A few simple fairytales

di Feel Good Inc
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [#5] Peter Pan ***
Capitolo 2: *** [#1] Lady and the Tramp ***
Capitolo 3: *** [#3] Alice in Wonderland ***
Capitolo 4: *** [#6] 101 Dalmatians ***
Capitolo 5: *** [#2] The Little Mermaid ***
Capitolo 6: *** [#7] Beauty and the Beast ***
Capitolo 7: *** [#4] Sleeping Beauty ***



Capitolo 1
*** [#5] Peter Pan ***


Quello che pubblicherò ora è uno degli esperimenti più stimolanti che mi abbiano mai spinta alla scrittura, ma se devo essere sincera non mi aspetto una gran riscossione di pubblico

Quello che pubblicherò ora è uno degli esperimenti più stimolanti che mi abbiano mai spinta alla scrittura, ma se devo essere sincera non mi aspetto una gran riscossione di pubblico. ^^’

Si tratta delle 7_crossovers. Si sceglie una serie di prompt, si prendono sette pairing da fandom diversi, et voilà. Ho sempre avuto voglia di scrivere una crossover, ma puntualmente mi mancavano l’ispirazione o i personaggi giusti. Ora però l’idea (più o meno giusta, il giudizio spetta a voi) è venuta: puff! Ed ecco qui il primo capitolo.

Il motivo per cui asserisco – con convinzione – che non mi aspetto nulla da questa raccolta è molto semplice. I pairing su cui si incentreranno le mie shot saranno indubbiamente molto strani. Alcuni non convincono neppure me per prima. Per cui, non sarò sorpresa se resterete perplessi. Ecco tutto. xD

Eppure ho deciso di pubblicare comunque i risultati, perché stavolta la sfida mi piace troppo da lasciarmi abbattere dalla solita “paura da palcoscenico”. :P Ovvio che, se invece la raccolta piacerà, mi renderete la ficwriter più soddisfatta sulla faccia del pianeta! *-*

Vi lascio dunque con il primo capitolo della tabella che ho scelto, incentrata sui classici Disney. Eccola qui:


1. Cindere
lla
2. The Little Mermaid
3. Snow White
4. Sleeping Beauty
5. Peter Pan
6. 101 Dalmatians
7. Beauty & the Beast

 

Un milione di grazie in anticipo a tutti i lettori! :3

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

*A few simple fairytales*

 

 

Prompt: #5. Peter Pan

Personaggi: Near [Death Note], Sora [Kingdom Hearts]

Genere: Introspettivo, Malinconico

Rating: Verde

Note: AU (vale solo per Sora), Shounen-ai (appena accennato)

 

 

 

 

 

Di tutti i ragazzi dell’orfanotrofio Wammy, Sora era sicuramente il più strano.

Non che ci fosse qualcosa di anomalo in lui. Era un ragazzino allegro, solare come pochi ed estremamente espressivo; non si faceva problemi nell’esporre sempre chiaramente ciò che provava o pensava, e non si chiudeva mai in se stesso, come ci si sarebbe potuti aspettare da un qualsiasi altro bambino sopravvissuto all’incidente che aveva stroncato la sua famiglia.

Sora era normale. E proprio in questo stava la sua diversità.

 

Non sapeva se invidiarlo, ammirarlo o che altro. Non riusciva a concepire la sua visione ottimistica e positiva delle cose, eppure ne era anche affascinato. Con lui era sempre così.

Erano completamente diversi, Nate e Sora. Due opposti che senza un vero motivo si erano attratti. Come il giorno e la notte, indipendenti ma complementari, un binomio indissolubile di elementi speculari. L’uno era l’immagine al contrario dell’altro, il suo negativo – il suo amico.

 

Era cominciata sette anni prima, all’arrivo di Nate in orfanotrofio.

Per alcuni giorni il terremoto dagli occhi blu lo aveva studiato, senza forzare il suo silenzio, il suo essere così dissimile da lui. Sembrava quasi incuriosito dal bambino taciturno con gli occhi grandi e scuri, che se ne stava lontano da tutto e da tutti torcendosi i capelli chiarissimi e rifugiandosi nell’unica compagnia di pochi giocattoli logori.

Lui aveva ricambiato l’esame, senza alcun vero interesse; più che altro perché gli occhi erano fatti per guardare, e la visione e la comprensione delle cose era praticamente l’unica costante della sua esistenza solitaria e silenziosa.

Un giorno, Sora si era seduto al suo fianco e aveva iniziato a passargli le tessere del suo puzzle preferito.

Nate l’aveva guardato senza parlare, vedendolo forse per la prima volta. E non lo aveva allontanato. Aveva soltanto accettato l’aiuto sorridente della sua manina paffuta.

Da allora, non erano mai stati separati.

Da allora, non era ancora riuscito a capirlo.

 

«Perché mi guardi così? Ho qualcosa sulla faccia?»

Sì che aveva qualcosa sulla faccia. Aveva quel sorriso. Aveva quello sguardo felice. E non si rendeva conto di quanto questo lo rendesse [speciale] diverso dagli altri bambini e soprattutto da lui.

Sora diceva spesso che Nate era in bianco e nero, mentre lui era a colori. Lo diceva ridendo, come poteva dirlo un tredicenne troppo giocoso da dare peso alle proprie parole, o da rendersi conto di quanto fossero vicine al vero. Nate non sorrideva mai a quella battuta. Sapeva che in fondo non era altro che una realtà, una considerazione assolutamente oggettiva. Molto più realistica delle storie fantasiose che Sora amava raccontare, a modo suo, a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo.

 

«Quando sulla Terra una mamma non vuole un bambino, quello finisce nel Mondo Che Non Esiste. È un posto lugubre e spaventoso, e i bambini perduti hanno il compito e il desiderio di renderlo migliore. Per questo motivo ogni notte vengono a visitare i sogni dei bimbi tristi e li colorano di allegria: perché ogni bel sogno porta nel loro buio un raggio di sole.»

 

Seduto sul davanzale della finestra spalancata, nel dormitorio addormentato, le mani intrecciate dietro la nuca, la maglietta cascante sulle spalle magre, i piedi nudi dondolanti. Faceva vivere quelle immagini a bassa voce.

Lui ascoltava ogni sua parola, accovacciato ai suoi piedi con gli occhi spalancati nella penombra. Qualche volta s’illudeva persino di crederci.

Ogni notte, una storia.

 

«Ehi, Near.»

Una breve attesa.

«Un giorno ce ne andremo da qui, e viaggeremo insieme nei posti più incredibili, fino al Mondo Che Non Esiste e anche oltre.»

La sua voce era sicura, fiduciosa. Una luna spietatamente piena gli illuminava gli occhi sognanti, riempiendoli di stelle. Lui ci credeva davvero.

Le dita di Nate corsero istintivamente ai capelli.

«Siamo orfani, Sora. L’unico modo che abbiamo per andarcene di qui è essere adottati.»

Si voltò a guardarlo con una linguaccia. Tutt’intorno, i respiri regolari dei compagni addormentati.

«E allora? Potremo farlo lo stesso.»

Quella notte Nate si concesse un sorriso. Anche con Sora, non sorrideva quasi mai.

Strinse le dita attorno ad un vecchio pupazzo meccanico, il primo robot con cui ricordasse di aver giocato, sette anni prima.

«Quando accadrà, non saremo più insieme.»

Una lunga attesa.

Sora schizzò via di colpo dalla finestra, come se si fosse scottato. Venne ad accovacciarsi di fronte a lui. Si aggrappò alla manica del suo pigiama, costringendolo ad alzare lo sguardo.

Era imbronciato, come un bambino. Il che non capitava spesso.

«Non permetteremo che succeda. Noi due saremo sempre insieme. Non vado da nessuna parte senza di te.»

[Non c’era nessun posto dove sarebbe voluto andare senza Sora.]

Sora con le sue favole, la sua allegria, la sua straordinaria capacità di non ancorarsi al rimpianto o al ricordo del passato perduto. Sora con la sua risata incontrollabile, la sua scarsa attitudine al buonsenso, i suoi capelli impossibili e il cielo negli occhi. Sora e la sua voglia di volare.

Sora era pur sempre un ragazzino solo.

[Proprio come lui.]

Si sollevò sulle ginocchia. Era tempo di dormire. Gli si accostò, avvicinò le labbra alla sua fronte.

«Buonanotte, Sora.»

Lo sentì sorridere, imbarazzato, felice.

«Buonanotte, Near.»

 

Era stato lui a dargli quel soprannome.

«Anche quando saremo grandi, anche quando saremo lontani, sarai sempre vicino a me.»

 

La cosa più bella di quel ragazzino troppo normale era che trovava sempre il modo di mantenere le sue promesse.

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Capitolo 2
*** [#1] Lady and the Tramp ***


*-* Innanzitutto, una parola importantissima: GRAZIE.

Dico sul serio, sapere che questa raccolta ha incontrato un certo interesse è già per me un ottimo risultato. Penso di potermi giudicare felice anche solo per il numero di letture. Un milione di Grazie di Cuore a ciascuno di voi, ad ogni singolo lettore. Vi adoro. ^^

E un grazie particolare a Rein94 e Selhin per le recensioni! *///*

Rein, io credo che ti farò un monumento; non ho abbastanza parole per ringraziarti di tutti i commenti positivi che hai lasciato alle mie storie e a questa in primis… Dirti che mi hai commossa è ancora poco. Io sono debitrice a te. ç///ç E Selhin, sei dolcissima come sempre. ^^ (Non preoccuparti, non c’è nulla di astruso da capire: si tratta solo di scegliere una tabella di temi e trarne ispirazione, e se anche tu seguissi quest’idea non potrei che esserne felice, perché so già che ne verrebbe fuori un capolavoro. ^^)

E ora, passiamo al capitolo.

Uhm.

Non sono molto sicura di quel che è venuto fuori. Non mi convince fino in fondo, ma… Oh, beh. Io questi personaggi li vedo piuttosto bene in questa situazione. xD

Solo che avrei potuto renderli meglio, immagino. u.u

Ah, noterete che il film che ho usato qui non è presente nella lista iniziale; ma le regole delle 7_crossovers prevedono che si possano cambiare fino a 2 prompt, in mancanza di ispirazione… E trovavo che questo film fosse adattissimo per il pairing.

Ringrazio in anticipo, di nuovo, tutti i lettori.

Sperando che il risultato sia di vostro gradimento. ^^’

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

*A few simple fairytales*

 

 

Prompt: #1. Lady and the Tramp (in sostituzione di Cinderella)

Personaggi: Misa Amane [Death Note], Axel [Kingdom Hearts]

Genere: Commedia, Romantico

Rating: Giallo

Note: AU (vale solo per Axel)

 

 

 

 

 

Spaventosamente in ritardo. Questo era il suo status attuale.

Le strade di Tokyo dopo l’acquazzone erano appiccicaticce e odorose di pioggia. Le era sempre piaciuto quell’odore, ma al momento non poteva permettersi di fermarsi un attimo ad annusarlo. E poi era troppo occupata a sforzarsi di non badare allo sporco che le insudiciava le scarpe. Non era facile, però; lei era abituata a sedili comodi e vetri fumé – non a sfrecciare tra orride pozzanghere.

Il cellulare nella borsa squillava forsennato, ma ormai non lo ascoltava più. Correre era diventata la sola priorità. Correre per strozzare il suo stupido manager amante dei cambiamenti dell’ultimissimo minuto. Correre per ammazzare il suo stupido autista male informato sui suoi impegni più recenti. Correre, soprattutto, per evitare che lo spot venisse affidato ad una qualunque attricetta di quarta categoria passata di lì in quel momento.

Correre addosso a quel tipo strano appena sbucato come un proiettile dall’angolo della strada, accidenti a lui!

«Ehi, tu, atten…!»

Ci provò; ci provò davvero, a fermarsi per prima. Ma il mix micidiale delle sue zeppe, dello slancio della corsa e dell’asfalto scivoloso fecero calare al sotto zero le sue probabilità di successo.

Misa Amane, l’idol del Kanto, l’icona delle adolescenti, rovinò pesantemente in una pozzanghera melmosa, dritta sul petto di un uomo incappucciato.

Ok, decisamente una giornata no.

Persino il misterioso chiamante dovette accorgersene, perché il telefono tacque di botto.

Dal canto suo, dopo un attimo di silenzio, quello scoppiò a ridere, il petto sussultante contro la guancia di lei.

«Bimba, la prossima volta perché non mi fermi gentilmente e non mi chiedi il numero di telefono?»

Misa si tirò su di scatto, furibonda. Bimba?

«Ora ascoltami bene, tu!» Ben piantata sulle ginocchia, mosse le mani per strappargli il cappuccio dalla faccia: voleva guardarlo negli occhi, quel decerebrato che prima osava irrompere sulla sua già faticosissima strada per gli studios e poi si permetteva pure di riderci sopra. Guardarlo negli occhi e insultarlo per bene, questo andava fatto. «Non ti vergogni a rivolgerti così a…?!»

Sfortunatamente, quando incrociò il bagliore beffardo di due iridi verdissime, la voce le morì in gola.

Steso sotto di lei, sogghignante, lo sconosciuto attese per un attimo in silenzio e infine rise di nuovo. «Cosa c’è, bimba? Non ti ricordi più chi sei?»

Misa si riprese in fretta. Si chinò ancora di più su di lui, sperando vivamente di incenerirlo con la sola forza dello sguardo.

«Smettila di chiamarmi così!» gli strillò sul naso. «Sei tu a non sapere con chi stai parlando, brutto maleducato!»

Lo vide roteare gli occhi, con aria teatralmente tragica.

«Il ‘maleducato’ me lo tengo volentieri, ma il ‘brutto’ proprio no.»

Misa si ritrasse, esasperata oltre ogni dire. «Ho cose più importanti da fare che stare qui a litigare con uno zoticone che corre senza guardare dove va e finisce per investire le persone serie…»

Lui tornò a guardarla con ironia, incrociando le mani dietro il collo, come se starsene lì tra le gambe di un’idol inviperita fosse la cosa più normale del mondo e gli succedesse come minimo due volte alla settimana. Che razza di sbruffone. Aveva dei capelli rossi a dir poco impossibili. E labbra sottilissime, proprio tipiche da ghigno bastardo. E due tatuaggi strani sulle guance. Non li aveva ancora notati; era stata troppo presa da quel verde sconvolgente…

«Ma stiamo parlando di me o di te, bimba?»

Misa trasalì: non per le sue parole, bensì perché – sfuggendo sdegnata a quello sguardo sfrontato – si era appena accorta delle disastrose macchie di fango che le adornavano il soprabito bianco.

«AAAH!» Beh, se non altro ora lo aveva assordato di certo. Era pur sempre una piccola vendetta. «Guarda cos’hai combinato!» Schizzò in piedi, recuperò in fretta le salviette dalla borsa e cercò di arginare il danno. Inutile, il soprabito era irrimediabilmente sporco.

E avrebbe dovuto essere agli studios tra pochi minuti, maledizione! Non aveva il tempo di andare a cambiarsi!

«Misa-Misa non è mai stata così umiliata in vita sua» piagnucolò, la vista annebbiata da lacrime rabbiose.

Accanto ai suoi piedi, il rosso si sollevò su un gomito e rimase così semidisteso, apparentemente incurante del fatto di avere ancora il sedere immerso nella pozzanghera. Misa si augurò che i reumatismi lo accompagnassero fino alla tomba.

«Misa-Misa?» C’era una nota di sincera sorpresa nella sua voce. Poi però assunse di nuovo quel tono sarcastico. «E così tu saresti Misa Amane? Ti hanno mai detto che nei cartelloni pubblicitari sembri più paffutella?»

Misa lo fissò sconcertata. Poi s’imbronciò, gli voltò le spalle e tirò su col naso.

«Mi correggo» sibilò tra i denti, ricominciando a tormentare la stoffa con la salvietta. «Misa-Misa è appena stata umiliata cento volte peggio che un minuto fa.»

L’odioso scoppiò a ridere per l’ennesima volta. Sembrava che si stesse alzando; ma lei era ben decisa a non guardarlo più in faccia: quel verme non meritava neppure la sua attenzione.

«Più paffutella e meno schizzinosa.» Con un dito le punzecchiò il fianco, come reclamando il suo interesse. «Non sono sicuro che l’originale mi piaccia di più, comunque.»

Misa schizzò lontano da lui e si voltò per sbraitargli addosso. «Non osare toccarmi, razza di pervertito! Stai alla larga da me!»

«Non se ne parla neanche.» Il tizio sorrideva ancora, una mano sul fianco, lo sguardo astuto. «Col faccino magro che ti ritrovi, offrirti un pranzo mi sembra il minimo.»

Offrirle un pranzo? A che gioco stava giocando? O era pazzo sul serio?

«E tu credi che io sia disposta a venire a pranzo con te?» Sorrise anche lei, beffarda. «Misa-Misa non sa se ridere di te o prenderti a calci.»

«In entrambi i casi sopravviverò.»

E senza aggiungere altro, il rosso mosse un passo verso di lei e l’afferrò per il braccio.

Misa lasciò cadere la salvietta, sconvolta. Puntò i piedi, ma lo sconosciuto iniziò a trascinarla come se niente fosse sul marciapiede bagnato. Strillò con quanto fiato aveva in gola.

«Lasciami immediatamente! Polizia, polizia! Uno stupratore sta cercando di rapirmi! Soccorso! Misa-Misa è in pericolo!»

«Lo sarai sicuramente» sbuffò il tipo, in tono annoiato, «se non la smetti di starnazzare e non ti rilassi un po’.»

La giovane continuò a urlare imperterrita, rammaricandosi di aver lasciato la sua bomboletta al peperoncino nel camerino del precedente spot – in uno studio due isolati più in là. Poteva ancora sperare di riuscire a sferrargli un calcio tra le gambe: si sarebbe ricordato dei suoi tacchi per un bel pezzo, il maniaco.

Proprio mentre si decideva a fare un tentativo, si fermarono.

Misa sollevò gli occhi. Erano entrati in un vicoletto puzzolente, in fondo al quale brillava la luce di quello che sembrava il retrobottega di un locale squallido.

Allibita, sentì lo squilibrato dai capelli rossi emettere una strana serie di fischi. Lo fissò, più sorpresa che preoccupata.

«Un attimo di pazienza» sorrise lui, riprendendo a trascinarla verso la porta da cui proveniva il bagliore.

«Senti» fece lei di rimando, «Misa-Misa può procurarti il numero di un ottimo psicologo, se la lasci andare…»

Il rosso rise di gusto. «Più paffutella, meno schizzinosa e anche meno pungente. Beh, è proprio vero che i media mentono.»

Misa gonfiò le guance, scocciata. «Lasciami andare.»

«Ma non abbiamo ancora mangiato.»

«Non lo voglio, il tuo pranzo!» Alzò la voce. «In questo momento dovrei trovarmi in un camerino a farmi vestire, pettinare, truccare e coccolare. Non in questa stupida stradina sporca in compagnia di un pazzo. Lasciami andare!»

Lui sospirò e scosse piano la testa. «Ah, bimba, non sono quelle le cose importanti della vita.»

La rispostaccia di Misa non ebbe il tempo di colpirlo, perché una nuova apparizione fece ammutolire l’idol.

Ora erano vicini alla porta, e poterono assistere allo spettacolo di uno pseudo-chef che usciva nel vicolo, posava a terra una grossa cassa di legno insieme a due scatoloni sudici e cominciava ad apparecchiare la tavola improvvisata. Misa si fermò, a bocca aperta, mentre l’uomo spariva di nuovo nella cucina – ormai era chiaro che di questo si trattava – e tornava con una candela già accesa, posate ed un gigantesco piatto fumante. Spaghetti e polpette. Infine, dopo aver rivolto a lei uno sguardo fugace e al rosso un occhiolino, il cuoco se ne andò con discrezione.

Lo psicopatico le mollò il braccio.

«Non sia mai detto che io sia capace di trattenere una signorina bene educata come te contro la sua volontà» sottolineò, con un inchino esageratamente affascinante.

Misa non ne approfittò per fuggire, non si mosse affatto. Lo guardò in silenzio, sempre più convinta – e sempre più seriamente – che quel ragazzo fosse psicologicamente instabile.

Il rosso riportò lo sguardo all’altezza del suo e sorrise, in modo più umano e meno stronzo.

«Allora? Misa-Misa mi concede di regalarle il pranzo più particolare della sua sofisticata vita da vip?»

C’era qualcosa di diverso, ora, in quei suoi dannati [incredibili] occhi verdi; non più il sarcasmo di poco prima, ma una sincera speranza in una risposta affermativa. Misa tentennò, si riscosse, tentennò ancora. Non poteva permettersi di cascare come una pera cotta di fronte all’intensità di quello sguardo; questo non era affatto da Misa-Misa!

«‘Particolare’ è proprio la parola giusta» bofonchiò, stizzita, ravviandosi i capelli biondi con un gesto secco.

Un lampo di divertimento percorse l’espressione del rosso. Si avvicinò alla cassa coperta da un vecchio panno a scacchi bianchi e rossi e si lasciò cadere a sedere su uno dei due scatoloni. Per tutto il tempo, la guardò di sottecchi.

[ La guardava come non la guardava nessun altro.

La guardava apertamente, direttamente.

Guardava Misa, non Misa-Misa. ]

«Dai, vieni.»

«Misa-Misa non mangia né carne né carboidrati. Fanno ingrassare.»

Alzò gli occhi al cielo. «Praticamente tutto fa ingrassare, bimba.»

«Ti ho detto di smetterla di chiamarmi così.»

«Soltanto se riesci a trovare il coraggio di venire a sederti qui con me.»

«Se riesco…?» Misa si sentì oltraggiata da quelle parole. «Stai forse insinuando che ho paura di te?»

Lui ridacchiò. Persino la sua risata suonava bastarda [bastardamente meravigliosa].

«Chissà. A giudicare dagli appellativi che hai usato… Uh…» Finse di concentrarsi per ricordare, ed elencò le parole sulle dita. «Pervertito, stupratore, pazzo… Sì, direi che hai paura di me» annuì con aria saputa.

Mancò poco che Misa se lo mangiasse. Invece riuscì a contenersi; prese un bel respiro, marciò spedita di fronte a lui e gli si sedette di fronte.

Si guardarono ai lati opposti di quella specie di tavola.

Al lume di candela con un estraneo.

Difficile non trovare tragicomica la scena.

«Beh» fece il rosso con allegria, «mangiamo.»

Afferrò una forchetta e cominciò ad avvolgere gli spaghetti dalla sua parte del piatto. Accigliata, incredula da ciò che stava facendo, sconcertata [eccitata] da quella situazione assurda, Misa lo imitò.

Non mangiava spaghetti da una vita. Li trovò buonissimi.

Il ‘pranzo’ fu silenzioso, intervallato soltanto dagli sguardi che di tanto in tanto si lanciavano oltre la candela. Assurdo, semplicemente assurdo. Anche un po’ ridicolo.

[Ma terribilmente interessante.]

Il tintinnio delle posate nel piatto era monocorde, monotono – finché non divenne, per un solo istante, un grattare sommesso. Misa si scosse e abbassò gli occhi per scoprire che la sua forchetta aveva incontrato quella dello sconosciuto, intrappolando la stessa polpetta, l’ultima.

Si affrettò a sottrarsi, ma lui bloccò sul nascere il suo movimento, e spinse lentamente verso di lei il piccolo impasto di carne.

Misa lo guardò in viso, in cerca del solito ghigno. Trovò soltanto un sorrisetto [quasi] gentile. E quello sguardo magnetico come pochi.

Rimase a fissarlo senza muoversi.

Cosa diavolo stava succedendo? Dal momento in cui aveva scaraventato a terra il tizio incappucciato, tutto sembrava assolutamente insensato, irreale.

Una situazione a metà tra il sogno e la favola.

E poi, proprio mentre stava per accettare quel suo dono bislacco, lo vide scattare in piedi.

«Devo scappare, bimba.»

Batté confusamente le palpebre.

«Eh?»

Lui si stava già incamminando verso l’imbocco del vicolo, e stavolta c’era un che di furtivo nel suo atteggiamento. Lontano, lontanissimo, echeggiava il suono sgraziato di una sirena.

Era… strano, perdere il contatto con lui.

Misa si alzò e gli andò dietro, perplessa. «Ehi, signor maniaco. Va tutto bene?»

Il rosso si voltò. Sorrise ancora, quel sorriso un po’ storto, un po’ animalesco.

[Chi ha paura del lupo cattivo?]

«‘Signor maniaco’… Mi piace. Aggiungo anche questa alla lista.» In due passi le fu di nuovo di fronte. «Hai del sugo sul viso, bimba.»

Questa volta ignorò il suo modo di rivolgersi a lei. Si portò una mano alla guancia, ormai tranquilla, quasi rassicurata dalla sua presenza nel suo spazio vitale.

«Dove?»

«Qui.»

Si chinò appena, le chiuse la bocca con la sua.

Lei non si ritrasse. Era buono. Era così… giusto.

Lui si distaccò, restando ad un soffio dalle sue labbra. Sembrava non aver più così tanta voglia di andar via.

Le stava bene così.

«Come ti chiami, signor maniaco?»

Il sorriso lupesco ricomparve. «Axel. Got it memorized

La sirena risuonò un po’ più vicina.

Axel si scostò e le strizzò l’occhio.

«Bye, lady Amane.»

E sparì com’era apparso.

Misa rimase al suo posto per qualche istante, a cercare di tornare alla realtà del presente. Si voltò a guardare la tavola, la candela consumata per metà e l’ultima polpetta rimasta nel piatto.

Poi il cellulare nella sua borsa riprese a squillare, e per la prima volta lei ripensò allo spot.

Incurante del soprabito macchiato, corse a sua volta fuori dal vicolo. Lui non c’era. Sparito chissà dove. La sirena suonava ancora.

Al lume di candela con un pazzo ricercato.

Il pranzo più piacevole della sua vita.

 

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Capitolo 3
*** [#3] Alice in Wonderland ***


Aggiornamento velocissimo: alcuni problemi di connessione mi impediscono, ahimè, di dilungarmi troppo. ç.ç Pertanto stavolta mi limiterò ad alcune note introduttive.

Questo capitolo è il mio primo tentativo di nonsense. Non ho idea di cosa sia venuto fuori. Mi auguro davvero che siate comprensivi. ^^’

L’idea era di mostrare il ‘Paese delle meraviglie’ per come lo intende Kira, e per come lo può vedere una persona da lui plagiata. Una persona che però gli servirà fino ad un certo punto, perché la luce di Kira brilla solo di se stessa; quando non ha più bisogno di ciò che gli sta intorno, lo divora.

Le mie, ovviamente, sono riflessioni puramente soggettive. ;)

Ringrazio come sempre tutti i lettori; ogni singola lettura di questa storia è un passo in meno tra me e la felicità assoluta! ^^ E per la mia dolcissima Rein94: temo di non avere più parole per ringraziarti. Ti adoro. *////*

[NB: questa è la seconda ed ultima sostituzione dei prompt iniziali. Non lo farò più, promesso! xD]

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

*A few simple fairytales*

 

 

Prompt: #3. Alice in Wonderland (in sostituzione di Snow White)

Personaggi: Kairi [Kingdom Hearts], Light Yagami [Death Note]

Genere: Drammatico, Nonsense

Rating: Arancione

Note: AU (vale solo per Kairi), Non per stomaci delicati

 

 

 

 

 

Corre. Non sa quando ha iniziato.

Forse da quando ha guardato negli occhi quel ragazzo, e ha scoperto il suo segreto.

 

 

«Il mondo reale, il mondo che conosci – quel mondo è crudele, Kairi-chan.»

 

 

Corre e corre ancora, in una terra straniera, che l’attira e la ripugna a un tempo.

È la stessa terra che ha visto in quegli occhi bruni [troppo buoni] [troppo crudeli] troppo ambiziosi.

Gli occhi di un dio.

 

Lingue di fuoco corrono su per le sue gambe, si appiccano alle sue vesti. Vogliono privarla di quel peso materiale così inutile, così inutile. Non c’è bisogno di difese, non c’è bisogno di schermi in questo mondo.

Acqua gelida scorre tra le fiamme dei suoi capelli, spegne il peccato e la vergogna e la paura. Vuole purificarla di tutto, renderla immune allo sporco. Si può essere così puliti, si può essere così liberi in questo mondo.

[Inferno o Paradiso?]

 

 

«Noi possiamo trascendere il mondo, possiamo trascendere la spaccatura tra ciò che è definito ‘bene’ e ciò che è definito ‘male’.»

 

 

Corre sempre più veloce, sempre più sicura; corre tra le macerie dei ricordi di ciò che si sta lasciando alle spalle.

Corre nel suo nuovo benedetto e dannato paese delle meraviglie.

[ È questo che vuoi, Kairi-chan. Il suo mondo. Raggiungerlo.

Vero? ]

 

Corre verso la salvezza [è questo che lui è] attraverso una terra a ferro e fuoco [è così che deve essere].

E non ha paura.

Per ripulirsi dal marcio, bisogna tagliar via il marcio.

Lei gli crede. Lo ha guardato, e gli ha creduto.

Piccola stupida ingenua.

 

 

«Gli uomini sanno fare soltanto del male. Ma questo non ci tocca. Noi abbiamo il potere di vita e di morte sugli uomini.»

«Noi siamo gli dei.»

 

 

Inciampa all’improvviso.

Si tira di nuovo su, si volta, raggela.

Un uomo giace nel suo stesso sangue, la testa mozzata di netto dal collo, i bulbi oculari vuoti invasi dai parassiti, una scritta marchiata a fuoco sulla fronte.

Assassino.

Soltanto allora pensa a guardarsi intorno nel suo nuovo mondo.

 

 

«Gli uomini hanno dimenticato che ad ogni colpa risponde una pena. Ma noi abbiamo il diritto di ricordarglielo. Noi possiamo tutto.»

«Noi siamo gli dei.»

 

 

Vede una donna, riversa in un fango infuocato, le mani strappate dai polsi, i tendini e i muscoli screpolati dal soffio rovente del vento.

Ladra.

Vede un vecchio, il corpo per metà conficcato nella dura terra, la gola squarciata, le corde vocali recise nel rosso del sangue che sgorga a fiotti.

Spia.

Vede una giovane, spogliata di panni e di ossa, le membra flaccide in un lago scarlatto, la pelle nuda esposta alla lussuria ultima dei vermi.

Puttana.

Vede tutto questo, vede che il paese delle meraviglie è costellato di cadaveri. Ma non ha paura, no, non ce n’è motivo. Perché c’è ancora la sua voce che la chiama, con le sue promesse e le sue speranze.

Lui l’aspetta.

 

 

«Vieni con me, dolce dea.»

 

 

E lei riprende a correre, tranquilla, fiduciosa.

È il paese delle meraviglie.

È il suo dio che la vuole con sé.

È la loro missione purificatrice.

Per ripulirsi dal marcio, bisogna tagliar via il marcio.

 

«Light-san…»

 

La sua luce; dov’è, la sua luce?

Lo vede stagliarsi contro il tramonto dissanguato. Splendido come solo un dio della morte può essere.

[La morte distruttrice e creatrice. La luce distrugge il buio e genera altra luce.]

E lui la guarda, le sorride, tende la mano.

Avvicinati, Kairi-chan. Puoi toccarlo. Puoi avere il suo mondo. Puoi credere alla sua promessa.

Almeno finché lui avrà bisogno di te.

Ma quando la consapevolezza giungerà, piccola ingenua del paese delle meraviglie, anche le tue saranno lacrime di sangue.

[…]

E la lacrima cade già, portatrice di comprensione e pentimento – ma il fuoco e l’acqua e la luce la distruggono in silenzio.




Il paese delle meraviglie non esiste.

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Capitolo 4
*** [#6] 101 Dalmatians ***


Quarto capitolo: uno dei pairing che mi hanno convinta di più. E dire che è stato l’ultimo a venirmi in mente! ^^

All’inizio, giuro, non avevo la più pallida idea di come rendere questo prompt – ma poi ho pensato che i cuccioli sono tra le cose più dolci del mondo, perciò potevo giocare su questo aspetto. Ah, e spero che mi capirete se ne ho inseriti soltanto 15 (come all’inizio del film) invece di 99! x’D

I miei ringraziamenti più commossi – e fradici di lacrime, direi xD – a Rein94 [guarda, io davvero non ho più parole per esprimerti la mia gratitudine. Ogni volta che leggo una tua recensione mi vengono i lacrimoni, non scherzo *////*] e Dany92 [non so più come ringraziare neanche te! E sai che dico sul serio! ^////^]… E un Grazie megagalattico anche a tutti coloro che leggono, e a chi inserisce la raccolta tra i preferiti/seguiti, come te, dragon ball z! ^^

Buonissima lettura!

[Nota: I nomi dei cuccioli non corrispondono a quelli del film; o meglio, alcuni li ricordavo da lì (come nel caso di Lucky, ovviamente) ma almeno uno dovrebbe essere inventato di sana pianta. ;P]

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

*A few simple fairytales*

 

 

Prompt: #6. 101 Dalmatians

Personaggi: Zexion [Kingdom Hearts], Sayu Yagami [Death Note]

Genere: Introspettivo, Romantico

Rating: Verde

Note: AU

 

 

 

 

 

Fuori pioveva incessantemente.

Zexion era seduto a leggere sul tappeto, davanti al caminetto acceso. Il susseguirsi dei lampi alle finestre del soggiorno faceva da piacevole sottofondo alla sua solitudine. Starsene ore ed ore in quella casa perennemente vuota ad ascoltare il suono dei temporali: era ciò in cui si era sempre ritrovato; era l’atmosfera raccolta, tranquilla e burrascosa perfetta per lui.

Peccato che quella sera le cose fossero destinate ad andare diversamente.

All’ultimo eco di tuono si sovrappose uno squillo di campanello.

Sollevò lo sguardo, sorpreso. Un’ombra scura si stagliava al di là del vetro smerigliato della porta, sulla veranda.

Chi poteva essere tanto impaziente di vederlo da presentarsi a casa sua con quel tempo impietoso?

Stava quasi per decidersi ad ignorare l’intrusione e riprendere a leggere come se nulla fosse, quando l’ombra si mosse, svelando un inconfondibile profilo femminile dai capelli raccolti dietro la nuca.

Avrebbe dovuto immaginarlo.

Il campanello trillò di nuovo, più insistentemente.

Zexion chiuse gli occhi. Cercò di farsi forza.

Il campanello impazzì del tutto.

Con una mezza intenzione di andare lì a staccarlo definitivamente dal muro, chiuse il libro, tenendo un dito tra le pagine come segno, si alzò e si diresse malvolentieri alla porta d’ingresso.

Come previsto, si ritrovò a guardare dall’alto in basso una ragazzina euforica che ormai conosceva bene

{ una delle persone più [irresistibilmente] irritanti che avesse mai conosciuto }

e che spesso e volentieri costituiva il disturbo maggiore al suo mondo silenzioso, irrompendo a forza dentro casa sua proprio in quei momenti in cui lui preferiva estraniarsi. Momenti come quello.

«Ciao, ZexionSayu agitò allegramente una mano in segno di saluto. Era zuppa di pioggia dalla testa ai piedi, ma non sembrava dare alcun peso a quel dettaglio. «È qui mio fratello?»

«No, Yagami-sanZexion si ritrasse appena dalla soglia, aprendo un po’ di più l’uscio, in un gesto di forzata cortesia. «Se n’è andato un’ora fa.»

«Oh…» La ragazza non sembrava affatto delusa. Come se farsi mezzo miglio a piedi sotto la pioggia battente e poi incappare in un nulla di fatto non la toccasse minimamente. «Capisco. Beh, fa niente…» Si circondò il ventre con le braccia e rabbrividì, sorridendogli con aria di scusa. «Posso entrare solo un secondo?»

Zexion scorse con gli occhi i suoi vestiti bagnati, la gonna grondante acqua sulle ginocchia nude arrossate dal freddo. Trattenne una scrollata di spalle; invece si tirò ancora più indietro, senza rispondere.

Il sorriso si fece più ampio. «Grazie, Zexion-kun

Mentre gli passava accanto, poté sentire il suo profumo leggero misto all’odore della pioggia.

Chiuse la porta sul rumore di un nuovo tuono, e tornò a sedersi al suo posto.

Sayu si avvicinò al caminetto e si lasciò cadere in ginocchio, le mani tese verso la fiamma. Sospirò di piacere.

«Ci voleva proprio…»

«Te ne sei andata in giro senza ombrello, Yagami-san?» chiese Zexion, con soltanto un vaghissimo interesse nella risposta. Aveva già riaperto il libro alla pagina giusta.

Stranamente, la ragazzina non rispose. La sbirciò di sottecchi, e lei sfuggì subito ai suoi occhi.

Silenzio assoluto e sguardo sfuggente? Da parte di Sayu? Qualcosa non andava.

Pochi secondi dopo, sentì che si schiariva nervosamente la voce.

«Ehi, Zexion

«Mh

«Da quanti anni ci conosciamo?»

Aveva sollevato gli occhi bruni [quel mare di cioccolata calda e dolce in inverno] e ora lo guardava con una punta di ironia.

Zexion ricambiò lo sguardo, perplesso. Che razza di domanda era?

«Quasi dieci, credo» si ritrovò a rispondere.

Tanto era datata la sua ‘amicizia’ con il fratello di lei – o meglio, quella strana affinità che avvicina due persone che in altri momenti e in compagnia di chiunque altro preferirebbero starsene da sole. Magari a leggere nella bufera.

La ragazza sorrise, più apertamente.

«E dopo dieci anni, mi chiami ancora Yagami-san

Era un’affermazione, non una domanda. Ed era vero.

E lo sapevano entrambi, il perché.

Contrariato, Zexion preferì ricorrere a quello stesso perché: al suo isolamento, alla sua incapacità di instaurare un contatto col mondo esterno. E tornò semplicemente al suo libro.

Quel che faceva sempre quando il tocco gentile della mano tesa di Sayu Yagami gli faceva paura.

Il silenzio durò ancora a lungo. Con la coda dell’occhio, poteva vederla muoversi impercettibilmente verso di lui, tenendosi sempre vicina alla fonte di calore. Per poco non sorrise. Tra lui e quel fuoco, in realtà, c’era un mondo di distanza.

[Tra lui e lei, anche.]

«Zexion-kun

Non alzò neppure lo sguardo. «Cosa, Yagami-san

«Vuoi ancora sapere dove ho lasciato il mio ombrello?»

‘Lasciato’? Tornò a guardarla. Adesso era più vicina, e il suo visetto di ragazzina era acceso dal riverbero delle fiamme.

Sembrava quasi che stesse arrossendo.

Continuò a scrutarla in silenzio, finché lei non gli si aggrappò al braccio, strappandogli un sussulto.

«Non ero venuta a cercare mio fratello… Mi serve il tuo aiuto, Zexion. Non potevo chiedere a nessun altro…» Chinò il viso. «Non volevo chiedere a nessun altro.»

Non l’aveva mai vista così imbarazzata. Lei di solito era quella allegra, quella che nessuno riusciva a frenare. Era per questo che cercava disperatamente di tenerla lontana, dannazione. [Perché non si rendeva conto di quanto gli fosse attraente e inaccessibile il suo mondo.]

E poi, di colpo, senza aspettare parole da lui, Sayu si sollevò di scatto e corse di nuovo alla porta.

«Aspettami qui.»

Sparì fuori nella pioggia.

Zexion non ebbe il tempo di chiedersi cosa diavolo le fosse preso. Sentì la sua voce, da qualche parte sotto il portico, rivolgersi dolcemente a… A chi?

E dopo meno di un minuto, lei tornò, un ombrello gocciolante agganciato al braccio ed una grossa scatola di cartone tra le mani. Sorrideva.

«Ecco perché non potevo reggere l’ombrello.»

Lui si limitò a sollevare un sopracciglio. Ne sapeva quanto prima.

Sayu si fece improvvisamente timida. Si fermò per un istante a qualche passo da lui; poi raddrizzò le spalle, prese un bel respiro e lo raggiunse ancora davanti al fuoco.

Posò delicatamente la scatola a terra… E prima di vederne il contenuto, Zexion sentì un lieve uggiolio.

Un musino curioso spuntò dalla scatola e puntò due minuscoli occhi neri nei suoi.

Zexion fissò Sayu, attonito. Lei arrossì – stavolta era palese – e concentrò la sua attenzione su un punto anonimo del tappeto.

«Li ho trovati fuori da un bar in centro. Qualche idiota deve averli abbandonati. Non potevo lasciarli lì a morire di freddo.»

Li? Averli? Lasciarli? …

Guardò di nuovo la scatola. Uno, due, tre, quattro, cinque… Quindici cuccioli minuscoli, gli occhi ancora semichiusi dal recente arrivo nel mondo, se ne stavano rannicchiati gli uni sugli altri. Alcuni erano immobili, altri tremavano. Sembrava un miracolo che fossero ancora vivi. Ma, in nome del cielo, se erano troppi.

«… Yagami-san…»

La ragazza prevenne ogni sua obiezione.

«Non ti sto chiedendo di tenerli! Hanno solo bisogno di un posto dove passare la notte!» La sua voce si ruppe, gli occhi si fecero lucidi. «Non posso tenerli da me, la mamma è allergica. E al fratellone non piacciono gli animali, sai. Ho pensato a te perché tu…» S’interruppe, imbarazzata.

Zexion abbassò lo sguardo. Già, non c’era bisogno che lei proseguisse. Sapeva bene perché la ragazzina era venuta da lui.

 

[ «Zexion-kun, il fratellone non c’è. Mi aiuti a fare i compiti?» ]

[ «Zexion-kun, mi spieghi cos’è il teorema di Pitagora?» ]

[ «Zexion-kun, cosa stai leggendo?» ]

[ «Zexion-kun?» ]

[ «Zexion-kun?» ]

[ … ]

 

Lui non le aveva mai detto di no.

E si malediva per questo.

Sayu non disse altro, ma dovette interpretare il suo silenzio neutro in modo positivo. Lentamente, portò le mani alla scatola e prese pian piano il primo cagnolino, quello che aveva salutato la comparsa di Zexion nella sua prima visione della vita.

«Ciao, cucciolo.»

Alzò gli occhi in tempo per vederla sorridere al microscopico animale e strofinare il naso contro il suo.

«Sei dolcissimo! Vediamo, ti chiamerò…» S’illuminò in volto. «Zolletta! Che ne dici, ti piace Zolletta? È adorabile come te, vero?»

Poi lo adagiò con delicatezza sul tappeto, accanto a sé, in modo che il caminetto acceso potesse trasmettergli un po’ di tepore. Il cucciolo sembrò subito meno spaurito; posò il muso sulle zampine e socchiuse gli occhi, beato – ricordando a Zexion il sospiro di piacere della ragazza, poco prima.

Sayu ripeté la scena con tutti gli altri cuccioli.

Zexion aveva ancora il libro aperto, e ci provò pure, a riprendere la lettura [a ignorare quella cosa così fastidiosamente dolce] – ma non ci riuscì.

«Misurino… Domino… Dotty…» Una risata argentina. «Oh, il tuo caso è facile: Spruzzetto…»

«Non credi che sia un po’ immaturo dargli dei nomi?»

La ragazza alzò la testa, sorpresa. «Immaturo?»

Forse non avrebbe dovuto dirlo. Ma non era riuscito a trattenersi. Si strinse nelle spalle, rifugiando di nuovo lo sguardo sulla stessa pagina.

«Quando dai un nome a una cosa, ti ci affezioni.»

Lei non disse nulla. Zexion era quasi certo di averla offesa, e già lottava con il senso di colpa [senso di colpa? Che assurdità] che gli saliva lento dallo stomaco alla gola. Ma quando Sayu parlò di nuovo, il dolore che sentì nella sua voce convinse Zexion di non poterne essere l’unico responsabile.

«Cucciolo? Cucciolo, dai, svegliati…»

Alzò gli occhi dal libro.

La ragazzina teneva l’ultimo cagnolino in grembo, e sfregava le mani sul pelo bianco di quel corpicino spento. Zexion lo osservò e vide che era immobile; neppure il movimento di un respiro. Il freddo del temporale doveva aver avuto la meglio su di lui.

Le mani di Sayu si fermarono, il suo viso si intristì, e una lacrima scese lentamente a sfiorare il cucciolo. Una lacrima seguita da molte altre.

Zexion rimase a guardare i singhiozzi della ragazza per qualche lunghissimo istante, chiedendosi come si potesse essere tanto sensibili, tanto spudoratamente di buon cuore. Tanto diversi da lui.

Eccolo lì, il mondo di distanza.

E poi fece l’unica cosa che mai si sarebbe aspettato di fare: seguì l’istinto.

Chiuse il libro e lo posò sul divano alle sue spalle. Strisciò accosciato fino a Sayu, scostò gentilmente la sua mano [piccola, fredda] e prese il cucciolo tra le sue.

Sayu lo guardò, e la sorpresa vinse sulle lacrime.

Zexion si concentrò su quell’esserino indifeso che aveva visto troppo poco del mondo e ne ascoltò il battito. Era debole, debolissimo. Ma con un po’ d’aiuto, avrebbe potuto vedere qualcosa in più.

Incrociò le gambe, tenne il cucciolo sul palmo e con l’altra mano iniziò a scaldarne la pelle ghiacciata.

Sayu smise del tutto di piangere e rimase in silenzio al suo fianco.

Un silenzio che, di nuovo, durò a lungo, interrotto solo di tanto in tanto dallo scoppiettio di una scintilla nel fuoco e dalle gocce incessanti che ancora colpivano le finestre.

Passarono i minuti. Zexion sentiva la mano intorpidita implorare il riposo, ma non si fermò mai.

E proprio quando cominciava in cuor suo a cedere, il petto minuto e ormai tiepido sotto le sue dita si gonfiò improvvisamente di ossigeno, e la testolina bianca si mosse, in cerca forse di una posizione migliore.

Sayu trattenne il fiato.

«Zexion-kun… Ce l’hai fatta!»

Zexion sollevò il quindicesimo cucciolo all’altezza dei propri occhi, incerto, ed incontrò il suo sguardo vivo e curioso.

«No» mormorò, «lui ce l’ha fatta.»

La ragazza rise, sollevata. Quel riso era il suono più piacevole che si fosse sovrapposto al silenzio.

[Più della pioggia.]

Si voltò e le tese il cagnolino, ma lei non lo prese; lo circondò soltanto con le mani, lasciandolo nelle sue, così che le loro dita quasi si intrecciarono.

Zexion la guardò in viso, sorpreso dal contatto.

«Dagli tu un nome, Zexion-kun

Lui guardò di nuovo il superstite. Con la punta di un dito sfiorò il musetto candido come la neve.

Gli sfuggì un sorriso.

«Lucky

Sayu lo ripeté, come assaporando il suono.

«Lucky.» Sorrideva ancora, anche lei. «È un bel nome.»

Zexion sollevò di nuovo lo sguardo verso il suo, e per un attimo annegò nella cioccolata calda.

Calda e dolcissima.

 

Poco più tardi, mentre i quindici sopravvissuti ronfavano silenziosi, in fila davanti al caminetto, vide Sayu nascondere uno sbadiglio dietro la mano.

«Forse dovrei tornare a casa…» Non staccava gli occhi dai cuccioli. «Però… mi dispiace lasciarli. Mi sento un po’ responsabile di loro.» Lo guardò con un mezzo sorriso. «Ora tu ed io siamo… siamo un po’ come due genitori, no?»

Zexion la fissò di rimando – augurandosi fortemente che la luce del fuoco nascondesse il suo rossore.

Sayu soffocò un altro sbadiglio. Accarezzò distrattamente Lucky, che si teneva ancora vicino al grembo, guardando sonnolenta le fiamme.

«Sì, dovrei proprio andare…»

Zexion si morse il labbro.

Non poteva impedirselo.

«Puoi restare, se vuoi.»

Lei spalancò gli occhi, improvvisamente radiosa.

«Davvero?»

Annuì. Non c’era bisogno di parole. Lui era fatto così.

[Soprattutto con lei.]

Sayu sorrise. Senza una parola, senza neppure allontanarsi dai cuccioli, si protese sul fianco e gli stampò un bacio su una guancia.

Zexion spalancò gli occhi, ma non si ritrasse. Non sentì il bisogno di estraniarsi, stavolta.

Forse il mondo di distanza stava diminuendo i suoi confini.

La ragazza si strinse al petto Lucky e si accoccolò sul tappeto accanto a lui, appoggiandosi appena alla sua spalla, i suoi capelli scuri a solleticargli il collo.

«Buonanotte, Zexion-kun

Abbassò lo sguardo su di lei. Aveva già chiuso gli occhi. Sorrideva, serena come una bambina. Le rispose in un bisbiglio.

«Buonanotte, Sayu-chan

Era sicuro che lo avesse sentito.

Lucky si scrollò, assonnato, trotterellò per un po’ sul grembo di Sayu e poi venne ad accucciarsi sulle sue gambe.

Zexion salutò il suo arrivo con una carezza esitante, mentre si sfiorava il punto in cui aveva sentito le labbra di Sayu.

Fuori non pioveva più.

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Capitolo 5
*** [#2] The Little Mermaid ***


Quinto capitolo. Confesso che è stata un’impresa scriverlo. Innanzitutto perché all’inizio avevo immaginato un pairing diverso (Near x Xion, che ho poi scartato, probabilmente perché odio Xion e la odierei ancora di più se “circuisse” quel cucciolo incompreso di Near è__é x’D); in secondo luogo, perché ho dovuto modificare davvero molto della trama originale del film prescelto. Spero anzi di non aver combinato disastri. u.u

Per certi versi, questo capitolo potrebbe essere considerato un eventuale seguito di “#3. Alice in Wonderland”. Detto questo, non è che mi convinca poi molto, il che mi dispiace da morire perché ci tenevo moltissimo a questo pairing: coinvolge i miei due personaggi preferiti tra quelli trattati finora… ç__ç Beh, spero comunque che vi piaccia, anche se è scritto in modo un po’ confuso.

Ringrazio come sempre tutti i miei meravigliosi lettori! *-* E per le recensioni:

Rein94: x’D Hai ragione, è stato un po’ avventato far restare Sayu a dormire da Zexion nello scorso capitolo… Sono così perversa a volte! >w< xD Per quanto riguarda Mello, beh, l’idea che lo coinvolge c’è… Vedremo cosa ne verrà fuori! ^^ Un milione di grazie, sei sempre dolcissima!

Dany92: Ma non sei affatto monotona nei tuoi commenti, Dany-chan, anzi! Ogni volta mi fai emozionare come se fosse la prima… E guarda che dico sul serio! *////* Non so come ringraziarti. Un bacione enorme!

Vi lascio al capitolo. Buona lettura! :)

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

*A few simple fairytales*

 

 

Prompt: #2. The Little Mermaid

Personaggi: Naminè [Kingdom Hearts], L [Death Note]

Genere: Introspettivo, Drammatico

Rating: Giallo

Note: AU (vale solo per Naminè)

 

 

 

 

 

Acqua. Tanta acqua.

Non riusciva a vedere altro. Sopra e sotto di lei, dentro e fuori di lei. Acqua scura e fredda.

Non riusciva a sentire nulla, se non che il suo posto era quello.

E vi si lasciava andare senza opporre resistenza. Il suo posto era quello.

 

 

Si svegliò dopo molto tempo [una vita? un secondo?] e la prima sensazione che la colpì fu quella dell’asciutto.

Dov’era la sua acqua? Dov’era il suo mondo? Non era lì che doveva stare. Non era quel profumo di lenzuola calde che doveva sentire, ma l’odore pungente del salmastro. Non era il ritmo lento del suo respiro che doveva scuoterla, ma il movimento ipnotico dei flutti.

Là – dovunque fosse quel ‘là’ – non era il suo posto.

Dove mi hanno portata?

Aprì gli occhi.

Dopo l’asciutto, fu il colore. Un bianco immacolato si distendeva a perdita d’occhio davanti al suo sguardo. Le ci volle qualche istante per capire di essere distesa sotto il baldacchino candido di un letto sconosciuto ed immenso.

Anche questo era sbagliato. Lei voleva il blu del cielo lontanissimo che si specchiava nell’acqua. Non quel bianco, non quel letto.

Si mosse con estrema lentezza. Ricordò di avere due mani e se le portò al petto, stringendo piano le dita attorno al lenzuolo. I piedi nudi scorsero sul materasso morbido. Che cos’aveva indosso? Una vestaglia?…

«Ben svegliata.»

La voce arrivò improvvisa. Le fece anche un po’ paura. Voltò il capo sul cuscino, finché poté vedere la persona seduta accanto al letto.

A prima vista si sarebbe detto un ragazzo normalissimo. Occhi e capelli neri, pelle chiara, qualche anno più di lei. Ma ad un’occhiata più attenta si potevano intravedere mille piccole stranezze, mille sfaccettature inusuali, che per qualche motivo glielo rendevano simpatico, così, a pelle. Ad esempio il modo in cui se ne stava appollaiato sulla poltroncina in cuoio bianca. O il leccalecca gigante, di quelli che i bambini guardavano con occhi sognanti, appoggiato alle labbra nascoste al suo sguardo. O anche il modo attento e gentilmente curioso in cui la guardava.

Io non sono me. Non sono quella che ricordo di essere.

Sono una principessa, mi sono appena svegliata, ed un principe che vuole conoscere la mia storia aspetta che io gliela racconti.

Che pensiero buffo. Di certo aveva dormito molto.

[ Prova ne era che aveva ancora voglia di sognare. ]

Il ragazzo dagli occhi neri scostò appena il leccalecca e parlò di nuovo.

«Sei qui da poche ore. Cominciavo ad essere curioso.»

Lo guardò interrogativamente – più per il desiderio di capire dove fosse quel ‘qui’ piuttosto che di conoscere il motivo della sua curiosità. Ma lui rispose soltanto al secondo perché. Inclinò la testa e allontanò ancora di più il dolce, portandosi un polpastrello al labbro inferiore.

«Curioso di vedere i tuoi occhi.»

Lei non reagì in alcun modo. Continuò a guardarlo dal basso del cuscino, respirando l’odore caldo di quel letto non suo e lasciando che la mente riaffiorasse a poco a poco alla realtà.

Niente da fare. Vedeva soltanto acqua.

Perché il principe mi ha strappata all’acqua?

Avrebbe voluto chiederglielo. Avrebbe voluto saperlo fare, aprire la bocca e far uscire le parole. Ma non ci riusciva. Forse non c’era abituata. In acqua non c’è bisogno di parlare.

Lui proseguiva silenzioso il suo esame, osservandola con un’intensità quasi invadente. Concentrato sul suo viso, sui suoi occhi, come alla ricerca disperata di qualcosa.

[ Anche lui. ]

Alla fine aggiunse solo un’ultima parola.

«Riposa.»

Lei non voleva riposare. Lei voleva il suo mondo. Lo voleva indietro. Perché non poteva avere altro.

Eppure non riuscì a non seguire quel consiglio. Sentì le palpebre chiudersi, e il fruscio silenzioso dell’acqua calarle addosso dalla mente stanca.

La presenza del ragazzo restava lì, al margine del suo dormiveglia.

 

 

Poche ore, le aveva detto. Poche ore trascorse a dormire tra quelle lenzuola bianche e calde e asciutte, lontana da ciò cui apparteneva.

Prima di allora – prima dell’acqua – non ricordava nulla [di piacevole].

Si svegliò di nuovo, e questa volta si guardò intorno più a lungo nella stanza.

Pareti spoglie, chiare, asettiche. Mobili pochi, e poco vissuti. Una finestra chiusa che aveva l’aria di esserlo sempre stata. Soltanto la poltroncina in cuoio bianca sembrava corrotta da un uso prolungato. Ma era difficile notarlo: il ragazzo dagli occhi neri vi era ancora appollaiato sopra.

Non parlava, il ragazzo, come se volesse lasciarle il tempo di osservare il suo mondo. Senza chiederle come fosse quello da cui veniva lei.

Non parlava, limitandosi a sfiorarsi il labbro con il dito e a girare incessantemente il cucchiaino in una tazzina da tè colma fino all’orlo, posata sul bracciolo della poltroncina accanto ad una scatola di zollette di zucchero.

Non parlava e non pretendeva neppure che lei parlasse.

Forse l’hai capito che non volevo essere svegliata, principe.

 

 

Il primo giorno fu così; lungo e silenzioso. Si guardarono in silenzio e in silenzio lasciarono aleggiare in sospeso le domande.

Il secondo giorno il ragazzo continuava a non parlare, ma posò sul comodino accanto a lei un blocco di fogli bianchi e una scatola di colori.

Il terzo giorno, lei era seduta contro la testiera del letto, e i fogli bianchi erano pieni dell’azzurro dell’acqua.

 

 

«Sei brava.»

Il ragazzo la guardava dalla sua solita posizione. Erano le prime parole che le rivolgeva da molto tempo, dal momento in cui si era svegliata e l’aveva trovato ad aspettarla tranquillo in quel posto troppo asciutto.

Lei tenne gli occhi bassi e continuò a stendere l’azzurro sull’angolino del foglio. Questa volta non era un oceano, ma un lago; una distesa circoscritta dai limiti del foglio ma immensa [accogliente] nelle sue intenzioni. Il pastello era ormai un pezzo di legno consunto; ma era anche l’unica cosa, nell’asciutto, a poterla riavvicinare alla sua acqua.

Poi il ragazzo fece una cosa che non aveva mai fatto prima davanti a lei. Si alzò.

Sollevò lo sguardo, curiosa. Lo aveva sempre visto lì, quando si addormentava e quando si risvegliava, fermo sulla sua poltroncina di cuoio con un qualche immancabile dolce in mano. Ora che lo vedeva in piedi le sembrava diverso.

[ Uguale a tutti gli altri. ]

Ma c’era ancora qualcosa di lui nella sua postura, nelle spalle incurvate e nel capo chino; c’era lo stesso ragazzo strano che si sedeva sui talloni e si tormentava il labbro con il dito. C’era lo sconosciuto dai silenzi interminabili e gli sguardi insostenibili.

«Ti senti meglio, adesso?»

C’era il principe che senza il bisogno di alcuna parola aveva capito quanto lei fosse stata male.

Lo guardò a lungo, incerta. Non aveva ancora modo di rispondergli. Non voleva, o non ci riusciva. Sollevò lentamente le spalle.

Il ragazzo annuì, come se capisse. E probabilmente era proprio così.

All’improvviso le voltò le spalle e camminò in modo buffo verso la finestra alla parete opposta rispetto al letto. La raggiunse, si fermò e creò uno spiraglio nella pesante tenda di tessuto bianco. Uno spiraglio appena – ma sufficiente a scarcerare un filo di luce rossastra che lei identificò come un tramonto.

Il ragazzo parlò senza guardarla. Era la prima volta che lo faceva.

«C’è una cosa che vorrei tu vedessi.» Una breve pausa. «Se ti senti sufficientemente in forze da uscire.»

Lasciò cadere di nuovo la tenda sulla luce e si voltò a guardarla.

E lei, semplicemente, come al primo sguardo, si fidò del suo sguardo.

 

 

Mosse quei passi come se fossero i primi di tutta la sua vita. E forse era proprio così. In acqua non c’è bisogno di camminare.

Percorse lenta la stanza bianca in cui aveva trascorso quei [primi?] tre giorni nel mondo asciutto; accanto a lei, tanto vicino da poterla sostenere e tanto distante da poterla lasciare a se stessa, il ragazzo seguiva attento i suoi passi.

Fuori dalla porta, lungo un corridoio, giù per le scale. Il mondo del ragazzo le scorreva intorno, silenzioso e bianco, e lei pensò che era davvero il posto adatto a lui.

[ Ma a lei no. Lei apparteneva all’acqua. ]

Quando il ragazzo aprì la porta che la separava dall’esterno e dalla sua luce di sole al tramonto, istintivamente chiuse gli occhi.

«Non avere paura.»

Una frase sicura, limpida. L’aveva sussurrata piano, ma con il tono di chi se rassicura qualcuno è perché vuole farlo davvero.

Aprì gli occhi e continuò a seguirlo.

Fuori da quella costruzione che dal di fuori le sembrò un posto per anime confuse, e giù per un pendio dolce ed erboso, fino a che lo sguardo poté spingersi su quella stessa immagine che lei aveva trasfuso più e più volte sui fogli bianchi. Uno specchio d’acqua pura.

Il lago che aveva disegnato poco prima.

Per la prima volta in quei tre giorni, fu invasa da mille emozioni che la fecero sentire davvero viva. Rivisse tutto con chiarezza.

E l’ossigeno la soffocò.

 

 

 

«Che hai, piccola?»

«Mi sono persa.»

Lei si era persa, letteralmente. Aveva smarrito la coscienza di se stessa.

Era solo una bambina quando i suoi genitori erano rimasti uccisi in un incendio. A partire da quel momento, lei e sua sorella erano state perennemente sole e in balia degli eventi. Esposte alla crudeltà di quella domanda indifferente posta da una classica persona sconosciuta.

Sua sorella. La ragazza coraggiosa, la ragazza positiva. Così diversa da lei.

Le si era attaccata in ogni modo possibile, si era abbandonata alle sue cure e al suo modo di vedere colorate le cose anche quando intorno infuriava la tempesta. Perché se era vero che lei era la più saggia, la più assennata, lei era anche la più debole.

Non si va da nessuna parte, con la sola saggezza. Quando non hai coraggio non vivi. Esisti, soltanto.

Kairi no. Lei viveva. Per questo motivo era la sua ancora.

Per questo motivo, quando aveva perso anche lei, era rimasta spezzata.

 

«Non andare. Ti prego, non andare!»

«Devo farlo, Naminè

«Ma perché non riesci a capire…

«Sei tu che non capisci. Io so chi è! Devo dirlo alla polizia!»

«Ti ucciderà

L’aveva guardata, una determinazione incrollabile negli occhi azzurri identici ai suoi.

«Meglio morire, che sottostare alle leggi di un mostro.»

Si era voltata, incurante delle sue lacrime inutili, e aveva camminato sotto la pioggia fino al suo incontro con la giustizia.

Che era venuta per mano sbagliata.

 

Quella era stata l’ultima volta che aveva visto sua sorella.

Due lunghissimi, eterni giorni dopo, un gruppo di uomini l’aveva raggiunta e con poche parole senza senso aveva cercato di liquidare una vita senza fare troppo male alla ragazzina sopravvissuta.

Con loro c’era anche un ragazzo dai capelli neri, ma lei non era riuscita a guardarlo in faccia.

 

Li vedeva ancora, sulla collina che sovrastava il lago, raccolti insieme a decidere del suo futuro.

Li vedeva ancora, mentre i suoi piedi nudi sfioravano l’acqua fredda.

 

[ Meglio morire, che sottostare alle leggi di un mostro. ]

[ Meglio morire, che non avere coraggio. ]

[ Meglio morire, che restare soli. ]

 

L’acqua la chiamava a sé, illusione di pace, promessa di silenzio. Era tutto quello che lei desiderava: silenzio. Silenzio e liberazione da quella maledetta voce interiore che continuava ad urlarle addosso quelle accuse, ad urlare con la voce di Kairi.

Aveva mosso un passo, poi un altro, e un altro ancora.

Si può desiderare di morire a quindici anni?

[ Sì, forse sì. ]

Non poteva avere altro che questo. Non meritava nulla di diverso.

E quando non riuscì a vedere altro che acqua, sopra e sotto di sé, dentro e fuori di sé, acqua scura e fredda – non sentì più nulla, se non che il suo posto era quello.

E vi si lasciava andare senza opporre resistenza. Il suo posto era quello.

 

 

 

Tornò al presente, aprì gli occhi e si ritrovò abbandonata ed ansante sulla sponda del lago.

L’acqua, la stessa acqua in cui aveva cercato rifugio e conforto, compassione e assoluzione, era incendiata dal tramonto. Non aveva più l’aspetto rassicurante di quel pomeriggio non troppo lontano. Ora sembrava solo un inferno simile a quello che aveva devastato la sua mente e ogni sua forza di volontà.

L’erba le pungeva sotto le mani e sulla pelle, vincendo la resistenza leggera della vestaglia che si era ritrovata addosso. Era caduta in ginocchio. Alle sue spalle avvertiva ancora la presenza del ragazzo dagli occhi neri.

Mi ricordo di te, principe.

«Non è quello il modo di sfuggire al dolore.»

Di nuovo la sua voce bassa, ferma. E poi una cosa nuova. Il tocco leggero, quasi esitante, di una mano sulla spalla.

Ancora prigioniera del suo mutismo, si voltò in tempo per vederlo accosciarsi al suo fianco.

Per una volta, c’era una traccia di impaccio nelle sue iridi buie. Come se quel contatto sorprendesse lui per primo.

Mi hai salvata tu, principe.

«Lasciale scorrere.»

Non ebbe bisogno di chiedere per sapere a cosa si riferisse.

E le lasciò scorrere, e loro caddero dai suoi occhi con la forza della disperazione e degli innocenti che per troppo tempo hanno sognato l’evasione. E con le lacrime vennero i singhiozzi e con i singhiozzi vennero i ricordi. E uno ad uno, la uccisero di nuovo.

 

«Fa tanto male, Kairi…»

«Siamo insieme, sorellina. Finché saremo insieme, niente potrà mai fare male.»

 

Morì mille volte, e mille volte peggio di come sarebbe potuta morire in quel lago, mentre le lacrime le incidevano la pelle lasciando il dolore dei ricordi e dei rimpianti a germogliare dentro le ferite.

Morì mille volte e mille volte rinacque, perché la mano ampia del ragazzo dagli occhi neri riuscì sorprendentemente a sciogliere il ghiaccio dell’acqua del lago.

Mi hai salvata di nuovo, principe.

 

[…]

 

«Il tuo nome è Naminè, vero?»

Annuì lentamente.

«Puoi chiamarmi Ryuuzaki. Starai con me per un po’.» La stretta sulla sua spalla si fece di colpo più forte, più salda, accompagnando un velo impercettibile di amarezza nelle parole che seguirono. «Non sei sola, Naminè. Gente come me, abituata a camminare e muoversi dentro al dolore degli altri, lo è. Ma non tu. I tuoi occhi non sono vuoti come i miei; non lo saranno mai, se tu impedirai loro di svuotarsi.»

Forse non era vero. Ma dal modo in cui lo diceva, sembrava impossibile non crederci.

«Rientriamo. Comincia a fare freddo.»

Si alzò e rimase là curvo ad aspettare che lei facesse altrettanto.

Quando ci riuscì, Naminè inspirò più forte l’aria asciutta, augurandosi che stavolta le facesse un po’ meno male.

E alla fine racimolò le forze per esalare un’unica parola.

«Grazie…»

Il ragazzo la guardò, sorpreso, e non si mosse quando lei rifugiò la fronte sulla sua spalla.

[ Sapeva di caldo. Sapeva di asciutto. ]

Forse, dopotutto, non è vero che non volevo essere svegliata.

Forse è solo che stavo aspettando qualcuno che mi tendesse una mano.

Qualcuno che mi aiutasse a respirare.

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Capitolo 6
*** [#7] Beauty and the Beast ***


Santissimo Lawliet, sono in ritardo mostruoso. o__ò

Chiedo umilmente perdono per aver tralasciato questa raccolta così a lungo… Purtroppo ero giunta ad un capitolo su Xion, il personaggio che amo di meno in assoluto (si notava? xD), e mi ci è voluto un po’ per riuscire a scrivere su di lei e soprattutto ad adattarla al prompt. Ad un certo punto ho persino pensato di sostituirla con Naminè, ma alla fine – finalmente – sono riuscita a trovare il collegamento più giusto tra Xion e Belle. Il tema principale di questo film Disney è, al di là dell’amore che non tiene conto delle apparenze, la diversità: una diversità che non riguarda solo la Bestia, ma anche Belle, che si sente quasi un’aliena in quel piccolo villaggio in cui vive. Dunque ho deciso di giocare su questo. Xion è una diversa. E ragionandoci un po’ sono arrivata a scrivere, beh, quello che avete sotto gli occhi.

Per quanto riguarda invece il collegamento tra i rispettivi protagonisti maschili, beh, mi sembra palese. ^^

Ringrazio all’infinito tutti i lettori, come sempre, e rispondo entusiasta alle recensioni:

Rein94: Ma io ti ho già detto che ti adoro? *-* No, perché temo di non saper esprimere quanto ti sono grata. Riesci a cogliere esattamente quello che vorrei ma non so mai dire in modo chiaro. Delle due l’una: o il mio stile è meno ermetico di quanto penso, o tu sei una lettrice eccelsamente attenta. :3 Riguardo ai pairing, tranquilla, non devono necessariamente essere visti come coppie – qui ad esempio non c’è assolutamente nulla di romantico xD – tranne in quelle rare occasioni in cui l’aspetto sentimentale è evidente, come la Axel x Misa, per intenderci. ^^ Ancora un trilione di grazie! <3

Dany92: Ma no che non ti trovo monotona! Sei sempre dolcissima *-* Ancora una volta, perdona la banalità, ma non so come ringraziarti! Semplicemente Grazieee! <3

Buona lettura a tutti!

[Credits: Un ponte per Terabithia di Katherine Paterson, Twilight di Stephenie Meyer, Jane Eyre di Charlotte Brontë, Il signore degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien, Al buio di Peter James]

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

*A few simple fairytales*

 

 

Prompt: #7. Beauty and the Beast

Personaggi: Xion [Kingdom Hearts], Mello [Death Note]

Genere: Introspettivo, Malinconico

Rating: Giallo

Note: AU

 

 

 

 

 

La porta si chiuse con uno schianto alle sue spalle, coprendo l’ultimo dei suoi singhiozzi. La biblioteca l’accolse, silenziosa come sempre, persino più del solito. Eppure trattenendo il fiato poteva riuscire a sentire l’eco degli strepiti che si era appena lasciata alle spalle, e che le facevano troppa rabbia per poter essere semplicemente ignorati.

Si asciugò le guance con un gesto stizzito. Certa gente non meritava le sue lacrime. Certa gente andava soltanto vista per quello che era.

Stupide vipere.

Con una scrollata del braccio riassestò sulla spalla lo zaino in cui – dentro al conforto freddo di un gabinetto guasto – aveva cacciato a forza il vestito ridicolo che l’avevano costretta a indossare. Per fortuna non era tornata a casa quel pomeriggio; almeno aveva potuto tenersi nel suo bagno preferito la certezza del suo zaino sfondato e dei cari vecchi jeans.

Era piaciuto anche a lei, quel vestito. All’inizio. E anche a sua madre. Soprattutto, aveva fatto sdilinquire Larxene. Larxene adorava il giallo dorato, ed era stata lieta di vederla indugiare di fronte all’abito più non-da-lei che fosse mai esistito.

«Con questo sei perfetta! Compralo, Xion, ti sta benissimo!»

Sì, le stava benissimo.

Solo che adesso non vedeva l’ora di procurarsi un accendino e di dargli fuoco.

Sospirò; con quei pensieri non si sarebbe certo risollevata il morale. Se aveva abbandonato l’amica toilette per fiondarsi nella biblioteca, un motivo c’era.

Lo ripassò mentalmente mentre percorreva a passi stanchi gli spazi angusti tra gli scaffali.

A Xion era sempre piaciuto leggere. Ogni giorno, prima e dopo le lezioni, varcava quella porta che per fortuna non veniva mai chiusa a chiave, prendeva un libro – uno qualsiasi – in mano, si sedeva sul pavimento scuro e polveroso e [puff!] di colpo non era più lei. Ogni volta diventava una nuova Leslie Burke o Isabella Swan o Jane Eyre o Principessa Arwen. Ogni volta, diventava diversa.

[ Ed era questo il bello. ]

Quel posto che la gente chiamava semplicemente biblioteca, per lei era un mondo a parte. Un mondo in cui viaggiare per ore senza muoversi e un mondo in cui smettere i propri soliti panni anonimi.

E poter indossare senza vergogna un vestito dorato che [altrove] non la rappresentava per niente.

Non l’avrebbe confessato neanche sotto tortura, ma le sue preferite erano le storie romantiche.

Non c’entrava il pudore. Era più una sorta di amarezza – la certezza di essere un’illusa. I ragazzi della scuola erano molto diversi dai Jesse Aarons, dagli Edward Cullen o Rochester, dai Re Aragorn di cui lei puntualmente fantasticava e s’innamorava; nessuno di loro aveva la capacità di guardare oltre, ciò che lei cercava da troppi anni, e che da sempre temeva, e che non aveva mai trovato neppure in quelle che nei momenti più sorridenti riusciva a definire dentro di sé amiche.

Nessuno di loro riusciva a vedere cosa c’era sotto la sua invisibilità.

Col tempo, aveva imparato ad accettare che il blocco sussisteva solo per colpa sua. E a lasciarsi coccolare dalla promesse di carta dei libri.

Quella sera non sarebbe stato diverso. Soltanto un po’ più doloroso, un po’ più triste.

Perché in uno di quei momenti sorridenti c’era cascata ancora.

Terzo corridoio, sezione Horror. Stavolta niente di romantico. Non ne era in vena, ora proprio no.

Raggiunse il primo scaffale e cominciò a scorrere svogliata i titoli sulle coste, alla ricerca del più macabro possibile. Tanto era quello il suo attuale umore. Ne individuò alcuni promettenti, e in quel momento notò che i libri erano accostati in modo strano.

Come se qualcuno li avesse sfilati e poi infilati in fretta al loro posto – forse in preda alla stessa rabbia che animava anche la sua ricerca. Chissà.

Mosse la mano per spingere indietro un volume che sporgeva sul bordo dello scaffale, ma lo fece distrattamente. Il libro scorse fino all’estremità opposta della mensola – dove non c’era un’altra fila di libri a fare da scudo – e cadde dall’altra parte della scaffalatura.

«Ehi!»

Si bloccò al suo posto. Un tonfo sordo e il successivo lamento le avevano suggerito che il libro era caduto addosso a qualcuno – cosa inspiegabile. Chi altri poteva esserci, in biblioteca, proprio quella sera?

Il misterioso malcapitato non aggiunse parole, e lei sentì che la curiosità si sostituiva alla sorpresa.

Stringendosi ancora addosso lo zaino gonfio del vestito dorato, girò intorno allo scaffale e si affacciò sul quarto corridoio.

Seduto a terra, proprio in corrispondenza del punto in cui lei si era fermata dalla parte opposta, c’era un ragazzo. Tra le gambe incrociate sosteneva un libro aperto, mentre quello che lei aveva accidentalmente fatto cadere era ora stretto nella sua mano; sembrava lo stesse scrutando [accusando], ma i capelli biondi e lunghi nascondevano il suo volto alla vista di lei. Nella mano libera stringeva una tavoletta di cioccolato scartata per metà.

«Mi dispiace.» Si sentì in dovere di scusarsi. «Non pensavo che ci fosse qualcuno.»

Il ragazzo sollevò la testa di scatto e la guardò con rabbia.

Lei si sentì gelare.

«Cos’è, sei venuta a vedere il mostro

Uno sfregio indicibile, un’ustione spaventosa gli solcava completamente un lato del viso. Xion sentì l’irrefrenabile impulso di guardare altrove, ma qualcosa trattenne a forza il suo sguardo sulla pelle del ragazzo.

Forse era l’odio che si sprigionava dai suoi occhi, azzurri come i suoi, disperati come i suoi. No. Di più.

Non riuscì ad emettere suono. Lui proseguì, implacabile e sprezzante.

«Allora? Mi hai visto entrare qui dentro e hai fatto una scommessa con le tue amichette? Beh, l’hai vinta. Hai visto il mostro. Cos’è che vinci adesso?»

Si scosse. D’istinto cercò di discolparsi. «Io non ho fatto proprio niente…»

«Certo, immagino tu sia capitata in biblioteca la sera del ballo per puro caso…» Rise. «Davvero credibile. Oppure sei un’emarginata sociale come me.»

 

«Xion, questa sera aspettaci, mi raccomando. Così andiamo al ballo insieme.»

Le aveva aspettate per due ore, impacciata in quel suo ridicolo vestito, sentendosi addosso gli sguardi divertiti dei compagni che la vedevano sola.

Non erano mai venute.

Di sicuro, mentre lei correva a cambiarsi in preda a un pianto rabbioso, Kairi e Larxene se ne stavano in qualche macchina parcheggiata, a pomiciare coi rispettivi ragazzi e a ridere alle spalle di quella povera sfigata che ancora credeva alle cazzate che sparavano.

 

Una rabbia gemella di quella dello sconosciuto s’impadronì di lei.

«Se proprio vuoi saperlo» ribatté, alzando la voce come mai aveva fatto con un estraneo, «hai centrato il punto!»

Lui continuò a sogghignare, l’ironia sempre più crudele nei suoi tratti. «Se è così, allora cos’è che stai fissando?»

Non gliel’avrebbe data vinta.

[ Non anche a lui. ]

Puntò il dito sulla cioccolata che aveva ancora in mano. «Uno che non sa che è vietato mangiare in biblioteca.»

Forse fu sorpreso dalla prontezza della sua risposta. Forse volle soltanto concederle il beneficio del dubbio. Ad ogni modo smise di ridere, e la scrutò come per studiarla.

Xion sostenne ancora il suo sguardo. Questa volta riuscì a non soffermarsi sul segno indelebile del suo odio.

[ Dopotutto, non c’è bisogno di una prova fisica per testimoniare il dolore. ]

Fu di nuovo lui a spezzare il silenzio. «Non ti ho mai vista prima.»

Xion gli restituì il suo stesso sorriso amarissimo. «Evidentemente non sei l’unico tra queste mura a voler essere invisibile.»

[ … ]

L’aveva detto. Quel verbo. Volere. Sì, lei voleva essere invisibile.

Perché almeno standosene nell’invisibilità non si interagiva con il mondo esterno. E non si soffriva.

E oggi andava a confessarlo ad un emerito sconosciuto.

[ Uno come lei. ]

Il ragazzo non disse nulla. Portò la tavoletta di cioccolata alla bocca e staccò un morso, forte.

Dopo qualche istante lasciò cadere sul pavimento accanto a sé il libro che lo aveva colpito, chinò di nuovo il capo e tornò a quello che stava leggendo.

I capelli scivolarono in avanti, si richiusero sulla sua tempia, come un sipario. Tornarono a nasconderlo.

A renderlo invisibile.

Non sapeva neppure lei cosa stesse facendo e perché, ma di colpo si ritrovò a camminare verso il libro abbandonato al suolo.

Si sedette contro lo scaffale, come quell’ignoto compagno, a qualche passo di distanza da lui. Spinse lontano lo zaino e prese il volume.

Peter James. ‘Al buio’. Mai titolo era stato più appropriato.

Distese le gambe, posò il libro contro le ginocchia e lo aprì, relegando in un angolo della mente le facce di Kairi e Larxene e le loro belle parole che per quanto udibili e tangibili non erano mai vere quanto quelle stampate sui libri.

Per un attimo pensò che il ragazzo l’avrebbe respinta ancora. Invece, il suono lontano del ballo della scuola sottolineò il silenzio tra i due invisibili.

[ … ]

[ … ]

[ … ]

Prima di andarsene, lui le disse una cosa strana.

«Magari al prossimo ballo ci ritroviamo in biblioteca.»

Lei sorrise. Stavolta non era un sogghigno amaro.

«Magari sì.»

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Capitolo 7
*** [#4] Sleeping Beauty ***


Rullo di tamburi, siore e siori: state per leggere l’ultimo capitolo.

Mi scuso subito per due motivi. Il primo è il nuovo spaventevole ritardo; ma vi prego di credere che, accademia a parte, la vera responsabile è la mia baka connessione che se n’è andata allegramente a farsi friggere (in questo momento sto aggiornando dal pc di mia cugina: ringraziate lei se mi sto facendo viva xD). Il secondo è il ‘riciclaggio’ di entrambi i personaggi coinvolti in questa shot, che ho già utilizzato altrove. ç__ç Mi dispiace per la mancanza d’originalità; ma questo pairing mi piaceva tanto – ebbene sì, proprio nel senso romantico – che non ho potuto in alcun modo escluderlo. Avrei voluto cimentarmi in qualcosa che riguardasse Matt, ma è così difficile restare nell’IC di una sorta di comparsa che alla fine ci ho rinunciato. Perdono, perdono, perdono. u///u

Passo ora a ringraziarvi. Vi ringrazio tutti, uno per uno, voi che avete letto o recensito o inserito la raccolta tra le storie preferite e/o seguite [Dany92, dragon ball z, kymyit, Nearina93, Rein94, Selhin]. Vi ringrazio di vero cuore. E mi auguro profondamente di meritare almeno un infinitesimo del vostro interesse. ^^

Rein94: Ho paura di non saperti dimostrare quanto ti sono grata di tutto. È a partire da questa raccolta che hai iniziato a seguirmi, se non sbaglio. Da allora ho sempre cercato inutilmente le parole migliori per ringraziarti. Lasciami soltanto dire che, non fosse stato per il tuo entusiasmo, probabilmente questa cosa non l’avrei neppure conclusa. Grazie, sul serio. (Hai ragione riguardo Kairi, l’ho decisamente strausata ^^’ Il fatto è che Misa, per quanto possa risultare frivola e leggera, non ce la vedevo nel contesto di dare buca ad un’amica. Non chiedermi perché, non ne ho idea! o__ò xD)

Dany92: Anche tu sei sempre stata dolcissima con me, Dany-chan. Come sempre mi ritrovo qui a ringraziarti rischiando di sembrare monotona nel risponderti che tu non sei mai monotona e che anzi apprezzo ogni volta di più i tuoi complimenti e il tuo sostegno. Ok, mi sono un po’ incartata ma sono certa che tu abbia capito. xD Un milione di grazie anche a te, di nuovo e ancora.

Kymyit: Sono onorata per le tue recensioni ai prompt 5 e 6 *////* Ho letto la tua Sky High, ho adorato la tua inventiva e il tuo stile, e vederti tra quelli che seguivano questa storia è stato per me un colpo al cuore. Mi sento lusingata, dico davvero. ^////^ Ringrazio anche te all’infinito.

Che altro dire, se non che siete tutti meravigliosi? <3

Un abbraccio forte e… si spera, un appuntamento alla prossima raccolta ^^ Perché state certi che le 7_crossovers mi ispirano parecchio; dunque, chissà… (Della serie: non vi libererete di me tanto facilmente xD)

Sayonara!

[Credits: La citazione a proposito della curiosità è una frase di Carlo Collodi.]

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

*A few simple fairytales*

 

 

Prompt: #4. Sleeping Beauty

Personaggi: Near [Death Note], Naminè [Kingdom Hearts]

Genere: Malinconico, Drammatico

Rating: Giallo

Note: AU (vale solo per Naminè)

 

 

 

 

 

Nate River non aveva niente.

Non aveva amici, non aveva sogni. Non aveva famiglia. Non aveva paure. Non aveva neppure una casa, perché il posto in cui viveva, aveva sentito, si chiamava istituto. Persino il suo nome gli era stato dato da estranei. Anche quello, non era suo.

Lui non aveva niente.

Soltanto un’unica, piccola, insignificante ossessione.

 

 

 

«Questa è la tua stanza. Spero che ti piaccia.»

«…»

 

 

 

[ Il più delle volte, per comprendere l’origine di un malessere occorre risalire alle radici. ]

 

 

 

C’è tanta luce, nella stanza. È di un bel colore azzurro chiaro. Ed è piena di giocattoli e di cose pulite e ordinate. Cose non sue, cose che forse lo diventeranno; ma non è detto che sia così.

Cammina lentamente su un tappeto che sembra troppo morbido per pensare di camminarci sopra con le scarpe.

C’è una finestra, davanti a lui, ma non si vede il cielo. Solo il giardino e la strada.

«Qualcosa non va?»

Il signore anziano che lo ha accompagnato non lo segue; la sua voce non è infastidita. Curiosa, forse. Ma infastidita no. È gentile, il signore anziano.

Il bambino si volta a guardarlo senza espressione. Spera segretamente di non sembrargli maleducato.

«Non è molto in alto.»

 

 

 

Il giorno in cui era arrivato, l’istituto gli era piaciuto. Sembrava una casetta delle favole, di quelle col tetto spiovente e la finestra ovale nell’abbaino.

La prima cosa che aveva pensato era che da lassù, di notte, si potevano toccare le stelle.

 

 

 

Non gli ha mai dato una giustificazione esaustiva, ma da quel giorno gli ha proibito di salire le scale che portano alla soffitta.

Lui non ha voluto chiedergli perché. Però ci pensa continuamente.

Soprattutto da quando ha notato la finestra dell’abbaino.

 

 

«C’è qualcuno lassù?»

«No.»

«Ci sono delle tende.»

«Le tende non vogliono dire che la stanza sia abitata. Prendiamo la tua, ad esempio.»

Ha ragione, è innegabile. Alla sua stanza non ci sono tende. Eppure là ci dorme lui, ci vive lui.

«C’è qualcuno lassù.»

Il signore anziano sospira mentre il bambino cancella con sicurezza il punto interrogativo.

Ma il divieto rimane. Lontano dalle scale.

 

 

 

Non osava muoversi.

Ora che aveva l’occasione di scoprire il segreto dell’abbaino, qualcosa lo bloccava.

Crescendo aveva imparato a fare cose utili come i calcoli e cose inutili come sentirsi in colpa.

C’era un 85% di possibilità che quel blocco fosse dovuto al suo senso di rispetto nei confronti del signore anziano. Utile a sapersi. Inutile a sapersi.

E i gradini restavano lì, ad aspettare davanti al suo sguardo – per la prima volta – esitante.

«Sarò assente per qualche ora» gli aveva detto. «C’è bisogno di me altrove.»

Lui aveva annuito, lo sguardo fisso sul gioco di memoria, e si era tirato una ciocca di capelli. L’uomo aveva notato il gesto.

«Stai lontano dalle scale.»

Stai lontano dalle scale.

A volte sentiva di odiarsi. Lui sapeva riconoscere quel gesto, quell’attorcigliarsi i capelli che stava a significare che stava pensando [progettando qualcosa]. Lui lo conosceva troppo bene, e l’altro dimenticava sempre di quanto fosse attento ai suoi atteggiamenti.

Stai lontano dalle scale.

Sarebbe stato più facile ignorare il senso di colpa, se non si fosse sentito ripetere quelle parole anche quel giorno.

Com’era quella frase che aveva letto una volta? La curiosità (…) spesso e volentieri ci porta addosso qualche malanno.

Ma la curiosità è anche un fattore assolutamente naturale.

 

 

 

Nate River era un genio adolescente. Compensava la sua vuotezza di cose concrete con un sorprendente acume ed un Q.I. pari a 186.

Ma in fondo Nate River era anche – essenzialmente – un ragazzo.

[ E si sa che, più un frutto è proibito, più si ha voglia di assaggiarlo. ]

 

 

 

Stai lontano dalle scale.

Si lasciò sfuggire un solo, lieve sospiro, mentre il suo piede nudo si posava lentamente sul primo gradino.

 

 

 

«Che cosa c’è al piano di sopra?»

Gli altri bambini scrollano le spalle.

«Roger non ci ha mai lasciato salire, e neanche il signor Wammy» dice distratto quello con i capelli rossi, concentrato sulla consolle portatile di un videogioco troppo rumoroso.

«Perché t’interessa tanto?» aggiunge il bambino biondo, scartando una barretta di cioccolato troppo fondente.

Non risponde, e guarda il robot che ha in mano. Preme un pulsante sul suo petto meccanico e freddo e le lenti colorate al posto degli occhi emettono luci rosse e verdi.

Nei suoi pensieri, l’immagine di una casa antica ed imponente, con un balcone affacciato ad ovest, sul mare.

Era una bella casa, quella. Ma quasi non riesce più a ricordarla.

 

 

 

I gradini si interruppero su un breve pianerottolo. Di fronte, una porta di legno scuro.

Si fermò. Non avrebbe dovuto essere lì. Non era giusto, non era bello nei confronti delle persone buone che lo avevano aiutato e cresciuto e in cambio non gli avevano chiesto che questo.

Torna indietro.

Forse era perché i suoi piedi nudi non emettevano suono sul pavimento di legno…

Torna indietro.

Forse era perché la porta poteva essere chiusa a chiave e la sua coscienza messa a tacere…

Torna indietro.

Forse era perché, ad ogni passo avanti, la voce della razionalità si affievoliva.

Torna

Si ritrovò senza sapere come con la mano sulla maniglia.

Non era chiusa a chiave.

Quando il battente si aprì, la prima cosa che vide furono quelle stesse tende bianche alla finestra che aveva guardato tante volte dal giardino. I vetri erano aperti e il vento le gonfiava, tendendole all’interno, facendole posare come una carezza sulla sponda di un letto illuminato soltanto dalla falce di luce proveniente dalla porta alle sue spalle.

Ancora una volta, l’istinto mosse i suoi passi. Non era mai successo. Era sempre stato bravo a sopprimere gli istinti.

Ma poi vide la figurina distesa nel letto, e capì cosa fosse stato ad attirarlo lassù, sfilandogli di dosso ogni rimorso, ogni vergogna e ogni buonsenso.

Nel letto c’era un angelo.

 

 

 

Nate River aveva creduto in Dio, al tempo in cui aveva ancora sogni e paure.

Se lo ricordava perché aveva chiaro nella mente il libro che qualcuno [una donna?] gli leggeva tutte le sere, con voce dolce, quando lui si addormentava pensando a giardini incantati e frutti proibiti.

Per questo motivo seppe che la ragazzina addormentata nel letto era un angelo caduto dal cielo.

 

 

Rimase lì a guardarla, senza respirare. Per la prima volta da che aveva deciso di disobbedire, il cuore gli diede un colpo più forte degli altri.

L’angelo aveva la pelle bianca come la neve, capelli biondi come la luna, mani piccole e abbandonate sulle coperte che le fasciavano il corpo. Nate pensò solo che era bellissima, che splendeva nella penombra, tanto da rendergli invisibili le macchine ronzanti dall’altro lato del letto. E si rammaricò soltanto di non poter vedere il colore dei suoi occhi, chiusi nel sonno.

La mano che per tutto il tempo aveva attorcigliato la stessa ciocca di capelli era ricaduta giù, sul fianco. Segno che ormai lui non pensava più.

 

 

 

«C’è qualcuno là dentro.»

 

 

 

Si avvicinò ancora, senza un rumore. Tese una mano, impacciato, senza riconoscerla come sua. Sfiorò una guancia pallida e morbida.

La pelle dell’angelo era fredda e il suo respiro debole.

Solo allora osservò le apparecchiature, e vide che molte si perdevano come inquietanti tentacoli nelle braccia minute dell’angelo, e si accorse dello schermo che mostrava una linea verde frammentata e irregolare e suonava un suono che sembrava tanto una sentenza.

Il genio adolescente sapeva cosa fossero le macchine.

Il ragazzo si rifiutò di accettare la loro presenza al cospetto dell’angelo.

Come se avesse sentito la forza di quel pensiero, l’angelo si mosse senza svegliarsi; voltò il capo, spargendo i capelli sul cuscino e sulle spalle esili. Il dito che aveva incontrato la sua guancia si ritrovò ora sospeso sulle sue labbra schiuse.

Ritrasse la mano, con lentezza, ma non poté impedirsi di chinarsi ancora sul letto.

L’angelo respirava piano sotto di lui.

Si fermò ancora. Incerto. Imbarazzato. Che brutta sensazione, l’imbarazzo. Proprio come gli avevano detto.

L’angelo non si muoveva. Sembrava quasi che aspettasse.

 

Bip. Bip. Bip. Bip.

 

Non riusciva a spiegare il desiderio assurdo che lo stava assalendo da dentro. Non c’era nulla di sensato, nulla di logico in quella voglia di respirare il suo respiro e premere la bocca sulla sua e verificare se fosse davvero un sapore dolce come immaginava che fosse.

 

Bip. Bip. Bip. Bip.

 

Che cosa inutile.

Che cosa stupidamente inutile.

Che…

I capelli dell’angelo lambirono i suoi, le fronti si avvicinarono.

Il respiro dell’angelo si confuse con il suo.

Le labbra dell’angelo erano molto più dolci di quanto avesse immaginato.

[ Dopotutto, aveva smesso di pensare. ]

Rimase così per qualche istante, poi si sollevò lentamente e aprì gli occhi che non si era accorto di aver chiuso.

L’angelo si mosse di nuovo, impercettibilmente.

 

Bip.

 

Le palpebre si strinsero, poi si socchiusero.

 

Bip.

 

Due iridi azzurre come il mare [il mare che ricordava] lo guardarono assonnate.

 

Bip.

 

Le labbra si tesero in un sorriso timido.

 

Bip.

 

Per qualche secondo eterno, Nate River vide il riflesso del se stesso ragazzino negli occhi dell’angelo sorridente. Poi sentì un suo respiro più profondo, e la vide – apparentemente – assopirsi.

 

Bip. Bip. Bip.

 

Il tempo passò e lui non se ne accorse.

L’unico segnale dal mondo esterno gli arrivò quando una porta si chiuse in lontananza, mentre una linea verde continua si disegnava sullo schermo.

 

 

 

/\___________________________________________________________________ ...

 

 

 

 

«Perché sei andato lassù?»

«Perché la tenevate chiusa là dentro?»

«…»

«…»

«Non c’è motivo per cui tu debba saperlo.»

«Era lei, l’erede. Non è così?»

«… Sì. È così.»

«…»

«…»

«Non siete riusciti a salvarla.»

«Abbiamo tentato, Nate. Per molti anni. Ma a volte la vita è semplicemente più forte di noi.»

Una casa col balcone sul mare fu bruciata per la seconda volta davanti a lui da mille fuochi accesi dal ricordo.

 

 

 

[ La curiosità (…) spesso e volentieri ci porta addosso qualche malanno.

E a volte qualche dolore nuovo. ]


Nate River non aveva niente.

Neanche più quell’unica, piccola, insignificante ossessione.

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