, le penne, le dita di tutti, per sempre.
Prima, aveva detto, c’era un Papa, un amministratore dei rapporti fra uomo e
Dio: fu molto più semplice quando Giovanni Paolo IV si alleò con Kira,
ammettendo che no, gli ebrei non li avrebbero più indotti all’errore: ecco
l’incarnazione di Dio, ecco il suo farsi terra e putrefazione, eccolo! Nessuna
crocefissione per il nuovo Messia, nessun chiodo
a spezzargli le ossa, nessun panno bagnato d’aceto sulle sue ferite, nessuno
pseudo-rito misterico per Kira, il nuovo Messia;
“Non va, non suona per niente bene.
E poi, che c’entra Dana con tutto questo? Voglio dire, che frega al lettore di
questa roba?! No, non va proprio.”
Susanna si stiracchiò, facendo
scricchiolare il letto; il computer portatile, in bilico sulle sue ginocchia,
pendeva leggermente verso di me, seduta sul materasso accanto a lei.
“No, perché lo pensi?”, esclamai;
d’accordo, forse quell’accecante pagina di Word era troppo prolissa, almeno per
Susanna, e, forse, i dettagli inseriti erano piuttosto secondari e fini a sé
stessi, però… Insomma, andava bene. “Cioè, cosa c’è che non va? L’hai scritto
bene l’inizio del capitolo, davvero!”
Non volevo che si preoccupasse
troppo e, probabilmente, era giusto che le allieviassi almeno la poderosa
insoddisfazione artistica che aleggiava in quel momento fra le sue dita e la
tastiera argentata del portatile. Non avrei voluto mentire, ma non sopportavo di
subire la sua indolenza – spesso esagerata e capricciosa.
È necessario, mi ripetevo.
Certo che lo era.
“No, Margie, no, no, no no no… Non
va per niente bene, no no”. Sbuffò sonoramente e continuò a negare
alternativamente borbottando o ribadendo con potente decisione. Avrei voluto
calmarla, avrei voluto avere la garanzia di poterlo fare.
Non era così, no.
“E, oltretutto, che può fregare di
dio a una tizia di undici anni? Voglio dire, sarà pure un Boia e tutto il resto,
ma è sempre una bambina! Non è realistico, non è…”
Tacqui: spiegarle che il capitolo di
The Electric Metempsychosis era ben
avviato l’avrebbe solo innervosita.
Percepii la vibrazione sulla coscia
prima ancora della suoneria.
Itsuwari osore kyoshoku urei
Samaza…
“Pronto?”, risposi senza controllare
il numero chiamante.
“Vuoi venire a casa a mangiare o
vuoi che te lo porto da Susanna il piatto?”. Il tono cupo di mio padre mi
infastidì.
Che giornata di merda.
Mi sembrava di trovarmi fra le
pagine di Cento colpi di spazzola prima di
andare a dormire: quella lugubre vacuità mi asfissiava, volevo fuggire, fare
qualsiasi altra cosa piuttosto che stare ferma lì, seduta, a guardare e
commentare, come quelle vecchie signore benvestite e perbeniste che parlottavano
fra i brulli banchi di un’asfittica chiesetta cittadina.
Volevo sentire gli ingranaggi
ringhiare, le cinghie tendersi, le viti ruotare come i cingoli dei treni.
Piangere, incazzarmi, ridere, ferirmi,
godere… Voglio fare tutte queste cose insieme.
E l’unico minimo comune denominatore
era…
… Il sesso.
Come sempre.
Rassicurai mio padre – con il mio
tono di voce probabilmente lo impensierii ulteriormente.
“Ehi, io devo tornare a casa.”
Mi sciolsi dalla posizione
intrecciata che avevo assunto sul letto di Susanna e mi infilai le scarpe con la
chiusura a strappo.
“No no no no no”, continuava a
ripetere Susanna fissando lo schermo e rileggendo per l’ennesima volta l’incipit
del capitolo.
“Ciao”, mormorò infine – forse si
trattava di un riflesso volontario, pareva troppo assente persino per accorgersi
di esistere.
Mi avviai verso la porta scorrevole
della sua stanza. Di solito gli ospiti si
accompagnano alla porta. Mi vergognai subito di quel pensiero gretto e mi
affrettai ulteriormente.
Magari finissi come Melissa P.
Ecco, un’altra volta: gli occhi si
offuscarono, l’immagine nitida del corridoio di casa Faretra mi parve un unico
frullio di colori, come se fossero stati vomitati dopo giorni di digestione.
Incrociai per le scale Nicoletta, la
sorella di Susanna, e sua madre. Quando le salutai non ero ancora scoppiata a
piangere.
***
Mentre aspettavo che mia madre mi
sbucciasse un mandarino, la decisione era già stata presa.
Susanna.
E Mariagrazia sul Letto della Morte
o come cazzo si chiamava.
In realtà, la scelta mi parve
alquanto ovvia per vari motivi, ma riflettei ugualmente in modo analitico.
Susanna approverebbe.
Sì, era quello il punto di
riferimento da cui partii: considerando non solo la sua predilezione per Light –
di cui ero venuto a conoscenza tramite Facebook – ma anche le sue incaute
affermazioni parevano perfettamente in sintonia con le mie intenzioni. Spesso,
durante le assemblee di classe, lei e Mariagrazia si erano estraniate dai rari
dibattiti sull’andamento generale del gruppo classe, sul rapporto fra studenti e
professori, sul comportamento dei vari elementi costitutivi e altre migliaia di
argomenti che conferivano una narcisistica professionalità ai rappresentanti;
ciononostante, a volte persino Susanna si era gettata nelle discussioni,
mostrandosi aggressiva e implacabile, giudicando con irruenza la maggior parte
della classe, offendendone molti – ma sempre con accuse ben fondate.
Ecco, questa decisione mancava a
Mariagrazia, che, per quel poco che l’avevo osservata, pareva un triste pendolo
solitario, uno di quelli che battono l’ora ogni quindici minuti, ma che, subito
dopo, ripiombano nel silenzio delle lancette pigre e monotone.
Inoltre, era impossibile non pensare
a Mariagrazia come la solita moralista a cui non stava bene la società, ma
contro la quale non levava nemmeno lo sguardo – non per essere accettata, solo
per inerzia e autocommiserazione. Tipico
delle ragazze brutte.
Ingoiai uno spicchio di mandarino
senza masticarlo.
E poi Mariagrazia va d’accordo Khadija.
Non sarebbero dovuti rientrare i
giudizi di carattere personale, ma, in fondo, il suo ruolo non poteva essere
recepito altrimenti.
Susanna è spregiudicata.
E perennemente incazzata, notai, il che poteva risultare utile.
Staccai un altro spicchio da quella
ruvida sfera arancione, mentre attorno a me la voce di una giovane giornalista
decantava la delazione di un pentito di mafia a Messina.
“I peggio criminali stanno tutti in
Sicilia, ma come si fa?!”, chiosò mio padre addentando una fetta di pane
ricoperta di pomodorini tagliati a metà.
Già, criminali. Magari sarebbe stato
più sensato spendere tutte quelle forze per aiutare la gente, uccidere i
malviventi e liberare l’Italia dall’oppressione della criminalità organizzata.
Il mandarino mi andò quasi di
traverso.
Non sono mica un dio…
Non ero solidale come Light, né
autolesionista. Né, intelligente – era ovvio.
E non avrei mai voluto esserlo.
L’esclamazione di mio padre fu
interrotta dalla recitazione quasi letterale da parte di mia madre del servizio
sulla prevenzione della calvizie, sicuramente per prendere provvedimenti
riguardo ad Alessandro, sulla cui testa si stava allargando una piccola
superficie rosastra, proprio al centro.
Dunque, Susanna.
Avrebbe sicuramente accettato, forse
anche senza discutere.
Alcuni filamenti bianchi di
mandarino mi si impigliarono fra i denti.
Mi alzai gettando il tovagliolo
appallottolato sul tavolo, mancando per un centimetro il bicchiere colmo d’acqua
di mia madre. e passai accanto ad
Alessandro, che rigirava una polpetta nel piatto con aria assonnata.
Avevo programmato di giocare tutto
il pomeriggio alla PlayStation 3, ma accesi il computer con una mano e mi gettai
in bocca i due spicchi di mandarino rimasti con l’altra.
“Marti’, lavati i denti per favore!
Prima in televisione è uscito un dentista che ha detto che ci si deve lavare i
denti dopo ogni pasto anche senza dentifricio!”, urlò esaltata mia madre.
“Sì, ora me li lavo!”, le gridai di
rimando sedendomi davanti al monitor e raccogliendo dal cassetto il mouse
wireless.
OK, ora vediamo come contattare Susanna.
Magari non sarei mai riuscito ad
entrare nel server della polizia, ma di Light non avrei mai potuto invidiare
l’abilità con i computer e gli apparecchi elettronici –
A parte i frigoriferi, avrei
commentato se Alessandro mi avesse ascoltato, dal momento che ne avevo
incendiato uno all’età di nove anni rischiando di arrostire mio fratello.
Sorrisi, nostalgico.
Avevo già pensato non solo a come
contattarla, ma anche a controllare la sua affidabilità.
Cliccai due volte su
Risorse del computer e sulla cartella
Documenti – god_of_war.
Devo usare ciò che ho, solo ciò che ho. Non è questo che fa Light?
Selezionari
Varie e scorsi la pagina con il mouse, cercando la cartella che
m’interessava. Storie… Fantacalcio… Patch…
My Malware, eccolo!
Cercai di disincastrare con la punta
della lingua i filamenti di mandarino dalla fessura fra il canino e un
premolare.
OK, My Malware.
Cliccai due volte su quest’ultima
icona e scelsi uno dei sette file che scorsero davanti ai miei occhi.
Aprii MSN e accedetti, sperando che
i due omini verdi che ruotavano, l’uno di fronte all’altro, non impiegassero
troppo tempo a fissarsi – senza avere occhi, per giunta.
Nell’attesa, recuperai le auricolari
dallo zaino e me le infilai, aprendo la prima canzone che mi capitò
sottomouse, come si suol dire.
Her bouquets are wilted
Too long has She slept
Their cruel red mouths darkened
To bowed silhouettes
I saw in a new moon
With Her scent on my breath
But then all too soon
Came the hunger for flesh
gorgogliarono le auricolari a volume
elevatissimo.
Amor e morte.
Era trascorso davvero molto tempo dall’ultima volta che gli ululati dei Cradle
of Filth mi avevano trapiantato nelle loro atmosfere gotiche e strazianti.
Quasi non mi accorsi che le figurine
verdognole e tondeggianti erano sparite.
Finalmente si sono levati dalle palle, sospirai.
Senza controllare le e-mail ricevute
e impostando il mio stato su Invisibile,
selezionai la casella di posta elettronica e inviai una catena a caso,
scegliendo fra i modelli proposti da quelle che mi inviava costantemente Aldo,
allegando il file scelto all’e-mail e nascondendo il mittente con il programma
ANPrank v 2.1.
Digitai il destinatario:
suzie92-suckyousock@live.it
Sorrisi.
Che strano, basta solo aprire un batch e…
***
Erano le diciassette e quattordici
quando mia madre mi gridò che c’era Susanna al telefono. Mi stiracchiai nel
letto e notai fra le fessure delle persiane che aveva già smesso di piovere;
alcune strisce di sole si riflettevano sulla superficie di vetro della scrivania
e sul termosifone spento, che gettava bagliori cianotici sulle lenzuola. Mi
infilai gli occhiali e raccolsi la cornetta tendendo il filo attorcigliato.
“… e non funziona più!”, piagnucolò
Susanna.
“Eh?”
“Ho detto: stavo scrivendo al
computer e, ad un certo punto, si è spento e ora non funziona più!”, ripeté con
voce ancora più acuta.
“Che faccio?”, mi domandò disperata.
Ingoiai la striscia di unghia che
stavo mordicchiando.
|
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Capitolo 8 *** Brina fra i capelli, vento sotto i piedi ***
Salve. Come sempre, ringrazio Mote_Ely per la recensione: sono felice che tu
condivida con me queste impressioni, che, per me, risultano estremamente
interessanti.
Un avviso per questo capitolo: i versi della canzone qui riportati provengono da
Un chimico di Fabrizio De Andrè.
Buona lettura.
Brina fra i capelli, vento sotto i
piedi
La guerra, i bombardamenti, le
cortine di fumo, i funghi spappolati, gli aghi di pino nelle ferite.
Era una guerra, era iniziata.
Me ne accorsi solo quando cliccai su
Invia.
Susanna avrebbe sicuramente aperto
quell’e-mail contenente un allegato:
Light.jpg. Ci avrebbe cliccato sopra e il batch – il virus da me creato, uno
dei pochi su cui avevo gettato giorni estivi e notti d’autunno – si sarebbe
infiltrato nel suo computer.
D’accordo, non era un piano così
geniale, ma era tutto quello che sapevo fare.
Anche Light lo fa, no? Anche lui sfrutta
esattamente ciò che ha; niente di più, a parte qualche milione di neuroni
rispetto al resto della razza umana.
La mia prole di virus era piuttosto
magra, in realtà: avevo realizzato, grazie alle istruzioni raccolte su Internet
per puro caso, due virus completi e cinque esperimenti falliti, ma, almeno, ero
riuscito a immunizzare il mio sistema attraverso una rete condivisa di antivirus
di cui avevo letto su un forum.
In fondo, anche quello era mettere
alla prova le proprie capacità, proprio come Light.
Ma perché faccio tutti questi paragoni
oggi?!
La decisione di coinvolgere Susanna
nel piano – avevo ormai abbandonato la dicitura
macellazione: piuttosto terrificante
o, almeno, più di quanto la vicenda fosse realmente – significava concretizzarlo
obbligatoriamente. Senza via d’uscita: ero ormai costretto a metterlo in
pratica.
Non che la cosa mi dispiacesse,
tutt’altro.
Il resto, comunque, era ovvio.
***
“Potresti contattare Martino”, le
consigliai.
Teodoro Manonera era il tecnico
ufficioso – quello ufficiale era morto nel 1997 e non era ancora stato
sostituito – delle apparecchiature scolastiche, dai computer della sala di
informatica alle scrivanie marroncino dei segretari.
TEODORO MANONERA:
RIPARAZIONE COMPUTER E MACCHINE PER
UFFICIO VIA PLINIO, 43
ROTUNNO (BA)
TEL.: 3244483290 / FAX: 0808659750
Così recitava un foglio
attaccato alla porta del laboratorio di informatica, a scuola, in un anonimo e
trascurato carattere enorme. Spesso i miei compagni di classe avevano contattato
il signor Manonera attraverso il figlio, solo per una riparazione o per
acquistare computer, registratori di cassa e scrivanie piuttosto becere e
pacchiane – anche più dei cuscini che vendeva mio padre nel nostro negozio di
articoli per la casa.
“Manonera, dici? Mi dai il suo
numero?”, esitò Susanna, ancora ansimante.
Mi stropicciai gli occhi ed
estrassi l’elenco telefonico dal cassetto del tavolino.
Non te lo sai trovare da sola?
“Sì, aspetta.”
Sfogliai con pigrizia il
volume massiccio, tagliandomi ripetutamente la pelle alla base dell’unghia con
la carta sottilissima.
Mentre cercavo la sezione
dedicata ai residenti di Rotunno, Susanna cominciò a cantilenare la sua
disperazione.
“E se non riesco a recuperare
il file? Sarò costretta a riscrivere il capitolo daccapo! Il fatto è che dopo
pranzo l’ho riscritto e mi sembrava anche accettabile, che cazzo! Margie,
aiutami, come faccio? Oddio, oddio, com’è possibile che capiti tutto a me?
Margieee!”
Ti vuoi calmare? È solo una storia, Dio santo.
Tacqui e, finalmente, trovai
la scritta Rotunno sull’angolo destro
della pagina che stavo consultando.
Allora, Manonera…
“Ce l’hai il numero o no?”, mi
chiese impaziente.
La cornetta quasi mi scivolò
dalla mano mentre consultavo l’elenco telefonico. Accennai un verso d’assenso in
risposta alla sua domanda. No, guarda, ti
ho detto che ce l’ho solo per perversione!
“Lo sto cercando, un attimo.”
Gli occhi mi bruciavano e uno
sbadiglio incontrollabile mi fece rabbrividire; lessi i cognomi in cima alla
pagina, cercando la lettera m.
Benicotto… De Benedittis… Fiore… Hoga… Macillo… Madonnella…
“Be’?”, domandò irritata.
Sbuffai.
“Se mi dai il tempo…”
Tacque, come interdetta.
Finalmente trovai, fra un
Manonera Guglielmo e un Manonera Vito,
Manonera Teodoro.
“Vuoi il numero del negozio o
quello di casa?”, le domandai. Sbadigliai un’altra volta, puntando il dito sul
nome trovato, per non perderlo d’occhio.
“La prossima volta magari lo
cerco io…”, brontolò.
Attesi.
“Quello di casa, mi vergogno a
parlare col padre”, confessò.
Risi sommessamente e,
dettatole il numero di casa Manonera, infilai di nuovo il volume spiegazzato nel
cassetto.
“Perché, a parlare con Martino
non ti vergogni?”
Cercai di chiuderlo, ma si era
incastrato un lembo di stoffa nella fessura fra il mobile e il cassetto; gettai
dentro lo straccetto di feltro con cui pulivo gli occhiali e ritentai, battendo
la nocca al legno ruvido.
Cazzo.
Mi leccai il dito, non
accorgendomi che il calore della lingua non faceva che acuire il dolore.
“Ma Manonera è un coglione
represso! A parte il fatto che parlare con lui significa fare un monologo, e sai
quanto mi piacciono i monologhi!”
Risi.
Piacerebbero anche me, se qualcuno li ascoltasse. Evitai di
accendere discussioni – avrebbe sempre vinto lei.
“Ma hai provato a
riavviarlo?”. Preferii concentrarmi sul suo computer piuttosto che su Susanna –
almeno lui non mi subissava di parole.
Mi sedetti a terra, accanto al
telefono, nonostante l’aria non fosse esattamente calda. Il cielo si era di
nuovo annuvolato e, considerando che delle lenzuola sbatacchiavano come buffi
pendoli, soffiava un vento giocoso.
“Sì, ma non si accende!
Aiutamiii! Ora chiamo Manonera, ti faccio sapere, OK? Ciao, Margie, ciao…”
Riattaccò.
Ritornai a dormire nella mia
tuta nera, concentrandomi sulle fasce celesti che si inerpicavano sui miei
fianchi, fin quando non fui costretta a chiudere gli occhi.
I raggi del sole non entravano
già più, filtrati dalle persiane: solo un candore senile, un opaco riflesso
bianco panna.
Non mi resi conto del momento
in cui mi addormentai, ma mi piacque credere che il mio ultimo pensiero fosse
stato.
È strano andarsene senza soffrire,
senza un volto di donna da dover ricordare.
Ma è forse diverso il vostro morire
voi che uscite all'amore, che cedete all'aprile.
Cosa c'è di diverso nel vostro morire?
***
“Martino,
è per te!”, urlò mia madre. Mi chiama così
solo quando c’è gente…
Fermai il
gioco e raggiunsi il telefono, asciugandomi le mani gelide e
sudate sulla consunta maglietta dei Red Hot Chili Peppers che indossavo
come pigiama. Erano trascorse quasi tre ore dall’invio del mio virus a Susanna.
Possibile che mi abbia già chiamato?
Del resto,
non erano affatto consuete le mie telefonate: a parte Aldo e qualche mio
compagno di classe delle medie – che mi contattava per farsi masterizzare
videogiochi o per riparazioni di piattaforme ludiche di vario genere – ricevevo
rare telefonate.
Afferrai
la cornetta dalle mani di mia madre e me la stavo per portare all’orecchio
quando mi sussurrò:
“Ti sei
lavato i denti?”
Sospirai
alzando gli occhi al cielo. “Non rompere le palle, dài!”
Sbuffai.
“Pronto?”.
La mia voce mi risultò cavernosa, forse per via dell’eco che spandevano le onde
sonore; era un problema dei cordless, certamente.
“Ciao…
ehm, Martino. Sono Susanna.”
Cazzo, sì!
Non potevo
crederci, era straordinario! Non che le cose avessero potuto seguire un corso
molto diverso, però… Ero riuscito a prevedere tutto e questo mi entusiasmò.
“Ehi”. Fu
una specie di mugugno, un verso che ricordava vagamente Mikami. Sorrisi.
OK, devo controllarmi.
Modulai meglio il tono di voce: più indifferente, ma normale. Almeno un po’.
È andato tutto come volevo! Non tutto, a dire il
vero, o, almeno, non era ancora sicuro: magari Susanna era più moralista di
quanto desse a vedere.
Mi calmai
a fatica e attesi le frasi che già immaginavo.
“Senti,
scusa se ti disturbo, ma è successo un disguido.”
Era
divertente come la gente cambiasse a seconda dell’interlocutore, dell’imbarazzo
di una parola sicura sussurrata con vergogna; a stento mi trattenni dal ridere.
Disguido?! Ma se a scuola non fai altro che sparare parolacce e
bestemmie come una posseduta! Il gusto di montarsi la testa era pietoso, ma
davvero divertente.
Attesi che
continuasse a recitare la sua parte.
“Ecco,
dato che tuo padre ripara computer, no? Eh, il mio si è rotto improvvisamente,
non so come… Insomma, visto che è così, potrei portartelo? Per ripararlo. Se
vuoi ti pago, cioè, pago tuo padre.”
Ma no, guarda, mio padre mantiene una famiglia di quattro persone, se non lo
paghi rischio di non mangiare per una settimana. Fai un po’ tu…
Finsi di
esitare – o forse ero imbarazzato anch’io, ma non me ne curai affatto. “Sì,
glielo dico subito. Per il prezzo ve la vedete voi”
Raccolsi
il cellulare e iniziai a scrivere un messaggio a mio padre.
C’è un pc da
aggiustare, te lo fac
Cambiai
subito idea: avrei dovuto badarci prima io, viste le necessità. Sbattei il
cellulare sul case del computer, producendo una vibrazione metallica che mi fece
battere i denti.
“Comunque,
avresti potuto telefonare al negozio: mio padre è sempre lì”. Mi maledissi non
appena terminai la frase: Troppe parole
che non c’entrano un cazzo, ma perché divento logorroico nei momenti meno
adatti? Non mi ero mai dilungato in discussioni prolisse, soprattutto con
potenziali estranei.
“Ah,
davvero? Non sapevo che avessi il telefono anche in negozio… Cioè, in realtà ho
trovato il tuo numero sulla rubrica del cellulare e ho chiamato quello, capito?
Va be’, grazie.”
Non
ricordavo di averle mai ceduto il mio numero di telefono fisso, né che Susanna
mi avesse mai chiamato da quel poco che ci conoscevamo – né parlato così a
lungo, per giunta.
Mi voltai:
mia madre era ancora accanto a me. Mi spaventò. La guardai prima sorpreso, poi
inferocito, cacciandola con un gesto della mano; probabilmente era incuriosita
dal fatto che mi avesse telefonato una ragazza – circostanza unica, a parte
qualche cugina di cui non ricordavo nemmeno il nome che mi chiamava per farmi
gli auguri ogni ventotto dicembre.
Rimase lì,
stringendo il grembiule con una mano e un canovaccio lacero nell’altra, il viso
concentrato per ascoltare la conversazione e, forse, deluso dal suo contenuto.
Sbuffai e la ignorai, girandomi verso lo schermo della televisione e la luce
spia della PlayStation 3, flebile e sommessa. Discreta, almeno lei.
Interruppi
il silenzio salutandola e consigliandole di passare da casa mia, perché mio
padre era occupato con altri computer e, quella sera, avrebbe lavorato al suo a
casa.
“Dove
abiti?”, chiese. Sembrava più tesa e interdetta.
“Via
Mazzini, 79. Alle spalle della chiesa Santa Maria Greca, hai presente?”
Tacque.
“La Dok
sull’estramurale? Il bar Fiocco azzurro?
Oppure…”. Cercai di individuare qualche punto di riferimento particolare; non
vivevo in una zona isolata, ma era pur sempre fuori dal centro. Non mi venne
nulla in mente, a parte una latteria, una biblioteca di nome
Notting Hill, qualche fruttivendolo e
un parrucchiere. Tentai l’alternativa che Susanna avrebbe conosciuto con più
probabilità.
“Il
parrucchiere Un Angelo per capello?”.
Risultò alquanto imbarazzante pronunciare quel nome idiota, ma sembrare buffo,
forse, l’avrebbe ben disposta nei miei confronti.
Non devo per forza giustificare ogni mia
azione; non lo faceva neanche Light, voglio dire… O, meglio, Light lo
faceva, ma senza creare ulteriori paranoie. Sbuffai.
“Ah, ho
capito! L’ha aperto mio padre, quel salone, sai? Prima ci lavorava solo come
amministratore, ora, invece, fa proprio il parrucchiere… Non sapevo che abitassi
lì vicino, a volte ci passo il pomeriggio, quando non ho un cazzo da fare. Dov’è
casa tua di preciso?”
Ecco, appunto.
Forse
avrei dovuto informarmi meglio prima di contattarla, solo per non assumere
quell’aria spaesata, come quella di un pesciolino che cozza contro la parete
dell’acquario.
Le spiegai
che abitavo a pochi isolati dal salone del padre, in un condominio dalle pareti
nere per l’umidità – a parte quest’ultimo particolare – al secondo piano e che
l’ascensore era guasto da un paio d’anni, visto che le famiglia Cacicci non si
decideva a pagare la sua quota per le riparazione – probabilmente tralasciai
anche quel dettaglio.
“OK, vedrò
di trovare casa tua. Posso venire adesso?”, chiese a voce più alta, acuta come
il pigolio di un cane ferito.
“Sì, ci
vediamo.”
Riattaccai
prima che continuasse a innalzare il timbro di voce e, dimenticandomi di mia
madre che mi fissava ancora, asciugando un tegamino, stavolta, ritornai a
massacrare i miei nemici… nel videogame.
Cerchio L2+cerchio
Mi pentii,
ancora una volta, di aver voluto risparmiare Susanna.
Ho bisogno d’aiuto, da solo è praticamente
impossibile uccidere venti persone. Me ne rendevo conto, ma era
insopportabile – avere limiti, intendevo. Non che desiderassi diventare un dio
in terra, onnipotente e invincibile: era chiaro che il piano avrebbe potuto
fallire in qualsiasi momento, senza scampo, senza avvertimenti, senza tuoni in
lontananza: solo un lampo, preciso, mirato – e tutto sarebbe volato via, come se
non fosse mai esistito. Illusione, pura illusione e apparenza – trasparenza,
forse.
R1 triangolo triangolo TRIANGOLO!
Era
quell’unica possibilità – quella di riuscirci, di rimanere solo e felice –
quella, l’unica per cui valesse la pena rischiare – no, non rischiare:
compromettermi, innescare un processo cieco e distratto, con una fine incerta,
una miccia che si sarebbe polverizzata chissà dove, forse fra le mie mani, e
chissà quando, forse prima della loro morte.
R2+cerchio triangolo CERCHIO CERCHIO CERCHIO!
Non
contava – almeno in quel momento –, era una fase idealizzata, probabilmente: me
ne sarei reso conto, mi sarei difeso, magari in seguito, a piano ultimato.
Cerchio R3+triangolo TRIANGOLO CAZZO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO
TRIANGOLO!
L’importante era ucciderli.
TRIANGOLO
Scaraventai il joystick sul pavimento.
“Cazzo, ma
non è possibile! Ho spinto il triangolo e quel coglione non è morto… Ma che
gioco di merda!”
***
Il
pomeriggio seguente dormii ancora, stanca del freddo di giugno,
dell’inettitudine, della pigrizia. Stanca di dormire, peraltro.
A
svegliarmi fu la sigla psichedelica di un telegiornale – forse alle otto di
sera, forse alle sei di mattina. Il cielo era ancora chiaro, ma le stanze della
mia casa erano lugubri, adombrate da pareti e soffitti pretenziosi.
Quella
mattina mi ero sollevata dal letto con lo stesso paesaggio: letti sfatti, odore
di stantio, luce timida e schiva. E Vittorio non era nel suo letto:
probabilmente era salito sul treno per Bari, oppure era già all’università, a
prendere appunti o dare un esame, non lo sapevo.
L’orario
sull’angolo destro dello schermo del cellulare mi rassicurò: erano le otto e due
del dieci giugno 2009. Quindi mio fratello
è tornato.
Sbadigliai
e accesi il computer, benché avessi un evidente bisogno di andare in bagno;
strinsi le cosce e, assordata dal tono di avvio, cercai di scrivere qualcosa.
Light la prese per mano e camminarono insieme, come una coppia di colombe, come
le api.
Cancellai
il testo appena scritto e ricominciai.
Light la condusse dolcemente verso il campo, passeggiando come due pedine di
ghiaccio sul
Senza
rileggerle, selezionai quelle parole e le eliminai.
Ricominciamo, pensai.
Lo scricchiolio della brina sotto i piedi nudi scandiva i loro passi. Il cielo
sembrava verde, sembrava ghiaccio, sembrava una gigantesca lacrima gelata che si
sarebbe liquefatta. Li avrebbe inghiottiti entrambi, salata e antica. Alcuni
fiori solleticarono le caviglie di Misa, mentre Light scriveva il suo nome,
Misa Amane, e sorrideva.
“Io ti amo, Misa.” Rise.
Cicatrici, sangue e tagli: sarebbe bastato fermarle il cuore, sarebbe stato
sufficiente… Ma
Chiusi
definitivamente il documento e telefonai a Susanna: non la sentivo dal giorno
prima, da quando le avevo consigliato di contattare Martino Manonera per
ripararle il computer, ma non mi aveva più fatto sapere nulla.
“Pronto?”
“Ciao,
Silvia, c’è Susanna?”
“Sì, te la
passo subito”, rispose sua madre.
Accavallai
le gambe, tanto per evitare di far scoppiare la mia vescica.
Dopo
qualche fruscio, sentii finalmente la voce di Susanna. E mi parve subito strana.
“Ehi,
Margie. Come va?”
All’inizio
non riuscii a capire cosa ci fosse di diverso nel suo tono, nelle parole che
utilizzava, nel… nel contegno, nel buon umore così composto e moderato.
Questo! Quello parve inconcepibile a me, abituata alle sue
frenetiche esaltazioni e angosce irrefrenabili.
Contegno.
Sì, era
proprio quello che non andava.
“Bene, tu?
Come va con il computer?”
O forse mi sto sbagliando io.
Se le
avessi chiesto qualcosa, magari si sarebbe innervosita.
“Ah, sì…
Martino è riuscito a ripararlo. È proprio un genio con i computer, sai?”
Aprii la
bocca, ma lasciai subito perdere. E se
s’incazza?
“Ah, OK.”
La sentii
ridere e tacere, almeno per mezzo minuto.
E adesso?
Cercai di
pensare a qualcosa da dire, ma mi interruppe.
“Ora devo
andare, Margie!”. Ancora una risata, breve e impetuosa, come un palloncino che
scoppia. “Ciao ciao!”
Riattaccai
senza salutarla.
Doveva
essere accaduto qualcosa, ma non osavo chiederglielo: sarebbe stato atroce
affrontare la sua collera e…
Sospirai.
Però…
Era
strana, davvero molto strana.
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Capitolo 9 *** Su e giù ***
Salve. Mi
scuso per il ritardo: ecco il capitolo. Ringrazio coloro che hanno recensito:
siete stati gentilissimi e i vostri commenti mi hanno resa non solo soddisfatta,
ma anche felice di scrivere questa storia. Dunque, ringrazio Mote_Ely, Neko88,
Bael e Dry_StarDust, aggiungendo che no,
The Electric Metempsychosis (come tutti gli altri spezzoni di storie
presenti anche in questo capitolo, benché su questo io nutra seri dubbi XD) non
esiste come storia indipendente, ma influirà su
Martino. La fanfiction-matrioska
continuerà, insomma.
Grazie
ancora anche a chi legge soltanto.
Ah, una
precisazione: nello scorso capitolo, Mariagrazia guardava l’orario e la data:
quest’ultima non è dieci giugno, bensì undici. Un piccolo problema tecnico.
Buona
lettura.
P.S.: per
fastidiosissimi problemi riguardante l’HTML, il codice inserito da Martino nelle
ultime battute non segue lo schema ASCII
numero, bensì SPAZIOnumero. Ho
fatto di tutto per far apparire il codice senza rivelarne il messaggio, questo è
il massimo che ho potuto fare. Dunque, se volete capirne il significato prima di
Susanna, copiate il testo su Google eliminando tutti gli spazi fra cancelletto e
numero (ovviamente, è una perdita di tempo, quindi vi consiglio di aspettare
semplicemente il prossimo capitolo).
Su e giù
“Buonasera. Un’ondata di caldo dall’Africa settentrionale si appresta a colpire
il territorio nazionale, in particolare il Sud, che vedrà evidenti schiarite fra
oggi e domani. Ancora piogge in Friuli e in Piemonte, sereno o poco nuvoloso
nelle altre regioni.”
Cominciai
ad annotare i nomi.
Biagi Donatella
Chefolo Gigi
Corcola Alessandro
Cutto Maria
De Benedictis Franco
La penna
era fredda e pesante: Susanna ne utilizzava sempre di metallo, ignorando la mia
allergia al nichel. Mi sentivo già prudere le dita e le grattavo contro le
pieghe del foglio, solo per alleviare il fastidio.
“Susanna,
mi aiuti o no? Smettila di fare la buffona e scrivi questo cazzo di registro.”
“… Se vuoi
ricevere le previsioni del tempo sul tuo cellulare, invia un SMS con il nome
della tua città al numero…”
In
risposta, Susanna cambiò canale e s’incantò di fronte a un reality show su MTV.
“Tesoro,
per favore, non fare la rompiballe e aiutami!”
Tre classi
– relativamente poche – ottanta nomi. Mi arresi all’inizio della seconda e
gettai la penna accanto al telecomando.
“Senti, o
mi scrivi questi nomi, o prepari tu la cena!”, urlai.
I bambini sono tutti uguali, che abbiano
dodici o diciassette anni. Ma per rimproverare mia figlia non mi pagavano,
purtroppo.
“Sì, sì,
un attimo…”, biascicò, ma non si mosse di un millimetro: lì, il busto poggiato
al tavolo e la testa penzolante da un braccio lungo e spigoloso, gli occhi
arrossati e il mento piegato all’insù, quasi a toccare il labbro, forzato da una
mano altrettanto dura.
Era stata
fuori tutto il giorno e, per quei pochi minuti in cui era rimasta a casa, aveva
dormito oppure occupato il telefono, proprio ora che Nicoletta era rimasta a
dormire da Alessandra… E se fosse successo qualcosa? Sospirai.
E poi…
Mah, è un po’ esaltata. Avrà scopato, mi ritrovai a pensare senza
disgusto, né disapprovazione. Mia figlia era carina, sicuramente doveva aver già
fatto sesso, magari con quel suo amico, Vincenzo, quello altissimo che
l’abbracciava sempre e che una volta l’aveva sbattuta contro il muro della
cucina fingendo di scoparsela – non si era mica accorto che c’ero anch’io.
Sorrisi a labbra strette.
Ero ben
lontana dall’alterarmi, ma simulai un’espressione arrabbiata.
“Susanna”,
ringhiai riprendendo la penna in mano, ignorando il bruciore fra le dita.
Sbuffò e
mi sfilò il registro dalle mani; cominciò a copiare i voti delle prove scritte,
mentre io le davo istruzioni sulla casella in cui apporre le valutazioni.
“Che
cucino per cena?”, domandai spingendo la sedia contro il muro.
Mi
sciacquai le mani sotto l’acqua fredda e le lavai con il detergente per i
piatti, visto che il sapone era quasi terminato.
Se magari Susanna andasse a fare la spesa
invece che da quel suo amico che stava riparando il computer… Strano, poi:
mia figlia aveva riportato indietro il portatile, asserendo che quel Nomonera o
Da Matera – o come diavolo si chiamava – l’avesse già riparato. Solo un giorno?
Avrei sbuffato e scosso le spalle, se mi fossi trovata su un palcoscenico,
vestita di pizzi e straccetti e circondata da gente erudita e annoiata. Ma,
fortunatamente, ero in una cucina in stile padella, come la chiamavo io: acciaio e plastica, con
qualche calamita de La carica dei centouno
spruzzata sul frigorifero e presine a quadrotti sgargianti sparse su sedie e
banconi, una persino abbandonata sul freezer cromato.
“Pollo
ripieno con patate al forno, leggermente bruciacchiate, se possibile. Ah, e con
tanto rosmarino”, rispose prontamente Susanna, mentre copiava i voti della
seconda B molto più rapidamente del solito e senza capricci.
Quando si scopa si è sempre ben disposti.
Non c’era dubbio.
O, magari,
aveva fatto sesso con il tipo che le riparava il computer, sebbene non l’avessi
mai incontrato. Non che m’interessasse molto, naturalmente – non avrei
sopportato di inscenare la parte della madre di Lolita, tutto qui. Ero una madre
consapevole, non mi facevo raggirare da due mocciosette ottuse. Oppure… Ero un
po’ perversa anch’io, come Humbert Humbert.
Ma sì, il
personaggio più odioso, ignavo, penoso e insopportabile della letteratura: la
madre di Lolita. L’avevo sempre detestata, sin dalla prima volta in cui avevo
letto l’opera di Nabokov, trovandola piuttosto eccitante, e ignorando che, in
fondo, era solo una variante più sensuale della mia vita: un gioco di voglie. Le
stesse che individuavo – a torto o a ragione, non era rilevante – nelle risposte
e neile posture delle mie figlie.
“Non ho il
tempo di frugare nel culo di un pollo, non so se hai notato”, replicai con
soddisfazione. Individuai una confezione di paella surgelata spiegazzata e la
vuotai in una padella.
Susanna
sbuffò e si contorse leggermente sulla sedia, cercando una posizione più comoda.
“Tanto io
stasera esco”, bofonchiò. Fissai, vogliosa, il contenuto della padella e lo
rigirai con un cucchiaio di legno; un odore piccante e speziato mi fece
lacrimare gli occhi, nonostante la protezione degli occhiali per astigmatismo.
Me li sfilai e godetti di quello squisito bruciore.
“Ah,
giusto. Visto che oggi sei stata sempre chiusa in casa, poverina…”, ironizzai.
Uno
sfrigolio continuo mi distrasse per un attimo, non consentendomi di capire cosa
avesse risposto Susanna.
“Cosa?”,
le chiesi.
“Niente.”
Stava per
gridare, lo sentivo. Magari non è stata
neanche una bella scopata; niente orgasmo, avrà finto. Che cogliona.
“Potresti
anche aiutarmi qui, no? Non penso che uscire sia così urgente”, la stuzzicai.
Sembrava proprio di giocherellare con uno dei miei alunni, citando battute
patetiche solo per deviare il discorso – in cui io avevo torto e lo sapevo bene.
“Ma
vaffanculo!”, urlò. Ecco, appunto.
Copiò gli ultimi voti con fretta maniacale e si precipitò fuori di casa
sbattendo la porta. La catena che penzolava dalla serratura tintinnò, stanca.
“Ehi, io
non ti ho insegnato a non rispettare tua madre!”, gridai con voce possente.
Certo, come se me ne fregasse qualcosa del rispetto. Non ti mando
neanche affanculo, tanto ci vai già, troietta del cazzo.
Raccolsi i
chicchi di riso sfuggiti alla padella sul piano cottura e li inghiottii uno ad
uno, cercando di simulare un gesto sensuale.
Magari l’hanno stuprata e l’è piaciuto, ma ora si sente in colpa.
Risi.
***
Diamonds are a girl’s best friend!
Mi
baluginava sempre davanti agli occhi, quella scritta scintillante sullo sfondo
azzurro. Terrificante.
Di per sé
la cosa non era affatto spaventosa – snervante, più che altro –, ma quel viso
sorridente con quegli zigomi che sporgevano come… come se nascondessero zanne o…
Dio, era orrenda. Marilyn Monroe era davvero orrenda.
Ma no, non
orrenda. Terrificante, piuttosto.
Ecco, di nuovo al punto di partenza.
Mi
abbandonai su una sedia, davanti alla TV del soggiorno; presi a giocherellare
con il telecomando e constatai che non era
brutta, no… Forse solo troppo luminosa, come i diamanti.
Non avrei
mai immaginato che a Susanna piacessero; l’avrei ritenuta piuttosto una di
quelle ragazze che indossano appariscenti collane etniche, quelle cianfrusaglie
dei negozietti che puzzano di incenso, con commesse volgari e zingaresche e gli
zerbini sempre storti rispetto alla parete. In effetti, quello era l’identikit
di Susanna che mi ero costruito io, ma mi rendevo conto che le piccole
differenze che individuavo facevano tremolare i contorni della sua figura, come
se, per conoscerla appieno, avessi dovuto estrarre anche i minimi particolari
della sua malsana esistenza.
Mancano otto giorni,
mi sorpresi a constatare. Già, soltanto otto giorni per creare qualcosa di
minimamente fattibile e verosimile; ma eravamo in due, sicuramente avremmo
trovato qualcosa.
Diamonds are a girl’s best friend!
Ecco,
ancora: scritta in caratteri sinuosi, quella frase si snodava da un capo
all’altro dello schermo del suo vecchio portatile.
Ma perché mettere uno sfondo così scemo,
poi? Mi stiracchiai: le vertebre scricchiolarono quasi sinistramente e la
spalla mi dolse per qualche momento.
Non avevo
impiegato molto per rassicurarmi della sua affidabilità: dopo avermi telefonato,
Susanna mi aveva lasciato il suo computer nel portone del mio condominio e, in
una notte, debellato il virus da me inviato, avevo non solo controllato i
contenuti del PC, bensì anche informatone la proprietaria delle mie intenzioni –
quelle vere, chiedere il suo aiuto per
l’eliminazione della classe, insomma – e avanzato le mie proposte.
Lasciai
che le palpebre mi oscurassero il tetro soggiorno, appena inumidito dal liquido
baluginio del crepuscolo. Erano le otto, forse; sentii la sigla del telegiornale
e, subito dopo, un portone sbattere. È
andata via.
Poggiai la
testa sul tavolo da pranzo di legno, la guancia sinistra schiacciata su un
pungente centrino.
“MARTI’,
MA CHE TI SALTA IN MENTE?!”.
Sollevai
il viso di scatto, atterrito dalle urla di mia madre. “Eh?”, balbettai
ingenuamente. Ero stanco, non riuscivo a trovare neanche la pazienza di fingere
tranquillità; ciononostante, avrei dovuto prevedere la reazione di mia madre, da
casalinga stupida e ignorante qual era.
“Ma ti
rendi conto?! Far entrare una ragazza in casa con tutto ‘sto casino? Guarda, la
polvere sulle mensole e… e la scrivania macchiata e… e io che stavo in
vestaglia! Ma che ti passa per la testa? Io non lo so, non so davvero cosa fare
con te… Non è da persone adulte e responsabili, porco Giuda! Marti’, non sei un
bambino, capito?! Basta! Basta!”. Sembrava indemoniata: i capelli corti le
incombevano sul volto – colpa della messa in piega scadente, più che di un
invasamento demoniaco –, il viso accartocciato in un’espressione di duro biasimo
esistenziale, il piede che calpestava il pavimento, emettendo un suono secco per
via della pantofola troppo larga. Mi ricordava Capitan Uncino, chissà perché.
“Chi se ne
frega? Dài… Mica sono tutti pronti a criticare come te.”
Oh, no.
Non dovevo averlo detto, certo che no.
Cazzo, l’ho proprio deto. Non che non lo pensassi… Ma avrebbe sicuramente
improntato un’orazione degna di uno statista pur di difendere i propri doveri di
amministratrice della casa – Ah, è così
che le chiamano ora le sguattere incapaci di prendere un minimo di diploma?
Ero
finito.
Sperai che
ci fosse qualcosa sul fuoco o che la lavatrice fosse in funzione. O, magari, il
telefono, la nonna che le chiedeva la ricetta della torta genovese al riso con
funghi e salsa rosa, tanto per tenerla incollata al telefono per un paio d’ore.
“Tu non…”.
Cominciò a sibilare e accavallare una valanga di parole; mi alzai dalla sedia e
mi avviai verso il bagno – l’unica stanza provvista di chiave – mentre mia
madre, determinata e strillante, mi seguiva a passi lunghi.
Finalmente
riuscii a chiudermi in bagno e, poggiata la testa al muro, pensai a qualcosa di
indefinito, pensai che avrei dovuto pensare al diciannove, al compleanno di
Ilaria, alla collaborazione di Susanna, a Susanna.
Fra le
urla di mia madre e le tempie che mi vibravano, richiamai alla mente tutto ciò
che era accaduto dopo essermi impossessato del suo computer.
***
Mi sarei
dovuto comportare in maniera naturale, la più spontanea possibile, ma non era il
mio obiettivo principale in quel momento.
E neanche
controllare la sua affidabilità lo era.
Dunque,
qual era il mio vero obiettivo?
Per
un’oretta non trovai risposta a questa domanda; mi limitai a installare un
antivirus qualsiasi – preferii uno scadente, solo per burlarmi un po’ di lei – e
a ravviare il sistema. Bene, ora devo
controllare i suoi documenti.
Sebbene
potesse sembrare che la mia osservazione del suo computer desse voce soltanto
alla mia impertinente invadenza… Cancellai mentalmente
sebbene e inserii
anche perché.
Adesso devo cambiare tutti i congiuntivi,
mi sorpresi a pensare.
D’accordo, lasciamo
sebbene, anche solo per dare una parvenza
di legalità. Non che fosse del tutto
illegale frugare nel portatile di qualcuno per verificarne l’affidabilità –
Lo fa la polizia – e, comunque, il
senso della giustizia non era uno dei miei punti di forza, per quanto potessi
constatare.
Il
desktop, rivestito di uno sfondo azzurro che si scuriva man mano che il colore
si avvicinava al margine superiore dello schermo – come un tramonto senza sole
–, decorato da una scritta – Diamonds are
a girl’s best friend! – e sminuito dal viso di Marilyn Monroe, luminoso e
ridente, era quasi totalmente coperto da una griglia di icone.
Non è ancora arrivata a capire che
esistono le cartelle?
Per la
maggior parte si trattava di documenti di testo, quasi tutti recanti la dicitura
Nuovo Documento di Microsoft Office Word
seguita da un numero; sommariamente, ne contai una trentina. Ne aprii qualcuno a
caso: Nuovo Documento di Microsoft Office
Word (4) sembrava il capitolo di una storia. Era lungo sette pagine, come
dedussi dall’angolo in basso a destra della finestra, e, nella pagina
abbagliante, torreggiava un carattere abbastanza semplice e pulito, dalla
dimensione 16, notai; iniziava così:
“Light, visto che
siamo ammanettati, facciamo così: tu resti fuori dalla porta, mentre io mi
faccio la doccia, OK? Poi vieni tu, facciamo a turno.”
Light socchiuse la
porta sulla catena che lo univa a L e lo vide sfilarsi la maglietta bianca,
ammirò il suo petto candido e liscio, come quello di un bambino. Con un brivido,
si soffermò sui capezzoli rosei del suo amante proibito, si leccò le labbra
assaporando la morbidezza di quella carne pregna di
Chiusi il
documento, schifato.
Ne aprii
un altro a caso: questa volta, per mia fortuna, si trattava di un e-book, per
quanto la prima pagina mostrasse. Individuai il titolo:
Corpus hermeticum in italiano (traduzione
di Ignazio Grappa); scorsi la pagina e lessi di sfuggita solo qualche frase
che mi pareva un incantesimo, qualcosa riguardante la
Telestikè, di qualsiasi aggeggio si
trattasse.
Cliccai
sulla croce rossa in alto a destra e aprii
Nuovo Documento di Microsoft Office Word (13) – disgustato e, forse, anche
spaventato – scorrendo le pagine e leggendo, questa volta, frasi estratte dalla
parte centrale del capitolo, sempre nel solito carattere.
Oh, Maestro!
Mikami non potè far altro che urlarlo, mentre Light, pervaso da un inaspettato
fervore, si mosse con furia dentro di lui; Mikami gridava per il dolore e il
piacere, zuppo del suo stesso sangue e degli umori del suo amato Maestro.
“Sì, puniscimi,
Maestro! PUNISCIMI!”
Light tentò di
reprimere i propri gemiti di godimento mentre continuava a frustare il proprio
sottoposto con la cintura; il sangue di Mikami gocciolava languidamente dalla
sua pallida schiena e Kira quasi urlò di piacere quando alcune gocce
raggiunsero, nella loro voluttuosa discesa, il membro del nostro
Susanna
era piuttosto pericolosa – o, meglio, temevo per il suo buon gusto (se ne
esisteva uno in quella testa riccioluta).
A quanto pare no.
Mi
affrettai a chiudere la finestra, non appena mi vidi indugiare su quelle parole.
Rabbrividii e continuai la mia indagine.
Evitai,
terrorizzato, di aprire altri documenti di testo ed esplorai le poche cartelle
presenti sul desktop: fanfic – non
osai nemmeno selezionarlo –, scuola –
appunti di economia aziendale e trattamento testi copiati da qualche sito
specializzato –, foto vincenzo – una
serie di fotografie che ritraevano Susanna, in atteggiamenti comicamente
provocanti, con un ragazzo altissimo (i suoi riccioli superavano di poco il
gomito di questo Vincenzo); feste di compleanno, il tavolo di un bar, i due visi
divisi dal collo di una bottiglia di birra, un abbraccio, Vincenzo a gattoni con
un sorriso spalancato e Susanna a cavalcioni sulla sua schiena con una bacchetta
firmata Harry Potter come frustino
improvvisato, occhi sbarrati per simulare un’espressione terrorizzata,
linguacce, un bacio a luce soffusa, Susanna accoccolata fra le braccia di
Vincenzo, che le sfiorava dolcemente il naso.
Un’altra
cartella, film, conteneva
numerosissimi video – notai titoli come
Ladyhawk, The dreamers,
Blood and chocolate, una rassegna di film diretti da Stanley Kubrick
e Pier Paolo Pasolini, le tre trasposizioni cinematografiche di
Death Note e altri innumerevoli
titoli.
Facciamo un bilancio momentaneo, decisi: Susanna era
senza dubbio una ragazza disordinata – per via dei documenti sparsi sul desktop
–, una di quelle che si definiscono pazze
solo per giustificare i propri gesti insensati, provocatori, egocentrici, per
sentirsi e apparire particolari; una pessima scrittrice dalla testa totalmente
annacquata, che cercava solo il successo con una prosa baroccheggiante,
argomenti erotici (tanto assurdi da defluire nel nauseante tragicomico),
personaggi improbabilmente accoppiati e disgustosamente
Out Of Character.
Insomma, personalmente una cogliona, artisticamente una merda.
Era
fidanzata con un certo Vincenzo, forse, che, a quanto pareva, era il suo unico
amico. Niente traccia di Mariagrazia.
Immaginavo che la loro fosse un’amicizia falsa, solo per non deprimersi troppo
nella fanghiglia limacciosa della classe.
Cliccai
due volte su Risorse del computer e su
Documenti – suzie_quiver, rivelando
altre cartelle: foto – immagini di
Susanna con gli occhi scintillanti per il flash, con altre ragazze più basse,
pallide e truccate, le pelli brillavano in maniera ipnoticamente diversa –,
musika – file mp3 in ordine alfabetico
e qualche CD, fra cui My Chemical Romance, Muse, Cradle of Filth e Gazette –;
video – per la maggior parte, si
trattava di video musicali. Oltre a questi file, individuai una decina di
cartelle minori: scuola, psico,
spot_scemi, corso_teatro, dolly_wosh, fanmade, film, dn; esplorai tutti i
file, rivelando documentari di ogni tipo, video creati dalle fan di film e
anime, pellicole d’epoca e scene registrate nella palestra di quella che pareva
una scuola elementare abbandonata, con cartelloni colorati appesi ai muri solo
per un angolo, attaccapanni inizialmente smaltati, ma ormai consunti, che davano
l’impressione di sbriciolarsi al solo tocco, canestri da basket alle due
estremità del grande stanzone. Un gruppo di trenta ragazzi, o forse anche di
più, si agitava, rideva, batteva mani su una cattedra macchiata di caffè, urlava
su ordine di un uomo sulla quarantina, probabilmente il professore che teneva il
corso di teatro. Nella cartella dn
c’erano solo fanfiction – sebbene non capissi perché le avesse inserite nella
sezione dei video, ma, d’altronde, poteva essere stato un errore dovuto al
disordine – fra cui spuntava un’icona affiancata da
ff_efp.
Altre
cartelle, ciascuna recante il nome della storia che, a quanto pareva, aveva
copiato e incollato su documenti di Word.
the_electric_metempsychosis
Allora
anche lei leggeva quella fanfiction. Speravo che l’autore non lo scoprisse mai:
la sua storia, la sua magnifica storia
letta da quella cogliona ignorante; era un… un disonore.
Mi
stiracchiai e ritornai nella cartella
Documenti, aprendo varie e
fatture_ebay. Fui sorpreso quando, davanti a me, si aprì un
ventaglio di foto e alcuni video.
Mi
colpirono le labbra e, senza accorgermene, avvicinai il viso allo schermo,
ingobbendomi ulteriormente sulla sedia dallo schienale di vimini.
Rosee, non
accese, sottili e opache, senza trucco.
Rosse,
abbaglianti, socchiuse e bagnate, infantili.
Due paia
di labbra al centro.
Così
plastiche da sembrare finte, colorate chimicamente, malleabili e smaltate.
Sembrava
pelle sintetica, imbottita di bambagia e cucita con sottilissimo fildiferro.
Non trovai
nulla di autentico in quei bacio, a parte il dolore.
Una
sofferenza sottesa da entrambi i lati, labbra che affogavano le une nelle altre,
annegavano nella pienezza della loro stessa sopraffazione.
Non è dolore.
Aggrottai
impercettibilmente le sopracciglia.
È…
Ero
incantato.
… prevaricazione.
Non era un
bacio qualunque – ed era evidente – scoppiava di finzione. No, non menzogna… Si
trattava semplicemente di un’esplosione sintetica, chimica, elettronica.
Sa di protesi.
Susanna
sembrava patinata – era un morso, benché non riuscissi a individuare i suoi
denti nella foto. Non potevo essere sicuro che fosse così, ma le sue labbra
rosso carminio che si chiudevano su quelle chiare dell’altra ragazza… Pareva che
la volesse divorare.
Scorsi le
altre foto e visionai i video abbassando a zero il livello del volume.
L’altra
ragazza, a quanto avevo capito, si chiamava Giusy oppure Giulia, visto che
Susanna le gridava allegramente Giu’!
in qualche filmato: giocavano con delle Barbie spettinate e polverose,
trasformando la visita di Ken e Shelley in un rituale satanico-orgiastico
farcito di pedopornografia e sadomasochismo – uno dei loro più ambiti
passatempi, a quanto pareva. Giocare in
quel modo con le bambole, intendo.
In un
altro video, Giu’ si asciugava i capelli biondi con un asciugamano stretto
attorno al busto, lasciando scoperta gran parte delle cosce; Susanna, invece,
tentava di spogliarla e, ad un certo punto, riusciva a inquadrarle il seno, dopo
aver scostato con noncuranza un lembo dell’asciugamano bianco.
“Ehiii!”,
protestava Giu’, picchiando la spazzola contro la videocamera o il cellulare di
Susanna.
Il filmato
si fermò bruscamente su un improvviso avvicinamento dell’obiettivo al soggetto e
un incontro di carni.
Le foto
erano più di trecento: baci, tuffi, corpi in costume da bagno, un falò, due visi
incollati, come gemelli siamesi, un volto attraverso le pareti e il liquido
torbido di un acquario, luci bluastre, la luna, un palco, una grande libreria,
una piazza innevata, una scritta su una panchina
(: Su & Giu :)
Non so
cosa fu a rompere l’incanto, ma, all’improvviso, ritornai nella realtà.
Erano
tutti sfondi: la vera protagonista era quella ragazza bionda, quella Giu’. Era
tutto nella mano della fotografa. Di Susanna.
Ed era
evidente.
Mi
stropicciai gli occhi e decisi che, sì, mi sarebbe servita.
Avrei
copiato quelle foto e quei video sul mio hard-disc, in caso si presentasse la
necessità di ricattarla.
Riaprii
gli occhi.
OK.
Erano le
tre e trentatré di mattina. Sorrisi per la coincidenza.
D’accordo.
Ritornai a
fissare il monitor, sebbene sentissi le palpebre pizzicare.
Spostai
tutti i documenti del desktop in una cartella a caso – benché l’istinto fosse
quello di trasferirli nel cestino – e creai un documento di testo, che denominai
GIU.
Capirà sicuramente che qualcuno ha frugato nel suo computer, in questo modo.
Aprii il
documento e, indugiando sulla tabella ASCII del mio manuale di informatica,
digitai:
76; 108; 111;
115; 97; 105; 99; 104; 101; 103; 108; 105; 115; 104;
105; 110; 105; 103; 97; 109; 105; 110; 111; 110; 109;
97; 110; 103; 105; 97; 110; 111; 115; 111; 108; 111;
109; 101; 108; 101; 63; 65; 110; 99; 104; 101; 99; 97;
100; 97; 118; 101; 114; 105;
Dovrebbe arrivarci,
pensai.
Già:
doveva ormai essere un istinto immediato cercare tutto su Google, no?
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