Beyond Our Disguises di _Princess_ (/viewuser.php?uid=38472)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Black Norway ***
Capitolo 2: *** Butterfly Caught ***
Capitolo 3: *** One Day In Your Life ***
Capitolo 4: *** Break Away ***
Capitolo 5: *** Bleib ***
Capitolo 1 *** Black Norway ***
Touch me
Take me to that other place
Reach me
I know I'm not a hopeless case
What you don't have, you don't need it now
What you don't know, you can feel it somehow
What you don't have, you don't need it now
Don't need it now
(Beautiful Day, U2)
***
Tom
era
stanchissimo. Il viaggio da Amburgo a Berlino era stato
tranquillo e
tutto sommato anche abbastanza indolore, ma lo aveva distrutto lo
stesso.
Aveva pensato bene di inaugurare
l’arrivo nella capitale
provocando a Benjamin una bella incazzatura con una sequela di
lamentele e
imprecazioni non esattamente eleganti, guadagnandosi così
una bella strigliata
inerente il comportamento da tenere in presenza di persone esterne allo
staff e
le varie conseguenze. A coronare il tutto, c’era stato anche
il pessimo umore
di Bill, causato da nessuno sapeva bene cosa, che aveva messo addosso a
Tom
un’ulteriore dose di stress non richiesto. Si preoccupava
sempre quando Bill
aveva la luna di traverso.
Passeggiava a vuoto nella propria
suite al quinto piano
dell’hotel, una lattina di birra in mano e il cellulare
nell’altra per
ripassare gli appuntamenti che lo aspettavano nei prossimi giorni.
Decisamente
troppi, per i suoi gusti.
Erano le undici passate e fuori il
cielo era di un blu scuro
senza stelle, lambito lontano all’orizzonte dalle ultime
sfumature schiarite
dai raggi del sole ormai tramontato da un pezzo. Nevrotico
com’era, Tom sentiva
che se non avesse fatto quattro passi all’aria aperta sarebbe
impazzito. Uscire
era fuori discussione. Non voleva rischiare
l’incolumità, e portarsi dietro una
guardia del corpo sarebbe stato imbarazzante, visto il suo stato
esagitato.
Aveva bisogno solo di rilassarsi.
Decise che come compromesso si
sarebbe fatto quattro passi
dentro all’hotel. Era la prima volta che alloggiavano
lì e sembrava un posto
carino. Avrebbe fatto un giro di perlustrazione casuale, tanto per
sgranchirsi
le gambe e fare qualcosa, e poi gli sarebbe toccato tornare in camera e
cercare
di prendere sonno sopra quell’impossibile materasso marmoreo.
Vuotò la lattina di birra
in un sorso e la abbandonò sul
tavolino del salotto, poi ne prese un’altra dal frigobar e,
risoluto, afferrò
la tessera magnetica e uscì.
I corridoi dell’albergo
erano letteralmente deserti.
Scendere nella hall sarebbe stata un’idea poco intelligente:
avrebbe potuto
trovare Benjamin e qualcun altro al piano bar e proprio non gli andava
di
rischiare qualche altra ramanzina. Senza un perché, prese
l’ascensore e
selezionò l’ultimo piano. Quando le due porte si
spalancarono davanti a lui,
Tom si ritrovò in un piano meno sontuoso degli altri, con i
pavimenti coperti
di piastrelle anziché di moquette e le pareti prive di
quadri, ma in compenso
dotate di anonima lampade al neon, di quelle che restavano accese anche
in
assenza di corrente.
In fondo al corridoio, stretto e
corto, Tom notò che c’era
una porta blindata con un maniglione antipanico, con sopra affisso un
cartello
che diceva ‘Divieto d’accesso’. Lo
fissò per qualche secondo, indeciso sul da
farsi, poi, infilandosi le mani nelle tasche della felpa, si
avvicinò.
Un ragazzo qualunque dotato di un
minimo di buonsenso ci
avrebbe pensato due volte prima di aprire una porta che era vietato
usare,
salvo in condizioni di emergenza, ma Tom si disse che non
c’era niente di male
a sfruttarla per una buona causa. In fondo la sua era in qualche modo
un’emergenza.
Senza togliere le mani di tasca,
sollevò un ginocchio e
spinse contro la barra, accorgendosi che in realtà la porta
era già aperta; la
spalancò e si ritrovò di fronte a un vasto
spiazzo di cemento recintato da una
ringhiera in ferro battuto piuttosto spartana. Uscì,
lasciando la
provvidenziale lattina ancora chiusa a terra, per impedire che la porta
si
chiudesse. Avrebbe dovuto rinunciare alla seconda razione di alcol, ma
se non
altro non se ne sarebbe rimasto chiuso fuori all’addiaccio
tutta la notte.
Respirò volentieri e a
pieni polmoni l’aria frizzante della
notte. Era quello che gli ci voleva per il senso di spossatezza che non
gli
dava tregua. Si accese una sigaretta e si stiracchiò un
po’, guardandosi intorno.
L’ingresso al tetto era una specie di cubo situato nel mezzo
di un enorme
quadrato che correva tutto intorno. Aveva appena girato sui tacchi per
andare a
vedere cosa c’era sull’altro lato, quando collise
con qualcosa di morbido, che
si lasciò sfuggire un’imprecazione che lui non
comprese.
Dopo il primo attimo di smarrimento,
arretrò di un passo,
mettendo a fuoco una figura alla luce della luna piena: si trattava di
una
ragazza, o così sembrava. Era alta una spanna buona meno di
lui, con una folta
chioma di ondulati capelli di un innaturale rosso vermiglio. Portava
una strana
gonna viola a balze e un’assurda felpa rosa fluorescente, ma
Tom non riusciva a
vederle il viso, perché era china sui propri piedi,
apparentemente paralizzata.
Tom guardò in
giù e capì cosa non andava: su uno dei due
anfibi che lei portava era finito un mucchietto di ceneri incandescenti
che non
poteva che provenire dalla sigaretta che lui stava fumando. Sotto alla
cenere,
la pelle nera era visibilmente bruciacchiata.
“Oh, scheisse!”
esclamò, dispiaciuto. Non si era proprio
aspettato che ci fosse qualcun altro, anche se, pensandoci, la porta
aperta
avrebbe dovuto dirgli qualcosa. “Entschuldigung!” (“Oh,
merda! Scusami!”)
“Maledizione!”
imprecò lei, con una voce da ragazzina.
Parlava inglese. Forse non era tedesca. Tom si adeguò,
pregando di non fare
figuracce con la transizione linguistica:
“Scusa, non ti avevo
proprio vista!”
“Oh, grandioso!”
brontolò la sconosciuta, sfregando
febbrilmente la bruciatura. Tom notò che aveva una scritta
disegnata a
caratteri svolazzanti sul polso destro. “Due settimane di
attesa, ordine
diretto dagli Stati Uniti, l’ultimo paio del mio numero,
centodieci euro! Li
avevo da solo una settimana, e sono rovinati!” Si
tirò su e piantò due fiammeggianti
occhi scuri su di lui. “Ma che cos’hai in quel
maledetto cervello bacato?!”
Tom si strinse nelle spalle,
intimidito. Che caratterino che
aveva, quella…
“Scusami. Stavo
–”
“La vuoi piantare di
scusarti?” sbottò lei, scalciando a
vuoto con il piede per eliminare gli ultimi residui di cenere.
“Fino a due
volte va bene, a tre diventa irritante.”
“Scu– Ehm…
D’accordo.”
“Si può sapere
cosa ci fai quassù?” lo interrogò la
tizia. A
guardarla meglio, Tom notò che doveva essere poco
più grande di lui. “C’è
scritto ‘Divieto d’accesso’.”
“Potrei fare a te la stessa
domanda.”
Lei scrollò semplicemente
le spalle. “Riflettevo.”
“Riflettevi tipo ‘Mi butto o non mi
butto?’ o tipo ‘Cosa mangio
stasera?’”
“Una via di mezzo.” Rispose lei, sedendosi a terra,
la schiena contro il muro. “E
tu?”
Tom la imitò.
“Una via di mezzo tendente alla prima opzione.”
Rispose, sistemandosi accanto a
lei, una volta appurato che non lo avrebbe squartato vivo per via
dell’incidente. Sembrava essersi calmata.
“Ma non mi dire. Perché ti dovresti
buttare?”
“Ma tu lo sai chi sono io?”
Lei inarcò un sopracciglio
in modo irritante, imbronciando
leggermente le labbra, coperte da un vistoso velo di rossetto scarlatto.
“Volevo evitare la parte in cui io strillo il tuo nome
stramazzandoti adorante
ai piedi e tu scappi a gambe levate,” gli confidò
in tono annoiato. “Ma visto
che ci tieni… Ciao, Tom Kaulitz.”
Tom era sinceramente perplesso e
quella ragazza era
decisamente strana. Strana non solo nel modo di vestirsi e di porsi.
Era
proprio strana. Strana e basta.
“Ciao…
ehm…?”
“Ah, giusto,”
sbuffò lei. “Suppongo che tu non sappia chi
sono io.”
A dire la verità non era
proprio così. Sebbene fosse
assurdo, Tom aveva la sensazione di conoscerla.
“Non vorrei dire cazzate, ma hai un’aria
inspiegabilmente familiare. Sono
sicuro di averti già vista.”
“Vediamo se con questa mi riconosci.” Disse la
ragazza. Tirò fuori una
mascherina di pizzo nero – dal nulla, o così parve
a Tom – e se la mise davanti
agli occhi.
Improvvisamente Tom
ricordò dove l’aveva già vista: su dei
cartelloni pubblicitari che promuovevano una saga di libri fantasy che
stava
spopolando da un paio d’anni a quella parte. Aveva anche
sentito parlare di
lei, da qualche parte.
“Sei la scrittrice! Quella
tizia belga che ha scritto quei
libri sui vampiri!”
“Sono olandese,
veramente,” lo corresse lei, asciutta. “E
non scrivo di vampiri, ma di lupi mannari.”
“Mi sfugge il tuo nome.”
“Norja Schwartz.” Gli porse la mano senza troppa
convinzione. “Incantata.”
Tom si trattenne a stento dal ridere.
Nome bizzarro.
Probabilmente era un nome d’arte.
“Quella te la puoi togliere, adesso.” Le disse,
accennando alla maschera.
“Sì, scusami.” Norja si tolse la
maschera e se la mise in tasca. “Sono talmente
abituata a portarla che non ci faccio più caso.”
Era carina, tutto sommato. Non
possedeva quella che si
poteva definire una bellezza convenzionale, ma era attraente. I suoi
lineamenti
avevano un che di orientale – occhi allungati e neri, naso
piccolo e poco
sporgente, labbra fini, viso triangolare – e nonostante la
scarsa statura,
sembrava piacevolmente proporzionata.
Rimasero in silenzio per lunghi
secondi, entrambi guardando
la città che brillava nel buio.
Tom trovava la situazione ai limiti
del surreale: era sul
tetto di un hotel, di notte, seduto per terra con un’alquanto
estrosa scrittrice
di fama che a quanto pareva aveva un’idea abbastanza precisa
di chi lui fosse e
che tuttavia non dava segni di isteria o collassi imminenti. Tutto
sommato la
cosa poteva avere qualche suo potenziale positivo.
“Me la togli una curiosità?” le chiese a
un tratto.
“No.”
“Perché ti nascondi dietro a una
maschera?”
Norja gli appioppò
un’occhiata omicida:
“Sbaglio o avevo detto di no?”
“Ero solo curioso.” Si difese Tom. “A
dirti la verità, penso che sia una mossa
astuta. Potendo tornare indietro, lo farei anch’io.”
“Nasconderti dietro a una maschera?”
“E cambiare nome.”
Norja batté
interrogativamente le ciglia.
“Dai, è ovvio che non può essere il tuo
vero nome.” Disse Tom. “Ha un
significato particolare?”
Lei parve soppesare la domanda, come
se stesse decidendo se
degnalo o meno di una risposta.
“Schwartz come nero, il mio colore
preferito,” disse infine. “Ma dubito ti
servano delucidazioni in merito. Norja significa Norvegia in
finlandese, un
paese e una lingua che adoro.”
“Sei proprio
fantasiosa.” Commentò Tom, increspando la
fronte.
“Ti concedi un po’ troppo sarcasmo per conoscermi
da solo due minuti,
ragazzino.”
“Ragazzino a chi?”
“Vedi qualcun altro qui a cui io mi possa
rivolgere?”
“Perché, quanti
anni hai tu?”
“Più di te.”
“Quanti?” insisté Tom. A occhio e croce
gliene dava ventitré, massimo
ventiquattro. Non poteva avere più di un paio
d’anni più di lui.
“Sei un bel cafone!” si indignò lei.
“Non ti hanno mai detto che non si chiede
l’età ad una signora?”
“Vestita così mi sembri tutto fuorché
una signora. E comunque hai cominciato
tu.”
Norja sostenne il suo sguardo di
sfida, ma alla fine
cedette:
“Venticinque anni da
compiere in autunno. Contento?”
“Allora non sei vecchia come sembri.”
“Riporto alla tua attenzione il commento sugli eccessi di
sarcasmo.”
“Hai Tom Kaulitz qui con te, non puoi soprassedere sul
sarcasmo?”
“Cosa ti fa pensare che
avere qui Tom Kaulitz sia tanto
diverso da avere qui Pinco Pallino?”
“Non farmi ridere!” ribatté lui.
“Hai una french manicure nera alle unghie, la
scritta Heilig tatuata sul polso e….” Tom finse di
scrutare attentamente il suo
sguardo. “Oh, guarda! Nei tuoi occhi c’è
scritto ‘I love Tokio Hotel’!”
Un impercettibile
fremito solleticò che labbra di Norja, ma lei
non si lasciò scappare il
sorriso che Tom aveva già intuito.
“Continuo a sostenere che
ti stai prendendo un po’ troppa
confidenza.” Lo rimproverò, ma questa volta
c’era un inconfondibile nota di
vivacità nel suo tono.
“Guarda che non ho mica intenzione di saltarti addosso e
violentarti.” La
rassicurò. “Non sei nemmeno il mio tipo.”
“Ti mette a disagio parlare con ragazze che riescono a
dialogare con te anziché
sbavarti addosso?”
“Come siamo acide… Prova a fare sesso, ogni tanto,
aiuta molto contro lo
stress.”
Norja si avvolse le ginocchia con le
braccia e lo fissò con
un’espressione inquisitoria
“Sei esattamente come ho
sempre immaginato che fossi.”
Tom sfoderò un sorriso
seducente.
“Bellissimo e
irresistibile?”
“Un impostore.”
Tom si sentì personalmente
offeso. Forse non era un campione
di spontaneità, in pubblico, ma non poteva accettare di
farsi dare
dell’impostore.
“Tu mi odi.” La
accusò, mettendo il muso.
“Cosa te lo fa
pensare?” domandò lei con assoluta innocenza,
ma c’era una vaga sfumatura di rosa sulle sue guance candide
che diceva a Tom
che la sua non era un’ipotesi poi così campata per
aria.
“Perché?”
“Perché
cosa?”
“Perché mi odi?”
Il rossore sulle guance di Norja si
intensificò.
“Non è vero che ti odio. Non ti conosco
nemmeno”
“Vuoi farmi credere che sei così scontrosa con
tutte le celebrità che
incontri?”
“Sì.”
“Chissà che toccasana per la tua immagine
pubblica!”
“Sempre meglio che andare
in giro a raccontare patetiche
balle monumentali sulla propria vita sessuale.”
Tom emise un debole rantolo
frustrato. Ma perché le donne
volevano a tutti costi disintegrare la sua autostima?
“Questa si chiama offesa
gratuita.” Si lamentò, incrociando
capricciosamente braccia e gambe.
“Te la sei
cercata.” Sostenne Norja. Aveva lo sguardo perso
nel vuoto davanti a loro, pensoso.
“Stai ancora riflettendo sul ‘mi butto o non mi
butto?’, per caso?”
“No,
perché?”
“Ti avrei volentieri dato una mano a scavalcare la
ringhiera.”
Norja si lasciò finalmente
andare in una risata divertita.
“Suppongo di doverlo
considerare un gesto di premura.”
“Certo!” Tom era
soddisfatto di essere finalmente riuscito a
smuoverla da quel suo fastidioso atteggiamento distaccato.
“Io odio quando nei
film c’è sempre qualche idiota con manie di
eroismo che tenta di far cambiare
idea all’aspirante suicida. ‘Avanti, va tutto bene,
dammi la mano!’… Insomma,
lasciatelo in pace! Ci sarà qualche valido motivo se quel
poveretto vuole
saltare, no?”
Norja rise di nuovo, con
più discrezione. Aveva una risata
buffa, ma gradevole. Se non altro non sembrava una gallina su di giri.
Era stata una buona idea, in fin dei
conti, optare per una
passeggiatina notturna. E poi, doveva riconoscerlo, era rilassante
dialogare
con quella ragazza.
“Cosa
c’è giù ad aspettarti?”
Tom cascò dalle nuvole.
“Come, scusa?”
“Giù di sotto.” Specificò
Norja. “Cosa ti aspetta, uscito di qui? Sei qui da un
quarto d’ora a scambiare carinerie con una che è
ovvio che non sopporti, o
sopporti a stento… Da cos’è che stai
scappando?”
Tom spense il mozzicone di sigaretta
contro il cemento del
suolo, lasciandolo poi cadere.
“Da un manager incazzato nero, un letto scomodo e un fratello
con la sindrome
premestruale.”
“Ah, brutta, quella!” esclamò Norja,
comprensiva. “Te lo dice una che ce l’ha
trecentosessantacinque giorni all’anno.”
Tom rise.
“Immagino che vita facile
avrà il tuo ragazzo.”
“Non ce l’ho.” Ammise Norja, sollevando
le spalle.
“Ah no?” Tom era stupito. Per qualche motivo aveva
dato per scontato che fosse
impegnata. “Come mai?”
“Che c’è?” fece lei, sulla
difensiva. “È obbligatorio essere accoppiati? Da
quando serve una scusa per essere single?”
“Come sei permalosa! Ero semplicemente sorpreso, tutto
qui.”
“Il mio ultimo, delizioso ragazzo mi ha lasciata un anno fa
per una bionda del
suo corso di dottorato.” Gli raccontò lei, atona.
“Simpatico.”
“Bene,” Norja si alzò in piedi, si
tirò su le maniche della felpa con un gesto
sgraziato e si avvicinò al parapetto, guardando in
giù. “Ora che mi hai fatto
rivangare questi bellissimi ricordi, credo di non avere più
bisogno di
riflettere sul ‘mi butto o non mi
butto?’.”
“Bitte, spring
nicht!” la pregò Tom, ridendo, senza nemmeno
alzarsi a sua volta.
Norja si voltò, le mani
appoggiate alla ringhiera, e sollevò
un sopracciglio:
“Come sarebbe a dire
‘Spring nicht’? Fino a due minuti fa
volevi buttarmi giù tu!”
Tom finalmente si decise a tirarsi su
e la raggiunse. In
lontananza riuscivano a vedere la Porta di Brandeburgo, illuminata da
potenti
riflettori.
“È che mi sono appena reso conto che
c’è la terrazza della mia suite, da questa
parte.” Le rivelò, indicando il grande balcone che
sporgeva un qualche metro
sotto di loro. “Se cortesemente tu volessi buttarti
dall’altro lato, potresti
comodamente sfracellarti sulla terrazza della suite di Georg.”
Una folata di vento
scompigliò i capelli di Norja mentre lei
sollevava le braccia sopra la testa e si stiracchiava.
“Penso che andrò
a buttarmi nel mio letto prima che accada
l’irreparabile.” Dichiarò.
“Cioè prima che ci finisca io sfracellato sulla
terrazza di Georg?” indovinò
Tom.
“Prima che io mi innamori della tua brillante prontezza di
spirito.” Rispose
lei, e lui non capì se fosse seria o meno. Probabilmente no.
“Ti facevo meno
sveglio, lo ammetto.”
“E te ne vai
così?” protestò lui, mentre lei
già gli dava le
spalle per dirigersi alla porta. La vide fermarsi a metà
strada e girarsi:
“Volevi un bacio della buonanotte?”
Tom sollevò entrambe le
mani e scosse la testa.
“Oh, no, grazie. Il tuo rossetto si intona male con questa
maglietta.” Azzardò una
fugace ammiccata, che lei accolse volgendo pazientemente gli occhi al
cielo. “Magari
la prossima volta, con un rossetto diverso o una maglietta
diversa.”
“O senza rossetto.” Suggerì lei.
“O senza maglietta.” Le fece eco lui, soave.
Norja rimase ferma dov’era
per un po’, la gonna e i capelli
che ondeggiavano ad ogni alito di vento. Lo scrutava in modo insolito,
a metà
strada tra il sospetto e il compiacimento. Forse non le stava poi
così
antipatico come credeva lui.
“Buonanotte, Tom
Kaulitz.” gli augurò alla fine,
avvolgendosi con le sue stesse braccia, poi raggiunse la porta.
“Buonanotte, Norvegia
Nera.” Le disse Tom, appena prima che
lei entrasse. Norja si voltò di nuovo, gli mostrò
la lingua e poi sparì oltre
la sua visuale.
Tom rimase lì, appoggiato
con i gomiti alla ringhiera, faticando
a capacitarsi di quanto era appena successo.
Aveva davvero passato mezzora a
chiacchierare di
insensatezze con una perfetta sconosciuta? Ed era possibile che quella
stessa
chiacchierata, durante il quale era stato maltrattato come raramente in
vita
sua gli era capitato, gli fosse piaciuta?
Scosse la testa, incredulo. Non le
aveva nemmeno chiesto
quanto a lungo sarebbe rimasta lì.
Ridacchiando fra sé,
andò a recuperare la lattina di birra e
rimase a bersela lì sulla soglia. Se non altro il malumore
gli era passato.
__________________________________________________________________________
Note:
so
che per voi questa storia sarà una sorpresa, ma in
realtà lo è stata anche per
me! XD
Qualche giorno fa Lady Vibeke mi ha
parlato di quest’idea
che aveva per una storia in stile commedia, e mi è piaciuta
subito, ma siccome
lei sostiene di non avere tempo e ispirazione per scriverla, le ho
chiesto se
potevo “adottarla” e scriverla io. Dato che ho
gentilmente avuto il permesso,
eccomi qui!
Come sempre, il capitolo introduttivo
è un po’ breve, ma gli
altri saranno più lunghi. Vi devo premettere che si tratta
di una storia molto,
molto diversa da Lullaby For Emily e The Truth Beneath The Rose.
È una ff
completamente a sé stante, da leggere senza gli impegni
profondi e psicologici
delle altre mie creature. È una commedia scritta per
sorridere e ridere, senza
impegni, scritta anche in modo molto più leggero, diverso
dal mio solito stile.
Spero comunque che potrete apprezzarla lo stesso. ^^ Non
sarà lunghissima,
cinque o sei capitoli al massimo, quindi non aspettatevi
chissà che. ;)
Per ora spero che abbiate gradito la
lettura e che la
troviate meritevole di un commento. ^^
Alla prossima!
P.S. grazie di cuore a Lady Vibeke per avermi fatto l'immagine di presentazione della storia e a Irina_89 per avermi aiutata a spulciare la rete alla ricerca di innagini che somigliassero a Norja! ;)
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Capitolo 2 *** Butterfly Caught ***
Norja aveva dormito poco e male.
Aveva passato la maggior
parte della notte rigirandosi nel letto a maledire il destino per aver
deciso
di trascinare Tom Kaulitz su quel tetto proprio quel giorno, a
quell’ora, in
quel preciso istante.
Aveva il serio terrore che non
sarebbe più riuscita a
prendere sonno per il resto della vita.
Aveva incontrato Tom Kaulitz. Sul
tetto del Ritz. Nel cuore
della notte.
Se le ricordava ancora le lunghe ore
che non molti anni
prima aveva passato a fissare i poster dei Tokio Hotel sui muri della
sua
stanza, soffermandosi spesso su quello che all’epoca era
stato il ragazzino con
i rasta e il sorriso ammiccante. Quello in cui lei si era imbattuta sul
tetto,
però, non era quella stessa persona. Quello che aveva visto,
sollevando gli occhi,
era un uomo fatto – ancora acerbo, ma pur sempre un uomo
– che non aveva quasi
più niente del ragazzo che lei si era abituata a conoscere
per vie indirette.
Aveva avuto paura,
d’istinto, perché si era vista crollare
davanti quella che forse era stata la barriera più spessa,
pesante e odiata
della sua vita, e vederla sparire così
all’improvviso l’aveva precipitata in un
indesiderato vortice di confusione.
Anche se dall’esterno il
suo shock doveva essere parso
brevissimo o addirittura inesistente, lei, in quel microsecondo, si era
sentita
spazzata via dal senso di smarrimento dovuto a quel surreale incontro.
Le era capitato di incontrare altre
celebrità, da quando era
diventata famosa, e se l’era brillantemente cavata con tutti.
Con Tom Kaulitz, tuttavia, la
faccenda era abissalmente
diversa.
Con un sospiro nervoso, Norja si
riempì una tazza di avena e
un’altra di gelatina di lamponi. Non aveva trovato dei
pancakes in tutto il
buffet. Si chiedeva come avrebbe fatto a sopravvivere alla giornata
senza una dose
massiccia di zuccheri e carboidrati. Alla fine le toccò
ripiegare su pane e
marmellata.
Un paio di signore la guardarono male
mentre passava loro
accanto, probabilmente a causa della tuta non esattamente chic che
indossava,
ma lei non si fece toccare. Il comfort prima di tutto, appena poteva.
Stava andando verso il tavolo dei
tostapane, quando avvertì
una presenza alle proprie spalle. Stava già per voltarsi e
propinare a Julian
qualche battutina sulle levatacce mattutine, quando si rese conto che
la persona
dietro di lei era decisamente più alta e ingombrante del suo
Julian.
Un terribile presentimento le
gelò la schiena.
“Buongiorno,
Norvegia!” esclamò una pimpante vivace voce
maschile. E si dava il caso che lei quella voce la conoscesse fin
troppo bene.
Dio, no!,
piagnucolò con se stessa, strizzando gli occhi. No, no, no, no! Chiunque, ma non lui!
“Non mi saluti?”
Che qualcuno
mi salvi!,
pregò Norja, mentre si costringeva a voltarsi. Salvatemi, per favore!
E invece nessuno la salvò,
perché lui era lì, Tom Kaulitz in
carne – tanta, succulenta, muscolosa carne – e
ossa, e le sorrideva in modo
molto perfidamente seducente.
Oh,
dio…
“Buongiorno a te, spina nel
fianco.” Lo salutò, con tutto il
contegno e l’indifferenza di cui era capace, cercando di
ignorare il fatto che
la gelatina di lamponi sembrava essersi trasferita immantinente dentro
alle sue
ginocchia. “Noto con piacere che porti una
maglietta.”
Tom allungò una mano oltre
lei, sfiorandole inavvertitamente
il fianco, per prendersi un piatto.
“E io noto con dispiacere che porti ancora lo stesso rossetto
di ieri sera.” Osservò,
servendosi di qualche fetta di pancarré. “Che
colore è, rosso meretrice?”
I delicatissimi nervi di Norja
fremettero pericolosamente
sotto alla sua pelle.
Brutto,
disgustoso, insolente
idiota!
“Rosso sangue di
rompipalle.” Gli rispose, tentando uno
scatto verso l’angolo più appartato del salone da
pranzo.
“Oh, carino!”
cinguettò Tom, tallonandola, raccogliendo cose
a caso dal buffet. “Te lo sei fatta fare su misura?”
Anni e anni di corsa dietro alle
gonnelle – e probabilmente anche
un bel po’ di palestra, a giudicare dalla mercanzia che
esibiva sotto a quei
tendoni canadesi che si ostinava a voler far passare per magliette
– dovevano
aver giovato alle sue capacità di velocista.
Norja posò il vassoio che
reggeva sul tavolo libero più
vicino e lo fulminò con un’occhiata omicida:
“No. Appena alzata, esco e
prendo a morsi il primo
rompipalle che trovo.”
“Molto
ecologico.” Approvò lui, appoggiando il vassoio
accanto a quello di lei. “Ma come la mettiamo con HIV e
AIDS?”
“Ho dei test istantanei
sempre in tasca.”
“Proprio organizzata!
L’antirabica ce l’hai?”
Norja scostò bruscamente
la sedia e si sedette, le mani che
le prudevano.
“No.”
Per niente scoraggiato dai segnali di
chiara ostilità che gli
venivano lanciati, Tom afferrò la sedia che stava di fronte
a lei.
Hey, hey,
che cosa
credi di fare?, protestò la mente di Norja, in
panico. Nessuno ti ha dato il permesso di
–
Ma Tom si era già seduto.
“E che succede se per sbaglio ti mordi la lingua?”
le chiese.
Lei sollevò un
sopracciglio.
“Sono sopravvissuta a
più di cinque minuti a stretto
contatto con te. Penso di essere diventata immune a malattie che ancora
non
sono state scoperte.”
“Ammiro la tua spiccata
vivacità linguistica. Dovresti fare
la scrittrice!”
“Oh, grazie! Sai,
anch’io quando ti vedo nei vostri video mi
dico: ‘Che bravo! Dovrebbe mettersi a
suonare!’.”
Pieno di dignità, Tom
infilzò una salsiccia con la forchetta
e ne tagliò un boccone.
“Me li dai un paio di
minuti per concentrarmi su una risata
spontanea?” le domandò, portandosi la forchetta
alla bocca.
“Te ne concedo
uno.”
Tom finse di concentrarsi per qualche
secondo, poi sbuffò.
“Mi arrendo.”
“Oh, che
bellezza!” gioì Norja, speranzosa. “Te
ne vai?”
“No che non me ne vado,” ribatté Tom, in
tono odiosamente rassicurante, come se
lei avesse temuto che lui la
lasciasse in pace. “Non vedi che ho preso la
colazione?”
“A proposito, da quando in
qua voi divinità olimpiche vi
mescolate ai comuni mortali per la colazione?”
Tom sollevò le spalle.
Norja si domandò come si
potesse trasudare sensualità anche
da un movimento casuale e svogliato come quello, ma si costrinse a
ritirare la
mandria di ormoni nell’ormonile prima che potessero
scavalcare il recinto della
decenza e dilagare incontrollatamente nelle sue vene.
“Così. Mi sono
svegliato presto e sono venuto a vedere cosa
offriva la mensa della plebe.”
“Ero convinta che per te
svegliarsi presto significasse
essere buttati giù dal letto alle quattro del
pomeriggio.”
“Voi fans la dovete
smettere di prendere per oro colato le
nostre interviste,” bofonchiò lui, masticando
grossolanamente una cucchiaiata
di cornflakes. “Soprattutto un’attempata come te
dovrebbe saperlo meglio delle
bambine.”
Norja, nel frattempo, si ingozzava di
pane e marmellata, cercando
di non guardarlo, o di farlo il meno possibile.
È
sexy anche quando
mastica cornflakes a bocca piena mentre parla. Questa me la devono
spiegare.
“Guarda che
l’epoca in cui mi bevevo ogni singola sillaba
che usciva dalle vostre bocche come ambrosia è passata da un
pezzo.”
“Per caso c’erano
ancora i dinosauri?”
Norja sentì una vena sulla
propria tempia pulsare di
irritazione. Poteva anche essere bello da far vomitare, ma di questo
passo le
avrebbe causato un esaurimento entro un minuto.
“Senti, ma perché non vai a importunare qualcun
altro?” gli suggerì
cordialmente. “Io ho un’intervista tra due ore e
una sessione di autografi più comparsata a RTL nel
pomeriggio, e onestamente iniziare la giornata con la tua presenza
importuna
non è la cosa più salutare per i miei
nervi.”
“Vieni a parlare a me di
interviste, sessioni di autografi,
nervi delicati e presenze importune?”
“Mica ti sono venuta a
cercare io.”
Tom tracannò il suo
bicchiere di spremuta d’arancia in un
fiato e le rivolse una spietata occhiatina angelica.
“Dai, Svezia, volevo solo
fare due chiacchiere!”
Qualche valvola del cuore di Norja
parve scoppiare. Era un
metro e novanta di sex appeal e libidine, ma in qualche oscura maniera
gli
riusciva bene anche la parte del cerbiatto dall’occhio tenero.
“Le due chiacchiere sono
finite
settemilacinquecentottantatré chiacchiere fa.”
Sbottò, inforcando una badilata
di pappa d’avena e ficcandosela in bocca con rabbia.
Perché
a me? Perché a
me, schiere celesti?
“Lo vedi che mi
odi?” protestò Tom.
Norja si sarebbe premurata di
strozzarlo personalmente, se
solo il suo collo non fosse stato così delittuosamente
armonioso e mascolino.
Le sue mani erano troppo piccole per quel tipo di omicidio.
“Ti ho detto che non ti
odio!”
“E allora perché
mi tratti male?”
“Ti tratto come tratto chiunque minacci la mia
tranquillità!” sbraitò lei,
accorgendosi troppo tardi di quanto avesse alzato la voce. I
fortunatamente
pochi commensali si erano voltati tutti nella sua direzione e la
fissavano
ammutoliti.
Tom, d’altro canto, non
dava cenni di sentirsi in imbarazzo
o infastidito. Si sporse in avanti, poggiò i gomiti al
tavolo e il mento sulle
mani giunte, sfarfallando le ciglia in direzione di Norja:
“Cosa devo fare per starti
simpatico?”
Lo chiedeva come se davvero si
aspettasse delle istruzioni
in risposta. E sembrava assolutamente serio.
Decise di accontentarlo.
“Lasciarmi in pace.”
Tom imbronciò
capricciosamente le labbra.
“Ma che senso ha starti
simpatico se poi non posso parlare
con te?”
Maschio, tedesco, ventuno anni,
professione rockstar.
Diagnosi: pazzo da legare. Non era così che, a suo tempo,
Norja se l’era
immaginato.
“Senti,” Si chinò in avanti, incrociando
le braccia. “So che ti potrà sembrare
indelicato, ma… Che cosa vuoi da me?”
Imperturbabile, Tom la
imitò:
“Come cosa voglio? Ci siamo divertiti così tanto,
ieri sera!”
Il suo modo di fare turbava
profondamente Norja, che già di
suo aveva da sempre avuto qualche problema di concentrazione.
Probabilmente lui
non era nemmeno consapevole dell’ingombranza della propria
presenza.
“Credo che tu mi stia
scambiando per un’altra.” Sottolineò,
sottraendo il bricco del latte alle grinfie di Tom appena prima che
potesse
impossessarsene. “Io ero quella del tetto. Ti ricordi? Quella
a cui hai
rovinato gli anfibi e che volevi buttare giù dal
cornicione.”
“Ok, parentesi omicida a
parte.” Sdrammatizzò Tom,
infilandosi in bocca l’ennesima cucchiaiata di cereali, gli
occhi che
studiavano il contenuto del vassoio di Norja. “Posso
assaggiare la tua marmellata?”
“No.”
“Grazie.”
Logicamente, Tom allungò
la mano e intinse un dito nella
ciotolina di marmellata, portandoselo poi alla bocca per succhiarlo con
gusto.
Norja era basita, e non tanto per il
deliberato affronto.
Ignora il lato erotico del gesto. Ignora
il lato erotico del gesto. Ignora il lato erotico del gesto,
si ripeteva
disperatamente, concentrandosi con zelo eccessivo sulla raffinata
metodologia
di stesura del burro su una fetta biscottata.
“Credo che le tue sinapsi abbiano qualche
difficoltà ad associare la parola
‘no’ al concetto di negazione.” Gli
disse, senza osare guardarlo, in caso il
suo dito si fosse trovato ancora in prossimità delle labbra
o in quei
pericolosi dintorni.
Era umiliante essere di dieci anni al
di sopra dell’età
media delle fan più svitate ed essere notevolmente
più malmessa di loro.
“Le mie che?”
biascicò Tom, masticando.
“Ecco, appunto.”
“Ma mangi sempre
così poco?”
“Non è poco,
è una normalissima colazione.”
“Mi fai assaggiare quella specie di gelatina rosa?”
Norja indugiò un istante,
riflettendo.
“Sì.” Rispose poi.
“Grazie!”
Tom fece per avventarsi sulla
gelatina di lamponi, ma Norja
gliela portò via appena in tempo. Lui la guardò
deluso, il cucchiaio ancora
fermo a mezz’aria.
“Ho detto di sì nella speranza che ti facesse
l’effetto contrario di un ‘no’, ma
evidentemente è solo con le proibizioni che hai dei problemi
recettivi.”
“Mamma mia, che termini
aulici… Si chiama ostentazione, lo
sai?”
“Anche quel tuo sorrisino spavaldo.”
Tom si sciolse in una risata
rilassata.
“Anziché
‘Divieto di accesso’, su quel cartello ci dovevano
mettere ‘Lasciate ogni speranza voi
ch’entrate’.”
“E magari anche
‘Per me si va nell’eterno dolore, per me si
va tra la perduta gente’…”
“Non male come
idea.” Convenne lui, annuendo. “Sicuramente
più efficace del ‘Divieto
d’accesso’. Devo ricordarmi di accennarla al
direttore dell’hotel.”
“Buona fortuna.”
“Quelle cosine bianche che
galleggiano nel tuo latte cosa
sono?”
“Avena.”
“Ha un aspetto
disgustoso.”
Norja represse un sospiro.
Di tutte le
calamità
che mi si potevano scagliare contro, perché proprio lui? Le
cavallette sono
passate di moda?
“Ti ho forse chiesto di analizzarmi la colazione?”
“No, è che sto
cercando di capire cosa può spingere una
persona sana di mente a ingoiare quella roba, ma suppongo che tu sia il
soggetto sbagliato a cui chiedere.”
“Hai una parlantina degna
di un Kaulitz, devo dire. Al
confronto tuo fratello rischia di sembrare un pesce rosso.”
“Vedi?” Tom
sollevò sfacciatamente un sopracciglio. “Certe
cose sui DVD non le trovi. Bisogna conoscermi per scoprire il meglio di
me.”
“E quando ti deciderai a mostrarmelo?”
“Indignitoso colpo
basso.”
Norja lo studiava a tratti, un
dettaglio per volta. La prima
cosa che aveva notato erano stati i vestiti un po’ sciupati,
poi i piccoli
difetti cutanei del viso, lasciati scoperti dall’assenza di
ritocchi di trucco;
poi ancora si era lasciata fugacemente distrarre dalla stanchezza dei
suoi
occhi, opachi e gonfi di sonno arretrato o disturbato. Ora, invece, era
il
turno delle labbra, morbide e carnose, ma rovinate da una serie di
minuscoli
taglietti tipici dell’aggressivo freddo invernale.
“Devo pur difendermi dalle
tue molestie.” Gli disse,
strappando a forza la propria attenzione dall’oggetto delle
sue considerazioni.
Pensò che Tom avrebbe dovuto indossare per legge un cartello
con un chiaro
avvertimento stampato sopra: ‘Attenzione: la prolungata
visione di questo
soggetto causa dipendenza. In caso di deficit cardio-respiratori,
consultare il
medico con urgenza’.
Nel frattempo Tom, che era riuscito a
spazzolare tutto
quello di cui si era servito nella metà del tempo in cui lei
aveva vuotato la
tazza di avena, aveva messo su un faccino tutto occhi languidi e
ammiccamenti:
“Ti sto molestando?”
Occhiata di fuoco.
“Tu che dici?”
“Ti risulterei meno molesto
se tu ti dimostrassi un po’ meno
indisponente nei miei confronti.” Sostenne lui, compunto.
“Mi dà fastidio
averti intorno!” protestò Norja con fervore
forse eccessivo. Non lo voleva offendere, ma la stava esasperando.
“Ma
perché?” le chiese lui, non meno esasperato di
lei, e
altrettanto dispiaciuto.
“Perché sì, accidenti!”
“Mamma mia, come sei
complicata! Quasi preferisco quelle che
mi comunicano sconcezze tramite ultrasuoni isterici.” La
osservò in tralice per
qualche secondo, pensoso. “Perché non sortisco
questo tipo di effetto, su di
te?” ebbe poi la delicatezza di domandarle.
“Ego ferito?” tentò di svicolare lei,
che iniziava a mal tollerare quella
domanda insistente.
“No, sul serio.” Tom si era impuntato e non voleva
mollare. “Non ti piaccio,
fisicamente?”
Non c’era fair play, in
quel gioco: era tremendamente
sleale, da parte di Tom, tirare fuori tutti quei tiri mancini
consecutivi,
senza darle nemmeno modo di riprendersi tra l’uno e
l’altro. I suoi occhi erano
destabilizzanti. Le sue labbra erano destabilizzanti. I lineamenti del
suo viso
erano destabilizzanti. I suoi sorrisi erano destabilizzanti. Le sue
mani erano
destabilizzanti. Perfino il suo respiro era destabilizzante.
Non c’era nulla di
più sciocco che chiederle se lui non le
piacesse fisicamente.
“Tom, siamo obiettivi: sei
così disgustosamente, irritantemente,
sfacciatamente bello che ogni volta che ho la malaugurata e
masochistica
avventatezza di guardarti ho paura che l’imbarazzante fangirl
che è relativamente
assopita in me se ne torni alla carica e io finisca per sembrarti solo
un’altra
stupida, patetica ragazzina decerebrata.”
Aveva sciorinato quella risposta
così rapidamente e
nervosamente che perfino lei aveva dubbi sulla
comprensibilità di quanto aveva
appena detto. E infatti Tom la stava guardando con la faccia di uno che
aveva
tutt’altro che afferrato anche solo metà discorso.
Per fortuna,
si
disse Norja.
“Wow…”
Tom batteva le ciglia in modo mortalmente,
adorabilmente smarrito. “Non ho capito niente, ma
è stato un gran bel discorso.
Mi sono commosso.”
Come
volevasi
dimostrare, si rincuorò lei. Il suo inglese
stretto doveva essere non
proprio immediato per uno come lui, abituato a un impastatissimo
americano.
“Te lo rifaccio in olandese?” gli propose.
Tom negò con una mano.
“No, grazie. Sei già abbastanza inquietante in una
lingua che conosco.” Si
riempì la bocca dell’ultima badilata di cereali,
masticò grossolanamente e
deglutì, pulendosi poi la bocca con il tovagliolo.
“Allora,” riprese subito
dopo. “Dove ce l’hai questa intervista?”
“Alexanderplatz.” Disse, senza interesse.
“Classica intervista superspontanea
all’aperto, al freddo, al gelo e alle intemperie. Uno spasso
stratosferico,
insomma.”
“Posso venire
anch’io?”
Il boccone di pane che Norja stava
ingoiando le si bloccò a
metà gola, causandole un violento accesso di tosse.
“Scherzi?” biascicò, non appena ebbe
riacquisito un minimo di regolarità
respiratoria. Le lacrimavano gli occhi.
Tom non finse nemmeno di aiutarla con
qualche pacca sulla
schiena. Sorrise, semplicemente.
“Sì.”
Nonostante il rischio di asfissia
appena scampato per
miracolo, e non certo grazie al gentiluomo che la accompagnava, Norja
si sentì
molto risollevata.
“Sia ringraziato il cielo. È la prima buona
notizia di stamattina.” Sospirò.
Aveva seriamente creduto che lui volesse andare con lei
all’intervista. Si
passò velocemente il tovagliolo sulle labbra e lo
posò sul tavolo, poi prese la
borsa e si alzò in piedi, sotto allo sguardo interrogativo
di Tom. “Ora, se mi
vuoi scusare, vado a prepararmi.”
“Ci vediamo per pranzo?”
“Preferirei che almeno il pranzo non mi restasse sullo
stomaco.”
Tom rise, scuotendo la testa.
“Che simpatica che
sei!”
“Ma tu lavorare no? Ti pagano solo per essere
bello?”
“Oggi siamo
liberi.” Le comunicò lui. “Non sei
contenta?”
Oh,
sì, potrei morire…
“Come un condannato che imbocca il Miglio Verde.”
Affatto impressionato, Tom
afferrò la brocca del latte, se
ne versò un po’ nella tazza del caffè,
e prese a sorseggiarlo.
“Allora ci vediamo più tardi?”
Lei stiracchiò rigidamente
gli angoli della bocca.
“Se dio vuole, no.” Mormorò tra i denti.
“Addio.”
Mentre si affrettava a lunghe falcate
verso l’uscita della
sala da pranzo, Norja udì distintamente la voce di Tom alle
proprie spalle che
esclamava:
“A dopo!”
Lei imprecò tra
sé e sé.
Se fosse sopravvissuta a quella breve
permanenza a Berlino, non
si sarebbe mai più lamentata di niente.
***
Il Ritz-Carlton era sempre stato una
garanzia per i Tokio
Hotel: lussuoso, personale educato che sapeva stare al suo posto, spazi
ampi e
comodi e, soprattutto, clientela rara e molto esclusiva. Era bello
potersi
sedere tranquillamente al tavolo ed essere serviti senza avere sguardi
inopportuni ad indagare ogni loro singolo movimento.
“Tom, aspetti
qualcuno?”
Tom ripiombò nella
realtà dopo aver fissato, e senza nemmeno
rendersene conto, l’ingresso della sala per dieci minuti
buoni.
“Come?” Dovette
impegnarsi non poco per andare a ripescare
nella memoria inconscia a breve termine quello che aveva sentito dire
dalla
voce di Gustav, senza però elaborarlo. “Oh,
be’, no, è che…”
Stava farfugliando. Grandioso. Gli ci
voleva un altro po’ di
arrosto per carburare meglio.
“Lasciamolo stare,” Intervenne Bill, misericordioso
come non mai. “Dev’essere
il trauma della levataccia all’alba di stamattina.”
“Non era l’alba,
erano le nove!” puntualizzò Tom,
sbadigliando di riflesso.
“Ah, giusto,” rettificò Bill.
“Volevo dire notte fonda.”
“Sai, Tom, la forchetta
funziona meglio se la usi sul cibo.”
Gli consigliò Georg. Tom abbassò lo sguardo:
erano almeno due minuti che stava
tentando di infilzare la nuda ceramica del piatto.
“Io lo dico sempre che
questo qui non è a posto con la
testa,” disse Bill in tono di sufficienza, servendosi con
grazia una porzione di purè di patate. “Ma, no, non diamo retta a Bill,
lui è troppo bello
per dire qualcosa di intelligente.”
Tom non raccolse la provocazione, non
per mancanza di
spirito di confronto, ma perché era di nuovo intento a
fissare l’enorme doppia
porta dell’ingresso, da cui però non era entrato
altro che una coppia di
anziani signori eleganti. Non esattamente quello che si aspettava lui.
“Tom,” intervenne
Georg. “Non sono sicuro se te lo abbiamo
già chiesto, ma… Aspetti qualcuno?”
“Perché dovrei?” ribatté Tom,
senza muovere la testa di un millimetro.
“Non so,” disse
Georg. “Non fai che continuare a voltarti
verso l’ingresso della sala, e dubito – spero
– che non sia la maitresse ad attirarti, perché
sinceramente la trovo un
tantino al di sotto della media generale, e almeno un milione di
chilometri al
di sotto della tua.”
“Eh?”
“Lasciamo stare.”
“Hey, guardate un
po’ quella!” trillò Bill ad un tratto,
puntando maleducatamente il dito nella direzione in cui Tom aveva
guardato fino
a un attimo prima. Si girò speranzoso, e non fu una speranza
vana: in fondo
alla sala c’era una ragazza con vistosi capelli rossi e
vestita in modo
decisamente anonimo, almeno rispetto a quanto aveva visto Tom la sera
precedente. Niente tinte strane tipo viola o fucsia, niente gonne ampie
e lunghe,
niente felpe da adolescente: Norja portava un tailleur pantalone nero
sopra una
semplicissima camicia bianca, un paio di decolleté nere ai
piedi. Era anche
truccata in modo abbastanza cupo, rispetto alla volta prima, anche se
il
rossetto color sangue di rompipalle era sempre lo stesso.
Bill la radiografò da capo
a piedi con un’aria
drammaticamente critica:
“Ho le traveggole o ha
proprio i capelli raccolti in una
treccia? Fa così trasandato… E sta malissimo con
i vestiti che porta!”
“Hey, sta guardando da
questa parte.” Notò Gustav.
Gli occhi di Norja, in effetti,
puntavano dalla loro parte,
e la sua espressione non poteva dirsi proprio entusiasta. Anzi.
“Sembra
terrorizzata.” Osservò infatti Georg.
Ma Tom, incurante del puro orrore
comparso sul viso pallido
di Norja, si alzò in piedi e sventolò una mano in
aria per richiamare la sua
attenzione:
“Hey, Finlandia!”
Bill sollevò gli occhi
sgranati su di lui:
“La conosci?”
“Più o
meno.” Rispose Tom, mentre Norja faceva una
piccolissima smorfia di panico. “Non vieni a
salutare?” la esortò.
Dall’espressione che lei
assunse, sembrava quasi che Tom le
avesse chiesto di ingoiare un rospo vivo (e forse addirittura le
sarebbe stato
preferibile a quell’invito), ma non aveva molta scelta:
tutti, membri dello
staff compresi, la stavano ormai fissando dai rispettivi tavoli, in
attesa.
Con una rigidità degna di
una trave d’acciaio, Norja prese
un lungo respiro e si incamminò verso di loro a passo
tutt’altro che
entusiasta. Quando arrivò a un metro dal loro tavolo, si
fermò e gettò a Tom
un’occhiatina tagliente.
“Ehm…
Buongiorno.” Salutò timidamente, passando in
rassegna
non solo Bill, Gustav e Georg, ma anche le facce curiose di David,
Benjamin,
Dunja, Natalie e suo figlio.
“Ciao.” Fu la perplessa risposta semicorale.
“Ragazzi,” Tom le
prese un polso e la attirò vicino al posto
vuoto che c’era a capotavola, proprio accanto a lui.
“Questa è Norja Schwartz.”
“Norja Schwartz?”
si stupì Dunja. “La scrittrice?”
“Già.”
“Non ti avrei mai
riconosciuta senza la mascherina.” Disse
Georg, studiandola attentamente.
“Già.”
“Sei una di molte parole,
vero?” commentò Bill
sarcasticamente, squadrandola con occhio critico.
“Già.”
“Ciao, Norja,”
Gustav le sorrise e le allungò amichevolmente
la mano. “Io sono –”
Norja si ritrasse come
un’anguilla minacciata da una
fiocina.
“So chi siete.”
Disse rapidamente. “È stato un piacere.
Arrivederci.”
Fece per girare sui tacchi e sparire,
proprio come aveva
fatto la mattina stessa, ma Tom fu abbastanza svelto da riuscire a
riacciuffarla appena in tempo.
“Aspetta, dove te ne
vai?”
“A mangiare, spina nel
fianco.”
“Puoi mangiare con
noi.”
Per un nanosecondo l’orrore
iniziale tornò a lampeggiare negli
sgomenti occhi di Norja.
Perché
un’offerta che
farebbe collassare dalla gioia qualsiasi altra ragazza, a lei fa
quest’effetto minatorio?
“Ricordi quando ti dicevo che non volevo che anche il pranzo
mi restasse sullo
stomaco?” sbottò Norja, le guance rosse come
ciliegie. Tutti la fissavano a
bocca aperta, e questo la rendeva platealmente nervosa.
“Tom, che cosa le hai fatto
per meritare tanto astio?”
domandò Benjamin, mentre due fossette deliziate gli
apparivano nelle guance.
Tom fece spallucce.
“Non ne ho idea. Be’, a parte rovinarle le scarpe,
ma è stato un incidente.”
“E volevi che mi suicidassi
buttandomi sulla terrazza della
suite di Georg.” Puntualizzò lei.
Georg emerse dal suo bicchiere di
spremuta d’arancia con
un’espressione confusa:
“Cosa c’entra la mia terrazza?”
“Siete voi che vivete con
questo squinternato da una vita,”
replicò lei. “Speravo che le aveste voi, delle
risposte.”
“Devi scusare mio fratello,
Norja.” Intervenne Bill,
tamponandosi delicatamente le labbra con il tovagliolo. “Non
so spiegarmi come
un essere così rozzo possa essere uscito dal mio stesso
embrione.”
“Su, siediti.”
Gustav scostò una sedia e fece cenno a Norja
di accomodarsi. “Tom lo curiamo noi.”
Lei arretrò di un passo,
sempre più a disagio.
“Non è davvero
il caso.”
“Non mi dirai che sei una
di quelli che ci detestano!” si
indignò subito Bill.
Norja perse di colpo colore.
“Tutt’altro,”
pigolò, disperata. “È
che…”
È
che… Cosa?, si
chiese Tom, divertito, intercettando il suo sguardo ansioso.
“Non ti mangiamo,
promesso!” le assicurò Georg.
“No, eh?” fece
lei, quasi delusa. Lanciò uno sguardo
apprensivo ai tavoli vicini, occupati dai membri dello staff del
gruppo, che la
occhieggiavano incuriositi, e alla fine si decise a sedersi.
Era un fascio di nervi.
Tom fermò una cameriere e
le fece ordinare qualcosa. Gustav
le versò addirittura un po’ d’acqua per
aiutarla a rilassarsi; Norja lo
tracannò in un sorso, ma non sortì alcun effetto.
“Allora,
com’è che vi conoscete, voi due?” volle
sapere
Georg, mentre si tagliava un pezzo di bistecca.
“Ieri sera le ho impedito di buttarsi dal tetto.”
Affermò Tom, orgoglioso.
Gustav si accigliò:
“Sbaglio o la sua versione
era diversa?”
“Veramente è
stato a causa sua che stavo per farlo, ma penso
sia questione di punti di vista.” Soggiunse Norja, gettando a
Tom uno sguardo
obliquo.
“Che cosa ci facevate sul tetto?”
“Io c’ero andata per godermi un po’ di
sano relax. Poi purtroppo è arrivato
lui.”
“E tu sei stata scortese
fin da subito.” La rimproverò scherzosamente
Tom, con una gomitata.
“Vorrei vedere se fossi
stata io a rovinarti le scarpe!”
“Senti, te li pago quei
maledetti anfibi, va bene?”
“Nonostante la vita degli
scrittori sia ben misera, ti posso
assicurare che non sono così malmessa da ridurmi ad
accettare la carità.”
“Ce la regali qualche copia
autografata dei tuoi libri?” si
intromise Bill, senza quasi sollevare lo sguardo dal proprio piatto. La
proposta gelò letteralmente Norja sul posto.
“Scherzi?”
Bill la guardò con
un’espressione di sorpresa mista a
perplessità:
“No. Mi piace la tua
saga.”
Il rossore iniziale delle gote di
Norja sembrava essere
diventato solo un vago ricordo, completamente obliato dal crescente
pallore che
stava calandole sul viso.
“Tu hai letto i miei
libri?”
“Tu hai letto i suoi libri?” le fecero eco Tom,
Gustav e Georg, in coro.
Bill si strinse nelle spalle con
assoluta indifferenza.
“Sì.
È brava.”
“Lo posso far scrivere
sulle copertine?” lo pregò lei.
“‘Consigliato
da Bill Kaulitz’. Potrei diventare ricca.”
Bill si strinse di nuovo nelle spalle.
“Per me non
c’è problema.”
“Allora, Norja,”
Gustav la interpellò proprio mentre lei si
infilava in bocca un grissino. “Come mai sei a
Berlino?”
“La mia casa editrice mi ha minacciata di crocefiggermi se
non me ne fossi
andata un po’ in giro a promuovere l’ultimo
libro,” borbottò Norja, deglutendo.
Alzava gli occhi solo per brevissimi istanti, e mai due volte di
seguito sulla
stessa persona. “Quindi sono a zonzo per l’Europa a
massacrarmi il polso per
migliaia di autografi, augurandomi che non mi venga un esaurimento
prima di
iniziare il round in Nord America. Dopo anni di perplessità,
finalmente ho
capito perché quando firmate voi sembra sempre che non
abbiate mai preso in
mano una biro in vita vostra.”
“Oh, no, loro firmavano
così anche prima di consumarsi i
polsi con gli autografi.” Le rivelò Georg, con una
risata.
“A proposito,”
intervenne Tom. “Quasi non ti riconoscevo,
vestita così. Ti avevo quasi scambiata per una persona
normale.”
“Vorrei poter dire lo
stesso di te.”
Bill, Gustav e Georg scoppiarono a
ridere, e con loro anche
il resto della tavolata, che aveva inevitabilmente origliato.
“Hey, Tom, hai trovato pane
per i tuoi denti, eh?”
sghignazzò David, dal lato opposto del tavolo.
“Più che pane,
cemento armato.” Borbottò Tom, anche se,
intimamente, era consapevole del fatto di trovare Norja così
interessante
proprio per via di quella verve che la contraddistingueva. Lo
divertiva
punzecchiarsi con lei. Quello che ancora non gli era ben chiaro era se
per lei
fosse lo stesso, o se effettivamente non lo sopportasse. Una discreta
parte di
lui aveva il timore che si trattasse della seconda opzione.
“Certo che per conoscervi
da poche ore avete una certa
confidenza…” commentò Georg, spostando
lo sguardo da Tom a lei.
Norja agitò la mano con
indifferenza.
“A vedere
com’è cominciata ieri sera, credevo che a
quest’ora almeno uno dei due sarebbe già stato tre
metri sottoterra.”
“Possibilmente
tu.” Disse Tom.
“Perché proprio
io?”
“Perché se tu crepi, non ci va di mezzo nessuno.
Se crepo io, lascio un gruppo
che senza di me non varrebbe niente e venti povere chitarre che
starebbero
malissimo senza il loro papino.”
“Non
so…” rifletté Georg, serio.
“Quel tizio che suonava qua
fuori l’altro giorno era piuttosto bravo.”
“Fottiti!”
“Non essere volgare,
SNF!” lo sgridò Norja, allungandogli un
pugno sul braccio.
“SNF sta per Stupido
Ninfomane Fallocrate?” si informò
Gustav, mentre Tom si prodigava in un gemito di dolore esagerato,
reggendosi il
punto in cui Norja lo aveva colpito.
“Per Spina Nel Fianco,
veramente, ma ora che mi ci fai
pensare Stupido Ninfomane Fallocrate suona meglio!”
“Non è che
adesso vi dovete alleare tutti con lei!” protestò
Tom, iniziando a stancarsi del cambio di punto di vista: di solito era
lui a
prendere in giro.
“Ma guarda
com’è carina!” chiocciò Bill,
carezzando amorevolmente
la testa di Norja. “Potremmo adottarla!”
Lei era visibilmente spaesata,
così circondata di interesse
e attenzioni. Appena Bill la aveva toccata era arrossita, ma almeno non
lo
aveva verbalmente aggredito. Tom avrebbe tanto voluto sapere
perché si comportasse
in modo così diverso, con gli altri.
“Al massimo è
lei che adotta noi, visto che è quasi in età
da prepensionamento.”
“Ma smettila!” lo
rimbrottò Bill. “Quanti anni hai, Norja?
Diciannove? Venti?”
“Venticinque tra qualche mese.”
“Sembri molto più piccola! Hai un visetto da
bambina.”
“Un serio problema, se sei
adulta e vaccinata e ogni volta
che devi entrare in qualche locale sospettano che tu abbia falsificato
la carta
di identità.”
Tom schioccò la lingua.
“Non so come funzioni in
Olanda, ma qui nei locali pubblici
gli animali potenzialmente pericolosi non sono ammessi. La prossima
volta prova
a presentarti con la museruola.”
“È quello che
dicono di solito a te?” ribatté lei, soave.
I ragazzi scoppiarono a ridere in
faccia a Tom.
“Tom, devi impegnati di
più.” Lo ammonì Georg, gli occhi
umidi dalle risate. “È una spanna sopra di te, la
fanciulla.”
“Questo solo
perché lei con la retorica ci campa.”
Grugnì
lui. “Scommetto che se le pianto in mano una chitarra, vinco
a occhi chiusi.”
“Quanto vogliamo
scommettere?”
Tom si voltò
interrogativamente verso Norja:
“Come?”
“Quanto vogliamo scommettere su una sfida tra noi due a colpi
di chitarra?” rispose
lei. “Facciamo mille?”
“Mille?” Tom non
capiva, diceva sul serio?
“Duemila?”
Tom boccheggiò, interdetto
e attonito:
“Tu suoni la chitarra?”
“Sì.” Norja sollevò
fieramente il mento. “Mio padre è
nell’ambiente
discografico, ho preso lezioni da Brian Jones in persona.”
“E chi
è?”
“Il chitarrista dei Rolling Stones.” Rispose Gustav
prontamente.
Tom assunse un’espressione
scioccata e molto preoccupata.
“Ah.”
Georg scoppiò a ridere.
“Che
c’è?”
“Tom, dovresti vedere la tua faccia!”
“Be’, sono impressionato!”
“Sono sicuro che lo saresti ancora di più se
sapessi che Brian Jones è morto
nel ‘69.”
La realizzazione ci mise qualche
secondo ad arrivare, ma
finalmente Tom comprese: era stato di nuovo platealmente gabbato.
“Hai mentito!”
accusò Norja, puntandole contro un dito.
“Ti prendevo solo in
giro.”
“Quindi non sai suonare la chitarra?”
“A meno che non si tratti di una partita a Guitar Hero, no. E
anche in quel
caso faccio abbastanza pena.”
“Meno male.” Tom
trasse un sospiro di sollievo. “Iniziavi a
farmi paura.”
Il cameriere arrivò con
l’ordinazione di Norja e lei si
buttò sul piatto con eccessivo entusiasmo, come se non
vedesse l’ora di
sottrarsi alla conversazione. La lasciarono mangiare per un paio di
minuti, ma
poi, dopo un po’ che la studiava, Georg le chiese:
“Arrivi da un impegno
mondano?”
“Una cavolo di intervista
per RTL.” Biascicò lei, masticando
una forchettata di insalata.
“Com’è
andata?”
Un’espressione di
sofferente rimembranza affiorò sul viso di
lei:
“È durata il
doppio di quello che doveva, quell’idiota del
veejay continuava a sbagliare la pronuncia del mio nome, quella cima
della sua
collega non sapeva dire niente in inglese se non
‘È fantastico!’, e un
telespettatore ha chiamato da casa per farmi una pretenziosa e alquanto
volgare
proposta di matrimonio. Ma, a parte questo, splendidamente.”
Tom si riscoprì a
sorridere. Anche se non aveva mai letto
nulla di suo, capì perché Norja era una
scrittrice così famosa: aveva carattere
nel raccontare le cose, nel scegliere toni e termini, nel comunicare.
“E dove hai imparato
così bene l’inglese?” le stava
domandando Gustav, intanto.
“Sui libri.”
“Beata te. I nostri
facevano schifo, e gli insegnanti erano
anche peggio.”
“Non sui libri di scuola. Sui libri che ho letto.”
“Che noia!”
sbuffò Bill. “A questo punto tanto vale parlare
del tempo!”
“Bill, non essere
scortese!”
“Scusate, ma era di gran
lunga più interessante guardare lei
e Tom che si prendono a legnate verbali.”
“Vorrei dargli torto, ma
non posso.” Sorrise Gustav.
“È proprio
graziosa, vero?” affermò Bill, voltandosi verso
Norja con un’espressione deliziata. “Le metterei un
guinzaglio rosa e la
porterei a zompettare in un parco.”
Tom spalancò gli occhi,
sconvolto. Tutto poteva capire,
tranne che quel ‘graziosa’. Come si faceva a
ritenere ‘graziosa’ una così
sboccata e maleducata?
“Graziosa? Lei?”
“Dovrei avere l’aspetto di una tenebrosa donna del
mistero, non di un cucciolo
di Labrador!” si lamentò lei.
“Io pensavo a un Cocker,
visti i tuoi capelli.” Rifletté
Bill, pensoso, squadrandola di sotto in su. “Non puoi fare il
Cocker?” la
pregò, implorante.
“Ma quale
Cocker!” esclamò Tom, sghignazzando. “Al
massimo
può fare il Mastino.”
“Ti chiamerò
Lilli!” decise Bill, ormai partito per la
tangente. “Poi con calma ti troviamo il tuo Vagabondo,
ok?”
“Sì, ti ci
vedrei con un barbone!” approvò Tom.
Norja lo trafisse con uno sguardo
ammonitivo:
“Buono, SNF. Non vorrei che
ti venisse qualche ruga a fare
tutte quelle smorfie. Ti conviene stare attento, perché se
perdi il tuo appeal
non vali un soldo bucato.”
Lui stavolta non riuscì a
trattenersi: o lei gli confessava
quale problemi avesse con lui, o la piantava.
“Mi vuoi spiegare cosa ti
ho fatto, una volta per tutte?”
Norja si portò una mano
alla fronte, chinando pazientemente
la testa.
“Oh, no,
ricomincia…”
“Tu mi detesti!”
“Come ho già
detto le prime mille volte, Stupido Ninfomane
Fallocrate: io non ti
detesto!”
“Mi tartassi
così per puro diletto, allora?”
“Sì.”
“Venticinque anni di
stagionatura proprio ben riuscita, devo
dire.”
Norja inspirò a fondo, gli
occhi chiusi, e quando li riaprì
gli parve stranamente arrendevole.
“Ti lamenti tanto di come
ti tratto, ma non è che tu sia
tanto più bendisposto di me.”
“Ma ho una reputazione da difendere, io!” si
giustificò Tom, sfoderando un
lieve sorriso sfrontato. “Guai se qualcuno sospettasse che ti
trovo così
adorabile!”
“La faccia prima di
tutto.” Convenne Georg solennemente.
Ma Norja si era irrigidita e fissava
il proprio piatto con
insistenza senza fiatare.
“Groenlandia?”
Tom si chinò in avanti, cercando di guardarla
in faccia. “Va tutto –?”
“Scusatemi.”
Mormorò rapidamente lei, scattando in piedi
come se avesse preso qualche scossa, lo sguardo sempre basso, nascosto
sotto
alla frangetta. “Grazie della compagnia, ma ora devo
andare.”
“Ma…”
“Scusatemi.”
Ripeté Norja, in un tono strano che sembrava
quasi sconvolto, e si volatilizzò in cinque secondi netti.
“Ha dimenticato la
giacca.” Notò Gustav.
Tom guardò la sedia che
aveva occupato Norja solo pochi
istanti prima: la sua giacca di velluto nero, in effetti, era ancora
lì.
“Tom, ma che cosa le hai
detto?” gli chiese Bill, in tono
accusatorio.
Tom non avrebbe saputo cosa
rispondere: era perplesso quanto
lui. Guardava ora la giacca sullo schienale della sedia, ora
l’uscita della
sala da pranzo, incapace di mettere insieme i pezzi in modo logico e
comprensibile.
Una ragazza
normale e
sana di mente non la posso incontrare?
“Ma io…
Niente... Credo.”
***
Quando Norja arrivò di
fronte alla porta della propria
stanza, le mani le tremavano così tanto che a malapena
riuscì a reggere la
tessera per infilarla correttamente nella serratura. Entrò
in fretta e si
richiuse la porta alle spalle, appoggiandovisi contro con la schiena
mentre il
suo cuore pompava così rapidamente da farla respirare a
fatica.
Malediva il momento in cui il destino
le aveva piazzato Tom
Kaulitz davanti con quell’inaccettabile e perfida nonchalance.
Una passava la vita a perdersi in
scintillanti
fantasticherie utopistiche, sentendosi sicura all’interno dei
solidi ed
invalicabili confini dell’immaginazione, e poi un bel giorno,
all’improvviso,
illusione e realtà si scontravano nell’improbabile
scenario del tetto di un
hotel.
Era tutto dannatamente sbagliato.
Buttò la borsa a terra e
quasi si strappò di dosso la
sciarpa. Sperò che la sensazione di freddo che avvertiva non
fosse dovuto a un
principio di influenza, perché la sua agenda era
così fitta di impegni che se
solo avesse avuto bisogno un solo giorno di riposo, qualcuno ai piani
alti
avrebbe chiesto la sua testa su un vassoio d’argento.
Doveva riuscire a darsi una calmata
entro un’ora, o
rischiava un collasso nervoso nel bel mezzo della signing session, e la
solita
dose di valeriana, stavolta, non sarebbe di certo bastata.
***
La hall dell’hotel era
deserta, per fortuna, e non si
vedevano ficcanaso in giro. Con sollievo, Tom si avvicinò
alla reception, la
giacca di Norja sul braccio, e fu accolto da un uomo cordiale sulla
quarantina
che aveva un aspetto piuttosto altero.
“Mi scusi,” gli
disse. “Sono Tom Kaulitz, alloggio qui. Mi
saprebbe dire in che stanza alloggia la signorina Norja
Schwartz?”
L’uomo scosse la testa
senza scomporsi.
“Mi dispiace, signore, ma
non posso fornirle questo tipo di
informazioni.”
Calma, Tom,
calma…
“Le spiego: abbiamo pranzato insieme qui in hotel, solo che
quando lei se n'é
andata ha dimenticato la giacca e ora gliela vorrei
restituire.”
“Se vuole lasciarla a me,
gliela posso far avere io.”
“No, vorrei dargliela di
persona.”
“Allora non posso
aiutarla.”
Tom trattenne a stento un gemito
frustrato.
Dio, che
palle che
sei, vecchio!
“Non la può
nemmeno chiamare?” insisté, supplichevole.
“Solo
per avvertirla che la sua giacca ce l’ho io.”
L’uomo parve ammorbidirsi
impercettibilmente. Si spostò di
qualche centimetro e si mise davanti a uno schermo ultrapiatto, le dita
posizionate sulla tastiera.
“Che nome aveva detto?”
“Norja Schwartz. Schwartz come nero, ma con la T.”
Tom attese che lui digitasse e
controllasse, ma la faccia
che fece alla fine non promise nulla di buono.
“Sono spiacente, ma non mi
risulta nessuna Norja Schwartz
tra le prenotazioni.”
Tom si diede dell’idiota.
Era ovvio che non ci fosse nessuna
Norja Schwartz: il check in negli hotel richiedeva dei documenti di
identità,
quindi non poteva essersi registrata con il nome d’arte, ma
solo con quello di
battesimo.
Già, se solo lui lo avesse
conosciuto, il suo nome di
battesimo…
“Non può fare
una ricerca? È una ragazza giovane,
stravagante, non è qui da molto…”
L’uomo esibì un
sorriso plastico e tirato.
“Signore, la prego, non insista.”
“Non mi costringa ad andare
a bussare a tutte le dannate
porte di questo dannato albergo!” sbottò Tom,
esasperato. Non era abituato a
non ottenere quel che voleva, e per di più questa volta ci
teneva davvero. Era
solo una stupida giacca, in fondo, eppure, sì, ci teneva.
“Signor Kaulitz,”
gli intimò l’uomo, con falsa cortesia.
“In
qualità di direttore del suddetto dannato albergo, la devo
pregare di non
creare problemi ai miei clienti, altrimenti sarò costretto a
prendere
provvedimenti.”
“Va bene, va
bene!” ringhiò lui, sollevando le mani in segno
di resa. “Grazie tante dell’aiuto!” Poi
gli voltò le spalle e se ne andò,
fumante di rabbia.
Vaffanculo,
Norja, o
come cazzo ti chiami!, imprecò fra sé,
infilando l’ascensore.
Aveva la sua giacca, erano nello
stesso hotel, si
conoscevano, e nemmeno sapeva come arrivare a lei. Non sapeva nemmeno
se
sarebbe riuscito a rivederla prima che entrambi se ne andassero.
Forse avrebbe voluto salutarla.
Forse gli sarebbe mancata.
Forse avrebbe voluto chiederle almeno
un contatto.
Invece no.
Forse non era destino.
Vaffanculo,
sì.
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Note:
phew, dopo mille mila anni, ce l’ho fatta! ^^ Vi avevo detto
che questa storia
sarebbe stata subordinata in importanza alle altre, quindi
comprenderete il
ritardo. Insomma, ecco il secondo capitolo! Spero tanto che, anche se
è
dichiaratamente molto meno curata nella forma e nelle descrizioni,
anche questa
ff vi piaccia. Il titolo di questo capitolo è lo stesso di
una bellissima
canzone dei Massive Attack, che consiglio di ascoltare.
Ringrazio tutte voi che avete letto,
commentato e aggiunto
la storia tra le preferite e seguite, e mi auguro, come al solito, che
continuerete così! :)
Nel prossimo capitolo vedremo Norja
che cerca di godersi una
delle sue poche giornate normali con la peggior zecca del mondo alle
calcagna,
aka Tom Kaulitz. Stay tuned! ;)
Alla prossima!
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Capitolo 3 *** One Day In Your Life ***
Seconda notte semi-insonne. Seconda
notte tormentata da
strani incubi indefiniti che le avevano impedito di dormire
decentemente. Non
ricordava nemmeno che cosa avesse sognato, ma sperava che fosse
l’ultima volta.
Quando le porte
dell’ascensore le si aprirono davanti, Norja
chiuse istintivamente gli occhi.
Fa’
che non ci sia.
Fa’ che non ci sia. Fa’ che non ci sia…,
pregò intensamente, poi aprì gli
occhi. Fortunatamente, lui non
c’era.
Con il cuore un po’
più leggero e sereno, uscì e
attraversò
la hall dell’hotel, diretta a passo beato e sicuro verso
l’ingresso della sala
da pranzo, già pregustando una ricca colazione. Il solo
profumo del caffè
fresco le stava già risvegliando i sensi ancora intorpiditi
dal sonno. Aveva la
giornata libera; ancora non aveva deciso cosa avrebbe fatto. Magari
quattro
passi lungo Unter Den Linden, a deridere le sfilze di negozietti kitsch
per
turisti e comprare articoli altrettanto kitsch da portare a casa come
souvenir
per parenti e amici. O un giro nella zona del Duomo, del Pergamon
Museum,
oppure una piccola, rilassante crociera in battello sullo Spree. Ci
avrebbe
riflettuto meglio davanti a una bella fetta di torta alle mele.
Recuperò un vassoio dalla
pila nel tavolo d’angolo e si
gettò sul buffet, raccogliendo tutto quello che la ispirava:
muffin ai frutti
di bosco, patate arrosto, budino alla vaniglia, della quiche di ricotta
e
spinaci, e perfino un po’ di crema di mascarpone. Sua madre
le aveva sempre
rimproverato di avere la stessa voracità di un ragazzo, ma
lei non se ne era
mai curata. Si riempì una grossa tazza di caffè,
arraffò qualche bustina di
zucchero e si incamminò verso i tavoli, cercandone uno
libero.
Fortunatamente non c’era
poi così tanta gente che faceva
colazione alle nove del mattino.
Sfortunatamente, tuttavia, tra questi
pochi spiccava – e
piuttosto letteralmente – un giovane scompostamente seduto
che indossava una
discretissima felpa rosso fuoco, impeccabilmente abbinata alla fascia
attorno
alla fronte. Tom Kaulitz – in carne, ossa e indecenti
quintali di traboccante
meravigliosità – era proprio lì, di
fronte a lei, e le sorrideva con tanta
genuina innocenza che quasi avrebbe potuto ingannarla.
“Guarda un po’
chi si rivede…” esclamò mellifluo.
La sola ed unica ragione per cui
Norja non si infilò le mani
nei capelli, strillando esasperata, era che non le andava di lasciar
schiantare
a terra un vassoio così ben assortito.
“Oh, dio, è una persecuzione!” si
limitò a sbuffare, con un tono lacrimevole
che infastidì perfino lei. Ma quando era troppo, era troppo.
“Lieto anch’io di
rivederti, Russia.” La salutò lui,
garbato, come appena uscito da un corso intensivo di Bon Ton.
“Non ti siedi?”
Ma
perché non mi puoi
lasciare in pace e basta, tu?, piagnucolò Norja,
frustrata. Tornatene dentro i tuoi CD, nei
poster,
dietro allo schermo della TV! Ovunque, ma sparisci, ti supplico, per il
mio
bene interiore!
“Stavo pensando di mangiare in piedi, veramente.”
Tom occhieggiò con
eloquenza il suo pesante vassoio
traboccante di roba.
“Non sapevo avessi doti da funambola.”
“Oh, quante cose che non
sai!”
“Allora, ti siedi o devo
venire a mangiare in piedi con te
lì in mezzo al passaggio?”
Norja esitò.
Non
oserà, si
diceva. Non voleva sedersi con lui – no, non poteva proprio
– ma non riusciva
nemmeno a costringersi ad andarsene, così restò
lì, imbambolata, senza riuscire
a muoversi.
“Ok,” fece Tom,
qualche secondo dopo, con aria risoluta.
“Recepito il messaggio.” Afferrò la
tazza strapiena di cornflakes e latte da
cui stava mangiando, il cucchiaio in bocca, e fece per alzarsi in piedi.
Norja si precipitò alla
sedia e prese posto prima che il
fondoschiena di Tom si fosse sollevato del tutto. Lui le
lanciò un sorrisetto
trionfante, riaccomodandosi soddisfatto.
“Dormito bene?”
le chiese poi, come nulla fosse.
“No.” Sbottò subito lei, inviperita per
lo sleale ricatto a cui era stata
sottoposta.
Tom annuì pensoso.
“Infatti hai un aspetto orrendo.”
“Grazie,” rispose lei, arida e scontrosa.
“Vedo che a te invece le occhiaie
donano parecchio.”
“Trovi?” Tom si rizzò più
composto nella sedia, tutto ringalluzzito. “Mi danno
un po’ quell’aria da bello e dannato,
vero?”
Norja ingoiò a fatica la
sola sillaba che la sua lingua
stava morendo dalla voglia di pronunciare: Sì!
Sì! Sì! Sì!
“Bello non so, dannato si
sicuro, con tutte le maledizioni
che ti sto tirando dietro in questi giorni.”
Tom assentì con la testa,
masticando con gusto i suoi
cereali. Probabilmente non la stava nemmeno ascoltando. Stranamente,
rimase
zitto per un po’, ruminando in silenzio, controllando di
tanto in tanto quello
che faceva lei. Norja poté quindi comodamente illudersi di
riuscire mangiare in
pace per ben cinque minuti, poi Tom, passandosi il tovagliolo sulle
labbra,
decise che era giunto il momento di tornare a turbare la sua fragile
tranquillità:
“Sei libera,
oggi?”
Norja ebbe la malaugurata idea di
guardarlo: aveva le
braccia conserte sul tavolo, la testa reclinata di lato, e
l’espressione del
suo viso era così ignobilmente, impietosamente,
ingiustamente serafica che lei
per un attimo si dimenticò completamente che respirare era
uno dei requisiti
minimi di base per restare in vita.
Tom Kaulitz le stava chiedendo se era
libera.
Tom Kaulitz le stava chiedendo se era
libera, succhiandosi
tra le labbra un biscotto ricoperto di cioccolato.
Tom Kaulitz le stava chiedendo se era
libera, succhiandosi
tra le labbra un biscotto ricoperto di cioccolato, con tanta ingenua
aspettativa negli occhi da poter causare gravi scompensi cerebrali
anche a un
tronco di legno.
E lei, almeno secondo i suoi buoni e
virtuosi propositi, avrebbe
dovuto trovare un modo di glissare.
“Ho paura che a dirti di
sì, potrei automaticamente
rischiare di non esserlo più.”
“Posso invitarti fuori a pranzo?”
Norja non seppe bene cosa successe
prima – se fu prima il
cucchiaio a caderle di mano, o la sua mandibola a precipitare
rovinosamente, o
i suoi occhi a sgranarsi sconvolti, o se accadde tutto simultaneamente
– ma di
una cosa non dubitava: i dieci anni di vita che aveva appena perso non
glieli
avrebbe restituiti nessuno.
“Ecco, appunto.” Mugugnò, chiedendosi
che cosa ne sarebbe stato di quel poco di
dignità che era finora riuscita a conservare se si fosse
chinata a terra per
cercare il cucchiaio perduto. Decise che era meglio non scoprirlo.
“Allora,” insisté Tom, chinandosi in
avanti. Norja si ritrasse in automatico.
“Posso?”
Sì!
Sì! Sì! Sì!
“No,” Le labbra di Norja si piegarono a fatica a
pronunciare quella semplice,
complicatissima risposta. “Non puoi.”
Ma Tom non demorse:
“Dai, ti prego!”
Norja sbuffò.
“Dimenticavo i tuoi problemi di metabolizzazione di negazioni
e divieti.”
“Senti, che male c’è se pranziamo
insieme?” si impuntò lui, e Norja aveva il
serio sospetto che veramente non ci vedesse nulla di male. Nulla di
strano.
“Tutto il male del mondo.”
“La solita esagerata!” minimizzò lui,
poi le puntò contro i suoi occhioni
sgranati senza alcun pudore. “Dai, scegli tu il posto, offro
io.”
“Ma tu te ne puoi andare in
giro così indisturbato per
Berlino senza babysitter?” obiettò lei. Non aveva
carte migliori da giocare;
era troppo impegnata a cercare di non lasciarsi liquefare dallo sguardo
immisericordioso
che Tom si ostinava a puntarle contro come un’arma impropria.
“Non proprio,” rispose lui, affatto tubato.
“Però a quest’ora i soggetti
pericolosi sono tutti a scuola e se mi maschero bene passo
tranquillamente
inosservato.”
Norja gli appioppò uno
sguardo scettico:
“A parte
l’inconfondibile scia di Eau du Ego
che ti lasci dietro…”
“E poi mi curi tu,
no?” aggiunse Tom, rincarando lo sguardo
con la perfida aggiunta di un sorriso che avrebbe fatto impallidire il
sole e
tutti gli altri milioni di miliardi di stelle messe insieme.
Norja lo guardava interdetta, incapace di esternare un solo suono.
“Sai, questo sarebbe il
punto in cui la ragazza maldisposta che
non vuole per niente uscire con il rompipalle dice di no, secondo la
tua
teoria.” Le fece notare lui.
“E se io ti dicessi di no,
tu cosa recepiresti?”
Tom scrollò le spalle.
“Qualcosa tipo ‘Sono pazza di te, ma amo fare la
sostenuta e non voglio darti
la soddisfazione di dare a vedere che pendo dalle tue
labbra’. No, anzi,
aspetta: ‘Che pendo letteralmente
dalle tue labbra’.”
“Non si può
certo dire che tu sia privo di immaginazione.”
Commentò lei, grondando sarcasmo da ogni singola lettera.
“Allora,” Disinvolto, Tom le rubò un
biscotto dal piatto e se lo ficcò in bocca
intero. “Ci vieni a pranzo con me?”
La risposta
giusta da
un milione di euro è ‘No!’,
suggerì suadente una voce nella testa di Norja;
un’altra, però, insisteva a strillare
‘Sì! Sì! Sì!
Sì!’.
E Tom la fissava, e sbatteva quelle
ciglia meravigliose, e
sorrideva speranzoso, e lei che cosa poteva fare? Che cosa poteva fare
un’umile
comune mortale di fronte all’inimmaginabile
intensità di quello sguardo?
Norja si portò stancamente
una mano alla fronte, occhieggiando
Tom di sottecchi, con fare
diffidente.
“Perché sento che me ne pentirò
amaramente?” pigolò, in una manifesta
dichiarazione di resa.
“Grande!” Il sorriso sgargiante di Tom si
triplicò in vastità e intensità.
“Dove
si va?”
Norja chiuse gli occhi, la
pietà verso se stessa che si trasformava
rapidamente in panico, e si maledì, sentendosi morire. Ma
ormai era tardi.
Se ne sarebbe pentita, e molto
più che amaramente.
***
Tom non riusciva a credere di
avercela fatta. Si era mosso
violenza psicologica per strapparsi dal letto
all’improponibile orario delle
otto e trenta con la sola e unica speranza di riuscire a incrociare
quella
pazza nevrotica, ma non ci aveva creduto poi tanto, in
realtà. Quando, seduto
mogio al proprio tavolo, la aveva finalmente vista arrivare, non gli
era
sembrato vero, e ancor meno gli sembrava di stare camminando fianco a
fianco
con lei per le vie di Berlino. Nonostante fossero
un’accoppiata tutt’altro che
discreta – lei con i suoi capelli rosso cremisi, lui con la
sua altezza
imponente e l’abbigliamento insolito – la gente che
circolava per le strade non
faceva caso a loro: passava e andava oltre, senza fermarsi, senza
nemmeno
guardare.
Tom provava una strana,
piacevolissima sensazione di
libertà. Niente strilli isterici nelle orecchie, niente mani
avide che si protendevano
morbosamente verso di lui, niente ansia, niente stress, niente fretta.
Niente
di niente.
Solo una banalissima passeggiata in
un banalissimo giorno
qualunque.
Tom non conosceva Berlino, ma non gli
andava di scoprirla
proprio adesso. Si sarebbe dedicato un’altra volta al
turismo. Al momento gli
bastava godersi la duramente conquistata compagnia di Norja.
Lei gli camminava accanto,
più bassa di lui di tutta la
testa e buona parte del collo, i capelli che ondeggiavano a ogni passo,
le
labbra scarlatte imbronciate in una piega assorta. E forse un
po’, dopotutto,
aveva ragione Bill: era proprio carina. Non gli piaceva la fredda
versione di
lei camuffata da donna in carriera: il nero la spegneva, la incupiva,
la faceva
sembrare più adulta – o forse, semplicemente, le
faceva dimostrare l’età che
aveva – e lui preferiva nettamente non sentirsi un patetico
bambino, davanti a
lei.
Quando Norja si fermò, Tom
era così impegnato a osservarla
che non se ne accorse e le finì addosso. Il contatto fu
breve, poco più di un
battito di ciglia, ma significativo: era la prima volta che la sentiva, che riusciva a percepirla in
modo così fisico.
“Scusa.”
“Non importa.”
Borbottò lei, scostandosi da parte, quasi
infastidita.
Tom dovette mordersi la lingua per
non scusarsi di nuovo.
Gli dispiaceva vederla così astiosa nei proprio confronti;
lui ce la stava
mettendo tutta per essere di buona compagnia, ma più lui era
gentile, più lei
sembrava allontanarsi. Tom non ci capiva più niente.
“Che posto
è?” domandò, leggendo
l’insegna illuminata di
rosso.
Norja si portò le mani ai
fianchi, guardandolo con tanta
pietosa pazienza da farlo sentire un emerito idiota.
“Secondo te un locale che si chiama Mexico Restaurant cosa
potrebbe mai
essere?”
Ma Tom sorrise candidamente, felice
di avere un’occasione di
giocare un po’ a fare l’ingenuo:
“Un ristorante messicano?”
Norja inarcò le
sopracciglia, palesemente divertita:
“Alla faccia di chi ti dà del belloccio idiota,
eh?”
“Sfotti?”
“No, figurati. Mi complimentavo per la tua
perspicacia.”
Lui si limitò a replicare
con una strizzatina d’occhio
sfacciata che la fece avvampare.
La situazione, doveva essere sincero,
stava cominciando a
sfuggirgli di mano. Norja gli piaceva, non aveva mai nemmeno cercato di
fingere
di nasconderlo. Si sentiva abbastanza a proprio agi, con lei, da non
sentire il
bisogno di recitare la parte dello sbruffone. Tutt’al
più lo faceva per
divertimento, per istigarle quelle reazioni quasi allergiche che
portavano alle
battute pungenti, alle frecciatine, alle provocazioni.
Era la prima volta che gli capitava
di trarre un concreto
piacere da una semplice e pura conversazione. E Norja, poi, era
veramente
buffa, certe volte: sempre pronta
ad
avere l’ultima parola, sempre con una risposta vincente,
eppure deliziosamente
impacciata nel suo ostinato non rifiutarsi di guardarlo, nel modo in
cui
arrossiva e chinava la testa per non farsi vedere, nel tono fin troppo
convinto
che usava per dirgli di lasciarla in pace.
Tom, di norma, preferiva le ragazze
classiche: alte, snelle,
formose, capelli biondi, occhi azzurri, preferibilmente stupide,
così da
evitare il rischio di un reale coinvolgimento. Forse era per quello che
Norja
lo aveva scombussolato tanto: non era stato preparato
all’eventualità di
incontrare qualcuna che potesse interessargli sul serio. A lui in
genere
toccavano le fan più cretine, quelle abbagliate dalla
seducente figura del Sex
Gott e cieche davanti alla semplicità dell’umano e
normalissimo Tom. Quelle
che, nella fattispecie, non avevano capito proprio un cazzo di lui.
E poi arrivava questa assurda tizia
olandese senza peli
sulla lingua e tutto perdeva la sua logica, perché Norja era
carina, sì, ma Tom
non era così ipocrita da non ammettere, almeno con se
stesso, che non si
sarebbe mai nemmeno soffermato a guardarla, se non avesse avuto un
assaggio
tanto promettente della sua personalità. E nonostante
questo, però, aveva la
netta impressione che ci fosse qualcosa di lei – e anche
piuttosto consistente
– che ancora gli sfuggiva. Qualcosa di affatto irrilevante
che lei, in qualche
modo, per qualche motivo, gli stava tenendo gelosamente nascosta.
E
chissà perché.
Forse un giorno, presto o tardi, lo
avrebbe scoperto.
“Entriamo?”
suggerì, distendendo un braccio verso l’ingresso
del ristorante.
“Non so,” fece
Norja, avvicinandosi alla porta. “Vuoi
mangiare sul marciapiede?”
Tom ridacchiò, seguendola.
“Dopo una scampata
colazione in piedi, sarebbe proprio
l’ideale!”
“Proprio.”
Appena prima che lei toccasse la
porta, Tom scattò in avanti
e la aprì per lei, cedendole il passo.
“Prego, Miss
Simpatia.”
Gli occhioni neri di Norja di
spalancarono in un’espressione
di puro sgomento:
“Grazie, SNF.”
Disse, colpita, entrando. “Ti hanno dato una
dose di Galanteria concentrata, stamattina?”
Lui alzò le spalle, le
mani in tasca.
“Può darsi che
il mio cocktail di farmaci abbia questo tipo
di effetti collaterali, sì.”
“Non voglio sapere
altro.”
Il locale fortunatamente era poco
affollato: un cameriere li
accolse e li fece accomodare ad un tavolo per due in un angolino
discreto. Tom
si sbarazzò in fretta del giubbotto e afferrò
curioso un menù; non aveva mai
mangiato cibo messicano in vita sua.
“Allora, cosa prendiamo?”
“Io penso prenderò un chili.” Gli
comunicò Norja, sfogliando il proprio menù.
Tom lo cercò e ne
studiò l’immagine: sembrava una specie di
minestrone molto denso.
“Che roba è? Buono?”
“A me piace. È fatto con verdura, ceci, fagioli
rossi, spezie e…”
“C’è
carne dentro?”
“In questo che prendo io no.” Lo
rassicurò lei.
“Bene. Sono vegetariano, sai…”
Norja assentì
distrattamente.
“Sì, so.”
“Lo prendo anch’io.” Decise Tom.
Norja sollevò su di lui
uno sguardo pieno di dubbiosità:
“Ma…”
“La foto mi ispira.”
“L’hai mai assaggiato?”
“No, ma guarda che io sono uno che mangia di
tutto!” dichiarò. “Davvero.”
Aggiunse, notando che lei restava titubante.
“Se lo dici tu.”
Un secondo dopo apparve il cameriere
di poco prima, reggendo
un blocchetto digitale in mano.
“Siete pronti per ordinare?
“Sì.” Norja chiese un’ultima
conferma a Tom con un’occhiata veloce, ma lui
tacque. Voleva il chili, punto. “Due chili di verdure, una
porzione di
burritos,” ordinò quindi lei. “E per me
da bere acqua naturale.”
“Niente alcol?”
si stupì Tom.
“No.”
“Hai paura di ubriacarti e cedere al mio fascino?”
Le guance di Norja si colorirono
vistosamente.
“Chiudi il becco!”
Tom trattenne un sogghigno trionfante
e si rivolse al
cameriere:
“Per me una birra media.”
“Basta
così?”
“Basta, grazie.”
L’uomo si
allontanò, lasciandoli nuovamente soli.
“Hai detto ‘grazie’ o ho sentito male
io?” si stupì Norja.
“La Galanteria funziona, eh?” si compiacque Tom.
“Strano ma vero.”
“Sei tu che mi sottovaluti,
carina.”
“No, credimi.”
“Invece sì.”
“No, Tom.”
“Sì!”
“Oh, santo
cielo!” sbottò Norja, spazientita.
“Non mi lasci
possibilità se ti ostini a fare la prevenuta!”
protestò Tom, non meno spazientito di lei.
“Io non voglio che tu
abbia
possibilità, infatti.”
Quell’osservazione lo
ferì: non si poteva parlare a peggior
sordo di chi non voleva sentire.
“Ma allora lo vedi che sei
prevenuta e che mi odi?” le
rinfacciò.
Norja emise un rantolo sommesso.
“Hai intenzione di tirare in ballo questa cavolata ancora
molti miliardi di
volte?”
“Solo finché non mi spiegherai cosa ti ho fatto di
così grave.”
“Esisti!”
“Sì, sai,
è una piaga che mi affligge da ventun anni, ma non
so come sbarazzarmene senza spiacevoli conseguenze.”
“Ho qualche suggerimento,
se vuoi.”
“Seppellirmi vivo non
è un’opzione, ti avverto.”
“Oh, uffa, non vale!”
“Sei prevedibile, Germania.
Un libro aperto.”
Di nuovo, come il giorno prima a
colazione, Norja sembrò
irrigidirsi all’improvviso e chiudersi in sé
stessa. Tom proprio non capiva.
Fortunatamente arrivarono i loro
piatti a salvare il momento
morto. Ringraziarono il cameriere e questi se ne andò,
augurando loro buon
appetito.
Tom si ritrovò davanti una
ciotola colma di verdura e legumi
immersi in una brodaglia dall’intenso aroma speziato. Non
aveva un aspetto
granché invitante, dal vero.
“Buon appetito.”
Disse Norja, mentre si sistemava il
tovagliolo sulle ginocchia.
Tom fece lo stesso, non troppo
convinto.
“Ehm…
Sì, altrettanto.”
Prese la forchetta, anche se non era
del tutto sicuro di
come si potesse mangiare quella roba con una forchetta, e
guardò Norja: lei
stava mangiando il suo chili con gusto, prendendo di tanto in tanto
qualche
boccone di tortillas dal piatto che c’era al centro del
tavolo. Appena più
fiducioso, Tom si decise a raccogliere un po’ di brodaglia e
le la portò in
bocca. Dapprima non successe nulla; un istante dopo sentì la
lingua pizzicargli
e gli occhi riempirsi di lacrime. Quando deglutì, un accesso
incontrollato di
tosse lo scosse, facendolo lacrimare.
Quella roba era piccante oltre ogni
sua peggiore
immaginazione.
“Tom?” Norja
smise di mangiare e si chinò in avanti con aria
preoccupata. “Che succede?”
Lui provò a dire qualcosa,
ma la gola gli bruciava, e la
lingua anche, e aveva bisogno urgente di acqua.
“Tom!” Norja
afferrò prontamente la bottiglia d’acqua e si
riempì il bicchiere, per poi porgerglielo subito. Tom lo
tracannò in mezzo
secondo, poi tossì ancora un po’, cercando di
riprendersi.
“Ma cosa diavolo
c’è in questa robaccia?”
biascicò, non
appena ebbe un po’ di fiato.
“Chili, no?”
replicò lei, con una nota di ansia che le
restava nella voce.
“Non potevi dirmelo prima?”
“Ma è un chili,
è ovvio che contenga del chili!”
“Ma non so nemmeno cosa sia
un chili!”
“Peperoncino piccante,
idiota!”
“Cazzo!”
imprecò Tom, e prese appunto mentale di non fidarsi
mai più del cibo etnico, per quanto invitante potesse
apparire.
“Perché diavolo
l’hai preso se non sapevi cos’era?!” lo
rimproverò Norja.
“Sembrava buono!” esclamò Tom. Ancora
non aveva smesso di tossicchiare e
schiarirsi rumorosamente la gola.
“Va bene, non ti piace il
piccante, ma datti un contegno! Ci
stanno guardando tutti!”
“Che cazzo di contegno vuoi
che mi dia?” si difese lui, che
ancora non capiva come lei potesse mangiare quella roba senza
conseguenze
visibili. “Stavo per soffocare! Mi hai portato in un
ristorante di assassini
del palato!”
Norja agitò incurante una
mano.
“Non essere melodrammatico.
E comunque ci sei voluto venire
tu con me, o sbaglio?”
“Mai fatta cazzata più grande.”
“Nascere non ti è bastato?”
“Fottiti!”
“Sì, magari
più tardi, in un posticino più
discreto.” Rispose
Norja, abbassando la voce, suadente. “E scordati che ti lasci
guardare.”
Tom fece appena in tempo a deglutire
il sorso di birra che
aveva appena preso, prima di scoppiare in una risata.
“Non farmi ridere, faccio
già fatica a respirare!”
“Non ne dubito, visto che
buona parte della responsabilità
del buco dell’ozono è sicuramente dovuta a tutte
le sigarette che ti fumi.”
“Hai idea di quanto sia
stressante essere me e di quanto sia
rilassante fumare?”
“Esistono antistress migliori, sai?” disse lei, in
tono fastidiosamente
saccente.
“Tipo cosa?” chiese però Tom,
incuriosito.
“Non so,” rifletté Norja. “Il
jogging, per dirne una, o la meditazione, o…”
“Il sesso?”
“Il lavoro a
maglia!”
Tom era praticamente certo di aver
compreso male.
“Il lavoro a maglia?”
Gli occhi di Norja brillarono.
“Sì. Se non facessi almeno mezzora di lavoro a
maglia la sera, a quest’ora
sarei già ricoverata in un ospedale psichiatrico.”
“A parte che in un ospedale psichiatrico ci dovresti stare a
prescindere da
lavori a maglia e affini, mi ci vedi alle prese con un hobby
simile?”
“Seduto su una sedia a dondolo davanti al caminetto con un
vaporoso scialle di
lana rosa sulle spalle?” Le labbra rosse di Norja trattennero
un sorriso. “Tantissimo.”
“Tu quando lavori a maglia
sei seduta su una sedia a dondolo
davanti al caminetto con un vaporoso scialle di lana rosa sulle
spalle?” indagò
Tom, cercando di immaginarla in una situazione simile, ma senza
successo.
“Quando sono a casa mia, sì.”
Confermò lei.
“Davvero?”
“Che c’è di strano? Fa tutto parte
dell’effetto rilassante! Hai mai provato a
sederti su una sedia a dondolo?”
Tom si domandò se per caso
avesse l’aria di uno che
abitualmente faceva cose di quel tipo.
“Non direi.” Le rispose. Non era ancora sicuro che
stesse parlando seriamente.
Intanto aveva spinto da parte il chili e si era servito di un paio di
burritos,
che sembravano un po’ più affidabili. Ne
assaggiò uno e scoprì dì aver trovato
qualcosa di ingeribile.
“Allora non puoi capire gli
straordinari poteri che ha
dondolarcisi sopra.” Dichiarò Norja, compunta.
“Tu ti siedi e ti lasci cullare,
e lo stress si volatilizza! Dà una sensazione di pace
assoluta!”
“Ho paura di quel che ne
sarebbe del mio status di virile maschio
etero se provassi a fare una cosa simile.”
Norja schioccò la lingua,
scuotendo la testa con disappunto.
“Questo denota
insicurezza.” Disse. “Chi ha stima di sé
non
ha problemi a mettersi in discussione e prendersi un po’ in
giro.”
“Adesso non mi verrai a
dire che hai studiato psicologia!”
“Non ci vuole uno psicologo per capire che la tua immagine
pubblica è una
bufala monumentale.”
“Parla quella che da
psycobambolina si trasforma in dark
lady ogni volta che si presenta al pubblico!”
“Ma è diverso.
Io lo faccio per assicurarmi che la figura di
Norja Schwartz resti ben separata dalla mia vita mia privata.”
“Ciò non toglie che la stragrande maggioranza
della gente penserà sicuramente
che tu lo abbia fatto per creare un morboso interesse attorno alla tua
persona.
Non dico che non sai fare il tuo lavoro, ma sicuramente hai fatto
scalpore
anche grazie all’aura di mistero in cui sei
avvolta.”
Norja parve colpita da quella frase,
almeno a giudicare
dalla sua faccia basita.
“Potrebbe essere una mia
allucinazione, ma ho come il
sospetto che tu abbia appena fatto un’osservazione non solo
sensata, ma anche
intelligente ed acuta.” Si sorprese.
Tom si incupì.
“Sei tu che mi
sottovaluti!”
Ci fu un attimo di silenzio in cui si
scrutarono l’un
l’altra, poi Norja chinò il capo, sospirando.
“Forse hai
ragione.”
“Ha!” esultò subito Tom.
“Ho detto forse.”
Lo gambizzò lei, altrettanto rapidamente, ma lui,
anziché arrabbiarsi, poggiò
il mento tra le proprie mani, i gomiti sul tavolo, e si mise a
fissarla. Norja
resse lo sguardo più a lungo di quel che lui avrebbe
scommesso, ma alla fine
cedette. Era di nuovo arrossita.
“Senti un po’,
Islanda…” esordì quindi Tom, passandosi
la
lingua sulle labbra.
“Che c’è?” mormorò
lei, senza tornare a guardarlo.
“Ancora non so quale
diavolo è il tuo vero nome.”
Lei face come se non lo avesse
sentito.
“Dai, dimmelo!” la pregò Tom,
supplichevole. “Non lo dico a nessuno!”
Norja emise un indolente gemito
sommesso.
“Tom, non
–”
“Ti prego!”
rincarò lui, affatto scoraggiato. “Mi stai
uccidendo di curiosità!”
“Se fosse…” bisbigliò lei tra
i denti, roteando gli occhi.
“Me lo dici?”
“No.”
“Dai!”
“Ma cosa me lo chiedi a fare se tanto poi decidi
tu?!”
“Per educazione.”
“Ah, bene.”
“Me lo dici?”
“No!”
“Ti prego!”
“Oh, per carità
divina!” Norja si portò entrambe le mani
alle tempie, trafiggendolo con un’occhiataccia velenosa.
“Kelly Devenpeck,
contento?” confessò infine, lasciando Tom alquanto
stupito.
“No, dai,”
ridacchiò. “Sul serio.”
“Sto
dicendo sul
serio.” Sibilò Norja, alterata.
“Sul serio serio?”
“Drammaticamente sul serio.”
E così Norja Schwartz, la
misteriosa scrittrice di libri
fantasy, era in realtà Kelly Devenpeck. A Tom sembrava un
nome forse più
assurdo di quello d’arte stesso.
“Ok, capisco
perché hai voluto uno pseudonimo.”
“Lo so, è un
nome atrocemente banale.” Mugugnò lei.
“Gradirei
che tu mantenessi il segreto, per cortesia. Al di là della
funzione di
copertura per quell’orrore del mio nome di battesimo, il nome
d’arte mi serve
anche per non essere riconosciuta, quindi apprezzerei che tu non
vanificassi
tanti anni di duri sforzi di anonimato.”
Lo prendeva in giro, come sempre.
Prendeva le distanze da
lui.
Ti sei
fidata di me.
Ti fidi di me. E allora perché continui a tenermi
così lontano, me lo dici?
***
Norja era incredula: aveva davvero
appena spiattellato il
proprio segretissimo vero nome con tanta e tale beata incuranza? E lo
aveva
davvero fatto solo perché il primo venuto la aveva implorata
di rivelarglielo?
Una parte di lei – purtroppo o per fortuna, non ne aveva idea
– era tristemente
sicura che, ci fosse stato chiunque altro al posto di Tom, la sua
preziosa
identità sarebbe stata ancora il tabù che sarebbe
dovuta essere.
“Sarò muto come
una tomba.” Le promise Tom, e il suo viso
esprimeva una sincerità così vivida da non poter
in alcun modo essere
dubitabile.
“Sarà meglio per te,” lo
minacciò lei. “Altrimenti ci finirai ad abitare,
in
una tomba.”
“Non male come idea.
Arredamento minimalista, affitti bassi,
vicini tranquilli… Peccato per i problemi di
riscaldamento.”
“La gente potrebbe
scambiarti per un putto decorativo.”
Tom assunse un’aria
interrogativa:
“Che
cos’è un putto?”
“Kleine engel, hai presente?”
“Se tu avessi detto angioletto avrei capito!”
Norja si obbligò a non
ridere, né piangere, né scioccarsi.
Poteva anche essere bello da fare schifo, ma era affetto da una forma
mediamente grave di ignoranza.
“Ma a te chi te l’ha data la licenza media?
L’hai trovata nell’uovo di Pasqua?”
Lui, però, le sorrise con
fare complice:
“E poi dicono che si
trovano solo aggeggini inutili!”
C’era una strana, dolorosa
tenerezza nella sua gestualità.
Aveva modi vagamente goffi, come quelli degli adolescenti cresciuti
troppo in
fretta, ma cercava di muoversi lentamente, con delicatezza, con
risultati
abbastanza buffi.
Lo osservava rapita staccare pezzetti
di tortilla con le
mani e passarli sul piatto dei burritos per raccogliere la salsa, per
poi farli
sparire in un sol boccone, leccandosi gustosamente le dita, e di
conseguenza
causando al sensibile cuore di Norja pericolose capriole inconsulte.
Così
non va,
piagnucolò tra sé. Non
va bene. Non va
affatto bene. Perché diavolo ho accettato di farmi
trascinare in questa follia?
Perché
Mister Occhi
Incantevoli qui presente si è impossessato di ogni tuo
brandello di sanità
mentale e ne ha fatto ripieno per burritos messicani, che si
è prontamente sbafato
con gusto, senza lasciarti nemmeno le briciole, le rispose
una vocetta
leziosa dentro di lei.
Faceva quasi male guardarlo. Non
tanto per tutta quella
dolcezza inconsapevole che emanava, ma perché lui era
lì, seduto davanti a lei,
e avrebbe potuto toccarlo semplicemente allungando una mano sul tavolo,
eppure
non era più vicino di quando Norja, anni prima, lo guardava
nei suoi poster.
Tom Kaulitz. Era Tom Kaulitz dei
Tokio Hotel. Lo era sempre
stato. Cosa c’era di così sconvolgente?
C’è
che lui è qui.
“Hey, Lichtenstein, che ti
prende?”
Norja rimpiombò
bruscamente nella realtà:
“Uh?”
“Eri in fissa. Capisco che la mia bellezza sia…
Com’è che era il termine?
Destrutturante?”
“Sì, come il tuo inglese.”
E questo tuo
maledetto, delizioso accento teutonico.
“Disequilibrante?”
ritentò Tom, strizzando gli occhi per lo
sforzo.
“Suppongo che tu voglia
dire ‘destabilizzante’.”
Indovinò
allora lei.
“Sì,
ecco.”
“Prendi nota, altrimenti la
prossima volta che dovrai
vantarti internazionalmente avrai ancora la lacuna.”
Ma Tom non la stava ascoltando
più. aveva quel sorriso
velato sulle labbra, lo sguardo un po’ trasognato e un
po’ intento, perso
altrove.
“Abbiamo un problema,
sai?” sospirò, sorridendo appena.
“Tu di sicuro.”
Ironizzò lei, ma aveva una brutta
sensazione.
“Un grave problema.”
Norja deglutì. La brutta sensazione si stava facendo pessima.
“Quanto grave?”
osò chiedere.
“Disastrosamente grave.”
“Non sono sicura di volerlo
sapere.”
In realtà c’era
un pesante conflitto in corso dentro di lei:
una metà smaniava dalla voglia di sapere; l’altra
tremava alla sola idea di
quello che Tom avrebbe potuto dire. In entrambi i casi, comunque, un
pensiero
comune c’era: non avrebbe portato a nulla di buono.
“Ho il raggelante sospetto che tu mi piaccia davvero,
Norvegia.”
Norja chiuse istintivamente gli
occhi, come a voler
stupidamente cancellare qualcosa che ormai era irreparabilmente
successo. Non
se lo ricordava nemmeno lei quando era stata l’ultima volta
che si era sentita
così male, se mai c’era stata.
Era fatta. Se l’era cercata.
“Ti avevo detto che non ero
sicura di volerlo sapere.”
Ribatté gelida.
Tom si strinse nelle spalle a mo di
scuse.
“Nel dubbio, io te
l’ho detto.”
“Avrei preferito di no.”
Il tavolo era piccolo. Minuscolo, anzi. Così stretto che tra
loro due c’era solo
una misera spanna di violabilissima aria, che si stava anche lentamente
accorciando. I bellissimi occhi nocciola di Tom erano inchiodati nei
suoi, e la
tenevano come soggiogata nel loro incantesimo, paralizzandola
lì dov’era. Il
suo cuore batteva furiosamente invocando pietà, elemosinando
collaborazione da
parte dei muscoli, che però non ne volevano sapere di
rispondere.
Voleva ridere. Voleva piangere.
Voleva scappare.
Non sapeva cosa voleva, esattamente.
Quando le labbra di Tom furono a poco
più di un soffio dalle
proprie, Norja ebbe la forza di tirarsi indietro quanto bastasse per
uscire
dalla sua portata.
“Non credo sarebbe una
buona idea.” Sussurrò, mentre un
brivido le percorreva la schiena.
“Perché no?” volle sapere Tom, pacato,
fermo dove lei lo aveva lasciato.
“Perché no.”
“Non ti piaccio, per
caso?”
“No.”
Tom corrugò la fronte.
“No cosa?”
“No e basta.”
“Ma...”
“Tom,” La voce di
Norja tremò dallo sforzo di non incrinarsi.
“Dico davvero...”
“Anch’io.”
Le fece eco lui, e con uno slancio imprevisto si
sporse in avanti, riuscendo quasi a colmare la distanza tra di loro,
tra le
loro labbra. Ma Norja fu svelta:
“Tom, ho detto di
no!” esclamò, e scattò in piedi,
sentendosi
caldissima in viso, gli occhi adombrati dalla frangetta.
Lui non ebbe nemmeno modo di tentare
di dire o fare
qualcosa: arrabbiata, agguantò alla cieca la propria roba e
lo piantò in asso
così, senza nemmeno insultarlo o reagire. Prima che potesse
rendersene conto,
era in strada, diretta a passo furioso verso l’hotel, e di
Tom, alle sue spalle,
nessuna traccia.
Meglio
così.
Come aveva previsto, si era pentita
di aver accettato di
uscire con lui. Diversamente dalle previsioni, però, il
danno non era affatto
contenuto e facilmente riparabile.
***
Il delicato cuore di Bill per poco
non soccombette a un
infarto quando si vide piombare in camera un Tom spaventosamente cupo e
scosso.
Georg, che era da lui per una partita alla Playstation assieme a
Gustav, scambiò
con lui uno sguardo perplesso e preoccupato.
“Tom,
cos’è quella faccia?”
Inespressivo e come in trance, Tom
attraversò la stana e si
lasciò cadere a peso morto sul divano, fissando il vuoto.
“Volevo solo baciarla…”
mormorò, atono.
Bill gli si avvicinò e gli
sedette accanto, accigliato.
“Scusa?”
“Norvegia Nera.” Aggiunse quindi Tom.
“Volevi baciare
Lilli?”
“Sì. Stava andando tutto bene, ma poi…
Non lo so, appena mi sono avvicinato, è
diventata strana, rigida… Ho provato a baciarla, ma lei
è schizzata in piedi e
mi ha guardato come se fossi un mostro marino.”
“Allora forse
c’è qualche speranza che ti trovi
carino.”
“Bill, ci sei o ci
fai?” scattò Tom, nervoso come non mai.
“Sembrava terrorizzata! O furiosa. O offesa. Che cazzo ne
so…”
Raccontò loro ogni cosa in
mezzo minuto di collage di frasi
semisconnesse, e alla fine Bill era persuaso che la faccenda fosse
tremendamente seria.
“Magari ha qualche trauma
psicologico, tu che ne sai?”
azzardò Georg.
Tom cadde nel panico:
“Oddio, non ci avevo
pensato!”
“Il solito animale
insensibile.” Lo rimproverò Bill.
“Vaffanculo, che cazzo ne
posso sapere io?!”
“Studi recenti hanno
dimostrato che se quando una donna
parla la ascolti, impari cosa è meglio dire e fare in sua
presenza. O, in
questo caso, cosa non dire e non fare.”
“Sì, ma non
è mica tanto facile se la donna che ti parla è
pazza!”
In quel momento comparve Gustav dalla
stana accanto, una
lattina di coca cola in mano.
“Che succede?” si
informò.
“Tom ha tentato di baciare Lilli.” Gli
spiegò Bill.
“Ah.”
“E lei se n’è scappata via
sconvolta.” Precisò Georg.
“Tu sì che ci
sai fare con le donne, vero, Tom?” sghignazzò
Gustav.
“Fanculo.”
“Va bene,” Bill
si alzò in piedi e si rimboccò stancamente
le maniche. “Ho capito che qui ci devo pensare io.”
“Tu?!” esclamarono tre voci incredule.
Bill puntò il naso in aria
con assoluta superiorità.
“Sì, io. Pare che sia l’unico che sappia
trattare con una donna senza passare
per un bifolco.”
“E che
cos’avresti intenzione di fare, sentiamo?”
indagò
Georg.
“La inviterò a fare un giro nel backstage,
domani.”
“Mi dicono che lei accetterà
giubilante.” Intervenne Tom, sempre più cupo, ma
questo non fece altro che fomentare la dterminazione di Bill a
risolvere la
questione. Per il bene di Tom, avrebbe fatto questo e ben altro.
“Certo che lo farà.” Affermò,
sicuro. “Nessuno dice di no a me.”
“Auguri, allora.” Fecero Georg e Gustav. Tom
tacque, ma Bill gli lesse la
speranza negli occhi.
Uscì subito dalla stanza
per andare a cercare quella di
Norja. Non aveva idea di quale fosse, ma decise che avrebbe perlustrato
i
corridoi, almeno per controllare, e se poi non la avesse trovata,
avrebbe
trovato il modo. Camminando per il quarto piano, però, si
ritrovò di fronte ad
una porta che, per un piccolo ma determinante dettaglio, lo fece
fermare.
Poteva anche sbagliarsi e fare una figuraccia, ma sentiva di dover
tentare,
così sollevò una mano e bussò. Pochi
istanti dopo, la porta si aprì e lui si
ritrovò al cospetto di una Norja con un aspetto non troppo
diverso da quello di
Tom: scioccato e confuso.
“Ciao!” la
salutò, regalandole un sorriso rassicurante.
“Oh, dio,” guaì lei, e non parve affatto
felice di vederlo. “Anche tu no!”
***
Bill Kaulitz. Norja stentava
a crederci. Si rifiutava
di
crederci, perché Bill Kaulitz non
poteva in alcun modo trovarsi alla porta della sua stanza, proprio
adesso.
“Tranquilla, vengo in pace e non porto fratelli
inopportuni.” Le assicurò lui,
facendo sfoggio di un accento così marcato, tedesco e
delizioso che lei per
poco non si scordò di tutto quanto era successo solo un paio
d’ire prima.
“Sembra quasi troppo bello per essere vero.”
“Sono venuto a scusarmi da
parte di Tom per come si è
comportato oggi.”
Lei batté le ciglia,
smarrita:
“Tu sei venuto a scusarti
da parte di Tom?”
“Voleva venire lui, ma ho pensato che fosse meglio impedirgli
di peggiorare la
situazione.”
Norja incrociò ostilmente
le braccia.
“Vuoi vedere che Tom
è così scemo perché il buonsenso te lo
sei preso tu?”
“È molto
sensibile,” la ignorò Bill, a piena dimostrazione
della sua tesi. “Pieno di tatto. Solo che non sa
applicarsi.”
“L’ho
notato.”
“Insomma, gli dispiace per
quello che è successo. È
sinceramente pentito e vorrebbe che tu lo perdonassi.”
“Diciamo che lo
perdono.”
Bill sollevò eloquentemente un sopracciglio, causando al
sistema nervoso di
Norja un repentino e pericoloso collasso istantaneo.
Dannato
sopracciglio
assassino! Non lo si può usare così, come
un’arma impropria! Giochi sporco,
Kaulitz!
“D’accordo,
d’accordo, lo perdono.”
“Fantastico! Ora che
è tutto sistemato, ho una proposta da
farti.”
“Qualunque cosa sia, la risposta è no. Anche se ho
come la sensazione che i
problemi recettivi verso le negazioni siano genetici.”
“Eh?”
“Lascia stare.”
“Sei un tipo strano, lo sai?”
“Non vorrei sembrarti indelicata, ma detto da due metri di
fenicottero
glam-goth con un gilet peloso suona abbastanza…
Bizzarro.”
Ma il lasciar correre doveva essere
un’arte in cui i Kaulitz
dovevano essere particolarmente ferrati, perché Bill non
badò minimamente alla
provocazione, e, anzi, le sorrise con più calore:
“Mi chiedevo se domani ti
andrebbe di venire a trovarci nel
backstage del concerto, nel pomeriggio.”
“Ero convinta di averti
già dato una chiara risposta un
momento fa…”
“Dev’essermi sfuggita.”
“Ecco, mi
pareva… Disfunzioni recettive congenite.”
“Sei liberissima di rifiutare, comunque.”
Specificò allora lui, candido e
pacifico come un angioletto.
“Dov’è il trucco?”
berciò Norja, per niente incline a fidarsi, soprattutto dato
che si trattava del gemello del ragazzo con cui ce l’aveva a
morte.
“Nessun trucco.” Bill sollevò le mani in
segno di onestà. “Bill Kaulitz stasera
ha bussato alla tua porta e ti ha personalmente invitata a fare un tour
esclusivo del backstage prima di un soundcheck dei Tokio Hotel a cui
nessuno in
genere ha accesso. Non penso ci sia nulla di straordinario,
giusto?”
La solida convinzione di Norja
subì un fugace momento di
instabilità:
“No, infatti.” Convenne, ma la gola improvvisamente
secca.
“Non ci vuole nulla a declinare una simile offerta, mi
pare.”
Lei annuì, risoluta,
inattaccabile.
“Esatto.”
“Facciamo domani alle tre, allora?” propose Bill,
come se tutta la precedente
parte della conversazione non fosse mai avvenuta.
“Io…” Norja era interdetta, troppo
stranita per riuscire a ragionare in modo
coerente. Voleva andarci, ma non voleva rivedere Tom. Non voleva
andarci, ma
voleva rivedere Tom. Era tutto molto, molto complicato, e la presenza disequilibrante di Bill non aiutava
affatto la concentrazione. “Oh, sì, suppongo di
sì.” Si arrese alla fine, imprecando
contro se stessa per aver ceduto e a lui per averla stordita al punto
da farla
cedere “Accidenti a te e a questa sleale essenza di
irresistibile meravigliostà
che emani!”
Il sorriso intercontinentale che Bill
le spalancò davanti
quasi eclissò le luci che illuminavano il corridoio.
“Sei proprio simpatica,
sai?” le disse, accarezzandole amorevolmente
la testa, poi si infilò una mano in tasca e le porse
qualcosa. “Ecco, questo è
il tuo pass, e qui c’è
l’indirizzo.” Lei prese la tesserina meccanicamente,
la
bocca aperta, senza ben rendersi conto di quel che stava accadendo.
“Buonanotte,
Lilli,” le augurò poi Bill, facendo un passo
indietro. “Sogni d’oro!”
Imbambolata, Norja lo
guardò volarle le spalle per
andarsene, il pass stretto in mano, l’altra mano ancora
appoggiata alla
maniglia della porta. Era stata fregata in un minuto netto per la
seconda volta
nella giornata. Stava iniziando a perdere colpi, oltre che
dignità.
“Bambi?” lo
chiamò, appena prima che lui entrasse
nell’ascensore.
Lui si voltò:
“Sì?”
“Come diavolo hai trovato la mia stanza?”
Bill sfoderò
l’ennesimo sorriso abbagliante, ma stavolta con
una sfumatura di consapevolissima furbizia:
“Era l’unica con appeso fuori il cartellino
‘Non disturbare’.”
***
Tom era in fibrillazione: Bill ci
stava mettendo secoli,
forse perché non trovava la stanza di Norja, forse non
l’avrebbe mai trovata. Plausibile,
visto che nessuno del personale dell’hotel era disposto a
collaborare. Georg e
Gustav si limitavano a gironzolare per la stanza, tanto per tenerlo
d’occhio,
ma tutto era tranquillo, tranne le sue ginocchia, che ballavano
ininterrottamente su e giù a velocità esagerata.
Quando finalmente la porta di
ingresso si aprì e Bill
rientrò, Tom saltò su come una molla e gli si
parò davanti, esagitato:
“Allora?”
Bill ghignò altezzoso:
“Allora sono un dio della persuasione. No, aspetta: sono un
dio e basta.”
“Non so perché, ma sapevo che l’avresti
detto.” Disse Georg, ma sorrideva, e
Gustav anche.
“Ha detto che ti perdona la cafoneria. Arriva domani alle
tre, le ho dato un
pass.” Li informò Bill.
“Ma come hai fatto?” si chiese Tom con un fil di
voce.
Bill fece spallucce:
“Come dovresti imparare a fare tu: buona educazione,
gentilezza e un bel sorriso.”
Senza aggiungere altro, gli diede qualche pacca affettuosa sulla testa
e sorrise
compiaciuto. “‘Notte, Tomi.” Gli disse
poi, e lo lasciò lì, al centro della
stanza, con Georg e Gustav che ridevano di lui, e il suo cuore che gli
martellava dentro.
Perdonato o no, un problema restava
sempre: Norja lo odiava
davvero così tanto?
_______________________________________________________________________
Note:
ho
poco da dire, in realtà. ^^ Sono stanca, quindi perdonate
eventuali errori di battitura
sfuggiti alla rilettura; saranno corretti al più presto, a
mente più lucida. Per
ora grazie a tutte voi che avete letto e commentato, eccetera. Vi
adoro! Spero
che anche stavolta troviate il capitolo degno di una recensione. ^^ Per
dubbi,
domande o che altro, lo sapere, ormai: basta chiedere!
Per ora, alla prossima!
P.S. Qualche giorno fa è stato aperto un gruppo su Facebook chiamato "_Princess_ Fans" e io ovviamente sono supercommossa da ciò. *___* Non ho nemmeno Facebook, ma mi hanno spiegato di che si tratta e mi è stato chiesto di sponsorizzarlo un po', quindi, se avete Facebook e siete interessati (ovviamente lo spero XD), il gruppo è qui
|
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Capitolo 4 *** Break Away ***
Norja stentava a credere di averlo
fatto davvero. Di essere
lì.
Era folle.
No, peggio: era follemente sensato.
Norja si trattenne dal mordersi le
unghie mentre si dirigeva
a passo tutt’altro che sicuro verso l’ingresso del
Velodrom, pensando a cosa ne
avrebbe detto Bambi se avesse osato presentarsi con lo smalto rosso
fresco di
manicure tutto rovinato. E pensare che a lei nemmeno piaceva lo smalto.
C’era già un
sacco di gente in fila davanti all’arena. Erano
ormai più di due anni che lei non andava a un concerto e il
solo respirarne
indirettamente l’atmosfera le aveva suscitato una nostalgia
che avrebbe
volentieri evitato.
Quando incontrò il proprio
riflesso nelle vetrate, se
possibile, il suo umore si incupì ulteriormente: aveva il
viso tirato, segnato
dallo stress intensivo di quei giorni fitti di impegni, e vedersi
così, senza
la sua mascherina, la faceva sentire terribilmente nuda e vulnerabile.
Aveva ragione Tom: non era lei,
quando si presentava in
pubblico.
Ringraziò il cielo che
l’entrata posteriore non fosse
accessibile al pubblico, perché in caso contrario non si
sarebbe mai azzardata
a passare allegramente davanti a tutti come se nulla fosse. Era
già stato
abbastanza imbarazzante dover discutere con le guardie che
sorvegliavano
l’ingresso, che l’avevano scambiata per una fan
furbastra che voleva
infiltrarsi. Dopo diverbi vari ed eventuali, alla fine le avevano
magnanimamente concesso di recuperare il pass dalla borsa e solo
allora, senza
nemmeno un accenno di scuse, l’avevano lasciata passare. Ora,
il pass ben
visibile al collo, stava per entrare nell’imponente edificio,
e le sue mani si
rifiutavano di spingere la porta come se dall’altra parte ci
fosse stata chissà
quale minaccia incombente pronta ad aggredirla.
Il che, tutto sommato, non era poi
così distante dalla
realtà.
Guardandosi nel vetro man mano che si
avvicinava, si sentì
immensamente stupida per come
si era
vestita: sembrava una scolaretta appena uscita dalle lezioni. Il
problema era
che qualunque scelta di abbigliamento le era sembrata assurda: vestirsi
da
concerto era fuori luogo, visto che non ci sarebbe stato nessun
concerto prima
di sera; il casual-elegante non era nemmeno un’opzione, ne
aveva abbastanza già
di suo; sexy, nemmeno a parlarne, si sentiva già abbastanza
impacciata in quella
stupida gonnellina a pieghe. Alla fine si era arresa e aveva tirato
fuori dalla
valigia capi a caso, e il risultato era drammaticamente simile a una
divisa
collegiale.
Già
mi sento i
commentini audaci di quella piattola di SNF…
Norja si sentì parecchio
osservata quando finalmente riuscì
a varcare la soglia. All’interno del palazzetto
c’erano una moltitudine di
persone che andavano e venivano, e molte di loro le scoccarono
occhiatine
sospette nel vederla farsi strada in mezzo a loro.
No, non sono
una terrorista
né una maniaca sessuale, gente, state tranquilli!
Mentre un tizio con una uniforme da
guardia giurata le
andava incontro con aria allarmata, Norja aveva già
sviluppato una mezza idea
di fare dietrofront e volatilizzarsi. Il solo pensiero di dover essere
di nuovo
faccia a faccia con i Tokio Hotel la atterriva a tal punto che quasi la
sua
pressione precipitò di botto. Non che i ragazzi non le
fossero simpatici… Anzi,
il problema era proprio quello. Aveva di meglio da fare che andarsene
in giro
per backstage e arene e fare l’ospite
d’onore privilegiata.
Sì, aveva decisamente di
meglio da fare, eppure eccola lì,
sola e sperduta nel covo del nemico.
Non ci sarebbero state conseguenze
poi così gravi, dopotutto,
se non si fosse presentata all’appuntamento. Al massimo Bambi
si sarebbe
stizzito per la sua maleducata irriconoscenza e SNF le avrebbe
scatenato contro
qualche trilione di maledizioni teutoniche, ma a parte quello sarebbe
stato
tutto perfettamente regolare.
Sì, era la cosa giusta da
fare: scappare a gambe levate
senza alcuna dignità.
Se solo le
mie gambe
volessero farmi la cortesia di collaborare…
E invece no, le sue gambe se ne
stavano rigide e immobili,
paralizzate, e non ne volevano sapere di portarla via da lì.
Dopo tutta la
fatica che aveva fatto per costringerle a portarla lì
dentro, in effetti, Norja
la trovò un’ostinazione ragionevole.
“Hey, eccola
là!” esclamò ad un tratto una voce
vivace, da
un’imprecisata provenienza “Ciao, Lilli!”
Non ci voleva certo la vista di un’aquila per vedere il ragazzo
alto due metri dalla vistosa cresta rizzata sulla testa che si stava
sbracciando in fondo al corridoio. E, dietro di lui, un fascinoso dio
greco
dagli occhi verdi e la meraviglia fatta persona con un paio di
bacchette da
batteria in mano. E, dietro ancora, lui.
Norja pregò che la sua
vista si prendesse una vacanza da lì
a tempo indeterminato, perché di quel passo i già
poveri resti del suo senno
sarebbero defunti senza lasciare nemmeno tracce di cenere.
Tom portava la felpa bianca
più enorme che si fosse mai
vista, coordinata con il morbido berretto di lana e le scarpe sportive
su cui
ricadevano i larghi jeans chiari. La maglia che si intravedeva al di
sotto
della felpa era invece nera, come la bandana che gli fasciava la testa.
La sua
espressione un po’ ansiosa era così ingiustamente
soverchiante che il cuore di
Norja fece una capriola tale da finirle prima in bocca e poi nello
stomaco,
ritornando infine al proprio posto con un doloroso assestamento.
“Ciao, Bambi.”
Salutò, la gola improvvisamente arida, mentre
Bill, Georg e Gustav le si disponevano di fronte con dei sorrisi
gentili. “Tarzan.
Hercules.”
“Buongiorno,
Lapponia.” Intervenne Tom, facendosi
prepotentemente largo fra gli altri, ma con aria un po’
impacciata.
“Ciao,
Pinocchio.” Ricambiò Norja, senza riuscire a
imitare
in modo decente i loro sorrisi. Non ricordava di essere stata
così nervosa
nemmeno il giorno della sua laurea.
“Come stai?” le
chiese Gustav. Norja si concesse un secondo
per ripristinare la connessione con la realtà, ma solo dopo
essersi lasciata
sfuggire un ‘Oooh!’ deliziato nella propria testa
frastornata.
“Bene, se non calcoliamo il malaugurato incontro ravvicinato
con uno dei vostri
bestioni della security.” Rispose, sfoderando prontamente le
sue preziose
riserve di verve. “Anche dopo che gli ho mostrato il pass,
aveva tutta l’aria
di credere che fossi una fanatica maniaca stupratrice.”
I ragazzi risero.
“L’aria ce
l’hai.” Commentò Tom. Bill gli
sferrò una
gomitata la cui potenza era probabilmente inferiore al battito
d’ali di una
farfalla.
“Ma non è vero! Guardala
com’è dolce con questi codini!”
esclamò, allungando le
sue dita filiformi per dare una tiratina ai capelli di Norja.
“Sembra un Cocker
vero!”
Lei, miracolosamente,
riuscì a non sbranarlo.
Sei
fortunato che sei
tanto carino e coccoloso, maledetto esserino sfrontato!
“Vieni,
Lilli,” disse
Bill, afferrandola per la sciarpa, e la trascinò con
sé verso la porta alle
proprie spalle. “Andiamo a fare un giro.”
“Mollami!”
protestò lei, cercando di fargli lasciare la
presa d’acciaio. “Non sono il tuo cane!”
Bill la lasciò andare, ma
si voltò con un sorrisetto
impertinente:
“Dai, non fare la musona!
Con me non ce n’è bisogno.”
Sussurrò,
chinandosi verso di lei. “Non ti faccio niente.”
Norja ebbe un attimo di stordimento.
L’ambiguità di quello
che aveva detto Bill, con tanta naturalezza, le fece per un attimo
venire il
dubbio che lui sapesse. Ma non era
umanamente possibile. Bill Kaulitz, pur essendo tutto quello che era,
ovviamente non aveva la facoltà sovrannaturale di leggere
nel pensiero.
Giusto?
Bill in testa assieme a lei, Georg,
Gustav e Tom in coda, il
gruppetto attraversò un’altra porta, che dava su
un altro corridoio, stavolta
deserto.
“Sei stata carina a
venire.”
“Oh, figurati.” Norja sventolò una mano
con fare distratto. “Fortunatamente la
regina Elisabetta è una che non se la prende se le dai buca
all’ultimo minuto.”
Bill la guardò perplesso.
“Come, scusa?”
“Niente, lascia stare.” Sospirò lei.
“È il filtro anti-Kaulitz automatico. Mi
spiace, ma funziona a rilevamento di DNA.”
“Mi farò
togliere qualche cromosoma, a scanso di equivoci.”
La pelle d’oca che dapprima
era sorta solo sulle braccia di
Norja, si propagò lungo tutta la schiena in un brivido di
tenerezza.
“Bambi, potresti lasciar
parlare gli altri, per favore?” lo
pregò. “Il tuo accento mi sta uccidendo.”
“Necessita di miglioramenti, lo so.” Si
scusò lui, afflitto.
“No, è che ho un contegno pubblico da mantenere e
se tu mi infliggi
qualcun’altra delle tue S sibilanti, posso dire addio
all’ultimo dei miei
neuroni.”
“Sul serio?”
“Ecco, se poi infierisci a suon di R pronunciate alla
Kaulitz, siamo a posto.”
“Noi qui dietro esistiamo,
tanto per la cronaca.” Si
intromise una voce scherzosa, che Norja riconobbe come quella di Georg.
In quell’istante Bill si
fermò davanti a una porta e la
aprì.
“Scusatemi, non volevo sembrare maleducata.” Disse
Norja a Georg e Gustav. “Ho
bisogno di pause di almeno cinque minuti tra una parola e
l’altra con voi due,
giusto quel che serve per restituire un flusso normale alla mia
salivazione.”
Gustav si limitò a
sorriderle; Georg fece lo stesso, ma
aggiunse:
“Non è la
ragazza più simpatica che abbiamo mai conosciuto?”
“Proprio.”
Sbuffò Tom, passandole oltre senza guardarla.
Norja ebbe la spiacevole sensazione
di averlo offeso con la
propria mancanza di considerazione nei suoi confronti.
“Tom, se devi fare la
particella di acido muriatico, perché
non evapori?” sbottò Bill, alterato.
Tom gettò
un’occhiata sfuggente a Norja, poi si infilò le
mani in tasca e scrollò le spalle.
“Bene! Me ne vado a
cambiarmi.”
Uscì sbattendo la porta, e
a quel punto Bill si concesse un
sospiro esausto.
“Scusalo, Lilli.
È davvero un pessimo padrone di casa,
vero?”
“Per fortuna compensi
tu.” Lo rassicurò Norja, che, appena
Tom era uscito, si era resa conto di trovare quella stanza assurdamente
vuota e
fredda. Era una camera quadrata, non più grande di cinque
metri per lato, con
una sola finestra e un tavolo di metallo al centro, a cui erano
accostate delle
sedie nere da ufficio. In un angolo, appoggiati su un mobile, un
minifrigorifero
e uno stereo malconcio. Nell’angolo opposto, una strana
batteria dai piatti
rivestiti in gomma.
“Ecco,”
esordì Bill, compiendo un gesto circolare con la
mano. “Questo il nostro locul– Ehm, spazio
ricreativo.”
Norja non riuscì a
trattenere una risata. Tutta la tensione
di prima era sparita d’un colpo.
“Vieni,” disse
Gustav, aprendo nuovamente la porta. “Ti
facciamo fare un tour della zona palco.”
Fu piacevole trascorrere qualche
minuto a chiacchierare con
i ragazzi. Mentre le mostravano il retropalco e lo stage, le chiesero
un po’ di
lei, della sua storia e della strada verso il successo. Lei
raccontò loro tutto
quanto come se fossero stati amici di vecchia data, e fu sincera
perfino quando
le chiesero se fosse mai stata una loro fan. Se lo fosse ancora.
Vi
amerò sempre,
aveva promesso loro attraverso un poster, diversi anni prima, e tuttora
la
promessa restava infrangibile.
Lei fu banale nel chiedere a loro:
volle sapere della loro
vita, dei loro interessi lontano dalla scena, di come le loro famiglie
avevano
preso il loro successo.
Nel rispondere alla domanda sulla
vita personale, furono
tutti vaghi e diplomatici, ma Bill usò un termine che le
fece stringere il
cuore: mutilata.
Quante cose ci dovevano essere
nascoste dietro ai loro
sorrisi da fotografia…
Il pensiero di Norja vagò
verso Tom. Era stato così carino,
con lei, e lei lo aveva ripagato con sarcasmo e frecciatine ostili,
senza
riflettere su cosa ci fosse veramente alla base di quei suoi
atteggiamenti così
contrastanti tra loro.
Il senso di colpa aveva appena
iniziato a insinuarsi nella
sua coscienza, che Tom apparve alle loro spalle. Si era cambiato: i
dettagli
che prima erano in nero, erano stati sostituiti da capi viola, mentre
la felpa,
la stessa di prima, era aperta su un’ampia t-shirt, sempre
viola, con un
disegno argentato che Norja non riuscì a distinguere.
Gli donava parecchio, quel colore.
“Riecco
l’antisociale del giorno!” esclamò
Gustav, ricevendo
in risposta uno sguardo ben poco affettuoso.
“Lilli, ti lasciamo un
attimo in balia dell’inetto mentre ci
andiamo a cambiare anche noi.” Le annunciò Bill,
facendo cenno a Georg e Gustav
di seguirlo.
“No!”
esclamò Norja, nel panico. “Vi – vi
aspetto qui!”
Bill emise una risatina leggera.
“Non puoi, sciocchina. Qui adesso devono iniziare a montare
tutto.”
Gustav annuì serio.
“Rischi di prenderti
qualche trave di metallo in testa.”
“Affare fatto!”
“Torniamo
subito.” Le assicurò Georg.
“No, no, un
momento!” supplicò lei, ma nessuno sembrava
disposto a darle retta.
“Sei affidata a Tomi, Lilli!” le disse Bill, prima
di scomparire assieme ai due
compagni oltre una lastra di metallo, lontano dalla sua vista.
“Ma…
Ma…”
Era rimasta sola.
No, non semplicemente sola: era
rimasta sola con Tom.
Non si dissero niente. Non si guardarono. Non si sfiorarono nemmeno,
durante il
tragitto di ritorno verso a quello che Bill, giustamente, era stato sul
punto
di definire ‘loculo’.
Una volta entrati, Tom si
piazzò su una sedia, la chitarra
imbracciata, e si mise a pizzicare a caso le corde. Norja, ancora in
piedi accanto
alla porta, stava andando in iperventilazione. Rimpianse di aver preso
un solo
Valium, a pranzo, prima di uscire, e ancor di più di non
essersene portata uno
in borsa, soprattutto quando Tom, senza neanche sprecarsi a sollevare
lo
sguardo, le disse:
“Rilassati,
Lituania.”
‘Rilassati’, le
diceva. Come se rilassarsi o agitarsi fosse
un’attività dominabile e controllabile.
“No che non mi
rilasso!”
“Ok, non rilassarti, ma non
attaccarmi le tue nevrosi.”
Mentre lui suonava, Norja prese ad
andare avanti e indietro
per la stanza, mangiucchiandosi febbrilmente le unghie, vanificando
così tutti
gli sforzi precedenti di lasciarle illese. A Bill sarebbe venuta una
sincope,
se l’avesse vista.
“Senti, hai proprio intenzione di agitarti come una fiera in
gabbia ancora per
molto?” grugnì Tom, irritato. Era cupo, rispetto
agli altri giorni. Norja si
rifiutò di credere che fosse a causa di quanto era successo
il giorno prima.
“Sono
claustrofobica!”
“Se vuoi ti apro la
finestra.”
“La stanza resterebbe il
buco che è!”
“Ma tu potresti buttarti di
sotto.”
“Ti è rimasto il
rimpianto di non avermi buttata giù l’altra
sera, eh?”
“Non sai quanto.”
Disse Tom. Finalmente sollevò lo sguardo
su di lei, senza smettere di sfiorare le corde della sua chitarra, ed
era uno
sguardo inconcepibilmente serio da accompagnare a una battuta.
Perché
era una
battuta, giusto?
Aria. Norja aveva un disperato
bisogno di aria fresca.
“Come si esce da questo
bunker corazzato?”
“La finestra resta la via più rapida.”
“Non respiro.”
Rantolò Norja, appoggiandosi a una parete, le
guance in fiamme, le mani gelate.
“Ok, ok, calma.” Allarmato, Tom le si
avvicinò, cercando di aiutarla. “Su,
vieni qui, adesso faccio entrare un po’
d’aria.”
Le afferrò un braccio e le
pose delicatamente una mano sulla
schiena, ma lei si ritrasse come se le avesse fatto del male.
“Giù le
mani!”
“Scusami.”
Mormorò lui, atterrito. “Volevo solo
–”
“Lo so”
replicò lei, la testa che le vorticava. “Lo
so,” aggiunse
più morbidamente. “Scusami tu. È
che…”
Era scorretto. Era dannatamente
scorretto che Tom disponesse
di due occhi così belli e profondi da puntare dritti nei
suoi per farle andare
in tilt ogni facoltà cognitiva. Ed erano anche
così pericolosamente vicini…
“Che cosa?”
Aveva senso vedere il proprio cuore
battere furiosamente
dentro agli occhi di qualcun altro?
Aveva senso sentirsi completamente
annullati nella
sensazione di due mani calde che ti toccavano la pelle?
“Hey, Tom, tuo fratello ha
di nuovo – Oh, salve.”
Norja e Tom si separarono di scatto.
Lei si sentì avvampare
e fissò il pavimento, registrando a malapena chi fosse
l’uomo che aveva appena
fatto irruzione nella stanza. David Jost.
“Salve.” Lo salutò, in un mugolio
imbarazzato.
“Ehm…”
Tom si mise tra loro due, cercando di fare qualche
presentazione decente. “Dunque: David, lei è
Norja. Norja Schwartz, la
scrittrice. Te ne abbiamo parlato.”
Jost la squadrò senza
preoccuparsi di dissimulare un qual
certo stupore.
“Tu sei Norja Schwartz?”
“Così mi hanno detto.”
Le palpebre di Jost batterono un paio
di volte sugli occhi
chiari.
“Credevo che fossi più…
Meno…”
“Più carina e
meno vecchia?” suggerì Tom prontamente.
“Tom!” Lo
apostrofò David, in tono di rimprovero, poi si
voltò verso Norja con un sorriso. Era chiaro che aveva
voluto dire l’esatto
contrario di quel che aveva suggerito Tom. “Sono David Jost,
il –”
“Produttore di questi
quattro sfaccendati.”
“È una nostra
fan.” Spiegò Tom, gonfio come un pavone.
“Non è vero!”
“E poi Pinocchio sono io!”
“Che succede
qui?” La
testa bionda di Gustav fece capolino dalla porta. “Oh, ciao
David!”
“Hai conosciuto
Norja?” disse Bill, entrando in un tintinnio
di catene e ferraglie varie.“Non è
deliziosa?”
“Fin troppo. Senza offesa.
Scusa l’accoglienza poco
calorosa, ma mi aspettavo una tizia alla JK Rowling.”
“Una vecchia rugosa e
noiosa?” suggerì nuovamente Tom,
sempre più pronto.
“Hey, a me piace JK Rowling!” obiettò
Norja.
“Sì, ma potrebbe essere la madre di tutti i
presenti.” Precisò Georg. “Tu
decisamente no.”
“Be’, Norja,
è un piacere conoscerti. Spero che siano stati
educati con te.” Le disse David, in un tono che trasudava
dubbio.
“Ehm…
Certo.”
“Vuoi assistere
all’intervista?” “No!” rispose lei immediatamente. “No,
credo – credo che sia meglio che vada.”
L’ultima cosa di cui aveva
bisogno era che si spargesse la
voce che lei e i Tokio Hotel si frequentavano. A ben pensarci, non
sapeva
nemmeno perché si trovasse lì. No, lo sapeva: si
era lasciata fregare dalla
brillante performance di Bill Kaulitz nel ruolo del dolce persuasore.
Era stata un pessima, pessima idea.
“Vi ringrazio di cuore per
l’invito, siete stati molto
gentili, ma ora devo proprio andare. Ho un appuntamento con... Con
il… Ho un
appuntamento.”
“Allora ci si vede domani a
colazione?” domandò Tom. Non era
esattamente cupo come lo aveva trovato appena arrivata; sembrava anzi
che in lui
si fosse riacceso qualcosa.
“No.”
“Come no? Dai, non fare la scorbutica, possiamo
–”
“Parto per Londra domani
mattina alle sette.”
Il silenzio cadde sulla stanza come
un macigno. Bill, Gustav
e Georg si voltarono tutti verso Tom con facce piene di compassione;
Jost,
logicamente, non ci stava capendo un bel niente. Tom, dal canto suo,
sembrava
pietrificato.
Mortificato,
forse?
“Ma come? Avevi detto –”
“Mi hanno spostato un paio
di interviste.” Fece lei,
sbrigativa. Non doveva spiegazioni a nessuno. Era il suo lavoro. Era
così,
punto. “Devo essere là per domani
pomeriggio.”
“Ma…”
“Grazie di tutto. Mi ha fatto davvero piacere
conoscervi.”
“Lilli…”
pigolò Bill, con un musetto costernato che la
devastò.
Proprio come circa un’ora
prima, le gambe di Norja non avevano
nessunissima intenzione di mobilitarsi per portala via, nonostante la
sua testa
le stesse letteralmente implorando. Non poteva restare. Doveva
andarsene prima
che la situazione le sfuggisse completamente di mano. In fretta.
“Ciao, Bambi.” Sussurrò, deglutendo a
fatica. Strinse le mani a tutti,
iniziando a sentire la tristezza che scava in lei. “Tarzan,
Hercules, David…”
Ebbe un attimo di esitazione nell’incontrare lo sguardo di
Tom. “SNF… Buon
proseguimento.”
“Olanda, aspetta!” Tom la bloccò per un
polso appena prima che lei si voltasse.
“Hai da fare, stasera?”
Norja boccheggiò.
“Come?”
“Sei impegnata?”
“Ho… Ho
una cena con –”
“E dopo cena?” La
forza della presa di Tom aumentava con
l’aumentare della speranza nei suoi occhi. “Noi qui
ne avremo fino a
mezzanotte, ma…”
“Dopo cena sono al Crimson,” lo stroncò
lei, prima che potesse aggiungere
altro. “Ho un incontro di –”
“Ti passo a trovare appena
mi libero del concerto.”
“Non è necessario.”
“Ma lo voglio fare.” Insisté lui.
Norja non sapeva cosa fare. Era
lì, tutti la stavano
guardando, tutti erano in attesa di qualcosa, ma era qualcosa che lei
non
poteva dare a nessuno di loro. Tom men che meno.
Lei voleva rivederlo. Voleva
salutarlo. Voleva qualche altra
ora da passare con lui, ma non poteva cedere, perché, come ogni
altra cosa che
creava dipendenza, non avrebbe fatto altro che nuocerle.
“Tom,” Lo
costrinse a lasciarle il polso, ma non osò
guardarlo in faccia. “Non venire, per favore.”
“Ti voglio salutare!”
La vibrazione supplichevole nella sua
voce le fece male. Le
face male anche obbligarsi a rivolgergli quell’occhiata
feroce:
“Sei nutri un minimo di
pietà nei miei confronti,” gli disse
a mezza voce. “Per favore, non
venire.”
E poi, senza guardarsi indietro, se
ne andò.
***
Se n’era andata.
Norja se n’era andata via,
e lui non l’aveva fermata. Non
aveva fatto niente. Niente di niente.
A quello aveva pensato Tom per tutta
la durata del concerto,
senza un secondo di tregua. Aveva suonato con
quell’ossessione in testa,
arrabbiato e offeso, demoralizzato e pieno di domande.
L’aveva lasciato
così, senza spiegazioni o ragioni valide,
chiedendogli soltanto – ‘per
favore’
– di non andare da lei. Il comportamento di Norja nei suoi
confronti era stato
un susseguirsi di contraddizioni fin dal primo istante in cui si erano
incontrati, un oscillare continuo tra l’ostilità e
la confidenza, e lui più
confuso di così non sarebbe potuto essere. Il suo modo di
rapportarsi con il
genere femminile era di norma molto semplice ed elementare: uno scambio
equo di
favori a breve scadenza, e il nulla dopo. Con Norja, per qualche strano
motivo,
non aveva funzionato. Lui aveva cercato in ogni maniera di trovare un
contatto
con lei, ma ogni volta che ne avevano stabilito uno, lei aveva sempre
trovato
il modo di interromperlo e rovinare tutto. C’era qualcosa,
tuttavia, che lei si
era tenuta gelosamente dentro, rifiutandosi di condividerlo con lui.
Era una
sensazione che Tom aveva avuto fin da subito, ma che si era consolidata
man
mano che la aveva conosciuta. Che cosa fosse, poi, quel qualcosa,
non sapeva immaginarlo.
Probabilmente non lo avrebbe mai
nemmeno scoperto.
Non c’era molta gente per
strada a quell’ora tarda. Era
anche stato complicato trovare un taxi a mezzanotte passata, ma alla
fine ce
l’aveva fatta. Davanti a lui, l’insegna scarlatta
del Crimson illuminava di
bagliori rossi le fitte e finissime gocce di pioggia che scendevano dal
cielo.
Sapeva che non avrebbe dovuto
trovarsi lì, ma era stato più
forte di lui. Non pretendeva molto: solo un saluto decente –
un addio decente –
nient’altro. Voleva solo
parlare con lei un’ultima volta.
Era cosciente che le sarebbe apparso
patetico: lui, un
ragazzino di poco più di vent’anni, che si
ostinava a rincorrere lei, più
grande di ben quattro anni, più intelligente e matura,
più seria, più professionale,
più…
No, non ci credeva nemmeno lui. Per
quanto provasse a
convincersi che Norja non era adatta
a
lui, il ricordo del pur esiguo tempo trascorso con lei era una
dimostrazione
fin troppo concreta dell’esatto contrario. Non sarebbe
arrivato fin lì, contro
gli ordini di Norja stessa, se non avesse avuto la certezza che ne
valesse la
pena.
Entrò, le gocce di pioggia
che gli colavano lungo la giacca
impermeabile, e fu inondato da un gradevole sbuffo di calore. Non era
mai stato
lì: era un locale buio, con luci e colori sui toni caldi del
fuoco, divanetti
in pelle nera e tavolini circolari di vetro, musica jazz dalle casse
sparse
ovunque. Non esattamente il suo club ideale.
Iniziò a guardarsi
intorno, un po’ spaesato dalla folla
borbottante, ma di Norja nessuna traccia. Fortunatamente nessuno
sembrava far
caso a lui.
“E tu che diavolo ci fai
qui?”
Una scheggia di ghiaccio
trapassò il cuore di Tom. La voce
era quella giusta, quella che aveva sperato di poter risentire, ma il
suo tono
era duro come mai avrebbe pensato potesse essere. Ma Tom non si perse
d’animo;
si voltò, sicuro di sé e delle proprie ragioni, e
le sorrise:
“Te l’avevo detto che sarei passato a salutarti,
no?”
Fece fatica a parlare con
disinvoltura, perché vederla lo
lasciò senza fiato, e non in senso lusinghiero. Non sembrava
nemmeno lei.
“E io ti avevo
espressamente chiesto di non venire. Devi
andare via. Non ho tempo per te.”
Portava un abitino nero, che le
abbracciava la spalle
lasciandole scoperte ed evidenziandole il decolleté, una
catenina di fine oro
giallo a cingerle il collo, ai piedi, delle scarpe a punta con un tacco
assurdamente alto e sottile. La mascherina le nascondeva
metà del viso,
gettando ombre che rendevano i suoi occhi praticamente invisibili. I
capelli,
raccolti in un rigido chignon, sembravano bruciare assieme alle luci
della
sala. Un ciocca sottile, però, era sfuggita
all’acconciatura e le sfiorava la
guancia, ricadendole subito accanto alle labbra, non rosse, come
d’abitudine,
ma velate da un lucido strato di gloss trasparente.
Non era lei. Tom non la riconosceva
nemmeno.
“Andare via? Sono appena arrivato!”
“Non dovresti nemmeno
essere qui, infatti!”
Le guance rosate di Norja si fecero
appena più colorite, le
sue mani strette in due pugni frementi.
“Che ingrata che
sei!” le rinfacciò Tom, amareggiato. Non
c’era verso di trovare punti di contatto con lei.
“Senti, apprezzo il pensiero, ma devi sparire.” Gli
intimò Norja, senza troppi
giri di parole. “Adesso.
Se Julian ti
vede, io...”
“Julian?” Tom aggrottò la fronte, un
senso di gelo che gli percorreva la
schiena. “Chi è Julian?”
Era single. Glielo aveva detto lei.
Era single, maledizione.
“Ti prego, vattene!”
“Chi è Julian?”
In quel momento si
avvicinò un uomo biondo e affascinante
sulla trentina. Appoggiò con confidenza una mano alla base
della schiena di
Norja, facendo vedere rosso a Tom.
“Hey, biscottino, chi
è il piccolo? Ha un’aria familiare.”
“Nessuno.”
“Julian?” fece Tom, sempre più irritato.
Il biondo inarcò le
sopracciglia.
“Ci conosciamo?”
“Non ancora.”
“Jool, arrivo
subito.” Intervenne Norja, spingendo Julian
verso la porta che dava sulla sala attigua. “Tu inizia ad
ordinare. Prendo un
Dama Bianca senza ghiaccio.”
“Ma di là ci
sono –”
“Non ci metto molto, giuro.
Dammi solo un minuto.”
“D’accordo.”
Julian occhieggiò Tom con
ben poca convinzione, ma alla fine
si decise a togliere il disturbo. Tom lo guardò andare via
con mille domande
sulla punta della lingua.
“Carino.” Ironizzò, tornando a
rivolgersi a Norja.
“Sì, certo.” Borbottò lei,
senza ascoltarlo davvero. “Tom…”
“Bei muscoli. Fa palestra?”
“Non ne ho idea. Ora, per
favore…”
“Da quanto uscite
insieme?”
Un lampo di sofferenza apparve per un
infinitesimale di
secondo sul volto di Norja, ma sparì troppo in fretta
perché Tom potesse essere
certo di averlo visto davvero o di esserselo solo inventato.
“Oh, dio, ma
perché a me?” Norja sembrava davvero sul punto
di esplodere. “Stammi a sentire: Julian è il mio
manager, ok? È sposato, due
figli, un cane, tre gatti e una station wagon. È qui
perché c’è della gente con
cui dobbiamo assolutamente parlare, di là. È
importante, quindi apprezzerei che
tu levassi le tende adesso.”
Tom si lasciò spingere
fino all’ingresso, osservato da
diversi clienti incuriositi.
“È una mia
impressione o mi stai letteralmente sbattendo
fuori?”
“Brillante
deduzione,” berciò Norja, trascinandolo fuori dal
locale, all’aria fredda della notte. “Sono
sbalordita.”
“Ma sta piovendo!”
“Non è colpa mia.”
Lei fece per tornare dentro, ma Tom
le si parò davanti,
ostruendole il passaggio.
“Lasciami restare, prometto
che non disturbo nessuno!”
“Disturberesti me.”
“Sto zitto e buono!”
“Mi disturberesti comunque.”
“Come faccio a disturbarti
se mi limito a starmene in un
angolino a respirare?”
Norja si portò stancamente
una mano alla fronte, chinando la
testa da un lato.
“Vorrei tanto saperlo anch’io.”
Sembrava esserci del rimpianto in
quelle parole. O forse era
rimorso. Tom non aveva mai capito bene la differenza.
“Mi molli per strada
così?”
“Sì!”
“E partirai senza nemmeno
salutarmi in modo decente?”
“Sì!”
Norja rispondeva con determinazione mordace, reggendo
egregiamente tutti i tentativi di Tom di fare breccia attraverso la sua
corazza. “E adesso piantala di rompere! Ora io torno
là dentro e tu non oserai
seguirmi, sono stata chiara? Sono sicura che Berlino pulluli di
sensuali
galline cerebrolese che non aspettano altro che intrattenere Tom
Kaulitz per
una bollente notte di sesso casuale, quindi vai, infilati nel primo
club che
trovi e –”
Silenzio.
Il mondo si era fermato per
permettergli di compiere quel
gesto che in cuor suo sapeva che non avrebbe mai dovuto commettere.
Perché lei
glielo aveva detto, gli aveva proibito di farlo, eppure, come lei si
rifiutava
di dare retta a lui, lui aveva scelto di non dare retta a lei, e
così l’aveva
fatto.
Le labbra di Norja erano rigide e
fredde contro le sue, che
cercavano in tutti i modi una risposta che non sarebbe mai venuta.
L’aveva fatto,
però. L’aveva baciata.
E nell’incontrarsi in quel bacio, la sua mascherina le era
caduta, impigliandosi nella scollatura del vestito.
Tom non volle abusare di
quell’attimo di follia. Si era già
spinto fin troppo oltre la linea di confine stabilita. Si
separò da lei
lentamente, gli occhi chiusi, aspettandosi uno schiaffo, un urlo, o una
reazione di qualunque tipo, che però non ci fu.
Norja era in piedi davanti a lui, e
adesso poteva vedere i
suoi occhi, pesantemente truccati di nero, con sfumature rossastre
sulle
palpebre. Non erano velati d’odio, come si era aspettato lui,
ma di un
sentimento forse peggiore: la delusione.
“Ora spiegamelo.”
Farfugliò Norja, la voce flebile e
spezzata da un nodo alla gola. “Spiegami perché
l’hai fatto, dopo che io ti ho
tanto pregato di lasciarmi stare.”
Sembrava sconvolta. Sembrava persa.
Sembrava furiosa e
disperata.
Ferita.
“Non – non sono
riuscito a trattenermi.” Biascicò Tom,
sorpreso della sua stessa azione. Eppure lo aveva fatto con assoluta
coscienza
di sé.
“Vaffanculo.”
Sbottò Norja, tremando da capo a piedi.
“Vaffanculo,
Tom!”
Frastornato nel vederla voltargli
bruscamente le spalle, Tom
la afferrò per le braccia e la costrinse a voltarsi:
“Non odiarmi,
Finlandia…” la implorò, sentendo la sua
stessa
voce incrinarsi dal dispiacere.
Gli occhi neri e lucidi di Norja
lampeggiarono di una
pericolosa luce esasperata.
“PER L’ENNESIMA VOLTA, TOM KAULITZ:
IO
NON TI
ODIO,
MALEDIZIONE, LA VUOI CAPIRE O NO?
IO TI
AMO,
D’ACCORDO?! TI
AMO DA QUANDO ERO UNA
PATETICA SEDICENNE ORMONALE E TU UN RIDICOLO RAGAZZINO CON UNA CHITARRA
PIÙ
GROSSA DI LUI IN MANO! TI
AMO DALLA PRIMA
VOLTA CHE TI HO SENTITO APRIRE QUELLA TUA MALEDETTA BOCCACCIA
PRESUNTUOSA PER
VANTARTI DELLE VENTICINQUE RAGAZZE CHE TI ERI FATTO PRIMA DEI QUINDICI
ANNI!
LO SAI CHE COSA VUOL DIRE
QUESTO? CHE
SONO QUASI DIECI FOTTUTISSIMI ANNI CHE SONO
INNAMORATA DI TE! DIECI
ANNI DELLA MIA
VITA AD AMARE UNA PERSONA CHE NON ERA REALE! SAI COSA SIGNIFICA?!”
Tom aprì la bocca in cerca
di aria, ma non riuscì ad
inspirarne. Era stato travolto da quel discorso come un fiume in piena,
e
qualche parte non la aveva compresa del tutto, ma il concetto basilare
lo aveva
perfettamente afferrato. Ed era stato un pugno in pieno stomaco.
Non aveva capito niente.
Tuttora non capiva niente.
“Ma io… Io sono
reale…”
La pioggia sottile continuava a
cadere, a scivolare via
dalle spalle di Tom e ad inzuppare irrimediabilmente il leggero abito
di Norja
e i suoi capelli, che stavano pian piano sciogliendosi dallo chignon,
cadendole
sulle spalle nude.
“No, Tom! Tu sei reale nel
tuo mondo, dall’altro lato della
transenna, capisci? Nel mio mondo tu eri solo un bel sogno che
apparteneva a
una dimensione del tutto separata dalla realtà! Eri nel tuo
Olimpo, lontano
anni luce dai comuni mortali come me… E non puoi –
non puoi, Tom! –
immaginare cosa abbia significato per me vederti
materializzato davanti a me dal nulla, quella sera! Te ne sei uscito
così dalla
mia fantasia e hai preteso di entrare nella mia vita come se nulla
fosse, come
se fosse normale! E non sei
diventato
vero solo, tu, ma anche tutto il resto, e io…
Io…” La frase morì lì.
Mordendosi
il labbro, Norja si nascose il viso tra le mani. “Dio, ma
com’è potuto
succedere?”
Tom restava una statua di sale.
C’erano troppe cose
aggrovigliate nella sua mente che lottavano l’una con
l’altra per essere
sciolte e metabolizzate con la giusta attenzione.
“Io… Io
non…”
Cosa poteva dire? Cosa poteva dire
per rispondere anche a
una sola di tutte quelle cose gli aveva appena rivelato lei? Anche
volendo, non
avrebbe saputo da dove cominciare. E poi non capiva il senso di tutto
quell’inveire. Se davvero anche lei provava qualcosa per lui,
dove stava il
problema? Perché scappare così?
Non sapeva nemmeno cosa stesse
provando lui stesso.
“Io non ti conosco,
Tom.” Disse Norja, con una nota di
rammarico. “Non so niente che valga veramente la pena di
sapere di te. Sei… Un
emerito sconosciuto che è saltato fuori da un poster e mi
è piombato nella vita
senza lasciarmi nemmeno il tempo di capire come e perché,
quindi scusami se sono confusa!”
“Ma noi… Noi
siamo stati bene…”
Lei scosse ostinatamente la testa,
l’acqua che le incollava
i capelli rossi lungo il viso stravolto.
“Hai presente la storia
della falena e del fuoco? Lei è
attratta all’inverosimile da quel fuoco, è tentata
di avvicinarsi, ma il fuoco
è troppo caldo, il fuoco scotta… Lei lo sa che
non le farà bene avvicinarsi
troppo, sente che finirà male, ma non può farne a
meno, e così si avvicina
sempre di più, anche se si sente bruciare… E alla
fine è troppo tardi.”
Tom si sentiva stupido a starsene
lì con la bocca
spalancata, incapace di razionalizzare, incapace di reagire.
“Io… Che
cos’è una falena?”
A Norja sfuggì suono
strano, forse più simile a un
singhiozzo che a una risata.
“Oh,
Tom…”
Rimasero a scrutarsi l’un
l’altra per un tempo indefinito,
che poteva essere pochi secondi, così come ore intere. Tom
voleva parlarle,
cercare di sbrogliare qualcosa da tutto quel caos che era scoppiato, ma
non era
mai stato bravo con i discorsi, e ancor meno ad affrontare i sentimenti.
Era una situazione al di fuori della
sua portata.
Però non poteva lasciar
crollare tutto così. Non poteva…
“Norja…”
Cercò avvicinarsi a lei.
Una voce nella sua testa gli diceva
di togliersi la giacca e mettergliela addosso, perché
così poco vestita si
sarebbe sicuramente ammalata, ma le sue mani cercavano solo lei. Elei,
invece,
arretrava.
“Norja,
guardami.” Con uno scatto, Tom le afferrò le mani
e
le strinse tra le proprie.
“Lasciami andare, per favore!”
Ma lui la ignorò.
“Io sono
reale e
concreto, mi senti?” Le sue dita la strinsero più
forte, e non gli importava se
le faceva male; voleva che lei lo sentisse.
“Abiterò anche in qualche
sottospecie di Olimpo, lontano anni luce quanto vuoi, inarrivabile
quanto vuoi…
Ma sono qui. Io adesso sono qui, Norja, e sono qui per te. Solo per
te.”
Per un attimo, lei sembrò
troppo disorientata per ribattere,
persa nei suoi occhi, ma poi un brivido la fece tornare in
sé.
“Adesso
sei qui,” gli
rispose rigidamente. “Domani sarai chissà dove, e
io pure! Lo capisci quanto è
paradossale anche solo sperarci?”
“Ma noi
–”
“Lasciami
andare…”
Non era una richiesta, e nemmeno una
supplica. Era una
preghiera.
“Ma io voglio stare con
te!” sibilò Tom, e si rese conto con
orrore di quanto suonasse come un mero capriccio.
“Sono io che non voglio
stare con te!” esclamò lei.
“Ma hai detto
–”
“Quello che ho detto non
cambia le cose. Tu sei ancora
dall’altra parte. Sei dove io non posso stare. Non
è cambiato niente, Tom: tu
sei sempre tu, e io sono sempre io. È tutto uguale a
prima.” Norja non riuscì a
sostenere più il suo sguardo. “Solo che adesso
è peggio.”
Una goccia d’acqua le
scivolò lungo la guancia, morendole
sulle labbra. Tom non seppe mai se fosse solo pioggia, o se fosse
l’estrema
sincerità di una lacrima.
Aveva tutto quanto un sapore strano:
l’aria, il temporale, i
rumori attutiti e distanti della città… Sapeva
tutto di fine.
“Svezia, non
scherzare…” la implorò, e lei
implorò lui con
uno sguardo.
“Lasciami andare, Tom. Ti prego…”
Che scelta aveva?
Cosa poteva fare?
Non poteva certo costringerla a stare
con lui se lei non
voleva.
Fu come se cuore di Tom smettesse
d’improvviso di battere
quando la consapevolezza face breccia tra i suoi pensieri. Era
così che doveva
andare. Sperare ormai era inutile. Tutto sapeva di fine
perché era quello che era.
Era finita.
E mentre le sue mani allentavano la
prese su quelle di
Norja, Tom si rese conto che in realtà non sarebbe mai
riuscito a lasciarla
andare.
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Note: un grazie grosso così e di cuore a tutti voi che avete letto e recensito lo scorso capitolo! Davvero, penso che alcuni di voi sappiamo quando può essere gradito un commento, quindi non credo serva dirvi quanto apprezzi i cinque minuti che dedicate alle recensioni! Ovviamente spero tanto che ne avrete cinque da dedicare anche a questo nuovo capitolo. ;)
Vi informo già questa puntata numero quattro è la penultima della storia. Con la prossima saremo alla fine. ^^ So che è una ff veramente breve, ma l'avevamo detto, all'inizio, no? Quindi, nonostante sia una storia di ben poche prestese, mi auguro che vi sia stata comunque gradita.
Il titolo del capitolo, che avrete sicuramente riconosciuto, è tratto dall'omonima canzone di quell'oscura band tedesca che tutte noi disprezziamo con tanta dedizione: I tokio Hotel. XD
Per ora non mi resta che augurare a tutti un buon anno nuovo! Ci si risente nel 2010! ;)
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Capitolo 5 *** Bleib ***
Vattene
Cerca di dimenticarti di noi due
Riusciremo ad andare avanti
Solo se non ci vedremo più
Vattene
Vattene
I giorni passano
Senza essere
qui…
***
“Ci
siamo incontrati
solo un paio di volte.”
“Siamo diventati amici, tutto qui.”
“Non ho avuto modo di conoscerla molto bene, ma mi
è sembrata una bella
persona.”
“No, non ci siamo più visti, da quella
volta.”
“Purtroppo
il mio
lavoro mi impedisce di mantenere i contatti con tutta la gente nuova
conosco,
quindi non penso ci rivedremo.”
Tom aveva perso il conto delle volte
che aveva ripetuto
quelle frasi, davanti a giornalisti e intervistatori vari. Ormai era
passato un
anno da quando aveva conosciuto Norja, ed era diverso tempo che
l’interesse
mediatico verso il loro incontro era scemato, ma all’inizio,
subito dopo che si
erano separati, né lui né lei avevano avuto
tregua, tra domande invadenti,
supposizioni e congetture dilaganti, insorgere di fans inacidite dal
sospetto
che qualcuna potesse rubarsi il loro chitarrista preferito.
Tom aveva tentato di mettere le cose
in chiaro, più e più
volte, ed era certo che lo avesse fatto anche lei. Qualcuno aveva
creduto alla
storia del ‘solo amici’, qualcuno no, ma, in ogni
caso, senza ulteriori prove
che lui e Norja si frequentassero, alla fine il polverone si era
diradato, fino
a scomparire del tutto. L’unica cosa rimasta del loro
incontro erano pochi
scatti rubati di loro due che discutevano fuori dal Crimson e un paio
di
articoli insinuanti.
Nient’altro.
Tutto ciò che Tom sapeva
di lei era quello che leggeva sulle
riviste, vedeva in TV, sentiva dai pettegolezzi. Lei era stata a Los
Angeles,
negli ultimi mesi, a seguire le riprese del primo film dedicato ai suoi
libri.
Lui c’era stato due volte, a Los Angeles, in quel periodo, e,
nonostante lo
avesse sperato, non la aveva mai incontrata.
L’aveva cercata,
però. In ogni ragazza che avesse dei
capelli rosso vermiglio, o un abbigliamento poco consueto, o degli
occhiali da
sole che le nascondessero il viso come lei era solita nasconderselo
dietro la
sua maschera. Per quanto ci avesse provato, non l’aveva mai
trovata. E le altre
che aveva conosciuto gli erano più o meno piaciute, ma erano
poche e il
problema era sempre lo stesso: non c’era tempo per
innamorarsi.
Per una aveva addirittura pensato di
provare qualcosa, ma
poi, come al solito, era arrivato il momento degli addii, e lui si era
reso
conto che non avrebbe sentito la sua mancanza come aveva voluto credere.
La mancanza di Norja,
però, la sentiva ancora.
Era brutto essere di nuovo
lì a Berlino, un anno esatto dopo
averla incontrata per la prima volta, e dover fare tutto come se lei
non fosse
mai esistita. Aveva sorriso nel photoshoot che avevano fatto a Schloss
Charlottenburg. Aveva sorriso all’intervista per MTV che era
seguita. Aveva
perfino sorriso alla manciata di fans raccomandate che avevano avuto
accesso al
set. Non era riuscito a sorridere quando Bill, Gustav e Georg lo
avevano
guardato con quell’aria compassionevole e nostalgica.
Ora se ne stava lì, seduto
dietro a un tavolo all’ultimo
piano dell’Europacenter, a firmare autografi su autografi per
una fila infinita
di fans che si accalcavano davanti a lui come insetti affamati su un
brano di
carne cruda.
Non aveva nemmeno idea di quanto
tempo avesse passato a
scarabocchiare quei maledetti poster, ma gli sembrava
un’eternità.
Probabilmente più tardi gli sarebbe toccata una strigliata
per quel malumore
che stava ostentando, ma non gli importava. Aveva solo voglia di
alzarsi ed
andarsene.
“Me la potresti fare una
dedica personale?”
Non si degnò nemmeno di
sollevare lo sguardo. L’ennesima fan
pretenziosa che voleva qualcosa di speciale.
“Nome?” chiese in
tono incolore, la punta del pennarello già
pronta sul poster.
“Kels.”
Che cazzo di
nome è
Kels?, si domandò Tom, iniziando a scribacchiare
distrattamente: ‘A Kels,
Tom’.
“Sta per Kelly.”
Lo informò la ragazza, come se gli avesse
letto il pensiero.
Tom si gelò sul posto.
Non
può essere,
pensò, ma la sua testa stava già abbandonando il
poster per sollevarsi sulla
ragazza che aveva di fronte. Dapprima vide i jeans scuri, poi un
maglione
grigio piuttosto largo, un cappotto nero, poi una catena argentata, una
voluminosa sciarpa rossa, infine un viso pallido. Erano castani i
capelli che
lo incorniciavano, ma gli occhi che lo illuminavano erano
inconfondibilmente,
intensamente, dolorosamente neri. E le sue labbra rosse sorridevano.
“Ucraina?”
Tom non riuscì a
controllare il volume della propria voce.
Molte teste si voltarono incuriosite, anche se di per sé
quell’esclamazione
aveva ben poco significato, per tutti loro. Bill, Gustav e Georg,
invece, guardavano
la ragazza a bocca aperta, del tutto dimentichi degli autografi.
“Vedo che non hai perso il
senso dell’umorismo, SNF.”
Tom non era proprio sicurissimo di
trovarsi in una scena
reale. Era un’assurdità: lei non poteva essere
lì, adesso, davanti a lui. No,
non poteva essere. Lo aveva sperato troppe volte, e non era mai
successo. Non
poteva essere vero.
“Sei davvero tu!”
Le braccia conserte, Norja
sollevò sarcasticamente un
sopracciglio.
“Così
pare.”
Era lei. Era lei davvero.
“Cosa cazzo ci fai
qui?”
Altra alzata di sopracciglio:
“Non è
chiaro?”
“No, intendo in mezzo a
tutta questa folla!”
“Sono una fan, no?” fece lei con
ovvietà. “Faccio la coda come tutti.”
Tom era esterrefatto. Lei, che come
se nulla fosse, se ne
andava tranquillamente a fare la coda per un autografo… Che
senso aveva? Era
come se lui si fosse messo in coda per farsi autografare un CD da Bill.
“Tu non dovevi fare nessuna
coda, sarebbe bastato
avvisarci!”
Lei distese le labbra in un sorriso
rigido.
“E come? Telefonavo alla
Universal e dicevo ‘Salve, sono un’emerita
sconosciuta. Mi potrebbe fissare un appuntamento privato con i Tokio
Hotel, per
cortesia?’?”
“Tu non sei
un’emerita sconosciuta!”
Norja si limitò a
sorridere amaramente, scuotendo la testa.
Tutt’intorno stava scoppiando il finimondo: la security non
sapeva più come
tenere a bada la folla di ragazze curiose, e le ragazze stesse erano
esplose in
un attacco di borbottii più o meno sommessi, cercando di
capire cosa stesse
succedendo e chi fosse quella sconosciuta con cui Tom stava parlando.
Tom, dal canto suo, era completamente
estraneo a tutto ciò.
“Sei qui a
Berlino?” domandò ansioso a Norja, quasi temendo
che lei potesse smaterializzarglisi davanti da un momento
all’altro.
“Solo per poco.”
“Alloggi ancora al –?”
“Tom, la
prossima.” Lo esortò sgarbatamente uno dei
bodyguard alle sue spalle.
A quel punto, Norja gli
sfilò praticamente il poster dalle
mani. Tom non ebbe nemmeno la prontezza di sollevare il pennarello
dalla carta,
così l’immagine fu sfigurata da una lunga riga di
indelebile argentato.
“Ci vediamo,
Tom.” Lo salutò Norja, come nulla fosse, e gli
volse le spalle. Solo che Tom non era dell’idea di lasciar
correre un’altra
volta.
Col cavolo
che mi
molli così un’altra volta!
“No! Danimarca,
aspetta!”
Saltò in piedi senza
riflettere e fece per lanciarsi in
avanti e trattenerla, ma le guardie del corpo furono più
veloci e lo fermarono
appena in tempo.
“Tom, dove credi di
andare?”
Lei non si voltò nemmeno a
guardarsi indietro, anche se lui
era sicuro che lo avesse sentito chiamarla. Impotente, vincolato dalla
salda
presa dei due uomini, Tom fu costretto a desistere. Era il suo lavoro,
dopotutto. Si accasciò quindi sulla sedia, svuotato
bruscamente di ogni sensazione.
Ci vollero diversi minuti prima che l’ordine
all’interno della sala fosse
ripristinato, ma alla fine la sessione di autografi riuscì a
proseguire.
“Chi era quella?”
ebbe il coraggio di domandargli qualche
fan particolarmente sfacciata.
Lui non rispose.
Non l’avrebbe perdonata per
questo suo scherzo.
No, questa volta non le avrebbe
permesso di passarla liscia.
***
Era una cazzata, lo sapeva.
Erano già passate due ore
da quando Norja aveva lasciato
l’Europacenter e lasciato Tom con un palmo di naso in balia
del proprio
destino. Era davvero stupido pensare che lei fosse veramente
lì al Ritz e
ancora più stupido era illudersi che sarebbe riuscito a
ottenere una
conversazione decente con lei. Però valeva la pena di
tentare.
Pagato il taxi, Tom scese
dall’auto, trascinandosi dietro
una cosa non di certo sua che però, in un modo o
nell’altro, aveva con sé da
ormai un anno. Entrò nella hall dell’hotel a passo
sicuro, ma con un tale
tumulto nascosto dentro che a stento si sentiva in grado di mettere
insieme una
frase di senso compito. Era nervoso, e arrabbiato, ed era tutta colpa
di Norja.
Quando lo vide arrivare,
l’uomo che stava al bancone della
reception ebbe un fugace attimo di stupore, che mascherò
rapidamente con un
sorriso cordiale:
“Buonasera.”
“Salve.” Ricambiò Tom, indeciso sul da
farsi. Non era riuscito ad elaborare un
vero e proprio piano durante il tragitto dall’Europacenter a
lì. Tutto quel che
sapeva era che voleva trovare Norja.
“Ehm… Forse lei
si ricorda di me. Sono Tom Kaulitz, alloggio
spesso qui con la mia band. Un anno esatto fa eravamo qui.”
“Né io né il mio personale di pulizie
lo abbiamo dimenticato.” Rispose l’uomo,
con un bagliore ilare negli occhi.
“Senta, so che le
sembrerà strano, ma… La vede questa?”
Sollevò la cosa che teneva in mano per fargliela vedere
bene. “È la stessa
giacca che avevo con me l’anno scorso e dovrei proprio
restituirla alla
proprietaria.”
L’uomo assunse
un’espressione incredula:
“Lei se ne va in giro da un
anno con questa giacca e non è
ancora riuscito a restituirla?”
“Lo so che può sembrare strano, ma è
così.”
Stranamente, diversamente
dall’anno prima, questa volta il
direttore sembrava disposto a collaborare.
“Il nome della signorina, prego?”
“Kelly.” Rispose Tom, soddisfatto di conoscere
finalmente la risposta giusta a
quella maledetta domanda. “Kelly Devenpeck.”
L’uomo parve quasi
dispiaciuto di sentire quel nome, come se
fosse una conferma a un timore che già aveva.
“Mi dispiace, ma la
signorina ha liberato la stanza due ore
fa.”
Fu come se il mondo, da lucente e
colorato e pieno di belle
speranze, fosse improvvisamente precipitato
nell’oscurità assoluta.
No, no, no,
no,
cazzo!, imprecò fra sé, già preso dal
panico. Vaffanculo, brutta stronza!
“Ha detto di essere Tom
Kaulitz?”
“Sì.” Boccheggiò Tom, a
malapena conscio di ciò che gli era stato chiesto. Con
una faccia seria, l’uomo si voltò verso la mensola
dietro di sé e prese
qualcosa.
“La signorina Devenpeck ha
detto che probabilmente sarebbe
passato.”
Tom restò immobile per un
momento, letteralmente
pietrificato. Non sapeva esattamente come si stesse sentendo, se
più ferito, o
offeso, o furioso, o deluso.
Tu lo
sapevi, sbottò
contro Norja. Sapevi che sarei venuto, e
te ne sei andata lo stesso.
forse lo sapeva come si sentiva: preso in giro.
“Ha lasciato detto
qualcosa?” domandò, la bocca
insopportabilmente asciutta.
“Veramente no.
Però mi ha pregato di darle questo.” E gli
porse una busta bianca.
Perplesso e morbosamente curioso al
tempo stesso, Tom, la
mano tremante, afferrò il biglietto ripiegato in quattro e
lo aprì.
‘Sei
prevedibile, SNF.
Spero che tu non ti sia fatto idee strane su stamattina. Volevo solo
rivederti,
nient’altro. Ammetto che ogni tanto mi manchi, ma il mio
lavoro a maglia mi
tiene abbastanza sana di mente (astieniti da commenti simpatici, per
favore) da
non farmi perdere la connessione con la realtà. Per quel che
vale, mi dispiace
davvero per come mi sono comportata con te, un anno fa. Che tu ci creda
o meno,
mi è sempre rimasto l’amaro del rimpianto in
bocca, da allora. Grazie
dell’autografo, a proposito, a te e al resto della banda
Disney. Ah, piccola
nota cultural-grammaticale: Kels si scrive senza H. Ad ogni modo,
statemi bene
tutti quanti. Magari ci si rivede, qualche volta.’
Tom non seppe cosa lo trattenne dallo
scoppiare. Aveva
appena scoperto di essere in grado di provare una gamma di emozioni
contrastanti infinitamente più vasta di quel che aveva
sempre creduto.
“Tutto qui?”
L’occhio destro
dell’uomo ebbe un fremito impaziente.
“Signore, questo è un hotel, non
un’agenzia di pubbliche relazioni.”
Tom sospirò, chinando la
testa impotente.
Sì,
sì, ho capito…
“Ho sentito
l’uomo che era con lei che parlava di qualche
appuntamento ad Amburgo,” gli riferì una donna
sulla settantina che sedeva a
uno dei tavolini della hall con un caffè in mano, assieme ad
un paio di amiche.
“Ho avuto l’impressione che dovessero prendere un
treno.”
Tom si rianimò in un
attimo, ma la situazione non era poi
migliorata di molto
Un treno. C’erano
un’infinità di stazioni ferroviarie a
Berlino. Non sarebbe mai riuscito a trovarla in tempo.
“Cazzo!”
“Non sia volgare,
giovanotto!” lo rimproverò un’altra
delle
signore.
“Non sgridarlo,
Gerta!” intervenne la terza. “Non vedi che
il ragazzo è innamorato?”
Tom si sentì sbiancare,
uno strano ronzio sordo nelle
orecchie.
Cos’è
che sono?
La donna si voltò verso di
lui con un enorme sorriso rugoso.
“Ho sentito che dicevano al
tassista di andare a
Friedrichstraße, caro!”
Friedrichstraße…
Non aveva la minima idea di dove fosse. O
forse ce l’aveva ma non riusciva a ricordare. Ma non aveva
importanza, avrebbe
comunque preso un taxi per arrivarci.
Forse c’era ancora una
speranza.
“Grazie!” disse
alle signore, stritolandosi il foglio
lasciato da Norja tra le dita.
“Però faresti
meglio a sbrigarti,” lo avvertì la prima
vecchietta. “Sono partiti un’ora fa!”
Merda!
***
Tom, nella sua scarsa
lucidità, non aveva smesso un secondo
di ripetere a se stesso che, una volta portata a termine quella pazzia,
sarebbe
stato consigliabile farsi internare in un ospedale psichiatrico,
perché non
sapeva bene nemmeno lui cosa diavolo stesse facendo e soprattutto
perché.
Prima la corsa in taxi fino alla
stazione ferroviaria di
Friedrichstraße, poi la lotta contro il tempo per orientarsi
in quel dannato
labirinto di scale e binari, poi ancora l’individuazione del
treno giusto e la
corsa per saltarci sopra appena prima che le porte si chiedessero. O
meglio,
non era proprio sicuro che fosse proprio quello il treno giusto, ma era
l’unico
che partisse per Amburgo e dunque l’unico su cui avesse senso
puntare.
Ovviamente non aveva avuto il tempo
di comprare un biglietto,
ma quello era l’ultimo dei suoi problemi. Stava risalendo il
treno dall’ultima
carrozza, perlustranolo palmo a palmo per cercare di individuare un
volto noto.
Sarebbe stato tutto molto più semplice se Norja avesse avuto
ancora quegli
assurdi capelli rosso fuoco. La gente non badava a lui,
perché per fortuna
erano quasi tutti professionisti che si spostavano per lavoro, ma, a
giudicare
dagli sguardi, qualcuno lo aveva senz’altro riconosciuto.
A metà del terzo vagone,
il cellulare gli vibrò in tasca. Tom
le recuperò automaticamente e se lo portò
all’orecchio.
“Tom, dove cazzo
sei?!” strillò la voce isterica di Bill,
prima che lui potesse anche solo dire ‘Pronto?’.
“Ah,” Tom continuò ad avanzare
attraverso i sedili, scandagliando
speranzosamente ogni singolo passeggero. “Non ci
crederesti.”
“Mettimi alla prova.”
Tom si leccò le labbra
incerto.
“Su un treno per Amburgo.”
“Un cosa per dove?!” sbraitò
Bill, dall’altra parte. “Tom, sei mi stai prendendo
per il culo, io –”
“Sto cercando Norvegia
Nera.” Sospirò Tom, continuando
imperterrito a cercare.
“Lilli? Credevo fosse al Ritz.”
“Lo credevo
anch’io, ma lo sai com’è fatta quella.
Non è mai
dove dovrebbe essere.”
“E adesso cosa pensi di
fare?” chiese Bill, tutto eccitato.
“Non ne ho idea. Cioè, devo setacciare il treno,
suppongo.”
“Come sai che è
lì?”
Tom si morse un sorriso tra le labbra.
“È una lunga storia.”
“Oh, Tomi, è
così romantico quello che stai facendo!”
“Lo vedrai come
sarà romantico appena la trovo!” sbottò
Tom,
passando alla carrozza successiva. “È stata
proprio una stronza a venire alla
signing session e poi sparire così! Avrebbe almeno potuto
–”
Il sangue di Tom defluì da
ogni parte del suo corpo per
concentrarsi tutto sul viso. La mano che reggeva il cellulare si
abbassò inconsciamente
e lo infilò in tasca, senza neanche chiudere la chiamata.
Un paio di occhi neri come il carbone
lo fissavano sgranati
da dietro ad un paio di occhiali rettangolari.
“Tom?”
Era lì.
Norja era lì, davanti a
lui, seduta accanto al finestrino con
un grosso libero in mano e la vaporosa sciarpa rossa della signing
session
avvolta attorno al collo.
“Scozia!”
Solo adesso che la aveva di fronte,
Tom si rendeva conto di
non aver mai creduto veramente che sarebbe riuscito a trovarla.
Lei sembrava incollata al sedile, il
suo viso congelato in
un’espressione sconvolta che Tom non sapeva come interpretare.
“Che cosa… Cosa
diavolo ci fai tu qui?”
Suo malgrado, Tom le sorrise.
“Inseguo un Bianconiglio dispettoso.”
“Tu sei pazzo!”
“Ti ringrazio per averlo notato.” Tom si
avvicinò e si sedette con noncuranza
accanto a lei. “Scusa l’invadenza, mi rendo conto
che venire a braccarti su un
treno in corsa sia una mossa abbastanza estrema e scorretta, ma non mi
hai
lasciato scelta ed era un anno che aspettavo.”
“Sei pazzo!”
“Certo che sono pazzo. Una persona normale non sarebbe di
certo qui, ti pare?”
“Come diavolo hai fatto a
trovarmi?”
“Grazie a tre simpatiche vecchiette ficcanaso con un
promettente futuro da spie
che hanno origliato al Ritz.” Spiegò lui,
compiaciuto. “Ti trovo ingrassata.”
Aggiunse poi, dandole una rapida squadrata.
Norja, stranamente, non
batté ciglio. Era proprio una statua
di sale.
“Dov’è
Julian?” insisté allora lui.
“A casa, dalla sua
famiglia.” Balbettò lei. “Lui
è di
Berlino.”
“Meno male. Sai,
quell’uomo mi irrita.”
Norja non accennava
a
sciogliersi di una virgola. Sembrava non aver ancora compreso quello
che stava
accadendo.
“Il tizio
dell’hotel non ti ha dato il mio biglietto?”
“Sì,
certo.” Tom le mostrò la pallottola di carta
stropicciata.
“E quello che ti ho scritto non era chiaro?
“Chiarissimo.”
“E allora?”
Imperturbabile, Tom distese
accuratamente il foglio sulla
propria gamba e lo lisciò per bene, poi lo porse a lei.
“Non hai firmato.”
Norja lo prese ma non fece altro che
osservarlo e battere le
ciglia perplessa.
“Ti spiacerebbe
ripetere?”
“Non hai firmato il messaggio.” Spiegò
pazientemente lui, indicandole il vuoto
bianco alla fine del messaggio. “Tu il mio autografo ce
l’hai, e non mi hai
nemmeno lasciato il tuo.”
“Tu sei pazzo!”
sbuffò ancora una volta lei, ma a Tom non
sfuggì la minuscola e fugace arricciatura delle sue labbra
scarlatte.
“La vuoi piantare di darmi
del pazzo? Fino a due volte va
bene, a tre diventa irritante.”
E da semplice arricciatura, la piega
delle labbra di Norja
divenne un sorriso vero.
“Oh, sta’
zitto!” gli disse con una gomitata.
Tom si concesse di contemplarla per
qualche secondo mentre
lei faceva lo stesso con il foglio sciupato: era carina, ma non bella
in modo
vistoso. Sicuramente non era come tutte quelle ragazze celebri con cui
Tom era
stato visto durante la sua carriera. Tom si sentì strano nel
rendersi conto
che, vedendola passare per strada, non si sarebbe mai accorto di lei.
Se non
avesse avuto modo di conoscerla, non si sarebbe mai interessato a una
come lei,
perché, sì, in fondo era l’aspetto che
contava al primo impatto, e a lui le
persone troppo stravaganti non erano mai andate giù. Un
fratello così era più
che sufficiente. Ma poi aveva incontrato lei, e con suo sommo stupore
aveva
scoperto che c’erano un bel po’ di modi a lui
finora sconosciuti in cui una
ragazza potesse piacere a un ragazzo, e da lì aveva capito
tutto, o forse aveva
cominciato a non capire più niente.
“L’ho fatto,
sai?”
Norja lo guardò. Era buffa
con quegli occhiali.
“Fatto cosa?”
“Ho provato una sedia a dondolo. A Natale, a casa dei miei
nonni. È stato
esattamente come avevi detto tu.”
“Tu hai provato una sedia a
dondolo?” esclamò lei,
incredula.
“Sì.” Rispose Tom, orgoglioso.
“E il vaporoso scialle di
lana rosa?”
“Quello di mia nonna è verde e non molto vaporoso,
ma, sì, ho provato anche
quello. Certo, è stato interessante, poi, spiegare a mia
madre la situazione,
quando è entrata e mi ha trovato così, ma se sono
qui vuol dire che ha creduto
alla mia arringa in difesa della mia sanità
mentale.”
Norja si portò entrambe le
mani davanti alla bocca, ma
questo non nascose il luccichio nel suo sguardo.
“Oh, mio dio.”
“Allora?” fece
Tom, carico di aspettativa.
“Allora cosa?”
“Ma scusa, ti sono venuto a cercare in hotel;
dall’hotel ti sono corso dietro
fino alla stazione; dalla stazione sono saltato su un treno in partenza
senza
nemmeno essere sicuro che fosse veramente il tuo… Non sei
nemmeno un po’
impressionata?”
Adesso che lo raccontava, gli
sembrava ancora più assurdo.
Lei, a giudicare dalla sua espressione, la pensava allo stesso modo.
“Non ricordo se ho
già detto che sei pazzo…”
“Non fare la noiosa. Dai,
sul serio… Non ti ho stupita
nemmeno un pochino?”
“Più che stupita
sono proprio incredula. Senza parole. Cosa
ti è saltato in mente, si può sapere?”
Tom si fissava le mani, seduto
scompostamente. Quella era la
parte più difficile, per lui: parlare.
“Tu scappi sempre.” Mormorò.
“Arrivi, sconvolgi tutto, poi prendi e te ne vai,
e mi molli sempre con un palmo di naso. Hai idea di come sia
pesante?”
Silenzio. Il visetto tondo di Norja
era concentrato sulla
carta, sulle parole che lei stessa aveva scritto.
“Com’è stato quest’ultimo anno, per te?” gli chiede a un tratto, atona.
“Come, scusa?”
La sua espressione si
incupì leggermente, il suo sorriso si
sciolse.
“No, perché, sai… Per me è
stato abbastanza critico. Cioè, professionalmente
è
andato alla grande. Ho finito gli ultimi due libri della saga in sei
mesi. Il
mio editore stava per mettersi a piangere quando gli ho portato i
manoscritti.
E poi c’è stata la firma del contratto con la New
Line per i film, e di
conseguenza i miei impegni sono decuplicati… E a me andava
più che bene, perché
così non avevo tempo di fermarmi e pensare a un idiota
molesto che ho
incontrato lo scorso anno sul tetto di un albergo – sai, mi
aveva rovinato le
scarpe nuove – e a tutte le cavolate che ci eravamo detti. Ma
lui…” Si
interruppe, mordendosi il labbro, e si voltò verso di lui.
“Lui… Mi mancava lo
stesso, capisci?” Disse in un sussurro a stento udibile.
“Mi mancava così
tanto, certe volte, che quando ho scoperto che saremmo stati a Berlino
lo
stesso giorno, non ho potuto fare a meno di andare da lui. Solo per
vedere come
stava. Solo che poi…”
Tom deglutì il vuoto.
“Poi?”
Le dita sottili di Norja ebbero un
lieve fremito, distese al
di sopra del foglio che teneva appoggiato in grembo.
“Mentre lui mi firmava uno stupido poster, era come se la mia
fredda
razionalità cercasse di strappare i miei piedi da
lì e trascinarmi via il più
rapidamente possibile, mentre qualcosa giù nel profondo
insisteva ad urlare
‘Lasciami qui! Non ho finito! Voglio
restare!’… Ed è stato esattamente come
un
anno fa.”
“Un anno fa non vedevi l’ora che io me ne
andassi.”
“No. Ti ho cacciato via, è diverso.”
Tom sbuffò, irritato.
“Diverso?”
No, non c’era niente di
diverso. Un bel niente.
Norja, però, aveva
un’aria mortalmente dispiaciuta.
“Tom, avevo quelli della New Line che mi aspettavano,
dovevamo concordare gli
ultimi dettagli di un contratto che mi avrebbe cambiato la vita, e
l’ultima
cosa di cui avevo bisogno era avere te lì nei paraggi a
mandarmi in pappa il
cervello!”
Il cervello di Tom, per quanto
frastornato, impiegò
relativamente poco a fare due più due ed elaborare i fatti
sotto un punto di
vista un bel po’ diverso dalla sua prima percezione.
“Avresti semplicemente
potuto dirmelo.”
“Lo avrei fatto, se tu non mi avessi baciata a
tradimento!”
Tom si era preparato a ribattere, ma
questo era un colpo
invincibile.
“Uffa, trovi sempre il modo
di dare la colpa a me!”
“E vorrei ben
vedere!”
“E non è
cambiato niente in quest’anno in cui ci siamo persi
di vista?” le chiese, incrociando mentalmente le dita.
“Dipende da quello che
intendi.”
Tom sollevò le spalle.
“Sai, speravo che noi…”
“Non c’è mai stato nessun noi.”
“Ok, ma speravo che potesse esserci.”
“La vedo molto futuribile come cosa, ora che i miei libri
diventeranno dei film
e dovrò presenziare a prime, presentazioni e
chissà che altro.” Berciò lei,
acida. Acida, come sempre era stata. Come piaceva a lui.
“Non ti piacerebbe portarci quel gran pezzo di Tom SNF
Kaulitz a tutte queste
cose?” le suggerì languidamente, chino sul suo
orecchio.
Norja, rabbrividendo, lo
occhieggiò come se fosse stato un
marziano:
“Eh?”
“Ho detto: non – ti – piacerebbe
–”
“Ho sentito quello che hai
detto!” chiarì lei, stizzita.
Tom iniziava ad acquisire fiducia. La
sentiva ammorbidirsi
lentamente ogni secondo che passava. Doveva solo giocare bene le sue
carte.
“Dai, Irlanda, ce la diamo
una possibilità?”
“Una
possibilità?”
“Sì,
insomma… Tu ti potresti benissimo presentare come Norja
Schwartz e mantenere il tuo prezioso anonimato. Probabilmente
innescheremmo una
bomba mediatica di quelle epocali, ma… Potremmo anche
provare a vedere come si
incastrano le nostre vite, no?”
“Le nostre vite?”
“Hai finito di fare il pappagallo con quella faccia da pesce
lesso?” fece Tom,
spazientito. “Sto parlando seriamente.”
“Non ho capito l’avverbio, scusa.”
“Senti, io il mio impegno
ce l’ho messo! Se non te ne frega
niente, basta dirlo, me ne torno da dove sono venuto!”
“Non puoi tornare da dove sei venuto, siamo su un treno
diretto.”
“Intendevo in senso figurato.”
“Tom,
io…” La tentazione si rifletteva in ogni gesto di
Norja, in ogni sua sillaba. “Io non posso. Passerei ogni
giorno a chiedermi cose
idiote come ‘Ma perché diavolo ha voluto
me?’…”
“Perché mi fai ridere.”
“O ‘Come faccio a sapere che me lo
merito?’…”
“Eri già cotta
di me quando ero piccolo e sfigato.”
“Oppure
‘Quand’è che aprirà gli occhi
e si accorgerà che può
pretendere di più?...”
“Mai.”
Norja si portò una mano
alla fronte con un sospiro
disperato.
“Oh,
Tom…”
Lui odiò quel tono: era il
tono di chi sapeva esattamente
cosa voleva ma insisteva a negarselo. Era il tono di qualcuno che non
voleva
scegliere. E lui ne aveva abbastanza.
“Norvegia, mi hai rotto, va
bene?” tuonò, balzando in piedi.
Era deluso, ma molto più in profondità di quanto
non gli fosse mai capitato. “Sei
patetica, tu e le tue paranoie da ragazzina complessata! Che palle!
Posso avere
il diritto di prendermi una sbandata per una tizia a caso che incontro
sul
tetto di un hotel? Posso avere la presunzione di sperare che lei possa
contraccambiarmi, per una volta che mi interessa davvero? E, se non
è troppo, ti
spiacerebbe lasciar decidere a me cosa voglio, merito, eccetera? Ok,
non sei
bella come me, né ricca e famosa come me, e non sei nemmeno
intelligente come
me… Ma sono un tipo accomodante, sai? Qualche volta mi so
accontentare, cosa
credi?”
Gli altri tre passeggeri che
condividevano il vagone con
loro stavano seguendo la scena con una certa curiosità. Se
non altro, si
rallegrò Tom, probabilmente non capivano granché
di quello che lui e Norja si
stavano dicendo.
E lei, ancora affondata nel suo
sedile, guardava in su verso
di lui. Tom credette ce lo avrebbe aggredito da un momento
all’altro. Quando
Norja si levò in piedi minacciosa, infatti,
arretrò istintivamente di un passo.
Lei lo fronteggiò, scura in volto, e lui aspettava uno
schiaffo, uno spintone,
qualcosa di violento e liberatorio, ma tutto ciò che
arrivò fu una strana
risata simile a un singhiozzo.
“Quanto sei
scemo.”
Tom non mosse un muscolo. Aveva paura
che qualunque suo
gesto avrebbe potuto infrangere quel delicatissimo filo di connessione
che si
era creato fra loro. L’istinto lo spingeva verso il contatto
fisico, ma non
fece niente, se non sforzarsi di apparire calmo e padrone dì
sé:
“Allora? Vuoi che me ne
vada o che resti?”
Norja scuoteva debolmente la testa
fissandosi i piedi, e Tom
aveva il terrore di sapere già cosa questo significasse.
“La mia testa mi sta
supplicando di dire ‘Vattene’.” La
udì
mormorare. Eppure…
“Ma…?”
C’era un
‘Ma’ che lei aveva taciuto. C’era. Ci
doveva
essere. Tom lo sentiva.
“Ma…”
Norja alzò lo sguardo. Era così bassa, rispetto a
lui,
che si ritrovò a fissargli il petto. “Porti ancora
questa orribile maglietta?”
A Tom venne da ridere. Per tutta
risposta, la costrinse a
sollevare ulteriormente il viso, finché non fu in grado di
guardarla negli
occhi. E allora le sorrise.
“E tu porti ancora questo orribile rossetto?”
Lei strinse automaticamente le labbra
tra loro.
“Starebbe male con
qualunque tua maglietta.” Rispose
tentennante. “Così vado sul sicuro.”
“Posso sempre togliermi la
maglietta.” Replicò lui,
scrollando le spalle.
“Bell’idea, a
metà febbraio, in luogo pubblico.”
“Allora potresti toglierti
tu il rossetto.”
Un semplice passo bastò ad
avvicinarlo a lei quel tanto da
permettergli di intrappolarla tra lui e il lato del sedile. Tom si
perse nei
suoi occhi. Per qualche motivo, aveva sempre pensato che gli occhi
chiari –
azzurri, verdi, grigi – fossero i più
affascinanti, ma questo era stato prima
che scoprisse quanto potessero essere belli e profondi degli occhi
così
straordinariamente neri.
“E se le mie labbra
avessero freddo, senza?” azzardò Norja,
la voce malferma, mentre lui le sfiorava la vita con le mani.
“A questo proposito,” le rispose, accostando le
labbra alle sue con esasperante
lentezza. “Ci sarebbe un’idea che vorrei
illustrarti.”
E quando si chinò e Norja
non si ritrasse, capì che l’idea –
assieme a tutto il resto – era stata approvata.
***
Resta.
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Note:
ebbene sì, è finita! ^^ Ringrazio di cuore tutti
voi per aver letto e
commentato questa storia, e avermi accompagnata lungo tutta la sua
(lunghissssssima! XD) pubblicazione. Spero che anche per
quest’ultimo capitolo
vogliate lasciami due parole di impressioni e giudizi. ;)
Sto scrivendo una oneshot, al momento,
e penso che la posterò
a breve, quindi occhi aperti, mi raccomando! ;)
Alla prossima!
P.S. la canzone citata è la bellissima Geh, von Tokio Hotel.
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