Bianca come il peccato

di RobynODriscoll
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Un mondo nuovo ***
Capitolo 3: *** Monteriggioni ***
Capitolo 4: *** Una piuma per Nonna Maria ***
Capitolo 5: *** Mio padre è un assassino - parte prima ***
Capitolo 6: *** Mio padre è un assassino - parte seconda ***
Capitolo 7: *** Illegittimi ***
Capitolo 8: *** L'odore della morte ***
Capitolo 9: *** Il bacio di Giuda ***
Capitolo 10: *** Il ricciolo di Lucrezia ***
Capitolo 11: *** Bianca come il peccato ***
Capitolo 12: *** Di spada e di veleno ***
Capitolo 13: *** Presagio ***
Capitolo 14: *** L'incappucciato ***
Capitolo 15: *** Fratelli di Lama ***
Capitolo 16: *** La Fede di un Assassino ***
Capitolo 17: *** La Prima Vittima ***
Capitolo 18: *** Donna di virtù ***
Capitolo 19: *** Cicatrici ***
Capitolo 20: *** La magia non esiste ***
Capitolo 21: *** Bambole ***
Capitolo 22: *** Il prezzo delle scelte ***
Capitolo 23: *** La vita non è una battaglia ***
Capitolo 24: *** Sii grande ***
Capitolo 25: *** Il Sigillo dei Borgia ***
Capitolo 26: *** Sangue del mio sangue ***
Capitolo 27: *** Caina attende ***
Capitolo 28: *** Gentile rideva ***
Capitolo 29: *** Senza amore ***
Capitolo 30: *** Predatori e prede ***
Capitolo 31: *** Chi va con lo zoppo - parte prima ***
Capitolo 32: *** Chi va con lo zoppo - parte seconda ***
Capitolo 33: *** Contro tutte le stelle ***
Capitolo 34: *** Il nemico ***
Capitolo 35: *** Dritto al cuore ***
Capitolo 36: *** Coperture ***
Capitolo 37: *** Solo una madre - parte prima ***
Capitolo 38: *** Solo una madre - parte seconda ***
Capitolo 39: *** Io sono Caino ***
Capitolo 40: *** Speranza e paura ***
Capitolo 41: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 42: *** Cuore contro cuore ***
Capitolo 43: *** Un salto nel buio ***
Capitolo 44: *** Incompleta felicità ***
Capitolo 45: *** Qualcosa in cui credere ***
Capitolo 46: *** Sì ***
Capitolo 47: *** Agnus Dei ***
Capitolo 48: *** Anche nella sconfitta ***
Capitolo 49: *** Habemus Papam ***
Capitolo 50: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

Il mio primo ricordo di lui è una voce nell’altra stanza. Una voce irata, che mi spaventò.
Dovevo essere molto piccola, perché Vanni non c’era ancora. Avevo tre anni, quattro. Ma forse, a pensarci meglio, tre. 
“Pensavi davvero di potermelo tenere nascosto? Pensavi che Antonio avrebbe mantenuto il segreto?”
Avevo paura, perché nella stanza era buio e mia madre mi aveva messo a letto anche se non volevo. Quell’uomo era entrato dopo che lei mi aveva lasciato lì, da sola, a guardare le ombre spettrali che filtravano dalle fessure delle imposte. 
Con il tempo ho rimuginato su questo ricordo così tanto, che devo aver inventato molti dei particolari. Sono certa, ad esempio, di aver visto delle farfalle bianche giocare sul muro. Ho cercato di afferrarne una, ma si è dissolta in polvere appena l’ho toccata, lasciandomi dei granelli brillanti sulle dita.
Forse era soltanto una falena morente. Forse non c’era nemmeno. Di quell’età, non dovrebbero restare ricordi. I miei sono invece così nitidi, che posso dirvi con certezza cosa si dissero gli adulti, nella stanza accanto.
La voce di lui si era fatta più calma. Quasi addolorata.
“Perché non me l’hai detto, Rosa?”
Un silenzio.
“Cosa sarebbe cambiato? Tu dovevi partire. Tu devi sempre partire. Prima a Firenze, e poi sa Dio dove! Anche se avessi voluto dirtelo, come ti avrei trovato?”
Non rispose. Lo sentii sedersi sullo sgabello rotto, quello che cigolava sempre.
“Posso vederla?”
“Sta dormendo.”
“Rosa, ti prego. Se tu vorrai, io non la vedrò più. Ma almeno una volta…voglio vedere il suo viso.”
Dopo un tempo che mi parve eterno, in cui pregai che lei lo cacciasse via, sentii i cardini della porta cigolare.
La luce di una candela dissolse il buio e le mie falene bianche. Gli occhi azzurri di mia madre erano tristi.
“Non dormi, piccola?”
“C’erano le farfalle.”
Lei non mi prese molto sul serio. Sorrise, sollevandomi dal giaciglio per tenermi tra le braccia.
Allora, vidi l’uomo. 
Era alto, il naso lungo e dritto, la carnagione scura. Non aveva un’espressione minacciosa, ma ero ancora diffidente.
“Chi sei tu?”
Anche lui sorrise. Allungò un dito, per accarezzarmi la guancia. “Mi chiamo Ezio.”
A quel punto, mia madre disse ciò che non era necessario dire. L’avevo capito dal primo momento in cui avevo sentito la sua voce.
“Bianca, Ezio è tuo padre.”


Poiché sono sostanzialmente una fangirl, non potevo resistere all'idea di parlare dei figli di Ezio! All'inizio non mi convinceva il suo rapporto con Rosa, poi lentamente mi sono innamorata della coppia e ho deciso che la madre dei suoi figli, almeno nella mia fantasia, doveva essere lei.Nella speranza di non compiere uno scempio con la storia rinascimentale, vi propongo la storia di Bianca e Vanni Auditore, raccontata da Bianca in prima persona.Spero vi piaccia ^_^

Il mio primo ricordo di lui è una voce nell’altra stanza. Una voce irata, che mi spaventò.

Dovevo essere molto piccola, perché Vanni non c’era ancora. Avevo tre anni, quattro. Ma forse, a pensarci meglio, tre.

“Pensavi davvero di potermelo tenere nascosto? Pensavi che Antonio avrebbe mantenuto il segreto?”

Avevo paura, perché nella stanza era buio e mia madre mi aveva messo a letto anche se non volevo. Quell’uomo era entrato dopo che lei mi aveva lasciato lì, da sola, a guardare le ombre spettrali che filtravano dalle fessure delle imposte.

Con il tempo ho rimuginato su questo ricordo così tanto, che devo aver inventato molti dei particolari. Sono certa, ad esempio, di aver visto delle farfalle bianche giocare sul muro. Ho cercato di afferrarne una, ma si è dissolta in polvere appena l’ho toccata, lasciandomi dei granelli brillanti sulle dita.

Forse era soltanto una falena morente. Forse non c’era nemmeno. Di quell’età, non dovrebbero restare ricordi. I miei sono invece così nitidi, che posso dirvi con certezza cosa si dissero gli adulti, nella stanza accanto.

La voce di lui si era fatta più calma. Quasi addolorata.

“Perché non me l’hai detto, Rosa?”

Un silenzio.

“Cosa sarebbe cambiato? Tu dovevi partire. Tu devi sempre partire. Prima a Firenze, e poi sa Dio dove! Anche se avessi voluto dirtelo, come ti avrei trovato?”

Non rispose. Lo sentii sedersi sullo sgabello rotto, quello che cigolava sempre.

“Posso vederla?”

“Sta dormendo.”

“Rosa, ti prego. Se tu vorrai, io non la vedrò più. Ma almeno una volta…voglio vedere il suo viso.”

Dopo un tempo che mi parve eterno, in cui pregai che lei lo cacciasse via, sentii i cardini della porta cigolare.

La luce di una candela dissolse il buio e le mie falene bianche. Gli occhi azzurri di mia madre erano tristi.

“Non dormi, piccola?”

“C’erano le farfalle.”

Lei non mi prese molto sul serio. Sorrise, sollevandomi dal giaciglio per tenermi tra le braccia.

Allora, vidi l’uomo.

Era alto, il naso lungo e dritto, la carnagione scura. Non aveva un’espressione minacciosa, ma ero ancora diffidente.

“Chi sei tu?”

Anche lui sorrise. Allungò un dito, per accarezzarmi la guancia. “Mi chiamo Ezio.”

A quel punto, mia madre disse ciò che non era necessario dire. L’avevo capito dal primo momento in cui avevo sentito la sua voce.

“Bianca, Ezio è tuo padre.”

 

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Capitolo 2
*** Un mondo nuovo ***


Eccomi qui, con il primo capitolo! Per un po’ dovrò occuparmi dell’infanzia di Bianca, per gettare le basi di ciò che verrà dopo – però giuro che intorno al capitolo cinque arriverà anche un po’ d’azione, e soprattutto più Storia! :)

 

Quella volta, Ezio ripartì presto, dopo appena due giorni: ma di lì a quattro mesi, tornò. Non potevo capire, allora, che genere di affari lo trattenesse a Venezia. Sapevo solo che, quando lui stava con noi a Palazzo della Seta, mia madre si comportava in modo strano.

Era un tipo impetuoso, mia madre. L’avevo vista gridare addosso a omoni come zio Bartolomeo, correre sui tetti per sfuggire alle guardie e parlare liberamente in un’assemblea di uomini. Eppure, quando Ezio era presente sembrava di colpo più fragile. A volte si fermava a guardarlo per momenti interminabili, mentre mangiavamo alla mensa di zio Antonio; indugiava qualche momento con le mani sulle sue spalle, mentre lo aiutava a indossare la cappa. Eppure, non faceva che rispondergli a male parole. Ero abituata al suo turpiloquio, eppure io stessa rimasi un po’ perplessa. Verso mio padre la sentii usare le parole peggiori del suo repertorio, quelle che nemmeno i nostri compagni ladri usavano mai.

Una sera, mentre giocavo fuori dallo studio affrescato che zio Antonio aveva preso per sé – quella, mi avevano detto, un tempo era stata la casa di un uomo ricchissimo! -, assistei ad una scena che mi è rimasta impressa.

Mia madre era rientrata stanca da uno degli incarichi affidati al suo gruppo. La vidi avvicinarsi a me e tendermi le braccia, per prendermi in collo e portarmi nelle nostre stanze. Quando la porta dello studio di zio Antonio si aprì.

Ne uscirono lo zio, mio padre e suor Teodora.

Lei era una donna bellissima. Non bella come mia madre, ma tanto aggraziata da abbagliare. Vestiva in maniera un po’ strana per una suora, ma proprio per questo mi piaceva. Mia madre, però, non era contenta quando dicevo che da grande volevo somigliare a lei.

La simpatia che nutrivo per quella stramba suora era reciproca. Non perdeva occasione di prendermi in braccio e vezzeggiarmi. Lo fece anche quella sera; ma io non le prestai molta attenzione. Avevo notato lo sguardo gelido che mia madre aveva rivolto ad Ezio.

 “Andiamo, Bianca. E’ ora che tu vada a dormire.”

“Rosa…vorrei parlarti. Solo un momento, te ne prego.”

Mio padre guardava mia madre come non l’avevo ancora mai visto fare. Con un’intensità che allora non potevo capire, e che scambiai per una sorta di rivalità. Forse desiderava litigare con lei lontano dalle mie orecchie. Così pensai allora.

Antonio scambiò uno sguardo imbarazzato con suor Teodora. Ma l’espressione di mia madre restò ferrea.

“Qualcuno deve mettere a letto la bambina.”

“Posso farlo io.”

Quando la suora pronunciò quelle parole, pregai che mia madre acconsentisse. Teodora aveva splendidi capelli castani, e profumava di buono. Sarebbe stato bello addormentarsi con lei vicino.

Mi portò nella mia stanza, si fece mostrare le mie bambole di pezza. Dissi, orgogliosa, che le aveva cucite mia madre per me.

“Tua madre è una donna straordinaria.”

Fui molto fiera di quell’osservazione.

“Sorella…a voi piace mio padre?”

Suor Teodora accennò ad un sorriso. “E’ un mio vecchio amico, e gli voglio molto bene. E a te, piace?”

Scossi il capo, sistemando i capelli di lana della mia bambola. “Non lo so. Mi fissa sempre, ma non gioca mai con me.”

Allora, suor Teodora rise.

“Devi avere pazienza con gli uomini, Bianca. A volte sono così goffi! Non sempre sanno dimostrarci quanto tengono a noi.”

Mentre suor Teodora mi vestiva per la notte pensai che, se quello che diceva era vero, forse mia madre era come un uomo. Guardava Ezio proprio come lui guardava me. Come se fosse sempre sul punto di dirgli qualcosa, ma poi rinunciasse prima di aprire bocca.

“Mio padre mi vuole bene?”

L’idea mi lasciava perplessa. Se era così, perché non mi sorrideva? Zio Antonio e zio Ugo mi tenevano sulle loro ginocchia e mi raccontavano storie. Lui, invece, sembrava sempre turbato dalla mia presenza.

Gli occhi di Teodora si misero nei miei. Erano calmi e rassicuranti.

“Così tanto che non sa come mostrartelo. Ma tu non devi dubitarne mai...l’amore, quello vero, è come lo Spirito Santo di Nostro Signore.” La suora scostò le coperte, mi fece cenno di sdraiarmi. Le ubbidii, e lei proseguì: “Come Lui non ha corpo, ma lo puoi vedere sui corpi degli altri. Nei loro volti, nei loro occhi e sulla loro pelle. Quando lo incontri, non ti puoi confondere con nient’altro.”

Pensai che le sue prediche mi piacevano più di quelle dei religiosi che ogni tanto sbraitavano in piazza, e mi addormentai accoccolata contro il suo seno morbido.

 

***

 

Molte ore dopo, quando Teodora mi aveva lasciato sola da un pezzo spegnendo la candela, aprii gli occhi e vidi di nuovo le falene bianche danzare sul muro della mia stanza. Poi, mi accorsi che non si trattava affatto di farfalle. Era un gioco di luce che il lampadario di vetro nell’anticamera proiettava sul muro, riverberando le fiammelle delle candele. Quel fascio luminoso penetrava nella mia stanza attraverso lo spiraglio della porta, che Teodora aveva lasciato aperto.

Sentii dei sussurri nella camera a fianco. Mi alzai dal letto, tenendo per mano la mia bambola.

“La tua gelosia non ha senso.”

Mio padre. Aveva il cappuccio calato, potevo vedere i suoi capelli bruni. Toccai d’istinto i miei, così simili.

“Se dovessi essere gelosa di tutte le puttane che passano di qui, perderei il mio tempo in continuazione.”

“Rosa…”

“Parlami della signora di Forlì, invece. Ho sentito che è bella. Dicono che hai passato molto tempo alla Rocca di Rivaldino, insieme a lei.”

“Sono passati anni dall’ultima volta che ho visto Caterina!”

“E vuoi farmi credere che non sei mai tornato da lei?”

“No. In compenso, sono tornato da te.”

Mia madre esitò. Si morse il labbro, e guardò altrove. “Per Bianca.”

Lui mosse un passo. “Sì, per Bianca. Ma non soltanto.”

La prese per le spalle, costringendola a guardarlo. “Mentirei se ti dicessi che non partirò più. Se ti basta, ti prometto che tornerò. Per lei, e per te.”

Lei lo guardò come se cercasse di capire se poteva credergli. Poi, gli gettò le braccia al collo, e lo baciò.

Si divisero dopo un tempo che a me, che guardavo senza capire, parve un’eternità. Sentii lei che diceva:

“Non qui. Di là c’è la bambina.”

Allora lo prese per mano, e si allontanarono nei corridoi. Lo spiraglio di luce tornò ad invadere la mia camera. Io feci un passo indietro, camminando lentamente verso il letto.

Dunque, le cose stavano così. Non avevo capito bene cosa si fossero detti, ma per una volta mia madre non l’aveva insultato.

Strinsi la bambola al petto e pensai che non sapevo se mio padre mi piaceva. Però, evidentemente, piaceva a mia madre. Quindi, per amore suo avrei fatto amicizia con lui.

 

Quella notte fu concepito mio fratello, Giovanni Antonio Auditore.

Vanni vide la luce una mattina di luglio, nel 1493. Nei nove mesi trascorsi, il mondo era cambiato rapidamente. Negli anni seguenti avrei appreso che Lorenzo il Magnifico era morto, lasciando un vuoto di potere che aveva dato la possibilità ai nemici dei Medici di spodestare i suoi legittimi eredi. Un navigatore genovese, al soldo di Isabella di Castiglia, aveva trovato una nuova rotta per dirigersi verso le Indie, per poi accorgersi che non si trattava affatto delle Indie ma di un nuovo continente. Nello stesso periodo, il nemico mortale di mio padre era divenuto Papa: semplicemente, l’uomo più potente del mondo. Lo Spagnolo tramava per espandere il proprio dominio attraverso le conquiste del figlio Cesare, e le alleanze strette con i molti matrimoni imposti alla figlia Lucrezia.

Allora, naturalmente, non sapevo nulla di tutto questo. Era il mio mondo ad essere cambiato per sempre, a causa della nascita di Vanni. Ed io, ancora oggi, non so se ringraziare il Cielo o maledirlo per questo.

Quando me lo presentarono, rossiccio di pelle e con una rada peluria di capelli scuri in testa, lo trovai molto brutto. Non mi somigliava per niente. Il suo viso non era duro come quello di mio padre, ma nemmeno aggraziato come quello di mia madre. Sembrava un incrocio tra un rospo e un maialino.

Mio padre era tornato apposta per vederlo nascere. Prima di venire da noi era stato a Mantova, ospite di Francesco Gonzaga. Il duca lo aveva convocato per parlargli di affari importanti.

“I Francesi si stanno preparando per attraversare le Alpi.”

Parlavano spesso come se io non fossi presente. Feci finta di interessarmi tantissimo al modo in cui il mio neonato fratellino mi stringeva il dito nel pugno, e, senza che se ne accorgessero, li ascoltai.

“Vorrei che veniste a vivere a Monteriggioni. Tu e i bambini sareste al sicuro.”

Mia madre rifletté un momento. “Ci sono più Assassini qui, di quanti non ce ne siano nella tua Monteriggioni. Siamo ben protetti, non ci manca niente.”

“Carlo di Francia vuole Napoli, e non esiterà a marciare su Venezia per raggiungerla.”

“Dovrà prima prenderla.” L’espressione bellicosa di mia madre vacillò, quando guardò mio padre negli occhi. Rivolse una lunga occhiata anche a me, e a Vanni. Infine, sospirò.

“Ci penserò, Ezio.”

Nel settembre dell’Anno Domini 1493, la mia famiglia si trasferì in Toscana, nel borgo di Monteriggioni.

Ed io iniziai a capire che cosa comportasse essere una Auditore.

 

 

NdRuna: E' strano vedere Ezio e Rosa in atteggiamenti deliberatamente romantici...spero di non essere stata OOC...

Ma ora passo ai ringraziamenti!

Elika95: grazie davvero, di cuore, mi sono commossa a leggere la tua recensione! Sono state proprio le tue parole riguardo a Niente è Reale a darmi la spinta per lavorare alla storia di Bianca&co, quindi se mi sono messa su questa serie è un po' colpa tua :P
L’aspetto fisico di Bianca verrà svelato tra alcuni capitoli, è un miscuglio interessante di Ezio e Rosa (beh, questo era prevedibile probabilmente ^_^;). Spero che questa storia continui ad interessarti!

lullacullen: grazie mille per il tuo incoraggiamento, mi sto documentando parecchio sul Rinascimento italiano e spero di non cadere in grosse contraddizioni o errori…conto comunque su di te per correggerli, se ti va di continuare a leggere :)

Grazie anche a chi è passato per sbaglio e si è preso la briga di leggere ^___^

Infine, doverosissimo ringraziamento alla mia BetaReader, Yukiko-sensei (inchino ossequiosissimo), che si presta a sopportare anche questo parto della mia schizofrenia   :*

Al prossimo capitolo! :)

Runa.

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Capitolo 3
*** Monteriggioni ***


 

Eccomi di ritorno con le avventure della piccola Bianca (che tra un paio di capitoli non sarà più molto piccola ^^). Ci ho messo molto questa volta, ma lavoro, studio e un'antipatica tracheite si sono messi di mezzo tra me e l'ispirazione. Grazie, grazie, grazie a Lulla Cullen, Elika95 e Reby e Miko per le recensioni, ogni volta che mi scoraggio mi date la voglia di andare avanti con la storia! Spero che questo capitolo vi farà sorridere - a me ha divertito molto "zia Claudia" ^___^ ...


Era un borgo di poche anime, ma protetto come una roccaforte. Ci apparve brunito, tra i campi d’ottone e rame della Toscana: il nostro carretto camminava lento, e mentre sedevo in cassetta accanto a mio padre desideravo che il tempo si fermasse in quel momento. Lo spiraglio di sole autunnale rendeva di metallo i campi e le foglie morte sugli alberi. Pareva di muoversi dentro il sole, senza paura di potersi bruciare.

“E’ quello?” dissi, puntando il dito.

Mio padre accennò ad un sorriso sotto il cappuccio. L’aveva fatto tingere di scuro, per passare inosservato sulla nostra strada per Monteriggioni.

“Sì. Cosa ne dici, Bianca?”

“E’ davvero vostro?”

Lui sembrò divertito dalla mia incredulità. “La villa appartiene a mio zio Mario; ma il vecchio non ha figli, quindi forse un giorno la erediterò da lui.”

“Allora quando voi morirete diventerà mia!”

A quel punto, per la prima volta da quando lo conoscevo, Ezio rise.

“Questa bambina è un piccolo demonio!”

“Ha la lingua lunga degli Auditore” giunse la voce di mia madre, dal retro del carro.

Mio padre si strinse nelle spalle, con un sorriso da malandrino. “Da che pulpito, madonna Rosa…”

Io risi e mi voltai, per guardare la mamma mentre allattava Vanni.

Era così bella, mia madre. Si era dovuta vestire da donna, e far acconciare i capelli neri da Suor Teodora, perché non si notasse che erano poco più lunghi di quelli di un uomo. Anche se il suo abito era povero e grigio, i suoi occhi sembravano d’argento. Mi chiesi se si sarebbe dovuta vestire sempre così, adesso che ci trasferivamo nella tenuta di mio padre. La nostra vita stava veramente cambiando, in maniera radicale. Forse non avremmo più nemmeno dovuto rubare per vivere. Questo mi mise un po’ di tristezza, perché dopo tutto, ero diventata abbastanza brava. E correvo veloce! Quei ricchi signori non si accorgevano che avevo rubato loro la scarsella prima che fossi sparita sotto un portico, in un vicolo o dietro le gonne di una signora che portava in giro troppi figli per curarsi di quali fossero suoi e quali no.

Sospirai. Che bella vita era la mia, a Venezia! Ma con la nascita di Vanni era tutto finito, ed io mi sarei annoiata a morte in quel paesino.

Almeno, la villa sarebbe stata mia un giorno. Anche se non capivo bene cosa significasse, sembrava qualcosa di molto importante.

***

 

Zia Claudia, sulle prime, non mi piacque granché. Nonostante mio padre avesse cercato di ripulirci un poco, lei ci squadrò con una certa alterigia quando le fummo presentati: dovevamo sembrarle poco più che ratti di strada.

Per il nervosismo, mi prese il prurito. Iniziai a grattarmi il sedere quasi senza rendermene conto; il che, scatenò in zia Claudia un piccolo attacco d’ansia.

“Vergine misericordiosa, questa bambina ha le pulci!”

Faceva presto a parlare, lei. Non vestiva di lana grezza da settimane!

Comunque, questo commento le fece guadagnare un’occhiata di fuoco di mia madre. La quale, tuttavia, ebbe la prontezza di mordersi la lingua.

Nostro padre diede ordine alla servitù che fossero approntate delle stanze per noi. La villa non era enorme – niente a che vedere con il Palazzo della Seta! – ma sembrava pulita e spaziosa abbastanza da contenerci tutti.

La serva che mio padre ci aveva mandato fu abbastanza invadente, e a mia madre ci volle del tempo per convincerla che potevamo arrangiarci da soli. Quando finalmente fummo tranquilli per i fatti nostri, mise Vanni supino al centro del letto, mi tolse – o per meglio dire, quasi mi strappò di dosso – la cuffietta, e mi aiutò con gli stivali. Quindi, scalciò via i propri, sbuffando.

“Lo sapevo, è stata un’idea balzana.”

“Chi è quella signora, mamma?”

Mi ero arrampicata dall’altra parte del letto. Per dispetto, iniziai a fare il solletico sulla pancia di Vanni, che scalciava e agitava le mani ogni volta.

Rosa si sdraiò vicino a mio fratello, con un sospiro. “E’ vostra zia. Ezio dice che amministra la tenuta mentre lui è in viaggio.”

“Adesso abitiamo qui?”

“Sì.”

“E se lei ci caccia?”

“Non lo farà.”

“E tu ti vestirai sempre da donna?”

Le sue labbra si arricciarono. “Per tutti i diavoli dell’inferno, certo che no!”

“Perché siamo venuti qui?”

Vidi di suoi occhi socchiudersi, mentre poggiava una mano sul petto di Vanni.

“Non posso togliervi ciò che vi appartiene. Tuo e tuo fratello siete discendenti degli Auditore, Bianca. Loro erano una famiglia nobile e potente, un tempo.”

“E poi, cos’è successo?”

La sua voce era impastata di sonno. Sbadigliò. “Una congiura. Degli uomini cattivi…hanno arrestato il padre di tuo padre, e anche i suoi fratelli. Per salvarsi, Ezio…è scappato.”

Annuii. Adesso era chiaro perché portava sempre il cappuccio: non voleva farsi riconoscere.

Quando aprii bocca per chiedere altre spiegazioni, mi accorsi che mia madre si era addormentata.

Guardai il mio neonato fratello. Lui sembrava molto intento a studiare il disegno degli arabeschi sulla stoffa del baldacchino. La mano di mia madre sulla pancia lo teneva fermo; controllai che fosse al centro del letto e non potesse cadere. Quindi, scesi, badando di fare piano per non svegliare mia madre.

Mi accorsi che avevo molta sete, ma nella stanza non c’era dell’acqua. Allora, sgattaiolai nei corridoi, e scesi le scale. Volevo uscire, e andare al pozzo. A Venezia facevo sempre così, se non c’era acqua in giro. Vicino al pozzo in Campo San Polo trovavo sempre qualche signore gentile che tirava su un secchio d’acqua per me.

Fu per caso, lo giuro, che sentii mio padre e zia Claudia discutere. Mi fermai sulla soglia del laboratorio, accanto alle false colonne bianche.

 “Attendo spiegazioni, Ezio! Non ho tue notizie da mesi, ed ora ti presenti con una moglie? E per di più una donna che ha già due figli!”

“Hai frainteso la situazione, sorella mia.”

“Bene. Mi pareva che non potessi essere tanto sconsiderato.”

“Rosa non è mia moglie, ma i bambini sono miei.”

Zia Claudia per poco non svenne. Poggiò la mano all’indietro, dove sapeva di trovare il bracciolo saldo di una sedia. Lentamente, si mise a sedere.

“Ti rendi conto di cosa stai dicendo?”

 “Non potevo lasciarli a Venezia. Il Gonzaga dice che la discesa dei francesi è prossima. Sembra che Milano li lascerà passare, ma la Serenissima non ha ancora preso una posizione chiara. Se gli avessero dichiarato guerra, Rosa e i bambini sarebbero stati in pericolo. Di qui, i francesi non passeranno.”

“Cosa ti fa essere così sicuro?”

“Le mie fonti mi dicono che Firenze non opporrà resistenza. Apriranno loro le porte. Avranno rifornimenti e cibo in abbondanza dalla città, e non dovranno spingersi a saccheggiare le campagne. Era l’unico posto sicuro per loro.”

Vidi gli occhi scuri della donna sfuggire a terra, e poi rialzarsi, risoluti.

“Sì, hai fatto bene. A portarli qui, intendo. Il resto è deprecabile e immorale, ma ormai ho deposto le armi con te.” Si passò per un momento la mano sugli occhi. “Cielo, se nostra madre sapesse!

Il volto di mio padre s incupì.

“Anche se sapesse, non credo che capirebbe.”

Io non compresi cosa volessero dire, fino a che non incontrai Nonna Maria.

 

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Capitolo 4
*** Una piuma per Nonna Maria ***


Mi dispiace moltissimo di averci messo così tanto, ma l'ultimo mese e mezzo è stato pieno di impegni e progetti che si sono susseguiti come sempre a ritmo mozzafiato...ed io sono ancora qui, con una Bianca di appena sei anni! Pensare che ho già in mente la scena finale dell'ultimo capitolo, dove è decisamente adulta! ^__^ Se voglio arrivarci mi sa che devo aumentare il ritmo :)Ps: L'illustrazione che vedete qui sotto è stata realzzata dalla bravissima Miko!

 

Bianca

 

C’era poca servitù alla villa, e probabilmente quella che c’era era meno solerte di quel che avrebbe dovuto essere. Gironzolavo quasi indisturbata, mentre una balia si prendeva cura di Vanni e mio padre e mia madre erano in giro per il borgo. Sembrava che Ezio avesse trovato per Rosa una perfetta occupazione: da tempo infatti, per mettere al loro posto i piccoli delinquenti che si aggiravano per il borgo, Mario Auditore, signore di Monteriggioni, aveva cercato di organizzare una Gilda dei Ladri. Fino a quel momento gli erano serviti come spie e messaggeri; tuttavia, c’era bisogno del polso e dell’esperienza di mia madre per organizzare quella masnada di ragazzini, e magari cavarne fuori dei buoni aiutanti per l’Ordine.

Ecco, la parola “Ordine” era una di quelle quasi proibite a Monteriggioni, ma che carpivo più spesso dai discorsi degli adulti. La pronunciavano tutti con una frequenza imbarazzante, ma sempre sottovoce; oppure, dopo che era stata accidentalmente tirata in ballo, gli adulti stavano per qualche istante in silenzio. Mi chiesi se parlassero di un ordine di monaci; ma mi pareva strano, perché a Monteriggioni c’era un solo prete, e per lo più era ubriaco.

L’Ordine era come un fantasma, una presenza fisica che si manifestava non appena invocato. Anche quando gli adulti lasciavano cadere l’allusione appena fatta, l’Ordine restava tra di noi come una cosa viva, dotata di anima e respiro.

C’era anche un altro fantasma in quella villa, ed era Nonna Maria.

La vedevo raramente: consumava pasti frugali nelle proprie stanze durante il giorno, e a volte, la sera, si univa a noi per mangiare. Era uno spettacolo penoso. Quasi sempre, le serve la dovevano imboccare: mangiava come un uccellino, poi iniziava a lamentare dolori al capo. Allora, le serve la portavano al piano di sopra, e spariva di nuovo dalla mia realtà, tornando al mondo immateriale a cui apparteneva.

Accadde una mattina di primavera. Mi aggiravo sul retro della villa per raccogliere sassi, che mi divertivo a scagliare contro le statuette di divinità antiche, poggiate su piedistalli bianchi che ornavano il cortile.

Proprio mentre stavo prendendo la mira, il passaggio di una massa scura sullo sfondo mi fece perdere la concentrazione. Oltre la chioma della statua di Apollo, misi a fuoco il gruppo di donne.

Nonna Maria era accompagnata dalle sue serve: vestiva di nero, come sempre, con un velo scuro sul capo. Mio padre diceva che non aveva mai smesso il lutto per il marito e i figli che aveva perduto vent’anni prima.

Sembrava sempre assente. Gli occhi scuri persi lontano, gli angoli della bocca attirati verso il basso dalla malinconia. Ogni ruga del suo volto era un solco di dolore, come se desiderasse gridare ma non potesse farlo.

Spesso Ezio mi aveva detto che le somigliavo. I suoi capelli erano stati dello stesso fiero bruno dei miei, prima di tingersi d’argento per l’età e i dispiaceri. Anche il mio sguardo gli ricordava lei, quando era ancora la forte e fiera Maria Auditore, moglie rispettata di un banchiere della Repubblica di Firenze e madre orgogliosa di quattro splendidi figli.

Forse nonna Maria avvertì il mio sguardo, perché si voltò nella mia direzione. Ne fui spaventata. Era la prima volta che i nostri mondi si toccavano. Compresi che esistevamo sullo stesso piano fisico, e quella semplice constatazione mi mise in petto un misto di curiosità e inquietudine. Poi, lei mi tese la mano.

Mi avvicinai, come soggiogata da un incantesimo. Aveva gli stessi occhi scuri, quasi senza fondo, di mio padre.

“Claudia, tesoro. Chiama i tuoi fratelli, è quasi ora di cena.”

La guardai un po’ storto.

“Non sono Claudia.”

Lei mi fissò, interrogativa. Le sue ancelle, imbarazzate, le spiegarono che ero la figlia di messer Ezio.

Dapprima, lei si strinse nelle spalle e scosse il capo. Poi, posò di nuovo lo sguardo su di me. Strinse gli occhi. Mi ricordò, per un momento, un’aquila…non so perché.

Quindi, sciogliendosi dal braccio delle ancelle, si inginocchiò per guardarmi negli occhi.

“Come ti chiami?”

“Bianca.”

Un breve silenzio. “Quanti anni hai?”

“Quasi sei.”

“Madre!”

La voce di mio padre e quella di zia Claudia si fusero in una sola. Lui stava arrivando dalle scale che portavano in paese, con Rosa accanto. Erano andati a comprare un buon equipaggiamento: mio padre sarebbe partito l’indomani, per raggiungere Leonardo a Milano. Mia zia arrivava dal chiostro sul retro della villa.

I tre adulti si avvicinarono. Mio padre, per un momento, mi fece paura. Aveva uno sguardo torvo in viso, che mi annichilì.

“La bambina vi ha infastidito, madre?” fece zia Claudia.

“Chi è, Ezio?”

Lo sguardo di Rosa si rivolse su di lui, preoccupato. Quello di zia Claudia, invece, era di sfida. Come se gridasse: dille la verità, se ne hai il coraggio!

Lui sostenne lo sguardo di sua sorella, senza vergogna. Mi prese per le spalle.

“E’ Bianca, mia figlia.”

Quindi, guardò mia madre. “E questa donna?”

Rosa fu svelta a dire: “Sono…la moglie di Ezio, madonna.”

Non si erano mai sposati, naturalmente. Ma mia madre sapeva che era meglio fingere che lo fossero, per il bene nostro e delle apparenze.

D’improvviso, nonna Maria parve molto stanca. “Certo, certo” disse, ma sembrava invece molto confusa. Domandò alle ancelle di riaccompagnarla nelle sue stanze, e noi restammo mortificati a guardarla mentre si allontanava da noi, per essere libera di sprofondare di nuovo nel passato.

Il giorno dopo, mio padre partì all’alba, lasciandoci in quella strana atmosfera. Io passai la giornata a pensare alla nonna, a quel momento in cui i suoi occhi mi erano sembrati tanto vivi da ricordarmi un fiero rapace. C’era ancora un barlume di vita in lei, sepolto sotto la nebbia dell’illusione.

A cena, notai che nonna Maria non era scesa. Non lo fece per tutta la settimana, né per quella successiva; tanto che iniziai a disperare di rivederla. Da quel giorno in poi, ogni volta che veniva l’ora di cena chiedevo di lei; mi veniva risposto che preferiva restare sola. Mia madre mi sorvegliava perché non andassi da lei di nascosto. A me non restava che obbedire, anche se a tavola fissavo il posto vuoto quasi senza mangiare. Poi, una volta, ebbi il coraggio di domandare a zia Claudia:

“Perché la nonna è così?”

“Così come?”

“Così…strana. 

La zia mi gettò addosso un’occhiata un po’ fredda. Alzò un sopracciglio, e senza smettere di mangiare spiegò brevemente che, la sera in cui avevano portato via nonno Giovanni e i fratelli di mio padre, nonna Maria aveva opposto resistenza. Mia madre annuì, come se questo spiegasse tutto. Calò il silenzio.

A me, naturalmente, quella spiegazione non bastava.

“Non si annoia a stare sempre nelle sue stanze da sola?”

“Non è sola” replicò zia Claudia “ha le sue dame di compagnia.”

“Posso andare a trovarla?”

“E’ meglio di no.”

“Allora cosa posso fare perché sia meno triste?”

La zia esitò. Io ignorai lo sguardo di mia madre, che mi esortava a tacere.

Infine, zia Claudia scosse il capo. “Portale delle piume, e mettile nello scrigno che tiene nella sua stanza. Sarà molto contenta.”

Presi molto seriamente quel suggerimento. Il problema è che le piume che trovavo a terra o sotto gli alberi erano sempre incrostate di letame, o fango, o erano state mangiucchiate dai gatti che avevano eliminato i loro precedenti proprietari. Mi scervellai a lungo, a zonzo per Monteriggioni, sul luogo più adatto per raccogliere piume. Ero scappata alla balia, approfittando del suo pisolino fuori orario. Dovevo sbrigarmi, perché se al suo risveglio non mi avesse trovata avrei dovuto ascoltare una ramanzina infinita.

Mentre camminavo con il naso per aria, capii improvvisamente che, se volevo piume pulite e belle da portare a Nonna Maria, dovevo per forza andare dove gli uccelli facevano il nido.

In alto, quindi. Ma come?

Presto la soluzione mi si parò davanti al naso. Una scala, appoggiata al retro di una bottega. Mi guardai intorno: nessuno mi avrebbe visto, quel vicolo era poco trafficato.

Mi arrampicai piuttosto velocemente per una bambina di sei anni. Esplorai ogni angolo, mettendo le mani tra resti di travi e i calcinacci nella speranza di trovare uno dei miei tesori. Inutilmente. Poi, intravidi qualcosa sul tetto della bottega i fronte.

Sì, un nido abbandonato. Proprio sopra l’impalcatura di legno. Dovevo soltanto attraversare un ponticello di assi marce per raggiungerlo.

Non provai paura, nemmeno per un momento. L’idea che potessi cadere mi metteva addosso una  specie di brivido di piacere.  Negli anni che seguirono, chi scorgeva la mia figura arrampicata sui palazzi mi dava della folle, o dell’incosciente. Ma non c’è nulla di simile all’incoscienza, quando si sfida il vuoto. Anzi, più si è certi di morire e più il gioco diventa eccitante.

La bambina che ero non capiva ancora tutto questo. Semplicemente, sentiva il richiamo dell’avventura.

Mi bilanciai un momento sulle assi: poi, visto lo scricchiolio lugubre che produssero, capii che potevo soltanto correre prima che si sbriciolassero. Eccome, se corsi! Dopo due falcate il legno marcio si frantumò sotto il mio peso, ma ormai avevo già preso la spinta per l’ultimo salto.

Toccai il bordo del tetto con la punta dei piedi, poi qualcosa andò storto e sbilanciai in avanti, ritrovandomi a rotolare. Mi alzai dolorante, soffiando sui graffi che mi ero procurata alle braccia. L’obiettivo era vicino. Dovevo soltanto arrampicarmi sulla struttura di legno.

Per mia sfortuna, lo scheletro del ponteggio non era più solido delle assi che avevo appena distrutto. Strinsi il palo tra le ginocchia, e puntellandomi con le punte dei piedi cercai di salire. Scivolai, scorticandomi l’interno delle cosce. Tuttavia, decisi di riprovare. Se avessi portato le piume alla nonna, forse l’avrei vista sorridere.

Il secondo tentativo andò meglio. Tesi la mano, per afferrare la piuma che sporgeva dal nido.

Con un lamento, il legno si spezzò, ed io caddi rapidamente verso il suolo.

Non so cosa pensai, mentre precipitavo. In realtà, accadde tutto molto in fretta. Feci appena in tempo ad accorgermi che le braccia forti di un uomo mi avevano preso al volo. Ricordo solo che mi venne da ridere, per il sollievo e la mia incredibile fortuna.

Il sorriso però si spense quando incontrai lo sguardo furente di mio padre. Tra tanti salvatori, dovevo scegliermi proprio lui? E quando accidenti era tornato dal suo viaggio?

“Si può sapere cosa diavolo credevi di fare?”

“Stavo raccogliendo delle piume. Per Nonna Maria. Voglio farla contenta.”

Di colpo, la paura e la rabbia scivolarono via dal suo volto. Per la prima volta vidi sulle sue labbra un sorriso vero, perfino dolce. Gli illuminò il volto per un momento, e lo rese bellissimo. Compresi finalmente perché a mia madre piaceva tanto.

“E’ una buona idea, ma è meglio che venga anch’io con te.  C’è bisogno di qualcuno pronto a prenderti quando cadrai.”

“Io non cadrò più!” risposi, imbronciata.

La voce di mio padre si fece seria. “No, Bianca, non cadrai. Non se io posso impedirlo.”

Fu così, per gioco, che iniziò il mio addestramento. Ezio non sembrava stanco dal viaggio: era agile e veloce, e l’armatura non l’ostacolava nell’arrampicarsi o nel saltare. Salimmo di nuovo sulla scala che portava al tetto della bottega: il conciatore uscì per lamentarsi di tutto quel trambusto, ma appena  vide mio padre sorridere e fargli un cenno rientrò nella sua bottega, con infiniti inchini e tante scuse.

Mio padre mi fece camminare in equilibrio sul cornicione. All’inizio ebbi un po’ di paura, poi decisi che guardare in basso non sarebbe stata la scelta migliore. Fissai la crepa nel muro di un palazzo vicino, inspirai, e misi un piede davanti all’altro.

Lui mi guardava, con le braccia incrociate al petto e un ghigno sulle labbra sfregiate dalla cicatrice.  Mi chiesi quando se la fosse fatta. Sembrava antica.

Quando ebbi terminato il mio giro, Ezio annuì, soddisfatto. “Hai equilibrio. Bene.” Quindi, mi fece cenno di salirgli sulla schiena.

Esitai. Non avevamo mai contatti del genere. Lui si limitava a darmi un buffetto sulla guancia ogni tanto. A volte mi scompigliava i capelli, ma niente di più.

“Coraggio. Non dirmi che hai paura!”

Bastò quella sua risata di scherno a rendermi risoluta. Mi abbrancai alla sua schiena, cingendogli il collo con le braccia e il torso con le gambe. Ezio si accertò che fossi ben assicurata a lui, quindi iniziò ad arrampicarsi sulle mura, afferrando le sporgenze tra un mattone e l’altro e facendo leva con i piedi negli anfratti. Pareva che io non fossi affatto un peso per lui. Poi, una volta raggiunta la cima, si mise a correre sugli spalti merlati. La prima volta che i suoi piedi si staccarono dal suolo mi parve di prendere il volo.

Che uomo straordinario era mio padre, che arrivava sempre al momento giusto e correva sui tetti come un gatto. Forse fu allora che decisi che volevo somigliargli.

“Stiamo tornando a Villa Auditore!” esclamai nel suo orecchio. Lui chinò brevemente il capo, mentre la facciata fatiscente della nostra casa si avvicinava a velocità sostenuta.

Quando finalmente fummo nel cortile della villa, feci per staccarmi da lui; Ezio però mi tenne le caviglie per impedirmi di scendere dalla sua schiena.

“Non è ancora finita, scimmietta” disse, alzando il mento verso il tetto della villa. “Ora andremo lassù.”

Inghiottii a vuoto, e tuttavia non osai contraddirlo.

Se confrontata con le altezze che ho sfidato anni più tardi, Villa Auditore pare una sciocchezza. Eppure, nel mio ricordo quella scalata non finiva mai. I nervi delle gambe fremevano, impazienti di sciogliersi da quella scomoda posizione: dovevo controllare la presa delle mani sudate, perché non scivolassero una sull’altra. Eppure, quando finalmente Ezio mi depositò sulle tegole brunite, sentii il mio cuore allargarsi.

Il tramonto stava inondando la campagna tra Firenze e Siena. Da quell’altezza potevo dominare tutto il territorio circostante con lo sguardo. Aprii le braccia, e l’aria mi scorse addosso. Da lontano, sentii lo stridere di un aquila.

“E’…bellissimo” mormorai. “Voi salite spesso sui tetti?”

Ezio accennò ad un sorriso. “Abbastanza spesso, sì.”

“Quassù siamo così vicini al cielo! Sembra di poterlo toccare!”

Ezio scosse il capo. “E’ solo un’impressione, Bianca. Gli uomini sono vermi, che strisciano sulla terra e affogano nel fango. Qualunque cosa facciamo, il cielo è sempre lontano.”

“Ma cosa dite, padre! Il cielo è qui, non lo vedete?”

Entusiasta, camminai fino all’orlo del tetto, pestando il guano di piccione che lo ricopriva. Io ero un uccello. Io potevo volare.

“Bianca!”

L’aria mi frustò il viso, non appena i miei piedi si staccarono dalle tegole del tetto. Il fiato mi si mozzò. Era stupendo. Stavo precipitando, ma a me pareva di aver spiccato il volo.

Mio padre si buttò subito dopo di me, mi raggiunse e mi afferrò, stringendomi forte al petto. L’impatto fu rapido, ma morbido. Infatti, affondammo nel fieno.

Proprio così. Un carro ricolmo di morbidissimo fieno appena tagliato sembrava aspettare noi, per accoglierci. Eravamo precipitati da un tetto, ed eravamo ancora vivi. Nonché, cosa più incredibile, tutti interi.

Sollevando il capo, mi accorsi che mio padre stava ridendo. Prima iniziò piano, poi il suono si fece sempre più forte e infine scoppiò, contagioso. Mi misi a ridere anch’io. Era la prima volta che lo sentivo tanto vicino.

Non lo sapevo ancora, ma avevo appena eseguito il mio primo Salto della Fede.

 

Grazie millissime a RebyeMiko, Lulla Cullen, CartacciaBianca/Elika95 e Renault per le recensioni, siete state tutte così gentili che mi avete commosso, davvero! I vostri commenti mi danno la voglia di gettarmi subito sul capitolo successivo! Di certo ricambierò la cortesia, anzi scusatemi se non ho recensito le vostre storie finora - rimedierò presto!

Per quanto riguarda il rapporto tra Vanni e Bianca...diciamo solo che la trama dei capitoli centrali si basa MOLTISSIMO su questo ^_^

Un grazie immenso anche a chi legge soltanto. Pensare che qualcuno passi di qui per guardare se la fanfic è aggiornata mi dà una grande carica. 

A (speriamo) presto con il prossimo capitolo!

 

Laura.

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Capitolo 5
*** Mio padre è un assassino - parte prima ***


Eccomi! Anche questa volta ci ho messo un po' :) Dopo vari ripensamenti, ho deciso di dare al personaggio di Ugo (il ladro amico di Rosa, ve lo ricordate?) un qualche spazio in questa storia. Anche se per ora ha un ruolo piccolino, nel prossimo capitolo diventerà più importante - spero apprezzerete gli sviluppi che ho in mente per lui...

 

Mia madre non fu entusiasta del fatto che Ezio mi permettesse di correre sui tetti di Monteriggioni; tuttavia, chiuse un occhio e finse di non vedere quando saltavo da un cornicione all’altro proprio sopra la sua testa. Non poteva obiettare sull’educazione che lui mi stava impartendo: a Venezia avevo imparato a borseggiare ancora prima di saper camminare. E poi, in confidenza, sospetto che sia sempre stata orgogliosa del mio carattere battagliero, anche se non me l’ha mai detto. Una figlia tutta moine e nastri probabilmente l’avrebbe fatta preoccupare di meno, ma non sarebbe stata sangue del suo sangue.

Una volta compiuti cinque anni, anche Vanni iniziò ad addestrarsi con me. Se io preferivo arrampicarmi sui muri e impratichirmi con i pugnali da lancio, mio fratello impazziva per la spada. Perdeva giornate intere nell’arena di addestramento, sfiancando zio Mario a forza di ripetere gli esercizi di parata, fuga e contrattacco.   

Zia Claudia ci insegnava a leggere e scrivere, e quando nostro padre non era a casa gli uomini di zio Mario proseguivano il nostro addestramento alle armi. Imparammo come deviare un attacco con il pugnale, o come disarmare un nemico a mani nude. In breve iniziammo a maneggiare asce e spade a due mani più alte di noi. All’epoca pensavamo che si trattasse di un gioco. Non sapevamo ancora che ci stavamo preparando, e, soprattutto, non immaginavamo per cosa.

Io avevo ereditato il vizio di mia madre di vestirmi da maschio, il che era molto utile per una ragazzina con questo genere di passatempi. Ai capelli, però, tenevo moltissimo, e non avevo alcuna intenzione di tagliarli corti. Li stringevo in una treccia severa di giorno, quando ero impegnata in tutte quelle attività in cui mi avrebbero ostacolato; di sera li scioglievo sulle spalle, lasciandoli cadere fino a sfiorarmi il fondo schiena, e mi fissavo allo specchio, orgogliosa.  

Ero bella, e lo sapevo. Avevo ereditato gli occhi chiari, quasi metallici di mia madre, ma la carnagione scura e il bel profilo mediterraneo erano quelli di mio padre. Zia Claudia spesso diceva, arricciando il naso, che ero evidentemente un aquilotto del nido degli Auditore. Credo che questo fosse un complimento, a modo suo.

Vanni è sempre somigliato molto di più alla mamma. Il taglio degli occhi e il disegno delle sopracciglia erano quelli di Ezio, senza dubbio; ma i capelli neri, gli zigomi morbidi, la pelle chiara e le iridi grigio-azzurre lo rendevano il ritratto di Rosa. Perfino il suo naso aveva una linea più morbida di quello degli Auditore.

Anche la testardaggine, naturalmente, gli veniva da nostra madre.

“Non lo perdonerò mai! Aveva promesso! Aveva promesso!”

Primavera dell’Anno Domini 1499; avrei compiuto dieci anni di lì a poco. Ezio era lontano da casa da tre mesi, ormai. Vanni era molto arrabbiato con lui, perché aveva detto che con l’arrivo della bella stagione gli avrebbe insegnato a cavalcare.

Quel giorno mio fratello ed io stavamo gironzolando per il borgo in compagnia di Ferrante, un ladruncolo della Gilda che aveva appena un paio d’anni in più di me. Ci piaceva stare con lui, perché era divertente e più spericolato di noi. Tuttavia, quando Vanni era di quell’umore lamentoso le nostre corse sui tetti diventavano molto meno divertenti del solito.

“Nostro padre tornerà presto” dissi, per zittirlo. “E’ un uomo impegnato. Sai che ha cacciato gli uomini di Savonarola da Firenze? Grazie a lui, ora la città è diventata una repubblica. Il nuovo gonfaloniere è Pier Soderini, un uomo di fiducia dei Medici. Ti ho parlato di quanto sono stati buoni i Medici con noi Auditore, non è vero?”

Vanni annuì, ancora imbronciato. Mi chinai per guardarlo negli occhi. “Adesso, Pier Soderini ha bisogno dei consigli di Ezio, per questo lo sta trattenendo laggiù. Quando avrà terminato di fare il suo dovere a Firenze, nostro padre tornerà. Lo fa sempre.”

“Da come parli, sembra che tuo padre sia il centro del mondo” disse Ferrante, aprendo un ghigno tra le lentiggini.

Io gli rivolsi un’occhiata mortale. “Lui è un condottiero valoroso, che combatte per la giustizia.”

Di solito volevo molto bene a Ferrante, ma quel giorno lo avrei riempito di botte fino a farlo sanguinare. Scoppiò a ridere alla mia affermazione, ed io gli chiesi perché. Mi rispose che mio padre non era affatto un condottiero. Era un assassino di professione, ed era stato chiamato a Firenze da Pier Soderini per togliere di mezzo ad uno ad uno i luogotenenti di Savonarola. Qualcuno diceva che avesse addirittura ammazzato brutalmente il monaco, mentre già le fiamme del rogo avevano iniziato ad avvolgerlo.

Vanni spalancò gli occhi. “Cos’è un asciassino?”

Prima che potessi fermarlo, il ladruncolo replicò: “Uno che uccide la gente.”

“Non ascoltarlo!” replicai.  “Ferrante è solo invidioso perché i genitori non ce li ha.”

La bocca del mio amico si torse in una smorfia d’ira. “Almeno mio padre era soltanto un ladro. Il vostro ammazza gli innocenti in cambio di denaro. E’ un sicario, e brucerà all’inferno per quello che ha fatto! E anche voi due brucerete, perché siete figli del peccato!”

Fu allora che versai il mio primo sangue, spaccando il labbro di Ferrante con un pugno. Il colpo fu tanto violento che il mio amico cadde a terra. Gli sputai addosso.

Tu brucerai all’inferno, perché sei uno sporco bugiardo!”

E con quell’affermazione presi la mano di mio fratello e lo trascinai via, lasciando Ferrante a terra, a stringersi il labbro sanguinante.

“Bianca” mormorò Vanni mentre ci allontanavamo “E’ vero che Ezio è un asciassino?”

“Certo che no” risposi, furibonda.

Ma il sospetto mi rimase nel cuore e mi accompagnò fino all’ora di andare a dormire. Avevo visto le sue lame celate, una volta. Le nascondeva dentro le protezioni per gli avambracci: spingeva una leva con il dito e la lama scattava. Non sembrava un’arma molto onorevole, di certo non degna del grande condottiero che pensavo fosse.

Inoltre, c’era il suo cappuccio bianco, che gli celava sempre il viso.

E la sua straordinaria abilità nell’arrampicarsi sui tetti. Un condottiero non avrebbe dovuto avere tanta agilità, perché non aveva bisogno di  nascondersi o agire nell’ombra come un…

Accidenti.

Mio padre poteva essere un sicario? Un assassino?

Mi addormentai con quei dubbi nella mente, e finì che sognai Ferrante, che si contorceva dentro una lingua di fuoco nel fondo dell’inferno.

 

Quando Ezio tornò dal suo viaggio, non era solo. In realtà portò con sé molte persone: li vedemmo giungere da lontano, Vanni ed io, mentre camminavamo per gioco sulle mura del borgo.

D’improvviso mio fratello si volse verso la strada che veniva dagli Appennini e gridò:

“Una carovana! Guarda, Bianca! Nostro padre è tornato con una carovana!”

“Non dire sciocchezze, Ezio non si muoverebbe mai insieme a tanta gente” dissi, aguzzando la vista per vedere il carro che avanzava lento, scortato da tre cavalli. Eppure, il cappuccio bianco e la cappa blu dell’uomo in carretta parevano le sue.

“E’ lui ti dico!” ribadì Vanni. Io alzai un sopracciglio.

“Facciamo una gara?”

Mio fratello mi guardò con aria di sfida, e annuì.

Vanni  saltò rapido dal merlo sul ballatoio, e corse verso la scala che porta va alle porte del borgo; io preferivo altri metodi. Ormai conoscevo i luoghi in cui stallieri distratti lasciavano cadere mucchi di fieno, o dove i carrettieri lasciavano quei preziosi ammassi di paglia e sterpi che attutivano le mie cadute. Incosciente com’ero, amavo tuffarmi dalle mura per precipitarvi dentro. A quel tempo, avevo ancora abbastanza fede da credere che niente potesse andare storto.

Anche quella volta raggiunsi l’esterno del borgo in quel modo poco ortodosso, vincendo su Vanni. Quando mi raggiunse, mio fratello sbuffò forte.

“Così non vale!”

“Non è colpa mia se tu sei un fifone.”

“Non lo sono!”

“Eccome! Alla tua età io già mi buttavo dal tetto della villa.”

“Perché tu sei tutta matta!”

“E tu te la fai sotto!”

“Non è vero!”

“Sì!”

“No!”

“Ah, che fanfara di accoglienza. Quando sente un tale coro di voci angeliche, un povero vecchio sa di essere tornato a casa.”

Ci voltammo entrambi, mentre zio Mario rideva, scendendo da cavallo. Dietro di lui c’era il carro coperto, guidato da nostro padre. Nel gruppo, oltre loro, c’erano due donne e quattro uomini. Sotto il cappuccio di una delle due dame riconobbi con immensa gioia suor Teodora, che non pareva invecchiata di un giorno da quando avevo lasciato Venezia. Mi sorrise con i suoi benevoli, vivi occhi blu, ed io ricambiai il sorriso. Avrei voluto dirle quanto ero contenta di rivederla, ma scoprii che provavo un certo imbarazzo dopo tutto quel tempo.

“Gli aquilotti degli Auditore sono già combattivi” disse la seconda dama, facendo calare il cappuccio su una treccia di capelli bruni intessuti d’argento.  

Mio padre e zio Mario ci presentarono agli altri ospiti: fui felicissima di scoprire che uno degli uomini era zio Antonio, che mi aveva fatto da padre prima che Ezio ci portasse in Toscana, e un altro era Ugo, uno dei suoi luogotenenti alla Gilda dei Ladri di Venezia. C’era anche zio Bartolomeo, con la sua adorata spada che si chiamava come me.

Fui particolarmente lusingata dai loro complimenti sulla mia bellezza; anche suor Teodora disse che ero cresciuta ancora meglio di quanto immaginasse. Perfino gli estranei – la donna bruna, un uomo dai corti capelli grigio-topo e un altro dal cranio rasato – si prodigarono in lodi per me e per Vanni. Mio fratello si nascose dietro la mia schiena, intimidito.

“Correte ad avvertire vostra madre e vostra zia” disse Ezio, chinandosi su di noi. “I nostri amici si fermeranno per qualche tempo.”

Vanni ed io ubbidimmo, gareggiando di nuovo in velocità per arrivare alla villa. Quella volta lo lasciai vincere, altrimenti non mi avrebbe mai perdonato.

Arrivammo col fiatone nelle stanze di zia Claudia. Mia madre era lì, in piedi accanto alla finestra, mentre la zia ricamava al tombolo. Sembrava che ci stessero aspettando entrambe; una calma e concentrata sul suo lavoro, l’altra tesa e nervosa in un abito da donna, di cui si stropicciava continuamente le gonne. Io la preferivo quando indossava camicia e pantaloni; a quel modo, stretta in un corpetto e con i capelli raccolti, quasi non la riconoscevo. Forse sapeva che avremmo avuto visite, e la zia aveva insistito perché “fosse presentabile” per l’occasione. Fatto sta che, quando annunciammo l’arrivo degli ospiti, reagirono in maniera completamente diversa.

La zia sembrava fredda, quasi pacata. Non storse il naso quando raccontammo che c’erano due donne dagli abiti succinti e un gruppo di uomini che parevano mercenari. Mia madre, invece, era turbata, e non sorrise quando le dissi di zio Antonio e di Ugo.

Pensavo che sarebbe stata felice di rivedere Antonio: mi aveva raccontato che aveva fatto da padre anche a lei, da quando l’aveva fatta entrare nella Gilda dei Ladri di Venezia. Forse era la gelosia per suor Teodora a renderla tanto pensierosa; o forse, sapeva qualcosa che noi non immaginavamo.

Quando incontrò Ugo, accadde qualcosa di molto raro: gli occhi di mia madre si velarono leggermente di lacrime. Quelli scuri dell’uomo si illuminarono per un attimo; poi, fece una scherzosa riverenza. “Finalmente ti sei accorta di essere una donna!”

La mamma sorrise, e si fece avanti per abbracciarlo. Mi voltai a guardare mio padre: sul suo volto non c’era nessuna traccia di irritazione. Li scrutava a braccia conserte, senza fiatare.

“Grazie per essere venuto” disse mia madre, sciogliendosi dall’abbraccio di Ugo. Il ladro guardò di sfuggita me e Vanni.

“Dopo tutte le volte che hai salvato la mia pellaccia, non potevo certo rifiutarti un favore. Ezio” disse poi, chinando il capo in direzione di mio padre. Lui rispose con un cenno del mento. Tra i due, per un momento, mi parve passasse qualcosa di non detto, come una lieve ostilità. Forse fu solo un’impressione.

Zio Ugo non era un bell’uomo, non certo come mio padre. Aveva lineamenti piuttosto comuni; gli angoli degli occhi scuri erano un po’ inclinati verso il basso e gli davano un’aria malinconica. La sua voce roca, però, mi piaceva tantissimo. Ispirava istintiva fiducia, come il suo modo schietto di parlare.  Fui felice quando mi comunicarono che sarebbe rimasto a Monteriggioni più a lungo degli altri - e mi conquistò definitivamente quando mi promise, in gran segreto, di insegnarmi una tecnica di salto "veneziana" che, vista la mia giovane età, i miei genitori non avevano voluto mai mostrarmi.

Ciò che fecero gli ospiti dal momento in cui arrivarono fu di chiudersi nello studio di zio Mario, che comunicava con il laboratorio in cui zia Claudia teneva i registri del borgo. Durante quelle misteriose riunioni, per qualche motivo che non comprendevamo, ci era proibito mettere il naso al piano di sotto della villa. Non ricordo di aver mai fatto tanti esercizi di latino come in quel periodo; zia Claudia che ricamava accanto alla finestra e correggeva distrattamente ogni mio errore. In quei giorni mia madre si divideva tra la gilda e le lunghe riunioni, così la zia si era incaricata – con mio sommo piacere, è ovvio – di occuparsi di me. Sembrava che volesse occupare ogni attimo della mia giornata con lo studio, da cui la mia attenzione fuggiva ad ogni minimo pretesto, e con tediosissimi lavori femminili, come il ricamo. Le mie prime vere cicatrici risalgono a quei giorni, quando mi forai le dita con l’ago tanto spesso che alla fine della settimana faticavo a toccare coi polpastrelli perfino il cibo.

Un giorno, dopo che ebbi terminato un difficile esercizio di retorica, ottenni da zia Claudia di poter far visita a Nonna Maria. La trovai accomodata accanto alla finestra, mentre una delle sue dame le leggeva un canzoniere di poesie d’amore. Vanni era seduto sul pavimento, impegnato a trafficare con piccoli legnetti, diversi metri di cordella sottile e – orrore! - le piume a cui la nonna teneva tanto.

“Che stai facendo?” sbottai, chinandomi per raccogliere il tesoro di Nonna Maria dal pavimento.

La dama di compagnia, una ragazzina pallida di cui nemmeno ricordo il nome, disse: “Giovanni ha chiesto il permesso di Madonna Maria. Vuole costruire qualcosa con le sue piume.”

Mio fratello alzò uno sguardo vittorioso su di me. “La mamma ha detto che zio Petruccio voleva fare un regalo alla nonna, con tutte queste piume. Allora ho pensato che magari voleva costruire un ventaglio. Ho pensato che alla nonna sarebbe piaciuto.”

Sorrisi. Nonostante fosse un bambino piuttosto scontroso, ogni tanto Vanni dimostrava un’inaspettata tenerezza e sensibilità nei confronti di chi gli stava vicino.

“Posso aiutarti?”

“Ce la faccio” disse, prendendo goffamente in mano una stecca di legno e una piuma, con l’aria di chi non ha idea di cosa fare per metterle insieme.

“Se mi lasci partecipare finiremo prima. Forse potremmo cucire le piume sulle stecche, che ne dici?”

“Dopo” fece Vanni, geloso della mia intromissione. Iniziò a risistemare le piume, ma ebbe bisogno del mio aiuto per arrivare allo scrigno. Quindi mi prese per mano. “Prima voglio mostrarti una cosa che ho scoperto. Torno presto, Nonna” disse, facendo un rapido inchino in direzione di Nonna Maria. Era uno di quei momenti in cui lei non vedeva altro che il passato, e non fece caso a quel saluto.

Quando uscimmo, sussurrai a mio fratello: “Cosa vuoi farmi vedere di così urgente?”

Lui mi rivolse un sorriso birichino. “Non vuoi sapere cosa si stanno dicendo gli amici di Ezio?”

Mi costrinse a raggiungere la balconata, e, nonostante non amasse arrampicarsi, salì sul parapetto, per poi calarsi giù. Con un piccolo salto, atterrò sul pavimento lastricato del chiostro. Mi fece cenno di fare piano, ed io lo imitai.

Vedemmo per prima cosa la parete dello studio di zio Mario, su cui erano tracciate luminose linee rosse. Sembrava disegnassero una mappa, ma non riuscivo a riconoscere le terre che ritraeva. Erano numerose, e avevano una forma strana: non somigliavano a nessuna di quelle carte che zia Claudia mi aveva mostrato.

Tutti i presenti nella stanza fissavano quella mappa, stupiti quanto lo ero io.

Mio padre, in particolare, sembrava esterrefatto. Si avvicinò fino quasi a toccare un punto in cui quelle linee convergevano tutte.

“No, non può essere…la cripta! Sembra che la cripta sia a Roma. Allora, lo Spagnolo…ecco perché è diventato Papa! ”

Iniziarono a parlare di cose che non compresi. Il bastone, la mela, il frutto dell’Eden. Poi, Ezio affermò, sicuro:  “Devo andare a Roma e trovare la Cripta.” Non potevo vedere l’espressione del suo volto, perché mi dava le spalle; notai però che aveva i pugni serrati. Si rivolse ai compagni: “E voi, che cosa farete?”

Bartolomeo si lisciò i baffi: “Faremo ciò che ci riesce meglio: creeremo disordini in città, permettendoti di agire indisturbato.”

“Mi sembra un’ottima idea” intervenne la voce di Rosa. Era affacciata sulla soglia dello studio: si volsero tutti a guardarla.

“Tu non verrai con noi” replicò mio padre, fermo. Adesso che potevo vedere il suo volto velato di barba, mi accorsi che sembrava di metallo.

Per tutta risposta, mia madre rise.

 “Non dire sciocchezze, è ovvio che verrò.”

“Questa non è la tua guerra, Rosa”  intervenne Antonio, con le braccia incrociate al petto.

“Ma è la guerra di Ezio.” Mia madre avanzò, per sfiorare la spalla di mio padre. Resse il suo sguardo severo, senza alcuno sforzo. Poi, rivolgendosi agli altri, disse: “E’ la guerra di tutti voi, amici miei. Non mi tirerò indietro.”

“Chi si prenderà cura dei bambini, ci hai pensato?” insistette Ezio.

Lei scrollò le spalle. “E’ per questo che ho chiesto a Ugo di venire. Lui e Claudia li proteggeranno dai guai.”

“E chi proteggerà te dai guai?”

“Per tutti i diavoli, Ezio! So cavarmela da sola, e lo sai bene.”

“Dici? Io mi ricordo di una certa ladruncola con una freccia conficcata nella gamba…se ti avessi lasciata a cavartela da sola non saresti andata molto lontano.”

“Ho pareggiato quel conto quando ti ho salvato a Palazzo della Seta” replicò lei, piccata. “Ricordi, quando la guardia del corpo di Barbarigo stava per sopraffarti? E' stata la mia la freccia che ti ha tolto dai casini.”

“Sembrano proprio una vecchia coppia sposata” commentò la Volpe, e suor Teodora annuì, divertita.

“Se avete finito con le smancerie, piccioncini” sorrise la donna chiamata Paola “E’ il momento di pianificare le azioni diversive.”

Parlarono di catacombe e vie sotterranee; accennarono all’idea di appiccare incendi per distrarre le guardie e di penetrare nelle prigioni di Castel Sant’Angelo per liberare i prigionieri e tenere impegnati i possibili rinforzi dei Borgia. Infine, si decise di sorprendere il cosiddetto “Spagnolo” – non sapevo di chi stessero parlando, e tuttavia intuii fosse un uomo di chiesa – durante la messa. Poi nominarono la Cappella Sistina e pronunciarono le parole “Sua Santità”. Io sussultai.

Il Papa? Volevano uccidere il papa?

“Io non capisco…secondo te cosa stanno dicendo?” fece Vanni, bisbigliando accanto a me. Io gli feci cenno di stare zitto.

Conoscevo poco della vita fuori da Monteriggioni, ma sapevo per  certo che il Papa era l’uomo più potente  del mondo, e rappresentante della volontà di Dio in terra. Le parole di Ferrante mi risuonarono in testa. Mio padre era un sicario. Mio padre era un assassino, e voleva uccidere il Papa!

“Ezio non può agire da solo in territorio ostile” obiettò zio Antonio. “Non è escluso che tra i vescovi sia nascosta qualche guardia”.

“Non lo credo possibile” replicò suor Teodora “Lo Spagnolo non si aspetta di essere aggredito dentro il suo stesso nido: le guardie sono tutte all’esterno.  Tuttavia” aggiunse, guardando quietamente mio padre “se fosse possibile, vorrei evitare di versare sangue nella casa del Signore.”

“La casa del demonio, vorrai dire” la rimbeccò mia madre. “ Questo gran bastardo ha fatto della Chiesa una puttana! Senza offesa” disse poi, a voce più bassa, lanciando occhiate in tralice alle altre due donne presenti nella sala. Paola e Teodora si limitarono a sorridere e scuotere il capo.

“Non versare il sangue di quel porco? E' una promessa che non posso farvi, Teodora” disse Ezio, mentre i suoi occhi si stringevano a due fessure. Mi ricordò un gatto, che pregusta il momento in cui conficcherà gli artigli nella carne della sua preda.

“Non essere pessimista, ragazzo. C’è sempre la possibilità che Rodrigo ceda lo scettro papale di sua spontanea volontà” replicò la Volpe, con un certo sarcasmo.

A quel punto, zio Mario replicò distrattamente: “Certo, quando si sposeranno Ezio e Rosa.”

Era diventato un proverbio comune alla villa e nella gilda dei ladri. Equivaleva a dire: “alle calende greche”, oppure “nemmeno tra mille anni”.

Avrei voluto ascoltare di più, quando un’improvvisa sensazione di gelo mi percorse la schiena. Qualcuno incombeva su me e Vanni. Un uomo non molto alto, con un berretto in testa. Ci voltammo, per vedere Ugo che ci fissava torvo, con le mani sui fianchi.

“Voi due non dovreste essere qui.”

Vanni si nascose dietro la mia schiena. Io scossi il capo, e chiesi scusa. Dopo quello che avevo appreso, non me la sentivo proprio di fare la spavalda. Ugo ci scortò nelle nostre stanze, e badò che fossimo a letto prima di chiudere la porta. Quella notte, mi rigirai a lungo nel letto, e quando finalmente riuscii a prendere sonno sognai le linee rosse sulla parete dello studio di zio Mario che si proiettavano tutte contro il mio petto, e mi uccidevano.

 

Il giorno successivo, ascoltai un’altra conversazione che non avrei dovuto origliare.

Avevo cercato di calmare Vanni, e convincerlo che gli adulti avevano parlato di versare il sangue dei maiali nelle fattorie vicino a Monteriggioni. I bambini, purtroppo, non sono stupidi come sembrano, e certe grossolane bugie non possono ingannarli.  Io stessa avevo capito che quei discorsi celavano qualcosa di molto, molto più grande di noi: per questo ero sfuggita alle lezioni di mia zia, e per tutta la mattinata avevo pedinato i miei genitori. Non c’era nulla di diverso, in loro. L’unica cosa che riuscii a sapere, seguendoli alle stalle, era che avevano chiesto di preparare un carro e dei cavalli. Presto sarebbero partiti. Per Roma, ne dedussi. Per compiere il loro piano omicida.

Dopodiché, Ezio era sceso in paese. Avevo scelto di seguire Rosa, sperando che avrebbe parlato di nuovo agli ospiti e si sarebbe lasciata sfuggire altri dettagli. Invece, aveva incontrato zia Claudia, che aveva domandato di poterle parlare un momento nel chiostro. Che anche la zia facesse parte della congiura?

Sgattaiolai indisturbata da una colonna all’altra, e mi misi in ascolto.

Riconobbi per prima la voce di zia Claudia. “Almeno sposatevi, prima. Se non per voi, per i bambini. Agli occhi del mondo sono ancora figli di nessuno, e lo saranno fino a che non vi deciderete a legittimare la vostra unione.”

“Non potremmo legittimarli, comunque. Se prendessero il cognome degli Auditore non erediterebbero che guai.”

“Erediterebbero un nome nobile e rispettato!” rispose la zia, offesa nel suo orgoglio.

“E braccato da tutti” aggiunse Rosa, con tristezza. “Ezio ed io ne abbiamo parlato, Claudia…non vogliamo questo per loro.”

La zia, allora, prese la mano di mia madre. “Almeno tu, non partire. Se vi perdessero…se vi perdessero entrambi, che ne sarà di loro?”

Rosa sorrise, ricambiando la stretta della sua mano.

“Hanno Ugo a vegliarli, e hanno te. Non potrei lasciarli in mani migliori.”

Fui interdetta, quando vidi mia zia abbracciare mia madre, senza curarsi per una volta dei suoi laidi vestiti da uomo. Mia madre ricambiò l’abbraccio.

C’era tanta disperazione sui loro volti che sentivo il petto scoppiare. Non potevo più tacere.

Uscii dal mio nascondiglio, e misi le braccia sui fianchi, in attesa di una spiegazione.

“Dove state andando?”

“Bianca!” esclamò la zia, sciogliendosi dall’abbraccio di mia madre.

Rosa si accigliò. “Da quanto tempo sei lì a spiare?”

“Rispondimi! Dove state andando?”

Mia madre disse, duramente: “Non ti riguarda.”

Quella volta il suo volto serio non sarebbe bastato a spaventarmi.

“Ho dieci anni, sono grande ormai! Voglio sapere cosa sta succedendo! Ferrante dice che siete degli assassini, e che io brucerò all’inferno perché sono figlia del peccato!”

A quell’affermazione, Rosa si accigliò.

“E’ questo che ti ha detto?”

“State andando a Roma. Volete uccidere il Papa. Ho sentito tutto. Ho sentito tutto! Voi siete degli assassini! Siete tutti degli assassini, e io vi odio!”

Avanzai, accecata dalla rabbia e dalle lacrime, e senza nemmeno accorgermene alzai la mano per colpire mia madre. Lei mi afferrò il polso e cercò di stringermi a sé. “Bianca, tu non sai di cosa stai parlando. Lascia che ti spieghi…”

Mi divincolai bruscamente. “Io ti odio!” Poi, fulminai zia Claudia con lo sguardo. “Odio anche te! Io vi odio tutti! Tutti!”

Corsi nelle mie stanze, sbattei la porta e vi spinsi contro l’arca dentro cui stavano i miei vestiti. Non volevo che entrassero. Non volevo ascoltare le loro ragioni. Gli adulti che mi circondavano, i miei punti di riferimento, le persone che amavo con tutto il mio cuore erano diventate d’improvviso sinistre sagome d’ombra, che nascondevano segreti orribili. Avevo paura di quei segreti. Avevo paura di loro.

 

Mio fratello bussò dopo un paio d’ore. Lo lasciai entrare, e poi barricai la porta.

“Bianca! Cosa stai facendo?” domandò, mentre raccoglieva lo scudo rotondo che zio Mario gli aveva regalato per il suo ultimo compleanno.

Gli presi le mani. “Dobbiamo scappare, Vanni. Dobbiamo andarcene di qui.”

“Perché?” fece mio fratello, stringendosi al petto lo scudo.

Preferii non spiegarglielo, e spalancai la finestra per vedere se c’era sotto il solito cumulo di fieno. Cacciai un urlo, quando mi trovai di fronte il volto di mio padre che mi fissava, appollaiato sul cornicione.

“Posso entrare?”

Non aspettò il mio consenso, e scivolò agilmente nella nostra stanza, chiudendo subito la finestra perché non mi saltasse in mente di tentare di sfuggirgli.

In quel momento avevo paura di lui, come la prima volta che avevo sentito la sua voce.

“Credo che qualcuno abbia origliato una volta di troppo” sospirò Ezio, sedendosi sul letto che Vanni ed io dividevamo.

“Diteci la verità. Voi siete un assassino?”

Mio fratello si avvicinò a me, nascondendo il viso dietro lo scudo e stringendomi la mano. Nostro padre non abbassò lo sguardo. “Sì. Ma non il tipo di assassino che voi intendete. E’ ancora presto perché voi capiate, ma i tempi sono maturi ormai. C’è una battaglia che i miei fratelli ed io stiamo portando avanti da molti anni. Tra due giorni partiremo per Roma…non voglio mentirvi. Potremmo anche non tornare.”

Mio fratello ed io ci guardammo brevemente. Non sapevamo cosa rispondere: nessuno dei due, a quel tempo, capiva la gravità della morte.

“Volete uccidere il Papa” dissi, ed era un’accusa.

Ezio strinse di nuovo il pugno, come se bastasse quel nome a fargli ribollire il sangue. “E’ un uomo malvagio. E’ il responsabile della morte di mio padre, dei miei fratelli e di molti altri innocenti.”

“Se lo uccidete non siete migliore di lui”.

Ezio mi fissò per un momento, sorpreso. Nei suoi occhi scuri vidi un certo smarrimento, come se avessi detto qualcosa di troppo adulto per la mia bocca. Come se i nostri ruoli di genitore e figlia si fossero invertiti in quell’attimo.

“Hai ragione, Bianca.”

Allungò la mano, per  accarezzarmi il viso. Io mi ritrassi d’istinto. Ezio abbassò la mano.

La sua voce era più roca, quando disse: “Dovete fidarvi soltanto di Ugo e di zia Claudia. Non uscite mai dalla villa da soli. Fate tutto ciò che loro vi dicono: è per la vostra sicurezza.”

Quindi, spostò il mobilio che bloccava la porta della stanza, e la aprì. Esitò un momento sulla soglia.

“Dovresti parlare con tua madre, Bianca. E’ molto triste per quello che le hai detto.”

Io distolsi lo sguardo, mordendomi il labbro un po’ per la rabbia, e un po’ per trattenere il pianto. Ezio uscì, ed io non seguii il suo consiglio.

 

Come avevano pianificato, i nostri genitori e gli altri Assassini lasciarono Monteriggioni due giorni dopo. Io non avevo ancora fatto pace con mia madre; tuttavia, le permisi di baciarmi le guance prima che il gruppo partisse. Rosa mi guardò a lungo, ma non provò a parlarmi. In ogni caso, Vanni la teneva impegnata a sufficienza, piagnucolando e tirandole la giubba perché non partisse.

Mentre preparavano i viveri e salivano sul carro, guardai quel gruppo di uomini e donne che era arrivato a sconvolgere un’altra volta la mia vita. Avevo capito che mi trovavo di fronte al famoso “Ordine”, che per tanti anni aveva infestato Villa Auditore con la sua invisibile presenza. A quanto pareva, l’Ordine avrebbe raggiunto in piccoli gruppi la Città Eterna, per organizzare i disordini che avrebbero permesso a Ezio di penetrare non visto in Vaticano.

Fissai le schiene dei miei genitori che si allontanavano fianco a fianco: non si voltarono indietro nemmeno un momento. Vanni piangeva dietro le gonne di zia Claudia. Era stato difficile staccarlo dalle braccia di nostra madre, c’era voluta tutta la forza di Ugo. Io guardavo Ezio con la sua cappa turchese che oscillava nel vento; guardavo Rosa mentre si allontanava sicura, con le spalle dritte e il passo mascolino. Le ultime parole che le avevo rivolto erano state ti odio, e in quel momento avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per poterle cancellare. Ma ormai avevano lasciato le mie labbra, e non potevo rimangiarmele, così come non potevo più accettare quella carezza di mio padre che invece avevo rifiutato.

L’unica cosa che potevo fare era pregare che tornassero, e che il destino ci desse ancora un’occasione.   

 

 

Ringrazio tantissimo CartacciaBianca, Lulla Cullen, Miko, The Fenix of Innocence e Renault per le splendide recensioni, sono stramegafelicissima che la storia vi piaccia e non vedo l'ora di farvi conoscere i prossimi sviluppi che mi frullano in mente!

Ps: Avete sentito dell'uscita di Assassin's Creed Brotherhood? Ho come l'impressione che presto la storia di Bianca diventerà un What if... ^___^ In ogni caso lo attendo con impazienza, ho appena scaricato il DLC "La Battaglia di Forlì" e mi sono accorta di quanto fossi in crisi di astinenza da Ezio!

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Capitolo 6
*** Mio padre è un assassino - parte seconda ***


 

 Eccomi qua! ^_^ Spero di non essere stata troppo frettolosa nell'aggiornare, ho riletto solo una volta e mi saranno sicuramente sfuggiti degli errori. Il capitolo è più lungo del solito e piuttosto denso, ma non mi andava di spezzarlo...nel finale credo capirete perché. Per la prima volta dall'inizio di questa storia ci ho messo dentro un po' d'azione (era anche ora, eheh!), spero sia descritta in maniera decente - di solito non è il mio genere, ma se si parla di Assassini bisogna adeguarsi! Fatemi sapere che ne pensate :)

 

Ugo mi piaceva.

Non si poteva dire che profumasse di buono o che fosse un uomo di molte parole, ma il suo sguardo serio mi dava sicurezza. Zio Mario gli aveva affidato l’organizzazione delle truppe che sorvegliavano Monteriggioni, e mia madre aveva messo gli affari della Gilda dei Ladri nelle sue mani. Lui eseguiva i suoi compiti giornalieri senza lamentarsi: dava ordini, organizzava il razionamento dei viveri e stabiliva turni di ronda durante tutta la giornata, mentre per molta parte della notte vegliava lui stesso sulle mura della città insieme ai suoi uomini. Vanni adorava gironzolargli attorno mentre sbrigava quei compiti di responsabilità, osservandolo con ammirazione mentre lavorava per due persone.

Anche io avrei voluto seguirlo, ma zia Claudia me lo impediva. Diceva che non era bene per una fanciulla mostrarsi in giro con un poco di buono del genere. “Un ladro!” bofonchiava ogni tanto, mangiucchiando l’estremità superiore della penna d’oca mentre compilava i registri “ecco chi mi ha messo in casa mio fratello per proteggermi: un ladro, e della peggior specie!”

Le due persone a cui i miei genitori mi avevano affidata non avevano alcuna intenzione di andare d’accordo. Erano capaci di scontrarsi su ogni cosa: se Ugo mandava tre uomini a pattugliare il lato meridionale delle mura, erano - guarda caso! - proprio i tre gendarmi di cui Claudia non poteva fare a meno per far scortare un carro carico di pelli conciate fino a San Gimignano; se Claudia ordinava ai cuochi di preparare arrosti di fagiano, Ugo replicava che avremmo fatto meglio a mangiare carne di piccione per evitare di mandare gli uomini a caccia in aperta campagna. Lui vedeva pericoli ovunque, e lei si sentiva derubata dell’autorità che aveva sempre rivestito nel borgo.

Ugo aveva trovato un soprannome perfetto per mia zia. La chiamava “Sua Maestà”, e ogni volta che discordavano pesantemente lui interrompeva la disputa per farle un profondo inchino, e andarsene subito dopo, lasciandola livida di rabbia.

Stanca dei loro continui rimbrotti reciproci, io passavo il mio tempo lontana dai miei amati tetti, a sospirare di fronte alla finestra chiusa. Se c’era una cosa su cui Ugo e Claudia concordavano, purtroppo, erano le soffocanti misure di sicurezza che costringevano me e Vanni a restare rinchiusi nella villa, senza poter uscire nemmeno nel chiostro se non sotto stretta sorveglianza.

In mancanza di occupazioni migliori, iniziai a trascorrere il mio tempo fantasticando. Dopo dieci giorni di viaggio, probabilmente gli Assassini erano arrivati a Roma. Chissà quale tattica avrebbero adottato per stanare lo Spagnolo. Speravo in un attacco-lampo, che ci avrebbe fatto conoscere presto la loro sorte. Tuttavia, sapevo che era improbabile. C’erano così tanti dettagli da organizzare, così tante forze sotterranee da mobilitare, che di certo avevano bisogno di più tempo. Avrebbero dovuto organizzare una rete di contatti in città, studiare i punti nevralgici, cercare di aprirsi una strada verso il Vaticano. Lì, mio padre avrebbe ucciso il Papa. Pregavo che fosse un uomo davvero cattivo come Ezio diceva; anche se, in fin dei conti, questo pensiero non mi consolava affatto. Mio padre si sarebbe macchiato di un peccato orribile, in ogni caso. Lui e lo Spagnolo sarebbero finiti come quei due dannati di cui racconta il poeta – quello che zia Claudia insisteva a leggermi ogni santo giorno, e che vedeva ovunque angeli, demoni, peccati e contrappassi. A un certo punto, questo poeta racconta di due uomini conficcati in un lago di ghiaccio: uno dei due è condannato a rosicchiare il cranio dell’altro da qui all’eternità.

Non ricordo il poeta, né il poema, né il nome dei dannati. In ogni caso non aveva importanza, perché era  mio padre e il Papa che vedevo in quell’orrenda posizione, destinati ad odiarsi ferocemente anche dopo la morte.

Un ticchettio alla finestra mi distrasse da quei lugubri pensieri. Il cuore mi balzò in petto quando aprii le ante. Forse mi sarei trovata di fronte di nuovo il viso di Ezio, sorridente come se non fosse mai partito.

Invece, era soltanto Ferrante.

Lo lasciai entrare. Lui sembrava titubante. L’ultima volta che ci eravamo parlati ci eravamo dati appuntamento all’inferno, e poi gli avevo spaccato il labbro. Era ancora tumido, notai. Non potei fare a meno di esserne soddisfatta.

“Cosa vuoi?”

“Posso parlarti?”

“Fa’ presto, sono impegnata.”

Lui si tolse la cuffia che gli schiacciava i capelli chiari. La stropicciò per un po’ tra le mani, prima di dire:

“Mi dispiace. Non è vero che sei figlia del peccato. E tuo padre è un uomo d’onore.”

“E’ stato Ugo a costringerti, vero?”

Ferrante arrossì fino alla punta delle orecchie. “No. Be’, in un certo senso. A dire il vero…è stata tua madre.”

“Ti ha picchiato molto forte?”

“Non forte come mi hai picchiato tu.” Accennò ad un ghigno dolente, forse al ricordo delle botte ricevute da Rosa. Poi guardò in basso, e la sua voce si affievolì. “Però è vero che tuo padre è un grande uomo.”

“Allora perché hai detto tante cose brutte sul suo conto?”

“E’ che…ti brillano gli occhi quando parli di lui.”

“E allora?”

“A me invece mi chiami cretino e scemo.”

Risi. “Da quando te ne importa?”

“Mi importa. Mi importa molto quello che pensi di me.”

Lui aveva il volto in fiamme, tanto che le lentiggini quasi non si vedevano più. Nel momento in cui intuii quello che davvero voleva dirmi, provai una nuova sensazione allo stomaco. Come se delle farfalle si divertissero a rincorrersi lì dentro. Da quando Ferrante aveva dei capelli tanto biondi, e un viso così carino? Fu come accorgersene per la prima volta.  

“Ezio è mio padre” dissi.

Imbronciato, lui rispose: “Lo so.”

“Tu invece…sei tu.”

Già allora ero piuttosto sfacciata. Mi allungai in punta di piedi e schioccai un bacio sulla guancia di Ferrante, che mi guardò sgranando gli occhi.

“E ora va’, se Ugo ti trova qui ti spacca anche l’altro labbro” risi, quasi spingendolo fuori.

“Pace?” domandò lui, appollaiato sulla finestra.

“Se ti butti nel vuoto per me, la pace è fatta.”

Ferrante sorrise: era una richiesta da poco. Sapevamo benissimo entrambi che c’era un cumulo di fieno piuttosto voluminoso sotto la mia finestra. Senza nemmeno guardare, il mio amico si gettò di schiena,  facendomi ciao con la mano.

Solo per sicurezza, mi sporsi a guardarlo. Come previsto, era sprofondato nel covone.

Ero così di buon umore, che in per tutta la giornata camminai trotterellando, senza quasi sentire le lamentele di zia Claudia sull’usurpatore e senza preoccuparmi più del destino degli Assassini. Ferrante mi piaceva, avevamo fatto pace e il mondo era di nuovo meraviglioso.

 

Questo mio stato d’animo cambiò con il trascorrere dei giorni. Pensavo di essere preparata ad una lunga attesa, ma quando il primo mese trascorse senza notizie iniziai a temere per davvero. Tentai di sgattaiolare fuori dalla finestra un paio di volte, per raggiungere la piccionaia e controllare che non fosse arrivato qualche messaggio da parte dei miei genitori o di Antonio. Fui ripescata dai mercenari di guardia, che mi portarono da Ugo.

“Sai che tua zia mi ucciderà per questo” disse, scuotendo il capo, la seconda volta che mi feci beccare. “Non puoi andare a zonzo dove ti pare. Che tu lo voglia o no, sei una Auditore, e in questo momento sei in pericolo.”

“Perché?” replicai. “La città è sorvegliata dai mercenari e ci sono i tuoi ladri a pattugliare ogni vicolo. Cosa può succedermi qui, nella casa di mio padre?”

Ugo mi squadrò con disapprovazione, e infine sospirò. “Ragazzina, tu sei in pericolo per il semplice fatto di essere figlia sua. Se i Templari venissero a sapere della tua esistenza, metteresti a repentaglio non solo la tua vita, ma anche i piani dell’Ordine.”

“Chi sono i Templari?”

Ugo strinse le labbra fino quasi a sbiancarle. Evidentemente, aveva detto troppo.

“Te lo racconterà tuo padre, quando tornerà.”

Quella risposta, ovviamente, non mi bastava. Perciò, decisi di scoprire di più.

 

C’era una sola persona nel borgo che potesse darmi le risposte che cercavo, ed era Nonna Maria. Non era facile parlare con lei, purtroppo: dalla partenza di Ezio continuava  a vivere con la mente dentro il passato. A volte mi chiamava Claudia, a volte con il nome di Annetta, la sua vecchia cameriera; Vanni, invece, era sempre il suo piccolo Federico, e poco importava che fosse visibilmente più giovane di me. Mio fratello ormai aveva fatto l’abitudine a quel richiamo, e rispondeva comunque. Se la nonna chiedeva di Petruccio, le dicevamo che stava riposando nella sua stanza, e che il dottore si era raccomandato che non lo disturbassimo.

Poi, però, accadde qualcosa che spezzò quell’incanto malato. Vanni, finalmente, terminò il ventaglio di piume.

Aveva raccolto il mio suggerimento, e aveva chiesto alla dama di compagnia della nonna di aiutarlo a legare le piume alle stecche di legno; poi, era andato a ficcare il naso nella bottega del Maestro d’Arte, ed era riuscito a farsi prestare pennello e colori per dipingere le stecche di un bianco intenso. Infine, aveva ricoperto l’impugnatura con un bel nastro di velluto blu. L’insieme era piuttosto raffazzonato, tuttavia era tanto l’impegno e la cura per il dettaglio che ci aveva messo che restai incantata quando lo vidi. Il mio fratellino aveva l’animo di un piccolo artista.

Quando glielo porse, la nonna aprì la bocca per la meraviglia.

“Non è bello come volevo io” disse subito Vanni “Forse zio Petruccio lo avrebbe fatto meglio. Scusami.”

Nonna Maria guardò il ventaglio, poi il bambino. Rapidamente, i suoi occhi divennero lucidi.

“Bianca ed Ezio hanno raccolto le piume” disse ancora Vanni, che non si rendeva conto della commozione della nonna “Io non sono ancora bravo ad arrampicarmi, però ho fatto il resto. Secondo me zio Petruccio voleva regalarti una cosa come questa. Ho fatto male, nonna?”

Lei lo abbracciò forte, seppellendo il volto nei suoi capelli neri. La sentii singhiozzare; smarrito, mio fratello annaspò tra le sue braccia. “Nonna, ti ho fatto arrabbiare? Perché piangi?”

“No…” disse Nonna Maria “non mi hai fatto arrabbiare. E’ bellissimo. Grazie…Giovanni. Grazie.”

Avrei voluto gridare per la gioia. La nonna aveva chiamato Vanni con il suo nome, l’aveva riconosciuto!

Rimasi ferma a guardarli, mentre anche la dama di compagnia della nonna assisteva alla scena stupita e commossa.

Poi, lei alzò gli occhi scuri su di me. Erano rossi di lacrime. Tese una mano, ed io la raggiunsi.

“Grazie anche a te, Bianca.”

Mi lasciai stringere anche io dalle sue braccia magre, e pensai che lo spirito umano è veramente singolare. Era come se in mia nonna vivessero due donne diverse, una ignara del presente e scioccamente felice, e l’altra che vegliava anche quando sembrava assente, ascoltava e comprendeva tutto, ma a volte non aveva voce per sovrastare la prima.

“Madre?”

Zia Claudia si affacciò perplessa alla porta della stanza.

“Claudia, tesoro. Guarda che regalo meraviglioso mi hanno fatto i bambini” disse la nonna, mostrando il ventaglio.

La zia si avvicinò piano, e sembrò comprendere un passo dopo l’altro che la madre, finalmente, si era svegliata. Nonna Maria le sorrideva fiduciosa; nella sua espressione c’era una consapevolezza che in quegli anni non le avevo mai visto, nemmeno nei momenti di lucidità.

Claudia accarezzò le piume con delicatezza, poi guardò mio fratello e me. Per la prima volta lo vidi chiaramente sul suo volto, attraverso la sua pelle. Ci amava. In quel momento, non poteva dire a parole quanto.

“Madre…mi siete mancata. Mi siete mancata così tanto!” disse, e subito scoppiò a piangere.

Era la prima volta che la vedevo in quella condizione, e rimasi sorpresa di vedere il suo cuore così, tutto in una volta. Pensai che per lei non era facile governare il borgo e svolgere i compiti di amministrazione che di solito si accollavano gli uomini. D’altronde, mia zia era stata costretta a crescere troppo in fretta. Doveva aver soffocato la tenerezza fino a quel momento, e ora la stava riversando su di noi senza più freni.

Comprensiva, nonna Maria le massaggiò la schiena e le permise di piangere sulla sua spalla. Mi chiesi se questa volta era tornata per restare, o se sarebbe di nuovo andata via, per visitare di nuovo il suo passato felice.

“Dov’è Ezio? Vorrei mostrare il ventaglio anche a lui.”

Quelle parole ci gelarono. Guardai la zia, un po’ preoccupata. Come avrebbe potuto dare alla nonna un altro dolore, rivelandole che Ezio stava rischiando la vita a Roma? Cosa poteva risponderle?

Per fortuna, in quel momento giunse Ugo.

A Villa Auditore non era usanza farsi annunciare, così che il nostro amico apparve semplicemente sulla soglia dell’arcata che conduceva ai corridoi.

“Madonna Maria, perdonatemi. Non intendevo disturbarvi. Volevo solo comunicare a madonna Claudia che quel carico di stoffe che aspettava da Siena è arrivato.”

“Oh, be’…sì. Grazie.” Sollevandosi rapidamente, zia Claudia si schiarì la voce e lisciò le gonne. “Madre, lasciate che vi introduca il nostro ospite. Messer Ugo è un…condottiero di ventura. Un amico di Ezio. Si fermerà a Monteriggioni per qualche tempo.”

“Gli amici di Ezio sono i benvenuti. Perdonate, messere: almeno voi sapete dirmi dove sia andato mio figlio?”

L’occhiata che la zia gli lanciò era eloquente, e gridava: non osate! Ugo, rispettosamente, si inchinò a mia nonna.

“E’ in viaggio verso la Francia, signora. Non ha voluto parlarmi nel dettaglio della sua missione, ma sospetto che sia alla ricerca delle pagine di un antico codice.”

“Oh…il codice. Capisco.” La nonna annuì, gravemente. Quindi, sorrise a Ugo. “Avrò il piacere di rivedervi a cena, messere?”

Zia Claudia trattenne a stento una smorfia di disgusto. Da che viveva con noi, Ugo aveva sempre consumato i suoi pasti con i soldati, e metteva piede alla villa soltanto per farle il resoconto della situazione del borgo e litigare con lei a riguardo.

Tuttavia, in quel momento la padrona della casa era di nuovo Nonna Maria, e se la nonna voleva Ugo alla sua mensa nemmeno il superbo orgoglio di Claudia poteva tenervelo lontano.

 

Da quel giorno, Nonna Maria restò lucida, e al contrario di quanto tutti noi ci aspettavamo non si fece prendere dalla disperazione. Era come se Vanni le avesse mostrato che valeva la pena di vivere anche in questo presente. Suo marito e due dei suoi figli non c’erano più; ma c’eravamo noi, che avevamo aspettato a lungo il suo ritorno dal viaggio del passato.

La nonna si dimostrò molto gentile con Ugo; si fece raccontare di Venezia (naturalmente, il nostro amico omise di essere un ladro), e riprese zia Claudia davanti a tutti noi quando si accorse che le sue maniere non erano civili nei suoi riguardi. La zia accettò il rimprovero come una bambina ubbidiente. Io ero felice di vedere la nonna così lucida e viva, e intanto pensavo al momento in cui avrei potuto porle le mie domande sui Templari. Era l’unica persona che, ne ero certa, non mi avrebbe celato la verità per il mio bene.  

Una volta, mentre Vanni ed io giocavamo nella sua stanza, ebbi il coraggio di domandarglielo.

“Una setta religiosa che si è estinta molti anni fa” fu la risposta. In apparenza la nonna sembrava distratta dal suo ricamo, ma notai che la sua mascella si era irrigidita.

“Allora perché Ugo mi ha detto di stare alla larga dai Templari?”

La nonna mi rivolse uno sguardo penetrante. Senza distogliere gli occhi dai miei, disse alla sua dama di compagnia:

“Claretta, ti dispiace uscire?”

“Madonna…” obiettò quella, per essere subito zittita dall’espressione torva della nonna.

“Ho detto: va’.”

La forma delle sopracciglia decise e il naso tanto simile al mio mi ricordarono di nuovo un’aquila. Una volta che la dama di compagnia fu uscita, ci fece cenno di sederci sulle sue ginocchia.  

“I Templari sono nemici mortali degli Assassini. Sono nemici di vostro padre e della nostra famiglia.”

“Anche loro…uccidono la gente?” domandò Vanni. La nonna gli accarezzò i capelli.

“Vedi, Giovanni…gli Assassini uccidono soltanto se sono costretti, e soltanto persone malvagie. Il Credo dell’Assassino ha tre regole: trattenere la lama dalla carne degli innocenti. Nascondersi alla vista. Mai compromettere la confraternita.”

“Il Credo dell’Assassino” ripetei, affascinata. Sembrava un codice onorevole.

“Vostro nonno Giovanni era un Assassino, come zio Mario e il loro padre prima di lui. Entrambi gli schieramenti, il nostro e quello dei Templari, desiderano la pace per il genere umano…con una differenza: noi crediamo nella libera scelta, loro nella costrizione. I Templari vogliono governare il mondo, e controllare le menti delle persone tramite un manufatto potente, che si chiama Frutto dell’Eden. Sono pronti a uccidere chiunque si ponga sul loro cammino, e non importa quanti innocenti sacrificheranno alla loro causa.”

“E’ orribile!” esclamai.

“Lo è” confermò la nonna “per questo il compito degli Assassini è sottrarre loro il Frutto dell’Eden, e ostacolare i loro piani. Ci sono solo due cose che un templare desidera: governare il mondo, e dare la caccia agli Assassini.”

Iniziavo a capire. “Se scoprissero che noi esistiamo, potrebbero rapirci e ricattare nostro padre!”

“Ed ecco perché dovrete fare molta attenzione, bambini miei. Molta. I Templari possono infiltrarsi ovunque, anche tra le mura di Monteriggioni.”

“Anche qui?” ripeté Vanni, impaurito.

“Sì. Per questo dovete ubbidire a Claudia quando vi dice di non uscire se non siete accompagnati.”

Vanni era molto più giudizioso di me, e non infranse mai quel divieto. Io, invece, sentivo che mi mancava l’aria tra quelle mura. Avevo bisogno di uscire: per questo, escogitai uno stratagemma per cui mi sentii molto furba: mi nascosi dentro uno di quei grandi cesti colmi di biancheria sporca che i servi portano una volta alla settimana fino al lavatoio. Oggi non si direbbe, ma sono stata una di quelle bambine magre con le ginocchia ossute: bastò rannicchiarsi e tirarsi un lenzuolo in testa.

Quasi immediatamente, mi pentii della mia scelta: la puzza dei panni intimi era rivoltante, e tuttavia cercai di non chiedermi cosa fosse l’umidore che toccavo con la mano.

I servi si lamentarono del peso della cesta, quando vennero a sollevarla. Uno dei due propose all’altro di guardarci dentro per essere certo che certi monelli che si aggiravano attorno alla villa (parlavano di Ferrante, ne ero certa) non ci avessero messo delle pietre. Io tenni il fiato.

Per fortuna, già quando uno spiraglio di luce iniziava a ferirmi gli occhi mentre il lenzuolo sulla mia testa frusciava, la cameriera di zia Claudia li rimbrottò che si sbrigassero, perché non aveva tutto il giorno da perdere con il bucato. Risistemarono il lenzuolo, e sollevarono il cesto. Ripresi a respirare.

Mi fecero oscillare al ritmo del loro passo pesante per un periodo infinito, e mentre cercavo di dominare il senso di nausea mi chiedevo come avrei fatto ad uscire dal cesto senza essere notata.

Per fortuna, i due servi avevano tutto fuorché voglia di eseguire il loro compito:  posarono il cesto piuttosto bruscamente, si lamentarono per il caldo e poi risposero al richiamo di due suadenti voci femminili. Attraverso uno spiraglio del canestro in cui ero rinchiusa vidi avvicinarsi due avvenenti prostitute. Ero salva!

Sapevo che avevo poco tempo: le ragazze flirtavano con i servi, ma i due ragazzotti non avrebbero mai avuto in tasca abbastanza soldi per appartarsi con loro. Feci scivolare il lenzuolo da sopra la mia testa, mi sollevai facendo perno con le braccia sui manici del cesto e saltai fuori, per sparire in un vicolo. Il cesto cadde, facendo accorrere i due servi imprecanti. Ma io mi ero già arrampicata sul muro: intravidero la mia figura, mi urlarono di fermarmi: mi avevano scambiata per un ladruncolo. Risi, tra me. Cosa avrei dovuto rubare, i panni sporchi di zia Claudia?

Mentre saltavo sui tetti per seminarli, mi sentivo finalmente libera, e di nuovo felice. Il sole era caldo sul mio viso, l’aria frizzante scendeva e risaliva rapidamente dai miei polmoni, gonfiandomi il petto di vita.

Mi gettai nell’ombra di un pertugio, sotto due assi inclinate contro un muro. Mi coprii la bocca con le mani per non scoppiare a ridere a crepapelle. Avevo quasi dimenticato quanto fosse divertente!

Poi, ricordo un tonfo e una mano ghiacciata sulla mia caviglia. “Preso!” sogghignò il servo di villa Auditore, stringendo più forte.  

Io spalancai gli occhi per la sorpresa. Mi avevano trovata! Ma come? Possibile che in un mese fossi diventata tanto più lenta di prima?

Il servo non fece in tempo a riconoscermi, comunque, perché la sua bocca si torse in una smorfia di dolore. Si voltò, adirato, e raccolse il sasso che gli aveva colpito la nuca.

“Chi è stato?”

Intravidi, sul tetto di fronte, le ginocchia sbucciate e la giubba sdrucita di Ferrante. Non persi tempo, e scappai veloce, mentre il mio amico distraeva le guardie. Gettai di tanto in tanto un’occhiata sulla mia spalla, per essere certa che non lo prendessero. Per fortuna, lui era nettamente più veloce degli inseguitori. Mi fece l’occhiolino, prima di tuffarsi sul tendone di una bancarella di unguenti e lasciarsi scivolare fino a terra con un piccolo salto. Sparì alla mia vista, ed io sorrisi. Avrei trovato il modo di ripagare quel favore.

Ora però dovevo approfittarne, e godermi quel poco di libertà prima che gli uomini di Ugo mi trovassero e mi costringessero di nuovo nella mia prigione.

Mi arrampicai sul lato orientale delle mura, e appena mi issai sul merlo provai un vago senso di vertigine, mai avvertito prima. Era decisamente il punto più alto della cerchia, che ancora non avevo osato sfidare.

Cercai di individuare qualcosa che potesse attutire la mia caduta, e mi risolsi per un mucchio abbastanza voluminoso di biada per cavalli. Calcolai la distanza che mi sarebbe stata necessaria per evitare le rocce e tuffarmi al sicuro. Quindi, chiusi gli occhi, emisi un lungo fiato, e flettendo le ginocchia per darmi la spinta saltai. Senza quasi accorgermene, lasciai che il mio corpo compisse un giro nell’aria. Atterrai meno morbidamente di quanto avrei creduto (tra la biada c’erano non poche fascine di legno), e tuttavia ero appagata. Ancora una volta avevo sfidato la morte, ancora una volta avevo vinto.

Emersi sputacchiando biada, e mi guardai intorno. Avevo guadagnato solo poche ore per me stessa: appena zia Claudia si fosse accorta della mia mancanza avrei avuto addosso tutti mercenari di Ugo. Come potevo sfruttare quel tempo al meglio?

Decisi di fare una corsa tra i campi, per recuperare l’allenamento perduto. Saltai staccionate, mi divertii a fendere le spighe di grano a braccia spalancate, e quando trovai il muretto che costeggiava la casa di un contadino mi sdraiai alla sua ombra, masticando un filo d’erba e godendomi quel primo sole dell’estate.

D’improvviso, un’ombra mi rubò il sole.

“Ragazzino, sai indicarmi la strada per Villa Auditore?”

Aprii gli occhi. Quello che incombeva su di me era un uomo piccolo e scuro, con un naso lungo e crespi ricci neri. Mi sollevai, e mi accorsi che il mio interlocutore era un po’ gobbo.

Storsi il naso per come mi aveva chiamata. In effetti ero vestita da maschio e la mia treccia era nascosta nella cuffia, ma confesso che la mia vanità fu piuttosto offesa.

“Dipende. Chi me lo chiede?” feci, sussiegosa come se mi avessero chiesto accesso a una fortezza.

Come sospettavo, lo storpio si rivelò essere tutt’altro che storpio. La spalla piegata si drizzò d’improvviso quando mi afferrò il polso e fece per darmi uno schiaffo.

“Franco, calmati. E’ solo un bambino.”

Il falso storpio si fermò, abbassò il braccio. La voce mielosa che aveva pronunciato quelle parole apparteneva all’uomo che stava sul carro, a pochi passi dal compagno. Mentre si avvicinava, intravidi sotto il cappuccio scuro una ciocca di capelli castano-rossicci. In un lampo di sole balenarono per una attimo due occhi dello stesso incredibile colore.

 “Mi chiamo Ermes” disse l’uomo, aprendo un sorriso. “Ermes da Bologna. Sono qui per vendere le mie mercanzie, e vorrei mostrarle al signore di Monteriggioni.”

Lo squadrai, da capo a piedi. Sotto il mantello si vedeva benissimo il farsetto di broccato verde scuro, ricamato d’oro.

“I vostri abiti non sono quelli di un mercante, signore.”

Allora, il sorriso dell’uomo divenne un ghigno. Sventolò tra le dita una moneta. Pareva d’oro. “Indicaci la strada, ragazzino, e sarai ben ricompensato.”

Ma io guardavo oltre la sua moneta. Il movimento del braccio aveva svelato la croce d’argento che gli pendeva dal collo. Era picchiettata di piccoli rubini rossi.

Istintivamente, ebbi paura. Forse è scritto nel sangue di un Assassino, non so. La nostra rivalità con i Templari dura da tanti secoli, che riconosciamo subito uno di loro quando lo incontriamo.

“No” dissi, mentre una morsa mi stringeva lo stomaco.

Il finto storpio sibilò: “No?”

Senza abbassare gli occhi, ripetei: “No. Mai. Nemmeno da morta.”

Lui mi sferrò un calcio al fianco, ed io caddi a terra, dolorante. Si chinò su di me, mi afferrò quel poco di capelli che spuntavano sulla nuca da sotto la cuffia e li torse. Io gemetti per il dolore.

“Chiedi scusa al mio signore.”

L’uomo chiamato Ermes incombeva su di me adesso. Non aveva un’espressione feroce, eppure, non so perché, pensai subito che fosse un demonio pronto a divorarmi l’anima.

“Non so dove sia la villa” mentii, ma era tardi. Avrei dovuto avere la prontezza di farlo prima.

Ermes si piegò vicino al mio viso. Sembrava mi stesse studiando. Mi tolse la cuffia con un gesto brusco, facendo ricadere la mia treccia bruna sulla schiena.

Forse anche i templari hanno l’odore degli Assassini impresso nella loro memoria più ancestrale, perché io fui certa che a quel punto lui mi riconobbe. Stava cercando me, la figlia di Ezio. E sapeva di avermi trovata. Da cosa l’abbia capito, non so dirlo. Mio padre sostiene sia colpa del naso. Io dico che ha visto in fondo ai miei occhi l’orgoglio degli Auditore.

Ermes cercò di accarezzarmi una guancia, e io feci schioccare i denti a pochi centimetri dalla sua mano. Lui rise. “Portala sul carro, Franco. La nostra caccia ha dato frutti davvero insperati.”

D’improvviso, un sibilo. Franco si fermò e cacciò un grido, lasciandomi andare i capelli. Una freccia si era conficcata nel braccio del mio aguzzino. Franco lasciò andare i miei capelli con un urlo di sorpresa e dolore. Alzai gli occhi. Ugo e i suoi uomini ci avevano circondati.

“Lasciate la bambina.”

Il mio amico era accompagnato soltanto da due mercenari. Visto che Franco era già stato ferito, pensavo che Ermes si sarebbe arreso. Invece, il Templare sfoderò la spada.

“Dunque, esiste davvero. La progenie del Profeta. Credevamo fosse soltanto una leggenda” disse.

“E’ mia figlia” sibilò Ugo tra i denti. “Lasciala, topo di fogna, o ti spacco i denti uno per uno.”

Per tutta risposta, Ermes sogghignò e gli fece cenno di farsi avanti.

L’uomo chiamato Franco era scivolato a terra, e si teneva la spalla. Dove la freccia era penetrata usciva un piccolo rivolo di sangue che iniziava a impregnargli il mantello. Ermes era solo contro Ugo e i suoi uomini. Dovevano farcela. Dovevano sconfiggerlo!

“Fatti da parte, Bianca!” gridò Ugo, mentre si gettava sul Templare a spada sguainata.

Mi accorsi subito che Ermes era abile. Parò l’attacco di Ugo; poi, ruotando su se stesso, conficcò la spada nella spalla di uno dei mercenari. Il terzo uomo lo attaccò alle spalle. Ermes si abbassò in tempo per evitare il suo fendente. Subito si volse, per parare un nuovo affondo di Ugo.

Cercai di togliermi dalla mischia, e mi riparai dietro un albero. Rimasi, affascinata e terrorizzata, a fissare quello scontro impari, che tuttavia non sembrava volersi chiudere in fretta. Ermes stava tenendo in scacco da solo tre guerrieri esperti: ora capivo perché Ugo mi avesse messo in guardia contro i templari.

Nel frattempo, lo scagnozzo del Templare era riuscitoa sollevarsi, nonostante la ferita. Lo vidi barcollare per un attimo, e poi estrarre qualcosa dalla cinta. Qualcosa di luccicante, come una lama. Una lama che stava per abbattersi sulla schiena di Ugo.

Gridai il suo nome. Grazie al mio avvertimento, il colpo gli prese il braccio soltanto di striscio. Uno degli uomini di Ugo immobilizzò Franco a terra, mentre l’altro veniva sbaragliato da Ermes. Il templare approfittò di quel momento di distrazione del secondo mercenario per saltare in carretta, afferrare le redini del carro e partire al galoppo, facendo rotolare via buona parte del suo carico di stoffe pregiate.

Ugo fermò il mercenario ferito, che voleva inseguire il templare. Si chinò invece sullo scagnozzo, che era rimasto prigioniero della stretta del secondo mercenario.

“Cosa stavate cercando qui?”, gli chiese.

L’uomo aveva il volto deformato dalla pena, ma stringeva i denti per non gemere. Il mercenario che lo teneva fermo, per farlo parlare, spostò di scatto il fusto della freccia che aveva conficcata nella spalla. Franco grugnì: “Cercavamo uno spiraglio nelle vostre difese, e abbiamo trovato una breccia.”

Rabbrividii. Stava parlando di me. Io ero la debolezza di Ezio Auditore, ed ora i templari avevano le prove della mia esistenza.

“Vi manda lo Spagnolo?” fece ancora Ugo. Un incrollabile orgoglio accese lo sguardo di Franco.

“Io servo solo la casa dei Bentivoglio.”

Fu rapidissimo. Strappò con i denti la falsa gemma sul suo anello, e ingoiò la capsula che conteneva. Il suo volto si gonfiò, gli occhi quasi gli uscirono dalle orbite. Rantolando, si accasciò a terra. Si contorse per qualche istante, prima di giacere immobile.

“Porco demonio!” ruggì Ugo, gettando a terra la spada in un impeto di rabbia. Il suo sguardo furente si rivolse su di me; camminò furioso nella mia direzione. “Che cosa ti è saltato in mente? Potevi lasciarci la pelle questa volta! Hai messo a repentaglio la tua vita e quella dei miei uomini! I Templari ti hanno quasi catturata!”

Poi, si accorse che stavo tremando. Sapevo di non avere più colore sulle guance. Non riuscivo a smettere di guardare il cadavere fermo a terra. Era la prima volta che vedevo morire un uomo.

Lo sguardo di Ugo si addolcì. Si tolse il mantello e mi ci avvolse, come se potessi avere freddo in quel pomeriggio di inizio estate. Mi prese in braccio, ed emise un piccolo gemito quando per sbaglio sfiorai il taglio che il templare gli aveva procurato. Pensavo fosse solo un graffio, ma stava buttando parecchio sangue.

“Andiamo a casa, Bianca.”

Mi raggomitolai contro il suo petto, cercando di nascondermi sotto il suo mantello per la paura e la vergogna. Avevo messo a repentaglio la vita di Ugo e dei suoi mercenari per i miei capricci. Ezio e Rosa non sarebbero certo stati fieri di me.

Ho ricordi intermittenti di quando tornai alla villa. Molte voci concitate, molte grida. Zia Claudia mi parlava, non ricordo cosa dicesse ma credo stesse cercando di capire se fossi ferita. Vanni guardava ad occhi sgranati, così spaventato che non riusciva a parlare. Le donne mi tolsero dalle braccia di Ugo e mi portarono nella stanza da bagno, mi spogliarono, controllarono ogni centimetro della mia pelle. Appurato che non avevo ferite fisiche, mi fecero un bagno caldo, mi sciolsero e lavarono con premura i capelli. Io mi lasciavo maneggiare da loro come fossi una bambola. Non le vedevo. Non le sentivo. Rivedevo Franco che si contorceva vittima del veleno, e gli occhi felini di Ermes che mi squadravano, mi riconoscevano, e mi giuravano che non avrebbe avuto pace fino a che non mi avesse sepolta con le sue mani.

Dormire: chi poteva riuscirci quella notte? Eppure mi misero subito a letto, dopo che ebbi rifiutato di mangiare. Mandai fuori tutti, perfino Nonna Maria. Permisi soltanto a mio fratello di restare. Dopo tutto, era anche la sua stanza.

Quando fummo soli, Vanni si raggomitolò accanto a me, stringendomi forte per non lasciarmi più andare.

“Bianca, hai rischiato di morire?”

Non lo guardai. Annuii soltanto.

Mio fratello affondò il viso nella mia camicia da notte.

“Se mamma e papà muoiono” disse “ho solo te.”

Quelle parole uscirono leggere dalle sue labbra, e si schiantarono come macigni su di me. Alla paura e alla vergogna si aggiungeva il senso di colpa. Ero stata davvero stupida.

Vanni si addormentò rapidamente, ma io non potevo. Avevo incontrato l’odio, per la prima volta nella mia breve vita. Gli occhi di Ermes mi perseguitavano: il suo sguardo somigliava a quello che mio padre aveva ogni volta che parlava del Papa. Per il semplice fatto che io esistevo, quell’uomo mi odiava. Con un solo sguardo sentivo che il Templare ed io ci eravamo legati, per la vita e per la morte. E non sbagliavo. L’avrei incontrato ancora.

 

Avevo trascorso più di due ore sdraiata a letto senza potermi addormentare. Ero sgattaiolata via dalle braccia soffocanti di Vanni che dormiva ormai della grossa. Volevo mangiare qualcosa nelle cucine, e poi chiedere scusa ad Ugo e al suo mercenario, che erano stati feriti per colpa mia. Ma nelle stalle dove dormivano i soldati non c’era traccia di Ugo. Scoprii con mia grande sorpresa che lo avrei trovato nel laboratorio, dove la zia gli stava ricucendo la ferita sul braccio con un grosso ago.

Vedendo Ugo a torso nudo, pensai che era più muscoloso di quanto sembrasse con la camicia. La zia pareva molto concentrata nel suo lavoro.

“State fermo, accidenti. Un uomo deve saper sopportare il dolore.”

“Non siete una brava sarta, Vostra Maestà” scherzò Ugo, soffocando un lamento dentro una risata.

La zia terminò il lavoro, facendo un rapido nodo e spezzando il filo in eccesso con i denti. L’avevo sempre vista tanto schizzinosa e altezzosa, che non pensavo certo fosse in grado di ricucire ferite. Forse si era vista costretta a prestare quel favore a zio Mario o a mio padre, in quegli anni.

Dopo che ebbe terminato il suo lavoro, la zia iniziò a lavare gli strumenti in un bacile colmo d’acqua. Il suo volto era scuro.

“Siete sicuro di ciò che avete detto, Ugo? Era un templare?”

Il ladro annuì.

“Il suo nome è Ermes Bentivoglio. Il padre, Giovanni Bentivoglio, è il signore di Bologna.”

“Perché ha agito da solo? Credete…che abbia capito chi è Bianca?”

“Spero di no. Gli ho detto che era mia figlia, ma non penso mi abbia creduto.”

“E se tornassero, Ugo? E se ci assediassero e portassero via i bambini? Con che coraggio potrei dire a Ezio…”

La zia si coprì il volto con le mani, sprofondando d’improvviso a sedere. Ugo si inginocchiò davanti a lei, e strinse i braccioli della sedia. “Andrà tutto bene. Dovete calmarvi, madonna Claudia. Attaccare Monteriggioni significherebbe attaccare Siena, e i signori di Bologna non possono permettersi una guerra, ora. Cesare Borgia preme alle loro porte. I Templari si stanno scindendo in due fazioni…lo Spagnolo ha quasi settant’anni, non vivrà in eterno. I Bentivoglio mirano a spodestare Cesare Borgia come erede del Gran Maestro, e di certo non hanno forze da impiegare contro di noi in questo momento.”

“Eppure, quell’uomo è venuto qui. Ha attraversato gli Appennini per venirci a stanare, e voi mi dite che devo stare tranquilla!”

“Ermes ha la fama di essere un uomo sanguinario e ambizioso. Forse si muove indipendentemente dalla setta.”

La zia alzò gli occhi nei suoi. “Vorrei tanto che Ezio fosse qui a dirmi cosa fare.”

Per tutta risposta, Ugo accennò ad un sorriso. “Tornerà, vedrete. Vi libererete di me molto prima di quanto speriate, Vostra Maestà, e sarete ancora libera di esercitare la vostra tirannide come vi aggrada.”

Lei arricciò le labbra in una smorfia di disappunto, ma era chiaro che stava cercando di nascondere a sua volta un sorriso. Io pensai che somigliavano a Ferrante e me; sempre intenti a litigare, solo per nascondere il fatto che ci piacevamo parecchio.

 

Meno di un’ora dopo, zia Claudia si affacciò alla porta della mia stanza. Ancora non dormivo. Cercai di fingere, ma a una donna come lei non si poteva davvero nascondere nulla.

Sedette sul letto, accanto a me. Attesi ad occhi chiusi un rimprovero che non giunse. Almeno, non aspro quanto mi aspettavo.

“Sei spericolata come tuo padre” sussurrò la zia, scostandomi i capelli dalla fronte. “O come tua madre, a tua scelta.”

Ripensai agli occhi d’argento di Rosa, e a quanto sembravano feriti dopo la nostra ultima discussione. Espressi un pensiero a voce alta: “L’ultima cosa che le ho detto…è che la odiavo.”

“Rosa sa che non è vero. Quello che diciamo quando ci arrabbiamo non corrisponde a ciò che pensiamo veramente.”

“Come fai tu con Ugo?”

La zia si immobilizzò per un attimo. “Io penso tutto quello che dico di lui” replicò poi, piccata.

“Voglio dire alla mamma che le voglio bene. Voglio dire a mio padre che ho capito…gli Assassini, e i Templari…ho capito tutto, e non ho più paura di lui. Non ho più paura di lui…”

Non so quando avessi iniziato a piangere. Mi ritrovai con le guance umide, senza nemmeno rendermene conto. Era davvero la giornata delle umiliazioni.

Fui stupita, quando sentii le braccia di zia Claudia stringermi. Si sdraiò accanto a me, lasciò che poggiassi la testa tra la sua spalla e il suo seno. Non mi ero mai accorta che profumasse d’anice e menta.

“Glielo dirai quando tornerà.”

“Tornerà, vero? Torneranno tutti? Me lo prometti?”

La zia esitò. Mi strinse più forte.

“Certe promesse non può fartele nessuno, Bianca. Siamo nelle mani di Dio, ma non possiamo vedere il suo disegno...nessuno può.”

“Cosa possiamo fare allora?”

Zia Claudia mi guardò negli occhi, con quella dolcezza che mostrava così di rado. “Possiamo avere fede…e questa a te non manca di certo, piccola scavezzacollo. Hai proprio un angelo che ti tiene la mano in testa, lo sai? Vorrei che ti frenasse anche da fare cose stupide, ma non si può chiedere troppo nemmeno agli angeli.”

Grazie alle sue parole, alla fine di quell’orribile giornata mi addormentai con un sorriso. Riuscii perfino a non sognare il corpo del finto storpio che si contorceva in preda al veleno, e nemmeno gli occhi rossicci di Ermes Bentivoglio tornarono a tormentare il mio sonno. Per qualche anno, non sentii nemmeno più pronunciare il suo nome.

 

Era trascorso ormai il secondo mese dalla partenza degli Assassini, quando, una mattina di buonora, sentii le campane del borgo suonare. Mi affacciai alla finestra, ancora con il camicione da notte indosso. Vanni si sollevò sul letto stropicciandosi gli occhi.

“Una carovana!” rise Ferrante, affacciandosi dal cornicione “Messer Ezio…messer Ezio è tornato!”

Il cuore mi sobbalzò in petto, ma cercai di frenare l’entusiasmo. Era ancora presto per gioire.

“Quanti erano?” chiesi. “Chi hai visto sul carro?”

“Non posso giurarci, Bianca, ma credo…ci siano tutti. Sono tornati tutti!”

Tutti. Quella parola mi allagò il petto di una felicità inebriante, incontenibile. Erano tutti salvi! Tutti!  

Corremmo fuori, così come eravamo, portando Ferrante con noi. Zia Claudia era già vestita, e aveva l’aria di chi era sveglio da prima dell’alba. Squadrò Ferrante, con un sopracciglio alzato. Non mi chiese da dove fosse entrato.

“Sono tornati!” esclamai.

“Vestiti, Bianca. Devi essere presentabile per quando entreranno alla villa.”

Naturalmente non l’ascoltai, e corsi subito fuori, seguita da Vanni e Ferrante. Passammo davanti a Ugo e ai suoi mercenari; quando ci chiesero dove stessimo andando, a malapena ci voltammo per gridare: sono tornati! Sono tornati tutti!

Era vero. Gli Assassini stavano entrando in città. Stavano salendo le scale che portavano dal Paese alla Villa. Non mancava nessuno: Bartolomeo con la sua spada Bianca che luccicava sotto il sole, poi Antonio e La Volpe, e zio Mario che scherzava con messer Machiavelli, e poi Paola al fianco di suor Teodora…

E mio padre? E mia madre?

Respirai forte, pregando di vederli sbucare fuori ogni volta che espiravo. Posso dirvi esattamente il numero di battiti del cuore che sentii rimbombare nelle orecchie, prima di vederli emergere da quella maledetta scalinata. Trecentoventisei. Il che, come qualcuno mi ha spiegato più tardi, significa che per almeno tre minuti interminabili non arrivarono.

Poi, un cappuccio bianco emerse come un sole dall’orizzonte dell’ultimo gradino. Vidi il volto di Ezio, con gli occhi in ombra. Da lontano non capivo se stesse sorridendo o meno.

Infine mi accorsi che stava trasportando Rosa in braccio. Per poco non cacciai un grido, e zia Claudia (che ci aveva raggiunti) insieme a me; fortunatamente, ci accorgemmo che mia madre era sveglia e lucida. Non sembrava nemmeno soffrire particolarmente. Anzi, cercava di punzecchiare Ezio, rivangando un vecchio episodio simile accaduto una ventina di anni prima. Aveva un piede senza stivale, stretto in garze abbastanza pulite: un infortunio da poco, a quanto pareva.

Ezio sembrava tranquillo, ma non rispondeva al discorso di Rosa con la stessa sa allegria. A mano a mano che si avvicinava notai la stanchezza impressa sul suo volto, nella postura rigida delle spalle. A guardare gli altri Assassini si sarebbe detto che fossero tornati per festeggiare una vittoria, mentre mio padre pareva un uomo in lutto. Calò il cappuccio, e nei suoi occhi, sempre così vivi, trovai soltanto il vuoto.

Paola, la bella donna dalla lunga treccia bruna, mi prese  per le spalle, come se avesse udito i miei pensieri.

“Tuo nonno e i tuoi zii sono finalmente vendicati.”

“La vendetta…è una cosa giusta?”

“Non in sé. Ma in questo caso è asservita a un bene più grande.” Quindi, Paola si chinò sul mio orecchio, per sussurrare: “Va’ da lui. Ha bisogno di te, adesso.”

Mi spinse a fare qualche passo in avanti. Riluttante, mi diressi verso i miei genitori.

Appena Ezio aveva poggiato Rosa a terra, Vanni si era aggrappato al collo della mamma. Io la guardai timidamente. Mi bruciavano ancora in petto le parole che le avevo detto prima della sua partenza.

Mia madre sorrise, ed era un sorriso pieno di luce. Mi afferrò per un braccio e mi tirò verso di sé, stringendomi forte e baciandomi i capelli. Ci volle tutta la mia forza di volontà per riuscire a mormorare: “Mi dispiace. Non è vero…che ti odio. Non è vero.”

Lei annuì, e non disse altro.

Ezio restava a distanza, e ci guardava con un sorriso triste sul volto. Come se non si sentisse parte di ciò che stava accadendo. Come se fosse un estraneo.

Mi separai da Rosa, per avvicinarmi a lui.

“Hai ubbidito a Ugo e Claudia?” disse Ezio, rivolgendo su di me il suo sguardo svuotato.

Che cosa aveva visto, da restarne tanto sconvolto?

Mi pareva così fragile, in quel momento, che avrei voluto nasconderlo nel mio abbraccio e proteggerlo. Io, che ero solo una bambina, volevo proteggere mio padre dai mali del mondo, e dirgli che finché eravamo insieme tutto sarebbe andato bene.

Non riuscii a dire niente di tutto questo a parole. Mi buttai contro di lui, stringendogli la vita e affondando la testa nelle sue vesti. Perché stavo piangendo, adesso? Il Papa cattivo non ci avrebbe più minacciato. Tutti erano tornati sani e salvi. Eravamo ancora insieme.

“Non dovete più andare via senza di me. Mai più. Mai più!”

Le braccia di Ezio mi avvolsero. Mi tenne stretta a sé, mentre singhiozzavo sempre più forte. Quel giorno imparai qualcosa di molto importante.

Mio padre era un assassino...e nonostante ciò io lo amavo, lo amavo, lo amavo.

 

 

 Questa volta sono un po' meno di fretta e posso rispondere personalmente a chi si è preso la briga di recensire ^_^

Renault: pure io ho riso un sacco mentre scrivevo di Ezio appollaiato sul cornicione! Ogni tanto bisogna pure ridere, sennò quel capitolo diventava una tragedia greca ;) Comunque come hai visto sono tornati tutti...devo confessarti che ho in mente un paio di eventi tragici, ma accadranno più avanti nella storia...per ora tutti hanno portato a casa la pelle da Roma ^___^

Miko: sai, in effetti ero indecisa se dare una descrizione precisa di Bianca e Vanni, ma ormai si sono formati in maniera abbastanza distinta nella mia mente e ho voluto metterla comunque...fermo restando che secondo me ognuno può immaginarseli come preferisce, non c'è nessun ritratto Ubisoft ufficiale in circolazione :PPP  Oh, Ezio è anche l'uomo dei miei sogni...se solo fosse un pelo meno dongiovanni...ma non si può avere tutto, temo :(

Ama: devo dirti che nemmeno io, la prima volta che ho giocato ad ACII, potevo sopportare Rosa. Poi la coppia mi ha conquistato lentamente: mi sono convinta del tutto solo quando ho rivisto il video del giorno del compleanno di Ezio, e mi sono accorta che, quando lui cerca di prenderle il libro, fa il primo vero sorriso da quando sono morti suo padre e i suoi fratelli. Credo che sia anche la voce italiana che fa risultare Rosa intollerabile al primo approccio. Quella inglese mi piace molto di più, è più profonda e molto meno sciocca :) Comunque non voglio fartela stare simpatica a tutti i costi...prometto che nella mia fanfic non romperà le scatole più di tanto ;)

LullaCullen: Hai ragione, Ezio è gelosissimo! Fin da quando Ugo è apparso nel gioco mi sono fatta il film che fosse innamorato di Rosa. Tra l'altro nella versione italiana lo doppia un mio carissimo amico, e per fargli un omaggio ho voluto inserire il personaggio nella fanfic anche se nel gioco non ha una grande rilevanza :) Ora che Ezio è tornato, sono curiosa di vedere quale sarà il loro rapporto...che dici, scateno o non scateno il dramma della gelosia? ^_^

CartacciaBianca: Urca, da dove comincio a risponderti? Sì, ti ho riconosciuta su Deviantart, ho visto le tue opere e ho messo il Principe di Persia tra i miei preferiti! Ammappa quanto sei brava, le vignette superdeformed di Ezio&Co mi hanno fatto scompisciare XD Per quanto riguarda il rapporto Vanni-Ezio, ci sarà un'evoluzione già nel prossimo capitolo...ma non voglio svelare troppo ^_^ Oh, sì, Bianca è piuttosto vanitosa...doveva avere anche qualche gene di Claudia nascosto nel DNA dopo tutto, eheh! Sì, Vanni dice "asciassino" per un problema di pronuncia...ho un nipotino che ha circa quell'età e noto che fa ancora fatica a pronunciare la "s", quindi ho trasferito questo adorabile difetto a Vannuccio mio (ops...si capisce che lo adoro? ^_^) Non so se ti convinceranno le motivazioni di Ferrante per le offese che ha rivolto a Bianca e a Ezio...dopo tutto anche lui è solo un ragazzino, si è lasciato prendere dalla rabbia e da un'immotivata gelosia.Di Bartolomeo confesso che mi stavo quasi dimenticando, per fortuna ho ricominciato il gioco e mi sono ricordata che aveva chiamato Bianca la sua spada! Dovrò necessariamente inserire qualche episodio incentrato su questa omonimia, bisogna che mi sprema le meningi :) Oh, di traversie adolescenziali Ezio e Bianca ne avranno parecchie...sono troppo simili (oddio, almeno spero, l'intenzione era quella!) per non scontrarsi. Non mi hai affatto annoiata e anzi, mi hai dato un sacco di carica! Grazie infinite, anche per avermi segnalato per le storie scelte con motivazioni tanto belle, non so se merito tanto ma cercherò di essere all'altezza della tua recensione!

Grazie di cuore a tutte voi, ogni volta che leggo una delle vostre recensioni sono così entusiasta che scrivo un nuovo paragrafo!

Grazie anche a chi ha inserito la storia tra le preferite, le seguite, le ricordate. E naturalmente grazie a chi passa di qui solo per leggere, per me vuol dire molto.

 

Laura.


NOTE STORICHE:

Ermes Bentivoglio, secondogenito di Giovanni Bentivoglio e Ginevra Sforza, è il primo personaggio storico "extra-gioco" che appare nella fanfiction. L'ho descritto in base a un dipinto fatto di lui dal pittore Lorenzo Costa, che lo ritrasse insieme ai suoi fratelli e sorelle. Le fasi centrali della storia si svolgeranno a Bologna, la mia città di adozione...ormai, ogni volta che guardo la Torre degli Asinelli mi immagino un cappuccio bianco che si arrampica lassù in cima :)

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Capitolo 7
*** Illegittimi ***


Scusate il ritardo! I soliti casini (saggi di fine anno, ultimi esami e varie&eventuali) hanno rimandato di qualche giorno il termine del capitolo. L'azione è sparita...ma è solo la quiete prima della tempesta! Spero vi piaccia!

 

Nei mesi che seguirono, capimmo che non ci sarebbe stata pace per l’Ordine, nemmeno ora che il segreto della Cripta era al sicuro dai Templari. Ci furono altre partenze, ed altre estenuanti attese. Ormai avevo imparato la lezione: perciò, salutavo sempre i miei genitori con un bacio e un sorriso sulle labbra, certa che sarebbero tornati da me quando tutto fosse finito.

Anche Ezio e Rosa avevano imparato qualcosa su di me. Ora sapevano che l’unico modo per tenermi lontana dai guai era rendermi partecipe di quanto stava realmente accadendo: perciò, non mi nascosero la gravità della situazione quando, nell’inverno del 1499, gli Assassini partirono alla volta di Forlì per aiutare Caterina Sforza, assediata dall’esercito di Cesare Borgia. La rocca di Rivaldino era il luogo sicuro in cui un prezioso manufatto, la Mela dell’Eden, veniva custodito per essere preservato dalle avide mani dei Templari. Mi spiegarono che il secondo frutto dell’Eden era il pastorale del Papa; questo significava che ognuno dei due schieramenti possedeva ora un potente manufatto, e questo consentiva una sorta di fragile equilibrio. I piani espansionistici di Cesare Borgia stavano turbando quella tregua.

Ora che i Francesi si erano alleati con il Papa e avevano preso Milano, il loro esercito scendeva inesorabile sulla Romagna, unito a quello dei Borgia. Lo Spagnolo aveva dichiarato decaduti dai loro feudi i signori di Pesaro, Imola, Forlì, Faenza, Urbino e Camerino. La sua intenzione era chiara: voleva regalare al figlio uno stato intero.

“Caterina e gli altri feudatari non si arrenderanno facilmente”, disse mio padre “ma con i Borgia ci sono i francesi e i veneziani. Non resisteranno a lungo. Dobbiamo mettere al sicuro la Mela, prima che cada nelle mani dei templari.”

Mio fratello dondolava le gambe sul letto con fare annoiato, ma io avevo bevuto ogni parola.

“Se la prendessero loro, controllerebbero le menti degli uomini?” chiesi.

Ezio annuì, gravemente. “E’ già accaduto in passato, e accadrebbe di nuovo. Non possiamo permetterlo.”

L’ombra tornò sul suo volto. Succedeva sempre più spesso da quando aveva fatto ritorno da Roma. Poiché la vendetta non era più la stella polare della sua esistenza, Ezio aveva trovato nel Credo e in noi una nuova ragione di vita. Almeno, così diceva. In realtà continuava a studiare la parole decrittate del codice di Altair, come se vi cercasse qualcosa oltre la mappa del globo, oltre i significati che Leonardo aveva decrittato e che lo avevano portato a Castel Sant’Angelo. Il templare di Bologna mi aveva chiamato “la progenie del profeta”, ma di che cosa fosse profeta mio padre io non potevo ancora capirlo.

Mentre i miei genitori ci comunicavano la data della loro partenza e ci raccomandavano di non uscire dalla villa in loro assenza, d’improvviso nella stanza risuonarono quelle parole.

“Perché non siete sposati?”

La domanda di Vanni cadde dal nulla e lasciò tutti spiazzati. Io mi chiesi come potesse essere così stupido da non capire gli affari importanti di cui ci stava parlando nostro padre. Lui interpretò il suo stupore come se non avesse capito la domanda, e ripeté: “Voi e la mamma. Perché non siete sposati?”

Rosa scambiò uno sguardo rapido con Ezio, prima di rispondere: “Abbiamo scelto di non farlo per proteggervi dai nemici degli Auditore.”

“Allora sono un figlio illeggitico.”

Se l’argomento non fosse stato serio, sarei scoppiata a ridere. “Si dice illegittimo” lo corressi.   

Lui mi fece una smorfia. “Se lo sono io lo sei anche tu!” disse, con la sua infallibile logica infantile.  “Voi non volete bene alla mamma” continuò, accusando Ezio con espressione tanto più seria della sua età.

“Vanni, adesso basta” fece Rosa, aggrottando le sopracciglia. Lui ignorò il rimprovero e saltò in piedi, senza avere paura di raggiungere Ezio e fronteggiarlo. Mio padre era seduto con gli avambracci poggiati sulle ginocchia. A quel modo le loro fronti erano alla stessa altezza.

“Se non siete sposati voi non siete veramente mio padre. Lo dice il prete alla messa. Matre sempre certam, dice.

 “Mater semper certa” lo corressi ancora io, ma l’occhiataccia di Rosa mi ammutolì. Dall’espressione sul volto di mia madre, immaginai che stesse maledicendo l’abitudine di zia Claudia di trascinarci al Mattutino e ai Vespri ad ascoltare quell’ubriacone in abito talare che blaterava sciocchezze.

Ezio prese Vanni per le spalle, inchiodando gli occhi nei suoi. “Tu sei sangue del mio sangue, non ci sono dubbi su questo. Lo stai dimostrando anche adesso. Non è la firma di qualche prelato che ci rende padre e figlio, Giovanni. E’ quello che abbiamo qui.” Gli mise la mano sul petto, e il broncio di Vanni iniziò a sciogliersi mentre Ezio poggiava la fronte alla sua. “Io non ho bisogno di una legge che mi dica che siamo una famiglia. Lo siamo, e basta.”

Mia madre sorrideva, e io capii che credeva senza riserve alle parole di Ezio. Ci credevo anche io, fin dall’inizio. Una volta, per ferirmi, Ferrante aveva detto che ero figlia del peccato; ma in quel padre, che scompigliava i capelli al suo bambino che aveva avuto il coraggio di affrontarlo, e in quella madre, che li guardava piena di orgoglio, io non vedevo niente di sbagliato. In me, che li amavo così tanto, non c’era niente di sbagliato. Tutto era come doveva essere, e non sarebbe stata una cerimonia a farmi cambiare idea.

Vanni non era della mia stessa opinione, e credo che non abbia mai perdonato nostro padre. Il suo difetto, vedete, era quello di amare nostra madre ciecamente, a volte in una maniera possessiva che escludeva anche me. L’avrebbe voluta per sé soltanto.

Mio fratello si chiuse nella nostra stanza quando gli Assassini partirono alla volta della Romagna. Dovevano sbrigarsi: Imola era caduta, e a giorni il Valentino avrebbe assediato la Rocca di Rivaldino. Ma Vanni non capiva la gravità della situazione: aveva sei anni e sapeva soltanto che Ezio costringeva Rosa a rischiare la vita insieme a lui. Gliela portava via sempre più spesso; e mio fratello non riusciva a capacitarsi che sua madre preferisse seguire Ezio piuttosto che restare ad accudire il suo bambino.

Provai a parlargli, ma non mi diede retta; sembrava fosse arrabbiato anche con me, rifiutava perfino di guardarmi. Così, domandai a Ugo di parlargli al mio posto. Non volevo che Vanni fosse arrabbiato con Ezio, né che fosse geloso di lui. Volevo che fossimo uniti in questo momento di pericolo.

Nemmeno a dirlo, procurai di assistere alla conversazione. Non vista, questo è chiaro. Ormai origliare era diventata la mia specialità.

Arrampicarsi non fu semplice, con la brina che iniziava a incrostare i muri; tuttavia, mi ero preparata. Avevo preso di nascosto i guanti di capretto di zia Claudia, che mi erano un po’ grandi ma comunque mi avrebbero riparata dal freddo. Con quella roba attorno alle mani stavo calda, ma non controllavo molto bene la presa; inoltre, i miei piedi rischiavano di scivolare ad ogni passo. Nonostante mi rendessi conto della difficoltà della situazione, mi arrampicai comunque sul muro esterno della villa, e rimasi aggrappata sotto la finestra della nostra stanza. Ero folle, non c’è che dire...e qualcuno forse direbbe che non sono cambiata poi molto.

Mi sporsi a filo del davanzale, per poter vedere cosa accadeva nella stanza. Mio fratello era seduto sul letto: di Ugo, che stava in piedi di fronte a lui, intravedevo il profilo della spalla.

“E’ questo il problema? Sei geloso di Bianca?”

Quasi trasalii. E io cosa c’entravo? Vanni era arrabbiato con Ezio!

Per mia grande sorpresa, vidi mio fratello annuire.

“Lei è la sua preferita, ma è solo una femmina! Le femmine non possono combattere!”

“Tua madre è un’eccellente spadaccina, lo sai vero?”

“La mamma è la mamma.”

“E Bianca vuole somigliarle. Questo è giusto. Vanni, ed è anche naturale. Non vuoi somigliare anche tu a tuo padre, quando crescerai?”

Lui esitò. Ugo si sedette accanto a lui.

“Ugo, io voglio somigliare a te. Perché non sono tuo figlio, invece che il suo?”

Sul viso dell’uomo balenò un’espressione ferita, per un momento. La nascose dietro un sorriso. “Sarei orgoglioso di avere un figlio come te.”

“Tu non hai dei bambini?”

“No.”

“Come mai?”

“Una lunga storia. ”

Infine, Ugo fece calare una mano sui capelli neri di Vanni. “Ascoltami, tuo padre è un uomo dannatamente in gamba. Sta combattendo una guerra molto sanguinosa, e vuole che voi ne restiate fuori il più a lungo possibile. Quando sarete grandi abbastanza, forse, potrete capire e accettare ciò per cui combatte, e magari unirvi a lui.”

“Ma io…non sono capace. Non so fare il salto della fede.”

Solo allora, notai una cosa importante. Una cosa a cui non avevo mai fatto caso fino a quel momento. Sul dito sinistro di Ugo c’era un solco, come il segno di una bruciatura. Pareva quasi un anello. Identico a quello che aveva mio padre, e anche zio Mario, e Antonio, e suor Teodora. Il segno degli assassini.

Il ladro sorrise. “Il momento giusto viene per tutti. Quando sarai pronto, lo sentirai.”

Le notizie che arrivarono dalla Romagna erano delle peggiori. Rivaldino era caduta, Caterina Sforza era stata fatta prigioniera dal Valentino e portata a Roma come ostaggio. Avevamo subito perdite: piansi lacrime amare per Paola, che aveva dato la vita per proteggere la Mela e portarla ai suoi. Anche zio Mario era stato ferito, una freccia alla coscia che aveva lasciato una brutta piaga sulla pelle non più giovane.

“La mia scorza ormai è dura come una corazza!” disse, ma io vedevo il sudore che gli imperlava la fronte, e la smorfia in cui si trasformava il sorriso mentre cercava di trattenere il dolore. La piaga andava spesso in suppurazione, e per permettergli di camminare ancora doveva essere periodicamente drenata.[1] I suoi giorni da condottiero erano finiti.

Il Frutto dell’Eden era al sicuro, ma mio padre si tormentava per l’esito della battaglia. Lo raggiungevo, a volte, in quello stanzino sul torrione della villa, dove teneva tutti quei ritratti di templari morti. Lo vedevo consumarsi gli occhi sul Codice, poi riporre i fogli e fissare la mela, con il volto sprofondato nelle braccia. Forse si aspettava che il frutto gli desse qualche risposta, e gli dicesse come penetrare a Roma per salvare Caterina Sforza.

Sapevo che quella donna significava molto per lui, più di quanto fosse disposto ad ammettere davanti a noi. Mia madre ne era sempre stata gelosa, ma ora non riusciva ad arrabbiarsi per la preoccupazione di Ezio. Perdendo Caterina, una roccaforte degli Assassini era caduta. Se il Valentino avesse conquistato la Romagna, cosa gli avrebbe impedito di prendersi anche Bologna? E da Bologna, cosa gli sarebbe costato attraversare gli Appennini per spingersi verso Firenze? Arezzo? Siena? Le avrebbe congiunte con Roma, creando un unico potente Stato della Chiesa. Monteriggioni sarebbe stata assediata e soffocata dalle brame del Papa e di suo figlio.

Nonostante il clima di ansia che attanagliava il borgo, io ero felice che tutti fossero a casa, e cercavo di godermi ogni istante insieme allo zio e ai miei genitori. Temevo che Ugo ci avrebbe lasciati, ora che non c’era più bisogno di lui; invece, decise di restare. Visto l’ottimo lavoro che aveva compiuto in un anno di servizio, zio Mario lo nominò Capitano delle Guardie di Monteriggioni.

Da quando gli Assassini erano tornati, zia Claudia si comportava in maniera piuttosto strana. La vedevo nervosa ogni volta che Rosa era nei paraggi, e me ne stupivo: prima della partenza per Roma mi era parso di capire che fossero diventate amiche. Poi, studiai meglio la situazione, e mi accorsi che il problema era un altro. Non era Rosa a infastidirla, ma il suo modo di comportarsi con Ugo.

Mia madre trattava il nuovo capitano delle guardie del borgo come un compagno d’armi: scherzava con lui, beveva con lui, gli dava pacche amichevoli sulle spalle e non aveva alcuna remora nei suoi confronti. Davanti a quegli atteggiamenti così confidenziali, zia Claudia si rabbuiava come non l’avevo mai vista fare. Una volta, sentendoli ridere dal corridoio, si punse con l’ago mentre ricamava. Lo conficcò così a fondo nell’indice che ebbe bisogno di fasciarlo.

“L’ho sempre detto, io” sospirò la Nonna, mentre la zia usciva furibonda per cercare le garze. “Chi disprezza compra.”

Io feci tanto d’occhi, sollevando lo sguardo dal mio eserciziario di aritmetica. Il sorrisetto saggio della nonna mi lasciò sbalordita.

Zia Claudia e Ugo? Il solo pensiero era esilarante. Ero certa che non si stessero antipatici come volevano dare a vedere, ma da lì a innamorarsi il passo era troppo lungo. All’epoca non sapevo niente dell’amore tra uomo e donna, e davvero pensavo che la nonna esagerasse…fino a che, una sera, non mi venne in mente di sedermi sul tetto della villa, per respirare un po’ di aria fresca. L’inverno stava finendo, e io adoravo guardare il mio bel sole toscano che andava a dormire dietro i profili dei campi. Fu allora che sentii mio malgrado una conversazione strana. Stava avvenendo alla finestra della stanza di zia Claudia. Affacciati, forse a guardare il tramonto come me, c’erano lei e Ugo. Vedevo solo la sommità delle loro teste, ma era chiaro che non litigavano affatto, anzi. Ridevano sottovoce. Poi, lui ruppe il ghiaccio.

“Mi chiedevo…come mai Vostra Maestà non ha trovato un principe consorte?”

La zia esitò per un momento. “Mi sono dovuta rimboccare le maniche. Questo borgo non andrebbe avanti se qualcuno non si prendesse la briga di amministrare le sue entrate e le sue uscite. All’inizio non sopportavo di lavorare, sapete.”

“Non stento a crederlo.”

“Già. Poi, però, ho capito una cosa importante. Se c’è qualcosa che sono in grado di fare, è mio dovere farlo al meglio delle mie possibilità. Io non sono capace di combattere come Ezio, o come voi. Servo la causa di mio padre in un altro modo, e tuttavia quel poco che faccio mi fa sentire parte del suo disegno. Questo mi dà pace.”

“Non è poco quello che fate, Claudia.”

Stettero in silenzio entrambi. Nel cielo quasi bianco su Monteriggioni stridette una rondine, la prima della stagione.

“E voi, invece? Perché non vi siete mai sposato?”

Ugo rise. “Mi sono dichiarato a una fanciulla, una volta. Ho ricevuto un pugno in faccia, quindi non ho più voluto tentare la sorte.”

“Mio Dio! Chi ha osato colpirvi?”

“Provate a indovinare.”

La zia restò senza parole per un momento, sospesa nella ricerca della risposta. Infine, scoppiò a ridere. “Non posso crederci! Rosa!”

L’uomo si massaggiò teatralmente una guancia. “Mi fece saltare un dente quella volta.”

La zia riuscì a stento a dominare le risate, cercando di soffocarle tra le mani. “Povero messere! Avreste provato meno dolore se fosse stato Bartolomeo a colpirvi.”

“Lo penso anche io.”

Infine, la zia smise di ridere e distolse il viso. “Deve essere penoso per voi. Vederla ogni giorno, intendo.”

Mi sembrò di cogliere un leggero tremore nella sua voce. Non avevo mai visto zia Claudia in quello stato: quella situazione si stava rivelando molto divertente.

Ugo scosse il capo. “Sono passati più di quindici anni da allora, ormai mi sono messo il cuore in pace. Con il tempo, per fortuna, i sentimenti cambiano. Nessuno può restare ferito per sempre.”

“Né solo per sempre” mormorò lei.

La mano di Ugo sul davanzale era molto vicina alla sua, i mignoli quasi si toccavano.

“No. Nessuno dovrebbe restare solo per sempre.”

Fu lui a fare il primo passo. Coprì la mano di zia Claudia con la propria, e attese qualche istante. Lei non si ritrasse. Allora, Ugo si volse verso di lei. La zia teneva la testa bassa, sembrava emozionata come una ragazzina.

“Come principe consorte non valgo molto” fece Ugo, con un sorriso nella voce “ma sono un buon soldato, se vi basta.”

“Non potete volere me. Io non sono più una ragazza, signore, ve ne sarete accorto.”

Lo vidi chinarsi sul suo orecchio. A voce più bassa, ma ancora udibile, disse: “Grazie a Dio non lo siete, altrimenti non mi piacereste così tanto.”

A questo punto decisi di non spiare più: c’erano cose che una ragazzina di undici anni, per quanto impicciona, ha il buon senso di non voler vedere.

Non feci in tempo a tirarmi su dalla mia posizione rannicchiata, che per poco non caddi giù per lo spavento. Alle mie spalle c’era Ezio.

“Bianca, Bianca…come posso fare per toglierti questo brutto vizio di origliare?”

Non era un vero rimprovero: dopo tutto, anche lui aveva origliato. Sedette accanto a me, con le gambe a penzoloni.

“Avete ascoltato, padre?”

“Ogni parola.”

“E non dite niente?”

“Perché dovrei? Ho eliminato un rivale e accasato una sorella in un solo colpo.”

“Ma la zia è vecchia! E Ugo è…insomma, è un ladro!”

“La zia ha un anno in meno di me. Ti sembro vecchio, io?”

“No.”

“Bene. Per quanto riguarda Ugo, non è più un ladro. E’ il capitano delle guardie di Monteriggioni, adesso. Mi sembra un buon titolo, che ne dici?”

“Credete che si sposeranno?”

“Credi che la zia porterebbe avanti una relazione senza sposarsi? Il poveretto è spacciato, te lo dico io.” Fece una breve pausa, che trasformò l’ironia in un’espressione più intensa. “Anche tu vuoi che sposi la mamma, vero?”

“Voi non vorreste?”

“E’ complicato, Bianca. I sentimenti degli adulti non sono per niente semplici.”

“La amate?”

Ezio accennò ad una risata, abbassò gli occhi e li rialzò nei miei. “Sì.”

Non era la dichiarazione d’amore più commovente che fosse mai stata pronunciata, ma in quell'unica sillaba erano contenute tante parole che ne fui lo stesso appagata. Il volto di mio padre era luminoso quando aveva Rosa accanto, perfino durante i loro quotidiani battibecchi. La sua presenza rasserenava il suo cuore.

“Allora il problema siamo noi? Volete che restiamo figli illegittimi?”

“Non esiste niente di illegittimo, perché tutto è lecito.”

“Non capisco.”

Ezio sospirò, passandomi un braccio intorno alle spalle. Voleva essere un gesto rude, che un padre avrebbe rivolto al suo primogenito maschio. Vanni aveva ragione: ero io la sua preferita. Forse si rivedeva in me.

“Te l’ho mai detto, Bianca? Io non credo in Dio. Per questo non sento il bisogno di pronunciare promesse davanti a Lui.”  Mi strinse a sé, mentre guardava serio all’orizzonte. “Quando gli altri seguono ciecamente la verità, ricorda: nulla è reale. Quando gli altri si piegano alla morale o alla legge, ricorda: tutto è lecito. E’ il mio unico Credo.”

Capivo, d’istinto, che quello era un momento solenne. Un momento che avrei dovuto stamparmi nella memoria per poterlo rivedere anni più tardi, quando sarei stata pronta ad afferrare il significato delle sue parole. Per il momento, c’era qualcosa che mi piaceva in quel discorso. Per il mondo, io non avevo diritto di vivere; eppure, esistevo. Camminavo. Respiravo. La mia vita era un dato di fatto, e non avevo bisogno di chiedere il permesso né ai giudici, né a Dio.

“Vanni però è piccolo” mormorai “e per lui è importante. Secondo me, se volete bene alla mamma dovreste sposarla.”

Mio padre rifletté per qualche istante. “Sai, forse non sarebbe una cattiva idea. Ti prometto che ci penserò.”

 

Nella primavera del 1500, a Monteriggioni si celebrò un matrimonio in cui nessuno sperava più.

La sposa non era nel fiore degli anni, e anche lo sposo aveva ormai passato la quarantina; tuttavia, lei vestì uno splendido abito di broccato dorato e pizzo bianco, e per lui fu cucito un buon farsetto con calzamaglia in tinta. La chiesa fu addobbata di rose bianche e primule gialle. Nonna Maria entrò in chiesa seguita dalle sue ancelle, con il volto acceso da una purissima felicità.

Per la prima volta da quando ero molto piccola, io indossai una gonna, ed un corpetto che il mio seno appena abbozzato ancora non poteva riempire. Ero stata incaricata di reggere il velo della sposa, mentre Vanni, che si grattava in continuazione dentro il suo farsetto azzurro, avrebbe dovuto spargere fiori lungo la navata.

Non c’era nessun padre ad accompagnare la sposa all’altare; tuttavia, un fratello orgoglioso depose per un giorno lame celate e cappucci bianchi, per scortare l’amatissima sorella verso una tardiva, ma quanto mai meritata felicità. Ezio camminava un po’ impacciato al fianco di Claudia, sulle note dell’organo: scorgere l’emozione nel suo passo incerto mi fece molta tenerezza.

Intanto, accanto all’altare, lo sposo sorrideva, e forse si chiedeva se il fatto che i suoi testimoni fossero due ladri e mentitori di professione non avrebbe invalidato in qualche modo il matrimonio. Ma La Volpe e Antonio quel giorno erano vestiti come dei gran signori, e il parroco era troppo alticcio per chiedere le loro generalità complete. Si accontentò di un lo giuro detto al momento giusto, e tutto filò liscio.

“Siete rimasti gli ultimi, ora” bisbigliò zio Mario nell’orecchio di mia madre, mentre Ugo e Claudia si scambiavano gli anelli. Rosa sorrise.

“Ci sposeremo, Mario, non preoccuparti. Prima o poi Ezio capirà che non è più un giovanotto, e si accorgerà che nessuna bella fanciulla gli lascia gli occhi addosso come un tempo.”

Mia madre non invidiava Claudia quel giorno: divideva la sua felicità, ed era anzi radiosa più che se fosse stata lei la sposa. Pensai che, forse, era tanto felice perché non sperava in un finale così bello per tutti noi. Gli Assassini erano sopravvissuti alla missione più pericolosa per l’Ordine. Il suo più caro amico, che un tempo aveva respinto, aveva finalmente trovato una compagna per la vita. Aveva accanto il suo Ezio, che per mia madre era essenziale quanto il sole lo è per il grano. E aveva Vanni e me, il frutto di quell’amore così immenso che li riportava sempre uno accanto all’altra. Eravamo illegittimi, e per il mondo non esistevamo: ma eravamo reali. Respiravamo sul suo volto, e le nostre mani erano calde dentro la sua. Finché questo era vero, tutto nelle nostre vite andava a meraviglia.

Mia madre non sapeva, allora, che le nostre sventure non erano ancora iniziate.

Ugo e Claudia

(Ugo e Claudia - Lineart (c) Ilaria/Miko


[1] Non ho alcuna conoscenza medica, ma una ferita del genere la subì Enrico VIII d’Inghilterra durante un torneo: dunque, penso sia abbastanza verosimile – ma correggetemi se sbaglio. 

 

Ringraziamenti:

Renault: avevi ragione, tra Ugo e Claudia ci covava eccome ^__^ L'idea è nata un po' follemente, però alla fine mi piaceva e l'ho tenuta...grazie, grazie mille per i complimenti, è bello sapere che non sono l'unica ad essersi commossa nel finale di quel capitolo! :)

Lulla Cullen: grazie infinite per la segnalazione per le storie scelte, e per le tue bellissime parole! Spero che questa storia continui a piacerti. Prossimamente, il malandrino Ferrante ci riserverà altre sorprese...ops, sto ricadendo nello spoiler, è un vizio :)

Ama: grazie per i complimenti! Non ti chiedo di cosa tratta il tuo romanzo perché magari non vuoi mettere indicazioni della trama in uno spazio pubblico (almeno il genere però puoi dirmelo? Mi hai incuriosito molto! ^_^), ma sono certa che se ci stai mettendo tanto tempo verrà fuori un lavoro molto accurato. Mi raccomando, non mollare, con tenacia possiamo sconfiggere la maledetta pagina bianca!!!

Miko: oddio, sono ONORATA che tu abbia disegnato Bianca&Co, e onorata è dire poco!! Non vedo l'ora di vedere i tuoi disegni! Purtroppo per ora la Storia tiene Leonardo lontano da Bianca (nel 1501/1502 era ancora alle dipendenze di Cesare Borgia...mi piace pensare che facesse la spia per gli Assassini! ^_^)...ma nel prossimo capitolo non escludo una capatina del nostro adorato geniaccio dal cappello rosso! :))) 

 

Un grazie infinito anche a chi passa di qua senza lasciare traccia, alzando il contatore delle visite di un numerino che a voi sembra poco, ma a me incoraggia tantissimo per andare avanti. Ci vediamo tra dieci/quindici giorni, con il prossimo capitolo, in cui Bianca chiederà ad Ezio di essere addestrata ufficialmente per diventare un'Assassina. Titolo provvisorio: "L'odore della morte". State sintonizzati :)

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Capitolo 8
*** L'odore della morte ***


 

iugno 1501. Una sera di tuoni: Vanni ed io eravamo stretti nel letto, con gli occhi già socchiusi, in procinto di addormentarci. I nostri genitori erano lontani, a Bologna, per parlare con alcuni alleati. Nonna Maria ci stava leggendo con voce dolce un passo dall’Orlando Innamorato che amavo particolarmente, in cui il paladino pasticcione Astolfo per una volta combina qualcosa di giusto e riesce a salvare il suo re. Io avevo già serrato le palpebre, pronta a scivolare nel sonno. Poi, qualcosa accadde. 
La nonna interruppe la lettura bruscamente. Sentii che posava il libro sulle ginocchia. Aprii gli occhi. Stava guardando oltre la porta. 
Mi drizzai a sedere. Vanni mi imitò, stropicciandosi un occhio. 
“Che succede?”
La nonna ci prese per mano e ci fece cenno di seguirla.  
Fuori pioveva forte. Gli uomini e la donna che entrarono alla villa avevano i mantelli zuppi di pioggia incollati addosso. Riconobbi mio padre e mia madre: lei trascinava per mano un ragazzino, lui sorreggeva un uomo che a malapena camminava.
Incrocia gli occhi del ragazzo. Enormi, terrorizzati. Avevano visto l’orrore.
Mentre i servi aiutavano papà a portare a letto il ferito, e la nonna mandava a chiamare il medico, la mamma portò il ragazzino di sopra, nella nostra stanza. Mi disse di andare a chiamare la dama della nonna, perché ci desse una mano. Claretta si era già svegliata per il trambusto, e corse nella nostra stanza. Vanni ed io ci scambiammo uno sguardo, prima di entrare a nostra volta.
Lo stavano spogliando degli abiti ghiacciati. La sua pelle era bianchissima e lentigginosa, i polpastrelli erano crespi da quanto era madido di pioggia. C’era del sangue rappreso tra i suoi capelli, ma non sembrava appartenere a lui. Rosa gli sfregò le braccia, il torso e le gambe ripetutamente, per scaldarlo. Lui guardava dritto davanti a sé. Non so perché, mi avvicinai.
“Come ti chiami?” feci, quasi bisbigliando.
“A-Ag-amen-none”  cercò di dire lui, mentre batteva i denti. 
“Cos’è successo, Rosa?” chiese mia nonna. 
“I Bentivoglio hanno fatto la loro mossa” fece mia madre, tra i denti. “Siamo riusciti a salvare solo Galeazzo e il bambino. Gli altri…Dio, quei cani li hanno rincorsi fino alla torre dell’Uccellino. Li hanno stanati promettendo di graziarli. E poi…” 
Sul suo volto si dipinse il disgusto. “Che il diavolo li porti!” aggiunse poi in un ringhio.
“Claretta, che aspetti?” fece Nonna Maria “va’ a preparare qualcosa di caldo per questo bambino,”
Claretta uscì, e dopo poco tornò con della zuppa riscaldata dalla cena. Dopo che ebbe bevuto, le labbra del bambino riacquistarono un po’ di colore.
“Stai meglio, tesoro?” domandò Nonna Maria. Lui abbassò subito gli occhi, fissando il pavimento.
“Hanno…chiuso le porte. Tutte quelle della città. Non si poteva scappare.” Mia madre cercò di dirgli che non c’era bisogno che parlasse, ma lui proseguì come se non l’avesse sentita. Pareva indemoniato, tanto era ossessionato il suo sguardo. “La mamma ha cercato di portarmi via…ma l’hanno presa. Li ho visti. L’hanno inchiodata al muro e strappato la veste. Mi hanno detto di correre e non guardare…e io ho corso…la sentivo urlare…e poi sono uscito dal palazzo, e c’erano cadaveri ovunque, e io ho dovuto…ho dovuto pestarli! Non volevo, lo giuro! Lo so che è sacrilegio, ma io non volevo farlo!”
La voce del bambino si spense dentro i singhiozzi. Mia madre lo strinse tra le braccia e lo cullò. 
Mi faceva tanta tenerezza. Volevo dirgli che adesso era al sicuro, perché Monteriggioni era inespugnabile.
“Lasciatelo in pace. Agamennone deve soltanto riposare, ora.”
Mio padre era affacciato alla soglia, poco più di un’ombra. Corsi da lui. 
“E’ stato lui, vero? E’ stato Ermes Bentivoglio?”
Anche se quel nome non veniva pronunciato da anni, era sempre presente nella mia mente.
La mano di Ezio mi strinse la spalla. “Dobbiamo riposare tutti, Bianca. E’ stata una lunga notte.”
Se ormai mi conoscete un poco, dovreste immaginare che non mi rassegnai. Finsi di essermi addormentata accanto a Vanni e al bambino spaventato, e regolai il respiro perché sembrasse quello pesante del sonno. Quando la nonna e la sua dama uscirono dalla stanza, mi alzai piano, affacciandomi allo spiraglio tra la porta e lo stipite. Non c’era nessuno. Scesi le scale, fino alla porta del laboratorio. Con le spalle al muro, ascoltai.
La voce di mia madre.
“I Bentivoglio hanno passato i limiti. La città era disseminata di cadaveri…questa…questa è una strage!”
La voce di Ugo. “Galeazzo ce la farà?”
Zio Mario. “Puoi giocarti le palle che ce la farà, quell’uomo è un combattente.”
Mio padre. “I Marescotti erano il nostro unico appoggio a Bologna. Abbiamo perso Rivaldino, e le comunicazioni con la Marchesana sono impossibili. Siamo tagliati fuori dai nostri alleati nel nord, maledizione!”
Il tonfo di un pugno battuto sul tavolo. 
Ancora mia madre. “Forse la strage non riguarda i templari. L’ha ordinata Ginevra, sembra che il Signore di Bologna ne fosse all’oscuro.”
Zio Mario, un pesante sospiro. “La lupa ha scatenato i suoi cuccioli. C’era da aspettarselo…Annibale ed Ermes godono del sangue che versano. La madre è una Sforza, ma porco demonio, ha preso  peggio della famiglia.” 
Mi allontanai, camminando silenziosamente verso la mia stanza. Come immaginavo: c’era stata una carneficina, e il responsabile era Ermes Bentivoglio, quel demonio dagli occhi rossicci! Mi coricai furiosa, stringendo le coperte nei pugni. Un giorno l’avrei ucciso. Ne ero certa come del mio nome.
Il bambino, Agamennone, era sdraiato tra me e Vanni, con la faccia sprofondata nel cuscino. D’improvviso, aprì i suoi occhi spiritati.
Fui soffocata dal puzzo che emanava. Cosa poteva essere? Sudore, certo, misto all’acre del sangue e del ferro…un aroma di bruciato tra i capelli, dovevano aver dato fuoco alle case…umidità, anche. Ma c’era un sentore più sottile, dolciastro e rivoltante. Quel bambino puzzava di morte, come se ciò che aveva visto lo avesse contaminato per sempre.
“C’era un uomo” bisbigliò “che mi ha trascinato dentro la sua porta prima che i soldati mi prendessero. Mi ha nascosto e mi ha dato del pane. Quando le acque si sono calmate mi ha fatto fuggire fuori dalle mura.” Mi mostrò una pietra nera e lucida, che stringeva nel pugno. “Ha detto che la sfortuna non mi può colpire finché avrò questa pietra.”
“Sei stato fortunato, per davvero.”
Lui annuì, in quella maniera stralunata. Forse l’indomani si sarebbe reso conto di cosa gli era capitato, e avrebbe pianto. Ma quella sera le sue ciglia erano asciutte.
“Un giorno io ricambierò il favore. Darò la vita per quell’uomo, perché lui ha rischiato la sua per me.”
Con quelle parole, Agamennone si addormentò; ed io pensai che fosse molto coraggioso, o molto pazzo. 
Io, invece, proprio non riuscivo a prendere sonno, e girovagai di nuovo per la villa.
Mi affacciai alla porta di Zia Claudia. Dopo il brusco arrivo di Agamennone e suo padre aveva voluto alzarsi per aiutarci, ma Ugo l’aveva costretta di nuovo a letto. Ora era sola; lo zio probabilmente stava ancora discutendo con mio padre e gli altri. 
Mi avvicinai, reggendo la candela per rischiarare la stanza. La sagoma delle coperte disegnava una curva dolce: zia Claudia era incinta di sette mesi, a quel tempo. Quando si era sposata, non credevo che avrebbe potuto avere figli, vista la sua età. Non avevo tenuto conto che la zia era una donna per cui nulla era impossibile.
Socchiuse gli occhi. Era bella, con i capelli sciolti sul cuscino. 
“Non riesci a dormire?”
 Scossi il capo, e lei mi fece cenno di sdraiarmi al suo fianco. Spensi la candela con un soffio, e mi raggomitolai nel suo abbraccio. Era bello incassare la testa sotto il suo mento, e abbracciare la pancia prominente. Il cuginetto scalciò per salutarmi.
“Perché non sei rimasta nella tua stanza?” fece lei, accarezzandomi la testa.
“Quel bambino, Agamennone” bisbigliai “odora di morte.” Inspirai profondamente. Un aroma fresco di agrumi e menta mi invase le narici. “Tu invece profumi…di vita.”
Non ricordo cosa mi rispose, perché caddi quasi subito addormentata. Quella notte sognai per la prima volta il mio futuro cugino. Mi vidi un bimbetto ricciuto, che somigliava più a Claudia che non a Ugo. 
Le mie doti di profetessa non sono mai state eccezionali, visto che Lisabetta nacque femmina e con i capelli più dritti di un crine di cavallo. 
Nel sogno, comunque, l’infante si trasformò di colpo in Agamennone, con gli abiti pregni di pioggia e il sangue tra i capelli. Il ragazzino stringeva nel pugno una mela dorata. Dapprima parlò una lingua un po’ dolce e un po’ aspra, a me sconosciuta. Quindi, disse, con una voce cavernosa e possente:
“Nulla è reale, tutto è lecito: queste sono le parole dei nostri antenati. Agiamo nell’ombra per servire la luce. Siamo assassini. Sei pronta per diventare una di noi, Bianca?”
Io toccai la Mela con la mano sinistra, e subito un anello di luce mi cinse l’anulare. Lo sentivo premere sulla carne, bruciarla, scavare. Quando si dissolse, avevo anche io il marchio degli Assassini inciso sulla pelle. 
L’eco della mia voce si perse tra le pieghe del tempo.
“Sì, sono pronta.”
Più tardi, mi sentii sollevare da due braccia forti, e mi riscossi dal sogno. Riconobbi subito la stretta di mio padre, che mi portava nella stanza da letto dei miei genitori. Ezio e Rosa si stesero entrambi vicino a me, e mi circondarono con le braccia. L’odore di morte era attaccato anche alla loro pelle, meno soffocante di quello che era rimasto addosso ad Agamennone, ma comunque pressante. 
Capii che anche io avrei avuto addosso quell’odore, un giorno, quando avessi versato il mio primo sangue.
Agamennone e suo padre restarono presso di noi per lungo tempo. Mentre Galeazzo si riprendeva lentamente dalle sue ferite ed io imparavo a fare amicizia con quello strano bambino, ricevemmo una visita che, almeno all’inizio, rese mio padre molto contento. 
Su di un carro carico di tele, pennelli e manichini di legno, che gettava piuttosto lontano il suo odore penetrante di vernice e tinture, arrivò un giorno a Monteriggioni un certo Leonardo da Vinci. A me quel nome ricordava soltanto alcune firme sulle lettere crittate che arrivavano a mio padre; sapevo che era un suo amico, e niente di più. Forse l’avevo visto qualche volta, quando ero veramente molto piccola: l’uomo dagli occhi azzurri che mi si presentò davanti mi stupì per la sua espressione infantile e pura. Eppure, ero certa che fosse più vecchio di mio padre di diversi anni…e invece, quanti di meno ne dimostrava! 
“Ecco qui la piccola Bianca!” esclamò quando mi vide “Sei diventata davvero bella. Un giorno ti chiederò di posare per me.”
Me l’avrebbe chiesto davvero, diversi anni più tardi, e mio padre non sarebbe stato affatto contento del risultato. Sorrido al pensiero di quelle lunghe sedute di posa, lo ammetto: anche una spudorata come me ha avuto qualche problema nell’impersonare Leda che abbraccia il cigno. Non tanto per il cigno, quanto perché sono rimasta per tutto il tempo completamente senza veli. 
Adesso, però, sto proprio divagando.
Torniamo, per ora, all’estate dei miei dodici anni. In quei pochi giorni che rimase con noi, imparai ad adorare Leonardo. Aveva un bel volto raffinato e un’aria sempre svagata, come se la sua mente fosse perennemente impegnata in qualcosa di troppo importante perché potesse prendere seriamente le sciocchezze della vita quotidiana. Mi illustrava i suoi disegni di macchine meravigliose, e rideva con mio padre del volo inaugurale di una certa macchina volante che nemmeno la mia fervida fantasia riusciva a immaginare. Un giorno, su pressione di Agamennone e Vanni,  acconsentì a mostrarci quella che definiva “la sua ultima meraviglia”, che giaceva celata da un panno nell’angolo del carro. Fummo piuttosto delusi, Agamennone, Vanni ed io, quando ci si presentò una semplice tela non ancora terminata, che ritraeva la Madonna col Bambino.
Eppure, ne capivo abbastanza per intuire che c’era in quel quadro una bellezza fuori dal comune. La Vergine stava tessendo con un fuso a forma di croce, e il Bambino rubava lo strumento alla madre, alzandolo verso il cielo un po’ per gioco e un po’ come un presagio del suo destino. Il sorriso del pargolo divino, per la prima volta in tutti i quadri e le statue che lo rappresentavano, pareva felice e spensierato come quello di un bambino vero. 
“Io volevo vedere un’arma!” si lamentò Vanni. A quel punto, Agamennone alzò gli occhi color nocciola in quelli dell’artista. “Questo quadro è importante per voi, Maestro?”
Leonardo annuì sotto il suo cappello rosso. “Lo è eccome, mio giovane amico. In questo momento, si tratta del mio scudo personale.”
“Uno scudo?” fece, scettico, mio fratello, studiando la tela. Non pareva certo grande abbastanza per riparare bene il torso di un uomo.
A quel punto, Leonardo si strinse nelle spalle. “Il fatto è che la marchesana Isabella vuole che torni da lei a Mantova per farle il ritratto. Siccome non posso andarci, ho trovato una scusa perfetta: le ho mandato a dire che sto finendo un altro quadro importantissimo.”
Scoppiai a ridere. “Allora questo non è uno scudo, è una bugia!”
Le labbra rosse e sottili di Leonardo si arricciarono in un sorriso divertito. “A volte sono la stessa cosa.”
Nonostante Leonardo mi avesse mostrato i suoi progetti di macchine da guerra, pensavo fosse un uomo troppo innocente per mettere in atto le proprie fantasie. Fui sorpresa, quando mio padre mi raccontò che era stato lui a riparare le lame celate e a fabbricare la pistola nascosta nei suoi antibracci. Durante l’ultima  cena che consumò con noi a Monteriggioni, il nostro ospite ci rivelò una sorpresa ancora più grande.
Nostro padre gli stava raccontando della difficile situazione che si era creata per gli alleati degli Assassini da quando la Romagna era caduta e Bologna era stata epurata di tutti gli oppositori dei Bentivoglio. In quel modo era impossibile comunicare con Isabella d’Este Gonzaga: temevano davvero che la loro migliore alleata dopo Caterina si sarebbe trovata presto sola, in balìa dei francesi che premevano da Milano e delle truppe papali  appena oltre il Po. 
“So che la situazione è difficile. Ecco perché ho accettato di diventare ingegnere capo di Cesare Borgia.”
In altri frangenti, la situazione sarebbe di certo stata comica. Zio Mario per poco non si strozzò con lo stinco, mentre zia Claudia fece cadere il coltello e Ugo inghiottiva a vuoto. Mia madre, poi, non riuscì a tenere la boccaccia chiusa, e imprecò ad alta voce.
Mio padre rimase gelido. 
“Ho capito cosa vuoi fare. E’ troppo pericoloso.”
Leonardo non perse la calma né il sorriso.  “Qualcuno deve sabotare il Valentino dall’interno. Di me non sospetta. L’ho incontrato a Milano quando era solo un ragazzo. Credo di averlo impressionato.”
“Leonardo, tu non capisci. Cesare Borgia è una bestia.”
“E che razza di offesa sarebbe? Le bestie sono molto migliori degli esseri umani.” 
Mio padre digrignò i denti, forse maledicendo mentalmente tutte le bestie del mondo. “Scusa, riformulo: Cesare Borgia è quanto di peggio possa esserci in un uomo. Se ti scoprisse non avresti scampo, e noi non potremmo intervenire.”
“Non mi scoprirà. Ricordi? Non so soltanto decrittare codici altrui. Posso inventarne nuovi, e ti assicuro che decifrarli non sarà semplice nemmeno per te.”
Mio padre esitò un istante. Sospirò. “Sei il mio più vecchio amico.”
Leonardo annuì. A quel punto, aveva capito che Ezio sarebbe capitolato. “Ma nessuno lo sa a parte i presenti. Queste due cose insieme fanno di me la persona più adatta, non credi?”
Sapevamo tutti che aveva ragione, ed Ezio, seppure evidentemente contrariato, non obiettò più.
Poco prima di ripartire, Leonardo si offrì di esaminare i progressi del padre di Agamennone, in virtù di certi suoi recenti studi di anatomia. L’uomo era cosciente, ma ancora confinato a letto, con il braccio che giaceva ben fasciato contro il petto. Leonardo volle che fosse sbendato; quindi, iniziò a massaggiargli il braccio fin dalla punta delle dita.
“Siete anche un medico?” domandai, osservandolo lavorare.
“Più o meno. Finora mi sono esercitato solo con i cadaveri.”
Galeazzo sbiancò leggermente. Mentre io e Vanni fummo piuttosto disgustati dalla risposta, Agamennone ne rimase affascinato. 
“Chissà se accetta allievi” mugugnò, pensoso. Io sapevo che avrei volentieri posato per Leonardo, ma di certo non lo avrei assistito mentre dissezionava un cadavere, per nulla al mondo!
Nel frattempo, Leonardo continuava allegramente la sua visita. “Mi hanno detto del nuovo portico dell’oratorio di Santa Cecilia ! Dev’essere una gran bella opera, prima o poi verrò a Bologna per visitarlo” diceva, mentre gli manipolava il braccio disteso. “Sentite dolore qui?”
“Sì” mugugnò Galeazzo, stringendo i denti.
“Bene” sorrise allegro Leonardo “vuol dire che il muscolo è ancora al suo posto. Con un po’ di tempo il vostro braccio tornerà come prima, messere.”
Quando, alla fine, Leonardo se ne andò, abbracciò noi bambini come se fossimo parte della sua famiglia. Notai in quel momento, con il naso premuto contro la sua giubba, che quell’uomo odorava di vita, fin dentro le ossa. Sarebbe andato tutto bene. La missione in Romagna era difficile, ma lui ce l’avrebbe fatta.
La partenza di Leonardo anticipò di poco la nascita di Lisabetta. La mia adorata cugina venne al mondo con un travaglio lungo e tortuoso, ma zia Claudia affrontò la sua battaglia con la fierezza degli Auditore, e vinse. La bambina acquistò il cognome De Magianis: viste le oscure origini di Ugo, affinché potesse sposare zia Claudia era stato necessario che Antonio lo adottasse formalmente. Nonostante portasse un altro cognome, però, io ero certa che Lisabetta fosse un’Auditore fatta e finita. Di certo, già in quei primi giorni di vita gridava come un’aquila, e sapeva farsi rispettare. 
Non facemmo in tempo a rallegrarci della nascita di Lisabetta, però, che dovemmo rattristarci di un’altra partenza. 
Agamennone e suo padre erano rimasti presso di noi per tutta l’estate, fino a che le ferite dell’uomo, come previsto da Leonardo, erano guarite. Mio padre offrì loro di restare; Galeazzo lo ringraziò, ma voleva evitare di crearci altri guai. Si sarebbero nascosti presso dei loro parenti, a Siena, per poi riunirsi alla famiglia dei Malvezzi, che come loro erano stati ingiustamente scacciati da Bologna molti anni prima. 
Vanni ed io non volevamo che Agamennone partisse. Dal giorno in cui quel bambino aveva fatto irruzione nelle nostre vite, ci eravamo abituati alla sua presenza silenziosa. Aveva la mia stessa età; quando parlava, era di stelle e cose astrologiche che non capivamo, e non si separava mai da quel sasso nero e lucido che, secondo lui, aveva determinato la sua salvezza. 
Ferrante, invece, fu ben contento di vederlo partire. Ne era geloso marcio. L’ombra di Bianca, lo chiamava. Non capiva il nostro strano legame, e forse non lo capivamo nemmeno noi. In fondo, non facevamo altro che stare insieme, spesso in silenzio. A volte Agamennone perdeva gli occhi lontano, nelle sue visioni di morte, e io gli stringevo la mano per riportarlo nel mondo dei vivi. Allora, mi sorrideva, e diceva che era felice di avermi conosciuto.
Il giorno della partenza mi mise la sua pietra nera tra le mani. 
“Tienila tu.”
Mi veniva da piangere, ma provai a scherzare. “Cosa dovrei farci, con questo sasso?”
Agamennone sorrise e scosse la testa. “E’ un’onice nera. Protegge contro la malasorte. Questa pietra mi ha salvato la vita, e la prossima volta la salverà a te.”
Aveva già capito che razza di scavezzacollo fossi, evidentemente.
Vanni mi prese in giro mentre si allontanavano. “Gli piaci!” mi sfotteva “E lui piace a te!”
Gli diedi un pugno in testa, sperando di nascondergli il rossore. “Taci.”
Non era così semplice spiegare cosa provassi per Agamennone. Sarebbe stato quasi liberatorio dire che mi ero infatuata di lui: almeno, avrei spiegato gli strani sentimenti che mi si agitavano in petto. La verità è che sentivo di aver stretto un altro legame per la vita, come se vedessi piano piano un filo rosso che dal mio polso si legava al suo, e ci univa entrambi al templare che aveva cercato di rapirmi due anni prima. Forse sono un po’ profetica, dopo tutto. O forse, più semplicemente, oggi interpreto il passato con gli occhi di chi ha visto già il futuro. 
Ferrante non fu felice di notare che avevo fatto incastonare l’onice nera in un piccolo medaglione, e che avevo preso a portarla al collo tutti i giorni. Non mi importava. Se gli avessi raccontato del sogno in cui accettavo di diventare un Assassino, non avrebbe capito.
Mio padre, invece, doveva capire. Io ero nata per partecipare alla sua guerra, smaniavo per diventare un alfiere nel suo gioco. Volevo servire la sua causa, e sentirmi chiamare sorella dagli Assassini.
La risposta non fu positiva - la prima volta.
Al mio: “Voglio diventare un’Assassina”, mio padre rispose: “Che ti ha fatto Ferrante questa volta?”
Quando gli spiegai il vero significato della mia frase, vidi il suo volto farsi di acciaio. “Ne riparleremo tra trent’anni.”
“Tra trent’anni sarete un vecchietto con l’artrite” replicai “Io voglio imparare adesso.”
Ezio la risolse come sempre faceva quando qualcosa non andava come voleva lui: mi voltò le spalle e se ne andò, senza degnarmi di un’altra parola. Io, però, non ero disposta ad arrendermi. Tornai all’attacco così spesso nei giorni seguenti, che arrivò ad arrabbiarsi non appena mi presentavo davanti a lui.
“La risposta è no, Bianca. Fattene una ragione.”
Quella volta, con lui c’era zio Mario. Rise, bonariamente; teneva la gamba ferita distesa su un poggiapiedi.  
“Ezio, non puoi evitare quello che è scritto nel sangue. Questa ragazza è una Auditore.”
Lo ringraziai con lo sguardo; ma mio padre replicò:
“Non è una ragazza, è una bambina.”
“Ho dodici anni!” protestai. 
“Ragiona, nipote” insisté zio Mario “Tuo padre non ha fatto in tempo ad addestrarti, e tu hai dovuto imparare tutto sul campo. Vuoi commettere lo stesso errore con i tuoi figli?”
Doveva aver toccato una corda sensibile, perché vidi Ezio irrigidirsi. Nei suoi occhi scuri passarono tantissime emozioni diverse. Infine, mi afferrò il polso, e mi costrinse a seguirlo.
Dopo che ebbe parlato brevemente con il macellaio, mi fece entrare nel retro della sua bottega. Mi tappai il naso per il fortissimo odore di carne sanguinolenta. C’erano polli appesi a testa in giù, con gli occhi vuoti coperti di una patina opaca. La cosa più sconvolgente, però, erano i quarti di bue già scuoiati appesi ai ganci. Potevo distinguere la linea delle costole, i muscoli esposti. 
Mio padre si sfilò un pugnale dalla fusciacca che portava a tracolla. Me lo mise in mano.
Era freddo. Pesava.
Che sciocchezza, pensai. Ero abituata a tirare i pugnali da lancio e a maneggiare armi. Strinsi l’impugnatura.
“Voglio che tu colpisca” disse Ezio, con voce bassa e tesa.
Era la cosa più facile del mondo, lo so: ma quell’ammasso di carni esposte non era esattamente un bersaglio di paglia. Caricai tutta la mia forza sul braccio; non riuscii a fare altro che scalfirlo. Appena un graffio. La lama vibrava tra le mie mani.
“Più forte, Bianca. Colpiscilo!”
Sferrai una seconda pugnalata, e questa volta affondò. 
Non saprei descrivere la sensazione che provai. L’arma che sprofondava. La consistenza della carne. Il contraccolpo che ricevette il mio polso. Pensai che era un corpo morto, ma che questo non rendeva il mio gesto meno disgustoso. Feci per lasciare il pugnale, ma Ezio mi afferrò la mano e mi costrinse a riprenderlo.
“Ora estrailo” disse.
“Padre…”
La sua stretta si fece più salda. “Vuoi diventare un’assassina, dici? Allora devi imparare a uccidere. Devi imparare cosa si prova.”
L’odore della morte era nelle mie narici, e mi si stava attaccando addosso. Guidata da Ezio, estrassi il pugnale. Il rumore, nemmeno quello posso descrivere. La ferita non poteva buttare sangue, e rimase lì, con due lembi di carne arricciati e un solco tra di essi.
Dovevo essere completamente sbiancata in volto. Sperai che tutto fosse finito, ma non era che l’inizio.
Mio padre mi spiegò su quella carcassa dove si trovassero i punti vitali, dove convenisse conficcare la lama per uccidere rapidamente, dove tagliare per recidere tendini e dove colpire per spezzare ossa. Non risparmiò i dettagli, tanto che più volte sentii i conati salirmi alla gola. 
Ezio mi squadrò con i suoi occhi da aquila. 
“Uccidere è così, Bianca. Disgustoso e crudele. Pensi davvero di essere pronta per tutto questo?”
Ovviamente non lo ero, ma il mio orgoglio mi fece rispondere un fiero: sì. 
Lui strinse le labbra. “Ma certo” disse soltanto. Per quel giorno, la lezione finì.
Ciò che mio padre escogitò la volta successiva, devo ammetterlo, ancora fatico a perdonarglielo. 
Pochi giorni dopo, il cavallo di Vanni ebbe un brutto incidente. Mio fratello non si fece nulla, per fortuna, ma la bestia, una bella giumenta roana, si spezzò entrambe le zampe anteriori. Gemeva in maniera penosa, tanto che non riuscimmo nemmeno a riportarla alla stalla. 
“Possiamo guarirla, vero?” fece Vanni, con la voce tremante e i lucciconi già negli occhi.
Ezio mi fissò intensamente. 
“E’ il tuo momento, Bianca. Dimostrami che sei un’Assassina.”
Vanni prese a strepitare; si aggrappò al collo della cavalla, che nitriva in maniera sempre più acuta. Guardai in quegli occhi acquosi e neri, e vi lessi una supplica. Come potevo sapere cosa mi stesse dicendo? Mi pregava di lasciala vivere, o di aiutarla a morire?
Ezio mi passò il pugnale. Ripassai, mentalmente, dove si trovava la giugulare. Sentivo il sudore freddo imperlarmi la fronte, mentre Vanni gridava e piangeva. Ezio lo staccò dal cavallo. 
Toccai la pelle dell’animale con la mano. Le accarezzai il collo madido. Sentivo la vena sotto le dita. Pulsava velocemente. Cercai di poggiarvi contro la lama del pugnale…avrei dovuto soltanto premere un po’, e reciderla con un gesto veloce. Avrebbe di certo sofferto meno di adesso. E tuttavia Vanni urlava, e la cavalla gemeva e sbuffava, sempre più stanca, scalciando con le zampe posteriori. Lo sguardo severo di mio padre era su di me.
Feci cadere il pugnale a terra. 
“Non ci riesco.”
Ezio scosse il capo. Raccolse l’arma, e mi chiese di chiudere gli occhi a Vanni. Ubbidii.
“Non provo alcun piacere in questo” mormorò mio padre, come una preghiera. Quindi, sentimmo un rumore meccanico. Ezio puntò la piccola arma da fuoco che era nascosta nei suoi antibracci alla testa della cavalla. Sparò. L’animale cadde a terra con un tonfo. Era morto all’istante.
Vanni piangeva, mentre io cercavo di mormorargli che era necessario, che stava soffrendo e non c’era modo di salvarla. Ezio sollevò lo sguardo su di noi. La sua camicia bianca era macchiata di rosso; le sue mani non tremavano, e gli occhi erano fermi. Sarei mai diventata come lui? Fredda e impassibile, come lo era lui adesso?
“Ogni forma di vita è degna di rispetto” disse, accarezzando la criniera grigia del cavallo. “Requiescat in pace.”
Forse fu allora che qualcosa si ruppe, tra noi tre. Quel momento terribile e insignificante nell’economia dell’universo, fu quello che sciolse i fili dei nostri destini e ci portò alla deriva. Ezio cercava di insegnarci la crudeltà della vita. Vanni imparò l’odio. Io…non lo so. Forse non imparai nulla, se non che sarei stata per tutta la mia esistenza divisa tra loro due, a tentare disperatamente di tenerli uniti. 
Ma io parlo del futuro, quando ancora non ho raccontato nulla che lo riguardi. C’è stato un tempo in cui anche io non sono stata una brava figlia, un tempo in cui la rabbia della giovinezza mi portò contro mio padre. Forse è arrogante da parte mia pensarlo, e tuttavia io sono certa che furono i miei errori di quel periodo a trascinarci al punto in cui ci troviamo ora. Per questo, non smetterò mai di chiedere loro perdono.
Ulteriori Note Storiche
Nel 1501, con la minaccia di Cesare Borgia che incombeva sulla loro signoria, i Bentivoglio di Bologna commisero quello che secondo diversi storici fu un enorme passo falso, che non fece che abbassare la loro popolarità. Convinti dalle insinuazioni di un messo di Cesare Borgia, furono indotti a pensare che i Marescotti, una delle famiglie più potenti di Bologna e storica alleata dei Bentivoglio, stesse prendendo accordi per far entrare il Valentino a Bologna. L’ordine della strage partì dalla vendicativa Ginevra Sforza (del ramo degli Sforza di Pesaro, dunque lontanissima cugina della nostra Caterina), moglie di Giovanni Bentivoglio e madre di Ermes: in una notte di Giugno le porte della città vennero chiuse per impedire a chiunque di fuggire, mentre i figli di Ginevra e i loro uomini setacciavano la città per passare a filo di spada ogni esponente della famiglia dei Marescotti, le loro donne, i loro servi e alleati. Tre di loro riuscirono a rifugiarsi nella Torre dell’Uccellino, al confine con il ferrarese: furono convinti a uscire con la promessa che le loro vite sarebbero state risparmiate, e appena misero piede fuori della torre furono decapitati.
Nella mia storia, i Marescotti non sono colpevoli di voler consegnare Bologna al Valentino, ma di essere segretamente alleati degli Assassini. Agamennone tornerà ancora nella nostra storia...ormai ho definito il cast principale che circonderà Bianca nei suoi anni di adulta, e lui ne fa definitivamente parte!EcSorpre

Sorpresa! Sono riuscita ad aggiornare prima del previsto. E' stato un capitolo difficile da scrivere. Molte persone stanno passando da Monteriggioni in questo periodo: alcuni sono vecchie conoscenze che ancora non avevano fatto la loro apparizione, altri sono nuovi personaggi che diventeranno piuttosto importanti per il futuro di Bianca. Anche se mi rendo conto che è un po' un capitolo di transizione, credo fosse necessario per porre le basi di quello che accadrà in futuro. 

AVVERTENZA: CERTI PUNTI DEL CAPITOLO SONO UN PO' "FORTI", E POTREBBERO URTARE LA SENSIBILITA' DI QUALCUNO. Per rispettare il rating ho cercato di concentrarmi sulle sensazioni più che sulle descrizioni, evitando di scendere nel dettaglio, ma certe situazioni potrebbero infastidire. Trovo comunque che, visto il livello di "crudezza" dell'opera originale a cui la fanfic si ispira, non sia possibile addolcire la pillola più di tanto. Stiamo parlando di assassini dopo tutto, no? ^_^

Vabbè, ora smetto di bablare e vi lascio a Bianca :)


 

Giugno 1501. Una sera di tuoni: Vanni ed io eravamo stretti nel letto, con gli occhi già socchiusi, in procinto di addormentarci. I nostri genitori erano lontani, a Bologna, per parlare con alcuni alleati. Nonna Maria ci stava leggendo con voce dolce un passo dall’Orlando Innamorato che amavo particolarmente, in cui il paladino pasticcione Astolfo per una volta combina qualcosa di giusto e riesce a salvare il suo re. Io avevo già serrato le palpebre, pronta a scivolare nel sonno. Poi, qualcosa accadde.

La nonna interruppe la lettura bruscamente. Sentii che posava il libro sulle ginocchia. Aprii gli occhi. Stava guardando oltre la porta.

Mi drizzai a sedere. Vanni mi imitò, stropicciandosi un occhio.

“Che succede?”

La nonna ci prese per mano e ci fece cenno di seguirla. 

Fuori pioveva forte. Gli uomini e la donna che entrarono alla villa avevano i mantelli zuppi di pioggia incollati addosso. Riconobbi mio padre e mia madre: lei trascinava per mano un ragazzino, lui sorreggeva un uomo che a malapena camminava.

Incrocia gli occhi del ragazzo. Enormi, terrorizzati. Avevano visto l’orrore.

Mentre i servi aiutavano papà a portare a letto il ferito, e la nonna mandava a chiamare il medico, la mamma portò il ragazzino di sopra, nella nostra stanza. Mi disse di andare a chiamare la dama della nonna, perché ci desse una mano. Claretta si era già svegliata per il trambusto, e corse nella nostra stanza. Vanni ed io ci scambiammo uno sguardo, prima di entrare a nostra volta.

Lo stavano spogliando degli abiti ghiacciati. La sua pelle era bianchissima e lentigginosa, i polpastrelli erano crespi da quanto era madido di pioggia. C’era del sangue rappreso tra i suoi capelli, ma non sembrava appartenere a lui. Rosa gli sfregò le braccia, il torso e le gambe ripetutamente, per scaldarlo. Lui guardava dritto davanti a sé. Non so perché, mi avvicinai.

“Come ti chiami?” feci, quasi bisbigliando.

“A-Ag-amen-none” cercò di dire lui, mentre batteva i denti.

“Cos’è successo, Rosa?” chiese mia nonna.

“I Bentivoglio hanno fatto la loro mossa” fece mia madre, tra i denti. “Siamo riusciti a salvare solo Galeazzo e il bambino. Gli altri…Dio, quei cani li hanno rincorsi fino alla torre dell’Uccellino. Li hanno stanati promettendo di graziarli. E poi…”

Sul suo volto si dipinse il disgusto. “Che il diavolo li porti!” aggiunse poi in un ringhio.

“Claretta, che aspetti?” fece Nonna Maria “va’ a preparare qualcosa di caldo per questo bambino,”

Claretta uscì, e dopo poco tornò con della zuppa riscaldata dalla cena. Dopo che ebbe bevuto, le labbra del bambino riacquistarono un po’ di colore.

“Stai meglio, tesoro?” domandò Nonna Maria. Lui abbassò subito gli occhi, fissando il pavimento.

“Hanno…chiuso le porte. Tutte quelle della città. Non si poteva scappare.” Mia madre cercò di dirgli che non c’era bisogno che parlasse, ma lui proseguì come se non l’avesse sentita. Pareva indemoniato, tanto era ossessionato il suo sguardo. “La mamma ha cercato di portarmi via…ma l’hanno presa. Li ho visti. L’hanno inchiodata al muro e strappato la veste. Mi hanno detto di correre e non guardare…e io ho corso…la sentivo urlare…e poi sono uscito dal palazzo, e c’erano cadaveri ovunque, e io ho dovuto…ho dovuto pestarli! Non volevo, lo giuro! Lo so che è sacrilegio, ma io non volevo farlo!”

La voce del bambino si spense dentro i singhiozzi. Mia madre lo strinse tra le braccia e lo cullò.

Mi faceva tanta tenerezza. Volevo dirgli che adesso era al sicuro, perché Monteriggioni era inespugnabile.

“Lasciatelo in pace. Agamennone deve soltanto riposare, ora.”

Mio padre era affacciato alla soglia, poco più di un’ombra. Corsi da lui.

“E’ stato lui, vero? E’ stato Ermes Bentivoglio?”

Anche se quel nome non veniva pronunciato da anni, era sempre presente nella mia mente.

La mano di Ezio mi strinse la spalla. “Dobbiamo riposare tutti, Bianca. E’ stata una lunga notte.”

Se ormai mi conoscete un poco, dovreste immaginare che non mi rassegnai. Finsi di essermi addormentata accanto a Vanni e al bambino spaventato, e regolai il respiro perché sembrasse quello pesante del sonno. Quando la nonna e la sua dama uscirono dalla stanza, mi alzai piano, affacciandomi allo spiraglio tra la porta e lo stipite. Non c’era nessuno. Scesi le scale, fino alla porta del laboratorio. Con le spalle al muro, ascoltai.

La voce di mia madre.

“I Bentivoglio hanno passato i limiti. La città era disseminata di cadaveri…questa…questa è una strage!”

La voce di Ugo. “Galeazzo ce la farà?”

Zio Mario. “Puoi giocarti le palle che ce la farà, quell’uomo è un combattente.”

Mio padre. “I Marescotti erano il nostro unico appoggio a Bologna. Abbiamo perso Rivaldino, e le comunicazioni con la Marchesana sono impossibili. Siamo tagliati fuori dai nostri alleati nel nord, maledizione!

Il tonfo di un pugno battuto sul tavolo.

Ancora mia madre. “Forse la strage non riguarda i templari. L’ha ordinata Ginevra, sembra che il Signore di Bologna ne fosse all’oscuro.”

Zio Mario, un pesante sospiro. “La lupa ha scatenato i suoi cuccioli. C’era da aspettarselo…Annibale ed Ermes godono del sangue che versano. La madre è una Sforza, ma porco demonio, ha preso  peggio della famiglia.”

Mi allontanai, camminando silenziosamente verso la mia stanza. Come immaginavo: c’era stata una carneficina, e il responsabile era Ermes Bentivoglio, quel demonio dagli occhi rossicci! Mi coricai furiosa, stringendo le coperte nei pugni. Un giorno l’avrei ucciso. Ne ero certa come del mio nome.

Il bambino, Agamennone, era sdraiato tra me e Vanni, con la faccia sprofondata nel cuscino. D’improvviso, aprì i suoi occhi spiritati.

Fui soffocata dal puzzo che emanava. Cosa poteva essere? Sudore, certo, misto all’acre del sangue e del ferro…un aroma di bruciato tra i capelli, dovevano aver dato fuoco alle case…umidità, anche. Ma c’era un sentore più sottile, dolciastro e rivoltante. Quel bambino puzzava di morte, come se ciò che aveva visto lo avesse contaminato per sempre.

“C’era un uomo” bisbigliò “che mi ha trascinato dentro la sua porta prima che i soldati mi prendessero. Mi ha nascosto e mi ha dato del pane. Quando le acque si sono calmate mi ha fatto fuggire fuori dalle mura.” Mi mostrò una pietra nera e lucida, che stringeva nel pugno. “Ha detto che la sfortuna non mi può colpire finché avrò questa pietra.”

“Sei stato fortunato, per davvero.”

Lui annuì, in quella maniera stralunata. Forse l’indomani si sarebbe reso conto di cosa gli era capitato, e avrebbe pianto. Ma quella sera le sue ciglia erano asciutte.

“Un giorno io ricambierò il favore. Darò la vita per quell’uomo, perché lui ha rischiato la sua per me.”

Con quelle parole, Agamennone si addormentò; ed io pensai che fosse molto coraggioso, o molto pazzo.

Io, invece, proprio non riuscivo a prendere sonno, e girovagai di nuovo per la villa.

Mi affacciai alla porta di Zia Claudia. Dopo il brusco arrivo di Agamennone e suo padre aveva voluto alzarsi per aiutarci, ma Ugo l’aveva costretta di nuovo a letto. Ora era sola; lo zio probabilmente stava ancora discutendo con mio padre e gli altri.

Mi avvicinai, reggendo la candela per rischiarare la stanza. La sagoma delle coperte disegnava una curva dolce: zia Claudia era incinta di sette mesi, a quel tempo. Quando si era sposata, non credevo che avrebbe potuto avere figli, vista la sua età. Non avevo tenuto conto che la zia era una donna per cui nulla era impossibile.

Socchiuse gli occhi. Era bella, con i capelli sciolti sul cuscino.

“Non riesci a dormire?”

 Scossi il capo, e lei mi fece cenno di sdraiarmi al suo fianco. Spensi la candela con un soffio, e mi raggomitolai nel suo abbraccio. Era bello incassare la testa sotto il suo mento, e abbracciare la pancia prominente. Il cuginetto scalciò per salutarmi.

“Perché non sei rimasta nella tua stanza?” fece lei, accarezzandomi la testa.

“Quel bambino, Agamennone” bisbigliai “odora di morte.” Inspirai profondamente. Un aroma fresco di agrumi e menta mi invase le narici. “Tu invece profumi…di vita.”

Non ricordo cosa mi rispose, perché caddi quasi subito addormentata. Quella notte sognai per la prima volta il mio futuro cugino. Mi vidi un bimbetto ricciuto, che somigliava più a Claudia che non a Ugo.

Le mie doti di profetessa non sono mai state eccezionali, visto che Lisabetta nacque femmina e con i capelli più dritti di un crine di cavallo.

Nel sogno, comunque, l’infante si trasformò di colpo in Agamennone, con gli abiti pregni di pioggia e il sangue tra i capelli. Il ragazzino stringeva nel pugno una mela dorata. Dapprima parlò una lingua un po’ dolce e un po’ aspra, a me sconosciuta. Quindi, disse, con una voce cavernosa e possente:

“Nulla è reale, tutto è lecito: queste sono le parole dei nostri antenati. Agiamo nell’ombra per servire la luce. Siamo assassini. Sei pronta per diventare una di noi, Bianca?”

Io toccai la Mela con la mano sinistra, e subito un anello di luce mi cinse l’anulare. Lo sentivo premere sulla carne, bruciarla, scavare. Quando si dissolse, avevo anche io il marchio degli Assassini inciso sulla pelle.

L’eco della mia voce si perse tra le pieghe del tempo.

“Sì, sono pronta.”

Più tardi, mi sentii sollevare da due braccia forti, e mi riscossi dal sogno. Riconobbi subito la stretta di mio padre, che mi portava nella stanza da letto dei miei genitori. Ezio e Rosa si stesero entrambi vicino a me, e mi circondarono con le braccia. L’odore di morte era attaccato anche alla loro pelle, meno soffocante di quello che era rimasto addosso ad Agamennone, ma comunque pressante.

Capii che anche io avrei avuto addosso quell’odore, un giorno, quando avessi versato il mio primo sangue.

 

Agamennone e suo padre restarono presso di noi per lungo tempo. Mentre Galeazzo si riprendeva lentamente dalle sue ferite ed io imparavo a fare amicizia con quello strano bambino, ricevemmo una visita che, almeno all’inizio, rese mio padre molto contento.

Su di un carro carico di tele, pennelli e manichini di legno, che gettava piuttosto lontano il suo odore penetrante di vernice e tinture, arrivò un giorno a Monteriggioni un certo Leonardo da Vinci. A me quel nome ricordava soltanto alcune firme sulle lettere crittate che arrivavano a mio padre; sapevo che era un suo amico, e niente di più. Forse l’avevo visto qualche volta, quando ero veramente molto piccola: l’uomo dagli occhi azzurri che mi si presentò davanti mi stupì per la sua espressione infantile e pura. Eppure, ero certa che fosse più vecchio di mio padre di diversi anni…e invece, quanti di meno ne dimostrava!

“Ecco qui la piccola Bianca!” esclamò quando mi vide “Sei diventata davvero bella. Un giorno ti chiederò di posare per me.”

Me l’avrebbe chiesto davvero, diversi anni più tardi, e mio padre non sarebbe stato affatto contento del risultato. Sorrido al pensiero di quelle lunghe sedute di posa, lo ammetto: anche una spudorata come me ha avuto qualche problema nell’impersonare Leda che abbraccia il cigno. Non tanto per il cigno, quanto perché sono rimasta per tutto il tempo completamente senza veli.

Adesso, però, sto proprio divagando.

Torniamo, per ora, all’estate dei miei dodici anni. In quei pochi giorni che rimase con noi, imparai ad adorare Leonardo. Aveva un bel volto raffinato e un’aria sempre svagata, come se la sua mente fosse perennemente impegnata in qualcosa di troppo importante perché potesse prendere seriamente le sciocchezze della vita quotidiana. Mi illustrava i suoi disegni di macchine meravigliose, e rideva con mio padre del volo inaugurale di una certa macchina volante che nemmeno la mia fervida fantasia riusciva a immaginare. Un giorno, su pressione di Agamennone e Vanni,  acconsentì a mostrarci quella che definiva “la sua ultima meraviglia”, che giaceva celata da un panno nell’angolo del carro. Fummo piuttosto delusi, Agamennone, Vanni ed io, quando ci si presentò davanti una semplice tela non ancora terminata, che ritraeva la Madonna il Bambino.

Eppure, ne capivo abbastanza per intuire che c’era in quel quadro una bellezza fuori dal comune. Lei stava tessendo con un fuso a forma di croce, e il Bambino rubava lo strumento alla madre, alzandolo verso il cielo un po’ per gioco e un po’ come un presagio del suo destino. Il sorriso del pargolo divino, per la prima volta in tutti i quadri e le statue che lo rappresentavano, pareva felice e spensierato come quello di un bambino vero.

“Io volevo vedere un’arma!” si lamentò Vanni. A quel punto, Agamennone alzò gli occhi color nocciola in quelli dell’artista. “Questo quadro è importante per voi, Maestro?”

Leonardo annuì sotto il suo cappello rosso. “Lo è eccome, mio giovane amico. In questo momento, si tratta del mio scudo personale.”

“Uno scudo?” fece, scettico, mio fratello, studiando la tela. Non pareva certo grande abbastanza per riparare bene il torso di un uomo.

A quel punto, Leonardo si strinse nelle spalle. “Il fatto è che la marchesana Isabella vuole che torni da lei a Mantova per farle il ritratto. Siccome non posso andarci, ho trovato una scusa perfetta: le ho mandato a dire che sto finendo un altro quadro importantissimo.”

Scoppiai a ridere. “Allora questo non è uno scudo, è una bugia!”

Le labbra rosse e sottili di Leonardo si arricciarono in un sorriso divertito. “A volte sono la stessa cosa.”

Nonostante Leonardo mi avesse mostrato i suoi progetti di macchine da guerra, pensavo fosse un uomo troppo innocente per mettere in atto le proprie fantasie. Fui sorpresa, quando mio padre mi raccontò che era stato lui a riparare le lame celate e a fabbricare la pistola nascosta nei suoi antibracci. Durante l’ultima  cena che consumò con noi a Monteriggioni, il nostro ospite ci rivelò una sorpresa ancora più grande.

Nostro padre gli stava raccontando della difficile situazione che si era creata per gli alleati degli Assassini da quando la Romagna era caduta e Bologna era stata epurata di tutti gli oppositori dei Bentivoglio. In quel modo era impossibile comunicare con Isabella d’Este Gonzaga: temevano davvero che la loro migliore alleata dopo Caterina si sarebbe trovata presto sola, in balìa dei francesi che premevano da Milano e delle truppe papali  appena oltre il Po.

“So che la situazione è difficile. Ecco perché ho accettato di diventare ingegnere capo di Cesare Borgia.”

In altri frangenti, la situazione sarebbe di certo stata comica. Zio Mario per poco non si strozzò con lo stinco, mentre zia Claudia fece cadere il coltello e Ugo inghiottiva a vuoto. Mia madre, poi, non riuscì a tenere la boccaccia chiusa, e imprecò ad alta voce.

Mio padre rimase gelido.

“Ho capito cosa vuoi fare. E’ troppo pericoloso.”

Leonardo non perse la calma né il sorriso.  “Qualcuno deve sabotare il Valentino dall’interno. Di me non sospetta. L’ho incontrato a Milano quando era solo un ragazzo. Credo di averlo impressionato.”

“Leonardo, tu non capisci. Cesare Borgia è una bestia.”

“E che razza di offesa sarebbe? Le bestie sono molto migliori degli esseri umani.”

Mio padre digrignò i denti, forse maledicendo mentalmente tutte le bestie del mondo. “Scusa, riformulo: Cesare Borgia è quanto di peggio possa esserci in un uomo. Se ti scoprisse non avresti scampo, e noi non potremmo intervenire.”

“Non mi scoprirà. Ricordi? Non so soltanto decrittare codici altrui. Posso inventarne nuovi, e ti assicuro che decifrarli non sarà semplice nemmeno per te.”

Mio padre esitò un istante. Sospirò. “Sei il mio più vecchio amico.”

Leonardo annuì. A quel punto, aveva capito che Ezio sarebbe capitolato. “Ma nessuno lo sa a parte i presenti. Queste due cose insieme fanno di me la persona più adatta, non credi?”

Sapevamo tutti che aveva ragione, ed Ezio, seppure evidentemente contrariato, non obiettò più.

Poco prima di ripartire, Leonardo si offrì di esaminare i progressi del padre di Agamennone, in virtù di certi suoi recenti studi di anatomia. L’uomo era cosciente, ma ancora confinato a letto, con il braccio che giaceva ben fasciato contro il petto. Leonardo volle che fosse sbendato; quindi, iniziò a massaggiargli il braccio fin dalla punta delle dita.

“Siete anche un medico?” domandai, osservandolo lavorare.

“Più o meno. Finora mi sono esercitato solo con i cadaveri.”

Galeazzo sbiancò leggermente. Mentre io e Vanni fummo piuttosto disgustati dalla risposta, Agamennone ne rimase affascinato.

“Chissà se accetta allievi” mugugnò, pensoso. Io sapevo che avrei volentieri posato per Leonardo, ma di certo non lo avrei assistito mentre dissezionava un cadavere, per nulla al mondo!

Nel frattempo, Leonardo continuava allegramente la sua visita. “Mi hanno detto del nuovo portico dell’oratorio di Santa Cecilia! Dev’essere una gran bella opera, prima o poi verrò a Bologna per visitarlo” diceva, mentre gli manipolava il braccio disteso. “Sentite dolore qui?”

“Sì” mugugnò Galeazzo, stringendo i denti.

“Bene” sorrise allegro Leonardo “vuol dire che il muscolo è ancora al suo posto. Con un po’ di tempo il vostro braccio tornerà come prima, messere.”

Quando, alla fine, Leonardo se ne andò, abbracciò noi bambini come se fossimo parte della sua famiglia. Notai in quel momento, con il naso premuto contro la sua giubba, che quell’uomo odorava di vita, fin dentro le ossa. Sarebbe andato tutto bene. La missione in Romagna era difficile, ma lui ce l’avrebbe fatta.

La partenza di Leonardo anticipò di poco la nascita di Lisabetta. La mia adorata cugina venne al mondo con un travaglio lungo e tortuoso, ma zia Claudia affrontò la sua battaglia con la fierezza degli Auditore, e vinse. La bambina acquistò il cognome De Magianis: viste le oscure origini di Ugo, affinché potesse sposare zia Claudia era stato necessario che Antonio lo adottasse formalmente. Nonostante portasse un altro cognome, però, io ero certa che Lisabetta fosse un’Auditore fatta e finita. Di certo, già in quei primi giorni di vita gridava come un’aquila, e sapeva farsi rispettare.

Non facemmo in tempo a rallegrarci della nascita di Lisabetta, però, che dovemmo rattristarci di un’altra partenza.

Agamennone e suo padre erano rimasti presso di noi per tutta l’estate, fino a che le ferite dell’uomo, come previsto da Leonardo, erano guarite. Mio padre offrì loro di restare; Galeazzo lo ringraziò, ma voleva evitare di crearci altri guai. Si sarebbero nascosti presso dei loro parenti, a Siena, per poi riunirsi alla famiglia dei Malvezzi, che come loro erano stati ingiustamente scacciati da Bologna molti anni prima.

Vanni ed io non volevamo che Agamennone partisse. Dal giorno in cui quel bambino aveva fatto irruzione nelle nostre vite, ci eravamo abituati alla sua presenza silenziosa. Aveva la mia stessa età; quando parlava, era di stelle e cose astrologiche che non capivamo, e non si separava mai da quel sasso nero e lucido che, secondo lui, aveva determinato la sua salvezza.

Ferrante, invece, fu ben contento di vederlo partire. Ne era geloso marcio. L’ombra di Bianca, lo chiamava. Non capiva il nostro strano legame, e forse non lo capivamo nemmeno noi. In fondo, non facevamo altro che stare insieme, spesso in silenzio. A volte Agamennone perdeva gli occhi lontano, nelle sue visioni di morte, e io gli stringevo la mano per riportarlo nel mondo dei vivi. Allora, mi sorrideva, e diceva che era felice di avermi conosciuto.

Il giorno della partenza mi mise la sua pietra nera tra le mani.

“Tienila tu.”

Mi veniva da piangere, ma provai a scherzare. “Cosa dovrei farci, con questo sasso?”

Agamennone sorrise e scosse la testa. “E’ un’onice nera. Protegge contro la malasorte. Questa pietra mi ha salvato la vita, e la prossima volta la salverà a te.”

Aveva già capito che razza di scavezzacollo fossi, evidentemente.

Vanni mi prese in giro mentre si allontanavano. “Gli piaci!” mi sfotteva “E lui piace a te!”

Gli diedi un pugno in testa, sperando di nascondergli il rossore. “Taci.”

Non era così semplice spiegare cosa provassi per Agamennone. Sarebbe stato quasi liberatorio dire che mi ero infatuata di lui: almeno, avrei spiegato gli strani sentimenti che mi si agitavano in petto. La verità è che sentivo di aver stretto un altro legame per la vita, come se vedessi piano piano un filo rosso che dal mio polso si legava al suo, e ci univa entrambi al templare che aveva cercato di rapirmi due anni prima. Forse sono un po’ profetica, dopo tutto. O forse, più semplicemente, oggi interpreto il passato con gli occhi di chi ha visto già il futuro.

Ferrante non fu felice di notare che avevo fatto incastonare l’onice nera in un piccolo medaglione, e che avevo preso a portarla al collo tutti i giorni. Non mi importava. Se gli avessi raccontato del sogno in cui accettavo di diventare un Assassino, non avrebbe capito.

Mio padre, invece, doveva capire. Io ero nata per partecipare alla sua guerra, smaniavo per diventare un alfiere nel suo gioco. Volevo servire la sua causa, e sentirmi chiamare sorella dagli Assassini.

La risposta non fu positiva - la prima volta.

Al mio: “Voglio diventare un’Assassina”, mio padre rispose: “Che ti ha fatto Ferrante questa volta?”

Quando gli spiegai il vero significato della mia frase, vidi il suo volto farsi di acciaio. “Ne riparleremo tra trent’anni.”

“Tra trent’anni sarete un vecchietto con l’artrite” replicai “Io voglio imparare adesso.”

Ezio la risolse come sempre faceva quando qualcosa non andava come voleva lui: mi voltò le spalle e se ne andò, senza degnarmi di un’altra parola. Io, però, non ero disposta ad arrendermi. Tornai all’attacco così spesso nei giorni seguenti, che arrivò ad arrabbiarsi non appena mi presentavo davanti a lui.

“La risposta è no, Bianca. Fattene una ragione.”

Quella volta, con lui c’era zio Mario. Rise, bonariamente; teneva la gamba ferita distesa su un poggiapiedi. 

“Ezio, non puoi evitare quello che è scritto nel sangue. Questa ragazza è una Auditore.”

Lo ringraziai con lo sguardo; ma mio padre replicò:

“Non è una ragazza, è una bambina.”

“Ho dodici anni!” protestai.

“Ragiona, nipote” insisté zio Mario “Tuo padre non ha fatto in tempo ad addestrarti, e tu hai dovuto imparare tutto sul campo. Vuoi commettere lo stesso errore con i tuoi figli?”

Doveva aver toccato una corda sensibile, perché vidi Ezio irrigidirsi. Nei suoi occhi scuri passarono tantissime emozioni diverse. Infine, mi afferrò il polso, e mi costrinse a seguirlo.

Dopo che ebbe parlato brevemente con il macellaio, mi fece entrare nel retro della sua bottega. Mi tappai il naso per il fortissimo odore di carne sanguinolenta. C’erano polli appesi a testa in giù, con gli occhi vuoti coperti di una patina opaca. La cosa più sconvolgente, però, erano i quarti di bue già scuoiati appesi ai ganci. Potevo distinguere la linea delle costole, i muscoli esposti.

Mio padre si sfilò un pugnale dalla fusciacca che portava a tracolla. Me lo mise in mano.

Era freddo. Pesava.

Che sciocchezza, pensai. Ero abituata a tirare i pugnali da lancio e a maneggiare armi. Strinsi l’impugnatura.

“Voglio che tu colpisca” disse Ezio, con voce bassa e tesa.

Era la cosa più facile del mondo, lo so: ma quell’ammasso di carni esposte non era esattamente un bersaglio di paglia. Caricai tutta la mia forza sul braccio; non riuscii a fare altro che scalfirlo. Appena un graffio. La lama vibrava tra le mie mani.

“Più forte, Bianca. Colpiscilo!”

Sferrai una seconda pugnalata, e questa volta affondò.

Non saprei descrivere la sensazione che provai. L’arma che sprofondava. La consistenza della carne. Il contraccolpo che ricevette il mio polso. Pensai che era un corpo morto, ma che questo non rendeva il mio gesto meno disgustoso. Feci per lasciare il pugnale, ma Ezio mi afferrò la mano e mi costrinse a riprenderlo.

“Ora estrailo” disse.

“Padre…”

La sua stretta si fece più salda. “Vuoi diventare un’assassina, dici? Allora devi imparare a uccidere. Devi imparare cosa si prova.”

L’odore della morte era nelle mie narici, e mi si stava attaccando addosso. Guidata da Ezio, estrassi il pugnale. Il rumore, nemmeno quello posso descrivere. La ferita non poteva buttare sangue, e rimase lì, con due lembi di carne arricciati e un solco tra di essi.

Dovevo essere completamente sbiancata in volto. Sperai che tutto fosse finito, ma non era che l’inizio.

Mio padre mi spiegò su quella carcassa dove si trovassero i punti vitali, dove convenisse conficcare la lama per uccidere rapidamente, dove tagliare per recidere tendini e dove colpire per spezzare ossa. Non risparmiò i dettagli, tanto che più volte sentii i conati salirmi alla gola.

Ezio mi squadrò con i suoi occhi da aquila.

“Uccidere è così, Bianca. Disgustoso e crudele. Pensi davvero di essere pronta per tutto questo?”

Ovviamente non lo ero, ma il mio orgoglio mi fece rispondere un fiero: sì.

Lui strinse le labbra. “Ma certo” disse soltanto. Per quel giorno, la lezione finì.

Ciò che mio padre escogitò la volta successiva, devo ammetterlo, ancora fatico a perdonarglielo.

Pochi giorni dopo, il cavallo di Vanni ebbe un brutto incidente. Mio fratello non si fece nulla, per fortuna, ma la bestia, una bella giumenta roana, si spezzò entrambe le zampe anteriori. Gemeva in maniera penosa, tanto che non riuscimmo nemmeno a riportarla alla stalla.

“Possiamo guarirla, vero?” fece Vanni, con la voce tremante e i lucciconi già negli occhi.

Ezio mi fissò intensamente.

“E’ il tuo momento, Bianca. Dimostrami che sei un’Assassina.”

Vanni prese a strepitare; si aggrappò al collo della cavalla, che nitriva in maniera sempre più acuta. Guardai in quegli occhi acquosi e neri, e vi lessi una supplica. Come potevo sapere cosa mi stesse dicendo? Mi pregava di lasciala vivere, o di aiutarla a morire?

Ezio mi passò il pugnale. Ripassai, mentalmente, dove si trovava la giugulare. Sentivo il sudore freddo imperlarmi la fronte, mentre Vanni gridava e piangeva. Ezio lo staccò dal cavallo.

Toccai la pelle dell’animale con la mano. Le accarezzai il collo madido. Sentivo la vena sotto le dita. Pulsava velocemente. Cercai di poggiarvi contro la lama del pugnale…avrei dovuto soltanto premere un po’, e reciderla con un gesto veloce. Avrebbe di certo sofferto meno di adesso. E tuttavia Vanni urlava, e la cavalla gemeva e sbuffava, sempre più stanca, scalciando con le zampe posteriori. Lo sguardo severo di mio padre era su di me.

Feci cadere il pugnale a terra.

“Non ci riesco.”

Ezio scosse il capo. Raccolse l’arma, e mi chiese di chiudere gli occhi a Vanni. Ubbidii.

“Non provo alcun piacere in questo” mormorò mio padre, come una preghiera. Quindi, sentimmo un rumore meccanico. Ezio puntò la piccola arma da fuoco che era nascosta nei suoi antibracci alla testa della cavalla. Sparò. L’animale cadde a terra con un tonfo. Era morto all’istante.

Vanni piangeva, mentre io cercavo di mormorargli che era necessario, che stava soffrendo e non c’era modo di salvarla. Ezio sollevò lo sguardo su di noi. La sua camicia bianca era macchiata di rosso; le sue mani non tremavano, e gli occhi erano fermi. Sarei mai diventata come lui? Fredda e impassibile, come lo era lui adesso?

“Ogni forma di vita è degna di rispetto” disse, accarezzando la criniera grigia del cavallo. “Requiescat in pace.

Forse fu allora che qualcosa si ruppe, tra noi tre. Quel momento terribile e insignificante nell’economia dell’universo, fu quello che sciolse i fili dei nostri destini e ci portò alla deriva. Ezio cercava di insegnarci la crudeltà della vita. Vanni imparò l’odio. Io…non lo so. Forse non imparai nulla, se non che sarei stata per tutta la mia esistenza divisa tra loro due, a tentare disperatamente di tenerli uniti.

Ma io parlo del futuro, quando ancora non ho raccontato nulla che lo riguardi. C’è stato un tempo in cui anche io non sono stata una brava figlia, un tempo in cui la rabbia della giovinezza mi portò contro mio padre. Forse è arrogante da parte mia pensarlo, e tuttavia io sono certa che furono i miei errori di quel periodo a trascinarci al punto in cui ci troviamo ora. Per questo, non smetterò mai di chiedere loro perdono.

 

Grazie mille per le recensioni e segnalazioni a Renault, Ama, Lulla Cullen, Miko e Shadow Eyes! Non avete idea della carica che mi date. 

Volevo inoltre segnalare i bellissimi disegni che Miko sta facendo su Bianca...è davvero una bravissima artista e io sono onorata che si dedichi ai personaggi di questa fanfic! Ecco Bianca da bambina e Vanni nello scorso capitolo :)

Infine linko un piccolo trailer che mi sono divertita a mettere insieme.

Grazie ancora a tutti coloro che passano di qui.
Laura.

 

Note Storiche

- Nel 1501, con la minaccia di Cesare Borgia che incombeva sulla loro signoria, i Bentivoglio di Bologna commisero quello che secondo diversi storici fu un enorme passo falso, che non fece che abbassare la loro popolarità. Convinti dalle insinuazioni di un messo di Cesare Borgia, furono indotti a pensare che i Marescotti, una delle famiglie più potenti di Bologna e storica alleata dei Bentivoglio, stesse prendendo accordi per far entrare il Valentino a Bologna. L’ordine della strage partì dalla vendicativa Ginevra Sforza (del ramo degli Sforza di Pesaro, dunque lontanissima cugina della nostra Caterina), moglie di Giovanni Bentivoglio e madre di Ermes: in una notte di Giugno le porte della città vennero chiuse per impedire a chiunque di fuggire, mentre i figli di Ginevra e i loro uomini setacciavano la città per passare a filo di spada ogni esponente della famiglia dei Marescotti, le loro donne, i loro servi e alleati. Tre di loro riuscirono a rifugiarsi nella Torre dell’Uccellino, al confine con il ferrarese: furono convinti a uscire con la promessa che le loro vite sarebbero state risparmiate, e appena misero piede fuori della torre furono decapitati.

Nella mia storia, i Marescotti non sono colpevoli di voler consegnare Bologna al Valentino, ma di essere segretamente alleati degli Assassini. Agamennone tornerà ancora nella nostra storia...ormai ho definito il cast principale che circonderà Bianca nei suoi anni di adulta, e lui ne fa definitivamente parte! J

 Dopo aver spulciato diversi documenti storici non ho ancora chiaro chi di loro e come riuscì a salvarsi, quindi ho romanzato la fuga di Galeazzo e Agamennone da Bologna (i due risultano ancora vivi, almeno fino al 1513). Nei documenti non sono nemmeno riuscita a scoprire le date di nascita dei due, ma calcolando in base all’età del bisnonno (ultraottantenne nel 1501) diciamo che verosimilmente Galeazzo ha l’età di Ezio e Agamennone suppergiù quella di Bianca. NdRuna

- La Leda con il cigno leonardesca è andata perduta, ma ci restano numerose copie di emuli. Mi riferisco in particolare alla versione in cui Leda è in piedi. Alcuni studiosi ritengono che lo schizzo “La Scapigliata” sia preparatorio alla Leda.

 - Il dipinto che Leonardo mostra ai bambini è “La Madonna dei Fusi”, il cui compimento risale appunto al 1501. Il quadro venne commissionato al Maestro da Florimond Robertet, potente segretario di Stato del re di francia Luigi XII, come attesta la lettera di Pietro da Novellara scritta nel 1501 nella quale il Vicario informava la Marchesa di Mantova Isabella d’Este che Leonardo si sarebbe occupato del suo ritratto non appena avesse finito il lavoro per Robertet.

- Diversi commentatori riportano l’amore di Leonardo per gli animali. Pare che comprasse uccelli in gabbia solo per poterli liberare, e alcune fonti sostengono fosse vegetariano.

 - L'oratorio di Santa Cecilia di cui Leonardo parla a Galezzo è una splendida chiesa affrescata di Bologna, si trova in via Zamboni, di fronte al Teatro Comunale e accanto a Piazza Verdi. Quante volte ci sono passata davanti da universitaria senza quasi vederla…è uno di quei monumenti che un Assassino si divertirebbe molto a scalare.


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Capitolo 9
*** Il bacio di Giuda ***


Avrei voluto aspettare almeno venerdì per pubblicare il nuovo capitolo, ma alla fine non ho resistito. In questo periodo sono un po' giù di corda e decisamente meno impegnata degli scorsi mesi, quindi tempo e voglia di immergersi in un altro mondo si sono finalmente incontrati, accelerando i miei ritmi di scrittura. Spero che la fretta non mi abbia fatto commettere troppe imprecisioni (ricontrollo sempre, ma molto mi sfugge nella lettura a schermo...), nel qual caso sono più che bene accette le osservazioni e le correzioni!

 

Quando Ferrante mi baciò per la prima volta, pensai che fosse il giorno più bello della mia vita.

Avevo quattordici anni, e lui sedici. Avevamo appena rubato insieme le prime pesche della stagione dall’albero di un contadino, e ci eravamo rifugiati di corsa dentro il borgo, nascondendoci sul retro della chiesa, per dividerci il bottino. Io sciolsi il drappo che racchiudeva il nostro tesoro: contai le otto pesche vellutate che tenevo in grembo. Ferrante prese per sé la più grossa, e l’addentò.

“Egoista!” lo sgridai, ridendo. “Avresti dovuto lasciare la migliore a me.”

Lui aprì un sorrisetto, e mi porse la pesca che aveva già morso. “Possiamo sempre dividerla.”

“Oh, grazie della gentile concessione. Quella l’ho presa io, me la ricordo.” Diedi anche io un morso, dove prima era stata la sua bocca.

“Sì” ammise Ferrante, staccando un altro pezzo di frutto con i denti “Tu l’hai presa dall’albero…ma chi l’ha raccolta quando l’hai buttata a terra? E’ di tutti e due.”

Non ci accorgevamo che ad ogni morso i nostri visi si avvicinavano. Mi sentivo pervasa da un’inspiegabile euforia: il mio cuore era leggero. Poi, lui allontanò il frutto per scherzo. Mi sporsi per prenderglielo, ridendo.

“Sei un ladro, lo sai?”

E lo era davvero, perché a quel punto mi rubò un bacio.

Fu dolce sentire ancora il succo della pesca sulle nostre labbra; allo stesso tempo, mi nacque dentro un calore mai provato prima. Ferrante stuzzicava la mia bocca, e la mordeva piano, come se anche quella un frutto maturo da cogliere. Avevo smesso di respirare, completamente abbandonata in quella sensazione nuova.  Fu come il primo morso di Eva alla mela. Avevo appena assaggiato il peccato, e mi era piaciuto infinitamente. La mia natura poco pudica, addormentata fino a quel momento in un corpo bambino, si risvegliava all’alba della mia femminilità.

Era bello. Era naturale. Ci baciammo a lungo, e poi ci sorridemmo. In quei primi giorni d’estate cominciavo il mio cammino per diventare una donna; Ferrante mi riaccompagnò a casa tenendomi per mano.

Una volta che fummo giunti alla villa, Ferrante cercò di non farsi notare. Io lo invitai ad entrare per salutare Vanni, ma accampò una scusa. Sembrava nervoso. Lo capivo: dopo quello che era successo tra di noi, non avrebbe guardato mio padre e mia madre con gli stessi occhi.

D’altronde, non potevamo sperare di tenere nascosta a lungo quell’evoluzione del nostro rapporto. Il primo a scoprirci fu naturalmente Vanni.

Ci sorprese una volta che Ferrante era entrato dalla mia finestra. A dire il vero, se mio fratello non ci avesse trovati forse gli avrei concesso di più di un bacio. Ferrante non si comportò in maniera imbarazzata quando fummo scoperti: promise soltanto a Vanni una ricompensa se avesse tenuto chiuso il becco, e uscì alla sua solita maniera, gettandosi nel covone di fieno che stava sotto la mia finestra.

La prima cosa che mio fratello mi disse appena se ne fu andato, fu: “Ferrante è un idiota.”

“Sei solo geloso” bofonchiai, irritata.

“Quella gelosa dovresti essere tu. Bazzica sempre intorno al bordello.”

Sospirai. Vanni era troppo sveglio per i suoi dieci anni. “I ladri collaborano con le prostitute, non è una novità.”

“Anche con la figlia del sarto? E con quella del maniscalco? Forse anche con le ragazze dell’oste.” Scosse il capo corvino. “Sei proprio cieca.”

A quel punto, gli tirai la prima cosa che avevo a mano. Per fortuna si trattava solo di un cappello, perché lo presi in piena fronte.

“Cosa ne sai tu? Torna a giocare con la tua spada di legno e fatti gli affari tuoi, poppante.”

Sfortunatamente per me, Vanni aveva un concetto molto vasto degli “affari suoi”, e riteneva di poter ficcare il naso in tutto ciò che mi riguardava solo perché era mio fratello. 

Proprio così, quel cretino fece la spia. Per il mio bene, si capisce: o così pensava lui. Mio padre non fu affatto contento.

“Non uscirai più dalla villa per un mese. Aiuterai zia Claudia con i libri contabili, e nel tuo tempo libero starai con la balia e Lisabetta.”

“Padre!” protestai, sconvolta. Mia cugina Lisabetta aveva due anni, ancora bagnava le fasce! Era tanto carina da coccolare per dieci minuti, ma appena iniziava a strillare scivolava all’ultimo posto tra le miei compagnie preferite.  

“Questo è quanto, Bianca.”

Ezio non mi guardava mentre pronunciava la sua sentenza. L’avevo deluso, e questa consapevolezza mi atterriva tanto che d’istinto risposi con la rabbia.

“Non volete fare di me un’Assassina, e non volete nemmeno che mi innamori come una qualsiasi ragazza!  Cosa volete che faccia, allora? Che resti segregata nella mia stanza e finga di non essere mai nata?”

Ezio mi fulminò con i suoi occhi scuri. “Voglio che tu stia lontano dai guai.”

“Dovevate pensarci prima di mettermi al mondo. Adesso sono qui, e non resterò ferma a marcire in attesa che decidiate cosa fare di me!“

“Tu sei mia figlia ed è tuo dovere ubbidirmi.”

“Vostra figlia? E chi lo dice? Chi lo dice che siete per davvero mio padre? Forse sono figlia del primo balordo di passaggio…a voi cosa importa?”

Fu la prima e l’ultima volta che Ezio mi diede uno schiaffo.

Lo guardai, inorridita e sorpresa. Anche Vanni era sbalordito. Fino a quel momento, mio padre mi aveva sempre concesso tutto; ma quella volta avevo offeso lui, me e mia madre nello stesso momento. Avevo decisamente esagerato.

Fuggii fuori dalla villa, e per la rabbia saltai direttamente sulla ringhiera di pietra della scalinata; da lì, mi arrampicai sui tetti del borgo. Ezio non mi stava chiamando indietro. Questa volta l’avevo fatto arrabbiare sul serio.

Con le lacrime che mi bruciavano sulle guance più forte di quanto facesse lo schiaffo di mio padre, cercai Ferrante. Mi avvicinai alla Gilda dei Ladri, ma non appena intravidi mia madre cambiai bruscamente direzione. Non volevo spiegare. Non volevo sentirmi rimproverare di nuovo.    

Finì che mi rintanai a piangere come una sciocca sui bastioni. Era impossibile non essere vista, lassù. Forse, dopo tutto, desideravo che qualcuno mi trovasse.

Fu zio Mario a scovarmi. Ero abbarbicata sul merlo di un torrione; facendo perno sul bastone che lo aiutava a camminare, l’anziano assassino riuscì a scalare il pezzo di muro che ci divideva. Era malandato, ma ancora agile. Sedette sul merlo accanto al mio.

“Cos’è successo questa volta?”

Strinsi le labbra, asciugandomi furiosamente gli occhi. Poi dissi:

“Mio padre mi ha punita perché frequento Ferrante.”

Zio Mario tacque un momento per assimilare la notizia. Poi, sospirò. “Questa conversazione sta prendendo una strana piega.”

“Non lo frequento…in quel senso. Non ancora, almeno.”

Lui si stropicciò le mani, in imbarazzo. “Non ti chiederò come sai di certe cose.”

Oh, non era difficile imparare qualcosa sul sesso a Monteriggioni. Era sufficiente sgattaiolare fuori dalla Villa a notte fonda e farsi un giro nei vicoli. Alcune delle prostitute del bordello erano diventate mie amiche, a mi avevano elargito molti racconti dettagliati e consigli non richiesti, che all’epoca mi parevano disgustosi.

“La verità è che Ezio vuole controllare le nostre vite. Se fosse per lui, sarei chiusa in casa con Lisabetta tutto il giorno. Mi tratta come tratterebbe lei.”

“Vuole solo proteggerti, piccola.”

“Non ho bisogno di essere protetta! Io sono adulta ormai. Sai quanti ragazzi si fanno soldati, alla mia età? E le ragazze si sposano.”

Un sorriso curvò le labbra di Mario. “Sei sicura di voler sposare quel buono a nulla di Ferrante?”

“Non è un buono a nulla! E anche se volessi nessuno di voi potrebbe impedirmelo! Nessuno!”

Zio Mario si strinse nelle spalle. “Testona come tuo padre. Cerca solo di non fare pazzie, angioletto. Un marito te lo devi tenere tutta la vita…è per questo che Rosa non vuole farsi accalappiare, sai: sopportare tuo padre ogni giorno è già difficile, almeno così ha sempre una scappatoia.” Una volta compreso che il suo piccolo scherzo non mi avrebbe fatto ridere, si sporse per darmi un buffetto un po’ rude sulla guancia.

“Ascolta un rudere che è al mondo da più di te…da' tempo al tempo. Non avere fretta di diventare un’assassina, ma non smettere mai di allenarti: un giorno il tuo momento arriverà. Come per il matrimonio. Non regalare la tua giovinezza al primo ragazzetto di passaggio. Tu vali molto di più, e non devi dimenticarlo.”

Anche se oggi so che aveva ragione, allora quelle parole non riuscirono a convincermi. Presa da quel fervore che porta con sé lo strano tratto di strada tra l’infanzia e l’età adulta, ero convinta di amare Ferrante, e che senza di lui non avrei saputo più vivere.

Mi aspettavo che altre persone sarebbero corse a parlarmi, e così fu. Discussi con zia Claudia, che, esasperata, fece appello a Nonna Maria per convincermi che dovevo ascoltare i miei genitori. Io mi sentivo soffocare, mi pareva di avere tutto il mondo contro. La Nonna mi raccontò del suo incontro con Nonno Giovanni, sperando di convincermi che non sapevo ancora cosa fosse il vero amore, e che avrei capito più avanti con gli anni perché tutti mi stavano mettendo in guardia. Litigai furiosamente anche con mia madre, che non si capacitava di come avessi potuto dire parole tanto affilate a Ezio. Vanni non osava nemmeno più mettere piede nella nostra stanza per paura della mia vendetta, e si era adattato a dormire con i nostri genitori.

Barricata nel mio mondo, facevo entrare a malapena Ugo. Era l’unico che non sembrava volermi forzare a prendere decisioni antipatiche. Tramite lui, appresi che Ferrante era stato scacciato dalla Gilda dei Ladri di Monteriggioni.

Non riuscivo a immaginare che mia madre potesse arrivare a tanto, solo per qualche stupido bacio. Chi avevamo ucciso, io e Ferrante? A chi stavamo facendo del male?

“Gli hanno trovato dei dispacci sospetti nella borsa” mi confessò zio Ugo. “Dispacci destinati alla Romagna. Uno è per Luffo Numai, che un tempo era il segretario di Caterina Sforza a Forlì. Sospettiamo che tramite quell’uomo Cesare Borgia abbia preso la rocca di Rivaldino...capisci, ora?”

Non volevo crederci. Strinsi i pugni sulla coperta. “Questa è la scusa peggiore che potevate inventare per tenerci lontani.”

“E’ la verità.”

“Giuramelo.”

“Non ti basta la mia parola?”

“Giuramelo su quello che hai di più caro!”

Ugo mi fissò negli occhi, serio. “Te lo giuro sulla vita di Lisabetta, è la verità.”

Mi sentivo come quel tizio romano pugnalato ventitré volte in senato.

“Anche tu, Ugo? Sei contro di me anche tu?”

Lo zio scosse il capo. “Noi siamo tutti con te, Bianca. E’ per questo che ti sto mettendo in guardia. Ferrante non vuole il tuo bene. Ti sfrutterà, perché sei la figlia di tuo padre.”

“No!”

“Devi abituarti a questo, piccola mia. Devi imparare a riconoscere gli amici dai nemici, perché là fuori il mondo è spietato. Prima ci riuscirai, meglio sarà per te e per tutti noi.”

Con quelle parole, Ugo lasciò la mia stanza.

Non volevo credergli. Il cuore si rifiutava di capire, e ordinava alla mente di chiudersi.

Dopo una notte spesa a piangere e a rifiutare di parlare con altre persone, sentii un picchiettare sugli scuri. Li aprii.

C’era un piccione sul mio davanzale. Recava un messaggio, legato alla zampa con un nastro rosso. Ferrante, lo riconobbi subito. Chiedeva di incontrarci quella notte, al rintocco dell’ora seconda, dietro la chiesa. 

Le lettere erano stentate e gli errori di ortografia numerosi. Ferrante non sapeva scrivere molto bene, mia madre gliel’aveva insegnato ma se n’era presto scordato.

Dovevo parlare con lui, chiedergli una spiegazione per la faccenda dei dispacci. Dovevo sentir raccontare quella storia dalla sua voce, per capire se si trattava di una bugia.

Non esitai: quando la casa fu addormentata profondamente, indossai i più scuri tra i miei abiti, infilai la cappa grigia col cappuccio ben calcato sul capo, e mi aggrappai ai rampicanti per scendere fin nel cortile. Da lì non sarebbe stato semplice eludere la sorveglianza degli uomini di zio Mario e Ugo. Fui attenta a muovermi solo nell’ombra. La notte era buia, molto buia per via delle nubi che oscuravano il cielo. Avevo il cuore in gola, e i miei piedi volavano da una pozza di tenebra all’altra.

Infine, arrivai sul retro della chiesa. Il campanile batteva il primo  rintocco della seconda ora in quel momento.

Per un attimo interminabile fremetti, mentre si consumava il secondo rintocco. Non c’era nessuno.

Poi, un rumore felpato mi fece sobbalzare. Al buio, mi ci volle qualche istante per distinguere la sua sagoma, la sua statura, la cuffia sul capo e la solita camicia malandata. Per il sollievo, lo picchiai sul petto con i pugni chiusi.

“Mi hai fatto spaventare, cretino!” sibilai.

“Ti aspettavo sul tetto” rispose Ferrante, scoccandomi un rapido bacio sulle labbra. D’istinto, mi scostai.

Lui esitò un momento.

“Dobbiamo capire come uscire dalla città” disse poi, serio. “Le porte sono chiuse…ci toccherà arrampicarci sulle mura.”

Arrogante. Credeva che gli avessi detto di sì solo perché mi ero presentata lì.

“Non ho detto che ti seguirò.”

“Andiamo, Bianca. Se scappiamo adesso, meno di tre ore potremo arrivare a Firenze, e all’alba saremo marito e moglie.”

“Mio padre non mi perdonerà mai.”

“Ti perdona sempre tutto. Dov’è finito il tuo coraggio?”

Mi allontanai di un passo. Qualche stella si era fatta strada a spintoni tra le nubi, ed io potevo vedere meglio il volto pallido di Ferrante.

“Quella storia dei dispacci…che significa?”

Lui mi squadrò, perfettamente impassibile. “Quella? Una scusa qualsiasi che i tuoi genitori hanno trovato per cacciarmi in fretta. Non l’hai ancora capito che stanno cercando di metterci uno contro l’altra? Tuo padre pianifica di farti sposare con un gran signore, per questo mi odia tanto.”

Sposarmi a un gran signore…una sciocchezza, a ripensarci. Ero una figlia illegittima, non potevo essere una buona moneta di scambio. Ma forse, dopo tutto, non era così. Anche Caterina Sforza era una figlia illegittima, eppure aveva fatto un ottimo matrimonio ed era servita alle alleanze del padre. Forse la spiegazione di Ferrante poteva avere un senso.

Quel mio momento d’esitazione gli permise di prendermi le mani. Non mi ritrassi. Riusciva a confondermi sempre, quando mi toccava.

“Mi vuoi bene, Bianca?”

Guardai nei suoi occhi chiari. Ora che mi ero abituata al buio potevo scorgerli meglio. Che sciocchezze, certo che gliene volevo. Per questo, acconsentii a fuggire con lui.

Non fu facile. I cancelli a quell’ora erano sbarrati: dovemmo arrampicarci in silenzio sulle mura, e attraversare i bastioni nel momento esatto in cui le guardie, pattugliando, si voltavano e ci davano la schiena. Ferrante si calò per primo, ed io lo seguii. Mi sembrò di ricominciare a respirare solo quando toccai l’erba dolce ai piedi delle mura.

In silenzio, Ferrante mi indicò un albero sotto cui erano legati due cavalli. Per un attimo, nell’ombra, mi parve di scorgere un’altra figura…ma forse era stata solo una mia impressione.

“Bianca!” sentii chiamare, in un sussurro strozzato. Ferrante mandò un’imprecazione tra i denti. Io sussultai.

“Vanni?”

Mi volsi verso le mura. Mio fratello era ancora a metà scalata.

“Che diavolo stai facendo!” ringhiai.

“Tiriamo giù quell’idiota” mormorò Ferrante, guardando nervosamente in direzione dei cavalli.  “Ci caccerà nei guai.”

Sbuffando come un mantice, Ferrante si arrampicò fino al punto in cui Vanni stava aggrappato, terrorizzato, come se gli fosse impossibile scendere di un passo o risalire. Bofonchiando qualche bestemmia, se lo mise sulla schiena: mio fratello gli si aggrappò di peso. Se lo avessimo lasciato lì, le guardie lo avrebbero notato, rovinandoci la fuga.

Quando lo ebbe portato giù, ebbi cura di trascinare tutti e due verso i cavalli, e non appena fummo lì acquattati, protetti dall’ombra delle fronde dell’albero, afferrai mio fratello per il bavero della camicia.

“Porco demonio, si può sapere che mi combini?”

“Ti ho sentita uscire dalla finestra, e ti ho seguito” fece Vanni, imbronciato. “Non volevo che ti mettessi nei guai. E ringrazia che non ho chiamato nostro padre, ti avrebbe fatta legare al letto questa volta!”

Mi voltai verso Ferrante. “E ora che ne facciamo di lui?”

“Il ragazzo viene con noi” fece una voce sconosciuta.

Sobbalzai, stringendo il braccio di Ferrante. Non avevo portato armi con me; speravo che almeno lui ne avesse. Di certo non mi aspettavo un attacco di briganti tanto vicino al borgo!

Avanzarono. Erano due uomini. Uno era alto e smilzo, dell’altro distinsi solo la bassa statura e la forma allungata del cranio, probabilmente rasato. Vanni raccolse un ramo da terra, parandosi coraggiosamente davanti a me per proteggermi.

L’uomo basso rise. Tolse il ramo dalle mani di mio fratello, strappandoglielo come se fosse un giocattolo.

“Ben fatto, Ferrante. Ci hai portato più di quanto di abbiamo chiesto.”

Raggelai, mentre la mano di Ferrante sul mio polso cambiava stretta. In un attimo, lui mi torse il braccio dietro la schiena, immobilizzandomi. Io gemetti. L’uomo smilzo aveva preso Vanni, e gli aveva cacciato un panno in bocca per impedirgli di urlare.

“Tu…” mormorai, cercando di voltare il viso sulla spalla per guardare in faccia quel cane traditore. “Figlio di puttana!”

Dopodiché, feci per chiamare le guardie. La mano sottile di Ferrante mi tappò la bocca. Cercai di morderlo, senza successo.

“La ragazza aveva un prezzo” disse, rivolto ai due uomini “ma vi ho portato anche il bambino. Non merito qualcosa in più?”

Una pausa. Nell’ombra intravidi il ghigno dell’uomo più basso.

“Ma certo, è giusto. Ci hai servito bene, e sarai ricompensato.”

Accadde tanto rapidamente che non realizzai subito. Il sibilo del pugnale. La sua vibrazione metallica che mi scivolava vicino al viso. Il grido di Ferrante, e il suo sangue caldo che dall’occhio sfondato schizzava sui miei capelli, sulla spalla. Mentre la sua stretta si allentava, percepii il tremito delle membra. Cadde a terra come un sacco vuoto.

“Finalmente, abbiamo la Progenie del Profeta” mormorò quello che aveva scagliato il pugnale. Si fece il segno della croce, mentre l’altro si avvicinava per legarmi i polsi. “Non nobis, Domine…non nobis, sed nomine Tuo da gloriam.

Ero così sconvolta che non mi venne in mente di gridare, né di fuggire. L’uomo basso mi cacciò uno straccio in bocca, come aveva fatto con Vanni. Mi caricò sul cavallo, mentre l’altro faceva lo stesso con mio fratello. Gli zoccoli dell’animale calpestarono il corpo di Ferrante, riverso a terra in mezzo all’erba.

 

Non potei dormire nemmeno un istante. La tensione, la stanchezza, lo sconcerto mi pungevano come mille aghi, tenendo aperte le mie pupille. Per quanto tempo abbiamo cavalcato? Non ricordo. So solo che albeggiava quando ci fermammo.

Ad una stazione di posta l’uomo tarchiato cambiò i cavalli, e prese al loro posto un carro trainato da due castroni; per poterlo fare ci aveva fatto nascondere insieme allo smilzo (che, notai, era anche zoppo), perché la gente che si muoveva nei dintorni non vedesse le corde ai nostri polsi e gli stracci che ci impedivano di chiamare aiuto. Quando tornò, ci caricarono sul carro coperto, dove potevano agevolmente nasconderci.

A quel punto, i nostri rapitori si scambiarono qualche parola. Il tarchiato aveva un forte accento spagnolo. L’altro, invece, usava una cantata dolce che mi ricordava quella del templare bolognese.

“E’stato più semplice del previsto, vero, Michelotto?”

“Idiota. Chiudi quella bocca.”

“E perché?” replicò allegramente lo smilzo “la missione è praticamente riuscita.”

L’uomo chiamato Michelotto si passò una mano sul volto infuriato. “Mi domando perché la signora si serva di uno sciocco come te.”

Erano templari, lo avevo capito. E il fatto che uno fosse spagnolo mi faceva presagire il peggio.

Lo Spagnolo. Così gli Assassini chiamavano Papa Alessandro. Se quelli erano suoi scagnozzi, la logica avrebbe voluto che ci portassero verso Roma; ma di geografia ne avevo studiata abbastanza da riconoscere i monti che si stagliavano all’orizzonte. Si trattava degli Appennini.

La strada era sassosa e irta: da una parte c’era la montagna, dall’altra uno strapiombo spaventoso. Il primo cippo miliare recava la scritta Bononia, seguita da un numero romano. Ci dirigevamo verso Bologna?

Scambiai uno sguardo con Vanni. Mio fratello riuscì a sputare il cencio che teneva in bocca. “Ho sete” piagnucolò, in maniera studiatamente infantile.

Il tarchiato in carretta ci gettò una borraccia.

“Ho le mani legate!” esclamò Vanni.

“Se vuoi bere, trova un modo” fece quello, sbrigativo.

Mio fratello sbuffò: si chinò a terra e prese il becco del piccolo otre tra i denti. Si arrangiò a succhiare qualche sorso, quindi venne verso di me. Si infilò l’otre sotto il braccio, e mi aiutò a togliere il cencio di bocca, strappandomelo con i denti. Poi riafferrò la fiasca tra i denti e me la porse.

Dopo che ebbi bevuto, lui si fece ricadere la fiasca in grembo.

“Mi dispiace.”

“Zitta. Adesso dobbiamo pensare a come liberarci.”

“Tacete, voi due. Altrimenti vengo lì e vi metto a nanna a modo mio” minacciò Michelotto.

Riducemmo la voce a un bisbiglio.

“Se gridassimo aiuto? Qualche viandante passerà prima o poi.”

Scossi il capo. “Questi due lo ucciderebbero prima che possano aiutarci, e forse ucciderebbero anche noi.”

Vanni annuì, e si raccolse nei suoi pensieri. Mi stupivo del sangue freddo che dimostrava: in quel momento, sembrava essere lui il fratello maggiore.

Di tanto in tanto, Michelotto volgeva un’occhiata preoccupata alle sue spalle. Capii che temeva ci stessero seguendo, e una vampata di gioia mi nacque in petto. Certamente la nostra assenza era stata notata, forse già durante la notte. Gli Assassini sarebbero arrivati a riprenderci.

“Prima partiamo, prima saremo a casa” zufolò lo zoppo. “Quanto mi manca la mia Ferrara! Ogni giorno d’assenza è un’agonia.”

“Nel nome del Padre della Comprensione, vuoi stare zitto?”

“Di che ti preoccupi? I nostri uomini sorvegliano la strada. Nessuno può seguirci.”

“Sei un sempliciotto, Ercole. Gli Assassini potrebbero essere già qui.”

Ferrara, dunque. Chi poteva volerci male laggiù? La città era governata dagli Este, e da che ricordassi gli Este erano nostri alleati…

Il sibilo inconfondibile di una freccia mi distolse da quelle riflessioni. Il legno vibrò quando si conficcò in una paratia del carro.

Piena di speranza, mi sporsi, infilando la testa tra i due lembi cenciosi che ricoprivano il retro del carro. Un gruppo di uomini a cavallo ci stava seguendo.

“Che ti avevo detto!” ringhiò Michelotto, spronando i cavalli ad andare al galoppo.

I nostri inseguitori guadagnavano terreno. Distinsi il cappuccio bianco di mio padre, poi vidi zio Mario, zio Ugo, e mia madre. Con loro c’erano diverse guardie di Monteriggioni. Erano venuti! Tutto sarebbe finito presto, saremmo stati salvi!

Purtroppo, Ercole aveva ragione quando diceva che gli uomini dei templari erano nascosti ovunque. Da un bivacco di viandanti si sollevarono cinque uomini vestiti come mercenari, mentre una linea di soldati che parevano semplici guardie di frontiera lasciavano passare il carro e poi si chiudevano dietro di noi, attaccando gli Assassini.

Bestemmiando tutti i santi, Michelotto lasciò le redini ad Ercole e saltò nel retro del carro. Ezio e zio Mario erano riusciti a sfondare lo sbarramento templare, mentre gli altri tenevano impegnati i nemici.

Michelotto frugò tra gli stracci sul fondo del carro, e trovò una balestra. Prese dalla fusciacca che portava a tracolla un dardo corto e robusto, lo incoccò e prese la mira.

Prima che riuscissi a fermarlo, il dardo fu scoccato e corse via rapido. Si conficcò nella gola di zio Mario, trapassandola da parte a parte. Lui cadde da cavallo, con gli occhi sbarrati. Gridai.

“No! Zio! No!”

Mio padre serrò i denti, e continuò la sua corsa disperata. Era sempre più vicino. Michelotto incoccò un altro colpo, ma Vanni con una spallata riuscì a deviarlo. Il templare colpì il viso di Vanni con il calcio della balestra, furente; a quel punto, mi avventai su di lui. Lo feci cadere di schiena, provocando un sussulto a tutto il carro. Vanni calciò lontano la balestra; mentre sferravo pugni alla cieca sulla testa del templare, con le mani ancora unite dalle corde, Michelotto prese un pugnale dalla cintura. Con un colpo di reni, gli riuscì di ribaltare le nostre posizioni.

“ ’sta ferma,  cagna rabbiosa!” ringhiò, ansimando. Quindi mi strattonò per i capelli, e scostò i lembi del panno sul retro del carro, che oscillavano frustati dall’aria. Mi pose il pugnale alla gola.

“Vedi la tua bambina, Assassino?” gridò, per farsi sentire nel frastuono di zoccoli e ruote “Se non ti arrendi puoi dirle addio!”

La lama era appoggiata alle mie labbra, ma non me ne curai. Mi mossi di scatto per mordere la mano di Michelotto. La ferita si aprì come un fiore bruciante, e subito sentii l’odore ferroso del sangue che mi scivolava lungo il mento. Non mi importava. Gli sferrai un calcio che lo centrò in pieno all’inguine e lo costrinse a piegarsi in due. Approfittando della sua distrazione, mi sporsi dal carro.

“Padre!” gridai, tendendo le mani legate. Il cavallo di Ezio era a un passo. Mio padre lasciò le redini e saltò, aggrappandosi alle paratie del carro. Cercai di aiutarlo a salire, nonostante i miei polsi legati. Ce l’avevamo quasi fatta, quando Michelotto mi tirò indietro. Il suo pugnale si conficcò nella mano di Ezio, che fu costretto a lasciare la presa sul carro, rotolando nella polvere.

“Padre! No!”

Vidi Ezio sollevarsi, e chiamare a squarciagola il mio nome e quello di Vanni.  Poi, un altro Templare staccatosi dalla mischia lo raggiunse e cercò di sopraffarlo. Ezio dovette difendersi.

La nostra ultima speranza di salvezza rotolava via insieme alle ruote veloci del carro dei templari, e io avevo ancora negli occhi l’espressione di zio Mario mentre si riversava a terra. Mi morsi le labbra: entrambe sanguinavano copiosamente.

E mio padre? Come potevo essere certa che stesse bene? Mia madre, zio Ugo…perfino Vanni…avevo trascinato tutti in quel pasticcio senza via d’uscita, per colpa dei miei capricci insensati. Ed ora avrei dovuto sopportarne le conseguenze.

 

Ezio cerca di salvare Bianca

(Ezio al salvataggio di Bianca e Vanni - Lineart (c) Ilaria/Miko)

 

Note di Runa

Non so voi, ma in questo capitolo avrei voglia anche io di dare uno schiaffo a Bianca. Brava, vatti a fidare di uno che ti ha detto che brucerai all'inferno... :P

Mi è dispiaciuto infinitamente per Zio Mario, ma diciamocelo, nel 1503 ha 69 anni...un guerriero del suo calibro meritava una morte in battaglia - e poi...beh, sarebbe uno SPOILER ma credo che ormai la notizia sia ampiamente diffusa...so che la Ubisoft condivide la mia idea ^_^ 

Ed ora, verso Ferrara finalmente! I due rapitori di Bianca sono personaggi storici che ho ritratto un po' liberamente, sia per aspetto fisico che per carattere: lo zoppo è Ercole Strozzi, cortigiano e poeta alla corte estense; Michelotto è il braccio di Cesare Borgia, altrimenti conosciuto come Miguel de Corella. Quest'ultimo è anche conosciuto dalle appassionate del fumetto di Fuyumi Souryo "Cesare, il creatore che ha distrutto" per essere un gran bel pezzo di ragazzo. Io l'ho ritratto più rozzo e brutto, come nella serie spagnola Los Borgias (ma perché non è arrivato in Italia, mannaggia? C'era un Cesare strepitoso...)

Ma ora basta blaterare, passo ai dovuti ringraziamenti!

Renault: Avevo promesso Leonardo, e Leonardo è stato! :) Anche perché almeno ha risollevato un po' quel capitolo tanto cupo. E, tanto per spoilerare a destra e a manca, non è sicuramente l'ultima volta che lo vedremo ;)

Ama: Hai visto, povera Bianca? Non è ancora pronta per dare la morte.Ho veramente sofferto tantissimo durante quella scena, quasi quanto lei. Immagino non sia facile e so che a volte è tristemente necessario. Per quanto riguarda Agamennone, ha visto una bolgia infernale, povero bambino. Credo non si riprenderà mai del tutto. Resterà un po' suonato :)

Lulla Cullen: Grazie! In effetti Leonardo è stato utile per tirare un po' il fiato in quel capitolo tristissimo...e d'ora in poi, per qualche capitolo, l'atmosfera si fa cupa! 

Miko: I complimenti che ti ho fatto sono meritatissimi, quindi calcati pure quel berretto rosso in testa che ti sta a pennello! ;) Sono felicissima che la mia versione di Leonardo ti abbia soddisfatto. Invece, per quanto riguarda le ultime frasi del capitolo...eh. Eh. Eh. Se commento oltre mi sa che spoilero troppo. Eh. ^_^


Grazie anche a tutti coloro che hanno la bontà di passare di qui e soffermarsi a leggere. Arrivederci al prossimo capitolo, dal titolo (provvisorio:) "Il ricciolo di Lucrezia". A presto!

 

Laura.

 

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Capitolo 10
*** Il ricciolo di Lucrezia ***


Durante il viaggio mi ero assopita, con le labbra che ancora pulsavano forte per la ferita che le attraversava. Almeno, avevano smesso di sanguinare. Stringevo debolmente nel pugno il cencio con cui le avevo tamponate fino al momento in cui mi ero addormentata.

Quel dolore costante mi aveva ricordato, ogni volta che le pupille fremevano e mi riaffacciavo alla superficie della veglia, che non si era trattato di un incubo. Il tradimento di Ferrante, la sua morte e il rapimento. Il tentativo di salvataggio da parte degli assassini. L’orribile fine di zio Mario.

La testa di Vanni riposava sulle mie gambe. Anche lui dormiva, e anche lui non aveva pianto nemmeno per un momento. Mio fratello era cresciuto, si stava facendo un giovane uomo coraggioso. Ed io, stupida incosciente, l’avevo trascinato in un guaio decisamente più grande di noi.

D’un tratto, mi accorsi che i cavalli si arrestavano. Vanni si sollevò di scatto dalle mie ginocchia.

“Siamo arrivati” mormorò, pallidissimo. Cercai di stringergli la mano. Le corde mi avevano piagato i polsi, ma mi morsi l’interno delle guance per scacciare anche quel dolore.

Poi, il carro si fermò. Non eravamo ancora entrati in città. Il paesaggio oltre il telo bianco era quello dell’aperta campagna.

Michelotto scese dalla cassetta, ed Ercole lo seguì zoppicando, appoggiandosi a un bastone che non gli avevo visto usare prima.

“…troverai cavalli e viveri per due giorni di cammino” diceva Ercole a Michelotto. “E che il Padre della Comprensione ti accompagni nel tuo viaggio, fratello.”

Quindi, trascinarono fuori Vanni, che si mise a gridare.

“Cosa volete fargli! Lasciatelo!”

Tentai di intervenire, ma Ercole mi picchiò la spalla con il bastone.

“A cuccia, cagnetta. Lui non viene con noi.”

Gli sputai addosso, e in un tentativo disperato cercai di gettarmi fuori dal carro. Ercole mi afferrò, e mi costrinse contro il proprio petto magro, premendomi il suo bastone sullo sterno per tenermi salda. Non mi restò che guardare Michelotto che trascinava via mio fratello.

Le sue grida mi lacerano le orecchie ancora oggi. Cosa sarebbe successo, se non ci avessero separati? Se chiudo gli occhi posso sentire quel bambino innocente e coraggioso, che grida:  

“Bianca! Bianca, non lasciarmi!”

Ma non è il momento dei rimpianti, ora. Devo terminare il mio racconto.

“Dove lo portate?” gridai, quando Michelotto spronò il cavallo e prese un sentiero secondario. Ercole non si fidò a lasciarmi andare.

“Non deve interessarti.”

Con tutta l’energia che mi restava, gli diedi una testata. Gli feci abbastanza male perché, per un momento, allentasse la presa. Ne approfittai per piegarmi quel tanto che bastava a sferrargli una gomitata nelle costole, seguita da una pestata sul piede storpio. Mentre lui gemeva, tentai di scendere dal carro. Rovinai a terra, spellandomi gli avambracci e le ginocchia. Ma non potevo arrendermi ora. La salvezza era vicina.

Nel momento in cui tentavo di rialzarmi, sentii il colpo violento della bastonata che mi raggiunse alla nuca. Persi i sensi.

 

Rinvenni dentro un letto, tra cuscini morbidi e coperte che scivolavano dolcemente tra le mie dita. Polpastrelli freddi mi sfioravano, passandomi una pezza umida sulla fronte e sul viso. Mi accorsi che una bambina, una serva bionda, si stava occupando di me. Non aveva visto che mi ero svegliata; mi aveva voltato la schiena appena avevo schiuso gli occhi.

Al mio capezzale c’erano diverse donne, riccamente vestite e di bellezza notevole.

Le passai in rassegna con uno sguardo muto. Indossavano abiti identici, di quel leggero velluto veneziano cangiante, con diademi di perle e zaffiri nei capelli. Erano decisamente diverse, per età e aspetto.

Una giovane donna castana, con un viso raffinato e birichino. Una ragazzina dalla chioma di oro rosso e guance appena spruzzate di lentiggini. E poi, stupore degli stupori, una ragazza dalla pelle nera come ebano.[1] Era la prima volta che vedevo una Mora, e rimasi sconcertata dalla sua bellezza così diversa da abbagliare.

Seduta al centro di quel gruppo che discorreva sottovoce, c’era una dama più bella di tutte le altre messe insieme. Era vestita di un broccato argentato ricamato di perle e rubini. Capelli biondi come il grano raccolti in una rete d’oro, anch’essa intessuta di perle. Viso di porcellana, di quelli che non verranno mai segnati dal tempo. Occhi grandi, ingenui, colore dell’erba spruzzata d’ocra.

Fu la prima ad accorgersi che mi ero svegliata.

“Finalmente, Bianca. Ci hai fatto temere per la tua salute.”

Aprii la bocca per parlare, ma una fitta dolorosa me lo impedì. Qualcosa tirava e bruciava sulle mie labbra. Dovevano avermi ricucito il taglio provocato dal pugnale di Michelotto.

“Mi dispiace, resterà una cicatrice” fece la donna. Il suo tono voleva essere rassicurante, perfino materno. Questo mi incoraggiò a parlare a mia volta.

“Dove sono?”

“Nei miei appartamenti. Ti presento le mie dame: laggiù vedi Angela…”

La rossa chinò il capo.

“…Caterina…”

Lo stesso fece la moretta.

“…e Nicoletta.”

Fu il turno della giovane donna castana.

Parevano amichevoli, e avrei voluto credere a quelle apparenze. Ma in un battito di ciglia ricordai il pugnale che aveva ucciso Ferrante, e il dardo che aveva trafitto la gola di zio Mario. D’improvviso, la mia mente si rischiarò. Non dovevo abbassare la guardia: ero nel covo nemico.

“Dov’è Vanni?” domandai.

“Al sicuro.”

“Voglio vederlo.”

La donna si sporse, per prendermi la mano. Ritrassi la mia. Lei sorrise, comprensiva.

“Tuo fratello si trova a Forlì” disse. “E’ necessario che restiate separati per un po’ di tempo.”

“Io non resterò qui a lungo. Mio padre verrà a salvarmi.”

La donna annuì. “Verrà, sicuramente. E sarà allora che tratteremo per la vostra liberazione.”

C’era qualcosa di inquietante nella sua calma. Qualcosa che mi spaventava molto di più di quanto un’arma puntata alla gola avrebbe potuto fare.

A quel punto, infatti, lei sorrise. Con perfetta, naturale cortesia.

“So a cosa stai pensando. Osserviamo Giovanni, come osserveremo te. Se cerchi di fuggire, tuo fratello morirà.”

Inghiottii a vuoto.

“Chi siete voi, madonna?”

La donna si riavviò un ricciolo biondo dietro le orecchie. “Il mio nome è Lucrezia. Sono la sposa di Alfonso d’Este.”

Perché il mio sangue non cantò, allora, come aveva fatto non appena avevo visto Ermes Bentivoglio? Non saprei spiegarlo. Eppure, era dannatamente chiaro chi avessi di fronte. Lucrezia Borgia, la figlia di papa Alessandro. In tutta Italia, e forse in tutta Europa, circolavano leggende tremende sul suo conto: si diceva che fosse una perfida avvelenatrice, una donna corrotta e perversa quasi quanto il padre.

“Mio marito non sa della tua presenza qui – è in viaggio, in questo momento, per rispolverare le sue nozioni di strategia guerresca. Nel periodo in cui sarai nostra ospite, sarai una delle mie dame di compagnia. Sappi che non ti è permesso allontanarti da Nicoletta e le altre.”

“Dunque sono una prigioniera, non un’ospite.”

La donna sorrise, con un velo di pietà.

“Caterina, va’ a chiamare messer Cesare.”

La Mora storse il naso.

“Perché non può andarci Margherita?”

Lo sguardo di Lucrezia la passò da parte a parte. La piccola serva che mi aveva accudito si inchinò e fece per uscire ad eseguire l’ordine, ma la Duchessa la fermò con un comando. Ripeté la richiesta alla mora, che ubbidì, inchinandosi a labbra strette. Quando fu uscita, la servetta riprese silenziosamente posto accanto al mio letto.

L’ingresso di Cesare Borgia avrebbe dovuto essere quello di un demonio: mi aspettavo che fuoco e fiamme lo seguissero come una scia, accompagnato da grida di dannati e stille di sangue dalle pareti.

Mi sorpresi invece di vedere un uomo in semplice camicia bianca, con pantaloni gonfi alla spagnola, senza emblemi indosso se non una sottile catena d’oro con una piccola medaglia che spuntava sulla porzione di petto lasciata scoperta dall’ampio colletto. I capelli nerissimi erano lunghi sulle spalle, la barba tagliata ad arte a sottolineare una mascella ben disegnata.

Alla sua presenza, le donne di Lucrezia Borgia si alzarono e sprofondarono in un inchino. Lei le congedò con parole gentili.

Una volta che furono uscite, Cesare sedette scompostamente, con una gamba a cavalcioni di un bracciolo della sedia. Prese una mela dal tavolino lì vicino, e vi diede un morso, senza smettere di fissarmi. Sembrava stesse stimando il mio peso in oro.

“Dunque, è questo l’aquilotto dell’Assassino? Mi pare  piuttosto una ranocchia.”

Lo fulminai con lo sguardo, ed incontrai per la prima volta le sue iridi. Nere, come una notte senza stelle. Ipnotiche. Intollerabili.

“La ragazza ha begli occhi” rispose distrattamente Lucrezia. “Sarà più graziosa dopo che la ferita sul labbro sarà guarita.”

“Cosa farete di me?” domandai.

“E’ anche stupida, oltre che brutta?” sogghignò Cesare. Cercai di valutare quanti anni avesse. Trenta, forse. “Sarai la merce di scambio per ottenere la Mela.”

Dovevo sospettarlo. Dunque, sarei stata ostaggio dei Borgia fino a che mio padre non avesse pagato la mia liberazione ad un prezzo troppo caro.

O forse Ezio mi avrebbe lasciata lì, a morire?

Per un momento, un brivido mi attraversò la schiena. Esisteva quella possibilità. Ero andata contro tutti i suoi consigli e i suoi ordini, l’avevo provocato dicendo che non ero sua figlia, avevo fatto uccidere zio Mario e rapire mio fratello. Come avrebbe potuto mettere in gioco il manufatto che avrebbe determinato i destini del mondo, soltanto per la mia salvezza?

Eppure, dentro di me ero certa che l’avrebbe fatto. Perché era Ezio, e perché ero io. Nonostante quello che avevo fatto, mio padre avrebbe messo a soqquadro l’Europa intera per liberarmi.

Ora avevo una sola certezza. Dovevo fare di tutto per impedirgli di commettere quello sbaglio. Dovevo trovare il modo di salvare Vanni e me stessa, da sola.

 

Dovevo entrare tra le dame di compagnia di Lucrezia; dunque, si esigeva che avessi un aspetto per lo meno rispettabile. Le abrasioni superficiali causate delle corde e la sporcizia dei lunghi giorni di viaggio dovevano essere eliminate: a questo scopo, prima delle opportune medicazioni fui sottoposta ad un bagno scrupoloso, ai cui sovrintese Nicoletta da Siena. Avevo capito che quella donna era la più influente tra le dame giovani del seguito di Lucrezia: ne aveva molte, tra giovani bellissime e anziane raffinate, che la circondavano continuamente come uno sciame. Poche, però, possedevano la sua fiducia, e l’accesso a quel terribile segreto che era la mia presenza alla corte ferrarese.

In questa cerchia ristretta, Nicoletta era di certo la donna più potente dopo Lucrezia Borgia. Lo capivo dal tono che assumeva ogni volta che la Duchessa era assente, dal suo sguardo fiero e allo stesso tempo ironico che squadrava e giudicava ogni cosa. Mi osservava, mentre la camicia bagnata mi aderiva alla pelle, e compresi che stava giudicando la scarsità del mio petto. D’istinto, per la vergogna, mi abbracciai le ginocchia mentre la piccola serva bionda mi passava la spugna sulle spalle.

“Dirai che sei una mia cugina” mi stava istruendo Nicoletta “l’ultima figlia di mio zio Piero, giunta a Ferrara per la mia intercessione presso la Duchessa…”

Proseguì con una serie di bugie che avrei dovuto imparare a memoria: il nome del borgo presso cui ero cresciuta e quello del mio precettore, le letture poetiche e filosofiche che avevo intrapreso, il numero dei fratelli e delle sorelle che avevo, e i loro relativi matrimoni e filiazioni.

Mentre Nicoletta proseguiva il suo discorso in quella bella parlata senese che mi ricordava la mia Monteriggioni, io mi persi completamente. La mia attenzione era stata rapita dalla servetta che mi stava lavando. Ricordavo di aver carpito il suo nome poco prima…Margherita.

Margherita aveva capelli di un colore biondo-dorato che poco si confacevano ad una serva, e che sfuggivano dalla treccia severa in riccioli naturali. Era una bambina di circa sei anni, ma la grazia del suo viso lasciava intendere che sarebbe diventata una fanciulla bellissima. Mi ricordava qualcuno, e sulle prime non avrei saputo dire chi.

Avrete notato che tendo ad osservare le persone, e che anche a distanza di tempo riesco a ricordarmi il dettaglio di un tratto o un’espressione peculiare, perché li studio a fondo per imprimerli nella memoria. Nel caso di Margherita, furono due particolari a illuminarmi: le labbra, e gli occhi. Se le prime erano piccole e ben disegnate come boccioli di rosa, i secondi erano grandi, verdi, dall’espressione inconfondibile di ingenuità e candore. La vidi alzare lo sguardo, e sbattere le ciglia, con una fugace espressione interrogativa. Subito riabbassò gli occhi in segno di sottomissione, ma ormai era troppo tardi: avevo capito.

Quella bambina somigliava a Lucrezia Borgia.

“Hai capito, Bianca?” disse, sferzante, la voce di Nicoletta. Io quasi sobbalzai.

“Sì.”

Avevo in effetti capito qualcosa, che non mi era ancora del tutto chiaro, e che riguardava quella piccola serva. Qualcosa che poteva essere l’inizio della mia strada verso la salvezza. Se avessi saputo allora che il filo rosso del mio destino stava cingendo un altro nodo, mi sarei comportata diversamente?

Non lo so. Con il senno di poi è sempre troppo facile giudicare. All’epoca mi muovevo nella fitta nebbia che tanto spesso ammanta quella palude bonificata chiamata Ferrara, dove le zanzare pasteggiano a sangue umano come soldati impazziti. E nella furia di quell’afosa battaglia per la sopravvivenza che è l’estate in Pianura Padana, io iniziavo a farmi largo tra i più oscuri segreti dei fratelli Borgia.

 

  Non potevo essere introdotta tra le dame di compagnia senza avere un minimo di educazione alla corte; per questo, fui sottoposta a un duro addestramento da parte di Nicoletta, mentre Angela e Caterina, le favorite della Duchessa, mi guardavano e ridevano di sottecchi di ogni mio errore. Imparai il portamento, prima di tutto: ancora ricordo con rabbia a quegli scrigni che riempivano di sassi soltanto per mettermeli in testa e ridere nel vederli cadere ad ogni mio passo falso. C’erano quelle odiose scarpine aderenti al piede come una seconda pelle, e gli abiti con complicate maniche alla francese che mi rendevano difficile perfino il gesto di grattarmi il naso. Per non parlare degli strascichi. Dio stramaledica gli strascichi, devono essere uno strumento di tortura inventato da un uomo sadico per punire la sua donna di qualche crimine di fedeltà. Avete mai camminato per il corso principale della città[2], un ciottolato infame messo lì apposta per distruggere i piedi di una dama, senza poter sollevare l’orlo di una sottana troppo lunga? Bisogna camminare al contrario degli esseri umani comuni, e calciare in avanti la sottana, poggiando prima la punta del piede, poi la pianta e il tallone. Per non parlare del dramma di salire le scale, che esige di alzare il ginocchio tanto da sollevare anche l’orlo e riuscire, per intercessione divina, a non inciampare. Non c’è da meravigliarsi che le donne nelle corti si muovano così poco: questo abbigliamento di certo non le invoglia a farlo. Una raffinata catena dorata per relegare i loro corpi e allo stesso tempo schiavizzarne la vanità.

Quanto mi mancavano i miei comodi abiti da uomo! Eppure, per Vanni, ero costretta a subire quell’umiliazione. Lucrezia Borgia non era una donna da sottovalutare: aveva minacciato di far uccidere mio fratello al mio primo passo falso, ed io non sapevo ancora abbastanza dell’ambiente e del mio avversario per tentare una mossa, con una tale posta in gioco.

Era trascorso il decimo giorno dalla mia cattura, e l’ottavo dal mio addestramento, quando mi fu consentito di partecipare alla Messa domenicale insieme alle dame di Lucrezia. Al mio ingresso nella Cattedrale di San Giorgio[3], mentre Lucrezia faceva il suo ingresso accanto a Ercole d’Este, padre del suo sposo, io fui scortata strettamente da Nicoletta, che mi stava a fianco, e da Caterina, che mi stringeva il braccio come in segno di grande amicizia. Mi costrinsero a sedere sulla panca insieme a loro, camuffando quella prigionia con la maschera della confidenza. In realtà, temevano un mio passo falso. Sapevo che dopo la funzione sarei stata presentata ufficialmente alle altre dame, e spesi quasi tutto il tempo dell’omelia a ripassare la lezione che Nicoletta mi aveva inculcato. Avrei dovuto mentire, per la prima volta nella mia vita. Avrei dovuto farlo per la sopravvivenza di Vanni e la mia. E intanto mi chiedevo perché gli Assassini non si fossero ancora manifestati, per tentare di liberarci o almeno per trattare della liberazione.

Non avevo più visto Cesare Borgia. Dopo la sua prima visita nelle mie stanze di convalescente, era ripartito, non so per dove. Pareva che da Ferrara andasse e venisse come più gli aggradava, soprattutto in quel periodo in cui Alfonso, il consorte di sua sorella, era assente. Lucrezia, comunque, non mi pareva una minaccia minore.

L’officiante intonò il Pater Noster, e la cappella si trasformò in un brusio di mormorii latini che i più ripetevano a memoria, senza afferrarne il significato. Pensai a zia Claudia, e al modo in cui il suo volto si trasformava, assorto, mentre era in preghiera. Lei capiva il significato di ciò che diceva, mentre pregava.

Mentre una fitta di nostalgia e paura mi stringeva il cuore, udii un bisbiglio sulla mia nuca.

“Fingete di seguire almeno con le labbra, o attirerete l’attenzione di tutti.”

Chi era stato? Caterina e Nicoletta erano da escludere, la voce era quella di un uomo. Cesare Borgia era lontano, ed Ercole Strozzi, lo scagnozzo alto e zoppo che mi aveva rapita e portata a Ferrara, era seduto due banchi più indietro. Non conoscevo altri alla corte degli Este. Seguii comunque il suo consiglio, e presi a mormorare anche io la preghiera.

A quel punto, lui fece cadere un piccolo pezzo di pergamena a terra, vicino al mio inginocchiatoio.

Cercai di essere cauta nel raccoglierlo. Lo sistemai velocemente dentro le mani giunte in preghiera, e finsi un impeto di devozione poggiando la fronte alle mani giunte. Schiusi leggermente i palmi, e cercai di leggere.

 

Sto bene. Sono a Forlì, mi tengono in mezzo ai paggi di messer Numai, ma sono sempre controllato. Dicono che se scappo ti faranno del male. Tu non preoccuparti, gli uomini di nostro padre ci salveranno.

 

Con un tuffo al cuore riconobbi la grafia di Vanni. Volsi leggermente il capo per cogliere con la coda dell’occhio il mio informatore.

“Vi basti questo, per ora.”

Non potei coglierne il viso. Al momento di ricevere il Corpo di Cristo, mi infilai rapidamente il biglietto in bocca per distruggerlo insieme all’ostia. Quando la Messa finì mi guardai intorno, cercando il latore del messaggio.

“Va tutto bene, cugina cara?” domandò Nicoletta, nascondendo il tono metallico dentro un sorriso.

“Sì” mentii, cercando di imitare quel sorriso. “Sono solo un poco nervosa per la mia presentazione ufficiale.”

“Non devi” intervenne Angela. Come sua cugina Lucrezia, possedeva il volto di una bambola, e grandi occhi ingenui. “Sei migliorata molto in questi giorni. Perfino quella brutta cicatrice sul labbro sta guarendo. Credo proprio che i cortigiani ti apprezzeranno!”

Risero, iniziando a raccontarmi di quel cortigiano e dell’altro poeta, e di come uno corteggiasse Nicoletta, mentre l’altro si contendesse l’attenzione di Caterina, mentre quasi tutti lodavano in parole e in versi la bellezza perfetta di Angela.

Finsi di essere divertita, e intanto pensavo: ragazzine. Per loro era tutto un gioco. Mi avevano fatta catturare come una scimmietta selvatica, si erano divertite ad ammaestrarmi e a ridere dei miei maldestri tentativi di imitarle. Ora mi avrebbero esibita, e avrebbero goduto dei trucchetti che avrei eseguito per fare contenti i loro amici.

Fremo di rabbia al solo pensiero. Io, una Auditore, trattata a quel modo! Avrei mille volte preferito una lurida cella, pasti a pane e acqua, e lunghe notti insonni insieme ai topi. Almeno la mia fierezza sarebbe stata intatta; a quel modo, invece, mi costringevano a piegarmi ai loro comandi come l’ultimo dei cani da compagnia.

Sul mio onore, avrei lavato quell’ingiuria. Mi serviva soltanto del tempo.

 


[1] Caterina la Mora è storicamente una dama di compagnia di Lucrezia Borgia a Ferrara nel 1502; inoltre, tra le dame favorite di Lucrezia c’erano Nicola da Siena (nel mio testo Nicoletta, così evitiamo ambiguità e confusione) e la giovane Angela Borgia, dodici anni, la cui bellezza era ammirata quanto e più di quella della bionda cugina.

[2] Io sì, e vi garantisco che Bianca non esagera! Ho partecipato alle rappresentazioni indette per il palio di Ferrara, sfilando per le vie del centro con la contrada San Benedetto (Pro domo Este: Diamante! Diamante! Eheh), e assicuro a chi non abbia fatto una simile esperienza che con quelle scarpe e quelle gonne dagli orli impossibili anche solo camminare è un’impresa ardua. Non si possono nemmeno sollevare le gonne, perché nel XV secolo non usava. Immaginate salire le scale del Castello senza sollevarsi gli orli delle gonne…ho rischiato la vita ;) Ok, scusate la divagazione! NdRuna.

[3] Non so se sto inserendo un’informazione storicamente esatta: la Cattedrale di San Giorgio è senz’altro la più importante di Ferrara ed esisteva nell’epoca della nostra narrazione, ma non sono riuscita a trovare evidenza del fatto che la famiglia estense partecipasse alle funzioni domenicali pubbliche. Il dubbio è che invece vi partecipassero solo nelle occasioni straordinarie. Appena avrò appurato questo dettaglio, eventualmente, correggerò l’errore. Scusate l’imprecisione.

 

Note dell'autrice

Eccoci finalmente alla corte ferrarese di Lucrezia Borgia! Andando avanti con i capitoli noterete che i miei Cesare e Lucrezia si distaccano un pochino dal ritratto puramente crudele che ne fanno alla Ubisoft...specialmente Lucrezia (per Cesare c'è poco da dire, anche nella storia ha compiuto non poche efferatezze!). Per informarmi meglio sto leggendo, oltre a diverse fonti online più superficiali, la magnifica biografia di Maria Bellonci su Lucrezia Borgia, nel tentativo di mischiare la realtà storica con la leggenda nera della perfida avvelenatrice. Spero che ne uscirà fuori una cattiva un po' complessa ^_^

Wow! Grazie ragazzi, questa volta ho un sacco di recensioni a cui rispondere, perciò mi impegno subito!

Boss Pride: ti do perfettamente, pienamente, totalmente ragione. Bianca si è comportata da idiota. Non credo sia perché era accecata dall'amore...in realtà in questa fase della storia è ancora una bambina viziata, che non ha mai avuto vere responsabilità, e, diciamocelo, anche un tantinello egoista. La brutta avventura che sta vivendo la catapulterà tutto in una volta nel mondo degli adulti...proprio quello che Ezio cercava di evitare, eheh!

Jayden Auditore: grazie mille per i complimenti! Anche io sono alquanto inquietata dagli ultimi capitoli, la storia sta decisamente prendendo una piega più oscura dell'inizio...e mi sa che andremo a peggiorare! Comunque ti prometto che cercherò di non far mancare mai le emozioni, che alla fine sono il motivo principale per cui anche io scrivo :)

Renault: Eheh, hai visto che razza di biiip è stato Ferrante? Mi sa che stava dalla parte dei soldi, poveretto. Requiescat in pace, anche se non se lo merita :P  E vedrai quanti altri motivi darò a Ezio per fare un facciozzo tanto a Cesare, questo è ancora nulla :)))

Lulla Cullen:  Sì, è la cicatrice famosa! Anche se tecnicamente, se quello che sappiamo dell'Animus e dei ricordi contenuti nel DNA è vero, né Bianca né Vanni potrebbero essere gli antenati di Desmond - altrimenti, come succede nel sogno di Desmond su Altair e Maria, avremmo dovuto seguire i fatti dal 1488 in poi attraverso Bianca, ad esempio, e non attraverso Ezio. Poco male, ti dirò...questo mi dà l'idea per un'altra long-fiction da collocare temporalmente dopo il finale di Bianca...una specie di seguito, ma con un altro protagonista. Ma forse è meglio che per ora mi impegni a finire questa :)

Ama: Hai ragione, Bianca è ancora troppo candida per il ruolo che dovrà giocare nella guerra tra Assassini e Templari...per cui è arrivato il momento che si sporchi le mani in prima persona, per riscattarsi anche agli occhi di Ezio ed espiare la sua colpa nei confronti del povero zio Mario. Non che da ora in poi faccia solo cose giuste, anzi! Qualche errore lo commetterà ancora. Per fortuna Vannuccio nostro è più giudizioso di lei...

Miko: Hihi, fantastici gli insulti a Ferrante rinascimento-style XD Il grullo per ora è anche il mio personaggio preferito, anche perché conoscendo i capitoli che verranno so per certo che diventerà sempre più fig...ehm, responsabile ;) Per quanto riguarda Ezio, è vero, è stato irritante quanto Bianca. Non ha ancora capito che con una come sua figlia è inutile cercare di imporre, farà sempre il contrario di ciò che le si ordina :)))

Giannina92: ti ringrazio tanto di esserti iscritta per commentare la storia di Bianca, non immagini che piacere sia per me! Ah, i fratelli premurosi e rompiscatole...ne so qualcosa anche io. In effetti, credo sia per questo che non riesco a descrivere un rapporto tra sorelle, anzi ora che ci penso non ho mai inventato due personaggi-sorelle in vita mia O.O Spero che la storia di Bianca continuerà a piacerti, e che ti andrà ancora di commentare i prossimi capitoli!

 

Un grazie infinito, anche a chi ha solo letto e a chi ha recensito i capitoli precedenti (CartacciaBianca e SuxFans, spero tanto che arriverete a leggere questo ringraziamento! CartacciaB., dovremo approfondire il discorso di Leonardo: secondo te in Brotherhood giustificheranno il suo passaggio dalla parte di Cesare, o sorvoleranno gloriosamente sulla Storia per piegarla alla trama del gioco? Non vedo l'ora di saperlo...). Al prossimo capitolo, dal titolo (provvisorio): "Bianca come il peccato" - tautologico, eh? Lo so! ^_^

Baci a tutti! Laura.

 

Ps: sono un po' disperata...inizialmente avevo preventivato circa 25 capitoli, ma gli eventi e i personaggi mi stanno un po' prendendo la mano...non allarmatevi, ma temo proprio che saranno tanti, tanti di più (devo portare Bianca&Co fino al 1513, e qui siamo solo nel 1503! Argh!)



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Capitolo 11
*** Bianca come il peccato ***



Oggi ricordo i miei giorni di scimmia ammaestrata con meno rabbia e più divertimento di quanto non facessi allora. Dopo tutto, prima di andare a Ferrara ero una ragazzina davvero goffa, una lupa selvatica che tutto ad un tratto doveva imparare a vivere da cane domestico. Tuttavia, quelle umiliazioni non furono vane. Mi insegnarono la pazienza, la prima arte per diventare una discreta stratega e una buona assassina.

Durante la mia seconda settimana di permanenza a Ferrara, avevo incontrato molte persone, sorriso falsamente e finto di comprendere discorsi di cui non mi importava nulla. Avevo osservato visi, imparato nomi, e definito il mio posto in una gerarchia soverchiante. Ero più su dei servi, questo era chiaro; tuttavia, ero l’ultima di quella casta dorata. Non avevo la facoltà di parlare se non ero interpellata, e venivo costantemente richiamata e punzecchiata dalle dame favorite di Lucrezia se mi coglievano con la mente rivolta altrove. E mi distraevo, molto spesso. Un po’ per mia natura, e un po’ in virtù delle mie preoccupazioni.

Gli Assassini non avevano ancora risposto alla richiesta di riscatto di Lucrezia. Cercavo di figurarmeli, radunati nella biblioteca di mio padre, mentre discutevano su cosa sarebbe stato più saggio fare. Vedevo mia madre già pronta alla pugna; si sarebbe messa in marcia subito, se qualcuno di più saggio, come suor Teodora o La Volpe, non l’avesse costretta a ragionare. Ugo avrebbe senz’altro appoggiato qualsiasi piano per venirmi a riprendere, mentre Antonio lo avrebbe esortato alla calma, cercando un modo di non dover cedere la mela e allo stesso tempo non mettere a repentaglio la mia vita, quella di Vanni e quella degli uomini e donne dell’Ordine. Nella mia fantasia, mio padre non aveva volto. Sotto il cappuccio c’era solo un’ombra di cui non riuscivo a cogliere l’espressione. Perché non aveva ancora dato una risposta alla Borgia? Forse non mi avrebbe più voluta accanto a sé.

Altre volte mi chiedevo, con una stretta al cuore mio malgrado, se Ferrante fosse stato sepolto. Oppure pensavo a zio Mario, al giorno in cui mi aveva consigliata di valutare di più me stessa e di attendere con pazienza il giorno in cui sarei diventata assassina: se  avessi ascoltato quelle parole, forse non sarebbero state le ultime che c’eravamo scambiati.

E poi, certo, pensavo al misterioso informatore che mi aveva consegnato il biglietto di Vanni. Conoscevo quella voce. Allora perché non riuscivo a identificarla, maledizione?

“A che pensate, madamigella?” mi richiamò la voce allegra di un uomo. “Forse, la lettura della Venatio di messer Ercole non vi aggrada?”

D’improvviso ricordai che ci trovavamo a palazzo Schifanoia, una delle residenze preferite di Lucrezia a Ferrara quando il marito era assente. Intorno alla Duchessa e alle sue dame erano radunati diversi intellettuali, tra cui avevo trovato, con mio sommo disgusto, quell’Ercole Strozzi che aveva rapito me e Vanni. Lo storpio, quando non giocava a fare il templare, si dilettava di poesia: e in maniera tremenda. La sua ode alla caccia, che stava leggendo con voce stentorea davanti a tutti, era un elogio alla violenza e al versare sangue innocente per puro divertimento, il tutto costretto in pessimi versi. L’opera degna per un templare.[1]

Alzai lo sguardo, sbattendo le palpebre. L’uomo che mi aveva interpellato era Pietro Bembo, un intellettuale molto caro a Lucrezia. Era un giovane dallo splendido aspetto quasi infantile, con lunghi capelli scuri e grandi occhi castani. Mi piaceva il suo accento veneziano; lo trovavo simpatico, anche se non potevo dire di fidarmi di lui.

“La poesia è buona; è l’argomento a tediarmi” dissi, con un sorriso il più possibile candido. Ercole Strozzi ne fu molto adontato: vidi l’ira trasformargli il volto, ma si trattenne e rispose cortesemente:

“Immagino che una fanciulla tanto giovane preferisca sentir parlare d’amore.”

“Oh, no. Amo sentir discorrere di armi, messere, ma non in questo modo aulico.”

Strozzi sogghignò: “E in che modo vi piace sentirne parlare?”

“In modo pratico, messer Ercole. Me ne intendo un poco: mio padre mi ha insegnato gran parte della sua arte.”

Scoccai uno sguardo a Cesare Borgia. Il fratello della duchessa stava semisdraiato su morbidi cuscini rossi, accanto a Lucrezia, che mi guardava incuriosita. Non avevo allarmato nessuno dei due. Volevano vedere fin dove mi sarei spinta.

“Messer Domenico vi ha addestrata alle armi?” fece Bembo, senza cogliere la mia provocazione. “Una scelta peculiare, gentile Bianca, ma non insolita. Quando una donna ha spirito e volontà di apprendere, è giusto che venga addestrata alle armi al pari di un uomo.”

“Ma certo, amico mio” sogghignò lo Strozzi “Peccato che questo genere di dama sia altresì conosciuto come virago. Chi di voi vorrebbe una tale donna come sposa o come amante?”

Si alzarono risa e volò qualche facezia un po’ audace. Ercole si fregava le mani, felice di potersi vendicare del mio disprezzo per il suo poema. Non gli badai, fiera com’ero di aver gettato un po’ di scompiglio con una frase soltanto.

“Ciò che Bianca voleva dire” intervenne Nicoletta, agitata “E’ che mio zio non le risparmia mai i suoi racconti di caccia. La tedia in continuazione con questi noiosi discorsi, poverina!”

“Ti sbagli, cugina” replicai, con un sorriso ironico “Non ne sono affatto tediata. Mi interessano invece: credo di aver imparato molto riguardo questa nobile arte di uccidere, e se soltanto ne avessi l’occasione saprei dimostrare il mio valore sul campo.”

Tutti risero della mia affermazione, e iniziarono a progettare una battuta di caccia da tenersi nella riserva personale di Alfonso, al suo ritorno. Ma la mia spavalda minaccia non era sfuggita ai fratelli Borgia.

“E diteci, madamigella Bianca” intervenne la voce roca di Cesare “cosa ne pensate degli armamenti militari? Credete che si dovrebbe investire nella cavalleria leggera o piuttosto fabbricare armature pesanti? Conoscete i punti in cui l’alabarda penetra meglio un’armatura a piastre? Consigliate l’uso delle colubrine o dei basilischi per un assedio? Sapete per quanti centimetri una spada può penetrare nel petto di un uomo, prima di trafiggerne il cuore?”

Non replicai, stringendo forte le labbra.

“Su questo non avete un’opinione? Mi stupisce, data la vostra istruzione così completa” mi sfidò ancora Cesare. Vidi Lucrezia poggiargli la mano su un braccio, come per calmarlo.

“La nostra giovane amica non intendeva certo invadere il vostro campo, fratello mio. ”

“E non potrebbe. Alle dame i tomboli, agli uomini le armi.”

A quel punto, sentivo il sangue ribollire nelle vene. Non riuscii a trattenermi dal dire:

“Ci sono state donne forti nella storia, e ci sono ancora. Una dovreste conoscerla piuttosto bene, perché dicono sia prigioniera di guerra presso di voi a Roma.”

La mia insinuazione ammutolì i presenti. Cesare, al contrario, non fece una piega.

“Alludete a Caterina Sforza? E’ gradita compagnia di mio padre, in questo momento, e del trattamento ricevuto da noi come ospite, ve l’assicuro, non si è lamentata.”

Fui disgustata da quell’evidente ammissione di colpevolezza: non ero così ingenua da non capirne il vero significato. Compiansi Caterina, una leonessa in catene costretta a subire la violenza di Cesare e l’umiliazione della prigionia. Pensai che se fossi stata forte come mio padre, in quel momento mi sarei avventata su di lui, per piantargli la lama celata nella gola.  

Pietro Bembo riuscì infine a calmare gli animi, stornando il discorso sulla dolce prigionia a cui la Duchessa Lucrezia costringeva tutti loro, con buona compagnia e ottimo vino: si brindò all’ospitalità degli Este e dei Borgia. La conversazione tornò a vertere su argomenti più lieti. Caterina si alzò per accompagnare la voce di Nicoletta al liuto. Trovommi Amor del tutto Disarmato, recitava la loro canzone, et Aperta la Via per li Occhi al Core[2]

Amaramente, pensai che la mia via era senza uscita. 

Naturalmente, non la passai liscia. Per punirmi della mia imprudente alzata di testa, Lucrezia ordinò che trascorressi la notte in ginocchio sui gusci di noce, in preghiera davanti alla statua della Madonna nella cappella del palazzo.

Ricordo la fatica, nel trattenere le lacrime di umiliazione.

“Mio padre lo saprà!” gridai, furibonda, mentre Nicoletta e Caterina mi costringevano a inginocchiarmi. Angela guardava, spaventata, un passo dietro Lucrezia.

La Borgia sorrise. “Tuo padre non mi ha ancora dato risposta. Chi lo sa, forse dovrai abituarti a essere una di noi.”

Sapeva che niente come quelle parole avrebbe potuto ferirmi. Replicai che sarei morta, piuttosto; ma non avevo armi a disposizione, niente di tagliente con cui attuare le mie minacce. Lucrezia mi rivolse ancora quello sguardo colmo di pietà, e se ne andò, accompagnata da Angela. Caterina e Nicoletta mi avrebbero vegliato, per controllare che non fuggissi.

“Ricorda” disse Nicoletta “che tuo fratello è nelle nostre mani. Un messo può arrivare a Forlì[3] in tre ore. E’ così giovane, povero bambino…vuoi davvero dargli soltanto tre ore di vita?”

Maledetta arpia! Non mi restava che ubbidire.

Sollevai la sottana pesante, e mi sistemai con le ginocchia sui gusci ruvidi e i pezzetti acuminati. Strinsi i denti per non far notare il sussulto; guardai Caterina e Nicoletta.

“Che devo fare ora?” sibilai. Nicoletta fece un cenno verso la statua della Madonna che torreggiava sul piedistallo al centro della cappella, proprio sotto la croce.

Inspirai. Era da molto tempo che non pregavo. Anche se andavo a Messa con zia Claudia per accontentarla, non mi sentivo a mio agio in Chiesa. Tuttavia, dovevo pensare a qualcosa per distarmi dai gusci che iniziavano a penetrarmi la pelle.

Perciò, strinsi tra le mani il medaglione d’onice nera, quello che mi aveva regalato Agamennone due anni prima. Il mio amico mi aveva detto che quella pietra mi avrebbe salvato la vita, e in quel momento avevo un folle bisogno di aggrapparmi a qualcosa di simile a una speranza.

Per la prima volta dopo tanto tempo, pregai.

Ave, Maria, piena di grazia. Il Signore è con Te: e perché invece ha abbandonato me qui, in questo covo di serpi? Non Ti ho mai pregato, è vero, e mio padre non crede in Te. Dice che sei soltanto un bisogno degli uomini. Se è così, forse io non sono diversa da tutti gli altri. Maria, il tuo volto è così sereno. Con tutto quello che accade in questa valle di lacrime, come puoi sorridere benevola su di noi? Non ti accorgi dei morti, delle guerre, della malvagità che dilaga? Il mondo è corrotto, il cuore degli uomini è nero. Perché Tu sorridi, e prometti pace?

Ave, Maria: io sono sola, e lo merito. Ho commesso degli sbagli. Sbagli enormi, che altri hanno pagato sulla loro pelle. Il Tuo sorriso parla di redenzione. C’è redenzione per me? C’è un modo per cui io possa dimenticare i morti che gravano sulla mia coscienza? Posso almeno sperare che siano tra le Tue braccia adesso, e che non provino più dolore?

Eppure, Santa Signora, nemmeno questa è una consolazione sufficiente. Non mi basta. Ho bisogno di sapere che chi mi ricatta verrà punito. Che i nemici di mio padre non vinceranno.

Nulla è reale: non c’è verità al mondo, e io non la cerco in Te stasera.  Tutto è lecito: anche il mio capriccio di parlarTi, anche la mia sete di vendetta e le vie che intraprenderò per ottenerla. Agirò nel buio, per servire la luce. Come il Tuo nemico, il Demonio, che opera il male ma agisce sempre per il più alto disegno del Tuo Dio. Sporcherò le mie mani e la mia coscienza, avrò l’anima così lorda di fango che stenterai a riconoscerla. Ma Tu continua a sorridere, e a promettere che un giorno anche un essere come me avrà il perdono. Gli uomini hanno bisogno di una luce, mentre si calano dentro le tenebre.   

Ave Maria, madre di Dio. Prega per noi peccatori, e concedici un’occasione propizia per vendicarci dei nostri nemici.

Amen.

 

Ore più tardi, mi concessero di tornare al mio giaciglio, una stanza piccola dagli alti soffitti, che comunicava direttamente con la camera di Lucrezia. Per quelle persone era prioritario controllarmi, piuttosto che difendersi da me. Questa era una cosa che poteva tornare a mio vantaggio.

Durante il tragitto dalla cappella, Caterina e Nicoletta cercarono di sostenermi. Mi rifiutai, e strinsi i denti, zoppicando orgogliosamente fino al giaciglio. La piccola Margherita corse ad accogliermi con un catino colmo d’acqua fresca per pulire i graffi, e un impiastro per curarli.

“Dovresti essere più docile” mormorò Caterina, mentre guardava i miei tagli sanguinanti. Per un momento pensai che fosse dispiaciuta per me.

Le rivolsi un’occhiata che forse le bastò per tacere. Lei e Nicoletta se ne andarono, lasciandomi sola con la servetta.

Quando furono uscite, poggiai la testa al muro e bestemmiai tra i denti tutti i santi del Paradiso, mentre quietamente Margherita mi tamponava i graffi, estraendo con una pinza i frammenti di guscio che si erano conficcati nella carne.

Mi lasciai manipolare di nuovo dalle sue manine fredde e precise. Quella servetta era incredibilmente materna per la sua età. Pensai che probabilmente doveva prendersi cura di molti fratelli e sorelle.

“Tu sai chi sono, vero, Margherita?” dissi, spezzando il silenzio.

La bambina annuì, annodando l’ultima garza.

“Sai tutto di Templari e Assassini? Cosa ti hanno detto?”

Esitò. Non le piaceva usare la voce.

“So che gli Assassini uccidono gli innocenti, e i Templari devono fermarli.”

Scossi il capo. Quella bambina era stata istruita da qualcuno...e perché diavolo qualcuno si sarebbe preso la briga di istruire una serva al pensiero Templare?

“Non è così, sai. Noi non siamo crudeli.” Parlavo come se fossi anche io un’Assassina; ero sola, e avevo bisogno di sentirmi parte di qualcosa. Le chiesi di aprire la finestra: lo squarcio di cielo che si spalancò davanti a me mostrò ciò che volevo farle vedere.

Le ali dell’Aquila Celeste si spiegarono, brillanti, nel nero della notte.

“Riesci a vederla, Margherita? Quella è la costellazione dell’Aquila. La stella più luminosa si chiama Altaïr…ora ti svelerò un segreto. Un mio antenato portava questo nome. I grandi Assassini della mia famiglia, una volta morti, diventano stelle che accendono quella costellazione.”

Quell’ultima parte me l’ero inventata, per impressionarla. A giudicare dalla sua espressione rapita, ci ero riuscita.

“Tutti i tuoi antenati sono quelle piccole stelle bianche?” domandò lei, affascinata.

“Oh, no, non tutti diventano stelle. Solo i migliori. Gli altri si trasformano in aquile per proteggere i loro discendenti e ispirarli a raggiungere le altezze più impervie.” Sentii un nodo alla gola. “Mio nonno Giovanni e mio zio Mario sono di certo tra quelle stelle.”

Margherita si perse per un po’ a contemplare la costellazione dell’aquila, e lo feci anch’io. Gli assassini, che con le loro cappe bianche avevano squarciato la notte per secoli e secoli, ora erano lì, immobili e scintillanti, visibili a tutti. Finalmente potevano riposare, e mostrare al mondo la loro luce.

D’improvviso, Margherita incontrò i miei occhi, e si vergognò. Non capii perché fino a che non disse:

“Io non ho mai conosciuto mio padre e mia madre.”

Stupita, replicai: “Bécca non è tua madre?”

Bécca era la serva che si occupava di Margherita, e sovrintendeva ai suoi lavori durante la giornata. Eppure, quando entrava nelle stanze della Borgia, Margherita veniva spesso lasciata sola, e si muoveva liberamente, senza altri alle calcagna.

“Oh, no. Lei mi ha presa con sé dopo che i miei sono morti. Anche se ero piccola, e non li ricordo bene.” Accennò ad un sorriso. “Pensate che anche loro siano stelle?”

La sua espressione mi commosse. Non riuscii a deluderla.

“Ce ne sono tante, di stelle. Sicuramente i tuoi genitori sono tra loro, e ti guardano…come i miei antenati guardano me.”

Lei annuì, felice; quindi, si inchinò rapidamente.

“Grazie per le medicazioni” le dissi, mentre stava per uscire con il catino. Lei si voltò.

“Voi sarete anche un’assassina…ma secondo me siete molto buona, madamigella Bianca.”

Poi sparì dietro la porta, lasciandomi sola con le stelle dell’Aquila che mi guardavano dal velo nero della notte.

Sto facendo bene, zio Mario? chiesi loro. Che mi direste, nonno Giovanni? Che fareste al mio posto, Altaïr?

La stella più luminosa della nostra costellazione non mi rispose, e rimase a fissarmi fredda e immobile.  

Quella notte mi addormentai con le ginocchia doloranti raccolte contro il petto, stringendo in pugno l’onice nera di Agamennone.

No, io non ero sola. Appartenevo all’Ordine, e l’Ordine mi avrebbe protetta anche da lontano. L’Ordine ci legava tutti, anche dopo la morte. L’Ordine non mi avrebbe abbandonata.

Dovevo solo avere pazienza, e fare ciò che potevo per aprire loro la strada.

 

Il segno definitivo che qualcuno vegliava su di me, lo ricevetti pochi giorni dopo. Bécca, la guardiana di Margherita, mi stava spazzolando i capelli prima di andare a dormire, mentre anche le altre dame venivano acconciate e preparate per la notte.

Allo specchio della toletta, vidi la serva chinarsi sul mio orecchio più del dovuto.

“Stamane al mercato mi ha avvicinato un uomo. Mi ha dato questo per voi.”

Dalle sue dita scivolò rapido dentro la spallina del mio corpetto un biglietto ripiegato molte volte.

“Come posso ricompensarti?” bisbigliai. Lei accennò ad un ghigno malizioso.

“Il vostro corteggiatore mi ha già dato denari a sufficienza.”

Evidentemente, al contrario della sua piccola protetta, Bécca non aveva idea di chi fossi, né di quale guaio avesse combinato nel passarmi quell’informazione.

Non resistetti alla tentazione, e domandai: “Lui…com’era?”

Sperai di sentirmi dire che era alto, muscoloso, e indossava un cappuccio bianco.

“Vediamo…piccolo di statura, con i capelli molto corti e neri. Il viso un po’ da topo, se posso permettermi. Non era bello, madamigella Bianca…ma che occhi! Davvero vivaci, non c’è che dire. E vestiva sobriamente, che è sempre bene per un uomo onesto.”

La descrizione era così dettagliata che non potevo confondermi. Messer Machiavelli! Come avevo potuto non indovinarlo prima?

Non mi era giunta voce che fosse a Ferrara. Forse stava conducendo qualche trattativa segreta per conto della Repubblica Fiorentina. O forse era lì, apposta per me.

Per poter leggere il biglietto dovetti aspettare di essere sola, quando tutti erano coricati per la notte. Rubare un mozzicone di candela dalla stanza comune non fu difficile; per l’acciarino, chiesi a Margherita di procurarmene uno. Lei non mi fece domande: ero fortunata, mi aveva preso in simpatia.

Fui stupita, non appena mi accorsi della grafia illeggibile. Che razza di arzigogoli mi aveva mandato il Machiavelli, e come avrei potuto trarne fuori un qualche senso?

Non riuscivo a riconoscere molto, se non alcune lettere come la E corsiva, e una R piuttosto ricciuta, e una L alta e stretta. Altre lettere non avevano proprio senso. T ed F alla rovescia, G che guardavano al contrario della direzione consueta ed S girate…

Girate. In senso contrario. Scritte da destra a sinistra…per essere lette da destra a sinistra.

Ma certo, era così semplice!

Alzai la candela, e misi il foglio davanti allo specchio della toletta. Fu allora, nel riflesso, che gli arzigogoli divennero parole complete.

Erano distinguibili due grafie piuttosto differenti: la prima si estendeva per buona parte del foglio, la seconda solo per tre righe.

 

 

Addì 27 Giugno, 1503

 

Messer Niccolò, non reco buone nuove. Qui a Forlì s’è perduta notizia del piccolo Giovanni. Ho chiesto a Luffo Numai che fine aveva fatto quel piccolo paggio nuovo: ha risposto ridendo che la servitù va cambiata spesso, per non correre il rischio di iniziare a fidarsi di loro. Il suo tono divertito e insinuante non mi è parso un buon presagio.

Ho interrogato gli attendenti di palazzo e dato fondo alla mia borsa per avere informazioni: è sparito nel nulla. Non vorrei che fosse finito nelle carceri di Rivaldino, o peggio. Preferisco pensare che abbiano spostato il luogo della sua prigionia, forse per un mio errore di diplomazia. Il Valentino non si fida più di me come un tempo.

Dite ad Ezio, se potete, che ho fatto e continuo a fare quanto mi è possibile.

In fede,

 Leonardo.

 

Non disperate di ciò che vedete scritto qui, Bianca. Abbiamo ragione di credere che Giovanni sia stato portato a Ferrara: vostro fratello è un ostaggio troppo importante perché non lo conservino in salute. Carpite ogni informazione che potete, ma non esponetevi in prima persona. Abbiate fiducia nell’Ordine, e tutto finirà presto.

Non cercate di contattarmi. Attendete nostre nuove.

 

 

 Niccolò Machiavelli.

Post Scriptum: Sapete come disfarvi di questa mia. Conto che siate fantasiosa a riguardo come la scorsa volta in Chiesa.

 


Disfarmi del biglietto, in effetti, mi richiese un po’ di cautela e inventiva. Avrei potuto strapparlo e mangiarlo pezzo per pezzo, ma la prospettiva non mi allettava. Forse era meglio bruciarlo. Peccato che, con quella canicola, bracieri fossero tutti spenti. Avrei dovuto arrangiarmi.

Presi il vaso da notte ancora pulito, misi il biglietto sulla fiamma della candela, e quando il fuoco attecchì lo lasciai cadere nel vaso. Qualcosa però non funzionava in quel piano perfetto: il fumo che si alzava dalla pergamena era eccessivo, e non avrei saputo come spiegarlo se i miei Cerberi se ne fossero accorti.

La finestra era bloccata da un passetto di metallo, perché non potessi spalancarla e fuggire. La aprii quel tanto che mi era concesso per arieggiare la stanza e far uscire il fumo: poi afferrai un lembo di coperta e vi versai sopra l’acqua destinata alle mie abluzioni mattutine. Con il panno così inumidito coprii i vaso, per evitare che altro fumo si alzasse nella stanza.

Sussultai, quando sentii bussare.

“Bianca, va tutto bene?”

La voce di Nicoletta, che ormai odiavo, mi diede un brivido freddo. Ero stata scoperta.

“Tutto bene” mugugnai, sbrigandomi a rincalzare la coperta perché non si notasse l’orlo bagnato. Sul fondo del vaso erano rimaste le ceneri del mio foglio.

“Che stai facendo là dentro? C’è uno strano odore. Aprimi.”

“Sto usando il vaso da notte, santo cielo!” esclamai. Dopo tutto, era la verità. “Nemmeno questo posso fare in pace?”

La mia risposta la convinse. Forse la paura di essere scoperta mi fece suonare abbastanza esasperata da trarla in inganno. Tirai un sospiro di sollievo, quando i suoi passi si allontanarono.

Purtroppo restava ancora la cenere da eliminare.

Decisi di versare nel vaso ciò che restava dell’acqua delle abluzioni: non mi sarei lavata il viso il giorno dopo, avrei potuto sopportare quel sacrificio. Una volta che la cenere si fu sciolta creando una brodaglia grigiastra, riuscii a scolarla fuori dallo spiraglio della finestra senza troppi danni.

Sospirando, riposi il vaso da notte e mi sdraiai sul letto, distrutta dalla tensione.

Dunque, Vanni non era più a Forlì, sotto l’occhio vigile di Leonardo. Per rassicurarmi pensai che, se l’avessero eliminato anche solo per errore, avrebbero sbandierato la sua testa come un trofeo. Si sentivano forti, i Templari: avevano ancora me.

Il fatto che invece Vanni potesse essere a Ferrara, non lontano da dove mi trovavo ora, mi metteva addosso una certa inquietudine. Non potevo più stare lì ferma ad aspettare. Dovevo muovermi. Dovevo fare qualcosa.

Messer Machiavelli mi aveva suggerito di cercare informazioni. Ma come potevo, con i movimenti limitati che mi erano concessi?

La risposta, come spesso capita, giunse da sola, pochi giorni più tardi. E si presentò sotto una forma che non mi aspettavo, in nessun modo.

 

La Duchessa aveva saputo che il suo cortigiano preferito, il veneziano Pietro Bembo, era malato, ed era andata a fargli visita insieme al suo seguito di fedelissime. A me era stato ordinato di restare a palazzo; tuttavia, Bécca e Margherita avevano l’incarico di scortarmi ovunque andassi. Cercavo un po’ di ristoro dall’arsura nel Giardino degli Aranci, una deliziosa terrazza che affacciava sul fossato; in compagnia delle serve il mio cuore era più leggero di quando ero costretta a stare insieme ai cortigiani. Se la famiglia di mio padre non fosse caduta in disgrazia, pensavo con un po’ di apprensione, avrei condotto una vita molto simile a quella. Sarei stata una brava fanciulla dedita al cucito, al canto e alla poesia, e poco o nulla avrei saputo dell’Ordine e degli affari segreti degli Auditore.

Poi mi dissi che ero una stupida. Se mio padre non fosse fuggito da Firenze non avrebbe incontrato mia madre. Se fosse rimasto il rispettabile figlio di un ricco banchiere, non avrebbe certo scelto una ladra come la madre dei suoi figli. Probabilmente non sarei nemmeno nata. In ogni caso, non avrei mai conosciuto quell’esistenza di lusso e prigionia.

A interrompere il mio ristoro, venne un’ombra che sembrò inghiottire la luce del giorno, parandosi di fronte a me. Arricciai il naso, irritata. Bécca e Margherita si alzarono di scatto in piedi, sprofondando in una reverenza al cospetto di Cesare Borgia.

Io rimasi seduta, e lo guardai con tutta la sufficienza che riuscii a trovare.

“Potete andare”, disse lui, secco, alle serve.

“Mio signore” balbettò Bécca “Madonna Lucrezia ci ha chiesto di non perdere mai di vista madamigella Bianca…”

Un sorriso da gatto incurvò le labbra di Cesare.

“Per sorvegliarla basto io. Andate, ho detto.”

Le due obbedirono. Rimanemmo soli, e immobili: lui in piedi, di fronte a me, ed io seduta, con la schiena rigida e le mani che artigliavano involontariamente la panca di ghisa.

Il Valentino attese a lungo, prima di rivolgermi di nuovo la parola.

 “Vi trovate bene presso la corte di mia sorella?”

“Quasi quanto voi, visto che siete più spesso qui di quanto sarebbe opportuno. Dal Signore di Romagna ci si aspetta che amministri le sue terre, se non sbaglio.”

Lui mi squadrò, con un sopracciglio alzato. “Sempre pungente, Bianca Auditore? Davvero non capite che siete nella tana del lupo?”

“Certo che lo capisco. E’ per questo che mostro le zanne.”

Fui sorpresa, quando mi vidi tendere una mano.

“Passeggiate con me.”

“E’ un ordine?”

Nei suoi occhi neri passò un lampo di divertimento. “Potete scommetterci.”

Seppure riluttante, presi la sua mano. Le mie dita pesavano, fredde e quasi morte, sul suo braccio. Camminando al suo fianco in quel giardino invaso dall’aroma degli agrumi, ero attenta ad ogni fruscio dei nostri abiti, a ogni scricchiolare del ciottolato sotto i miei piedi. L’ansia di sentire così vicino il mio nemico, e la consapevolezza che ero disarmata alla sua mercé, mi atterriva.

Cesare mi spiegò che era stato il marito di sua sorella, Alfonso, a destinare quell’angolo della corte all’agrumeto: Lucrezia preferiva quel luogo di quiete alla vita  cicalecciante di palazzo Schifanoia.

Io ascoltavo, ed ogni parola pronunciata dalle sue labbra mi suonava strana. Non parlava di guerra, di ostaggi e di minacce. Pareva un uomo comune, e non il feroce conquistatore della Romagna.

“Lasciatemi dire che ho ammirato la vostra incoscienza di pochi giorni fa” disse Cesare, in un tono irridente che solleticò il mio amor proprio.

“Voi la chiamate incoscienza, per me è soltanto resistenza.”

“Se foste una brava bambina, restereste buona ad aspettare di essere salvata. Invece siete tutti così, voi Assassini…vi piace sfidare la morte.”

“Ci piace sfidare gli arroganti” replicai, piccata.

Lui reagì in modo inaspettato alla mia provocazione. Mi spinse con la schiena al muro. Le sue braccia mi inchiodavano dov’ero, il suo viso incombeva su di me.

Sentii un brivido freddo lungo la schiena, e involontariamente presi a respirare forte.

“Allora sfidami. Sfidami, Bianca Auditore. Non mi tirerò indietro.”

“Se non mi lasciate ora…” inspirai forte, per calmarmi. La mia voce uscì in un sussurro. “…farò in modo di avere la vostra testa su un piatto d’argento.”

Cesare sembrò soltanto più eccitato da quelle parole. Si piegò sul mio collo, depositandovi un bacio.

“Povera piccina…ti sforzi di mostrarti fredda e dura, quando in realtà…”

Il suo fiato seducente mi accarezzò l’orecchio, mentre le dita affusolate sfioravano quasi per caso il contorno del mio seno.

“…sei morbida, e calda, come tutte le donne.”

Lui era bello, in una maniera crudele e sensuale. Sapeva di certo come sedurre, e mi fece esitare quel tanto che bastava per attirarmi a sé e baciarmi con ardore. Non fu niente di simile ai baci che ci eravamo scambiati con Ferrante. Cesare mi invase come fossi una roccaforte: prese la mia bocca e la esplorò avidamente, costringendomi ad aderire a lui e ad accorgermi della sua prepotente virilità. Avrei dovuto ritrarmi, disgustata: invece, un incendio divampò in me. Senza accorgermene, gli allacciai le braccia intorno al collo.

Era sbagliato. Dannatamente sbagliato. Era l’apoteosi dell’errore: cedere al nemico di mio padre, lasciarsi baciare da un Borgia! Eppure, qualcosa dentro di me sussurrava che quella sarebbe potuta diventare la mia grande occasione. Cercavo un modo per scoprire dove fosse stato portato Vanni. Se fossi riuscita a circuire Cesare, forse avrei potuto passare quell’informazione a messer Machiavelli, e aiutare gli Assassini a liberare mio fratello. Con Vanni fuori pericolo, avrei potuto tentare la fuga a mia volta.

Vi vedo sorridere di questa mia convinzione. Lo ammetto, ero ingenua: volevo sfidare la volpe in astuzia.

Quando Cesare si divise da me, i suoi occhi neri ardevano di desiderio. Sapevo cosa voleva.

“Stasera” mi sussurrò all’orecchio “verrò nelle tue stanze.”

Non era certo una richiesta.

Mi lasciò bruscamente, e mi voltò le spalle per poi andarsene. Quel bastardo era consapevole di aver risvegliato qualcosa in me, e probabilmente godeva di avermi lasciato in preda a un desiderio insoddisfatto. Mentre mi sfioravo le labbra, ancora gonfie per il suo bacio aggressivo, pensai che dividere il letto del Borgia era l’unica strada. Agire nell’ombra, per servire la luce. Questo era il modo in cui operavano gli assassini.

Il tempo della cena in compagnia della corte di Lucrezia gocciolò via con una lentezza insopportabile. Cesare non mi rivolse la parola per tutta la sera, fino a che non mi ritirai nella mia stanza. Allora mi indirizzò un lungo sguardo, come se stesse rinnovando la sua promessa.

Quando venne il tempo in cui tutti erano ormai addormentati, sedetti e mi guardai nel piccolo specchio posto sul muro. I miei occhi azzurri erano spaventati.

Ciò che stavo facendo era giusto? O si sarebbe rivelato soltanto un altro errore, per cui altri avrebbero pagato?

No, mi dissi, pizzicandomi le guance perché riacquistassero colore. Le conseguenze di quel gesto sarebbero state mie soltanto.

“Mi stavi aspettando?”

Mi volsi, e lo vidi sulla porta. Indossava soltanto i pantaloni neri, le calze e la camicia bianca, come la prima volta che l’avevo incontrato. Mi chiesi come avesse attraversato indisturbato il salone dove dormivano le altre dame.

Non so se è possibile. Voglio dire, provare nello stesso momento due sentimenti tanto contrastanti. La voglia irresistibile di schiaffeggiare un uomo, e l’urgenza di sentire l’odore della sua pelle sulle labbra. Mi piaceva, maledizione, lo ammetto: mi piaceva da morire. Il mio dannato istinto ha sempre sopraffatto la ragione.

Indossavo ancora l’abito che avevo addosso quel giorno. Avevo detto a Margherita e Bécca che mi sarei preparata da sola per la notte, e loro non avevano fatto domande. Cesare si avvicinò, e iniziò lentamente a togliere le forcine dalla mia acconciatura. Le ciocche castane iniziarono a sciogliersi dalle trecce, e a scivolare dolcemente sulle spalle.

“Perché?” gli domandai, chiudendo gli occhi. “Perché state facendo questo?”

Lui mi sfiorò il collo con la punta dei polpastrelli.

“Ti hanno mai detto quanto sei bella?”

Accennai ad un sorriso nervoso. “Veramente, qualcuno ultimamente mi ha definita una ranocchia.”

“Ed ecco perché sei ancora una bambina innocente, Bianca Auditore…non sai leggere le bugie. E’ per questo che sono qui.”

“Per insegnarmi a distinguere le menzogne dalla verità?”

Ormai i miei lunghissimi capelli erano riversati in un’unica cascata sulle spalle. Cesare li scostò delicatamente sulla mia spalla, e mentre mi baciava la nuca iniziò a sciogliere i lacci del corpetto.

“E’ la neve che induce al peccato” sussurrava, tra un bacio e l’altro. “L’incomparabile lascivia di poterla sporcare…è irresistibile. E tu sei la neve. E’ colpa della tua purezza. Sei bianca come il peccato.”

L’abito mi scivolò sulle spalle, e poi lungo le braccia. Mentre Cesare mi sollevava per portarmi sul giaciglio, cercai di reprimere un brivido di piacere. Mi dissi che lo facevo per Vanni, per poterlo aiutare. Avrei sedotto Cesare, e dal suo letto sarei entrata presto nel cuore dei suoi segreti. Avrei scoperto dove si trovava mio fratello.

Questo è ciò che mi raccontavo in quel momento, per giustificare la debolezza della mia carne. La verità è diversa. Avevo quattordici anni, e smaniavo per essere notata. Cesare fu il primo a vedere nel mio corpo quello di una donna: accese ogni centimetro della mia pelle di un fuoco sconosciuto, lo esplorò, lo rese suo. Allora non capivo quale rivalsa fosse per lui prendere per primo la purezza della figlia del suo acerrimo nemico, né quale smacco stessi infliggendo a mio padre. Come troppo spesso accade, pensavo a me soltanto. Credevo che fosse sufficiente essere la figlia di Ezio Auditore per essere scaltra come lui.

Mi abbandonai alle braccia di Cesare, e alla sua esperienza. Gli permisi di giocare con me, in ogni modo possibile, e di rendermi la sua bambola. Mi dicevo che ero io a condurre il gioco, e non ero del tutto consapevole del suo tentativo di trascinarmi nel baratro.

Dicono molte cose di Cesare Borgia, oggi. Che godesse nell’esercitare la crudeltà e l’empietà. Che organizzasse orge abominevoli chiamate “balli delle castagne”, in cui simboli sacri si mischiavano alle più orribili lordure. Che fosse gratuitamente violento, soprattutto con le sue amanti.

Io fui fortunata, evidentemente. Non intravidi che un’ombra di quella perversione, riflessa in certi giochi a cui mi invitò nel periodo in cui divisi il suo letto. A suo favore – perché si concede sempre l’onore delle armi al nemico sconfitto – devo ammettere che non mi sottopose mai a nulla per cui non fossi consenziente. Forse accadde perché lo incontrai nei mesi che precedevano il suo declino, quando il potere iniziava a traballare sotto i piedi dei Borgia. O forse la consapevolezza di scoparsi la figlia del suo nemico era un trionfo abbastanza grande per lui, e non aveva bisogno di infierire in altro modo su di me.

Cesare non aveva calcolato un dettaglio. Lui era una vecchia volpe, ma io ero veloce ad apprendere. Mentre lui mi scopava, io cercavo un modo per fotterlo definitivamente.

 


[1] In realtà la Venatio di Ercole Strozzi è un’opera perduta, ma dal racconto che ne fanno altri autori pare di tema decisamente bucolico. Inizio a prendermi qualche libertà in nome della guerra tra Templari e Assassini J

[2] Dal Canzoniere di Petrarca. Sono affezionata a questo poeta, visto che per colpa sua mi chiamo Laura. Una bella versione musicata di “Trovommi Amor” è quella delle Mediaeval Baebes, gruppo contemporaneo che mette in musica i classici della poesia medievale e rinascimentale europea. Se vi piace il genere, apprezzerete anche “All for love of one” e “Isabella”, ormai parte della mia personale playlist di ispirazione per questa fanfic ^_^

[3] So che nel capitolo precedente avevo fatto scrivere a Vanni che non poteva dire dove si trovasse. Ora, se controllate, ho corretto il suo biglietto; il fatto è che, mentre stendevo questo capitolo, ho cambiato idea sull’identità dell’informatore di Bianca, e questo influisce molto sul contenuto del messaggio di Vanni. Scusate l’imprecisione.

 

Note dell'autrice.

Ecco, Bianca ne ha combinata un'altra delle sue. A mia discolpa devo dire che quando ho progettato questa parte della storia non sapevo ancora che il cattivo principale di AC Brotherhood sarebbe stato Cesare Borgia, e ormai il paletto era messo...spero che le motivazioni di Bianca vi abbiano convinta. Per parte mia, sono una genitrice rassegnata: mi aspetto sempre il peggio da questa ragazza ;)

Posso anche spoilerare in tutta tranquillità che NON sarà lui il cattivo principale di "Bianca come il Peccato", per forza di cose a livello storico non è proprio possibile. Siamo a Luglio 1503 ormai...e come voi sapete, ad Agosto...eheheh. Quale parte avrà Bianca negli avvenimenti dell'Agosto 1503? Non perdetevi il prossimo capitolo, "Di spada e di veleno" ^_^

E ora passo ai dovuti ringraziamenti, non mi stancherò mai di dirvi quanto apprezzi i vostri commenti, ragazze mi commuovete sempre T_T

Renault: ti adoro, sei sempre la prima a commentare (e di conseguenza a illuminarmi la giornata)! Hai visto che sconvolgimento? Povera Bianca, da maschio mancato deve imparare di colpo a essere una dama. Non preoccuparti, questo non trasformerà il suo modo di essere...le insegnerà soltanto qualche trucco in più per cavarsela in futuro. Ah...chi è Margherita? Con tutta probabilità sarà svelato nel prossimo capitolo, come avrai intuito è un personaggio importante della storia...spero di averti incuriosita!

Ama: Hihihi! Già, Bianca è dovuta scendere dal pero, e con un gran botto! D'altronde, penso che per diventare la degna erede di Ezio non le bastasse il DNA...e, visto che nel 1500 non era ancora stato inventato l'Animus, doveva andare incontro ad una brutta avventura per maturare e meritare il suo posto tra gli Assassini. Sono contenta che ti sia piaciuto l'ingresso di Lucrezia Borgia! Spero che quella donna ci riserverà qualche sorpresa :)

Lulla Cullen: sono commossa, hai trovato il tempo per commentare anche se eri in vacanza! T_T Sai, al posto di Bianca, mentre portavano via il suo fratellino, nemmeno io sarei riuscita a reagire. Mi sa che l'ansia per la sorte di Vanni è aumentata in questo  capitolo...però come hai visto gli assassini non stanno certo fermi con le mani in mano. E forse nemmeno Bianca resterà passiva ad attendere un salvataggio ^_^

DolceRosellina: che bello, un nuovo recensore! Sono felicissima che ti siano piaciuti i capitoli fino qui! Per il fatto dello storico, ti dirò che i paletti che mi mette la Storia per me sono uno stimolo...e se qualcosa diventa proprio un grosso ostacolo, ci si può sempre prendere una licenza poetica, basta segnalarlo :)  guarda, quando mi dici che Bianca e Vanni sembrano veramente i figli di Ezio mi si apre il cuore, davvero! Per quanto riguarda Leonardo...mi dispiace deludere le tue aspettative, purtroppo non sarà lui il grande amore di Bianca. Spero comunque di ritagliargli sempre più spazio nella fanfic, è un personaggio storico stupendo e adoro come lo ha ritratto la Ubisoft!

Giannina_92: ciao, che bello vedere che hai recensito ancora! ^_^ Ehm, Bianca è ancora indecisa se odiare Cesare. Probabilmente lo odia...ma intanto ci va a letto insieme. Mi sa che questa propensione al lato fisico del rapporto uomo-donna l'ha presa da suo padre :) Per quanto riguarda Lucrezia, c'è in effetti un motivo se non appare la "lucina" (oddio, ci ho pensato dopo...senza accorgermene ci ho messo in mezzo anche L'Occhio dell'Aquila, sono proprio drogata di AC!), e spero che nel corso dei prossimi capitoli sarà tutto un po' più chiaro. Per quanto riguarda la morte per le scale...nah, Bianca è imbranata, ma meno di quanto va dicendo in giro: credo che sopravviverà alle sottane della corte degli Este ^_^

Jayden_Auditore: bentornata! ^_^ Sono contenta che Lucrezia ti sia piaciuta, ho in mente grandi cose per lei. In effetti è un personaggio storico veramente molto affascinante. Sono contenta che la storia continui a emozionarti, e spero che ti dia ancora tante emozioni in seguito, quando raggiungeremo il vivo dell'avventura! Intanto qua i capitoli si moltiplicano fuori dal mio controllo, ho tirato fuori un po' di sottotrame che dovrò faticosamente cercare di chiudere e di avvenimenti storici in cui vorrei coinvolgere gli assassini...se hai pazienza di seguirmi in questo volo pindarico mi sa che staremo insieme ancora per qualche tempo :)

Miko: Ave, o mia illustratrice ufficiale! Come va, ti sei ripresa dalla febbre? :( Comunque sia, tu possiedi davvero qualche dote profetica, o forse semplicemente sei molto brava a leggere le esche che cerco di buttare nella storia! Infatti, come hai visto, Bianca trova di suo gusto la sottospecie di scimmia ^_^ Che gusto per gli uomini orrendo, vero? D'altronde, a lei i belli non piacciono molto...sarà che non trova nessuno che sia all'altezza del padre e del fratello, e si accontenta :P   Ps: ma certo che Vanni è anche tuo! Dopo quello splendido disegno che ne hai fatto, poi! *.*

 

Grazie anche a CartacciaBianca per la recensione a Il Bacio di Giuda! guarda che se mi fai un'altra recensione così finisce che piango io ^_^ 

Ok, a questo punto spero solo che non odierete la povera Bianca per le sue recenti scelte in campo sentimental-erotic-strategico. Come avrete capito, si sta trasformando in un tipo di donna assai poco romantico. 

Oddio, spero di aver scritto qualcosa di coerente nella risposta alle recensioni, è veramente molto tardi anche per i miei standard. Grazie infinite come al solito a tutti e tutte, anche a chi passa di qua soltanto per leggere. Un bacione.

 

Laura.


Ps: dimenticavo, una nota storica! Leonardo nella realtà era già tornato a Firenze. Ecco, ora che l'ho precisato mi sento meglio :)

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Di spada e di veleno ***


La mattina dopo quel primo incontro, non trovai Cesare nel letto accanto a me. In compenso, a svegliarmi era venuta la Duchessa, senza le sue dame.

Sussultai, coprendomi con il lenzuolo. Ero ancora nuda.

Lucrezia mi porse una fiala, che conteneva un liquido di colore verdognolo.

“Bevi” disse, con un sorriso tirato.

La squadrai, sospettosa. Conoscevo la sua fama di avvelenatrice.

“Bevi” ripeté lei “se non vuoi un ventre gonfio e un figlio bastardo. Avanti.”

Decisi di fidarmi, e bevvi d’un fiato. La pozione aveva un sapore amarissimo, e bruciava in gola. Eppure, oltre quel fastidio, non ebbe altri effetti su di me.

Lucrezia mi fissava, pallida. La sua maschera di serenità crollava ad ogni istante. “Rivestiti” disse, seccamente. Mentre eseguivo il suo ordine rimase a guardarmi, senza staccare gli occhi dal mio corpo. Per un momento temetti che mi stesse fissando con desiderio. Poi, incrociando il suo sguardo, mi accorsi che ben altro animava il suo volto. Invidia.

Avevo nove anni meno di Lucrezia. Il mio corpo era quello di una vergine appena deflorata. La mia pelle era integra e soda, il seno giovane, i capezzoli ancora rosa. Il ventre non era sformato da alcuna gravidanza.

Sotto il peso del suo odio sottile, provai il desiderio di vestirmi più in fretta. Distrattamente, pensai che avrei dovuto sanguinare. Forse avevo lasciato macchie rosse sulle lenzuola, non so. Non vi avevo fatto caso.

“Non credere che io ti giudichi” sospirò Lucrezia. Mi vide lottare con i lacci del corpetto: spazientita, la Duchessa di Ferrara camminò rapida verso di me, mi girò e iniziò a stringerli, un po’ più forte di come avrebbe fatto una serva. “Hai scelto di combattere con una delle poche armi concesse alle donne” proseguì “Io posso insegnartene un’altra, se lo desideri.”

“Perché vorreste aiutarmi?” domandai, cauta. Lei strinse spietatamente l’ultimo tratto di nastro, e lo annodò.

“Riconosco una donna intelligente quando la vedo. Io non combatto le guerre di mio padre né quelle di mio fratello…ne ho però una personale, in cui cerco alleati come te.”

Mi volsi, per fissarla negli occhi. “E per quale motivo dovrei allearmi con voi?”

Per un attimo, il suo volto fu deformato dal dolore.

“Conosco la storia di Ezio Auditore da Firenze. Credi che tuo padre sia l’unico a cui Sua Santità il Papa ha tolto tutto?”

Ristetti. Lucrezia mi fece cenno di seguirla nelle proprie stanze.

Non avrei dovuto essere sorpresa di trovarvi Margherita: ciò che era insolito, era che la bambina stesse giocando con due bambole di legno. Erano di fattura pregiata, laccate, con abiti di velluto e trecce di capelli veri. Un giocattolo che una serva non si sarebbe potuta permettere. La bambina non portava nemmeno il fazzoletto in testa, e i suoi riccioli biondi correvano liberi sulle spalle.

Appena si accorse della mia presenza, si immobilizzò come un cervo con una freccia puntata alla fronte.

“P-perdonate” esclamò, terrorizzata. Lucrezia le sorrise, per tranquillizzarla.

"Non temere, Margherita. Bianca è un’amica. Non rivelerà il nostro piccolo segreto. Sai che puoi venire a giocare qui quando vuoi.”

La bambina chinò la testa. “Madonna Lucrezia è troppo buona con me, io non lo merito.”

Lucrezia si chinò su di lei per  baciarle la fronte. “Tu meriti il meglio, e mi dispiace di non potertelo dare in ogni momento. Ma verrà il tempo, vedrai. Ed ora va’, devi aiutare Bécca…tornerai qui questa sera.”

“E…” la bambina esitò, mi guardò imbarazzata, Poi disse in un sussurro: “Potrò dormire ancora con voi?”

Il sorriso che illuminò il volto di Lucrezia era di una dolcezza infinita.

“Certamente. Va’, ora. Ti aspetto questa sera, dopo cena. Giocheremo a scacchi insieme.”

Entusiasta, la piccola serva depose le bambole, riallacciò il fazzoletto sui ricci biondi e se ne andò. Una volta che si fu richiusa la porta alle spalle, Lucrezia si volse a guardarmi.

“Mi aveva detto…che i suoi genitori sono morti…” mormorai, confusa. Lucrezia annuì.

“Così lei crede. L’ho affidata a Bécca che era ancora una neonata. Ti sto svelando un segreto vitale per me, Bianca Auditore…puoi ben vedere la mia buona fede.”

Esitai. Non capivo il motivo di quella confessione.

“Se Margherita è vostra figlia, perché la tenete nascosta?”

Lucrezia sospirò. “Ho altri due bambini. Juan ha cinque anni, è nato dalla mia relazione con un messo del Papa…il suo nome era Pedro. Pedro Calderon[1]. Cesare l’ha ucciso un mese prima che nascesse nostro figlio.”

Inghiottii a vuoto. Lei proseguì: “Il secondo è Rodrigo…suo padre, Alfonso, è stato il mio secondo marito. Era giovane, bello e dolce, ed io lo amavo davvero. Ma quel matrimonio era diventato inutile da un punto di vista politico per mio padre. L’estate di due anni fa, mentre passeggiava dopo cena, Alfonso fu aggredito da Michelotto, il sicario di Cesare. Sua sorella ed io lo trovammo sanguinante sulle scale di palazzo, e lo portammo in salvo. Lo accudimmo di persona, e non permettevamo a nessun altro di entrare nelle sue stanze. Preparavamo i suoi pasti con le nostre mani. Lui si stava riprendendo…”

Si coprì il volto con le mani, pallida come un morto. “Mi ricattarono. Avevano Juan, e Rodrigo ancora in culla…Cesare li avrebbe uccisi! Ho dovuto scegliere tra i miei figli e il mio amore, e, che Dio mi perdoni, io sono uscita da quella stanza. Lo hanno soffocato…spero solo che non abbia sofferto troppo a lungo.”

Le sue lacrime mi punsero il cuore. Era tutto così irreale…sapevo che Alessandro VI era un uomo perfido, ma non mi sarei mai aspettata che avrebbe inflitto tanto dolore alla propria stessa figlia.

Provai l’impulso di abbracciarla, ma non lo feci. 

“Era lui il padre di Margherita?”

Lucrezia scosse il capo, e si asciugò le lacrime con il dorso della mano.

“Il mio primo marito è stato Giovanni Sforza, duca di Pesaro. Non lo amavo particolarmente, ma avevo rispetto di lui…era un buon alleato per il papato, fino a che mio padre ha deciso che non gli era più utile. Allora ha fatto annullare il matrimonio, sostenendo che non fosse mai stato consumato.”

“E Margherita è la prova che questa è una menzogna.”

Lucrezia alzò gli occhi su di me. Era di nuovo padrona delle proprie emozioni.

“Sono riuscita a celare la gravidanza riparandomi in un convento, con la scusa della mia salute troppo cagionevole per trascorrere l’inverno in una città malsana come Roma. Sapevo che mio padre voleva sciogliere il mio legame con Giovanni, e non volevo che mia figlia ne subisse le atroci conseguenze. Se lo avesse ritenuto necessario, l'avrebbe uccisa in culla senza esitare.”

“Non capisco. Perché mi raccontate tutto questo?”

A quel punto, la futura duchessa di Ferrara estrasse la catenella d’oro da sotto il corpetto, rivelando un ciondolo intarsiato. Pareva un comune porta-profumi. Lo svitò, per mostrarmi il suo contenuto. Una polvere bianca.

“Si chiama cantarella. Si fabbrica con l’arsenico cosparso su interiora di maiale lasciate a essiccare. Macinandolo, se ne ricava questa polvere letale.” D’istinto allontanai il viso dalla piccola ampolla. Lucrezia la avvitò lentamente. “Io voglio uccidere il Papa, e prendere il suo posto come Gran Maestro dei Templari.”

Parlava piano, quasi sommessa, come se recitasse una preghiera. Non avevo mai sentito tanta fermezza nella voce di una persona.

Per tutta risposta, io sgranai gli occhi.

“I Templari non accetteranno mai una donna come Gran Maestro” dissi.

Gli occhi verde-ocra di Lucrezia si accesero di un fuoco che non vi avevo mai visto ardere prima di allora.

“I tempi cambiano, Bianca. Dio non ama più i figli di Adamo…guarda agli anni bui che abbiamo alle spalle, guarda alle nubi che ci corrono incontro! L’Uomo non è rinato. L’Uomo si sta lasciando morire. Ma se al comando ci fosse una donna, quante guerre sarebbero evitate! Noi portiamo la vita nel nostro grembo. Noi conosciamo il dolore fisico più grande, che è dare un figlio alla luce. Ed anche il dolore morale più grande, che è vedere un figlio morire. Due ferite del genere, insieme, potrebbero distruggere un uomo, mentre una donna resta in piedi. I pilastri del domani siamo noi. “ Mi prese le mani. Le tremavano  per il fervore. “Riesci a vedere questo domani, Bianca? Io come Gran Maestro dei Templari, e tu come Maestro Assassino. Ognuna a guardia di un frutto dell’Eden, senza più sopraffazioni. Ci sarebbe equilibrio. Ci sarebbe armonia. Potremmo lavorare insieme per costruire un futuro migliore per il genere umano.”

Ero stata ingannata troppe volte, e le ferite erano ancora fresche. Non mi fidavo più del mio giudizio, perché se avessi dovuto esprimerne uno su Lucrezia Borgia in quel momento avrei detto che era sincera. Però, vagheggiava un miraggio troppo bello per essere creduto. Pace, tra Templari e Assassini. Equilibrio. Niente morti inutili. Stupendo, ma impossibile. Non era nella natura di entrambi gli schieramenti.

Dovevo capire dove voleva andare a parare per davvero.

“Cosa volete che faccia?” mormorai.

Lei mi consegnò un anello. Il cerchio era d’oro, maschile: vi era montata sopra una pietra di diaspro rosso.

“Convinci Cesare a indossarlo. La pietra è falsa, contiene cantarella mista ad acqua. C’è un meccanismo al suo interno, che scatterà nel giorno da me programmato. Allora dei piccoli aghi usciranno dall’interno dell’anello, iniettando il veleno nelle vene di Cesare. La comune acqua tofana[2] per lui non basterebbe” aggiunse, forse in risposta al mio sconcerto “Si addestra da anni a sopportarla, bevendone un poco ogni giorno.”

“Perché non potete dargli voi l’anello?”

“Non si fida più di me come un tempo: ha capito che non sono meno astuta di lui. Di te, invece, non ha ancora capito la vera natura…e in questo momento gli sei più vicina di chiunque altro.”

Guardai quella donna, inferocita da anni di sopraffazioni. Le avevano tolto la dignità e l’amore, avevano ucciso gli uomini a cui avrebbe potuto donare il suo cuore. Era prigioniera della propria ascendenza…come lo ero io.

“Se lo farò, libererete Vanni?”

Lucrezia sostenne il mio sguardo. “Tu e tuo fratello sarete liberi quando mi giungerà la notizia della morte di mio padre e di Cesare. Se te lo giurassi sul mio onore non mi crederesti…perciò te lo giuro sui miei figli, che possano morire tra atroci dolori se ti ho mentito.”

Mi mise l’anello tra le mani, ed io lo nascosi in una tasca della gonna. Ora avevo la possibilità di eliminare fisicamente il nemico di mio padre. Forse, dopo tutto, Ezio sarebbe stato fiero di me.  

 

Cesare non tornò nelle mie stanze ancora per qualche tempo: c’erano affari che lo conducevano ad Urbino, ed io attendevo il momento in cui l’avrei affrontato, rimirando l’anello letale alla luce della candela. C’era l’ovvia possibilità che Lucrezia mi avesse mentito. Dovevo sbarazzarmi di quell’anello, o tenerlo?

La sua sola presenza fisica mi incuteva paura. Desideravo metterlo al dito, e allo stesso tempo ne ero terrorizzata. E se avesse sprigionato la sua dose letale prima del tempo?  

In questa continua danza con la morte che è stata la mia vita fino ad ora, mi è sempre piaciuto giocare il destino. Perciò lo lasciai cadere, quasi distrattamente, al medio della mano destra. Non accadde nulla. Lo calzai per bene: iniziò a scaldarsi.

Tenere quell’anello mortale contro la pelle era fonte di continua eccitazione per me. Una sensazione brulicante, che mi faceva sentire più viva proprio ora che ero consapevole di stringere letteralmente nel pugno la morte. Mio padre dice che non c’è nulla di piacevole nell’uccidere, e ha ragione. Ma non posso negare che sia divertente, di tanto in tanto, mettere la propria stessa esistenza sul filo. E’ un potere pericoloso, che può diventare inebriante e accecare quasi quanto la brama del sangue altrui.

Fu così, con l’anello al dito, che mi recai da Lucrezia.

Le sue dame non erano presenti. Stava giocando con Margherita: era inginocchiata sul pavimento accanto a lei, mentre pettinavano la sua bambola preferita.

La Duchessa si sollevò dal pavimento, con un sorriso saggio sul viso.

Aveva subito visto l’anello, e l’aveva interpretato come un segno della mia adesione alla sua congiura.

“Mio fratello sarà di ritorno domani” zufolò, con un tono insolitamente allegro. Capii che non voleva far comprendere i nostri discorsi alla bambina.

“Gli farò il dono che voi mi avete chiesto, madonna…ma a una condizione.”

Lei si accigliò. “E’ giusto. Sei un’alleata per me, non una prigioniera. Chiedimi ciò che vuoi.”

“Voglio vedere Vanni.”

Lei esitò. Mi scrutò con espressione seria per qualche istante.

“Va bene. Domani, dopo la messa. Verrete solo tu e Margherita.”

“Vanni è quel bambino sempre arrabbiato?” domandò la piccola serva, sollevando lo sguardo dalle bambole. “Quello che fa impazzire messer Bembo perché gli tira la zuppa addosso e si rifiuta di mangiare?”

La fulminai con lo sguardo. Era stata da lui! Margherita aveva visto Vanni!

“Perché si rifiuta di mangiare?” ringhiai “Che gli avete fatto?”

“Sta bene, non temere. Fa solo i capricci da un paio di giorni…dice che vuole vedere con i suoi occhi che la sua sorellina è viva, e la sua ultima trovata è il digiuno.”

Furente, mossi un passo verso di lei, ricordandomi appena in tempo che dovevo trattenermi e non potevo saltarle alla giugulare.

“Sarà meglio per voi che sia tutto intero, Lucrezia. Perché se gli è stato fatto qualcosa dai vostri uomini, sappiate che ve la farò pagare, in questa o nell’altra vita.”

Lucrezia sogghignò. Apparentemente, la mia mancanza di rispetto non la toccava affatto.

“Ed ecco perché preferisco averti come alleata, giovane aquila” disse, compiaciuta.

Dopo la messa del giorno dopo, la carrozza di Lucrezia si avviò quasi vuota verso la casa di messer Pietro Bembo. C'eravamo soltanto io, lei e Margherita nell'abitacolo. Le dame erano state rimandate a palazzo da sole.

Lucrezia fu fatta entrare in fretta, quasi di soppiatto. Ad accoglierci c’era un servo vecchio e curvo: messer Bembo era al piano di sopra, ci aveva detto, a calmare la belva. Capimmo a cosa si riferiva quando, salendo al piano superiore, sentimmo gridare:

“Vi ho detto che non voglio il vostro stupido piccione ripieno! Per quanto mi riguarda potete infilarvelo nel…”

L’imprecazione di Vanni si bloccò in gola, quando apparvi sulla soglia, subito dietro Lucrezia.

“Madonna Lucrezia” disse Pietro Bembo, sospirando per il sollievo. Vanni divenne come di sale alla mia vista: forse non mi riconosceva, vestita da dama com’ero.                                                            

“Calma i bollenti spiriti, giovane Auditore” sorrise la Borgia. “La tua Bianca è qui: giudica tu se sta bene.”

Mio fratello guardò prima lei, poi me. Mi riconobbe, finalmente, e prese a singhiozzare.

Se ne vergognava, e cercava disperatamente di inghiottire quei sussulti. Gli corsi incontro, lo strinsi forte. Era dimagrito, ma stava bene. Dio, stava bene!

Non riuscii a trattenere le lacrime. Ascoltavo il suo cuore battere contro il mio, controllavo che respirasse. Nei miei incubi lo avevo visto morto troppe volte.

“Devi mangiare, stupido” gli sussurrai all’orecchio “altrimenti la mamma se la prenderà con me quando torneremo a casa.”

Come se nostra madre avesse da imputarmi soltanto quello, in tutta la nostra terribile avventura; eppure, quella sciocchezza fu l’unica cosa che riuscii a dirgli.

Tranquillizzato dalla mia presenza, Vanni si ingozzò di tutto quello che non aveva mangiato in due giorni, con gli interessi.

“Se avessi saputo che bastava così poco per placarlo” rise messer Bembo “ vi avrei  chiesto di portare qui la ragazza una settimana fa. La piccola belva ha distrutto il mio migliore servizio da tavola pezzo per pezzo, e minacciava di iniziare a sfregiare i miei libri antichi!”

Lucrezia sorrise: lo sguardo le cadde sulla mia mano, intrecciata protettivamente al braccio di mio fratello.

“Sei una fanciulla fortunata, Bianca Auditore. Vorrei che uno solo dei miei fratelli mi avesse voluto bene come Giovanni ne vuole a te.”

Mi accorsi che Vanni aveva smesso di ingurgitare cibo, e ora si puliva il viso vergognosamente con la pezza che Margherita gli aveva porto. Il suo sguardo era rapito da qualcosa, e quel qualcosa era Lucrezia Borgia.

La donna ora stava conversando con il poeta,  e da quel che carpivo dai loro discorsi pianificavano la morte del Papa e di Cesare.

“E’ bellissima, vero?” sussurrò Vanni, dopo che ebbe bevuto un sorso d’acqua.

“Non so ancora se fidarmi di lei” replicai.

Pensai che Bembo era davvero un cortigiano fedele, se era pronto a seguire la sua signora in quella folle impresa. Dal modo in cui avvicinava il volto al suo, con famigliarità e nessun imbarazzo, dedussi che fossero legati da ben più di un’amicizia.

Mi lasciavano ascoltare, per darmi a intendere che ero già una dei loro congiurati.  Avevano deciso per la sera di San Lorenzo, a Roma. Sua Santità sarebbe stato ospite del cardinal Castellesi, uno dei loro affiliati. Poiché Rodrigo, al contrario del figlio Cesare, era vulnerabile ai veleni, sarebbe stata sufficiente della comune acqua tofana, mischiata al vino. A quanto pareva, l’onnipotente Rodrigo Borgia soffriva di problemi digestivi; sarebbe passato tutto come un blocco dell’intestino dovuto al calore eccessivo.

“Non berrà mai il vino del suo ospite.”

Bembo e Lucrezia si volsero a guardarmi, sorpresi. Io proseguii:

“Se è furbo come sostenete, vorrà un assaggiatore. Avreste bisogno di un uomo che sia addestrato a sopportare il veleno…a meno che lo Spagnolo non porti con sé del vino donatogli da qualcuno di cui si fida. Regalateglielo voi.”

“Potrei mettere in guai seri mio marito e il Duca Ercole” replicò Lucrezia, dopo aver soppesato l’idea per un momento.

“Non se il dono viene da voi personalmente” mi sostenne Bembo. “Sua Santità vi adora, Lucrezia. Non sospetterà mai che un regalo che viene dalle vostre mani  possa provocare la sua morte.”

La duchessa vi rifletté, per un momento. Non ci comunicò la sua decisione a riguardo.

“Tornerò a prenderti” sussurrai a Vanni, abbracciandolo prima di lasciarlo.

“Non preoccuparti. Madonna Lucrezia ha buona cura di me, starò bene” disse lui.

Non avevo altra scelta che fidarmi.

 

Cesare tornò da Urbino giusto in tempo per la prima trattativa con gli Assassini, che ebbe luogo il quindici di luglio, un mese e dieci giorni dopo il nostro rapimento. La scusa ufficiale sarebbe stata una visita di Isabella d’Este Gonzaga, la cognata di Lucrezia Borgia. Insieme a lei ci sarebbe stata, mimetizzata tra il suo seguito, una delegazione dei nostri.

Ero terrorizzata da quell’incontro. Cesare sarebbe stato presente, ed io temevo che il mio amante non si sarebbe fatto scrupolo di sbandierare la conquista ai suoi rivali. Ero certa che nessuno degli Assassini avrebbe compreso perché avevo compiuto quel gesto, e di certo non potevo parlare loro della congiura di Lucrezia Borgia contro il padre e il fratello.

Chiesi di indossare gli stessi abiti di quando ero arrivata. Lucrezia mi rispose che mi sarebbero stati restituiti al momento della mia liberazione: voleva mostrare ai miei genitori che ci stava trattando con ogni riguardo.

Riuscii comunque a farmi acconciare i capelli in una semplice treccia, senza inutili ornamenti. Era già abbastanza umiliante presentarsi ad Ezio in quell’abito opulento, tanto simile a quello delle altre donne di palazzo. Una volta, ero la sua bambina speciale. Adesso, cos’ero diventata? Una dama come tante, con ampie gonne per celare meglio i segreti di notti scandalose.

Al mio fianco c’era Vanni. Eravamo entrambi liberi, ma circondati da Templari: ogni angolo della stanza delle udienze di Lucrezia era sorvegliato da una guardia o da un templare camuffato da cortigiano.

La Borgia si presentò in pompa magna, con una veste di amoerro bianco irraggiata di ricami dorati; ma la Marchesana Isabella non era una donna di minore gusto o bellezza. Anch’ella era bionda, sottile di polsi e con un volto aggraziato. Aveva appena sfiorato la trentina e il suo abito verde scuro listellato in oro la faceva somigliare a una ninfa delle foreste. Due vivissimi occhi scuri, resi ancora più espressivi da sottili sopracciglia inquisitorie, fissavano direttamente la sua rivale. Con mia sorpresa, mi accorsi che il suo ventre era sproporzionato per la costituzione delicata. La Marchesana era gravida, e non di pochi mesi[3]; tuttavia, aveva affrontato un lungo viaggio sul fiume per venire a trattare la nostra liberazione.

Cesare, come temevo, era presente. Indossava un ricco farsetto nero su una camicia bianchissima. Mi aveva a malapena degnata di uno sguardo al suo ritorno. Non sapevo come interpretare quel segnale. Era un bene? Era un male? Non avrei saputo dirlo. Con l’indice, sfregavo nervosamente l’anello avvelenato al mio dito medio. Dovevo trovare il modo di farglielo accettare.

Alla fine, dopo molti tentennamenti, mi costrinsi a cercare con lo sguardo nella sala: non potevo sfuggire per sempre al confronto con gli Assassini.

Dietro un paio di anziani dignitari della Marchesana di Mantova, intravidi Antonio e zio Ugo, camuffati da cortigiani. Poi – un tuffo al cuore – mia madre, mimetizzata tra le dame di Isabella, e non lontano da lei una suora con un neo sospetto che usciva dal soggolo castigato.

Di lui, nessuna traccia.

“Cara sorella[4]” esordì Isabella, con voce chiara e argentina “siamo al fine convenuti qui, dove tu ci hai invitati. Gli uomini e le donne che io rappresento sono disposti a trattare, ma desiderano prima accertarsi che i tuo giovani ospiti siano in salute.”

Nicoletta mi spinse avanti di un passo, e così fece Bembo con Vanni. Presi la mano di mio fratello, e la strinsi per dargli coraggio.

“Isabella, sorella carissima al mio cuore” rispose Lucrezia “sono ancora nuova ai costumi ferraresi, ma a Roma ero abituata a guardare in faccia i miei questuanti. L’uomo che rappresenti ha tanto timore di me da nascondersi dietro le tue gonne?”

Allora, dal piccolo gruppo alle spalle di Isabella d’Este, emerse un cappuccio bianco, con un abito bianco rifinito in rosso. La corazza Missaglia rilucette nei bagliori di sole che penetravano da dietro i tendaggi. Sentii un velo di lacrime coprirmi gli occhi. Ma non era tempo di piangere, dannazione. Non lo era.

“Ezio Auditore da Firenze” disse Cesare, con quel suo sorriso strafottente. “Finalmente ci incontriamo. Sua Santità parla di voi con grande affetto.”

Gli occhi scuri di Ezio emersero in un lampo sotto il cappuccio, mentre sollevava fieramente la testa.

“Cosa volete in cambio dei miei figli?”

Cesare intrecciò le mani dietro la schiena. “Il mio desiderio, vedete, è piuttosto semplice. Voglio ampliare i miei domini dalle Alpi al Regno di Napoli, e unire la Penisola in un unico regno nel nome di Bufihamat[5] e della casa dei Borgia. Il pastorale del Papa non è sufficiente allo scopo. Voi possedete ciò di cui ho bisogno.”

Nessun muscolo del volto di mio padre si mosse. Rimase inespressivo, mentre diceva lentamente:

“La Mela non è con me.”

“La farete pervenire” intervenne Lucrezia “sull’altare della Cattedrale di San Giorgio, in un giorno stabilito. L’undici d’Agosto prossimo venturo è indetta una corsa delle putte[6], la città sarà distratta dai giochi. Mi sembra il momento ideale per lo scambio.”

“Quali sono le garanzie che ci date?” intervenne Isabella, chetando con un gesto il moto di protesta di mio padre. “Potreste uccidere i bambini nel frattempo.”

Lucrezia sorrise. “Sorella, mi offendi. La mia parola non basta?”

Per tutta risposta, Isabella scosse il capo, decisa. “Non basta. Libera uno dei due ora, se sei in buona fede.”

La mano di Vanni sudava nella mia. Voleva andare a casa, lo sentivo dal fremito delle sue dita.

“Prendete Giovanni” dissi, causando un sussulto tra i convenuti. Mio fratello mi guardò, con gli occhi spalancati. “Lui non ha colpa in tutto questo…resterò io. Vi prego.”

Per un attimo vidi l’indecisione sul volto di Ezio, e il terrore e la speranza su quello di mia madre. Uno di noi due. Si trattava di scegliere. Chi volevano vivo e al sicuro? Me, la colpevole della morte di zio Mario e la ragazzina sporcata dal suo nemico, oppure un bambino coraggioso che era finito in quel guaio per errore? Al loro posto non avrei avuto dubbi.

“I ragazzi restano entrambi” sibilò Lucrezia. Bembo tirò di nuovo indietro Vanni, e Nicoletta cercò di fare altrettanto con me; io mi scostai, e mi gettai ai piedi di Lucrezia.

“Madonna, vi prego! Liberate Vanni! Io basterò come garanzia, vi supplico…”

Furente, Cesare fece per risollevarmi in modo brusco; in un attimo, la lama celata balenò fuori dagli antibracci di mio padre, e si puntò sotto la gola del Borgia. Cesare era stato altrettanto svelto a mettere mano a un pugnale, che teneva fermo all’addome di Ezio. Intorno, gli uomini di entrambe le fazioni si stavano scaldando. La stanza si riempì dei cigolii di spade e coltelli contro i foderi, pronti per essere snudati.

Le piccole mani di Isabella d’Este si posarono senza paura una sulla lama celata di mio padre, l’altra sul pugnale di Cesare, allontanandoli. La Marchesana di Mantova fissò entrambi, come per ricordare loro che non era il luogo né il momento di versare sangue. I due, lentamente, si ritrassero.

Quindi, Isabella tese le mani verso di me. Mi aiutò a rialzarmi, sorridendo benevola.

“Sei coraggiosa, Bianca Auditore. Capisco perché mia sorella non desideri separarsi da te. A noi non resta che accettare le sue condizioni, purtroppo…non abbiamo niente di altrettanto prezioso da offrire.”

Oltre la spalla di Isabella, cercai lo sguardo di Ezio. Dunque, non c’era un piano? Nessuna negoziazione, solo una resa totale per la nostra salvezza?

No. Conoscevo mio padre, i suoi occhi mi parlavano. Qualcosa c’era, ed io non dovevo mostrare di averlo capito. Perciò abbassai il capo e mi rimisi docilmente al fianco di Lucrezia. La delegazione capitanata da Isabella fu congedata; la Marchesana annunciò che sarebbe subito ripartita per Mantova, poiché la sua venuta a Ferrara e per giunta in quello stato delicato era una faccenda che doveva restare celata al Marchese, che la credeva nella loro residenza di campagna, e anche al Duca suo padre.

Sollevai la testa solo per guardarli uscire. Vidi la mano di mia madre alzarsi per un debole saluto. Un saluto strano, con sole tre dita della mano. Rosa rimase a fissarmi per qualche istante, per accertarsi che avessi capito. Quindi, anche lei uscì.

Tre. Tre…cosa? Non capivo, ma era di certo un segnale. Dovevo essere vigile: un altro lungo mese mi attendeva alla corte di Lucrezia Borgia, ma ora sapevo che gli Assassini mi volevano di nuovo tra loro. Avevano un piano che avrebbe permesso di salvare noi e la Mela allo stesso tempo. Si trattava, ancora una volta, di saper aspettare.

 

Nel frattempo, fu mia cura cercare di attuare l’altro piano, quello che riguardava la congiura contro Rodrigo e Cesare Borgia. Se dovevo restare bloccata a Ferrara ad attendere di essere salvata, avrei almeno reso fruttuoso quel soggiorno coatto.

Per quella notte, e per quella successiva, restai da sola in un letto vuoto, a fissare senza requie la stella più luminosa della costellazione dell’Aquila. Pensavo all'undici agosto, il giorno in cui si sarebbero giocati i nostri destini. Gli assassini avrebbero portato la mela sull’altare di San Giorgio, Vanni ed io saremmo tornati a casa. Forse nello stesso momento, a Roma, il meccanismo dentro l’anello avvelenato sarebbe scattato. Cesare Borgia sarebbe morto tra atroci sofferenze, e accanto a lui suo padre. Avrei eliminato i sommi nemici dell’Ordine, e compiuto appieno la vendetta che mio padre aveva cercato per trent’anni. E, soprattutto, avrei ucciso per la prima volta nella mia vita. Anche se a distanza e non per mia mano, anche senza versare del sangue con la mia lama, avrei tolto la vita ad un uomo. Non sapevo come mi sentissi a riguardo, ma continuavo a girare l’anello al dito, pensierosa. Forse Cesare sospettava qualcosa, perché non mi aveva ancora cercata.

Mi sbagliavo, a riguardo. Il Valentino si presentò due sere dopo nella mia camera, finalmente deciso a marchiare di nuovo il territorio che la venuta degli assassini aveva invaso.

“Perché avete atteso tanto, mio signore?”gli chiesi, slacciando il suo farsetto. Temevo la risposta: poteva sospettare della congiura. Poteva sospettare di me.

“Un uomo ha affari da sbrigare” replicò lui, con un sorriso divertito, mentre lasciava scivolare l’indumento a terra. Aveva preso la mia premura per un segno di attaccamento. Dovevo sfruttare questa sua impressione.

Per questo, cercai di essere docile, e allo stesso tempo partecipe. Tuttavia, il peso dell’anello avvelenato al mio dito mi impediva di provare qualsiasi tipo di coinvolgimento. E’ strano pensare alla morte proprio nel momento in cui il corpo è più vivo.

Più tardi, mentre giacevamo accaldati tra le lenzuola, Cesare mi baciò la fronte e rise.

“Sei una piccola strega, Bianca Auditore.”

C’era quasi affetto, nel suo tono. Valutai per un attimo se si trattasse di una minaccia, e decisi che non lo era.

Giocai a fare l’ingenua. Tracciando piccoli cerchi sul suo petto con la punta del dito, replicai: “Perché dite questo, mio signore?”

“Pensi di essere entrata nelle mie grazie, non è vero?”

Sorrisi, intrecciando una gamba alle sue. “Di certo voi siete entrato nelle mie.”

“Credi che non abbia mai avuto donne come te? Femminette che si credono furbe, e pensano di portarmi via un segreto con le loro arti? Il bene che scambi, io posso trovarlo altrove.”

I suoi occhi neri si misero nei miei per risucchiarmi l’anima. Ressi il suo sguardo. “Ma ora siete qui, con me.”

Qualcosa sembrò ammorbidirsi sul fondo di quelle iridi nere. Poi, la sua attenzione fu rivolta all’anello.

Mi prese la mano per studiarlo.

“Un dono di valore” disse, in tono indifferente. “Chi te l’ha regalato?”

“Oh, questo ninnolo? Me l’ha dato Messer Bembo.”

“Un pegno d’amore?”

“E se fosse?”

Il suo tono cambiò di colpo. “Toglilo.”

“Non ha alcun significato per me.”

“Allora toglilo.”

Ubbidii, spaventata dalla ferocia appena trattenuta nella sua voce. Mi prese la gola, e per un momento ebbi paura che volesse uccidermi.

“Tu mi appartieni.”

Un moto di ribellione mi scosse le membra; no, io non appartenevo a nessuno! Tuttavia, dovevo reggere il gioco. “Sì” dissi, più docile e spaventata che potevo. “Se lo volete, quell’anello è vostro. Mi è stato dato per amore, e io lo do a voi. Non ho altro signore se non voi, ve lo giuro.”

Glielo porsi. La stretta delle sue mani si allentò. Ma non lo prese.

“Non so se desidero di più ucciderti” mormorò, con la voce arrochita dal desiderio “o fare questo.”

E mi baciò con prepotenza, trovando di nuovo la sua strada dentro di me. Questa volta non posso negare che provai piacere, di un genere intenso e violento che i miei successivi amanti non hanno mai più saputo darmi.  Ero giovane, ma non più delle fanciulle che andavano spose appena dodicenni, e dopo il loro primo mestruo consumavano la prima notte di nozze alla presenza di una corte intera[7]. Il mio sangue cantava al suono di quel richiamo primordiale: fu facile per me perdere le prime inibizioni. Alcune donne, mi dicono, non trovano mai la strada per i propri sensi: fortunatamente non era il mio caso. Chiamatela predisposizione, o forse ereditarietà. Mi dicono che mio padre non abbia mai resistito al richiamo femminile, e la mia stessa nascita dopotutto ne è la prova.

Lucrezia, in ogni caso, aveva ragione. Avevo appena scoperto un’arma con cui le donne di frequente combattono le loro battaglie silenziose, in questi tempi in cui solo agli uomini è permesso di agire alla luce del sole. E i primi effetti di ciò che avevo seminato iniziarono a vedersi già il giorno successivo, quando notai che il mio anello era sparito. Quando incontrai Cesare al banchetto di quella sera, vidi che lo indossava. Per la prima volta nella mia vita, assaporai il dolcissimo nettare della vittoria.

Margherita Sforza

(Margherita Sforza - Lineart (c) Ilaria/Miko)


 

 


[1] Meglio conosciuto in Italia come Perotto.

[2] Acqua mista ad arsenico, un comune veleno rinascimentale

[3] Di Ippolita Gonzaga, che sarebbe nata il 13 novembre di quello stesso anno.

[4] Erano in effetti cognate, essendo Isabella sorella di Alfonso d’Este, marito di Lucrezia. Tra loro c’è una rivalità pregressa: il marito di Isabella, Francesco Gonzaga, se la intendeva – non si sa se platonicamente o meno – con la Borgia, e quel simpaticone dell’Ercole Strozzi fungeva da portalettere per la corrispondenza dei due.

[5] In arabo, Padre della Comprensione.

[6] Tipo di corsa di solito inclusa nelle gare del palio, dove le fanciulle dai dodici anni in su si sfidavano in velocità da Santa Maria delle Bocche (angolo Gioco del Pallone) alla porta di Gusmaria. Ercole I e i duchi successivi indicevano le gare, sia di cavalli che di corsa, un po’ quando aggradava loro, per la logica del panem et circenses. Mi sono inventata la corsa del diciotto agosto 1503, ma diciamo che non è una situazione inverosimile.

[7] E’ sconvolgente, ma è così. Soprattutto in caso di signori nobili o situazioni regali, spesso il padre della sposa assisteva all’atto, con dei notai che annotavano misure e altri dettagli imbarazzanti. Tutto questo serviva a verificare che il matrimonio fosse effettivamente consumato. Tanto perché il trauma della prima volta non è abbastanza di per sé.

 

 

Note dell'autrice:

Aiuto! Ho tantissime recensioni a cui rispondere...sapevo che il capitolo precedente avrebbe creato un po' di scompiglio, ma mai mi sarei aspettata un livello simile di partecipazione! Grazie, grazie mille!

Miko: Beh, che ne dici...la gatta ci sta covando per Cesare? ^_^ Stupendosissimo il disegno, appena avrò pubblicato questo capitolo andrò ad inserirlo nel capitolo precedente :) Ah, mi ha fatto morire dal ridere anche la vignetta in cui meni il povero Borgia XD Chissà se Vanni saprà trattenersi con le donne? Uhm...secondo me non raggiungerà i livelli di Bianca ed Ezio, ma nel suo piccolo mieterà qualche conquista :)

Renault: Sono contenta di averti allietata in una pausa dalle ripetizioni...ah, latino! Quanti ricordi ^_^ Non preoccuparti se per un po' non potrai leggere, temo che tra poco inizierò anche io a diradare i ritmi di aggiornamento...oltre alle sospirate vacanze, dovrò anche dedicarmi alla tesi prima o poi, sob.

Lulla Cullen: Per quanto riguarda il cattivone della storia...uhm, sì e no. Diciamo che se questo fosse un videogioco, a Bologna ci sarebbe un boss...ma non quello finale XD Anche se devo dire che per quanto riguarda la super battaglia finale ho soltanto idee vaghe...questa storia rinascimentale è tremenda, più ne studi e più ti accorgi che non ne sai abbastanza O.O Cmq sono contenta che Bianca abbia la tua approvazione...spero che ora, con la congiura, si capisca ancora meglio l'utilità delle sue azioni ;)

Jayden Auditore: Sono contenta che tu sia riuscita a immedesimarti in Bianca, temevo che nel periodo di transizione in cui si trova fosse un po' difficile capirla. Oddio, anche io voglio presto Brotherhood! Anche se temo che quel gioco mi costringerà ad odiare Cesare Borgia...e dire che prima di AC II era un personaggio storico che mi piaceva! T_T Ps:Come ho capito che eri una ragazza? Ho letto il tuo profilo per non sbagliarmi ^_^ 

Giannina92: Grazie per i complimenti! Lo so, Bianca è piuttosto giovane per i nostri standard, ma mi sono consolata quando ho letto nei romanzi e nei saggi di Maria Bellonci che le ragazze andavano spose intorno ai dodici anni, e dopo la loro prima mestruazione consumavano il matrimonio O.O Non mi aspettavo che nel rinascimento fossero così precoci...Uaz Uaz, l'immagine che hai evocato di Cesare che dice a Ezio nel trailer "Mi sono fatto tua figlia" mi sconfinfera assai! Ecco perché la Fratellanza attacca tanto ferocemente le guardie papali XD

Ama: Ho riferito a Bianca i tuoi rimproveri, si è fatta piccola piccola e si è nascosta in un angolo ;) Mi ha solennemente giurato che cercherà di crescere e di combinare qualcosa di buono d'ora in poi, altrimenti abdicherà al ruolo di protagonista della fanfiction in favore di Vanni...anche se "Vanni come il Peccato" non mi suona tanto bene! :P

Dance: Ciao, grazie mille per aver commentato! Mi sa che con la rivelazione di Margherita e la congiura di Lucrezia la storia si incasina ancora di più...chissà se riuscirò a tirarne fuori i piedi ^^;  Riguardo Cesare e Lucrezia, ti dirò, mi sono fatta una certa idea anche un po' "forte", che forse suggerirò nel prossimo capitolo...suggerirò soltanto, sempre in rispetto al rating (ho il terrore di scrivere qualcosa di troppo "rosso"). Grazie ancora per il tuo commento e per i complimenti, è stata una bellissima sorpresa :)

Cartacciabianca: No, non fare così! Resisti! Brotherhood ci sta aspettando, non arrenderti prima di averci giocato almeno tre volte! :P  Ps: detesto metterti fretta, ma sto aspettando con trepidazione l'aggiornamento della Regina di Spade...mi manca Eleonora T_T

 

Vi ringrazio ancora tantissimo. Spero che abbiate apprezzato l'arrivo degli Assassini...per parte mia, tremo all'idea di aver osato inserire nella mia misera storia la grande Isabella d'Este...dopo aver letto "Rinascimento Privato" posso solo chinarmi umilmente a pulirle le scarpine di seta...è un personaggio storico che ho imparato ad adorare, e posso dire con certezza che la rivedremo! Magari a voi non importa, eheh...ma io la amo! ^_^

Bene, e al prossimo giro finalmente arriverà la tanto attesa notte di San Lorenzo del 1503...il piano di Lucrezia Borgia andrà a buon fine? Gli Assassini riusciranno a salvare Bianca e Vanni? E che ne sarà della Mela dell'Eden? Tutto questo nel prossimo capitolo, dal titolo provvisorio: "L'Aquila e la Volpe" :)

Grazie ancora a tutti, anche a chi legge "silenziosamente"! ^_^

 

Laura.

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Capitolo 13
*** Presagio ***


La mattina del tre Agosto 1503 mi trovavo alla finestra delle stanze delle dame, affacciata di nascosto tra i pesanti tendaggi per osservare la partenza di Cesare verso Roma. In sella al suo cavallo dal manto color pece, il duca di Valentinois era elegante e letale come una splendida spada, e il suo seguito sbiadiva al confronto: erano niente più di un velo di spiriti dietro al Cavaliere dell’Apocalisse.

Pensai che Cesare andava incontro alla morte, un destino che io stessa avevo annodato al suo dito. Il filo rosso si scioglieva tra noi. Non lo avrei rivisto mai più.

Le sue parole di quella mattina mi risuonavano ancora nella mente.

Mi aveva concesso il raro privilegio di restare per tutta la notte accanto a me; ma se avesse dormito, non potevo dirlo. Chiudevo gli occhi quando lui ancora vegliava, e mi destavo sentendo il suo sguardo addosso. Era come se la Volpe non trovasse mai requie: mi chiedevo se non avesse bisogno di dormire, come una strana sorta di demonio.

Quella mattina mi chiese di aiutarlo a vestirsi. Eseguii lentamente, infilandogli la camicia candida e aiutandolo con la calzamaglia, il farsetto, la cappa. Confezionavo quel corpo che avevo accarezzato per molte notti, affinché andasse propriamente incontro alla sua fine. Questo pensiero mi mise in cuore un sottile senso di colpa; sicché, mi lasciai andare per un momento alla tristezza, e gli cinsi le spalle, poggiando la testa contro la sua nuca. Nella mente, gli chiesi perdono e lo maledissi nello stesso istante, perché lo avrei ucciso, e perché mi aveva resa come lui.

“Non mi racconterai che sei triste, ora!” fece lui, con finto sarcasmo. Quindi, sciolse il mio abbraccio e si volse a guardarmi. Sfiorò la mia cicatrice, ormai solo un segno chiaro che mi tagliava le labbra sulla parte destra del viso. “La ranocchia è diventata una donna” mi canzonò ancora, con un sorriso felino.

“Sono sempre stata una donna” obiettai, stizzita.

“E’ vero…ma ammetterai, mia orgogliosa Bianca, che sono stato io a scoprirlo per primo.”

Quindi, mi scostò i capelli ancora sciolti sulla camicia da notte di batista, sfiorando con le dita la mia guancia. Dolcemente, per la prima volta da quando lo conoscevo.

“E non poteva essere altrimenti…aut Caesar, aut nihil” mormorò, ma nonostante volesse schernirmi ancora udii la nostalgia nella sua voce. Era come se sapesse. Come se mi stesse dicendo addio.

Mi chiesi se avesse capito. E se era così, perché indossava l’anello?

Non lo sapevo, ma mentre lo vedevo partire pensai che forse si era, in qualche modo assurdo, innamorato di me.

La consapevolezza di ciò che stavo facendo mi cadeva pesante addosso. Non me ne pentivo, certo; ma sentivo di aver perso per sempre ogni purezza. L’innocenza di una persona non è la verginità del corpo, ma dell’anima; la mia era appena stata lacerata da quella prima scelta omicida. Più tardi avrei compreso che per ogni uomo e per ogni donna giunge il momento di sporcarsi la coscienza, ma per quel giorno, mentre osservavo Cesare Borgia attraversare il ponte levatoio e lasciare il castello di Ferrara,  mi sentii un po’ più lontana dall’Olimpo della vittoria, e un po’ più vicina all’inferno.

 

La settimana che mi separava da San Lorenzo sembrava non avere mai fine. Il tempo rallentava, pur di non farmi arrivare al giorno previsto per la congiura. Si sarebbe fermato, e forse il Giudizio Universale sarebbe giunto prima che gli Assassini potessero finalmente salvarci. Non riuscivo a immaginare il nostro ritorno a casa, e i volti che un tempo mi accoglievano sorridendo. Erano passati solo due mesi, e mi parevano almeno due anni.

Margherita fu una compagnia indispensabile per me in quegli ultimi sette giorni. Accompagnava sempre Lucrezia quando si recava in segreto a casa di messer Bembo, e accudiva mio fratello Vanni di persona: per questo, sapendo quanto mi consolasse, mi parlava in continuazione di lui. Sembrava che Vanni vivesse con trepidazione quanto me l’arrivo di San Lorenzo. Stando alle parole della bambina, la partenza di Cesare Borgia per Roma con l’anello avvelenato al dito era stata festeggiata a casa di Pietro Bembo come una seconda nascita del Salvatore.

“Sono contenta anche io che sia andato via” mi confessò Margherita, tenendo gli occhi bassi. “Madonna Lucrezia non è felice quando messer Cesare è qui. Alcune volte…entra nelle sue stanze senza chiedere il permesso, e mi caccia. Li sento litigare, poi lei grida e lo supplica di lasciarla in pace…lui la chiama con brutti nomi, e sento che la picchia e…quando se ne va, lei è in lacrime e ha i capelli e gli abiti sempre in disordine. L’ultima volta le aveva graffiato il viso e le spalle, e…”

Si ammutolì. Le presi la mano gelida tra le mie. Lei ricambiò la stretta.

“Messer Cesare non è una brava persona” disse ancora.

Mi chiedete se rimasi indifferente a quella confessione?

Certamente no. Tuttavia, la consapevolezza della natura malata del rapporto tra fratello e sorella non riduceva il mio senso di colpa. Mi chiedevo soltanto come un uomo potesse mostrare due aspetti tanto diversi di sé con due differenti persone. Ora comprendevo ancora di più la rabbia della Borgia verso Cesare, ma non riuscivo ad appropriarmi di quella stessa ira e indignazione. Sono sempre stata piuttosto egoista, lo riconosco. Non la compativo abbastanza da raccontare a me stessa che uccidevo Cesare per vendicarla. A me non era mai venuto alcun male dalle sue mani, né alcuna violenza dal suo amore. Nonostante gli orribili crimini del Valentino, dunque, ero decisa a non rinunciare al mio senso di colpa. Sentivo che era qualcosa di importante per la strada che desideravo intraprendere. La necessità non coincide sempre con la giustizia: tutt’oggi sono convinta che un Assassino dovrebbe tenerlo sempre a mente.

D’improvviso, notai che Margherita aveva al polso uno strano nastrino. Si trattava di una semplicissima cordicella di stracci, probabilmente sfilacciati e reintrecciati per noia. La teneva legata al polso, come se fosse un tesoro.

Lei si accorse del mio sguardo, e subito balbettò: “L’ha…l’ha fatta vostro fratello. Ha detto che potevo tenerla.”

Non era certo un’opera d’arte, ma il rossore sulle guance di quella bambina mi disse che per lei non esisteva nulla di più bello al mondo.

Pensai subito che quella sua debolezza per Vanni poteva tornarmi utile. Nonostante la simpatia che provavo per Margherita e la pietà a cui la storia di Lucrezia mi aveva mosso, non dovevo dimenticare di essere circondata da serpi. Avevano giurato di riconsegnarmi ai miei genitori: ma potevo fidarmi? Forse la notizia della morte del papa sarebbe stata sufficiente a Lucrezia per lasciarci andare, senza che pretendesse anche la mela. Dubitavo, tuttavia, che gli Assassini le portassero l’originale. Come avrebbe reagito se si fosse accorta di essere presa in giro? Dovevo tutelare me stessa e mio fratello: nient’altro importava.

 

Durante la notte di san Lorenzo si tenne un banchetto a Palazzo Schifanoia, che si protrasse per buona parte della notte. Il salone di rappresentanza, affrescato con allegorie dei Dodici mesi, fu colmo di brindisi, cibo elaborato, saltimbanchi e musica. Vidi le dame favorite di Lucrezia ridere civettuole, indirizzando occhiate di sottecchi a uomini che morivano di desiderio per loro; vidi messer Bembo sedere alla destra di Lucrezia, che gli toccava frequentemente, con una scusa qualsiasi, il braccio o la mano. Vanni era presente, mischiato ai paggi e costantemente sorvegliato dal solito, torvo Ercole Strozzi, che gli zoppicava dietro ovunque andasse.

Costretta a tavola insieme alle dame, non perdevo di vista Vanni nemmeno un istante. Mio fratello mi rivolgeva sguardi in parte frastornati, e in parte affascinati da ciò che lo circondava. Lo vidi rapito dai mangiafuoco, incantato dalle fanciulle che si esibivano in una rappresentazione allegorica delle Grazie, coinvolto dai balli a cui il suo stato di paggio non gli permetteva di partecipare.

Lì per lì mi chiesi perché non provasse lo stesso ribrezzo che io provavo alla vista di tanto lusso e tanto spreco. I poveri di Monteriggioni si sarebbero nutriti con gli scarti di quel banchetto per settimane; fondendo cinque delle coppe d’oro in cui bevevamo avremmo potuto comprare due cannoni per le fortificazioni. Non consideravo la sua giovane età, e la rabbia che nutriva in cuore per ciò che la nostra condizione di bastardi ci aveva tolto. Chissà cosa vedeva in quella girandola di ori, broccati e pietre preziose. Per quanto mi riguardava, soltanto che le pareti affrescate della sala mi schiacciavano contro la sedia, togliendomi il fiato.

D’un tratto, Caterina la Mora fu chiamata a predire il futuro. Dicevano fosse una brava astrologa: la sua bisnonna era stata una strega delle lande africane, molti anni prima che suo padre si unisse come mercenario a un gruppo di soldati di ventura e diventasse uno stimato condottiero al servizio di Ferrara. Fu interrogata sull’amore, sulla fortuna e sulla pecunia, in egual modo tra dame e messeri. Infine, poiché ci trovavamo nel Salone dei Mesi, le fu chiesto di predire il futuro di qualcuno in base alla sua nascita.

Per mia somma sorpresa, Caterina fissò gli occhi neri come la terra su di me. Tese la mano.

“Venite, Bianca.”

Lazzi e applausi mi incitavano a raggiungerla. Avrei preferito evitare di dare mostra di me quella sera, ma il richiamo gentile di Lucrezia mi suggerì che era meglio che partecipassi, e che fingessi perfino di farlo di buon grado. Perciò, mi alzai da tavola e presi la mano della Mora. Le sedetti accanto, su un cuscino di raso rosso.

La sala zittì, mentre la fanciulla chiudeva gli occhi.

“Quando siete nata?” mormorò.

“Il quarto giorno d’Aprile” risposi. Pochi mesi orsono avevamo festeggiato il mio quattordicesimo genetliaco a casa, con la famiglia riunita…per l’occasione, zio Mario mi aveva donato nuovi pugnali da lancio.

Strinsi i denti, per scacciare la fitta di dolore.

Caterina mi accarezzava il palmo della mano sinistra, tracciando segni che non riuscivo a capire. Pensai che facesse parte della sua sceneggiata. Non sapevo molto delle arti divinatorie dei Mori d’Africa, ma di certo la chiromanzia era di gran moda in quegli anni[1]. Sapevo che alcuni astrologi la insegnavano in gran segreto ai propri discepoli, oscillando pericolosamente sul filo dell’eresia.

“Sei nata sotto la costellazione dell’Ariete…la gente di mio padre lo chiama il segno della Famiglia[2]. Chiudi gli occhi, ora.”

Ubbidii, come soggiogata dall’incantesimo della sua voce. Aveva assunto un tono profondo e ispirato, diverso dal solito acuto civettare.  

Lentamente, non so come accadde, le carezze di Caterina sulla mia mano iniziarono ad assumere la forma di lettere. Una frase si disegnò sul telo della mia mente ancora prima che mi rendessi conto che Caterina stessa la stava pronunciando.

D’atro colore è la sua veste; pallida la mano, che ruba la vita a chiunque sfiori. Domani l’incappucciato ti ghermirà, e ti trascinerà tra le ombre.”

I presenti ammutolirono. Anche a distanza potevo sentire Vanni respirare forte.

Rabbrividii. Abito nero, mano bianca pronta a uccidere. Parlava della Morte? 

La risata di Bembo spezzò il silenzio.

“Prenderà tutti, prima o poi!” fece l’uomo. “Orsù, che questa visione lontana non sia cagione di tristezza, e sia fatto il volere di Dio! Se domani la nostra Bianca aprirà gli occhi a un nuovo giorno, capiremo che Caterina stasera ha bevuto un po’ troppo vino.”

Qualcuno si segnò brevemente la fronte, le labbra e il cuore, ma i più si unirono alle risate. Mi alzai, a disagio; ma Caterina mi afferrò il polso. “Resta con noi. Non andare, domani. Ti aspetta solo morte fuori da queste mura.”

Mi divincolai, infastidita. “Non credo nelle tuo profezie” sibilai, abbastanza piano perché nessun altro udisse.

La Mora mi lasciò andare, con una certa tristezza.

“Peccato. Avevo imparato a volerti bene.”

La festa proseguì gaiamente, come se il presagio di morte che Caterina mi aveva riferito non fosse mai esistito. Soltanto a notte tarda, quando Lucrezia si ritirò nelle proprie stanze richiamando le dame, mi congedai da Vanni che mi abbracciò, preoccupato.

“Ti sei lasciato impressionare da quello stupido gioco?”

“Restiamo qui, Bianca, ti prego. Qui stiamo bene e non ci verrà fatto del male.”

Affondai le unghie nella sua schiena. “Qui siamo tra i nemici di nostro padre” ringhiai quasi “Non lo dimenticare. Anche se indossano maschere dorate non sono altro che bestie.” Quindi, sciogliendo il nostro abbraccio, lo baciai sulla fronte, dicendogli che l’avrei visto l’indomani.

 

Al termine del banchetto, i partecipanti erano tanto stanchi, satolli e ubriachi che, ne ero certa, nessuno mi avrebbe sentita camminare nei corridoi. Caterina la Mora non era rientrata: dedussi che si fosse attardata con qualcuno dei suoi spasimanti. Anche Angela era assente, per simili motivi: la corte che Giulio d’Este le aveva rivolto per tutta la sera era stata spietata, e non dubitavo stesse proseguendo nelle stanze di lui. Nicoletta, che avrebbe dovuto essere la guardiana di tutte noi, era ubriaca fradicia e dormiva della grossa. I Templari di Lucrezia avevano festeggiato la vigilia della morte del Papa come i Troiani, inconsapevoli che dentro il cavallo di legno si celavano le spade degli Achei. La corte ferrarese aveva commesso lo stesso errore: aveva visto in me l’ostaggio, e non il guerriero.

Anche qui, per fortuna, la mia piccola stanza era vicinissima a quella di Lucrezia Borgia. Attesi nel buio per un’ora buona: dovevo essere certa che lei dormisse. Poi, quando presi il coraggio  di uscire nei corridoi e avvicinarmi alla porta, mi accorsi che Lucrezia non era sola. Sentii una risata sommessa. C’era un uomo di là.

Tra una serie di bisbigli d’amore, distinsi chiare alcune parole della Borgia.

“Questa è la notte in cui muoio e rinasco…e con me i Cavalieri del Tempio.”

Lui attese un momento, prima di replicare: “I Bentivoglio di Bologna sono con noi, purché riconsegnate Castelbolognese e Imola ai loro alleati. Ci seguiranno anche i francesi del signore di Bayard. Tuttavia…”

Lei proseguì, secca: “I Della Rovere ci ostacoleranno. Lo so, Pietro. Giuliano diventerà il mio peggior nemico da domani in poi. Non mi importa. Stanotte l’incubo che è stato la mia vita sbiadirà per sempre. Finalmente non dovrò più temere per i miei figli. Juan, Rodrigo, e Margherita…hanno rischiato troppo per colpa del sangue che hanno nelle vene. Da domani prenderò le redini della famiglia, e tutto sarà diverso.”

“E ditemi, madonna: avrete attenzioni anche per me?”

Il resto del discorso si spense in effusioni che non avevo tempo né voglia di ascoltare. Uno scisma tra i templari: era una buona notizia. D'improvviso ebbi una rarissima reminescenza dei miei studi a Monteriggioni: gli antichi romani lo dicevano sempre, Divide et Impera. Un nemico diviso è debole e facilmente contrastabile.

Con quella convinzione, mi introdussi più tardi nella stanza, mentre i due amanti dormivano. Sapevo che Lucrezia non poteva avere ancora al collo il porta profumi in cui celava la cantarella. Se ero abbastanza fortunata, se l’era tolto prima di giacere con Bembo: l’avrei trovato a mia disposizione.

Cercai di ignorare le sagome intrecciate dei due tra le coperte, e avanzai a passi brevi, sollevando appena le piante dei piedi dal pavimento per toccare con la punta delle dita qualsiasi possibile ostacolo. Gli occhi si erano abituati abbastanza bene al buio, e tuttavia non conoscevo il luogo in cui mi trovavo e non volevo rischiare di essere scoperta.

Tastai sulla toletta della Duchessa: la prima cosa che le mie dita afferrarono fu una piccola ampolla di profumo. La tenni stretta in pugno, mentre con la mano libera frugavo alla ricerca del porta profumi. Lo rinvenni accanto ai gioielli poggiati in fretta: riconobbi con i polpastrelli la lavorazione a piccole croci appuntite, la gemma centrale, e gli smalti lisci delle decorazioni. Lentamente, lo sollevai, e me lo portai contro il cuore impazzito. Quindi, tornai nella mia stanza.

Non potevo indugiare molto: in qualunque momento Bembo e la duchessa potevano svegliarsi. Non ero certa delle loro intenzioni verso di noi: nel caso non avessero avuto intenzione di liberarci, avevo bisogno di un’arma che non destasse alcun sospetto. Non mi avrebbero permesso di indossare nemmeno una spilla per il terrore che potessi giocare brutti scherzi. Non avevo saputo trovare un’alternativa più letale della cantarella.

Badando di fare meno rumore possibile, accesi il mio mozzicone di candela. Alla sua tremula luce stappai l’ampollina di profumo, poi svitai lentamente, cercando di non produrre alcun suono, il ciondolo di Lucrezia. I grani bianchi di veleno erano lì dentro, apparentemente innocui e fermi come cristalli di neve.

Versai con attenzione una piccola quantità di quei grani nel profumo; quindi, terrorizzata da ciò che stavo facendo, tappai di nuovo l’ampollina e l’agitai cautamente. Vidi il liquido farsi appena più torbido.

Avvitai di nuovo il ciondolo di Lucrezia, e di soppiatto tornai nella sua stanza per poggiarlo di nuovo sulla sua toletta. Quei pochi passi che mi conducevano un’ultima volta verso la mia stanza furono l’anticamera dell’inferno. Un sussulto mi fece sobbalzare mentre già avevo un passo sulla soglia; ma era solo Bembo che si era rigirato nel sonno. Scivolai oltre la porta, e più lentamente che potei la chiusi alle mie spalle.

Quando fui tornata nella mia stanza, mi accasciai contro il muro, distrutta dalla tensione. Era fatta. Avevo il veleno. Lucrezia diceva che agiva anche attraverso la pelle: dovevo maneggiare l’ampollina con cura.

Prima di mettermi a letto, guardai un’ultima volta il mio profumo avvelenato. In quello stesso momento, a Roma, Cesare era ospite del cardinale Castellesi di Corneto, insieme al Papa suo padre. Avevano bevuto il vino con l’arsenico, e il meccanismo infernale dentro l’anello di Lucrezia aveva agito. Cesare era morto per opera mia.

Per sopportare quel pensiero mi aggrappai alla vista della stella Altaïr, che sembrava brillare più forte del solito fuori dalla mia finestra.

Dunque, alla fine era accaduto. Quella notte, diventavo ufficialmente un’Assassina.

La profezia di Caterina mi attraversò la mente solo un momento. Pensai che sarebbe stata una grande ironia se fossi morta di seguito alla mia prima vittima. Nemmeno all’Inferno mi sarei liberata di Cesare Borgia.

Con un sorriso amaro sulle labbra, mi addormentai.

 


[1] Lo testimonia l’opera, un poco più tarda rispetto alle nostre vicende, di Gerolamo Cardano. Potete leggere qualcosa su questo interessante personaggio qui:  http://www.astercenter.net/personaggi/umanisti/Gerolamo_Cardano.htm

[2] Ammetto che la mia documentazione riguardo i segni astrologici della tradizione africana è piuttosto superficiale. In questo momento non ho tempo per una documentazione più approfondita, ma prometto di verificare questa mia affermazione quanto prima.

 

Note dell'autrice:

Uffa. Ho lavorato parecchio per riuscire a postare due capitoli in una volta sola, ma alla fine non ce l'ho fatta...il fatto è che ci tenevo a festeggiare con voi l'inserimento tra le Storie Scelte, che come potete immaginare mi riempie di gioia! Un grazie all'amministrazione che ha ritenuto la storia idonea, ma soprattutto un grazie infinito a voi che l'avete sostenuta e continuate a sostenerla! Troverò il modo di ripagarvi...un capitolo bonus potrebbe andare? Ditemi voi ^_^

Saluto velocemente ma con grande calore LullaCullen (hai ragione, il piano di Lucrezia ha funzionato solo a metà! La scalata della prima Gran Maestro donna sarà ancora lunga...), Giannina92 (scusami! Avevo dimenticato la formattazione, grazie per avermelo fatto notare! ^_^ La questione del "3" uscirà fuori nel prossimo capitolo...e in un certo senso ha a che fare col tempo), JaydenAuditore (ti prego, sto morendo di curiosità! Mandami il disegno sulla mia mail: gwydre.pcargon@gmail.com! Non vedo l'ora di vederlo ^____^), Miko (hai visto che non sei più l'unica Vanni-fangirl? Margherita si è presa una bella cotta! Ps: anche io, nonostante tutte le mie perplessità, ho finito per amare il rapporto ambiguo tra Cesare e Bianca...ogni illustrazione a riguardo è supergradita ^_^ Pps: scusa sto andando a rilento ad aggiornare i capitoli con le tue splendide illustrazioni, mi metterò presto in pari!),  Ama (Bianca attende con terrore il tuo giudizio sul suo operato, con l'ansia di essere licenziata dal ruolo di protagonista!) e Dance (mi dispiace per l'esame! Coraggio, ora riposa un po' prima della prossima sessione...prima o poi la fine del tunnel arriva! Piuttosto, festeggiamo insieme le ultime ore di vita dello Spagnolo, uaz uaz!)

Eccoci qui, al mitologico capitolo n°13. Ora, io sono assai superstiziosa, perciò...possiamo chiamarlo semplicemente 12° bis? :))) Siamo quasi a metà fanfic, il che mi fa uno strano effetto. Questo progetto è partito per gioco, e si è trasformato in qualcosa di molto importante per me. Bianca&Co mi hanno aperto gli occhi su uno splendido periodo storico, e ricordato che il mio primo amore è stato appunto quel genere di romanzo.

E allora...ve la butto lì, ma pensavo...se trasformassi questa storia in un romanzo?

Ho quasi tutti gli elementi. Dovrei necessariamente eliminare la situazione templari-assassini, ma qualche nucleo tematico si salverebbe. Sarebbe una storia di vendetta, grossomodo circoscritta tra il 1492 e il 1503. Mi richiederebbe anni e anni di documentazione. Che dite, mi butto? Ormai mi avete viziata, sono feed-back dipendente :)))

Ora la smetto di bablare e vi do appuntamento al prossimo capitolo, che mi richiederà circa quindici giorni prima di essere postato perché sabato parto alla volta della Provenza - ho proprio bisogno di ricaricare le pile.

Restate sintonizzati: al mio ritorno ci attende la Grande Fuga da Ferrara! ;)

Un bacione.

 

Laura.

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Capitolo 14
*** L'incappucciato ***


Per essere il mio primo sonno di dannata, fu in realtà piuttosto tranquillo. La stanchezza aveva vinto la tensione, facendomi sprofondare in un riposo pesante e senza sogni. La mattina dopo mi svegliai prima delle altre dame, mi lavai in fretta, e trovai sulla cassapanca gli abiti che indossavo quando ero arrivata. Accarezzai la camicia, tornata bianca tra le mani delle lavandaie della Duchessa, la calzamaglia scura e la cappa grigia. Lucrezia aveva mantenuto la sua promessa di restituirmeli quando mi avesse liberata. Era tutto vero. Stavo per tornare a casa.

Mi morsi il labbro, gettando un’occhiata al vestito da dama lì accanto. In quelle gonne, tanto scomode per muoversi, erano celate tasche strategiche che mi avrebbero fatto comodo per nasconderci la mia ampolla. Dovevo ingegnarmi, e comprimerla nella piccola scarsella che avevo in cintura.

Per mia sfortuna, Caterina mi notò mentre stavo mettendo l’ampolla nella bisaccia. Cercai di sorridere.

“Un ricordo dei miei giorni di dama.”

Lei mi guardò con una sorta di compassione, mista a un po’ di rimpianto. “Sei così bella vestita da donna…perché ti conci a questo modo barbaro?”

Perché così è più facile arrampicarsi sui muri, pensai, ma naturalmente non potevo risponderle a questo modo.

Ero nervosa, mentre ci dirigevamo di nuovo al Castello. Lucrezia diceva che avremmo atteso l’arrivo della Mela nel giardino degli Aranci, per ingannare le ore. Durante il tragitto pregai di vedere spuntare un cappuccio bianco, una cappa azzurra alla Veneziana o rossa alla Toscana che ci seguisse. Non vidi nulla.

Il giardino si stendeva su una bella terrazza merlata, che si affacciava direttamente sul fossato del castello; io guardavo la lenta scalata del sole nel cielo, mentre Nicoletta si esibiva al liuto e Angela danzava. Il campanile di San Giorgio suonò dodici rintocchi.

Margherita si affacciò discretamente sul mio orecchio.

“Arriveranno, non temete” bisbigliò, per rassicurarmi. D’istinto, accarezzai il bozzo che sformava la mia bisaccia. Speravo che la bambina avesse ragione, altrimenti avrei dovuto fare qualcosa che desideravo davvero evitare.

Vanni non pareva inquieto quanto me. Si univa ai motteggi di Bembo contro lo Strozzi: pareva che il poeta avesse infine stretto con mio fratello una sorta di intesa, e mi chiesi come questo fosse stato possibile in una sola settimana. Per essere amabile, Bembo lo era eccome; eppure, stimavo il mio Giovanni un poco più furbo. A meno che non stesse facendo come me, inscenando una finzione con uno scopo preciso.

E’ un errore che commetto spesso, mettere chi amo su un piedistallo. Ed ecco perché vengo tanto spesso delusa.

Storcendo il naso, osservai il gioco dei templari: insegnare a Vanni le regole della cortigianeria.

“Ogni dama è una dea da mettere in trono” spiegava Bembo, vivace “un angelo sceso in terra da venerare. Tuttavia, un vero cortigiano ama una dama, ed una soltanto: solo a lei sono rivolti i suoi pensieri.”

“Scegli la tua dama, ragazzino” disse lo Strozzi “Ma scegli bene, perché non è un legame che possa sciogliersi facilmente!”

“Come un matrimonio?” domandò Vanni.

Bembo annuì, strappando un fiore rosso dall’aiuola. “Un matrimonio d’anime.”

Vidi Vanni scrutare un po’ le dame, più e meno giovani, che ridevano scioccamente commentando tra loro quanto sarebbe diventato bello il mio fratellino quando si fosse fatto uomo. Vidi Lucrezia approvare con un cenno del capo quel gioco innocente, e Margherita rigirare nervosamente il braccialettino di stracci che portava al polso.

Per la sorpresa di tutti, e soprattutto la mia, Vanni si diresse verso Lucrezia Borgia. Si inginocchiò ai suoi piedi, e le porse il fiore.

Le risate della corte e i mormorii inteneriti si alzarono tutti insieme.

“Ottima scelta, ragazzo!” approvò il Bembo “Non c’è una creatura più angelica sulla terra.”

Per celare il rossore, Vanni teneva la testa bassa, e i capelli neri gli spiovevano sul volto. Non potevo indovinare la sua espressione, ma la mia coscienza fu subito pronta a difenderlo: certo, non poteva fare altro se non ingraziarsi la Borgia. Dopo tutto, eravamo ancora nelle sue mani.

Lucrezia sorrise, intenerita: si alzò, e gli poggiò una mano sul capo. “E sia, Giovanni Auditore. Io ti nomino mio cavaliere.”

Non so se avrei voluto fulminare lei oppure lui. Lucrezia se ne accorse, perché aggiunse, ridendo: “Sempre che tua sorella me lo permetta. Mi pare alquanto gelosa.”

“Una stella non può essere gelosa del sole” replicai, pronta, con lieve inchino.

Lucrezia mi rivolse uno sguardo di approvazione. Fece alzare Vanni; quindi, mi chiese di avvicinarmi. Io ubbidii.

Mi prese il viso, fissandomi dritto negli occhi.

“Sei vestita come il giorno in cui arrivasti, piccola Bianca…eppure, sei molto diversa da allora. Sono fiera di ciò che vedo.”

Accarezzando di nuovo il bozzo che gonfiava la mia scarsella, replicai: “Sareste ancora più fiera di ciò che non potete vedere, madonna. Il mio cuore,” precisai con un tono più leggero “ha appreso i vostri insegnamenti con umiltà.”

Ci fu servito un pasto leggero lì, nel giardino. Il sole continuava a calare. Erano trascorse almeno due ore e mezza dal mezzogiorno. Ogni tanto gettavo un’occhiata nervosa al cielo, solcato dal volo folle delle rondini. Dov’erano gli Assassini? Possibile che ci avessero dimenticati?

All’improvviso, vidi un servo arrivare in fretta, avvicinarsi a Lucrezia e bisbigliare qualcosa al suo orecchio. La Duchessa lo congedò: si alzò in piedi, attirando l’attenzione di tutti. Ognuno depose le sue occupazioni, cessò la musica e cessarono i lazzi. Lucrezia aprì le braccia, come se volesse stringerci tutti.

“Amici…fratelli e sorelle, uomini e donne qui convenuti…voi sapete di essere i più cari al mio cuore. Poche persone scelte, vicine a me come nemmeno i miei parenti di sangue lo sono. Dunque, amici miei, famiglia: l’animo mio esplode di gioia nel comunicarvi due notizie meravigliose! Un messo è giunto ora da Roma, il Papa è caduto nella trappola. Giace contorcendosi nel suo giaciglio per il veleno che la nostra mano ha versato nel suo vino. I medici gli danno poche speranze. Una nuova era sorge per la fratellanza templare…una nuova era priva di soprusi, che sotto la guida del Padre della Comprensione ci condurrà finalmente all’Armonia…”

Un cortigiano dal cappello piumato entrò in quel momento, recando lo scrigno in mano. Mormorando per lo stupore e la reverenza, i templari presenti iniziarono a inginocchiarsi solennemente.

“Festeggiamo, amici, perché la Mela dell’Eden è tornata tra noi, come fu prima di Adamo ed Eva e come sarà per sempre, oggi e nei secoli.”

Un amen devoto risuonò nel giardino. Poi, Lucrezia chiuse gli occhi, e iniziò a cantare. Con una voce sottile, non sempre intonata ma rapita. Ispirata. Convincente.

 

Non nobis, Domine, Domine…non nobis Domine…sed nomine, sed nomine Tuo da gloria...

 

Subito, il coro dei Templari intorno a lei si sollevò, in un unico respiro. Da quel piccolo giardino si spandeva per le strade di Ferrara una lode al Signore che qualcuno forse scambiò per devozione.

Quando lo scrigno che conteneva la Mela raggiunse le sue mani, notai che Lucrezia piangeva. Due gocce perfette le rotolarono lungo la mascella dalla curva dolce. Era commossa, felice. Diede uno sguardo al Manufatto dell’Eden, poi richiuse subito lo scrigno, accarezzandone i contorni con affetto e riconoscenza.

Allora, ebbi il coraggio di farmi avanti.

“Avete promesso di liberarci.”

Lei annuì, e fece un cenno a due guardie. “Sarete scortati fuori Ferrara.”

“E la Mela?”

Lucrezia mi squadrò. “Quella non era nei nostri patti. Resterà a noi.”

“Ma io vi ho aiutata. Siamo alleate, l’avete detto voi stessa!”

Le sopracciglia della donna si aggrottarono, le sue labbra ebbero un guizzo di collera.

“Il mio informatore da Roma mi dice che mio fratello non è morto. Non indossava l’anello al momento del banchetto, e ha bevuto solo l’ordinario arsenico. Ora sta male, ma si salverà. Il tuo compito è fallito, Bianca Auditore: sarai libera, perché sono una donna di parola, ma la Mela resta a noi.”

Me l’aspettavo, dannazione. Cesare non era morto, e Lucrezia non aveva mantenuto la sua promessa. Non avrei voluto arrivare a tanto, ma era giunto il momento.

Afferrai Margherita, uncinandole le spalle con il braccio e premendole la schiena contro il mio petto. La bambina non ebbe il tempo di gridare: con la pressione dei pollici la costrinsi ad aprire la bocca, mentre con l’altra mano estraevo e velocemente stappavo l’ampolla. Strozzi e gli altri uomini snudarono le spade, ma la Duchessa fece loro cenno di fermarsi.

“E’ cantarella” dissi, causando il panico tra le dame. Anche gli uomini templari sbiancarono, indietreggiando di un passo. “Se non mi restituite il Frutto dell’Eden, questa bambina ne pagherà le conseguenze.”

“Bianca, no!” disse Vanni. Gli ringhiai di tacere, ma senza guardarlo. Non potevo distogliere gli occhi da Lucrezia, ora.

Le lacrime di Margherita iniziarono a scorrermi tra le dita. Sudavo freddo, mentre tutti mi osservavano come se fossi una pantera impazzita per la prigionia.

Lucrezia era diventata pallidissima, e le linee sotto le gote si erano fatte più pesanti in pochi istanti. Eppure, stava dritta come una regina. Mi fronteggiava, forte della sua posizione.

“Stai mentendo. Non può essere cantarella. Solo io ne custodisco la formula.”

Sogghignai, compiaciuta di me stessa. “Mi avete sottovalutata, madonna. Per tenermi vicina, mi avete dato libero accesso alle vostre stanze…non è più leggero stamane, quel porta profumi?”

Lei sembrò capire. Il dubbio le attraversò il volto. Strinse il ciondolo tra l’indice e il pollice, come per valutarne il peso.

Con un ringhio, Ercole Strozzi alzò la spada sulla testa e mi si avventò contro; Bembo lo fermò, afferrandogli i pugni e facendogli cadere la spada.

“Razza di idiota, sei impazzito o cosa?” ruggì il veneziano.

“L’idiota sei tu! Non lo vedi che è solo una serva? ” ringhiò Strozzi di rimando “Perdio, che l’avveleni, quella piccola serpe! Le faremo la pelle prima che esca di qui.”

Le minacce dello zoppo non mi intimorivano. Io sapevo chi era Margherita, e solo adesso Lucrezia si rendeva conto del passo falso che aveva compiuto nello svelarmelo. La piccola, indifesa Bianca che aveva fatto rapire più di due mesi prima non esisteva più. Lei stessa mi aveva dato le armi per liberare l’aquila che dormiva dentro di me.

Era evidente che la Duchessa cercava di dominare le sue ansie di madre, mentre mi diceva, quasi fredda: “Dunque, Bianca Auditore, tu hai compiuto la tua scelta. Tra l’ordine e il caos, sei dalla parte di quest’ultimo. E’ un vero peccato.”

“Noi Assassini lo chiamiamo libero arbitrio, madonna.”

“E in nome di questo libero arbitrio, sceglierai anche di uccidere un’innocente? Questo, se non erro, va contro il tuo Credo. Trattenere la lama dalla carne degli innocenti…non recita così la vostra regola?”

Inspirai piano, per dominare una crescente sensazione di entusiasmo. Ero io a governare la partita. Percepivo la vibrazione del veleno attraverso il vetro dell’ampolla, le lacrime calde della bambina, le mie dita come artigli sul suo viso e i polpastrelli che premevano l’osso della mandibola senza alcuna pietà.

Mi tornò in mente il cavallo di Vanni, che due anni prima mio padre aveva ucciso al mio posto. Ezio si era accollato il peso di un’altra morte, solo perché io non mi sentivo ancora pronta. Ora mi trovavo di nuovo in bilico su quel confine sottile, e questa volta mi sentivo tanto forte che sarebbe bastato un soffio per farmelo varcare.

“Se volete diventare gran Maestro dei Templari, dovete aggiornare le vostre conoscenze. Il Credo si è evoluto. Ora pensiamo che tutto è lecito.”

Lucrezia emise una risata, ma secca, tesa. Io feci cenno a Vanni di prendere la mela. Lui, tremante, ubbidì e raccolse lo scrigno dalle mani della Duchessa, che lo fissava benevola come a scusarlo di ciò che lo costringevo a fare.

“E ora, Bianca? Che farai?” domandò la Borgia, quasi schernendomi.  

Già. Che avrei fatto? Il sudore mi colava sulle tempie, gocciolando sul bavero della mia camicia da uomo. Come sarei potuta uscire da quella torre colma di templari infuriati?

Gettai un’occhiata sulla mia spalla, di sfuggita. Avrei avuto tempo di prendere Vanni e gettarmi con lui nel fossato? Probabilmente no. Mi avrebbero trafitta con le loro spade prima che riuscissi ad afferrargli la mano. Se avessi lasciato Margherita anche solo per un attimo, ci avrebbero scannati come porci.

Il mio piccolo ostaggio non si dimenava, non si ribellava alla mia presa. Come una delle sue bambole di pezza, si era immobilizzata tra le mie braccia, la bocca forzatamente socchiusa e gli occhi stretti come per scacciare l’incubo. Dal movimento appena accennato delle labbra, intuii che stesse pregando.

Iniziai ad avere paura, seriamente paura. Non tanto per il mio corpo, quanto per la mia anima.

Dio, cosa stavo facendo? Ezio avrebbe mai ucciso una bambina? Lo avrebbe fatto zio Mario, o nonno Giovanni, o il mio antenato Altaïr? Era davvero necessario quel sacrificio?

Il rintocco della campana ruppe l’aria ferma e afosa, mentre io decidevo della mia vita e di quelle di Vanni e Margherita. Pareva un segnale: il tempo gelò. Al primo rintocco, pieno, possente, ne seguì un secondo. Smisi di respirare. Quando ormai i polmoni sembravano bruciarmi per l’assenza d’aria, venne il terzo.

Una scintilla mi illuminò la mente. Tre…era il numero che mi aveva indicato mia madre, il giorno dell’incontro nel salone delle udienze. E prima che il terzo rintocco avesse finito di suonare, udii gli scoppi, ravvicinati. Un’ondata di denso fumo bianco ci travolse.

Fui svelta a mettermi una manica della camicia davanti al viso. Dov’era Vanni? Non lo sapevo, ma nel proteggermi il naso e la bocca avevo allentato la presa su Margherita. L’ampollina di cantarella mi scivolò dalle mani, cadde a terra e si infranse.

Mentre tutti tossivano, dentro il fumo vidi emergere una visione della morte.

Un cappuccio nero, maniche nere rigonfie a righe argentate. Antibracci splendenti, corazza di acciaio lucido intarsiata in argento. Cinta sbalzata con applicazioni rosso vivo, e code di tessuto oscillanti dietro la casacca, come una rondine che abbia un nastro sanguigno impigliato tra le piume.

Quell’uomo magnifico e diverso da tutti gli altri Assassini mi afferrò la mano, mentre senza quasi rendermene conto scioglievo del tutto la mia stretta su Margherita. La bambina, singhiozzando e tossendo, si accasciò a terra. L’incappucciato mi trascinò tra le nebbie sprigionate dalle bombe fumogene, dentro cui i nemici asfissiati si contorcevano come ombre dell’aldilà.

La profezia di Caterina si era avverata. Un assassino dalla veste nera mi stava conducendo attraverso le ombre. L’incappucciato era lui. Era lui!

Lo vidi correre per pochi passi sul muro, aggrapparsi a una fenditura e volgersi verso di me.

“Ce la fai a seguirmi?”

Quasi mi venne da piangere nel sentire la voce di Ezio.

Mi arrampicai al suo fianco, mentre dalla nebbia emergevano le figure di mia madre e Ugo. Lo zio si era caricato Vanni sulle spalle; Rosa aveva infilato nella sua scarsella la mela dell’Eden.

Mia madre mi strinse rapidamente il braccio. “Li hai distratti alla grande” mormorò. Quindi, mi precedette per indicarmi quali appigli avrei dovuto afferrare.

Ero fuori allenamento. Le comodità della corte mi avevano resa più furba, ma anche più pesante. Raggiungere i tetti di mattone dei ballatoi mi mozzò il fiato; ci stavamo dirigendo verso la torre occidentale. Le mie mani, un tempo abituate ad aggrapparsi ovunque, si erano fatte più delicate: fu faticoso iniziare un’altra scalata, e ancora peggio accorgersi che ero arrivata ad almeno una quindicina di metri da terra. Dovevo ricordarmi di non guardare giù.

Quando vidi mia madre eseguire agilmente il suo salto alla veneziana, ebbi un brivido. Era molto tempo che non mi esercitavo in quel tipo di salto, che richiedeva una grande potenza nei muscoli delle gambe. In più, non avevo possibilità di errore. Mi era concesso solo un tentativo.

Nel momento di massima tensione, una pietra mi colpì al braccio. Stringendo i denti, infransi il mio stesso divieto e guardai sotto di me. Dai ballatoi alcuni soldati ci stavano bersagliando alla cieca. Ma non era quello il problema maggiore. Il fumo si stava diradando. Un arciere incoccava.

Ezio fu rapido a esplodere il colpo di pistola che freddò l’arciere. “Va’!” ringhiò, mentre con i pugnali da lancio abbatteva altri due soldati.

Nel frattempo, sulla mia testa, Rosa aveva rotto una finestra del torrione con un calcio e vi era entrata dentro: Ugo le aveva passato un Vanni terrorizzato dall’altezza, ed ora si stava arrampicando a sua volta. Io mi sistemai in posizione appesa, ricordando le istruzioni di mia madre. Cercai di isolarmi dalle grida dei soldati e dal rumore della mia paura. Feci leva sulle punte dei piedi, flettendo le ginocchia un paio di volte per trovare la spinta. Poi, spiccai il salto.

La mia mano si protese per afferrare il davanzale della finestra: mi ci aggrappai, e subito lo afferrai anche con l’altra mano. Puntai i piedi al muro. Era fatta. Avevo saltato!

Zio Ugo mi afferrò per le ascelle, aiutandomi a salire. Ora non restava altro da fare che aspettare mio padre.

“Ezio!” gridò Rosa, affacciandosi alla finestra. “Ora basta giocare: ci stanno aspettando a casa!”

Con un sorriso da mascalzone, l’assassino vestito di nero gridò di rimando: “Bene, ma solo perché ho finito le munizioni!”

Si arrampicò in fretta, saltò agile sul davanzale e ci raggiunse. Dabbasso giungeva un gran frastuono: i templari di Lucrezia stavano salendo le scale.

Mio padre scambiò con Ugo un’occhiata di intesa.

“E’ il momento?”

“Credo di sì.”

Vidi Ezio estrarre da sotto la cappa un sacchetto di cuoio, dalla cui sommità fuoriusciva uno stoppino. “State indietro” disse, mentre Ugo estraeva un acciarino dalle pieghe della cappa bianca. Mia madre spinse me e Vanni contro il muro.

“Tenetevi forte a me” ci raccomandò. Noi ci stringemmo al suo fianco, mentre Ezio lasciava cadere il sacchetto nella tromba delle scale.

Si udì un’esplosione che fece tremare i muri. Un nugolo di polvere si innalzò dal piano inferiore, insieme a imprecazioni e grida di dolore.

“Le scale dovrebbero essere crollate” spiegò Ezio, sorridendo.

“Che accidenti è questa?” mormorai, ammirata.

Lui si strinse nelle spalle. “L’ultima diavoleria di Leonardo. Polvere da sparo mista a…qualcos’altro. Non chiedermi cosa, non lo so nemmeno io.”

“Ma se le scale sono crollate” mormorò Vanni, pallido “Non siamo in trappola anche noi?”

Rosa sorrise e gli accarezzò i capelli. “Ce ne andremo di qui, aquilotto, non avere paura.”

“E come?”

Mio fratello era terrorizzato dalla risposta, che aveva già intuito. I suoi occhi grigioverdi fissavano la finestra posta in alto, sopra i ballatoi di legno, come se fosse la porta dell’Inferno.

Mia madre dovette prenderselo in collo, come se fosse un bambino piccolo, mentre saliva la scaletta a pioli che conduceva alla finestra più alta. Ci arrampicammo sui merli della torre, mentre Ugo estraeva dal cinturone una piccola balestra e teneva a bada i soldati che correvano dai ballatoi per fermarci. Lassù, sul tetto del torrione, ci aspettava un Salto della Fede come non ne avevo mai eseguiti, nemmeno dalle mura di Monteriggioni. Almeno trenta metri ci separavano dalle acque verdastre del fossato. Mi girò la testa per un istante.

Vanni aveva smesso di lamentarsi, e i suoi occhi ora erano spiritati di fronte al vuoto. Poi, una freccia sibilò accanto a Rosa, e strisciò così vicina al suo fianco da aprirle uno squarcio nella giubba.

I soldati di Lucrezia ci miravano dalle altre torri.

“Stringiti a me” disse Rosa, prima di tuffarsi con Vanni ancora aggrappato addosso. Ezio e Ugo rispondevano all’attacco nemico con i loro dardi. A stento trattenni un grido quando una freccia nemica rimbalzò vicina al mio piede.

“Seguiteli, svelti!” ordinò mio padre,  

Ugo esitò. “Sei sicuro di farcela?”

“Basto io a coprire la ritirata. Va’ con Bianca, svelto!”

“No!” gridai, ma Ugo mi aveva già afferrato la mano e spinta sull’orlo del tetto. Con un ultimo sguardo preoccupato rivolto a mio padre, che si preparava ad affrontare i soldati sguainando la spada, mi buttai.

Quella volta non provai alcuna gioia nel breve volo. L’aria mi frustava il volto e le orecchie, mentre queste ultime erano tese allo spasimo per cercare di carpire i rumori della battaglia. L’impatto con l’acqua melmosa e calda mi provocò un disgusto che non saprei descrivere. Provavo orrore di quelle alghe limacciose che mi lambivano le gambe, mentre nuotavo rasente al muro per raggiungere Rosa e Vanni.

Si erano rifugiati sotto un ponte coperto che univa il torrione settentrionale al resto del castello; il mio fratellino tremava e piangeva, ma mia madre non sembrava meno spaventata.

“Ezio?” domandò subito, appena Ugo ed io li raggiungemmo.

Ugo fece un cenno verso l’alto. “Vuole giocare ancora un po’ con i suoi amichetti.” Poi, intuendo che qualcosa non andava, prese il braccio di Rosa. “Che c’è?”

“La Mela” fece lei, quasi senza voce. “La dannata freccia ha rotto la mia fusciacca, deve aver ceduto durante il Salto della Fede. Il Frutto dell’Eden è perso!”

Ci volgemmo a guardare  le acque torbide e verdastre del fossato. La Mela dell’Eden, che mio padre aveva messo in gioco per salvarmi la vita, era da qualche parte là sotto.

Senza fermarmi a pensare, mi immersi. Le voci di mia madre e zio Ugo si attutirono nella dolce distorsione dell’acqua.

Là sotto era tutto un gioco di ombre viscose e danzanti. Non vedevo nulla di dorato e luccicante. Mi domandai se non ci fossero animali pericolosi in quel fossato. Coccodrilli dalle coste dell’Africa? Avevo sentito che alcuni signori li usavano per tenere lontani i nemici. Ma le sagome che vedevo agitarsi erano solo carpe sformate di cibo, con brutti occhi a palla poco minacciosi.

Continuai a scendere, guidata dalla mia totale avventatezza. D’improvviso, un luccichio sulla parete esterna del fossato mi catturò la vista. Accanto ad una grande grata circolare, era lì. La Mela dell’Eden. Poggiata ai rialzi che servivano per aprire la grata. 

Nuotai veloce dall’altra parte del fossato, e pregai che il fiato non mi abbandonasse adesso. Ero fuori allenamento, ma dovevo farcela.

Nell’ultimo tratto dovetti tendere la mano. La sfiorai con la punta dei polpastrelli. E poi…Dio, non so come accadde…io la presi. La sentivo nel palmo. Non la immaginavo tanto leggera. Era tiepida come un uovo in procinto di schiudersi.  

Subito dopo aver afferrato saldamente la Mela, sentii il tonfo che lacerò la superficie dell’acqua. Mio padre sprofondava, la corazza lo tirava a fondo. Con un poderoso colpo di braccia e gambe emerse, lasciando dietro di sé una scia rossiccia. Sangue.

Due mani mi afferrarono e costrinsero a tornare in superficie, prima che potessi realizzare appieno.

“Che diavolo stavi facendo?” sibilò Rosa, scrollandosi dall’acqua mentre mi strattonava di nuovo al riparo sotto il ponte coperto. Io respirai avidamente, grattandomi la gola con l’aria che ingollavo.

Avevo la Mela stretta al petto. Gliela mostrai, e lei sgranò gli occhi. In quel momento, sotto quella luce, erano verde intenso. Mi guardò in viso, come se non mi riconoscesse. Poi mi attirò bruscamente a sé, stringendomi forte fino a farmi male e scoccandomi un bacio sui capelli fradici.

“Ezio” chiamava intanto Ugo. Mio padre si era addossato alla parete, stringendosi un braccio.

“Un graffio” replicò lui, ma dal modo in cui digrignava i denti era chiaro che mentiva.

Ci appiattimmo rapidamente sotto  il ponte coperto. Frastuono cigolante di legno e catene: i soldati stavano abbassando il ponte levatoio, per venirci a stanare dal nostro rifugio di fango. Eppure, non fecero in tempo a iniziare la loro ricerca. Sentii grida di dolore, corpi che cadevano, rantoli di morte. Un urlo di battaglia, una carica, e armi che cozzavano.

“Cosa succede?” domandai, affascinata.

Mio padre accennò ad un ghigno dolorante. “Un piccolo diversivo organizzato dai nostri amici. Andiamo, adesso. I cavalli ci aspettano.”

Una volta usciti dall’acqua limacciosa, sul lato orientale del castello, gli adulti ci imposero di correre veloce. Nonostante la ferita continuasse a buttare sangue, mio padre non solo teneva il passo, ma ci guidava attraverso i dedali della città. La recente ripianificazione[1] aveva trasformato le strette viuzze medievali in ampie strade adatte alle parate più che a nascondersi. Ci addentrammo tra le stradine che si diramavano dall’ampia Via degli Angeli tra i palazzi, e riuscimmo infine a raggiungere la porta settentrionale della città. Là, ci aspettava una donna incappucciata. Con un certo sollievo, riconobbi Teodora.

Mia madre insisté per salire a cavallo con Ezio, preoccupata che la ferita al braccio gli impedisse di governare l’animale. Ugo avrebbe trasportato Vanni. Io fui felice di salire in sella alle spalle di suor Teodora.

Partimmo divisi, e prendemmo strade differenti per non dare nell’occhio. Ci saremmo rincontrati tutti, auspicabilmente, dopo tre giorni, tra le mura protettive di Monteriggioni.

Prima di andare, avevo chiamato mio padre. Lui aveva volto il capo nella mia direzione.

“Mi dispiace.”

Era uscito dalle mie labbra solo un mormorio, che significava cento cose. Mi dispiace di non avervi ascoltato. Mi dispiace di aver provocato la morte di zio Mario. Mi dispiace di avervi inflitto tanta pena. Mi dispiace di essermi data al vostro nemico. 

Ezio aveva capito subito ognuno di quei significati. Non aveva risposto, volgendo il capo e dicendo che era il momento di partire.

Mia madre mi aveva guardato un po’ più a lungo, con comprensione. Mi aveva fatto un cenno, come a dire: tutto si sistemerà, abbi fiducia in me. Poi, ci eravamo separati.

Avevo affidato la Mela ai miei genitori, ed ora provavo un gelo intenso nei punti in cui il manufatto dell’Eden mi aveva toccata. Mi pervadeva un senso di assenza, e di vuoto.

Dunque, ero in salvo. Lontana da Ferrara, diretta finalmente a casa. Perché questo non mi dava alcuna gioia?

Teodora ed io dovemmo trascorrere la prima notte all’addiaccio, su una non meglio precisata stradina di campagna ai confini tra la Romagna di Cesare Borgia e l’Emilia dei Bentivoglio. Ero terrorizzata da ogni rumore, come se il mio amante tradito potesse uscire fuori dalla boscaglia e vendicarsi della trappola che gli avevo teso. No, non ero ancora al sicuro. Forse, non lo sarei stata mai più.

“Farò io il primo turno di guardia” mi offrii, pronta come tutti i colpevoli che necessitano redenzione. La suora annuì, senza cercare di dissuadermi nemmeno per un momento.

Mangiammo in silenzio la carne secca che Teodora aveva portato con sé. Quindi, lei affermò, quasi soprappensiero:

“Dicono che il Papa non sopravviverà. Perde sangue da ogni orifizio, e non tiene il cibo nello stomaco nemmeno per un’ora.” I suoi occhi blu si piantarono su di me. “Dicono che nella congiura sei coinvolta anche tu.”

Non riuscii a capire se fosse un complimento oppure un rimprovero.

Ammisi il mio coinvolgimento, e le raccontai del piano di Lucrezia Borgia di appropriarsi del ruolo di Gran Maestro.

“Interessante…peccato che non ci riuscirà” disse subito la suora. “Giuliano della Rovere è pronto a raccogliere il testimone di Rodrigo Borgia, alla guida dei templari e forse anche sul seggio papale. Un uomo come Della Rovere non permetterà a una donna di prendere il posto che crede gli spetti.”

“Dicono che i Bentivoglio di Bologna e i Cornaro di Roma sono con Lucrezia.”

“Ma gli Orsini seguiranno Della Rovere, e probabilmente anche i Colonna. I nostri uomini a Roma dovranno essere zelanti, il cardinale De Medici va protetto ad ogni costo.”

“De Medici? Un parente del Magnifico Lorenzo?”

Suor Teodora annuì. “Suo figlio, Giovanni Lorenzo De Medici. E’ ancora troppo giovane per sperare che venga eletto Papa, purtroppo: ha soltanto ventotto anni…ma quel giovane cardinale è alleato degli assassini, e rappresenta la nostra unica speranza per il futuro.”

Quasi sobbalzai per la sorpresa. “State dicendo…che gli Assassini mirano al soglio di Pietro?”

A quel punto, la donna mi sorrise. Doveva ormai avere almeno cinquant’anni, ma il suo volto mi sembrava sempre senza tempo.

“Non immaginarti Ezio con la mitra papale, ora. Non saremmo noi in prima persona a salire al soglio di Pietro, ma un nostro alleato. Per la prima volta dai tempi di Niccolò IV[2], l’uomo più potente del mondo sposerebbe nostra causa…e per la prima volta dopo molto tempo la Mela e il Bastone sarebbero entrambi al sicuro insieme a noi.”

“Perché mi state dicendo questo? Non dovrebbe essere un segreto dell’Ordine?”

“E’ evidente che ormai non sei più una bambina, Bianca. D’ora in poi ti parlerò come ad una donna.”

Quell’espressione particolare mi colpì. Piegai il capo, studiando quella straordinaria assassina. Sapeva di me e Cesare? E quanto?

Il suo atteggiamento sornione mi rispose. Tutto. Si sapeva tutto. E se lo sapeva Teodora, significava che Ezio non poteva ignorarlo.

Seppellii la testa tra le mani.

“Mi hai fraintesa…non è quello che intendevo” si corresse Teodora, intuendo il motivo del mio sconforto e, simultaneamente, confermando i miei timori. “Non sei stata tu a scoprire dove fosse nascosto Vanni? E prima di separarci Rosa mi ha detto che hai recuperato la Mela dell’Eden. Hai perfino tenuto sotto scacco da sola i templari di Lucrezia! Ormai sei un’adulta, Bianca. Potevi restare ferma in attesa di essere salvata, e invece hai agito.”

“Io ho fatto uccidere zio Mario, e ho svergognato mio padre…sono andata a letto con il suo nemico.” Le parole mi uscirono a fatica dalla gola, come sassi che l’ostruissero. Le sentivo suonare per la prima volta. Pronunciarle le rendeva inesorabilmente reali. “Io…l’ho fatto perché credevo di poterlo sconfiggere…e invece quel cane ha vinto. Ha vinto, e io ho perso tutto! Ezio mi odia! Mi rinnegherà!”

Suor Teodora mi attirò accanto a sé, sul suo seno che già mi aveva accolto quando ero bambina. Mi sentii un poco rassicurata da quell’abbraccio, più materno di quello della mia stessa madre.

“Tu non hai fatto nulla di male. Hai soltanto usato il tuo corpo come ritenevi opportuno: non devi vergognarti, poiché esso è un dono di Dio. E se credi nel libero arbitrio che il Signore ci ha donato, sai che Lui non ti biasimerà per le tue decisioni, qualunque siano state le conseguenze a cui hanno portato.”

“Non hanno portato a nulla. Proprio a nulla.”

Mi sentivo così vuota, così rassegnata. Dopo tutto, pensavo, sarei dovuta morire durante la fuga. Avrei sollevato di un peso mio padre. Avrei potuto dimenticare i miei sbagli.

A quel punto, Teodora parlò piano, e le sue parole mi parvero una preghiera mormorata in un confessionale.

“Credi di essere stata la prima ad usare le proprie grazie? Bianca, tesoro, io predico il Vangelo della Carne da molti anni, e non ho sempre accolto nel mio letto soltanto amici. Per necessità, ho dovuto concedermi diverse volte a quei rivoltanti Barbarigo. La povera Paola, che il Signore l’abbia in gloria, per aiutare tuo nonno Giovanni a stilare la lista dei congiurati dovette vendersi a Jacopo de Pazzi: era la sua favorita, la visitava quasi ogni sera. Gli uomini più integerrimi possono tenere la bocca chiusa durante la tortura, ma cantare come fringuelli dopo aver ricevuto l’amore di una bella donna.”

“Quindi…quello che ho fatto…è giusto?”

“Non è giusto. E’ ciò che hai scelto. Tutto è lecito, Bianca, e tuttavia ogni azione implica una  conseguenza. Sei pronta ad affrontare le conseguenze del tuo gesto?”

“Credete che mio padre mi odierà?”

Lei mi accarezzò i capelli. Erano ancora impregnati dell’odore salmastro dell’acqua del fossato.

“Sei diventata una donna in molti sensi, piccola mia, eppure ancora fatichi a comprendere la natura dell’amore. Quello di tuo padre, poi…ti sembra di non vederlo solo perché è troppo immenso per essere visto. Come accade con tutte le cose troppo vicine, io credo che tu avessi bisogno di allontanarti per iniziare a comprenderlo. E forse Ezio aveva bisogno di questa brutta esperienza per capire quanto fosse pericoloso mantenerti nell’innocenza.”

Con quelle parole, mi mise in mano un pugnale e mi mostrò le fascine che aveva raccolto.

“Credo che ora andrò a dormire. Svegliami se dovessi vedere qualcosa di strano, e cerca di mantenere vivo il fuoco.”

Undici anni dopo la nostra prima conversazione sull’amore, Teodora accoglieva ancora una volta i miei dubbi e dava pace al mio cuore. Vegliai con gratitudine il suo sonno, felice che mi avesse affidato la sua vita senza esitare: le tenebre mi intimorivano ancora, ma almeno adesso avevo un’arma per combattere le mie paure e un fuoco per rischiarare le tenebre.

 

Il nostro viaggio si concluse senza incidenti. Il giorno successivo attraversammo il sentiero impervio che passa attraverso gli Appennini, e dopo una notte in una locanda fuori Firenze riprendemmo il cammino. Monteriggioni ci apparve, sospirata, a metà del pomeriggio del terzo giorno.

Era trascorsa un’infinità di tempo. Due mesi, un’estate, una vita. La Bianca che tornò a Monteriggioni non era più quella che era partita, e la cicatrice che attraversava le mie labbra era un simbolo troppo lieve per tutto ciò che avevo vissuto. Avevo diviso il letto con il nemico di mio padre, maneggiato veleni, minacciato di morte una bambina innocente. A causa mia, la figura più vicina a un Capo Assassino ci aveva lasciati.

Eppure, mi accolsero tutti con gioia. Teodora ed io fummo le prime ad arrivare al borgo: non appena le fu annunciato che eravamo giunte, zia Claudia corse subito dal laboratorio, con una grande macchia di inchiostro sulla veste. La zia che conoscevo non avrebbe mai tollerato di indossare un abito macchiato per più di cinque minuti. Doveva aver combinato quel guaio quando aveva saputo del nostro arrivo, ed essere stata troppo emozionata per pensare di andarsi a cambiare.

Rimase un momento immobile sulla soglia, e così io, che esitavo ad avvicinarmi. Poi, vidi i suoi occhi scuri riempirsi di lacrime. In un attimo, mi ritrovai avvolta dal suo abbraccio soffocante.

“Sia lodato il Signore” singhiozzò la zia contro la mia guancia.

“Sempre sia lodato” replicò con un sorriso suor Teodora, facendosi devotamente il segno della croce.

“Bianca! Bambina mia!”

La voce rotta di nonna Maria mi raggiunse dalle scale. La fitta che provai al cuore fu indescrivibile: i suoi capelli erano diventati tutti bianchi. Strinsi la mano di zia Claudia per chiederle gentilmente di lasciarmi andare, e in due falcate raggiunsi la nonna sulle scale. Lei mi si aggrappò addosso con tutto il suo peso leggero.

Era così vecchia anche prima del mio rapimento? La pelle le si era afflosciata sulle ossa delle braccia, cadeva sulle rughe come prima non faceva. Vene bluastre e macchie scure si alternavano in una triste topografia sulle mani e sul volto. Era così fragile che avrei potuto spezzarla nel mio abbraccio.

“Mi dispiace” ripetei piano, sentendo che la prima lacrima mi lasciava le guance, subito seguita da un’altra. “Mi dispiace.”

“Va tutto bene, tesoro mio. Ora sei qui.”

Dopo poche ore rientrarono zio Ugo e Vanni, e a tarda notte, infine, arrivarono a Monteriggioni anche i miei genitori. Ezio aveva riportato un graffio e uno squarcio sul bell’abito nero che gli Assassini chiamavano “l’Armatura di Altair”, ma sembrava davvero che la ferita non fosse grave.

Terrorizzata di essere ancora rifiutata da lui, mi ammutolivo ogni volta che parlava, e rifuggivo il suo sguardo prima che lui potesse rifuggire il mio. Di certo, come diceva suor Teodora, mio padre mi amava, ma questo non voleva dire che mi avesse perdonato.

Nemmeno io avevo perdonato me stessa, d’altronde. I primi giorni a Monteriggioni li attraversai come un sogno angoscioso, in cui sai che sta per accadere qualcosa, ma per tutto il tempo non accade proprio nulla. Cercai di ignorare la freddezza di mio padre e la falsa noncuranza di tutti gli altri. Apprezzavo gli sforzi di mia madre per riportare serenità in famiglia: a tavola, l’unico momento della giornata in cui eravamo tutti riuniti, Rosa raccontava allegramente di come avessi recuperato la Mela dell’Eden nel fossato o di quanto fossi stata brava ad arrampicarmi, come una vera assassina. Il resto della famiglia non commentava, lasciando cadere nel vuoto quei suoi tentativi, Sorridevano per alleggerire l’atmosfera, ma nessuno aveva cuore di farmi complimenti.

Mio padre non mangiava nemmeno con noi. Qualcosa lo preoccupava, parecchio. Zio Ugo diceva che si trattava del Papa: Rodrigo Borgia si contorceva nel letto in preda a tormenti infernali, ma non era ancora morto. E chi sarebbe diventato Papa, dopo di lui? Un alleato, un uomo neutrale, o un altro nemico? Ora che zio Mario non c’era più, toccava ad Ezio, il Profeta, prendere le redini dell’Ordine. Come denunciava la sua veste nera, adesso era lui il capo della Confraternita.

Dal canto mio, mi preoccupavo di quel Giuliano della Rovere di cui Teodora mi aveva parlato, ma non avevo cuore di intromettermi e dire la mia opinione. Sapevo che Ezio si sarebbe irritato parecchio se avessi continuato a ficcanasare, e in quei giorni avevo voglia soltanto di pace.

Fin dalla prima notte trascorsa a Monteriggioni mi ero abituata ad addormentarmi stretta a Vanni, aggrappandomi a lui come alla mia unica certezza. Mio fratello aveva vissuto con me quella terribile avventura, e mi pareva potesse essere l’unico a comprendere i miei sentimenti. Come due reduci, potevamo leggere negli occhi dell’altro tutto ciò che avevamo vissuto senza bisogno di spiegare, di giustificare, di ricordare.

“Non sei contenta di essere tornata?” bisbigliò Vanni una notte, quando pensavo che dormisse da un pezzo.

Scossi il capo.

“Troppe cose sono cambiate, ed è colpa mia.”

“Anche io non sono contento.”

Fece una pausa. Credetti che pensasse allo zio. Infatti, subito dopo disse:

“Hai già visto la tomba di zio Mario? Nonna dice che l’hanno sepolto nella cripta della villa.”

“Non me la sento. Io…non voglio vederla.”

Mi ci volle più di una settimana, prima di riuscire ad affrontare quel fantasma. Mi condusse Nonna Maria, quasi tenendomi per mano, attraverso l’ingresso nascosto nella roccia, fuori dalle mura della città[3] . Vennero anche mia madre e zia Claudia, con la scusa di voler rendere omaggio al morto. Io credo, ma forse pecco ancora una volta di egoismo, che invece si trovassero lì per me, per essere certe che non crollassi.

Quando mi trovai nella piccola, umida stanza funeraria, fui scossa da un brivido intenso. Zio Mario riposava accanto al suo antenato Domenico Auditore, in un semplice sarcofago di marmo, su cui era incisa la fiamma stilizzata degli Assassini. Sotto il disegno, potevo leggere i caratteri latini: Nihil verum, omnia licent.[4]

Rividi la scena. Il dardo di Michelotto. La gola trafitta di zio Mario. Il cavallo che si impennava, mentre lui scivolava a terra.

Mi cedettero le ginocchia. Le mani non reagivano, abbandonate con il dorso al suolo. Singhiozzavo piano, senza nemmeno riuscire a piangere.

Zia Claudia era rimasta immobile, in una strana forma di cordoglio per me e per lo zio insieme; mia madre si era subito chinata su di me. Mi sussurrava frasi che avrebbero dovuto confortarmi, ed io nemmeno sentivo.

Nonna Maria mi poggiò la mano rugosa sul capo, fissando la lapide. Le sue parole mi suonavano fresche come acqua di fonte, ma anche, in qualche modo, gelide e distanti.

“Mario era un guerriero, e voleva morire da guerriero. La sua ferita alla gamba era peggiorata, il chirurgo aveva parlato di amputare l’arto a breve. Un’operazione del genere, lo capisci, su un uomo di settant’anni…se anche fosse sopravvissuto, sarebbe rimasto confinato a letto tutta la vita. Dio ha voluto diversamente, ed io sospetto che Mario ne sia felice, dopo tutto.”

Cercai di annuire, e fare mie quelle convinzioni, senza grande successo.

Di fronte al mio sconforto, zia Claudia si schiarì la gola e aggiunse: “Ciò che conta adesso è che tu e tuo fratello siate a casa.”

Ma quale casa? La mia piccola Monteriggioni era troppo stretta per me ora. Tutto ciò che i miei occhi avevano bevuto, tutto ciò che i miei nervi avevano subito, tutto quello che avevo provato e inflitto aveva trasformato il mio sguardo.

Da quando le nostre mura erano tanto sottili, e così sguarnite di cannoni? C’era da meravigliarsi che i Borgia non ci avessero ancora stanato e preso. La fortezza della mia infanzia si sgretolava sotto i miei occhi. Quello non era più un posto dove sentirsi al sicuro. Era il nido esposto di un’aquila braccata dai cacciatori, e finalmente capivo che non era compito di Monteriggioni proteggermi.

Ero io a dover proteggere Monteriggioni, con tutte le mie forze.

 


[1] Da parte dell’architetto urbanista Biagio Rossetti, su ordine di Ercole I d’Este. Il lavoro di pianificazione urbana era stato commissionato nel 1492, e in quegli anni era ancora in corso. Verranno terminati nel 1510.

[2] Al secolo Girolamo Masci, primo Papa francescano nella storia. A parer mio, un francescano non può che essere alleato degli Assassini. Soprattutto considerato che dopo di lui (sorvolando sul breve pontificato di Clemente V) è venuto il terribile Bonifacio VIII – un Papa che a confronto Alessandro VI/Lo Spagnolo è un’innocente pecorella. Oddio, questo mi ispira tanto una fanfic con Dante Alighieri come Assassino…nel videogioco se non sbaglio affermavano che lo fosse ^___^ Mi sa che tutti quelli che ha messo nell’Inferno erano Templari!!!

[3] Ho visto in alcuni video su Youtube che la Cripta Auditore ha un accesso sul lato orientale delle mura cittadine, correggetemi se sbaglio ^_^

[4] I miei ricordi di latino sono alquanto appannati, se ho fatto errori grossolani qualcuno per favore mi corregga!

 

Note di Runa

Eccomi! Chissà se siete tutti in vacanza o se qualcuno leggerà il capitolo in questi giorni di festa? Beh, per chi c'è, bacioni e auguri di buon Ferragosto ^_^ In barba alla mia solita superstizione, pubblico il capitolo XIII (se escludete il prologo, la numerazione è questa!) nelle ultime ore di Venerdì 13...è stato un capitolo piuttosto duro, lungo e triste da scrivere nella parte finale. Spero non riterrete troppo pesante questo rientro depressivo di Bianca a casa. Sono convinta che, dopo quello che ha combinato, abbia bisogno di un cammino di espiazione - non preoccupatevi, dal prossimo capitolo l'aria si alleggerirà con qualche ritorno inaspettato e l'inizio della formazione della Confraternita degli Assassini. I personaggi di Ferrara non sono dimenticati, e torneranno a romperci le scat...cioè, ad allietare la storia :) Dal prossimo capitolo, però, ne arriverà un manipolo completamente nuovo che non vedo l'ora di presentarvi. I giovani Auditore saranno sottoposti al loro sospirato addestramento, spade omonime di certe disgraziate protagoniste si rifaranno vive, e Bianca compirà il classico gesto della donna che ha deciso di cambiare vita...restate sintonizzati, tra una decina di giorni, per il prossimo capitolo che...non ha ancora un nome :)

 

Ringraziamenti:

 Miko: Se vuoi amare ancora di più Cesare, ti consiglio di leggere "O Cesare o nulla", di Manuel Vázquez Montalbán. E' stupefacente. Con uno stile asciutto e contemporaneo, ma costellato di pennellate raffinatissime, tratteggia i Borgia come non li avevo ancora mai letti...la prima descrizione di Cesare afferma che "il suo naso aquilino aggredisce lo spazio" *.* Sono rimasta incantata! Indimenticabile anche la figura di Michelotto sicario-filosofo, e Lucrezia ingenua-calcolatrice...ok, sono ufficialmente in pieno delirio Borgia... Ps: Hai visto, ho finalmente scoperto come aggiungere le tue illustrazioni ad ogni capitolo! Quanto sono rimbambita, accidenti...

Ama: Ho scelto per Bianca il segno dell'Ariete perché alcune tra le persone più importanti della mia vita sono Ariete, è un segno che mi è molto affine nonostante le estreme differenze caratteriali, o forse poprio per questo...e l'ho scelto anche perché è il segno astrologicamente opposto a quello di Ezio, la Bilancia - casualmente, anche il MIO segno...INVIDIAMI :PPP   Ps: Sto seriamente pensando di scrivere un'altra storia in cui vediamo alcuni momenti salienti della fanfic narrati in prima persona da Vanni...chissà, magari più avanti lo faccio, per ora ho paura di distrarmi e non concludere la storia ^_^

Jayden Auditore: Grazie per l'incoraggiamento! Come avrai visto in questo capitolo, in effetti Bianca non è diventata un'assassina - ovvero, non ha ancora ucciso nessuno -, però è psicologicamente molto più pronta di un paio di anni prima. Speriamo che le disavventure di Ferrara le siano servite per intraprendere il suo cammino di erede di Ezio ^_^

Giannina92: Grazie mille, anche a te! Se mi dici così mi dai proprio la voglia di buttarmi nella pazza avventura del romanzo. Sarebbe una spirale discendente della protagonista, che per raggiungere lo scopo che si è prefissa è pronta veramente a sporcasi l'anima (la Bianca di questa fanfic è una dilettante a confronto). Tra qualche mese, quando avrò (spero) messo un punto all'università, inizierò a documentarmi seriamente. Grazie ancora!

JosieNJune: sigh...non mi scrivere tutte queste cose bellissime tutte d'un colpo...sono iper-emotiva e finisce che...sob...come al solito scoppio in lacrime! T_T Posso solo dire che sono veramente, veramente tanto felice che la mia piccola storia ti abbia dato la voglia di buttare giù le tue idee su carta, è una cosa che mi commuove sopra ogni dire. Spero di leggere presto il parto della tua mente!

Sheba_Ema94: Ciao, che bello vedere la tua recensione! Ti ringrazio veramente tanto per aver capito il motivo degli errori di Bianca. Io non credo nel personaggio perfetto, che fa sempre tutto giusto quando è messo sotto pressione. Gli eroi di cui mi piace scrivere sbagliano, a volte anche grossolanamente, e poi cercano di riscattarsi. Le loro imperfezioni me li fanno sentire più vicini...sarà che nella vita mi danno sui nervi quelle persone che si credono vittime di un fato avverso o della crudeltà altrui, senza riuscire a vedere i propri errori...per questo detesto il genere di eroe tanto sfortunato, che però nonostante tutto riesce a sconfiggere il male che ha sconvolto la sua vita altrimenti perfetta  :) Ps: Ho letto il tuo profilo, e mi pare di capire che abbiamo gusti musicali assai simili! Within Temptation e Nightwish sono i miei gruppi preferiti in assoluto!

 

Grazie, come al solito, anche a chiunque passi di qui silenziosamente. Al prossimo aggiornamento!

 

Laura.

 

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Capitolo 15
*** Fratelli di Lama ***


Non doveva essere online così presto. Invece c'è. La pazienza non è il mio forte, chiedo venia.

 

 

La certezza della morte di Papa Borgia si ebbe il ventidue Agosto 1503, quando una missiva giunse da Roma insieme ad un messaggero particolare.

Dapprima, i due uomini che erano arrivati nell’atrio della villa non mi ricordarono proprio nessuno. Ero scesa perché mia madre mi aveva fatta chiamare: appena affacciatami sulla scalinata, ero rimasta sorpresa di vedere i due estranei, avvolti in cappe bianche e rosse. La divisa era chiaramente quella degli Assassini, ma la loro postura e le voci che emergevano da sotto i cappucci non mi richiamavano nulla di famigliare. Poi, il più giovane calò il cappuccio.

Avrei dovuto riconoscerlo subito, anche se i due anni trascorsi dal nostro ultimo incontro l’avevano indurito parecchio. Dalla rotondità del bambino che conoscevo era stato modellato un volto duro, magro, dagli zigomi alti e pronunciati. Ricci paglierini, scomposti e ribelli: non li ricordavo. Ma certo, era naturale. Durante l’estate che aveva trascorso con noi a Monteriggioni, la ferita alla testa lo aveva costretto a tenere i capelli tagliati cortissimi. Ora che era guarito, aveva lasciato ricrescere liberamente quella chioma a dir poco leonina.

“Agamennone? Dio, sei davvero tu?”

Un sorriso purissimo gli illuminò gli occhi color nocciola.

“Bianca. E’ passato molto tempo.”

La sua voce si era fatta piacevolmente baritonale. Non riuscii a trattenermi, e gli corsi incontro entusiasta, abbracciandolo con calore. Lui si divise da me timidamente, e indicò il medaglione di onice nera che portavo al collo.

“La porti ancora.”

“Non è riuscita a tenermi lontana dai guai, però.”

Esaminai con ammirazione e una punta di invidia le sue vesti bianche e il cappuccio.

“Sei un Assassino?”

Il mio amico ammiccò. “Come mio padre prima di me. Suona altisonante, vero? Oh, sono solo un novizio per adesso. Volevo partecipare alla missione di salvataggio a Ferrara, ma mio padre dice che non sono ancora così bravo. Però me la cavo. Con l’arco, in particolare. Ho una buona mira.”

“Dio ti benedica, ragazza” esclamò ridendo Galeazzo, al fianco del figlio “In questi anni non ho mai sentito il mio Agamennone parlare così tanto! Tu hai una buona influenza su di lui.”

Sorrisi, ma amaramente. Allo stato attuale delle cose non credevo di poter avere una influenza meno che nefasta su alcun essere vivente.

Agamennone e suo padre venivano da Roma. Avevano trovato rifugio presso i loro parenti di Tivoli, e avevano per noi notizie fresche dal Vaticano. La famiglia si radunò nel Laboratorio: la nonna sedette allo scranno della scrivania di Claudia, mentre noi tutti, in piedi, circondavamo i nostri ospiti che sedevano su scranni fatti portare apposta per loro. Mio padre chiese esplicitamente che fossimo presenti anche io e Vanni.

Galeazzo raccontò che le campane avevano suonato a lutto per Sua Santità Alessandro VI il giorno diciotto agosto. Dicevano si fosse gonfiato ai limiti dell’idropisia, tanto che per cacciarlo dentro la bara ci si erano dovuti sedere sopra e saltargli sulla pancia.

“Il conclave è riunito, ma la decisione non è facile. Ogni angolo di Roma mormora il nome di Giuliano della Rovere.”

“Un altro templare…” rifletté mio padre. “Famiglia potente, grande abilità politica. Legato a doppio filo con la setta Francese, da quel che mi riferiscono le mie fonti. Se verrà eletto, favorirà una nuova calata dei francesi in Italia.” Guardò Galeazzo, grave.  “C’è modo di fermarlo?”

“Ci penserà lo stesso Cesare Borgia.”

“E’ sopravvissuto al veleno, dunque.”

“Sì è ristabilito ed è pronto all’azione, con l’aiuto dei cardinali spagnoli. Sa che Della Rovere vuole eliminarlo, e che il potere della sua famiglia è allo sfascio. Farà di tutto per arginare la marea finché potrà.”

“Dunque il nuovo papa sarà un altro spagnolo?”

“Non lo credo possibile. I Romani si rivolterebbero, e forse anche il resto della cristianità. Il pontificato di Rodrigo ha gettato tutto il fango possibile sul seggio papale, e in città l’odio per gli stranieri è diventato troppo forte. L’unica mossa che Cesare Borgia può fare, ora, è far eleggere un uomo neutrale…possibilmente italiano. Messer Machiavelli pensa che la scelta ricadrà su Piccolomini.”

La previsione, essendo di messer Niccolò, si rivelò inevitabilmente giusta. Un mese esatto dopo quella nostra conversazione, il ventidue Settembre 1503, la fumata bianca si levò sul Vaticano in onore di Francesco Piccolomini, un sessantaquattrenne di ottima salute e buoni propositi per la riforma della curia. Il suo pontificato si concluse meno di un mese dopo, il diciotto Ottobre 1503. Alcuni dicono che un’ulcera alla gamba lo avesse portato improvvisamente alla morte. Altri, come sempre accade in questi casi, parlarono di veleno. Cioè che è certo, è che Cesare Borgia e i suoi cardinali spagnoli non riuscirono più ad arginare la tempesta Della Rovere, che si abbatté sul seggio papale  e trascinò via i suoi nemici senza più esitazioni.

Cesare fu fatto incarcerare su editto del nuovo papa Giuliano della Rovere, che aveva assunto il nome di Giulio II. L’accusa? Dicevano che avesse ucciso, molti anni prima, il proprio fratello maggiore, Juan Borgia, misteriosamente ripescato sulle rive del Tevere. Una scusa come un’altra per liberarsi dell’ultimo dei Borgia che avesse una qualche importanza. Lucrezia restava a Ferrara sotto il giogo degli Este. Il terzo fratello, Giofré, non aveva mai rappresentato un grande pericolo, e venne lasciato in pace a Napoli, dove si era ritirato con il resto della fazione dei Borgia presso i potenti parenti della moglie.

Delle conquiste Romagnole del mio amante, non restava più molto. Venezia si era presa Rimini e Faenza: a Cesare restava la sola Forlì, e il rifiuto di cederla al nuovo papa, a quanto pare, aveva sancito la sua fine. Mi giunse voce che Cesare era stato catturato da un condottiero spagnolo e portato in Spagna, per scontare la sua pena.

Quando, nell’ennesimo dei suoi viaggi tra Roma e Monteriggioni, Agamennone mi raccontò tutto questo, io non provai nulla, se non un lieve senso di frustrazione per aver lasciato a un altro templare l’onore di aver distrutto il mio nemico.

 

Da quell’agosto 1503 che aveva visto il mio ritorno, i mesi si rincorsero. Agamennone e Galeazzo erano così spesso a Monteriggioni che, a un certo punto, Ezio chiese al ragazzo di restare, perché proseguisse l’addestramento insieme a lui. Forse aveva visto buone potenzialità in Agamennone, o forse, nonostante i nostri rapporti fossero ancora dolorosamente freddi, gli piaceva vedere che in compagnia del giovane Marescotti io riacquistavo un po’ di serenità. Fatto sta che, per il mio amico, essere scelto dal capo spirituale dell’Ordine fu un onore indicibile. Io osservavo gli allenamenti a cui veniva sottoposto, le corse sui tetti e l’uso delle armi da lancio, e mi domandavo se sarebbe mai venuto il mio momento. A volte mi appollaiavo sugli stessi bastioni dove, una sera di una vita precedente, zio Mario mi aveva consigliato di aspettare il mio momento per diventare un’Assassina. Lì, riflettevo. Se non guardavo accanto a me, potevo quasi sentire la sua presenza, e illudermi che fosse ancora lì a guidarmi.

Lo so. Sono un’Assassina da molti anni, ormai, e dovrei sapere che non esiste un aldilà. Polvere eravamo e polvere ritorneremo, è l’unica frase della Bibbia che un assassino possa condividere appieno.  Eppure, credo ci siano forze che percorrono la terra…fatico a spiegarmi, e non vorrei essere ritenuta un’apostata dai miei stessi fratelli. Quello che intendo, è che le persone restano anche dopo la morte. Non se ne vanno in un luogo migliore, ma rimangono, al contrario, nel mondo. Dentro il ricordo di chi le ha conosciute, nelle parole che hanno detto, nelle opere che hanno compiuto, nei loro gesti verso gli altri. Perfino il loro corpo non si dissolve: i morti respirano il respiro di chi ha il loro stesso sangue, e questa continuità li rende, e ci rende tutti, davvero immortali.

Mi piace pensare che la morte non sia la fine della coscienza, ma solo la sua frammentazione. Una parte di zio Mario è rimasta con me, ed io mi sono ci sono appellata spesso, negli anni, per ricevere conforto e consiglio. Lui non mi ha mai risposto, ma la sola consapevolezza della sua presenza è stata una bussola più che sufficiente per guidare il mio cammino.

La Bianca del passato non mi piaceva, e portava sulle spalle il peso di troppe colpe. Sapevo che, per andare avanti, avevo bisogno di alleggerire il mio fardello. Così, nel dicembre del 1503, decisi che ad aprire la strada alla mia coscienza doveva essere un segno fisico.

Mia madre mi guardò un po’ perplessa, quando le chiesi di aiutarmi con le forbici.

“Ne sei certa? Sono così belli…”

“Sono scomodi. Voglio tagliarli.”

Zia Claudia tentò di insistere, ma Nonna Maria, silenziosamente, fece tacere le sue proteste. Così, Claudia mi aiutò a fare una treccia, in un religioso silenzio che era anche un addio alla mia chioma un tempo tanto amata.

Quando sentii le forbici che mi sfioravano il collo, mi venne da ripensare alla prima notte con Cesare. Le sue dita fredde come quel metallo che scostavano i miei capelli per sfiorarmi il collo. Gli stessi capelli in cui lui affondava le mani mentre mi baciava, gli stessi capelli che erano il mantello su cui mi adagiavo quando lo attiravo su di me e giacevo con lui.

Bastò un colpo netto. La treccia cadde, e i capelli rimasti si allargarono come una corolla intorno alle mie guance. Rosa me li tagliò simili ai suoi, li rese corti come quelli di un uomo. Mi guardai allo specchio per tutto il processo, e ad ogni ciocca caduta i miei occhi diventavano più consapevoli. Mi accarezzavo distrattamente con il pollice la cicatrice sulle labbra. Avevo tentato la strada della femminilità, e avevo fallito. Ora avrei annullato del tutto ogni segno  che mi rendeva una donna, e avrei cercato di ricominciare d’accapo.

Le reazioni che ricevetti a cena furono differenti tra loro.

“Sembri un maschio” commentò Vanni, contrariato.

“Ti si addicono” fece Agamennone, più comprensivo.

Zio Ugo inarcò soltanto le sopracciglia, e non disse niente. La piccola Lisabetta, che ormai aveva iniziato a parlare piuttosto fluentemente, si sporse dalle braccia del padre per tirarmi i capelli e dire, perplessa: “Dove li hai naccotti?”

Ezio non disse nulla, ma mi rivolse una lunga occhiata che io, per una volta, non rifuggii. Quindi, tornai a mangiare in silenzio, sapendo che il messaggio era arrivato a destinazione.

Quella stessa notte, mi parve strano coricarmi dopo soli due colpi di spazzola. Aggiustai i ciuffi intorno al viso, cercai di sorridermi. Avevo perso un po’ di bellezza, ma la mia testa si spostava con leggerezza. Mi pareva quasi di pensare più lucidamente. Mi addormentai finalmente sollevata dal peso che mi gravava sul petto: avevo deciso di cambiare dentro tanto quanto ero cambiata fuori, e l’euforia che contraddistingue certi passaggi di soglia mi faceva sentire bene come da tempo non capitava più.

Nel cuore della notte, mi destai. Non aprii nemmeno gli occhi, mentre la grande mano che avevo avvertito ancora prima che mi toccasse mi sfiorò i capelli. Quella carezza leggera si ripeté ancora una volta, e un’altra: ogni volta le sue dita sembravano arrivare alle estremità corte delle mie ciocche con perplessità, come se non riuscissero a capacitarsi che davvero la mia chioma finisse lì.

Sentii che mi tremavano le labbra: ero molto vicina al pianto, ma ancora non aprii gli occhi.

Avvertivo il peso di Ezio sul materasso, seduto accanto a me. Mi osservava e continuava ad accarezzarmi i capelli, perso in pensieri che non riuscivo a immaginare. Quasi accidentalmente, le sue dita mi sfiorarono la guancia, e indugiarono per un attimo sull’estremità superiore della cicatrice.

Infine, mio padre si sollevò delicatamente dal letto, e si allontanò.

 

La mattina successiva, zio Ugo mi disse che Ezio voleva vedermi. La notizia mi turbò, e non poco. Gli chiesi dove si trovasse. Ugo fece un cenno verso l’alto.

Titubai un momento. Non ero mai salita in quella stanza.

Ezio l’aveva usata come camera da letto a Monteriggioni, prima che arrivassimo mia madre, mio fratello ed io. Dopo il nostro arrivo, Ezio aveva fatto bloccare la botola che conduceva lassù.

Quel giorno, invece, dopo aver salito la scaletta di legno trovai la botola aperta.[1]

Una libreria sguarnita. Un letto provvisorio, quasi una brandina militare, e un tavolo con calamaio. Niente di straordinario, se non fosse stato per i cavalletti che reggevano ritratti freddi e lugubri. Sotto di essi, lapidari, nomi e date che iniziarono a scorrermi davanti agli occhi e confondersi gli uni negli altri. Uberto Alberti - 1476;  Vieri De’Pazzi, 1478; Francesco De’Pazzi – 1478  ; Jacopo De’Pazzi – 1480; Emilio Barbarigo - 1485, Marco Barbarigo - 1486,  Silvio Barbarigo - 1486, Dante Moro, 1486…e continuavano ancora. Mi persi nel ripercorrerli tutti, vuoti e pallidi come facce di cadaveri.

Ezio guardava fuori della finestra, con le mani intrecciate dietro la schiena. Indossava una semplice camicia bianca, i capelli legati nel solito nastrino rosso. Ora che ci facevo caso, anche nella sua chioma castana iniziava ad apparire qualche filo grigio.

Volse la testa al mio arrivo. Accennò ad un sorriso, e mi invitò a sedermi al tavolo.

“Ti ricordi di Leonardo, non è vero?”

Io sbattei le palpebre. Che strano esordio, certo che mi ricordavo di Leonardo. Chi potrebbe dimenticare un uomo del genere?

“Chi sono questi uomini?” accennai, spostando l’attenzione di lui sui ritratti.

“I congiurati che hanno portato la Mela da Cipro.”

“Li avete uccisi tutti?”

Ezio non rispose, non ce n’era bisogno.

“Tornando a Leonardo, ti ha mandato un regalo da Firenze.” Estrasse da sotto il tavolo un involto rosso scuro, e ve lo poggiò sopra. Dal tonfo che produsse, pareva pesante.

“Non vuoi vederlo?”

Guardai l’involto voluminoso, poi mio padre, come a chiedergli il permesso. Lui annuì, così trovai il coraggio di aprire le falde del panno.

Ciò che fu rivelato mi tolse il respiro. Provai l’impulso di pizzicarmi una gamba, per verificare se fossi sveglia. E lo ero, accidenti! Lo ero!

Un antibraccio di lucente acciaio, foderato in morbido cuoio all’interno, e tuttavia molto più sottile di quello di mio padre. L’intarsio, particolarmente raffinato, rappresentava viticci, foglie e piccoli fiori intrecciati.

“Padre…io…”

“E’ un po’ che lo tengo qui. Ho chiesto a Leonardo di fabbricarlo da quando sei tornata…eppure, ancora non mi decidevo a dartelo. Avanti, provalo.”

Incantata, infilai l’antibraccio. Mio padre mi aiutò ad allacciare le cinghie. Mossi di scatto il polso verso l’esterno, e fortunatamente fui svelta a stendere le dita. Un graffio metallico tagliò l’aria. La lama brillò nella luce pallida dell’inverno.

“Io…non merito tanto.”

“Non dire sciocchezze. Non è un premio, è un’arma di difesa. Perfino d’attacco, quando sarai abbastanza brava. Per le tecniche di assassinio furtivo dovrai pazientare ancora un po’, devo prima assicurarmi che tu padroneggi i fondamentali. Nella fuga di Ferrara ti sei dimostrata in gamba, ma potrebbe essere stata soltanto fortuna.”

Non riuscivo a crederci.

“State dicendo…che sarò addestrata? Come Agamennone? Per diventare Assassina?”

Ezio sorrise. “Visto che non riesco a tenerti lontana dai guai, dovrò insegnarti come gestirli.”

Io continuavo ad accarezzare convulsamente la lama e l’antibraccio, profondamente riconoscente. La bellezza dell’arma e il suo significato mi stordivano. Riuscii solo a ripetere, come un’ebete:

“Grazie, padre. Grazie. Grazie.”

“Non ringraziarmi.”

Il tono di Ezio era improvvisamente mutato. Si era fatto più cupo, quasi triste. Si alzò dalla sedia, nervoso. “Non avrei voluto che questo giorno arrivasse, e ho cercato di rimandarlo più a lungo possibile, forse commettendo il più grosso errore che…” Sospirò. “Vedi, Bianca…” Si volse di nuovo, per guardare fuori dalla finestra. Aveva in volto la stessa espressione di Nonna Maria quando vedeva ancora soltanto il passato. “Io non ho scelto il mio destino. E’ stato lui a scegliere me. Avrei voluto che per te e per Vanni fosse diverso…ma dopo tutto, siete nati nel nido dell’aquila, e sarete cacciati come l’aquila. E’ giusto che impariate a usare gli artigli.”

“Sarò l’allievo migliore che abbiate mai avuto.”

Vi farò dimenticare i miei sbagli. Vi renderò fiero di me.

Ezio si avvicinò di nuovo a me, e sorrise. Ricambiai, felice. Ebbi l’impressione che in quel momento vedesse la bimba entusiasta di correre sui tetti, e non più la fanciulla ribelle che lo aveva tanto deluso.

Mi scompigliò i capelli corti, e disse: “Ora va’ in cortile, ragazzina. L’addestramento sarà molto duro, e non sarò tenero con te solo perché sei mia figlia.”

“Lo so. Grazie. Grazie. Oh, padre, grazie!”

Lo abbracciai d’istinto, e in una frazione di secondo mi chiesi se avrebbe rifiutato quel contatto. Il mio cuore quasi smise di battere, nella spasmodica attesa che mi accettasse o mi allontanasse.

Poi le braccia di Ezio si serrarono attorno alle mie spalle. Mi depositò un bacio leggero sul capo.

Era più di quanto avessi osato sperare. Molto più di quanto avessi sognato, infinitamente di più di quanto meritassi. Ma era vero. Mio padre mi voleva ancora bene, e mi avrebbe addestrata al cammino dell’Assassino.

 

“Non è giusto. Dovrei essere addestrato anche io.”

La reazione di mio fratello all’annuncio mi lasciò parecchio sorpresa.

“Tra qualche anno lo sarai” cercai di consolarlo; ma lui mi rivolse un’occhiata fulminante con quelle iridi così simili alle mie.

“Lui ha scelto te. Sei sempre tu la preferita. Sei sempre tu!”

“Vanni, io…”

“Ha scelto te, nonostante tutti i nostri problemi siano colpa tua!”

Quasi indietreggiai, ferita dal suo dardo. Non mi aspettavo quelle parole da lui. Credevo che mio fratello, tra tutti gli altri, fosse l’unico a non accusarmi delle disavventure di Ferrara.

Senza smettere di cullare Lisabetta, zia Claudia affermò in tono secante:

“E’ tanto colpa di Bianca quanto tua, Giovanni. Se invece di seguirla quella notte tu avessi dato l’allarme alla villa, avremmo potuto evitare questa spiacevole avventura.”

L’ira e lo sdegno che accesero le guance di mio fratello erano violenti. Potevo quasi leggere i suoi pensieri. Io ho rischiato di morire per colpa sua! Ho avuto paura di non vedere più la mamma, per colpa sua! Ho dovuto saltare da un torrione di trenta metri, ancora faccio gli incubi la notte, ed è solo colpa sua!

Giovanni corse via. Cercai di inseguirlo, ma lui mi urlò di lasciarlo in pace. Sconvolta, mi accorsi che non lo capivo più. Il legame che ci aveva tenuti uniti durante la prigionia di Ferrara si era spezzato.

“Perché mio fratello mi odia?” domandai, triste, ad Agamennone.

Nonostante le serate fossero piuttosto fredde, il mio amico ed io avevamo preso l’abitudine di guardare insieme il cielo sul tetto della villa, con i nostri mantelli di lana così grandi che potevamo nasconderci dentro anche il viso e sprofondarci come in un bozzolo. Agamennone mi spiegava le costellazioni, cercando di disegnare linee immaginarie tra quelle stelle che io continuavo a vedere come una spruzzata di puntini luminosi sparsi. Ciò che ho sempre trovato straordinario in Agamennone è proprio questo. Con tutto quello che gli è successo, non ha mai perso la voglia di cercare un senso nelle cose.

“Vanni non odia proprio nessuno. È soltanto geloso.”

“Forse sarebbe stato felice se nostro padre mi avesse cacciata. Eppure, io me lo ricordo. La sera prima della fuga da Ferrara, Vanni mi ha chiesto di restare lì, di non tornare a casa.”

“E’ un bambino irrequieto. Vuole agire e non può farlo. Sa chi vuole essere ma ha paura di diventarlo. Non è un caso se non sa fare il salto della fede, ci hai pensato? Guarda!”

Seguii la direzione del suo dito, sorpresa dal cambio repentino di argomento. Agamennone mi stava indicando una pioggia di stelle cadenti. Almeno tre solcarono il cielo in rapida successione. Lo spettacolo durò qualche splendido istante, poi si spense.

“Esprimi un desiderio.”

“Non credo a queste cose.”

“Non si può non credere alle stelle.”

­“Oh, si può non credere a tante cose…perfino in Dio, perfino nelle persone. Forse non si dovrebbe credere affatto. Fa male.”

“Di Dio non vedi il corpo. Delle persone non vedi il cuore. Ma le stelle sono lì, e non puoi negarle. Non hanno niente da nascondere. Bisogna solo imparare a leggerle.”

Sorrisi, stringendomi nel mio mantello. Stare accanto ad Agamennone avrebbe potuto riconciliare un vulcano sul punto di eruttare con le viscere della terra, e farlo diventare un’innocua collina.   

Adoravo quei piccoli momenti di pace nelle mie giornate indaffarate. Durante l’addestramento– in quel periodo di stavamo dedicando ai manichini di paglia posti ad altezze impossibili, alcuni da uccidere ed altri da derubare senza che i mille campanelli appesi suonassero – eravamo talmente concentrati sull’obiettivo che non ne trovavamo il tempo. A sera bisognava dedicarsi alla famiglia, quel rumoroso cicalecciare di gente che aveva invaso i muri un tempo silenziosi della villa, e così non ci restava che rubare quelle due ore al sonno e alla salute per confidarci le nostre paure e le nostre speranze.

E’ incredibile come certi rapporti non siano intaccati dalla lontananza. Con Agamennone era ricominciato tutto come il giorno in cui ci eravamo salutati, due anni prima. Non apprezzavo soltanto la sua compagnia: potrei dire per certi versi che vedevo nitidamente la sua anima, come lui vedeva la mia. Senza schermi, senza quell’imbarazzante involucro di carne che ci crea tanti problemi. Agamennone mi accettava per quella che ero, la non-più-candida-Bianca-Auditore, la ragazza che scambiava amici per nemici e viceversa, troppo pronta a fidarsi di chi amava e poco incline a vedere al di là del proprio lungo naso.

In cambio, io andavo oltre la sua malinconia perenne e le sue stramberie astrologiche, e non lo prendevo in giro come invece facevano suo padre e tutti gli altri. Agamennone stupiva e inquietava per la sua purezza oscura. Era come un bambino che camminasse con la morte appollaiata sulla spalla, un ricordo del passato e un monito per il futuro.

Una volta mi aveva confessato che sarebbe morto giovane: glielo avevano detto le stelle. Aveva perfino fissato una data. Undici Aprile 1512. Era certo che non sarebbe sopravvissuto a quel giorno. Io ridevo di questa sua fissazione.

“Avrai una vita lunga come Matusalemme.”

“Niente affatto. La vita la perderò quel giorno, lo ha detto il mio astrologo[2].”

“E le stelle ti hanno anche detto come?”

“No, questo non lo so. Dovrei avere ventitré anni a quel tempo, quindi sono piuttosto sicuro che non sarà di vecchiaia.”

A quel punto della conversazione, mi imbronciai. La sua serenità mi sconvolgeva.

“Forse le stelle ti hanno mandato un segno, per evitare che questo accada.”

“Forse. Ma non credo che si possa cambiare quello che è scritto nelle stelle.”

“Io ci proverò.”

“Tu, da sola, contro tutte le stelle?”

“No, non da sola. Io e te siamo solo i primi, sai. Gli Assassini arruoleranno altri giovani allievi…diventeremo in tanti, e tutti Fratelli di Lama. Come ai tempi di Altaïr. La Fratellanza non permetterà alle stelle di portarti via, Agamennone. Ti proteggeremo.”

Non sapevo, allora, che le mie parole sulla formazione di una futura Fratellanza si sarebbero tramutate in realtà tanto presto.

 

Nel Febbraio 1504, giunse a Monteriggioni un giovane uomo. L’architetto del borgo lo aveva trovato svenuto e febbricitante sulla scalinata che conduceva a Villa Auditore, sul fare del tramonto. Il giovane sembrava in preda a una brutta febbre terzana.

Era stato chiamato il medico del borgo. Il malato era stato sistemato a casa dell’architetto, ma sembra che nel delirio pronunciasse tanto spesso il nome di Ezio Auditore che proprio non si era potuto fare a meno di convocare il signore di Monteriggioni.

Agamennone ed io, in qualità di suoi allievi, lo seguimmo.

Il malato non era più contagioso quando lo vedemmo, e tuttavia il suo pallore denunciava la gravità del pericolo che aveva affrontato. Era un giovane dai lineamenti fini, quasi troppo per essere un uomo: le gambe lunghe avevano di tanto in tanto uno spasmo sotto le coperte, mentre le braccia magre giacevano per lo più inerti lungo i fianchi. La barba chiara, biondiccia, era rada come quella di un ragazzo.

Quando facemmo il nostro ingresso, aprì gli occhi. Due iridi grigio intenso mi folgorarono dal primo sguardo.

Pareva un uomo del nord europa, ma ci parlò in italiano, con una forte cadenza lombarda.

“Siete voi…Ezio…Auditore?”

La sua voce uscì roca. Provai l’impulso di andare a porgergli dell’acqua, ma un gesto di mio padre ci intimò di restare indietro. Ezio sedette accanto al letto del malato. Aveva chiesto all’architetto che potessimo parlare al ragazzo da soli.

“Come ti chiami?”

“Sono…Nicola. Nicola Offredi.” Tossì, volgendo subito il viso dall’altra parte. Quindi affaticato, riprese: “Dicono che siate un Assassino.”

Mio padre accennò ad un sorriso. “Mi sembra tu non abbia bisogno di me in questo momento, ragazzo.”

Nonostante il suo stato, Nicola apprezzò l’ironia e annuì. “Mi rimetterò presto, e allora potrete addestrarmi. Voglio diventare uno di voi.”

“Quanti anni hai?”

“Venti, signore.”

“E perché vorresti diventare un Assassino?”

“Perché desidero uccidere un uomo. Un templare. Il suo nome è Ermes Bentivoglio.”

Agamennone ed io sussultammo a quel suono. Era il templare di Bologna, colui che aveva cercato di rapire me e aveva sterminato la famiglia del mio amico. Presi la mano di Agamennone, e lui la strinse.

“E’ una nostra vecchia conoscenza” annuì Ezio. “Cosa ti ha fatto perché tu desideri ucciderlo?”

“Ha fatto ammazzare mio padre come se fosse un animale. Voglio rendergli la stessa moneta.”

Ezio scrutò per un momento negli occhi grigi del giovane uomo, che resse placidamente lo sguardo. Infine, si alzò in piedi.

“Se vinci la tua battaglia contro le febbri, ragazzo, diventerai un mio allievo. Considerala la tua prima prova di discepolo assassino.”

Naturalmente, Nicola vinse quella battaglia, e in breve tempo quel suo corpo allampanato non solo guarì perfettamente, ma apprese le tecniche di arrampicamento sui muri molto più rapidamente di quanto avessi fatto io. Versato nell’utilizzo delle armi da fuoco – pistole e archibugi erano la sua passione -, Nicola si rivelò anche un  bravo balestriere, ma non riuscì mai a eguagliare Agamennone con l’arco. La sua lama preferita era il fioretto, comodo da maneggiare, e che padroneggiava bene sia con la destra che con la sinistra.

 

Martino Semeraro, invece, si unì alla nostra causa nell’autunno 1504. Lo vedemmo giungere dal cerchio di addestramento: le sue urla avevano attirato un capannello di curiosi alla base della scalinata che portava alla nostra Villa.

Aveva cercato di superare le guardie sulla scala, che naturalmente non l’avevano lasciato passare. Ora sbraitava e si dimenava, minacciando di passare alle mani – naturalmente nude, senza alcuna arma da opporre alle alabarde delle nostre guardie.

“Aho, vedi da levatte, pezzo de sterco de vacca rinsecchito! Se nun te levi te corco, to 'o giuro. Famme parlà cor capo de 'sto posto!”[3]

Seriamente, la prima volta che lo sentii avrei giurato che parlasse spagnolo. Di uno spagnolo aveva anche l’aspetto, con quei capelli mori tenuti un po’ lunghi sulle spalle e gli occhi scurissimi.

“Si farà ammazzare” commentò Agamennone, sporgendosi a  osservare la scena.

“Sarà divertente” avallò Nicola, poggiato alla balconata con i gomiti, gettando appena un’occhiata sorniona di sotto.

Ezio ed io deponemmo le armi da allenamento. Mio padre si affacciò per assistere alla scena, sospirò. Quindi fece per scendere le scale. Cercai di fermarlo.

“Avete intenzione di parlare con quel pazzo? Padre!”

Naturalmente, lui non mi badò. Scese fino all’ultimo gradino, con una certa solennità che compensava l’assenza dell’Armatura di Altaïr.

“Sono io il capo. Ti ascolto.”

Il ragazzo lo squadrò, sollevando un sopracciglio marcato. Quel giorno Ezio vestiva semplicemente, in camicia e brache, come faceva spesso quando era a casa. Benché assai più sporca e lisa, la tenuta di quel giovane non era molto diversa dalla sua.

Forse fu per questo che lo squadrò con scetticismo, replicando:

“Te? Nun me pijà p’er culo, va’.”

Ezio fece saettare le lame celate, puntandogliele di scatto sotto il mento.

“Questo ti convince?”

Martino non si agitò per nulla. Anzi, sfoderò un sorriso soddisfatto. Tese il braccio nella direzione di Ezio, con il pugno rivolto verso l’alto. Lo aprì.

Agamennone, Nicola ed io avevamo sceso le scale fino quasi a metà, e ci eravamo gelati sul posto. Nel palmo aperto del giovane giaceva una croce templare, d’argento, con rubini rossi.

“Che è questa?” fece Martino. Ezio abbassò lentamente le lame celate.

“Perché lo chiedi a me?”

“Un uccellino m’ha detto che tu lo sai.”

“Dove l’hai presa?”

“L'ho strappata co' le mani mie all'omo che ha rapito mi' madre.”

Ezio rimase in silenzio per qualche istante. Quindi, rinfoderò le lame celate, e mise un braccio intorno alle spalle del ragazzo.

“Vieni, discutiamone in privato.”

Mentre mi passavano accanto, giudicai che non potesse avere più di diciassette anni. Era alto, ben piazzato, dalle spalle ampie; ma il viso, benché squadrato e volitivo, era ancora quello di un ragazzino.

Con Martino acquisimmo un buon elemento, che in breve divenne molto abile con le armi pesanti. Si affezionò in particolare alle asce, da lancio e da taglio. Era spettacolare vederlo combattere con due asce leggere, che usava alternativamente per parare i colpi dell’avversario e per attaccare. Il suo divertimento maggiore, però, erano gli esplosivi. La prima volta che gli mostrammo una bomba fumogena, si illuminò come un bambino con un nuovo balocco. Fu lui a mettere a frutto le nuove invenzioni di Leonardo, e a stimolarci ad usare di più la polvere da sparo. Forse aspettavamo un pazzo del suo livello a cui far maneggiare le armi più pericolose del nostro arsenale.

Oltre all’apporto militare, Martino portò un’allegria da guascone nelle nostre serate. Non era sempre facile capirlo: per via delle sue origini contadine non aveva mai frequentato persone provenienti da altre città, perciò il suo romanesco era più stretto e pesante degli altri dialetti parlati alla Villa. A pensarci bene, oramai risuonavamo di tutti gli idiomi d’Italia: tra la parlata fiorentina di mio padre e gli altri Auditore, gli accenti Veneziani mai del tutto perduti di Ugo e Rosa, lo strano misto delle due cantilene che avevamo assunto io e Vanni, il bolognese dolce di Agamennone e il bresciano ruvido di Nicola, c’era di che disorientarsi.

E poi, naturalmente, venne Veronica. Con il suo arrivo, la mia palma di unica allieva donna venne strappata via definitivamente.

 

La portò Teodora, agli inizi di una primavera fredda nel 1505. Fu un anno strano, quello. Un anno di terremoti che scossero l'Italia, mettendo la paura in cuore alla gente. Castelli e fortezze venivano giù come se fossero fatti di carta. In molte città veniva proclamata l’astinenza dalla carne, ogni tipo di carne. In senso alimentare, e anche nell’altro. I bordelli venivano chiusi, e se qualche cortigiana veniva sorpresa in attività le sue colleghe la frustavano a sangue. Tutta questa devota penitenza, pensavano, avrebbe allontanato l’ira di Dio ed evitato che la terra tremasse ancora.

Fu per via di questo clima di diffidenza e astio verso le venditrici d’amore che Teodora e Veronica arrivarono a Monteriggioni in incognito. La suora indossava un abito casto adatto alla moglie di un mercante, e così la ragazza, che teneva i capelli pudicamente legati in una semplicissima treccia. Eppure, capii subito che Veronica non era una fanciulla comune. Aveva diciotto anni, due in più di quelli che io avevo all’epoca: i suoi occhi erano grandi e castani, come quelli di un cervo. Il viso ovale era piuttosto grazioso, e la carnagione pallida e liscia, senza nei o imperfezioni, la rendeva davvero bella. Tuttavia, proprio quei capelli che credeva di aver camuffato tanto bene denunciavano la sua particolare professione. Erano infatti tinti, e in maniera grossolanamente evidente, perché quel colore rosso cupo non si addiceva alla sua pelle né alle sopracciglia, che erano sottili ma inequivocabilmente castane. 

Suor Teodora fu felice di rivedermi, e non accennò ad alcun commento sui miei capelli, che continuavo a mantenere corti per praticità e abitudine. Mi presentò rapidamente Veronica, spiegandole che ero la figlia del Signore di Monteriggioni; la ragazza si inchinò, ma prima che lo facesse scorsi nei suoi occhi un lampo di scherno. Ne rimasi un po’ amareggiata. Forse mi giudicava per il mio aspetto maschile.

Quindi, la fanciulla passò oltre, per andare insieme a suor Teodora a parlare con mio padre nel Laboratorio. Nello stesso momento, i ragazzi stavano rientrando dal campo di addestramento, con Vanni che li seguiva un po’ ombroso. Mio fratello aveva iniziato ad addestrarsi l’estate precedente, ma, forse perché era il più piccolo, non riusciva a entrare nel clima cameratesco che si era creato tra gli altri uomini. Aveva sempre un’aria scontrosa alla fine dell’addestramento, come se rodesse nel vedere che le abilità dei suoi compagni tanto più grandi surclassavano le sue.

“Caruccia la ragazza” esclamò Martino, fischiando senza ritegno con gli occhi incollati alle gonne ondeggianti di Veronica. “Dove la tenevi nascosta ‘sta meraviglia d’amica tua, Biancare’?”

Detestavo quel soprannome, “Biancarella”. Proprio perché riusciva a stizzirmi in maniera indicibile, Martino lo usava con molto gusto.

Tuttavia, i suoi motteggi quella volta non mi preoccuparono più di tanto. Martino era abituato a provarci con qualsiasi creatura femminile respirasse. Ero molto più allarmata dalla reazione che Nicola poteva avere all’avvenenza di Veronica.

Fortunatamente, il giovane bresciano non pareva molto colpito. La osservava con aria critica, come faceva sempre in presenza delle novità. “Guardate come si muove. Ve la vedete ad arrampicarsi sui tetti? Quella non ha la stoffa per fare l’assassina, ve lo dico io.”

“Un Assassino non deve solo sapersi arrampicare” commentò pacatamente Agamennone.

“Chissà perché è qui?”

Le parole di Vanni mi lasciarono stupita. Le aveva pronunciate soprappensiero, forse nemmeno lui si era accorto di averle dette a voce alta.

Per tutta risposta, Nicola si limitò ad ammiccare.

“Per quello per cui siamo qui tutti, no? La vendetta.”

Dal colloquio con mio padre, Veronica uscì com’era entrata, con un’espressione di falsa innocenza sul viso. Quando Ezio presentò a lei e Teodora ai ragazzi, loro istintivamente si schierarono in riga e rimasero impettiti, nemmeno venissero ispezionati da un generale.

Veronica ebbe per ognuno una parola affabile e un sorriso ammaliante. Parlava in maniera abbastanza raffinata: si capiva che non era una semplice popolana. Provenendo dal bordello di Suor Teodora, pensai che forse anche lei era un’ex suora. Quando però si fermò davanti a me, la sua espressione si fece più fredda. Le tesi la mano.

“Spero che diventeremo amiche.”

Lei sorrise, ma in modo falso. “Lo spero anche io.”

 

 


[1] So bene che, nel videogioco, la stanza di Ezio migliora con i miglioramenti apportati a Monteriggioni, e che lui la usa abitualmente come camera da letto. Diciamo che ho preferito mantenere lo sgabuzzino che era all’inizio, immaginando che i soldi delle ristrutturazioni siano serviti per aggiungere stanze al secondo piano, tra cui quella in cui dorme con Rosa. Non mi piace molto l’idea che Rosa ed Ezio dormano in mezzo a tutti quei ritratti di gente assassinata J

[2] Nessuno si muoveva senza un astrologo, a quel tempo. Come mai lo studio degli influssi astrali non sfociasse in accuse di stregoneria, lo capisco solo in parte. Quanta voglia ho di studiare meglio quest’epoca piena di contraddizioni che era il Rinascimento…

[3] Chiedo perdono, non sono abituata a far parlare i personaggi in dialetto e chiaramente qualcuno potrebbe pensare che, siccome all’epoca erano usati come vere e proprie lingue, ognuno dovrebbe parlare il suo…ma Martino mi si è presentato così in mente per la prima volta, chiamando subito Bianca "Biancare'"...e non sono più riuscita a levargli l'accento romanesco. Per fortuna la mia BetaReader Simona è romana e corregge tutti i miei strafalcioni :)))

 

Note:

Eccomi qua. Lo so, sono pessima: non si dovrebbe postare un nuovo capitolo prima del tempo annunciato. Avrei potuto sfruttare questi giorni per lasciar maturare il capitolo e quantomeno andare avanti, avvantaggiarmi un pochino. Niente da fare, non ce la faccio. Sarà perché ci tengo a portarmi avanti con la pubblicazione dei capitoli finché avrò tempo per farlo, e il tempo a mia disposizione da settembre in poi sarà molto meno. Ho comunque cercato di curarlo, spero non ci siano troppe imperfezioni...e spero soprattutto che vi piacciano i nuovi assassini.

So di aver messo parecchia carne al fuoco, ma ciò che mi interessa ora è proprio vedere le interazioni di tutti questi giovani insieme. Ezio ha fatto scuola: ognuno dei suoi nuovi allievi è stato toccato negli affetti più profondi e ha un buon motivo per vendicarsi dei templari. Ognuna delle loro situazioni verrà svelata più dettagliatamente con il tempo, e il compimento di ogni singola vendetta corrisponderà a uno snodo della trama. Anche la data di morte che Agamennone si è visto profetizzare non è scelta a caso. Saranno solo le sue paranoie? Chi lo sa. Altro snodo :)

Il prossimo capitolo si chiamerà "Vendetta"...almeno finché non trovo un titolo migliore. Per via di un'incongruenza storica, ho dovuto ritardare l'ingresso in scena di Bartolomeo d'Alviano e della sua spada Bianca - ma non è escluso che appaiano entrambi già al prossimo capitolo. Di certo indagheremo nel passato dei giovani Assassini, seguiremo il loro addestramento (sto studiando le mosse di combattimento del gioco, sarà durissima descriverle...) e capiremo qualcosa di più del loro carattere. Senza contare che Bianca riceverà un'inaspettata lettera d'addio...e, aspetto non secondario della vicenda: riuscirà la nostra giovane assassina a riappacificarsi con le crisi adolescenziali di suo fratello Vanni? Stay tuned :)   

Ps: ma quanto mi diverto a fare queste anticipazioni in stile sigla di Xena? O forse stile Beautiful? :PPP

 

Ringraziamenti:

 

Miko: Sta' tranquilla, qualunque sconvolgimento porterà la trama il primo amore di Vanni sarai sempre tu! Il tuo schizzo è fenomenale e non vedo l'ora di vederlo finito, mi hai reso parecchio avida con le tue splendide illustrazioni. Ti rispondo qua al tuo messaggio su Deviantart: temo che un mesetto mi ci vorrà prima di essere in pari tra trama e capitolo bonus...se vuoi posso scriverlo e mandartelo prima, ma sappi che dovrai affrontare LO SPOILER PEGGIORE di tutta la fanfic. A te la scelta ^_^

Sheba_Ema94: I WITHIN TEMPTATION A MILANO A MARZO??? Che bella notizia mi dai! Acc, con la mia fortuna però avrò un impegno improrogabile proprio il giorno del concerto, marzo per me è un mese infernale :((( Ok, non divago più ^_^ L'addestramento lo spiegherò per bene a partire dal prossimo capitolo, spero di fare un lavoro decente con le mosse di combattimento. Felicissima che tu abbia apprezzato la fuga! Quel pezzo mi ha fatto parecchio dannare. In effetti anche io adoro alla follia il salto della fede (nonostante, come Vanni, io soffra terribilmente di vertigini). Ora che ci penso, questa faccenda del salto della Fede ricoprirà una certa importanza più avanti nella storia...un bacione anche a te, e ci si aggiorna su Youtube - appena ho un po' di tempo commento i tuoi video, promesso!

Giannina92: sono stata felicissima che Teodora ti sia sembrata simile a quella del gioco...è uno dei miei personaggi preferiti, e spero vivamente di rivederla in Brotherhood! Credo invece che il comportamento guascone di Ezio in guerra mi sia derivato da un eccessivo uso del tasto Y durante i combattimenti nel gioco...dice ai soldati certa roba da fuoco, mi fa scompisciare dalle risate tutte le volte! XD E poi ultimamente il mio Ezio stava diventando troppo serio, ho voluto fargli recuperare un po' del suo vecchio spirito :)

LilythArdat: grazie mille per la tua recensione! Sono veramente felice che tu ti sia interessata a questa fanfic, e ancora di più che ti stia tornando la voglia di scrivere. Sono convinta che il bisogno di esprimere le storie che coltiviamo dentro sia insopprimibile, e anche se cerchiamo di non ascoltarlo prima o poi riemerge sempre: per quanto mi riguarda, mi aiuta ad affrontare le difficoltà della vita ^_^ Spero che avrai ancora voglia di seguire le vicende di Bianca&Co :)

Josie_n_June: cavolo, mi hai letto nel pensiero! Quando ho letto che avresti voluto rivedere Agamennone avevo appena scritto del suo ritorno ^_^ spero continuerà a piacerti anche da adulto, personalmente è un personaggio a cui sono tanto affezionata - anche se è oggettivamente pazzo :) Ti ringrazio per aver compreso le motivazioni della povera Bianca, è proprio con quest'idea che le ho fatto commettere questi errori. Le ragioni di Cesare Borgia le scopriremo, nel prossimo capitolo o forse in quello dopo ancora. Mica potevo lasciarlo vincere così! :))) Ps: Oddio non mi istigare...non mi istigare che mi parte la fanfic su Dante assassino...urgh, mi devo trattenere, mi devo trattenere, sennò chi la finisce Bianca? Fantasia mia 'sta buona...

Ama: Evvai!!!!!! Bianca finalmente ha passato il tuo esame con la sufficienza!!! :) Ora credo che si ubriacherà e farà follie con gli allievi assassini (ehm...) per festeggiare. YAY! XD 

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Capitolo 16
*** La Fede di un Assassino ***


Le stanze della villa ormai non bastavano più per tutti quegli allievi: fino a quel momento i tre ragazzi avevano sistemato le loro brande in uno stanzino poco usato al pian terreno e non avevano avuto di che lamentarsi, ma con Veronica si poneva un problema non da poco. Vanni non si lamentò troppo quando gli fu proposto di spostarsi con gli altri ragazzi, per cedere il suo posto nella nostra stanza alla nuova arrivata. Nei due anni trascorsi da quel litigio, non eravamo più riusciti a parlarci come un tempo. Forse, dopo tutto, non dividere più la stanza con me fu una liberazione per lui.

Veronica, con mia grande sorpresa, riuscì a lamentarsi di qualsiasi cosa. Del fatto che non possedessi una buona spazzola, né essenze per il corpo e i capelli, né cosmetici; della difficoltà di reperire nella piccola Monteriggioni le erbe di enna[1] necessarie a fabbricare la sua particolare tintura rosso cupo, e infine dell’imbarazzante carenza di libri sui miei scaffali. Dio, essere nata nella terra dei poeti e ignorare del tutto la poesia! Per lei, era un affronto alla benevolenza celeste.

Pensai che una puttana poetessa era davvero il personaggio mancante alla nostra strana combriccola.

Teodora ripartì un paio di giorni dopo averci lasciato in dono quell’antipatica accolita. Prima di andarsene, la suora mi abbracciò e sussurrò nell’orecchio: “Ti prego, stalle vicino. Ha bisogno di un’amica in questo momento.”

Sgranai gli occhi. Di certo Veronica desiderava la sua tintura di enna molto più di quanto volesse fare amicizia con me.

La suora non disse altro, ma mi rivolse un sorriso d’intesa e ripartì com’era venuta.

Le nostre interazioni, lo riconosco, non iniziarono nel migliore dei modi. Quando vidi arrivare Veronica al suo primo addestramento con un bell’abito bianco lungo fino a terra, e i capelli in parte sciolti e in parte acconciati nelle due crocchie alte tipiche delle prostitute, a stento non scoppiai a ridere.

“Non credo che questa sia la tenuta adeguata per allenarsi, sorella” le disse Nicola, cercando di usare più tatto possibile. Lei lo fulminò con lo sguardo.

“Non sono tua sorella.”

“La mia no de sicuro” commentò Martino ridacchiando.

Lo sguardo di Nicola per la ragazza si indurì. “Nella Confraternita siamo tutti fratelli e sorelle, tienilo a mente. In questa famiglia dobbiamo essere disposti a morire uno per l’altro.”

“Ci provi gusto a fare la paternale agli altri, vero?”

La risposta tagliente di Veronica ci lasciò tutti un po’ spiazzati. Nicola invece non mosse un sopracciglio.

“Sono il più anziano tra voi, è naturale. Tu invece provi gusto a provocare. Per quale motivo?”

Veronica incrociò le braccia la petto. “Voi mi avete giudicato per il mio abito. Concedetemi, fratelli miei, di dimostrarvi che non ho bisogno di tutti i vostri ninnoli per combattere.”

Scambiai uno sguardo con Martino e Agamennone. Se il mio amico romano pareva divertito quanto me, il ragazzo di Bologna osservava la nostra nuova accolita con un misto di scetticismo e interesse. Dal suo canto, Vanni se ne stava silenzioso a studiarla, in attesa di vedere cosa avrebbe fatto di quelle parole spavalde.

Con un sorriso ironico, Veronica si inchinò nella mia direzione.

“Madamigella Auditore, posso avere l’onore?”

Mi stava sfidando apertamente. Lì per lì pensai che fosse gelosa del fatto di non essere l’unica donna del gruppo, e dunque di non ricevere l’attenzione esclusiva dei ragazzi. Accennai anche io a un sorriso, scrocchiando le dita tra loro.

Sono pur sempre un’Auditore, e non rifiuto mai una sfida.

“Quale arma preferisci?” le domandai.

“Nessuna.”

“Cosa?”

“Io a mani nude, contro te e la tua spada.”

“Venti fiorini su la rossa.”

Mi volsi, furiosa, verso Martino, il quale si strinse nelle spalle e sollevò le mani. “A Biancare’, scusa, eh, ma questa c’ha le palle.”

Sbuffai. Quel giorno, maledizione, mio padre e zio Ugo erano in ritardo. Si sarebbero arrabbiati se ci avessero trovati già impegnati in un duello? Oh, non importava dopo tutto.

Sfoderai la spada e mi misi in posizione, le gambe leggermente flesse, le spalle in avanti, la lama alzata nella mano destra.

Veronica mi fece un cenno di invito con la mano, per irritarmi. E ci riuscì.

Fu il combattimento più rapido di tutta la mia carriera di Assassina.

Attaccai. Lei anticipò il mio tempo, bloccandomi il polso con entrambe le mani e attirandomi a sé. Mi sferrò una ginocchiata nello stomaco, che mi costrinse a piegarmi a metà. Cercai di non lasciare la stretta sulla spada, ma Veronica mi aveva già girato l’avambraccio dietro la schiena, costringendomi a cedere. Mi liberò con una spinta, e quando mi volsi di nuovo verso di lei mi aveva già puntato la mia stessa spada al petto.

“Non giudicare un libro dalla copertina. Oh, dimenticavo, madamigella Auditore…tu i libri non sai nemmeno cosa siano.”

Mi morsi il labbro fino quasi a farlo sanguinare. Avrei risposto altrettanto velenosamente, se una voce cavernosa non mi avesse bruciata sul tempo.

“Non male, ragazza, non male davvero. Riconosco il tocco di Teodora nel movimento del polso. Lo stile veneziano è il mio preferito.”

Mi ci volle un po’ per riconoscere l’omone sotto il cappuccio, che era appena arrivato insieme a mio padre e mio zio. Bartolomeo d’Alviano sapeva come portare sulle spalle una spada alta come lui, ma quanto a portarsi addosso gli anni non era altrettanto abile. Per quel che ne sapevo, ne aveva soltanto quattro più di Ezio, ma ormai le cicatrici sul suo volto di guerriero si intrecciavano alle rughe, raddoppiandole.

Mio padre lo presentò ai suoi nuovi allievi, e subito Bartolomeo sgranò gli occhi.

“Ezio, quella è la tua bambina?”

Mio padre accennò ad un sorriso. “Non più bambina, come puoi vedere.”

“Bianca!” esclamò allora il condottiero, ridendo e schioccandomi due baci irruenti sulle guance “Sapevo che questo nome ti avrebbe portato fortuna. Sei cresciuta bella come lei.” Salutò anche Giovanni, con altrettanto calore; mio fratello subì le sue pacche sulle spalle con espressione perplessa, probabilmente lo ricordava a malapena. Quindi, il condottiero si rivolse anche agli altri allievi.

“Ragazzi, sono molto felice di essere tra voi oggi. Permettete che vi presenti qualcuno.”

Con un gesto ampio e solenne, Bartolomeo snudò la sua splendida spada lucente, dalla lama larga e l’elsa semplicissima.

“Lei è  Bianca.”

“’A conoscemo” rise Martino; un suono che si bloccò di colpo, quando il gigante gli puntò la lama sotto il mento.

“La spada. Bianca è il suo nome. Salutala.”

Il ragazzo inghiottì a vuoto, fissando con un po’ di inquietudine la punta affilata. “Piacere…mio?”[2]

Bartolomeo sembrò soddisfatto, e scostò la spada. Io l’ammirai mentre brillava sotto il sole: era davvero incantevole. Se fosse stata una donna, la mia omonima sarebbe stata una giovane raffinatissima e aggraziata, e tuttavia forte come una regina.

Mentre Ezio e Ugo sedevano in disparte sulla scalinata, per osservare la lezione, Bartolomeo prese con naturalezza il centro dell’arena.

Chiese ad ognuno di noi con cosa preferisse combattere. Conoscevo in anticipo le risposte di tutti i ragazzi. Vanni, la mazza; Nicola, la scimitarra[3]; Agamennone, l’arco; Martino, l’ascia. Io risposi i pugnali da lancio. Restava Veronica, che dopo un’esitazione ammise:

“Stiletti…meglio se avvelenati.”

Sapevo che il Codice permetteva l’uso del veleno, ma che il Maestro Altaïr lo aveva a lungo deprecato prima di ammetterlo infine come arma necessaria, benché disonorevole. Anche mio padre lo usava con parsimonia: era troppo simile ai metodi dei nostri nemici per poterlo accettare del tutto.

Tuttavia, Bartolomeo non si scompose.

“L’arma che impugnate diventerà un prolungamento della vostra volontà. Consideratela la vostra anima forgiata nell’acciaio, o scolpita nel legno. Le dovete cura e attenzione.”

“Volete dire che dobbiamo dare alle nostre armi un nome?” intervene Veronica, storcendo il naso.

Bartolomeo sorrise. “Non è necessario. Hanno già un nome, e quando imparerete a farle cantare come si deve saranno loro a sussurrarvelo.”

Martino si volse verso di me con gli occhi strabuzzati, girandosi il dito intorno alla tempia per dare del pazzo al condottiero. Agamennone, invece, pareva colpito. “Ho sempre sospettato che il mio arco si chiamasse Giorgio”  mormorò al mio orecchio. “Non credi che sembri proprio un Giorgio?”

Pensai che, in quanto a follia, Bartolomeo avrebbe trovato nel mio amico del filo da torcere.

A quel punto, il condottiero invitò Veronica ad alzarsi in piedi. Le chiese di spiegare come avesse fatto a disarmarmi. Lei, senza mostrare alcuna emozione di superiorità, illustrò freddamente il procedimento: nel momento dell’attacco l’avversario scopre il fianco, per afferrargli il polso è sufficiente anticipare le sue mosse e andargli sotto mentre carica.

Bartolomeo annuì. “Tutto questo va bene in due situazioni: se il tuo avversario è più lento di te, o se non si aspetta una tattica del genere. La troverete utile quando vi scontrerete con soldati dall’armatura pesante, ma non sarà sempre così semplice.” Quindi, si accarezzò i mustacchi. “Qualcuno vuole provare a disarmare me?”

La vista di quel gigante sorridente che alzava la sua altissima spada ci inquietò tutti, facendoci esitare. Tutti, certo, tranne Nicola.

Il giovane si alzò in piedi, con tranquillità. “Se permettete, verrò io.”

Bartolomeo lo squadrò come per valutarne il peso e la forza.

“Sei sicuro, stecchino? Non sarò gentile solo perché sei un allievo.”

Vidi per la prima volta un sorriso quasi felino arricciare le labbra del ragazzo biondo.

“Vi prego, Maestro: non risparmiatevi.”

Bartolomeo accarezzò affettuosamente l’elsa della sua spada. “Coraggio, ragazza mia: mettiamo alla prova le nuove leve.”

Com’era prevedibile, Nicola attaccò per primo. La sua scimitarra cercò una strada per il fianco di Bartolomeo, ma il gigante respinse l’affondo con un colpo violento della sua grossa lama. Nicola non si diede per vinto: attaccò ancora, questa volta dall’alto. Non fu una buona scelta.

Bartolomeo parò, e con tanta veemenza che Nicola fu sbilanciato. Il Maestro colse il momento per spingerlo a terra con un calcio; il giovane cadde di schiena. Fu svelto a rotolare di lato, mentre il gigante faceva scendere pesantemente la lama a terra.

La forza impressa nel colpo quella volta non fu favorevole al condottiero di Alviano: la punta della spada si era conficcata nel terreno, e l’attimo necessario ad estrarla fu determinante. Vedendolo in quella posizione piegata, Nicola ne aveva infatti approfittato per saltargli in groppa. Cercò di costringerlo alla resa, abbrancandosi al suo collo. Bartolomeo oscillò e si dimenò, nel tentativo di scrollarsi di dosso il ragazzo come fosse un insetto. Quindi, si gettò a terra con tutto il suo peso, schiacciandolo sotto la sua poderosa schiena.

Nicola accusò il colpo, ma non aveva ancora perso. Le mani stringevano le due estremità della sua scimitarra, premuta sotto la gola del Maestro.

Bartolomeo scoppiò a ridere.

“Respiri ancora, stecchino?”

Nicola rantolò a sua volta una risata. “Per poco.”

Mentre Nicola scostava la scimitarra per permettere al Maestro di alzarsi e aiutarlo a sua volta a tirarsi in piedi, io mi sentii invadere da uno strano sentimento. Ammirazione sconfinata, mista a un’invidia bruciante. Io ero stata umiliata dall’ultima arrivata, mentre Nicola si era difeso splendidamente nello scontro con un rappresentante degli Alti Ranghi dell’Ordine.

“E’ eccezionale. Di certo diventerà lui il prossimo Capo dell’Ordine” commentai, rivolta ad Agamennone.

Vanni, poco distante da noi, ci aveva sentito. Si sfregò il naso, buio in volto. “Non hai capito niente. Ezio vuole passare il comando a te.”

Scrollai le spalle a quell’affermazione. All’epoca, pensavo che fosse la gelosia di Vanni nei miei confronti a parlare per lui. Mi ero quasi abituata a quello stato di cose silenziosamente conflittuale che ristagnava tra noi.

Avevo provato a parlargli, naturalmente: mi aveva respinta, ogni volta. Ormai avevo rinunciato a sanare la ferita, attribuendo quel comportamento alla sua età difficile. Dal giorno della fuga da Ferrara la mia strada e quella di Giovanni si erano separate. Solo, non sapevo ancora fino a che punto.

 

Quella sera, a cena, Ezio ci permise di festeggiare l’arrivo di Bartolomeo con fiumi di vino e perfino birra chiara fatta portare da Firenze. Gli adulti chiudevano un occhio sui nostri boccali mai vuoti, e festeggiavano la venuta dell’amico che non vedevano da anni. Veronica ascoltava i racconti delle gesta del condottiero al servizio della Serenissima, forse con una leggera nostalgia per la patria lontana. Io la osservavo, ancora inviperita per la sconfitta bruciante che mi aveva inferto.

Tagliarsi i capelli, vestirsi da uomo, addestrarsi duramente come se fossi un maschio, reprimere del tutto i miei istinti di donna…che senso aveva avuto tutto questo, se dovevo lasciarmi battere da un’avversaria del genere, che si curava più dell’aspetto che non dell’addestramento?

“Ti stai ancora preoccupando della sua vittoria di oggi?” fece Agamennone, sorpreso, forse associando la mia espressione cupa alla direzione del mio sguardo. “Domani sarai tu ad atterrarla, e sarete di nuovo pari.”

Io sbuffai, il viso affondato sul braccio che giaceva sul tavolo. “Questo è un ragionamento da uomini. Noi donne siamo diverse.”

D’improvviso, Martino mi si avvinghiò addosso ed esclamò, un pelo alticcio:

“Nun te preoccupa', Biancare'! Sei sempre tu l'amore mio!”

Mi divincolai dal suo abbraccio, infastidita. Quando dicevo che Martino ci provava con qualsiasi essere femminile al mondo, intendevo proprio tutti. Me compresa.

“Va’ a farti fottere” replicai, e dopo essermi bruscamente alzata in piedi rubai ad Agamennone il boccale ricolmo di birra, ingollandone un lungo sorso. Quindi, uscii nel cortile, e respirai l’aria pregna di pioggia che stava per scendere.

Mi strinsi le braccia al petto, per contenere la frustrazione che mi premeva addosso e non riuscivo a scacciare.

Vanni diceva che Ezio voleva fare di me la sua erede. La prospettiva, non lo nascondo, mi riempiva di orgoglio. Ma ne sarei stata degna?

Poggiai la schiena al muro, e battei indietro la testa una volta, due volte, fissando le stelle. Fu dura cacciare indietro le lacrime. Odiavo dimostrarmi debole, perfino di fronte a me stessa. Ero passata in mezzo al fuoco dei Borgia ed ero sopravvissuta…e dovevo lasciarmi sconfiggere dalla prima puttana di passaggio!

Appena percepii i passi alle mie spalle, mi aspettai di vedere Ezio. Invece, la persona che mi aveva seguito era Nicola.

“Fa freddo qui. Perché non torni dentro?”

“Sto bene dove sto.”

Lui sorrise, come se non si aspettasse altro che quella replica.

“Se ora ti faccio una domanda, mi rispondi sinceramente, Bianca?”

Tirai su col naso. “Dipende dalla domanda.”

“Perché vuoi sempre dare il massimo?”

“Potrei chiederlo io a te.”

“Rispondi.”

Abbassai il capo. “Perché” sussurrai “ho qualcosa da dimostrare. A mio padre, e a tutti voi. Voi siete tutti venuti qui con uno scopo…perfino quell’antipatica di Veronica, o così almeno dice suor Teodora. Io sono soltanto la figlia del capo.”

“Tu vuoi difendere le persone che ami. Onestamente, come scopo mi sembra molto migliore del mio.”

Il mio fratello di lama si mise con la schiena al muro accanto a me, calandosi dentro il mio silenzio. Fu una strana sensazione. Come due solitudini che si toccano senza violarsi.

“Nicola…com’è morto tuo padre?”

Un’esitazione passò sul suo volto.

“In battaglia.”

“Contro i Bentivoglio?”

“Sì, contro i Bentivoglio.”

“Era un Assassino?”

“No. Era…un condottiero di ventura.”

“Eri con lui quando è successo?”

Sospirò. Si scostò i capelli, che teneva abbastanza lunghi intorno a viso. All’attaccatura della tempia c’era una macchia violacea.

“Ho rischiato di morire anch’io quel giorno. Sfortunatamente per Ermes Bentivoglio, non è successo.”

Per qualche motivo, rimasi a osservarlo un po’ più a lungo di quanto la conversazione avrebbe richiesto. Mi riscossi, imbarazzata. Lui sembrava non essersene accorto.

Nicola mi piaceva. Molto. Nei suoi occhi grigi vedevo la determinazione del futuro capo. La sua tranquillità calmava la mia smania di imparare e le mie ansie. Nonostante quello che diceva Vanni, pensavo che Ezio avrebbe avuto in lui un degno successore.

Quando mio padre si fosse ritirato dalla pratica del combattimento, per darsi esclusivamente alla direzione dell’Ordine, Nicola sarebbe stato uno splendido braccio destro, il suo generale, il suo uomo d’azione. Forse, anche un buon successore come amministratore di Monteriggioni. Titolo che gli sarebbe spettato di diritto, se per qualche motivo avesse mai acconsentito a sposare l’unica figlia femmina del suo maestro.

E’ così, lo ammetto. Senza nemmeno accorgermene mi ero ritrovata infatuata di Nicola, ma in una maniera pura e ingenua che non speravo di poter più provare. Volevo dimenticare il tipo di donna che Cesare Borgia aveva fatto di me, cancellare quelle passioni violente e conflittuali, e innamorarmi nel modo in cui una ragazza della mia età avrebbe dovuto. Perciò immaginavo nella mia fantasia un futuro insieme, nascondevo il rossore quando lui mi afferrava per mostrarmi un movimento durante l’addestramento, e  ogni volta che distoglieva lo sguardo da me io mi perdevo a fissare il suo profilo delicato, chiedendomi dove corresse la sua mente quando pareva tanto assorto.

“Ed ecco perché domani affronterete il vostro primo Salto della Fede.”

Quasi trasalii. Ma certo, certo: stavamo parlando con Bartolomeo dopo aver affrontato l’allenamento quotidiano. Ero così assorta nello studiare Nicola, che quasi avevo perso la cognizione del tempo e del luogo. Dovevo essere più cauta, o presto la mia simpatia non sarebbe più passata inosservata agli altri, soprattutto al diretto interessato. Quello, in quel momento, rivelargli ciò che provavo era l’ultimo dei miei desideri.

“Ne sei certo, Bartolomeo? Non credo che siano ancora pronti.”

Mio padre squadrò il compagno di battaglie, scettico. Vanni era impallidito alla prospettiva del Salto. Gli occhi chiari di mio fratello erano fissi a terra: forse anche Ezio se ne era accorto.

Il condottiero si accarezzò i baffi. “E’ una cosa importante, Ezio. Il Salto della Fede è il senso stesso del Credo…e poi, sarà parecchio utile in missione.”

“C’è una missione in vista?” fece Agamennone, sognante. Si stava cimentando in un certo sforzo fisico per togliere la corda a Giorgio, il suo arco – sì, alla fine lo aveva chiamato veramente a quel modo -, ma al suono di quella parola si era illuminato come un bambino di fronte ad un regalo, dimenticando completamente il suo obiettivo.

“Non ancora” rispose Ezio, sbrigativo “ma dovete essere pronti per quando verrà il vostro momento.”

A quel punto, Martino alzò la mano. Mio padre gli diede la parola.

“Ecco” attaccò lui, leggermente in imbarazzo. “V'ho visto c'o facevate, sto Sarto d'a Fede, e me chiedevo, cioè...che gusto ce trovate a fracassavve le ossa pe' tera, dico io. Se li gendarmi te 'nzeguono, nun è mejo stassene 'nfrattati finché le acque se so' carmate?”

“L’obiezione non è insensata” avallò Ugo. Ezio sospirò, per poi accennare a uno di quei sorrisi saggi che ultimamente aveva preso a tirare fuori sempre più spesso. Pensai, divertita, che si trovasse a suo agio nel ruolo di insegnante, più di quanto lui stesso avesse mai immaginato. Tinto della luce del tramonto, sarebbe stato un buon soggetto per un quadro. Il capitano incita le reclute prima della battaglia. Avrei dovuto scriverne a Leonardo.

“Il Salto della Fede” iniziò mio padre, pronunciando quelle parole con reverenza “è senz’altro un’ottima scappatoia dai pericoli, e un modo veloce per raggiungere la terra da altezze notevoli. Tuttavia, Martino, non si tratta solo di questo. Come ha detto poco fa Bartolomeo, è l’essenza del nostro Credo.”

Anche la mano di Nicola si alzò. Mio padre gli diede il permesso di parlare.

“Perdonate, Maestro: non è contraddittorio, tutto questo? Ci avete detto più volte che gli dèi non sono mai esistiti. Ci avete parlato della Rivelazione della Mela dell’Eden e della nascita del genere umano. E ora ci chiedete di esprimere la nostra Fede. Mi pare un controsenso.”

Ezio sembrò soddisfatto da quel ragionamento.

“Lo è, se spiegato a questo modo. Ma lascia che ti dica come la vede un Assassino.” A quel punto, mio padre si staccò dalla ringhiera di pietra per prendere il centro dell’arena. Ammirai ancora una volta la sua capacità di catalizzare l’attenzione. A volte penso che, se non gli fosse capitato tutto ciò che gli era capitato, sarebbe potuto diventare uno splendido uomo politico.

“La Scelta è il nostro marchio distintivo. Non esiste niente di giusto o di buono, niente d ingiusto o di malvagio. Non esiste niente al di sopra della Libertà. Scegliere è l’espressione di questa libertà. Le decisioni quotidiane che prende ogni essere umano, dalle più insignificanti a quelle soverchianti, chiamano in causa la nostra capacità di giudizio. Noi diciamo: questo è un bene, questo è un male; lo facciamo più volte al giorno, in base alle nostre impressioni del mondo. Purtroppo, il risultato delle nostre scelte non è sempre prevedibile: ed è qui che entra in gioco la fede. Quando scegliamo, lo facciamo al buio. Saltando nel buio, compiamo un atto di fede…la vita stessa non è altro che questo. Sappiamo come è iniziata, ma non come finirà. E tuttavia decidiamo di vivere.”

“Insomma, dobbiamo arrenderci al caso.”

Guardai Vanni. Il suo pallore si era fatto livido: stentavo a riconoscere la sua voce in quelle parole. Nonostante fosse il più piccolo, per intervenire non aveva alzato la mano.

“Non è questo, Giovanni. La libertà comporta dei sacrifici. Nessuno ti insegnerà mai il senso delle cose. Sarai tu a deciderlo.”

Mio fratello aveva assunto un’espressione lucida, quasi violenta. “Ma questo è innaturale. Guardate il corso dei pianeti, guardate la Natura. E’ stato tutto deciso prima. L’uomo non può scegliere nemmeno da che genitori nascere, quanto essere alto, quando e come morire. Perché dovrebbe poter scegliere qualcosa di importante come il suo destino?”

Lo fissai, sbalordita. Aveva dodici anni: conoscevo la sua passione per lo studio, ma l’avevo sempre considerato soltanto un fanciullo piuttosto intelligente. Invece, c’era una riflessione profonda nelle sue parole. Troppo profonda per la sua età. Come se ripetesse le parole di qualcun altro.

Quella volta, Ezio gli tenne testa ricordandogli il Credo, il Codice e le gesta di Altaïr. La questione sembrò pacificata, ma io non ci dormii per un paio di notti. Conoscevo il rancore antico che Vanni provava per Ezio. Conoscevo la sua gelosia per me. Ma quando, maledizione…quando aveva iniziato a pensare come un templare?

Evidentemente, mio padre si poneva le stesse domande. Tre giorni dopo sera mi invitò a raggiungerlo nel suo studio, prima di cena. Lungo le scale avevo sentito addosso lo sguardo di Vanni: sapeva che avremmo parlato di lui, e probabilmente mi stava odiando per questo. Cercai di ignorarlo, e andai avanti.

Inaspettatamente, trovai nello studio anche Rosa. Indossava un abito da donna: io ristetti, incredula. Mia madre si vestiva a quel modo solo nei momenti solenni, o quando stavano per arrivare grossi guai.

“Bianca, tesoro” disse Ezio, alzandosi dalla scrivania per  venirmi incontro. “Abbiamo bisogno del tuo consiglio su una questione. Vedi, tua madre e io avremmo pensato di sposarci.”

“Con chi?” fu la prima frase che mi venne in mente.

Ne convengo, la scena fu alquanto comica: Ezio e Rosa scoppiarono a ridere. Io però non intendevo scherzare. Avevo solo sbagliato domanda. Quello che avrei davvero voluto chiedere era: perché?

In quella primavera del 1505, i miei genitori avevano rispettivamente quarantacinque e quarantaquattro anni. Avevano pacificamente convissuto more uxorio per dodici anni, e tutti al borgo ormai avevano accettato quella situazione. Dicevano di non credere in Dio e di vivere al di sopra –o al disotto, a seconda dei punti di vista – della legge degli uomini. Per quale motivo, d’improvviso, cambiare quello stato di cose?

“Mi dispiace soltanto per quel detto” fece mia madre “Com’era? Quando si sposeranno Ezio e Rosa. Qualcuno crederà che stia per giungere l’Apocalisse.”

“Tu che ne pensi, Bianca?” incalzò Ezio. Io esitai.

“Non basterà” risposi infine.

Li vidi deporre il sorriso. Non sbagliavo, dunque, sui motivi che li avevano spinti a quella decisione.

“Pensate che sposarsi adesso plachi la rabbia di Vanni, ma ormai è troppo tardi. E poi, non potreste comunque riconoscerci, padre. Servirebbe un tribunale ecclesiastico, e voi non siete esattamente il beniamino della Chiesa in questo momento.”

“Siamo preoccupati per tuo fratello” ammise allora Rosa. “Quando non si allena passa tutto il tempo sui libri, ma non permette più a zia Claudia di insegnargli nulla. E’ come se fosse divorato da una febbre…è scontroso, e inquieto. Forse, se ci vedesse finalmente uniti come ha sempre voluto…”

“Hai sentito i suoi discorsi l’altro giorno” aggiunse Ezio. “Tempo fa mi hai detto che non voleva andarsene da Ferrara. Che era infatuato di Lucrezia Borgia.”

“Sono passati anni, padre, e lui era solo un bambino! Anche io…” esitai, sotto i loro sguardi. Non mi piaceva rivangare i miei trascorsi con Cesare, e non ne avevo mai parlato apertamente con loro. “Anche io in quel frangente ho commesso errori. Anche io mi sono fidata delle parole della Borgia, ma era perché non avevo scelta. Io credo che Vanni sia solo molto frustrato. Lo avete visto, in questi anni ha imparato ad arrampicarsi e ogni tanto salta perfino di tetto in tetto…ma non ha mai superato del tutto la paura dell’altezza. Inoltre è il più giovane e inesperto tra i vostri allievi. Si sente poco considerato da voi, per questo vi sfida. Se soltanto gli deste un po’ più di importanza…”

“Tra i miei allievi io non posso fare distinzioni. E poi, Giovanni ha solo dodici anni…”

“Io avevo sei anni quando mi avete portata sul tetto per il mio primo Salto della Fede.”

Rosa scoccò un’occhiataccia a Ezio, il quale subito si giustificò: “Non era mia intenzione farle fare il salto. E’ stata lei a buttarsi.”

“Dovreste dedicarvi di più a lui. Si sente perso, e ha bisogno di essere guidato.”

“Ho sempre creduto…” Ezio esitò, guardò Rosa. “Abbiamo sempre creduto che fosse meglio lasciarvi liberi di crescere, e trovare da soli la vostra strada.”

“E questo con te ha funzionato” avallò Rosa, accarezzandomi una guancia. “Ma forse Vanni ha bisogno di più certezze.”

“Quindi, vi sposerete?”

Loro si scambiarono uno sguardo, e annuirono. “Per noi, le cose non cambieranno, dopo tutto.”

Non so perché, in quel momento realizzai. L’idea mi diede una vampata di commozione che mi tremò nelle guance, minacciando di punzecchiare le mie ciglia con delle stupidissime lacrime. Si trattava di una sciocchezza, ne ero consapevole, e non aveva niente a che fare con il loro amore o la nostra famiglia. Eppure, i miei genitori si sarebbero sposati. C’era qualcosa di tenero, in questo.

“Padre, dite la verità” aggiunsi, per sdrammatizzare “volete sposarvi per costringere mia madre ad accudirvi nella vecchiaia…oh, mamma, non lasciarti accalappiare: sei ancora una donna bellissima!”

Ezio finse di prendersela. “Giovane irrispettosa! Anche io sono ancora piuttosto piacente.”

“Certo, tesoro” avallò Rosa, in tono scherzoso. “Ora andiamo a cena, ti aspetta il tuo semolino.”

Di fronte all’espressione accigliata di mio padre, Rosa ed io scoppiammo a ridere, a spese di un Capo Assassino punto nella sua vanità. In realtà, pensavo anche io che Ezio fosse uno splendido uomo, ma mi piaceva stuzzicarlo e mi guardai bene dal dirglielo.

 

Ezio e Rosa sono sempre stati famosi per fare le cose con calma. Ci hanno messo anni prima di dare sfogo alla loro passione, anni prima di ricongiungersi e formare una famiglia, anni prima di decidere di sposarsi. Per il momento, dunque, decisero di dare con altrettanta calma la notizia ai nostri amici: ci misero all’incirca una settimana prima di avere il coraggio, una volta che i calici erano pieni e tutti scherzavamo allegramente a una tavolata imbandita, di annunciare l’evento.

Le reazioni, naturalmente, furono molteplici. Nicola, Martino e Agamennone furono i primi ad alzare i calici per i loro Maestri; zia Claudia per poco non svenne, e zio Ugo dovette versarle una dose più generosa di Sangiovese per farle riprendere colore. Veronica si unì cortesemente alle congratulazioni, e quel grosso omaccione dal cuore tenero che era Bartolomeo si alzò, facendo traballare la tavola per raggiungere i due futuri sposi e avvolgerli in un abbraccio da orso. Nonna Maria nascose l’emozione dietro una battuta:

“Finalmente, figlio mio, hai capito che c’è dell’altro nella vita oltre la topa[4]!”

A quel punto, zia Claudia ebbe un mancamento per davvero. Gli altri, invece, risero fragorosamente, futuri sposi compresi.

Io osservai la reazione di mio fratello. Curiosità, mista a una cautela diffidente, come una volpe a cui propongano un boccone avvelenato. La sedia che Bartolomeo aveva lasciato vuota tra me e lui mi permise di avvicinarmi. C’era abbastanza clamore nella stanza perché gli altri non ci sentissero.

“Non sei contento? Pensavo fosse quello che volevi.”

“Stupidaggini. Lui non rinuncerà alle altre donne e continuerà a farla soffrire.”

“La mamma è adulta, Vanni. Non devi sentirti sempre in dovere di difenderla. Se quello che ha scelto la rende felice…”

“Questa storia della scelta è un’idiozia. E’…sopravvalutata, ecco.”

“Preferiresti che qualcuno ti dicesse cosa fare?”

Lui si strinse nelle spalle. Aveva un’aria parecchio infelice.

“A volte, sì.”

 

Ezio e Rosa, comunque, non erano dello stesso avviso del figlio, e non si fecero influenzare da nessuno nella loro decisione. Sarebbe stata una cerimonia semplice e povera, da svolgersi al tramonto e senza troppo clamore. Non c’era bisogno, secondo loro, di allertare nemmeno gli altri membri dell’ordine.

“Per quale motivo?” rideva Rosa, quando qualcuno le ricordava che Antonio avrebbe gradito accompagnarla all’altare “per assistere allo spettacolo di due ridicoli vecchietti che giocano a fare i ragazzini?”

Ma non ci fu nulla di ridicolo nella cerimonia, lo posso assicurare. La sua semplicità la rese, anzi, più commovente. La chiesa nella luce del vespro era soffusa di arancioni cupi ed ombre brunite, e disegnava appena i contorni delle loro figure di fronte all’altare.

Ezio indossava, come ci si aspetta da un soldato, la più alta uniforme dell’Ordine degli Assassini, la veste nera di Altaïr. Noi allievi, per l’occasione, avevamo ricevuto la divisa bianca e rossa dei novizi: Vanni ed io eravamo gli unici il cui cappuccio non avesse l’orlo rotondo, ma a punta, a ricordare il becco d’aquila degli Auditore.

Per l’occasione, anche Bartolomeo vestiva una cappa bianca col cappuccio, e come lui zio Ugo. Zia Claudia, nonna Maria e perfino la piccola Lisabetta indossavano abiti bianchi striati di rosso. La veste di mia madre, di un rosso rubino intervallato a tratti da decorazioni bianche, non aveva velo, ma un cappuccio col becco d’aquila.

Forse fu in quel momento che compresi davvero il senso dell’Ordine. Non eravamo una setta, e nemmeno una congregazione; non ci limitavamo a dividere ideali per i quali lavoravamo duramente ed eravamo pronti a morire. L’Ordine degli Assassini, sotto la guida di Ezio Auditore da Firenze, era diventato una famiglia. Tutt’oggi, io non conosco un esercito più forte di una famiglia: in nessuna delle compagnie di mercenari che ho incontrato circola tanta lealtà, generosità, e prontezza al sacrificio.

A conclusione del rito religioso, che per noi aveva ben poco significato, ne celebrammo uno tutto nostro.  

Salimmo sul punto più alto di Monteriggioni, che rimane sempre il tetto della nostra villa. Andammo tutti: perfino Vanni e zia Claudia. Soltanto Nonna Maria era rimasta accanto al carro di fieno, insieme alla piccola Lisabetta. Zio Ugo avrebbe voluto che anche sua figlia eseguisse il Salto della Fede, ma zia Claudia si era categoricamente opposta. Già il fatto che volesse tentarlo lei, in effetti, aveva dello straordinario. Ma, dopo tutto, cosa c’era di straordinario nel giorno in cui Ezio Auditore da Firenze prendeva moglie? L’evento più assurdo tra tutti quelli possibili era appena accaduto.

Ezio e Rosa furono i primi a gettarsi, in una sincronia quasi perfetta. L’abito nero di lui e quello rosso di lei squarciarono l’indaco del tramonto ormai inoltrato. Dopo che furono atterrati nel covone di fieno, li sentii ridere e lanciarsi i loro soliti motteggi. Forse, dopo tutto, era come dicevano loro: le cose non sarebbero cambiate da quel giorno in avanti. Quest’idea mi rassicurava.

Quando toccò a Ugo e Claudia, lei ebbe un momento di panico, e si aggrappò al braccio del marito.

“E’ molto alto” si giustificò, con una punta di alterigia, come a rivendicare il suo diritto di esitare.

Lui le rivolse uno sguardo dolce. “Vuoi che ti prenda in braccio, amore mio?”

“Non dire sciocchezze. Ho anche io il sangue degli Auditore nelle vene.” Si staccò dal braccio di Ugo, prese un profondo respiro e si aggiustò le gonne. Giuro, non credevo che lo facesse davvero. Invece, la zia si buttò.

Certo, appena i suoi piedi si staccarono dal suolo sentimmo un grido isterico che durò per tutta la caduta. E il peggio venne quando atterrò nel carro di fieno. Credo che quella sia stata la prima volta nella mia vita in cui ho sentito zia Claudia esprimersi con parole irripetibili.

“Non è straordinaria, la mia signora?” disse Ugo, facendoci l’occhiolino prima di gettarsi a sua volta.

Quindi, toccò agli allievi.

Agamennone, con l’incuranza che lo contraddistingueva, aprì le braccia e si affidò naturalmente all’aria.

Lo seguì Veronica, fredda: per lei non era certo la prima volta, e ci teneva a ostentarlo.

Nicola si concentrò per un momento, chiudendo gli occhi prima di saltare, quasi si trattasse di un rito per lui.

Martino aveva incoraggiato allegramente tutti quanti, ma al momento in cui, guardando me e Vanni, capì che era arrivato il suo turno, si allargò il colletto nero della giubba.

“Ao’, allora…io me bbutto, eh?”

Mi fregai le mani, per prenderlo in giro. “Hai bisogno di una mano?”

“Nun fa’ scherzi,  Biancare’! Mo’ arivo. C’ho bisogno der tempo mio.”

Il tempo suo si concretizzò in un paio di tentativi goffi di staccarsi dal tetto, subito stroncati da un ripensamento. Dovevo farlo, capite? Altrimenti non avrebbe trovato il coraggio di spiccare il volo, come il suo cuore voleva fare disperatamente.  

Fu una spinta appena accennata. Un nonnulla. Ma bastò per sbilanciarlo e farlo cadere.

Lo so, sono crudele.

Mentre si tuffava, si sentì un disperato: “Ma li mortacci tuaaaaa!”, che mi fece piegare in due dalle risate. Rumore di paglia sfondata, qualche bestemmia, e poi il grido belluino: “A Bia’, si te pijo te sdrumo!”

Mentre mi asciugavo le lacrime di ilarità, mi volsi a guardare Vanni.

“Non lo farò con te, te lo giuro.”

“Io non lo faccio.”

Mi avvicinai a lui, e gli strinsi la spalla per rassicurarlo. “Sei arrivato fin quassù, vuoi tirarti indietro?”

Lui osservò il vuoto sotto i nostri piedi per un momento.

“Io non credo in tutto questo.”

“Vanni, non si tratta di credere o meno. La tua è solo paura.”

A quel punto, mio fratello mi rivolse un’occhiata carica di rabbia, e scostò la mia mano. “Smettila. Non sono più il bambino che umiliavi anni fa.”

Nessuno mai, nella mia vita, ha avuto il potere di ferirmi quanto Vanni. Le sue parole ebbero la forza di un pugno nello stomaco.

“Ti umiliavo? E in che modo?”

“Hai sempre voluto essere la migliore. Ai loro occhi, tu sei la migliore. Ti butti da un tetto a sei anni e dicono: quanto è brava Bianca, ha fatto il Salto della Fede. Ti fai catturare come una cretina dai templari e dicono: povera Bianca, è colpa di Giovanni che non ha dato l’allarme. Anche per sposarsi, perfino per questo…hanno chiesto il permesso a te, sempre a te, tutto a te! Io ne ho abbastanza. Sono stufo di tutto questo!”

Strinsi i pugni. Dov’era finito il bambino che mi difendeva dai templari? Quello che digiunava pur di sapere che ero viva? Dov’era il fratello che credevo di conoscere, e che una volta mi voleva bene?

Adesso, l’ira iniziava a montare anche dentro di me. La sentivo avvampare dal petto e salirmi alle guance.

“Se ci tieni a dimostrare quanto vali, fa’ quell’accidenti di salto. E piantala una buona volta di dare la colpa agli altri della tua incapacità.”

Lo dissi per spronarlo, lo giuro. Solo per questo.

Ottenni l’effetto contrario: Giovanni rinunciò a saltare. “Io non sono come voi” ringhiò, dandomi le spalle con furia. Quindi, rientrò alla villa attraverso l’abbaino.

Cercai di richiamarlo. Non mi ascoltò.

Furiosa a mia volta, mi portai sull’orlo del tetto. Guardai sotto: gli Assassini mi stavano fissando, pieni di aspettativa.

Mi tirai in testa il cappuccio con il becco d’aquila, presi un respiro e, con le lacrime che bruciavano negli occhi, saltai. Nel breve attimo felice in cui il mio corpo rimase sospeso in volo mi parve ancora tutto possibile, e il peso che mi gravava sul petto si alleggerì. Ma appena caddi dentro il fieno profumato, e incontrai i volti degli altri Assassini, capii che non c’era modo di sciogliere quel nodo. Non più.

“Vanni?” fece mia madre, tendendomi una mano per aiutarmi a uscire dal carro. Io scesi, e scossi il capo.

“Ha detto che non ce la fa. E’ rientrato alla villa.”

L’espressione che adombrò il volto di mio padre: Dio, non la scorderò mai. Non era rabbia, nemmeno delusione. Quelle sarebbero state passeggere. No, era tristezza, e della specie più subdola, che ti si ficca sottopelle e non riesci a liberartene finché ogni poro non l’ha assorbita.

“Anche questo è libero arbitrio” commentò, cercando di suonare neutrale. “Andiamo, adesso. Ci aspetta il banchetto.”

La festa proseguì, ma io non riuscii più ad essere allegra come prima. Quell’episodio mi aveva fatto capire che il problema di mio fratello con il Salto della Fede non era una questione di vertigini.

Vanni si rifiutava di affidarsi all’incerto. Non accettava il caso. Non aveva Fede, in niente, in nessuno. Soprattutto, temo, in se stesso: se fosse stato sicuro del proprio valore non avrebbe temuto l’idea di muoversi da solo nel mondo. Una volta credevo di sapere chi fosse, e sotto i suoi difetti e le sue fobie vedevo l’uomo coraggioso che sarebbe diventato. Ora, in lui non vedevo altro che caos, una nebulosa in formazione. Non sapevo se ciò che ne sarebbe uscito mi sarebbe piaciuto: potevo soltanto sperare e avere fiducia in lui.

Pochi giorni dopo il matrimonio di Ezio e Rosa, Bartolomeo ripartì. Si era fermato con noi per tre settimane, ed ora si sarebbe diretto in Umbria. Mio padre gli offrì di restare ancora, ma lui rifiutò gentilmente.

“E’ tempo che torni alla mia Alviano. Pantasilea mi aspetta.[5]

“E chi sarebbe Pantasilea?” scherzai “La vostra daga?”

Bartolomeo alzò un sopracciglio. “No, da quel che ricordo è mia moglie. Anche se, in effetti, è un po’ di tempo che non torno a casa: potrei confondermi.”

Apprendevo quel giorno, con un certo sconcerto, che Bartolomeo era sposato da ben sette anni. Dovette accorgersi della mia sorpresa, perché rise: “Qualcosa non va?”

“Sapete, credevo…per il modo in cui trattate la vostra spada, Bianca…”

“Oh, Bianca non è gelosa di Pantasilea, e Pantasilea non è gelosa di Bianca. Sono due cose diverse.”

“Bigamia?” suggerì Veronica, con un sorriso malizioso. Il condottiero rise.

“In un certo senso. La mia anima di guerriero è con Bianca, ma Pantasilea ha il mio cuore di uomo.” Si grattò la testa, spezzando la solennità del momento. “Quello che ho detto ha un senso?”

“Amor sacro e amor profano” concluse, affascinato, Agamennone. “Maestro, è un peccato che dobbiate andare via così presto.”

Lui calò una mano sui ricci di Agamennone, scompigliandoli. “Tratta bene il tuo amico Giorgio, ragazzo. Verrà un tempo in cui sarà il prolungamento delle tue braccia in battaglia.”

Quel tempo profetizzato da Bartolomeo non era lontano. Nell’inverno a cavallo tra il 1505 e il 1506, giunse da noi la Marchesana Isabella di Mantova, con il nostro primo incarico da assassini.

 


[1] In francese, hénné: pare che all’epoca andasse di gran moda per tingersi i capelli color rosso tiziano, esattamente come fa Veronica.

[2] La scena è pressoché identica alla “presentazione” di Bianca ad Ezio nel videogioco, lo so. Mi piace pensare che Bartolomeo presenti sempre la sua spada in questo modo, a mo’ di firma :)

[3] Nello scorso capitolo, per un errore di fretta, avevo scritto che Nicola usa il fioretto. Ma ciò non è possibile, siccome il fioretto come arma inizia ad essere usato nel secolo successivo. Il rischio anacronismo è sempre in agguato!!!

[4] Per chi non lo ricordasse, mi riferisco alla splendida battuta che Maria rivolge al figlio all’inizio del videogioco. Il dialogo era più o meno il seguente…MARIA: “Dovresti trovarti degli interessi con cui riempire il tuo tempo” - EZIO: “Io ho molti interessi, madre.”- MARIA: “Intendevo: a parte la topa.”

[5] Sì, quell’adorabile pazzo di Bartolomeo d’Alviano era sposato. Pare che nel 1498 fosse alle sue seconde nozze (la prima moglie era una certa Bartolomea, ma non so che fine fece…). 

 

Note di Runa

Eccomi qua! Questa volta ci ho messo parecchio di più del previsto, mi dispiace. Questo capitolo è stato parecchio difficile da strutturare: perfino il titolo è cambiato rispetto alle previsioni. Doveva trattare dei diversi motivi per cui i nuovi assassini cercano vendetta, e invece...beh, quello che è venuto fuori lo avete visto, non so se fosse meglio l'idea originale o questa. Ho scritto pezzi che poi non ho usato, alcuni sono stati definitivamente cassati e altri spostati ai prossimi capitoli...e poi, certo, c'è stato l'EVENTO. Del tutto inaspettato a dire il vero, visto che secondo il mio programma Ezio e Rosa si sarebbero dovuti sposare moooolto più avanti. Perché ho deciso di cambiare? Non lo so, mi sembrava che questo, a livello di maturazione dei personaggi, fosse il momento giusto. So che parecchie persone non amano Rosa, ma non posso farci niente, a me piace ^_^ Agli albori, quando ancora BCP era un'idea imprecisa nella mia testa, avevo pensato di ucciderla al secondo capitolo (sì, quando amo troppo i personaggi tendo a fare questo ^_^) e lasciare a Ezio da solo l'arduo compito di occuparsi di Bianca. Poi ho cambiato idea, non mi ricordo perché. O forse sì. Ma è meglio che non mi dilunghi, tendo a cadere nello spoiler.

Ah, naturalmente le varie motivazioni di vendetta verranno fuori comunque...solo, diluite nei prossimi capitoli, e non tutte concentrate in uno solo. Spero che l'ispirazione mi sia più propizia che in queste due settimane, è stato un inferno ma dovrei aver superato l'incaglio. Nel tentativo di richiamare la Signora Ispirazione, comunque, ho fatto un altro inutilissimo trailer, se vi va di vederlo.

Adesso passo a rispondere alle persone che hanno recensito lo scorso capitolo! ^_^

Ama: Mannaggia, ho paura che Bianca sia scesa di nuovo nella tua scala di punteggi. Si consola pensando che forse Vanni è sceso più di lei ^_^ Però prometto che la giovane Auditore si prenderà le sue rivincite, la sua vita di assassina è appena iniziata! :) Ps: Prima o poi, forse, prenderà in considerazione l'idea di farsi ricrescere i capelli...

LilythArdat: Sono molto, molto contenta che Agamennone ti piaccia, è un personaggio a cui anche io sono molto affezionata e spero che venga fuori sempre di più. E devo dire che anche a me ha sempre affascinato l'idea del gruppo di Assassini, per cui, da quando hanno annunciato Brotherhood, ho iniziato a lavorare all'idea del gruppo, che prima era molto più ridotto. In questo caso, come dice Bianca, è più una grande famiglia che non un ordine con regole prestabilite: d'altronde, non so se giustamente o meno, non riuscivo a vedere Ezio come capo troppo distaccato. Per quanto riguarda l'atteggiamento di Vanni, ammetto che urta immensamente anche me ma...è un passaggio obbligato :)

Miko: Ce l'ho fatta, ho aggiornato! Ed è stato anche grazie ai tuoi costanti incitamenti e splendidi disegni. Ora è notte tarda, ma prometto che da domani li aggiorno tutti dentro la fanfic! La lettera è stata spostata alla fine del prossimo capitolo, e se il mio cervellino bacato non cambia idea dovresti trovarla lì al prossimo aggiornamento. Ora non so ancora bene, ma probabilmente prima del capitolo bonus ce ne sono ancora tre - ci sono un po' di personaggi/sottotrame/casini infiniti da gestire, ma non mi sono dimenticata, lo giuro! Mi farò perdonare del ritardo. Ps: povero Vanni...ho paura che i consensi siano crollati a picco... 

Sheba_Ema94: Che bello, anche a te piace Agamennone! ^.^ Mi sento quasi una mamma orgogliosa, eheh. Ma sai che mi hai inquadrato perfettamente i nuovi assassini in appena un aggettivo? Sono in sollucchero! Certo, la povera Veronica non ha dato il meglio di sé nemmeno a questo giro, ma spero che recuperi nei prossimi capitoli. Almeno adesso sappiamo che sa combattere :) Ps: per quanto riguarda i periodi storici che non c'entrano nulla uno con l'altro non preoccuparti, non è insolito: i miei preferiti sono gli inizi dell'Impero Romano, appunto il Rinascimento e il 1800. Cosa li accomuna? Ah, forse ora che ci penso una vaga somiglianza nel vestiario...guarda te come agisce l'inconscio! :)))

Mividam: ciao! Che bello vedere che hai recensito anche Bianca, ho letto i tuoi commenti a Candore e risponderò non appena riuscirò a sistemare il prossimo capitolo ^_^ Ti ringrazio per i complimenti ma ancora di più per la critica, perché mi ha spinta a riflettere molto sul personaggio. In effetti, la dualità che tu rilevi in Vanni credo derivi dal doppio sguardo di Bianca su di lui. Da una parte c'è la Bianca che agisce e vede solo il suo fratellino a cui vuole bene, dall'altra la Bianca che racconta e conosce già ciò che è accaduto nel futuro. Inoltre, finora non ho avuto occasioni per mostrare questa caratteristica, ma sono convinta che Bianca sia una narratrice inaffidabile. Ci racconta un po' quello che pare a lei, e a volte è portata a difendere il fratello a spada tratta, forse ricamando un po' o interpretando certi suoi comportamenti in una maniera che non corrisponde poi alla realtà. Comunque le parole che hai usato per descrivere Vanni sono così mirate che le ho riutilizzate nel capitolo: caos è il termine perfetto per comunicare ciò che prova lui in questo momento :) Spero che vorrai seguire ancora questa storia!

Josie_n_June: anche a te piace Agamennone, fantastico! A questo punto ho sul serio i cuoricini agli occhi. Ti ringrazio moltissimo per le belle parole su Bianca, in effetti devo dire che sto improvvisando parecchio e non sono mai sicura del risultato. Quando ho iniziato mi pareva quasi di non averle dato personalità, con il fatto che era piuttosto piccola e fungeva più che altro da binocolo perché il lettore potesse osservare gli altri personaggi. Poi piano piano è emerso qualcosa di più definito nella mia testa, ma tutt'oggi, se dovessi definire l'impronta caratteriale di Bianca, farei veramente tanta fatica a trovare aggettivi! Forse è la prima persona che mi frega, ma d'altronde è la mia tecnica preferita perché mi consente di divagare parecchio in riflessioni. E poi, con la terza persona faccio sempre un sacco di cambi bruschi di punto di vista, o faccio sentire troppo la mia voce come autrice, perciò per questa stramba avventura che è la mia prima longfiction ho deciso di stare più "comoda" nella prima.  Ah, e Veronica...lo sto ripetendo sempre, lo so...prometto che diventerà più simpatica!!!

JaydenAuditore: carissima, innanzi tutto scusami se non ho risposto alla tua recensione nello scorso capitolo: il caso ha voluto che la postassi praticamente mentre io postavo il nuovo capitolo, e ho pensato di rispondere a entrambe le recensioni direttamente in questo. Sono contenta che ti sia piaciuto il discorso di Teodora e Bianca nel cap.14, sto amando il loro rapporto particolare, quasi madre-figlia per certi versi.Per quanto riguarda il taglio di capelli, che ci vuoi fare, è tipico di noi donne quando vogliamo cambiare qualcosa che non ci piace nella nostra vita! Qualcuno mi dice che lo fanno anche gli uomini, non saprei...mio fratello se li rasa a zero perché non ne ha e il mio moroso li taglia solo quando ha caldo XD Ma divagazioni personali a parte, i capelli sono anche un simbolo di forza e rinnovamento, e in molte culture tagliarli ha un significato di rigenerazione, dono votivo etc...ora che ci penso lo faccio fare spesso alle mie protagoniste, devo stare attenta a non ripetermi troppo! :)

Cartacciabianca: che gioia vedere che sei riuscita a metterti in pari con i capitoli, sentivo seriamente la tua mancanza. Il disegno di Martino, inutile dirlo, mi ha fatto sbellicare: giustamente non gli avevo ancora fatto dire la mitica "ma li mortacci tua", e ho deciso di rimediare prontamente a fine capitolo! Sono proprio felice che ti piaccia l'evoluzione del rapporto di Bianca con i due uomini più importanti della sua vita, non è stato facile per me descrivere il riavvicinamento con Ezio, quasi come non è facile descrivere questo allontanamento da Vanni. E' una situazione emotivamente dolorosa pure per me, e spero porti a qualcosa. Ringrazio io te per la carica che mi dai con le tue recensioni e anche con i disegni... mi piacerebbe aggiungere sia Bianca e Cesare sia Martino dentro i capitoli della fanfic, posso? Ovviamente con i dovuti credits! =D

Scusate, forse data l'ora e il rincoglionimento non ho detto "Grazie" a tutte ma spero sappiate che è sottinteso: ogni recensione, di complimento o critica che sia, mi riempie di gioia. 

Ora vorrei proprio fare un riassunto della prossima puntata, ma brancolo un po' nel buio. Sappiate solo che ci sarà un cattivone da assassinare, e probabilmente un indizio che condurrà a...un fantomatico oggetto, nascosto in un sotterraneo bolognese. E preparatevi perché in questa storia, ebbene sì, c'entrerà pesantemente Dante Alighieri. E naturalmente qualche canto che io amo molto dell'Inferno. E sappiate pure che questa follia ha generato anche un prequel, con Dante protagonista. Il suddetto prequel, se mai riuscirò a vedere la fine di questa fanfic-highlander (e chi se lo aspettava sarebbe diventata così lunga quando ho iniziato???), scriverò dopo Bianca. Anche se...sto pensando pure al sequel. Raga', qualcuno mi fermiiii!!! La mia fangirlitudine non ha limitiiii!!!

Per ora chiudo con gli sproloqui. Al prossimo capitolo e grazie di essere passati! :)

 

Laura.

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Capitolo 17
*** La Prima Vittima ***


La Marchesana arrivò a Monteriggioni in incognito, come quasi tutti quelli che si recavano da noi. Venne a cavallo, senza carrozze, scortata da pochi uomini di fiducia e senza alcun segno visibile del suo potere. Perfino i capelli dorati erano nascosti sotto un velo nero, senza ricami né fregi.

Mio padre mi aveva raccontato di avere avuto un altro mecenate importante nel passato, Lorenzo il Magnifico: ma il suo metodo consisteva di solito nel convocarlo da lui a Palazzo della Signoria, o nell’assegnargli incarichi tramite piccione viaggiatore. Non si era mai spostato per cercarlo.

Eppure, quella mattina, era corsa da noi una delle guardie che presidiava la porta della città, interrompendo l’addestramento proprio mentre mio padre ci stava insegnando a lanciare più pugnali simultaneamente. La guardia aveva detto, un po’ agitata,  che una bella signora giungeva da Mantova con il suo seguito e chiedeva ospitalità. La donna aveva lasciato un messaggio, quattro parole latine che la guardia biascicò, storpiandole orribilmente. Nonostante ultimamente avessi trascurato il mio latino per gli addestramenti – con mio sommo dispiacere, come potete ben immaginare -, riuscii comunque ad afferrarle.

Nec spe, nec metu. Né con speranza, né con paura.

La mascella di mo padre si irrigidì.

Senza darci ulteriori spiegazioni, Ezio ci chiese di farci trovare nell’atrio della villa, e di allertare subito gli zii, la nonna e mia madre perché facessero altrettanto.

Il prestigioso ospite fu accolto con tutti gli onori: la marchesana di Mantova fece il suo ingresso come una regina, guardandosi brevemente intorno con aria inquisitoria, prima di piantare quel suo sguardo acuto su ognuno dei nostri volti. Il velo nero calò sulla chioma bionda, scoprendo un intrico di trecce raffinate e boccoli che cadevano sapientemente sulle spalle.

“Mia signora” esordì mio padre, inchinandosi per baciarle l’anello. “Cosa vi porta nella mia umile casa?”

Lei sorrise, ma con una certa superiorità, come una padrona che si rivolga al suo servo più fedele.

“Sono venuta a osservare il frutto dei miei investimenti. Ho notato che le fortificazioni sono state rinforzate, avete acquistato nuovi cannoni.”

Mio padre si rialzò da terra e annuì. “Benché ora la minaccia dei Borgia si sia dissolta, o così parrebbe.”

“Ci sono altre minacce all’orizzonte, amico mio: ed è per questo che sono qui. E’ possibile parlare in privato, mentre la mia scorta si ristora?”

Ezio ci fece un cenno per domandarci di lasciarli soli. Condusse la Marchesana nel laboratorio, seguito soltanto da Ugo che era ormai diventato il suo braccio destro. Mentre mia nonna e mia zia davano disposizioni perché la scorta fosse alloggiata nei quartieri che zio Mario aveva un tempo destinato ai suoi mercenari, io osservai Isabella Gonzaga che mi passava accanto, le mani intrecciate in grembo.

Inaspettatamente, la donna volse appena il viso, scoccandomi un’occhiata interrogativa. Vidi un lampo di riconoscimento in lei. Forse per la soggezione che mi incuteva, o forse per dimostrarle che sì, ero la stessa ragazza che aveva incontrato alla corte di Lucrezia Borgia, eseguii un perfetto inchino femminile, che stonava non poco con la calzamaglia nera e l’ampia camicia da uomo che indossavo.

La vidi accennare a un ghigno, e poi proseguire per la sua strada verso il laboratorio. Come a dirmi: interessante cambiamento, ti terrò d’occhio.

D’istinto, sorrisi anche io. Quella donna, con tutta la sua altezzosità da nobile consapevole del proprio casato, non riusciva a non piacermi.

“Non è giusto, dovremmo ascoltare anche noi ciò che si diranno” sbuffò Veronica.

Nicola scosse il capo. “Il Maestro ci spiegherà ciò che dobbiamo sapere.”

“Che corrisponderà a metà di ciò che dovremmo sapere per davvero” mugugnò Vanni. Agamennone annuì, pensieroso: per una volta era d’accordo con mio fratello.

“Aò, e se 'nvece li ascortamo de nascosto?”

Feci per assentire alla proposta di Martino, quando sentii tossicchiare qualcuno alle mie spalle. Mia madre, accidenti. Aveva sentito tutto.

Con le braccia al petto e la voce ferma, Rosa disse:

“Ezio mi ha dato l’incarico di proseguire l’addestramento finché sarà impegnato con la marchesana.”

Non mi lasciai intimidire. “Siamo o non siamo una famiglia? Se c’è un pericolo per l’Ordine dovremmo essere i primi a sapere.”

“Potrete sentirlo direttamente da Ezio e da Ugo, questa sera a cena.”

“Madre, questo non è giusto.

“Tutto è lecito, se ricordo bene. Coraggio, al lavoro, scansafatiche.”

Un paio d’ore ci separavano dal calare del sole. Mia madre ci fece sudare come Ezio non si era mai nemmeno lontanamente sognato di fare: credo di aver corso sulle mura di Monteriggioni per almeno trenta volte, avanti e indietro. E quando dico sulle mura, non intendo certo sui camminamenti. Naturalmente, il giro completo comprendeva la scalata di ogni torrione fino in cima, e la relativa discesa – secondo le preferenze, con salto o con una più sicura ma non meno complicata calata lungo la parete di mattoni del torrione.

A sera, eravamo distrutti, con i muscoli doloranti e fradici di sudore, e ancora non sapevamo niente di ciò che gli Alti Ranghi e la Marchesana di Mantova si erano detti.

L’incontro, ci dissero una volta che fummo riuniti a tavola, non era ancora terminato. Appresi da mia nonna che Ezio, Ugo e madonna Isabella si erano fatti portare qualcosa da mangiare nel laboratorio.

“Di cosa discuteranno tanto a lungo?” mormorai, quasi a me stessa. Agamennone, accanto a me, scosse la testa leonina.  

“Filosofia?”

A quel punto, Martino si stiracchiò teatralmente sulla sedia, protendendosi verso di me.

“Me sa che dopo cena me faccio ‘na bella passeggiata ner cortile” bisbigliò. “Chi viene con me?”

Non esitai nemmeno per un istante a dire di sì. Agamennone storse la bocca, il che, se lo conoscevo abbastanza, corrispondeva ad un assenso.

Udii Veronica, di fronte a me, che bisbigliava:

“Mi toccherà seguirvi, per impedire che veniate scoperti.”

“O abbiamo problemi di mosche” disse d’improvviso mia madre, a voce inusitatamente alta “oppure qualcuno qui si sta comportando in maniera molto maleducata.”

Io cercai di nascondere l’imbarazzo dietro un sorriso. “L’ho sempre detto: abbiamo bisogno di gatti.” Un breve silenzio. “Per cacciare le mosche. Sarebbero una vera manna.”

Se fossi stata la figlia di zia Claudia sarei stata mandata a letto senza cena per la mia insolenza. Fortunatamente, mia madre ha sempre rivisto nella mia sfacciataggine il lato che amava di più in mio padre, e non ha mai sentito il bisogno di punirmi per questo. Anche quella volta non mi guadagnai più di un generico rimbrotto sul fatto che ero proprio una Auditore, fatta e finita. Ormai, su questo punto nemmeno zia Claudia osava più dissentire.  

 

Inutile specificare come riuscimmo a incontrarci, noi quattro congiurati, nel cortile della villa, un’ora dopo cena. Dopo tutto, eravamo allievi assassini: dire bugie convincenti ai nostri compagni di stanza, sgattaiolare nei corridoi o calarsi senza far rumore da una finestra aperta costituivano l’abc delle tecniche che avevamo appreso.

Per quanto riguarda Veronica e me, la scena fu abbastanza comica se vista dall’esterno. Lo fu meno per me, che mi ero offerta di calarmi per prima lungo il muro. La mia consorella, infatti, era piuttosto goffa come scalatrice, e finì che più di una volta il suo piede si appoggiò sulla mia testa.

“Vuoi fare attenzione?” sibilai.

“E’ colpa della tua testa dura, somiglia a una roccia.”

“Per la cronaca, nemmeno tu mi piaci.”

“Tu invece sei molto divertente. E’ così facile farti arrabbiare!”

Sì, da quasi un anno andavamo avanti punzecchiandoci a quel modo. Nonostante a quel tempo Veronica avesse il potere di mandarmi su tutte le furie, devo ammettere che quello stuzzicarsi continuo era immensamente divertente anche per me. Era un modo come un altro per riuscire a interagire senza manifestare palesemente la mia antipatia per lei. All’epoca, pensavo che due come noi non potessero fisiologicamente andare d’accordo, perché  eravamo troppo diverse. Non avevo ancora scoperto quanto, in realtà, ci somigliassimo.

Comunque, dopo qualche altro piccolo incidente riuscimmo finalmente a raggiungere il cortile. Trovammo Agamennone e Martino ad aspettarci in una chiazza di buio, avvolti nelle cappe invernali.

Se Nicola e Vanni avessero sospettato della loro fuga, non ne ho idea. Immagino che uno abbia voluto chiudere un occhio, e che all’altro non importasse poi molto.

“Che cosa avete raccontato?”

Martino mi strizzò l’occhio. “Che c’avevamo da incontrasse co’ du’ belle madamiggelle. Che poi, è pure ‘a verità.”

Con quell’affermazione cercò di far scivolare un braccio attorno alla mia vita; con noncuranza, gli pestai un piede. Lui cacciò un lamento soffocato.

Feci cenno agli altri di seguirmi: l’arcata che conduceva allo studio di zio Mario era stata serrata con scuri di legno, perché il freddo degli ultimi giorni dell’anno non invadesse la villa. Tuttavia, c’era un punto, sotto la terza arcata della piccola loggia di pietra, in cui le parole pronunciate della stanza accanto rimbombavano, amplificate. Ciò accadeva per qualche miracolo della tecnica architettonica, che zia Claudia aveva vanamente cercato di spiegarmi a più riprese negli anni. A me è sempre interessato molto di più l’effetto della causa: il mio vizio di origliare era invitato a nozze da quello straordinario padiglione.

Udimmo, per prima, la voce della Marchesana.

“Questi sono gli atti d’acquisto, lo vedete. La firma è del vecchio Ettore Bucelli. Morto sei mesi fa, di febbri terzane.”

Secca risata ironica. Ezio. “Un modo educato per dire cantarella.”

Isabella, di nuovo. “Può darsi. Non è certo un caso se ora il bordello è gestito dalla sua disperata vedova.”

Si intromise la voce di Ugo, fredda e chiara, come se leggesse un documento ufficiale. “Elena Bucelli, nata Nardi. Vent’otto anni. Originaria di Ferrara, si è sposata con il ricco gioielliere fiorentino Ettore Bucelli all’età di sedici anni. E’ caduta in povertà subito dopo la morte del marito, e appena sei mesi dopo è diventata la cortigiana più influente di Firenze.”

“Sciocchezze” lo contraddisse Ezio. “Esercitava già da prima, anche se non ufficialmente. La Volpe sostiene che si vendesse nei bordelli in incognito, con una maschera sul viso. Era comunque conosciuta nell’ambiente, per questo il Mirto di Venere ha guadagnato tanti clienti in poco tempo.”

“Ho fatto fare delle ulteriori ricerche” intervenne a quel punto la Marchesana. “Le mie spie mi dicono che il vecchio Bucelli era soltanto usato come prestanome. Sarebbe stato l’amante di Elena a comprare lo stabile per fondarci il Mirto di Venere.”

Dal loro tono, avevo intuito che non fossero soli nella stanza. Era come se stessero spiegando a qualcuno tutti quei dettagli. Quel qualcuno doveva aver parlato, anche se a bassa voce, perché la Marchesana aggiunse:

“Una vecchia conoscenza, purtroppo. Si tratta di Ercole Strozzi.”

Sentii i miei nervi tendersi d’istinto, e la mascella serrarsi. Strozzi, il poeta zoppo di Lucrezia Borgia. Uno degli uomini che mi aveva rapita da Monteriggioni e portata alla corte di Ferrara.

Credevo di essere sconvolta dalla notizia; ma quando mi volsi, e vidi le labbra di Veronica strette in una smorfia di collera, capii che non ero l’unica a covare del risentimento per quell’uomo.

“Ha detto Strozzi, vero?” sibilò la mia consorella. Io annuii. Lei non disse altro, ma si fece più vicina per ascoltare meglio.

Inaspettata, si intromise la voce di mia madre. “Non capisco perché dovremmo preoccuparci tanto di questo bordello templare. Abbiamo la nostra base nella Rosa Colta, e Camilla si è dimostrata brava quanto sua zia Paola nel gestirla. La nostra rete di spie è più solida e radicata di quella di questa Elena.”

Fu Isabella a risponderle. “Il problema è ben più grave, purtroppo. Guardate le carte. Guardate dove sorge il Mirto di Venere”.

Una pausa. Nessuno stupore nella voce di Rosa. “La Torre dei Giuochi[1], nel distretto di Santa Margherita dei Cerchi. Dovrebbe dirmi qualcosa?”

Seguì l’intervento un po’ acido di una donna, che, dopo un’iniziale esitazione, riconobbi come zia Claudia. Che ci facesse lì, non avrei saputo dirlo.

“E’ l’edificio più vicino alla casa di Dante Alighieri. O meglio, alle sue macerie.”

Seguì un silenzio grave.

“Quello che la Marchesana sospetta” spiegò Ezio, raccogliendo la parola dopo il mutismo generale “è che i templari stiano cercando qualcosa di molto importante. Un carteggio, tra Dante e sua moglie, Gemma Donati.”

“E avrebbero bisogno di fondare un bordello per rintracciarlo?” obiettò mia madre. Ugo replicò:

“E’ un ottimo modo di presidiare il quartiere e raccogliere informazioni dai clienti. I loro uomini tengono lontani i nostri informatori: la Volpe dice che abbiamo avuto due morti questa settimana, e tra i suoi allievi migliori. Questa Elena non è una donna da sottovalutare.”

“C’è una cosa che non capisco in tutto questo” fece zia Claudia “Il vero Dante è morto prima del 1290[2]. E’ una nozione comune tra gli Assassini. L’ha lasciato scritto il nostro antenato nella Cripta Auditore, Ezio: non ricordi?”

L’interpellato rispose, sicuro: “Se così fosse, perché i templari darebbero la caccia a delle false lettere? Deve esserci una spiegazione. Forse Domenico Auditore non conosceva tutta la verità. Forse quel messaggio è stato scritto per depistare qualcuno.”

“Bene,” intervenne di nuovo Rosa “ammettiamo che Domenico Auditore si sbagliasse, e che questo Dante sia vissuto più a lungo del 1290. Cosa dovrebbe esserci scritto di così importante nelle lettere?”

Ezio prese un respiro. Con voce solenne e bassa, disse: “La collocazione di un terzo frutto dell’Eden.”

Ci guardammo tra di noi, sconcertati. Sapevamo, dagli insegnamenti di mio padre, che la Mela e il Bastone non erano gli unici manufatti sopravvissuti della cultura superiore che aveva plasmato quella umana, e tuttavia non ci aspettavamo – ingenuamente, oserei dire - che gli Assassini e i Templari li stessero cercando.

Ma certo, tutto era chiaro. Il Bastone era nelle mani dei Templari di Giuliano della Rovere, il nuovo papa; la Mela era nelle nostre. I templari ribelli che avevano seguito Lucrezia Borgia dovevano necessariamente procurarsi un’arma di pari valore, ora che avevamo portato via loro la Mela e che non possedevano più l’esercito di Cesare né i finanziamenti di Rodrigo per venirsela a prendere. Avevano bisogno di quel terzo frutto, per poter competere su un fronte con i loro rivali, e sull’altro con noi.

“E adesso, miei cari spioni, potete anche entrare e dirci cosa ne pensate.”

La voce chiara e sicura di Ezio rimbombò sotto l’arcata, causando in me e nei miei compagni un brivido freddo. La porta di legno che serrava l’ingresso al laboratorio si aprì: con un ghigno, zio Ugo ci fece cenno di entrare.

Umiliati e sconfitti, facemmo il nostro mesto ingresso nel laboratorio, tutti e quattro a occhi bassi.

Nonostante la situazione profondamente imbarazzante, la voce di mio padre aveva dentro un sorriso quando disse: “Se aveste aspettato, razza di sciocchi, vi avremmo mandati a chiamare per spiegarvi tutto.”

Alzai gli occhi. Era vero: nella stanza c’erano anche Vanni e Nicola, zitti e impettiti di fronte a quella riunione così solenne che perfino la mecenate degli Assassini era presente. E ora il centro dell’attenzione eravamo noi, gli allievi disubbidienti che si erano comportati peggio di un gruppo di scolaretti curiosi.

Volevo sprofondare. Avevo dimostrato a Nicola di non essere altro che una sciocca ragazzina impulsiva. Mi preoccupavo di cosa avrebbe pensato di me, adesso, ancora di più di quanto mi preoccupassi del giudizio dei miei genitori o della Marchesana Isabella.

No, forse quest’ultimo punto non è del tutto vero. Del giudizio della Marchesana Isabella mi importava moltissimo.

Per questo fui stupita quando la donna, contro ogni mia aspettativa, sorrise benevola.

“Hai addestrato bene i tuoi allievi, Ezio. Applicano l’arte dello spionaggio con molto zelo.”

Dopo quel commento, ci sentimmo tutti vagamente più rilassati.

Ezio iniziò a spiegarci la strategia che avevano elaborato in quelle ore insieme a Isabella. C’erano tre fronti da coprire: il primo, riguardava le ricerche su Domenico Auditore e Dante Alighieri. Cosa c’era di vero nell’attentato di Ravenna, in cui il nostro antenato aveva scritto che Dante Alighieri era perito? Per scoprirlo, Ezio aveva intenzione di mettersi sulle tracce di Domenico stesso. La città prescelta per l’inizio delle ricerche era Venezia, da cui il nostro antenato aveva iniziato il suo viaggio. Ugo e Rosa erano ragionevolmente i candidati migliori per esplorare quella città che conoscevano come il loro palmo.

Dopodiché, veniva Siena. Si sapeva dagli atti notarili che Gemma Donati si era rifugiata presso alcuni parenti in quella città quando il marito era stato esiliato da Firenze. Non era un caso se anche la casa in cui era vissuta in quegli anni risultava acquistata da Bucelli, sempre pochi giorni prima della sua morte. Le lettere potevano trovarsi anche in quel luogo: un altro covo templare da estirpare.

Infine, Ezio aveva bisogno di quattro persone a Firenze, per due bersagli: Elena Bucelli ed Ercole Strozzi.

Mio padre ci squadrò severamente. Infine, indicò con un cenno Vanni e Nicola.

“I bravi ragazzi con me, a Siena. Gli spioni andranno a Firenze.”

Quella scelta inaspettata mi mise in petto l’euforia. E io che mi aspettavo di essere esclusa dalla missione! Sui volti dei miei compagni lessi lo stesso incredulo stupore.

“Premi proprio gli indisciplinati?” fece Rosa, scuotendo il capo.

“Oh, non preoccuparti. Non saranno senza un supervisore…li affido alle mani della Volpe.”

Ezio sorrideva con una punta di sadismo: perché le sue parole suonavano tanto come una minaccia?

 

Arrivammo a Firenze in poco meno di una giornata di cammino: per non dare nell’occhio, avevamo pensato di entrare in città separatamente. Ezio aveva deciso che Veronica andasse con Martino, mentre io avrei seguito Agamennone.

Durante l’intera durata del viaggio, il mio amico era stato nervoso. Non rispondeva alle mie domande, nemmeno a quelle che riguardavano i problemi logistici del viaggio. Rigirava ossessivamente le briglie del cavallo tra le dita, canticchiando tra sé e sé. Se avevo imparato qualcosa su di lui, era che Agamennone non cantava mai per la contentezza.

Accostai il cavallo al suo.

“Che ti prende?”

Lui interruppe per un attimo il suo mugugno canterino.

“Cosa intendi?”

“Non mi sembra che tu stia molto bene.”

“E’ la mia prima missione. Sono nervoso. Non sei nervosa?”

“Sì, ma io non canto.”

“Saranno arrivati prima di noi? Io credo di sì. Li troveremo già alla Rosa Colta.”

“Parli di Martino e Veronica? Penso che si attarderanno qualche ora, sono partiti dopo di noi. Forse li vedremo solo a sera…sempre che non decidano di fermarsi lungo la strada.”

“Fermarsi? Perché?”

“Be’, Martino ci proverà sicuramente con lei. Sono indecisa su come gli risponderà Veronica. Da come ammicca tutto il giorno, non credo si dimostrerebbe troppo avara con le sue grazie.”

Agamennone avvampò, e distolse lo sguardo. Nonostante stesse per compiere diciassette anni, era puro come un bambino riguardo certe questioni.

“Il tempo si fa nuvolo” constatò, prima di ricominciare a canticchiare più ossessivamente di prima.

Io mi strinsi nelle spalle, dopodiché persi interesse per le sue stranezze. In lontananza la cupola di mattoni rossi di Santa Maria del Fiore svettava più alta delle mura, come ad attirarci verso di sé. Stavo per mettere piede per la prima volta in vita mia nella città che aveva dato i natali a mio padre, la culla dell’Umanesimo e della civiltà moderna, dove la storia degli Auditore si era intrecciata con quella dei Borgia, per la prima volta e inestricabilmente.

 

Ogni passo, da Porta San Miniato fino a Santa Croce, mi provocò meraviglia e stupore. Il ricordo di Venezia era sbiadito nella mia memoria, ma ero certa non potesse reggere il confronto. Ferrara, poi, non era nemmeno paragonabile allo spettacolo che offriva Firenze.

La magnificenza dei palazzi. La ricchezza degli abiti dei passanti. Il numero impressionante di balconate grondanti d’edera e fiori. Mi chiesi quale brivido avrei provato nel correre su quei tetti, magari inseguita dalle guardie cittadine. Ecco come Ezio aveva trascorso la sua giovinezza. Ecco dove aveva scoperto la sua ascendenza, e aveva intrapreso il cammino dell’Assassino.

Mi pareva quasi di vederlo saettare sui tetti, quando ancora non sapeva nulla del destino che lo attendeva e si arrampicava a quel modo solo per raggiungere le stanze di un’amante.

Cercai di figurarmi, in base ai ritratti che avevo visto a Monteriggioni, il volto di zio Federico. Lo immaginai insieme a mio padre, impegnato in qualche scorribanda notturna, con il sorriso ancora sulle labbra rosse e la vita stretta nella mano. Ezio diceva spesso che, se fosse vissuto, sarebbe stato un assassino formidabile, di certo migliore di lui.

La sorte non è stata gentile con la mia famiglia, e nemmeno quella città lo era stata, dopo tutto. Eppure ne subivo il fascino in una maniera disarmante, come se avvertissi il suo richiamo nelle vene.

“Continua a camminare” fece Agamennone a voce bassa. “Quelle guardie ci stanno fissando.”

Gettai un’occhiata oltre le falde del cappuccio bianco. Sì, un gendarme si era voltato per osservarci, ma era subito tornato a discorrere con i commilitoni di donne e bisbocce.

“Sei paranoico.”

“E’ da quando siamo entrati in città che mi sento osservato.”

“Siamo ancora lontani da Santa Maria dei Cerchi. Non possono aspettarsi il nostro arrivo.”

Agamennone annuì, ma la sua espressione concentrata faceva apparire quell’assenso come una negazione. Si calcò meglio il cappuccio, e accarezzò distrattamente la corda di Giorgio, che portava sulla spalla per praticità.

Quindi, si infilò in un vicolo, costringendomi a seguirlo.  Fece un cenno verso l’alto.

“I tetti. E’ più sicuro.”

Non so perché gli diedi retta. Forse, ero semplicemente esasperata del suo strano atteggiamento, e lo avevo assecondato pur di non sentirlo più lamentarsi.

La scalata fu più dura del previsto: valutare distanze e solidità degli appigli su facciate sconosciute non era come arrampicarsi sui muri famigliari di Monteriggioni. Tuttavia, la vista mozzafiato che si presentò davanti ai nostri occhi ripagò la fatica.

La luce sbiadita del pomeriggio invernale tendeva già verso la sera. Firenze, dal’alto, pareva stendersi senza veli sotto di noi: ci ammiccava nella sua sconfinata bellezza, invitandoci a scoprire i suoi segreti. Accarezzai l’antibraccio che conteneva la mia lama celata, mentre un senso di commozione mi allagava il cuore. In quel luogo, in quel giorno, la mia vita da Assassina aveva inizio.

“Ehi, voi, scendete subito!”

Non avevamo calcolato che le guardie della Repubblica non erano amichevoli quanto quelle di Monteriggioni. Guardai l’arciere, che, dal pinnacolo di fronte a noi, stava per incoccare.

“Giù, ho detto!”

Guardai Agamennone.

“Che facciamo?”

Lui mi afferrò la mano.

“Corriamo!”

La prima freccia si ruppe dove pochi istanti prima era stato il mio piede; la seconda mi sibilò vicino, mancandomi di poco il braccio. La terza arrivò fin troppo vicino alla gamba di Agamennone. Dal tetto di fronte, due guardie si erano allertate, ed erano pronte a raggiungerci con un balzo. Ci fermammo, schiena contro schiena. Agamennone incoccò e puntò Giorgio contro l’altro arciere. Io estrassi i pugnali da lancio, per affrontare i due armati di spada che ci stavano correndo incontro.

Cercai di ricordare il momento in cui Ezio mi aveva spiegato la tecnica del lancio multiplo.

Gambe leggermente flesse. Pugnali stretti tra la prima e la seconda falange. Calibrare la carica da imprimere al braccio, valutare la direzione. Niente vento. Stingere gli occhi per mettere a fuoco il bersaglio…dannazione alla poca luce, dovrò fidarmi dell’istinto.

Tirare.

Non dimenticherò mai gli occhi del primo uomo che ho ucciso. Si consumò tutto in un istante, ma è quell’ unico istante che ha, effettivamente, cambiato la mia vita. Lui sbarrò le palpebre, si portò la mano al petto, si accasciò come un sacco vuoto. Rantolò un nome che non capii. Forse aveva bestemmiato Dio.

Non avevo tempo di osservarlo spirare, perché il secondo dei miei pugnali non era andato a segno. Mentre l’arciere rantolava, colpito dalla freccia di Agamennone, non mi fermai a pensare. Mi avventai sul secondo soldato, saltai afferrandogli la gola e lo inchiodai a terra, trapassandogli la giugulare con la lama celata.

Le armi sono fatte per versare sangue. E’ logico, è naturale. Nel sangue stesso c’è un odore ferroso che già rimanda a questo destino. Sulle prime, quando estrassi la lama celata, non provai nulla. Né raccapriccio, né esaltazione.

“E’ morto?” fece Agamennone, in apparenza freddo quanto mi sentivo io.

Annuii. Anche il soldato che avevo atterrato con il pugnale da lancio non si muoveva più-

All’età di sedici anni, avevo finalmente ucciso la mia prima vittima.

Un rumore secco ci fece volgere simultaneamente verso il comignolo più alto. Una figura piccola e incappucciata si stagliava sulla sua sommità, e ci batteva le mani, mentre il suo mantello si agitava nel vento.

“Ottimi riflessi. Sarebbe stato meglio passare inosservati, ma nel combattimento ve la siete cavata abbastanza bene.”

Strinsi i pugnali da lancio, e Agamennone incoccò un’altra freccia.

“Chi sei?”

“Un alleato.”

“Dicci il tuo nome.”

Lei – la voce, benché il suo timbro fosse basso e caldo, era chiaramente femminile – scosse il capo.

“Non ne ho uno. Mi chiamano La Volpe.”

Con quelle parole, saltò sulle tegole del tetto, e si alzò in piedi. Nella luce del giorno che si affievoliva riuscii a distinguere alcuni tratti del suo volto.

Era decisamente una donna. Una piccola, minuta donna, con incredibili occhi viola incastonati in un volto perlaceo. Sopracciglia ben disegnate, espressione autoritaria. Una ciocca di voluminosi capelli neri sfuggiva al cappuccio marrone.

“Be’, che fate lì impalati? Dobbiamo decidere cosa farne dei cadaveri.”

“La Volpe…non puoi essere tu” mormorai, interdetta.

Lei non si scompose, e andò a estrarre il mio pugnale da lancio dal cadavere. Me lo porse dalla parte del manico. “Tieni, non sprecare munizioni preziose. Questi affari costano un occhio della testa.”

“Io ricordo La Volpe, l’ho incontrato. Era un uomo…un uomo anziano!”

La donna incappucciata mi prese la mano e mi costrinse ad afferrare il pugnale. Sorrise, con quegli incredibili occhi viola: l’unica parte del suo corpo che corrispondesse ai miei ricordi sul fantomatico ladro fiorentino.

“La Volpe non ha sesso e non ha età. Ezio non ve l’ha detto? Io sono immortale, e posso prendere ogni forma che voglio.”  Quindi, si strinse nelle spalle. “Vi condurrò sani e salvi da Camilla. Prima però dobbiamo liberarci di questi ragazzacci. C’è una torretta abbandonata lassù, vedete?”

Non mi fidavo, ancora.

“Dimostraci che sei un’Assassina.”

Lei sbuffò, teatralmente. La nostra diffidenza in qualche modo la divertiva.

Ci porse la mano sinistra, si tolse il grosso anello d’oro che teneva all’anulare. Sotto il gioiello era nascosta l’ustione che era il segno dell’iniziazione all’Ordine.

“E adesso volete aiutarmi con questi sacchi di carne, per favore? Al prossimo cambio della guardia i loro compagni verranno a cercarli.” A quel punto, non ci restava che obbedirle.

Ci caricammo ognuno in spalla un cadavere, e fu allora che appresi il significato delle parole a peso morto. Il breve tragitto parve un’eternità: fui felice di poter scaricare il morto nella torretta di legno.

La Volpe si fregò le mani. “Bene. Le tenebre sono calate, ma se mi starete abbastanza vicini i mostri cattivi non vi prenderanno. La Rosa Colta non è lontana, andiamo.”

“Aspetta.”

Mi chinai sui due uomini che avevo ucciso. Passai le dita sui loro occhi per serrare le palpebre. Non avrei avuto sempre tempo per quelle finezze, in battaglia: lo sapevo. Ma la prima vittima è la prima vittima, e bisogna onorarla a dovere.

Perciò, mormorai:

Requiescant in pace.”

Notai distrattamente che il sangue mi si stava raggrumando intorno alle unghie, e impregnava il mio abito bianco.

Quel giorno puzzavo di morte come mai nella mia vita.

 


[1] Non mi risulta che nella Storia abbia mai ospitato un bordello ma…su qualcosa dovevo per ricamare XD

[2] Per chi, come la sottoscritta, non avesse potuto esplorare la Cripta Auditore e apprendere questa sconvolgente verità, vi rimando alla pagina di Assassin Wiki – mia salvezza per il reperimento di informazioni che mi sfuggono: l’antenato di Ezio, Domenico Auditore, veniva da una un'umile famiglia di Marinai, e suo padre era al servizio di Marco Polo. Il suo maestro e iniziatore alle tecniche Assassine fu Dante Alighieri: purtroppo, il Sommo Poeta fu ucciso dai templari a Ravenna prima del 1290, e la storia del suo esilio da Firenze – a seguito del quale iniziò a scrivere la Divina Commedia - fu una loro manipolazione della realtà. A me questa versione della storia non va giù per un semplice motivo: chi avrebbe scritto la Divina Commedia se non Dante? Perciò ho voluto cambiare le carte in tavola, la Ubisoft mi perdoni…ma dopo tutto le fan fiction non esistono anche per questo? ^_^ Comunque ecco il link per chi volesse approfondire: http://assassinscreed.wikia.com/wiki/Domenico_Auditore

 

Note di Runa

Eccomi qua. Volevo mettere un sacco di cose in più in questo capitolo, che probabilmente è più corto del solito...ma se affrontassi il nuovo nucleo tematico che mi aspetta diventerebbe decisamente elefantiaco, quindi ho optato per questa soluzione. Come vedete Bianca ha ucciso per la prima volta (alleluja, alleluja), Agamennone è sempre più fuori di zucca, Ezio è impazzito nel voler mandare i più sconsiderati tra i suoi allievi a Firenze da soli, e La Volpe ha cambiato sesso XD Un capitolo sconvolgente! :PPP Vabbè, direi che il mistero della Volpe non è insolubile. Ecco, lei è un personaggio che non avevo previsto, e che si è ficcato in questa storia a forza, contribuendo ad allungarla a dismisura. Ormai non faccio più previsioni sul futuro numero di capitoli perché tanto le sballo sempre...pensate che il capitolo sulla missione a Firenze doveva essere uno, e probabilmente diventeranno tre..."Fratelli di Lama" e "La Fede di un Assassino" all'inizio li avevo pensati come un capitolo solo...sob, questa fanfic lievita come il pane. E' colpa dei giovani Assassini, mi prendono troppo la mano! Sgridateli!!!! 

Scherzi a parte, spero che la faccenda di Elena Bucelli sia chiara, è stato faticoso spiegarlo attraverso una conversazione origliata. Proprio per questa difficoltà di gestione non ho voluto appesantire il dialogo con una spiegazione dettagliata dei rapporti intercorsi tra Domenico Auditore e Dante Alighieri, e ho cercato di riassumere la loro storia in una nota per renderla più comprensibile a chi non conoscesse questa parte di ACII. Come avevo promesso/minacciato, l'Alighieri ha fatto il suo maestoso ingresso nella mia umilissima storia...e non sono riuscita a evitare l'ingresso di un terzo frutto dell'Eden. Ci ho provato, strenuamente e disperatamente, ho lottato fino alla fine, lo giuro...ma poi mi sono resa conto di averne bisogno nella trama e sono capitolata. Direi che questo colloca definitivamente la fanfic nei "What if" ^_^

Il prossimo capitolo, "Cicatrici", ci spiegherà finalmente le motivazioni di Veronica, e vedrà entrare in scena Elena Bucelli - in pratica, nemmeno a dirlo, la Cortigiana del multiplayer di Brotherhood. Ci inoltreremo nella Firenze dei luoghi di Dante, parleremo con Camilla, la nuova proprietaria della Rosa Colta, vedremo Bianca in vesti insolite e...girerà un po' di ormone finalmente, e che diamine. Riuscirà La Volpe ad evitare che i giovani scapestrati assassini combinino guai - e, soprattutto, che questa fanfic diventi un teen-drama? :P

 

Ringraziamenti

Ama: Ma sai che adoro le pagelle che fai ai personaggi? Ormai fremono tutti in attesa del tuo giudizio! XD Quasi quasi ti faccio rispondere direttamente da loro! BIANCA: "Grazie, maestra Ama. Mi impegnerò sempre di più per risalire nella vostra stima!"  VANNI: "Cosa vuoi? Lasciami in pace, odio, il mondo, nessuno mi capisce, sono piccolo e nero!!!" AGAMENNONE: "Peccato che il tuo arco non ti sussurri il suo nome. Secondo me ha la faccia da Lucilla." NICOLA: "Sto solamente compiendo il mio dovere. Per rispondere alla vostra domanda, sono nato il 5 Settembre dell'Anno del Signore 1484, quindi in questo momento nella storia ho 21 anni - e vado per i 22." EZIO: (con baciamano conturbante) "Grazie, bella madamigella." ROSA: (schiaffeggiando la mano di Ezio) "A cuccia, marito. Va' a tavola che ti ho fatto servire il tuo semolino." MARTINO: "Aò, e io? Nun te piaccio proprio?" VERONICA: "Bah. Non ho bisogno dell'approvazione di nessuno."  IO: "Ehm...i tempi di aggiornamento sono di Vostro gradimento? Per favore non scudisciarmi!!!" ^_^;;;;

CartacciaBianca: Ammappa, per quanto io cerchi di documentarmi sulla storia italiana rinascimentale sei sempre più avanti di me! :) Mi sa che durante la stesura del Bianca-romanzo ti stresserò per farmi passare la tua bibliografia e chiederti se non sto facendo sfondoni....per ora il progetto è ancora lontano, ma se volessi aiutarmi a completare la mia (ancora scarsa) conoscenza del periodo sarei veramente felice, dico sul serio. Tornando più strettamente al tuo commento, e nello specifico al "dubbio"...eheh. Nicola è molto carino, ed è il sogno di ogni fanciulla. Per ora è praticamente un Gary Stu, diciamocelo. E...la cosa potrebbe essere fatta apposta. Forse.  I risvolti sentimentali cominceranno dal prossimo capitolo (o sono già cominciati?) e rischieranno seriamente di far sfociare questa fanfic in un telefilm adolescenziale...io e la mia preziosissima beta-reader l'abbiamo soprannominato "Assassin's Creek" :P Cercherò di ricordarmi comunque di tutte le altre cose secondarie (trama, ideologie, sviluppi psicologici, eventi e personaggi storici, uccisioni, lame celate...un nonnulla, per citare Bianca), ma che ci posso fare, adoro creare coppie su coppie ^_^ E per quanto riguarda Vanni...uh, risvolto interessante quello che mi prospetti. Apriamo un'altra scommessa? :) Invece, per la domanda che mi fai sul romanzo, la risposta è, ahimè...assai poco. Sicuramente tanti momenti spensierati sarebbero banditi, e anche della protagonista si perderà senz'altro il lato più allegro. Alcuni personaggi tornano, ma sotto forme diverse. Sta diventando, nella mia mente, completamente un'altra storia, con tutt'altro finale e setting. Eppure il pensiero di quei personaggi mi fa comunque battere il cuore, e finché sarà così penso varrà la pena portare avanti il progetto...in queste differenze dalla fanfic trovo uno stimolo immenso :)))

Josie_n_June: La profondità con cui hai analizzato il personaggio di Vanni mi commuove, sul serio. Hai anche messo in luce un aspetto che finora non avevo considerato, il fatto che lui non ha scelto di nascere Assassino e si sente schiacciato da questo "fato" indesiderato. Un po' come Desmond, in effetti, che è scappato dall'isolamento a cui i genitori Assassini l'avevano costretto. Queste considerazioni mi saranno utilissime per approfondire ulteriormente il personaggio, ti ringrazio davvero.  Per quanto riguarda il Principe Azzurro Assassino...hihihi, ho immaginato Nicola in calzamaglia bianca e rossa, gli calza proprio a pennello!! Noto che nella partita per il cuore di Bianca quello che riscuote più consensi di pubblico è Agamennone...dato statisticamente interessante. Eheheh, però bisogna vedere che cosa ne dicono le stelle :P Ah, ora che ho tirato in ballo Dante spero di non fare cavolate. Come te, lo adoro, e cercherò di non rendere indegna la sua partecipazione a BCP (curioso: come per la tua fanfic, anche per la mia sarà importante il fatto che Dante abbia scritto 34 canti nell'Inferno, invece di 33 come nelle altre cantiche ^_^) Ps: A quando AC Revolution? Io fremo!!!

LilythArdat: Uh, non parlarmi di scogli universitari: sto passando un periodaccio con la tesi...ma perché i prof non vogliono farti laureare? E dire che l'Università la paghiamo parecchio, eh! ^_^ Sono felicissima che ti sia piaciuto il trailer, quando perdo un po' di entusiasmo riascolto quella canzone e mi torna la carica per scrivere! Conoscevo i 30 seconds to Mars solo per The Killing, che ho amato fin dalla prima volta che l'ho sentita: poi, per caso, ho trovato su youtube alcune canzoni del nuovo album e mi sono innamorata...ora dovrò necessariamente ricostruire tutta la loro discografia, oltre a piacermi mi ispirano un casino! Riguardo la storia, invece, ti confesso che ultimamente sto improvvisando proprio tanto. E dire che avevo programmato le cose per bene...poi bussano alla porta nuovi personaggi e nuove idee, e sono punto e accapo! Mannaggia all'ispirazione, ehehe. Per quanto riguarda invece le immagini, posso rimandarti a qualche tentativo di fotomontaggio - quello di Nicola è fatto con i piedi, lo riconosco, ma rende quanto meno l'idea del tipo ^_^ Eccoli: Veronica - Nicola - Martino . Al prossimo aggiornamento allora! XD

Sheba_Ema94: Bwahaha, scusa, sto ancora ridendo per quella della freccia...e sai qual è il peggio? Che se la dicessi ad Agamenny, credo si limiterebbe a guardarti con quei suoi occhioni senza cogliere un'acca! XD Quel ragazzo ha bisogno di una donna, decisamente. Le parole irripetibili di zia Claudia? Credo abbia offeso tutti i propri antenati assassini fino all'alba dei tempi, e naturalmente non ha risparmiato qualche santo :) Uddiu, povera Veronica, la odiano tutti. Spero si riscatterà, ne ha passate tante per comportarsi in maniera tanto antipatica ^_^ Per quanto riguarda la nuova missione...eh, non è ancora entrata nel vivo, lo so. Mi sono un po' persa nel racconto dei tetti di Firenze,ma sai com'è...è forse la cosa che ho amato di più di AC II, poter vedere la splendida Firenze dall'alto! Ho voluto rievocare un po' le emozioni che ho provato io nel giocare, e mi sono "lasciata bere"...ok, dal prossimo capitolo, più azione! Promesso! :)

Miko: Per fortuna, almeno a te piace Veronica! Iniziavo a disperare, eheh. No, scherzi a parte so che il loro rapporto è solo all'inizio, ed essendo complesso è giusto che passi anche per la forte antipatia...però mi risollevi comunque. La tanto sospirata lettera è rimandata di un altro capitolo...no, non mi uccidere, non mi uccidere, ti prego...aaaaaaaaaaaaaaargh! :P  Prometto che arriverà, così come il capitolo bonus - di cui non posso ancora svelare nulla. Eheh, il paragone di Vanni con un emo mi ha fatto sorridere...in effetti anche lui adesso è bloccato nella tristezza e nel rancore. Sicuramente Bembo e Lucrezia l'hanno plagiato, ma come direbbe Ezio...la sua volontà era già debole. Riguardo Cesare e Bianca, tu sai che io ADORO il loro rapporto, e siccome adoro anche i tuoi disegni sono ben felice se vorrai farne ancora su di loro! ^_______^

JaydenAuditore: Cavolo, questa fanfic mi sta procurando un sacco di proposte di matrimonio. Peccato siano solo di ragazze :P eheheh, a parte gli scherzi, sono felicissima di averti fatto ridere...sapessi io, stavo piegata in due sul "Li mortacci"...E sono molto felice che ti sia piaciuta l' "uniforme" assassina, per me era un modo di mostrare la loro unione spirituale :) Per ora l'adrenalina non è ancora molta...cercherò di rifarmi nel prossimo capitolo, promesso!

Archangel: Ciao, innanzi tutto grazie mille per aver deciso di recensire e anche per l'entusiasmo, non ci hai messo molto a metterti in pari con i capitoli! XD Per quanto riguarda la tua domanda...non vuoi veramente una risposta, vero? XD Almeno, non da me in questo momento...posso promettertene una solo se avrai voglia di continuare a seguire Bianca&Co. Ti prego solo di portare pazienza perché gli aggiornamenti non saranno serrati come durante l'estate :( Se avessi più tempo lo dedicherei con gioia alla fanfic, ma a settembre ricominciano gli impegni lavorativi e universitari, ahimè..spero comunque che avrai la voglia di leggere ancora ^_^

 

Chiudo con un'idea malsana. Maaaaaa...dunqueeee...voi sapete che questa storia è a rating arancione (e così resterà)...però mi manca non poter descrivere le scene piccanti delle varie coppie (cioè, ma voi ve la immaginate Claudia in intimità? Una Dominatrix!!!). E così...pensavo...ma se facessi una storia a parte a rating rosso, che raccolga i vari episodi piccanti di Bianca&Co? Ecco, l'ho detto. E ora mi nascondo nel mio angolino e medito sulla mia perversione...

Al prossimo aggiornamento, un bacione, e grazie!

 

Laura.

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Capitolo 18
*** Donna di virtù ***


Quando arrivammo alla Rosa Colta, con le sue rose rampicanti e il giardino pensile che rappresentava l’unica insegna poco chiassosa, La Volpe ci fece cenno di guardarle le spalle.  Noi ubbidimmo. La strada era deserta. Lei bussò.

Ci venne ad aprire una giovane serva, che appena riconobbe il volto sotto il cappuccio marrone si profuse in un inchino, e ci fece accomodare nel salottino dell’anticamera. Uno dei divanetti rossi di gusto orientale era già occupato da due vecchie conoscenze.

Non credevo che sarei stata tanto felice di vedere i miei confratelli: c’eravamo lasciati da poche ore, ma era confortante sentire l’abbraccio dell’Ordine in un luogo estraneo.

"Aò, ce n'avete messo de tempo. Ancora 'n po' e stavamo a facce er nido quaddentro."

Martino azzittì subito, appena notò le macchie di sangue sui miei abiti.  L’espressione di Veronica tradì per la prima volta una certa ansia, mentre guardava me, e poi Agamennone.

“Templari?”

Scossi il capo. “Solo guardie.”

Evitai di specificare che era stata l’ossessione di Agamennone a provocare quell’incidente, ma lui sembrava aver già dimenticato il malumore e la tensione. Appena aveva visto che i nostri compagni erano arrivati prima di noi, si era illuminato di colpo.

La morte che aveva inflitto, forse perché era arrivata da lontano, non aveva lasciato segni evidenti sul suo volto. Io, invece, solo adesso iniziavo a rendermi conto di ciò che avevo fatto, e ripensavo alla mia reazione immediata, alla freddezza con cui avevo agito. Mi disgustava molto più dell’odore di sangue.

In uno slancio di premura, Veronica si alzò e mi prese le mani. Nei suoi occhi scuri lessi una ferma dolcezza, quasi comprensione. Si rivolse alla servetta che ci assisteva.

“Bianca ha bisogno di un bagno e di vestiti puliti. Possiamo parlare con la padrona di questo posto?”

La Volpe ammiccò, indicandoci la scalinata che conduceva al piano superiore. “Basta chiedere.”

La prima cosa che apparve di Camilla furono le scarpe, zeppe alte che le cortigiane indossavano per mostrare il loro status. Poi, risalendo, la gonna spaccata sul davanti, color giallo zafferano, che mostrava le lunghe gambe; sotto indossava corti pantaloni a sbuffo, e calze dai ricami dorati.

Del suo viso, notai subito la forma rotonda e la bocca piccola, che mi risultavano piuttosto estranei. Ma gli occhi, allungati, scuri, drappeggiati di ciglia nerissime, appartenevano decisamente a sua zia: la grande Paola, la cortigiana più celebre di Firenze e Assassina in incognito, morta ormai cinque anni prima. Mi commossi perché Camilla le somigliava, e perché non le somigliava abbastanza da essere scambiata per lei.

“Benvenuti, amici miei. La Volpe” disse quindi, chinando la testa di fronte alla donna dai capelli neri “Sono lieta vederti in salute.”

Con fredda cortesia, la Volpe annuì.­ Non ricambiò il complimento.

Camilla si rivolse di nuovo a noi. “Abbiamo molte cose di cui parlare: ma è già sera e siete stanchi per il viaggio. Per ora, vi chiedo soltanto di riposare.”

Prima che Camilla ci mostrasse le stanze che ci aveva riservato, sentii una grande mano sulla spalla. Mi volsi. Gli occhi neri di Martino mi fissavano, preoccupati.

“A Biancare’, tutto apposto, sei sicura?”

Sorrisi.

“Non preoccuparti, va tutto bene.”

Lui annuì, come a dire che non ne era troppo convinto, ma mi avrebbe creduto.

Pensai che ero fortunata ad avere tante persone che si preoccupavano per me. Quando aveva iniziato la sua avventura in mezzo alla morte e al sangue, mio padre era solo.

 

Veronica mi aiutò a fare il bagno, quella sera: si prese cura di me come una madre. Io accettai quelle attenzioni, un po’ stranita. Non mi sentivo così fragile da avere bisogno di tante cure, e tuttavia intuivo che quel piccolo rito era qualcosa di cui era lei ad avere bisogno. Per questo, la lasciai fare.

Si fece raccontare l’uccisione delle guardie. Ascoltò ogni parola, e poi sospirò.

“So come ci si sente. Il mio primo omicidio…Dio, non lo ricordo certo con piacere.”

“Come è successo?”

La vidi prendere rapidamente il grigio cinereo dei morti. Mi sfregò la pelle con più energia.

“Non vuoi saperlo davvero.”

“Non te lo chiederò più, se non vuoi.”

Per la prima volta percepii, in Veronica,  un senso di incertezza. Vacillava, indecisa se aprirmi o meno il suo cuore. Da una parte, intuivo che le stavo abbastanza simpatica da indurla a fidarsi; dall’altra, qualcosa la bloccava.

“Per rivestirti non hai bisogno di aiuto, vero?”

Lasciò la spugna e mi porse un telo, da avvolgermi intorno al corpo. La camicia bagnata[1] mi aderiva addosso; Veronica rispettò il mio pudore e non accennò a guardarmi mentre mi asciugavo e infilavo la camicia asciutta. Poi mi lasciò davanti al fuoco, perché mi asciugassi anche i capelli. Si sdraiò sul letto e non disse più una parola. Io finsi di credere che fosse addormentata.

Poi, d’improvviso, lei ruppe il silenzio.

“Avevo una sorella.”

Non volevo spaventarla con troppe domande, ma nemmeno lasciar cadere il discorso. Perciò, in tono gentile, chiesi: “Più piccola di te?”

“Più grande, di tre anni. Ma vedi…lei era così fragile. Nel corpo, ma soprattutto nella mente. Ero io a prendermi cura di lei, in un certo senso.”

Aspettai, prima di formulare la domanda.

“Come si chiamava?”

“Isotta.”

“E’ stato Strozzi a ucciderla?”

La risposta di Veronica tardò tanto, che mi chiesi se non avesse iniziato a piangere. Invece, avvicinandomi, vidi che fissava il soffitto con espressione violenta, un pugno che stringeva le coperte e l’altro che torturava la camicia da notte, all’altezza dello stomaco. 

“Per questo, e per molto altro…io avrò le sue palle su un piatto d’argento, fosse l’ultima cosa che faccio.”

Mi sedetti sul bordo del letto, e le tesi la mano. Lei mi guardò, stupita.

“Se mi permetterai di farlo, sarò molto felice di aiutarti.”

Veronica esitò un momento. Poi, sorrise.

“Biancarella, tu sei troppo buona per essere un’assassina.”

“E tu sei troppo imbranata nell’arrampicarti per essere un’assassina. Ognuno di noi ha i suoi punti deboli, come vedi…sorella.”

Adesso capivo il dolore che le attraversava gli occhi nel sentire pronunciare quella parola. Ecco perché, all’inizio, l’aveva rifiutata. Ecco perché non voleva entrare nella nostra famiglia.

Eppure nei mesi trascorsi insieme a noi, qualcosa forse era cambiato; perché, alla fine, Veronica accettò la mia mano.

 

Il giorno successivo approntammo un piano d’azione. Il bordello rivale si trovava nel distretto di San Marco, non lontano da Santa Croce. Si era deciso che Martino e Agamennone, opportunamente camuffati con abiti da viaggiatore, avrebbero risieduto per qualche giorno in una taverna non lontana dal Mirto di Venere, e ne sarebbero diventati clienti per studiare la situazione dall’interno. Veronica e Camilla si erano incaricate di ispezionare Santa Croce: l’ultimo alleato della Volpe era stato ucciso praticamente sul sagrato, era possibile che avesse scoperto qualcosa di troppo.

La Volpe scelse me per accompagnarla in una corsa sui tetti: il nostro obiettivo era la piccola chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, dove era sepolta Gemma Donati, la moglie di Dante. Forse nella sua tomba avremmo trovato qualche indizio. Dovevamo essere guardinghe: il Mirto di Venere non era lontano. Esisteva la possibilità che i nostri nemici fossero arrivati prima di noi.

Mentre ci arrampicavamo sui muri in un vicolo poco frequentato, io lottavo contro la mia curiosità sulla vera identità della mia nuova alleata. La Volpe non aveva sentito il bisogno di spiegarsi o chiarirsi ulteriormente; se mi conoscete, dovreste sapere ormai che non mi accontento delle mezze verità. Perciò, tornai alla carica non appena fummo arrivate sui tetti.

“Non sei realmente lui, vero?”

Lei si strinse nelle spalle. “Oh, abbiamo un genio qui.”

“Che gli è successo?”

“Era già vecchio quando tuo padre aveva diciassette anni. Secondo te che gli è successo?”

“C’è una leggenda diffusa per tutta la Toscana. Dicono che La Volpe sia immortale, e che possieda il dono dell’Ubiquità.”

Lei rise, arrampicandosi agilmente su un comignolo. “Dicono questo, davvero?”

Feci una rapida valutazione. Fisicamente era molto minuta, ma il suo bel viso dimostrava almeno trent’anni. Era plausibile, dopo tutto.

Mi aggrappai a un comignolo lì vicino, ansimando. Avevo un buon fiato, solitamente, ma non mi era mai capitato di fare conversazione durante un’arrampicata. Dovevo sbrigarmi: la Volpe era già saltata sul tetto di fronte. Riuscii a raggiungerla.

“Sei sua figlia?”

“No, è che gli occhi viola te li danno in dotazione con la cappa e il cappuccio. Ma ti senti quando parli? Perché non metti un punto affermativo alle tue sciocche domande e mi risparmi questo ridicolo interrogatorio?”

“Va bene. E’ solo che, visto che dobbiamo collaborare, mi piacerebbe conoscere il tuo nome.”

Lei si appostò dietro un abbaino, studiando la situazione.

“Nemmeno da morta” disse, prima di uscire di nuovo allo scoperto. Le stetti dietro a fatica, arrampicandomi sulle travi scricchiolanti di un cantiere.

“Andiamo, sono tua alleata! Non lo andrò a spifferare in giro.”

Ero consapevole di quanto irritante fosse il mio comportamento, e confesso che la situazione mi divertiva alquanto.

Feci per stuzzicarla ancora, quando con un gesto secco la Volpe mi fece capire che non era il momento delle chiacchiere. D’istinto, mi abbassai.

Mi indicò la figura di donna che stava entrando nella piccola chiesa deserta. Il velo nero sui capelli pareva alquanto ipocrita, visti gli ampi spacchi delle gonne viola.

“E’ Elena” bisbigliò la Volpe.

Feci scattare la lama celata, impaziente di affondarla nel collo dell’amante del mio odiato Ercole Strozzi. La mia compagna scosse il capo.

“Seguiamola. Vediamo dove ci porta.”

Scendemmo sul lato orientale dell’edificio, per non farci notare. Ci calcammo i cappucci sulla testa, ben attente a non alzare lo sguardo sulle persone che distrattamente ci passavano accanto. Infine, entrammo nella minuscola chiesa.

Le pareti erano lisce e spoglie, a esclusione di un semplice crocefisso di legno sulla parete. Riverso sul pavimento, c’era un prete, con la gola squarciata e la faccia affondata nel sangue. Ai piedi del piccolo altare di pietra si era aperto un buco, come quelli che a volte celano botole e graticci, che dava nel buio più totale. Guardai meglio l’altare: sul fianco che dava verso i fedeli c’era l’effige di un teschio ribaltato.

Poteva trattarsi di una delle leggendarie Tombe dell’Assassino, di cui mi aveva parlato mio padre?

“Siamo incredibilmente fortunate oggi. Andiamo.”

Con quelle parole, la Volpe scavalcò il cadavere e si gettò nel buco. Più titubante, io la seguii fino all’orlo dell’apertura. Guardai sotto, e presi un respiro. Sarebbe stato perfino più difficile di un Salto della Fede. Si trattava di gettarsi nel buio totale, e pregare di toccare il fondo prima o poi.

L’incoscienza, lo sapete, è sempre stata la mia più grande virtù. Per questo, mi tuffai.

Dopo una caduta più lunga di quanto mi sarei aspettata, finii in acqua; come approccio, non mi piacque affatto. Mi ricordavo ancora fin troppo bene le acque salmastre del fossato di Ferrara; quelle, forse perché sotterranee, parevano un pelo più pulite.

Emersi scuotendo la testa, con il cappuccio incollato al viso. La Volpe era alcune bracciate avanti a me, mi indicò la grata bassa, e si immerse per passarvi sotto. Io presi fiato, e la imitai.

Riemersi aspirando una generosa sorsata d’aria. Decisamente, nuotare non mi piaceva, soprattutto con la testa sott’acqua.

“Sembra un antico acquedotto” constatò la Volpe, quasi tra sé e sé. “forse una fogna romana.”

Oh, fantastico. Mi ero appena immersa in un miscuglio di schifezze millenarie.

La mia compagna di avventura mi fece un cenno: dovevamo nuotare ancora, per mia somma gioia, e ripercorrere il budello. Della donna che ci aveva preceduto non c’era traccia.

Seguii la Volpe, confidando che i suoi occhi viola, come voleva la leggenda, potessero veramente vedere nel buio e attraverso i muri.

La nuotata mi parve interminabile, ma a un certo punto, finalmente, nella volta bassa sulle nostre teste si aprì uno spazio circolare, da cui filtrava una fioca luce.

Ci saremmo dovute arrampicare sui grossi battenti tondi in ferro che frastagliavano la parete del pozzo. La Volpe mi aiutò a salire, dando la spinta al mio piede perché potessi arrivare al primo battente; quindi, salii quel tanto che bastava per tenderle la mano e aiutarla a mia volta. Le vesti da Assassino, di solito così leggere, mi pesavano addosso, impregnate d’acqua com’erano.

Sbucammo in una sala strana, che pareva antica. Un’apertura sul soffitto dovuta ad un crollo lasciava filtrate un po’ di luce fumosa. C’erano colonne crollate accatastate le une sulle altre, e resti di marmi, insieme a pavimenti di mosaico mancanti di molti pezzi. Una grande vasca, come quelle delle terme antiche, occupava quasi l’intera superficie della sala: il mosaico sul fondo ritraeva due simboli degli Assassini, neri in campo bianco, speculari: i vertici superiori si toccavano, parevano quasi il prolungamento uno dell’altro. Forse un tempo quello era stato un luogo di ritrovo per i nostri antenati latini.

Un rumore di meccanismi e ingranaggi pesanti cessò, nel momento in cui ci avvicinammo alla vasca.

C’era una leva alla nostra destra: dalla sua catena cigolante proveniva il suono che avevamo sentito.

“E’ un meccanismo a tempo” disse La Volpe.

“A che serve?”

“Lo vedremo subito, tesoro.”

Con quelle parole la donna spinse con tutte le sue forze la leva di legno verso il basso: i meccanismi ripresero a cigolare, la catena a gemere.

Dal pavimento della vasca si innalzarono improvvisamente otto cilindri metallici, che si alzavano e abbassavano a velocità differenti e apparentemente irregolari. Dal buco sul soffitto scese lentamente una pertica, dalla cui estremità fuoriuscì un manubrio.

“Non sembra impossibile” dissi, muovendomi per gettarmi alla scalata dei cilindri. La Volpe mi prese per un polso.

“Aspetta.”

Raccolse un coccio di mosaico spezzato, lo gettò dentro la vasca. Appena toccò il pavimento, spuntoni acuminati lunghi quanto il mio braccio saettarono fuori, ritraendosi pochi istanti dopo.

Bene. Non era ammessa alcuna possibilità di errore, a quanto pareva.  

“Tu mi aspetterai qui” fece la Volpe.

“Non se ne parla.”

“Sei solo una novellina. Se ti riporto a tuo padre piena di buchi sospetto che non sarà contento.”

“Se ce l’ha fatta quella cortigiana templare posso farlo anche io.”

Togliendosi il mantello bagnato di dosso, La Volpe scosse il capo corvino. “Non essere sciocca, piccolina. Piuttosto, se vuoi essere utile guadagnami del tempo e tieni spinta la leva.”

Incrociai le braccia al petto. “Se vuoi essere sicura di riportarmi a casa senza buchi, spingila tu la leva. Io ti seguirò comunque, lo sai.”

La stavo sfidando apertamente, senza abbassare gli occhi dai suoi, così incredibili che, lo ammetto, era faticoso reggerne il peso. Ebbi quasi l’impressione che mi stesse scrutando sotto la pelle, per capire se sarei arrivata fino in fondo.

Infine, accennò a un ghigno, e senza commentare ulteriormente andò a tenere premuta la leva, perché la catena che muoveva gli ingranaggi nascosti rallentasse il più possibile.

Io osservai per un attimo il movimento delle colonne di metallo. Erano dieci: due stavano al centro della vasca, una dietro l’altra; le altre parevano essere poste in qualche modo in prospettiva, anche se il loro movimento irregolare mi confondeva. In apparenza non c’era una sequenza fissa nel loro abbassarsi e alzarsi, ma notai che quelle al centro erano solo leggermente sfasate tra loro. Raramente, invece, il loro movimento si accordava a quello delle altre otto.

Guardai le prime quattro. Quella immediatamente alla mia destra era la più veloce: la più interna era più lenta, come quella alla mia sinistra. La quarta, anch’essa interna, era una sorta di via di mezzo. Mentre mi chiedevo se avrei fatto meglio a iniziare da quella più veloce o dalla più lenta, improvvisamente le colonne formarono ai miei occhi una figura.

Un triangolo, la cui base era formata dal lato della vasca.

Ma certo, come avevo potuto non pensarci prima: la disposizione dei due simboli degli assassini avrebbe dovuto guidarmi. Le colonne erano disposte come due triangoli, con il vertice superiore in comune.

Nel momento breve in cui le otto colonne formavano un triangolo, erano tutte allineate alla stessa altezza. Accadeva all’incirca ogni trenta secondi; poi la colonna all’angolo sinistro della vasca, dal lato opposto a quello in cui mi trovavo, si innalzava più veloce per circa cinque secondi. Da là sopra avrei potuto saltare e raggiungere il manubrio. Si trattava soltanto di tempismo.

Per darmi forza, feci scattare a vuoto la lama celata e la rinfoderai rapidamente. Pensai per un folle istante che avrei voluto chiamarla Mario, come il mio vecchio zio.

Anche se non era il momento adatto, un sorriso mi si disegnò sul volto.

Ero pronta.

 

Salto sul cilindro più vicino. Mi butto sul più lento: atterro a piedi pari, resto acquattata e attendo altri quindici secondi. Sarà un attimo. Dovrò coglierlo. Subito.

Ecco, tutto è allineato. Salto sul cilindro centrale, poi sul penultimo. Ho ancora un istante prima che il triangolo si sfaldi, devo aggrapparmi all’ultima colonna.

Tento, o no?

Sì.

Ma qualcosa va storto. Sono in ritardo. Non poggio tutto il piede sul prossimo cilindro, ma solo la punta. La stretta delle mani è incerta. Scivolo.

Sento l’imprecazione della Volpe che si lancia al mio salvataggio. Ma sono stata svelta, mi sono aggrappata al bordo del cilindro con le braccia e le gambe. Puntello le suole degli stivali; non posso cadere, dannazione, non ora.

Quando la mia compagna mi raggiunge, i cilindri sono di nuovo tutti allineati, ed io sono riuscita a sollevarmi sull’ultimo. Le tendo la mano perché anche lei faccia altrettanto. Poi il cilindro schizza verso l’altro, mentre la catena ticchetta, tornando lentamente sui suoi passi. Se sbagliamo, non avremo possibilità di tornare indietro. La nostra avversaria sarà già uscita con il tesoro. Di fronte a noi, il manubrio ci aspetta.

La Volpe mi stringe il polso un istante, come per darmi il tempo.

Ho già capito.

Saltiamo, aggrappandoci una al lato sinistro del manubrio, l’altra al destro. Sotto il nostro peso, l’asta cede leggermente. Un altro ingranaggio viene attivato; i cilindri rientrano dentro il pavimento, mentre sul muro prima liscio alle nostre spalle si apre una cripta.

L’esaltazione brucia come acquavite dentro le vene. Ho superato la mia prima Tomba dell’Assassino.

 

Perdonatemi. E’ stato come rivivere quei momenti: l’esaltazione e la paura si dividono il mio cuore in questi casi, ed io perdo il filo della narrazione.

Dentro alla cripta, naturalmente, c’era la cortigiana, china sul sarcofago di marmo di Gemma Donati come se stesse per aprirlo. Non so se si aspettasse la nostra venuta, ma fu svelta a spararci contro mentre eravamo ancora appese al manubrio. Fortunatamente non aveva una buona mira.

Cambiai presa alle mani, e senza aspettare il comando della Volpe presi lo slancio per tuffarmi dentro la cripta. Rovinai addosso alla cortigiana, atterrandola. La vidi in volto per la prima volta.

La sua era una bellezza obliqua e letale. Occhi verde veleno, sbiechi, dalle ciglia folte; lineamenti fini, profumo soffocante.

“Elena Bucelli, suppongo” dissi, puntandole la lama celata alla gola.

Lei accennò ad un sorriso.

“E tu sei l’aquilotto degli Auditore. Non sei affatto carina come dicono.”

Una linea bruciante mi si aprì all’altezza del braccio: il suo ventaglio di metallo mi aveva graffiata, squarciando la mia manica nera. Quell’attimo di sorpresa guadagnato le bastò per sferrarmi un pugno, e ribaltare le nostre posizioni con un colpo d’anca. Il suo ventaglio affilato mi scese addosso: riuscii a pararlo incrociando gli antibracci. Era forte, dannazione. Più di me.

Poi, Elena si immobilizzò. A lama di un coltello da macellaio le rilucette alla gola.

“Se permetti, ho qualche domanda da farti.”

La Volpe non mi era mai stata simpatica come in quel momento.

La stretta della Bucelli si allentò, mentre si sollevava insieme alla Volpe, che continuava a premerle la lama alla gola.

“Cosa ci fai qui?”

“Quello che ci fate voi, Assassine. Cerco la Chiave.”

“Quale chiave?”

“Cielo, non sapete proprio niente? E vorreste che fossi io a dirvelo!”

“Bianca, prendile il ventaglio.”

Anche io mi ero rialzata, nel frattempo. Guardai la Volpe come se fosse impazzita.

“Che stai aspettando?” sbottai “Questa donna è uno dei bersagli, mio padre la vuole morta!”

“Ho detto, prendile il ventaglio.”

Borbottando, ubbidii, e mi avvicinai alla cortigiana come si farebbe con una bestia feroce. Lei aveva stampato in faccia un sorriso crudele.

Solo allora, la Volpe aggiunse:

“Questa cagna può esserci utile. Dobbiamo sapere dove si nasconde il suo…”

Non finì la frase, perché Elena le diede una gomitata nel costato, costringendola a lasciare la presa. Poi si gettò verso di me, per strapparmi il ventaglio di mano. Fui svelta a scostarmi. Lei perse l’equilibrio; le diedi un calcio nell’interno delle ginocchia, lei cadde; le affondai il ventaglio tra il collo e la spalla. Un fiotto di sangue schizzò dalla ferita.

Elena fece oscillare la testa all’indietro, e cadde di lato.

Rimasi immobile, con in mano Il ventaglio letale. Lei stava ancora gorgogliando qualcosa, mentre la vita fluiva via dalla ferita slabbrata.

“Oh, be’ ” commentò la Volpe “Il sangue freddo non ti manca. Avrei preferito chiederle altro ma..un buon lavoro, brava.”

Osservai un momento la cortigiana stesa a terra. Quindi, chiusi il ventaglio e lo misi nella mia bisaccia, non so nemmeno io perché. Forse, stupidamente, volevo un ricordo del mio primo morto importante. Ho sempre avuto l’ossessione di ricordare tutto, fin nei dettagli.

Ignorando il bruciore al braccio graffiato, mi chinai su di lei. Con mio sommo raccapriccio, notai che il sorriso non si era spento sulle sue labbra rosse.

Distinsi, nel mormorio gorgogliante, le sue ultime parole:

“Credi…di avermi uccisa…ma tornerò.”

Scossi il capo. La sua ostinazione mi faceva una pena infinita. Chiudendole gli occhi, bisbigliai:

“Dal luogo in cui stai andando non c’è ritorno, purtroppo. Requiescat in pace.”

“E ora” intervenne la mia compagna, spezzando la solennità del momento “dedichiamoci alle cose veramente importanti.”

Deposi corpo, per poi volgermi verso il sarcofago di

Gemma Donati. Ora che lo vedevo meglio, notai i lineamenti delicati della donna scolpita sul coperchio. Aveva un volto ovale, fine, e braccia sottili. Anche con gli occhi chiusi e la pace eterna che le gravava sulle guance, c’era una sorta di disperazione nei tratti del suo volto.

La Volpe si chinò: sul fianco del sarcofago c’era un teschio, identico a quello sotto l’altare di Santa Margherita dei Cerchi. Infilò le dita nelle fessure degli occhi e del naso, tirò. Gli ingranaggi capovolsero il teschio; il grattare del marmo sul marmo cigolò nelle mie orecchie per un momento, il coperchio si aprì e svelò il suo contenuto.

Ciò che restava del cadavere della Donati era avvolto in un drappo rosso: si intuiva soltanto il profilo delle ossa.

La Volpe immerse la mano nel sarcofago, e ne estrasse soltanto un foglio. Tentò di leggerlo, senza capire una parola. Lo mostrò anche a me; in quel miscuglio di lettere e numeri non riuscii a trovare un senso compiuto.

“E’ criptato, maledizione.”

“Tutto qui?” domandai. “Il carteggio è composto da un solo foglio?”

La Volpe accennò al cadavere.

“La cagna ha detto che qui era nascosta una chiave. Forse quel che ci manca è la serratura.”

Passandosi una mano tra i folti capelli neri, la Volpe sospirò. Si infilò il foglio nel corpetto.

Controllò la mia ferita, sollevandomi la manica nera. Era leggera, solo un graffio. Nonostante le dicessi che non era niente, lei si strappò un pezzo di camicia per fasciarla, e infine ricoprirla con la mia manica nera.

Quindi, sorrise.

“E ora vieni, giovane Assassina. Cerchiamo un modo di uscire da questa trappola.”

 

C’era, come sempre accade nei sepolcri dei miei antenati, una via d’uscita nascosta. In questo caso, una parete che bastava premere perché girasse su se stessa. Appena la attraversammo, fummo immesse in un budello scuro: camminammo, ma non per molto, prima di trovare una scala che conduceva verso l’alto. Sbucammo da un tombino sul sagrato di Santa Croce, attente che nessuno ci vedesse. In pochi minuti eravamo già confuse tra la folla.

Quel che ci voleva ora, era una persona in grado di decifrare il messaggio. Tra quelli che conoscevo, soltanto uno avrebbe potuto.

Prima di partire, mio padre mi aveva lasciato il suo recapito: una vecchia bottega nel distretto di San Giovanni.

Fui stupita, quando Leonardo aprì la porta. Non lo incontravo da quasi sette anni.

Era invecchiato. I suoi cinquantaquattro anni iniziavano a mostrarsi tra la barba e nei capelli più radi, ma gli occhi azzurri restavano quelli di un bambino, nonostante il volto fosse segnato e appesantito. Indossava sempre il suo amato berretto rosso.

Non appena scorse il mio volto sotto il cappuccio, Leonardo mi tirò dentro e mi abbracciò con calore, baciandomi le guance.

“Bianca, sei tu! Dèi, che sorpresa meravigliosa, bambina. Che ci fai a Firenze?”

“Messer Leonardo” fece, rispettosa, La Volpe, per far notare la propria presenza. L’artista si divise da me, ma tenendomi ancora il braccio intorno alle spalle, con l’affetto di un padre.

“Oh, benvenuta, Diamante. Perdonami, ho visto la ragazza e mi sono emozionato. E’ un po’ che non ti fai viva da queste parti, come stai?”

Dovetti trattenermi con tutte le mie energie per non scoppiare a ridere. Diamante? Era questo il nome di cui La Volpe si vergognava tanto? Inusitatamente femminile per quel suo carattere brusco, non c’era da stupirsi che cercasse di nasconderlo.

Contrariata, la donna sbuffò.

“Sono qui per questo.”

Gli porse il foglio che avevamo preso dalla cripta di Gemma Donati.

“Oh. E’ molto tempo che voi ragazzi non mi portate dei codici. Di cosa si tratta? No, lascia stare, credo di aver…fammi dare un’occhiata più da vicino. Voi intanto sedete, sedete.”

Accompagnò quelle parole a un gesto distratto, mentre si chinava sul tavolaccio al centro della sala con il foglio tra le mani. La stanza era impolverata, colma di ragnatele e sporca. Mi chiesi perché un genio di così chiara fama vivesse ancora in un luogo del genere.

“Oh, non abita qui” disse la Volpe – Diamante, mi ripetei sorridendo – come a leggermi nel pensiero. “E’ molto affezionato a questa vecchia bottega, ogni tanto ci torna per trovare nuova ispirazione.”[1]

Sul cavalletto c’era un solo quadro. I toni ocra e verdastri del dipinto mi ricordarono in qualche modo l’oro delle vecchie pale d’altare e delle icone della Madonna. Il volto che emergeva su quello sfondo a metà tra il figurativo e l’irreale era ancora da terminare: eppure, ciò che emergeva con forza dalla miscelatura di luci ed ombre era il suo sorriso, inquietante e rasserenante insieme. Passai molto tempo a contemplare quel sorriso, per capire se mi attirasse o mi respingesse[2]. Davanti a nessun quadro avevo provato quella stordente sensazione di essere osservata e presa in giro.

Poi, Leonardo venne da noi con una soluzione. Aveva ricopiato su un foglio i seguenti versi decrittati:

 

"O donna di virtù sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

tanto m'aggrada il tuo comandamento,
che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;
più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.”

 

“Dal secondo canto dell’Inferno di Dante” precisò, notando i miei occhi sgranati “E’ la risposta di Virgilio a Beatrice, quando lei gli chiede di fare da guida a Dante attraverso l’inferno.”

“Il che significa…?” feci, completamente persa.

La Volpe scosse il capo, perplessa. “Beatrice Portinari era la donna amata da Dante, la sua musa. La leggenda dice che non si siano nemmeno mai parlati fino a che lei era in vita. La sua tomba è dentro Santa Margherita, nel sepolcro dei Portinari.”

“Ma che senso avrebbe nascondere la chiave nello stesso luogo della serratura?” obiettai. La mia compagna si strinse nelle spalle. “Questo non lo so, ma esplorerò la tomba questa notte. Tu riposerai alla Rosa Colta, ragazza. Hai fatto anche troppo per oggi.”

Tentai di protestare, ma Diamante aggiunse: “Domattina dovrai fare una cosa per me. Ho bisogno che ti veda con Martino vicino Santa Croce, lui ti farà rapporto su quello che ha scoperto al Mirto di Venere.”

Mi acquietai, un poco. Almeno sarei stata utile in qualche modo. E poi, i muscoli doloranti per la Tomba dell’Assassino appena affrontata iniziavano a farsi sentire.

Quando lo lasciammo, Leonardo parve dispiaciuto. Avrebbe voluto che ci fermassimo a cena, ma era meglio che non ci aggirassimo col buio per le strade di Firenze. Nel salutarmi, mi rivolse queste parole:

“Dì a Ezio che passi a trovarmi, ogni tanto. Gli somigli, sai? Moltissimo.” Mi accarezzò una guancia, un po’ esitante. C’era malinconia nei suoi occhi azzurri, del tipo che prova una persona tesa verso qualcosa di irraggiungibile.

Confesso che non provai disagio, nel comprendere, in quel momento per la prima volta, i veri sentimenti di Leonardo verso mio padre. Dopo tutto, il suo era un amore puro, una devozione totale che nemmeno mia madre gli ha mai rivolto, ne sono certa.[3] Di fronte a un sentimento che sopravvive agli anni e al fatto di non essere corrisposto, si può solo chinare il capo e provare rispetto. Ammirazione. Perfino dolcezza.

Poi, Leonardo sospirò, il suo sorriso riacquistò allegria. “La proposta è ancora valida. Quando avrò finito questa cosetta che sto dipingendo, mi dedicherò al tuo ritratto. Anzi…quando hai finito con la tua missione, passa da me. Voglio fare uno schizzo del tuo viso…chissà quanti anni passeranno prima che torni a trovarmi!”

Avrei posato per lui, giorni più tardi; ma per ora la mia missione era ancora lontana dall’essere compiuta.

 

La mattina che seguì mi svegliai, come sospettavo, con un dolore sordo ad ogni muscolo delle gambe e delle braccia, e con il graffio al braccio che ancora bruciava, nonostante fosse ben rimarginato. Tutto il mio allentamento di quei due anni non mi aveva preparata ad affrontare una dannata Tomba dell’Assassino.

Maledicendo i miei antenati romani, mi alzai dal letto, per scoprire che ero l’ultima a svegliarmi. Il letto di Veronica era fatto. Di fronte a me, ad aspettare il mio risveglio, c’era Camilla, con un paio delle sue ragazze.

“Veronica è andata a caccia di informazioni su Strozzi insieme alla Volpe. Ciò significa che oggi sei affidata a me, bambina” esordì la cortigiana, con voce argentina e ridente.

Rabbrividii. Capivo ciò che questo significava; tuttavia, non ero preparata all’abito che Camilla aveva in mente per farmi andare in giro inosservata.

Una veste da cortigiana, azzurro chiaro. Scollata in maniera imbarazzante, nemmeno a dirlo. Ma poiché non ho mai avuto molto seno, quello era il problema minore. Ciò che mi inquietava era lo spacco vertiginoso della gonna, che partiva praticamente dall’ombelico. Quando mi furono mostrati i calzoncini a sbuffo che avrei indossato sotto, non mi sentii rassicurata.

“Oh, non fare la bambolina timida!” rise Camilla, mentre cercavo in tutti i modi di stringere i lembi della gonna per nascondere almeno una porzione di carne “hai delle gambe bellissime, è un peccato non mostrarle.”

“Non sono credibile come cortiagiana” cercai di obiettare “I capelli, lo vedi? Sono troppo corti…”

Lei sorrise, sorniona. “Non c’è problema.”

Mandò una delle ragazze fuori dalla stanza; tornò con una splendida parrucca di capelli naturali, tutta boccoli, con le classiche crocchie delle cortigiane. Il colore pareva esattamente quello dei miei capelli. Sospirando di fronte allo specchio della toletta, dovetti ammettere che mi donava.

Fu una strana sensazione rivedere in quello specchio la Bianca che ero stata. La giovane donna che possiede grazie da mostrare, e che le usa a proprio vantaggio. Sapevo di essere cambiata nei due anni dalla fuga di Ferrara; eppure, quell’immagine femminile non mi dispiaceva. Mi dava forza, sicurezza in me. Dopo tutto, la severità con cui avevo trattato il mio corpo non era bastata a spegnere la fiamma della mia vanità. E perché avrebbe dovuto? Ero giovane, ero bella. Se avessi imparato a usarla correttamente, forse la seduzione sarebbe potuta diventare un’arma in più nel mio arsenale.

Con quella convinzione, scesi in strada insieme a Camilla e ad un gruppo delle sue ragazze. L’obiettivo era arrivare dietro Santa Croce, dove avrei incontrato Martino.

Sulle prime mi chiesi come Camilla potesse pretendere che passassimo inosservate, svestite e chioccianti come eravamo. Mi riprese perfino perché non ancheggiavo abbastanza mentre camminavo: per la prima volta capii che per nascondere qualcosa, a volte, è necessario esporlo agli occhi di tutti. All’inizio di quel viaggio mi ero abituata all’idea di portare il cappuccio per non farmi notare, ma dovevo ammettere che non ero mai stata tanto celata alla vista altrui come ora, che ero osservata con lussuria da molte paia d’occhi tutte intorno. Nessuno avrebbe sospettato di trovare un’Assassina sotto quelle vesti.

Le prime due ragazze si divisero da noi quando un paio di guardie si mossero dalla loro posizione per venirci incontro. Camilla diede loro l’ordine di portarli lontano, soltanto con un breve sguardo. Le ragazze risero, e li adescarono, lasciandosi palpare e trascinandoli in un vicolo.

Iniziavo a innervosirmi. Senza quelle due compagne eravamo rimaste in tre, mi sentivo più esposta.

“Sta’ calma. Ecco lì il nostro uomo” disse Camilla tra i denti, riuscendo a mantenere un perfetto sorriso.

Gettai un’occhiata di lato. Seduto su una panchina posta contro il muro di un palazzo, riconobbi il cappuccio bianco e le spalle ampie di Martino. Invece di fermarci, passammo oltre. Lui si alzò lentamente e ci seguì a distanza.

Fui colta dal panico quando Camilla e l’altra ragazza di allontanarono con altri due gendarmi. La nipote di Paola mi strinse l’occhio, come ad assicurarmi che sarebbe andato tutto bene. Io sapevo solo che la piazza antistante Santa Croce era colma di gente, e che mi sentivo inerme con quegli abiti e così poche armi addosso.

Nello smarrimento, cercai Martino con lo sguardo. Continuava a tenersi a debita distanza, accanto alla bancarella di un mercante di stoffe. I nostri occhi si incrociarono: ammiccai, indicandogli un piccolo chiostro con un cenno del capo. Quindi, lo precedetti, e appena ne ebbi varcato la soglia piantai le spalle al muro, con un sospiro di sollievo.

Lui mi raggiunse dopo pochi istanti, e scoprendosi il capo rivelò un sorriso. Sentii i suoi occhi scuri che mi percorrevano da capo a piedi.

“Ammazza, che cambiamento, Biancare’.”

Mi sentii innervosita, ma anche, stranamente, lusingata.

“Ho ucciso Elena Bucelli” annunciai, per spezzare la tensione. Lui fece tanto d’occhi.

“Quanno, aò?”

“Ieri pomeriggio, nelle catacombe sotto Santa Margherita.”

Lo sentii ridere, per il mio sconcerto. “Allora è ‘na strega, perché è risorta.”

In una frazione di secondo, ricordai gli occhi verde veleno della mia vittima, e quell’assurda frase mentre si spegnevano. Tornerò.

“L’hai vista? Viva?

“Non solo l’ho vista, l’ho proprio sentita. E’ stata con me ‘stanotte. Ecche notte! Te posso assicura’ che nun era morta manco pe’ niente.”

C’era una sola spiegazione, per quanto strana. Dovevo aver ucciso una delle sue ragazze. Forse, una che le somigliava. Eppure, La Volpe pareva sicura di avere davanti Elena. Non riuscivo a capire.

“Insomma, che hai scoperto?” sbottai, per l’impazienza. Martino incrociò le braccia, sornione.

“Bah, nun è ch'avemo parlato molto, sai.”

“Il tuo scopo là è raccogliere informazioni, non divertirti.”

“Embè, che male c'è se me diverto pure? Sta' tranquilla, sto a fa' er lavoro mio. Je faccio crede che so' er fijo de 'n mercante ricco da paura e la riempio de oro, me fa le fusa come 'na gattina.”

“Quei soldi te li ha dati mio padre. Vedi di non sprecarli.”

“Tranquilla, tranquilla. C'ho già la prima 'nformazione. Mentre fingevo de dormi', ho sentito che domani sera a mezzanotte se 'ncontra co' Strozzi.”

“Dove?”

I suoi occhi scuri brillarono. “Nu'llo so. Stanotte joo faccio di'.”

Martino era un bel ragazzo, lo era sempre stato. Moro e seducente, ma troppo compagnone perché lo notassi come uomo. Eppure, quella volta, il suo sorriso tinto di malizia riuscì a strapparmi un brivido. Fino a quel momento, non mi aveva mai provocato alcuna reazione del genere. Doveva essere il mio abito. Doveva essere il momento.

Quasi sussultai, quando lui mi scostò per guardare attraverso la bifora che stava sul muro del chiostro. Dalla strada, un gruppo di guardie indicava nella nostra direzione.

“Credi che li abbiamo insospettiti?” feci, agitata “Accidenti! Speravo sembrassimo una prostituta e un cliente.”

“Levamoje i dubbi, no?”

Con quelle parole, mi attirò a sé e mi baciò.

Avrei dovuto ritrarmi, ma la cosa fu tanto inaspettata da lasciarmi inebetita. Mi trovai a pensare in una frazione di secondo che le sue labbra erano calde, e un attimo dopo ero avvinghiata a lui contro la colonna. Baciava dannatamente bene, maledizione; e io non ricevevo quel tipo di attenzioni da troppo tempo per restare indifferente. Gli allacciai le braccia intorno al collo, e invece di scansarmi, come avrebbe fatto qualunque persona di buon senso, mi strinsi a lui.

Lo sapevo. Stavo per commettere un altro dannatissimo errore. Ma il suo bacio esigente era impossibile da respingere, e le sue mani che mi stringevano i fianchi mi scioglievano la carne come fossero incandescenti.

“Martino…” boccheggiai, mentre la sua bocca si spostava sul mio orecchio, e poi scendeva lungo il collo. Piccole scosse di piacere corsero sotto pelle, senza che riuscissi a sopprimerle.

Involontariamente, ripensai a Cesare. Al modo in cui mi prendeva e faceva di me una donna. Nemmeno mi rendevo conto di rispondere a Martino in maniera tanto appassionata. Dovevo riprendere il controllo…era solo finzione, per distrarre le guardie. Solo finzione…

Gettai un’occhiata sulla mia spalla, oltre la bifora. Quasi ansimavo per quanto ero accaldata. Perché aderivo in quel modo al suo corpo? Perché lo stavo incoraggiando, senza scostare le sue mani che stavano correndo senza pudore ad accarezzare la curva del mio seno? Oh, Dio, che buon odore aveva. Di quel passo sarei impazzita.

“Martino, basta. Se ne sono andati.”

Lui ubbidì alla mia richiesta, immediatamente. Non so perché, ma fui delusa di tutta quella solerzia. L’allontanarsi del suo corpo mi diede un senso di privazione.

Scorsi sul suo viso di nuovo quel lampo di malizia. Aveva capito la mia reazione istintiva. Ne era divertito, probabilmente soddisfatto.

"Peccato. Sicura che nun dovemo distrarre artri templari?"

Provai una sorta di rabbia ansiosa, che mi diede la pelle d’oca. Io ero innamorata di Nicola, che era lontano. Di Nicola, che mi guardava come si fa con una sorella minore. Di Nicola, a cui non avevo mai pensato in modo così fisico da sognare di farci l’amore, o provare l’irresistibile voglia di baciarlo. E invece mi era bastato quel solo contatto fuori dai limiti con Martino perché il mio corpo ricominciasse a bruciare.

C’era qualcosa di molto sbagliato in quello che stavo pensando: la frustrazione che mi dava questa consapevolezza, decisi di scaricarla sul primo bersaglio disponibile.

“Tu…pensi che sia tutto un gioco, vero?” sibilai, stringendo i pugni.

Lui alzò un sopracciglio, perplesso. “Mo’ che stai addì?”

Faceva perfino l’indifferente! Mi sentivo esplodere di furore.

“La missione, l’Ordine…guardati! Sei arrivato fin qui con uno scopo due anni fa, e non ti ho mai visto fare niente per portarlo avanti! Ridi, scherzi, bevi e vai a donne, e intanto tua madre è là fuori, alla mercé del suo rapitore! Ci pensi mai, Martino? Ti ricordi che devi ritrovarla?”

Il suo sguardo si rabbuiò. “Nun di' cose che nun sai.”

“Io le so, perché ti vedo! Hai dimenticato il tuo obiettivo, non hai capito nulla del Credo e della missione dell’Assassino!”

“Senti, fa' come te pare. Me vuoi schiaffeggia'? Fallo. Ma nun parla' come se me conoscessi, perché nun è così.”

Con quelle parole, Martino si calcò di nuovo il cappuccio sui capelli neri, e mi lasciò sola nel chiostro.

Io rimasi lì qualche minuto di più, ancora sconvolta per quel che era successo e per la mia reazione di poco dopo. Avevo esagerato, lo sapevo. Non riuscivo ad avere mezze misure, o un minimo di autocontrollo, dannazione. Che razza di Assassina sarei stata se avessi continuato su quella strada?

Quando Camilla sbucò dal chiostro per venirmi a riprendere, capì subito che ero turbata.

“Tutto bene, tesoro?”

“Sì, io…tutto bene.”

Mi tolsi la parrucca e gliela porsi, passandomi la mano sui capelli sudati. Quello era il mio vero io. Una donna che non voleva essere più una donna. Avevo lavorato sodo per diventarlo. Non sarebbe stato quel piccolo incidente a mandare tutto all’aria.

 

 



[1] Sicuramente, storicamente non è andata così…ma nel mondo di Assassin’s Creed mi piace pensarlo :) Anzi, ora che mi sovviene non sono nemmeno certissima che nell’inverno tra il 1505 e il 1506 fosse ancora a Firenze! Perdonate la licenza poetica, volevo rivederlo ^_^

[2] Spero che si capisca, si tratta della Monna Lisa :)

[3] Che Leonardo fosse gay, è ormai storicamente assodato. Tra l’altro, ammetto mio malgrado che il suo rapporto con Ezio è la cosa più vicina a una coppia canon all’interno del videogioco (e giuro che non sono una che vede yaoi ovunque!). Non credo che Ezio abbia mai ricambiato quel sentimento nel modo in cui Leonardo avrebbe voluto, ma non potevo esimermi dall’accennare a come si sentisse il nostro artista dal berretto rosso a riguardo.

 

 

Note di Runa

Ecco, l’ho fatto. Ci ho messo dentro una Tomba dell’Assassino. Una stramaledetta, odiatissima tomba dell’assassino. Le ho finite tutte tranne le Catacombe della Visitazione, e queste ultime ancora le sogno la notte. Forse riuscirò a convincere il mio ragazzo, molto più bravo di me nelle arrampicate, a finire quelle stramaledettissimissime catacombe per avere finalmente l’armatura di Altair. A mia discolpa posso dire che, nonostante la mia inettitudine sui tetti (ebbene sì, in questo somiglio a Veronica) sono molto brava nei combattimenti…il che, ironicamente, non è lo scopo del gioco.

Allora...prima di impalarmi o impiccarmi con le mie viscere per la scena finale, aspettate di vedere lo svolgersi degli eventi...e ricordatevi che abbiamo ancora otto anni da trascorrere nella vita di Bianca: io non ho nessuna intenzione di accasarla presto ^_^ Il che non significa effettivamente niente ^_^ Chissà chi sarà il Bianca-Boy...sì, adoro punzecchiarvi su questa cosa :PPPPP 

Al prossimo capitolo (che, prometto, si chiamerà davvero "Cicatrici"), scopriremo tutta la storia di Veronica, raccontata direttamente dalle sue labbra. Scopriremo perché Elena Bucelli aveva una sosia, e forse potremmo entrare in un'altra tomba dell'Assassino ^_^

R

ingraziamenti:

Uau, a questo giro siete tantissimi! Non me l'aspettavo, grazie! Purtroppo ho poco tempo e non posso rispondere estesamente a tutti, scusatemi davvero...la prossima volta rimedierò! Dunque, inizio col ringraziare in breve:

Ama (ti ringrazio tantissimo di volermi affidare un tuo personaggio...il problema grosso è che ormai ho già strutturato la storia e non riesco a inserire un nuovo allievo assassino! Però mi hai dato un'idea per un capitolo bonus...per il passato de LaVolpe/Diamante e di Camilla...se mi concedi di usare il tuo personaggio! Posso chiamarlo solo Lupo? La descrizione sarà fedele, promesso! Ovviamente il capitolo sarà dedicato a te ^_^), DarkChocolate67 (che bello, un'altra ragazza a cui Veronica non sta antipatica! ^_^), JaydenAuditore (spero che l'azione di questo capitolo ti abbia soddisfatta, ci ho lavorato tanto ma non so com'è venuta! ?_?), Miki (ah, quel Vanni a torso nudo che hai disegnato me lo sogno ancora la notte...ma quel disegno di Ezio e Vanni che discutono, fatto per sfregiare la poesia Bembo...si potrebbe vedere? ^_^), Josie_n_June (sono contenta che la mia rivoluzione femminista di AC ti piaccia! ;) A proposito di rivoluzioni...ma quanto è figo Damien?? E se mi dici che stai lavorando anche su Andrés...mi fai troppo felice!!), Sheba_Ema94 (ah, tu ti fidi troppo di Bianca...chi ti ha detto che il povero Martino faceva davvero il filo a Veronica? Era solo una sua illazione ^_^ Agamenny si vede poco in questo capitolo, mi dispiace...rimedierò nel prossimo!), Phantom G (grazie per aver recensito, che bello! Sono felicissima che anche a te piaccia Veronica, e per quanto riguarda il cuore di Bianca...hihi, chissà in che mani finirà!), LaBestiaPazza (grazie anche a te, che bello che tu abbia voluto recensire! I personaggi ringraziano, soprattutto Bianca che ha sempre bisogno di conferme ^_^), Junna (grazie mille anche a te! Mi hai commosso quando mi hai parlato del rapporto Bianca-Ezio...anche io adoro quei due e...beh, se dico così suona male perché odio le storie autobiografiche, ma in effetti quell'episodio di lui che le accarezza i capelli mi è successo veramente e mi ha molto toccata) Emy_n_Joz (benvenuta anche a te, anche se ci siamo incontrate su Youtube direi ^_^ Devo fare i complimenti anche a te per AC Revolution, promette veramente bene - e il trailer è davvero una figata...voglio conoscere meglio Damieeeen! Quando aggiornate?),

Ok, scusate se sono stata breve ma devo proprio fuggire. Un bacio a tutti, anche a chi passa solo di qua. Ci aggiorniamo tra un'altra ventina di giorni :***

Laura.

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Capitolo 19
*** Cicatrici ***


N.d.Runa (questa volta devo necessariamente metterle prima del testo)
Prima di tutto, devo chiedervi scusa. Anzi, genuflettermi. Sono mesi che non aggiorno e che, colpevolmente, non scrivo nemmeno mezza riga. Non mi sono dedicata ad altri progetti letterari: in realtà, a fine febbraio consegnerò la tesi di laurea specialistica, e questa stesura mi ha completamente assorbita e stressata, rendendo le ore al pc molto, molto penose. Questo, insieme a tanto lavoro e a diversi problemi famigliari, mi ha tenuto lontano dai progetti strutturati e impegnativi come questa fanfic (e pensare che l'avevo iniziata come un passatempo, eheheh...)


Non posso promettervi che mi dedicherò a Bianca con la stessa frequenza di prima...a dire il vero non so nemmeno se pubblicherò mai i capitoli a cadenza regolare, visto che non so bene cosa sarà della mia vita dopo la laurea. L'unica promessa che mi sento di fare a chi segue questa storia è che non la sospenderò mai definitivamente. Ci tengo troppo, i suoi personaggi ormai li sento sotto pelle e, soprattutto, a differenza di altri progetti, qui non procedo a tentoni: so dove devo arrivare, e ci arriverò! Perciò, se avrete ancora la pazienza di seguire Bianca nonostante la mia incasinatissima gestione, sappiate che non ve ne pentirete (magari mi pianterete una lama celata in gola, ma anche questo potrebbe essere fonte di grande soddisfazione dopo tutto).

Grazie a chi avrà la pazienza e la voglia di ricominciare a leggere Bianca, nonostante i mie mesi di silenzio. E grazie anche a chi ha continuato a recensire o sbirciare di tanto in tanto per vedere se avevo aggiornato. Cercherò di recuperare le risposte alle ultime recensioni, rispondendo piano piano a ognuno di voi...scusate se non lo faccio già in questo capitolo, preferisco rispondervi di persona con calma, spero capirete. 

Ps: Attenzione. In questo capitolo c'è poca azione, ma viene rivelata per intero la storia di Veronica, che è piuttosto forte. Il linguaggio e le immagini restano generiche per rispettare il rating, ma si parla di tematiche toste e qualcuno, soprattutto i lettori più giovani, potrebbero esserne disturbati. Io vi ho avvisati!  






Elena Bucelli non era morta: questo lo confermò anche La Volpe, di ritorno con Veronica dalle sue ricerche.

“E’ stata vista nei dintorni di Santa Maria Novella, questa mattina, un’ora dopo l’alba.”

“E vicino Santa Croce” aggiunse Veronica. “E anche vicino Santa Maria del Fiore. Tutti i testimoni che abbiamo interrogato l’hanno vista più o meno alla stessa ora.”

Rabbrividii, vedendo l'allieva assassina giocherellare nervosamente con gli stiletti che di solito nascondeva nella giarrettiera. Li ruotava con la punta sul tavolo, come fossero trottole, scavando un piccolo buco nel legno. Il suo sguardo era violento come la sera in cui mi aveva raccontato di Isotta.

Ero rientrata da meno di un’ora. Martino era tornato al Mirto di Venere, e io non mi levavo di mente il suo sguardo ferito dalle mie parole cattive. Perché l’avevo trattato a quel modo? La colpa di quel bacio che mi aveva tanto innervosito, dopo tutto, era mia quanto sua. Pensai che avrei dovuto chiedergli scusa al più presto. Poi ripensai al bacio in sé, e mi accarezzai distrattamente le labbra ancora gonfie.

Camilla scambiò un’occhiata con La Volpe.

“Pensi che…?”

“No” rispose Diamante, categorica. “La mela dell’Eden è al sicuro a Monteriggioni. Deve essere qualcosa di più semplice…nessuno ha il dono dell’ubiquità, nemmeno la Volpe.”

“Cosa sta cercando in quelle chiese?” fece ancora Camilla. Diamante rigirava tra le dita il pezzo di carta su cui Leonardo aveva ricopiato i versi criptati che avevamo trovato nella tomba di Gemma Donati.

“La stessa cosa che stiamo cercando noi: la Serratura. Solo che noi abbiamo un indizio su dove trovarla, mentre loro brancolano nel buio.”

Lesse di nuovo, ad alta voce, quei versi della Divina Commedia. Li avevo quasi imparati a memoria.

 

"O donna di virtù sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

tanto m'aggrada il tuo comandamento,
che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;
più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.”

 

“Parla di Beatrice” rifletté Diamante ad alta voce.

“Che è sepolta in Santa Margherita dei Cerchi, lo so” intervenne Camilla. “Ho fatto aprire il suo sepolcro dalle mie ragazze stanotte…a parte il suo scheletro, non c’è nulla.”

Veronica si illuminò per un momento. Batté le palpebre, come se non riuscisse a capacitarsi di non esserci arrivata prima. Lo stiletto con cui stava giocando cadde sul tavolo, con un rumore metallico.

“Beatrice Portinari era sposata.”

“Sì, con un banchiere. Simone Bardi” disse Camilla. Io le guardavo, stranita, sentendo quei nomi per la prima volta nella mia vita.

Veronica proseguì: “Dunque, dovrebbe essere stata sepolta nella cripta di famiglia del marito.”

“Che è in Santa Croce” annuì La Volpe, pensierosa.

“E’ vero” si intromise di nuovo Camilla “ma dopo la sua morte pare che il padre abbia chiesto che fosse sepolta in Santa Margherita…le era troppo affezionato per immaginare di riposare lontano da lei.”

“Questo significa” disse Veronica, quasi febbricitante “che potrebbe esserci un sarcofago vuoto nella cripta Bardi.”

Iniziavo a capire dove voleva portarci il suo ragionamento, anche se parecchie cose non tornavano.

“Perché Gemma Donati avrebbe dovuto nascondere il carteggio in un covo templare?” obiettai. Ancora più accesa dalla mia opposizione, Veronica esclamò:

“Per nascondere qualcosa bisogna metterlo sotto gli occhi di tutti! Quale templare penserebbe di cercare un tesoro assassino nel proprio nascondiglio?”

“Ha un senso” approvò Camilla. “Tu che ne dici, Diamante?”

La Volpe storse il naso, infastidita di essere chiamata con quel nome troppo elegante per lei.

“Dico che dobbiamo sbrigarsi, prima che i templari capiscano di avere la Serratura nelle loro mani.”

 

L’azione non ebbe luogo, perché quella notte, quando ci stavamo avviando verso Santa Croce, dalla balconata della Rosa Colta irruppero inaspettatamente Martino e Agamennone.

Nessuno dei due era in buono stato, ma il più malconcio era senz'altro Martino. Agamennone lo sorreggeva tenendo il suo braccio intorno alle proprie spalle. Sobbalzai quando li vidi in quello stato. Camilla di precipitò a chiudere la grande finestra che dava sul pergolato, mentre Veronica ed io aiutavamo i nostri compagni a sedersi sui divani orientali delle stanze della cortigiana.

“Io sto bene” disse subito Agamennone “solo qualche graffio.”

“Er pupo s'è battuto come 'n leone” fece Martino, cercando di ridere mentre stringeva i denti. Mi caricai parte del suo peso addosso, e lo adagiai lentamente sul divanetto, aprendogli la giubba. Era stato colpito al fianco, la camicia era inzuppata di rosso cupo. Senza nemmeno pensare, iniziai a premere la mani sulla ferita. Martino sussultò, ma non emise un gemito.

Camilla mandò a chiamare due delle sue ragazze più fidate, e diede disposizione che portassero acqua e garze, senza farsi notare dai clienti al piano inferiore. Quindi, chiuse di nuovo la porta.

Veronica si aggrappò al braccio di Agamennone. L'antibraccio del mio amico era sporco di sangue, ma non pareva il suo. “Che è successo?” gli domandò.

Per tutta risposta, Agamennone disse: “Abbiamo scoperto il segreto di Elena Bucelli. Ha delle sosia, almeno una decina. Le tiene segregate in una sorta di gineceo e le manda in giro in sua vece. Ci hanno scoperti mentre le spiavamo, non è stato facile scamparla...sono guerriere addestrate.”

“E tutte uguali” fece Martino, digrignando i denti. “Pareva de sta’ dentro a ‘nincubo.”

“Zitto” bofonchiai, continuando a premere la ferita. “Sta uscendo parecchio sangue. Con cosa ti hanno ferito?”

"Nun co' lo sguardo de sicuro" rise lui; ma la risata si sciolse in una smorfia di dolore.

“Con uno dei loro ventagli di acciaio” disse ancora Agamennone. “Sono davvero abili, siamo riusciti a seminarle solo grazie alla fortuna.”

Quando la ragazza di Camilla arrivò con le garze e il necessario per disinfettare e ricucire la ferita di Martino, continuammo a discutere delle sosia della Bucelli. Ripensai a quella che avevo ucciso il giorno prima…quale devozione l’aveva spinta a morire così, al posto di una donna di cui era soltanto una copia? E perché parlava come se fosse lei?

Diamante se ne stava pensierosa alla finestra e guardava fuori, elaborando le informazioni appena ottenute. “Dovrò scrivere a Ezio, tutto questo non mi convince.”

“Mio padre è a Siena, posso raggiungerlo in una giornata a cavallo” affermai. Lei scosse il capo, seccata.

“Non dire sciocchezze: tuo padre si trova a Bologna, e il valico tra gli Appennini è presidiato dai Templari. Ho bisogno di te, qui, e possibilmente viva.”

Rimasi perplessa alla notizia. “A noi aveva detto che sarebbe andato a Siena con Nicola e Vanni.”

Diamante si strinse nelle spalle. “A quanto pare non vi ha detto la verità. Ezio ha sempre avuto questo grande difetto di comportarsi da padre più che da capo.”

Gettai un'occhiata a Martino, che scherzava con le cortigiane che gli stavano disinfettando la ferita. Quel cretino se la stava cavando benissimo...ed io che mi ero perfino preoccupata! Un po' stizzita, incrociai le braccia, sporcandomi di sangue la giubba.

“Perché Bologna?” fece intanto Agamennone, improvvisamente agitato. “E’ successo qualcosa con i Bentivoglio?”

“Sono schiacciati, e stanno per essere annientati” rispose La Volpe, evidentemente infastidita che il discorso si fosse spostato su un altro argomento “Il Papa si è alleato con il re di Francia e presto prenderà la città. Ezio sta controllando la situazione e cercando di capire da che parte spira il vento. Ho soddisfatto la tua curiosità? Possiamo tornare alla nostra missione, adesso?”

Agamennone incassò il rimprovero e annuì; io pensai con una punta di irritazione che avrei chiesto conto a mio padre di quella bugia una volta tornata a casa, ma non replicai.

“Tornando a Elena” intervenne Camilla, mentre le sue ragazze ricucivano la ferita di Martino “Se ha radunato questa schiera di sosia…come potremo riconoscere quella vera?”

“Ce n’è una” disse a quel punto il mio amico romano, fermandosi un attimo ad imprecare sottovoce mentre l’ultimo punto veniva fermato dalle mani esperte delle cortigiane “"Una che va 'n giro co' mezza maschera sur viso. L'ho vista 'n mezzo alle artre, porta 'n cappuccio viola de velluto. Potrebbe esse lei quella vera...la bocca è 'a stessa, e anche 'a parte de viso che se vede è quella de Elena."

Camilla annuì, pensierosa; rifletté un momento, poi disse: “Avevi detto che stanotte Elena si sarebbe incontrata con Strozzi, Martino: ma è probabile che con il caos che avete scatenato al Mirto di Venere abbiano rimandato tutto. Manderò spie a verificare che sia così... Per stasera dormite tranquilli nei vostri letti. Ci avete servito bene, ragazzi” disse, rivolgendo uno sguardo ad Agamennone e Martino “anche se dovete lavorare sul passare inosservati...noto con piacere che “sopravvivenza” è una materia in cui raggiungete sempre la sufficienza.”

 

***

 

Quella notte pensai a lungo a ciò che La Volpe aveva detto.

Mio padre, dunque, non si trovava a Siena, ma a Bologna. Mi domandai se avesse portato Nicola e Vanni con sé. Ma certo...non poteva essere altrimenti. Per quale motivo li avrebbe lasciati da soli? Nicola era adulto e particolarmente in gamba, ma la responsabilità di occuparsi del più giovane tra gli assassini era troppo grande per un non-iniziato. Ezio era consapevole che Vanni aveva bisogno della sua autorità. Pregai, almeno, che fosse così. Perché non osavo pensare a quali sciocchezze avrebbe combinato il mio irruente fratellino senza che mio padre potesse tirare le sue redini.

Al mio ritorno, comunque, gliene avrei dette quattro. Avrei messo da parte il mio ruolo di allieva ubbidiente e rispolverato quello di figlia arrabbiata. Perché non mi aveva messo al corrente del suo vero piano? Tutta la fiducia che mi aveva dimostrato in quegli anni di addestramento, tutta la stima che Vanni mi invidiava, erano davvero così piccole?

La ragione, che ancora cercava di farsi sentire nel marasma di quei pensieri confusi, mi diceva che ero soltanto un'allieva come gli altri, ed era giusto che Ezio mi trattasse come tale. Il mio cuore di figlia, ferito, replicava che non avrebbe dovuto mentire, non a me. Che ero grande e potevo essere messa al corrente dei suoi piani. Che mi meritavo di più di quella squallida bugia...almeno un cenno, almeno un “non posso spiegartelo ora, ma poi capirai”!

Sospirai, rigirandomi per l'ennesima volta nel letto. Ero ancora tesa e vigile: mi ero preparata a lungo per la missione di quella notte, dannazione, ed ora che era saltata non riuscivo a rilassare né la mente né il corpo. Veronica, invece, dormiva. Le ho sempre invidiato quella capacità incredibile di addormentarsi in qualunque situazione.

Irritata dalla mia insonnia e insonne perché irritata, mi alzai dal letto e iniziai a camminare per i corridoi stranamente silenziosi della Rosa Colta.

Non so cosa mi guidò di fronte alla stanza dove riposava Martino. Forse la preoccupazione per la sua ferita. Forse il disagio per il modo in cui mi ero comportata con lui. Fatto sta che sbirciai attraverso la porta socchiusa. Nemmeno lui dormiva. Stava sdraiato sul letto con gli occhi neri fissi al soffitto, la candela che ancora sfrigolava sul comodino. Era a torso nudo: l'addome era avvolto in bende candide. Mi affacciai timidamente, e lui mi rivolse subito un sorriso. Non sembrava sorpreso che fossi lì.

"Se venuta a vede' se so' morto? Me dispiace deludete, Biancarella bella: me dovrai sopporta' ancora pe' 'n po'."

Non c'era rancore nel suo tono, e decisi di prenderlo per uno scherzo. Entrai, chiudendomi la porta alle spalle.

“Ti fa male?” mormorai, indicando la ferita.

"Solo quanno respiro" replicò lui, in un tono così falso che capii che ci stava calcando la mano. "Ma domani sarò de nuovo 'n piedi. Sai come so' fatto. Semeraro Martino nun se fa stende così facirmente."Quindi, si sollevò un po' sui gomiti. "Poi prenne quella sedia e mettete qua vicino. Questa sera so' inoffensivo, nun 'o vedi?” ammiccò, malizioso "O forse so' io che dovrei ave' paura che me sarti addosso?”

Gli rivolsi un'occhiataccia, di cui lui rise: mi sentivo sfidata, quindi presi la sedia e la sistemai accanto al letto.

Era vero che vederlo mezzo nudo non mi lasciava del tutto indifferente. Stavo in effetti cercando disperatamente di distogliere gli occhi dai muscoli ben definiti del suo torace. Impresa fallimentare, visto che ovunque posassi lo sguardo c'era una porzione di pelle scoperta. La vista delle spalle ampie bagnate dalla luce dorata della candela mi provocò un piccolo brivido, e inevitabilmente richiamò il ricordo di quel bacio appassionato. Martino era attraente, non potevo negarlo. Ma mi ero ripromessa che non avrei commesso lo stesso errore di quella mattina. Così, inspirai e cercai di fingere una freddezza che non provavo.

“Certo che, per essere un novizio...hai parecchie cicatrici” buttai lì in tono non curante “Ti fai colpire troppo spesso da Nicola in addestramento, forse?”

La mia presa in giro non lo scalfì: anzi, rise di nuovo.

"Come se dice dae parti mie, chi nun risica nun rosica!"

Si puntò il dito su una cicatrice sul braccio, poco sotto la spalla.

"Questa me la so' fatta mentre m'arrampicavo sur pennone da'a bandiera de Villa Auditore...volevo prova' a sta' in equilibrio lì sopra, come fa 'r Maestro...dicono che riesce a sta' appollaiato anche sopra 'e croci de'e chiese. E questa" aggiunse, indicando un punto sul costato "lo ammetto, è stata 'a scimitarra de Nicola...avevo tentato 'n affondo 'n po' azzardato e ho abbassato 'a guardia. Avessi sentito quanto s'è scusato, er lanzichenecco! Se sarebbe quasi strappato er core pe' fa' ammenda!"

Sorrisi: era vero, Nicola era fatto così. In addestramento era freddo e lucido, quasi spietato per certi versi, ma il suo senso dell'onore lo obbligava a chiedere mille volte scusa se per sbaglio feriva un compagno, a ringraziare prima e dopo ogni combattimento e a domandare qualsiasi cosa con una gentilezza e una reverenza tali che risultava un po' ridicolo a noi che eravamo cresciuti in maniera più spartana. A volte non sembrava affatto il semplice figlio di un capitano di ventura, ma un nobile tutto moine e cerimonie.

“E questa cicatrice, invece?” chiesi, indicandone una più sbiadita alla base del collo.

Il volto di Martino si rabbuiò.

"Me l'ha fatta er tipo ch'ha rapito mi' madre. Voleva portasse via pure mi sorella piccola, Giuditta. Cinque anni c'aveva. Jo'o strappata de mano appena 'n tempo. E giuditta ja strappato via 'a croce templare...te ricordi, quella ch'ho dato a tu' padre quanno so' arrivato. 'A piccolina mia è 'n portento."

“Non mi avevi mai detto che avevi una sorella.”

Lui accennò ad un sorriso. "Una? Quattro ce n'ho...de femmine. I maschi so' sette. Semo dodici fiji, Biancarella mia. Er più grande so' io.

“Dodici?” dissi, sgranando gli occhi.

"Già. 'na caciara che 'nte dico, soprattutto 'a sera quanno se magna tutti 'nsieme...ma nun è brutto, sai. C'è..." esitò, per trovare una parola che non fosse troppo dialettale “allegria.”

“E non hai loro notizie da tutto questo tempo?”

“Eggià.”

“Ma perché non scrivi a casa? Almeno qualche lettera, per far sapere che stai bene...”

Lui mi rivolse uno sguardo disarmante. "E chi sa scrive, Biancarella mia? Io no de sicuro."

Rimasi di sasso a quell'affermazione. Ma certo, era ovvio: perché non ci avevo pensato? Martino era un contadino, non sapeva né leggere né scrivere e non si era mai preoccupato di imparare.

“Ti insegnerò io, se vuoi. Quando torniamo a Monteriggioni.”

"E perché? Nessuno de loro sa legge. E poi nun posso mica racconta' che sto a 'mpara a uccide 'a gente. Loro nun sanno gnente d'assassini, templari e tutto er resto...e più a lungo ne restano fori, più ar sicuro saranno."

Mi ammutolii, riflettendo sulle sue parole. Aveva ragione.

Il silenzio tra noi ristagnò per qualche istante, finché non lo spezzai di nuovo.

“Martino?”

“Sì?”

“Mi dispiace per questa mattina.”

"Perché? Ch'è successo stamattina? L'ho già dimenticato."

Sorrisi di quella sua premurosa bugia.

“I tuoi fratelli…ti mancano molto?”

Si strinse nelle spalle. " 'n po'."

Ma sotto la sua finta leggerezza io vedevo finalmente il cuore di Martino. Gonfio di pianto, come quello di Veronica, di Agamennone, di Nicola. Pieno di rabbia e di domande. In quei mesi non aveva chiesto nemmeno una volta di poter raggiungere la sua famiglia, né di mandare un messo per avere loro notizie. Si era dedicato all’addestramento con più disciplina di quel che avevo considerato, senza mai mettere la ricerca di sua madre davanti alle necessità più impellenti della Confraternita. Aveva ubbidito a ogni ordine di Ezio, e scherzato con noi con una maschera di abbagliante allegria sul volto, nella paziente attesa di essere finalmente pronto a compiere la propria vendetta.

Mi sentivo una grandissima stupida: come spesso capita in queste situazioni, anche quella volta coprii la vergogna con un fiume di parole.

“Ci vendicheremo di tutto questo, vedrai. Uccideremo Ermes Bentivoglio, che ha ammazzato la madre di Agamennone e il padre di Nicola. Faremo fuori Strozzi per Veronica. E troveremo il templare che ha rapito tua madre, ne sono certa. Ti prometto che la riporteremo a casa.”

“Biancare’, tu fai promesse più grosse de te.” Esitò un attimo "Senti...dispiace pure a me. Per bacio, sai. Pensavo che ar massimo me davi 'n ceffone e finiva lì."

Aveva un bel sorriso. Puro, infantile quasi. Distolsi gli occhi dai suoi.

“Non avrei dovuto dirti quelle cose orribili. Non le penso affatto.”

Sentii il fruscio delle coperte. Si era sporto verso di me, percepivo in maniera pressante la sua vicinanza. La sua voce bassa e un po' roca mi diede un brivido. "E se mo te ribacio, che fai? Me picchi o m'ensurti?"

Gli rivolsi un sorriso malizioso. “Dovresti riprovarci per saperlo, Semeraro Martino.”

Con quelle parole mi alzai e me ne andai, lasciandolo con un palmo di naso.

 

***

 

Il giorno successivo, le ragazze di Camilla arrivarono da noi con una novità. Strozzi era arrivato a Firenze: da voci di taverna avevano scoperto che l'incontro con la Bucelli si sarebbe tenuto quella notte stessa, dietro Santa Croce.

Martino, naturalmente, aveva insistito per venire. La Volpe si era rifiutata: non voleva ingombri in battaglia. “Se ti si riapre la ferita ci sarai solo di peso” disse, e lui, pur bofonchiando una qualche maledizione ai suoi antenati, ubbidì.

“Voglio Marescotti appostato sul tetto di palazzo Cocchi-Serristori. Auditore: tu, sul tetto della Chiesa. Il vostro compito sarà eliminare gli scagnozzi dei templari, di certo avranno messo qualcuno a pattugliare la zona. Fracassa, tu devi avvicinarti abbastanza per ascoltare ciò che si diranno, e seguirli, se necessario”

Ricevemmo quegli ordini annuendo, serissimi e concentrati. Poi, Veronica disse:

“E a quale punto di questo illuminante piano li togliamo di mezzo?”

Gli occhi viola della Volpe si strinsero a due fessure. “Non ho parlato di ucciderli. Soprattutto Strozzi...ci serve vivo. E' una potenziale miniera di informazioni su Lucrezia Borgia e ciò che sta cercando a Firenze. Senza di lui siamo fottuti.”

“Non posso ubbidire” sbottò Veronica. La Volpe abbaiò per tutta risposta:

“Allora sarai esonerata dalla missione.”

“Non potete farmi questo! Io devo ammazzarlo, quel porco! Devo ammazzarlo con le mie mani, è per questo che sono qui!”

Presi da parte la mia amica, per farla calmare: ma Veronica pareva uscita di senno, aveva gli occhi sbarrati e respirava affannosamente.

“Potrebbe condurci da Lucrezia Borgia, non lo capisci?” le bisbigliai all’orecchio.

“Siete voi a non capire.” Con un gesto secco, mi scostò da sé. Di fronte a tutti gli altri, si strappò la camicia. Cercai di fermarla, ma lei si divincolò con rabbia: “Guardate, fratelli. Guardate se Ercole Strozzi merita di vivere!”

Prima cercai di aiutarla a rivestirsi; poi, notai i segni sul suo addome. Violacei, lividi, orrendi. Mi scostai, mentre Veronica mostrava senza vergogna i seni grandi. Sotto di essi, dallo stomaco fino a sparire sotto l’ombelico, qualcuno aveva tracciato con la punta del pugnale la parola PUTTANA, spezzata a metà dalla croce templare.

Fissai quelle orrende cicatrici, con sconcerto e rabbia crescente.

Veronica ci guardò tutti negli occhi, per essere certa che le avessimo guardate bene. Solo allora, si coprì, stringendosi addosso i lembi della camicia come una bimba fa con una bambola. Sedette sul divanetto, a testa china, il volto nascosto tra i capelli rossi.

Notai a malapena che Camilla faceva un cenno a Diamante. La Volpe scosse il capo, sospirò e infine disse duramente: “Tutti portiamo delle cicatrici, fisiche o meno. Se permetti al dolore di offuscare la tua fiducia nel Credo, non sarai mai un’assassina.”

Le rivolsi un’occhiata incredula; ma la donna era già uscita dalla stanza, senza permettermi di ribattere.

Camilla, più comprensiva, si inginocchiò accanto alla nostra consorella, accarezzandole i capelli rossi.

“Penso che dovresti raccontare loro la tua storia, tesoro. Sono i tuoi fratelli...meritano di sapere.”

Per un momento il terrore balenò sul volto di Veronica. Le labbra le tremarono: sembrò stesse per piangere. Ma non lo fece.

“Avete ragione” mormorò. E con enorme fatica aggiunse: “Ecco…i fatti si sono svolti così.”

 

*

Veronica ha quattordici anni quando Isotta va sposa. Ricorda l’abito dorato e bianco, che si intona con la carnagione chiara e i capelli biondi di sua sorella. Veronica le invidia i capelli biondi. I suoi sono di un colore indefinibile. Biondo scuro, li chiama sua madre. Color topo, ridacchiano le amiche, quando credono che lei non senta.

Sciocchezze, sono invidiose. Veronica è bella, e lo sa. Lo vede riflesso nello specchio tutti i giorni. Occhi grandi, volto da bambola, bel seno, gonfio, alto. La statura non è granché, ma ha un bel portamento. Anche lei troverà presto marito.

Il garzone di suo padre, Francesco, è d’accordo. Veronica è bella, le sue labbra sono morbide, il suo corpo è caldo. Dice che la ama e la porterà via di lì. Ha lo sguardo penetrante di chi è abituato a dire alle donne quel che vogliono sentire. Ma Veronica è ancora ingenua, si affida alle sue mani e al suo amore. Le promette che chiederà al padre di sposarla, e lei gli vuole credere.

Per questo, quando i genitori le dicono che si sposerà presto, il cuore le salta in petto per la gioia. Ma la speranza svanisce appena le rivelano il nome dell’uomo. Un vecchio decrepito, socio in affari di suo padre. Come il marito di Isotta, che ha le mani sudaticce e rugose, e la palpa sempre, anche in pubblico, per rimarcare il fatto che quella giovane giovenca gli appartiene.

Veronica ha un giramento di testa, si sente male. Pensa alle mani di un vecchio sulla sua pelle bianca. Sa che ne morirebbe. Chiede a Francesco di scappare insieme. Lui acconsente.

La vita per strada non è facile. Francesco è nervoso e impaziente ogni volta che gli chiede quando manterrà la sua promessa, quando farà di lei una donna onesta. Si nascondono in una taverna a pochi spiccioli, fuori dalla laguna. Lui non ha intenzione di lavorare: passa il tempo a suonare il liuto per la strada. Dice che, dopo gli anni da schiavo sotto suo padre, merita di fare ciò che ha sempre amato. Arriva a casa con due monete che qualche anima pia gli getta, stanca dei suoi miagolii. Veronica rimpiange la vita di prima, e quando lui l’abbandona, una notte, finge di non sentire i suoi passi che si allontanano. Si sente quasi liberata. Non sa che è solo l’inizio dell’incubo.

Per prima cosa, va da Isotta. Non da suo padre, sa che la ucciderebbe. Il perdono non è mai stata una virtù di famiglia.

Sua sorella è rimasta vedova presto, con un figlio e una buona rendita. Veronica ha dovuto supplicare una serva e darle quei pochi zecchini sottratti a Francesco, ma alla fine l’hanno portata dalla signora. Isotta trasale quando la vede. Veronica si getta ai suoi piedi, domanda perdono. Le chiede di intercedere presso il padre, farà qualunque cosa.

Isotta è gelida. La allontana come se avesse la peste. Come se potesse contaminarla con il suo peccato imperdonabile. Però promette che intercederà per lei presso il padre, le dà perfino qualche soldo per sopravvivere. Ma quando viene il giorno in cui finalmente Veronica rivede i genitori, è trattata come una puttana, schiaffeggiata e umiliata. Capisce che non c’è più posto per lei in quella casa. Nell’ira, per sciocco orgoglio, getta addosso al padre i soldi che Isotta le ha dato. Senza uno zecchino, disperata, si ritrova di nuovo per strada. Ha quindici anni e la sua vita è già finita.

Affamata, stanca, distrutta, si trova quasi per caso alla porta della Rosa della Virtù. Conosce la fama di quel posto, ma ha fame e i piedi le sanguinano per quanto ha camminato. E pensa che, dopo tutto, tra essere considerata una puttana e diventarlo per davvero non c’è una grande differenza. Per questo bussa alla porta di Teodora.

Oh, quella donna. E’ stata per lei tutto quello che aveva perso. Una madre, una sorella, un’amica. Deve aver visto qualcosa di speciale in lei, forse la determinazione. Prima le concede soltanto asilo e amicizia, chiedendo in cambio di fare le pulizie. Poi, le parla del conflitto tra Templari e Assassini, della loro eterna guerra. Non tutte le ragazze della Rosa della Virtù sono assassine, ma lei potrebbe diventarlo. Se questo è suo desiderio, naturalmente.

Veronica pensa che deve tutto a Teodora, le ha messo la vita tra le mani quando era così fragile da spezzarsi con un soffio e lei l’ha risollevata. Non l’ha costretta a lavorare nel bordello, mai. Ma dal giorno in cui decide di contribuire alla guerra degli Assassini, Veronica si tinge i capelli di rosso e inizia a darsi agli uomini, per ottenere da loro informazioni.

Ed è qui che accade l’irreparabile. Quando, indagando sul poeta Pietro Bembo, scopre che Isotta è diventata l’amante di un templare.

Veronica si affanna, cerca, domanda, quasi scopre il fianco pur di avere il nome dell’uomo. Non ha ancora mai ucciso: la prima volta succede una notte in cui sta rientrando dalle sue ricerche. Ha fatto tardi nel letto di un notaio, un amico di Bembo. Ha fatto qualche domanda di troppo, l’amante è diventato sospettoso e l’ha cacciata con la metà del compenso promesso. Sa che Teodora sarà furiosa con lei, perché si muove come un cane sciolto e mette in pericolo se stessa e l’Ordine. Veronica cammina mentre la sua mente cerca di ricostruire le poche informazioni ottenute. L’amante di Isotta è un ferrarese, anche lui poeta, uno zoppo…

Poi, un rumore nel vicolo vuoto. Veronica è stata addestrata da Teodora e reagisce d’istinto. Per fortuna.

Si volta e inchioda l’addome dell’uomo al muro, con uno dei lunghi stiletti che porta infilati nella giarrettiera. Lui, con gli occhi sbarrati, abbassa il pugnale che stringe in mano, e che stava per affondarle nella schiena. Inconfondibile, la croce d’argento con i rubini esce dalla giubba del morto.

Dunque, il templare ferrarese sa che lei è sulle sue tracce. Non ha più tempo.

Irrompe a casa di Isotta, una notte. Vince la sua incapacità quasi totale nell’arrampicarsi, ed entra dalla sua finestra. La sorprende alla toletta: la donna la vede nello specchio, fa per urlare, poi la riconosce, si congela.

Veronica le spiega, le racconta ogni cosa. Assassini, templari, guerre millenarie per la supremazia o la libertà del genere umano. Non deve fidarsi dei templari, la calpesteranno per i loro scopi. Il suo amante è il peggiore dei criminali, non deve lasciarsi coinvolgere in questo sporco gioco.

Isotta prima ride; poi, davanti alla sua determinazione, cambia tono. La supplica. Quali idee folli le ha messo in testa la vita dissoluta? Perché non lascia il bordello, una volta per tutte? Lei può farle vivere un’esistenza decente, darle dei soldi e farla fuggire lontano perché ricominci daccapo. Veronica è furiosa: vuole che Isotta capisca la gravità della situazione. Le loro grida allarmano i servi, si sentono rumori dabbasso. Veronica fugge dalla finestra: il suo primo Salto della Fede è al buio, e solo la fortuna fa sì che cada nell’acqua fetida del canale, invece che su un pontile o dentro una gondola ormeggiata. Riemerge, e, mentre scivola silenziosa tra le calli di Venezia, sente Isotta che chiama da lontano il suo nome.

Una settimana dopo, giunge al bordello un messaggio di Isotta, portato da una delle sue serve. Avevi ragione, su tutto. Ti prego, devo parlarti.

Teodora non vuole lasciarla andare. Di fronte alla sua determinazione cede; ma insiste che, almeno, non sia sola. La manda insieme a due ladri di Antonio. L’ingresso è quello dell’altra volta, attraverso la finestra lasciata aperta per lei.

Qualcosa non va, lo intuisce subito. Nella stanza, una sola candela accesa. Isotta è bianca come un morto.

Mi dispiace” mormora “è per il tuo bene.”

Gli scuri vengono chiusi di colpo. Molti uomini li sopraffanno; cerca di combattere, ma la colpiscono alle spalle e cade in ginocchio. Un colpo alla nuca la stende a terra. I due ragazzi che la accompagnavano…uno ucciso sul colpo, l’altro portato via, come lei. Torturato a morte, ha ceduto dopo due giorni di garrotta.

La tortura, la subisce anche lei, dal momento in cui si risveglia negli scantinati del palazzo di Pietro Bembo e si trova davanti la faccia dello zoppo Strozzi. Magra, con poca barba biondiccia. Untuosa. Sadica.

Lui sorride, mellifluo.

Mi hai trovato, tesoro.”

Inizia l’agonia.

 

Gli occhi di Veronica erano trasparenti. Svuotati di ogni sentimento, perfino il dolore, perfino la rabbia. Come se nel raccontare la sua storia se ne fosse, finalmente, liberata.

“Stozzi e i suoi non mi hanno risparmiato nulla. Nulla. Ero una puttana, dopo tutto: secondo loro avrei sentito soltanto il solletico. Si divertivano con me tutti insieme, come bestie. Mi tenevano incatenata per le braccia e facevano di me ciò che volevano. Ma io non ho parlato. Non ho tradito Teodora, mai, ve lo giuro. Non ho detto una parola.”

Sentivo la gola secca. Le strinsi la mano, e lei rispose alla mia stretta.

“Come ti sei liberata?”

“Teodora e Antonio. Sapete come la pensano: non si lascia nessuno indietro. Bembo e Strozzi erano già ripartiti per Ferrara, maledetti, ma i loro scagnozzi non hanno fatto una bella fine.”

“E Isotta?”

“Ripescata nel Canal Grande due giorni dopo la mia cattura. Aveva il viso sfregiato e una scritta sulla pancia identica a quella che hanno fatto a me. Ma lei…lei non aveva voluto farmi del male, la sua serva me lo disse tempo dopo. Credeva che Strozzi e i suoi uomini mi avrebbero costretta ad accettare il denaro e fuggire con la forza se mi fossi opposta. Voleva darmi l’opportunità di vivere una nuova vita, lontano da tutte le mie scelte sbagliate.” Sospirò. Raccontava come chi non è più dentro al proprio corpo. “Povera Isotta mia, ingenua come una bambina…”

A quel punto, Agamennone si inginocchiò ai suoi piedi. Solenne, come un cavaliere degli antichi tempi. Non avevo mai visto tanto tumulto nei suoi occhi, dalla notte in cui era arrivato a casa mia dopo la strage di Bologna.

“Le mie frecce berranno il sangue di quell’uomo. San Sebastiano al suo confronto avrà sofferto il solletico. Te lo prometto.”

Lei gli rivolse un sorriso dolce. Poi guardò Martino, e infine me.

“Mi dispiace. Per molto tempo…non mi sono fidata delle persone. La mia famiglia mi ha rinnegata e poi tradita. Ma adesso, con voi…io credo di averne trovata un’altra.”

“Ma certo!” esclamò Martino, quasi ruggendo “Te vendicheremo, sorella mia."

Non so cosa provassi in quel momento. Se fosse maggiore l'indignazione, o l'orrore, o la voglia di fracassare il cranio di Strozzi con le mie mani. Ma una cosa era certa: ora capivo molte più cose di Veronica, ed ero annichilita dalla sua forza. Se avessi subito ciò che lei aveva subito, forse non sarei nemmeno riuscita a reggermi sulle mie gambe. Invece lei aveva impugnato di nuovo le armi. Aveva ricominciato a combattere, per se stessa, per la sorella uccisa, e per quel Bene Superiore che Ezio ci indicava sempre. Mai mi parve più bella che in quel momento, in cui avevo scoperto quanto fosse indomabile il suo spirito e forte la sua volontà.

“Cautela, ragazzi” ingiunse Camilla. “Capisco ciò che provate adesso...ho perso molte delle mie ragazze in questi anni per colpa di animali come Strozzi. Ma ricordate ciò che ha detto Diamante. Lui ci serve...almeno per ora.” Strinse forte la mano di Veronica. “Ma quando avremo trovato ciò che stiamo cercando...”

Lasciò la frase in sospeso, e noi allievi assassini ci scambiammo uno sguardo. Sì, era vero, la vendetta non era lo scopo primario del nostro ordine...ma in quel caso avremmo fatto un'eccezione.









Ps: per mantenere un dialogo un po' più agevole con chi segue questa storia ho creato una paginetta senza pretese su Facebook...http://www.facebook.com/pages/Bianca-come-il-Peccato-Assassins-Creed-II-Fanfic/191084377576858?v=wall . Iscrivetevi se vi va :)

 

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Capitolo 20
*** La magia non esiste ***


Riassunto delle puntate precedenti: QUI (e se vi va di chiedermi l'amicizia, vi accetterò molto volentieri ^_^ )

Firenze, Febbraio 1506.
Una vecchia bottega nel distretto di San Giovanni.

 


“...e poi sono tutte uguali.”

Leonardo si accigliò appena, continuando a fissare il foglio mentre tracciava movimenti veloci di sanguigna sul blocco da disegno. “Impossibile. Non esistono due esseri umani uguali sulla faccia della terra.”

Sbuffai, e il soffio mi scostò una ciocca ribelle di capelli. “Eppure è così. Martino e Agamennone dicono che sono tutte identiche.”

Non sono mai stata capace di stare ferma per più di qualche istante, a meno che non ne andasse della mia vita: figurarsi quanto quella seduta di posa potesse farmi piacere. Tuttavia, avevo promesso al più caro amico di mio padre che avrei posato per lui, e dopo l'episodio di Veronica avevamo rimandato di nuovo la spedizione: dunque, avevo una gran quantità di tempo a mia disposizione.

Non era stato lo sconvolgente racconto della mia amica a causare quella forzata attesa. In realtà ci eravamo avvicinati a Santa Croce per pattugliare la zona, ma visto l'altissimo numero di guardie avevamo deciso di aspettare prima di addentrarci nella chiesa. Poi era arrivato il contrordine: Camilla ci richiamava alla base. Sulle prime pensavo scherzassero. Quanto ancora dovevamo rimandare?

Quando seppi il motivo, però, non potei protestare. Una delle nostre spie aveva riportato la notizia che di lì a pochi giorni si sarebbe tenuto un raduno di Templari nella Cappella dei Pazzi, proprio in Santa Croce. Forse qualche eminenza grigia del gruppo avrebbe presenziato: non osavamo sperarlo, ma c'era la possibilità che tra loro vi fosse il Gran Maestro ribelle, Lucrezia Borgia in persona. Un attacco di così ampia portata andava programmato in maniera più sistematica, ma Diamante e Camilla sembravano non volerci mettere a parte delle loro strategie: noi allievi avevamo tempo libero, troppo.

“Tu credi” dissi, grattandomi il naso “che Elena possa aver toccato la Mela dell'Eden?”

Leonardo non mosse un muscolo del volto, al contrario di me. “Io credo che dovresti stare ferma” replicò dolcemente. Poi, dopo un momento di riflessione, aggiunse: “Tuo padre toccò la mela, molti anni fa. Non accadde molto, se non...be'...un fenomeno che non riuscimmo a spiegarci, ma che fu piuttosto fastidioso a dire il vero.” Esitò qualche istante. “Anche un'altra persona toccò la mela. Ma su di lei ebbe un effetto del tutto diverso...non abbiamo mai capito per quale ragione.”

I miei occhi si dilatarono subito per l'interesse. Mi protesi in avanti: una ciocca scompigliata mi cadde di nuovo sulla guancia. “Chi? Chi ha toccato la mela oltre mio padre?”

Leonardo scosse il capo incanutito, deponendo la sanguigna. “Se continui così, questo quadro resterà soltanto uno schizzo...scapigliato, per giunta!1” Sospirò, prima di alzare gli occhi celesti su di me. “E' successo parecchi anni fa...era un'assassina. Il suo nome era Gentile...lei sostenne che toccando la mela aveva potuto vedere il futuro della casata dei Bentivoglio. La loro rovina per mano delle truppe papali. All'epoca non potevamo capire cosa intendesse, perché i Bentivoglio erano ancora alleati del Papa. Non potevamo prevedere lo scisma...né tutto quello che ne è conseguito.”

Per poco non caddi dallo sgabello. “La caduta dei Bentivoglio, hai detto?”

Questa volta saltai in piedi, percorsa da una scarica di energia che mi faceva fremere i muscoli. “E' possibile che mio padre sia andato a Bologna per lei? Per questa Gentile?”

“No, lo escludo.”

“Ma Leonardo! Questo è il tassello mancante, spiegherebbe perché mio padre sia andato a...”

“Bianca, Gentile è morta otto anni fa. E' stata bruciata sul rogo.”

Quella notizia spense il mio entusiasmo sul nascere. Riflettei per qualche breve istante: otto anni prima, io ero ancora ignara delle vere attività di mio padre. Non riuscivo a collocare quell'evento nella storia della mia vita, a posteriori: immaginai che gli assassini avessero dovuto provare a salvare questa loro consorella, soprattutto visto che aveva avuto il privilegio di vedere il futuro attraverso la Mela. Cercai di ricordare se avessi mai udito il suo nome dalle labbra di qualcuno di loro. No. Nemmeno l'ombra di un ricordo.

Leonardo probabilmente scambiò il mio mutismo per qualcosa di più di ciò che era.

“Tuo padre è andato a Bologna per controllare la situazione” cercò di rassicurarmi. Io alzai lo sguardo su di lui, mortalmente seria.

“Se ucciderà Ermes Bentivoglio senza Agamennone, lui non glielo perdonerà mai” mormorai. “E nemmeno io glielo perdonerò.”

A quel punto, l'artista ripose gli strumenti del suo mestiere, con un'espressione amareggiata che gli appesantiva i tratti del volto. “Tu e Agamennone siete giovani e assoluti: per voi esistono soltanto il bianco e il nero. Dovresti fidarti di più di tuo padre, Bianca...lui sa cosa significhi vivere per la vendetta, sa quanto ci si senta soli e consumati, fino quasi a spegnersi dentro. Ezio si è salvato soltanto perché sul suo cammino ha incontrato qualcosa di più importante. L'Ordine. Tua madre. I suoi preziosissimi figli. Al di là della sua missione e della vendetta...siete stati voi a dargli qualcosa per cui vivere davvero.”

Accennò ad un sorriso, ma così fragile che provai l'impulso di correre ad abbracciarlo. Impulso che, stupidamente, non assecondai.

“Anche tu fai parte di quelle cose” mormorai. “Per Ezio sei molto importante.”

Leonardo si strinse nelle spalle, iniziò a riordinare. Sarò anche stata il motivo per cui mio padre aveva continuato a vivere...ma agli occhi di Leonardo rappresentavo una sconfitta, in un certo senso. Mi domandai perché non mi odiasse. Al suo posto, io lo avrei fatto.

Annichilita di fronte a quella consolazione che sentivo di non potergli dare, io non trovai nulla di meglio da dire che:

“Devo andare ora. Ma tornerò da te domani.”

Domani, domani. I giovani si riempiono la bocca di questa parola. Per loro il sorgere del sole è sempre garantito...i rapporti sono per sempre, e le persone care sono immortali. Non vivono nel dubbio, vogliono dissipare ogni nebbia. Sono sciocchi. Sono bambini. Sono dèi.

Perdonatemi. Ora sono adulta, e ho perso quella mia preziosissima integrità che continuo a rimpiangere con tutto il cuore. Inizio a parlare come Leonardo anche io. Il fatto è che...ora capisco cosa volesse dirmi allora. Come sempre, comprendo troppo tardi.

 

***

 

Al ritorno verso la Rosa Colta, mentre mi muovevo silenziosa tra la folla, continuavo a riflettere su quella nuova informazione. Elena Bucelli non aveva ottenuto delle copie di se stessa toccando la mela: in compenso, un'altra donna aveva sfiorato il frutto dell'Eden, ricevendone in cambio il dono di una veggenza. Gentile...un nome poco usato dalle mie parti, non l'avevo mai sentito. Curioso da associare a chi ha fatto dell'omicidio uno stile di vita.

Stavo cercando ancora di venire a capo di quella faccenda, quando mi sentii spintonare. Mi bloccai, per rimbrottare la donna che si era scontrata con me con un generico “state più attenta” , badando di mantenere il cappuccio a celarmi il volto.

Quasi mi paralizzai sul posto, quando scorsi la sua figura. Si accostò di nuovo a me: d'istinto indietreggiai di un passo. Ricordavo quel profumo soffocante, le gonne viola con gli spacchi generosi, e gli occhi verde veleno che avevo intravisto da sotto il cappuccio. Era una delle guerriere di Elena.

La donna mi afferrò per il braccio, attirandomi più vicina a sé per bisbigliare.

“Ascoltami, assassina. Ho qualcosa che potrebbe interessarti.”

Non sembrava avermi riconosciuta come la figlia di Ezio. La cosa mi riempì di sollievo. Non sapeva chi io fossi...oppure, lo sapeva, e la cosa non le importava minimamente.

“Cosa vuoi da me?” dissi nel tono più duro che riuscii a trovare. Lei rispose:

“Protezione.”

“Perché?”

“Ho un'informazione che può servirti. Se sei disposta a fare una cosa per me.”

Ripetendo una frase che avevo sentito spesso da mio padre, dissi: “Non trattiamo con i templari.”

Lei sogghignò, come se si fosse aspettata quella risposta. Tuttavia, quello spasmo delle sue labbra mi parve piuttosto un guizzo nervoso.

Mi superò di qualche passo: ero diffidente, ma la seguii, restando in guardia. Il sangue mi pulsava nelle vene contro gli antibracci. Se avesse tentato mosse azzardate, avevo le mie armi.

Mi portò in un vicolo appartato. Il luogo perfetto per farmi sgozzare da lei, sarebbe bastato un attimo...

Calò il cappuccio sui capelli scuri, mostrando quegli occhi dal taglio allungato che parevano inumani. Simili a quelli di un serpente, ora che ci ripenso.

“Mi chiamo Diana” disse la donna, senza nemmeno attendere di sedersi né domandarmi la garanzia del mio silenzio. La sua espressione era rigida mentre diceva, come ripetendolo a se stessa: “Ho vent'anni, sono nata a San Casciano. Sono cinque anni che Elena mi tiene in ostaggio, e con me tutte le altre ragazze...”

Non calai il cappuccio. “Cosa intendi dire?”

Alzò gli occhi su di me. “Ci ha catturate. Prese ad una ad una, scelte in base a non so cosa...forse ha raccolto quelle che sembravano più resistenti. Alcune le ha comprate dalle loro famiglie per pochi soldi”. La donna sputò di lato, in aperto contrasto con i modi eleganti e sinuosi che aveva mantenuto fino ad allora.” Ci portò da una zingara. Ci fece toccare tutte da lei, una per una...la zingara ha fatto solo questo. Ci ha segnato il volto con il dito, formando una croce qui” si toccò la parte destra del volto, che aveva assunto un'espressione di profondo disgusto. “In una settimana...una terribile, infinita settimana di sofferenze, in cui ci sentivamo ritorcere le viscere e strappare la pelle con un uncino affilato da ogni poro...siamo diventate questo. Siamo diventate lei.”

Era assurdo. Era folle. Nessun essere umano possedeva un tale potere.

Mio padre aveva avuto contatti con il popolo degli zingari, in passato. Athingani, li chiamava. Mi aveva raccontato lui stesso di come le leggende sulla loro capacità di maledire fossero state costruite ad arte per tenere lontani i soldati e i malintenzionati.2

“E' una bella favola, ma io non sono una bambina. La magia non esiste.”

Feci per andarmene, quando lei mi tenne per un braccio. Reagii violentemente, scostandola da me: ma prima che potessi attaccarla lei mi mostrò un medaglione che portava al collo.

“Guarda.” Lo aprì. Dentro c'era una miniatura di una bambina paffuta e bionda. “Questa ero io.”

“Non dire idiozie.”

“Lo giuro sull'anima di mia madre, che bruci nel fondo dell'inferno se non è vero.”

“Perché dovrei crederti?”

Mi fissò negli occhi per un lungo momento. “Domani potrei essere morta. Devi andare da mia sorella, vicino a Santa Maria Novella. Devi portarla via da lì, lei e i suoi bambini...lontano da Elena. Quando scoprirà che ti ho aiutato li farà ammazzare come cani. ”

“Se c'hai mentito, giuro che t'ammazzo io, co' 'e mani mie.”

La voce di Martino mi sorprese alle spalle, facendomi volgere di scatto. Se ne stava appoggiato al porticato, con le braccia intrecciate al petto e un'espressione minacciosa che gli tirava le labbra sotto il cappuccio.

Che ci faceva lì, quell'incosciente? Doveva riposare. La sua ferita non era ancora rimarginata.

Per tutta risposta, Elena...no, Diana, aveva detto di chiamarsi così...lo guardò con serietà. “Andate da Dorina, portatela lontano da qui. Vi confermerà lei se ciò che ho detto è la verità. Ma fatelo ora, o il mio sacrificio sarà stato...”

Si interruppe, portando una mano alla gola. Soltanto una lieve stilla di sangue scese come un rivolo sul suo petto, sparendo tra i seni. Oscillò, barcollando in avanti, fino a che le ginocchia non le cedettero.

Altri minuscoli dardi sibilarono nell'aria, mancandoci per miracolo. Martino mi afferrò il polso e mi trascinò via, in strada. Iniziammo a correre, spintonando tra la folla. Un paio di persone caddero vittime dei dardi, scatenando l'allerta generale. Poiché il tiratore non era visibile, le guardie probabilmente pensarono che i colpevoli fossero i due fuggitivi. Iniziarono ad inseguirci ad armi sguainate.

Una volta svoltato bruscamente un angolo, tirai la manica di Martino per trascinarlo in un vicoletto. Ci gettammo in un carro di fieno, stretti l'uno contro l'altra per regolare il respiro.

Si fermarono a pochi passi da noi, ancora sulla strada maestra. Cercai di trattenere il fiato e scacciare il pizzicore che il fieno mi provocava sotto i naso, mentre il braccio del mio compagno mi circondava le spalle.

“Dove sono andati?”

“Cani maledetti...”

Un silenzio. Infinito. Inquietante.

“Di qua!”

Ascoltammo i passi pesanti che proseguivano lungo la strada maestra, senza esplorare il vicolo. Non avrei mai immaginato che la poca scrupolosità delle guardie cittadine mi avrebbe salvato la vita, un giorno: sarebbe successo ancora, negli anni. Parte della strategia militare a cui mi ero addestrata fino a quel momento consisteva nel prevedere tutte le possibili mosse del nemico, attribuendogli un'intelligenza che a volte, per fortuna, non ha.

Ciò che importava, era che il nostro piccolo trucco aveva funzionato, ed eravamo ancora tutti interi. Aspettammo in silenzio di non sentire più il suono dei loro passi. Tutto sembrava calmo intorno a noi, ora.

“Che facciamo adesso?” bisbigliai, cercando di non aprire troppo la bocca per non masticare fili di fieno.

“Annamo a Santa Maria Novella” replicò il mio compagno, attendendo ancora qualche istante prima di uscire dal carro di fieno. “E speramo che nun so' arivati prima loro.”

 

***

 

Le nostre speranze furono disattese.

Diana aveva detto che avremmo trovato casa di sua sorella vicino a Santa Maria Novella. Non fu difficile individuare il nostro obiettivo: una piccola bottega persa in una delle stradine che si diramavano dalla chiesa. Sentimmo un grido. Un pianto di bimbo. La gente intorno sembrava volatilizzata...codardi. Nessuno stava alzando un dito.

All'interno della bottega, ci trovammo di fronte ad uno spettacolo tremendo. Il sicario templare aveva sgozzato la sorella di Diana, lasciandola riversa a rantolare sul pavimento. Il ragazzino più grande, avrà avuto dieci anni, era steso a faccia in giù sul bancone della bottega. In un lago di sangue.

Quando entrammo, il sicario si stava accanendo sul bambino più piccolo. L'aveva pugnalato alla schiena, mentre il bimbo tentava di scappare disperatamente, a gattoni, per nascondersi da quell'orrore.

Vidi Martino inferocito come mai nella sua vita. Il mio amico estrasse dalla cintura un'ascia da lancio, che si conficcò tra le scapole del sicario. Quello fu attraversato da una fitta di dolore, e lasciò la presa sul bambino, che barcollò e cadde a terra, piangente e dolorante.

“Porco schifoso!” ringhiò Martino, afferrando la mandibola del sicario e torcendogli il collo violentemente. Glielo spezzò di netto. L'uomo scivolò a terra, senza un lamento.

Si chinò subito sul piccolo, imprecando. Cercò di tamponargli la ferita, tenendolo delicatamente tra le braccia. Il suo pianto si era fatto flebile.

“Mamma...voglio la mia mamma...”

“A regazzì, resisti. La mamma sta qua, ma te devi esse forte.” Premeva più intensamente, cercando di fermare il sangue. La sua giubba si stava inzuppando di rosso. “M'o prometti? Eh?” Cercava di suonare rassicurante, perfino di sorridergli, ma il bambino si faceva sempre più pallido.

Mi chinai sulla donna, aveva smesso di rantolare. Era spirata.

Le chiusi gli occhi, mormorando la formula. Poi alzai lo sguardo su Martino e il bambino. Mi strinsi le braccia al petto per impedire all'angoscia di sfondarlo.

“Ho...ho freddo” disse il piccolo.

L'espressione di Martino crollò. Lentamente, il mio amico smise di tamponare la ferita. Lo tenne soltanto tra le braccia, come a cullarlo.

“Dormi, piccole'. Dormi. Quanno te sveji c'hai la mamma tua vicino a te.”

Lo strinse a sé per interminabili minuti, durante i quali sentii il mio respiro fermarsi e i pensieri morire. Poi, Martino mormorò, con quel suo forte accento: “Requiescat in pace.”

Non so per quanto tempo restammo lì, in mezzo alla carneficina. Sapevo che dovevo chiudere gli occhi anche al ragazzino più grande: mi alzai, con profonde fitte che mi attraversavano il ventre, ed eseguii quell'estremo gesto di rispetto. Non avevo potuto salvare né lui, né sua madre, né suo fratello..dovevo almeno fare questo.

Quindi, guardai Martino. Aveva gli occhi rossi e furenti, mentre continuava a stringere il piccolo a sé. Forse pensava ai suoi fratelli. Li immaginava al posto di quei due innocenti.

Gli poggiai la mano sulla spalla.

“Martino.”

“Dovemo seppellilli.”

“La tua ferita si è riaperta.”

Era vero: il sangue sulla giubba non apparteneva solo al bambino. Lui grugnì una risposta che non capii.

“Martino, dobbiamo andare. Ci sono le guardie nei dintorni, daranno la colpa a noi se ci trovano.” Mi chinai su di lui, con un tono di supplica nella voce. “Martino, ti prego, vieni via. Li seppelliranno. Ma adesso dobbiamo uscire da qui.”

Lo sapeva anche lui. Alzò su di me uno sguardo che non dimenticherò mai. Addolorato, furente, più forte di mille parole.

Depose il bimbo sul pavimento, accarezzandogli la guancia che iniziava a raffreddarsi. Forse in quel momento, dentro di sé, stava giurando di vendicarlo.

Uscimmo da quella casa di soppiatto, ma svuotati completamente della nostra anima. Fu come addormentarsi nell'ingenuità dell'infanzia e risvegliarsi di colpo adulti. Nauseati. Stanchi.

Tutto ciò che avevo provato prima d'ora, durante quella mia prima missione, era stupida ambizione e volontà di mettermi in luce di fronte a mio padre. In quel momento, qualcosa dentro di me si ruppe, cambiò, evolse per sempre. In quel momento che giurai a me stessa che avrei eliminato Elena Bucelli con le mie mani...non perché provavo rabbia, indignazione o rancore. Ma solo perché era necessario, per evitare che orrori simili accadessero di nuovo.

 

***
 

Riportammo ciò che avevamo appreso ai nostri confratelli. Davanti a Camilla e La Volpe, raccontammo di Diana, di come fosse stata uccisa davanti ai nostri occhi e con lei la sua famiglia. Raccontammo quello che la sosia di Elena ci aveva rivelato: il tocco di una zingara l'aveva resa identica alla cortigiana.

“Idiozie” disse Diamante, alzando a malapena la testa. “Nessun essere umano può fare niente del genere.”

“Nessun essere umano” ribattei “che non abbia toccato un frutto dell'Eden.”

Camilla mi scrutava come se volesse leggere oltre la pelle del mio volto. “A parte tuo padre e Altaïr, non conosciamo nessuno che abbia toccato la Mela senza esserne soggiogato.”

Ero indignata. Non potevano non sapere. Mi stavano mentendo apertamente, e pretendevano che ingoiassi il rospo?

Credete che non sappia di Gentile?”

Negli sguardi delle due donne passò un lampo di allarme. “Chi te l'ha detto?”

Non importa. Io so che otto anni fa una donna di nome Gentile è stata bruciata al rogo a Bologna. So che era un'assassina, e che aveva toccato la mela dell'Eden...e la Mela le aveva mostrato la caduta dei Bentivoglio.” Lasciai gravare quelle parole su di noi, perché anche i miei compagni le afferrassero bene. Nonostante non li stessi guardando, sapevo che i loro sguardi erano incollati al mio volto adesso. “Mio padre è a Bologna perché la profezia di Gentile si sta avverando. E sospetto che non sia solo questo...doveva esserci dell'altro, non è vero? Qualcosa che ha a che fare con il terzo frutto dell'Eden. Qualcosa che volete tenerci nascosto.”

Lo sguardo di Diamante sembrava volermi trapassare da parte a parte; quello di Camilla, invece, era più che altro stupito.

“Maestre...è la verità?” mormorò Veronica.

“Non dovete saperlo, ora” ripeté La Volpe, dura. “Parte integrante del Credo che avete abbracciato è l'ubbidienza e la fiducia nel vostro Mentore. Se vi opponete a questa legge, potete anche deporre le vostre lame celate e andarvene. Sapete da che parte è la porta.”

Quella minaccia mi bruciò in petto: era una sfida bella e buona, e sul momento provai il bisogno impellente di raccoglierla. Come avrebbero spiegato a mio padre la mia uscita dalla Confraternita?

Poi sentii la mano di Veronica stringermi il polso, e la figura allampanata di Agamennone portarsi accanto a me e Martino. Il sostegno dei miei compagni mi impedì di compiere uno stupido colpo di testa.

Quattro paia d'occhi adesso si erano fissati sulle nostre maestre, adamantini.

“Con tutto er rispetto che ve devo, Maestra...se uno de noi esce da qui” disse Martino “escheno tutti.”

“Cinque anni fa” aggiunse Agamennone “la mia famiglia è stata massacrata dai Bentivoglio.” Parlava in tono greve, ma pacato, senza quasi emozione. “C'erano cadaveri ovunque, sotto i portici, per le strade, sulle porte delle case. Ho visto mia madre che veniva violentata dai soldati di Ermes e Annibale prima di essere assassinata. Scappando, ho calpestato il cadavere di mio fratello. ” Si fermò un attimo con gli occhi in quelli di Diamante. “Credo di avere il diritto di sapere cosa sta succedendo nella mia città adesso.”

Era un ammutinamento in piena regola. Mi volsi per guardare i miei compagni, riconoscendo per la prima volta in noi dei veri Fratelli di Lama. L'ubbidienza ai capi era fondamentale, ma sono certa che fosse ancora più essenziale il senso di fratellanza che stavamo condividendo in quel momento.

Diamante torse la bocca in un'espressione nervosa, ma quella rabbia si allentò quando la mano di Camilla si posò sulla sua spalla.

“Ebbene: vi diremo tutto ciò che possiamo” disse la cortigiana. “Ma quello che sappiamo in realtà non è molto di più di ciò che sapete voi.”


Gentile Budrioli era la sposa di un notaio bolognese. Una donna dall'intelletto incredibile, unica studentessa dell'Università di Bologna in un consesso di uomini, nonché guaritrice di chiara fama. Molti anni prima aveva nascosto Mario Auditore – il mio cuore saltò un battito – che aveva trovato ferito sulla cima della sua casa, il torresotto di Portanova. Lui le aveva parlato del Credo, e l'aveva convinta ad unirsi agli Assassini.

Gentile era abile, ma anche ambiziosa. Era riuscita a diventare una delle dame più stimate di Ginevra Sforza, la moglie del templare Giovanni Bentivoglio; eppure, non riusciva a rinunciare all'innegabile popolarità che una tale ascesa le aveva portato. Non voleva agire nel buio...ed ecco perché la sua luce si era spenta tanto presto. Si era arrischiata ad entrare nel letto del Signore di Bologna per ricavare da lui preziose informazioni, ma una volta che Ginevra ebbe scoperto quella tresca la volle mandare al rogo.

Madonna Gentile aveva toccato la mela per un motivo che Camilla non conosceva, nel periodo in cui essa era nelle mani di Mario. Per smania di conoscenza, probabilmente. Ma non era sola, in quel momento cruciale...insieme a lei c'era la sua assistente, la zingara Zenobia. Poco dopo quell'episodio, per un motivo che Gentile non aveva mai voluto raccontare nemmeno a Mario, i rapporti tra lei e Zenobia si erano bruscamente interrotti: la zingara aveva ripreso la sua vita nomade, sparendo dalla circolazione senza lasciare traccia.

“Dunque, la storia della zingara non era una bugia” valutai quasi tra me. “Potrebbe aver toccato anche lei il Frutto dell'Eden.”

Veronica mi guardò, preoccupata. “Esiste una persona con un tale potere...e si sta aggirando indisturbata!”

Fu Agamennone a trarre la conclusione più ovvia, a quel punto. “E' per lei che Ezio è andato a Bologna. Vuole raccogliere informazioni su questa zingara...è così?”

“Anche, sì...ma non solo per quello” Camilla sospirò. “Ci sono cose che solo Ezio può rivelarvi...e lo farà a tempo debito, quando lo rivedrete.”

Quel tempo sarebbe arrivato molto prima di quanto tutti credessimo.





Note
1
Non a caso...questo schizzo è La Scapigliata, ovvero il bozzetto preparatorio alla Leda :)

2So che nella mia versione della storia Ezio non è mai andato a Costantinopoli...ma non ho resistito a fare questo anacronistico richiamo a Revelations :)



NdRuna:
YAY!!! Non sapete quale sia la mia gioia e la mia emozione nel pubblicare questo capitolo, dopo un anno di assenza. Come avevo già anticipato via messaggio privato o sulla pagina Facebook di BCP, questo anno e quello precedente sono stati una successione di situazioni antipatiche e problemi da risolvere che mi hanno tenuta lontano dalla scrittura, facendomi passare completamente l'ispirazione. Ora che le cose iniziano ad ingranare molto meglio, mi sono rimessa seriamente sulla storia di Bianca, cambiando quello che non mi funzionava nella trama e consultandomi con fantastiche persone (Ilaria, dove sarei senza di te? <3 e un grazie di cuore anche a Giulia-Cece, il suo consulto e il suo supporto sono stati fondamentali per farmi ricominciare a scrivere la storia di Bianca <3) che mi hanno dato la giusta carica per riprendere tutto, con più energia di prima. In questa giornata di neve che mi ha impedito (dispiacere, dispiacere) di andare al lavoro, sto terminando di scrivere il capitolo 24: ho preferito mettermi un po' avanti, così che gli impegni vari non mi impediscano di pubblicare a cadenza più o meno regolare. Cercherò di caricare il nuovo capitolo intorno al 2 di ogni mese, speriamo che questa nuova organizzazione funzioni XD

Grazie a tutti, tutti, tutti. Il vostro sostegno e i vostri messaggi di risposta quando ho detto di voler continuare Bianca come il Peccato mi hanno dato una grandissima carica. Ricordo rapidamente chi ha recensito "Cicatrici", Serpe89, Princess of the Rose, le carissime Emy_n_Joz (in bocca al lupo per l'esame di maturità ragazze, io nel frattempo mi metterò in pari con la lettura di Revolution così sarò pronta per il vostro ritorno!), Till_U, Whitelily, _Lilli_: leggere i vostri commenti ha contribuito a farmi capire che non potevo mollare. Grazie anche a cartacciabianca, darkrainbow, Lady Phoenix, Shadow Eyes (cercherò di seguire il tuo consiglio <3), Sheba_Ema94 (il tuo messaggio mi ha commosso! T_T), Nellypan, _Zazzy,  araya e chaska! Spero di non aver dimenticato nessuno, e per scrupolo dico un altro: grazie! XD

Ci aggiorniamo tra un mese con il capitolo 21: "Bambole".

Concludo postando il link a questa splendida illustrazione di Ilaria, e ricordandovi che Gentile Budrioli è un personaggio realmente esistito che sto piegando ai miei loschi piani :) Se vi va di lasciare una recensione, sarò ben felice di sapere cosa ne pensate del proseguimento di BCP. Un bacione, e a tra un mese!

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Capitolo 21
*** Bambole ***


 

Odio agire alla luce della luna.

E' la verità. Si tratta, me ne rendo conto, di una stupida fobia: ma a volte ho l'impressione che quel viso latteo mi guardi e scuota al testa mentre trafiggo una guardia con le lame celate, alle spalle. Che mi biasimi, quando spezzo il collo di una sentinella. Che pensi: tu sei bianca soltanto nel nome.

Quella notte fredda di fine febbraio, nell'Anno Domini 1506, la luna era alta, piena e gelida mentre osservava le mie brutture.

Avevo guadagnato il mio posto accanto al crocifisso che campeggiava sulla facciata di Santa Croce, uccidendo due guardie. La mia veste era già macchiata di sangue estraneo, mentre gli abiti da allievo assassino oscillavano nel vento gelido. L'odore ferroso mi sovrastava, ma non era tempo di provare disgusto per me stessa. La luna se ne sarebbe fatta una ragione. Quella notte era decisiva per la missione, e nient'altro contava.

Martino era rimasto alla Rosa Colta a curare le sue ferite, che si erano riaperte durante la nostra ultima disavventura. Naturalmente, il testardo aveva scalpitato e protestato: ma questa volta Camilla si era imposta in tutta la propria autorità, con mio sommo sollievo.

Agamennone era appollaiato sul camino del palazzo di fronte, in attesa, come me, che i congiurati si presentassero al fatidico appuntamento. Veronica si era appostata, insieme alla Volpe, sul tetto del Chiostro Grande.

Era chiaro perché la Volpe avesse deciso di stare spalla a spalla con la mia consorella. Dopo aver udito la storia di Veronica, pochi giorni prima, sapevo quanto ancora fosse sconvolta per ciò che Ercole Strozzi le aveva fatto, e non avevo idea di come avrebbe potuto reagire trovandolo a pochi metri da sé. Probabilmente, anche Diamante pensava lo stesso.

Se Veronica fosse contrariata da tutto quel controllo, non lo dava a vedere. Da quando aveva condiviso con noi il suo fardello, sembrava l'emblema della calma. Questo mi faceva paura.

Attendere è un'altra cosa che odio. Mio padre ha cercato, negli anni, di insegnarmi a placare la mia furia naturale: ma è stato come insegnare a un cavallo selvatico a portare il morso. Doloroso, e causa di ferite per il domatore quanto per il domato. A tutt'oggi, non so dire se sia riuscita a levarmi di dosso quella selvatichezza che per prima mi ha spinta a gettarmi da un tetto a sei anni, intraprendendo il mio primo Salto della Fede. In tutta onestà, credo di avere ancora reazioni piuttosto ferine di tanto in tanto, ma di questo ringrazio il Cielo. Sono queste reazioni istintive, il più delle volte, a salvarmi la vita.

L'attesa, in ogni caso, non è mai eterna. Non lo fu nemmeno quella sera. Provai un brivido quando scorsi le due figure incappucciate che camminavano veloci nella piazza, tentando di scivolare nelle ombre dei palazzi circostanti per non essere traditi dalla luce argentata di quella notte tersa. Precauzione vana: gli occhi di un Assassino sono addestrati all'oscurità.

Distinsi la sagoma alta e snella di Elena Bucelli, e quella claudicante dello Strozzi. Li vidi aprire una porta laterale, entrare nel chiostro e attraversarlo in gran fretta.

Alzai lo sguardo, e scorsi il segnale della Volpe. Solo un cenno con la mano, ma era ben visibile alla luce della luna. Lei e Veronica attesero che i bersagli fossero spariti all'interno del chiostro, dentro una grande cappella: quindi, iniziarono a scendere rapidamente, per poi nascondersi dietro le colonne. Mi volsi verso il palazzo di fronte, replicai il segnale in direzione di Agamennone. Quindi, imitai le mie compagne.

Scivolai silenziosa nel budello del chiostro, correndo con passo più leggero possibile nell'ombra del colonnato. Veronica e Diamante mi raggiunsero, appiattendosi contro il muro e cercando di guardare cautamente attraverso le finestre alte e strette. All'interno della cappella1 ardevano dei bracieri. Il riverbero della luce tenue danzava sulle pareti ricoperte di stucco bianco, facendo apparire le figure dei presenti appiattite, come se fossero niente più che modelli disegnati sul cartone da un pittore. Nonostante si somigliassero tutti, fu impossibile per me non riconoscere la donna – sì, la donna – che presiedeva la riunione.

Lucrezia Borgia ha una figura inconfondibile, anche sotto un mantello di broccato.

La mia ipotesi divenne certezza quando calò il cappuccio. Pensai subito che pareva invecchiata precocemente, come se il volto fosse crollato per la stanchezza, e i capelli un tempo dorati si fossero fatti d'argento.

Rivederla riaprì una ferita che credevo ormai rimarginata, lavata via dal sudore dell’addestramento, tagliata insieme ai miei capelli. Invece, era ancora lì, e pulsava dolorosamente mentre riconoscevo nei suoi tratti, sebbene raddolciti, quelli del fratello Cesare.
Fui sopraffatta in un istante dalla ragazzina che ero stata e che mi ero illusa di aver ucciso. Poco contava la veste da allievo assassino, poco o nulla importava la lama celata al mio polso. La feci saettare a vuoto, solo per rendermi conto che era reale. Ma il sibilo del metallo non fu una conferma sufficiente...perché, dopo tutto, nulla è reale.

“Bianca.”

Mentre osservavo Lucrezia parlare alla sua confraternita di Templari ribelli, ricordai ciò che mi aveva domandato quasi tre anni addietro. La fiamma nei suoi occhi mentre lo diceva.

Riesci a vedere questo domani, Bianca? Io come Gran Maestro dei Templari, e tu come Maestro Assassino. Potremmo lavorare insieme per costruire un futuro migliore per il genere umano.

Non avevo nulla da temere. Lucrezia era ancora debole. Lo Spagnolo era morto, e Cesare prigioniero. Allora perché sentivo il respiro accelerare, fino a mancarmi?

“Bianca!”

Il sussurro adirato della Volpe mi riportò di scatto al presente. Mi ero sporta troppo a lungo alla finestra, probabilmente mi avevano vista. Merda. Merda! Stavano per uscire dalla cappella!
Veronica e La Volpe si gettarono rapide sul lato orientale del chiostro, arrampicandosi di nuovo sul tetto: io mi trovavo dal lato opposto del muro, se le avessi seguite i templari mi avrebbero subito intercettata. Perciò mi spostai sul lato occidentale, buttandomi alla cieca sui gradini di pietra che conducevano alla porta della Chiesa. Mi appiattii contro il muretto, che per fortuna era abbastanza alto da nascondermi, respirando forte. Sentivo i loro passi poco lontani. Quello zoppicante di Strozzi era il più evidente.

“Ne sono certo! C'era un dannato cappuccio bianco...”

“Sei paranoico, Ercole.”

“Era lì, ti dico! Anche la duchessa lo ha visto.”

Cercai di ricacciarmi in gola il maledetto respiro, che nell'aria gelida di febbraio si condensava in sbuffi di fumo.

La porta della cappella cigolò di nuovo.

Un frusciare di gonne.

“Lascia perdere, Ercole. Devo essermi ingannata.”

La voce di Lucrezia era dolce come la ricordavo.

“Ma, signora...”

“La Chiesa è piena delle guardie scelte di Elena. Se c'è davvero un Assassino qui intorno, se ne occuperanno loro.” Una pausa. Mi chiesi se stessero annusando l'aria alla ricerca del mio odore, come bracchi da caccia. “Il nostro discorso non è concluso. Rientrate.”

I loro passi, il cigolare della porta alle loro spalle. Rimasi immobile qualche minuto, prima di affacciarmi di nuovo. Nella luce della luna mi sentivo nuda e vulnerabile.

Decisi che l'unico modo per salvarmi era entrare in Chiesa. Perciò, socchiusi il pesante portone con tutta la cautela possibile.

Cercai di mettere a fuoco. Nella luce delle candele, c'erano le figure tutte uguali delle guardie di Elena che scivolavano lungo le navate, pattugliandole come se attendessero l'irruzione degli Assassini da un momento all'altro.

Ripensai a Diana, e a sua sorella...ai bambini. Trucidati come bestie.

Ma non potevo distrarmi adesso.

Alla sinistra dell'altare, lo sapevo, c'era la Cappella Bardi...lì poteva esserci la Serratura di cui possedevo la Chiave. Ripetei a fior di labbra i versi che avevo imparato come fossero una canzone, per non scordarli.

O donna di virtù sola per cui/l'umana spezie eccede ogni contento/di quel ciel c'ha minor li cerchi sui...

Scivolai nell'ombra delle grandi colonne in muratura, fermandomi quanto bastava per non essere scorta dalle sentinelle. Ero quasi arrivata alla Cappella Bardi, la prima sul lato orientale dell'altare, quando udii un lieve rumore alle mie spalle. La mano dell'uomo non fece in tempo a calarmi sul braccio che avevo già la lama celata puntata al suo stomaco.
Per fortuna, l'istinto mi aveva impedito di pugnalarlo senza vedere prima il suo volto. Era Agamennone. Quando era entrato? Era stato così silenzioso che non me ne ero nemmeno accorta.

Imperturbabile, il mio amico mi tirò per la manica, portandomi nel budello che conduceva alle cappelle a destra dell'altare. Le guardie pattugliavano con insistenza le navate, come se si aspettassero che ci saremmo intrufolati qui, per cercare il segreto che Gemma Donati aveva impiantato nel loro covo.

“Ho già guardato...non c'è nulla nella cappella Bardi” mi sussurrò.

“Lascia che guardi io” replicai con la mia solita arroganza. Non mi sono mai fidata di ciò che non posso vedere con i miei occhi.

Agamennone arricciò le labbra, contrariato, e prima che una delle guardie di Elena ci vedesse mi trascinò nell'unico angolo buio: il corridoio che conduceva alla sagrestia.

“Che fai?” sibilai. Lui per tutta risposta mi spinse dentro la stanza, prima di chiudere la porta.
“E' l'unico ambiente sicuro. Qui non verranno a cercarci” disse poi, per difendersi dal mio sguardo furente. Mi morsi il labbro per non replicare.

La stanza era in penombra, ma un mozzicone di candela ardeva ancora. Le pareti erano un trionfo di legni scuri intagliati a motivi floreali, sopra cui si levavano affreschi che imitavano le colorazioni dei marmi policromi. Un ambiente impressionante, che per un momento mi soverchiò.

“Deve esserci un altro modo per accedere alla Serratura” bofonchiò Agamennone, a voce più bassa possibile “La Cappella Bardi è troppo esposta, potremmo setacciarla meglio solo uccidendo tutte le guardie di Elena.”

“E allora che stiamo aspettando? Siamo o non siamo assassini?”

Lui alzò un sopracciglio. “Ti ricordi cos'hanno fatto a Martino?”

Storsi il naso. Nel combattimento corpo a corpo, Martino e Agamennone mi erano di certo superiori, e si erano quasi trovati a soccombere contro le guardie di Elena. Sbuffai, deponendo finalmente le armi. In maniera metaforica, è ovvio.

“Quindi, tu cosa proponi di fare?”

Agamennone scrollò le spalle e iniziò a tastare i muri palmo a palmo, alla ricerca di un passaggio, un meccanismo nascosto, un qualsiasi modo per uscire senza dover passare di nuovo in mezzo alle letali guardie di Elena.

Mentre lui era impegnato in questa operazione, io mi limitavo a osservarlo senza vederlo. Il corpo era immobile, ma la mente cercava freneticamente una via d'uscita a quella situazione. Ripassavo freneticamente quei versi che erano la nostra Chiave. Donna di virtù...l'umana spezie eccede ogni contento...ch'ha minor li cerchi sui...

Iniziai a respirare più lentamente.

Accadde per la prima volta qualcosa di strano. Non so come succeda, ma a volte...a volte il mio sesto senso si unisce alla vista. A volte, se inspiro ed espiro profondamente per più di un minuto, riesco a raggiungere uno stato particolare, che mi consente di vedere quelle che alcuni, in oriente, chiamano “aure”. Mio padre lo definisce “l'Occhio dell'Aquila”. Dice che è un tratto distintivo dei discendenti di Altaïr.

Non riuscivo a parlare, mentre tutto intorno la stanza si era fatta buia. Rilucevano solo alcune flebili luci intorno alle sagome degli oggetti, come le corone causate da un'eclissi. Una figura in blu...Agamennone?

“Bianca, stai bene?”

Mi sentivo oscillare, la testa leggera. Gli addobbi della sagrestia erano ombre stagliate contro la tenebra uniforme del muro. Eppure, la volta affrescata della piccola cappella che custodiva un prezioso crocefisso sembrava rilucere di puntini d'oro, come se fosse un cielo stellato.

Quel ciel...ch'ha minor li cerchi sui...

La flebile luce dorata scivolò dalla volta sul ricco crocefisso, corse sotto i miei piedi. Andò a inondare il cassettone centrale, dove stavano i paramenti sacri dei preti. Girai intorno al mobile rettangolare, sfiorandone gli intarsi con il dito. Su uno dei lati più corti c'erano incisi, in luminosi caratteri d'oro, quattro numeri.

1. 2. 9. 0.
Fu tutto ciò che feci in tempo a vedere, prima che Agamennone mi toccasse il braccio. L'Occhio dell'Aquila si dissolse.

“Hai paura? Non devi, ce la caveremo.”

Per tutta risposta io lo guardai, ancora stranita. Poi indicai il cassettone. “Non lo vedi? Quei numeri...”

Non c'era più scritto niente. Al posto dei numeri, un fregio dorato2, rappresentante una croce raggiante sotto cui campeggiava la scritta: “Spes”. Nient'altro.

Corsi al cassettone, tastai il punto in cui avevo visto le cifre brillare di una luce dorata. Uno. Due. Nove. Zero. Non ne era rimasta traccia.

Cercai di spiegare ad Agamennone ciò che era accaduto, e naturalmente lui non sembrò sorpreso. Nulla al mondo lo sorprendeva mai.

“Sembra una data. 1290...”

Un campanello di allarme mi risuonò nella mente. Smisi di pensare a come fosse accaduto, e iniziai come il mio amico a concentrarmi sul cosa.

Molti eventi erano accaduti nel 1290. L'Attentato di Ravenna, ad esempio.
La supposta morte del vero Dante Alighieri, almeno secondo il mio antenato Domenico Auditore. Ma, più importante ancora...la morte di Beatrice Portinari3. Accarezzai ad una ad una le lettere intagliate che componevano la parola “Spes”. I miei studi di latino erano vaghi nella memoria, ma ricordavo bene il significato di quell'iscrizione...Speranza.

Una delle tre Virtù teologali.

L'unica virtù...attraverso cui la specie umana...si distingue dalle altre Creature terrene!4 Ecco il significato dei versi che avevamo trovato nella tomba di Gemma.

Emozionata, mi avvicinai, e premetti il cuore della croce, spostando tutto il peso possibile sulla mano.
Un “clic”. Una porzione rettangolare del cassettone rientrò, e in un rumore di ingranaggi in movimento il mobile si spostò, per rivelare una scalinata che conduceva nel buio.
Agamennone ed io ci scambiammo solo un'occhiata, prima di entrare.

L’ambiente sottostante aveva soffitti bassi e soffocanti. L’aria rarefatta era pregna di polvere, e non si riusciva a vedere a un palmo.

Procedemmo a tentoni: i corridoi erano stretti e le pareti levigate, scivolose. Non riuscivo a identificare il materiale di cui erano fatte: non poteva essere pietra, era troppo liscia e fredda. Il silenzio era spezzato soltanto dai nostri passi esitanti.

Fui stupita, quando mi accorsi che la strada si diramava in due direzioni differenti. A me e Agamennone bastò un cenno per decidere di dividerci. Sentivo gradualmente più freddo a mano a mano che la sua schiena si allontanava dalla mia: ora avevo le spalle totalmente scoperte, ero vulnerabile a un possibile attacco.

Cercai di procedere aguzzando i sensi, regolando il respiro per placare la sensazione di panico. Ancora una volta, nel semibuio, intravedevo a intermittenza sprazzi di luce dorata. Mi ci concentrai intensamente, aggrappandomi all’unica irrazionale scia che sembrava volermi guidare.

Non so per quanti minuti mi aggirai in quei corridoi, ma quando infine mi fermai per cercare di orientarmi le fattezze del luogo erano differenti. Tutto intorno era scuro, tranne i contorni delle pareti, che rilucevano di un sinistro bagliore color ghiaccio. Mi fermai, ad occhi chiusi, abbandonandomi a quel nuovo stato dei sensi che era l’Occhio dell’Aquila. E nelle pareti vidi il pallido riflesso bluastro della mia sagoma, moltiplicato.

Era un corridoio di specchi. No…un labirinto, di specchi. E ora mi trovavo di fronte a tre strade, con la terribile sensazione di aver girato in tondo fino a quel momento e l’indecisione più totale a guidarmi.

Respirai più a fondo, cercando di non perdere l’Occhio dell’Aquila. La tenue scia dorata si ridisegnò davanti a me. La seguii, un passo dopo l’altro, scendendo scale che sembravano volermi portare al centro della Terra.

Mi arrestai molto prima, in realtà. Avevo intorno a me una stanza dagli alti soffitti: non posso descriverne la forma precisa, perché era segmentata da pannelli di acciaio lucido, che sorreggevano specchi disposti in modo da creare l’illusione di uno spazio infinito che si proiettasse oltre la loro superficie.

In quello stato di coscienza alterata, osservai confusa la mia sagoma grigiastra riflettersi negli specchi, creando molteplici ombre di me. Procedetti a tentoni, sfiorando gli specchi per mantenere il contatto con qualcosa di solido. Mi pareva quasi che il soffitto non ci fosse più, e che il pavimento si fosse fatto liquido sotto i miei piedi. Dio, la mia testa…girava senza sosta, ed io respiravo in fretta, troppo in fretta…

Mi appoggiai con il palmi aperti contro uno specchio, spingendo la fronte sulla superficie fredda nel tentativo di riacquistare il controllo del mio corpo. Presi lunghe, profonde sorsate d’aria, e lentamente il battito del cuore si placò. Il vorticare intorno a me iniziò a dissolversi con l’oscurità, restituendomi i veri colori di quella cripta.

C’erano dei bracieri che ardevano in qualche angolo, riverberando la propria tenue luce da uno specchio a quello di fronte, come in una strana partita di pallacorda in cui il bagliore veniva rimbalzato continuamente. Cercai di seguire quel dedalo confuso, anche se i suoi corridoi riflessi l’uno nell’altro parevano sempre tutti uguali.

Anche se l’Occhio dell’Aquila era svanito, potevo ancora scorgere il tenue scintillio di una traccia dorata. Portata come sono ad affidarmi a tutto ciò che è irrazionale, non potevo fare a meno di seguirlo.

E feci bene, perché per una volta il mio istinto non mi portò guai. Mi condusse anzi proprio a quello che stavo cercando.

Uno spazio ottagonale si aprì tutto intorno a me: ogni linea di quel pavimento convergeva verso la splendida statua, alta più di me, che troneggiava al centro.

Ritraeva una donna. La riconobbi subito. Beatrice Portinari, chi altri? Scolpita nell'ottone, inviolata e preziosa nel suo isolamento eterno. Aveva il volto più dolce che io avessi mai visto, rotondo come quello di una bambola, circondato da dolci boccoli. Così diverso dalla smunta maschera funebre di Gemma Donati. Così...in pace.

Il basamento della statua recava un’incisione:

 

Dentro a li occhi suoi ardea un riso

tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo

della mia gloria e del mio paradiso.”

 

Allora non ne compresi il senso: mi parve soltanto un bell’epitaffio. Non mi soffermai quanto dovuto su quei versi, perché la mia attenzione era completamente catalizzata da ciò che allora mi pareva più importante. Beatrice reggeva tra le mani uno scrigno, semplice, d’ottone anch’esso come il resto della statua. Appena lo mossi mi accorsi che non era stato fuso con il resto: probabilmente era stato posto lì successivamente, sperando che non fosse notato e si confondesse con le mani.

Aprii il cofanetto, non senza un certo timore reverenziale. All'interno, mi aspettavo di veder risplendere come minimo un prezioso diamante...invece, non c'era altro che una cartelletta di cuoio, di cui non riuscii a sciogliere i lacci. Doveva contenere dei documenti antichi...forse, il famoso carteggio. Sulla parte superiore, era incisa un’altra scritta che sulle prime non mi disse nulla di importante.

 

Qual pare a riguardar la Garisenda

sotto 'l chinato, quando un nuvol vada

sovr'essa sì, che ella incontro penda;


tal parve Anteo a me che stava a bada

di vederlo chinare, e fu tal ora

ch'i' avrei voluto ir per altra strada.

 

Sbuffai: ancora versi. Probabilmente Veronica avrebbe saputo parafrasarli e spiegarmi tutto il contesto, l'unica appassionata di poesia nella Fratellanza era lei. Dovevo sottoporglielo subito.

Appena mi voltai, fui raggelata.

Sette delle cortigiane di Elena si aprivano di fronte a me in una formazione rigida, militaresca. Erano tutte paurosamente identiche. Ed erano arrivate silenziose come gatti: non mi ero accorta di essere stata seguita.

L’Occhio dell’Aquila mi aveva lasciato una sgradevole sensazione di nausea. O forse era la suggestione del soffocamento a imprimermi quel disagio fisico. In ogni caso, non era il momento di restare preda di queste sciocche esitazioni. Ficcai la cartelletta nella fusciacca che portavo in cintura.

“Grazie per aver fatto il lavoro per noi, assassina” zufolò una delle Elene, mentre le altre replicavano lo stesso mellifluo sorriso.

Risposi con un sogghigno, cercando di mostrarmi sicura. “Il vostro lavoro inizia adesso.” Feci saettare le lame celate, assumendo una posizione di difesa. Spavalda come sempre, dichiarai: “Se lo volete, venite a prenderlo!”

La prima Elena ruotò il ventaglio, girò su se stessa e cercò di sferrarmi un attacco al ventre: parai quel colpo prima che raggiungesse il suo obiettivo, respingendola con forza. Mi volsi in tempo per respingere un affondo di pugnale da una seconda avversaria, di cui riuscii a scoprire la guardia: le afferrai il braccio, glielo torsi fino a girarla di schiena, e la spinsi verso uno degli specchi. Si incrinò appena. Lo specchio, intendo. Sulla testa di lei si aprì un fiore rosso di sangue: cadde a terra, tramortita.

Avrei voluto finirla, ma non feci in tempo. Una terza guerriera mi fu addosso. Mi piegai, per farla sbilanciare e cadere oltre me; ma la quarta mi anticipò prima che riuscissi a rialzarmi, costringendomi a indietreggiare con una serie di fendenti veloci. Mi spinse con le spalle contro il vetro. Le sue compagne le si affiancarono, incombendo su di me come spettri tutti identici. D'istinto curvai il ventre all'indentro, come a proteggere la carpetta di cuoio che avevo trovato nello scrigno di Beatrice.

“Voi non siete le sue bambole” sibilai “Siete persone, possedete una vostra storia, una vostra mente! Perché state facendo tutto questo per Elena?”

Non mi risposero, ovviamente. Una di loro volse il polso che reggeva il ventaglio, pronta a sferrarmi il colpo mortale.

Sganciai la bomba fumogena in quello stesso istante. Cadde a terra con un “cling” familiare, e pervase la stanza ottagonale di fumo.

Approfittai della nebbia per trafiggere una nemica con la lama celata. Mentre tossivano, accecate, le cortigiane cercavano di menare fendenti alla cieca. Una delle loro lame mi staccò la cinghia dello spallaccio. Decisi che era il caso di fuggire, e mi gettai verso il corridoio da cui ero giunta. Una delle Elene mi fu davanti.

Attaccò, vibrando un colpo dall'alto. Le bloccai il braccio. Lei riuscì, girandolo di scatto, a togliermi l'equilibrio. Caddi. Ero di nuovo alla loro mercè.

La coltre di fumo iniziava a diradarsi, e io fissavo le cinque Elene come si guardano i mostri di un incubo, con la certezza che sarebbero svanite se solo mi fossi svegliata. Gli occhi mi bruciavano. Era davvero finita?

Uno sprizzo di sangue caldo mi inondò il viso. Ci volle qualche istante per capire che non mi apparteneva.
Due lame celate avevano sfondato le tempie di un paio delle mie nemiche. Non feci in tempo a elaborare l'emozione di scorgere il cappuccio nero che era sopraggiunto in mio soccorso: sferrai una ginocchiata ad una terza cortigiana, che si chinò per il colpo: le trafissi la nuca con la mia lama. Dopo avere accoltellato la quarta, mio padre aveva puntato la pistola celata alla fronte dell'ultima rimasta.

Non mi chiesi perché lui fosse lì. Non mi domandai se fosse stato il mio pensiero rabbioso a richiamarlo da me. Ezio era arrivato per salvarmi la vita, e la bambina che è sempre rimasta in me si sentì invasa tutto ad un tratto di una serena fiducia. Ora che c'era lui con me, tutto sarebbe andato per il verso giusto.

“Qual è il tuo nome?” disse mio padre rivolto alla donna, truce, caricando la pistola.

La cortigiana non mosse un muscolo, guardandolo con gli occhi verde veleno spalancati e fieri. “Elena Bucelli.”

Lui sogghignò. “Il gioco è finito. Di sopra, i miei adepti si stanno occupando della vera Elena.” Più cupo, ripetè: “Qual è il tuo nome?”

Con incrollabile orgoglio, la sosia rispose: “Elena Bucelli!”

Ezio le afferrò la gola. Senza forza eccessiva. Solo per minacciarla. “Ti concedo un'ultima possibilità.”

“Io sono Elena…”

“Vuoi davvero morire con un nome che non è il tuo? Vuoi essere solo una copia scartata? La tua vita non vale così poco! Devi combattere per te stessa, non per quella donna!”

“Lei mi ha dato tutto! Io sono Elena! Io voglio essere Elena! E morirò per lei!”
Poi spalancò gli occhi, congelata in quell'espressione determinata e fiera. Si accasciò, ed io vidi il pugnale che le spuntava dall'addome. Si era data la morte con le proprie mani.

Vidi la donna scivolare a terra, e per qualche istante rimasi a fissare quei cadaveri tutti identici. Le parole dell'ultima sosia mi risuonavano nella testa. Quasi non sentii il “requiescat in pace” pronunciato da mio padre, ma mi portai il pugno al petto per istinto, e abbassai il volto dentro il cappuccio come ci avevano insegnato a fare al suono di quelle parole.

Poi, alzai di nuovo lo sguardo su Ezio.

“L'hai trovato?” mi domandò.

Qualunque genitore avrebbe abbracciato sua figlia che aveva appena scampato la morte: ma in quel momento il maestro prevalse sul padre. O forse, fu l'Assassino a prevalere sull'uomo. Non potevo lamentarmene: avevo voluto essere trattata come un'allieva qualunque, eppure questo non impedì a qualcosa dentro di me di bruciare di delusione.

Gli porsi la cartelletta di cuoio. Lui ispezionò i versi che vi erano incisi sopra, accarezzandoli per un momento con le dita prima di spezzare i lacci con un taglio netto della lama celata. Controllò i fogli che vi erano contenuti, facendo attenzione a non rovinarli. Infine, la richiuse.

Mi sorrise.

“Ottimo lavoro, Bianca.”

Non lo vedevo da circa dieci giorni. All'inizio di quella missione mi ero sentita fiera di potermi dimostrare indipendente da lui e grata della fiducia che mi aveva concesso. Nei giorni che erano seguiti avevo ucciso le mie prime vittime, superato una Tomba dei miei antenati, scoperto i metodi di un'altra Maestra, affrontato di nuovo la me stessa bella e sensuale che avevo cercato di soffocare per anni e scoperto che, dopo tutto, mio padre mi teneva ancora all'oscuro della parte più importante dei suoi piani. Eppure, adesso tutte le emozioni contrastanti che provavo nei suoi riguardi si condensarono in una semplicissima frase.

“Lucrezia Borgia...è qui.”

Il sorriso di Ezio si spense. “Lo so. Là sopra sta infuriando la battaglia. Andiamo” disse, avviandosi nei corridoi in penombra con la sicurezza di chi non è confuso nemmeno da un labirinto di specchi. Mio padre ha sempre saputo troppo bene chi è, per lasciarsi confondere dal proprio riflesso.

 

***

 

Non fu in Chiesa che sbucammo, ma in un budello oscuro che, una volta spostata una lastra sulle nostre teste, si rivelò una cripta completamente tappezzata di tombe, dal pavimento alle pareti. Senza curarsi di pestare i sepolcri, mio padre mi condusse verso la porticina di legno della stanza. Sbucammo nel Cortile di Santa Croce. Le porte della Cappella dei Pazzi erano spalancate. Diversi cadaveri giacevano riversi sull'erba: con un colpo d'occhio, mi accertai che fossero guardie templari e cortigiane nemiche. Mio padre si arrampicò sul tetto del chiostro. Lo seguii, più rapidamente che potei.

Una volta sul tetto, potemmo osservare la battaglia che infuriava nella piazza antistante la chiesa. I ladri capeggiati dalla Volpe e diversi mercenari che si tenevano in agguato nei dintorni per darci manforte combattevano contro le guardie della Borgia, che si stavano stringendo a difesa di una carrozza, i cui portelli erano aperti. Senz'altro, doveva trattarsi della via di fuga predisposta per Lucrezia.

Cercai la figura della donna, il suo cappuccio di broccato. La vidi, protetta da Strozzi e Bembo, che cercavano di eliminare i nemici sulla propria strada per aprirle un sentiero sicuro verso la carrozza. Ad una minima distanza, li seguiva una delle Elene, che menava fendenti con il suo ventaglio d'acciaio. Notai che sul suo volto c'era una mezza maschera bianca che riluceva sotto la luce impietosa della luna. Che fosse lei, quella vera?

Non so come Agamennone fosse riuscito ad uscire dal labirinto né perché non fosse venuto a cercarmi: ma era lì, nella mischia, insieme a Veronica, alla Volpe, a Camilla. Estrassi i pugnali da lancio dalla custodia, e li scagliai verso un paio di bersagli per aiutare i miei confratelli. Vidi Veronica correre disperatamente verso Strozzi, con un grido furente e inumano che sembrava provenire dall'oltretomba. Una guardia si interpose tra lei e il suo bersaglio, costringendola a combattere.

Lucrezia e i suoi fedelissimi stavano per raggiungere la salvezza.

Riparati” disse mio padre, mentre puntava la pistola celata dritto verso la Borgia.

Feci come mi diceva, appiattendomi sulle tegole del tetto. Allo scoppio del suo proiettile, fummo subito individuati. I soldati templari scagliarono frecce e colpi di schioppo contro di noi. Ezio rispose al fuoco con una rapida successione di dardi dalla propria balestra, eliminando i tiratori.

Dalla mia posizione non riuscivo a vedere se avesse colpito Lucrezia, oppure no. Ma quando mi sporsi a sufficienza, vidi che a cadere non era stata la Borgia, ma la vera Elena, che si era accasciata tenendosi stretto il fianco.

Non feci in tempo a bestemmiare perché Lucrezia era sfuggita alla morte, che il mio occhio fu attirato da un'altra scena.

Agamennone era riuscito a disimpegnarsi dal combattimento in cui era coinvolto. Incoccò una freccia. La scagliò, colpendo la spalla di Strozzi. L'uomo oscillò con un grido e una bestemmia, ma continuò a correre. Lucrezia e Bembo lo fecero salire. La carrozza partì...senza Elena.

Padre, dobbiamo seguirli!” mi volsi senza fiato, ma Ezio scosse il capo. “Va' ad aiutare gli altri, Bianca. Li seguirò io.”

Gli rivolsi uno sguardo titubante, ma la sua espressione non ammetteva repliche. Lo vidi correre sul tetto della Chiesa e arrampicarsi agilmente sulle sporgenze dei palazzi vicini, seguendo il tragitto della carrozza: mi strinsi nelle spalle, e focalizzai l'attenzione sulla battaglia sotto di me.

Ancora diverse guardie erano in piedi, sebbene gli Assassini e i loro alleati stessero prevalendo. Individuai un bersaglio in un soldato templare, che stava per sorprendere Veronica alle spalle. Spiccai il salto.

Lo inchiodai a terra. La mia lama celata gli si conficcò tra le scapole come fossero fatte di pane.

La mia compagna non si accorse nemmeno che le avevo salvato la vita. Era troppo furiosa per essersi lasciata sfuggire l'oggetto della propria vendetta. Continuava ad avanzare come se ognuno degli uomini e delle donne che capitavano sotto la sua lama fossero Ercole Strozzi, per fare a loro ciò che non aveva potuto fare a lui. Tutto ciò che potei fare, fu proteggerle le spalle da altri attacchi.

In breve, i combattimenti volsero al termine. I nostri stavano avendo la meglio. Facendo vagare lo sguardo, incontrai la figura della Volpe, china su Elena che ancora gemeva per la ferita al fianco inflittale da mio padre. Mi avvicinai a loro.

E adesso vediamo che cos'hai da nascondere” sibilò Diamante, per poi strappare alla cortigiana la mezza maschera di ceramica. Sotto, c'era una cicatrice. Era orrenda, contorta: il segno di un'ustione mai guarita. La maschera si ruppe quando urtò il ciottolato della piazza.

Gli occhi verde veleno della vera Elena ci fulminarono. “No...non guardate! Non guardatemi!”

La Volpe sputò di lato. “Non è la cicatrice a renderti un mostro.” La strinse per il colletto del mantello, sollevandola brutalmente. “Hai devastato la vita di ragazze innocenti e delle loro famiglie...chi ti ha dato questo potere? E' stata Zenobia?” Visto che la donna non rispondeva, la scosse con più forza. “Parla!”

Elena rantolò, sofferente. Mise insieme un debole ghigno. “La zingara era una di voi una volta, lo sapevo quando l'ho cercata. E questo mi ha procurato soltanto più piacere nel fare ciò che ho fatto...” Un singulto le bloccò il respiro. “Non potevo riavere la mia bellezza...ma potevo diffonderla. Potevo rivederla sul viso di altre donne, potevo renderle uguali a me.”

Hai tolto loro tutto ciò che erano...perfino il nome, perfino i connotati!”

Ho dato loro bellezza, ricchezza, e potere. Hanno vissuto la vita che io avrei vissuto...se solo quell'incidente...non mi avesse portato via la cosa più importante...” Il suo respiro affaticato si spense. Diamante non aveva deposto la propria collera, nemmeno nel vederla spirare. Le dardeggiava negli occhi viola e le deformava i tratti del volto, quando sibilò:

La tua vanità ha devastato la vita di troppe persone. E nonostante ciò...” le chiuse gli occhi. “...requiescat in pace.”

 

***

 

“E me so' perso 'na battaja der genere? Ma li mortacci!”

L'esclamazione di Martino non era volta a far ridere, ma mi strappò comunque un sorriso, mentre le ragazze di Camilla erano intente a curare le nostre ferite superficiali. Il mio confratello romano credeva che non lo vedessi, ma mi ero accorta che stava soprintendendo con cura al modo in cui la ragazza che si occupava di me mi stava tamponando i graffi sul volto e sulle mani. Certo, ogni tanto lo sguardo gli scivolava sulla scollatura discinta della prostituta...ma nonostante questo mi desse un gran fastidio, sapevo che era preoccupato davvero per me.

Quella che però aveva ricevuto il colpo peggiore dalla battaglia, e non in senso fisico, era Veronica. La mia consorella non riusciva ad alzare gli occhi dai propri pugni stretti sul tavolo, per l'evidente delusione di essersi lasciata sfuggire il suo nemico mortale. Agamennone le sedeva accanto, a testa bassa.

“Avrai un'altra occasione” mormorai, coprendo una mano di Veronica con la mia. Lei non alzò nemmeno lo sguardo; sbuffò qualcosa di incomprensibile, ma almeno non si ritrasse al contatto.
A quel punto, udii la voce di Agamennone. Bassa e roca, come se si vergognasse profondamente. “Mi dispiace. Volevo portarti la testa di Strozzi.”

“Sei un idiota” ribatté Veronica, in tono duro. Continuava a tenere il volto basso tra i capelli spioventi. “Nessuno ti ha chiesto di farlo.”

“Io ti ho fatto una promessa, e la manterrò. Trafiggerò quell'uomo con tutte le frecce della mia faretra. Pagherà quello che ti ha fatto.”

A quel punto, lei alzò gli occhi sul mio amico. “Sei un idiota, lo ribadisco.”

“Hai ragione.”

“Non voglio che tu mi dia ragione! E non voglio che tu compia la mia vendetta per me.”

Agamennone annuì. “Bene, è giusto. Allora ti aiuterò.”

Martino inarcò le sopracciglia di fronte a quella scena, e mi rivolse uno sguardo complice. Io, sul momento, non capii cosa stesse cercando di dirmi. Agamennone e Veronica non parlarono più: lei si ritirò per riposare, e lui rimase a vegliare accanto alla finestra. Immaginai che stesse interrogando le sue amate stelle.

Con grande insistenza di Martino, infine, andai a riposare anche io. Ma le coperte non accoglievano il mio sonno, anzi, sembravano schiacciarmi contro il materasso e volermi ostacolare in ogni modo. Mio padre era ancora là fuori. Era riuscito a raggiungere Lucrezia? Aveva pareggiato il conto con l'ultima Borgia in grado di potergli nuocere?

Quella domanda mi martellava ancora nella testa, quando, verso l'alba, Ezio tornò alla Rosa Colta.

Gli allievi erano quasi tutti radunati nel salone principale del bordello: chinarono il capo di fronte a mio padre, mormorando “Salute a te, Mentore5” e portandosi il pugno sul cuore.

Meno formalmente, Diamante accolse il capo dell'Ordine con le mani sui fianchi.

“Non ci hai portato la testa della Borgia...dunque deduco che la caccia sia andata male, Ezio.”

A quel punto, mio padre fece scivolare il cappuccio nero sulle spalle. Da quando i suoi capelli erano costellati di così tanti fili argentati?

“Mi hanno seminato poco fuori le mura. Ma abbiamo una preda più importante, per ora. Ce l'ha procurata Bianca.”

Estrasse dalla fusciacca la carpetta di cuoio che avevo recuperato dalla Tomba di Beatrice, e Diamante la osservò con meravigliato stupore. Posò gli occhi viola su di me, esprimendo per la prima volta qualcosa di simile all'ammirazione. Si rivolse di nuovo a mio padre. “E' il carteggio?”

Ezio annuì, mentre la donna gli prendeva la carpetta dalle mani. Lesse i versi che vi erano riportati sopra. “La Garisenda...?” domandò, perplessa.

Agamennone alzò lo sguardo d'improvviso, come se avesse ricevuto un pungolo. “E' una casa-torre di Bologna.” Esitò. “Da quello che ricordo, è in mano all'Arte dei Drappieri.”

Mio padre fissò ancora i versi: probabilmente, stava cercando di collocarli nel proprio mosaico mentale. Quindi, alzò lo sguardo su di noi, che pendevamo dalle sue labbra affinché risolvesse quell'arcano.

E' un errore frequente nei discepoli giovani, pensare che i Mentori possiedano sempre la risposta ad ogni domanda.

“La missione di questa notte ci ha provati, ma abbiamo ottenuto qualcosa di fondamentale. Per oggi, riposiamo...più tardi, i miei allievi ed io organizzeremo il rientro a Monteriggioni.”

Nonostante ardessimo dal desiderio di conoscere l'importanza della Città Dotta nei futuri piani dell'Ordine, nessuno protestò. Eravamo stanchi, e l'idea di poter rientrare entro breve aveva messo nel cuore di tutti una certa nostalgia verso piccola cerchia di mura che chiamavamo “casa”.
 

***


Organizzare il ritorno non fu proprio una passeggiata. Un attacco come quello della notte precedente, nel centro della città, non sarebbe passato inosservato. Se avessimo osato muoverci troppo presto avremmo avuto le guardie addosso...dovevamo lasciare calmare le acque, e poi sparire dalla città. La Volpe e i suoi avrebbero provveduto a corrompere i banditori, eliminare i manifesti su cui campeggiavano i cappucci bianchi e rintracciare i testimoni della strage templare...per convincerli a collaborare, o toglierli di mezzo per sempre.
Ecco a cosa serve appartenere ad una confraternita. Il lavoro sporco viene equamente ridistribuito.

Ci vollero altri tre giorni, perché la situazione fosse sufficientemente calma. Ci dividemmo in piccoli gruppi, come all'andata, per poi ricongiungerci non lontano da Porta San Miniato.

La Volpe forse provò una sorta di commozione nel vederci partire, ma, com'era suo costume, non lo diede a vedere. Il cappuccio celava i folti capelli neri e gli occhi viola, quando alzò la mano per salutarci. Il sorriso ironico che avevo imparato a conoscere le balenò sul volto, mentre diceva:

“Ricordatevi di prendere sempre la sufficienza in sopravvivenza, ragazzi miei. Ci rivedremo presto.”

Da quel momento in poi, cavalcammo in silenzio, con i cappucci ben calcati in testa. Ai carri carichi di merci che affluivano in città, probabilmente apparivamo con gli appartenenti ad uno strano ordine monastico.

Fu in un punto non precisato della campagna tra Firenze e Monteriggioni, che trovai il coraggio di affiancare il cavallo a quello di mio padre.

“Cosa facevate a Bologna?”

Non parve stupito della mia domanda, e continuò a guardare dritto di fronte a sé. “Prestavo una visita al vecchio Giovanni Bentivoglio.”

“Eravate sulle tracce della zingara Zenobia?”

“Come sai di Zenobia?”

“Rispondete.” Poi, accorgendomi che ero stata troppo brusca, aggiunsi. “Vi prego.”

Mio padre mi fissò con i suoi occhi rapaci. Scosse il capo. “No, non ero là per Zenobia. O meglio, non soltanto.” Riprese a guardare di fronte a sé. “Ho parlato con una persona, per chiedergli di sposare la causa degli assassini.”

“E c'era bisogno di usare tutta questa segretezza, per ottenere un alleato in più?”

Lui si umettò le labbra, prima di replicare. “Si tratta di un vecchio debito che ho con zio Mario. La persona che ho incontrato a Bologna è il figlio di una donna che gli era molto cara...Mario non mi perdonerebbe mai se sapesse che l'ho lasciato al suo destino.”

“Il figlio di Gentile Budrioli?”

Vidi il suo sopracciglio inarcarsi. “Sai decisamente più di quanto mi aspettassi.”

“Ho le mie fonti” replicai, soddisfatta di avergli dimostrato che ero venuta a conoscenza di quei fatti senza bisogno del suo aiuto.

Di fronte alla mia curiosità, Ezio ammise: “Tuo zio era molto innamorato di lei. Il figlio non era suo, ma ha fatto di tutto per proteggerlo dai Bentivoglio, fino a che ha potuto. In ricordo di Gentile.” Sospirò. “Ora quel compito è passato nelle mie mani.”

“Capisco. Ma vorrei che me l'aveste detto prima, invece di raccontarmi una bugia.”

Ezio mi rivolse un pallido sorriso. “A volte dimentico quanto sei cresciuta” fece una breve pausa, prima di aggiungere. “La Volpe mi ha detto che ti sei fatta onore. Brava.”

Sorrisi a mia volta, e distolsi lo sguardo, per impedirgli di vedere quanto fossi compiaciuta dal suo complimento.

Naturalmente, avrei dovuto fare i conti con quella parte della nostra storia, un giorno. Avrei incontrato il figlio di Gentile, e avuto modo di scoprire qualcosa di più sul motivo per cui dovesse essere protetto dai Bentivoglio.

Per ora, ero semplicemente contenta di tornare a Monteriggioni, cavalcando accanto a mio padre con la sensazione che quel posto al suo fianco, finalmente, mi appartenesse di diritto.





Note

1E' la Cappella dei Pazzi. Quando sono andata a visitare Santa Croce avevo piani completamente differenti... mi ero concentrata sulla Cappella Bardi, con i suoi affreschi sulla vita di San Francesco, che doveva fungere da portale di ingresso alla Tomba di Beatrice. Ma all'ispezione in loco mi hanno entusiasmato molto di più la più famosa Cappella dei Pazzi (progettata da Brunelleschi e decorata con le stupende opere di ceramica bianca su sfondo azzurro di Luca della Robbia) e la sagrestia (un vero spettacolo di pregiati legni intagliati, le foto non rendono nulla, bisogna vederla dal vivo per capire la meraviglia...), quindi...le ho dovute inserire per forza al posto della meno ispirosa Cappella Bardi XD

2Questo l'ho inventato, in realtà non c'è nessun fregio dorato.

3La lapide in Santa Maria dei Cerchi segnala il 1291, ma è ritenuta inattendibile. La data su cui gli studiosi sono maggiormente concordi sulla morte di Beatrice è il 1290.

4Interpretazione molto, molto personale del verso dantesco. I commentatori sono discordi sull'identificare quale sia questa Virtù...la Speranza, come io ho azzardato? O la Fede? Ho preferito, per gusto puramente personale, optare per la prima. Anche se nessuno può in effetti provare che gli animali non provino speranza.

5Fino ad ora i ragazzi della Confraternita hanno chiamato Ezio “Maestro”; tuttavia, condizionata da Revelations, non ho resistito a dargli l'appellativo di “Mentore”! :)


Note di Runa

Siccome la prossima settimana avrò molto poco tempo e oggi ho bisogno di consolarm...ecco qua il capitolo XXI! So che c'è molta roba, ma mi sembrava impossibile spezzarlo.
Ho avuto la fortuna di visitare Firenze due volte nel giro di pochi mesi, e ovviamente ho setacciato in lungo e in largo Santa Croce. Di fronte alla Sagrestia, ho anche avuto modo di chiacchierare di BCP con una cara amica, Giulia, il cui parere sulla storia ha dato un contributo determinante al fatto che io ricominciassi a scrivere BCP, insieme al costante sostegno ed entusiasmo di Ilaria.
Spero che la risoluzione del ciclo di Firenze vi piacerà...un grande grazie e un bacione a tutti coloro che hanno recensito - visto che ho magicamente scoperto che posso rispondere ad uno ad uno (meglio tardi che mai!) d'ora in poi adotterò questo metodo, che mi permette di rispondere anche un po' più velocemente :)
I prossimi aggiornamenti restano i primi del mese, quindi verosimilmente intorno ai primi d'Aprile. Il fatto però è che il 15 di Aprile partirò per uno stage di tre mesi in Irlanda, e siccome non so ancora quanto tempo riuscirò a ritagliarmi per la scrittura, e soprattutto che tipo di connessione avrò, posterò anche un capitolo prima della mia partenza, come "saluto" diciamo...nella speranza, intorno al 15 di maggio, di avere ormai una connessione internet stabile e poter continuare a postare regolarmente anche dalla verde Irlanda. In realtà credo che questo viaggio, anche se lontano dall'Italia rinascimentale, potrà portarmi nuova ispirazione per BCP <3
Grazie mille per essere passati di qui :)

Lal.
 

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Capitolo 22
*** Il prezzo delle scelte ***


Rientrare a casa dopo quell'iniziazione di sangue e di guerra fu salvifico per certi versi, e molto strano per altri.

Come già mi era accaduto per il mio rientro da Ferrara, infatti, il mio sguardo su ciò che mi circondava si era modificato di nuovo. Ora, nonostante fossi rientrata in un luogo sicuro e famigliare, la mia mente non aveva affatto intenzione di riposare. Era proiettata sulle informazioni che avevo acquisito, sulle esperienze che avevo vissuto e sulle prossime mosse. Mai come nel momento in cui varcammo le porte di Monteriggioni avevo avuto voglia di sedermi nel laboratorio insieme a mio padre per discutere di strategie e nuove missioni.

Allora non me ne rendevo conto, ma stavo cominciando a ragionare come se fossi la sua erede designata.

Ad accoglierci sulla soglia della Villa, solide come statue e con grandi sorrisi sul volto, c'erano Nonna Maria e zia Claudia. Accanto a loro stava la piccola Lisabetta, nascosta dietro le gonne della madre, che ci guardava arrabbiata. Probabilmente non aveva gradito la nostra assenza così lunga, e come tutti i bambini di cinque anni aveva intenzione di farcela scontare con un po' di capricci e scontrosità.

A regazzì!” esclamò Martino appena la vide “Ma com'è possibile che sei ancora più bella de quando t'avemo lasciato?”

Ora, dovete sapere che tra gli allievi di mio padre Lisabetta aveva una preferenza tutta sua: il suo broncio si sciolse come neve al sole di fronte all'affermazione di Martino. Gli volò letteralmente tra le braccia, aggrappandosi al suo collo. “Siete stati via troppo tempo! Avevi promesso che tornavate presto!”

Che sareste tornati” la corresse zia Claudia, che non amava particolarmente quell'amicizia. Tra tutti gli allievi di mio padre, Martino era quello che incontrava meno i suoi gusti: era il più rozzo di modi e di linguaggio, non era affatto istruito, e aveva origini alquanto oscure. Con un sorriso saggio, la nonna le ricordava spesso che quegli stessi orribili difetti l'avevano fatta innamorare di suo marito Ugo, e la zia si limitava a roteare gli occhi al cielo, senza rispondere più.

Emmeno male che state sempre all'erta, voi, Madonna Claudia!” la canzonò Martino di rimando, ma senza alcuna traccia di risentimento. “Nun ve fa mica male rilassavve un pochetto, sapete?”

Zia Claudia storse il naso – in un modo molto, molto simile a quando guardava me, Vanni e nostra madre i primi tempi della nostra permanenza a Monteriggioni. “Qualcuno deve pur mantenere un po' d'ordine, qui. C'è chi si rilassa fin troppo!” sorrise, ma la sua bocca aveva formato più che altro una smorfia sbilenca. Dal mio canto, io non potei fare a meno di ridacchiare tra me, mentre mio padre si chinava su Nonna Maria per darle un bacio sulla guancia e lei sorrideva nella mia direzione. Veronica e Agamennone risero a loro volta di quel siparietto famigliare, iniziando a dissipare la tensione che aveva regnato tra loro e tra noi tutti dopo la battaglia davanti a Santa Croce. Finalmente, respiravamo aria di casa, e di momentanea pace.

Mentre entravamo in casa per ristorarci, venimmo informati che Nicola e Vanni avevamo inviato un messaggio alla loro partenza da Siena: li avremmo rivisti con tutta probabilità il giorno successivo. Ugo e Rosa, invece, non erano ancora rientrati da Venezia, ma avevano mandato un dispaccio. La loro missione alla ricerca di ulteriori tracce della congiura del 1290 e della morte del vero Dante Alighieri erano state infruttuose. Sarebbero rimasti nella loro città d'origine ancora qualche giorno, nella speranza di sapere di più. Entro la fine della settimana, comunque, avrebbero fatto ritorno.

In compenso, il giorno dopo furono Vanni e Nicola a tornare, come promesso. Con il loro rientro, ci trovammo di fronte a qualcosa di davvero inatteso. Pensavo che fossero andati semplicemente ad ispezionare la casa che era stata di Gemma Donati durante l'esilio da Firenze, e probabilmente lo pensavano anche loro; invece, la fortuna li aveva messi di fronte ad un preziosissimo ostaggio.

 

***

 

Fin dalle prime luci dell'alba eravamo nell'arena d'addestramento: anche se i giorni della merla1 erano trascorsi da un po', faceva un freddo cane. Veronica ed io sedevamo pigramente sulla balaustra, in attesa che arrivasse il nostro turno. Osservavamo mio padre combattere contro Agamennone e Martino contemporaneamente: Ezio riusciva a tenere a bada i loro assalti con una semplicità disarmante, quasi come se quelli dei suoi allievi fossero stati i passi di una danza studiata in anticipo, invece di mosse decise sul momento per metterlo in difficoltà.

Osservavamo i loro respiri congelarsi nell'aria, in netto contrasto con l'abbigliamento leggero. “Beati loro, almeno si scaldano” commentò Veronica, senza perdere l'aria concentrata che la contraddistingueva sempre durante gli allenamenti, anche quelli altrui. Era costantemente proiettata a studiare le tecniche degli altri, e talvolta tentava di predirne i movimenti. Non riusciva ad osservare senza immaginarsi al posto dei combattenti.

A me stanno per cadere le orecchie” commentai, stringendomi nella cappa foderata di pelliccia.

Svantaggi dei capelli corti” scherzò Veronica, storcendo appena la bocca. “Dovresti farli crescere.”

Non risposi, perché la mossa che tentò Martino mi distrasse: aveva caricato un colpo dall'alto, con una delle sue amate asce leggere, e mentre mio padre parava agilmente aveva tentato con l'altra un affondo nella sua guardia scoperta. Fin qui, tutto piuttosto semplice: mio padre aveva parato con imbarazzante facilità entrambi i tentativi. Ciò che mi stupì, fu la rapidità con cui Martino riuscì a sfruttare la sua posizione per ruotare su se stesso, e portare un attacco diretto tra il collo e la scapola del Mentore. Trattenni il fiato in quel momento, e visto il suo silenzio perfetto immaginai che Veronica avesse fatto lo stesso.

La lama dell'ascia scivolò sull'antibraccio di Ezio, stridendo, per poi essere respinta. Agamennone tentò di approfittare del controtempo per avventarsi alle spalle di mio padre, ma Ezio lo schivò e lo fece sbilanciare, prendendosi poi la soddisfazione di afferrare il braccio armato di Martino, incastrare la gamba dietro il suo ginocchio e costringerlo a chinarsi a terra.

I tre si fermarono, per recuperare il respiro. Agamennone e Martino avevano entrambi il fiato grosso: il primo si poggiava con i palmi delle mani sulle ginocchia, il secondo gettò le asce con un grugnito e si stese direttamente sulla terra battuta, incrostata di brina. Anche Ezio respirava forte, ma cercò di non dare a vedere tanto platealmente la propria stanchezza...o forse il suo superiore allenamento, semplicemente, gli permetteva di sentirsi molto meno stanco. Lo vidi ridere, asciugandosi la fronte con la mano.

Sei andato vicino a farmi la pelle, ragazzo” disse, rivolto a Martino. Per tutta risposta, il romano emise una breve risata.

Vicino nun basta se stai 'n battaja, Mentore. Spero de nun trovamme mai davanti uno come voi.”

L'espressione di Ezio si indurì, ma soltanto lievemente. “Voi imparerete a combattere come me, e anche meglio.” Si volse, per guardare prima Agamennone, poi me e Veronica. “Perché avete alle vostre spalle un manipolo di fratelli su cui contare. Io ho dovuto imparare sulla mia pelle l'arte di sopravvivere, e credetemi, ci sono voluti più anni di quanti possiate immaginare...ma per voi è diverso, voi potete apprendere gli uni dagli altri, per perfezionarvi e compensare i difetti reciproci. Questa è la vostra grande ricchezza, e la vostra arma vincente. Non dimenticatelo mai.”

Apprendere gli uni dagli altri...compensare i difetti reciproci. Scambiai un rapido sguardo con i miei compagni, incontrando quelle paia d'occhi che avevo imparato a conoscere bene.

Quelli color nocciola di Agamennone, un po' persi dietro i loro pensieri, ma sempre e comunque sinceri.

Quelli castani di Veronica, pulsanti di una rabbia che aspettava soltanto la battaglia per essere sfogata.

Quelli neri di Martino, molto più profondi e fermi di quanto il suo abituale contegno scherzoso potesse far immaginare.

La missione a Firenze ci aveva avvicinati, scoprendo le fragilità di ognuno di noi, costringendoci a proteggerci le spalle a vicenda, a stringerci le mani per farci forza, a preoccuparci gli uni per gli altri. Stavamo davvero diventando un manipolo di fratelli.

In quel momento, sentimmo una voce commentare, con una forte cadenza lombarda:

Non lo dimenticheremo, Mentore, vi do la mia parola.”

Non provai nulla di particolare, se non un piacevole senso di soddisfazione, nel vedere il volto di Nicola che si affacciava dalla scalinata che portava in paese. Era bello come sempre, con la barba rada e incolta che gli costellava il volto: eppure, fu su Vanni che si concentrò subito la mia attenzione. Il volto di mio fratello sembrava normale, per certi versi imperscrutabile, come appariva sempre in quegli ultimi anni. Ma era acceso da una strana scintilla di agitazione che sulle prime non compresi.

Poi, notai la ragazzina che camminava al loro seguito.

“Bianca, siete davvero voi? Oh, Bianca, come sono felice di rivedervi!”

Ristetti, congelata dal suo entusiasmo. L’ultima volta che avevo visto Margherita, la figlia segreta di Lucrezia Borgia, ero stata sul punto di avvelenarla con la cantarella.

Era meravigliosamente cresciuta: se i miei calcoli erano esatti doveva avere ora all’incirca nove anni, e già pareva una piccola donna, con i suoi delicati ricci biondi sciolti sulle spalle e i volto da bambola tanto simile a quello della madre. Mi corse incontro, e mi prese le mani.

Come mi aveva riconosciuta? Se lei era cambiata, io lo ero senz'altro di più. Non avrebbe dovuto ricordarmi, aveva soltanto sei anni allora, non poteva avermi conservata così bene nella memoria, non...

“Margherita” cercai di forzare un sorriso, ma i miei occhi erano già andati oltre la sua spalla...per guardare alternativamente Vanni e Nicola, in attesa di una risposta da parte loro.

Mi sentii un po' più sicura, quanto avvertii la figura di Ezio torreggiare dietro di me.

“Entrate, dovrete ristorarvi dal viaggio. E magari davanti a un bel fuoco potrete spiegarci che cos'è questa storia.”

 

***

 

Questa storia, come l'aveva chiamata mio padre, fu esplicata da Nicola il più semplicemente possibile, mentre sedevamo tutti insieme nel laboratorio.

Durante la settimana passata, lui e Vanni erano stati a Siena – da soli! pensai, sgomenta – per cercare informazioni sull'antica abitazione dove Gemma Donati aveva abitato insieme ai quattro figli durante l'esilio del marito. Non c'era più traccia dell'abitato: la storia, le intemperie, o forse un incendio l'aveva abbattuto. Quello che risultava acquistato da Elena Bucelli a nome del defunto marito non era che un casolare, rimasto disabitato ed adibito a stalla: probabilmente, uno specchietto per le allodole. Soltanto al quinto giorno di ricerche infruttuose, dopo aver chiesto a qualsiasi possibile fonte, esaminato registri parrocchiali e domandato informazioni nei monasteri delle vicinanze, avevano deciso di arrendersi e rientrare: proprio sulla strada di casa, tuttavia, si erano scontrati con una scena che aveva richiesto il loro intervento.

Era quasi l'imbrunire di un giorno che prometteva pioggia, e le mura della città erano lontane un paio d'ore di cammino. Il ticchettio regolare dei loro stivali sul fango era stato d'improvviso interrotto da un grido, e un ben distinto pianto femminile. Calcandosi i cappucci sul capo, i ragazzi erano corsi nella direzione del grido, poco lontano dal sentiero. Si erano trovati di fronte due uomini piuttosto ben piazzati, che avevano aggredito una donna e una bambina.

La donna giaceva ormai riversa a terra, trapassata da un colpo di spada: per lei c'era poco da fare. Ma dai ghigni macabri dei banditi sembrava che alla bambina dovesse ricevere un trattamento ben peggiore della morte, e non importava quanto li supplicasse e promettesse loro che avrebbe potuto pagarli bene se l'avessero lasciata andare, l'avevano gettata a terra, pronti a usarle violenza.

Non potevano non intervenire – disse Nicola - anche il Mentore al loro posto l'avrebbe fatto.

Il nostro compagno raccontava con voce ferma ognuno di quegli avvenimenti, ma lo sguardo di mio padre si soffermava raramente su di lui. Vagava invece dal volto di Vanni, in cerca di una conferma a quelle parole, a quello di Margherita, come se volesse ispezionarla da cima a fondo per capire se potesse fidarsi di lei. Sapeva ciò che io gli avevo raccontato, tre anni prima. Ospitare una Borgia tra le nostre mura poteva essere un enorme vantaggio tattico, oppure l'inizio della rovina.

Dal mio canto, io non perdevo d'occhio la bambina. La osservavo mentre, sperduta come un uccellino implume caduto dal nido, si guardava intorno. Sembrava che le pareti stesse la soverchiassero. Torturava qualcosa che portava al polso...un piccolo oggetto, come un braccialetto: ma composto di corde sfilacciate.

Poteva essere...quel pegno di amicizia che Vanni le aveva regalato durante la sua prigionia a casa di Bembo?

Dopo aver ascoltato il racconto del suo discepolo, Ezio decise di iniziare il vero interrogatorio. Lo fece in tono pacato, tranquillo, per non mettere pressioni a quella creatura che pareva già tanto provata.

“Per quale motivo non ti trovavi sotto la protezione della Duchessa, Margherita? Dove eri diretta quando vi hanno sorpreso i briganti?”

Lei sollevò i grandi occhi smarriti su mio padre, stringendo più forte le braccia intorno al proprio corpo per proteggersi. Quando parlò, rivelò una voce molto più ferma di quanto ci si sarebbe aspettati da una bambina nella sua situazione.

“Mia madre voleva promettermi in sposa. Vuole allearsi con i Francesi contro Della Rovere, e mi ha fidanzata al Visconte di Narbona2.” Si strinse le braccia al petto, come se un brivido improvviso l'avesse attraversata. “Voleva usarmi, come Lo Spagnolo” lo disse con disprezzo “aveva sempre usato lei. Io non volevo: per questo sono scappata con Bécca, la mia balia.”

Dunque, era Bécca lo donna rimasta uccisa nell'attacco dei briganti. Margherita aveva parlato di lei senza un minimo tremore nella voce, senza traccia di emozione. E dire che, da quel che sapevo, si era presa cura di lei fin dalla sua nascita.

Ciò che mi sorprese di più, però, fu che alla fine Lucrezia avesse deciso di rivelare a Margherita la verità sulle sue origini. L'aveva chiamata “mia madre”, dunque sapeva. D'altronde, un inganno tanto palese poteva funzionare con una bambina di sei anni: ma già a nove si cominciano a fare collegamenti e domande, e per un adulto celare la realtà può diventare molto più complicato.

Ezio non sollevò il mento dalle mani intrecciate tra loro. Domandò con tono pacato, come se avesse dovuto chiederle se aveva compiuto le abluzioni mattutine:

“Dove stavi andando? Avevi un piano, oppure cercavi soltanto di nasconderti?”

Margherita sollevò il visetto da bambola, in un moto di orgoglio in cui ravvisai molto poco di sua madre. “Da mio padre, Giovanni Sforza. So che è nel suo ducato di Pesaro in questo momento. Ho pensato che non mi avrebbe rifiutato. Era l'unico amico che mi restava...o almeno, così pensavo.”

Il suo sguardo si sollevò timido su Vanni, e poi si riabbassò subito.

Ezio sembrò estraniarsi da noi per qualche momento, come se i suoi occhi scuri fossero proiettati molto oltre quella stanza e le persone che la occupavano. Quando faceva così, di solito era impegnato a dibattere con se stesso una decisione molto importante. Noi attendemmo in silenzio il suo responso, tutti quanti: ma di certo, il più inquieto pareva Vanni. Guardava nostro padre con un'espressione conflittuale negli occhi chiari. Da una parte sembrava che lo stesse supplicando, e dall'altra era pronto ad infuriarsi e insorgere in caso di un rifiuto ad ospitare Margherita presso di noi.

“Tre anni fa” parlò infine Ezio, in tono profondo “tua madre ha rapito i miei figli per ottenere la Mela dell'Eden. Ora ho l'opportunità di ripagarla con la stessa moneta.”

Durante la breve pausa che seguì, scambiai uno sguardo con Nicola. Lui fece un cenno lieve con il capo, come a dirmi di fidarmi del giudizio di mio padre. E infatti, il suo discorso proseguì.

“Ma non lo farò. Noi Assassini non sfruttiamo le persone come se fossero oggetti, e non compiamo infimi baratti.” Si alzò in piedi, mentre pronunciava le ultime parole con tono definitivo. “Faremo in modo di farti arrivare a Pesaro, come desideravi fare fin dall'inizio. I miei ragazzi ti scorteranno, Margherita: sarai al sicuro.”

“Se posso permettermi” intervenne la voce di Vanni, che quasi mi fece sobbalzare per l'inusuale tono umile che stava usando. “Padre...la Duchessa potrebbe aver messo i suoi uomini sulle tracce di Margherita. Saranno state preparate imboscate sulla strada per Pesaro, a quest'ora...sarebbe rischioso muoversi troppo presto.” Anche lui cercò lo sguardo di Nicola, a riprova del fatto che, ormai, tutti lo ritenevamo il tramite ufficiale tra noi allievi e gli Alti Ranghi. “Non pensate che sia meglio aspettare che le acque si siano calmate? Sia per la sicurezza nostra, che per quella di Margherita.”

Ammetto che fui compiaciuta del modo in cui mio fratello sembrava essersi rimesso in riga. Aveva deposto il tono di sfida, ed espresso molto buon senso. Forse, la responsabilità che mio padre gli aveva affidato nel lasciarlo da solo a Siena con Nicola aveva iniziato a dare i suoi frutti.

“Il ragionamento di Vanni non è sbagliato, Mentore” avallò lo stesso Nicola “Se la Duchessa sospetta quale sia la meta di Margherita, è possibile che troviamo la strada per Pesaro sbarrata da blocchi templari.”

Mio padre ci rifletté seriamente, ma prima che potesse pronunciarsi intervenne Veronica.

“Se la Borgia venisse a scoprire che teniamo qui sua figlia, muoverebbe di certo guerra a Monteriggioni.”

“Lucrezia è debole” replicò mio padre “Abbiamo ucciso uno dei suoi luogotenenti principali a Firenze, è accerchiata da Della Rovere a sud e dai Gonzaga a nord-ovest. I suoi principali alleati erano i Bentivoglio, ma anche loro stanno per cadere. I suoi uomini possono causarci problemi nel tragitto verso Pesaro, ma non possiede le forze sufficienti per un assedio.”

“E se aspettamo ancora” chiese Martino “nun le damo l'opportunità de riorganizzasse?”

“Non può riorganizzarsi. Le pressioni intorno a lei sono troppo forti.” Mio padre spostò l'attenzione su Agamennone, che attendeva accanto alla finestra senza parlare. “E' arrivato questa mattina un dispaccio da Roma. I superstiti delle congiure dei Malvezzi e dei Marescotti si sono mossi per riconquistare Bologna accanto a Giulio II...tuo padre si è infiltrato tra loro per tenerli sotto controllo. Ci avvertirà quando la situazione sarà matura per intervenire.”

“Se i Bentivoglio sono accerchiati fino a questo punto” disse quietamente Agamennone “mi sembra impossibile che Lucrezia Borgia possa muoversi contro Monteriggioni. Se ha forze disponibili, le schiererà per bloccarci la strada.”

Ezio spostò di nuovo lo sguardo su ognuno di noi. E infine, lo soffermò su di me.

“Tu cosa ne pensi, Bianca? Sei l'unica che non ha espresso un parere.”

Tutti gli occhi erano su di me, adesso. Quelli fiduciosi dei miei compagni, quelli esigenti di mio padre, quelli sperduti di Margherita. Ma mai come in quel momento io mi sentivo in bilico, sospesa su un filo sottilissimo teso tra me e Vanni. Erano i suoi occhi a mettermi inquietudine, ora. Era il suo giudizio che temevo, e la sua fiducia che non volevo perdere.

Per questo, nonostante il mio istinto mi avvisasse insistentemente che si trattava di una pessima idea, io dissi:

“Credo che Margherita dovrebbe restare. Almeno per qualche tempo, fino a che non saremo certi che il pericolo sarà cessato.”

E così facemmo. Purtroppo.

Se avessi detto qualcosa di diverso, mio padre avrebbe cambiato idea? Se avessimo portato subito Margherita dove voleva andare, avremmo evitato tutto ciò che ne conseguì?

Non lo so. Ma a volte ancora fatico ad addormentarmi, la notte, fantasticando su come i nostri destini sarebbero potuti cambiare se solo allora avessi detto ciò che pensavo davvero.

 

***

 

Sarà perché non riuscivo a riappacificarmi con il fatto di aver detto il contrario di quello che avrei voluto, ma da allora la semplice presenza di Margherita nel borgo iniziò a darmi un senso di estrema irritazione. Anche se razionalmente sapevo che non potevo prendermela con un'innocente, il mio istinto ferino mi metteva in guardia contro quella presenza estranea nel mio territorio.

La vedevo trascorrere il tempo al seguito di Vanni, come se fosse la sua ombra muta. Parlava raramente, a voce bassa, in un tono che contrastava nettamente con quegli sprazzi di orgoglio che avevo intravisto in lei mentre mio padre la interrogava. Quasi sempre cercava mio fratello con lo sguardo, dipendendo dalla sua presenza come la luna dalla luce del sole.

Cosa ricavasse Vanni da quell'adorazione costante, non lo so per certo. Arrivato in quell'età in cui si ammirano le ragazze più grandi e si guarda con disprezzo alle bambine, trattava Margherita con una sorta di fredda gentilezza, senza mai scacciarla quando restava ad osservarlo durante l'addestramento, né quando sedeva a tavola poco lontano da lui, o lo seguiva ansiosa con lo sguardo ogni volta che si allontanava. Forse, dopo tutto, non gli dispiaceva essere osannato a quel modo. Margherita gli dava un'importanza che nessuno nel Borgo gli aveva mai rivolto. Per lei, mio fratello non era “il piccolo Vanni”, il più giovane e inesperto tra i discepoli di Ezio Auditore. Lei lo chiamava “messer Giovanni”, e gli rivolgeva un rispetto che doveva colmare molte delle sue insicurezze, nutrendo il suo spirito...benché in modo sbagliato.

Dal giorno del suo arrivo, la bambina alloggiò nella stanza che era diventata mia e di Veronica. La prima sera della sua permanenza, la sorpresi a fissare fuori dalla finestra, come se volesse evadere con tutte le proprie forze ma fosse costretta da invisibili catene a restare dove si trovava.

Avevo appena terminato di asciugarmi dopo un lungo bagno ristoratore, e ancora mi sfregavo i capelli umidi, sedendo vicino al camino acceso e frizionandoli con un panno. Mi soffermai a guardarla, con quei boccoli che sembravano oro fuso sciolto sul tessuto della camicia da notte – una di quelle che indossavo io da bambina, notai con disappunto. Doveva essere stata un'idea di zia Claudia.

“Bianca, voi pensate che Bécca sia diventata una stella?” disse d'improvviso, spezzando il silenzio.

Mi ci volle qualche istante per ricordare il dialogo che avevamo avuto tre anni prima, quando, per impressionarla, avevo inventato la leggenda secondo cui i miei antenati mi vegliavano sotto forma di astri celesti.

“Non ne ho idea” risposi schiettamente; forse, un po' troppo. Vidi i suoi occhi farsi lucidi di lacrime.

“Non avrebbe dovuto pagare per la mia decisione.”

Per qualche istante, ci fu solo il crepitio del fuoco. Poi, sentii scivolare fuori dalle mie labbra un sussurro roco: “C'è sempre qualcuno che paga per le nostre decisioni.”

Questa frase dura, lo ammetto, non era rivolta a Margherita, ma a me stessa. Mi ero illusa di aver cancellato il passato, ma esso tornava da me in molteplici forme, a ricordarmi quella mia grande decisione che aveva costretto tutta la mia famiglia a pagare un proprio prezzo. E se allora credevo avessimo già scontato abbastanza i miei errori, era solo perché non potevo prevedere ciò che sarebbe arrivato in seguito.

Ma sto divagando, di nuovo. L'avvicinarsi di una data fatale per la mia vita mi sta facendo perdere il controllo del mio racconto, e la mia inquietudine cresce. Ho paura di arrivare a quel momento. Ho paura di riviverlo attraverso queste memorie, e di restarne prigioniera per sempre. Non è il mio giudizio che temo: il tribunale della mia coscienza mi processa comunque ogni giorno. E' del vostro giudizio, che ho paura.

Perdonatemi. A tempo debito, è giusto che voi traiate le vostre conclusioni sulle azioni di ciascuno dei personaggi di questa folle storia che è stata la mia vita, me compresa. Per ora, è giusto che io esponga i fatti come si sono svolti, senza più divagare. Un racconto confuso non mi sarà d'aiuto, in ogni caso.

Quella sera di fine febbraio, nell'Anno del Signore 1506, Margherita sospirò. Aveva in volto un'espressione tanto più grande della sua età. A nove anni io mi arrampicavo sui tetti e mi sbucciavo le ginocchia correndo come un maschio. Lei, invece, pareva portare già sulle spalle strette un peso grande come il mondo.

“Volevo dirvi una cosa. Io non vi biasimo per...il veleno, la fuga, e tutto il resto.” abbassò il viso, guardando le proprie mani “Volevo solo che lo sapeste, Bianca. Non si può scegliere in che famiglia nascere, e voi siete la figlia di un Auditore dopo tutto. Non potevate fare altrimenti.”

Annuii, a disagio. Desideravo che Veronica arrivasse a spezzare quell'indesiderata intimità, che mi costringeva a ripensare a eventi che avrei preferito dimenticare.

“E tu sei la figlia di una Borgia” mormorai di rimando. Pentendomi subito della mia bruschezza, aggiunsi: “Ma anche di uno Sforza. I tuoi natali contano fino ad un certo punto, sai. E' ciò che scegli per te stessa, che fa la differenza. Il sangue che hai nelle vene non dice chi sei.”

Margherita annuì, e rinunciò a replicare. Si infilò sotto le coperte del piccolo giaciglio che avevamo aggiunto per lei, e mi diede la buonanotte, prima di chiudere gli occhi e fingersi addormentata.

Continuai a osservarla, stringendomi il ginocchio al petto mentre sedevo vicino al focolare. La sua presenza a Monteriggioni ci avrebbe attirato addosso i templari di Lucrezia, ne ero certa. Era foriera di guai, e nient'altro. E richiamava tutti quei ricordi che non mi sentivo pronta ad affrontare di nuovo.

Nemmeno l'arrivo di Veronica mi distolse da quella febbrile osservazione. La sentii ridere sommessamente.

“Se vuoi faccio io il primo turno di guardia” scherzò. “Oppure potremmo tenerla in catene, per essere certe di non svegliarci con le gole squarciate.”

“Potrebbe non essere una cattiva idea.”

Veronica storse il naso, mentre si asciugava sommariamente i capelli per poi intrecciarli con cura.

“Ha solo nove anni.”

“Non vuol dire nulla. E' una di loro.”

“E' una bambina. Non è ancora nessuno. Rilassati, Biancarella” sorrise, sfiorandomi la spalla mentre si dirigeva verso il proprio letto. “Abbiamo affrontato le guardie scelte di Elena Bucelli a Firenze, sono sicura che sapremo gestire una ragazzina indifesa.”

Avrei voluto replicare che Elena Bucelli era morta, mentre Lucrezia Borgia era ancora una minaccia viva e incombente sulle nostre teste; ma mi rendevo conto che i miei timori iniziavano a tingersi dei colori dell'ossessione, dunque tacqui. Prima di infilarmi sotto le coperte a mia volta, gettai uno sguardo oltre i vetri, per cercare nel cielo la costellazione dell'Aquila.

La stella AltaÏr brillava più forte che mai. Per quella notte, forse, non sarebbe accaduto nulla di male.



Note

1Nell'usare quest'espressione, molto comune dalle mie parti (sono chiamati così gli ultimi tre giorni di gennaio, 29, 30 e 31, considerati i più freddi dell'anno), mi è venuta la curiosità di rintracciarne l'origine per capire se fosse molto anacronistico farla pronunciare a una donna del Rinascimento. Da Wikipedia apprendo che nel 1740 tale Sebastiano Pauli lo elencava tra i detti toscani (ma si dice moltissimo anche da noi in Emilia) di origine antichissima, alimentati dalle leggende più disparate. E mi sono detta che dopo tutto poteva essere calzante ^_^

2Gaston de Foix, personaggio storico realmente esistito, coetaneo di Bianca e condottiero dalla fulminante carriera militare...tenetelo d'occhio, anche perché è legato ad una certa data scritta nelle stelle...



NdRuna

Eccomi qua! Chiedo scusa per la lentezza nel rispondere alle recensioni: rimedierò al più presto, ma intanto sappiate che ogni parola che mi lasciate mi fa un piacere immenso e porta una lacrimuccia nei miei occhi <3 Sapere che molti di voi seguono questa fanfic da tempo, qualcuno perfino dagli inizi della pubblicazione, e che ritrovano con gioia Bianca e gli altri mi riscalda il cuore. Sono davvero felice di aver deciso di condividere questa storia: senza l'affetto di tutti voi non sarebbe arrivata al punto in cui è ora.
Ammetto che in questi giorni sono bloccata sul capitolo 26 che non mi decido ad iniziare, anche per una grande mancanza di tempo. Nel frattempo, però, mi documento sui luoghi della mia Bologna che Biancarè e gli altri visiteranno...sapete che la casetta del nostro Agamennone, Palazzo Marescotti, è veramente splendido? Oggi è la sede principale del Dipartimento di Arte, Musica e Spettacolo dell'Università di Bologna :)
Per ora è tutto. Prometto di riaggiornarci intorno al 10 Aprile con il capitolo 23, "La vita non è una battaglia". Prevedo sarà un capitolo che sarà motivo di...uhm...contentezza per qualcuno e disappunto per qualcun altro XD
Un bacione!

Lal

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Capitolo 23
*** La vita non è una battaglia ***


Non accadde nulla di male, in effetti, nemmeno nei giorni successivi. Li trascorremmo in apparente serenità: quando finalmente anche mia madre e zio Ugo rientrarono da Venezia, senza notizie e senza ostaggi, mio padre pensò che fosse il caso di distendere i nervi di tutti quanti, organizzando una festa.

Per l'occasione, e per la prima volta dopo molto tempo, fui costretta a indossare un abito da donna. Certo, c'era stata la breve parentesi che mi aveva vista vestirmi da cortigiana...ma questo, e tutto ciò che ne era derivato, non era esattamente un episodio che avevo raccontato in giro. Solo io e Martino sapevamo. Per tutti gli altri, quella vicenda non era mai accaduta...a meno che, certo, il mio compagno caciarone non si fosse già vantato ai quattro venti di aver baciato la figlia del capo.

“E' terribile” sbuffava zia Claudia, intenta a tentare di governare i miei capelli troppo corti per le forcine “Mi sembra di avere a che fare con tua madre, i primi tempi in cui è arrivata qui!”

Rosa, seduta accanto a Nonna Maria, sorrise. “Oh, Claudia, grazie per avermi salvato dalla barbarie! Se non fosse stato per te sarei ancora un covo di...ehi, aspetta, che cos'è questo?” Finse di prendere dietro il proprio orecchio un pidocchio immaginario, per poi portarlo alle labbra “Delizioso!” esclamò, con in volto un'espressione esageratamente buffa.

La nonna nascose una risata dietro la mano, e anche io sorrisi, osservando la smorfia della zia attraverso lo specchio. Negli anni, mia madre aveva un po' mitigato il suo stile maschile, lasciando crescere i capelli corvini ed evitando le cuffie di lana che un tempo glieli schiacciavano contro il volto: ora, vestita a sua volta come una dama in un bellissimo abito grigio perlaceo, sembrava la perfetta moglie del Signore del borgo. Non credo che mostrarsi per una giornata come docile ombra al fianco di Ezio la turbasse più di tanto: in primo luogo, perché dubito che mia madre si sia mai considerata assoggettata al suo uomo, a prescindere dal vestito che indossava; e in secondo luogo, perché era stata una ladra troppo a lungo per non sapere quando era il caso di mimetizzarsi. La festa avrebbe coinvolto anche gli abitanti del borgo, e non era il caso di ostentare il fatto che la moglie di Messer Auditore fosse anche il capo della Gilda dei Ladri.

Non che qualcuno non ne fosse al corrente, a Monteriggioni. Solo che bisognava preservare un minimo di apparenze, in qualche modo.

Alla fine del trattamento di zia Claudia, le mie ciocche corte se ne stavano tutte tirate indietro da fermagli di perle, a scoprirmi il viso. Era da tanto ormai che non mi muovevo coni il volto così nudo: mi sentivo vulnerabile, in un certo senso. Inoltre, per qualche assurdo motivo, mi sembrava che la cicatrice che mi tagliava le labbra sulla parte destra del viso fosse più visibile. Naturalmente, era tutto frutto della suggestione. La verità era semplicemente che i panni femminili mi mettevano ancora a disagio, e trovavo ogni minimo appiglio per ancorarmi a questa mia sensazione e amplificarla.

Ancora più difficile di vedere il mio viso così esposto, fu indossare il vestito che avevano predisposto per me.

Era la quintessenza della femminilità. Era composto da una sottoveste celeste, morbida, lievemente traslucida, abbinata ad una sopraveste blu notte ricamata in argento e costellata di piccole perle per tutta la lunghezza del corpetto. Concludevano il tutto le maniche ampie, a sbuffo, e una delicata cintura di fili d'argento intrecciati da annodare sotto il seno.

Indossarlo fu quasi doloroso. Quel genere di vesti per me significava prigionia. Costrizione. Seduzione. Errore...

Mi aiutò Veronica, con grandissima solerzia: per lei sembrava una vera missione agghindarmi di tutto punto, quel giorno. Strinse i nastri della sopraveste, sistemando le pieghe che si creavano almeno cinque volte: sembrava che fosse alla ricerca dell'arricciatura perfetta.

La osservai durante tutto il processo, evitando accuratamente il mio riflesso allo specchio. La mia amica era vestita con di colori ramati e bruniti, che creavano una deliziosa assonanza con il colore dei capelli e dei suoi occhi. Era davvero incantevole: eppure, oltre ad evidenziare la sua naturale bellezza, quell'abbigliamento esprimeva molto altro. Forza. Determinazione. Una certa autostima. Da quando conoscevo la storia di Veronica non potevo fare a meno di vedere la mia amica come se fosse un'arma preziosa: esteticamente impeccabile, forgiata nel fuoco, letale.

Anche le altre donne della mia casa erano al loro splendore. Zia Claudia sembrava ancora più regale del solito in un broccato rosso cupo, mentre nonna Maria continuava ad indossare il nero rigoroso della vedovanza, ma aveva deciso impreziosirlo di qualche ricamo in bianco e oro; la piccola Lisabetta, paffuta e dai colori scuri come tutti gli Auditore, indossava un abito rosa che solo una bambina di cinque anni come lei avrebbe potuto portare con tanta naturalezza.

C'era anche Margherita, ed era vestita a festa come tutte noi. In verde, se ricordo bene. Se ne stava silenziosa, seduta in un angolo con Lisabetta sulle ginocchia. La mia cuginetta aveva decisamente il dono di percepire i sentimenti delle persone: aveva avvertito fin da subito l'estraneità che Margherita doveva provare, e si prodigava ogni momento per trovare un indovinello da sottoporle.

“Sai qual è il colmo per un gatto?”

“No, madamigella Lisabetta, non lo so.”

“Dai, prova almeno a indovinare!”

Margherita arrossì. “Non riesco proprio a immaginarlo!”

“Non è divertente se ti arrendi subito!” Mia cugina arricciò le labbra proprio come faceva tanto spesso sua madre. “Mamma! Diteglielo anche voi!”

“Non puoi costringere la nostra ospite a giocare con te, se non ne ha voglia” ribatté zia Claudia, finendo di sistemare la retina nei capelli di mia madre – la quale si sottoponeva a quella tortura come a un male necessario.

Mia cugina stava già per fare una smorfia delusa, quando intervenne Veronica. “Giocherò io con te, Lisabetta” disse, mentre ancora mi sistemava i lacci dell'abito. “Il colmo per un gatto...uhm...avere una giornata da cani?”

Soddisfatta che qualcuno le desse finalmente corda, Lisabetta ridacchiò. “No, ma ci sei vicino! Riprova.”

“Mangiare pescegatto?”

“No!”

“Ci sono! Cantare come un fringuello!”

“No!” Con un gran sorriso, che rivelò il buco lasciato dal primo dentino caduto, Lisabetta esclamò: “Vivere in una topaia!” Quindi, scoppiò a ridere, un suono argentino e spensierato che ricordava moltissimo la risata del padre.

Ci unimmo tutti volentieri a quell'ilarità, ed io con particolare calore. Ricordavo gli indovinelli che zio Ugo mi sottoponeva quando ero bambina, e il fatto che li avesse trasmessi anche a sua figlia non mi rendeva gelosa. Anzi, come posso spiegare...cementava tra tutti noi un legame che mi faceva sentire parte di una famiglia. Anche se ci eravamo uniti con il tempo e le traversie, imparando a scoprirci a poco a poco negli anni, ora eravamo una rete unica, salda, di cui ognuno di noi era un nodo importantissimo per la sopravvivenza del tutto. Dopo la mia prima missione, avevo capito che era importante ricordarsene anche in momenti allegri come quello, che forse a voi, da osservatori esterni, possono apparire banali. Ma se c'è qualcosa che ho imparato dal mio servizio nell'Ordine, è che non bisogna mai dare nulla per scontato. Soprattutto questi preziosi attimi di serenità ed amore. Sarebbero svaniti fin troppo presto: non dovevo sprecarli per il mio senso di inadeguatezza o per il nervosismo che la presenza di Margherita tra di noi mi provocava. Avrei dovuto godere ogni attimo di quella giornata.

E l'avrei fatto, senza dubbio. Anche se le pieghe che la situazione prese in seguito sono state davvero inaspettate.

 

La festa iniziò nel pomeriggio, per le strade del borgo e nel grande cortile della villa. Vi furono saltimbanchi, acrobati, giocolieri, mangiafuoco; non mancarono i giochi collettivi, come le gare di muli (zia Claudia si mise a urlare molto poco signorilmente per incitare quello su cui aveva puntato il proprio denaro), le corse nei sacchi (Agamennone arrivò primo, distaccando gli avversari di molte lunghezze), le partite di palla alla fiorentina (in cui Martino e Nicola si rivelarono una squadra pressoché imbattibile), e naturalmente la gara per scalare l'albero della cuccagna (che, con grande orgoglio dei miei genitori, fu vinta da Vanni1). Tutto questo movimento ci fece dimenticare per un poco il freddo, che però si fece intenso verso sera. Allora, la festa proseguì nei saloni di Villa Auditore, che non avevano mai pullulato di così tanta vita in tutta la loro storia.

Il sangiovese scorse a fiumi, tanto che le sale si riempirono presto di risa e canzonacce. Perfino mio padre si produsse in diverse esibizioni con il liuto, e devo dire che si rivelò un suonatore piuttosto bravo: peccato che accompagnasse quelle esibizioni con una voce decisamente stonata. Non so se fosse il vino o un sano senso di divertimento ad animarlo, ma se un templare avesse visto Ezio Auditore ridotto a quel modo di certo avrebbe cessato di considerarlo una minaccia all'istante.

Gli assembramenti di gente, in sé, non mi inquietano. Ciò che mi dava fastidio era il mio abbigliamento così scomodo: mi dava fastidio che la gente del mio borgo mi vedesse in quei panni femminili, che non riuscivo a dissociare dalla vergogna. Rimasi seduta quasi tutto il tempo in quella fase della festa, osservando i miei compagni ballare. Perfino Veronica si era lasciata convincere ad unirsi ad una danza, e dopo aver preso il ritmo e iniziato a divertirsi era corsa a trascinare un imbarazzatissimo Agamennone al centro del salone. Era buffo come il mio allampanato amico si muovesse, con il volto paonazzo e gli arti irrigiditi, mentre Veronica cercava di guidarlo nei passi con un sorriso divertito che le aleggiava sul volto. Sembrava così diversa dalla ragazza piena di rabbia che avevo visto a Firenze. Come se avesse accantonato il passato, almeno per quella sera, e non avesse più paura del futuro.

Gettai un'occhiata tra la folla danzante. Claudia e Ugo erano senz'altro i più eleganti della sala, e davano a tutti una lezione di portamento e abilità nel ballo. Mia madre era lievemente più rigida e sbagliava frequentemente i passi, ma sempre con una leggerezza e un sorriso tale che dava l'idea di divertirsi moltissimo. I soliti motteggi tra lei ed Ezio, quella sera, illuminavano i loro volti di un'aria giocosa e complice. Lasciando scivolare lo sguardo tra gli invitati, incontrai la figura di Nicola che conduceva la sua dama in maniera composta e impeccabile. E Martino? Avevo sentito la sua risata fin da lontano. Ma naturalmente, stava facendo il cascamorto con la ragazza che aveva avuto la malasorte di danzare con lui! E lei, neanche a dirlo, era tutta una moina. Che nervi! Quella scena era oltremodo irritante, quindi volsi lo sguardo. E incontrai le figure di Vanni e Margherita che parlavano fitto fitto in un angolo della sala.

Li studiai, con malcelata avversione. Non approvavo quell'amicizia. E' vero, Vanni aveva sofferto molto il fatto di essere il più giovane in un contesto di apprendisti più grandi e più abili di lui, ma aveva bisogno di un rapporto più equilibrato. Margherita lo venerava in maniera così palese, che di certo avrebbe incrementato la sua vanità più che il suo orgoglio. Proprio adesso che mio fratello sembrava iniziare a mettere la testa a posto, e a diventare più docile agli insegnamenti di nostro padre, tutta questa adulazione poteva risultargli deleteria.

Al termine di quella figura di danza, mentre tutti gli altri applaudivano ai musici, Nicola mi si avvicinò sorridendo.

“Se continui a fissarla così, attirerai un fulmine sulla testa di quella bambina.”

Finsi di non capire a cosa si riferisse.

“Andiamo, Bianca.” Sedette accanto a me, versandosi da bere. “Si vede perfettamente che non la puoi soffrire.”

Non è che non la posso soffrire...ma non mi piace granché.”

Sei gelosa?”

Di cosa?”

Della sua evidente cotta per Vanni.” Nicola sorrise. “Sai...tuo fratello ha uno sguardo diverso quando è in compagnia di quella bambina. Sembra meno arrabbiato del solito...credo che trovarla sulla nostra strada non sia stata una fortuna soltanto dal punto di vista tattico.”

Sì, l'avevo notato. No, non ero gelosa. E no, non pensavo che aver trovato Margherita fosse stata una fortuna.

Nicola mi offrì un bicchiere colmo di vino, che non rifiutai. Tuttavia, mi bagnai appena le labbra – avevo bevuto già abbastanza per quella sera, sfiorando il mio limite. Se non ci fossero stati i miei genitori presenti, forse avrei anche pensato di esagerare...ma non mi andava di mostrarmi fuori controllo di fronte a loro.

Dopo un lungo silenzio, mormorai:

Nicola, dimmi la verità...tu sapevi quali erano le intenzioni di mio padre, quando siete partiti da Monteriggioni? Sapevi che voleva andare a Bologna?”

Il mio compagno irrigidì la mascella, e distolse gli occhi grigi per qualche istante.

Sì. Lo sapevo.”

Mi morsi il labbro. A Nicola non sfuggì quel gesto. Non gli sfuggiva mai nulla.

Bianca...”

Vorrei che avesse in me la stessa fiducia che ha in te.”

La situazione è diversa. Avevo la responsabilità di guidare Vanni, e il Mentore voleva che ne fossi ben consapevole. Non dovresti prendere sempre tutto come un affronto personale, in particolare le azioni di tuo padre.”

Gli rivolsi un'occhiata di fuoco, e stavo per replicare, quando una risata spensierata irruppe nella nostra conversazione.

A Nicò, ma che je stai addì a Biancarella nostra? C'ha 'na faccia scura che tra 'n po' se mette a tuonà!”

Puntai l'occhiata furente su Martino, di scatto. Lui non ne parve affatto impressionato. “Uh, e mo è arivato er furmine” sorrise. Se mi avesse detto quella frase ora, probabilmente avrei riso e deposto il mio broncio; ma allora mi prendevo molto più sul serio di quanto io non faccia oggi.

Accidenti...e com'è che non ti ha incenerito?” risposi, velenosa. Lui non si lasciò scoraggiare da così poco, e si prodigò in un profondissimo inchino.

Perché so' er tuo bersajo preferito, Biancarè. E siccome me martratti sempre, penso de meritamme armeno 'n ballo stasera.”

Mi tese la mano, alzando la testa con un sorriso – quel sorriso – in volto. Guardai Nicola, lievemente nervosa. Lui fece un cenno con la mano, sembrava assolutamente rilassato.

Andate a divertirvi, voi che siete giovani!” ci strizzò l'occhio “Io aspetterò di riprendere fiato per il prossimo giro di danze.”

Rivolsi di nuovo lo sguardo su Martino, che aspettava fiducioso. Alla fine, seppure in maniera un po' esitante, presi la sua mano, e mi lasciai condurre al centro del salone, mentre i musicisti attaccavano una pavana.

Ci prendemmo per mano, come tutte le altre coppie. Cercai di ignorare la strana sensazione di sentir sparire le mie dita nel suo palmo così grande.

La danza all'inizio ci richiese passi lenti e misurati, mentre ci tenevamo per mano guardando di fronte a noi.

Non ti è nemmeno passato per la testa che stessimo parlando di cose importanti?”

Lui scrollò appena le spalle. “Questa nun è serata pe' le cose 'mportanti, Bià. Te devi rilassà ogni tanto” il suo tono si fece solo leggermente più serio, quando aggiunse: “O non je la farai ad affrontà quer che c'aspetta dopo.”

I passi della pavana ci condussero a seguire le altre coppie, per formare con loro una configurazione a raggiera. Continuammo con quei passi lenti, avanzando verso il lato destro mentre la raggiera umana prendeva la forma di una grande ruota che gira.

Storsi il naso, ripensando alla bionda che poco prima stava ammiccando spudoratamente a Martino. “C'è qualcuno che si rilassa anche troppo” commentai, con finta indifferenza.

Per tutta risposta, lui sorrise con la solita aria scanzonata. “Biancarè...quanno fai così somiji proprio a tu' zia. E' 'n peccato, sai? Sei tanto più bella quanno ridi.”

Quelle ultime parole mi ammutolirono: se fossi il tipo da arrossire, forse in quel momento l'avrei fatto. Invece, proseguii con i passi di danza, evitando di guardare il mio compagno. “Ci vorrebbero dei motivi per ridere.”

E' la specialità de Semeraro Martino” sogghignò lui. “Se te strappo 'na risata vinco 'n premio, che dici?”

La rapidità dei passi mi impedì di rispondere. Vi chiederete forse quando avessi imparato a ballare, e la risposta è semplice. Zia Claudia aveva insistito che la danza non fosse trascurata nell'educazione di noi allievi, per un basilare motivo. Se fossimo stati infiltrati un giorno in una grande corte, o ad un evento mondano, come avremmo potuto mimetizzarci con l'ambiente che ci circondava se non eravamo in grado di muovere nemmeno un passo?

Tutto ciò che ho appreso nella mia giovinezza è stato finalizzato alla missione dell'Ordine. Perfino materie che, come il ballo, sono destinate solo al divertimento per le persone comuni.

Quando la pavana si trasformò in una gagliarda, con i suoi saltelli rapidi e molto ravvicinati, la nostra conversazione cessò del tutto. Ero impressionata dall'abilità di Martino, e lui sembrava averlo notato, perché aveva in viso un'espressione molto compiaciuta di sé. Quel ballo stava assumendo il sapore di una delle nostre inoffensive schermaglie quotidiane: era una piccola sfida di abilità che ci lanciavamo l'un l'altra ad ogni sguardo, incitandoci a vicenda a dare il meglio di noi.
Infine, la musica sfumò, lasciandoci lievemente ansimanti per lo sforzo. Martino si profuse in un inchino, ed io ricambiai a mia volta con una perfetta riverenza femminile. Feci per volgermi ad applaudire i musicisti, come stavano facendo tutti gli altri, quando sentii di nuovo la mano del mio amico stringere la mia.

Biancarè, ce vieni con me in un posto?”

La situazione intorno a noi si stava facendo caotica. L'atmosfera era più ridanciana, e allo stesso tempo più greve di vino e di rumore. Pur di non ripiombare in quella cappa di estraneità che mi aveva soffocato poco prima, avrei fatto di tutto.

Per questo, accennai ad un sorriso, e annuii.

 

Il piano di Martino comprendeva una passeggiata all'aria aperta, nonostante il freddo ancora pungente. Sgattaiolando fuori dalla sala da ballo, prendemmo le cappe pesanti di pelliccia, e uscimmo dalla porta che dava sul cortile esterno. Le stelle brillavano forti nel cielo invernale, come gocce di ghiaccio incrostate nel firmamento.

Ci recammo fino ai bastioni: Martino si arrampicò con un salto agile sui merli. Mi porse la mano, per aiutarmi a salire. Per tutta risposta, mi arrotolai la gonna su un fianco e saltai agilmente sui bastioni, da sola. Lui si limitò a sogghignare, per poi sporgersi dalle mura e perdere lo sguardo lontano.

La luna aveva iniziato a calare, ma era ancora alta e candida su di noi. I campi così famigliari intorno alla nostra piccola fortezza erano ammantati dei colori cupi della notte, che confondevano i contorni gli uni negli altri, rendendoli niente più di una successione di macchie ed ombre.

Ah! Eccoce qua, un po' de silenzio finarmente.”

Inarcai un sopracciglio con aria scettica, sporgendomi accanto a lui con le mani puntellate sul merlo delle mura. “Da quando ti piace il silenzio?”

Nun sembra, ma so' 'na 'nima solitaria.” Ridacchiò, smentendo quelle parole nel momento stesso in cui le diceva. Poi, guardò di nuovo verso l'orizzonte. Mi sembrò che sospirasse, per un momento.

Me piacciono le mura de questa città. De giorno domini tutta 'a vallata colli occhi.” Si volse verso la cinta meridionale, e puntò il dito nell'oscurità. “Casa mia è 'n quella direzione. 'n piccolo appezzamento vicino a Capodimonte...dai nostri campi poi vedè la Rocca e 'e sponde der lago.”

Mi domandai perché mi stesse dicendo questo adesso, in questo preciso momento. Tuttavia, sapevo che Martino era molto restio a parlare di sé con serietà. Se lo stava facendo, significava che doveva soffrire la nostalgia di casa in maniera molto più acuta del solito: perciò, incitai il suo racconto.

Mi hai detto che hai undici fratelli. Come si chiamano?”

Lui sorrise, in quel modo dolce e infantile. Sembrava non aspettasse altro che quella domanda.

Ce sta' Annina, è la seconda dopo de me e ormai deve avecce diciassette anni. E' 'na regazzina giudiziosa, perfino troppo pe' 'a sua età. Senza de lei 'a casa nun andrebbe avanti...e poi vengono Francesco e Sebastiano, du' pesti che 'n te dico, sempre a provocasse e a fa' a botte...”

Osservai il suo sguardo farsi distante, e illuminarsi a mano a mano che le sue parole davano concretezza ai ricordi. Cercavo di attribuire un volto a quei nomi a seconda dei caratteri che mi descriveva.

Pietro è più carmo, je piace raccoje i sassi e gli 'nsetti e studià 'e cose pe' ore e ore. Fabiana è 'na tiranna coi fiocchi, e Marzia è così vanitosa che fa de tutto pe' nun sporcasse 'e mani e spettinasse i capelli. Marcello pensa de sapè tutto de tutto quanto, e Fabrizio 'nvece è quello timido, che tartaja quanno lo costrigni a dì quarcosa. Giuditta è la mia preferita, è 'n maschiaccio che s'arrampica su li arberi come 'no scoiattolo...e poi ce stanno Lucio e Antonio, so' gemelli, gli urtimi nati. Dovrebbero avecce cinque anni...manco se ricordano de me. “

Notai il tono più cupo della sua voce su quell'ultima frase. Non ero abituata a vederlo triste, e d'istinto provai un moto di ribellione. Martino doveva sorridere.

Con un certo calore, replicai: “Sono certa che invece si ricordano di te. E da domani ti insegnerò a scrivere. Niente ma!” anticipai le sue proteste. “Se loro non sanno leggere troveranno qualcuno nei dintorni che lo farà per loro. Se non vuoi dire loro che sei un Assassino, non importa, inventeremo qualche dettaglio sul tuo mestiere. Non puoi non far sapere alla tua famiglia che stai bene...sono certa che faranno i salti di gioia quando avranno tue notizie.”

Lui rise di nuovo, sottovoce. “Agli ordini, Mentore! Sto ar servizio tuo.”

Quindi, mi rivolse uno sguardo che faticai a decifrare. Forse perché era buio, o forse perché mi faceva paura il suo significato.

Io t'ho detto 'na cosa mia...adesso sta a te.”

Che cosa dovrei dirti?”

Quer che te passa pe' a' testa. 'n ricordo. 'n rimpianto. 'n gioco che facevi da bambina.”

Abbassai il volto, calcandomi il cappuccio sulle guance con la scusa del freddo. Era una domanda fin troppo facile, visto il luogo in cui ci trovavamo; ed io mi sentivo abbastanza leggera da lasciar fluire quelle parole dalle mie labbra senza pensarci troppo.

Stavo pensando a un episodio di...oddio, quasi tre anni fa ormai. Sono venuta quassù con zio Mario. Tu non l'hai conosciuto...era il mio prozio, in realtà: lo zio di Ezio e di Claudia.”

Ugo m'ha parlato de lui. So che era 'n guerriero valoroso.”

Lo era. Ma per colpa mia...non ha fatto una bella morte.”

Martino mi fissava intensamente: percepivo i suoi occhi addosso, anche se non ebbi il coraggio di incontrarli, e non so dire con che espressione mi stessero guardando.

Com'è andata?”

Mi strinsi nelle spalle. “Mi sono fidata del primo malnato figlio di cagna di passaggio...mi aveva promesso di sposarmi, e io gli ho creduto, come una stupida. Tutti hanno cercato di dissuadermi, ma io sono fuggita con lui...e lui mi ha venduta ai nemici di mio padre, e si è anche fatto ammazzare.” Sospirai. “Zio Mario è morto nel tentativo di salvarmi.”

Ristagnò un silenzio, gravissimo per me, ma forse non altrettanto per il mio amico. Mi chiesi cosa stesse pensando. Ero preoccupata dell'idea che potesse avere di me, ora.

...e non sapeva ancora il resto. Di Cesare. Della congiura di Lucrezia.

No. Non volevo. Non volevo ricordare! Non volevo che vedesse quella Bianca che odiavo tanto.

Tutti sbajamo, Bianca. Nun poi sempre prevedè 'e conseguenze de quer che fai.”

Non so perché, mi sentii strana quando lui pronunciò il mio nome per intero. Ero così abituata a quel soprannome, “Biancarè”...non riuscivo a concepire che Martino potesse chiamarmi in un altro modo.

Il mio errore è costato troppe vite, e troppo dolore. Che razza di Assassina sarò, un giorno? Se ho paura di compiere delle scelte, come potrò servire l'Ordine? E se un mio passo falso costasse decine, centinaia di vite? A volte credo di non poter reggere tutto questo.”

Sentii che il mio pugno tremava sulla pietra fredda dei bastioni. E poi non tremò più, quando la mano di Martino vi si posò sopra.

La vita nun è 'na battaja.” Provai un brivido. Le sue dita mi sfiorarono delicatamente la guancia sotto il cappuccio. “Ce stanno anche 'e cose belle.”

A quel punto, sollevai gli occhi. Ero soggiogata dal suo sguardo, ma abbastanza orgogliosa da non volerlo dare a vedere. Ero spaventata all'idea che Martino capisse quanto potere aveva su di me.

Ad esempio?”

Con il pollice, mi accarezzò la cicatrice sulle labbra. E poi, approfittando di quel breve momento in cui mi ero persa nei suoi occhi, sostituì al polpastrello la propria bocca.

Mi si mozzò il fiato. Era un bacio così diverso da quello che ci eravamo scambiati a Firenze. Un bacio delicato, e allo stesso tempo molto seducente. Senza pensare, risposi con entusiasmo. La mia mano salì a sfiorargli la mandibola, come per chiedergli di non allontanarsi troppo presto.

Io...ero innamorata di Nicola, giusto? Ma lui era là nella sala dove le persone danzavano, e non mi venne in mente neppure un momento il suo nome o il suo volto. Il cuore non mi era nemmeno battuto più forte nel vederlo tornare da Siena. Alla festa avevo parlato con lui soltanto di strategia e battaglie, a malapena avevo notato come era vestito...

Era Martino che avevo seguito con lo sguardo, tutta la sera. Ed era Martino ad essere lì con me, in quel momento.

Quando mi scostai – lentamente e con una certa riluttanza, lo ammetto - mi sorrise.

Ecco...adesso sei molto meno scura 'n volto, sai?” mormorò, in un tono basso e roco.
Non ebbi il coraggio di dare un nome alla metà delle emozioni che stavo provando. Sapevo soltanto che dovevo difendermi: perciò, alzai gli occhi nei suoi. Per sfidarlo.

Stasera non sono io, Martino.” Lo vidi accigliarsi, come se non capisse quell'improvvisa fuga. “Non sono la Bianca di sempre.” Arrotolai nervosamente il bordo delle lunghe maniche. “Anche l'altro giorno, quando mi hai baciato a Firenze...ero mascherata da donna, come oggi. Ma domani tornerò me stessa, e non ti interesserò più.”

Per tutta risposta, lui rise.

Sei pure più bella quanno sei te stessa.”

Sono pronta a scommettere che dopo una giornata di addestramento non ti sembrerò più così attraente.”

Me stai a provocà, Bianca?” Il suo sguardo si fece penetrante. “Sta' attenta, nun te conviene...”

Dannazione, il movimento della sua bella bocca era fin troppo invitante. Mi sentivo come se nelle mie vene avesse preso a scorrere ferro liquido e rovente. Schiusi le labbra, e mi avvicinai al volto di Martino abbastanza da toccare il suo naso con il mio. Sussurrai, quasi senza voce:

Domani, dopo gli addestramenti del pomeriggio. Ti aspetto al cascinale abbandonato fuori le mura.” Gli sfiorai le labbra, per provocarlo. Di nuovo. Era una sensazione esaltante, non riuscivo a farne a meno. Un momento mi ritraevo da lui, e quello dopo mi avvicinavo di nuovo...forse volevo vedere fino a che punto sarebbe arrivato quel gioco.

Mi allontanai con un sorriso furbo. Tutta una finta, per nascondere il lieve tremore che mi aveva ripreso le mani, per un motivo diverso da quello di prima.

Sarò me stessa, domani.”

Lui sembrò deglutire a fatica, ma rispose, pronto come sempre: “Nun vedo l'ora che sia domani.”



Note

1Il quale, credo lo ricorderete, ha vinto la sua paura delle altezze...e questa vittoria ne è la prova :)



Note di Runa

Eeeeeccomi qua! Sempre indietrissimo a rispondere alle recensioni, ma in questi giorni di vacanza pasquale mi metterò in pari, è una promessa solenne ^^.
Beh...credo che questo capitolo farà la felicità di qualcuno e la scontentezza di qualcun altro. Di certo, c'è che Bianca ha capito che quello che prova per Nicola non è poi molto forte...ma come si svilupperanno le cose con Martino? Biancarè andrà al cascinale, il giorno dopo? Non sedetevi sugli allori, tifosi del club Biartino: vi ricordo che abbiamo ancora taaaanti capitoli da trascorrere insieme XD (ossantocielo, ho ripreso a parlare come quelle anticipazioni alla Xena...aiutoooo ^____^)

Come vi dicevo, partirò il 14 Aprile alla volta della verde Irlanda...fino a che non sarò certa del tipo di connessione che avrò, non posso garantire la data di pubblicazione del capitolo 24: indicativamente, cercherò di postarlo intorno al 10 Maggio. Tanto per aggiornarvi sull'andamento della fanfic...ahimè, sono sempre bloccata all'inizio del capitolo 26. Sob. So perfettamente come far svolgere gli eventi, ma ho poca spinta/ispirazione/desiderio di scriverlo. Eventualmente, se dovessi trovarmi tanto in difficoltà, ritarderò un po' la pubblicazione del 24 e del 25, per dilazionarli e prendermi un pochino più di tempo...sempre perché non voglio più lasciarvi per troppo tempo senza capitoli per colpa dei miei blocchi. Spero in ogni caso che cambiare aria mi aiuterà a bloccare l'ispirazione...incrociamo le dita <3

Auguro a tutti voi una felice Pasqua, riposatevi se potete. La prossima volta ci aggiorneremo da Cork o da Dublino! @___@


Lal
 

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Capitolo 24
*** Sii grande ***


Penserete di me che sono una donna leggera: il che, almeno in parte, corrisponde a verità. Non so cosa mi fosse passato per la testa quando avevo dato quell'appuntamento a Martino. Me lo chiesi anche la mattina successiva, quando mi guardai allo specchio: non indossavo forcine, i capelli corti mi spiovevano scarmigliati sul viso e la cicatrice dava un'aria imbronciata al mio volto. La divisa da assassino nascondeva le mie forme femminili. La lama celata al mio braccio mi rendeva pericolosa e sgraziata.

Quando fosse arrivato al cascinale, verso l'imbrunire, Martino avrebbe trovato una Bianca maschile e spigolosa, e questo di certo lo avrebbe allontanato. Magari sarebbe tornato dalla bionda dell'altra sera, la quale, di sicuro, era più aggraziata e disponibile di me.

Non sapevo se il pensiero mi consolasse, oppure mi angosciasse tremendamente.

Tutto proseguì in modo normale quel giorno, anche se con picchi di tediosa lentezza. Consumammo i pasti in sala comune, cercando di mantenere la conversazione più normale possibile con gli altri nostri compagni e scambiandoci solo raramente qualche parola.

Partecipammo al lungo addestramento, fortunatamente combattendo sempre separati. Per tutto il tempo mi sentii come se lo sguardo di Martino non mi abbandonasse nemmeno un istante: eppure, ogni volta che alzavo il viso nella sua direzione era intento a parlare con qualcun altro, a guardare in un'altra direzione, a fare qualsiasi cosa fuorché concentrarsi su di me.

E poi, l'addestramento finì.

Per un attimo l'aria mi bruciò nei polmoni. Il tempo era scorso a rilento, fino ad arrestarsi in quel momento. Martino stava ridendo con Nicola, discutevano del combattimento di quel pomeriggio e di come l'uno avrebbe potuto sopraffare l'altro se solo avesse usato una mossa diversa.

Mentre mi oltrepassavano, Martino mi rivolse uno sguardo che mi paralizzò, facendo cessare ogni attività del mio corpo. Il respiro in petto, il cuore nei polsi. Tutto ciò che ero si bloccò, come una marionetta che non sia più guidata dalla mano del burattinaio.

C'era una promessa in quello sguardo che non si poteva equivocare. Non sarebbe mancato all'appuntamento.

E io? Ci sarei andata?

Non sapevo ancora la risposta, ma nel frattempo i miei passi erano già sulla strada verso il cascinale.

Trovai una scusa qualsiasi, che a Veronica sembrò subito essere più che plausibile: volevo fare una passeggiata nei campi, per i fatti miei. Ormai, ero un'allieva addestrata, che aveva superato la sua prima missione. Il fatto che andassi sola, all'imbrunire, fuori dalle mura non inquietava più quasi nessuno, al borgo.

Camminando verso la porta principale rividi i vicoli della mia infanzia, attraverso i quali spesso e volentieri avevo sfrecciato con Vanni e Ferrante. Le botteghe, i cui proprietari erano ormai incanutiti o sostituiti al bancone dai figli. Vidi il tetto su cui mi ero arrampicata per prendere le prime piume per nonna Maria, rischiando di lasciarci la pelle per la prima volta se Ezio non fosse stato pronto a prendermi. E oltrepassando le mura non potei fare a meno di gettare uno sguardo al punto da cui Ferrante, Vanni ed io ci eravamo calati, in quella maledetta sera d'estate di due anni prima. Mi calcai il cappuccio della cappa imbottita sul viso, per non guardare l'albero sotto cui Ferrante era stato ucciso da Michelotto.

Ad ogni passo verso il cascinale, mi sentivo sospesa nel vuoto. Come un'equilibrista. E in quel momento compresi che forse il segreto per non cadere era smettere di pensare alla strada trascorsa, per concentrarsi soltanto su quello che c'era davanti a me.

Le nuvole erano dita stanche abbandonate contro l'orizzonte rosato, quando arrivai nel luogo dell'appuntamento. Lì, seduto sulla staccionata fatiscente con una gamba a penzoloni, c'era Martino.

Restai ad osservare la sua figura infagottata nella cappa. Avevo avuto modo di verificare, a Firenze, quanto le sue braccia fossero forti. In quel momento non potei evitare di osservare i muscoli definiti delle gambe sotto la calzamaglia pesante. Mordendomi il labbro, mi domandai come sarebbe stato senza vestiti.

Martino si alzò in piedi appena mi vide. Mi si avvicinò.

Come pensavo.”

Sorrisi senza nemmeno rendermene conto. “Cosa pensavi?”

Che sei più bella oggi de ieri sera.”

Risi sottovoce, accarezzandogli la guancia. “Che razza di spudorato bugiardo...”

Ah! Hai riso. T'ho fatto ride, te l'avevo promesso.” Allacciò le braccia intorno alla mia vita, attirandomi delicatamente a sé. Il sole stava calando, ma non sentivo affatto freddo. “Me merito o no 'na ricompensa?”

Avvicinai il volto al suo, per assaporare quelle labbra morbide e provocanti. “Possiamo discuterne, Semeraro Martino.”

Prima di ricominciare a baciarlo, lo guardai negli occhi, fino in fondo a quelle iridi scure, calde, quasi nere...sì, penserete subito: simili a quelle di Cesare. Ma sbagliate, non c'è nulla che li accomuni. Gli occhi di Cesare erano tenebra e perdizione, solitudine, profonda freddezza...acciaio, morte e battaglia: nient'altro. Lo scheletro spolpato di quella che un tempo era un'anima.

Quelli di Martino, invece...erano accoglienti, come i campi toscani, come un giorno d'autunno in cui c'è il sole, come un abbraccio. Potevo sprofondarvi fino a perdere me stessa, sapendo che sarei stata al sicuro.

Avevo paura di ciò che stava per accadere, e lo desideravo. Esattamente in eguale misura.

...dopo tutto, che c'era di male? Avevo quasi diciassette anni, e lui diciotto. Eravamo giovani, eravamo scampati alla morte su a Firenze, e avevamo voglia di celebrare le nostre vite. Bastava un suo sguardo per accendere in me il desiderio. Per quale motivo avrei dovuto combattere la prepotente attrazione che Martino esercitava su di me?

L'autocontrollo non è mai stata una mia prerogativa, lo ammetto. Eppure, quella sera c'era dell'altro, oltre la mia solita sconsideratezza. Un'irrinunciabile voglia di sentirmi viva, di sentirmi libera. Voglia di lasciarmi andare e di essere qualcosa di più della figlia di mio padre, e perfino qualcosa di più di un'apprendista assassina. Avevo la certezza che alle mani di Martino avrei potuto affidare non solo il mio corpo, ma anche la mia vita. Non avevo nulla da temere, accanto a lui.

Entrammo nel cascinale ridendo come due ragazzini, quali dopo tutto eravamo. Esplorammo quella rovina: un tempo doveva essere stata una casa colonica. C'erano angoli gelidi ed altri più riparati: nello spazio per il focolare, annerito e delimitato da pietre scomposte, accendemmo un fuoco per non congelarci. Giocammo a stuzzicarci, fino a che le risate non divennero sospiri, e i corpi non iniziarono a cercarsi.

Martino mi guardò in silenzio, come a chiedermi il permesso prima di slacciare la mia cintura. Risposi, senza parlare, che poteva.

Lui la sciolse, lasciandola cadere ai miei piedi. La giubba pesante scivolò subito a terra, in mezzo alla paglia. Ipnotizzata da ogni suo gesto, sciolsi la fusciacca rossa che gli chiudeva il farsetto, e ripresi a baciarlo, insinuando le mani sotto la camicia. Mi fermai soltanto per sollevare le braccia, e lasciarmi spogliare.

Tutti i rumori erano amplificati. L'aria che mi gonfiava i polmoni. Il frusciare della camiciola sulla mia pelle, il suo tonfo sordo mentre cadeva sulla paglia. Il battito impazzito del mio cuore...o era il suo a risuonare come una grancassa, tra le pareti diroccate del cascinale? Non avrei saputo distinguerli in quel momento. Erano all'unisono.

Il suo sguardo sul mio corpo, ora che indossavo soltanto calzamaglia e stivali, mi diede una vampata di fiducia in me stessa. Ero bella, lo leggevo nei suoi occhi. Lo ero a tal punto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per me, in quel momento. Gli sorrisi, con il cuore trionfante. Lui mi attirò a sé, facendo correre una scia di baci sul mio collo.

Mi sciolsi sotto quei baci, mi abbandonai al suo tocco e lasciai emergere lentamente una Bianca che avevo cercato di uccidere. Una Bianca che ora non mi sembrava più così sporca, come quella che era entrata nel letto del suo nemico. Una Bianca che sapeva ciò che desiderava, e quella sera non desiderava trovarsi in nessun altro luogo al mondo se non lì, tra le braccia di Martino.

 

Eravamo immaturi, all'epoca: avevamo soltanto assecondato i nostri sensi quella sera. Eppure, quel momento rubato mi aveva fatto sentire bene come da tempo non mi sentivo più. Divisa tra la paura di aver sbagliato e la certezza di aver fatto la cosa giusta, posai la testa sul suo petto. Pelle contro pelle. Mi accarezzò pigramente la schiena, mentre ci riparavamo sotto la sua cappa.

Biancare’.”

Che c’è?”

Io so' stato bene.”

Anche io.”

Quanno voi, io nun me tiro indietro.”

Gli sorrisi, poi sospirai e chiusi gli occhi.

E’ un gioco pericoloso. A lungo andare ci scoprirebbero.”

Hai ragione. Se vedemo qua domani sera?”

Tutta quella sfacciataggine mi strappò una risata. Sollevai il capo, osservando il suo volto alla luce più fioca del focolare, che iniziava a spegnersi. Poi mi chinai sulle sue labbra per dargli un bacio.

Tu vieni pure. Bisogna vedere se io ci sarò.”

 

***

 

La mattina successiva, quando mi svegliai nella mia stanza, il ricordo di ciò che era accaduto con Martino aveva assunto i contorni sfumati di un sogno. Mi sentivo bene. Non ero pentita. E, come constatai quando mi soffermai per guardarmi allo specchio...ero diversa dal solito. Meno pallida. Meno arrabbiata. Con una luce negli occhi che mi spinse a sorridere alla mia immagine riflessa. Quella Bianca mi piaceva.

Tuttavia, sapevo che non sarebbe potuta durare. Non volevo che mio padre lo scoprisse, e a Monteriggioni eravamo perennemente sotto il suo controllo. Non ci saremmo potuti nascondere per molto. Dovevo evitare che accadesse di nuovo, o quanto meno rimandare il prossimo incontro il più a lungo possibile, perché nessuno lo venisse a sapere.

Se me l'aveste chiesto a quel tempo, vi avrei risposto che non provavo nulla di speciale per Martino. Da quel giorno in poi avevamo iniziato a scherzare come vecchi amici affiatati, e la sua missione di strapparmi una risata stava iniziando a mietere sempre più frequenti successi. In sua compagnia non avevo paura di quello che mi aspettava, non pensavo al passato, e anche gli addestramenti sembravano più leggeri. Lui non disse più nulla sul fatto di vederci al cascinale, non mi fece nessun tipo di pressione, non mi forzò. Ero io a cercarlo, con lo sguardo, sempre. A volte mi affiancavo a lui in silenzio, consapevole della sua vicinanza, senza osare varcare di nuovo la soglia che avevamo oltrepassato giorni prima. Come promesso, mi feci dettare una lettera per i suoi famigliari, e iniziai ad insegnargli a leggere sui miei vecchi sillabari. Ci stavamo unendo sempre di più, e lentamente smisi di sentire il bisogno di alzare le difese accanto a lui.

La prima a sospettare di quella nostra improvvisa vicinanza – o forse, meglio, la prima a parlarmene – fu Veronica.

Tirò fuori l'argomento in un giorno di neve pesante, quando era troppo freddo perfino per addestrarci. Eravamo nella nostra stanza, sole: Margherita si trovava nelle stanze di mia nonna per ricamare insieme a lei. Veronica ed io eravamo molto diverse tra di noi, ma la nostra avversione per quel genere di lavori ci accomunava.

La mia compagna stava lavorando allo scrittoio, con una pila di libri sommariamente accatastati al fianco e un foglio davanti, su cui prendeva appunti. Molti dei tomi provenivano dalla biblioteca di mio padre, ed altri le erano stati inviati da Teodora al ritorno da Firenze. Li scartabellava per aiutare mio padre e gli altri a capire se i versi dell'Alighieri che avevamo trovato a Firenze nascondessero qualche significato particolare, mentre il preziosissimo carteggio era stato inviato nelle mani di messer Machiavelli, perché lo visionasse e traducesse eventuali codici criptati. Io, invece, ero persa nei miei pensieri, sdraiata sul letto con gli occhi al soffitto, indugiando nei ricordi della sera al cascinale e chiedendomi cosa dovevo fare con Semeraro Martino e quella nuova svolta del nostro rapporto.

Del tutto inaspettatamente, Veronica mi gettò un libro, che produsse un tonfo sul cuscino proprio accanto alla mia guancia.

“Capra. Vedi di leggere qualcosa ogni tanto, o la tua ignoranza un giorno ti ucciderà.”

Mi sollevai sui gomiti. “Ehi! Potevi farmi male.”

“Povera piccola cara. Se i tuoi riflessi sono lenti non è colpa mia.”

Sfogliai distrattamente il libro che mi aveva tirato, rigettandomi con la testa sul cuscino. Lei continuò a spulciare i tomi che Teodora le aveva spedito. Versi di Dante, Dante, Dante: quel nome mi stava dando alla nausea ormai, per quanto spesso l'avevo sentito dal primo giorno della nostra missione a Firenze.

“Lo sapevo!” esclamò la mia consorella, dopo qualche minuto in cui l'unico rumore tra di noi era stato un frusciare di pagine. “Paradiso, canto quindicesimo. Poscia rivolsi alla mia donna il viso,/e quinci e quindi stupefatto fui;/ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso/tal, ch’io pensa co’ miei toccar lo fondo/de la mia gloria e del mio paradiso1.” Alzò di nuovo il capo verso di me. “Non sono i versi che hai letto nella Tomba di Beatrice?”

Nemmeno la sentii: mi limitai a bofonchiare un assenso, con la mente lontana. Erano trascorsi dieci giorni dal mio primo incontro con Martino. Avrei dovuto chiedergli di rivederci al cascinale? Dirgli che era stato solo un episodio occasionale, e che tutto sarebbe finito così? Avrei dovuto continuare a fingere che nulla fosse successo, come ora, per non rovinare la nostra amicizia?

Ho detto: non sono i versi incisi sotto la statua della Portinari?”

Uhm-uhm.” Fruscio di pagine. Quelle del mio libro.

Bianca...mi senti?”

Ancora fruscio. “Sì, credo che tu abbia ragione.”

Sei un cinghiale selvatico?”

Probabile.”

E nel tuo tempo libero ti rotoli nel fango, immagino.”

Mi sembra una buona idea.”

Tump. Il libro di Veronica si chiuse. La sentii alzarsi in piedi.

Bene, è evidente che sei intenta a pensare a qualcun altro e non hai tempo di starmi a sentire.”

Pensare a chi?”

Lei inarcò un sopracciglio, con aria divertita. “Be', perdonami se sono un po' brusca, ma se è un segreto non lo state nascondendo molto bene. Tu e Martino state sempre a tubare come due piccioncini...se non è successo ancora niente, è ovvio che succederà presto.”

Prima di cedere le armi, tentai uno sguardo indignato. Ma non mi riuscì bene. Mi poggiai il libro in faccia, inspirando l'odore di polvere e carta inumidita che emanava. “C'è già stato qualcosa. Una breve parentesi...” cercai di restare sul vago mentre la voce usciva da sotto il libro. “Niente di importante.”

Sei sicura? A me sembra che ti brillino gli occhi quando lo guardi.”

Non dire sciocchezze.” Tolsi il libro da sopra il mio viso, buttandolo sulle coperte. “A me piace un altro.”

Senza bisogno di guardarla, mi accorsi che si era irrigidita. La sua voce era metallica, quando disse: “Ah. E chi sarebbe il fortunato?”

Lì per lì, non capii il motivo di quell'improvvisa ostilità. “Nicola” dissi, ancorandomi a quella mia vecchia convinzione. Ormai non funzionava più come bugia per me stessa, ma magari avrebbe depistato Veronica. “Obiettivamente, è il più bello tra i ragazzi. E' il più abile nella tattica militare, e ha un carattere equilibrato. I suoi modi sono perfetti...è così saggio, e sa sempre cosa dire.”

Non ero suonata molto convincente, ma Veronica sembrò rilassarsi. Mi aveva creduta?

“Vuoi la mia opinione?”

“Ho scelta?”

La mia consorella si alzò e iniziò a riporre i libri sullo scaffale, in ordine di altezza della brossura.

Quello che mi hai descritto non è amore, è ammirazione. Nicola è quello che vorresti diventare, dalle parole che hai usato somiglia a un idolo più che a un uomo. Lo ammiri da lontano e vorresti avere le sue qualità migliori...sarà un ottimo comandante per te, ma di certo non un compagno di vita.”

Nemmeno Martino mi sembra un compagno di vita” obiettai, sospirando. “Lui è così...e io sono...” scossi il capo. “Non funzionerebbe mai tra noi due.”

Non puoi saperlo. Nella vita non puoi sapere niente in anticipo.” Seguì un silenzio. Volsi il viso verso di lei: continuava a sistemare i libri senza guardarmi “Forse…” aggiunse, con voce incerta “chissà, un giorno scoprirai che sei sempre stata innamorata di Agamennone.”

La sola idea mi fece scoppiare a ridere forte.

Lei si accigliò.

“Che ho detto? Agamennone è un bel ragazzo. E’ un po’ strano, d’accordo…ma è sincero. Lo vedi dal suo sguardo. Uno così non è capace di mentire nemmeno per sbaglio.”

“Per quel che mi riguarda, equivarrebbe a dire che potrei innamorarmi di Vanni. Siamo troppo legati. E poi, ci somigliamo troppo, io e lui.”

Mi soffermai un attimo, e mi volsi a guardarla. Cercava palesemente di non tradire il nervosismo, con gesti lenti, ma un po' troppo rigidi.

“E’ da questi rapporti che spesso nasce l’amore. Perché sono più profondi.”

“Veronica…”

“Che c'è? Sto solo dicendo che sareste una splendida coppia. Così...alti, e snelli...sareste proprio...carini insieme, tutto qui.”

Rimasi quasi pietrificata per qualche istante, mentre lei riordinava meticolosamente i libri per non mostrarmi il tremito delle mani. Ma certo, come avevo potuto non accorgermene prima? Nonostante lo stupore, mi si disegnò un sorriso sulle labbra.

“Tu…sei innamorata di Agamennone?”

Lei spalancò gli occhi scuri. Sbatté le palpebre, una volta, due volte. Tentò di ridere, con troppa angoscia perché le credessi.

“Io? Ma che dici. Era così, per dire. Agamennone ed io, che cosa ridicola…per lui non andrebbe mai bene una come me.” Poi la spavalderia scivolò via dal suo tono di voce, e la vidi improvvisamente fragile. “Io…sono sporca, Bianca. E lui è così puro. A volte mi fa paura per quanto è ingenuo, sembra che niente possa scalfirlo. Riuscirei soltanto a rovinarlo…come ho sempre fatto con tutte le cose belle.”

Ricordai per un momento le parole di Teodora, quando mi diceva che l’amore prende corpo sui volti della gente. In quel momento era lì, così abbagliante sul viso di Veronica che me ne sentii toccata.

Mi sollevai a sedere sul letto, con le gambe incrociate. “Dovresti dirglielo.”

“No. Nemmeno da morta. No. Va tutto bene così com’è. Per la prima volta, nella mia vita, le cose vanno bene come sono. Ti prego, fa’ finta che non abbiamo parlato, va bene? Fa’ finta di niente.”

La fissai a lungo, indecisa se insistere o meno. Sapevo quanto si sentisse fragile Veronica nel campo delle emozioni: un'eccessiva invasione avrebbe potuto ottenere l'effetto contrario. Tuttavia, non riuscii a trattenermi dal dire: “Non dovresti lasciare che le tue paure ti dominino.”

Lei ci mise diversi secondi, prima di alzare uno sguardo duro su di me. “Da che pulpito, Biancarella.”

Non trovai nulla da controbattere: aveva più che ragione. Lei proseguì con il suo studio, ed io con le mie riflessioni. Non ci scambiammo più una parola per tutto il resto del pomeriggio, ma Veronica, con la sua bruschezza, mi era stata più utile di quanto un'amica dal modo di fare più amorevole e confortante avrebbe mai potuto.

 

Quel dialogo mi era servito a fare chiarezza almeno su un punto: se avessi continuato a fingere che la faccenda non esistesse, non sarebbe comunque sparita. Dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa. Almeno un piccolo movimento, per mettere in moto l'ingranaggio. Per questo smisi di nascondermi dietro a mille scuse, e quella notte – l'undicesima, dopo che ci eravamo visti l'ultima volta – tornai al cascinale, sicura di non trovarlo.

Invece Martino era lì, nella nostra stanza segreta. Me ne accorsi dal bagliore che proveniva dall'interno dell'abitato diroccato: seguii la luce, per entrare tra le quattro mura dove l'ultima volta avevamo fatto l'amore.

Martino se ne stava sdraiato sopra una spessa coperta di lana, accanto al focolare semi-spento, riattizzando pigramente le braci. Aveva l'aria di chi aspetta da parecchio tempo.

“Che ci fai qui?”

Sollevò lo sguardo su di me. I suoi occhi mi dissero che era sorpreso della mia presenza: tuttavia, come suo costume, rispose spavaldo:

“T'aspettavo.”

“Mi hai aspettato...per tutti questi giorni?”

Depose il bastone con cui stava ravvivando il fuoco, e si strinse nelle spalle. “Chi 'o sa, magari cambiavi idea.”

La sua espressione mi strappò un sorriso, che non coinvolgeva soltanto le labbra. Sentivo un inspiegabile pizzicore al cuore.

Semeraro Martino, tu sei tutto matto.”

Andai a sedermi accanto a lui, e lo vidi sorridere. “Però alla fine sei tornata.”

Questa volta è davvero l’ultima.”

Biancare’, sta' 'n po’ zitta adesso.”

Il bacio che seguì mise a tacere ogni mia paura. Da che pulpito, mi aveva detto Veronica quando l'avevo rimproverata di lasciarsi soggiogare da ciò che le era successo in passato. E aveva ragione. Io non avevo fatto lo stesso, in quei giorni? Avevo avuto paura di lasciarmi andare. Ogni mio tentativo in quel senso era stato fallimentare, e avevo paura di essere ferita, di ferire, di commettere sbagli di cui poi non avrei potuto sopportare le conseguenze.

Era tempo di lasciare andare quegli stupidi timori e non farsi domande, come durante un salto della fede.

Quella sera, Martino ed io ci addormentammo nel cascinale. Mi assopii per prima, contro la sua spalla, stringendomi addosso la sua cappa bianca che ci copriva entrambi. Il suo braccio era intorno alla mia vita. Sentii a malapena le sue parole sussurrate.

Hai freddo?”

Mormorai un no appena accennato, mentre il battito del cuore di lui, tornato calmo sotto la mia mano, mi guidava verso il sonno.

Non so quanto tempo sia trascorso, prima che sentissi il suo bacio sulla fronte. Ma ricordo di aver pensato distintamente, prima di confondermi nel mondo dei sogni:

Sono a casa.

 

Da bravi incoscienti, ci svegliammo che era già l'alba. Ci tirammo su di colpo, increduli di non esserci accorti che stava per sorgere il sole: iniziammo a rivestirci in fretta, io preoccupata di dover spiegare la mia assenza a Veronica e forse perfino ai miei genitori, e Martino che cercava di stemperare la mia tensione con battute in cui, dopo tutto, non credeva nemmeno lui.

Dai, Bià. Se ce dice male tu' padre me scuoia vivo e tutti i problemi so' risolti!”

Strinsi sbrigativamente il nodo della mia fusciacca rossa. “Grazie, Martino. Questo sì che mi è di conforto.”

Eh, che sarà mai. Se te vedono, dì che sei uscita per allenatte ar mattino presto.”

Mi voltai verso di lui, che si stava infilando gli stivali con dei frettolosi balzelli. Misi le mani sui fianchi. “Sembra una scusa che sei abituato ad usare.”

Lui sogghignò. “Forse.”

Mi imbronciai, senza poter fare nulla per impedirlo. Odiavo reagire a quel modo: dopo tutto, si trattava di un gioco leggero, giusto? Quindi non avevo alcun diritto di lamentarmi se Martino aveva giocato qualche partita con altre ragazze.

Lui sembrò divertito. Mi abbracciò alle spalle, dandomi prima un bacio su una guancia, e poi sull'altra. “Mo' ne devo trovà una nuova però! Quella mijore te l'ho appena regalata!”

Fa' uno sforzo di immaginazione, sono sicura che non ti ci vorrà molto.”

Mi divincolai dal suo abbraccio, ma il mio fastidio era – quasi – solo una finta. Feci per allontanarmi, calcandomi addosso la cappa foderata; quindi, dopo qualche passo tornai indietro per prendergli il volto con una mano e stampargli un bacio sulle labbra. Lo guardai negli occhi. “Se qualcuno al borgo lo viene a sapere sei un uomo morto.”

Martino ammiccò. “So' 'na tomba.” Quindi, dopo avermi strappato un altro bacio, aggiunse: “T'aspetto stasera?”

Meglio se non ci vediamo per qualche giorno, inizierebbero a sospettare.”

Va bene, famo domani.”

Gli diedi un colpetto scherzoso sul petto, come a dirgli che non se lo sognasse neanche. In realtà, sapevo che sarebbe stato lì l'indomani sera. E che ci sarei stata anche io.

 

Sgattaiolare fino alla villa sarebbe stato semplice, tutto sommato: bastava arrampicarsi fino alla mia finestra. Certo, non avevo considerato che, in pieno inverno, di certo Veronica l'avrebbe tenuta chiusa. Non avevo con me nessun tipo di arma o utensile adatto a scassinarla: questa operazione, in ogni caso, avrebbe causato un sacco di rumore, e farmi individuare era l'ultima cosa che desideravo. Quindi, mi risolsi a salire dalla balconata, e scivolare nei corridoi con il mio passo più silenzioso, come nemmeno in Santa Croce, circondata dalle guardie scelte di Elena, avevo fatto. Ero quasi arrivata alla mia meta: schiusi piano la porta della stanza che dividevo con Veronica. Fortunatamente, la mia amica era piuttosto pigra: la sua sagoma era ancora raggomitolata tra le coperte, i capelli rossi sfuggiti alla treccia se ne stavano sparsi sul cuscino. Misi un piede nella stanza, mi sentivo già al sicuro.

E poi, ci fu un distinto rumore di passi.

Mi bloccai sulla soglia della stanza, gelata. Mi voltai, con il terrore di incontrare lo sguardo duro di Ezio. Invece, incrociai quello allarmato di Rosa.

Ora, obiettivamente: sia io che Vanni abbiamo sempre saputo che non saremmo mai stati in guai seri con nostra madre. Questo, perché lei ha sempre avuto un carattere fumantino, che la portava alle grandi sceneggiate e alle urla. E tutti, perfino i bambini, capiscono immediatamente che nessuna vera minaccia può arrivare da una persona che grida. Le punizioni più terribili sono somministrate con uno sguardo freddo e un silenzio.

Per questo, non inquietai più di tanto quando la vidi incrociare le braccia con aria severa.

Dove sei stata?”

Di rimando, sussurrai, in parte per non svegliare Veronica e in parte sperando che mia madre capisse che non era il caso di urlare. “Ho pensato di allenarmi un po' prima dell'alba.”

Lei gettò un'occhiata sospettosa oltre la porta schiusa. “Il tuo letto è fatto.”

L'ho rifatto prima di uscire.” Accennai ad un sorriso nervoso. “Posso andare a cambiarmi, adesso?”

Feci per entrare, quando mia madre mi trattenne per il polso. Mi costrinse a voltarmi verso di lei.

Non avevo mai visto uno sguardo simile nei suoi occhi grigi.

Bianca, dimmi che non mi stai nascondendo niente.”

Mi sentii umiliata da quella domanda, perché sapevo che aveva tutte le ragioni di pormela. L'ultima volta che le avevo tenuto un segreto, aveva riguardato la fuga con Ferrante. E ciò che ne era conseguito, lo sapete fin troppo bene.

Mi morsi un labbro. “Nessun segreto, mamma.” Era una bugia. Alzai gli occhi nei suoi. “Te lo giuro, puoi credermi.” Ma una bugia innocente...da Martino non poteva venirmi lo stesso pericolo che era giunto da Ferrante.

Giusto?

Odiavo sentirmi così. Fino a poche ore prima mi sembrava che il macigno che portavo sul petto si fosse dissolto, ed ora eccolo qui, di nuovo a schiantarmisi sul cuore insieme alla diffidenza di mia madre.

Il perdono non esiste. Chi sbaglia, verrà sempre sospettato di ricadere nello stesso errore. I passi falsi marchiano per sempre, non importa quanto lotti per costruirti addosso un'altra reputazione, sarai sempre quella che un tempo ha fatto questo o quest'altro. Chi vi dice il contrario, vi sta mentendo.

Rosa non fu convinta della mia bugia: se una madre finge di crederti, è perché vuole farlo, non perché tu l'abbia ingannata. “Va bene. Allora...” mi sfiorò il viso gelato “quando vai ad allentarti così presto, copriti di più.” Si distaccò da me, e fece per allontanarsi.

Ricorderete che spesso ho provato l'impulso di stringere a me una persona triste, o fragile, e non l'ho assecondato. Fa parte di una forma di stupido pudore dei sentimenti che mi porto dentro da sempre, e che frequentemente dà l'idea che io sia una persona fredda, o poco affettuosa.

Non è così, invece. E in certi momenti non puoi aspettarti che gli altri lo capiscano, o stiano a scavare nella tua anima per interpretare il tuo atteggiamento. In certi momenti davvero importanti, devi forzare il tuo carattere e dare quell'abbraccio, dire quella parola, fare quel gesto che getterà un ponte tra te e loro.

Per questo raggiunsi Rosa, e la fermai, voltandola verso di me.

Ti prego, credimi. Mamma, sto bene. Forse non sono mai stata così bene come adesso” dissi tutto d'un fiato. “Va tutto bene, davvero.”

Lei accennò ad un sorriso.

Ti credo, Bianca. E adesso su, vai a recuperare un po' di sonno perduto.”

Non ho idea se capì qualcosa, in quel momento, intuendo cosa – o meglio, chi - fosse la causa del mio benessere. Se è così, comprendo perché da quel giorno in poi non ha più fatto parola dell'episodio. Al contrario di zia Claudia, mia madre rivedeva in Martino la giovane se stessa irascibile e sboccata che correva sui tetti e tra le calli di Venezia: tra tutti i Fratelli di Lama, era uno quelli che stimava di più. Martino non era Ferrante, e questo era sotto gli occhi di tutti. Ma nemmeno Bianca era più la ragazzina manipolabile di una volta. Anche se mia madre era terrorizzata che potessi ricadere nei miei vecchi errori, io ero certa che qualcosa del genere non mi sarebbe potuto accadere mai più.

 

***

 

Arrivò un marzo ancora brullo, a cui seguì una primavera fresca che si trasformò rapidamente in estate. Durante quei mesi, le missioni furono frequenti, brevi e poco sanguinarie: viaggi a Firenze per parlare con Diamante e Camilla, incursioni nei dintorni di Siena, rari spostamenti fino al confine del Po per incontrare informatori e svolgere ricerche più approfondite sulla zingara Zenobia. Quelle spedizioni non ci diedero niente di concreto: la donna, che aveva ricevuto dalla Mela un potere sovrumano, sembrava sparita nell'ombra. Forse, dopo tutto, era morta. Forse eravamo sulle tracce di un fantasma.

In compenso, Leonardo e Machiavelli avevano ricavato qualcosa di molto preciso dalle lettere che Dante e Gemma Donati si erano scambiati. Pareva infatti che le iniziali di ogni terza, sesta nona parola (e così via con gli altri multipli di tre) contenuta in una riga ogni tre formasse un messaggio più breve della lettera in sé, ma molto più importante per noi. Ecco un esempio di ciò che le lettere contenevano:

 

Ho dato inizio ad un libello novo: credo fermamente che lo riterreste degno di un auditorio grande, tale da far tremare i polsi, oppure della corte eccelsa di un aristocratico signore.”

 

E poco più sotto, dopo due righe che non contenevano alcun messaggio cifrato sensato, spuntavano fuori d'improvviso queste frasi:

Dolce Gemma, lasciate che vi solleciti a non ignorare con tanta caparbia ostinazione l'utilità della poesia. Ritengo che dovreste ovviare alla lacuna.”

 

L'iniziale di ogni terza parola formava chiaramente la frase: “Il frutto è al sicuro.” Una coincidenza? Forse. Ma nella risposta della moglie, sotto un'apparente freddezza e pragmatismo, era nascosta una domanda preoccupata.

 

Amato marito, il consiglio vostro lo conserverò come segale in tempo estivo. Devo tuttavia ricordarvi che la poesia difficilmente può emendare la fame nella necessità.”

 

E ancora:


“Non voglio turbarvi, ma Antonia e Pietro mi fanno domande a cui non rispondo, pur sapendo, amor mio, che aspettano solo conforto.”

 

Non fareste voi così, evitando gli oneri di una risposta menzognera, in attesa di poter dire loro che l' esilio è finito?”

 

Non voglio lasciare alle loro mani bambine lavori aspri: pensate che la fantesca li eseguirà per loro?

 

Traducendo di nuovo a quel modo, si otteneva la domanda: “Il serpente farà ancora del male?”

La risposta di Dante a quella lettera era la più sibillina immaginabile.


“Moglie mia, dovete confidare nell'Altissimo Nostro Signore. La condanna mia Lo muove certo a Carità, come ogni torto subito lungamente da innocenti.”

 

e non lo so io, esule, che amarezza lascia addosso l'odiosa pratica della prece? Eppure, non potrei sottrarmici, nemmeno restando presso Cangrande.”


“buone nuove: otterrò un incarico tra poco. L'eccelso e valente Guido da Polenta giura che avrò incarichi esimi a Ravenna”

 

Questo messaggio era il più oscuro di tutti. “Dalla olle lo protegge.”

Dalla olle? Che cosa significa?” bofonchiò zio Ugo, osservando quasi con astio le lettere che Leonardo e Machiavelli ci avevano rimandato.

Ancora una volta eravamo riuniti intorno a un tavolo, noi discepoli insieme agli Alti Ranghi, nel laboratorio di mio padre. Leonardo non era presente, e nemmeno messer Niccolò: tuttavia, il loro corriere era stato nientepopodimeno che Galeazzo Marescotti, il padre di Agamennone. Anche lui leggeva con noi quelle lettere per la prima volta, e non sembrava avere idea di cosa significasse quella stramba parola, olle.

Fu Agamennone, a riscuotersi per primo dal torpore. Quando aprì bocca, lo fece come se stesse declamando le parole di una poesia.

Ma certo! E' un cognome. Dalla Olle...” come se si rendesse conto di dover mettere a parte tutti noi della sua intuizione, spiegò: “Sono un'antica famiglia bolognese. Sembra che la dinastia dei Bentivoglio abbia avuto origine da loro.”

Suo padre lo guardò a lungo, con stupore. Come tutti noi. Gettai un'occhiata in tralice a Veronica: il suo sguardo tradiva un'ammirazione a malapena celata sotto la sua solita aria di distacco.

Come diavolo fai a saperlo?” sbottò sorpresa mia madre. Agamennone arrossì.

E' che...ho studiato un po' la storia di Bologna, in questi anni.” Incassò la testa nelle spalle, e io pensai che, nonostante non lo si sentisse mai lamentarsi, Agamennone doveva soffrire acutamente l'esilio forzato dalla sua città di origine.

E bravo er nostro topo da biblioteca” gli bisbigliò Martino, dandogli una pacca sulla spalla. Mio padre annuì, con aria di grande approvazione. Galeazzo accolse quella novità con una scrollata di spalle, come se fosse abituato alle bizzarrie del figlio e non vi desse più molto peso.

Dunque, il Frutto dovrebbe essere nelle mani dei Bentivoglio?” mormorò zia Claudia, pensierosa. “Se non l'hanno trovato fino ad ora, è certo che non lo sanno. Ma perché Dante avrebbe affidato il Frutto ad un templare?”

Forse non è così semplice” rifletté Ugo. “Può essere che un tempo i Dalla Olle fossero Assassini...e poi, per qualche motivo, un loro discendente sia passato dall'altra parte dello schieramento. Se così fosse, la custodia del frutto dell'Eden deve essere passata per forza ad altri.”

E noi saremmo punto e accapo” commentò cupamente mio padre.

Perdonate la mia arroganza, Mentore” intervenne Veronica, rivolta a mio padre, con un tono poco timido che smentiva l'apparente umiltà delle sue parole “ma siamo certi che stiamo parlando del Frutto dell'Eden? Gemma si riferisce a un serpente. Nessuno conosce la vera natura del terzo frutto...potrebbero non essere la stessa cosa.”

Avrebbe più senso che fossero la stessa cosa, invece” ribatté Nicola, che per la prima volta prendeva la parola, riemergendo da uno strano torpore che non pareva da lui. “Allo stato attuale conosciamo solo due frutti dell'Eden: la Mela, e il Pastorale del Papa.” Non guardava nessuno di noi, tenendo gli occhi chiari bassi a terra. “Tuttavia, il Pastorale per come ce l'ha descritto il Mentore...non ha forse la forma di un albero?”

Solo a quel punto, Nicola sollevò lo sguardo.

Il mito di Eva?” mormorai. Come amava ricordarmi Veronica, non ero esattamente una ragazza acculturata: tuttavia, ricordavo almeno quella leggenda alla base della religione.

Forse leggendo i miei stessi pensieri, Ezio sussurrò: “L'Albero della Conoscenza, la Mela dell'Eden...e il serpente tentatore. Potrebbe essere.”

Rosa rivolse a mio padre un'occhiata preoccupata. “Dovremo organizzare una spedizione a Bologna, non si può più rimandare.”

I Bentivoglio cadranno entro la fine dell'autunno” ribatté Galeazzo.

E Giulio II entrerà in città” disse subito mia madre. “Se avrà il Pastorale e il Serpente non potremo più fermarlo.”

Dimenticate un dettaglio fondamentale, Madonna Auditore. Io e il Bibbiena2 stiamo lavorando da più di un anno per avere la fiducia delle truppe papali. Pensano che siamo loro alleati...potremo entrare in città con loro e avere occasione di rubare loro la mela sotto i naso.”

E dove cerchereste?”

Il padre di Agamennone, che al contrario del figlio era un uomo spiccio e diretto, replicò: “Dove Dante ci ha detto. Nella casa dei Della Olle...che oggi è il palazzo dei Bentivoglio. Appena potremo passare in città, lo distruggeremo fino alle fondamenta, se sarà necessario. La faremo passare per una ritorsione della mia famiglia e di quella dei Malvezzi. Nessuno sospetterà nulla.”

Mio padre rifletté brevemente, con il volto poggiato sulle mani giunte.

“Sì, fate così. Potreste avere fortuna.”

Non suonava convinto. Forse stava pensando di unirci a loro, dopo la caduta della città. In cuor mio, lo speravo ardentemente. Quei mesi di calma a casa iniziavano a starmi stretti: smaniavo per agire ancora.

Pensai che la situazione per Lucrezia si fosse fatta davvero critica. Giulio II le aveva strappato l'ultima città di una qualche importanza politica, ed ora non le restava che restarsene docile nel suo ducato di Ferrara, circondata dai Gonzaga che erano alleati degli Assassini, dagli Este che erano imparentati con i Gonzaga e dal dominio papale. Noi nascondevamo (o tenevamo in ostaggio, a seconda della prospettiva da cui la cosa poteva essere vista) la sua preziosa Margherita, che prima dell'inverno avrebbe raggiunto il vero padre a Pesaro. La Borgia era schiacciata, pensai, senza più prospettive. Come era sempre stata sotto il dominio di Cesare e di suo padre Rodrigo. Non importava quanto scalpitasse per emergere, il suo folle sogno di guidare un giorno i Templari era destinato a crollare come cenere.

Il pensiero mi faceva sentire al sicuro.

 

Galeazzo ripartì pochi giorni dopo, in maniera sbrigativa. L'assedio di Bologna era al suo culmine, e voleva essere presente quando le mura fossero cadute, per far sì che nessuno dei Bentivoglio riuscisse a fuggire alla sua vendetta, soprattutto il crudele Ermes.

Prima di andarsene, però, mi prese in disparte per allungarmi una missiva.

“Mi è arrivata tramite una staffetta. Il corriere che me l'ha portata non sapeva da chi provenisse, ma era stato pagato bene per portarla a Monteriggioni...ho faticato parecchio a farmela cedere, non voleva credere che te l'avrei consegnata di persona.”

Osservai la busta con su scritto il mio nome, solo lievemente incuriosita. Chi poteva cercarmi?

La infilai nella fusciacca. Se fossi stata un'assassina più navigata, avrei sottoposto la missiva a dei controlli prima di arrischiarmi ad aprirla. Una lettera anonima poteva contenere di tutto, perfino i germi della peste. Invece, commisi l'imprudenza di tenerla per me, e leggerla quella sera, prima di cena, di fronte al camino acceso nella mia stanza: l'estate iniziava a ritirarsi, e verso l'imbrunire iniziavamo a soffrire dei primi freddi autunnali. Veronica era già scesa per aiutare zia Claudia a dare disposizioni alle serve, ed io spiegai con cura i due fogli macchiati, scritti fitti e dall'inchiostro lievemente sbavato. E parola dopo parola, mi sentii come se il sangue mi si fosse sciolto in acqua, fermandomi il cuore.

 

 

Il cielo di Navarra è trapunto di nuvole. Nemmeno dalla mia prigione vedevo le stelle. Ed è buffo, perché non ho mai provato il bisogno di guardarle, prima. Ne sento la mancanza questa notte, non so perché.

Sono sulla soglia di un nuovo inizio, o della mia fine. E scrivo a te, senza capirne il motivo. Scrivo a te, perché se penso alla morte ricordo il tuo viso. Tu, così giovane, che hai cercato di uccidermi. Tu, così ingenua, che hai creduto di ingannarmi.

Sono partito con il tuo anello per lasciarti la dolce illusione di avermi sconfitto. Conosco le opere di mia sorella, Bianca Auditore, ma se avessi sospettato in minima parte che la vostra strategia comprendeva l’assassinio di mio padre avrei agito prima che le vostre fragili menti di donne potessero condurvi a elaborare un piano. Pensavo che l’acredine di Lucrezia fosse rivolta a me soltanto. Mi rendo conto che non l’ho mai conosciuta, dopo tutto.

Ho donato il tuo anello alla prima puttana di Roma che ho incontrato: la prima vittima del tuo ingegno, mia giovane assassina, è stata una poveraccia che non c’entrava nulla con la nostra guerra.

Ti sento rabbrividire d’orrore, e mi concedo il gusto di immaginare il tuo sguardo furioso. Tu mi odi, Bianca, ma ancora non hai capito che l’odio non è il contrario dell’amore.

Sai, ho trascorso due anni prigioniero. Prima a Chinchilla, e poi nel castello della Mota. Mi erano riservate ancora le parvenze di cortesia che si danno ai grandi signori. Io non guardo a queste sciocchezze. La notte sentivo le grida di una donna che hanno imprigionato insieme a me. Dicono sia la figlia del re di Spagna, la chiamano La Pazza. E non a caso. Le ore di buio erano scandite dai suoi ululati, ed io ho avuto modo di pensare. Anche ora che sono evaso, la consapevolezza non mi abbandona. Ho compreso che la grandezza di un tempo non tornerà da me.

La volpe in catene è diversa da un cane? Il leone addomesticato non somiglia a un qualsiasi gattino? Cesare senza il Papa non è un comune condottiero sconfitto?

Il mio fedele Michelotto diceva che il mondo non ha capito Cesare Borgia. Ad oggi, Bianca, è Cesare Borgia che rifiuta questo mondo. Troppe contraddizioni per sperare di ricondurle a un unico principio. Il Padre della Comprensione mi ha finalmente aperto gli occhi. Voi Assassini avete avuto ragione fin dall’inizio.

Non c’è un senso. Nella vita, nella morte. Non c’è pace in terra né dall’altra parte. Nemmeno dopo la morte ci rincontreremo, bambina mia, mia allieva.

Perché è questo che sei e resti, per quanto cerchi di aggrapparti all’eredità di tuo padre. E’ da me che hai appreso l’inganno, è sotto le mie mani che sei cresciuta. Sono io ad aver fatto di te l’assassina che diventerai. E sei tu ad aver fatto di me l’uomo che presto morirà.

La Volpe invidia all’Aquila le sue ali, come Cesare invidia a Bianca la sua giovinezza. Vivi, superami, sii grande.”

 

Nessuna firma, non ce n’era bisogno. Nessun messaggio di affetto o di amore. Nessun addio.

Gettai la lettera nel fuoco, e la osservai annerirsi.

“Eccote qua! T'ho cercata pe' tutta Monteriggioni.” La voce di Martino mi sorprese alle spalle, allegra come sempre. Non mi voltai.

Lui mosse un passo verso di me. “Biancarè...tutto bene?”

Sospirai, lentamente. Tremavo ancora di rabbia per ciò che avevo letto, e con quel gesto cercai di espellere tutta l'aria cattiva. “Sì...non preoccuparti, tutto bene.”

Non volevo che mi avvicinasse. Volevo rimuginare sul mio passato, sfogare la mia rabbia, ed essere sola. Volevo sentirmi sola, per poter sfogare il lato peggiore di me senza timore che qualcuno lo potesse vedere. Volevo essere grande.

Ero diversa dalla Bianca di due anni fa, vero? Ero cambiata, sapevo combattere, sapevo difendermi...non sarei mai più stata un peso per la mia famiglia. Potevo proteggere coloro che amavo, e non metterli in pericolo per i miei sbagli. Mai più.

Cesare Borgia finì i suoi giorni sette mesi dopo, il 12 Marzo 1507. Durante l'assedio di Viana si gettò da solo alla carica di venti uomini. Assassini? Miei compagni? Non ho voluto saperlo.3 So solo che ci vollero ventitré colpi di lama per far uscire da lui quella vita tanto ostinata che pareva volergli restare in petto a tutti i costi.

Lo ammetto, piansi quando appresi la notizia. Piansi per la sua morte arrogante, degna di tanta esistenza; ma sapevo che le sue parole erano false. Non ero più la sua allieva. Non ero nemmeno più l’allieva di mio padre. Ciò che avevo appreso dipendeva soltanto da me stessa.


Note

1Versi 32-36. Non amo il Paradiso, lo ammetto, ma sono particolarmente legata a questi versi. Ricordo di aver iniziato a prepararli in parafrasi per un compito in classe e di essermi commossa fino alle lacrime quando li ho letti. Esiste una dichiarazione d'amore più bella?

2Bernardo Dovizi da Bibbiena, segretario personale del futuro papa Leone X...che nel 1506 si chiama ancora con il suo nome laico, Giovanni De'Medici. Teneteli d'occhio, entrambi torneranno!

3So che forse è uno scandalo...ma per ragioni di trama: no, nella mia storia non è stato Ezio ad uccidere Cesare. Anche se avrebbe avuto forse molte più ragioni che l'Ezio di Brotherhood XD Ho preferito rispettare la realtà storica e descrivere la morte di Cesare Borgia per come è stata documentata. Lo ammetto...Brotherhood non mi ha esaltato per nulla a livello di storia, quindi cerco di distaccarmici il più possibile.



NdRuna

Ehilà! Aggiorno un po' al volo perché sono distrutta, qui nella verde Irlanda i ritmi di vita sono molto più alti di quelli che ho di solito XD
Tanto per darvi qualche news sulla mia nuova situazione, visto che mi è sembrato che qualcuno fosse interessato...vivo e lavoro a Cork, nel sud-ovest dell'Irlanda. Ricopro le mansioni di assistente e tuttofare in una deliziosa scuola privata che si chiama Scoil Mhuire, dove, tra le altre materie, sono insegnate anche l'italiano e il gaelico. Sono tutti deliziosi con me nella scuola, dalla preside che è sempre l'ultima ad andarsene, alle insegnanti, alle bambine (è una scuola esclusivamente femminile!) alla bidella...la quale ha un genero che viene da Modena, come me XD
Vivo in un delizioso quartiere residenziale, in doppia con una ragazza italiana simpaticissima che avevo già conosciuto durante le due settimane di corso di inglese nel paesino di Bandon. Ho visto alcuni posti incredibili, tra cui il Ring Of Kerry (una serie di luoghi meravigliosi tra cascate e boschi verdissimi, tanto che è facile immaginare fate e leprachaun muoversi in mezzo agli alberi) e la cittadina di Kinsale, una delizia sul mare con due fortezze del 1600...da brividi! E conto di vedere presto anche le splendide Galway e Dublin, anche se penso di essere fortunata a vivere a Cork perché è una città dal grande fermento artistico e culturale, pur essendo assolutamente a misura d'uomo per viverci.
Spero come al solito di riuscire a postare tra un mesetto...vi confesso che il prossimo capitolo è anche l'ultimo che ho scritto, e non sono riuscita a superare ancora il blocco del capitolo 26. Qui non ho tantissimo tempo solo per me, forse dalla prossima settimana ci riuscirò e tenterò di affrontare lo scoglio di ispirazione, per essere certa di avere ancora capitoli da postare con regolarità.

Un irish kiss a tutti voi! ^_^

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Capitolo 25
*** Il Sigillo dei Borgia ***


Il 1507 fu, in molti modi, un anno che stravolse la mia vita. E non soltanto per la morte del mio vecchio amante, Cesare Borgia.

Devo innanzi tutto esporre i fatti con ordine. Non mi lascerò trascinare dall'emotività. Sarò lucida, e non soccomberò al ricordo come se lo stessi rivivendo sulla mia pelle. Vi prometto che arriveremo fino in fondo a questa storia, insieme.

Il primo evento riguarda Margherita: ci lasciò a fine Settembre 1506, prima che le strade potessero diventare impraticabili. Venne a prenderla un messo di suo padre, che si era tenuto in contatto con Ezio in quei mesi. C'era anche una piccola scorta con loro.

Nel salutarla, notai che il braccialetto di stracci al suo polso se ne era andato. Ora era stretto intorno a quello di Vanni.

Questo, sul momento, mi intenerì. Ero stata stupida a osteggiarli. Che fossero amici o che il loro affetto fosse più profondo, non avevo ragione di essere così ostile a una persona che forse era riuscita a capire Vanni più di quanto ci fossi mai riuscita io.

Per questo, sorrisi a Margherita, agitando la mano per salutarla quando fu issata a cavallo davanti al messo dello Sforza. Lei mi rivolse un sorriso pallido, teso. Quando il cavallo si voltò per allontanarsi tra i campi, si volse ancora verso di noi un'ultima volta.

Vanni divenne più cupo che mai dopo la sua partenza. Lo vedevo spesso rigirare il braccialetto, e perdere gli occhi lontano, dietro i suoi pensieri tumultuosi come onde di un mare in tempesta. Si rifugiava spesso nella torre dove ospitavamo la nostra piccionaia, dando da mangiare agli uccelli viaggiatori. Immaginai che le scrivesse, e che inviasse ogni tanto di nascosto uno di quei piccioni a Pesaro. Nessuno disse mai una parola su questo suo atteggiamento. Lo lasciammo fare.

Innamorato? Sì, è quello che pensarono tutti. Sorridevamo dei suoi patimenti, sottovoce, per non urtare la sua suscettibilità. Ci sembrava che Vanni fosse diventato più umano. Più uno di noi.

Anche quel giorno...

Fine Marzo 1507, il mio compleanno era alle porte. Mi mandarono a cercarlo: visto che non era al campo di addestramento, sapevo dove trovarlo. Alla piccionaia, immancabilmente. Sorrisi nell'osservare la sua figura smilza, che dava da mangiare ai volatili che ci facevano da messaggeri. Accarezzava il loro piumaggio con aria pensierosa, come se si aspettasse di trovare nei loro occhi tondi e rossi qualche risposta.

“Eccoti qua. Zia Claudia ti cercava...vuole farti provare una camicia nuova.”

Non alzò nemmeno la testa.

“Arrivo tra poco.”

Lo osservai. Il suo volto stava perdendo i tratti dell'infanzia per diventare quello più duro e virile di un piccolo uomo.

“Ti manca Margherita, vero?”

Lui si strinse nelle spalle. Gettò un'altra manciata di pane ai piccioni, che mangiarono avidamente. Uno si posò sulla sua mano, continuando a becchettare contento.

“Senti, Bianca...”

Aveva l'aria consumata di un bambino che non dorme per colpa degli incubi, o di un adulto con i creditori pronti a bussargli alla porta da un momento all'altro.

“So che mi sono comportato da idiota con te. Siamo diversi...ma mi ricordo quello che hai fatto per me a Ferrara, e anche prima. Volevo dirti che...” Alzò gli occhi. Somigliavano ai miei, ma tendevano più verso il verde che verso l'azzurro. Pensai ancora una volta alle onde del mare in tempesta. “Sei sempre mia sorella, qualsiasi cosa succeda.”

Mi commossi nel sentire quelle parole. La voce di Vanni era cambiata durante quell'estate, aveva assunto i toni più caldi e baritonali dell'adolescenza. Pensai che non mi ero illusa, che era veramente tornato quello di un tempo. Il fratello che avevo tanto rimpianto.

Lo attirai a me, agganciandogli le spalle con il braccio e scompigliandogli i capelli per gioco. Fu un abbraccio un po' rude, da fratelli maschi, forse. Lo sentii imbarazzato da quel contatto, così lo lasciai subito andare. “E tu sei sempre il mio fratellino rompiscatole, Giovanni” replicai sorridendo.

Vanni non era l'unico a sembrare triste, ultimamente. C'era un'altra persona al borgo che si stava comportando in modo strano rispetto al solito, ed era Nicola.

Evitava i momenti di svago comune, sembrava meno concentrato del solito in addestramento e il suo silenzio non era più quello benevolo di chi osserva la situazione intorno a sé, ma quello teso di un uomo che sta facendo a botte con i propri pensieri.

Ricordai che in quei giorni cadeva l'anniversario della morte di suo padre, quel condottiero di ventura di cui si sapeva così poco. “Graziano Offredi...Mai sentito” mugugnò Veronica quando gliene parlai. “Era un Assassino?”

Era un capitano di Ventura.”

Il che, di questi tempi, significa essere o Assassino o Templare.”

Mi strinsi nelle spalle. “Forse era ignaro della nostra guerra. Un guerriero neutrale.”

Per tutta risposta, lei rise. “Biancarella, a volte sei così ingenua! I capitani di ventura muovono i pezzi sulla scacchiera dell'Italia e di tutta Europa. Il potere è in mano a loro. Non esistono guerrieri neutrali.” Si portò elegantemente una ciocca rossa dietro le orecchie. “Offredi, Offredi...no, non era tra gli informatori di Teodora, o l'avrei incontrato.”

Teodora ha sotto controllo soltanto le zone intorno a Venezia. Forse...la Marchesana Isabella lo conosceva. Probabilmente era un uomo al suo soldo.”

Veronica annuì, ma la sua mente era già altrove, a rincorrere connessioni e mettere insieme frammenti di ricordo che non le avrebbero dato pace fino a che non fosse riuscita a mettere in piedi un quadro completo.

Ricordo una sera, dopo cena, nel salone comune. Spesso trascorrevamo lì riuniti un'ora o due, prima di andare a dormire. Zio Ugo, mia madre e mia nonna giocavano a carte; Veronica sfidava Lisabetta a inventare nuovi indovinelli, con l'aiuto di mio padre. Zia Claudia commentava un trattato filosofico insieme ad Agamennone, difendendosi a malapena dalle sue assurde ma calzanti argomentazioni; restavamo Martino, io, Nicola e Vanni. E siccome mio fratello era immerso nella lettura di un trattato – noioso come suo solito: era un'antica cronaca di una qualche guerra romana – rimanevamo soltanto in tre.

Nicola aveva quell'aria assente che aveva ultimamente in viso: giocherellava con una moneta, lanciandola in aria distrattamente, per poi riprenderla e rilanciarla di nuovo.

Testa” dissi, con un sorriso.

Lui fermò la moneta e alzò lo sguardo su di me. “Come?”

Scommetto che uscirà testa” replicai, cercando di alleggerire quella sua tensione. Lui abbozzò ad un sorriso.

E a me me resta croce” aggiunse Martino, rivolgendomi uno sguardo complice. Aveva capito cosa stessi cercando di fare, e si era unito subito al mio tentativo.

Nicola aprì il pugno, per mostrarci la moneta. Il lato rivolto verso l'alto era completamente levigato: non c'era alcuna traccia che potesse far comprendere se si trattasse di testa o croce. La girò: anche l'altro lato era stato levigato allo stesso modo.

A volte non è né l'uno né l'altro.”

Martino inarcò il sopracciglio. “Ma una volta lo era. Famme vedè, magari c'è rimasto 'n segno pe' capì se è testa o croce...”

Nicola chiuse il pugno e ritirò la moneta, cacciandosela in tasca.

Non c'è nessun segno, te lo posso assicurare.”

Con quelle parole, calò il silenzio. Nicola si alzò in piedi dopo meno di un minuto, e con la scusa che si sarebbe alzato presto il giorno dopo per accompagnare Ugo a Firenze, lasciò la stanza. Il suo viso pareva distaccato come sempre, ma quella reazione così insolita per lui era troppo evidente per non suscitare la nostra curiosità.

E' da un po' che è strano” commentò Vanni, alzando a malapena il naso dal libro.

Sta per cadere l'anniversario della morte di suo padre” gli ricordai. “Chiunque al suo posto sarebbe strano.”

Vanni si strinse nelle spalle, ricacciando il naso nel libro. Tuttavia, aggiunse: “E' così suscettibile da quando siamo tornati da Siena...”

Lo disse con il tono di chi vorrebbe dire qualcosa di più, se interrogato. Io non gli feci domande, ma Martino, cogliendo quell'insinuazione, lo squadrò con aria bellicosa.

Che vorresti dì con questo?”

Io non voglio dire niente. Dico solo che mi sembra strano da un po' di tempo. Magari a Siena ha visto qualcosa che gli ha ricordato suo padre” buttò lì mio fratello con aria noncurante.

In un gesto nervoso, Martino gli prese il libro dalle mani, perché alzasse lo sguardo su di lui. “Te eri là con lui. Lo dovresti sapè, no?”

Gli posai una mano sul braccio, per placare la sua tensione. A volte Vanni faceva semplicemente così: cercava di infastidire il suo interlocutore, di provocare una reazione. Era in un'età difficile, lo sapevamo tutti.

Mio fratello resse lo sguardo di Martino senza nessun senso di inferiorità.

Non posso sapere tutto quello che passa per la testa degli altri.”

Martino prese un grande respiro. Poi, gli restituì il libro con aria cupa. “Già. Nun dubito che ce perderesti er sonno.”

Per quella sera, la discussione finì lì, e io cercai di non ripensare all'insinuazione di Vanni né al tono cupo di Nicola.

E poi, accadde.

Le serve lo trovarono il giorno successivo, per sbaglio, riordinando, tra i libri di Nicola.

Una ceralacca rossa, spezzata in due. Se ricomposta, formava una figura molto chiara...

Un toro rosso.

L'emblema dei Borgia. 

 

Avevo notato l'agitazione in casa, ma nessuno voleva dirmi cosa fosse successo. Nessuno degli Alti Ranghi lo comunicò a nessuno degli allievi. Restarono riuniti quasi l'intera giornata, spedirono piccioni viaggiatori, e chiusero le porte. Fummo convocati soltanto a sera, quando Nicola e Ugo furono di ritorno.

Il nostro amico era seduto al centro della sala. Era pallido, aveva il volto tirato. Noi ci tenevamo in piedi, contro il muro. Astanti e giuria di quell'improvvisato processo. Mio padre era il suo sommo giudice, e torreggiava su Nicola come una statua. Sul suo volto, apparentemente, non c'era che freddezza, mentre gli mostrava la ceralacca dei Borgia.

“Non so cosa sia, Mentore.”

“Non conosci questo emblema, Nicola?”

“Conosco l'emblema, ma non so cosa ci facesse tra le mie cose.”

Mio padre incrociò le braccia al petto. “Sarò più diretto. Hai mantenuto una corrispondenza con qualche appartenente alla famiglia Borgia, in questi mesi?”

“No.”

“Allora cosa ci faceva la loro ceralacca tra i tuoi libri?”

“Non lo so.”

“Nicola Ordelaffi” la voce di mio padre si alzò di volume “hai mantenuto una corrispondenza con i Borgia nell'ultimo anno?”

“No, Mentore! Che io possa cadere morto in questo momento, se vi sto mentendo!” Gli occhi di Nicola erano pezzi di ferro, freddi e sicuri, quando rispose a quel modo. Non aveva avuto timore di alzare la voce a sua volta.

“Ordelaffi? Oh santo Dio.” mormorò Veronica accanto a me, coprendosi la bocca con la mano. Mi volsi verso di lei, sorpresa. Nella foga del momento non avevo notato il diverso cognome che mio padre aveva usato.

Ezio camminò lentamente verso la sua scrivania. Raggiunse la sedia. Poggiò una mano sullo schienale, restando in piedi. “Quando sei venuto tra di noi, tre anni fa” mormorò in tono duro “avevo raccolto informazioni sul tuo conto. Sapevo che mi avevi mentito, e che tuo padre non era un semplice capitano di ventura. Sapevo che tuo padre era Graziano Ordelaffi, sacrificato come una pedina da Ermes Bentivoglio nell'assedio di Imola, e che tu eri un templare figlio di templari. E tuttavia, ho creduto nella fiamma che vedevo nei tuoi occhi, Nicola.”

Potevo vedere solo la schiena di Nicola, dritta e fiera sotto il peso di quelle accuse. Perché non stava smentendo anche quelle pesanti insinuazioni? Un templare, figlio di templari? Il nostro migliore adepto? Era la cosa più ridicola, la più assurda che io potessi mai concepire.

La voce dell'interrogato sembrava provenire da un luogo molto lontano e freddo, quando rispose: “Ho rinnegato la fede templare nel momento stesso in cui ho visto massacrare mio padre e i suoi uomini come fossero animali. Quando sono stato lasciato a sanguinare nella neve e spogliato delle armi e delle altre cose di valore mentre ancora stavo agonizzando. L'individuo non è nulla confronto al bene supremo... Quando ho sperimentato sulla mia pelle che il bene supremo non è altro che il Dio Denaro, ho aperto gli occhi.” Notai che stava artigliando i braccioli della sedia. “Sono venuto da voi con l'anima pulita, Mentore, e voi lo sapete. Ho sposato il Credo e tutti i vostri insegnamenti. Tradire voi significherebbe tradire me stesso!”

Calò il silenzio sulla sala, una spessa cortina di doloroso stupore. Come vi ho già detto poco tempo fa: il perdono non esiste. E se Nicola era stato un templare prima di entrare nel nostro ordine, a quel punto divenne orrendamente palese per tutti che poteva averci venduto. Che poteva averci ingannato tutto il tempo.

Una volta tolta la seduta, fummo rispediti nei nostri alloggi. Nicola sarebbe stato custodito nella cella, per quella notte, fino a che la faccenda non fosse stata più chiara.

Nicola. In una cella. Nicola. Un Templare. Il mondo girava alla rovescia: forse dopo il tramonto il sole sarebbe tornato indietro e avrebbe ricominciato a scalare il cielo,invece di sprofondare nella notte.

Mi massaggiai le tempie, cercando di riordinare i pensieri.

“Avrebbe dovuto dircelo prima. Se le sue intenzioni fossero state pure come sostiene, avrebbe dovuto dircelo” mugugnai quasi tra me.

“Era debole e malato quando è arrivato” replicò Veronica, spazzolandosi i capelli con aria pensierosa. “Un topolino in un covo di potenziali serpenti. Credi che tuo padre lo avrebbe accettato come discepolo, se avesse saputo?”

Irritata, ribattei subito: “Mio padre non ha mai negato a nessuno un'opportunità.”

“Ma questo lui non poteva saperlo, quando è arrivato qui. E forse dopo ha avuto paura delle conseguenze della confessione.” Lei si strinse nelle spalle. “Nicola è quello tra di noi che forse ha capito meglio il Credo, l'ha sempre vissuto ogni giorno con disciplina e onore. Nessuno ha una tale capacità di finzione, Bianca, nemmeno un attore consumato. Credimi, sono stata un'infiltrata diverse volte, a Venezia...fingere a quel modo ogni giorno della tua vita, per tre anni, non è umano.”

“E quindi? La ceralacca sarebbe comparsa dal nulla?”

La bocca di Veronica ebbe un guizzo, ma non alzò lo sguardo su di me. Continuò a spazzolarsi i capelli.

“Pensi che qualcuno abbia voluto incastrare Nicola?” la incalzai. “Ma chi? Chi potrebbe mai...”

Fummo interrotte da un lieve bussare alla porta. Si schiuse subito, rivelando il volto di Martino.

“Siete svejie?”

“E chi riesce a dormire, stanotte?” sospirò Veronica, poggiando la spazzola. “Dov'è quell'altro pazzo?”

“Sul tetto, co' 'e stelle amiche sue.”

Veronica storse il naso, come a dire: figurarsi. Sospirò, mentre Martino si sedeva un po' impacciato sul bordo del mio letto. Durante l'anno appena trascorso c'eravamo dati appuntamento in molti luoghi, ma mai in camera mia. Si guardava intorno con un certo timore reverenziale, come se avesse paura di invadere lo spazio e far cadere qualcosa solo con la sua presenza.

“Ce pensate? Nicola se ne sta ne le segrete, adesso.” Scosse il capo. “Nun me lo sarei mai aspettato.”

“La notizia è stata un fulmine a ciel sereno per tutti noi” disse Veronica.

“No, nun me hai capito...nun me aspettavo che er Mentore fosse così pronto a metterlo ar gabbio.”

Mi misi subito sulla difensiva, come se quella critica a mio padre fosse una critica a me. “Che altro avrebbe dovuto fare? Nicola non ha rubato della marmellata dalla dispensa, ha tenuto una corrispondenza con i Borgia!”

“Nun c'avemo prove pe' dillo.”

“Ma la ceralacca è stata trovata tra i suoi libri! Che altro avrebbe dovuto fare mio padre? Cosa avresti fatto tu al suo posto, sentiamo!”

“Scusate.” Veronica si alzò in fretta, alzando le mani in un gesto di resa. “Ne ho abbastanza di discussioni per questa sera.”

“Dove vai?”

“A vedere se il nostro decifratore di stelle sta bene.” Ci rivolse un'occhiataccia eloquente. “Non tornerò presto, quindi nel frattempo cercate di calmare i bollenti spiriti. Sa il cielo se abbiamo bisogno di altre tensioni, oggi.”

Con quelle parole, chiuse la porta energicamente.

Martino ed io rimanemmo immersi in un silenzio stagnante, per un po'. Lo interruppe lui, a voce bassa, quasi un sussurro.

“Nicola nun è 'no stupido. S'avesse scritto davero ai Borgia, credi ch'avrebbe tenuto 'na stramaledetta ceralacca? L'avrebbe bruciata co' 'e lettere, Bià.”

“Può essersene scordato. Quel che conta è che ha mentito per tutto questo tempo. Chi ci assicura che non menta anche ora? “

“E hai provato a pensà pe' 'n momento che quarcuno...”

“...l'abbia incastrato. Sì, lo ha suggerito anche Veronica. Ma chi, Martino?”

Lui mi guardò negli occhi, con una certa intensità. Come pregando che io leggessi la risposta nel suo sguardo e non dovesse dirmelo ad alta voce.

Purtroppo, ormai conoscevo quelle iridi scure abbastanza bene da sapere perfettamente cosa mi stessero dicendo.

“No...” mormorai. “Non vuoi dire questo. Non mi stai dicendo che credi...”

“E chi artro, Biancarè? Chi è l'unico qua dentro che ha mai pensato come 'n templare? Chi è quello c'ha fatto amicizia co' 'a fija d' 'a Borgia? Sei stata te a dimme che a Ferrara nun voleva più tornà a casa...se c'è quarcuno de noi che smania pe' passà dall'artra parte, quello è Vanni!”

Mi alzai di scatto, con gli occhi serrati e le mani strette sulle tempie pulsanti. Feci qualche passo nervoso nella stanza. Era un chiaro segno che non volevo sentire di più: ma Martino, che è sempre stato molto più testardo della sottoscritta, proseguì implacabile.

“Pensace...pensa a tutto er tempo che passa alla piccionaia. Pensa a come l'artra sera cercava de facce capì che Nicola era strano fin da quanno erano a Siena. Nun t'è sembrato strano?”

“Martino, ti rendi conto di quello che stai dicendo? E' Vanni! E' mio fratello, il figlio del Mentore! Non potrebbe fare una cosa del genere, mai! Sangue di Giuda, è solo un ragazzino!”

“Biancarè, ascorta, se me voi un po' bene...”

Gli piantai in viso due occhi furenti.

“Non metterla su questo piano. Non osare!”

Lui si alzò in piedi, per fronteggiarmi direttamente. “'o so che a lui ne voi de più. Ma che te credi, che sei l'unica che c'ha dei fratelli? Però ascortame...Bianca...T'o vedi uno come Nicola a fa 'r doppio gioco?”

“Stai dicendo che da Vanni te lo aspetteresti?”

“Sì. E' proprio quello che sto addì. E 'o sai che tutti li allievi stanno a pensà 'o stesso, quaddentro. Solo che non c'hanno le palle de dirtelo. Biancarè...me dispiace.”

Cercò di sfiorarmi il braccio, ma mi ritrassi bruscamente. Vanni mi aveva detto che aveva capito i suoi errori. Vanni stava cambiando. E io credevo in lui, con tutte le mie forze.
“Fuori di qui.”

“Biancarè...”
“Ho detto: fuori di qui!”

Martino serrò le labbra fino a sbiancarle. Mi guardò per un lungo momento, e infine mi voltò le spalle, per uscire dalla porta.

Mi lasciai cadere sul letto, e in un impeto di rabbia presi a pugni il cuscino. Non servì a calmarmi, comunque. Mi sembrava di combattere ancora una volta contro il resto del mondo. Perfino contro Martino, che era stato il mio angolo di pace fino a quel momento. Contro Nicola, il mio modello, che rivelava improvvisamente un lato oscuro e spaventoso. E contro la possibilità che le mie peggiori paure su Vanni potessero essere diventate realtà.


La mattina dopo, cercai di parlare da sola con mio padre, ma senza successo. Sembrava che ogni momento avesse qualcosa da fare, qualche ordine da assegnare, qualche colloquio privato da sostenere. Riuscii a strappargli un'udienza solo intromettendomi a forza, durante una sua riunione con Claudia e Ugo. Bussai vigorosamente; siccome era la quarta volta e non avevo ancora ottenuto risposta, decisi di aprire la porta.

Gli occhi rapaci di mio padre e quelli identici di zia Claudia mi fulminarono. Quelli di Ugo erano più benevoli, come sempre, ma comunque sorpresi della mia veemenza.

“Bianca, non lo vedi che siamo impegnati?” disse Ezio.

“E' tutto il giorno che cerco di parlarvi.”

“E' tutto il giorno che ho molto da fare.”

“E' importante, padre.”

“E' importante anche quello che...”

“Ezio” intervenne Ugo, portando le mani in avanti per intercedere in mio favore. “Credo che dovresti mettere a parte la ragazza di alcune cose. Non è più una bambina, giusto? E' una discepola a tutti gli effetti.”

“Ezio è in grado di giudicare cosa sia giusto dire o non dire a sua figlia” replicò piccata zia Claudia.

“Ezio è anche abbastanza saggio da sapere che i segreti portano incomprensioni, e le incomprensioni sono pericolose” ribatté tranquillo suo marito.

“Ma Ezio sa qual è la strada giusta da percorrere ai fini della missione.”

“Non c'è dubbio, però Ezio sa ancora meglio che condividere i piani con gli accoliti è fondamentale per la Fratellanza.”

“Forse dimentichi che Ezio...”

“...Ezio è qui” precisò mio padre, interrompendo quello strambo battibecco. “E vorrebbe accogliere il consiglio di un buon amico, se la sua cara sorella glielo consente.” Abbozzò ad un sorriso, ma pallido, tirato. “Posso chiedervi di...?”

Lo fissarono entrambi: Claudia con una nota di scorno, e Ugo con un sorriso. Mia zia incrociò le braccia al petto, e scosse la testa. “Ezio è il solito sentimentale” commentò con aria rassegnata, avviandosi fuori dalla stanza.

“E Claudia è sempre così pronta a perdonare i difetti altrui” la punzecchiò Ugo, che si era incamminato un passo dietro di lei.

“C'è Ugo che perdona già troppo per tutti quanti.”

“Ed è per questo che Ugo sarebbe perso senza Claudia.”

Li sentii proseguire a questo modo nel corridoio, ma per una volta i loro amorevoli battibecchi non riuscirono a strapparmi un sorriso. Chiusi la porta, mentre mio padre si sedeva sullo scranno con un sospiro.

“Se sapevate che Nicola era un templare, perché lo avete fatto entrare a Monteriggioni?”

Ezio non sembrò irritato dal mio tono inquisitorio. “Te l'ho detto, gli ho creduto quando diceva di voler vendicare suo padre. La vendetta, come sai, è un argomento che mi sta a cuore.”

Abbassai lo sguardo.

“Pensate davvero che potrebbe averci fatto questo? Che potrebbe averci venduto?”

Lui non emise un suono, nemmeno l'ombra di un sospiro. “Penso che abbia diritto ad un vero processo. Non possiamo permetterci di punire un innocente.”

“Voi credete che lo sia?”

“Il processo non è ancora aperto...” Ezio inarcò un sopracciglio. “Perché smani tanto per essere l'avvocato accusatore? Credevo che tu e Nicola foste amici.”

Ristetti, a quella domanda. Perché volevo condannare il mio amico? La risposta era fin troppo semplice. Per un egoistico desiderio di chiarezza. Perché i miei dubbi fossero dissipati. Perché la colpa fosse assegnata, e io non dovessi più sospettare di mio fratello. Il solo pensiero era così assurto che non riuscii nemmeno a pronunciarlo ad alta voce.

Ezio si alzò in piedi, e mi raggiunse. Mi poggiò una mano sulla spalla.

“Dovremo rinviare questo processo, Bianca. C'è una missione che ci aspetta, e dobbiamo accertarci che nessuna informazione sia uscita da qui...che il responsabile sia Nicola, o meno.”

Sapevo che i Bentivoglio erano caduti a Novembre dell'anno precedente. Giovanni era prigioniero a Milano, i suoi figli Ermes e Annibale in esilio a Ferrara, la madre Ginevra scomunicata dal Papa perché si era rifiutata di allontanarsi dai dintorni della città. Bologna ora era in mano ai papalini: la fazione della Borgia era dispersa e frammentata, definitivamente. Con la scusa di vendicarsi per le stragi che avevano decimato le loro famiglie, i Malvezzi e i Marescotti (tra cui il padre di Agamennone) avevano in quei giorni guidato una spedizione per demolire fino alle fondamenta il Palazzo Bentivoglio. Ora non rimanevano che macerie: “il Guasto”1, le avevano ribattezzate. Galeazzo affermava che non c'era nessuna traccia del Frutto, nemmeno setacciandole palmo a palmo.

“Quindi, l'indicazione di Dante era errata?”

“No” mi contraddisse mio padre “era giusta...ma abbiamo considerato l'indicazione sbagliata.”

Mi sorrise, ed io non afferrai, da principio. “Ricordi la massima non giudicare un libro dalla copertina? Be', in questo caso puoi dimenticarla.”

Spalancai gli occhi, ricordando all'improvviso che c'erano dei versi incisi sulla carpetta di cuoio. Mio padre comprese che avevo compreso, e annuì.

 

Qual pare a riguardar la Garisenda

sotto 'l chinato, quando un nuvol vada

sovr'essa sì, che ella incontro penda...”

 

recitò con voce sicura. “Ho buone ragioni di credere che il Serpente sia stato spostato lì, in quella torre: “La Garisenda”. Da quando i papalini hanno preso la città la usano come prigione. Accedervi non sarà semplice, e dovremo fare doppiamente attenzione perché porteremo la Mela con noi, in territorio ostile.”

“Perché proprio la Mela?” Tremai al ricordo del mio breve contatto con il Frutto dell'Eden, avvenuto tra anni prima durante la fuga dal palazzo di Ferrara.

“Perché so per esperienza che solo un frutto dell'Eden può aprire una Cripta. La Mela sarà la nostra chiave per il santuario che custodisce il Serpente.”

“E se i Templari fossero già arrivati lì? Se il Papa avesse usato il Pastorale per aprire la Cripta?”

Lo sguardo di mio padre si incupì. “Credimi, Bianca...se Giulio II avesse il Serpente nelle sue mani, lo sapremmo...perché saremmo già stati distrutti.”

Ci preparammo intensamente per la missione che sarebbe seguita. In primo luogo, entrare in Bologna in incognito sarebbe stato ancora più fondamentale di quanto lo era stato passare inosservati a Firenze. Le nostre divise bianche e rosse dovevano sparire: avremmo indossato altri travestimenti. Il nostro contatto in città era il vescovo Dovizi da Bibbiena2, dovevamo avvicinarlo con la massima cautela e soltanto dopo aver ricevuto da lui una comunicazione. Avrebbe saputo come trovarci: così sosteneva mio padre. Non osai chiedergli che ruolo avrebbe giocato il figlio di Gentile Budrioli in tutto questo, né se avesse scelto con chi schierarsi dopo la fuga dei Bentivoglio. Immagino che l'avremmo scoperto definitivamente solo dopo aver fatto un sopralluogo in città.

Mentre Claudia organizzava il viaggio dal punto di vista logistico e Ugo si occupava di illustrarci il piano tattico per entrare non visti nella Garisenda aggirando i possibili presidi dei papalini, mio padre ci aveva imposto un addestramento durissimo, soprattutto nell'arrampicata veloce.

Fu allora che accadde. L' “incidente”...lo chiamarono così, ma io capii subito che aveva poco a che fare con il caso.

Stavamo correndo sulle mura. Vanni era più avanti di me, Martino lo seguiva stretto. Era come una gara tra loro, una sorta di competizione: eppure, mi accorgevo che Martino badava di non superarlo mai troppo. Come se volesse soltanto provocare mio fratello, farlo infuriare perché commettesse un errore.

Erano poco avanti a me, quando Vanni iniziò la discesa del muro. Saltare non era da lui: ancora non si azzardava a gettarsi dalle altezze. Preferiva trovare appigli per calarsi rapidamente giù dal muro. E fu allora che mi accorsi dei pochi, strani istanti in cui Martino, invece di saltare come suo solito per cercare di recuperare il vantaggio su Vanni, attese. Mentre Vanni teneva la mano sul merlo e stava giusto per staccarla per continuare la discesa, Martino la pestò forte, con i pesanti stivali da addestramento.

Ne sono certa come del mio nome, non è stato un caso. Fu un colpo sicuro: ero appena dietro di loro, non potevo non accorgermi che aveva aspettato il tempo giusto. Accidenti a lui...non potevo crederci! L'aveva fatto apposta!

Mio fratello cacciò un grido, perdendo la presa e scivolando. Il volo fu comunque breve: cadde in piedi, ma subito dopo essersi accertato di avere riacquistato l'equilibrio si afferrò forte la mano calpestata.

“Dannazione, ma sei impazzito?” ringhiò, mugolando per il dolore.

Corremmo al suo fianco, mio padre ed io. Martino rimase per qualche istante a fissare la scena, come se fosse pietrificato dal proprio gesto. Mio padre corse in avanti per soccorrere mio fratello, e io rimasi a guardarli, mentre la rabbia montava accecante dentro di me e assordava i pensieri.

La diagnosi fu semplice e inevitabile. Due dita di Vanni erano rotte. Sarebbero dovute restare immobili e steccate per lungo tempo. Per lui sarebbe stato impossibile partecipare alla missione, non avrebbe potuto arrampicarsi né essere utile con la mano in quello stato.

Mio fratello sbiancò quando ricevette la notizia, ma non reagì ulteriormente, se non abbassando la testa. Potevo quasi vedere le lacrime bruciare nei suoi occhi.

“Martino...posso parlarti un istante?”

Con quelle parole appena sussurrate come unico avviso, trascinai furiosamente il mio compagno fuori dalla stanza in cui eravamo radunati intorno all'infortunato. Lui non si oppose a quel mio brusco richiamo.

Una volta fuori dalla camera, gli sibilai addosso:

“L'hai fatto apposta.”

Martino non reagì con grande stupore. O meglio: la sua voce lo fingeva bene, ma i suoi occhi dicevano altro. “Che stai addì?”

“L'hai fatto perché Vanni non potesse seguirci in missione. Ti ho visto, hai calcolato il tempo esatto prima di fare quel passo. Non provare a negare!”

Il silenzio che seguì, anche se breve, bastò a confermarmi la sua colpevolezza.

“Biancaré, io...”

Non gli diedi il tempo di spiegarsi, e spingendomi fin sotto il suo viso sibilai: “Se non lo dico a mio padre, è soltanto in nome di quello che c'è stato tra di noi.”

Formulai quell'ultima frase al passato apposta, lo ammetto. E' un mio vecchio difetto, quello di difendermi ferendo il mio interlocutore...spesso nella maniera più bieca possibile. Odioso, lo riconosco, ma irrinunciabile per me. Non potevo permettere a nessuno di vedere la mia fragilità. Soprattutto a Martino.

Lui sostenne il mio sguardo e il mio attacco. Con un tono grave e orgoglioso, rispose: “Anche se fosse...nun me pento, Biancarè. Vanni nun deve venì a Bologna. E nun ce verrà.”

Nei suoi occhi decisi bruciavano parole non dette. Incredibile...non si pentiva! Non si pentiva per nulla!

Senza un'altra parola, gli girai le spalle, furibonda, e me ne andai sul tetto. Avevo bisogno di stare sola, per sbollire la furia e decidere cosa fare. Volevo respirare. Salire su quelle tegole come quando ero bambina e immergere la mia ombra in quella del cielo. Sparire, confondermi con le stelle. Non essere più io, ma una persona che non si sentiva tradita. Che non si sentiva accerchiata. Che sapeva cosa fare.

Il tetto però, come spesso accadeva da quando Agamennone viveva a Monteriggioni, era già occupato.

La sagoma del mio amico era raggomitolata, stretta su se stessa: una chiazza bianca d'abiti contro il buio incipiente della notte. L'aria intorno a noi era color indaco, non del tutto incupita. Mi sedetti accanto a lui: Agamennone non spostò nemmeno la testa.

Godetti per un po' del calmo silenzio che riuscivamo sempre ad instaurare tra noi.

“Tu che cosa pensi di tutto questo?” mormorai, dopo un tempo che mi parve infinito.

Agamennone si prese altrettanti, lunghi minuti per rispondere. Non mi guardò. Scrutava il cielo con l'aria di un bambino che cerca disperatamente il volto della madre tra una folla di sconosciuti.

“Non lo so, Bianca...non riesco a leggere le stelle, stasera.”

Mi strinsi nelle spalle. “Quando farà più buio, potremo vederle meglio.”

Non sapevo ancora quanto avessi ragione. Presto sarebbe stato molto, molto più buio nelle nostre vite. Ed io avrei capito su quali stelle potevo fare affidamento per impostare la rotta, e quali invece fossero destinate a confondersi come bagliori lontani nel firmamento.

 

1Proprio dietro l'attuale Teatro Comunale di Bologna, dove oggi ci sono ancora via del Guasto e gli omonimi giardini, sorgeva il palazzo dei Bentivoglio prima di questa (storica) distruzione.

2Licenza poetica sulla storia, visto che in quel periodo avrebbe dovuto essere a Urbino insieme al cardinale Giovanni de'Medici, di cui era segretario.

NdRuna

Come speravo, la magia dell'Irlanda ha sortito il miracolo! Mi sono sbloccata e sto per finire il maledetto 26esimo. E mi sono sbloccata tanto che...tadaaa...è nata anche una nuova storia. Si chiama "Siuil a Run - Walk on my love", ambientata nel XIX secolo tra Inghilterra e Irlanda. Come sfondo c'è sempre la nostra beneamata guerra tra Templari e Assassini. Dopo le guerre Napoleoniche, la fazione inglese dell'Ordine si sta estinguendo. Un tempo capeggiato da Lord Reeves, tragicamente ritrovato a faccia in giù nel Tamigi, l'Ordine di Londra ha ora due capi: lady Cordelia Reeves, la vedova del defunto Mentore, e Seamus McCarthy, irlandese dalle origini e dai mezzi non proprio ortodossi, che sotto la copertura di una modesta bottega di antiquariato dirige i maggiori traffici illegali della City. Ignaro di queste guerre sotterranee, il giovane e imbranato apprendista di bottega Gareth Webster si innamora della figlia di McCarthy, Deirdre, e attraverso di lei inizia a scoprire lentamente la verità celata dietro la bottega in cui lavora. Avrà abbastanza coraggio per intraprendere la via del Credo?
Non temete, questa storia sarà per Bianca soltanto una sorella minore...molto, molto più breve, e soprattutto mai più importante di lei. Per seguire una tradizione vittoriana...la sorella minore non si sposa mai prima della sorella maggiore! Di conseguenza, Biancarè avrà sempre la precedenza sul povero, sfortunato Gareth ;) Ciò non toglie che mi farebbe piacere avere un vostro parere anche su quella storia, se vi va di passare ^_^
Sono come sempre in super fretta, e mi scuso tantissimo verso tutti coloro che hanno recensito, per non aver ancora risposto ad uno ad uno come ho promesso. Lo farò, lo giuro. Ogni vostra parola mi dà un'energia enorme, devo ricambiare: lo farò prestissimo.

Ps: Scusatemi, club Biartino. Questo capitolo e questo litigio sono stati particolarmente dolorosi da scrivere...

Pps: Novità personale: ho ottenuto un contratto di lavoro qui a Cork. Tornerò a casa a fine luglio per fare un po' di vacanza e riorganizzarmi, e a fine agosto sarò di nuovo qui! XD

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Capitolo 26
*** Sangue del mio sangue ***


Il tre Aprile 1507 varcammo le porte di Bologna; o meglio, attraversammo ciò che restava di quella grandiosa cerchia di porte che, prima dell'assedio, proteggeva la Città Dotta e i suoi canali.

Visto che Bologna era in mano ai papalini, avevamo deciso di presentarci senza le solite divise da assassini: per quella missione avremmo impersonato il piccolo corteo di un nobiluomo, e quel nobiluomo era Agamennone.

In effetti, non si trattava di una menzogna. Il mio amico era di antica e nobilissima stirpe, e il nome di suo padre era conosciuto in città, perché Galeazzo aveva combattuto al fianco di Giulio II per la liberazione di Bologna: era il nostro miglior lasciapassare per i blocchi di guardie. Per questo, con indomito spirito di sacrificio, Agamennone indossò ricchi broccati che da moltissimo tempo non portava più, e cavalcò in testa al nostro piccolo gruppo, con mio padre, che impersonava il capo della sua guardia personale, al fianco.

Se c'era qualcosa che era stato facile dimenticare negli anni a Monteriggioni, erano le differenze di grado. Ai tempi di mio padre, l'Ordine aveva raggruppato soprattutto reietti della società, perseguitati politici, ladri e delinquenti; ad oggi, gli status sociali delle sedi dell'Ordine che si stavano sviluppando in tutta Italia erano di fatto i più variegati. Nella mia piccola casa sperduta tra i campi senesi io dimenticavo spesso che mio padre era il signore del borgo e mia madre una ladra, mio zio Ugo un trovatello di oscure origini e mia zia Claudia la figlia di un facoltoso banchiere; essendo cresciuta con quel bizzarro miscuglio di classi all'interno della mia famiglia, avevo sempre trattato tutti da pari, soprattutto i miei confratelli.

Ma pari, a conti fatti, non eravamo. Fatta eccezione per me, che ostento con orgoglio il mio sangue reietto, potevamo dirci di estrazione completamente diversa: Agamennone era nobile, Veronica proveniva da una famiglia di agiati mercanti; Martino era un contadino e Nicola...

Nicola non era con noi. Era ancora in attesa del suo processo, a Monteriggioni, e in quel momento poco contava che fosse figlio di un capitano di ventura, di un nobile o dell'ultimo straccione di Brescia.

Scossi il capo, per non pensare. Nicola era colpevole. Doveva esserlo, per forza.

Le guardie all'ingresso di Porta Santo Stefano ci rovistarono da capo a piedi. Inutilmente. Non avrebbero trovato armi nelle nostre sacche, ad eccezione della spada che mio padre fu costretto a consegnare loro. Le lame celate erano al sicuro, a Monteriggioni. Faceva tutto parte del piano: avremmo ricevuto ampi rifornimenti da Galeazzo e dal Bibbiena, una volta in città.

Il canticchiare nervoso di Agamennone, che ci aveva accompagnato dal primo momento in cui avevamo visto la chiesa di San Luca appollaiata sui colli, cessò. Di fronte alle guardie, con voce inaspettatamente ferma e tono tranquillo, il mio amico disse:

“Il mio nome è Agamennone Marescotti. Chiedo di poter entrare in città.”

“Per quale motivo siete qui?”

“Per unirmi ai superstiti della mia famiglia e rendere omaggio a Sua Santità Giulio, che ha riconquistato per noi la nostra casa.”

Era molto bravo nel recitare la sua parte. Veronica gli era accanto, vestita da gran dama, e impersonava sua moglie. Benché cercasse di stare al proprio posto e muta, come il ruolo le richiedeva, io la vedevo lanciare ad Agamennone frequenti occhiate preoccupate. Tutti noi sapevamo che mentire non era il punto forte del nostro studioso delle stelle, ma fino a quel momento se l'era cavata egregiamente.

Io ero vestita da paggio: seguivo a piedi il cavallo di Martino, che cavalcava accanto ad Agamennone, dal lato opposto rispetto a mio padre. Tra di noi regnava un doloroso silenzio.

Dal giorno dell'incidente di Vanni, Martino ed io ci ignoravamo con una freddezza che mi faceva paura. Tuttavia, ogni tanto sorprendevo ancora il suo sguardo addosso a me, e in segreto ne ero soddisfatta: di lì a breve gli avrei dimostrato Vanni era innocente, e allora Martino sarebbe venuto da me per chiedermi scusa, di tutto. Ed io lo avrei perdonato...tutti sbagliano, non avrei mai potuto negargli un'altra occasione. Sarebbe andato tutto bene, tra di noi. Tutto come prima. Ne ero certa come del mio nome.

Appena varcata la porta diroccata, ci fermammo, come pellegrini ubbidienti, a rendere grazia alla Madonna del Baraccano.

Mentre mio padre e gli altri sedevano sulle panche, fingendosi in preghiera per attendere l'arrivo di Bernardo Dovizi da Bibbiena, io me ne stavo sul fondo della chiesa. Guardai a lungo quell'affresco che chiamano “La Madonna della Pace”, e mentre lo facevo ricordavo la mia antica preghiera alla Madre di Dio, al tempo in cui mi trovavo ancora prigioniera dei Borgia.

Sorrisi appena, come ritrovando una vecchia amica. O meglio, una persona da cui avevo contratto un credito. In quel momento, rinnovai la mia preghiera eretica:

Ave Maria, madre di Dio. Prega per noi peccatori, e concedici di trovare il Serpente prima che lo faccia il Papa...

“Non sarà così.”

La voce che parlò aveva bisbigliato appena, sopra la mia spalla. Mi voltai, per scoprire che accanto a me c'era una donna.

Aveva la pelle scura, bruciata dal sole e scavata da molte rughe. Eppure, non aveva nemmeno l'ombra di quella patina grigia che spesso avvolge i vecchi. I suoi occhi erano fissi sulla statua della Madonna, mentre giungeva le mani in preghiera, con devozione. Vestiva abiti cenciosi, e i suoi lunghissimi capelli neri erano trattenuti da una treccia resa pesante dagli oli. Pesante era anche il suo fisico matronale, e il volto rotondo era imbolsito da una vistosa pappagorgia. Era senz'altro una zingara. Non avrei saputo darle un'età.

Lì per lì, faticai a parlare. Cercai di ricordare se avessi espresso il mio pensiero ad alta voce senza accorgermene.

“Il Papa troverà il Serpente. Lo riceverà dalle tue mani.”

Un brivido intenso mi scosse. “Come...tu...come? Cosa stai...”

La donna si alzò in piedi, con un sorriso enigmatico sulle labbra. “Vuoi sapere di più? Seguimi.”

Con quelle parole, uscì dalla porta.

Ed io, essendo l'incosciente che sono, la seguii per davvero fuori della chiesa.

Camminava a passo svelto sotto i portici gremiti di guardie: qualcuno le lanciava insulti e sputava al suo passaggio. Solo allora capii che non era frutto della mia immaginazione: quella donna era reale, tutti potevano vederla. Un po' per non destare sospetti e un po' per effettiva fatica, rimasi a distanza di un paio di metri, attenta a non perdere la sua treccia nera tra la folla. Non mi chiesi se mio padre avesse notato la mia sparizione, né cosa avrebbero pensato i miei confratelli. In quel momento, le parole della zingara mi bruciavano nello stomaco così intensamente che non riuscivo a pensare ad altro.

Il Papa avrebbe ricevuto il Serpente. Da me.

Che sciocchezze. Aveva detto le prime parole che potessero attirare la mia attenzione. L'aveva fatto perché...non lo so, forse si era informata sul mio conto. Forse era un'alleata che voleva parlarmi in privato, o una nemica che voleva attirarmi nella sua trappola. Che ci crediate o no, in quel momento entrambe le possibilità si equiparavano nel mio cuore, dandomi la stessa sensazione di gelo intenso.

La grandiosa chiesa di San Domenico si schiuse d'improvviso tra i portici, incombendo su di noi in tutta la sua severità. Era il presidio dell'Inquisizione bolognese. Un covo templare, di certo.

La zingara ed io ci fermammo all'ombra della colonna che reggeva l'arca dentro cui, per chi ci credeva, erano custoditi i resti mortali del santo. La donna restò di schiena, fissando intensamente l'arca, con una mano sulla fronte per schermarsi gli occhi dal sole.

“Perché dovrei consegnare il Serpente al Papa?” le domandai. Lei nemmeno si voltò.

“Perché così è scritto, Bianca Auditore.”

Non sussultai, quando pronunciò il mio nome. Si era informata sul mio conto, come sospettavo. A quel punto, mi restava solo da pregare che si trattasse di un'alleata: se una nemica avesse saputo della presenza degli assassini a Bologna, avremmo potuto dire addio alla missione.

“Io non credo in ciò che è scritto” replicai, con tutta la spavalderia di cui fui capace.

La donna non mi badò. Aveva lo sguardo perso nella piazza, mentre cercava con gli occhi delle immagini che appartenevano soltanto alla sua mente.

“Gentile rideva. Sul rogo, mentre la sua carne bruciava. Lei rideva perché sapeva di averli ingannati tutti quanti...aveva pagato un prezzo altissimo, ma era riuscita a cambiare il destino di tutti noi.” Finalmente, si voltò verso di me. Mi fissò, con quegli occhi che avevano dentro pagliuzze dorate. “Sei pronta a pagare fino all'ultima stilla di sangue, giovane Auditore? Perché è questo il prezzo che gli dèi chiedono per cambiare il destino.”

“Non credo neanche negli dèi.”

La donna accennò ad un sorriso amaro.

“Allora qual è il tuo Credo, assassina? Il sangue soltanto?”

“Il sangue si può vedere.”

“Solo quando viene versato...e allora cessa di essere vivo. E come puoi credere in qualcosa di morto? E' nella vita, che si ha fiducia. Non nella morte. La morte si subisce soltanto.”

La sua padronanza della lingua era perfetta, sebbene l'accento risultasse gravato da una cadenza cantilenante. Slava? Turca? Non avrei saputo dirlo.

Mi prese la mano, ne studiò il palmo. Fui attraversata da un brivido. Ricordai, d'improvviso, che non avevo la lama celata al polso.

“Tu...sei Zenobia?”

La donna non rispose alla domanda che le avevo posto. Continuava a fissare quell'alfabeto che mi si intrecciava in linee sottili sul palmo, segnando ghirigori tra le mie dita e sulla mia carne. Un codice incomprensibile per me, ma evidentemente chiarissimo ai suoi occhi. “Se ti dicessi ciò che vedo nel tuo destino, lo renderei realtà. Se taccio, puoi ancora salvarti. Cosa scegli?”

Sentii le fauci secche. Dicevano che Gentile avesse ricevuto dalla Mela il potere di guarire. Dicevano Zenobia fosse con lei in quel momento. Se anche lei l'avesse toccata...quale potere poteva averle conferito?

“Voglio sapere.”

Lei scosse il capo, come per deprecare la mia scelta. E tuttavia, disse con voce chiara e limpida:

“Domani, il tuo sangue sarà versato.”

“Da chi?”

“Lo sai già.”

Mi lasciò bruscamente la mano, e scivolò via da me, in mezzo a un gruppetto di pellegrini. La persi, semplicemente. Troppo devastata da ciò che avevo sentito, dal modo in cui mi ero lasciata trovare, raggirare, leggere dentro, per trovare la forza di seguirla.

Non era affatto una maga. Mi aveva circuita con le parole, per farmi scoprire il fianco.

Quando un braccio freddo si posò sul mio, la rabbia che mi fremeva sottopelle mi costrinse a voltarmi di scatto. E incontrare lo sguardo furente di Martino.

“Che stavi affà, se po' sapè? E' da 'nora che sei sparita, so' tutti preoccupati.”

Respirai più forte, tenendo gli occhi nei suoi per un lungo momento. Avrei dovuto aspettarmi che mi sarebbe venuto a cercare.

Tolsi il braccio dalla sua stretta, bruscamente.

“Ho solo fatto una ricognizione nei dintorni. Odio le chiese, lo sai.”

L'indomani sarebbe stato il mio compleanno. Il 4 Aprile 1507: avrei compiuto diciotto anni.

Due cose importanti sono accadute nella mia vita, proprio il giorno del mio compleanno. Una splendida, l'altra terribile.

Quale delle due mi attendeva?

Dopo aver udito la profezia di Zenobia, credo lo possiate immaginare da voi.

 

Le parole della zingara echeggiavano ancora nella mia mente, mentre, ore più tardi, presenziavo al banchetto a Palazzo Marescotti.

La casa di Agamennone, che io avevo creduto in rovina, era stata risollevata e resa un palazzo magnifico, nel cuore della città: il banchetto di quella sera era stato indetto proprio per festeggiare il ritorno alla grandezza di quella famiglia ingiustamente cacciata dai perfidi Bentivoglio. Il gozzoviglio era durato fino a notte tarda, il vino era scorso a fiumi insieme al cibo troppo speziato. Da dove veniva tanto ben di Dio? La città era appena caduta dopo un lungo assedio, non poteva avere grandi rifornimenti. Il Bibbiena ci spiegò sottovoce, cercando di mantenere il sorriso sulla faccia per il bene delle apparenze, che le campagne erano state saccheggiate.

Era un uomo piccolo, il vescovo Dovizi da Bibbiena. Mi ricordava, per certi versi, messer Niccolò: possedeva simili occhi acuti, leggermente infossati, e un profilo stretto dal naso lungo. Non aveva la voce stentorea di un oratore, ma piuttosto quella sottile di un consigliere che deve parlare sempre sulla spalla di qualcun altro.

“Sua Eminenza Giovanni De'Medici non ci raggiunge per festeggiare la caduta dei Bentivoglio?” gli domandò mio padre, non senza una punta di ironia, mantenendo la schiena rasente al muro. Sua Santità Giulio partecipava al banchetto, di cui era l'ospite d'onore: questo costringeva Ezio Auditore a restare il più possibile nascosto tra gli invitati di rango minore, mandando avanti sulla scena Galeazzo, Agamennone e Veronica, che di certo possedevano lineamenti meno conosciuti dei suoi.

“Il mio signore è impegnato in Romagna” affermò il Bibbiena, con un mezzo sorriso “e resterà laggiù fino a che la situazione non sarà più stabile, se capite cosa intendo.”

Era sottinteso dal suo tono che il cardinale Giovanni De' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, si trovasse al sicuro dove stava. Dopo la caduta di Cesare, quelle terre un tempo rette da Caterina Sforza erano ora in mano al papato: a quanto pareva, Giulio II non sospettava i disegni che noi Assassini avevamo su quel giovane cardinale. O forse, per qualche ragione che allora non potevo comprendere, muoversi contro il figlio di Lorenzo il Magnifico gli sarebbe costato più di quanto gli sarebbe valso.

Senza distogliere gli occhi dalla figura severa di Papa Giulio, mio padre mormorò: “Sarà domani, Bernardo. Dovrete fare in modo di convogliare l'attenzione delle guardie sul punto più lontano possibile della città.”

Il vescovo annuì. “Immaginavo che avresti voluto agire presto. Per questo ho suggerito un pellegrinaggio a San Luca. Le guardie papali ci seguiranno fin sul colle, e il resto dell'esercitò sarà dispiegato soprattutto sul perimetro delle mura e nelle brecce...ma fai attenzione alla zona di San Domenico e a quella intorno alla piazza di San Petronio, potresti avere dei guai.”

“Galeazzo ha ricevuto istruzioni precise, i suoi uomini saranno sui tetti tutto intorno alle due chiese. Presidieranno anche le zone intorno ai canali.”

“E dove sistemerai i tuoi ragazzi?”

“Agamennone seguirà suo padre. Martino mi servirà sul colle insieme a voi, per piazzare la bomba che farà da diversivo. Veronica potrà aiutare a pattugliare la zona intorno alla Garisenda...” A quel punto, mio padre volse appena il viso verso di me. “Bianca salirà con me sulla torre.”

Potete immaginare il tuffo che fece il mio cuore a quelle parole. Mi limitai ad annuire profondamente. Il Bibbiena forse aveva visto la scintilla di stupito orgoglio nei miei occhi, perché mi sorrise.

“Dicono che le aquile insegnino ai loro pulcini a volare buttandoli giù dal nido. Assicurati di spiegare le ali in fretta, giovane Auditore: dalla Garisenda sarà un bel volo.”

Quindi, chinando appena il capo in cenno di saluto, il Bibbiena si allontanò da noi, per raggiungere il nucleo della festa e gli invitati di rango più importante.

Mio padre continuò a fissarlo per lungo tempo: io fissavo lui, cercando di indovinare i suoi pensieri.

“Volete davvero che venga con voi?”

“Mi hai sentito.”

“E' una specie di regalo di compleanno?”

Lo vidi accennare ad un sorriso, ma privo di allegria. “La ragione per cui ti ho scelta è che ho bisogno di una persona veloce nell'arrampicata, che possa coprirmi le spalle nel caso ci inseguano e che si senta pronta ad affrontare un'eventuale Tomba dell'Assassino. E, soprattutto, voglio con me qualcuno che possa maneggiare senza danni la Mela.”

Avevamo portato il Frutto dell'Eden con noi: mio padre sosteneva che non fosse possibile aprire la cripta che conteneva il Serpente senza di esso. Ora, il prezioso manufatto giaceva al sicuro in una sacca, celata dentro le ampie maniche dell'abito di Ezio.

“E io posso farlo?”

“L'hai ripescata dal fossato di Ferrara quattro anni fa, e non ti ha dominato la mente.”

“Non domina nemmeno la vostra.”

Gli occhi scuri di Ezio si misero nei miei, con grande serietà.

“Potremmo doverci dividere. E' troppo pericoloso che una sola persona porti due Frutti dell'Eden con sé. Se uno di noi due dovesse cadere” vidi la sua mascella contrarsi mentre pronunciava quelle parole “l'altro dovrà andare avanti. E' chiaro, Bianca?”

Deglutii a vuoto, ma cercai di non darlo a vedere per orgoglio. Ezio mi stava trattando come un'adulta, mettendo la morte di uno di noi due come elemento possibile sul piatto della bilancia. Non avrebbe combattuto fino allo stremo per tirarmi fuori dai guai, questa volta, ma avrebbe messo la salvezza del Frutto dell'Eden di fronte alla mia. Qualunque cosa fosse successa, avrei dovuto farcela da sola, per il bene di tutta la Confraternita.

“E' chiaro, padre.”

 

Quella notte, dormii sonni agitati. Ricordo distintamente la figura di un serpente che mi si avventava alla gola, e poco altro. Tuttavia, la mattina dopo la tensione era sufficiente a mantenermi concentrata. Il piano era semplice: mio padre ed io avremmo raggiunto la torre non visti, protetti dai tiratori di Galeazzo sui tetti intorno alle Case Torri. Nel frattempo, sul colle della Guardia su cui sorgeva il santuario di San Luca, Martino avrebbe fatto in modo di far scoppiare uno degli ordigni che si divertiva tanto a fabbricare.

“Stai attento.” mormorai, passandogli accanto con aria cupa. Lui rispose, con tono altrettanto piccato: “So fa' 'r lavoro mio.” Però rimase a guardarmi mentre andavo via, come se avesse voluto aggiungere anche lui un “Fai attenzione” che non gli usciva dalle labbra.

Eravamo due idioti testardi. Ma le cose sarebbero migliorate. Dovevamo solo uscire vivi da lì, tornare a casa e parlare. Ne ero ancora convinta.

Ci muovemmo in silenzio, mio padre ed io, confondendoci sotto degli anonimi mantelli marroni tra la gente che andava a Messa e quella che sciamava verso l'Arco del Meloncello per unirsi alla processione di Sua Santità.

Non potevo saperlo, ma in quel momento due figure incappucciate di bianco stavano arrivando al gran galoppo da Monteriggioni. Lasciavano i cavalli poco lontano dalla città, si calcavano i cappucci sul capo e attraversavano Porta Santo Stefano scavalcando le rovine, attenti a non farsi vedere dalle guardie, trafelati. Non avevano tempo. Dovevano arrivare da mio padre. Dovevano dargli la notizia, prima che fosse troppo tardi.

Ma era già troppo tardi. Ezio ed io eravamo sotto la Garisenda.

Arrampicarsi fu semplice. Le case Torre sembrano costruite per noi assassini: i contrafforti sono il nostro naturale appiglio. La Garisenda non era più alta come ai tempi in cui Dante l'aveva paragonata ad un gigante: la sua eccessiva altitudine l'aveva costretta a inclinarsi pericolosamente, e la parte superiore era stata abbattuta.

Mentre mi graffiavo le mani su quelle asperità sconosciute, mi ritenni fortunata di non dover scalare la sua gemella, la Torre degli Asinelli, che mi incombeva addosso con la sua corona merlata.

Scoprimmo presto che l'unico pertugio da cui poter entrare nella Garisenda era una finestrella stretta, che era stata sbarrata. Mio padre tentò di scardinarla, senza successo. Lo sentii imprecare tra i denti.

“Forse, la mela...”

“No.”

La voce che mi era uscita dalle labbra non sembrava nemmeno la mia. Quasi non mi rendevo conto di me stessa mentre, con il respiro accelerato, fissavo una sagoma luminosa che si arrampicava accanto, diretta verso la cima. Tutto intorno aveva assunto i contorni grigi e indefiniti che sommergevano il mondo quando lo guardavo con l'Occhio dell'Aquila, compreso quel lieve senso di nausea che ormai mi era familiare.

La sagoma dorata era una figura di donna, con i lunghissimi capelli lisci che le correvano lungo la schiena e le si incollavano al viso. Non so perché, ma fui subito certa che si trattasse di Gentile.

“E' lassù” mormorai, e senza aspettare il permesso di mio padre iniziai a seguirla.

Probabilmente anche Ezio l'aveva vista attraverso quello stesso dono, perché si arrampicò dietro di me senza fiatare.

Una volta in cima, scoprimmo che la sommità della torre era stata saldamente sigillata: la sua superficie era liscia, intatta. C'era solo una piccola conca, non più grande di un pugno, che non era di certo un manubrio né una manopola. Eravamo bloccati.

Avrei voluto gridare per la frustrazione; ma attraverso la nebbiolina dell'Occhio dell'Aquila la sagoma dorata di Gentile continuava a guidarci. Si chinò sul pavimento e lo toccò con la mano: subito dopo, un'immaginaria botola si aprì, e dal suo interno prese ad irradiarsi una luce accecante.

Battei le palpebre. Una volta, due volte. L'Occhio dell'Aquila se ne era andato, e con esso la visione della strega.

Ezio ed io ci scambiammo solo uno sguardo. Mio padre prese la Mela dell'Eden e la depositò dentro la conca. Era perfettamente della sua misura.

Nel sole alto e accecante che brillava quel giorno su Bologna, il luccichio dorato che si sprigionò dal Frutto si confuse come un semplice riverbero su uno specchio. Udimmo un clic, un rumore di ingranaggi. Mi chiesi se si sarebbe aperta sotto di noi una Tomba dell'Assassino.

Così non fu.

Era un nascondiglio semplice, quasi improvvisato. Come l'aveva scavata Gentile? Smisi di chiedermelo quando venni abbagliata dalla visione del Terzo Frutto dell'Eden, che splendeva dentro la piccola nicchia.

Era un bracciale istoriato, che raffigurava un serpente avvolto sulle proprie spire. L'occhio bianchissimo dell'animale sembrava una perla: mi accorsi, tuttavia, che non era altrettanto lucido. Tutta la superficie del bracciale era attraversata da piccole scanalature regolari, come quella della Mela.

Non ebbi tempo di osservarlo più a lungo, perché una freccia ci sibilò accanto.

Ci avevano visti. Dal palazzo di Piazza della Mercanzia, a quanto pareva. Troppo lontano per scagliare un pugnale da lancio. Mio padre afferrò il Serpente e si alzò in piedi. Con l'altra mano aveva già afferrato la balestra. Scagliò due colpi in successione rapida. Sentii esplodere di rimando il pallettone di un archibugio.

Presi la Mela tra le mani, e scambiai uno sguardo con Ezio.

Con un lieve cenno di assenso, ci gettammo entrambi nel vuoto.

Il Bibbiena aveva ragione: la Garisenda era alta. Ma nessun volo è infinito.

Il mucchio di fieno ci accolse. Non c'era speranza che non ci avessero visti, perciò decidemmo che era arrivato il momento di dividerci. Io con la Mela, Ezio con il Serpente stretto nel pugno, ci allontanammo in direzioni opposte, tra le strade strette che si irraggiano dalle Due Torri.

Mi sembrò di correre per una vita; ogni respiro affannoso era una domanda. Agamennone è sui tetti? Le sue frecce basteranno a tenermi lontani i nemici? E Veronica? E' pronta a coprirmi le spalle, lassù? E mio padre, riuscirà a riunirsi a Galeazzo senza farsi notare?

Poi, ci fu l'esplosione. Lontana, assordata, sul colle che a malapena potevo intravedere in lontananza. Mi paralizzai. La mia mente si riempì soltanto del nome di Martino.

Se non fosse stato così, forse avrei notato che mi trovavo all'incrocio con una via che si chiamava “Via dell'Inferno”.

Ad oggi, mi sembra quasi un segno.

“Bianca!”

Mi strinsi forte la Mela al petto, sentendo quella voce provenire dal vicolo. Lui, qui?

Voltandomi, incontrai l'ultima figura che mi aspettavo di vedere: mio fratello. Alto e magro, quasi perso nella sua tenuta da Assassino troppo grande per lui.

“Vanni? Che cosa ci fai qui?”

Aveva ancora la mano fasciata, e il suo viso era cadaverico. Si sporse verso di me. “A casa...” Mi afferrò il braccio. “Un disastro, Bianca. Hanno preso d'assalto Monteriggioni.”

Il cuore mi si schiantò in petto. “Chi...come?”

“I templari. Siamo corsi qui per avvertirvi...la notte dopo la vostra partenza. Nicola li ha fatti entrare, non sappiamo come .” Aveva il fiato corto, parlava a piccoli sorsi d'aria. Mi spinse contro il muro, e si guardò sulla spalla, per controllare che non ci fosse nessuno nelle vicinanze. Poi, guardò di nuovo me. La voce gli tremava. “Bianca, la mamma...”

Silenzio.

Gli inseguitori dovevano essere convogliati verso il Colle della Guardia. Nella strada, nessun suono. Dentro di me, nessun suono.

“La mamma...cosa, Vanni? Sta bene? E' ferita?”

Silenzio, di nuovo. A Vanni mancarono le parole.

“Sta bene, vero?”

Abbassò la testa, non disse nient'altro. Sotto i capelli neri, cercai le sue iridi grigio-verdi. Erano piene di dolore.

“No.”

Quell'urlo di rifiuto non ebbe suono nella mia gola. Ci fissammo negli occhi, mio fratello ed io. I suoi erano lucidi, i miei persi.

Tremavo. Ma non potevo permettermelo, non ora. Scossi forte la testa, rifiutandomi di assimilare quell'informazione. Mia madre...la sua voce, le sue mani, i suoi occhi d'argento. Mia madre...mai più...

No! Non potevo vacillare adesso. Non dovevo permettermi di sentire, né tantomeno di capire.

“Dobbiamo raggiungere nostro padre.”

“Dai la Mela a me.” La stretta di Vanni sul mio braccio si fece più salda. “Possiamo dividerci e depistarli.”

Qualcosa suonò storto in quelle parole. Come una distonia. Scossi il capo, esitante. “Posso portarla io.”

“Dalla a me” ripeté Vanni, accorato. C'era una strana tensione nella sua voce.

Mi ritrassi. “Perché?”

Un'ombra di paura passò negli occhi di mio fratello. E poi, quella paura si fece cupa determinazione. “Non voglio farti del male, Bianca. Sei mia sorella.”

Che cosa provi in un momento come questo, quando capisci che tutto quello in cui credevi sta per sgretolarsi?

Nulla.

Solo gelo.

Avevo sbagliato. Avevo sbagliato fin dall'inizio. Nicola era innocente. E Vanni...

La voce mi uscì rotta. “Dimmi che non è vero.”

“Ho promesso che avrei portato loro uno dei Frutti dell'Eden. Se l'avessero fatto loro ti avrebbero uccisa.”

Voci, nel vicolo poco lontano. Rumore di passi pesanti. Uomini armati.

Angosciato, Vanni gridò di nuovo: “Dammi la mela, Bianca!”

Le parole di Zenobia mi risuonarono nella mente con la forza dei secoli. Domani il tuo sangue sarà versato. Dai chi? Lo sai già.

Accadde tutto in un attimo. Disperato, Vanni si protese per afferrarmi il polso e torcermelo, tentando di strapparmi la Mela dell'Eden. Nel farlo, la toccò. Se ne lasciò soggiogare.

La luce attraversò, intensa, le scanalature del Frutto dell'Eden. Irradiò in una nebbiolina di luce opaca, e poi esplosero i suoni. Ci trafissero. Danzarono davanti a noi, tradotti in segni che non potevo comprendere.

La lama celata di Vanni scattò. Dentro la mia carne.

Ecco la profezia che si avverava sotto i miei occhi sgranati. Il mio sangue versato dal mio sangue. Pugnalata da Giovanni Antonio Auditore, mio fratello.

Mentre il potere della Mela si rarefaceva, un dolore lancinante mi annebbiò la mente. Vanni mi aveva colpita alla spalla. Non troppo lontano dal cuore.

La sua lama celata si ritrasse. Vacillai, appoggiandomi al muro. Vanni mi guardava, incredulo di aver compiuto quel gesto.

Avrei dovuto sospettarlo. Avrei dovuto capire. Margherita. La ceralacca dei Borgia. I piccioni. Era lei il tramite dei templari con mio fratello. Pianificavano questo. Nel momento in cui realizzai, desiderai morire.

Gli occhi di Vanni restarono nei miei per un lungo momento. Annichiliti. Terrorizzati. Eppure decisi.

Poi, scappò, con il Frutto dell'Eden tra le mani. Cercai di seguirlo, ma non potei fare altro che caracollare a terra, tenendomi la spalla ferita.

“Maledetto...che tu sia maledetto!”

Le lacrime mi accecavano lo sguardo, in parte per il dolore e in parte per la disperazione. Mi lasciai andare contro il muro del vicolo sozzo, respirando affannosamente. Qualcuno sarebbe arrivato. Ezio...Rosa...Martino. Erano mai esistite persone con quei nomi, che mi volevano bene e volevano proteggermi? Non ne ero certa, perché nulla è reale. E in un mondo in cui tuo fratello ti tradisce, tutto è lecito. Ero sola come non lo ero mai stata prima, in tutta la mia vita.

Quando sentii i passi di un uomo nel vicolo, e la sua ombra mi sovrastò, pregai che fosse un templare giunto per finirmi, perché non sarei potuta tornare da Ezio con quelle due notizie orribili. Avevo perduto la mela. E avevo perduto Vanni, questa volta per sempre.

L’estraneo si piegò su di me. Per un attimo sul suo volto balenarono gli occhi rossicci di Ermes Bentivoglio.

Ma no, no, non era lui. La sua voce non era sottile e cattiva, mentre cercava di parlarmi. Al contrario. Era ricca, profonda. Non compresi ciò che diceva.

Mi lasciai andare tra le braccia dello sconosciuto come se fosse un messo della morte. Lui si tolse il mantello. “Resta sveglio” bisbigliava, mentre mi tamponava la ferita. “Avanti, ragazzo, resisti!”

Dormi, sussurrava la morte al mio orecchio. Chiudi gli occhi, e dimentica. Niente è reale, è stato solo un brutto sogno. Requiescas, Bianca Auditore…requiescas in pace…

Chiusi gli occhi per non sentire più, per non capire più. La voce dell’estraneo mi rimbombò nella mente.

“Accidenti…non dormire!”

Se avessi visto ciò che io ho visto, pensai, vorresti dormire anche tu.

E dalle sue braccia scivolai in quelle di Morfeo.



Note di Runa
Eccoci qua, al momento tanto doloroso che ho cercato inconsciamente di rimandare con ripetuti blocchi di ispirazione. Non è stata una sorpresa, lo so...è sempre stato questo il punto a cui volevo tendere, fin dall'inizio, fin dal primo capitolo di Bianca come il Peccato. Mi sono preoccupata, per tutti questi 25 capitoli precedenti, di rendere coerente la psicologia di Vanni giustificando ciò che l'ha portato a questo. Ho provato a spiegare perché Bianca si aggrappasse con tutte le sue forze alla speranza che questo momento non sarebbe arrivato. Ho fatto del mio meglio...spero che vi convinca abbastanza (a questo punto farei un sorrisino di scuse...ma sono troppo triste per aggiungere uno smiley, sob. Un conto è progettare questo momento, un conto è vederlo concretizzarsi...arisob).
Ebbene sì, i fratelli Auditore saranno nemici, da questo momento in avanti. Ezio e Rosa hanno fallito nel cercare di riportare Vanni verso di loro. Cosa sarebbe stato di lui, se il soggiorno a Ferrara non fosse mai avvenuto? Probabilmente, Vanni si sarebbe placato con il matrimonio dei suoi genitori, e sarebbe diventato un buon braccio destro per sua sorella. Così non è stato...e Bianca e tutta la sua famiglia ora dovranno scontarne le conseguenze. 
Che ne è stato di Martino? E di Ezio? E chi è l'uomo che ha raccolto Bianca dalla strada? E in che modo Zenobia e Gentile intrecceranno i loro destini con quelli della nostra giovane Assassina?
Ci aggiorniamo tra un mese con il prossimo capitolo, "Caina attende" <3 

Ps: spero di non aver fatto errori. Ho revisionato il capitolo, ma mi coinvolge così tanto a livello emotivo che potrei essere stata più indulgente del solito. Let me know :)

Lal.

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Capitolo 27
*** Caina attende ***


 

Mi risvegliai in una stanza polverosa e ingombra di scaffali stracolmi, con la testa pesante e i brividi che mi percorrevano il corpo.

La prima cosa che avevo visto era stato il soffitto basso, ricolmo di ragnatele; in sottofondo, riconobbi il rumore che mi aveva strappato dal sonno. Un pestare ritmico del legno sul legno. Mi chiesi se fossi finita nelle mani dei templari. Che stessero preparando un veleno per me, o un siero col quale estorcermi i segreti di mio padre?

Ero pronta a tutto, quando l’uomo si avvicinò.

Non era alto, e tuttavia aveva spalle e torace piuttosto ampi. Nonostante ciò, non aveva affatto un’aria minacciosa. Gli abiti neri sulla carnagione bianca lo facevano risultare un po’ tetro, ma la sua espressione era sorridente. Aveva capelli castani, e una barba folta, aderente alla mascella e curata. Reggeva in mano mortaio e pestello.

“Vi siete svegliata, finalmente.”

Tra tutte le domande che mi si affollavano alla mente, la prima che mi salì alle labbra fu: “Dove sono?”

Avevo la gola riarsa, e la voce uscì strana al mio orecchio.

“A casa mia” rispose lui, affondando un mestolo dentro un secchio e poggiandomelo alle labbra. Io le tenni serrate.

Lui fu perplesso di quella mia esitazione. “E’ acqua” disse poi, forse intuendo il motivo della mia diffidenza. “Bevete.”

Non avrei dovuto fidarmi, ma il richiamo della sete era troppo forte per non soddisfarlo. Presi due avidi sorsi, mentre l’uomo diceva: “Non temete, nessuno ci ha visti entrare. Potete restare qui quanto vi aggrada, non ho molte visite ultimamente.”

Fu allora che mi accorsi di trovarmi su un giaciglio povero, ma decoroso. “Chi siete?” domandai.

Lui depose il mestolo su un tavolo sgangherato, e si asciugò le mani in uno strofinaccio. “Mi chiamo Tancredi. Non temete, sono un medico. Nella sfortuna, siete finita in buone mani.”

Feci per alzarmi, quando un dolore lancinante mi costrinse a sdraiarmi di nuovo. Avevo la spalla fasciata stretta. Con un leggero imbarazzo, mi accorsi che indossavo soltanto la biancheria, e una camicia da uomo troppo grande per me. Fortunatamente, c’era una coperta calda a celare le mie forme.

Il medico, Tancredi, corse subito a controllarmi le fasciature, e una volta che le ebbe esaminate sorrise. Aveva begli occhi castani, contornati da lunghe ciglia scure. Le sopracciglia marcate conferivano autorità alla sua espressione.

“Mi rincresce. Non vi avrei di certo spogliata a questo modo se avessi sospettato la vostra natura…non offendetevi, ma quando vi ho trovata per la strada armata di tutto punto e con i capelli così corti, ho pensato che foste un uomo.”

Di bene in meglio, pensai, tra le tempie pulsanti. Un perfetto estraneo mi aveva vista nuda.

Fu allora che mi accorsi di una mancanza più importante ancora di quella dei vestiti. I coltelli da lancio.

“Le armi” biascicai, affaticata “dove…?”

Lui mi indicò un involto che giaceva ai piedi del letto. Mi sentii più tranquilla, quando i pugnali mandarono un luccichio come per salutarmi.

“Il trauma della ferita vi ha provocato la febbre” disse Tancredi, con espressione seria. “Dovete riposare, mia signora. Dormite. Quando vi sveglierete, se vi sentirete abbastanza in forze, ci sarà un’ottima zuppa di ceci ad aspettarvi.”

Scivolai di nuovo nel sonno, con un’acuta consapevolezza a tormentarmi: io detestavo la zuppa di ceci.

 

Rimasi febbricitante e poco lucida per i successivi tre giorni. Nei miei incubi si rincorrevano volti e stralci di parole che avevo udito nella mia vita, alcune senza significato, altre che mi avevano segnato l'anima per sempre.

 

Il sorriso triste di mia madre quando mi aveva sorpresa all'alba fuori dalla mia stanza.

Ti credo, Bianca.”

Ma non mi aveva creduto affatto.

 

Un tramonto sulle mura di Monteriggioni, seduta accanto a zio Mario.

Non avere fretta di diventare un’assassina, ma non smettere mai di allenarti: un giorno il tuo momento arriverà.”

Quel momento era arrivato, e dove mi aveva portato?

 

Solitudine e paura in una stanza buia, mentre i miei genitori erano a Roma con l'incarico di affrontare il Papa. Le braccia di zia Claudia intorno a me.

Hai proprio un angelo che ti tiene la mano in testa, lo sai?”

Dov'era il mio angelo adesso? Perché non mi aveva protetto quella volta?

 

Lo sguardo di Martino, i suoi occhi sinceri dentro i miei.

La vita nun è 'na battaja, Bià...”

Lo era, invece. E appena avevo mostrato il fianco ero caduta. Senza un momento per respirare, senza nemmeno poter alzare uno scudo per difendermi.

 

Infine, il volto di mio padre, sfocato in un passato distante.

Tu non cadrai, Bianca. Non se io posso impedirlo.”

 

Avrei voluto gridargli che ero caduta, e lui non era lì, a prendermi. Che avrebbe dovuto capire prima di me, vedere prima di me, proteggermi da quel mio orribile errore di fidarmi di Vanni contro qualunque logica, contro qualunque apparenza. E' a questo che servono i genitori, no? A dirti quando stai prendendo un abbaglio, a metterti di fronte alla realtà quando non vuoi vederla, ad insegnarti come gira il mondo. Non possono lasciarsi ingannare...non possono sbagliare, mai...nemmeno quando c'è in gioco il loro amore, la loro speranza, nemmeno quando si parla del tradimento di un figlio...avrebbero dovuto proteggerci, entrambi! Avrebbero dovuto impedirlo!

 

Aprii gli occhi, lottando contro la pesantezza delle palpebre. La mia fronte era fresca, finalmente; eppure, un cerchio continuava a stringermi la testa come una corona di spine.

Seduta accanto al letto c'era una ragazzina. Stava cambiando una pezza umida, immergendola in un gesto che sembrava abituale dentro una bacinella colma d'acqua.

Impossibile non pensare a Margherita, in quel momento. Impossibile frenare l'ondata di malessere profondo che mi attanagliò lo stomaco.

Ricacciai indietro quel conato, tentando di dominarmi. Per quel che ne sapevo, ero ancora in un territorio che poteva rivelarsi ostile.

“Chi sei tu?” biascicai. “Dov'è il medico?”

Lei mi guardò con due occhi sbiechi. Avevano un taglio quasi orientale. Spiccavano, azzurri com'erano, sulla sua pelle scura. I capelli bruni erano intrecciati, ma sfuggivano ribelli in ogni direzione.

Non mi rispose. Tentai di alzarmi: senza una parola, la ragazzina mi spinse di nuovo sul materasso. Mi ribellai a quel tocco.

“Insomma, vuoi dirmi chi diavolo sei?”

“Si chiama Simza” intervenne la voce salda di Tancredi. Volsi lo sguardo alla soglia della casa, dove lui era apparso. Scivolò rapidamente all'interno: aveva un cesto tra le braccia, sembrava colmo di cibo. “Non può rispondervi, è muta.”

Guardai di nuovo la ragazzina, stropicciandomi gli occhi per schiarire la vista. Lei sembrava solo lievemente irritata dalla mia riottosità. Le sue iridi avevano mutato colore...adesso erano di un grigio pallido. Possibile?

Tancredi, nel frattempo, aveva appoggiato il cesto di vimini sul tavolaccio, estraendone una pagnotta che ancora profumava, alcune uova, diverse verdure. “Spero che abbiate fame quest'oggi, mia signora. Ora che la febbre se n'è andata, vi farà bene mangiare qualcosa di solido.”

Osservai la ragazzina muta raggiungere il tavolo e iniziare a riporre le verdure su un tagliere, come se cucinare fosse il suo compito abituale. Il medico le sorrise con gentilezza, prima di rivolgersi a me. Si avvicinò al letto, mi tastò la fronte.

“State decisamente meglio, Bianca. Più tardi cambieremo la fasciatura per vedere se la ferita si sta cicatrizzando a dovere.”

Raggelai. “Sapete il mio nome?”

Lui non si scompose minimamente. “State tranquilla. Me l'ha detto un amico comune.”

“Chi?”

“Non è il caso che ne parliamo ora.”

“Chi diavolo siete?” Tra le tempie, una fitta intensa. Cercai di ignorarla, scostando le coperte per scendere dal letto. “Devo andarmene. Devo contattare mio padre. Non sa neanche che sono viva...devo andarmene da qui.”

Lui mi prese per le spalle, come poco prima aveva fatto la gracile Simza. La sua forza, naturalmente, era molto maggiore, e fu sufficiente ad inchiodarmi al letto, spossata com'ero.

“Per la barba di Astarotte, siete testarda come un mulo! E va bene, la verità è che sono un amico di vostro padre. Non avete nulla da temere da me.”

Dovevo credergli? Dio sapeva che avevo creduto a tante persone nella mia vita, ed ero sempre stata tradita. “Lasciatemi andare!”

“Ho ricevuto un messaggio di suo pugno, vi dico! Se ve lo faccio leggere promettete di calmarvi?”

Presi un respiro, guardando nei suoi occhi...castani, sì, ma con un lampo d'autunno. Di rosso, perfino. Ricordai ancora una volta Ermes Bentivoglio.

“Portatemela” mormorai.

Il medico fece un gesto alla sua giovane serva, e Simza afferrò dalla credenza un foglio accuratamente ripiegato, aprendolo di fronte a me. Quasi glielo strappai dalle mani.

Riconobbi subito la grafia di Ezio. Cercai di mettere a fuoco le lettere, ad una ad una.

 

Tancredi, quella che hai raccolto dalla strada è mia figlia Bianca. I miei uomini pattugliano la zona intorno alla tua casa: tuttavia, è troppo pericoloso muoverla di lì adesso. La affido alle tue cure, fino a che non potremo tornare a riprenderla. Bologna non è sicura, gli infiltrati della Borgia possono essere ovunque: stai attento a come ti muoverai nei prossimi giorni.”

 

Era lui, sì, e conosceva il medico. Tuttavia, la mia tensione non si allentò poi di molto a quella notizia. La mamma? Ezio sapeva della mamma? Le parole non dette negli occhi di Vanni mi si riverberavano in testa.

Altre cose in quella breve missiva mi davano da pensare. Non un accenno al suo stato di salute, né a quello di nessun altro. Ricordai l'esplosione sul Colle della Guardia. Martino? Come stava Martino? E poi...Ezio sapeva della fuga di Vanni? Sapeva che era stato lui a rubarmi la Mela, a tradirci, a pugnalarmi alle spalle?

Il medico lasciò lentamente la sua stretta su di me.

“Deve averla recapitata di suo pugno, o forse l'ha fatta consegnare a uno dei suoi uomini. L'ho trovata questa mattina sul pavimento, l'avevano passata sotto la porta.”

“Siete un assassino?” La stanza intorno aveva cominciato a girare. Poggiai di nuovo la testa sul cuscino.

“No.”

“Allora come sapete...?”

“E' una lunga storia. Ve la racconterò quando vi sentirete meglio.” Mi scostò i capelli madidi dalla fronte, ponendovi di nuovo la pezza bagnata sopra. Ammetto che quel gesto diede un momentaneo sollievo alle mie fitte.

“Per Giove Ottimo e Massimo, ora volete riposare a dovere? Se la vostra ferita non guarirà per bene vostro padre verrà a chiedermene conto, e l'Olimpo sa che non voglio avere un debito del genere con lui!”

Sorrise, di nuovo. Aveva un sorriso gentile, pensai. Mi lasciai sprofondare in una sorta di guardingo torpore, osservando i gesti del medico e della serva mentre preparavano il pranzo.

La ragazza era sicuramente dell'est; tuttavia, per colpa di quegli occhi incredibili non riuscivo ad assegnarle una nazionalità. Sembravano cambiare con il suo umore: quando Tancredi la rimproverava bonariamente, divenivano grigio cupo, mentre se eseguiva un compito in maniera adeguata si rasserenavano, riacquistando tonalità di azzurro intense.

Quanti anni poteva avere, la piccola Simza? Sul momento, non riuscii ad attribuirgliene più di tredici. Chissà se era la figlia di Tancredi. Chissà se invece la teneva come amante. Mi ricordava qualcuno, ma non riuscii a capire chi per le successive ore. La mia mente era troppo affannata per potersi focalizzare su un pensiero, e correva senza sosta a tutte le persone care di cui non conoscevo la sorte, e che avrei voluto accanto a me.

Rimasi in quella casa un altro giorno, costretta a letto come un animale selvatico potrebbe restare costretto in una gabbia. La notte, dormii più per spossatezza che per vero sonno; la mattina successiva, c'era ancora Simza accanto a me. Stava spolverando gli scaffali stracolmi di libri e ammennicoli: si volse quando mi sentì muovermi.

Non sorrideva. Sembrava non sorridere mai...anzi, sembrava non avere assolutamente nessuna espressione. Solo il cambio di colore dei suoi occhi segnava qualche effettiva variazione del suo umore. Ora erano di un curioso violetto, mentre mi fissava.

Si avvicinò, mi tastò la fronte e mi asciugò il viso dal sudore. Mi sentivo effettivamente meglio, e lei avallò quel miglioramento annuendo. Adesso i suoi occhi erano di nuovo chiarissimi.

Mi aiutò a cambiarmi, lavando via il sudore e la sporcizia dal mio corpo con una pezza bagnata. Il contatto delle sue mani estranee mi imbarazzava, e tuttavia si muoveva con l'asettica precisione di un medico. Era meglio che fosse lei, dopo tutto, e non quel Tancredi a occuparsi di questo. Cambiò anche la fasciatura sulla mia spalla, con dita così delicate che a malapena mi accorsi che la ferita veniva esposta all'aria. Stava guarendo bene, a quanto pareva.

Infine, quando fui sufficientemente riordinata ed ebbi indossato biancheria e camicia da notte pulite, Simza si dimenticò completamente della mia presenza nella stanza. Fece le pulizie, per un po', senza nemmeno guardarmi. Poi, si accorse che mi annoiavo, e dondolavo i piedi irrequieta per la voglia di alzarmi. Si avvicinò ad uno scaffale, prese un libro. Me lo depositò in grembo.

La brossura era così rovinata dall'uso che non riuscivo a leggere né titolo né autore. Sospirai.

“Non amo molto leggere” dissi, storcendo le labbra. Tuttavia, se quello era l'unico passatempo che mi era concesso...iniziai a sfogliare distrattamente le pagine, e Simza mi guardò con aria di grande riprovazione. Scosse il capo: altri ricci bruni sfuggirono dalla treccia. Guidò di nuovo le mie mani alla prima pagina, e mi guardò con aspettativa.

Non potevo che accontentare quella piccola dittatrice: così, intrapresi la lettura.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura...

So che è vergognoso da parte mia, ma dopo quei primi versi non riconobbi ancora l'opera e l'autore. Era buffo, dopo tutto. Avevo rincorso Dante Alighieri negli ultimi due anni della mia vita, e non conoscevo nulla dell'opera che aveva lasciato al mondo per racchiudervi dentro messaggi destinati ai suoi discendenti assassini.
Simza espresse di nuovo disappunto, mugugnando. Alzai gli occhi su di lei.
“Sto leggendo!” protestai. La ragazzina scosse la testa, e fece un cenno con il palmo della mano aperto, rivolto verso l'alto.
“Vuoi che lo faccia a voce alta?”
Lei annuì, finalmente soddisfatta come se avesse spiegato a un bambino stupido un calcolo aritmetico. Si alzò, prendendo in mano la ramazza e iniziando a spazzare. Poi si voltò verso di me, come a dire: “allora?”
Sospirai di nuovo, e tuttavia non potei esimermi dall'accennare a un sorriso. E iniziai, con voce un po' incerta:

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant'è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
tant'era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Scoprii in breve che quella storia mi appassionava. Nascoste sotto il velo dell'allegoria c'erano tante emozioni vere...chi di noi, a un certo punto della sua vita, non si è ai sentito perso in un bosco privo di luce, solo un poco meno amaro della morte? Chi di noi non si è sentito intorpidito a tal punto da sbandare, perdere la strada maestra, cadere vittima dei propri vizi e dei propri sbagli?

La risposta di Dante è: per raggiungere il Paradiso, devi immergerti fino in fondo nell'Inferno. Devi guardare tutte le brutture e le debolezze umane, studiarle, conoscerle. Solo allora sarai pronto per prenderne le distanze e accogliere di nuovo la luce dentro di te.

Quando Tancredi rientrò, eravamo alle soglie della Porta dell'Inferno; la casa ormai splendeva, così Simza aveva preso uno sgabello e si era seduta accanto a me, con i gomiti puntellati sulle ginocchia magre e il volto sprofondato nelle mani. Il medico rise di quel quadretto idilliaco che dovevamo formare ai suoi occhi.

“Vi chiedo perdono: di solito sono io a leggere per Simza. Sembra che adori la Commedia” disse, poggiando un nuovo cesto colmo di cibo sul tavolaccio. Notai che c'era perfino un cappone.

“Un dono dei miei pazienti” sorrise il medico, notando che avevo osservato la carne. “Potremmo fare un ottimo brodo quest'oggi. Cosa ne dici, Simza?”

La ragazzina lo guardò con occhi color fumo. Qualcosa la contrariava.

“Vuoi che Bianca continui a leggere per te?”

Simza annuì con vigore, cercando i miei occhi. Feci per replicare che l'avrei fatto volentieri, ma il medico mi anticipò:

“Si è appena ripresa, non devi farla stancare troppo. Ma posso leggere io per entrambe, mentre tu cucini. A meno che tu non abbia deciso che preferisci lei come lettrice!”

Sembrava provare molta tenerezza per quella ragazzina. Lei, di rimando, abbozzò il primo sorriso che le vidi in volto. Poi, si strinse nelle spalle e si diresse verso il tavolo, per iniziare a cucinare.

Tancredi rise, e scosse il capo. “Spero non vi abbia dato fastidio.”

Mi ritrovai imbarazzata. Era come se la mia presenza spezzasse quel loro quadretto quasi familiare.

“Assolutamente no. E' stato divertente, a dire il vero.”

Tancredi prese il libro dalle mie mani, scorrendo velocemente i versi per arrivare al punto a cui mi ero fermata. “Avete letto moltissimo!”

“E'...appassionante” ammisi in un soffio.

Lui rispose con un sorriso. “E il bello deve ancora venire. Siete pronta a varcare i cancelli dell'inferno?”

Mi incupii per un attimo. Avevo già varcato la soglia del mio inferno personale: cosa poteva esserci di peggio di questo?

Tancredi non fece caso al mio malumore, e proseguì la lettura, accompagnato dal rumore regolare del coltello di Simza che si alternava al mortaio e al bollire dell'acqua.

Udii di grida così alte da assordare l'anima, di mostri che avvolgono la coda tante volte quanto più è grave il peccato dell'anima che sta giudicando, di bufere incessanti che trascinano coloro che in vita furono lussuriosi. Forse anche io sarei finita in quel cerchio, dopo la mia morte? Ammetto che me lo chiesi, dimenticando per un attimo che dopo la morte sarei stata soltanto polvere.

Poi, Tancredi arrivò a quel punto. A Paolo e Francesca.

 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.”

 

Tancredi si fermò un istante. La sua voce vibrante si interruppe, lasciandomi a metà tra il mondo reale e le immagini struggenti che il suo racconto aveva evocato.

Mi spiegò quel brano. Il bellissimo Paolo Malatesta si era innamorato perdutamente della sua splendida cognata, Francesca da Polenta; e poiché chi è amato non può non ricambiare l’amore che riceve, lei lo amò tanto che ancora era abbracciata a lui, perfino dopo la morte. Purtroppo, quell’amore clandestino li aveva condotti alla tomba troppo presto: Francesca si consolava soltanto al pensiero che il loro assassino avrebbe passato l’eternità in Caina.

“Cos’è Caina?” domandai, mentre Simza versava una tisana dentro un boccale. Me la porse, ed io la accostai subito alle labbra. Era bollente.

“La prima zona del nono cerchio dell’inferno. I suoi dannati sono coloro che hanno tradito i parenti.”

Sentii un brivido freddo percorrermi la schiena. Abbassai il boccale. “Chi fu l’assassino di Paolo e Francesca?”

“Il marito di lei, Gianciotto. Alcuni dicono che li abbia sorpresi mentre commettevano adulterio, e li abbia trapassati entrambi con un colpo solo di spada.”

“Il fratello di Paolo…l’ha ucciso, sorprendendolo alle spalle?”

Tancredi annuì.

Non potei fare a meno di pensare che almeno lui era stato spinto dall’ira. Vanni non aveva nemmeno questa a giustificarlo.

La spalla fasciata mi diede una fitta di dolore. Fu però più forte quella che provai al cuore, al ricordo del pugnale che mi penetrava la carne. Il volto di Vanni mi balenò davanti, mentre mi accasciavo a terra. Ricordavo i suoi occhi. Spaventati. Lucidi. Decisi. Occhi di chi ha compiuto una scelta.

“Bianca?”

Mi sentivo morire, ma non parlai. Non lo guardai nemmeno, fissando ostinatamente le coperte.

Caina attende. Caina attendeva Vanni, che aveva cercato di spegnere la mia vita. Se noi assassini ci eravamo sbagliati, se esistevano un Dio, un Caronte, una porta dell'Inferno e un Minosse pronto a scagliarti nel cerchio a cui la tua anima sarebbe appartenuta in eterno, lui sarebbe finito laggiù.

Le mie colpe avevano altri nomi, e li avrei scoperti in seguito. Ma il tradimento non era annoverato tra questi, e non lo sarebbe stato mai.

 

Quella sera la trascorremmo tranquillamente. Tancredi lesse ancora per noi, fino a che Simza non si addormentò sul suo giaciglio accanto al focolare. Allora, il medico chiuse il libro e lo ripose con devota cura sullo scaffale.

Lisciai le coperte, imbarazzata. Avevo realizzato che non c'era un altro giaciglio pronto per l'uomo.

“Mi dispiace di avervi rubato il letto.”

Lui sorrise in quella sua maniera gentile. “Non preoccupatevi. Siete una paziente, è giusto che stiate comoda e vi rimettiate in forze.”

Tutta quella dolcezza iniziava a mettermi a disagio: avevo bisogno di stornare il discorso da me. Per questo, indicai Simza con un cenno del capo. “E' sempre stata così?”

“Muta, intendete? Non saprei. E' di certo così da quando l'ho incontrata, sei anni fa. Stava chiedendo l'elemosina per la strada, così le ho offerto un pasto caldo a casa mia. Mi ha ricambiato facendo le pulizie. Ma era già ora di cena, quindi di un altro pasto...è rimasta a dormire qui perché fuori faceva troppo freddo. Alla fine, non se ne è più andata.”

Sorrisi. Tancredi sembrava davvero una brava persona. Non riuscivo a credere che avesse un posto nella nostra guerra.

“Ora credete di potermi dire come conoscete mio padre?”

Tancredi si rabbuiò appena. Sedette di nuovo accanto a me, stropicciandosi tra loro le mani grandi. “E' venuto a parlarmi, un anno fa. Mi ha...svelato qualcosa che non conoscevo sul mio passato. E mi ha messo in guardia contro coloro che credevo fossero i miei mentori.” Mi rivolse un sorriso triste. “Sapete, Bianca, io sono un trovatello. Sono stato allevato all'abbazia di Monteveglio, ero destinato a diventare un monaco...ma un giorno messer Giovanni Bentivoglio giunse all'abbazia, dicendo che avrebbe pagato i miei studi all'Università.”

Ristetti. Giovanni Bentivoglio? Il signore sconfitto di Bologna, colui che aveva mandato al rogo Gentile?

“Perché il signore di Bologna avrebbe dovuto interessarsi all'educazione di un orfano?” buttai lì, cercando di nascondere il tono insinuante. Lui, fortunatamente, non colse la mia nota di scetticismo.

“Per carità cristiana. Vedete, Messer Giovanni aveva tanti difetti…ma di certo non gli mancava la munificenza verso i meno fortunati. Sapeva riconoscere le persone di valore…forse perché i suoi figli sono sempre stati dei perfetti idioti. Ho avuto la sfortuna di studiare con loro, e senza tema di infamia vi dico che non ho mai incontrato due capre più capre di quelle. Una volta, durante una lezione di Retorica, ho avuto il piacere di far ammettere loro con un perfetto sillogismo che un asino solo è più intelligente di loro due messi insieme. ”

Senza volerlo, mi concessi una risata. Era divertente pensare ai giovani Ermes e Annibale che annaspavano per cercare di tenere testa ad un brillante trovatello dalle oscure origini, e non riuscendoci diventavano verdi d’invidia.

A quel punto, mi accorsi dello sguardo di Tancredi su di me. Mi zittii.

“Che c’è?”

“E’ bello vedervi ridere. Siete sempre così triste.”

Avrei voluto replicare che non avevo proprio niente di cui sorridere in quel periodo della mia vita, quando la porta si spalancò con uno schiocco violento. Tancredi balzò in piedi: un'ombra si avventò su di lui, inchiodandolo al muro. Simza, svegliata bruscamente, fece per buttarsi sull'aggressore e aiutare il suo padrone, ma una seconda ombra l'afferrò e la tenne saldamente stretta.

Io reagii d'istinto: mi alzai, ma le gambe non mi ressero. Caddi sul pavimento, e cercai a tentoni i pugnali riposti lì vicino. Ne afferrai uno. Lo alzai, pronta a combattere fino all'ultimo respiro per difendere Tancredi e Simza.

Tremai, quando la terza figura irruppe nella stanza. Il pugnale mi cadde dalle mani.

Vestiva un cappuccio bianco. Dalle maniche a sbuffo irrompevano tracce di rosso. Aveva una figura snella, che conoscevo così bene...il cappuccio scivolò sui capelli neri. Un fiotto di lacrime mi corse agli occhi.

“...mamma?”

Il suo viso che credevo perso per sempre. I suoi occhi d'argento. Era lei, senza ombra di dubbio. Era lei, ed era viva!

Rosa si chinò su di me, attirandomi nel suo abbraccio. “Bianca...bambina mia...”

Rimasi inebetita tra le sue braccia, inginocchiata insieme a lei sul pavimento. Oltre la sua spalla, oltre il velo di pianto che mi annebbiava la vista, misi a fuoco le altre figure. Quello che tratteneva Simza...era Nicola. E l'uomo che aveva inchiodato Tancredi al muro...era Martino.

Il mio Martino.

Chissà da dove era venuto quel pensiero.

Mi sembrò di ricominciare a respirare in quel momento. Mi scostai, per guardare mia madre in viso.

“Vanni...aveva detto che tu...che eri...” la voce mi si spezzò, gli zigomi tremarono. “Mamma, mi dispiace. Avrei dovuto fermarlo...avrei...”

Dopo quelle parole, uscirono solo singulti.

“Non è colpa tua. Non è colpa tua...”

Rosa mi tenne stretta come se fossi una bambina piccola, e per una volta questo non mi dispiacque. Nascosi il volto sul suo petto, e mi permisi di sfogare per la prima volta la rabbia, il feroce stupore, il senso devastante di aver perso un dito della mano, un piede, un pezzo di cuore. Ero come l’uomo del poema di Dante. Mio fratello Giovanni mi aveva tradita. Era stato pronto ad uccidermi. Mi aveva lasciata agonizzante per la strada, sottraendomi la mela dell’Eden e tutte le mie certezze.

Ma la mamma era lì. Martino era lì, e anche Nicola. Il mio mondo non aveva smesso di girare.

I miei compagni avevano lasciato andare Tancredi e Simza; a dire il vero, era stato Nicola a fermare l'impeto violento di Martino, che forse non aveva ben chiaro il fatto che Tancredi fosse un nostro alleato. Cercai il suo volto, con gli occhi ancora arrossati di pianto, mentre mia madre si profondeva in scuse nei confronti di Tancredi e Simza. Era cupo, e squadrava con diffidenza il medico e la ragazzina; ma stava bene.

Ero ancora sul pavimento, inerme come una bambola mentre cercavo di asciugarmi le lacrime con il palmi delle mani, rabbiosamente. Odiavo essere così fragile, così sconfitta. Martino intercettò i miei occhi, e senza una parola si diresse nella mia direzione.

Incassai la testa nelle spalle, vergognandomi da morire di mostrarmi così di fronte a lui. Non sapevo che dirgli, così sconfitta dalla realtà dei fatti che mi sentivo un'idiota. Lo avevo trattato così male, per il mio stupido orgoglio, per la mia cecità...

Tutto ciò che lui fece fu sollevarmi da terra, senza nemmeno uno sforzo, e trasportarmi verso il letto. Mi adagiò lì sopra con delicatezza, e mi coprì con cura.

“Devi riposà” mormorò, senza guardarmi. Fece per allontanarsi, ma gli trattenni la mano. Si voltò.

“Mi dispiace” sussurrai, senza voce.

Vidi il suo cipiglio ammorbidirsi un po'. Con un sospiro, si inginocchiò accanto al letto. “Nun ce pensà.” Mi passò il pollice su una guancia, per asciugare la lacrima che lo attraversava. Sarebbero mai finite, le lacrime? Da quando li avevo visti entrare nella stanza mi ero sentita spezzare a metà, e la breve pausa da me stessa che erano stati quegli ultimi due giorni era dissolta per sempre. Questa era la realtà. Una realtà in cui dovevo molte scuse a molte persone, e mi aspettava una dura verità da affrontare.

Mia madre si volse in quel momento verso di noi. “Bianca, Tancredi ed io abbiamo deciso che è meglio che tu resti qui, per ora. La tua convalescenza non sarà breve.”

“Gli altri come stanno?” domandai, volgendo lo sguardo anche su Martino e Nicola. “Mio padre...come sta?”

“E' ripartito per Monteriggioni, con il Serpente.”

Il tono metallico della sua voce era la cosa meno importante al momento. Ciò che aveva detto mi aveva lasciata sconcertata. “Per Monteriggioni?” sbottai, alzandomi a sedere di scatto. La spalla mi diede una fitta profonda, che cercai di ignorare. “La Mela è là fuori. Vanni è là fuori. E noi ci ritiriamo senza nemmeno tentare di riprenderceli?”

“Questo è quello che ha deciso il Mentore.”

Il Mentore. Così l'aveva chiamato mia madre. E il suo tono era quello di chi aveva già avuto un'accesa discussione a riguardo, e non ne era uscito vincitore. Capii, con l'istinto dell'animale selvatico, che non era il caso di insistere, per il mio stesso bene.

Martino stesso mi spinse a sdraiarmi di nuovo, mentre Nicola scuoteva il capo come a dirmi: lascia perdere, non è il momento.

E l'argomento, come desiderava mia madre, cadde. Anche se la mia testa pulsante era piena di domande e di paure.

Fu deciso che qualcuno sarebbe rimasto con noi, per quella notte, per la sicurezza mia e dei miei solerti medici. Nemmeno a dirlo, Martino si offrì con impeto; tuttavia, visto il trattamento che gli aveva riservato, Tancredi mostrò una certa ritrosia ad accoglierlo in casa. Alla fine, dopo una lunga opera di persuasione, raggiungemmo un compromesso: ci avrebbe vegliati Nicola.

Notai la breve conversazione tra Nicola e Martino, come se il primo stesse rassicurando il secondo che mi avrebbe vegliato a dovere. Notai anche il lungo sguardo che il mio compagno romano mi rivolse, prima di uscire dalla casa insieme a mia madre. Rosa, dal suo canto, fu piuttosto brusca nel suo saluto. Quel riferimento a Ezio e alle sue decisioni affrettate era riuscito a prosciugare da lei qualunque tenerezza.

Infine, quando furono usciti, Tancredi commentò:

“Per il fuoco sacro di Hestia. Voi Assassini siete ospiti impegnativi.”

“Mi scuso ancora per il mio compagno” ripeté Nicola, serio. “Era molto preoccupato per Bianca, e non aveva compreso che eravate un alleato.”

Se Tancredi accolse con benevolenza quelle scuse, Simza rivolse a Nicola uno sguardo di ferro: si raggomitolò nel suo giaciglio come un gatto, con un occhio socchiuso, dando a intendere che non si fidava di lui. Tancredi si scusò di non avere un giaciglio in più; Nicola disse che si sarebbe seduto ai piedi del mio letto, era un soldato e non aveva bisogno di stare comodo. Quindi, Tancredi si ritirò per la notte, sullo stesso giaciglio di Simza.

Rimanemmo solo io, Nicola, e le scuse che mi si bloccavano in gola. Se era stato difficile chiedere il perdono di Martino, sapevo che il torto che avevo compiuto nei confronti del mio compagno bresciano era dieci volte più grande.

Lui si sedette, come aveva detto, ai piedi del mio letto. Mi rivolse un'occhiata.

“Hai ancora febbre?”

Scossi il capo. “Cosa...cosa è successo a Monteriggioni? Vanni mi ha parlato di un agguato...”

Nicola prese un lungo sospiro. “E' scappato. Semplicemente scappato. Una notte tua madre non l'ha trovato nel suo letto...sembra che sia riuscito a scalare le mura, nonostante le dita rotte.”

Potevo quasi vederlo, il mio testardo fratello, che si arrampica stringendo i denti per ignorare il dolore. Era determinato, sì. Aveva scelto la sua strada dopo una lunga riflessione...non era il colpo di testa di un bambino, era la decisione di un piccolo uomo.

“E tu, sei venuto qui? Nonostante tutto...?”

“Cosa significa, nonostante tutto? Io sono un Assassino, Bianca. Se la Confraternita ha bisogno di me, non mi tiro indietro.”

“Ma dopo tutto quello che ti abbiamo fatto...dopo che abbiamo calpestato il tuo orgoglio...”

“Cosa me ne faccio dell'orgoglio?” La sua cicatrice, un rigonfiamento violaceo sulla tempia, era scoperta di fronte a me. Lo rendeva un po' meno bello, e un po' più umano. Ferito. Reale. “Bianca, voi siete l'unica famiglia che ho al mondo. E quando la tua famiglia sbaglia puoi solo perdonare.”

Il calore nella voce di Nicola mi diede una fitta allo stomaco. Aveva davvero la forza di dimenticare la nostra diffidenza, e il mio astioso rifiuto? Davvero mi avrebbe accettata di nuovo accanto a lui, avrebbe sopportato la mia presenza, avrebbe potuto trattarmi con la stessa tenerezza di prima?

“Perdonami. Io...io credo di aver desiderato che tu fossi colpevole, ed è orribile da parte mia, ma...se dovevo scegliere tra te e Vanni...oh, Nicola, io non so come...”

Lui mi fece cenno di zittirmi, con un sorriso sereno sulle labbra. “Va tutto bene.” allungò la mano verso la mia, e la strinse con affetto. “Adesso dormi, sorellina. Ci aspettano tempi duri, e avrai bisogno di tutte le tue forze per affrontarli.”

Trattenni a stento un singulto, ricambiando la sua stretta.

Avevo perso Vanni, questa volta per sempre. Ma avevo guadagnato altri fratelli, come Agamennone, Veronica e Nicola. Non ero sola. Non lo sarei mai stata.





Note di Runa
Non ho resistito. So che avrei dovuto fare la brava formichina e accumulare capitoli...ma per una volta che l'ispirazione è dalla mia, ho preferito pubblicare subito XD
Eccoci qui, a combattere con tutto ciò che conseguirà dal tradimento di Vanni...tra cui un'inevitabile tensione che crescerà sempre di più tra Rosa ed Ezio. Perché il nostro Mentore ha deciso di ripartire per Monteriggioni, rinunciando a rincorrere la Mela e suo figlio? Che ruolo giocheranno il medico Tancredi e la giovane Simza nella nostra storia? (Perché giocheranno un ruolo non da poco, ve lo garantisco ^_^). E Zenobia, che fine ha fatto? 
Tutto questo, al prossimo capitolo: "Gentile rideva."

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Capitolo 28
*** Gentile rideva ***


 

Durante la settimana successiva, Nicola vegliò al mio fianco tutte le notti; eppure, c'era qualcun altro che pattugliava i tetti di via Cavaliera1, per essere certo che non mi accadesse nulla di male. L'ombra di un cappuccio sotto la luna si poteva intravedere spesso, tra le tegole brunite dipinte di buio, soltanto aguzzando un po' di più la vista. Anche senza scorgere più di quel vago accenno, ero certa di chi si trattasse. E non ero la sola.

“Quel testardo di Martino” sorrise il mio amico bresciano, guardando fuori dalla finestra. Io ero seduta sul letto, ma immaginai la figura di Martino appollaiata sul comignolo di fronte. Non potevo negare che mi facesse piacere, anche se sapevo che i miei ospiti non ne erano altrettanto felici.

“E' ancora lì?” dissi, in tono fintamente indifferente. Nicola mi rivolse un sorriso scettico.

“Già. E credo che tu ne sia contenta.”

“Non dire sciocchezze. E' un...un presuntuoso megalomane, ecco. Ci sei tu a difendermi, siamo nella casa di un nostro alleato: dovrebbe starsene tranquillo a Palazzo Marescotti, e capire una volta per tutte che il mondo gira anche senza di lui!”

Nicola si strinse nelle spalle. “Be', lascia che ti dica una cosa: se la mia donna fosse bloccata in casa di estranei e non potessi assicurarmi che sta bene, mi comporterei allo stesso modo.”

Rivolsi al mio fratello bresciano un'occhiata tagliente. La mia donna, aveva detto.

“Fammi capire una cosa. Quanto sai?”

Per tutta risposta, lui sorrise e si sedette accanto a me, su un angolo di materasso. “Tutto quello che c'è da sapere.”

“Te l'ha detto lui, vero?”

Iniziai ad arrossire, in parte per l'imbarazzo e in parte per la rabbia di sapere che il mio compagno romano aveva confidato a qualcuno il nostro segreto...come se fosse un trofeo da sbandierare agli amici!

Prima che l'irritazione potesse avvelenarmi i pensieri, tuttavia, Nicola scosse la testa. “No. Me l'ha detto Veronica, a dire il vero. Comunque, avevo già capito qualcosa guardandovi insieme...Biancarè.

Gonfiai le guance in un'espressione infantile. Quell'infingarda di Veronica! Appena l'avessi vista gliene avrei dette quattro.

Il mio amico si fece serio. “Avresti dovuto vederlo quando abbiamo iniziato a cercarti per i vicoli di Bologna. Sembrava una belva ferita, non voleva fermarsi per mangiare, né per dormire...” Gli occhi grigi di Nicola si misero nei miei. “Si preoccupa davvero per te.”

Dondolai i piedi sotto la coperta. “Lo so.”

“C'è una cosa che Martino non ti dirà mai...ma io credo che tu debba saperla lo stesso. Bianca, lui non voleva spezzare le dita di Vanni quel giorno. Gli hanno ordinato di farlo.”

Alzai il capo verso di lui, di scatto.

“Chi? Chi gliel'ha ordinato?”

Nicola fece una breve pausa, forse incerto dell'effetto che quelle due semplici parole avrebbero avuto su di me.

Precauzione inutile, in ogni caso. Mi era bastata quella frazione di secondo per capire.

“Mio padre...”

Lui annuì lentamente. Mi poggiò la mano sulla spalla sana.

“E' anche per questo che tua madre è infuriata con il Mentore. Sostiene che se non era certo della lealtà di Vanni avrebbe dovuto parlarcene prima.”

“Non lo avremmo ascoltato.”

Sospirai, ripensando al modo in cui Veronica e Martino avevano tentato di mettermi in guardia. Come me, Rosa non avrebbe mai accettato la possibilità che il suo amatissimo bambino stesse ordendo un piano per venderci ai nemici, anche se Ezio le avesse portato le prove su un piatto d'argento.

Mi persi per qualche istante a fantasticare su cosa sarebbe successo, se Ezio avesse diviso le sue inquietudini con noi. Ci saremmo schierate apertamente dalla parte di mio fratello, mia madre ed io. Avremmo preteso che venisse a Bologna, magari sotto la stretta supervisione di uno dei miei compagni. Vanni avrebbe mostrato gli stessi scrupoli che aveva avuto per me, nei riguardi di uno di loro? Se la Mela lo aveva soggiogato a tal punto da fargli colpire la sua sorella di sangue, cosa gli avrebbe impedito di uccidere un Fratello di Lama? Magari Agamennone, o Veronica. Magari Nicola; ma no, lui sarebbe rimasto nelle prigioni di Monteriggioni. Forse, Martino.

Mi strinsi le braccia al petto, per un brivido improvviso.

In quel momento mi resi conto che ero felice di aver ricevuto quella pugnalata. Se l'alternativa era perdere uno di loro, mi sarei fatta pugnalare da Vanni altre mille volte.

“Io credo” aggiunse Nicola, spezzando quel flusso triste di pensieri “che tuo padre abbia cercato di dargli un'ultima opportunità. Credeva che spezzargli le dita fosse sufficiente a scoraggiarlo, a confinarlo nella sua stanza per farlo riflettere sui suoi errori. Ha sbagliato nel pensare a lui come il bambino che conosceva fino a poco tempo fa...Vanni è un giovane uomo ormai.”

“E ha fatto una scelta da uomo” conclusi, in un soffio. “Saremo nemici. Forse lo siamo sempre stati, dopo tutto.”

A quel punto, Nicola mi circondò le spalle con un braccio, e attirò delicatamente la mia testa contro la sua. Fui sorpresa. Raramente era così affettuoso. Forse, pensava che ne avessi particolarmente bisogno in quel momento.

Estrasse un piccolo volume dalla scarsella, e me lo porse.

“Questo è da parte di Veronica. Dice che ti aiuterà a passare il tempo.”

Rigirai il volume tra le mani, fino a trovare il titolo. “Le Rime”, di Dante! Ancora l'Alighieri, mia croce e delizia – ma, al momento, più croce. Veronica doveva essersi messa in testa di educarmi forzatamente alla poesia, che fino ad ora avevo aborrito con tanta ostinazione.

“E questa è da parte di Agamennone.” Mi allungò una pietra lucidissima, colore del ferro. La soppesai nel palmo. “Lui sostiene che basterà metterla sotto il tuo cuscino perché tu ti rimetta presto. Si chiama Ematite, o qualcosa del genere.”

Sorrisi. I miei amici non potevano venire da me per non dare troppo nell'occhio, ma avevano comunque voluto darmi un segno della loro presenza.

Forse fu perché stavamo dividendo quell'abbraccio, o forse perché dopo aver ottenuto il suo perdono mi sembrava di aver superato l'ordalia più difficile per il nostro rapporto, ma in quel momento chiesi a Nicola qualcosa che non avevo mai osato domandargli in quegli anni di addestramento.

“Posso farti una domanda personale?”

“Dimmi.”

“Hai ancora parenti tra i templari?”

Lui trasse un lungo, pesante sospiro.

“Scusami” dissi, scostandomi un po' “non volevo...”

“Mio fratello e mia sorella.” Nicola scandì i loro nomi come se non li pronunciasse da molto tempo, nemmeno nella sua mente. “Eleonora e Giacomo. Lei è più grande, lui più piccolo di me. Sono tutti e due Templari.”

“Nonostante quello che è successo a vostro padre?”

“Loro erano d'accordo con la congiura.”

Deglutii a vuoto, e abbassai lo sguardo sulle coperte. Quindi, Nicola sapeva cosa stavo passando. Probabilmente, più di chiunque altro.

Fratelli e sorelle pronti a scannarsi gli uni con gli altri. Figli che mandano a morte i padri, padri che non riescono a far sposare il proprio credo ai figli. Odio eterno, dove non dovrebbe esserci che amore. In che razza di mondo stavamo vivendo? Era la malattia della nostra guerra tra Egemonia e Libero Arbitrio, o c'era dell'altro? Fuori da quella sfera di ancestrale rivalità, era diverso? Doveva esserlo...

La mia risposta di oggi è: niente affatto. Non è solo il conflitto tra Assassini e Templari. E' la guerra quotidiana di ognuno di noi.

I legami di sangue non sono importanti.” Lo dissi per fare forza a me, e a lui, nello stesso tempo. Stringevo tra le mani il libro di Veronica, e la pietra di Agamennone. Martino era fuori dalla finestra a vegliarmi, e il braccio di Nicola stava intorno alle mie spalle. “Sono i legami che scegliamo a fare davvero la differenza.”

Non è sempre così, e ho imparato anche questo a mie spese. Ma, lo capirete: allora lo dicevo da persona tradita, ad un'altra persona tradita. Quanti fratelli e sorelle perduti in questo scontro. Quante famiglie devastate. Capii a quel punto, definitivamente, che la vendetta non era l'unica cosa ad unire noi Fratelli di Lama. Era per questo che ci eravamo stretti gli uni agli altri, in maniera così salda: dai brandelli delle nostre esistenze spezzate avevamo messo insieme una famiglia nuova.

 

Per un'altra settimana mi fu impedito di uscire di casa: solo durante quella successiva, Tancredi acconsentì a farsi accompagnare al Mercato di Mezzo2, a patto che mi muovessi con cautela. La mia spalla era in condizioni migliori del previsto, ma muovere il braccio era ancora difficoltoso. Avrebbe impiegato diverso tempo a guarire.

L'aria primaverile era discesa benevola su Bologna: il sole era tiepido, e nel vento danzavano i pollini degli alberi. Socchiusi gli occhi, riabituandomi alla sensazione della luce intensa sulla mia pelle. Ero sempre una creatura selvatica, dopo tutto: restare chiusa in una stanza non mi si confaceva affatto.

Sorpresi lo sguardo di Tancredi su di me. L'uomo sorrise. “Il sole vi ha riportato un po' di colore sulle guance. Siete molto graziosa.”

Quel complimento mi lasciò spiazzata. E' vero, indossavo uno degli abiti femminili di Simza: ero ancora abbastanza snella e poco prosperosa da farmi calzare addosso il vestito di una tredicenne. Avevo tirato indietro i capelli corti e li avevo nascosti dentro un fazzoletto, per passare sufficientemente inosservata tra la folla. Di certo, però, non avevo nulla di speciale.

Grazie” mormorai, osservandolo con curiosità. Lui distolse subito lo sguardo, per rivolgerlo ad una bancarella dove uno speziale vendeva erbe medicamentose.

Fu a quel punto che mi volsi, per trovare un altro paio d'occhi che mi trapassavano da parte a parte. Simza mi fissava, con le braccia strette al petto e un irrefrenabile ondata di rabbia che le ingrigiva le iridi cangianti. La guardai, sorpresa. Come avevo potuto provocare la sua collera? Non avevo fatto nulla!

Il malumore della ragazzina proseguì per tutta la mattina; fino a che non raggiungemmo Piazza Santo Stefano. Lì, vidi Tancredi muovere verso l'ingresso delle Sette Chiese e mi fermai, titubante. “Dove andiamo?”

A Messa” rispose l'uomo, come se fosse sorpreso della mia domanda. Poi, sembrò capire. “Forse, voi...?”

Non mi piace entrare in Chiesa. Vi aspetterò qui.”

Non se ne parla, resterò fuori con voi. Simza potrà entrare.”

Non siate ridicolo, so badare a me stessa” Il lampo negli occhi viola della sua serva diede a intendere che anche lei non desiderava lasciarci soli lì fuori. Prese il suo braccio, si batté il petto con l'altra mano.

Vuoi restare tu, con Bianca?”

Pensai che una tredicenne magrolina era l'ultimo aiuto che mi sarebbe stato utile in caso di bisogno, ma forse nemmeno Tancredi lo sarebbe stato. Non era un guerriero, ma un uomo di pace. Di fatto, ero io che stavo proteggendo loro, più di quanto loro non stessero proteggendo me. Nonostante avessi promesso di starmene buona, infatti, avevo nascosto due pugnali negli stivali.

Tancredi, sono un'apprendista assassina” bisbigliai, avvicinandomi al suo orecchio “Posso mimetizzarmi tra la folla per un'ora senza combinare guai.”

Mi allontanai, aggiungendo: “E poi, c'è sempre qualcuno che ci sta fissando da un bel po', sui tetti.”

Questa volta, non so se la mia supposizione corrispondesse a verità. Non avevo visto il cappuccio di Martino né quello di nessun altro; tuttavia, sapevo che qualcuno ci stava osservando da molto. Camminando fin lì, avevo usato l'Occhio dell'Aquila per osservare le strade. L'ombra azzurra che scivolava tra i vicoli mi aveva tranquillizzata.

Così, Tancredi infine entrò in Chiesa, e Simza ed io sedemmo all'ombra dei portici. C'era una brezza piacevole, calda, che ci sfiorava il viso. Pensai a quanto dovessero essere belli, in quel momento, i miei campi toscani. Morivo dalla voglia di rivederli.

Non è un po' troppo grande, per te?” domandai con un accenno di sorriso, seguendo con lo sguardo la schiena del medico che si allontanava. “Avrà circa trent'anni.”

Simza scosse il capo, e non capii quale delle due frasi stesse negando. Che Tancredi avesse trent'anni, o che fosse troppo grande per lei.

Stai tranquilla. Non sono una tua rivale.”

Lei mi squadrò a lungo, come se potesse scrutarmi con un suo personale Occhio dell'Aquila e appurare se stessi dicendo la verità.

Se fossi in te, non parlerei con tanta sicurezza dei sentimenti. Essi mutano e cambiano in un movimento continuo: il paesaggio del cuore è un caleidoscopio, il più piccolo movimento può stravolgere l'insieme.”

Mi volsi di scatto verso Simza. Aveva parlato? La sua voce era più calda e profonda di quanto mi aspettassi.

Ma non era stata lei a pronunciare quelle parole.

La zingara era alle nostre spalle. Avvertii la sua presenza con un misto di reverenza e paura. L'ultima volta che ci eravamo parlate, il mio mondo era ancora in piedi. In qualche modo era come se fosse stata la sua profezia a distruggerlo.

Ti avevo detto che conoscere il destino equivale a vederlo realizzarsi.”

Per un momento pensai che fosse soltanto una proiezione della mia mente. Simza osservava serena la vita della piazza, senza dare segno di essersi resa conto di Zenobia alle nostre spalle. La zingara sedette accanto a me.

E' questo che hai fatto alle ragazze di Elena Bucelli, a Firenze? E' bastata una predizione per cambiare i loro connotati e renderle identiche a Elena?”

No. Quella volta esaudii il desiderio della Bucelli. Bastò toccarle, dire poche parole. La mia maledizione fece il resto.”

Perché l'hai fatto?”

Perché era disperata. E lo erano anche le ragazze. Lei le avrebbe protette e nutrite in cambio di quel sacrificio.”

Era una Templare!”

La disperazione va oltre i Templari e gli Assassini. E la mia maledizione va ben oltre la nostra guerra.”

Solo in quel momento, vidi che Simza annuiva, per poi rivolgere lo sguardo oltre me e incontrare quello di Zenobia. La zingara sorrise a entrambe, osservandoci con una sorta di amorevolezza nello sguardo solitamente così distaccato.

Vent'anni fa eravamo seduti qui, Gentile, Mario ed io. E oggi al nostro posto ci siete voi...i nostri discendenti.”

Mi ci volle qualche istante per elaborare quelle parole. Ma certo, certo...ora capivo. Benché la sua pelle fosse più chiara e i suoi tratti meno marcatamente gitani, ora sapevo con certezza a chi somigliasse Simza. E il discendente di Gentile...

Rivolsi lo sguardo verso la porta della chiesa, dietro cui Tancredi era sparito.

Tutto tornava.

Hai detto che sul rogo Gentile rideva. Che ha cambiato il destino di tutti noi...” Ero nella posizione tipica di un assassino in attesa: le ginocchia larghe, i gomiti puntati sopra di esse, le mani giunte e il capo chino. Come se stessi ascoltando il racconto di un informatore, cercando di non dare nell'occhio. Era più che altro istinto...agli occhi dei passanti saremmo passate senza difficoltà come un gruppo di serve che si attarda a ciarlare dopo il mercato. E, in ogni caso, le strade non erano molto trafficate. Quasi tutti erano a Messa, a quell'ora.

Zenobia prese un respiro. Osservò le Sette Chiese...o forse un tempo lontano, al di là di esse e di tutto ciò che il mio sguardo poteva cogliere.

Al tempo di cui parlo, tu, bambina, eri solo un'ombra liquida che cresceva giorno dopo giorno nel ventre di tua madre. Nella mente di tuo padre non esistevi ancora. C'erano solo vendetta e morte, nella sua vita. Mentre la disgrazia non aveva ancora sfiorato la mia...”

 

***

 

Novembre 1488. Valicare gli Appennini con questo tempo è follia: eppure, Gentile ha comandato. Quando Gentile comanda, Zenobia esegue senza fiatare.

Si sono messe in viaggio senza alcuna scorta. Per qualunque altra donna questo equivarrebbe ad una follia; non per Gentile, che stringe al polso una morte silenziosa e cela sotto la fede nuziale il marchio di una bruciatura impressa con il fuoco. Un carretto, un mulo ubbidiente, è tutto quello di cui ha bisogno. Così, Zenobia si stringe nel mantello e la segue. La seguirebbe fino nel fondo dell'Inferno, perché da quando il suo campo è stato bruciato nelle fiamme appiccate di nascosto dai cittadini di Bologna lei è l'unica parvenza di famiglia che abbia mai avuto. Le intemperie si rovesciano su di loro come ad impedire questo viaggio. Forse sapevano a cosa avrebbe portato.

Arrivano a Monteriggioni sotto una neve leggera. Niente in confronto alla tempesta che avevano affrontato al valico, che tentava di respingerle nella loro bruna pianura.

Monteriggioni di torri si corona, e spicca brunita sulla collina. La scala per la Villa è incrostata di brina.

Mario le accoglie sulla porta. Se si trattasse di altri ospiti, spalancherebbe le braccia, darebbe un rumoroso e caldo benvenuto, e ordinerebbe ai servi di portare del vino. Ma l'occhio sano di Mario perde luce quando è di fronte a Gentile. Tutto il suo essere si adombra di fronte a quella presenza così luminosa che lo abbaglia.

Le conduce nel Laboratorio, manda via l'architetto e manda via la nipote, che è diventata il suo amministratore e tiranno negli ultimi anni. Il nipote sta parlando con i mercenari della compagnia di Mario, per pianificare il viaggio fino a Forlì. Possono parlare liberamente, per qualche ora.

Gentile siede sullo scranno con morbidezza. Le sue chiome dorate sono libere dal cappuccio, ancora incollate al volto dal freddo e dall'umidità che hanno dovuto affrontare per arrivare fin qui. Zenobia non siede: resta in piedi alle spalle della padrona, con la mano sullo schienale dello scranno. Mario le ha fatto portare una sedia, ma lei si sente meglio a quel modo. Un passo dietro la sua padrona, la sua maestra, la sua unica famiglia.

Mario inizia con i convenevoli, com'è giusto che sia dopo tanto tempo.

Come stanno i tuoi figli?”

Le ragazze stanno bene. Abbiamo fatto sposare Alessandra quest'autunno, c'è stata una grande festa. Cecilia ha chiesto di entrare in convento, le altre sono ancora troppo piccole per decidere.”

E il maschio?”

Gentile esita un momento.

Tancredi è al monastero. Giovanni va a trovarlo una volta al mese...è intelligente, e sveglio. Tra qualche anno gli permetterà di frequentare l'Università.”

Sempre che tu regga la recita abbastanza a lungo. La tua copertura a palazzo Bentivoglio vacillerà prima o poi...non puoi essere la migliore amica di Ginevra e l'amante di suo marito nello stesso tempo. Tutto questo è già abbastanza azzardato, anzi, è folle. Quando scopriranno che sei anche un'Assassina non saranno clementi con te.”

Potrebbero non scoprirlo mai, Maestro.”

Mario si sporge sulla scrivania, per fronteggiarla. “La superbia ti porterà alla rovina, Gentile, non lo capisci?”

Lei regge il suo sguardo dolente per qualche momento. Poi, adamantina, risponde:

Non sono qui per discutere di questo adesso.” I suoi occhi azzurri hanno dentro una certa urgenza. “Dov'è la Mela?” 

Mario scuote il capo. Si risiede, lentamente. “E' per questo che hai attraversato gli Appennini con questo tempo?” La fissa con aria di rimprovero. “Quale scusa hai inventato per tuo marito?”

Una parente malata nei dintorni di Siena. Ho lasciato disposizioni perché la casa fosse curata perfettamente in mia assenza. Dubito che Alessandro noterà la differenza.” Si sporge in avanti, gli copre la mano con la propria. “Mostramela, ti prego. Sai quali pericoli abbiamo affrontato Zenobia ed io per venire qui...non meritiamo di vederla, anche solo per un momento?”

No.”

Mario, ti prego...”

Può avere effetti devastanti, Gentile. Sa soggiogare la mente degli uomini.”

Lei si alza in piedi, gli occhi le dardeggiano collera.

Pensi davvero che la mia mente si lascerebbe soggiogare? Ho studiato in un consesso di uomini, Maestro. Sono la prima donna ad aver frequentato l'Università di Bologna...la mia mente è libera e non si lascerà mettere in catene da nulla!”

Mente. Zenobia lo sa. E' già in catene, la mente di Gentile, ossessionata dal Frutto dell'Eden da quando nell'Ordine si è sparsa la voce del suo ritrovamento. Brama di vederla, di carpirne i segreti, di studiarla come fece Altair. Mario ha ragione, tranne che su un piccolo dettaglio. Non sarà la superbia a portare Gentile alla morte. Sarà la sua sete di conoscenza.

La giovane zingara osserva impassibile la tensione che aleggia tra i due, scrutando il volto dell'uomo. E' invecchiato. Quanti anni ha ora? Cinquantaquattro, sì. Venti in più di Gentile, trenta in più di Zenobia. Distanza che non ha mai impedito a Mario di amare la sua discepola, né alla serva gitana di adorare lui in silenzio.

E' così. Zenobia li ama entrambi, di sentimenti diversi eppure ormai inestricabili. Sa che non avrà altro che tenerezza paterna da Mario. Così come lui, da Gentile, non avrà che riconoscenza filiale. E' un circolo di amore e dolore che si auto-infliggono ormai da anni, senza possibilità di uscita.

Quando infine Mario acconsente a mostrare la Mela dell'Eden a Gentile, è solo il suo amore per lei a spingerlo a quel gesto.

Lei osserva il manufatto, incantata come una bambina. I suoi occhi si riempiono di lacrime.

E' la cosa più bella che io abbia mai visto.”

In tutta la sua vita, Zenobia ha visto cose più belle. Madri che allattano i loro bambini, coppie di sposi, l'eco che risuona nelle valli moltiplicando un grido, grandiosi tramonti sul mare. Ma Gentile è così: quella che lei chiama “scienza” le provoca un'emozione che non sa spiegare. Le ha detto, una volta, che è come guardare la perfezione delle stelle e sentirsi nulla di fronte alla grandezza del Creato.

Gentile si sente nulla di fronte a quella piccola sfera dorata. E quando sei nulla, non puoi che bramare di diventare qualcosa.

Per questo, ha teso la mano.

Prima che Mario potesse fermarla, ha toccato la superficie dorata.

E sono esplosi i suoni.

 

***

 

Quando Zenobia descrisse la reazione della Mela al tocco di Gentile, riconobbi esattamente ciò che era accaduto quando l'aveva sfiorata Vanni. La luce accecante, lo stridore che riempie le orecchie e il cervello, i segni che danzano nell'aria. Seppi così che non mi stava mentendo: aveva assistito davvero a quel momento.

“Da quel contatto, Gentile ottenne una vera capacità di guarigione. Non semplicemente un abile uso delle piante e dei prodotti alchemici, come era accaduto fino a quel momento...no, lei guariva davvero, toccando le persone.”

“E tu?” le domandai. “Come hai acquisito la tua...” stentavo a trovare un termine adatto, e alla fine adottai quello che alla zingara sembrava tanto caro. “...la tua maledizione?”

Lei sospirò. “Invidia. Pura e semplice invidia.” Di fronte al mio sguardo interrogativo, abbassò gli occhi sulle proprie mani intrecciate in grembo.

“La mia padrona aveva ottenuto un potere da usare per il bene, forse perché il Frutto dell'Eden aveva visto la nobiltà del suo spirito. Ma le diede anche un'affinata capacità di avvertire la vicinanza del Serpente. Una notte si alzò dal letto del Bentivoglio e raggiunse i sotterranei del palazzo, seguendo il richiamo che il Frutto esercitava su di lei.

Per aprire una Cripta, lo sai, serve un Frutto dell'Eden. Ma Gentile non ne ebbe bisogno. Lei era parte di un Frutto dell'Eden. La Mela aveva lasciato la sua impronta su di lei per sempre.

Trovò così il Serpente, nella casa che un tempo era stata di una famiglia Assassina ed ora era il covo di potentissimi Templari. Ne era rapita, certo, come lo era stata dalla Mela...grazie al Cielo, non lo usò. Non fece in tempo.”

Una breve pausa. Mi guardò di nuovo in volto: la forza che mi sembrava emanasse la prima volta che l'avevo incontrata era sparita, lasciando il posto a una patina di tristezza molto simile a quella che puoi trovare sulla pelle di un ottuagenario. Trent'anni in meno di zio Mario...significava che Zenobia non poteva avere più di quarantatré anni, ora. Se avevo pensato che non avesse età, ora mi accorsi che dimostrava tanti anni più di quelli che portava sulle spalle, mentre proseguiva il suo racconto.

 

***

 

Dieci anni dopo quel giorno. Il tempo di Gentile sta per finire.

L'hanno catturata. Torturata per settimane. Hanno detto che Ginevra Sforza ha scoperto la tresca tra lei è il marito. Balle: l'ha sempre saputo, e le stava bene così. Ginevra detesta quel pusillanime di Giovanni, le serve soltanto per regnare al suo posto, dietro la sua figura posticcia. Hanno detto che Giovanni l'ha sacrificata come pedina sulla scacchiera della politica, per ingraziarsi il Papa. Ancora una bugia. Gentile è stata accusata di essere una strega perché, con la tortura, forse rivelerà dove ha nascosto il Frutto dell'Eden.

No, i Templari non sapevano di averne uno nelle loro segrete. Ma i poteri straordinari di Gentile potevano essere scaturiti solo da quel genere di manufatto, lo sapevano. Non c'era voluto molto per trovare la cripta ora vuota.

Nessuno sa che Gentile ha affidato il frutto a Zenobia, costringendola a fuggire con esso. Al richiamo di colei che un tempo era stata la sua padrona e la sua salvezza, la zingara ha lasciato tutto: ha affidato ad altri la sua bambina, ha abbandonato quella parvenza di vita che era riuscita a ricostruirsi e si è nascosta nel sottosuolo, dentro i cunicoli dei canali, insieme ai topi. Ha giocherellato con il sacchetto che conteneva quello che per lei era solo un bracciale dorato a forma di Serpente, scervellandosi per capire cosa farne.

Andare da Mario? Impossibile, uscire dalla città è andare incontro a morte certa. La stanno cercando, lo sa...Ginevra e quei suoi orribili figli, Annibale ed Ermes. Ha visto gli occhi di Ermes, una volta. Se i demoni dell'inferno esistono – e Zenobia, che è diventata Assassina solo per amore di Gentile, sa che esistono eccome – devono avere quegli occhi confitti nel volto.

Le gocce di putrida umidità cadono nel canale. Poco lontano, lo zampettio affrettato di un ratto che cerca la sua tana.

Cede alla tentazione. Apre il sacchetto. Per guardare il Serpente solo una volta.

E' bello. Raffinato. Sembra un monile...l'istinto è quello di infilarselo al polso, ma resiste. Poi si chiede...perché? Per quale motivo non posso?

Gentile è sempre stata speciale. Agli occhi di Mario, e agli occhi del mondo. E' sempre stata bellissima, bionda e florida com'è, con la voce dolce e misurata, l'incedere elegante, la sete di sapere che le accende lo sguardo. Nessuno si è mai soffermato a guardare la sua ombra silenziosa: Zenobia. Una zingara che non appartiene più a nessun popolo, perché il suo popolo è stato ucciso. Una smilza – all'epoca lo era – scura ombra alle spalle della splendente Gentile Budrioli. Nessuno l'ha mai vista...soprattutto, non Mario. Quello che c'è stato tra loro tempo fa è stato solo un surrogato di quello che lui avrebbe desiderato da Gentile, niente di più.

Sarebbe diverso, se anche lei dimostrasse tanto interesse per quei Frutti dell'Eden?

Apre il sacchetto. Avvicina la mano. Che strano, avrebbe pensato di provare una sorta di attrazione. Invece no: è pura razionalità. E' come se una voce le trapassasse le tempie, sussurrando: vuoi farlo, Zenobia? Vuoi farlo davvero?

Il cervello ha risposto prima che possa pensare ai pro e ai contro di quel gesto. La mano ha già premuto le placche dorate del serpente. Il cunicolo viene invaso di luce.

 

***

 

La piazza era ancora deserta. I campanili suonarono il terzo quarto dell'ora, rincorrendosi agli angoli di Bologna con una vaga eco.

Zenobia strinse i pugni sulla gonna.

“Quello che mi apparve davanti, Bianca, è un essere che non riesco a descrivere. Ricordo che era vestito di un abito lungo, che sembrava antico...e allo stesso tempo sembrava molto oltre noi, capisci? Mi è apparso, con il suo volto pallido quanto la morte. Mi ha detto di chiamarsi Plutone. Mi ha detto di aver costruito questo manufatto per esaudire ciò che il cuore degli uomini realmente vuole.”

 

***

 

Zenobia ha le gambe che tremano di fronte a quella figura che può appartenere solo a un Dio. Plutone...sì, conosce quel nome. In Grecia lo chiamano Ade. Ha attraversato la costa greca, da bambina, con il suo popolo. Ma anche se non conoscesse il significato di quell'appellativo, proverebbe comunque la stessa reverenza che ora le blocca il cuore nei polsi e la induce a rabbrividire.

Questo manufatto potrà esaudire un tuo desiderio” dice Plutone, guardandola senza vederla. Ha il volto e le mani violacei; le vesti sono composte da piccoli quadrati di luce cangiante. Gli occhi sono orbite completamente rosse, senza segno di pupilla. “Ma poiché nulla si crea, nulla si distrugge, e tutto si trasforma, qualsiasi desiderio tu esprima richiederà un tributo. Dovrai dare all'Universo qualcosa in cambio, di valore uguale e contrario, perché l'Equilibrio non sia invariato.”

Zenobia pensa all'antica arte che sua madre praticava, la chiromanzia. Pensa, con la sua mente troppo mediocre per sfiorare le vette di ambizione di Gentile, che potrebbe sopravvivere di quello, ora che è di nuovo per la strada.

Subito capisce che è un pensiero stupido. Si possono fare predizioni anche quando non sono reali...

Ma il desiderio è espresso, ormai, e forse nel cuore vuole davvero predire il futuro. Il proprio, quello ormai segnato di Gentile. E' stanca di vivere nell'ombra: vuole sapere ciò che il destino le riserverà. Vuole imparare a manipolare la realtà, non più subirla.

In un attimo, vede tutto. Tutto il suo futuro le si proietta davanti in schegge acuminate di immagine, che resistono qualche attimo prima di frantumarsi.

In un attimo, sa. C'è un'indicazione nella Tomba di Gemma Donati, che rimanda alla Tomba di Beatrice Portinari: il messaggio va cambiato, o chi di dovere non riceverà mai il Terzo Frutto. Potrebbe portarglielo lei stessa? No. Lei farà altre scelte. Le vede una dopo l'altra nella sua mente, e non la sfiora il pensiero di compierne di diverse. E' il suo cammino, è già scritto sulle linee della sua mano e nel tessuto de fato. Sa anche che Mario non l'amerà mai, nonostante tutto. Sa che sua figlia Simza non crescerà insieme a lei. E che Gentile non si salverà.

Piangendo, Zenobia osserva la figura di Plutone tremolare, sfaldarsi, e svanire nella luce. Il patto è stretto. Lo scambio è effettuato.

Non lo sa ancora...ma a pagare il tributo al suo posto sarà Simza. Dal momento in cui la zingara ha ricevuto il potere di vedere nel futuro, sua figlia non dirà più una sola parola.

 

***

 

Il 14 Gennaio 1498, Zenobia è in piazza San Domenico, a Bologna. Pronta ad assistere all'esecuzione di colei che è stata tutto il suo mondo negli ultimi vent'anni.

Sa che c'è anche Mario. Nessuno avrebbe potuto tenerlo lontano da lì. Trova il suo volto tra la folla, il cappuccio scuro e il mantello con lo stemma degli Auditore. Gli si avvicina in silenzio. Lui la guarda appena.

Possiamo salvarla” mormora, osservando il corpo di Gentile, smunto, piagato dalle innumerevoli torture, che viene legato al palo. Stringe il pomo della spada sotto il mantello, mentre lo dice.

No, non possiamo.” Zenobia posa la mano sulla sua, per bloccare quel gesto. La stringe nella propria, allontanandola così dalla spada. Vorrebbe dirgli che ha visto come andrà il futuro, che Gentile ha giocato la sua parte e a loro toccherà un altro destino. Ma sa, perché l'ha visto, che quello non è il suo ruolo. Perciò tace. Si limita a tenergli la mano, per impedirgli di contrastare il destino.

Il giorno è freddo: la legna è un po' umida, fa molto fumo. Ma poi le fiamme si alzano, e iniziano ad avvolgerla.

Gentile grida. Ma non invoca pietà, nemmeno un momento. Non maledice gli Assassini, come più tardi qualcuno ha detto. Tra le urla, che somigliano in maniera sempre più inquietante a un verso d'uccello – ma no, no, è ancora più assurdo: si sono trasformate in una risata! - inframezza parole sincopate.

Nessuno di voi ha vinto! Il destino è cambiato. Io l'ho cambiato! Ho cambiato il corso delle stelle!”

Poi, è silenzio. Anche i gemiti si spengono. Zenobia e Mario la lasciano morire con la sua illusione di grandezza, perché la speranza è l'ultima cosa che è giusto togliere a chi sta morendo, per di più in un modo così atroce. La speranza di Gentile è quella di non essere passata come una stella cadente, con il bagliore di un attimo che subito si spegne. Vuole lasciare qualcosa nel suo passaggio su questa terra. E non è quello che vogliamo tutti noi?

 

***

 

Cambiare le stelle.

Questa frase mi riportò in mente Agamennone, la sua previsione di morte, quel mio eterno ricordargli che le stelle si possono cambiare se si ha abbastanza coraggio per farlo.

Non ero più certa di averlo, quel coraggio. Era come se Vanni si fosse portato via con la Mela anche la mia grinta, e quel poco che era rimasto della mia fede.

“Questa è la nostra storia, e ognuno di noi ha pagato un prezzo altissimo” mormorò Zenobia. “Per quel patto stretto con Plutone, io posso far realizzare il destino con le mie parole: mia figlia, invece, non può parlare affatto. E questa, forse, è una benedizione per lei...non conoscerà mai il peso che le parole possono avere.”

Osservai Simza. Ancora una volta, non un'ombra di emozione sul suo volto. E nemmeno nei suoi occhi, di un calmo blu scuro.

Mi rivolsi di nuovo alla madre.

“Chi è suo padre?”

“Non lo so.”

“E' mio zio Mario?”

“Vorrei che lo fosse. Ma davvero, non lo so.” Si strinse nelle spalle. “Potrebbe esserlo, in ogni caso.”

Zenobia aveva accennato a qualche breve intercorso con Mario, nei dieci anni che avevano separato il tocco della Mela da parte di Gentile e la sua messa al rogo. Che strano pensare mio zio in quelle vesti...io esistevo già, allora. Avevo dieci anni. Come avevo potuto non accorgermi di quella storia? Perché non avevo capito nulla del suo dolore, del suo amore, di quello che si portava nel cuore?

Avrei voluto averlo lì, e abbracciarlo forte. Chissà se avrebbe accettato quel contatto. Chissà se ce l'aveva con me per il modo in cui l'avevo costretto a dare la vita, o se era riuscito a perdonarmi in qualche modo.

A quel punto, mentre i miei occhi si velavano di lacrime come sempre accadeva quando pensavo a zio Mario, Zenobia mi mise in grembo un involto. Lo scoprii appena. Il bagliore dell'acciaio intarsiato sotto il sole mi accecò per un attimo. Lo ricoprii.

“E' la Lama Celata di Gentile” spiegò la zingara.

“Perché me la stai consegnando?”

“Perché voglio che tu mi uccida, con questa lama.”

Sgranai gli occhi. “Tu, vuoi...”

Zenobia aprì un sorriso privo di qualche dente. “Mario è morto. Gentile è morta. E ora che il segreto è stato tramandato, posso riposare anche io.”

Osservai la lama. Mi chiesi cosa avrebbe fatto mio padre, al mio posto.

“Perché non l'hai fatto da sola?”

“Perché voglio che sia un Assassino a farlo. E deve essere con quest'arma.”

“Gentile non l'avrebbe voluto.”

“Tu non l'hai conosciuta. Se glielo avessi chiesto, lo avrebbe fatto.”

Mi voltai verso Simza. Come poteva essere così indifferente, mentre sua madre mi chiedeva di ucciderla?

La ragazzina non era indifferente, naturalmente. Me lo dicevano i suoi occhi color acciaio. Ma il volto era fermo, e non c'era un cenno di protesta da parte sua.

“Non qui. Non ora.”

Non davanti a lei, avrei voluto aggiungere. Simza respirò rumorosamente: anche se non l'avevo detto, doveva averlo capito.

Zenobia decretò: “Stanotte, a mezzanotte. Ti aspetterò in questo stesso punto.”
Poi si alzò, e se ne andò via lentamente, sparendo insieme alla brezza primaverile. Faceva più freddo, ora. Guardai Simza, e lei mi osservò fino in fondo all'anima. Le sue iridi viola scuro mi stavano chiedendo: “Andrai all'appuntamento? Ucciderai mia madre?”

Poi la campana suonò la nuova ora, la Messa finì, Tancredi tornò e quell'atmosfera irreale venne spezzata. Forse avevo solo sognato, e per un caso nel mio sogno era finita anche Simza. Riuscii a raccontarmi questo per le ore successive, fingendo che l'involto nascosto nel mio grembiule celasse un tozzo di pane, e non la lama celata della strega Gentile.

 

Quella notte uscii silenziosa da casa di Tancredi – Nicola non era venuto a vegliarmi perché intento nei preparativi del ritorno a Monteriggioni, e dovetti attendere soltanto che il medico e la ragazzina si addormentassero. O meglio, che Tancredi si addormentasse. Sentivo i passi scalpiccianti di Simza seguirmi nei vicoli. Probabilmente, credeva che non me ne fossi accorta.

Scivolai nelle ombre stringendo l'involto che Zenobia mi aveva consegnato quella mattina. Dopo aver riflettuto tutto il giorno, avevo capito che quell'incontro era stato reale. E la storia che avevo ascoltato, corrispondeva a verità?

Avevo sbagliato spesso nella mai vita, affidandomi soltanto al mio giudizio. Eppure, avevo capito una cosa importante. A farmi sbagliare era sempre stato l'amore verso qualcun altro.

Per Ferrante, la prima volta: gli avevo creduto e avevo messo me e mio fratello nel peggiore guaio della nostra breve esistenza.

Per mio padre, poi: volevo dimostrargli che mi sarei salvata da sola da Ferrara, senza mettere in pericolo nessuno dell'ordine. Ed ero finita nel letto di Cesare Borgia.

Per Vanni, adesso: ero stata cieca a tutto, pur di scusarlo e dirmi che non era colpevole.

Quella volta, invece, era solo l'istinto a dirmi di credere a Zenobia, lo stesso istinto ferino che mi aveva salvato la vita tante volte in battaglia, e che mi aveva messa in guardia contro l'apparentemente innocente Margherita. Non c'era niente che non andasse nel mio intuito. Erano i sentimenti ad annebbiare la mia capacità di discernimento. E, per quanto sentissi che potevo affezionarmi davvero alla piccola Simza (eppure, mi diceva una vocina nella testa, non dovresti. Ti sei affezionata a Margherita, e guarda dove ti ha portato!), non ero abbastanza coinvolta da essere parziale. L'istinto mi diceva che Zenobia aveva detto la verità. Per questo, avevo deciso di andare all'appuntamento, armata solo dei due pugnali che avevo con me quella mattina, e giusto in caso avessi fatto brutti incontri lungo la strada.

Forse, anche quella precauzione dopo tutto non era necessaria. Vidi muoversi rapida sulla mia testa un'ombra, che saltava di palazzo in palazzo. Seppi così che gli occhi di Martino erano su di me.

Provai calore al pensiero. Seguito subito da un brivido di repulsione. Dovevo smetterla di lasciarmi intenerire a quel modo. Non dovevo permettermi di provare un affetto così profondo per nessun essere umano. Dove mi aveva portato, la capacità di legarmi alle persone? Dovevo restare lucida e distaccata, se volevo sperare di rimettere insieme i cocci che Vanni aveva lasciato sul ciottolato di Bologna e ricostruire, da essi, una nuova Assassina e una Bianca più forte.

Quando giunsi al punto in cui avrei dovuto incontrare Zenobia, avevo all'incirca un'ora di anticipo sul nostro appuntamento. Poggiai l'involto nel punto in cui eravamo sedute: accarezzai la lama celata sotto il tessuto. Era una bella arma. Mi sarebbe piaciuto averla per me.

Ma non era destinata al mio braccio, lo sapevo. Qualcun altro la meritava più di me.

Per questo, la abbandonai lì. Nell'involto, avevo lasciato un biglietto per gli occhi di Zenobia e, spero, anche di Simza. Devo averla spiazzata, quando ha visto che me ne stavo andando. Spero che possa capire perché l'ho fatto. Spero che possa capirlo anche sua madre.

Sul biglietto avevo scritto queste parole:

 

Il destino lo costruirò con le mie mani, e non certo con il tuo sangue. Qualcuno mi ha detto che il sangue è una cosa morta: forse è tempo che anche tu lo ricordi, e inizi a pensare ai vivi.

 

B.A.”

 

 

Di certo non è andata così...eppure, per mio privatissimo diletto, mi piace immaginare che leggendo quel biglietto Zenobia abbia sorriso.







Note storiche

1L'odierna via Oberdan, che ho scelto come residenza di Tancredi :) Mi sto divertendo molto a inserire, forse un po' in sordina rispetto al dramma principale, gli scorci della mia amatissima Bologna. Poter finalmente muovere la storia di Bianca dentro uno scenario che conosco come le mie tasche si sta rivelando molto confortevole!

2L'attuale via Rizzoli, sotto le Due Torri



Note di Runa

Eccomi qui! mi scuso per il ritardo, questo capitolo è uscito un po' più tardi di quanto avessi previsto. Nel frattempo, ho quasi concluso il 29, che spero di potervi proporre tra qualche giorno. Con il prossimo capitolo si chiude un'altra importante fase della vita di Bianca, la "seconda" potrei dire (istintivamente faccio coincidere la fine della prima parte con la chiusura della "saga di Ferrara"). L'adolescenza di Biancarè è quasi al termine, dunque: dal capitolo 30 faremo un piccolo salto temporale, a un evento importante del 1508 legato a un certo Ercole Strozzi, per poi passare direttamente a un paio d'anni più tardi. Ci sposteremo di città, conoscendo la Mantova dei Gonzaga (a tale proposito, è meglio che mi ripassi Rinascimento Privato XD), e il conflitto tra Assassini e Templari si intreccerà con la Guerra della Lega di Cambrai. La data predetta dalle stelle ad Agamennone si sta avvicinando. Con essa, anche la resa dei conti tra i fratelli Auditore e la fine del nostro periodo insieme a Bianca....se sono brava e riesco a non "sdoppiare" i capitoli, prevedo di arrivare al capitolo 40, più epilogo.
Un grazie immenso a chi ha recensito, chi ha inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate, e anche a chi è semplicemente passato di qui <3

Lal


Ps: come mi è capitato di anticipare qua e là...preparate i fazzoletti per il capitolo 29, dal titolo "Senza amore". E' un tripudio di tristezza infinita!

Pps: ho commesso un'imprecisione storica non da pocom e me ne scuso. Nel 1507, Palazzo Marescotti non sarebbe dovuto esistere, siccome tutte le mie fonti datano la costruzione all'anno successivo. Diciamo che mi sono presa una piccola licenza poetica...
 

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Capitolo 29
*** Senza amore ***


Il rientro a casa da quella missione non fu come me l'ero aspettato.

Forse la strana freddezza che Martino mi riservava ogni volta che Tancredi mi scortava fino a Palazzo Marescotti; forse il mio animo ancora scosso per ciò che avevo saputo su Gentile e che avevo scoperto su me stessa. O forse, più probabilmente, perché mia madre aveva chiesto al medico e a Simza di seguirci a Monteriggioni.

Non si trattava di una richiesta dovuta alla necessità di mantenerli al sicuro, lo sapevo. Avevano confabulato brevemente, Tancredi e mia madre; quindi, lui aveva dato il consenso. Sarebbero rimasti con noi, per tutto il tempo necessario.

Necessario per cosa? Non mi fu dato saperlo. Tancredi si congedò senza una parola di più, con Simza al suo seguito. La ragazzina mi rivolse una lunga occhiata prima di andarsene, ma questa volta non riuscii a decifrare il sentimento dietro le sue iridi blu scuro. Simpatia? Pietà?

Quello sguardo della piccola zingara mi aiutò a capire che, se Tancredi era richiesto a Monteriggioni, poteva significare solo due cose. O mio padre desiderava parlargli – il che mi sembrava improbabile: avrebbe potuto farlo prima di lasciare Bologna; oppure, c'era bisogno delle sue conoscenze in medicina. Non mi ci volle molto per formulare l'unica domanda che, a quel punto, avesse un senso:

“Chi?”

Mia madre lì per lì non mi sentì nemmeno, intenta com'era a dare ordini a destra e a manca in tutto Palazzo Marescotti. Di fronte al suo cipiglio, anche l'autorità di Galeazzo si era timidamente fatta da parte, permettendo a Madonna Auditore di organizzare i preparativi per la partenza a suo piacimento.

Dovetti afferrarla per un braccio, per costringerla a voltarsi verso di me.

“Chi ha bisogno di essere curato da Tancredi?”

I suoi occhi si fermarono nei miei, distogliendosi da tutta la confusione che aveva messo in piedi per non pensare. Prese un lieve sospiro, prima di dire brevemente:
“Nonna Maria.”

Fu come sentire il cuore cadere da un'altezza vertiginosa, e aspettare lo schianto.

“Cos'ha?”

“Non ha retto la notizia del tradimento.”

Mia madre non nominava Vanni: in quei giorni della mia convalescenza, non l'aveva mai fatto. Il suo nome era stato cancellato, come se avesse avuto il potere di evocare il suo proprietario soltanto pronunciandolo.

“Perché gliel'hanno detto? Avrebbero dovuto farlo in un altro modo!”

“Credi ci fosse un modo giusto per dirglielo?” Mia madre si rimise a camminare nei corridoi, diretta verso le cucine per controllare che le provviste fossero state preparate come aveva chiesto. La seguii stretta.

“Quali sintomi ha? Febbre? Tremori?”

“Tua zia scrive che è debole, non riesce ad alzarsi e non vuole mangiare.”

“Dovrebbero tenerla a letto. Mantenere sempre vivo il camino.”

“Lo fanno già.”

“Hai scritto a zia Claudia?”

“Bianca...”

“C'è un tonico, te lo ricordi, l'hanno dato anche a Lisabetta quando ha avuto il morbillo...”

“Bianca, porco demonio, non lo capisci? Non è una febbre comune, è crepacuore!”

L'espressione furiosa di mia madre si sciolse un attimo dopo in uno sguardo colpevole, per aver gridato. Si era fermata al centro del corridoio, ed io con lei.

Mi morsi le labbra. “Non si muore di crepacuore. Nonna Maria è forte.” Io avevo preso da lei, lo dicevano tutti. Ed ero lì. Vanni mi aveva pugnalato al cuore e non ero morta. “Lei resisterà...ha già passato l'inferno...resisterà anche a questo!”

Ora Rosa mi guardava con tristezza. Ero stata io ad alzare la voce.

“Ed è per questo che ho chiesto a Tancredi di venire con noi. Per aiutarla a resistere.” Alzò la mano per accarezzarmi il viso, ma quel gesto dovette risultarle pesante, perché si spostò su una ciocca dei mie capelli e divenne un contatto appena accennato. “Vai a preparare le tue cose, partiremo tra poche ore.”

Le mie cose, però, erano già pronte. Quindi, andai nell'unico luogo in cui mi sembrava sensato andare in quel momento. Il tetto di Palazzo Marescotti.

Non c'era Agamennone con me, e questo era particolarmente strano. La sua città, il suo palazzo: eppure ero sola, in quel luogo estraneo e freddo che non rispecchiava per nulla il mio amico di sempre. Rigirai tra le dita la pietra che mi aveva fatto recapitare. La conservavo in una scarsella in cintura, accanto al libro di Veronica. Non mi aiutò granché a scacciare l'immagine di mia nonna che si spegneva lentamente in un letto, a giorni e giorni di cammino da qui.

“E' 'na strana città, Bologna, vero?”

La voce interruppe quelle immagini, e mi restituì la vista del cielo sgombro di nubi e solleticato di torri. Provai una calda emozione di riconoscimento, e non ebbi nemmeno bisogno di voltarmi.

“Strana in che senso, Martì?”

Lo sentii sedersi accanto a me. Avevo ancora gli occhi persi nel cielo azzurro. “Te pare sempre che sta a sonnecchià, e 'nvece vede e sente tutto. E' 'n po' come quei gatti grossi che s'acciambellano su'e sedie e sembrano morti pe' metà giornata.”

“Ma quando si tratta di cacciare, può diventare letale.” Giocherellavo con i lembi della fasciatura che mi reggeva ancora il braccio, senza quasi rendermene conto. “Un paragone azzeccato.”

Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. Martino sembrava intimidito dalla mia presenza, come se gli avvenimenti delle ultime settimane avessero posto tra di noi una barriera insormontabile. Da una parte, tutto questo era assurdo. Era sempre Martino, ed ero sempre io. Dall'altra, provai una forma di sollievo. In quel momento un contatto fuori dai confini della semplice amicizia avrebbe potuto farmi aprire una diga di emozione che non potevo travalicare. Non più.

“Nun me poi dì che ve siete dette co' a' zingara, vero?”

Inarcai un sopracciglio, volgendomi finalmente a guardarlo. Mi accorsi, forse per la prima volta da quando avevo rimesso piede a Palazzo Marescotti, che una cicatrice rosata gli segnava lo zigomo. Quando se l'era fatta? Forse sul Colle della Guardia. Durante l'esplosione, o i tafferugli che ne erano seguiti.

“Come sai della zingara?”

Avevo sempre avvertito la sua presenza sui tetti, durante ogni mio spostamento di quei lunghi giorni trascorsi a casa di Tancredi; eppure, durante il dialogo con Zenobia ero quasi certa che lui non ci fosse.

“C'ho le fonti mie” replicò, con un sorriso sornione.

Mi strinsi nelle spalle.

“Mi ha raccontato di zio Mario. Lei l'ha conosciuto. Dice che potrebbe essere il padre di sua figlia, Simza.”

“La piccoletta che segue sempre er medico? Perché no, ve ce vedo come parenti. C'avete la stessa aria 'ncazzata, voi due.”

Gli diedi uno schiaffetto sulla spalla, senza riuscire a nascondere un mezzo sorriso. Martino rise brevemente, per poi guardami con aria apprensiva. Quel mio contatto scherzoso aveva spezzato la barriera.

“Come stai, Biancarè?”

Aveva questa brutta abitudine di leggermi dentro, sempre. Abbassai le ciglia.

“Il braccio è quasi a posto, Tancredi dice che potrò togliere la fasciatura la prossima settimana se tutto va bene.”

“Lassa stà 'r braccio. Te, come stai?”

Voleva che gli parlassi di Vanni. Di cosa avevo provato. Ed io non ero certa di essere pronta per dirglielo.

Nell'anno appena trascorso avevamo riso spesso, parlato di stupide cose leggere, fatto l'amore, progettato la nostra sfolgorante carriera nell'Ordine, riso ancora. Raramente avevamo sfiorato le corde più delicate dei nostri cuori, e tutto ciò che avevo fatto a Ferrara, tutto quello che era successo con i fratelli Borgia, era rimasto segregato in un cantuccio d'ombra. Allo stesso modo, era raro che avessi parlato con Martino dei suoi argomenti tabù: la ricerca della madre e il rapporto teso con il padre, a cui era stato impossibile nascondere a lungo la natura del nuovo “lavoro” di suo figlio. Avevo letto insieme a Martino le lettere di fuoco che gli aveva scritto dopo averlo scoperto. Una volta gli aveva mandato indietro del denaro che Martino aveva risparmiato dal bottino di una missione apposta per inviarlo alla famiglia. Avevo visto la sua espressione indurirsi, i lineamenti cambiare. Gli avevo proposto di andare a cavalcare. Lui aveva accettato, e la delusione è stata lavata via dal sole, dal vento sul viso, dai campi toscani. Aver riportato il sorriso sul suo volto mi era bastato, quella volta.

Purtroppo, ora non c'era nulla che potesse riportare facilmente il sorriso sul mio.

“Mi conosci. Io sono come l'erba cattiva: sopravvivo a tutto.”

Lui sorrise, ma non sembrava convinto. Fece per allungare il braccio e attirarmi a sé: mi alzai prima che potesse farlo.

“Andiamo. Prima arriviamo a Monteriggioni, meglio sarà per tutti.”

Se rimase deluso da quel mio atteggiamento, non lo diede a vedere; ma di certo, come ebbi modo di scoprire più tardi, gli attribuì una causa precisa. Con un nome preciso. Tancredi.

 

Il viaggio fino a casa fu semplicemente un incubo. Il medico non faceva che seguire il mio cavallo, chiedendomi informazioni su Monteriggioni, sulla campagna senese, sulla mia infanzia laggiù. Mi chiedevo cosa lo rendesse così curioso di conoscere ogni minimo dettaglio; avvertivo nel contempo lo sguardo di Simza sulla nuca, combattuto tra l'irritazione e la gratitudine che provava da quando avevo risparmiato sua madre. E poi, c'era la più rumorosa gelosia di Martino, che si esprimeva in borbottii e punzecchiatine ogni volta che ne aveva l'occasione.

“Ammetto di non essermi mai mosso così a sud” stava dicendo il medico, che cavalcava al mio fianco. “A parte il tragitto tra Monteveglio e Bologna, confesso con vergogna di non essermi mai spostato dalla mia città. Voi avete viaggiato molto?”

Arricciai il naso. “Non molto, a dire il vero. Sono nata a Venezia, poi ho vissuto a Monteriggioni per quindici anni...sono stata a Ferrara, a Firenze, ed ora a Bologna. Ed ecco dove si esauriscono i miei viaggi.”

“Per Giove Ottimo e Massimo, sono un'infinità se paragonati ai miei!”

Potei udire distintamente il verso di Martino a quel “Per Giove Ottimo e Massimo”, e cercai di nascondere il nervosismo dietro a un sospiro.

“Non ho ancora ottenuto missioni all'estero, anche se so che diversi giovani apprendisti vengono mandati in tutto il Mediterraneo. A volte penso che mio padre non abbia fretta di farmi scalare i gradi dell'Ordine.”

Dallo sguardo attento di Tancredi, mi resi conto che non doveva conoscere molto del funzionamento della Fratellanza. “Dunque non siete ancora un'assassina iniziata.”

Scossi il capo. “Se tutto andrà bene, lo sarò tra cinque anni. Ma probabilmente Ezio spera che siano cinquanta. O cinquecento.”

Tancredi rise. “Dovreste ritenervi fortunata, ad avere qualcuno che veglia su di voi con tanta sollecitudine. Non abbiate fretta di crescere, Bianca...il mondo là fuori è molto duro.”

Ammetto che quell'affermazione irritò anche me: sapevo perfettamente quanto potesse essere duro il mondo, e la protezione di mio padre non mi aveva risparmiata da alcuni amari schiaffi del destino. Tuttavia, non mi aspettavo che a replicare in mia difesa sarebbe stato Martino.

“A dottò, c'hai 'n'idea strana de la Confraternita. C'addestrano a' ammazzà 'a ggente, e a vedella ammazzà...secondo te nun lo sapemo quanto è duro 'r monno?”

Tancredi assunse un'espressione contrita. “Non è ciò che volevo dire. Solo che...almeno avete una guida a cui rivolgervi. E' un privilegio che io non ho mai avuto.”

“Me pare che Giovanni Bentivojo è stato 'na bona guida, no?”

La stoccata di Martino era andata a segno, perché il volto di Tancredi si incupì. “Immagino di sì, a suo modo.”

Rivolsi al mio confratello un'occhiata preoccupata, che significava: basta così, stai esagerando.

“Be', dottò, che te devo dì. Mo' magari er Mentore nostro te pija come allievo. Così te impara1 quanto può esse dura 'a vita de l'apprendista assassino.”

Tancredi replicò con un sorrisetto, e non disse più nulla. Dopo qualche tempo si affiancò al cavallo di mia madre, in testa alla spedizione.

“Si può sapere che ti è preso?” sibilai, in direzione di Martino.

“Nun sopporto 'a ggente che se crede chissà chi.”

“Non ha detto niente di male, dopo tutto.”

“Dì la verità, t'ha dato fastidio pure a te. O me sta addì che se lui te dà de la mocciosa te sta bbene? Da dove je viene mo', sto privileggio?”

“E questo cosa vorrebbe dire? Non posso discutere con lui di una sciocchezza del genere...Tancredi mi ha salvato la vita!”

Martino guardò davanti a sé, osservando la schiena del medico con un certo astio. “Capisco. Che te devo dì, Bià. Se sei fortunata, er tuo dottorino bbello resta a Monteriggioni pure 'n mese o due. Magari nun se ne va proprio più.”

Il mio sguardo voleva trapassarlo da parte a parte. “Resterà tutto il tempo che servirà a mia nonna per guarire.”

Le ostilità erano di nuovo aperte. Furibonda, cavalcai accanto a un Nicola particolarmente paziente, che tentava di inframezzare il mio irritato mutismo con una conversazione leggera. Gli rispondevo a monosillabi, ancora fuori di me a causa di Martino. Con il momento che stavo passando, dovevo anche sentirmi pesare addosso la sua insensata gelosia? Avrebbe dovuto capire che tra me e Tancredi non c'era nulla di particolare. E se anche ci fosse stato qualcosa, che diritto aveva di mostrarsi così possessivo? Nessuno. Non avevamo dato alcun nome a quello che ci legava: eravamo d'accordo su questo, dannazione. Se fossi stata io al suo posto, naturalmente, non mi sarei comportata in modo così infantile e assurdo. Era ovvio. Era tutta colpa sua.

 

All'arrivo a Monteriggioni, in ogni caso, la gelosia di Martino dovette scivolare per forza all'ultimo posto tra i miei problemi.

La prima cosa che notai, la più allarmante, fu che zia Claudia non era ad accoglierci sulla scalinata che portava alla Villa. Questo poteva significare soltanto che era al capezzale della nonna. Ciò voleva dire che le condizioni di Nonna Maria non erano affatto migliorate.

Con il cuore fermo nella gola, feci le scale a due a due, e raggiunsi zio Ugo e Lisabetta, fermi sulla soglia di casa. La mia cuginetta aveva in viso un'aria spaesata per la troppa tensione assorbita; lo zio invece era abile a fingere, e mi accolse con espressione controllata.

“E' di sopra?” dissi, con il fiato spezzato. Non per la corsa, quella era niente per una persona con il mio allenamento. Era l'angoscia a mozzarmi l'aria nei polmoni.

Lo zio mi trattenne per il braccio. “Non è un buon momento, Bianca. Forse dovresti aspettare.”

Lo sguardo di Lisabetta mi disse che doveva aver visto qualcosa che l'aveva turbata. A quel punto, il resto della comitiva ci raggiunse, e mentre mia madre presentava sbrigativamente Tancredi e Simza a Ugo, vidi Martino chinarsi sulle ginocchia per fronteggiare la bambina. “Credo che questa bella signorina c'abbia voja de farse 'na passeggiata pe'r paese, dico bene, Lisabbè?”

Zio Ugo gli rivolse uno sguardo grato, mentre mia cugina si aggrappò al collo di Martino come a qualcosa che le stesse salvando la vita. Incrociai gli occhi di lui, per un breve momento. Poi li distolse, andandosene con la bambina.

“Tancredi, fammi venire con voi” dissi, sciogliendomi dalla stretta dello zio per seguire il medico bolognese e Simza, a cui mia madre stava già mostrando la strada per il piano di sopra.

Il volto solitamente così sereno del medico si era tinto di un'ombra di ferrea serietà. “D'accordo, ma solo per poco.”

Nicola non disse nulla, avevo quasi dimenticato la sua presenza. Lui e Ugo mi seguirono.

“Quanto è grave?” sentii mormorare il mio amico bresciano.

La replica bisbigliata di Ugo non fu sufficientemente bassa da non farsi udire. “Dobbiamo prepararci al peggio.”

Salimmo le scale, e ogni gradino era un macigno che mi gravava sui polpacci e mi trascinava giù. Verso il fondo di me stessa, verso il baratro. Il braccio ferito mi doleva di nuovo, come non faceva da giorni. Era come se la ferita infertami da Vanni e questa che si stava spalancando sulla pelle del mio cuore fossero inesorabilmente collegate, e l'una ampliasse l'altra.

Fuori della porta della stanza di mia madre, vidi la figura allampanata di Agamennone, appoggiato al muro, con la testa a ciondoloni. La alzò di scatto quando ci sentì.

Eccolo. Il mio amico, il mio luogo sicuro. Mi venne incontro con lo stesso mio slancio, abbracciandomi forte. Mi fece male alla spalla ferita, ma non emisi nemmeno un lamento.

“Veronica?”

“E' dentro, con Madonna Claudia.”

Mi staccai dall'abbraccio rassicurante di Agamennone, per dirigermi nella stanza.

Per quanto avessi cercato di prepararmi, durante il viaggio, non ero affatto pronta a quello che vidi.

I capelli bianchi sparsi sul cuscino. La pelle così bianca da fondersi con le lenzuola. Le palpebre tremanti per la febbre, e la voce che usciva con un raschio sussurrato dalla gola riarsa della nonna.

“Giovanni...dove sei?”

Zia Claudia era accanto a lei, le stava somministrando un decotto che la nonna continuava ad allontanare dalle labbra. Veronica cercava di rinfrescarle i polsi e la fronte con una pezza umida. Entrambe alzarono gli occhi nel sentirmi entrare.

Veronica, dall'altra parte del letto, avrebbe voluto alzarsi ed abbracciarmi: la vidi in quella strana posizione, seduta ma bloccata sull'orlo dello sgabello, come se fosse pietrificata sul punto di rimettersi in piedi. Zia Claudia torse il busto quel tanto che bastava per acquisire la consapevolezza della mia presenza. Il suo sguardo grave mi disse tutto quello che dovevo sapere.

Rimasi immobile sulla soglia per qualche istante, lasciando che Tancredi entrasse. Confabulò per qualche istante con zia Claudia, non sentii ciò che dissero ma probabilmente si presentarono. Approfittai di quel breve scambio per sedere sul letto, prendendo una mano della nonna tra le mie.

“Nonna, che stai facendo?” dissi, a voce bassa come per paura di ferirle le orecchie con un suono più forte. “Noi siamo Auditore. E gli Auditore non si arrendono così...”

“Giovanni...Giovanni...” continuava a dire lei, senza guardare nessuno di noi in particolare.

Pensai che, nel suo delirio, chiamasse l'amato marito. Ma non era così. La Maria Auditore che aveva vissuto sprofondata nella nebbia per tanto tempo se n'era andata per sempre. La mente della nonna era rivolta ai vivi. Solo, non a quelli che le erano accanto.

“Dov'è il mio bambino? Dov'è Giovanni?”

La ferita aperta nella mia anima ruggì: ci sono io con te! Non ti basta? Ci sono io!

“Ci sono io...” mormorai, con molta più dolcezza di quanta non ne provassi, scostandole i capelli madidi dalla fronte.

Le sue dita nodose si strinsero alle mie come ami. Mise gli occhi scuri, identici a quelli di mio padre, nei miei. “Bianca. Riportalo a casa, Bianca. L'hai già fatto una volta. Riporta Giovanni a casa, ti supplico...solo tu puoi farlo!”

Poi, gentilmente, Tancredi mi chiese di spostarmi per poterla visitare. Veronica chiese di restare ad aiutare il medico e Simza, dicendo che zia Claudia avrebbe dovuto riposare e si offriva volentieri di prendere il suo posto. Uscii anche io.

Fuori della stanza si era radunato un piccolo capannello di persone. Mia madre, zio Ugo, Nicola e Agamennone attendevano notizie. La mamma mi mise protettivamente un braccio intorno alle spalle, forse notando quanto quei pochi minuti al capezzale della nonna mi avessero scossa. All'improvviso, mentre parlavano di quali cure fossero state somministrate e da quanti giorni durasse la febbre alta, notai un'assenza assordante, che stonava con la mia idea di “casa” e di tutto ciò che stava succedendo al suo interno.

“Dov'è Ezio?”

Molte paia d'occhi si volsero verso di me. Mia madre strinse le labbra; zia Claudia roteò gli occhi al cielo, in maniera solo un po' meno plateale del solito. Zio Ugo, però, fu quello che rispose.

“Tuo padre è nel suo studio.”

“Vuoi dire nel Laboratorio?”

“Vuole dire nel suo studio” intervenne zia Claudia, facendo quel cenno verso l'alto, che alludeva allo stanzino segreto di mio padre. Quello in cui conservava i ritratti dei congiurati che avevano portato la Mela da Cipro, e che lui aveva ucciso, uno dopo l'altro.

“Ne esce raramente negli ultimi giorni” commentò Ugo. “Si fa portare i pasti lì dentro, probabilmente sta studiando una nuova strategia per la prossima missione.”

“Balle” lo rimbeccò Claudia “se stesse studiando una strategia ti avrebbe lasciato entrare, Ugo. Non si muove mai senza sentire il tuo parere. La verità è che mio fratello sta facendo ciò che gli è sempre riuscito meglio. Sta scappando.”

No. Quest'immagine non si sposava affatto con quella che avevo di mio padre. Non poteva non essere andato mai al capezzale di sua madre. La sua amatissima madre, che per un certo periodo aveva cercato di proteggere anche da me e da Vanni...dai suoi figli...

Strinsi i pugni. Aveva fatto bene proteggerla da noi. Tutto questo era colpa di mio fratello.

“Vado a parlargli.”

Le parole di mia madre seguirono subito i fatti: la vedemmo sparire nei corridoi, e fu con un tuffo al cuore che la osservai andarsene. C'era qualcosa di sbagliato in tutto questo. Mio padre che si rintana nel suo studio. Mia nonna delirante in un letto. Vanni assente, Vanni lontano, Vanni insieme ai nostri nemici. Non riuscivo ancora a realizzare quell'accozzaglia di incongruenze terribili che non riuscivo più a chiamare famiglia.

“Dubito che quel codardo scenderà, in ogni caso” commentò acidamente zia Claudia “è troppo impegnato a piangere sul latte versato.”

Feci per intervenire in difesa di mio padre: dopo tutto, il colpo infertogli da suo figlio doveva essere stato pesante a sufficienza. Poteva essere che stesse davvero organizzando un piano della Confraternita, qualcosa che aveva la priorità sui dolori personali e i problemi di famiglia. L'uomo che io conoscevo non scappava. Doveva essere qualcosa di molto serio a tenerlo lontano dal capezzale di Nonna Maria.

Poi vidi zia Claudia massaggiarsi gli occhi e oscillare lievemente, perdendo l'equilibrio. Le braccia di Ugo la sorressero amorevolmente.

“Devi riposare, amore mio. Sono due notti che non dormi” In tono il più possibile carezzevole e persuasivo, lo zio aggiunse: “Lo sai che non sarai di aiuto a nessuno, in questo modo.”

“Non posso riposare. Devo dare disposizioni in cucina...la cena...e poi le medicine che il dottore manderà a prendere...”

Posai una mano sul suo braccio. “Penso a tutto io, zia. Vai a dormire. Se vuoi posso darti il cambio per vegliare la nonna, questa notte.”

“Hai sentito?” Ugo sorrise dolcemente. “Abbiamo la nostra Bianca con noi. Andrà tutto bene adesso.”

La zia mi guardò intensamente. Per certi versi, fu come se mi vedesse per la prima volta. Le sue dita salirono a sfiorarmi la guancia. “E' bello riaverti qui” mormorò, prima che suo marito la costringesse a salire le scale, prendendola in braccio per non farle fare fatica eccessiva.

“Sempre il solito esagerato, Ugo!” la sentimmo borbottare debolmente mentre si allontanava.

“Non c'è di che, Claudia” sorrise lui, con il suo solito tono leggero. “E' un piacere servire umilmente Sua Maestà.”

Feci come promesso alla zia, e andai a dare disposizioni in cucina per la cena e per la stanza che avrebbe ospitato Tancredi e Simza. Quindi, attesi con pazienza insieme ad Agamennone e Nicola, fuori dalla stanza. Tancredi uscì dopo mezz'ora: chiese se fosse possibile provare a recuperargli dello sciroppo di foglie di edera velenosa. Quel “velenosa” non mi piacque molto, ma con sguardo calmo del medico disse che si trattava di un rimedio contro la febbre prolungata. Annuii. Non potevo fare altro che credergli: era l'unico ad avermi offerto una pallida speranza, fino ad ora.

Agamennone si offrì di andare dallo speziale al mio posto. Io ero stanca dal lungo viaggio, diceva. Sia io, sia Nicola e Veronica dovevamo seguire l'esempio di madonna Claudia e riposare. Gli ubbidimmo.

Nicola si fermò nella stanza dei ragazzi, al piano terra. Mormorò qualcosa sul fatto che fosse strano vederla così vuota. Poi, ci rivolse un cenno di saluto. Notai solo allora i cerchi profondi che gli segnavano gli occhi. Per tre settimane mi aveva vegliata ogni notte e aveva sbrigato i suoi compiti a Palazzo Marescotti di giorno: doveva essere distrutto.

Mentre ci dirigevamo al piano di sopra per raggiungere la nostra stanza, Veronica mi fermò. Cercò i miei occhi, come sempre faceva quando era preoccupata per me.

“Come stai?”

“Il braccio sta guarendo.”

Ci fissammo in silenzio. Lei non chiese di più, ma mi lasciò un bacio sulla guancia e mi strinse per qualche minuto, senza parole. Ricambiai la stretta, ma non riuscii a piangere. La tensione era troppo forte, e mi costrinse a reggere la diga.

“Non vieni dentro?”

Non mi ero accorta che i miei piedi si fossero fermati sulla soglia della nostra stanza. La stanza della mia infanzia, dove avevo dormito con Vanni per tredici anni.

Arrabbiata con me stessa per quel segno di debolezza, varcai la soglia. Non rappresentavano solo mio fratello, quelle quattro mura. C'erano i libri di Veronica ovunque. C'erano i miei pugnali da lancio, ben ordinati sullo scaffale. La mia lama celata che splendeva sotto un raggio di sole, per salutarmi. La accarezzai.

Ricordai in un lampo la lama celata di Gentile, che Zenobia mi aveva offerto in cambio del suo assassinio. Era un bracciale troppo femminile perché passasse a Tancredi. Forse, un giorno l'avrebbe avuta Simza.

Chissà dov'era Zenobia adesso. Chissà se stava predicendo il futuro a un'altra ragazzina incauta, costringendolo così a diventare realtà.

Con cautela per non inzuppare le fasciature alla spalla, feci un bagno, indossai brache comode e una camicia pulita. Mi osservai per qualche istante allo specchio: i miei capelli erano cresciuti molto ultimamente, iniziavano ad ombreggiarmi le spalle. Non li accorciavo da almeno tre mesi. Avrei dovuto farlo.

Quando uscii dal bagno, Veronica era già rannicchiata nel letto. Dormiva. Immaginai lei, zio Ugo, zia Claudia e Agamennone che si davano il cambio al capezzale della nonna, attendendo il nostro ritorno. E mio padre non li stava aiutando. Mio padre era rintanato nel suo studio come un animale ferito.

Non riuscivo a crederlo. Non potevo accettarlo.

Per questo, attraversai i corridoi per arrivare alla stanza con la botola. Senza bussare, la aprii. I cardini mandarono un lamento.

Lui era lì.

Seduto curvo sullo scrittoio, la penna che correva veloce sulla carta. Avevo pensato che l'avrei trovato alla finestra a guardare l'orizzonte, oppure intento a riflettere sulla lite che certamente aveva appena avuto con mia madre. Avevo anche accarezzato l'idea di non trovarlo affatto lì, ma magari nelle sue stanze, intento a parlare fittamente con Rosa per trovare insieme a lei una soluzione a quella spirale di dolore. Avevo sopravvalutato entrambi. O sottovalutato la profondità della ferita che li divideva.

Ezio non si mosse. “Pensavo stessi dormendo” commentò pallidamente al mio ingresso, senza alzare gli occhi. “Tua madre mi ha detto che il viaggio è stato stancante.”

L'ultima volta che ci eravamo visti, ci eravamo separati sotto la Garisenda. Lui con il Serpente, io con la Mela tra le mani. Io avevo perduto la Mela. Ma il Serpente era lì, sullo scrittoio, come un anonimo e un po' pacchiano fermacarte.

“A chi scrivete?”

“A Leonardo. Gli ho chiesto di venire a trovarci...sono due settimane che studio il Frutto, ma non ne ho ricavato niente.”

“Siete andato a trovare la nonna, oggi?”

Lui spostò gli occhi dal foglio, concentrandosi sul Serpente.

“Padre?”

“Lei comunque non può sentirmi. Non c'è niente che possa fare.”

Aveva poggiato la penna e la manica sul foglio vergato con inchiostro fresco. Avrebbe dovuto riscrivere tutto d'accapo, ma non sembrava essersene accorto.

“Potete stare con lei” lo rimbeccai, incapace di accettare quella sua reazione così fredda.

“Non è me che vuole accanto. Non vuole nessuno di noi.” La sua voce si strozzò. “Solo Vanni.”

Non continuò, ma fui perfettamente in grado di leggere le parole nascoste in quella frase. E io l'ho perso, Vanni. Io gli ho permesso di scappare e di farci quello che ci ha fatto. Come posso farmi vedere da lei, quando sono io il colpevole del tradimento e la causa del suo male?

Nonna Maria guarirà. Ricordate, quando non credevate di poterla strappare al ricordo del passato? Poi lei ha ricominciato a vivere. Sarà così anche questa volta.”

Nessun cuore può andare in pezzi due volte, Bianca.”

Non è vero, lo sapete.” Il mio cuore non era andato in pezzi tante volte? Per Ferrante, per zio Mario, per il doppio gioco di Margherita e la pugnalata di Vanni. Eppure ero ancora in piedi. Anche mio padre aveva ricevuto mille colpi dalla vita. Perché questo lo stava spezzando? “Dobbiamo solo decidere come muoverci per riportare Vanni a casa.”

Non tornerà a casa.”

Lo sapevo anche io. Eppure, l'angoscia della nonna mi aveva dato la forza di ribellarmi a quella consapevolezza. Avevo bisogno di credere che le cose potessero tornare come prima.

Volete lasciarlo tra i templari? Volete che io combatta contro mio fratello?”

“Non abbiamo altra scelta.”

“Se ve lo troverete davanti sul campo, cosa farete?”

“Bianca, noi dobbiamo...”

Indicai co un ampio gesto i dipinti sui cavalletti.

“E se un giorno dovessimo aggiungere il suo ritratto a questi?”

Il tempo si fermò dentro queste mie parole, raggelando nel volto di Ezio quel pensiero che probabilmente non gli faceva chiudere occhio dal giorno in cui Vanni mi aveva pugnalata. Eppure continuai, con la crudeltà che solo i giovani possono avere: “Diventerà uno dei vostri trofei anche lui? Magari sarà il più prestigioso...il figliol prodigo, ricondotto all'ovile dalla lama celata di suo padre! Posso già vedere la scritta: Giovanni Antonio Auditore, 1507. Chi di noi due avrà l'onore? Lo lascerete a me, così imparerò a volare e sarò la vostra vera erede?” Le parole mi grattavano la gola come uncini. Volevo fargli del male. Volevo smuoverlo da quell'immobilità. Volevo una reazione, una qualsiasi reazione da lui!

Ci riuscii. Perché mio padre si alzò in piedi, aggirando lo scrittoio. Era scuro in volto.

Allora, lo fronteggiai. Gli andai incontro furiosa e dolorante, sperando che la mia rabbia potesse lavare via l'angoscia che mi opprimeva i polmoni.

“Cosa faremo quando dovremo combattere contro Vanni?” incalzai “Cosa farete quando ucciderà i nostri fratelli, cosa farete quando tenterà di uccidere voi? E se tentasse di uccidere me?”

“Non lo so, dannazione, non lo so!”

Quell'urlo, finalmente, bloccò la mia rabbia. E diede inizio alla sua.

 

Ricordo. Le spalle di Ezio rigide e ferme, una lama di luce che gli taglia a metà la figura. Vedo il suo braccio che si piega. Il colpo netto, violento, scaraventa i cavalletti a terra. Non è contento: li colpisce ripetutamente. Li sbatte contro le pareti spoglie, li calcia, e pesta, e distrugge come può.

Mio padre è diventato in pochi attimi un animale che non riconosco. Una belva ferita che deve sfogare la rabbia distruggendo qualcosa. La sua ironia, svanita. La sua lucidità, dissolta. Il legno contro il legno si spacca, si scheggia. Sembra un rumore di ossa che si frantumano. Le tele si strappano col suono di muscoli lacerati.

“Padre! Basta!”

Non mi ascolta. Afferra un troncone di cavalletto e lo scaglia contro il muro. Si ferma ansimando. Non per la fatica, no. Per la rabbia che gli esce in singulti dal petto, levandogli l'aria. Quella rabbia non è rivolta a me. Non è rivolta a Vanni. E' tutta per se stesso.

E' allora che lo abbraccio alle spalle, poggiando la guancia sulla sua schiena. Le braccia allacciate alla sua vita, per bloccargli le mani. Per impedirgli di farsi male.

“Papà...smettila. Ti prego. Papà...scusami. Non volevo. Non volevo...”

 

Avevo diciotto anni. Ezio era entrato nella mia vita da quindici, e mai una volta l'avevo chiamato a quel modo. Eppure, la parola fluì tra le mie labbra naturale come se non avessi fatto altro che dirla, per tutta la vita.

“Bianca...mi dispiace. Mi dispiace. Avrei dovuto fermarlo...ti ho deluso. Vi ho delusi tutti.”

Sentii il cuore incrinarsi, mentre mio padre pronunciava le stesse parole che io avevo rivolto a mia madre solo poche settimane prima. L'uomo che stavo stringendo tra le braccia, di cui sentivo rimbombare il battito furente attraverso la schiena, era impotente quanto me quella volta. Dolente, quanto me. Sconfitto, quanto lo ero io.

Non so dire se Ezio Auditore stesse piangendo, né se i suoi occhi fossero lucidi. Con un movimento brusco lo costrinsi a girarsi e affondai il viso nel suo petto, senza guardarlo per molti minuti. Ricordai il giorno in cui lui, la mamma e tutti gli altri erano tornati da Roma, dopo aver sconfitto Rodrigo Borgia. Avevo sprofondato il viso nei suoi abiti, come ora. Avevo il cuore gonfio del mio amore per lui, come ora.

La verità è questa. Sono figlia di un uomo che ormai è diventato una leggenda in tutta Italia per la sua abilità e la sua forza: eppure, non gli ho mai voluto tanto bene come quando l'ho visto sul punto di spezzarsi, stretto a me come se fossi l'unica cosa che lo ancorava alla vita e gli impediva di sprofondare in una spirale di violenza senza fine.

 

La nonna, lentamente, migliorò. La febbre diminuì, anche se continuava a mangiare poco. Quelle settimane di malattia l'avevano lasciata debilitata, e stanca. Aveva ancora il viso un po' gonfio, ma Tancredi si stava occupando di questo con i suoi impacchi serali di erbe. Dormiva moltissimo; nei pomeriggi di primavera sfolgorante che ci erano fioriti intorno zia Claudia ed io – a volte, più raramente, si univa a noi mio padre – la accompagnavamo in giardino e passavamo del tempo a leggere per lei.

“Claudia, tesoro” bisbigliò la nonna uno di quei giorni “va tutto bene con Ugo, sì?”

“Va come sempre” replicò Claudia, poggiandosi il libro sulle ginocchia.

“Cosa significa: come sempre?”

La zia inarcò un sopracciglio, forse incuriosita da quell'insistenza. Tuttavia, sospirò. “Litighiamo per ogni più piccola sciocchezza, o meglio: mi lascia litigare da sola, poi cerca di sminuire le mie sacrosante ragioni demolendole con una battuta. E' il solito irriverente bifolco, ed io mi pento ogni giorno di averlo sposato.” In realtà, l'inflessione affettuosa che trapelava da quelle parole acide diceva tutto il contrario. “Perché volete saperlo, madre? Progettate di scrivere un libro a riguardo?”

Un sorriso aleggiava sul volto della zia; ma la nonna aveva già cambiato l'oggetto della sua curiosità.

“E i tuoi genitori, Bianca? Come stanno superando questo momento?”

Ero felice che si stesse preoccupando per gli altri. Significava che non si sentiva più troppo male.

“Non bene” ammisi, disfacendo la fallimentare corona di ranuncoli che avevo provato ad assemblare. “Ezio dorme nel suo vecchio studio. La mamma lo chiama ancora il Mentore. Credo che abbiano bisogno di tempo per guarire.”

La nonna trasse un sospiro, stringendo gli occhi per il troppo sole. “L'amore è strano...ci innalza fino al cielo e ci illude di avere le ali. Può schiantarci al suolo altrettanto rapidamente, però. E la sua assenza può ucciderci...”

“Quindi” intervenne zia Claudia “non si può vivere né con l'amore, né senza amore.”

“Meglio vivere senza. L'amore rende deboli” affermai, decisa di quella nuova convinzione che avevo maturato a Bologna, riflettendo sulla faccenda di Gentile, Zenobia e zio Mario.

“No” obiettò la nonna “E' la vita a renderci deboli. Insieme agli anni e al dolore. L'amore è quello che è. Una scelta.” Si schermò gli occhi con la mano: il sole era forte, le chiesi se volesse rientrare. Mi disse di no.

Per un po', parlammo di tante cose meno importanti. Di quando avrei ripreso il mio addestramento, della primavera che si stava facendo calda come una precoce estate, del fatto che Tancredi e Simza avessero deciso di fermarsi ancora per qualche giorno insieme a noi. Che assurdità, secondo zia Claudia il medico aveva un debole per me. Avrà avuto almeno trent'anni, era troppo vecchio per me! – qualcosa mi impedì di pensarci sul momento, ma in effetti Cesare ne avrebbe avuti trentadue. Liquidammo l'argomento con una risata e un'alzata di spalle. La nonna mi osservava senza parlare, con un vago sorriso che non pareva però rivolto a me, ma a qualcuno che abitasse dentro la sua mente. Forse, stava dialogando senza parole con nonno Giovanni, facendogli notare quanto fossi cresciuta.

Poi, mi chiese:

“Bianca, tesoro: mi andresti a prendere dell'acqua?”

La brocca non era lontano: sotto il porticato c'era tutto l'occorrente per rinfrescarci. Versai l'acqua nel boccale, e mi incamminai di nuovo -verso la zia e la nonna.

Tutto era fermo nell'aria lucida di sole. Lo stridere delle rondini era piacevole, prometteva lunghe giornate di bel tempo e accompagnava lo sbocciare dei fiori. Sedetti di nuovo accanto alla nonna, riparandomi per un attimo gli occhi da un raggio di sole, proprio come lei aveva fatto poco prima.

“Ecco la tua acqua.”

Nessuna risposta.

“Nonna, ti ho portato l'acqua. Nonna...”

La scossi gentilmente. Aveva gli occhi chiusi. Doveva essersi assopita...era così bella, con i capelli bianchi sparsi sulle spalle che rilucevano come una mantella. Sembrava un poco più giovane, un poco meno stanca del solito. Sorrideva.

Zia Claudia si sporse a sua volta, scuotendola con più decisione mentre le si inginocchiava accanto. “Madre?” Il suo volto si irrigidì, i suoi occhi tremarono. “Madre...”

Poi non disse più nulla. Si coprì la bocca con la mano e la guardò per infiniti istanti, prima di poggiare la fronte alla sua tempia e lasciar scorrere un pianto sommesso.

Io non capivo. Avevo l'acqua che nonna Maria mi aveva chiesto. Perché non la stava prendendo? Perché non si svegliava? Mi sembrava di essere tornata ad osservarla quando, da bambina, la vedevo vagare come un fantasma per il cortile, e la sentivo così lontana da me, così lontana...

Poi lo scudo che l'istinto aveva eretto sui miei pensieri si infranse. Capii fin troppo bene, e lasciai cadere il boccale ai miei piedi. Le lacrime seguirono presto l'acqua versata.

 

Maria Auditore da Firenze, nata Mozzi, si spense il 7 maggio 1507. Aveva settantacinque anni. Tancredi spiegò la sua morte dicendo che il cuore aveva rallentato i battiti fino a fermarsi. La causa reale, però, era stata il tradimento di mio fratello, Giovanni Antonio Auditore, che era passato dalla parte dei secolari nemici della nostra famiglia, disonorando tutti i nomi che portava.

Avrei potuto perdonare a Vanni di avermi ferita e lasciata sanguinante per la strada. Avrei potuto scusarlo per la sua avventatezza e attribuirmi tutta la colpa per l'influenza che avevo permesso che i templari esercitassero su di lui. Ma per la morte di Nonna Maria, non potevo scusarlo. Per il rancore che avvelenava i rapporti tra i miei genitori, non potevo scusarlo. Per aver deciso di distruggere la nostra famiglia mentre io combattevo disperatamente per tenerla unita: no, non l'avrei perdonato mai.

Al funerale non parlai, e non permisi a nessuno di abbracciarmi o di tenermi la mano. Agamennone, Veronica e Nicola vegliavano preoccupati e tristi, un passo dietro di me. Non consentii loro di consolarmi. Non mi avvicinai a mia madre, e nemmeno a mio padre. Posai con la mano tremante il ventaglio sulla sua bara. Le piume raccolte da zio Petruccio, e assemblate da Vanni, avevano riportato il suo spirito tra di noi. Adesso che se n'era andata di nuovo, dovevano andarsene con lei.

Se i miei amici erano preoccupati, Martino divenne nei giorni successivi la mia ombra silenziosa. Come quando mi seguiva sui tetti di Bologna, per assicurarsi che non mi cacciassi nei guai. Sorprendevo sempre più spesso il suo sguardo su di me; per ogni commissione, per ogni più piccolo incarico che ricevessi, si offriva di accompagnarmi, di assistermi, di aiutarmi. Quel suo atteggiamento mi aveva fatto sempre sentire protetta: adesso aveva iniziato a irritarmi. Volevo stare sola. Volevo chiudere fuori tutto il mondo, compreso lui. Ne avevo bisogno, per pensare a tutto ciò che avevo perso. A cosa avrei dovuto lasciarmi alle spalle. A cosa avrei potuto ricostruire, a costo di doverlo innaffiare di lacrime e sangue.

“Non ho bisogno del tuo aiuto” sibilai un giorno, furiosa, mentre annaffiavo i fiori della nonna. Un delicatissimo roseto, a cui lei teneva molto. Martino mi aveva seguito anche lì.

Era trascorso poco meno di un mese dalla sua morte, e io attendevo che la ferita si ricucisse. In realtà, mi sembrava di avere al posto del cuore due monconi slabbrati, impossibili da unire di nuovo in un'unica fetta di pelle. Nella mia testa c'era come un battito costante, che non se ne andava mai, da quando aprivo gli occhi al mattino a quando li richiudevo la sera, cercando di non pensare.

Martino alzò subito le mani in segno di difesa. “Nun sto affà gnente. Te sto solo a guardà!”

“Appunto. Non ho bisogno di una guardia. Non sono impazzita, d'accordo?”

“D'accordo.” Martino si grattò la guancia, su cui la barba ispida e nera era cresciuta un po' troppo. “E' solo che...me so' detto che magari prima o poi te veniva voja de pallà, tutto qua.”

“Parlare di cosa? Mia nonna è morta. Parlarne non la riporterà in vita.”

“Magari però t'aiuta.”

“A fare cosa?”

“A lascialla anda' via.”

Poggiai il secchio, volgendomi completamente verso di lui. “Non voglio lasciarla andare via. E non voglio parlare. Smettila di trattarmi come una bambina.”

“Te tratto come uno che se preoccupa pe' te.”

“Nessuno te l'ha chiesto.”

Martino aprì le braccia. “Biancarè, guardate. T'aggrappi al ricordo de madonna Maria come se fosse 'a sarvezza tua, ma nun lo è. Nun lo è! Così te fai solo trascinà sotto, lo voi capì?”

“Io mi chiamo Bianca. E non ti voglio intorno, va bene? Voglio stare da sola!”

Poi volerlo finché te pare, ma sola nun lo sei! E se stai male te, stanno male anche tutti quelli che te vojono bene!”

Be', mi dispiace, ma non so come fare a non stare male! Non so come fare!”

Quando quell'urlo mi uscì dalla gola rimasi come paralizzata, completamente prosciugata dell'energia che mi aveva tenuta in piedi fino ad ora. Forse approfittò di quel momento, o forse mi aveva vista particolarmente fragile e gli avevo ispirato tenerezza: in ogni caso, con più gentilezza di quanta ce ne fosse nella sua voce poco prima, Martino mi prese per il polso e mi attirò al suo petto, stringendomi così forte che non avei potuto allontanarmi nemmeno se avessi voluto. Respirai forte nella sua camicia, il suo profumo familiare mi invase le narici. Lentamente, quel battito costante nella mia testa si diradò. Le mani si alzarono d'istinto, aggrappandosi alla sua schiena come se si trattasse della mia ultima certezza.

Non potevo permettermi di lasciarmi andare a quel modo.

Prima di morire, mia nonna aveva detto che l'amore è quello che è: una scelta. Se era così, io sceglievo di vivere senza amore. Sceglievo di non andare incontro al destino dei miei genitori – presa com'ero dal mio lutto, non mi ero nemmeno accorta che durante il funerale mia madre teneva la mano di mio padre, né che i letti una volta separati erano stati riuniti negli ultimi giorni. Ecco come dovrebbe funzionare: di solito la morte avvicina le persone, le fa stringere tra loro per non crollare sotto il peso della mancanza. Solo per me sembrava essere l'esatto contrario. Io volevo allontanare tutti, soprattutto le persone più pericolosamente vicine ai brandelli del mio cuore. Soprattutto lui.

Dobbiamo chiuderla qui, Martino.”

Lo mormorai contro la sua spalla. Mi chiesi se avesse sentito. Passarono un paio di secondi di completo silenzio. La sua stretta si allentò solo un poco.

Nun è 'na cosa da discute adesso, Bià.”

Lo è invece.”

C'hai pensato bene allora.” Prese le distanze, spingendomi lontano dal suo corpo, ma senza lasciarmi le spalle. Non ebbi il coraggio di incontrare i suoi occhi.

Sì.”

E quer medico” sibilò con furore a malapena trattenuto “c'entra quarcosa?”

Scossi la testa. “Non c'è niente tra me e Tancredi. Ma ho bisogno di stare da sola adesso. Di pensare solo alla mia vita e alla mia famiglia.” Osservai il suo volto, e mi resi conto che non mi avrebbe lasciata andare fino a che non gli avessi fatto davvero del male. “In ogni caso, tra me e te non è mai stata una cosa seria...no?”

Dopo tutto, non ci eravamo mai scambiati promesse, né parole d'amore. Eppure, mentre quella frase lasciava le mie labbra, mi accorsi che trattenevo il fiato. Non volevo che confermasse. Volevo che la smentisse.

Ma era troppo tardi per tornare indietro. L'abbraccio di Martino si sciolse.

“Già. Nun è 'na cosa seria.”

Lo disse in tono basso e roco, con uno sguardo ferito che ancora oggi non riesco a dimenticare. Non importava, comunque, perché qualsiasi cosa ci fosse stata tra noi doveva morire quel giorno.

Quale bene aveva fatto l'amore, a mio padre? Quale a mia madre, o a nonna Maria? Li aveva resi più fragili, più soli, più disperati. Io stessa, frutto supremo dell'amore dei miei genitori, ero per loro il più grande punto debole. No, io sarei stata una guerriera più saggia, migliore. Non avrei avuto legami. Sarei stata libera, sì...libera di agire nell'ombra, per servire la luce.

“Se serve a fatte sta' mejo, Bià...posso andarmene pe' quarche mese.”

“No...non te lo chiederei mai. E non ce n'è bisogno.”

“A me basta che stai bene. Dico sur serio. Nun te vojo più vedè così.” I suoi occhi si abbassarono. Prese un profondo respiro, e prima di indietreggiare di un passo mi lasciò un bacio leggero sulla fronte. Tentò un sorriso, che non gli riuscì molto bene. “Ciao, Biancarè.”

Senza guardarmi in viso, si incamminò di nuovo verso la Villa.

Mi strinsi le braccia intorno al corpo per impedirmi di sentire freddo, e ignorare il dolore che mi toglieva il fiato. Mi ripetei che era un passo necessario, per poter costruire una me stessa migliore.

La verità, è che ho sempre dato Martino per scontato. La sua attenzione, la sua presenza, e in un certo senso anche la sua ammirazione per me. Anche adesso, pur avendo troncato la nostra storia, ero sicura che l'avrei incrociato ogni giorno durante i pasti e gli addestramenti. Avrei sentito la sua allegra parlata romana riempire le sale della Villa, e avrei potuto contare su di lui in missione. Lo allontanavo, ma ero certa di poterlo osservare a distanza, per non escluderlo del tutto dalla mia vita. Da brava egoista, pensavo di aver compiuto la mossa perfetta, e non consideravo i sentimenti dell'altra parte in causa.

Per questo, la notizia mi colse totalmente impreparata, quando mio padre annunciò che l'avrebbe inviato in missione in Francia.

 

L'obiettivo era Nemours, poco sotto Parigi. Poi si sarebbe recato nella capitale stessa. L'Ordine locale, che aveva il suo centro in un luogo chiamato “Corte dei Miracoli”, avrebbe permesso a Martino di raggiungere le alte sfere e ricavare informazioni su una prossima espansione del dominio francese in Italia. Gli animi erano agitati: al di là dei nostri drammi personali, il Papa e i suoi alleati francesi pianificavano una grande coalizione contro la Repubblica di Venezia. In realtà, Ezio temeva che si trattasse di una guerra per ottenere la Mela e il Serpente, e piegare ciò che restava dei Templari Ribelli di Lucrezia...e, possibilmente, eradicare per sempre la Fratellanza degli Assassini dalla penisola. Giulio II, che i più indicavano come “il papa guerriero”, ha sempre puntato molto in alto.

Sembrava che la rapida ascesa di un nipote di Luigi XII, tale Gaston de Foix-Nemours, stesse preoccupando i nostri alleati d'oltralpe. Probabilmente quel giovane duca – appresi con sconcerto che aveva la mia stessa età – sarebbe stato il comandante designato della nuova spedizione in Italia. Da anni la cellula dell'ordine francese tentava di entrare nella sua cerchia. Se avesse lavorato bene, insieme al suo capo Briac Leroux – conosciuto come Le Rouge – anche Martino avrebbe potuto entrare nel suo seguito e fornirci importanti informazioni.

Era pericoloso, impossibile e insensato. Martino non era la persona più adatta per correre un tale rischio. Sapeva a malapena l'italiano, figurarsi il francese! La copertura era impensabile, l'avrebbero scoperto in poco tempo e sarebbe finito male. Nella riunione comune in cui nostro padre ci annunciava quella partenza, tirai fuori quelle proteste una per una. Martino tollerò in silenzio quelli che, se non fossero stati dettati dall'ansia, sarebbero apparsi come veri insulti. Mio padre rispose, calmissimo, che Le Rouge si sarebbe preso cura di lui.

“I bersagli principali di Le Rouge sono i condottieri più esperti di cui la corona francese dispone. Molti combatterono in Italia tre anni fa. ” Ezio rivolse a Martino uno sguardo significativo, invitandolo a spiegare. Con apparente calma, il mio confratello disse: “Potrebbe essece anche l'omo ch'ha rapito mi' madre.”

Adesso capivo il senso di quella partenza. Non ero solo io la causa, dunque. Questo mi sollevava, ma non dissolveva per nulla la mia ansia. Poi, mi dissi che non avevo alcun diritto di provarne. Avevo fatto una scelta; Martino aveva fatto la sua. Potevo soltanto augurargli di ritrovare finalmente sua madre, o vendicarla se fosse stato necessario. In quel momento, comunque, io non sarei stata al suo fianco.

La sola idea mi faceva male.

 

Venne il giorno della partenza, ed io non mi feci vedere quando i cavalli lasciarono le mura. Nicola, Ugo e Agamennone avrebbero accompagnato Martino fino al confine con il Ducato di Milano, dove altri Confratelli l'avrebbero preso in consegna e scortato oltre le Alpi. Da codarda quale ero, non mi presentai a salutarli. Non ce l'avrei fatta.

Rimasi invece seduta sul davanzale della finestra della mia stanza, spingendo lo sguardo fin dove poteva arrivare, a quelle macchie di colore piccolissime che erano mio zio e i miei compagni. Vidi l'abbraccio affettuoso che mio padre riservò a Martino, e immaginai cosa potesse avergli detto. Sicuramente, gli aveva augurato ogni bene. Forse, gli aveva raccomandato di tornare sano e salvo.

Poggiai la testa al vetro, formando un alone con il mio respiro.

Sarebbe tornato mai? Dopo tutto, niente lo legava a Monteriggioni. Forse avevo sprecato l'ultima occasione di salutarlo.

“Hai fatto la più grande stronzata che potessi fare. Lo sai, vero?”

Continuavo a seguire la sagoma della piccola carovana con lo sguardo. La fronte poggiata al vetro fresco mi dava piccole scosse di un dolore acuto. Nemmeno l'inusuale sfoggio di turpiloquio da parte di Veronica riuscì a distogliermi da quella sensazione ipnotica.

“Non è mai stata una cosa seria” ripetei, in un soffio. Il freddo sembrava risalirmi dai pori fin dentro il cervello. Che strano. Era piena estate.

“Ah, già! Deve essere per questo che nell'ultimo anno siete stati inseparabili. E' il primo sintomo di un rapporto poco serio.”

Battei le palpebre, continuando a guardare oltre il vetro. Ormai la carovana era lontana, avevano oltrepassato le mura. Quante settimane ci avrebbero messo per arrivare a Parigi? Attraversare le Alpi non sarebbe stato uno scherzo, nemmeno ora che il clima era soleggiato e mite. Avrebbero potuto trovare il fango, forse perfino il ghiaccio sui passi ad alta quota.

Avvertii lo sguardo di Veronica su di me, per un po'. Poi, lei disse: “Siete due idioti. Lui che parte e tu che non lo fermi.”

“Non vuole essere fermato.”

“Cosa ne sai? Ci hai provato?”

Fu allora che mi staccai dal vetro. Le rivolsi uno sguardo che bruciava di tutte le lacrime che non avrei pianto.

“Non voglio provarci! Perché Martino mi rende debole...ed io non voglio essere debole! Mai più!”

“Bianca...”

“E smettila di giudicare me...quando tu fai esattamente lo stesso! Perché non ti alzi e non vai da Agamennone, adesso? Perché non gli dici tutto? Sei così brava, Veronica! Fammi vedere come gestisci il tuo, di cuore!”

Il suo volto era diventato una maschera di freddezza. “Mi chiedi perché?” Inspirò, espirò. “E' semplice. Ti sei mai chiesta cosa accadrebbe se le stelle avessero predetto la verità? Se Agamennone avesse davvero pochi anni da vivere?”

Battei le palpebre. Una volta, due volte. Quella era un'eventualità che non volevo considerare.

Veronica si alzò, mi raggiunse. Mi prese per le spalle con ferma gentilezza.

“Lo vedi, Bianca...a volte il cuore non ce la fa al pensiero che potrebbe dover reggere un altro dolore, se corre il rischio di mettersi in gioco. La differenza tra me e te è tutta qui: tu la chiami forza, io so che è debolezza. Se tu fossi davvero forte, correresti dietro a quei cavalli e chiederesti a Martino di non partire, perché diciamocelo, lui è la cosa migliore che ti sia capitata fino ad ora. Lo sai anche tu che non è mai stato un gioco tra di voi.”

Rimasi a fissarla senza parlare. Aveva ragione: non era mai stato un gioco. E proprio per questo avevo dovuto rinunciare a lui. Quanto al fatto che la mia fosse solo debolezza...no, in quel momento non riuscivo ad accettarlo.

Se soltanto avessi avuto un carattere più onesto, avrei avuto tempo per elaborare le parole di Veronica e capire che stava dicendo la sacrosanta verità. Molto, molto tempo...perché non rividi Martino per i successivi tre anni.


Note

1Solitamente non sento il bisogno di precisarlo, ma in questo caso faccio una piccola postilla: è un errore voluto, “impara” sta per “insegna”. Ho notato che nella parlata romanesca il primo verbo viene usato spessissimo al posto del secondo.


Note di Runa
Ecco qua. Non so voi, io ho avuto bisogno di fazzoletti non solo per scriverlo ma anche per rileggerlo. Purtroppo, tutti questi eventi tristi erano necessari per passare alla prossima fase di Bianca come il Peccato...
So che la reazione di Bianca alla morte della nonna non è delle più sagge, così come non lo è la sua decisione di rinunciare all'amore. Ma è Bianca. E' come lei reagirebbe, serrandosi in se stessa per paura di non reggere al dolore. Due colpi del genere a distanza così ravvicinata sarebbero abbastanza per far crollare chiunque, credo. A questa crisi profonda seguirà un periodo di ricostruzione per la Bianca assassina, e di caduta per la Bianca-essere umano. La nostra Biancarella dovrà arrivare a toccare il fondo prima di poter risalire.
La spensieratezza per i Fratelli di Lama è finita. Dal prossimo capitolo, inizia il periodo di vero apprendistato per poter essere iniziati. Inizia il loro percorso di Assassini, in diverse città, sotto diversi maestri...ma i loro destini convergeranno di nuovo, di lì a pochi anni, in una Milano invasa dai francesi. Chiuderanno tutti i conti che hanno lasciato in sospeso...affronteremo il rapitore della madre di Martino, Ercole Strozzi che ha violentato Veronica, Ermes Bentivoglio che ha sterminato la famiglia di Agamennone e massacrato il padre di Nicola. Vedremo se la profezia che ha stabilito la morte di Agamennone all'11 Aprile 1512 ha un qualche fondamento. Ultima, ma non per importanza, arriverà la resa dei conti con Giovanni Antonio Auditore.
Stay tuned :)

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Capitolo 30
*** Predatori e prede ***


Quei tre anni che seguirono l'infausto 1507 ne portarono molti, di cambiamenti. Il più significativo fu che gli allievi di Monteriggioni si dispersero.

Convinto del suo fallimento nel cercare di strutturare il suo nucleo personale della Fratellanza come una famiglia, Ezio aveva deciso di inviarci sotto altri Maestri, perché la nostra scalata ai gradi dell'Ordine potesse farsi più rapida, e la nostra esperienza crescere esponenzialmente.

Dopo Martino, il secondo ad allontanarsi dalla nostra ristretta cerchia fu Nicola. La sua bravura l'aveva condotto così velocemente al grado di Veterano che per essere iniziato gli mancava molto poco: quel poco l'avrebbe imparato sotto la guida della Volpe, a Firenze. Mantenni con lui una corrispondenza regolare e fitta, da cui ottenni diffusissime informazioni su quella che per breve tempo era stata anche la mia Maestra. Nicola raccontava di come Diamante fosse passata dal comando dei Ladri fiorentini alla gestione di tutto il nucleo operativo della Fratellanza presente in città. Da ciò che Nicola diceva di lei, la donna ruvida e sarcastica che avevo conosciuto non era cambiata poi molto. Venni a sapere, tra le altre cose, che stava addestrando duramente suo figlio – figlio? Diamante aveva un figlio? Non ne avevo la più pallida idea – perché potesse presto sostituirla alla guida dei Ladri e diventare la prossima Volpe. Nicola non era sicuro che fosse una buona scelta, visto che il giovane Oreste aveva appena tredici anni. Tuttavia, io giudicai che, ancora una volta, Diamante si fosse rivelata più avveduta di mio padre. Se Ezio avesse fatto capire prima a me e a mio fratello la portata del conflitto in cui eravamo coinvolti, forse non ci saremmo lasciati rapire dagli inviati dei Borgia. E se quell'evento non fosse accaduto – io ne sono ancora convinta – Vanni sarebbe rimasto tra noi.

Dopo avermi chiesto di me e di tutti gli altri, Nicola infilava tra le righe qualche notizia che riceveva da Martino, dalla Francia. Io fingevo di ignorarle, e nelle mie risposte parlavo di tutt'altro. Eppure, puntualmente, il mio amico mi riproponeva qualunque aggiornamento che non riguardasse segreti dell'Ordine: Martino stava imparando il francese, Martino aveva conquistato rapidamente la fiducia di Le Rouge, Martino era stato notato per la sua abilità con gli esplosivi e aveva iniziato a fabbricare polvere da sparo per colubrine e archibugi. Ogni volta mi riproponevo di chiedergli di smetterla, perché quel comportamento non mi avrebbe aiutato a dimenticare. Per qualche motivo, non glielo scrissi mai.

Il terzo a partire fu Agamennone, che venne assegnato al Ducato di Milano, governato dal francese Charles d'Amboise. Pur essendo un buon condottiero e un fedelissimo del re di Francia, l'Amboise – al contrario delle convinzioni di Veronica sul fatto che tutti i comandanti europei fossero schierati – era un uomo neutrale, che non sapeva nulla del conflitto tra Assassini e Templari. Tuttavia, il suo vecchio amico e capitano di ventura Alain D'Arcy1 era un Maestro dell'Ordine: sotto la sua guida, Agamennone avrebbe intrapreso la strada del soldato. Un soldato in pace – per i primi tempi, almeno. Non volevo immaginare cosa gli sarebbe potuto accadere in un conflitto aperto. A volte, la profezia delle stelle era quasi confortante: se sentivo di una battaglia che stava per combattersi nei pressi di Milano, in cui la Compagnia della Stella2 era coinvolta, prendevo un respiro e pensavo che il 1512 non era ancora giunto. Un atteggiamento piuttosto stupido da parte di chi non voleva credere in quella profezia, lo riconosco. Alle volte, ci aggrappiamo anche alle idiozie pur di non torturarci l'anima per la paura.

Veronica e Agamennone non si erano ancora confessati i reciproci sentimenti. Che fossero reciproci, ormai era palese perfino ai miei occhi: c'erano tanti piccoli gesti di premura tra loro, tanti sguardi di intesa profonda e di tenera preoccupazione, che era impossibile fraintenderli. Eppure, terrorizzati dalla paura, dalla profezia e dalle rispettive cicatrici, quei due sciocchi restavano fermi sul confine senza mai varcarlo.

Non che io avessi qualche diritto di criticarli, comunque. E' che, per loro...speravo in un finale diverso, ecco.

L'addio tra loro fu quanto di più peculiare io abbia mai visto.

Mentre io avevo gettato le braccia al collo di Agamennone e rivolto al mio amico mille raccomandazioni da sorella maggiore, facendomi promettere che si sarebbe tenuto lontano dai guai, Veronica stava ferma, in piedi davanti a lui, stringendosi le mani tra loro. Ora lo abbraccia, mi dicevo. Ora gli prende almeno la mano, gli dice qualcosa.

Invece niente. Un lunghissimo sguardo, sorrisi appena accennati per nascondere la tristezza.

“Fai buon viaggio.”

“Anche tu. Scrivete quando arriverete a Mantova.”

“Arriverai prima tu a Milano, non credi?”

“Sì, hai ragione.”

“Non darmi sempre ragione. Mi fa sentire stupida.”

“Scusa, hai ragione.” Un sorriso. “Scusa, ancora.”

Anche le labbra di Veronica si distesero. “Vai” mormorò con sommessa dolcezza. “Il Mentore ti sta aspettando.”

Un ultimo sguardo, un cenno con la mano, e anche Agamennone se n'era andato. Accarezzai l'onice nera che ancora portavo al collo, pregandola di proteggerlo e proteggere tutti noi.

Quindi, una volta che il nostro amico fu ad una ragionevole distanza, bisbigliai all'angolo della bocca:

“Sei una cretina, Veronica.”

Lei non si scompose, continuando a guardare il cavallo di Agamennone che si allontanava.

C'est bien à toi de le dire3.”

“Che hai detto?”

“Non importa, è francese. Puoi chiedere a Nicola se Martino è disposto a tradurlo per te.”

Strinsi gli occhi a due fessure. “Ti odio.”

“Io di più.”

Veronica ed io ci guardammo in cagnesco per qualche istante, per poi scioglierci in una breve risata liberatoria. Il nostro gioco di detestarci non stava più in piedi ormai.

Le strinsi la mano. “Mantova e Milano non sono poi così distanti. Verrà a trovarci.”

“Spero che non lo mettano nella fanteria. Nel corpo a corpo non è a suo agio, è con l'arco che dà il suo meglio.”

“Gli troveranno un posto come tiratore, vedrai.”

“Sì, lo credo anche io. Noteranno il suo talento e lo terranno nelle retrovie, tra gli arcieri.”

Non era una speranza con molto fondamento: le compagnie di ventura, nel continente, contavano per lo più fanti e lancieri; dell'arco si faceva scarno uso. Tuttavia, avevo bisogno di crederci anche io, adesso; quindi, appoggiai questa conclusione, e mi concentrai sui preparativi della nostra partenza.

Veronica ed io eravamo destinate alla corte mantovana di Isabella d'Este Gonzaga. Ricordo la breve visita della marchesana, qualche mese prima: ancora una volta in incognito, la mecenate di mio padre mi aveva guardata a lungo, seduta nel suo scranno dentro il Laboratorio. Non potei fare a meno di pensare a una Regina in trono.

Le uniche parole che mi aveva rivolto, erano state: “State facendo ricrescere i capelli. Meglio: non avrei voluto sprecare tempo e denaro in ridicole parrucche.”

Saremmo state confuse tra le sue dame di compagnia. Il pensiero, lo confesso, mi fece tremare nel profondo. Ero già stata una dama di compagnia. E un ostaggio. E una merce di scambio. E la puttana privata di un nobile signore.

Eppure, sussurrava una piccola parte di me: perché no. Ero sopravvissuta in una corte nemica, quindi in un ambiente di alleati avrei potuto muovermi con una certa disinvoltura. Ero stata capace di sedurre Cesare Borgia, non sarebbe stato difficile adottare quel contegno un po' altero e intrigante che spesso le dame di una grande signora mostrano per ingraziarsi ambasciatori stranieri e cortigiani in nome della loro padrona. Si trattava solo di finzione. Avrei fatto del mio cuore un pezzo di carne morta chiuso a chiave in uno scrigno d'acciaio4. Nessuno poteva più ferirmi, adesso. Nessuno poteva più sfiorarmi.

 

Vi chiederete cosa avesse deciso di fare mio padre, alla partenza di tutti i suoi allievi. Lui andò a Roma, cominciando ad operare da vero Mentore, su scala molto più grande di quanto non avesse fatto fino ad ora. Riassestò la confraternita di laggiù, che dalla caduta dei Borgia si era molto dispersa. Portò con sé Ugo. Zia Claudia restò sola, in una Monteriggioni troppo vuota, a crescere Lisabetta e ad attendere il loro ritorno.

L'allontanamento tra mia madre e mio padre non era cessato, purtroppo, con la morte di nonna Maria. Tra di loro c'era stata una breve tregua, un tentativo prolungato di rattoppare lo strappo. Di fatto, però, le missioni di Rosa avevano sempre un'altra destinazione rispetto a quelle di Ezio. Ciò che sospetto, fu che mia madre cercasse notizie di Vanni. Non si era rassegnata mai all'idea che il piccolo Giuda ci avesse lasciati per sempre. Non riuscivo a biasimarla. Anche io mi chiedevo continuamente dove fosse adesso, e sotto quale precettore stesse apprendendo i segreti per distruggere tutto ciò che nostro padre aveva costruito in quegli anni. Forse, in quell'esatto momento si stava addestrando per ucciderci tutti.

 

Quanto a me e Veronica; il Palazzo Ducale di Mantova ci avrebbe accolto in una giornata di fine autunno. Eravamo entrambe vestite da viaggio, con le nostre tenute da allieve assassine. Avremmo cambiato gli abiti poco prima di arrivare a Mantova, perché la Marchesana non approvava quelle casacche così grezze. Ci saremmo dovute presentare come vere dame al suo cospetto.

Il commiato da casa fu più asciutto di quanto avessi creduto. Avevo già salutato mia madre e mio padre, partiti per le loro missioni divergenti più di una settimana prima. Zio Ugo aveva raggiunto mio padre due giorni prima. C'erano soltanto zia Claudia e Lisabetta a dirci addio.

La piccolina mi si aggrappò alle vesti: la sollevai, stringendola tra le braccia per lunghi minuti.

“Tanto lo so che tornate tutti, alla fine” mormorò lei, in tono lamentoso, sulla mia spalla. “Monteriggioni è la nostra casa, me l'ha detto papà. Non importa dove andate per il mondo, tornerete tutti qui, sempre.”

“Lo zio è molto saggio” dissi, accarezzandole i capelli. Prima di passarla a Veronica, le stampai due grossi baci sulle guance. “Torneremo presto. Tu scrivimi, Lisabetta. Non sempre potrò risponderti, ma ti prometto che leggerò tutte le tue lettere. Siamo intesi?”

La mia cuginetta annuì, trattenendo i lacrimoni che le brillavano negli occhi scuri. A otto anni, era già una ragazzina coraggiosa, con il sangue degli Auditore nelle vene.

Zia Claudia aveva tutta l'intenzione di rendere il saluto più veloce e meno commovente possibile, e si mise a parlare dettagliatamente della strada che avremmo dovuto percorrere, raccomandandosi in particolar modo di fermarci fuori da Porta San Miniato a Firenze, perché la nostra scorta fino a Mantova ci aspettava lì. In quel fiume di parole, la sorpresi, attirandola a me e stringendola forte.

Fu un gesto che stupì anche me. Credo di aver pensato che non volevo salutarla così asetticamente. Non sapevo quando ci saremmo riviste. O se ci saremmo riviste del tutto. Ero solo agli albori del mio percorso nel Credo, eppure già iniziavo ad intuire che ogni missione, dopo tutto, poteva essere l'ultima. Bologna me l'aveva insegnato bene.

La zia esitò, prima di ricambiare la mia stretta.

“Eri così piccola e scarmigliata quando sei arrivata...” mormorò tra i miei capelli, accarezzandomi la schiena. “Spero che il tuo angelo continui a vegliarti, perché sa Dio se sei ancora la stessa scavezzacollo di allora.”

Sorrisi. “Ho imparato un paio di cose nel frattempo, zia.”

Lei si divise da me, e studiò il mio viso con gravità. “E' vero. Forse anche di più di quante avrei voluto. Che Dio ti preservi.” Si morse il labbro, prese un respiro tremante per ricacciare indietro le lacrime e ci spinse verso i cavalli. Zia Claudia odiava piangere di fronte agli altri, e soprattutto in presenza di Lisabetta.

 

Veronica ed io non parlammo molto, fino a Firenze. Scrutavamo il cielo: le nuvole color acciaio promettevano una di quelle piogge che ti stiletta la pelle di gocce gelide. Fortunatamente, il tempo resse fino a che non raggiungemmo la nostra destinazione. Lì, secondo le istruzioni della zia, avremmo lasciato i cavalli ad una stazione di posta e incontrato la nostra scorta.

“Sembra passata una vita dalla nostra prima missione qui” commentò sottovoce Veronica, mentre sedevamo su una panchina in attesa che il nostro contatto si manifestasse.

“La vita di qualcun altro, già” commentai a mia volta. Rievocai l'impressione meravigliata che avevo avuto la prima volta nel varcare quelle strade. Ora Firenze non era più il tempio della storia di mio padre, ma un archivio di ricordi solo miei. La Tomba di Gemma Donati, Santa Croce, il carteggio di Dante, Elena Bucelli...e, soprattutto, le mie prime vittime. Il mio primo successo.

Quei ricordi avrebbero dovuto darmi forza. Invece, per qualche motivo era come se irrobustissero la mia insicurezza. Non riuscivo a capire perché, all'epoca. Mi sembravano quasi capitoli di una storia vissuta da qualcun altro.

Mentre ero immersa in quelle riflessioni, vidi una testa nera sfrecciare via, e girare bruscamente un angolo. Quasi in contemporanea, portai la mano alla cintura, dove il peso della scarsella con il denaro si era fatto improvvisamente inesistente.

“Piccolo figlio di...” imprecai tra i denti, alzandomi di scatto per seguire il ladruncolo. Veronica mi chiese cosa fosse successo, ma io ero già passata oltre: non le restò che seguirmi, cercando di tenere il mio passo più veloce in corsa.

Eccolo lì, il piccolo demonio. Era rapido, ma io lo ero altrettanto. Lo vidi arrampicarsi agilmente su alcune casse accatastate, issarsi sulle tegole di un tetto e continuare la sua corsa. Non esitai nemmeno un momento, prima di seguirlo.

Dannazione, e ora dove se n'era andato? Le ombre dei camini si proiettavano lunghe sulle tegole. Mi spostai silenziosamente, temendo la presenza di guardie che in realtà sembravano non esserci affatto.

Fu lui a decidere di sbucare fuori. Mi attendeva dietro ad una torretta di osservazione: si era fermato a gambe divaricate, con un'espressione grave sul volto brunito. I capelli nerissimi gli cadevano su parte del volto, nascondendogli un occhio. Aveva la mia bisaccia nel palmo della mano.

“Ridammela e ti lascio tornare a giocare con le bambole” dissi, un po' indispettita per essermi lasciata mettere nel sacco da un ragazzetto che, evidentemente, voleva soltanto giocarmi un dispetto. Lui mi tese la bisaccia; la ripresi, assicurandola di nuovo in cintura. Se avessi avuto l'occhio del Maestro, avrei facilmente intuito le potenzialità di quel bambino; tuttavia, ero ancora un'allieva io stessa, e per di più un'allieva che era stata appena battuta da un pivello tanto più giovane di lei. Riuscivo soltanto a vedere il mio scorno.

“Scusatemi, madamigella Auditore. Ho solo eseguito un compito.”

La mano corse istintivamente ai pugnali da lancio. Mi guardai intorno, per capire se qualche nemico mi stesse spiando. Veronica ci aveva appena raggiunti in quel momento. Anche lei mise mano agli stiletti.

“Chi ti manda?”

“Rilassatevi, sorelline. Siete tra amici.”

La voce che ci sorprese alle spalle era calda e piena di affetto. Un cappuccio bianco emerse dall'ombra di un camino; sotto l'orlo arrotondato della stoffa, riconobbi a malapena un amplissimo sorriso, circondato da ciocche di capelli più lunghi di quelli che ero abituata a vedere, tre mesi prima.

“Accidenti a te, Nicola” mugugnò Veronica, riponendo gli stiletti. “Mi hai fatto fare la fatica di arrampicarmi fin quassù per niente! Non potevi raggiungerci laggiù?”

Solo allora il nostro amico sollevò lo sguardo. I suoi occhi grigi erano divertiti. “Non lamentarti, Veronica. Allenarti sui tuoi punti deboli può soltanto portarti vantaggio.”

Nel frattempo, il piccolo ladro si era inchinato di fronte al nostro compagno. Lo guardava con aria di enorme ammirazione, come io da piccola osservavo Zio Mario, Bartolomeo e tutti gli appartenenti all'Ordine. L'irritazione nei suoi riguardi iniziò a svanire, lasciando il posto a un senso di solidarietà: anche io ero stata un'apprendista smaniosa di ricevere l'approvazione dei grandi.

“Ho fatto bene, Maestro?” chiese il ragazzetto, con grande sussiego. Nicola calò la mano a scompigliargli i capelli neri.

“Molto bene, bravo.” Ci sorrise apertamente. “Scusate se ho approfittato di voi, ma potersi allenare con assassini che non lo conoscono personalmente è qualcosa di raro per Oreste.”

“Poteva mettersi nei guai” obiettai, ancora un po' risentita per essermi fatta gabbare tanto facilmente. “E' stato fortunato che non ho messo mano ai pugnali.”

Nicola non prese sul serio la mia affermazione. “Ti conosco abbastanza da sapere che non avresti colpito un ragazzino alle spalle, Bianca.”

Ahimè, aveva ragione.

Solo allora, li notai. Gli incredibili occhi viola del piccolo Oreste, che mi fecero finalmente ricollegare il suo nome al ragazzo di cui Nicola mi aveva parlato per lettera. Era il figlio della Volpe, il suo erede designato. Mi domandai perché non l'avessi incontrato due anni prima, durante la mia missione in quella città.

“Ci scorterai tu a Mantova?” stava già domandando Veronica. Il nostro amico si strinse nelle spalle.

“No, purtroppo. Diamante mi ha assegnato alcuni incarichi che devo portare a termine in città...” Sorrise. Pensai che lo aveva fatto più spesso in quei cinque minuti di quanto facesse in un mese a Monteriggioni. “Ma credo che non avrete niente da obiettare quando scoprirete chi sarà la vostra guida.”

 

La vecchia bottega nel distretto di San Giovanni non era cambiata, così come gli occhi pieni di vita di Leonardo. Mi accolse con un abbraccio affettuoso: ci eravamo rivisti alcune volte durante quegli ultimi mesi, quando era venuto a Monteriggioni per portarci il suo sostegno e aiutare mio padre a venire a capo del mistero del Serpente. Era tornato a Firenze per aiutare i suoi discepoli a mettere avanti le commissioni ricevute, portando con sé un numero impressionante di appunti sul nuovo manufatto dell'Eden, ma nessuna soluzione a riguardo. Naturalmente, avevo raccontato la storia di Zenobia, ma pare che fosse stata catalogata come il racconto fantastico di una donna impazzita per la solitudine. A quel punto, avevo ricordato a mio padre il destino delle sosia di Elena Bucelli, ed era calato su tutti noi un silenzio pensoso. Non eravamo venuti a capo del mistero, in ogni caso.

“Vieni, devo mostrarti una cosa.” Leonardo sembrava davvero emozionato quando mi portò nel laboratorio: riconobbi subito Melzi e Salaì, che durante le lunghe ore di sedute a Firenze mi erano diventati familiari; la ragazza accanto a loro, invece, la incontravo per la prima volta.

Era giovanissima, probabilmente coetanea di Oreste. La sua figura era alta, sottile; i capelli rosso scuro se ne stavano severamente raccolti sulla nuca, e i grandi occhi castani sembravano voler carpire ogni dettaglio del mondo circostante. Leonardo me la presentò come Ilaria da Udine, disse che lo aiutava a tenere in ordine la bottega. Le chiese di portarmi una tela.

La ragazzina si inchinò senza una parola, e sparì oltre la porta. Tornò poco dopo, con una tela non troppo grande arrotolata tra le mani.

“Appoggiala qui, ma fa' piano. Non vogliamo rovinarla prima che Bianca l'abbia vista, vero?”

In maniera quasi febbrile, l'artista dal cappello rosso dispiegò il dipinto sul tavolo.

Era un nudo femminile, immerso in un paesaggio campestre. La donna abbracciava un cigno, sotto lo sguardo incuriosito di due putti. Quella donna era Leda, ed ero io.

Osservai senza parole il modo in cui Leonardo mi aveva ritratta, rendendo la mia nudità in maniera delicata, quasi pudica. Sembrava che Leda – che io mi fondessi nel paesaggio, che mi ricordava gli scorci toscani da me tanto amati. L'ala del cigno le cingeva i glutei, ma perfino quel gesto sembrava protettivo più che ammiccante.

Udii il bofonchiare di Oreste, alle mie spalle. Nicola gli aveva coperto gli occhi con le mani, ma non disdegnava lui stesso di osservare la figura nuda con una certa ammirazione. Perfino Veronica sembrava impressionata. Non nascosi un sorriso colmo di vanità soddisfatta.

“Non credevo che l'avresti finito così presto” mormorai, rivolta all'artista. Conoscevo la sua capricciosità quando si trattava di terminare un'opera. “Leonardo, io...non ho parole. E' stupendo.”

“E' il mio regalo di buona fortuna, per la tua nuova vita a Mantova” replicò lui, circondandomi le spalle con un braccio “Ma devi stare attenta, Bianca. Non dire alla Marchesana che è opera mia, o cercherà di rubartelo per la sua collezione. Dì che viene da un'altra bottega, o ancora meglio, che l'ha dipinto un tuo parente.”

Passai un dito sulla tela, accarezzando le incrostazioni dei colori. Si fondevano in maniera così perfetta...non avrei saputo dire dove iniziava l'uno e finiva l'altro. “Non mi crederà mai. Questo quadro grida il tuo nome.”

“Ti crederà, perché io negherò fino alla morte che si tratti di una mia opera!” ridacchiò Leonardo, strizzandomi un'occhio. “Potrei perfino dire che è una becera copia di un mio lavoro andato perduto.”

Risi anche io, e lo abbracciai forte. Non ero sicura che le parole bastassero per fargli capire quanto avessi apprezzato quel dono, e tutto l'impegno e l'amore che aveva messo per terminarlo: non potevo desiderare un augurio migliore per l'inizio della mia nuova vita.

Dopo aver preso congedo da Nicola ed Oreste, partimmo la mattina successiva, di buon'ora: Veronica, Leonardo, Ilaria ed io. Mi domandai perché la giovane serva ci seguisse, e l'artista, che parve leggermi nel pensiero, disse che avrebbero proseguito entrambi per Milano.

Notai subito lo sguardo di Veronica, acceso da una scintilla. “Incontrerete il capitano D'Arcy?” domandò, con aria fintamente casuale. A me, però, non la raccontava giusta.

“Può darsi”, ribatté Leonardo, ridacchiando da solo su quella battuta di poco sapore. Vidi Ilaria sorridere, più per tenerezza verso il maestro che per vero divertimento.

“Sarei curiosa di vederlo” riprese Veronica, selezionando con cura le parole. “E' un uomo prode?”

“Quando la strategia lo richiede” replicò l'artista, con aria leggera.

“Sapete se nella sua Compagnia vi siano più lancieri o picchieri?”

“Non ne sono certo, ma suppongo lancieri.”

“E' curioso come le compagnie combattano per lo più appiedate, non trovate?” proseguì la mia amica, con lo stesso tono fintamente casuale di poco prima. “L'arco lungo è l'arma vincente degli anglosassoni: quasi cent'anni fa, ad Azincourt, bastarono cinquemila archi a sbaragliarono un esercito di quasi dodicimila cavalieri. Dovrebbero seriamente prenderne in considerazione l'utilizzo anche nel continente.”

“Senza contare che colpire da lontano può essere una garanzia per la vita del soldato” aggiunsi, scoprendo mio malgrado proprio il nervo che Veronica tentava di celare. Lei si morse il labbro, ma non mi guardò.

Concordo, bisognerebbe investire di più nelle armi a lunga gittata” disse Leonardo, dopo un momento di riflessione “Immaginate un grande carro coperto, a forma di testuggine. Avrebbe lungo tutto lo scafo delle bocche da fuoco...colubrine, o spingarde forse. I tiratori si nasconderebbero all'interno, e osserverebbero il campo di battaglia da una torretta...”5 La sua riflessione si stemperò in una risata. “Così sì che i soldati sarebbero protetti a dovere, non credete?”

Chissà perché, l'immagine di Agamennone che guidava uno degli strambi marchingegni appena descritti da Leonardo mi fece sorridere: avere a che fare con uno di essi era qualcosa che senza dubbio avrebbe entusiasmato il mio pazzo amico bolognese.

Con l'approssimarsi della nostra meta, venne il momento di cambiarci con i nostri abiti migliori, e procedere con un'imbarcazione lungo i fitti canali che attraversavano l'Emilia.

Veronica indossava il vestito color bronzo della sera della festa a Monteriggioni, ed io quello azzurro. Lo misi addosso malvolentieri: i ricordi tornarono prepotenti, e ci volle tutta la mia forza di volontà per scacciarli una volta che l'ebbi indossato. Un bacio rubato sui bastioni di Monteriggioni. Una mano che copre la mia, impedendole di tremare. Stirai quella stessa mano, ora coperta di anelli, e terribilmente fredda. Sentivo la mancanza di qualcuno che la stringesse, è vero. D'altra parte, una mano vuota è una mano libera, che può agire senza costrizioni.

Durante tutto il viaggio in barca che ci condusse lungo il Mincio fino alle porte di Mantova, Veronica guardava le campagne lombarde scivolare accanto a noi, senza parlare molto. Indovinai che i suoi pensieri fossero di nuovo da Agamennone, e non volli turbarli. Chiacchierai con Leonardo, e domandai ad Ilaria della sua città. Appresi che il genio fiorentino non la teneva con sé soltanto come inserviente, ma le insegnava a dipingere, come se fosse a tutti gli effetti un'apprendista di bottega. Prima di conoscerlo, era già stata notata dal Botticelli, ed era stato proprio quell'esimio pittore a presentarla al mio amico di famiglia.

Quando finalmente prese a parlare dei colori, del modo giusto di mescerli, della preparazione dei cartoni e della distribuzione di luci ed ombre, il volto osservatore di Ilaria si accese di una vivacità abbagliante, in parte dovuta alla giovane età, in parte ad una passione tanto incontenibile che le tracimava da ogni poro della pelle. La ascoltai, aggrappandomi al tono dolce della sua voce, che si era caricato di un'incredibile forza.

“Sei stata fortunata a poter scegliere questa strada” dissi, sinceramente ammirata. “Molte ragazze di talento non hanno genitori tanto illuminati”.

Lei scosse il capo, come per scrollarsi di dosso qualcosa di fastidioso. Gettò un'occhiata su Leonardo, che si era assopito, cullato dal dolce movimento dell'imbarcazione.

“L'unica cosa che illumina mio padre è il desiderio che io mi sposi” replicò, senza riuscire a evitare di torcere il naso mentre pronunciava quelle parole.

Inclinai il capo per studiare la sua espressione. Nascondeva accenti senz'altro più volitivi di quanto avessi giudicato in un primo momento.

“A quanto pare, non ha poi tanta fretta, visto che sei qui” risposi, strizzandole l'occhio con fare incoraggiante. Lei sospirò; puntellò il gomito sul bordo della barca, e poggiò la guancia sulla mano.

“Solo perché crede che restando con il Maestro io abbia più possibilità di incontrare persone influenti. Il suo più grande desiderio è vedermi sistemata con un marito ricco.” Roteò gli occhi al cielo, con aria lievemente esasperata.

“E tu? Qual è il tuo più grande desiderio?” domandai. Per un po' la osservai, il profilo abbandonato contro la campagna. Tra poco si sarebbe fatto autunno: il giallo secco dell'estate avrebbe lasciato il posto all'acido verde, al bruno, a chiazze occasionali di rosso. Il volto di Ilaria si sposava perfettamente con quello sfondo. Come la Leda con il paesaggio. La giovane allieva di Leonardo sembrava sbalzata fuori lei stessa da un quadro del suo Maestro.

Poi lei volse il viso, per guardarmi dritto negli occhi. In quelle profonde iridi scure capii che, sotto l'apparente timidezza, si celava una pasta che mi piaceva.

“Voglio dipingere, e imparare tutto quello che posso dal Maestro.”

Con un gesto del capo, indicò Leonardo addormentato. Io mi strinsi nelle spalle. “E allora fallo.”

“Non è così semplice.”

“Lo è. E' la tua vita, ed è la tua scelta.”

“Gli altri discepoli...” si riavviò una ciocca di capelli rosso sangue, sfuggita all'acconciatura dopo tutti quei giorni di viaggio. Sembrava nervosa, eppure la sua confessione premeva per uscire. Pensai che fossero trascorsi mesi da quando aveva avuto la possibilità di confrontarsi con un'altra donna su un argomento del genere. Forse, pensando alla convinzione di molte madri rispetto a ciò che fosse opportuno o meno per una brava fanciulla, non l'aveva avuta mai. “Per loro è più facile. Sono uomini. Quello dell'arte è un mondo di uomini. Le donne fanno solo le modelle, o le committenti.”

Le sorrisi. “E questo ti fermerà dallo studiare la pittura?”

Un bagliore deciso e caparbio le illuminò gli occhi.

“Proprio no.”

Risi di cuore. Giovane, lo era di certo: ma sapeva quello che voleva. “Hai già la tua risposta, Ilaria da Udine. Se gli uomini con cui lavori credono che tu valga di meno di loro, sono degli idioti. Dimostra loro ciò che sei, e ti rispetteranno.”

D'istinto, andai a titillare le mie ciocche ricresciute. Avrei dovuto pettinarle meglio, prima di presentarmi dalla Marchesana; per ora, erano malamente sciolte, e mi ombreggiavano le spalle. Veronica aveva promesso – o minacciato? - che le avrebbe sistemate lei, prima di fare il nostro ingresso in città.

“Ti svelerò un segreto. Quattro anni fa, i miei capelli erano molto più lunghi dei tuoi...più lunghi perfino di quanto li porti Veronica.”

Ilaria si sporse un po' verso di me, interessata.

“Perché li avete tagliati?”

“Perché, come te, volevo essere alla pari degli uomini.” Forse era un po' semplicistico spiegarlo a quel modo, ma sentivo di avere qualcosa in comune con quella ragazza. Il desiderio di riuscire, di superare le aspettative di un padre apprensivo. La difficoltà di muoversi in un mondo – TUTTO il mondo – governato solo dagli esseri di sesso maschile.

Fu il suo turno di inclinare un po' il volto per studiarmi meglio. “E perché ora li state facendo ricrescere?”

Ci riflettei qualche istante. Potevo dirle che si trattava solo di copertura, per passare inosservata alla corte di Isabella. La verità, però, era un'altra.

“Non ha funzionato.” continuai a rigirarmi i capelli tra le dita, con aria pensierosa. “Donne e uomini sono diversi, non ha senso negare ciò che sei. Devi solo imparare a combattere con i mezzi che hai.”

Lei annuì, come per assimilare le mie parole.

“I miei mezzi sono i pennelli. Non mieterò molte vittime” sorrise, ammiccandomi con ironia “ma combatterò fino allo stremo, questo è certo.”

Ricambiai il suo sorriso; poi, sprofondai anche io in un inquieto silenzio, accordando i pensieri al movimento ondulatorio della barca.

La vita non è una battaglia? Martino si era sbagliato. E' una lotta senza sosta invece: e non soltanto per Templari e Assassini.

 

Lasciammo Leonardo e Ilaria poco prima di fare il nostro ingresso nel castello di San Giorgio. Mi accomiatai con abbraccio all'uno, ed un caldo augurio all'altra di poter trovare ciò che cercava. Non sapevo che un altro filo rosso si era stretto, e conduceva le mie dita e il mio cuore a quella ragazzina che voleva studiare la pittura. Non sapevo ancora in che modo avrebbe legato il suo destino a quello della mia famiglia, e quanto avrebbe sofferto a causa nostra. La salutai con l'animo leggero, prima di afferrare la mano di Veronica e incamminarmi con lei verso un nuovo destino.

A prenderci in custodia, una volta arrivate al Castello, fu la prima delle dame di Isabella, Violante De' Preti6. Si trattava di una donna di mezz'età, tra i cui capelli castani si intrecciava qualche filo d'argento; aveva un volto sottile e ossuto, piuttosto severo, e sembrava l'incarnazione del perfetto decoro.

La seguimmo nei corridoi del palazzo, ammirando le decorazioni del Mantegna che lo adornavano. Venimmo fatte accomodare poco fuori da quello che, avrei scoperto più tardi, era il famoso Studiolo di Isabella, per cui i migliori artisti della penisola avevano accettato la sfida di dipingere temi mitologici sotto una stessa identica luce, decisa da Isabella stessa a priori.

“La Marchesana vi riceverà a breve” disse madonna Violante, senza guardarci. “Al momento è impegnata in un importante colloquio.”

“Uno dei nostri?” domandai, sussurrando senza nessuna ragione apparente. In realtà, ero intimorita da quel luogo, oppressa da quegli affreschi e da quei corridoi.

Madonna Violante inarcò un sopracciglio.

“Intendo...un Assassino.”

La donna mi rivolse un'occhiata di lieve scherno. “Che insolito termine per designare un ambasciatore. Credo che Messer Jacopo ne sarà deliziato.” Quindi, affiancandosi a me e chinando il capo sul mio orecchio, aggiunse: “Dovrete essere cauta con le parole che userete in questo luogo, madamigella Bianca. Non tutti quelli che vi risiedono sono 'dei nostri'.”
Mi morsi le labbra, cacciando in gola un senso di amarezza. Credevo che aver soggiornato presso la corte di Lucrezia Borgia mi avrebbe reso immune da certi sciocchi errori; forse, in quegli anni mi ero inselvatichita di nuovo, più di quanto avessi immaginato in un primo tempo.

Attendemmo a lungo: se ci eravamo in qualche modo sentite delle ospiti di una certa importanza, quell'attesa servì a ridimensionare le nostre aspettative. La Marchesana Isabella muoveva pezzi su una scacchiera molto più ampia di quel che pensassimo. A Monteriggioni, forse, saremmo potute essere delle Regine; qui, eravamo poco più di semplici pedoni.

Mentre ero immersa in quelle riflessioni cupe, sentii una risata argentina che spezzò il silenzio della mia mente. Dei passi galoppanti risuonarono sui pavimenti dell'anticamera. Scambiai uno sguardo perplesso con Veronica, e lei mi indicò, con un cenno del capo, l'espressione di madonna Violante. L'autocontrollo che trasudava da lei sembrava messo a dura prova da quei suoni rumorosi.

Poi, li vidi sbucare da uno stretto corridoio. Il primo di quella stramba comitiva era un uomo, piccolo di statura, dalla scriminatura dei capelli che andava ritraendosi in un'incipiente calvizie. Era vestito da giullare, e aveva sulle spalle una bimba che non poteva avere più di quattro anni.

La piccola aveva capelli di un biondo cupo, tendenti al castano: la cuffietta era caduta e li lasciava liberi sulla candida camiciola. I suoi piedini erano nudi.

“Colli, cavallo! Colli!” rideva la bimba, aggrappandosi ai capelli restanti dell'uomo. Quello, per tutta risposta, sbuffava, fingeva lievi sgroppate, emetteva nitriti. Insomma, si comportava in tutto e per tutto come un cavallo.

Sentii Veronica soffocare una risata dietro la mano. Per parte mia, ero così stupita da quella bizzarra situazione che nemmeno riuscii a sorriderne.

“Messer Frittella7! Vi sembra un comportamento consono da tenere per i corridoi del palazzo?” lo rimproverò Violante, per poi posare uno sguardo di fuoco sulla balia che li seguiva dappresso, portando in collo un bambino più piccolo e per mano una ragazzina poco più grande della piccola anima selvaggia in spalla al buffone.

“Caterina, mi meraviglio di voi!” esclamò Violante. La balia arrossì.

“Madonna Violante, mi dispiace...è che, la piccola marchesa si diverte così tanto...”

In quella, il buffone posò a terra la bambina con un solo movimento fluido; dopodiché, si produsse in un inchino profondo. “Sono o non sono al servizio del Marchese e della Marchesana?”

“Ed è così che li servite? Dando spettacoli inappropriati nei corridoi?” ribatté Violante. Il buffone sì rialzò, ci rivolse uno sguardo. Mi strizzò l'occhio.

“Decisamente, sì” replicò, senza ombra di imbarazzo. “Sono al comando dei Marchesi, così come dei marchesini. E se la marchesina Ippolita vuole cavalcare, divengo un cavallo. Se vuole volare, divengo ippogrifo. Se vuole nuotare – ma spero che non voglia farlo, perché non ne sono capace – ebbene, io divento delfino, a costo di annegare come Narciso nello specchio d'acqua.”

Il battibecco tra i due proseguì, ma io smisi di ascoltare. La bambina dalle chiome selvagge mi si era parata di fronte, e mi studiava con gli occhi grandi, quasi dilatati. Come lei, i suoi fratelli aggrappati alla balia ci osservavano, per capire se avessero di fronte importanti principesse d'Oltralpe, oppure nuove dame di compagnia della madre.

“Mi chiamo Ippolita Gonzaga” sbottò la bambina di colpo, assumendo un tono molto formale per la sua età. Fece una riverenza, piegandosi sulle gambette paffute. “E voi, chi siete?”

Allora, finalmente, il sorriso mi crepitò sul volto. Replicai con la riverenza più elegante che riuscii a mettere insieme. “Sono Bianca da Monteriggioni, Vostra Grazia, e sono onorata di fare la vostra conoscenza.”

La bimba si illuminò, forse felice che mi fossi rivolta a lei con la deferenza che si riserverebbe ad un adulto di rango. Andò ad afferrare la mano della sorella maggiore, quasi la strappò alla balia per portarla di fronte a me. “Lei è Livia, è più grande di me di due anni. E lui è Ercole”, indicò con un cenno del capo il fratellino “Diventerà un uomo di chiesa, sapete? Però adesso si fa ancora la pipì addosso.”

Trattenendo a stento una risata, replicai: “Sono certa che per quando sarà ordinato cardinale avrà risolto questo increscioso problema.”

Al contrario della loquace sorellina, la piccola Livia Gonzaga non parlava. Tuttavia, avevo la netta impressione di venire giudicata da una mente non meno pronta di quella di Ippolita, e non ero certa che il verdetto finale di quella corte sarebbe stato a mio favore.

Mentre ancora Violante e Frittella duellavano verbalmente, probabilmente più per definire le reciproche posizioni di potere che per avere un vero confronto, la porta dello Studiolo si aprì, lasciando uscire tre uomini.

Avrei scoperto più tardi che quello alto e severo era Pirro Donati, il segretario della Marchesana; lì per lì, però, furono gli altri due ad attirare la mia attenzione. Uno aveva una folta, ben curata barba scura, e acuti occhi bruni; l'altro, alto all'incirca quanto me, aveva capelli di un castano più chiaro, e uno sguardo reso obliquo e sfuggente da un paio di magnetiche iridi azzurre, ingrandite dietro le lenti di un paio di occhialetti a molla8. Mi soffermai a guardare quest'ultimo un po' più del dovuto. O forse fu lui a soffermarsi su di me.

Vedendo che madonna Violante e la balia Caterina si producevano in un profondo inchino, Veronica ed io facemmo altrettanto.

“Le giovani di Monteriggioni sono arrivate, dunque” constatò Pirro Donati, chinando il capo verso di noi. “Messeri, vi trovate al cospetto della famosa madamigella Bianca.”

Da quelle parole, compresi che le due persone che accompagnavano il segretario dovevano appartenere all'Ordine, o esserne alleati. Non mi sfuggì il fatto che non avessero pronunciato il mio cognome.

“La sopravvissuta della Corte dei Veleni” commentò l'uomo con gli occhiali, arricciando un sorriso all'angolo della bocca. “E' un privilegio incontrarvi.”

Si inchinò, e io valutai se dovessi sentirmi offesa dal lieve tono di scherno che leggevo nella sua frase.

“Vorrei poter dire che il privilegio è mio, messere: ma non conosco il vostro nome, né le vostre gesta.”

Lui sembrò divertito. “Che imperdonabile mancanza, me ne scuso. Sono Jacopo d'Atri9, ambasciatore di Mantova presso la corte di Francia. Le mie gesta non sono notevoli, ahimè...non tanto da convincere il mio amico Ludovico a comporre un poema a riguardo” Indicò con un cenno l'uomo accanto a sé. Lui aprì un sorriso cordiale tra la barba scura.

“Ludovico Ariosto, per servirvi.” Accennò ad un inchino. “E' un piacere conoscervi, finalmente. Vostro padre mi ha parlato molto di voi.”

“Conoscete mio padre?” replicai subito, stupita.

Madonna Violante interruppe quel dialogo con uno studiato colpetto di tosse.

“Detesto mettervi fretta, madamigelle: ma la Marchesana non ama che i suoi ospiti la facciano attendere.”

“Naturalmente, questa è solo una delle cose che Madonna Violante detesta!” ridacchiò il buffone Frittella, riprendendo in spalla la piccola Ippolita. “La seconda sono i cavalli; la terza sono le risate; la quarta: le persone divertenti! E con ciò, mi congedo, per non arrecare eccessivo disturbo con la mia ilare presenza.” Quindi, producendosi lui stesso in una scherzosa riverenza che causò un risolino deliziato di Ippolita, tornò a trottare nei corridoi, nitrendo forte. La balia Caterina tentava disperatamente di restare seria, quando lo seguì, trascinando con sé i piccoli Ercole e Livia.

“Madamigelle” disse cortesemente l'Ariosto “Spero che avremo ancora occasione di parlare.”

“Lo spero anche io” replicai, mentre Veronica restava in disparte al mio fianco, lasciandomi il ruolo di prima donna in quella commedia che non mi sentivo in grado di recitare.

Jacopo d'Atri non disse parole di commiato, ma si inchinò profondamente. Mi sentii seguita da quegli occhi indagatori, che rilucevano più forte dietro le lenti. Poi, una volta varcata la soglia, non ebbi più modo di pensare all'atteggiamento irriverente dell'ambasciatore, o al suo amico poeta che diceva di conoscere Ezio. La mia unica preoccupazione divenne l'incontro con Isabella: e, come scoprii più tardi, avevo tutte le ragione per esserne inquietata.

 

La Marchesana ci accolse nella Grotta adiacente allo Studiolo. Si trattava di una stanza dal soffitto a botte, dove era raccolta una buona parte della sua collezione di antichità e opere d'arte. Tra tutte, troneggiavano le figure di due Cupido: più tardi Veronica mi avrebbe spiegato che uno era attribuito a Prassitele – pare che fosse uno scultore greco piuttosto famoso, anche se io non l'avevo mai sentito nominare -, mentre l'altro allo scultore più quotato del momento, tale Michelangelo Buonarroti. Per quel secondo Cupido, Isabella aveva rivoltato mezza Italia; era appartenuto a sua cognata ed era stato saccheggiato dalle armate di Cesare Borgia, ma dopo una lunga contrattazione la Marchesana aveva ottenuto di poterlo tenere per sé. Immaginai la mia povera Leda, che avevo lasciato alle cure di madonna Violante insieme ai miei pochi averi, troneggiare in quelle stanze come un trofeo di guerra. Mi ripromisi che l'avrei difesa dalle brame di quella donna caparbia, ad ogni costo.

Isabella ci attendeva su uno scranno finemente intagliato: si alzò in nostra presenza, ci venne incontro, ci studiò di nuovo come per riportare alla mente i dettagli delle nostre persone. Mi sentii una bestia da macello di fronte a quell'ispezione, e per non soccombere alla sgradevole sensazione la studiai a mia volta. Ricordavo che, quando era giunta a Monteriggioni per pattuire il nostro arrivo a Mantova con mio padre, era ancora gonfia e non del tutto in forze, a causa del recente parto10. Sembrava snellita, e decisamente più energica di come l'avevo vista l'ultima volta. L'abito verde scuro dalla gorgiera ricamata in oro sottolineava la sua figura in maniera austera e regale.

“Avrete dei privilegi, naturalmente” disse, dopo averci riempito di domande piuttosto personali “Stanze vostre, accanto alle mie: le dividerete, quindi mi auguro che andiate d'accordo. E ricordate: siete ufficialmente nipoti di mia sorella Beatrice, che la sua anima riposi in pace. Ciò implica che fingiate di avere sangue Sforza nelle vene, il che vi imparenta direttamente con Il Moro.” Come se seguisse un flusso di pensieri, Isabella disse: “Sapete parlare francese?”

Veronica rispose di sì, ed io di no. La Marchesana mi rivolse un'occhiata di disapprovazione. “Latino?”

“In maniera mediocre” ammisi.

“Suonate qualche strumento, cantate?”

“No, mia signora.”

“Saprete almeno dipingere!”

Scossi il capo, e lei mi guardò con aria di grande riprovazione. “Ci sarà qualcosa che sapete fare, a parte usare le armi.”

“Con tutto il rispetto, mia signora: questo è l'unico mio talento che vi salverà la vita dai vostri nemici.”

Madonna Violante trattenne il respiro, e vedendo quell'atteggiamento anche Veronica mi fissò preoccupata.

Sul volto di Isabella si disegnò, appena visibile, un sorriso.

“Una lingua tagliente. Questo sì, è un talento che vi sarà utile.”

 

***


Non ci fu tempo di ambientarsi, nemmeno di prendere un bagno o cambiarsi d'abito. Consumata una cena leggera nelle nostre stanze, Veronica ed io fummo convocate di nuovo nello studiolo: vi trovammo Iacopo d'Atri, l'ambasciatore, insieme a madonna Violante e al giullare Frittella. Nessuna traccia del poeta ferrarese, Ariosto. Nessun altro, a parte noi sei. I volti dei presenti tremolavano, gravi, alla luce delle candele.

Ci fu fatto cenno di sedere: Veronica ed io ci scambiammo appena uno sguardo. Eravamo al cospetto dei più fedeli alfieri di Isabella, pronte ad ascoltare il resoconto di una situazione che a malapena conoscevamo. Sapevamo entrambe che il nostro compito, in quel frangente, si sarebbe limitato per lo più all'ascoltare.

Come temevamo, amici miei” iniziò Isabella, in un tono basso e vibrante “c'è del vero nei nostri sospetti. Quest'oggi, Ludovico ci ha portato la prova definitiva.”

Con mano ferma, Isabella allungò una lettera al giullare. L'uomo sembrava aver cambiato completamente espressione, tanto che se non fosse stato vestito degli stessi colori stridenti di quel pomeriggio l'avrei scambiato per un'altra persona. Il suo viso, che mi era sembrato in un primo momento elastico e mutevole, era diventato di pietra; le sue rughe sembravano più profonde.

Leggi, Rinaldo. A voce alta.”

Con quelle parole, la Marchesana si diresse verso il focolare, dandoci le spalle.

Solo allora Frittella – o meglio, Rinaldo – iniziò a leggere cocenti parole d'amore, professioni di imperitura devozione, qualche riferimento ammiccante a ore di passione consumate nel segreto di un giardino e un acceso desiderio di rinnovare fantomatici voti pronunciati in un pomeriggio d'estate. Tanto fuoco era destinato a una donna di nome Lucrezia.

I miei nervi si tesero, come sempre quando sentivo nominare la Borgia. Attesi di sapere chi fosse il traditore della corte di Isabella, che sembrava così perso nelle grazie dell'aspirante Gran Maestro templare.

 

Attenderò vostre nuove, dolce signora, sotto il segno propizio delle tre mezze lune.

Vostro servo nell'anima, devoto più di quanto ogni umana parola potrà dire,

Francesco.”


Seguì un pesante silenzio, durante il quale Veronica cercò i miei occhi, e io i suoi. Francesco...Gonzaga? Il Marchese, il marito di Isabella?Non poteva essere. I Gonzaga erano storici alleati degli Assassini. Lo ricordo, era stato proprio il Marchese ad avvisare mio padre della prima calata dei Francesi in Italia, a suggerirgli di spostare la sua famiglia a Monteriggioni, a dare in un certo senso il via alla mia storia...e ora scoprivo che si era venduto ai Templari soltanto per il corpo di Lucrezia.11

Ripensai allo sguardo perso di Vanni alla presenza di quella donna. Al modo in cui si era rivelato succube di lei anche a distanza, incantato da Margherita che le somigliava tanto. Che malìa esercitava Lucrezia Borgia sugli uomini? Dove aveva appreso il segreto per stregarli e annullare la loro volontà?

Ora sappiamo. E' qui che si celava il traditore. In casa mia. Nel mio letto.”

Isabella afferrò un candelabro, lo scagliò con furia sul pavimento. Violante si affrettò ad alzarsi in piedi e raggiungerla, afferrandole la mano che ancora tremava di uno spasmo d'ira.

E' innegabile, ormai, mia signora” confermò Iacopo d'Atri, con una freddezza che stonò alle mie orecchie. “Posso comprendere quanto sia difficile per voi: ma dovete affrontare la realtà con fierezza.”

Gli occhi scuri di Isabella si volsero su Jacopo. “Cosa intendete?”

L'ambasciatore si aggiustò gli occhiali sul naso. “Tutti ricordiamo ciò che ha fatto Caterina Sforza del suo marito Templare.”

Isabella parve esitare. Assassinare il Marchese di Mantova era in effetti un piano ardimentoso, quasi arrogante: ma fattibile. La mia mente poteva concepire perfettamente le conseguenze di quella mossa. Esisteva un erede, per quanto giovane: il piccolo Federico Gonzaga, primogenito di Isabella, sarebbe stato eletto al posto del padre. La madre avrebbe retto lo stato fino a che Federico avesse avuto la giusta età, assicurandosi che scegliesse la parte giusta da appoggiare.

Mogli che uccidono i mariti, i padri dei loro figli, in nome del Credo. Un'altra famiglia spezzata dalla nostra lotta millenaria. Perché no, mi dissi. Fratelli contro fratelli, padri contro figli; era tutto parte delle regole del nostro gioco. Persone che un tempo si amavano diventavano gli uni predatori, e gli altri prede. Perché Isabella d'Este non poteva essere chiamata a quel sacrificio, e pagare il suo tributo di sangue come tutti noi?

No” disse la Marchesana, dopo un lungo silenzio.

Quel diniego mi colse di sorpresa. Dalla donna che molti ritenevano un'implacabile leonessa, mi attendevo una reazione vendicativa e sanguinaria.

Jacopo d'Atri si accigliò, il giullare Rinaldo rimase impassibile. Violante cercò lo sguardo della sua padrona.

Isabella” mormorò, deponendo di colpo ogni formalità “non puoi salvare tuo marito, questa volta. Dio sa se hai cercato di preservarlo dal suo stesso giudizio, in questi anni...hai riparato ai suoi errori, e quando è servito hai governato al suo posto, nell'ombra. Ora però la leggerezza di Francesco è andata troppo oltre.”

La Marchesana non parve stupita né adontata dal fatto che Violante l'avesse chiamata per nome. Questo mi rivelò più cose di lei quante credessi di aver capito durante la mia precedente udienza.

Non posso ucciderlo.”

Non ti ha lasciato altra scelta” incalzò Violante.

Io...non posso! Non lo farò!”

La sua voce uscì come un grido a malapena trattenuto; schioccò nell'aria, mentre la Marchesana prendeva a camminare nervosamente avanti e indietro per la stanza. “Siete i miei consiglieri più fidati. Trovate una soluzione. Tutto, fuorché fare del male a Francesco. E' fuori discussione.”

La soluzione c'è, e sarebbe semplice” intervenne Rinaldo, con lo stesso tono fermo e quieto che aveva usato per leggere la lettera. “Bisogna dargli un avvertimento. Un segno potente e significativo, che gli faccia capire che conosciamo il suo gioco.”

Ma senza esporre direttamente la mia signora alla sua collera” replicò Violante, sfidando il giullare con uno sguardo infinitamente più serio di quello che gli rivolgeva durante le scaramucce di quel pomeriggio. Il piccolo uomo annuì profondamente.

Non è necessario che si sappia che la Marchesana è coinvolta. Sarà sufficiente lasciare un marchio evidente dell'intervento degli Assassini. Lei potrà giocare la parte della sposa spaventata, se lo vorrà.”

Era strano, quasi aberrante. Stavano parlando di una delle donne più influenti d'Europa come se non fosse nemmeno presente nella stanza. Forse, in quel momento Isabella non era davvero tra di noi. Potevo leggere sul suo volto una sorta di straniamento, come se la mente fosse intenta a vagliare ogni scenario, ogni possibile soluzione che evitasse a suo marito la terribile fine che avrebbe meritato.

Dovremmo trovare l'intermediario” disse Jacopo d'Atri, scambiando un cenno d'intesa con Rinaldo. “L'uomo che consente questo scambio segreto di corrispondenza. Purtroppo, su questo Ludovico non ha potuto darci alcun indizio. Se lo avessimo tra le mani, potremmo usarlo come avvertimento per Francesco, per convincerlo ad allontanarsi da Lucrezia Borgia prima che sia troppo tardi.”

Nemmeno un indizio?” domandò Violante “Ne siete certo?”

Jacopo scosse il capo. “Ludovico ha avuto la lettera da una serva di Lucrezia, ma il messaggero è riuscito a passare inosservato.”

Dobbiamo scoprire chi gestisce questa corrispondenza” proseguì Rinaldo “Posso mandare i miei ragazzi a cercare informazioni, ma finché non verrà inviata un'altra lettera da una delle due parti avremo le mani legate, temo...”

Posso avere la missiva?”

Tutti gli occhi si volsero su di me. Compresi quelli di Veronica, sconcertata che avessi avuto la faccia tosta di intromettermi in una situazione di cui avrei dovuto essere solo la spettatrice.

Jacopo mi guardò con un certo interesse. Un sorriso freddo gli si disegnò agli angoli del viso. “A voi, madamigella Auditore. Ma se sperate di trovarvi sopra tracce di cantarella, devo deludervi: non ve n'è nemmeno un briciolo.”

Replicai a quella blanda provocazione con un ghigno di metallo. “Vi ringrazio. Farò a meno dei veleni, per questa volta.”

Immersi lo sguardo nella lettura, consapevole che l'attenzione di Isabella era tutta su di me. Avvertivo la sua curiosità, la sua sottile irritazione; ma, più forte di tutte, avvertivo la speranza. Voleva che io le dessi qualcosa a cui aggrapparsi.

Quel qualcosa, non fui io a darglielo. Fu la lettera stessa.

L'ultima frase prima della chiusura:

Attenderò vostre nuove, dolce signora, sotto il segno propizio delle tre mezze lune...

Ma certo. Certo.

So chi è il vostro intermediario, signora” dissi, e il sangue mi cantava nei polsi mentre poggiavo la lettera sul tavolo. Le tre mezze lune...conoscevo quello stemma, lo avevo visto mille volte alla corte della Borgia. Chiesi carta e penna, e lo disegnai approssimativamente su uno scudo araldico. Una striscia rossa, tagliata da tre mezze lune.

Isabella guardò a lungo il disegno, poi me.

E' lo stemma degli Strozzi.”

Deposi la penna, sostenendo lo sguardo della Marchesana. Vidi una nuova scintilla accendere quegli occhi incredibilmente orgogliosi, e compresi. Le avevo appena dato la scusa che cercava per salvare il suo stupido marito da se stesso.

La posta in gioco era cambiata: non più la vita di Francesco, ma quella di un capro espiatorio al suo posto. Lasciate che vi dica che non avrei potuto essere più intimamente felice del bersaglio che la sorte ci aveva messo davanti. Veronica ed io, finalmente, avremmo giocato la parte dei predatori.

La nostra preda?

Il poeta Ercole Strozzi, lo zoppo.12


 

 

 

1Personaggio inventato. Ebbene sì: essendo anche una fan di Jane Austen, non potevo trattenermi dal farle un piccolo omaggio con il cognome D'Arcy ^_^

2Ho saccheggiato il nome da un paio di compagnie di ventura attive nel secolo precedente. Mi pareva particolarmente adeguata ad Agamennone...anche se per un po' ho accarezzato l'idea di chiamarla “Compagnia di San Giorgio”, in onore del mitico arco di Mennone :)

3Traduzione: “Senti chi parla.” O almeno lo spero, questa l'ho trovata su wordreference.com XD

4Citazione da Dago, dal n.32 della collezione “Tutto Colore”.

5Il progetto del Carro coperto risale al 1485. Un suo disegno è rintracciabile nel foglio 1030 del Codice Arundel; ad Amboise, dove Leonardo si spegnerà nel 1519, ne sono state realizzate delle ricostruzioni in base ai disegni del nostro artista dal berretto rosso.

6Figura storica, fu la balia di Elisabetta Gonzaga (cognata di Isabella e sposa del Duca di Urbino). In Rinascimento Privato, Isabella la definisce spesso “la prima delle mie donne”.

7Il Frittella era, storicamente, il buffone di corte di Isabella d'Este. Nel romanzo Rinascimento Privato è sempre descritto con sulle spalle il piccolo Ercole Gonzaga, fratello minore di Ippolita; tuttavia, vista la rilevanza che volevo dare alla bimba, ho pensato di prendermi questa libertà.

8Prima di conferire a Jacopo d'Atri questo dettaglio degli occhiali, ho spulciato un paio di fonti. Questo accessorio che oggi diamo tanto per scontato esisteva già nel XIII secolo, anche se la sua diffusione avviene circa un secolo dopo la storia di Bianca. Siccome si trattava di un accessorio piuttosto costoso (soltanto i mastri vetrai di Murano erano in grado di produrre il vetro bianco), ho immaginato che l'ambasciatore dei marchesi di Mantova a Parigi potesse permetterselo senza problemi ^_^

9Ho riflettuto a lungo su chi potesse essere, tra gli ambasciatori di Isabella, il personaggio chiave dei prossimi capitoli. La scelta è caduta su Jacopo d'Atri solo per il fatto che era ambasciatore in Francia, e aveva un nome abbastanza accattivante. Purtroppo, nonostante le mie ricerche è rimasto per me solo un nome sulla carta: ho deciso quindi di prendermi diverse libertà sul suo carattere, età, aspetto fisico.

10Ferrante Gonzaga era nato il 27 Gennaio 1507; stando a Rinascimento Privato, il parto per poco non uccise Isabella.

11La tresca epistolare (non si sa se sia mai sfociata in un rapporto fisico o meno) tra Francesco Gonzaga e Lucrezia Borgia è ben documentata a livello storico. Colui che facilitava questo scambio epistolare era qualcuno di nostra conoscenza.

12Già, già. Il “Galeotto” di Francesco Gonzaga e Lucrezia Borgia fu proprio il poeta Ercole Strozzi. Una delle teorie più accreditate sul suo omicidio riguarda il fatto che Alfonso d'Este, marito della Borgia, volesse dare un monito a Francesco attraverso di lui. Da questo ho preso spunto per l'idea di Rinaldo (nome proprio che, tra parentesi, ho deciso di inventare di sana pianta, siccome non riuscivo a trovare il vero nome di Frittella da nessuna parte.)

NdRuna
Ci ho messo molti più mesi del previsto, e mi rincresce molto...purtroppo in parte mi scarseggia il tempo, e in parte l'ispirazione. Sembrerà una cosa stupida, ma in Italia è tanto più facile essere ispirati per Bianca...qui il contesto mi dà tutti altri tipi di input -.-'' Ma don't worry: potrò dilazionare gli aggiornamenti, ma la storia non l'abbandono. Arriveremo alla parola fine, somehow. Croce sul cuore.
Bene, eccoci qua alla corte di Isabella...quello che avevo da dire sui nuovi personaggi l'ho esaurito quasi tutto nelle note, sono sorpresa io stessa che ne siano apparsi tanti in un capitolo solo...e non è finita: dal prossimo capitolo incontreremo anche il capitano D'Arcy! No, non sarà figo come il suo omonimo austeniano...ma spero che vi piacerà in ogni caso.
Se c'è D'Arcy, va da sé che Mennone non potrà essere molto lontano...e come potrebbe essere altrimenti, quando la resa dei conti di Veronica con Ercole Strozzi è vicina? Stay tuned per il prossimo capitolo, "Chi va con lo zoppo", e grazie di essere passati di qui <3
IMPORTANTE!!

Siccome mi è capitato di scriverlo già nella pagina facebook, ho dimenticato di aggiungere che il personaggio di Ilaria da Udine appartiene alla mente della nostra stupenda illustratrice Ilaria, in arte MikiFelix. Nasce da uno spinoff che lei stessa ha creato (alcuni di voi forse hanno letto la bellissima "Leonardo", pubblicata un annetto fa nella sezione AC), e che mi ha conquistata a tal punto da entrare a far parte della storia regolare di Bianca Come il Peccato. Tra l'altro, dopo anni di corrispondenza virtuale finalmente Ilaria ed io siamo riuscite ad incontrarci...a Dublino! XD La cosa è alquanto ironica ^_^ Ragionando e creando su uno stufato alla Guinness, ci siamo come al solito date un casino di ispirazione a vicenda...senza quell'incontro, probabilmente il blocco sul capitolo 30 sarebbe stato molto, molto più lungo!
Tra l'altro, per la fretta di pubblicare ho dimenticato di fare un ringraziamento speciale e che sento veramente, con tutto il mio cuore. Dovete sapere che là fuori, nel mondo reale, esiste un bellissimo bimbo che si chiama Niccolò Agamennone...e questo secondo nome è colpa, mi dicono, proprio del nostro Marescotti. Ho pianto fiumi di lacrime di commozione al solo pensiero, davvero, non posso dire quanto questa cosa mi abbia toccata. Mando un bacio enorme a questo splendido cucciolo e un grande grazie alla sua mamma.
Lal

 

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Capitolo 31
*** Chi va con lo zoppo - parte prima ***



Da quel momento in poi, cominciò il vero lavoro. Il nostro piano di assassinare Ercole Strozzi per dare un avvertimento al Marchese di Mantova prevedeva una fitta rete di contatti, che madonna Violante e Rinaldo – in arte Frittella, dovevo ricordarlo nella vita di ogni giorno per non confondermi – dispiegarono come un teatrino di burattini di fronte a noi.

Quei due erano assurdamente, perfettamente complementari. Lei coordinava l'operato delle dame della Marchesana, tra cui la splendida Leonora Brogna e l'altrettanto avvenente Lia Lavagnola1: il loro compito era tenere sul filo ambasciatori e cortigiani, e tra un corteggiamento e una dedica poetica riuscire a spillare loro quante più informazioni possibile. Lui, invece, si occupava di domestici, servitù e tutta quella fitta, invisibile popolazione che rendeva efficiente la vita al Castello di San Giorgio, e che si infiltrava nei bassifondi della città, ottenendo informazioni ed eseguendo pedinamenti, sporcandosi di fatto gli stivali al posto nostro.

E poi, c'era Jacopo d'Atri. Il fine intellettuale dalla spiccata arroganza partecipava a battute di caccia, discuteva di arte, dibatteva di filosofia con gli ospiti di Isabella. Mentre in apparenza non faceva altro che la normale vita da cortigiano, però, riusciva a far stillare goccia dopo goccia tutto ciò che queste persone sapevano riguardo i movimenti dello Strozzi.

Se avevo pensato che uno zoppo non potesse andare molto lontano, be', mi sbagliavo di grosso. Pareva infatti che i suoi viaggi fino a Sermide, sul delta del Po, fossero frequenti. Mettendo insieme il mosaico di informazioni ricavate da Violante, Rinaldo e Jacopo, ottenemmo un quadro piuttosto preciso: ogni mese lo Strozzi si recava in quella cittadina apparentemente insignificante, per non meglio specificati affari amministrativi. Sembrava che la sua famiglia possedesse delle botteghe nella zona.

Veronica, in quei giorni, era stata irriconoscibile. Pervasa da una strana frenesia che le forzava il sorriso sul volto in maniera rigida e innaturale, sembrava euforica e insieme furiosa, pronta a distruggere il mondo e a rimetterlo insieme con una risata. Per questo, quando Isabella decise che a Ferrara saremmo andati io e Jacopo, la vidi impallidire di colpo.

Mi aspettai che si lasciasse andare ad una scenata furibonda, come era stato a Firenze, quando La Volpe ci aveva proibito di fare del male a Strozzi. Invece, si limitò a chiudersi in un livido silenzio.

“Credo che dovreste mandare Veronica al mio posto” dissi, interrompendo le parole della Marchesana, che era passata a descriverci il piano. La donna alzò il capo, rivolgendomi un'occhiata di fuoco.

“Ci sono motivi precisi per cui mando voi, Bianca. A breve terrò un banchetto con alcuni inviati imperiali, e ho bisogno di un'altra dama qui a corte. Non c'è bisogno che sottolinei chi tra voi due è più abile a passare per tale.”

Ignorai la frecciata. Sapevo ciò che Isabella voleva dalle sue dame: erano il suo personale esercito sfolgorante, pronto a disporre gli uomini alle concessioni e alle confidenze. Se non erano belle, sarebbero state obbligate a diventarlo.2 Per i canoni della Marchesana, con i miei capelli ancora troppo corti e la mia cicatrice, io non ero bella abbastanza. Tanto valeva mandarmi sul campo, dunque.

 

A consiglio non dissi più nulla: ma quella sera feci in modo di scivolare, non vista, nelle stanze della Marchesana. La sorpresi alla toletta, con Violante che le pettinava i lunghissimi capelli biondi di cui andava tanto fiera; era circondata dal suo stuolo di dame, ed erano presenti anche le sue figlie, che venivano minuziosamente preparate per la notte dalla balia Caterina.

“Siete silenziosa almeno quanto ostinata” mi apostrofò Isabella, scorgendo il mio riflesso nello specchio. Madonna Violante si volse, con uno sguardo di rimprovero negli occhi scuri.

“Siete stata congedata un'ora fa, Bianca.”

Isabella alzò una mano. “Lascia, Violante. La ragazza vuole parlarmi.”

Ubbidiente, la donna chinò il capo. Bastò un suo cenno perché anche le altre dame si volatilizzassero: Lia e Leonora fecero per spingere fuori con delicatezza le figlie della marchesana, ma la piccola Ippolita irruppe:

“Non è giusto, madre! Voglio sentire anche io.”

“Va', Ippolita. Segui la balia, non sono discorsi da putti, questi.”

“Ma sono la figlia del marchese! Se ci sono cose importanti le devo sapere.”

Livia le sussurrò qualcosa nell'orecchio; mi resi conto che, da quando mi trovavo a Mantova, raramente avevo sentito la voce di quella bambina tanto quieta. In ogni caso, Ippolita reagì bruscamente: “No! Io voglio sapere. Tutti hanno sempre le facce scure, mio padre non parla con mia madre, e lei la notte ha gli incubi e grida! Voglio sapere cosa sta succedendo!”

“Succede che è l'ora di andare a letto, marchesina mia bella.”

La voce gentile di Frittella irruppe in quel consesso di dame. Vestito di bianco bordato di fiocchi rossi, il giullare fece una capriola di fronte a Ippolita. La bimba, però, non aveva nessuna intenzione di lasciarsi truffare così. “Non mi fai ridere! Non sto ridendo!”

“E fate bene, stellina del mio cuore, perché da ridere non c'è proprio nulla.” Frittella si chinò, sfiorando il naso della piccola. “Ma nemmeno da piangere, c'è nulla. Vi ho già parlato di cos'è la fiducia, cuor mio?”

Ippolita incrociò le braccia al petto, sfidando il giullare con le labbra increspate.

“La fiducia è quando c'è qualcosa che non possiamo fare da soli, e allora scegliamo qualcuno che sappiamo farà ciò che è giusto al posto nostro. Vostra madre si sta fidando di madamigella Bianca, che risolverà per lei la triste questione che le fa avere gli incubi. E voi, vi fidate di madamigella Bianca?”

Ippolita mi rivolse una lunga occhiata dubbiosa, poi fece “sì” con la testa. Frittella sorrise. “Bene. Allora lasciate che vostra madre le parli e le confidi i suoi dubbi. Madamigella Bianca saprà come risolvere tutto.” Mi strizzò l'occhio. “Abbiate fiducia in lei.”

Mi sentii gelare. Rinaldo sapeva quale onere mi stava piazzando sulle spalle? Avevo ucciso, avevo scalato palazzi e portato con me un Frutto dell'Eden, ma non mi ero mai sentita così responsabile come in quel momento, in cui mi rendevo conto che le speranze di una bambina erano state riposte in me.

Infine, Ippolita si lasciò convincere da quelle parole; il giullare la portò via, accompagnando la balia Caterina e le bambine mentre snocciolava loro indovinelli su indovinelli nel tentativo di distrarle. Isabella congedò tutti gli altri nel contempo, perfino Violante: voleva parlarmi da sola, e questo lo apprezzai. Il suo sguardo indugiò a lungo verso il corridoio nel quale le figlie erano sparite.

“Ippolita mi spaventa, alle volte.”

“Vi somiglia” dissi. “Ha una mente acuta e pronta.”

“Ed è proprio ciò che voglio evitarle.” Lo sguardo di Isabella sembrava veramente corrucciato. “Se fosse come Livia, sarebbe tanto più facile amarla.”

Quindi, con un sospiro, si rivolse a me.

“Non è per dispetto che impedisco a Veronica di venire a Ferrara. Vedi, Bianca: ho due incarichi importanti, e ho bisogno che vengano sbrigati il prima possibile. Quando gestisco una situazione del genere, scelgo le persone che possono portare a termine i loro incarichi al meglio. Non posso fare personalismi, questo mi renderebbe una pessima guida.”

“Lo comprendo, Vostra Grazia...ma per Veronica, quest'incarico è la vita. Se sapeste cosa le ha fatto Strozzi, vorreste strappargli i testicoli con le vostre mani.”

“Conosco perfettamente la storia di Veronica Fracassa.”

Ero allibita. “E se foste al suo posto non desiderereste vendicarvi con ogni fibra del vostro essere?”

“Sì. E proprio per questo rischierei di mandare a monte la missione che mi è stata affidata.” Schioccò la lingua nel palato, con un tono definitivo. “Mi sono consultata a lungo con tuo padre, prima di prendere questa decisione. Anche lui concorda con me: Veronica non è pronta ad affrontare Strozzi a mente lucida, e noi non possiamo permetterci dei rischi.”

Questo mi seccò la salivazione nella gola. “Mio padre...ha detto questo?”

Avrei voluto sentirlo dalla sua voce. Doveva esserci una spiegazione. Non poteva aver fatto questo a Veronica, non poteva!

“Se tieni veramente alla tua amica” riprese Isabella, in tono grave “compi per lei la sua vendetta. E aiutala a guarire quando avrà scoperto che la morte del carnefice non toglie nulla al suo dolore.”

Non parlava con freddezza; questo, seppure trincerata dietro il mio scorno, lo capivo. Le parole di Isabella erano quelle di una donna che conosce il dolore, l'umiliazione e la sete di vendetta. La leonessa della casa d'Este aveva attraversato le sue prove del fuoco, aveva visto parecchie brutture dell'animo umano, e di certo le capiva meglio di quanto non facessi io. Di fronte a quella consapevolezza, riuscii a piegare il mio orgoglio in un inchino: le dichiarai che avrei fatto di tutto per compiere l'uno e l'altro dovere, e chiesi di essere congedata.

L'idea mi pesava ancora sul cuore, mentre camminavo per i giardini privati di Isabella in cerca di una via d'uscita da me stessa.

Mio padre aveva chiesto esplicitamente che non fosse Veronica ad uccidere Ercole Strozzi. Capivo le sue ragioni, erano quelle di un capo. Non più quelle di un padre. Mi strinsi le braccia al petto, scarsamente protetto dal freddo da quel corpetto incrostato di ricami e perle. A volte l'eco dei giorni della Fratellanza di Monteriggioni sembrava così lontano da farmi dubitare che fosse mai esistito. A volte mi sentivo destinata a portarmi dietro questo gelo di mancanza, come se l'avessi dentro da sempre.

Fui sorpresa di vedere saettare un paio di occhi nel buio.

La mano corse automaticamente agli stiletti che nascondevo nella manica. La figura era piccola: cercai di metterla a fuoco. Sembrava quella di un bambino.

Mi ci volle qualche istante, e un sussurro strozzato da parte di lei, per riconoscere la piccola Livia.

“Che ci fai qui?” bisbigliai, lasciando perdere tutti i formalismi che avrei dovuto usarle. La bambina mi si avvicinò, e mi strinse la mano.

“Ho ascoltato, anche se non dovevo. Mi dispiace che andrete via.”

Va bene, d'accordo: ormai lo sapete, ho questo dannato debole per i bambini. Mi chinai sulle ginocchia, per essere alla sua altezza. “Tornerò presto.”

“Ma tornerete cambiata.”

Fui colta alla sprovvista, completamente. Cosa intendeva, quella bimba di nemmeno sette anni? I suoi grandi occhi quieti sembravano vedere oltre me.

“Non così cambiata da non riconoscervi. Parleremo ancora, giocheremo con le bambole. Potrei leggervi delle poesie, se vorrete. Anche se Frittella di certo è più bravo di me.”

Livia annuì: poi di colpo di abbracciò stretta, quasi mi sbilanciò per l'impeto. Potevo sentire la sua guancia premuta contro la mia. Era diventata d'improvviso umida di lacrime.
“Non cambiate, madamigella Bianca. Qui sono tutti bui e freddi, e a volte ho paura...anche di mia madre, anche di mio padre! Ma voi non siete così...vi prego, non cambiate anche voi.”

Strinsi forte a me Livia Gonzaga, cercando inutilmente di ripararla dallo stesso freddo che avevo dentro. Capivo...oh, capivo bene cosa intendesse, quando descriveva gli adulti intorno a lei come bui e freddi. Tornarono alla mia mente, in un lampo, le espressioni cupe dell'Ordine che prendeva decisioni riunito nel laboratorio, mentre Vanni ed io origliavamo dalla balconata. Rividi il volto di mio padre di ritorno da Roma, devastato da qualcosa a cui non aveva ancora mai dato voce: ciò che gli aveva schiantato l'anima era molto di più della sua vendetta non consumata su Rodrigo Borgia. Era un peso che aveva ingrigito il suo volto prima dei suoi capelli, e che alle volte aveva spinto il suo cuore lontano dal nostro anche nei momenti più felici. Oh, sì...io sapevo bene cosa significava crescere nel Credo, e vedere le persone cambiare, prosciugarsi per la missione, dare tutto di sé fino a che non è rimasto loro in petto che un pugno di cenere al posto dello spirito.

Forse, in questo Isabella aveva ragione. Amavo troppo Veronica per permettere che anche lei fosse annientata dal Credo.

 

 

Se per la missione di Ferrara speravo di poter indossare i miei vestiti da assassina, mi sbagliavo di grosso. Nel guardaroba che Isabella mi fece trovare per il viaggio, l'unica cosa che richiamasse la nostra divisa era il mantello di broccato bianco, ricamato in fili d'argento e foderato di calda pelliccia di colore rossiccio. L'inverno iniziava a prendere il posto dell'autunno, ne avrei avuto bisogno lungo la strada.

Esaminai con aria più critica l'abito color borgogna che la marchesana aveva intenzione di farmi indossare. E quello viola scuro. E quello blu.

“Forse si è sbagliata, e vuole mandare me al banchetto” borbottai, rigirando quei vestiti con cui sarebbe stato improponibile scalare mura.

“Sei pur sempre una delle sue dame” replicò Veronica, in tono un po' assente, continuando a spazzolarsi i capelli. “Non può mandarti a Ferrara vestita da uomo.”

“Sai cosa mi ha chiesto? Di fingermi la moglie di Jacopo d'Atri. Sua moglie, ti rendi conto?” dissi quelle parole come se avessi un sapore cattivo in bocca.

A quel punto, Veronica depose la spazzola e mi osservò con aria vagamente divertita.

“Forse questa è una proposta di Jacopo stesso.”

Storsi il naso. “Non dire idiozie. Mi odia.”

“Io credo che tu gli piaccia, invece. E parecchio.”

Risi, non molto aggraziatamente. “L'hai dedotto dal suo sguardo d'odio o dalle sue frecciate velenose?”

“Da entrambe le cose, direi.” Veronica sorrise. “Biancarella mia, quanto sei ancora ingenua.” Si alzò in piedi, e mi risistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, con una certa dolcezza. Le piaceva comportarsi da sorella maggiore.
Quindi, sedette sul letto, con un grande sospiro. Lasciai perdere i vestiti, e andai a sedermi accanto a lei.

“Ti giuro che lo farò nel modo più doloroso e lento possibile. E gli ricorderò il tuo nome, mentre muore.”

Una brava amica avrebbe detto che la vendetta non contava. Che Veronica avrebbe dovuto lasciare andare il bagaglio di tristezza e rancore che si portava dietro da sempre, chiudere con il passato e guardare davanti a sé. Sfortunatamente, non ero così saggia.

Lei mi guardò, e i suoi occhi diventarono improvvisamente lucidi. Sentii uscire dalle sue labbra le ultime parole che mi sarei aspettata a quel punto.

“Vorrei che lui fosse qui.”

Non ci fu bisogno di dire chi.

Proprio perché le confessioni di Veronica erano tanto rare, feci qualcosa che per me era ancora più raro. La abbracciai.

“Lo so” mi limitai a dire. Veronica poggiò la testa sulla mia spalla. Rimanemmo così per qualche istante, senza più parlare.

Capivo quello che aveva nel cuore. Capivo come forse nessun altro poteva capire.

“Lui sta bene” mormorai poi “E anche tu starai bene. Te lo prometto.”

Come qualcuno mi aveva già detto: tendevo sempre a fare promesse più grandi di me.

 

Il viaggio insieme a Jacopo fu lungo e difficile: le strade non erano nel loro stato migliore, il manipolo di guardie che ci seguiva era una frotta di tontoloni silenziosi e scontrosi. Quando si trattava di bivaccare, però, diventavano alquanto rumorosi, nonché decisamente poco civili.

I loro comportamenti non mi turbavano più di tanto: a Monteriggioni avevo vissuto per lo più circondata da uomini, anche se, certo, la rigida disciplina di zia Claudia impediva gli eccessi più fastidiosi alla nostra tavola. Io stessa mi ero sempre curata ben poco delle buone maniere che sarebbero state richieste ad una ragazza di rango, quale dopo tutto ero per nascita. Durante quella cena all'addiaccio, però, forse Jacopo lesse nella mia espressione un certo disagio, perché mi si affiancò dicendo:

“Avreste potuto portare una donna del seguito della Marchesana. Magari, quella vostra amica.”

Nemmeno lo guardai in viso, stringendomi nel mantello. Quella pelliccia che lo foderava si era rivelata piuttosto comoda. “Avete sentito, Isabella aveva bisogno di Veronica e delle altre donne per il banchetto.”

“E' questo che vi provoca tanta invidia? Il fatto che non avesse bisogno di voi?”

“Invidia!” ripetei, con un tono metallico che tradiva il mio nervosismo. “Per quale ragione dovrei essere invidiosa? Ho ricevuto una missione importante sul campo, e sono al servizio della Marchesana da meno di due mesi.”

Con aria assolutamente distaccata, Jacopo si tolse gli occhialetti a molla, che gli avevano lasciato due piccoli solchi sul naso. Pulì le lenti nel farsetto. Mi scoprii a pensare che il suo viso era molto piacevole.

“Semplice. Perché il vostro orgoglio brucia all'idea di non essere considerata abbastanza bella da rientrare nel Parnaso di Isabella.”

Aveva colto nel segno, e lo sapevo. Tuttavia, mi strinsi nelle spalle e tentai di negare ciò che quell'uomo aveva scoperto con troppa facilità.

“I miei modi non rientrano in quelli che la marchesana predilige, lo sapevo fin dall'inizio.”

“Credevate di essere un'esperta della corte, ormai. Deve essere difficile rendersi conto che un'ex puttana passa per una dama molto più facilmente di voi.”

Lo fulminai con lo sguardo. “Veronica è molto più di un'ex puttana. E' una combattente, di una forza tale che gente come voi se la sogna.”

Lui arricciò le labbra in un sorriso di scusa. “Non intendevo offendere la vostra amica. Credevo soltanto che avreste preferito una definizione cruda ad un ipocrita gioco di parole.”

Gli rivolsi la mia migliore espressione ferrea. “Voi credete, credete...non siete un po' troppo supponente? Parlate di me come se mi conosceste.”

“Non vi conosco, ma faccio supposizioni, questo sì.” Rimise gli occhiali al loro posto, sul naso. I suoi occhi azzurri erano più grandi adesso, e sembravano brillare dietro le lenti. “Voi non ne fate su di me?”

“A parte il fatto che siete un supponente? No, non credo.”

“E sbagliate. A non supporre nient'altro, intendo. Se così non fosse, sarei felice di confermare ad una ad una tutte le brutte idee che vi sareste fatta su di me.”

Non potei fare a meno di accennare ad un sorriso, divertita mio malgrado da quella diatriba. “Suppongo che siate un uomo molto complicato, Jacopo d'Atri.”

Lui fece una pausa, e scosse il capo. “E supponete male, questa volta. Perché sono molto più semplice da capire di quel che pensiate.” Si sporse leggermente nella mia direzione. La sua voce si fece un sussurro. “Credo che una delle gemme più belle di Isabella sieda accanto a me; e se la Marchesana se ne è privata, è perché questa gemma non ha la sola proprietà di brillare.”

Guardando nei suoi occhi chiari, mi resi conto che forse Veronica non aveva tutti i torti. Gli piacevo. E non potevo dire che questa consapevolezza mi dispiacesse. Anche se si trattava senz'altro di un intellettuale, di un arrogante, di un uomo eccessivamente sicuro di sé...c'era qualcosa in lui che mi attirava, ed era quell'aria di sfida che riservava non solo a me, ma al mondo intero. Se c'è qualcosa a cui non ho mai saputo resistere, sono le sfide.

“Passate dalle offese alle lusinghe con una rapidità impressionante. Siete certo che questo sia adeguato al vostro mestiere di ambasciatore?”

“Non sono io ad essere offensivo o lusinghiero. E' la verità ad esserlo.”

Non lo disse per compiacermi, questo lo affermo con certezza. Con tutti i suoi difetti, Jacopo non è mai stato il tipo d'uomo capace di incensare se stesso...ma questo lo scoprii solo più tardi, naturalmente. All'epoca ero ancora parecchio diffidente nei suoi riguardi.
“Visto che sembrate amare tanto la verità, rispondetemi sinceramente. Cosa vi aspettate da me?”

Jacopo non abbassò lo sguardo. Sorrise. “Niente, se non trascorrere più tempo in vostra compagnia.”

“Immagino che il fatto di dividere la stessa tenda non vi abbia messo in testa strane idee, dunque.”

Lui mi prese la mano, depositandovi sopra un bacio delicato. “Per dimostrarvi la mia buona fede, ora andrò per primo nella tenda. Mi coricherò, e se avrete la bontà di aspettare una mezz'ora mi troverete sonoramente addormentato, e completamente innocuo.” Lasciò le mie dita, si alzò in piedi. Sembrava divertito.

Senza una parola di più, si ritirò nella tenda che le guardie avevano allestito per noi. Trascorsi qualche minuto ad osservare il fuoco crepitante, mentre le guardie giocavano a dadi intorno a me. Il mio pensiero andò oltre le Alpi, a una persona che non potevo più avere. A una persona che avevo allontanato da me per sempre, e che volevo dimenticare con tutta me stessa.

Entrai nella tenda a mia volta solo dopo un'ora buona. Osservai il giaciglio di Jacopo, il respiro che si alzava e abbassava regolare sotto le coperte. Mi sistemai per la notte, avvolgendomi sotto il caldo pellame che la marchesana ci aveva dato come equipaggiamento.

Prima di addormentarmi, mi sembrò di udire una voce carica di malinconia che sussurrava: “Ciao, Biancarè.”

Mi vergogno a dirlo, ma nella solitudine del bozzolo in cui mi ero avvolta permisi alle lacrime di scendere. Era nostalgia? O senso di colpa? Forse uno strano miscuglio delle due cose.




Note storiche

1Il personaggio storico si chiamerebbe Isabella, ma per evitare facili confusioni con il nome della sua signora ho preferito ribattezzarla “Lia”, NdRuna.

2Cit. Rinascimento Privato: “Non sono del parere delle dame che si contentano di una o due putte graziose per giovinezza e poi si servono di donne comunque siano in apparenza: il mio deve essere un esercito che sfolgori e disponga gli uomini alle concessioni. Se non sono belle, lo diventino.”


NdRuna

E' da molto tempo che non posto, e non avete idea di quanto mi dispiaccia. Blocchi e crisi purtroppo tornano a ripetizione...come avrete visto, la trama di BCP si sta facendo, anche storicamente, abbastanza complessa. Non sempre ho tempo o energia di fare le ricerche necessarie per renderla verosimile e districare tutti i fili delle sottotrame che sono nate...però sono felice di dire che ultimamente ho avuto una carica pazzesca, e nel giro di tre settimane ho messo la parola fine a tre capitoli. Ciò significa che per tre mesi almeno, state sicuri, non ci saranno più blocchi!
Sto attualmente scrivendo il capitolo 34, "Il Nemico", con la lega di Cambrai che mi fa impazzire per cercare di ricollocare le complesse alleanze nel nostro dualismo assassini-templari. Là dove non ci riuscirò mi prenderò a malincuore qualche licenza storica...

Sul capitolo attuale: eh, già. Ezio e la marchesana non vogliono che Veronica si vendichi...ma siamo sicuri che la nostra Fracassa se ne starà buona a Mantova, lasciando a Bianca il compito di eliminare l'uomo che le ha distrutto la vita? E come sarà per Bianca il ritorno a Ferrara, la città che l'ha vista prigioniera dei Borgia? Rivedremo Ludovico Ariosto? E Jacopo, riuscirà a scalfire il cuore della nostra assassina che vuole vivere senza amore?
A tra un mese, con le risposte a tutte queste domande nel capitolo "Chi va con lo zoppo, parte seconda" (W l'originalità XD)

Ah! un ultimo commento. Posto questo capitolo poco dopo la mezzanotte italiana di Lunedì 25 Febbraio perché si tratta di una data speciale...tre anni fa, in questo stesso giorno, iniziavo a postare Bianca come il peccato. Ci sono stati lunghissimi periodi di fermo, non sempre ho sperato di poterla portare avanti, e devo ammettere che in moltissimi sensi non mi aspettavo che la storia sarebbe finita dove sta andando a parare. Soprattutto, mai mi sarei aspettata che ricevesse un'accoglienza così calorosa dai lettori, è qualcosa che mi lascia allibita e commossa ogni volta che ci penso. Tanti personaggi, tre anni fa, non esistevano nemmeno lontanamente nella mia testa. C'era soltanto questa figlia illegittima di Ezio, irriverente, dagli occhi chiari e il carattere adamantino, che mi chiamava a gran voce perché voleva che scrivessi la sua storia. Con tutti i suoi difetti, la sua faccia da schiaffi, i suoi sensi di colpa, i suoi insospettabili momenti di saggezza, la sua arroganza, la sua testardaggine, la smania di dimostrare al padre che è degna del Credo...ormai è diventata un'amica, per me. Spero che un pochino sia così anche per voi.
Grazie a chi è con me fin dall'inizio. Grazie a chi si è unito all'avventura per strada. Grazie a chi commenta, a chi segue la pagina facebook, a chi legge soltanto. Non avete idea di quanto voglia dire per me. 
Happy Birthday Biancarè!


Runa.
 

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Capitolo 32
*** Chi va con lo zoppo - parte seconda ***


Entrammo a Ferrara a cavallo, percorrendo il viale principale e quel ciottolato difficile che mi ricordava i miei giorni di dama, avvolta in scarpine di seta. Era la prima volta che tornavo in quella città dopo la mia prigionia presso i Borgia: se Firenze mi aveva causato un senso di disagio, Ferrara mi lasciò al contrario fredda. Non so perché. Forse avvertivo un minore senso di pericolo: la lama celata era al mio polso, sapevo come difendermi. O forse, la morte di Cesare aveva tolto a quei luoghi il manto di inquietudine che li pervadeva, lasciandomi finalmente libera dal senso di colpa che non avevo mai smesso di provare nei suoi riguardi.

Eppure, Lucrezia non era un avversario meno temibile di suo fratello, dovevo tenerlo bene a mente. Dovevo ricordare il modo in cui aveva circuito Vanni e teneva in pugno pressoché ogni uomo che le si avvicinasse. Dovevo apprendere, e fare mie quelle stesse arti se volevo sperare di scontrarmi con lei ad armi pari. Come aveva detto? Lei Gran Maestro templare, ed io Mentore degli assassini...sì, un giorno forse avremmo occupato quelle cariche, e avremmo potuto riprendere il duello mortale che i nostri padri non hanno mai portato a termine.

Un giorno...ma non oggi.

Messer Ariosto accolse Jacopo e me nella sede della Fratellanza, ben celata dietro la facciata di San Benedetto; la chiesa e l'adiacente convento erano stati costruiti da anni, ma non ancora consacrati.1

“Stava per diventare un covo Templare” specificò messer Ariosto, conducendoci nelle sale ricche di pregevoli arazzi ed armi esposte e ben conservate. “Poi siamo riusciti ad impossessarcene. Non abbiamo mai provato il bisogno di benedirlo.”
Un accenno di sorriso passò sulle sue labbra orlate di barba scura. Gli occhi non rimandarono la stessa scintilla, però.

“Deprecabile gesto, amico mio” sorrise Jacopo, con le mani strette dietro la schiena. “Così facendo ti attirerai le ire del Papa addosso!”

I due condivisero una risata sommessa, prima che messer Ariosto aggiungesse: “Il Papa non è il nemico che più temiamo, qui. La nostra serpe è ben custodita al Castello di San Michele.”
Parlava della Borgia, naturalmente. Registrai appena quel commento nella mia mente: mi ero soffermata a fissare uno degli arazzi, che ritraeva un uomo in una sala molto strana, ricca di ampolle, libri accatastati, cianfrusaglie. Uno strano soggetto per un'opera tanto imponente. I colori usati erano ipnotici, quasi eccessivamente sgargianti. Non avevo mai visto nulla del genere.

Ariosto sembrò notare il mio interesse. Sorrise. “Vi piace, madamigella Bianca?”

“E' curioso. Cosa rappresenta?”

“Si tratta del paladino Astolfo, che cerca di recuperare il senno del suo amico Orlando. Per farlo, va sulla Luna, dove finiscono tutte le cose che perdiamo.”

Lo disse con leggerezza e non citò la fonte di quella leggenda. Fu Jacopo, a intervenire per specificare: “Deve essere appagante vedere rappresentato il frutto della propria immaginazione, non è vero, Ludovico?”

“Ammetto che lo è, anche se l'appagamento non sarà completo fino a che il poema non lo sarà.”

Sgranai gli occhi. “Quindi, questa storia è vostra?”

Ariosto si strinse nelle spalle, accogliendo il mio moto di ammirazione con quella che sembrava una certa timidezza.

“Le storie non ci appartengono mai del tutto. Come i nostri figli, sono del mondo a cui le consegnamo. Forse è per questo che sono così restio a terminare il mio Orlando...” Scosse il capo, come a dire che dopo tutto non era così importante. “Ma non è per i miei versi che siete giunti fino a qui, non è vero? Seguitemi. C'è qualcuno che dovete incontrare.”
Era un uomo curioso, Ariosto: pacato, all'apparenza umile. Eppure, riconoscevo nel suo modo di camminare e di rivolgersi alle reclute la determinazione e il carisma di un capo nato. Sapevo che era uno degli uomini più fedeli degli Este, e uno dei principali alfieri di Isabella nella delicata scacchiera di potere che reggeva l'Italia; mi riproposi di apprendere da lui quanto più possibile, fino a che avessi avuto la possibilità di osservare il suo operato. Fin dal primo momento mi era sembrato un uomo da stimare.

Passeggiando per il delizioso chiostro, vidi i miei confratelli ferraresi allenarsi, o bivaccare serenamente; alcuni giocavano perfino a carte. La figura che mi colpì di più tra tutte fu quella di una donna, seduta un piccolo scranno, che declamava a voce piena una poesia.

Aveva una chioma rigogliosa di curati boccoli bruni, che scendevano ben acconciati sulla divisa bianca e nera. L'unico punto rosso era la fusciacca alla sua vita: non era ancora iniziata, nessun segno di uno di quei grossi anelli che i confratelli usavano per coprire il marchio alla mano sinistra. La sua voce era scura par appartenere a una donna, ma in modo piacevole. Notai che vibrava, mentre declamava a mente i versi: curioso, non si accompagnava con le mani né con i gesti. Guardava i compagni seduti lì accanto come se stesse semplicemente conversando con loro; loro, invece, la osservavano incantati come bambini che ascoltano una fiaba.

“Chi è quella donna?”

Ariosto sorrise, ma la sua espressione pareva tirata.

“Colei che sta per consegnarci Ercole Strozzi su un piatto d'argento.”

Quando la poesia fu terminata, i vivaci occhi grigi della donna si posero nei miei. Fu solo un rapido momento, prima che tornassero su Ariosto. Si alzò in piedi, e portò un pugno al petto, chinando rispettosamente il capo. Il suo piccolo pubblico fece altrettanto.

“Maestro” salutò la poetessa. Notai che non era troppo giovane: aveva forse trent'anni.

“Barbara, è una sorpresa rivedervi tra noi. Siete stata cauta?”

“Come sempre, Maestro.”

“Non è un buon momento per correre dei rischi. Il matrimonio è tra due giorni.”

Lei arricciò brevemente il naso mentre sorrideva, e una scintilla divertita le danzò sulla fronte. “Quale rischio corro, qui, tra i miei fratelli? Non temete, nessuno mi ha seguita” precisò, portando una mano ad accarezzarsi il ventre. “Tutto procede come previsto.”

A quel punto, guidato da quel gesto, un dettaglio che fino ad allora mi era sfuggito destò la mia attenzione. C'era un rigonfiamento sotto la sua fusciacca, stretta sotto il seno, più in alto di quanto di solito gli allievi assassini la indossassero.

Quella donna era incinta.

La ruga di preoccupazione sul volto di Ariosto non si era ancora del tutto stemperata, quando si rivolse a me.

“Madamigella Bianca, vi presento Barbara Torelli2. Lei sarà il vostro tramite per raggiungere Ercole Strozzi. Osserverà strettamente ogni suo spostamento, e sarà in grado di dirvi come e quando è meglio colpirlo.”

Squadrai con sospetto la pancia prominente di Barbara, assolutamente scettica. Di certo, una donna incinta non poteva essere una buona pedinatrice.

Fu Jacopo a dare voce ai miei dubbi:

“Chiedo venia, Maestro...ma come potrà madonna Barbara dirci tutte queste cose, visto il suo stato? A meno che non sia la balia di Strozzi” riservò un sorriso ironico alla Torelli “al che tutto si spiegherebbe.”

“In realtà sono qualcosa di più di una balia per Ercole Strozzi, signore” sorrise la donna, sicura e per nulla offesa dalla nostra diffidenza. “Tra due giorni sarò sua moglie.”

 

Lo ammetto: ero rimasta allibita. Anche durante la riunione che seguì continuai a chiedermi: è possibile? Questa donna sposerà Strozzi, e lo farà uccidere. Ingegnoso, diabolico quasi. Doveva richiedere un grande autocontrollo, una capacità di finzione che io non avevo ancora raggiunto. Ammirazione e sconcerto si contendevano il mio cuore. Sono sempre stata troppo pronta a seguire un modello, e in Barbara ne avevo appena trovato uno che si adattava alle mie attuali esigenze.

Ebbi occasione di parlare con lei da sola, più tardi, quando prima di cena i confratelli erano lasciati allo svago e si radunavano in piccoli gruppi nella sala comune.

Io sedevo in un angolo, osservando Jacopo che discuteva con Ariosto. Nel guardare il giovane ambasciatore, ricordavo la sera in cui avevamo discusso mentre ci accampavamo intorno al fuoco; in particolare, richiamavo l'immagine dei suoi occhi chiari dietro le lenti, il loro sguardo onesto e duro che mi aveva sorpreso. Ricordavo il contrasto di quell'atteggiamento quasi affilato con le parole che aveva pronunciato: credo che una delle gemme più belle di Isabella sieda accanto a me.

Mi ammirava. Dunque? Diversi uomini mi avevano ammirato, in quei mesi alla corte di Isabella. Sapevo di esercitare ancora un certo effetto sul genere maschile; eppure, non avevo mai concesso a nessuno di corteggiarmi in quei mesi, neppure per un vacuo passatempo. Ecco uno dei motivi per cui Isabella non mi aveva voluta al banchetto: non ero più in grado di civettare con leggerezza, e quello era il primo requisito che la Marchesana richiedeva alle sue dame.

Che idiozia. Avevo lasciato Martino proprio per non avere più il cuore esposto alle ferite, e ora scoprivo che non ero ancora in grado di proteggerlo. Lo difendevo e celavo al mondo come una cosa fragile. Ma, dannazione, io non volevo essere fragile. Volevo essere forte come Barbara, che si era calata nella finzione così bene da circuire il suo nemico, e sposarlo addirittura, per poi poterlo colpire quando è più vulnerabile.

Ci misi qualche istante a realizzare che avevo proprio gli occhi vivaci di Barbara su di me. Mi stava porgendo una coppa di vino.

“Tutto bene, madamigella Auditore?”

“Bianca” la corressi distrattamente, per poi studiare il suo volto. Sembrava serena. In pace con se stessa. Presi la coppa, la ringraziai.

Il suo sorriso si ampliò. “Bianca...cosa ti rende così taciturna, se posso chiedere? Non ti piace l'ospitalità dei tuoi fratelli ferraresi?”

Scossi il capo, e mi affrettai a balbettare: “Oh, no, assolutamente. Essere qui è come tornare a casa...a Monteriggioni. Mi ricorda la Fratellanza di laggiù.”

Forse accorgendosi che morivo dalla voglia di parlarne, Barbara si fece raccontare della mia vita a casa, e di come fosse avere il Mentore per padre. Io le domandai dov'era nata: appresi che veniva da un piccolo borgo vicino Parma, e che era stata sposata con un Bentivoglio. Non figlio di Giovanni, no...ma di suo fratello Sante, e dunque nipote dell'ormai spodestato signore di Bologna.

Barbara raccontò che sotto l'egida di quel marito violento aveva conosciuto per la prima volta la brama di potere dei templari: sconvolta dalla brutalità del suo sposo, era fuggita a Ferrara presso dei parenti, portando con sé i suoi figli. Lui aveva cercato di riportare Barbara e i figli presso di sé con la forza...ed è stato in quel frangente che Messer Ariosto e gli altri confratelli erano intervenuti per difenderli. Suo marito aveva giurato che l'avrebbe lasciata in pace, ma quando aveva tentato di rapire i bambini e far uccidere Barbara la confraternita, che non aveva mai smesso di tenere un occhio su di lei, l'aveva assassinato. Pochi l'avevano pianto. Barbara, ansiosa di ripagare i suoi benefattori, era entrata al servizio della Fratellanza.

Aveva iniziato a circuire Ercole Strozzi un paio di anni prima: il poeta zoppo era uno degli alfieri favoriti di Lucrezia, la sua importanza strategica era evidente all'Ordine da tempo. Per avvicinarlo, ci voleva un volto ancora sconosciuto, una mente fresca abbastanza da non rivelarsi subito per una spia e arguta a sufficienza da poter reggere la finzione. Barbara si era offerta volontaria, dopo tutto era apparsa fin dal principio la candidata ideale a quel compito.

Incoraggiata dal clima di confidenza che si era instaurato durante la conversazione, osai domandare:

“Quindi, il bambino che porti in grembo...è di Strozzi?”

La donna accennò ad un sorriso, ma i suoi occhi erano bellicosi. Sulla difensiva.

“Il bambino è mio, ed è tutto ciò che conta. Come i figli che ho avuto da quel caprone di mio marito...il Cielo li benedica, sono la mia forza e il mio orgoglio. Spero che anche questo piccoletto somigli a me più che a suo padre.”

Distolsi lo sguardo da lei: restammo in silenzio, per un lungo minuto. Poi, trovai il coraggio di aggiungere: “Il Maestro si preoccupa molto per te.”

Lei ci mise qualche istante a rispondere. “Il Maestro è l'uomo più gentile che io abbia mai conosciuto.”

“Se è tanto gentile, come ha potuto affidarti una missione del genere? E tu...come hai potuto accettare?”

Presi una pausa, rendendomi conto della mia indelicatezza.

“Non fraintendermi, Barbara...non voglio giudicare. Voglio solo capire.”

Lei bevve dalla propria coppa: mi augurai che, visto il suo stato, non fosse vino. Quando parlò, i suoi occhi erano rivolti sulla tavolata dei nostri compagni. Sul Maestro Ariosto? Forse.

“Lascia che ti dica una cosa, Bianca. Tu sei nata nel Credo, e forse per questo non puoi capire...ma quando si sceglie di entrare nella Fratellanza, si rinuncia a se stessi. La tua vita non ti appartiene più...sei solo uno strumento nelle mani dell'Ordine, e quel che l'Ordine vuole tu esegui. Ciò che provi” la sua mano si posò sul grembo prominente “non ha più importanza.”

Non capii a chi fosse rivolto quel sentimento che lei diceva senza importanza. A Strozzi? All'Ariosto? O forse a quel bambino di cui stava per far assassinare il padre. Tuttavia, la sua voce era ferma, e il suo volto deciso.

“E il libero arbitrio, che difendiamo con tanta tenacia? Non esiste, per noi?”

“No.” La risposta non tardò nemmeno un istante ad arrivare. “Noi siamo quelli che si sacrificano perché gli altri siano liberi.”

Quella verità mi colpì allo stomaco, ma più che come un pugno agì come uno spillo. Punse appena, provocò un piccolo foro nelle mie convinzioni, e da quel giorno in poi vi lasciò gocciolare via, stilla dopo stilla, la mia linfa vitale.

L'Ordine voleva la libertà del mondo, e si incatenava a quell'ideale rinunciando alla sua umanità. Barbara aveva rinunciato all'amore – del Maestro Ariosto? Lo sospettavo fortemente – e alla propria dignità di donna in favore dell'obiettivo finale del genere umano.

Lo realizzai del tutto solo in quel momento. Se volevo diventare qualcosa di più di una pedina in quel gioco tra titani, avrei dovuto mettere da parte ciò che volevo e ciò che credevo di essere, per iniziare a servire davvero la nostra causa con tutta me stessa.

 

***

 

“Non capisco. Perché la Marchesana mi avrebbe mandato qui, se non posso partecipare al banchetto di nozze?”

In realtà conoscevo bene la ragione: anche se erano passati ormai quattro anni dalla mia prigionia laggiù, il mio volto era ben conosciuto dalla nobiltà ferrarese, e di sicuro dallo sposo, che era stato tra i mie carcerieri più assidui. Tuttavia, di fronte a Jacopo avevo usato il mio tono più indignato e combattivo. Ancora non mi rassegnavo all'idea di avere ricevuto una missione che avesse a che fare esclusivamente con l'agire nell'ombra. Non lo ammettevo ancora a me stessa, ma ciò che bruciava era la consapevolezza che essere la figlia di Ezio Auditore mi metteva in una posizione di svantaggio. Il mio nome mi avrebbe relegata per sempre alle missioni di assassinio? Davvero non valevo qualcosa di più, con tutto quello che avevo passato alla corte di Lucrezia Borgia?

In risposta al mio scorno, Jacopo si limitò ad aggiustarsi gli occhialetti sul naso.

“Sai bene la ragione, per cui passiamo alla prossima domanda.”

Dannato intellettualoide supponente da strapazzo! Lo avrei volentieri schiaffeggiato.

“In città si sa che sei qui con tua moglie, no? Sarà sospetto se ti presenti senza di me.”

“Sono sicuro che la nobiltà locale scuserà la mia povera dama, che è caduta preda di una leggera febbre per la fatica del viaggio.”

“Non resterò al covo segregata, Jacopo. Scordatelo.”

“Invece è quello che farai, Bianca...se ci tieni che la missione riesca, si intende.”

Non so se per prendermi in giro o cosa, mi sfiorò il viso con un dito. Non mi ritrassi al contatto, continuando a sfidarlo con lo sguardo. Azzurro contro azzurro, una battaglia a chi sa dimostrarsi più duro. Una bella gara, tra me e lui.

“Ti prometto che ti lascerò tutta l'azione che vuoi, quando si tratterà di ucciderlo.”

“Giuralo.”

“Hai la mia parola.”

“Giurami che non è solo perché mio padre vi ha chiesto di tenermi al sicuro.”

Ci fu un breve attimo di esitazione, prima che le labbra di Jacopo si arricciassero in un sorriso. “Hai una strana concezione della sicurezza, tu. Ti propongo di evitare una noiosissima osservazione a un banchetto di nozze, offrendoti in cambio di affondare la lama nelle viscere di uno dei tuoi nemici di sempre...e credi che lo faccia per proteggerti?”

Detto così, sembrava ovviamente che avesse ragione lui. Jacopo riusciva sempre a riportare le parole nel proprio recinto come pecorelle ubbidienti. Ma io sapevo che lo zampino di mio padre c'era, eccome...non era dall'assassinio che Ezio voleva salvaguardarmi, ormai era troppo tardi per quello. Era un mio eventuale scontro diretto con la Borgia a spaventarlo più di ogni altra cosa. Anche allora, a mesi e chilometri di lontananza, capivo perfettamente il funzionamento della sua mente.

Abbassai lo sguardo, sconfitta. Sapevo che, dopo tutto, Jacopo aveva ragione. Nonostante questo, accidentaccio, non riuscivo a rassegnarmi a restare con le mani in mano.

Il giorno dello sposalizio di Ercole Strozzi girovagai nervosa per le sale del covo semi-deserto: la Fratellanza pattugliava le strade di Ferrara, per accertarsi che tutto fosse in ordine. Gli echi dei festeggiamenti si udivano fin dall'altro capo della città. Doveva essere una cerimonia in grande. Non potei fare a meno di domandarmi se Vanni fosse insieme alla corte di Lucrezia, a festeggiare lo sposo morituro.

Mi aggiravo nel chiostro di San Benedetto come un animale in gabbia, quasi del tutto sola e quasi del tutto impotente, chiedendomi che senso avesse essere qui. Veronica avrebbe potuto partecipare al banchetto indisturbata...ma no, che sciocchezza: Strozzi avrebbe riconosciuto anche lei. Chissà cosa stava facendo la mia amica, ora, e se mi aveva perdonata per aver ricevuto quella missione al suo posto.

Persa nelle mie riflessioni, sobbalzai quando mi resi conto che mi ero scontrata con un confratello. Era un uomo dalla bassa statura, con il cappuccio abbassato sul viso. Non mi ero resa conto che fosse lì.

“Perdonami, io...” rimasi spiazzata, quando lui mi afferrò per il braccio e mi attirò più vicino. Scorsi un lampo dei suoi occhi sotto l'orlo del cappuccio.

“Rinaldo?”

L'ometto mi rivolse uno sguardo tagliente. “Congratulazioni, mi hai riconosciuto. E adesso vuoi chiudere la bocca e ascoltare?”

Si stava comportando come se fosse in un covo nemico. Tirò con forza la mia nuca verso di sé, premendo la bocca contro il mio orecchio mentre sussurrava: “Nessuno deve sapere che sono qui. Ho portato Veronica.”

“Tu...cosa?”

“Io non la penso come la Marchesana. La ragazza deve avere la sua vendetta.”

Nonostante quella stramba posizione che sembrava un abbraccio mi facesse male alla schiena, non mi mossi, troppo timorosa che qualcuno potesse ascoltarci davvero. A quel modo potevamo parlare a voce bassissima, eppure capirci.

“Sei...scappato da Mantova con Veronica?”

“Smettila di dire cose ovvie.”

“Dov'è lei adesso?”

“In un posto sicuro. Quando è programmato l'agguato?”

“Non lo so.”

“Quando lo saprai, lascia tre sassi bianchi sul sagrato della chiesa. Mi hai capito? Tre sassi bianchi, proprio accanto al portone. Ti incontrerò sul campanile a mezzanotte di quello stesso giorno.”

Lasciò la presa sulla mia nuca, mi diede una pacca sul braccio, e se ne andrò attraverso l'uscita ufficiosa: il tombino che conduceva alle fogne, la via che gli Assassini prediligevano per sbucare indisturbati fuori dal loro covo.

Io rimasi a fissare il punto da cui era sparito, scossa e ancora incredula.

Rinaldo si era ribellato ai piani della marchesana, e le mie viscere avevano esultato, mettendo a tacere definitivamente la ragione.

 

Impiegammo tre giorni a ricevere da Barbara una buona segnalazione: l'indomani sera, Ercole Strozzi sarebbe andato a casa di un mecenate, per presentare il suo nuovo poema. In grazia del suo stato, Barbara aveva ottenuto di non accompagnarlo. Forse davvero non si sentiva bene, perché mandò una serva a riferirci tutto questo. Non avrebbe affidato ad altre labbra quel messaggio, se fosse stata in sé. Il nervosismo di Maestro Ariosto mi confermava questa impressione.

Avremmo atteso lo zoppo sulla via del ritorno, in un vicolo buio, accanto a casa Romei. In quella macchia d'ombra ci saremmo appostati Jacopo ed io, nella tenuta bianca da assassini; ciò che il mio compagno però non sapeva è che sul tetto di quel palazzo si erano nascosti Veronica e Rinaldo.

Quando li avevo incontrati sul campanile di San Benedetto, avevo espresso loro la mia preoccupazione. A quel punto, Isabella doveva aver dato l'allarme per la loro fuga. Rinaldo aveva detto sbrigativamente che non sarebbe successo nulla di tutto questo: si era inventato una missione credibile fuori città per cui gli serviva l'aiuto di Veronica. Non era del tutto sicuro di averla data a bere a Violante, però. Quella donna sembrava possedere il terzo occhio della conoscenza, alle volte.

Ora, comunque, era tutto nelle mie mani, e tremavo al pensiero.

La luna sembrava un sogghigno sottile, che rendeva sadico il volto della notte. Un gruppo di monelli giocava a palla fiorentina con un sacco di stracci, poco lontano.

Con la schiena premuta contro il muro di casa Romei, feci saettare la lama celata a vuoto. Sarebbe stato semplice distrarre Jacopo un istante, quell'attimo sufficiente a Veronica per scagliare uno stiletto dal tetto e uccidere Strozzi. Dovevo solo restare concentrata.

Riconobbi il fischiettare della voce odiosa del nostro bersaglio a metri e metri di distanza. Incredibile, quanto fosse arrogante. L'avevamo seguito fin dalla casa del suo mecenate, anticipandolo nell'ombra per essere al vicolo prima di lui: eppure, ci faceva la grazia di annunciarci la sua presenza in modo così palese, battendo il bastone a terra più forte.

Chi va con lo zoppo impara a zoppicare.

Non so perché lo pensai, in quel momento: ma l'idea mi riverberò nella testa, mentre cercavo disperatamente di restare concentrata per poter intuire il momento giusto in cui agire.

Attesi di vedere comparire la sua ombra lunga proiettata da una lucerna. Potevo quasi sentire il rumore dei muscoli di Jacopo che si tendevano.

Poi, il mio compagno scattò e afferrò Ercole, trascinandolo nel nostro buio. Una mano sulla bocca, l'altra a torcergli il braccio dietro la schiena. Il pugnale di Strozzi cadde a terra, un tintinnio metallico sul ciottolato.

“Adesso!” sibilò Jacopo, mentre Strozzi cercava di divincolarsi dalla sua stretta.

Gettai un'occhiata nervosa al tetto.

“Bianca!”

Non mi aspettavo quello che accadde.

Non fu uno stiletto a centrare lo zoppo. L'ombra scura che doveva essere Veronica atterrò sul ciottolato – non l'avevo mai vista saltare così agilmente. Gli si gettò addosso, e affondò la lama celata nel suo stomaco.

Una volta.

Due.

Tre.

Quattro...

Jacopo lasciò la presa sulla vittima, imprecando sottovoce; la mano di Rinaldo lo trattenne dall'intervenire. Si dissero qualcosa che non capii. Tutti i miei sensi erano concentrati sulla mia consorella, e sul modo feroce in cui torceva i ricci untuosi dello zoppo mentre questi scivolava sulle ginocchia.

“Di', mi riconosci?”

Aveva il viso coperto dal cappuccio ed eravamo al buio, non poteva averla vista. Eppure, sentii Strozzi mormorare, dopo qualche istante:

“Veronica...”

Era moribondo. Dove trovò la forza di sorridere, non lo so. Non lo vidi sul suo volto, ma lo sentii per certo nella sua voce fievole.

“La mia puttana preferita.”

Non poteva chiamare aiuto, il sangue gli stava già salendo alla gola. Sapeva che era spacciato...e voleva umiliarla, comunque. Trattenni a stento l'impulso di affondare io stessa la mia lama nella sua carne. No...il privilegio era tutto di Veronica.

“Nonché l'ultima cosa che vedrai. Crepa, bastardo!”

Conficcò la lama in profondità, senza ritrarla. Lui si contorse, i suoi rantoli scandirono i secondi successivi. Mi chiesi quando sarebbe spirato.

“Basta così” disse Jacopo; ma Veronica non l'ascoltò e proseguì la sua opera. Stava incidendo qualcosa sulla pancia di Strozzi. Ricordai le cicatrici che le sfregiavano l'addome.

“Basta, ho detto! E' morto.”

L'ambasciatore la strappò con violenza dal cadavere che stava continuando a martoriare. La tenni stretta, per impedirle di avventarsi di nuovo sullo zoppo che ormai era riverso a terra, immobile. Serrai le braccia intorno a Veronica e cercai di contenere i suoi tremiti. Aveva le guance umide di lacrime.

Restammo per un attimo in un assordante silenzio, interrotto dai singhiozzi sommessi di Veronica. Respirammo insieme l'odore grave del sangue che avevamo versato...perché la lama sarà anche stata della mia amica, ma sapevamo che quel delitto apparteneva a tutti e quattro i presenti. Poi, con un gesto secco, Jacopo ci fece cenno di allontanarci. Io continuai a sorreggere Veronica, mentre scivolavamo via sotto i raggi fiochi di una luna cattiva.

 

Quando fummo sufficientemente lontani dal luogo del delitto, Jacopo d'Atri si fermò per fronteggiarci.

“Che cosa vi è saltato in testa? Doveva essere un lavoro pulito!” sibilò, furente, strappandosi quasi il cappuccio dalla testa.

“Il lavoro è stato fatto” replicò Rinaldo, mortalmente calmo “Penseranno a più sicari. Questo li confonderà.”

“Non volevamo un messaggio chiaro?”

“Gliel'abbiamo dato, direi.”

“E tu, Bianca! Tu sapevi?”

Deglutii a vuoto. Non ebbi il coraggio di mentire. Potevo a malapena intravedere il volto di Jacopo, ma immaginai comunque il suo sguardo durissimo, forse addirittura ferito dal mio tradimento.

Dopo qualche istante, mormorò:

“La Marchesana non sarà contenta quando lo saprà. Risponderai di quest'ultima buffonata, giullare.”

Con quelle parole, Jacopo scivolò via nella notte. Rinaldo non disse nulla, ed io rimasi a stringere Veronica. Aveva ancora il volto premuto nella mia spalla, non capivo se mi stesse macchiando la giubba di sangue o di lacrime.

“E' morto troppo in fretta” la sentii dire, con voce spezzata. “Ha sofferto troppo poco...”

 

***

 

Il cadavere di Ercole Strozzi, poeta amatissimo dalla casa d'Este, fu scoperto il giorno successivo, nel vicolo accanto a casa Romei. Sul suo addome era stato inciso con la punta del pugnale il simbolo degli Assassini. Il dettaglio fece discutere a lungo la popolazione di Ferrara, ma sapevamo di certo una cosa: a quel modo, il nostro messaggio era arrivato forte e chiaro alle orecchie del marchese Francesco Gonzaga. La fratellanza sapeva che meditava un'alleanza con la Borgia, e non avrebbe perdonato.

La neo-sposa di Strozzi si strusse pubblicamente, versò tutte le sue lacrime, e per il dolore partorì con due settimane di anticipo rispetto al termine previsto dalla levatrice. Sua figlia, Giulia Strozzi, non avrebbe mai conosciuto suo padre...e sarebbe stata per sempre ignara della sua fortuna. La Duchessa Lucrezia si offrì di sostenere la vedova, ma, orgogliosa, Barbara Torelli Strozzi rifiutò tanta generosità. Ufficialmente, mandò i figli maschi presso i parenti del fratello e tenne le figlie femmine con sé, in un convento poco fuori Ferrara. In realtà si trasferì nella casa di campagna di messer Ariosto3, e da che so restò lì per tutto il tempo necessario a svezzare Giulia e a far trascorrere il periodo del lutto lontano da occhi indiscreti. Sparì lentamente dal mondo, e con quell'ultima grande recita esaurì il suo contributo alla Fratellanza. Questo era stato già così grande che nessuno ebbe più il coraggio di chiedergliene altri.

Vi starete chiedendo cosa fu di loro. Be', posso dire che tutto sommato divennero piuttosto felici. Ariosto, da uomo solo votato completamente alla causa e alla poesia, si ritrovò improvvisamente a capo di una numerosa famiglia; e se quella casa di campagna era stata a lungo negletta, da quando Barbara e i suoi figli vi si trasferirono diventò la sua residenza preferita. Per quanto riguarda più strettamente Giulia Strozzi...ho visto quella bambina solo due volte nella mia vita, e l'ultima non aveva che cinque anni: ma posso assicurarvi che il suo sorriso somiglia quello di messer Ludovico molto più di quanto ricordi quello dello zoppo. O forse, questo è solo ciò che io, Barbara e il Maestro vogliamo vedere.

 

Quando tornammo a Mantova, temevo la reazione di Jacopo. Aveva promesso di riferire ogni cosa a Isabella, ma fu con mia grandissima sorpresa che di fronte a lei resse il nostro gioco.

Frittella e Veronica? Non erano a Mantova, forse? Non sapeva nulla della loro missione fuori città. No, non li aveva visti. Certo, l'idea del marchio degli Assassini sulla pancia di Strozzi è stata sua e di Bianca. Volevano che il Marchese sapesse chi lo avvertiva, non è vero? Dopo tutto, non è stato inciso il nome di Isabella, ma il simbolo della fratellanza. Lei può ancora fingere di essere ignara di tutto questo, e anzi, di fronte al marito potrà mostrare uno spavento ancora più grande.

Isabella fu pacificata; con più fatica, e forse non del tutto, anche Violante fu convinta. La testimonianza di Jacopo fece acquistare più forza alla mia. Veronica e Rinaldo furono assolti dal sospetto di aver infranto i dettami della Marchesana e mecenate dell'Ordine. In poche parole, quella bugia salvò le chiappe a tutti noi.

“Perché lo hai fatto?”

Bloccai Jacopo nei giardini, dopo che eravamo stati entrambi congedati. Faceva ancora freddo, ma il roseto aveva iniziato a buttare i primi boccioli.

Lui si sistemò gli occhialetti sul naso.

“Non è evidente?”

“No, per niente.”

Scosse il capo, prendendo la mia mano con delicatezza. Vi lasciò sopra un bacio quasi impalpabile.

“Ahimè, Bianca. Non so più se non vuoi capirmi o se il tuo è solo un modo gentile di respingermi.”

Lasciò andare la mia mano, e dopo un mezzo sorriso e un inchino mi volse le spalle, per poi incamminarsi lungo il colonnato.

Non so quale istinto mi spinse a rincorrerlo. Gli presi il polso. Lui si voltò, sorpreso.

Gli diedi un bacio. Come ringraziamento, lo giuro. Uno di quei piccoli baci all'angolo della bocca, dove comincia la guancia. A malapena avvertii la morbidezza delle sue labbra.

“Grazie.”

Jacopo sorrise. Riprese le mie labbra, trattenendole sulle sue più a lungo. Poi, si allontanò di un passo.

“Non c'è di che.”

Lo osservai mentre se ne andava, e pensai...

No, questa volta ve lo confesso candidamente: in quel momento non pensai proprio a nulla.




Note Storiche

1Piccola libertà storica: dal wikipedia apprendo che il convento di San Benedetto – non l'ho scelto a caso: ho avuto il piacere di lavorare come attrice per la contrada San Benedetto, durante le celebrazioni di apertura del Palio di Ferrara, e spesso ci siamo ritrovati lì, quando ancora era la sede ufficiale della contrada – era ancora in costruzione al tempo di cui sto parlando. Tuttavia, il fatto che Ludovico Ariosto vi sia stato inizialmente sepolto mi ha fatto pensare a un collegamento con la confraternita: dunque, ho deciso di manipolare i dati storici ancora una volta :)

2Poetessa realmente esistita. Prima sposa di Ercole Bentivoglio, poi per rocambolesche ragioni fuggita da lui (lui l'aveva incarcerata per un sospetto di infedeltà, poi smentito), sposò davvero Strozzi nel maggio (chiedo venia per aver spostato prima l'azione, ma non mi tornavano i tempi narrativi) del 1508. Ovvero, pochi giorni prima della sua morte misteriosa.

3A questo punto, sto viaggiando completamente di fantasia. Secondo la Storia, pare che Ariosto fosse innamorato della moglie di un mercante, tale Alessandra Benucci, che sposò dopo che divenne vedova – orsù, ora non malignate, Ludovico Ariosto sembrava veramente una brava persona. Tra l'altro, per il suo lavoro al servizio di Ippolito d'Este si era fatto chierico, e aveva dei benefici ecclesiastici – dunque, questo matrimonio fu mantenuto segreto. La Torelli, invece, parrebbe davvero innamorata di Ercole Strozzi – che storicamente e poeticamente parlando tanto male non era - e ha composto una poesia struggente per la sua morte.
Dopo tutto, giocando ad Assassin's Creed ormai dovremmo aver imparato che la Storia la scrivono i vincitori... :)


Note di Runa
Ebbene sì, sono in anticipo di una settimana rispetto alla data promessa...ma oggi è San Patrizio, Santo Patrono d'Irlanda, e volevo festeggiare :) E poi sì, morivo anche dalla voglia di sapere cosa ne pensate. Alla fine Veronica si è vendicata...mossa eticamente molto, molto discutibile. E ora? per la nostra amica veneziana sarà davvero la fine di un incubo, o la morte del suo carnefice non avrà cambiato nulla? Lo scoprirete tra un mese - questa volta esatto, altrimenti se anticipo ogni volta finisce che pubblico una volta a settimana e resto di nuovo senza capitoli XD - nel 33esimo appuntamento con la avventure di Bianca. E se vi dico che il titolo è: "Contro tutte le stelle", indovinate chi rivedremo? ^_^ Ci sarà anche il famoso comandante D'Arcy...personaggio che non è per niente saltato fuori come me lo aspettavo, vedrete XD
Un grazie specialissimo per l'accoglienza ricevuta dallo scorso capitolo...davvero, non pensavo che sarebbe stato così apprezzato! Grazie per avermi regalato il vostro tempo, sia solo per leggere o anche per recensire <3
A presto!

Lal

Ps: non temete, sto continuando con la stesura...il 35 è quasi finito!

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Capitolo 33
*** Contro tutte le stelle ***


Quella mattina, appena intravidi la luce erompere attraverso le tende, mi sollevai dal letto silenziosamente. Raccolsi i miei abiti, per prima cosa. Scivolarvi dentro senza fare rumore e stringere i lacci ad uno ad uno era diventato una sorta di rituale, qualcosa che facevo ad ogni risveglio con una certa lentezza e precisione.

Terminato quel compito, gettai un'occhiata alla sagoma di Jacopo, con il volto ancora sepolto nel cuscino e il corpo nudo blandamente coperto dalle lenzuola. Sembrava contrariato anche quando dormiva. Il pensiero mi fece sorridere.

Di fronte allo specchio, passai le mani nei miei capelli spettinati, ormai lunghi oltre le spalle. Era la fine del 1508: un anno intenso della mia vita, un anno di profondo cambiamento fuori e dentro di me. Non tornavo a casa, a Monteriggioni, da un anno esatto. Avevo visto mia madre non più di tre volte, e mio padre ancora meno. Avevo costruito una mia vita indipendente da loro alla corte di Isabella, vita di cui, lo ammetto, Jacopo d'Atri faceva parte come il più piacevole dei diversivi.

“Sai, non sei in missione” lo sentii bofonchiare, la voce ancora impastata di sonno. Lo guardai attraverso il riflesso dello specchio, aveva ancora gli occhi chiusi. “Non devi per forza scivolare via in silenzio.”

Sorrisi, voltandomi verso di lui. “Devo partecipare alla vestizione di Isabella, sarà furiosa se manco un'altra volta.”

Un sorrisetto sornione comparì sulle sue labbra. “Come stiamo prendendo sul serio questi compiti da dama di compagnia...”

Mi avvicinai, sedetti sul bordo del letto e gli scompigliai i capelli per gioco. Lui protestò ancora pigramente, era l'uomo più lento a svegliarsi che avessi mai incontrato.

“Alzati. Devi tornare a Milano prima di mezzogiorno.”

“Mh.” Si alzò a sedere, stiracchiandosi.

“Non sei un po' troppo spesso a Ferrara, ultimamente? Isabella non ti paga per oziare alla sua corte, ma per farlo a quella di Charles d'Amboise.”

“Ho piacevoli distrazioni a Ferrara.”

Mi diede un rapido bacio.

“Hai piacevoli distrazioni anche a Milano” ribattei, tranquilla. Lui sogghignò.

“Gelosa?”

“Niente affatto, sarebbe contrario al nostro accordo. E tu non mi permetteresti mai di contravvenire a un accordo, se non sbaglio.”

“Quanto sei ancora ingenua, Bianca Auditore! Dovresti saperlo che nella politica tutto è negoziabile.”

Cercò di baciarmi di nuovo, ma lo respinsi, ridendo. Jacopo emise un sospiro esasperato, e cercò gli occhiali accanto al letto, dove li aveva lasciati la sera prima. Non li trovò.

“Ti ho conosciuta come una che infrange le regole, e guardati!” mi prese in giro, con la consueta ironia che avevo imparato a riconoscere come inoffensiva. “Sei diventata la recluta modello. Se continui così, scalzerai la Brognina.”

Gli gettai la sua camicia praticamente in faccia.

“Tu invece parli più di Frittella quando è sbronzo.” Il che, secondo i canoni della corte mantovana, significava davvero parecchio. “E se continui così verrai cacciato fuori a calci dall'Ordine. Coraggio, alzati.”

Mi piaceva quel nostro rapporto leggero, senza troppi impegni. Con Jacopo non mi ero soffermata a pensare un solo momento: non c'erano complicazioni tra noi, solo ironia, piacere, una bella intesa dentro e fuori dal letto. Non potevo chiedere di più ad un uomo, al momento.

Jacopo si stava ancora infilando la calzamaglia, quando Violante irruppe nella stanza.

Non so cosa ci facesse lì: di solito non spezzava il protocollo di corte recandosi negli appartamenti di un uomo, e per di più sola. Capii da questo, e dal suo volto tirato, che era accaduto qualcosa di grave.

“Bianca, cercavo te.”

Jacopo terminò di aggiustarsi la camicia sulle spalle, e tanto per provocare il pudore di Violante si voltò verso di lei con le mani sui fianchi. Così, mezzo svestito e senza ancora gli occhialetti sul naso, era davvero attraente.

“Buongiorno anche a voi, Madonna. Qual buon vento vi porta nelle mie stanze senza farvi annunciare?”

La donna non spostò gli occhi da me. “La marchesina Livia.” disse. Sentii il sangue fuggirmi dal viso. Anche Jacopo non fu più in vena di scherzare, d'improvviso.

“Come sta?”

“Ha avuto una ricaduta. La Marchesana è già al suo capezzale.”

La mascella irrigidita, mormorai: “Vengo con voi”, e seguii Violante nei corridoi.

Livia Gonzaga si era ammalata di una lieve febbre due mesi prima. Nonostante il dispiego di cerusici al suo capezzale, la febbre era cresciuta, spossandola: quasi non mangiava più, e rimetteva spesso. La vita che già sembrava così delicata dentro di lei si era affievolita piano piano, e non importavano le ore che Frittella, Veronica ed io trascorrevamo al suo capezzale, per leggerle qualcosa, giocare con lei, tentare di farla sorridere. Le storie sul futuro che la piccola Ippolita inventava per lei, che parlavano di un nobile signore giunto da oltre le Alpi a chiederla in moglie - un signore bello e generoso come non se ne erano mai visti - non sarebbero diventate realtà. Non era valso a nulla il nostro aggrapparci disperatamente a lei. Livia stava scivolando inesorabilmente verso il mondo a cui forse era appartenuta da sempre: quello degli spiriti sottili, delle anime impalpabili che sanno tanto di più dei comuni esseri umani.

Avvenne pochi giorni dopo, mentre Veronica ed io le eravamo accanto. Rinaldo era con noi, e naturalmente fu fatta chiamare la Marchesana. Un chierico salmodiava parole vuote e riempiva la stanza di incenso: prima che Isabella lo trapassasse da parte a parte con l'attizzatoio, Rinaldo lo fece allontanare.

Il respiro di Livia era così flebile che a malapena vedevo le coperte alzarsi e abbassarsi. So che Isabella avrebbe preferito vivere questo momento in solitudine con la figlia, ma la bambina aveva chiesto esplicitamente di noi tre: saremmo rimasti fino all'ultimo.

“Frittella...”

Al suo richiamo, il giullare si sporse sul letto. Con voce dolce e sommessa, disse: “Che cosa vuole la mia padroncina bella? Che le catturi un gregge di nuvole e le porti un raggio di sole per colazione? Sono pronto a spiegare le mie ali di marzapane per andare a raccoglierli in un cestino di vento.”

Livia accennò ad una risata, ma senza forza. Gli accarezzò il viso. “Le vedo, sai? Le tue lacrime. Anche se ridi sempre, ne hai versate tante...hanno lasciato dei segni.” Il ditino passò sulle rughe che contornavano gli occhi del giullare, il cui sorriso si spezzò. “Non ne versare troppe, quando sarò andata via, promesso? Ti devi occupare di Ippolita e di madonna Violante. Devi farle ridere un'altra volta anche se io non sarò con voi.”

Con un sorriso forzato sulle labbra sottili, Rinaldo promise.

Dopo di lui, fu il turno di Veronica.

“Quel tuo amico arciere che è a Milano...devi salutarlo per me. Digli che deve scagliare una freccia in alto, verso il sole. Quando scende, sarò io che l'avrò rimandata giù dal Paradiso.”

La mia amica strinse la mano di Livia e vi depositò un bacio, annuendo senza parlare. Quindi, gli occhi di Livia si spostarono su di me.

“Il nobile signore da oltre le Alpi” sussurrò “Prendilo tu al mio posto, Bianca, d'accordo? Sarà un buon marito per te.”

Le accarezzai la fronte madida. “D'accordo.”

“E non cambiare.”

“No. Non cambierò.”

“Altrimenti lui non ti riconoscerà e non saprà come trovarti.” Un respiro profondo, seguito da un raschio. Faticava a mettere insieme le parole.

“Basta così” disse Isabella. “Hai parlato troppo, tesoro mio...devi riposare adesso.”

“Madre...” replicò Livia, e gli occhi le si riempirono di lacrime. “Mi dispiace. Ditelo anche a Ippolita. Io non sono forte come voi due...”

“Ssssh, piccola, angelo mio, non parlare più adesso. Devi riposare.”

“Dovete andare d'accordo con Ippolita. Sapete perché la amo tanto? Perché mi ricorda voi. Anche voi dovete amarla, madre mia...”

“La amo, Livia. Quanto amo te.”

Quella era una bugia, lo sapevo.Tra le sue figlie femmine, Livia era la sua preferita, e lo sarebbe stata sempre.

Isabella sedette sul letto, si portò la testa di Livia nell'incavo tra il collo e la spalla e la cullò fino all'ultimo dei suoi respiri, e più a lungo, finché anche la sua presenza nella stanza non se ne fu andata del tutto. Restammo in un silenzio greve di pianto, per lunghe ore. Non c'entrava nulla con la nostra guerra, ma la morte di Livia mi schiantò il petto più forte di qualsiasi assassinio io avessi inflitto.

La Corte intera fu in lutto, da quel giorno. I fratelli maggiori di Livia, Eleonora e Federico, e quelli minori, Ippolita, Ercole e Ferrante, lasciarono sul suo corpo composto per le esequie una rosa bianca. Francesco Gonzaga pianse lacrime amare; ma la vera devastazione era quella che pulsava negli occhi scuri della leonessa d'Este.

Livia non era la prima dei suoi figli a non superare l'infanzia, e sapevo che la Marchesana aveva un debole per la sua progenie maschile più che per quella femminile: tuttavia, Isabella amava Livia di quello specialissimo sentimento che si dedica a chi è completamente il nostro opposto. Se fosse vissuta, quella piccola silfide, Isabella si sarebbe rivolta a lei per chiederle consiglio, e si sarebbe aspettata che la giudiziosa figlia ponesse un freno al proprio impetuoso carattere - esattamente ciò che chiedeva a Violante. Con Livia, la Marchesana aveva perso una figlia, una futura amica, una solida alleata, una speranza per il futuro.

Tuttavia, pochi giorni dopo era di nuovo nel suo studiolo, statuaria nelle sue vesti da lutto, intenda a impartire ordini e distribuire compiti. La discesa francese in Italia si stava facendo più di una minaccia volatile: gli Assassini di laggiù ci avevano fatto sapere che i preparativi per attraversare le Alpi erano quasi del tutto conclusi. Aspettavano solo l'arrivo della primavera per attaccare.

“Cosa vuoi che facciamo, mia signora?” domandò Frittella, meno incline all'ironia di quanto fosse suo costume.

“Nulla, amico mio. Non possiamo che aspettare.” Isabella si alzò in piedi, sistemò delle carte che ripose accuratamente nei cassetti del suo raffinato tavolo da lavoro. “Per ora, voglio che scorti Bianca e Veronica a Milano. La Compagnia della Stella dovrebbe essere accampata nei dintorni di Burago di Molgora, a quest'ora: è lì che di solito sverna D'Arcy.”

Avvertii il sussulto leggero di Veronica. Suonò cauta, quando domandò: “Qual è la nostra missione laggiù?”

Gli occhi severi di Isabella si misero nei suoi. “Avete sentito mia figlia. Andrete da quel vostro amico arciere, e gli chiederete di scagliare una freccia verso il cielo. Dove la freccia cadrà, fonderemo un nuovo covo della Fratellanza...lo camufferemo da convento. Sarà intitolato a Livia.”

Era assurdo, ovviamente. I Francesi si stavano preparando a invadere l'Italia, e la Marchesana ci mandava a fondare un nuovo covo della Fratellanza...eppure, non ce la sentimmo di protestare. In memoria di Livia, avremmo fatto cose ben più stupide e senza senso. Inoltre, per me e Veronica significava avere la possibilità di rivedere Agamennone. Non sapevamo molto, di lui: la compagnia si spostava in continuazione, non aveva molto tempo né molto materiale su cui scrivere. Se io non vedevo l'ora di riabbracciarlo, posso solo immaginare cosa provasse Veronica all'idea di incontrarlo di nuovo dopo più di un anno di lontananza.

Dopo che la piccola riunione fu sciolta e i miei compagni furono congedati, trovai il coraggio di stringere il polso di Isabella. Lei fu sorpresa del gesto intimo, ma non si ritrasse.

“Se mi concedete la sfacciataggine, mia signora...siete provata. Da quante notti non dormite?”

“Non a sufficienza da piegarmi, giovane Auditore. Come vedi, sono ancora in piedi.”

“Non per molto, se vi ostinate a devastare il vostro corpo e la vostra mente.”

Lei inarcò un sopracciglio. “Quando sarai il mio cerusico personale, Bianca, avrò la bontà di conferirti la carica con una cerimonia ufficiale. Fino ad allora, ti prego di astenerti dal commentare la mia capacità di amministrare la Fratellanza.”

Non bastava certo quel suo tono di comando ad piegarmi: tuttavia, con Isabella un semplice testa a testa non avrebbe fruttato nulla. Decisi quindi di optare per la linea dolce; lasciai il suo polso e abbassai il capo in un lieve inchino di scuse, per riportare subito gli occhi nei suoi.

“So cosa vi tiene sveglia la notte, mia signora...tiene sveglia anche me, allo stesso modo. Noi combattiamo con tutte le nostre forze, affiliamo le armi, predisponiamo eserciti per una guerra...e poi basta una febbre a portarci via ciò che amiamo più di tutto.”

Il mio personale dolore vibrava in quelle parole, me ne rendevo conto. Nonna Maria era ben lontana da essere un ricordo sopito: spesso ancora la sognavo, con i suoi capelli bianchi sparsi sulle spalle e la sua voce sicura, ma il sogno finiva prima che potessi capire cosa mi stesse dicendo.

Vidi qualcosa distendere il viso di Isabella, e per un attimo pensai che mi era riconoscente per la mia apprensione. Forse provava perfino una forma di affetto per me. Ma la voce era salda e metallica, quando disse:

“Questo mondo incomprensibile non è propizio a tutte le delicatezze di un bambino. L'ho pianta come dovevo. Gli altri miei figli sono sopravvissuti, e devo curarmi di loro.” I suoi occhi, gelidi, si misero nei miei. “La vita non lascia pause, Bianca.1

E la vita di un Assassino ne lascia ancora meno, come appresi di lì a breve.

 

So di aver sorvolato sul modo in cui Veronica reagì dopo aver compiuto la sua vendetta, e se l'ho fatto finora è solo perché tutto ciò che ho da dirvi a riguardo è superfluo. Nulla che non possiate aver intuito già da voi. Uccidere Strozzi aveva messo pace nel suo cuore? Ovviamente no. Ne avevamo parlato e riparlato, fino a che non mi era sembrato che la tempesta dietro ai suoi occhi scuri si fosse un po' rasserenata. Avevo paura di insistere troppo, e nonostante ciò continuavo a tenere un occhio su di lei, preoccupata che potesse trascinarsi nella malinconia.

Non fu così, non del tutto almeno. Durante la vita quotidiana, Veronica si dimostrava forte e caparbia come sempre. Ma, se ricorderete, dividevo le stanze con lei...e posso dirvi che più di una volta l'avevo sorpresa a passeggiare per la camera in piena notte. A volte si svegliava e gridava. Non sapevo che altro fare, se non restare sveglia con lei per ore, a parlare di tutto e di nulla fino a che non ci addormentavamo nello stesso letto, come due vere sorelle. Tuttavia, la mia presenza non bastava a toglierle quel peso dall'anima, non più di quanto potesse cancellare le sue cicatrici.

Andare a Burago sarebbe stata una prova grandissima per lei, lo sapevo. Avrebbe rivisto Agamennone, e avrebbe dovuto raccontargli della vendetta. Sapevo che temeva il suo giudizio più di ogni altra cosa al mondo.

Attraversammo molta nebbia e molta campagna disabitata, gialla e bruna nello sterile inverno del nord Italia. Quegli spazi così aperti e così schietti mi facevano sentire soverchiata; ciò che più rimpiangevo della mia Toscana all'epoca era il cielo. L'inverno al nord sa essere una cortina di grigiore infinito, che ti avvolge come un drappo soffocante, e mira a chiudere ogni poro della tua pelle. E' acciaio che alza un muro tra te e Dio - ammesso che tu ne abbia uno, ovviamente...e se non ce l'hai, come me, allora ti porta via soltanto la speranza di rivedere presto il sole. Non so, in tutta onestà, quale delle due privazioni sia peggiore.

Burago si rivelò un piccolo paese, stretto su se stesso come un passerotto nella neve. C'era una sola osteria in cui potevamo chiedere di D'Arcy; ci aspettavamo che ci indicassero una strada per l'accampamento, invece l'oste fece un cenno verso un uomo solo, seduto a un tavolo troppo grande per essere occupato da un'unica persona. Teneva i piedi incrociati sul tavolo, poggiati con noncuranza accanto al boccale. Era di altezza media, di corporatura media, ma fuori dalle maniche arrotolate della camicia alla spagnola sbucavano due avambracci allenati alle armi pesanti. Il suo volto sembrava asciugato, quasi ossificato dalla vita raminga; i suoi capelli lisci, né troppo lunghi né troppo corti, erano di un colore indefinibile tra il biondo scuro e il castano, come la barba che gli orlava il volto.

“Capitano D'Arcy?”

Gli occhi grigi slavati ci fulminarono. L'archibugio che teneva poggiato accanto al muro si puntò direttamente sulla fronte di Rinaldo.

“Chi lo cerca?”

Gli stiletti scivolarono veloci tra le dita di Veronica, e la mia lama celata scattò a vuoto. Tuttavia, il nostro compagno rispose placidamente:

“Uno che vuole parlargli, né con speranza né con paura.”

Nec spe, nec metu. Era il segnale che venivamo da parte di Isabella D'Este Gonzaga.

D'Arcy accennò ad un ghigno, ma non abbassò la canna dell'archibugio. Che minaccia stupida, non avrebbe usato quell'arma davanti a tutta quella gente...giusto?

Gli altri avventori della taverna ci guardavano con diffidenza, ma senza reale timore. Forse erano avvezzi a scene del genere. Magari con lo stesso protagonista: D'Arcy sembrava un uomo che amasse farsi notare per gesti platealmente ruvidi.

“Da quando Isabella manda come ambasciatori i vecchi e le donne?”

Era francese, ma non aveva il forte accento che mi sarei aspettata. La sua pareva piuttosto una cantilena tutta personale, un misto di accento lombardo e francese di Marsiglia (questo lo individuò Veronica per me).

“Da quando i ratti di strada fanno carriera nell'Ordine” rispose Rinaldo, duro. Scostò con due dita la canna dell'arma da fuoco. “E ora, se hai finito con la tua sceneggiata, posso riferirti chi siamo e perché siamo qui?”

L'uomo ci studiò in silenzio per qualche istante, l'accenno di ghigno era diventato una smorfia guardinga. Tolse i piedi dal tavolo, poggiò di nuovo l'archibugio contro il muro. Fece un ampio gesto con la mano.

“Vi ascolto. Ma per farlo meglio ho bisogno di innaffiarmi la gola.”

Ordinò del vino – il migliore possibile, visto che sembrava convinto che la Marchesana gli avrebbe finanziato quella spesa. Rinaldo pagò senza battere ciglio, e iniziò a presentare se stesso, noi due, e la promessa fatta sul letto di morte a Livia Gonzaga.

“Fondare un covo, eh?” mi aspettai che D'Arcy ridesse della cosa; fu invece pratico. “Con che mezzi? I miei uomini sono soldati, non costruttori.”

“Conosci la gente di qui. Metti insieme una buona squadra, Isabella ti manderà un suo architetto. Darai lavoro a un sacco di abitanti, ti saranno riconoscenti.”

“E chi lo abiterà, questo finto convento?”

“E' presto per deciderlo, la Marchesana sceglierà un Maestro per dirigerlo. Noi siamo qui soltanto per vedere tirare la freccia.” Rinaldo accennò ad un sorriso, e gli disse il nome dell'uomo che era stato designato per questo compito: Agamennone Marescotti. Vidi la bocca di D'Arcy torcersi in un guizzo nervoso.

“Almeno il ragazzo si rivelerà utile a qualcosa” commentò in un mormorio contrariato.


***


L'accampamento mercenario non era diverso da quelli di cui mi aveva raccontato mio padre, pieno di palizzate piuttosto acuminate da scalare anche per l'assassino più esperto, tende non propriamente resistenti alle intemperie, armamenti accatastati in improvvisati depositi. Era tutto bene organizzato, eppure aveva un'inevitabile aria di provvisorietà. Era stato costruito intorno a un'antica torre di avvistamento, di quelle tirate su con sassi di fiume: la torre si stagliava al centro del campo della Compagnia della Stella come l'ago di una bussola, il centro di un equilibrio instabile.

Agamennone era alla mola, stava affilando una spada. Una spada...Agamennone. Che strana accoppiata, non riuscivo a capacitarmene. Chissà dov'era Giorgio. Chissà se glielo avevano lasciato tenere.

Il mio amico era cambiato, questo era innegabile. I capelli erano un cespuglio disordinato e rigoglioso come sempre, ma sul volto la barba si era fatta più fitta, e il suo fisico allampanato si era asciugato ancora. Mentre lavorava teneva le maniche della camicia arrotolate sulle spalle: i muscoli delle braccia erano così definiti che la pelle pareva tesa direttamente su di essi, senza strati di carne a fare da intermediario. Anche il suo volto era smagrito, più incavato. Sembrava che il vento l'avesse scavato un poco...somigliava a D'Arcy e a tutti i suoi compagni lì intorno. Mi chiesi se quello era l'effetto che il campo di battaglia faceva agli uomini.

Quando D'Arcy chiamò il suo nome, Agamennone alzò lo sguardo. I suoi occhi color nocciola si dilatarono per la sorpresa, soffermandosi brevemente su di me e più a lungo su Veronica.

Sorrisi, tra me, e non mi sentii affatto defraudata. Chissà se questa volta quei due sciocchi sarebbero riusciti a dirsi quanto tenevano uno all'altra.

I saluti furono piuttosto peculiari, lo ammetto. Tanto calore c'era tra me e il mio amico di sempre, come se ci fossimo lasciati solo il giorno prima, quanto imbarazzo ristagnava tra lui e Veronica. Era lei, soprattutto, a mostrarsi stranamente fredda. Aveva sempre avuto paura di varcare la soglia, questo lo sapevo bene. Tuttavia, c'era qualcosa di più questa volta. Una durezza che mi sorprendeva.

Ciò che passava per la mente di Agamennone in quel momento potevo leggerlo perfettamente sul suo viso. Erano stati lontani un anno. Chissà quante cose erano cambiate per Veronica in quella corte piena di persone colte, brillanti, interessanti...probabilmente, pensava di non essere più nei suoi pensieri. Forse, se lo conoscevo abbastanza, non aveva nemmeno mai osato sognare di farne parte.

Avrei voluto prenderli e scuoterli entrambi...ma, ancora una volta, dovevo controllarmi e smetterla di farmi gli affari loro.

Il rito della freccia fu sbrigato quel pomeriggio, finché ancora c'era luce. Scoprii che il caro vecchio Giorgio giaceva nel deposito delle armi, negletto nella pratica, ma ancora discretamente ben curato. Vedere Agamennone incordarlo con decisione, poi sistemare la freccia dalla cocca bianca e rossa prima di rivolgerla al cielo, mi provocò una strana emozione bruciante in petto. Il mio cuore era conteso tra commozione e orgoglio: l'una per Livia, l'altro per quei colori che mi avevano cullata per tutta la mia vita, distinguendo gli amici dai nemici, il “noi” dal “loro”. Rosso e bianco. Sangue e...

Cos'è il bianco? Purezza? No...assenza. Privazione. Un niente che sta per diventare qualcosa ma può ancora essere tutto...

...proprio come me.

Quando Agamennone scoccò la freccia verso l'alto, sono certa che tutto l'accampamento abbia trattenuto il fiato. La storia della bambina che ci aveva portato fin lì con la sua ultima richiesta era stata capace di sciogliere il cuore di ognuno di quei soldati di ventura. Osservammo il dardo salire, sparire nel grigio, forare le nuvole.

“Requiescas in pace, mia piccola signora” mormorò Rinaldo. Non so perché, presi la sua mano e la strinsi. Lui parve sorpreso, ma mi rivolse un pallido sorriso, prima di ricambiare la stretta.

Le cose veramente belle svaniscono rapidamente” aggiunse con gli occhi incollati al cielo. Stava aspettando che la freccia scendesse. Lo stavo aspettando anche io, e mi sorpresi a pensare: Coraggio, Livia, non farci scherzi. Rimandala giù.

“Tu dici?”

“Eccome.”

“Io penso che le cose veramente belle rimangano per sempre.” Mi portai la mano libera sul cuore, in un gesto involontario. Rinaldo sorrise.

“Qualcuno qui sta diventando sentimentale.”

“Non diffondere la voce. Ti ricordo che mi devi un favore.”

“Punto di vista opinabile, c'è chi direbbe che ne devi tu uno a me.”

“Riesci mai ad accettare di non avere l'ultima parola?”

“Potrei farti la stessa domanda.”

Quando la freccia cadde piantandosi praticamente ai nostri piedi, capimmo che l'ultima parola quel giorno non era destinata a nessuno di noi due.

 

D'Arcy pose simbolicamente la prima pietra della nuova roccaforte Assassina nel punto esatto da cui avevamo divelto la punta della freccia; quella sera, l'accampamento era in festa per celebrare l'evento. Rinaldo si ubriacò e iniziò a parlare di sciocchezze su sciocchezze, giochi di parole così fantasiosi che i ragazzi di D'Arcy, per lo più contadini o mercenari d'Oltralpe, lo seguivano con gli occhi sgranati come bambini di fronte ad una filastrocca senza senso, e ridevano altrettanto rumorosamente delle sue strambe imitazioni. Io sedevo accanto ad Agamennone, osservando a tratti Veronica, che parlava con altri giovani mercenari in un francese piuttosto fluente, a tratti D'Arcy, che beveva in silenzio guardando il fuoco.

“Il capitano sembrava addolorato, oggi” commentai, cercando di stornare l'attenzione di Agamennone dalla mia rossa amica. “Come se fosse davvero partecipe. Sai se è vicino ai Gonzaga?”

Per tutta risposta, Agamennone scosse il capo. “No, non credo. Ma aveva una figlia, una volta” mormorò.

“E che ne è stato di lei?”

“Non lo so. Non è un tipo che parla molto. Di certo non con me, comunque.”

Scrutai per bene il volto del mio amico. Era provato dalle intemperie o dalle notti insonni?

“Va tutto bene, qui?”

Agamennone si strinse nelle spalle. “Come può andare bene a dei soldati in inverno. Non ci sono battaglie. Bighelloniamo.”

“Com'è...la battaglia?”

Lui sembrò riflettere per un momento. Giocherellava ancora con la freccia che aveva segnato il punto in cui porre la prima pietra del nuovo covo, con aria pensierosa.

“Non lo so.”

“Un momento, stai dicendo che non sei ancora mai sceso in battaglia?”

Una volta...” torse le labbra. “A Cadore. Questa primavera.2

“E...?”

“Mi sono paralizzato.”

Oh. Ecco spiegato il disappunto del capitano nei suoi confronti.

“Mennone...non ti è mai successo niente del genere in missione.”

“Lo so.”

Aveva un'espressione smarrita in viso. Avrei voluto abbracciarlo.

Con voce quanto più dolce possibile, mormorai: “Perché ti sei paralizzato?”

I suoi occhi color nocciola si fissarono sulla freccia, la cui punta continuava a rigirare ritmicamente tra le dita.

“Era proprio così...Bologna, quella notte, era proprio così. Una bolgia dell'inferno aperta sotto i miei piedi. I rivoli di sangue...le grida dei carnefici e dei moribondi. La puzza di morte.” Alzò lo sguardo nel mio, quasi supplicandomi di capirlo. “Tu lo conosci quell'odore, vero? Sai di cosa sto parlando, vero?”

Presi un profondo respiro. “Sì. Lo conosco.”

“Era come se fossi tornato bambino...tutto l'addestramento, cancellato. La mia testa era vuota.” Tornò a guardare la freccia. “Da allora, D'Arcy mi tiene a fare la guardia ai carri degli approvvigionamenti. Quando non siamo in battaglia mi addestro come tutti gli altri...ma lui non si fida di me. E non posso dargli torto. Ho rischiato di farmi uccidere, e fare uccidere anche lui. Mi ha trascinato al sicuro prima che mi massacrassero, sai. E' un brav'uomo. Un altro al suo posto mi avrebbe lasciato crepare.”

In quel momento, lo confesso, provai un nuovo moto di rabbia per mio padre. Era qualcosa a cui avrebbe dovuto pensare. Perché aveva destinato Agamennone al campo di battaglia? Perché aveva costretto un ragazzo il cui arco era la protuberanza del suo braccio a combattere in mezzo a un manipolo di fanti e lancieri, quando sapeva cosa aveva vissuto Agamennone da bambino, con la sua famiglia barbaramente trucidata? La lista delle mie domande aumentava con ogni battito di ciglia. Quando fossi tornata a Mantova, gli avrei scritto. Avrei preteso spiegazioni.

La mia attenzione fu bruscamente attratta da Veronica, e dal suono del ceffone che aveva appioppato a uno dei ragazzi con cui fino a pochi minuti prima stava scherzando. Lui le aveva ripreso il polso, ridendo, e lei tentava di divincolarsi.

Povero illuso. Veronica l'avrebbe steso in due minuti.

Tuttavia, la risposta violenta della mia amica tardava a innescarsi. La guardai, inarcando il sopracciglio. Perché non lo metteva al suo posto?

Non feci in tempo a chiedermi se dovessi intervenire, che Agamennone si avvicinò al gruppo.

“Lasciala in pace, Vincent.”

Per tutta risposta, il francese guardò il mio amico con spregio. “Se no, qu'est-ce que tu fais? Pisciasotto.”

Le risate si alzarono ancora più forti, insieme a una cantilena sul “Marescotti pisciasotto.”

Veronica tolse con forza il polso dalla stretta del ragazzo, e poggiò una mano sulla spalla di Agamennone. “Non importa. Vieni via.” I lazzi aumentarono, ma il volto del mio amico aveva dentro una serietà che raramente vi avevo visto.

Allez, allez...vai a nasconderti, sous la jupe de cette salope3!”

Senza muovere nemmeno un muscolo del viso, Agamennone tese il braccio. La punta della freccia toccava la gola di Vincent.

Tenni il fiato. Lo ammetto, per un attimo ebbi davvero paura che trapassasse il collo del suo compagno d'arme da parte a parte.

La voce di D'Arcy schioccò dura come una frusta.

“Basta adesso! Dovrei mettervi ai ceppi, stupidi ragazzini. ”

Agamennone non abbassò la freccia.

Aaaah, bordel de merde! Vous me rendez fou!” Con quelle parole – le prime in francese che gli sentivo pronunciare da quando ero arrivata - D'Arcy spostò violentemente Agamennone da Vincent, e viceversa.

Tu” disse, severo, strappando la freccia dalle mani del mio amico “E' questo l'onore che fai alla bambina? Quante volte me l'hai sentito dire, imbécile? Non si minaccia un uomo con qualcosa che non puoi usare come arma! E questa non è un'arma, è un simbolo! Ne comprends-tu pas?” Una breve pausa. Si volse verso Vincent. “Et tu...”

La verbosa animosità che aveva rivolto ad Agamennone si tramutò in gelo. Ne fui decisamente più spaventata, e come me il resto della Compagnia della Stella.

“Chiedi scusa a madamigella Veronica.”

Elle m'a provoqué! Vous l'avez vu!”

“Chiedile. Scusa.”

Vincent deglutì, e sembrò più pallido per un momento. Lo sguardo di D'Arcy somigliava all'acciaio delle spade, ed era altrettanto tagliente. Tuttavia, il ragazzo serrò la mascella con sdegno, rifiutandosi di scusarsi. Allora, Il capitano gli afferrò forte l'orecchio, costringendolo a piegarsi.

Dans ma tente. Maintenant.”

Vincent non ebbe l'occasione di scegliere se volesse ubbidire o meno, perché fu trascinato nella tenda dal capitano stesso, per un orecchio. Tutto il resto della compagnia lo compatì per il suo destino, e l'incidente fu dimenticato. Tutti tornarono a ridere e scherzare come prima.

Tutti, tranne Veronica.

“Stai bene?” le domandò Agamennone. Di fronte al suo sguardo preoccupato, la mia amica forzò un sorriso.

“Certo. E' stata solo una sciocchezza.” Cercò i miei occhi come un'ancora di salvezza. “Bianca...è rimasto qualcosa da bere?”

Mi prese a braccetto, e letteralmente mi trascinò via. Mentre ci allontanavamo da Agamennone, le bisbigliai:

“Sei impazzita?”

“Taci, ti prego.”

“Che c'è, Veronica? Si può sapere che ti prende?”

Aspettò di arrivare in un punto isolato dell'accampamento, prima di rispondermi. Non lontano dalla torre di pietra, dove il falò intorno a cui gli uomini bivaccavano ci rischiarava appena i visi di una luce fioca.

“Non ce la faccio. Non posso stargli vicino.”

“Perché?” mormorai. “Prima eviti Agamennone per tutto il giorno, poi civetti per ore con quei ragazzi...e quando passano il limite tu non reagisci! Non ti riconosco più, cosa ti sta succedendo?”

“Succede che non riesco a levarmelo dalla mente!”

Era quasi un grido: ma soffocato, senza suono. Vidi la disperazione tenderle il viso, e capii di chi stesse parlando.

Strozzi. Quel nome era scritto su tutto il suo viso, insieme alla paura, al disgusto, al dolore che portava con sé.

Succede che non riesco a non pensare a...sai cosa mi ha detto tuo padre prima di partire per Milano? La vendetta rende vuoti, e il sangue chiama solo altro sangue. E aveva ragione, dannazione! Io sono un sacco vuoto, un maledetto sacco vuoto su cui hanno pisciato sopra...”

Non tentai di fermare il suo sproloquio: la conoscevo abbastanza da sapere che aveva bisogno di questo fiume di parole, adesso. Aveva bisogno di camminare, agitare le braccia e dirmi a voce tremante tutto quello che le torceva le viscere.

Quando un uomo mi tocca...come Vincent prima...io lo ricordo. Ricordo quello che quel porco mi ha fatto...e mi chiedi perché resto lontana da Agamennone?” Strinse le labbra. “Non ce la faccio, al pensiero che lui possa vedere tutto lo sporco che c'è in me. Pensavo che uccidere Strozzi mi avrebbe ripulita, invece mi sento ancora come prima. Piena di fango. Non importa quanto mi lavi, mi profumi, mi renda bella...puzzo di putrefazione, puoi sentirlo?”

“No, Veronica. E' qualcosa che senti solo tu.”

La voce che ruppe quel monologo non apparteneva a me.

Mi volsi, per vedere il volto pallido di Agamennone emergere dalla penombra. Con un'espressione accorata a tendergli i lineamenti, il mio amico mormorò: “Quello che Strozzi ti ha fatto non c'entra nulla con quello che sei.”

Veronica trattenne un respiro carico di ansia, lo ingoiò a fatica.

“E quello che ho fatto io a lui? Cosa dice della persona che sono?”

La domanda restò sospesa nell'aria. Mi sentii improvvisamente di troppo nel loro dialogo. Non era da me che lei voleva una risposta, adesso. Ma Agamennone non disse nulla, e gli occhi di Veronica si riempirono di lacrime.

“Scusatemi, ho bisogno d'aria.”

Corse sulla scaletta che portava ai merli della torre. Feci per muovere un passo e seguirla, quando la mano di Agamennone mi trattenne.

“Posso andare io?”

Naturalmente, annuii. Avrei voluto aggiungere: vedete di risolverla, questa volta. Ma non mi sembrava la cosa migliore da dire, al momento. Se non altro, be'...per scaramanzia.

Ciò che accadde poi, lontano dai miei occhi, posso verosimilmente ricostruirlo. Ho i miei modi di ricavare pezzetti di informazione e metterli insieme per formare un quadro credibile. Mediando tra il racconto di Veronica e quello di Agamennone, conoscendoli abbastanza da sapere quello che uno mi avrebbe celato e l’altra avrebbe omesso, vi offro la mia versione dei fatti.

 

*

 

Agamennone sale sulla torre. Veronica è appena arrivata: ha ancora il fiato corto. Tuttavia, non può farglielo capire: ne va del suo orgoglio. Si volta e lo fulmina con lo sguardo.

“Non devi sentirti in dovere di consolarmi. Voglio stare sola.”

Lui sembra affannato, e non per la salita delle scale. “L'avrebbe fatto chiunque.”

Veronica resta in silenzio. Agamennone prosegue: “Quello che hai fatto tu a Strozzi è quello che avrebbe fatto chiunque al tuo posto. Non dice niente di quello che sei...è qualcosa che non devi giustificare a nessuno, sai. Il tuo valore lo conosciamo tutti.”
Veronica annuisce. Stringe le labbra e pensa: Perché non l'hai detto poco fa? Lo pensi davvero?

Ma lui sembra già avere la testa da un'altra parte, rivolta verso il cielo stellato che sta su di loro. Gli invidia questa capacità di parlare di qualcosa con assoluta serietà e poi accantonarlo, come un oggetto da riporre in un cassetto per poi passare al successivo. O forse è solo un modo come un altro per distrarla.

“Sai, vengo spesso quassù a osservare le stelle. Cerco sempre la costellazione di Orione, la vedevo dal tetto di Villa Auditore tutte le sere...ecco, è quella!” Agamennone punta il dito nel buio, sorride; poi, volge lo sguardo su di lei. “Ti va di guardare le stelle con me? Come quella volta?”

Quella volta è stata la notte in cui Nicola era prigioniero, segregato per quel crimine che in realtà aveva compiuto Vanni. Veronica aveva raggiunto Agamennone sul tetto. Avevano passato ore e ore a parlare delle costellazioni: lui gliele aveva segnate ad una ad una, lei gli aveva parlato dei loro nomi latini e delle leggende collegate a ogni figura. Ancora adesso, è uno dei ricordi più cari a Veronica, uno di quelli a cui aggrapparsi nei momenti peggiori, quando si sente sprofondare.

Annuisce, ancora cauta. Agamennone è pur sempre un uomo. Gli uomini feriscono.

Lui si siede, e fissa lo sguardo nel buio della notte. Guardinga, Veronica fa lo stesso. Lo fissa mentre lui fissa le sue adorate stelle, quei lumi lontani che tracciano con i loro moti il destino degli uomini. Si chiede come possa amarle tanto, visto che gli hanno predetto la fine della sua vita. Fa i conti, rapidamente: 11 aprile 1512. Tra poco più di tre anni. Le si mozza il fiato.

Parlano a lungo, anche questa volta. Ma non delle stelle. Comincia lei, si umetta le labbra.

“Perché ti chiamano Pisciasotto?”

“Perché sul campo di battaglia sono rimasto immobile come uno stoccafisso.”

Sente il cuore torcersi. Lo sapeva. Non è felice qui. Non è al suo posto.

“Tu non appartieni a questo luogo.”

“Pensi anche tu che non possa farcela?”

“No! Non ho detto questo.” E' che le si mozza il fiato ogni volta che lo pensa in pericolo. Prende un paio di lunghi respiri. “Penso che dovresti essere in un posto in cui puoi dare il massimo di te.”

“Io credo nel Mentore. Se ha deciso così, si vede che posso dare il mio massimo qui. Devo solo capire come riuscirci.”

Veronica si stringe le ginocchia al petto. Quel riferimento a Ezio punge il suo senso di colpa come uno spillo. “Questo è vero, lui è più saggio di quanto crediamo. Non voleva che mi vendicassi di Strozzi...non immagini quanto l'ho odiato quando ho ricevuto l'ordine di restare a Mantova. Ma ora capisco cosa voleva dirmi. E' vero, il sangue chiama solo altro sangue.”

Agamennone annuisce. Poi, si sdraia. Continua a guardare le stelle.

“Lascerò il Bentivoglio a Nicola, allora. A me la vendetta non è mai interessata molto. Mia madre non tornerà comunque.”

Veronica ha voglia di piangere. La sua purezza la attira come una calamita. Gli uomini feriscono, è vero...ma Agamennone è diverso da ogni uomo che abbia mai incontrato. Lei ne ha viste di lordure nella sua vita, ne ha incontrati parecchi di porci, di vermi, di sparvieri. Eppure, anche adesso che è diventato un soldato, Agamennone è rimasto qualcosa di bianco, qualcosa che le brutture del mondo non riescono a sporcare. Vorrebbe affondare le mani nei suoi ricci biondi, sembrano spirali d’oro. Come un giovane dio antico, incoronato da raggi di sole.

Ma non ha il coraggio di coprire quella distanza. Si sdraia soltanto, abbastanza vicina da sentire, se chiude gli occhi, il suono del suo respiro. Vorrebbe rimanere così per sempre, in bilico tra il passato e il futuro, ferma in quell’istante perfetto.

 

*

 

Agamennone non si era mai sentito così, prima. Come se avesse le braci del focolare sottopelle. Gli arti pesanti, bloccati, la lingua ferma in gola per paura di dire una parola di troppo. Forse quello che le ha detto suona sciocco, forse le sembra un bambino. Vorrebbe prendere il suo dolore e caricarselo addosso. Vorrebbe portare quel fardello tremendo al suo posto, cancellare le cicatrici con una carezza e regalarle una nuova vita, senza morte, senza dolore. Veronica è una creatura abbagliante, la sofferenza ha invecchiato i suoi occhi e li ha riempiti di una forza sovrannaturale. Affronta la vita con una grinta che lui ammira e invidia. Squarcia lo spazio con la sua presenza, si appropria degli sguardi altrui, incanta la mente con le sue parole sempre studiate, sempre perfette. Ma questa donna che ha accanto, e che ora sembra così vulnerabile, forse lo attira ancora di più.

Vorrebbe fare qualcosa. Smuovere quell’immobile silenzio. Ma ha paura. Perché se inizia a vivere adesso che manca così poco a quella data maledetta, come potrà staccarsi da lei quando le stelle lo chiameranno? Come potrà accettare con rassegnazione il suo destino?

Sposta il viso per osservarla meglio, e già quel gesto equivale a spostare una montagna. Veronica sta guardando il cielo, assorta, calma. Il suo profilo bianco traspare nel buio. Poi, lei si accorge dei suoi occhi addosso. Volta solo la testa.

“Non guardi più le stelle?”

Non sa dove trova il coraggio, le parole escono in un soffio, veloci, non riesce a fermarle.

“Ce n’è una più bella accanto a me.”

Lei esita. Passano tante emozioni diverse sul suo viso, a molte lui non sa dare un nome. Ma conosce la paura quando la vede. Non capisce perché. L’ha spaventata?

Distoglie lo sguardo, Veronica. Ma lui ha fatto in tempo a vedere che si è riempito di lacrime.

“Cosa c'è?”

“Io odio le stelle.”

“Perché?”

“Perché...” Veronica trattiene a stento un singhiozzo angosciato. “Ti porteranno via da me.”

I pensieri si annullano. Le parole giuste scivolano via dalle labbra di Agamennone, per la prima volta, senza che debba cercarle.

“Niente può portarmi via da te.”

Le accarezza il viso con delicatezza. Ha paura di farle del male. Lei si gira lentamente su un fianco, annulla la loro distanza. Passano un istante infinito a guardarsi. Poi, Veronica cerca le sue labbra.

La sua bocca è più dolce di quanto avesse immaginato. Lo ubriaca, come il vino di casa. Un sorso porta a un altro, e a un altro ancora. Forse le stelle stanno ridendo di loro: ma adesso non importa.

“Giurami che vivrai” mormora Veronica, con gli occhi ancora chiusi.

Agamennone non è capace di mentire. “Non posso.”

I grandi occhi castani si aprono, a quel punto. Incatenano i suoi e lo costringono a reggere lo sguardo.

“Allora giurami che combatterai, almeno. Che proverai a farlo...”

Agamennone sorride. Si ricorda delle parole di Bianca, tanti anni fa: aveva ragione, non è solo contro tutte le stelle. C'è Veronica. Ci sono i suoi Fratelli di Lama. C'è qualcosa per cui vivere...anche se fosse solo per i prossimi tre anni.

“Te lo giuro. Combatterò.”

Per la prima volta, nel cuore di Agamennone nasce una speranza. Una ribellione. E pensa: io voglio vivere oltre quella data. Io voglio vivere.

 

***

 

Un racconto dettagliato, dite? Sì, è vero, sono sempre stata una persona molto fantasiosa.

Va bene, non ve l'ho data a bere nemmeno per un momento. La verità è che li ho spiati di nascosto, arrampicata sui merli della torre...perché diciamocelo, c'era la seria possibilità che anche questa volta quei due idioti non si decidessero a fare nemmeno mezzo passo. E io non volevo spingerli, ovviamente...solo assicurarmi che tutto funzionasse nel modo giusto. E' stato un piacere vedere che per una volta se la sono cavata anche senza di me.

La conferma definitiva, comunque, la diedero a tutti quanti quando le nostre strade si separarono.

La Compagnia ci aveva già dato il suo rumoroso, benevolo saluto, e con essa D'Arcy. Il suo commiato fu un poco più caloroso del benvenuto: strinse senza parole la mano di Frittella, e rivolse a Veronica e me un profondo inchino.

A bien tot, madamoiselles. Spero che i nostri cammini si incroceranno ancora.”

“Ne sono certa, capitano” risposi.

Veronica aggiunse: “E grazie ancora per essere intervenuto in mio favore, ieri sera.”

“Dovere, madmoiselle...nessun uomo degno di questo nome deve prendersi certe libertà con una donna. Per questo Vincent sarà punito duramente, ve lo garantisco.”

Oh, sì, sapevo della punizione di Vincent...e devo dire che era assolutamente di mio gradimento. Per il prossimo mese, lo spaccone si sarebbe occupato di ripulire il letame dei cavalli e quello delle latrine di giorno, e avrebbe girato per il campo vestito da donna di sera. La prima umiliazione gli avrebbe fatto capire che si era comportato come un pezzo del materiale che maneggiava, e la seconda gli avrebbe insegnato che i panni femminili non sono facili da portare.

Al momento dell'addio vero e proprio, Veronica guardava Agamennone e lui guardava lei, con un sacco di parole dentro gli occhi. Non importava, stavolta: capivo che volessero tenere la loro storia per sé. L'importante era che ora si sarebbero allontanati sapendo cosa provavano l'uno per l'altra.

Avevamo già compiuto diversi passi in direzione del sentiero che ci avrebbe portati di nuovo verso Mantova, quando Veronica si fermò.

Volevo chiederle se andasse tutto bene, ma non feci in tempo. Lei tornò indietro correndo, come se avesse dimenticato una cosa importante. Davanti a tutti, afferrò il bavero di Agamennone per tirarlo verso di sé, e gli diede un lungo bacio appassionato.

Il rossore del mio amico era evidente, ma anche l'entusiasmo con cui rispose al bacio lo era. Allacciò le braccia intorno alla sua vita, mentre Veronica gli gettava le sue intorno al collo. La Compagnia della Stella si produsse in fischi e lazzi, molto probabilmente invidiosi. Eppure, quando si divisero per guardarsi negli occhi, era chiaro che entrambi non vedevano altri intorno a loro.

“Stai attento.”

“Anche tu.”

“E fai vedere a tutti quanto vale il mio uomo. D'accordo?”

“D'accordo.” Un altro bacio. “Ti scriverò.”

Forse perché sapeva che quella era una promessa che difficilmente Agamennone avrebbe potuto mantenere, Veronica disse:

“Non serve. Continua a guardare le stelle...sono le stesse su Mantova e su Milano.”

Solo allora, dopo un colpo di tosse di D'Arcy, i due innamorati – non sapete che soddisfazione per me poterli finalmente chiamare così – si separarono. Entrambi avevano le guance leggermente arrossate, e un grande sorriso a distendere i loro lineamenti. No, i loro passati dolorosi non erano cambiati, e le loro difficoltà presenti erano sempre lì davanti. Eppure, adesso avevano qualcosa di bello su cui contare, un pensiero che sarebbe sempre rimasto felice.

Sì, nel loro caso l'amore era un punto di forza.

Ma non per tutte le persone funziona allo stesso modo, giusto?

 

Come mi ero ripromessa, una volta di ritorno a Mantova scrissi a Ezio una lunga lettera. Gli chiesi perché avesse scelto una destinazione tanto improbabile per Agamennone, e se si fosse davvero illuso che Veronica avrebbe accettato i suoi ordini, senza immischiarsi nella missione di assassinio del suo carnefice. Per quale motivo era stato così cieco di fronte ai desideri e ai bisogni di quelli che non troppo tempo fa considerava come figli?

La risposta non arrivò mai. Arrivò invece mio padre, in carne ed ossa.

Lo trovai un pomeriggio di inizio primavera, accanto alla Grotta di Isabella, scavata nel tufo e ricoperta di conchiglie opalescenti. Sedeva a terra, il cappuccio nero mollemente adagiato sulle spalle, i nastri d'argento che rilucevano tra i suoi capelli sotto i raggi di un sole timido. Era invecchiato, più stanco: ma no, non più duro come mi sarei aspettata. Sorrideva, invece, mentre parlava fittamente con la piccola Ippolita.

Non doveva essersi fatto annunciare, altrimenti Isabella mi avrebbe avvisato del suo arrivo. Lo trovai semplicemente lì, solo con la bambina, a cui prestava un'incondizionata attenzione. Possibile che avesse scalato il palazzo e si fosse introdotto lì di nascosto? Mi chiesi per quale ragione avrebbe dovuto farlo.

Rimasi in silenzio per qualche istante, e al posto di Ippolita Gonzaga rividi la me stessa bambina, che parlava con un Ezio più giovane.

“Mi manca tanto” stava dicendo Ippolita, il visetto corrucciato. Frittella era preoccupato per lei: dalla morte di Livia aveva parlato raramente, e la balia raccontava che spesso si svegliava piangendo. L'unica cosa che sembrava placarla erano le bambole di sua sorella, Ippolita diceva che conservavano ancora il suo odore.

Ezio la guardò con serietà. “Non ti ha mai lasciato davvero. Livia sarà sempre in ogni tuo gesto, in ogni parola che dici e in ogni cosa che vedi. Vive attraverso di te, adesso...è una grande responsabilità, la tua. Devi vivere con tutte le tue forze, perché è il solo modo in cui anche lei può continuare a farlo.”

Stava parlando di Ippolita e Livia, o di se stesso e dei suoi fratelli4?

D'improvviso, la rabbia che avevo provato nei suoi confronti si dissipò come la nebbia quando si alza il vento. E' sempre stata la specialità di mio padre, riconquistare il mio cuore di colpo proprio quando ero sul punto di detestarlo.

“Bianca!”

La voce della marchesina mi risvegliò dai miei pensieri, e portò anche l'attenzione di Ezio su di me. Mio padre si alzò in piedi. La bambina corse nella mia direzione, mi prese le mani e mi trascinò verso il simpatico sconosciuto che aveva rapidamente conquistato la sua fiducia.

“Che bello che sei arrivata proprio adesso. Ti presento il mio nuovo amico. Si chiama Ezio.”

“Lo conosco, Ippolita.” Sorrisi, volgendo lo sguardo su di lui. “Ezio è il mio papà.”

Mio padre ricambiò con uno sguardo dolce, e un abbozzo di sorriso.

“Davvero?” Gli occhioni vivaci della bambina si dilatarono, per la sorpresa e la delizia. Fu una gioia vedere quell'espressione sul suo viso dopo tanti mesi di dolore. “Ezio, lo sai che Bianca è la mia migliore amica?”

“Davvero, Ippolita? Che coincidenza. Bianca è anche la mia migliore amica.”

Strinsi le labbra in una smorfia di bonario rimprovero. Questo non era del tutto vero: a un'amica Ezio avrebbe detto delle sue intenzioni prima di metterle in pratica, mentre invece, “per il mio bene”, continuava a tenermi un'infinità di segreti.

“Vuol dire che anche io e te siamo migliori amici!” dedusse, serissima, la marchesina.

“Conclusione ragionevole” avallò mio padre, sfiorandole il naso con l'indice. “E ora, posso chiederti di andare dalla tua balia? Se non interrompi il nascondino non ti troverà mai, e sarà molto dispiaciuta.”

Ippolita annuì. “Bianca, resti tu a fare compagnia a Ezio? Non vorrei che si sentisse solo mentre non ci sono.”

Le rivolsi un inchino. “Come desidera la mia piccola padrona.”

Una volta che Ippolita fu sparita di nuovo nei corridoi che l'avrebbero condotta nelle stanze della balia Caterina, rivolsi gli occhi su mio padre.

“Isabella sarà furiosa.”

“Per quello che ho detto alla bambina?”

“Perché non vi siete fatto annunciare. Sapete quanto tenga alle formalità.”

“Lo so, ma non sono qui per vedere lei.” Mi porse il braccio. “Posso avere l'onore di una passeggiata con voi, madamigella Auditore?”

Sorrisi con calore, mentre poggiavo la mano sul suo braccio. Che strana situazione...mostrarmi a lui vestita da dama, e con i capelli cresciuti, fittamente intrecciati in una rete di argento e perle. Indossavo un abito rosso, quel giorno, e gioielli di diaspro dello stesso colore. Non dovevo somigliare per niente al maschiaccio dalle ginocchia sbucciate che lui aveva portato sulle spalle fino al tetto di Villa Auditore.

Passeggiammo quietamente per i giardini privati di Isabella, indisturbati. Gli chiesi della confraternita di Roma, di zio Ugo, di zia Claudia e Lisabetta. Con un poco di cautela in più, domandai di mia madre. Lui era bravo a mentire, lo era sempre stato: ma il guizzo leggero all'angolo della sua bocca mi diceva che tra di loro c'era ancora freddezza. Mi chiesi se lo strappo si sarebbe mai ricucito, o se la mia famiglia fosse ormai diventata un vestito smesso, buono solo per farne stracci sbrindellati.

Ezio si informò sulla mia vita a Mantova, ed io ne approfittai per parlare di ciò che, sapevo, l'aveva portato qui, ovvero la mia lettera e le mie domande.

Ammetto che faceva un altro effetto pronunciarle ad alta voce. Non vennero fuori furiose come le avevo immaginate.

“Da quel che mi hai detto, Veronica ha capito finalmente.” Il suo sguardo scuro si fece distante. “La vendetta ti incatena più forte al tuo dolore. Ho cercato di evitarle di scoprirlo da sola, ma a quanto pare non sono bravo nel tentare di educare i ragazzi.”

“Non siate troppo severo con voi stesso. Dopo tutto, nonostante qualche ammaccatura, io sono un esperimento piuttosto riuscito.”

Si soffermò a guardami per qualche momento. Avrei pagato il mio peso in oro per sapere cosa gli passasse per la testa. “Questo è vero.”

“E Agamennone? Perché la compagnia di ventura?”

“Perché mi fido di D'Arcy.”

“Non avete pensato che potesse rischiare seriamente la vita? Agamennone non è un soldato.”

“Ogni Assassino è un soldato.”

“Sapete cosa intendo.”

“E tu sai cosa intendo io.” Si fermò, per guardarmi negli occhi con gravità. “Il punto debole di Agamennone è quella ferita. Per tanti anni ha puntato lo sguardo sulle stelle per evitare di volgerlo dentro se stesso. Se vuole crescere, nell'Ordine e come uomo, deve affrontare il suo passato.”

Crudele, forse, ma sensato. Terribilmente sensato.

“Pensate che ce la farà?”

“Ne sono certo. Tu no?”

Avevo troppa paura della profezia delle stelle per rispondere con lucidità. “Io credo in lui.”

“Esattamente come ci credo io.”

Ezio passò ad elencarmi tutti i motivi per cui aveva compiuto le scelte che aveva compiuto. Nicola aveva la stoffa del capo, talmente tanto che era diventato un trascinatore naturale a Monteriggioni. Per poter compiere un salto di qualità aveva bisogno di sfide: la Volpe era una maestra in questo, non l'avrebbe fatto sedere sugli allori nemmeno per un minuto. Alla corte di Isabella, invece, Veronica avrebbe riacquistato fiducia nel proprio essere donna, e soprattutto una donna di classe. Per quanto avesse a cuore le prostitute di Teodora e il loro prezioso lavoro per la Fratellanza, Ezio sapeva che, dopo tutto ciò che aveva subito, Veronica doveva imparare a stimare di nuovo se stessa, e togliersi l'etichetta di “puttana” dalla testa prima che dalla carne - dove purtroppo sarebbe rimasta incisa per sempre.

“E io?” domandai, dopo un lungo silenzio. “Perché sono stata mandata qui?”

Ezio mi accarezzò il viso.

“Perché la corte è il luogo in cui puoi brillare davvero. L'hai già ampiamente dimostrato.”

Era l'ultima risposta che mi aspettavo di ricevere. Sentii gli occhi appannarsi di stupide lacrime. Allora...aveva capito. Ciò che io non riuscivo ancora del tutto a giustificare a me stessa, il mio passato con Cesare Borgia...mio padre l'aveva già rivalutato. Non era più una macchia, per lui, ma un punto di forza. Era così che dovevo vederlo, anche io. Lo capii solo in quel momento, quando ricevetti il suo implicito perdono e il suo bacio sulla fronte, in quel giardino in cui aveva iniziato a fiorire in silenzio la primavera.




Note
1
Mi sono presa la libertà di parafrasare una citazione da Rinascimento Privato. Nel dubbio di cosa Isabella d'Este abbia detto davvero e cosa no, mi rifaccio spesso e volentieri a questo dettagliato, intenso, meraviglioso ritratto che ne ha fatto Maria Bellonci. Per me non può esistere un'altra Isabella al mondo.

2La Battaglia di Cadore, datata 2 Marzo 1508, ha visto contrapporsi le truppe imperiali di Massimiliano I e quelle veneziane guidate da...pensate un po'...Bartolomeo d'Alviano <3

3Sotto la gonna di quella puttana.

4Postilla inutile per i giocatori di AC II...ma siccome dalle recensioni ho visto che qualcuno non ci ha mai giocato ed è da molto che non richiamo la questione, lo specifico brevemente. Oltre a Claudia, Ezio aveva due fratelli: Federico e Petruccio. Sono morti per mano templare, nella stessa congiura in cui anche il padre di Ezio, Giovanni, ha perso la vita.



Note di Runa
Lo so che avevo detto ancora dieci giorni...ma ormai lo sapete che la pazienza non è il mio forte XD in barba alla scaramanzia del 17, eccovi qua il capitolo 33esimo...onestamente, è uno dei miei preferiti tra gli ultimi che ho scritto. E' stato commovente descrivere quei due testoni che FINALMENTE si dichiarano cosa provano l'uno per l'altra, e al diavolo le predizioni delle stelle! Ps: guardate questa meravigliosa illustrazione di Ilaria <3
Vi chiedo scusa se non ho ancora risposto alle recensioni dello scorso capitolo, provvederò a farlo quanto prima ve lo prometto...e intanto grazie, grazie, grazie. Un bacione e a tra un mese con il capitolo 34, "Il Nemico" (give me hope in silence/it's easier/it's kinder.../tell me not of heartbreaks/it breaks my soul/it breaks my soul...). Ci saranno attesi ritorni...in primis Leonardo, in secundis Ilaria con una grossa novità per Biancarè...e poi naturalmente...sì, lui, che molti (o meglio, moltE XD) stanno aspettando da tanti capitoli! :)
Un bacione!

Lal

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Capitolo 34
*** Il nemico ***


Capitolo XXXIV

Il nemico

 

 

We will meet back on this road
Nothing gained, truth to be told
But I'm not the enemy
It isn't me the enemy...

(Mumford & Sons – The Enemy)

 

 

Nella primavera del 1509, il re francese Luigi XII scese in Italia, invadendola con i suoi eserciti. La scusa ufficiale era l'eccessiva presa di potere di Venezia, contro cui anche il Papa si era schierato; la verità, naturalmente, era che Giuliano Della Rovere era finalmente riuscito a convogliare i suoi sforzi diplomatici per portare i templari d'oltralpe a distruggere gli Assassini e la Borgia nello stesso momento.

Il campo di battaglia, per noi della corte di Isabella, rimase a lungo soltanto un resoconto di città cadute e spostamenti dei francesi, un segno rosso sulla cartina che Jacopo non mancava mai di tracciare ogni volta che ci portava informazioni a riguardo. Dopo la disfatta di Agnadello1 del 14 giugno, e la notizia che Bartolomeo d'Alviano era caduto prigioniero dei Francesi, sentivamo la catastrofe avvicinarsi...ma non avevamo ancora idea fino a che punto essa ci avrebbe coinvolto.

Ad agosto di quello stesso anno, il Marchese Francesco fu imprigionato in battaglia dai francesi2, e Isabella si trovò di colpo a reggere pubblicamente le redini dello Stato da sola. Fu allora che il suo solerte apparato di consiglieri, faticosamente selezionati negli anni, si dimostrò più efficiente e solido. Tuttavia, Isabella fu messa davanti a decisioni dure. Per garantire il rilascio del marito, il Papa chiedeva tanto, troppo. Voleva che la figlia maggiore dei marchesi, Eleonora, fosse data in sposa a suo nipote Francesco Maria Della Rovere3; chiedeva inoltre che l'erede del marchesato, Federico, fosse inviato come ostaggio a Roma.

Violante e Rinaldo si sforzarono come una persona sola di persuadere Isabella a non cedere. Ricordo i dibattiti estenuanti che ci tennero nello Studiolo fino all'alba: si sarebbe legata le mani, non poteva fare niente del genere, era una follia. Isabella insisteva nel camuffare la sua devozione al marito con la razionalità. Diceva che cedere al ricatto del Papa non sarebbe stato altro che una mossa politica di copertura. I suoi figli sarebbero stati al sicuro: Eleonora, nel ducato di Urbino, avrebbe potuto contare sui Montefeltro, assassini da generazioni; Federico sarebbe stato seguito a Roma dal suo precettore e segreta guardia del corpo, Francesco Vigilio. Diceva di avere tutto sotto controllo, ma io temevo che i filamenti di quell'arazzo le si stessero sfaldando tra le mani.

Infine, dopo molte insistenze e molti scontri verbali, Violante e Rinaldo ottennero una vittoria: la Marchesana acconsentì a prendere tempo a livello diplomatico, e a mandare un piccolo contingente Assassino a Milano, per tentare di far evadere Francesco dalla sua prigione. Dopo tutto, non eravamo specializzati proprio in questo? Agire nell'ombra, per servire la luce.

Inutile dire che smaniavo di partecipare a quella missione, ma Isabella mi volle tenere con sé. La scusa ufficiale era che aveva bisogno di veterani molto più esperti per quel tipo di spedizione che si addentrava nel cuore del territorio nemico.

Il motivo reale? Senza Rinaldo accanto, Ippolita non avrebbe più sorriso. Quando il giullare mancava dalla corte, la bambina sembrava diventare un prolungamento delle mie gonne, come se io fossi il suo unico punto fermo in un mondo che barcolla. Isabella forse trovava difficile amare la sua ultima figlia femmina perché le somigliava troppo, ma proprio per lo stesso motivo la capiva come nessun altro, e sapeva che ora aveva bisogno di me.

Così Bianca Auditore, figlia del Mentore e aspirante assassina iniziata, si ritrovò a fare da balia alla marchesina Ippolita Gonzaga. La cosa sconvolgente è che, dopo tutto, stare con la bambina non mi dispiaceva affatto. A Ippolita parlavo come avrei fatto con un'adulta, e le sue risposte a volte mi sorprendevano per il loro acume.

“Perché Dio uccide le persone buone?”

Urgh. Difficile parlare a un bambino di Dio, anche se ci credi. Certo, non avrei potuto dirle dell'Antica Civiltà e del mio mondo senza divinità, senza aldilà, senza speranza. Isabella mi avrebbe fatta impiccare.

“Da dove ti viene quest'idea?”

Lei si strinse nelle spalle, gli occhi scuri incollati a terra. Dondolava le gambe sullo scranno a cui sedeva, mentre fingevo di insegnarle alcune parole di latino che nemmeno io dopo tutto ricordavo.

“Ha ucciso Livia.”

“La malattia l'ha uccisa, non Dio.”

“La malattia non è Dio? I preti dicono così.”

Presi un profondo respiro per non rispondere come avrei voluto. “Sai in cosa credo, io? In un filo rosso che unisce i nostri destini. Il filo è di lana, non di acciaio...a volte i nodi si sciolgono, a volte si spezzano...e noi condividiamo un pezzo di strada con certe persone solo finché i nostri fili sono annodati insieme.” La voce mi si scurì, per un involontario moto di commozione. “Quello della nostra Livia era un po' più fragile degli altri, e si è spezzato presto.”

Ippolita stette in silenzio per qualche istante. Quando alzò di nuovo lo sguardo su di me, mi accorsi che pendeva dalle mie labbra. Che responsabilità enorme. Ripensai alle parole di Rinaldo, e mi resi conto di quanta fiducia quella bambina nutrisse in me. Per la prima volta, però, quella sensazione fu accompagnata da una sorta di calore.

“Adesso i nostri fili sono legati insieme?”

“Certo.”

“E quando si scioglieranno, te ne andrai via?”

Strinsi le labbra, pensando per un momento alla risposta migliore da darle. Onesta, ma senza crudeltà.

“Sai qual è il vantaggio dei fili di lana? Possono essere lunghi, lunghissimi...così anche quando sarò lontana da te i nostri cuori continueranno ad essere annodati, anche se non potrai vedermi.”

Capii di aver detto la cosa giusta quando vidi Ippolita sorridere. Scese dal suo scranno e si arrampicò, rapida come una scimmietta, tra le mie braccia. Mi strinse forte.

“Facciamo un doppio nodo, per sicurezza. Va bene?”

Sorrisi a mia volta, allacciando le braccia intorno a lei e poggiando la guancia su quella testolina straordinaria.

“Va bene.”

 

I giorni trascorsero senza che avessimo notizie dell'evasione di Milano. Oltre a Rinaldo, Isabella aveva inviato messer Ariosto e Jacopo per saggiare il terreno alla corte del governatore Charles d'Amboise; sapevo che il mio amante non mi avrebbe scritto per non correre il rischio di far intercettare i messaggi. Se temevo per lui? Relativamente. Sapevo che Jacopo era in gamba, ma è anche vero che ogni missione di un assassino può essere l'ultima. Non si può mai sapere.

Per fortuna, una visita di due inviati dell'Ordine ci impedì di struggerci troppo nell'attesa di conoscere l'esito dell'evasione. Era novembre inoltrato, anno del Signore 1509, quando a Mantova giunsero le ultime persone che mi aspettavo di vedere lì in quei giorni.

“Guarda chi si vede! La mia novellina preferita...” ridacchiò La Volpe, avvicinandosi per stringermi in un breve abbraccio ruvido. “Di', quante Tombe dell'Assassino sei riuscita a scovare in mia assenza?”

Mi strinsi nelle spalle. “Nessuna, Maestra. Non mi diverto se non ci sei tu a trattenere la catena.” Presi un attimo per studiarle il suo viso: pareva più giovane, meno duro di quanto lo ricordassi. Sorrisi. “Ti trovo bene.”

“Ed io trovo bene te.” Sembrava sincera, e per una volta non aggiunse alcuna presa in giro a quella frase.

“Abbiamo avuto l'onore di conoscere tuo figlio” intervenne Veronica “Un ottimo ladro...tale madre.”

“Oh, sì...Nicola mi ha parlato di quell'incontro.” Gli occhi viola della donna si volsero sul nostro amico, che se ne stava accanto a lei, alto e splendido nella sua divisa da assassino iniziato. “Terribilmente saggio da parte sua, chiedere ad Oreste di rapinare due discepole addestrate.”

Nicola roteò gli occhi al cielo, con un sorrisetto sulle labbra.

“Te l'ho detto, Bianca non avrebbe mai pugnalato alle spalle un bambino.”

“Di' la verità piuttosto. Ti eri stancato di farti umiliare da Oreste, ormai ti aveva rapinato già in dieci modi diversi senza farsi sentire.”

“Oh, cosa sento? Una nota di orgoglio materno? Così poco da te, Diamante. Sta' attenta, o penseranno che sei diventata un essere umano.”

Veronica ed io trattenemmo a stento una risata di fronte all'espressione ironica di Nicola, a cui fece eco quella sarcastica della Maestra. Mi ero aspettata di vedere un cenno di fastidio da parte della Volpe nel sentirsi chiamare con il suo vero nome, ma le mie aspettative furono disattese. Cielo, si era davvero ammorbidita in quegli ultimi anni.

Diamante e Nicola erano arrivati alla corte mantovana da poche ore; non venivano da Firenze, però. Scoprii che viaggiavano da mesi nel nord Italia, portando messaggi ai nostri alleati sui diversi fronti e raccogliendo informazioni per comprendere quando e se una città si sarebbe arresa ai francesi. La loro ultima tappa era stata a Burago di Molgora: avevano notizie sulla costruzione del nuovo covo-convento, che procedeva con efficienza, e una lettera per Veronica da parte di Agamennone.

La mia amica ricevette la lettera con gli occhi brillanti, la nascose rapidamente e si appartò nel pergolato per poterla leggere. Mentre Violante faceva strada alla Volpe nello Studiolo dove Isabella l'attendeva, Nicola rimase con me. Il suo sguardo divertito seguì Veronica.

“Allora è vero, quei due si sono decisi finalmente.”

Sorrisi. “Così pare.” Con le mani sui fianchi e un'aria di materno rimprovero, aggiunsi: “E tu? Non hai nessuna novità da raccontarmi, a parte l'iniziazione?”

“Niente che valga la pena essere raccontato.”

“Andiamo, da quando sei andato a Firenze sembri un'altra persona. Vuoi forse dirmi che ti sei innamorato della città?”

“In un certo senso.” Senza sciogliere nemmeno per un momento la sua espressione enigmatica, Nicola contrattaccò: “E tu? Mi hanno detto che hai molti corteggiatori. Qualche nuovo amore in vista?”

Pensai a ciò che avevo con Jacopo. Valeva la pena di essere annoverato come nuovo amore?

“Niente più che qualche piacevole diversivo” replicai, in tono leggero.

Non compresi a fondo lo sguardo di Nicola, a quel punto. Sembrava dolce, premuroso, ma anche lievemente triste.

“Sono contento. Sembra che questa vita ti abbia fatto davvero bene, Bianca. Ti vedo serena.”

Presi la sua mano, la strinsi. “Posso dire lo stesso di te, fratello mio.”
Dentro di me pensai: quindi dovevamo dividerci, per iniziare a essere felici?

A quel punto, fu impossibile non chiedersi se anche l'unica vita di cui sapevo poco e niente fosse diventata migliore, lontano da me. Quella volta, Nicola fu abbastanza sensibile da non volermi parlare di lui. Meglio. Non avrei avuto il cuore di sapere che il mio sospetto corrispondeva alla realtà.

 

Il tentativo di far evadere il Marchese fallì. La Volpe e Nicola erano ancora con noi quando apprendemmo la notizia: ce la portarono di persona Ariosto e Jacopo, insieme a un malconcio Frittella, con un braccio steccato e metà del corpo fasciato rigidamente. Una guardia francese l'aveva buttato giù da un bastione, era precipitato per diversi metri. Era un miracolo che fosse ancora vivo, e viaggiare fino a Mantova a quel punto dell'inverno di certo non aveva facilitato la sua guarigione. Tremava di febbre, quando arrivò a corte. Isabella lo fece sistemare in stanze più calde delle sue solite, e chiamò il suo cerusico di fiducia perché gli prestasse tutte le cure possibili.

Noi dame ci radunammo subito al capezzale di Rinaldo, assistendo il cerusico e facendoci spiegare come avremmo dovuto cambiargli le fasciature. Il mio pensiero andò, dopo molto tempo, a Tancredi e Simza. Non molti anni prima ero stata inerme nelle loro mani, esattamente come Rinaldo lo era adesso nelle nostre. L'idea che un essere umano dipendesse da me, per la sua vita e non per la sua morte, aveva in sé qualcosa di spaventoso. Uccidere qualcuno prevede un'azione, e io sono sempre stata brava nell'azione...ma come si fa a impedire a una persona di morire? Non si tratta di fare una cosa sola, ma mille tutte insieme; e se va male, c'è sempre qualcosa che avresti potuto fare e non hai fatto. Qualcosa a cui non hai pensato, e che rimpiangerai.

Sta' fermo” sibilò Violante, la prima sera in cui restammo a vegliare Rinaldo. La febbre si era lievemente abbassata da quel pomeriggio, ma era ancora in pericolo. Diverse fratture dovevano avere il tempo di saldarsi e guarire.

Il volto dell'uomo era cinereo, del tutto privo della sua solita ironia.

Perdio, posso alzarmi almeno per pisciare?”

Hai tutto il necessario accanto a te per questo. Non ti muoverai da questo letto per un mese, mi hai sentito? Dovrai uccidermi se vuoi farlo.”

Violante, andiamo, non sono un bambino, non hai bisogno di...”

Lo sguardo della donna cambiò, da rigido a lievemente lucido.

Pensa agli altri per una volta, idiota. Cosa farei se perdessi il mio migliore amico?”

Rinaldo ci mise qualche istante ad ammiccare. “Verseresti un buon bicchiere di vino sulla mia tomba, e ogni tanto mi canteresti una canzone.”

“Sei pazzo? Non sprecherei mai del buon vino così. Piuttosto, lo berrei alla tua pace.”

“Alla mia pace?”

“Non potrei più berlo alla tua salute, non credi?”

Il buffone accennò ad un sorriso, e chiuse gli occhi affaticati. “Approfittane, non sono abbastanza in forma per le repliche argute.”

“Sia benedetto questo giorno! Dovrei buttarti giù dai bastioni più spesso, se serve a zittirti.”

Violante gli strinse la mano con affetto, e lo vegliò per il resto della nottata, così come per tutte quelle successive.

 

Poiché il piano di liberazione di Francesco era fallito, a Isabella non restò che arrendersi. Celebrammo a Mantova il matrimonio di Eleonora con Francesco Maria della Rovere: lui era poco più giovane di me, aveva diciannove anni e non sembrava particolarmente sveglio. Forse non era direttamente coinvolto con i templari, ma di certo era un parente di Giuliano della Rovere. Avevo imparato che in questa scacchiera di potere i legami di sangue e, di conseguenza, quelli stipulati attraverso i matrimoni avevano un peso determinante, capace di spostare le sorti di conflitti interi. Come avrebbe potuto il marchesato di Mantova appoggiare ancora gli Assassini, con quel genere di legame che lo incatenava al Gran Maestro dei Templari?

C'era ancora speranza, tuttavia, finché il piccolo Federico fosse rimasto a Mantova con sua madre. Su questo, Isabella non aveva voluto transigere: avrebbe negoziato fino a far sanguinare il tavolo delle trattative. Con questo obiettivo in mente, aveva intenzione di mandare Jacopo a Milano, per estorcere all'Amboise un accordo meno duro sulla liberazione di Francesco Gonzaga. Decise che Veronica ed io lo avremmo seguito.

“Non illudetevi, non è un addio” ci disse Isabella nel salutarci, con il volto austero come sempre. “Se compirete bene la vostra missione a Milano, tornerete presto a servire presso di me.”

Potei sentire comunque ciò che lei non disse. E se la missione fallirà, sarete lontane da Mantova, così che il Papa non possa accusarmi di connivenza con gli Assassini.

Mi chiesi se si sarebbe liberata di Rinaldo allo stesso modo in cui si stava liberando di noi. Senza i finanziamenti di Isabella, l'Ordine sarebbe stato sufficientemente forte per muoversi sulle sue gambe? Forse, mio padre si stava già muovendo per trovare un altro ricco patrono. Forse, con la diffusione capillare delle nuove cellule della Fratellanza in tutta Italia, non ce ne sarebbe stato bisogno.

 

Veronica ed io, scortate da Diamante e Nicola, arrivammo a Milano in un nebbioso pomeriggio di fine novembre, e fummo ospiti della lussuosa casa che Jacopo d'Atri aveva in città. Mentre i nostri amici prendevano residenza stabile nei quartieri generali del Credo, noi ci saremmo inserite gradualmente alla corte del governatore d'Amboise. Veronica fu presentata come la sorella di Jacopo; io avrei dovuto interpretare la sua fedele dama di compagnia. Tuttavia, Jacopo mi suggerì di evidenziare quanto più possibile il nostro legame, di modo che fosse chiaro a tutti che eravamo amanti. I gesti che compivamo in pubblico erano minimi: presentarci alle feste insieme, parlare fittamente e scambiarci motteggi e sguardi di intesa alla tavola dei potenti, farci sorprendere di tanto in tanto a passeggiare per i cortili del castello Sforzesco a braccetto, o stretti in abbracci più compromettenti dietro le siepi ben curate. Lì per lì, l'idea mi mise a disagio: poi, capii il suo obiettivo. Dovevo incuriosire Charles d'Amboise, e probabilmente spingerlo a ricercare la mia compagnia.

Il piano divenne palese dopo pochi giorni. Jacopo poteva lavorare di diplomazia, e Veronica ascoltare i pettegolezzi della corte e riportarli ad uno ad uno; ma per fare cadere il governatore sarebbe servito qualche cosa di più...un tipo di seduzione che la politica non poteva attuare. Quel tipo di seduzione che non potevamo chiedere a Veronica di esercitare. Quel compito, lo capii subito, spettava solo a me.

Come mi sentivo a riguardo? Determinata. Pronta. Avevo quattordici anni quando, ancora vergine, ero entrata nel letto di Cesare Borgia per realizzare i miei obiettivi. Ora, a vent'anni compiuti, dare il mio corpo in cambio di segreti e concessioni non mi pareva nulla di mostruoso.

Sì, lo dico senza vergogna: nel mio periodo a Milano iniziai a entrare nelle alcove dei potenti – tecnicamente, lo scopo era fraternizzare con il nemico, fosse esso francese, templare o entrambe le cose. Per farlo, misi da parte la mia dignità di donna e quell'orgoglio che all'inizio aveva fatto infatuare Jacopo di me. Ricordavo però bene lo sguardo di Barbara Torelli quando sfiorava il ventre gonfio, e per questo avevo deciso di assumere scrupolosamente tutto quel genere di preparati a base di iperico e altre erbe che impediscono alle donne di restare incinte. Io non volevo portare in grembo il bambino di un nemico: mi sarei fatta strappare il ventre a morsi, piuttosto.

E mio padre, vi chiederete, sapeva in quale modo avevo deciso di combattere le mie battaglie?

La verità è che preferisco credere che ne fosse all'oscuro.

Nicola non approvava, e non mancava mai di farmelo notare con un'alzata di spalle o un infastidito roteare degli occhi verso il cielo ogni volta che i nostri discorsi sfioravano anche solo vagamente quel campo. Da vero fratello maggiore, voleva il meglio per me, e non capiva che il mio meglio, in quel momento, era servire l'Ordine come potevo. Se mi fosse stato ordinato di penetrare nella sorvegliatissima Rocchetta per tentare di liberare il Marchese e riuscire dove l'esperto Rinaldo aveva fallito, io l'avrei fatto, nonostante i rischi palesi per la mia incolumità. Quale immaginario dettame morale mi impediva di seguire quest'altro tipo di ordine?

Nicola diceva che non avrei dovuto buttarmi via. Io rispondevo che utilizzavo gli strumenti che la natura mi aveva dato per compiere una missione, così come lui sfruttava la propria forza in combattimento e la propria astuzia nella strategia. Di solito, le nostre discussioni finivano così, con una resa silenziosa da parte sua e un altrettanto silenzioso sospiro da parte mia. Mi dispiaceva avere la sua disapprovazione, ma capivo che un uomo non potesse comprendere. Con una posta in gioco così alta, non potevo permettermi di fare la ritrosa e lasciare quel genere di strada intentata.

 

Il mio soggiorno a Milano prese una piega dolce-amara quando, dopo circa tre settimane della mia permanenza lì, ebbi occasione di rivedere Leonardo. Appena ero arrivata non l'avevo visto, perché si trovava fuori città per una lunga esplorazione dei paesaggi della Brianza, insieme al fedele discepolo Salaì; non appena fece ritorno in città, fu l'Amboise stesso a introdurci. Sul momento rimasi rigida per un attimo, domandandomi se avessi dovuto fingere di non conoscerlo.

Leonardo risolse l'impasse per entrambi, salutandomi con calore e spiegando al governatore che aveva avuto il piacere di ritrarmi per una commissione, tempo prima. Il suo sguardo affettuoso non era cambiato, anche se la barba si era incanutita e i capelli un tempo fluenti erano inevitabilmente diradati. Appresi che si occupava della ristrutturazione dei Navigli4, oltre a fantasticare sulle sue favolose macchine da guerra. Entusiasta, mi disse che aveva rimesso mano ai suoi progetti sul volo.

“Léonard, mon amì” rise l'Amboise, che era un uomo pragmatico “Se gli uomini fossero fatti per volare, non credi che Dio Onnipotente avrebbe dato loro le ali?”

“E l'ha fatto, Charles” replicò l'artista dal berretto rosso, picchiettandosi la tempia. “Dobbiamo solo capire come farle funzionare nel modo giusto.”

Attesi qualche giorno, prima di poter fare visita a Leonardo, nella casa che aveva affittato non troppo lontano dal Castello. Si trattava di un luogo confortevole, dove risiedevano lui, Salaì, i suoi quadri e tutti i suoi innumerevoli appunti. Era un piacere vedere quanto inchiostro fosse fluito sulla carta da quella mente geniale, sciogliendo i complessi intrecci dei suoi pensieri in una cascata di arzigogoli e disegni. Sgombrò un tavolo disordinato, chiese a Salaì di prepararmi una tisana, un infuso, qualunque cosa volessi. Accettai soltanto acqua fresca, mentre mi accomodavo sulla sedia di fronte a lui, ingombrata dalle ricche gonne del mio abito.

“Sono stato così sorpreso di vederti, bambina mia. Sei cresciuta...e cambiata molto.”

Quelle parole mi torsero lo stomaco per un attimo. Ricordai la promessa che avevo fatto a Livia, e anche a Ippolita...la stavo forse infrangendo?

Ma no, Leonardo parlava dei miei abiti, dei capelli. Del modo in cui mi muovevo sicura in quei vestiti eleganti. Così mi disse. Aveva lasciato un uovo in procinto di schiudersi, e ora trovava un cigno.

Sorrisi affettuosamente, ma senza allegria. Sapevo che per Leonardo sarei sempre stata senza difetti.

“E Ilaria, la tua allieva? Raccontami di lei. Studia ancora presso di te?”

Sul volto dell'artista passò un'ombra. “Sì...sì certo. E qui con noi, a Milano.”

Sentii il tossicchiare di Salaì, ma non vi badai più di tanto.

“Ed ha avuto già l'occasione di dipingere qualcosa da sola? Credi che potrei rivederla?”

Leonardo esitò.

“Ilaria non riceve visite, in questo periodo.”

Lo disse con un tono strano, che mi allarmò. “Cosa le è successo? Non si sente bene?”

L'artista dal berretto rosso si passò una mano sulla barba. Era più folta e più bianca dell'ultima volta che ci eravamo visti.

“Perdonami se non sono stato onesto con te fin dall'inizio, ma non sapevo se...be', ti ho invitata qui anche perché volevo parlarti di Ilaria. Non ce la facevo più a tenerti questo segreto.” Una breve pausa. “Immagino che tuo padre non ti abbia detto niente, vero?”

Trattenni il fiato.

No, certo. Mio padre non mi diceva mai niente, soprattutto se si trattava di qualcosa di importante.
“Ezio non sarà contento, ma...c'è qualcosa che devi sapere, Bianca.”


***

 

Quando entrammo nella stanza di Ilaria, c'era una luce diffusa tutto intorno. Sul letto in cui era distesa erano sparse stecche di sanguigna e fogli mezzi accartocciati. Gli schizzi probabilmente non incontravano il gradimento dell'autrice, che aveva una ruga a segnarle la fronte mentre tentava di concentrarsi sul disegno presente. Il blocco di fogli su cui stava lavorando poggiava sulla pancia prominente, gonfia da scoppiare sotto il lenzuolo teso. Sembrava enorme, sul suo corpo di ragazzina.

Quanti anni aveva ora? Sedici? Ed eccola lì, segregata nella casa di Leonardo per non mostrare al mondo la sua vergogna.

Alzò gli occhi scuri su di me: li vidi spalancarsi per la sorpresa, tanto che la sanguigna per poco non le cadde. Tuttavia, non mi riconobbe subito, ne sono certa.

“Non sapevo che aveste visite, Maestro” disse, cercando di suonare controllata. Leonardo sorrise.

“Perdona l'intrusione, bambina mia. Madamigella Bianca desiderava incontrarti, ha insistito molto.”

Non disse che non l'aveva avvisata del mio arrivo per paura che mi si negasse, o gli chiedesse di mentire per lei.

Gli occhi della ragazza si abbassarono, portandosi sul pancione.

“Capisco”, mormorò soltanto. Il suo tono di voce mi disse che mi aveva riconosciuta, ora.

Io guardai Leonardo, e gli feci un cenno con il capo. Volevo parlarle da sola, se possibile. Lui capì, e mi restituì un ammiccamento di intesa...nel suo sguardo apprensivo lessi chiaramente ciò che voleva dirmi: non spaventarla, ne sta passando tante. No, non l'avrei spaventata. Ma volevo capire. Avevo bisogno di sapere di più.

Una volta che fummo lasciate sole, Ilaria non alzò lo sguardo. Fui io, ad avvicinarmi a lei, fino alla sedia che stava accanto al letto. Se era costretta lì, era perché si trattava delle ultime settimane di gravidanza: la levatrice prevedeva che il bambino sarebbe nato presto, o così mi aveva spiegato Leonardo.

“Sono passati tre anni dall'ultima volta che ci siamo viste. Ti ricordi ancora del nostro viaggio?”

“Come potrei dimenticarlo?” Ilaria abbozzò ad un sorriso, e alzò di nuovo gli occhi scuri nei miei. “Ho fatto uno schizzo di voi e madamigella Veronica, subito dopo che ci siamo separate. E' da qualche parte, tra i miei bozzetti...chiedete al Maestro, ve lo mostrerà.”

Replicai a mia volta con un sorriso, e rimasi in silenzio per qualche istante. Avevo voluto quell'incontro, e ora scoprivo che non sapevo cosa dirle.

Fu lei, a rompere quell'impasse tra di noi.

Con voce più scura, solo lievemente tremante, la giovane pittrice mormorò:

“Io non lo sapevo, Bianca. Ve lo giuro. Non sapevo chi fosse quando l'ho incontrato.”

“Lo so...”

“Leonardo mi ha detto tutto...di come abbia tradito la sua famiglia. Di come vi abbia fatto del male. Ma era troppo tardi, ormai...” Abbassò gli occhi sul pancione e ripeté, pensierosa: “Troppo tardi...”

Il mio amico artista mi aveva raccontato la storia completa poco prima che entrassi nella stanza. Ilaria aveva incontrato Vanni a Roma un anno e mezzo prima, durante un ricevimento della famiglia Farnese. Lui si trovava lì insieme ai legati papali, era ancora un novizio tra i templari. Leonardo non aveva adocchiato subito quell'intesa nascente tra i due, ma quando, poche settimane dopo, lo avevano rivisto alla festa per la proclamazione di un nuovo vescovo, gli era stato subito evidente che tra quei due doveva essere successo qualcosa a sua insaputa. A quel punto, Leonardo aveva imposto a Ilaria divieti su divieti, cercando di proteggerla senza buttare su di lei la verità tutta in una volta. Era ancora una fanciulla innocente, non sapeva nulla di Templari e Assassini...ma quando Vanni Auditore era partito per la Francia e Ilaria si era trovata abbandonata e incinta, con la morte nell'anima il suo Maestro aveva dovuto spiegarle ogni cosa, e portarle via l'innocenza della mente come Vanni aveva fatto con quella del cuore.

“Lui...lo sa? Del bambino?” mormorai.

Ilaria scosse il capo. “E' partito per la Francia dopo pochi giorni, senza nemmeno lasciarmi un biglietto. Da quel che ne so, è ancora laggiù. Potrebbe essere già morto e sepolto, per quel che mi importa.” Si morse le labbra, non so fino a che punto credesse in quelle parole. “In compenso, lo sa vostro padre. Leonardo gli ha scritto subito...ha cercato di convincermi a venire da voi a Monteriggioni.” Si poggiò la mano sul ventre prominente, con fare protettivo. “Ha detto che vuole proteggere il bambino...ma io lo so, se lo lascio nelle sue mani lo alleverà come uno di quelli.”

Nel suo sguardo passò d'improvviso un lampo di allarme, e poi la vergogna. Lo riabbassò sulle coperte. “Non volevo offendervi.” Ero anche io una di quelli, dopo tutto.

Posai una mano sulla sua. “Non mi hai offeso.”

Rimasi zitta per qualche istante, senza ritrarre la mano. Lei non diede cenno di voler sottrarre la sua al mio tocco.

“Come...” la voce mi uscì rauca: la schiarii “come l'hai...visto?”

Erano trascorsi quasi tre anni pieni da quando Vanni mi aveva pugnalata. Quell'estate ne avrebbe compiuti diciassette. Chissà quanto era cambiato. L'avrei riconosciuto, se l'avessi avuto davanti?

“Tormentato. Scontroso. Immagino sia questo che mi ha attirato subito in lui...aveva sempre uno sguardo torvo in viso...la prima volta che l'ho visto ho avuto una gran voglia di ritrarlo.” Lei sembrava combattere tra il rancore che provava e il rossore che le tingeva le guance suo malgrado. “E i suoi occhi...era come se avessero dentro una tempesta.”

Il mio cuore si torse. Sì, stava senz'altro descrivendo mio fratello. Dunque, nemmeno passare dalla parte dei Templari gli aveva dato pace. Mi chiesi se riuscisse a dormire, la notte, pensando al momento in cui mi aveva lasciata sanguinante per la strada. Mi chiesi se si fosse mai pentito della sua scelta.

Vedendomi così assorta, Ilaria mi chiese di scoprire un involto che se ne stava contro il muro. Era una tela di medie dimensioni, più o meno grande quanto la mia Leda: ritraeva un giovane uomo dalla corporatura atletica e sottile, le spalle rese più larghe dalle maniche ampie di un farsetto a coste grigie, ricoperto sul petto da una sopraveste color borgogna.5 Il suo volto era scoperto, dai lineamenti decisi: gli occhi chiarissimi brillavano con forza sotto le sopracciglia nere, la mandibola era orlata da un accenno di barba ben curata.

Eccolo. Cresciuto, più adulto, più estraneo ancora di quando ci eravamo separati. Giovanni Antonio Auditore, mio fratello, il mio nemico mortale. Provai un brivido nell'osservarlo attraverso il dipinto di Ilaria. Notai la croce d'argento con il rubino che sbucava dal colletto del farsetto. Era il ritratto di un perfetto templare.

“Lo sto dipingendo basandomi sui bozzetti che ho fatto di lui. Per mio figlio” mormorò la pittrice “perché sappia almeno che aspetto avesse suo padre.” Inclinò lievemente il capo, e una ciocca dei capelli rosso sangue le scivolò sul viso. “Potete averlo, se volete.”

“No” dissi subito, con troppa immediatezza forse. Più dolcemente, aggiunsi: “Devi tenerlo tu. Per il bambino.”

Sfiorai appena il suo ventre, con imbarazzo. Vedendo che lei non sembrava infastidita, le sorrisi, e prolungai quel contatto un po' più a lungo. Dunque, lì dentro si muoveva mio nipote? Chissà se mia madre sapeva della sua esistenza. Chissà cosa avrebbe pensato.

Un altro nodo del destino si era stretto inesorabilmente: la giovane pittrice Ilaria da Udine stava per dare un figlio illegittimo al mio fratello traditore. E siccome il destino non si diverte se non complica ancora di più le cose, proprio per questo motivo avrei incontrato Vanni faccia a faccia prima di quanto credessi.

Ma non ancora. Prima di affrontare la mia ombra più grande, dovevo scontrarmi con un altro genere di nemico: il mio maggior rimpianto.

 

In quella gelida fine del 1509, il temutissimo Gaston de Foix arrivò in visita presso Charles d'Amboise: la vittoria di Agnadello aveva reso le truppe francesi più spavalde, e il nuovo comandante della spedizione in Italia aveva forse smania di pavoneggiarsi per il successo ottenuto sulla Serenissima e sull'esercito Assassino.

Era un giovane della mia stessa età - ventun anni da compiere, ricci biondi, sfolgoranti occhi celesti, un fisico da soldato temprato. Eppure, c'era qualcosa all'angolo delle sue labbra, un ghigno mai del tutto risolto, che gridava in silenzio: sono pronto divorarti se ti avvicini solo un po' troppo. Quella era la bocca di un predatore, lo pensai fin dal primo momento.

Sedurlo non fu difficile. L'Amboise mi presentò come la sua protetta, elogiando sottilmente all'amico le mie arti; il generale francese si dimostrò quasi subito interessato. Mi chiese com'erano a letto gli italiani. Per nulla turbata da quella domanda sfacciata, risposi che forse l'indomani avrebbe avuto la compiacenza di dirmelo lui. Accompagnai quelle parole ad uno sguardo malizioso e ad un inchino, e un attimo prima che abbassassi la testa il luccichio nei suoi occhi mi disse che avevo vinto. Se avessi giocato bene le mie carte, il Marchese Francesco sarebbe stato libero entro poche settimane. Avrei riportato a Ippolita suo padre, a Mantova il suo signore, e avrei avuto la riconoscenza eterna di Isabella d'Este.

Tuttavia, qualcuno giunse di lì a breve a mettere alla prova la mia maschera di perfetta donna di corte.

Leonardo mi aveva insegnato che si può dipingere sopra un dipinto, ma la nuova vernice può sempre essere scrostata: sotto, con un po' di fortuna, c'è una buona probabilità che il quadro originale sopravviva. Ed è più o meno questo che fui costretta a scoprire quando, i primissimi giorni del 1510, il contingente di Le Rouge raggiunse la sede della fratellanza a Milano. L'affresco del mio cuore era cambiato per sempre, o sotto quel nuovo intonaco di cinismo e forza c'era ancora un'ombra dei miei vecchi sentimenti? Non ero certa di volere una risposta a quella domanda.

Era raro che Jacopo, io e gli altri infiltrati ci trovassimo riuniti al covo degli assassini. Quella sera, tuttavia, avevamo fatto un'eccezione per il rientro in città di D'Arcy e Agamennone. Diamante aveva improvvisato un vero banchetto per l'occasione, e per una volta il covo degli Assassini somigliava a una piacevole riunione tra amici più che a un consesso di temibili sicari.

Pareva che la raccomandazione di Veronica avesse funzionato come una parola magica: Agamennone si era fatto valere in battaglia, eccome. Il suo stesso capitano raccontava con passione di come il giovane ex arciere brandisse la spada nella mischia, quasi si trattasse di un miracolo. Mezzo ubriaco, D'Arcy gli circondava il collo con un braccio e lo indicava alla tavolata come “Il leone di Bologna”, mentre Agamennone arrossiva sotto le acclamazioni dei presenti e lo sguardo adorante di Veronica. Io ancora faticavo a pensare il mio amico di sempre in quei panni. Forse c'era in lui più spirito guerriero di quanto chiunque di noi avesse mai pensato. Forse, avere qualcosa per cui vivere gli aveva finalmente dato la grinta che non aveva mai dimostrato.

Fuori imperversava il temporale, tanto che avevamo già pianificato di passare la notte al covo e tornare a casa di Jacopo solo l'indomani; d'improvviso, sentimmo sbattere forte la porta d'ingresso che soltanto gli Assassini usavano, quella situata sul tetto dell'edificio.

Diamante si tese e scambiò uno sguardo con Sandro, il Maestro a capo del covo. Erano tutti presenti in quella sala, e nessuno era atteso.

Diverse lame celate scattarono, mentre ci alzavamo in piedi: dai corridoi bui, ci stavano venendo incontro tre figure gocciolanti. Quando si fecero avanti, nella luce dei candelabri, rivelarono cappe di color vinaccia, rese più cupe dalla pioggia che le impregnava.

Quello che camminava alla testa del piccolo gruppo era un uomo non eccessivamente alto, ma dal fisico possente: i capelli biondi e fradici gli si incollavano al volto orlato di una barba curata. Subito dietro di lui, c'erano una giovane donna sottile come un giunco, e un uomo alto, dalle spalle ampie e lo sguardo cupo.

“Briac Leroux” disse la Volpe, lentamente, scostandosi dalla tavolata per andare incontro all'uomo biondo. Vidi Nicola seguirla; lei alzò una mano, facendogli cenno di restare dov'era.

Arrivò a un passo dal lui, e lo guardò duramente. “L'ultima volta ci siamo visti sul campo di battaglia.”

“E ne sono uscito con una cicatrice in più” replicò l'uomo chiamato Briac, senza abbassare lo sguardo. “Madame Diamante, vi portiamo notizie che vi interesseranno su i piani di De Foix. In cambio, chiediamo solo un tozzo di pane e asilo per la notte.”

“Non sta a me concedere quel che non è mio. Maestro Sandro” disse Diamante, voltandosi verso il milanese “Acconsentite alla richiesta del nostro fratello francese?”

Gli allievi milanesi non sembravano particolarmente entusiasti dell'arrivo dei francesi in divisa color vinaccia. Non avevano deposto l'atteggiamento aggressivo.

“La Banda del Drappo Rosso” sentii sussurrare. “I traditori di Agnadello! Con che faccia si presentano qui?”

Tuttavia, Maestro Sandro annuì gravemente.

“Le Rouge è ancora un nostro fratello nel Credo, e ciò che ha fatto è un sacrificio a cui tutti voi potreste essere chiamati, un giorno. Perciò, ora lascerete che lui e i suoi compagni siedano alla nostra tavola e mangino il nostro cibo.”

Registrai appena le parole essenziali di quello scambio. Non ascoltavo, non potevo. I miei occhi erano puntati sull'uomo che stava accanto a Le Rouge.

Sulle prime, non lo avevo riconosciuto. Aveva senz'altro le spalle più ampie dell'ultima volta che ci eravamo visti, e il suo viso...sulla parte destra, era tagliato da una lunga cicatrice che gli spezzava il sopracciglio e proseguiva sotto l'occhio, fin quasi alla mandibola. Un'altra, più piccola, gli attraversava la guancia, intersecandosi a croce con la prima. La cicatrice piccola sembrava ricucita da poco.

Pensai allo sfregio di zio Mario, e mi chiesi se anche l'occhio fosse compromesso. A giudicare da come si muoveva, però, non sembrava.

Ciò che più cambiava i suoi lineamenti, in ogni caso, erano i capelli. Quella rigogliosa chioma di ricci neri era stata tagliata fin quasi alla radice, e aderiva al cuoio capelluto, irriconoscibile.

I tre si fecero avanti verso il tavolo, e solo allora anche i miei compagni lo riconobbero.

“Martino? Sei davvero tu?”

La voce di Nicola aveva dentro una nota incredula, già carica di allegria. Per tutta risposta, quell'uomo che non somigliava per nulla al Martino che conoscevo accennò ad un sorriso.

“Ma guarda te...chi s'aspettava de vedette qua, vecchia canaja! Nu stavi a Firenze, te?”

Nicola lo abbracciò come un fratello, ridendo di commozione. Poi, quando la loro stretta si sciolse, Martino vide me.

Il mio cuore cominciò a galoppare, le dita divennero fredde di colpo. Gli occhi castani, quasi neri, si misero nei i miei. Dio...cosa gli avevano fatto? Dov'era finita la loro luce?

“Bianca...stai bene?” domandò Jacopo, sporgendosi sulla mia spalla. Ci misi qualche istante a realizzare che era accanto a me.

“Io...sì.”

“Un vecchio amico?”

Osservai gli altri, che si erano avvicinati a Martino. Agamennone gli strinse la mano con calore, per poi trovarsi abbracciato con il medesimo entusiasmo riservato a Nicola, e Veronica gli diede un bacio sulla guancia. Io rimasi immobile. Paralizzata, in attesa della sua reazione. Mi avrebbe rivolto uno sguardo freddo? Mi avrebbe evitata? Avrei visto nei suoi comportamenti un qualche segno del fatto che gli ero mancata, o che la mia presenza gli provocava disagio?

“Sì” sussurrai. “Un vecchio amico.”

I suoi occhi furono di nuovo su di me. Fece qualche passo avanti, per raggiungermi. Sorrise, sì...ma con lo stesso identico sguardo che aveva riservato agli altri.

“Bianca. Quasi nun te riconoscevo co' questi vestiti qua. E li capelli lunghi...”

Mi aveva chiamato Bianca. Cercai di elaborarlo a lungo, senza riuscire a realizzare. Fu come se qualcosa si fosse spezzato dentro di me.

Dispiegai tutte le arti che avevo imparato a corte per riuscire a sorridergli in modo naturale.

“Anche tu sei cambiato molto.”

Avrei voluto sapere come si era procurato quelle cicatrici, e chiedergli perché avesse rasato i suoi ricci neri. Invece, mi limitai a stringergli le mani. Come poco prima aveva fatto Veronica, gli lasciai un bacio leggero sulla guancia.

Le mie labbra formicolavano quando mi ritrassi.

Se Jacopo intuì qualcosa, non lo so, e onestamente era l'ultima delle mie preoccupazioni al momento.

Martino, Briac e la giovane donna che era con loro – appresi che si trattava della sorella di Briac, Odette – sedettero alla tavolata, furono rifocillati con il nostro cibo e riscaldati con il nostro fuoco. Lì per lì mi era sfuggito il silenzio cupo che aveva preso D'Arcy – tra i due assassini francesi c'era stata della ruggine in passato, o così mi aveva detto Jacopo. Concentrai gli occhi sul capitano per non metterli troppo spesso su quel volto sfregiato e duro che non riconoscevo ancora del tutto, e nel frattempo le orecchie ascoltavano il racconto di Briac.

Il resto della Banda del Drappo Rosso, nome assunto dalla compagnia dei fedelissimi di Le Rouge, era accampato fuori della città, e li avrebbe raggiunti in mattinata. Il Drappo era famoso per aver combattuto ad Agnadello contro gli eserciti veneziani: erano una delle compagnie di ventura di cui Gaston de Foix amava di più servirsi, la loro copertura era così perfetta che il templare non aveva mai sospettato che si trattasse di nemici in incognito. Per mantenere quella copertura, il Drappo aveva combattuto contro i propri stessi fratelli in diverse battaglie. Non tutti, nell'Ordine, avevano accettato la cosa con serenità.

Le Rouge ci disse che era venuto ad avvisarci: Gaston era a Milano per sorvegliare sulla prigionia di Francesco Gonzaga. Dopo il tentativo di evasione sventato per miracolo, il Papa si era fatto sospettoso, e aveva richiesto l'aiuto del braccio destro di re Luigi XII. Esprimeva la sua preoccupazione per una possibile mossa di Gaston per rovesciare l'Amboise, se avesse ceduto nel lasciare libero il marchese. Ci raccomandava di muoverci con grande cautela, perché conosceva come nessun altro i modi di quell'uomo subdolo. Avrebbe colpito nel momento in cui meno ce lo attendevamo, e senza pietà.

“Abbiamo agenti infiltrati alla corte di Amboise proprio per tenere la situazione sotto controllo” disse Jacopo. “Nella fattispecie, me medesimo, madamigella Fracassa e madamigella Auditore. Non temete: quell'aspetto è perfettamente coperto da noi tre.”

Rabbrividii leggermente, ma cercai di non darlo a vedere. Era evidente in che modo io coprivo la mia parte di aspetto? Perché improvvisamente me ne vergognavo?

“Oh, dunque voi siete madmoiselle Biancà Auditore” disse Briac Leroux, rivolgendomi un sorriso abbagliante sulle labbra perfette. “Enfin! Ho tanto atteso di potervi incontrare.”

Chinai appena i capo e ricambiai i sorriso. “L'onore è mio, Le Rouge.”

Mais non, madmoiselle...Briac, per voi, nient'altro che Briac.”

Oh, avevo a che fare con un seduttore, dunque. Avrei dovuto capirlo subito.

Per tutta la durata della cena, Martino parlò poco; ma chi non disse davvero una parola fu Odette Leroux. Mentre mangiava, studiai il suo volto da bambola, e i grandi occhi azzurri contornati da ciglia lunghissime. Sembrava onestamente troppo ingenua per essere un'assassina. Mi chiesi se avesse già ucciso qualcuno.

Sentimenti meno compassionevoli mi attraversarono quando la vidi poggiare il capo sulla spalla di Martino, e notai che la mano di lui era andata ad accarezzarle i capelli. Si mormorarono qualcosa in francese, parole che non compresi.

Mi imposi di ricacciare indietro la fitta allo stomaco.

Di cosa mi stupivo? Era naturale, e giusto.

Avevo lasciato andare Martino tanto tempo prima. Avevo iniziato una nuova vita senza di lui, una vita in cui avevo molti amanti, una vita in cui mi sentivo più forte. Il fatto di vederlo stringere a sé quella splendida creatura non doveva togliere nulla alla mia serenità.

 

Più tardi, quando la maggior parte dei nostri compagni si fu ritirata per la notte, Briac mi fermò.

“Vi avrei cercato, madmoiselle, se non vi avessi trovata qui” mi disse, con quel sorriso seducente ancora sulle labbra. “Abbiamo qualcosa da Agnadello. Qualcosa che penso vi appartenga.”

Feci per replicare che non c'era niente che io possedessi ad Agnadello, quando Le Rouge fece cenno a Martino di avvicinarsi. Il mio amico recuperò accanto al fuoco il fodero della spada a due mani che aveva portato fin lì in spalla. Me lo porse.

“'r Maestro d'Arviano m'ha data, mentre 'o stavano a portà via. M'ha detto de dalla a te, che je l'avresti custodita finché nun fosse tornato libbero.”

Battei le palpebre, per scacciare il velo di lacrime che mi aveva oscurato la vista. Strinsi al petto la spada di Bartolomeo, senza parole. Martino mi guardò senza dire nulla, a sua volta. Forse capiva quanto quel gesto significasse per me.

La sua anima di soldato: così il maestro d'Alviano aveva chiamato quella spada, in un pomeriggio di quella che pareva una vita fa. Il suo amor sacro. E ora che era prigioniero, aveva affidato quell'anima sacra a me. Non a sua moglie Pantasilea...proprio a me.

“Bianca” mormorai, lasciando scivolare a terra il fodero per accarezzarne i fregi con reverenza. La lama mandò un luccichio alla luce del focolare, come per salutarmi. “Come me...no, prima di me. Farò onore al nome che portiamo6. Lo giuro.”



Note di Runa
1
Sì, conosco Project Legacy. No, la mia storia è una what if e non seguirò quegli eventi...onestamente, se aggiungessi un altro Frutto dell'Eden alla trama non ci salteremmo più fuori.

2In realtà, fu imprigionato dai Veneziani...come vassallo dell'Imperatore, Francesco Gonzaga combatteva con la Lega di Cambrai contro Venezia.

3Nella realtà, i due erano già sposati per procura dal 1505, ma gli sponsali, ovvero i riti matrimoniali ufficiali, si tennero a Mantova nel 1509. Eleonora aveva sedici anni, Francesco Maria ne aveva 19.

4Fortunatamente per me, Leonardo da Vinci era davvero a Milano in quel periodo, e sì, aveva ridisegnato per intero il Naviglio della Martesana e sovrinteso alla costruzione di una chiusa di scarico del Naviglio Grande, oltre disegnare nuove macchine belliche e a riprendere i suoi studi sul volo. Era anche amico dell'Amboise, che gli aveva commissionato la costruzione della propria villa...progetto che Leonardo, per motivi che apprenderemo nei prossimi capitoli, non ebbe mai modo di terminare.

5Dovrebbe essere la descrizione dell'abito del Prowler/Masnadiero, personaggio del multiplayer di AC Brotherhood. Immagino Vanni vestito esattamente come lui.

6Per chi non lo ricordasse...la spada di Bartolomeo d'Alviano si chiama Bianca, come la nostra protagonista. Le due cose sono collegate? Oh, sì...potrebbe essere che Biancarè si chiami così anche per colpa di quella spada. Esplorerò questa possibilità al più presto in una one-shot sul passato.


Note di Runa
Vi chiedo scusa per la stramba formattazione del testo, ci litigo sempre senza riuscire a sistemarla!
Eccomi qua, con un aggiornamento anticipato. Ho deciso di pubblicare prima perché ho quasi finito il capitolo 37: questo significa che il mio vantaggio dei due capitoli è ampiamente superato, e posso permettermi di fare uno strappo :) 
Ta-daaaa, ecco che Ilaria è tornata con questa novità non da poco per Bianca. Vanni sta per avere un figlio, e non ne ha idea. Verrà a saperlo? Cosa succederà? Quale sarà il destino di questo bambino conteso tra Templari e Assassini ancora prima di nascere?
E che mi dite del ritorno di Martino? Non è più lo stesso uomo che è partito, e c'è questa ragazza bellissima al suo fianco...dopo tutto, Bianca l'ha lasciato senza una ragione, e hanno passato separati quasi il triplo del tempo che hanno trascorso insieme. Biancarè sarà così indifferente al suo ritorno vuole far sembrare?
Aggiungo che mi è dispiaciuto da morire violentare la Storia cambiando le alleanze della Lega di Cambrai...ho cercato comunque di rispettare altri dettagli e giustificare il più possibile avvenimenti realmente accaduti, ma inserire la realtà nella cornice del dualismo templari-assassini non è sempre facile! Continuerò a cercare di fare del mio meglio per non stravolgerla troppo, ma non posso evitare ogni tanto sconvolgimenti come questo. Li segnalerò sempre, in ogni caso, promesso! 

A tra un mese, con il capitolo 35: "Dritto al cuore."

Lal

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Capitolo 35
*** Dritto al cuore ***


Leonardo mi mandò a chiamare, la notte in cui Ilaria iniziò ad avere le doglie.

Ero al covo, quella sera. Ci capitavo più spesso, ultimamente: Jacopo mi aveva rimproverata aspramente per questo, diceva che mettevo a repentaglio la missione di copertura. Io non vedevo il problema. Per uscire dalla sua villa usavo un passaggio nelle fogne, e chi avrebbe riconosciuto la raffinata Bianca da Siena – quello era il mio nome ufficiale a Milano – in quella figura vestita in abiti maschili, con il cappuccio calato sul volto e la divisa del Credo a proteggermi? In più, avevo scalato un altro grado dell'Ordine, diventando Mercenaria. La mia abilità era cresciuta di pari passo con la mia esperienza, e io amavo mettermi alla prova scivolando nelle tenebre non vista, per raggiungere la base dei miei confratelli.

Andavo a cercare Nicola, per lo più. Gli riportavo le voci che avevo appreso a corte, mi informavo sulle missioni che aveva compiuto per Sandro in città...parlavamo di cose banali, dividevo un po' della mia vita con un amico e confidente che era stato lontano da me troppo a lungo. Mi era mancato, Nicola. Era il fratello maggiore che non avevo mai avuto, e mai come in quel momento della mia vita avevo avuto bisogno della sua guida. Forse a lui ero mancata allo stesso modo: sembrava sempre felice di vedermi, e più che disposto a chiacchierare.

Hai rivisto Le Rouge, ultimamente?” dissi, e, lo giuro, suonavo del tutto neutrale.

Vuoi dire, se ho rivisto Martino?”

Gli occhi grigi di Nicola mandarono un bagliore divertito. Dannato saccentone.

Voglio dire, se hai avuto a che fare con il Drappo Rosso...che guarda caso include anche Martino. Be', che c'è?”

Mi stava rivolgendo quello sguardo. Quello che mi diceva: non cercare di prendermi in giro, ti conosco da troppo tempo e sei una pessima bugiarda.

Niente. E' che mi chiedevo quanto tempo ci avresti messo prima di nominare di nuovo il suo nome. Credevo fosse una parola proibita per te.”

Non dire sciocchezze.” Se così fosse stato, avrebbe voluto dire che tenevo ancora a lui. Invece, ormai era tutto morto e sepolto. Tutto lasciato alle spalle, quel giorno di quasi tre anni fa, quando gli avevo detto addio.

Ecco, ora la domanda originaria che volevo fare sarebbe suonata diversamente. Lo ammetto, volevo chiedergli di Odette...sapere qualcosa di più su di lei. Sì, compreso se fosse davvero la compagna di Martino. Dai loro atteggiamenti affettuosi dell'altra sera, sarebbe proprio parso di sì...non avrei mai detto, prima, che potessero piacergli delle ragazze dall'aria così dolce. Immaginavo comunque che una bellezza come Odette raramente non piacesse a qualcuno: era oggettivamente meravigliosa, con quei boccoli biondi e i lineamenti da bambola, un fisico snello ma prosperoso nei punti giusti, un'aria un po' bizzosa che di solito fa impazzire gli uomini. Già. Sarebbe stato uno sciocco a non rimanerne affascinato.

Pensi che potrete tornare amici?”

Siamo già amici.”

Bugia. Quando una persona ti ha ferito così a fondo non puoi rimanere sua amica. Io avevo ferito Martino, eccome se l'avevo fatto...ma Nicola teneva ad entrambi, ed io gli volevo bene. Era quasi un dovere promettergli che non avrebbe mai dovuto scegliere tra noi due.

Posso farti una domanda, Bianca?”

Oh-oh. Questa frase era l'avvisaglia che Nicola stava per scagliare un dardo. Irrigidii i lineamenti in un sorriso sicuro.

Ovvio.”

Sei certa di non provare più niente per lui?”

Stringere i denti nel sorriso mi riuscì più facile di quanto avessi previsto. “Sì. E' passato molto tempo...siamo entrambi molto cambiati. Me ne sono resa conto appena l'ho visto entrare nella stanza, l'altra sera.”

Era vero. Avevo capito subito di avere davanti un uomo diverso dal ragazzo solare che avevo lasciato; ciò che non avevo detto a Nicola, però, era che il mio cuore bruciava per la voglia di sapere perché Martino fosse cambiato così tanto. Agamennone aveva combattuto in diverse battaglie, ma conservava il sorriso. Veronica era stata quasi distrutta dalla sua vendetta, e ancora trovava la grinta di sfidare il mondo con lo sguardo. Nicola stesso stava scalando i vertici dell'Ordine, eppure sembrava più incorruttibile che mai. Io ero tornata nel luogo che più mi spaventava, la corte, e vi avevo scoperto una forza che non credevo di possedere.

Cosa poteva essere accaduto in Francia, da togliere luce allo sguardo di Martino?

C'era la seria possibilità che avesse a che fare con sua madre. Forse aveva scoperto che era morta. Mi chiesi se Odette fosse stata con lui, quando aveva ricevuto la notizia. Non potevo pensare che in un momento del genere si fosse trovato solo.

Grazie al cielo, Nicola non ebbe modo di indagare di più: fu allora che Salaì arrivò, imprecando contro il mal tempo e il suo Maestro che lo mandava fuori per una faccenda tanto stupida. Dopo tutto, i bambini nascevano ogni giorno, che c'era di straordinario?

Beh, forse per lui non era una cosa straordinaria, ma a me non capitava esattamente ogni giorno che mio nipote stesse per nascere.

Me ne infischiai del fatto che fuori avesse iniziato a nevicare, e il vento turbinasse forte, ululando tra i palazzi di una gelida Milano. Ilaria portava in grembo il figlio di mio fratello: in qualche modo, sentivo pesare su di me la responsabilità che Vanni non si era preso. Dovevo essere presente, a tutti i costi.

Per grande gioia di Salaì, che non desiderava uscire di nuovo nella bufera e voleva scaldarsi al focolare del covo, Nicola disse che mi avrebbe accompagnato lui. Fin da subito il vento gelido ci sputò in faccia fiocchi ghiacciati, ma quella stupida tormenta non mi avrebbe ricacciata indietro: la casa di Leonardo non era lontana. Quando arrivammo, passando da quell'inferno freddo al tepore, credevo che le orecchie e il naso mi sarebbero caduti sul pavimento.

Leonardo ci accolse con calore e una certa, tenera agitazione. Era molto affezionato a Ilaria, e la sua curiosità da uomo di sapere sembrava per una volta aver ceduto il posto a una più umana preoccupazione per le sorti della discepola.

Nicola si offrì di aiutare a bollire l'acqua – perché alle partorienti serve sempre tanta acqua calda? - mentre io, colma di apprensione e di una sorta di timore reverenziale, entravo nella stanza di Ilaria.

Ero spaventata a morte. Ricordavo solo vagamente l'estate torrida in cui zia Claudia aveva dato alla luce Lisabetta: le donne che correvano su e giù per le scale, i secchi di acqua calda – appunto - , le pezze umide. Grida dal piano di sopra, gli uomini che bevevano e cercavano di scherzare nel laboratorio per ingannare l'estenuante attesa. Io, Vanni e Agamennone che giocavamo a tirare sassi alle statue nel cortile, fingendo di non sentire le urla. Quella era l'unica esperienza di parto di cui avessi memoria, e il mio ruolo in essa non era stato esattamente preponderante.

Fui sorpresa, e perfino un po' grata, di trovare Diamante nella stanza, accanto a un'ansimante Ilaria.

Che ci fai qui?” domandai alla Maestra, esterrefatta.

Ero a colloquio con Leonardo, quando qualcuno ha deciso di venire al mondo e interrompere la nostra chiacchierata” replicò la Maestra. “Vieni qui, tienile la mano.”

Ilaria era paonazza in viso, e respirava affannosamente. Sedetti accanto a lei, scostando una ciocca di capelli che le ricadeva sul viso.

Andrà tutto bene, d'accordo? Sta' tranquilla” mormorai.

Lei mi rivolse uno sguardo che faceva di tutto per non mostrarsi impaurito: strinse forte la mia mano quando una contrazione le deformò il volto in una maschera di dolore, e io cercai di non farle capire a mia volta quanto fossi terrorizzata.

Due ore dopo, le contrazioni si erano fatte più ravvicinate, e l'ululato della bufera più pauroso contro le finestre. I lamenti di Ilaria mi trafiggevano come pugnali: cercavo di tergerle il sudore e lasciavo che mi martoriasse le dita, sperando che infliggermi un po' di dolore alleviasse l'enormità del suo. Ormai era chiaro che, con quella tempesta di neve, la levatrice non sarebbe arrivata.

Non è un problema, posso pensarci io” disse La Volpe.

Tu?” replicammo in coro Ilaria ed io.

Be', che c'è? Non è il primo bambino che faccio nascere.” Si spostò al bordo del letto, studiando la situazione sotto le gonne di Ilaria. Con l'aria intenta di chi sta esaminando un problema importante, aggiunse: “Nei miei covi non possiamo sempre permetterci il lusso di una levatrice, ho dovuto imparare.” Si sistemò tra le gambe divaricate di Ilaria. Pensai che è strano quanto sangue e sofferenza ci siano all'inizio della vita, quasi più che alla sua fine.

Ora devi spingere, Ilaria...ehi!”

Diamante rialzò la testa di scatto, la guancia paonazza per il calcio che involontariamente – almeno, così credo – Ilaria le aveva assestato in seguito a una contrazione particolarmente forte. La Volpe le afferrò saldamente le caviglie. “Cerca di stare ferma, puledra selvaggia. Malmenando me non aiuti tuo figlio.”

L'angoscia mi stringeva il petto a ogni spinta della ragazza, a ogni lamento e pesante imprecazione – cielo, Ilaria sapeva parolacce di cui nemmeno io conoscevo l'esistenza!; quel grumo pesante si sciolse quasi in pianto, quando sentii Diamante dire:

Eccolo, sta uscendo. Un'ultima spinta, ragazza, coraggio!”

Ricordo il viso paonazzo di Ilaria, il suo ringhio furioso per cercare di tenere insieme il corpo dilaniato e cacciarvi fuori il bambino. Poi, finalmente, sentii il primo urlo del figlio di Vanni. Era un maschio. Avevo un nipote, ed era un maschio.

Pratica, La Volpe tagliò il cordone ombelicale con la sua lama celata. Ero come in catalessi: dovette richiamarmi, perché accorressi con un panno morbido e vi avvolgessi quell'essere minuscolo, coperto di sangue, dalle guance rosso rubino per il pianto. Non aveva quasi capelli, e i pugnetti minuscoli si agitavano combattivamente nell'aria, come a inveire contro chi l'aveva strappato dalla sua calda culla. Già un Auditore, fin dal suo primo vagito.

Mio nipote. Il figlio di mio fratello...Vanni avrebbe dovuto essere nell'altra stanza ad attendere il suo arrivo con trepidazione. Invece, non c'era, e nemmeno sapeva della sua esistenza.

Misi il piccolo tra le braccia di Ilaria, sul cui viso si mischiavano fatica, dolore e gioia. Incredibile: un attimo prima sembrava squarciata in due da un'accetta, e ora i suoi occhi lucidi avevano dentro la più grande serenità del mondo. Provai una fitta di un sentimento che non riuscii a comprendere, in un primo momento. Oggi so che si chiamava invidia, e che allora ero troppo egoista anche solo per ammetterlo a me stessa.

Distolsi lo sguardo dallo splendido quadro formato da madre e figlio, solo per gettarlo sul dipinto di Vanni che ancora giaceva contro la parete, semi-coperto dal panno, quasi casualmente scordato lì. Chissà se era stato davvero dimenticato, o se piuttosto si trovasse in quel luogo per un motivo.

Guardali, pensai, hai odiato così tanto nostro padre per averci resi illegittimi, e hai messo loro nella stessa condizione. Ma non importa. Ciò che tu rifiuti, lo raccoglierò io...come sempre. Rimedierò ai tuoi errori, farò ammenda al posto tuo.

Non riuscii a trattenere la lacrima che mi solcò il viso.

Perché se tu sei così, la colpa è anche mia.

 

Ilaria lo chiamò Leonardo, come il Maestro a cui doveva tutto. Il Maestro decise che l'avrebbe riconosciuto come proprio, tentando di proteggere almeno in parte Ilaria dal biasimo della gente e il bambino dall'ostracismo sociale. Non era inusuale che le serve partorissero bambini ai loro padroni, anche se la chiacchierata sodomia di Leonardo rendeva questa asserzione di certo meno credibile. Sia la madre che il padre putativo, comunque, se ne infischiarono con decisione.

Fu una strana notte. Leonardo aprì un'otre di vino che non bevve, offrendone a noi per festeggiare. Diamante e Nicola accettarono, ma io bagnai appena le labbra. La mia ebbrezza era già troppo forte, avevo paura che se vi avessi aggiunto del vino non sarei stata più in me molto presto.

Troppo stranita per poter festeggiare a lungo, tornai da Ilaria, per vedere se lei e il piccolo Leonardo stessero dormendo. Trovai la ragazza in contemplazione della sua creatura, come era naturale che fosse. Il piccolo sembrava essersi notevolmente calmato dopo aver avuto la sua razione di latte materno, e riposava, con la fronte e i pugnetti chiusi poggiati al seno gonfio della madre.

Ilaria mi sorrise. “Non è bellissimo?”

Dovresti dormire” replicai, con una dolcezza che non credevo la mia voce potesse esprimere.

Non riesco a smettere di contargli le dita. Sono dieci...e anche quelle dei piedi. E' perfetto.”

Sorrisi. “E' così che escono fuori, di solito...o così mi dicono.”

Ilaria ammiccò con aria ironica: “Bianca, sono molto offesa. Vuoi dire che tuo nipote non è la creatura più speciale del mondo?”

Lo era. Mi ero innamorata di quel rospetto paonazzo dal primo momento che l'avevo sentito muoversi contro la mia mano, quando ancora era nel pancione.

Mi si sta addormentando il braccio” si lamentò Ilaria, dopo qualche istante. “Puoi tenerlo tu?”

La proposta mi terrorizzò all'istante...e come sempre mi buttai a capofitto nella mia paura, allungando le mani verso il piccolo Leonardo.

Ilaria disse che dovevo sostenergli la testa: era stata una delle mille raccomandazioni della Volpe, professionale come una vera levatrice. Lo tenevo come si potrebbe sorreggere un reperto antico e fragilissimo, e quando lo appoggiai contro il mio petto...non so spiegarvi cosa provai. Un afflusso immenso di vita, che passò da lui a me. Un concentrato di energia, forza, speranza.

All'inizio dell'esistenza siamo un grumo di possibilità, un nodo di scelte ancora da prendere e di porte aperte. Mille e più bivi non ancora imboccati, mille strade spianate di fronte a noi. Quel minuscolo Auditore era tutto, proprio perché non era ancora niente. E io, che in quel momento ero un qualcosa di cui non sempre andavo fiera, gli invidiavo quella possibilità di cominciare da zero.

Molte persone vi racconteranno di quando un neonato ha stretto il loro dito nel minuscolo pugno, e di quanto questo li abbia emozionati e abbia iniziato a creare un legame tra loro. Ciò che fece mio nipote per stabilire un legame, invece, fu schiudere le labbra e voltare il viso verso il mio seno, alla ricerca di altro cibo. Ilaria ed io ci guardammo, e scoppiammo a ridere.

E' proprio un vero Auditore!” commentai tra le risate, e pensai: chissà se Ezio verrà a conoscerti, piccolo Leo. Devo scrivere a Rosa. Devono vederti...devono riconoscere la tua esistenza, anche se stanno cercando di negare quella di tuo padre.

Una volta che Leo fu addormentato, lo poggiai con infinita cautela nella culla che Leonardo aveva intagliato per lui – un'opera d'arte, con angeli incavati in bassorilievo che sembravano sorridere con lo sguardo prima che con il viso. Ilaria sembrò d'un colpo spossata, ma non ancora abbastanza da riuscire ad addormentarsi. Mi chiese dell'acqua, ma la brocca era vuota.

Mi diressi verso il salone, per cercare acqua fresca: attraversai il lungo corridoio con cautela, il padrone di casa era andato a dormire e probabilmente anche Nicola e Diamante si erano assopiti vicino al fuoco. Mi sembrava di muovermi come dentro ad un sogno.

Alla fine del corridoio, mi arrestai. Avevo sentito dei mormorii nella stanza principale. I miei amici erano ancora svegli? Sentivo le loro risate soffocate.

Lascia solo che lo dica a Cesca. Ti prenderà in giro a vita.”

E chi credi che abbia fatto nascere il figlio di Cesca, lo Spirito Santo?” Una risata. “Un capo fa quello che deve essere fatto, messer Ordelaffi. Sventrare Templari e far nascere pargoli non è molto diverso dopo tutto.”

Ti riesce bene, comunque. Forse dovresti lasciare tutto e intraprendere una nuova professione.”

Levatrice del villaggio, perché no? Suona bene. La lama celata può tornare utile per praticare cesarei.”

Un altro accesso di risate soffocate: quanto avevano bevuto? Feci per muovere un passo e aprire la porta, quando udii qualcosa che mi bloccò sul posto.

Potremmo farlo davvero, sai. Sparire per un po' di tempo, dove nessuno ci conosce.”

La Volpe fece una pausa. La sua voce uscì meno decisa di prima. “Avevamo detto niente fantasticherie, Nicola.”

Non è una fantasticheria. E' un progetto.”

Irrealizzabile, e lo sai.”

Adesso, ma magari...”

Non c'è magari. Te l'ho detto, fin dal principio...”

Diamante...”

...nessuna complicazione, eri d'accordo anche tu.”

Sono ancora d'accordo.”

Non sembra.”

Lo sono.” Una pausa. “Vieni qui.”

Rimasi paralizzata, con la mano ferma sulla maniglia della porta. Nicola e Diamante. L'idea mi strideva nella testa. Un momento, avevano almeno...sette anni di differenza, se i miei calcoli erano esatti. Forse, qualcuno di più.

Non che questo fosse un reale impedimento, ma insomma...Nicola, il mio amico, il mio quasi fratello! E Diamante, la mia sarcastica Maestra! Non riuscivo a far collimare le due cose.

Ora si spiegava tutto, comunque. Il sorriso di Nicola. Quello di Diamante. Nicola e Diamante...insieme, erano la ragione di quella serenità che mi aveva tanto colpito in loro.

Quel periodo della mia vita era costellato di coppie che si formavano intorno a me. E io?
Ero sola, invece. Perché l'avevo scelto, certo. Non lo ero stata sempre. Avrei potuto non esserlo, se tre anni prima non avessi lasciato Martino con un pretesto stupido. Mi ero scelta quell'isolamento del cuore: dunque, perché recriminare ora?

Quella volta, fui così gentile da fingere di sbattere contro la porta per colpa del buio. Il rumore diede loro in tempo di ricomporsi, qualsiasi cosa stesse succedendo nella stanza prima della mia irruzione. Finsero alla perfezione, e io finsi ancora meglio di non aver capito nulla. Dissi di Ilaria, del bambino, e del fatto che li avrei vegliati entrambi perché non me la sentivo di lasciarli di là da soli. Annuirono, approvarono, mi diedero la buonanotte, e io sparii di nuovo nel corridoio con la mia brocca d'acqua fresca e il cuore stranamente a disagio per tutte le nuove consapevolezze di cui l'avevo caricato quella sera.

 

 

Fu solo giorni più tardi, che la neve caduta si sciolse. Io passeggiavo per i giardini del Castello Sforzesco, con Charles d'Amboise: mi stava raccontando del progetto della villa fuori città che aveva chiesto a Leonardo di progettare per lui, quando intravidi l'ombra saettare sul tetto.

Bianca, à quoi penses-tu?”

Mi riscossi, portando un sorriso dolce su di lui.

“Niente di importante” risposi. “Alle volte, mio signore, mi manca la mia famiglia.”

Capivo qualche parola occasionale di francese, ma non mi azzardavo mai a rispondere in quella lingua, anche quando si trattava di frasi semplici. Mi sentivo ridicola ed esposta nel parlare in quell'idioma che non era il mio.

Fu allora che un intendente arrivò a richiamare l'attenzione del governatore di Milano: mi lasciò nei giardini, avvisandomi che più tardi il nostro caro amico Gaston mi avrebbe fatto visita, e si aspettava che io lo accogliessi come meritava. Sapevo che non intendeva nei giardini, ma in camera da letto.

Mi inchinai, e lo osservai allontanarsi. Quando fui certa che non udisse più i miei passi, tornai indietro nel cortile, alla ricerca dell'ombra rossastra che avevo visto scheggiare nell'aria.

Aggirando una colonna, vidi Martino che vi stava poggiato con la schiena, il cappuccio color vinaccia tirato sul viso. Incrociai le braccia al petto: per rimproverarlo, o piuttosto per difendermi? Non è chiaro nemmeno a me.

“Stai a diventà lenta, Bià. M'hai notato dopo dieci minuti che so' arivato.”

“Che ci fai qui?”

 

“Devo datte 'n messaggio de Le Rouge.”

 

Quanto suonava strana quella parola pronunciata in un buon francese, dentro la sua parlata romana.

“Fa' presto, qui possono sentirci.”

Martino si avvicinò di qualche passo. Non so perché provai l'istinto di indietreggiare; non lo feci solo per orgoglio.

“A breve ariverà Ermes Bentivojo da'a Francia.”

“Il Bentivoglio?” battei le palpebre, incredula. Era uno degli alleati di Lucrezia, mentre Gaston era alleato del Papa. Significava che la Borgia stava cercando in qualche modo di strappare la fazione francese a Giulio II?

“'e nostre spie dicono che è a due settimane de cammino. Devi dì a Nicola de starsene bono, c'avemo bisogno de spià Ermes pe' capì 'a situazione prima de aggì.”

Annuii. Sapevo che Nicola voleva rivalersi sul Bentivoglio almeno quanto Veronica aveva voluto vendicarsi di Strozzi; tuttavia, al contrario della mia amica, non avrebbe mai rischiato di compromettere una missione.

“E non potevi dirlo direttamente a Nicola?” domandai, inarcando lievemente il sopracciglio. Lui scosse il capo con un'ombra di fastidio.

“Nun ce sta, ar covo. E quer Sandro nun me piace granché...ho pensato ch'era mejo dillo a te. Anche pe' preparatte. So che je voi fa' 'a pelle da 'na vita, ar Bentivojo.”

Lo guardai per un lungo momento. Possibile che avesse preso quell'informazione come una scusa per potermi vedere da solo?

Non feci in tempo a reagire a quella possibilità, che sentimmo un fruscio di gonne, e voci femminili che ridevano tra loro. Martino mi trascinò contro il muro del chiostro, poggiandovi la schiena e attirandomi a sé perché le nuove arrivate non potessero vedermi.

Per lunghi istanti rimasi premuta contro il suo petto. Il suo respiro contro il mio respiro. Le mani si aggrapparono alle sue spalle senza che me ne rendessi conto.

Il corpo di Martino si era irrobustito, i muscoli erano più pronunciati di prima. Sul suo volto, ora così vicino, erano più evidenti le cicatrici, soprattutto quelle che gli tagliavano il viso.

Anche quando le dame intruse si furono allontanate, non riuscii a scostarmi.

“Ci troviamo sempre in situazioni come questa” mormorai, cercando di evadere con l'ironia dalla vampata prepotente di desiderio che a stento mi faceva trattenere dal baciare le sue labbra. Così vicine. Sensuali come le ricordavo.

“'e cose so' cambiate.”

Il suo tono voleva essere duro, anche se non distoglieva lo sguardo dal mio. Gli accarezzai con il pollice la cicatrice sulla guancia, come lui un tempo aveva sfiorato quella sulle mie labbra. Martino chiuse gli occhi, e appoggiò il volto alla mia mano, come se avesse aspettato da tempo quella carezza. Ma la sua voce risuonò come uno schiaffo, quando mormorò:

“Nun li fa' 'sti giochetti con me, Bianca. Io nun le prenno le briciole delli artri omini.”

Il momento fu spezzato. I respiri che prima andavano all'unisono divennero pesanti nell'aria carica di umidità del giardino.

Distolsi la mano dal suo volto. Martino aprì gli occhi, rivolgendomi la sua accusa dritta in viso.

Sapeva. Sapeva tutto del modo in cui agivo alla corte francese. Ero stata una stupida a sperare che non ne venisse a conoscenza. E perché poi non avrebbe dovuto?

“Io lo faccio per l'Ordine. E tu, perché ti scopi Odette Leroux? Rafforzi il tuo legame con il capo, o è solo divertimento?”

Ignorò la mia frecciata. Mi prese per le spalle.

“Ascorta. 'o so che lo stai affà pe' tu padre. Pe' dimostrà che sei forte come lui, che sei l'erede sua. Ma nun deve esse così pe' forza, o' sai pure te...”

Non volevo sentire quelle parole. Feci per divincolarmi e andarmene, ma lui mi tenne saldamente.

“La Bianca che conoscevo io era diversa. 'na vorta sapevi chi eri. Mo sei diventata 'no strumento ne' mani der Mentore.”

“Eseguo solo la mia missione!”

“Esegui er volere suo! Come sempre!”

Strinsi gli occhi a due fessure. “E tu? Non esegui il volere di Le Rouge? E' il nostro dovere di assassini.”

Lui scosse il capo. Si umettò le labbra, prima di aggiungere: “Fa' come te pare. Fatte pure fotte da tutta Milano pe' fa contento tu' padre.”

Dominando a stento la rabbia che mi bruciava in gola, sibilai: “Chi mi fotta o meno, non è più affar tuo.”

“Già.” Lo vidi prendere un respiro furibondo, e poi staccarmi bruscamente da sé. “Forse nun lo è stato mai. Magari 'e briciole d'un artro me le so' già prese, e manco 'o sapevo.”

Lo schiaffeggiai. Forte. Fu un gesto istintivo, di cui non mi pentii.

Avevo sentito abbastanza. Visto abbastanza risentimento sul suo viso e astio nella sua voce. Scappai, come volevo fare fin dall'inizio di quella discussione inevitabile. Scappai...come facevo sempre quando Martino cercava di mettermi davanti a me stessa.

 

Quella notte divisi il letto con Gaston De Foix. Giacqui con lui con rabbia, e un furore implacabile che il generale francese scambiò per passione. Ma dietro le palpebre serrate io rivedevo il volto irato di Martino, la sua espressione di disprezzo.

Una volta mi guardava come se avesse paura di vedermi sparire da un momento all'altro. Come se fossi un'esistenza speciale, da proteggere. E ora mi attaccava dove sapeva che avrebbe fatto più male. Infangava quello che c'era stato tra di noi. Credeva di essere stato così poco importante, nella mia vita? Credeva che non mi mancasse quello che avevamo? Ma eravamo giovani, allora, e avevamo appena intrapreso il duro cammino dell'Assassino. Eravamo cambiati in quegli anni. Dovevamo crescere, e sopravvivere nel mondo crudele che c'era intorno a noi, con tutte le armi di cui disponevamo. Senza falsi idealismi, né sentimentalismi. I sentimenti e gli ideali sono fatti per essere infranti.

Dopo che mi fui rivestita, iniziai a sfregarmi il palmo della mano, mentre raggiungevo le stanze che Amboise aveva fatto riservare per me. L'odore di quel francese detestabile era su di me, su ogni centimetro della mia pelle. Avevo bisogno di un bagno. Caldo, bollente. Lo preparai senza curarmi del fatto che fosse notte fonda.

Mi scorticai la pelle con acqua e sapone. La ricoprii di essenza profumata, di creme per renderla più morbida, di olii per renderla più lucida. Ma capii presto che la verità era molto amara. Perché, per quanto cercassi di nasconderlo sotto strati di belletto, l'odore di Gaston De Foix era dentro di me.

Un attacco di nausea mi serrò la bocca dello stomaco. Strinsi le labbra fino a sbiancarle, mentre raccoglievo le ginocchia al petto. Non riuscii a fare a meno di tremare, e non era colpa dell'acqua che iniziava a raffreddarsi.

Ero uno strumento in mano alla Fratellanza.

Avevo fatto del mio corpo un veicolo del Credo. Ma no, non del Credo...delle macchinazioni dell'Ordine. Della guerra di mio padre.

E dove mi ero persa, io? Dov'era Bianca Auditore, la bambina che correva sui tetti e sognava di volare come i piccioni? Dov'era la Biancarè che Martino era riuscito a rendere felice, tanto tempo fa?

Uscii da quel bagno sentendomi più sporca di quando vi ero entrata.

 

Eppure, il lerciume della mia anima valse qualcosa, infine. Se l'intimità con Gaston De Foix era pericolosa e mi costringeva a non indagare su di lui in maniera troppo esplicita, con Amboise il mio compito era stato portato a termine nel più grandioso dei modi.

Non che mi avesse snocciolato apertamente segreti di stato, questo è ovvio. Era pur sempre un uomo di potere, e se era arrivato fin lì non poteva essere uno sciocco. Tuttavia, avevo colto ogni più piccolo dettaglio delle nostre conversazioni, fuori e dentro il letto, e avevo messo insieme un quadro piuttosto preciso. La verità, era che il governatore di Milano ubbidiva ai dettami del Papa sulla carcerazione del marchese Francesco perché spaventato che Isabella d'Este mirasse a restituire il ducato al nipote Massimiliano, figlio dello spodestato Ludovico il Moro. Tenere in pugno la Marchesana significava stornare quella minaccia dal suo governatorato e preservare al sicuro il baluardo francese in Italia.

Con quell'informazione, fu semplice per Jacopo negoziare tra Mantova e Milano un accordo che mettesse a tacere quell'implicita possibilità, e riconoscesse lo status quo e diversi scambi commerciali vantaggiosi per la Milano di Amboise. Se avesse compreso quanto la mia mediazione fosse contata nel raggiungere quell'equilibrio, Charles non me lo fece pesare mai: tuttavia, non era uno stupido, e penso che abbia capito il gioco di diplomazia di Jacopo. Questo non fa che darmi un vanto maggiore, perché è evidente che io gli ero piaciuta abbastanza da indurlo a pensare che tutto sommato il rischio era valso la pena.

In ogni caso, quando Ermes Bentivoglio giunse al Castello Sforzesco, mi sentivo già la vittoria nel pugno, e pensavo che entro poco la mia missione in quella città sarebbe stata compiuta, e il marchese sarebbe stato libero di tornare a casa.

Non avevo tenuto conto che al passaggio del diavolo ogni filo d'erba va in fiamme.

Quando Gaston De Foix mi presentò Ermes avevo i polmoni brucianti, lo ammetto. Nella mia testa quell'uomo incarnava il male, e buona parte dei miei incubi di bambina mi erano stati inflitti dal suo ricordo.

L'ultima volta l'avevo visto dieci anni prima. Se era cambiato? No...il demonio non cambia mai. Aveva ancora gli occhi rossicci, come una colata di sangue mischiata al fango: i suoi capelli erano dello stesso colore. Ripensai confusamente a Tancredi, il medico di Bologna che era il fratellastro di Ermes e aveva gli stessi colori sanguigni. Eppure, su quell'uomo gentile gli stessi tratti non mi avevano mai fatto pensare alla morte.

Non temevo che mi riconoscesse: l'ultima volta che aveva avuto a che fare con me, ero solo una bambina. Appurai che si trattava di un uomo misurato, nemmeno lontanamente lezioso come l'avevo immaginato nella mia mente in quegli anni. Arrogante, sì, ma quel genere di arroganza che si impianta nello sguardo, nel modo di modulare la voce. Devo ammetterlo, il male incarnato non aveva l'apparenza del male, dopo tutto. Se non fosse stato per i ricordi di bambina e tutto ciò che sapevo aveva fatto ai miei amici, forse non avrei visto il sangue nei suoi occhi, né la morte aleggiargli sulle spalle come un mantello.

Mentre gli parlavo, lodando la bellezza della sua Bologna natale ed esprimendo il mio rammarico per il suo lungo esilio, mi sembrava di avere addosso una maschera perfetta, che mi permetteva di osservarlo senza essere vista – quantomeno, non per chi ero davvero. La sensazione era sottilmente esaltante, per certi versi divertente. Lo fu, almeno, finché Ermes non notò la figura che stava sopraggiungendo nei corridoi, e disse:

“Lasciate che vi introduca il mio discepolo, Giovanni.”

Il giovane uomo ci raggiunse, e di colpo io vidi il ritratto di Ilaria prendere vita.

Aveva indurito ancora un poco i lineamenti, e tolto il pizzetto per sostituirlo con un mento completamente privo di barba. I capelli si erano fatti più lunghi, gli occhi più infossati. Ma era lui, non c'era alcun dubbio. Un dardo mi colpì dritto al cuore. Subito dopo il dolore, venne il terrore: perché negli occhi di mio fratello lessi il mio stesso sconcerto nel vedermi, riconoscermi, e capire che ero il nemico.

Tenni il fiato, e in un momento vidi tutta la mia vita passarmi davanti...sì, credetti per un lungo attimo che sarebbe finita lì, in quel luogo, alla mercé di un gruppo di templari. Bastava una parola di mio fratello, e sarei morta all'istante.

Quando aprì le labbra, Vanni disse:

“Madamigella Bianca, è un onore fare la vostra conoscenza.”

Sprofondò in un inchino. Schiusi la bocca per permettere all'aria di attraversarmi di nuovo.

Non mi aveva venduta.

Vanni non mi aveva venduta.


Note di Runa
Zan-zan! Questo capitolo termina con un bell cliffhanger :) Cosa succederà adesso ai fratelli Auditore, riuniti sotto lo stesso tetto?
E' stato un capitolo denso, soddisfacente ma anche prosciugante da scrivere. Contiene così tanti eventi diversi...la nascita di Leo jr, la scoperta della tresca Diamante-Nicola (avanti, quanti di voi mi avevano sgamata? XD ), il sospirato confronto angstoso tra Bianca e Martino e il ritorno di Vanni...che, con mia grande sorpresa, per una volta decide di non fare la spia. Ma potrà durare?
Parecchi strali sono arrivati dritti al cuore della nostra giovane Auditore questa volta. E mi verrebbe da dire che il peggio non è ancora giunto. 
Al momento sto per terminare il capitolo 38: no, non sarà quello che ho tanto paventato e di cui ho tenuto segreto il titolo per non spoilerare subito cosa accadrà...ho dovuto spezzare in due il capitolo 37, "Solo una madre", per ragioni di lunghezza. Dunque, il capitolo terribile sarà il 39...e tra poche righe dovrò decidermi ad affrontarlo T__T Mi munirò di fazzoletti...
Come promesso, cerco di tenermi sempre due capitoli avanti alla pubblicazione. Ciò significa che se riesco a scrivere di più del previsto pubblico prima della scadenza mensile, come potete vedere :) Spero che l'ispirazione e il tempo mi assistano, siamo alla fine dell'anno scolastico e queste ultime due settimane di lavoro mi stanno prosciugando le energie...ma con le vacanze estive e più tempo a disposizione spero di riuscire a mettermi avanti :) 
Un saluto, un bacio e un grande grazie per aver letto fino a qui <3

Laura.

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Capitolo 36
*** Coperture ***


Il cuore mi rintronava ancora nelle orecchie quando Gaston ed Ermes ci lasciarono soli, incaricandomi di mostrare a Vanni i cortili del Castello. Ogni respiro mi assordava, gonfiando i polmoni di tutta la rabbia furiosa che avevo soppresso in quei tre anni infiniti. L'oggetto del mio rancore più forte era qui, il suo braccio stretto sotto la mia mano mentre passeggiavamo fingendo di non conoscerci. Mi aveva superato nettamente in altezza, ora. Di certo era diventato più forte. Mi sorpresi a pensare che la sua costituzione ricordava quella di nostro padre.

Attesi molti minuti, prima di schiudere le labbra. Continuavamo a passeggiare, senza guardarci in viso.

“Perché hai mentito per me?”

Nessun dolore fisico che io avessi mai provato era minimamente paragonabile allo sforzo di spezzare quel silenzio.

Il viso di Vanni si contrasse in una smorfia fredda.

“Ascoltami bene: ti do dieci minuti di tempo per scappare. Poi darò l'allarme.”

Ci fermammo sotto il colonnato. Strinsi il suo braccio con l'intenzione di fargli del male. Le nostre voci erano sussurri colmi di violenza.

“Fallo ora. Finisci quello che hai iniziato tre anni fa. Ti manca il coraggio?”

“Non provocarmi, Bianca.”

“Sennò, che fai? Vai a piangere dietro la calzamaglia di Ermes?”

Un lampo d'ira illuminò gli occhi grigio-azzurri di Vanni, che finalmente si misero nei miei.

“Potrei decidere di non essere clemente.”

Per tutta risposta lo spinsi forte contro il muro, cacciando l'avambraccio contro la sua gola.

“Tu non hai nemmeno idea” soffiai, a pochi centimetri dal suo viso “di quanto io mi senta poco clemente adesso.”

Era davvero diventato più forte. Il suo pugno mi colpì al fianco, facendomi vacillare a sufficienza da ribaltare le nostre posizioni. Puntò la lama celata alla mia gola – la conservava ancora, quell'arma assassina...poco importava. Io avevo la punta di uno stiletto premuta contro il suo stomaco.

Vanni mi fissò negli occhi. I suoi, sono gli stessi di nostra madre. Puoi uccidere un uomo che ha gli occhi di tua madre?

Forse anche lui vedeva in me qualcosa di Rosa, quanto bastava per far esitare la sua mano.

“Non hai idea di quello che sta per accadere, Bianca” sussurrò, e nel suo sguardo c'era una punta di paura mista a...un'altra emozione, che non so definire. Esaltazione? “Devi andartene, finché sei in tempo. Non avranno pietà se trovano assassini nel castello.”

“Non fingere che ti importi!”

“Specialmente se trovano te.”

“Sei un traditore, e un traditore rimani. Se sei veramente fedele ai templari, consegnami a loro. Avanti! Porta alla tua Lucrezia la mia testa, ti coprirà d'oro. Non è quello che hai sempre voluto?”

“Non lo capisci?” il volume si alzò d'improvviso; vidi i muscoli del suo volto guizzare per la consapevolezza di aver commesso un errore. Fece scendere di nuovo la voce a un bisbiglio. “Non è la tua testa che vogliono...è molto peggio!”

Rimasi gelata, la bocca appena dischiusa. Peggio? Cosa poteva volere Lucrezia Borgia da me, che fosse peggiore della morte?

Non ebbi la mia risposta, comunque. In quel momento vidi gli occhi di Vanni farsi bianchi, e sentii la sua stretta su di me allentarsi. Lo sorressi, mentre si accasciava a terra, svenuto. Avevo a malapena sentito il colpo dell'elsa che l'aveva tramortito; cadendo, rivelò alle sue spalle due figure in casacca color vinaccia.

“Nun sai da quanto volevo fallo.”

Martino e l'altra figura – piccola, sottile: una donna...Odette - si avvicinarono. Vidi la ragazza alzare il braccio per sferrare su Vanni un colpo della sua lama, e soffocai un grido. Martino le bloccò il polso prima che potessi farlo io stessa.

Attend.” fece un cenno nella mia direzione. “C'est son frère.1

Odette rivolse i grandi occhi azzurri su di me, poi di nuovo su Vanni. “Oh, je vois.” inarcò un sopracciglio. “Ils s'aiment à la mort, n'est pas?2

“Che ci fate qui?” sibilai, ancora stranita dal loro arrivo improvviso e irritata perché non riuscivo a capire il loro francese.

“Nun c'è de che, Biancarè, è stato 'n piacere.”

Feci una smorfia. “Rispondimi.”

Martino incrociò le braccia, mentre Odette si guardava nervosamente intorno. Dovevano aver trasgredito parte del piano per venire in mio soccorso.

“Dovemo da 'ncontrà 'n 'nformatore” ammise infine lui.

“Un informatore?” Per un attimo, una breve speranza mi si accese nel petto, e morì non appena vidi lo sguardo severo di Martino. No, non parlava di Vanni, ovviamente.

Si caricò mio fratello sulle spalle. Odette lo rimproverò con parole che non capii, ma afferrai la replica di Martino nella sua essenza: non potevano lasciarlo lì, avrebbero capito che ero stata io a stordirlo e la mia copertura sarebbe saltata nel giro di pochi minuti. Avrei voluto gridargli che non avevo bisogno del suo aiuto; ma dannazione, ce l'avevo eccome.

Muoverci in tre con un templare tramortito per il palazzo fu quanto di più pericoloso e insieme comico io abbia mai fatto nella mia vita. Io andavo per prima: ero una faccia nota da quelle parti, e questo mi consentiva di sviare l'attenzione di chiunque passasse nei corridoi, per permettere a Odette e Martino di proseguire indisturbati. Quando bussammo alla porta del fantomatico informatore e questi ci aprì, trasalii.

I colori di Ermes, ma senza la stessa aura di morte.

“Tancredi!” mormorai, senza fiato. Lui sgranò gli occhi, ci impiegò qualche istante a riconoscermi.

“Bianca? Cosa ci fate...” lo sguardo gli cadde su Martino e Odette, che trasportavano Vanni. Si fece serio. “Entrate, presto” mormorò, lasciandoci lo spazio per scivolare dentro e chiudendo in fretta la porta dietro di noi.

Simza era con lui, naturalmente: fu con gioia che la vidi così splendidamente cresciuta. Sul volto ovale non si disegnò sorpresa, perché come al solito ogni emozione era dentro i suoi occhi cangianti. Si fecero violetti, poi viola scuro, e infine di un blu caldo e accogliente. Si avvicinò, mi toccò i capelli come a constatare quanto fossero cresciuti, sorrise. Le strinsi le mani.

“Anch'io sono felice di vederti” sussurrai, in un miscuglio di smarrimento e commozione. Non riuscivo a districarle per bene: ero troppo impegnata a chiedermi cosa ci facessero qui, e perché Martino avesse detto che Tancredi era un informatore.

Nel frattempo, gli uomini avevano portato Vanni nella camera da letto. Tancredi armeggiò per un po' intorno a lui, prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle. Ammetto che osservai i suoi movimenti attraverso la porta socchiusa, sulle spine. Cosa gli stava somministrando, esattamente?

Quando emerse dalla stanza, il medico aveva sul viso quel sorriso gentile e soddisfatto che ricordavo dai giorni della mia convalescenza.

“Ecco fatto. Con l'infuso che gli ho dato, dormirà profondamente per qualche ora.” Tuttavia, notai che prese comunque la precauzione di serrare la porta alle proprie spalle.

Odette si era già accomodata su uno scranno imbottito, il gomito puntellato su un bracciolo e il ginocchio raccolto al petto, in una posa in parte infantile e in parte provocatoria. Aveva un'aria oltremodo infastidita in viso: dovevo decisamente aver mandato al diavolo i suoi programmi per la missione. Tuttavia, proprio quell'espressione scocciata mi pungolò sul vivo. C'erano domande a cui volevo una risposta, e non sarebbe stata quella bambolina snob a fermarmi dall'averle. Per questo, quando Martino fece per prendere la parola e rivolgersi a Tancredi, intervenni:

“Prima che iniziate a parlare di cose che non riesco a capire, posso saperne qualcosa di più su questa storia?” Volsi il viso verso il medico. “Tancredi, perché sei qui?”

Martino borbottò un'imprecazione, e si rivolse verso la finestra, andando a tirare i pesanti tendaggi. Lo sguardo di Odette lo seguì, prima di riportarsi su di me, insistente. Non riuscivo a decifrare la sua espressione, ma una cosa è certa: quella ragazza sapeva essere irritante anche senza pronunciare mezza parola.

L'uomo mi guardò con serena calma, facendomi cenno di sedermi a mia volta. “Sono al seguito del mio fratellastro.”

Intendeva Ermes...dunque, alla fine Tancredi aveva deciso di riprendere i contatti con la famiglia di suo padre, e di farlo in modo da servire il Credo. Sedetti, come lui mi indicava. Simza porse ad ognuno di noi una coppa di vino; Martino fu l'unico a non accettarla. Scrutava il lieve scorcio tra le tende, per osservare la situazione nel cortile.

Mi sentivo confusa, e stanca: la tensione accumulata nei miei muscoli fino a poco prima si era sciolta tutta insieme, mischiandosi alla sensazione di aver ricevuto troppe informazioni in una sola volta. Per questo, bevvi con gratitudine qualche sorso di vino perché mi schiarisse la mente – o la annebbiasse a sufficienza da dimenticare qualcuna delle molte assurdità di quella situazione.

“Alla fine hai scelto, quindi” sorrisi al dottore. Lui sembrò arrossire per un momento, e abbassò lo sguardo, per poi rialzarlo su di me.

“Ho scelto fin dal primo momento in cui ho saputo, Bianca. Solo, non avevo ancora trovato il coraggio di prendere le armi e combattere.”

Tancredi si appoggiò allo scrittoio; Simza prese uno sgabello e si sedette accanto a me. Dallo spostamento della sua manica, intravidi il luccichio conosciuto di un bracciale placcato in argento, terribilmente simile all'antibraccio di un'armatura. Sì, ne ero certa: indossava la lama di Gentile, quella stessa arma con cui Zenobia mi aveva chiesto di ucciderla. Dunque, alla fine anche la giovane gitana aveva deciso di abbracciare la sua ascendenza. Pensai con una stretta allo stomaco che Zio Mario sarebbe stato fiero di lei.3

Le informazioni che Martino e Tancredi dovevano passarsi furono scambiate rapidamente. In breve, Gaston aveva saputo dell'intenzione di Amboise di liberare il marchese Francesco Gonzaga. Ermes e Gaston avevano una contro-proposta per lui: una guerra aperta contro Mantova e i suoi alleati. Avrebbero cercato di espandere la dominazione francese in Italia annettendo il resto della Lombardia, minacciando seriamente Venezia e formando un cordone compatto con le forze della Borgia. Probabilmente, una volta stretta quest'alleanza l'avrebbero rivolta contro Giulio II: appena consolidato un potere egemone su quella parte del Nord Italia, avrebbero potuto indirizzare le loro forze contro Roma.

Al pensiero di quanto il mio lavoro – il mio sacrificio – di mesi e mesi fosse stato messo facilmente a rischio, sentii la rabbia grattarmi la gola.

“Non accetterà” dissi, sicura. “Conosco Charles...lo conosco bene.”

Lo ammetto, con la coda dell'occhio cercai la figura di Martino. Era sempre immobile, alla finestra. Accigliato come prima, e non un'oncia di più. Umettandomi le labbra, proseguii:

“E' un uomo pragmatico, non ha manie di grandezza. Tutto ciò che gli preme è mantenere il governo su Milano, non rischierebbe mai di distruggere tutto ciò che ha costruito negli ultimi anni per una mossa azzardata.”

Tancredi incrociò le braccia al petto, con espressione corrucciata. “Allora, temo che non abbia scampo. Lo uccideranno.”

Sussultai. Sarebbe stata la fine di qualsiasi pallido equilibrio fossimo riusciti a raggiungere. Francesco Gonzaga sarebbe rimasto prigioniero, la marchesana costretta alla resa. Immaginai per un momento tutto il nord Italia pronto a marciare contro i templari del Papa...calpestando gli Assassini nel tragitto.

“Dobbiamo impedirlo.”

“Non possiamo” intervenne una voce che, finora, non avevo mai sentito parlare la mia lingua. Gravata di un pesante accento, ma chiara abbastanza perché la capissi. Dunque, Odette sapeva l'italiano quando voleva farsi intendere. “La copertura per noi...est...” Guardò Martino. “...essentiel?”

“Fondamentale” tradusse Martino per lei. Notai che, sforzandosi di dirle chiaramente le parole, perdeva un po' l'accento romano.

“Fondamentale” ripeté Odette, con un po' di fatica. “Già è pericolo che noi qui.”

“Anche 'a libbertà de'r marchese è 'mportante.” Martino si grattò la barba con aria pensierosa: Odette gli rivolse un'occhiataccia, non doveva essere abituata ad essere contraddetta. Mi stupii che con Martino Semeraro non ci avesse ancora fatto il callo.

Tancredi intervenne:

“Possiamo far arrivare il messaggio a Sandro. Metterà uomini di ronda per proteggerlo.”

“Nun c'avemo tempo. Gaston e quer diavolaccio der fratello tuo stanno co'llui mo'. Se 'r governatore je dice de no, 'o faranno. Gaston nun aspetta artro che prennere 'r posto suo.” Martino si voltò finalmente nella nostra direzione, calcando il cappuccio color vinaccia sulla testa. Si diresse verso la porta: Odette si alzò di scatto per afferrargli il braccio, costringendolo a fermarsi.
“Martin! Nous ne pouvons pas décider une affaire si important sans Briac...”
"Je ne laisserai jamais mourir cet homme..” 
“C'est un hasard!”
“Je le sais.”
“Maudit fou! Pourquoi ne m'écoute tu pas? Tu compromettras le Drap Rouge
“Andrò io.”

Gli occhi di tutta la stanza di rivolsero su di me; mi limitai a stringermi nelle spalle. Stavamo giocando una complicata partita a scacchi: tutti noi avevamo una copertura, e qualcuno doveva mettere a rischio la propria. Ero l'unica che aveva concluso il proprio compito, là dentro; inoltre, il mio incontro con Vanni aveva definitivamente bruciato il mio travestimento.
“T'o scordi.”
“Non andrai da sola in un consesso di templari.”
Le proteste di Martino e Tancredi si levarono nello stesso momento.

“Sapete che sono l'unica a poterselo permettere. Inoltre, se Amboise muore, tutto quello che ho fatto da quando sono a Milano andrà in fumo.”

Guardai Martino negli occhi, e ci misi dentro tutte le parole che non potevo dire. Sì, tutte le volte che ci sono andata a letto, tutti gli uomini che mi hanno avuta, tutte le mani che mi hanno toccata...non avrebbero più senso, se Charles morisse. Allora diventerei davvero la puttana che tu vedi in me.

Fu lui il primo ad abbassare lo sguardo. Scosse lievemente la testa, come a dire: sei la solita testarda. Con un grugnito incomprensibile, si slacciò uno degli antibracci, me lo lanciò.

“T'o ricordi ancora come se usa 'a lama celata, vero?”

Non so perché, ma accennai a un sogghigno. “Forse l'hai dimenticato, ma sono io che ti ho insegnato.”

Strinsi le cinghie di quel bracciale troppo grande al mio polso. Non c'era tempo di cambiarsi in abiti adatti alla battaglia: dovevo arrivare allo studio di Charles il prima possibile. Martino e Odette mi avrebbero coperto le spalle fuori dalle finestre dello studio: spiegai loro come arrivarvi, e li vidi uscire dalla finestra di Tancredi per arrampicarsi sui cornicioni del castello.

Prima che uscissi a mia volta dalla sua stanza, il medico mi prese la mano, la strinse.

“Bianca...stai attenta.”

Ricambiai la sua stretta, e portai lo sguardo su Simza. Nei suoi occhi non lessi gelosia, ma preoccupazione.

“Prendetevi cura di voi.”

E di Vanni, non potei fare a meno di pensare, mentre scivolavo di nuovo nei corridoi.

 

Camminai correndo, o corsi camminando. L'antibraccio troppo grande sfregava contro il velluto del mio abito da dama. I corridoi del Castello Sforzesco non mi erano mai sembrati più infiniti di quel giorno, quando una manciata di secondi segnava così tanti destini. Quello di Charles d'Amboise. Quello di Francesco Gonzaga e Isabella d'Este. Il mio...

Quando spalancai le porte mi trovai di fronte la scena che temevo. Ermes teneva fermo Charles; Gaston gli tappava la bocca con una mano, mentre l'altra si preparava ad affondargli un pugnale nello stomaco. Il mio arrivo lo aveva distratto, tanto da dare all'Amboise il tempo di reagire. Il Governatore inflisse una gomitata al costato di Ermes Bentivoglio; quindi, strappò dal muro una sciabola ornamentale, e la puntò contro il demonio dagli occhi rossi.

“Mia dolce Bianca...” Gaston si leccò le labbra. Somigliava più che mai a un serpente inferocito. “Sei arrivata in un momento inopportuno. Ora dovremo uccidere anche te, lo sai?”

Feci scattare la lama celata di Martino. “Provaci, Gaston. Non aspetto altro.”

Charles si gettò su Ermes con un grido: il templare schivò il suo attacco e sfoderò la spada, ingaggiando con il governatore un duello serrato. Gaston passò il pugnale da una mano all'altra, sfidandomi ad andargli addosso.

Non me lo feci ripetere. Detestavo quell'uomo. Detestavo la sua espressione viscidamente sicura di sé, e la sensazione delle sue mani sulla mia pelle. Odiavo ogni impronta che aveva lasciato su di me. Mi lanciai contro di lui, sperando di essere abbastanza veloce.

Gaston mi afferrò il polso, e tirò forte, mandandomi a sbattere contro lo scrittoio. L'impatto del legno contro lo stomaco mi fece piegare a metà e gettare fuori tutta l'aria dai polmoni. Mi girai di scatto, ma Gaston mi era già addosso. Mi afferrò le braccia, costringendomi a piegarmi sulla superficie di legno. Avevo il suo fiato sul viso.

“Ho sempre saputo che avevi gli artigli, assassina.”

Premette il bacino contro il mio: con un brivido di disgusto avvertii la sua erezione addosso.

“Allora aspetta di assaggiarli, templare.”

Le dannate gonne mi impedivano di sferrargli un calcio dove avrei voluto, perciò dovetti accontentarmi di dargli una testata sul naso. Fu comunque sufficiente a farlo allontanare da me, mentre si teneva una mano premuta sulle narici sanguinanti.

Putain...” lo sentii biascicare: ma non aveva perso il sorriso, né il pugnale.

Raggiunsi rapidamente Charles, che aveva disimpegnato la spada da quella di Ermes. Ci stringemmo spalla contro spalla.

“Immagino che non sia il momento più adatto per chiederti spiegazioni, ma chere” disse il governatore, con una strana nota divertita nella voce.

“Sarò felice di rispondervi quando avremo portato a casa la pelle, mio signore” replicai nello stesso tono.

“Molto presto, quindi. Guardie!” chiamò Charles, a gran voce. In pochi secondi udimmo passi pesanti nei corridoi, e la piccola stanza si riempì di soldati. Ci circondarono. Eravamo...salvi? Non so perché, ma il mio senso del pericolo mi disse di non abbassare la guardia.

Gaston guardò i soldati che circondavano lui ed Ermes. Sorrise.

“Davvero, Charles? Mio zio il Re ti tiene in gran conto...se sapesse quanto sei sciocco, non esiterebbe a toglierti questa carica che non meriti.”

Si asciugò il naso sanguinante con la manica di raffinato pizzo. Tuttavia, mi allarmai solo quando vidi che Ermes rinfoderava la spada.

Merda.

MERDA.

Quei soldati...quanti erano? Dieci, dodici?

“Uccideteli” sibilò Gaston. Gli uomini di Charles si avventarono su di noi.

Mi piegai sulle ginocchia per evitare il primo: la sua spada sbatté sul pavimento con un clangore metallico. Cercai di aprire un varco a Charles verso la porta, ma per lo più mi muovevo per puro istinto di sopravvivenza, cercando di schivare un colpo dopo l'altro. Rumore di vetri infranti. L'ascia da lancio di Martino si conficcò nella nuca di un soldato, togliendolo di dosso all'Amboise giusto in tempo. Due rapidi colpi di balestra ne eliminarono altri due. Prima che i soldati potessero chiedersi cosa stesse succedendo, Martino e Odette irruppero da ciò che rimaneva della finestra, dandoci man forte. Il combattimento infuriò, togliendomi ogni altro pensiero dalla mente.

Eravamo in quattro, contro undici – contando Ermes e Gaston. Una proporzione ancora troppo ingiusta per sperare di chiudere il combattimento in fretta...

“Mio signore...dovete andarvene!” gridai.

La voce di Charles mi giunse tra il cozzare delle armi. “Mon Dieu, per chi mi hai preso? Un soldato non scappa!”

“Hai sentito 'a signora? Te ne devi annà, cretino!”

Perfettamente di concerto all'esclamazione di Martino, Odette prese il braccio di Charles e lo trascinò verso la porta. Martino ed io cercammo di coprire la loro ritirata nei corridoi. Troppo tardi. Ermes li stava inseguendo.

Ne erano rimasti in piedi quattro, più Gaston. Non l'avevo sentito, quando quel verme mi era scivolato alle spalle: se Martino non fosse intervenuto, caricando un colpo con un'altra ascia, probabilmente il pugnale di Gaston mi si sarebbe piantato tra le scapole. Il generale francese fu costretto a parare, distogliendo da me la sua attenzione.

Spezzai la guardia di un soldato con un calcio al ginocchio – porca vacca, che fatica combattere con la gonna, non ne avete idea - e gli infilai la lama celata nel punto scoperto tra collo e scapola. Un secondo soldato cercò di bloccarmi il polso: il mio pugno libero lo colpì sotto il mento, e la lama si infilò nel suo fianco come in una pagnotta tenera. Martino ne aveva tirato giù un altro, e ora duellava esclusivamente con De Foix. A me ne era rimasto uno soltanto.

Il soldato mi corse incontro. Io mi spostai al momento giusto, sollevando graziosamente l'orlo della gonna per allungare la caviglia affusolata e fargli lo sgambetto. Quando cadde a carponi, gli fui sopra: lottammo avvinghiati sul pavimento, fino a che la mia lama non trovò la strada nella sua carne. Quando si accasciò, maledisse il fatto di essere stato sconfitto da una donna. Molto sciocco, come ultimo pensiero.

Me lo scrollai di dosso con un certo senso di repulsione, mentre mi risollevavo in piedi. L'acconciatura era distrutta, le ciocche castane mi spiovevano sul viso madido. Il mio abito di velluto azzurro era inzuppato di sangue.

Martino e De Foix continuavano a lottare. Scostai le pieghe della gonna per trovare l'apertura strategica e ben nascosta che avevo applicato a tutti i miei abiti, per poter estrarre rapidamente gli stiletti legati alla coscia in caso di bisogno.
Non so come Martino indovinò le mie intenzioni, perché mi dava le spalle; ma subito gridò:

“Ce penso io qua. Va co' Odette. Vai!”

Sapevo che aveva ragione. Gaston era un avversario che poteva benissimo sovrastare da solo...tuttavia, mi ci volle qualche istante prima di decidermi a fare come diceva, e gettarmi all'inseguimento nei corridoi, reggendo l'orlo delle gonne per fare più in fretta.

Quando ancora non sentivo altro che passi risuonare davanti a me nei corridoi, udii lo sparo, e l'urlo di Odette. Strinsi una bestemmia tra i denti, e le mie gambe volarono più veloce che poterono.

Mi trovai di fronte all'inevitabile. Odette stringeva Charles d'Amboise, che le si era accasciato tra le braccia, rantolante. Il braccio ancora teso di Ermes mandava fumo...

...una pistola celata? I templari avevano il progetto di Altaïr?

Non avevo tempo di maledire mio fratello, per questo: Ermes stava rivolgendo un secondo colpo verso Odette.

Afferrai uno stiletto, lo scagliai. Non ebbi tempo di prendere la mira con precisione come avrei voluto. Centrai Ermes alla spalla, costringendolo ad accasciarsi al suolo.
Feci per chiedere a Odette di Charles, quando la vidi deporlo sul pavimento e chiudergli gli occhi, mormorando la frase di rito.
Requiescat in pace.

No...dannazione, no.4

Sferrai un calcio al fianco del Bentivoglio, che si accasciò a terra. Lo afferrai violentemente per il bavero.

Pagherai per questo...e per tutto il resto!”

Lui strinse gli occhi rossi, torcendo le labbra in un ghigno dolente. “Non so di quale resto tu stia parlando...ma sembri odiarmi molto, assassina.”

Ricordai il giorno in cui la mia vita bambina era nelle sue grinfie. Oggi era l'esatto contrario.

Anni fa ho giurato che ti ucciderò, e non avrò pace fino a che non sarai cibo per vermi. Quanto è vero che mi chiamo Bianca Auditore.”

La lama era pronta a scattare, quando altre guardie apparirono alla fine del corridoio. Non ebbi tempo di stimare quanti fossero. Odette mi scrollò per le spalle.

Allons-nous-en, vite!5

Serrai le labbra. Avrei voluto così tanto finire Ermes...ma i soldati ci stavano piombando addosso. La ragazza mi aiutò a sollevarmi in fretta, mentre Ermes gridava, tenendosi la spalla ferita:

“Assassini! Tradimento...hanno ucciso il governatore!”

Corremmo di nuovo verso lo studio di Charles. Martino e Gaston duellavano ancora, quando Odette ed io ci arrampicammo sulla finestra.

“Martino! Ne arrivano altri...vieni via!” gridai, tendendogli la mano. Odette si stava già allontanando veloce, scalando i muri. Io attesi, ogni battito di cuore conteneva tre passi dei soldati. Infine, Martino riuscì a far compiere al busto di Gaston una torsione. Gli assestò un calcio che lo spinse contro le prime guardie che stavano entrando, bloccandole per qualche istante.

Martino prese la mia mano, si arrampicò sul davanzale. Io strappai il lato della gonna con l'apertura per gli stiletti, e iniziai a scalare a mia volta, subito seguita da lui.

Anche a quel modo, arrampicarmi non fu facile. Martino mi superò rapidamente, e una volta sul tetto tese la mano per facilitarmi la salita. Con un ultimo sforzo, mi issai sulle tegole.

“Stai bene, Bià?”

Il mio petto si alzava e abbassava rapidamente per lo sforzo, al contrario del suo. Mi riavviai i capelli scarmigliati sulla fronte.

“Sì. Tu?”

Lui si limitò ad annuire.

Trenta passi più avanti di noi, Odette ci fece cenno di raggiungerla. La vedemmo gettarsi: c'era un carro colmo di morbido fieno, apparentemente senza conducente. Sarebbe bastato nascondersi lì, e pregare che il carro uscisse dal castello. Oppure, attendere che il clamore fosse un po' scemato, prima di filarcela.

“Prego, prima 'e signore” Martino storse le labbra. “A meno che nun me voi spigne te.”

Non ebbi la forza di replicare con uno scherzo, e mi gettai. Lui mi seguì dappresso.

Presto non ci sarebbe stato più niente di cui scherzare. Charles d'Amboise era morto. Il governo di Milano era in mano templare adesso. Io avevo fatto saltare la copertura di Jacopo e Veronica insieme alla mia; decidendo di aiutarmi, Martino e Odette avevano distrutto quella del Drappo Rosso. Avremmo pagato amare conseguenze, per tutto questo.

 

Fu un disastro su molti fronti. Gaston venne fatto governatore di Milano, e pur di rivedere il marito sano e salvo Isabella fu costretta ad inviare il figlio Federico a Roma come ostaggio del papa6. Questo significava che non avrebbe più potuto appoggiare la Fratellanza. Tuttavia, gli amici non vennero dimenticati, e il povero Frittella, che era guarito lentamente e non del tutto dalle sue ferite, decise di deporre le armi e rimanere al suo fianco come semplice giullare – se mai un giullare si possa definire semplice, tanto più uno della stoffa di Rinaldo. Violante, nemmeno a dirlo, restò accanto a lui e alla loro comune signora. Ci sono legami che vanno al di là della politica, e persone che Isabella avrebbe protetto con le unghie e con i denti da quel gioco di scacchi. Di questo ero certa come del mio nome.

La situazione per Jacopo fu più complicata.

Il mio amante era un ambasciatore dalla copertura saltata: dunque, non poteva più essere un diplomatico per Isabella. La prese male, naturalmente, ma non mi incolpava di nulla. Disse che di fronte ad una scelta come la mia avrebbe fatto lo stesso. Sarebbe rimasto con Maestro Sandro, al covo, come tutti noi, in attesa di nuove disposizioni.

Briac si infuriò, invece, con Martino e Odette. La sceneggiata a cui li sottopose fu pubblica e violenta, tanto che più di una volta avrei voluto intervenire in loro favore pur non capendo una parola di ciò che il loro capo stava dicendo. Ci provai in Italiano, ma un'occhiataccia simultanea di Martino e Odette mi rimise al mio posto. Mi sentii strana. Esclusa da qualcosa che apparteneva solo a loro, come se il Drappo avesse un codice morale diverso da quello degli altri Assassini.

Una volta che fummo rimasti soli in un dormitorio deserto, Jacopo si fece raccontare la nostra disavventura nel dettaglio. Fu premuroso con me: esaminò i miei graffi superficiali e i lividi, e non si lamentò del mio nervoso disagio. Quindi, mentre ancora studiava i segni bluastri che la presa di Gaston mi aveva lasciato sul polso, disse in tono casuale:

“Quel ragazzo...è una tua vecchia conoscenza, giusto?”

Non c'erano molti dubbi su chi fosse l'oggetto del suo discorso.

“E' un mio Fratello di Lama.”

“Capisco. Molto fraterno, da parte sua, mandare a puttane tutta la copertura del suo gruppo per te.”

Inclinai il viso per guardarlo di sbieco.

“Jacopo, mi hai infilato nel letto di Amboise e De Foix senza battere ciglio...e vorresti farmi credere che sei geloso di qualcuno con cui stavo anni fa?”

Lui non si incupì affatto. Anzi, sorrise, soddisfatto di avermi strappato un'ammissione.

“Allora ho visto giusto, c'è qualcosa tra di voi.”

“C'è stato” rimarcai.

“A quanto pare lui non l'ha dimenticato...e tu?”

Con un cenno del mento indicò la lama celata troppo grande che ancora portavo al polso. D'istinto, sottrassi il braccio alla sua stretta, e mi alzai in piedi.

“E' stato tanto tempo fa, non devi preoccuparti.”

“Non mi preoccupo, lo sai.”

Oh, certo. Jacopo stesso aveva molte altre amanti oltre me. Mi incamminai verso la finestra, stringendo le braccia intorno al petto. L'antibraccio di Martino premeva contro la mia cassa toracica. Mi ero dimenticata di restituirglielo...dovevo andare da lui di nuovo.

Jacopo mi raggiunse, prendendomi delicatamente per le spalle. Lasciò un bacio sulla mia tempia.

“E io che credevo fosse impossibile arrivare al tuo cuore.”

“Ero una persona molto diversa.”

“Avrei voluto conoscerla, quella Bianca.”

Mi voltai tra le sue braccia, lo guardai negli occhi con decisione.

“Quella di oggi non ti piace abbastanza?”

Lui sorrise.

“Niente affatto, la adoro.”

Lo sottolineò con un bacio, a cui mi abbandonai con la pressante voglia di non pensare.

 

Restituii l'antibraccio prestato solo tre giorni dopo, e ci volle molta preparazione emotiva prima di decidere di presentarmi nella taverna dove di solito il Drappo Rosso passava le sue serate milanesi. Non ero certa di trovarli, di trovarlo: tuttavia, desideravo liberarmi di quell'oggetto al più presto. Non volevo lasciare niente in sospeso, soprattutto con Martino.

Come previsto, lui non era lì. Non c'era nemmeno Briac...ma al tavolo, seduta a scherzare tranquillamente con tre uomini in tenuta color vinaccia, c'era Odette. La guardai per qualche istante, da lontano: bionda, splendida, e perfino simpatica a quanto pareva. Rideva con gli occhi celesti prima che con la voce, ed era ovvio che risultasse provocante anche senza sforzarsi di esserlo. Di una donna così, un po' tutti si innamorano. Sembrava quasi uscita dalla fantasia di un uomo.

Alzò lo sguardo, incontrò il mio. Mi aspettavo di vederlo cambiare, a quel punto: incupirsi, diventare più duro. Invece, non perse affatto il sorriso. Mi fece cenno di avvicinarmi, e mentre lo facevo strinsi un po' l'antibraccio.

“Biancà!” mi salutò, e sembrava onestamente contenta di vedermi. Tutto questo mi sembrò assurdo. “Qu'est-ce que tu fais ici?”

Mi presentò ai suoi compagni con qualche parola in francese stretto, che non capii. Cercai di registrare i loro nomi che mi suonavano del tutto estranei, così come i loro volti e quella giovialità inaspettata. Poi, Odette aggiunse: “Vieni!” E mi fece cenno di sedermi sullo scranno libero.

“No, grazie, sono di fretta. Io...cercavo Martino” dissi, più impacciata del previsto. “Volevo ridargli questo. Puoi farlo tu per me?”

Odette mi studiò per qualche istante, con quell'espressione di divertito compiacimento che avevo già notato in lei. Ora, non ho la più pallida idea di ciò che disse ai suoi compagni, ma riuscì a mandarli via ad uno ad uno con il sorriso sulle labbra: qualcuno fu inviato a giocare ai dadi con un bacio porta fortuna sulla guancia, qualcuno uscì dalla taverna, qualcun altro andò a ubriacarsi a un altro tavolo. Odette mi sorrise, complice, e batté la mano sulla sedia accanto alla propria.

“Siedi con me” mi invitò di nuovo. “Io ti devo mia vita. Posso darti una coppa di vino, sì?”

Doveva essere alticcia, non c'era altra spiegazione. Cos'era tutta quell'improvvisa confidenza che mi dimostrava?

“Sono...confusa” ammisi. “Pensavo che tu e il Drappo Rosso foste furiosi con me.” Di fronte allo sguardo vacuo che mi rivolse, aggiunsi: “Perché ho fatto saltare la vostra copertura.”

Odette si lasciò sfuggire una mezza risata; poi alzò la mano per richiamare l'attenzione dell'oste, chiese una caraffa di buon vino rosso, e tornò a guardarmi, puntellando i gomiti sul tavolo e intrecciando le mani sotto il mento. Le sue guance non erano arrossate, gli occhi erano svegli e niente affatto lucidi. No, non era ubriaca.

“Non hai fatto...abbiamo, fatto. Abbiamo aiutato te, sei nostra Sorella nel Credo.”

Nonostante la posizione infantile, la sua voce era seria e dolce nel contempo, quando aggiunse:

“Sai, Biancà, le Drap è stanco di...combattre? Ouì, di combattere contro i fratelli. E' un disastro in strategia, ma...adesso, noi sentiamo meglio.”

Dunque, era questo. Non avevo valutato quanto grande fosse il peso che i ragazzi del Drappo Rosso portavano sulle spalle. Cercai di immaginare cosa avesse significato, per loro, combattere contro dei confratelli in una grande battaglia come Agnadello. Cosa volesse dire uccidere un altro Assassino...

Ora, almeno, rappresentavano lo schieramento in cui credevano davvero. Briac, che aveva portato avanti le trattative e i sotterfugi, poteva essere furente, ma i suoi ragazzi si sentivano sollevati.

Odette Leroux ed io dividemmo una caraffa di vino; i suoi compagni non accennavano a tornare al tavolo, ed io scoprii che, anche se non conosceva perfettamente l'italiano, con un po' di alcol in corpo la sorella del capo della Fratellanza francese non si faceva scrupolo di tentare di farsi capire. Mi raccontò di Parigi, della madre che era stata un'artista di strada svedese, e del padre, un finto gobbo re della Corte dei Miracoli. Era una ragazza spigliata e piacevole, e per tutto il tempo pensai: non riesco a detestarla. Dannazione, non ci riesco.

E lei, come poteva parlare con me con tanta tranquillità? C'erano solo due possibilità. La prima: Martino non le aveva raccontato nulla di me, dunque non sapeva chi ero stata per lui. La seconda: sapeva perfettamente chi fossi, ma era così sicura del suo amore da potersi permettere di trattarmi in quel modo amichevole.

Non so quale delle due alternative mi facesse più male.

Presa da una strana forma d'ansia, cercai di finire in fretta il mio vino. Lasciai l'antibraccio sul tavolo, la ringraziai di tutto e mi scusai per il modo in cui le cose erano andate. Lei scacciò quelle scuse con un gesto della mano. Le diedi la schiena, feci qualche passo verso la porta. Poi, mi voltai di nuovo.

“Posso farti una domanda che...ecco...mi chiedevo da tempo?”

Lei batté le lunghe ciglia, e mi trovai a prendere un respiro.

“Martino...” Mi umettai le labbra. “E' riuscito a ritrovare sua madre?”
Odette fece cenno di no, con aria grave. “Ma cerca lei, sempre.”

Annuii. Sì, Martino non si sarebbe mai rassegnato ad aver semplicemente perso la madre, fino a che non avesse visto il cadavere con i suoi occhi.

A quel punto, la ragazza inclinò un po' il capo e aggiunse:

“Perché chiedi a me, e non a lui?”

Accennai ad un sorriso, e scossi la testa.

“Non importa. Merci beaucoup, Odette.

Lei ricambiò con un sorriso luminoso.

Di niente, Biancà.”

Mi allontanai ancora più confusa di prima, con il cuore conteso tra il sollievo di non essermi fatto nemico tutto il Drappo Rosso e la consapevolezza che, in qualche modo, Odette ed io non avremmo dovuto fraternizzare. Il che, naturalmente, era una grande sciocchezza. Non c'era proprio niente a tenerci lontane...eravamo entrambe giovani, entrambe reclute in una fratellanza dominata dagli uomini. Entrambe avevamo vissuto all'ombra di un potente capo assassino e lottavamo per metterci in luce al suo fianco.

E poi, certo, avevamo in comune Martino. E questo faceva crollare tutte le precedenti argomentazioni come una cumulo di sassi sotto il calcio di un bambino.


Note

1“Aspetta. E' suo fratello.”

2“Oh, capisco. Si vogliono bene da morire, non è così?”

3Per chi se lo fosse scordato: c'è il serio sospetto che Simza sia la figlia di zio Mario, dunque cugina di Ezio e Bianca. Zenobia ha dichiarato che non può esserne certa...ma a Bianca piace pensarlo, e anche a me.

4Grossa, grossa licenza storica. Per ragioni di trama avevo bisogno che Charles d'Amboise morisse ora, e in questo modo...in realtà, si spegnerà un anno dopo, durante la battaglia di Reggio Emilia.

5"Usciamo di qui, presto!"

6Storicamente, Federico Gonzaga rimarrà a Roma fino alla morte di papa Giulio II, avvenuta nel 1513.


NdRuna
Eccomi qui, con un altro aggiornamento anticipato XD Chissà per quanto tempo riuscirò a mantenere questo ritmo...di fatto, ho quasi finito di scrivere il capitolo 39, e considerato che metà del 40 è pronto da tempo direi che sono avvantaggiata. Mi mette un po' i brividi pensare che circa dieci capitoli mi (ci?) dividono dalla fine di Biancarè. Da una parte è un traguardo che non vedo l'ora di raggiungere, dall'altra sento che mi lascerà un vuoto enorme, che nemmeno mille seguiti potranno colmare. Incredibile quanto una semplice fanfiction sia diventata importante per me in questi anni. Devo tanto a Biancarè, quando ho iniziato a scriverla ero completamente sfiduciata e volevo mollare la presa. La piccola assassina e l'affetto con cui è stata accolta qui su EFP mi hanno ridato fiducia nelle mie capacità e voglia di rimettermi in gioco, anche con storie originali. Con lei sono cresciuta e maturata anche io...
Ma basta con questi discorsi tristi, c'è ancora tempo prima della fine! E tanti eventi, sia belli che brutti, ci aspettano. Nel prossimo capitolo, ecco, ce ne sarà uno bello ad esempio. Un po' di Veromennone e un po' di Biartino per tutti. Non tanto Nicante (o Diacola? XD) quanto vorrei, ma si sa, quei due vogliono fare finta di non stare insieme XD Il titolo del capitolo 37 sarà: Solo una madre - parte prima. Spero di potervelo presentare presto quanto questo, ma dipende un po' dall'ispirazione :)

Lal

Ps: un grazie infinito alla mia povera mamma che si sciroppa tutte le traduzioni di francese di cui io non so nulla <3

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Capitolo 37
*** Solo una madre - parte prima ***


All'inizio dell'autunno del 1510, la situazione non era cambiata molto rispetto a come l'avevamo lasciata quell'inverno. Gaston de Foix, soprannominato dai suoi uomini “la folgore d'Italia” per le sue brillanti campagne militari e la rapidità con cui stava facendo carriera, era il nuovo governatore di Milano. Ermes Bentivoglio, con Tancredi, Simza e il suo discepolo Giovanni Auditore, si spostò verso Ferrara: non ebbi occasione di rivedere mio fratello, né di dirgli che aveva un figlio. Non dissi del suo ritorno nemmeno a Ilaria. E perché avrei dovuto farlo, poi? Vanni aveva il dono di rovinare tutto ciò che toccava. Avrei protetto Leonardo e sua madre con il mio silenzio...naturalmente, questo pensiero non aveva nulla a che fare con la mia paura che, pur di stare con Vanni, potessero passare dalla parte del nemico.

Va bene, mi arrendo: agii per puro egoismo, quella volta. Ma è qualcosa che, perfino alla luce di tutto quello che è accaduto dopo, farei di nuovo.

Dopo che la copertura fu saltata la nostra vita cambiò, sì, ma non più di tanto. Il Drappo iniziò a collaborare con la Compagnia della Stella: ora, immaginate cosa poté significare avere Le Rouge e D'Arcy insieme. E' come mettere due galli da combattimento in uno stesso pollaio e sperare che non si attacchino. Da qualche conversazione origliata, avevo scoperto che una volta i due erano stati assidui compagni di missione. Sei anni prima, era accaduto qualcosa di molto doloroso: un errore di valutazione di Briac Leroux aveva causato la morte della compagna di Alain D'Arcy e della loro bambina, che all'epoca aveva tre anni. Le circostanze di quelle morti non erano chiarissime, ma sembra che entrambe fossero state catturate come ostaggi dei templari. Briac proclamava che non avrebbe potuto fare altro che ordinare ai suoi sottoposti di colpire, Alain lo accusava di aver dato un ordine frettoloso e averle condannate a morte certa per il bene della missione. Da quel momento, la frattura tra due che un tempo si chiamavano fratelli era diventata incolmabile, e oggi si esprimeva con sarcastiche battute da parte di uno e lividi silenzi da parte dell'altro.

Mentre Agamennone e Martino tentavano di impedire ai loro Maestri di scannarsi a vicenda a Burago, noi a Milano ce la cavavamo bene. Nicola e Diamante andavano e venivano da Firenze, ignorando che io sapevo di loro. E' strano come, una volta che conosci la verità, ogni piccolo dettaglio sembri urlarla in tutta la sua evidenza. Adesso notavo ogni sguardo, ogni gesto di premura tra loro; mi sembrava impossibile non vedere il modo in cui si punzecchiavano allegramente se l'atmosfera era rilassata o come si scambiassero silenziosi sguardi di intesa e quasi completassero i ragionamenti uno dell'altra quando invece c'era da discutere un nuovo piano. A volte, le coppie che a primo impatto ti sembrano le peggio assortite sono proprio quelle che riescono a trovare un perfetto equilibrio per funzionare.

Questi miracolosi meccanismi per me rimanevano un mistero mitologico. Ero ancora con Jacopo, certo, ma non eravamo una coppia. A volte io stessa mi chiedevo cosa fossimo. Amici con privilegi speciali? Persone che condividevano un'intesa ma che odiavano impegnarsi?

Quando ci capitava di parlarne, di solito Jacopo se ne sbocciava con una frase come: “Non abbiamo già abbastanza guai nelle nostre vite, senza tentare di accalappiarci a vicenda?”. Finivamo per riderne entrambi, e restavamo felicemente e spensieratamente nel nostro limbo. Ed io ero contenta così: non volevo da Jacopo più di quanto avessi già, ed ero sollevata ogni volta che mi confermava che per lui era lo stesso. E' che a volte mi chiedevo...perché per gli altri funziona e per me no? Cos'ho, io, di sbagliato?

Chi si stava seriamente impegnando per far funzionare la propria relazione, invece, erano Veronica e Agamennone. Non riesco più a contare le scuse che in quei mesi li avevano portati una a Burago e l'altro a Milano; se non erano insieme, era molto facile trovare Veronica sul tetto della sede della Confraternita, intenta a fissare le stelle.

Eppure, nonostante il commovente affiatamento che li univa, non fu lei che Agamennone venne a cercare in quella fine di un settembre eccezionalmente mite.

Quando il mio amico arrivò alla sede della confraternita, ero appena rientrata da un pedinamento noioso e sfiancante e avevo fatto rapporto, da brava recluta, a Maestro Sandro: appena uscita dal suo studio, mi ritrovai Agamennone a ciondolare nella sala comune. Anche se lo accolsi come al solito con calore, fui molto stupita di vederlo. Veronica era a Venezia, in quelle settimane, a completare una missione per conto di Sandro. Possibile che per qualche motivo lui non lo sapesse?

Naturalmente, il mio amico lo sapeva eccome. Era venuto per parlare proprio con me, e la ragione mi fu chiara una volta che ci sedemmo in un angolo della sala comune per discutere indisturbati. Per farla breve: voleva che lo aiutassi a convincere Veronica a sposarlo.

L'idea mi fece subito molta tenerezza: gli chiesi perché lei lo rifiutasse, e lui rispose che era per la profezia. Voleva aspettare che la data delle stelle fosse trascorsa, perché tutto non sembrasse una sorta di resa al destino. Ed io concordavo con quel punto di vista...almeno, fino a che Agamennone non mi disse che Veronica era incinta.

Spalancai la bocca come un pesce lesso.

“Tu...voi? Oh, mio Dio...”

“Capisci adesso? E' importante che ci sposiamo.”

Non mi guardava mentre diceva quelle parole, ma chiudeva e apriva ritmicamente la mano, in un gesto nervoso di cui probabilmente non si accorgeva. “Qualsiasi cosa accada Veronica avrà la protezione della mia famiglia, un nome importante e dei beni su cui contare. Non voglio che si ritrovi da sola a crescere questo bambino.”

Mi ci volle qualche istante per realizzare. Veronica e Agamennone sarebbero diventati genitori. Una nuova vita nasceva in mezzo a quella guerra, a quell'incertezza, a quel dolore. Insieme a un'infantile eccitazione, sorse in me una domanda inevitabile: con che cuore potevano far venire alla luce un bambino in un mondo violento come quello in cui stavamo vivendo?

Poi ci pensai sul serio. A un piccolo con gli occhi da sognatore di Agamennone e l'orgoglio incrollabile di Veronica. Pensai a ciò che lei aveva passato, a ciò che lui aveva sofferto. Di colpo mi sembrò giusto. Importante. La vendetta non poteva essere la sola stella polare della nostra vita, la morte non poteva essere la nostra unica compagna. Nessuno, nemmeno il più idealista degli uomini, può andare avanti senza una ragione che tocchi il suo cuore.

Quella ragione si stava agitando nel ventre della mia amica, e presto avrebbe respirato nel mondo.

“Agamennone” presi la sua mano, la strinsi tra le mie. “E' bellissimo. Il bambino, dico. E'...una cosa stupenda.”

Lui accennò ad un sorriso imbarazzato. “Chi lo avrebbe detto, vero?”

“Però capisco anche Veronica. Per lei, il fatto che vi sposiate ora è una specie di resa.”

Vidi il suo sguardo rabbuiarsi. “L'ha detto anche lei.”

“Perché non lasciate la cerimonia per dopo? Per quando quella data sarà passata?”

“Potrebbe non passare mai, per me.”

“Insomma, ascoltami! Devi reagire. Quando inizierai a combattere questa dannatissima profezia? Soprattutto adesso...per Veronica, per il bambino, per tutto quello che potresti perdere!”

“Io combatterò, Bianca, è ovvio che lo farò!”

Si allontanò dal camino, nervoso. Fece qualche passo, si passò le dita tra la chioma leonina. In tono più basso, ma ancora tremante, proseguì:

“Lo so che sembro un po' svanito a volte, ma so distinguere le cose importanti. Tu dici che la profezia è un'idiozia: d'accordo. Non la penso allo stesso modo, ma ormai credo di essere abbastanza forte da poterla contrastare. Ho troppe cose che non voglio lasciare, adesso. Però ho anche combattuto abbastanza battaglie da sapere che a volte si perde anche quando si lotta con tutta la propria forza...io devo proteggere Veronica e nostro figlio da questa eventualità. Se dovrò andarmene, sarà con la certezza che ho fatto tutto il possibile per loro.”

Vedere tanta decisione nei suoi occhi mi fece tremare di paura. Agamennone stava considerando la morte come una concreta possibilità, e stava chiedendo anche a me di fare lo stesso. E siccome detestavo l'idea di deluderlo, lo feci. Immaginai che le stelle vincessero e ce lo portassero via. Un vuoto enorme si aprì nel mio petto, e il freddo dell'inverno vi risuonò dentro.

Mi alzai a mia volta, e lo abbracciai, forte. Agamennone era il fratello che mi ero scelta, il gemello nato in un'altra data e da altri genitori, ma che faceva parte di me non meno che se fosse stato sangue del mio sangue.

“Qualsiasi cosa accada, io ci sarò. Combatterò al tuo fianco e...se non andrà...bene” non riuscivo a dirlo “Veronica e tuo figlio avranno me. Mi prenderò cura di loro per sempre, Agamennone, te lo prometto.”

Lui ricambiò la mia stretta. Sentii la tensione allentarsi dal suo corpo in un sospiro. “Grazie, Bianca. So che posso contare su di te.”

 

Nel cercare di convincere Veronica trovai un'alleata inaspettata, che giungeva direttamente da Venezia con la mia amica. Non so dirvi quanto fui felice di rivedere Suor Teodora dopo tutto quel tempo: la trovai invecchiata, sì, ma splendidamente. Pochissime rughe sul suo viso, nonostante avesse ormai compiuto sessant'anni; capelli bianchi, ma di un bianco candido quanto la neve, e un aspetto curatissimo che la rendeva ancora attraente, benché avesse smesso da tempo di predicare il Vangelo della Carne alla Rosa della Virtù.

Quando me la vidi di fronte fu difficile non ritrovarmi con lo sguardo appannato. Dopo un attimo di imbarazzo, il suo caldo sorriso sciolse i miei piedi: mossero un passo verso di lei, le braccia si allacciarono al suo collo, e quando mi strinse mi sentii di nuovo bambina.

La mia piccola Bianca...” mormorò, la voce appena un poco incrinata. Mi scostò da sé, per guardarmi. “No, piccola non più. Fatti guardare...sei già stata iniziata?”

Scossi il capo. “Sono ancora un Veterano.” Ero passata di grado dopo la missione di assassinio di Strozzi, grazie al fatto che la Marchesana non aveva mai saputo come si erano svolti i fatti.

Gettai uno sguardo su Veronica, al mio fianco. Sorrideva.

Finalmente sono riuscita a farti una sorpresa come si deve, Biancarella.”

Quando Veronica mi ha proposto di tornare con lei a Milano, non ho potuto rifiutare. Mi ha raccontato tutto di voi, sai?” Teodora scambiò con Veronica uno sguardo d'intesa, e trattenne una risata tra le labbra. “Ma avevo voglia di sentire anche la tua versione dei fatti, prima di trarre conclusioni affrettate.”

Non replicai allo scherzo, ma nello stesso tono leggero e divertito dissi: “Sono così felice che siate qui, sorella. Chi lo sa, magari potreste restare per il matrimonio.”

Sì, so essere una gran bastarda alle volte.

Vidi Veronica sgranare gli occhi. Teodora mi strinse le mani.

Bianca, è questo il modo di annunciare un evento del genere? Spero che tu l'abbia detto con un po' più di tatto al tuo vecchio padre, il nostro Mentore non è più un giovanotto.”

Oh, no” risi “Non parlavo del mio matrimonio.”

Spostai lo sguardo sulla mia amica dai capelli rossi: vidi il suo viso cambiare molte espressioni, per poi soffermarsi su una particolarmente irritata. Intrecciò le braccia al petto, mentre in viso le si dipingeva il suo sguardo più combattivo.

Io lo strozzo.”

Ha ragione lui, lo sai.”

Strozzo lui e poi te.”

Sei già stata abbastanza incosciente ad andare in missione, nel tuo stato.”

Eravamo d'accordo di darti la notizia insieme!”

Non lo capisci? E' preoccupato per te, per voi!” Spostai lo sguardo sul suo ventre, e Veronica, in un gesto forse inconsapevole, si portò le mani ad accarezzarlo come per proteggere il bambino. “Per voi tre”, aggiunsi a mezza voce.

I nostri sguardi si fronteggiarono in silenzio per qualche istante, prima che Teodora, con il suo solito tono dolce e pacato, poggiasse la mano sul braccio di ognuna.

Perché non ne discutiamo di fronte a una tisana calda, ragazze mie? Signore, dammi la forza...se continuerete a darmi notizie in questo modo il mio povero cuore cederà di colpo.”

Ci appartammo nell'angolo vicino al camino, lo stesso dove Agamennone mi aveva chiesto di aiutarlo. Fu la discussione più difficile che ebbi mai con qualunque essere umano. Veronica sapeva essere assolutamente insensata, in una maniera così logica e lucida che mi mandava completamente fuori di testa. All'ennesima esposizione delle sue argomentazioni per non voler sposare Agamennone ora, sbattei sul tavolo la tazza di tisana che a malapena avevo toccato e sbottai:

Sei una cretina. Perché vuoi sempre rendere le cose più difficili di come sono?”

Lei mi volse la schiena, dirigendosi verso la finestra. Rivolsi a suor Teodora uno sguardo esasperato.

La suora accennò ad un “no” con la testa, e lasciò la coppa. Prese un respiro, si alzò. Appoggiò le mani sulle spalle di Veronica.

Qual è il primo insegnamento del Vangelo della Carne, bambina mia?”

Noi siamo portatrici d'amore, lo insegniamo agli uomini perché lo diffondano nel mondo” ripeté lei, come se recitasse qualcosa che aveva imparato a memoria molto tempo fa.

E non porti forse nel ventre un frutto d'amore?”

Veronica si umettò le labbra. “Sì...”

Il tuo corpo sta coltivando amore, proprio in questo momento. Perché le tue labbra non possono esprimere un voto per quello stesso amore che ha generato tuo figlio?”

Veronica chiuse gli occhi. Poggiò la fronte contro il vetro freddo.

Io non voglio perderlo. Non voglio che si arrenda al destino...devo dargli un motivo per combattere.”

Non esiste un motivo più forte di quello che è già nel tuo grembo, tesoro mio.”

Delicatamente, Teodora la fece voltare verso di sé. Le accarezzò il viso, prendendolo tra le mani. Quelle sì, dimostravano la loro età: erano ricoperte di macchie e rughe, ma ancora bellissime e affusolate. Sembravano rami di un albero antico, incutevano rispetto e irradiavano la bellezza di tutta la storia che contenevano.

Ascolta le parole di una vecchia Sposa di Cristo...nessuno, se non Lui, conosce il disegno pensato per ogni uomo. Per questo non ha senso voler essere felici in futuro: dovete esserlo adesso.”

Credo sia stata la prima volta in cui ho visto Veronica Fracassa ridotta senza parole.

Fu così che due dei miei più cari amici si sposarono nell'ottobre del 1510, a un anno e sei mesi dallo scadere della fatidica profezia. L'evento riunì tutti gli amici e alleati di sempre nella sede di Milano, e tutti vestivano le insegne più alte che il loro grado nell'Ordine concedeva. Vennero Nicola e Diamante con il giovane Oreste, e naturalmente zia Claudia e zio Ugo con Lisabetta – i due ragazzini diedero subito vita a un buffo siparietto, con Lisabetta che seguiva Oreste ovunque tentando di proporgli indovinelli e lui, scocciato, che si soffiava via la frangia dall'occhio e tentava di seminarla con ogni scusa possibile; vennero i ragazzi del Drappo Rosso, con Martino in testa, e quelli della Compagnia della Stella, compreso un Alain D'Arcy un po' meno cupo del solito. C'erano Jacopo, Suor Teodora e perfino Ludovico Ariosto, che capitava per caso in visita presso di noi in quei giorni: oltre ad essere un Maestro Assassino, era anche un chierico, carica religiosa che aveva dovuto assumere al servizio del cardinale Ippolito d'Este. Sembrò a tutti particolarmente conveniente che il prete della cerimonia fosse anche un appartenente alla Confraternita.

C'era anche Leonardo con i suoi discepoli, e tra di loro fui particolarmente felice di vedere Ilaria con il piccolo Leo. Aveva nove mesi, ora: un'età egualmente adorabile e terribile, in cui il piccolo putto dalla zazzera di capelli rosso cupo aveva perennemente le mani in bocca, scoppiava in improvvise risate e altrettanto rapidamente si metteva a urlare come se il mondo stesse crollando. E sì, alle volte sbavava più di un cane. Eppure, nonostante questo, continuava ad essere la cosa più bella che io avessi mai visto.

“Credi che il Mentore arriverà?” mi chiese Ilaria, nervosa, mentre ancora gli invitati dovevano prendere posto sulle panche che avevamo portato nella sala delle cerimonie.

Mi strinsi nelle spalle. “Mi ha scritto dicendo che avrebbe fatto il possibile...sta rientrando da un viaggio in Turchia, dipende tutto dalle condizioni del mare. Se è riuscito ad attraccare ieri, è possibile che arrivi in tarda serata.”

“E' un lungo viaggio” commentò Ilaria, togliendo per l'ennesima volta i pugnetti di Leo dalla sua bocca.

“Viaggiare non lo spaventa.”

“Ma tutta questa strada, solo per assistere a un matrimonio?”

“Veronica e Agamennone sono come figli per lui.”

Ci fu un attimo di imbarazzato silenzio, ed io sentii la mia voce nella testa proseguire:

Almeno, hanno riempito il vuoto lasciato da Vanni.

Ilaria si strinse nelle spalle, cullando Leo mentre il mio nipotino mi guardava indignato, come a dire: le mani sono mie e me le mangio quanto voglio - e per rinforzare il concetto si ricacciava subito il pugno in bocca.

“Forse potrebbe arrivare domani, o dopodomani.”

Compresi da quel tono forzatamente leggero che Ilaria non voleva affatto incontrare mio padre. Non potevo biasimarla...aveva il terrore che le portasse via Leo, e probabilmente il suo maestro l'aveva convinta a partecipare alla cerimonia solo promettendole che nessuno avrebbe tentato di avanzare pretese sul bambino. O forse, ed era un'altra possibilità, aveva paura di incontrare la persona che aveva reso Vanni quello che era. Chissà se avevano mai parlato di lui, di noi? E' qualcosa che, dopo tutto, non le chiesi mai.

Insieme a Suor Teodora, Diamante e zia Claudia, aiutai Veronica a prepararsi nel dormitorio. L'abito rosso, ornato di decorazioni color avorio e perle, era un regalo che era giunto in gran segreto da Mantova, e anche se il mandante non aveva lasciato biglietti era evidente che provenisse direttamente dalla Marchesana. C'era una lettera di Ippolita, che accludeva la sua bambola preferita come augurio per il bambino che stava per nascere, orecchini di perle da parte di Violante e una catenina d'argento, semplicissima, a cui era appeso un cammeo con una maschera che ride. Una sola stringa di pergamena era allegata all'involto. “Per troppo tempo hai pianto...è ora di cambiare la maschera in un sorriso. R.”

Fermai il velo bianco con un semplice diadema dorato, in modo che non rovinasse la raffinata acconciatura che zia Claudia aveva preparato e ricadesse bene a coprirle il viso e le spalle; mentre Veronica si guardava allo specchio, lisciando le pieghe della gonna in una silenziosa carezza al ventre, sentii il fiato mancarmi nei polmoni. Era bellissima. Sì, non c'è altra parola. Bellissima.

Una mano mi strinse il polso. Era quella della zia, che continuava a fissare la mia amica con il viso pieno di lacrime silenziose. Sorrisi, circondandole le spalle con un braccio e porgendole un fazzoletto.

“La vecchiaia fa diventare sentimentali, vero?”

“Zitta, piccola peste” disse, ma il sorriso non si era spento sulle sue labbra mentre tamponava via il pianto.

Nicola fu il primo degli uomini ad avere il privilegio di vedere la sposa. Avevamo deciso che sarebbe stato lui ad accompagnarla all'improvvisato altare. Qualcosa si appannò anche nei suoi occhi grigi, nel vedere Veronica in tutto il suo splendore.

“Tu e la tua fissazione per gli abiti ingombranti...non riuscirai mai ad addestrarti con quello addosso, sorella” disse, dissimulando la commozione in un sogghigno. Per tutta risposta, Veronica lo raggiunse con due passi misurati, come se stesse facendo le prove per la camminata che avrebbe compiuto tra poco. Si alzò in punta di piedi, lasciandogli un bacio sulla guancia.

“Passano gli anni e tu sei sempre pronto a fare la paternale, fratello mio...”1

Prendemmo tutti un grande respiro, prima di entrare nella Sala delle Cerimonie. Agamennone attendeva già di fronte ad Ariosto, ed era evidente che Martino stesse cercando, senza troppo successo, di farlo ridere. Lo sposo era a dir poco pallido come un lenzuolo.

“Se sviene prima del sì, giuro che lo uccido” scherzò Veronica – o almeno, sul momento ho voluto pensare che fosse uno scherzo. Poi, si volse e guardò dritto davanti a sé, al braccio di Nicola. Alcuni dei confratelli iniziarono a suonare un inno a Maria.

Da lì in poi, la cosa semplicemente avvenne.

Io stavo accanto a Veronica, mentre Martino e Nicola erano al fianco di Agamennone. Eravamo di nuovo noi cinque, più fratelli tra noi di quanto lo fossero i nostri fratelli e sorelle di sangue; noi cinque, più legati di chiunque altro all'interno dell'Ordine. Il mio cammino nel Credo è iniziato con queste persone, i primi passi della nostra vita adulta li abbiamo mossi insieme. Il momento in cui ci ritrovammo, dopo anni trascorsi separati, per celebrare l'amore dei nostri amici è qualcosa che non dimenticherò mai...lo terrò per sempre con me come il più prezioso dei ricordi, e non potrei fare altrimenti nemmeno se volessi. Perché quello fu l'ultimo giorno che ci vide tutti insieme.

Messer Ariosto fu benevolo, ma asciutto mentre pronunciava le formule religiose che avrebbero reso Veronica e Agamennone marito e moglie. Non si dilungò nel parlare degli sposi e recitò le invocazioni a Dio, Cristo e i Santi come si ripeterebbe una poesia imparata a memoria. Il mio amico bolognese era nervoso, e le dita gli tremavano in maniera evidente: Veronica gli prese la mano e gli rivolse un sorriso, e solo allora, guardandola attraverso il velo bianco, Agamennone distese il volto, ricambiando la sua stretta. Sembrò più sicuro, come se avesse visto riflesso negli occhi della sua quasi-moglie qualcosa di diverso dal ragazzo spaventato che si era sempre considerato. Veronica lo guardava e vedeva un uomo buono, forte, coraggioso. Se lo conosco abbastanza, in quel momento Agamennone decise che sarebbe diventato davvero quell'uomo, per lei.

Poco prima dello scambio degli anelli, quando la mia capacità di nascondere gli occhi lucidi era già ampiamente andata a farsi benedire, accadde qualcosa di inatteso. La porta si aprì in maniera sgraziata, schioccando contro il muro. Due figure si stagliarono nella luce dei candelabri, ed io rimasi senza fiato, perché...

Mia madre. E. Mio padre. Entrarono. Insieme.

Rosa aveva tagliato di nuovo i capelli come un uomo. Sbattei le palpebre: l'ultima volta che l'avevo vista così ero davvero molto piccola, e sulle prime faticai ad abituarmi a quell'immagine che enfatizzava gli zigomi e gli altri contorni del suo volto. Indossava la sua divisa dell'ordine, la calzamaglia maschile, gli stivali, le lame celate, ma nessuno avrebbe usato l'aggettivo “mascolina” per descriverla, nemmeno per un momento. Era semplicemente splendida.

Ezio aveva indosso l'armatura di Altaïr, invece, lucidata per l'occasione. I suoi capelli sempre più argentei erano legati nel solito codino. Aveva fatto la barba, come da tempo non capitava più: il suo volto era più segnato dell'ultima volta in cui l'avevo visto, ma le rughe in assoluto più profonde erano quelle del sorriso.

Il dettaglio forse più inaspettato di quell'ingresso fu che si tenevano per mano.

“Scusate l'irruzione” disse Ezio. “Non ci siamo persi lo scambio degli anelli, vero?”

“No, Mentore” sorrise Ariosto “Ma stavo appunto per chiedere se qualcuno ha qualche obiezione da opporre a questa unione.”

“Sì, io obietto. Veronica, non sposarlo, scegli me!” ridacchiò mio padre, guadagnandosi uno schiaffo sul braccio da parte di mia madre e una risata generale di tutta la confraternita, sposi compresi.

I miei genitori presero posto su una panca, e la cerimonia proseguì senza intoppi, sfociando presto in una festa spensierata...ancora non lo sapevamo, ma sarebbe stata l'ultima che avremmo potuto vivere da qui fino alla fine di quella guerra senza respiro.

 

La presentazione ufficiale tra Ilaria e i miei genitori avvenne senza eccessivi sconvolgimenti. Lei fu cortese, Ezio non fu pressante, e nonostante ciò nei loro sguardi passò un lampo di combattività che mi sorprese. Ilaria non era intimidita da Ezio, nemmeno un po'. All'epoca non sapevo ancora che una madre, quando avverte che il figlio è in pericolo, non si lascia spaventare da nulla. Mio padre, d'altra parte, era il solito cocciuto: avrebbe continuato a chiederle di poter addestrare Leonardo, e probabilmente l'avrebbe avuta vinta un giorno, come la goccia che scava la roccia. Sapevo perché la pensava in quel modo, e dentro di me gli davo ragione. Ilaria aveva soltanto bisogno di tempo per rendersene conto...Leo doveva essere protetto dai nostri nemici. Doveva essere protetto perfino dal suo stesso padre.

L'atmosfera si rilassò solo quando Ezio, con la scusa di parlare con Maestro Sandro, si allontanò: allora, Rosa chiese di poter tenere in braccio Leo, che la studiava con gli occhi sgranati già da un po'. Sulle prime il piccolo sembrò intimidito, ma dopo qualche moina Rosa riuscì a conquistarselo. Il suo volto si accese quando le piccole braccia paffute le si allacciarono intorno al collo.

Rosa accarezzò i capelli di Leo con un sorriso che le tremolava sulle labbra. Quasi timidamente, Ilaria disse:

“Ha i suoi occhi.” Tacque per un momento. “Dicono che potrebbero ancora cambiare colore, ho appena smesso di allattarlo...ma io credo che non cambieranno. Sono i suoi occhi.”

Rosa scostò la zazzera rossa dalla fronte di Leo, che giocava con il ciondolo al suo collo.

“Sì, lo credo anche io.” Fece una pausa. “Mi dispiace per tutto quello che hai dovuto passare a causa di Vanni, ragazza mia. Dio, che rabbia...quel figlio di puttana.”

“Mamma!” sbottai, sgranando gli occhi.

“Che c'è?” Rosa inarcò le sopracciglia. “Io sono l'unica autorizzata a dirlo.”

Del tutto inaspettatamente, Ilaria scoppiò a ridere, e Rosa la guardò con un mezzo sogghigno. Capii da quel momento che si sarebbero piaciute moltissimo.

Mia madre non si tolse Leo di dosso per tutta la serata, nemmeno quando iniziammo a mangiare, nemmeno quando i musicisti improvvisarono una pavana e la gente iniziò, un po' alticcia, a ballare. Approfittando di quell'idillio tra nonna e nipote, Ilaria si concesse qualche innocente divertimento: con le guance arrossate dal ballo e gli occhi luminosi, sembrava di nuovo una ragazza della sua età.

Ero seduta accanto a mia madre, mentre mentre mio nipote, che sedeva ancora tra le braccia della nonna, studiava intentamente le mie dita e tentava di separarle le une dalle altre. Dopo aver parlato per un po' di sciocchezze, trovai il coraggio di chiederle come lei ed Ezio fossero tornati insieme, e perché. Mio padre era a distanza sufficiente per non ascoltarci.

Rosa continuò a concentrarsi sul bambino, mentre diceva che si erano incontrati a Venezia per preparare la missione in Turchia, qualche mese prima. Raccontò in tono casuale, come se non importasse affatto, che si erano riavvicinati molto in quel periodo. Le chiesi se fosse davvero tutto a posto, ora. Tutto come prima.

Lei perse lo sguardo nel visetto di Leonardo, forse cercando i tratti che appartenevano a quel suo padre che nessuno di noi, pur con tutto il rancore, era mai riuscito ad odiare davvero.

“So che in questi anni tuo padre mi ha tradito, Bianca. Ma va bene così. Anche io ho tradito lui.”

Con chi? Non volevo saperlo, da nessuna delle due parti. Era già abbastanza difficile da sentire, e ancor più con quel tono calmo e pacato.

“Però...abbiamo deciso che accusarci a vicenda non ci aiuta a capire perché è successo quello che è successo con Vanni. Perdonarci è meno stancante che odiarci, dopo tutto. Adesso stiamo molto meglio.”

“Mamma, posso farti una domanda?”

“Non ti farò i nomi, Bianca, nemmeno sotto tortura.”

Argh. I nomi, non il nome. E non aveva specificato da quale delle due parti...forse, da entrambe. Non che importasse dopo tutto, era orribile comunque.

“Non è questo che voglio sapere.” Inclinai il capo per studiare il suo viso. “Tu...lo ami ancora?”

Ricordavo di aver fatto una domanda simile a mio padre anni prima. Voi amate la mamma? Ed Ezio aveva risposto...

“...sì.” Rosa abbassò lo sguardo, ma io vidi lo stesso un accenno di sorriso sulle sue labbra. “Dannazione a lui, sì.”

Poi gli occhi le si spostarono su Ezio, che parlava con D'Arcy in un angolo della sala. Mio padre notò che lo stavamo guardando; ci rivolse un sorriso dolce come non gliene avevo visti in viso da tempo, e poi riprese a parlare. Mi sorpresi a pensare che era bello comunque. Dopo tutti gli errori, dopo tutto il gelo, in qualche modo i miei genitori si erano ritrovati. Ero felice per loro, ed egoisticamente lo ero per me. Potevo lasciare la presa, per una volta...non dovevo cercare di tenere insieme stralci dei miei affetti sparsi per mezza Italia ed emotivamente lontani come pianeti. Dopo tutto, avevo ancora una famiglia da cui tornare.

La mia attenzione si spostò presto su Odette, che quel giorno sembrava particolarmente luminosa. Rideva in maniera fragorosa, passava agevolmente da un gruppo di conversatori a un altro, danzava e poi andava a parlare con altri ancora: per tutti gli uomini aveva una carezza su braccio, un ammiccare complice, un buffetto sul viso, e perfino l'ombroso Alain D'Arcy sembrava meno ombroso in sua presenza. Cercai la figura di Martino con lo sguardo, chiedendomi se sarebbe stato infastidito da quel comportamento.

Lo vidi in un angolo, solo a bere mentre fissava il fuoco con aria intenta. Non aveva ballato nemmeno una volta: Odette andò a cercare di trascinarlo nella danza successiva, ma lui continuò a rifiutare. Anche se aveva un sorriso sul viso, c'era qualcosa di profondamente triste incastonato nei suoi lineamenti. Non l'avevo notato, prima...forse ero troppo concentrata su Veronica e Agamennone, o forse lui aveva cercato di mettersi in viso una maschera di allegria per loro. Questo era esattamente il genere di cose che il Martino di una volta avrebbe fatto.

“Il nostro comune amico è très triste.”

Mi voltai, per ritrovare il viso di Briac accanto a me. Mia madre si era offerta di mettere a letto Leonardo, e fino a quel momento ero rimasta sola senza nemmeno rendermene conto. Da quanto tempo stavo osservando Martino e Odette senza una parola?

“Cosa l'ha reso così triste?” domandai subito, senza ulteriori preamboli. Briac accennò ad un sorriso spento, sedendo sullo scranno che poco prima aveva occupato Rosa.

“Ha trovato sua madre.”

Tenni il fiato.

“E' morta?”

“No...oh, no. E' a Palazzo Borromeo, tra le dame di compagnia della padrona di casa. Sembra che ora sia la concubina di un importante uomo di chiesa francese.”

Rivolsi gli occhi su Martino, che continuava a bere lentamente, fissando il fuoco con aria assorta. Non poteva essere bastato così poco a fargli disprezzare quella madre che aveva cercato per...Dio, sette anni. Doveva esserci dell'altro.

Briac interpretò il mio silenzio per una domanda, e aveva ragione nel farlo. Poggiò il gomito sul bracciolo dello scranno e il mento sulla mano, chinandosi un poco verso di me prima di dire con aria fintamente casuale:

“Si è rifiutata di tornare a casa con lui.”

Nonostante tutto l'autocontrollo che avevo appreso alla corte di Isabella, schiusi le labbra e restai così, a bocca aperta per qualche istante, come un'idiota.

“Non può essere vero.”

“Può ed è.”

“Ma...perché? Lui...l'ha cercata così tanto...”

I vivaci occhi azzurri di Briac si misero nei miei, come se volessero farmi leggere la risposta direttamente nelle loro profondità.

“Cosa può convincere una madre a lasciare un figlio adulto a se stesso, madmoiselle Biancà?”

Dopo qualche istante di buio, la mia mente si rischiarò. Pensai a Rosa che portava Leo in giro per il salone, ai suoi occhi brillanti e al modo protettivo in cui lo stringeva.

“...un figlio piccolo che ha bisogno di lei.”

Il lampo nello sguardo di Briac mi disse che era compiaciuto della mia risposta pronta. Schioccò la lingua nel palato, raddrizzando la schiena e portando le mani intrecciate di fronte a sé mentre osservava la sala.

Exactement.” Indicò Martino con un breve cenno del capo. “Non l'ha presa bene, purtroppo.”

Avvertii una stretta al petto. Non poteva finire a quel modo. Martino aveva sopportato così tanto, lottato così tanto...non volevo credere che quella madre a lungo rimpianta l'avesse semplicemente rifiutato. Nessuno meritava di essere respinto dalla persona che l'aveva messo al mondo, soprattutto lui che per quella persona aveva rischiato tutto.

Lo vidi alzarsi, e uscire dal salone. Strinsi forte i braccioli per impedirmi di seguirlo. Cosa gli avrei detto? A malapena ci scambiavano poche parole cortesi, adesso.

“Perché Odette non è con lui?” sibilai, ricordando troppo tardi che non era il caso di fare insinuazioni sulla sorella di fronte a Briac. Eppure, provavo una rabbia troppo viva per trattenermi. La ragazza, al momento, era seduta sulle ginocchia di un compiacente Jacopo, mentre scherzava allegramente con Veronica e Agamennone. D'Arcy completava il quadro: fissava Odette accigliato e sembrava rivolgerle osservazioni pungenti, e lei per tutta risposta si divertiva a stuzzicarlo con battute che non potevo sentire.

Briac si strinse nelle spalle. “Non biasimarla. Ci ha provato, a stargli vicino. Ma sai com'è Martino...se non vuole parlare, non c'è verso di fargli cambiare idea.”

Sì, sapevo com'era Martino, ma sapevo anche che non c'era bisogno di farlo parlare per dargli conforto. Bastava fargli sentire che non era solo.

“Scusami, io...” Gettai un'occhiata nervosa alla porta da cui Martino era sparito. “Credo che andrò a controllare che Leo stia dormendo.”

Dall'espressione sorniona di Briac, avevo capito che non gliela avevo data a bere. Possibile che fosse venuto da me proprio per questo? Che sciocchezza, era il fratello di Odette. Non mi avrebbe incoraggiata a passare del tempo con il mio ex-amante. Certo, ammesso che sapesse di noi due.

Smisi di farmi domande idiote, in ogni caso, appena ebbi varcato la soglia. L'unica cosa che contava era trovarlo, anche se non sapevo cosa gli avrei detto, né se avrebbe apprezzato la mia presenza.

Poteva essere andato ovunque: nei dormitoi, o fuori, a camminare per le strade buie di una Milano pullulante di nemici. Chiusi gli occhi, respirai in fretta per qualche istante. La mia capacità di usare l'Occhio dell'Aquila era migliorata, in quegli anni, e mi causava sempre meno fastidio. In breve, la tenue scia dorata rischiarò i corridoi bui, ed io la calpestai un passo dopo l'altro, fino ad arrivare alla scaletta che portava al tetto dell'edificio.

Mi dava la schiena. Era seduto con i piedi a penzoloni nel vuoto: mi tremò il cuore. Ma no...non aveva intenzione di fare stupidaggini, non era da lui. Da un movimento accennato vidi che aveva tra le mani un fiaschetto di vino portato via dal banchetto. Rimasi immobile, stringendomi le braccia al petto. L'aria di quella notte di ottobre si era fatta fredda, ma Martino sembrava non essersene accorto.

“Che stai affà qua?”

Non sapevo se avevo sperato di essere ignorata, o se invece avevo atteso le sue parole pronunciate contro il cielo per decidermi a raggiungerlo.

“Prendo un po' d'aria.”

“Sei ner posto giusto. Ce n'è pe' tutti e due, quassù.”

Mi umettai le labbra, indecisa su cosa dire per spezzare quella cortina di gelo che era rimasta tra di noi. All'ennesimo sorso di vino che prese, mi uscì spontaneo un:

“Stai bevendo parecchio stasera.”

Lui volse il viso sopra la spalla, e inarcò un sopracciglio. “A Bià, risparmiame 'a predica, nun sei mi' madre.” Alla luce fioca di una torcia appesa contro il muro, Martino aveva il volto diviso a metà tra il rosso della fiamma e il nero della tenebra. Torse le labbra in un ghigno amaro. “A mi' madre nun je importa comunque. Sai, c'ha dei fiji novi. Che se ne fa de 'sto cretino che l'ha cercata pe' sette anni?”

Mi sedetti al suo fianco, e gli sfilai il fiasco dalle mani. Bevvi un lungo sorso di vino, anche io.

“L'autocommiserazione non è da te. E neanche il vino tiepido.”

“Nun c'ho gnente de mejo ar momento. Prova a 'n'artra osteria.”

Raccolsi un ginocchio al petto, rigirando per qualche momento il fiasco tra le mani.

“Mi dispiace, Martino.”

Lui nemmeno mi guardò. “De che? De mi' madre? So' io che me dispiaccio. Ho rivoltato 'a vita mia come un carzino pe' trovalla. So' diventato 'n assassino, 'n mercenario...me so' sporcato 'e mani in modi che nun poi nemmeno immaginà, Biancarè.” Forse era il vino a sciogliergli la lingua a quel modo, o forse il bisogno bruciante di parlare con qualcuno. Mi chiesi perché non l'avesse fatto con Odette. Perché si stesse aprendo con me. Ma ebbi il buon senso di tacere, e lasciarlo proseguire.

“Li anni a Monteriggioni so' stati solo 'n allenamento...quer ch'ho visto 'n Francia...quer ch'ho fatto 'n Francia...” Strinse la mano sul bordo del cornicione su cui era seduto, così forte che temetti le dita avrebbero preso a sanguinargli. ”Te devo chiede scusa per quer che t'ho detto ar castello, que' 'a vorta. Io nun so' nessuno pe' giudicatte.”

Poggiai la mano sulla sua. Sentii la sua sorpresa a quel contatto; poi, si rilassò lentamente, rilasciando la presa sul cornicione.

“Sei un amico, e mi hai detto quello che pensavi. Non devi scusarti.”

I nostri occhi si incontrarono per un lungo momento, prima che io avessi il coraggio di chiedergli: “Cos'è successo in Francia?”

Mi aspettai che ritirasse la mano e che se ne andasse, irritato dalla mia invadenza. Oppure che svicolasse con una battuta, come avrebbe fatto una volta. Invece, si limitò ad abbassare lo sguardo. La mano non si mosse da sotto la mia.

“De Agnadello o' sai già, me pare.”

“Non è stata solo Agnadello. I tuoi occhi...non sorridono più.”

Accennò ad un sorriso nervoso, forse per tentare di smentire la mia osservazione. Ma si spense subito. Mi sembrò che respirasse affannosamente.

“Ce stava questo...vescovo, a Parigi. Era 'na brutta persona, Bià...nun solo se faceva portà le ragazze nello studio suo pe' confessioni...particolari. No, lui...prenneva anche li regazzini.” Vidi il disgusto dipingersi sul suo volto. “Era entrato in possesso di dei documenti importanti, quer bastardo. S'era fatto de'e mappe, aveva studiato 'a confraternita de Le Rouge, nomi, luoghi, tutto. Ce stava pe' distrugge...'a missione mia era da' foco al rifugio segreto dove teneva 'sta roba, 'na cascina de campagna. Dovevo lasciallo senza manco una prova, e daje 'n monito.” Deglutì, a fatica. Riconobbi in quel modo di agire un tocco di spettacolarità che non esisteva nel modus operandi di mio padre. Da quel poco che avevo visto, si confaceva bene al carattere di Briac.

“E poi, che è successo?”

Martino incontrò di nuovo il mio sguardo. In cerca di una condanna, o forse di un'assoluzione.

“Me so' accorto troppo tardi che...ce stavano due bambini là dentro.” Gli si spezzò la voce. “Li nascondeva laggiù, 'n uno stanzino, forse pe' facce 'e schifezze sue quanno je pareva, o forse erano ostaggi, nun so. Io...c'ho provato a salvalli, Bià...so' tornato dentro, ma 'r tetto...m'è quasi crollato addosso, nun potevo più andà avanti...sentivo la regazzina che urlava, urlava...e poi...nun ha urlato più.”

Quando vidi una lacrima scivolargli sulla guancia e attraversare il solco della cicatrice, sentii una ferita profonda aprirsi dentro di me. Martino non doveva piangere. Martino non doveva soffrire. Volevo vederlo sorridere, come faceva un tempo...come potevo togliergli questo peso dall'anima, come?

“Non potevi saperlo.”

“Avrei dovuto esplorà mejo 'l rifugio.”

“Avevi ricevuto un ordine. A volte, per seguire il Credo ci è richiesto di fare cose terribili.”

“Nun 'o so se lo vojo seguì più, 'sto credo.”

Mi gelai. La serietà con cui l'aveva detto, la profondità della sua voce.

“Che stai dicendo?”

“Gnente. So' solo un po' stanco.” Si portò la mia mano alle labbra, sfiorandola leggermente con un bacio. “Va' a divettitte, Biancarè. Io me sa che vado a trovà l'amico mio, er letto.”

In altre circostanze, forse, quel contatto leggero delle sue labbra mi avrebbe provocato un brivido. Al momento, il trauma di ciò che avevo appena sentito non mi permise di provare niente.

Rivisto con gli occhi del presente, quel gesto era già di per sé un addio.




Note:

1Non so se ve lo ricordate, ma nel capitolo “La Fede di un Assassino” Veronica e Nicola hanno un rapido battibecco. Lui le dice che un vestito non è la tenuta più adatta per allenarsi, chiamandola “sorella”, e Veronica replica che non è sua sorella. Nicola a quel punto si lancia in un discorso sul fatto che sono tutti fratelli e sorelle nel Credo, e Veronica conclude dicendogli che fa sempre la paternale a tutti.
Arrivati a questo punto, mi sembrava dolce riprendere quel dialogo...credo che mostri bene quante cose sono cambiate nelle loro vite da allora, compreso il fatto di essere diventati una vera famiglia.





NdRuna:
Scusate, oggi sono un po' triste quindi non mi dilungherò più di tanto in queste note...avevo pensato di aspettare ancora un po', ma visto che ho finito il 40 e sono comunque avanti di tre capitoli alla fine ho deciso di postare comunque. Sono appena tornata in Italia, quindi non so ancora se potrò permettermi di mantenere ritmi di pubblicazione così sostenuti - beh, quanto meno per i miei standard...dipenderà dal tempo e dall'ispirazione.
Scusatemi se non ho ancora risposto alle recensioni dello scorso capitolo, tenterò di farlo al più presto, promesso. Grazie per essere passati di qui.

Runa.

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Capitolo 38
*** Solo una madre - parte seconda ***


La riunione che seguì, il giorno dopo, mi trovò distratta e assente. Il fatto che fossimo già pronti a elaborare piani subito dopo la festa non doveva sorprendermi, dopo tutto. Dovevo immaginare che tutte quelle persone non fossero qui soltanto per il matrimonio di Veronica e Agamennone: pratico come sempre, mio padre aveva voluto approfittare del fatto di avere intorno a sé tanti alleati per discutere della difficile situazione politica in cui ci trovavamo ora.

Erano stati mesi ferventi per la guerra. Per lo più, lo ammetto, l'Ordine aveva lasciato che le due fazioni templari si scannassero tra di loro: avevano fatto un ottimo lavoro, fino a quel momento. L'improvviso cambio di alleanze aveva sconvolto gli equilibri della penisola. Con quel colpo di mano che non ero riuscita a fermare, Gaston de Foix aveva portato la Francia a unire le forze con i templari di Lucrezia e il ducato di Ferrara; di conseguenza, Giulio II si era alleato senza vergogna con la Serenissima che aveva combattuto fino a pochi mesi prima, forse comprendendo che i pochi Assassini rimasti nel suo seno non erano pericolosi quanto i templari del Gran Maestro ribelle1. Il nove agosto di quell'anno, Giuliano della Rovere aveva scomunicato il duca Alfonso d'Este2, e di conseguenza la sua sposa Lucrezia Borgia, tentando di isolarli dalla cristianità. Da lì in poi, l'avanzata di Giulio era stata capillare: dall'Emilia, stava forzando la sua strada in Romagna, e per farlo gli era indispensabile far capitolare i comuni all'imbocco della strada verso la Germania. Stava tentando di serrare alla Borgia ogni strada verso i suoi alleati, e conquistare terreno per poter pressare i confini dei domini francesi in Italia.

Al momento, le truppe del Papa avevano catturato Sassuolo e Concordia sulla Secchia3. Ora, per serrare definitivamente la strada ai possibili rinforzi dei suoi nemici, doveva soltanto far cadere la piccola roccaforte di Mirandola4. Di fatto, però, l'assedio stava andando per le lunghe: mentre a difendere la rocca era accorso Ermes Bentivoglio5, a capitanare le truppe papali c'era quel Francesco Maria della Rovere a cui era andata sposa la figlia di Isabella d'Este, Eleonora. A quanto pareva, questo capitano nipote di Papa era un po' più propenso ad ascoltare la moglie di quanto lo fosse ad ubbidire allo zio, perché il piccolo borgo, dopo mesi, ancora non crollava. Ezio ci confermò che c'era lo zampino di Isabella d'Este, in tutto questo.

“E per quale motivo Isabella dovrebbe impedire ai templari di distruggersi tra loro?” domandò Veronica. Non c'era stato niente da fare: anche durante il suo primo giorno di donna sposata, nessuno aveva potuto dissuaderla dal prendere parte a quell'assemblea tattica. Agamennone, naturalmente, era al suo fianco.

Mio padre replicò con un sogghigno. “Abbiamo decisamente sottovalutato l'abilità politica della nostra ex-mecenate. Dando Eleonora in sposa a Francesco Maria, Isabella ha messo una bella serpe nel seno del Papa...”

Nicola tamburellava le dita sul tavolo, nervoso per qualche motivo che non riuscivo ad afferrare. “State insinuando che Francesco Maria sarebbe disposto a cambiare fazione?”

Come a fargli eco, Diamante scoccò a mio padre un'occhiata scettica. “Giulio II ha il piccolo Federico Gonzaga come ostaggio. Se Isabella tenta una mossa del genere, il bambino è spacciato.”

“Dimentichi chi abbiamo noi, a Roma.” Mio padre sembrava aver previsto ogni obiezione, e scacciò via l'ostacolo ipotetico con un cenno della mano. “Il Bibbiena e i suoi uomini sono pronti a portare via Federico appena riceveranno un segnale. Ugo” indicò con un cenno del capo mio zio, che gli sedeva accanto “ha lavorato sodo negli ultimi mesi. Intorno al cardinale Giovanni De' Medici c'è un esercito assassino intero.”

Lo zio si schermì con un cenno del capo, ma non mi sfuggì lo sguardo orgoglioso che illuminò zia Claudia per un momento.

“Se gli Assassini riusciranno a conquistare Mirandola insieme a Francesco Maria” spiegò Ugo “gli eserciti di Isabella sono pronti a rivoltarsi contro il Papa. Ci sono nostri uomini infiltrati a Modena, a Bologna e in tutto il resto dell'Emilia. Siamo pronti a indebolire il potere di Della Rovere...e a cercare di rovesciarlo nel momento della disfatta.”

Lo ammetto, questo richiamò la mia attenzione distante. Rovesciare il Papa. Questo significava...

“Dimmi che hai in mente quello che spero, mon ami” sorrise Briac, che sembrava aver intuito il filo dei pensieri di mio padre e mio zio prima di tutti noi. Ezio aprì un ampio sorriso, e si rilassò sullo schienale.

“In effetti, sono un po' di secoli che sul soglio di Pietro non siede un Papa assassino.”

Il silenzio allibito che regnò dopo quella frase tirava il viso di ognuno di noi. Perfino Martino, cupo e pensieroso fino a quel momento, aveva la bocca aperta a completo beneficio delle mosche: la chiuse soltanto per tradurre a Odette, e dopo che ebbe compreso anche la sorella di Le Rouge parve allibita. Agamennone e Veronica erano totalmente spiazzati, e Nicola guardò Diamante come a dirle: tu lo sapevi? La Volpe strinse le labbra, ed io capii che intendeva: il tuo Maestro è un pazzo. D'Arcy in compenso aggrottò le sopracciglia, e se lo conoscevo abbastanza probabilmente stava smontando il fantasioso piano di Ezio pezzo per pezzo nella sua mente. Ariosto fissava Ezio con ammirazione mista a sconcerto.

Io guardai mia madre, mio zio, mia zia. Sembravano rilassati, tranquilli. Di certo sapevano da tempo cosa Ezio avesse in mente...

...e io? Perché io non ne ero stata informata? Perché diavolo non ne sapevo nulla!

Al di fuori della mia famiglia, l'unico davvero rilassato sembrava Briac, che scoppiò a ridere sonoramente. “Mon Dieu, Ezio! Non ti immagino proprio vestito da Papa!”

Mio padre ribatté unendosi alla risata.

“Stai scherzando, Briac? Ormai sono troppo abituato alla divisa nera...il bianco non valorizza più la mia figura come un tempo.”

“Chi sarà il Papa assassino?” sbottai. Quell'ilarità fuori luogo mi stava decisamente dando ai nervi.

Mia madre mi rivolse uno sguardo di rimprovero, ma Ezio assecondò la mia richiesta. Mi guardò con serena serietà.

“Il cardinale Giovanni De' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico.” Ammiccò. “Non fare quella faccia, Bianca. Un uccellino mi ha detto di averti messo a parte di questo segreto molto tempo fa.”

A quelle semplici parole, lo sguardo mi cadde su suor Teodora. Avevo ignorato la sua quieta presenza per tutta la riunione: di fronte al suo sorriso compiaciuto ricordai d'improvviso quel nostro dialogo di tre anni prima, sulla strada che da Ferrara mi avrebbe riportata a Monteriggioni dopo la fuga dal Castello di San Michele6. Era stata lei ad avermi parlato di quel disegno delle alte cariche dell'Ordine – così alte che nemmeno D'Arcy e Le Rouge ne avevano la più pallida idea fino ad ora. Tuttavia, capii che non avevo mai realizzato pienamente cosa avrebbe significato avere un Papa assassino. Il Pastorale sarebbe stato in mano nostra, insieme al Serpente. Avremmo piegato Lucrezia Borgia, costringendola a consegnarci la Mela. I manufatti dell'Antica Civiltà sarebbero stati custoditi dagli Assassini, e l'equilibrio del mondo sarebbe rimasto al sicuro...forse, saremmo riusciti a pacificare per un po' la nostra martoriata penisola per qualche mese. O anno. O secolo. Era qualcosa di cui solo ora che avevo combattuto le battaglie dell'Ordine sulla mia pelle capivo davvero il valore.

L'incarico di raggiungere Francesco Maria della Rovere a Mirandola fu assegnato al Drappo Rosso, ma Nicola chiese esplicitamente di poter partecipare. Se Ermes era a Mirandola, voleva avere la possibilità di catturarlo. Disse proprio così: catturarlo, non ucciderlo. Diamante non commentò, ma dal suo sguardo impassibile capii che dovevano avere già parlato della possibilità che Nicola cercasse la sua vendetta sul Bentivoglio. Ora che ci penso, probabilmente era per questo che il mio amico era stato così spesso a Milano in quegli ultimi mesi.

Ezio gli accordò il permesso, e spostò lo sguardo su Agamennone.

“Vuoi andare insieme a loro?”

Vidi il mio amico esitare un istante. Veronica, accanto a lui, non mosse un muscolo del viso.

Agamennone non la guardò nemmeno: coprì la sua mano con la propria e la strinse. “Grazie, Mentore, ma no. Ho qualcos'altro a cui pensare, adesso.”

Ezio lo guardò per un lungo momento, prima di annuire. Aveva un'aria di approvazione in viso, ma sembrava soprattutto sollevato.

Un figlio di meno esposto al pericolo, pensai, e non mi sentivo gelosa per nulla. Mi soffermai invece a chiedermi come facesse mio padre a considerare ogni discepolo come un figlio. Quanto saldo doveva essere il suo cuore per permettersi una scommessa del genere. Se un giorno avessi voluto seguire le sue orme, avrei dovuto tenerlo presente: amare significa rischiare un pezzo d'anima. Essere un capo che ama i suoi discepoli richiede una forza fuori dal comune.

Il gruppo partì agli inizi del novembre 1510. Fu con una morsa al cuore che salutai un Martino ancora terribilmente cupo. Mente guardavo le cappe color vinaccia sparire in lontananza, fissai a lungo Odette, sperando che, in qualche modo, potesse stargli vicino.

...sì, lo so. Ma se non potevo stargli vicino io – cosa che non mi era mai riuscita molto bene, in ogni caso - volevo comunque che non si sentisse solo.

Nei giorni che seguirono, comunque, non riuscii a levarmi la faccenda di sua madre dalla testa. Guardavo Veronica, che mostrava sempre più spesso piccoli gesti di tenerezza e attenzione verso quel ventre che conteneva il suo bambino, e non potevo non notare che il suo sguardo era acceso da una tenerezza che raramente vi avevo visto dentro. Ricordavo Ilaria e tutto l'amore che aveva sul viso quando aveva accolto Leonardo per la prima volta tra le braccia. Pensavo a mia madre con in braccio il suo nipotino, e la ricordavo in quella stessa posizione...più giovane, più serena...con Vanni bambino che le si aggrappava al collo. Cercai di figurarmi un giovanissimo Martino, che dipendeva allo stesso modo da quella donna di cui potevo solo indovinare il volto e le fattezze basandomi sui lineamenti del figlio. E gli altri fratelli Semeraro, quelli ancora piccoli rimasti a Capodimonte? Possibile che non pensasse mai a loro?

Era il tramonto, quando uscii dalla sede della Confraternita diretta a Palazzo Borromeo. Jacopo mi chiese dove stessi andando. Risposi che avevo un informatore da incontrare. Se mi credette, non lo so, ma mi lasciò andare senza una parola di più.

Non era un palazzo diverso dagli altri di Milano: signorile, antico ma raffinatamente ristrutturato, con appigli di una comodità quasi imbarazzante per le mie arrampicate. La mia abilità nel muovermi in diverse corti mi aveva reso familiare la simmetria di quel genere di palazzi: le stanze dei bambini non sono lontane dalle stanze della signora del castello, e le dame si riuniscono sempre intorno alla loro padrona prima di coricarsi. Tra una stanza e le altre, ero certa che avrei trovato la persona che cercavo. E se la fortuna non mi avesse arriso, potevo sempre ricorrere all'Occhio dell'Aquila.

Ammetto che in quei giorni ne abusavo, perfino: la consapevolezza di avere un privilegio che mi derivava direttamente da Altaïr mi faceva sentire qualcosa di più dell'assassina non iniziata che non è riuscita a salvare Charles D'Amboise. Come se ci fosse ancora una possibilità, per me, di fare qualcosa di grande per l'Ordine, unicamente in virtù del sangue che mi scorreva nelle vene.

Fu nei corridoi, appena fuori dalle camere dei bambini. Mi nascosi dietro una statua appena vidi le due donne: una era una dama, l'altra probabilmente la balia. Fui certa da subito che la dama fosse lei, e il lieve bagliore dorato che la circondava attraverso quella mia vista alterata me lo confermava.

Era piccola di statura, procace di forme: le chiome nere sfuggivano in riccioli ribelli dall'acconciatura a cui erano costrette. Era evidentemente una contadina vestita da signora...ma una splendida, splendida contadina senz'altro. Se non l'avessi saputo, non l'avrei detta madre di un uomo di ventitré anni. Eppure era la mamma di Martino, non c'erano dubbi...se non me l'avesse detto quel tratto di sopracciglia marcate, l'avrei capito ascoltando il suo vago accento romano.

Attesi che la balia si fosse congedata, e seguii la donna lungo i corridoi. Per mia sorpresa, però, non si diresse verso delle stanze, bensì nel chiostro, nell'aria fredda di novembre che ci avvolgeva di brina e nebbia.

Mi aspettai che incontrasse qualcuno, ma la vidi sedere semplicemente tra una colonna e l'altra, lo sguardo perso alla luce fioca di una torcia che rischiarava la notte. Forse voleva soltanto riflettere. Rigirava ritmicamente intorno al braccio qualcosa...forse un nastro, o un monile. A quella distanza, nel buio, non avrei saputo dirlo.

“Madonna Flaminia?”

Il suo nome era l'unica cosa che Martino mi avesse detto di lei.

Sembrò sobbalzare, per un momento. Non aspettava nessuno. Mi guardò con gli occhi grandi di un cerbiatto spaventato. Alzai le mani, per mostrarle che non avevo cattive intenzioni.

“Sono un'amica di vostro figlio.”

Lei schiuse le labbra per dire qualcosa, poi le serrò di nuovo. Mi guardò con serietà.

“Sei 'n assassina pure te?”

“Non sono qui per versare del sangue.”

“Perché allora?”

“Voglio solo parlarvi.” Un paio di respiri, prima di aggiungere. “Vi prego.”

Madonna Flaminia mi guardò duramente. Sembrò quasi sul punto di gridare per chiamare aiuto. Infine, la sua bocca ebbe un guizzo.

“Parla, ma fa' 'n fretta. Devo tornà dentro.”

Mi ritrovai inaspettatamente in soggezione di quella donna piccola e ferrea. Che strano. Conoscendo suo figlio, mi ero aspettata una persona molto dolce...ma certo, gli anni e le asperità della vita possono indurire molto anche le persone più sensibili. Chissà se lui l'aveva trovata cambiata...

...no, non dovevo immaginarmi cosa avesse provato nel momento in cui era stato rifiutato da sua madre. L'idea toglieva lucidità ai miei pensieri.

Rimasi in piedi, come chi è in una posizione precaria. Le chiesi perché avesse rifiutato di tornare a casa con Martino: d'accordo, sapevo dei figli che aveva avuto dal francese, ma avremmo potuto farli scappare con lei. L'avremmo aiutata a liberarsi del suo amante templare.

“E perché dovrei scappà? Gérard è un uomo gentile, nun ce fa mancà gnente.”

Spalancai gli occhi. Questo non me l'aspettavo.

“E' un uomo di chiesa!”

“E con ciò? Nun c'avemo fior di cardinali che hanno dei fiji e li fanno chiamà “nipoti” per farli eredità?”

Più cupa, insistetti: “Il vostro Gérard è un templare.”

“E dunque?”

“Davvero non sapete per cosa combattono gli uomini come lui? Non sapete che sono disposti a compiere gli atti più spregevoli per raggiungere i propri scopi?”

Madonna Flaminia mi guardò come se volesse sollevarmi la pelle.

“Strano. Mi pareva che quelli che si chiamano assassini foste voi.”

Non feci in tempo a replicare, che la vidi avviarsi verso il pozzo. Parlava ancora, benché mi desse le spalle. La seguii per riuscire a sentire, e colsi la seconda parte del suo discorso.

“...capì come sono andate le cose, se nun sai 'a versione mia. Martino nun l'ha voluta sentì...” Rivolse gli occhi verdi su di me. Anche nell'ombra in cui era scivolata riuscivo a vedere la serietà sul suo viso, e il richiamo accorato che le pulsava nello sguardo.

Madonna Flaminia voleva raccontarmi la sua storia, prima che la giudicassi. E io non potei fare altro che avvicinarmi un poco per ascoltare.

Accarezzò le pietre sbozzate del pozzo, un materiale più antico della muratura ordinata del palazzo. Seguì gli arzigogoli delle proprie dita con lo sguardo, mentre diceva: “Gèrard è un omo gentile. E' un buon compagno, e 'n padre eccezionale. Devi vederlo, co' Michelle...je insegna tutte le cose che sa, e so' proprio tante. Ha una pazienza senza fine con lui. E il modo in cui lo guarda, come se fosse l'orgojo suo...” Mi rivolse un'occhiata triste. “Chiedijelo, a Martino. Chiedije se Pietro l'ha mai guardato così.”

Faticavo a comprendere. La voce di madonna Flamina era dolce quando parlava dell'uomo che l'aveva strappata alla sua famiglia. Forse non amava il padre di Martino...ma era davvero quel tipo di donna che si innamora del proprio aguzzino?

“Che c'è? Nun te pare possibile amà 'n templare? So' persone pure loro, sa'. Anche io nun pensavo che li assassini fossero umani...” Il suo viso si torse in un'espressione sofferente. “Finché nun ho visto che il mio Martì era diventato uno di loro. M'ho ricordavo con 'na luce bellissima negli occhi...che je avete fatto? Quando l'avete uccisa, l'anima del fijo mio?”

Ora vedevo finalmente la madre che pulsava dietro l'immagine dura che voleva mantenere. Sapevo che aveva ragione, e quel commento mi fece due volte più male proprio per questo. L'anima di Martino era morta in Francia, devastata da un errore fatale che aveva ferito ogni sua certezza di essere rimasto una brava persona, nonostante tutto. Il rifiuto di sua madre doveva aver scavato in quel dolore fino a distruggerlo...non potevo biasimarlo per aver pensato di lasciare l'Ordine.

Tuttavia, proprio per difendere ciò in cui credevo, all'attacco replicai attaccando a mia volta.

“Il colpo di grazia glielo avete dato voi, rifiutandovi di seguirlo.”

Lei incassò l'accusa, senza fiatare. Se l'era aspettata, lo sapevo. Distolse di nuovo lo sguardo dal mio, aggrappandosi al ferro battuto che sovrastava il pozzo come per trarne forza.

“Lui nun riusciva ad accettà che ha dei fratelli...sì, fratelli, anche se hanno 'n altro padre so usciti dal grembo mio, come lui. So' mezzi francesi. Cresceranno pe' diventà templari. Ma so' fratelli sua, come li altri.” Scosse il capo, e notai che la tristezza le tirava verso il basso i lineamenti. “Voleva che lasciassi i piccoletti qui. Nun m'ha perdonato perché ho 'n altra famiglia da curare.”

“Potete davvero biasimarlo per questo?” Ogni respiro mi infiammava i polmoni di nuova forza. “Da quanti anni vivete a Milano? In poche settimane potevate raggiungere Capodimonte, far sapere ai vostri figli che eravate viva, vederli mentre crescevano...”

“Nun capisci? Lui non me l'avrebbe permesso!”

Ora la sua voce era spezzata. Alla luce della luna mi accorsi che le lacrime le correvano sul viso.

“Tu non conosci Pietro Semeraro. M'avrebbe costretta a restare laggiù, a fargli da serva e a sfornà figli uno dopo l'altro per coltivare la terra, finché prima o poi un parto m'avrebbe uccisa...Gérard m'ha insegnato a leggere, lo sai? Mi porta libri dai suoi viaggi, e ci lascia in mezzo un fiore per me. Lui non vuole una vacca da ingravidare, vuole una compagna, una donna!”

Con tutta la forza della mia incredulità e della mia indignazione – nemmeno fossi stata io, la figlia abbandonata da madonna Flaminia – sbottai:

“State parlando del vostro rapitore! Come avete potuto essere così ingenua da innamorarvi dell'uomo che vi ha portata via dalla vostra famiglia? Come foste carne da macello, o un sacco di farina! E' questo l'essere che vi fa sentire una vera donna?”

Lei mi rivolse uno sguardo stranito. Sbatté gli occhi, si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Il suo tono era più calmo, quasi pacato, quando rispose.

“Ti sbagli. Gérard non è quello che mi ha rapita. Anzi, lui...m'ha dato 'na casa quando quer fijo de cagna m'ha lasciata 'n mezzo a 'na strada.”

Questo era qualcosa che non avevo calcolato.

“Il vescovo non è il vostro rapitore?” ripetei, come una sciocca.

Flaminia scosse il capo, con un'espressione di sarcastico disgusto che le danzava sul viso nella luce bluastra della notte.

“Benoit, se chiamava. L'ho maledetto tante di quelle volte, 'r nome di quel porco, che spero je sia pijato 'n accidente secco.” Torse le labbra, e per esprimere tutto l'odio e la violenza subita aggiunse solo: “Nun era gentile come Gérard, lui. M'ha tenuta come la sua puttana finché je ha fatto comodo, e poi...poi m'ha buttata via.”

Mi umettai le labbra, a disagio per il dolore trattenuto in quella sua ultima frase.

“E perché non siete tornata a Capodimonte quando vi ha abbandonata?”

Lei rise. Una risata amara. “Ero gravida. Mo' inizi a capì, regazzina? Gérard s'è preso 'r bastardo d'un altro come suo...Pietro nun l'avrebbe fatto mai. A calci, mi avrebbe cacciata.”

“Sono sicura che vi sbagliate.”

“So' sicura che nun lo conosci.” Strinse le labbra e chiuse gli occhi, probabilmente per ricacciare indietro un altro fiotto di pianto. Il tentativo fallì. “Se l'avessi portato da lui, Michelle sarebbe stato trattato come un cane fino all'ultimo de li giorni sua. So che nun puoi capire...ma quel che ho fatto, io l'ho fatto per lui.”

“E per voi stessa” aggiunsi, dura. Se davvero avesse pensato che il padre di Martino era questo terribile mostro, avrebbe cercato di portare via i dodici – dodici! - figli che erano ancora sotto la sua custodia. Invece, li aveva lasciati indietro. Probabilmente mai dimenticati, nemmeno per un'ora...ma non aveva avuto il coraggio di tornare a cercarli. Per quel che ne sapeva, potevano essere morti.

Flaminia non controbatté alla mia accusa. Si limitò a dire: “Sì. Anche per me stessa.”

Dopo qualche istante – o ora? O secolo? - di pesante silenzio tra noi, mi schiarii la voce. Sentivo la gola secca come se avessi urlato fino a svuotarmi i polmoni.

“Martino sarà anche diventato un Assassino, ma è un brav'uomo.” Serrai le labbra, forte, ma nonostante cercassi di trattenerle le parole fluirono e ruppero la diga della mia reticenza. “Lui è generoso, e onesto, e leale...la sua anima è pura. Non importa quante persone abbia ucciso, è rimasto limpido. Ve lo garantisco, madonna Flaminia...vostro figlio non è diverso dal ragazzo che conoscevate. Potrà sembrare truce all'esterno, ma è rimasto un bambino...nel senso migliore del termine. Voglio davvero che lo capiate...” Presi un respiro, e infine, semplicemente, lo dissi. Perché lo pensavo. Perché lo sentivo. “Martino è l'uomo migliore che io abbia mai conosciuto.”

Lei mi guardò per un lungo momento, senza parlare. Poi, la vidi armeggiare con il braccialetto con cui stava giocherellando prima del mio arrivo. Lo mise in bella vista, scostando la manica dell'abito, e mi mostrò il polso. Notai che il bracciale era fatto di sassolini levigati, tenuti insieme da sottilissime strisce di cuoio intrecciate.

“Questo l'ha fatto Martì. C'aveva dodici anni...ha risparmiato un anno intero per quelle striscioline di pelle, e ha raccolto i sassi con le mani sue.” Un'altra lacrima le solcò il viso. “Li vedi questi sassi, regazzina? 'na volta nun erano così lisci.”

Passai un dito su ogni pietra, su ogni intreccio del cuoio. Immaginai un bambino con un cespo di indomabili ricci neri e un sorriso più luminoso del sole che perde ore a tagliare le striscioline di cuoio della giusta lunghezza, e si piaga le dita per intrecciarle abbastanza strette, sbaglia, ricomincia...

...e immaginai una madre che ha scelto di non tornare dai suoi figli, che accarezza quelle pietre, le bacia e vi piange sopra ogni notte.

No, non riuscivo più ad accollarle tutta la colpa. Non so cosa avrei fatto al suo posto, chi avrei preferito proteggere...il piccolo bastardo nel mio grembo, o i dodici che ancora mi aspettavano a casa? Io non avevo dei figli, e forse non ne avrei avuti mai. Ilaria e Veronica sarebbero state giudici migliori di me. Io non potevo esprimermi sulla questione: solo una madre avrebbe potuto.

“Dio sa quanto bene je vojo, a quella testa dura del mio Martino...anche se adesso me odia, sarà il core mio per sempre.” Tentò un pallido sorriso. “Per questo sono felice che abbia accanto 'na donna che lo ama così tanto.”

Rimasi lì, a labbra schiuse, e una parte di me avrebbe voluto contraddirla. Non ci riuscii.

Asciugandosi di nuovo le lacrime, madonna Flaminia mi chiese:

“Come ti chiami?”

“Bianca.”

“Bianca...” saggiò il mio nome tra le labbra. “Prenditi cura di lui.”

Mi limitai ad annuire. Dopo un attimo che mi parve infinito, capii che quello era il suo commiato, per suo figlio e per me. Senza una parola di più scivolai via da lei, lasciandomi alle spalle quella strana notte che mi aveva annegato il cuore di tristezza.

 

Accadde il 3 novembre 1510; no, non è una data che io possa dimenticare.

So di essere stata maledetta con una memoria migliore di quanto vorrei, ma ogni tanto mi accorgo che nel mio lungo racconto le date si approssimano, e gli eventi sfumano. Qualcosa viene lasciato per strada, qualche episodio scivola su un altro. Dopo tutto, mi domando come facciate a fidarvi di me, di ciò che vi sto dicendo. Potrei avere inventato ogni parola. Potrei, cinque anni dopo gli eventi che vi sto narrando, aver completamente confuso una data con un'altra, buttato lì dettagli inesistenti, abbellito i dialoghi e magnificato le qualità di chi mi sta simpatico. Di me e di tutti gli altri personaggi di questa mia storia sapete soltanto ciò che io vi dico, e su queste mie parole dovete fare affidamento. Al vostro posto, probabilmente, non mi concederei il beneficio del dubbio e penserei: “questa è soltanto una parte della storia, voglio sentire un contraddittorio”. La versione di Lucrezia Borgia, o quella di Vanni. Perfino il punto di vista di mio padre cambierebbe questa narrazione fino a renderla qualcosa di completamente diverso.

Ma ormai siete qui, con me. Dentro questa storia che è stata la mia vita. E chi meglio di me può narrarvi la mia vita? Mi dispiace se non sono sempre oggettiva; mi dispiace se non posso mostrarvi altro che il mondo per come lo vedono i miei occhi e lo percepisce il mio cuore. Spero comunque che vorrete leggere le mie parole fino alla fine.

Perché la verità è che ho il terrore di dimenticare, un giorno. Invecchiando, forse; o magari di colpo, perché una missione andrà male e dovrò lasciare la vita prima del tempo. Questa è la ragione per cui sto scrivendo tutto, fin dal principio, e il mio scopo è arrivare proprio a questo momento che mi vede tenere una penna in mano. Le lettere non sono mai state il mio forte, lo so...ma loro valgono lo sforzo. Loro, sì: i miei amici, i miei fratelli. Le persone che ho amato come, e a volte perfino più di me stessa. E valgono lo sforzo anche i nemici, coloro che hanno forgiato il mio carattere attraverso le difficoltà, mettendomi di fronte a scelte orribili, tirando fuori il lato più crudele di me. Lo devo a quelle comparse che come stelle cadenti hanno illuminato il mio cielo per brevi periodi, e hanno comunque cambiato un tassello di me, un pezzo che senza averli incontrati non sarebbe mai mutato. Lo faccio per tutti loro, che hanno contribuito a costruire la mia anima mattone dopo mattone. A tutti coloro che hanno fatto di me la donna che sono oggi, devo un posto nella memoria. E' mio dovere assicurarmi che questa memoria resti dopo di me.

Mi dispiace. Mi dispiace così tanto di non poter fare di più. Mi torcono il cuore queste lacrime che ancora scivolano sulla carta dopo tanto tempo. Perché il 3 novembre 1510, quando Jacopo entrò nella sede della confraternita, Veronica ed io capimmo al volo che qualcosa non andava.

Era un raro momento di calma. Stavamo discutendo del bambino, dei nomi che lei e Agamennone avevano pensato. Annibale, se maschio, per onorare il fratello che il mio amico aveva perso quella notte di nove anni prima. Emilia, se femmina, come sua madre. Veronica diceva che non le dispiaceva avergli lasciato la scelta: non c'era nessuno nella sua famiglia che lei avrebbe voluto ricordare, e quei nomi le piacevano entrambi. Io la stavo prendendo in giro, dicendole che era diventata una docile e ubbidiente donna sposata. L'eco della nostra risata ancora riecheggiava nella stanza, quando l'ingresso di Jacopo quasi ci fece sobbalzare per la sua irruenza.

La sua cappa rosso cupo era impregnata di pioggia: il cappuccio bianco gli aderiva al viso, quando lo calò sui capelli umidi, rivelando le lenti costellate di gocce. Aveva una mano cacciata nella tasca del farsetto, come a proteggere nel pugno qualcosa di importante.

“Dov'è Maestro Sandro?” disse, senza preamboli.

Scattai in piedi. La tensione nella sua voce, il suo sguardo cupo.

“Cos'è successo?”

“Ho bisogno di parlare con lui.”

Fece per superarmi e andare a cercare il Maestro di persona, quando lo bloccai, parandomi di fronte a lui e stringendogli il braccio. Cercai i suoi occhi.

“Notizie dall'assedio?”

Le labbra del mio amante si strinsero fino a impallidire. Sostenne il mio sguardo con gravità.

“La missione è fallita.” Prese un respiro. “Metà dei ragazzi sono stati giustiziati sul posto. Gli altri sono tenuti come ostaggi.”

Dio non c'è, lo so bene.

Vorrei che ci fosse, per attribuirgli la colpa di quello che accadde poi.

Ma non posso, perché dentro di me so che ogni responsabilità fu umana.

Se solo potessi odiarlo...se solo potessi.

E invece, ancora oggi non incolpo altri che me stessa.



Note

1Fortunatamente per me, questi cambi di alleanze avvennero davvero in quei mesi, anche se per ragioni molto diverse da quelle da me fornite. Di fatto, tra Giulio II e il re di Francia, Francesco I, si erano creati contrasti insanabili, e probabilmente Giulio aveva infine compreso che la minaccia dell'invasione francese era molto più concreta e pericolosa dell'espansione veneziana sulla terra ferma.
Non so voi ma, difficoltà di inserirla nella trama a parte, questa Guerra della Lega di Cambrai mi sta appassionando da morire.

2Dato storico reale. Amo quando la Storia mi strizza l'occhio e mi rende le cose più semplici! XD

3Nel luglio del 1510.

4Prendo spunto dal fatto storico dell'Assedio della Mirandola per ricordare il terremoto di un anno fa, che ha visto questo piccolo paese fortemente colpito.

5Nella realtà, a difendere la città c'era quel Charles d'Amboise che ho prematuramente ucciso un anno prima del previsto!

6Cfr. “L'Incappucciato”, capitolo 14 di BCP.


Note di Runa
Ammetto che il personaggio di Flaminia è uno dei più controversi che mi sono trovata a raccontare in questa storia, almeno a mio parere. Come Bianca, non essendo madre fatico a giudicarla. Come donna, però, la mia simpatia un po' è con lei. Vi prego, non giudicate il padre di Martino come un mostro ora...è un uomo del suo tempo, e per forza di cose - ceto sociale, grado di istruzione, esperienze di vita - non poteva avere una mentalità molto aperta, mi sarebbe suonato forzato e un po' buonista se fosse stato altrimenti. Poi sì, di carattere non è particolarmente tenero, ma non è nemmeno una cattiva persona.
Purtroppo l'ispirazione non mi sta aiutando: sono ancora bloccata a circa un terzo del 41, il che significa che non pubblicherò il 39 fino a che non avrò superato questo ostacolo. Però dai...per ora, accontentiamoci del fatto che una testona di nostra conoscenza ha implicitamente ammesso ciò che tutti sapevamo da tempo :)
Scusate, sono ancora in ritardo con le risposte alle recensioni dello scorso capitolo...cercherò di mettermi in pari al più presto <3

Un bacione e grazie per essere passati di qui!


Lal



ps: ricordatevi i kleenex per il 39, mi raccomando! :P

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Capitolo 39
*** Io sono Caino ***



«Choose your last words
This is the last time
'Cause you and I, we were born to die.»




 

Raggiungemmo Mirandola in cinque giorni. C'erano tutti i più alti ranghi dell'Ordine, tranne Veronica – per ovvie ragioni –, e Ugo e Claudia. Gli zii erano rimasti entrambi a Roma, per gestire i disordini.

Le cattive notizie non erano finite con l'annuncio della cattura dei nostri amici, infatti. Il nostro perfetto piano per consentire agli uomini di Isabella di rivoltarsi al Papa era stato sabotato: qualcuno aveva informato Giulio II del pericolo, e Federico Gonzaga era stato portato lontano, in una destinazione sconosciuta perfino al Bibbiena. Anche Eleonora Gonzaga, a Urbino, era tenuta sotto scacco dai templari del Papa. Suo marito Francesco Maria non poteva più fare nulla. Avevamo le mani legate.

Era probabile che ci fosse una momentanea alleanza in corso tra le due fazioni templari, ma un dettaglio continuava a ronzarmi nella testa. Come esattamente aveva saputo, il Papa? Forse Ermes gli aveva passato informazioni estorte agli ostaggi. E se così fosse stato, a quali terribili torture erano stati sottoposti?

Questa domanda mi teneva sveglia la notte, mentre ripetevo nella mia testa i nomi degli ostaggi e rivedevo i loro visi. Briac. Odette. Nicola. Martino. Avevamo le prove che cinque giorni fa fossero ancora vivi...ma ora?

Ora stavamo cavalcando come disperati sotto la pioggerellina gelida di novembre, e ciò che mi angosciava più di tutto era che Ermes Bentivoglio aveva fatto una richiesta ufficiale a mio padre. “Porta il Serpente, se vuoi che vivano.” Ed Ezio, che non lascia mai nessuno indietro, aveva fatto come gli era stato chiesto.

Il frutto dell'Eden pendeva nella scarsella che mio padre teneva a tracolla, e mentre cavalcavo al suo fianco mi chiesi se Ermes ci avrebbe davvero lasciati andare, una volta avuto quel tesoro tra le mani, o se piuttosto non ci avrebbe sterminati tutti usando la forza del frutto dell'Eden. A patto che lui capisse come usarlo, perché finora nemmeno Leonardo ci era riuscito.

La nebbia della Pianura Padana ci ammantò, quando ci fermammo di fronte alle mura della piccola roccaforte di solido mattone rossastro. Attraversammo indisturbati il campo degli assedianti, che si aprirono al nostro passaggio: Francesco Maria Della Rovere, un uomo slanciato dai grandi occhi tristi, si fece incontro a mio padre. Parlarono, brevemente. Non riuscii a seguire il loro discorso, ma c'era un profondo senso di colpa inciso sul volto del giovane capitano. Probabilmente, aveva tentato di aiutarci, aveva tentato davvero. Ma con la moglie ostaggio degli uomini di suo zio non c'era più nulla che potesse fare per noi, se non scortarci fino agli spalti del Castello dei Pico. Lo seguimmo in silenzio, i volti lividi e tirati.

Agamennone portò il cavallo al mio fianco, e mormorò:

“Dicono che l'inferno è fatto di fuoco. Ma non è vero. Secondo me è come questa nebbia.”

Aveva ragione. La pioggia era cessata, e in quell'aria densa di umidità tutti i contorni erano sfumati. I cavalli intorno a me, i miei compagni vestiti di rosso e bianco, perfino le sagome dei templari sugli spalti: ognuno di noi si confondeva nel grigiore, come se fossimo niente più che ombre fluttuanti. Nessun tormento eterno può essere peggiore di quella non-vita. Nessun grido ti spezza l'anima più di quel silenzio ovattato e opprimente.

Per un attimo mi chiesi se fossi sveglia. Battei le palpebre, in cui erano incastrate piccole gocce fredde. Sì, lo ero.

“L'inferno non esiste” replicai, ma lanciando uno sguardo sui visi cupi intorno a me pensai che sbagliavo. L'inferno esiste, eccome. In quel preciso momento ognuno di noi lo portava dentro.

Non eravamo tutti lì, naturalmente. D'Arcy e alcuni dei suoi assassini avevano aggirato le mura, con il compito di scalarle per abbattere quante più guardie templari possibili e salvare gli ostaggi prima che Ermes potesse pensare di eliminarli. Diamante era con loro. Non mi chiesi cosa provasse, in quel momento. In un certo senso, lo sapevo...non era troppo diverso da ciò che sentivo. Con l'unica differenza che io ero stata relegata al ruolo di spettatrice, mentre a lei era data l'opportunità di agire per salvare il suo uomo.

Una volta che raggiungemmo il Castello, riconobbi subito la figura rosso sangue di Ermes. Accanto a lui c'erano un'ombra grigia che non riuscii a identificare e un uomo in nero, con la maschera dal becco adunco che talvolta i medici indossano per non contrarre malattie. Tancredi? Sì, forse...c'era una figuretta al suo fianco, avvolta da una nuvola di ricci neri. Simza. Erano ancora sotto copertura.

Ora ci avrebbero aiutati?

No. Con tutta probabilità, sarebbero stati costretti a fare ciò che un tempo avevano fatto i ragazzi del Drappo Rosso. Se la battaglia fosse scoppiata, avrebbero dovuto combattere contro di noi.

Inginocchiato sugli spalti che sovrastavano l'ingresso del castello, sistemato tra un merlo e l'altro perché potessimo vederlo perfettamente, c'era Nicola. Aveva il volto pesto, gli abiti lacerati. Non si erano di certo premurati di tenerlo in salute.

“Ezio Auditore da Firenze” disse Ermes, e il suo tono era secco, quasi marziale, quando parlò. “Finalmente ci incontriamo.”

“Avrei preferito che fosse a tu per tu, Ermes Bentivoglio da Bologna. Magari in un duello mortale.” Mio padre accennò ad un ghigno, ma non potei non sentire la tensione nella sua voce. La vita dei nostri amici si giocava sui minuti che avremmo potuto dare a D'Arcy e Diamante. “Dove sono gli altri ragazzi?”

“Al sicuro” rispose Ermes. “Non temere, c'è una balestra puntata alla nuca di ognuno...se non mi darai quello che voglio, le loro cervella salteranno nello stesso momento.”

Solo allora realizzai chi fosse la figura con il cappuccio grigio che stava all'altro fianco di Ermes. Ma certo...certo. Ora che la sua mano si era mossa per prendere la pistola1 dalla fondina, mi fu dolorosamente chiaro. Non potevo scorgere la sua espressione, ma il suo movimento era spietato e deciso quando spostò il braccio armato e puntò l'arma alla tempia di Nicola.

Ripensai in un lampo a un Vanni bambino che si addestra con un Nicola appena entrato nelle nostre fila, nell'anello di allenamento di fronte a Villa Auditore. A quel tempo, era solo un gioco tra cuccioli.

Il ricordo sparì, inghiottito dalla nebbia. Ora eravamo adulti, e non ci sarebbero state rese, né tregue. Ora la posta in gioco era la morte.

Lo sguardo dell'ostaggio era teso, ma lucido. Cercai i suoi occhi grigi, deglutendo a vuoto. Resisti. Solo pochi minuti, e poi sarai libero. Dobbiamo confidare in D'Arcy e Diamante...resisti.

“Tuo figlio che minaccia la vita di un altro tuo figlio...non è uno spettacolo che si veda tutti i giorni, non è vero, Ezio?” disse Ermes. “Come Caino e Abele...una splendida metafora che la Bibbia ci consegna. Dicono che Abele fosse un agricoltore, e che Caino l'abbia ucciso per invidia...in realtà, le cose andarono diversamente. Abele voleva riportare la Mela a Coloro che Vennero Prima, per ristabilire l'armonia che Adamo ed Eva avevano turbato.2” Ermes incrociò le braccia al petto. “Per impedirglielo, suo fratello Caino lo uccise a tradimento. Proprio così. Abele fu il primo templare, e Caino il primo Assassino. E' una visione che Vanni ci ha rivelato, sai? La Mela stessa l'ha messa nella sua mente.”

Ora mi era chiaro perché avessero scelto Nicola come ostaggio da mostrare a mio padre. Benché Briac coprisse un ruolo più importante nell'Ordine, Nicola era stato indicato come l'erede designato di Ezio, ed era il suo discepolo preferito. Il loro legame era davvero quello che potrebbe esserci tra padre e figlio. Doveva essere stato Vanni a suggerirlo.

Strinsi le mani a pugno sulle briglie. Il mio cavallo percepì l'ondata d'odio che mi attraversò. Sbuffò, infastidito, e scosse la criniera come per scrollarsi di dosso la mia rabbia. Respirai a fondo, per riprendere il controllo.

Le labbra di Ezio si torsero, il ghigno ironico era sparito dal suo volto.

“Solo uno è mio figlio. L'altro è morto molto tempo fa.”

La mano di Vanni ebbe un guizzo a quelle parole. Spinse più forte la canna contro la testa dell'ostaggio. Nicola strinse la mascella e respirò più velocemente, ma non si mosse.

La mano di Ermes si poggiò sul polso del suo discepolo, come a dirgli: non ancora.

“Ti darò il Serpente, ma voglio che prima tu liberi gli ostaggi.”

“Dammi il Serpente, e saranno salvi.”

“Libera uno di loro e ti crederò.”

“Lo farò...ma prima lascia che chiarisca la posta in gioco. Il Frutto dell'Eden non mi basta.” Ermes fece un passo avanti, sporgendosi dal merlo come per guardarci meglio. “Sappiamo che maneggiare i manufatti dell'Antica Civiltà richiede un prezzo molto alto. Abbiamo visto uomini impazzire, inebriati dal potere della Mela. Non tutti gli esseri umani sono in grado di gestire un tale agglomerato di potere senza lasciarsene controllare...a parte alcuni.”

Il suo sguardo rosso si spostò su di me.

“No” sentii il ringhio sommesso di Rosa, come una lupa che veda un predatore avvicinarsi ai suoi cuccioli. Ma io non ero più un cucciolo, ormai. La risposta mi fiorì subito sulle labbra: sì, prendi me al posto degli ostaggi. Mio padre mi fermò prima che potessi pronunciare quelle parole.

“Mai.”

“Scegli, Auditore. Consegnaci la ragazza, e salverai tutti i tuoi amici. Ti prometto che non le faremo del male...” ammiccò, con una punta di malizia “Non posso promettere niente per il Frutto dell'Eden, ma d'altronde quelli come voi non dovrebbero esserne toccati, non è così? Un figlio per un altro figlio, è uno scambio equo.”

“Non avrete nessuno di loro” sibilò Ezio. “Anch'io posso toccare i Frutti dell'Eden. Verrò io con voi.”

Tutte le teste si volsero verso mio padre, quelle dei nostri nemici e quelle dei nostri alleati. Io stessa lo guardai ad occhi spalancati, con una sottile inquietudine che mi tagliava a metà l'anima. Questo non era previsto, ne ero certa. Ezio stava improvvisando.

Dov'erano Diamante e Alain? Perché non vedevamo ancora i nostri nemici cadere?

“No, Mentore!” gridò Nicola. “Preferisco morire. Vi prego, non fatelo...l'Ordine ha bisogno di voi!”

Vanni gli assestò un colpo alla testa con il calcio della pistola, per farlo tacere. Un rivolo rosso sgorgò tra i capelli biondi di Nicola, scivolando lungo il viso. Il mio amico ricacciò un gemito in gola.

Ezio alzò le mani. Si voltò verso di noi e disse: “Non muovetevi.”

“Papà...”

“Non. Muovetevi. Ho detto.”

Il mio respiro. Quello di mia madre. Quello di Agamennone. Non ci guardammo tra di noi, mai nostri cuori battevano all'unisono. Con paura. Con dolore. Ezio ci stava chiedendo fiducia...avrebbe acquistato tempo per i nostri compagni. Doveva funzionare.

Scese da cavallo, alzò le mani un'altra volta.

“Io e il Frutto, Ermes. Non valiamo la libertà di due ostaggi?”

Il Bentivoglio annuì. Ci mostrarono gli altri tre: Martino, sul bastione occidentale; Odette, sul bastione orientale; Briac, sul ballatoio orientale. Ermes fece cenno che i due più giovani fossero slegati, ma Vanni intervenne.

“No. Tieni il ragazzo.” Fece un cenno verso di me. “E' più importante.”

Bastardo. Contenni a malapena la rabbia nei polmoni. Fottuto bastardo!

Mi chiesi se veramente facesse tutto questo per l'invidia che provava verso di me. Ancora oggi non so se fosse la voglia di rivalsa a motivare le sue azioni, o se ci fosse una strategia più profonda dietro. Una parte di me vuole ancora credere che Vanni non fosse così calcolatore. Una parte di me si aggrappa alla speranza che volesse soltanto farmi del male, come un bambino che tira sassi per attirare su di sé l'attenzione.

I templari sciolsero le corde intorno ai polsi di Briac e Odette, cacciandoli giù dalle scalette. La fortezza li inghiottì per qualche istante, fino a che, dopo un attimo eterno, li portarono di fronte a noi. La porta arcuata che segnava l'ingresso del Castello dei Pico era diventato lo spartiacque tra la morte e la vita.

Gettai uno sguardo angosciato a Martino, che stava ancora sul torrione. Cercai i suoi occhi scuri nella nebbia. Mentre ripetevo dentro di me che tutto sarebbe andato bene, lo vidi. Sotto l'elmo del templare che stava alle sue spalle, ne ero certa, c'era il naso aquilino di D'Arcy.

Guardai bastioni. Fui certa di scorgere almeno due figure bianche saettare tra i merli. Diamante e uno dei suoi uomini. Mancava poco. Così poco...

Tutto, da quel momento in poi, si consumò molto rapidamente, molto più di quanto la mia memoria riesca a riepilogare. Tenterò di raccontare come meglio posso. Tenterò di spiegarvi cosa accadde, senza che l'emozione mi beva.

 

Odette e Briac vengono gettati in avanti, oltre la figura di mio padre che sta ancora a mani alzate di fronte all'ingresso del castello. I due ostaggi caracollano verso di noi. Ezio non si volta, non muove un muscolo.

Scendo da cavallo, con cautela, per andare a sostenere un'Odette che a malapena sembra in grado di reggersi in piedi. Una pistola si punta verso di me, sento il rumore dell'arma da fuoco che si carica. La ignoro, e sostengo la mia consorella che mi crolla addosso con il suo peso leggero.

“Va tutto bene” sussurro al suo orecchio. “D'Arcy è con Martino. Gli altri stanno arrivando.”

Lei si aggrappa alle mie spalle senza dire nulla. Le sue dita tremano.

Il primo soldato templare che si accascia è quello subito alle spalle di Vanni. Ermes sente il suo gemito di morte; si volta, mentre il secondo soldato cade, steso da un dardo assassino. Gli uomini del Bentivoglio gli si radunano intorno per proteggerlo - compresi Simza e Tancredi.

“Non erano questi i patti, Auditore!” ringhia Ermes, mettendo mano all'archibugio che finora ha tenuto poggiato al fianco. “Ordina che si fermino, o il ragazzo muore!”

“No!” grida Nicola. “Mentore, non ascoltarli!”

Altri due soldati cadono sui bastioni. Vanni carica la pistola.

Nicola alza il viso verso di lui con furia, spingendo la tempia contro la canna dell'arma. “Va’ avanti, traditore. Hai pugnalato tua sorella, e ora hai paura di uccidere tuo fratello?”

Sta' zitto, ti prego, sta' zitto!

“Diamante, fermati!” ruggisce Ezio. C'è un attimo di silenzio perfetto. “Lascia il ragazzo, Ermes! Mi arrendo! Avrai quello che vuoi, ma lascialo andare!”

L'aria è carica di umidità, le nostre anime tremano nella nebbia. Gli uomini della Volpe hanno ubbidito, sono fermi. Tutti lo siamo.

Tranne Nicola.

Lui parla, anzi, grida. Guarda Vanni con furore, il viso deformato, irriconoscibile.

“Spara, ho detto! Sii un templare fino in fondo, dimostra che sei un uomo. Spara, Cristo! Guarda come muore un Assassino!”

La mano di D'Arcy libera Martino dalle catene. Non la vedo, ma nella mia mente posso quasi sentirne il suono. Con un movimento del polso carico la pistola celata al posto della lama. Mio padre fa un passo in avanti per consegnare il frutto, con gesti lenti fino allo stremo.

Posso cogliere uno stralcio del viso di Vanni sotto il cappuccio, vedere rabbia, paura e dubbio contrargli le labbra. E' in bilico tra noi e loro. Tra passato e futuro. Questa volta non c'è ritorno. Questa volta, il destino di Caino è nelle mani di Abele.

E poi, Nicola grida ancora.

“Nessuno ha sentito la tua mancanza, Vanni. Noi allievi abbiamo preso il tuo posto...è stato facile, lo sai? Tuo padre si è sempre vergognato di te! Non sei degno di essere suo figlio. Io sono suo figlio! E tu non sei più nessuno per lui! Lui ti ha dimen-”

Il colpo. Assordante. Il sangue sprizza dalla tempia sfondata di Nicola.

Un urlo di donna.

Diamante?

No. Sono io.

 

Rimasi gelata, con quel grido ancora vibrante nella gola, mentre il corpo del mio amico si accasciava ai piedi di Vanni. Battei le palpebre. No, non era un sogno, non si sarebbe dissolto con la nebbia.

Era tutto vero.

Tutto reale.

Il braccio si alzò d'istinto, il colpo partì dalla mia pistola celata. Ma ero così annebbiata che scalfii le pietre dell'arco invece di centrare il mio obiettivo: Vanni. In quel mucchio di corpi fluttuanti nella nebbia, la mia furia non vedeva altri che lui.

A seguito dello sparo, fu la mischia. Pura, furente mischia. Gli uomini di D'Arcy e quelli della Volpe uscirono allo scoperto e si gettarono sui bastioni; D'Arcy si rivelò e combatté spalla a spalla con Martino. Io lasciai Odette e mi arrampicai rapida sulle mura, cieca a ogni pericolo e a ogni ragione. Il mio sangue gridava. Volevo Vanni, era mio. Potevano avere chiunque altro, ma lui era mio!

Ero quasi arrivata all'obiettivo. Mi feci largo a colpi di lama celata. Ignorai i richiami – le suppliche? - di mia madre, ignorai i battiti annichiliti del mio cuore. Ero pronta a morire, quel giorno, pur di infliggere una sola ferita a colui che non potevo più chiamare fratello.

Anni prima, per descrivere il tradimento di Vanni, avrei detto che era stato il mio Caino. Ma se Ermes aveva detto il vero, se Abele aveva riportato la Mela a Coloro che Vennero Prima - diventando così il primo templare...allora mi ero sempre sbagliata. Caino ero io. E sarei stata la fine di Vanni, come il primo assassino lo fu per Abele.

Era diventata una lotta furibonda, per due ossi differenti. I templari volevano il Serpente. Noi volevamo soltanto vendetta...no, non vendetta, il corpo. Era per il corpo del nostro compagno che lottavamo. Perché non si lascia nessuno indietro, nemmeno dopo la sua fine.

Non usarono contro di noi le stesse armi che allontanavano gli assedianti. Olio bollente, pece...non avrebbero funzionato, ci muovevamo troppo velocemente. In pochi minuti i bastioni di Mirandola erano stati scalati da quindici Assassini.

Io mi aprii una strada verso Ermes e Vanni, che avevano trovato a colpi di lama una via di fuga dalle scalette del ballatoio. Volevano mio padre, almeno quanto io volevo loro.
L'impatto improvviso della mia schiena contro il merlo del bastione mi lasciò senza fiato. Le mani che mi avevano afferrato la giubba erano guantate di nero. Il viso che mi si parò di fronte non era umano, ma una grottesca maschera di volatile.

“Tancredi...” sibilai, incerta se essere sollevata o meno. Ma la sua non era la presa di uno che avesse intenzione di fare del male.

“Non farlo, Bianca” bisbigliò lui, e la sua voce era a malapena udibile tra il cozzare delle armi e le grida intorno a noi. Tentai di scrollarmelo di dosso, ma sembrava deciso a trattenermi per coprire la fuga di Vanni. “E' importante per la nostra copertura. Ho ricevuto informazioni basilari da lui in questi mesi. Se lo uccidi manderai all'aria la nostra missione.”

“Tu...”
Gli assestai una ginocchiata all'inguine, e quando lasciò la presa su di me gli sferrai una gomitata in pieno viso, mandando la maschera a schizzare lontano. “Tu sei rimasto a guardare!”

Una parte di me, quel barlume di razionalità che era rimasto aggrappato alla mia anima, sapeva che Tancredi e Simza non avevano potuto fare altro. Al momento, però, non mi sentivo magnanima a sufficienza da giustificarli.

Tancredi gemette qualcosa che non capii. Non importava. Non volevo le sue spiegazioni. Dovevo raggiungere Vanni, solo questo contava.

Non appena mi voltai, mi trovai di fronte Simza. I nostri occhi si incrociarono: i miei, determinati; i suoi, sofferenti. L'avevano ferita? Sì, solo ora vedevo che si teneva il braccio. Mi avrebbe ostacolata comunque?

In un attimo tra i nostri cuori scattò qualcosa che non so definire. Come sempre, ci capimmo al volo.

Lei si diresse verso Tancredi, per proteggerlo. Mi lasciò via libera. Ed io salii sul merlo.

Gettai un'occhiata sotto di me. Aspettai il momento in cui il cappuccio grigio passò, subito dopo quello rossiccio di Ermes. E saltai, per atterrare Vanni e inchiodarlo al suolo.
Lo sentii trattenere un'imprecazione, mentre stringevo le ginocchia intorno ai suoi fianchi per assicurarmi che non mi sfuggisse. Gli voltai bruscamente la testa, afferrandolo per i capelli. Volevo vedere i suoi occhi, prima. Volevo che avesse paura. E quando scorsi un lampo delle iridi, non mi sembrarono più simili agli occhi di mia madre. Erano quelli di un fratricida.

Nel momento in cui gli puntai la pistola celata alla tempia non pensavo né a Leo, né a Ilaria – il cui sguardo si appannava sempre più spesso di nostalgia e sempre meno di rabbia, quando qualcuno nominava il padre di suo figlio. Non pensavo al pianto di mio padre a cui solo io avevo assistito, né al sorriso spezzato di mia madre che non coinvolgeva lo sguardo. Avevo dimenticato il ventaglio di piume che aveva riportato Nonna Maria tra di noi.

Ricordavo una ferita alla spalla, e la certezza che sarei morta in un vicolo di Bologna, insieme ai ratti e alle cose inutili.

Ricordavo il suo sguardo ammirato l'ultima sera a Ferrara, quando mi chiedeva di restare alla corte della Borgia, dove saremmo rimasti al sicuro.

Ricordavo il suo viso feroce quando aveva fatto scoppiare il colpo che aveva ucciso Nicola.

“Bianca! No!”

L'urlo di Rosa mi ferì le orecchie. Fu solo un istante, ma sufficiente a distrarmi.

Con un colpo di reni, Vanni mi scrollò da sé, facendomi rovinare a terra. Si alzò in piedi, respirava affannosamente. Il suo maestro aveva ingaggiato un duello con nostro padre, non poteva correre in suo aiuto.

“Fermatevi!” gridò ancora Rosa. Ma era lontana, non poteva raggiungerci in tempo. Mio fratello ed io eravamo chiusi in una bolla di rancore e incomprensione che conteneva soltanto noi.

“Da quanto tempo aspettavi questo momento?” disse Vanni, facendo saettare la lama celata. La sua voce non era arrogante, non parlava per provocarmi. C'era del dolore trattenuto in quel suono. “Vorrei dirti che per me è lo stesso, ma non sarebbe vero.”

“Come hai potuto? Vigliacco!”

“I tuoi fratelli uccidono i miei ogni giorno.”

“Nicola è anche tuo fratello!

“E' qui che sbagli...non lo è mai stato!” Vanni tentò un affondo, che parai. Sfruttò lo slancio per girarsi e provare a colpirmi al fianco scoperto. Era diventato veloce. Schivai l'attacco per un soffio. Lui non mi diede respiro. Afferrò il mio polso, scaraventandomi contro una staccionata. Mi ci aggrappai con entrambe le mani, il fiato mozzato per la botta improvvisa alla cassa toracica. La sua lama fredda si appoggiò contro la mia guancia.

Spostai lo sguardo fino a dove mi era consentito, per vederlo incombere sopra la mia spalla. Ciò che scorsi del suo viso fu un lampo triste, che gli impregnò anche la voce.
Io ero tuo fratello, Bianca...ma non mi hai mai ascoltato. Non hai mai cercato di capire quello che ti dicevo. Tu hai trovato i tuoi fratelli altrove...e io ho trovato altrove i miei.”
Digrignai i denti. Non volevo ascoltare. Era troppo facile addossarmi la colpa delle sue scelte. Era qualcosa che non gli avrei permesso di fare, mai più.

“Sei solo un codardo. Lo sei sempre stato! Avanti, finisci anche me adesso.”

Vanni serrò le labbra. “La famiglia può essere qualcosa che scegli. Io ho scelto la mia...e tu servi alla mia famiglia, viva.”
Ero già pronta a darmi la morte da sola, con la mia stessa arma. Non avrei servito la causa templare nemmeno sotto tortura...

...quando, d'improvviso, una mano decisa strattonò Vanni lontano da me. Una figura bianca e rossa si interpose tra di noi, a difendere l'uno dall'altra.

Quella figura apparteneva a Rosa.

Ci aveva raggiunti, alla fine. Il suo sguardo era fiero, combattivo. In tutti quegli anni accanto a un Auditore, mia madre non era mai diventata un'aquila...era una leonessa, lo sarebbe rimasta sempre.

“Hai scelto anche un'altra madre, Vanni?”

Lui restò un istante senza parole. Poi abbassò appena il mento, torcendo la bocca in una smorfia diffidente.

“E tu? I tuoi veri figli non sono i tuoi allievi?”

“I miei figli siete voi due.”

Lo sguardo di Vanni tremò, per un momento, come se avesse atteso quelle parole da tempo. Per un breve attimo non potei evitare di chiedermelo: se le avesse sentite da nostro padre all'inizio di quella contrattazione tremenda, sarebbe cambiato qualcosa? Vanni avrebbe risparmiato Nicola? Il mio amico sarebbe stato ancora vivo?

“Qualunque scelta farai, qualunque strada imboccherai...non importa quanto lontana da quello in cui credo, non importa se piena del sangue delle persone che amo...tu sarai sempre mio figlio. Ti ho portato dentro di me, ti ho allattato e cambiato le fasce, ho sentito le tue prime parole e ti ho aiutato a camminare. Quello che sei fa parte di quello che sono, sempre.” Rosa aprì le braccia, parandosi di fronte a me. “Se vuoi prendere tua sorella, fallo. Ma dovrai passare sul mio cadavere.” Mi rivolse appena un'occhiata. “E viceversa.”

Oggi so che se Eva avesse potuto mettersi tra Abele e Caino lo avrebbe fatto senza esitare, come Rosa si era messa tra noi. Vanni ed io fummo solo più fortunati, suppongo.

Almeno, per quella volta.

La nostra attenzione di colpo fu attratta dal grido di Ermes: “Il Serpente! Prendetelo!”

Mio padre sanguinava. Potevo vedere macchie scure impregnargli la giubba. Ermes l'aveva messo alle strette, perciò aveva deciso di lanciare la sacca con il Serpente a un nostro compagno. Chi? Seguii la traiettoria del sacco, il cuore in gola. Finì nelle mani di Alain D'Arcy.

“Etienne!” gridò Vanni. “Maitenant!”

Un uomo alto, dalla pelle brunita, prese la mira dritto al petto di D'Arcy.

Non so nemmeno se il capitano fece in tempo ad accorgersene, ma quando il colpo scoppiò non era lui a trovarsi sulla traiettoria.

Briac si era messo in mezzo per proteggerlo. Fu lui ad accasciarsi sulle ginocchia.

Con un grido inumano, Odette si avventò sul templare chiamato Etienne. Martino corse a darle manforte, e Vanni gli si oppose. D'Arcy cercò di raggiungere Briac, ma un templare gli saltò addosso per strappargli il Frutto dell'Eden. Il capitano di ventura riprese a combattere, furiosamente, il nome dell'amico ancora stretto tra i denti come un grido di battaglia.

Come un segugio, Ermes si avventò sul Frutto; mia madre mi lanciò un breve sguardo, poi si unì rapidamente alla mischia. Ezio ed io ci muovemmo nello stesso momento verso Briac, per portarlo al riparo.

Non era stato colpito al cuore, ma la ferita buttava un fiotto impressionante di sangue. Lo facemmo sedere dietro un muretto. Gli aprii la camicia e iniziai a tamponare la ferita con le mani, come meglio potei. Ci fu subito chiaro che non sarebbe bastato. Il colore scivolava via dal volto di Briac Leroux un secondo dopo l'altro.

“Ezio...” rantolò, stringendo il braccio di mio padre “Non ti vedrò...diventare Papa...” Tentava di sorridere, e io sentii la gola bruciare come l'inferno. No, non un altro di noi. Per favore, no...

“Non puoi lasciarci adesso, amico mio. Avanti, tieni duro. Guardami, Briac...”

Non sono certa che Le Rouge abbia sentito le parole di mio padre. Fissava un punto oltre lui.

Dites Odette que elle doit être forte. Dites Alain que je suis désolé...” Tossì, e fu sangue quello che sputò fuori. I suoi occhi azzurri si stavano appannando. “Mes garçons ... tous mes garçons...” Chiuse gli occhi, e vidi le lacrime rigargli il viso per i suoi allievi che avevano perso la vita in quella sanguinosa missione. Poi, d'improvviso, un pensiero lo illuminò. “Martin, où est-il?3

Il se bat pour vous” mormorai, sforzandomi di parlare francese per la prima volta nella mia vita. Avevo una pronuncia orribile e le parole tremanti sulle labbra, ma a Briac non sembrò importare. “Je vous en prie, ne pas le laisser seul. Il a besoin de vous.4

Le Rouge rivolse lo sguardo su di me. Non cercava più l'altrove che lo stava aspettando, che si trattasse di una forma di Paradiso oppure del nulla. Ora aveva fissato i suoi occhi dritti nei miei. Mi vedeva, ne ero certa.

C'è sempre qualcosa di terribile e bellissimo nello sguardo di un uomo che muore. Mi annichilisce e mi commuove nello stesso modo. Strinsi forte la sua mano, per fargli sentire che c'ero. Avrei voluto poterlo fare anche per Nicola.

Martin est mon meilleur élève. Je suis fier de lui...je ne l'ai jamais dit.5

Je suis sûr qu'il le sait.6

Non c'è altro che puoi fare se non rassicurare chi se ne sta andando. Sarai tu, dopo, a dover annodare i fili spezzati, a trovare un modo per rimettere insieme i cocci e riordinare il caos che si è lasciato alle spalle. Ma almeno nell'ultimo istante lui se la merita, questa illusione che tutto vada bene. Perché l'ultima cosa che provi non può, non deve essere rimpianto. Hai bisogno di andartene con un po' di luce nell'anima, o così credo.

Alla fine, comunque, quando chiudemmo gli occhi di Briac Leroux sembrò davvero che stesse riposando in pace.

 

La battaglia finì poco dopo. Perdemmo il Serpente, ma mio padre ordinò comunque la ritirata. Troppi dei nostri avevano dato la vita su quei bastioni. Ci ritirammo sconfitti, sanguinanti, con due cadaveri addosso e lo spirito ucciso.

In quel giorno tremendo non avevo perso soltanto un Fratello di Lama, un amico, un confidente prezioso. Avevo perso la certezza di cosa fosse bene e cosa fosse male, insieme alla sorda speranza che Vanni sarebbe tornato da noi, un giorno. Avevo perso la mia gioventù e il sogno di poter costruire qualcosa di buono, anche nel sangue, anche attraverso la morte.

Quel giorno acquisii un nuovo credo: io ero Caino. Io avrei ucciso il mio fratello traditore, e non importava che fossimo stati generati dallo stesso grembo, e non importava quanto mia madre avrebbe pianto. Era solo un nemico di più. Un nemico che non avrei permesso a nessun altro di annientare al mio posto.





Note

1Sono stata indecisa fino all'ultimo se usare questo termine anacronistico. Poi, ricordandomi che fino ad ora abbiamo parlato liberamente di pistole celate (come da riferimento all'opera originale), mi sarebbe parso sciocco parlare di «piccole colubrine» o «cannoni a mano». Chiedo venia.

2Apprendiamo in Assassin's Creed 2 che Adamo ed Eva furono i primi esseri umani a fuggire dallo stato di servitù in cui Coloro che Vennero Prima tenevano la loro razza, e lo fecero rubando la Mela dell'Eden. Non ricordo se la Ubisoft abbia mai parlato di Caino e Abele, ma ho inventato la mia versione per legarla alla storia del Serpente...se tutto va come ho previsto, questo tema di Abele e Caino sarà ricorrente fino alla fine, e molto importante in una certa fase della trama.

3“Dite a Odette che deve essere forte. Dite ad Alain che mi dispiace.” “I miei ragazzi...tutti i miei ragazzi...” “Martino, dov'è?”

4“Sta combattendo per voi. Vi prego, non lasciatelo solo. Lui ha bisogno di voi.”

5“E' il mio migliore allievo. Sono fiero di lui...non gliel'ho mai detto.”

6“Sono sicura che lo sa.”



NdRuna

Non sono certa di voler parlare troppo, alla fine di questo capitolo. Preferisco lasciare la parola a voi, se vi va di farmi sapere cosa avete provato.

Sono ancora bloccata al 41, ma ci sto lavorando e presto ne uscirò. Il prossimo capitolo uscirà intorno a Ferragosto.
Scusate. Vado a rifornirmi di kleenex,  li ho finiti. Sappiate solo che singhiozzavo come una scema al tavolino del bar quando ho scritto questo pezzo.



Ps: Non sono sicurissima del francese, ho controllato con mia madre ma su diverse forme non era sicurissima, perciò chiedo venia in anticipo se ci sono errori. 

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Capitolo 40
*** Speranza e paura ***


Rientrammo all'accampamento di Francesco Maria, ma sapevamo che non c'era molto tempo per piangere i nostri morti. Eravamo ospiti clandestini, non saremmo dovuti essere lì...cosa potevamo fare? Li seppellimmo, prima di tornare a Milano. Eravamo distrutti. Spersi. Menomati. Ma pur sempre consapevoli di avere il tempo contato.

Nicola e Briac avrebbero dovuto vestire le alte uniformi dell'ordine. Addosso avevano soltanto stracci, ma gli occhi chiusi da un requiescat in pace sembravano sereni, dopo tutto. Come a dire: la nostra battaglia è finita. Adesso il fardello è vostro, noi possiamo riposare.

Mentre calavano il mio amico nella terra, io avevo gli occhi secchi, e cercavo, lo giuro, di bombardarmi di ricordi per poter piangere. La prima volta che l'avevo visto, pallido per le febbri, quando dichiarò che sarebbe vissuto per diventare un Assassino. La notte in cui mi disse che aveva perso suo padre, ucciso dal Bentivoglio, e vidi per la prima volta la sua cicatrice. La volta in cui era stato processato, l'orgoglio con cui si dichiarava fedele al Credo nonostante il suo passato templare. Il modo in cui mi aveva perdonata, a Bologna, e l'affetto con cui mi aveva vegliata. Le sue lettere premurose. I nostri litigi sui miei metodi di spionaggio, le ore infinite a parlare di tutto e di niente, il modo in cui sapeva sempre cogliere da uno sguardo come mi sentissi e cosa volessi dire davvero. Il sorriso sereno che gli avevo visto in viso a Firenze, un sorriso che erano stati Diamante e Oreste a regalargli...aveva solo ventisette anni. La vita gli doveva ancora tanto, la vita gli doveva ancora tutto.

Eppure, i miei occhi restarono asciutti anche mentre continuavo a farmi del male a quel modo. Le mie lacrime non si vedevano. Era come avere una ferita che non butta sangue, ma resta aperta comunque. Resta aperta sempre.

Dicono che il tempo guarisce ogni male. Balle. Ci sono mali a cui il tempo non può rimediare, e fuochi che restano sempre vivi sotto le braci. Basta un soffio per farli ravvivare. Basta un soffio, e il mio lutto per Nicola è ancora qui, soffocante come il primo giorno. Il fatto che tu vada avanti nonostante tutto non significa che tu abbia dimenticato.

Volevo avvicinarmi a Martino. Era così devastato, che il suo viso non mi sembrava nemmeno suo...ma c'era Odette al suo fianco. Si tenevano la mano. Pur distrutta per il fratello, lei gli era accanto, e io non mi sentivo in diritto di entrare nel loro dolore. Il loro dolore...non il nostro. Dovevo tenerlo a mente. Un noi non esisteva più.

Tentai di dedicarmi agli altri come potevo, nelle ore che seguirono. Ad Agamennone, soprattutto. Aveva l'espressione smarrita di un bambino, e alle volte mi fissava come a chiedermi se avessi visto ciò che aveva visto lui. Non parlava, ma ogni tanto lo vedevo inghiottire le lacrime; così mi sedetti lì vicino, la schiena contro la sua come quando eravamo bambini, le ginocchia strette al petto per proteggerci il cuore. Non avevamo mai avuto bisogno di troppe parole, noi due.

Diamante mi preoccupava. Aveva uno sguardo perennemente furioso, perennemente assente. Era stata lei, insieme a uno dei suoi uomini, a trasportare al sicuro il corpo di Nicola. L'aveva composto per le esequie, in silenzio, con meticolosa precisione. Mi chiesi se fosse arrabbiata con lui per il modo in cui aveva scelto di sacrificarsi per Ezio, senza darci l'occasione di salvarli entrambi. Conoscendola, forse lo era davvero.

Tentai di avvicinarla, poco prima della partenza. Le poggiai una mano sulla spalla. Non si scostò, ma la sentii fremere di fastidio.

“Tutto questo...è stato uno sbaglio. Una follia. Una stupida follia.»

Lo disse guardando quel tumulo nella terra che aveva preso il posto del suo uomo. Avevano piantato una croce, che per noi non significava poi molto. Era solo un modo per poter incidere il suo nome e impedire che fosse dimenticato.

“Da quando ti conosceva, lui aveva iniziato a sorridere...sorridere davvero. L'hai reso felice.” Mi umettai le labbra, e aggiunsi in un sussurro: “L'amore vale sempre la pena.”

Gli occhi viola della Volpe si alzarono su di me, a quel punto. Sul suo viso c'erano i segni di un dolore così forte che aveva scavato più a fondo le rughe, impallidito la pelle, tolto colore ai capelli corvini. Non mi chiese come sapessi. Non importava più, adesso.

“Quando sarai una donna della mia età, Bianca...quando avrai seppellito mariti, amanti e figli, e camminerai con le loro croci sulle spalle, torna da me e dimmi ancora quanto è bello vivere ogni istante d'amore. Dimmi se ogni ricordo non è diventato un veleno che ti soffoca, la notte, quando metti la testa sul cuscino.”

Non riuscii a replicare. Mi limitai a stringere brevemente la sua spalla, e mi allontanai. Provavo una pena infinita per lei, ma ancora non versai nemmeno una lacrima.

Durante il viaggio di ritorno, la mia apatia attirò la preoccupazione di Ezio.

Lo sentii avvicinarsi a me mentre bivaccavamo lungo la strada, in una notte non troppo fredda, ma dannatamente umida.

“Odio la pianura Padana. E' un pozzo di brina gelata d'inverno e una palude piena di zanzare d'estate.”1

Mi strinsi nelle spalle. Dopo tutto, mi ero abituata a quelle condizioni climatiche estreme, sembravano fatte apposta per vedere fino a che punto potevi resistere. Tempravano uomini e donne decisi, scavati nel tufo, modellati nella forma scoscesa dei calanchi. Era un clima che forgiava animi guerrieri, e che aveva avuto il potere di indurire anche me, fino a prosciugare i miei occhi perfino in un momento come quello.

La mano di Ezio salì a scostarmi una ciocca di capelli dalla fronte.

“Hai mangiato molto poco, in questi giorni.”

“Sto bene, padre.”

“Sai che non devi fingere...”

“Non dovete preoccuparvi per me.”

Ezio tenne la mano contro la mia guancia, scrutandomi attentamente per cogliere i segni della bugia sul mio viso. Quindi, i suoi occhi scuri si tinsero di una tristezza profonda. Sospirò, prima di poggiare la fronte contro la mia.

“Ha voluto dimostrarci che è uno di loro.”

Non ci fu bisogno di specificare chi. “Sì.”

“E' il suo odio per me che ha scatenato tutto questo.”

“Non dite così...” mormorai, ma aveva ragione. Sì, era l'astio che Vanni aveva sempre nutrito per nostro padre ad averlo spinto alla scelta, anche quella volta. Ogni suo gesto in passato era stato compiuto per attirare l'attenzione di Ezio, e farsi accettare da lui. Forse non era cambiato. Forse era ancora il bambino che smania per un po' di approvazione paterna. O forse invece era soltanto un templare che aveva compiuto un gesto tatticamente sbagliato, in preda alla frustrazione. Se Nicola non lo avesse provocato affinché sparasse, avrebbero avuto nostro padre prigioniero...cosa sarebbe accaduto, allora? Adesso mi sarei ritrovata a piangere lui?

Indugiare in quel pensiero mi sembrò d'improvviso qualcosa di sporco, qualcosa di indegno. Nicola aveva chiaramente valutato la propria vita meno importante di quella del Mentore, ma io non avrei mai potuto vederla a quel modo. Sarebbe stato solo un altro tipo di ferita. Diversamente straziante, ma non un'oncia di più, e non un'oncia di meno.

Non avevo tempo per commiserare me stessa, comunque. Il mio compito era tenere insieme i pezzi. Per me, e per tutti quelli intorno a me.

Perciò, quella notte mi limitai ad abbracciare mio padre, e a prendere su di me la sua angoscia per qualche istante. Sapevo che una volta arrivato a Milano avrebbe dovuto pianificare, ricostruire, cercare di mettere insieme un piano per la sopravvivenza dell'Ordine ora che tutto sembrava perduto. Aveva bisogno di un momento di debolezza, di un gesto di affetto per sapere che, nonostante tutto, qualcuno era ancora dalla sua parte. Ed io sarei stata quel qualcuno, sempre, comunque, qualunque cosa fosse accaduta.

 

Il rientro fu ancora più triste perché dovemmo dare la notizia a Veronica. Agamennone non se l'era sentita di dirle tutto nel breve messaggio che avevamo inviato al covo: aveva paura per il suo stato, soprattutto. “Sto bene, e anche Bianca” aveva scritto soltanto. Eppure, quando la mia amica si alzò dallo scranno con la mano sulla pancia di cinque mesi, il suo viso esprimeva già tutto quello che doveva sapere. Ci contò con lo sguardo mentre entravamo nella sala comune, e tenne gli occhi fissi sulla soglia un po' più a lungo, come aspettando l'ingresso dell'ultimo corpo che non sarebbe più passato di lì. Vidi la sua espressione crollare, mentre Agamennone la prendeva tra le braccia delicatamente, stringendola a sé. La fece sedere di nuovo, le si inginocchiò accanto e le parlò a lungo, in tono calmo, rassegnato ma dolce. Io mi affrettai a portarle dell'acqua, e rimasi fino a che non vidi bruciare attraverso le lacrime la solita combattività della mia Veronica.

“Fatemi partorire questo bambino, e poi giuro che staccherò la testa di Ermes Bentivoglio a morsi.”

Nessuno aveva avuto la forza di raccontarle che era stato Vanni a sparare. Agamennone mi lanciò un breve sguardo, poi accarezzò i capelli di sua moglie. “Lo faremo insieme”, disse, poggiandole la fronte contro la tempia. Gli fui grata per non averle detto la verità, almeno per ora.

I giorni che seguirono furono l'inizio del vero inferno, almeno per quel che mi riguarda.

Nicola era stato spesso a Milano nell'ultimo anno: così spesso, che ogni angolo del covo conteneva un'impronta di lui. Era impossibile non voltarsi quando credevo di aver sentito la sua voce nell'altra stanza. L'occasionale rumore del chiavistello che apriva la porta sul tetto, la sera, faceva sussultare il cuore. A volte, quando spostavo lo sguardo troppo in fretta, mi sembrava di intravedere la sua figura che passava nel corridoio, alta, un po' dinoccolata, sempre fiera nella sua divisa di assassino iniziato. Il primo di noi. Il migliore.

Il peso del dolore che avevo cercato di ricacciare nel fondo di me mi toglieva il sonno e l'appetito. Non volevo andare a dormire, la notte. Dormendo, avrei sognato: e ogni notte sognavo di nuovo quel momento, ogni volta con un esito diverso. Avrei potuto sparare a Vanni prima che Nicola iniziasse a gridare. Avrei potuto offrirmi come ostaggio al posto del mio amico. Forse, la differenza era in un gesto così infinitesimale che mi era sfuggito senza che potessi rendermene conto...una mezza parola detta al momento giusto, mesi prima di quella missione, avrebbe potuto cambiarne l'esito. Cosa non ero riuscita a fare? Dove avevo sbagliato? Perché il mio amico era morto, ed io ero ancora qui?

La sera del terzo giorno dal nostro rientro, non mi presentai a cena. Sapevo che sarebbe seguita una riunione strategica dell'Ordine. Il nostro lutto era finito: dovevamo studiare un piano per sopravvivere alla totale disfatta, e salvare ciò che potevamo dal potere templare a cui non potevamo più opporci.

Ma io non ero pronta. Il mio lutto non era finito. Non era nemmeno mai iniziato. Lo sentivo premere dentro di me, e farmi fremere dalla voglia di picchiare qualcuno, qualcosa. Le mie vene non erano abbastanza spesse per contenere quell'ondata di veleno che le attraversava.

Ero nella sala dell'addestramento, e stavo cercando di sfogare questa frenesia senza nome sul manichino di paglia e legno. Ricordavo quando lo facevamo insieme, io e Nicola. Il modo in cui sorrideva, con la scimitarra poggiata sulla spalla in un giorno d'estate a Monteriggioni, e mi spiegava che è solo questione di equilibrio e riflessi. Equilibrio e riflessi. Se hai interiorizzato le mosse – affondo, parata, contro-tempo – devi soltanto lasciare che il tuo corpo le ricordi, lui saprà in quale sequenza...il corpo sa sempre tutto.

“Che stai affà?”

Non mi voltai nemmeno, continuando a sfogare la mia rabbia sul nemico di legno che non mi poteva rispondere come avrei voluto.

Martino rimase sulla soglia.

“T'aspettavamo pe' cena. Tu' madre ha fatto mette da parte quarcosa, è ancora cardo.”

Sferrai un calcio al manichino. “Non ho fame.”

“Hai magnato, oggi?”

“Sto bene.”

“Biancarè...”

Mi guardò per qualche istante, mentre continuavo a sfogare quel tremore senza nome sull'innocente manichino. Infine, sospirò, e disse:

“Armeno pijatela con quarcuno che può dartele indietro.”

Si arrotolò le maniche della camicia, ed entrò al centro dell'arena. Mi fece cenno di avvicinarmi. “Coraggio. Fatte sotto.”

Non me lo feci ripetere.

 

All'inizio è pura tecnica. Un calcio, che lui para. Un suo attacco, che io schivo. Ripetiamo mosse di una danza imparata a memoria, con lucidità, con precisione. Ma i miei pugni tremano, e l'energia che ho nelle mani è più forte del solito. Mi pulsa nelle ossa, vibra nei muscoli, sembra che voglia sfondarmi la carne. Quello che non hanno tirato fuori i ricordi, ci sta pensando il corpo a ricacciarmelo addosso come un'ondata. Non è vero che sto bene, non è vero. Sono piena di domande, di rabbia, di doloroso stupore. Ho paura, e non riesco a rassegnarmi al fatto che lui se ne sia andato. Non ci riesco...

No! Devo pensare ad altro.

Concentro la mente solo su Martino. Voglio colpirlo, lo desidero. Per qualche attimo, io voglio fargli male davvero. Perché è stato lontano per tre anni. Perché è tornato e mi ha trattato come un'estranea. Perché non è più innamorato di me.

La foga fa perdere precisione ai miei colpi. Lui mi tira a sé, la mia schiena contro il suo petto. Mi serra tra le braccia.

“Shhh...mo' carmate, Biancarè.”

Respiro con affanno, tentando di divincolarmi. Non voglio. Non posso. No, non posso...perché se adesso mi appoggio a lui, se lo lascio entrare nel mio dolore...come farò, quando se ne sarà andato con lei?

 

Non mi accorsi nemmeno che stavo scivolando al suolo, come se le ginocchia non mi reggessero più. Martino assecondò quel movimento, sorreggendomi saldamente e finendo in ginocchio alle mie spalle. Strinsi le sue braccia che erano allacciate alla mia vita. Mi piegai in avanti, lasciando cadere le lacrime, aprendo le labbra per rilasciare un grido muto. Martino continuava ad abbracciarmi, ed io sapevo che non mi avrebbe lasciato andare.

Restai così, una bambola senza vita sorretta dalle sue braccia, mentre la verità si schiantava su di me.

Nicola. Era. Morto.

Non avrei mai più sentito i suoi consigli pacati, non avrei mai più cercato il suo sguardo prima di compiere un'azione in battaglia né sentito la sua mano sulla spalla quando voleva dirmi che non concordava con me. Mai più...è una parola terribile, che ti toglie la speranza nel domani, e il calore nel sangue. Non avrei rivisto Nicola. Mai più.

Non avevo fiato nei polmoni, e credevo che le lacrime sarebbero cessate. Invece, continuarono, trovando un solco naturale nelle mie guance.

“Non...ci riesco.” singhiozzai “Non posso...non è giusto!”

“Biancarè...”

“Nicola...il nostro...Nicola...”

“Er nostro Nicola è annato via.”

Sentii Martino trattenere un singulto, con il volto affondato contro la mia spalla. Quel suono vibrò contro la mia pelle, attraverso i vestiti, e mi perforò come mille aghi.

Non ero la sola che si sentiva esplodere di tristezza e frustrazione. Non ero l'unica che aveva cercato di tenere sul viso una maschera per sopravvivere a quei giorni irreali. Nicola era il migliore amico di Martino, la sua perdita significava per lui forse perfino di più di quanto significasse per me. E Briac? Era stato il suo maestro in quegli anni. Ricordai il modo in cui scherzavano insieme in quella lingua che capivo appena. Vederlo prendere la pallottola davanti ai suoi occhi senza poter fare nulla doveva essere stato tremendo...senza contare tutti i compagni che aveva perduto, i ragazzi del Drappo che era stato decimato brutalmente durante l'assedio. Ed io, come al solito, non avevo capito quanto Martino soffrisse ancora per questo. Credevo di aver cercato di trattenere i miei sentimenti per gli altri, ma non era vero. L'avevo fatto per me stessa.

Mi voltai nel suo abbraccio, e mi strinsi a lui con forza. Ci volle qualche istante perché lui ricambiasse, come se stesse cercando di ritrovare il suo posto tra le mie braccia dopo tutto quel tempo.

“Mi dispiace, Martino. Per Briac...e per tutti i tuoi compagni...” Inghiottii un singhiozzo. “Prima di morire, lui...”

“Shhhhh...nun parlà, adesso...”

“...ha detto che sei il suo migliore allievo. Che è fiero di te.” Serrai forte gli occhi. “Scusami se non te l'ho detto prima. Io...perdonami. Perdonami....”

Martino ristette per qualche istante. Sentii le sue mani risalirmi la schiena, accarezzarmi con delicatezza e poi aggrapparsi a me, come se non ci fosse domani.

Le sue lacrime iniziarono a impregnarmi la giubba. Il mio Martino...lui non aveva bisogno di fingere di tenere insieme i pezzi. Non aveva bisogno di sembrare forte all'esterno, e lasciava che il dolore lo attraversasse, offrendogli tutto se stesso.

Dava sempre tutto se stesso, in ogni occasione, senza risparmiare nemmeno un granello del suo cuore. Avevo cercato per anni una persona che potesse compensare quel mio odore di morte, senza rendermi conto che era già con me. Eccolo lì, Semeraro Martino. Un uomo che non aveva mai smesso di sorridere nelle difficoltà, di indignarsi per le ingiustizie, e di combattere fino allo stremo per le persone che amava. Un uomo che non tentennava, che non si soffermava a interrogarsi sul concetto astratto di giustizia...che agiva con passione, e con altrettanta passione sbagliava, cadeva, si rialzava. Gentile e forte nello stesso tempo. Capace di sollevare il peso nella mia anima con un solo sguardo. Capace di mettere serenità nel mio cuore, anche in un momento doloroso come quello. Un uomo senza cui mi sentivo incompleta, e verso cui continuavo a gravitare come un satellite in cerca di luce. L'avevo sempre saputo, in un angolo sperduto di me: ma la verità è che scoprii solo in quel momento fino a che punto lo amassi. Avevo avuto molti uomini, in quegli anni...eppure ero stata sua, soltanto sua, e di nessun altro.

Non accadde nulla tra di noi, quella sera. Piangemmo fino a che i singhiozzi non ci lasciarono spossati, poi lui si poggiò con la schiena al muro e io mi rannicchiai nel suo abbraccio, addormentandomi tra le lacrime che fino a quel momento avevo cercato di arginare.

 

“...eravate qui.”

“Shhh. Biancarè s'è addormentata.”

“Ti aiuto a...”

“Ce la faccio. Nun te preoccupà.”

Mi sentii sollevare, oscillando. Nel dormiveglia i miei arti erano pesanti, abbandonati tra le braccia di Martino. Con la testa sul suo petto, sentivo il pulsare doloroso del suo cuore. Risuonava quasi più forte dei passi dei due nei corridoi.

“Non ci credo ancora” mormorò Agamennone, e la sua voce flebile risuonava assordante nei corridoi vuoti.

“Vedi de credecce, Agamè. Dovemo credecce anche se nun volemo.”

“La morte di Nicola ha cambiato tutto.”

“Nun ha cambiato 'n ber gnente. Semo tanti fratelli. Quarcuno more, e li artri vanno avanti.” La voce gli tremava mentre lo diceva.

“Forse. Ma porteremo con noi la sua assenza per sempre.”

Martino non replicò. Io mi sentivo cadere sempre più indietro nel buio, le loro voci erano echi lontani.

Agamennone si fermò sulla soglia, mentre Martino entrava nel dormitoio, e mi depositava sul letto. Mi coprì con premura, e si soffermò un momento di più ad accarezzarmi i capelli, sfiorandomi piano la guancia, forse per paura di svegliarmi. Quindi, senza un'altra parola, se ne andò, lasciandomi sprofondare nelle tenebre. Lontano dal calore del suo corpo sentivo il gelo salire progressivamente dalle dita ghiacciate. Dietro le palpebre chiuse rivissi ancora una volta la fine di Nicola, pregando di svegliarmi e accorgermi che era stato solo un incubo.

 

La mattina dopo, quando aprii gli occhi, mi cullai nell'illusione di essere ancora a Monteriggioni, nel mio letto, pronta per un addestramento con i miei Fratelli. Non avevo ancora mai ucciso nessuno. Non avevo recuperato il carteggio tra Dante e Gemma Donati, non avevo incontrato Diamante né tantomeno mai sentito parlare del Serpente. Vanni era ombroso, alle volte insopportabile, ma era ancora mio fratello. Nicola era vivo, e ci aiutava ad addestrarci quando qualcosa ci riusciva difficile; Veronica e Agamennone cominciavano a scambiarsi sguardi da lontano, e Martino c'era sempre quando avevo bisogno di lui.

Un momento...questo era reale. Martino c'era ancora, quando avevo bisogno di lui. E per la prima volta, la sera precedente, anche io c'ero stata quando lui aveva avuto bisogno di me.

Questo pensiero mi consentì di non provare il solito senso di vuoto che mi attanagliava ad ogni risveglio, da quando ero tornata. I miei vestiti conservavano l'odore di Martino, che mi rassicurava come se fossi ancora stretta tra le sue braccia.

Quando mi alzai, attraversando i corridoi popolati di facce pallide e tese, la prima cosa feci fu cercarlo. Ovunque. Nessuno sapeva dove fosse. Pensai che stesse ancora dormendo, e non potevo biasimarlo. Forse stava cercando di elaborare quelle ultime parole di Briac che gli avevo riferito. Mi ripromisi di andare da lui, più tardi, per controllare che stesse bene.

Scendendo le scale, incrociai Veronica. Mi prese le mani.

“Il Mentore ci ha convocati.” Sentivo i suoi occhi scuri che mi scrutavano per capire in quale stato fossi, al momento. “Sono state prese delle decisioni, ieri sera...ma c'è ancora molto di cui parlare.”

Risposi alla sua stretta, per rassicurarla. Adesso mi sentivo meglio. La mia ferita era ancora lì, naturalmente, ma in qualche modo Martino era riuscito a mettervi sopra un balsamo e a darmi un po' di sollievo da quel senso di schiacciante oppressione. Ora sentivo che non ero sola, e che quei giorni di buio non sarebbero durati per sempre. Perché non importava che mi ricambiasse o meno...io lo amavo. Finché Martino era vivo, avevo ancora una ragione per lottare. Come avevo promesso a madonna Flaminia, mi sarei presa cura di lui fino alla fine.

Alla riunione, il mio sguardo passò su tutti i presenti: Diamante, Odette, D'Arcy, i miei genitori. C'era Maestro Sandro, e c'era Jacopo che era rimasto ad aiutarlo invece di seguirci a Mirandola. C'erano Agamennone e Veronica, sempre vicini, sempre mano nella mano nonostante gli sguardi seri. Ma Martino mancava. Non potevo biasimarlo per voler evitare quell'incontro, comunque. Io stessa ero scappata da un consesso del genere, solo la sera prima. Gli avrei riferito tutto quanto, più tardi.

Mio padre si alzò in piedi, le mani sullo scrittoio, e ci espose a voce bassa e calma una situazione devastante. Avevamo perduto il Frutto dell'Eden, la cui custodia ci permetteva di mantenere un equilibrio con le due fazioni Templari. Era vero, Ermes e Gaston non avevano idea di come usarlo...ma d'altronde, nemmeno noi l'avevamo. Se Leonardo non era riuscito a decifrare il suo segreto, dubitavo che qualunque altro essere umano avrebbe potuto farlo. Eppure, per Zenobia era stato così facile...le era bastato guardare il Serpente, e desiderare. Ma potevamo davvero fidarmi della storia di una zingara traditrice, dopo tutto?

Isabella d'Este aveva le mani legate, il nostro piano di rivolta per distruggere la Lega Santa che si era radunata intorno a Giulio II era andato in fumo. Proteggevamo ancora Giovanni De' Medici, giù a Roma, con le unghie e con i denti; tuttavia, l'unica linea di comportamento a cui potevamo aderire ora era la pura sopravvivenza. E poi, certo, avevamo perduto l'appoggio della fazione più potente degli Assassini francesi, i cui unici esponenti erano rimasti Odette e Martino. Il Drappo Rosso era perduto per sempre.

Le dita di Odette tamburellavano nervose sul tavolo, quando disse:

“Avete ancora Le Drap Rouge.”

“Odette” la contraddisse con pazienza mio padre “ti renderai conto che il Drappo non esiste più...”

Mais non, Ezio. Briac non esiste più. I miei compagni non esistono più. Ma il Drappo sì, esiste...jusqu'à ce que Le Rouge est vivant.”

Le Rouge era morto, ma a tutti fu chiaro cosa volesse dire davvero. Diverse facce la osservarono, perplesse. Qualcuno interessato. Qualcun altro scettico.

“Vuoi davvero prenderti questa responsabilità?”

“Sono una Leroux. E sono un'assassina. Pourquoi pas? Conosco le strategie, conosco come pensa...” Una pausa, come per un'improvvisa fitta di dolore. Serrò le labbra, chiuse gli occhi e li riaprì. “...come pensava Briac. Se voi pensate che io...” volse lo sguardo verso Alain D'Arcy.

Digne?”

“Degna” replicò lui, senza mutare la sua espressione seria.

Odette annuì: “Se pensate che io degna, metterò sua cappa e diventerò Le Rouge.”

La prima mano ad alzarsi fu proprio quella di D'Arcy. Mi aspettai che obiettasse, visto il suo volto mortalmente cupo. La voce era la solita, sprezzante, che avevo imparato a riconoscere. Eppure, il capitano di ventura disse:

“Conosco questa ragazza da quando aveva dieci anni. L'ho vista crescere nel Credo, Ezio, e ho avuto prova del suo coraggio. Hai visto tu stesso quanto carisma possieda...può radunare intorno a sé gli assassini dalla Provenza alla Normandia, senza alcuna difficoltà. Non lo dico solo per il debito che mi lega a suo fratello, lo sai. Lo penso davvero.”

Mio padre aveva le mani incrociate davanti alla bocca, come sempre quando tentava di ponderare una questione senza lasciarsi trascinare dall'impulsività.

“So bene quanto valga...ma è giovane, D'Arcy, lo sai anche tu.”

“Ha ventiquattro anni. E' una buona età...Briac ne aveva ventidue quando formò il Drappo, e due anni più tardi prese la carica di Quasimodo2 come capo dell'Ordine. Può farcela, ti dico.”

Odette aveva ventiquattro anni, davvero? L'avrei detta almeno di sette anni più giovane. In ogni caso, non sembrava turbata da quel dibattito che vedeva gli uomini parlare di lei in terza persona. Al suo posto mi sarei inferocita; forse, però, la sua era soltanto una tattica per far credere di essere più indifesa di quanto in realtà non fosse. Se davvero avevamo tanto in comune quanto credevo, sotto quell'atteggiamento apparentemente sottomesso si celava uno studio a tavolino.

A quel punto, D'Arcy volse il viso verso di lei.

Je crois en toi...mon épéé est a toi, Le Rouge. La Société de l'Étoile est à ton service.3

Per tutta risposta, lei gli rivolse un sorriso dolce.

Merci, Alain. Ezio a raison...je suis jeune, je n'ai pas assex d'expérience. Mais si tu seras à côté de moi, je peux le faire.” Coprì la sua mano con la propria. “Nous le ferons ensemble.4

Era deciso, dunque. D'Arcy e Odette sarebbero tornati presto in Francia, per convincere i Re delle varie Corti dei Miracoli sparse per il Paese a fare fronte comune. Sarebbero partiti dal basso: imbroglioni, ladri e puttane erano sempre stati i nostri agenti di punta, dopo tutto, e tra le loro fila erano emersi alcuni dei nostri migliori combattenti. Dai margini della società francese, Odette e Alain avrebbero cercato di resuscitare il Drappo Rosso, per portare alla guerra di Ezio un nuovo alleato, ancora più potente di prima.

Ciò che D'Arcy si affrettò a specificare era che si sarebbe rifiutato di portare Agamennone con sé in Francia. Aveva una moglie, ora, perdio! - e un figlio in arrivo. Doveva restare, e pensare a loro. Alle pallide proteste del mio amico, il capitano gli poggiò una mano sulla spalla e disse:

Io ho fatto l'errore di trascurare la mia famiglia, ragazzo. Ora la notte mi fa compagnia solo il rimpianto.” Con un mezzo sorriso triste e un'amichevole pacca sulla guancia, congedò il suo leone di Bologna, e iniziò i preparativi per il viaggio che sarebbe seguito.

Io mi trovavo combattuta, osservando quel nuovo impulso di vitalità e frenesia che aveva preso l'Ordine come se non riuscissi del tutto a trovarlo adatto alla situazione. Ma forse, dopo tutto, era solo l'egoismo a lasciarmi quel senso di amaro in bocca. Non riuscivo a smettere di chiedermi se Martino sarebbe partito con Odette. Per quanto tempo non l'avrei rivisto, questa volta? Proprio ora che c'eravamo avvicinati di nuovo, saremmo diventati ancora una volta due estranei.

Per questo, andai a cercarlo nei dormitoi. Volevo parlargli ancora, chiedergli se lo avessero messo a parte di quel nuovo progetto, sapere se volesse unirvisi o se preferisse – lo speravo con tutta me stessa – restare insieme a noi...

...ma nei dormitoi Martino non c'era.

Non era nella sala comune, né nell'armeria, né sul tetto. Non era da nessuna parte, e, a quanto pareva, nessuno l'aveva visto dalla sera prima. L'ultimo che gli aveva parlato era stato Agamennone.

Inghiottendo un boccone d'amarezza, decisi che soltanto una persona poteva dirmi dove fosse, e mi recai da lei.

“Oh, Biancà...il ne toi a rien dit? Cet imbécile, il a promis...5

Odette scosse la testa, e mi guardò con tristezza. Si umettò le labbra: era evidente che non provasse alcun piacere nel darmi quella notizia.

“Martino lasciato la confraternita. Partito per Capodimonte...questa mattina, all'alba.”

Le parole mi risuonarono nella mente come un gong che non vuole cessare di vibrare. Martino...cosa? In un momento come quello? Martino lasciava la confraternita...non l'avrei visto mai più?

Al mio gemito strozzato, che voleva essere un cosa?, Odette rispose:

“Già lui ha dubbio prima...questo colpo è troppo forte. Lui bisogno di aria di casa, di sua famiglia. Ha bisogno di vita normale, adesso. Ma promesso me che lui diceva a suoi amici, prima di partire...”

“Perché non l'hai fermato?” Nemmeno mi accorsi di aver alzato la voce. “Sei la sua ragazza! Davvero non ti importa che lui se ne vada?”

Odette sgranò gli occhi.

“Sua ragazza?” Vidi un bagliore di divertimento accenderle lo sguardo. “Maitenant, je comprends. Tu credi che noi insieme!”

Rimasi sgomenta. Io...credevo? Certo, che lo credevo. Perché lo era...no? Era così evidente.

Odette sorrise, e mi prese una mano. “Biancà, Martin et moi...nous sommes juste amis. Solo amici.” Il suo sguardo sfuggì, imbarazzato, per qualche istante. “I primi tempi...abbiamo provato. Noi, qualche volta abbiamo...ma poi io detto basta. Lui non stava qui, con me. Son cœur était ailleurs.6Strinse le mie dita. “Quando io visto te, capito dove.”

Non era la sua ragazza. Mi fermai qualche istante, per essere certa di aver recepito l'informazione. No, non era la sua ragazza.

E allora perché quegli atteggiamenti familiari, quel modo di fare così esplicito e affezionato, e...

Ricordai Odette al matrimonio di Agamennone e Veronica. Il modo in cui scherzava con ogni uomo, quel vezzo di toccare il suo interlocutore e sorridergli come se fosse l'unico presente nella sala. Quello era il modo in cui Odette trattava tutti. Ero stata io a leggervi qualcosa di più di quello che era in realtà. I suoi sguardi infastiditi verso di me, e poi quel suo modo di fare incomprensibilmente amichevole...erano contraddizioni frutto della mia cieca gelosia.

Faticai comunque ad assimilare il pensiero. Il mio cuore aveva paura di un'altra illusione. Ero riuscita a mantenerlo al sicuro, lontano dai coinvolgimenti troppo forti, lontano dalla speranza e dalla paura. Poi, Martino era tornato, ed io ero finita di nuovo in mezzo a quella tempesta che...

...mi faceva sentire viva, per la prima volta dopo tanto tempo.

E' così. Senza amore – senza il suo amore – io ero sopravvissuta soltanto. Ero rimasta a galla, e proprio questo lasciarmi vivere, in un certo senso, mi aveva aiutata a crescere. Avevo percorso la mia strada in solitudine, avevo avuto tempo per guardarmi dentro e per guardare gli altri con occhi distaccati. Mi ero ritagliata un posto nel mondo. Avevo costruito solide fondamenta dalle macerie di me stessa, ero diventata forte, ero diventata una donna.

Adesso, però, quella donna era pronta a rimettersi in gioco. Adesso ero pronta a vivere davvero, e ad amare Martino con tutta me stessa.

E lui? Sarebbe stato pronto, lui, per me?

“Scusami, Odette, io...sono stata così...” La guardai negli occhi, ricambiando la stretta delle sue mani. “Stupida, e gelosa, e...non ti ancora detto quanto mi dispiace per Briac.”

Un velo di lacrime tremò nel suo sorriso. “Merci.” Inghiottì a vuoto. “E' una cosa che sai, n'est pas? Sempre, quando metti il cappuccio, tu pensi che la morte arriva. Ce l'hai nelle mani, tous les jours...sai che è lì anche per te, e per persone che tu ami. Ma quando lei è qui per loro...e porta loro via...”

Un attimo prima che la sua voce si spezzasse in pianto, la abbracciai.

Dopo un momento di silenzio, sentii il suo sussurro all'orecchio. “Je suis désolé, Biancà. Io non potevo lui fermare...ma tu devi lui parlare. Tu devi andare dove lui è andato...perché non sai quanto tempo abbiamo. Non è bene avere di rimpianto...”

Odette era una giovane donna davvero in gamba, una creatura straordinaria ben oltre la sua bellezza. Anche adesso, nel pieno del suo dolore, pensava a Martino e me. Era una brava persona. Certo, era carismatica e consapevole del fascino che esercitava sugli altri; ma manipolatrice, come alcuni dissero poi di lei...no, quello mai.

Con le sue ultime parole, Briac voleva che chiedessimo alla sua sorellina di essere forte, ma era una raccomandazione inutile. Odette Leroux era già una delle persone più forti che io avessi mai conosciuto, e dopo la morte del suo adorato fratello lo divenne ancora di più. Intorno a loro, negli anni che seguirono, Odette e Alain riuscirono a costruire un nucleo della Fratellanza ancora più saldo di quello che aveva servito sotto Briac...ma questa è una storia che vi racconterò un'altra volta.

 

Trascorsero lunghe, terribili settimane, durante le quali non potei allontanarmi dal covo. Dopo la partenza di Odette e Alain, apprendemmo che il Papa si era spazientito nei confronti dell'irresoluto nipote Francesco Maria, e aveva marciato verso Mirandola per mettere fine all'assedio. Un tempo avremmo deciso di intervenire, prima che il Serpente cadesse nelle mani di Giulio II. Ora, non potevamo permettercelo.

Il 19 Dicembre 1510, Mirandola capitolò sotto l'assalto del Papa Guerriero. Le nostre fonti ci dissero che Ermes Bentivoglio e Vanni Auditore erano riusciti a fuggire – e Tancredi? E Simza? Cosa era stato di loro? - ma il terzo Frutto dell'Eden ora apparteneva al Gran Maestro dei templari. Non sapevamo più cosa aspettarci dal futuro, e il nostro Natale fu tutto fuorché un giorno di festa. Ce ne stavamo rinchiusi nel covo, preoccupati, gli uni vicini agli altri come passeri infreddoliti che tentano di sopravvivere all'inverno. Con poca speranza e molta, molta paura.

Nel gennaio del 1511, all'interno della confraternita regnava un senso di frustrazione e tremenda sconfitta. Avremmo dovuto mantenere un basso profilo, nei tempi a venire. I discorsi di Ezio sugli anni in cui lui era giovane e l'Ordine doveva nascondersi come oggi non ci rincuoravano affatto. Avevamo compiuto un balzo all'indietro, e la nostra unica speranza era racchiusa nel nome di Giovanni De'Medici. Se il giovane cardinale fosse morto, avremmo perso tutto. Per salvaguardare meglio la sua incolumità, presto i miei genitori sarebbero partiti per Roma, ed io chiesi di seguirli. Jacopo, con la solita tranquillità, domandò al Mentore di potersi unire a noi.

Il mio amante non mi aveva detto una parola riguardo la morte di Nicola, in quel periodo. Non gliene facevo una colpa: i drammi non erano qualcosa che gli si confacesse. La sua vita era leggera come una piuma, il distacco era l'arma di cui andava più fiero. Forse aveva pensato genuinamente di farmi del bene, lasciandomi spazio per piangere il mio amico. In ogni caso, anche se in quelle settimane subito successive alla tragedia non avevo sentito la sua mancanza, fui felice che avesse deciso di seguirci. Il suo pragmatismo mi avrebbe ricordato che non dovevo lasciarmi andare alla tristezza, perché si trattava di un lusso che non potevo più concedermi.

A metà gennaio eravamo pronti per lasciare Milano. Mi congedai da Agamennone e Veronica con un groppo in gola: dissi che sarei senz'altro tornata prima della nascita del bambino, chiesi che mi scrivessero quanto più spesso possibile, e loro promisero. Un attimo prima di staccarsi da me, Veronica bisbigliò: “Non fare la scema, Biancarella. Vai a prenderlo e riportalo a casa.”

Risposi con un sorriso triste, e nient'altro. No...non partivo per andare da Martino. Era solo un caso che Roma non fosse poi così lontana da Capodimonte...non gli avrei imposto la mia presenza, perché capivo il suo bisogno di solitudine, più di chiunque altro.

Eppure, a mano a mano che percorrevamo l'antica via Cassia, le mie notti diventavano veglie nervose. Martino era a pochi giorni di cavallo da dove mi trovavo. Cosa stava facendo adesso? Lo immaginavo a governare il bestiame, a cercare di proteggere la terra dal gelo. Lo immaginavo circondato da tutti i suoi fratelli, alle prese con quel padre che madonna Flaminia mi aveva dipinto tanto cupamente. Lo immaginavo sereno, intento a coltivare la vita invece che a dare la morte.

Il problema era che lo immaginavo continuamente, in ogni momento della marcia. Ero distratta, assente. Se questo mio atteggiamento passò quasi inosservato agli uomini, che commentarono con un'alzata di spalle ogni volta che caddi dalle nuvole durante un discorso sulla strada da percorrere, non potevo sperare di sfuggire a mia madre.

Mi si avvicinò una sera, durante un bivacco. Avevo detto che avrei fatto il primo turno di guardia: Ezio e Jacopo dormivano, arrotolati nei mantelli, poco lontano.

Rosa si sedette accanto a me, con la scusa di ravvivare il fuoco.

“Sai...domani arriveremo al bivio per Bolsena.”

Annuii, distrattamente.

“Capodimonte è dall'altra parte del lago.”

“Mamma...”

“Bianca, lo so che vuoi andare. Ti preoccupa quello che dirà tuo padre? Gli parlerò io. Potrai sempre raggiungerci a Roma dopo che l'avrai visto.”

“Tu non capisci.” Una frase che diciamo così spesso alle nostre madri, anche quando in realtà capiscono perfino il pensiero più sussurrato della nostra mente. “Io so perché se n'è andato. L'ho vissuto sulla mia pelle...quando la nonna è morta, ero distrutta. Dovevo imparare a ricostruirmi da sola...non potevo permettere a nessuno di avvicinarsi troppo, o sarei andata in pezzi di nuovo.”

“E tu vuoi lasciarlo davvero da solo, pur sapendo che è in pezzi?”

Mi strinsi nel mantello. Era quello bianco, foderato di pelliccia rossiccia, che la Marchesana mi aveva donato.

“Lo rispetto troppo per imporgli la mia presenza, adesso. E poi, non è solo. Ha la sua famiglia...forse adesso ha bisogno di loro più di quanto possa avere bisogno di me.”

Rosa sospirò, dandomi una spinta leggera con la spalla. “Questo conferma esattamente la mia teoria: tu e Martino per certe cose siete fatti della stessa pasta. Per certe altre, grazie al Cielo, siete esattamente l'opposto...” Mi scrutò per un momento sotto le falde del cappuccio che tenevo calcato sulla testa. “Sai, ricordo di aver fatto lo stesso discorso con un giovane uomo in partenza per la Francia, quattro anni fa.”

Alzai il viso di scatto, tanto che il cappuccio scivolò sulle spalle per il movimento brusco.

“Avevi chiesto a Martino di restare?”

Mia madre guardò verso il cielo trapunto di stelle, con un vago sorriso sul volto. “Non esattamente, ma avevo intuito che la sua decisione avesse a che fare con la vostra rottura. Per questo ho voluto parlarne con lui, per accertarmi che non facesse un colpo di testa.”

Ero allibita. Per quel che credevo, mia madre non sapeva nemmeno che io e Martino eravamo stati insieme. Avevo decisamente sottovalutato il suo potere di indagine, o sopravvalutato la nostra abilità di passare inosservati.

Rosa mi sorrise. “Mi ha risposto qualcosa di molto simile a quel che hai detto tu ora.” La sua mano si allungò, per scostarmi una ciocca di capelli dal viso.

Mi morsi il labbro con forza, distogliendo il viso dalla sua carezza. “Anche allora, se n'è andato.” E io non avevo fatto niente per fermarlo...esattamente come questa volta. Perché non riuscivo a dirgli che volevo restasse con me?

Le raccontai tutto. Partii da ciò che Odette aveva detto, e tornai indietro...al ritorno di Martino, al modo in cui mi aveva aiutata al Castello Sforzesco, alla sua tristezza per la madre e al mio dialogo con lei...infine, arrivai a quella sera di due mesi prima, quando avevamo pianto insieme e per la prima volta dopo tanto tempo mi era sembrato che ci stessimo avvicinando di nuovo.

Poi, lui era partito. Senza dirmi nulla. Senza nemmeno un addio.

Mia madre ascoltò tutto con molta pazienza, senza interrompermi. Quindi, ammiccò.

“Ci sono persone che ci dimostrano il loro amore restando, e persone che lo fanno fuggendo. Per paura di lasciarsi andare, o per proteggerci...” Scosse lievemente il capo. “Non ho mai capito del tutto quale delle due cose abbia spinto tuo padre a lasciare Venezia, prima che sapesse della tua esistenza. Certo, lui ti parlerà del suo dannatissimo dovere...quante scuse tirano fuori gli uomini, vero?” Inclinò un po' il viso, per cercare di nuovo il mio sguardo. “Da quel che mi hai raccontato, Martino ti ha dimostrato tante volte quanto tiene a te.”

“Teneva” precisai, con il fiato mozzo.

“E tu? Tenevi, o tieni a lui?”

Battei le palpebre. Accidenti, era impossibile affrontare lo sguardo grigioazzurro di mia madre e riuscire a mentire.

“...tengo” ammisi, in un sussurro.

Il suo sorriso si ampliò. “Allora è il tuo turno di dimostrargli qualcosa. Vai a riprendertelo, Bianca...come io sono andata a riprendermi tuo padre.”

Mille obiezioni si affollarono nella mia mente. Erano passati mesi: se forse all'inizio voleva essere cercato, ora probabilmente Martino si era messo il cuore in pace. Certo, se davvero non mi aveva dimenticata in tre anni di lontananza – non ne ero sicura, ma lo speravo con tutta me stessa – cosa avrebbero cambiato, quei due mesi? Eppure...eppure...no, non c'erano scuse valide per non tentare. La verità era che non mi interessava il rischio di finire con il cuore spezzato. Volevo rivederlo. Era tutto quello che importava. Volevo sapere che stava bene, nient'altro.

Quando comunicai le mie intenzioni a mio padre, lui disse che tutto il gruppo si sarebbe spostato con me. Non si fidava a lasciarmi viaggiare da sola, di quei tempi. Gli ricordai che ero una veterana dell'Ordine; duro, lui replicò che i ragazzi del Drappo erano stati presi e sterminati ad uno ad uno senza riguardo per il loro grado. Serrai le labbra, pronta a una replica ostinata, quando Jacopo si intromise.

Disse che mi avrebbe accompagnato lui. Due assassini insieme possono tirare giù mezzo esercito, specialmente se abili come noi; inoltre, la zona non era presidiata da templari quanto la capitale. Tecnicamente, ero più al sicuro qui sola con lui che con i miei genitori sulla strada per Roma.

Ezio accettò il compromesso, ma mi impose di mandare un messaggio al covo quando fossi arrivata e uno quando fossi ripartita. Con i templari che ci cacciavano per usarci come fossimo noi stessi Frutti dell'Eden, non potevamo permetterci passi falsi.

Lo ringraziai con un lungo abbraccio silenzioso, che lui ricambiò, benché ancora sospirando, per dimostrarmi quanto la ritenesse una pessima idea.

Più tardi, quando ci trovammo da soli a costeggiare il lago di Bolsena, affiancai il cavallo a quello di Jacopo.

“Sai cosa vado a fare a Capodimonte, vero?”

Il mio amante annuì. “Vuoi riprenderti quell'idiota di un babbuino. Posso non condividere i tuoi orridi gusti in fatto di uomini, ma non c'è altro che possa fare a riguardo, non trovi?”

“E vuoi accompagnarmi comunque?”

Jacopo si strinse nelle spalle, con quella sua solita aria leggera.

“Chissà, magari lungo il tragitto cambi idea e scegli me!”

Capii che scherzava, e risposi con un sorriso.

“Grazie.”

Lui sospirò, spingendosi gli occhiali sul naso. “Una volta mi ringraziavi in modi più interessanti...pazienza, credo che quei tempi siano finiti, adesso.”

“Già” accennai ad una risata, mio malgrado. La sua espressione forzatamente corrucciata era così divertente. Jacopo mi strizzò l'occhio, e dentro di me pensai: scusami, e grazie ancora. Sono fortunata ad averti come amico...

...ma è il babbuino idiota che voglio. Ora devo solo capire se anche lui vuole me, e se è disposto a darmi un'altra occasione.





Note

1Prima che qualche lettore possa offendersi, lo specifico: vengo proprio dalla Pianura Padana, e giuro che le mie invettive contro il clima di questa parte di Nord Italia sono velate di affetto profondo.

2Notre Dame de Paris è ambientato nel 1482, quindi i tempi tornerebbero. Mi perdonerete se ho deciso di fare questo collegamento che forse vi farà sorridere, ma mi è sembrato molto adatto che il protagonista dell'opera di Hugo fosse un capo assassino...chissà come sarebbe, riscriverla nell'ottica di AC?

3“Io credo in te....la mia spada è la tua, Le Rouge. La Compagnia della Stella è pronta a servirti.”

4“Grazie, Alain. Ezio ha ragione...sono giovane, non ho abbastanza esperienza. Ma se tu sarai al mio fianco, posso farcela. Ce la faremo insieme.”

5“Non ti ha detto niente? Quel cretino, aveva promesso...”

6“Il suo cuore era altrove.”


NdBlackFool (eh, sì...ho cambiato nome utente ^^)
Sono di nuovo di fretta, e mi scuso se non mi fermo molto. Ho un sacco di risposte alle recensioni in sospeso, ma sappiate che vi adoro tutti, per ogni sillaba che avete voluto spendere per la mia storia. Lo so, la morte di Nicola è stata un duro colpo...anche per me, come scrittrice. Ma era programmato da tanto, tanto tempo...spero che abbiate capito le sue motivazioni. Il ragazzo voleva evitare che il Mentore cadesse nelle mani del nemico, e per farlo è stato disposto a sacrificare se stesso - e in teoria anche gli altri ostaggi. Mi gira in testa un discorso che lui e Martino hanno fatto durante la prigionia...un giorno lo metterò per iscritto e lo pubblicherò sottoforma di oneshot. 
Ora gli Assassini sono prostrati. Il futuro dell'Ordine è incerto, il successore designato di Ezio è morto, e in tutto questo...Bianca decide di fermare il mondo e scendere a Capodimonte, per cercare di tenere stretta l'unica cosa che per lei ha ancora significato. Sono passati due mesi, e ci sono ancora tante incomprensioni in sospeso tra lei e Martino. Riuscirà la nostra eroina?
Un bacione, ci aggiorniamo intorno al 15 di settembre, di nuovo da Cork!

Laura.

 

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Capitolo 41
*** Ritorno a casa ***


 

Martino mi aveva detto tante volte che la sua fattoria si affacciava sulla riva del lago, poco fuori dal promontorio del borgo. Il rustico di mattoni scuri si schiudeva in mezzo a una macchia di lecci, che spiccavano tra tutti gli alberi spogli per le chiome ancora verdi. Quando lo intravidi in lontananza fermai il cavallo, e sentii che Jacopo faceva lo stesso.

«Tutto bene?» ammiccò, spingendosi gli occhiali sul naso. «Vuoi che ti accompagni per mano?»

Replicai con un mezzo sogghigno, ma senza vera allegria. Di fronte al casale c'erano alberi da frutto che dormivano sotto la coltre di gelo: nell'aia le galline si affollavano intorno a una giovane donna di bassa statura, che trasportava un secchio. Doveva essere una delle sorelle di Martino.

Per un momento non fui certa che la giovane ci avesse visti, impegnata com'era a dare da mangiare agli animali. Notai un'altra ragazza, con lunghi capelli nerissimi lasciati sciolti sulle spalle, intenta a stendere i panni. Era una giornata fredda, ma c'era il sole e la luce si diffondeva tutto intorno, tingendo i campi di colori più chiari e radiosi. Sperai che fosse di buon auspicio.

Scesi dal cavallo, afferrandone le redini. Jacopo fece lo stesso, e mi seguì.

Solo allora la giovane donna che stava nutrendo le galline alzò lo sguardo su di noi. Il movimento della testa fece sfuggire ciocche di capelli castano scuro dalla treccia, in cui sembravano stare costretti per pura pigrizia. Sulle prime sembrò tranquilla, ci aveva visti arrivare e pareva volerci accogliere con gentilezza. Qualcosa cambiò quando mise bene a fuoco i nostri abiti.

La sua espressione si fece dura. Lasciò cadere il secchio, rovesciando il pastone su cui le galline si avventarono subito, in un tripudio di versetti deliziati. Si parò di fronte alla ragazza dai capelli neri, come se le sue braccia fossero uno scudo d'acciaio capace di proteggerla dalla nostra terribile presenza.

«Va' dentro, Marzia.»

«Non siamo qui per farvi del male» dissi, e le mostrai le mani vuote. La ragazza mora era rimasta dietro la schiena della sorella. Ci guardava con i grandi occhi verde chiaro spalancati e curiosi. Jacopo le fece l'occhiolino ed io mi schiarii la gola, in imbarazzo, rivolgendomi di nuovo alla maggiore. «Siamo amici di Martino.»

«Nun ce stà. Annatevene via.»

«Tu sei Anna, vero? Ma i tuoi fratelli ti chiamano Annina.»

«E tu sei 'n assassina.» Se avesse potuto, mi avrebbe uccisa con lo sguardo. «Quelli come voi nun ce li vogliamo qua.»

«Ascoltami...ti prego, ho bisogno di parlare con lui.»

«Nun vuole più avecce a che fare co' voi, 'o volete capì? Dovete lassallo 'n pace!»

La ragazza chiamata Marzia non parlava, ma era chiaro che la incuriosivamo. Se fosse stato per lei, ci avrebbe fatto entrare, ne sono certa.

Stavo quasi pensando di rivolgere le mie suppliche a lei, quando sentii la mano di Jacopo sulla mia spalla.

«Madamigelle, vi chiedo scusa per l'irruenza della mia amica. Vi prego, permetteteci di presentarci. Il mio nome è Jacopo d'Atri, e questa dama si chiama Bianca Auditore. Non vi chiediamo asilo e non pretendiamo nemmeno un pasto, ma abbiamo fatto davvero un lungo viaggio per vedere vostro fratello. Credete sia possibile scambiare una parola con lui?»

Qualcosa scattò simultaneamente nelle due giovani, quando sentirono il mio nome. Si scambiarono uno sguardo.

«Guarda 'n po'...Biancarè!» bisbigliò Marzia sulla spalla della sorella, scrutandomi. «Te facevo più bella. Scusa, eh.»

Un'occhiataccia di Annina la zittì.

Quando la ragazza più grande si rivolse di nuovo verso di me, i suoi occhi scuri erano lievemente più benevoli, anche se sempre sospettosi.

«Nun ce sta pe' davero. E' annato con nostro padre a prennere 'a calce alle cave. Torna tra due o tre giorni, forse de più. Dipenne da'a strada.»

Inghiottii a vuoto. «D'accordo. Allora, puoi dirgli che...»

Non feci in tempo a lasciare il mio messaggio, che un ragazzino secco secco, dai capelli castani scompigliati, arrivò agitando le braccia.

«Annì! Annì devi venì subito!»

«A Lu', ma che hai...»

«Antonio se sta a ammazzà!” Il bambino afferrò la mano della sorella maggiore, e la trascinò in direzione del lago. Marzia roteò gli occhi al cielo. «Sai che novità» borbottò, ma si affrettò ad andare con loro.

Scambiai solo uno sguardo con Jacopo, prima di seguirli.

 

Il bambino castano – Lucio, ricordai a me stessa: doveva essere uno dei due gemelli – ci guidò verso il lago, indicandoci a dito un piccolo isolotto di terra1 a una dozzina di metri dalla riva. Sull'isolotto c'era un albero piuttosto alto, del tutto secco, dai cui rami due ragazzini penzolavano malamente. A colpo d'occhio, uno doveva essere Antonio. Si teneva disperatamente aggrappato al ramo, ciondolando le gambe nel vuoto. L'altra – una femmina - stava cercando di raggiungerlo, e tendeva la mano verso di lui. Sentivo che gridavano, ma non potevo capire le loro parole.

«Antonio! Giuditta!» gridò Annina. «Santa Madre de Dio, ma che v'è saltato 'n testa!»

Lucio se ne stava al suo fianco a torcersi le mani. «Nun è stata 'n idea mia, t'o ggiuro, Annì! J'ho detto ch'era pericoloso!»

Marzia scosse la testa. «E mo', che famo?»

Portai le mani a slacciarmi la fibbia del cinturone.

«State qui, ci pensiamo noi.»

Jacopo sospirò, si tolse gli occhiali e li mise in mano a Marzia.

«Gentile damigella, vorreste farmi il favore di vegliare questi miei preziosi ammennicoli per qualche istante?»

Storsi le labbra: il mio compagno riusciva a civettare anche in un momento simile. Marzia, dal suo canto, gli rivolse un sorrisetto compiaciuto. Fantastico: ero circondata da idioti.

Jacopo ed io ci tuffammo per raggiungere l'isolotto. D'accordo, nuotare non era la mia attività preferita, ma in caso di emergenza ero ben disposta a farlo. L'impatto con l'acqua gelida risvegliò i miei sensi, rendendomi dolorosamente consapevole di ogni poro. In ogni caso, non avevo tempo di fermarmi a pensare che farsi un bagno nel pieno di gennaio non era una buona idea. Salvare le ossa di due sconsiderati Semeraro era la mia priorità, al momento.

Appena uscita dall'acqua mi sentii sferzare da lame di ghiaccio, ma la tensione bruciava più forte nelle vene ad ogni grido dei bambini e mi spingeva in avanti. Mi arrampicai con le mani fradice e i vestiti zuppi che mi trascinavano verso il basso: scelsi un ramo sufficientemente solido per reggermi, poco sotto il punto in cui Antonio si dimenava. Strinsi saldamente il ramo con le ginocchia e intrecciai i piedi per rendere più ferma la presa. Il bambino continuava a scalciare. Mi prese in pieno la faccia un paio di volte, fino a che non gli afferrai i fianchi.

«Ti tengo” biascicai, avvolgendo le braccia intorno alla sua vita. “Ma se mi dai un altro calcio giuro che ti lascio cadere.»

Antonio respirava forte, a lunghe e rumorose sorsate. Gli ci volle qualche istante per capire che era al sicuro. Lasciò la stretta sulla corteccia. Le mani che si allacciarono al mio collo erano piagate e livide. Il ramo scricchiolò sotto il peso di entrambi.

Il fratellino di Martino scostò il viso dalla mia spalla, fissandomi con grandi occhi lucidi, così verdi che era quasi imbarazzante guardarli.

«Chi sei te? 'n angelo der cielo?»

Non potei fare a meno di sorridere. Già mi piaceva.

«Esatto. Ma puoi chiamarmi Bianca, se vuoi.»

«Sei 'n deficiente, Antò! Se dice grazie!» strillò Giuditta, ancora aggrappata al suo ramo. Voltai la testa sulla spalla e alzai gli occhi. Allora, quella era la sorella preferita di Martino. Quella che aveva strappato la croce templare dal petto dell'uomo che aveva rapito sua madre.

Stessa carnagione brunita. Stessi occhi grandi, contornati di ciglia lunghe, dalle iridi quasi nere. I lineamenti erano più gentili, ma somigliava incredibilmente al maggiore dei fratelli Semeraro.

Antonio si sfregò la manica sotto il naso e mi sorrise.

«Grazie, angelo bbello!»

Per poco non mi sciolsi, lo ammetto, ma capii comunque che era il caso di spostarsi da quella posizione precaria. Potevo sentire il legno sotto di noi scricchiolare con forza: dovevamo muoverci con cautela, avrei chiesto ad Antonio di aggrapparsi alla mia schiena e poi...

Il mio piano andò in fumo quando il legno schioccò violentemente, e si spezzò. Solo che non era stato il nostro ramo a cedere, ma quello su cui si era arrampicata Giuditta.

Sentii il grido di Annina e Marzia, i polmoni mi si svuotarono di colpo. Non potevo lasciar andare Antonio. Non avevo il tempo di fare nulla.

Per fortuna, Jacopo era rimasto ai piedi dell'albero, pronto all'eventualità che uno di noi tre potesse scivolare. La ragazzina era leggera, la prese tra le braccia senza il più lieve contraccolpo.

Fu il ramo che lo colpì sulla fronte, a farlo oscillare.

«Tutto bene, laggiù?» urlai. Jacopo mise Giuditta a terra e fece un cenno con la mano.

«Tutto perfetto.»

Un puntino rosso si spanse sulla sua fronte e gli gocciolò tra gli occhi. Jacopo si portò la mano alla testa, guardò il sangue sul palmo. Quindi, scivolò sulle ginocchia, con un'espressione stralunata che Dio, avrei dato qualunque cosa per poter dipingere.

 

Alla fin fine, si era fatto solo un bernoccolo e un graffio: tuttavia, Annina lo costrinse a riposare, cedendogli il grande letto che lei e i suoi fratelli più piccoli dividevano. A quanto pareva, il nostro doppio salvataggio aveva riscosso l'ammirazione dei più piccoli e la gratitudine dei più grandi, perciò, almeno per quella notte, l'ospitalità dei fratelli di Martino era assicurata.

Una volta arrivati al cascinale facemmo la conoscenza di altri due Semeraro, Marcello e Fabrizio, che avevano trascorso il pomeriggio in paese per delle commissioni.

Marcello aveva i colori scuri e il viso avvenente, e sembrava terribilmente sicuro di sé. Si permetteva perfino di rispondere con arroganza ad Annina; io, al suo posto, l'avrei schiaffeggiato alla prima sillaba. Fabrizio, invece, aveva ereditato i tratti più chiari dei Semeraro, ed era così timido che a malapena alzava lo sguardo su noi. Avevano entrambi intorno ai quattordici-quindici anni, l'età in cui un ragazzo è un bambino nel corpo di un giovane uomo. Chissà come sarebbero cresciuti...chissà se avrei avuto l'occasione di scoprirlo.

I Semeraro non avevano molto con cui cenare, ma lo divisero con noi con allegria, come se si trattasse di un banchetto. Jacopo mangiò disteso a letto, da bravo malato, assistito da una svenevole Marzia. Dopo cena, i tre monelli responsabili dell'incidente erano stati spediti a dormire subito e con mezza razione di cibo nello stomaco: quindi, Jacopo si trovò presto a dividere il giaciglio con tre bambini che si rivoltavano in continuazione, scalciavano e gli rubavano le coperte. Mi lanciò uno sguardo disperato quando dissi che avrei raggiunto Annina in cucina per aiutarla a rassettare.

«Mi devi una botta di addio, per questo», mugugnò, ed io chiusi la porta in fretta, sperando di cuore che nessuno dei Semeraro avesse sentito.

Non che mi sentissi a mio agio all'idea di restare sola con la famiglia di Martino, questo era chiaro. In parte perché si trattava di estranei, e in parte perché sapevo ormai quanto vedessero di cattivo occhio tutto ciò che la mia divisa rappresentava. Eppure, lo ammetto: quello che mi disturbava davvero era il modo in cui i visi di Marzia e Annina si erano illuminati quando Jacopo aveva detto loro il mio nome. Sapevano bene chi io fossi, e il pensiero di cosa il fratello maggiore avesse raccontato loro mi metteva decisamente in ansia.

Mentre Annina lavava le scodelle e il tagliere nel catino, i tre fratelli più giovani rassettavano. Marcello tirava le ciocche di capelli di Marzia, guadagnandosi in cambio colpi di straccio sulla schiena, da cui il ragazzo si sottraeva usando Fabrizio come scudo umano. Facevano una gran cagnara, tanto che mi meravigliai che i più piccoli riuscissero a dormire nella stanza accanto.

Spazzavo a terra e pensavo a quando Martino mi aveva detto che gli piacevano le cene rumorose, dove la gente ride e scherza a tavola e c'è tanta cagnara. Capivo bene perché, ora: c'era cresciuto, era il suo ambiente. Doveva ricordargli casa.

Marzia, Marcello e Fabrizio furono mandati a letto. Avrebbero dormito in un altro grande giaciglio, in un'altra stanza che normalmente era occupata dal padre. Solo sentir evocare Pietro Semeraro mi portò alla mente l'immagine che madonna Flaminia aveva dipinto di lui. Chissà se era davvero l'uomo freddo e autoritario che aveva descritto. Chissà come aveva accolto il ritorno di suo figlio all'ovile.

«O' prenni 'n po' de vino?» disse Annina, spezzando il beato silenzio in cui ci eravamo immerse dopo che i suoi fratelli più giovani erano andati a dormire.

Avevamo già bevuto a tavola, naturalmente. Tuttavia, la serata era fredda e io stavo pensando decisamente troppo.

«Sì, grazie.»

Avevo già teso le mani.

Annina mi passò la coppa, la accettai. Era colma, emanava un odore dolce.

Mentre portavo il vino alle labbra, lei crollò sulla sedia, i gomiti sul tavolo. L'energia era scivolata via dal suo corpo, lasciandola tutta arti pesanti e occhi stanchi. Si massaggiò le palpebre.

«Deve essere impegnativo gestire una famiglia così grande» dissi.

«Come tutto quer che deve esse fatto bene, né più né meno.»

C'era un sorriso nella sua voce, ma era carico di rassegnazione. Mi chiesi perché non si fosse mai costruita una famiglia sua, e se questo le mancasse.

«Gli altri fratelli? Sono a prendere la calce anche loro?»

Annina scosse la testa, e bevve un generoso sorso di vino.

«Pietro è novizio ner convento qua vicino, se dice bene prima der Mercoledì de' Ceneri pija li voti e se fa frate. Francesco e Sebastiano so' annati via da 'n annetto, è passata 'na compagnia de ventura ne' dintorni e so' scappati via cor vento. Ma ce mannano quarche sordo, all'animaccia loro, quanno se ricordano.»

«E l'altra vostra sorella...Fabiana?» dissi. Avevo cercato quel nome della memoria per qualche istante, lo ammetto, nella speranza di impressionare Annina. Anche se mi era riconoscente per aver salvato Antonio, avvertivo ancora la sua diffidenza.

Lei sembrò incuriosita dalla mia precisione nel nominare la sorella mancante. «Sposata, sei mesi fa. Vive a Bolsena, c'ha 'na fattoria da mannà avanti e 'n marito tutto suo da comannà come je pare». Sorrise. «Sai parecchie cose d'a famija nostra, eh?»

Strinsi la coppa al petto, rilassandomi contro lo schienale e stendendo i piedi sotto il tavolo.

«Quasi quante voi ne sapete di me.»

Non riuscii a decifrare l'espressione di Annina, a quel punto, e non fui certa che fosse un male.

«Nun ne sapemo poi tante. Quelle che Martì ce scriveva tempo fa. Ha smesso quanno è annato 'n Francia...anche adesso, nun parla tanto. Nun solo de te, 'n generale. Sembra 'n artra persona.»

Deglutii a vuoto. Sì, lo sapevo. Martino non era più lo stesso, ed era anche colpa mia. L'avevo sentito da parecchie campane ormai, ed era chiaro come l'aria. Ma non faceva meno male sentirlo dire per la millesima volta.

«Senti, io...»

«No, senti te.» Gli occhi verdi si misero nei miei, socchiusi, seri. «Parlamose chiaro, Bianca Audicoso da Nonsoché: sarai anche 'na guerriera, 'n assassina, quer che te pare.» Si allungò sul tavolo. «Ma Martino è 'r fratello mio. C'è stato già male abbastanza, pe' te e pe' tutto 'r resto...se stai qua pe' 'n capriccio, te sbrano co' 'a mannaia e te tajo a pezzetti fini fini che manco tu' madre te riconosce più. So' stata chiara?»

Non mi scomposi. Rigirai la coppa tra le dita. «Ho commesso degli errori, lo so. Ma non sono più una ragazzina, adesso. So cosa voglio, e sono qui per capire se tuo fratello è disposto a darmi un'altra occasione.» Presi un sorso di vino, lasciai indugiare il gusto acidulo nel palato. «Se mi dirà di no, sono pronta a sparire per sempre dalla sua vita.»

«E mettiamo che 'nvece te dice de sì...sei pronta a restà pe' sempre?»

«Certo.»

«Anche se 'a vita sua è questa, e non quella der vostro credo

Mi morsi il labbro. «Sì.» Sarebbe stato difficile, ma avrebbe funzionato. Non avrei permesso che la confraternita si mettesse tra di noi. In qualche modo, avrei reso possibile essere entrambe le cose: la donna di Martino e un'assassina. Non sapevo come, ma dovevo trovare una strada.

Riflessioni campate per aria, in ogni caso. Fino a che il diretto interessato non fosse tornato, non avrei scoperto se quei sacrifici sarebbero stati effettivamente richiesti.

Annina sospirò.

«Me sembri 'na brava ragazza, dopo tutto. Ma vacce piano, quanno o' rivedrai. Martì è più fragile de quer che sembra.»

«Ho promesso che mi sarei presa cura di lui» mormorai, mordendomi il labbro per non dirle di sua madre. Troppe informazioni in un solo giorno, da una persona da cui forse non avrebbe gradito riceverle. Avrei detto tutto del mio incontro con Flaminia a Martino, quando fosse stato un po' meglio. Forse lui avrebbe potuto aiutare i suoi fratelli a capire il punto di vista della loro madre, ed io gli sarei stata accanto quando avesse scelto di farlo...ma non oggi. Oggi, lui non era ancora qui.

Annina si strinse nelle spalle e proclamò che sarebbe andata a letto, consigliandomi di fare lo stesso. Mi diede una camicia da notte: lei era molto procace di seno e larga di fianchi, perciò mi ritrovai a navigare in quell'indumento semplice e un po' ruvido. Promise che l'indomani mi avrebbe fatto provare un abito di Marzia, i miei avevano bisogno di una lavata. Le mie proteste non servirono a nulla: prendersi cura di noi era il suo modo per sdebitarsi per ciò che Jacopo ed io avevamo fatto per i suoi fratelli minori. Intuivo d'istinto che avere debiti in sospeso con noi assassini era qualcosa che la padrona di casa Semeraro non desiderava affatto.

 

Che altro potevo fare? Finì che li aiutai nei lavori di casa, nei giorni successivi. Scoprii che i vestiti di Marzia mi calzavano a pennello, e che i capelli mi erano meno d'intralcio nei lavori domestici se legati con un fazzoletto sulla testa. Giuditta mi insegnò a mungere la vacca di casa, Clotilde; in realtà, io schizzai metà del latte fuori dal secchio e la ragazzina passò il tempo a tenersi la pancia dalle risate. Aiutai Marcello a pulire la stalla, e gli concessi di svicolare via un po' prima che il compito fosse terminato, per un appuntamento con una delle sue cinque fidanzate.

«A buon rendere, Bià!», mi strizzò l'occhio, correndo via come un gatto che ha fatto una marachella.

Inseguii le oche per rimetterle nel recinto, insieme a Lucio e Antonio; di nascosto da Annina, sul retro del casale, spiegai loro le tecniche sicure di arrampicata, il modo per fortificare i muscoli delle braccia e non perdere mai più la presa, su un albero o su un muro. Una mattina sorpresi Fabrizio che tentava di fare lo schizzo di una gallina con un pezzetto sottile di carbone, su uno scampolo di stoffa sudicia: lui tentò di nascondere il suo lavoro, ma lo convinsi a mostrarmelo. Era bello, c'era occhio per i dettagli. Gli dissi che mi ricordava Leonardo, intento a fare schizzi di ciò che lo circondava per studiare il mondo. Non conosceva il mio celebre amico, ma sembrò lusingato comunque. Gli promisi che gli avrei fatto avere della sanguigna, e un po' di carta solo per lui: questo lo fece arrossire e iniziare a tartagliare ringraziamenti molto formali, che allontanai con decisione, strofinandogli il pugno sulla zazzera di capelli castani come suo fratello Marcello faceva tanto spesso.

Furono tre giorni sereni, durante i quali proseguii in quelle piacevoli occupazioni: pulizia delle stalle, mungitura e conoscenza dei fratelli Semeraro. Intanto Jacopo indugiava nel suo ruolo di ferito – sicuramente molto, molto più del dovuto – e si rimetteva in forze, accudito soprattutto da Marzia, che sembrava essersi presa una bella sbandata per lui. Era una ragazza un po' frivola, come me l'aveva descritta Martino, ma al contrario di tante bellezze vanesie che avevo incontrato aveva un sorriso genuino e occhi buoni. Quel poco di tempo che trascorse con me, mi fece parlare a lungo dei miei giorni da dama, e ascoltò rapita le descrizioni della corte di Mantova e di Ferrara.

Il pomeriggio del terzo giorno, Marzia ed io eravamo sedute sui gradini di casa, a godere dei raggi pallidi di un'altra giornata di sole. Le avevo appena descritto il mio abito preferito, di amoerro bianco e rosso, con perle di fiume trapunte nella sopraveste. Credevo che l'aria sognante di Marzia fosse dovuta all'immagine che si era fatta della corte e di quegli abiti favolosi che non aveva mai potuto vedere da vicino. Mi sorprese, quando disse:

«Isabella e Lucrezia me sembrano simili.»

Non mi ero mai soffermata a pensarci. «Credo lo siano, a modo loro.»

«So' donne bellissime, ma anche forti.»

«Isabella è più realista di Lucrezia», dissi. «La Borgia crede in una società ideale, in cui le donne possono tirare le fila della politica e dimostrare che sono superiori agli uomini. La Marchesana invece vive per il presente. Sa che il mondo è pieno di animali feroci, e si è fatta crescere le zanne per proteggere quello che è suo.»

«Ma Lucrezia nun c'ha 'a debolezza dell'amore. Vojo di', Isabella 'na fatte, de cretinate, pe' l'omo suo.»

Inclinai un po' il viso, per studiare il suo profilo perso all'orizzonte. Provai una grande tenerezza. Quanti anni poteva avere, quindici, sedici? E già sembrava disillusa.

Dopo tutto, mi ricordava me alla sua età.

«Credi che l'amore sia una debolezza?»

«Te fa fa' cose idiote.»

Sorrisi. «Alle volte, sì.»

Marzia volse il viso verso di me. «Qual è la cosa più idiota ch'hai fatto, per amore?»

«Sono diverse, a dire il vero.» Fu il mio turno di perdere lo sguardo lontano, lungo il sentiero che portava alla strada maestra. «Imparare a mungere una mucca, governare le oche, pulire le stalle...se un mese fa mi avessi detto che avrei imparato a fare tutto questo, sarei scoppiata a ridere. E invece, eccomi qua.»

Lei mi guardò con serietà per qualche momento, e fece per parlare. Ma la sua sentenza fu interrotta dallo schiocco lontano delle ruote di un carro, che attirò completamente la sua attenzione, e la mia.

Il cuore quasi mi soffocò per la velocità con cui schizzò in gola. In quei giorni avevo spesso reagito a quel modo quando avevo sentito il rumore di zoccoli sul terreno, ma questo carro aveva la decisa probabilità di essere quello giusto. Quello che conteneva Pietro Semeraro, suo figlio Martino, e la risposta alla domanda che mi aveva portato fino a Capodimonte.

Mi alzai in piedi, tenendo il fiato, mentre Marzia spalancava la porta di casa per dare una voce ad Annina e a gli altri fratelli. Nel giro di pochi istanti, la famiglia si era radunata nell'aia, mentre il carro si fermava.

Io non avvertivo nulla di ciò che mi accadeva intorno. Avevo incontrato gli occhi di Martino da lontano, vi avevo letto dentro il suo lento riconoscermi. Lo stupore. Il sospetto. Ecco, il sospetto mi ferì, ma dopo tutto ero preparata a vedere anche quell'emozione sul suo viso. Mi ripetei che non mi aspettavo nulla. Volevo soltanto sapere che stava bene. Parlargli. Volevo solo vederlo un momento.

Aveva la barba lunga di giorni, ma i suoi capelli erano ancora corti. Forse, dopo tutto, non li aveva mantenuti così per praticità. Forse, dal giorno in cui aveva dato fuoco a quella capanna con dentro i bambini, Martino aveva compiuto un vero e proprio voto. Era decisamente qualcosa che lui avrebbe fatto.

«Bentornati. Com'è stato 'r viaggio?»

Annina era andata incontro al padre, che era sceso dal carro, per dargli un bacio sulla guancia. Distolsi lo sguardo da Martino, allora, per fissare gli occhi su Pietro Semeraro.

Era un uomo alto e dalle spalle larghe, come suo figlio; tuttavia, quelle stesse spalle erano curve sotto il peso del duro lavoro. Il suo volto era bruciato dal sole, molto più rugoso di quanto la sua età avrebbe dovuto conservarlo; aveva capelli fortemente brizzolati, mentre la barba mostrava solo tracce d'argento. Ammetto che al suo cospetto provai un brivido, ma fu reverenza più che vero timore.

«Che ci fai te qui?»

La mia attenzione tornò su Martino. Aveva Giuditta aggrappata al collo, ma il suo viso era contrariato mentre mi fissava. E non poco. Mi trincerai sulla difensiva, sentendomi vulnerabile senza la mia divisa.

«Ero sulla strada per Roma, e volevo vederti.»

«Che 'mbroglio c'è sotto? T'ha mannata 'r Mentore?»

«Martino.»

La voce di Pietro Semeraro schioccò secca nell'aria fredda.

«Nun se parla così a 'na signora.»

Martino abbassò il capo e serrò le labbra. Suo padre rivolse su di me gli occhi neri.

«Sei 'n ospite, e gli ospiti so' sacri 'n casa Semeraro. Benvenuta.»

«Grazie, signore» mi ritrovai a rispondere, molto più intimidita di quanto io stessa mi aspettassi.

 

Scoprii che dopo tutto la presenza del padrone di casa non rendeva la famiglia meno chiassosa o allegra: a tavola il chiacchiericcio era così serrato che non era possibile seguire una sola conversazione. Certo, questo avvenne solo dopo la preghiera. In quel momento tutti erano silenziosi, con le mani giunte e gli occhi chiusi, mentre Pietro ringraziava Dio e il santo di cui portava il nome per il pane sulla loro tavola.

Per rispetto strinsi le mani, ma non gli occhi. Quelli erano su Martino, che sembrava immerso nella stessa concentrazione dei suoi fratelli e sorelle. Aveva riconquistato la fede, dunque? Forse Dio faceva parte delle cose che era venuto a cercare.

Uno Jacopo ormai ripreso dalla botta in testa si era unito alla cena, e tenne banco nella conversazione; educatamente, certo, per non oscurare il padrone di casa. Mi stupiva il modo in cui un damerino come lui riuscisse a risultare perfettamente appropriato anche in una casa di contadini: Pietro e lui parlarono delle gabelle, delle condizioni del contratto di mezzadria, delle zone dei dintorni frequentate da briganti che avevano dovuto accuratamente evitare nel viaggio da casa dello zio fino a lì. Durante tutto quel tempo, Martino non disse una parola, ma non mi sfuggì lo sguardo d'odio che rivolse all'ex ambasciatore. Per un momento mi chiesi se avrebbe lasciato la tavola. Rimase fino alla fine del pasto, invece, ma non incrociò mai i miei occhi, nemmeno per sbaglio.

Dopo cena, Pietro spostò la sedia e chiamò di fronte a sé Giuditta, Antonio e Lucio. I tre si schierarono in una fila rigida, con le teste incassate nelle spalle.

«Annina m'ha detto de' l'incidente.» Fece una pausa, durante la quale ristagnò il silenzio. «Sapete che avete fatto 'na cosa brutta. Ma forse nun sapete quanto.»

«O' sapemo» cercò di contraddirlo Antonio, con la voce che tremava. Giuditta gli fece cenno di stare zitto.

«Io nun ce so' nemmeno annato sull'arbero» brontolò Lucio.

«Non hai fermato li fratelli tua. Sei responsabile come loro.» Cupo, Pietro proseguì. «Ve credete che avete fatto 'na marachella, ma rompesse l'ossa nun è divertente manco pe' gnente. Chi ce l'ha le monete pe' 'r cerusico, eh?»

Li squadrò torvo, e nessuno nella stanza osò fiatare. Il suo tono era inflessibile, ma molto calmo.

«Cos'è 'sta famija qua, Antonio?»

«Una macina.»

«E che succede se 'n pezzo d'a macina se rompe, Lucio?»

«A macina nun fa più 'a farina...»

«Sì.» Pietro tacque. «Ma 'n pezzo de 'na macchina se sostituisce. A voi, 'nvece, nun ve possiamo sostituì manco co' tre ceste d'oro, razza de testacce bacate.»

Fui sorpresa di vedere un velo di lacrime negli occhi di Giuditta. Mi era sembrata molto più forte di così, e il padre non aveva detto nulla di particolarmente duro. Doveva avere molto a cuore il suo giudizio, ed essere arrabbiata con se stessa per averlo deluso.

Oh, conoscevo la sensazione molto bene.

La ruga sulla fronte dell'uomo si sciolse. Era ancora serio, ma non più arrabbiato. O così sembrava.

«Pulirete il trogolo dei maiali de Gnecco pe' due settimane, dopo 'r lavoro. Questo dovrebbe impedivve anche solo de pensà a fa' sciocchezze. Se ve ripesco a combinà guai, ner trogolo ve ce metto a testa 'n giù. Intesi?»

Tre teste fecero cenno di sì, ma quando Marcello irruppe offrendosi di infilare lui stesso fratelli e sorella a testa in giù nel trogolo la famiglia scoppiò in una risata liberatoria. Pietro non rideva, ma era chiaro che la tensione si era sciolta. Non redarguì i figli per la loro allegria, si limitò a non unirvisi. Sì, era un uomo molto cupo, ma non sembrava opprimerli come mi sarei aspettata.

Guardai Pietro per tutta la sera, e mi sforzai di non farmelo piacere. Alla fine, non ci riuscii. Era ruvido, duro e probabilmente non gli riusciva facile esprimere emozioni. Sembrava intagliato nel marmo, una figura che andava oltre l'umano...un prolungamento della terra che lavorava, una roccia su cui la famiglia intera poggiava per molto più del suo sostentamento. Come quella roccia, era dovuto diventare arido, per non crollare quanto tutti gli altri avevano bisogno di lui. Proprio per questo doveva essere stato così difficile per Flaminia stargli accanto.

Non riuscivo a non capire lei. Eppure, allo stesso tempo, non riuscivo a non capire lui. Vedevo nel padre di Martino il punto d'arrivo della strada che avevo iniziato a camminare. Anche io mi stavo caricando fardelli sempre più grandi sulle spalle. Anche io stavo diventando una donna a cui era difficile stare accanto.

Una volta sgombrata la tavola – stavo asciugando le scodelle che Annina lavava – Martino si ritirò per la notte, accusando una grande stanchezza. Avrebbe diviso il giaciglio con i fratelli più grandi e Pietro. Io avrei dormito con le ragazze e i gemelli, nel letto del padre che era il più grande. A Jacopo restava una scomoda brandina di cui, con una certa eleganza, l'ex ambasciatore non si lamentò – probabilmente era felice di non ricevere gomitate nel costato e calci negli stinchi, almeno per una notte.

Non riuscivo ad addormentarmi. Cadevo in un leggero dormiveglia, e a tratti mi risvegliavo di scatto, i nervi tesi. Chissà se l'indomani sarei riuscita a parlare da sola con Martino. Chissà se lui stava dormendo, adesso, o se continuava a rimuginare sul motivo che mi aveva spinta qui. Il respiro di tutti quei Semeraro nella stanza era un suono che mi grattava le orecchie, ronzando nella cassa toracica alla ricerca di un cuore da pungere. Non potevo permettere che lo trovasse. Aveva sanguinato abbastanza.

Sussultai, quando sentii una mano fredda sul braccio. Spalancai gli occhi nel buio. Evidentemente mi ero addormentata, anche se mi era sembrato di non aver fatto altro che rigirarmi senza sosta nel letto.

Ci misi un po' a mettere a fuoco la figuretta nelll'oscurità. «Giuditta?»

Lei si mise il dito sulla bocca, e si chinò sul mio orecchio. «Ho sentito muggì Clotilde n'a stalla. C'è 'na luce accesa...»

Sembrava molto preoccupata. Mi tirai su dal letto. «Sveglio tuo padre e i tuoi fratelli.»

«No!» si affrettò a dire, abbassando subito la voce «Magari Marcello s'è solo dimenticato 'a torcia, ma c'ho paura a controllà da sola...»

Sospirai, e la seguii nel buio. Volevo cercare il mio antibraccio armato, ma Giuditta mi trascinò fuori dalla stanza prima che potessi farlo: non dovevamo svegliare nessuno, mi disse, o sarebbe stata rimproverata aspramente. La seguii borbottando, ancora intontita dal non-sonno che mi aveva avvolta. Sulla soglia di casa, infilammo gli stivali e ci avvolgemmo in due scialli di lana – per l'occasione, rubai quello di Annina – e aprimmo la porta su una gelida notte di gennaio.

Appena ci avvicinammo alla stalla, distinsi la flebile luce che danzava tra le assi. In effetti, probabilmente uno dei fratelli di Giuditta l'aveva dimenticata accesa. Quale ladro avrebbe acceso una luce? E per fare cosa poi, mungere clandestinamente il latte della povera Clotilde? Per questo, spinsi la porta di legno con serenità.

«T'avevo detto che nun dovevi tornà....»

Non so se crollò per prima la mia espressione sicura, o quella di Martino, che ora mi fissava con la bocca schiusa e la frase ancora vibrante sulle labbra. Era avvolto in un tabarro scuro, sembrava piuttosto infreddolito. E, di certo, molto sorpreso.

Mi voltai verso Giuditta, che si strinse nelle spalle. «E mo', parlate come se deve» disse, per poi scivolare veloce verso la porta della stalla e chiudersela alle spalle. Martino ed io non facemmo in tempo a spingerla che sentimmo il chiavistello scattare all'esterno.

Già. Quella peste aveva chiusi dentro.

«A Giudì, quanno te pijo te sdrumo» borbottò Martino, parlando a quella sagoma di buio che intravedevamo nella scanalatura delle travi. A vuoto, probabilmente. La risatina di Giuditta si stava allontanando di nuovo verso la casa. Alla luce di una candela tremolante, eravamo rimasti io, lui, e una placida Clotilde, che ruminava rassegnata per essere stata usata come esca e disturbata durante il suo giusto sonno.

Rimanemmo fermi qualche istante, come due allocchi, senza guardarci.

Mi strinsi di più addosso lo scialle di lana. Ero consapevole della mia pelle nuda sotto la camicia da notte. Il freddo entrava da sotto l'orlo, strisciando sordido e stringendomi il ventre come un amante sgradito.

«Che scusa ha usato, con te?» mormorai dopo un po'.

Martino accennò ad un sorriso, ma solo con la bocca. «M'ha detto che aveva sentito dei rumori. Aveva paura che ci fosse un ladro, così so' venuto a da' 'n'occhiata».

«Avete spesso problemi di ladri, qui?»

«No, ma nun se sa mai. Soprattutto visto e' visite che c'abbiamo avuto de recente.»

Serrai le labbra, forte. «Non siamo stati seguiti.»

I suoi occhi scuri mi fulminarono. «Come 'o sai?»

«Logica. Eventuali nemici avrebbero preferito attaccarci sulla strada fino a qui, e magari buttare i nostri cadaveri nel lago senza lasciare tracce.» Meno pungente, aggiunsi: «Sta' tranquillo. La tua famiglia è al sicuro.»

Martino distolse lo sguardo, di nuovo. Fece qualche passo nervoso in direzione di Clotilde, che continuava a ruminare. Poi, si volse verso di me, di scatto, pronto finalmente a farmi la domanda che doveva aver covato in petto fin da quel pomeriggio.

«Du mesi c'hai messo, Bià? Du mesi, p'accorgerte che me n'ero annato?»

Era un'accusa più che lecita. Ma avevo i miei motivi.

«Non potevamo muoverci. La situazione è disperata, e lo sai...abbiamo atteso per tutto l'inverno che i Templari venissero a scovarci e distruggerci.»

«Me stai accusanno d'avervi lasciato ner momento d'a sconfitta?»

«Non ti sto accusando di niente!»

Clotilde muggì, nervosa. Presi un respiro, e lo prese anche Martino. Entrambi ci stringemmo nei nostri triangoli di lana come in un'armatura, sperando che qui miseri strati intrecciati ci proteggesse l'uno dall'altra.

«Allora, che sei venuta a dimme? Che te sposi co' quer bell'imbusto 'mpomatato? Auguri e fiji maschi – spero nun te vengano fori cecati e antipatici come lui.»

«Sono qui per vederti, idiota. E per chiederti se...» Avevo la lingua intrecciata, dannazione. La schioccai contro il palato, per calmarmi. «...se ti va di tornare alla confraternita.»

Lo so, avevo detto ad Annina che non l'avrei forzato. Ma la richiesta mi pulsava nella gola così forte che non ero riuscita a trattenerla. Forse aveva riflettuto abbastanza. Forse, se avesse saputo quanto critica era la situazione, avrebbe capito...

«Hai sprecato tempo, allora.»

«Te lo chiedo per favore, torna. Abbiamo bisogno di te.»

«Vattene a casa, Bià.»

«Non finché non tornerai con me.»

«Nun lo capisci? Io ce sto già, a casa!»

Rimasi stordita da quelle parole. Immobile, gli occhi spalancati, un raschio in gola come se mille grida premessero per uscire.

Certo. Che stupida ero stata. Casa era lì, per Martino. In un luogo in cui io non avevo un posto, e in una vita di cui io non facevo parte.

Eppure, la sua gelosia per Jacopo mi aveva dato una piccola scintilla di speranza.

Il suo cuore era altrove, aveva detto Odette. Quando ti ho vista, ho capito dove.

Non ero certa che i sentimenti che aveva provato per me respirassero ancora sotto tutto quel rancore, ma dovevo tentare. Non potevo andarmene via senza provato a rompere il muro che avevamo alzato tra di noi, e che soltanto dopo la morte di Nicola avevamo varcato per la prima volta. Volevo sentire di nuovo Martino vicino. Dio, mi mancava da morire.

«Io lo so come ti senti adesso.»

Vidi guizzare la sua bocca in una smorfia dolorosa.

«Li hai uccisi te, quei bambini su 'n Francia?»

«Quello che voglio dire...»

«Tu' madre t'ha rifiutato?»

«Martino...»

«Nun dormi 'a notte pensanno che ar posto de Nicola ce dovevi sta' te?»

La voce gli si era spezzata. Sostenni il suo sguardo, e lasciai uscire una mano dall'involto di lana per stringergli il braccio.

«Ho perso un amico, come te. E' stato mio fratello a ucciderlo, e io non ho fatto niente per salvarlo, o per fermarlo prima che partisse. A volte mi sveglio urlando il suo nome, sì. A volte vorrei che fosse successo a me.»

Martino non rifiutò il contatto. Si passò la mano sulla testa, fino alla nuca. Vidi un lampo di vergogna attraversarlo, come se ammettesse di non aver pensato al mio punto di vista. Non gliene facevo una colpa. Era sempre così proteso verso gli altri, che per una volta curarsi solo dei propri sentimenti non poteva che fargli bene. Ma non volevo che si sentisse solo, in quella sofferenza. Perché non lo era.

«Ce sta dell'artro.» Respirò forte, e mi guardò, grave. «Io...non credo più Bià. Nun credo in quer che credi tu. Trattieni 'a lama d'a carne deji innocenti...l'ho 'nfranto. Nasconniti a'a vista...l'ho 'nfranto. Nun compromette' 'a confraternita.» Un sorriso amarissimo. «Be', ho sortanto mannato a morì tutti i ragazzi de Le Drap Rouge, che voi che sia.»

«Non è stata colpa tua.»

«E' stata anche corpa mia. Ho fatto sartà 'a copertura.» Mi oltrepassò, dandomi le spalle, e si diresse verso un secchio poggiato al muro. Doveva esserci dentro del pastone, perché Clotilde alzò la testa, improvvisamente interessata, e i grandi occhi acquosi si illuminarono quando Martino glielo portò davanti. Mentre la mucca mangiava di gusto, lui le grattò le orecchie.

«Come guerriero nun vargo poi granché. Mejo che torno affà 'r contadino, almeno quanno sbajo ce perdo un raccolto ma nun more nessuno.»

Mi faceva male vederlo così, e non sapere cosa dire per farlo stare meglio. Ma forse era vero. Forse aveva bisogno di stare con la sua famiglia, per capire cosa volesse. Dovevo mettere da parte il mio egoismo, e pensare a cosa fosse meglio per lui.

«Capisco che gli ultimi tempi sono stati molto duri per te. Per questo...va bene. Non ti chiederò più di tornare, se non vuoi farlo.» Mi umettai le labbra, erano secche. «Quello in cui credo io è la libertà di scelta. Anche se, devo dirtelo...tu sei uno dei guerrieri migliori che abbia mai incontrato. Perché sei forte, ma scegli di essere gentile ogni volta che puoi. Perché riesci a non perdere il senso della vita in mezzo a tutta questa morte...e non ho mai capito come tu faccia, Martì, ma sei sempre te stesso nonostante tutto.»
Non si decideva a voltarsi verso di me. Mi terrorizzava l'idea di non sapere cosa avessero provocato in lui le mie parole. Indifferenza? Altro rancore? Dovevo saperlo, comunque. Dovevo far sanguinare la ferita per poter iniziare a guarire.

Feci un passo in avanti. Gli sfiorai la schiena con la punta dei polpastrelli, in una muta preghiera. Voltati. Guardami. Devo dirti una cosa importante, ti prego, guardami.

«Se adesso vuoi cambiare vita, non ti fermerò. La verità è che non mi importa niente se tornerai a fare l'assassino o meno, non sono qui per avere un soldato in più nell'esercito di mio padre.»

Lo fece lentamente. Un po' per volta. Si girò verso di me, diffidente per qualche istante. Poi mise gli occhi nei miei. Nella luce ambrata della candela avevano lo stesso colore della terra, ma non quella arida che ci scricchiolava sotto i piedi. Quella di primavera, pregna di pioggia, pronta per essere arata. Quella che sta per dare la vita.

«Perché sei qua, allora?»

Poggiai la mano sul suo braccio. Quando vidi che non aveva intenzione di ritrarsi, lasciai salire le dita lungo la sua spalla, per accarezzargli la nuca e attirare il suo viso verso il mio.

Lo baciai lentamente, con dolcezza. Martino ricambiò; all'inizio, con cautela. Lo sentivo, ancora non si fidava di me. Eppure, c'era un crescente senso di possesso nel suo modo di assaporarmi le labbra, come se stesse ricordando il gusto di qualcosa che non aveva più assaggiato da troppo tempo. Qualcosa che gli era mancato.

Non avevo più freddo. Non avevo più paura. Per un attimo perfetto, in una stalla a malapena illuminata nel bel mezzo di una notte gelida, il mio mondo tornò al suo posto.
Poi, Martino si allontanò. Non di colpo, ma con una lenta consapevolezza. Ed io capii che c'erano ancora troppe cose in sospeso tra noi, che un bacio non sarebbe bastato a risolvere.

Gli accarezzai il viso con il pollice, e lui non si scostò. Mi guardava con un lieve senso di colpa negli occhi, come a chiedermi scusa.

Non ce n'era bisogno. Avevo capito.

«Prenditi il tempo che ti serve. Io ti aspetto.»

Martino cercò la mia mano, la strinse tra le proprie come per scaldarla; spariva, tra le sue così grandi. Schiuse la bocca per parlare. Qualunque cosa volesse dirmi, cambiò idea all'ultimo momento.

«D'accordo.»

Non disse altro, ed io non mi aspettavo di più. Eppure, anche se avevo ancora l'ombra di un sorriso sulle labbra, quando le dita di Martino si sciolsero dalle mie mi sentii come se i nostri corpi fluttuassero ancora nella nebbia, indefiniti e fragili.

Mi sembrò che passasse un secolo da quel momento a quando Martino spezzò la nostra silente tensione, bussò alla porta della stalla e vi appoggiò sopra la guancia.

«Giuditta, avemo parlato. Aprice.»

Silenzio dall'altra parte.

«A Giudì, nun fa' scherzi. Aprice!»

Ancora silenzio. Solo l'aria gelida della notte che turbinava, là fuori, nello spazio tra la stalla e il casale.

Martino imprecò contro il legno; quindi, si voltò verso di me, con un'espressione imbarazzata che non ricordo di avergli mai visto in viso prima.

«Se n'è annata pe' davero.»

«Siamo guerrieri addestrati. Dovremmo sapere come scardinare una serratura.»

«Scusame, sa'. Ho lassato 'e bombe fumogene ar covo.»

«Non guardare me. La mia lama celata ce l'ha tua sorella.»

Ci guardammo negli occhi. Ci fu silenzio, per un altro momento. Lo schiocco della coda di Clotilde sul grande sedere vaccino era l'unico suono nella stalla.

Poi, arrivò il ronzio. Quello graffiante della risata che mi formicolava in gola.

Nello stesso momento, sentii lo stesso suono scuotere il viso di Martino e deformargli gli zigomi. Infine, scoppiammo a ridere insieme, stringendo le labbra per cercare di ricacciare le risate sempre più singhiozzanti da dove erano venute.

 

Passammo il resto della notte a parlare. Si era creato uno strano legame fragile: i nostri corpi sedevano ancora lontani, le ginocchia al petto e le spalle protette contro cumuli di calda paglia fragrante. Le nostre menti però viaggiarono in sintonia per un po', toccando i ricordi felici del nostro addestramento.

Adesso che Nicola era morto, quel periodo della nostra vita si era impregnato di tristezza. No, non malinconia: quella è un sentimento denso, viscoso, che si spreca troppo facilmente per cose banali. Basta un colpo di spugna per scacciare la malinconia. La tristezza è quella di cui avere paura per davvero.

Sembra una nebbiolina sottile, ti dà l'illusione di poterla scacciare con la mano. Solo soffiando, come una nuvola: guarda, guarda! Si sta già disperdendo lontano, intravedo il cielo, è terso. Invece no. Invece la tristezza rimane, ti si infila nelle narici, scende nella gola e ti stiletta le ossa. E' un vestito impregnato di sudore, che non puoi togliere. Ti fa sentire male averlo appiccicato addosso, vuoi levarlo, vuoi fare un bagno e sentirti rinascere. Ma non puoi. Le braccia pesano, le braccia sono legate e tu resti lì, con quel senso di leggera putrefazione addosso. La tristezza è sporcizia dell'anima, incuria del cuore. E' un passo in più verso la tua morte.

E' strano. Ho detto che parlammo di ricordi felici, e poi mi sono persa a spiegarvi quanto in realtà fossero tristi quei ricordi. E' così. E' la vita. Tutto quello che ti ha tolto sarà sempre lì, presente, esattamente dentro tutto quello che ti ha dato. Arriverete a un punto in cui saranno così intrecciati che non potrete più scinderli uno dall'altro. Gioia, dolore. A volte mi chiedo se fa davvero differenza, quando fanno così parte una dell'altro.

Parlammo per ore, facendo ammenda di tutti i dettagli che l'altro aveva dimenticato, ridendo delle sciocchezze, cercando di nasconderci a vicenda quando la voce iniziava a vacillare. Poi, Martino mi disse qualcosa che non scorderò mai più.

Era quasi l'alba, i suoi occhi scuri erano confusi nel grigiore e i miei erano arrossati per la lunga veglia. Non avevo sonno, eppure mi sentivo addosso tutta la stanchezza del mondo. Martino aveva la testa poggiata alla parete di legno. Voltò appena il viso verso di me, e mi disse:

«Ce dicono che potemo scejere pe' noartri, che dovemo scejere...ma nun è vero. Nicola ha scerto pe' tutti noi, stavorta. E 'a scerta sua ha cambiato 'e vite nostre. Che diritto c'aveva de fallo? Semo noi che dovemo continuà a vive, adesso, co' 'e consegguenze. Te 'a chiami libertà, questa? Er libero arbitrio che difennevamo, dove sta?»

Non era arrabbiato. Non era frustrato. Solo...triste. Sì. Quella tristezza che ti imputridisce l'anima.

E io, la figlia del Mentore Ezio Auditore da Firenze, la strenua paladina della causa assassina, poggiai a mia volta la nuca alla parete e chiusi gli occhi. In quell'alba irreale, dalle mie labbra uscì solo un filo di gelo e una voce che non riconobbi, mentre diceva:

«Non lo so. Forse non esiste.»

Inutile negarlo a me stessa: se mettevo a tacere la voce dell'orgoglio, dopo tutto lo sapevo. Avevo perso il mio Credo, esattamente come lui.

Quando Martino si addormentò con la testa lievemente reclinata sulla spalla, gli drappeggiai addosso il mio scialle e mi rannicchiai contro di lui, per dargli e darmi calore. In lui, e nella promessa di proteggerlo, credevo ancora.

 

A svegliarci arrivò il timido Fabrizio: era lui di turno per mungere Clotilde, quel giorno. Parve molto sorpreso e gli si arrossò il viso, quando ci trovò. Eppure, tossicchiò, ci diede il buon giorno e fece finta di non vederci, mentre ci stropicciavamo gli occhi e cercavamo di non fare incontrare i nostri sguardi.

«Ma guardate. C'hai 'e braccia blu» mormorò Martino, avvolgendomi nello scialle che gli avevo messo addosso. Sfregò il tessuto sulla mia pelle fredda: il risultato fu un calore molto maggiore di quello che lui intendeva trasmettermi, che aumentò il mio senso di disagio. Avevo promesso che gli avrei dato il tempo di riflettere, e non potevo farlo in quello stato di languore. Ne andava della mia sanità mentale. Per questo lo ringraziai a mezza voce, e ripresi lo scialle forse un po' troppo bruscamente. Non lo guardai: non volevo vedere la sua reazione.

Comunque, il piccolo artista Semeraro mantenne il segreto del nostro ritrovamento con il resto della famiglia. Al momento di salutarlo gli scompigliai i capelli con affetto, sussurrandogli un grazie all'orecchio.

Già. Jacopo ed io ce ne andammo quella mattina, lasciando gli abiti campagnoli per indossare di nuovo le divise che Annina aveva lavato per noi. Non volevamo troppe cerimonie, ma la famiglia si radunò comunque sull'aia per darci il suo rumoroso addio.

Abbracciai tutti con calore, in particolare Antonio,il mio gemello preferito – che mi chiamò di nuovo angelo bello, facendo definitivamente una pappetta del mio cuore – e Giuditta, che insieme rimproverai e ringraziai con uno sguardo. Raccomandai a Marcello di non far soffrire le sue cinque fidanzate, promisi a Marzia che un giorno sarei stata io a prestarle i miei vestiti, dissi a Lucio che sarebbe diventato un campione di arrampicata e ricordai a Fabrizio che gli avrei spedito carta e sanguigna. Infine, presi le mani di Annina.

«Grazie di tutto.»

«Grazie a te.»

Fu tutto quello che mi disse, ma nei suoi occhi castano-verdi lessi il resto. Grazie di non avergli fatto male, questa volta. Ricambiai con un sorriso, che voleva dire: Non gliene farò mai più.

Pietro Semeraro strinse la mano con forza sia a me che a Jacopo, ma quando si trattò della sottoscritta si fermò un momento di più con gli occhi nei miei.

«Fate attenzione lungo 'a strada. Er tempo peggiorerà, è capace che se mette a piove.»

Capii che c'era seria preoccupazione dietro a quella raccomandazione, e in qualche modo il mio cuore si strinse.

Quando poi gli occhi mi si posarono su Martino non seppi più che dire. Avrei voluto baciarlo – ma no, non davanti la sua famiglia. Abbracciarlo, almeno. Non sapevo per quanto tempo ancora non l'avrei visto, ma Roma e Capodimonte non erano poi così lontane. Mi avrebbe dato la sua risposta, quando fosse stato pronto.

«Ciao», mormorai.

Lui mi guardò per un istante. Poi mi attirò a sé e mi chiuse tra le braccia, tenendomi un po' più a lungo del dovuto.

«Sta' attenta», sussurrò al mio orecchio. Chiusi gli occhi, reprimendo insieme un brivido caldo e una sorda voglia di piangere. Ricambiai la sua stretta come se fosse l'ultima volta che lo vedevo.

«Tranquillo» cercai di sorridere, e mi divisi da lui per mostrargli il mio ciondolo, quello con l'onice nera che mi aveva regalato Agamennone una vita prima. «Finché ho questo non può accadermi niente di male, no?»

Martino sorrise.

«Allora nun devi tojerlo mai.»

Mi congedai da lui con quell'espressione serena, quando dentro urlavo per la voglia di restare al suo fianco. Ma l'Ordine aveva bisogno di me, e Martino non voleva più avere a che fare con l'Ordine. Sarebbe stato bene, a Capodimonte, con la sua famiglia. E la prossima volta che l'avessi visto, avrei saputo cosa aveva deciso riguardo a noi due.

Ebbi bisogno di ripetermelo molto spesso, come ad esercitare su me stessa un incantesimo, mentre i cavalli di allontanavano dal casale della famiglia Semeraro. Ebbi bisogno di convincermi a non saltare giù di sella e tornare da lui, da tutti loro, in quella vita che sembrava intoccata dalla guerra e dalla morte. Chissà se una vita del genere avrebbe mai avuto un posto anche per me.

 

Mi torturai il medaglione di onice nera per tutto il tragitto, ma quella volta nemmeno la pietra riusciva a darmi la tranquillità che vi avevo sempre trovato. Avevo freddo, e non era per la notte passata nella stalla. Quella, in qualche senso, mi aveva scaldato il cuore perfino troppo.

Ah, dannazione, dovevo concentrarmi sulla missione a Roma, ora.

Giovanni De' Medici viveva al sicuro al palazzo san Eustachio2, intento a commissionare al suo Raffaello una qualche Madonna mentre Ugo organizzava le difese che l'avrebbero protetto dai templari del Papa.

Lo sguardo di Martino sembrava contrariato quando stavamo partendo.

Da quale porta sarebbe stato meglio entrare per non essere visti?

Avrei dovuto dargli il medaglione, e non l'avevo fatto nemmeno quella volta.

Dovevamo trovare il modo di comunicare con zio Ugo prima di approcciare le mura.

Chissà se sentiva almeno un po' la mia mancanza?

Non era davvero possibile che le scalassimo, dovevamo passare inosservati alle guardie.

Perché a me mancava già da morire...

«Bianca.»

La voce di Jacopo giunse a infastidirmi come una mosca. Non lo volevo nella mia fantasia, ora. Stavo pensando a Martino ed ero felice così, nella mia infelicità.

«Non voglio parlare.»

La nota di divertimento che avvertii nella sua risposta mi fece riscuotere. «Forse loro sì però...»

Alzai bruscamente lo sguardo, per trovarmi di fronte le ultime persone che mi sarei immaginata di incontrare sulla via Cassia in quel giorno gelido di gennaio.

Lui vestiva interamente di nero, e nonostante il cappellaccio da viaggio gli coprisse il viso la sua figura un po' tarchiata era impossibile da confondere. Lei se ne stava al suo fianco, i piedi scalzi che spuntavano dalle colorate gonne gitane, una macchia di vita accanto al nero abito del medico.

Simza e Tancredi. A piedi, e con il minimo bagaglio indispensabile caricato sulle spalle.

«Cosa ci fate qui?»

Mi guardai intorno. La sensazione di freddo era penetrata più a fondo, sentivo i capelli rizzarsi sulla nuca. Pericolo. Forse c'erano nemici nei paraggi. Potevano essere scappati ad un agguato.

Il medico sollevò la tesa del cappello, rivelando il suo sorriso amichevole. «Credevo che non vi avremmo mai trovato, ragazzi! Meno male che vi abbiamo raggiunti.»

Jacopo si spinse gli occhialetti sul naso. «Cercavate noi?»

Simza si dondolava sui piedi, nervosa. Cercai il suo sguardo e non riuscii a incrociarlo.

«Siamo venuti a scortarvi a Roma. Ordini del Mentore.»

«E la vostra copertura?»

Sul viso di Tancredi balenò un'ombra di vergogna.

«Saltata, dopo Mirandola. Abbiamo tentato di sottrarre il Serpente a Ermes, prima che cadesse nelle mani del Papa.»

Seguii il cenno che il mento del medico fece verso Simza. La zingara scoprì l'avambraccio, frastagliato dalle lingue brunite di quella che sembrava una brutta bruciatura.

Mirandola aveva lasciato le sue cicatrici su ognuno di noi.

«Dove sono i vostri cavalli?»

Ridendo, Tancredi si diede un paio di pacche sulla gamba. «Qui, e sono distrutti.»

Volevo accennare ad un sorriso, invece la mia bocca si torse in un ghigno teso. «Salite. Siete una scorta tremenda, lo sapete, vero?»

Tancredi rise, prese la mano che gli tesi e salì in sella dietro di me. Simza fece la stessa cosa con Jacopo: il mio amico sembrava compiaciuto della bellezza della sua nuova compagna di viaggio, quanto del suo silenzio che gli permetteva di parlare senza interruzioni.

Anche Tancredi tentò di farmi chiacchierare, senza successo. Non che fossi tornata a rifugiarmi nelle mie fantasie, tutt'altro. Provavo un senso di disagio che non riuscivo a spiegare, e la sensazione di quel corpo dietro la schiena non faceva che accrescerlo.

Aveva iniziato a piovere. Gocce pesanti e fredde, che iniziarono a sfocare i contorni delle cose. All'angolo della mia visuale sfocata dalla stanchezza c'era un bagliore rosso che non riuscivo a intercettare: ogni volta che volgevo lo sguardo se n'era andato. Mi prese presto un forte cerchio alla testa. Lo attribuii alla notte trascorsa quasi del tutto insonne.

«Dobbiamo fermarci» dissi «Piove troppo forte.»

La mano di Tancredi si poggiò sulla mia, impedendomi di tirare le redini per fermare il cavallo.

«E' meglio se raggiungiamo Roma il prima possibile. E' solo pioggia, dopo tutto.»

«Potrebbe peggiorare.»

«Siamo troppo esposti, qui.»

Non ero abituata ad avere un contraddittorio così serrato con il medico bolognese. «Penso che sarebbe meglio...»

Stavo per finire la frase, quando ai margini del mio campo visivo intercettai qualcosa che stonava.

Jacopo. Si stava accasciando sul cavallo. Scivolava giù di sella, e Simza non stava facendo nulla per fermare quella caduta.

Non feci in tempo a emettere un fiato, che sentii il braccio di Tancredi stretto contro la mia gola. Mi intrappolò con la schiena contro il suo petto. Quando sentii la punta fredda di uno stiletto contro la mandibola, mi immobilizzai.

«Che gli hai fatto?» Volsi il viso a sufficienza per ringhiare, e se avessi potuto avrei morso la pelle di Tancredi. Nel farlo, mi ero graffiata con la lama dello stiletto: il taglietto bruciava come l'inferno.

La voce del medico era pacata come sempre. Priva di compiacimento o di orgoglio.

«Ho eliminato un testimone scomodo.»

Sentii il tonfo del corpo di Jacopo sulla strada, e spostai gli occhi fino al limite delle orbite per guardare Simza. Come aveva potuto? Come?

«Siete con Lucrezia?» sibilai.

Il graffietto bruciava più forte, come se il sangue stesse rifluendo sotto la pelle e mettendo radici. Un odore dolciastro mi penetrava le narici con violenza. Veleno?

«No, niente di così banale» mormorò Tancredi al mio orecchio. «Ora riposa, Bianca. Appoggiati a me. La strada fino a Roma è lunga.»

La mia mente gridava, ma il corpo ubbidì al suo ordine mellifluo e al veleno che lo soggiogava. Appena le mie palpebre si chiusero, avvertii la catenina d'argento che scivolava dal mio collo. Forse, nel tormentarla l'avevo slacciata senza rendermene conto. Non era mai accaduto prima. L'onice nera che Agamennone mi aveva regalato dieci anni prima per proteggermi dai pericoli cadde silenziosamente e scivolò nel fango.

Nello schiocco degli zoccoli che si facevano strada sotto la pioggia, per la prima volta in vita mia mi sentii davvero perduta.

Note.

1Mia invenzione, non credo ci sia davvero. Volevo solo rendere il percorso più interessante per Biancarè, mea culpa :)

2L'attuale Palazzo Madama.



NdBlackFool
Salve a tutti! Sono tornata con il capitolo 41 - e vi prego, non tiratemi troppi accidenti per la non-risoluzione tra Martino e Bianca XD La situazione era ancora troppo tesa e complessa per cancellare tutto con un semplice colpo di spugna. La Biartinovela continua, ma non per molto, promesso ;)
Bianca ha perso l'onice nera che l'ha sempre protetta, ed è nei guai fino al collo. Per chi lavorano Tancredi e Simza? E di chi è prigioniera ora la nostra Auditore? Se tutto va bene lo scopriremo intorno al 15 ottobre (o anche un po' prima, se finisco il 42 per tempo ^_^)
Oggi mi metto di impegno e rispondo a tutte le recensioni in arretrato, promesso. Grazie di cuore per essere passati di qui, e per il sostegnuate a dimostrare a me e a Biancarè. A presto!

Ps: guardate lo splendido disegno della bravissima Kengah Neel per ricordare Nicola... ho i lacrimoni ogni volta che lo vedo!

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Capitolo 42
*** Cuore contro cuore ***


Aria.

Mi mancava l'aria.

Come se una pressione forte mi stesse stringendo la gola.

E d'improvviso non avevo più fiato.

Non respiravo.

Morivo.

Tirai su la testa di scatto, inghiottendo l'aria in un'unica sorsata angosciata. Spalancai gli occhi nel buio umido. Una stanza sconosciuta. No, una prigione.

Me lo disse la fitta lancinante ai polsi, e il tintinnio delle catene che li tenevano legati. Me lo disse la paglia che odorava di muffa e di escrementi di topo.

Ero finita in trappola.

Ma dove? E di chi ero prigioniera?

Strinsi forte le palpebre, cercando di ricacciare indietro il senso di nausea, e quel cerchio di fuoco che aveva lasciato il residuo del narcotico usato da Tancredi per stordirmi.

Tancredi. Simza. Traditori.

Battei forte le palpebre. La caduta di Jacopo da cavallo.

Era...?

Doveva esserlo.

Maledetti.

Diedi uno strappo alle catene, che mi restituì intense scariche di dolore. I miei polsi erano già piagati dal ferro. Da quanto tempo ero lì?

Strizzai gli occhi. Era buio, sì...ma una lama di luce tenue e bluastra scendeva dall'alto, fendendo lo spazio intorno. Registrai le due informazioni in contemporanea. Era notte. C'era una finestra.

Mi alzai in piedi - faticosamente, con i polsi legati – sopra la branda sgangherata che mi faceva da letto. Alzai i polsi sulla testa. Non sentii altro che il muro grezzo sotto le dita. Era ovvio, non avrebbero mai messo una grata a misura di prigioniero. A che punto era, la notte?

Non feci in tempo ad arrovellare le mie meningi ancora confuse, che sentii passi pesanti nel corridoio.

Per un attimo, pensai di nascondermi dietro la porta. Potevo aspettare che il mio carceriere aprisse, stordirlo con un colpo ben assestato delle catene, prendere la chiave e andarmene. Peccato che i passi sembrassero di ben più di una sola persona, e io non sapessi nemmeno dove mi trovavo. No...dovevo agire con intelligenza. O almeno provarci, per una volta.

Quando la porta schioccò sui cardini, il piccolo drappello mi trovò seduta sul letto, con le mani incatenate tra loro che mi riposavano in grembo, e il mio più gelido sguardo di sfida ad accoglierli. A capitanarli, c'era quella serpe traditrice vestita da medico. Ciò che me lo fece odiare ancora di più fu trovare sul suo viso la sua solita espressione gentile.

Perché? Perché, lurido figlio di un cane, perché non ho capito cosa fossi in realtà?

«Mi dispiace per i metodi brutali, Bianca» disse Tancredi, e la sua voce aveva di nuovo quella nota simpatetica che avevo imparato a conoscere bene durante il mio soggiorno a Bologna. «Ma avevo un ordine da eseguire, e ho dovuto agire nel modo più efficiente possibile.»

Lasciai che mi si avvicinasse, e avvertii un brivido di raccapriccio quando mi prese il polso per aiutarmi ad alzarmi.

«Come ti senti, ora?»

Non opposi resistenza. Lentamente, mi rimisi in piedi, senza smettere di guardarlo negli occhi. Quegli occhi rosso sangue, che mi avevano parlato di vita e bontà così tante volte. Quegli occhi rosso inferno, che celavano così bene i loro diavoli.

E quando fui certa che avesse scrutato bene nei miei – che vi avesse letto dentro tutta la mia indignazione, il mio disprezzo, la mia repulsione – gli sputai in faccia.

Chiuse le palpebre, d'istinto. Non ebbe altra reazione se non quella di recuperare, a gesti lenti, un fazzoletto dalla tasca del farsetto. Si pulì la guancia in silenzio.

«Non mi aspettavo che capissi. Con il tempo, lo vedrai anche tu.»

«Tutto quello che vedo è un traditore» sibilai. «Sei stato bravo a tenere su la tua doppia faccia, Bentivoglio. Cosa ti hanno promesso i tuoi fratelli in cambio della mia testa? Ricchezze? Titoli?»

Un lento sorriso gli si disegnò in volto. «Per Giove Ottimo e Massimo, no...a costo di ripetermi...niente di così banale. E ora, permettimi di aiutarti.»

Mi prese sotto braccio. Trovai il contatto intollerabile, ma prima che provassi anche solo a scansarmi sentii un clic sinistro provenire dal polso di Tancredi. Notai solo a quel punto che indossava un antibraccio di pelle.

«Una nuova arma, studiata dai migliori artigiani ospiti a Castel Sant'Angelo» mi spiegò, forse vedendo scritto sul mio viso l'allarme. «Al posto di quella vostra lama nascosta, c'è un ago piuttosto sottile. Ho fatto in modo di intingerlo nello stesso veleno che ha ucciso il tuo amico.»

Trattenni a stento un fremito, cercando di ricacciare indietro l'immagine della caduta di Jacopo da cavallo. Tancredi inarcò un sopracciglio.

«Mi basta muovere una falange, Bianca, perché questo ago si conficchi nella tua carne. Sai» il suo sguardo sembrò illuminarsi di infantile eccitazione a quel punto «Galeno sosteneva che il sangue si produce nel fegato, e scorre nel nostro corpo come in un circuito chiuso, irrorando vene e arterie nel suo passaggio. Nei miei lunghi anni di ricerca, sono arrivato alla conclusione che Galeno abbia visto giusto...eccetto per un piccolo particolare. Io credo che ci sia una pompa, per così dire, che mette in moto il sangue nel circuito. Quella pompa è il cuore1

Strinse più forte il mio braccio, e non so dire se la sensazione che mi trasmise fu di minaccia. Era come se mi stesse dando un oculato consiglio da fratello maggiore.

«Basterebbero due battiti del tuo cuore, perché il mio veleno entrasse in circolo e facesse marcire il tuo sangue. Ma non moriresti subito. No. La tua agonia sarebbe più atroce. Sentiresti il sangue bruciare la carne e sfaldare i muscoli. Sì, credo che la sensazione sia questa. Un po' come essere messi al rogo e sentirsi ardere via i tessuti dalle ossa.»

D'istinto avevo preso a respirare più velocemente. Jacopo era morto a quel modo. Tra atroci sofferenze, come se fosse bruciato vivo.

«Stai cercando di vendicare la morte di tua madre, Tancredi? Perché se è così, sappi che mi hai venduta a chi l'ha condannata a morte.»

«Ti sbagli di nuovo.» La sua mascella si era contratta. Avevo toccato il punto giusto, almeno in parte. Tancredi voleva riscattare la fine orribile di quella madre che non aveva mai conosciuto. Tuttavia, la sua emozione durò solo un istante.

«Ma vedrai tu stessa quanto sei in errore. Seguimi. Sei attesa nella Sala della Giustizia.»

Il campanello suonò nella mia mente solo in quel momento, mentre Tancredi mi accompagnava con gelido garbo fuori dalla cella e i soldati ci seguivano. Avrei dovuto riconoscere le loro armature dalle descrizioni di mio padre. Non erano semplici guerrieri, ma guardie papali.

Castel Sant'Angelo. Che idiota ero stata, Tancredi l'aveva appena detto. Mi trovavo nelle prigioni di Castel Sant'Angelo.

Tancredi Bentivoglio non mi aveva venduta ai suoi fratelli, affiliati alla fazione di Lucrezia. Era in combutta con Papa Giulio II.

 

Attraversammo stretti corridoi dalle alte volte, dai muri ruvidi e spogli. Non so per quanto camminammo: ero ancora intontita dal brusco sonno a cui ero stata costretta, e la carne sotto le catene iniziava a pulsare. In quella confusione, mille domande si affacciavano alla mia mente. La famiglia di Martino era al sicuro? Non avevo condotto i Templari da loro, vero? E Jacopo, quanto a lungo era rimasto vivo e dolorante, prima che il maledetto veleno di Tancredi spegnesse la sua brillante coscienza per sempre? E mio padre, cosa avrebbe detto quando avesse saputo? Avrebbe messo di nuovo a repentaglio la sua vita? Sarebbe stata la fine per l'Ordine? Avevo distrutto ogni nostra flebile speranza, per il mio capriccio di rivedere l'uomo che amavo?

La Sala della Giustizia si rivelò non molto più ampia dei corridoi che avevo appena attraversato. Era disadorna, ad eccezione di un grande affresco che sovrastava il lunotto sopra un portale di legno intagliato. Rappresentava un angelo che brandiva una spada, imperioso, bellissimo, spietato.2

C'era una sorpresa ad attendermi, in quella sala. Seduto su un seggio di legno, incatenato per i polsi e con il viso segnato da profonde sofferenze, stava l'ultimo uomo che avrei immaginato di trovare lì.

Non lo riconobbi subito. Aveva la testa chinata, e ciuffi di capelli più lunghi gli coprivano il volto. Poi, un lungo brivido gli attraversò le spalle. La testa si alzò lentamente, e gli occhi grigio-verdi emersero dalle ciocche nere, trovandomi. Riconoscendomi.

Emisi un gemito strozzato, che mi nasceva dalla bocca dello stomaco, dove odio e dolore ancora si rimescolavano con forza implacabile quando il pensiero correva anche solo per sbaglio a lui.

Perché l'avevano preso? Cosa c'entrava Vanni con tutto questo? Perché ci avevano presi entrambi? Perché?

Quelle domande ruggirono così forte nella mia mente da darmi una fitta intensa, che per un attimo mi fece tremare e oscillare la testa. Serrai le palpebre, le riaprii. La stanza continuava a vorticare.

«Siedi» ordinò Tancredi, e le sue mani mi condussero su uno scranno posto di fronte a quello di Vanni. Avevano fiaccato la sua volontà, e ora avrebbero fatto altrettanto con la mia.

Dovevo pensare con lucidità. Dovevo lottare contro quel senso di torpore, ed essere vigile. Non mi avrebbero avuto facilmente. Non importava in quanti modi programmassero di strapparmi informazioni, suppliche, dignità. Sarei rimasta me stessa fino alla fine.

Quando mi tolsero le catene, fu solo per far scattare quelle che mi ancorarono ai braccioli dello scranno.

Sentii le mani di Tancredi sulle spalle. Si era portato dietro di me, e ora mi costringeva ad alzare il volto per guardare il templare che era seduto lì di fronte. Il templare, sì. Non mio fratello, non più.

«Capisci perché non potevo permetterti di ucciderlo, a Mirandola?» disse il medico. Se avessi avuto energia sufficiente, avrei voltato di scatto il viso per mordergli la mano. Ma le sue dita mi tenevano saldamente, affondando nella mia carne: mi arresi a quel contatto che mi repelleva.

«Hai fatto cadere in trappola anche lui.»

Non era una domanda. Tancredi non la intese come tale.

«All'inizio, ero incerto. Credevo che sarebbe stato più difficile fare il triplo gioco. Pensavo sarei stato scoperto subito, e temevo di aver trascinato la piccola Simza in una missione suicida.» Una pausa. Non potevo vederlo, ma non sentivo alcun sorriso saccente tirargli la voce. «Vi siete rivelati tutti meno svegli di quanto temessi.»

Vanni non parlava. Guardava il medico con lo stesso disprezzo che mi animava, e cercava di evitare il mio sguardo come io il suo. Sembrava troppo provato per aprire bocca.

Cosa gli avevano fatto? Cosa mi avrebbero fatto?

«Cosa vuoi da noi?» sibilai.

«Non sono io che voglio.»

«E chi allora?»

La porta sotto l'affresco dell'angelo si aprì, in quel momento.

Ne apparve un vecchio. Sì, niente più che questo. Un vecchio maestoso, avvolto in un manto purpureo, con i ricami dorati delle vesti a riverberare la scintilla regale dei suoi lineamenti rapaci. Ma era pur sempre un vecchio, ogni ora più vicino alla fine della sua esistenza.

Eppure, i suoi occhi. Oh, gli occhi di Giuliano della Rovere erano un concentrato di tenacia, energia, volontà. C'era brama, in quegli occhi scuri, e una forza che non ho mai più incontrato in nessun altro uomo o donna. Per un attimo confuso pensai che erano i suoi occhi a tenerlo ancorato alla vita.

«Io» disse, con la voce stentorea per cui era tanto famoso. «Sono io che voglio, bambina. Ed io avrò.»

Le guardie si erano sistemate agli angoli della stanza, e batterono le armi sulle corazze al suo ingresso. Quello non era un saluto che si riserva ad una guida spirituale, ma ad un generale pronto per la battaglia.

Alzai il mento. Gli avrei dimostrato di che pasta erano fatti gli Auditore. Non mi sarei lasciata intimidire da lui.

«E cosa speri di avere da me, vecchio?» risposi, mentre lo osservavo avvicinarsi con passo regale. Si portò esattamente al centro tra i due scranni, in mezzo a me e Vanni. Mi guardò a lungo, come a stimare il mio valore in oro. Notai che non aveva il Pastorale, con sé.

Poi, allungò la mano verso Vanni. Gli afferrò i capelli con violenza, alla base della nuca. Lo costrinse a un gemito, e fissò con indifferenza la reazione prodotta dal proprio gesto.

«Voi siete il seme di Altaïr. Nel vostro sangue è racchiuso il segreto per governare i Frutti dell'Eden...voi, della stirpe infame di Caino, avete la chiave per svelare l'infinita conoscenza che il Serpente cela.»

Dunque, era stato il Serpente ad aver ridotto Vanni in quello stato. Ricordai il modo cauto in cui tutti, compreso mio padre, lo maneggiavano. Il più pericoloso dei Frutti, il meno conosciuto. Ci avevano voluti qui perché eravamo la Progenie del Profeta: se noi non potevamo controllare quel manufatto inestimabile, nessuno avrebbe potuto.

«Se moriamo» sibilai «quei segreti moriranno con noi.»

Il viso del Papa si fece grifagno, per un impercettibile momento.

«Sarà valsa la pena tentare.» Rilasciò bruscamente la testa di Vanni e batté le mani nodose tra loro. Solerte, una guardia apparve dalla stessa porta di legno da cui Sua Santa Malvagità aveva fatto il suo ingresso. Teneva tra le mani un cuscino di velluto rosso, ma anche nel mio annebbiamento notai che sembrava spingere quelle mani il più possibile lontane dal corpo, come a voler evitare con tutto se stesso ogni eventuale contatto. Sul cuscino, il Serpente si attorcigliava su se stesso, con l'occhio rubino così acceso che sembrava danzare nella sala alla ricerca di una preda.

E la sua preda oggi ero io.

Quando il soldato gli si fermò accanto, le dita rinsecchite di Giulio II aprirono a forza le mie. Erano fasciate da morbidi guanti di capretto, ma sembrarono quasi tagliarmi la carne per quanto erano dure. Afferrò il frutto, me lo cacciò nel palmo. Attesi il dolore, che non arrivò.

Il Papa si chinò su di me, poggiandosi su i braccioli che mi tenevano prigioniera. Si inarcò lentamente, il suo naso adunco sembrava essere pronto a squartarmi.

«Dicono che il serpente abbia parlato a una zingara con la voce di Dio» sibilò «Dicono che le sia bastato desiderarlo. Se vuoi salva la vita, Bianca Auditore, desidera e parla con Dio.»

Sogghignai. Non avevo niente da perdere. «Lo farei volentieri. Ma Dio non esiste.»

Il colpo arrivò così veloce che per un attimo non avvertii il male. Fu uno schiocco sordo, e poi un pizzicore intenso. La mia guancia iniziò a pulsare, e il taglio lasciato dal rubino poco sotto il mio occhio a bruciare come l'inferno.

Il Serpente era stretto nel pugno del Papa Guerriero, e sulle scanalature simili a squame correvano via veloci gocce del mio sangue.

«Stupida ragazzina. Credo che tutto inizi e finisca con te? So ogni cosa. I miei occhi sono ovunque, le mie mani possono raggiungere qualunque insignificante creatura tu abbia mai amato. Posso stringere il pugno e distruggere il tuo mondo. Perciò smettila di giocare all'eroina, se non vuoi rimpiangerlo sulle tombe dei tuoi cari.»

«Sono solo parole» digrignai i denti. «Non hai niente con cui ricattarmi e cerchi di spaventarmi con un'ombra.»

«Ascoltalo!» irruppe la voce di Vanni, spezzata da una disperazione che non vi avevo mai sentito dentro. Sulla spalla di Della Rovere, potevo vedere il suo viso. I nostri sguardi si incrociarono per la prima volta. E il resto della frase suonò come una supplica. «Sanno...dov'è Leonardo» .

Il sorriso che piegò le labbra secche del Papa mi fece tremare il cuore.

«A volte basta una piccola vita per tenerne sotto controllo altre dieci. Com'è scontato e meschino l'animo dell'uomo. Così privo di grandezza.» Spinse di nuovo il Frutto nel mio palmo. Il sangue mi colò dal graffio sotto l'occhio. Sì, come una lacrima.

«Parla con Dio» sillabò di nuovo il Papa.

Chiusi le palpebre, le sentii fremere. Il piccolo Leonardo, la prima volta che l'avevo stretto tra le braccia. Il suo cespo di capelli rossi, la sensazione del mio dito stretto nel suo palmo paffuto, l'odore della sua pelle che sa di tutte le cose buone e innocenti del mondo. Gli stessi occhi di mia madre.

Gli uomini di mio padre lo proteggevano. Ma se tra loro si fosse nascosto un traditore? Se le guardie del Papa li avessero aggirati o sopraffatti? Ero davvero disposta a correre il rischio per il mio stupido orgoglio?

Plutone, o qualunque altra creatura tu sia, pensai. Parlami. Darò la mia vita se serve, ma non quella del bambino. Parlami. Dimmi quello che questo pazzo vuole sentire...ti prego, dimmi che esisti. Ti prego.

Il formicolio si spanse lungo le linee della mia mano. La testa si fece leggera, le sensazioni attutite. E in un attimo fui in un altro posto.

 

...e correvo disperatamente. Con la certezza che sarei arrivato troppo tardi. Con le viscere che correvano lungo la colonna vertebrale, la avviluppavano, e salivano a strangolare il cuore...

 

Spezzoni di dialogo nella mia mente. Voci care al cuore. Voci completamente sconosciute.

 

«Cos'hai fatto?»...

«...le bestie non pasteggiano dei loro simili. Gli uomini sì...»...

«...troppo tardi per cambiare strada»...

«...non puoi osare tanto! Fermati»...

 

Il colpo che riverbera attraverso i miei polsi. Il suo battito che si spegne dentro le mie vene, e lui che mi guarda per l'ultima volta.

 

«...fino alla fine dei tempi ed oltre, sia maledetto il nome di Caino.»

 

Mi risvegliai con la testa pesante, e le ossa scricchiolarono sulla dura branda della mia prigione. Strizzai le palpebre. C'era luce che filtrava dall'alta finestrella, sentivo dei passi lassù. Voci confuse, brusii di vita.

Sentire la libertà che si dispiegava sulla mia testa era molto più crudele che vivere in un isolato silenzio. Il mondo era a un passo, ma io non potevo averlo.

Mi alzai a sedere, faticosamente, facendo tintinnare le catene mentre cercavo di rimettere insieme ogni muscolo del mio corpo, imbevuto di dolore.

«Ben svegliata.»

Sobbalzai, e portai d'istinto le spalle al muro. Da dove proveniva quella voce?

Il cervello ci mise qualche attimo ad attivare i suo ingranaggi.

Vanni. La voce era la sua, e sembrava fiacca. Eppure, suonava vicina.

«La crepa» disse lui, interpretando fin troppo rapidamente il mio silenzio.

C'erano un paio di pietre smosse, un buco che la sera prima non avevo notato. Non era più grande di una tana per topi, ma uno spiraglio di luce filtrava dalla parte opposta della parete. Immaginai un ambiente simile a quello in cui ero rinchiusa. Probabilmente anche lui era inerme, incatenato e fiacco.

«Meraviglioso. Mi sveglio in una prigione, con la testa che pulsa e te come vicino. Peggio di così non credo possa andare.»

Posso quasi sentire il rumore del suo sogghigno. «E' evidente che i topi non hanno ancora trovato appetibili le tue gambe. Aspetta qualche giorno, sorella.»

Provai un brivido. «Non chiamarmi così.»

Silenzio.

Chiusi gli occhi, come a scacciare i residui di un incubo. E mentre ancora tentavo di rimettermi insieme, sentii la voce ironica di Vanni.

«Sei riuscita a parlare con Dio?»

«Ero nel corpo di Caino» dissi, asciutta. «C'erano delle voci, ma non sono riuscita a distinguerle...»

«Le bestie non pasteggiano dei loro simili, gli uomini sì.» Fece una pausa. «Io ero nel corpo di Abele.»

Mi ammutolii di nuovo. Caino e Abele, i fratelli che ruppero i vincoli del sangue per la prima volta. Il primo assassino, il primo templare. Sarebbe finita così, tra me e lui...non era una domanda, ormai, ma una certezza.

Sentii il bisogno di schiarirmi la voce, prima di riaprire bocca.

«Sapevi di Leo.»

«Ho i miei informatori.»

«Non ti sei mai fatto vivo con Ilaria. Mai una volta.»

«Ho osservato lei e il bambino, per tutto questo tempo.»

«E immagino non ti sia venuta mai voglia di conoscere tuo figlio.»

La sua risposta non sembrava intaccata dal mio pesante sarcasmo.

«Ho dovuto proteggerlo.» Un'esitazione. «L'amore rende vulnerabili. E' qualcosa che non possiamo permetterci di vivere come fanno le persone normali.»

Sbagliava. Avrei voluto urlarglielo. L'amore ci rende umani, ci rende forti...ma cosa poteva saperne, lui, dell'umanità e della forza. Aveva ucciso un nostro confratello, si portava ancora l'odore della sua morte addosso.

Dopo un silenzio che sembrò non finire, sentii la voce di Vanni più salda. Tagliente.

«Per curiosità, come sono riusciti a incastrare la fantastica Bianca Auditore, la grande erede del Mentore? Ti hanno sorpresa nel sonno o cosa?»

«Non provocarmi, Vanni.»

«Perché? Sennò mi uccidi?» Una risata spezzata. «Non lo capisci che è per questo, che siamo qui? Il Papa vuole che attiviamo il potere del Serpente, e per farlo impazziremo. Le nostre coscienze si fonderanno con quelle di Abele e Caino. E lui potrà mostrare a Ezio lo spettacolo, quando ci scanneremo a vicenda.»

«Io non impazzirò.»

«Boriosa come sempre.»

Maledetto figlio di...no, non potevo nemmeno pensarlo, questo.

«I Frutti dell'Eden non mi hanno mai soggiogata.»

«I Frutti dell'Eden soggiogano tutti. E' solo questione di tempo. C'è chi cede prima, e chi ne viene lentamente corroso...ma non c'è uomo che non sia profondamente intaccato dal potere, Bianca. Anche quel padre che difendi sempre con tutte le tue forze, non è diverso dal resto del genere umano.»

A quell'ennesima provocazione, mi sollevai di scatto. Le ginocchia mi reggevano a malapena in piedi: non importava. Battei i pugni incatenati contro il muro, e Dio, come avrei voluto che fosse la sua faccia a riceverli.

«Non ti azzardare nemmeno a nominarlo, sporco traditore!»

Dall'altra parte, la sua voce schioccò come un latrato. «Smettila di idolatrarlo, tiralo giù dal piedistallo su cui l'hai messo!» Era così vicino. Non mi serviva l'influenza del Serpente per desiderare di mettergli le mani intorno al collo. «Guarda Ezio Auditore, l'uomo, non il padre che veneri. Credi che non sapesse quello che faceva quando ha mandato il Drappo Rosso a Mirandola? Era una missione suicida. Ha buttato una manciata di uomini in una tenaglia: da una parte noi, dall'altra i papalini. Ha scelto chi poteva sacrificare più facilmente!»

«Ti sbagli! Lui era pronto a consegnarvi il Serpente e se stesso per salvarli! Lui...»

«Lui sapeva che Nicola avrebbe fatto quello che ha fatto pur di impedirlo.»

Deglutii a vuoto, e odiai quella fitta di dubbio che mi attraversò.

«Ma non poteva immaginare che tu saresti arrivato a tanto.»

«Ne sei sicura?»

Tremavo. Detestavo Vanni così tanto, che in quel momento nel mio cuore non c'era spazio per nessun altro sentimento. Strinsi forte i pugni per contenere l'ondata di collera, il mio corpo provato non poteva reggerla.

«C'è una sola cosa...di cui sono sicura.» La voce mi tremava. «Io ti ammazzerò, Giovanni Antonio Auditore. Non avrò pace finché non l'avrò fatto.»

«Sono certo di questo.» Il suo respiro sembrava gravato da un peso, ma attraverso il mio ansimare quasi non lo sentii. «Mi chiedo solo come lo spiegherai a mio figlio.»

Se fossi stata meno accecata dalla rabbia, forse mi sarei accorta del dolore rassegnato che c'era in quelle parole. Ci pensai, più tardi. Ma al momento la avvertii soltanto come un'altra provocazione, che non raccolsi.

Ero stremata. Rinchiusa in una cella, con la persona che meno potevo tollerare dall'altra parte del muro, e tutto il resto del mio mondo lontano, irraggiungibile. Nelle lunghe ore che seguirono, mentre restavo accucciata sulla branda cercando di ignorare i crampi di dolore e le parole di Vanni (quelle cattive e quelle addolorate), mi chiesi se Martino sapesse che ero sparita. Pregai di no, con tutte le mie forze. Pregai che continuasse la sua vita tranquilla, lontano dalla guerra che io e quelli come me avevamo portato da lui. E se davvero fossi morta laggiù, sperai che trovasse la forza di andare avanti...tenendo con sé solo i bei ricordi, se ancora ne aveva, di quando eravamo giovani e stavamo insieme senza chiederci nulla. A quei ricordi, io mi sarei aggrappata fino alla fine. .

Ci furono altre sessioni di quella tortura che il Papa chiamava parlare con Dio. Plutone non si manifestò mai, ma ogni volta che il Serpente mi trascinava nella memoria di Caino potevo vederli più lucidamente. Erano poche schegge nitide in un mare di nebbia, ma iniziavano lentamente ad emergere. Il volto di Eva, quello di Adamo. Alle volte i loro lineamenti erano chiari nella mia testa, altre volte li confondevo con quelli di Rosa ed Ezio. Il viso di Abele, invece, non lo vidi mai. Ma sentii sempre più nettamente il suo rantolo di morte. Il suo corpo che si accasciava. L'odore del suo sangue. Del mio sangue. Aveva macchiato la tunica bianca di Caino, per sempre...

Bianco e rosso. Possibilità e omicidio. I pilastri su cui il Credo ha costruito se stesso nei millenni.

Ma no. Non omicidio: quello è solo un mezzo inevitabile. Possibilità e vita, sono queste le nostre fondamenta. E insieme, questi due elementi segnano il punto di svolta del cammino dell'uomo: la scelta.

Mi aggrappai a quella convinzione, quando ci riportarono nelle rispettive celle. Mi sdraiai sulla branda, le ginocchia strette al petto, le braccia intorno allo stomaco pulsante. Quelle sessioni dentro il Serpente mi lasciavano spossata e con un profondo senso di nausea, che ci metteva ore ad andarsene. Non che il cibo aiutasse. Per fiaccarci, il Papa ci nutriva soltanto a pane ed acqua, il minimo indispensabile per tenerci in vita fino a che non avessimo scoperto il segreto di Plutone.

«Come siamo arrivati a questo?»

Le parole mi sfuggirono dalle labbra senza che lo volessi. Avevo bisogno di sentire il suono della mia voce, e – lo realizzai appena ebbi formulato la frase – di avere una risposta. Mi sembrò passasse un tempo interminabile, prima che questa arrivasse dall'altra parte del muro, dove Vanni giaceva altrettanto prostrato e sconfitto.

«Abbiamo solo seguito la nostra strada.»

«Se non ci avessero portati a Ferrara, la nostra vita sarebbe stata diversa.»

Era la prima volta che lo dicevo a lui. Me ne pentii subito. Suonavano come scuse, ed io non avevo nulla di cui scusarmi. Non con Vanni.

«Non ha senso chiederselo.»

«Sì, ne ha. Sono sicura che non mi odiassi, prima di Ferrara. Da quando siamo tornati a casa, non hai fatto che gettarmi addosso la tua invidia e il tuo rancore.»

«E non ti è mai venuto in mente di chiedermi perché, non è vero?» Era flebile, la sua accusa. Sembrava che non avesse abbastanza forza per gettarmela addosso, ma mi colse comunque con le difese abbassate. «Dio, Bianca. Se avessi potuto smettere di brillare, almeno per un momento. Se avessi potuto smettere di lasciare senza fiato tutti quanti...Bianca è così bella, Bianca è così coraggiosa, Bianca è davvero figlia di suo padre! E io? Non ero figlio di mio padre? A un certo punto ho iniziato a crederci. Forse ero figlio di qualcun altro, uno qualsiasi, uno che non fosse quell'uomo che mi guardava come se fossi un fallimento. Ma tu che ne sai? Lui si è sempre specchiato in te. Ti ama perché gli somigli. E' così vanitoso, e tu sei la giovinezza che non ha più. Io ero quello sbagliato, invece. Quello diverso.»

Ammetto che l'anima fu punta da quelle parole, contro il mio stesso volere.

Da bambina avevo avuto la sensazione di essere l'unica, insieme a mia madre, a sforzarsi di tenere insieme gli universi contrastanti che erano mio padre e mio fratello. Invece, probabilmente non avevo fatto altro che contribuire al divario tra loro. Cosa avrei potuto fare per cambiare le cose? Ah, che domanda inutile. Ormai non c'era possibilità di tornare indietro, nessuna opportunità di redenzione.

«Se mi avessi parlato...»

«Non sarebbe cambiato niente.» Un respiro. «Nemmeno tu hai mai pensato che valessi qualcosa. Lucrezia Borgia è stata l'unica a credere in me.»

Solo sentir pronunciare quel nome mi fece salire un conato amaro lungo la gola.

«Dio...è disgustoso.»

«Cosa?» la voce di Vanni era sempre flebile, ma più incattivita «Che qualcuno possa credere in me, ti sembra così difficile? Eppure anche io sono un buon guerriero. Anche io posso...»

«E' disgustoso questo tuo...non so come chiamarlo. Amore? Libidine? Fin dal primo giorno in cui hai visto quella donna qualcosa dentro di te si è rotto. E' stato come se lei ti avesse gettato contro un sasso...ti ha spezzato, e non sei più stato lo stesso da quel momento in poi.»

«Sai cosa è veramente disgustoso? Il tuo mondo fatto solo di bianchi e neri. Non è lussuria quello che mi lega a Madonna Lucrezia, non oserei nemmeno pensare a lei in quel modo.»

«E cos'è allora?»

«D'improvviso ti interessa capirmi?»

Silenzio. Pesante, umido. Interrotto dallo zampettare dei topi. Mi morsi forte il labbro, prese a sanguinare. Non volevo attrarre i ratti verso di me, perciò succhiai furiosamente le gocce implacabili che continuavano a uscire dalla spaccatura. Quel sangue era come le parole cattive tra me e mio fratello. Bastava un niente per spalancare la voragine e farle uscire copiose, fino allo sfinimento. Sembrava potessero continuare per sempre. Sembrava potessimo dissanguarci a forza di insulti e rinfacci. Contro contro cuore, per vedere quale dei due si sarebbe consumato per primo.

Poi, in tono meno amaro, Vanni riprese a parlare. La sua voce suonava più vicina. Immaginai che avesse poggiato la tempia alla parete. Per poter parlare più piano. Forse solo per stanchezza.

«Basta discutere, adesso. Conserva le forze. Forse domani riuscirai a uccidermi, e tutte queste domande non avranno più senso.»

Chiusi gli occhi. Nella mia coscienza confusa si mischiarono rapidamente immagini del nostro passato, quando ancora eravamo bambini, ed eravamo felici. Poi quei frammenti di esistenza si sciolsero nel destino dei due fratelli che avevano dato inizio alla guerra tra Templari e Assassini, e per la prima volta vidi nettamente il nostro futuro. Io, che affondavo la lama celata nel cuore di Vanni. Io, Caino, uccidevo il mio Abele. Vedevo il senso di colpa di nostro padre e il grido spezzato di nostra madre. La nostra famiglia che si sgretolava per sempre. Non per mano di Vanni, questa volta. La colpa era soltanto mia.

Sotto le palpebre livide, piansi lacrime di fuoco; lo feci tanto a lungo che finii per addormentarmi, e non distinsi più i confini di presagio e sogno.

 

Mi risvegliai dopo molte ore, più offuscata di prima. La mia testa era oppressa dal cerchio rovente che sembrava una costante del mio soggiorno a Castel Sant'Angelo. Nonostante questo, avvertii nettamente la presenza accanto a me.

Se ne stava ferma. A malapena respirava, forse per paura di svegliarmi.

Socchiusi gli occhi. La luce della candela che il nuovo arrivato reggeva scivolava sul muro contro cui il mio viso era rivolto.

«Sei qui per portarmi dal Papa?»

Nessuna risposta. Sentii poggiare la candela a terra, poi due piedi leggeri scalpicciarono verso di me. Un panno fresco, imbevuto dell'essenza di qualche erba profumata, si poggiò sulle piaghe che i morsi dei topi avevano lasciato.

«Va' via, Simza. Non voglio il tuo aiuto.»

Avevo riconosciuto il suo tocco. Mi causava il voltastomaco solo immaginare le sue dita traditrici su di me.

Non avevo abbastanza forza per sottrarmi al contatto. Quando ebbe finito con i piedi, mi prese delicatamente le mani, scostando un poco le catene. Trattenni un singulto. Sangue, carne e ferro si erano saldati insieme in quei giorni. Il panno di Simza passò sopra le piaghe con la leggerezza di una piuma, eppure sembrava che mi avesse inoculato nella pelle una tempesta di aghi.

Mi rassegnai a quelle attenzioni. Non potevo respingerle, in ogni caso.

Aspettai che finisse ciò per cui era venuta, e sperai che se ne andasse presto. Invece, mi prese la mano. Rivoltò il palmo verso l'alto. E il suo dito tracciò i contorni di qualcosa, come...un disegno.

No, lettere.

Dovette scrivere il suo messaggio un'altra volta, perché lo recepissi.

Non. L. Ho. Ucciso.

Mi ci volle qualche istante per capire cosa volesse dirmi.

Jacopo? Simza non aveva ucciso Jacopo?

Con fatica, mi scostai dalla mia posizione rannicchiata. Alzai lo sguardo sulla giovane gitana, era seduta sul letto accanto a me. Gli occhi mi bruciavano tanto che avrebbero potuto cadermi dalle orbite.

Amica, nemica? Perché l'Occhio dell'Aquila non correva in mio soccorso, rendendomi chiaro chi voleva tradirmi e chi era mio alleato? Mi sentivo così stanca. Così logorata.

Abbassai la voce ad un mormorio indistinto. Non sapevo se Vanni dormisse o meno, ma non volevo ascoltasse.

«Per quale motivo avresti dovuto risparmiarlo? Tornerà da mio padre. Darà l'allarme.»

Simza resse il mio sguardo. Le sue iridi si tinsero di quel lilla malinconico che non avevo mai visto in nessun altro essere umano.

Veloci, le dita della gitana corsero di nuovo sulle linee devastate del mio palmo. Le. Cose. Una pausa, per essere certa che avessi assimilato le prime lettere. Ci. Sono. Più intento nei suoi occhi, come se si sforzassero di imprimermi le parole non solo sulla pelle, ma anche nella coscienza. Sfuggite. Di. Mano.

«Forse sono sfuggite a te, ma Tancredi sa quello che fa. Lo sapeva fin dall'inizio.»

La pressione delle sue dita si fece nervosa. Sete. Di. Conoscenza. Lo. Divora. Vuole. I.Segreti. Dei. Frutti.

«Dopo tutto quello che è successo a sua madre?»

Sì.

«E tu non hai cercato di fermarlo?»

Sì.

«Ma non ti ha ascoltata...»

Gli occhi di Simza si fecero di quel blu cupo che ho imparato ad associare al dolore. Li vidi appannarsi di lacrime, quando con l'unghia tracciò piano: Mi. Dispiace.

Alzai la mano, le catene tintinnarono tra loro. Non potevo raggiungere il suo viso, sdraiata com'ero, e non avevo forza sufficiente per sollevarmi. Nonostante questo, Simza comprese il mio gesto. Le lacrime le solcarono il viso mentre guardava le mie dita protese, senza prenderle tra le proprie.

«Ti porterò con me. Ma tu aiutami ad uscire da qui.»

Il viso bruno si abbassò di scatto. Portò i pugni sulle ginocchia, li strinse forte. Lo vidi, tremavano.

«Fai la cosa giusta. Come io l'ho fatta per tua madre. Simza...ti prego. Tu non sei lui. Devi decidere per te stessa.»

Rifuggì il mio sguardo, e prese in fretta le sue cose. Il suo peso leggero si sollevò dal materasso.

«Non andare via. Ti prego, ascoltami...»

Quando sentii la porta della cella sbattere e chiudere di nuovo i suoi catenacci, capii che la mia ultima possibilità di andarmene da quel buco infernale era appena bruciata.

Note

1Tancredi precorre i tempi. In realtà, per perfezionare il sistema galenico e iniziare a teorizzare qualcosa di più simile alla circolazione sanguigna per come è in realtà, bisognerà aspettare il 1600 e le teorie di William Harvey.

2L'affresco rappresentante San Michele, ad opera di Domenico Zaga, è datato intorno al 1545 – dunque di molto posteriore alla nostra storia. Quella che oggi è denominata Sala della Giustizia potrebbe essere stata usata come cappella, in realtà. Io come al solito ho ricamato grandemente sull'utilizzo di questa stanza...


NdBlackFool
Ho deciso di pubblicare con un po' di anticipo, anche se forse non è una cosa saggia visto che per impegni vari non ho finito ancora il 43...ma non sono particolarmente preoccupata, lo ammetto: quel capitolo è mezzo scritto e sono certa di farcela per il 15 novembre. In queste ultime settimane ho lavorato ad un progetto su commissione che mi ha tolto molto tempo ed energia (lo sto pubblicando tra le storie originali, si chiama Scritto nel Sangue ed è un fantasy ambientato in ambito vichingo: passate, se vi va di darci un'occhiata ^_^), ma dalla prossima in poi sarò più libera di dedicarmi a BCP, promesso!
Ecco, ora sappiamo di chi è prigioniera Biancarè, e...dai, davvero avevate pensato che potessi uccidere Jacopo? :P Vabbè, lo so, dopo Nicola non ci sono più certezze...questa volta ho bluffato. Ma chissà la prossima...*risata malefica in sottofondo*
Grazie di cuore per essere passati di qui. Alla prossima!

Laura.

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Capitolo 43
*** Un salto nel buio ***


 

No matter what gets in my way
As long as there's still life in me
No matter what, remember:

you know I'll always come for you.

(Nickelback – Come for you)

 

 

Le mie notti erano piene di incubi. Era un delirio leggero, quello che mi prendeva. Risentivo le parole di Abele e Caino, le ascoltavo trasformarsi nella voce di Vanni, nella mia. Vivevo il senso di colpa straziante di aver ucciso mio fratello, insieme alla consapevolezza di aver ammazzato un nemico, un estraneo, qualcuno che mi avrebbe provocato soltanto guai. Vedevo mia madre impazzire, e mio padre gridare contro il cielo il dolore che lo lacerava. La mia anima diventava una bandiera nel vento, strappata, senza più stemma. Senza direzione. Senza senso.

Mi svegliavo impregnata di sudore, lievemente febbricitante. Alle volte, Simza passava la notte al mio capezzale, mi somministrava intrugli che scorrevano amarognoli e freschi nella mia gola. Mi sentivo un po' meglio, dopo. Lasciava sempre dietro di sé odore di timo, che riusciva a sollevarmi i pensieri e a farmi dimenticare che ero sull'orlo della follia.

Ma non era lei, la presenza che mi si avvicinò nell'ombra quella notte.

Avevo perso il conto dei giorni. Faticavo a scandire le ore di veglia da quelle di sonno, anche se tentavo disperatamente di aggrapparmi a uno scorrere del tempo che desse un senso a quello che stavo vivendo. Quattro, avevo calcolato. Quattro giorni di quella tortura. Al settimo, diceva il Papa, sarebbe tutto finito. Il Settimo giorno, quello in cui Dio riposò, avremmo raggiunto l'Illuminazione. O l'Oblio.

Voltai il viso, lentamente. Le medicine di Simza avevano mandato via il senso di oppressione nella mia testa, ma non ero ancora al pieno delle mie forze.

Un brivido mi scosse quando vidi il contorno delle spalle ampie, e l'inconfondibile sagoma di un cappuccio che si avvicinava. Erano venuti. Erano venuti per me.

Il nuovo arrivato mosse un passo verso di me. Un raggio della luna colpì il suo viso sotto il cappuccio. La stretta sul mio stomaco si fece più forte.

«Martino...?»

«Shhh.» Si portò un dito alle labbra, prima di chinarsi su di me. Sì, era lui. Volevo rivederlo. Volevo rivederlo così tanto...

Lacrime di sollievo mi tremarono negli occhi e scivolarono sulla guancia. Martino le asciugò con un gesto leggero della mano.

«Scusa se c'ho messo tanto» bisbigliò. «Mo va tutto bene. Te porto via de qua.»

Gettò una rapida occhiata alle proprie spalle, prima di iniziare a scardinare le mie catene con la lama celata. In uno scatto, i miei polsi furono liberi dal ferro, e qualche strato di pelle vennero via con le catene, lasciando pulsare la carne viva. Trattenni un mugolio di dolore.

Martino passò un braccio intorno alla vita, aiutandomi ad alzarmi in piedi. Vacillavo, ma non ebbi il tempo di preoccuparmene, perché lui mi strinse forte a sé. Affondai il viso nella sua giubba color vinaccia, le narici furono invase dal suo profumo. Sì, era reale.

«Je 'a fai a cammina'?»

«Sì, credo di sì.»

«Sbrigatevi.»

Un'altra voce. Bassa, ma inconfondibile. Mio padre.

Non alzai lo sguardo su di lui, quando Martino mi aiutò ad uscire dalla cella. Avevo paura del suo giudizio. Mi aveva detto di non partire da sola per Capodimonte, e aveva avuto ragione. Chissà quanti uomini avevo messo in pericolo per quella missione. Chissà quanto gli era costato venire a riprendermi...

Fu Ezio ad alzarmi il viso nella luce delle torce che tremolavano nei corridoi. Lo studiò, serio, per qualche istante.

Mi chiese con gli occhi se stessi bene. Gli risposi, con gli occhi, di sì.

«Andiamo» sussurrò, secco. Intorno a noi c'erano tre soldati accasciati a terra. Li avevano uccisi, o solo storditi? Non importava. I loro rinforzi sarebbero arrivati presto.

Mio padre fece per aprire la strada, ma lo fermai, prendendogli il braccio. Le mie mani piagate mandarono una lieve scossa di dolore.

«Vanni. E' qui.»

Lui esitò solo un momento, prima di rabbuiarsi.

«Lo so.»

Fece per proseguire, Lo tenni stretto. Altro dolore.

«Non possiamo...»

Qualcosa guizzò nella bocca di Ezio. Come un moto di rabbia. Fece per replicare, poi all'ultimo momento alzò lo sguardo su un uomo che stava provenendo dal corridoio.

I miei nervi provati si tesero, ma mio padre e Martino non si misero in posizione di difesa. Conoscevano la cappa brunita che oscillava nella penombra. Quando si fece più vicino, lo riconobbi anche io.

«La strada è libera.»

La voce di Ermes Bentivoglio era secca. Tra lui ed Ezio passò un lampo di sottile ostilità. Poi, mio padre annuì. «Bene.»

Cosa stava succedendo?

Si erano alleati...?

Per salvare me e Vanni, certo.

I miei compagni erano scesi a patti con i carnefici di Nicola e del Drappo Rosso, per me...

Le ginocchia mi cedettero. Fu a quel punto che Martino mi caricò sulle proprie spalle, ed io non protestai. Strinsi gli occhi a due fessure mentre guardavo il Bentivoglio, per contenere l'odio dietro le palpebre. Inutilmente.

«Attenti ai ballatoi» aggiunse il templare bolognese, prima di iniziare a scardinare la porta che teneva prigioniero Vanni con un sottile stiletto. Non vidi altro, perché i miei compagni gli voltarono le spalle e se ne andarono per la loro strada.

Martino e mio padre scivolarono di ombra in ombra lungo i corridoi. Non so per quanto tempo, ogni sobbalzo mi sembrava l'ultimo che potessi sopportare. Quando un rumore ci sorprese alle spalle, Ezio andò avanti, per aprirci la strada; quella corsa di soppiatto non finiva mai, come un letale nascondino.

Mentre attendevamo il ritorno di mio padre, avvertii un sussulto nelle spalle di Martino. Immediatamente dopo, distinsi anche io il suono. Stivali di soldato sulle scale. Stavano arrivando nemici anche dalla parte opposta.

Martino scartò in una rientranza del muro, pressandoci entrambi dietro un'anfora posta su un grande piedistallo. Troppo tardi. Ci avevano visti.

«Ehi, voi! Cosa...»

Gli occhi del soldato si sgranarono. Fu sbilanciato in avanti. Cadde riverso, l'elsa di uno dei pugnali da lancio di mio padre piantata nella nuca.

Ezio sopraggiunse un istante più tardi. «Ce ne sono altri» ci informò, trascinando Martino e me verso una scala che conduceva verso il basso.

«Dove annamo, Mentore? Dovemo scappà dar tetto.»

«I corridoi sono pieni di guardie, Martino.»

«Semo in trappola, qua. Appena trovanno quer cadavere s'apre 'a caccia.»

«Non abbiamo altra scelta. Vieni.»

Pensai brevemente, confusamente, a Ermes e Vanni.

Se la sarebbero cavata?

La cosa mi importava?

Mio padre ci condusse quello che sembrava un magazzino di botti, cime di corda e casse non meglio identificabili. Martino gli strinse il braccio.

«Mentore... dovemo mette 'n atto 'r piano de riserva.»

«Non ancora.»

«Come avete detto voi...nun c'avemo scerta.»

Mio padre non mi guardò. Il mio viso era accanto a quello di Martino, e lui lo evitò di proposito, lo so. Non potevo vedere l'espressione del mio compagno, ma il tendersi dei suoi muscoli mi disse tutto ciò che dovevo sapere. Non mi sarebbe piaciuto quel piano di riserva. Non mi sarebbe piaciuto affatto.

«D'accordo, ragazzo. Fa' quello che devi, in fretta.»

Avrei voluto avere abbastanza energie per ribellarmi, quando Martino mi rimise a terra.

«Che cos'è il piano di riserva?» sibilai, con il fiato corto.

«Gnente» bofonchiò lui, mentre mio padre osservava dietro la colonna se ci fossero soldati in arrivo.

«Cosa devi fare? Dimmelo!»

Il cuore mi gelò, quando lo vidi sganciare dalla cintura le sacche dove teneva l'esplosivo.

«Vado là e li distraggo 'n pochetto.»

No. Ricordavo Bologna, il colle della Guardia, l'attentato al Papa che doveva fungere da distrazione per permettere ad Ezio e me di raggiungere la Torre degli Asinelli. No...quella volta Martino aveva messo a repentaglio la vita, e io non volevo...non potevo...

«E' troppo rischioso.»

«Così ve do 'r tempo de scappà.»

«Non voglio!» sbottai, terrorizzata, aggrappandomi alle sue braccia. Forse, se lo avessi bloccato fisicamente, avrebbe capito che era solo una stupida follia.

Lui mi fece segno di abbassare la voce. Ezio era ancora all'imbocco del muro, ci dava le spalle.

«Sbrigati, Martino. Non abbiamo molto tempo»

Fulminai Ezio con lo sguardo. Non l'avevo mai detestato così tanto nella mia vita, lo giuro. Perché prevedere un piano di riserva in cui l'uomo che amavo doveva rischiare la vita? Perché?

Avrei voluto gridare, ma Martino mi trascinò in un angolo il più possibile appartato. Piantò gli occhi nei miei.

«Ascortame, Bià.»

«No!»

«Bianca.» Quel suo chiamarmi per nome mi paralizzò. Fui costretta a inspirare forte, ricacciare in gola il rifiuto, e guardarlo. Guardarlo davvero. Lessi così tanto sul suo volto, in quel momento, che ne restai completamente soggiogata.

Lui si umettò le labbra, prima di proseguire.

«So' stato 'n cretino a Capodimonte. C'avevo paura. Quer che dovevo ditte laggiù...quer che volevo ditte, è che...» Una pausa, in cui il suo sguardo mi rubò il respiro. «Biancarè, sei la vita mia.»

Mi prese il viso tra le mani, e le sue labbra incontrarono le mie in un bacio ruvido, urgente, che sapeva di addio. Ricambiai con altrettanta disperazione, premendo il corpo contro il suo come se bastasse quel gesto a tenerci uniti. L'unica cosa che riuscii a pensare fu: Dio, se ci sei, dammi più tempo. Dacci più tempo...

Passi più forti di soldati nei corridoi. Voci che ci cercavano.

Le parole mi tremarono sulla bocca.

«Martino...io ti amo. Ti ho sempre...»

Lui fermò le mie parole con un dito, e accennò a quel bellissimo sorriso bambino.

«Anch'io, core mio.» Poi, la sua espressione cambiò. Si fece decisa. «E mo' vai. Vai!»

Mi staccò da sé, bruscamente, buttandosi nel corridoio senza voltarsi nemmeno un istante. Mio padre non disse una parola.

Rimasi lì, le spalle contro il muro, a tremare. Volevo andare con Martino, ma le gambe a stento mi reggevano. Ezio aprì una botola nel pavimento. Quando mi toccò, d'istinto mi scostai, raggelandolo con uno sguardo di puro odio.

Per tutta risposta, mio padre passò un braccio intorno alla mia vita, con fermezza. Non mi avrebbe concesso sentimentalismi. «Dobbiamo andare» bisbigliò. «Andrà tutto bene. Devi fidarti di noi.»

Non era solo la debolezza a farmi fremere la pelle. Era un urlo disperato che mi grattava la gola. Tuttavia, sapevo che se fossi caduta di nuovo in mano templare sarebbe stata la fine. Mi avrebbero costretta ad usare di nuovo Il Serpente, e forse questa volta ci sarei riuscita.

Non potevo prendermela con Ezio. La colpa di tutto quello che stava accadendo era soltanto mia.

Mi lasciai trascinare quasi a peso morto per un corridoio stretto, buio, umido. Strasciai i piedi all'infinito nell'acqua che ci arrivava alle caviglie, fino a che non sentii il boato. Il soffitto su di noi tremò, piccoli pezzi di roccia si staccarono e ci finirono addosso. Ezio cercò di ripararmi con il suo corpo.

«Martino...»

«Dobbiamo andare, Bianca.»

Mio padre fece per spingermi via, ma io mi rifiutai di muovermi.

«Voglio aspettarlo.»

«Ci raggiungerà.»

«Non possiamo lasciarlo indietro! Io non lo lascerò indietro!»

«Ti ho detto che ci raggiungerà!» Mi prese per le spalle, fissandomi con decisione. I suoi occhi scuri, rapaci, restarono dentro i miei. «Bianca, Martino è il migliore con gli esplosivi. Abbi fiducia in lui, sa quello che fa.»

Non riconobbi la mia voce, quando mi tremò negli zigomi. «Io non posso perderlo, papà, non posso...»

«Non lo perderai» Ezio era mortalmente serio. «Quel ragazzo è troppo in gamba per lasciarci le penne così, e lo sai anche tu. Abbiamo appuntamento al Covo tra due ore. Te lo giuro, Bianca: tornerà.»

In quel momento, mentre le lacrime mi fiorivano agli angoli degli occhi, capii da chi avevo ereditato il brutto vizio di fare promesse più grandi di me.

 

Al covo sull'Isola Tiberina c'erano ad aspettarmi mia madre e zia Claudia, che mi presero subito sotto la loro custodia protettiva. Mi lasciai manipolare, debole e tesa, mentre il medico metteva unguenti sulle mie ferite, mi somministrava infusi e giudicava quanto avrei dovuto riposare. Il mio sguardo era sempre alla porta.

Ugo arrivò poco dopo, aveva coordinato la spedizione che mi aveva tratta in salvo. Dieci uomini erano serviti per aprire a mio padre e Martino la strada dentro Castel Sant'Angelo. Due erano morti. Volli sapere i loro nomi. Stefano e Carolina. Li impressi nella mia mente. Stefano e Carolina, di cui non conoscevo nemmeno i visi, avevano dato la vita per un mio passo falso.

E Martino? Avrebbe fatto lo stesso? Quell'idiota...sapevo che era pronto a qualcosa del genere. Il mio cuore gridava al solo pensiero.

Mio padre non restò sempre con me, mentre venivo medicata. In compenso, da quella porta che mi faceva sussultare ogni volta che si apriva fece capolino Jacopo. Tesi subito la mano, gli occhi bruciarono forte nel vederlo sano e salvo. Pallido, provato, ma salvo.

Lui prese le dita che tendevo tra le proprie, si inginocchiò accanto al mio letto.

«Sei stato tu a dare l'allarme?»

«Sì.» Fece una pausa. «Perdonami. Marzia e Giuditta mi hanno trovato...non ho potuto tenerglielo nascosto. Martino è voluto venire a Roma a tutti i costi...mi dispiace.»

Gli sorrisi, debolmente.

«Tornerà.»

«Sì», annuì Jacopo, ma rifuggiva il mio sguardo. La prima ora era trascorsa.

Cercarono di farmi dormire. Prima con la dolcezza, poi con la fermezza. Nessuna delle due armi funzionò. A malapena potevo stare ferma nel letto. La mente lottava contro la debolezza del corpo, correva senza sosta, voleva uscire e cercarlo. Zio Ugo mi assicurò che i suoi uomini erano nelle strade per recuperare Martino. Gli chiesi se la parte di Castel Sant'Angelo dove ci trovavamo fosse crollata. Disse che non lo sapeva. Mentiva. La seconda ora era andata via.

Ogni minuto, da quel momento in poi, fu uno stillicidio. Il passare del tempo mi bruciava dentro in granelli di fuoco. Mi rigiravo nel letto senza trovare pace. La compagnia di mia madre e di Lisabetta non bastava a distrarmi, anzi, mi era diventata intollerabile. Fu zia Claudia a chiedere loro di lasciarmi sola.

Rosa protestò, naturalmente, ma nessuno dice mai di no a zia Claudia: nemmeno la mia inossidabile madre.

Prima di andarsene a sua volta, la zia mi prese il viso tra le mani. Non disse niente, mi guardò soltanto con quei suoi occhi scuri. Sono così simili a quelli di nonna Maria. Poi mi baciò sulla fronte.

«Pensavo di averti perso davvero, questa volta.»

La gola mi si chiuse. In un attimo mi lasciai travolgere dall'idea dell'angoscia in cui avevo gettato i miei famigliari. Ricordai il modo spavaldo in cui avevo risposto al Papa, e come fossi stata pronta a buttare via la mia vita nella Sala della Giustizia, per il mio stupido orgoglio.

È sempre colpa del mio orgoglio, non è vero? Io, io, ed io soltanto. Non ho visto altro, per così tanto tempo. Il modo in cui io mi sentivo. Ciò che io volevo dalla vita. Quello che io avrei potuto fare per l'Ordine...ora l'egoismo rischiava di strapparmi ciò che amavo di più, ancora una volta.

Inghiottii un fiotto di pianto, e poggiai le mani su quelle della zia.

«Ho un angelo che mi tiene la mano sulla testa, l'avete dimenticato?»

Lei sorrise. Era così raro, e così bello, quando lo faceva. Mi accarezzò la guancia.

«Andrà tutto bene. Abbi fiducia.»

Bisbigliò questo, prima di lasciare la stanza. Abbi fiducia. Anche mio padre me l'aveva detto...dovevo avere fiducia nel piano, in Martino, nel fatto che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi. Ma come potevo? Era un salto nel buio troppo grande. Questa volta, niente mi avrebbe garantito che ci fosse un covone di fieno pronto a prendermi alla fine del volo. C'era molto più della mia vita in gioco. C'era il mio cuore, pronto a schiantarsi sulla strada una volta e per sempre.

La terza ora era passata. I granelli di fuoco si erano fatti un tremore costante, gelido, sottopelle. Avevo in bocca un sapore amarissimo, non ero sicura se si trattasse degli infusi che mi avevano somministrato o del sangue che era uscito mentre mi masticavo l'interno della guancia. Forse un misto di entrambi.

Fu allora che nella mia stanza entrò l'ultima persona che aspettassi.

Diamante. La sua cappa brunita, le ciocche di capelli una volta corvini – e ora intessuti d'argento – che uscivano dal cappuccio. Lasciò scivolare la stoffa sulle spalle e mostrò un viso segnato. Vecchio. Ma gli occhi viola erano sempre forti, sempre incantevoli.

Seppi subito, d'istinto, che era venuta a darmi una cattiva notizia. Lo leggevo nel modo in cui teneva le mani lungo i fianchi, nel suo incedere lento.

«L'avete...?»

«Non ancora.» Inspirò. Stava cercando il modo giusto per dirmi qualcosa di spiacevole, lo sentivo. «Continueremo a cercarlo...ma si sta facendo buio, i pericoli aumentano. Dovrò ritirare qualcuno dei ragazzi e farlo tornare al covo.»

Fissai i miei pugni, stretti sulle coperte. Speravo che la forza dei miei occhi potesse impedire alle nocche di tremare.

«Perché lui?»

Il sussurro mi raschiò la gola.

La Volpe ci mise qualche istante a rispondere. Sedette sul letto, lentamente. Solennemente.

«Si è offerto volontario, Bianca. Sai che ha esperienza con l'esplosivo più di tutti noi messi insieme.»

«C'era senz'altro un altro modo. C'era, ma voi avete semplicemente accettato la sua proposta, non è così?» Alzai uno sguardo furioso su di lei. Non mi riconoscevo più. C'era una creatura che ruggiva nel mio stomaco e guidava le mie parole: era furente, feroce e crudele. Non potevo controllarla. «Perché Martino era la pedina di troppo. Il pezzo sacrificabile. Lui non era più un assassino, è tornato soltanto per me! Non avevate più bisogno di lui, e l'avete sacrificato come un animale!»

«Bianca...»

«Hai voluto farmi assaggiare la tua medicina, Diamante? Bene, adesso so cosa si prova. Adesso so cosa vuol dire perdere la persona che amo, sei felice di questo?»

Le lacrime. Corsero sul mio viso senza freni, brucianti, improvvise. Eppure non ero triste. Ero un essere fatto di puro risentimento, e forza disperata.

Diamante non fu spaventata dal mio accesso di rabbia. Mi guardava con la stessa decisione di prima, con la stessa triste calma.

«Te lo riporterò, te lo giuro.» Tirò fuori dallo scollo della giubba una catenina, in cui era infilato un anello d'argento. Lo riconobbi. Era quello di Nicola, che una volta copriva la cicatrice della sua iniziazione. «Gli ho promesso che riporterò Martino sano e salvo da te, e, fosse l'ultima cosa che faccio, ci riuscirò. Mi hai capito?»

La sua mano guidò il mio dito sull'anello. Sfiorai le incisioni nel metallo: d'improvviso mi sentii stupida, piccola, fragile. Scoppiai in singhiozzi più forti, che le mie spalle non riuscivano a contenere. Diamante portò la mia testa sulla sua spalla e mi strinse a sé, cullandomi come una bambina, confortandomi fino a che anche la quarta, terribile ora fu terminata.

Ancora mi teneva stretta, quando la recluta entrò per dare la notizia. Diamante voleva che le parlasse in privato, ma io sentii lo stesso. Afferrai le parole trovato e tornando.

«E' vivo?»

Diamante mi guardò. Un sorriso le spezzò il volto, quando annuì.

Si portò l'anello d'argento alle labbra, e io chiusi gli occhi. Ringraziai Nicola, con tutta me stessa. Era lui, adesso, l'angelo a cui dovevo quella preghiera. Era lui che ci aveva sempre voluti insieme, e che non aveva smesso di vegliare su di noi nemmeno un momento.

Chiesi alla Volpe di aiutarmi ad alzarmi. Le gambe tremavano ancora, ma insistetti per essere portata nel salone. Giusto in tempo. L'Ordine dell'Isola Tiberina era radunato nel la stanza comune mentre le reclute di Diamante entravano dal tetto, sorreggendo per le braccia lui...che sembrava un po' intontito, molto stanco...ma sveglio. Vivo. Dio, Martino era vivo! In quel momento, tornai a vivere anche io.

Corsi, non so con quale forza. Gli gettai le braccia al collo. Fu un unico movimento, un tutt'uno assoluto. Per poco non lo feci sbilanciare e cadere. Mi tenne stretta a sé, sapeva di bruciato e polvere. E sangue, sì. Suo? Mi divisi da lui soltanto per scrutargli il viso. Era così pallido.

«Amore mio» le parole mi sfuggirono senza passare nemmeno per il cervello. «Guardami. Stai bene?»

«Mo' che te vedo, sto 'n'incanto» sorrise, ma troppo debolmente. Lo vidi oscillare, e lo sostenni, allarmata. Zio Ugo si portò il suo braccio intorno alle spalle. «Andiamo, deve riposare.»

 

Era rimasto nascosto, tutto quel tempo, per aspettare che il clamore intorno alla zona si dissipasse. Non aveva niente di rotto: soltanto un piccolo trauma ottenuto mentre si metteva al riparo dall'esplosione, per cui il medico degli assassini di Roma raccomandò che rimanesse a letto almeno tre giorni, sotto stretta osservazione. Nemmeno a dirlo, mi offrii di vegliarlo. Ezio provò a farmi ragionare, a dire che anche io avevo bisogno di riposo e cure. Ovviamente, la spuntai io. La spunto sempre, su mio padre.

Una volta che fummo lasciati soli, Martino fece scivolare la mano sulla mia coscia. «Dunque. Dov'eravamo rimasti, ne la torre?»

Con un sorriso sornione, presi la sua mano e la rimisi a posto, lungo il suo fianco. «Eravamo rimasti a quando ti sei quasi fatto ammazzare, e adesso devi stare fermo e buono per non peggiorare la ferita.»

«Pe' me va bene. Me piace quanno voi comandà te.»

«Fermo e buono, Semeraro Martino.»

Lui mise il broncio come un bambino.

«Nemmeno 'na coccola?»

Mi sdraiai vicino a lui, con la testa sul cuscino e una mano posata sul suo petto, quasi ad accertarmi che il suo cuore battesse per davvero. «Una coccola, si può fare. Ma tieni le manacce a posto o te le taglio.»

«Quann'è che sei diventata frigida?»

«Da quando un amplesso rischia di aggravare la tua ferita, idiota.»

«Sarebbe 'na bella morte però.»

«Perché accontentarsi di un'ultima scopata d'addio, quando programmo di non farti uscire da questa camera per giorni e giorni?» Gli baciai delicatamente la tempia. «Ovviamente, non prima che il medico ci dia il permesso. Ma aspettare varrà la pena...te lo garantisco.»

Quel mio ultimo sussurro gli strappò un leggero brivido, che solleticò non poco la mia vanità. Ero provata dalla prigionia, ferita e fisicamente distrutta...eppure, Dio, era bastato poggiare la mano sulla sua pelle perché il languore si diffondesse lungo il mio corpo martoriato.

Ma non era ancora il momento. Avremmo dovuto aspettare. Solo pochi giorni, in confronto ai tre anni in cui eravamo stati separati: non erano nulla.

Quando poggiai la fronte contro la sua spalla, Martino spostò il braccio per potermi cingere la vita. Mi strinsi al suo fianco, sorpresa di come quella nicchia sembrasse fatta apposta per me. Come avevo fatto a dimenticarmene?

«E così...me ami, eh?», mi prese in giro dolcemente.

«Già. E, a quanto pare, io sono la tua vita» replicai sogghignando. Ridemmo sommessamente: poi, alzai la testa per incontrare il suo sguardo. «Mi dispiace. Per tutto il tempo che abbiamo perso.»

La voglia di scherzare se n'era andata. Martino mi guardò, serio. Cercai di non abbassare di nuovo gli occhi, mentre ammettevo: «Sono stata sciocca e immatura. Avevamo qualcosa bello, ed io l'ho distrutto. Ho passato tutti questi anni a pentirmene...le nostre vite sarebbero state molto diverse se ti avessi chiesto di restare.»

Lui giocherellava con le ciocche più lunghe dei miei capelli. «Io credo che le dovevamo fa', certe esperienze. Anche se c'hanno fatto male. Dovevamo cresce' tutti e due...e c'avemo messo er tempo che ce serviva.» Si umettò le labbra. «Biancarè, so' stato io a scappà per primo. Quanno so' partito pe' a Francia. Te vedevo così triste, nun sapevo come statte vicino e...m'ero ritrovato tutto a 'n tratto innamorato de te, nemmeno sapevo come. Me faceva paura tutta 'sta storia. Quanno m'hai detto che nun era 'na cosa importante, me so' sentito respinto. Nun sapevo che fa', che ditte...nun ho capito che forse nun me stavi a mannà via, forse me stavi a chiede aiuto.» Sospirò. «Ero 'n cretino.»

«Sei ancora un cretino. Il mio cretino, però.»

Lui volse il viso nella mia direzione. Con cautela, si stese su un fianco. «Nun ce resisti a ensurtamme, vero? E' più forte de te.»

Sorrideva. Gli sfiorai la bocca con un bacio.

«E' il mio modo di esprimerti il mio incommensurabile amore.»

Martino riprese le mie labbra e le trattenne sulle sue un po' più a lungo. La mano scivolò di nuovo sulla mia coscia: non la spostai, ma gli rivolsi uno sguardo malandrino.

«Non tentarmi. Potresti non uscirne vivo per davvero.»

«Mettime alla prova, so' più resistente di quer che credi.»

«No.»

«Biancarè...»

«No.» La mia voce si era fatta più morbida. Affondai il viso nel suo petto. «Ti prego, stringimi. Per stasera stringimi e basta.»

E lui mi strinse, forte. Lo desideravo, sì...lo desideravo tantissimo. Ma forse volevo ancora di più quell'abbraccio, il battito del suo cuore sotto l'orecchio, il suo respiro sulla pelle. Volevo Martino, con me. Volevo riabituarmi al mio corpo contro il suo, bere il suo odore e trasferirlo sui miei vestiti. Sentirlo. Sentire noi due. Solo questo importava, ora.
Mi accarezzò i capelli per un po', senza dire niente. Poi, lo sentii mormorare:

«Pensi che je la possiamo fa' a sta' 'nsieme senza combina' artri guai?»

Non scherzava. In tono altrettanto serio, risposi:

«Non ne ho la più pallida idea.»

«E quinni, come famo?»

Mi scostai quanto bastava per accarezzargli il contorno della mandibola con un dito. Riflettei per un po' su ogni tratto del suo viso.

«Non lo so, Martì...è un salto nel buio.»

A quel punto, lui si illuminò. E il mio cuore fu soverchiato da tutta quella luce.

«'n sarto d' 'a fede? Ma è la specialità nostra. Semo a cavallo, core mio.»

Sorrisi, con tutta la gioia che mi scorreva nelle vene. Gli leggevo i sentimenti sul viso, abbaglianti, perfetti. Il più grande insegnamento di Teodora si provava giusto ancora una volta. L'amore è sempre visibile. E ora riuscivo a scorgerlo sull'unico volto su cui avevo sempre voluto vederlo. Rivolto solo a me. 



NdBlackFool

Ed ecco che, FINALMENTE, la Biartinovela è arrivata alla sua conclusione. Sì, ce l'hanno fatta. Sì, hanno ammesso che si amano entrambi da morire. Sono gli stessi cretini di prima, dopo tutto un po' più feriti, un po' più amari di quando erano giovani...e finalmente insieme. Adesso non la tiro più per le lunghe: non temete, non ci saranno più scossoni per questa coppia. Anche perché, in questa fase finale della storia ci sono altri nodi da affrontare...come la profezia della morte di Agamennone, lo scontro con Giulio II, la resa dei conti con Tancredi Bentivoglio e naturalmente il confronto tra i fratelli Auditore.
Per festeggiare il ricongiungimento dei nostri due scemotti, ho scritto una oneshot lemon che pubblicherò tra poco (tenete d'occhio la sezione, appena l'avrò fatto inserirò il link qui), in cui faccio vedere ciò che nel rating arancione di BCP non mi è consentito mostrare...il titolo è "La cosa più vera". A breve metterò una versione epurata dalle parti piccanti sulla pagina facebook di BCP, tra le note, per i lettori minorenni <3
Sperando che questo aggiornamento vi sia gradito, vi mando un bacione e un grosso ringraziamento. Ci aggiorniamo intorno al 15 dicembre (o prima, se l'ispirazione mi aiuta di nuovo) con il capitolo 44, dal titolo "Qualcosa in cui credere". E' un traino sufficiente se vi dico che vedremo finalmente un piccolo Marescotti venire al mondo? :)
baci!

Laura.

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Capitolo 44
*** Incompleta felicità ***


La domanda di Lisabetta piovve tra di noi in un raro giorno di calma tra strategie e missioni. Eravamo quietamente seduti di fronte al camino, lei, Martino ed io. Zia Claudia ricamava al tombolo poco lontano. Le reclute intorno a noi oziavano, leggevano, sonnecchiavano negli angoli ricoperti di cuscini e tappeti orientali, chiacchieravano o dividevano un otre di vino. Era un prezioso momento di tregua, coronato dal fatto che Martino era rimasto con me per tre giorni interi. Non capitava spesso, in quel periodo.

«Sei mio cugino, ora?»

L'aveva detto casualmente, quella piccola volpe. Come se al suo faccino lentigginoso non importasse più di tanto. Stava osservando la trottola che Martino aveva scolpito per lei, mentre girava vorticosamente sul pavimento. Sentii distintamente la punta del giocattolo scavare le assi di legno, e poi cadere rassegnata dal suo perno. L'aveva detto proprio quando l'intera stanza sembrava essere in silenzio; nessuno reagì, ma con la coda dell'occhio potevo vedere l'ago di zia Claudia sospeso per aria. I suoi occhi scuri non erano su di noi, ma oh, le sue orecchie stavano seguendo attentamente quel discorso. Molto attentamente.

Il mio compagno fu abile a fingere la stessa leggerezza di Lisabetta. Rimise la trottola in piedi, posizionò il perno di legno tra l'indice e il pollice, la fece girare di nuovo.

«E mo perché dovrei esse tu' cuggino?»

La piccoletta si strinse nelle spalle. Aveva nove anni, e dannazione, era fin troppo sveglia per la sua età.

«Be', se sposi mia cugina diventi anche tu mio cugino. E' così che funziona.»

Un disagio sordo mi dilagò nello stomaco. «Non dire sciocchezze, scimmietta.»

«Forse, 'n giorno. Ma nun è mica detto, Lisabbè...bisogna vedè se Bianca me se pija.»

Lei sorrise, scoprendo il buco di un incisivo mancante. «Se non ti vuole, ti prendo io!»

Martino rise, e le baciò la fronte. Si udì un borbottio quasi indistinto, mentre il rumore del filo che passa attraverso la trama della tela riprese, sommesso.

«Sarà meglio che Bianca ti si pigli, allora.»

Martino sorrise allegramente. «Nun sapete che genero ve perdete, Madonna Clà.»

«Per carità! Spero almeno che come nipote tu faccia meno danni, ma non ne sono troppo sicura.»

Sorrisi, debolmente, ma evitai lo sguardo di tutti loro. Ripresi la trottola tra le mani, la feci girare più rapidamente. Il destino mio e di Martino, come coppia, era tutto fuorché scontato.

Se i problemi tra noi si potevano dire risolti, altrettanto non era accaduto ai dubbi del mio compagno riguardo al Credo. Come avevo capito fin dal primo momento in cui avevo visto il suo volto in quella lurida cella di Castel Sant'Angelo, lui aveva indossato ancora il cappuccio e le lame celate per salvare me. Questo non significava che fosse pronto a combattere ancora per la Fratellanza.

Ciononostante, faceva in modo di capitare a Roma spesso. Molto spesso. Alle volte passava al covo giorni interi, prima di rientrare a Capodimonte per aiutare la sua famiglia nei campi. Sapevo per certo che suo padre non era felice della distrazione che gli procuravo, né del fatto che si fosse associato ancora a quegli assassini di cui diffidava così tanto. Tuttavia, quando Annina mi fece inviare tramite il fratello un pasticcio di carne fatto con le sue mani, capii che il vero capo della famiglia Semeraro ci aveva dato la sua benedizione. Per quel che riguardava Pietro, era solo una questione di tempo e tanta, tanta pazienza.

Eppure, nonostante quell'implicita accettazione dei parenti di Martino, io sapevo che progettare un futuro insieme al momento era impensabile, anche per via della guerra che si dispiegava intorno a noi.

L'inizio del 1511 aveva visto il Papa allearsi con Venezia, la Spagna, l'Inghilterra e l'Impero, in quella che fu chiamata Lega Santa. Altro non si trattava che di un tentativo disperato di arginare l'avanzata francese e il suo congiungimento con le truppe che Lucrezia aveva radunato intorno a sé. Inutilmente. Concordia e Castelfranco caddero di nuovo tra le mani di De Foix a marzo di quello stesso anno, come se l'offensiva del Papa Guerriero – e la morte dei ragazzi del Drappo Rosso, il sacrificio di Nicola, quello di Briac – non fosse valsa a nulla. Ingoiai amaro mentre leggevo ad alta voce quelle notizie, ma proprio mentre mio padre le commentava seccamente con il resto dei ragazzi radunati nel salone mi capitò tra le mani una lettera che conteneva novità di differente natura.

Accantonai i dispacci di guerra, e lessi rapidamente, avidamente.

«Che ti succede? Sembra che tu abbia appena ricevuto una martellata in testa.»

Alzai lo sguardo un po' smarrito su mio padre. «Viene da Milano.»

Il volto di Ezio si incupì. «E' di Agamennone, vero? Ci sono problemi?»

Dovetti umettarmi le labbra, prendere un respiro. Non era il genere di notizia che davo tutti i giorni. In quel breve silenzio, tutta la sala aveva rivolto l'attenzione su di me.

«Veronica ha partorito. E' una bambina.»

Ci volle un attimo perché capissero che non stavo dando loro l'annuncio di una qualche catastrofe, ma di un evento gioioso che aspettavamo da tempo. Eravamo così disabituati alle cose belle, in quel periodo. Ci volle tempo perché i sorrisi scoppiassero nelle espressioni dei miei compagni. Qualcuno fece battute, e Martino mi venne accanto per stringermi le braccia intorno alle spalle, leggere il foglio a sua volta, baciarmi la tempia mentre lo faceva. Aprimmo il vino che tenevamo da parte per le grandi occasioni, spingemmo l'ansia nel fondo dello stomaco per accogliere l'alcol e qualche risata. Dopo tutto, una nuova nascita era esattamente ciò che ci serviva per tenere duro, in quel periodo di difficoltà e incertezze. Dovevamo festeggiarla degnamente.

Emilia Marescotti, erede di una delle più antiche famiglie bolognesi ancora viventi, era stata portata al mondo dall'equinozio di primavera. Non sapeva che suo padre era un arciere un po' svanito e fissato con le stelle, e sua madre una prostituta veneziana che un tempo era stata una figlia di ricchi mercanti; non sapeva che entrambi fossero tra i migliori soldati di un ordine segreto che faceva dell'omicidio e del furto le sue armi. Oh, no, quella cosina bionda e silenziosa non sapeva ancora nulla dei suoi genitori, e soprattutto non immaginava che non avrebbe potuto sceglierne di migliori nemmeno se li avesse cercati per mille anni. Ma l'avrebbe appreso, con il tempo. Io l'avrei aiutata a capirlo.

Dovetti insistere - la parola esatta, a dire il vero, è supplicare - perché mio padre mi consentisse di andare a visitare Agamennone e Veronica. Me lo permise soltanto tre mesi più tardi, quando si presentò l'occasione di una missione in Lombardia; anche se non era più ufficialmente uno dei nostri, Martino ottenne di accompagnare me e il mio piccolo gruppo, di cui anche Jacopo faceva parte. La fragile alleanza con i templari della Borgia non ci avrebbe protetti, in quel territorio: ci muovemmo con cautela, per raggiungere il covo di Maestro Sandro.

«Mejo se ce cariamo dar tetto, è più sicuro.»

«Non dire stupidaggini, entreremo dalla porta sul retro. E' meno complicato e non daremo nell'occhio.»

Sì, potete scommetterci. Jacopo e Martino si erano contraddetti e rimbeccati vicendevolmente per tutto, tutto il tempo.

«Complicato...pe' te, magari. Se nun sai arrampicatte, vedi de rifa' l'addestramento.»

«Attento a come parli. Io sono un assassino iniziato, al contrario di te...pivello.»

«Io non sono un assassino affatto. Non più.»

«Dovresti farti delle domande a riguardo.»

Roteai gli occhi al cielo. C'era soltanto una cosa che potevo fare: infischiarmene delle loro liti per stabilire chi dei due fosse il maschio dominante, ed entrare dalla porta principale. Loro, come bambini sgridati dal precettore, smisero di battibeccare e mi seguirono. Ci sarebbe voluto tempo, perché si abituassero uno all'altro. Martino avrebbe lentamente accettato il mio passato con Jacopo, e Jacopo il mio presente con Martino. Avevo fiducia che questo sarebbe capitato...un giorno. Di certo non ora.

Maestro Sandro fu contento di vederci. Gli recapitai i documenti che avevamo recuperato dai nostri informatori, che gli sarebbero servite per pianificare una strategia d'azione contro gli occupanti francesi. Poi, naturalmente, mi precipitai nella torretta d'osservazione, dove Sandro ci aveva detto che avremmo trovato Agamennone.

Anzi, sarebbe meglio dire che ci precipitammo. Martino ed io. Tenendoci per mano.

Avevo scritto a Veronica, in quei mesi, e le avevo detto che che la situazione tra me e il mio uomo si era in qualche modo risanata. Per quanto stentassi a crederlo io stessa, eravamo una coppia, adesso, e una particolarmente affiatata nonostante tutto. Agamennone doveva di certo saperlo, ma la sua espressione quando poggiò l'astrolabio sul davanzale e fissò prima i nostri volti, poi le nostri mani strette una nell'altra, fu impagabile. Scoppiai a ridere.

«Oh, Mennone! Abbasserai mai gli occhi dalle stelle?»

«Credo di aver appena visto qualcosa più raro di una cometa», replicò lui, con un sorriso. «Come state, ragazzi?»

Mi avvicinai per abbracciarlo, e schioccargli due grossi baci sulle guance. Aveva messo su un po' di peso, rispetto a quando conduceva la sua vita raminga con la compagnia di D'Arcy. Martino lo strinse a sua volta, con quel cameratesco affetto che c'è solo tra gli uomini.

«Allora, papino? Dove le hai messe, 'e donne tue?»

Agamennone arrossì di piacere, quando si sentì chiamare a quel modo. «Veronica è nei dormitoi. Sta allattando Emilia.»

Questo dettaglio all'inizio non mi colpì, ma successivamente avrei avuto modo di osservarlo: Agamennone ha sempre chiamato sua figlia per nome, senza tutti quei vezzeggiativi che ci fioriscono tanto facilmente sulle labbra quando ci rivolgiamo ai bambini. Io stessa ho coniato per la mia figlioccia una quantità di nomignoli imbarazzanti, di cui il più frequente è probabilmente Milla – non so per quale motivo, mi suona bene...forse perché ha qualche assonanza con il soprannome di suo padre. Ma lui, il nostro distratto Mennone, non si è mai lasciato andare all'imprecisione quando si è trattato di Emilia. Si è destato dai suoi sogni, per lei, e ha prestato attenzione alla realtà per essere certo che fosse uno spazio sicuro in cui la sua bambina potesse muoversi senza farsi troppo male. Era l'estate del 1511: allo scadere della profezia mancavano meno di dieci mesi. Non volevo pensarci, ancora.

Nonostante Martino avesse commentato sottovoce che non gli sarebbe dispiaciuto vedere le tette di Veronica – parole che gli guadagnarono una mia gomitata nel costato -, andai nel dormitoio da sola. Non avevo voglia di aspettare: in più, sentivo il bruciante bisogno di incontrare la mia amica a tu per tu. C'era una buona possibilità che mi commuovessi, e non volevo troppi testimoni. L'emotività che la storia con Martino aveva riportato nella mia vita alle volte ancora mi soverchiava, e imbarazzava. Non sono mai stata granché nel gestire i sentimenti, nemmeno nei momenti migliori.

Socchiusi piano la porta, e ad accogliermi trovai una voce dolce, che cantava sommessamente. Udii il gorgoglio della neonata, e il fruscio delle vesti di sua madre, schiuse sul seno per permetterle di nutrirsi. Vidi uno scorcio del volto di Veronica nella luce della candela...bello, come non era mai stato. Colmo di una tenerezza indescrivibile, di un amore totale, che la faceva risplendere mentre rispondeva ai vagiti di Emilia.

Rimasi sulla soglia, incantata, soggiogata. Poi, Veronica bisbigliò alla neonata:

«E adesso diciamo a zia Bianca che non è in missione e non deve restare nascosta nell'ombra, che dici?»

Non aveva nemmeno alzato gli occhi nella mia direzione. Sorrisi.

«Hai ragione, perdonami. La forza dell'abitudine.»

Feci qualche passo verso di loro, mi chinai per lasciare un bacio sulla guancia della mia amica e poi mi sedetti lì accanto, sul letto, osservando la piccolina. Aveva gli occhi appena socchiusi, del blu confuso che avevo scoperto appartenere a quasi tutti i neonati. Una sottile peluria chiara le copriva la testolina; sembrava sulla buona strada per assopirsi. Aveva ormai tre mesi, e benché sembrasse perfettamente sana era rimasta una cosina piccola, delicata. Le sfiorai la guancia.

«E' il ritratto di suo padre, vero?» disse Veronica. Io non notavo la somiglianza, ma in quel momento non trovai nessuna risposta migliore che annuire. Veronica sembrò molto orgogliosa del fatto che concordassi con lei. Immaginai che lei e Agamennone avessero discusso sulla questione, con opinioni diverse. Poi, la mia amica mi scrutò il viso per qualche istante, in silenzio.

«Com'è andato il viaggio?»

Sospirai, mentre accarezzavo le piccole dita di Emilia. «E' stato lungo. Martino e Jacopo non fanno che litigare.»

«E' il minimo che potessi aspettarti.»

«Lo so.»

«Con questi presupposti avrebbero potuto picchiarsi a sangue.»

«Lo so.»

«E tra te e Martino, va tutto bene?»

Solo allora mi decisi a incontrare il suo sguardo. Sorrisi. «Sì. Tutto incredibilmente bene.»

«Ma...?»

Dannazione a Veronica e al suo conoscermi troppo a fondo. Strinsi le labbra.

«Non fa più parte della confraternita. Gli è stato consentito di accompagnarci solo perché si trattava di vedere voi...Ezio a volte dice che la sua presenza al covo è un pericolo.» Feci schioccare la lingua nel palato, a disagio. «Abbiamo iniziato a incontrarci in città. Ma è rischioso, per entrambi. Gli uomini del Papa possono essere ovunque.»

«E non c'è modo di convincerlo a rientrare nell'Ordine?»

Emilia smise lentamente di succhiare il latte, sbadigliò. Era così tenera, con quelle guance paffute.

«Non me la sento, Veronica. Non posso chiedergli di combattere per qualcosa in cui non crede più. Lui...ha commesso uno sbaglio per cui soffre ancora moltissimo. Se non riesce a trovare qualcosa di più grande per cui lottare, io non posso costringerlo a rimanere.»

«Quel qualcosa dovresti essere tu, Bianca. Dovrebbe essere il vostro futuro, e i figli che un giorno avrete.»

Una mano gelida mi strinse lo stomaco. «Non so se...insomma, non ne abbiamo mai parlato.»

«Forse dovreste.»

«No.»

«Sai che prima o poi il problema si presenterà.»

«Lo so...ma ho paura. Ci siamo fatti del male, così tante volte...ho rischiato di perderlo troppo spesso. Non me la sento di metterlo davanti ad una scelta.»

Veronica mi accarezzò i capelli, spostando una ciocca dietro il mio orecchio. Mi guardò, per un momento, con la stessa dolcezza che riservava a Emilia. «Lui sceglierebbe te, ne sono sicura.»

Deglutii a vuoto. Non era quello, il punto. Anche io sapevo che Martino sarebbe tornato nella confraternita, se glielo avessi chiesto; quello che non volevo, era che lo facesse esclusivamente per me. Quando fai qualcosa di terribile come noi, hai bisogno di una ragione forte che ti spinga avanti, qualcosa che appartenga solo a te. Io avevo – ho - la missione di difendere la libertà di scelta delle persone che amo; a quel punto, potevo solo sperare che anche Martino trovasse una ragione che funzionasse per lui.

Quando i doveri della poppata furono assolti, ci presentammo nella sala comune, dove nel frattempo si erano spostati anche Martino e Agamennone. L'incontro tra il mio compagno e la bambina fu semplicemente un colpo di fulmine. Sapevo che Martino amava i bambini, ma mi meravigliò vedere quanto immediato fu il legame che instaurò con Emilia.

Le faceva smorfie buffe, parlando con una vocetta alta e nasale; lei si aggrappava alle sue orecchie e rideva, cercando di mordergli il naso di fronte a un mortificato Agamennone, che cercava di distogliere le mascelle di sua figlia dalla pelle dell'amico. A Martino non importava, comunque. Rideva, un suono disteso e sereno che per troppo tempo non aveva risuonato nel suo petto. La dolcezza sul volto del mio compagno mi fece tremare le ginocchia, per un momento. Di bellezza, e di paura, nello stesso modo.

Sarebbe stato un padre meraviglioso.

Ed io...sarei stata adatta ad essere la madre dei suoi figli? Avrei mai potuto averne, dopo tutto? Avevo assunto per tanti anni preparati a base di iperico e altre erbe per prevenire proprio quell'eventualità: c'era il serio rischio che quelle droghe avessero reso il mio grembo sterile. Non mi era mai importato, prima.

Forse Veronica si accorse di quel mio tormento interiore, perché qualche ora dopo mi prese per mano, lasciando la bambina alle cure del resto della confraternita – per cui sembrava che fosse diventata una beniamina: non c'era recluta che non l'avesse vezzeggiata o tenuta sulle ginocchia, incantata dal suo sorriso ancora sdentato.

Una volta certa che sua figlia fosse in buone mani, la mia amica mi disse:

«C'è qualcosa che voglio mostrarti.»

Mi trascinò nei lavatoi, non troppo frequentati a quell'ora. Risi, quando Veronica iniziò a spogliarsi.

«Non c'è bisogno che mi umili, sai? Le tue tette sono titaniche, lo so, non c'è paragone!»

La sua risata fece eco alla mia. «Sei una cretina.» Quindi, una nota più incerta le incrinò la voce, quando la camicia le scivolò, aperta, lungo le braccia. «Guarda.»

Capii un attimo dopo cosa volesse esattamente che guardassi. La sua figura già giunonica era stata ulteriormente arrotondata dalla maternità: eppure, era più bella di quanto l'avessi mai vista. I seni svettavano imperiosamente, gonfi del latte che nutriva la sua bambina; in ogni caso, non era quella la parte del corpo che meritava la mia attenzione.

Si trattava del suo ventre, sformato dall'aver portato un piccolo corpo dentro di sé per nove mesi per poi trovarsi d'improvviso vuoto. La pelle smagliata vi ricadeva sopra...una pelle su cui le cicatrici si erano confuse, sbiadite. La scritta puttana e quell'orribile croce che la spezzava si erano mischiate tra le altre linee e pieghe, e non si leggevano più con la stessa chiarezza di cinque anni fa, quando Veronica ce le aveva mostrate.

Lo ammetto, un nodo mi serrò la gola. Incontrai lo sguardo orgoglioso, commosso, stupito della mia amica.

«Credevo che niente avrebbe potuto cancellarlo» sussurrò. «Mi sbagliavo. Emilia...Agamennone...è merito loro.»

«E' anche merito tuo» mormorai. E lo credevo davvero: perché Veronica non si era mai arresa alla propria infelicità. Aveva lottato ferocemente, e nonostante tutto il suo cuore indurito aveva saputo aprirsi alla possibilità di una nuova vita, la stessa vita che ora la liberava dall'incubo. La mia amica aveva contribuito al miracolo della propria rinascita. Aveva avuto il coraggio di amare con tutta se stessa, e indirizzando quel sentimento su suo marito e sulla loro bambina era riuscita a ritrovare anche la propria dignità di donna e di essere umano.

Veronica mi guardò con occhi imperiosi, esigenti. «Capisci cosa voglio dirti? Anche le cicatrici di Martino possono guarire. E' tutto quello che gli serve...amore. Nient'altro.»

Sentii un sospiro, di quelli profondi e cupi, crescermi nei polmoni e grattami la gola. No, non credevo che l'amore bastasse, nel suo caso. Perché, se così fosse stato, allora significava che io non ero capace di amarlo abbastanza.

 

Quella notte, rannicchiata accanto a lui su una stretta branda, ascoltavo il respiro del mio uomo contro l'orecchio. Solo dopo un lungo rincorrersi di pensieri insonni, mi azzardai ad alzare il viso. Osservai il suo, così pacifico mentre dormiva. Deponeva ogni difesa, in quei momenti: le sopracciglia aggrottate acquisivano una linea più dolce, e anche i solchi lasciati dalle cicatrici sembravano meno terribili. Aveva l'aria di un bambino smarrito, una creatura sul punto di spezzarsi. Come ogni volta che lo guardavo dormire, la certezza mi dilagò nell'anima: io volevo proteggere quell'innocenza. Volevo guarirlo dal dolore. Volevo riuscire a dargli ciò che gli mancava, e sentirlo ridere di nuovo come aveva fatto quel pomeriggio, mentre giocava con Emilia.

Volevo, sì...ma avrei potuto? Erano due cose diverse.

«Biancarè, leva quer gomito, me stai a fracassà 'e costole.»

Uscì come un bisbiglio, ma ebbe lo stesso il potere di farmi sussultare. Borbottai qualche scusa, e poggiai di nuovo la testa sulla sua spalla. Sentii un sospiro da parte di lui; poi, la sua mano salì ad accarezzarmi i capelli.

«Ancora sveja?»

Mi limitai ad annuire.

«Che pensi?»

Mi innervosiva, quel luogo. Potevo sentire respiri e borbottii dei nostri compagni tutto intorno a noi. Mi chiedevo come potessero vivere così, Agamennone e Veronica, senza un briciolo di intimità nemmeno per poter parlare. Avevano detto che avrebbero trovato un'altra sistemazione, presto. Mio padre aveva offerto loro di sistemarsi a Monteriggioni. Avevano risposto entrambi con gratitudine, a quell'invito: al momento, però, non era possibile. Magari, quando Emilia fosse stata un po' più grande e robusta, si sarebbero trasferiti, anche per allontanarsi da quei territori martoriati dalla guerra...ma no, non ora.

«Non penso a niente.»

Lui posò un bacio sulla mia fronte. Sapeva che stavo mentendo.

«Quei due so' proprio felici, eh?»

«Anche noi due siamo felici.»

Una pausa. Martino si voltò lentamente su un fianco, costringendomi a guardarlo. Cercò i miei occhi nel buio.

«E' questo qua 'r probblema?»

«Non c'è nessun problema.»

«Sei strana, oggi.»

«E' solo che...» Ingoiai il groppo in gola. Sì, Veronica aveva ragione: non potevamo evitare quel discorso per sempre. «A volte non capisco...tu sei felice, Martino?»

Lui si umettò le labbra. Mi accarezzò la guancia. «C'è 'na guerra tutto intorno a noi, Bià. A vorte guardo i muri der cascinale a Capodimonte e me chiedo che farò co' li fratelli mia quanno i francesi scenneranno a sfidà 'r Papa. C'ho paura che quer gran fijo d'una cagna de Della Rovere possa fatte der male un'artra vorta. So' terrorizzato. E nun me piace avecce paura.» Poggiò la fronte alla mia, e chiuse gli occhi. «Perciò nun so' der tutto felice, no. Ma d'avette scerto, ecco, de questa cosa qua nun me pento nemmeno pe' 'n secondo. E' chiaro, questo?»

Annuii, senza riuscire ad aggiungere altro.

«E te? Sei felice così, core mio? Sei sicura che quer che posso datte adesso te basta pe' davero?»

No, non ero felice. Come Martino, ero terrorizzata all'idea di poter perdere quello che amavo. Avevo paura di perdere lui, di nuovo, per un passo sbagliato. Avevo paura che ciò in cui credevo ci avrebbe tenuti lontani per sempre, e nonostante questo non gli avrei mai imposto di crederci a sua volta.

«Io voglio te, non conta come. Non importa quanto spesso ti vedo, né se devo correre dei rischi per poterti incontrare. Voglio te, il resto non ha nessuna importanza.»

Ci tenemmo stretti per il resto della notte, più forte del solito, più disperatamente del solito. Per quanto fossi sicura che non avrei mai imposto i miei desideri su Martino, e che lui non mi avrebbe imposto i propri, avevo bisogno di sentirlo premuto contro di me per scacciare la sensazione che quelle distanze prima o poi ci avrebbero separati per sempre.

 

Restammo con i nostri amici per due settimane. Durante quel periodo mi avvicinai anch'io, seppur goffamente, a Emilia; le mie uniche esperienze in fatto di neonati risalivano agli sporadici incontri con Leonardo, e anche in quel frangente non ero stata particolarmente abile né predisposta. Tuttavia, lo ammetto, la piccola Milla mi conquistò, con i suoi occhi grandi, i suoi versetti che già tentavano di rispondere alle nostre parole, il suo agitare le mani entusiasta quando mi vedeva – e sì, perfino quel brutto vizio di aggrapparsi alle nostre orecchie. Fu difficile dirle arrivederci; ma il mese volgeva in luglio, ormai, e non potevamo più rimanere con le mani in mano.

Gli sconvolgimenti intorno a noi erano proseguiti, in quella prima parte dell'anno 1511: di fronte all'inarrestabile rimonta dei Francesi, il Papa aveva rinunciato al suo presidio su Bologna e si era rifugiato a Ravenna, lasciando alla fazione dei Bentivoglio la riconquista della città. A Milano, quattro cardinali ribelli avevano indetto un concilio con il preciso intento di scalzare Giulio II dal seggio papale; inutile dirlo, quella mossa era stata ampiamente pilotata dall'Ordine, e la sua organizzazione era il principale motivo per cui ci trovavamo in città al momento. Il raduno si sarebbe aperto ufficialmente a Pisa, nel settembre di quello stesso anno1, con tutte le stupide cerimonie che un'occasione come questa richiede. Non che tenessimo davvero alle formalità idiote, ma per essere legittimata agli occhi del mondo un'azione del genere ha bisogno dei giusti rituali di apertura.

Ciò che non ci aspettavamo, fu l'incontro che ci attendeva al passo della Cisa, sulla strada che ci avrebbe riportati a Roma. Il nostro piccolo gruppo avanzava lentamente a cavallo in quel bosco di ordinati faggi, quando la nebbia – sì, nebbia, in piena estate – calò come un manto soffocante su di noi. Fu nella nebbia che il cippo tremolò come la figura di un bambino. Avevo attraversato tante volte quel passo, conoscevo il Termine del Gatto2. Eppure, quel giorno ne fui inquietata. Gettai un'occhiata nervosa alle mie spalle. Da quando le sagome degli alberi erano così minacciose?

«C'è qualcuno.»

Riconoscevo quel tono nella voce di Jacopo. Forzata calma. Un suono che mi avvisava di tenermi pronta alla battaglia.

Il mio sguardo finalmente vide ciò che lui, con le sue lenti, aveva notato prima di me. Accanto ai faggi di fronte a noi si stagliavano figure sottili. Quattro. Incappucciate.

Noi eravamo sei, contando le giovani reclute che ci seguivano. Potevamo avere ragione di loro, ma se si fosse trattato di veterani l'esito di un eventuale scontro sarebbe stato tutt'altro che scontato.

Il vapore grigiastro sembrava emergere dal sottosuolo, tagliando le figure misteriose a metà, come se fossero prive di piedi. Rabbrividii. Odiavo la nebbia. L'ultima volta che avevo visto quel fenomeno inquietante avevo perso un amico, per sempre, sui bastioni di Mirandola.

Guardai Martino, con la coda dell'occhio. Lui lasciò che il suo cavallo avanzasse di qualche passo, per mettersi protettivamente davanti a me.

«Che volete da noi?»

«Pace, Assassini. Non siamo qui per darvi battaglia. Se così fosse, vi avremmo già attaccati.»

Una voce di donna. Melodiosa, quasi dolce. Un timbro che il tempo trascorso dal nostro ultimo incontro non mi aveva comunque permesso di dimenticare.

«Lucrezia Borgia, che cerca la pace?» Misi insieme un sorriso freddo, individuando tra le quattro figure quella che più probabilmente apparteneva alla duchessa. «Interessante. Ed io che pensavo foste impegnata in una guerra.»

Lei rispose alla mia frase arrogante lasciandosi scivolare il cappuccio sui capelli biondi. Era una donna di più di trent'anni, ora; aveva dato diversi altri figli al suo sposo attuale, il duca Alfonso d'Este. Non era più fulgida come quando l'avevo conosciuta, eppure il suo volto conservava ancora una scintilla di quella bellezza angelica che era stata la sua condanna, e insieme la sua più grande arma.

«Bianca Auditore» mi sorrise, quasi benevolmente «Un giorno capirai anche tu che per ottenere l'Armonia è necessario prima scatenare il caos.»

Ad un gesto della donna, anche coloro che la accompagnavano calarono i cappucci. Non fui sorpresa di vedere Ermes Bentivoglio, né di riconoscere – con un morso prepotende allo stomaco – Vanni. Sapevo che dovevano essere sopravvissuti alla fuga di Castel Sant'Angelo. Sulla loro sorte, in quei mesi, non mi ero interrogata nemmeno una volta.

Chi non mi attendevo di incontrare, fu quella giovane copia di Lucrezia. Aveva i ricci biondi raccolti in una semplice treccia, e gli abiti che indossava erano pratici, quasi maschili. La croce templare sbucava dalla camicia e le si posava sul cuore quasi con orgoglio. Nel volto delicato di Margherita Sforza – o avrei dovuto dire Margherita Borgia? - c'era una sicurezza che mi sorprese. Se i miei calcoli non erano errati, ora doveva avere circa quattordici anni.

Era stata arruolata tra le loro fila, dunque. Ma certo, non avrei dovuto essere stupita. Dopo tutto, la sua prima missione era stata infiltrarsi a Monteriggioni, cinque anni prima, e strappare via l'anima di Vanni per consegnarla a sua madre.

«La tregua tra le nostre fazioni non è mai stata revocata» disse Ermes Bentivoglio «In nome di quella tregua, vi preghiamo di trattenere le armi, Assassini.»

Ero consapevole degli sguardi delle reclute su di me. Attendevano un mio cenno, per sapere come comportarsi. Per tutta risposta, feci saettare la lama celata. Li sentii fare lo stesso. Vidi Vanni poggiare quietamente la mano sul pomello della spada che portava alla cintura; Margherita fu svelta a fare lo stesso con il proprio pugnale.

Fu un gesto di Jacopo a fermare la nostra provocazione, prima che sfociasse in una schermaglia.

«Se il vostro Gran Maestro in persona ha affrontato un viaggio del genere e tutti i suoi pericoli solo per incontrarci, non possiamo ignorare il vostro appello. Vi ascoltiamo, Templari.»

Feci per avvicinarmi a Jacopo e sibilargli che io non volevo ascoltarli affatto, quando Martino si voltò verso di me.

«E' lui 'r più arto in grado, qua» mi bisbigliò. «Lassalo fa', e vedemo che succede.»

Fantastico. Proprio adesso che si trattava di contraddirmi, quei due sembravano andare perfettamente d'accordo.

Ermes chinò il capo. «Vi ringrazio, messer Jacopo.»

Fui stupita dalla deferenza nel suo tono. C'era quasi – e dico quasi, perché non amo l'idea di attribuire tanta dignità ad un templare – umiltà in quel modo di parlare.

«Entrambe le nostre fazioni hanno rischiato molto, a Castel Sant'Angelo. Entrambe sono state tradite dallo stesso uomo.» Notai un guizzo all'angolo della sua bocca, a quel punto. Ermes...anche lui era stato pugnalato alle spalle da un fratello. Fratellastro, ricordai subito a me stessa, come se questo mettesse automaticamente una differenza tra di noi. «Ed ora il Papa ha due frutti dell'Eden.»

«Che non sa come usare» precisai.

«E' questione di tempo» intervenne Vanni. «Il Pastorale è quasi completamente sottomesso al suo volere, come un tempo lo era a quello di Alessandro VI. E presto troverà un modo per forzare il segreto del Serpente. Ha la zingara.»

Rabbrividii fin nel profondo. No, non volevo crederci.

Ermes proseguì «Fino ad un mese fa era prigioniera nella Sala della Giustizia, o così dicono le mie fonti. Ora si sono perse le sue tracce, e questo può voler dire due cose: o è morta per la tortura...»

«...o Della Rovere le ha estorto il modo di usare il Frutto, e si è sbarazzato di lei» terminò di nuovo Vanni.

Fu come se avessi ricevuto un pugno in pieno stomaco. No...non anche Simza. Non volevo crederci. Avrei schiacciato quell'essere miserevole di Tancredi Bentivoglio, lo avrei preso a calci nei denti finché non fosse affogato nel suo stesso sangue.

A quel punto, le labbra di Jacopo si stesero in un sorriso consapevole. «Le tue fonti sono sbagliate, Bentivoglio. La zingara è al sicuro da settimane ormai: è riuscita a fuggire da Castel Sant'Angelo, e i nostri uomini le hanno dato riparo e protezione. Mi sono preso cura personalmente della faccenda, giù a Roma.»

Voltai di scatto il capo verso di lui. Perché non sapevo niente di tutto questo? Interrogai con gli occhi anche Martino: no, non ne era al corrente, ma mi supplicava silenziosamente di lasciar correre. C'era qualcosa sotto questo incontro, e valeva molto di più della mia frustrazione.

«Stiamo parlando di due donne diverse, Messer Jacopo. La figlia è libera, ma la madre è prigioniera. Ed è lei che sa come attivare il serpente.»

Cadde un silenzio grave. I miei occhi si persero per un momento nella nebbiolina irreale. Zenobia, prigioniera del Papa. Sapeva che sarebbe successo questo, l'aveva previsto? Era quello il motivo per cui mi aveva chiesto di ucciderla, anni prima?

Le sue parole profetiche mi riverberarono nella testa.

«Il Papa avrà il serpente. Lo riceverà dalle tue mani.»

Possibile? Scegliendo di risparmiarla allora, potevo aver condannato tutti noi...

Fu la voce di Lucrezia a riscuotermi dalle mie livide riflessioni.

«Ora capite quanto è fondamentale che ci uniamo, contro questa minaccia comune?»

Aveva usato un tono calmo, sicuro, ma nel contempo accorato. Con quel suo modo di fare così affascinante ed empatico aveva stregato schiere di uomini, e non soltanto. Non mi fidavo di lei, era troppo abituata a manipolare le persone per i propri scopi.

«Vorremmo credervi, Vostra Grazia» disse Jacopo, con quella secchezza pungente che conoscevo bene. «Ma dovete darci delle ragioni per farlo.»

«La mia ragione è pura e semplice, Jacopo d'Atri. Ho tentato per anni, e ho miseramente fallito: non so governare la Mela. Ezio Auditore però l'ha fatto, nella battaglia finale contro mio padre. Io ho gli eserciti, e lui conosce il Frutto dell'Eden. Con i miei alleati francesi posso stringere il Papa in una tenaglia, ma per fronteggiare il potere del Serpente ho bisogno di qualcuno che sappia usare la Mela.»

Jacopo soppesò quelle parole. Il mio cuore batteva, furioso. Davanti alla vista sfocata la figura di Lucrezia mi appariva contornata di una strana sfumatura violacea...né azzurra – amica; né rossa – nemica. Poteva essere entrambe le cose, allo stesso tempo.

«Chi ci garantisce che quella sia la vera Mela?»

«Lasciate che la figlia del vostro capo la tocchi. Lei saprà riconoscerla.»

«Potrebbe essere solo un pretesto per ucciderla.»

«Potrebbe, è vero.» Gli occhi verdi di Lucrezia Borgia si posarono su di me, lievemente irridenti. «Ma se conosco la vostra amica, messere, non si tirerà indietro di fronte ad una sfida. Le è sempre piaciuto giocare a dadi con la propria morte: non è vero, Bianca?»

Sostenni lo sguardo di Lucrezia Borgia, e la mano di Martino che si protendeva verso di me non bastò a fermarmi. Scesi da cavallo, camminando lentamente, inesorabilmente, verso di lei.

Quando fui troppo vicina, le spade di Ermes e Vanni si incrociarono di fronte a lei per sbarrarmi la strada. Non degnai di uno sguardo il templare bolognese: voltai invece di scatto la testa verso colui che un tempo era stato mio fratello, e sputai sui suoi stivali. Speravo, lo ammetto, che quel gesto avrebbe scatenato una sua reazione violenta. Tutti gli altri intorno a noi sembravano crederlo, perché perfino gli alberi trattennero il fiato in attesa di vedere cosa avrebbe fatto Giovanni Antonio Auditore.

Lui mi guardò. Le sue iridi grigio-verdi erano quiete; un sopracciglio nero si alzò in un guizzo di ironia. Ironia! Una dote che il Vanni che conoscevo non aveva mai posseduto.

«Dovrai usare un veleno più potente per eliminarmi, Bianca.»

«Non ho fretta, Giovanni. Il mio veleno ti colpirà con il tempo, quando non te lo aspetterai.»

«Ah, l'affetto tra fratello e sorella» zufolò la duchessa; poi, il suo sarcasmo divenne di metallo. «Riconosco in voi due la stessa soavità del mio legame con Cesare.» Si fece seria, di nuovo. «Riporta la tua attenzione su chi ti parla, giovane Auditore. E' da me che dipende la tua vita oggi, ed è da te che dipende la mia.»

Lucrezia mi tese uno scrigno, fece scattare il coperchio. Il frutto era lì, opaco; dalle scanalature però emergeva un lieve luccichio. Tesi il palmo.

Chiusi gli occhi, lasciando che la superficie del frutto incontrasse la mia pelle. Mi trasmise un caldo senso di riconoscimento, che per un attimo portò un fiotto di lacrime a danzarmi dietro le palpebre. Sì. Era lei, la Mela. Non l'avrei confusa con nient'altro al mondo.

Aprii gli occhi, e ritrassi la mano. Fissai intensamente Lucrezia, studiando il suo viso sopra le spade che ancora erano incrociate di fronte a lei per proteggerla. «Porteremo la Mela a mio padre. Per essere certi che non ci assaliate lungo la strada, voglio due ostaggi. Persone importanti.»

Lucrezia socchiuse gli occhi. Ci mise qualche attimo, prima di annuire. «E' giusto. Verrei io stessa con te, ma non potrei giustificare la mia assenza al mio sposo. Mi crede in un convento sul delta del Po...certi inganni si possono mantenere in piedi solo un manciata di settimane per volta, o non saranno più creduti.» La sua delicata mano bianca si posò sulle lame che la proteggevano, abbassandole. Si rivolse prima ad Ermes, poi a Vanni. «Mi duole chiedervi questo.»

«Non dirlo, mia signora. Sai che moriremmo per te.»

Il Bentivoglio chinò ossequiosamente il capo, e così fece Vanni.

«Ti servirò fino alla fine, Maestra, anche se volesse dire spingermi nel fondo dell'Inferno» lo sentii bisbigliare. Margherita, accanto al lui, gli afferrò la mano. Vanni non rispose allo sguardo, ma ricambiò la stretta.

«No» sibilai. «Lui no. Non voglio avere niente a che fare con l'uomo che ha ucciso mio fratello Nicola. Dammi qualcun altro, duchessa. Qualcuno che ti sia ancora più caro.»

Un accenno di sogghigno mi tirava il viso. Sì, volevo restituire a Vanni lo stesso favore che aveva fatto a me sotto le mura di Mirandola, quando aveva suggerito ad Ermes di non liberare Martino perché era troppo importante. Avrei avuto in pugno la sua amichetta speciale, quella puttanella con la faccia d'angelo che si era ingraziata me e la mia intera famiglia per poi tradirci come il più vile dei criminali. Volevo che soffrisse, Vanni, avendola lontana senza sapere se l'avrei uccisa per un semplice, crudele capriccio, o se avrei deciso invece di risparmiarla per un altro giorno di dolore.

La ragazza mi guardò come un cerbiatto che si trova una freccia puntata in fronte. Batté le lunghe ciglia, e per un attimo mi chiesi se avesse capito cosa stava succedendo. Fui sorpresa quando la vidi fare un deciso passo avanti.

«Ha ragione, madre. Lasciami andare, te ne prego.»

«No» ruggì Vanni; lei gli posò la mano libera sul braccio.

«Andrà tutto bene.»

«Non lo capisci? E' questo che vuole. Non esiterà a farti del male, soltanto per vendicarsi di me!»

«Questa non è la Bianca che conosco.» I suoi occhi verdi si piantarono sul mio viso, come esigendo una conferma a quella frase. Mi lasciai sfuggire una mezza risata – volutamente cattiva.

«La Bianca che conoscevi è morta, ragazzina. E tu hai contribuito ad ammazzarla.» Aprii appena le mani, come a mostrare che non c'era nulla dentro. A parte, certo, le lame celate ai miei polsi. «Ora mi piace giocare a dadi non soltanto con la mia morte, ma anche con quella degli altri.» Riportai tutta la mia attenzione sulla Borgia. «Quanto sei disposta a puntare su questo tiro, Lucrezia?»

«Voglio andare, madre» insistette Margherita.

«Tu non vai da nessuna parte» abbaiò Vanni.

Fu in quel momento, che Jacopo smontò da cavallo. Si portò accanto a me.

«A tua figlia non verrà fatto alcun male, signora.»

«E chi me lo garantirà?»

«Io.»

Fui sorpresa che quella parola giungesse da Martino. Era rimasto a cavallo, pochi passi dietro di noi. Il suo sguardo era quieto, serio. «Io garantisco pe' lei.»

«Ti riconosco. Tu eri tra i prigionieri di Mirandola.» ribatté Lucrezia, studiando interessata il mio compagno, come se fosse un elemento che non aveva considerato nelle trattative. «Tu, più di molti altri, avresti di che rivalerti su tutti noi.»

«E' vero. Nun dimenticherò mai Mirandola, mai. Finché vivo. Porto co' me 'e grida de li compagni mia torturati, e li morti ch'ho vejato fino all'ultimo respiro loro. Porto co' me Nicola» la sua voce si incrinò di rabbia «e quella fine che manco 'n cane meritava. Ma io nun so' come voi. Noi» e quell'ultima parola suonava come un rimprovero per me «nun saremo mai come voi. Alla ragazza nun je torceremo 'n capello, e nemmeno ar generale tuo. Saranno liberi quanno 'a Mela sarà nelle mani der Mentore, hai la parola de Semeraro Martino.»

Fui sorpresa di vedere un lampo di gratitudine balenare dietro le lenti di Jacopo, subito celato dal suo pacato sguardo diplomatico. «E quella di Jacopo D'Atri» aggiunse.

Lucrezia spostò gli occhi verdi sul mio volto.

«E quella di Bianca Auditore?»

Mi morsi le labbra. Forte. Avvertivo lo sguardo di Martino sulla mia nuca, e quello sguardo pesava come un macigno.

«Sì» sibilai. «Anche quella di Bianca Auditore.»


Note:

1Questo concilio ribelle verrà poi definito «Conciliabolo di Pisa», perché successivamente dichiarato illegittimo dal Papa.

2Cippo cinquecentesco arrecante lo stemma dei Fieschi, con un leone rampante che oggi, riportano le mie fonti, è a malapena visibile. Alcuni dicono che il nome del cippo derivi da questo leone, altri da una leggenda legata a un brigante del XIX secolo.    

NdBlackFool:
Eccomi qua! Vi chiedo scusa per la sospensione natalizia, ma il mio dicembre è stato davvero improponibilmente impegnato e non ho potuto proprio scrivere. Questo capitolo mi lascia perplessa sotto molti aspetti, ho dovuto raccontare in fretta e furia di ciò che è accaduto a Simza e Zenobia e nel contempo parlare di altre situazioni...temo che la faccenda si stia intrigando molto più di quanto avessi previsto, ma spero che resti tutto nei limiti del comprensibile. Se così non fosse, segnalatemelo pure e cercherò di riscrivere i pezzi incriminati!
E così, abbiamo Ermes Bentivoglio e Margherita Borgia come ostaggi, e la Mela in mani Assassine. Che dirà Ezio quando si vedrà arrivare queste novità inaspettate? E Martino, deciderà di restare nel Credo o prenderà una strada diversa da quella di Bianca? Le risposte nel capitolo 45, "Qualcosa in cui credere" (sì, stavolta il titolo sarà questo per davvero! ^_^)

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Capitolo 45
*** Qualcosa in cui credere ***


Ero furiosa – eppure, anche in quello stato emotivo completamente alterato ebbi l'onestà di riconoscere che non c'era nessuno con cui ce l'avessi davvero, se non me stessa. Mi ero lasciata accecare dall'odio, avevo perso lucidità in un momento critico. Se non fosse stato per Martino, probabilmente non avremmo portato la Mela con noi. Mentre cavalcavamo attraverso la nebbiolina sempre più rada, io con Ermes e Martino con Margherita in sella dietro di lui, continuavo a risentire nella testa il suo tono appassionato, eppure calmo, mentre contrattava con la Borgia. Il dolore, e l'immensa dignità, con cui aveva parlato di Mirandola...perché io non riuscivo a trasformare la mia rabbia in quel genere di forza? Ero indegna degli insegnamenti di mio padre fino a quel punto?

Persino Vanni era sembrato qualcosa di più di un bambino sperduto, quel giorno, accanto alla sua Maestra per cui aveva dichiarato di poter dare la vita senza rimpianto. Ed io non riuscivo ancora a liberarmi dell'impulsività. Non riuscivo ad essere ciò che tutti si aspettavano da me.

Ora che Nicola non c'era più, quell'eventualità che Vanni aveva millantato più di una volta iniziava a prendere corpo nella mia mente, pesante come un macigno. Ezio non me ne aveva mai parlato apertamente, ma c'era la seria possibilità che un giorno avrei preso in mano le redini della confraternita al suo posto. Avevo solo ventidue anni, e mio padre era ancora nel pieno delle forze; era presto per pensarci, mi ripetevo, avrei avuto tempo di apprendere e migliorare. Ma poi il pensiero correva a Odette, che a venticinque anni aveva radunato intorno a sé tutti gli Assassini di Francia, e un brivido freddo mi percorreva la schiena. Non sapevo quando il fato mi avrebbe posto tra le mani quel fardello. Il tempo del mio apprendistato poteva finire in qualsiasi momento.

Il mio compagno ed io non parlammo se non quella notte, mentre eravamo accampati lungo la strada che ci avrebbe portato a breve a Firenze. Jacopo e due reclute si erano accollati il primo turno di guardia. Ermes si era già coricato, dopo essersi curato che la sua giovane signora fosse al sicuro e dormisse tranquilla. Avevamo tolto loro tutte le armi, ma il templare bolognese sembrava comunque pronto ad affrontarci tutti quanti da solo, a mani nude se fosse stato necessario, per difendere quella ragazzina che tanto somigliava a Lucrezia.

Mi stesi accanto a Martino, e d'istinto rimboccai il mantello sulle sue spalle. In quelle zone faceva ancora fresco, la sera, nonostante fossimo in piena estate. Poi, mi stesi con la schiena contro il suo petto, e la testa poggiata sul mio braccio ripiegato, cercando di invocare un sonno che, lo sapevo, non sarebbe arrivato in fretta.

Sentii il suo braccio cingermi la vita.

«Te va de palla'?»

Il suo sussurro mi raggiunse appena le orecchie. Sospirai.

«Di cosa?»

«E' tutto 'r giorno che nun me guardi.»

«Non è per te.»

«Dovevo fallo, Bià. 'a situazione era...»

«Lo so. Tu hai fatto quello che dovevi.» Intrecciai le dita alle sue, e finalmente ammisi: «Ho perso la testa. Non avrei dovuto provocarli così. Ma ho ricordato lo sparo, e il sangue, e il funerale...e Diamante che bacia il suo anello, e...»

«'O so.»

«Mi ha scritto, sai? Oreste ancora non si è ripreso. Non parla più, da quando gli ha dato la notizia. Un ragazzo di sedici anni, che non parla per mesi...»

«'O so, Bià.» Il suo bacio sulla spalla. «Ma dovemo guardà avanti. Pe' noi, e anche pe' quelli che ancora nun ce riescono. E pe' li regazzini. Oreste. Lisabetta. Emilia. Senza li omini de Lucrezia nun ce la faremo mai a da' loro 'n futuro.»

Restammo in silenzio per qualche istante. Poi, torsi un po' il busto, e voltai il viso verso di lui. «Sono orgogliosa di te, lo sai?» dissi soltanto, lasciando un breve bacio sulle sue labbra. Non ebbi il coraggio di aggiungere che era stato più Assassino lui, che voleva ritirarsi dall'Ordine, di quanto non lo fossi io, la figlia del Mentore. Non dissi che Ezio sarebbe stato fiero del suo comportamento, e che avevamo bisogno di uomini come lui nelle nostre fila, uomini che conoscono il valore dell'onore e dei giuramenti. Martino non rispose, ma sono certa che sentì tutte quelle parole, anche se non volevo porre il loro peso sulle sue spalle.

«Mo dormi, core mio. E' stata 'na giornata difficile. Domani manneremo 'n messaggero a tu' padre.»

Fu esattamente ciò che facemmo. Il piccione viaggiatore ci avrebbe preceduto, invitando mio padre a raggiungerci a Monteriggioni; noi vi arrivammo con i cappucci calati sul viso per ripararci dal sole, in un mezzogiorno che inondava i campi toscani di luce.

La vigna sul fianco della collina prosperava, con i suoi viticci gloriosamente verdi e rigogliosi. Pensai che in ottobre avremmo avuto un'ottima vendemmia, e una fitta di nostalgia mi serrò il cuore. Da quanto tempo non vedevo casa mia. Quattro anni. Potevo ancora chiamarla casa mia? Avrei trovato ancora le botteghe al loro posto, e avrei provato di nuovo quel senso di pace nel vedere Villa Auditore emergere lentamente tra i vicoli del borgo?

«Ricordo, adesso.»

Era la voce di Ermes che mi gravava sulla spalla.

«Il giorno in cui ho ucciso Charles d'Amboise, e tu volevi ficcarmi una lama celata in gola...dicesti che non avresti avuto pace fino a che io fossi vissuto. Mi sono chiesto perché mi odiassi a tal punto, giovane Auditore.» Il suo sguardo rosso si perse sui merli delle nostre mura. «Ora lo so. E' stato qui che ci siamo incontrati per la prima volta. Ricordo quella ragazzina vestita da maschio, che mi ha fatto quasi ammazzare.»

«Hai lasciato il tuo uomo indietro, quel giorno. E' morto come un animale rabbioso.»

«Era un servo. Aveva giurato di morire per la casa dei Bentivoglio, e l'ha fatto, come suo dovere.»

La freddezza nelle sue parole mi disgustò.

«Così come Lucrezia chiederà a te di morire per la sua causa, un giorno.»

«Esattamente, sì. Vedo che inizi a comprendere il pensiero templare.» Non c'era ironia nella sua voce. «Nasciamo nelle gerarchie, respiriamo nelle gerarchie, e versiamo sudore e sangue per chi è più in alto di noi. Le gerarchie ci dicono chi siamo, e tutti vogliono morire sapendo chi sono.»

«Hai davvero bisogno che sia qualcun altro a dirti chi sei?»

«Sì. Altrimenti potrebbe essere solo una bugia che racconto a me stesso.»

«E se fosse una bugia che raccontano a te?»

«Ci sono menti superiori alla nostra, ragazza, è questo che tu non comprendi. Sei chiusa nella tua arroganza, e non riesci a compiere un semplice atto di sottomissione. Se una mente illuminata come quella di Lucrezia Borgia mi dice che io devo dare la mia vita per lei, allora sì, significa che è davvero necessario per raggiungere un bene superiore. Questo è il significato dell'umiltà.»

Presi negli occhi quella visione della mia casa che non riabbracciavo da anni, fissai ogni dettaglio nella mente. Chiusi le palpebre per un attimo, prima di riaprirle e voltarmi per guardarlo. «Una volta credevo che il mondo non fosse abbastanza grande per noi due, per questo pensavo che ti avrei ucciso. Ma oggi ho capito una cosa.»

Lui inarcò il sopracciglio. Riconobbi in quell'espressione la stessa che avevo visto in Vanni. Ecco, pensai, da chi il mio fratello traditore aveva appreso l'ironia. «Ti prego, illuminami con la tua saggezza.»

Mi umettai le labbra. «Crediamo in qualcosa di così diverso che la vita non può dare ragione a entrambi, Bentivoglio. O me, o te. In questo senso, non possiamo sopravvivere se l'altro non muore.»

«Ed è proprio necessario che uno dei due muoia, per provare chi è nel giusto?»

Lo fissai in silenzio per qualche istante. «Non per ora.»

I nostri ostaggi avevano i polsi legati per precauzione, e restarono a cavallo dietro di noi, mentre attraversavamo la cinta muraria che conoscevo così bene. Oltrepassando il portone sfiorai distrattamente i suoi cardini, lascia scivolare i polpastrelli sulla superficie del torrione, che si ergeva sulle nostre teste come una sentinella. Non saprei spiegare la scarica che si trasmise dalla pietra a me. Fu come se le mura stesse respirassero, e inoculassero il loro bentornata attraverso la mia pelle. Sì, quella era ancora casa mia.

Eppure, c'era un rituale che non poteva essere espletato, quella volta. Di tutti i miei ritorni a Monteriggioni, quello fu senz'altro uno dei più tristi; perché sulle scale che conducevano alla Villa, questa volta, non c'era nessuno ad attendermi. Non la figura snella di nonna Maria, con gli occhi acuti come quelli di un'aquila che scruta l'orizzonte; né la silenziosa e rigida vedetta di zia Claudia, il nostro faro nella tempesta, sempre pronta a guidarci verso casa con la sua solida presenza. Lisabetta non mi sarebbe corsa incontro; non ci sarebbe stato l'abbraccio di Agamennone, né le battute pungenti di Veronica; non ci sarebbe stato il sorriso calmo di Nicola...quello non l'avrei rivisto in nessun luogo. Mia madre, zio Ugo...lontani, tutti impegnati nella loro battaglia. Questa volta sarebbe toccato a me attendere, e accendere il fuoco di sentinella per mio padre.

Fu strano. Per la prima volta mi mossi come se fossi la padrona di quella casa. Convocai gli attendenti e i domestici, assegnai stanze ai miei ospiti – quelli graditi e quelli un po' meno -, presi decisioni sulla sorveglianza degli illustri ostaggi che avevamo portato con noi e diedi disposizioni per la cena, precisando che a giorni ci avrebbe raggiunto anche il Signore della Villa, e che desideravo la trovasse al meglio. Avevo trovato una leggera patina di incuria: no, non sporcizia, in questo i domestici erano stati solerti. Forse saranno state le aree chiuse, come il Laboratorio (dopo tutto a chi serviva quella stanza? L'architetto aveva cambiato committente da anni) a darmi quell'idea di spoglio, di freddo. Volevo fiori freschi, ante aperte per lasciare entrare luce e calura estiva. Volevo tutti quei piccoli dettagli che avrebbero trasformato di nuovo la Villa nel nido accogliente dei miei ricordi.

Infine, quando tutto sembrò risolto, mi trovai a voltarmi verso il manipolo di assassini che mi seguiva. Jacopo se ne stava a fissarmi con aria sorniona, e pure Martino aveva incrociato le braccia al petto, divertito.

«Che c'è?» dissi, sgranando gli occhi.

«Te diverti affà 'a padrona der maniero, eh?»

Sentii, nonostante tutto, che una risata mi fioriva in gola. «Chi, io?»

«Proprio tu, Madonna Auditore» mi prese in giro Jacopo. «Sappiamo bene che tutto questo un giorno sarà tuo, non c'è bisogno che tu ce lo ricordi così, sai?»

Scherzava, lo sentivo dal suo tono. Per un momento mi tornò in mente una bambina di quattro anni che arriva per la prima volta alla Villa, e dice al padre, a lei ancora semi-sconosciuto: Quando morirete, tutto questo sarà mio! Provai insieme tenerezza, rimpianto, e un brivido di presagio. No, non volevo che Monteriggioni fosse mia, non ancora. Non ero pronta. Avevo bisogno di Ezio, adesso più che mai.

Avevo pensato che quello di Lucrezia potesse essere un trucco per attirare i suoi alleati francesi a Monteriggioni e assediarci, sì. Per questo avevo chiesto alle guardie di raddoppiare la vigilanza, e tenere sempre artiglieri accanto ai cannoni. Tuttavia, cercai di spingere quella possibilità sul fondo della mia coscienza, e rilassarmi. Era stato un lungo, snervante viaggio.

Mi concessi un bagno rilassante, in compagnia di Martino...per amore dell'economia, si intende. Troppi ospiti per sprecare acqua preziosa con due lavacri separati. Quindi, quando fummo entrambi ristorati a sufficienza ci cambiammo con abiti nuovi – invece di scegliere un'altra divisa, mi concessi un abito semplice, ma femminile, dei pochi che mia madre possedeva. Mi metteva a disagio indossare le insegne dell'ordine, quando Martino era in un semplice farsetto e camicia; cercavo di evitarlo ogni volta che l'occasione me lo permetteva.

Tuttavia, un abito femminile non mi spogliava delle mie responsabilità. Chiesi al mio uomo se volesse seguirmi nello studio di mio padre, quello pieno dei quadri dei congiurati. Era lì che avevo dato appuntamento a Jacopo per parlare della missione di salvataggio di Simza. Per un attimo, un bagliore di cupa gelosia gli fece quasi dire di sì; poi, strinse la mascella un momento, mise insieme uno sbadiglio e disse che avrebbe riposato fino all'ora di cena. Capii il suo senso di disagio, e non volli insistere. Per aiutarci, Martino si era già immischiato fin troppo nelle faccende della Confraternita. Mi avrebbe lasciata da sola con il mio ex-amante, e nonostante sapessi che si fidava di me ero anche certa che si trattasse di uno sforzo immenso per il suo carattere possessivo. Questo era l'indice di quanto ancora volesse tenersi lontano dagli affari del Credo.

Jacopo non nascose uno sguardo ammirato e qualche commento galante, quando mi vide arrivare in quella tenuta inaspettata. Liquidai in fretta le sue lusinghe, sedendo nello scranno che apparteneva a mio padre. Poggiai i gomiti sul legno del suo scrittoio, e mi sentii di colpo più forte. Più fiera.

«Adesso parlami di questa storia, e dimmi perché non ne sapevo assolutamente nulla.»

Jacopo vuotò il sacco, con serafica calma. Spiegò che la ragazza gitana non era stata salvata, ma trovata: girovagava per i vicoli in stato confusionale, ed era stato un bene che fossero stati lui e i suoi uomini a incontrarla, invece dei loro nemici.

«Dov'è ora?»

«In una delle mie ville poco fuori Roma.»

«Perché non ne sapevo niente, Jacopo? Hai detto che è stata trovata settimane fa!»

Lui non si scompose per il mio tono irritato. «Perché quando ho suggerito che venisse portata al cospetto di tuo padre mi ha artigliato il braccio fino a farlo sanguinare, e si è quasi buttata ai miei piedi per supplicarmi.» Si battè un indice sulle labbra, un gesto che compiva spesso quando rifletteva. «Credo provi vergogna, sia nei suoi confronti che nei tuoi. O forse è solo panico.»

«Le dobbiamo la vita, sia tu che io. Non le avremmo mai fatto del male.»

«Noi lo sappiamo, ma lei no.» Accennò ad un sorriso. «E' un soggetto interessante, quella ragazza. Non apre mai bocca, ma sa farsi capire perfettamente. Quegli occhi parlano per lei.»

«E' scappata da sola?»

«Non lo so.»

«Andiamo, non mi dirai che non l'hai interrogata!»

«Nel caso non l'avessi notato, è muta.»

«Come hai detto tu, sa farsi capire benissimo. Legge e scrive senza alcun problema.» Mi sporsi di più sullo scrittoio. «Dunque?»

Jacopo prese un sospiro, e si mosse sullo scranno. «Piangeva, Bianca. E tu lo sai, io sono un signore. Non mi piace torchiare la gente in generale, figurarsi le donne che piangono. Preferisco essere più...sottile, diciamo così.»

Non potei impedirmi di inclinare un po' il capo, per studiare il mio ex-amante. «Cosa hai intenzione di fare, con lei?»

«Sarà una mia gradita ospite fino a che non saremo certi che i templari non la stanno più cercando.»

Annuii. «Le organizzeremo una nuova vita lontana da qui, e magari una nuova identità. Voglio che sia libera di decidere per se stessa.»

«Con tutto il rispetto, madamigella Auditore...non è facile nascondere tra la folla una gitana, muta e con gli occhi cangianti come i suoi.»1

«Dunque, qual è il tuo piano per lei?»

«Non lo so. Dovrà essere lei a decidere. Nel frattempo, potrà restare nella mia casa tutto il tempo che vorrà.»

Gli lanciai un'occhiata sospettosa. «Ci sono ottime probabilità che quella ragazza sia mia cugina, Jacopo.»

«E con ciò?»

«Con ciò...attento a come la tratti, o ne risponderai a me in persona. Sono stata chiara?» Accompagnai quella finta minaccia con un sorriso. L'idea mi fiorì in testa rapidamente, e subito provai la voglia di ridere di nuovo. Con Simza, l'impenitente ambasciatore avrebbe trovato pane per i suoi denti.

Per tutta risposta, lui poggiò un gomito sullo scrittoio, avvicinando il viso al mio. «Sei gelosa, Bianca Auditore?»

Non mi scostai, e replicai alla sua evidente voglia di civettare con un sogghigno. «Ti piacerebbe, Jacopo d'Atri.»

Quindi, mi alzai in piedi. Il colloquio era finito, per quel che mi riguardava. Mi ripromisi di far visita a Simza appena fossimo rientrati a Roma. Feci per uscire, quando Jacopo mi fermò con la voce.

«Al passo della Cisa stavi per farci scannare. Lo sai, vero?»

Non aveva un tono di rimprovero. Mi stava soltanto mettendo davanti ad un fatto. Mi fermai, con la mano sullo stipite.

«La diplomazia non è mai stata il mio forte. E' a questo che ci servono gli ambasciatori come te.»

«Le parole di un ambasciatore non sono mai prese per vere, abbiamo questa tediosa tendenza a lavorare per il vantaggio del nostro committente...» Mi guardò, serio. «Se ce la siamo cavata, lo dobbiamo al tuo Martino.»

«Sì.» Abbassai lo sguardo, per un istante. Poi, gli sorrisi. «Capisci adesso, perché ho bisogno di lui al mio fianco?»

Jacopo si battè ancora l'indice sulle labbra. Dopo qualche istante, disse: «La prossima volta potrebbe non esserci. Devi imparare a fare attenzione, se vuoi sederti di nuovo su quello scranno» accennò al posto che avevo appena lasciato «e comandare i tuoi allievi come oggi hai comandato un po' tutti noi.»

Sorrise, bonariamente. Aveva questa abitudine, in parte fastidiosa e in parte interessante, di snocciolarmi le sue piccole perle di saggezza...quella volta, però, mi ero meritata la predica. Jacopo aveva ragione. Potevo aver bisogno di Martino come donna, ma come Assassina dovevo imparare a crescere da sola.

 

Il sentimento con cui mi affacciai alle stanze – sorvegliatissime – che avevo fatto assegnare a Margherita era contrastante. In parte desideravo vedere con i miei occhi che era totalmente sotto il nostro controllo, dall'altra sentivo di dover fare ammenda, almeno in parte, per le mie minacce. C'era anche altro, però, lo riconosco. Il bisogno di capire quella ragazza che una volta avevo rischiato di uccidere; quella ragazza che, ancora bambina, si era infiltrata tra i nemici di sua madre ed era riuscita a colpirci dritti al cuore. Avevo inteso che fosse molto vicina a Vanni, e anche questo era un dettaglio che mi spingeva verso la sua camera. Volevo capire chi avessi di fronte. L'animaletto spaventato che sembrava, o una degna erede di sua madre?

La trovai alla finestra, intenta a guardare fuori. Mi aveva sentita ancora prima di vedere il mio riflesso nel vetro colorato, ma non si voltò. Non aveva nemmeno sussultato.

«Sei venuta qui per farmi quello che hai promesso?»

«Non essere sciocca. Non ti farò nulla.»

Rimasi ferma sulla soglia, per poi ricordare che, dannazione, quella era casa mia. E lei era il mio ostaggio. Si voltò, mi mise gli occhi verdi in viso come due accuse.

«Non sono una stupida. So quanto desideri farmi del male, per farne a Vanni. Per quel tuo amico che lui ha ucciso.»

Non negai. Anzi, rincarai: «E per Martino. Per Nonna Maria. Per i nostri genitori. Per Ilaria. Per me stessa...» Scossi il capo. «Ma non ti toccherò con un dito, perché il mio uomo ha dato la sua parola per te. Il suo onore è più importante della mia vendetta.»

«Anche tu hai dato la tua parola. Il tuo onore non è più importante della vendetta?»

Mi spiazzò, per come lo disse. Senza paura. Senza scherno. Con l'ingenuità di un bambino che porge al genitore una domanda imbarazzante. Non trovai nulla di meglio che replicare con un'altra domanda.

«Vanni è disposto a morire per tua madre. E per te, sarebbe disposto a farlo?»

«Non importa. Quello che conta è che io morirei per lui, senza nemmeno un attimo di rimpianto.»

Lo disse con sicurezza. Come un'adulta.

Strinsi gli occhi a due fessure. Quel senso di rivalsa che mi aveva guidata al Passo della Cisa spinse fuori le mie parole, di nuovo, mentre andavo a sedermi sul letto. «Lo sai che ha un figlio con un'altra donna?»

«Lo so, certo.»

«E ti va bene comunque?»

«E' importante, per lui. Dunque, è importante anche per me.» Si umettò le labbra. «Presto sarò sua moglie. Il matrimonio è stato fissato per la metà di settembre. Voglio essere in grado di condividere tutto ciò che gli è caro.»

Aveva parlato quietamente, con un tono più maturo dei suoi quattordici anni. Solo quattordici...e già sposa. Di mio fratello. Ripensai a Ilaria, sola, con un figlio piccolo, la reputazione distrutta e un sogno calpestato. Strinsi i pugni d'istinto, per contenere la rabbia.

«Perché lo ami così ciecamente? Cosa trovi in lui?»

Lei mi guardò come se mi vedesse per la prima volta. «Tu non lo capisci, vero?»

Mi colpì quella precisa scelta di parole. Già...era quello che mi aveva detto Vanni, nelle prigioni di Castel Sant'Angelo: io non lo avevo mai capito. Secondo lui, nemmeno mi ero mai sforzata di farlo.

La osservai, mentre si sedeva dall'altra parte del letto e si disfaceva la treccia di capelli ancora umidi. Fissò un punto indefinito sulla coperta, mentre prendeva a parlare.

«Giovanni ha un'anima grande come il mare. A volte è in tempesta, ed è una marea che distrugge quello che trova sul suo cammino. Altre volte invece culla i miei pensieri senza nemmeno bisogno di parlarmi....nel suo abbraccio mi sento libera, senza confini. Proprio come quando solchi l'orizzonte su una nave. So che in lui c'è un mondo intero da scoprire, se avrò pazienza abbastanza da calarmi nei suoi abissi. Vanni è un mare che voglio conoscere fino in fondo, come nessuno ha mai fatto. Perché a volte è terribile, e a volte è meraviglioso...ma è sempre tutto, e mai niente. Capisci cosa intendo?»

Non risposi. Mentre continuavo a fissarla, provai qualcosa di molto simile alla tenerezza, mista alla compassione della donna più cinica che sente parlare una ragazzina al primo amore, assoluto, incondizionato. Eppure, quanto vibravano quelle parole. Quanta luce c'era negli occhi di Margherita, quando diceva di voler imparare a memoria gli abissi del mare.

«A me ha fatto soltanto del male. Spero che a te riservi un altro lato di sé.»

«C'è qualcosa che non hai considerato, Bianca. Riguardo a Mirandola.»

Quel breve afflato di accondiscendenza si trasformò subito nella mia più familiare posizione guardinga. C'era meno di mezzo metro di coperta a dividerci, il che mi faceva sentire vulnerabile, in qualche assurdo modo. Ero a casa mia, circondata dagli uomini di mio padre. Margherita era solo un ostaggio, disarmata, impotente.

«Non ho bisogno di considerare niente. A Mirandola, io c'ero» replicai tra i denti.

«Ma non sai cosa gli passava per la testa.»

«E tu sì?»

«Con me si confida.»

«Ti avrà mentito. Se c'è qualcosa che ho capito di mio fratello, è che è un bravissimo manipolatore.»

Lei non si scompose. Tracciò un segno invisibile sulla coperta, lo seguì con il dito. «Su questo hai ragione. E' razionale, logico. A volte risulta freddo, ma tutto ciò che fa ha un senso.» Il suo sentiero immaginario finì nell'aria, quando il polpastrello si ritrasse di nuovo nel pugno. «Ti sei fermata a pensare che forse ha ucciso il suo ex compagno, quel tuo amico, per lo stesso motivo per cui lui lo stava provocando a farlo? Entrambi volevano evitare che vostro padre fosse catturato.»

«Perché Vanni avrebbe dovuto agire contro gli interessi templari?»

«Perché ama Ezio Auditore, più di quanto ami qualsiasi altra persona al mondo...più di quanto amerà mai me, mia madre, o quell'altra donna, o perfino suo figlio. E lo odia, anche, è ovvio. Capisco bene cosa prova, perché è lo stesso sentimento che mi lega a mia madre. Viscerale, assoluto. Violento, fragile.» Si fermò - interdetta, forse, per aver ammesso di fronte a un alleato precario che considerava sua madre una rivale. Poi, scosse il capo. I ricci danzarono intorno al suo viso da angelo. «Vanni ha compiuto molti atti stremi, ma sempre per ciò che credeva giusto.»

«Ammazzando persone con cui un tempo ha diviso il pane? Pugnalando sua sorella e lasciandola a dissanguarsi per strada?»

«Ha avuto paura, quella notte, a Bologna. Lui non voleva farti male, è stata la Mela a soggiogarlo. Non sai quante notti l'ho sentito urlare il tuo nome, i primi tempi, fin dalla mia stanza...ti ha lasciato lì perché era terrorizzato da ciò che il Frutto l'aveva spinto a fare. E' stato codardo, sì. Ma non voleva ferirti, ed era sconvolto.»

Perché non riuscivo a muovermi? Volevo andarmene da quella stanza, troncare il monologo di Margherita e smettere di ascoltare. Eppure, i suoi occhi pacifici mi inchiodavano lì, seduta accanto a lei, dividendo a dispetto di tutto un momento di intimità che stonava con ciò che eravamo una per l'altra.

«Per quanto riguarda quel tuo amico, ancora una volta...è stata una crudele necessità, per Vanni. C'ero anche io quel giorno, e credimi: se avessimo avuto tuo padre in mano allora, oggi non vi staremmo offrendo quest'alleanza vantaggiosa per entrambe le parti, perché saremmo stati capaci di schiacciarvi sotto il pollice.»

Abbassai lo sguardo anche io, a quel punto. Volevo scacciare i ricordi che Margherita aveva evocato. Volevo evitare di dare un nuovo senso alle azioni del mio fratello traditore.

«Spero che non arrivi mai il momento in cui la crudele necessità gli chiederà di sacrificare te, perché lo sai...quello sarà il giorno in cui ti accorgerai di chi è l'uomo che hai scelto.»

Lei scrollò le spalle. «Te l'ho detto. Morirei per lui, senza pensarci. Così come tu rinunci alla vendetta per il tuo uomo, io sono disposta a dare la vita per il mio.»

Sì, era una bambina, e queste parole me ne diedero la prova definitiva. Non capiva la differenza tra il rispetto che portavo all'onore di Martino e la danza da burattinaio a cui Vanni l'avrebbe costretta. Ma andava bene così, dopo tutto. Avevo bisogno di sentirla diversa da me, di sapere che c'era una crepa insanabile a tenerci lontane. Se avessi sospettato, anche solo per un momento, che Templari e Assassini potessero essere uomini con simili bisogni e obiettivi sotto bandiere di colore differente, ogni mia risoluzione sarebbe crollata per sempre.

 

***

 

Ezio ci mise due giorni ad arrivare. Il piccione lo precedette di una giornata intera, il che mi diede modo di organizzarmi. Avremmo avuto i suoi cibi preferiti per cena, la stanza sua e di mia madre pronta, il Laboratorio riaperto. Curai molto quell'arrivo, per evitare di pensare all'impatto che quell'incontro avrebbe avuto sul nostro futuro. Avevamo la Mela, e due ostaggi templari. Cosa avrebbe detto Ezio, questa volta? Avrebbe scorto una minaccia dove noi non avevamo visto che vantaggi? Temevo il suo giudizio quando avesse appreso del mio comportamento al Passo della Cisa, lo ammetto. Tuttavia, trepidavo anche, in un certo senso. Volevo vedere come si sarebbe comportato. Volevo apprendere da lui.

Ezio non arrivò con mia madre, come mi ero aspettata. Non mettevo più in discussione la solidità della loro coppia, ma quella scelta di portare proprio zio Ugo, il suo braccio destro, destò un allarme di qualche genere in me. I miei genitori erano tornati inseparabili come un tempo; dunque, se Ezio aveva scelto di lasciare Rosa a Roma e aveva pensato di portare con sé l'uomo che aveva amministrato gli assassini della capitale per così tanto tempo, significava che aveva progetti grandi, e probabilmente pericolosi, per questo incontro.

Quando mi venne incontro, sulla scalinata che portava alla villa, indossavo di nuovo la divisa da adepta. Ezio sorrise all'angolo della bocca, ma mi accorsi che mi scrutava con serietà. «Figlia mia, tu attiri templari come il miele attira le mosche» mi prese in giro, lasciandomi un veloce bacio sulla guancia. «Ti hanno dato problemi?»

«Nessuno, padre. Sono ostaggi modello.»

«E sei certa che la Mela sia vera?»

«Come del mio nome.»

Ezio gettò una rapida occhiata alle mura. «La prudenza non è mai troppa.»

«I cannoni sono armati e gli uomini sono di sentinella giorno e notte.»

«Ben fatto.»

Il mio cuore sussultò di orgoglio, come quello di una bambina che ha ripetuto bene la lezione.

«Se questa proposta di alleanza è sincera, potremmo aver risolto gran parte dei nostri problemi» commentò zio Ugo.

«Fatico ad accostare le parole sincero e Borgia» replicò mio padre, mettendo piede nella Villa senza mostrare nemmeno un istante di quell'emozione che aveva preso me due giorni prima. Lo ammetto, osservare il suo ingresso frettoloso mi lasciò un sapore amaro nella bocca. Forse il ritorno a casa non significava per lui quanto significava per me, ma possibile che non mostrasse nemmeno un vago segno di gioia per l'essere tornato dopo tanto tempo?

D'improvviso, mi sovvenne un pensiero. Doveva essere questo che zia Claudia aveva provato per così tanti anni, curando la Villa e il borgo incessantemente, solo per vedere rientrare Ezio sempre di fretta, sempre immerso in qualche pensiero più importante di lei e di ciò che aveva fatto per l'eredità della loro famiglia. In quel momento mi sembrò di capire qualcosa di più di mia zia, dei suoi umori altalenanti, e delle sue accuse al fratello durante la malattia di nonna Maria. Era la prima volta che ci pensavo, ma è qualcosa di cui oggi sono pienamente consapevole. Noi assassini viviamo centinaia di avventure potenzialmente mortali, ma il compito più difficile è restare ad aspettare il nostro ritorno.

Ezio ci volle nel Laboratorio: Jacopo, gli ostaggi, Martino ed io. A dire il vero, lì per lì aveva richiesto che Martino restasse fuori da quella riunione. Eravamo stati Jacopo ed io a dirgli di quanto importante fosse stato il suo contributo al Passo della Cisa; Margherita aveva aggiunto che non avrebbe mosso un passo senza quell'uomo che era la sua garanzia di salvezza. Infine, seppure con una certa riluttanza, mio padre accettò che il mio compagno presenziasse alla riunione.

Il Mentore sedette allo scranno, pensieroso, portandosi le mani intrecciate davanti alla bocca. Davanti a lui stava, riposta nel suo scrigno aperto, la Mela. Ugo stava in piedi accanto allo scranno, e osservava il Frutto con pacata compostezza. Su un uomo come lui, le tentazioni della Mela dell'Eden non avrebbero mai avuto effetto, ne ero certa.

Ezio lasciò che Ermes spiegasse di nuovo ciò che Lucrezia aveva detto a noi. Il templare assicurò, con quel suo tono tranquillo e profondo, che non c'erano doppi fini nella loro richiesta. E quali doppi fini avrebbero mai potuto avere? Che fossero spacciati senza il nostro aiuto, era un dato di fatto. Il Papa aveva il Serpente, di cui si sapeva soltanto che era in grado di esaudire un desiderio. Giulio II avrebbe potuto semplicemente desiderare di sterminarci tutti quanti, ed ecco che i loro eserciti si sarebbero dissolti in poltiglia...avevano bisogno di Ezio per carpire il segreto della Mela e usarla contro il loro nemico comune.

Mio padre ascoltò, serio. Infine, chiuse gli occhi. Io osservai il luccichio dei fili grigi nei suoi capelli bruni, sotto il raggio di luce che cadeva dalla finestra sembravano argento.

«Sono trascorsi quasi dodici anni.» La sua voce era grave, carica di fatica come se quel ricordo gli costasse più fiato. «Dodici, sì, da quando la Mela mi ha condotto a Roma, nel Vaticano. Mi sono scontrato con lo Spagnolo, ho deciso di non ucciderlo. Ho aperto la Cripta segreta, e ho incontrato...»

Ezio si fermò, a quel punto. Mi accorsi di avere il cuore in gola. Oh, ricordavo quel periodo...io avevo sì e no dieci anni, e avevo lasciato partire i miei genitori dopo aver litigato violentemente con mia madre. Avevo iniziato a malapena a intuire chi fosse Ezio Auditore da Firenze e cosa facesse per vivere, e ne ero stata inquietata fin dal principio...ma quando era tornato da quella missione, apparentemente svuotato di ogni voglia di vivere, avevo capito che non mi importava cosa facesse né per quale ragione: io lo amavo, e non avevo bisogno di sapere altro.

«Prima che prosegua, dovete sapere una cosa importante. Ciò che sto per dirvi...no, ciò che sto per mostrarvi può sconvolgere tutto ciò che credete di pensare.» I suoi occhi scuri passarono, mortalmente seri, in quelli di ognuno dei presenti. «Se volete uscire da questa stanza, fatelo ora...perché dopo potrebbe essere troppo tardi.»

«Cosa volete mostrarci?» dissi, con la gola secca. Mio padre mi fissò.

«Quando eri prigioniera a Castel Sant'Angelo, Bianca, mi hai detto che il Serpente ti ha costretta a vedere il passato. Quello che io ho visto usando la Mela, è il futuro. E non il mio, o il tuo, o quello di nessuno qui. Parlo del futuro dell'umanità.»

Un brivido silenzioso passò attraverso la stanza. Ezio si accarezzò la rada barba che gli contornava la mascella. Umanità...un concetto ancora così astratto per noi, che vivevamo di conflitti particolari, di nazioni con i propri re e i propri interessi, di alleanze fragili e ataviche rivalità. Un concetto che era stato il centro della vita di Leonardo e dei suoi studia humanitatis. Un concetto che mio padre ci chiedeva di fare nostro, per capire davvero cosa volesse dirci.

Rivolsi uno sguardo silenzioso a Martino, come a chiedergli senza parole se davvero volesse immergersi fino a tal punto nei segreti del Credo. Per tutta risposta, lui mi prese la mano, la strinse. Dove andavo io, sarebbe andato anche lui.

Nessuno si tirò indietro, nemmeno Margherita. Così, Ezio si alzò in piedi, prese la Mela tra le mani. La toccò. E i suoni esplosero.

 

La luce che fende ogni angolo della stanza, corre verso di me, mi attraversa. Una sensazione che non posso dimenticare. Sono come lame che cercano di squarciarmi la pelle, premono per scorticare il mio involucro, vogliono affondare nella mia essenza. I suoni si sono fatti così acuti, sembrano voci di angeli feriti. Mi distruggono le orecchie. Mi lacerano l'anima.

Dietro le palpebre tremanti, lo vedo. Se chiudo gli occhi, ora...c'è il fuoco che viene dal cielo. La terra si crepa, lasciando uscire il suo sangue incandescente in superficie. Persone...diverse da me, uguali a me...donne, uomini, vecchi, bambini. Corrono, in cerca di salvezza. Gridano, mentre soccombono. Il cielo è illuminato a giorno, il fuoco lo fa risplendere...è come se le stelle fossero diventate letali palle di cannone, piovono sulla terra per devastarla, portano morte...cosa direbbe Agamennone se le vedesse...le sue amate stelle che distruggono ogni cosa, lasciando dietro di sé cenere, ossa carbonizzate, eco di grida. Stringo più forte la mano di Martino, perché il panico mi ha preso. Lui è qui, vero? Non è tra quelle persone che rantolano a terra in involucri di fuoco, deve essere qui, accanto a me...sì, sta rispondendo alla mia stretta. E' con me. È salvo. Ma gli altri...tutti gli altri...

 

Quando i suoni cessarono, e il fuoco svanì, sembrò di sprofondare nella penombra. Non era possibile...era pieno giorno fino a poco fa. La troppa luce doveva averci resi ciechi per qualche istante.

Mi guardai intorno. Ugo aveva la mascella serrata, i suoi occhi sempre un po' malinconici sembravano pulsare dell'orrore appena visto. Margherita teneva le mani sulla bocca: tremava. Ermes la prese per le spalle, e la accompagnò gentilmente verso una sedia. Perfino l'imperturbabile Jacopo appariva terribilmente pallido. Si massaggiò gli occhi sotto le lenti, per riacquistare lucidità. Aveva lo sguardo di un uomo le cui certezze si sono infrante.

La stretta di Martino sulla mia mano mi fece quasi male. Alzai gli occhi su di lui, e le vidi...le lacrime che gli bagnavano il viso, mentre guardava dritto di fronte a sé, forse ancora nello spettro di quelle immagini terribili.

«Quanno?» mormorò piano, rivolto a mio padre. Ezio, l'unico ad essere ancora presente a se stesso in quella stanza, rispose: «Non lo so. Forse un futuro lontano, quando tutti noi saremo morti e sepolti da secoli.»

«Ma li fiji de li nostri fiji...saranno lì.»

«Forse nemmeno loro lo vedranno. Forse sarà così avanti nel tempo che di noi si sarà persa del tutto la memoria, e il nostro sangue sarà così mischiato che non potremo più nemmeno chiamarlo nostro. La domanda che credo dobbiamo porci adesso è: ci riguarda ancora, se è un futuro distante?»

Martino si ammutolì, a quel punto. Gli strinsi il braccio, ma non ottenni risposta da lui. Si era chiuso nei suoi pensieri.

«E' questo che hai appreso nella Cripta del Vaticano, Ezio?» domandò Ugo. «Il modo in cui il mondo finirà?»

«No...non subito, a dire il vero. Ciò che ho scoperto allora è stato che il mio ruolo di Profeta si riduceva ad essere il tramite di un messaggio, il cui destinatario e significato mi sono ignoti. Ma la notte successiva...e quella dopo ancora...e infinite notti, ogni volta che ho toccato la Mela dell'Eden...la visione è venuta da me, sempre più nitida e sempre più crudele.» Rivolse la sua attenzione su Ermes, che ancora cercava di confortare la sua sconvolta, giovane signora. «Io combatto perché quel giorno ci trovi forti, templare. Lotto perché ogni essere umano abbia la possibilità di scegliere per se stesso, e vivere pienamente ogni suo respiro...perché se un giorno il cielo ci cadrà davvero sulla testa, almeno abbiamo potuto vivere da uomini e donne liberi, e perché no...con la speranza che nel frattempo qualcuno abbia trovato un modo di combattere la catastrofe, per ribellarci alla condanna delle stelle.» Si umettò le labbra. «Tu, per cosa combatti? Devo saperlo, prima di allearmi con te.»

Ermes si alzò in piedi, e coprì la distanza che lo separava da Ezio. Tra lui e mio padre, ora, c'era soltanto lo scrittoio. La Mela dell'Eden stava tra loro, priva di luce, l'ago di un equilibrio fragile.

«Io combatto per condurre le sofferenze degli uomini ad una fine. Lotto affinché ognuno trovi il suo posto nell'Armonia Universale, e conduca la sua esistenza in modo da adempiere al destino che gli è stato assegnato...e se il Padre della Comprensione vorrà punirci con il fuoco e le fiamme, sarà perché l'avremo meritato. Tuttavia...» La sua lingua schioccò nel palato secco «So che se non sconfiggiamo Della Rovere ora, il giorno del Giudizio arriverà assai prima che le nostre ossa siano coperte dalla terra, Ezio Auditore. Arriverà quando ancora noi, e le persone che amiamo, respiriamo questa stessa aria. Il prezzo della vittoria del Papa è la sofferenza di tutti coloro a cui teniamo. Per questo, anche se le nostre visioni sono inconciliabili, io sono disposto a mettere da parte il mio orgoglio e a diventare un tuo alleato.» Gli tese la mano, aperta, disarmata. «Sei disposto a fare altrettanto?»

Trattenevo il fiato, in attesa della risposta di mio padre. Ezio ci mise qualche istante prima di raccogliere quell'offerta di pace, come se cercasse una nota discordante nella voce di Ermes. Non ne trovò. Strinse la sua mano.

«Sì, lo sono.»

In quel momento fui grata che Agamennone si trovasse lontano, perché non potevo fare a meno di domandarmi cosa avrebbe pensato sapendo che stavamo stringendo un patto con l'uomo che aveva ordinato la strage della sua famiglia. Eppure, forse il mio stralunato amico sarebbe stato il primo a concordare con le parole del templare. Il Giorno del Giudizio, l'aveva chiamato il Bentivoglio...per me, la visione divenne invece: il Giorno che Voglio Impedire. Con ogni mia azione, con ogni mio gesto, con ogni mio respiro. Tutto quello che ho fatto da quel momento in avanti come Assassina, l'ho fatto per lottare contro un destino imposto dal cielo. Ricordatelo, vi prego, quando il momento verrà. E combattete, miei invisibili amici che leggete queste parole. Combattete, come io e noi tutti abbiamo sempre fatto...per noi stessi, ma anche per voi.

 

***

 

Avrei dovuto capirlo, quando la lettera di Ilaria arrivò a Monteriggioni. Come poteva sapere che mi trovavo lì? Eppure, ero così felice di ricevere notizie sue e di Leonardo che, lì per lì, quella semplice domanda non mi balenò nemmeno lontanamente in testa. Mi chiedeva di andare a trovarla a Vinci, quando avessi potuto, per vedere il piccolo Leo. Ed io, come sempre cieca quando si tratta dei richiami del cuore, mi misi in viaggio. La scusa ufficiale sarebbe stata scortare i nostri ostaggi, per un tratto di strada. Gli accordi che Ermes e mio padre avevano preso prevedevano che il Mentore tornasse Roma, e iniziasse ad organizzare i suoi uomini: ci saremmo uniti agli eserciti francesi di Gaston de Foix, avremmo combattuto nelle loro retrovie, infiltrandoci per loro dentro le roccaforti, facendo il nostro solito lavoro di invisibili sabotatori. Ezio avrebbe portato con sé la Mela: solo lui, disse, avrebbe potuto usarla. Questo era un monito per gli uomini di Lucrezia, che non sperassero di toccare il frutto: eppure, seppi fin dal primo momento che era anche rivolto a me. Mio padre avrebbe accettato che combattessi al suo fianco, ma non voleva ancora che fossi sottoposta allo sforzo di usare il Frutto. Era passato troppo poco tempo da quando il Serpente mi aveva quasi uccisa. Non mi ribellai a quell'ordine, perché con tutto quello che mi era successo ultimamente sapevo che lottare accanto al Mentore era già un onore molto grande, e non potevo pretendere di più. Per ora.

I nostri gruppi si separarono. Jacopo si diresse a Roma, insieme a mio padre e alle reclute; Ugo volle accompagnare me, Martino e gli ostaggi verso il passo della Cisa. Non mi fece troppe domande, quando, dopo aver affidato Ermes e Margherita ai loro alleati, sulla strada che ci avrebbe condotti a Roma chiesi di fermarmi a Vinci. C'erano alcuni dei suoi allievi a sorvegliare la casa dove Ilaria e il bambino vivevano. Fu felice di incontrarli, parlare con loro. Non sospettavamo nulla.

Ilaria ci accolse con allegria. Era sempre bella: la luce combattiva nei suoi occhi non si era spenta, nemmeno con tutto quello che aveva dovuto passare. Per un attimo, mentre mi abbracciava con calore, guardai i segni di stanchezza sul suo volto, in contrasto con il suo atteggiamento fiero. Pensai per un attimo a mia madre. Sì. Capivo cosa avesse attirato Vanni in lei, lo capivo molto bene.

Disse che Leo stava dormendo, e mentre attendevamo che si svegliasse ci offrì un ottimo pranzo cucinato con le sue mani. Sembrava nervosa, mentre affettava le verdure. Si tagliò un paio di volte.

«Sono sempre così maldestra», si giustificò ridendo.

Le presi la mano per controllare il taglio. «Non c'è bisogno che fai tutta questa fatica per noi. Mi sembri stanca.»

Lei si sottrasse al mio tocco, scusandosi con un sorriso. Disse che avrebbe cercato un panno pulito con cui fasciarsi il graffio, nella stanza da letto. Stefano, uno dei ragazzi di guardia, si offrì di continuare a cucinare al suo posto; tuttavia, mentre gli uomini dividevano una rilassata atmosfera cameratesca, io rimasi ad osservare le scale su cui Ilaria era sparita.

Decisi di seguirla. Avevo uno strano presentimento: ero certa che, una volta aperta la porta della stanza che la donna divideva con Leonardo, avrei trovato qualcosa che non mi sarebbe piaciuto affatto. E così fu.

Ilaria sussultò nel buio flebile, quando aprii la porta. Non c'era nemmeno una candela accesa, solo una lama di luce che a malapena penetrava dagli scuri serrati.

«Posso aiutarti?» La voce della pittrice suonava rotta dall'ansia.

C'era un'ombra accanto a lei. Un'ombra celata da un cappuccio.

D'istinto, feci saettare la lama. Ilaria sussurrò: «Ti prego, non farlo. Non ti farà del male, me lo ha promesso.»

Non potei fare a meno di sentirmi tradita. Conoscevo la sensazione, bruciava in gola.

Riconobbi i versetti di Leonardo. Dov'era? Strinsi un po' gli occhi per abituarli alla penombra...oh, Dio. Eccolo, quel fagottino di...quanti mesi aveva ormai...poco meno di due anni? Ed era in braccio a suo padre. Gli si aggrappava con le mani paffute al cappuccio, e rideva, rilassato come se lo conoscesse. Si fidava di lui. Non era la prima volta che lo incontrava.

Dunque, Vanni non sapeva soltanto dell'esistenza di Leonardo. Conosceva suo figlio. Era ancora in contatto con Ilaria...e i ragazzi di sentinella al piano di sotto non avevano fatto nulla per impedirlo! Dovetti inspirare forte, per controllarmi.

«Bianca» chiamò ancora la ragazza, e fece per avvicinarsi a me. Mi ritrassi d'istinto. Lei si umettò le labbra. «Chiudi quella porta, ti prego. Non tenterà niente di azzardato davanti al bambino.»

«Lascia che parli per se stesso, se è un uomo» sibilai, osservando la sagoma del mio fratello traditore nel semi-buio.

Vanni non si scompose. Mosse qualche passo a sua volta, e sedette sul letto, permettendo a Leonardo di fargli calare il cappuccio sulle spalle e toccargli il viso. Ora, illuminato dal flebile raggio, potevo vederlo meglio. Il suo volto mi parve meno duro dell'ultima volta.

«Non prendertela con lei, le ho chiesto io di farti venire qui. Ho bisogno di parlarti.»

«Potevi cercarmi a Monteriggioni. I miei e i tuoi sono alleati, adesso...la tua Margherita non te l'ha detto?»

Ilaria accusò quel nome come se fosse stato un colpo, ma cercò di non darmelo a vedere. Sapeva, dunque. Come Margherita sapeva di lei e Leo.

Vanni non si scompose, invece. Sorrise a suo figlio, staccando con delicatezza la manina che aveva iniziato a titillargli il pizzetto, e lasciando che gli stringesse il dito. «Volevo che l'incontro avvenisse in un terreno neutrale.»

Balle. Voleva che lo vedessi con il bambino tra le braccia...perché?

La voce di Martino giunse dal piano di sotto, ancora sfumata in una risata. «Bià, tutto bene lassù?»

Deglutii. Gli occhi di Ilaria, quelli di Vanni, e sì, anche quelli di Leo sembravano fissarmi, come a dire: cosa farai adesso?

Forzai un tono tranquillo, quando dissi a voce alta: «Sì! Scendiamo tra un attimo.»

Scivolai nella stanza, chiudendomi la porta alle spalle.

«Hai due minuti» mormorai, cupa. Ilaria strinse le mani nel grembiule, ma non si mosse da in mezzo a noi, come se fosse pronta a impedirmi di saltare alla giugulare del padre di suo figlio. Lui invece era calmo. Serio.

«Ho chiesto a Ilaria questa possibilità di incontrarti, perché volevo capire. L'ultima volta che ci siamo visti hai dimostrato chiaramente cosa pensi di me...ma ora saremo alleati, combatteremo fianco a fianco su un campo di battaglia. Voglio sapere se devo guardarmi le spalle da te, o se possiamo respirare la stessa aria senza che tu tenti di uccidermi o fare del male a chi mi è caro.»

Dominai a stento l'istinto di gridargli addosso, stringendo forte i pugni lungo i miei fianchi. «Pugnalare alle spalle è la tua specialità, non la mia.»

«Mi dispiace, Bianca. Davvero.»

Erano le ultime parole che mi aspettavo di sentire. Quasi la voce non mi uscì, mi grattò il palato mentre dicevo: «Di cosa, esattamente?»

Il suo volto era grave. «Di tutti i capi d'accusa di cui mi ritieni responsabile.»

«Le tue scuse non riporteranno in vita Nicola, cane rognoso.»

«Non capisci, vero? Su quei bastioni non avevamo scelta, né io né lui. Nicola voleva che sparassi. Ed io l'ho fatto. Era l'unico modo che avevamo per impedire che quell'incosciente di nostro padre fosse fatto prigioniero.»

«Non dirmi che volevi evitarlo, non ti credo.»

«Sì, volevo proprio evitarlo invece...perché non si sarebbero limitati a sfruttarlo per usare i Frutti. Forse Lucrezia l'avrebbe risparmiato, ma quella serpe di De Foix avrebbe preteso la sua testa. E, che tu ci creda o no, non è questo che voglio.»

«E cos'è che vuoi, Vanni?» La mia voce suonò carica di un pianto esasperato, che non scendeva sulle mie guance. «Perché lo sai, per essere uno che dice di cercare armonia e ordine, la tua vita e le tue scelte sembrano puro caos.»

Lo vidi alzare gli occhi grigio-verdi nei miei. Sì, ora che mi ero abituata al buio riconoscevo il loro colore.

«Ho fatto quello che potevo per tenere l'esistenza di Leonardo nascosta ai miei compagni. Purtroppo è stato più difficile celarlo ai nemici...il Papa ha scoperto dov'erano, così, di ritorno da Castel Sant'Angelo, ho fatto in modo che si spostassero a Vinci.»

«Margherita sa di loro.»

«Lei manterrà il segreto.»

Non lo contraddissi. Sì, avevo visto in che modo totale e assoluto amasse Vanni...avrebbe mantenuto la parola.

«Non mi fido di Gaston De Foix» disse ancora Vanni «né di questi supposti alleati francesi. Non voglio che conoscano la mia debolezza più grande...ne ho già troppe.» Serrò le labbra, e sembrò prendere un respiro. Guardò Ilaria, e poi il loro bambino di un anno e mezzo, che sembrava ignaro della serietà di quel discorso. «Proteggili, Bianca. Ma non come li sta proteggendo nostro padre, con uomini dai cappucci bianchi sempre appresso a loro...tienili lontani da questa guerra. Templari, Assassini...troppo sangue, troppo dolore. Voglio che tu mi prometta che impedirai a Ezio di fare di Leonardo uno dei suoi.»

«Così potrai fare di lui uno dei tuoi?»

«No. Così potrò fare di lui un uomo libero, e ignaro di questa faida. Così lo terrò lontano da tutto quello che sta distruggendo noi due.»

Non seppi che dire, né che pensare. Se avessi dovuto fidarmi dell'istinto, avrei detto che in quella supplica c'era il suo cuore. Ma di nuovo, sapevo con chi avevo a che fare. Era lo stesso giovane uomo che mi aveva persuasa che nostra madre fosse morta in un assedio a Monteriggioni, e che Nicola fosse un informatore dei Borgia. Sapeva mentire, e sapeva farlo dannatamente bene.

«Ricordi cosa è successo quando nostro padre ha cercato di tenerci lontani dalla sua vita, Vanni? Siamo finiti prigionieri.» Gli occhi mi pulsavano, ma ancora non piansi. «Sapere la verità, ecco cosa rende liberi davvero. Se avessimo ricevuto l'addestramento fin dall'inizio, forse non saremmo arrivati a questo punto, tu ed io.»

Lui scosse il capo corvino, ed io sentii che, anche adesso che per la prima volta riuscivamo a parlare senza rabbia, non ci comprendevamo. Eravamo troppo diversi, mio fratello ed io. Forse sarebbe finita così comunque. Senza spargimento di sangue, magari...ma sempre con un abisso incolmabile tra me e lui.

«Io sono finito sulla strada a cui appartengo» disse, con orgoglio. «Indottrinare un bambino al Credo della tua stirpe è renderlo libero? Farne carne da macello per la guerra del tuo Mentore è renderlo libero? Rispondimi sinceramente. Se Leonardo fosse tuo figlio, ne faresti davvero un Assassino?»

Pensai. Davvero. Pensai a questa domanda con serietà. Rividi nella mente i passaggi che mi avevano portata a camminare la via del Credo. Rividi le angosce di Martino, le sofferenze di chi amavo, i sacrifici altissimi degli adepti e la morte degli amici. Era davvero questo che volevo, per...?

«Io non ho figli» mormorai. «Non posso rispondere.»

Vanni si alzò in piedi, con Leo ancora tra le braccia. Coprì la distanza che ci separava, fino a che non fu soltanto un passo; Leonardo era l'unica barriera tra di noi, o forse il nostro unico legame. Il bambino si aggrappava a lui; iniziò a piagnucolare. Vanni gli baciò la tempia.

«Vai da zia Bianca.»

Feci fatica a respirare. Leo scosse il capo, e disse quella parola. Papà. La disse quasi in un singhiozzo. Non voleva lasciarlo andare via.

«Tornerò, non preoccuparti. Ma nel frattempo, Leo, fidati di lei. Non permetterà che ti accada nulla di male, proprio come il tuo papà.»

Repressi un brivido, e cercai gli occhi di mio fratello. «Come fai ad esserne certo?»

Lui accennò ad un ghigno amaro. «Sei tu quella che fa le scelte giuste, tra noi due. No?»

Non capii se volesse schernirmi, lo giuro. Sentii riecheggiare in quelle parole la promessa di Martino, sulla strada per gli Appennini. Noi non siamo come voi. Sì, Vanni sapeva che, nonostante tutto, avrei cercato di fare ciò che mi aveva chiesto. Per Ilaria, e per il bambino. Perché, per quanto noi fratelli Auditore potessimo odiarci, quelle due esistenze avevano creato tra di noi un anello di acciaio che non poteva spezzarsi. Per questo, presi Leonardo tra le braccia, e guardai Vanni dirigersi verso Ilaria, darle un breve bacio, e aprire una botola sul soffitto. Ne scese una scala a pioli, che lo inghiottì in breve tempo. Rimasi sola, con la pittrice che mi fissava, in attesa che mi esprimessi. Leonardo aveva iniziato a scalciare e dimenarsi: lo prese dalle mie braccia.

«Scusami, Bianca» mormorò Ilaria, e mentre cercava di cullare il bambino capii che non era dispiaciuta dei capricci del figlio. L'inganno non era nella sua natura. Pensai a quanto dovesse amare ancora mio fratello, nonostante l'avesse costretta ad una vita di infamia.

In questo, Vanni era proprio come me. Stimato oltre i suoi pregi. Amato molto più di quanto meritasse.

«Avrebbe potuto volermi vedere per uccidermi, lo sai?» sussurrai, svuotata, distrutta. Provavo ancora quella voglia di piangere, e quella snervante incapacità di riuscirvi.

Lei scosse il capo con energia. «L'ho fatto giurare sulla testa di suo figlio che non ti avrebbe fatto del male. E ho giurato sulla stessa cosa che se stava mentendo l'avrei ammazzato con le mie mani.»

La fissai, mentre cullava Leo con gesti pratici, sbrigativamente dolci.

«E' quello che vuoi anche tu? Che il bambino non diventi...uno di noi?»

La pittrice non alzò lo sguardo su di me. «Io voglio solo che Leonardo cresca sano...e, se possibile, felice.»

Annuii, in silenzio. Sì, è ciò che ogni genitore vuole. Ma se capissimo davvero come fare per realizzare questo desiderio, questa sarebbe una società ideale, colma di gente felice...invece ci scanniamo, ci facciamo la guerra e ci piantiamo coltelli nella schiena. Ognuno ha un'idea tutta propria di quale sia la strada per arrivare alla felicità, e la mia idea e quella di Vanni non avrebbero mai coinciso.

O me, o lui.

Il mondo non ha abbastanza cuore per dare ragione ad entrambi.

 

Confidai a Martino ciò che era accaduto solo quando fummo lontani dalla casa di Ilaria. Prima di rientrare a Roma, avevamo deciso di fermarci per qualche giorno a Capodimonte, presso la sua famiglia: eravamo alle porte di un conflitto epocale, e ci sembrò giusto, importante, ritagliarci un momento di serenità insieme a loro.

Zio Ugo fu felice di conoscere i numerosi Semeraro, e non ci mise molto ad accattivarsi ognuno di loro, con il racconto delle sue avventure. Certo, omise un paio di dettagli, come il fatto che era stato per lungo tempo un ladro. I gemelli lo fissavano con gli occhi sgranati mentre, da grande affabulatore quale era, narrava di infinite corse sui tetti di Venezia e tuffi alla cieca nei canali. Marcello si informò se le veneziane fossero belle come si diceva; zio Ugo arricciò le labbra in un sorriso e disse che preferiva di gran lunga le fiorentine. Giuditta chiese tutto ciò che poteva sulle arrampicate, sotto l'occhio disapprovante di suo padre; Marzia domandò di sete preziose e gemme favolose di cui aveva soltanto sentito parlare. Annina si prefissò di fargli apprezzare la cucina romana, e Ugo riuscì a sorprenderci insegnandole un paio di ricette della sua terra natale. Fabrizio gli chiese se avesse incontrato anche dei pittori durante le sue avventure, e Ugo si dimostrò un fine conoscitore dell'arte contemporanea. Lo ammetto, rimasi sbalordita io stessa da quell'uomo che avevo sempre considerato in vistoso contrasto con la sua raffinatissima moglie. Non so se siano stati gli anni passati accanto a zia Claudia, o se tanta cultura gli appartenesse già da prima: fatto sta che non c'era proprio niente di cui lo zio non avesse la più pallida idea. Conosceva un poco di tutto, e su quel poco aveva sempre un'opinione spiritosa e intelligente. Sono abbastanza certa che i Semeraro abbiano meditato di adottarlo, durante quella visita. Di certo, lo zio contribuì grandemente a ridurre la loro diffidenza verso gli Assassini.

Godemmo dei piaceri semplici della campagna in estate. Lavorammo, gli uomini nei campi e noi donne a casa. Passammo qualche sera intorno al camino spento, a raccontarci vecchie storie. Martino ed io, alle volte, scappavamo nei campi di notte per fare l'amore sotto le stelle. Quella vita meravigliosa era tanto più splendida perché non poteva durare, lo sapevo. Ci saremmo concessi ancora due giorni al cascinale, e poi...cosa? Ci saremmo separati? Avevo paura di chiederglielo.

Quella notte, con ancora addosso il languore del sesso, parlai a Martino dell'incontro con Vanni. Lui mi ascoltò in silenzio, accarezzandomi i capelli per tranquillizzarmi. Fissava le stelle, pensieroso. Era sempre stato assorto, in quei giorni, preda di un mutismo insolito.

«E' come ha detto mi' madre, alla fine.» Sì, gli avevo raccontato del mio incontro con Flaminia. Come l'aveva presa? Male. Non aveva voluto parlarne più...fino a quel momento. «Templari. Assassini. Semo tutti esseri umani. Quanno 'r fuoco verrà giù dar cielo nun farà distinzioni.»

Mi spaventò quella frase. Mi sollevai sulle braccia per guardarlo, sfiorando il contorno del suo viso. «Hai sentito cos'ha detto mio padre. Quel tempo è lontano.»

I suoi occhi neri si misero nei miei. «Fa differenza?»

Sentii ogni vaga speranza morire, quando lo guardai. Risentii le parole di Flaminia nella mente...cosa avevamo fatto, con i nostri segreti cosmici e le nostre verità troppo scomode, al mio Martino?

Non trovai modo migliore per chiamarlo via da quel senso di vuoto, se non baciarlo, e baciarlo, e baciarlo ancora. Sperai che annullasse in me le sue paure, che trovasse in me la forza di andare avanti nonostante ciò che Ezio ci aveva rivelato. O forse, in silenzio, gli stavo chiedendo scusa per averlo costretto a condividere quel fardello così pesante, e nel contempo mi stavo preparando a dirgli addio.

Quel mio umore tetro non sfuggì a Ugo. Il giorno dopo, ero andata a portare il pranzo agli uomini Semeraro e allo zio, che avevano deciso di concedersi un po' di riposo dall'aratura. Sdraiati nei campi fragranti, con i cappellacci di paglia sulla testa, Martino e i suoi fratelli ronfavano della grossa, e il padre non era da meno. Zio Ugo osservò che sembravano una mandria di tori per quanto russavano. Disse qualche altra facezia che non sentii; cercai di dargli ad intendere che lo ascoltavo con un mezzo sorriso, ma la mia testa era altrove.

Poi, mi accorsi del silenzio improvviso, spezzato solo dal russare ritmico dei Semeraro. Lo zio aveva smesso di parlare, stava osservando il mio viso. Mormorò:

«Era più facile, quando eri una bambina. Bastava prenderti sulle ginocchia e farti qualche faccia buffa, per farti sorridere.»

Distolsi lo sguardo dal suo, ma non sarebbe bastato, lo sapevo.

«Molte cose erano più facili, quando ero una bambina.»

«No, non lo erano davvero. E' solo che che gli ostacoli passati sembrano sempre un gioco da ragazzi, perché li guardi da lontano e con addosso il peso della strada percorsa.»

Feci per rispondergli, ma sentii la voce spezzarmisi in gola. Cercai di camuffare quella debolezza dietro un colpo di tosse, invano. Gli occhi erano diventati lucidi di colpo.

Non mi aspettavo di essere capita così bene, e così in fretta. Sì, zio Ugo aveva ragione. Ero stanca, era questo il mio problema. Stanca per la strada percorsa, sfiduciata sul futuro, con il mio obiettivo e i miei ideali confusi in una nebbia indistinta di fronte a me. Avrei voluto poter riposare, almeno un po'. Invece, di fronte a noi si apriva la prospettiva di una guerra terribile, come non ne avevo ancora viste. Dove avrei trovato la forza di combatterla? In cosa avrei riposto le mie speranze?

«Vieni qui, piccola mia.» Lo zio mi chiuse nel suo abbraccio comprensivo. Abbandonai la fronte sulla sua spalla, e subito mi sentii più salda sulle ginocchia. Quella sensazione di potermi rilassare contro qualcuno...non soltanto fisicamente, ma anche con l'anima...da quanto tempo non mi permettevo di provarla. Avevo cercato di essere forte per Martino, di non riversargli addosso la mia paura per il nostro futuro, di trattenere le suppliche e gli egoismi perché scegliesse davvero in libertà. Ero spossata. Avevo bisogno di quell'abbraccio, come avevo avuto bisogno di poche cose nella mia vita fino a quel momento.

«Zio» bisbigliai, roca «Perché noi Assassini non possiamo essere felici?»

«Chi ha detto che non possiamo essere felici?» Avvertii i muscoli del collo di Ugo che si tendevano in un sorriso. «Bianca, ascolta...tu invidi le persone comuni, ora, non è vero? Ma alcuni di loro si distruggono la vita per meschinità. C'è chi si annienta cercando denaro e potere, chi tradisce gli affetti più sacri per codardia. C'è chi ha tutto e lo manda all'aria per cercare la guerra. Gli esseri umani non sono fatti per avere l'anima in pace, sai? Scoprono di avere sempre bisogno di qualcosa che non hanno...e dobbiamo ringraziare di questo, perché è ciò che ci spinge al movimento. Senza movimento non ci sarebbe miglioramento, non credi? Ma c'è qualcosa che differenzia noi assassini da tutti gli altri. Noi abbiamo qualcosa in cui credere, un ideale. Questo, bambina mia, è molto più di quanto tante persone che tu reputi più fortunate possano dire.»

Feci schioccare la lingua nel palato. D'improvviso, la domanda che davvero mi schiacciava i polmoni uscì fuori tutta in una volta, con un solo fiato, senza nemmeno passare per la rete a maglie larghe della mia mente.

«E a cosa serve un ideale? A che scopo facciamo quello che facciamo, se il mondo finirà comunque?»

«A che scopo facciamo quello che facciamo, se un giorno moriremo? Per cambiare le cose. Per dare il nostro contributo finché abbiamo una scintilla di vita nelle vene. Siamo nati lottando, Bianca...e se il cielo ci cadrà sulla testa, non soccomberemo senza aver prima combattuto.»

A volte mi chiedo come sarebbe stato, se mia madre avesse accettato la dichiarazione di Ugo, tanti anni prima che io nascessi. Forse l'avrei avuto come padre...ma no, se così fosse stato io non sarei nata. Non avrei conosciuto Ezio...un fatto, questo, che fatico perfino a concepire. Non importa. Ciò che volevo dire, è che ringrazio ogni giorno che zia Claudia abbia scelto un uomo del genere al suo fianco, e, riconoscendo il suo valore sotto un'apparenza ingannevole, gli abbia permesso essere un pilastro incrollabile per le nostre vite. Non sono certa di averglielo mai detto. Un giorno, lo farò.

 

La sera successiva sarebbe stata anche l'ultima che avremmo passato a casa Semeraro. Sapevo che Martino aveva intenzione di accompagnarci a Roma, ma avevo avuto paura di chiedergli per quanto sarebbe rimasto. Da una parte, non volevo strapparlo alla famiglia che amava tanto. Dall'altra, mi chiedevo quanto tempo avremmo avuto per stare insieme, prima che il conflitto scoppiasse su larga scala. L'avrei allontanato da me, a quel punto...lo avrei supplicato di restare al sicuro, mentre io combattevo accanto a dei precari alleati contro il re della Cristianità. Avrei lottato per poterlo rivedere ancora, naturalmente, con tutta me stessa...ma, come diceva sempre Agamennone: a volte si perde anche quando si lotta con tutte le proprie forze. Ogni mio momento con Martino da allora in poi avrebbe potuto essere l'ultimo, me ne rendevo conto.

Cercai di ignorare quelle consapevolezze, e di trascorrere un'ultima serata spensierata con i Semeraro. Avevo aiutato Marzia ed Annina in cucina, tutti si stavano rumorosamente radunando intorno al tavolo. Andai a chiamare Martino, che si era ritirato in una delle camere. Lo trovai seduto sul letto, i gomiti sulle ginocchia. Guardava qualcosa che teneva tra le mani.

«Il banchetto è pronto, messere!» sorrisi. Un sorriso che mi si bloccò in volto, quando mi resi conto che ciò che teneva tra le mani era la sua cappa da assassino, dell'inconfondibile color vinaccia.

Martino rivolse su di me lo sguardo un po' assente di chi è stato strappato da pensieri pressanti. Tentò un sorriso. «Mo arivo, Biancarè. Damme solo 'n minuto.»

Restai interdetta sulla soglia. Voleva che me ne andassi. Stava prendendo una decisione in cui non voleva includermi? Non meritavo nemmeno di essere messa a parte delle sue riflessioni?

«D'accordo.»

«Ah, Bià...ce stanno tutti dellà, sì?»

«Sì. Siamo tutti pronti per cenare.»

«Bene. Dije ad Annina che aspetti 'n attimo a mette 'a zuppa ner piatto, va bene?»

«Sì.»

Richiusi la porta. Il cuore mi batteva all'impazzata. Martino stava scegliendo, proprio in quell'istante, cosa fare del Credo. Forse aveva già preso la sua decisione. L'avrebbe annunciata davanti a tutti? No...me l'avrebbe detto, prima. Se non avesse voluto continuare il suo cammino al nostro fianco, ne avrebbe parlato prima con Ugo, con me...vero?

Riferii ad Annina ciò che Martino mi aveva detto, e lei notò il mio sguardo cupo. Capì. Lasciò il mestolo e mi strinse la mano.

«Viè qua, sedemose 'n momento.» Mi portò vicino al focolare, e restammo in silenzio, mentre i ragazzini continuavano a baruffare ad alta voce e Pietro discuteva con Ugo del lavoro della giornata.

Finché la porta non si aprì, cigolando.

E Martino entrò.

Indossando la cappa da Assassino.

Aveva stretto la cinta rossa in vita, allacciato le fibbie delle cinghie, messo a tracolla il porta-pugnali. Una spada dall'elsa semplice riposava nel fodero, probabilmente intoccata dal giorno in cui aveva riposto la divisa e congelato la sua vita da adepto. Le fiamme del fuoco danzavano sul suo viso, serio, dignitoso, deciso. Non era mai stato tanto bello, ai miei occhi, come quel giorno...e non soltanto perché con quel passo aveva cancellato i miei terrori, no. Era perché potevo vedere nel suo sguardo la consapevolezza di un uomo che ha scelto quale strada percorrere, e ha davanti a sé un obiettivo.

I fratelli più piccoli si ammutolirono. I gemelli spalancarono la bocca, affascinati; Giuditta si illuminò di adorazione. Fabrizio sembrò trattenere a stento una domanda e Marcello fischiò, ammirato. Ugo non disse nulla; sul volto gli aleggiava un vago sorriso di approvazione. Annina era impallidita. Gli occhi di Marzia corsero al padre, e anche i miei lo fecero.

Pietro Semeraro aveva in volto un'espressione indecifrabile. Dura, certo: era il modo in cui appariva sempre. Abbassò un po' il mento, tenendo le braccia possenti incrociate al petto, come a voler studiare suo figlio.

«Hai preso 'na decisione, allora.»

«Sì. Domani parto co' Bianca e Ugo. Nun so divve quanno tornerò, 'sta vorta.»

Pietro non rispose. Martino lo guardò, ed io lessi con facilità il lampo che gli passò negli occhi. Era una supplica. Cerca di capirmi. Per una volta, ascoltami.

«So' settimane che ce penso, pa'. Ma mo nun posso più fa' finta de gnente...ho visto quarcosa che nun riesco a dimenticà. Quarcosa che nun ve posso dì, ma che...m'ha fatto capì tutto quer che dovevo capì, ancora.»

Compresi che si riferiva alla visione che la Mela dell'Eden ci aveva mostrato, riguardo alla fine del mondo. Credevo che quell'idea l'avesse scoraggiato riguardo il Credo. Avevo capito che ne era rimasto profondamente scosso, ma avevo pensato...avevo creduto...

Martino cercò il mio sguardo, e si umettò le labbra, prima di dire: «Nun ve posso pallà de morte cose, 'o sapete. Ma quer che posso divve è che c'è 'na guerra che sta pe' scoppià, più grande de quarsiasi guerra abbiate mai sentito pallà. Ed io c'ho delle cose che vojo protegge, troppe.»

«E 'a famija tua, chi la protegge?» disse Pietro, ruvido.

«Io. Ma nun posso fallo se nun riprenno 'e armi.»

Prese una sedia, e la portò di fronte a quella su cui sedeva suo padre.

L'uomo lo osservò in silenzio.

Martino si passò la mano sui capelli ancora corti. Li tagliava ogni due settimane, per essere certo che non crescessero troppo.

«Ascortame, pa', te prego. Quanno so' entrato n'a confraternita, l'ho fatto pe' imparamme a combatte. Pensavo che, se diventavo forte, avrei potuto ritrovà mamma e riportalla a casa. So' cambiate tante cose...ho perso 'n ber po' de 'nnocenza...me so' imparato quanto è cattivo 'r monno, e quanto posso esse cattivo io. Me so' imparato quanto tragico può esse 'n errore.» Gli costò fatica deglutire, a quel punto. I suoi occhi pulsavano di dolore, e foga a stento repressa, e voglia di farsi comprendere. «Ma ho trovato pure tante cose belle...delli amici veri, de li Maestri che m'hanno mostrato ogni giorno cosa sono rispetto e dignità, proprio com'hai fatto te...ho trovato 'na donna meravijosa, che nun me lascerò scappà finché campo.» Mi sorrise, e il mio cuore tremò. Quindi, rimise gli occhi in quelli del padre. «Quer che vojo fatte capì, è che li Assassini nun hanno fatto de me 'n sicario. Hanno fatto de me 'n omo.»

«E se resti qua, sei meno omo?» disse Pietro. Lentamente. Quietamente.

Martino scosse il capo. «No. Ma sarei meno me stesso.»

Quindi, si rivolse a quei fratelli che tanto amava. Li guardò ad uno ad uno, con serietà, con tenerezza. «E' pe' questo che vojo combatte ancora. Perché so che l'unico modo pe' fa' quarcosa, a 'sto monno, è farlo co' 'e mani proprie. Me so' nascosto pure troppo, mo basta fa' 'a pecora spaventata...nun vivrò più ne' la paura. Se posso fa' anche solo 'na cosa piccola così pe' 'mpedì che 'a distruzione arrivi, state sicuri che 'a farò. Nessuno ve farà der male, finché ce sto io.»

«Finché ci siamo noi» dissi, e mi alzai in piedi. Non sapevo se stessi facendo la cosa giusta, ma ero stata in silenzio così a lungo ad attendere la decisione del mio uomo che ora mi sentivo scoppiare per la voglia di gridare al mondo quanto fossi fiera di lui. Mi portai alle spalle di Martino, poggiai una mano sul suo braccio. La sua mano strinse la mia. «E questa, mastro Pietro, è una promessa in cui potete credere.»

Martino mi guardò, con riconoscenza. Poi insieme, in silenzio, fissammo suo padre. Nessuno degli altri Semeraro proferì un solo sussurro. Tutta la stanza sembrava in attesa della sua ultima parola sulla questione.

Tutta la stanza, tranne zio Ugo. Lui poggiò diede un buffetto al braccio di Pietro, senza cerimoniosità. «Il tuo ragazzo è eccezionale, sai. Devi essere orgoglioso di lui.»

«No...quello che m'ha pallato oggi nun è 'r mio ragazzo.» Strinsi forte le labbra nel sentire quella frase, e mi preparai a combattere verbalmente per difendere il coraggio del mio compagno...inutilmente. Perché quello che stese il volto di suo padre, un attimo dopo, fu un sorriso. «Quello che m'ha pallato oggi è 'n omo vero.»

Martino era incredulo quanto me. Sgranò gli occhi neri, così simili a quelli di Pietro. L'uomo si alzò in piedi, gli tese una mano. Martino afferrò le dita tozze nelle proprie, e mentre si sollevava dalla sedia lo avvolse in un abbraccio.

La prima a gettarsi contro di loro, con tutta la forza del suo cuore irruente, fu Giuditta. Seguirono Antonio e Lucio; Marzia trascinò due riluttanti Fabrizio e Marcello in quella stretta di famiglia. Guardai Annina. Lei mi sorrise, avvicinandosi. Poi, mentre una delle sue braccia tornite si avvolgeva intorno alla vita della sorella, l'altra costrinse anche me all'abbraccio collettivo.

Ricambiai, con calore, sorridendo come da settimane non facevo più. Era un onore per me...no, di più, era una benedizione, essere considerata parte di quella famiglia straordinaria. Avrei fatto qualsiasi cosa per loro, e non soltanto perché da questo dipendeva la felicità di Martino. Amavo ognuno di quei Semeraro come se fosse un mio fratello, e avrei lottato per dare loro un futuro.

Quando aprii gli occhi, attraverso un velo di lacrime di commozione sorrisi a zio Ugo. Sì, aveva ragione, come sempre. Chi ha detto che noi assassini non possiamo essere felici? Cosa ci manca? Come tutti, combattiamo la nostra incessante battaglia; ma abbiamo degli affetti sinceri, e abbiamo un ideale che ci trascina in avanti. E finché quella luce risplenderà al nostro orizzonte, troveremo sempre al forza di lottare.

 

Martino venne innalzato al rango di Assassino nel settembre 1511. Gli anni di servizio nel Drappo Rosso, la missione di salvataggio a Castel Sant'Angelo e, soprattutto, il suo gesto al Passo della Cisa erano state le imprese che gli erano valse quell'onore, o almeno quelli furono i meriti ufficiali che elencò mio padre. Ciò che non disse, ma che io sospetto, è che aveva premiato la sua scelta di rientrare nel Credo, e i motivi che la spingevano. Con quell'enorme Salto della Fede, Martino era diventato finalmente pronto a vestire la divisa da iniziato.

Il rito si svolse al Covo sull'Isola Tiberina. A officiare, c'era il Mentore mio padre; accanto a lui, Ugo e Rosa stavano ai due lati del braciere, splendidi nelle loro divise formali. Agamennone e Veronica non erano presenti, e nemmeno altre persone importanti per Martino, come Odette, oppure i Semeraro – che, in quanto persone comuni, non avrebbero potuto partecipare. Eppure, a vegliare su di lui c'erano lo spirito di Briac e quello di Nicola, lo so, lo sento. Loro, insieme a mio padre, erano stati i suoi maestri più importanti, e continuavano a guidarlo. So, perché Martino me l'aveva confessato, che erano presenti in ogni sua pianificazione di battaglia, in ogni suo gesto. Le sue azioni di Assassino, da quel giorno in avanti, avrebbero cercato di riverberare le loro parole.

Io stavo in piedi, dritta e quieta come i miei compagni, almeno all'esterno. Dentro, mi sentivo come se stessi toccando il soffitto con la testa. Il pugno sul cuore a malapena conteneva i battiti orgogliosi, perché quello che percorreva l'ampia sala, vestito in bianco e rosso e con il cappuccio d'aquila calato sugli occhi neri, era il mio uomo, il mio migliore amico, il mio compagno di vita e di battaglia.

Le parole arabe pronunciate dal Mentore riverberarono nella sala. Non ne afferrai nemmeno una, ma sapevo cosa significavano. Profonda e solenne, la voce di Ezio scandì:

«La saggezza del nostro credo è espressa in queste parole. Agiamo nell'ombra per servire la luce. Siamo assassini.»

Sussultai, quando la pinza ardente strinse l'anulare sinistro di Martino. Sentii quasi pizzicare la pelle pensando al suo fastidio. Il suo viso non mostrò nessuna espressione, se non un abbagliante sorriso quando si volse verso di noi.

«Nulla è reale, tutto è lecito» pronunciammo, in coro, per salutare il nostro nuovo fratello; seguì un grido esultante, liberatorio. Qualcuno gettò facezie, di cui ridemmo di cuore. Ezio annuì, sopportando benevolmente quell'infrazione al rito. Eravamo i suoi ragazzi, uniti per festeggiare uno di noi prima di scendere in una sanguinosa battaglia. Forse, in cuor suo, stava pensando a quanti sarebbero rientrati a casa dopo la guerra contro il Papa. Non volli indugiare in quell'idea, non quel giorno.

Quando le reclute si radunarono intorno a Martino per congratularsi meno formalmente, non mi curai più di tanto delle cerimonie. Mi feci avanti e lo afferrai per il bavero della camicia, baciandolo con decisione di fronte a tutta la sala. I ragazzi risero, applaudirono, fischiarono. Martino ridacchiò sulle mie labbra.

«'nzubordinazione, Adepta Auditore! Vedi de portà rispetto.»

«Interessante, questo tono di comando» mi sporsi sul suo orecchio, per sussurrare: «Tienilo da parte per stasera.»

Martino ammiccò, malizioso, ma non ebbe tempo di replicare. Dopo un bacio sulla guancia da parte di mia madre, un abbraccio di zio Ugo e una stretta di mano calorosa da parte di mio padre, fu zia Claudia a venirgli incontro a braccia incrociate.

«Avanti, scansafatiche: non è finita. Ti aspetta il Salto.»

Martino si illuminò. «E tutti noi sappiamo che è 'a specialità vostra, madonna Clà!»

Tutti risero, perfino Ugo – il che gli guadagnò un'occhiata di fuoco da parte della sua consorte. «Perdonami, moglie adorata. Ma il ragazzo ha ragione: nessuno può eguagliare il tuo stile!»

«Attento a ciò che dici, marito cafone» replicò la zia con un ghigno sornione «O sconterai i tuoi lazzi uno per uno.»

«Davvero? E' una promessa?»

Lì per lì la zia non rispose alla provocazione, ma il suo sguardo diceva: Puoi contarci.

Ci spostammo sul tetto del Covo, e lì procedemmo all'ultima parte del rito. Si trattava di una sciocchezza, lo riconosco: Martino aveva affrontato Salti della Fede ben più pericolosi, in quegli anni, ed eravamo certi che le acque del Tevere l'avrebbero accolto all'arrivo. Tuttavia, non potei evitare di sentirmi lievemente in ansia. Quel salto aveva un significato simbolico che tutti gli altri non avevano avuto.

Misi insieme il mio migliore sorriso, quando lasciai la sua mano per permettergli di raggiungere la balaustra.

«Pensi di farcela anche se non ci sono io a spingerti di sotto?»

Lui mi diede un ultimo bacio. «Ce provo. Se vedemo dopo 'r bagno, core mio.»

Poi, dopo un profondo respiro preparatorio, vidi Martino gettarsi nell'aria senza paura, dominare il salto come se le sue braccia fossero ali pronte ad attutirgli la caduta.

Ed io pensai: questo è qualcosa in cui credere. Le nostre ali. Le nostre proprie forze, che ci salveranno sempre, per quanto la situazione intorno a noi sembri precipitare. Le nostre scelte, che fanno di noi uomini e donne liberi.

Il 1512 era alle porte, con le sue sfide e le sue profezie: ma, per tutti i diavoli, ci avrebbe trovati pronti ad accoglierlo, e con le armi in pugno.





Note

1In questo momento , scrivendo queste parole, realizzo gli elementi sconvolgenti di Mary-Sueaggine di Simza. Accidenti XD

NdBlackFool

Capitolo lunghissimo per i miei standard! Ma come promesso non l'ho spezzato. Anche se non c'è stata azione, spero che non sia risultato noioso. C'erano dei nodi da risolvere assolutamente, e punti che andavano esplorati ora, nella trama...dopo, sarebbe stato troppo tardi, temo. In ogni caso, abbiamo avuto un assaggio di cosa passa per la testa di Vanni; la sua motivazione non lo giustifica certo ai miei occhi per l'omicidio di Nicola, ma fa capire la gravità della sua scelta. Non è stata la pressione per le parole orrende che Nic gli ha rivolto (e chiarisco in questa sede per chi me l'ha chiesto: Nicola voleva sacrificarsi, per evitare che fosse il Mentore a sacrificarsi per lui. Se lui fosse morto sapeva che la battaglia sarebbe scoppiata, e sì, era consapevole che probabilmente sarebbe morto anche Martino (un giorno pubblicherò la oneshot che mi gira in testa su un loro dialogo, durante la prigionia). Ma per Nicola la confraternita veniva prima di tutto, e se Ezio fosse stato prigioniero dei templari sarebbero stati tutti condannati per davvero. Per questo ha provocato Vanni fino all'ultimo, non perché provasse astio nei suoi confronti...ha spinto con violenza i suoi punti di pressione proprio per farsi uccidere. Vanni ha risposto, ma per tutt'altro motivo rispetto a quello che Nicola pensava. E' un templare nel midollo, fedele ai templari, e su questo non ci sono dubbi...ma cerca di evitare che la sua famiglia si faccia del male. Contraddittorio? Forse, ma fa parte delle contraddizioni di cui Vanni è composto :) Di cui fa parte anche il triangolo con Margherita e Ilaria, tra l'altro. In questo, Bianca forse ha ragione...suo fratello è caotico, arzigogolato, un geroglifico dai molteplici significati. 
Ok, la smetto di bablare XD dico solo che nel prossimo capitolo incontreremo Eleonora, la sorella traditrice di Nicola (sì, ancora lui...sulle motivazioni per cui non lo lascio riposare in pace, e non lo lascerò fondamentalmente mai perdere fino alla fine, vi rimando a un post recente della pagina facebook di BCP ^_^), parteciperemo con Bianca all'assedio di Brescia del febbraio 1512, quindi ci sposteremo a Ravenna, agli inizi di Aprile. Incontreremo il figlio di Lorenzo De Medici, cardinale al seguito del Papa, e avremo una (spero) bella sorpresa, prima di avviarci alla fatidica data: 11 Aprile 1512, giorno di Pasqua, e pietra miliare nella vita di Agamennone Marescotti e di tutti quelli che gli ruotano intorno. Cosa succederà? *musica ansiolitica di sottofondo... ;) *
Un bacione a tutti, grazie di essere passati di qui!

BlackFool

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Capitolo 46
*** Sì ***


Fu la notte tra il 18 e il 19 Febbraio 1512. Lo ricordo come fosse ieri...la pioggia batteva sulle nostre teste mista a neve, scivolava sugli elmi dei soldati, incollava al volto i cappucci di noi pochi Assassini tra le loro fila. Gaston aveva ordinato ai suoi uomini di togliersi gli stivali, i piedi nudi avrebbero avuto una maggior trazione sul terreno. Fummo noi, però, ad arrampicarci sulle mura gelate del Castello, e ad aprire dall'interno la porta del soccorso per loro.

I bresciani avevano avuto la pessima idea di ribellarsi al controllo francese. Il loro condottiero, Luigi Avogadro, si era schierato con Venezia; così facendo, aveva implicitamente dichiarato di appoggiare il Papa. Gaston, che aveva presidiato Bologna fino a quel momento, vi lasciò trecento lancieri, quattromila fanti e venti tra i migliori Assassini (tra cui Ugo e mio padre) a scaldare il suo posto di comando, e si precipitò a recuperare il suo avamposto. Il mio gruppo – guidato da mia madre, e composto da Martino, me e un buon manipolo di adepti della sede romana – aprì loro la strada all'interno della città.

Ciò che non avevamo preventivato, fu la strage che ne conseguì.

I fanti di Guascogna e i lanzichenecchi (pessima, pessima razza: i mercenari più spietati che io abbia mai incontrato) saccheggiarono la città per i successivi cinque giorni, massacrando migliaia di civili. Provammo a fermare lo scempio, i miei compagni ed io, ma era come tentare di arginare le acque di un fiume in piena con le mani.

«Lasciate che sfoghino i loro istinti» disse Vanni, osservando la carneficina dagli spalti che avevamo appena conquistato. «Sono uomini d'arme, sopportano la vita del soldato solo per questo. Fa parte della loro ricompensa.»

«E qual è la ricompensa dei morti ammazzati?» ringhiai, il volto deformato da una maschera di orrore.

Avvertii la mano di mia madre sul braccio, e cercai di placarmi. Tuttavia, la serenità di mio fratello mi sconcertò, mentre diceva:

«Dovresti saperlo, Bianca. Giochiamo una partita a scacchi. Bisogna sacrificare dei pezzi per vincere.»

Faticavo a tollerare la sua retorica templare; faceva così poco parte di ciò che ero, di ciò in cui credevo. Se non ci fosse stata Rosa presente, forse avrei ribattuto ancora; invece, decisi di lasciar perdere. Mi domandai se un giorno il potere mi avrebbe cambiata, se sarei diventata anche io cinica fino a quel punto. Decisi allora, con le orecchie piene di grida di innocenti e gli occhi colmi di morte, che se e quando fosse accaduto avrei appeso la lama celata al chiodo.

Salvammo chi potemmo, facendoli fuggire nelle campagne. Sistemammo personalmente qualche soldato troppo pronto ad alzare le gonne di povere innocenti non consenzienti, e riuscimmo perfino a farlo passare per un incidente. Oltre a quegli atti di giustizia sommaria, non potevamo nulla. Avevamo le mani legate. Andare contro Gaston apertamente significava perdere l'appoggio dei templari ribelli...mi chiesi in quanto tempo, invece, avremmo perso la nostra anima.

Ebbi la risposta che cercavo quando, il quarto giorno di saccheggio, Ermes Bentivoglio mi prese da parte nei corridoi del Castello. Aveva l'aria di un cospiratore, si guardò intorno prima di parlarmi.

«Abbiamo la moglie di Ventura Fenarolo.»

«Chi?» replicai, infastidita.

«Non hai sentito? E' quello che si è nascosto nella cripta della Chiesa del Carmine. Ci crederesti che a tradirlo è stato il suo cane? L'ha seguito, e si è messo ad abbaiare come un ossesso! Bestia stupida e primitiva, ha segnato la fine del suo padrone.» Un sorriso da gatto si disegnò sul volto di Ermes. Io repressi a stento un brivido.

«Perché dovrebbe interessarmi vedere la moglie di quest'uomo?»

«Il suo nome è Eleonora. Da nubile, si chiamava Ordelaffi.»

I nervi si tesero d'istinto. Il dolore è un arco troppo facile da incordare.

«Gaston l'ha malmenata per bene, ti avverto. Non è uno spettacolo piacevole.»

«Perché? Pensavo che fosse una dei vostri.»

«Un tempo, sì...prima di venderci ai Veneziani, e con loro al Papa. Gaston non perdona i traditori.»

«E vuoi che sia io a perdonarli?»

«Al contrario. Voglio regalarti mezz'ora con lei, in segno della nostra rinnovata alleanza. Cosa farai con questa mezz'ora, dipende da te.»

Inspirai, profondamente, per non ringhiargli contro che avrei gradito avere una mezz'ora del genere anche con lui. Ma mi trattenni, ripetendomi che avevamo bisogno di quell'alleanza. Con in volto un cipiglio scuro, entrai nella cella dove Eleonora Ordelaffi Fenarolo1 era rinchiusa, chiudendomi la porta alle spalle.

C'era solo un pertugio stretto, da cui penetrava una luce fioca. Faceva un freddo dannato.

Lei era in un angolo, le ginocchia abbandonate in una posa che voleva disperatamente conservare un po' di dignità, nonostante le torture. Gli abiti un tempo signorili erano strappati, slabbrati, sudici di sangue, sudore e Dio sa quali altri umori. Eppure, le spalle che poggiavano contro il muro della cella parevano ancora forti, ancora fiere.

Eleonora era bella come una statua. Non importava quanto avessero piagato il suo corpo e spezzato il suo spirito; quella pallida perfezione ancora si irradiava dal suo volto ovale, sotto la patina di devastazione.

Vide la mia cappa bianca, il cappuccio. Le labbra si tirarono in un ghigno amaro.

«Sei qui per finirmi, Assassina?»

«Sono qui per parlarti. Nient'altro.»

Mi chinai sulle ginocchia, e staccai dalla cintura una fiaschetta con dell'acqua. Gliela avvicinai alla bocca. Lei prese un sorso avido, senza fermarsi a chiedersi se fosse veleno. Forse, avrebbe voluto che lo fosse. Avrebbe abbreviato la sua agonia.

Quando si fu dissetata poggiò la testa all'indietro, contro il muro. Sembrò gustare il sapore dell'acqua, per qualche istante.

«Di cosa vuoi parlare? La mia città è in rovina, le mie ricchezze spogliate e i miei progetti distrutti. Non c'è nulla che non abbia detto a Gaston. Non ho informazioni da darti.»

«Ce n'è una sola che mi preme.» La guardai. Non riuscivo a provare la rabbia che avrei voluto, di fronte a quel corpo già troppo scempiato. «Nove anni fa, tu hai ordito un complotto che ha portato alla morte di tuo padre e di tuo fratello maggiore. Voglio sapere perché l'hai fatto.»

I suoi zigomi si contrassero; le palpebre chiuse tremarono.

«Cosa ti importa?»

«Importa, perché Nicola Ordelaffi è sopravvissuto a quell'agguato. Ed è diventato uno dei nostri.»

Lei voltò il viso, di scatto. «E' qui?»

«No.» Perché mi guardava con tanta incredula gioia, ora? Credevo odiasse Nicola. Perché volerlo morto, altrimenti...? «Rispondimi, ti prego.»

«Devi fargli sapere dove sono. Devi dirgli che venga...oh, Dio. Nicola è vivo? Allora ho ancora una speranza...»

«Ascolta...»

«No, non che mi salvi, non pretenderei questo...dopo quello che gli ho fatto...ti supplico, io voglio solo chiedergli perdono, prima che Gaston mi...»

Un accesso di tosse le scosse il petto. Aspettai che finisse, poi le presi la mano piagata.

Cosa avevo fatto? Le avevo resuscitato un fratello, e ora dovevo ucciderglielo di nuovo dopo due parole.

«Eleonora, ascoltami. Purtroppo...non potrà venire. Nicola ci ha lasciati poco più di un anno fa. Durante una missione.» Deglutii. «Con onore, sacrificandosi per i suoi ideali.»

Lei serrò le labbra. La luce nei suoi occhi scemò piano. Li vidi farsi di nuovo di vetro.

«E' morto, dunque?»

«Sì.»

Il mento di Eleonora si inclinò sul petto. Le lacrime le rigarono il volto. Trascorse un tempo infinito, prima che parlasse ancora; la sua voce sembrò provenire da una grande distanza.

«Io...non sapevo cosa avessero in mente Ermes e mio marito. Credimi, Assassina. E' così. Ero giovane, ero ingenua...ma il Padre della Comprensione conosce il mio cuore, e sa che amavo entrambi i miei fratelli, con tutta l'anima. Sapevo delle discordie tra mio padre e Ventura...Nicola si schierò subito, ed io non potevo fare altro che sostenere mio marito. E' il dovere di una moglie, dopo tutto...e anche Giacomo, il minore dei miei fratelli, mi seguì. Mi avrebbe seguito ovunque, povero caro.» Strinse gli occhi. «Maledetta me, per aver creduto a quel cane che ho avuto la disgrazia di sposare. Quando Ventura mi ha detto che si sarebbe preso cura della faccenda...te lo giuro, io non sapevo...e quando ho saputo ho cercato di strappargli la faccia con queste unghie. Ma era troppo tardi. Troppo tardi.»

Continuava a piangere, silenziosamente. Senza singhiozzi. Un sussulto avrebbe potuto spezzarla.

«Lui era diventato...un Assassino, quindi?»

«E' scampato per miracolo all'agguato di Ermes e tuo marito. Ha rinnegato i templari, è venuto a cercare il nostro Mentore e gli ha chiesto protezione e aiuto.»

«Chiedere aiuto ai nemici, quando gli amici tradiscono...è così da lui, rischiare il tutto per tutto.» Un'ombra di sorriso, prima che mi guardasse di nuovo. «Dimmi...almeno un po', in questi nove anni...è stato felice?»

La mia voce non mi sembrava la mia, tanto suonava lontana e flebile nella cassa toracica. «Sì. Aveva una donna, e un figlio adottivo. Ha lasciato in loro un grande vuoto. L'ha lasciato in tutti noi.» Inspirai forte. «Tu non hai voluto sapere, né vedere l'ovvio. Sei stata cieca, Eleonora Ordelaffi...ma ringrazio di questo, perché il tuo tradimento ha portato Nicola sulla mia strada. La mia vita non sarebbe stata la stessa se non l'avessi conosciuto.»

Tentai di cacciare indietro il pensiero che forse, in quel momento, qualcuno pensava lo stesso di Vanni, e degli errori miei e dei miei genitori che l'avevano spinto ad allontanarsi da Monteriggioni e dalla Fratellanza. Capii di colpo cosa Ermes voleva farmi comprendere, e quella consapevolezza fu accompagnata insieme da irritazione e amarezza. Il mio fratello traditore l'aveva detto così chiaramente, l'ultima volta che ci eravamo parlati...Vanni stava percorrendo la strada giusta per lui, era circondato dalle persone che amava e che lo apprezzavano per ciò che era. Noi, i suoi nemici, avevamo ucciso alcuni dei loro. Loro, i miei nemici, avevano ucciso alcuni dei nostri. Entrambi gli schieramenti avevano commesso atrocità nei confronti degli altri, a loro modo. Non c'era un punto che avrebbe potuto cambiare quel percorso e, anche se ci fosse stato, nessuno di noi due sarebbe davvero voluto tornare sulle proprie scelte. Adesso lo sapevo.

Eleonora non si preoccupò di asciugarsi le lacrime. Mi guardò, con occhi di vetro. «Gli volevi bene, dunque.»

«Era uno dei miei migliori amici.»

«Cosa faresti per proteggere il suo sangue?»

Mi tirai un po' indietro, come se quella domanda fosse un'aggressione fisica.

«Mi dispiace. Non intercederò per te.»

«Non è per me. E' per i miei figli.» Ora il pianto si era cristallizzato sul suo bellissimo volto. «Gaston vuole estinguere la mia stirpe traditrice, e non esiterà a fare loro del male. Li ho fatti nascondere nei sotterranei del mio palazzo, quando l'attacco è iniziato. A lui ho detto che sono morti nel saccheggio, con Giacomo e il resto della famiglia...ma non mi crede. Li sta cercando. Li stanerà, e me li ucciderà davanti.» Inghiottì un singulto. «Non ho più nessuno al mondo a cui affidarli...salvali. Per mio fratello...se davvero gli volevi bene. Fallo per lui.»

Serrai forte i pugni. Bambini innocenti. Nipoti di Nicola...non potevo lasciarli alle grinfie di Gaston. Potevo fidarmi di quella donna? Era moribonda, certo, e distrutta. Era una madre che implorava pietà. Ma aiutarla era un grosso rischio. Non potevo permettermi di inimicarmi i miei riluttanti alleati fin dal principio.

Vedendo la mia esitazione, Eleonora incalzò:

«Il maggiore ha dodici anni. E' nato quando questa follia non aveva ancora distrutto la mia famiglia...l'ho battezzato Nicola, come suo zio, ma in famiglia lo chiamiamo Nicolò.» I suoi occhi si misero nei miei. Dio, erano grigi, metallici...come quelli dell'uomo il cui ricordo mi stava gettando addosso, per convincermi a salvare i bambini. «Guido invece ha otto anni. Resterai sorpresa per quanto gli somiglia...dicono che è la mia copia. Ed io somiglio a lui...ti prego, portali via dalle grinfie di Gaston. Portali al sicuro. Sei la loro unica speranza...la mia unica speranza...»

Le presi la mano. Non so perché. Fatico ad affrontare la disperazione di chi sta per morire...tuttavia, stringendo le dita di Eleonora, era come se potessi stringere quelle di suo fratello, che non avevo potuto confortare nel momento più buio prima della fine.

«D'accordo. Hai la mia parola, mi occuperò dei tuoi figli.»

La mia parola, ultimamente, era un pegno che mi trovavo sempre più spesso a dare. Dovevo imparare a vivere per rispettarla, e renderla una merce di scambio onorevole. Avrei iniziato da quel gesto.

 

Andammo, Martino ed io, a cercare i bambini nei sotterranei del palazzo dei Fenarolo. O, almeno, di ciò che restava in piedi. Mentre scendevamo nello scantinato con le torce sfrigolanti tra le mani, un serpente mi mordeva lo stomaco al pensiero che erano laggiù da giorni ormai, con pochi viveri e la sola compagnia dei topi. E faceva così freddo...li avremmo trovati vivi?

Martino mi rivolse un'occhiata, fece un cenno con il capo. Alla fine del corridoio, un' ombra si era spostata.

«Potete uscire» dissi. «Non siamo qui per farvi del male.»

Silenzio tremante. Un singhiozzo, poi un rabbioso shhhh. Ancora silenzio.

«Nicolò, Guido» chiamò Martino, abbassando la fiaccola. «C'ha mannato vostra madre. Potete fidavve.»

«Non vi avvicinate!»

La voce tremava, ma tentava di essere spavalda. Oscillava tra le note acute dell'infanzia e i colori più scuri della prima adolescenza. Proveniva da una nicchia nel muro, dove un tempo doveva risiedere una statua o una giara.

Martino ed io ci scambiammo uno sguardo. Lui poggiò la fiaccola in un sostegno nel muro, e si fece avanti, le mani aperte e bene in mostra. «Guardame, regazzì. Nun so' armato.

«State lontani, altrimenti...»

«Non ci muoveremo, Nicolò. Ma tu vieni fuori. Guardaci, e poi decidi se stiamo dicendo la verità.»

Un respiro singhiozzante, e poi un no strozzato. Sentii il grattare delle suole sul pavimento.

Il ragazzino che apparve nella luce della torcia aveva i lineamenti tirati, i capelli castani gli spiovevano sul viso umidi e spettinati. Era sporco, di certo disidratrato, ma conservava una luce inconfondibile negli occhi grigi. Incrollabile orgoglio. Riconoscevo quello sguardo.

Stringeva un pugnale con entrambe le mani, e lo puntava dritto di fronte a sé. Dietro di lui, dopo qualche istante, si nascose un'altra figuretta, più piccola, più magra. Intravidi una zazzera bionda alla luce delle torce.

«Come possiamo fidarci di voi?» domandò Nicolò, con un tono già troppo adulto. Per un attimo ricordai me stessa, un animale in gabbia alla corte dei Borgia, disperatamente protesa nel cercare di proteggere il mio fratellino in un covo di scorpioni.

Martino rimase immobile, ma io mi slacciai gli antibracci e li feci cadere a terra. Con gesti misurati, deposi ogni arma: la fusciacca con i pugnali da lancio, le sacche delle bombe fumogene, la spada. Mi sentivo più leggera, e più vulnerabile. Quasi come doveva sentirsi quel ragazzino ora.

Il mio compagno mi rivolse uno sguardo, poi sospirò, prima di fare lo stesso. «Si c'attacano qua sotto semo nei guai» bofonchiò, ma sapevo che aveva capito perché stessi facendo quel gesto.

«Noi abbiamo deposto le armi. E' il tuo turno, Nicolò.»

Il ragazzino bruno serrò i denti. Le mani gli tremavano intorno all'elsa del pugnale. Voleva crederci. Non poteva.

«Perché non è venuta nostra madre, a prenderci?»

La voce di Guido emerse, limpida, dalle spalle del fratello. Mi sarei aspettata più paura da parte sua; c'era quasi una sfida, invece, in quelle parole.

Mi umettai le labbra. «Non poteva.»

«Non lo capisci, cretino? La mamma è morta» sibilò Nicolò «E questi due sciacalli vogliono farci la pelle!»

«Sì» dissi «vostra madre è morta.»

«Bianca...» intervenne Martino, di fronte all'improvviso impallidire dei bambini. Il sospetto e la paura che quella terribile eventualità fosse reale non erano bastate ad attutire il colpo. Lo sconcerto e il rifiuto fiorirono sul volto di Guido, le lacrime bruciarono su quello di Nicolò. Ma nessuno dei due distolse gli occhi da noi.

Piccoli guerrieri coraggiosi, fin da allora.

«Non voglio mentirvi. Siete grandi per capire. C'è stata una battaglia terribile, là sopra, da cui vostra madre è riuscita a proteggervi nascondendovi qui. Ora: avete intenzione di rendere vano il suo sacrificio scappando e finendo nelle mani di persone che vi faranno del male, oppure verrete con noi, come lei voleva?»

Avvertivo un velato rimprovero nello sguardo di Martino; eppure, sapevo che non c'era tempo per la dolcezza, ora. Quei bambini erano stati per giorni nascosti come animali braccati, e come tali si comportavano. Una carezza sarebbe sembrata un'aggressione ai loro occhi, una pietosa bugia sarebbe stata vissuta come un inganno letale. Lo sapevo. Ero stata al loro posto. La cosa migliore che potevo fare era presentare loro la nuda verità, per quanto crudele fosse.

Spesso pensiamo che i bambini siano creature diverse da noi, meritevoli di cure e protezione, ma non di rispetto. E' un tremendo errore. Si tratta di piccoli adulti, da aiutare a crescere e da guidare attraverso le asprezze della vita, finché non saranno in grado di farcela da soli. Schermandoli dal dolore facciamo loro soltanto più male.

«Nun dovete avecce paura, piccolè. Ce prenneremo cura de voi» aggiunse Martino, spezzando il lungo silenzio. Notai che il pugnale nelle mani di Nicolò si era abbassato.

«Chi siete?»

«Mi chiamo Bianca, e lui è Martino. Siamo amici di vostro...della vostra famiglia» risposi «Per prima cosa vi porteremo via da qui, da qualcuno che si occuperà di voi finché la guerra non sarà finita.»

«Quando finirà?» sussurò Guido.

«Non lo so. Ma faremo in modo che voi ne rimaniate lontani. E' una promessa.»

Fu allora che Guido uscì dal rifugio sicuro delle spalle di suo fratello maggiore. Nicolò gli afferrò il braccio, ma lui lo scostò con sdegno. Camminò verso di noi; guardò Martino con lieve diffidenza, poi rivolse gli occhi grigi su di me.

Dio, il dolore, il rimpianto di rivedere Nicola in quegli occhi. La dolcezza di sapere che il suo sangue era ancora vivo, in quei ragazzini.

Lentamente, Guido alzò il mignolo nella mia direzione. «Le promesse vere si fanno così. Altrimenti le puoi spezzare.»

La sua voce seria mi strappò un sorriso. «Hai ragione.» Mi sedetti sui talloni, per avere gli occhi alla sua stessa altezza. Intrecciai il mio mignolo al suo. «Guido Fenarolo, io ti prometto che vi affiderò a una persona che vi amerà, vi proteggerà e vi insegnerà tutto quello che dovete sapere. Se vengo meno a questa promessa...»

«Mangerò vermi tutti i giorni a colazione» suggerì il bambino. Trattenni a stento una risata, e così fece Martino.

«Sì, mangerò vermi tutti i giorni a colazione. E a pranzo, e a cena.» Con la mano libera, rimisi a posto una bionda ciocca scompigliata. Lui accettò il contatto, senza fiatare. Immobile, come per saggiare se il mio tocco gli avebbe fatto del male. Decise, alla fine, che non ero pericolosa.

Martino tese il palmo aperto verso Nicolò, con un sorriso rassicurante.

«A regazzì, mo m'o dai quer pugnale? Hai sentito 'a signora, magnasse tutti quelli vermi me pare 'na minaccia sufficiente, no?»

Nicolò apparve ancora titubante, ma poi vide Guido stringersi al mio fianco, in cerca di un calore che per troppi giorni non aveva più sperato di ricevere. Suo fratello si fidava di noi, e al maggiore dei piccoli Fenarolo non restava molta scelta. Lasciò il pugnale nella mano di Martino, dalla parte del manico.

«Bravo 'r mio guerriero» sorrise il mio compagno; quindi, si slacciò la cappa, e la avvolse intorno alle spalle magre del ragazzino. «E mo annamo a cercà quarcosa da magnà, e de li vestiti puliti. Che ne dite?»

Non potevamo portare i figli di Ventura Fenarolo al Castello; riuscimmo a farli uscire dalle mura, riparammo in un cascinale di campagna presidiato dagli uomini agli ordini di mia madre e vi restammo giusto il tempo di rifocillarli, e pianificare il viaggio. Giustificare la nostra assenza sarebbe stato semplice: Rosa avrebbe detto a Gaston che Martino ed io li avevamo preceduti sulla strada del ritorno verso Bologna. Se la spiegazione non fosse bastata, avrebbe lasciato intendere che avevamo avuto una discussione riguardo al massacro dei bresciani, e che a seguito di quello scontro avevo deciso di andarmene per non intralciare la missione e l'alleanza. Era qualcosa che avrei verosimilmente fatto, dopo tutto, e Gaston si aspettava sicuramente una certa resistenza da parte mia. Forse, l'intero saccheggio non era stata che una provocazione, per vedere fino a che punto i suoi nuovi alleati assassini avrebbero tollerato i suoi metodi. Quella serpe amava imporre la propria via, e una spina mi tormentava il cuore al pensiero che non ci fossimo opposti con più forza.

Un gioco di scacchi. Così l'aveva chiamato Vanni. Un doloroso compromesso, era stata la definizione di mia madre. Mentre cavalcavo, con Guido in sella davanti a me che poggiava il capo addormentato contro il mio petto, provai il bisogno di stringere più forte le braccia intorno al suo corpo esile. E pregai – sì, ne ho ancora la forza alle volte – che quell'orrendo conflitto finisse con la mia generazione. Volevo mantenere la mia promessa a Guido, e tenere quei bambini lontani dalla guerra. Volevo regalare loro un futuro diverso da quello che attendeva me e i miei compagni.

La nostra destinazione non era affatto Bologna. Portammo i bambini a Firenze, per poi venire reindirizzati dagli assassini locali poco fuori dalla città, in un cascinale che non mi fu troppo difficile rintracciare.

Inutile dire che Diamante non si dimostrò entusiasta di trovarmi lì, nel suo nido segreto.

Indossava camicia e brache quando la raggiungemmo. Si stava allenando nell'aia, insieme ad un ragazzone slanciato che stentai a riconoscere come Oreste. Santo cielo, quanto erano trascorsi in fretta gli anni. Doveva averne diciassette, ora. Era praticamente un uomo.2

Mentre ci avvicinavamo, osservai i suoi movimenti veloci, precisi. Aveva un fisico magro, slanciato; le lunghe braccia compivano movimenti puliti, netti, mentre cercava di penetrare le difese di sua madre con un pugnale stretto in mano. Anche senza osservare il volto di Guido, avvertii subito il mozzarsi del suo respiro, e capii che quel giovane uomo che si addestrava con tanta dedizione aveva subito conquistato un posto nella mente del bambino, come modello da imitare.

Fu Oreste il primo a notarci, da lontano. Si fermò, ansimante, e alla richiesta di spiegazioni della madre ci indicò. Diamante si volse, la treccia nera le schioccò sulla schiena per quel movimento brusco. Le sue braccia si incrociarono al petto, e la sua migliore espressione inquisitoria ci accolse.

«Bianca Auditore...ti credevo a Bologna, a quest'ora. Ezio sa che sei qui?»

Accennai ad un sorriso. «Anche per me è un piacere rivederti, Maestra. E per rispondere alla tua domanda: non ho il permesso di mio padre, ma in compenso ho quello di mia madre. Posso restare qui a giocare con te lo stesso?»

Lei rispose con una mezza risata, ma c'era scetticismo nel suo sguardo mentre squadrava i bambini. Oreste non fiatò.

«Il viaggio deve essere stato lungo, e scommetto che avete un sacco di spiegazioni da darmi. Coraggio, entrate.» Sfiorò appena il braccio del figlio. «Oreste si occuperà dei cavalli.»

L'ospitalità della Volpe fu spartana, ma, dopo tutti quei giorni di viaggio insieme a dei ragazzini denutriti e stanchi, un tagliere di pane e formaggio sembrava un banchetto da re. La Maestra offrì il suo letto ai bambini, e quasi ordinammo loro di andare a dormire; non lo dicemmo a voce alta, ma loro intuirono comunque che si sarebbe discusso del loro futuro. Ci ubbidirono, troppo stanchi e gravati per protestare. Martino disse che li avrebbe seguiti, per raccontare loro qualche storia divertente che li aiutasse a dormire. Io capii che voleva lasciarci contrattare in pace, e lo ringraziai con lo sguardo.

Una volta che la porta fu chiusa alle spalle del mio compagno e dei bambini, Diamante poggiò i gomiti sul tavolo, e mi guardò con diffidenza da sopra le mani intrecciate. Il movimento aveva messo in vista la catenina che portava al collo, da cui pendeva l'anello di Nicola.

«Ora, siccome dubito che tu e quello scellerato di un romano vi siate messi a raccogliere orfani di guerra a caso lungo il tragitto, dimmi chi sono i ragazzini e perché li hai portati qui.»

Per tutta risposta, mi rilassai di più contro lo schienale della sedia. «C'è una sola risposta per entrambe le domande, e scommetto che hai già capito. Coraggio, Diamante...il più piccolo è praticamente la sua copia.»

Lo sguardo di lei vagò sul tavolo. «E' vero.» Una lunga pausa. «Lui...» scosse il capo. «Non mi aveva mai detto di avere...»

«...dei nipoti. Figli di sua sorella.»

Gli occhi viola si sgranarono, per un momento. Strinse le labbra quasi fino a sbiancarle. «Templari, dunque.»

«Sono ragazzini, hanno perso tutto, e non sanno niente della nostra guerra. Lascia le bandiere a noi adulti, loro sono soltanto innocenti.»

«E per quale motivo pensi che dovrei tenerli qui con me?»

Inarcai le sopracciglia. «Andiamo. Non dirmi che non ti importa.»

«Perché dovrebbe? Non sono sangue del mio sangue. Senza contare che averli qui potrebbe essere un pericolo.»

«Pericolo? La loro famiglia non esiste più, i loro nemici li credono morti. Tu sei la cosa più simile a un parente che abbiano al mondo.»

Distolse lo sguardo. Si alzò, per andare a riempire la caraffa di vino all'otre. Il liquido scuro gorgogliò gaiamente contro le pareti di ceramica. «Questi giochetti non attaccano con me, Bianca. Il ricatto morale potrà funzionare con i tuoi genitori, ma io sono di un'altra pasta.»

«Il tipo di pasta che lascerà i nipoti del suo uomo al loro destino?»

«Nicola non li vedeva da anni.»

«Quale differenza fa? Credi che, se lui fosse qui, li avrebbe scacciati perché non li vedeva da anni? Io penso che se ne sarebbe preso cura, invece. Solo che non può più farlo. Tu puoi.»

Fu allora che Diamante si voltò. Una furia a malapena contenuta le tirava i lineamenti. «Se credi che sia così semplice, perché non lo fai tu? Tu hai accettato di portarli con te, tu hai deciso del loro destino.» Prese il mio bicchiere, nervosa, e lo riempì fino all'orlo, poggiandolo di nuovo di fronte a me con un tonfo sordo. «Assumiti questa responsabilità, crescili come fratelli minori, o come figli, se vuoi. Non scaricarmi addosso i fardelli che tu hai accettato, Bianca Auditore, non sei più una bambina.»

Non persi la calma, e presi un sorso del vino che mi aveva versato. Lo gustai lentamente. «Sappiamo entrambe che non sono la persona più adatta per farlo.»

Diamante era rimasta in piedi, la brocca a mezz'aria. «E cosa renderebbe me la persona più adatta?»

«Hai già cresciuto uno splendido figlio, e Nicola ti amava. Mi sembrano due ottime ragioni.»

La vidi irrigidire i lineamenti, e restare per un attimo immobile, una statua di sale di fronte alla mia espressione granitica. Attesi. E quell'attesa ebbe la sua ricompensa, perché la vidi sedersi, poggiare la brocca, e guardare a terra, rigirando tra l'indice e il pollice l'anello che portava attaccato alla catenina. Non avevo mai visto La Volpe capitolare a quel modo, e, devo ammetterlo, mi dava una sorda soddisfazione essere la causa di quella resa.

La voce le uscì roca. «Il conflitto sta per scoppiare. E' già iniziato. Oreste smania da mesi per prendervi parte...»

«Questo ti darebbe un'ottima scusa per lasciarlo a casa, ed evitargli di conoscere il sapore del sangue ancora per un po'.»

«Te lo ricordi che hai ucciso la tua prima vittima quando eri più giovane di lui, sì?»

Scossi il capo, scacciando il lieve brivido al ricordo di quella guardia sui tetti di Firenze. Per me, quell'uomo senza nome sarebbe sempre stato più importante di mille alfieri templari. «Non durante una guerra di queste dimensioni. E' troppo giovane per tutto questo...ed io penso che anche tu dovresti restare qui.»

Lei rise, sprezzante. «Cos'è, oggi hai deciso di giocare a fare la mammina?»

«Pensaci. Se ti succedesse qualcosa, chi si prenderà cura di Nicolò e Guido? E Oreste, chi lo guiderà? E' troppo giovane per diventare la nuova Volpe. Senza contare che, se perderemo gli avamposti del Nord, avremo bisogno di validi generali che restino a contrastare il Papa.» Sentii le mie labbra tirarsi in un sogghigno amaro. «Su, Maestra, non dirmi che non avevi già pensato a tutto questo. Lo sai che ho ragione. Di nuovo.»

Diamante mi fissò a lungo, prima di versarsi una generosa quantità di vino. Bevve in un solo sorso, e poggiò il bicchiere con poca grazia. «Dannazione a te. Quando sei diventata così simile a tuo padre?»

Il mio sorriso si ammorbidì un poco.

«Resterai, quindi?»

«Ho bisogno di tempo. Per pensare.»

«Ti daremo tutto il tempo di cui hai bisogno. Martino ed io togliamo il disturbo già da ora...se non ti dispiace, vorrei salutare Oreste, prima di partire.»

Quando mi alzai in piedi, mi trovai inaspettatamente il polso chiuso tra le sue dita. Aveva uno sguardo strano. Fragile.

«Ascolta. Sarà un massacro di proporzioni epiche, come non ne abbiamo ancora visti. Tutto ciò che abbiamo vissuto fino ad ora, a confronto, è stata una passeggiata in un campo di fiori. Bianca...» I suoi occhi nei miei. Seri. Preoccupati. «Sei una giovane donna ormai, ma non sei molto più vecchia di mio figlio dopo tutto. Ho visto troppi allievi come te...giovani, pieni di dedizione e di ideali...» inghiottì a vuoto «...morire troppo presto, e nei modi più atroci. Ho perso troppe persone a cui tenevo.» Quando posai l'altra mano sulla sua, Diamante mi parve di nuovo la donna premurosa che mi aveva tenuto stretta a sé, il giorno in cui avevo temuto di aver perso Martino per sempre. «Se io ho dei motivi per restare da parte, tu ne hai ancora di più. E' questo il momento per fare un passo indietro. Dopo sarà troppo tardi.»

Le sorrisi, e sentii sincera dolcezza salirmi al volto e tendermi le guance. «Anch'io ti voglio bene, Maestra. E non preoccuparti per me. Me la caverò. Come sempre.»

 

***

 

Il dispaccio di mio padre ci raggiunse tramite una recluta quando avevamo già varcato il valico tra gli Appennini: dovevamo incontrare zia Claudia a Piacenza, e da lì avremmo preso una barca per viaggiare lungo il Po. La nostra destinazione era Ravenna; avremmo dovuto viaggiare in incognito, come una famiglia di mercanti, perché la nostra missione era pericolosa e fondamentale. Mio padre ci aveva infatti assegnato il compito di recuperare da Giovanni De' Medici, asserragliato nella città insieme ai papalini, importanti informazioni riguardo lo schieramento nemico, che sarebbero state preziose per i nostri alleati francesi. Entrambi Martino ed io fummo perplessi dalla scelta di zia Claudia come terza compagna: tuttavia, ne capivamo le ragioni. La zia era una donna di cinquantun anni, dall'aspetto assolutamente rispettabile. Il fatto che non avesse quasi mai partecipato alle missioni attive la rendeva priva di cicatrici; io, con adeguati abiti femminili e un soggolo, avrei potuto celare in parte l'unico segno che mi restava in viso, la striscia bianca che ancora mi tagliava le labbra. Martino sarebbe passato per la nostra guardia del corpo, un mercenario magari. Di certo, il modo in cui la zia trattava il mio compagno era terribilmente simile al fare sprezzante con cui, alle volte, ancora si rivolgeva alle persone che riteneva di rango inferiore.

Rivisto con gli occhi di oggi, quel viaggio fu un susseguirsi di scambi esilaranti tra Claudia e Martino. All'epoca, ricordo che vivevo con non poco nervosismo i loro alterchi costanti, a malapena camuffati dietro la nostra falsa identità; non si trattava di un innocuo punzecchiarsi tra di noi come al solito, dopo tutto. C'era in gioco molto di più.

La fortuna ci aiutò, quella volta: arrivammo a Ravenna quasi indenni. C'erano stati un paio di episodi, nel nostro viaggio lungo il fiume, che ci avevano costretti a scoprire le nostre vere identità e lasciarci dietro un paio di cadaveri di guardie troppo zelanti. C'erano state le suppliche dei contadini che stavano fuggendo dalle campagne devastate, ci offrivano i loro pochi averi per salire sulla barca con noi e andare...ovunque, in qualsiasi luogo che l'avanzata delle truppe francesi non avesse ancora devastato. Riuscimmo ad aiutare qualcuno. Non tutti, dannazione. Non tutti.

Entrare in città fu più facile del previsto. La zia aveva con sé un lasciapassare procuratole da nientepopodimento che Giovanni De' Medici in persona. Sul documento era attestato che si trattava di un nostro parente – un cugino, a quanto pare – e che le guardie cittadine avevano l'ordine di scortarci, con la massima urgenza e cautela, al convento di San Francesco, presso cui il cardinale si era ritirato in contemplazione e preghiera.

«Davvero, eminenza?» ammiccò zia Claudia non appena lo vide, nel chiostro «Un convento francescano? Non si addice molto al vostro ruolo.»

Guardai l'uomo dalla corporatura massiccia che ci osservava, benevolo, nel suo manto purpureo. Capii subito cosa la zia intendesse: aveva una pesante croce d'oro che pendeva sul petto, e anelli scintillanti alle dita – in netto contrasto con la semplicità delle mura che ci circondavano. Il suo volto era tondo, ben pasciuto, e gli occhi sembravano gentili. Non poteva avere ancora quarant'anni.

Quando la zia gli ebbe sfiorato l'anello cardinalizio con le labbra, l'uomo le baciò le guance con affetto. Mi chiesi se fosse una recita a beneficio delle guardie che ci avevano scortati, o se davvero fossero così in confidenza. Dopo tutto, la personale sicurezza di Giovanni De' Medici era stata assicurata dalle pianificazioni dei miei zii, negli anni che avevano trascorso a Roma.

«Claudia, cugina cara» sorrise lui «Mi sono mancati i tuoi rimproveri.»

Sì, decisamente, il cardinale conosceva la zia e i suoi modi di fare.

Quindi, i suoi occhi scuri si posarono su di me. Aprì le braccia, gioviale.

«E questa è la tua figliola? Giusto Cielo, non la vedo da quando era una bambina! Vieni qui, piccola mia, fatti salutare come si deve.»

Mi inchinai rispettosamente, e, di fronte a un Martino che celava a malapena il divertimento, il cardinale non mi permise di baciare l'anello. Mi avvolse invece in un abbraccio del tutto inaspettato. «Sei davvero diventata una splendida dama!» disse a voce alta. Io rimasi un po' rigida nell'abbraccio, e tentai di sorridere.

«Vi ringrazio, Eminenza...»

«Finalmente ci incontriamo» sussurrò Giovanni nel mio orecchio, ed io avvertii un tono assolutamente diverso da quello bonaccione che aveva usato fino ad ora. Un suono calmo, sicuro, serio.

«Andiamo, mie care. Vi ho fatto assegnare le stanze con la vista più bella. L'accoglienza di questi buoni frati è umile, ma ho fatto portare qui buona parte dei miei arredi, e il mio cuoco personale penserà a sfamarci, non temete. Non saremo alla mercè delle elemosine dei buoni Ravennati, altrimenti dovremmo digiunare stasera!»

Gettai appena un'occhiata al mio compagno, che era rimasto in un angolo, a guardarci in attesa di istruzioni. Giovanni De' Medici si voltò, in quel momento, come se si fosse ricordato di lui solo ora.

«Ah, sì. Certo. Ragazzo, grazie dei tuoi servigi. Questo è per dimostrarti la mia riconoscenza.»

Gli mise in mano un ducato3 d'oro, che Martino accettò con un ottimo falso sorriso compiacente. «Dio vi benedica, Eminenza.»

«Usalo per divertirti...ma non troppo, mi raccomando! I buoni monaci cenano presto: rientra prima del tramonto, se vuoi avere qualcosa di caldo nello stomaco.»

Con il bacio rituale all'anello del cardinale, il mio compagno si congedò. Quando mi passò accanto, gli strinsi brevemente la mano. Sapevo che Giovanni De' Medici gli aveva appena dato un'ottima scusa per andare a carpire qualche informazione aggiuntiva nelle taverne della città. Era armato di tutto punto, non avevo di che temere. Tuttavia, non ero mai del tutto tranquilla quando si allontanava dal mio sguardo.

Lui mi rassicurò con un cenno del capo. Prima di partire avevamo previsto l'eventualità di doverci dividere, e avevamo convenuto di trovarci al Compieta, alla Basilica di San Francesco. Sarebbe andato tutto bene.

 

Giovanni De' Medici non aveva mentito, quando aveva detto di essersi portato dietro gran parte dei suoi arredi preziosi. Avevo sentito della sua fama di amante dell'arte, ma non immaginavo certo di trovare arazzi, dipinti e tendaggi damascati in quella che avrebbe dovuto essere la cella di un uomo di Dio, e parevano invece gli appartamenti di un principe.

«Sul serio, Giovanni. Perché scandalizzare quei poveri francescani con tutto questo?» disse zia Claudia, scrutandosi intorno con aria critica. «Avresti potuto alloggiare insieme al Papa, al Palazzo Apostolico.»

L'uomo eruppe in una risata calda. «La lepre che fa la tana in nido di serpi può dire addio al sonno per sempre, non trovi? No, preferisco osservare Sua Perfidia dalla mia distanza di sicurezza. E poi, certo, qui c'è quella piccola faccenda di Dante che mi piacerebbe tanto risolvere.»

Sobbalzai, nervosa come ogni volta che si parlava del Sommo Poeta. «Quale piccola faccenda?» mi intromisi, senza preoccuparmi se mi fosse consentito partecipare alla conversazione. Gli occhi del cardinale si posarono, sorridenti, su di me.

«Sono un grande ammiratore dell'Alighieri, mia giovane amica. E' un onore per me risiedere accanto alla chiesa che ha dato l'addio alle sue spoglie mortali.»

«Spoglie che vuoi riportare a Firenze, immagino4» precisò zia Claudia, con le labbra arricciate in una specie di sorriso.

Giovanni De' Medici si strinse nelle spalle. «Quando potrò tornare nella nostra amata città, le ossa del Sommo torneranno con me, te lo garantisco.»

«E perché non gli consentite di riposare in pace, invece?»

Non so da dove mi fossero uscite quelle parole. Sapevo poco della storia del poeta che aveva nascosto il Serpente a palazzo Bentivoglio, ma ciò che avevo appreso dalla tomba delle donne della sua vita – Gemma Donati e Beatrice Portinari – mi aveva fatto intendere quanta sofferenza ci fosse dietro quella trama che mi era ancora così oscura.

Per tutta risposta, il cardinale mi sorrise, comprensivo.

«Mia cara amica, non credo che l'Alighieri se ne lamenterà. Non c'è niente dall'altra parte, dimentichi? Il suo spirito è già in pace, le ossa non sono che ossa. Non servono più a lui, ma in compenso sono un simbolo possente per chi ancora vive. Un simbolo di gloria per la nostra città natale...e in ultimo, anche per l'Ordine.»

Non chiedetemi perché, quando lo guardai versare del vino in una coppa pensai a un leone: maestoso, tranquillo perché conosce i confini del proprio regno – ma pronto a diventare molto pericoloso, nel caso qualcuno minacci questi confini. Giovanni De' Medici era un potenziale grande uomo, che le circostanze non avevano ancora spinto a rivelarsi per ciò che era davvero. Mi piacque, istintivamente. Se i nostri piani fossero stati realizzati senza intoppi, non avremmo avuto solo un burattino dell'Ordine sul seggio di Pietro, ma un uomo capace che marciava sotto la nostra bandiera.

«Forse hai ragione però, tutta questa bellezza di cui amo circondarmi mi sta dando alla testa...dopo tutto, lo ciel poss'io serrare e disserrare5...ma solo ufficiosamente, per ora!» rise il cardinale, pacatamente. Ci indicò lo stemma che aveva portato con sé da Bologna, che stava appeso sul suo scrittoio. Due chiavi incrociate, il simbolo del legato papale. Era il titolo che, da pochi mesi, il cardinale aveva ricevuto: la sua sede si trovava a Bologna, prima che i francesi la conquistassero, costringendo i papalini a ripiegare in Romagna.

Il cardinale tese a Claudia la prima coppa di vino. Ne riempì un'altra per me, ed una, piuttosto generosa, per se stesso.

«Ed ora, signore, basta parlare di amenità. Abbiamo poco tempo prima di cena, e troppe cose di cui discutere.»

 

Discutemmo a lungo, ve lo assicuro: di strategie, numero di uomini che sarebbero arrivati a dare manforte a Giulio II, posizione degli eserciti papalini, debolezze e punti di forza, sospetti sui primi esperimenti di Della Rovere nell'uso del Serpente. Discutemmo fino a che non arrivò l'ora per il sontuoso banchetto che Giovanni De' Medici aveva fatto preparare al suo cuoco personale; anche quando fummo di nuovo calati nei nostri ruoli, però, una sottile agitazione non mi lasciò mai le membra. Si stava facendo buio, là fuori.

Fu dopo il Compieta, quando zia Claudia e il cardinale fecero cenno di ritirarsi, che espressi il desiderio di restare raccolta in preghiera nella Basilica di San Francesco un po' più a lungo. Normalmente il Cardinale assisteva alla funzione in una piccola cappella privata nel convento, ma quel giorno aveva fatto un'eccezione per la nostra visita, con la scusa di mostrarci la splendida chiesa guidata dai suoi umili, gentili confratelli.

Mia zia comprese il motivo della mia richiesta senza chiedere. Martino non era ancora tornato. Giovanni De' Medici lodò la mia pietà, e mi diede la sua benedizione. I frati non obiettarono.

Il sacrestano fu l'ultimo a lasciarmi, qualche tempo dopo. Rimase a rispettosa distanza, mi domandò se davvero me la sentissi di rimanere da sola. Doveva chiudere il portone principale, ma mi avrebbe lasciato aperta la porta che dava sul chiostro del convento, quando fossi voluta rientrare. Gli sorrisi con gentilezza, e domandai se mi potesse lasciare un lume. L'uomo acconsentì. I suoi passi si allontanarono lentamente, lasciandomi avvolta dal silenzio.

Dieci minuti. Gli avrei dato soltanto dieci minuti, prima di uscire a cercarlo.

Attendere non è mai stato il mio forte, lo sapete bene. Per questo, presi la candela che il gentile frate mi aveva lasciato, e mi dedicai ad esplorare la chiesa.

Era una costruzione semplice come il culto che ospitava. Un paio di cappelle affrescate, ma decorate con gusto contenuto: niente a che fare con i grandiosi affreschi a cui associavo abitualmente l'idea di edificio religioso. Per certi versi, mi ricordava la nostra piccola chiesa a Monteriggioni.

Mi spinsi a scendere le scale che portavano alla cripta: il cancelletto non era stato chiuso a chiave. Rischiarai la volta, dentro cui riposava l'arca di Dante...e fui sorpresa di trovarla immersa in una buona spanna d'acqua.6

Acqua, in una cripta? Davvero?

Mi azzardai a muovere un passo dentro quello spazio così raccolto. Le mie raffinate calze di seta si inzupparono subito, e così l'orlo della mia gonna. Non mi importava. Volevo conoscere Dante, quell'uomo di cui avevo sentito soltanto parlare. Avevo letto i suoi versi e le sue lettere, avevo saputo delle sue donne: una templare, Beatrice, e un'assassina, Gemma. Avevo tenuto tra le mani la sua eredità così gelosamente custodita, il Serpente. Ora la sua effigie era di fronte a me, incisa nel marmo. Il profilo aquilino, la mano pensosa adagiata sul mento, lo sguardo perso in un libro.7 Così diverso da me. Così profondamente connesso alla mia storia.

Provai il bisogno di poggiare la mano sul sarcofago. Con un mezzo sorriso, mi trovai a ripetere le parole che poco prima Giovanni De' Medici aveva rivolto a me.

«Finalmente ci incontriamo.» Lasciai che le dita corressero sul freddo marmo. «Ho sempre voluto conoscerti...anche se sono quasi certa che in vita fossi di un'antipatia assurda! Ma poco importa. Sono diventata amica di Veronica, dopo tutto.»

Trattenni a stento un sogghigno al pensiero dell'espressione che avrebbe fatto la mia consorella a quel punto. Irritata per la punzecchiata, o lusingata per essere stata paragonata all'Alighieri? Probabilmente avrebbe detto che una capra come me non era degna di frequentare persone di qualità come loro due. E avrebbe avuto ragione. Ma non ditele che gliel'ho detto, vi prego.

«Lo sapevo. Nun posso lasciatte du' minuti che te trovo a civettà co' 'n artro!»

Quasi mi fece cadere la candela dalle mani, dannazione a lui! Mi voltai di scatto, illuminando Martino appoggiato allo stipite dell'ingresso della cripta. Sembrava in perfetta forma. Mi ero preoccupata per niente.

«Sapevo che c'hai 'n debole pelli omini attempati, Biancarè...ma addirittura morti!» mi prese in giro, con un mezzo sorriso.

Replicai inarcando un sopracciglio. «E' colpa tua. Sei in ritardo, e io odio aspettare. Ho dovuto arrangiarmi con quel che offriva il convento...in tutti i sensi.»

Lui scoppiò a ridere, un suono che riverberò tra le pareti. Gli feci segno di tacere mentre mi veniva incontro, e per incoraggiarlo a non fare altro rumore lo baciai con entusiasmo.

«Di' ciao alla signora, nonnè» ridacchiò, rivolto al sarcofago «mo t'a porto via e nun la rivedi più!»

«Idiota» sorrisi. «Ero preoccupata davvero.»

Lui mi accarezzò il viso. «Me dispiace. So qua, adesso.»

Ci prendemmo del tempo per passeggiare nel chiostro del convento, mano nella mano. I buoni frati dormivano sereni, a quell'ora. Non temevamo di essere visti.

«E ora puoi dirmi cosa ti ha trattenuto tanto a lungo?»

«Gnente. Me so' sortanto mosso co' cautela. 'sti ravennati so' diffidenti, nun se sbottonano mica facirmente...nun so' riuscito a sapè morto, li ho solo fatti 'ncazzà.»

«Dimmi che non hai ingaggiato una rissa, ti prego.»

«Pe' chi m'hai preso? Faccio diplomazia de seconno nome!» Martino si strinse nelle spalle, con una luce divertita negli occhi. «Però, ecco...potrei averne stesi un paio che me stavano a seguì 'n un vicolo. Mica potevo condurli ar convento, no? Nun volemo sospetti tra li piedi.»

«Sei certo che non ce ne fossero altri?»

«Certissimo.»

«E cosa ti fa essere così sicuro?»

«Bià, ne so quarcosa de 'nzeguimenti. So salito su li tetti e ho fatto fuori li artri appostati pe' spiamme. Nessuno m'ha visto entrà ner convento, t'o ggiuro.»

Lo abbracciai, forte, trattenendo a malapena un sospiro che voleva buttare via tutta l'ansia covata in quelle ore. «Cosa devo fare con te, Martino 'Diplomazia' Semeraro?»

«Mah, nun saprei. Sposame. Così, pe' dirne una.»

Alzai gli occhi nei suoi, con una vaga aria di scherno che mi stendeva il viso. Non poteva dire sul serio. «E' una proposta?»

«Sì.»

La serietà di quell'unica sillaba mi mozzò il fiato. Era l'ultima cosa che mi aspettavo.

«Vuoi che ci sposiamo qui? Ora?»

Martino si portò la mia mano sul cuore, con aria fintamente pensosa. «No, nun proprio ora ora...dovemo svejà 'n frate, prima.»

Sapeva che quando mi sorrideva a quel modo non potevo dirgli di no; tuttavia, tentai una pallida difesa:

«Non vorresti una cerimonia con tutti i tuoi fratelli? E magari anche tuo padre, e i miei genitori. Dovrebbe esserci Lisabetta che sparge i fiori in chiesa...»

«Je vojo bene, a tutti loro. Ma semo noi due che ce dovemo sposà, no? Co' bona pace de li artri, serviamo solo io e te.»

Era quasi irreale. Io, Bianca Auditore, convinta che il matrimonio non fosse che un contratto, stavo discutendo con il mio uomo se sposarci su due piedi, oppure al nostro ritorno a casa. Eppure, in entrambi i casi, era bello pensare all'idea. Sull'orlo della fine, come ci trovavamo, il pensiero di sposarci aveva il sapore di qualcosa che comincia. «Hai paura per la battaglia? E' per questo?»

Martino abbassò gli occhi sulle nostre mani unite, accarezzando il dorso della mia con il pollice.

«Se c'è 'na cosa che ho imparato, Bià, è che nun vojo avecce de' rimpianti. Che duri 'n ora, 'n giorno o cento anni, er resto de la vita mia lo vojo passà co' te.» Ammiccò. «Ovviamente, punto su li cent'anni, eh. Sempre che me sopporti pe' tutto 'sto tempo!»

Non potei trattenere un sorriso, con il fiato spezzato per l'emozione. Era uno di quei momenti in cui avrei voluto che il mio abbraccio fosse sufficiente a dirgli quello che stavo provando. Non ero mai stata brava con le parole d'amore; per questo, sperai che Martino potesse sentire ciò che volevo dirgli attraverso la mia pelle.

«D'accordo, allora. Facciamolo.»

Uno splendido sorriso illuminò il suo volto. «Ma che, davero? M'hai detto de sì?»

Risi piano, sulle sue labbra. «Sì. Ti ho detto di sì.»

 

***

Ovviamente, zia Claudia sbuffò, protestò, si dichiarò totalmente contraria. Non si poteva mica organizzare un matrimonio in dieci minuti. Non volevo un bell'abito come l'aveva avuto Veronica? Cielo, quelle due cosette semplici che aveva portato con sé non erano proprio l'ideale.

«Non importa, indosserò la divisa da assassino.»

«Tu...cosa?»

«E' l'abito più importante tra quelli che ho con me, non ne vorrei un altro.» Le strinsi la mano. «Zia, vi prego. E' già tutto deciso. Martino sta parlando con il cardinale proprio ora...»

«Avete scomodato addirittura il cardinale! In piena notte! Razza di teste calde...perché non potete aspettare che torniamo tutti quanti a Monteriggioni? Quest'estate, magari, nella chiesa dove si sono sposati i tuoi genitori...d'accordo, il nostro prete non è sempre esattamente lucido, ma è un brav'uomo e sarà felice di...»

«Zia...non sappiamo se torneremo tutti quanti a Monteriggioni, quest'estate.»

Lei mi guardò, gli occhi dilatati, progressivamente più lucidi. Sapevo che aveva capito.

Sospirò profondamente, e in quel sospiro mi sembrò che inghiottisse un fiotto di pianto. «Dammi almeno il tempo di acconciarti quei capelli. Dei nastri, qualche fiore. Questo almeno posso farlo, sì?»

Le sorrisi, commossa. «Certo. Mi piacerebbe molto.»

Seguì una buona mezz'ora di estremo fermento per zia Claudia, che dentro di sé ancora stava lottando per accettare la decisione che Martino ed io avevamo preso. La sua battaglia mentale si riflettè nei movimenti secchi delle dita mentre mi acconciavano i capelli, li raccoglievano, domavano ogni ciocca per renderla un nodo grazioso e perfetto, quasi una continuazione dei nastri che aveva scucito dai nostri abiti di rappresentanza e delle semplici margherite che aveva rubato dal chiostro. Staccò ad una ad una le perle che ornavano la sua retina per capelli, le infilò nelle forcine come tocco finale. Mi passò della tintura rosata sulle labbra e sulle guance, e usò della polvere di antimonio per evidenziare le mie ciglia e le sopracciglia. Infine, fece un passo indietro, per ammirare con aria critica il proprio lavoro. Inclinò un poco il capo. Sembrava soddisfatta, ma suonò immensamente triste quando mormorò:

«Santo cielo, Bianca...chi lo dirà a tuo padre?»

«Chi mi dirà cosa

La voce ci sorprese alla finestra, e se non fossimo state preparate a quelle sue entrate in scena così inusuali e drammatiche avremmo urlato entrambe.

Non avrei dovuto essere così sorpresa, dopo tutto. Ezio Auditore da Firenze aveva il dono di apparire sempre quando avevo più bisogno di lui.

Ci disse brevemente che arrivava da Bologna, per annunciarci che le truppe di Gaston avevano quasi raggiunto Ravenna, e gli eserciti spagnoli erano stati avvistati poco lontano. Dovevamo andarcene dalla città al più tardi all'alba, per raggiungere i nostri alleati: la battaglia avrebbe avuto inizio prima del previsto.

E poi, quando ebbe finito quel resoconto, mi rivolse una lunga occhiata, da capo a piedi.

«Ma prima spiegami perché ti stavi preparando per un ricevimento a quest'ora di notte, e con addosso la divisa di assassino.»

La zia alzò le mani, scosse la testa e si diresse in un angolo della stanza. Perfetto. Avrei dovuto spiegargli tutto, senza il suo sostegno. Non importava. Potevo farcela.

Cercai di suonare calma e sicura. Ne ero perfettamente in grado, soprattutto quando sapevo di essere nel giusto. Dopo tutto, non avevo praticamente convinto l'inossidabile Diamante ad accogliere i nipoti di Nicola e a restare fuori dalla guerra? Quanto poteva essere più difficile persuadere mio padre che sposarmi in segreto, di lì a dieci minuti, era la migliore delle scelte che avessi mai fatto?

Ezio ascoltò, in silenzio, con grande serietà. Annuì ad ogni passaggio saliente della mia argomentazione, e quando infine tacqui disse:

«Perfetto. A parte il fatto che non do il mio consenso.»

«Padre!»

«Il ragazzo non mi ha chiesto il permesso, mi pare.»

«Avrete pur immaginato che l'idea ci sarebbe passata per la testa, prima o poi. Andiamo, so che avete stima di lui, e gli volete bene. Di quale altro permesso avremmo bisogno?»

Ezio non aveva l'aria di avermi ascoltato. Mi guardò, grave. «Lascia che faccia due chiacchiere con questo aspirante sposo segreto.»

«Padre, ascoltate!»

La mano ferma di zia Claudia mi strinse il braccio. Lo sguardo nei suoi occhi scuri mi chiedeva di lasciarlo fare.

«Dove posso trovare Martino, Bianca?»

Mi umettai le labbra.

«Nelle stanze del Cardinale De' Medici. Gli sta chiedendo di celebrare la cerimonia.»

Non avevo nemmeno finito la frase, che Ezio era già uscito dalla stanza.

Zia Claudia mi tenne il braccio intorno alle spalle. «Meglio che lo abbia saputo ora. Se gli aveste confessato tutto a fatto compiuto si sarebbe inferocito.»

«Credete che gli farà del male?»

«Ah, non essere sciocca.» Ma non suonava convinta.

Fu un'attesa che mi parve infinita, durante la quale camminai per ogni centimetro agibile del pavimento della stanza. Zia Claudia cercava di consolarmi, ricordandomi quanto fossero belli i campi intorno a Monteriggioni d'estate, e descrivendo lo splendido banchetto che avrebbero organizzato per noi quando fossimo tornati, tutti, e quanto ci saremmo divertiti durante i festeggiamenti, sarebbero durati almeno tre giorni, forse anche qualcuno di più visto che era un evento eccezionale, la figlia del signore del borgo che si sposa...

Poi, la porta si aprì.

Ezio entrò con un'espressione indecifrabile. Mi diressi verso di lui a grandi falcate, fermandomi a un passo dal suo volto.

«Allora?»

«Allora cosa?»

Gli studiai le mani. «Non è stato versato del sangue. E il resto del convento sta ancora dormendo, quindi non avete gridato troppo forte.»

«Non ce n'è stato bisogno. E' stata una discussione molto civile.»

Mi sentivo fremere per l'agitazione. «Padre, vi giuro che se l'avete fatto fuggire troverò il modo di vendicarmi. E sarà tremendo.»

Fu allora che il sorriso da gatto – che odiavo e amavo allo stesso modo – si aprì sul suo volto, tra la barba screziata di grigio e bianco. «Ti aspetta nella basilica. Sei fortunata, figlia mia...al contrario di te, Martino sa cosa sia il rispetto. Si è scusato così tanto per l'affronto che stava per farmi...avresti dovuto vederlo, sembrava un cane bastonato quando mi ha supplicato di concedergli la tua mano comunque. Ah, è stato divertente spaventarlo un po', in fondo. Alla fine ho dovuto dargli la mia benedizione, mi faceva pena.» Inclinò un poco il capo. «E poi, certo, non ho potuto non considerare anche quell'altra piccola faccenda.»

«Quale, altra piccola faccenda?»

Ezio mi accarezzò la guancia. Delicatamente. Come se avesse paura di rovinarmi il trucco...o forse, di farsi male.

«Mi costa ammetterlo, Bianca, non sai quanto...ma quel ragazzo ti ama da morire. Si prenderà buona cura di te.»

Sentii le parole che non aggiunse. Come ho cercato di fare io fino ad ora.

Lo abbracciai, forte. Non capiva che il mio amore per Martino non sarebbe stato mai in competizione con l'amore – infinito, indissolubile, indiscutibile - che provavo per lui.

«Sono così contenta che siate qui» mormorai. E lo ero davvero.

Attraversammo in silenzio il colonnato deserto del chiostro. Che strano viaggio per una sposa. Zia Claudia camminava alle mie spalle, mio padre davanti a me. Una processione breve e silenziosa. Niente grida di bambini che spargono fiori, niente sole toscano sulla pelle. Una tenue luna romagnola rischiarava appena l'oscurità. Niente cortei infiniti di parenti e compaesani, solo due delle persone che più amavo al mondo accanto a me per sostenermi mentre varcavo un'altra soglia fondamentale della mia vita. Niente amici al mio fianco. Solo un abito che nessun altra sposa avrebbe voluto indossare, a ricordarmi che facevo parte di qualcosa, e non sarei mai stata sola.

Uscimmo in strada, costeggiammo un piccolo giardino, e raggiungemmo il sagrato della chiesa. Il cardinale aveva aperto di nuovo la porta, serrata dall'interno fino a poco prima. Intravedevo la sua figura e quella di Martino all'altare. Zia Claudia mi diede un bacio sulla guancia, poi attraversò la navata per raggiungerli. Sarebbe stata uno dei nostri testimoni.

Ezio si voltò verso di me. Mi guardò attraverso la semioscurità per un lungo momento; poi sollevò il cappuccio d'aquila sull'acconciatura a cui la zia aveva lavorato tanto duramente. Baciò la mia fronte.

«Cerchiamo di tenere in piedi almeno mezza tradizione, che ne dici?»

«Voi, parlate di tradizioni? Forse devo ricordarvi che avete convissuto con la mamma per più di dieci anni prina di sposarla.»

«Che c'entra, lo sai che non devi prendermi come esempio.» Si strinse nelle spalle, per poi offrirmi il braccio. Io vi poggiai sopra la mano. Muovemmo il primo passo verso l'ingresso della chiesa.

«A proposito della mamma...meglio non dirle niente di tutto questo. Quest'estate, quando torneremo a Monteriggioni, organizzeremo un bel matrimonio-farsa, con tutte le noiosissime tradizioni del caso. Così nessuno potrà lamentarsi di non esserci stato. Non ti sembra un'idea incredibilmente brillante?» Ammiccò. «Non c'è da meravigliarsi, dopotutto: viene da me.»

Sapevo che stava scherzando per alleggerire la tensione, e non sapete quanto ne avessi bisogno in quel momento. Sorrisi di cuore. «Siete davvero borioso quando vi impegnate.» Mi fermai proprio sulla soglia della chiesa, per baciargli la guancia. «Grazie, papà.»

Poi, guardai avanti. Verso Martino, splendido nella sua divisa da iniziato, che teneva le mani dietro la schiena per non mostrare quanto le stesse torturando. Il mio uomo. Il mio futuro. Ogni ansia sparì quando incontrai i suoi occhi quasi neri. Ogni volta che mi sentivo spersa o insicura, quelle iridi che conoscevo come il paesaggio del mio cuore riuscivano a ricordarmi quale fosse il mio posto nel mondo. I miei passi lungo la navata da quel momento in poi furono sicuri, consapevoli. Ero nel posto giusto, al momento giusto, e ad attendermi all'altare c'era l'unica persona che avrei mai voluto vedere a quel posto.

Erano passati otto anni da quando un ragazzino spaccone aveva chiamato a gran voce il capo dell'Ordine degli Assassini, a Monteriggioni, sulla scalinata che conduce a Villa Auditore. Al primo sguardo, avevo pensato che fosse un arrogante pieno di sé; poi, avevo creduto che fosse semplicemente un buffone superficiale. Con il tempo, avevo imparato a conoscere la sua anima fatta di saggezza, coraggio e fragilità insospettabili, e ora mi sembrava una parte così inestricabile della mia che faticavo a riconoscerne i confini. Lui era il cuore, era il fuoco, era il profumo di vita che avevo rincorso da sempre. Era tutto ciò che mi rendeva completa.

La notte tra il 3 e il 4 Aprile 1512, alle rispettive età di venticinque e ventitré anni, Martino ed io ci sposammo, nella basilica di San Francesco a Ravenna. Fu un rito breve, alla luce di una candela soltanto che rischiarava uno spazio semplice, spirituale. A celebrare fu l'allora cardinale Giovanni de' Medici, destato nel cuore della notte, tanto che a tratti, tra una parola di latino e un'altra, sbadigliava. Come anelli, usammo due dei ninnoli preziosi che il cardinale portava sempre alle dita, e che ci regalò generosamente. Il mio abito fu la divisa di assassino, il mio velo il cappuccio con il becco d'aquila. La mia lama celata, come un osso aggiuntivo che facesse parte ormai della mia persona, mi stava al braccio, non come uno strumento di morte, ma come un segno del mio orgoglio di guerriera. A volte le spose si mascherano da gran dame che, nella vita, non sono. Io non ne sentivo il bisogno. Anche nella notte del mio matrimonio, non avevo intenzione di rinunciare ad essere me stessa.

In quel momento smisero di esistere guerre, ideologie e missioni. La morte che ci attendeva sul campo di battaglia distolse lo sguardo per un momento, e sorrise per noi sotto il suo cappuccio nero. Di scherno, o di tenerezza, non so dirlo; ma almeno per quella notte ci fece il favore di non ricordarci della sua presenza.

 

La prima notte di nozze (o meglio, le poche ore che ne restavano) la consumammo negli appartamenti che un cardinale incredibilmente comprensivo aveva voluto cederci. Aveva destato i suoi servi, fatto cambiare le lenzuola, fatto portare per noi frutta, dolci, ogni genere di leccornia. Non so esattamente dove abbia dormito, per quelle ore. Forse si è semplicemente ritirato con mio padre e zia Claudia per pianificare le mosse successive. Dopo tutto, non mancava molto alla nostra partenza. Il condottiero spagnolo Raimondo de Cadorna aveva intercettato gli eserciti di Gaston de Foix. La battaglia sarebbe scoppiata presto, poco lontano da Ravenna. Avevamo solo poche ore di pace, prima che tutto avesse inizio.

Il sorgere del sole era vicino, riconoscevo il cielo color pece con le sue stelle argento crudele. Brillavano forte fuori dalla finestra. Ma non volevo pensare all'alba, non ancora.

«Se poco poco mi' fratello prete se 'mpara cos'abbiamo fatto io e te 'n un convento, je pija 'n corpo» ridacchiò Martino, baciandomi la spalla mentre mi protendevo per prendere una focaccina al miele dal tavolinetto imbandito. Eravamo entrambi stesi sulla pancia, le braccia incrociate sotto il viso rivolto ai piedi del letto, le gambe aggrovigliate tra le coperte e i cuscini, mentre sceglievamo con quali di quei deliziosi cibi ristorarci dopo la grande fatica compiuta.

«Quando mio padre verrà a sapere che hai un fratello prete, il colpo prenderà a lui.»

Gli portai alle labbra una di quelle deliziose focaccine che sembravano chiamarci con il loro colore dorato – Dio, ne avrei mangiate a bizzeffe, e di solito non impazzisco per i dolci. Lui si premurò di leccare via ogni traccia di miele dalle mie dita.

«Be', che c'è? Magari 'n giorno Petruccio mio ce diventa Papa. Nun sarebbe mica male.»

«Per carità. Già questo candidato Papa mi sembra abbastanza complicato da gestire.»

Martino rigirò l'anello d'oro, con una lucida pietra nera, che ora stava al mio anulare sinistro. Il cardinale era stato perplesso quando gli avevo chiesto di poter usare proprio quello come fede, diceva che non gli sembrava abbastanza grazioso. Non sapeva quale importanza avesse per me l'onice nera. «E' stato gentile, però.»

«Sì, è gentile...ma quel genere di gentile che può trasformarsi facilmente in un fammi uno sgarbo e ti farò pentire di essere nato. Capisci cosa intendo?»

Lui riflettè qualche istante, e infine annuì. Mi baciò il palmo della mano. «C'abbiamo ancora 'n ora, forse due. Te prego, basta pallà de politica.»

«Sei tu che hai iniziato.»

«Ah, no, io pallavo de famija. Anzi, se volemo dì 'a verità vera, quanno ho cominciato...» Mi baciò il polso, e poi l'interno del braccio «...pallavo de sesso.»

Risi, catturando le sue labbra in un bacio. «Ssssssh...non dire quella parola in un convento!»

«Però posso fallo, ner convento? Vojo dì...ancora?»

Trattenni un'altra risata. «Basta, scellerato. Ti bruceranno sul rogo per eresia.»

Martino mi baciò ancora. «Perché ho fatto 'r dovere mio co' mi moje? Vojo dì, mica vivemo più ner peccato. Mo semo 'n regola, nun ce possono dì gnente.»

Che strano effetto sentirglielo dire. Mia moglie.

Fu il mio turno di prendergli la mano, per studiare l'anello d'argento con l'agata bianca che era diventato la sua fede8. Sotto quel ninnolo era nascosta la bruciatura della sua iniziazione all'Ordine.

«Me sa che c'hai raggione, marito. Nun ce possono dì gnente

Lui sgranò gli occhi. Mi guardò fisso per qualche istante.

«Hai parlato romano?»

«Ho parlato romano.»

«Nun farlo più, te prego.»

«Perché?»

Mi baciò con tanto impeto che finii su un fianco, e lentamente mi trovai a rotolare sulla schiena, mentre lui mi si stendeva addosso in una maniera dannatamente seducente.

«Perché sennò» spiegò, affannato, sulle mie labbra «te zompo addosso...» Un altro bacio. «E nun c'avemo tempo...»

«Dopo tutto, stai solo compiendo il tuo dovere di marito...»

«Biancarè...fa' la brava, su...» Un bacio ancora, e poi lui sembrò compiere il grande sforzo di trattenersi. Si soffermò a guardarmi in silenzio, accarezzandomi il viso, i capelli da cui pendeva ancora qualche fiore scomposto. C'era già un chiarore grigiastro nell'aria. Dannazione...il sole stava sorgendo. Avrei avuto voglia di piangere, ma non lo feci. Ci sarebbero state altre notti come quella. Avevamo tutto il nostro futuro davanti.

«Guarda 'n po', è l'alba» sorrise Martino, tracciando con i pollici i solchi accanto alle mie labbra. «Buon compleanno, core mio.»

Un nodo mi strinse il petto. Non avevo realizzato, ma era vero...proprio quel giorno compivo ventitré anni. Lo guardai, in quel momento, e la tenerezza che provavo quasi mi lacerava la pelle.

«Di' la verità, l'hai fatto apposta per evitare di dimenticarti l'anniversario?»

«Nun te se po' nasconde gnente, eh?»

«Sei un idiota. Ti amo.»

La sua fronte si appoggiò alla mia.

«Sei 'na serpe. Te amo pure io.»

Buffo. Ci penso solo adesso, ma in effetti fu da quel giorno in poi che Martino permise ai suoi ricci neri, lentamente, di ricrescere.

Veronica aveva ragione. L'amore, quello che provava per me e quello che aveva riacquistato per se stesso, aveva permesso anche a lui di guarire dalle ferite del passato.

Eravamo pronti a guardare avanti, ora.

Insieme.

Per la vittoria.


Note

1Sto improvvisando su questo punto. Ventura Fenarolo è un nobile bresciano realmente esistito, che secondo l'aneddotica delle cronache ha davvero fatto quella fine terribile (anzi, ha cercato di suicidarsi per non farsi prendere dai soldati francesi, e ha ripetuto il gesto, questa volta con successo, in fase di processo). Ignoro se avesse una moglie e quale fosse il suo nome reale.

2Ops, nel capitolo precedente ho commesso un grossissimo errore affermando che Oreste ha ancora 13 anni...quella è l'età che ha nel tardo 1507, quando Bianca lo incontra per la prima volta! Ora, nel 1512, deve averne almeno diciassette. Ho corretto l'erroraccio, perdonatemi!

3Leggo (http://www.treccani.it/enciclopedia/il-rinascimento-societa-ed-economia-il-lavoro-la-ricchezza-le-coesistenze-monete-e-banche-nel-secolo-del-ducato-d-oro_(Storia-di-Venezia)/) che il ducato veneziano era diventato una delle monete più diffuse in Italia in quel periodo.

4Della diatriba sulle spoglie di Dante ho appreso qualcosa quando sono andata in visita a Ravenna, quest'estate. Per un approfondimento, vi rimando a questo articolo: http://www.andreadelprincipe.it/Dante_Alighieri/spoglie_dante.html

5Parole che Dante, nel 27esimo canto dell'Inferno (quello di Guido da Montefeltro, uno dei miei preferiti) mette in bocca a Bonifacio VIII.

6La cripta è costruita sotto il livello del mare: ancora oggi il livello dell'acqua si alza o si abbassa a seconda delle maree. All'epoca il sarcofago di Dante non si trovava lì: era nel chiostro del convento, ma trovavo più significativo inserirlo nella Basilica.

7 http://it.wikipedia.org/wiki/File:Dantes_tomb_01.jpg

8Vistoso, concordo, ma è pur sempre l'anello di un cardinale...e mi piaceva la specularità delle due pietre. Tanto per non farvi pensare a qualcosa di eccessivamente femminile...sto pensando a una cosa del genere: http://i00.i.aliimg.com/wsphoto/v0/1180739654/New-Arrivals-Vintage-Cool-Men-Women-Unisex-316L-Stainless-Steel-Statement-font-b-Ring-b-font.jpg. Con montatura un pelo più rinascimentale però XD
Ora mi sorge il dubbio che la fede da uomo esistesse, nel Rinascimento. So per certo che nell'Inghilterra dell'800 solo la donna aveva l'anello...Vabbè, eventualmente concedetemi un'altra licenza poetica. Mi piace questa cosa dei loro due anelli complementari.


NdBlackFool

Eh, già. Domani sarà il quarto anniversario da quando ho iniziato a pubblicare BCP, e mi sembrava opportuno festeggiare con il tanto sospirato matrimonio tra Bianca e Martino. Curiosità: all'inizio, la presenza di Ezio al matrimonio segreto non era prevista. Poi, mi sono ricordata una cosa importante: al di là delle battaglie, dei tradimenti, dei doppi e tripli giochi, delle profezie e delle tresche varie..."Bianca come il Peccato" è nata per essere (e spero lo sia ancora) la storia dell'amore tra un padre e una figlia. Perciò, ho forzato l'arrivo di Ezio nella trama, un po' replicando quelle sue apparizioni improvvise alla finestra che mi facevano sorridere nei primi capitoli. Spero di cuore che abbiate apprezzato questa scelta. Io mi sono commossa non poco, sia per quei due babbuini che finalmente si sono promessi amore eterno, sia per i nipoti di Nicola che danno una continuità al suo sangue. E' stato un capitolo di transizione, ma emotivamente mi ha dato molto.
Nel prossimo appuntamento con Biancarè&Co, dobbiamo prepararci a incontrare ancora una volta Vanni, De Foix ed Ermes Bentivoglio; sto valutando se far rientrare in campo un ricostruito Drappo Rosso, quindi Odette e D'Arcy potrebbero unirsi alla grande battaglia. Siamo alle porte di Ravenna, sempre più vicini a quella che alcuni storici hanno definito una "Pasqua di Sangue". Agamennone e Veronica (non è un grande spoiler, credo lo immaginiate tutti) si uniranno ai nostri per affrontare a testa alta la profezia delle stelle. Di cui, finalmente, udiremo il responso. Il nostro pazzo arciere vivrà?  
A tra un mese, con il capitolo 47 (che, se tutto procede come deve, sarà il terz'ultimo di BCP O.O T_T *_* ): "11 Aprile 1512". Grazie per essere passati di qui!

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Capitolo 47
*** Agnus Dei ***


Io venni dove le campagne rosse
eran del sangue barbaro e latino

che fiera stella dianzi a furor mosse.
E vidi un morto all’altro sì vicino
che, senza premer lor, quasi il terreno
a molte miglia non dava il cammino.
E da chi alberga fra Garonna e Reno
vidi uscir crudeltà, che ne dovrai
tutto il mondo d'orror rimaner pieno
.

(Ludovico Ariosto, riguardo la Battaglia di Ravenna.)


 

Ci eravamo riuniti da poco agli eserciti di De Foix, quando, la sera dell'8 aprile, i francesi iniziarono a bombardare le mura di Ravenna. Ogni sparo era un tuono che squarciava il cielo. Nessun tamburo di battaglia scandiva le nostre ore; solo quel suono devastante, che faceva tremare le ginocchia ogni volta con identico terrore.

Il giorno successivo, una parte dei nostri attaccò la città e un’ altra si schierò, pronta per la battaglia, nel caso l’esercito nemico fosse giunto in soccorso dei ravennati. L’attacco fu massiccio, e venne respinto comunque. Noi subimmo le perdite maggiori.

Parlo di un noi che, naturalmente, non significa nulla: io non facevo parte dei combattenti che attaccarono la città. Mio padre non permise che mi unissi a quel primo scontro.

«Assaggerai la battaglia. Presto.»

Non capivo se me lo stesse promettendo, o se mi stesse mettendo in guardia. Di certo, la cupezza della sua voce mi faceva propendere per la seconda interpretazione.

«Dovremmo approfittarne ora. Mentre sono distratti con questi attacchi...conosco quelle mura, posso infiltrarmi senza difficoltà. Ucciderò il Papa e prenderò il Serpente.»

«Abbiamo già i nostri infiltrati in città» disse laconicamente Ezio, prima di voltarmi le spalle. Quel suo atteggiamento non cessava mai di farmi infuriare. Lo afferrai per il braccio, costringendolo a voltarsi.

«Giovanni De' Medici non si sporcherà le mani. E' un uomo troppo intelligente per mettere a repentaglio la sua occasione di diventare Papa, lo sapete.»

«Non è quello che intendevo.»

«Cosa intendevate, allora?»

«Che i nostri uomini proteggono il cardinale De' Medici. Loro compiranno il lavoro al momento debito.»

Serrai la mascella. «Perché non possono intervenire ora? Perché non possiamo evitare la battaglia?»

Ezio resse il mio sguardo accusatorio. «Perché sarà più semplice per loro fuggire in una mischia, piuttosto che scappare da una città presidiata.»

«Quindi lascerete che migliaia di uomini perdano la vita per dare una possibilità ai nostri infiltrati?»

Mio padre annuì, gravemente. «Tutti meritano la possibilità di scegliere, Bianca. Chi morirà sul campo di battaglia avrà soltanto incontrato le conseguenze delle proprie decisioni: me e te compresi.»

Aveva ragione, naturalmente. Lo sapevo, eppure non riuscivo a togliermi dalla mente l'idea che, forse, il possibile sacrificio di alcuni era un prezzo accettabile per la salvezza di tanti altri.

Poi, mi pizzicai forte. Avevo, per un breve momento, pensato come un templare. La vicinanza dei nostri alleati mi stava corrompendo? Non saprei dirlo; ma volevo evitare qualsiasi associazione con loro, anche la più lieve. Perciò, mi misi il cuore in pace. Avremmo dovuto attendere lo scontro aperto.

La sera, l’esercito nemico si accampò a quattro miglia da noi, con i suoi stendardi, i suoi elmi, e le sue macchine da guerra che si confondevano in lontananza come un'unica macchia scura. Segnalarono la loro presenza ai difensori di Ravenna con tre colpi di cannone, ravvicinati. Strano. Il mio cuore non sanguinò quanto aveva fatto quando avevamo attaccato Ravenna con la nostra artiglieria.

Durante l'assalto di quel giorno, il comandante dell’artiglieria francese era stato ferito gravemente dall'esplosione di un colpo di bombarda ravennate. Adesso, i cannoni erano passati sotto la stretta supervisione di Martino e di una squadra di bombardieri scelti, a cui mio marito dava ordini direttamente in francese. I Templari non erano stati felici di vedersi scalzare da un Assassino, ma a quanto pareva anche a loro toccava ingoiare bocconi amari per il bene dell'alleanza. De Foix, comunque, li tenne a bada con il suo rinomato polso di ferro. Quel maledetto serpente di sangue reale sapeva essere un capo inflessibile, e sembrava riservare a Martino una sorta di muto rispetto che mi colpì. Mentre li osservavo discutere di strategia in un francese piuttosto stretto, ricordai il loro duello tra le mura del Castello Sforzesco, due anni prima. Non avremmo mai pensato, allora, che saremmo stati costretti a combattere fianco a fianco.

Ermes e Vanni erano arrivati insieme al loro comandante, ovviamente. In quella prima giornata di assedio cercai di evitare mio fratello il più possibile; lui mi fece il favore di fare lo stesso con me. Per quanto riguarda mio padre, lo vidi ignorare a lungo la sua presenza, rivolgerglisi solo se era necessario per impartire ordini. Vanni stringeva i denti, chinava il capo e ubbidiva. La freddezza tra loro avrebbe dovuto parlarmi di odio e risentimento, ma dopo aver parlato con Margherita vedevo quel comportamento per ciò che realmente era: amore andato a male. La tristezza che nasceva dentro di me all'idea è difficile da raccontare, e perfino da ammettere.

Dovevo metterla da parte, comunque. L'amarezza e il rimpianto non ci avrebbero aiutati a vincere.

Lentamente, le nostre fila si ingrossarono. Il 10 aprile, mentre i papalini si accampavano dalle parti del Molinaccio, noi ricevevamo rinforzi da Bologna: quando ci raggiunse, mia madre baciò mio padre, mi abbracciò. Poi si fece largo tra i templari e strinse Vanni nello stesso modo, senza esititare un momento. Dopo un istante di indecisione, Vanni ricambiò l'abbraccio.

Fu un fatto strano, quasi stonato per tutti, lì in mezzo. Una divisa di assassino premuta contro una casacca da templare. Come vedere l'inverno camminare al fianco dell'estate, o il sole correre in cielo accanto alla luna.

Lo sconcerto durò solo qualche istante, comunque. Insieme al drappello bolognese, arrivò Jacopo, con una sorpresa. In sella di fronte a lui stava una figuretta incappucciata, che riconobbi solo quando alzò il viso, e gli occhi cangianti si misero nei miei.

«Ho provato a dissuaderla» disse subito l'ambasciatore, calcandosi gli occhiali sul naso prima di scendere da cavallo e aiutare Simza a fare altrettanto. «Mi ha scritto una lettera di venti pagine su tutti i motivi per cui avremmo avuto bisogno della sua esperienza come cerusico...e lo sapete tutti quanto leggere mi annoi. Ho preferito dargliela vinta e portarla con me.»

Simza gli scoccò un'occhiata esasperata, e roteò gli occhi al cielo. Jacopo sorrise; poi le strinse lievemente il braccio, indicandole la figura del Mentore poco lontano.

Ezio osservava la giovane zingara con un'espressione imperscrutabile. Lei sussultò sotto quello sguardo rapace; io mi misi tra di loro.

«Padre, vi prego...»

Non feci in tempo a terminare, che la mano sottile della zingara si posò sul mio braccio. Mi scostò, e si fece avanti. Quando arrivò di fronte ad Ezio, si inginocchiò, chinando il capo per attendere la condanna.

Solo in quel momento, la gravità del gesto di Simza mi colpì con tutta la sua forza. Era venuta qui per consegnarsi. Agli occhi di noi assassini e, ancor peggio, dei templari di Lucrezia, lei era una traditrice. Come aveva potuto Jacopo permetterle di farlo? Lo interrogai con uno sguardo duro, a cui lui rispose ammiccando lievemente. Era tranquillo. Che non gli importasse?

«Bruciamola» ringhiò Ermes, portandosi accanto a mio padre. «E' una strega figlia di strega, ci ha pugnalati tutti quanti alle spalle.»

«E' una ragazzina innocente» disse Ezio, ma la sua voce era pensierosa. «Trascinata in giochi di potere più grandi di lei da qualcuno di cui si fidava.»

Il Bentivoglio non demorse: lo sguardo nei suoi occhi rossi era furente. «E se fosse una spia? Lei è il cane fedele di Tancredi, chi ti dice che non sia qui per spiattellare i nostri piani al nemico?»

«Garantisco io per lei!» esclamai. «Simza è l'unica ragione per cui non sono morta nelle prigioni di Castel Sant'Angelo...padre, lo sapete che le devo la vita, non potete permettere che le facciano del male.»

«Ascoltala, Maestro» intervenne Vanni, posando una mano sulla spalla di Ermes. «Simza mi ha portato i tuoi messaggi durante la prigionia. E' lei che vi ha fatti entrare. Se non fosse stato per lei, Bianca ed io saremmo morti e il Papa avrebbe già vinto.»

Guardai mio fratello, sorpresa e insieme grata di quel sostegno inaspettato. Chinai appena il capo nella sua direzione, in segno di cauta riconoscenza. Lui non replicò, se non distogliendo gli occhi dai miei.

Il clamore aveva attirato Gaston, che si fece largo tra i soldati di entrambe le fazioni, muovendosi sinuoso e letale nel suo mantello di velluto blu ricamato con il Giglio di Francia. Chiese, nella sua lingua madre, cosa stesse accadendo. Poi incontrò la figuretta china a terra, e sembrò riconoscerla. Mise mano alla spada.

Ero pronta a snudare la mia lama e rompere l'alleanza in quel preciso istante, ve lo giuro. Se non lo feci, fu perché la mano di Jacopo fu più rapida a toccare il piatto della spada di Gaston.

«Vostra Grazia» disse l'ambasciatore, con un sorriso placido dipinto sulle labbra. «Comprendo il vostro scorno per ciò che questa ragazza rappresenta...tuttavia, vi chiedo di aspettare. Non lasciate che un atto di giustizia sommaria ci privi della nostra più concreta possibilità di vittoria.»

Mentre lui parlava, mi chinai accanto a Simza, e le presi le spalle per darle conforto. Tremava. Come avrebbe potuto non farlo, di fronte a tutti quegli uomini potenti che si contendevano il diritto di decidere della sua vita e della sua morte? Tuttavia, non alzò la testa. Rimase rassegnata, in attesa del verdetto.

Gli occhi obliqui di Gaston fissarono Jacopo, come a sfidarlo a persuaderlo. «Ti ascolto, assassino», disse, ma non abbassò la lama.

L'ambasciatore, dal canto suo, non ritrasse la mano. Una scintilla di determinazione illuminò le iridi azzurre.

«Questa giovane è la figlia della zingara Zenobia, colei che il Papa ha catturato per costringerla ad usare il Serpente. Secondo ciò che Bianca e Giovanni ci hanno detto del Terzo Frutto, per attivarlo è necessario desiderare qualcosa in modo intenso e sincero. E come può Zenobia desiderare di distruggerci, se tra le nostre fila c'è sua figlia?»

«E avete considerato» sibilò il generale templare «che potrebbe non essere la zingara a manovrare il Frutto?»

«Sì. E ho ne ho tratto la conclusione che questo scenario non si presenterà.»

«Cosa vi fa essere così sicuro?»

«Vostra Grazia, vedrete bene da voi che Giuliano della Rovere non metterebbe a repentaglio la propria vita, quando può sacrificare quella di una pedina. Se avesse voluto sperimentare da solo sul Serpente, a che pro rapire i figli di Ezio Auditore?»

«Potrebbe averle spremuto il segreto, e averla uccisa. Potrebbe usare altre pedine, il suo esercito di marionette ne è pieno.»

«Potrebbe, sì. Se ne siete sicuro, avanti» con un gesto drammatico, Jacopo indicò la testa di Simza, la cascata di capelli scuri a coprirle il volto. Io la strinsi più forte. «Uccidete questa ragazza, qui, ora. Ma se vi foste sbagliato, Vostra Grazia, avreste distrutto con un colpo di spada la nostra unica possibilità di sopravvivenza. È davvero un rischio che siete disposto a correre?»

Fu una battaglia di volontà, silenziosa e feroce, quella che si consumò tra Jacopo D'Atri e Gaston De Foix negli istanti che seguirono. Simza non emise un fiato, ed io non abbassai la guardia fino a che non vidi la spada del generale francese rientrare lentamente nel fodero.

«Siete responsabile della ragazza, monsieur Jacopo. Se fugge, se passa i nostri piani al nemico, se ci tradisce ancora una volta... sarà la vostra testa a farci da vessillo in battaglia.»

L'ambasciatore si sistemò gli occhiali sul naso, e sorrise. «Sarebbe un gran bel vessillo. È quasi un peccato che io non corra questo rischio.»

Nonostante il consenso di Gaston e la risata leggera che la battuta di Jacopo aveva strappato ai presenti, Ermes Bentivoglio ancora non trovava requie. Lo leggevo sul suo volto pallido: aveva ancora la sua dose di veleno da sputare, e lo fece inginocchiandosi accanto a Simza e alzandole il mento con due dita. Il gesto fu delicato, in netto contrasto con la violenza delle sue parole.

«Se c'è una cosa che tu e il mio fratello bastardo mi avete insegnato, cagna, è a non fidarmi del seme di una strega.»

«C'è chi ha riservato lo stesso appellativo a tua madre, Ermes» disse mio padre, incombendo alle sue spalle. «Tu più di ogni altro dovresti sapere che è l'accusa più facile da muovere a una donna di potere...lascia stare la ragazza. Abbiamo altro a cui pensare, ora.»

E aveva ragione. C'erano piani da articolare, accampamenti da muovere e ordini da distribuire. Ermes lasciò il volto della giovane zingara, e quando si rialzò in piedi sputò a terra. Il gesto mi incendiò il sangue, ma a quanto pare lasciò Simza completamente indifferente. Fissò quella macchia liquida sul terreno come se fosse una goccia di pioggia, qualcosa che non aveva alcun legame con ciò che lei era.

Quando i generali si furono allontanati per discutere e curiosi di furono dispersi, Jacopo mi aiutò a risollevare Simza. Era ancora pallida, ma pareva determinata.

«Te l'avevo detto che non c'era di che preoccuparsi» le disse l'ambasciatore, riavviandole i capelli dietro le orecchie. «I miei piani non falliscono mai.»

La zingara abbassò lo sguardo, per poi rivolgerlo verso di me. Mi strinse la mano.

«Saresti potuta scappare via da questa guerra. Avresti dovuto farlo» le sussurrai. Lei aprì il mio palmo verso l'alto, e con la punta del polpastrello scrisse rapida:

Ve. Lo. Devo.

Sorrisi, ma tristemente. Le lasciai un bacio sulla guancia.

«Guai a te se non avrai cura di lei in battaglia, Jacopo d'Atri» dissi. Il mio amico accennò ad un ghigno.

«Ed è qui che la mia superiore intelligenza risplende su quelle mediocri. Io combatterò accanto al nostro migliore cerusico: ho più speranze di voialtri di non lasciarci le penne.»

Risi, quando lui soffocò un'imprecazione. Simza gli aveva pizzicato il braccio, e rispondeva al sogghigno, come a dirgli di abbassare le penne: un bel buco nella pancia forse avrebbe fatto fluire via un po' del suo smisurato ego, prima che esplodesse.

Jacopo la prese sotto braccio, fingendo un piglio militaresco che gli si confaceva molto poco. «Come tuo carceriere, riterrò ogni ulteriore provocazione nei miei riguardi un'autorizzazione a deporre i miei modi da gentiluomo.»

Il pallore sul volto della giovane zingara si era un po' disperso; quando si allontanarono insieme, fui quasi certa che stesse sorridendo con calore.

Martino mi si accostò, le mani sui fianchi e un sopracciglio alzato mentre osservava quella strana coppia che si disperdeva nella fiumana dei soldati.

«Poveraccia! Come fa a soppottallo? Quer bellimbusto nun fa artro che pallà, e pallà, e pallà ancora!»

Io sorrisi. Non ci voleva un genio per capire che si era stabilita un'intesa tra Jacopo e Simza, né per vedere dove questo li avrebbe con tutta probabilità condotti.

«Sono ben assortiti. Lei dice tutto con uno sguardo e lui non dice nulla con diecimila suoni.»

«Si nun artro so che nun ce prova più co' te.»

«Peccato. Dovrò trovare un altro uomo con cui farti ingelosire.»

Martino mi circondò le spalle con un braccio.

«C'hai già l'occasione tua. Stamo estraenno a sorte pe' li turni de guardia.»

La sorte ha sempre avuto una predilezione per me. Le piace prendermi a calci, fingere di sorridermi per schiaffeggiarmi d'improvviso, ridere ogni volta che cado. Quel giorno il suo scherzo si concretizzò nel momento in cui Vanni ed io tirammo i dadi che ci condannarono a restare di guardia all'artiglieria per due ore.

Ci scambiammo un lungo sguardo. Ci fu offerto di fare a cambio con altri compagni. Rifiutammo, quasi in coro. Era una questione d'orgoglio, una vera sfida. Nessuno doveva pensare che non fossimo in grado di dividere la stessa aria per due giri di clessidra. Soprattutto, non doveva pensarlo l'altro.


 

Credevo che la tortura non sarebbe finita mai. Ci era toccato il turno nel cuore della notte, e già essere strappati dal sonno leggero che ti avvolge quando cerchi di accoccolarti sulla dura terra è sufficiente a metterti di pessimo umore. La consapevolezza di dover dividere il tempo della pattuglia con Giovanni Antonio Auditore doveva avermi messo in viso una maschera ancora più truce, perché i compagni che mi svegliarono si allontanarono in fretta dopo le mie risposte secche e brusche. Lasciai a terra il mantello, mi avrebbe soltanto ricordato il torpore del sogno: il freddo della notte mi avrebbe svegliata a sufficienza per sorvegliare il tesoro portato in dote dagli Este, composto di otto cannoni grossi, quattro cannoni sacri, sei colubrine e dodici falconetti1. Erano stati portati in dote dai Ferraresi di Alfonso d'Este, marito della Borgia, e rappresentavano lo strumento principe per stanare il Papa guerriero.

A malapena rivolsi un cenno a Vanni, e lui a me. L'ombra di una barba incolta gli orlava il viso; con gesti lenti, meccanici, lui si diresse verso una colubrina e iniziò a caricarla. Io sedetti sulle palle con cui avrebbero caricato i cannoni, e fissai lo sguardo oltre la corona di luce descritta dai tenui fuochi da campo, quasi sperando che un nemico invisibile giungesse a spezzare quell'estenuante silenzio. Cercai contro il cielo nero le stelle e i pianeti che Agamennone mi aveva insegnato. Non c'era la luna, quella notte, a rischiarare la riva del Ronco. Potevo vedere Marte, rosso di boria, che risplendeva dentro la costellazione del Sagittario, come un dardo incoccato pronto per uccidere.

Secondo il mio amico bolognese, quelle stelle sarebbero state testimoni della sua morte. Che sciocchezza, lui era al sicuro a Milano con la sua famiglia. Il che non mi garantiva che si trovasse completamente al sicuro dal destino; di certo, però, mi consolava pensare che fosse il più lontano possibile dallo spargimento di sangue che ci attendeva.

«Bell'anello» disse Vanni d'improvviso. Non aveva smesso di curare l'arma. Gettai un'occhiata alla mia fede d'oro, con l'onice nera. «Sei stata iniziata?»

«No.» Trattenni l'istinto di dirgli che non erano affari suoi, e ripresi a guardare il confine confuso tra cielo e colline. «Martino ed io ci siamo sposati.»

«Oh.» Lui ammiccò, con genuina sorpresa. «Congratulazioni.»

«La mamma non deve saperlo. Nemmeno gli altri. E' stata una decisione improvvisa.»

«Capisco. Non gliene farò parola.»

Continuammo a sedere uno accanto all'altra, in completo silenzio. Lo schiocco del pallettone che correva dentro la colubrina fu l'unico suono tra di noi, prima che io chiedessi:

«Come sta tua moglie?»

Il matrimonio tra Vanni e Margherita era stato celebrato il settembre scorso. Ancora non riuscivo a capire fino a che punto si trattasse di un'alleanza politica, e fino a che punto invece mio fratello ricambiasse i sentimenti incondizionati di quella ragazzina.

«Bene», si strinse nelle spalle. «Stiamo cercando di avere un figlio.»

Dovetti deglutire.

«Oh.» Mi umettai le labbra. «Questa faccenda della paternità ti ha proprio preso la mano.»

Lui si limitò ad un sogghigno amaro. «Il Gran Maestro desidera che assicuriamo una discendenza alla casa Auditore-Borgia il prima possibile.»

Auditore-Borgia. Era aberrante anche solo pensare a quei due cognomi accostati. Chissà quale orrenda creatura mitologica ne sarebbe nata: un minotauro che avrei volentieri rinchiuso nel mio personale labirinto, per nascondere al mondo la vergogna di quella contaminazione che non sarebbe dovuta accadere.

«Avanti, dillo» mormorò Vanni, dopo qualche istante di silenzio. «So che vuoi chiedermelo.»

«Cosa?»

«Chi amo delle due.»

«Non sono faccende di cui devi giustificarti con me.»

«Vuoi una risposta sincera? Non lo so, Bianca. Le amo entrambe. In modo diverso.» Si strinse nelle spalle. «Forse, se avessi incontrato Ilaria prima di unirmi ai templari...molte cose sarebbero state diverse. Ma non voglio che lei entri nella nostra guerra. Deve restare al sicuro da tutto questo...anche da me. Soprattutto, da me.»

Osservai quel suo monologo, in silenzio. Fui sorpresa io stessa quando la domanda uscì dalle mie labbra. «E Margherita?»

Vanni mi guardò, gli occhi grigio-verdi calmi come non li avevo mai visti.

«Margherita conosce ogni parte di ciò che sono, e mi accetta lo stesso. Lei è nata in questa guerra come noi due, sa cosa significhi. Non devo raccontarle il peso del sangue. Non devo spiegarle i miei silenzi.»

Sì, capivo entrambe le sue giustificazioni. Anche se non le avevo richieste. Anche se non volevo ascoltarle...le sentii comunque.

Dicono che non si possano amare due persone contemporaneamente. Ebbene, chi parla così non ha mai incontrato un uomo con due anime, un uomo diviso tra un credo fortissimo che lo spinge verso il cielo e delle radici ben piantate nel terreno che non riesce a tagliare. Un uomo contraddittorio e a volte incoerente, come Giovanni Antonio Auditore.


 

L'accampamento si risvegliò poco prima dell'alba, e il prete che accompagnava l'esercito francese disse messa. Il sole era appena sorto sul giorno di Pasqua, l'avevo dimenticato. Per noi c'era in serbo la rinascita, o una Passione senza fine. La morte? Magari fosse stato l'esito peggiore che poteva profilarsi all'orizzonte. La schiavitù per noi e per il genere umano era ciò a cui Giulio II ci avrebbe condannati, liberando la forza di Plutone su di noi. Il nostro compito era annientarlo prima che potesse mettere in atto il suo folle piano.

Osservai i templari allinearsi ordinatamente per ricevere la Comunione. Accanto a me c'era Ludovico Ariosto, giunto con i ferraresi di Lucrezia. Gli rivolsi un'occhiata scettica.

«Voi siete un chierico. Spiegatemi perché ritenete necessario divorare carne e sangue del vostro Dio.2»

Ariosto si limitò a scuotere appena il capo. «Berengario di Tours e San Tommaso d'Aquino hanno sprecato molte parole su questo argomento. La mia teoria è più incisiva: io credo che vogliamo rinnovare il senso di colpa.»

«Che intendete?»

«Si tratta della commemorazione di un sacrificio, Bianca. Cristo si è sacrificato per gli esseri umani: mangiando il suo corpo e bevendo il suo sangue, i cristiani impediscono a se stessi di dimenticare che gli uomini furono i primi carnefici di Dio.»

Avvertii un senso improvviso di freddo, tanto che mi strinsi le braccia al petto. Le parole strascicate del nostro prete ubriacone a Monteriggioni mi erano sempre suonate vuote litanie, ma sì: ricordavo vagamente che parlava di un Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Dio – una sua incarnazione, per lo meno – si fa bestia da macello per salvare l'Uomo. Si sacrifica per qualcuno che non ha meritato il suo amore. Si sacrifica...

Quelle parole rimasero con me mentre attraversavamo il Ronco, senza il suono delle trombe ad accompagnarci, e ci schieravamo in forma di mezzaluna. Era stata una disposizione di De Foix: a quel modo i fanti non avrebbero avuto il vento in faccia e il sole negli occhi. Avevamo lasciato la retroguardia al di là del fiume, sotto la responsabilità di zia Claudia e Jacopo, perché potesse intervenire in caso di necessità o contrastare un’eventuale sortita nemica da Ravenna. Il duca di Ferrara Alfonso d'Este e mio padre comandavano un'avanguardia composta di novecento lance. Seguivano le seicento lance del corpo di battaglia, tra cui avevano preso posto mia madre, Ermes e messer Ariosto; a sinistra si schieravano le fanterie di lanzichenecchi, guasconi e francesi, insieme ai fanti italiani al comando di Federico Gonzaga; tremila arcieri completavano le nostre fila. Per il mio terrore, l'artiglieria – e con essa il mio Martino – era stata posta davanti all'avanguardia. Vanni ed io eravamo con Gaston de Foix e il suo reparto scelto di cinquanta lance. Non avevamo un posto particolare in uno dei battaglioni: ci saremmo mossi per intervenire dove ce ne fosse stato bisogno.

I cavalli pestavano il terreno, fiutando nell'aria l'acciaio, la paura, e il fiato ansioso di uomini in attesa di gettare i dadi del fato e conoscere l'esito della propria partita. Era la mia prima battaglia campale. Indossavo corazza, spallacci, schinieri. Nessun cappuccio a coprirmi il volto. Avrei ucciso alla luce di un sole fulgido e caldo, pronto a giudicarmi con più asprezza della luna. Ci sarebbero state molte vittime, di lì a poco, e molti carnefici. In qualunque dei due schieramenti fossi finita, sarei stata in buona compagnia.

Le truppe della Lega Santa avanzarono fino al limite del loro campo trincerato, sotto lo stendardo delle chiavi papali. Carrette armate di archibugi stavano nel mezzo dello schieramento, protette da un ampio squadrone di cavalleria in avanguardia che si poneva di fronte a noi come un muro. Altri cavalleggeri proteggevano i lati di un nutrito corpo di fanteria. Giulio II, il Papa guerriero, torreggiava come un vecchio, astuto rapace al centro del campo trincerato. Teneva accanto a sé una Zenobia in catene; il volto della zingara era cinereo, ma si reggeva comunque in piedi, accanto al cavallo di Sua Santa Perfidia. Al suo fianco vidi Tancredi Bentivoglio, protetto da due carcerieri bardati con elmi lucenti, immobili a capo chino, come se scrutassero meglio il nostro esercito sotto l'orlo d'acciaio, per valutarne le debolezze. Per arrivare a Zenobia saremmo dovuti passare sui loro corpi.

In un incontro diplomatico ci si scambia cortesie: noi ci salutammo a colpi di cannone. Per due ore cercammo di stanarli dalle loro buche come la volpe fa con il coniglio. Il mio cavallo stolzava le orecchie, ma non per i rumori assordanti: era la mia tensione a portare allo stremo i suoi nervi.

«Dobbiamo fare qualcosa» sibilai, senza staccare gli occhi dall'armatura coperta di scaglie dorate che il Papa Guerriero indossava con orgoglio. «Se la situazione non si smuove, sarà la dannata partita a scacchi più lunga della storia.»

«I nostri non possono avanzare» replicò Gaston, secco «i loro non si decidono ad arrendersi.»

«Attacchiamoli direttamente.»

«Sarebbe il modo più sicuro di perdere la mia avanguardia in cinque minuti netti.» Il capo del francese compì una torsione insieme melliflua e inquietante, per potermi guardare. «Per essere la figlia di uno stratega, non mi sembri molto esperta nel campo.»

Touché, lo ammetto. Ma negai con il mio sorriso migliore.

«Per essere la Folgore d'Italia e il successore ideale di Alessandro Magno, non sembri molto vicino alla vittoria.»

Lui rilasciò un secco ah!, arrogante e insieme scocciato.

«Donna impaziente» sussurrò. Poi, riportò lo sguardo sulla linea nemica, solo vagamente sfoltita dai colpi di cannone.

 

*

 

Nel frattempo, in avanguardia.

Martino lo sa, lo vede. Non stanno infliggendo nemmeno la metà del danno che potrebbero portare. Non staneranno mai gli spagnoli dal dannatissimo campo fortificato.

«Vojono che finiamo 'e munizioni» ringhia tra i denti. Accanto a lui, il soldato barbuto grugnisce. Gli hanno detto che è un Duca, e che è il marito della Borgia. A lui sembra più un orso, e che sia marito di qualcuno è già abbastanza incredibile. Ma ci sa fare con i cannoni. Ha forgiato questi pezzi con le sue mani.

«Se continua così, le finiremo presto. Sono fuori gittata, è tutto inutile.»

Martino si passa una mano sulla fronte, porta via sudore e cenere e lascia una striscia di chiaro sul volto, come una pittura antica di battaglia. Sì, appena resteranno senza munizioni i papalini potranno attaccare.

«La spiaggia» dice il Duca. Gli occhi di Martino seguono il percorso che lui gli indica. Lo guarda, perplesso. Quello spiega: «Se portiamo i cannoni alla spiaggia, avremo a linea di tiro sgombra e potremo abbattere la loro fanteria.»

«Nun è sgombra pe' niente. Ce stanno li guasconi de mezzo. Alleati nostra.»

«Ragazzo...quelli sono alleati della borsa di Gaston. Venderebbero la madre per avere un buon riscatto...sono invasori, e al nostro posto non si farebbero scrupoli.»

«So' tanto 'nvasori che rischiano 'a pelle 'nzieme a noartri, e nun li ho visti vennere proprio nessuno.»

«Andiamo, non puoi essere così ingenuo.» Alfonso nemmeno sussulta, mentre un falconetto poco lontano spara la sua carica. «Non l'hai ancora capito che qua in mezzo sono tutti nostri nemici?3»

Martino guarda il Duca, e il Duca guarda i cannoni. Figlio di una puttana templare...che tu sia dannato, fino alla fine dei tempi. E che sia dannato anche io, perché lo so, che hai ragione, e non possiamo fare altro se vogliamo vincere.

In francese, Martino grida ai ragazzi di spostare l'artiglieria verso la spiaggia. Ha una famiglia da proteggere, giù a Capodimonte, e una che combatte in questo stesso campo. Se oggi vengono sconfitti, potrebbe perderle entrambe. Gli uomini imprecano mentre spostano l'artiglieria, il legno singhiozza sotto il peso di quello sforzo. Nel cuore di Martino c'è spazio per una sola preghiera: che quei poveri ragazzi guasconi non si rendano conto che la bocca dei cannoni è rivolta su di loro.

 

*

 

Non lo sta facendo davvero.

Lo pensai quasi con calma, perché era talmente lontano da ogni mia possibile concezione che pensavo avrei visto più facilmente un unicorno. Invece sì, i cannoni si erano mossi verso la spiaggia. E sì, stavano trucidando i picchieri spagnoli, portandosi via pezzi di fanti francesi nel processo.

«Una mossa magnifica» commentò Vanni.

«Una barbarie» singhiozzai quasi. «Martino non può averlo permesso. Non ci credo.»

Con volto severo, Gaston replicò: «E' dovere di un buon capitano cercare di vincere, in qualunque modo. Se non è sciocco, anche il vostro Martìn lo sa.»

Io mi rifiutai di ascoltarlo. Mio marito non poteva aver acconsentito a una manovra del genere. Il mio Martino, che era rimasto puro nonostante tutto...

Mi morsi un labbro così forte che il sangue iniziò a scorrermi sulla lingua, mentre osservavo i bombardieri spazzare via linee intere di cavalieri spagno'li con precisi, crudeli tiri diretti. Che gli alleati francesi si trovassero sulla traiettoria, poi, sembrava irrilevante: i pallettoni di ferro4 non conoscevano bandiera.

Non fu il sangue, a sconvolgermi. Ne conoscevo l'odore, lo accoglievo come un famigliare veleno nei polmoni. Non furono nemmeno i cadaveri che si ammassavano ai piedi dei soldati, confondendo umori di ogni sorta con la terra bruna: era uno scenario che avevo già visto in molte forme. C'era però una vista a cui tutti gli anni di addestramento e missioni non mi avevano preparato: i soldati che continuavano a restare in piedi, immobili, con le caviglie abbrancate in un tappeto di arti senza vita, per non spezzare la formazione. La ragione portata allo stremo, l'obbedienza disperata anche di fronte all'evidenza della fine imminente. Non c'è nulla di più innaturale di chiedere a un uomo di non difendersi dal pericolo. Temevo il momento in cui il terrore che tendeva quei corpi avvolti nel metallo si sarebbe trasformato in ferocia, e sarebbe traboccato in una carica. Non potevano resistere ancora a lungo. Si sarebbero lanciati su di noi.

Invece, non caricarono. Rimasero immobili, i cavalier spagnoli, agli ordini di un ferreo generale dallo sguardo cupo che attendeva soltanto un cenno del Papa per iniziare l'attacco. Quel cenno non arrivò. Altri cavalli gettarono un nitrito di morte, trascinando con sé i propri cavalieri per l'ultima corsa verso l'Inferno. I comandanti italiani si agitavano, chiedevano disperatamente il permesso di avanzare verso di noi, ma il generale guardava il Papa, non riceveva alcun cenno, e negava quell'ordine che avrebbe interrotto l'unilaterale carneficina.

Poi, come temevo, l'indignazione degli uomini costretti a fare da bersaglio ebbe il sopravvento. Con un urlo di sdegno e disperazione, i primi scavalcarono il campo trincerato, e si gettarono contro i nostri gendarmi già coperti del sangue dei loro compagni, inferociti come bestie ferite, terribili.

Strinsi forte le dita intorno all'elsa della spada.

«Ora?»

Gaston non rispose. Assistemmo all'impatto delle lance spagnole contro gli scudi dei nostri fanti; le armi dei nemici si spezzarono, per l'impeto. I nostri falciarono la nuova ondata, infilzandola con le loro picche. Un altro reggimento di Papalini stava correndo in soccorso degli attaccanti.

De Foix alzò il braccio. «Ora!» gridò.

I miei talloni si piantarono nei fianchi del cavallo, la spada vibrò di aspettativa mentre veniva snudata. Ora, sì. Dritta verso il mio bersaglio. Il Papa.

Gettarmi nella mischia cambiò completamente la mia percezione dello spazio intorno. Quella che dai nostri ordinati ranghi mi era parsa una metodica partita a scacchi si trasformò in un caos di grida, umane e metalliche, che presto faticai a distinguere le une dalle altre. Devo al mio addestramento se sono sopravvissuta. La mia pelle riconobbe il sibilo di una picca prima che potessero farlo le orecchie: feci voltare il cavallo bruscamente, caricando tutta la forza possibile nel colpo di taglio della mia schiavona. Una bestemmia spagnola seguì il volo del braccio, che cadde a terra con l'arma ancora stretta in pugno. Uccisi il poveretto con un affondo nella gola. Fu uno dei pochi atti di pietà che mi concessi.

 

*

 

Simza ha promesso che resterà accanto a Jacopo D'Atri, in retroguardia. Hanno deciso che avrà un suo cavallo, per non impacciare lui nel combattimento. All'inizio, lui ha protestato. Protesta sempre, Jacopo, solo per dare aria a quella bocca grande che si ritrova. Poi ha capito che non l'avrebbe avuta vinta, e ora si limita a guardarla, stringendo un po' gli occhi che senza la cornice di quelle sue lenti buffe sono più belli, ma tanto, tanto più miopi. Simza ha intenzione di rispettare l'impegno che l'ambasciatore ha preso per lei, davvero. Si è dato tanta pena per salvarla da Castel Sant'Angelo, e per tenerla al sicuro. Ha dato la sua parola d'onore, e la giovane zingara la rispetterà. Rispetta sempre la parola degli amici.

Le parole, per Simza, sono sacre. E' per questo che non può pronunciarne nemmeno una. E' stata già toccata dal sacro, ne ha ospitato dentro di sé tanto da bastare per una vita intera. Il giorno in cui Plutone le è venuto in sogno e le ha tolto via i suoni, ha capito che sarebbe stata esclusa dal rito per sempre.

Anche questa battaglia è un rito: ma macabro, di sangue. Dèi bastardi vogliono questa guerra, e richiedono in tributo carne umana, sofferenza, grida. Si chiamano Oro, Cupidigia, Credulità. Si chiamano Potere e Cecità. Non vivono nel Cielo né nell'Olimpo, ma nel cuore di chi comanda e nella mente di chi brama di farlo.

Freme. Ha freddo, l'improvviso. E non è dovuto al massacro che si sta consumando: quello è lontano, e anche se avverte gli odori nauseanti di quei corpi furiosi e ode ruggiti e grida le sembra che tutto stia accadendo sotto una cupola di vetro. Simza non sente. Simza percepisce soltanto, sulla pelle, la sua presenza.

Gli Dèi sono qui. E non quelli falsi che hanno trascinato gli uomini in questo conflitto, no...Dèi reali, Dèi maestosi che vengono da un altro tempo, da un altro mondo, e hanno il potere necessario realizzare tutto ciò che vogliono. Plutone. Minerva. Cerere. Sono schierati con questi eserciti, e combatteranno uno contro l'altro fino a distruggersi, e distruggerli, tutti.

E' per questo che hanno lasciato che gli uomini rubassero i Frutti? Perché cadessero da soli nella propria fine?

Simza non lo sa, ma è già stata toccata dal sacro. Se c'è qualcuno che i Veri Dèi non possono distruggere, quel qualcuno è lei.

Per questo sprona il cavallo, fino a raggiungere il cuore della battaglia. Jacopo impreca, le grida dietro mentre la segue. Ma Simza non può fermarsi. Sa che c'è sua madre, laggiù, perché ha avvertito la presenza del Serpente. Se vuole che i suoi alleati siano salvi, deve fare sì che sua madre la veda.


 

*

 

Ricordo quegli attimi come lampi, immagini veloci che seguivano gli spostamenti frenetici del mio campo visivo. Quando il mio cavallo fu ferito, dovetti saltare giù di sella rapidamente per non essere schiacciata dal suo peso morente. Mi aprii la strada verso il campo fortificato dei nemici a colpi di schiavona, fendendo, tranciando. Sentivo grida, avvertivo il peso di quei corpi che stavo svuotando dell'anima, venivo ricoperta dal loro sangue. Eppure, coloro che ferivo non avevano volto. Fu come uccidere ripetutamente lo stesso uomo. Nessuno di loro aveva un nome, né una storia. Erano il nemico, ed io sapevo soltanto che, per quanto furiosamente lottassi, il nemico non moriva mai...e continuava a frapporsi come un muro di scudi umani tra me e Giuliano Della Rovere.

La pioggia di frecce guascone che calò sui fanti spagnoli mi lasciò paralizzata qualche istante, come un animale che vede il fulmine lacerare l'aria per la prima volta. Seguii la loro traiettoria con lo sguardo, incassando il mento nelle spalle: forse temevo che mi sarebbero ricadute tutte sulla testa, trafiggendomi come mille aghi. Così non fu. Il bersaglio fu centrato, i picchieri spagnoli sfoltiti dietro il muro di speroni di legno acuminati che difendeva i nostri nemici. Il cavallo del Papa si impennò, ed io lo sentii nel sangue: stava per agire. Sì...vedevo le mani di Zenobia strette intorno al bracciale dorato, e il sorriso del Papa, così lontano, eppure talmente affilato che avrebbe potuto raggiungere la mia corazza e distruggerla. Stava per farlo. Ci avrebbe annientati tutti.


 

*

La vecchia zingara guarda la ragazza che duella per la propria vita tra le file nemiche, e a stento la riconosce. Il volto insanguinato, vestito di un grido terribile che le tira la bocca e gli occhi. Non più umana. Solo una macchina di morte.

Ricorda, il giorno in cui le ha detto di credere solo nel sangue. Stella strappata al cielo, bambina che non è mai stata bambina. Che cosa ti hanno fatto? Che cosa ti abbiamo fatto, tutti noi?

Zenobia stringe forte il Serpente tra le mani, le catene che le piagano i polsi tintinnano una contro l'altra. Forse, Plutone, dovresti prenderci tutti oggi. Falcia le nostre vite, siamo il tuo tributo. In cambio ti chiedo un mondo migliore. Per Simza. Solo per lei.

L'ho vegliata da lontano, per tutta la vita. Cosa cambia se ora muoio? Continuerò a vegliarla, e sarò con Mario, e sarò con Gentile. Mi senti? Portami via, Plutone. Portaci via tutti quanti...

Ma proprio quando la lacrima le solca il viso in una scia di fuoco, e il desiderio è così intenso che può sentire il Serpente scaldarsi sotto il suo tocco, Zenobia la vede. Nella polvere, nell'intreccio di corpi e spade, vede la sua bambina senza voce, che le fa cenno da lontano. Stanno per colpirla, Dèi, no! Ma un uomo accorre e uccide il suo aggressore. Simza viene tirata giù da cavallo, e allora l'uomo scende di sella, trapassa con la spada i soldati che cercano di atterrare la ragazza, le stringe le braccia intorno alla vita e fa per trascinarla via di peso.

Simza esita. Guarda ancora la madre, con quegli occhi incredibili che hanno dentro tutte le sue emozioni inespresse. Poi, si lascia trascinare via dall'uomo, che apre loro a colpi di spada la strada verso le retrovie.

Zenobia si morde forte il labbro. Non aveva calcolato...non avrebbe mai immaginato che la sua bambina fosse qui.

Alza gli occhi sulle due guardie accanto a lei. L'uomo è alto, magro; ha visto i suoi occhi color nocciola sotto l'elmo, sembrano buoni. L'altro è più basso, e anche se ha compresso il petto sotto la corazza Zenobia lo sa che è una donna...una madre. Odora ancora del latte che quel seno martoriato dalle fasce deve essersi lasciato sfuggire. Benché siano sempre stati accanto a Tancredi, la vecchia zingara non ha dubbi. Sono assassini.

«Uccidetemi» mormora piano, perché solo la donna possa sentire.

Lei la guarda, e con la voce il più possibile bassa risponde: «Siamo qui per salvarti.»

Allora, un'altra lacrima scende sulle guance che la vita di strada ha reso butterate. Seguita da un'altra ancora. No, Zenobia lo sa che non c'è scampo se lei vive. E allora prega il dio dentro il Serpente di prenderla, ora, perché nessuno di loro avrà il coraggio di farlo. Sarà il suo agnello sacrificale, ma in cambio Simza deve vivere. Lei è l'unica creatura per cui valga la pena salvare il mondo intero.

 

*

Mi feci largo tra i soldati impegnati nelle loro danze mortali, ignorando gli ordini di Gaston e la posizione di quello che avrebbe dovuto essere il mio reggimento. Non ero mai stata brava nel gioco di squadra, e non avrei cominciato adesso. Una nuova pioggia di frecce cadde, questa volta, più vicina alla mia posizione. Avanzai, ingaggiando brevi duelli furiosi con chiunque mi si frapponesse. Loro erano forti, ma io ero veloce. Loro erano addestrati, ma io avevo avuto la Morte come compagna di giochi. Lasciai sangue sulle loro lame, ma nessuna di esse mi rubò la vita. L'animale che dorme dentro di me mi guidò verso la sopravvivenza, ancora una volta.

Quando riuscii ad aprirmi un varco in quella calca ormai disordinata di corpi, feci scivolare tra le dita la piccola balestra da caccia che portavo alla cintura. Gli occhi di Zenobia erano solo due punti bui nella distanza, eppure sapevo che mi stavano implorando: uccidimi, prima che Lui mi costringa a usare il Serpente. Stesi il braccio, mirai a quella chiazza di stracci in lontananza. Faticavo a mettere a fuoco.

«Troppo lontana» sibilò una voce sulla mia spalla. Mi voltai, per trovarmi di fronte il viso inzaccherato di sangue e fango di mio padre.

«Dobbiamo fermarla!» singhiozzai quasi, a corto d'aria. Ezio annuì, e mise mano alla scarsella dentro cui portava la Mela. Sciolse i cordoni, la impugnò e l'alzò in alto.

A questo punto non posso dirvi se siano stati i raggi del sole a colpirla; non posso dirvi con chiarezza se tutto ciò che seguì sia stata un'allucinazione, dovuta al furore della battaglia e al clamore del sangue. Tutto ciò che so, è che la Mela dell''Eden prese ad emanare una luce accecante, e la luce sprigionò i suoni, e i suoni fecero imbizzarrire i cavalli, crollare i soldati sulle ginocchia, scricchiolare il legno che teneva insieme le carrette armate. Lo spargimento di sangue si fermò, catalizzando l'attenzione di tutti verso quell'intervento soprannaturale e incredibile, che stava svuotando il volto di mio padre di ogni colore. Eravamo annichiliti di fronte a quell'arma, di cui nessuno aveva ancora visto dispiegarsi il vero potere. I soldati più crudeli e feroci scoppiarono a piangere come bambini, facendosi il segno della croce e chiedendo perdono di tutti i loro innumerevoli peccati.

La luce non era ancora cessata, quando il Papa scese da cavallo. Quel suo corpo che a Castel Sant'Angelo mi era parso incartapecorito si mosse, terribile quanto quello di un dio antico, quando alzò il Pastorale e lo conficcò ai propri piedi. Allora, ve lo giuro, la terra tremò, spaccandosi, e un bagliore violento si riversò su di noi, cantando la sua canzone stridente, per scontrarsi con la luce emanata dalla Mela che mio padre ancora reggeva tra le mani.

Tutte le ere del mondo si incisero sulla pelle cinerea di mio padre, tanto che per un attimo mi parve che sul suo viso non ci fossero più muscoli, ma solo pelle drappeggiata su un teschio ormai buono per i vermi. Con un grido disperato, afferrai anche io la Mela, unendo le mie dita alle sue.

Quello che provai in quel momento è difficile da descrivere a parole. Immaginate di essere esposti a un vento gelido, nudi e alla mercè di piccoli aghi di grandine che penetrino in ogni poro, senza la possibilità di scappare né trovare riparo. I vostri piedi sono roccia inscalfibile che vi strascina verso il basso. Il vento e la pioggia ghiacciata incidono solchi sulla vostra carne, affondando come se foste fatti di cera, raggiungendovi l'anima per mutarla in brina. Questo, sentii. Insieme alle voci ormai famigliari di due uomini vissuti molto tempo prima di me.

 

«Tu sei...mio fratello. Ti prego. Ti prego...»

«Abele, non puoi chiedermi questo...non posso!»

«Non c'è altro modo. Ti supplico...voglio soltanto la pace. Solo tu puoi farlo per me, Caino. Solo tu...»

 

Quando la luce scemò, lasciandoci spossati, feci a malapena in tempo a sentire un velo di dolore scivolarmi di dosso e disperdersi nell'aria ancora sfrigolante. Grida...spezzarono presto il silenzio reverente dei due eserciti che avevano assistito al miracolo. Il Papa: lo cercai con lo sguardo. Si appoggiava pesantemente al Pastorale, e ansimava...un Tancredi ancora tremante, al suo fianco, si era slanciato all'inseguimento di qualcuno. Sì...le due figure sconosciute di poco prima, quegli strani soldati dalla celata abbassata. Stavano portando via Zenobia, e il Cardinale De Medici.

Nostri infiltrati. Ricordai d'improvviso le parole che ci eravamo scambiati poche ore prima, Ezio ed io. I nostri uomini proteggono il cardinale De' Medici. Loro compiranno il lavoro al momento debito.

Il gelo mi calò nelle ossa. Cercai di non associare la figura più alta a una capigliatura leonina, e quella più bassa a una chioma di capelli rossi probabilmente nascosta sotto l'elmo.

Agamennone? Veronica?

Cosa avevano fatto? Perché? Avevano una figlia a cui pensare, maledizione...perché?

«Va'» disse mio padre, e i suoi occhi scuri mi supplicavano. «Copri la loro fuga.»

Inghiottii bile e paura, prendendo il Frutto dalle sue dita. Tuttavia, esitai ad allontanarmi. Non potevo lasciarlo lì, debole come sembrava...presto i nemici si sarebbero riscossi dall'atterrimento, la battaglia sarebbe ricominciata. Fui sorpresa di vedere Vanni prendere nostro padre per le spalle, e gridarmi in un tono che non ammetteva repliche: «Hai sentito? Vai!»

Che potevo fare? Mi allontanai da loro, strinsi il Frutto al petto e corsi. Non ne avevo la forza: me la diede la disperazione.

Tancredi e un manipolo di soldati stavano correndo a spade sguainate dietro ai miei amici, che cercavano di portare in salvo insieme il Serpente, la gitana e il cardinale De Medici. Altri del gruppo dei papalini si rivoltarono contro i loro compagni, rivelandosi nostri infiltrati. Cercarono di ostacolare l'avanzata degli inseguitori, ma era troppo tardi. Tancredi puntò la pistola contro il cardinale. Il colpo scoppiò, e un corpo cadde.

Quello di Zenobia.

 

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi...

 

La zingara che aveva cercato per tanto tempo la morte la trovò quel giorno, per mano del figlio della donna che aveva servito tutta la vita. Si era messa sulla traiettoria, per salvare Giovanni De Medici e, insieme, impedirsi di usare l'arma che Giulio II le aveva messo tra le mani. Sentii le lacrime scendermi a fiotti sulle guance e scavarle, un urlo muto mi lacerò i polmoni. Mentre Agamennone e Veronica spianavano le armi per rispondere al fuoco, io affondai le unghie nelle scanalature della Mela. Come per ribattere all'improvvisa violenza con cui lo stringevo, il Frutto dell'Eden mandò un'altra vampata di luce furente. L'ondata di ghiaccio mi investì di nuovo.

Nemici e alleati serrarono gli occhi per non soccombere alla ferocia di quei raggi. Qualcuno cadde a terra, gridando di essere diventato cieco. Qualcuno se la fece addosso per la paura. La pistola si sciolse nelle mani di Tancredi, facendogli cacciare un grido mentre lasciava cadere il metallo bollente che gli avrebbe altrimenti liquefatto le dita. Più caldo era il raggio proiettato all'esterno, e più fredda mi sentivo dentro.


 

...miserere nobis...

 

Tremavo violentemente, e a malapena le ginocchia mi reggevano. Osservai il corpo di Zenobia, accasciato a terra come un ammasso di stracci. Agamennone e Veronica le erano accanto, il Cardinale cercava di scuoterla. Niente da fare. L'avevamo perduta...e con lei, la minaccia del Serpente era dissolta come neve al sole. Non riuscii a gioirne.

«Cosa hai fatto...Tancredi, cosa hai fatto?»

«E'...incredibile. Meraviglioso.»

Il medico, dimentico del dolore della bruciatura, aveva gli occhi dilatati, il volto trasfigurato dalla bramosia. Guardava la Mela come se fosse una pila d'oro puro.

«Quanto inesplorato potere, quanta bellezza» sussurrò. «La chiave della Conoscenza nella sua forma più pura.»

«Hai ucciso la madre di Simza. Hai ucciso l'amica più cara della tua stessa madre!»

Le mie grida non sembravano nemmeno sfiorarlo. Era impazzito. Non c'era altra spiegazione. La stessa febbre che aveva causato la rovina di Gentile aveva usurpato il trono della sua ragione.

«Dammi la mela, Bianca Auditore, e ti risparmierò al vita.»

Le dita di Tancredi si protesero come artigli verso di me. I combattimenti avevano ripreso a infuriare, intorno a noi. Qualcuno gridava di avere Dio dalla sua parte, qualcun altro diceva che il nemico era il demonio e come tale andava annientato. Una schematica battaglia campale stava rapidamente escalando verso il delirio mistico.

Avrei acquistato abbastanza tempo perché Veronica e Agamennone potessero scappare con il Serpente?

 

Qui tollis peccata mundi...

 

Le maledette ginocchia mi cedettero prima che potessi anche solo provare ad usare di nuovo la Mela. Alzai il viso, le ciocche sudate che erano scivolate via dalla treccia mi coprivano gli occhi. Tancredi allungò mani avide verso di me. Mi chiesi se sarei perita adesso, per mano di colui che un tempo mi aveva salvato la vita.

Invece, una figura si pose davanti a me per farmi da scudo, la spada snudata e pronta a combattere. Un uomo. Alto, magro. I ricci biondi schiacciati sotto l'elmo. Volevo urlargli di andarsene, ma la voce restò come un bolo a chiudermi la gola.

«Togliti di mezzo, tu.» La voce di Tancredi era spezzata. «Chi si mette tra me e la Conoscenza morirà.»

Agamennone alzò la spada di fronte a sé. «Non ho paura.»

Sentii le braccia di Veronica sollevarmi, quasi di peso. In una mano, la mia amica stringeva il Serpente, strappato al cadavere di Zenobia.

«Fermalo» singhiozzai.

«Dobbiamo andare.»

«Fermalo, maledizione!»

Un ringhio rabbioso sotto l'elmo di lei. Come se trattenesse le lacrime tra i denti. «Non posso!»


 

...suscipe deprecationem nostram...

 

Veronica mi trascinò fino al cardinale De'Medici. L'uomo voleva aiutarmi a issarmi in sella, proprio nell'attimo in cui Gaston e Vanni frenavano i loro destrieri ansanti accanto a noi.

«Maledetta assassina» ringhiò Gaston. «Allons, allons

«Eminenza!» rincarò Vanni «Sbrigatevi, dobbiamo portarvi via di qui!»

Ma io mi ribellai. Mi voltai, nella direzione dello scontro. Giusto in tempo perché vedessi l'elsa di Agamennone abbattersi sul volto di Tancredi, e il medico cadere a terra. Cercò di rialzarsi; vidi saettare l'ago sottile carico di quel terribile veleno di cui gli avevo sentito decantare i devastanti effetti. Agamennone bloccò ogni suo ulteriore movimento poggiandogli la lama sulla gola.

Veronica mi mise in mano il Serpente e disse: «Buona fortuna, Biancarella», prima di correre a dare man forte al suo uomo.

«Abbiamo i Frutti, e i tuoi amici copriranno la fuga!» sibilò Gaston. «Perdio, vieni via!»

Ma gli occhi non volevano staccarsi dal mio amico, fiero nella sua armatura, il braccio come un prolungamento della lama. Pensai a un cavaliere delle leggende, nobile, bello, puro. Un essere umano troppo perfetto per questa terra di pazzi e bastardi. Una creatura delle stelle.

 

Qui sedes ad dexteram Patris...

 

Fu lo scoppio, a distrarci. La palla di cannone si schiantò a pochi metri da dove Agamennone si trovava, tanto violentemente che anche Tancredi, incosciente a terra, gemette. I cavalli si impennarono, terrorizzati. Che diavolo stava succedendo? La nostra artiglieria era impazzita?5

Veronica fece appena in tempo a gridare un avvertimento, quando il fante spagnolo che stava sopraggiungendo calò la mazza sull'elmo di Agamennone. Vidi il mio amico crollare in ginocchio per il colpo ricevuto, vidi l'arma alzarsi di nuovo e precipitargli addosso, pronta a sfondargli il cranio.

Era l’undici Aprile 1512, e, porca puttana, la profezia delle stelle stava diventando realtà sotto i miei occhi.

 

...miserere nobis.

 

La spada di Veronica segò via la mano dell'aggressore, che cadde a terra pesantemente, con tutta la mazza. Il secondo taglio gli aprì l'addome, un sorriso macabro da cui iniziarono a riversarsi gli intestini.

Misi il Serpente e la Mela nelle mani del Cardinale De Medici.

«Correte» dissi. Rivolsi un breve sguardo a Gaston. Uno, un po' più lungo, a Vanni. Per la prima volta, mio fratello ed io ci capimmo senza parole.

Si allontanarono rapidamente. Io barcollai verso Veronica, che si era chinata su di Agamennone. Il sangue colava in un rivolo sulla fronte, sotto il ferro. I suoi occhi erano semi aperti nella luce di quel sole crudele.

«Non respira» urlò Veronica, aggrappandosi alla pettorina del marito. «Bianca, non respira!»

Deglutii forte, come se dovessi ingoiare una medicina amara. Il sapore dell'aria carica di umori umani mi grattò il palato. Strappai il mantello che faceva parte dell'armatura di Veronica, premetti la stoffa contro la ferita. Agamennone gemette debolmente.

«E' vivo» dissi, più per rassicurare me stessa che lei.

Tacredi giaceva incosciente lì accanto. Gli avrei volentieri tagliato la gola, e con il senno di poi avrei davvero dovuto farlo allora. Ma avevo altro a cui pensare.

Ci ritirammo dal cuore pulsante di quell'inferno, Veronica ed io, portando Agamennone a braccia verso le retrovie. Ho un ricordo sfocato degli istanti che seguirono: i feriti si trascinavano barcollando, corvi e gabbiani si aggiravano avidi al limitare del campo di battaglia per succhiare via l'ultimo alito di vita dai cadaveri progressivamente più freddi. Ogni passo che trascinavo con successo davanti all'altro, avevo in mente soltanto una cosa: non avrei lasciato che le stelle vincessero. Fossi dovuta scendere nel fondo dell'inferno per poter riportare la sua anima indietro, avrei tenuto Agamennone con noi.


 


 

Note Storiche.
 

1La battaglia di Ravenna. ed Ponte Vecchio 2011, pag.71.

2Mi difendo a prescindere da eventuali accuse di blasfemia, perché è un argomento che conosco. Ciò che dice la transustanziazione è proprio questo: ostia e vino DIVENTANO corpo e sangue di Cristo. Non viene considerata una metafora, ma un reale cambiamento di sostanza (gli studi di Semiotica mi son serviti a qualcosa XD ). Ergo, sì, tecnicamente durante il sacramento si mangia Dio.
Per approfondire: http://www.gotquestions.org/Italiano/transustanziazione.html

3Tradizione vuole che Alfonso d'Este abbia davvero pronunciato la frase che ho qui parafrasato. Lui la smentì successivamente.

4Mi sono presa qualche licenza per...non lo so, aumentare la drammaticità della scena? XD In realtà, le palle di cannone in lega di ferro iniziano a diffondersi nel XVII secolo. Precedentemente erano per lo più in pietra.

5Pare che in una fase della battaglia (non esattamente in questa, comunque), Alfonso d'Este abbia ordinato ai suoi uomini di sparare indistintamente sui due schieramenti, al grido di: «Tanto sono tutti nostri nemici.»


NdBlackFool
Pfiuuuuuuu. Questo capitolo mi ha richiesto mesi di gestazione,per metà mentale e per metà scrittoria. C'è stato di mezzo un blocco, in parte dovuto ai tanti impegni e in parte alla lenta metabolizzazione del fatto che tra poco BCP sarà finito. Come ho avuto modo di scrivere sulla pagina Facebook qualche tempo fa, l'espediente di alcuni pezzi in terza persona mi permette di coprire tutti i fatti che voglio coprire nei prossimi due capitoli (più epilogo). Contando anche l'epilogo, dunque...BCP si chiuderà al capitolo 50. Mi sembra un bel numero con cui salutarci :)
Ma prima di pensare alla fine, concentriamoci su tutto quello che c'è ancora da affrontare. Agamennone sconfiggerà la profezia delle stelle? E quali saranno le conseguenze della sanguinosa battaglia di Ravenna per Templari e Assassini? Ci aggiorniamo (spero per davvero) tra un mese, con il capitolo 48: "Anche nella sconfitta". Ma poi mi chiedo...il titolo cosa ve lo dico a fare, se alla fine lo cambio sempre? XD bah, forse questo lo manterrò. Forse! 

Lal.

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Capitolo 48
*** Anche nella sconfitta ***


 

La ferita di Agamennone era mortale.

Non fu l'espressione di Simza a dirmelo, né il fiotto i sangue che uscì quando, dopo una manovra delicata e tesa, riuscimmo a togliergli l'elmo. Non fu il pallore che gli attanagliava il viso, o il gelo nelle ossa che mi prendeva ogni volta che sentivo la Nera Signora aggirarsi nella stanza, pronta a ghermire qualcuno che amavo. Lo sapevo, e basta. Lo sentivo nello stomaco. Il mio amico di sempre non avrebbe visto sorgere un nuovo giorno.

La battaglia era stata vinta, dopo otto ore di massacro. La cavalleria papalina era stata annientata, più di due terzi dell'esercito della Lega Santa erano perduti. Dei nostri, non ne erano rimasti in piedi molti di più. I morti formavano un macabro tappeto steso sulle rive del Ronco. Non li avevamo ancora contati.

Il resto della mia famiglia era al sicuro. Appresi che mio padre, allo stremo delle forze, era stato trasportato al riparo da mia madre. Vanni l'aveva affidato a lei, prima di rigettarsi in battaglia accanto a De Foix. Quanto alla Folgore d'Italia, aveva perso la vita, in circostanze che non mi erano del tutto chiare. Sembrava avesse attaccato con il suo piccolo gruppo una linea di fanti spagnoli, quando già la vittoria francese si era rivelata schiacciante e definitiva. Morte insensata, per un condottiero come lui. I giorni di gloria dell'erede di Alessandro Magno erano affogati nella Pasqua di Sangue, come sarebbe stata chiamata negli anni a venire. Gridando il nome del loro comandante caduto, i francesi erano entrati in città, saccheggiando e devastando. Non avevamo più la forza nemmeno per cercare di fermarli.

Simza non si era fermata un momento, lavorando alacremente intorno ad Agamennone. Ero certa che sapesse della madre, e forse per questo voleva rendersi utile e impedirsi di pensare. Concedersi di piangere non era previsto, non adesso che i sopravvissuti avevano bisogno di lei.

Veronica non lasciò il capezzale del marito nemmeno per togliersi di dosso quell'armatura maschile, o lasciare che controllassi le sue ferite. Rimase per tutto il tempo che servì alla giovane zingara per preparare il cataplasma che avrebbe fermato l'emorragia, la aiutò ad applicarlo, e, quando tutto ciò che le cure umane potevano fare per lui fu esaurito, gli restò accanto, stringendogli la mano senza una parola. Mi offrii di darle il cambio per vegliarlo, quella notte. Nemmeno mi sentì.

«L'ho supplicato di non venire qui» la sentii mormorare. Non mi guardava. Non guardava nemmeno lui, ma un punto indefinito sul giaciglio da campo. «Poi gliel'ho ordinato, e infine l'ho minacciato. Ma lui è testardo come un mulo, e lo sapevamo entrambi che, per quanto io strepitassi, avrebbe sfidato la profezia comunque. A testa alta...perché non lo diresti, alle volte, ma è così orgoglioso. Non sarebbe morto come un coniglio mentre cercava di nascondersi dal destino, così mi ha detto. Allora ho deciso di seguirlo. Resta con Emilia, diceva, ha bisogno di te. Forse penserai che sono una madre snaturata, ma Bianca...non potevo lasciarlo da solo in questa battaglia. Non potevo.»

Le poggiai una mano sulla spalla, e osservai il volto di Agamennone. Si confondeva con il panno per quanto era bianco.

«Emilia è piccola, dimenticherà che non sei stata con lei in queste settimane. Lui invece ricorderà per sempre che gli eri accanto.»

Veronica reagì debolmente al mio tocco, tentando un sorriso. Scostò un riccio biondo dalla fronte del marito. «E' forte, sai? Visto che ha sempre un po' la testa tra le nuvole molti pensano che vada dove il vento lo porta...ma non è così. Agamennone ha sempre lottato per gli altri. Lotterà anche questa volta, e tornerà da me.»

Non replicai. Il pianto mi serrava la gola, e non volevo che Veronica lo sentisse. Niente doveva incrinare la sua certezza, adesso.

Martino ci raggiunse dopo molte ore, portando una zuppa calda ad entrambe. Aveva un occhio pesto e un braccio avvolto nelle garze.

«Come sta?» chiese.

«Resiste» mormorai. Poi, una volta che mi fui assicurata che Veronica avesse mangiato qualcosa, condussi mio marito fuori dalla tenda.

L'accampamento era diventato un cimitero di anime in pena. Era come se quelli che non avevano lasciato la pelle sul campo si aggirassero colmi di sgomento, in quello spazio che non era morte ma nemmeno vita, aspettando che qualche demonio venisse a reclamarli.

Sedemmo accanto ad un focolare, Martino ed io. Gli sfiorai il turgore violaceo sull'occhio con la punta dei polpastrelli, e lui trattenne un lieve gemito.

«Come ti sei fatto questo?»

«Er marito d'a Borgia» sussurrò. «Quanno ha cominciato a spara' contro tutti...nun c'ho visto più.»

Ci fu un attimo di profondo silenzio, tra noi. Poi, trovai il coraggio di chiederglielo.

«Martino...i cannoni, alla spiaggia...»

«Nun potevamo fa' artro, Bià.» La voce di Martino risuonò secca e stanca, come se avesse passato ore a difendersi da quella stessa accusa. «E' oribile, 'o so pure io. Però...dovevamo fallo. Dovevamo. Nun c'era artro modo pe' vince. Solo che poi j'ha preso 'a mano, a quella carogna fetente...e allora no, allora nun potevo più lassallo fa' come je pareva. Nun semo bestie. Alle vorte dovemo da prenne de' decisioni difficili, ma...nun potemo diventà bestie.»

Non ho mai sentito il cuore sanguinare tanto forte per lui come quella notte, mentre mi diceva quelle parole con uno sguardo pieno di dolore. Lo abbracciai, forte, dimenticando le sue ferite e le mie.

«Dimmi che gli hai rotto qualche osso.»

Lo sentii allentare un po' i muscoli tesi, in una mezza risata. «Poveraccio, so' sicuro che magnà sarà 'n inferno co' 'a mannibola spaccata.»

Quindi, mi strinse senza più parlare, per lunghi minuti. Mi concessi, finalmente, di lasciar scivolare qualche lacrima: ma fu stanchezza, lo confesso. Non il lutto per Zenobia, né quello, devastante e immenso, che aspettavo di provare quando Veronica fosse uscita dalla maledetta tenda ad annunciarci, dignitosa e composta, che Agamennone non ce l'aveva fatta. Perché sarebbe successo, e presto. Me lo diceva il mio stomaco. Me lo diceva la mia anima.


 

Estate 1501. Bianca aveva dodici anni. Quasi tredici! - lo ricordava sempre a suo padre, quando lui diceva di non volerla addestrare. Lo strano bambino bolognese dai capelli rasati era con loro da un mese, ormai. Ferrante non lo poteva vedere: lo canzonava, gli infilava scarafaggi nello scollo della camicia, e quando credeva che Bianca non vedesse gli tirava uno scappellotto nella nuca – giusto per vedere se era ancora vivo, perché con quegli occhi fissi nel vuoto sembrava uno stoccafisso appeso all'amo! Ma Bianca vedeva, ogni volta, e rendeva a Ferrante ogni schiaffo con un pugno. Difendere Agamennone le veniva naturale, non si soffermava nemmeno a pensarci. Era come proteggere Vanni. Un istinto.

«Non arrabbiarti per quel deficiente» gli diceva poi. Agamennone scuoteva appena la testa, con le ginocchia strette al petto. Riappoggiava il mento sulle braccia intrecciate, e si perdeva ad ascoltare le cicale che frinivano nell'afa di quei primi giorni di luglio. Sembrava che niente potesse toccarlo, né in bene né in male. Era lontano. Bianca non riusciva a capire come si potesse lasciare indietro il corpo e scappare via con la mente, come faceva lui.

Un giorno, glielo chiese. Sedendosi accanto a lui, in quella stessa posizione che lui assumeva tanto spesso, gli domandò:

«Cosa vedi, quando guardi lontano?»

Agamennone non voltò nemmeno il viso. «La morte», disse. Bianca non reagì: sapeva che quel bambino era uscito da una carneficina infernale, ed era vivo per miracolo. Non riusciva a immaginare che una disgrazia simile distruggesse il suo piccolo mondo sicuro. Forse anche lei avrebbe visto la morte ovunque, se fosse arrivata a ghermire tutto ciò che amava.

Fece schioccare la lingua nel palato. «Che strano. In questi campi io non vedo la morte.» Un breve silenzio. Lui non obiettò, e così lei proseguì. «Ci sono le messi, vedi? Tra poco i lavoranti di mio padre le mieteranno, e avremo di che mangiare per tutto l'inverno. C'è il sole in cielo, che fa crescere le piante. E c'è la terra sotto i nostri piedi.» Grattò via una piccola zolla, già spaccata dal calore. Era colma di formiche, piccoli insetti che vi si agitavano attraverso, qualche minuscolo verme. La mostrò ad Agamennone. «Vedi? Anche la terra è piena di vita.»

Lui guardò serio la piccola zolla. Poi, i suoi occhi color nocciola si misero in quelli di Bianca.

«Per adesso. Ma poi arriverà l'inverno. Arriverà la morte e si porterà via tutto.»

Lei lasciò ricadere la terra e tutti i suoi brulicanti abitanti.

«Non capisco. Ti senti in colpa perché sei vivo, o hai paura di morire anche tu come la tua famiglia? Perché la prima cosa è molto sciocca, sai. Sei sopravvissuto, è un dono, dovresti esserne felice. La seconda invece, be', è inutile. Tutti moriranno, ma passare il tempo ad avere paura di quel giorno lo farà arrivare più in fretta, non credi?»

Agamennone non rispose. La fissò con lieve sorpresa, come se non si aspettasse di sentir pronunciare quelle parole ad alta voce. Tutti gli si approcciavano con molta cautela, come se la sua mente potesse andare in pezzi per una parola di troppo. Probabilmente era la prima volta che qualcuno era così diretto con lui. Non era sicura che fosse una buona cosa, ma ormai non poteva rimangiarsi ciò che aveva detto.

Fu sorpresa di sentirsi dire, dopo qualche istante:

«Tu te lo dimentichi? Che esiste la morte, voglio dire.»

Bianca si strinse nelle spalle. «Sì, credo. Cioè, so che c'è, ma non me lo ricordo ogni momento.»

«Insegnami. Come si fa a dimenticare la morte?»

Sorrise. Si tirò in piedi, e gli tese la mano. «Prima di tutto, non si sta seduti a fissare l'orizzonte tutto il giorno.»

Agamennone la guardò, un po' spaventato, dal basso. Per un attimo, Bianca credette che non avrebbe accettato il suo invito.

Invece, le sue dita si strinsero a quelle di lei. Si lasciò aiutare ad alzarsi.

«E adesso?»

Bianca rise. Possibile che quel bambino avesse dimenticato come si facesse a giocare?

«E adesso corri...chi arriva ultimo al casale paga pegno!»

Lasciò bruscamente la sua mano, e senza aspettare che Agamennone avesse compreso del tutto scattò in avanti, verso il traguardo di quella gara improvvisata. Fu felice quando sentì i suoi passi alle spalle, e sì, per quella prima volta lo lasciò vincere. O almeno, questo disse al proprio orgoglio quando le chiese conto del fatto che non era riuscita a batterlo in velocità. Dannazione, per aver dimenticato come si gioca quel bambino non aveva certo dimenticato come si corre!


 

I ricordi arrivano da noi quando non vogliamo. Mentre ancora Martino ed io ci stringevamo al calore di quel tiepido fuoco da campo, le immagini di quell'estate lontana tornarono da me con prepotenza, strappandomi altre lacrime dagli occhi.

Adesso ero come Agamennone allora. Ferma, chiusa in me stessa, in attesa di avere un responso. Vita o morte. Salvezza o addio. Ero stanca di aspettare. Ero stanca di rinunciare a pezzi della mia vita e della mia innocenza.

«Non ci riesco, Martino» sussurrai. «Non posso lasciare andare Agamennone.»

Lui mi accarezzò i capelli, la sua voce era colma di tristezza.

«Dovemo da pregà pe' 'n un miracolo, core mio.»

Io non son il tipo che aspetta i miracoli, lo sapete. Perciò, quando l'accampamento intero fu addormentato, andai a prendere il Serpente.


 

Era gelido. Pesava, tra le mie mani. Ricordai come lo scoppio del suo potere le aveva piagate, a Castel Sant'Angelo. Ricordai come mi avesse avviluppato l'anima, cercando di ucciderla tra le sue spire.

Ero sola, sul retro della tenda. Le guardie erano state sospettose, la mia bugia sul fatto che Ezio mi avesse richiesto di portargli il Frutto non li aveva ingannati. Mio padre, avevano detto, aveva dato l'ordine preciso di non lasciare uscire il frutto dalla tenda del comandante per nessun motivo. Avevo dovuto stordirli entrambi, prima che chiamassero i rinforzi. Erano rimasti tramortiti sul pavimento della tenda. Mi rimanevano pochi minuti prima che venissero scoperti. Ora il Frutto dell'Eden per cui avevamo versato così tanto sangue era di nuovo in mano mia.

Accarezzai le scanalature che parevano squame. Come se volessi blandirlo. In realtà, io ti odio. Mi hai strappato così tanto...se fossi qualcosa di vivo, vorrei la tua morte. Ma ho bisogno di te, adesso. Come non ho mai avuto bisogno di nient'altro. Mi senti? Ho bisogno di te.

«Attenta a ciò che chiedi. Potrebbe diventare realtà.»

La voce fece tendere i miei nervi. Ero così concentrata sul Frutto da non essermi accorta dell'arrivo dell'uomo.

Giovanni De Medici era stato inaspettatamente silenzioso, per la sua mole possente. Ancora una volta, guardandolo pensai a un felino, placido soltanto in apparenza, maestoso, potenzialmente letale.

Strinsi più forte il Serpente. «Se siete qui per dissuadermi, potete andarvene.»

Lui scosse il capo. Non indossava i suoi paramenti da cardinale, ma semplicissime brache e camicia. Portava ancora molti anelli alle dita, come l'unico simbolo del suo potere.

«Sei certa di ciò che fai, ragazza?»

«Il mio amico sta morendo, e io non sono certa di niente.» Il metallo era caldo contro il palmo della mano. «Allontanatevi, Eminenza.»

«Non capisci la gravità del tuo gesto» disse il cardinale, calmo. «Troppi destini si sono giocati intorno a quel gioiello. Se ora lo usi per i tuoi egoistici scopi, potresti mettere a repentaglio tutti quei sacrifici.»

«Ho visto Zenobia spirare sotto i miei occhi» ringhiai. C'era un sottile fischio nelle mie orecchie, non ne comprendevo l'origine. «So di Gentile, so di Dante e di tutti gli altri. Ma loro sono morti ormai. Invece, per Agamennone posso ancora fare qualcosa.»

Giovanni De Medici mosse un passo nella mia direzione. «Anche Gaston è morto per il Serpente. Voleva tradire i templari della Borgia, uccidermi e portarlo via. Il Frutto gli aveva circuito la mente, senza che nemmeno lo toccasse. Immagina cosa può fare a te, se lo usi.»

Ristetti.

Gaston era stato soggiogato dal potere del Serpente?

Gaston voleva tradirci tutti?

«E' stato tuo fratello a salvarmi» proseguì il Cardinale. «Lui l'ha ucciso, per impedire che ci portasse alla rovina.»

Sentii i miei denti digrignarsi in una smorfia ferina. Cosa stavo facendo? Cosa stavo diventando?

«E voi adesso ucciderete me.»

Non vedevo armi nelle sue mani, ma ne ero certa. Quel bracciale al suo polso...era una lama celata? Indietreggiai, mentre lui avanzava di un altro passo.

«Se mi costringerai a farlo, sì.»

Il metallo ribolliva nella mia stretta, il calore si era fatto intollerabile. Non riuscivo a lasciarlo andare. Bolle crepitavano sotto la mia pelle, pronte a esplodere in piccole eruzioni di dolore. La mia vista si annebbiava.

«Non lascerò andare Agamennone» gridai, e il fiato mi bruciò i polmoni per la violenza con cui uscì «Lui non morirà...potete uccidermi, ma lui non morirà!»

L'urlo mi lasciò prosciugata. Tutto diventò bianco davanti ai miei occhi. Dove il metallo mi aveva ustionata provai un refrigerante sollievo. Forse era finita. Forse ero morta davvero. Di certo non mi trovavo più nello stesso luogo di prima.

Di fronte a me, no, tutto intorno a me, c'erano muri di specchi dorati. Era un corridoio, la cui fine si perdeva in un tenue grigiore.

Ero già stata in un posto simile. La cripta di Beatrice Portinari, dove avevo recuperato il carteggio tra Dante e Gemma. Eppure, al contrario degli specchi di laggiù, questi non riflettevano la mia immagine. Almeno, non quella del presente.

Alla mia destra, c'era una me stessa bambina, che si gettava senza un attimo di esitazione dalla sommità di Villa Auditore.

Alla mia sinistra, un'adolescente che trova il Serpente sulla Garisenda, seguendo le tracce luminose lasciate dal fantasma di chi si era arrampicato lassù prima di me.

Sul soffitto dorato, stelle crudeli.

Alle mie spalle, il vuoto.

Come aldilà, faceva schifo.

«E' tutto qui quello che sai fare?» dissi, al nulla intorno a me. «Dammi un po' di inferno. Dammi i lamenti eterni, il fuoco, e i demoni con i forconi. Non basterà questo a piegarmi...non basterà!»

Ho sempre reagito alla paura con la spavalderia. La verità è che non capivo cosa fosse accaduto. Se fossi morta, sarebbe stata la fine della mia coscienza. Cos'era quel luogo, allora? Dietro la superficie degli specchi le stesse scanalature regolari che frastagliavano il Serpente si illuminavano, a tratti, come se fossero il condotto attraverso cui un'energia luminosa si propagava. Strani suoni intermittenti mi circondavano. Avevo l'impressione di essere all'interno di un organismo vivente, e tutto questo mi terrorizzava.

«Sei nella tua mente» disse una voce, fredda, metallica. «Puoi riempirla con ciò che ti aggrada, fuoco incluso.»

Deglutii a vuoto. Ora, alla fine del corridoio si stagliava una figura, dorata contro il grigiore. La sua veste pareva antica, trapunta di piccoli quadrati di luce cangiante; il suo capo calvo era sormontato da una mitra.

Era molto alto. Aveva un volto emaciato; pallido, ma così livido da apparire violaceo in certi punti. E gli occhi, Dio, gli occhi...orbite rosse, forse cieche, vuote.

«Tu...sei Plutone?»

Un attimo di silenzio, prima che la creatura parlasse.

«Tu hai un desiderio da esprimere. Io ho risposto alla tua chiamata.»

«Sì» dissi, quasi precipitosamente. Le me del passato continuavano a correre, lottare, uccidere sulle pareti; a malapena registravo i loro movimenti, cercando di concentrare la mia attenzione sull'essere che mi stava davanti. «Sì, voglio salvare il mio amico Agamennone. È troppo importante per me. Non posso permettere alle stelle di vincere e portarmelo via.»

Aveva labbra sottilissime, Plutone. Quasi invisibili in quel viso smunto. Si schiusero per dire:

«Il manufatto può esaudire il tuo desiderio. Ma poiché nulla si crea, nulla si distrugge, e tutto si trasforma, un tributo sarà richiesto. Dovrai dare all'Universo qualcosa in cambio, di valore uguale e contrario, perché l'Equilibrio non sia invariato.»

«Una vita per un'altra? E' questo che stai dicendo?»

«Sì.»

Il gelo mi irrorò le vene. D'istinto, guardai quelle immagini di me che mi scorrevano accanto, momenti della mia esistenza passata a lottare. Ma no, non soltanto a lottare. Avevo combattuto e ucciso, sì: ma avevo anche amato, fino a perdere il cuore.

I miei genitori, Vanni, tutto il resto della mia meravigliosa famiglia. Gli indovinelli di Lisabetta, i sorrisi di zio Ugo, lo sguardo fintamente severo di zia Claudia. Nonna Maria. Zio Mario. La loro saggezza che portavo ancora con me, l'enorme vuoto della loro assenza. Ilaria, il fuoco nei suoi occhi; il piccolo Leonardo e i suoi capelli rossi.

Gli amici. Veronica e i nostri scherzosi battibecchi; Jacopo e i suoi pungenti ammiccamenti. Nicola, che aveva dato tutto se stesso al Credo. Diamante, che viveva nei ricordi ma non aveva mai smesso di combattere nonostante tutto. Odette, la fiera e radiosa erede di una dinastia di guerrieri come la mia. D'Arcy, il suo ruvido codice d'onore. Simza, i suoi occhi cangianti e le lettere scritte dalla punta del polpastrello sul palmo della mia mano.

E poi Martino. Martino. Martino. Il nostro futuro, i figli che avremmo avuto. Lui li voleva così tanto. Una vita di risvegli accanto a lui, l'uomo che avevo aspettato tanto a lungo, l'uomo che aveva continuato ad amarmi nonostante tutto. Lui era tutto ciò che avevo sempre desiderato, e ora, dopo mille vicissitudini, finalmente mi apparteneva come io gli appartenevo.

Avevo così tanto che non potevo lasciare.

Agamennone mi avrebbe capito. C'era ancora tanto che potevo fare, che potevo dare. Al mio posto, anche lui avrebbe avuto paura di lasciare tutto questo. Per cosa, poi? Annientarsi. Distruggersi. Andare in un non-luogo dove la mia coscienza non sarebbe esistita più...no, avevo paura. Era troppo, anche per il più caro degli amici, anche per un fratello...era troppo!

Poi pensai a quel pomeriggio d'estate. Alla mano di un bambino smarrito che afferra la mia.

«Insegnami. Come si dimentica la morte?»

Le corse fino a perdere il fiato, le notti passate a guardare le stelle sul tetto della Villa. Due ragazzini che parlano di una profezia.  

«Non credo che si possa cambiare quello che è scritto nelle stelle.»

«Io ci proverò.»

«Tu, da sola, contro tutte le stelle?»

Emilia che si agita tra le braccia di suo padre, gli stringe una ciocca di capelli nel pugno e ride.

«Ho troppe cose che non voglio lasciare, adesso.»

Le cicatrici smagliate sul ventre di Veronica.

«Credevo che niente avrebbe potuto cancellarlo. Mi sbagliavo. Emilia...Agamennone...è merito loro.»

Tancredi che si protende minaccioso verso di lui, sul campo di battaglia, mentre Agamennone sfodera la spada per coprire la mia fuga.

«Chi si mette tra me e la conoscenza morirà.»

«Non ho paura.»

Le lacrime mi avevano scavato solchi incandescenti sulle guance. Silenzio infinito, fuori e dentro di me. Presi un respiro profondo.

«D'accordo. Fallo.»

«Ne sei certa?»

«Sì.»

La luce esplose dal Serpente, mi investì, mi soffocò. Chiusi gli occhi, e pensai: sì, ne vale la pena. Piangeranno per me. Martino non mi perdonerà per il modo in cui lo lascio proprio adesso...ma ha un cuore grande, con il tempo capirà. Mia madre e mio padre soffriranno terribilmente: ma hanno Leonardo, lui li aiuterà a sopravvivere al dolore. Agamennone penserà che non è giusto, e si sentirà in colpa, ma apprezzerà ogni attimo della sua vita con Veronica ed Emilia. Forse chiamerà la sua prossima figlia Bianca. Sì. È questo che farà. Andranno avanti, tutti loro...senza di me.

La luce scemò, ed io non ero morta. Ma non ero nemmeno fuori da quella che Plutone aveva definito la mia mente.

Battei le palpebre, confusa. La pelle mi formicolava come se fossi appena uscita dalla scorza della vecchia me stessa.

«Il tuo desiderio è esaudito. Agamennone Marescotti, figlio di Galeazzo ed Emilia, vivrà.»

«Non hai preso la mia vita.»

«Non ho mai detto che sarebbe stata la tua.»

Mi irrigidii. Le punte delle dita si fecero progressivamente più fredde. «Non era questo il patto. Non era questo che hai detto quando mi hai chiesto di scegliere!»

«Una vita per una vita: questo ho detto, e questo sarà. L'Universo sceglierà quale.»

I contorni della stanza stavano tremolando intorno a me.

«Fermati. Fermati, maledizione! Non era questo che volevo...non era questo che volevo! Mi senti, Plutone? Non era questo che...»


 

Mi risvegliai con quelle parole ancora ferme in gola, e le labbra che le pronunciavano, tese fino allo spasmo. Sentivo le lacrime che bruciavano i miei occhi. Una voce dolce chiamò il mio nome, due mani ferme e delicate mi spinsero di nuovo sul giaciglio. Inalai un'avida sorsata d'aria, mentre tremiti violenti mi scuotevano le spalle.

«Calmati, Bianca. Va tutto bene. Sssshhh...Non agitarti adesso. Calmati.»

Il tocco di mia madre. Il suo odore rassicurante. Era seduta sul giaciglio, accanto a me. Mi accarezzava i capelli, la fronte. Mi afferrò le braccia. Tremavano.

«Va' a chiamare Simza» la sentii dire, ma non so a chi. Dei passi corsero fuori dalla tenda.

«Mamma...dov'è Martino?»

«Sta' tranquilla, non devi sforzarti...»

«DOV'È MARTINO?»

«Sta bene. Manderemo a chiamare anche lui. Ti prego, Bianca...calmati, tesoro mio.»
Mi strinse al suo petto, ed io mi sciolsi in singhiozzi, artigliandole la schiena come se la mia vita dipendesse da quella presa. Affondai il viso nella sua camicia, e pregai di avere solo sognato. Un incubo. Doveva essere stato questo. Nient'altro che un orribile incubo...

Ma no. Flettendo le dita, sentii le mani fasciate da bende strette. Non erano ferite che mi ero procurata in battaglia...potevo sentire i mille aghi delle ustioni che mi piagavano i palmi.

Era stato tutto reale.

Rosa sussurrò al mio orecchio: «Agamennone si è ripreso. Sopravviverà.» Non avrei mai creduto, mai, che quelle parole potessero uccidere una parte di me. Ma è ciò che fecero. Perché se lui viveva, significava che io avevo appena condannato a morte al suo posto qualcun altro tra coloro che amavo. Qualcuno che l'Universo avrebbe scelto per adempiere all'orribile patto che avevo appena stipulato.

«Mamma...ho fatto una cosa orribile. Ho fatto una cosa orribile...»

«Ssssh. Basta adesso. Basta...lo risolveremo, vedrai. Lo risolveremo insieme.»

Ma non c'era niente che potessimo risolvere, e anche quando Simza venne a somministrarmi quel suo calmante dal sapore aspro, anche quando i singhiozzi svanirono lasciando soltanto la loro eco nel mio petto e gli oggetti intorno iniziarono ad assumere contorni sfocati, la consapevolezza rimase con me. Nel momento in cui fu la figura di Ezio a sporgersi sul mio capezzale, prendendomi la mano piagata, lo guardai con immensa vergogna.

Credevo di aver fatto la cosa giusta. Credevo di aver sacrificato me stessa. Invece, qualcun altro avrebbe pagato il prezzo delle mie decisioni.

Non riuscii a parlare. Non ce ne fu bisogno.

Ezio mi accarezzò il dorso della mano, con delicatezza infinita. Nei suoi occhi scuri c'erano dolore e comprensione. Nessun rimprovero. Capii che al mio posto avrebbe fatto lo stesso, e la consapevolezza mi chetò un poco.

Chiusi gli occhi. Le tisane di Simza mi avevano resa incosciente; non distinsi il momento in cui i miei genitori lasciarono la tenda, ma quando la mente emerse dal torpore sentii il calore del corpo di Martino, steso accanto a me. Mi cingeva la vita con un braccio, il viso affondato tra il mio collo e la mia spalla.

Spinsi il naso e la bocca tra i suoi ricci neri, portai la mano bendata ad accarezzargli il viso. Non parlammo per lunghi minuti.

Poi, un sussurro contro il mio petto.

«Credevo d'avette perso stavorta, Biancarè.»

Deglutii a fatica, ricacciando in gola il sapore acido della tisana. Gli accarezzai la spalla, le mie dita scesero sul suo braccio teso. Solo allora mi accorsi che le fasciature si prolungavano fino alle sue mani.

«Cosa...» Dovetti umettarmi le labbra. «Cosa hai fatto?»

Lui sospirò sulla mia pelle. «C'ha svejato un lampo fortissimo. Er cardinare s'era messo a urlà. E quanno so' arivato...lui era pe' terra, mezzo accecato, e te te contorcevi come 'n indemoniata...la luce te usciva dalli occhi e dalla bocca. Sembrava che te stesse a squartà viva.» Mi strinse a sé più forte.

«Mi hai tolto tu il Serpente dalle mani?»

«Sì.» Alzò il viso solo allora. «Dimme che t'ho fermata 'n tempo.»

Voltai la testa dall'altra parte. No, non mi aveva fermata in tempo. Che fossi dannata, io e il momento in cui avevo deciso di cambiare il destino. Avrei dovuto apprenderlo dalla storia di Gentile. Cambiare le stelle è possibile, ma il prezzo da pagare è altissimo.

«Martino, io...» soffocai un singhiozzo. «Ho stretto un patto con Plutone.»

Lo sentii sollevarsi sul materasso. La sua mano fasciata mi voltò il viso con gentilezza. «Che genere de patto?»

Altre lacrime lasciarono i miei occhi, quando incontrarono i suoi. «Gli ho chiesto di salvare Agamennone. E lui...ha detto che ci sarà un sacrificio. Che qualcun altro morirà al posto suo.» Deglutii. «Credevo che avrebbe preso la mia vita...altrimenti non avrei mai acconsentito allo scambio, te lo giuro. E ora Mennone è vivo, e invece di essere felice io mi sento...ingannata, e sconfitta.»

Martino mi poggiò le labbra sulla fronte, e quando sciolse quel contatto gli gettai le braccia al collo, trovando riparo nel suo abbraccio. Lui ricambiò la stretta. Mormorò: «'e scerte hanno 'e conseguenze loro...ma noi l'affronteremo, Biancarè. Insieme.»

Dopo un lungo momento di silenzio, cercai di sorridere. “Insieme per la vittoria?”

Martino ricambiò il sorriso, e mi baciò la punta del naso. “Insieme anche ne la sconfitta. Insieme sempre.”


 

Trascorsero due giorni, prima che mi fosse permesso di alzarmi; ne trascorse un altro, prima che trovassi il coraggio di vedere Agamennone. Migliorava a vista d'occhio, e Simza aveva decretato che presto avrebbe potuto essere spostato. Rimaneva ancora costretto al giaciglio, tuttavia era lucido e cosciente. Proprio quel giorno, appresi, gli era stato consentito di sedersi.

Una ripresa miracolosa. Un miracolo che avevo innescato con le mie mani.

Quando mi presentai all'apertura della tenda, trovai Veronica intenta a leggergli una lettera. Da quel poco che colsi, proveniva da Maestro Sandro, e parlava della loro bambina. L'assassino milanese chiedeva della loro salute e dell'esito di quella terribile battaglia, di cui ancora non aveva ricevuto notizie dettagliate. Gli occhi di Agamennone, seduto con panni morbidi a sostenergli la schiena, erano fissi sulla coperta, sulla quale aveva abbandonato due mani intente a intrecciare ritmicamente le dita tra loro. Sembrava assorto. Profondamente serio.

Poi, si accorse della mia presenza. Alzò lo sguardo su di me. Ci mise qualche istante a elaborare il dettaglio delle mie mani piagate, così come a me servì qualche momento per registrare nella mente l'esistenza delle bende che gli stringevano il capo e il volto ancora pesto per i colpi ricevuti.

Veronica si alzò in piedi.

«Avete bisogno di parlare, voi due» mormorò, ripiegando la lettera e lasciando una carezza leggera sul viso di Agamennone. «A patto che non ti stanchi troppo, d'accordo?»

Lui annuì soltanto, baciando brevemente le sue dita. Veronica si diresse verso di me. Mi prese le mani, i suoi occhi erano lucidi. Grazie, sillabò, perché solo io potessi vederlo. Uscì.

L'espressione che tirava la bocca del mio amico era di disappunto. Sapeva cosa avevo fatto, e non gli piaceva. Non avrei ricevuto da lui la stessa gratitudine che mi aveva dimostrato sua moglie.

Quando parlò, la sua voce suonò secca.

«Voglio soltanto sapere una cosa. Soltanto una.»

Rimasi sulla soglia, torturando un lembo della tenda tra le dita. «Ti ascolto.»

I suoi occhi color nocciola erano seri come non li avevo mai visti. Intensi, arrabbiati.

«Perché? Io ero pronto, ero pronto da una vita intera.»

«Lo so. Ero io a non essere pronta.»

«Accidenti a te, Bianca! Possibile che tu sia così incosciente? Non sai quali effetti poteva avere il Serpente su di te, su tutti noi...e stavi per dare la tua vita, per la mia! Dimmi perché!»

«Perché ti voglio bene! E tu hai una moglie, e una figlia, e un futuro...»

«E io voglio bene a te, idiota! Anche tu hai un compagno, e un futuro. La mia vita vale esattamente quanto la tua, né più né meno. Lo capisci che non ha senso? A meno che non volessi dimostrare che avevi ragione...ma certo, tu lo fai sempre, vuoi sempre dimostrare che hai ragione...che il futuro lo costruiamo con le nostre mani, e non credi nel destino, e tutto il resto. Ti rendi conto che hai deciso di morire per dimostrare il tuo dannato punto di vista? Pensi che avrei potuto perdonarti se lo avessi fatto? Pensi che chiunque delle persone che ami avrebbe potuto accettarlo?»

«Non l'ho fatto per te, né per nessuno di loro! Io l'ho fatto per me!» Odiavo sentire il suono della mia voce incrinata. Eppure, quell'ammissione distrusse la diga delle mie emozioni. Mi ritrovai a parlare senza freni, interrotta da singhiozzi che cercavo di contenere nelle spalle. «Ho già perso due fratelli...e uno ha ucciso l'altro...Agamennone, non potevi chiedermi di rinunciare anche a te, non ce la faccio, morirei dentro, e questa volta per sempre. Non volevo provare nessun punto, non mi importa niente di avere o non avere ragione...ma se la scelta era morire o sopravvivere in un mondo in cui devo perdere ad una ad una tutte le persone che amo, allora sì, per un attimo ho pensato che preferivo essere io a morire, d'accordo? Preferivo essere io...perché è dannatamente più facile che accettare di restare da soli!»

Rimanemmo immobili ancora un momento, a fronteggiarci con sguardo palpitante. Poi, lui aprì le braccia. Non attendevo che quel segnale: a passo svelto raggiunsi il giaciglio, sedetti malamente accanto a lui e finii per abbracciarlo, forte. Agamennone mi accarezzò i capelli.

«Bianca...oh, Bianca...che cosa hai fatto...» lo sentii mormorare. Non c'era più rimprovero nel suo tono. Piuttosto, una pena infinita.

Chiusi gli occhi. Le lacrime scorsero ancora una volta. L'ultima, giurai a me stessa. L'ultima.

«Ho fatto una scelta», sussurrai sulla sua spalla.

Una scelta di cui avrei scontato appieno le conseguenze, non molto tempo più tardi.

 

Fui innalzata al rango di Assassina il 24 maggio 1512, a Bologna.

Non tutti gli Alti Ranghi furono unanimi in questa decisione. Tuttavia, alla fine perfino Giovanni De Medici, che era stato pronto ad uccidermi pur di non lasciarmi cadere vittima del Serpente, aveva dovuto convenire a denti stretti che non ero stata soggiogata affatto; anzi, tecnicamente avevo superato un'ordalia quale nemmeno il leggendario Ezio Auditore da Firenze aveva mai affrontato. Lui aveva incontrato un essere appartenente a un'altra civiltà, vissuta prima della nostra; aveva portato il suo messaggio ad un destinatario invisibile del futuro e ricevuto visioni sulla fine del mondo. Per me era stato diverso: non ero stata un tramite, ma un agente. Come la leggenda cristiana racconta di Eva, il Serpente mi aveva messa di fronte ad una scelta, ed io l'avevo compiuta. Non conoscevano ancora  le ripercussioni, ma la mia volontà di sacrificare me stessa fu encomiata da tutti. Io ascoltai quelle argomentazioni con il volto basso e gli occhi al suolo. Almeno fino a che non sentii Ludovico Ariosto dire:

«Avete fatto ciò che credevate giusto, Bianca. Ci saranno conseguenze, per questo...ma un capo deve saper compiere scelte difficili, e voi vi siete dimostrata all'altezza.» Guardò mio padre, come ad aspettare un cenno di assenso. Ezio disse soltanto, guardandomi intensamente: «Sarà domani. Preparati.»

Non so cosa provai, mentre attraversavo la navata della Chiesa della Madonna del Baraccano. L'affresco della Pace era lì, e mi guardava fisso come il giorno in cui avevo incontrato Zenobia per la prima volta. Così tanto della mia vita mi era stato profetizzato, quel giorno. Così tanto sarebbe andato perduto, dopo poco tempo. Tuttavia, quando sotto gli occhi dei miei compagni e famigliari tesi il dito perché Ezio lo marchiasse a fuoco, ricordai un altro giorno della mia vita, forse meno significativo ma tanto, tanto più caro al mio cuore.

Quando mio padre mi aveva messo tra le mani la mia prima lama celata, aveva detto:

Io non ho scelto il mio destino. È stato lui a scegliere me.”

Ora sapevo di cosa parlava. Ora capivo.

Mentre la tenaglia arroventata mi stringeva la carne, lo guardai, e lui resse il mio sguardo. Avevo smaniato perché quel giorno arrivasse, e oggi che ero finalmente un'iniziata comprendevo tutti i dubbi di Rosa ed Ezio nell'avvicinare Vanni e me al Credo. Capivo perché avessero desiderato per noi una vita diversa, e li ringraziavo, per questo. Ma ormai sapevo chi ero, chi non sarei mai stata, e in cosa credevo. Sapevo che non sarei più potuta, e non avrei più voluto, tornare indietro. Ero Bianca Auditore da Monteriggioni – e, come i miei genitori prima di me, ero un'assassina.

 

Giuliano affonda tra le lenzuola damascate, gli stucchi e gli ori della stanza emergono appena dalla coltre di nebbia che gli copre gli occhi. Maledetto corpo, carcassa inutile che ormai non può più contenere il suo spirito feroce. Tra poco non dovrà più preoccuparsi delle gamb che non lo sostengono, dei polmoni che non riescono più a divorare l'aria, del cuore che non segue più un battito razionale e costante. Tutto ciò che è terreno lo abbandonerà presto.

Quanta strada, dalla minuscola Albisola. Quanta pena quando, sotto la tunica francescana, indossava il cilicio, mentre studiava diritto a Perugia e si illudeva di purgare i peccati della carne per elevare la mente verso Dio. Poi, era arrivata la fumata bianca che gli aveva cambiato la vita. Suo zio Francesco, a cui doveva tutto, era diventato Papa. E Giuliano aveva seguito la sua strada lastricata d'oro e promesse, iniziando a sognare.

Ha desiderato una Chiesa forte, e un Ordine Templare finalmente epurato da quella piaga in suppurazione che porta il nome di Borgia. Ha voluto un'Italia potente, pia e libera. E oggi muore di rabbia e fiele, le mani adunche contratte per il dolore di non stringere ciò che più di tutto desiderano. Il Serpente, il misterioso Frutto dell'Eden che ha affidato alle mani impure di una zingara, e alla custodia del traditore De Medici. Volta il capo, osserva le facce pallide che galleggiano nella penombra accanto a lui. Distingue il volsto asciutto di Francesco Maria, il nipote su cui ha caricato il peso della propria eredità. Tende la mano. Il giovane uomo la stringe nelle proprie, impedendole di tremare.

«Ti ho sempre assolto» mormora il Papa «Da ogni omicidio, da ogni strage, da ogni furto tu abbia commesso in tutta la tua vita. Ti assolverò...» Un sogghigno, ma sofferente, gli tira le labbra. «...anche dal mio omicidio.»

Un silenzio, prima sbalordito, poi scandalizzato, da parte del giovane uomo.

«Zio, la febbre vi fa delirare.»

Giuliano si umetta le labbra secche con il poco sputo che gli è rimasto in bocca. Così bravo, Francesco Maria, a giocare la parte dell'innocente con il difetto dell'eccessiva irruenza. Così inutile, ora, la sua farsa.

Nel momento in cui aveva costretto Isabella d'Este a dare sua figlia Eleonora in sposa a Francesco Maria, Giuliano sapeva di aver commesso un azzardo; d'altronde, chi non osa non vince nulla, se non un'evanescente gloria. Non poteva immaginare che quell'idiota si sarebbe innamorato di sua moglie, lasciandosi guidare dai suoi giudizi imbevuti di ideologia nemica. Ma va bene così, dopo tutto. L'affetto è la debolezza di ogni guerriero. Non può imputare a Francesco Maria lo stesso difetto che ha condotto Giuliano alla morte: troppo attaccamento per quel ragazzo del tutto inadatto ad ereditare la sua grande visione militare ha ottenebrato il suo giudizio. Si è lasciato fuorviare lui stesso, e questo l'ha condotto alla fine.

«Ti assolvo dal peccato di essere caduto nella rete della puttana assassina che hai sposato» bisbiglia ancora «colei che doveva essere il tuo ostaggio ed è diventata la tua rovina. Ti assolvo perché hai avvelenato il mio cibo fino a che non ho potuto più alzare la testa da questo cuscino...ma per aver rinnegato la Croce e gli insegnamenti del Tempio, no, non sarai mai perdonato, da me e da quanti sono venuti prima di me. Quando arriverai dall'altra parte di quel fiume che mi accingo ad attraversare, chiederò a San Pietro di sbarrarti i cancelli del Paradiso, affinché la tua anima marcisca per sempre...non nell'inferno, ma nell'attesa di una beatitudine eterna che non ti spetterà mai.»

Non vede la reazione di Francesco Maria; immagina il suo volto sciolto in un'espressione di tacito avvilimento. Tutto nel mondo in cui inala lentamente grida: umiliazione. Sì, Giuliano conosce il dolce sapore dell'umiliazione inflitta a chi ti vuole distruggere. Il ragazzo potrà anche essere riuscito ad ammazzarlo, ma lo sa, quelle parole rimarranno un tarlo nella sua mente fino all'ultimo respiro.

Il suo ultimo respiro. È arrivato, forse è proprio questo...forse il prossimo. Quella gran troia di Isabella D'Este se la riderà, chiusa nel suo palazzo a giocare a scacchi illudendosi che i pezzi che muove siano re e regine d'Europa, e le caselle regni interi piegati alla sua intelligenza. Farà inaugurare le botti migliori del suo vino soltanto per festeggiare la notizia. Deve aver progettato questo istante di trionfo fin dal momento in cui ha spinto nel mondo dal proprio fetido grembo quella piccola sirena ammaliatrice di Eleonora; deve averla allevata appositamente per farne lo strumento della rovina di Giuliano.

Un'altra donna gioirà stanotte, quando saprà che il Papa Guerriero ha deposto le armi: la figlia dello Spagnolo, che dopo essersi rotolata nel fango con il proprio fratello ha trovato il modo di eliminare il padre affinché non fosse d'ostacolo alle loro porcherie. Povero Ordine del Tempio, in quali grinfie devo vederti cadere? Posso lasciare che una femmina ti porti alla distruzione? E' arrivata ad allearsi con quella canaglia di Ezio Auditore, la Borgia, pur di vedere il dominio di Giuliano sgretolarsi nella polvere. Ebbene, questo non accadrà...fino a che avrà respiro, e anche quando non ne avrà più. Ci sarà chi porterà avanti il suo disegno.

Fa chiamare il medico bolognese, Tancredi. Bestia infida, quella: ma letale. Gli dà istruzioni. Deve fare di tutto perché il conclave finisca per proclamare come nuovo papa Raffaele Riario. Se i Medici si insidieranno sul seggio di Pietro, allora...la Conoscenza, l'Armonia, tutto ciò per cui hanno lottato da sempre......ah, com'è difficile mettere insieme i pensieri...finito, per i capricciosi occhi di una donna. Sprofondato tra le luride cosce di una...i rumori, non avverte più i rumori...non c'erano rumori nel chiostro del convento in cui giocava da bambino...la stanza è sfocata, i volti danzano intorno senza forma e Giuliano non sa più chi è chi...ma sì, convincerà San Pietro a lasciargli tenere strette le chiavi ancora per un po', per serrare e disserrare i cancelli del Paradiso un'ultima...


 

Tancredi libera delicatamente il bavero della camicia dalla stretta adunca del morto. E' l'una di notte del giorno del Signore 21 Febbraio 1513: Giulio II è morto, la Cristianità è orfana e con essa i Cavalieri del Tempio. Il medico bolognese sa che quel vuoto di potere deve essere riempito. E morirà, prima che a farlo sia un Assassino.


Note di BlackFool

Eccoci qui, finalmente. Mancano solo un capitolo e l'epilogo (li pubblicherò insieme appena saranno finiti entrambi)...che strana sensazione, essere a un passo dalla fine. Ho molto chiaro nella mente quello che voglio fare, vediamo se l'ispirazione seguirà. Forse, dopo BCP, prenderò una pausa dal mondo di Assassin's Creed e cercherò di mettere su carta qualche trama Regency che ho intesta da un po'. Forse riscriverò un vecchio romanzo fantasy-romano di cinque anni fa. Chi lo sa. Per quanto, lo ammetto, alle volte io abbia odiato questa storia che si complicava sotto le mie dita senza che apparentemente riuscissi a tirarne le fila, so già che mi mancherà da morire. 
Bianca è andata all'inferno per davvero: ha tirato fuori Agamennone dalla trappola delle stelle, ma per farlo ha venduto l'anima. Su chi ricadrà la scelta dell'Universo? Al prossimo capitolo, provvisoriamente intitolato "Il volo dell'aquila". 

Laura.

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Capitolo 49
*** Habemus Papam ***


 
Quando venni a conoscenza della morte di Giuliano della Rovere, il mio cuore esultò con ferocia.
Era lui, il tributo richiesto dall'Universo. Per una volta, una giustizia superiore aveva riconosciuto chi meritava la morte e chi no. Per una volta, un patto con il demonio non si ritorceva contro chi l'aveva stipulato.
Fu come ricominciare a respirare, per me; tutti se ne accorsero, e non instillarono dubbi nella mia certezza.
Agamennone era lentamente migliorato, in quei lunghi mesi, fino a guarire del tutto. Un'altra cicatrice alla testa, gemella di quella che aveva ricevuto durante lo sterminio della sua famiglia, faceva sfoggio di sé tra i suoi ricci biondi, che in quel punto non crebbero più folti come prima. Anche lui, suppongo, non fu più esattamente lo stesso di prima. Era così convinto che sarebbe morto giovane, e per tanto tempo, che fu difficile per lui realizzare di avere ancora tutta una vita da vivere.
Appena Simza aveva decretato che il convalescente poteva spostarsi, lui e Veronica erano rientrati a Milano, per ricongiungersi con la loro Emilia. Il nostro periodo di separazione non era durato a lungo, comunque: quell'estate, a Monteriggioni, fummo riuniti tutti quanti, per un evento finalmente felice.  Martino ed io, infatti – e per il grande sollievo di Zia Claudia, che detestava dover mantenere il segreto -, avevamo deciso di celebrare il matrimonio in maniera ufficiale.
Anche se con il cuore ancora schiacciato da presagi e paure dopo quella battaglia tremenda, riuscimmo a farne una bella festa. C'era la mia famiglia, naturalmente, che ora era ristretta ai miei genitori, gli zii e la sempre più graziosa e arguta Lisabetta, che aveva compiuto da poco undici anni. C'erano Agamennone e Veronica con Emilia, e Diamante, con il figlio di sangue e i due, Niccolò e Guido, di cui aveva promesso di prendersi cura. Naturalmente, Monteriggioni fu invasa da un'orda di Semeraro, e non soltanto quelli che io conoscevo. La situazione era così straordinaria che l'energica Flaminia aveva affidato allo smidollato marito la fattoria, il neo-consacrato Pietro aveva lasciato il convento e i soldati di ventura Francesco e Sebastiano avevano chiesto una licenza. Nella sala dei banchetti aggiungemmo un tavolo solo per loro.
Dal canto suo, Jacopo mandò un biglietto per congratularsi, ma, con quella grazia impeccabile da diplomatico consumato, capì al volo che non sarebbe stato il caso di partecipare. Simza, ci fece sapere, era ripartita per un vagabondaggio solitario da gitana, ma qualcosa nel tono della lettera mi fece intuire che forse avrebbe fatto di nuovo tappa alla villa romana del nostro comune amico, quando il vento del destino ve l'avesse spinta di nuovo.
Come zia Claudia aveva auspicato la notte delle nostre prime nozze, il vecchio prete cieco e ubriacone di Monteriggioni unì Martino e me in matrimonio – di nuovo - come aveva fatto per i miei genitori e per i miei zii. Erano presenti tutte le persone a cui più tenevamo, ed erano arrivati regali da mezza Italia per il matrimonio e per la nostra nuova casa. Già, avevamo una nuova casa: Martino ed io avevamo comprato, con i proventi delle nostre missioni, il casale dove ci incontravamo da ragazzi. Ci sarebbero voluti molti lavori di ristrutturazione per rimetterlo in piedi, ma la gente del borgo fu felice di aiutare; alla fine dell'estate eravamo a metà dell'opera. Appena l'intonaco fu asciutto, appesi  nella camera da letto il mio dono di nozze preferito, che era arrivato direttamente da Mantova. Si trattava di una lamina d'argento, su cui la Marchesana aveva fatto incidere lo stemma degli Assassini. Sotto di esso, campeggiava il suo motto: Nec spe, nec metu. Né con speranza, né con paura.
Sì, Isabella era stata costretta dagli eventi a rinnegarci; ma ora non potevo più biasimarla come un tempo. Sapevo bene che, se la vita di Martino fosse stata a rischio, io avrei fatto esattamente lo stesso. Per questo, volli il suo dono sulla testata del mio letto nuziale: un ricordo di come avrei voluto vivere la nostra nuova vita da quel momento in avanti. Né con speranza, né con paura. Solo con la forza di affrontare ciò che sarebbe arrivato sul nostro cammino, di volta in volta, insieme.
Agamennone e Veronica accettarono di restare a vivere con noi al borgo, almeno per il momento. La villa aveva ampio spazio per accogliere loro e la bambina, e ne avrebbe avuto ancora di più  dopo la morte del Papa, visto che la situazione instabile avrebbe costretto metà dei suoi abitanti a spostarsi a Roma. I mesi di quiete dopo il nostro secondo matrimonio erano stati brevi: il tempo delle celebrazioni, per la mia famiglia, era finito.
Prima di lasciare la Villa, Agamennone ed io ci eravamo salutati con un fondo di amarezza dietro gli occhi; non tensione, no, ma una punta di tristezza. Vincendo la profezia, entrambi avevamo perduto qualcosa di importante, a cui non sapevo dare un nome. Fu come se da quel momento in poi non fossimo più stati in grado di distinguere giusto o sbagliato, bianco e nero - o, per quel che importa, tutte le sfumature intermedie. Non so se posso parlare anche per il mio amico, ma per quanto mi riguarda sento che la mia coscienza ora è fatta di macchie di nebbia, più scure, o più rade, o uniformi, senza alcuna soluzione di continuità. Ha senso quello che vi sto dicendo? Quel che intendo è...prima, era più facile intuire ancora i confini del bene o del male.
Il tempo per i rimpianti, in ogni caso, era finito. Dovevamo concentrarci sul Conclave che avrebbe seguito la morte del Papa: avevamo pochi giorni per organizzarci, prima che i cardinali venissero rinchiusi in San Pietro.
 
3 Marzo
 
«I convocati saranno venticinque» disse Ariosto, mentre seguivo i suoi passi lungo il distretto del Foro, tra le rovine romane. «Riario è il nostro nemico principale, il papabile che dobbiamo sconfiggere. È spalleggiato dai due nipoti di Giulio, Sisto Gara e Marco Vigerio; inoltre, dobbiamo considerare che i vescovi filospagnoli saranno probabilmente dalla loro parte, visto che la Lega Santa non è stata ufficialmente sciolta.»
«Quanti sono, questi filospagnoli?» domandai. Il passo di Ariosto aveva la sicura inesorabilità di chi si accinge a scendere in battaglia, ed io mi domandai se stessimo davvero raggiungendo la locanda della Volpe Addormentata, o se piuttosto non mi preparasse a scendere con lui in una tana di leoni.
«Due» replicò lui, secco «Luigi d'Aragona e Jaume Serra i Cau, detto l'Alborense. In più, Francesco Soderini farà di tutto per contrastare l'ascesa di un Medici al trono pontificio.»
«E chi abbiamo dalla nostra parte?»
«Achille Grassi, vescovo di Bologna: è un solido alleato di Giovanni, hanno collaborato spesso quando era legato pontificio.»
Attesi, con una smorfia, che proseguisse. Non lo fece.
«Ditemi che non è l'unico, Ludovico.»
«Non esattamente. Sigismondo Gonzaga desidera riparare la vergogna che suo fratello Francesco ha portato sulla famiglia, tradendo l'Ordine per la Borgia.»
«Grassi e Gonzaga. Chi altro?»
«In mezzo, ci sono gli indecisi. Un inglese, uno svizzero: troppo fuori dalle nostre sfere di influenza per poter prevedere chi appoggeranno. L'ungherese, Bakócz potrebbe avere interessi comuni ai nostri. Non sono sicuro del francese: se la verità sulla morte di Gaston De Foix è trapelata nelle alte sfere – e sono sicuro che lo sia, a questo punto -, potrebbe essere difficile convincerlo.»
«Un momento. Mi state dicendo che i Templari hanno già sei voti assicurati, e noi soltanto tre?»
«Ci sono sedici cardinali imprevedibili tra loro e la vittoria, Bianca. Il Papa viene eletto con una maggioranza di due terzi: nel nostro caso, ne servono sedici perché un candidato sia legittimamente eletto. I giochi sono ancora aperti, come potete vedere.»
«Sembrate molto sicuro che riusciremo a convincere gli indecisi a passare dalla nostra parte.»
«Lo sono, perché so che voialtri saprete essere molto persuasivi.»
«Noialtri...chi?»
Ebbi la mia risposta quando la porta della taverna schioccò sui cardini, rivelando un locale insolitamente vuoto. Sì, avevo fatto in tempo a scorgerlo prima che Ariosto aprisse la porta: il cartello diceva che la taverna era chiusa. Dentro, però, seduti insieme a un grande tavolo rotondo, c'era un gruppo di uomini dalle facce scure.
Mio padre e Martino sedevano uno accanto all'altro come a fare fronte comune, ben separati da Ermes, Vanni e un templare alto, vestito interamente di nero, che non riconobbi. Seduto accanto a loro c'era anche un vecchio dall'aria bonaria, che non avevo mai visto prima. Indossava un povero saio. Appena mi vide, mi rivolse un sorriso, e batté la mano sulla sedia vuota accanto a lui.
Ebbi l'istinto di rispondere a quel sorriso. Le mie labbra si ritirarono in una linea stretta appena notai che portava al collo la croce d'argento con i rubini.
«Bianca Auditore, vi presento Padre Geremia» disse Ariosto «ed Etienne Ponthieux, cavalieri del Tempio.»
Il vecchio continuò a sorridere, l'uomo chiamato Ponthieux rimase impassibile. Sembravano le personificazioni della Gioia e della Tristezza, e che uno vestisse abiti poveri mentre l'altro portava un giustacuore raffinato non faceva che rafforzare quel contrasto.
«Bene» Ariosto pose sul tavolo alcune carte, ed io sedetti, sebbene a denti stretti, accanto al vecchio. Martino, al mio fianco, era cupo come raramente l'avevo visto. «Vi chiedo scusa per il ritardo, madamigella Auditore è appena rientrata da una ronda ed io ho dovuto raccogliere le informazioni che mi ha portato. Direi che siamo pronti per iniziare.»
Sostanzialmente, ciò che Ariosto disse fu una versione piu' lunga e dettagliata di quel che aveva spiegato a me: questo mi consentì di lasciare vagare la mia attenzione sui presenti. Ermes era serafico come sempre, mentre Vanni sembrava avere occhiaie piu' profonde dell'ultima volta in cui l'avevo incontrato. Mi chiesi quali ripercussioni avesse avuto su di lui l'assassinio di Gaston. Forse aveva subito le conseguenze dell'ira di Lucrezia. Per una volta fu difficile non simpatizzare con lui, nonostante tutto. Benché avesse distrutto l'alleanza con i francesi, il suo gesto aveva probabilmente salvato le sorti della battaglia e le chiappe di tutti noi.
Già, i francesi. Se non appoggiavano più la Borgia, cosa ci faceva qui quel Pontieux?
Mentre correva dal suo volto squadrato alla parte assassina del tavolo, il mio sguardo intercettò quello di mio marito. Era carico di un odio a malapena trattenuto, che si riversava tutto sul templare in nero.
Gli scoccai un'occhiata che conteneva una domanda. Lui schiuse appena le labbra, tenendo i denti stretti.
«Mirandola» sussurrò, così piano che solo io potei sentirlo. «Ponthieux era er carceriere.»
Serrai forte la mascella, e, cercando la mano di Martino sotto il tavolo, la strinsi. Dovevamo ingoiare bocconi amari come quello ancora per poco. Una volta che il nostro candidato Papa fosse stato insediato sul soglio di Pietro, i figli di Abele non avrebbero avuto più nulla a che spartire con noi figli di Caino.
Ci dividemmo i compiti, separandoci in squadre. Ermes e mio padre si sarebbero occupati di persuadere il cardinale Bakócz, Vanni e Martino avrebbero intimidito lo svizzero Schiner, Ariosto e Ponthieux avrebbero cercato di far ragionare – amavo quell'espressione – un paio degli italiani non schierati. Io, per quel primo incarico, finii in coppia con Padre Geremia.
Il vecchietto sembrava contento, ammiccò nella mia direzione quando gli incarichi furono distribuiti.  Mi chiesi se non si trattasse di un viscido modo di fare un'allusione. Volevo crederlo, in parte. Era più comodo che accettare il fatto che quel frate templare avesse un'aria benevola e felice proprio come sembrava.
Alla strana coppia che eravamo fu affidato il compito di mettere pressione su Alessandro Farnese.
 
4 Marzo
 
Le nostre spie ci dissero che l'avremmo trovato di mattina presto nella Biblioteca Vaticana, dove soleva trascorrere molto tempo dalla morte di Giulio. Curioso. Altri uomini di chiesa avrebbero cercato consolazione nella preghiera, almeno per le apparenze che il loro ruolo richiedeva. Avrei presto appreso che il cardinale Farnese aveva dovuto imparare a non prestare troppa attenzione alle apparenze.
Padre Geremia non aveva più l'età per arrampicarsi, ma sapeva persuadere con il suo sorriso calmo e le generose donazioni che riusciva ad estrarre dalle pieghe dell'insospettabile saio. Grazie ad una di queste, un attendente del Vaticano si incaricò di farci strada verso la biblioteca, facendoci spergiurare che non avremmo fatto il suo nome, e nessuno sarebbe rimasto ferito, e il suo posto di lavoro sarebbe rimasto al sicuro. Con quella serenità che lo contraddistingueva, Geremia promise e gli lasciò una benedizione sul capo, giurando che non voleva altro che l'accesso agli scritti autografi di San Tommaso d'Aquino, per poterne ricopiare le sante parole da riportare al suo monastero. L'attendente, allettato dal denaro, finse di credergli.
Per quanto mi riguarda, io seguivo il frate a capo chino, vestita da ragazzo, con i capelli nascosti da una pruriginosa parrucca dall'orribile taglio rotondo che ci si ostinava a infliggere ai ragazzini. Ero, ufficialmente, un novizio francescano.
Sì, lo ammetto, la situazione era piuttosto ironica. E, se mi ero lamentata in passato degli abiti da dama, promisi a me stessa che non l'avrei più fatto, ora che conoscevo la sensazione della iuta che sfrega sulla pelle nuda.
Camminavo tesa dietro Geremia, osservando i corridoi così ridondanti di stucchi e affreschi colorati che tutti gli angeli, serafini e cherubini sembravano voler scendere su di me a soffocarmi. Quell'architettura non si apriva verso l'alto, no, non era una preghiera a un Dio invisibile. Era pensata per far vedere a chi lo attraversava che il cielo è pieno di occhi che osservano, giudicano, vendicano. Era un memento del potere degli uomini sugli altri uomini.
L'attendente ci lasciò di fronte alla porta, e sgattaiolò via.
«Come facciamo ad essere sicuri che non ci venderà alle guardie?» mormorai, guardando la sua schiena allontanarsi.
Il frate mi sorrise. «Non lo siamo. Per questo, è meglio fare in fretta.»
La Biblioteca aveva altre finestre che inodavano di luce gli scaffali ricolmi. Il cardinale era in piedi accanto ad essi, e sfiorava lentamente le brossure. Non sembrava stesse cercando un libro in particolare. Pareva piuttosto accarezzare il volto di qualcuno che amava, e trarre consolazione da quel contatto.
Si accorse della nostra presenza in ritardo. Alzò gli occhi, sospettoso. Due frati francescani non erano esattamente una vista comune in Vaticano.
«Eccellenza reverendissima» zufolò Padre Geremia, inginocchiandosi a fatica sulle giunture nodose per baciare i suoi anelli. «Il mio discepolo ed io siamo mortificati di aver disturbato il vostro raccoglimento.»
«Nessun disturbo, padre. La conoscenza appartiene a tutti.»
Potevo vedere la diffidenza sul suo volto, quando aiutai Geremia a rialzarsi. Mi accinsi a compiere lo stesso gesto del mio compagno, ma la mano inanellata sfuggì alla lieve stretta delle mie. Sfiorò le mie guance con la stessa delicatezza con cui aveva afferrato i libri. Poi, con improvvisa fermezza, strappò la parrucca e mi torse i capelli dietro la nuca.
«Che razza di scherzo è questo? Cosa ci fa questa donna...»
Non feci in tempo a reagire, che avvertii la stretta allentarsi e il corpo di Farnese irrigidirsi. Padre Geremia gli si era portato alle spalle, le mani raggrizite stringevano il suo braccio saldamente mentre l'altra mano gli puntava alla schiena un pugnale.
«Tranquillizzatevi, Eminenza» sussurrò dolce sulla sua spalla. «Vogliamo soltanto fare due chiacchiere con voi.»
Scrollai la testa per liberare la treccia, e strappai quel moncherino di parrucca che penzolava ancora dalla mia nuca. Estrassi a mia volta dalla coscia i pugnali da lancio che vi avevo legati, allo stesso modo in cui Veronica usava tenere i suoi stiletti. «Se provi a chiedere aiuto ti faccio affogare nel tuo stesso sangue, brutto bastardo.»
«Non ce ne sarà bisogno» Geremia mi rivolse un'occhiata di bonario rimprovero. «Non è vero, Eminenza?»
«Cosa volete da me?»
Padre Geremia accompagnò gentilmente il cardinale ad una sedia, mentre io andavo a bloccare le porte di accesso alla biblioteca.
«Oh, nulla di ché» sorrise il templare «Vogliamo solo assicurarci che votiate la persona giusta al prossimo conclave.» Prese posto accanto al prigioniero, e poggiò un gomito sul tavolo, sprofondando poi il volto rugoso nella mano. Con l'altra, roteava il pugnale tra le dita con l'abilità di un giocoliere.
Farnese accennò ad un ghigno teso. Era un uomo che si avviava verso la sessantina, tuttavia negli occhi bruni conservava ancora un guizzo impertinente, da ragazzo.
«Fatemi indovinare...vi ha mandato Riario?»
Roteai gli occhi al cielo. «Non puoi essere più fuori strada.» Una volta che ebbi tirato le tende, assicurandomi che non avremmo avuto interruzioni, mi avvicinai al lungo tavolo e presi una sedia a mia volta, assumendo una postura un po' più minacciosa di quella che sfoggiava Geremia.
«De' Medici...non ci credo.» Una risata amara fiorì nella gola del nostro bersaglio. «Non può essersi abbassato a tanto.»
«È cambiato parecchio, da quando studiavate insieme a Pisa» disse Geremia, quasi atono. «È quello che succede in questo covo di serpenti che è San Pietro...Ora, vedete, Giovanni ha bisogno di reinverdire il vostro antico vincolo di amicizia, per essere certo che non tradirete la sua fiducia.»
«E lo fa mandandomi dei sicari?»
Ammiravo l'ironica spavalderia del cardinale, ma sapevo che il ruolo del gendarme pericoloso sarebbe toccato a me, in quel frangente. Perciò, lasciai che fosse Geremia a rispondere, sornione: «La mia amica ed io preferiamo definirci negoziatori. Sappiamo bene che un uomo potente come voi non lascia intimidire da così poco...»
«Dunque, cosa sperate di ottenere?»
«La domanda giusta, Eminenza, è cosa sperate di ottenere voi, in cambio delll'aiuto che presterete alla nostra causa.» Prima che Farnese potesse schiudere di nuovo la bocca, Geremia si portò un dito sulle labbra. «No, non ditelo. Non nominate quel nome. Sappiamo che tormenta ancora le vostre notti. È intriso nei muri, in ogni stucco di questo palazzo. Il suo profumo impregna ancora l'aria.»
Poggiai i gomiti sul tavolo a mia volta, protendendomi verso il cardinale. «Sono passati dieci anni, ma nessuno a Roma ha mai smesso di parlare di Giulia. O della figlia che ha dato a Papa Borgia. O del fatto che dovete la vostra amata porpora a lei... mio caro cardinal Fregnese.»
La mascella dell'uomo si serrò. Mi strinse il polso, tirandomi verso di sé. Io reagii puntandogli il pugnale alla gola.
«Bianca» sibilò Geremia. Finsi di non averlo nemmeno sentito, mentre puntavo gli occhi in quelli del cardinale.
«Sei uno sporco ingrato, Farnese. Era bella, tua sorella Giulia, non è vero? Aveva quindici anni quando la tua famiglia l'ha messa nel letto di Borgia...per te. Per dare potere e onori a te. Una quindicenne, venduta a un vecchio bavoso come fosse una puttana. Tutta Europa la chiama ancora la sposa di Cristo...e tu ti vergogni come un cane, perché sai che senza di lei non saresti arrivato dove sei ora.»
«Ed è per questo che siamo qui» disse Geremia, in tono conciliante. «Se speri che un giorno la macchia sulla reputazione della tua famiglia sia lavata, Farnese, la memoria di Giulia deve sparire dal Vaticano per sempre. La sua bellezza è diventata una vergogna imperitura...eppure campeggia in ogni quadro sacro, in ogni statua ordinata dal Borgia. L'amante del Papa ha prestato il suo volto alla Madonna...non ti fa rabbrividire, questo?»
Lo sguardo spaventato che passò negli occhi del cardinale in quel momento me lo fece rivalutare un po', lo ammetto. Almeno aveva a cuore la vita della sorella a cui doveva tanto. Abbassai la lama.
«Lasciatela in pace. Giulia ha pagato abbastanza...si è ritirata nel suo feudo, governa le sue terre e non si mischia più alla politica. E anche io...potrò aver ottenuto questa porpora grazie a lei, ma ciò che ho fatto poi con questo potere dipende da me soltanto!»
«Oh, Eminenza!» Geremia si portò una mano sul cuore. «Ci avete frainteso, me ne dispiaccio. Non intenderemmo mai ferire la vostra amata sorella, o voi. Ciò che vi proponiamo, è una damnatio memoriae...sapete, come il senato romano decretava dopo la deposizione degli imperatori folli. Distruzione delle statue e delle effigi, per cancellare i loro tratti dalla memoria collettiva. Forse, a ben pensarci, anche per la vostra Giulia sarà un sollievo poter essere dimenticata da questo  mondo di corruzione e inganni.»
«State davvero paragonando mia sorella a un Nerone? A un Domiziano?»
«Be', come dirlo in termini gentili, Eminenza...il suo ricordo avrà sulla vostra carriera ecclesiastica lo stesso effetto dell'Incendio di Roma. Pensate davvero che potrete mai diventare un papabile, con una tale macchia nel vostro passato? E anche se fosse, cosa scriverebbero gli storici della Chiesa di voi? Il Papa della Gonnella, vicario del Meretricio in terra...»
L'uomo sorrise, amaro. Lo capii subito, le parole di Geremia avevano colto nel segno. Tuttavia,  lui tentò un'altra, ironica difesa: «Il passato di Papa Borgia era ben più torbido, non trovate?»
«E voi non volete certo essere come lui.»
L'espressione di Alessandro Farnese vacillò.
Scacco matto.
Premuroso, Geremia disse: «Solo le statue, Eminenza. Solo i quadri che la ritraggono. Soltanto ciò che ricorda la turpitudine a cui si è dovuta sottoporre...sapete che ne avete bisogno, e forse ne ha bisogno anche lei. Troveremo un quadro dopo l'altro, una statua dopo l'altra. Le abbatteremo per voi, e sarete entrambi liberi. In cambio non chiediamo altro che assicurarci che farete la scelta giusta quando entrerete nella Cappella Sistina.»
Farnese abbassò gli occhi. Strinse le labbra, rilasciando un sospiro pesante dalle narici.
«Giovanni...sarà un buon Papa.»
Il sorriso di Geremia si allargò. «Se non lo pensassimo, Eminenza, non saremmo qui.»
«Avrete il mio voto, se farete ciò che avete promesso. Ma» e, quando mi guardò, i suoi occhi erano gravi «un voto non basta a darvi la certezza della vittoria. Non otterrete nulla di concreto finché non avrete in pugno Adriano Castellesi e Luigi d'Aragona. Sono loro che possono spostare l'ago della bilancia.»
Castellesi...Castellesi...quel nome risuonava sottile nella mia memoria. Perché?
Adriano Castellesi...cardinale...un agosto torrido...una cena nella campagna romana...una ragazzina prigioniera dei nemici di suo padre, e del vino avvelenato...
Geremia raddrizzò le spalle rachitiche, come a dire a Farnese: vi ascolto. Il cardinale proseguì:
«Castellesi è il procuratore di Enrico VIII di Inghilterra a Roma, il che significa che Bainbridge seguirà le sue direttive.»
«Un solo voto non è determinante» obiettai. Farnese mi zittì con un'occhiata.
«Lo è, se considerate i legami politici di cui è intriso. Castellesi rappresenta gli interessi del re inglese, che è sposato con Caterina d'Aragona. La sorella della Regina Consorte d'Inghilterra è la madre del giovane Carlo, erede della corona di Spagna e futuro successore del nonno Massimiliano sul trono del Sacro Romano Impero. Con queste alleanze di mezzo, capirete da soli che se avete il voto della Spagna porterete con voi tutto l'Impero...puntate anche Luigi d'Aragona, vi dico, e Jaume Serra i Cau. Sono sopravvissuti a tanti papati, sono abili abbastanza da persuadere tutti gli altri che Giovanni è l'uomo di cui la Cristianità ha bisogno in questo momento..»
Rivolsi un'occhiata nervosa a Geremia. «Abbiamo combattuto gli spagnoli a Ravenna. Non ci appoggeranno mai. La Lega Santa...»
Farnese rise – un suono secco e brusco. «La Lega Santa, madonna, è morta con quella battaglia, e sepolta con Giuliano. Chi vi aderisce ancora non segue altri che l'Imperatore...e quei tre, per i motivi che vi ho elencato, sono coloro che sussurreranno all'orecchio dell'Imperatore il nome del nuovo Papa. Trovate il modo di persuadere loro, e avrete il conclave in pugno.»[1]
Era complesso, e del tutto fuori dalle logiche dualistiche in cui avevo imparato a incasellare il mondo: templari da una parte, assassini dall'altra. Quella millenaria divisione contava ancora qualcosa? I templari erano scissi, e noi ci eravamo alleati con una delle due fazioni. Per il male minore, certo. Immagino che anche i grandi della politica ragionassero a quel modo, mentre muovevano le loro pedine sulla mappa dell'Europa. Qual è il male minore per la mia gente e la mia stirpe? Come posso lasciare in eredità una situazione migliore a quelli che verranno dopo di me? Alla fine, ridotto ai minimi termini, questo è il conflitto di tutti noi: se la situazione migliore sia un tozzo di pane in più sulla tavola o un regno più esteso e più prospero di quello che abbiamo ereditato, questo lo decide soltanto il destino della nostra nascita.
 
 
Non avevamo tempo di adempiere alla promessa fatta a Farnese prima dell'inizio del conclave – non del tutto, almeno. Iniziammo la distruzione delle raffigurazioni di Giulia Farnese quella notte stessa, ma rintracciare tutte le opere che la ritraessero sparse per l'Italia era un lavoro meticoloso, da svolgersi in più settimane, se non mesi. Di quella notte dei primi di marzo del 1513, ricordo l'affresco della Madonna con il Bambino. Era nella stanza privata di Papa Borgia, in quell'ala del Vaticano che Giuliano della Rovere aveva fatto chiudere dopo la sua elezione, quasi fosse un luogo infestato da presenze maligne. Immaginavo pareti che grondassero il sangue dei delitti di quella famiglia diabolica, o almeno un odore di malvagio, un mormorio di spettri mai placati. Non fu quello che i miei compagni ed io ci trovammo di fronte...erano solo muri, con tende strappate e decadenti su bastoni spezzati, finestre distrutte dal lancio di sassi, mobili ancora eleganti ricoperti di ragnatele e strati di polvere decennale.
Inspirai forte, inalando quell'odore di desolazione. Solo dieci anni prima, Cesare Borgia era stato potente e temibile, ed io l'avevo mandato a morte certa a casa di Adriano Castellesi da Cornero, con al dito un anello che avrebbe rilasciato un veleno mortale. Cesare aveva capito il mio gioco, e si era sbarazzato dell'anello...ma suo padre, avvelenato dal vino regalatogli da Lucrezia, era morto comunque, trascinando con sé tutta la fortuna del figlio.
Zio Ugo mi poggiò una mano sulla spalla. Cercai i suoi occhi nel buio, sotto il cappuccio. Distinsi solo una pozza di buio.
«Sto bene» dissi, seccamente. Accesi una candela per rischiarare gli affreschi, e iniziare la nostra opera di distruzione.
Quell'affresco in particolare lo trovai sulla porta della camera del Borgia.[2] Era bello, non c'è che dire. Di una bellezza che, se si fosse trattato di qualcun altro, mi avrebbe toccata. Il Papa che mio padre continuava a chiamare con disprezzo Lo Spagnolo era inginocchiato nell'atto di adorare una Madonna con Bambino. Rodrigo si toccava il cuore con la mano; nell'altra stringeva delicatamente il piede del neonato, guardandolo rapito come solo un padre può guardare un figlio. La Madonna, dai lineamenti squisiti e i grandi occhi neri, ossevava a sua volta quella scena con infinita dolcezza.
Eccoti qui, Giulia Farnese.
Accatastammo un paio di mobili, su cui dovetti arrampicarmi per raggiungere il muro intonacato. Sfiorai i tratti del volto di Giulia, di cui tanti poeti e umanisti avevano cantato le lodi per anni. Era così giovane. La sentivo così vicina.
E il bambino? Era figlio del Borgia? Possibile. Non mi ero informata sulla discendenza della Farnese, ma quegli occhi neri, dal taglio similissimo a quello del Papa, non potevano trarre in inganno.
Fui felice di ficcare lo scalpello dritto nella fronte di Rodrigo, scrostando via ogni centimetro di quel volto dalla parete. Quando fu il turno di Giulia, però, fui attenta. Con grande fatica e diverse bestemmie strette tra i denti, riuscii a staccare una sezione più o meno regolare del muro senza intaccare il dipinto. [3]Cambiai la presa per riuscire a reggerlo meglio, e lo passai a Ugo, che dovette appoggiare la candela a terra.
«Non distruggerlo» aggiunsi. Lui si strinse nelle spalle.
«Un ornamento per la nuova casa?»
Sorrisi. «Forse.»
Tutto ciò che lasciai sul muro fu la parte che ritraeva il neonato. Dei suoi genitori, rimasero solo le amorevoli mani: quella di lei che gli cingeva la schiena, e quella di lui intorno al piede. Di tutto ciò che Rodrigo Borgia e Giulia Farnese rappresentavano, scelsi di lasciar vivere solo l'amore per quel bambino.
 
7 Marzo[4]
 
Faceva straordinariamente caldo, per quel periodo dell’anno.
Giovanni De' Medici era arrivato a Roma solo il giorno precedente: il viaggio da Firenze sulla dannatissima portantina era stato estenuante. La messa di apertura di quella giornata di votazioni era iniziata da pochi minuti, e già sentiva l'affanno serrargli la gola. Solo un lieve fastidio, comunque, niente che non potesse tenere a bada. Erano tanti, i piccoli malanni che avevano minacciato la sua vita nell'infanzia; ma la volontà di Giovanni aveva imparato ad addomesticarli, mantenendolo in vita fino ad ora. Il segreto era il più banale del mondo: il respiro. Vuotare completamente i polmoni, attendere in apnea totale per tre secondi. Inalare di nuovo, lentamente. La volontà controllava la fisiologia, la fisiologia controllava la mente. Non a caso i Greci connettevano questi tre elementi, non è vero? Psyké: soffio vitale, anima, vita intellettiva. Chi controlla il respiro è padrone di se stesso.
Sì, andava già meglio. Ora il familiare senso di oppressione si allentava. Se guardava in alto, verso il soffitto splendidamente decorato della Cappella Sistina, sentiva che quel tetto non esisteva affatto. Riusciva a dimenticare le finestre sprangate da assi di legno, e il senso di soffocamento che gli davano. Attraverso le scene degli uomini e donne senza legge[5] che Michelangelo Buonarroti aveva da poco terminato di dipingere, Giovanni si sentiva elevato in uno spazio più aperto, che tendeva al cielo.
«Il Santo Padre della nostra Romana Chiesa, Giulio II, ha posato il fardello delle chiavi di Pietro per essere ricondotto all'abbraccio di Dio. Possa Egli avere pietà della sua anima.»
La voce di Raffaele Riario era sottile e fastidiosa nelle sue orecchie. Per fortuna, seduto sullo scranno com'era, Giovanni poteva fingere di essere raccolto in uno stato di profonda contemplazione, e non era costretto ad alzare gli occhi sul suo volto topigno. Decano del Sacro collegio, quell'animale da fogna. Il pensiero lo costrinse ad allentarsi il collo della tunica purpurea.
«Vi prego, unitevi insieme a me in una preghiera silenziosa per il nostro Santo Padre.»
Giovanni ubbidì, ma, mentre tra le labbra scivolava sicuro un pio ave Maria, una voce sottile nella sua mente sgranava un altro rosario.
 
O cane rabbioso che hai appestato l'Italia con la tua smania di sangue e potere,
io benedico la mano che ti ha soppresso.
O ambiziosa, smisurata, egotica anima troppo feroce per il corpo di un uomo,
marcisci ora con la carne che troppo a lungo hai appestato.
O potenze divine, se davvero esistete in qualche forma,
fate che il suo seme avvizzisca e le sue idee restino infertili,
e che il mondo dimentichi Giuliano Della Rovere,
perché mai nasca un altro essere umano come lui.
Amen.
 
Il Decano decise che avrebbero votato per la prima volta un'ora dopo il pasto del mezzogiorno. Consumarono il pranzo in un silenzio teso, non ci furono discorsi propagandistici dei grandi favoriti né discussioni goliardiche da parte di coloro che non avevano particolare potere decisionale. Solo tanti sguardi sfuggenti attraverso le brocche di vino e i panieri colmi di frutta, sguardi di chi sta cercando di decidere quali, tra coloro che lo circondano, siano potenziali alleati, e quali nemici mortali.
Morte...il soffocamento è la sensazione che più le somiglia, per Giovanni.
Anche ora, rinchiuso nel suo cubicolo con la scusa di cercare il consiglio divino prima della votazione, tiene la fronte poggiata sulle grandi mani intrecciate, e si pone di controllare il respiro per non soccombere a quel senso di affanno. Sogghigna, amaro. Sarà colpa del delirio mistico, se suda come un porco? Ah, se solo tutto girasse come deve...quale rivincita, padre mio. Quale riscatto per il nome dei Medici.
Ricorda le informazioni che ha ricevuto da Auditore. I tre cardinali di fazione spagnola subiranno pressioni nei prossimi giorni, ma lui non deve avvicinarli finché non riceverà il suo segnale. Gli ha chiesto come si manifesterà, questo segnale. Quel delinquente di Ezio ha soltanto sorriso. Dice che lo capirà.
Almeno, Farnese è con lui. E Grassi. E Sigismondo, sì, anche lui è un amico. Dove si sono conosciuti? Non se lo ricorda, dannazione...si terge il sudore con la manica dell'abito purpureo. Non c'è niente da temere, comunque, Bernardo[6] sta facendo un ottimo lavoro dentro il Vaticano e Auditore ne starà svolgendo uno altrettanto scrupoloso fuori. Se solo qualcuno potesse impedirgli di sudare così tanto, adesso...
Si terge con pezzuole profumate, e per un po' il sollievo che gli regala la freschezza gli schiarisce la mente. Quando è ora per i cardinali di dirigersi di nuovo verso la Cappella Sistina in un'ordinata processione, il respiro è tornato regolare.
Ha vinto di nuovo. Dentro di sé, rivolge un'altra risata irridente alla morte che ogni tanto si affaccia per vedere se è maturo. Si fotta: non è ancora il momento. Non lo sarà tanto presto.
Una volta sbrigati i neniosi rituali da espletare prima della votazione, Giovanni prende il suo posto e scrive, in silenzio devoto e raccolto, come se stesse davvero ascoltando la voce dello Spirito Santo nell'orecchio: io, Giovanni De Medici, Cardinale di Santa Romana Chiesa, do il mio voto a...
Ed ecco, è tempo di ripiegare il foglio accuratamente, per poi unirsi alla lenta processione dondolante che deve riporlo nel calice d'argento dello scrutinatore. Riario posa uno sguardo avido sul cumulo di biglietti. Vorrebbe avventarvisi sopra, il bastardo, ma deve attendere che ognuno dei cardinali abbia riguadagnato il proprio seggio prima di sfiorare il calice. Calmati, razza di assatanato. È solo la prima.
Quando è di fronte a lui, finalmente, Giovanni lo fissa negli occhi. Così comuni, come il resto dei lineamenti. A parte la piega volitiva delle labbra, non c'è nulla che resti impresso nei suoi tratti. Non resterà impresso nemmeno il suo nome dentro la storia. Giovanni sorride, teso, mentre una goccia di sudore – di nuovo? Dannazione – gli scivola dalla tempia lungo la mascella. Stende la mano. Il biglietto cade nel mucchio.
Giovanni De' Medici si schianta sul pavimento un attimo dopo.
Tiene gli occhi aperti a forza. La vista è sfocata, è vero, ma può vedere i cardinali, sono chini su di lui. Una danza di cappelli rossi...qualcuno batte sulle porte chiuse della cappella, invocano il medico per Sua Eccellenza De' Medici...non ce n’è bisogno. Vuole accanto solo Bernardo. Ora glielo dirà.
Ma la voce non obbedisce, e gli arti non rispondono. Giovanni li vede lì, immobili come pezzi di carne morta, e benché ordini loro di alzarsi non vogliono ascoltarlo. Quando il medico della Santa Sede irrompe nella cappella, il sudore sembra cessato e la sua fronte è di nuovo gelida: eppure, ancora, non riesce a muoversi. Il tocco pratico dell'uomo in nero è sicuro, ma allo stesso tempo impalpabile.
«Cardinal De' Medici? Mi sentite? Vostra Eccellenza, guardatemi.»
Giovanni fatica a tenere le palpebre aperte. Ma le costinge, per la malora, a farlo. La forza di volontà è tutto, in un uomo. E Giovanni De' Medici non morirà oggi...
Poi, riconosce il volto del medico. Gli occhi rossi come l'autunno, i capelli dello stesso colore, il sorriso confortante. E gela.
«Non temete, Eccellenza. Mi prenderò io cura di voi.»
 
*
 
«Atti di matrimonio?»
Ezio squadrò Jacopo con aria scettica, mentre Ermes esaminava i documenti in questione. L'ex ambasciatore si sistemò gli occhiali sul naso.
«1492: Luigi d'Aragona convola a nozze con Battistina Cybo, nipote di papa Innocenzo VIII. Due anni dopo, l'unione viene annullata per permettere all'Aragona di avviarsi alla carriera ecclesiastica.»[7]
«Niente di nuovo» borbottò Vanni, giocando nervoso con la croce templare al suo collo. «È una storia sentita mille volte.»
«Non ci interessano le altre novecentonovantotto volte, in effetti...» sorrise Jacopo, e spostandosi sulla spalla di Ermes Bentivoglio estrasse un foglio in particolare dalla risma. «Ma la novecentonovantanovesima, sì.»
Iniziavo a spazientirmi anche io di quei giochetti, e non capivo dove il mio amico volesse andare a parare. Il conclave era iniziato: erano previste al massimo quattro votazioni al giorno. Le contrattazioni erano a malapena cominciate, e sapevamo che non sarebbe stata una faccenda semplice; tuttavia, la paura che tutto si concludesse prima che riuscissimo a mettere pressione sui cardinali giusti aleggiava su di noi come uno spettro senza corpo.
Lo sguardo di Ermes si illuminò come quello di un felino.
«Adriano Castellesi e Brigida di Bartolomeo, sposati nel 1485. Il matrimonio è stato annullato nel 1489...» scorre rapidamente le linee scritte in una grafia arzigogolata. «...perché dichiarato non consumato.»
«E dunque?» L'impazienza di Vanni era palpabile. La mano guantata di nero di Etienne de Ponthieux gli si posò sulla spalla. Mi aspettai che parlasse. Dio, quell'uomo era ancora più inquietante perché non apriva mai bocca.
«E dunque» completai per lui «gli annullamenti sono mosse politiche, ed è altamente probabile che ci siano dei figli nascosti da qualche parte, o addirittura delegittimati. Conoscendo il nome della madre, potremmo rintracciarli più facilmente di qualunque figlio bastardo i cardinali possano aver avuto in giro per l'Europa, e ricattare i padri con questa informazione.»
Il mio tono implicava un pesante: dovresti averlo capito prima. Dopo tutto, la sua mogliettina era proprio il frutto di uno di questi matrimoni non consumati. Dal suo sguardo affilato, compresi che lo aveva capito, eccome. Lo scopo delle sue irritanti domande era un altro.
Si allungò sul tavolo, in un atteggiamento provocatorio verso nostro padre.
«Avete intenzione di minacciare i figli di quei cardinali?»
Ezio non abbassò lo sguardo. «Se sarà necessario.»
«Credevo fosse contro i vostri metodi così puri.»
Ermes rivolse un'occhiata di rimprovero al suo allievo, ma Ezio gli fece cenno di restarne fuori. Raddrizzò le spalle, e abbassò il mento. «Non abbiamo tempo per marcare i rispettivi territori, Giovanni. Potremo tornare a queste stupide dispute quando il nostro cardinale vestirà la tiara papale. Nel frattempo...il fango è fango, e nessuno di noi va fiero di immergerci le mani.»
Respressi a stento un brivido. Una volta, nei miei viaggi verso Roma durante un'estate più umida del solito, avevo visto una tempesta in cui i fulmini, invece di schiantarsi al suolo, saettavano di nube in nube, rischiarando la notte a giorno. Nella stanza chiusa in cui ci trovavamo sembrava stesse per scoppiare quel tipo di temporale, ed è inutile che vi spieghi chi fossero le due nubi.
 
8 Marzo
 
La ricerca diede i suoi frutti, ed entro la mattina successiva la nostra fitta rete di informatori ci diede tutte le delucidazioni che ci mancavano. Se di Battistina Cybo apprendemmo che era morta poco tempo dopo l'annullamento, e senza prole, c'era un'altra donna che aveva lasciato il segno nella vita di Luigi d'Aragona. Il cardinale aveva avuto una relazione lunga almeno otto anni con una certa Giulia Campana...il nome non mi era nuovo del tutto: si trattava di una cortigiana ferrarese che era stata piuttosto famosa negli ultimi anni. Ebbene, fino a poche settimane prima dell'inizio del conclave la donna aveva pagato una balia per sua figlia Tullia, di cinque anni, poco fuori Ferrara.
Poi, i pagamenti erano misteriosamente cessati. La bambina poteva essere morta. Oppure no.
«Non vuol dire niente» obiettai, mentre Vanni ed io discutevamo appollaiati sul tetto dell'Aracoeli. Eravamo tranquilli, benché lievemente più in vista di quanto avremmo osato normalmente; la maggior parte delle guardie romane era impegnata negli stretti dintorni di San Pietro, in quei giorni.
Avevano mandato proprio noi due a raccogliere le parole degli informatori. Entrambi avevamo accettato senza fiatare.
Una volta, l'averci appaiati per una missione mi sarebbe apparso un affronto. Ora, si trattava di un semplice dato di fatto: Giovanni Antonio Auditore era un collaboratore della mia causa, e come tale l'avrei trattato fino all'ultimo giorno della nostra alleanza.
«Questo niente» mi rispose Vanni «è tutto quello che abbiamo.»
«Non c'è tempo per andare a Ferrara a fare altre ricerche, né per interrogare la madre.»
«Ma c'è tutto il tempo per mettere alle strette l'Aragona e parlargli di questa figlia.»
«Negherà, e noi non abbiamo uno straccio di prova da opporgli.»
«Le inventeremo.»
«E se fosse morta?»
«Dio, Bianca! Smetti di invocarci la sciagura addosso, non ci aiuterà.»
Settai le labbra, e buttai fuori il fiato cattivo. Sì. In questo, aveva ragione.
Sedemmo in silenzio, contemplando un sole che bruciava più di quanto di solito facesse in quella stagione. Era più del tepore di una primavera in anticipo: batteva esigente sulla pelle e prosciugava la saliva in gola. Un'imponente minaccia d'estate.
Una rondine stridette forte, da qualche parte nel cielo azzurro slavato. Mi girai d'istinto per cercarla con lo sguardo. Rimanemmo in silenzio, a lungo.
«Te lo ricordi?»
Chiusi gli occhi. La voce di Vanni si era fatta bassa. Quasi malinconica.
«Cosa dovrei ricordare?»
«No, è che...pensavo al giorno che siamo usciti a cavallo, con la mamma e...» inspirò. «Nostro padre. Quanti anni avevamo, te lo ricordi?»
«Non mi ricordo niente del genere. Te lo stai inventando.»
«Può essere, i ricordi reali a volte si confondono con i desideri.»
«Erano troppo impegnati nelle loro missioni, quando eravamo piccoli. C'è stata la destituzione di Savonarola, nostro padre non era quasi mai al borgo. Anche la mamma ci lasciava spesso con zia Claudia e la nonna...mi sembra improbabile che fossero a casa entrambi, e avessero abbastanza tempo libero per portarci fuori a cavallo.»
«Già. Hai ragione.» Si umettò le labbra. «Però è un'immagine molto chiara nella mia testa, sai. Mi ricordo che c'era il sole, forte come oggi. Sono sicuro...era prima che partissero per Roma, Ugo non c'era ancora. Siamo andati a cavalcare nei campi. Due stalloni sauri, erano meravigliosi, e mi sembravano così alti...io dovevo avere tre anni o giù di lì...»
«Ne avevi cinque.»
Tacqui. Lui poteva rinfacciarmi di avergli mentito. Non lo fece.
Mi voltai solo quando capii che Vanni non stava guardando me, ma un punto indefinito nel cielo, in cui era sparita quella rondine, con il ginocchio al petto e un braccio a stringerselo addosso. Era bello, me ne accorsi solo in quel momento, con i lineamenti nobili di Ezio e i colori contrastanti di Rosa. Sembrava meno tempestoso del solito. Meno tormentato.
«Mi ricordo l'aria che mi frustava il viso, e le braccia di nostro padre che tenevano le redini mentre mi circondavano. Tu eri a cavallo con la mamma...abbiamo fatto tre gare, ma noi vi abbiamo sempre battuti.»
«Avevate il cavallo migliore.»
Vanni accennò ad un sorriso. «No...ci avete lasciato vincere, tutte e tre le volte.»
Sentii che anche la mia bocca si distendeva. Sì, li avevamo lasciati vincere, perché altrimenti Vanni avrebbe frignato per tutto il giorno, rovinando quel pomeriggio che i miei genitori si erano ricavati con tanta fatica tra i loro impegni per poterlo dedicare soltanto a noi. Non mi era dispiaciuto. Era stato bello ridere, tutti insieme, e non preoccuparsi di nulla. Era stato bello...
«Perché devi attaccarlo a quel modo?»
Lo domandai con cautela, perché non sembrasse un'accusa. Vanni alzò le spalle, continuando a guardare lontano.
«È stupido. E anche malato, lo so...ma solo quanto riesco a ferirlo si ricorda che esisto. È sempre stato così.»
Lo fissai così seria che dovette avvertire un richiamo dentro il mio sguardo. Quando voltò il viso, lo resse senza timore.
«Lo sai che questa è solo una tregua, vero? Non c'è speranza di tornare indietro, non puoi chiedere perdono alla nostra famiglia per quello che hai fatto.»
«Non è quello che spero.»
«Allora perché rivangare quel ricordo?»
Volevo che abbassasse gli occhi per primo. Non lo fece. Il suo volto pallido era calmo, consapevole. Sembrava tanto più adulto dei suoi vent'anni ancora da compiere.
«Perché è un bel ricordo. Solo per questo.»
Attesi che cercasse di persuadermi del fatto che c'erano immagini positive di lui, dentro di me. Mi aspettai che si appellasse alla nostra infanzia felice per estorcermi una promessa, chiedermi un favore, implorarmi di intercedere presso nostro padre.
Non fece nulla di tutto ciò.
Annuii, grave, per fargli capire che avevo riconosciuto l'onestà delle sue intenzioni quest volta.
«Sì. Lo è.»
Scendemmo da quel tetto nella nostra differente maniera: lui con una rapida arrampicata verso il basso, io con un molto più veloce Salto della Fede. La paura delle altezze che lo aveva afflitto da ragazzino poteva anche essere stata vinta, ma sapevo che non l'avrei mai visto compiere quel gesto. Il suo rifiuto del salto era sempre stato il segno che era diverso da tutti noi, e ci teneva a rimarcarlo ancora di più dopo quell'improvvisa, inaspettata vicinanza che avevamo condiviso sul tetto di Santa Maria in Aracoeli, in quel pomeriggio primaverile.
Stavamo camminando uno accanto all'altra, il suo cappuccio grigio bordato di porpora e il mio bianco bordato di rosso, in un silenzio teso. Dovevamo raggiungere la Volpe Addormentata, ma nei pressi del Colosseo mi sentii afferrare un braccio. Trasalii. Vanni fece per estrarre la lama celata contro la figura in cappuccio brunito che mi aveva stretta. Lei lo fulminò con gli occhi viola.
Diamante aveva in volto una maschera di gelo.
«Cosa è successo?»
«I piani sono cambiati. Siamo diretti in Vaticano.»
«Perché? Rispondete, maledizione» ringhiò Vanni. La donna lo guardò come se strangolarlo fosse l'unica cosa che le avrebbe procurato sollievo. Aveva ragione a pensarlo, lo sapevo. Ma non avrei potuto permetterglielo.
«De' Medici», sibilò infine. «È stato avvelenato.»
 
Se una volta mio padre aveva dovuto lasciare che i suoi compagni provocassero dei disordini nelle zone più disparate di Roma per riuscire a distrarre le guardie del Vaticano, questa volta la situazione si prospettava più rosea per i nostri. La verità, era che la nostra rete romana si era fatta fitta e capillare, grazie soprattutto all'intenso lavoro di Ugo e Claudia in questo senso. Il vuoto di potere che aveva seguito la morte di Giulio II, poi, ci aveva permesso di introdurre a San Pietro uomini di fiducia: arroccati in quel palazzo non c'erano soltanto nemici, non avremmo dovuto espugnare una fortezza avversaria.
Tuttavia, Ezio volle mettersi a capo della sortita. Per spianarci la strada, diceva. Io credo che a quel punto volesse prendere le redini di una situazione diretta verso il ciglio del burrone. Se De' Medici fosse morto, avremmo perso la guerra. Dovevamo controllare le sue condizioni di persona, e poi sistemare la questione con i tre spagnoli. Poco importava che non avessimo nulla contro due di loro e quasi nulla contro il terzo: avremmo dovuto improvvisare.
Non fu particolarmente difficile scalare le mura degli immensi giardini; ci eravamo divisi, per diminuire le possibilità di essere visti. Dall'interno, Bibbiena e gli altri avevano facilitato il compiro distraendo le guardie: ad alcuni avevano concesso del vino drogato, per lasciare che ronfassero più profondamente del previsto, mentre per altre era stato necessario ricorrere alle scollature generose e le gonne spaccate di alcune vecchie amiche. Avevamo appuntamenti precisi con i nostri compagni di missione: Martino e Vanni si sarebbero incaricati di persuadere, con un po' di azzardo e finzione, il Cardinale Castellesi; Ponthieux ed io avremmo parlato con Luigi d'Aragona riguardo la sua figlia scomparsa. Ermes ed Ezio avrebbero conferito con Bibbiena sulla salute di  De Medici, prima di recarsi da Jaume Serra i Cau, l'uomo più impenetrabile di questo dannatissimo Conclave.
 
*
 
Bernardo Dovizi da Bibbiena passseggiava nervoso nello stretto corridoio tra i cubicoli occupati dai conclavisti, sorvegliando la porta[8] dietro cui riposava Giovanni: da quando quella faina travestita da medico aveva provato a mettergli le mani addosso, non poteva fidarsi più di nessuno.
Gli aveva somministrato lui stesso gli emetici che l'avevano aiutato ad espellere la bile e il veleno, aveva aiutato la sua mole non esile a scivolare nella vasca per abbassare la temperatura, che era tornata alta d'improvviso dopo la perdita di sensi. Dove...nel suo cibo? Forse nel vino? Dove era stato messo il dannato veleno? Non ne aveva trovato traccia sugli abiti, né tra i suoi oggetti personali. Poteva solo averlo ingurgitato. Sì, c'era della polvere di arsenico nel suo anello, ma ben custodita dentro una capsula che il suo signore non poteva aver aperto per sbaglio. In ogni caso, confortato nella propria diagnosi improvvisata dalle pustole che erano apparse sul corpo del suo signore e dal colorito giallastro che aveva assunto, gli aveva somministrato infusi di elleboro bianco, perché espellesse ogni traccia del veleno.
Alzò lo sguardo di scatto, quando le due figure incappucciate gli si avvicinarono. Anche se avevano l'incedere di due monaci, Bernarndo sapeva bene che non lo erano.
«Ezio» sospirò in un sussurro, quando identificò il mento dalla barba argentea che emergeva da sotto il cappuccio nero. L'altro, con quegli abiti rossicci, non poteva essere che...sì, ora che aveva alzato il volto era impossibile non notare la somiglianza con quella serpe del Bentivoglio.
«Bernardo» disse l'Assassino, in tono basso e grave. «Come sta?»
Per tutta risposta, il segretario di De' Medici aprì loro la porta del cubicolo, lasciandoli scivolare al suo interno.
Era uno spazio troppo angusto per quattro uomini adulti, di cui uno così massiccio e disteso: tuttavia, non potevano correre il rischio che altri conclavisti li vedessero nei corridoi. Si strinsero spalla a spalla, mentre Bernardo spiegava:
«È stato l'arsenico Ezio, ne sono quasi certo. Acqua tofana, forse...aveva iniziato ad accusare attacchi di vomito fin dalla partenza, a Firenze. È stato un viaggio estenuante...ma poi sembrava essere migliorato, e non ho pensato...»
L'Assassino sembrava non averlo ascoltato. Bernardo lo osservò mentre si inginocchiava accanto al papabile in cui per tanti anni aveva posto le sue speranze.
«Giovanni, mi sentite...?»
Il cardinale sospirò pesantemente. «Ezio Auditore» mormorò, tra le labbra spaccate. «Cosa ci fate qui? Dovreste essere là fuori...ad assicurarvi...i miei voti.»
Il Mentore mosse appena la bocca in un sorriso, e poggiò la mano sulla sua, inanellata. «Voti inutili, se ci lasciate la pelle prima dello scrutinio.» Accarezzò uno degli anelli in particolare, quello con lo scomparto segreto dove il cardinale custodiva la polvere di arsenico. Ezio la raccolse con il polpastrello, la saggiò tra indice e pollice. «Se avete così poco cara la vita, avreste dovuto dirmelo dall'inizio.»
Bernardo sgranò gli occhi, rifiutandosi di credere a ciò che il Mentore suggeriva. Il suo signore avrebbe ingerito da sé il veleno, dunque? Per quale motivo? Per quale...
Giovanni De' Medici produsse un sogghigno, che la debolezza trasformò in una smorfia. «E ora, la metà degli indecisi ha...una buona ragione per votarmi. Ho trentasette anni, già...ma sono così malato!»[9] Rivolse uno sguardo al suo segretario, e Bernardo avrebbe potuto giurare di vedere una scintilla furba rilucere nei suoi occhi scuri per un momento. «Ora starà al mio abile amico, qui, convincere gli altri conclavisti che...votare me è un'ottima scusa per prendere tempo per qualche anno, in attesa del prossimo conclave.»
Silenzio, teso e pesante.
Poi, una risata sommessa da parte del capo degli Assassini. «Non vi fidate proprio della mia capacità di procurarvi quei voti.»
«Non c'è di che, Ezio. Vi ho appena risparmiato di dover minacciare gli ultimi dieci cardinali della vostra lista...» Un respiro difficoltoso. «Anche se sì, gli spagnoli ci faranno comodo. Usate...anche questo, per convincerli. Se Riario non li ha già ricoperti d'oro, è chiaro.»
Bernardo si fece avanti, inquieto. Lo infastidiva che quei due parlassero con tanta calma. Il suo signore aveva ingerito del veleno, senza mettere nessuno al corrente di questo folle piano...e quei due pazzi ne ridevano?
«Vostra Eminenza» sussurrò, portandosi accanto all'Auditore. Non si inginocchiò, ma guardò duro l'uomo che aveva servito, e in cui aveva creduto, per tutta la vita. «Perché? Come avete potuto fare questo a voi stesso? Se vi avessimo perso, avremmo perduto con voi tutto...l'uomo, la causa, la speranza intera per il futuro! E tutti quegli anni di lavoro...di devozione cieca...per cosa, Giovanni? Per cosa!»
De' Medici sorrise. «Fiducia, Bernardo. In te. Sapevo che avresti capito da cosa era causato il mio malore, e che mi avresti somministrato la giusta cura.»
«E se quel dottore infernale avesse messo le mani su di voi per primo?»
«Confidavo nel fatto che non glielo avresti permesso.»
Nell'assenza di suoni che ripiombò su di loro, echeggiò dopo qualche istante il lento applauso di Ermes. 
«Posso farvi i complimenti per la vostra scelta, Ezio?» disse il templare, con appena un accenno di divertimento nella voce. «Quest'uomo è il più subdolo serpente calcolatore che abbia mai conosciuto...e mio fratello è Tancredi Bentivoglio, il che rende i miei punti di riferimento piuttosto elevati.»
Ezio Auditore, con quell'aria da ragazzo mai cresciuto che non comprende la gravità delle conseguenze, sorrise. Bernardo ne fu sconcertato.
«Cosa volete che vi dica, Ermes...ha sorpreso perfino me.» Non aggiunse: e mio figlio è Giovanni Antonio Auditore, ma Bernardo sentì comunque quella parte della frase riecheggiare nella stanza, tra di loro.
 
*
 
Luigi stava bevendo un bicchiere di vino nel suo cubicolo, quando lo raggiungemmo. Aveva appena allontanato il valletto, che, uscito dalla porta, aveva trovato me e il mio silenzioso compare a sorprenderlo. Prima che potesse gridare, Ponthieux l'aveva stordito con un preciso colpo alla nuca, per poi trascinarlo con sé dentro la stanza.
Al nostro ingresso, il cardinale non alzò nemmeno lo sguardo dal libro che stava leggendo.
«Fernando, ti ho detto...»
Solo quando Ponthieux lasciò scivolare a terra il suddetto Fernando come fosse un sacco di papate, il cardinale si accorse di cosa stava accadendo. Sembrava adontato. Aveva indosso tutta l'espressione altezzosa degli Aragona di Napoli. Gli puntai contro la mia balestra già carica.
«Un fiato, Eminenza, e sarà l'ultimo che tirerete.»
Lui fissò il dardo che gli puntavo contro con aria quasi di sfida. Inarcò un sopracciglio.
«Questo conclave si prospetta davvero particolare.»
Ponthieux poggiò le spalle alla porta, e pronunciò, gravate da un leggero accento, le prime parole che gli avevo sentito dire. «Potremmo essere sicari, lo sapete?»
Un sorrisetto ironico fiorì sulle labbra dell'Aragona. «Non avreste perso tempo a minacciarmi, e sareste già passati ai fatti. Dunque, deduco che siate qui per contrattare...» Fece un gesto verso l'unico sgabello della stanza. «Mi duole non avere sedie da offrire a entrambi...per cavalleria, immagino lascerete questo onore alla signora?»
Ammiccai verso Ponthieux. Lui fece appena un gesto con il mento, che voleva chiaramente dire: accomodati, lo spocchioso è tutto tuo.
Sedetti senza fretta, le mani poggiate alle ginocchia. Guardai la faccia da schiaffi che avevo di fronte, studiandone i lineamenti mentre dicevo:
«Cosa mi dite di Tullia, Vostra Eminenza?»
«Dico che è un bel nome. Lo portò la figlia di Cicerone, se non erro.»
«È anche il nome della figlia della vostra amante ferrarese.»        
L'uomo chiuse il libro, e se lo pose sulle ginocchia. La sua mascella sembrava irrigidita.
«Non sono responsabile del modo in cui una donna che un tempo ho conosciuto ha battezzato sua figlia.»
«Non vi ha consultato, dunque? Quanto cattivo gusto. Immagino che avreste voluto darle il nome di vostra sorella Giovanna.[10] È ricorrente nella dinastia d'Aragona, vero?»
«Sentite: se siete della cricca di Riario, sappiate che vi considero i peggiori demoni vomitati dall'inferno. Sì, farò quanto mi ha chiesto, gli darò il mio voto. Voglio solo che la bambina torni da sua madre, al più presto.»
Battei le palpebre. Gettai un'occhiata sulla mia spalla al templare, che sembrava imperturbabile come sempre.
«Ci state dicendo che Riario ha fatto rapire vostra figlia Tullia?»
 
*
 
«Sappiamo che avete una moglie, a Volterra.»
Martino teneva le mani amorevolmente appoggiate sulle spalle di Castellesi, per essere certo che non provasse ad alzarsi da quello sgabello un'altra volta. Vanni  gli girava intorno, con l'aria di chi ha tutto il tempo del mondo per estorcere l'informazione che desidera.
L'uomo deglutì, prima di balbettare: «L'avevo. Il matrimonio è stato dichiarato nullo.»
«Perché non consumato.» Vanni finse di leggere un foglio che aveva estratto dalle pieghe del mantello. «Per...un vostro impedimento fisico...» Sfoderò un ghigno strafottente, e sedette sui talloni, esaminando le pieghe della veste cardinaliza all'altezza dell'inguine dell'uomo. «Davvero, Castellesi? È per questo che avete preso i voti, perché il vostro batacchio non funziona? E io che pensavo foste solo un altro galletto affamato di potere! Invece, siete un cappone.»
«Forse, visto che tanto nun se ne fa' gnente, j'o potemo pure tajà. 'n probblema de meno, eh, Eccellenza?»
Le spalle di Castellesi tremarono sotto la sua stretta. «Cosa volete da me, maledetti...»
Vanni si strinse nelle spalle.
«Un'inezia. Solo il tuo voto per il Cardinale De' Medici.»
«Ma vedi, ce dovemo assicurà che poi 'o voti pe' davero. C'avemo gli omini nostra quaddentro, sa'? E ogne scheda c'ha sopra 'r nome. Quinni, se voti quarcun artro, noi o' venimo a sape'...»
«E ovunque questa moglie sia, noi la scoveremo... I nostri uomini la stanno già cercando, Adriano. I nostri uomini sono molto bravi a scovare i segreti inconfessabili della feccia come te.»
Martino non vedeva il volto dell'uomo pavido che stavano torturando a suon di vuote minacce, ma avvertiva dal crescente umidore delle sue vesti che non avrebbe retto a lungo. Tuttavia, c'era una traccia di dolore nella sua voce terrorizzata, quando disse: «I vostri uomini arrivano tardi...non potrei votare De' Medici nemmeno se volessi. E, credetemi...vorrei.»
Vanni gettò una rapida occhiata a Martino. No, nemmeno lui aveva la più pallida idea di cosa stesse dicendo. Si alzò in piedi, guardando il prigioniero dall'alto in basso.
«Dicci di più.»
 
*
 
«Non c'è niente che voi possedete che possa comprare il mio voto.»
Ermes ed Ezio fissarono il volto incartapecorito del vecchio cardinale catalano, inginocchiato a pregare con un rosario tra le mani. Doveva avere almeno ottant'anni.
«Dove riponete la vostra lealtà, Jaume?» domandò Ezio, «Se non possiamo comprarvi, possiamo almeno tentare di convincervi della bontà della nostra causa.»
«La mia lealtà è solo per Dio.»
Lo disse con gentile fermezza. Senza orgoglio, come ad affermare un semplice dato di fatto.
Ermes, però, non si lasciò incantare da quell'aria da pecorella che segue docilmente il pastore. Aveva conosciuto troppi uomini del genere per credere ancora alla bontà delle loro parole.
Fece un passo in avanti. Squadrandolo dall'alto in basso, mentre quello continuava a pregare e sgranare il suo rosario.
«Intendete candidarvi voi stesso, non è così?»
Il vecchio non aprì nemmeno gli occhi. Non sorrise. Non cambiò affatto espressione.
«Sono sopravvissuto a otto Papi, signori, con intatta fortuna, privilegi e poteri. In base a questo, ho l'ardire di presumere che potrei essermi guadagnato il diritto di proporre il mio nome...ma se sarò scelto, questo sarà soltanto lo Spirito Santo a deciderlo.»
«Mi dispiace deludervi, ma nessuno vi voterebbe, Eminenza. Fare gli interessi della Spagna è un conto, mettere un suo suddito sul soglio di Pietro è un altro. Roma non è pronta per un altro Spagnolo, le ferite sono ancora troppo fresche.»
Le sopracciglia ispide del vecchio ebbero un guizzo. «Perché, l'ultimo italiano le ha forse portato  lustro?» Scosse la testa, poggiando la fronte sulle mani giunte. «Volete sapere perché entrambi, Borgia e Della Rovere, non hanno funzionato? Perché non erano uomini di Dio, ma del potere: uomini della terra, del fango e del vizio. Io voterò per chiunque deciderà di fare gli interessi non di se stesso o di chi lo circonda, ma di Gesù Cristo nostro Signore: se qualcuno vedrà questa stessa qualità in me, non è una scelta che dipenda dal sottoscritto.» Fece una pausa, durante la quale sembrò essere risprofondato nella preghiera, o in un sonno catalettico. Ma dalle labbra secche emersero ancora queste ultime parole: «Se non siete qui per uccidermi – e non lo siete, perché altrimenti sareste degli sciocchi -, vi auguro la buona notte, miei signori. Pregherò per voi.»
 
*
 
Scivolammo via, senza guardarci indietro, senza cercare le ombre incappucciate dei nostri compagni. L'appuntamento era al Colosseo; fu lì che ci trovammo, sotto la luce forte delle stelle. La luna era ridotta a un quarto sottile e quasi non brillava.
Riportammo i rispettivi resoconti, da cui ricavammo precisamente queste informazioni:
Giovanni De' Medici, all'animaccia sua, aveva ingerito del veleno per convincere i conclavisti indecisi di avere una salute malferma;
Luigi D'Aragona aveva confermato che Tullia fosse sua figlia; aveva inoltre sostenuto che fossero stati gli uomini di Riario a rapirla, con l'intenzione di tenerla in ostaggio fino alla fine delle votazioni;
Adriano Castellesi aveva sì annullato il suo matrimonio per procedere nella carriera ecclesiastica, ma la non più moglie, Brigida[11] Inghirami, era rimasta la sua amante fissa. Anche lei era stata rapita da Riario, che lo ricattava come stava facendo con l'Aragona;
Jaume Serra i Cau, detto l'Alborense, non era né un Assassino né un Templare, ma poteva rivelarsi un avversario più pericoloso di Riario stesso.
«Abbiamo poco tempo» commentò Ezio. «Dobbiamo mobilitare i ragazzi al più presto. Bianca, Martino: andate al covo e...»
Non fece in tempo a terminare la frase, perché Ermes gli pose la mano sulla spalla, indirizzando la sua attenzione verso l'orizzonte.
Fuoco.
In direzione della Volpe Addormentata.
 
Corremmo forte, quella notte, e la vita ci singhiozzava su e giù per la trachea con ogni respiro affannato. Corremmo come non ricordo di avere più corso, fino a che il fumo non ci riempì le narici. Nell'arancio tremolante delle fiamme che avvolgevano la taverna, i ladri superstiti si davano da fare per gettare secchiate d'acqua contro quel muro di fuoco.
«Ugo!» chiamò forte Ezio. Mi sembrò che passasse un momento infinito, prima di udire in risposta la voce di mio zio che gridava: «Ezio! Da questa parte!»
Era alla pompa, di cui faceva ruotare il mulinello con tutta la sua forza per riempire i secchi più in fretta. Zia Claudia? Dove...sì, ora ricordavo, era all'Isola Tiberina quella sera. Ci affrettammo a prendere anche noi secchi colmi d'acqua, fare quello che potevamo. E tutti gli altri, e Diamante?
Cercai di non pormi quella domanda assillante, mentre il corpo si teneva impegnato nell'azione. Quasi singhiozzai di sollievo, quando vidi tre sagome uscire dalla porta – Dio, sembrava il cancello dell'inferno.
Erano Diamante e suo figlio Oreste. Stavano trasportando a braccia un uomo esanime: conoscevo quel fisico rachitico, anche ora che era abbandonato come un Cristo in croce. Padre Geremia.
Vanni fu il primo a correre verso di loro, emettendo un gemito mentre il vecchio frate si accasciava a terra.
«Era nelle stanze superiori» disse Diamante, tossendo «l'abbiamo raggiunto per miracolo, ma...» cercò i miei occhi, ed io andai a sostenerla per permetterle di sedersi. Chiesi a Martino di portare dell'acqua, per lei e Oreste.
Nel frattempo, i templari si erano radunati intorno al loro compagno caduto.
«Padre...per favore.» Vanni prese il volto dell'uomo tra le mani. «Aprite gli occhi, padre Geremia. Vi prego...»
«Giovanni.» Ponthieux gli si era avvicinato. Gli aveva posto la mano sulla spalla. «Il Padre della Comprensione l'ha chiamato a sé.»
Mio fratello lo guardò come se avesse affermato di aver visto la luna farsi verde. Poi, si volse di nuovo verso l'anziano templare.
Due lacrime solcarono il volto di Giovanni Antonio Auditore. Due soltanto. Non si disturbò nemmeno a cercare di asciugarle, mentre Ermes chiudeva solennemente gli occhi di quel vecchio che, da vivo, sembrava la personificazione della serenità.
«Che il Bufihamat ti accolga, fratello, nella sua benevolenza universale» pronunciò il Bentivoglio a fior di labbra.
Io rimasi a guardare quella scena, senza capire perché mi sentissi il cuore tanto pesante. C'era una cosa giusta che quel folle di Alfonso d'Este aveva detto sul campo di battaglia di Ravenna, ed era: sono tutti nemici nostri. Ma in quel momento, di fronte al loro lutto condiviso, li sentii così simili a noi che il cuore mi tremò di paura.
Mi rivolsi a Martino, per cercare conforto nella sua mano. Scoprii che quello che ne aveva più bisogno era lui, che fissava ancora il fuoco come se si trattasse di una punizione divina.
Il fuoco, già. L'incendio dove erano morti quei due bambini, in Francia.
In quello scenario di persone piangenti, fuliggine e secchi d'acqua gettati a terra in segno di resa, mentre le fiamme consumavano l'ultimo ostinato scheletro della taverna, il fatto che le nostre dita si intrecciassero forte non sembrò fuori luogo a nessuno.
 
9 Marzo
 
Era stata una ritorsione degli uomini di Riario, questo era chiaro a tutti. Come ci era chiaro il fatto che, se volevamo trovare gli ostaggi vivi, dovevamo agire rapidamente. Non avevamo margini di errore. Per questo proposi di usare il potere dei Frutti dell'Eden, per poter rintracciare la donna e la bambina.
Aveva senso. Quella strana seconda vista che chiamavamo Occhio dell'Aquila alle volte mi segnalava il percorso da compiere, un luccichio dorato che avevo incontrato soltanto nella mia mente, dopo aver maneggiato i Frutti dell'Eden. Una volta, quella scia luminosa mi aveva guidata su un'altissima torre perché potessi trovare il Serpente Doveva essere legato a loro, per forza.
Il Bastone era gelosamente custodito in San Pietro, d'accordo, ma la Mela e il Serpente sarebbero stati sufficienti. Durante quella riunione di emergenza negli appartamenti romani di Machiavelli, Martino si oppose con forza, ricordando a me e a tutti i presenti in che stato mi fossi ridotta dopo che avevo usato il Serpente l'ultima volta. Io gettai un'occhiata a Ezio, che restò in silenzio. Stava lasciando a me la responsabilità di difendere la mia idea.
«Sai che non c'è altro modo.»
«E allora perderemo. Perderemo questa guerra fottuta, e ar diavolo tutto. Te nun lo tocchi più quer coso malefico, m'hai sentito?»
«Non lo farà da sola.»
Tutte le teste si girarono verso Vanni.
Calmo, lui continuò: «È qualcosa che scorre nel sangue degli Auditore, fin dal Maestro Altaïr. Abbiamo tre Auditore in questa sala, e solo due frutti...se l'algebra conta qualcosa, dovremmo essere in grado di dominare il loro potere.»
Guardai di nuovo mio padre. Anche Vanni lo fece. Questa volta, non poteva evitare di esprimere la propria opinione.
Ezio si alzò in piedi.
«Vale la pena fare un tentativo.»
Martino tacque, ma era livido in volto. Cercai di sfiorare la sua mano, un contatto a cui si sottrasse.
Capivo il suo punto di vista. Guardare senza poter fare niente era più terribile che gettarsi a capofitto nel vuoto. Forse ero pazza: tutto quello che avevo vissuto a Ravenna con il Serpente avrebbe dovuto farmi valutare più scrupolosamente le conseguenze di un gesto simile. Tuttavia, sapevo anche che la situazione era abbastanza disperata da richiedere misure drastiche. Non mi ero mai tirata indietro, mai. Mio marito doveva perdonarmi, ma non l'avrei fatto questa volta.
Chiudemmo gli altri fuori dalla stanza – non avevamo mai maneggiato due Frutti nello stesso momento, non sapevamo cosa sarebbe potuto accadere. Ezio prese cautamente la Mela in una mano, e il Serpente nell'altra. Al suo fianco, Vanni ed io ci scambiammo uno sguardo. Stringemmo ognuno un braccio di nostro padre, per poi porre la mano libera sul Frutto. Io toccai il Serpente, Vanni la Mela: il peggior incubo di entrambi, visto come ci avevano manipolati in passato...tuttavia, quel fondo di astiosa competizione che restava vivo tra di noi ci impediva di dimostrarci l'un l'altro quanta paura avessimo di affrontare di nuovo quell'ordalia.
Quella volta, non ci furono suoni stridenti a graffiarci le orecchie. I Frutti produssero ognuno una nota attutita, cauta, che si articolò in una specie di armonica melodia. Dietro le palpebre chiuse, imposi al respiro di placarsi. Lentamente, dimenticai la pesantezza del corpo, escluso i punti di contatto con il Frutto, da cui sembrava irradiarsi una benefica frescura.
Navigai le schegge di immagini che mi sfrecciavano davanti senza suono. Non potevo percepire la presenza di Ezio e Vanni, ma ero consapevole che, a qualche parte nella loro coscienza, stavano vedendo le mie stesse immagini. Non sentii le loro voci, o baggianate simili che i falsi indovini cercano di propinare ai creduloni. Semplicemente, sapevo che erano con me anche senza poterli fisicamente sentire.
Un po' per mia volontà e un po' guidata dalla loro, lascia che quelle immagini mi scorressero addosso...fino a che alcune di esse non presero a brillare della luce dorata che avevo imparato ad associare all'Occhio dell'Aquila. Le seguii, allora, come un bambino salterebbe sui sassi rotondi che emergono dall'alveo di un torrente, che paiono un sentiero tracciato apposta per fargli guadare il corso d'acqua indenne.
 
 
Una campagna che inizia a farsi meno brulla. Il bruno dell'inverno fiorisce in giallo e verde pallido, sono gli ultimi strascichi di gelo prima della rinascita. Il pianto lamentoso di una bambina, viene trascinata da mani rudi. Una donna la segue, incespicando. Anche lei è spinta brutalmente. Tra un passo e l'altro stringe maledizioni per i carcerieri, e parole di conforto per la bambina.
Le immagini che seguirono erano sfocate, e troppo rapide per poterle osservare attentamente. Mura alte, torri tozze e rotonde...la donna guarda in su, vede un'iscrizione in latino che non faccio in tempo a incamerare – gratabo, poi nient'altro...Brigida viene spinta nei bui corridoi, fino a quella che sembra una prigione. Supplica che la piccola almeno possa restare con lei. Gliela strappano dalle braccia. Mostri! È spaventata, è solo una bambina! Riceve in risposta uno spintone, che la fa rovinare a terra. Tullia piange, i carcerieri chiudono la porta della cella a doppia mandata. Brigida si rialza, batte i pugni sul legno spesso, invoca la vendetta degli angeli su quelle bestie. Il pianto di Tullia nel corridoio si fa sempre più lontano, insieme ai passi dei carcerieri.
 
 
Mi svegliai intorpidita, con un lieve senso di nausea a ristagnarmi negli zigomi. Battei le palpebre, mentre tornavo lentamente nella stanza. I Frutti risplendevano, ma quel bagliore stava scemando. Ezio e Vanni ripresero coscienza a loro volta.
Ci scambiammo uno sguardo, prima che io prendessi fiato.
«Avete visto...?»
«La donna, la bambina, il castello» annuì Ezio. «Ma potrebbe essere ovunque.»
«Non è ovunque» disse Vanni, sicuro. Inarcai un sopracciglio, mentre lui spiegava: «Sono già stato laggiù, più di una volta. È la Rocca Pia di Tivoli.»
«Come fai ad esserne certo?»
«La scritta all'ingresso.»
Ezio gli rivolse uno sguardo indagatore. Pronunciò le parole che aveva fatto in tempo a leggere: «Grata bonis, invisa malis...»
«...inimica superbis sum tibi Tibure.»[12] Suonava sicuro di quelle parole come del suo nome. «Le tengono prigioniere laggiù.»
 
10 Marzo
 
Quella sera, dopo una buona cena irrorata di vino, i venticinque cardinali del conclave sedevano pacificamente nella Sala Regia. Giovanni sapeva che, ad un occhio esterno, sarebbero apparsi gruppi di commensali che dividono spensierate conversazioni prima che venga il tempo di spegnere le candele e ritirarsi per la notte. Quelle spensierate conversazioni stavano, in realta’, decidendo il destino della cristianita’ intera. Forse, a dar retta a Bernardo e ad Ezio Auditore, i destini del mondo.
Nella seconda votazione di quel giorno, Jaume Serra i Cau detto l’Alborense aveva ricevuto tredici voti. Solo tre meno di quelli necessari per essere eletto Papa. Giovanni era sicuro che gli indecisi si fossero unanimamente schierati dalla sua parte. Era la scelta più conveniente. Né bianco né  nero. Apparentemente vecchio abbastanza da lasciar presumere un breve pontificato, che avrebbe lasciato la possibilità ad altri cardinali di proporsi sulla scena politica al prossimo conclave. Un uomo, c’era da considerare anche questo, ligio al suo dovere e timorato di Dio.
Ma questo non sarebbe bastato a fermare la faida. Lui, Giovanni, poteva farlo invece. Sconfiggere la fazione templare di Riario, imporre Lucrezia Borgia come Gran Maestro del Tempio di conseguenza. Avere la pace, almeno temporanea, tra assassini e templari. Da quanti secoli non accadeva.
Sì, Giovanni De’Medici non cercava la tiara papale solo per fini puramente altruistici. La riconquista di Firenze non era bastata per assicurare il ritorno in auge della sua gloriosa stirpe. Non avrebbe lavato la vergogna della fuga, la macchia che Savonarola aveva impresso sul passato della sua amata città, la ferita inferta nel suo orgoglio di erede di Lorenzo il Magnifico dalla repubblica di Soderini. Con un Medici come padre spirituale della Chiesa, quelle offese sarebbero state lentamente oscurate da una più grande gloria. In lui dormiva un leone pronto a riconquistare e difendere ciò che apparteneva al suo sangue.
Quel leone, però, ora doveva restare mansueto alla catena.
Osservò l’operato solerte di Bernardo, il suo infallibile e astuto segretario. Aveva una porpora pronta per lui quando – se – fosse diventato Papa.
Curioso. Di solito erano i segretari, o i cardinali alleati con minore prestigio, a sbrigare la contrattazione per i papabili. In quel momento, invece, era Serra i Cau in persona ad avvicinarsi a lui. Giovanni bevette un sorso dell’infuso ricostituente che Bernardo insisteva nel fargli assumere, e si disse che sarebbe stato un dialogo interessante.
«Sono felice di vedere che vi siete ripreso, Eminenza » esordì il vecchio. Giovanni accenno ad un sorriso modesto.
«Fortunatamente, Dio mi ha voluto ancora qui perché adempissi al mio dovere. »
Gli occhi cisposi dello spagnolo lo scrutarono, facendogli capire che la sua piccola messinscena era del tutto sprecata con lui. Giovanni finse di non aver inteso la sua occhiata.
«Certo, la notizia del vostro attacco ha preoccupato molti, qui dentro. »
«O li ha piuttosto confortati? »
«Non fingete di non capire, cardinal De’ Medici. Ora come ora, quel fortuito malore è l’arma più persuasiva che il vostro solerte segretario abbia nella manica. »
Giovanni si trattenne dal sottolineare che diceva così perché non aveva visto la sua lama celata. Si limitò a sorridere.
«Non tutti possiamo vantare la vostra età veneranda e così tanta prossimità alla...saggezza. Dobbiamo giocare le carte che abbiamo. »
«Dobbiamo? Abbiamo? » Il vecchio gli rivolse un sorriso. «Parlate già come un Santo Padre. »
«Eppure siete voi ad avere quasi sfiorato la tiara, oggi. »
Il cardinale spagnolo distolse lo sguardo, fissandolo su Riario che era circondato da un capannello di cardinali dall’altra parte della sala. «Non vogliono votare per lui. Le guerre ricomincerebbero a dissanguarci... »
«Non vogliono votare nemmeno per me, a quanto sembra. »
«Non sapete quanto vi sbagliate. » Il vecchio accennò al pallidissimo Castellesi, a cui nemmeno il vino aveva riportato colore alle guance, e all’apparentemente distaccato Aragona. «Loro  sono costretti a votare Riario, sapete...ma hanno convinto chi li appoggia a stornare i loro voti su di me. Momentaneamente... » Ammiccò. «Sembra che attendano un segnale da certi vostri amici. Se quel segnale arriverà,  quei voti saranno vostri...e presto avrete ogni ragione di parlare al plurale. »
Fu il turno di Giovanni scrutare l uomo che aveva di fronte. Era piuttosto sicuro che Ezio non fosse riuscito a persuaderlo a schierarsi.
«Cardinal Serra i Cau, perché mi dite questo, ora? »
L’uomo sospirò. «Da anni sogno per quel seggio qualcuno che veramente compia le opere del Signore. C’è stato, alle volte. Altre volte, il mio compito è stato soltanto scegliere il male minore. » Gli occhi cisposi tornarono su Riario, che scoccava ai suoi complici un sorriso da serpe. Serra i Cau battè la mano sulla spalla di Giovanni. «Voi, amico mio, questa volta siete il male minore. »
Giovanni De’ Medici sorrise.
“Mi fate troppo onore, Cardinal Serra i Cau. »
L’uomo annuì, come a confermarlo. Quindi, gli rivolse un’occhiata a Riario, che si stava avvicinando con quel suo passo da gatto intento a preparare un agguato. “Ora cercate di non farvi eliminare dal male maggiore. »
Serra i Cau si allontanò lentamente, rivolgendo a Riario soltanto un cenno con il capo. Il cardinale templare sedette sullo scranno lasciato libero dall’anziano.
«Sono sorpreso, Cardinal De’ Medici » zufolò l’uomo. «Sapete tessere ragnatele complesse, all’occorrenza. Credevo voi assassini sapeste soltanto aprirvi la strada a colpi di lama. »
Giovanni sorrise, ma la mascella rimase rigida. «Io sono l’umile servo del Signore, Cardinal Riario. Non tesso, e sa il Cielo che non uccido. Lascio le strategie ai militari, e l’omicidio agli empi...che di certo nulla hanno a che fare con gli abiti che portiamo. »
«Certo che no. » Lo sguardo del templare si era illuminato di ironia. «La porpora che indossiamo è segno di potere...lo sapevate che un tempo la vestivano solo i re? »
«I tempi sono cambiati. Ora la veste del Re della Cristianità è bianca, come la purezza. »
L’altro ammiccò. Le sue sopracciglia troppo sottili ed arcuate rendevano al suo volto un aspetto inquietante.
«E’ sotto un manto di purezza che si celano le brutture più indicibili. Cesare Borgia, sapete...usava dire che ciò che è candido instilla in chi lo guarda il desiderio di rovinarlo. Il bianco, in realtà, è il colore del peccato. »
«E dunque, io e voi ora concorriamo per indossare una veste bianca come il peccato. » Sorrise. «Quante e quali brutture vi celeremo sotto, lo sanno solo Dio e la nostra coscienza. Spero che, se sarete eletto Santo Padre, ve ne fabbrichino una abbondante. »
Riario sorrise, mellifluo. «Gli uomini che stanno lavorando tanto alacremente per portarvi sul soglio di Pietro sognano di cambiare l’ordine precostituito. Il problema è che non sanno con cosa sostituirlo, vedete? Sono pura rottura, totalmente incapaci di strutturare ordinatamente il nuovo mondo di cui vagheggiano. Nella loro idea imprecisa del futuro, hanno scelto voi come strumento di questa rivoluzione...ma una volta forzata la diga, Cardinal De’ Medici, sarete travolto dalle conseguenze di ciò che avete creato. Tutti noi lo saremo. »
«Parlatemi dell’ordine che voi intendete dare al mondo, Cardinal Riario. Una piramide al cui vertice siete voi, e sotto di voi tutti coloro che ritenete inferiori? »
Il templare si strinse nelle spalle. «E’ ciò che il buon pastore fa con il suo gregge, altrimenti ignorante e perduto. Si eleva su di loro, e lo guida. »
Giovanni puntellò il gomito sul proprio ginocchio, e si sporse in avanti. Mantenendo l’aria perfettamente amabile che la conversazione aveva portato avanti fino a quel momento, disse sorridendo:
«Allora forse questo gregge non ha bisogno di un pastore. Forse ha bisogno di un capobranco, che aiuti le pecore a scoprire il leone che dorme in loro. »
 
 
 
11 Marzo - Mattutino[13]
 
Tullia si era rannicchiata nell’angolo meno sporco della cella, le braccia strette al petto come quando abbracciava le sue bambole, a casa. Solo che qui non aveva bambole, e allora doveva essere la bambola di se stessa e tenersi stretta forte forte. Dormiva, a volte, ma poi sognava la mamma e le veniva da piangere. Dov’era la mamma? Gli uomini cattivi l’avevano portata via da lei, ma forse adesso la stava cercando. Forse la stava cercando anche quel signore alto alto, vestito di rosso, che a volte le veniva a trovare e portava sempre a Tullia nuovi giocattoli e libri per farla esercitare nella lettura. Sì, non doveva avere paura, sarebbero venuti a prenderla. Doveva soltanto abbracciarsi forte per non sentire più freddo, e poi tutto il resto sarebbe andato a posto da solo. La prossima volta che avesse aperto gli occhi, avrebbe trovato la mamma che le tendeva le braccia per riportarla a casa...
Un tonfo sul pavimento. Tullia sbarrò gli occhi e si rannicchiò di più nel buio, sperando che gli uomini cattivi non la vedessero e si dimenticassero che esisteva.
La porta si aprì, cigolando. Entrò qualcuno – una donna – con un cappuccio bianco in testa. Le tese le braccia.
«Vieni, piccola. Ti porto fuori di qui. »
Anche se non era la sua mamma, non sembrava cattiva, e la sua promessa era allettante. Perciò, Tullia le strinse forte le braccia intorno al collo, e si lasciò sollevare.
 
*
 
Pregai che la bambina non piangesse, né singhiozzasse, né pensasse di mettersi ad urlare in mezzo ai corridoi pieni di guardie. La Volpe aveva fatto un buon lavoro nell’organizzare, con un gruppo di ladri ben addestrati, un attacco dall’altra parte della rocca, ma nonostante questo la via era tutt’altro che sgombra. Ci fermammo nelle nicchie, dietro le statue, in ogni angolo d’ombra disponibile, mentre i soldati correvano a dare man forte ai loro compagni per respingere gli assalitori.  Vanni stava cercando di liberare la donna di Castellesi, dall’altra parte della fortezza. L’appuntamento era alla base del torrione, entro dieci minuti. Quando raggiunsi i camminamenti, guardai la piccola Tullia. “Ora devi tenerti stretta a me e non aprire gli occhi per nessun motivo. Mi hai capito?
Era spaventata, potevo vederlo bene anche nel buio. Ma annuì con forza, aggrappandosi alle mie spalle e seppellendo il viso nel mio collo.
«Brava bambina. »
Durante il Salto della Fede non emise che un sottile lamento; tuttavia, quando toccammo terra sbatté gli occhioni e mi guardò stupita.
«Possiamo rifarlo? »
Nonostante tutto, il suo tono mi strappò un sorriso. «Magari un’altra volta, quando saremo meno di fretta. »
Ci dirigemmo al luogo dell’appuntamento, poco lontano da dove eravamo atterrate dopo il salto. Vanni era già lì, e mi aspettava, con accanto una provata Brigida che lo guardava con fiducia.
«Sei in ritardo » mi apostrofò lui, cupo.
Strinsi le labbra per non replicare. Dall’alto rimbombavano i passi dei soldati, le grida; ci avevano individuati, non avevamo tempo per le stupide ripicche. Raggiungemmo i cavalli che i nostri complici avevano nascosto poco lontano per permetterci di partire il più presto possibile. Vanni issò la donna sul suo cavallo, io strinsi a me la bambina. Avevamo poco tempo, se volevamo portarle all’appuntamento con i segretari dei cardinali prima della votazione del mattino.
 
11 Marzo - Ora prima[14]
 
Rosa non riusciva a stare ferma. Camminava avanti e indietro, mentre scrutava l’orizzonte che iniziava appena a rischiarare, sperando di identificare in ogni ombra le figure di Bianca e Vanni.
Era quasi certa di aver scavato un canale sotto la suola dei suoi stivali, quando Ezio le afferrò delicatamente il polso.
«Andrà tutto bene. »
«Ci stanno mettendo troppo. »
«Si sono fermati lungo la strada, per seminare gli inseguitori. »
«Come puoi esserne certo? »
«Abbiamo studiato il piano a tavolino. Non sono degli sciocchi, Rosa. »
«Sono giovani e inesperti, non dovevamo mandare loro. »
«Sono i migliori » intervenne Ermes “quando si tratta di velocità e arrampicata, sono silenziosi come gatti e hanno anni di missioni attive alle spalle. Non avremmo potuto scegliere nessun altro. »
Rosa gettò un’occhiata a Ponthieux, nella speranza che almeno lui le desse man forte. Invano. L’uomo in nero stava zitto e immobile, le braccia incrociate al petto come una sentinella, e non sembrava voler prendere parte alla discussione.
Rosa imprecò pesantemente, senza curarsi di farlo ad alta voce. Gli uomini potevano dire quello che volevano: l’appuntamento davanti a Porta Maggiore era per mezz’ora fa, l’aurora stava scolorando nell’alba e i suoi bambini non erano ancora lì. Diamante avrebbe mandato un messaggio se qualcosa fosse accaduto, di certo. Una staffetta sarebbe arrivata ad avvisarli...e se non ci fosse rimasto più nessuno per inviare quel messaggio? No, non voleva, non poteva pensarlo.
«Presto arriverà anche il servo di Aragona, Ezio » aggiunse Ermes. Dal suo tono, Rosa intuì che anche al templare non piaceva quel ritardo dei ragazzi. Ma il Mentore – granitico, come sempre: maledizione a lui! – replicò:  «Non è ancora qui. »
Intanto, però, anche i suoi occhi bruni non lasciavano la strada.
A Rosa parve di ricominciare a respirare, quando due delle ombre tremolanti nel grigiore assunsero, a mano a mano che si avvicinavano, le sembianze dei suoi figli. Ce l’avevano fatta. Non si erano fatti uccidere, né si erano uccisi a vicenda. Avevano con sé la bambina e la donna. Se Rosa avesse creduto nel Dio che bestemmiava così spesso, gli avrebbe rivolto una preghiera di espiazione e ringraziamento.
Non ci fu tempo per gli abbracci che avrebbe voluto dare loro, però. Appena scesero da cavallo con gli ostaggi liberati, Rosa ammirò il loro contegno, e si stupì di quanto le sembrassero maturi ed estranei insieme. Mentre riportavano brevemente la dinamica del viaggio e il modo in cui avevano seminato gli inseguitori nascondendosi nel granaio di una fattoria, Rosa pensò che Ermes aveva ragione: erano davvero i giovani più promettenti dei due schieramenti. Doveva loro almeno questo, la sensazione di essere adulti che compiono il loro dovere, e non bambini per cui la mamma è stata in pena fino a questo momento.
Ezio poggiò una mano sulla spalla di Bianca. «Ben fatto. Il servo di Aragona sarà qui a minuti... »
«È già qui. »
Rosa gelò. Quella voce non apparteneva al giovane Ferdinando.
 
*
Strinsi Tullia al petto, mentre la bambina, percepita la tensione degli adulti, emetteva un piagnucolio sommesso. Il servo di Aragona era lì per davvero, ma a tenerlo stretto era un uomo in nero, con una maschera bianca dal lungo naso. Il Medico. Tancredi Bentivoglio.
Maledetto...intorno a sé aveva radunato un gruppo di soldati, che iniziava a stringersi intorno a noi. Cercai di contarli. Dieci. Potevamo farcela, ma c’erano degli ostaggi da tenere al sicuro. Lanciai un’occhiata a mio padre. Lui era concentrato a fissare lo sporco doppiogiochista.
«Questo mio giovane amico dice che il suo signore l’ha incaricato di controllare che la bambina e la donna siano veramente vive, prima che i cardinali votino per De’ Medici. Di’, Ferdinando...le hai viste? »
Con la voce tremante, il ragazzo rispose: «S...signore, vi prego... »
«Bene. Allora, il tuo compito è esaurito. »
Il volto del giovane uomo si contorse, e quando si accasciò sulle ginocchia, per poi rovesciarsi prono sul terreno, vedemmo il pugnale sporgergli tra le scapole. Lurido, lurido verme.
«Bianca, Vanni! » abbaiò mio padre, mentre estraeva la spada. I soldati sguainarono a loro volta, i nostri fecero lo stesso. Si stavano preparando allo scontro, ma...senza di noi...ce l’avrebbero fatta?
Tuttavia, non dicussi l’ordine. Misi la bambina in sella e salii rapidamente dietro di lei. Vanni fece lo stesso con Brigida. Ci scambiammo un breve sguardo, prima di spronare i cavalli. Nello stesso istante i cui i nostri talloni toccarono i loro fianchi, mia madre gettò a terra una bomba fumogena.
Attraversammo al Porta Maggiore, e ci gettammo al galoppo verso San Pietro. Sarebbe stata una lunga corsa, e costellata di scale, strade affollate, ostacoli. Gettai solo un’occhiata sulla spalla, per vedere Tancredi uscire dalla mischia confusa nel fumo grigio, salire a cavallo, inseguirci.  Ermes cercò di puntare la balestra contro di lui, il suo dardo lo mancò. Mi voltai di nuovo. Non importava quello che avevo alle spalle, ma quello che c’era davanti. Dovevo convincermene, adesso. Troppi destini dipendevano da questo.
 
*
 
 Vanni gettò un urlo per far scostare i passanti, che sembravano non avere nulla di meglio da fare che mettersi sulla sua traiettoria. A quell’ora le strade di Roma erano già brulicanti come formicai, com’era possibile? Il cavallo correva veloce, ma Tancredi Bentivoglio stava recuperando terreno. Figlio di puttana, lo inseguiva dai tetti ora...se fosse stato solo, Vanni avrebbe saltato sulla prima prima pila di casse che avesse trovato, per raggiungerlo e farla finita con lui una volta per sempre. Ma non lo era. La donna terrorizzata  che stava in sella davanti a lui gli impediva qualsiasi mossa azzardata. Doveva pensare più in fretta dell’aria che gli fustrava il viso, più in fretta dei dardi che l’uomo scagliava dall’alto – nel tentativo di centrarli aveva colpito dei civili, maledetto. Vanni doveva portare la donna il più vicino possibile al Vaticano, così che gli uomini di Castellesi vedessero che era viva. Certo, doveva anche mantenerla viva nel processo...
La sua strada si era separata da quella di Bianca al Colosseo. Avevano deciso rapidamente di dividersi per dare almeno a uno dei due una possibilità. Tancredi, naturalmente, aveva seguito lui. La sua solita dannata fortuna.
Vanni imprecò, quando si trovò di fronte una bancarella, piantata proprio nel mezzo della strada. Non sarebbe riuscito a scartare in tempo. Tirò le redini più forte che poté: il cavallo si impennò. Riuscì a restare in sella, e a non far cadere Brigida, che si aggrappava disperatamente al collo dell’animale. Ma quel momento di esitazione era stato sufficiente perché Tancredi prendesse la mira. Vanni cercò di coprire la donna. Fu il cavallo ad essere colpito, lo scarto improvviso lo aveva messo sulla traiettoria. La freccia gli si conficcò dritto in fronte. Dannazione. Dannazione!
Vanni tolse i piedi dalle staffe appena in tempo per non restare schiacciato dal peso dell’animale che si accasciava. Riuscì a trascinare via Brigida, che singhiozzava incontrollabilmente.
Smettila, piangere non ti terrà in vita, idiota!
La sua testa lo urlava forte, mentre cercava di far perdere le loro tracce tra la folla. Si gettò in un androne, e sperò che non ci fosse nessuno. Non voleva uccidere di fronte alla donna.
La tenne stretta, in parte per nasconderla sotto il mantello e in parte per soffocare contro il proprio farsetto i suoi singhiozzi. Si stava calmando. Anche il respiro di Vanni era più calmo, e la sua mente iniziava a schiarirsi.
No, la donna e la bambina non sarebbero servite a Tancredi da morte. Se fossero state uccise prima del voto, i Cardinali avrebbero potuto reagire per vendetta e votare contro Riario comunque. Il Medico voleva reclamarle come ostaggi. Questo non lo faceva sentire meglio, comunque. Di certo, per farlo sarebbe passato sui cadaveri di Bianca e Vanni con gusto.
Restò nell’ombra dell’androne, cercando di decidere il da farsi. Forse avrebbe dovuto lasciare la donna in un posto sicuro, eliminare il Bentivoglio e, solo allora, tornare a prenderla. Già...ma quale era un posto sicuro?
Un sibilo leggero richiamò la sua attenzione. Proveniva dal cortile che si apriva oltre l’androne.
Non la vide, subito. Il tombino di pietra era stato appena smosso, ma quando si spostò un po’ di più Vanni si accorse del cappuccio bianco che vi si celava sotto.
Sospirò.
Era da molto tempo che vedere sua sorella non lo faceva sentire così sollevato.
 
*
 
L’idea di mostrare a Vanni i percorsi segreti degli Assassini attraverso la rete fognaria di Roma non mi entusiasmava, ovviamente. Tuttavia, era stata l’unica soluzione a cui fossi riuscita a pensare.
Camminammo nel tanfo di quei corridoi luridi, trascinandoci dietro i due ostaggi liberati che, evidentemente, non riuscivano ad apprezzare la sicurezza data dall’oscurità e dalla posizione nascosta nelle viscere della città. La donna procedeva con la bambina in braccio, cercando di tapparle il naso per proteggerla da quegli effluvi. Ogni tanto ci lanciava occhiate cariche di disprezzo. Razza di ingrata, se l’avessimo lasciata in mano templare non avrebbe più inalato nessun tipo di aria, profumata o pestilenziale che fosse.
«Dovremo riemergere in superficie prima di arrivare al Tevere » li avvisai. «C’è ancora un tratto di strada scoperto da attraversare, perciò preparatevi. Potrebbe essere pieno di soldati, là fuori. »
«Sappiamo dove Fernando doveva incontrare il suo informatore dentro il Vaticano? »
«Piazza San Pietro. Avrebbe dovuto sventolare un fazzoletto bianco. »
«L’informatore non si fiderà di noi. »
«Sì, invece. Saliremo su un tetto e faremo il segno. Vedrà che Tullia e Brigida stanno bene, porterà la notizia ai Cardinali e tutta questa follia finalmente finirà. »
«È troppo lontano, non ci vedrà mai. Chi è l’informatore? »
«Un vescovo. »
«Dobbiamo trovare un altro modo... »
Vanni smise di parlare, e anche mio mi arrestai, trattenendo la donna per il braccio. Dei passi risuonavano sotto le volte della cloaca, passi che non appartenevano a noi. Provenivano dalla direzione opposta.
Vanni sfoderò la spada. Lo imitai, ponendomi davanti agli ostaggi. Attendemmo, i nervi tesi, che si facesse vedere.
Nella luce della torcia che stringeva in mano, i colori rossicci di Ermes Bentivoglio apparivano ancora più intensi. Sembrava, lo giuro, un emissario del demonio.
«Maestro » Vanni sospirò per il sollievo. Ermes si portò un dito davanti alle labbra.
«Mi ha mandato vostro padre. »
«Lui e la mamma » chiesi senza fiato. «Stanno bene? »
Ermes annuì. «Qualche ammaccatura appena. Torneranno al vostro covo per coordinare le azioni di disturbo. Venite. »
«Nessuno si muoverà di qui. »
Ci voltammo di scatto. Brigida gridò alla vista dell’uomo dalla maschera di uccello. Era seguito da tre soldati, doveva essere riuscito ad ottenere dei rinforzi lungo la strada. Nessuno di loro sembrava avere armi da lancio, o le avrebbero già usate contro di noi.
Io digrignai i denti. Feci scattare la lama celata, quando Ermes mi pose una mano sulla spalla, cacciandomi in mano la torcia. «Hai altri doveri, adesso. Andate, penso io a loro. »
Tuttavia, mio fratello rispose granitico: «Non ti lascio, Maestro. »
«Vanni... »
«Due contro uno, è una buona proporzione. Prometto che vi lascerò la carogna con la maschera » sogghignò. Ermes esitò solo un istante, prima di annuire.
«Vanni... » sentii me stessa mormorare. Odiavo quel vuoto all’altezza dello stomaco, ma non volevo lasciarlo lì, nella fogna, a battersi in un duello impari. Lui mi rivolse appena un cenno.
«Ti raggiungeremo su quel tetto. Vai. Vai! »
Inghiottii l’amaro che mi fioriva in gola, e afferrai la mano di Brigida. Iniziammo a correre, cercando di annegare nel rumore dei nostri passi in fuga il clangore delle armi che si scontravano.
 
*
 
Ermes e Vanni avevano combattuto molte battaglie fianco a fianco, come maestro e allievo. Avevano imparato ad affiatarsi, con il tempo. Ermes affondava e Vanni gli copriva il fianco; Vanni schivava ed Ermes si spostava in tempo per non ricevere il colpo al suo posto. Era come una danza improvvisata, in cui conoscere il proprio compagno era la parte fondamentale per non pestarsi i piedi – che, in questo caso, voleva dire non restare uccisi.
Le guardie svizzere erano, Vanni lo riconosceva, ossi duri. Era molto più difficile trovare un punto in cui penetrare la loro armatura, perciò si concentrò nel disarmarli. Gettò la spada a terra, e attese che l’energumeno gli si slanciasse contro. Torse il busto per schivare la lama, gli afferrò le mani giunte sull’elsa: lo attirò verso di sé per sferrargli una ginocchiata all’inguine che lo lasciò piegato a metà.
Con la picca che gli aveva sottratto infilzò la gola del suo compagno; la ferita mandò uno spruzzo generoso di sangue a macchiargli gli abiti e il volto. Eliminato il soldato, tornò all’altro: gli sferrò una bastonata in testa per levargli ogni possibile idea di rialzarsi, e lo finì conficcandogli la lama nel collo.
Vanni si passò una mano sulla guancia, lasciando una scia rossa lungo la mandibola. Bene, i suoi due erano sistemati.
Si voltò per controllare a che punto fosse il suo Maestro. Anche l’altra guardia svizzera era caduta. Dunque, restava solo Tancredi.
Sbarrò gli occhi, quando vide Ermes piegarsi in avanti, colpito al ventre dal medico. La punta della sua spada gli sporgeva dalla schiena.
«No...NO! »
Per un lungo attimo, Vanni Auditore restò paralizzato dall’orrore. Ermes caracollò all’indietro, portandosi l’arma che l’aveva ucciso con sé.
«Figlio...di strega... » sussurrò Ermes. Tancredi lo guardò dall’alto verso il basso, e si tolse la maschera, a rivelare un’espressione sprezzante.
«Questo figlio di strega ti ha battuto, fratello. Ti senti ancora superiore a me? Credi ancora che non abbia diritto di stare al mondo solo perché sono un bastardo? »
Con quelle parole, Tancredi lasciò cadere la maschera sul fratello agonizzante.
Il gesto infiammò il sangue di Vanni a tal punto che non ci fu più spazio per il calcolo e la ragione. Si gettò sul medico, e lo colpì con la lama celata – quella che non aveva mai tolto dal polso, dal giorno in cui aveva pugnalato sua sorella in un vicolo di Bologna. Gliela conficcò nel petto così tante volte, e con così tanta foga, che non si accorse nemmeno del dolore bruciante la fianco, all’inizio. Fu solo quando il corpo di Tancredi gli si accascio’ addosso, stringendolo in un grottesco abbraccio, che i suoi occhi rossi mandarono un ultimo bagliore. Tra le labbra correvano gia’ rivoli di sangue.
«Muoio felice...se posso...trascinarvi con me. »
Scivolo’ sulle ginocchia, la sua stretta sulle braccia del giovane templare era sempre più debole. Vanni posò la suola dello stivale sulla sua spalla e lo spinse a terra supino. Sputò sul suo corpo prima ancora che emettesse l’ultimo respiro. Voleva che sapesse cosa ne pensava delle sue minacce, della sua devozione ai Templari Ortodossi, della sua vita di bastardo e della sua morte troppo veloce. Non badò alla propria ferita. Dopo tutto, era solo il graffio di uno stupido ago. Quasi non buttava sangue. Quasi non lo sentiva.
Premette la mano guantata sul fianco, e si chinò sul suo Maestro. Sperò di poter raccogliere un’ultima parola da lui, almeno uno sguardo. Sperò di potergli fare sentire che c’era, mentre gli stringeva la mano. Ma era troppo tardi. Poteva soltanto chiudergli gli occhi, e accettare di aver perso anche lui, come aveva perduto Padre Geremia. Con Etienne lontano, era davvero solo adesso.
Recitò una breve preghiera per il Padre della Comprensione, perché accogliesse Ermes come aveva già fatto con Geremia. Vanni li avrebbe vendicati, quel giorno, mettendo il dannato De’ Medici sul trono del Papa.
Doveva fare presto. Bianca aveva bisogno del suo aiuto.
 
 
11 Marzo - Ora Terza[15]
 
Nell’affolata Sala Regia, dove i cardinali si preparavano in vista della votazione del mattino, Luigi D’Aragona guardava incessantemente la finestra che dava sui giardini. Aspettava il segnale del suo uomo, quel fazzoletto bianco che avrebbe brillato nel cielo come una stella fuori posto quando fosse apparso. Niente. Ancora niente. Scambiò un’occhiata nervosa con Castellesi, che parlava con un gruppo di alleati all’altro angolo della Sala. La votazione di oggi sarebbe stata quella decisiva. Da quella notizia sarebbe dipeso tutto quanto.
Ma la notizia non arrivava, e l’Aragona si vide costretto a rivolgere un cenno di diniego a Castellesi, e a Serra i Cau. Sentiva gli occhi di De’ Medici e Riario incollati addosso, l’uno nervoso, l’altro trionfante.
Non c’era nulla che potesse fare. Poteva solo guardare la finestra, e aspettare che quella pigra stella diurna squarciasse il cielo per illuminare l’orizzonte della votazione.
 
*
 
Non avevo altra scelta. Per mandare il dannato messaggio dovevo arrampicarmi sul tetto del palazzo più vicino al colonnato, ma non potevo farlo con entrambe la bambina e la donna da tenere d’occhio. Fortunatamente, una cosa di cui una città-cantiere come Roma abbonda sono i montacarichi. Forse, sperare che sganciare i pesi di colpo ci portasse su tutte e tre era un azzardo molto grande; d’altronde, all’interno della confraternita avevo visto praticare quel trucchetto a uomini che pesavano il doppio di me. Brigida, io e la bambina formavamo insieme la stazza di un uomo nerboruto: almeno, fu questo che cercai di ripetermi mentre dicevo loro di non lasciarmi andare per nessun motivo.
Funzionò, non senza qualche ammaccatura, ma tutto sommato bene. La bambina sembrava ancora più estasiata dall’ascensione che non dal salto: mi chiesi se, dopo tutto, non stessi la plasmando involontariamente perché diventasse una di noi. Mi ripromisi di tornare a scoprirlo entro una quindicina d’anni. Per ora, ero l’unica Assassina nei dintorni, e tutto era riposto nelle mie mani.
Guardai Piazza San Pietro che si apriva di fronte a me: niente più della vecchia facciata di una chiesa cadente, circondata da un quadriportico su cui gli altri edifici si addossavano come donne al lavatoio, intente a carpire i pettegolezzi dalle vicine. Niente di grandioso, niente di speciale, niente che trasudasse sacralità. Solo edifici costruiti alti e massicci per intimidire gli uomini su cui si elevavano.[16]
«Cosa farete ora? » domandò Brigida. Io scrutavo l’orizzonte. Dov’era il nostro uomo? Non tra la folla che si stringeva nella piazza, in attesa di conoscere il nome del nuovo pontefice. Doveva essere qualcuno pronto a correre all’interno del palazzo del Vaticano. Qualcuno come i vescovi che vedeva passare dalle finestre – sembravano intenti ad una specie di ronda. Sì...uno di loro si fermava chiaramente a scrutare la piazza, durante il suo giro di ricognizione. Aspettava un segno. Dovevo soltanto capire come darglielo.
«Aiutatemi» dissi, porgendo a Brigida la manica della camicia. Dovevamo avere un panno bianco con cui segnalare la salvezza degli ostaggi, e non riuscivo a pensare a niente che si potesse strappare più facilmente in tutto il resto del mio vestiario. Brigida fu pratica, e riuscì a strappare la stoffa fin dalla spalla.  E adesso?
«Adesso dobbiamo farglierlo arrivare. »
Alzai la testa di scatto. Vanni era stato più veloce di quanto avessi previsto.
Ci raggiunse, studiando la piazza a sua volta. Non mi sfuggì il fatto che si stesse stringendo il fianco.
«Sei ferito?»
«Una sciocchezza.»
«Dov’è Ermes?»
Vanni serrò la mascella. «Morto.»
Non so perché la notizia mi colpì così. Forse perché ero certa che quell’uomo ed io ci saremmo scontrati in un duello mortale...era qualcosa su cui avevo fantasticato fin da bambina.
«E Tancredi? »
«Morto, anche lui. »
«Se è stato lui a ferirti è meglio controllare. Sai che la sua arma preferita è il veleno. »
Per tutta risposta, mio fratello mi strappò la balestra dalle spalle. Tese l’altra mano, quella con cui si stringeva il fianco fino a un attimo prima. In effetti, sul suo guanto lucido non c’erano tracce di sangue. Forse stavo esagerando con la preoccupazione.
«Dammi un pezzo della manica,» disse Vanni.
«Cosa vuoi fare? »
«Attiro l’attenzione dell’informatore. Sta’ a vedere.»
Vanni stracciò via il pizzo dal resto della manica della mia camicia, lo infilzò nel dardo e caricò la balestra. Quindi, puntò dritto a una delle false colonne ornamentali che stavano tra le finestre arcuate.
Non può farcela, pensavo. È troppo lontano. Anche se la gittata fosse sufficiente, non riuscirà a prendere la mira.
Ma Vanni scoccò, e riuscì. Il dardo si conficcò nel suo bersaglio proprio nel momento in cui il vescovo dalla birretta rossa stava per lasciare la sua postazione, rassegnandosi a un ennesimo giro a vuoto. Lo vedemmo fermarsi, e guardare nella nostra direzione. Fu allora che sventolai il resto della manica bianca, a grandi bracciate.
In risposta, il vescovo estrasse a sua volta qualcosa di bianco – un altro fazzoletto, si sarebbe detto. Lo agitò, in maniera meno plateale di quanto avessi fatto io. Doveva essere sorvegliato. Infine, si ritirò.
«È fatta? » domandò Brigida, la voce carica di speranza. Io annuii Non potevo credere che fosse finita per davvero. Mi chinai su Tullia. «Presto tornerete a casa. Vi scorteremo noi stessi, non è vero...»
Stavo per interpellare Vanni, ma il rumore della mia balestra che cadeva mi bloccò in gola le parole. Alzai gli occhi su di lui.
Il suo pallore. Il modo in cui respirava affannosamente, senza riuscire più a nascondermelo.
«Ho solo...mi è scivolata la presa» cercò di mentire. Io non gli credetti. La ferita era grave. Forse avvelenata.
 
11 Marzo - Ora sesta[17]
 
Non potevo portarlo al Covo sull’Isola Tiberina, né agli appartamenti di Machiavelli: erano troppo lontani. Con l’aiuto di Brigida riuscimmo a calarlo a terra. Fu estenuante e penoso per tutti, ma, più di ogni altra cosa, io credo, fu frustrante per Vanni. Dipendere ancora da me. Dovermi chiedere aiuto. Doversi appoggiare a me, dopo tutto ciò che aveva fatto per uscire dalla mia ombra. Eppure, non poteva stare in piedi se non con il mio aiuto. Cercava di non pesarmi addosso, lo sentivo, ma ogni minuto trascorso la sua agonia diventava più profonda.
Fu sulle rive del Tevere, che Ponthieux ci intercettò. Avrei quasi pianto per il sollievo, nel vedere arrivare quel templare grande e grosso. Avrebbe potuto aiutarci. Avrebbe potuto sollevare Vanni tra le braccia e portarlo al covo, farlo vedere da un cerusico...sudava copiosamente, le sue membra avevano iniziato a fremere di piccoli scatti sconnessi. Ora Etienne de Ponthieux mi avrebbe aiutato a salvarlo.
«Fermatevi. Ho bisogno...» Vanni si accasciò, e solo la stretta dell’altro templare lo aiutò a scivolare delicatamente a sedere invece di schiantarsi a peso morto. La sua pelle bruciava. “Ho bisogno che mi togliate ogni arma. »
«Vanni, non...»
«Lo hai visto anche tu...alcuni veleni...fanno impazzire i soldati, e...quelli iniziano a menare colpi...alla cieca. Slacciami la lama celata...» I suoi occhi grigioverdi si misero nei miei. “Ti prego. Non voglio più...non voglio farti del male di nuovo.»
Deglutii a vuoto. Gli obbedii, slacciando anche il cinturone con i pugnali. Non aveva più la spada, doveva averla lasciata nelle fogne. Brigida si teneva in disparte, stringendo Tullia a sé. Io nemmeno le vedevo. Avevo dimenticato della loro esistenza. Avevo dimenticato perché fossimo arrivati fin lì.
Cercai di tergergli il sudore con la manica superstite. «Tieni duro. Il tuo amico può aiutarci a portarti al sicuro.»
Un lungo brivido lo scosse.
«Non capisci, Bianca? Non c’è...nessun posto sicuro per me, adesso.»
«Sì invece. Lo abbiamo creato insieme. Giovanni De’ Medici sarà Papa, abbiamo costruito un futuro sicuro, Vanni...un futuro dove la tregua tra gli Assassini e i nuovi Templari durerà.»
«Sono contento. I miei figli...i miei figli vivranno in pace.» Lanciò un’occhiata a Ponthieux. «Ma non io. La visione, te la ricordi? Quella che ci hanno mostrato la Mela e il Serpente. Abele e Caino. »
Vanni si aggrappò alla mia mano. I suoi occhi erano arrossati, e lucidi. Le dita non smettevano di tremare.
«Abele chiese a Caino di ucciderlo, perché gli Antichi lo avevano ingannato...»
«No, Vanni. No... »
«Uccidimi, Bianca. Uccidimi, ti prego. Come Caino ha fatto con Abele...»
«No!»
«Solo tu puoi farlo. Solo tu...AH!»
 
«Tu sei...mio fratello. Ti prego. Ti prego...»
Abele sta morendo, tra le braccia di Caino. Gli avevano promesso la suprema conoscenza...e gliela avevano data, per un istante. Un solo istante, in cui il fulmine aveva attraversato il corpo di Abele, e lui aveva partecipato all’esplosione di luce del cosmo, al momento stesso in cui era nata la Vita. Quel solo istante di onniscienza lo stava pagando con una lenta, dolorosa discesa nel reame della morte.
Caino piangeva, il volto ruvido rovinato dal sole era striato di lacrime.
«Abele, non puoi chiedermi questo...non posso!»
Abele gli accarezzò la barba, e disse:
«Non c'è altro modo. Ti supplico...voglio soltanto la pace. Solo tu puoi farlo per me, Caino. Solo tu...»
Quando Caino alzò la pietra, pensò alle lacrime che Eva avrebbe versato. Pensò al volto di Adamo, a come si sarebbe spezzato per sempre insieme al suo cuore. Pensò a se stesso, a come non avrebbe più potuto guardare le proprie mani senza provare disgusto per la propria esistenza.
Eppure, Abele soffriva oltre ogni possibile definizione di dolore. E Caino, che lo amava, non poteva non abbattere quella pietra su di lui.
 

In un battito di ciglia, le mie visioni si erano messe insieme d’un colpo, a formare il quadro completo. E ora che Vanni stava abbandonato tra le mie braccia come Abele tra quelle di Caino, capivo tutto quanto.
Avevo giurato a me stessa che quel momento sarebbe arrivato. E ora che era giunto, le lacrime mi tremavano agli angoli degli occhi.
«Non posso.» Sussurrai. «Non voglio...»
Ma Vanni sussultava più violentemente, in preda ad una febbre devastante. Continuava a supplicarmi, a gemere per la sofferenza. Ed io andavo in pezzi, di minuto in minuto.
 
*
 
Martino, Claudia e Ugo erano in Piazza San Pietro, mischiati tra la folla. Avrebbero voluto aspettare anche loro il ritorno di Bianca al covo, ma il loro incarico era attendere l’annuncio. Se qualcosa fosse andato storto, non c’era molto che potessero fare; almeno, però, avrebbero potuto diramarsi per portare la notizia a tre diversi covi romani, e spargerla tra gli accoliti. Martino non osava sperare. C’era qualcosa che non funzionava, per lui, in quella giornata. Se lo sentiva nelle ossa.
«Aò, quanno ce mettono ancora? »
«Hanno appena esposto la croce» lo rimbeccò zia Claudia. «Ora il nuovo Papa deve decidere il nome, poi lo vestiranno con i paramenti sacri.»
«È troppo tempo o’ stesso.»
«Silenzio» intimò zio Ugo, stringendo il braccio di entrambi con un modo di fare più autoritario del solito. Martino e Claudia tacquero, mentre il porporato – sì, dalla descrizione che ne aveva fatto Bianca pareva proprio Farnese - spalancava la finestra che dava sulla piazza, e con voce stentorea diceva:
«Annuntio vobis gaudium magnum;habemus Papam!»
«Abbello, questo ‘o sapemo già» bofonchiò Martino. Claudia gli diete una gomitata nel costato, che lo zittì all’istante.
«Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Dominum Ioannes,» A questo punto Claudia afferrò la mano di entrambi gli uomini, «Sanctæ Romanæ Ecclesiæ Cardinalem De’ Medici, qui sibi nomen imposuit Leonem Decimum!»[18]

«È De’Medici...» la voce di Claudia si spezzò, metà in sorriso e metà in pianto. «È De’Medici!» Mentre la folla intorno esplodeva in un boato, Claudia afferrò il viso di Martino e gli schioccò due grossi baci sulle guance; poi gettò le braccia al collo di Ugo, euforica. Anche il marito era raggiante, e coinvolse Martino nell’abbraccio. L’uomo rise, come loro, ma dentro una voce gli diceva: Aspetta ad esultare. Aspetta fino a che non sarete a casa. Aspetta di poter abbracciare Bianca...
 
*
 
La notizia viaggiò veloce, e quando arrivò all’isola Tiberina un identico boato di gioia esplose tra gli Assassini. Rosa attirò a sé Ezio per il bavero della camicia, baciandolo senza vergogna di fronte a tutti. Quante ne avevano passate, per poter vedere quel momento. Quante battaglie, quanti lutti, quante sconfitte. Tutto per quella gloriosa vittoria...il soglio di Pietro ora era presieduto da un Papa Assassino.
Eppure, gli occhi scuri di Ezio non brillavano di trionfo come Rosa si aspettava.
«Che c’è?»
«Nulla.»
«Ezio... »
Il Mentore, capo degli Assassini di tutta Italia, si sciolse delicatamente dalla stretta della moglie e si diresse verso la finestra. Le sue spalle sembravano curvate dalla preoccupazione.
«I ragazzi. Non sono ancora rientrati.»
 
*
 
 
Vanni chiese ad Etienne di avere cura di Margherita, e del bambino. Appresi solo in quel momento che c’era davvero un piccolo Auditore-Borgia in arrivo. A me domandò di vegliare su Ilaria e Leonardo, e ricordare la mia promessa di tenere il figlio fuori dalla guerra di nostro padre. Mi chiese di dire a Rosa che trovasse la forza di perdonarlo, se poteva Poi, si morse le labbra pallide.
«Mi dispiace...di averti ferita, quel giorno, a Bologna. E di aver dovuto uccidere Nicola. Ma del resto...non mi pento. Non mi pento di nient’altro. »
«Lo so.» Eppure, non riuscivo a respingerlo. Non riuscivo a non piangere, mentre stringevo la sua testa al petto. Nel giro di pochi minuti il dolore che costringeva le sue membra a continui spasmi si era fatto troppo forte, tanto da farlo delirare.
«Bianca. Ti prego. Dio, Bianca! Aiutami. Aiutami!»
Ed io capii che non potevo più rimandare.
Ciò che passò nella mia mente in quel momento, furono immagini. Un bambino che chiama il mio nome ridendo. Gli occhi arrabbiati di un adolescente che inizia ad odiarmi. Il volto di quel giovane uomo, in preda a una sofferenza atroce.
Si stringeva il petto freneticamente, come se il cuore minacciasse di sfondarlo ad ogni battito. Poggiò la testa sulla mia spalla, in agonia. Non riusciva a respirare.
Me lo strinsi addosso, e posai una mano sul suo cuore. Doveva essere veloce. Chiusi gli occhi, ma solo per un momento. La lama celata scattò.
Di colpo, l’agonia scivolò via dal volto di Vanni. Si volse verso di me, emise un gemito.
«Perdonami,» mormorai. Lui accennò a quello che voglio credere fosse un sorriso. Poi, la sua testa si riversò all’indietro.
Gli ultimi battiti del cuore di mio fratello risuonarono attraverso il mio polso, e si spensero dentro le mie vene.
Alzai lo sguardo colmo di lacrime brucianti. Vidi Ponthieux protendersi su di me, e poggiarmi una mano sulla testa in un goffo gesto di affetto.
«Grazie. Ora non soffre più. »
Mentre tra i vicoli di Roma risuonava in trionfo il nome del nuovo Papa Giovanni De’ Medici, io dicevo addio a Giovanni Antonio Auditore, il mio nemico mortale, la mia nemesi, una volta e per sempre.
Gli chiusi gli occhi, e poggiai una mano sulla sua. Sembrava dormisse. Come l’avrei detto ai nostri genitori? Con che coraggio avrei dato la notizia ad Ilaria?
Eppure, Vanni riposava, finalmente: la tempesta era scivolata via dal suo sguardo sfuggente, il broncio perenne non gli tirava più i lineamenti. Per questo, mormorai contro il suo orecchio:
«Requiescat in pace.»
Perché lo speravo davvero.
 
 
14 Marzo - Vespro
 
 
Decidemmo di seppellirlo nella campagna romana. Sembrava la soluzione più simile ad un compromesso, perché le sue due famiglie non si contendessero il posto dove andare a portargli un fiore. Margherita l’avrebbe voluto in Romagna, noi l’avremmo preferito in Toscana. Ma Vanni decideva sempre di testa sua, e aveva scelto di morire distante da tutti noi.
Fu l’ultimo evento che ricordo in cui Assassini e Templari si riunirono insieme, per dire addio all’uomo che per un breve periodo era riuscito ad unirli. Il silenzioso Ponthieux, senza mutare espressione, piangeva quietamente. Dovevano essere legati, lui e Vanni...io non ne sapevo nulla. Zia Claudia sosteneva mia madre, come se Rosa non potesse reggersi in piedi senza il suo abbraccio. Poteva, io lo sapevo...ma quest’oggi aveva bisogno di quel gesto come non mai. Ugo pose una mano sulla spalla di mio padre, che rimase rigido, intento a guardare mentre la bara veniva chiusa. Da quando aveva appreso la notizia, non aveva pronunciato una parola.
Agamennone e Veronica ci avevano raggiunti da Monteriggioni, incaricandosi di andare a prendere Ilaria e Leo a Vinci per portarli al funerale. Mi avevano anche tolto il fardello di dare loro la notizia. Non so se mi avrebbe retto il cuore. Come si fa a guardare negli occhi un’amica e dirle: l’uomo che ami è morto, perché io ho scelto di salvarne un altro?
Sì. A tutt’oggi io credo – no, io so che Vanni è il pegno richiesto da Plutone. Era uno scambio crudelmente equilibrato. Avevo salvato la vita di un fratello, per vedermene portare via un altro. Per questo Agamennone viveva, e Vanni non più. Era uno dei motivo per cui avevo chiesto che il Serpente fosse sepolto con lui. Nessuno si era opposto, nelle alte sfere Templari come in quelle Assassine. Quel Frutto era troppo distruttivo, e aveva fatto troppo male a tutti noi. Non ce la sentivamo di usarlo, né di correre il rischio che altri lo usassero dopo di noi.
Margherita, naturalmente, era presente. L’aveva scortata la sua stessa madre, Lucrezia Borgia. Il suo ventre era impossibile da nascondere perfino sotto gli ampi abiti da dama: il parto doveva essere vicino, eppure aveva compiuto un viaggio difficile per venire a dire addio a suo marito. Quel dettaglio non sfuggì nemmeno ad Ilaria. Lo sguardo che si rivolsero, una con le mani sul pancione e l’altra con il suo bambino di tre anni stretto tra le braccia,  non avrei saputo definirlo. Non c’era odio, ma nemmeno comprensione. Solo un mutuo riconoscimento del fatto che erano venute a piangere lo stesso amore.
Il piccolo Leonardo sembrava molto intento a osservare la bara che avevamo preparato per Vanni. Poi si guardò intorno, smarrito, come se cercasse qualcuno. «Papà?» chiese.
Lo stava cercando. Fui molto vicina a spezzarmi in pianto, e se non lo feci fu solo perché la mano di Martino strinse forte la mia.
Ilaria non parve turbata dalla domanda. I suoi occhi erano asciutti, ma palpitavano forte. Rispose:
«Il tuo papà è diventato una stella, Leonardo. Come i suoi antenati. Dalle stelle, lui ti guiderà sempre. »[19]
Lucrezia Borgia rivolse un’occhiata a mio padre, prima di cominciare il suo discorso.
«Oggi commemoriamo la vita di Giovanni Antonio Auditore: figlio, marito, padre amatissimo, promettente guerriero e stratega, amico. Secondo il nostro credo, ora lui riposa con il Padre della Comprensione, e la sua mente si è unita al Tutto. So che voi non credete in questo, e tuttavia spero vi porterà conforto pensare che la tempesta di Vanni si è placata per sempre. Il suo cuore è calmo, ora. La sua anima ha trovato la pace. »
Non provai rabbia a quelle parole. Non provai nulla, una patina di nebbia mi era scesa sul cuore dal momento in cui gli avevo tolto la vita. Avevo tenuto fede alla promessa che avevo fatto a me stesssa, ero diventata il Caino di Vanni. Questo non mi aveva portato nessuna gioia, solo una fitta di rimpianto che è rimasta con me, negli anni, e che continuerà ad accompagnarmi fino all’ultimo respiro.
Fu il turno di Ezio prendere la parola. La sua voce era impastata, all’inizio. Dovette schiarirsela, e ricominciare.
«Molti di noi qui presenti accusano Vanni di aver commesso molti errori. Lo stesso capo di accusa che Vanni ha sempre rivolto a me. E aveva ragione, sapete. Ma se potessi tornare indietro, cosa cambierebbe? Lui era destinato a camminare un sentiero che non è il mio. Ed è morto come un guerriero valoroso. Sì, non c’è altro che possa dire su di lui. Era un guerriero valoroso...ed era mio figlio. Nonostante tutto. Perfino nonostante il suo stesso volere.» Un mezzo sorriso amaro gli spezzò le labbra, e poi vennero le lacrime. Si formarono gentili nei suoi occhi e scesero quiete, per annegare nella sua barba argentata. Ezio si inginocchiò accanto alla bara, e poggiò la fronte sul legno. «Requiescas in pace...figlio mio.»
Rosa si inginocchiò per stringere Ezio, e in pochi istanti mi sfrecciò nella mente l’immagine di quella giornata che Vanni mi aveva ricordato solo pochi giorni prima.
Il sole nella campagna senese. I nostri genitori che ci portano a cavallo. Una gara che gli lasciavo vincere ogni volta...
E chi ha vinto, oggi, Vanni? Tra me e te, intendo. Io me lo chiedo ancora.


 


Note Storiche
[1] È molto difficile, arrivati a questo punto, riuscire a mantenere il dualismo netto templari/assassini. È difficile anche capire profondamente le motivazioni politiche dietro certe decisioni, e di certo quella che ho messo in bocca a Farnese è un'interpretazione forte – e non storicamente fondata – della situazione politica del tempo. Ho solo cercato di delineare un quadro che avesse senso per le mie scelte narrative, basandomi sulle alleanze del tempo. Purtroppo non ho condotto uno studio più approfondito su quanto questa teoria potesse essere plausibile, mi dispiace.
[2] Per un approfondimento su questo interessante affresco del Pinturicchio: http://it.wikipedia.org/wiki/Ges%C3%B9_Bambino_delle_Mani. Ho suggerito che il Bambino fosse basato su un ritratto di Laura Orsini, la figlia che Giulia Farnese ebbe da Alessandro VI, nata nel 1492...data a cui risale anche l'affresco. Anche se i mesi sono un po' discordanti, lasciatemi il lusso di questa interpretazione romantica. In realtà, l'affresco fu frammentato e distrutto oltre un secolo dopo per ordine di Alessandro VII, che voleva spezzare ogni legame con con colui che aveva portato quel nome prima di lui.
[3] Biancarè si improvvisa muratrice/restauratrice XD In realtà i frammenti dell'affresco sono staccati a massello: per un lavoro così delicato non basta di certo mettere in mano lo scalpello e smartellare senza alcuna cognizione di causa, come fa qui Bianca. Passatemi la licenza.
[4] Come riportato in «The life and pontificate of Leo the Tenth», di William Roscoe. Per chi mastica l'inglese, si trovano i pdf dei sei volumi gratis online.
Al contrario di quanto riportato in questa e in altre esimie fonti, ho deciso di far fare ai nostri conclavisti più di un paio di votazioni (pare che Giovanni sia stato eletto alla seconda votazione, il che implica che la prima sia avvenuta il 10 Marzo, e non il 6 come ho scritto qui). Necessità di trama mi portano ancora una volta a modificare la Storia.
[5] Cioè, le storie della Bibbia prima che Mosé ricevesse le tavole della Legge sul Sinai.
[6] Dovizi Da Bibbiena, segretario del cardinale: ve lo ricordate?
[7] Le fonti sono discordanti, in ogni caso: c'è chi riporta l'annullamento del matrimonio e chi la vedovanza dell'Aragona. Io ho scelto la versione che più mi avrebbe aiutato nella storia.
[8] Il fatto è che non sono sicura che i cubicoli avessero porte. Anzi, temo proprio che a malapena avessero tende. Purtroppo, per le scene che seguono non posso fare altro che metterle...sopportate questa imprecisione, vi prego.
[9] Nella realtà storica, Giovanni De' Medici era indisposto già quando aveva lasciato Firenze per Roma. Il cardinale e storico della Chiesa Paolo Giovio (Historiarium sui temporis libri XLV) attribuisce a questo suo malanno – un ascesso, parrebbe: sembra che sia stato operato durante lo stesso conclave – il fatto che De' Medici sia stato votato come Papa: avendo dimostrato di avere una salute cagionevole, sarebbe probabilmente morto giovane.
[10] Alla cui vicenda è ispirata la tragedia La Duchessa di Amalfi *__* Quante cose si vengono a scoprire con un po' di ricerca per una fanfiction!!
[11] Nome completo: Brigida Inghirami di Bartolomeo. Cfr°: Il cardinale Adriano di Corneto, di G.Antonazzi. Pdf scaricabile gratuitamente dal sito http://www.artestoriatarquinia.it.
[12] «Grata ai buoni, invisa ai malvagi, nemica ai superbi, sono per te a Tivoli.»
[13] Prima delle prime luci dell’alba.
[14] Le sei del mattino.
[15] Le nove del mattino.
[17] Intorno a mezzogiorno.
[18] Vi annuncio una grande gioia: abbiamo il Papa! L'eminentissimo e reverendissimo Signore, Signor Giovanni Cardinale De' Medici di Santa Romana Chiesa, il quale si è imposto il nome di Leone Decimo!
[19] Questo piccolo pezzo di dialogo è una citazione da Ila, che l’ha descritto in una toccante scena di roleplaying.

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Capitolo 50
*** Epilogo ***


Epilogo
 
21 Marzo 1514. Monteriggioni.
 
Era da quella mattina che volevo dirglielo, ma sapete com'è fatto Martino. Non è semplice tenerlo fermo per più di due minuti, né trovare un attimo sereno ma sufficientemente serio per il genere di notizia che stavo per dargli.
Mio marito aveva trascorso l'ultimo mese in Cappadocia, ed era tornato da appena due giorni. La maggior parte delle ultime ore le avevamo trascorse nel nostro letto, intenti a recuperare il tempo perduto. Perché non gliel'avevo detto allora, nell'intimità della nostra camera? Be', un po' perché non avevo trovato le parole, e un po' perché non ne avevo ancora la certezza: insomma, non sarebbe stata certo la prima volta che il mio ciclo femminile saltava un mese. Che ne avesse saltati due, però, era decisamente più insolito. Quella mattina, mentre Martino e gli altri erano indaffarati per i preparativi del banchetto, la levatrice mi aveva visitata nella riservatezza del nostro casale, togliendomi ogni ulteriore dubbio.
Come mi sentivo a riguardo? Confusa, decisamente. Non che non lo volessi: l'avevo sperato, soprattutto per Martino. Sapevo quanto avrebbe desiderato una famiglia numerosa, come quella da cui proveniva. Tuttavia, come vi ho detto, sapevo anche che gli infusi che avevo assunto nel corso degli anni per evitare proprio quell'eventualità potevano avere danneggiato la mia capacità di concepire. Mi ero messa il cuore in pace, ormai.
A quanto pare, troppo presto.
Una volta che la levatrice se ne fu andata, rimasi a sedere sul letto, con le mani abbandonate sul materasso e gli occhi incollati alle ginocchia. Iniziai a pensare che non ero pronta, che non lo sarei stata mai. Che non avrei potuto più arrampicarmi sui tetti e che avrei dovuto rinunciare alle missioni attive per moltissimo tempo. Iniziai a lasciarmi travolgere dal panico, e mi passai la mano sulla fronte gelida, poi sul viso. No, non era il momento. Sarei stata una madre terribile. Non sapevo nemmeno da che parte cominciare.
«Ecco dov'eri. Ti abbiamo cercata dappertutto questa mattina.» Zia Claudia si affacciò alla porta della mia stanza con la solita aria battagliera che assumeva quando si incaricava di portare un compito a termine. «Faresti proprio di tutto per evitare di aiutarci,  vero?»
Le sorrisi pallidamente. Era un giorno di festa a Monteriggioni: Emilia avrebbe compiuto tre anni. Non volevo rubare quel giorno, che apparteneva di diritto alla mia figlioccia: perciò, mi ripromisi mentalmente di non cedere e di non parlarne con zia Claudia. Non ne avrei fatto parola con nessuno, se non con mio marito, fino all'indomani.
Lo sguardo acuto di zia Claudia mi scrutò. “Stai bene?”
“Sì...sono solo un po’ stanca.”
“Hai spesso dei piccoli malori, ultimamente.” Inquisitoria come sempre quando voleva celare la preoccupazione, la zia marciò verso di me e mi toccò la fronte. Poi, mi guardò negli occhi. “Sei molto bella.”
Accennai ad un sorriso. “Lo dite come se fosse una novità!”
“Radiosa, direi quasi. Insolito per te, molto insolito.”
Perfetto. Avevo fatto un ottimo lavoro nel nascondere il mio segreto.
“Zia, io...”
“Devi dirmi qualcosa, Bianca?”
“Deve dirvi cosa, madre?”
Lisabetta entrò zufolando, con un sorriso leggero a distenderle i lineamenti. Mia cugina avrebbe compiuto tredici anni quell’estate, e dal boccio di bambina già iniziava a fiorire una rosa stupenda. I suoi lineamenti regolari, uniti agli intensi occhi scuri, dagli angoli un po’ inclinati verso il basso, che aveva ereditato dal padre, catalizzavano gli sguardi sul suo volto; il suo sorriso pronto che si apriva tra le adorabili lentiggini le dava un’aria di allegra grazia. Si appoggiò allo stipite, e mi rivolse un’occhiata scandalizzata quando si rese conto che non ero ancora vestita.
“Bianca, cosa fai! Veronica ha bisogno del tuo aiuto con gli addobbi, ti cerca da un’ora.”
Mi strinsi nelle spalle, alzandomi per raggiungere il guardaroba. “Se Veronica mi cerca, Veronica mi avrà! Mi aiuti a scegliere un abito, Betta?”
Mia cugina annuì con entusiasmo: adorava i capi di vestiario, aveva ereditato dalla madre il gusto per gli abiti, le stoffe e gli accostamenti.
“Bianca.”
La voce della zia era seria. Mi guardò per un lungo momento. Io cercai di mantenere il sorriso spensierato in viso.
Infine, zia Claudia sospirò. “Ne riparleremo,” disse, prima di uscire dal casale – non senza aver raccomandato a Lisabetta e me di fare più in fretta possibile.
Una volta che fu uscita, sospirai a mia volta. Betta stava estraendo alcuni dei miei abiti, ricordo di quando ero stata una dama alla corte di Mantova.
“Oh, questo!” squittì, mostrandomi un abito di broccato azzurro, con ricami di perle di fiume sul corpetto e sulle maniche.
Sorrisi. “Pensavo che il tuo colore preferito del momento fosse il rosso.”
Lei storse il nasino all’insù. “No, è superato ormai. Ora ho scoperto i pregi delle tonalità del blu. Metterà in risalto i tuoi occhi!”
Mi stava allacciando i lacci del corpetto, quando disse: “Ti ho salvato solo provvisoriamente, sai? La mamma tornerà                                                                                                                                                                                                                                                               alla carica stasera, dopo la festa.”
Roteai gli occhi al cielo. “Tua madre sa sempre come ottenere le informazioni che desidera...ma stavolta dovrà aspettare domani.”
“Guarda che se vuoi che sembri sorpresa dovrai sforzarti un po’ di più per nasconderlo.”
Mi voltai di scatto verso di lei, dando un involontario strattone al corpetto. “Come?”
Mia cugina mi rivolse un sorriso furbo. “Non sono una bambina, Bianca, sai? Ho incrociato la levatrice mentre venivo qui. Non ci sono casali dove abitino altre possibili future madri, nei dintorni.”
“Tu...non dovresti nemmeno pensare a quante possibili future madri possono esserci nei dintorni, santo cielo!”
“Perché?” Il volto di Lisabetta era tutto innocenza. “Sono abbastanza grande da sapere che i bambini non si trovano sotto i cavoli...questo non vuol mica dire che io conosca i sordidi dettagli!” ammiccò, per poi ridere.  Quindi, si fece di nuovo seria. “A parte, ecco, se te lo chiede mia madre. Nel qual caso, sono certa che i bambini germoglino sotto le foglie del cavolo, e non ho idea che esistano dei sordidi dettagli.”
Questo strappò a me una risata di cuore, facendomi dimenticare che probabilmente avrei dovuto preoccuparmi del fatto che la mia cuginetta fosse così perspicace. Non potevo farci niente. Adoravo la sua mente acuta e la sua lingua pronta, che la rendevano un meraviglioso insieme dei caratteri dei suoi genitori.
Fino a quel momento, pensai, era andato tutto bene. Avevo incontrato soltanto due dei miei famigliari quella mattina, e tutte e due avevano carpito senza difficoltà il mio segreto.
Facendole promettere che non avrebbe parlato delle sue intuizioni con nessuno, la scortai al borgo. Qui, rimasi sorpresa di vedere che nello spiazzo antistante la Villa, dove ci eravamo allenati tante volte da ragazzi, erano stati eretti dei pali da cui grondavano decorazioni di fiori, drappi di stoffe vivaci e nastri colorati intrecciati tra loro a formare arzigogoli complicati.
Veronica se ne stava in basso, nel suo vestito in amoerro verde oliva, le braccia incrociate al petto che le appiattivano l’abito sull’addome, evidenziando la sua nuova gravidanza. Era incinta di cinque mesi, elegantissima, e più agguerrita che mai.
“Si può sapere che stai combinando, con quelle mani da scimmione? Così rovinerai tutto, smettila subito!”
L’oggetto di tali amorevoli consigli era nientepopodimeno che mio marito, arrampicato al palo. Martino si sorreggeva solo con la forza delle gambe, mentre le sue mani così graziosamente descritte cercavano di sbrogliare il goffo nodo tra due drappi.
“Aspetta solo che scodelli il pupo” brontolò, senza smettere di sorridere per un attimo “e te sfido a duello, sa’?”
“Umph. Potrei batterti anche con il pancione, ma hai ragione, sarebbe troppo umiliante per te.”
Quando Agamennone e Veronica ci avevano annunciato di attendere un altro figlio, eravamo stati felici, certo. Eppure, avevo visto subito quell’ombra di invidia nello sguardo di Martino. Ne avevamo parlato. Il succo del suo discorso era stato: ti amo, voglio stare con te, se un bambino arriverà sarà qualcosa in più, se non arriverà pazienza. Non è che non credessi alle sue parole, davvero. Erano i suoi occhi, a non crederci. Sapevo che mi avrebbe sempre amato e non mi avrebbe mai fatto pesare quella mancanza nel nostro rapporto, ma per lui era molto più importante di quel pazienza detto con noncuranza.
Trattenni appena l’istinto di sfiorarmi il ventre. Martino sarebbe stato felice. E io? Perché non riuscivo ad esserlo?
“Posso parlare con lo scimmione due minuti?”
“Questa visione ‘n azzurro me po’ pallà quanto vole” ammiccò Martino, fischiando mentre squadrava il mio vestito.
“Aspetta, lavativa: ho del lavoro anche per te.” Veronica si voltò verso di me con il suo sguardo più esigente. “Sangiovese o Chianti?”
“Perché scegliere?”
“Ottimo, puoi portare gli orci di entrambi alla Villa, allora. Il mastro vinaio li ha appena scaricati...in totale non sono più di venti, tranquilla.”
Puntellai le braccia sui fianchi. “Ci hai preso per i tuoi schiavi personali?”
Lei sbattè i grandi occhioni castani. “Oh. Perdonami. Vorrà dire che li porterò da sola...ci metterò un po’ di tempo, ma dopo tutto credo di potercela fare. Se il bambino non scalcia troppo non dovrei avere problemi...”
“Smettila. Sei tremenda quando cerchi di fare la vittima, non ti si addice.”
Lei sogghignò. “Se non ti va puoi sempre delegare.  È una tattica che sto iniziando ad apprezzare.”
Fu allora che Emilia arrivò correndo, per aggrapparti alle gonne della madre. “Mamma! Mamma!” urlò, eccitata. “Papà mi ha fatto il regalo più bello del mondo! Mi ha regalato il sole!”
Agamennone seguiva la sua bionda figlia di qualche passo. Si strinse nelle spalle. “Non proprio il sole, Emilia. Solo un modo per guardare il sole.”
Raccolse la bambina tra le braccia, e le calcò sul naso un paio di occhialetti a molla come quelli che portava Jacopo. Le lenti, però, erano state annerite, probabilmente sulla fiamma. Al mio sguardo perplesso, Mennone replicò: “Così non si rovinerà gli occhi. Ha sempre il naso per aria.”
“A chi somiglierà mai?” sospirò Veronica, cercando di celare un sorriso.
“Ehi! Milla, bbella de zio, guarda ‘n po’ quassù? Io ce sto pe’ davero, pe’ aria, artro che ‘r sole! So’ pure più bbello, eh?”
Attraverso le sue lenti annerite, Emilia fissò Martino che la salutava con la mano, e disse, tutta compita. “No zio, tu non sei per aria come il sole. Sei solo arrampicato su un palo.”
Ed ecco la logica infallibile e un po’ cinica di sua madre che si manifestava. Scoppiammo tutti a ridere, e mentre le pizzicavo la guancia, lo giuro,  avevo dimenticato perché ero venuta fin lì.
Poi, Martino scese dal palo, e il mio cuore fece un balzo fino alla gola. Non era certo vestito a festa come noi altri: i pantalonacci da lavoro erano sgualciti, la camicia era aperta sul petto e arrotolata sulle maniche...tuttavia, lo ammetto, offriva uno spettavolo molto più seducente di tutti i completi eleganti che potesse indossare.
Per scherzo, mi rivolse un inchino elaborato.
“Allora, mia bella madama...posso aiutarvi con quegli orci di vino?”
“Non ce n’è bisogno” si affrettò a dire Agamennone, ma io lo fermai. “Non dire sciocchezze, ci rendiamo utili volentieri. Ci vediamo tra un attimo.”
Con quella scusa, trascinai via Martino. Lui afferrò una grossa anfora e se la sistemò in spalla; quindi, con la mano libera mi aiutò a portarne un’altra su per i gradini che portavano alla Villa.
“Sta’ attenta, ‘a rossa s’è messa a comannà ‘n casa tua” scherzò mentre salivamo la scalinata.
“Ah, lo sai che è tutta scena. E poi direi che possiamo lasciarle l’illusione del comando, il giorno del compleanno di sua figlia.”
“E se poi je dà alla testa? Se ce fa appennere quelle schifezze de nastri e nastrini pure fori dar casale?”
Gli sorrisi. “No di certo. Il casale è territorio proibito, lì prendiamo le decisioni solo io e te.” Mi fermai un attimo, facendo cenno di poggiare l’anfora. Lui credette che fossi stanca, e ne sembrò stupito. “A proposito di decisioni...devo parlarti di una cosa.”
Lui ricambiò il sorriso. “Dimme tutto, Biancarè. Finché ‘r capo nun ce vede, sbrigate!”
Non sospettava minimamente di cosa stessi per parlargli, ne sono certa. E non lo avrebbe saputo ancora per un po’, perché una voce tuonò dall’arena di addestramento:
“Perdio, non ci posso credere! Uno torna dopo quattro anni di prigione e trova che vi state riproducendo come funghi!”
Bartolomeo. Bartolomeo d’Alviano...era libero. Ed era qui!
Martino dovette notare la mia commossa sorpresa, perché poggiò anche il suo orcio.
“Me sa che dovemo rimannà...m’o dici più tardi, d’accordo?”
Annuii. Sì, glielo avrei detto più tardi.
Scoprii presto che zio Ugo non aveva portato da Venezia soltanto Bartolomeo, ma anche la mia adorata Suor Teodora.  Se salutai quest’ultima con un bacio e un abbraccio affettuoso, quando fu il turno del condottiero gli gettai le braccia intorno al collo taurino, e lui mi sollevò, stringendomi forte.
“La mia seconda Bianca preferita!” rise, con il suo vocione che rimbombava nel petto cavernoso. Dio, quanto mi era mancato. Era stato prigioniero dei francesi per quattro anni, ed era stato rilasciato da pochi mesi soltanto. Gli scrutai il volto: non portava segni evidenti di privazioni e sofferenza. Se conosco Bartolomeo, credo che appena libero abbia ripreso a divorare la vita a grandi morsi, fino a cancellare ogni traccia di quella lunga prigionia che gliela aveva quasi portata via.
Gli chiedemmo di raccontare del rilascio; lui, invece, si avvicinò con una sorta di stupita venerazione alla piccola Emilia, che stava in braccio a suo padre. “Che io sia dannato...”
Entrambe Veronica e Suor Teodora gli rivolsero un’occhiataccia. L’omone tossì. “Voglio dire: accidentaccio...chi è questa bella madamina?”
Emilia guardò suo padre. Agamennone annuì, per incoraggiarla a parlare. Lei sgranò i grandi occhi scuri: di solito era piuttosto timida con gli estranei. Tuttavia, Bartolomeo doveva starle simpatico: continuava a fissare i suoi baffi.
“Sono Emilia, messere. E tu chi sei?”
Mi aspettai che il mercenario scoppiasse in un’altra risata e scherzasse, invece parve inspiegabilmente commosso. Chinò un poco la testa, e con i modi più cortesi che gli avessi mai sentito usare disse: “Bartolomeo d’Alviano, madamina Emilia: per servirvi.”
Quindi, strizzò l’occhio a Veronica. “Interessata a combinare un matrimonio? Entro la fine dell’anno potrei avere un promesso sposo da offrirvi.”
La mia amica inarcò un sopracciglio. “Vi state davvero offrendo di fare da sensale a mia figlia, Maestro?”
Entrambi Ugo e Suor Teodora risero. La donna poggiò una mano sul braccio del condottiero.
“Quel che il nostro comune amico vuole dire, è che lui e la signora Pantasilea aspettano un figlio.”[1]
Le esclamazioni di sorpresa e gioia esplosero tutte insieme. Ci furono congratulazioni e pacche sulla spalla.
“Devo rendervi la vostra spada, Maestro!” esclamai, ricordando in quel momento della mia omonima di acciaio che riposava nella teca d’onore dell’armeria di mio padre. “La rivorrete, ora che siete libero...un giorno vorrete darla a vostro figlio.”
Lui scosse forte il capo. “No, tienila tu. Quando mio figlio sarà abbastanza grande, verrà a reclamarla da te...a condizione che ti batta in un duello alla pari.”
“E se fosse una figlia?” lo rimbeccò Ugo.
Bartolomeo sospirò. “Se sarà una figlia, dovrà sconfiggere Bianca in un duello impari. Per tutti i diavoli danzanti dell’inferno, ragazza mia: se prende anche solo la metà dell’astuzia di sua madre, dovrai partire avvantaggiata per riuscire a batterla!”
Risero tutti, di nuovo. Io sorridevo, ma dentro mi sentivo in qualche modo...confusa. Tutti intorno a me sembravano avere bambini, con una serena noncuranza che mi sorprendeva. Eravamo guerrieri. Eravamo assassini. Avremmo portato dei figli in un mondo che era in pace solo transitoriamente. Come potevano essere tutti così calmi?
Come sempre estremamente ricettiva ai cambi di umore di chi la circondava, Suor Teodora mi prese a braccetto, e sussurrò al mio orecchio: “Mi accompagneresti alla chiesa del borgo, mia cara? Il viaggio è stato lungo, sento il bisogno di raccogliermi in preghiera prima di prendere parte ai preparativi della festa.”
La chiesa non era esattamente il mio luogo preferito di Monteriggioni, ma fui felice di avere una scusa per allontanarmi un momento dagli altri. Dovevo elaborare la notizia di Bartolomeo, quando ancora non avevo elaborato del tutto quella che presto avrei dovuto dare a Martino.
 
La strada era breve, ma Suor Teodora riuscì in quel lasso di tempo a chiedermi di Leonardo. Mi rilassai un po’, raccontando ciò che Ilaria aveva scritto di lui nelle ultime lettere. Il mio nipotino aveva compiuto da poco quattro anni, adorava i cani e già giocava con una spada di legno; si sbucciava spesso le ginocchia, ma inghiottita la paura con il primo fiotto di lacrime si metteva a ridere e si rialzava di nuovo: niente avrebbe potuto tenerlo lontano dal raggiungere ciò che voleva.
“È un tratto di famiglia,” sorrise la suora. Io distolsi lo sguardo.
“Immagino di sì.”
“E dimmi, lui e sua madre verranno, quest’oggi?”
“Non credo. Dopo...” Sospirai, prendendomi un attimo per riformulare la frase. “Nell’ultimo anno Ilaria ha voluto prendere le distanze. Mi scrive, ma preferisce non incontrarci. Con tutto quello che è successo, io...non riesco a biasimarla.”
“Capisco.”
Eravamo sulla soglia della chiesetta. Io mi fermai. Le dita sottili di Teodora si strinsero più forte intorno al mio braccio.
“Ti prego, entra con me.”
“Io non...”
“È un posto come un altro dove possiamo parlare in pace, non credi?” Mi strizzò l’occhio. Io battei le palpebre.
“D’accordo.”
Osservai la devozione con cui Teodora si inginocchiò di fronte all’altare, facendosi il segno della croce  e giungendo le mani in preghiera. Le sue labbra danzavano sulle parole di un inno silenzioso. La osservai, senza replicare nessuno di quei gesti che erano così estranei a tutto ciò che ero. Pur essendo stata un’Assassina per la maggior parte della sua vita, Teodora non aveva mai perso la sua fede. Come poteva esserci riuscita?
Quando ebbe terminato la sua preghiera, Teodora mi fece un genno gentile per chiedermi di aiutarla a rialzarsi. Le fui accanto. Che strano pensare a lei come un’anziana suora. La ricordavo ancora quando, bellissima e ammaliante predicatrice del Vangelo della Carne, faceva ingelosire mia madre con la sua presenza al Palazzo della Seta, e mi spiegava che, nonostante  il suo goffo imbarazzo nei miei confronti, mio padre mi amava.
Sedemmo su una panca, e Teodora mi prese la mano.
“Ed ora, vuoi dirmi cosa ti turba tanto?”
Serrai forte le labbra, e abbassai gli occhi sulle mie ginocchia. Mi era impossibile guardarla in viso e non sentirmi ancora una bambina smarrita.
“Questa mattina ne ho avuto la conferma. Sono incinta.”
“Oh, Bianca!” La stretta della sua mano si fece più forte, la voce suonava incrinata da una risata commossa. “Bartolomeo ha ragione, non vi possiamo lasciare un attimo da soli!”
Poi, visto che non mi univo alla sua allegria, si fece di nuovo seria. “Capisco. Non lo sa ancora nessuno?”
“Sto cercando il momento giusto per dirlo a mio marito.”
La suora annuì.  Dopo un attimo di silenzio, disse: “Il primo anniversario è passato da poco.”
Ero sorpresa, ma non poi tanto. Forse, mi stupì di più la rapidità con cui il mio cuore comprese ciò di cui stava parlando. Possibile che la causa di quella sorda sofferenza fosse proprio la data appena trascorsa?
“L’undici marzo di un anno fa, io ho ucciso mio fratello.”
“Per misericordia, Bianca. Perché stava soffrendo.”
“Gli ho piantato una lama nel cuore, come mi ero ripromessa di fare. Mi è spirato tra le braccia, come avevo sognato per tanto tempo nelle mie fantasie di vendetta.”
“E quando l’hai fatto, hai provato gioia?”
Scossi il capo, e serrai forte le palpebre. “Io non capisco, sorella. Veronica e Agamennone avranno un secondo bambino molto presto, e anche Bartolomeo diventerà padre, e...come sanno che saranno bravi genitori? Come possono essere certi che i loro figli non soffriranno per i loro errori? La guerra ricomincerà, prima o poi, e le vite di questi bambini potrebbero finire in prima linea, e...”
“Bianca, ora ascolta.” Teodora mi alzò il viso. Mi zittii, quando incontrai i suoi occhi. “Tu meriti di essere felice. Quello che è successo non è colpa tua. I tuoi figli non sono condannati a seguire la tua strada, né quella di tuo fratello. È vero, cose orribili possono accadere, come quelle che hanno diviso te e Vanni...ma ogni nuovo futuro è ancora tutto da scrivere, ed è qualcosa su cui vale sempre la pena di scommettere. Dai a te stessa un’opportunità...dalla a questo bambino.”
Cercai di ricacciare indietro le lacrime, e le posi la domanda che veramente mi schiacciava il cuore.
“Riuscirò ad essere una buona Assassina e una buona madre nello stesso tempo?”
Lei sorrise.
“Ora ti dirò una cosa che non ti ho mai detto. Sai che conoscevo tuo padre da diverso tempo, prima che tu venissi al mondo, sono stata tra coloro che l’hanno iniziato all’Ordine. Ebbene: da quando sei entrata nella vita di Ezio, tu l’hai cambiato. L’hai reso un guerriero più coscienzioso, un capo più attento, un uomo migliore. Apri il cuore a tuo figlio, Bianca...tutto il resto verrà da sé.”
La abbracciai, forte, seppellendo il volto sulla sua spalla. Erano passati più di vent’anni, e ancora mi sentivo più sicura nel suo abbraccio. Erano passati più di vent’anni, e ancora Suor Teodora aveva mille cose da spiegarmi sull’amore.
 
Non ebbi occasione di parlare con Martino per tutto il pomeriggio, e tanto meno quando la festa iniziò. Ci furono i giochi, le corse con i sacchi, l’albero della cuccagna. Quel giorno l’Ordine smise la sua divisa bianca e rossa per vestirsi a festa, e celebrare la vita di Emilia, che ci aveva riportato la primavera. Era davvero un’occasione straordinaria: Diamante beveva serena e scambiava facezie con Ugo e Claudia, Oreste era stato convinto da una snervante Lisabetta a suonare il liuto, Guido giocava spensierato con gli altri bambini e Niccolò invitava, titubante, una ragazzina del borgo a danzare. Anche io ballai, e mi divertii, escludendo ogni pensiero cattivo dalla mente: ma non toccai il vino. Quando, con la testa che ancora girava per l’ultima danza in cui Martino mi aveva trascinato, gli chiesi di sedermi e infliggere le sue doti di ballerino a qualche altra dama, lui mi lasciò con un bacio sulle labbra. Osservai la sua figura splendidamente modellata mentre si allontanava. Aveva cambiato la tenuta disordinata di poco prima in un farsetto nero e bronzo, camicia di un bianco brillante, calzamaglia e stivali. Era stupendo. Lo amavo da morire. E, adesso che Teodora aveva messo pace nel mio cuore, non vedevo l’ora di confessargli il segreto. Fantasticavo sul momento adatto. Forse, dopo l’avrei trascinato nei giardini, strappandolo a quel clima di festa che tanto amava. O forse lo avrei fatto quella notte, dopo aver fatto l’amore nel nostro casale.  Mi versai dell’acqua, una scelta a cui Rosa, seduta accanto a me, inarcò il sopracciglio.
“Chi sei, tu? Cosa ne hai fatto di mia figlia?”
Le sorrisi, dopo aver preso un refrigerante sorso. “Mamma, ti prego. Non sono così dedita al vino come credi.”
Rosa mi rivolse un sogghigno, poggiando il gomito sul tavolo e il mento sul pugno.  “No, mi riferivo al sorriso. Ti dona, sai? Dovresti fare pratica più spesso.”
Posai il bicchiere, e mi sistemai le ciocche che erano sfuggite dalla semplice acconciatura. “Ne ho tutta l’intenzione. Chissà, forse potrei riuscire a farvi sorridere tutti quanti, molto presto.”
Mia madre ammiccò. “Vuoi dire che finalmente hai deciso di dire a tutti del bambino?”
Sentii la mia bocca che si schiudeva, come quella di un idiota. Non era possibile...anche lei!
“Come l’hai...”
“Sono tua madre, Bianca. L’ho capito prima ancora che tu avessi il primo sospetto...stavo solo aspettando di vedere quanto ci avresti messo a confessare.”
La situazione era tutt’altro che divertente; eppure, spinta dall’euforia che la danza e il clima di festa mi avevano lasciato addosso, scoppiai a ridere. “Zia Claudia, Lisabetta, perfino Teodora...e tu, naturalmente! Credevo di essere così brava a mantenere i segreti.”
“Non questo genere di segreti, e non alle donne della tua famiglia.”
Rivolsi un’occhiata a Ezio, intento a scambiare motteggi con Bartolomeo dall’altro capo della tavolata. “Anche lui lo sa?”
Rosa storse il naso e mi scoccò un’occhiata complice. “Bianca, è un uomo. Ed è tuo padre, il che significa che non può nemmeno concepire l’idea.”
“Credete che non ne sarà felice?”
“Oh, lo sarà. Ma gli ci vorrà un po’ per accettare che sei davvero diventata grande.”  Mi prese la mano, la strinse. “Cosa aspetti? Vai a dirlo a Martino.”
“Ma...la festa...è il giorno di Milla...”
Rosa mi rivolse uno di quei sorrisi enigmatici che rendevano il suo volto impareggiabilmente bello, con tutte le sue rughe.
“È un giorno di felicità, e di quella non ce n’è mai troppa. Coraggio...” Mi indicò che Martino si era seduto accanto ad Agamennone, e stava tenendo banco mentre raccontava una delle sue mirabolanti avventure in Francia, infarcita di dettagli fantasiosi che naturalmente non avevano alcuna attinenza con la realtà.
Sospirai, e mi alzai dal tavolo, decisa. Mia madre aveva ragione. Era il momento di dirglielo.
“Biancarella, meno male che sei arrivata!” sospirò Veronica. “Cerca di spiegare a questo pazzo che i liocorni non esistono, e non può averne visto uno abbeverarsi nella Senna.”
Martino storse le labbra in una smorfia giocosa. “A Vero’, sei ‘r pubblico più lagnoso che c’ho avuto mai! E rilassate ‘n po’ pe’ ‘na vorta.”
“A me piaceva la storia. E anche a Emilia, fino a che è riuscita a tenere gli occhi aperti” aggiunse Agamennone, cullando tra le braccia sua figlia che, nonostante il rumore tutto intorno, sbadigliava forte e gli sonnecchiava sulla spalla. Accarezzai i capelli di Emilia. Povera piccola, aveva giocato così tanto quel giorno che ora era estenuata.
“È ora di portare la piccola a letto” annunciò Veronica.
“Posso farlo da solo” si offrì Agamennone, ma sua moglie accennò ad un sorriso.
“Non se ne parla. Ricordi? Abbiamo promesso di non spezzare più nessun rito. “ Veronica si rivolse a noi. “Torniamo tra dieci minuti. Nel frattempo, non farti convincere da tuo marito dell’esistenza della Chimera.”
“La Chimera? Ma certo che esiste!” scherzai, poggiando le mani sulle spalle di Martino. “Ne ho sposata una.”
“Ah, ah. Morto divertente, Biancarè. Se io so’ ‘na chimera, tu sei...”
“...un’arpia, lo so. Puoi cambiare mostro mitologico, ogni tanto? Altrimenti è difficile per me trovare nuovi modi per prenderti in giro.”
Mentre i nostri amici si allontanavano, feci per sedermi nella sedia lasciata vuota da Agamennone. Martino non me lo permise, e mi attirò invece a sedere sulle sue gambe. Mi strinse per qualche istante.
“Stai annanno benissimo, Biancarè.”
Gli accarezzai i ricci neri, scrutandolo intensamente. Possibile avesse capito anche lui, dannazione?
“Che vuoi dire?”
“Vojo di’ che so che oggi è stata ‘na giornata difficile pe’ te, ma stai reaggendo benissimo. Nun te devi fa’ probblemi, ‘o sai. Er pupo nostro ariverà quanno sarà ‘r momento ggiusto.”
Il cuore mi si strinse in una morsa. Dolce Martino, così attento e tenero.
Gli baciai le labbra con delicatezza.  “Forse il momento giusto non è così lontano.”
Lui mi guardò con aria interrogativa.  Mi chiesi se davvero non avesse colto, o se non volesse sperare. Così, sorridendo, mi sporsi sul suo orecchio, per sussurrare:
“La levatrice l’ha confermato stamattina. Presto sarai papà.”
Solo un attimo di silenzio, teso, emozionato, perfetto.
Poi, esplose il suo grido.
«Sei incinta?»
Sì, lo gridò proprio, e tutta la sala si voltò come un solo uomo verso di noi. Mi ritrovai, imbarazzata e confusa, a fissare tutti quei volti...
...ma non feci in tempo nemmeno a protestare per tanta veemenza, perché Martino si alzò in piedi, con me in braccio. Scoppiò a ridere, facendomi girare come un pazzo, tanto che strappò una risata anche a me mentre mi aggrappavo alle sue spalle. Poi si fermò, mi lasciò scendere, continuando però a tenermi stretta. Mi guardò negli occhi. Fui travolta dall'enorme amore che vi lessi dentro. Sentii le labbra tremare, e per fermarle cercai le sue. Il suo sorriso contro il mio sorriso.
Martino ricambiò con intensità, e mi sorrise ancora, come un bambino.
 «Core mio...dimme che nun sto a sognà.»
Scossi la testa. «È tutto vero.»
Mi accarezzò il viso con tanta commossa dolcezza che quasi mi venne da piangere. Davvero avevo pensato, anche solo per poche ore, di non volere questo figlio?
Mio marito si rivolse alla sala che vociava intorno a noi. 
«Aò, ma avete sentito? Biancarè aspetta 'n pupo! Diventiamo genitori!»
A quella conferma, nella sala dei banchetti esplose letteralmente un boato. Tutti quei volti che amavo erano deformati dall’allegria, dall’entusiasmo...per me, perché la mia felicità era la loro.
Proprio in quel momento, Veronica e Agamennone si affacciarono di nuovo alla porta del salone. Lui era pietrificato dalla notizia che non si aspettava, mentre Veronica, sorniona, incrociò le braccia al petto e disse:
“Non ci credo. Ha aspettato tanto tempo, e lo annuncia mentre non ci sono?”
Come volevasi dimostrare, l’aveva capito anche lei.
“Bianca, Martino...”
Mi volsi. Mio padre si era alzato in piedi per raggiungerci.
Il suo sguardo. La luce che riverberò dal suo viso, dopo tanto tempo...i suoi occhi scuri che si fecero lucidi.
«Congratulazioni» disse, con voce soffocata. Cercò di trattenersi, ma poi non resistette, e ci abbracciò entrambi. Mi persi in quell'abbraccio, felice come quando, da bambina, avevo saltato dal tetto di Villa Auditore stretta al suo petto.
Non era poi molto diverso. Adesso mi trovavo sul punto di spiccare un altro salto della Fede...e, nonostante fossi ormai una donna, avevo ancora bisogno di che lui fosse lì, con me. Pronto a prendermi se qualcosa fosse andato storto.
 
Ed ecco come finisce la storia di Bianca Auditore da Monteriggioni: con il più classico dei nuovi inizi. Per una volta, mi attende una missione senza morte; il sangue versato sarà soltanto il mio, un tributo pagato alla vita. Nessun requiescat in pace. Ci sarà tempo,  dopo, per il riposo e la pace. Adesso è il momento di amare con tutte le mie forze; di lottare, di ridere, di pianificare nuove strategie, di nutrire il mio bambino. E' tempo di insegnargli a camminare, poi partire per una missione; tempo di tornare e affrontare il suo astio perché si è sentito abbandonato, tempo di ascoltare le sue prime parole e la sua voce che mi chiama. Di fermarmi e pensare: Dio, questo capolavoro l'ho fatto io. Prima di me, di Martino, del nostro amore, questa creatura non c'era. Ed è per questo che vale la pena svegliarsi ogni giorno. È per dargli un mondo migliore che vale la pena combattere, lottare, e indossare la lama celata al mio polso. Perché anche lui, o lei, un giorno possa scegliere in libertà il suo destino.
E’ così che dovrebbe andare, sempre. Per ogni vita tolta si dovrebbe restituirne al mondo un’altra. Per ogni dose di dolore, riceverne una uguale e contraria di gioia, per non soccombere alla tristezza e trascinarsi senza scopo nell’esistenza.
Il bambino mi ha dato un nuovo scopo. I miei vecchi obiettivi sono tutti portati a termine, ormai. Insieme ai miei Fratelli di Lama, ho messo sul soglio di Pietro il figlio di Lorenzo il Magnifico. Ho finalmente compreso una scintilla dell’enigma che mio fratello è sempre stato per me, e la sua morte ha dato un nuovo senso alle parole vendetta e perdono. No, non mi sono vendicata e no, non l’ho perdonato. Ma ora che se n’è andato capisco che avrei voluto parlargli di più, quando potevo farlo.
Cerco di espiare il mio perenne senso di colpa verso Vanni ogni giorno. A volte visito la sua tomba nella campagna romana; quando sono a casa a Monteriggioni, vado nella radura dove giocavamo da bambini, e resto lì, il più delle volte senza parlare, cercando di carpire nel vento la sua voce che ho sempre ascoltato troppo poco. Gli ho promesso che insegnerò a suo figlio e al mio tutto quello che posso, e che farò di tutto per non metterli mai l’uno contro l’altro, e che saranno amici per sempre. Amici, come non siamo stati noi due.
L’arrivo del mio bambino ha aiutato anche mia madre a superare quello che è successo. Non è facile, per lei, sapere che uno dei figli di Vanni cresce lontano da noi, e l’altro – Margherita lo ha chiamato Lorenzo – probabilmente non lo vedrà mai. Ora che può fantasticare sul nipotino che io sto per darle, è rinata. Finché c’è qualcuno più debole da proteggere, Rosa ce la farà.
Mi preoccupa di più mio padre.
www                                                                                                                                                                                                                                                          Ezio Auditore da Firenze ha ricevuto troppi colpi dalla sorte, senza mai piegarsi. Nemmeno questo l’ha piegato, ma ho l’impressione che qualcosa gli si sia rotto dentro. Non ha più pianto dal giorno del funerale di Vanni. Almeno, non davanti ai miei occhi.
Non visita la sua tomba, lui non crede a queste cose. Lo ricorda a modo suo, salendo all’alba sul pennacchio più alto del tetto della villa. Spesso mi unisco a lui, e lo farò fino a che il mio ventre gonfio non mi ostacolerà nell’arrampicarmi.
Ieri, per la prima volta durante una di quelle albe annacquate su Monteriggioni, abbiamo parlato di ciò che è successo.
Lo vedo subito, lui è triste. Non di una tristezza passeggera, ma di un dolore sottile che gli si incide sul volto, gli irrora le rughe, si riversa negli occhi scuri. Questo senso di vuoto non se ne andrà mai. E’ un peso che vorrei sollevare dalle sue spalle, ma non posso.
«Il suo spirito è sempre stato inquieto. So che la colpa di questo è mia» dice Ezio.
Io mi stringo nelle spalle. «Voi ci avete dato l’opportunità di vivere, e noi abbiamo scelto da soli la nostra strada.»
«Tu sei sempre stata più forte. O incosciente, forse. Ma dopo tutto è la stessa cosa.» Guarda con un misto di reverenza e stupore la rotondità che si intravede sotto la mia camicia da uomo, appena sopra la cinta. «Perché ti vesti come tua madre? Sei una donna, accidenti. Ormai dovresti averlo capito.»
Sorrido del suo scherzo. Gli prendo la mano e me la porto sulla pancia. Per la prima volta, sento mio figlio scalciare per salutare il nonno.
­Ezio chiude gli occhi. Le sue ciglia tremano leggermente.
«Hai già pensato a un nome?»
Stringo forte la mano che sta sul mio grembo. «Se sarà maschio, si chiamerà come l’uomo a cui devo tutto.»
«Martino? No, bambina, non farlo…ti confonderesti tra padre e figlio, la tua casa sarà un inferno.»
«Non è Martino.»
«Allora Agamennone? Veronica ne sarà gelosa.»
«Ezio. Si chiamerà Ezio.»
Mio padre mi guarda, stupito. Poi, accenna a un ghigno. «Ezio Semeraro da Monteriggioni. Non suona affatto male.»
«Sarà un assassino, come noi.»
«E’ probabile.»
«E ci odierà.»
«Sicuramente.»
«Ma un giorno capirà il Credo. Lo accoglierà nel suo cuore, e allora riuscirà a perdonarci molte cose.»
Poggio la testa sulla spalla di mio padre. Tutto è iniziato su questo tetto, con il mio primo Salto della Fede.
Ricordo quel giorno. I piedi in bilico sul guano di piccione, le mie braccia spiegate, pronte al tuffo. Già civettavo con la Morte, a soli sei anni. Cercavo di sedurla, di sconfiggerla, per sentire che la mia vita non avrebbe mai avuto fine. Mio padre era lì, e mi ha salvato dalla mia incoscienza. Da quel giorno in avanti, è sempre stato così tra noi: io mi butto sul sentiero della vita e lui cammina un passo dietro di me, pronto a prendermi se qualcosa rischia di andare storto.
Ogni volta è la stessa emozione, con il Salto della Fede. Ogni volta il dubbio fa parte di te. Il carro di fieno sarà lì, o non ci sarà?
Ezio, figlio mio che vivi dentro di me…non possiamo saperlo. E’ un atto di fede.
Quando sarai grande abbastanza, ti stringerò tra le braccia e spiccherò il volo insieme a te. Le mie carni ti proteggeranno mentre ti insegno come spiegare le ali. Come mio padre ha fatto con me. Sarai al sicuro, vedrai. Ti guiderò sulla via del Credo, e tu non cadrai: non se io posso impedirlo.
Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Nonostante ciò che ho visto e ciò che ho fatto, io non credo che il mondo sia marcio, né che sia necessario distruggere il genere umano per ricominciare. Il bene e il male sono cose reali: c’è chi li chiama Dio e Demonio. Io credo che coesistano dentro di noi, che siamo creature imperfette nate dalla fantasia di un demiurgo annoiato. I colpevoli vanno puniti, gli innocenti assolti. Il fatto che io sia in grado di scegliere chi sia l’uno e chi sia l’altro non fa di me una divinità…solo un essere umano.
Finché esisterà la possibilità di giudicare cosa è bene e cosa male,
finché potrò scegliere cosa sacrificare e cosa salvare,
finché avrò la dignità di decidere della mia vita e della mia morte,
niente sarà reale, e tutto sarà lecito, ed io dovrò decidere di volta in volta cos’è giusto. Sarà necessario, per indicare la strada a mio nipote e ai miei figli. Perché non si perdano come Vanni. Perché non si perdano come me.
Mi chiamo Bianca Auditore. Sono figlia di un assassino e di una ladra, sorella di un traditore, moglie di un uomo rifiutato dalla sua stessa madre. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato. Prima di lui, avevo sempre pensato al peccato come una macchia nera. Ma sbagliavo; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante.
Come il foglio del destino che ognuno di noi deve scrivere.
Come i fiori che lascio ogni volta che posso sulle tombe dei miei cari.
Come l’attimo prima di compiere una scelta, e l’istante in cui ti svegli da un sogno; come tutto ciò che non è ancora stato ma potrebbe essere. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini.
Ed è questo il segreto del Salto della Fede, il suo vero significato.
La nostra vita non è prima di tuffarci, né quando atterriamo. Si consuma tutta mentre siamo in volo.
 
 
[1] Sono stata piuttosto sorpresa di apprendere che Livio Settimio D’Alviano nasce proprio nel 1514…non potevo non inserirlo, in questo epilogo-nursery ;)
 

Bianca come il Peccato
Fine.

NdBlackFool.
Siamo arrivati alla fine. Avevo pensato a tanti discorsi da fare, e invece...eh, invece non riesco a scrivere, no, a pensare mezza parola coerente. Che emozione premere quella piccola casella, "completa"...dopo tanti anni. Non e' sempre stato semplice: piu' volte sono stata sul punto di mollare. Se non l'ho fatto e' stato grazie a persone specialissime. A Ilaria, che mi ha dato sempre nuovi stimoli e nuovo entusiasmo per andare avanti con la storia, e con pazienza e costanza ha ascoltato le mie lamentele, betato tutti i nuovi capitoli, ispirato nuove idee con le sue splendide illustrazioni. A Giulia R. e Giulia S., che con i loro consigli hanno contribuito a farmi superare tanti blocchi da scrittore, e senza il cui contributo tante cose sarebbero andate diversamente (ci pensate che Martino all'inizio non doveva essere il Bianca-Boy?): grazie per esserci sempre e sostenermi in ogni circostanza, nella scrittura ma soprattutto nella vita.
L'ultimo grazie va a voi, che avete seguito le avventure di Bianca&Co fino a qui. Grazie a chi ha recensito, chi ha commentato sulla pagina facebook, chi si e' fermato soltanto a leggere. Dopo quattro anni spesi con Bianca e con voi, ho riacquistato fiducia in me stessa come scrittrice, e deciso che dopo tutto vale la pena tentare ancora. Il merito e' vostro. Sono cresciuta con i personaggi della fanfiction, tante cose nella mia vita sono mutate radicalmente in questi anni. Alcuni di voi mi hanno fatto sapere che per loro e' stato lo stesso, e non c'e' niente che mi commuove di piu' di questo pensiero: abbiamo seguito un percorso di crescita, e con questa storia che ci accomuna in un certo senso abbiamo camminato questo sentiero insieme.
Vi lascio con un abbraccio, e la promessa che ci ritroveremo. Mi ci vorra' un po' di tempo da dedicare ad altri progetti che ho messo in secondo piano fino ad ora, ma tornero' a scrivere del mondo di BCP prima o poi. Tutta questa gente che ha popolato la mia testa e il mio cuore per tanto tempo finirebbe per lasciare un vuoto troppo grande: il loro e' solo un arrivederci. E anche il mio.

A presto.


Laura.

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